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Luigi Uccellini di Ravenna (1804-1882).


BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO

pubblicata da T. Casini e V. Fiorini. — N. 5-6

MEMORIE
DI UN
VECCHIO CARBONARO RAVEGNANO

DI

PRIMO UCCELLINI

pubblicate con annotazioni storiche

a cura di

Tommaso Casini

ROMA
SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

1898.


PROPRIETÀ LETTERARIA
DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI

Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società si ritengono per contrafatti.

(87) Roma, Tipografia Enrico Voghera


INDICE DEL VOLUME

Avvertimento,   Pag. V-XVI
Memorie di un vecchio carbonaro ravegnano,   1-114
Appendice,   115-129
Annotazioni,   131-249
Indice delle persone e delle cose notabili,   247-283
Note


[v]

AVVERTIMENTO

A queste «Memorie di un vecchio Carbonaro» che Primo Uccellini compose nell'onorata vecchiezza, sí per ricordare a sé stesso e agli altri i casi avventurosi e dolorosi della sua lunga vita di patriota, sí per lasciare ai giovani concittadini l'utile insegnamento del proprio esempio, non avrei voluto mandare avanti alcuna parola; poiché parevami che non bisognasse presentazione o raccomandazione per un libro di ricordi veramente vissuti, come oggi dicono, nei quali rinascono quasi presenti i tempi torbidi della Carboneria romagnola e delle persecuzioni pontificie e cardinalizie, le visioni luminose della Giovine Italia e l'odissea amara dei proscritti politici, i moti cosí diversi del 31, del 48 e del 49 e la reazione trionfante sin presso al sorgere del crepuscolo, annunziatore dell'Italia restituita nel pieno dominio di sé. Tutta questa epica storia di dolori e di speranze, di prove [vi] ognor rinnovate e di sconforti ineffabili, vide l'Uccellini e vi partecipò, secondo che i casi e le forze sue consentirono, ma sempre con onorata condotta, con anima immacolata, con intendimenti del piú puro patriottismo. E delle molte cose vedute narrò quelle che piú da vicino erano legate alle avventure sue personali, con semplice e ingenuo stile, con fedeltà scrupolosa al vero, senza passioni e senza vanti; egli che pur di vantarsi avrebbe avuto e occasioni e ragioni, egli cui le tarde persecuzioni dell'idea mazziniana — sua face illuminatrice nella giovinezza, suo conforto e riposo nella piú matura età — avevano tenuta viva e salda tutta la passione politica destata dalle persecuzioni dei Rivarola e degli Invernizzi. L'Uccellini scrisse queste sue ricordanze, passati ch'egli ebbe di poco i settant'anni, quando la mano affaticatasi in mezzo secolo di lavoro era già stanca; ma la memoria era ancora fedele e pronta la mente, cosí che quelle sue paginette si venivano riempiendo di uguale e nitida scrittura a matita, senz'altro lavorio, da quello in fuori che è rappresentato da pochi ritocchi e rinvii e da alcune pochissime correzioni o aggiunte di nomi e date[1]. Pubblicandole, per [vii] gentile consenso del possessore dell'autografo, l'egregio cittadino Francesco Miserocchi, mi sono fedelissimamente tenuto alla forma data alle sue Memorie dall'Uccellini medesimo; salvo che ho riordinata la punteggiatura ch'egli soleva segnare per mezzo di lineette, ho aggiunto o rettificato qualche nome proprio, e qua e là, desumendole da documenti certi, ho messo tra parentesi quadre alcune date, perché agevolassero al lettore la piena intelligenza di queste ricordanze. Alle quali ho fatto seguire, perché mi parve di corrispondere a un desiderio dell'autore, la narrazione della sua ultima prigionia, ch'egli stesso aveva stampata vivente[2], e una serie di annotazioni, nelle quali, oltre rapidi accenni storici e biografici su cose o persone da lui ricordate, ho allogato ciò che dal carteggio di prigione e d'esilio dell'Uccellini coi suoi parenti e amici[3] ho potuto ritrarre [viii] di utile per la storia, sia pure aneddotica, dei patrioti italiani e specialmente dei profughi del 31, e per conoscere piú da vicino alcuni dei casi che egli aveva solo accennati o anche omesso di raccontare nelle Memorie.

L'Uccellini non ebbe mai ambizioni letterarie, ma per le dure necessità dell'esilio dovette ingegnarsi di trarre dalla penna qualche aiuto alla vita. In Francia lavorò a parecchie compilazioni, di alcune delle quali non si è potuto avere piú precisa notizia: tali sono, per esempio, quei fascicoli di un'opera morale, che dovettero esser pubblicati per associazione in Dijon dal 1836 al '37, ma non continuarono oltre il secondo, per difetto di abbonati; quel Compendio della storia d'Italia con la descrizione del suo stato moderno, che s'incominciò a stampare nel '37, ma dopo le due prime puntate uscite nel '38 e concernenti lo Stato pontificio non ebbe altro seguito, perché un commesso infedele gli portò via ogni frutto del suo lavoro; quelle Effemeridi del 1840 per il dipartimento della Costa d'oro, che saranno state, m'imagino, uno dei tanti almanacchi descrittivi, statistici o storici allora in uso. Di tutti i lavori che il nostro ravennate pubblicò o preparò durante l'esilio, io non [ix] ho potuto vedere che il Nuovo | dizionario portatile | della | lingua italiana | compilato | sul gran vocabolario stampato in Bologna | nel 1828 da P. Uccellini | professore d'italiano[4]; una ricompilazione copiosa e diligente, se non sempre esatta nelle definizioni, dal noto lessico bolognese del Cesari.

Tornato dall'esilio, l'Uccellini poté volgere le sue pazienti fatiche di compilatore a una materia meno arida e meno ingrata; voglio dire la storia patria romagnola, della quale par che egli si proponesse di farsi volgarizzatore fra il popolo. E di queste sue fatiche frutto osservabile fu il Dizionario storico | di Ravenna | e di altri luoghi di Romagna pubblicato, in grosso volume (col motto Indocti discant, ament meminisse periti), nel 1855[5]: dove, traendo la materia per grandissima parte da un simile lavoro manoscritto del ravennate conte Ippolito Gamba (1724-1788), ordinò molte notizie storiche, biografiche, genealogiche ecc. degli uomini e cose notabili di Romagna; lavoro di largo disegno, riuscito necessariamente di scarso valore, perché l'autore poté giovarsi di pochissime fonti storiche né ebbe sempre un criterio sicuro di [x] elezione e di metodo, ma ciò non ostante consultato anche oggi da chi non abbia familiari o non possa trovarsi sotto mano le opere speciali di piú compita e larga erudizione[6].

Ma di coteste sue cognizioni di storia patria l'Uccellini meglio si valse a rendere piú utile e istruttivo il Diario annuale di Ravenna, del quale per molti anni curò la pubblicazione. La serie di questi calendari romagnoli risale al 1703, cioè al Diario sacro di Ravenna per quell'anno, compilato da Domenico De Vicari; un altro consimile uscí nel 1784, a cura non so di chi, e per il 1792 si ebbe l'Almanacco di Romagna, edito dagli eredi Biasini di Cesena, che è molto utile a consultare, chi voglia conoscere lo stato politico ed ecclesiastico e gli uffici e le instituzioni pubbliche della provincia alla vigilia dell'occupazione francese. Durante il Regno italico si cominciò a pubblicare nel 1811 dall'editore forlivese Matteo Casali l'Almanacco del dipartimento del Rubicone, con notizie storiche e statistiche, con l'indicazione dei pubblici funzionari, dei prodotti e delle industrie locali, ecc.; ma non andò oltre il secondo anno, o almeno a me non è riuscito di trovarne altri. Restaurato il Governo pontificio, ricomparve nel 1818 e seguitò poi [xi] sempre il Diario sacro di Ravenna, con il calendario dell'anno e le autorità ecclesiastiche e civili, e ne fu compilatore Luigi Uccellini, al quale, quand'egli morí nel 1834, succedette nella modesta fatica un certo Roatti. Il nostro Uccellini dall'esilio di Dijon promise di aiutare il continuatore della «impresa lodevole»; ma poi il bisogno lo strinse ad assumerla per proprio conto, sí che fatto stampare Il Romagnolo, diario per il 1838, ne mandò in patria 500 copie, le quali furono subito vendute a cura degli amici e parenti; ma per l'anno di poi l'almanacco giunse in ritardo, e non si poté trarne alcun beneficio; sí che per il 1840 provvide mandando assai per tempo il manoscritto e affidando la cura della stampa a Giulio Guerrini, ma qualunque ne fosse la causa (forse qualche maneggio del compilatore del Diario sacro), la stampa non si poté fare. Nella redazione del Diario sacro intervenne un cambiamento, poco prima del ritorno dell'Uccellini dall'esilio; poiché quello dell'anno 1846 ha un breve proemio ove si annunzia un compilatore nuovo[7], che si crede esser l'Uccellini medesimo, il quale ne avrebbe da quel momento presa la cura sopra di sé. Sebbene nei Diari che seguono sino al tempo del definitivo ritorno dell'Uccellini in Ravenna, che fu nel 1852, si trovi quell'ornamento [xii] che a lui tanto piaceva, delle notizie di storia patria[8], non credo di esser lontano dal vero ritenendo che la compilazione, come cosa propria ed esclusiva, fosse da lui assunta solamente con la redazione del libretto per il 1854, che si vide apparire con titolo di Almanacco della provincia di Ravenna col Diario sacro. La serie dei libretti annuali compilati dall'Uccellini durò fino al 1880, poi la redazione fu da lui ceduta a Primo Gironi, già suo collaboratore negli anni anteriori; il titolo tornò a essere Diario sacro nel '55, poi fu di Diario sacro e profano nel '60; dal 61 al '63, Diario di Ravenna, e indi poi sempre di Diario Ravennate. Ogni fascicoletto, oltre il calendario e la serie degli uffici governativi, municipali ed ecclesiastici, contiene dal 1854 all'80 una messe copiosa di notizie, documenti e curiosità di storia patria, raccolte e date fuori a titolo di varietà e di istruzione popolare, e quasi tutte fatica propria dell'Uccellini; al quale per altro alcuna volta si compiacquero di porgere il contributo di piú dotti lavori alcuni amici suoi, come Adolfo Borgognoni e Corrado Ricci. Queste compilazioni storiche dell'Uccellini[9] sono di scarsissimo [xiii] valore per ciò che riguarda i tempi antichi; ma acquistano il carattere di preziose testimonianze allorché raccontano fatti della storia piú recente, massime del risorgimento nazionale. Non sempre è possibile discernere ciò che l'Uccellini dettò egli stesso da ciò che gli fu dato a stampare da alcun suo cooperatore; ma con sicurezza si devono registrare come suoi gli scritti seguenti:

1. Cronaca ravennate dal 1859 al 1878; ne furono pubblicati dei frammenti nei Diari del 1860 (dal 13 giugno alla fine di novembre 1859), del 1861 (dal gennaio a tutto novembre 1860), del 1879 (dal 1870 sino al 1974 inclusive), del 1880 (anni 1875 e 1876) e del 1881 (anni 1877 e 1878).

2. L'ingresso delle truppe pontificie nelle Romagne (20, 21 gennaio e 5 febbraio 1832), nel Diario del 1863.

3. Persecuzioni politiche, 1921-25; nel Diario del 1864.

4. Spedizione contro Roma, colonna mobile di Ravenna, 1831; ivi.

5. Biografia: Antonio Ghirardini sopranominato Buraccina; ivi.

6. Vita di Andrea Garavini; nel Diario del 1867.

[xiv] 7. Martirologio politico ravennate; nel Diario del 1868.

8. Il generale Giuseppe Garibaldi sottratto dai patrioti ravegnani alle ricerche degli Austriaci nell'estate del 1849; nel Diario del 1869[10].

9. I missionari del 1824 e l'arcivescovo Codronchi; nel Diario del 1879.

10. Racconto dell'assalto di Gaetano Tarroni e dei suoi seguaci contro la Guardia urbana nel 1831; ivi. [xv]

Se a questi scritti si aggiunga la Relazione storica sulla avventurosa scoperta delle ossa di Dante Alighieri, scritta e pubblicata dall'Uccellini nell'anno medesimo del centenario dantesco[11], si sarà enumerato tutto ciò che il buon patriota produsse nel campo letterario; nel quale egli non impresse solchi durevoli e profondi, ma lasciò negli scritti testimonianza di amore operoso alle memorie gloriose della sua terra natale. E quando il 29 marzo 1882 l'Uccellini chiuse per sempre gli occhi alla luce, il compianto grandissimo che si levò per Ravenna e per tutta la Romagna[12], se era specialmente [xvi] un tributo di reverenza al cittadino morto immutato nella sua fede politica e serbatosi intero di animo e di vita in mezzo a tante apostasie e a molte viltà; non dobbiamo dimenticare che esso era anche riflesso di una popolarità, alla quale molto avevano conferito le modeste compilazioni del Diario Ravennate.

T. Casini.


[1]

MEMORIE
DI UN VECCHIO CARBONARO RAVEGNANO

O piccole o grandi le memorie patrie è dovere il conoscerle, perchè nel passato è gran parte del nostro avvenire.

N. Tommaseo.


[3]

Scrivo le vicende della mia vita politica, come altre volte le raccontai in convegno di amici, cioè in quel modo genuino che può usare chi non è scrittore, ma un semplice compilatore di cose patrie. Le scrivo perché ritengo che i miei giovani concittadini, a cui le dedico, possano ritrarre da esse utili insegnamenti.

Primo Uccellini.

30 giugno 1877.


[5]

[I.] Nacqui nel 9 gennaro 1804, quando la Francia, sottrattasi già dall'assolutismo dei Borboni, reggevasi in repubblica e faceva prevalere pure in Italia i principi che essa aveva adottati; sicché m'inspirai per tempo a sensi liberali.

[II.] Mio padre, conosciuto per l'amenità del suo carattere e per l'originale gaiezza del suo umore, esercitava con somma maestria l'arte di tipografo; ed essendo di mente aperta pervenne ad arricchirsi di quelle cognizioni, che non ebbe agio d'acquistare nelle scuole. Di umore allegro dilettavasi di compor versi, che destavano lunghe risate nelle comitive, e molti ne corrono ancora per la bocca del volgo. Fervido partigiano della Francia, fu compreso tra i liberali condotti alle Bocche di Cattaro dopo i successi degli alleati in Italia; ma la battaglia di Marengo li salvò tutti da certa ruina. In seguito ebbe a soffrire alcune vessazioni a causa dell'atterramento delle Croci, operato da' Giacobini, al quale prese parte. Ma, caduto l'Impero, attese con zelo all'ufficio di commesso, conseguito nel Municipio.

[6] [III.] Premuroso di iniziarmi presto negli studi mi assegnò per maestro un certo Coatti di Argenta che aveva nome di dotto. Ma alla fin dei conti il suo merito maggiore consisteva nell'imprimere sopra cartaccia imagini di sant'Antonio, colle quali ci carpiva una parte della colazione e della merenda. In seguito fui preso in casa da un certo Zavaresi, prete di qualche intelligenza, ma manesco all'ultimo segno; e non stava un minuto senza adoperare il nerbo.

[IV.] Finalmente m'introdussero nelle scuole del Collegio come alunno estero. Allora presi alquanto gusto negli studi, e nella cattedra di diritto civile e canonico, diretta con somma lode dal professore avvocato Zalamella, conseguii il 2º premio. Ma il povero mio padre col peso di numerosa prole, e di continuo afflitto da malattie, non era piú in grado a sostenere le spese degli iniziati studi di legge, specialmente quelle che occorrevano per la provvista dei libri, e m'indusse ad abbandonarli, per darmi alla carriera degli impieghi.

[V.] Correva allora l'anno 1818, cioè era il tempo in cui la Carboneria fioriva ovunque. L'Italia presentava un vivaio di sètte, di diverso nome, ma tutte tendenti allo stesso fine: abolizione della monarchia assoluta. In Ravenna la Carboneria dividevasi in tre sezioni: la prima portava il nome di Protettrice, perché reggeva le altre; la seconda di Speranza, perché composta in gran parte di giovani [7] studenti; e la terza, perché era un miscuglio di ogni sorta di gente, operai quasi tutti, i piú pronti all'azione, ebbe il nome di Turba. Ogni sezione aveva un rappresentante presso la Protettrice, il quale le dava contezza d'ogni movimento di ciascuna sezione.

[VI.] Incline a far versi ne tirava giú d'ogni colore sempre sullo stesso soggetto, «la tirannia», e ciò mi diede nome fra i miei colleghi, che pensarono senza ritardo d'introdurmi nella Speranza.

Una riunione preparatoria si tenne dapprima con altri neofiti nella bottega del barbiere Medri; poi, tre sere dopo, accompagnato da chi mi propose all'ammissione, fui condotto nel Borgo Adriano in casa di Luigi Ghetti, ove stavasi adunata la presidenza della Carboneria. Appena entrato fui da ignota mano bendato, e, in seguito di alcune parole scambiate tra il proponente e chi guardava al di dentro l'adito della stanza in cui risiedeva il consesso, venni introdotto. Una voce imponente mi diresse varie interrogazioni, e quando ebbi data parola di esser pronto a tutto sacrificare pel bene della patria, e di concorrere energicamente alla depressione della tirannia, mi si fece porre la mano sopra un nudo pugnale e sul medesimo pronunciai il giuramento prescritto. Dopo di che mi si tolse la benda, e mi vidi attorniato da una siepe di pugnali. Allora il vecchio Andrea Garavini, che dirigeva la seduta, mi disse ad alta voce: «Tutti questi [8] pugnali saranno in vostra difesa in ogni incontro se osserverete la santità del giuramento prestato, invece saranno a vostro danno ed offesa se vi mancate: la pena del traditore è la morte.» Tosto mi venne indicata la squadra a cui apparteneva, comunicati i motti d'ordine che giovavano ad intendersi, e data ogni altra istruzione necessaria. Appena inscritto nel ruolo, ebbi ordine di provvedermi di un paio di scarpe da munizione, di un sacco militare; v'era chi ne fabbricava per conto della Società.

[VII.] Certamente il Governo ignorava ciò che era a tutti palese: il crescere ed estendersi del partito che lo voleva abbattere; ma il fatto è che rimase inerte ben sapendo che ogni ramo della pubblica amministrazione stava nelle mani della Carboneria, la quale avrebbe saputo rendere inefficace qualunque ordine contro di essa emanato, e sapendosi che l'Italia contava da 300 mila carbonari. Ma si scosse terribilmente quando poté avere un punto d'appoggio sullo straniero, come vedremo in seguito.

Intanto gli agenti della forza, se capitavano in una bettola ove stavano carbonari, si univano ad essi, e col bicchier in mano cantavano in coro:

Uniti e concordi

Scacciam lo straniero,

Ognun sia guerriero,

Sia pronto a pugnar.

[9]

Dall'Alpi scoscese

All'Etna infocato

Sia tutto uno Stato,

Un popolo sol.

Uno dei gravi difetti degl'Italiani, e dei Romagnoli specialmente, quello si è di darsi ad una smodata gioia in aspettativa di qualche lieto evento e di perdersi in feste e in divertimenti sempre di distrazione dagli assunti intenti. Vi sono ancora dei vecchi che ricordano le strepitose e dispendiose feste date nell'incontro della serata di una certa Morandi, prima donna in quei giorni nel nostro Teatro comunale: fu, è vero, una dimostrazione politica, perché i liberali la consideravano come il simbolo della libertà nazionale; ma la dimostrazione era fuor di proposito, e denari non pochi si dispersero senza frutto.

[VIII.] Il movimento appressavasi sempre di piú, e seppi che si doveva iniziare nel regno di Napoli, ove stava il nerbo della Carboneria e dove la truppa era in pieno d'accordo coi capi delle sètte. Quando gli Austriaci si fossero mossi contro Napoli, tutto il centro d'Italia, già pronto alla riscossa, doveva gettarsi sugl'invasori e contrastar loro il passaggio. Il Piemonte pure doveva insorgere. Ma un ordine spedito dall'Alta Vendita di Bologna, a quanto mi fu detto, dispose che si lasciassero passare gli Austriaci senza molestarli e che solamente al loro ritorno venissero da ogni parte assaliti. Liberi da [10] ogni molestia, essi giunsero freschi ed intatti alla loro destinazione e dispersero senza stento le falangi patriottiche. E chi poteva seguire l'ordine di Bologna, quando trionfanti e pettoruti col mirto al cimiero retrocederono dalla loro impresa?

[IX.] Eccoci all'anno 1821, anno di continue tribolazioni. Il Governo [1 marzo 1820] affidò il reggimento della provincia di Ravenna al cardinale Antonio Rusconi, vescovo d'Imola detto Cuccardina, accanitissimo satellite della Corte romana. Sbirri e gendarmi penetravano di notte tempo nei domicili di quei cittadini, che nell'anno scorso si erano dimostrati esaltati liberali e che avevano insieme bevuto alla salute d'Italia; mettevano in iscompiglio tutte le famiglie, senza aver riguardo né a vecchi né a giovani, e colle sciabole sguainate alla mano scomponevano pagliacci, materassi, mobili, ritenendo che occultassero armi, carte, munizioni ed oggetti settari. Fatte le perquisizioni, arrestavano le persone dalla polizia loro designate; e senza permettere nemmeno di abbracciare i propri congiunti, venivano strappati dal focolare domestico, rinchiusi in diversi veicoli e strascinati nei forti dello Stato: e a molti s'impose l'esiglio.

[X.] In quale agitazione fosse il paese ognuno lo può da sé arguire. Però i carbonari, scampati dai rigori del cardinal Legato, non si perderono d'animo; anzi riordinarono in breve con maggior prudenza le loro squadre e si posero in condizione [11] di sventare le sue mire. Quello che piú premeva era di frenare la prepotenza e l'insolenza degli sbirri e dei gendarmi divenuti insopportabili.

Quando essi incontravano un liberale loro maleviso lo afferravano per l'abito, lo tiravano di qua e di là, e il piú bel complimento che gli potessero fare era questo: «Dove vai, carogna?» e se non si rispondeva a loro modo davano mano anche ai pugni; guai se si reclamava: il rimedio diveniva peggiore del male. Non poche volte osarono svellere persino i peli dei baffi; barbarie che non credo usata neppure fra i selvaggi. Ma abyssus abyssum invocat. Si tennero d'occhio coloro che di tante sevizie erano fautori, ed a tempo opportuno ricevevano il guiderdone che meritavano.

[XI.] Accaduta la morte di Pio VII [20 agosto 1822], il Rusconi andò a Roma al Conclave, lasciando la provincia nella massima esasperazione e con una dose d'odio contro chi ci reggeva maggiore il doppio di prima. Dopo la elezione del papa Leone XII [28 settembre], venne surrogato al Rusconi il cardinale Agostino Rivarola [11 maggio 1824], uomo bisbetico, prepotente ed eccentrico all'ultimo segno. Egli fu investito di ampie ed estese facoltà, dette leonine, sulle quattro Legazioni e sulla Delegazione di Pesaro ed Urbino. Nella campagna di Roma, ove aveva dapprima agito contro i malandrini che l'infestavano, erasi acquistato il nome di abile agente politico. Ma il risultato del [12] suo operato in Romagna fu interamente negativo.

Appena giunto a Ravenna con scorte di dragoni a cavallo, di cacciatori a piedi e di missionari — che bell'amalgama! — ordinò che si chiudessero gli spaccî di vino ed impose ad ogni cittadino che girasse di notte di munirsi di un lume acceso. Il paese mostrò subito con satire di ogni genere in qual concetto teneva tali provvedimenti. «Non possiamo riunirci nelle bettole, dicevasi, ci uniremo nelle nostre case, lontani dagli occhi della polizia; ecco un vantaggio per noi inatteso.» La lanterna divenne presto un sollazzo; se ne fecero di carta a tre colori nazionali, e si offerse una continua dimostrazione politica. In tutto ciò che il Rivarola faceva, nulla appariva che dovesse essere il rigeneratore delle Romagne. Ma i missionari? ecco il punto importante del dramma. Appena giunti, eressero nel mezzo del Duomo un gran paretaio, ove con ogni artificio di parole eccitavano i fedeli ad accostarsi al sacramento della penitenza; specialmente «quelli che seguendo le perverse dottrine del giorno erano nella via di perdizione». Né bastavano le eccitazioni verbali. Il cardinale faceva percorrere in ogni strada pattuglie di dragoni, che imponevano la chiusura dei negozî, ed agenti di polizia, che spingevano i ragazzi alle missioni; ciò che irritava anche i bigotti, perché dicevano non doversi sforzare chicchessia in atti di religione. Io [13] assistei per curiosità ad una predica, e specialmente ad un dialogo tra il dotto e l'ignorante; e posso dire che trovai piú di buon senso in una commedia di burattini che in simili dialoghi, e previdi sin d'allora un tristo successo. Intanto per favorire il concorso dei penitenti tenevasi aperta ogni sera nel palazzo arcivescovile sino ad ora tarda la cappella di San Grisologo, in cui erano confessionali ben disposti. È fuor di dubbio che lo scopo dei missionari era quello di penetrare col mezzo della confessione ne' piú reconditi segreti della Carboneria; come è pur fuor di dubbio che il Rivarola mostrò all'arcivescovo Codronchi con lettera riservata il vivo desiderio che coadiuvasse all'opera dei missionari: ma l'aver lasciato cadere la lettera nelle mani del suo agente Zotti, il di cui figlio Giovanni, addetto alla sètta, ebbe della medesima conoscenza, dimostra che il Codronchi non intendeva di soddisfare al desiderio espresso dal Legato, contrario ai principi di un degno cittadino e di un onesto sacerdote.

Inesprimibile fu l'avversione che concepi il Rivarola contro Codronchi. Essendo questi caduto ammalato, la Magistratura ordinò a spese pubbliche un triduo nella cappella del palazzo comunale; ma il Rivarola siccome era tempo di carnevale insisteva perché nella sala contigua si aprissero durante il triduo feste da ballo. Ma la Magistratura fu abbastanza savia per non aderire alla volontà [14] del Legato, che agiva solo per rabbia e dispetto, con scandalo del paese. Infine, stanco il Codronchi dei dispiaceri che gli venivano dal Legato, rinunciò all'arcivescovado. Ma il paese, memore sempre dei sommi beneficî da lui ricevuti, indusse la Magistratura a recarsi subito a Roma presso il sovrano, onde non accogliesse la data rinuncia, ed il vóto del paese fu compiuto. I missionari pure vollero esprimere il loro malumore al Codronchi, lasciandogli un foglio di ricordi pieno di insulti e di minacce.

[XII.] Il Rivarola aveva l'incarico non solo di purgare le Romagne dalle sette, ma quello pur anche di dar termine ai processi politici iniziati nel 1821 dal Rusconi. Questi processi furono confezionati nelle tenebre, da persone scelte fra le piú avverse ai principî liberali, senza che fossero ammesse prove a favore degli imputati; senza difesa insomma e senza tutte le formalità e garanzie che la legge esige: processi creati a seconda il sistema inquisitoriale che non ammette che due estremi, accusa e condanna. Il Rivarola sulla relazione dei giudici processanti da lui scelti, invocato con solennità il nome di Dio, quando invece era da invocarsi quello del diavolo, pronunziò il 31 luglio 1825 inappellabile sentenza sopra 508 cittadini di ogni rango e condizione, condannandone alcuni alla morte, varî alla galera, non pochi alla detenzione per diverso tempo, e sottomettendo [15] moltissimi ad un precetto che, togliendo quella libertà di azione che è ad ognuno necessaria per reggere i propri affari, era oltremodo pregiudicevole. Il Rivarola fu sollecito di far commutare la pena di morte in quella di galera o di accorciare il tempo delle pene agli altri inflitte. Non per questo l'atto da lui emanato cessò di essere una mostruosità, un atto d'ingiustizia, di cui non si trova esempio nella storia dei tempi piú barbari. Chi potrebbe calcolare i danni che produsse quell'atto nelle famiglie da esso colpite? Il malanimo fu intenso, persino nelle persone affezionate al Governo; onde non è da stupire se si formarono complotti contro la vita del Legato. Già altri tentativi eransi fatti in questo senso, ma senza successo. Infine si risolse di assalirlo di fronte, come fece Louvel contro il duca di Berry. Il giorno destinato all'ardita operazione fu il 23 luglio [1826], giorno sacro a sant'Apollinare, protettore di Ravenna, la quale in tale fausto incontro offriva nella sera della festa un'accademia di suono e di canto nella sala del Teatro, ove l'istituto era eretto, ed alla quale doveva intervenire il Legato; e si stabilí di assalirlo nell'istante che ritornava al palazzo. Ma non si trattenne che poco; e quando uscí, gli accessi della sala rigurgitavano di gente ivi raccolta per intendere la musica: onde convenne rinunziare al colpo, e i cospiratori seguirono la carrozza, che lo trasportò nel Corso in [16] casa di Gabriele Rasponi. A chi stava l'eseguire l'operazione, si pose in agguato nell'angolo piú oscuro del portone di casa Loreta, ora di Clemente Triossi, la quale viene ad essere dirimpetto a quella di Rasponi, ed ivi attese impavido il momento opportuno. Quando il Legato si mosse alla partenza, scesero sulla porta i servitori di casa con torcie accese, il comandante di piazza che era presso il Rasponi e l'ordinanza del medesimo, con altri inservienti. Chi stava in agguato corse allo sportello opposto a quello in cui il Legato doveva ascendere, contro il primo che pose piede in carrozza esplose un colpo di pistola, ritenendo che fosse il Legato; ma invece era il di lui segretario, il canonico Muti. L'ordinanza del comandante di piazza corse dietro a colui che vide fuggire; ma presto lo perdé di mira. Il canonico restò gravemente ferito e venne ricondotto in casa Rasponi; si è sempre detto che la di lui morte avvenuta piú tardi fosse l'affetto di quella ferita. Si pregò pure il cardinale a non muoversi per timore di un altro assalto; ma volle partire ad ogni costo. Mi ricordo che io passeggiava nella piazza col tenente di guardia, quando s'intese venir con impeto insolito il legno del Legato; del che il tenente sorpreso corse al suo posto, e si permise di chiedere: «Havvi qualche novità, Eminenza?» — «Niente, niente han voluto salutarmi con una schioppettata», rispose; e scese nel [17] suo appartamento, nella di cui cappella orò tutta la notte, facendo vóto di erigere un altare nel Suffragio per l'ottenuto scampo. Fu in breve richiamato in Roma, ove gli fu conferita l'alta dignità di prefetto delle acque: cosí il Mongibello tuffato nelle acque non poté piú vomitar fiamme.

[XIII.] Or comincia una nuova dolente istoria. Il papa all'annunzio dell'attentato contro Rivarola, un cardine della Chiesa, s'infierí come una iena, e risolse che a Ravenna venisse tolto il privilegio di capoluogo di provincia, e fosse scomunicata, cioè subissata nel mezzo dell'inferno. Intanto elesse una Commissione speciale mista [22 agosto], composta di persone di provata affezione al Governo, della quale ebbero la direzione un prelato di nome Invernizzi e un colonnello dei gendarmi chiamato Ruvinetti, onde si cominciò a dire in paese: «o Ruvinetti ruina Ravenna, o Ravenna ruina Ruvinetti». La Commissione assunse in breve il suo ufficio [11 settembre] che era quello di scoprire gli autori dell'attentato di Rivarola e di alcuni altri dello stesso genere rimasti occulti. La Commissione s'insediò nel palazzo Baronio, e fu per caso che riuscí a conoscere la via da tenersi per arrivare all'indicata scoperta; ed ecco il caso. Due individui s'azzuffarono presso il corpo di guardia ed uno di essi tirò fuori un lungo coltello, onde i soldati ivi di stazione lo arrestarono e lo condussero in carcere. L'arrestato aveva intrinseci rapporti con Stefano [18] Piavi, impiegato negli uffici del genio civile, membro dell'alta Carboneria e presidente della società della Speranza, il quale aveva piena contezza dei fatti avvenuti. L'arrestato espose ad Invernizzi che se lo rimetteva in libertà gli avrebbe additato come regolarsi nella ricerca intrapresa; e da quanto espose su quel che aveva appreso si ebbe modo da avanzare le investigazioni. Pare che il Piavi, conosciuto l'operato del suo amico, sopranominato, credo, Patanina, si presentasse da sé all'Invernizzi, e dietro l'assicurazione che sarebbe lasciato illeso, spiegasse tutta la tela che era stata in allora tessuta. Certo si è che il Piavi non fu mai menomamente molestato, sebbene gravemente compromesso in gravi affari. La Commissione non istette lungo tempo a Ravenna, ed avendo saputo che tentavasi di minare le cantine che son dietro il palazzo Baronio, lo sgombrò e andò a stabilirsi in Faenza.

[XIV.] Non si tardò a vedere l'effetto delle dichiarazioni del Patanina, confermate dal Piavi, mentre alcuni mesi dopo arrestarono Gaetano Rambelli ed altri di seguito senza posa. Non essendo le carceri ordinarie di piazza sufficienti a contenere tutti gli arrestati, se ne eressero delle straordinarie nell'ampio convento di San Vitale, e i detenuti vennero affidati in custodia ai gendarmi che avevano piantata la lor caserma di qua e di là degli spaziosi corridori di quel convento.

[19] [XV.] Il giorno 3 ottobre 1827 venne il mio turno, e nel mentre che io transitava per la piazza per recarmi al mio ufficio, verso le dieci antimeridiane, un maresciallo colla scorta di alcuni dei suoi m'intimò l'arresto: lo seguii senza batter parola. Avevasi accesso nelle carceri pel portone ora murato, che vedesi presso la porta piccola della chiesa di San Vitale. Giunto in ufficio, mi si usò una perquisizione la piú minuziosa, indi fui condotto nel camerino assegnatomi: era umido, senz'aria perché era coperto quasi interamente con un assito il vano della finestra; la sentinella di fazione vi teneva di continuo gli occhi addosso al detenuto, e se scostavasi un momento dal centro della camera lo obbligava a ricomparirvi. Un tormento indicibile veniva poi nell'estate a chi ivi era rinchiuso, a causa del lumicino a olio, che tenevasi acceso presso lo sportello della porta onde la sorveglianza non venisse mai meno. Non pochi poi erano i gendarmi zelanti di guardia, che quando scorgevano che dormivate, facevano rumore dallo sportello per svegliarvi. Concedevansi qualche volta libri da leggere e lo stramazzo. Quando fui posto in carcere, io era gravemente ammalato; onde fu d'uopo chiamare il medico. Sentivo bene che il mio male era prodotto da infiammazione, pure egli mi ordinò della china. Per fortuna fece un effetto contrario a quello che gli è proprio, e mi serví di un purgativo efficacissimo. Sgombro [20] di ogni materia fecale, ripresi energia, e quel che piú interessa, appetito. Il trattamento delle carceri era eccellente; buona minestra, scelto alesso, una seconda pietanza, frutta, buon vino e pan bianco: ecco l'ordinario di ogni mattina; nella sera una nuova pietanza con insalata, pane e vino come al mattino. Mi ricordo che, quando mi fu chiesto se volevo il pranzo e che intesi proseguirsi lo stesso trattamento, rinunziai all'offerta. L'umidità assorbita nell'inverno mi sviluppò in primavera la rogna e foruncoli senza fine; ma non feci ricorso per alcun medico, e lasciai che si sfogassero a bell'agio, e feci bene. Colpito un giorno da rumore, come mosso da allegria che dalla camera che mi era dirimpetto sorgeva, vidi diversi dei piú noti settari e dei piú compromessi uniti insieme, che se la passavano molto bene. E come ciò arriva? dissi io fra me, e concepii su loro sinistri sospetti, che piú tardi potei verificare. Cosí pure ogni sera all'ora di notte chiudevasi lo sportello pel passaggio di un detenuto, e trovatolo una sera socchiuso, mi vi accostai tanto da poter ravvisare l'individuo: era il dottor Mazzoni, che ogni sera vestito da gendarme conducevasi dalla moglie.

[XVI.] Pochi giorni dopo il mio arresto fui chiamato dal giudice istruttore e sottomesso agli esami sugli oggetti che mi erano imputati e che qui accenno, per non parlare piú di essi, atteso che si ripeterebbe in ogni esame gli stessi titoli, esposti or in un modo [21] or in altro, or con minacce or con dolci lusinghe, e sempre coll'addurre questa unica prova: «consta al fisco». Ecco le accuse prodotte a mio carico:

1. di appartenere alla sètta carbonica;

2. di aver tentato con altri di ottenere i mezzi necessari per minare il palazzo apostolico a danno del cardinale Rivarola e di avere io assunto l'impegno di avere le chiavi della porta del palazzo della Tesoreria col mezzo di Gaetano Orioli, presso cui stavano come custode degli ufficî degli ingegneri, posti nel ricordato palazzo, onde si avesse modo di entrare inosservati nei sotterranei ivi esistenti ed eseguire il progetto;

3. di aver proposto di liberare dal carcere i detenuti politici di San Vitale col far assalire da cento patrioti armati la chiesa di San Vitale quando i soldati vi stavano disarmati ad ascoltar la messa nei giorni di festa, di occupare le gallerie della basilica e di far fuoco sopra chi azzardasse di muoversi, ed intanto cinquanta altri patrioti, invaso l'interno del luogo, compiessero l'operazione progettata;

4. di aver composto uno scritto in versi martelliani ingiurioso al Sovrano e ai suoi ministri.

A tutte le interrogazioni direttemi sopra le indicate accuse diedi sempre una risposta negativa, rigettandole in un modo assoluto e pregando che mi si esponessero le prove su cui basavano; ma era come invocare la manna celeste, mentre col sistema inquisitoriale escludevansi.

[22] [XVII.] Erano vari mesi dacché i miei di casa non avevano avute mie notizie, e mia madre erasi fitto in capo che io era morto e che già mi avevano visto disteso in terra estinto nel mezzo della chiesa di San Vitale. Allora mio padre fece alcune pratiche col colonnello Ruvinetti, per ottenere il permesso di venire a trovarmi, e riuscí nell'intento. Una sera sul tardi due gendarmi entrarono all'improvviso nel mio tugurio e m'intimarono di seguirli. Scesi con loro a basso nell'ufficio del maresciallo di guardia e mi vidi alla presenza di mio padre accompagnato con mia sorella maggiore. Tanta fu la commozione d'ambo le parti che per alcuni minuti niun ebbe forza di proferir parola: mia sorella mi presentò un mazzo di fiori, che aveva nelle mani, ed allora chiesi notizia della famiglia e lor diedi sul mio conto tutte quelle che potevano tenerli di buon animo; gli abbracciai e ritornai al mio posto. Però l'agitazione durò tutta la notte per la sorpresa che io n'ebbi: potevasi però evitare una emozione sí sensibile, dandovi avviso.

[XVIII.] Altra visita pure inattesa ebbi in seguito. Piacque a monsignor Invernizzi di conoscere di persona i detenuti, di consultarli sullo stato in cui si trovavano, e si presentò a loro in ogni carcere circondato dagli altri membri della Commissione. Dalle interrogazioni loro, come seppi da un maresciallo, non seppe trarre che reclami, lagnanze ed [23] anche qualche insulto. Giunto nel mio camerino, le di lui prime parole furono queste:

— Come sta lei?

— Benissimo.

— Com'è trattato?

— Benissimo.

— Ha nessun reclamo da fare?

— Nessuno. E lisciandosi il petto colla mano destra e torcendo il collo, come praticano i gesuiti, proseguí col dirmi:

— Già, già, vedi, si tira via.

— Scusi, monsignore, questa parola si tira via non si addice ad un giudice che ami la giustizia, perchè toglie l'idea di quella investigazione che occorre nei giudizi: un mese di piú non pregiudica, anzi può giovare quando serva a meglio conoscere la verità.

— Dice bene: può scrivere quando crede ai suoi — e se n'andò.

Il maresciallo, che aveva preso a confabulare meco, mi disse che l'Invernizzi era rimasto stupefatto del mio linguaggio, tanto diverso da quello degli altri detenuti.

[XIX.] Finalmente si pervenne alla soluzione del terribile dramma. Gli autori stessi degli omicidi, un Lossada, un Raulli, un Gamberini, un Branzanti, o autori principali o complici, presero per tempo l'impunità e furono salvi; chi non si arrese soggiacque alla pena dell'ultimo supplizio. Premeva [24] alla Commissione di dare un grande esempio; e, visto che non pochi erano coloro che dovevano soggiacere al patibolo per la loro partecipazione agli omicidi avvenuti, si contentò di averne cinque. In quanto ai Carbonari non imputati di delitti comuni, si contentò di accettare da loro una rinuncia, chiamata spontanea, di non appartenere mai piú a sètte contrarie al Governo, colla minaccia d'incorrere nelle prescritte pene non osservando la rinuncia.

La scena funesta di cui qui intendo parlare ebbe luogo nel 13 maggio 1828. Mi ricordo che in quella mattina era in piedi prima delle sette e stava accomodandomi la cravatta al collo dinanzi alla piccola fessura dell'assito della mia finestra, quando due tocchi quasi simultanei della campana della pubblica torre mi colpiscono l'orecchio: essi mi fecero l'effetto di due stoccate al cuore, perché compresi che annunziavano l'agonia di condannati a morte. L'essere chiusi sin dalla sera antecedente tutti gli sportelli delle carceri, il rimanere tuttora chiusi, il silenzio perfetto che regnava nei corridoi in cui s'acquartieravano i gendarmi, mi diedero a conoscere che i condannati erano del nostro rango, di quelli che tenevansi in custodia ove noi eravamo. Il segno dell'agonia proseguiva sempre, ed uno dei compagni del camerino attiguo al mio, non pratico del paese, mi chiese che significava il suono di quelle due campane; a cui [25] risposi: «Sventura! alcuni dei nostri sono oggi giustiziati»; ed il curioso si è che la domanda mi venne dal fratello dell'ebreo che era compreso tra i condannati. Ansioso di trarre maggiori indizi, mi accostai allo sportello, lo spinsi indietro e vidi che i corridoi erano quasi deserti e non intendevasi che il passo monotono delle due sentinelle che ci sorvegliavano. Allora mi rivolsi all'assito della finestra, e con un chiodo che aveva del medesimo allargai una fessura, da cui scorgeva benissimo la strada detta di San Gaetanino, e vidi veicoli di ogni sorta trasportar forse alla Pineta chi si allontanava dalla terribile scena, onde sempre piú mi confermai nei concepiti sospetti. Le campane non cessavano di far intendere il loro tristo e lugubre suono, onde pieno di dolore mi gettai in letto, cercando colla mente d'indovinare chi potessero essere le vittime e la causa di una agonia si lunga, la quale dalle sette del mattino si prolungò sino ad un'ora dopo mezzogiorno. A quest'ora, ritornata la falange dei gendarmi ai loro posti, si riapersero gli sportelli e riapparve il movimento di prima. Prima loro cura fu di distribuire il pranzo: il maresciallo, incaricato della distribuzione, mostrava nel viso una gioia da cannibale; onde, addolorato come era, non mi riuscí di mandar giú un sol boccone, e per occultare il dolore che mi opprimeva gettai l'intero pranzo nella latrina.

[26] [XX.] Dal maresciallo, che mi si era reso benevolo seppi il numero dei condannati, il loro nome e il supplizio a cui erano stati sottomessi, ed ebbi piú tardi una copia della sentenza che aggiungo alle presenti memorie per miglior schiarimento dei fatti. Seppi pure il motivo del prolungamento dell'agonia; esso derivò dall'insistenza di Rambelli e dell'ebreo a non voler adempiere ai doveri di religione. Messe in uso tutte le pratiche necessarie coi preti che li circondavano da ogni lato senza frutto alcuno, si ricorse a monsignor arcivescovo Falconieri, ritenendo che la sua autorità vincesse la prova; ma ogni suo tentativo riuscí vano. Il Rambelli gli rispose in modo risoluto: «Oh! mi lascino alla fine in pace», e tenendo un Cristo in mano esclamò: «Io ho aperto a Lui, — additando il Cristo, — «l'animo mio, con Lui ho fatto i miei conti; e ciò basti: cogli uomini nulla ho piú a che fare». Appresi piú tardi da Natale Mariani capo custode delle carceri, uomo di sensi magnanimi e liberali, che monsignor Gianolli, vicario dell'arcivescovo, quinta essenza di iniquità, propose che il Rambelli venisse tratto nei sotterranei del carcere ed ivi con battiture indotto a confessarsi; ma la proposta fu rigettata. Mi diceva il Mariani che, se tosse stata accolta, egli sagrificavasi di certo, mentre aveva risolto di chiudere i due monsignori col loro seguito nel sotterraneo e scappare ambedue per un adito [27] a lui solo noto. Comunicò pure piú tardi ciò al conte Eduardo Fabbri tipo dei liberali d'Italia, uomo distinto in lettere, che, riconosciute le nobili doti del Mariani nel tempo che si tenne alla di lui carcere gli fu amico e compare. Questo Mariani è il padre di quell'Angelo, che tanta gloria si acquistò nell'arte musicale. Un altro fatto che merita di essere narrato è quello che successe ad un certo Spada del borgo di Porta Sisi, papalone sino nel fondo dell'animo. Il supplizio da infliggersi a dei liberali gli serví del piú gradito spettacolo; e sino dalla mattina di buona ora si pose dirimpetto al palco delle forche nella piazza dei Tedeschi, or del teatro Alighieri, colla testa nuda sotto un sole cocente, attendendo la esecuzione, ed ad ogni individuo appeso gridava giulivo: «E uno!». Ma l'operazione andò alla lunga sino ad un'ora dopo mezzo giorno, come abbiam detto: i raggi del sole gli mossero una infiammazione al cervello, che lo trasse al sepolcro. La gente recavasi in chiesa ove era esposto, gli lacerava il panno funebre, gli sputava addosso, onde fu necessario chiuder la chiesa.

[XXI.] La misura piú efficace a deprimere la Carboneria fu quella della spontanea, o rinuncia adottata dall'Invernizzi, perché le toglieva quella forza morale che la teneva in vita. E difatti dal momento che uno confessava con atto solenne il torto di aver avversato il Governo e di avere congiurato [28] contro di esso, e prometteva con giuramento di tenersi suddito fedele ed obbediente, diveniva un essere spregevole, su cui non era da farsi piú calcolo alcuno. D'altra parte il Governo sarebbe stato costretto d'imprigionare tutta la falange numerosa dei Carbonari e sottometterla a diverse pene, ciò che avrebbe aggravato l'erario pubblico di non lieve spesa senza ottenere un pieno intento, mentre i castighi infervorano ed avvivano i partiti, ma non li annientano. Già le impunità e le defezioni accennate agevolarono l'ultimo colpo mortale.

[XXII.] La missione di monsignor Invernizzi era ormai compiuta, quando una sera mi si presentò Nardoni segretario, credo, del colonnello Ruvinetti, il quale dopo i saluti d'uso mi disse:

— Dunque ella non vuole uscire di qui?

— Cioè, dica piuttosto che non mi vogliono far uscire.

— Ma dipende da lei l'esser libero.

— Mi favorisca di espormi in che modo.

— Col fare quello che han fatto i suoi colleghi.

— Vale a dire?

— Col rinunciare alle sètte, ai loro diabolici fini ed alle massime perverse che inspirano.

— Ciò va bene: ma io non appartengo a sètte, ignoro i loro procedimenti, quindi a che devo rinunciare?

— Basta, vedo che vuole insistere ne' suoi propositi; [29] mi dispiace per suo padre: il povero uomo desidera ardentemente di averlo a casa. È vero che il suo delitto non è uno di quelli da suonare la campana...

— Io non l'intendo: la ringrazio del consiglio datomi, ma non so come effettuarlo; ritengo però che sarò presto libero in virtú di quel sentimento di giustizia, da cui i miei giudici sono animati.

— Io le ho espresso il vóto di suo padre; del resto faccia ciò che meglio le conviene. — E se n'andò, né piú lo vidi a comparire.

[XXIII.] La sera dopo intesi aprire il camerotto a destra attiguo al mio, già vuoto dappoi alcune settimane, e v'introdussero un nuovo pollastro. Tosto la curiosità mi spinse di sapere chi fosse, e dalla finestra con voce bassa gli dissi il mio nome e gli chiesi del suo. Senza esitare mi rispose:

— Sono Gaetano Bianchini. — E qui saluti e domande senza fine; poi trascorsa circa un'ora mi chiamò e mi disse: — Desidero di avere da te un consiglio.

— Parla pure.

— Mi eccitano ad una rinuncia, come mi devo contenere?

— Credo che la sola propria coscienza possa suggerire una retta risoluzione. Se tu mi chiedi cosa farei io nel tuo caso, ti dico apertamente che non emetterei rinuncia di sorta alcuna anche se fossi sicuro d'incorrere in qualche pena.

[30] Qui il colloquio cessò, perché m'accorsi che la sentinella ci origliava e v'era pericolo di esser messo alla catena nei sotterranei del monastero. Verso mezzanotte il Bianchini fu tratto di carcere e non vi rientrò piú — ciò prova che aveva aderito all'invito fattogli — cosicché restai isolato, mentre i due camerotti da destra e sinistra erano vuoti. Quello di sinistra fu occupato per qualche tempo da Antonio Spada, uno dei compromessi nel fatto di Rivarola, e che scampò dal supplizio esponendo le cose come avvennero. La sua confessione indicò i veri colpevoli e scolpò tanti degni cittadini che il dottor Mazzoni aveva aggravati di gravissimi delitti. Lo Spada ebbe lo sfratto dal paese e riparlerò di lui piú tardi, quando gli fui compagno nell'esilio. Durante che l'ebbi vicino non mi riuscí mai di avere una risposta alle domande che gli diressi. Lo riconobbi dalle cantilene che sapeva tanto bene modulare.

[XXIV.] Erano undici mesi ormai dacché mi tenevano seppellito in quel tugurio, umido e micidiale, e nessuno davasi cura di me. Già dappoi la esecuzione de' miei cinque compagni di carcere, avevo perduto l'appetito né era stato piú capace di riacquistarlo, onde fui obbligato di scrivere ai miei di casa che cessassero d'inviarmi oggetti mangiativi. Il pane che lo stabilimento mi forniva — quattro baiocchi al giorno — dapprima mi spariva dinanzi agli occhi senza che me ne accorgessi, poscia mi [31] rimanevano dei grossi pezzi che venivano raccolti dai carabinieri pei loro cavalli. Insomma, corroso da quell'aria mefitica, senza un respiro d'aria buona, senza un'ora di movimento, mi sentiva venir meno la vita ad ogni istante; tutti i camerotti erano sgombri, a me solo non si pensava; null'ostante a ciò, mai un lamento, mai un ricorso. Risolsi entrando di essere passivo apatista in tutta la forza del termine; risoluzione che seppi conservare, come si vedrà nel seguito del racconto, nelle altre carceri. Che fa il detenuto allorché si inquieta? fa gioire coloro che lo rinchiusero, perché il loro desiderio è che soffra. Invece tenendosi indifferente mostra di essere d'animo forte e d'illibata coscienza e superiore a tutte le angherie che gli possono usare.

[XXV.] Finalmente ebbi il favorevole incontro di poter consultare il mio benigno maresciallo sulla mia pendenza, e seppe farmi conscio di quanto erasi deliberato: e cioè che il processo era stato ridotto ai due titoli di settario e di autore del dialogo di sant'Apollinare e san Vitale; che per tale scritto monsignor Invernizzi propose in udienza che mi si tagliasse la mano destra sul palco in piazza e fossi condannato alla reclusione non so per quanto tempo, ma che mio padre, il quale era pervenuto a porsi in buoni rapporti cogli altri membri della Commissione, specialmente col colonnello Ruvinetti, ottenne che la proposta di monsignor Invernizzi [32] non venisse ammessa; e che ero stato condannato a tre anni d'opera pubblica: infine mi disse che mio padre col mezzo di monsignor Marini in Roma sperava di vedere commutata la pena di galera in quella di detenzione; e che aspettavasi di giorno in giorno una risposta per essere condotto al mio destino. Quanto mi espose il maresciallo era esatto, giacché non trascorsero dieci giorni che fui tratto dal mio tugurio, chiuso in un legno e colla scorta di tre gendarmi traslocato di notte nella Rocca d'Imola, custodita da Spinucci rinomato per austerità. E difatti, giunto al mio posto, vedendo quest'uomo di una corporatura colossale, con un aspetto oltre ogni dire burbero e severo, mi incusse timore e pensai di avere a soffrire non pochi disturbi. Ma è pur vero che alle volte l'apparenza inganna. Usciti dalla Rocca i gendarmi, mi guidò con bel garbo nella stanza dei guardiani subalterni, alias secondini, e mi cedé uno dei loro letti per riposarmi. Nel mattino venne a riprendermi, mi condusse nel corridoio superiore, ove stavano gli altri detenuti di larga o di passaggio, e vi trovai il conte Eduardo Fabbri di Cesena, già da me ricordato, l'avvocato Franceschelli Carrozza e un certo Gamberini di Castel Bolognese. Ammesso nel loro consorzio, divenni loro commensale, e coi 20 baiocchi al giorno che percepivamo dal Governo pel nostro trattamento avevamo un buonissimo pranzo, che servivasi con qualche altra [33] aggiunta anche per la cena. Mi si assegnò una camera a parte, e non poteva desiderare di meglio. Libero di girare pel forte dalla mattina alla sera, di ricevere qualunque persona, in compagnia di persone educate ed istruite professanti gli stessi miei principi, mi parve di rinascere; tanto piú che lo Spinucci seguiva ad essere amabile e compiacente.

[XXVI.] Ma né forche né carcerazioni né esigli né tutte le persecuzioni che il dispotismo sa inventare valgono a distruggere lo spirito di riforme che in ognuno s'infonde dall'assoluto bisogno di migliorare la propria condizione civile e materiale, e nulla giova a disperdere quell'avvilimento che provasi, col progredire della civiltà, del giogo che la prepotenza impone, e gli sforzi per abbatterlo crescono di continuo. Quindi nel 1830, che è il tempo in cui entra la mia narrazione, lo spirito di libertà e d'indipendenza era piú vivo ed esteso. Una formidabile società formata in Francia e diretta da sommi personaggi tendeva a far cangiare d'aspetto l'intera Europa; il Comitato di essa risiedeva in Parigi, da dove dirigeva il movimento. In Italia Francesco IV duca di Modena, allettato da maggiore supremazia, entrò nella lega colla promessa di estendere i di lui domini in Lombardia e negli altri ducati della penisola: quindi egli si pose d'accordo per le operazioni che erano a farsi, specialmente quella di costituire l'Italia [34] libera ed indipendente, con Ciro Menotti e con Misley, corrispondenti del Comitato centrale di Parigi per l'Italia. Intanto che agivasi nel senso indicato, Carlo X re di Francia balzò dal trono, su cui fu elevato Filippo d'Orleans: egli proclamò solennemente il principio del non intervento, cioè l'interdizione a qualsiasi potenza di immischiarsi negli affari delle altre nazioni, libere di adottare quel sistema politico che loro conveniva. Ma il duca di Modena non ebbe alcuna fiducia nel nuovo sovrano di Francia e rinunciò all'assunta impresa di appoggiare il movimento concertato per erigere in Italia un regime costituzionale.

Dopo le novità sorte in Francia si proibí di ricevere chicchessia nel forte d'Imola; e poco dopo il conte Eduardo Fabbri e l'avvocato Franceschelli Carrozza vennero traslocati nel forte di Civita Castellana; ed io fui graziato dei pochi mesi che dovevo scontare a compimento dei tre anni di detenzione addossatimi [luglio 1830].

Intanto i liberali, malgrado la defezione del duca di Modena, insorsero colla speranza che il principio del non intervento fosse sacro e rispettato da chi lo aveva annunziato. In Modena [3 febbraio 1831] vi fu un serio conflitto tra i soldati estensi e i patrioti, vari dei quali rimasero prigionieri del Duca, e fra questi il Menotti; e quando videsi obbligato a rifuggirsi in Mantova per i moti [35] di Bologna, li condusse seco in pegno della presente sua sicurezza e per oggetto di futura vendetta. Negli altri paesi la rivoluzione si compí da sé per la paura dei Prolegati che li governavano, i quali non azzardarono di opporre la benché minima resistenza, sebbene fossero ben forniti di forze; meno però in Forlí e per tafferuglio ivi insorto soccombé il degno patriota Ferdinando Rossi.

[XXVII.] In Ravenna le cose erano ad un punto veramente vergognoso.

L'insurrezione doveva aver luogo nel mattino del 6 febbraro [1831], e niun materiale era in pronto per effettuarla: non armi, non munizioni, tranne un piccolo deposito di cartuccie, fabbricate dai fratelli Morigi ramari; ma le coccarde a tre colori abbondavano da ogni parte, se ne confezionavano in tutte le case, specialmente in quella di Domenico Montanari in via del Vecchio Seminario. Visto il mal andamento, mi unii a varî amici, fra i quali mi fu di valido appoggio il pittore Angelo Ferrari, e ci recammo nella case dei particolari a raccoglier armi; ne mettemmo insieme diverse, ma non quante potevano bastare all'uopo. Molti si rifiutavano di accordarcele, o per timore di compromettersi in caso che la faccenda andasse a male o che si smarrissero. Il fatto sta che si raccolsero sulla piazza dei Tedeschi un drappello di 60 persone circa, di cui io feci l'appello e presi in nota; gente animata dalla piú buona volontà del mondo, ma [36] inesperta. È vero che altri drappelli stavano nei borghi disposti all'azione, ma potevano essi superare un battaglione di soldati, ben armati e ben condotti? no di certo. La fortuna volle che il nostro Prolegato, seguendo l'esempio di quello di Bologna, cedé senza alcuna resistenza il governo ad una Commissione provvisoria (essa si compose dei seguenti personaggi: conte Pietro Desiderio Pasolini, Giulio cav. Rasponi, Giuseppe avv. Zalamella, Clemente Loreta, conte Francesco Rasponi, Rota Girolamo), che prese in consegna tutte le armi e le munizioni della guarnigione, che fu sciolta ed ogni militare partí verso il proprio focolare. Eletto da Leonardo Orioli, uno dei capi del movimento, ufficiale di guardia alla residenza municipale colla responsabilità di custodire le armi e le munizioni suddette, depositate nella seconda sala dell'indicato luogo, la mattina eressi pel primo la bandiera a tre colori sul balcone del palazzo municipale, ed Apollinare Santucci, che era ufficiale alla gran guardia, fece altrettanto su quello del palazzo governativo: dopo ciò io mi dimisi dalla carica datami, ben conoscendo che il militarismo non era fava per i miei denti.

All'annunzio della insurrezione del centro d'Italia il Papa rilasciò in libertà i detenuti politici: i rei confessi e le impunità negli ultimi fatti presero il volo all'estero; gli altri ritornarono in patria. Fu allora che il professor Meli, protomedico e direttore [37] dell'ospitale, mi espose che intendeva di recarsi all'incontro del conte Fabbri, che dalle carceri di Civita Castellana dirigevasi verso la propria casa, e che desiderava di avermi compagno insieme col custode Mariani. Accettammo ambedue l'invito, ed incontrammo il conte a Fano. Chi può descrivere il modo festevole con cui veniva egli accolto dagli abitanti dei luoghi in cui transitava? mi parvero tante ovazioni ad uso di quelle che i Romani porgevano ai loro Consoli di ritorno da una qualche conquista. Al suo arrivo tutte le campane suonavano a festa, sparavansi mortaletti, le giovani vestite di bianco su carri trionfali gli presentavano fiori, tutti i signori del paese correvano a complimentarlo fra gli applausi del popolo e lo favorivano di rinfreschi e di squisite refezioni. Da Fano a Cesena l'accoglienza diveniva sempre piú solenne; solennissima fu poi a Cesena, suo paese nativo. Meritava egli tanti attestati di stima e di affetto? certo di sí. Uomo rispettabile per intelligenza, mentre erasi distinto con diverse opere letterarie rese pubbliche colle stampe, uomo irremovibile nei suoi principî, né le persecuzioni a cui la corte di Roma lo sottomise valsero rimuoverlo dai suoi propositi, modello insomma di virtú cittadine, era l'idolo delle Romagne: io lo lasciai a Cesena, con promessa che non mancherebbe di fare una visita a Ravenna che tanto affezionava. La Commissione [38] provvisoria, subentrata nel posto del Prolegato pontificio per reggere la provincia, mi conferí l'impiego di commesso nell'ufficio di polizia, di cui si elesse direttore Gaspare Della Scala, franco muratore e giacobino nel 1797. Al Fabbri venne in seguito affidata la viceprefettura del proprio paese natio.

[XXVIII.] La mattina del 6 febbraio si affisse una stampa di un anonimo ravennate, con cui eccitava ogni rango di persone a sostenere la ricuperata libertà con ogni mezzo possibile, e prima cura dell'autorità fu quella di porre in essere la Guardia nazionale. Il Prolegato stesso nella mattina del 7 confidò il comando della medesima per la provincia al conte Ruggero Gamba, che aveva già sette lustri addietro sostenuto degnamente altri simili incarichi. Egli dispose che i cittadini dai 18 ai 50 anni s'inscrivessero nei ruoli della suddetta Guardia; alla quale poi la Commissione governativa diede un regolare assetto. Poi con un energico ordine del giorno formò la colonna mobile, composta di soldati pontifici, arruolati fra gl'insorti, e di cittadini volontari, la quale doveva far parte del glorioso esercito destinato sotto la direzione del generale Sercognani a liberare Roma dalla schiavitú clericale. Gli ex militari pontifici dipendevano da Antonio Conti, ufficiale caro pel suo patriottismo, e i volontari da Giovanni Montanari, che aveva già cooperato alla presa di Comacchio, conosciuto di una fede politica irremovibile sino dal 1820. L'ordine [39] del giorno del Gamba terminava con queste degne parole: «Marciate adunque tutti di accordo come fratelli finché il vessillo tricolore sventoli sul Campidoglio: questo sacro vessillo, che vi consegno, sia da Voi difeso col vostro sangue: esso non porta ancora alcuna iscrizione, ma voi vi leggerete — O libertà o morte. —»

[XXIX.] La prima operazione ebbe luogo nel 12; giorno in cui il forte e la piazza di San Leo vennero cedute dal cav. Bavari, maggiore delle truppe pontificie, al capitano del servizio nazionale Stelluti: il prodotto di questa resa, oltre l'acquisto di non pochi cannoni, di viveri e di munizioni da guerra, si fu la liberazione di 28 detenuti politici, in quel forte custoditi. Intanto Sercognani stringeva piú da presso l'assedio d'Ancona, e alla fine il generale Suhtermann che lo comandava videsi ridotto a sottomettersi alle schiere degli insorti, e quasi solo se ne ritornò a Roma [18 febbraio].

[XXX.] La spedizione avanzava trionfante ovunque, e la presa di Roma non poteva mancare a chi la dirigeva, se non avesse consumato un tempo prezioso nella Sabina sotto le mura di Rieti, il cui possesso venivagli contrastato dal cardinale Ferretti, vescovo dell'indicata città; e l'averla nelle mani nulla giovava all'alta impresa cui tendeva. La corte di Roma sbigottita non sapeva a qual partito appigliarsi: il Papa emanava notificazioni di pace e perdono, il suo segretario Bernetti [40] invece promoveva ovunque la guerra civile; per lo che il Sercognani pubblicò un severo ordine del giorno contro chi aderisse agl'inviti del Bernetti, e il non aver questi ricavato dai suoi eccitamenti alcun frutto era una prova chiara ed evidente che la popolazione romana favoriva la insurrezione ed aspettava ansiosa chi la sottraesse dal giogo che le pesava sul collo. Ma Sercognani titubò tanto che, le cose di Francia avendo cambiato d'andamento, videsi astretto alla ritirata, come vedremo in seguito. Ho sotto gli occhi una lettera di Pietro Fabbri, testimone oculare dei fatti di Rieti, come addetto alla spedizione, e poco concetto, anche in via militare, si concepisce di Sercognani. Un altro male è qui da rimarcarsi, che durante la spedizione di Roma la parte dell'Italia insorta davasi troppo alle feste, a far pompa di poesie e di prose sull'avvenuto cambiamento politico. L'unica cura da assumersi era quella di acquistare armi e di organizzare battaglioni e di rinforzare la spedizione e di avere forti riserve per ogni imprevisto evento.

[XXXI.] Intanto che Sercognani tentava d'impossessarsi di Rieti, in Bologna divenuta centro dell'amministrazione delle provincie dichiaravasi decaduta di diritto e di fatto il diritto temporale del papa, davasi un regolare assetto alle finanze, riformavasi la costituzione giudiziaria rendendola piú conforme alle vere massime su tal oggetto ammesse, [41] e creavasi un comitato di guerra, del quale era capo un vecchio militare, Grabinsky, uno straniero che non poteva essere animato dai sensi che occorrevano per dare un pieno esito all'incarico avuto. Infine si radunarono in Bologna i diversi rappresentanti delle città emancipatesi dal Governo pontificio, e in una solenne assemblea, in cui si stanziò che le Provincie costituissero un sol corpo dipendente da un sol centro e che le potestà legislativa, giudiziale ed esecutiva fossero tra loro distinte; si elesse quindi un consiglio di ministri, del quale venne accordata la presidenza all'avvocato Giovanni Vicini, e si nominarono i diversi prefetti delle Provincie, non che i sottoprefetti delle città subalterne: a Ravenna fu assegnato Tommaso Fracassi Poggi di Cesena, uomo di capacità e di rettitudine. Un'altra provvida misura prese il nuovo Governo, e si fu quella di scartare dal movimento i fratelli di Bonaparte, figli di Luigi ex re d'Olanda, sul timore che Luigi Filippo potesse supporre che essi volessero profittare della rivoluzione d'Italia per farsi un punto d'appoggio nelle loro pretese sul trono di Francia.

[XXXII.] Il cardinal Bernetti non si limitò a suscitare la guerra civile coi manifesti; egli fece conferire dal papa al cardinal Benvenuti l'alta dignità di Legato a latere nell'intento di condurre ad effetto la perversa volontà sua. Ma il Legato fu arrestato dai liberali in Osimo e condotto prigioniero in [42] Bologna: si ebbe gran fatica a salvarlo dal furore delle popolazioni dei luoghi in cui transitava.

Ma le cose in Francia piegavano male. Al ministro Lafayette, che sosteneva con vigore la causa italiana, successe Casimiro Perier, che avversava il principio del non intervento; e quando il principe di Metternich, anima del gabinetto austriaco ed arbitro della volontà dell'imperatore Francesco, espresse «che non intendeva di riconoscere il non intervento in quanto concerneva l'Italia, che era deciso di estendere le armi imperiali sin dove vigeva l'insurrezione, e che dichiarava che se l'intervento doveva condurlo alla guerra, essa succedesse pure, preferendo di correrne i rischi che di trovarsi esposto a perire fra le sommosse», per tutto ciò Luigi Filippo, che nella pace e nel pieno accordo coi sovrani d'Europa riponeva la sicurezza del trono conseguito, annuí alle mire dell'Austria, e il principio da lui proclamato, unica base del nuovo sistema d'Italia disparve in breve: mentre nel 5 marzo tre colonne di truppe austriache invasero il ducato di Modena, riconducendovi il duca che sfogò l'ira sua contro i prigionieri che aveva in custodia, condannandone a morte, fra i quali Menotti, e alla galera. Solamente per maggior inganno l'ambasciatore francese emise una protesta contro tale invasione per calmare l'impeto furioso che aveva commosso tutta Italia. Da Modena gli Austriaci [43] si avanzarono in Bologna, ove la somma delle cose pubbliche fu posta nelle mani dell'arcivescovo Oppizzoni, e il comando delle truppe nazionali fu conferito al generale Zucchi, che pose alcuni posti di osservazione lungo il Po di Primaro, inviò a Ravenna il generale Ollini con duemila uomini, e il generale Grabinsky si acquartierò in Forlí. Ma quando il Governo insurrezionale seppe che il nemico accerchiava i paesi insorti tanto dalla parte di Bologna che di Ferrara, risolse di ritrarsi e chiudersi in Ancona, e il generale Zucchi a cui fu deferito il comando militare rannodò le sue falangi in Rimini.

Gli Austriaci in numero di cinque mila con cavalleria e cannoni, diretti dal generale Mengen, avanzarono, secondo gli ordini del generale Geppert comandante in capo della spedizione, sino a Rimini; ivi l'avanguardia degli insorti numerosa di 1500 uomini, in parte soldati di linea e in parte volontari ravennati capitanati da Apollinare Santucci, fece fronte al nemico con un coraggio ammirabile tanto che dové esso per due volte retrocedere. È qui da rimarcarsi che i soldati pontifici condotti in Ravenna da Invernizzi e che entrarono nel rango degli insorti, si batterono come leoni, e il loro capitano Carlo Armari cadde prigioniero di guerra. Sopragiunse poscia tutto l'esercito austriaco e si rinnovò la pugna con maggiore accanimento (25 marzo) per quattro ore circa; [44] poi non potendo il corpo degli insorti sostenere piú oltre il cozzo del nemico, tanto sproporzionato, si ritirò verso Ancona. Gli Austriaci contarono morti e feriti, fra i quali il duca di Lichtenstein; niun italiano di nome e di vaglia perí fra gli Italiani, ma Ravenna ebbe a deplorare la perdita di due de' suoi cittadini, un certo Baccarini e Domenico Zotti che aveva lasciato da poco tempo le vesti da chierico per correre alla difesa della patria.

E Sercognani dov'era? che cosa operava per la santa causa assunta? Ei si ritrasse colla sua legione a Spoleto, dove la disarmò e la sciolse, e le armi furono prese in consegna dal vescovo G. Maria Mastai, or Pio IX. Ma non doveva egli condurla ad Ancona, aggiungerla ai prodi che avevano resistito con tanto coraggio al nemico in Rimini e rinforzare i loro battaglioni e disporsi ad un assedio che poteva con una capitolazione procurare loro patti favorevoli? Si vociferò che il Sercognani avesse intascato dodicimila scudi dal Governo pontificio per tale scioglimento; non si addussero prove all'uopo, ma il di lui procedere appariva con tutti i sintomi di tradimento. Anche i capi del Governo si dimisero con troppa sollecitudine, e Zucchi dové pur congedare le sue truppe. I piú compromessi s'imbarcarono per le Isole Ionie, ma vennero catturati da due legni austriaci, che li menarono prigionieri in Venezia: nel 22 aprile furono [45] liberi di recarsi dove avevano disposto di andare prima del loro arresto. Il figlio del prefetto Poggi voleva trarmi secolui nella fuga, ma io volli attenermi ai consigli del conte Eduardo Fabbri che trovavasi esso pure in Ancona, il quale mi indusse a ritornare a Ravenna.

[XXXIII.] Prima della loro partenza i membri del depresso Governo rivoluzionario avevano conchiuso col Legato Benvenuti, scarcerato alcuni giorni prima, una formale capitolazione, colla quale nel giorno 26 [marzo '31] si stabiliva che niuno sarebbe stato molestato pei trascorsi fatti, che agli esteri concedevasi piena facoltà di uscire dallo Stato, che gl'impiegati in paga sino dal 4 febbraro, epoca in cui s'iniziò la rivoluzione, non soffrirebbero alcun danno nei loro diritti e che i militari rimettendo la coccarda pontificia continuerebbero il loro servizio. Fra i membri del Governo provvisorio decaduto il solo Mamiani ricusò di approvare questa capitolazione, e non venne corredata dalla sua firma. Rimessa la capitolazione alla sanzione del Sovrano, egli la disapprovò interamente con editto del 5 aprile, perché lasciava «illesi», dichiarava il Papa in quell'atto stesso, «illesi gli elementi della ribellione» e «non ne sospendeva che momentaneamente gli effetti, che tanto piú ruinosi si sarebbero risentiti appena fosse mancato quel che ne arrestava il vorticoso torrente», l'aiuto austriaco; e con successivo editto di Bernetti furono [46] «sciolti i corpi militari di qualsivoglia arma, ... stazionati nelle provincie in cui poi si estese la ribellione». Quindi il Governo trovandosi senza truppa propria credé utile di instituire la Guardia civica, e con notificazione 30 marzo del conte Carlo Arrigoni, capo o gonfaloniere del municipio ravennate, si fece conoscere che per ordine superiore era soppressa la Guardia nazionale, a cui veniva sostituita una Guardia civica sino a che il Governo fosse in grado di fornire la città di una guarnigione, necessaria al mantenimento del buon ordine, e in pari tempo esponeva che il comando della medesima era affidato al signor conte Gabriele Rasponi, coadiuvato dagli aiutanti Battista Santucci e Nicola Dall'Agata. Poco tempo dopo io fui aggiunto ai medesimi in qualità di segretario del Colonnello. Con altro avviso del cav. Federico Rasponi, elevato alla dignità di Delegato pontificio, s'inculcò ad ogni cittadino dai 20 ai 50 anni l'adempimento dei doveri che questa instituzione prescriveva.

Intanto che procuravasi di dare un regolare assetto al presidio civico e che impedivasi nel miglior modo possibile il conflitto dei partiti per le passioni ancor vive mosse dai passati eventi, il Governo pontificio raccoglieva in Rimini dagli ergastoli e da ogni altro luogo di pena il personale dell'esercito che intendeva di regalare alle Romagne per tenerle in soggezione, affidandone il comando al colonnello Bentivoglio. [47] Il malanimo che sorse da tal procedere è indescrivibile, e sin da principio si risolse d'opporsi anche colle armi all'invasione di tanta canaglia. Ma, come al solito, si cianciava molto e si agiva poco. Oltre di ciò una piaga corrodeva sempre il corpo della civica ed era quella della sostituzione, cioè la facoltà data ai militari di farsi sostituire nel servizio che gli spettava dal primo mascalzone che gli si presentava; cosicché il peso del servizio era a carico di chi non aveva mezzi, e la civica diveniva un corpo di mercenari i piú abbietti. Piú volte potei io stesso verificare che sopra venti militi di guardia alla piazza due terzi erano di sostituzione e che accorrevano con zelo a solo fine di guadagnarsi un tozzo di pane pel giorno prossimo. Dei regolamenti non si mancò di farne. Il gonfaloniere Giovanni Lovatelli emanò quello che dal Prolegato Arrigoni gli fu trasmesso nel luglio, al quale fecero seguito le necessarie norme disciplinari. Ma tutto con poco buon esito, perché mancava quell'entusiasmo che è il solo idoneo ad avvivare una instituzione. A ciò si aggiungano le dissensioni che insorsero per la proposta fatta ai civici di adottare la coccarda pontificia. Chi può enumerare le adunanze che si tennero nei diversi capi di provincia per tale insulso soggetto? Chi può notare le proteste, gli indirizzi che si pubblicavano in proposito, ed i reclami contro l'introduzione in Romagna delle truppe papaline che si [48] organizzavano a Rimini? Le stampe per siffatta materia piovevano giú dirottamente. Ma il Bentivoglio non isconcertavasi punto, ed aveva già razzolato nelle galere un buon numero di commilitoni.

[XXXIV.] Un altro eroe papalino sorse a favorire gli arruolamenti, Gaspare Graziosi. Costui in un proclama diretto agli Albanesi e ai Tuscolani esclamava: «Su presto correte ad arruolarvi — noi vivremo insieme — voi non sarete comandati che dal vostro Gaspare. Qual piacere lo stare tra voi a cantare la tarantella? Noi andremo a baciare quel sacro piede da cui emana l'assolutoria dei peccati in aeternum»; e con altre corbellerie di questo genere aveva già raccolte piú centinaia di uomini. Che spirito militare dovevano avere coloro che si arrendevano a tali esortazioni?

[XXXV.] Ben conoscendosi dalle autorità l'irregolare andamento della civica, si prescrisse la presentazione dei documenti comprovanti i titoli che esimevano dal servizio, lasciando però in essere la tassa di sostituzione, e si costituí una commissione di riforma, la quale valse a riparare molti difetti. Inoltre, trovandosi insufficiente al servizio di polizia e dei tribunali la forza civica, si formò una compagnia speciale di militi della provincia. Ma non tenevasi di mira l'oggetto principale, quello di approfittare del beneficio di avere le armi per tentare di conseguire quello che veniva ricusato, [49] savie riforme che corrispondessero ai bisogni dei popoli; e per riuscire nell'intento conveniva organizzare una Guardia mobile composta di tutti quei giovani che erano animati da veri sentimenti liberali, dar loro per capi degli uomini rivoluzionari, non degli aristocratici paurosi ed inetti, ravvivare il loro spirito, non con ridicole riviste, ma coi mezzi che il patriotismo inspira, e armarli di tutto punto. Con tante colonne mobili militari disposte all'azione quanti sono i paesi di Romagna, la corte di Roma non avrebbe pensato ad ingannarla una seconda volta con editti pomposi, né osato di prometterle con essi un'êra novella. I reclami e le proteste avanzate contro le disposizioni emanate da Roma col falso titolo di benefiche riforme civili furono innumerevoli, ma se invece di scritti si fosse ricorso alle armi l'affare avrebbe presto cambiato d'aspetto. Una stampa pubblicata in tale incontro diceva: «L'êra novella promessa ai sudditi pontifici ed ai gabinetti d'Europa, vedetela nei seguenti atti: 1º. Chiusura delle università; 2º. aumento del quarto della tassa prediale; 3º. la Sacra Inquisizione conservata nella procedura criminale all'art. 24 dell'editto 3 novembre 1831».

[XXXVI.] Invano Chateaubriand faceva conoscere in un suo aureo opuscolo a Gregorio XVI «che i Papi perdettero la loro possanza in quel dí che cessarono di essere guelfi e di sostenere la [50] libertà italiana per diventar papi ghibellini, papi tedeschi; che la dignità papale divenne possente quando si fondò sul popolo; oppresso il popolo, fu debole e disprezzata.» E lodando le virtú di Gregorio XVI gli diceva: «Se le arti belle ebbero un Leone? perché la libertà non avrà anche essa un Leone?» Ma tutto ciò non poteva far breccia nell'animo di Gregorio, sebbene l'insinuazione gli venisse da un uomo di una fama europea, tipo del vero cristiano nel senso del vangelo, perché il papa erasi lanciato a briglia sciolta nella carriera del dispotismo.

[XXXVII.] Le querele dei Romagnoli contro le riforme accordate si avvivavano di giorno in giorno, atteso che non mettevano alcun riparo ai mali da cui erano oppressi, anzi gli artifici della Corte romana erano diretti ad accrescerli: proposero quindi un nuovo sistema, valevole a migliorare la loro condizione. Queste querele vennero prese in considerazione dai rappresentanti delle principali potenze di Europa residenti in Roma, i quali dietro l'assenso dei loro sovrani compilarono in un solenne memorandum le norme che il Governo pontificio doveva adottare pel bene dei suoi sudditi, per appagare i loro giusti reclami e per sedare le perturbazioni [10 maggio '31].

Ma il papa rimase irremovibile di non tramutare il Governo da assoluto in consultivo, come gli si proponeva nel memorandum, e da ecclesiastico [51] in laico per la suggerita intromissione nei pubblici affari anche di persone non addette al chiericato; e Bernetti, stando sui generali, fece intendere ai ministri esteri che non sarebbesi mancato di operare ogni bene possibile. Già per addimostrare le buone disposizioni del Governo e quanto fosse proclive alla clemenza, amnistiò chi aveva preso parte alla insurrezione; da tale beneficio ne furono solamente esclusi 38, e fra questi notavasi il nostro dottor Sebastiano Fusconi. Ma tutte le speranze che aveva destate il memorandum svanirono colla promulgazione del Motu-proprio del 5 luglio, il quale non ammetteva alcuno dei provvedimenti proposti e tutto concentravasi nell'autorità sovrana: ad essa la nomina dei consiglieri municipali, ad essa l'approvazione degli oggetti da trattarsi in consiglio, ad essa la conferma della nomina degli impiegati, ad essa l'eleggere un rappresentante che assistesse alle sessioni consigliari, ad essa il concedere la esecuzione delle deliberazioni dei consigli provinciali. E i ministri delle potenze estere? i fautori del memorandum? si mostrarono di ciò paghi. Solamente l'inglese Seymour insisteva per la esecuzione di quanto erasi concertato; ma fu tempo perduto. In pari tempo, dietro eccitamento della Francia, gli Austriaci sgombrarono le provincie insorte. Nuove perturbazioni non tardarono a rinnovarsi, non già per abbattere il restaurato Governo pontificio, ma per conseguire [52] quelle libere instituzioni che erano nel desiderio di tutti.

[XXXVIII.] Molti male intenzionati ravennati, approfittando di tali convulsioni, progettarono di assalire la Guardia e l'ufficio civico, di disarmarla e di rendersi arbitri della forza cittadina; con quale scopo, l'ignoro. In assenza del conte Francesco Rasponi, sostituito al conte Gabriele Rasponi nel comando civico, la reggeva il capobattaglione conte Francesco Lovatelli, quando si tentò di eseguire l'assalto. Ma la di lui avvedutezza ed energia, secondato da vari ufficiali civici, fecero mancare il perverso progetto, e gli assalitori furono presi e carcerati. Dal nome del loro capo Gaetano Tarroni, uomo di niun conto e cuoco avventuriere, ebbero i sediziosi il nome di Tarroniani. Essi meditavano il colpo nella locanda dei Tre ferri, e da questo luogo traversando la piazzetta dei Tedeschi dovevano penetrare inosservati nel palazzo governativo, e mentre che una parte degli assalitori disarmava la sentinella e impadronivasi del quartiere, l'altra doveva salire le scale, invadere l'ufficio, posto al primo piano del suddetto palazzo, ed installarsi in esso; ma, come dissi, il progetto andò fallito, perché già si stava pronti a respingere l'attacco di cui si era avuto contezza. Io mi ricordo che nell'incontrar gli assalitori nel punto che entravano nella Tesoreria, pel portone che è presso la posta delle lettere, sentii una voce che disse: «Lascialo [53] stare, non è compreso fra i cappellani»: era questo il nome che attribuivasi agli ufficiali della civica. È pure da notarsi che nell'ora dell'assalto la sentinella spettava all'uomo il piú pacifico che fosse in Ravenna, a Prospero Di Rosa, che con sorpresa di ognuno seppe opporre una energica resistenza a chi lo voleva disarmare nè riuscí nell'intento. Il Lovatelli pubblicò tosto un ordine del giorno di lode ai civici, che sventarono la congiura dei malevoli, e ai gendarmi, che concorsero al mantenimento della tranquillità pubblica. Il Consiglio di disciplina prese ad esame il fatto del Tarroniani ed espose colle stampe l'opinamento da esso emesso, in cui si dichiarava che «il fatto in sua origine era di natura tale che superava la giurisdizione del Consiglio di disciplina in qualità di tribunale civico», e si proponeva di agire in senso «di moderazione verso i detenuti e per servigi prestati alla civica e per essere alcuni di essi aggravati di prole.» Si ritenne che l'attentato dei Tarroniani fosse un maneggio dei preti colla mira di far insorgere il loro partito e di agevolare l'ingresso dei papalini nella Romagna, attentato già operato in Bologna e in Forlí in relazione al brigantaggio armato che era nei vóti del Governo.

[XXXIX.] Continuando l'agitazione avvivata dal rifiuto di concedere le reclamate instituzioni e di sciogliere il corpo dei papalini raccolto a Rimini, [54] si tenne un congresso a Bologna [22 agosto] di personaggi autorevoli ed influenti delle provincie romagnole, ed ivi Ravenna fu rappresentata dal conte Desiderio Pasolini e dall'avvocato Girolamo Rasi. In esso si risolse d'instare presso il Sovrano che sospendesse l'editto del 5 luglio, che vietasse l'inoltro dei papalini in Romagna e che si curasse il completo armamento della Guardia civica. Ma i deputati spediti a tal uomo a Roma niun profitto trassero dalla loro missione; onde crescendo il malanimo tanto da temere un secondo sconvolgimento, il papa (gennaio 1832) trattò di nuovo coll'Austria per un intervento, che l'ebbe senza contratto. Lord Seymour, incaricato inglese che non assentí alla volontà del papa, si ritirò da Roma [settembre '32], inviando una nota agli altri ministri diplomatici, la quale giustificava pienamente il suo rifiuto.

Risoluto il papa di togliere dalle Romagne ogni ulteriore contrasto e di ridurle ad una cieca obbedienza, conferí al cardinale Albani la direzione ed il comando del suo esercito, non che la dignità di Commissario straordinario sui paesi che doveva invadere coll'aiuto delle truppe austriache. L'ingresso dell'Albani e dei suoi militari venne annunziato dal cardinale Bernetti [14 gennaio '32] e da lui stesso con pomposi manifesti, sempre compilati con quel gesuitismo proprio del padrone che ambedue servivano.

I Romagnoli, alieni da urti micidiali contrari [55] a quei sensi di amor fraterno che devono sussistere tra le persone dello stesso Stato, diressero alle truppe pontificie espressioni di concordia, onde non venissero con essi alle mani e si evitasse una guerra civile, tanto disonorevole a popoli lanciati nella via del progresso. Ma non avendo avuto le loro esortazioni alcun buon risultato, come attendevano, corsero essi pure alle armi, ma in poco numero; mentre in gran parte, spaventati dall'intervento austriaco, si rattennero dal soccorrere la nobile impresa. Lo scontro ebbe luogo sul monte di Cesena, ove sorge il monastero di San Benedetto: la zuffa fu accanita, ma breve; i Romagnoli superati dal numero dei papalini dovettero retrocedere e disperdersi [20 gennaio '32]. Le gesta dei vincitori furono quali si convenivano a gente da galera, rei di ogni sorta di delitti. Senza aver riguardo alla qualità delle persone, dei luoghi e delle cose, manomisero chiese, private abitazioni, e commisero omicidi i piú bestiali. Nel palazzo Guidi di Cesena vi uccisero domestici, marito e moglie. Nel sotterraneo della cappella della chiesa del Monte trovarono un certo Viviani, che tenevasi astretto a una croce, come ad egida sicura: fu trafitto da parte a parte. In Forlí commisero [21 gennaio], eccessi inauditi, piú perversi di quelli che commisero i barbari del medioevo; ivi molti caddero morti, moltissimi feriti, e l'eccelso cardine della chiesa, l'uomo di pace e [56] di misericordia, entrò trionfante in Forlí, bagnata del sangue di tanti innocenti cittadini, ed ebbe l'impudenza di darsi il nome di pacificatore e benefattore delle Romagne. In Ravenna pure la banda del colonnello Zamboni [7 febbraio] si pose a percorrere di sera le strade offendendo in chi si abbattevano; essi stessi uccisero il loro capitano Bernardini, che tentava di ricondurli alla caserma, e nelle loro selvagge scorrerie rimase morto un onesto operaio di nome Antonelli, che dalla propria casa recavasi al forno ove lavorava. Ma Ravenna si scosse, chiamò in città le guardie civiche che erano ai cordoni sanitari, e i Zamboniani si rinchiusero in caserma e di notte avanzata se la svignarono di nascosto. Nel giorno seguente giunsero gli Austriaci, i quali furono accolti come liberatori dopo gli eccessi usati dai papalini. Se invece di conferenze, di proteste e d'indirizzi, torno a ripetere, si fosse messo insieme un buon corpo di civici, ben armato e disposto all'azione, sarebbe tutto ciò avvenuto? no, di certo.

[XL.] Al suo arrivo in Bologna il cardinale Albani sciolse la Guardia civica ed ordinò la consegna di ogni sorta d'armi, e, presi per consiglieri un Canosa, direttore della polizia dello Stato modenese, ed un Marschall, colonnello austriaco, proscrisse con un bando severo le società segrete, impose un prestito forzato di 200 mila scudi, creò ad arbitrio magistrature e consigli comunali ed [57] emanò altre disposizioni tiranniche; onde molti esularono.

[XLI.] Il conte Francesco Rasponi nel ritirarsi dal comando civico, in seguito delle disposizioni di Albani, emanò un ordine del giorno, con cui lodava il lodevole contegno tenuto in ogni incontro dai militi da lui dipendenti ed esprimeva loro la gratitudine del paese, e finiva col dire che non avrebbe omesso di essere giovevole alla patria. Egli era aristocratico e prepotente, vizi originari della sua famiglia, ma seppe al bisogno rendersi popolare ed ebbe sempre la cautela di non adottare alcuna risoluzione senza prima consultare il parere della civica, e ciò affinché la responsabilità non piombasse intera sopra le di lui spalle. Anche il Prolegato Carlo Arrigoni diresse ad ogni civico i piú vivi ringraziamenti per gli utili servizi prestati alla patria.

[XLII.] La Francia intanto per controbilanciare l'influenza degli Austriaci nelle Romagne, i quali si erano resi alquanto benevisi dopo le enormità usate dai papalini e si tenevano in buono accordo coi cittadini, forse colla mira di aggiungerle ai dominî lombardi, ordinò una spedizione in Ancona. Esultarono i Romagnoli, divenuti già immemori dell'inganno del non intervento, e non pensarono che l'occupazione d'Ancona era diretta a consolidare maggiormente l'autorità pontificia. La spedizione constava di 1800 uomini, comandati dal [58] generale Cubières, il quale per via di terra erasi trasferito a Roma, onde prendere col pontefice gli opportuni accordi in proposito. Ma la squadra arrivò al suo destino prima che Cubières vi entrasse. Ciò non impedí che il capitano Combes non penetrasse in Ancona e non invitasse il comandante della fortezza a concedergliene l'ingresso. Né il Lazzarini né il Prolegato Fabrizi avevano istruzioni in proposito, non poterono annuire all'invito di Combes. Ma il colonnello Ruspoli, comandante delle milizie ivi stanziate, si arrese ed ammise i Francesi nella cittadella, che presero nelle mani le redini del Governo [24 febbraio '32].

[XLIII.] Il papa all'annunzio della presa di Ancona si risentí dell'aggressione dannosa agli interessi del suo Stato, protestò contro l'adoperata violazione del suo territorio, instò perché i Francesi lasciassero liberi i luoghi da essi occupati. Ma tutto ciò non valse a rimuoverli dal loro assunto, e si davano cura di far credere che erano venuti in Italia per liberarla dal giogo che le pesava sul collo. Si dischiusero le carceri a detenuti politici; patriottici canti in ogni lato; gli animi si concitarono non solo in Ancona, ma bensí nelle Romagne. Chi non si stimava sicuro nel proprio paese annidavasi in Ancona, ed era ben accolto ed ammesso in una legione instituita pel buon ordine del paese, il cui comando venne affidato a Nicola Ricciotti. Ma venuto Cubières in Ancona, il vero [59] oggetto della spedizione si appalesò alla mente anche dei piú illusi. Vietò i canti e le riunioni nelle vie [12 marzo]; chi non era di Ancona dové partire; molti ivi rifugiati furono tratti in Corsica ed arruolati nella legione straniera; e rimandati in Francia Combes e Gallois che avevano suscitato lo spirito di libertà. Intanto dal canto suo il conte di St. Aulaire assicurava [15 aprile] Bernetti che il Governo francese professava una «perfetta amistà» alla Santa Sede e che «gli elementi della politica francese in Italia» erano sempre gli stessi: la conservazione dell'autorità temporale del papa, dell'integrità e della indipendenza de' suoi Stati»; e quindi il papa aderí di buon cuore alla dimora dei Francesi in Ancona, che fu regolata con determinate condizioni. Dopo tutto ciò accrebbero le ire contro i Francesi e contro il Governo papale. Si tentò di uccidere un certo Origo, colonnello dei gendarmi; si uccisero soldati francesi e soldati del papa; trafitto da vari colpi, cadde morto il gonfaloniere Bosdari: spavento generale. Energiche misure adottò Cubières: due rei dei fatti avvenuti furono fucilati, altri condannati alle galere; e nello stesso tempo il Pontefice lanciava la scomunica contro coloro che congiuravano a danno della sua autorità.

[XLIV.] Ansioso il papa di acquistare una piena autorità, come i suoi antecessori l'avevano esercitata nei tempi addietro, cioè senza il concorso di forze [60] straniere, venne consigliato di formare esso pure una sètta di fedeli alla Santa Sede, che paralizzasse quella dei patrioti e che suo scopo fosse di abbatterli ed esterminarli. Ad un certo G. B. Bertolazzi fu dato l'incarico di organizzarla; a seconda dell'ordine del giorno da esso emanato nel 1º settembre 1832, questa congrega ascendeva a 50 mila uomini distinti col nome di Centurioni: in esso atto chiamava i liberali partigiani, sanguinari, rivoltosi, sovversivi, nemici di ogni principio religioso, atei, imbrutiti, intenti a dissolvere i vincoli della società umana. La sètta aveva nelle Marche e nelle Romagne una direzione generale con parziali presidenze sul tesoro, sulla giustizia e sulla guerra; dieci comandi formavano una divisione, ogni comando componevasi di 12 centurie, ogni centuria di 10 o 12 decurie, ogni decuria di 10 o 12 volontari. Il papa accordò loro molti privilegi, specialmente quello di portar armi d'ogni sorta. Alla condotta scellerata dei Centurioni sono da attribuirsi gli omicidi che afflissero in quei tempi le Romagne. Le città piú conturbate dalle loro, azioni furono Lugo, Imola e Faenza, ma quest'ultima in particolar modo dilaniata: havvi chi ha asserito che in Faenza il numero dei morti ed uccisi ascese ad ottocento; in Russi spensero un lume di dottrina, di carità e di nobili sensi, Domenico Farini. Ma chi può ridire tutte le vittime del furore di una sètta cosí bestiale e feroce? Essa rese la tirannide [61] papale insopportabile in ogni rango di persone.

Malgrado l'appoggio dei Centurioni, il papa non si tenne sicuro a frenare l'impeto rivoluzionario, e approfittando dello scioglimento dei reggimenti svizzeri a Parigi, ne chiamò due al suo servizio. Aiutato dagli Austriaci, dai Francesi, dagli Svizzeri e dai Centurioni, il Governo sciolse i consigli comunali e li formò di uomini abbietti, privò di cariche e d'impieghi chi era sospetto di liberalismo e ai congedati sostituí i Centurioni o uomini fedeli, senza tener conto né del loro sapere, né delle loro qualità; le università chiuse e gli studenti che parteciparono alla rivolta del 1831 impediti dal continuare i loro studi; i balzelli accresciuti, prestiti dannosi, appalti favorevoli ai benevisi al Governo: e tutto ciò per estinguere l'influsso liberale.

[XLV.] Ma nel tempo che ciò operavasi sorgeva in Italia ed altrove, nel posto della vecchia Carboneria, una nuova formidabile società col nome di Giovine Italia, promossa da un giovane generoso, di profondo ingegno, di volontà ferrea, tutto anima per rendere libera e indipendente la patria: questo giovane chiamavasi Giuseppe Mazzini. Egli esortò dapprima Carlo Alberto re di Sardegna a tentare la magnanima impresa di sottrarre l'Italia dal giogo straniero austriaco, ma la nobile proposta lo pose in sospetto di cospiratore, e per evitare i [62] danni che gliene potevano venire, emigrò in Francia. In Parigi si accordò coi suoi compatrioti fuorusciti, e instituí la società col nome di Giovine Italia; si eresse pure cogli stessi principi la Giovine Alemagna, la Giovine Ungheria, e Mazzini fu eletto supremo regolatore delle medesime. Un giornale col titolo della società stampavasi a Parigi per scuotere l'inerzia del popolo; in esso dicevasi: «Ma parla, popolo, cosa mai fanno i nostri nemici per sollevare la tua miseria? Supplica e sarai deriso — lagnati, e ti getteranno in carcere — percuoti alle porte di costoro per chieder pane, e ti lancieranno in volto una pietra — per essi le ricchezze e i piaceri, per te le fatiche e le lagrime — per essi gl'impieghi e gli onori, per te la servitú. Guardati intorno, o popolo; vedi se esiste una terra al pari d'Italia benedetta da Dio, con i suoi doni. Un campicello che tu vi possedessi basterebbe a vestire e ad alimentare la tua famiglia — ma alcuni pochi la possiedono tutta, a te non è lecito sperarne altra parte, oltre quella che servirà per la tua sepoltura». Com'è ben da credere il Mazzini fu accusato di socialismo. In seguito altri giornali apparvero nello stesso senso, uno col titolo Il precursore ed un altro in Londra col titolo L'apostolato. Questa società si estese in tutta Italia, e vi divenne formidabile: perciò incusse timore nel cuore dei principi e commosse altamente la corte di Vienna, come ciò si rivela dalle [63] note dirette da Metternich al cav. Menz, incaricato di affari diplomatici a Milano, riportate in diverse storie.

[XLVI.] In Ravenna ebbe l'incarico di formare una sezione della Giovine Italia il conte Francesco Lovatelli, il quale nell'assumerlo si aggiunse per coadiutori Giovanni Montanari, Antonio Ghirardini e me. Ci trovammo un giorno tutti insieme, per concertare il modo di erigerla, ma poco tempo dopo io ed il Ghirardini fummo arrestati, né saprei dire come si comportarono i miei due colleghi per dar esito alla faccenda. Seppi però nelle carceri di Bologna, ove fui condotto unitamente ad altri quattro cittadini, che il Lovatelli ricercato dalla polizia evase. Ora m'è d'uopo di dar ragguaglio di quell'arresto per le particolarità che presenta.

[XLVII.] L'arresto ebbe luogo, se non sbaglio, nella notte del 16 dicembre 1832, e fui tradotto nella caserma di San Vitale, ove trovai Gaspare Della Scala, grosso maggiore della sciolta Guardia civica, Ghiselli di Cesena, professore di chimica e fisica nel collegio, e i due fratelli Boccaccini, Agostino e Gregorio, due distinti possidenti del paese; né poteva figurarmi in che fossero compromessi per soggiacere ad un arresto. Poche ore si rimase in caserma, e in appositi legni chiusi, scortati dai gendarmi, venimmo traslocati nella torre di Bologna all'ultimo piano: il Ghirardini, essendo infermo [64] di malattia di petto contratta nel tempo che si tenne rinchiuso nel forte di Ancona, ebbe altra destinazione che non saprei indicare.

[XLVIII.] Per me, che avevo già sofferto tre anni di carcere, essa non mi sconcertò punto, ma ai miei compagni era di grave sconforto. I Boccaccini, usi ad una vita sciolta di divertimenti, stavano di continuo attaccati alle ferriate delle finestre, cercando di conoscere i luoghi che si affacciavano alla loro vista; il Della Scala passeggiava pensieroso; il Ghiselli s'irritava col capo-custode, perché non aderiva di lasciargli aperta la porta: «Siamo galantuomini, gridava, non vogliamo già fuggire». In tutto questo male andare, poco mangiavano; ed io, che non soffriva inappetenza, ingoiava i succulenti pasti che facevano venire dalla locanda. Alla fine un messo d'ufficio ci condusse dinanzi al commissario di polizia, il quale cosí alla buona senza tanti complimenti, come si trattasse di favorirci un rinfresco, c'intimò «l'esiglio in perpetuo, sotto pene arbitrarie in caso di ritorno». I miei compagni, già stanchi di stare in carcere, l'accolsero come un beneficio: il Ghiselli diede peró una famosa lavata di testa al commissario, che se la sorbí senza proferir parola; ed io gli dissi che l'esiglio, l'antica interdizione dell'acqua e del fuoco, era pena gravissima; che io non intendeva mi s'imponesse, senza usare tutti quei procedimenti che la legge prescriveva; e che quindi [65] rigettava l'invito del signor commissario; credo che si chiamasse Grandi. Ricondotti in carcere, i miei colleghi mi furono addosso affinché ritirassi il rifiuto emesso, sul timore che potesse complicare la faccenda e dar luogo per tutti ad una procedura legale, che poteva andare alla lunga e tenerli in carcere Dio sa quanto tempo. I Boccaccini mi gridavano: «Noi ti considereremo come un fratello; le cose possono cambiare, e l'esiglio può essere di breve durata; ritira la rinuncia»; ciò che feci, e pochi giorni dopo fummo scortati dalla forza alla frontiera toscana [dicembre '32].

Ci fermammo a Firenze, ma il Governo di quel ducato non ci permise di stazionarvi; c'inoltrammo però a Lucca, ove i signori Donati Burlamacchi ci installarono in un loro magnifico casino. Dopo tre mesi di patriarcale dimora in quel deliziosissimo sito, ove d'inverno si godeva l'aura di primavera, i due Boccaccini si resero in Baviera; ove colla mediazione del conte Baccinetti, addetto al servizio di quella Corte, ottennero la protezione di quel re, e nell'incontro ch'egli si recò a Roma, li fece graziare dal Papa e l'esiglio per essi disparve. Ghiselli e Della Scala ebbero il permesso di rimanere in Toscana; io e Ghirardini ci dirigemmo in Francia. Il Ghirardini non mi fu dato mai di vederlo; so che fu inviato al deposito di Mende con soli 30 franchi di sussidio al mese: egli mi scrisse perché tentassi di fargli conseguire [66] i 45 franchi che gli altri emigrati percepivano, ed usai energiche pratiche in proposito cogli amici di Parigi; e quando erasi sul punto di riuscire nell'intento, mi pervenne la notizia della sua morte. Buon liberale, fermo nei suoi principî, operò molto per la causa d'Italia: egli fu nel 1821 rinchiuso nel forte d'Ancona e, dopo quattro anni di prigionia preventiva, condannato da Rivarola ad altri non pochi di galera; ma reso libero pei successivi movimenti d'Italia, spiegò maggiore energia di quella che aveva nel 1820. Io nel mio viaggio verso la Francia mi fermai a Livorno, ove fui accolto con molta cortesia da Mayer e Bastogi, capi della Giovine Italia, e questi mi consegnò diverse carte da porgere a Mazzini a Marsiglia, le quali avviluppai nella fodera del mio cappello e, colà giunto in assenza del Mazzini, consegnai ad un certo Bendandi, addetto alla di lui casa. Il viaggio da Livorno a Marsiglia [marzo '33], in una barcaccia carica di ossa che dovevano servire a raffinare zuccheri, fu terribile, atteso che dinanzi alle isole Hyères fummo investiti da un terribile temporale, che ci espose a divenire il pasto dei pesci.

Da Marsiglia seguii il mio cammino sino a Moulins [aprile '33] ove esisteva un numeroso deposito di emigrati; ivi trovai il mio concittadino Antonio Spada. La vita dell'emigrato, non avente altra risorsa che il sussidio del Governo, [67] era trista: prelevato l'affitto, l'imbiancatura, qualche rattoppatura di scarpe, qualche racconciatura di vestito, non restavano pel vitto che pochi soldi al giorno, valevoli appena per un pasto; per evitare la colazione si stava in letto sino a che l'ora del pasto stava per suonare.

Capitò nel deposito un ravennate, credo si chiamasse Samaritani, il quale inveí oltremodo contro lo Spada in riguardo alla sua confessione negli affari di Rivarola, come abbiam detto, e che già in Marsiglia lo espose in pericolo della vita. Il Samaritani commosse tutta l'emigrazione, si pensava di prendere a suo danno una terribile misura. Chiamato io a dar schiarimenti sull'addebito imputato a Spada, dissi esistere la confessione, ma avvenuta in tempo in cui Invernizzi era stato informato da altri di ogni fatto, e che Spada, esponendo le cose come erano, aveva salvata la vita a molte ragguardevoli persone, accusate indegnamente di complicità nell'attentato di Rivarola; ed i miei schiarimenti valsero a giustificarlo.

[XLIX.] La smania settaria invadeva ancora l'animo di molti emigrati, ed eressero a Moulins una Vendita carbonica, coll'intento, dicevano essi, di cooperare al rimpatrio, che, a seconda delle loro idee, doveva succedere da un giorno all'altro, e che invece decorsero tre lustri prima che avvenisse. In questa nuova Vendita non tutti gli emigrati erano introdotti, ed i lamenti degli esclusi [68] giovarono alla polizia per iscoprire ogni cosa. Tosto i capi, fra i quali lo Spada, vennero scacciati dal suolo francese e i subalterni confinati nella Bretagna.

Da Moulins sino ad un certo punto si viaggiò in diligenza [giugno '33]; il Governo corrispose dieci soldi per ogni lega: poi si montò sopra un battello a vapore che percorreva la Loira. Poco lungi da un paese chiamato Ancenis si ruppe qualche cosa nel meccanismo del vapore, e tutti i passeggieri dovettero far sosta ad Ancenis per accomodare il vapore. Discesi a terra noi emigrati ed uniti insieme passeggiando per le strade, si agglomerò una turba di gente con grida, fra le quali quella di morte ai San Simoniani; allora consigliai agli amici di entrare in una chiesa aperta, che ci era dappresso, ove giunti chiamai il sagrestano e lo pregai, regalandogli alcuni soldi, di andare a chiamare il Maire o Sindaco: la risoluzione fu buona, egli non tardò a venire, gli si fece conoscere che noi eravamo emigrati italiani, inviati dal governo in Bretagna, e nulla sapevamo di San Simonismo. Il Maire uscí, disperse la turba, e fummo liberi d'andare all'osteria, ch'era di fronte al battello, per soddisfare agli urgenti bisogni dello stomaco. Nel mentre che si stava mangiando un boccone, eccoti tre individui di sinistro aspetto; l'un di essi si levò il cappello, trasse fuori delle cartucce e battendole sul tavolino, gridava: «C'est [69] du poivre sur les ennemis de la duchesse de Berry»: allora mi feci ardito e dissi in francese, alla meglio che potei avendolo studiato in Ravenna da Verlicchi, che noi non eravamo nemici della duchessa di Berry, ma emigrati italiani inviati dal Governo in Bretagna. Allora la scena si mutò d'aspetto, ci porsero da bere, e si rimase in loro compagnia sino alla chiusura dell'osteria: noi andammo a dormire sulle panche del battello. Giunti a Nantes [27 giugno] prima mia cura fu quella d'andare a vedere il ripostiglio, ove la duchessa di Berry fu arrestata: immaginatevi un bel camerino dentro una canna da camino, ove si poteva stare con tutt'agio, ma dal momento che si accese fuoco nel camino divenne un forno ardente, onde le fu d'uopo d'arrendersi senza perdere un minuto di tempo. Da Nantes a Vannes, capoluogo del dipartimento del Morbihan, se la mente non m'illude, mi pare che si facesse col cavallo di san Francesco, a piedi, per mancanza di pecunia: da Vannes fummo traslocati ad Auray, piccolo paese assegnatoci per deposito.

[L.] L'entusiasmo per la duchessa di Berry era indescrivibile in tutta la Bretagna, e immenso l'odio contro il Governo di Luigi Filippo; talmente che i soldati, che andavano in congedo e che transitavano per quelle contrade, correvano pericolo di essere uccisi. L'avversione cadeva pur anche su di noi; quando gli abitanti c'incontravano, sputavano in terra tre volte e si facevano il segno della croce, [70] per disperdere l'influsso della scomunica, di cui dicevano essi essere noi aggravati. In vista dell'odio del paese contro di noi nutrito, si pensò di stare tutti uniti, e a tal fine si prese un'intera casa in affitto: facevamo da noi la spesa e la cucina; i viveri in Bretagna costano meno che nelle altre località, havvi abbondanza di burro, di formaggi, di selvaggina e di pesce, specialmente di sardine, ma si beve male; per chi non ha modo di comprare del bordò, la bibita ordinaria del paese è il cidre che è spremuto da pomi, bibita acida, cattiva allo stomaco quando non è vecchia. Anche il clima non mi favoriva punto, perché umido ed incostante a causa dell'influsso del vicino Oceano; perciò ero quasi sempre ammalato.

[LI.] Era con noi un certo Piolanti, ufficiale del papa al tempo dei movimenti del 1820, buon liberale addetto alla Carboneria. Fanatico per la canina e per le buone bibite, sentivasi venir meno, dovendo ingoiare quel pestifero cidre. «Perché, gli diss'io, non ricorri al re per un sussidio, onde comprarti un poco di bordò? Noi abbiamo qui un buon amico, che ne vende d'ogni sorta e che può farti star bene nell'acquisto». Pensò alquanto sulla mia proposta e poi mi disse: «Redigi tu l'istanza, sul tema del mal di stomaco». Lo esaudii tosto, e via per la posta l'istanza. Trascorse piú d'un mese, senza avere alcuna notizia, e già la concepita speranza svanivasi, quando un giorno il Maire [71] d'Auray annunziò a Piolanti che teneva a sua disposizione cento franchi, elargitigli dal re. L'annunzio arrivò l'antivigilia dell'anniversario della rivoluzione del 6 febbraro 1831; onde si risolse di festeggiarlo, erogando una parte del dono in acquisto di bordò. Io mi recai subito dal negoziante, credo che si chiamasse Ardoin, l'unico liberale che ebbi a conoscere a Auray; combinai sul prezzo, sulla quantità, gli dissi che trattavasi di solennizzare la memoria della nostra rivoluzione, e lo invitai ad onorare colla sua persona il nostro banchetto: ma non accolse l'invito, in vista forse di non compromettersi cogli abitanti, che ci tenevano in conto di scomunicati, e di non essere compreso fra esseri per loro tanto malevisi. Dopo la festa corsi a pagare l'importo del vino, ma non vi fu modo di farglielo accettare; egli persisteva a dire: «Lasciate che io abbia la soddisfazione di concorrere alla gioia da voi giustamente provata». Ma la maggior gioia l'ebbe l'amico beneficato, a cui restò l'intero beneficio, erogato in breve tempo nella bibita a lui prediletta.

Intanto il deposito di Auray diminuivasi ogni giorno per trasferimenti accordati a chi li chiedeva. Tra i traslocati annoveravasi il corrispondente di Mazzini, che lasciò a me le funzioni che gli spettavano, e le assunsi col nome di Pietro Borna. Era il momento della spedizione di Savoia e Mazzini instava che colà si corresse. Ma con quali [72] mezzi sostenere la spese di un sí lungo viaggio? Come intraprenderlo senza passaporto? Io pur domandai di essere inviato nel centro della Francia, e mi scelsero per luogo di dimora Dijon, magnifica città, antica sede dei duchi di Borgogna, e dove già esisteva un altro deposito di Piemontesi e Modanesi. Io aveva in animo di lasciar da parte Dijon, e di accostarmi alla Savoia, ma seppi in cammino che la spedizione era andata a male; quindi avanzai il passo al paese destinatomi, in cui dimorai varî anni [febbraio 1834-agosto 1840]. Poi ebbi lettera da Antonio Spada, che dalla Svizzera si stabilí nel Belgio, offrendomi un buon impiego nella tipografia Haumann, per correggere opere latine ed italiane; onde rinunciai al soccorso di Francia e andai a Bruxelles.

[LII.] Sempre fornito di pochi mezzi, pagai l'importo della diligenza sino a Bruxelles e la borsa rimase affatto in secco. «A me basta arrivare a Bruxelles, ove troverò tutto quello che mi occorre»: cosí dicevo ritenendo che in viaggio non avrei incontrato alcuno ostacolo. Ma giunto a Quiévrain sulla frontiera del Belgio [21 settembre '40], appena resi ostensibile a quel Commissario il mio passaporto mi disse che non poteva piú inoltrarmi, mentre un ordine espresso del Ministero vietava l'ingresso ai rifugiati politici. Invano gli feci conoscere che il Ministro dell'interno signor Lebeau era consapevole della mia andata [73] nel Belgio; ma il Commissario non poteva né doveva mancare agli ordini avuti: egli mi permise di scrivere al Ministro e s'incaricò egli stesso di fargli pervenire la mia domanda. Scrissi in pari tempo a Spada, e lasciato il mio bauletto nella camera del Commissario, che apparve oltremodo cortese, col mio mantello sul braccio sinistro, coll'ombrello m'avviai fuori del paese. A 30 passi di distanza mi posi a sedere sull'orlo d'un fosso pensando ai casi miei: «Dove vado senza un soldo in tasca? come potrò sostenere la fatica d'un viaggio che da qui a Valenciennes non è corto? In ogni modo non havvi altro partito da prendere»; e via con passo moderato per non stancarmi presto. Giunsi la sera a Valenciennes: non ne poteva piú, e mi ficcai dentro alla prima osteria che mi si presentò davanti agli occhi; cenai alla meglio e me ne andai a letto. La mattina lasciai alla padrona dell'osteria il mio tabarro, l'ombrello, quasi a garanzia del debito contratto la sera antecedente, e le chiesi se in paese si trovava nessun emigrato italiano. Mi disse di sí, ma non seppe indicarmi il suo indirizzo, quindi mi fu d'uopo di recarmi in polizia, ove ebbi le necessarie informazioni. L'italiano era un Piani di Faenza che mi accolse, sebben non mi conoscesse che di nome, con una cortesia non comune; e al racconto di quanto m'era avvenuto, aperse un cassetto del suo scrittoio contenente varie monete con facoltà di servirmene. «No, io non ho [74] bisogno di denari, meno quei pochi soldi che saranno da pagarsi all'osteria; ma di un ricovero sin che ho risposta da Bruxelles» e mi tenne in sua casa come un fratello. La risposta non tardò molto a venire, e col permesso di seguire il mio viaggio si aggiunsero denari.

A Bruxelles feci tosto conoscenza dei molti emigrati che ivi stanziavano; fra i quali Gioberti che stava nel collegio privato di Gaggio, ove aveva alloggio e vitto per la carica di professore che vi esercitava: egli non usciva di casa che la sera, e lo vedevamo nel caffè dei Tre Svizzeri; e non è a dire quanto ci riusciva grata la di lui conversazione, e s'aggirava spesso sull'opera che allora componeva, Il primato d'Italia. Di un altro degno patriota mi resi amico, del colonnello Bianco, vero padre e benefattore degli emigrati: era tutto cuore per essi, e pei molti debiti contratti, vedendo che la famiglia, a cui tutti i suoi beni erano ceduti, non si prestava a pagarli si annegò nel canale che è presso Bruxelles: il dolore fu immenso per tutti.

[LIII.] Vedendo che la promessa dell'impiego non sortiva alcun effetto e non avendo piú alcuna risorsa, mi portai a Namur ove dimorava Spada, o per meglio dire, dove signoreggiava Spada. Provvisto del sussidio assegnato agli emigrati, eletto professore di lingua italiana nell'Ateneo con un buon onorario, amico delle precipue famiglie, ben visto [75] e festeggiato dovunque, conduceva una vita da principe; ed io, che conosceva gli scarsi, anzi scarsissimi meriti di Spada, non sapeva rendermi di ciò ragione. Io credo che una causa di questo benessere emergesse dalla sua abilità nel cantare: veniva a tal fine invitato in tutte le conversazioni ed anche nelle accademie. Ma non seppe provvedere ai miei bisogni e mi consigliò di stabilirmi a Mons, ricco paese dell'Hainaut, dove non esisteva alcun italiano e poteva darsi lezioni con profitto [dicembre '40]. Infatti, colle lettere che seppi procurarmi, posi insieme vari scolari, tutti appartenenti alle precipue famiglie del paese; ma mi accorgeva bene che prendevano lezioni non per imparare l'italiano, ma per sovvenire ai miei bisogni.

[LIV.] Io non posso qui rattenermi dal ricordare la baronessa Enrichetta De Leuze, amabilissima signora, fresca ed avvenente, ma di una corporatura colossale, che non le toglieva però di essere snella come una lepre. Ella conosceva già l'idioma italiano e lo parlava, avendo soggiornato qualche tempo a Roma, ma per non smarrirlo leggeva e traduceva ex-abrupto ciò che aveva letto, ed io doveva correggerla dove sbagliava. Essendo amantissima della musica italiana, spesso mi toccava di stare al suo fianco, quando cantava in italiano, e farle osservare dove la parola non era ben pronunziata. Mi aveva accordato una piena facoltà di entrare nel suo gabinetto, [76] anche quando non vi era. Un mattino vidi aperto sopra il di lei tavolino un pugnale, magnifica arma inglese, con manico d'avorio, guarnito di argento; io non lo mossi, e quando entrò mi disse:

— Che ve ne pare di quell'arma?

— Bellissima.

— È l'arma prediletta degli Italiani.

— Esagerazioni. Si crede che ne facciano un uso sacrilego, ma s'adopera di certo meno degli altri paesi d'Europa, o almeno, confrontando le statistiche, l'Italia conta minori delitti degli altri popoli, e se avesse un sistema politico quale ha il Belgio, sarebbe un modello di saviezza. — E le rapportai diversi fatti che dové persuadersi di quanto asseriva.

Un altro giorno mi porse un piccolo forziere, onde ponessi in assetto le carte in esso rinchiuse, e nell'esaurire il mio incarico rinvenni un rotolo di guillaume di oro, che equivalgono, credo, 21 franchi, che io consegnai subito. Tutto ciò faceva per mettermi alla prova: col pugnale volle vedere quali sentimenti io spiegava; coi danari sperimentare la mia probità. Prima di lasciare il Belgio volle che rimanessi alcune settimane nel suo casino di campagna, deliziosissimo luogo, a cui era annesso un vasto bosco in cui potevasi esercitare ogni sorta di caccia, e mi pregò di sceglierla per mia dimora, onde tener compagnia al di lei vecchio padre, colpito di apoplessia. Ma il timore che si potesse [77] supporre che io accettassi per non essere rifuggito politico e non compreso nell'amnistia, mi indusse a rinunziare l'offerta.

Di un altro scolare mi conviene far menzione, del principe de Merode, capitano nelle truppe belghe e decorato della croce della legione e di quella di Leopoldo. Io avrò occasione di parlare di lui in seguito.

Tutti i miei scolari mi usarono atti di benevolenza superiori al mio merito, tra i quali il figlio del generale Duvivier e....., il quale quasi ogni domenica mi veniva a prendere in carrozza per condurmi a pranzo nella sua villeggiatura.

Malgrado ciò i prodotti erano insufficienti a reggermi, e il generale Chazal mi offerse di entrare in sua casa come precettore dei suoi figli, lasciandomi libero il tempo di continuare le mie lezioni: tavola, alloggio, servizio, ecco i benefici che poteva trarre, e non eran pochi; lo stipendio si riduceva a tenue cosa. Chazal, originario francese, prima della rivoluzione del Belgio s'industriava in case di commercio, come loro commesso viaggiatore: uomo di coraggio e d'intelligenza, seppe nei primi momenti della riscossa impadronirsi di Mons, e per questa sua impresa ebbe subito il grado di colonnello: in seguito, perfezionandosi cogli studi nell'arte militare a cui si era consacrato, pervenne ed essere generale e ministro della guerra. Era un buonissimo uomo, affabile, eccellente [78] padre ed amoroso marito; ma io aveva di lui una soggezione che non seppi mai superare, perché io scorgeva che non lo appagava nel metodo di istruire i suoi figli: egli affacciava certi sistemi per me affatto nuovi e che sarebbe stato necessario che io stesso li avessi studiati. Lo Spada, amico di Chazal e che poteva giovarmi, non esisteva piú. In che stima ed affetto fosse lo Spada si desume dai funerali che alla sua morte gli vennero fatti, degni solamente di un personaggio di alto rango e di eccelso talento. La somma spesa per tale oggetto fu a carico del paese, e quando si pose in vendita quanto gli apparteneva, una gara ardente sorse tra gli acquirenti, perché tutti volevano una memoria del defunto, e il prodotto della vendita fu il quadruplo di quello che costava; il quale venne spedito in Ravenna al di lui fratello Attilio, il quale nel ricevere il danaro speditogli gridava: «Che buona gente debbono essere quei signori di Namur!» La iscrizione funebre che esiste nel camposanto di Namur mostra in qual conto tenevasi.

[LV.] Finalmente l'amnistia di Pio IX [16 luglio 1846] mi tolse da ogni imbarazzo: essa mi fu annunziata dal giovine Duvivier in un curioso modo. Stava a conversazione presso una mia scolara, madama Jean de Fontaine, quando sono chiamato nella anticamera, e mi sento stretto al collo da un individuo che dapprima non conobbi: «Oh con [79] quanto piacere vi do la lieta notizia dell'amnistia emanata da Pio IX; ora potrete rimpatriare, rivedere i parenti, gli amici e dar termine ai mali dell'esilio». Io lo ringraziai dell'annunzio, e rientrai nella camera della conversazione, ove propagai la notizia ed ebbi felicitazioni senza fine. La padrona di casa ci fece vuotare alcune bottiglie di sciampagna pel lieto annunzio. Poi il generale Chazal mi procurò dal Governo un sussidio, onde pormi in grado di sopperire alle spese del viaggio.

Io aveva in animo d'instruirmi prima di partire nell'andamento dell'amministrazione ferroviaria, sí bene regolata nel Belgio, ma mi accorsi che ciò non si poteva ottenere in breve tempo, né i fondi erano sufficienti all'intento: quindi rinunziai al mio progetto. Da Bruxelles mi recai a Parigi, ove rimasi alcuni giorni; da Parigi a Marsiglia, da Marsiglia per la via di mare a Civitavecchia, da Civitavecchia a Roma [febbraio 1847].

[LVI.] Io credeva che a Roma esistessero Comitati per soccorrere i poveri rifuggiti che rimpatriavano; ma di niente di ciò, né trovai chi mi offrisse un centesimo. Fui raccomandato ad Angelo Bezzi, mio concittadino che lavorava da scultore in Roma, esimio nell'arte, ma uomo spensierato, eccentrico e affatto privo di mezzi. Si credé che, essendo amicissimo di Ciceruacchio, potesse essere di un gran sostegno; ma se ritraeva da lui benefici, [80] bisognava che li erogasse per la sua famiglia: egli servivasi dell'influenza acquistata col mezzo di Ciceruacchio per usare prepotenze, tanto che una sera fu assalito da un turbine di sassi e fu sul punto di essere un secondo santo Stefano.

[LVII.] Io mi diressi ad un altro mio concittadino, uomo di proposito, Attilio Bonafè, impiegato nel ministero dei lavori pubblici, allora diretto dal cardinale Massimo, che io chiamava Minimo per la sua piccola statura, e potei avere un impieguccio di dieci scudi al mese, avendomi installato nel detto ministero nella qualità d'indicista.

Il cardinale disponevasi di dare un migliore avviamento al suo dicastero, ed ero sicuro di crescere di grado; ma, colpito tutto ad un tratto da un'apoplessia, cessò di vivere [11 gennaio 1848] senza avere iniziato il suo divisamento. A Massimo successe Minghetti [10 marzo], ma la mia presenza fu di breve durata, mentre avendo chiesto un permesso per recarmi al mio paese natio, non ritornai piú a Roma.

[LVIII.] I tripudi e le esultanze ad onore di Pio IX nei 16 mesi che mi trattenni nella capitale sono indescrivibili, e veramente mi cominciavano a seccare. Io mi era introdotto nel Circolo popolare, in cui ebbi l'incontro di fare molte conoscenze, tra le quali quella di Ciceruacchio, che mi conduceva al Testaccio a mangiare la provatura. Quale influenza egli avesse, ne ebbi una chiara prova nella [81] sera del 29 aprile ['48], quando il popolo agglomerato, e che estendevasi lungo la via del Corso, gridava ed urlava di farla finita coi preti. Ognuno sa che questo furore proveniva dall'enciclica del Papa del 29 aprile, con cui disdiceva la guerra del Veneto, le cui legioni egli stesso aveva benedette per l'indipendenza d'Italia. Tutti i Circoli erano uniti in quello del Commercio, posto nel centro del Corso, cioè dove i clamorosi erano piú affollati. Mamiani lo presiedeva, ma non sapeva piú dove dar la testa per far sparire il pericolo insorto. Sterbini ed altri cittadini influenti si affacciarono al balcone, diressero al popolo parole di moderazione e di concordia, ma furono solennemente fischiati. «Si vada in cerca di Ciceruacchio», gridava Mamiani, che vedeva essere l'unica sua àncora di salvezza. Finalmente egli arriva; Mamiani lo assicura che si sarebbe a tutto riparato nel giorno veniente, e che cerchi intanto di calmare gl'insorti e di far sí che rientrino nei loro focolari. Egli raccoglie tosto intorno a sé i capi dei rioni, e il desiderio di Mamiani fu appagato. Il timore che la disdetta del Papa avesse cancellato dalle truppe italiane militanti nel Veneto quel carattere legale che avevano e che gli Austriaci le riguardassero come una ciurma di briganti, e come tali venissero da essi trattati, fu l'impulso della sommossa; e resi persuasi che ciò non poteva nascere, si arresero.

[82] [LIX.] Invece di andare alle feste, che con immenso spreco di denaro si reiteravano per Pio IX, visitava nelle ore libere gli eccelsi e sontuosi monumenti di Roma. Un giorno presso il collegio dei Gesuiti mi abbattei in un prete che rassomigliava al principe de Merode, mio scolaro a Mons; mi fermai a guardarlo e dissi fra me: «Che perfetta rassomiglianza!», e seguii il cammino. Un'altra volta lo fissai meglio, e sempre piú mi sorpresi di trovar due volti cogli stessi lineamenti. La terza volta non potei trattenermi dall'accostarmi a lui, e nel mentre che stava per dirgli: «Scusi, signore», egli mi riconobbe e mi porse una carta da visita, onde fossi andato la mattina seguente al suo domicilio. «Ma come queste trasformazioni? gli dissi subito: Voi capitano, voi in credito per sapere e valore, voi decorato di piú ordini, e che riteneva, che foste già salito al grado di generale, voi divenuto prete?» — «Cosa vuoi?, mi rispose, è morto mio padre ed ho risolto di abbandonare la carriera militare per seguire la ecclesiastica, e sono ora nel collegio dei Gesuiti: ti ringrazio delle lezioni d'italiano, che da te ebbi e che oggi mi servono moltissimo». Dopo alcune parole lo lasciai, né piú lo rividi, né cercai di vederlo, perché non si dicesse che avevo rapporti coi Gesuiti, allora piú che mai odiati, e che l'affetto per Pio IX già sperdevasi sensibilmente, né valse che Gioberti venisse a perorare [83] per lui a Roma. Pio IX, uomo di buon cuore, ma di poca mente, incerto, titubante, non era in grado di dare allo Stato quell'avviamento che esigeva allora.

[LX.] Il partito radicale aveva preso il sopravento: gli uomini piú influenti ed energici di esso raccolti a Roma agivano con successo nel senso dei loro principi e la strada dalla democrazia dischiusa percorrevasi senza ostacoli. Il Rossi ciò non vide e fidandosi troppo sopra sé stesso, sopra la fama del suo nome chiaro in tutta Italia e altrove, cadde vittima della sua illusione nell'accettare la direzione che stava sull'orlo del precipizio.

Io lasciai Roma alcuni mesi prima del luttuoso fatto di Rossi, e mi resi a Bologna. Quivi pure lo scompiglio era al colmo: i facchini, padroni della città, commettevano eccessi di ogni specie [agosto '48]. Il povero Masina, buon giovane, di retti sensi, da loro sedotto li dirigeva; ma in che modo? aderendo ai loro pravi desideri. Io mi recava la sera nel suo ufficio composto di due stanze; la prima era ingombra di armi e di munizioni, la seconda serviva di gabinetto particolare a Masina. Una sera arrivarono da Roma due emissari, i quali chiesero un colloquio segreto col medesimo; io che era rimasto nella prima camera venni chiamato nella seconda e messo a parte del segreto: trattavasi nientemeno che di uccidere il dottore Luigi Carlo Farini. Chiesto in proposito il mio [84] parere, dissi che era un danno immenso il privarsi di un cittadino intelligente, dotato di nobili sensi, affezionato all'Italia, e che d'altronde non sapeva quali colpe potessero giustificare un tale eccesso. Gli emissari ben mi conoscevano, quindi non potevano concepire sopra di me dubbio alcuno sfavorevole alla causa democratica. Dopo varie spiegazioni, la cosa rimase irresoluta e la proposta non ebbe effetto.

In Bologna ebbi la tristissima notizia della morte del conte Tullo Rasponi, giovane caldo di patrio amore, e di una smisurata liberalità, che per sovvenire ai bisogni altrui aveva posto in grave isconcerto le proprie finanze. Egli fu vittima dello scatto del proprio archibugio nelle valli di Comacchio, ove era a caccia; solennissimi onori funebri gli vennero resi da ogni ceto di persone.

[LXI.] Giunto a Ravenna, avanzai tosto la domanda d'essere ammesso al concorso dell'impiego di protocollista, rimasto vacante in Comune pel decesso di Gordini, e mi fu conferito da una forte maggioranza [5 ottobre 1848]: cosí fui in grado di essere d'aiuto ad un fratello, esso pure al servizio del Municipio nell'ufficio annonario, il quale essendo maritato, con vari figli, aveva bisogno d'appoggio; ma la falce della Parca li ha tutti mietuti, non riserbando che un rampollo di sesso femminino. Da Roma ebbi incarico di costituire un Circolo popolare, alla forma di quello che colà esisteva, e di [85] dare un esteso sviluppo ai principi democratici. Io non mancai di adempiere l'impresa assunta, e in poco tempo contava piú di 200 persone d'ogni rango: esso venne eretto nella sala e camere del teatro Alighieri, e presieduto da distinti cittadini, quali erano il vecchio Andrea Garavini, il marchese Vincenzo Cavalli, ed io ne fui il segretario insieme all'avvocato Giulio Guerrini, Questo istituto fu molto utile al paese ed impedí la rinnovazione degli eccessi che prima si lamentavano, perché innanzi al Circolo si portavano le questioni le piú importanti, le quali si scioglievano sempre secondo i dettami dell'equità e della giustizia. Se ne brama un esempio? eccolo. Una sera si propose che fosse libero al padre Gavazzi di tener concioni in Duomo sopra oggetti politici, interamente estranei al luogo. Dopo alcuni vivi dibattimenti si risolse che una deputazione, scelta nel Circolo, si rendesse immantinente presso l'arcivescovo per consultarlo in proposito: se aderiva, la proposta avesse esito; se no, si fosse scelto un altro luogo per le progettate concioni. L'arcivescovo, come era da supporre, respinse la inchiesta, e il Circolo dispose che il Gavazzi predicasse sulla ringhiera della farmacia Montanari nella piazzetta dell'Aquila. Il Circolo, divenuto la vera rappresentanza del paese, si occupò pure di proporre un deputato alla Costituente di Roma [13 gennaio '49] e tutti i voti si rivolsero a favore del conte Francesco Lovatelli, [86] uomo di senno, di coraggio e di sensi politici radicali, mentre sin dal 1832, come notammo, dirigeva la Giovine Italia col titolo di corrispondente: ma non accolse la candidatura offertagli, forse perché addetto a quella camarilla che faceva pratiche a Gaeta col papa, perché si risolvesse a mantenere in piedi lo Statuto, promettendogli che la repubblica sarebbe rimasta incagliata. Invece di Lovatelli si propose Antonio Monghini, uomo di qualche intelligenza in materie finanziarie, pronto e risoluto, ma di niuna fede politica. La proposta del Circolo venne confermata dagli elettori, e, come noi abbiamo già detto, egli proclamò la repubblica in quell'illustre consesso; ma poco tempo dopo corse a Bologna dinanzi al Papa, gli baciò con effusione d'animo i sacri piedi, pregando di essere assolto dalle commesse prevaricazioni. Uomini di tal sorta è meglio perderli che acquistarli, e Iddio l'ha chiamato a sé.

[LXII.] Malgrado la pace e l'ordine che regnava in paese, l'arcivescovo, che non aveva ricevuto alcun motivo di lagnarsi, all'improvviso abbandonò la sua sede arcivescovile e si trasse a Venezia. Si parlò di un ratto concertato a suo danno, ed io, che avevo parte in ogni faccenda, non ebbi mai di ciò sentore; eppure mi si volle fare un addebito anche di quel fatto: io ho sempre ritenuto però che fosse un raggiro di quei moderati, che di mal occhio vedevano la repubblica e ritenevano che potesse esser loro dannosa per quella partecipazione [87] che erano astretti di avervi, e che volessero per tempo crearsi un possente appoggio nel cardinale Falconieri; e di fatti nessuno di quelli che lo aiutarono ad emigrare soffrirono il benché minimo disturbo quando il papa riebbe i suoi domini.

[LXIII.] Questi moderati di molta influenza non si scossero punto alla proclamazione della repubblica, e già si gridava come si potesse rimanere indifferenti ad un sí grande avvenimento. Fu il Circolo che stabilí in che modo si doveva solennizzare. Tutti quelli inscritti nel ruolo del medesimo, seguiti dalla folla, si recarono colla banda musicale nella strada ch'è dirimpetto alla carrara della Rotonda, e nell'ampio possedimento del conte Ferdinando Rasponi si svelse sin dalle radici un'alta pioppa cipressina, e guernita di ghirlande di fiori fu traslocata tra suoni musicali, spari ed altre dimostrazioni di giubilo in mezzo della Piazza maggiore, ove venne eretta [15 febbraio]. Bello fu vedere la darsena del Candiano cogli alberi dei navigli messi a festa. Il vecchio Garavini, che nel 1797 aveva piantato in Ravenna il primo albero della libertà, gridava: «Scavate qui che troverete le radici di quell'albero carbonizzate»; e cosí fu. Dopo la erezione dell'albero,........., cui la tirannia papale aveva rapito il marito, e vedremo che in breve le rapirà anche il figlio, unico suo conforto ed appoggio, volle coronare il fusto dell'albero [88] con una ricca fettuccia, in segno della speranza di un migliore avvenire che le destava. Illuminazioni durante la notte, danze, giubilo universale.

[LXIV.] Un'altra festa ebbe luogo [19 febbraio] nel borgo di Porta Sisi ad onore della nuova repubblica, solennizzata colla erezione dell'albero della libertà, in mezzo a suoni, a spari, a luminarie; e bello fu il vedere questo simbolo del comune risorgimento, circondato da 80 giovani a cavallo vestiti di tuniche rosse e del berretto frigio.

[LXV.] Ma colle feste, come dissi altre volte, quando la libertà di un popolo è avversata da chi ha battaglioni armati da osteggiarla, non può reggere lungo il tempo; e cosí fu della nostra repubblica, la quale assalita da ogni parte da truppe straniere dové in breve soccombere.

[LXVI.] Garibaldi alla testa de' suoi prodi militi aveva rinnovato le gloriose antiche gesta dei Romani e rimesso in onore il nome italiano, vilipeso dai Francesi, falsi repubblicani che mancavano ad ogni sano principio politico. Garibaldi raccolse presso di sé un buon numero di volontari, e prima che i Francesi entrassero in Roma si ritirò verso la Toscana, eccitando quei popoli ad unirsi con lui per fare nuovi sforzi al riacquisto del perduto. Ma la sua voce non fu intesa. La disperazione, che può sola infondere quel coraggio irresistibile che sa oprar prodigi, non risvegliò alcuno; onde sciolto [89] il corpo che aveva rannodato per sí alta impresa, non dové pensare che alla propria salvezza: e fu un miracolo se, per le cure e i sacrifici dei Ravennati, pervenne a sottrarsi dalle mani degli Austriaci, che già da ogni parte lo circondavano [agosto '49].

[LXVII.] Alcun tempo prima che Garibaldi fosse in salvo un tenente austriaco alla testa di un drappello di croati invase il mio domicilio, frugò la camera ove dormiva e s'impossessò delle carte che ivi rinvenne, delle quali fece un pacco che sigillò, per regolarità del sequestro eseguito. Indi m'intimò di seguirlo. Qual fosse l'agitazione della famiglia David presso cui dimorava è impossibile immaginarlo. Ella sapeva di avere nella legnaia delle armi nascoste, e se la perquisizione si fosse estesa sino a quel luogo, la mia sorte era decisa: la legge stataria allora in pieno vigore condannava alla fucilazione chiunque teneva armi non denunziate in propria casa. I David certamente non avrebbero azzardato di dichiarare che le armi rinvenute ad essi appartenevano; e poi? anche con questo atto eroico erano certi di salvarmi, o di trarmi piuttosto con essi alla pena prescritta? La perquisizione durò poco piú d'un quarto d'ora, credo, ma fu un'ansia che tale non ne soffre chi trovasi sul punto di morte. Cosí i David mi narrarono quando tre anni dopo mi fu ridonata la libertà. So pure di un certo Crescimbeni, mio compagno di carcere [90] in Forte Urbano, che, dietro denunzia di non so chi, si scopersero armi in un muro di sua casa: fu tosto arrestato e condannato alla fucilazione; la moglie di lui corse dal Duca di Modena e poté far cambiare la pena in vari mesi di detenzione; ma fu condotto nella piazza d'armi del quartiere generale di Bologna, ivi gli si lesse colle dovute formalità di legge la pena di morte, poi solamente dopo una pausa non tanto breve gli si annunziò la commutazione: tal fu la scossa sofferta che le di lui facoltà mentali se ne risentirono per lungo tempo.

[LXVIII.] Dal luogo del mio arresto fui direttamente condotto nel palazzo Ginanni Fantuzzi dinanzi al Maggiore austriaco: ivi trovai il signor Pietro Santucci, addetto alla Magistratura, chiamato per constatare la mia qualità di segretario comunale; ciò fatto, il Maggiore consegnò il rotolo sequestrato ad uno dei suoi graduati e mi disse: «Io ho ordine di farlo pervenire a Bologna al quartiere generale; sarà colà condotto da un mio tenente che gli userà tutti i riguardi che merita: la carrozza è pronta e bisogna che parta senza ritardo.»

La guida assegnatami mi prese gentilmente pel braccio, e colla scorta di non so quanti croati che riempirono il veicolo ci avviammo verso Bologna. Giunti a Lugo, mi accorsi che io era preceduto e seguito da un legno; supposi che contenesse altri detenuti, ma erano pieni di militi: cosí vociferavasi [91] per dove passava che io fossi un arrestato di alta conseguenza. In Bologna si fece alto fuori di Porta Saragozza nella villa Spada, ove risiedeva il generale Gorzkowsky. Io venni chiuso in un camerino, in cui vedevasi un tavolaccio, che doveva servir da letto, e uno stracantone sormontato da un quadro rappresentante san Giuseppe, dinanzi a cui splendeva una lampada. Due militi armati vegliavano nel camerotto il detenuto. Quando mi accorgeva che erano croati, non osava d'indirizzar loro la parola; ma se dimostravano di essere ungheresi, cercavo di aver notizie del luogo e di quanto altro poteva giovarmi. Essi stessi facevano al detenuto esibite ed esprimevano il vivo dispiacere di non essere in grado di soddisfare i loro patriotici desideri. Chi conosceva il latino, era facile di capire il loro linguaggio. Io chiesi a uno di loro che luogo era quello in cui eravamo: mi disse che era la conforteria per quelli condannati a morte; ed ecco come spiegavasi l'altarino ivi eretto a san Giuseppe, a cui i moribondi sogliono ricorrere. Sotto al tavolaccio vidi diversi oggetti di vestiario, e mi fu detto che appartenevano a coloro che mancarono alla legge stataria e che subirono la pena da essa prescritta. Mi si disse che in quel camerotto aveva dimorato Ugo Bassi. La relazione era affliggente, e sebbene mi servissero un pranzo signorile, non fui buono di assaggiarne la minima parte. Cercando di ridurmi a mente gli oggetti [92] che contenevano le carte sequestrate, fui terribilmente addolorato quando mi sovvenne che in Roma nel 1848, quando successero gli sconvolgimenti di Vienna, io d'accordo con Vincenzo Caldesi raccogliemmo un buon numero di Romagnoli e Romani e con essi uniti ci recammo al palazzo di Venezia, residenza dell'ambasciatore austriaco. A memoria di un tal fatto, da un falegname che era accorso cogli utensili di bottega per darne dei pezzi a chi ne voleva, mi feci segare una delle teste delle aquile, e ben ridotta colle pialle vi aveva notato l'anno, il mese, il giorno e l'ora dell'atterramento [21 marzo '48] e con espressioni di odio all'abbattuto Governo: l'iscrizione era rimasta in un vecchio portafoglio che aveva sopra il camino e che cadde fra gli oggetti sequestrati. Questa iscrizione era una spina acuta, temendo che potesse comprendersi nelle disposizioni della legge stataria, e quindi nella fucilazione; ma alla fine mi feci una ragione e quietai l'animo. Già non era piú solo, venne a raggiungermi l'amico Gaspare Saporetti; indi furono ivi rinchiusi due giovani di Castel Bolognese ed un altro che non ricordo chi fosse: cosí eravamo una sufficiente compagnia, ma divieto assoluto di fiatare fra noi; divieto che era osservato solamente quando ci vegliavano i croati; gli ungheresi entravano in conversazione con noi. Chi mi divertiva era il contegno di uno di quei detenuti di Castel Bolognese. Egli bestemmiava [93] sempre come un turco, ma nella sera l'idea di essere in conforteria, in pericolo di essere fucilato da un istante all'altro, lo faceva ravvedere: si accostava a san Giuseppe, si raccomandava alla sua divina grazia, ma in modo che i compagni non s'avvedessero per non comparire bigotto. In capo a cinque giorni si ebbe l'avviso che si cambiava d'alloggio, e l'ufficiale incaricato di eseguire l'ordine ci condusse in mezzo al cortile della caserma in mezzo ad un drappello armato di croati, e questo fu il complimento che ci fece: «Chi tenta di scappare, gli sarà fatto fuoco addosso.»

[LXIX.] Il nuovo luogo assegnatoci furono le carceri di San Francesco. Noi ci arrivammo di sera avanzata, e fummo posti in una vera bolgia infernale, di dove emanava un puzzo micidiale a causa delle latrine contigue: era un corridoio contenente detenuti ungheresi; a causa del caldo si tenevano nudi sul loro paglione, e quando si alzavano in piedi sembravano tante anime dannate. Verso l'ora di notte s'intese in tutto il locale un rumore insolito: «All'erta, ci si disse, in quest'ora il profosso è sempre ubbriaco, ed è un vero demonio; mettetevi in rango.» Appena entrato in carcere fece ricerca dei nuovi arrivati, ma non giovò essere in rango ed in atto della piú perfetta sommissione. Al primo del rango toccarono pugni con non so quante contumelie, e cosí agli altri di seguito; la belva però si ammansava nel passarci [94] in rivista; cosí il mio amico Saporetti che stavami appresso non ebbe che una tirata di cravatta che gli fece quasi uscir gli occhi dalla testa. Eccomelo infine dinanzi colla mano alzata, ma prima che mi facesse alcuna interrogazione, gli dissi: «Sono il segretario del comune di Ravenna.» Fu una parola magica, che da tigre valse a farlo diventare un agnello. «Mi dispiace, tosto mi disse, che io non abbia un miglior sito da collocarlo, ma domattina all'alba lo condurrò nelle camere di sopra: le notti in luglio spariscon presto, il sacrificio sarà breve; intanto lo ringrazio vivamente delle sue cortesie.»

Partito il profosso, non azzardai di coricarmi su quei luridi giacigli per timore di una irruzione formidabile di ogni sorta d'insetti; mi posi a sedere sulla cima d'una banca e appoggiai la testa al muro tanto da non istare in disagio. Allo spuntare del dí il mio profosso fu pronto a mantenere la promessa datami, e mi trasse in un magnifico loggiato in cui erano stanze signorili; venne meco il Saporetti, mi sembrò di rinascere, e riparai al sonno sofferto nella notte antecedente. Verso alle dieci ritornò il profosso con lettere e denari inviatimi da casa, e mi assicurò che nella sera stessa sarei rimesso in libertà. «Oh! allora questa mattina da pranzo mangio i cappelletti». Egli aveva messo a servizio una delle sue ordinanze. Il profosso sapeva bene che il Comando austriaco non [95] trovò alcun titolo da applicarmi una pena in base alla legge stataria, che era quella con cui si regolava; ma forse ignorava che era in obbligo di consegnarmi alle autorità pontificie, da cui la mia piena libertà dipendeva e che attesi tre anni.

Nella sera verso l'ora di notte il profosso mi condusse cogli altri quattro detenuti del giorno antecedente nell'ufficio di polizia; ma avendolo trovato chiuso, ci depositò nelle carceri della piazza. Quivi pure la qualità di segretario produsse un altro beneficio, e fu quello di far ottenere ai detenuti della stanza ove fui rinchiuso il benefizio di fumare e di tenere il lume la sera. Ogni mattina aspettava il rilascio o l'ordine di essere rimesso in libertà, ma dopo cinque giorni venne invece quello di essere trasferito in Forte Urbano, ove esistevano già vari detenuti politici.

[LXX.] Ebbi una dolce sorpresa in quel luogo vedendo che era sotto l'ispezione d'un vecchio amico carbonaro, di Baroncelli di Faenza: egli mi escluse dalle solite noiose visite personali, e mi condusse nel suo appartamento, ove mi espose che avrebbe fatto pei detenuti politici quanto le sue funzioni lo comportassero: «Mi servirete da segretario», e m'installò nel suo ufficio d'ispettore. Poi mi condusse in una stanza, ove teneva rinchiusi i detenuti politici di riguardo, e mi lasciò con loro, dandomi un buon letto con istramazzo. Ristauravasi nel Forte un altro corridoio che guardava la [96] piazza d'armi, chiamato le Colonnette, e quando fu accomodato mi lasciò scegliere le camere che meglio mi convenivano; cosicché fui in grado di favorire gli amici di Lugo, fra i quali l'avvocato Masi, Morandi e Bedeschi, che a me si unirono quando ivi ci rinchiusero. Si poté conseguire dalla fornitura il vitto di segretura in natura, cioè la carne e la minestra crude, ed il pane dell'infermeria che era bianco e buono: a queste provvigioni aggiungevamo una tangente ciascuno e si riusciva ad avere un secondo piatto. Il Bedeschi, esperto in affari di cucina, ci preparava sempre un buon pranzo: il vino, a spese comuni.

[LXXI.] Erano scorsi piú di sei mesi senza che venisse iniziato alcun processo, quindi ignorava sempre il vero titolo della mia prigionia; ma di ciò non prendeva alcun pensiero, né feci alcuna pratica in proposito: uscito dalle grinfie del Comando austriaco e della legge stataria nulla aveva piú che mi conturbasse. Finalmente venni traslocato nelle carceri di Ravenna: cosí ebbi modo di vedere spesso i miei congiunti e di essere servito da essi di tutto ciò che mi occorreva. La camera che mi venne assegnata era la migliore dello stabilimento, e guernita di una gran finestra con vetri senza l'impedimento del tamburo, in modo che si poteva vedere ed essere visto da chi transitava pel cortile del palazzo governativo. Essa era occupata da gente che non aveva accusa criminale. Il numero [97] dei detenuti ristringevasi ad otto; ognuno aveva da casa pranzo e cena, riunivansi tutti i pasti e formavasi un convito variato e squisito. Poco dopo il mio arrivo nelle carceri di Ravenna, s'iniziò il processo che dappoi sí gran tempo attendeva. Io non intendo di porgere ragguagli su tale soggetto. Il secondo turno del Supremo tribunale della Sacra Consulta, tribunale istituito sulle norme di quello della Inquisizione, mi giudicò [28 gennaio 1851] colpevole di «minacce fatte al Magistrato anche letali in odio di officio», senza indicare quale Magistrato, e perciò mi condannò «a cinque anni di opera pubblica», ed alla pena di detenzione per «ritenzione di carte antipolitiche». Ma ecco il fatto genuino che mosse questa sentenza. La nostra Magistratura si dimise per non eseguire le operazioni elettorali, necessarie per la nomina dei membri alla Costituente romana del 1849; il Prolegato rinunciò pure alla sua carica per non assumerle; cosí vi era il pericolo che Ravenna rimanesse senza rappresentanti alla Costituente: vociferavasi che tutto ciò fosse l'effetto degli intrighi del segretario di legazione Garzía, uomo di principî clericali esaltati ed affezionato al cessato Governo. Quindi io come segretario del Circolo, che rappresentava l'opinione del paese, mi recai dal Garzía e lo consigliai ad allontanarsi dal posto che occupava per evitare un eccesso, mentre il popolo era contro di lui irritatissimo, ritenendo che impedisse [98] la nomina dei membri della Costituente. Il Garzía mi ringraziò del consiglio datogli; ma Gaspare Saporetti, che era un vero energumeno, aggiunse minacce ed improperi che io disapprovai interamente.

Comunicataci la sentenza [5 febbraio '51], fummo traslocati a Roma con mezzo straordinario, cioè con vettura a due cavalli. Da Ravenna a Pesaro il nostro conduttore, che fu un brigadiere, ci usò la cortesia di non ammanettarci; ed a un detenuto che entra in una carcere senza un tale arnese gli si usano sempre molti riguardi: perciò il maresciallo che da Pesaro ci fu di guida sino ad Ancona non ci lasciò liberi nel viaggio, ma solamente quando ponemmo il piede nelle carceri; però ci fu concesso di essere ammessi in una stanza che conteneva giovani instruiti e di merito e che ci favorirono una buona cena. In seguito non ci fu modo di scansare le manette, sebbene io cercassi d'interessare la vecchia guida a raccomandarci alla nuova per tale oggetto. In Spoleto fummo rinchiusi in un orrido sotterraneo, e ciò mi doleva perché ci conveniva di rimanervi 24 ore a causa di una festa che interrompeva la corrispondenza. In Otricoli ci occorse un curioso aneddoto: il paese era in movimento pel passaggio del re di Baviera che recavasi a Roma a visitare il papa. Il custode di quel piccolo paesetto cercava di trar profitto dai vari detenuti di qualche conto che capitavano al [99] suo albergo, ed era in ciò d'accordo colla moglie, donna giovane e di belle fattezze. Appena giunti, ella fece uscire dalla miglior camera che avesse una vecchietta, ivi pure detenuta, e ce l'assegnò rinnovando i sacconi della paglia, che dovevano servirci da letto; poi ci chiese se nulla ci occorreva: il Saporetti, che dal sorriso e dai modi sciolti con cui ci trattava concepí buone speranze alle soddisfazione dei venerei appetiti, ordinò un pranzo da tre, comprendendovi la ninfa; e il pranzo fu buono e lauto, ed aveva oltremodo avvivato lo spirito dell'amico, divenuto rosso come un gambero: i cibi furono gustati, ringraziò chi li aveva forniti, il Saporetti insisté per quanto formava l'intento dei suoi desiderî, e per risposta ebbe: «A mezzanotte». Io mi ero già gettato addosso alla vecchietta, che non mancò di visitarci specialmente al momento del pranzo, e all'ora di notte io era sul mio paglione in braccio al sonno. I sorci mi svegliarono piú volte, e vidi che l'amico stava in un'angosciosa aspettativa; al tocco della mezzanotte il carcere si aperse, ma invece della carceriera apparve il carceriere che venne a prendere un saccone; né piú si vide alcuno, e l'amico restò colla piva fuori del sacco. Nel mattino apparve la cara, linda e cortese, chiedendo se volevasi la colazione; l'amico rinacque a nuova speme e le rinnovò l'invito del giorno innanzi, che accolse: «Questa notte non ho potuto; ma fra poche ore, [100] quando tutti attendono al passaggio del re, io sarò qui;» ed intanto ingoiò e non fu di ritorno che quando i carabinieri vennero a prenderci per proseguire il nostro viaggio, e profittò di un comodo posto che era nella vettura da posta per fare una passeggiata insieme coi carabinieri sino a Civita Castellana.

[LXXII.] Arrivati a Roma, fummo internati nelle segrete delle Carceri Nuove in via Giulia: ognuna è dedicata ad un santo, ma sarebbe bene che fosse consacrata ad un diavolo: tutte le segrete hanno una o due finestre nelle pareti laterali, quelle di via Giulia ne hanno una nel mezzo del soffitto, in modo che il povero detenuto che è esposto a quel largo pertugio riceve tutta l'umidità e l'acqua che da esso emana, essendo senza scuro. E qui bisogna far conoscere a chi non è pratico di carcere, che ognuno ha un capo eletto dal direttore, il quale è padrone di fare ciò che piú gli aggrada. Se il detenuto è in grado di pagare al capo una buona dose di vino con una pietanza, può avere da lui la grazia di collocare il suo paglione in un angolo della stanza, fuori dagli effluvi del finestrone; se no, è certo d'esservi messo sotto. Il capo della camera in cui fummo rinchiusi era un militare condannato a morte; il canone del vino era quotidiano, ma per buona sorte dopo pochi giorni fummo traslocati nelle carceri di Termini, luogo di deposito dove si agglomerano ogni sorta di [101] delinquenti. Lo stabilimento è diretto da un capitano, che ha sotto di sé una quantità di aguzzini, perché trattasi di vegliare centinaia di persone. Io pregai il capitano di porci nel miglior luogo che vi fosse, e ci assegnò il corridoio dei discoli, ripieno di giovani dai sedici ai venti anni. Quel disgraziato, che come capo stanza doveva vegliarli, era in un imbarazzo dei piú scabrosi: essi pervenivano sempre ad aver carte da giuoco e passavano l'intera giornata nel farne uso esponendo per premio del vincitore della partita la pagnotta e la minestra che nel giorno dopo era ad ognuno somministrata, e quando facevasi la distribuzione del vitto, il perdente che aveva una fame maledetta non voleva arrendersi a soddisfare il suo obbligo; onde nascevano liti e lotte a cui il capo stanza non aveva modo di metter riparo. Il vizio del giuoco delle carte è proibitissimo nelle carceri; e pure non havvi luogo in cui sia piú avvivato che in essa. I mazzi di carte che servono all'intento vi abbondano: quando i detenuti hanno perduto quei pochi danari che posseggono, mettono in giuoco gli oggetti di vestiario, ciò che dà causa a varie dispute ben peggiori di quelle che sorgono fra i discoli; perché, se alcuno osa di fare il prepotente, può incorrere il caso che nel mattino si trovi soffocato senza che si abbia alcuna traccia del delitto. È il capo stanza che trae il maggior profitto dal giuoco, perché ad ogni taglio [102] deve avere un determinato tributo. Cosí pure è vietato di provvedersi di carta, penna e calamaio, e in quelle di Termini esistevano oggetti di cancelleria di ogni genere che si compravano occultamente dal capo stanza al prezzo che gli piaceva. Da ciò si vede che le sue funzioni sono molto lucrative, in modo da procurargli non pochi denari; credo che goda anche altri beneficî dalla fornitura del vitto: ha di certo razione doppia che vende a chi non ha sufficiente nutrimento, il quale consiste in tutte le carceri di larga in una pagnotta e in una minestra al lardo. Le carceri di Termini, come tutte le altre, sono soggette a sei visite, tre di giorno e tre di notte. Quando il capo guardiano entra nella camera dei detenuti è seguito da vari aguzzini armati di randello che cadono pesanti sul dosso di colui che al momento della visita fosse fuori dal suo posto, cioè fuori dal sacco di paglia assegnatogli. Stanco di rimanere nel corridoio dei discoli, a causa degli schifosi insetti che ivi si annidavano, dei litigi e querele che insorgevano di continuo, pregai con lettera il cardinale Marini, col quale mio padre aveva avute intrinseche relazioni quando era governatore laico in Ravenna, sotto il governo del cardinale Malvasia, di cui ritenevasi fosse figlio; e nel mentre che aspettava l'ordine di un cambiamento, una sera fu condotto a noi un nostro amico di cuore, un nostro concittadino, qualche tempo prima di noi arrestato, [103] Epaminonda Rambelli, il figlio di quel Gaetano che fu impiccato per ordine della Commissione Invernizzi, di cui abbiamo già parlato. È indicibile la gioia che da noi si provò, specialmente quando ci disse che era rimesso in libertà e che era tradotto per corrispondenza ordinaria sino a Ravenna, ove avrebbe ottenuto l'opportuno rilascio. Egli rimase due notti e un giorno con noi, atteso l'intromissione di una festa che interruppe il corso della corrispondenza. Egli ci espose che avendo militato nelle truppe doganali, comandate dal colonnello Zambianchi e che cotanto si distinsero contro gli attacchi dei Francesi al tempo della Repubblica Romana, era stato incolpato di aver preso parte agli eccidî di San Calisto, ove vari frati vennero uccisi: ma non essendo risultato nel processo alcuna prova, mettevasi fuor di causa. Essendo stato improvviso l'ordine della sua istradazione e non avendo avuto tempo di farsi spedire da casa fondi necessari al viaggio, venne da noi provveduto di quanto gli occorreva.

[LXXIII.] Nel giorno dopo alla partenza dell'amico Epaminonda, venne l'ordine di essere trasferiti alle carceri di San Michele in Ripa Grande, magnifico locale, ampio, arioso e comodo. II luogo in cui fummo collocati formava un corridoio, illuminato da un larghissimo finestrone, e ai fianchi del medesimo s'innalzavano due ranghi di camerini pei detenuti, ove ognuno rimaneva libero: [104] essi si aprivano nel mattino e si chiudevano due ore prima di sera, e durante la giornata il detenuto passeggiava in compagnia de' suoi camerati, sempre però sotto la sorveglianza di due gendarmi, che si cambiavano in ogni 24 ore. Il direttore del luogo era un maresciallo della stessa arma, conosciuto sotto il nome del Monco dei Monti, uomo di una severità indicibile. Verso di me mostravasi mansuetissimo, e mi trattava con cordialità; quando la notte recavasi alla visita dei camerini, e che mi trovava ancora alzato a leggere, mi salutava e soleva dirmi: «Eh! che non vi stancate di leggere?» senza toccare il polso ai catenacci ed alle ferriate secondo l'uso. Fra i gendarmi vi era sempre qualche benevolo, che ci teneva in relazione col di fuori e coll'altro corridoio dello stabilimento, ed io n'era il corrispondente. In ogni modo, siccome ci era permesso di far venire il pranzo dal di fuori, cosí si trovava modo di essere in corrente delle notizie le piú importanti coi biglietti che si nascondevano nelle pietanze o dentro il turacciolo dei fiaschi del vino. Tutti i detenuti di San Michele dipendevano dal Tribunale della Sacra Consulta, che è quanto dire addebitati di titolo politico; ivi feci conoscenza di Calandrelli e di molti altri personaggi di merito che si erano distinti in Roma nel '49.

[LXXIV.] Un giorno stando a conversare coi miei camerati venni a sapere che Epaminonda Rambelli, noto col nome di Moretto, era stato ricondotto [105] nelle carceri. A persuadermi di un fatto sí opposto a quanto egli stesso mi aveva asserito nel reclusorio del Termini, cioè della sua riacquistata libertà, diedi incarico ad uno dei detenuti che stava presso il primo camerone dello stabilimento, in cui si diceva il Rambelli essere stato rinchiuso, a verificare la voce prevalsa; e pur troppo la mattina seguente seppi che era stato ricondotto a Forlí per un confronto e che gli aggravi processuali erano accresciuti a suo danno, e di ciò fummo tutti afflittissimi; e una prova di quanto asseriva nasceva dai modi rigorosi con cui era trattato dal Monco, il quale entrava sempre nel suo tugurio colle pistole montate alla mano, senza mai accondiscendere a quanto di piú giusto sapeva chiedere. Dal secondo camerone venne trasferito nel primo, in quello in cui era, e non so come potesse ottenere la grazia di passeggiare un'ora del giorno quando tutti gli altri prigionieri erano rinchiusi. Ma questa grazia ci pose tutti in un grave imbroglio. Un vecchio capitano dei carabinieri, che si era compromesso negli affari politici del '49, era nel novero dei carcerati di San Michele e godeva il beneficio di avere di continuo l'accesso nel corridoio. Costui aveva militato nelle Romagne al tempo del dominio della Commissione Invernizzi e raccontava limpidamente gli arresti che vi aveva eseguiti, fra i quali quello di Gaetano Rambelli, padre di Epaminonda, il quale [106] venne, come abbiam detto, impiccato. Si ritenne che costui avrebbe raccontato le sue prodezze, come le rendeva note a tutti, anche ad Epaminonda; di certo sarebbe nato uno sconcerto pericoloso, perché egli, giovane ardente che sentiva la sciagura del padre nel piú intimo dell'animo, avrebbe rampognato il capitano con insulti e copertolo di vituperi. Per evitare ciò si riuscí a far credere ad Epaminonda che colui che vedeva nel corridoio nell'ora che gli era concessa di passeggio, era una spia del Governo tenuta fra noi appositamente per rilevare i detti, i motti di ciascuno, e lo consigliammo a tenerselo lontano e a non rispondere a qualunque interrogazione gli dirigesse, e gli facemmo le piú vive premure perché si attenesse al nostro precetto suggerito dall'affetto che noi tutti gli portavamo; cosí si poté evitare il danno da noi previsto, mentre Epaminonda si attenne strettamente ai nostri suggerimenti.

[LXXV.] Erano scorsi vari mesi da che la mia sentenza era emanata, né si risolveva di assegnarmi il luogo dove doveva scontare la pena inflittami: si parlava di Paliano, vecchio castello ridotto a carcere, e dove era stato trasferito già il degno patriota.....

In attesa ebbi la visita di monsignor Matteucci, Direttore generale di polizia, il quale mi chiese se aveva conoscenze in Roma valevoli a procurarmi una diminuzione di pena. Io gli feci intendere che non avrei mai chiesta grazia di sorta alcuna, perché [107] non aveva colpa, e mi se ne attribuiva a solo fine di punire in me il principio politico, mentre a niuno era dato di aggravarmi di addebito criminale; che conosceva il cardinale Marini, perché un tempo fu amico di mio padre e protettore della mia famiglia in triste evenienze; e che conosceva pur anche il principe de Merode, che era stato mio discepolo nel Belgio nell'insegnamento della lingua italiana. Alla parola Merode da me pronunziata, il Matteucci mi fece un urlo terribile, gridando: «Ma non sa che il Merode è l'anima del Pontefice? a lui si rivolga, e vedrà subito i buoni effetti del suo ricorso». — «Monsignore, le ripeto che non mi umilio a chicchessia, perché non ho peccati.» Ma dopo alcune settimane venne ordine che la pena si riducesse a sei mesi di carcere in casa; e nell'istante che fui presentato al cancelliere della Sacra Consulta per comunicarmi la disposizione emessa a mio favore, trovavasi nell'ufficio del medesimo il Rambelli, il quale mi si accostò e mi fece intendere che lo volevano ad ogni costo sagrificare, ma che avrebbe seguito l'esempio di suo padre; poi in pegno d'amicizia mi diede un bocchino da zigari che conservo tuttora. Nel punto che mi pregava di abbracciare sua madre, il Monco si accorse che egli meco parlava. Costui divenne una furia; voleva pormi alla catena, ma il cancelliere seppe calmarlo; ed io fui condotto dapprima alle carceri [108] di Monte Citorio, o della piazza, in seguito in quelle di Termini per la seconda volta: cosí assaggiai non solo tutte le prigioni di Roma, ma ben anche tutte quelle che da Roma si estendono sino in Alessandria, come vedremo in appresso.

[LXXVI.] A Termini non venni piú rinchiuso nel corridoio dei ragazzi discoli, bensí in un salone di uomini adulti, aggravati d'ogni sorta di delitti; io ne contai piú di sessanta. Entrando dentro col mio sacco sulle spalle, che è quanto a dire col sacco che doveva servirmi da letto, su cui poneva lo stramazzo, inviatomi da casa, il capo stanza mi si fece incontro, prese egli il sacco e lo pose nel miglior posto del luogo, cioè lontano dalla latrina, mi disse di conoscermi, di sapere che io era un galantuomo, e mi pregò di comandarlo in tutto ciò che mi occorreva: io lo ringraziai molto delle sue cortesie. Non fu cosí di un altro venuto poco dopo il mio arrivo, il quale fu posto presso la latrina, e siccome io l'aveva conosciuto a San Michele, osai di raccomandarlo al capo stanza: «Signore, non s'interessi di lui, egli è un boia»; nome generico che si attribuisce a tutti coloro che non sono di aggradimento ai detenuti, e corre grave rischio il detenuto che entra in un salone con siffatto nome: soffre insulti, dileggi ed alle volte anche peggio; onde il malcapitato si fece presto cambiar di prigione. Non molto dopo venne un tale abbigliato signorilmente, esso pure col suo [109] sacco sulle spalle, e la prima parola che pronunziò entrando fu il mio nome: «Dalle carceri di Monte Citorio, soggiunse, da cui or vengo mi hanno consigliato di rivolgermi a lei, onde mi assista». — «Ma, signore, io sono nella condizione in cui ella si trova; tuttavia farò tutto quello che può esserle di giovamento»; e lo feci mettere presso il mio letto. Egli era al servizio di una famiglia francese, né so per qual titolo fosse arrestato: io lo consigliai di volgersi all'ufficio dell'ambasciatore francese per essere messo in libertà, mentre mi sembrò che si trattasse di oggetto politico.

In questo camerone il vizio del giuoco delle carte, chiamato zecchinetta, dominava piú che altrove, e il capo stanza faceva buoni affari col tributo che i giocatori erano tenuti di corrispondergli. Chi non aveva denari da applicarsi al giuoco occupavasi di fabbricare utensili di perlette di vetro, che facevano vendere in città, o a costruire figure di raschiatura di mattoni, manipolate con mollica di pane, che sembravano di gesso, e vi era chi in tali oggetti lavorava con una maestria sorprendente: mi ricordo di un Cristo in croce spirante che fu venduto ad uno straniero per non pochi scudi. Vi era chi si divertiva a fare i bussolotti con un garbo che incantava: chi aveva tale abilità apparteneva al rango dei borsaiuoli; infine vi erano vari che dilettavansi di rappresentare le azioni che avevan commesse, come assalti alle [110] persone, assalti alle case, i raggiri usati per riuscire nei loro intenti che erano quelli di far suo quello che ad altri apparteneva: e potete ben credere che le scene erano eseguite con una naturalezza che nessun comico sarebbe in grado di superare, cosí che essi vi porgevano diversi modi di passare senza molta noia la giornata.

[LXXVII.] Finalmente monsignor Matteucci in persona venne ad annunziarmi il giorno della mia partenza per Ravenna [4 marzo 1852], ove doveva scontare, come dissi, sei mesi di carcere in casa. Il viaggio in vettura, accompagnato da un gendarme travestito, era a mie spese. La mia guida era buonissimo giovane; arrivato nella città, mi lasciava piena libertà, e noi ci trovavamo insieme solamente all'ora dei pasti che il vetturino era in obbligo di darci due al giorno. Il nostro viaggio non presentò alcun incidente, e arrivai a casa sano e salvo, in cui mi rinchiusi e rimasi sei mesi come se fossi di convalescenza.

Rassegnato alla mia sorte pensava piú a procurarmi mezzi di esistenza che alla politica, quando in capo a pochi giorni dal mio rimpatrio, fui ammesso nel Comitato del nuovo consorzio repubblicano, che erasi creato durante il tempo che io fui in carcere, onde dissi a chi mi comunicò l'ammissione: «Volete pormi nel caso di esclamare: appena vidi il sol che ne fui privo, perché se il Governo viene in qualche sospetto, col [111] precetto di cui sono aggravato, mi rimettono in carcere senza perder tempo. Ma non importa, io sono sempre pronto a sostenere i principi che professo, succeda quel che sa succedere». Il nostro nuovo Comitato ebbe una triste crisi a soffrire. Fu d'uopo tenere un congresso a Cesena, in cui intervenne un membro di ogni Comitato di Romagna, e Ravenna vi fu rappresentata dal degno patriota Augusto Branzanti: il convegno fu scoperto dal Comando austriaco per viltà e ribalderia di uno che vi apparteneva, ed il Branzanti con altri venne catturato e chiuso nelle carceri di Bologna. Gli Austriaci, come il solito, volevano che palesasse quale fu l'oggetto del convegno; lo sottomisero a mille rigori e torture, e finalmente a quella esecranda delle battiture sul deretano: ma egli non si arrese, e mostrò quel coraggio che è proprio di chi è convinto della fede politica che adotta; onde meritò una stima ed un affetto imperituro presso i suoi cittadini. Il Comitato rimase in piedi malgrado i pericoli in cui vedevasi esposto, e specialmente dopo l'insuccesso della insurrezione di Milano. Solamente nel 1859 aderí di fondersi con quello della Società nazionale italiana, nell'intento di costituire l'Italia libera ed indipendente coll'appoggio del Piemonte e della Francia. Ma io che non partecipava a siffatta fusione rimasi escluso dal movimento che si operò all'indicato fine nel 13 giugno 1859, nel [112] quale Ravenna fu sgombra dalle autorità e dalle milizie pontificie ed il Governo affidato provvisoriamente ad una Commissione. I miei colleghi del Comitato repubblicano, mercé l'avvenuta fusione, ebbero onori e cariche; si può dire che signoreggiavano il paese. Di ciò punto mi curava, né io moveva lagnanze sulla mia trista posizione, essendo senza alcun mezzo di sussistenza e senza modo di rinvenirne; ma quello che m'indispettí fu l'intolleranza dei nuovi reggitori del paese, che a causa della tenacità de' miei principî repubblicani mi fecero una guerra a morte. Dapprima appiccarono sulle pareti esteriori di mia casa cartelloni in lettere cubitali in cui erano scritte queste parole: Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia, e il carattere era di qualità nero e rosso, significanti che i repubblicani erano in lega coi preti; poi mi fecero avvertire che tralasciassi di sostenere i principî repubblicani, altrimenti mi sarei esposto a gravissimi pericoli, infine mi si minacciò la carcere, ed ecco in che modo. Un impiegato della provincia, uomo estraneo ad ogni partito, mi fece avere un giornale in cui parlavasi di Mazzini e del movimento politico operatosi: io lo resi ostensibile a qualche amico. Allora il nuovo direttore di polizia Gueltrini, mio collega nel Comitato mazziniano, m'intimò di presentarmi al suo ufficio, e in modo burbero e dispotico mi disse di avere ordine di farmi arrestare: io risposi che mi teneva a sua disposizione. [113] E poi cambiando discorso mi fece intendere che con dodici scudi al mese, stipendio assegnatoli dal cassiere camerale presso il quale era impiegato, non poteva sostenere la sua famiglia e che aveva accettato quel posto per migliorare di condizione. Al che io risposi: «Ognuno deve cercare il proprio interesse, né io voglio esser giudice dell'altrui azioni, ma dico bensí che pretendo si rispetti e si tolleri la mia opinione, sebbene non sia piú omogenea a chi conduce oggi le cose del paese: io sono repubblicano, non mi fondo come i metalli». Dopo scambiate alcune altre parole alquanto risentite da ambo le parti, mi lasciò libero. Privo di ogni mezzo di sussistenza, perché coll'ultima condanna aveva perduto l'impiego di protocollista datomi nel 1848, ricorsi al Municipio per quel tenue tributo vitalizio che mi poteva spettare, e l'ottenni; indi venni ammesso nell'archivio per dare assetto alle posizioni ivi raccolte, e quando si aperse il concorso del posto vacante di vicebibliotecario nella Classense, feci inchiesta per esservi compreso, e i miei vóti ebbero un pieno successo coll'accordarmelo, non per favoritismo, ma per requisiti che aveva prodotti; impiego però meschinissimo, non condegno alle funzioni che si esercitano, essendone lo stipendio inferiore di quello che si accorda ad un semplice scrivano; ma non ho mai usato pratiche perché mi si aumenti, né ho mai affacciato [114] in appoggio i sagrifici sostenuti per la causa della patria, mentre ero in dovere di fare ciò che per essa feci. Dopo la guerra ingiusta che mi si fece per essere rimasto fermo nei principi repubblicani, cioè in quei principi che adottai nel 1832 entrando nella Giovane Italia, insieme, come dissi, col conte Francesco Lovatelli, Giovanni Montanari ed Antonio Ghirardini, ebbi la consolazione di vederli risplendere piú vivi di prima, colla erezione successiva delle società del Progresso, promosse da Nicotera nell'incontro del meeting a favore della Polonia, della Unione democratica e del Circolo Carlo Cattaneo, nel quale il nome di Mazzini, iniquamente respinto nel '59, brillò di una nuova luce, e il gran Maestro divenne caro a tutti i buoni patrioti, il di cui numero superò quello dei moderati fusionisti: anzi molti di essi ripresero ad onorarlo ascrivendosi alle indicate società; ed io, vilipeso ed oltraggiato, ebbi il conforto di essere elevato alle prime cariche delle medesime. Cosí la mia devozione al grande Apostolo italiano ebbe un pieno trionfo, ed oggi pure in età di 73 anni, coi malanni che son propri di un'età tanto avanzata, appartengo alla società repubblicana in essere col titolo Pensiero ed Azione, né devierò mai dalla strada da sí lungo tempo tracciatami. Nacqui repubblicano, e tale voglio morire.

30 giugno 1877.


[115]

APPENDICE.


[117]

CINQUE MESI DI CARCERE NEL FORTE DI BORMIDA

I padroni d'Italia, come quelli di Francia sulla Bastiglia, eressero sulla Bormida un baluardo alla libertà, e sotto alle sue fondamenta scavarono fosse profonde, e nell'angolo piú oscuro di esse scrissero a caratteri di fango «Pei seguaci della Libertà».

Amico del Popolo, N. 180.

Sicut erat in principio et nunc....

Era la notte del 5 giugno 1868, quando confortato lo stomaco con una sufficiente cena, mi avviai, secondo il mio solito, al caffè dell'Ancora d'Oro, situato, come a tutti è noto, nella strada di San Vittore, ove giunto ordinai una semata fresca. Il brigadiere S..... che frequentava pure quel luogo si fece vicino al banco, ove assorbiva, stando ritto, la mia bibita — prese un caffè, e mi diresse alcune parole, a cui seccamente risposi per convenienza, e me n'andai, determinato di fare un giro per la città a fine di godere sino a mezza notte la dolcezza dell'aria che spirava sotto un cielo oltre l'usato luminoso e sereno.

Ma l'uomo propone ed il destino dispone — quindi l'Arcangelo Gabriele che aveva presso di me libato il nettare arabico, scortato da non so quanti Serafini, mi tenne dietro sino alla metà del vicolo di San Crispino — là mi fece intendere una voce imponente, chiamandomi per nome, come se avesse avuto alcun che d'interessante da comunicarmi. Subito mi fermai, a lui mi rivolsi — già mi era alle calcagna — e gli dissi:

— In che posso favorirla?

— Abbia la compiacenza di venir meco.

— Sono ai suoi ordini.

[118] Allora scartò da sé i Serafini che aveva di aiuto, e gli rimasi solo al fianco — e di buon passo, senza far piú motto, giungemmo al cancello della prigione.

Nell'attendere il carceriere, avvertito dell'arrivo di un nuovo ospite da una solenne scampanellata, egli mi chiese se conosceva il motivo del mio arresto.

Io poteva rispondergli che una tal conoscenza deve essere piú in chi lo opera che in chi lo soffre: ma a risparmio di parole gli dissi, che io non sapeva concepirlo — come difatti non mi riuscí d'indovinarlo tal quale il Fisco lo aveva ideato, anche quando potei a mio bell'agio applicare la mente ai casi miei. Intanto la porta si schiuse, e senza perder tempo ascesi svelto pel primo la scala, già a me ben nota, perché l'aveva piú volte percorsa.

Qui è inutile l'esporre ciò che il custode di guardia eseguisce sul carcerato, essendo ad ognuno palese che lo sottopone ad una visita accuratissima in ogni parte anche riservata del corpo — che guarda ed esamina attentamente gli oggetti che tiene — che li sequestra, e li consegna al capo, il quale se ne rende il depositario.

Pratico degli usi di prigione mi tolsi tosto da dosso l'orologio, il portamonete, le chiavi, e quant'altro io aveva nelle tasche, e lo posi sul tavolo d'ufficio — poi stesi le braccia in alto per agevolare al carceriere l'adempimento del suo incarico.

Compiuta la visita il capo fece intendere queste sole parole — al numero otto — Brutto numero, dissi fra me, avendo ben compreso dov'era posta la segreta, che l'additava. Il custode accese subito un lanternino — tirò fuori le chiavi del numero indicato — e datomi sulle spalle il sacco di paglia che doveva servirmi di letto, m'intimò di seguirlo — e fatti alcuni passi in uno stretto corridoio mi trovai dinanzi al tugurio assegnatomi.

Entratovi dentro vidi bene che era quale me lo era immaginato, cioè angusto, basso, umido — gettai il sacco lungo il muro di facciata alla porta — diedi un'occhiata alla parte opposta, e dal lume della luna che penetrava dal pertugio del tamburo della finestra, la quale si suole tenere aperta in estate affinché i prigionieri non siano soffocati dal caldo e dai miasmi, scorsi quattro corpi umani, ognuno avvolto in un lenzuolo sul proprio sacco. Stetti un istante a guardarli: costoro davano al luogo, già per sé tetro, il cupo aspetto di una camera mortuaria. Nessun di loro si mosse. [119] malgrado lo stridore dei catenacci, il tintinnio delle chiavi, e le percosse dei battenti dell'uscio — e da ciò compresi che erano cavalli vecchi — è questo il nome che i carcerati si sono imposto. Per non restare lí dritto come un palo, spinsi il sacco contro il muro — lo schiacciai colle ginocchie per togliergli quella rotondità che m'impediva di occuparlo — e mi vi distesi sopra cosí abbigliato com'era.

Allora diversi pensieri m'ingombrarono la mente — quello dei congiunti piú di ogni altro turbavami — ma seppi presto quietarlo, persuadendomi che fosse in essi quella superiorità di animo che io sentiva. Poi mi tornò all'idea l'inchiesta del brigadiere, se conosceva il motivo del mio arresto — e mi pentiva di non avergli risposto «sí che lo conosco — e sta nei principi democratici che professo, nel propugnarli con ogni mio sforzo — sta nell'inveire contro le male opere che commettete, contro gli arbitri che usate, dei quali sono ora io stesso un chiaro esempio» — e m'infervorava come se avessi avuto dinanzi l'intera curia fiscale unita alla ciurma che l'appoggia, quando uno dei carcerati scese giú dal sacco, e nell'urtare coi piedi nel mio lo intesi esclamare:

— Oh! un nuovo cavallo.

Ed accostatosi alla latrina la scoperse, e vi orinò dentro movendo un puzzo esecrabile che mi costrinse di levarmi il giubbetto, e di gettarmelo sulla testa per impedire che mi percuotesse gli organi sensitivi dell'odorato — e cosí imbacuccato mi volsi verso il muro, e non tardai a chiudere gli occhi al sonno.

Suonavano le quattro quando mi destai — e il giorno era abbastanza avanzato per darmi modo di scorgere ben bene i miei quattro camerati — essi dormivano ancora saporitamente, scoperti sino al petto — e potei rilevare che erano uomini nella forza dell'età, e di solida tempra.

Zelante esecutore delle pratiche di carcere, piegai il mio sacco, ne feci un comodo sedile, e l'incalzai nell'angolo per guadagnar spazio — indi presi la scopa, e ridussi presso la porta la paglia caduta dal sacco nel ravvolgerlo, affinché i camerati vedessero nello svegliarsi che non avevano a che fare con un coscritto — da ultimo infissi un vecchio cucchiaio di legno, rinvenuto sulla banchina della finestra, entro un buco del muro a sostegno del giubbetto e del cappello — e col fazzoletto seppi costruirmi un berrettino in punta. Intanto gli amici l'uno dopo l'altro si scossero — e nel vedermi installato colle debite forme mi diedero cordialmente [120] il buon giorno. Ma mi accorsi che non potevano convincersi che io fossi uno de' suoi — forse a causa dei panni che mi coprivano — forse anche perché i modi e i lineamenti del mio volto non corrispondevano alle viste loro — e qui bisogna rimarcare che i vecchi carcerati hanno un tatto finissimo nel giudicare dalle fisonomie.

Alle sei si ebbe la prima visita, la quale di giorno e di notte si rinnova di tre in tre ore — si opera sempre in presenza del capo o del sotto capo, da due guardie che con ogni diligenza tastano il polso ai ferri delle finestre, ed esaminano se le porte e gli sportelli sono affetti del male dei tarli. In pari tempo due uomini di pena portano via le immondizie, ed il vaso degli escrementi che riportano vuoto e netto — poi una delle guardie nota gli oggetti permessi che il detenuto ordina specialmente per uso boccolico, se ha fondi in deposito.

Dopo la visita si distribuisce il pane che è di 750 grammi, diviso in due pagnotte — l'una si dà nel mattino, l'altra nel dopo pranzo, onde non siano divorate ad un tratto. La metà della prima serve di colazione, e dispare fra le fauci del carcerato senza che uno se ne accorga — l'altra metà è fatta a pezzi, ed immersa verso mezzo giorno nella minestra, che per la sua pessima qualità ha il nome di sbobla. La seconda serve di cena, e se il carcerato possiede qualche soldo per comprarsi un poco di companatico o di vino, la smaltisce alquanto bene, se no gli tocca di far tanto d'occhi per ingoiarla.

Dieci anni addietro tenevasi conto della differenza che passa tra il reo provato e il semplice accusato, cioè tra il detenuto di larga e quello di segreta, al quale compartivasi carne, minestra nel brodo, vino ed altro, perché il carcerato prima della definizione della causa a cui era sottomesso si considerava senza colpa. Ora il trattamento è eguale per tutti, e s'infliggono le pene della colpa avanti che si verifichi — ecco un progresso dovuto al costituzionalismo, non ancora rimarcato.

Dai brevi colloqui avuti coi camerati, desunsi che erano braccianti di campagna, capi di famiglia, e sottoposti a processo per gravi accuse di reati comuni. Per evitare che sfogassero la smania, propria dei carcerati, di esporre i fatti che li riguardavano, li tenni a bada con interrogazioni sulla condotta dei custodi, sugli usi del luogo, e sui lavori che eseguivano con perlette di vetro, mostrando ansietà di occuparmene [121] io pure — poi rinvenuti vari pezzi di carta a stampa, che avevano servito d'inviluppo, mi posi a leggerli ed a rileggerli sin che si recò la sbobla, la quale valse a distrarci alquanto — poi giunse il mio pranzo che in gran parte si divisero — e poco dopo fui trasferito nel numero 20. Ma non li lasciai all'asciutto, cioè senza pagar loro da bere, tributo sanzionato dalle costumanze carcerarie, da cui niuno può esimersi dall'osservare.

La mia partenza gli afflisse oltremodo, perché riputandomi provveduto di ampi mezzi speravano che io fossi loro di conforto. In carcere regna sempre un perfetto comunismo.

La nuova camera era un paradiso in confronto della prima — grande, ariosa, e quel che piú importa, occupata da persone piú omogenee, fra le quali trovai alcuno di mia conoscenza — perciò lo spirito, sbarazzatosi dalla tortura morale che nasce dal contatto di gente d'indole e di abitudini diverse, provò un allievamento sensibile, che influí anche sullo stomaco in modo da suscitarmi un buon appetito, che estinsi mangiando soavemente a cena coi camerati — poi fumato uno zigaretto mi stesi sul letto, e dormii sino a che mi vennero a dire verso le cinque del mattino:

— Si alzi — a momenti si parte.

— Per dove?

Niuno rispose.

Disceso nella camera d'ufficio del capo mi vidi in presenza di cinque individui, quasi tutti a me ignoti, sebbene fossero di Ravenna — e dovei chiedere ad ognuno nome e professione per sapere con chi mi accumunava.

Ad uno di loro, un certo Casadio, dissi:

— Scusate — mi pare di avervi ravvisato piú volte fra i becchini.

— Non s'inganna punto — io sono addetto dappoi vari anni al loro consorzio.

— Fortuna, ripresi ridendo, che non siamo superstiziosi, altrimenti la vostra compagnia ci sarebbe di cattivo augurio.

Io aveva sperato di trarre dalla condizione degli arrestati un lume idoneo a mostrarmi il motivo del mio arresto — invece mi s'imbrogliarono maggiormente le idee, trovandomi con uomini estranei, con cui non ebbi mai alcuna relazione, ed alieni affatto, teoricamente parlando, alla politica.

Intanto che io m'intratteneva con essi, giunsero i carabinieri. Prima lor cura fu di ammanettarli a due a due [122] ad uso dei pollastri che si conducono a vendere in piazza. Io aveva già ravvolto all'insú le maniche del mio abito, e teneva i polsi l'un presso l'altro per ricevere degnamente il caro arnese, le manette, con cui aveva già contratto una piena confidenza. Ma fui lasciato sciolto, beneficio che avrei volentieri respinto, se avessi creduto che i condottieri della corrispondenza fossero stati in facoltà d'innovare gli ordini avuti.

Dalla piazza si andò a piedi alla stazione della ferrovia — io me ne stava alla coda del drappello come una cornacchia spennacchiata — in ogni angolo delle strade s'incontravano carabinieri e poliziotti — saggia precauzione. Appena arrivati al posto ci fecero salire sopra una vettura a celle. Nell'estate queste celle sono molto angosciose, perché hanno uno stretto pertugio, insufficiente a dar adito al volume d'aria, di cui si ha d'uopo per mitigare la intensità del caldo, che in esse si concentra — e due dei carcerati, Balella e Casadio, dopo breve tragitto, caddero in deliquio tale che occorse di farli venire, per oltre un quarto d'ora, sul davanti della vettura, ove si riebbero. A me si accordò il vantaggio di occupare la prima cella, di cui si tenne lo sportello aperto.

A Castel Bolognese fummo acquartierati, in attesa dell'arrivo del convoglio, nel passaggio della sala della stazione — e guardati a vista dai carabinieri, rinforzati da quelli del paese. Si accorreva da ogni parte per vederci. Mi parve che io attirassi piú degli altri gli sguardi dei curiosi — ed intesi queste parole:

— Povero vecchio! e quando cesseranno di tormentarlo?

Poco dopo si fece innanzi A. F. nostro, concittadino, e col permesso de' nostri Angeli Custodi ci favorí una buona colazione al caffé col latte — ed a me porse qualche denaro.

Alla stazione di Bologna invano si attesero dei veicoli di trasporto, e fummo costretti di andare a piedi dapprima a San Giovanni in Monte — poscia a Sant'Ignazio, ove ci lasciarono. Abbattuto dal caldo ed affaticato dalle lunghe girate sofferte, non poteva piú reggermi in piedi, e mi vollero piú ore di riposo per rinfrancarmi. Ivi sapemmo che gli altri ravegnani, prima di noi arrestati, erano stati trattenuti nello stesso locale per congiungerli a noi, e fare una sola spedizione per Alessandria, la quale si effettuò in capo a due giorni, scorsi fra gente di galera e come essi trattati.

[123] Prima di giungere al luogo assegnatoci, ci toccò passare altri due giorni in Parma, dentro prigioni peggiori dei porcili, fornite di sacchi non sporchi, ma anneriti dal sudiciume, pieni di pulci e di altri nauseanti insetti. — Non si creda però che un sí tristo procedere ci sconcertasse — anzi piú che s'imperversava nell'opprimerci e piú cresceva in noi l'allegria per l'effetto di quel buon umore che inspira una coscienza senza macchia.

Mi sovviene che nel trasportarci da Parma ad Alessandria, il brigadiere di condotta, uomo impetuoso nell'esercizio delle sue birresche funzioni, mi strinse in modo le manette che mi indusse a dirgli:

— Le allenti un poco se è possibile — vede bene che io sono vecchio....

Egli mi guardò sorridendo, e diede un giro all'ingiú alla vite.

— Bravo, esclamai come se fossi stato esaudito — cosí va bene.

Quegli che era con me ammanettato, un certo Antonio Castellini, giovane di nobili sensi, si fece rosso in volto per la rabbia; e non so quali contumelie gli avrebbe vomitato contro, se non gli avessi fatto un segno imperativo d'imitarmi.

Io aveva soggiaciuto a vari arresti in tempi calamitosi, quando l'assolutismo vigeva imperioso. Il titolo politico da cui nascevano, soleva eccitare alle sevizie coloro che gli eseguivano, perché piú angariavano e deprimevano chi il Governo avversava piú si rendevano degni di onori e di premi. Eppure mai mi avvenne un atto sí crudele — mai vidi derisa la voce della umanità con tanto spregio.

Un'altra prova di durezza d'animo ci offerse nel tragitto da Alessandria a Bormida il brigadiere a cui fummo consegnati — ed ecco come.

Alla stazione di Alessandria si fecero venire pel nostro trasporto nel Forte di Bormida due vetture a celle; ma le celle non corrispondevano al numero dei carcerati.

— Che importa? disse il brigadiere — che una cella serva per due, ed anche per tre se occorre.

E con spinte e con urti senza levarci le manette ci chiuse dentro a chiave.

Qual supplizio fosse quello di stare rannicchiati in quei buchi senza uno spiro d'aria, con un caldo insopportabile, non vi sono parole adeguate ad esprimerlo. Il buon Castellini [124] mi cedé il suo sedile — e dovendo restare in piedi abbassava quanto poteva il braccio aggravato col mio dalle manette, affinché non mi rodessero l'osso del polso. Ma ogni sforzo di sollievo tornava vano, e bisognava tribolare per ogni verso.

— È un prodigio, diceva io, se non restiamo qui oggi soffocati — ho provato spesso i tormenti che l'assolutismo sa tanto bene infliggere — mai ne ho provato uno eguale.

Poco dopo s'intese a gridare:

— Brigadiere! fate fermare la vettura — uno de' nostri è caduto in grave svenimento — non dà piú segno di vita — aiuto per carità.

Sapete qual fu la risposta del brigadiere?

— Che crepino quanti sono — una ciurma di malfattori di meno.

Era l'amico Antonio Acquacalda che sensibile piú degli altri alla impressione del caldo, ed alla mancanza d'aria, aveva perduto i sensi. Ma la fortuna volle che si arrivasse presto a Bormida. — Quando egli discese gli parve che si fosse in lui rinnovato il miracolo di Lazzaro.

Quasi nel mezzo del Forte di Bormida s'innalza un edificio a due piani con due piccole ali ai fianchi — ogni piano conta undici cameroni — nello spazio di uno di essi havvi l'ingresso — ogni camerone può contenere sedici letti — ognuno riceve la luce da un'ampia finestra guarnita di doppia inferriata, libera al di fuori dei soliti tamburi, e riparata nell'interno da' cristalli — i pavimenti sono a terrazzo, e la soffitta a volta — lungo la pareti esistono tavole infisse al muro che servono per deporvi panni, vasi ed altro — nell'estate sono altrettanti covaccioli di cimici — sino al nostro arrivo furono occupati da militari. Le camere delle due ali del fabbricato sono anguste, assegnate ai custodi ed agl'impiegati dello stabilimento. I cameroni si trovano di facciata l'uno all'altro, separati da un corridoio di passaggio, e difesi sul davanti da un cancello di legno, costruito di grossi travicelli, proprio alla forma delle gabbie degli animali feroci, colla sola differenza che in queste le sbarre sono di ferro — cosicché il carcerato resta sempre in vista di chi transita pel corridoio, e di chi vi stanzia, cioè delle sentinelle e delle guardie del carcere, le quali solevano tenerci gli occhi addosso di continuo per vedere se dal mover delle labbra potevano arguire il senso de' nostri discorsi, e se dai gesti, dagli sguardi e da ogni altro movimento [125] riusciva loro di ricavare qualche cosa che giovasse al Fisco — ed è ciò che costituisce una vera tortura morale, e vi accerto che è dolorosa. L'interno del luogo è vegliato da un capo e da alcune guardie subalterne — quella di servizio non abbandona mai il corridoio. — La custodia dell'esterno è affidata a mezza compagnia di linea, comandata da un ufficiale.

Alla tortura morale aggiungevasi la materiale, ed ecco in che modo. — L'unica ora di conforto in prigione è quella che si passa dormendo — ebbene le sentinelle e le guardie si prendevano il gusto di destarci quando ci vedevano immersi nel sonno, ponendosi a chiacchierare ad alta voce tra loro, o passeggiando con rumore su e giú pel corridoio, o battendo in terra il calcio del fucile, o scuotendo le chiavi, o aprendo e chiudendo con fracasso le porte. — Un altro rompitesta ci veniva anche dall'esterno per le spaventevoli grida «all'erta» che le sentinelle ripetevansi a vicenda — e perché ci colpissero bene le orecchie si avvicinavano piú che potevano alle finestre, quand'era l'ora di mandarle fuori.

Il vitto consisteva in una minestra e in due pagnotte; ossia era eguale a quello che si somministra ai galeotti — . Le pagnotte erano sempre fresche e buone; ma la minestra, se non salvavasi dalla broda in cui giacevasi annegata e se non condivasi con un poco di burro e formaggio, non potevasi ingoiare. Il valore del denaro poi a Bormida pel carcerato era sempre in ribasso come i fondi italiani alla Borsa di Parigi — una lira spendevasi tutto al piú pel terzo del suo costo — né valsero reclami, litigi, ed istanze per mettere in dovere lo spenditore o cantiniere, la di cui avidità non aveva limiti.

Il Forte di Bormida, lontano tre chilometri da Alessandria, isolato, doveva essere provveduto di un medico permanente e di una farmacia, specialmente quando nell'agosto vi si trasferirono i ravegnani detenuti in Pinarolo, i quali allora ascesero sino al numero di quaranta. Era un provvedimento suggerito dal piú semplice senso di umanità, a fine di essere in grado di porgere pronti soccorsi a chi fosse caduto in qualche sconcerto fisico: lo che facilmente succede nelle comunanze ove trovasi gente diversa per età, per temperamento e per abitudini. Ma invece la visita del medico ottenevasi per lo meno 24 ore dopo l'ordinazione, ed un eguale spazio di tempo scorreva prima di avere i [126] medicinali — ed in quarant'otto ore anche una lieve costipazione poteva divenire una infiammazione di petto, valevole a gettare uno nel numero dei piú.

Avventurosamente a pochi e leggieri sconcerti soggiacemmo — uno solo di entità afflisse Ugo Leonardi, affetto di malattia al cuore — egli cadde in uno stato veramente compassionevole, e deperiva a colpo d'occhio. Sovente passava la notte alzato, seduto sopra un'asse della lettiera, non potendo, per l'affanno che lo opprimeva, tenersi sul duro sacco, che ci provvedevano per dormire. Egli sentiva estremo bisogno di respirare un poco d'aria fresca — ma chi osava aprire la finestra di notte, ben sapendo che le sentinelle di fuori e di dentro avevano ordine di farci fuoco addosso, anche di giorno, se ad essa avvicinati di troppo non si fosse obbedito alla prima intimazione di allontanarsene?

Infine il Leonardi, anche da noi eccitato, dovè risolversi a consultare il medico del Forte sulla malattia che lo vessava, colla intenzione, constatata che fosse da regolare documento, di chiedere alle Autorità competenti una traslocazione nelle carceri del proprio paese, ove favorito dall'aria nativa poteva conseguire sensibili miglioramenti. Il medico si prestò all'invito, ma con aria imperiosa, disdicevole alla filantropica professione che esercitava — e ciò fu un tristo preludio alle mire dell'ammalato. Difatti egli non volle in niun conto ammettere il male espostogli, malgrado che gli si facesse conoscere di essere stato appieno verificato dai medici primari di Ravenna — anzi siffatte asserzioni lo inacerbirono, ritenendo forse che si affacciassero a solo fine di accusarlo d'imperizia — e per indurlo ad una seconda visita piú accurata della prima, si ebbe bisogno di ricorrere alla regia Procura di Alessandria. Né si arrese per vecchio vizio di caparbietà di certo prodotto da presunzione, onde il Leonardi per giustificarsi, e per riuscire nell'intento di una traslocazione, fecesi trasmettere da Ravenna i certificati, in forma autentica, dei professori Sancasciani e Montanari, comprovanti il morbo nel senso manifestato. Ma la regia Procura dichiarò che era in obbligo di rigettarli, perché riconosceva per valide solamente le attestazioni del medico curante del luogo — cosí erasi tra l'incudine ed il martello.

Intanto a forza di esami e contro esami giudiziali, di ricerche e d'investigazioni il Fisco dovè convincersi che i carcerati di Bormida non avevano neppur l'ombra di reato comune. Ma si accorse però che erano infetti di radicalismo [127] o di democrazia pura, e fu chi pose in opera ogni sforzo per levar loro da dosso sí trista infezione — fra i mezzi adottati all'uopo è da notarsi l'invio a Bormida di alcuni grassi beccafichi del Signore, che distribuirono ai detenuti libriccini di preghiere, ed ispiraron loro con edificanti parole le massime che sono da professarsi per non incorrere mai in disgrazie.

Qual fosse l'esito della loro missione ognuno lo può da sé prevedere senza bisogno di addurlo: ed intanto che altro concertavasi per convertirci, si dispose di ricondurci nelle carceri de' nostri paesi per indi riavere quella libertà che niuno doveva toglierci, se si fossero rispettati i retti dettami della Giustizia.

Ma prima di chiudere il racconto convien parlare degli esami a cui soggiacqui, iniziati non già nel termine di 24 ore come la legge prescrive, bensí quasi dopo un mese di carcere.

Dalle prime interrogazioni direttemi dal Giudice Istruttore compresi che il mio arresto, e quello de' miei colleghi, fu promosso dall'omicidio del Procurator regio Avv. Cappa. Mi accorsi egualmente che volevasi attribuire al fatto un colore meramente politico — e allora dissi fra me:

— Non è da stupire se l'Unione democratica è presa di mira in sí trista faccenda.

E conobbi benissimo che si agiva dietro l'impulso di persone influenti del paese, le quali avevano già tessute con nere fila la biografia dei cittadini che la compongono — quindi consideravasi come un nido di sediziosi e come un continuo fomite di disturbi — e posso dire che chiari mi apparirono gli artifizi usati a danno della medesima.

In causa pertanto dei rapporti di chi tanto la avversava, il Giudice insisteva a dirmi:

— Che la nostra Unione democratica in apparenza mostrava rette tendenze, ma che occultava perversi disegni, e volle che gli precisassi il senso della parola miglioramento sociale, da me usata nel precedente esame — poi pretendeva che io gli porgessi il nome di tutti i soci.

A tutto ciò risposi che la Unione democratica ravennate erasi instituita per mettere in accordo i liberali del 59 con quelli del 49 — che non aveva altri intenti che quelli determinati dal suo statuto, resi di pubblica ragione colla stampa — che la espressione miglioramento sociale spiegavasi da sé, né potendo denotare cambiamento non doveva essere di pregiudizio a chicchessia — e che la Società avendo [128] sempre agito alla scoperta, senza alcun mistero, era pienamente nota alla polizia, a cui poteva rivolgersi per ottenere la lista di coloro che la costituivano.

In seguito il Giudice mi domandò se io conosceva il giovane Giulio Berghinzoni — se apparteneva alla Unione democratica — e quali relazioni io aveva con lui. Subito mi avvidi che il povero Giulio compariva nel processo con serii aggravi — anzi dallo spirito delle inchieste mi parve di ravvisare che si volesse ritenere come mandatario nell'omicidio accennato. — Io risposi senza esitare che conosceva il Berghinzoni — che era addetto alla ricordata Unione — che io non aveva con lui alcuna relazione, perché come giovane frequentava luoghi e persone a me vecchio interamente estranei. Aggiunsi che in Società non godeva alcun grado — che di rado interveniva alle adunanze — e che stava perciò per essere rimosso dalla medesima — la qual cosa giovava ad escludere quegli eccitamenti che ritenevansi venirgli dalla Società stessa.

Tutti gli esami subiti dagli altri detenuti furono modulati sul mio — perciò mi astengo di darne contezza.

Non posso però esimermi dal riferire quello sostenuto dal vecchio Berghinzoni, padre del ricordato Giulio. Dopo varie domande gli si chiese se apparteneva alla Società democratica del suo paese, la quale si onora di avere a preside, disse il Giudice con aria derisoria, l'apostolo Giuseppe Mazzini.

— Io non so nulla né di democratica, né di filodrammatica — né di Mazzini, né di Mazzoni — io appartengo ad una Società che ha dei nomi che meglio si capiscono.

— E quale è la Società a cui siete addetto? disse il Giudice con quella curiosità che è propria di chi crede di essere oramai sul punto di rinvenire qualche cosa che lo appaghi.

— È la Società, rispose Berghinzoni, o per meglio dire, la pia Unione della Mercede.

— E quale è il suo programma?

— Eccolo — e trasse fuori un lungo rosario, oggetto insequestrabile — perciò gli era rimasto in tasca — e per spiegarsi piú chiaramente aggiunse che era una istituzione santa creata nello scopo di procurare la salute eterna dell'anima.

Con due brevi interrogatori a ciascuno diedesi compimento al processo — e sebbene si fosse cominciato tardi, in capo a due mesi potevasi benissimo sbrigare la nostra [129] causa. Ma ne erano scorsi piú di quattro senza risultato. Alla fine poco dopo la metà di ottobre con tre spedizioni successive si sgombrò il Forte — la prima di dodici detenuti, fra i quali io era compreso, venne diretta alle carceri di Ravenna — le altre due in quelle di Lugo e Faenza.

Nel ritorno fummo trattati come nell'andata, cioè incassati nelle celle, stretti dalle manette, e gettati negli stabiali che chiamansi camere della corrispondenza. Si fece però nel retrocedere una fermata di piú, la quale ebbe luogo nelle prigioni di Castel Bolognese, ove pernottammo. La benevolenza degli amici di quel paesetto, dimostrataci con atti i piú cortesi, ci confortò di tutte le angosce sino allora sofferte.

Altra splendida prova di amore ci porsero i nostri cittadini nel giungere tra loro — essi vennero in folla ad assistere alla nostra discesa nella stazione della ferrovia, esprimendoci i sensi della piú sincera esultanza nel rivederci, e stringendoci la mano con inesprimibile tenerezza — cosí energicamente protestavasi contro le ingiurie usateci — cosí dimostravasi col fatto «che le prigionie arbitrarie sono, come dice Lamartine, corone civiche per gli uomini dabbene.»

Dalla stazione fummo condotti in omnibus alle carceri, ed ivi tenuti sino al 5 novembre, nel qual giorno ci fu concesso di rientrare nel seno delle nostre desolate famiglie.

Questa relazione scritta alla buona, senz'astio e senza offesa, è per coloro che decantano ancora le gioie del sistema che ci regge, affinché possano trarre dei fatti quelle verità che la passione loro occulta. Sappiano bene «che non v'è Nazione senza il rispetto alla libertà individuale — che essa è la base di tutte le libertà e di tutti i diritti — e se la base non è solida tutto si sfascia. E sventuratamente piú noi gridiamo, piú gli agenti dell'Autorità sembrano compiacersi nel calpestare questa libertà tanto necessaria.»

P. Uccellini.


[131]

ANNOTAZIONI.

[133] I. La Biografia dell'Uccellini, cit. nella prefazione, indica il 9 giugno come giorno della sua nascita; ma la vera data è il 9 gennaio 1804, come confermano i registri battesimali. Madre dell'autore fu Chiara Rasi.

II. Luigi Uccellini, padre dell'autore, fu nel 1797-99 tra i piú ferventi giacobini di Ravenna e nella protesta di Ruggero Gamba Ghiselli presentata al Corpo legislativo Cisalpino (cfr. cap. XXVIII), si sottoscrisse con queste enfatiche parole: Luigi Uccellini vuol vivere e morir libero, pria che i cospiratori atterrino la Costituzione; onde poi nelle note di proscrizione formate dai reazionari al venire degli Austro-russi fu cosí descritto: «Costui è nel numero dei piú scelerati; è in quelli che atterrarono le Croci e vilipesero le sacre immagini; continuo bestemmiatore; ateista, o deista; nemico acerrimo de' Principi; avendo ancora commesse le ultime e somme oscenità avanti le monache di S. Caterina in Cesena; ha pure costui sovvertita molta gioventú, e specialmente tutta la famiglia del sig. Giovanni Fava, cioè tutti li suoi, maschi e femmine». In un suo memoriale del 1807 Luigi Uccellini scriveva di sé: «... All'apparire del nuovo ordine di cose in questo Dipartimento, io fui uno di quelli, che mi distinsi tra i primi per il sincero attaccamento, e fu tale la mia condotta, che passato il primo triennio, e non avendo avuto tempo di sottrarmi dalle sante zanne dei reggenti austriaci imperiali, fui nella stessa mia patria per il solo titolo di supposto giacobinismo condannato alli 9 giugno 1800 alli ferri per 10 anni, dopo sette mesi di orribile carcere. Liberato dai ceppi, ritornato il nuovo sistema, avvicinai [134] sempre diverse Autorità; e siccome la mia professione di compositore tipografo mi somministrava scarsi mezzi di vivere, cercai impiego, ed ottenni quello di commesso protocollista nella sezione di polizia, con approvazione particolare di Governo, nel qual impiego rimasi sino a che le sezioni di polizia cessarono di appartenere alle municipalità... Per ben due volte sono stato ufficiale municipale ai registri civili, in tempo che vennero sospesi chi ne faceano le funzioni... Nella difficile impresa della coscrizione io venni scelto delegato in diverse ville, ed il Consiglio distrettuale encomiò in modo lusinghiero per me i miei portamenti, giacché ebbi la soddisfazione di persuadere con la voce non piccolo numero di gioventú contadina, che meco volontaria si prestò alla legge. L'amministrazione municipale mi onorò pure con eguale titolo per la formazione dei ruoli generali della città e borghi: operazione laboriosa, che di concerto coi signori parrochi fu da me compita; operazione che mi venne affidata, attese le locali mie cognizioni. L'amministrazione, da me pure lodevolmente tenuta, del Forno normale, interesse di qualche rilevanza, è degna pure di menzione, e ne presento il certificato dei conduttori pubblici. Non parlo del costante mio servizio nella Guardia nazionale fino dai primi momenti della sua istituzione; dirò solo che non dal voto di una Autorità, ma da quello d'un'intera scelta compagnia fui nominato primo tenente de' Cacciatori, e poscia per disposizione municipale, membro del Consiglio di disciplina. Della mia condotta politica niuna Autorità ha mai potuto dubitare, e sono sempre stato considerato per uno dei piú sostenitori, in patria, del presente sistema...». Questi servigi e queste benemerenze non valsero a persuadere la Direzione generale della polizia del Regno italico, la quale giudicando l'Uccellini improprio a ben coprire le incombenze di una magistratura di polizia revocò l'incarico di Ispettore di polizia in Ravenna, conferitogli nel gennaio 1807 dal commissario d'alta polizia nel dipartimento del Rubicone, Antonio Mulazzani. Tornò quindi al piú modesto ufficio di commesso municipale, che tenne sino alla morte, dalla quale fu colto nell'età di 62 anni nel 1834 — Il fatto dell'atterramento delle Croci, che commosse le anime pie dei buoni ravennati, non fu dopo la battaglia di Marengo, come credette l'autore, ma nel tempo della prima occupazione francese, e precisamente una notte del mese di aprile 1798: per [135] quel fatto furono arrestati il municipalista Tommaso Lovatelli, gli ufficiali e graduati della Guardia nazionale Giuseppe Severi, Domenico Montanari, Andrea Garavini, Antonio Casoni e inoltre Luigi Uccellini, Battista Pio e Gaspare Collina; ma il 20 aprile giunse da Milano l'ordine di annullare il processo, e gli arrestati furono rimessi in libertà (P. Raisi, Giorn. di Ravenna, ms. nella Classense).

III. I maestri dell'autore qui ricordati dovevano essere insegnanti privati; certo i loro nomi non si trovano tra quelli delle scuole annesse al Collegio, delle quali sta tessendo la storia il prof. P. Amaducci.

IV. Giuseppe Zalamella, eccellente avvocato romagnolo e buon patriota, fu fatto professore di giurisprudenza nelle scuole del Liceo-convitto, istituito in Ravenna per decreto del viceré Eugenio 21 marzo 1809, in luogo dell'antico Collegio dei Nobili; e tenne quell'insegnamento anche dopo la restaurazione del Governo pontificio sino al 1820.

Lasciati gli studi l'autore ebbe un modesto impiego di commesso nell'ufficio del Registro, sotto il proposto Filippo Spallazzi: in quest'ufficio ebbe compagno Giulio Fanti, che si legò all'Uccellini d'amicizia fraterna, ne sposò la sorella Reparata, e sovvenne lui e la famiglia nel tempo della prigionia e dell'esilio.

V. Questo e i seguenti capitoli sulla Carboneria meriterebbero una diffusa illustrazione; ma passo oltre per non ingrossar di troppo il volumetto. Solamente accennerò che a queste pagine sarebbero opportuno riscontro quelle che l'Uccellini pubblicò nel Diario Ravennate per l'a. bisestile 1864 (Ravenna, tip. Nazionale, 1863), pp. 7-17, col titolo di Persecuzioni politiche 1821-1825; e che se ne giovò opportunamente E. Masi per il suo studio sui Cospiratori in Romagna dal 1815 al 1859 (Bologna, Zanichelli, 1891).

VI. Luigi Ghetti, qui ricordato, era un sensale che curava gli affari di una sorella, maritata in Dragoni, proprietaria di una pila da riso nel suburbio di Ravenna: favoreggiatore dei liberali, fu intorno al 1850 economo delle Accademie filodrammatica e filarmonica; e caduto in povertà, visse sussidiato dai signori ravennati fin verso il 1875.

Piú nobile figura è quella di Andrea Garavini, introduttore [136] e capo in Ravenna della Carboneria: nato verso il 1775, esercitò l'arte del fabbro, e con la schiettezza dell'animo e la rettitudine della vita si rese familiare a molte persone di piú agiata condizione, tra le quali cominciavano a diffondersi idee liberali; prima ancora della prima venuta dei Francesi in Romagna nel 1796, ebbe a soffrire persecuzioni e fu costretto ad allontanarsi dalla patria, dove poi nel triennio della Cisalpina fu tra i piú caldi sostenitori delle idee democratiche: Andrea Garavini chiede vendetta contro li cospiratori; cosí è sottoscritto nella protesta del Gamba Ghiselli. Fuggí da Ravenna alla venuta degli Austriaci nel '99 e riparò in Ancona, donde il generale Monnier negli ultimi tempi della memorabile difesa (cfr. M. A. Mangourit, Défense d'Ancone et des départemens romains, le Tronto, le Musone et le Metauro, par le général Monnier, aux années VII et VIII, Paris, Pougens 1802) lo mandò nell'Italia centrale con una difficile commissione, quella di far giungere all'incaricato francese in Parma notizie certe della guarnigione franco-cisalpina assediata. Tornò quindi a Ravenna e fu arrestato e condannato a tre mesi di detenzione nel convento dei cappuccini; donde fuggí a Bologna. Dopo Marengo potè vivere tranquillo in patria e vi ottenne ed esercitò durante il Regno italico l'ufficio di usciere. Quando Murat alzò il grido d'indipendenza, il Garavini prese le armi e alla testa di cinquanta uomini scacciò da Sant'Alberto un distaccamento di Austriaci; ma fallito quel moto esulò in Francia, donde ritornò in patria alla fine del 1815, e vi campò lavorando come copista e contabile in aziende private. «Integerrimo sempre — cosí scrisse del Garavini chi lo conobbe (Diario ravennate per l'a. 1867, Ravenna, tipografia Angeletti, 1866, p. 39) — e fermo ne' suoi principi, e mal tollerando la tirannide clericale che rialzava la testa a danno comune, si associò alla sètta dei Carbonari che da Napoli erasi diffusa in tutta la penisola... Egli fu uno dei membri piú influenti della vendita ravennate, la diresse piú volte come presidente, ed impedí per quanto potè gli eccessi che lo spirito di parte facilmente allora promoveva, specialmente a motivo delle sevizie della polizia, ben ravvisando quanto essi erano di nocumento al paese ed alla causa che propugnava. Quindi respinse la proposta di un alto personaggio della vendita di Forlí, fattagli, sui primordi della restaurazione, sotto l'aspetto di atto patriottico, ma che tendeva, come bene egli s'accorse, a [137] favorire l'interesse della propria città a danno della nostra per la preminenza della Romagna. Era una vittima che il Forlivese voleva pel proprio altare. Si sa che gli offerse un cartoccio di monete d'oro per la esecuzione della proposta; ma il Garavini lo rigettò con sdegno, nell'istante che aveva dato da vendere due cavalletti di ferro per sopperire ad alcune urgenti provviste di casa: ciò che mostra sempre piú la nobiltà del suo animo. Un'altra volta egli fu eccitato a prender parte ad una congiura diretta a far soccombere il Legato della provincia, mediante una macchina infernale da porsi sotto la di lui carrozza. Il momento ed il luogo erano già scelti con molto avvedimento, la macchina stava in pronto e doveva scoppiare quando la carrozza movevasi. Ma il Garavini impedí che si effettuasse il disegno, facendo conoscere a chi l'aveva concepito, che atterrando l'uomo si reca non utile, ma danno al principio che si vuol far prevalere...». Scoppiata la rivoluzione del '31, il Garavini, valido ancora di forze e fresco di spirito, riprese le armi e fece parte come quartiermastro della colonna mobile ravennate che partecipò ai fatti di S. Leo, di Ancona e di Rieti; e spento quel moto, fu compreso nell'amnistia, sebbene negli anni di poi la polizia non cessasse mai di molestarlo. Nel 1848 fu uno dei presidenti del Circolo popolare e nel periodo repubblicano del '49 fu il vero idolo del popolo ravennate, che vedeva personificate in lui le tradizioni democratiche di piú generazioni. Restaurato di nuovo il Governo pontificio, il Garavini, che frattanto era stato eletto primo massaro della Casa Matha, diè tutta l'operosità sua all'amministrazione di quell'antichissimo istituto e «con animo ardito e costante i diritti della Società difese e rivendicò»: cosí attesta l'epigrafe inscritta sotto il suo busto scolpito da Enrico Pazzi nella residenza sociale. Morí il Garavini nel 1855, durante l'epidemia colerica, e la sua morte fu lutto dell'intiera città.

VII. La dimostrazione politica, cui fu occasione la serata della celebre cantante Rosa Morandi (morta nel 1824, cfr. Regli, Dizionario biografico dei piú celebri poeti ed artisti melodrammatici, Torino, 1860, p. 345) nel Teatro comunale di Ravenna, fu l'11 luglio 1820; e c'è a stampa una Raccolta delle composizioni poetiche pubblicate in occasione della sera di benefizio della celebre virtuosa di canto signora Rosa Morandi prima attrice nel Teatro di Ravenna l'estate MDCCCXX [138] (Ravenna, Roveri), dove sono rime di Paolo Costa, F. Mordani, I. Montanari e di piú altri in lode della Morandi e un programma descrittivo dei festeggiamenti straordinari (globi aereostatici, carriera di barberi, pioggia aurea al teatro, discesa di amorini e colombi, illuminazione a giorno per le vie, fuochi artificiali, ecc.) onde fu onorata.

IX. Nelle cit. Persecuzioni pol., p. 11, l'Uccellini aveva scritto: «Ravenna sin dall'istante che i Carbonari fecero un ultimo sforzo fuor di tempo sulle rive della Dora, aveva per legato il cardinal Rusconi, vescovo d'Imola, chiamato per derisione il cardinal Coccardina. Costui fu l'esecutore degli ordini esosi, emanati dalla Corte romana contra i liberali della provincia a lui soggetta. Le vessazioni s'iniziarono la notte del 13 luglio 1821. Orde di fanatici carabinieri, divise in diversi drappelli, guidati da quegli stessi sgherri che nell'anno addietro avevano bevuto coi patrioti alla salute d'Italia, invasero di notte ad ora avanzata le case dei pacifici cittadini, di quelli notati nel libro dei reprobi o registro dei sospetti. Dove gli sgherri penetravano era un guasto, una ruina, una desolazione. I mobili che non si potevano di subito aprire per investigare ciò che racchiudevano, venivano messi in pezzi: gli stramazzi, i pagliacci, gli origlieri, squarciati colle sciabole e minutamente frugati. Ed intanto altri sgherri si gettavano sulle persone da arrestare, le ammanettavano strettamente alla presenza degli esseri i piú cari al suo cuore; e per accrescerne lo strazio le maltrattavano orribilmente, onde le urla, i gemiti, i pianti echeggiavano d'ogni intorno. La rabbia fu maggiore contro gl'individui di una compagnia di cacciatori, denominata degli Americani, fattasi invisa al Governo per una cavalcata eseguita nel carnevale antecedente con tuniche e berrette rosse. Che dire di tale avversione? che i preti, i quali distinguono col color rosso i piú alti dignitari del lor rango, non vogliono che si adotti in cosa profana; perché si riputarono rei di leso Papato quelli che alla cavalcata appartenevano, e quasi tutti furono colpiti di arresto. Gli arrestati vennero in parte trascinati in lontane carceri, rinchiusi o per meglio dire seppelliti in orride segrete, in parte scacciati dal suolo natío ed in perpetuo condannati all'esiglio. Molte famiglie furono cosí travolte nella miseria e negli affanni; e non pochi giovani bene avviati nelle arti o nelle utili discipline, si videro [139] astretti, rimasti privi dell'aiuto de' congiunti, di ritirarsi dall'intrapresa carriera con sommo danno proprio, de' suoi e del paese. E chi può narrare in dettaglio tutti i mali che allora s'inflissero alle Romagne? L'odio contro la tirannide clericale non ebbe piú freno, s'infiltrò anche dove non era mai penetrato, ed estendendosi diede facil modo di riempire nella fila del Carbonarismo il vacuo avvenutovi per le sofferte persecuzioni. Allora nel rannodarle si presero migliori cautele, e si risolse di non dare piú ascolto alle insinuazioni dei moderati, che tanto nocquero alla causa dell'indipendenza, coll'aver impedito che si assalissero gli Austriaci nel loro passaggio per Napoli. — Non val meglio morire, esclamavasi, con un'arma in mano, che marcire in un fondo di carcere, o morire soffocato dal duro ed amaro pane dell'esiglio?»

Antonio Rusconi, nato in Cento nel 1743, fatto cardinale e vescovo di Imola da Pio VII l'8 marzo 1816, fu Legato di Ravenna dal 1820 al 1822, poi tornò al governo spirituale della sua diocesi, dove morí nel 1825.

XI. Agostino Rivarola, nato a Genova nel 1758 e morto in Roma nel 1842, governatore di Roma nel 1814 e prefetto della Congregazione del Buongoverno, promosso cardinale diacono di S. Agata alla Suburra da Pio VII il 1º ottobre 1817, fu fatto legato a latere della città e provincia di Ravenna, con breve 4 maggio 1824, nel quale si legge: «... frattanto, per le circostanze delle cose della sopradetta provincia, e per un enorme delitto stato commesso da non molti giorni, .... sembrando del tutto necessario alla testa di detta provincia la presenza di qualche persona decorata di dignità cardinalizia, e dotata di destrezza, ingegno e prudenza nel governare, onde possa coll'aiuto delle facoltà che Noi Le accordiamo, provvedere alla sicurezza e alla tutela degli abitanti della provincia, adoperando validi mezzi...» Il Rivarola, giunto a Ravenna il giorno 11 maggio, emanò subito i provvedimenti piú restrittivi della libertà personale; i quali si possono leggere nella ormai rara Raccolta di tutti gli editti, notificazioni, avvisi ed altro pubblicati dalla Legazione, Arcivescovato, Magistratura, ec. di Ravenna dalli 10 maggio a tutto dicembre 1824 (Ravenna, stamp. Roveri, in-8º, pp. 132). Ivi si ha (pp. 10-15)) l'editto generale del Rivarola del 19 maggio 1824, che reca al § 9 la seguente prescrizione: «Le Città, Terre [140] e Luoghi murati della Legazione sono tutti piú o meno illuminati, ma non quanto basta per la vigilanza ch'esigono: perciò ordiniamo e comandiamo che alla mezz'ora e di notte tutti individualmente, nessuno eccettuato, portino il lume, sotto pena di essere tenuti per sospetti, ed arrestati, e ritenuti a nostra disposizione.» — Il delitto cui accennava il papa nel breve di nomina, era l'assassinio accaduto il 5 aprile 1824 del conte Domenico Matteucci, direttore provinciale della polizia di Ravenna; su che si veda la nota al cap. XX. La chiusura delle bettole (non tutte, ma quelle sole «conosciute in Ravenna e Provincia sotto il nome di bettola a comodo, ch'è quanto dire a trattenimenti di scioperatezza ed intemperanza») fu ordinata con editto 12 luglio 1826 (Raccolta cit., p. 43-45).

Riguardo alle missioni, accennate dall'Uccellini, esse furono annunziate per 10 giorni, a cominciare dal 24 luglio 1824, con una notificazione dell'arcivescovo Antonio Codronchi, che le definiva «apostoliche fatiche dei fervorosi operai, chiamati dall'ottimo e saggio Principe che ci governa» (Racc. cit., p. 51); e seguí il 22 luglio un'altra notificazione del legato Rivarola (Racc., p. 53-55), che per assicurare la felice riuscita delle missioni prescriveva la sospensione di ogni pubblico spettacolo, la vigilanza della pubblica forza, la chiusura delle botteghe di qualunque specie e il divieto di lasciar entrare in chiesa i cani! Del resto chi volesse saperne di piú veda il breve e succoso scritto dell'Uccellini, I missionari del 1824 e l'Arcivescovo Codronchi nel Diario Ravennate per l'a. 1879 (Ravenna, tip. Alighieri, 1878, pp. 30-33), dove sono anche i Ricordi ironici che i missionari divulgarono a scherno dell'onorando prelato.

XII. Del modo onde furono condotti questi processi l'Uccellini scrisse anche nelle citate Persecuzioni pol., pagine 12-13, e con maggiori particolari che non siano quelli dati da L. C. Farini, Lo Stato romano dall'a. 1815 al 1850, libro I, cap. II, da F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, vol. I, capp. II e XVI e da C. Tivaroni, L'Italia durante il dominio austriaco, vol. II, pp. 153 e segg. È opportuno pertanto riferirne il tratto principale: «Intanto che la Carboneria riattivavasi, s'iniziavano i processi ai detenuti cogli elementi forniti dalle liste dei sospetti, compilate a capriccio dai devoti del Papato; dalle indicazioni raccolte dai birri sulla condotta degl'imputati; da alcune [141] denunzie di malevoli, suggerite spesso da spirito di vendetta o da altro perverso intento; tutti elementi respinti dalle sane massime della giustizia, quando non sono avvalorati da prove; ma di prove il Governo non faceva mai incetta nelle pendenze politiche: accusa e pena, ecco i due estremi pei suoi giudizi. Ciò posto, il modo di regolare i processi si trasse interamente dalle norme del Santo Offizio, e furono queste: torturare l'imputato con cibi scarsi e cattivi, con ferri, con carceri strette ed insalubri; poi sottoporlo ad esame; fargli travedere un miglioramento se addiveniva a confessioni; dargli a credere che già altri ne avevano emesse, onde si distogliesse da una insistenza inutile; porre in opera il direttore di spirito, o cappellano di carcere, se il primo tentativo rimaneva sterile; creare col di lui mezzo lettere di congiunti i piú prossimi, nelle quali si annunziassero gravi disgrazie, reclamanti la presenza del detenuto in famiglia; dargli a sperare l'uscita di carcere ed altri benefici, se si arrendeva; mostrargli il danno degli anatemi, in cui era incorso, ed assicurarlo dell'assoluzione per la salute dell'anima; temperare i rigori, se dava segno di piegarsi; porgergli ogni sorta di conforto se cedeva, ma in guisa che ciò fosse visibile agli altri detenuti, onde perderlo nella stima dei pertinaci e farlo servire d'eccitamento agli incerti; accrescere la tortura, se non si riusciva a domarlo. Un altro raggiro praticavasi dal Giudice istruttore, quando l'imputato gli compariva innanzi pei debiti costituti. Dopo alcune interrogazioni egli usciva, come per soddisfare ad un bisogno corporale, e lasciava nel suo posto il sostituto. Costui alzavasi tosto con affettata premura; chiudeva con cautela l'uscio, ed accostatosi al prevenuto, si protestava liberalissimo; anzi dichiaravasi esso pure carbonaro; dava i segni e le parole di convenzione; asseriva di prestar servizio alla tirannide a solo scopo di giovare a quelli che colpiva; si offriva pronto a recare al di fuori lettere ed incarichi ed esibivasi di dar l'occorrente per iscrivere. In carcere pure s'introduceva presso l'inquisito un liberale del genere del sostituto, che con accortezza cercava di ricavare quanto al Governo premeva di sapere....»

Documento insigne di questi processi e preziosa fonte di notizie per la storia del patriotismo romagnolo, è la famosa sentenza del cardinale Rivarola, 31 agosto 1825, la [142] quale, poiché ormai è piú agevole citarla che leggerla, riproduco qui dalla stampa originale: SENTENZA | PRONUNCIATA | da Sua Eminenza Reverendissima | IL SIGNOR | CARDINALE AGOSTINO RIVAROLA | LEGATO A LATERE | DELLA CITTÀ E PROVINCIA DI RAVENNA | Il Giorno 31 Agosto 1825. | SUGLI AFFARI POLITICI (Ravenna, Antonio Roveri e figli, in-4º gr. di pp. 29); la riproduco fedelmente quanto alla dicitura, salvo che i molti nomi dei condannati (perché se ne sappia finalmente la cifra esatta) segno con numeri progressivi e dispongo testo e nomi e punteggiatura in modo da agevolare la retta intelligenza del documento:

SENTENZA

Oggi 31. Agosto 1825.

Noi AGOSTINO di Sant'Agata alla Subburra, della S. R. Chiesa Diacono Cardinale RIVAROLA, della Città e Provincia di Ravenna Legato a Latere.

Nelle Cause che vertono tra il Fisco e gl'Individui qui sotto descritti, Carcerati, Contumaci o Assenti, Prevenuti di Congiura contro lo Stato e di altri delitti; proposte e discusse avanti di Noi nella qualità di Giudice per la definizione delle Cause stesse nelle quattro Legazioni e Delegazione d'Urbino e Pesaro, con special Breve straordinariamente delegato dalla Santità di Nostro Signore PAPA LEONE XII felicemente Regnante.

Pro Tribunali sedendo, Invocato il Santissimo Nome di Dio, ed avuta la sola Giustizia innanzi degli occhi, in virtú delle facoltà come sopra compartiteci, e sentito il parere dei quattro Signori Giudici da Noi scelti a comporre la Nostra Politico-Economico-Consultiva Congregazione,

Abbiamo emanato ed emaniamo il seguente Giudicato.

Letti e maturamente ponderati li Processi tutti della presente Causa, inclusivamente agli Atti contumaciali per vari dei Prevenuti prescritti ed eseguiti,

Letto il Ristretto di ciascheduno Imputato sui titoli di Delitto particolarmente a ciascuno di essi imputati,

Esaminate le eccezioni a propria discolpa da essi addotte, ed i documenti per loro parte fattici esibire,

Visti gli Editti di Segreteria di Stato 4 Gennaio 1739, 15 Agosto 1814, 11 detto mese 1815, 10 Agosto 1821 ed i Bandi Generali in osservanza nelle Provincie suddette, non che le Leggi Julia Maiest. e Cornel., ff. de Sicar.,

[143] Avuto riguardo alle Canoniche prescrizioni e consuetudini dei Tribunali dello Stato, nel giudizio di cui si tratta:

RITENUTO che costa pienamente dal Processo l'esistenza della Società Massonica nei Dominii Pontificii, infausto retaggio del cessato Regime, e che varie altre Unioni segrete dalle leggi egualmente proscritte, conosciute sotto la denominazione dei Guelfi, Adelfi, Maestri-Perfetti, Latinisti sin dall'anno 1815 si aggiravano in diversi punti dei Domini medesimi, ma specialmente annidassero in piú città e luoghi delle Legazioni, associando ai vessilli della Rivoluzione alcuni incauti abitanti delle medesime; che a queste Unioni susseguisse poscia quella dei Carbonari, la quale erettasi in grado di Superiorità sulle altre, concentrò a sé i loro piani ed i loro proseliti, e dopo avere attentato nel 1817 alla pubblica tranquillità nelle Marche, dirigendo principalmente le sue operazioni dalle Romagne, attese con ogni studio a propagare le sue massime distruggitrici dell'Ordine, e ad accrescer partito e seguaci in altre città e terre dello Stato colla diramazione dell'altre ad essa subalterne Unioni denominate della Turba, della Siberia, dei Fratelli-Artisti, del Dovere, Difensori della Patria, Figli di Marte, Ermolaisti, Massoni-Riformati, Bersaglieri, Americani, Illuminati, le quali Unioni ebbero principalmente occulta sede nelle quattro città di Cesena, Forlí, Faenza e Ravenna ripartite in Consigli, in Vendite, in Sezioni, in Squadre;

RITENUTO che tutte le suddette Società miravano allo sconvolgimento dell'Ordine Sociale e d'ogni buona Istituzione per sagrificar tutto all'ambizione, alla vendetta, alla rapina, allo spoglio, all'immoralità d'ogni specie ed all'irreligione, e però a questo fine rivolte, e profittando esse dei sconvolgimenti per opera dei Carbonari di Napoli e del Piemonte suscitati nel 1820 e 1821 in quelle due estreme parti d'Italia, impresero ad organizzare una Congiura contro lo Stato, per insorgere quindi all'opportunità in una generale rivolta, valendosi a tal uopo dei mezzi derivanti dalla Carboneria che solo intende al rovesciamento dei Legittimi Governi; che fu difatti questa Congiura portata al conato piú prossimo, mediante gli accordi presi tra i principali Settari Romagnoli, i quali furono il risultamento di piú Congressi tenuti da loro sul declinare del 1820 con principiare dal 1821 a Cesena, a Faenza, a Forlí ed in un Casino di campagna del Conte Ruggero Gambi di Ravenna, e tutto avevano curato di predisporre allo scoppio di una rivolta: avevan essi [144] a tale oggetto fatto ogni studio e diligenza onde aumentare in tutti i luoghi delle Legazioni il numero dei congiurati con frequenti associazioni alle Società d'individui di ogni classe e condizione, che in quelle provincie rapidamente l'una all'altra succedevansi; né si ommise d'imporre tasse pagabili da ciascun settario onde provvedere ai bisogni sociali, e furono designati appositi Cassieri a riscuoterle; erano già stati sedotti vari Impiegati addetti agli Officii del Governo, e piú individui nelle Milizie attive del medesimo avevan prevaricato; le nuove cariche civili, militari ed amministrative eransi assegnate; stampati proclami incendiari; pronunciato sul piano di rivolta; per ben due volte fissato il giorno agli orrori dell'anarchia; avvisati i Settari tutti onde fossero pronti allo scoppiare della Rivoluzione stoltamente progettata e preparata; distribuite loro armi e munizioni in antecedenza apprestate; decretato il rubamento e la manumissione delle pubbliche Casse, l'eccidio delle piú oneste persone, e approntato quant'altro agevolar potesse l'esecuzione dell'immaginata rivolta; e se queste disposizioni non sortirono il loro pieno effetto, ciò fu solo per circostanze del tutto estranee all'intenzioni dei Congiurati, che nello zelo e fedeltà dei buoni Sudditi ben dovettero scorgere un invincibile ostacolo ai pravi loro disegni;

RITENUTO che costa pure che come mezzi preparatorii all'esposto fine, onde alienare lo spirito pubblico dal suo legittimo Governo, piú fogli anonimi periodici insultanti la dignità e giustizia del medesimo, o de' suoi Rappresentanti, si fecero circolare per le Romagne e specialmente nella città di Forlí; che piú tumulti anche con resistenza alla pubblica forza, piú complotti e conventicole di faziosi, piú insulti e minaccie con scritti e fatti, vari ferimenti, omicidi o appensati o proditorii caduti a danno di onesti cittadini si riprodussero in quegli anni malaugurati in piú luoghi delle Legazioni, o in odio di parte o per fatto dei Settari, volti col loro criminoso procedere ad allontanare ogni ostacolo, tentando di sgomentare i buoni con misteriosi delitti nella quasi certezza di rimanere impuniti per lo spavento dei loro pugnali e per le coartate artificiosamente preordinate o prima o dopo il fatto col favore dei loro aderenti; che tutte le cose in fatto, come sopra eseguite e dedotte, oltre i fatti notorii, la pubblica voce ed opinione, le deposizioni testimoniali, l'esistenza di piú corpi di delitto, gl'indizi e legali [145] congetture, sono pure constatate in Processo da piú rivelamenti spontanei di Individui appartenenti alle stesse Segrete Unioni, dall'Impunità di altri di essi e dalle Confessioni in caput prop. d'irreflessibile numero di correi, e tra questi di vari Capi congiurati, giuridicamente negli atti ricevute in diversi luoghi e tempi, ma concordi tra loro e simultaneamente verificate;

RITENUTO poi che il Conte Giacomo Laderchi di Faenza, già Vice-Prefetto sotto il cessato Regime Italico, Carcerato, si è reso in cap. prop. confesso di pertinenza in gradi elevati a piú Sètte, ed in particolare alla Guelfia, alla Massonica ed a quella dei Carbonari; di avere procurato e fatto in effetto eseguire la propagazione delle medesime nelle Legazioni, operando in concorso di altri principali Settari che fosse stabilito a Faenza un Consiglio Guelfo ed una Vendita Carbonica e susseguentemente che si riaprissero anche le Loggie e Templi Massonici; di essere intervenuto e di avere assistito a piú Recezioni massoniche e carboniche, a piú Adunanze e Congressi di congiurati a Faenza nella propria sua abitazione ed in quella dei consettari Giuseppe Benedetti e Carlo Villa, a Cesena nella casa dell'ex ufficiale Sante Montesi e nel Casino di Luigi Bassetti, a Forlí in casa del conte Orselli e di Scipione Casali e nel Casino di campagna del conte Ruggero Gamba di Ravenna per discutere sui piani della rivolta e stabilire il giorno alla esplosione della medesima; di avere assunto il grado di uno dei quattro Membri del cosí detto Consiglio Superiore Carbonico nelle Romagne insieme al nominato conte Orselli, a Vincenzo Gallina di Ravenna, a Mauro Zamboni di Cesena; di essersi mantenuto in stretta relazione con tutti i principali Settari delle Legazioni e con vari altri anche di estero Stato; confessione che in seguito maliziosamente tentò di ritrattare, senza però addurre o giustificare alcuna causa di errore, rimanendo invece una tal confessione pienamente verificata dal concorso di legali prove, indizi e congetture ed in particolare da piú manifestazioni spontanee di piú Consettari e dall'incolpazione di vari altri di essi ammessi al beneficio dell'Impunità ed infine dalle confessioni in capo proprio di piú correi e capi della Sètta e congiura sostanzialmente verificate;

che Onofrio sedicente Luigi Zuboli nativo di Ravenna, già fornitore carcerario a Bologna, ora domiciliato a Forlí, carcerato, è convinto della stessa pertinenza in grado superiore [146] a piú segrete Società, ma particolarmente alla Carboneria e Massoneria; di avere cooperato alla propagazione in Bologna della prima ed alla riforma della seconda, facendo che si riaprissero anche in quella città i Templi Massonici; di avere tenuto una corrispondenza colle principali Vendite Carboniche delle Romagne e con altri Capi Carbonari delle Legazioni per l'effetto della rivolta; d'intervento a piú Unioni e Congressi con altri Carbonari a Bologna e Forlí per l'effetto stesso; di aver dato accesso e comodo per le riunioni stesse nella propria abitazione; di avere nel tempo della guerra tra i Costituzionali di Napoli e gli Eserciti Imperiali eccitati i Carbonari delle Romagne perché irrompessero in una generale rivolta contro il legittimo Governo, promettendo ai medesimi l'appoggio dei settari bolognesi, dei quali egli spacciavasi alla testa;

che Gaetano del fu Giovanni Baldi di Faenza, ufficiale pensionato della disciolta Armata italiana, carcerato, rimase convinto di appartenere anch'egli alla Carboneria ed all'altra Unione degl'Illuminati, essendo segretario della Vendita; di piena intelligenza e cooperazione con gli altri soci nei propositi e piani di congiura; d'intervento a piú recezioni settarie seguite nel 1820 e 1821 a Faenza; di direzione nei complotti e conventicole notturne dei faziosi di quella città; urgentemente indiziato di correità nell'omicidio premeditato seguito in odio di partiti a Faenza per fatto di una conventicola armata di faziosi sulla pubblica strada del Corso la sera del 29 decembre 1820 mediante esplosione di piú armi da fuoco, a danno del vetturino Sante Bertazzoli detto Santetto della Posta;

che Vincenzo Succi, negoziante di Faenza, contumace, convinto Carbonaro, di aver dopo gli arresti ed esili del luglio 1821 seguiti a Faenza di piú Carbonari, occupato il grado di Reggente, conservando presso di sé li Statuti, arredi ed Emblemi Carbonici, nel qual grado mantenne continuamente viva l'effervescenza ed il partito, ascrivendo nuovi proseliti alla Sètta; di avere nella qualifica stessa mandato l'omicidio di Francesco Gamberini, figlio del già Gonfaloniere di Castel Bolognese per esser questi in voce presso i settari d'essersi ritirato dalla società; e questo omicidio fu consumato nella anzidetta terra di Castel Bolognese nella casa del medesimo Gamberini, con qualità anche di prodizione, per opera del settario contumace Pietro Barbieri la sera del 2 aprile 1822 mediante esplosione d'arme da fuoco;

[147] che il nominato Pietro Barbieri soprachiamato Civilino di Castel Bolognese, scrittore e musicante, contumace, oltre esser convinto di appartenere alla Sètta, è provato che istigasse non senza effetto piú individui acciocché si ascrivessero alla medesima, che assistesse a varie recezioni, che avesse piena conoscenza e che cooperasse alla congiura, non che di aver mantenuta stretta relazione con i principali settari di Faenza, è rimasto anche gravato in complicità dell'altro settario contumace Marco Pezzi di appensata esplosione notturna d'arme da fuoco per spirito di parte contro il custode carcerario di quella terra Giuseppe Gentilini; è convinto qual autore principale dell'omicidio proditorio di Francesco Gamberini; indiziato anche gravemente di complicità nell'avvelenamento di alcuni biscottini fatti appositamente preparare nel caffè detto della Speranza di Faenza e da lui col mezzo di altro settario propinati all'ucciso la stessa sera poco prima dell'avvenuto omicidio;

che contro Battista Franceschelli detto Carrozza, causidico di Castel Bolognese, carcerato, risulta provata la sua pertinenza alla Sètta degl'Illuminati; di esser con effetto stato causa che altri si ascrivessero alla medesima, assistendo alla loro recezioni; di mantenuta relazione con i principali Carbonari di Faenza e di altri luoghi delle Legazioni; gravato pure di complicità nell'esimizione dalle mani della forza dei carabinieri dei consettarii Giuseppe Budini e Marco Pezzi arrestati nel luglio 1821, e finalmente convinto di correità nel citato omicidio Gamberini essendo risultato dal processo uno dei principali istigatori ed accaloratori del medesimo; gravemente anche indiziato d'aver provveduto una certa quantità d'oppio col quale furono attossicati gl'indicati biscottini che come si è detto furono apprestati all'ucciso;

che Francesco Garaffoni soprachiamato Barchetta di Cesena, contumace, dalla concorrenza di tutte le prove ed indizi cumulati in processo a suo carico, rimase convinto qual autore dell'omicidio, colle gravanti qualità di mandato, avvenuto in odio di parte la sera del primo aprile 1822 a Cesena mediante colpo di stile a danno del cavaliere Don Angelo Bandi, per il qual delitto si rese immediatamente fuggiasco e si mantiene tuttora contumace; indiziato anche gravemente di appartenere alle Società degli Ermolaisti, che esisteva in quella città;

abbiamo perciò condannato e condanniamo i nominati 1. conte Giacomo Laderchi; 2. Onofrio Luigi Zubboli; 3. Gaetano [148] Baldi; 4. Vincenzo Succi; 5. Pietro Barbieri; 6. Battista Franceschelli; 7. Francesco Garaffoni, come rei di alto tradimento o di altri delitti capitali alla pena dell'ULTIMO SUPPLIZIO.

Abbiamo inoltre dichiarato e dichiariamo come convinti settari e gravati di complicità nel delitto di congiura i seguenti individui; ma in vista di una piú o meno diretta ed efficace cooperazione nel medesimo e di una qualche circostanza piú o meno attenuante condanniamo i medesimi, cioè: 8. Pier Maria Caporali del morto Luigi, di Cesena, possidente, confesso di essere stato Visibile nella Sètta dei Carbonari, istitutore dell'altra segreta Società dei Fratelli-artisti e del Dovere, di aver mantenuta una stretta relazione con tutti i principali capi Carbonari delle Legazioni, di essere intervenuto al congresso tenuto a Cesena nell'agosto 1820 dai membri del Comitato centrale per trattare i piani di rivolta; 9. conte Odoardo Fabbri possidente, di Cesena, gravato ancora come uno dei principali autori di libello e calunnia a pregiudizio della giustizia e pubblica estimazione dei primi magistrati della provincia di Forlí, accusando questi, per giovare alla causa di piú detenuti settarii, di avere con false imputazioni a loro carico le politiche misure di arresto del 10 luglio 1821, del qual delitto si rese confesso limpidamente il correo Pietro Magnani di Ravenna, palesando che ad istigazione del prevenuto conte e da lui lusingato della sua mediazione per essere liberato dal carcere, ov'era condannato per titoli di truffa, trascrivesse piú fogli contenenti fatti inventati e calunniosi diretti a dimostrare l'ingiustizia degli arresti e la loro provocazione con dette imputazioni, quali fogli ricevuti dal prevenuto furono da lui diretti alla Segreteria di Stato; ricevimento e direzione nemmeno da esso impugnata, avendo di piú confessato di averli accompagnati al Supremo Dicastero con suo particolare scritto di alcune osservazioni onde fossero da quello vieppiú valutati; confessione rimasta verificata coll'altra del correo Magnani, coll'esistenza negli atti dei detti scritti riconosciuti legalmente ed identificati dagli autori de' medesimi, coll'insussistenza dei fatti in essi fogli contenuti e con altri indizi e legali risultanze, che assicurano della sua colpabilità, anche per questo titolo; 10. dottor Luigi Montallegri del fu Giovanni, di Faenza, medico militare reduce dalle disciolte armate d'Italia, pensionato; 11. Francesco Torricelli del fu Giovanni, possidente, di Meldola, [149] gravato ancora di aver favorito in corrispondenza con settari di estero dominio la fuga dallo Stato di piú soci rei di piú atroci delitti col mezzo di falsi passaporti, uno dei quali venne ad esso perquisito nell'atto del suo arresto; sospetto inoltre di mandato nell'omicidio del suo germano Filippo Torricelli seguito a Meldola la sera 11 marzo 1823; 12. Carlo del fu Matteo Balboni di Faenza, domiciliato a Forlí, ufficiale reduce in pensione; 13. cavalier Sante Montesi di Cesena, ufficiale reduce in pensione; tutti carcerati; alla detenzione in perpetuo in un Forte dello Stato.

14. Ruggero conte Gambi di Ravenna, del vivente Paolo, possidente; 15. Mauro Zamboni del morto Ferrante, possidente, di Cesena; 16. Luigi del fu Cesare Petrucci di Forlí, avvocato, contro del quale non mancano pure negli atti gravi sospetti che all'epoca ch'era egli Reggente della Vendita Carbonica a Forlí venisse da questa ordinato l'omicidio del banchiere Manzoni; 17. Giovanni del fu Domenico Gurioli di Forlí; negoziante, carcerati; 18. Luigi Bassetti di Teodorano, possidente, dimorante a Cesena, contumace; 19. Giovanni del fu Carlo Ghiselli di Forlí, locandiere; 20. Ermenegildo di Luigi Perlini di Cesena, archibugiere; 21. Antonio del fu Alberto Croci di Meldola, avvocato, dimorante a Forlí; 22. Antonio del vivente Pietro Gherardini, detto Buracina, di Ravenna, oste; 23. Girolamo Deny, nativo di Grenoble, in Francia, arruotino, domiciliato a Ravenna, gravato anche di aver provvisto armi, ed arruolati quantità di stili per gli Americani di Ravenna, del qual delitto si rese qualificatamente confesso; 24. Giovanni del vivente Domenico Barduzzi di Brisighella, postiere di lettere, gravato di enormi bestemmie, di sediziosi discorsi contro il Governo ed insultanti sproloqui contro l'Augusta Persona del Capo Visibile della Chiesa; 25. Mariano del vivente Domenico Savini, detto l'Oste delle Chiavi, di Faenza, gravemente sospetto ancora nel già ricordato omicidio del vetturino Sante Bertazzoli; 26. Gaetano conte Benati del fu Domenico, di Bologna, possidente, oltre essere Reggente di una Vendita Carbonica in quella città, gravemente indiziato ancora complice nel ferimento qualificato seguito per opera di alcuni settari nella città suddetta la sera 28 marzo 1821 a danno del cavaliere Giacomo Greppi; tutti carcerati; alla detenzione in un Forte come sopra per anni venti.

27. Camillo conte Laderchi del vivente Giacomo, di Faenza, confesso di pertinenza alla Carboneria e Massoneria ed alla [150] Società degli Illuminati, essendo stato di questa ultima anche Maestro, e di relazione e corrispondenza cogli altri settari delle Legazioni; confessione da lui poscia tentata di revocare, senza però addurre o giustificare alcuna causa di errore, essendo invece questa stata a suo carico verificata dal complesso delle risultanze processuali ed in particolare da piú confessioni di altri correi; 28. Francesco del fu Giovanni Pasotti d'Imola, ufficiale reduce pensionato; 29. Giuseppe Budini del fu Domenico, detto Zampetta, di Castel Bolognese; 30. Sebastiano Montallegri del fu Giovanni, di Faenza, ufficiale reduce in pensione; 51. Domenico del fu Giovanni Garavini, detto Mingone, di Castel Bolognese, fornaro, indiziato ancora di complicità nell'omicidio di Francesco Gamberini suddetto; 32. Andrea del vivente Sebastiano Baroncelli di Faenza, ex gendarme del cessato regime; 33. Teodoro del vivente Domenico Tabanelli, oste e pizzicagnolo, di Faenza; 34. Battista Tabanelli, germano del precedentemente nominato, di Faenza, gravemente ancora sospetto di complicità nell'omicidio del nominato vetturino Bertazzoli; 35. Francesco del vivente Marco Baldassarri, detto Chiccoia, di Faenza, gravemente indiziato ancora di avere accettato da alcuni settari il mandato per uccidere un pubblico funzionario di Castel Bolognese, sospeso poi per fini particolari dal Reggente della Società; 36. Giacomo del fu Domenico Batuzzi di Ravenna, possidente; 37. Giacomo del fu Vincenzo Ravaioli, possidente, di Forlí, maestro di scherma, tutti carcerati; 38. Domenico Profili di Faenza, detto Mingone, caffettiere della Speranza, contumace; alla detenzione come sopra per anni quindici.

39. Antonio Biancucci di Meldola, possidente; 40. Francesco di Giovanni Zoli di Forlí, possidente; 41. Pietro del fu Anacleto Raboni di Casumaro, domiciliato a Bologna; 42. Pier Paolo del fu Giovanni Pasquali di Forlí, medico; 43. Massimino Morosi del vivo Carlo, di S. Laudecio, avvocato: 44. Paolo Perlini del vivente Ermenegildo, di Cesena, pittore; 45. Vincenzo del fu Battista Zoli di Forlí, possidente; 46. Domenico del fu Giuseppe Monti, maniscalco di Faenza: 47. Antonio Carpegiani, sopradetto Faro, del fu Cristoforo, falegname, di Castel Bolognese; 48. Giovanni del fu Domenico Calura di Ravenna, fornaio; 49. Giovanni del vivente Pietro Bandini, detto della Pozza, di Faenza, canepino: 50. Giacomo del fu Girolamo Sangiorgi, sopra chiamato dei Boschi, di Faenza, oste; 51. Bartolomeo del vivente [151] Francesco Venturi di Faenza, mugnaio; 52. Vincenzo del fu Pietro Gamberini di Ravenna, possidente; 53. Giuseppe del fu Francesco Boesmi di Faenza, falegname; 54. Domenico del fu Giovanni Maioli, detto Bargamino, di Ravenna, oste; 55. Gaetano del fu Domenico Mazzesi, detto Babalotto, locandiere, di Ravenna, ambedue questi ultimi gravemente indiziati ancora di doloso confugio ed occultazione alle indagini della Giustizia dell'autore del ferimento del già ricordato cavaliere Giovanni Greppi di Bologna; 56. Lorenzo del fu Matteo Zuccadelli di Ravenna, scavapozzi; 57. Giovanni del fu Domenico Bassi, detto Giuracco, macellaio, di Ravenna; 58. Romualdo del fu Domenico Cavalieri, bottaro, di Ravenna; 59. Giuseppe del fu Lazzaro Magni di Forlí, domiciliato a Bologna, prevenuto ancora di complicità nel ferimento Greppi; tutti carcerati; alla detenzione in un Forte come sopra per anni dieci; ordinando che rapporto al Magni per il titolo di complicità nel ferimento sia ritenuto come dimesso col precetto novis vel non novis.

60. Giuseppe Capra del morto Luigi, di Castel Bolognese, tintore, carcerato, alla detenzione in un Forte per anni sette.

61. Luigi Poletti del quondam Michele, di Modena, Custode sospeso delle carceri di Forlí, sospetto ancora di prestati favori a danno della Giustizia a piú detenuti settari commessi alla sua custodia; 62. Gabrielle del fu Luigi Spada, sensale, di Faenza, condannato anche per altro titolo in Imola; 63. Giuseppe Bertolotti Vigna, ufficiale reduce in pensione, di Bologna, imputato puranco di complicità nel suddetto ferimento Greppi, carcerato; alla detenzione in un Forte come sopra per anni cinque, dichiarando inoltre perpetuamente inabilitato il Poletti ad esercitare l'officio di Custode carcerario nello Stato e che rapporto al Bertolotti non costa della sua colpabilità per il titolo del ferimento suddetto.

Attese le loro pessime qualità e per essersi anche resi debitori piú e meno alla Giustizia e gravati per altri delitti, oltre i già accennati, in vece della detenzione in un Forte abbiamo condannato e condanniamo: 64. Giuseppe Toschi, detto il Rosso della Topa, del fu Antonio, muratore; 65. Giovanni di Giuseppe Morini, soprachiamato Morinino, sensale; 66. Pietro Tonducci del fu Nicola, detto il figlio di Sant'Orsola; di Faenza, carcerati, gravati di aver fatto parte delle conventicole notturne armate dei faziosi, che inquietarono [152] nell'anno 1820 e 1821 quella città; urgentemente indiziati complici nelle ferite con appensamento seguite a Faenza a danno di Francesco Manini soprachiamato Baluga, per spirito di partito, la sera del venti maggio 1820, e nell'omicidio superiormente ricordato del vetturino Bertazzoli; diffamati nella pubblica opinione quai sicari della Sètta; risultando di piú dagli atti il nominato Morini non leggermente sospetto d'intelligenza e preordinazione nell'altro omicidio qualificato seguito in detta città la sera del 29 luglio 1820 a danno del Sacerdote Don Domenico Montevecchi, ed il Tonducci gravemente sospetto pure di aggressione e d'insidia a causa di partito contro piú individui della città di Faenza reputati di contraria opinione; 67. Giuseppe Marini di Faenza, impiegato al Canal Naviglio, contumace, gravato in processo di complicità nel proditorio omicidio del mentovato Francesco Gamberini, risultando dal complesso degli atti preordinatore ed accaloratore dell'omicidio medesimo e di essersi in specie piú volte egli recato a mezza strada di Faenza, ai cosí detti Stradoni di Lugo, nei giorni precedenti al delitto per trattare e predisporre il medesimo coll'uccisore Pietro Barbieri; 68. Giacomo Pediani, detto Sgrappagnello, di Castel Bolognese, falegname, già condannato per l'altro titolo di fuga qualificata dalla Rocca d'Imola, gravato pure della stessa intelligenza e preordinazione dello stesso omicidio Gamberini e di complicità nel tentato veneficio, di cui si è tenuto proposito parlando del condannato Barbieri; essendosi dalle circostanze processuali rilevato che egli giuocasse al Caffè di Castello coll'indicato Barbieri alcuni biscottini, onde frammischiarli fra quelli fabbricati a Faenza con sostanza venefica, per trarre in inganno l'ucciso; 69. Vincenzo Rossi, sopranominato Coltellaccio, di Forlí, caporale di finanza, contumace, gravato nella qualità di capo della Turba di Forlí di avere preso parte attiva nelle conventicole di faziosi e nei tumulti delle sere 3 e 19 marzo 1821 con insulti e resistenza alla pubblica forza; di fuga qualificata dal Forte di Pesaro avvenuta la notte cinque marzo 1822; e di essere non leggermente sospetto negli omicidi Lolli e del banchiere Manzoni di quella città; 70. Girolamo Bellenghi, detto il Mongo, del vivente Raffaello, di Faenza, archibugiere, carcerato, gravato di aver fatto parte qual fazioso nelle conventicole armate; di aver costrutto quantità di cartucce per la Sètta, avendone sottratte da circa trecento mazzi delle già preparate alle indagini [153] della Giustizia nell'atto che praticavasi da questa una perquisizione; di attentati ed insidie alla vita di persone reputate di opposto partito; 71. Pietro di Giuseppe Berti, di Faenza, carcerato, gravato ancora di ferimento qualificato con pericolo di vita in pregiudizio di Giuseppe Numai di Forlí, dimorante allora a Faenza, seguito per spirito di parte in quella città la sera del 12 marzo 1821 mediante colpo di pistola; 72. Michele del fu Giovanni Antonioli di Cesena, impiegato a Forlí, contumace, gravato di complicità negl'indicati tumulti delle sere 3 e 19 marzo 1821; di avere attentato per spirito di parte alla vita di piú persone; convinto di duplice fuga qualificata dal Forte di Pesaro, ove era detenuto; 73. Giuseppe del fu Domenico Dassani, soprachiamato Fenina, rigattiere, di Forlí, carcerato, gravato ancora di aver fatto parte dei tumulti nelle ripetute sere 3 e 19 marzo 1821 e delle conventicole notturne armate, che, come piú volte si è detto, inquietavano anche la città di Forlí negli anni 1820 e 1821; di essersi pubblicamente appalesato per uno dei piú esaltati per la rivoluzione; 74. Bartolomeo del fu Giovanni Rondini, detto Balasso, di Forlí, locandiere, contumace, gravato anch'egli di avere avuto parte attiva nei citati tumulti delle sere 3 e 19 marzo, nell'ultimo de' quali si era fatto direttore della turba dei faziosi; di ritenzione di deposito d'armi per i settari; di qualificata evasione per ben due volte dal Forte di Pesaro; 75. Marco Pezzi, detto Marchino, di Castel Bolognese, senza mestiere, contumace, prevenuto ancora di esplosione d'armi da fuoco con appensamento, in complicità del contumace Pietro Barbieri, seguita la notte del 21 maggio 1821 in quella terra in odio di partito a danno del custode carcerario Vincenzo Gentilini; alla Galera in perpetuo.

76. Luigi Giulianini, detto il Matto Sarto, del fu Giuseppe, di Cesena, calzolaio, gravato di complicità nell'omicidio del ricordato cavalier Don Angelo Bandi di Cesena, alla stessa pena della Galera in perpetuo, e colla stretta custodia, attese le parziali gravanti circostanze a suo carico.

77. Cesare del fu Girolamo Berghinzoni, possidente, di Ravenna, gravemente indiziato ancora di preordinazione del qualificato omicidio accaduto a Ravenna pel solito spirito di parte nella sera degli 8 decembre 1820 sulla pubblica strada che conduce al Quartiere di S. Vitale a danno dell'in allora Comandante della Piazza, capitano Luigi Del Pinto; complicato [154] in altri gravi delitti e pubblicamente diffamato per la sua pessima condotta; 78. Agostino Venturi, detto Longanesi, nativo di Russi, officiale reduce in pensione, contumace; 79. Antonio Morri di Faenza, possidente, contumace; 80. Gio. Battista Orioli del vivente Luigi, di Faenza, impiegato alle porte, carcerato; 81. Angelo del fu Paolo Baldini, sartore, di Faenza, carcerato; 82. Francesco del vivente Giuseppe Bettoli, detto Boldura, carcerato; 83. Giuseppe del fu Giacomo Rusconi, imbianchino, di Faenza; gravati tutti ancora di complicità nel piú volte ricordato omicidio qualificato del vetturino Sante Bertazzoli, e di aver fatto parte nelle conventicole armate dei faziosi, rimanendo a particolar carico del Rusconi succitato gravi sospetti di preventiva intelligenza nell'altro omicidio del Sacerdote Montevecchi; 84. Michele Bettoli di Faenza, del vivente Giuseppe, calzolaio, contumace, convinto di ferimento con premeditazione per spirito di parte contro il giovane Francesco Mamini, che assalí la sera del 20 maggio 1821 sussidiato da altri settari nella propria abitazione e precisamente nella camera ad uso di cucina, per il qual delitto si rese immediatamente fuggiasco, rimanendo tuttora contumace; gravemente indiziato di ferita semplice a danno di Domenico Lama e di attenti alla sicurezza di altri individui di quella città reputati di contrario partito; 85. Francesco Borghi, detto Chiccoia della Zucchina, merciaio, di Faenza, carcerato, convinto di aver fatto parte delle conventicole dei faziosi e di complicità nel predetto ferimento Mamini, come ausiliatore al principal feritore Michele Bettoli preaccennato; 86. Francesco del vivente Giovanni Mantellini, detto l'Appuntatore, di Faenza, carcerato, convinto ancora di ferimento qualificato con pericolo di vita seguito a Faenza la sera del 9 decembre 1820 in odio di partito a danno di Michele Ghirlandi di quella città; 87. Giosuè del fu Sebastiano Monti, faentino, calzolaio, carcerato, gravato di aver avuto parte attiva nelle conventicole dei faziosi; di ferite semplici a danno di Luigi Ravaioli; di complicità nell'aggressione ed attentato alla vita di una guardia di polizia la sera del 26 novembre 1820; non leggermente anche indiziato di correità nell'omicidio Bertazzoli; 88. Antonio di Lorenzo Severi di Forlí, computista; 89. Ciro del fu Pellegrino Bratti, di Forlí, falegname; 90. Giuseppe del fu Luigi Cantoni, di Forlí, ebanista; 91. Luigi di Natale Taraborelli, di Forlí, fattore di campagna; carcerati, gravati [155] di aver fatto parte nelle conventicole armate e nei tumulti delle sere 3 e 19 marzo 1821, gravemente pregiudicato nella pubblica opinione per delitti, rimanendo inoltre a carico esclusivo del Taraborelli la complicità anche dell'altro tumulto insorto nel pubblico Teatro di quella città nell'autunno 1820; 92. Giuseppe di Ermenegildo Paolini, di Cesena, maestro di lingua francese, carcerato, convinto ancora di fuga qualificata dal Forte di Pesaro, che effettuò la notte del 5 marzo 1822, ed indiziato pure di aver procurate armi per i settari; alla pena della Galera per anni venti.

93. Antonio del fu Domenico Dessani di Forlí, oste, carcerato, convinto inoltre di doppia fuga qualificata dal Forte di Pesaro, ov'era egli custodito con altri detenuti politici; di delazione d'arme proibita, quo ad omnia; gravemente indiziato d'insulto a piú individui reputati di opposto partito; 94. Lattanzio del fu Domenico Ferali di Forlí, pettinaro, convinto di correità nel tumulto della sera 3 marzo 1821, sospetto anche in altri delitti; 95. Sebastiano Vignuzzi, detto Bastianino, fabbro ferraio, di Ravenna, condannato per proditorio ferimento a sette anni, convinto pure di fabbricazione di stili per la Sètta degli Americani di Ravenna, sospetto in altri gravi delitti; 96. Giuseppe del vivo Antonio Carrara di Cesena, cursore camerale, carcerato, gravato di complicità nel delitto di libello famoso in concorso del conte Odoardi Fabbri di Cesena, di cui precedentemente si è fatto menzione; alla Galera per anni quindici.

97. Giuseppe del vivente Gaetano Gardenghi, soprachiamato l'Imperator Superbo, di Faenza, sartore; 98. Natale di Sante Mattarelli, cuoco, di Faenza, 99. Francesco del fu Vincenzo Caldesi, spacciatore di sali e tabacchi, di Faenza, carcerati; gravati di aver presa parte attiva nelle conventicole e complotti dei faziosi; gravemente indiziati ancora nel tante volte mentovato omicidio del vetturino Bertazzoli; 100. Giovanni del vivente Luigi Carrara di Ravenna, carcerato, convinto inoltre di aggressione con stilo ed attentato alla vita del garzone di molino Pietro Morigi Strocchi a motivo che avesse questi sparlato degli Americani, del qual fatto si rese colpevole nella Quaresima 1821 di pieno giorno sulla strada detta di S. Mamante; 101. Carlo del vivente Tommaso Cappuccini di Forlí, senza mestiere, carcerato, indiziato gravemente anche nel ferimento a danno di Stefano Piolanti accaduto a Forlí la sera 14 marzo 1821 ed insulti ad altri individui in odio di partito; 102. Antonio [156] di Luigi Assiari, maniscalco; 103. Luigi del fu Domenico Gambi, fattore di campagna; 104. Giuseppe del fu Francesco Assiari, pizzicagnolo; 105. Battista del vivente Giuseppe Savelli, vetraro; 106. Pellegrino del quondam Marco Gaudenzi, cappellaro; 107. Francesco del fu Antonio Gandolfi, staderaio; 108. Giuseppe del fu Antonio Acquisti, dedito a' studi: 109. Pietro del vivente Giuseppe Feralli, sartore; 110. Felice Feralli del vivente Giuseppe, sartore; 111. Vincenzo del fu Antonio Saragoni, tutti di Forlí, carcerati, gravati di complicità nei tumulti e conventicole notturne di faziosi superiormente descritte; 112. Domenico Serti del vivente Cristofaro, arruotino, carcerato, gravato anch'egli di aver fatto parte del tumulto nella sera 3 marzo 1821 e di aver ridotto piú fioretti da scherma ad uso di stilo per i settari; alla Galera come sopra per anni dieci.

113. Domenico Parentelli di Cesena, sartore; 114. Vincenzo Stefani, detto Paggetto, del morto Petronio, di Cesena, contumace, convinti ancora di fuga qualificata presa nella notte 25 agosto 1823 dal Forte di Pesaro ov'erano custoditi con altri detenuti politici; 115. Luigi del fu Francesco Assiari di Forlí, pizzicagnolo, gravato di correità nei tumulti 3 e 19 marzo 1821 nei quali a suo favore concorsero però circostanze attenuanti la mancanza; alla Galera per anni sette.

116. Domenico del fu Francesco Celli, fornaro, di Ravenna, carcerato, gravato di complicità nell'aggressione e minacce ad necem a danno del sopranominato Pietro Morigi Strocchi, in concorso del sopracitato Giovanni Carrara, alla Galera per anni cinque.

Abbiamo poi condannato e condanniamo alle seguenti pene piú miti in riflesso delle circostanze che piú o meno diminuiscono la gravezza del reato i sottodescritti imputati: 117. Gio. Battista Segorini del fu Antonio, guardiano di campagna, condannato recentemente per omicidio e tradotto a scontar la pena; 118. Luigi Segorini, figlio del sopranominato Gio. Battista, anch'esso guardiano di campagna, minore di età, carcerato; 119. Antonio Orioli del vivente Giuseppe, beccaio, di Ravenna, carcerato; gravemente indiziati di pertinenza alla Sètta degli Americani e di essersi pubblicamente negli anni 1820 e 1821 fatti conoscere esaltati per la medesima, alla Galera per anni tre il primo cioè Gio. Battista Segorini, ed alla detenzione in un Forte per un anno gli altri due.

Confermiamo il precetto di esilio, col quale furono espulsi [157] dallo Stato: 120. Vittorio Arrigotti piemontese, fabbricatore di nitri e polveri a Forlí; 121. Costanzo Magliano, dei stessi Stati di Piemonte, impiegato in detta città; gravati ambedue di avere appartenuto alla Sètta dei Carbonari, essendo il primo negli atti gravemente indiziato ancora di fabbricazione di quantità di polvere sulfurea per fornirne i rivoltosi, e di aver facilitata l'evasione di vari inquisiti per delitti politici dalle Romagne e di averne procurati i mezzi per la via di Toscana; ordinando la loro perpetua espulsione dai Domini pontifici sotto pena di anni dieci di Galera nel caso che infrangessero il divieto d'esilio contro loro emanato, da incorrersi irremissibilmente anche alla prima sola contravvenzione.

Abbiamo dichiarato e dichiariamo come bastantemente puniti col sofferto carcere od esilio ed assoggettati al Precetto politico-morale di prim'ordine: 122. Giacomo Cicognani, sopranominato il Lampo, di Ravenna, domestico; 123. Angiolo Emiliani di Faenza, tintore; 124. Carlo Berti, calzolaio; 125. Paolo Poggi causidico; 126. Giuseppe Baldrati, detto Titira, calzolaio; 127. Giuseppe Conti, oste; 128. Vincenzo Sangiorgi, oste; 129. Giovanni Caselli, oste; 130. Sebastiano Placci, scrittore, tutti di Faenza; 131. Vincenzo Canè d'Imola, fabbro ferraio; 132. Gioachino Cavazzuti di Castel Bolognese, flebotomo; 133. Marcello Prati di Forlí, tintore, già carcerati, abilitati dal carcere con precedenti provvisorie disposizioni; 134. Michele Nannini di Faenza, sensale; 135. Antonio Amaducci, detto Banchittone, di Cesena, sartore; 136. Nicola Foschi di Cesena, possidente; 137. Luigi Comandini di Cesena, tintore, carcerati; 138. Francesco Fornioni d'Imola, impiegato nel dazio carni; 139. Giuseppe Silvestrini di Castel Bolognese, già cancelliere a Faenza; 140. Gentile Fabbri di Ravenna, sostituto criminale nello stesso Governo, esiliati; e riguardo al Silvestrini e Fabbri, comeché ancora indiziati non leggermente di prestato favore a piú settari detenuti in quel Governo per cause comuni, ordiniamo la loro remozione ed inabilitazione all'esercizio negl'impieghi finora sostenuti.

Bastantemente puniti in egual modo col sofferto carcere e sotto Precetto politico-morale di second'ordine dichiariamo: 141. Antonio Biffi di Faenza, vetturino, abilitato provvisoriamente dal carcere; 142. Giuseppe Navicchia di Cesena, carcerato; e dimessi coll'altro Precetto di rappresentarsi, novis vel non novis: 143. Giovanni Simonetti di Cesena, [158] possidente; 144. Antonio Bartolotti di Bologna, ebanista, abilitati provvisoriamente, imputato il primo di complicità nel già ricordato omicidio di Don Antonio Bandi di Cesena, prevenuto il secondo di correità nel ferimento qualificato del cavalier Giacomo Greppi di Bologna.

Ordiniamo pure l'espulsione dall'impiego di custode e secondino rispettivamente e perpetua inabilitazione ad esercitarlo in qualunque parte dello Stato di 145. Michele Perfetti, custode delle carceri politiche di Forlí e 146. Natale Mariani, secondino nelle carceri criminali di detta città; ambedue indiziati non leggermente di appartenere a segrete unioni, il primo a quella dei Carbonari, il secondo all'altra della Turba; gravemente sospetti di avere favoreggiato piú detenuti politici commessi alla loro custodia a scapito della Giustizia.

Atteso il difetto di prove e la tenuità degli indizi, ordiniamo che siano rimessi in piena libertà: 147. Pio Sangiorgi di Faenza, negoziante; 148. Angelo Lassi domestico, di Faenza, dimorante a Ravenna; 149. Luigi Galassi di Morciano, carabiniere a cavallo; 150. Giulio Bartolotti d'Imola, fornaro; 151. Francesco Gamberini del Mancino di Castel Bolognese, pizzicagnolo; 152. Giuseppe Aguccini di Bologna, negoziante; 153. Angelo Luciani di Ravenna, domestico; 154. Giuseppe Brini d'Imola, cursore; 155. Domenico Bottini genovese, domiciliato a Rimini, studente a Bologna all'epoca della sofferta imputazione; 156. Luigi Valdrà di Castel Bolognese, caffettiere, carcerati tutti, provvisoriamente abilitati dal carcere; 157. Paolo Borsi di Lugo; 158. Gregorio Bajetti di Cesena, tuttora detenuti; 159. Giuseppe Piavi di Ravenna, possidente; 160. Don Giuseppe Severi sacerdote, di Ravenna; 161. Achille conte Laderchi di Faenza; 162. Antonio marchese Cavalli di Ravenna; 163. Antonio de Stefanis, detto Giro, di Ravenna; 164. Tommaso Albanesi di Faenza, direttore di quella Posta; 165. Anastasio Melonà, domiciliato a Ravenna; 166. Giovanni Cardinali avvocato, d'Imola; 167. Gaetano Monghini possidente, di Ravenna; 168. Roberto Braghini di Ravenna; 169. Don Marco Severi sacerdote, di Ravenna; 170. Sante Mirri possidente, d'Imola; 171. Luigi Sangiorgi di Castel Bolognese; 172. Ignazio Tassinari di Castel Bolognese; 173. Battista Utili possidente, di Brisighella; 174. Angelo Spoglianti cursore, di Brisighella: 175. Gaetano Fabri di Ferrara, possidente; 176. Vincenzo Pirazzoli di Ravenna, possidente; 177. Giuseppe Ranuzzi Zaccaria di Ravenna; 178. Carlo Lodovichetti di Ravenna, sostituto cancelliere; 179. Sebastiano [159] Fusconi medico, di Ravenna; 180. Giovanni Sgubbi avvocato, d'Imola; 181. Bartolomeo Pianori di Brisighella, cancelliere; 182. Vincenzo Vincenti di Bologna, cancelliere al Governo d'Imola; 183. Antonio Piancastelli di Brisighella, cursore; 184. Sebastiano Garavini di Brisighella, scrittore; 185. Giuseppe Malvezzi di Brisighella, esattore; 186. Arduino Succi d'Imola, avvocato; 187. Domenico Farini di Russi, notaro; tutti allontanati dallo Stato colle misure 10 luglio 1821.

Abilitiamo a rientrare nello Stato, a condizione però di presentarsi nelle forze del Governo entro le ventiquattro ore che vi saranno pervenuti, per procedere sui loro addebiti ed al giudizio su di essi a termini di ragione: 188. Giovanni Matteucci di Ravenna, possidente; 189. Vincenzo Gallina negoziante, di Ravenna; 190. Pietro conte Gambi di Ravenna; 191. Francesco conte Ginnasi possidente; 192. Giuseppe Benedetti possidente; 193. Sebastiano Baccarini ufficiale reduce, possidente: 194. Carlo Villa notaro; 195. Giuseppe Gardi appaltatore dell'illuminazione notturna, tutti di Faenza; 196. Carlo Cerotti; 197. Domenico Casamurata; 198. Domenico Mugolti; 199. Giuseppe conte Orselli possidente; 200. Domenico Virgili possidente; 201. Paolo Roti possidente; 202. Lorenzo Rossi possidente; 203. Giuseppe Faentini possidente, tutti di Forlí; 204. Luigi Fabbri possidente, di Cesena; 205. Gio. Battista Masotti avvocato, di S. Laudecio; 206. Francesco Giuccioli di S. Laudecio, impiegato di finanza.

Come che gravemente indiziati a cattura nel delitto politico superiormente riferito, abbiamo ordinato ed ordiniamo il mandato d'arresto contro: 207. Pietro Roncaldier di Ravenna, negoziante; 208. Giuseppe conte Rondenini, detto il Gobbo; 209. Francesco Zambelli ufficiale reduce; 210. Angelo Querzola carrozzaro; 211. Luigi Ghinassi possidente, tutti di Faenza; 212. Benedetto Visibelli di Bologna, negoziante; 213. Gaetano Marchesini di Bologna, già impiegato alla Posta; 214. Luigi Assiari flebotomo; 215. Matteo Bentivogli facchino; 216. Raffaele Frampolesi impiegato al dazio carni; 217. Luigi Fiorini negoziante; 218. Lorenzo Gaudenzi ministro; 219. Gaetano Lucchini possidente: 220. Andrea Matteucci possidente; 221. Gaetano Orioli vetraro; 222. Girolamo Zignani libraio; 223. Pietro Barberini scrittore; 224. Giovanni Petresi tenente di linea; 225. Pietro Laudi capitano di linea, tutti di Forlí; 226. Pietro Bondini possidente; 227. Giuseppe Bonini possidente, di Cesena; [160] 228. Francesco Raspi possidente, di Faenza; 229. Pacifico Giulini di Pesaro, dimorato a Ferrara.

Ordiniamo similmente che siano assoggettati al Precetto politico-morale di prim'ordine ed alla sorveglianza della Polizia perché complicati anch'essi in causa: 230. Andrea Moschini già ispettore dei boschi, di Ravenna; 231. Atanasio Montallegri possidente, di Faenza; esiliati, già da tempo riabilitati a dimorare nello Stato; 232. Giuseppe Strocchi oste; 233. Francesco Morri possidente; 234. Francesco Rondenini ufficiale reduce; 235. Pietro conte Laderchi possidente; 236. Carlo Marij già soldato provinciale; 237. Antonio Lapi chirurgo; 238. Carlo Martini medico; 239. Filippo Regoli impiegato in dogana; 240. Giuseppe conte Tampieri possidente; 241. Francesco Strocchi oste; 242. Paolo Giangrandi possidente; 243. Luigi Maccolini parrucchiere; 244. Francesco Piazza sartore; 245. Giovanni Tosi finanziere; 246. Giuseppe Liverani chirurgo, tutti di Faenza; 247. Gio. Battista Pirazzoli d'Imola, medico; 248. Vincenzo Pediani di Castel Bolognese, falegname; 249. Gio. Battista Cocchi di Minerbio; 250. Luigi Amaducci scrittore; 251. Francesco Acquisti falegname; 252. Girolamo Boccetti possidente; 253. Giacomo Bardelli di Ravenna; 254. Battista Bertini ufficiale reduce; 255. Giuseppe Bonini, detto Piva, falegname ed oste; 256. Giovanni Bendandi bigliardiere; 257. Giovanni Balsani orefice; 258. Angelo Calletti avvocato; 259. Pietro Cicognani cancelliere vescovile; 260. Bernardo Covich militare reduce; 261. Marcello Danesi militare reduce; 262. Alessandro Francia negoziante; 263. Giovanni Francia negoziante; 264. Gaetano Ghinnasi tornaro; 265. Domenico Cardini impiegato nel Tribunale Criminale; 266. Francesco Gallina facocchio; 267. Lorenzo Morgagni ufficiale reduce; 268. Filippo Mangelli possidente; 269. Pietro Mangelli possidente; 270 Angelo Mamini possidente; 271. Vincenzo Mattiucci chirurgo; 272. Angelo Pasini ministro; 273. Francesco Petrignani impiegato in Legazione; 274. Domenico Pascucci ufficiale reduce; 275. Nicola Regnoli segretario comunale; 276. Valeriano Regnoli impiegato di finanza; 277. Baldassarre Regnoli impiegato in casa Gaddi; 278. Pietro Romagnoli calzolaio; 279. Domenico Sangiorgi ufficiale reduce; 280. Francesco Sangiorgi impiegato; 281. Nicola Sughi oste; 282. Alessandro Vinelli possidente: 283. Luigi Zambianchi possidente; 284. Pietro Aleotti possidente; 285. Antonio Acquisti detto il Zoppo Zignana, sartore; 286. Alessandro Bensoni possidente; 287. Giuseppe Balducci [161] sartore; 288. Luigi Baldini avvocato; 289. Luigi Beltini maniscalco; 290. Pietro Bucchi sartore; 291. Vincenzo Castelli cursore; 292. Andrea Cristini ufficiale pensionato; 293. Pellegrino Canestri scrittore; 294. Giovanni Casali stampatore; 295. Massimiliano Casamurata studente; 296. Nicola conte Corbizzi possidente; 297. Antonio Castelli assistente al dazio carni; 298. Vincenzo Caracchetti vetturino; 299. Giuseppe Danesi falegname; 300. Luigi Danesi ferraro; 301. Paolo Donati, detto Birinaccio, sartore; 302. Giuseppe Foschi suonatore di violino; 303. Vincenzo Francia detto il Roscio; 304. Francesco Fabri, detto Pignattaro, possidente; 305. Michele Fiori, detto il Zoppo, sartore; 306. Evaristo Frasinetti sartore; 307. Pellegrino Lepori calzolaio; 308. Giuseppe Martini falegname; 309. Paolo Masotti impiegato all'Ipoteche; 310. Vittorio Magliano suonatore; 311. Giuseppe Marioni pescivendolo; 312. Ignazio Mazzolini sartore; 313. Michele Mazzolini vetturino; 314. Vincenzo Masotti, detto Masottino, legale; 315. Pietro Montanari, detto Ficcafava, possidente; 316. Domenico Piazzoli possidente; 317. Enrico Pettini scrittore; 318. Alessandro Pettini scrittore; 319. Antonio Panzarotta ex impiegato; 320. Giorgio Regnoli chirurgo; 321. Francesco Rossi suonatore di violino; 322. Pasquale Romagnoli, soprachiamato Riminino, scrittore; 323. Giovanni Reggiani possidente; 324. Antonio Sandi sediaro; 325. Biagio Severi impiegato alla prenditoria del Lotto; 326. Giovanni Scannelli possidente; 327. Cristoforo Serfi arruotino; 328. Giuseppe Signorini marmorino; 329. Fabrizio Tamberlich speziale; 330. Arcangelo Tappacelli ferraro; 331. Pellegrino Reggiani maestro di carattere; 332. Pellegrino Varoli beccaio; 333. Francesco Maroncelli medico; 334. Giovanni Zattoni impiegato all'Acque e Strade; 335. Giuseppe Losanna caffettiere; 336. Benedetto Forlivesi, allontanato, abilitato, tutti di Forlí; 327. Annibale Rondenini di Brisighella, militare reduce; 338. Antonio Pasotti di Castel Bolognese, senza mestiere; 339. Giuseppe Arrighi militare reduce; 340. Giacomo Fattiboni possidente; 341. Giuseppe Ferretti finanziere; 342. Sante Venturi; 343. Giuseppe Ragonesi avvocato; 344. Giuseppe Moschini possidente; 345. Pietro Cacciaguerra possidente; 346. Michele Bordi; 347. Girolamo Paggi; 348. Vincenzo Pio; 349. Giuseppe Zondini; 350. Simone Nardi, detto Tutrino, tutti di Cesena; 351. Cesare Valbonesi segretario comunale di Meldola; 352. Pellegrino Silvestrini oste a Meldola; 353. Nicola Partisetti [162] possidente, di Meldola; 354. Biagio Abbati di Savignano ingegnere; 355. Giuseppe Negri avvocato a Bologna; 356. Placido Sarti ex militare, di Bologna; 357. Marco Mariani di Bagnacavallo, locandiere a Lugo; 358. Francesco Manzieri possidente, di Lugo; 359. Melchiorre Ricci di Forlimpopoli, avvocato; 360. Giulio Chiaraffoni possidente, di Ferrara; 361. Luigi Andreati militare reduce, di Ferrara; 362. Domenico Armari militare reduce, di Ferrara; 363. Carlo Imperiali ingegnere, di Ferrara; 364. Luigi Armuzzi di Faenza, soldato provinciale; 365. Bernardo Biagioli setacciaro, soldato provinciale, di Faenza; 366. Gaetano Bianchini, già ispettore di polizia a Ravenna; e rapporto ai sopraenunciati due soldati prescriviamo la loro immediata espulsione dal Corpo provinciale.

Alla stessa sorveglianza della Polizia ed al Precetto politico-morale di second'ordine prescriviamo che siano assoggettati: 367. Gio. Batt. conte Della Volpe d'Imola; 368. Giovanni Orioli curiale, di Ravenna; 369. Antonio Ducci possidente; 370. Angelo Strocchi oste; 371. Francesco Fanti dottore; 372. Natale Foschini scrivano in casa del conte Rondenini; 373. Giuseppe Foschini scrivano; 374. Carlo Traversari maestro di ballo; 375. Gallo Marcucci possidente; 376. Luigi Benazzoli possidente; 377. Francesco Biagioli legatore in oro; 378. Ignazio Mengolini possidente; 379. Marco Mengolini possidente; 380. Giuseppe Azzalli possidente; 381. Pietro Martini scrittore; 382. Francesco conte Naldi possidente; 383. Carlo Gardi appaltatore dei lumi notturni; 384. Alberigo Alberighi possidente; 385. Angelo Guidi possidente; 386. Antonio Bucci possidente; 387. Luigi Baldi negoziante; 388. Carlo Bazzica macellaro; 389. Giuseppe Orioli vetraro; 390 Andrea Tabanelli oste; 391. Michele Fregnani, detto Michelotto; 392. Sebastiano Caselli oste; 293. Ferdinando Rampi possidente; 394. Giuseppe conte Pasolini Zannelli possidente; 395. Michele Pasi possidente, tutti di Faenza; 396. Leonardo Orioli legale, di Ravenna; 397. Marco Ortolani possidente, di Ravenna; 398. Carlo Artosini possidente; 399. Giuseppe Artosini possidente; 400. Domenico Bartolazzi chirurgo; 401. Francesco conte Bensi possidente; 402. Luigi Bordandini stampatore; 403. Giuseppe Bargozzi sellaro; 404. Andrea Bertoni giovane di negozio; 403. Angelo Bertoni ebanista; 406. Emidio Belloni impiegato nel dazio carni; 407. Vincenzo Bondandi domestico; 408. Giuseppe Bandini falegname; 409. Vincenzo Bentivogli calzolaio; [163] 410. Tommaso Capaccini possidente: 411. Nicola Cerchioli calzolaio; 412. Ottavio Capilli orefice; 413. Pietro Cicognani scrittore; 414. Fabio Cortesi studente; 415. Giacomo Cassani speziale; 416. Guglielmo Cappuccini calzolaio; 417. Domenico Costa impiegato; 418. Giacomo Cicognani possidente; 419. Sebastiano Croci argentiere; 420. Domenico Cerchioli capo dei lavori stradali; 421. Domenico Cicognani, detto Piccolino, sellaro; 422. Vincenzo Danesi impiegato alle Poste; 425. Luigi Danesi calzolaio; 424. Antonio Denti impiegato nell'Ipoteche; 425. Luigi Dulcini impiegato particolare; 426. Antonio Donati sartore; 427. Antonio Francia negoziante; 428. Gaetano Francia negoziante; 429. Pietro Frampolesi assistente al dazio carni; 430. Sireno Fanti stampatore; 431. Domenico Frisoni carabiniere; 432. Giuseppe Golfarelli sartore; 433. Alberico Gardini sartore; 434. Giuseppe Lacchini sartore; 435. Alessandro Mazzoni studente; 436. Alessandro Miglietti studente; 437. Carlo Miglietti flebotomo; 438. Giuseppe Montanari; 439. Antonio Marozzi stampatore; 440. Giuseppe Mirri possidente; 441. Andrea Micheletti, detto Nasaccio, sartore; 442. Antonio Moschini pittore; 443. Pietro Placucci ex militare; 444. Giuseppe Palmieri tenente di linea; 445. Carlo Piazzoli possidente; 446. Giuseppe Piolanti tenente di linea; 447. Giovanni Paci calzolaio; 348. Giacomo Paci calzolaio; 449. Sebastiano Presenziani detto Barzellone, rigattiere; 450. Agostino Rossi studente; 451. Girolamo Romagnoli cocchiere; 452. Angelo Rondoni impiegato di Dogana; 453. Luigi Randi sediaro; 454. Luigi Rota quartiermastro dei Carabinieri; 455. Giuseppe Reggiani pittore; 456. Nicola Rivali falegname; 457. Antonio Ravaioli falegname; 458. Giacomo Ravaioli, detto Ciamino, negoziante; 459. Michele Rosa Intendente di finanza; 466. Pietro Ravaioli ebanista; 461. Giacomo Rossi impiegato in Comunità; 462. Giuseppe Rossi, detto San Lazzaro; 463. Giovanni di Francesco Reggiani possidente; 464. Sebastiano Sansavini studente; 465. Vincenzo Scardi maestro d'armi; 466. Antonio Silvegni fornaro; 467. Luigi Severi studente; 468. Giuseppe Tamberlicchi speziale; 469. Tommaso Tamberlicchi veterinario; 470. Salvatore Turchi barbiere; 471. Camillo Turchi barbiere; 472. Giuseppe Turchi vetturale; 473. Stefano Respignani falegname; 474. Battista Vitali chincagliere; 475. Giovanni Villa ministro nel negozio Gurioli; 476. Sante Reggiani, detto Ghisino calzolaio; 477. Decio Valentini studente, [164] 478. Ruffillo Vallicelli sartore; 479. Camillo Versari studente di medicina; 480. Aleandro Zamboni studente in Bologna; 481. Gaetano Zampighi, detto Tanti, cocchiere; 482. Marco Zignani studente; 483. Lazzaro Zoli possidente; 484. Giovanni Zoli impiegato alle Porte; 485. Antonio Zoli scrittore; 486. Luigi Zoli fattore dello Spedale, tutti di Forlí; 487. Vincenzo Sbrighi possidente; 488. Giovanni Bellotti impiegato di finanza; 489. Gio. Battista Milani possidente; 490. Agostino Neri possidente; 491. Giuseppe Pio cancelliere sostituto nel Governo di Cesena; 492. Gaetano Pio impiegato in quella Comunitá; 493. Giovanni conte Roverella; 494. Paolo Ugolini inverniciatore; 495. Mauro Venturi cursore comunale; 496. Luigi Trentini carabiniere, tutti di Cesena; 497. Giovanni Amaducci vetturale, di Meldola; 498. Andrea Pistocchi sartore, di Meldola; 499. Antonio Vangelli possidente, di Meldola; 500. Girolamo conte Cicognara di Ferrara, possidente; 501. Giuseppe Fugarelli locandiere alle Tre Corone di Ferrara; 502. Gio. Battista Pasti ex giudice, di Ferrara; 503. Antonio Rinieri ingegnere, di Ferrara; 504. Agostino Taveggi di Ferrara, avvocato; 505. Alessandro Carnevali di Lugo, avvocato; 506. Giulio conte Graziani di Bagnacavallo, possidente; 507. Giuseppe Dadi di Bologna, negoziante; 508. Domenico Fantozzi di Savignano, speziale; 509. Pietro Mazzolani di Bologna; 510. Francesco Piana avvocato, di Bologna; 511. Giuseppe Patuzzi avvocato, di Bologna; 512. Gaetano Saragoni cameriere di locanda, di Bologna; 513. Pietro Manzieri ex ufficiale; e riguardo ai già nominati ufficiali di linea capitano Pietro Landi, Girolamo Petresi tenente, contro i quali si è rilasciato il mandato a cattura, e Giuseppe Palmieri. Giuseppe Piolanti, Luigi Rota quartiermastro, Luigi Trentini carabiniere semplice assoggettati al Precetto politico-morale, ordiniamo la loro immediata espulsione dai rispettivi Corpi dell'Arma, ai quali sono addetti.

Condanniamo poi a tutte le spese processuali ed a quelle del presente Giudizio gl'individui superiormente descritti, contro de' quali si è proceduto alla pena capitale ed alle altre afflittive di detenzione e di Galera.

Finalmente una Processura maggiore di quante altre mai per gravezza di soggetto, per complicazione di resultati e per numero di Prevenuti ha dovuto necessariamente riuscire di straordinaria lunghezza, a qualche carico specialmente di quelli che per i primi furono colpiti d'arresto; e [165] però volendo Noi temperare questa specie di sofferenza, che per le circostanze è stata del tutto indispensabile, con un partito di piacevolezza e di equità ordiniamo e decretiamo che oltre i dieciotto mesi da Noi considerati necessari alla fabbricazione del Processo in rapporto a ciascun prevenuto, il rimanente tempo di prigionia venga calcolato in diminuzione dell'ulteriore pena a cui ciascheduno respettivamente sarà stato condannato.

Cosí abbiamo giudicato definitivamente, ed inappellabilmente sentenziato, come giudichiamo e sentenziamo; ordinando l'impressione della presente Sentenza in N. di 500 Esemplari e l'affissione sí in Ravenna, che in tutti i luoghi dello Stato; e che questa Sentenza affissa e pubblicata nelle solite legali forme debba aversi come particolarmente intimata a tutti i prevenuti in essa nominati.

Fatta, chiusa, giudicata e firmata a Ravenna il giorno, mese ed anno suddetti.

A. CARD. RIVAROLA LEGATO A LATERE.

A. Granella Notaro della Com.

TENORE DE' PRECETTI.

PRECETTO POLITICO-MORALE DI PRIM'ORDINE.

D'Ordine ecc.

Si fa Precetto, ed espressamente si comanda a Voi N......, inquisito per affari Politici, di applicarvi a stabile mestiere[13]; di non allontanarvi dalla Città e Provincia di.......[14] senza speciale permesso in iscritto di questa Legazione, o Delegazione; di non associarvi a persone sospette, inquisite, precettate, o che abbiano conosciuti pregiudizi politici, e criminali; di non accedere ad unioni o luoghi sospetti; di dichiarare la Casa di vostra stabile abitazione, e di ritirarvi nella medesima all'un'ora di notte, e non sortirne prima della levata del Sole[15]; di presentarvi ogni quindici giorni all'Incaricato di Polizia, e dove questo mancasse al Governatore locale, per dar conto di Voi, e del vostro sistema di vita; di non offendere, insultare, e minacciare chicchessia, con gesti, detti, e molto meno con fatti; di rilasciare ogni mese alla Polizia l'attestato di un Confessore approvato di esservi presentato al Tribunale [166] di Penitenza, di avere adempito al Precetto Pasquale, e di aver anno per anno fatti gli Esercizi spirituali per tre interi giorni almeno in un ritiro ad arbitrio di Monsignor Vescovo Diocesano, sotto la comminatoria d'anni tre di Opera pubblica[16] da incorrersi irremissibilmente, anche in caso di prima contravenzione, a qualunque ed anche ad una sola delle parti e condizioni del presente Precetto[17].

PRECETTO POLITICO-MORALE DI SECOND'ORDINE.

D'Ordine ecc.

Si fa Precetto[18], ed espressamente si comanda a voi N...... di non allontanarvi dalla Provincia....... senza speciale permesso in iscritto di questa Legazione, o Delegazione; di non associarvi a persone sospette, inquisite, o precettate, o che abbiano conosciuti pregiudizi politici, o criminali; di non accedere ad unioni, o luoghi sospetti, di non offendere, insultare, o minacciare chicchessia, né con gesti, né con detti, e molto meno con fatti; di rilasciare ogni mese alla Polizia l'attestato di un Confessore approvato, d'esservi presentato al Tribunale di Penitenza, di avere adempito al Precetto Pasquale, e di aver fatti gli Esercizi Spirituali per tre interi giorni almeno nella prossima Settimana Santa in un ritiro ad arbitrio di Monsignor Vescovo Diocesano, sotto la comminatoria di sei mesi di reclusione, da incorrersi irremissibilmente, anche in caso di [167] prima contravvenzione, a qualunque ed anche ad una sola delle parti o condizioni del presente Precetto.

EDITTO.

Agostino di Sant'Agata alla Suburra, della Santa Romana Chiesa Diacono Cardinal Rivarola, della Città e Provincia di Ravenna Legato a Latere.

Dopo di avere disimpegnato con quello zelo, e quella maturità di consiglio, che ogni piú sacro dovere esigeva da noi, la grave commissione della quale fummo dalla speciale Benignità della Santità di Nostro Signore, Papa Leone XII, felicemente regnante onorati; dopo di aver rassegnato al Suo Trono i risultati del nostro giudizio sui Processi da molto tempo istituiti, contro molti prevenuti di delitti politici portati a compimento, a nulla di piú lusinghiero potevamo aspirare se non che il nostro lavoro potesse incontrare il Sovrano gradimento, ed approvazione; ma di molte maggiori grazie ha voluto colmarci la generosa grandezza di Nostro Signore, essendosi degnato d'autorizzarci coll'oracolo della Sua viva Voce, a temperare il giusto rigore di una Sentenza con qualche luminoso tratto di Clemenza, che può solo dalla Sovrana Podestà derivare; che però fatti noi Ministri delle dolci disposizioni del Paterno Cuore di Sua Santità accordiamo, alle pene decretate nella nostra Sentenza, sotto questo stesso giorno pubblicata, le seguenti grazie, e modificazioni:

I. È fatta grazia della vita ai Rei condannati a morte, e permutata la loro condanna in venticinque 25. anni di reclusione in un Forte dello Stato.

Non restano compresi in questa permutazione e diminuzione di pena Francesco Garaffoni riconosciuto, e giudicato assassino del Cavaliere Don Angelo Bandi, e Pietro Barbieri assassino di Francesco Gamberini.

II. A quelli che sono condannati alla Detenzione sia in vita, sia per qualche numero d'anni, non assegnamo una diminuzione determinata di tempo, restando raccomandati alla luminosa Clemenza di Nostro Signore per la loro piú o meno sollecita liberazione, che dovranno invocare con Supplica dalla stessa Santità Sua, e meritarla con una condotta [168] savia, e morale, che dia fondata lusinga di loro ravvedimento.

III. Quelli, che sono rubricati in Sentenza sotto le clausole — abilitati a rientrare nello Stato con obbligo di costituirsi entro le 24 ore dal momento del loro arrivo, per essere assoggettati a' regolari costituti, e giudicati a seconda delle risultanze — quelli, che sono assoggettati al Precetto politico-morale di primo, o second'ordine — restano senza alcuna variazione soggetti al disposto nella Sentenza.

IV. A quelli, che hanno contro di loro il — Procuretur captura — sono accordati due mesi di tempo per presentarsi alla Commissione speciale residente in Ravenna per dar conto di loro, e per dileguare in qualche modo le risultanze che li gravano; in seguito di che se risulteranno pienamente innocenti saranno rimandati con un'onorevole dichiarazione; se daranno delle spiegazioni scusanti, ma non bastevoli ad escludere la reità, resteranno assoggettati al Precetto politico di primo, o second'ordine in proporzione delle maggiori o minori risultanze medesime; finalmente se persisteranno in una negativa complessiva, o generale, come ordinariamente hanno in costume, saranno diffidati per otto giorni, e quindi si procederà contro di loro a forma della Sentenza.

V. Restano eccettuati da questa benigna disposizione il Conte Giuseppe Rondenini detto il Gobbo, Francesco Zambelli, e Luigi Ghinnassi di Faenza, che volontariamente emigrarono dallo Stato; e Raffaelle Frampolesi, e Pietro Barberini di Forlí, fuggitivi; militando contro il primo indizi ben gravi per considerarlo per uno de' principali cospiratori, e per essere gli altri complicati anche in delitti comuni, e però o si costituiscan'essi nel tempo prestabilito, o arrestati che siano, dovranno soggiacere al disposto dell'Art. III.

VI. I Precetti politico-morali di prim'ordine dureranno due anni, e da questi si passerà a quello di second'ordine per un altro anno, prorogabile se la condotta del precettato non sarà stata esente da mancanza o da ragionevole sospetto.

VII. I precettati di second'ordine lo resteranno per due anni, egualmente prorogabili come sopra.

VIII. È riservato ai soli E.mi Sigg. Cardinali Legati ed a Monsignor Delegato di Urbino e Pesaro, l'accordare qualche modificazione ai Precetti medesimi secondo i casi e circostanze od impensate eventualità del precettato; [169] nella parte politica però, e non mai nella parte morale, che dovrà esser sempre religiosamente osservata.

2. Se ad alcuno di questi occorresse di recarsi all'Estero, dovrà proporne il motivo, e domandare ai suddetti Capi di Governo il Passaporto.

IX. Giunti finalmente a quelli, che sono condannati alla Galera in vita, o ad anni determinati, non abbiamo potuto non essere compresi da orrore nel conoscere, che questi o sono discesi al fatto di sediziosi tumulti, od hanno aggiunto al politico loro mal talento la ferocia degli omicidi, dei tradimenti, delle ferite in odio di partito, con qualità di preordinazione dei quali risultano per gravi e veementissimi indizi complici, esecutori, o mandatari, ed in mezzo al raccapriccio sentiamo ben alte le voci degl'innocenti sagrificati al manifesto attaccamento, che dimostravano alla Religione ed al legittimo loro Sovrano, che domandano alla Giustizia di essere vendicati, e però dovrebbero rimanere abbandonati a tutto il rigore della meritata condanna; pure sentendo anche per essi un qualche sentimento di compassione, la condanna in vita resta stabilita a venti anni, e minorate di un quarto quelle ad anni determinati.

X. Gl'Impiegati pubblici, sí civili che militari, i quali sono risultati piú o meno colpevoli, qualunque fosse o sia l'officio che esercitano od esercitavano, sono esclusi perpetuamente — per modum regulae — da ogni pubblico servigio.

XI. Non ignora Nostro Signore che un qualche numero di altri fra i suoi Sudditi nati o domiciliati nelle quattro Legazioni e nella Delegazione di Urbino e Pesaro, sono rimasti sin qui inosservati, che hanno dato il nome a Società criminose, ed hanno fatto parte di conventicole proscritte da tutte le Leggi, che però dovrebbe aprirsi anche a carico loro una rigorosa inquisizione; ma volendo usare un nuovo tratto di Sovrana Magnanimità ed estinguere per una volta un germe infausto di divisione, di orgasmo e di trepidazione, ci ha autorizzati ed accordare, come difatti accordiamo, a tutti questi un generoso perdono, ordinando che, per questo titolo di politico traviamento per tutto il passato, non possano esser piú molestati, né con le inquisizioni fiscali, né con particolari animosità, esortando quelli, che sono veramente buoni nello spirito dell'evangelica carità, a rallegrarsi di vederli riconciliati con il Governo, ed a procurare coll'opera e col consiglio di ricomporre in armonia [170] la Civile Società, che è stata per molti anni dallo spirito di parte miseramente lacerata.

XII. Restano però gravemente ammoniti a tenersi ben lontani da qualunque nuovo benché piccolo traviamento di questo genere, giacché in caso diverso si dichiarano risorti tutti i loro trascorsi, e su i passati e su' nuovi saranno rigorosamente giudicati.

XIII. Sono eccettuati da questo perdono tutti quelli che fossero in qualche modo indiziati o che si scuoprissero in appresso Mandanti o Mandatari, o autori spontanei di ferimenti ed omicidi accaduti in odio di partito; questi dovranno essere processati e giudicati col titolo di ferimento o di omicidio colle sue rispettive qualità.

XIV. Ed egualmente non compresi in questo perdono si dichiarano tutti quelli che già si conoscono o si scuoprissero in appresso implicati ne' fatti criminosi, che han dato causa alle Procedure nuovamente istituite in Roma ed in Pesaro.

XV. Per provvedere poi alla costante sistemazione del buon'ordine sociale, e per garantirlo da nuovi attentati di questo genere, abbiamo riputato cosa troppo utile, anzi del tutto necessaria, che per modo di provisione, e finché piaccia a Nostro Signore di pubblicare sopra questa specie di delitto una legge speciale e comune a tutto il suo Stato, sia stabilita una norma di Procedura, e respettivamente di penalità a carico de' riconosciuti colpevoli, uniforme in tutte le quattro Legazioni e nella Delegazione di Urbino e Pesaro, che però anche in questa parte di provvisoria legislazione circoscritta alle nominate Provincie, usando delle facoltà dalla Santità Sua graziosamente a noi accordate vogliamo che d'ora innanzi si proceda inesorabilmente in questa specie di Delitti sommariamente sulla semplice verificazione del fatto anche per inquisitionem colle seguenti Leggi e discipline.

XVI. Gl'Istitutori delle Società secrete sotto qualunque denominazione ed in qualunque parte dello Stato;

2. Quelli che si occuperanno di adunare le già riconosciute ed esistenti;

3. Quelli che le presiederanno come capi o come distinti ne' rispettivi gradi delle Sètte;

Per qualunque di questi titoli cumulativamente o disgiuntivamente presi saranno rei di morte.

4. Saranno confiscati i locali dove si saranno tenute [171] tali adunanze, o siano fatte nuove recezioni, siano palazzi di Città, siano Casini di Campagna, Case, Botteghe o Ridotti, a meno che il Padrone o Proprietario non provi concludentemente che non aveva alcuna parte o notizia di quest'adunanze e che non è per fatto suo, che siasi accordato il locale ad un uso cosí reo.

XVII. La semplice presenza a qualche adunanza di un socio non graduato o la sola ascrizione di un nuovo sarà punita irremissibilmente con dieci anni di Galera o di Detenzione secondo la condizione delle persone.

XVIII. I Retentori o Accaparratori di armi insidiose, i Depositari di danaro, emblemi appartenenti a qualunque delle Sètte, sotto qualsivoglia denominazione anche non conosciuta.

XIX. Quelli che presteranno opera, consiglio o danaro alla clandestina adunanza, o ad assoldare o sedurre qualche incauto ad associarsi.

Anche per un solo di questi titoli criminosi, saranno condannati alla Galera o alla Detenzione per venti anni.

XX. Un Omicida o Feritore o Complice in una ferita qualunque in odio di partito, risulti pericolosa o no, sarà condannato all'ultimo supplizio.

XXI. Ingiungiamo a chiunque avesse notizia o anche fondato sospetto di qualche adunanza di Società segrete o di Maneggi di Soci, di doverne fare segreto rapporto al Governo, sotto pena di sette anni di Opera pubblica o di Carcere se resterà provato o ch'egli avesse notizia di tali attentati, e non li avesse denunziati.

XXII. Tutte queste Cause di Titolo Politico saranno di privativa giurisdizione degli E.mi Signori Cardinali Legati e del Prelato Delegato di Urbino e Pesaro.

XXIII. Ne' loro Giudizi dovranno espressamente applicare la Legge al fatto, col solo arbitrio della minorazione di un grado, secondo la concorrenza dei casi e delle circostanze.

XXIV. Se talvolta pensassero che fosse equa una minorazione maggiore, dovranno mandare in Segreteria di Stato l'intero Processo col quesito motivato, ed attendere la conveniente risoluzione.

XXV. Finalmente se la Sentenza sarà di Morte, si dovrà sospendere l'esecuzione, e darne parte in Segreteria di Stato colla trasmissione del Processo per aspettarne l'approvazione, o moderazione;

[172] 2. Ma se la Sentenza sarà di Galera, o di Detenzione sarà sul momento in istato eseguibile.

XXVI. E finalmente siccome i scellerati omicidi o feritori in odio di parte prima di commettere il meditato delitto pensavano a prepararsi una sicura impunità, col preordinare, d'accordo con Testimoni falsi del loro partito stesso, una coartata, che era attaccata o a venti passi di distanza, o alla differenza di cinque minuti di tempo; ordiniamo che i Giudici Processanti non ammettano in Processo mai altra — coartata, — che quella che per distanza di luogo o differenza di tempo prova un — alibi — assoluto, ed escluda intrinsecamente nel prevenuto la possibilità di aver commesso quel tale omicidio o ferimento di cui è imputato.

Stabilita cosí una forma di Procedura e di Giudizio precisa e severa per questi attentati di Lesa-Maestà, che fossero per rinnuovarsi, una dolce lusinga c'inclina a sperare che non debba piú alcuno mettersi in caso di provarne il rigore, e che tutti i buoni Sudditi di Sua Santità riconoscendo nei pochi esempi di pena la Giustizia del Sovrano, e nella molta piacevolezza la Clemenza del Padre, faranno a gara per meritarsi il suo amore e per mostrarsi a lui costantemente fedeli, riconoscenti e devoti.

Dato in Ravenna dal Palazzo Apostolico di Nostra Residenza questo dí 31 Agosto 1825.

A. CARD. RIVAROLA.

Riguardo all'attentato contro il cardinale Rivarola, vi è nella narrazione dell'Uccellini una allusione a Luigi Pietro Louvel di Versailles (n. 1783, m. 1820), che pieno d'entusiasmi e ricordi napoleonici si era proposto dopo la Restaurazione di esterminare i Borboni e assassinò con un colpo di coltello il duca di Berry (Carlo Ferdinando di Borbone, secondo figlio di Carlo X) alla porta del teatro dell'Opéra la sera del 13 febbraio 1820: la costanza di lui nel serbare il silenzio sui presunti complici, la fermezza onde rifiutò il confessore nel salire al patibolo ne avevano fatto un eroe agli occhi dei rivoluzionari francesi e dei carbonari italiani; ma la sua memoria cadde presto in oblio. Si vedano le biografie del duca di Berry dell'Hocquart, del Chateaubriand e del Delandine.

Il sacerdote Ignazio Muti, che rimase ferito in luogo del Rivarola, era nato a Ravenna nel 1773 e durante il periodo napoleonico si era mostrato tenace fautore del vecchio [173] regime; notevoli sue lettere avanzano, scritte al marchese Camillo Spreti durante quel periodo, nelle quali, oltre pregevoli informazioni sui fatti correnti, sono dati giudizi molto severi sugli uomini dalla parte liberale: fu nel 1814 fatto canonico della Metropolitana e fu anche prelato domestico di Pio VII; morí nel 1830.

La forza militare in Ravenna negli anni 1825-26 era costituita dai carabinieri, dai dragoni e da un battaglione di linea, con questi ufficiali addetti al comando: D. Pompeo principe Gabrielli, colonnello dei dragoni, comandante in capo le forze militari della Legazione; cav. Niccolò Lorini, comandante il 6º Battaglione di linea e la guarnigione di Ravenna; Giuseppe Tesini, comandante la Compagnia dei carabinieri pontifici; Rinaldo Gambelli, tenente aiutante di piazza; Domenico Armari, tenente aiutante maggiore e conte Ambrogio Fanelli, tenente quartier mastro del 6º Battaglione di linea; Gaetano Marsili, tenente, ufficiale di abbigliamento.

XIII. La Commissione speciale straordinaria era composta cosí: mons. Filippo Invernizzi, presidente; avv. Giovanni Ruffini, giudice; avv. Giacomo Impaccianti, giudice; Luigi Mattioli Benvenuti, giudice; cav. Giacinto Ruvinetti, colonnello comandante il 1º Reggimento carabinieri, giudice; Lorenzo Sindaci, cancelliere segreto; Vincenzo Mazzoni, giudice processante. Creata con rescritto pontificio del 22 agosto 1826, giunse a Ravenna l'11 settembre, e poi si trasferí a Faenza sul principio del 1827.

A. Borgognoni raccolse da vecchi testimoni questi particolari, che raccontò nella Domenica letteraria del 27 aprile 1884 (a. III, n. 17): «Era oramai scorso un anno e la Commissione non aveva saputo nulla, e, a quanto credevasi, era sulle mosse per ritornarsene a Roma, quando un fatto per sé stesso non grave cambiò d'improvviso e terribilmente la condizione delle cose. Il fatto, narrato con qualche varietà da' testimoni del tempo da me consultati, è sostanzialmente questo. Due guardie forestali (due guardiani, come a Ravenna li chiamano) del pineto vennero a rissa tra loro, e, dalle parole accennando di venire ai fatti, misero mano ai coltelli. Tratti in carcere, i giudici dell'Invernizzi, che da per tutto fiutavano carboneria, cominciarono a interrogarli, e seguitarono, circuendoli e insistendo a tutto potere, sui fatti passati. I [174] due, che appartenevano alla parte piú numerosa dell'associazione, quella che si chiamava la Turba, posti alle strette, misero in tavola il nome del presidente della seconda tra le categorie carboniche, ossia la Società dei figli della Speranza, dicendo che se i signori giudici volevano sapere di quelle cose quegli, e non essi, era in grado di dirgliele. Chiamato costui, e messagli addosso una gran paura coll'affermargli efficacemente di sapere di già il tutto, esso rivelò a largo, come la Commissione non avrebbe mai imaginato e sperato. Anche un carrozzaio, indicato da que' due, fu sottoposto agli interrogatori, e anch'egli aggiunse delazione e materia di processi».

Stefano Piavi è ancora ricordato a Ravenna come traditore della Carboneria: fu per molto tempo impiegato nell'ufficio del genio civile; poi divenuto cieco visse in disparte, piú dimenticato che disprezzato; morí prima del 1860.

XIV. Di Gaetano Rambelli e dei quattro suoi compagni di supplizio (cfr. cap. XX) l'Uccellini, a richiesta del conte Gioacchino Rasponi, stese nel 1873 accurate notizie biografiche, le quali mandò a Mariano d'Ayala per le sue Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria; ma il volume consacrato agli Uccisi dal carnefice fu pubblicato postumo (Roma, Bocca, 1883), e non contiene le notizie dei martiri ravennati. Un frammento rimastone tra le carte dell'Uccellini, oltre il racconto della fine del Rambelli (cfr. cap. XIX), ci dà la seguente biografia di uno dei suoi compagni: «Angelo Ortolani nacque nel 1802 presso Ravenna, in luogo detto il Bastione nel sobborgo di S. Mamante, da parenti che traevano il sostentamento di lor famiglia, composta di quattro figli, due maschi e due femmine, dal commercio de' cereali, e specialmente dalla vendita delle farine. Suo padre, di nome Paolo, lo ammise di buon'ora nelle scuole comunali, ove apprese a leggere, a scrivere e a far conti: ed era quanto gli occorreva per avviarlo nella industria che egli stesso esercitava. Dapprima lo collocò in uno spaccio di sali e tabacchi, affinché s'iniziasse negli usi commerciali. Il giovane Angelo seppe comportarsi sempre con modi urbani, e captivarsi la grazia del suo principale, sostenendo con zelo il di lui interesse. Cresciuto in età si rese caro, con [175] retti procedimenti e con sensi liberali, agli studenti piú accreditati del paese, i quali non tardarono ad ammetterlo nella Società della Speranza, ramo della Carboneria, composto in gran parte dei giovani che frequentavano le scuole pubbliche. L'Ortolani lasciò in seguito il ricordato negozio, e fu impiegato come agente nel forno che conduceva suo zio Andrea insieme con altri intraprendenti: ed ivi diede maggiori prove di probità tanto che crebbe a dismisura nell'amore dei congiunti e degli amici. Dopo i moti politici del 1820, le Romagne, come ognun sa, sebbene non cooperassero che coi desideri ai tentativi di emancipazione operati negli altri Stati d'Italia, furono tribolate con vessazioni di ogni genere. Nel 1824 ebbero a soffrire sevizie indicibili da un Domenico Matteucci. Direttore provinciale di polizia, contro cui fu esploso di nottetempo un'arma a fuoco, che gli tolse la vita. In seguito la Corte di Roma inviò Legato a Latere a Ravenna con pieni poteri il cardinale Agostino Rivarola coll'incarico di dar termine ai processi politici del 1821 e di estirpare dalle Romagne le sètte liberali. Le iniquità commesse da costui inasprirono siffattamente gli animi di tutti gli abitanti, che nella notte del 23 luglio 1826 videsi aggredito nel mentre che montava in carrozza per restituirsi dalla casa Rasponi Bonanzi alla propria dimora: ma il colpo di pistola direttogli ferí leggermente il suo Segretario; ed egli rimase affatto illeso. Richiamato il Rivarola a Roma, le Romagne furono date all'arbitrio di una Commissione speciale, presieduta da un certo monsignor Invernizzi, che fece man bassa sin dal maggio 1827 su tutti quelli che gli erano designati come sospetti liberali; e l'Ortolani fu uno dei primi ad essere arrestato, e rinchiuso nelle carceri straordinarie che si erano erette in S. Vitale, ampio ex-convento dei Monaci Cassinesi. Affidato alla custodia dei carabinieri pontifici, scelti fra i piú feroci Sanfedisti, non è a dirsi a quali e a quanti tormenti soggiacesse il giovane Angelo; e dopo un anno di durissima prigionia, in cui provò tutti i mali che il Santo Uffizio soleva altre volte infliggere, fu nel 13 maggio 1828 appeso alla forca nella piazza della città, allora denominata degli Svizzeri, ora d'Alighieri, sotto le finestre della residenza del Governatore, per dare al medesimo l'agio di ammirare il terribile spettacolo. È qui da notarsi che fu inibito all'Ortolani di [176] produrre testimoni a discarico contro l'accusa di cui era aggravato, di complicità nell'omicidio del Matteucci e del tentativo contro la vita di Rivarola, né di scegliersi un difensore. Rimangono della famiglia di Angelo un fratello di nome Raffaele, magazziniere, ed una sorella.»

XV. Sul trattamento fatto ai prigionieri politici nelle carceri ravennati di San Vitale è da vedere ciò che scrisse Angelo Frignani nel suo raro e curioso libro La mia pazzia nelle carceri (Parigi, Trouchy, 1839), specialmente ai paragrafi VII-X, XVI-XX, XXIII-XXVI, XXX, XXXVII, dove sono parecchie dissonanze da ciò che narra l'Uccellini, meno fantastico e piú credibile testimonio.

Sulla fine del capitolo si accenna al dottor Girolamo Mazzoni, che appare tra i chirurghi condotti di Ravenna dal 1823 al '28. Di lui scrive il Borgognoni, l. cit.: «Viveva in Ravenna un tal Girolamo Mazzoni di Cesenatico, medico di professione e in concetto di chirurgo valente, ma uomo d'animo oltre ogni dire malvagio. Questi, come poi si riseppe, abusando dell'arte sua, molti, contro i quali, o per ragione di sètta o d'altro, nutriva astio, aveva fatto morire di veleno. La Commissione [dell'Invernizzi], oramai avviata, mise le mani addosso anche a lui, che pare fosse molto innanzi nei gradi delle società segrete. Il Mazzoni stette dapprima molto perplesso; pure alla fine si fe' anch'esso delatore: e una volta entrato per quella via, tanto s'incalorí nel narrare e specificare il molto che ei sapeva, che, volendo in certo suo interrogatorio aggiungere non so se altri particolari o altri nomi, il colonnello Ruvinetti, stomacato, gli gridò: — Taci, briccone, che a quest'ora hai detto anche troppo! — La conseguenza di queste rivelazioni, succedutesi con molta rapidità, fu un improvviso, contemporaneo, sterminato numero d'arresti di cittadini d'ogni età e condizione». Anche il Frignani, op. cit., XXX: «...altre favole obbrobriose, inventate, non so se per suggestione di qualche giudice, o per ispontanea malvagità di un Mazzoni, reggente della Carboneria e traditore compero, il quale al molto vero che svelò per premio, altrettanto di bugiardo aggiunse, eziandio contra sé, quasi ambisse l'infamia».

XVI. A illustrazione del processo fatto all'Uccellini parmi utile riferire qui la relazione che egli stesso incominciò [177] a scriverne nel 1829 sotto forma di lettera al padre; la quale, sebbene incompiuta, dà particolari e ragguagli notabili:

Imola, li . . . . . . . del 1829.

Forsan et haec olim meminisse iuvabit.

Virg.    

Carissimo Padre,

Ad evasione di quanto le promisi nell'ultima mia delli 12 corr., di renderla cioè instruita delle vertenze, che nella mia causa presentano punti di rimarco, le dirigo questo foglio, che ne contiene in succinto le principali, avendone lasciate a parte molte altre secondarie superflue all'oggetto.

Nel giorno susseguente il mio arresto (3 ottobre 1827) fui condotto innanzi al giudice Mazzoni, il quale alla presenza dei due testimoni, che avevano assistito alla mia perquisizione personale, successa due ore dopo il mio arresto, verificò formalmente gli effetti rinvenutimi, consistenti in un temperino senza punta, in una canna cosí detta di zucchero, in due minute di petizioni, in tre prospetti di contabilità dell'ufficio del Registro a cui, come ognun sa, io era addetto, in due impronti o stampiglie inservienti ad ornare i suddetti prospetti ed in sessantasette baiocchi. Di tale ricognizione si compose un processo verbale, che venne firmato da me e dai testimoni dei quali non ricordo il nome; dopo di che essi vennero congedati.

S'iniziò quindi un altro processo. Oltre alle interrogazioni di uso, mi si chiese: «Se io aveva amici, e quali fossero; dove io era stato arrestato; se sapeva il motivo di mia catturazione; a quali esercizi mi era applicato», ed altre molte, che inutile sarebbe il riportare. Risposi a tutte queste domande con le piú semplici e veritiere risposte; ed all'interrogazione: «Se io era mai intervenuto a cene o ad altri divertimenti» ritenendo sopra forti motivi che il Fisco, venuto in cognizione dell'Accademia del Magnismo da me eretta, già pubblicamente notoria, avesse concepito sinistri sospetti, non esitai ad esporre il fatto pretto e genuino com'era, fondando sempre le mie asserzioni su prove positive e sopra testimonianze ineccezionabili, che assicuravano il Fisco della lealtà della cosa. E difatti nel progresso delle interrogazioni ben m'avvidi che io non m'era deluso. Quanto grande non fu allora la mia compiacenza d'aver prevenuto dei sospetti, che potevano forse essere d'aggravio agli altri [178] accademici, miei amici, e scevri come me, d'ogni dolosità per un fatto simile?

Nel giorno 21 dicembre fui sottomesso ad un altro nuovo interrogatorio innanzi al ricordato giudice Mazzoni. Non si trattò che di farmi render ragione di alcune carte scritte di mio carattere, che io non esitai a pienamente confermare. Consistevano esse in due o tre lettere dirette a Giulio Fanti, mio amico e compagno d'ufficio nel tempo che io mi trovava ammalato; e con le quali l'incaricava di una qualche mia particolare commissione. Mi ricordo pure che fummi resa ostensibile una sestina di cui non seppi dar ragione, se non che quando il giudice stesso mi specificò l'oggetto a cui era servita, cioè «a rimbrottare una donna di vecchia età che pretendeva il vanto di giovinetta»: mi sovvenne allora dell'amico Vincenzo Fiorentini, nelle di cui mani rimase tale scritto sin dall'epoca che frequentavamo la conversazione di Vincenzo Pio; e la mia dichiarazione combinò benissimo con quella che l'amico aveva precedentemente esposta senza alterazione alcuna del fatto, che altro non potè riputarsi che una semplice celia di conversazione. Mi fu pure presentato uno scritto di galanteria perquisito a Fanti, che era un capo d'opera di ridicolosità; sicché fra tutte queste carte nulla fuvvi di concludente.

Nella sera del 9 febbraio 1828, verso l'ora di notte, fui condotto non piú innanzi al giudice Mazzoni, ma al giudice Serafino Menzetti (che seguí ad esser sino alla definizione della causa il mio processante), che mi sottopose ad un semplice esame di ricognizione di altre varie lettere rinvenute a Fanti, non dissimili dalle prime, senza che contenessero la benché minima indecente espressione, che alle volte famigliarmente scrivendo può sfuggire. Lette che mi furono ed annotate nel processo, passò il giudice ad interrogarmi sopra alcune circostanze della surriferita Accademia del Magnismo, che io decifrai con la piú convincente chiarezza, adducendo nuove prove di fatto che convalidavano maggiormente l'esposto.

Eccoci al quarto esame (13 marzo), in cui le cose presero un aspetto serio e veramente perduellionico. «Venni imputato di aver tentato una sommossa, da me concertata nel maggio 1826, e da succedere armata mano nel Teatro nel tempo dell'opera a danno della truppa de' carabinieri, dietro un segnale, che apparir doveva nel palco cosí detto la Barcazza, quando la forza fosse divenuta a degli arresti [179] per un campanello che veniva nel Teatro senza sapersi da chi suonato.» Si aggiunse «che in tal epoca agiva per prima cantante la Dati; che già il concordato era deciso; i rivoluzionari pronti all'azione: ma che andò a vuoto, non già per essermi cambiato d'idea, ma perché si rese palese ad alcuni che impedirono l'eseguirlo.»

A far rilevare la falsità di questa imputazione, mi restrinsi a dire che io non era mai stato né rivoluzionario, né facinoroso, e la mia pacifica condotta n'era una bastante prova; che non aveva giammai avuti contrasti colla forza pubblica, sempre da me riguardata col dovuto rispetto.

E venendo alle discolpe di fatto, addussi che nel carnevale del 1827, e non nel maggio 1826, come mi si contestava s'era udito in Teatro il campanello in discorso, suonato, io credo, in sfregio dei soggetti tristissimi che agivano nell'opera buffa intitolata La gioventú d'Enrico quinto; né fra questi agiva la Dati, perché in Ravenna ottenne sempre applausi, e fu universalmente piaciuta; né sarebbe stata lo zimbello di un campanino che si può con fondamento credere un trastullo di una qualche signorina annoiata dall'opera. Né ad altri si potrebbe imputare simile frastuono; tanto piú che pochissima era la gente che frequentava il Teatro; e quasi tutti noi giovinotti preferivamo di stare piuttosto al caffè a fare un tresette.

Insussistente era pure la circostanza addotta del segnale che apparir doveva per la sommossa imputatami, nel palco della Barcazza, prima perché nel carnevale del 1827 l'Accademia del Magnismo, sciolta già fino dal dicembre 1826, non teneva piú in affitto detto palco, ed io, dopo questo tempo non sapevo, per cosí dire, se piú esistesse; secondo, perché in tutto il tempo che fu dagli accademici frequentato, non diede mai un'ombra di scandalo; tanto è vero che esister doveva tuttora presso Pascoli o Signorini un avviso, tenuto sempre affisso in detto palco, con cui si pregava a conservare scrupolosamente il contegno il piú civile ed educato, senza prender punto parte o in applausi o in dispregi, onde non essere segnati a dito. E questo cartello so che pervenne, a mia maggior giustificazione, nelle mani della Commissione. Feci riflettere, che oltre il suono del campanello, benché succedessero in teatro fortissime fischiate all'epoca indicata, la forza non si risolvé mai ad arrestare alcuno; motivo per cui è da supporsi che avesse essa altri ordini. Dunque la causa principale della sommossa addotta e dipendente [180] dagli arresti, non appare che dubbia, e l'effetto sospeso e condizionato in modo che rende pressoché vani i preparativi contestatimi.

Aggiunsi: Colui che mi aggrava di tale calunnia, si può dire che neppur conoscemi di vista. Decida ella, signor giudice, se questa fisionomia, se questo mio debole fisico annunziano sentimenti rivoluzionari; anche i consulti della fisiologia non sono in questi casi vani. Ma poi, il ridurre rivoluzioni al punto contestatomi, sembrami richiedere, in chi le concerta e promuove, gran mezzi, cioè di grande influenza o per autorità o per ricchezze, senza le quali non s'induce uomo a seguire i propri capricci e ad azzardarsi di sagrificar la vita. E dov'è la preponderanza? dove le ricchezze? Pazzo veramente da sé stesso si manifesta il mio falso delatore, perché confonde un'epoca con un'altra, perché adduce circostanze che col fatto svaniscono, perché insomma delira.

Pretende, per render doloso l'attentato imputatomi, che non di mia volontà, ma pel fatto altrui soltanto ne fosse impedita l'esecuzione. Ed ecco che egli stesso prova la mia insufficienza, e mi priva ad un tratto fra mille contradizioni di quella prima autorità che mi arbitrava di rivoluzionari pronti all'esterminio; autorità che, arrivata a questo punto, o non poteva aver contraddittori, o in ogni caso, non obbligata a soffrirli, né ad arrendervisi. E con molte altre ragionevoli particolarità diedi io termine a questo mio interrogatorio.

Nel giorno 25 aprile, in cui accadde il mio quinto esame, fui richiesto «della conoscenza di Angelo Mercuriali e di scritti che io aveva al medesimo consegnati», e mi si contestava d'aver ciò esposto confidenzialmente ad alcuni miei amici; e d'aver spiegato gran timore d'esser io da lui sagrificato, vociferandosi che fosse una spia; e che quei scritti non d'altro genere erano che satirici». Di piú mi sentii imputato «d'essere l'autore di una satira intitolata: Dialogo tra S. Apollinare e S. Vitale, che all'opportunità mi sarebbe stata contestata in piú ampli termini.»

La mia conoscenza con Mercuriali, dissi io allora, è incontrastabile; piú volte, dietro sue preghiere, gli ho redatte minute di petizioni e di lettere, che ho sempre rilasciate in sue mani; né so che carte d'altro genere possano presso il medesimo esistere.

[181] Il timore poi che il calunniatore m'appone, ad altro non serve che a porre in diffidenza della Giustizia le accuse che mi vengono date, perché delineando delle estremità del tutto opposte, a vicenda si elidono. Con quai differenti colori non vengo io dipinto? Allora coraggioso (vedi l'imputazione della rivoluzione da teatro) e adesso timido. In tutti i casi timor pedibus addidit alas, dice Virgilio; e di fatti se avessi avuto motivo di temere di Mercuriali, decantato ovunque per un delatore, potea facilmente sottrarmi a' suoi colpi e scampare ogni traversia.

In rapporto al Dialogo di S. Apollinare e S. Vitale, dissi non averlo nemmeno sentito mai a ricordare e che una calunnia tale era bene di esporre in chiaro, onde non ne rimanessi io innocentemente il bersaglio.

Nuove imputazioni perduellioniche (27 maggio). Consta al Fisco, cosí mi disse il giudice, «che voi progettaste un piano diretto a liberare dalle carceri di San Vitale i detenuti politici che vi erano stati rinchiusi, e ad impedire nuovi arresti; che già molti e molti si erano sottoscritti a questo piano dietro vostra istigazione, prevalendovi del termine, che negli estremi mali richiedesi estremi rimedi; e che voi vi obbligaste d'interessarvi presso la Protettrice, ossia la Carboneria, onde, adottato il vostro piano, dasse opportune disposizioni per ottenere rinforzi dalle città limitrofe ed azzardare un colpo decisivo.»

Un soffio solo bastò ad atterrare questa fragile trabacca dell'inganno e dell'iniquità.

Dal luglio in poi, esposi io, fui investito da sí fiera e pertinace malattia, che in ottobre, epoca del mio arresto, era ancora convalescente e sí estenuato, che non saprei esprimere quanti terribili sconcerti mi si rinnovarono nel fisico nei primi giorni di mia detenzione. Or io non so come si possa supporre che un uomo cosí mal ridotto, colla bocca, si può dire, sul sepolcro, quasi sempre obbligato al letto, tenda a progetti, che i piú robusti e piú sani appena oserebbero d'ideare. E certamente se mi fosse trascorso mai per la testa un piano di rivoluzione, se anche fossi stato sano, sarei subito andato a ripormi nel letto per timore d'una febbre frenetica. Non mai, come ho già detto, e ripeto, ebbi mire rivoluzionarie, assolutamente eterogenee e alla mia condotta e al mio carattere e al mio stato; tanto meno poi in un tempo il piú climaterico della mia vita. E sí che da vero questa calunnia è in sommo grado [182] romantica: si può ben dire che ha del maraviglioso. Un quasi agonizzante formar piani di sommosse, ridurle quasi all'in autem; si può udir di peggio? Ma di grazia, qual era il concerto di questo piano, come combinato? Perché riescí anch'esso a vano? Quali furono gli ostacoli che si frapposero?

Anche un pazzo uscito allora dall'ospitale, non gli sarebbe saltato mai in capo una stoltezza simile a questa che or mi s'imputa. Leviamo l'intoppo della malattia (guardate mai quello che concedo), ma la diffidenza, che sorta subito dopo i primi arresti si diffuse fortemente per ogni dove e in ogni classe di persone, non era forse sempre un argine insormontabile anche alle piú leggiere e tenui imprese? Ma quali sottoscritti adunque si va mai immaginando? Bisogna per lo meno che sia un indigeno del Paraguay colui che ciò asserisce, dando a conoscere d'ignorare circostanze le piú comuni e palesi. Ma chi mai avrebbe accudito di sottoscriversi in fogli di congiure in momenti che sarebbe stato discoperto dai muri, dai sassi e dall'aria istessa? Chi mai avrebbe azzardato di presentarsi anche al piú confidente per disporlo ad una sommossa?

Fuor di proposito si adduce poi al caso la massima che ai mali estremi convengono estremi rimedi; l'estremo è sempre fatale, e chi tenta d'indurre altrui a scopi di tal sorta e d'infervorarlo per renderli compiti, mi sembra che affacciar debba tutt'altro fuorché pericoli.

Protesto infine che i nomi di Protettrice, ossia Carboneria, sono per me del tutto incomprensibili, né so chi il Fisco intenda sotto tale denominazione.

Non si restrinse soltanto all'esposta accusa l'esame di questo giorno. Venni pur anche incolpato d'aver io «redatta una satira contro le Sacre Missioni, che al tempo del governo di Rivarola agivano in questa città;» e di aver «alterata una terzina di un sonetto dell'abate Cottignola, affissa nella pubblica piazza, alludendogli il nome di spia.»

Non altro risposi a tutto ciò, che io era sempre stato ossequioso al culto divino e verso i suoi ministri, tanto è vero che mai non ebbi reclami contro la mia morale condotta; e se non si fossero addotte valide prove per dimostrare il contrario, il mio carattere rimaneva in questa parte ineccezionabile, né vane ciarle (non sapeva sopra che fondate) potevano abbattere la verità del fatto. Ho pure sempre rispettato il simile, ed è falsa l'incolpazione che risguarda il Cottignola.

[183] Eccoci all'ultimo decisivo esame (28 maggio). Qui mi si rinnova alla mente un caos di articoli, che or tenterò alla meglio di restringere e riordinare in pochi. Sono già essi in parte il riassunto delle passate imputazioni, che si pretese annodarle al principal capo d'accusa, cioè al dialogo satirico, di cui in avanti si è fatto cenno, che qui mi venne nel modo che sono per esporre ampiamente contestato.

«Consta al Fisco, intuonò il giudice, che voi siete l'autore di un libello intitolato Dialogo tra S. Apollinare e S. Vitale principali protettori di Ravenna infamante l'E.mo Card. Rivarola e la Commissione Speciale politica; e che concertaste i mezzi con il signor Eleonoro Soragni, per far pervenire da Modena alla Commissione il detto libello. Le prove si desumono da una perizia di calligrafi rilevata col confronto di altri vostri scritti; dalla copia che venne strappata dalle colonne della piazza la notte precedente li 5 ottobre 1826, avendo essi asserito che ravvisavasi conformità di carattere, sebbene fosse molto stiracchiato ed adulterato; da una deposizione di un soggetto, noto alla Giustizia, che testificava riconoscere appieno in detta copia il vostro carattere.»

Rapporto alla seconda parte dell'accusa il Fisco adduceva: «Che Eleonoro Soragni all'epoca delli 5 ottobre detto anno non era in Ravenna, come rilevavasi dagli atti della Polizia, che gli rilasciò già qualche giorno prima il passaporto; che un soggetto, noto alla Giustizia, per fatto proprio depose avergli io consegnato una lettera per Soragni con entro la satira in discorso scritta di tutto mio pugno e carattere.»

Agli insussistenti punti, cui appoggiavasi il Fisco per sostenere la falsissima accusa della ricordata satira, innumerevoli discolpe potevansi addurre; io però mi limitai ad esporre soltanto quelle ragioni ch'erano piú che mai sufficienti ad abbatterla interamente ed a discoprire l'innocenza mia. Ma quando mai, dissi io allora, la calligrafia ha potuto desumere positivi rilievi da un carattere adulterato, stiracchiato, se appunto le adulterazioni e le stiracchiature svisano quasi i segni dell'originalità? Se calligrafi di buona coscienza stentano ben di sovente a profferir giudizi sopra confronti di un carattere non disuguale, non adulterato, ma semplicemente di diversa data, qual risultato potrà dare una tale perizia? Se un enorme abbaglio di ottica produsse tanta temerità, al lume della verità deve però svanire. Come poi [184] è mai probabile che io volessi espormi ad una certa rovina, copiando scritti satirici? Non mi sarei io prevalso in ogni caso di mano incognita, piuttosto che avventurarmi a stiracchiature, su cui non poteva mai affidarmi per essere, atteso l'impiego che copriva, universalmente il mio carattere cognito? E che diremo di colui che pretende mia la copia in questione? Nient'altro se non che additi le prove su cui fonda la sua deposizione. Dirà egli, la copia. E che vale? Non potrebbe forse essere opera delle sue proprie mani? Ciò almeno sembra piú probabile, che l'imputazione datami. L'interesse, che può essere l'unico movente di costui, non l'invidia, perché non ho mai avuto di che attrarre gli altrui desideri, non la vendetta perché non fui mai di danno ad alcuno, tutto azzarda quando rinviene premi, guarentigie ed asili, e molto piú quando può coprire i suoi raggiri col manto stesso della Giustizia. E difatti è egli piú probabile (e le probabilità in mancanza di prove decise sono di molta rilevanza) che l'accusatore per dar un qualche peso alla sua assertiva calunniosa abbia tentato d'imitare possibilmente in quella copia il mio carattere o che io stesso l'abbia redatta stiracchiandolo? Io qui mi riporto ai riflessi di sopra accennati, che non senza ragionevolezza sottopongo al giudizio del Fisco; reclamando, onde avere maggiori appoggi di rendere rimarchevoli le mie considerazioni, che mi siano rese ostensibili e la perizia e la copia in discorso, né la Giustizia, che il trionfo dell'innocenza e la depressione della calunnia ricerca, può render vana questa mia istanza.

Passando all'altra parte della contestazione riguardante i mezzi imputatimi d'aver avuto con Eleonoro Soragni per far pervenire da Modena alla Commissione la satira in discorso, aggiunsi:

Può essere che il Soragni all'epoca dei 5 ottobre 1826 avesse ottenuto, come mi si contesta, dalla Polizia il passaporto, giacché mi ricordo che aveva in animo di portarsi a Bologna per vedere lo spettacolo teatrale; ma il fatto si è che partí ai primi di novembre soltanto, dopo la cena di turno dell'Accademia del Magnismo, a cui il Soragni era addetto, la quale venne protratta alla fine di ottobre; e l'assenza del ricordato Soragni all'epoca dei 5 ottobre è insussistente, perché posso all'occorrenza documentare che questo intermedio di tempo rimase in Ravenna; fatto questo che rende vano senza altre discussioni il primo articolo di questa imputazione.

[185] Prima che divenghi probabile la consegna della lettera e della satira scritta, come mi si contesta, di tutto mio pugno e diretta al Soragni, che il Fisco m'appone d'aver io effettuato al soggetto noto alla Giustizia, bisogna premettere una prova di assoluta pazzia; che il mezzo imputato non può eseguirsi da un uomo a sé coerente. Chi mai sarebbesi posto al cimento di tanta eventualità, che anche indipendentemente dalle cautele del mezzo potevano intervenire?

Ma perché almeno non si è ricorso alle stiracchiature che sarebbero state piú supponibili, perché non esposte che alla confidenza di due soggetti, da cui in caso di perquisizioni personali trovar piú facilmente titolo di discolpe a mio e a loro garantimento? Chi mai sarebbesi posto al cimento di tanta eventualità, che anche indipendentemente dalle cautele del messo potevano intervenire?

Ma in ogni caso, né qui sono supponibili sviste ed errori, la lettera e la satira sarebbero state opera d'incognita mano, onde prevenire possibilmente sinistri risultati e dar titolo di discolpe al messo nell'ipotesi di una perquisizione personale. E poi, stando anche nei termini dell'imputazione, e qual bisogno v'era d'un terzo per spedire al Soragni la satira, quando che avrebbe potuto portarla seco? Infine; che il Fisco mi provi l'intrinsichezza, tanto necessaria a imprese di tal sorte, che avrebbe pur dovuto regnare tra me e l'anonimo. Ma ben chiara da sé stessa apparisce la calunnia, che tra vaneggiamenti i piú ridicoli non ha di che sostenersi.

Or vengo a specificare le deduzioni da cui si pretese trar motivo di convalidare l'emessa accusa.

Mi venne imputata la qualità di settario, addetto alla Società denominata della Speranza, rilevata in forza, come mi fu riferito, di molte deposizioni di altri settari e di un reo confesso in capo proprio, e lo spirito di odio e di livore nutrito da ogni settario contro il Governo e i suoi Ministri m'aveva incitato a formare il su ricordato libello.

Cosí risposi a questa imputazione: Io non appartengo né ho mai appartenuto a sètte, e quindi non so che significhi Società della Speranza. Sianvi pure deposizioni quante si vogliono che per settario mi accennino, ma posso giustamente escla[mare][19] conscientia mihi testis; [perché] se vera [186] fosse la qualità [che mi si] imputa, i deponenti [non si] sarebbero limitati ad un se[mplice] detto, ma avrebbero conva[lidato] le loro testimonianze con [qualche] prova. Per quanto posso [sapere] di sètta, mi sembra, che [non sianvi] armi, libri, né documen[ti di mia ap]partenenza. E perché su [questi] punti non vengo io atta[ccato?] Perché l'accusa, è come [tutte] le altre falsa, e falsissim[....] giustizia del tutto inco[...] ché l'emettere sempliceme[nte una] deposizione senza [prove] se dal numero non prende forza equivale al non esporla [. Io non] so se esistono settari e [se ve] ne siano, come si contesta, [degli im]puniti, ma in questo caso n[on credo] della loro politica il comp[rendere] nel novero settario soggetti [estranei] onde ai compagni toglier[e qualche] particolare sospetto, e dare [....] i risultati di loro imput[azioni] provenienti da cause totalmente diverse. Questa massima fino dalle prime misure politiche sembra risultar vera ed adottata, che molti soggiacquero a pene per inquisizioni politiche senza esser settari come in appresso il fatto ha comprovato la pubblica opinione, che li favoriva. Dunque non nude, apparenti testimonianze, ma sode prove necessitano prima di por in calcolo un'accusa, onde la Giustizia non cada nella massima delle iniquità, che è l'oppressione dell'innocenza.

La seconda deduzione si voleva desumere dalle satire, che mi furono imputate nel mio quinto esame a carico delle Missioni e dell'abate Cottignola.

Feci conoscere che una deduzione in buona logica affinché sia valida occorre che si diparta da un principio vero ed indubitato. Dunque siccome che rimaneva ancora da provarsi se quelle satire fossero opera mia, la deduzione non era di alcun valore e come se apposta non fosse. La attestazione che io richiesi di Angelo Mercuriali in riguardo al mio quinto esame, mi venne qui espressa ne' seguenti precisi termini: «Depone egli che voi gli avete date piú volte satire, ed anche da copiare».

Ma di quali satire, io dissi, intende egli parlare? Non d'altre certamente che di qualcheduna pervenutami a caso nelle mani, al tempo delle lanterne, che moltissime ne circolavano, e che egli stesso può avermi chiesto da copiare, e la sua deposizione a nulla ammonta perché non adduce prove di autografia. Onde però togliere alla Giustizia ogni qualunque sospetto, dimando che in mia presenza venghi a chiarir meglio la sua deposizione.

[187] Il terzo riflesso ricavavasi da insussistenti per non dir ridicole testimonianze, «di settari, che asserivano d'aver io quasi per istinto il vizio di rimbrottare e satirizzare altrui, ciò che mi distingueva al pubblico».

Questo articolo, dissi io allora, pochi comenti richiede. È vero, verissimo, che mi piace in compagnia di dar qualche volta la baia agli amici, che prendendone piacere non mi hanno mai privato della loro accoglienza; segno evidente che le mie burle non erano offensive, né denigranti l'altrui carattere. Che se in me fosse lo spirito di satirizzare, come mi si imputa, un qualche tristo imbarazzo sarebbemi pure intervenuto, che d'indizio or servirebbe al Fisco.

La quarta desunzione riferivasi alla mia cattiva condotta, che volevasi vilipendere con le calunnie dei due attentati già ne' precedenti esami discussi.

Da ciò io subito rilevai che la Giustizia si era, come conveniva, persuasa della falsità di tali accuse, perché diversamente non come deduzioni, ma come capi principali di delitto mi sarebbero state apposte; in verun modo però potevansi sostenere, perché la falsità non ha mai titolo a cui si possa riferire. E però esclamai che non l'infamità di vili calunniatori, ma la pubblica voce, i documenti di tutti i dicasteri sí civili che spirituali dimostravano la mia condotta, non mai alterata per cattive azioni. E qui null'altro fuvvi da aggiungere.

Per ultima deduzione venni rimproverato di bugie sostenute nella perseveranza di negar tutto ciò che il Fisco mi aveva affacciato.

Risposi francamente che io ritenevo queste espressioni di formalità alla definizione di straordinari processi; che se a colui, che in ogni costituto reclama l'intervento personale de' suoi accusatori, gli viene conferito il nome di bugiardo, io non saprei qual titolo meriti l'uomo sincero; che sí mi arreca stupore come non si distinguesse la pura negativa dall'opposizione di fatto; che se il Fisco sapesse produrmi tante prove a suo sostegno quante ne ho emesse al mio, non tarderei a dichiararmi reo convinto.

Passiamo alle circostanze addotte relativamente alla detta imputazione.

«Risulta dagli atti, mi disse il giudice, che alcuni settari vi sgridarono, onde aveste tralasciato a divulgar satire».

Ma se il Fisco caratterizza i settari pieni di livore contro il Governo (vedi la prima deduzione di questa accusa) come [188] può credere che avessero impedito ciò che era tanto conforme al loro spirito? La contraddizione è manifesta, ed a me basta il rilevarla.

Mi venne finalmente imputato che io redigeva le satire nel negozio di Francesco Gallina.

Quanto ciò sia assurdo ed improbabile ognuno da sé lo ravvisa. Ma perché non mi si contesta piuttosto che all'uso de' ciarlatani avessi io in pubblica piazza formate e dispensate satire come tanti cerotti? Niuna differenza rinvengo fra questa e l'addotta circostanza...... —

Dei quattro capi d'accusa imputati all'Uccellini, il primo era fondato, perché egli stesso ci ha raccontato come fu ascritto e appartenne alla Carboneria (cfr. cap. VI); il secondo, circa l'attentato al palazzo apostolico per mezzo di una mina, era una delle tante invenzioni del chirurgo Mazzoni (cfr. Frignani, XX); quanto al terzo, di tentativi per liberare i prigionieri politici di San Vitale dovettero ben concepirsene, poiché v'accenna in piú luoghi il Frignani, ma non è chiaro se e per quanto l'Uccellini v'abbia avuto parte; finalmente per la satira a dialogo tra i due santi ravennati, Apollinare e Vitale, inclino a credere che l'Uccellini non ne fosse l'autore: poiché egli, cosí tenace di memoria, non seppe mai dire altro che due versi della poesia trovata nel mattino del 5 ottobre 1826, e a qualcuno, come all'amico Sante Bernicoli, li recitò in dialetto: I à tirat a Rivarola, I à tirat co' na pistola, e ad altri, come a Francesco Miserocchi, li ricordò in lingua italiana: Lo sai, Apollinare? fuggito è Rivarola, Al solo scotimento d'un colpo di pistola; e in un frammento ms. degli ultimissimi anni suoi, notò: «Prima strofa della satira che apparve in Ravenna dopo l'attentato al cardinale Rivarola: Dialogo fra S. Vitale e S. Apollinare: Non sai o Apollinare Partito è Rivarola Al solo scuotimento | D'un colpo di pistola...». Questa incertezza in uomo, ripeto, di cosí tenace memoria fa credere ch'ei non solo non avesse composta, ma neppure mai letta la poesia che gli costò tre anni di carcere!

XIX. Del supplizio dell'Ortolani e compagni parla a lungo anche il Frignani, op. cit., LII-LIX, dove la resistenza del Rambelli è descritta per altro con colori un po' fantastici (cfr. il riassunto del Vannucci, I martiri della libertà ital., 7ª ediz., vol. II, pp. 21-27): l'Uccellini è piú semplice e piú fedele raccontatore. — Degli ufficiali e altri graduati [189] dei carabinieri, che furono addetti alle carceri di San Vitale, piú d'uno è accennato anche dal Frignani: egli ricorda il tenente Zampieri durissimo di modi e di cuore (op. cit. IX, XVII-XIX); il brigadiere Finina, che lo arrestò e in carcere si divertiva a insultar lui e la madre «con parole e atti di scherno» (op. cit. III, VIII, XXIV); un maresciallo romano «cognominato la Iena, barbaro non meno del Finina e del Zampieri, co' quali e' pareva congiunto in istretta amicizia» e «satellite de' piú fedeli e piú privilegiati de' commissari» (op. cit. XXV, L); un altro maresciallo innominato, che «sentiva del volpino piú che d'altro animale, però la commissione adoperavalo nell'uffizio di seduttore» (op. cit. XXXVII); e il maresciallo Branca, «fisonomia di buono, e di buono furono sempre le sue maniere», rimasto alla guardia delle carceri il giorno della esecuzione dell'Ortolani e degli altri quattro (op. cit. XVI, LIII). È probabile che questo Branca sia il maresciallo che anche il nostro autore ricorda come a lui benevolo.

XX. La sentenza che l'Uccellini voleva aggiungere alle Memorie non si trova tra le sue carte; ma a compimento del suo proposito, eccola qui fedelmente riprodotta di su la stampa originale, in foglio volante:

Commissione speciale | per le quattro legazioni | e per la delegazione d'urbino e pesaro | residente nella città di faenza | Sessione delli 26. d'aprile 1828 | TRANSUNTO | DELLA SENTENZA PRONUNCIATA NELLA CAUSA RAVENNATE DI PIÚ DELITTI, CIOÈ | DI ATTENTATO ALLA VITA DELL'E.MO E R.MO SIGNOR CARDINALE RIVAROLA LEGATO A LATERE | DELLA PROVINCIA DI ROMAGNA, CON SPARO CONTEMPORANEO DI PISTOLA A GRAVE OFFESA | DEL DI LUI COMPAGNO, LA NOTTE DEL 23. DI LUGLIO 1826 | Di OMICIDIO in odio di officio, e per spirito di partito in persona del CONTE DOMENICO MATTEUCCI, DIRETTORE | PROVINCIALE DI POLIZIA DI RAVENNA, la sera dei 5 d'aprile 1824 | Di OMICIDIO colla gravante qualità di mandato nella persona dell'Ebreo Mosè Forti di Lugo, | domiciliato in Ravenna, la sera dei 15 di marzo 1827.

Alcuni individui addetti a proscritte Società segrete concepirono fin dall'anno 1824 odio ingiusto e sacrilego contro il sullodato E.MO SIGNOR CARDINALE RIVAROLA per l'energia manifestata nell'annichilimento delle Società medesime; ed avvolsero in loro mente diversi disegni, onde vendicarsi o [190] col veleno, o colle armi. Tale odio spinse a tanto, che i settari

Angelo Ortolani, Ministro del Forno pubblico,

Luigi Zanoli, Calzolaio, e

Gaetano Montanari, Barbiere, tutti di Ravenna, maggiori di età, dopo avere il primo di loro tentato piú volte in vano di propinargli il veleno nel pane, di cui il PORPORATO servivasi privativamente alla propria mensa, si risolsero di estinguerlo coll'uso delle armi. A quest'oggetto spesso lo insidiarono nell'oscurità della notte; e finalmente, essendo prossime le ore dodici pomeridiane del 23. di Luglio 1826, mentre il lodato SIGNOR CARDINALE salito per la strada del corso nella sua carrozza in compagnia del Sacerdote D. Ignazio Muti, Canonico della Metropolitana di detta città, si disponeva di far ritorno alla propria residenza; e nel momento, in cui un servitore ne chiudeva lo sportello, uno dei complici nell'atroce misfatto dallo sportello opposto esplose una pistola, lusingandosi di uccidere il PORPORATO, ma recando invece gravi ferite al Canonico anzidetto. I sicari quindi si volsero alla fuga, abbandonando le armi, le quali furono poscia nella maggior parte ricuperate.

Il sopraddetto ANGELO ORTOLANI e GAETANO RAMBELLI, di Ravenna, cappellaio, addetto anch'esso a Società segrete, e maggiore di età, occisero insidiosamente, e pure per odio settario nella medesima Città il Direttore Provinciale di quella Polizia, conte Domenico Matteucci con colpi di pistole scaricategli sul dorso dall'agguato, circa le ore nove pomeridiane del 5. d'Aprile 1824, allorché picchiava alla porta del palazzo di una di quelle nobili famiglie, ove soleva passare qualche ora della sera.

Ed i sopranominati LUIGI ZANOLI, e GAETANO MONTANARI, la sera del 15 di Marzo 1827, tolsero di vita con esplosione di arma da fuoco alle spalle l'ebreo Mosè Forti, con mandato di

ABRAMO ISACCO FORTI, soprachiamato MARCHINO, non, senza qualche complicità del suo fratello, BENIAMINO FORTI detto CARLINO, ambedue Ebrei del Ghetto di Lugo, maggiori di età, commercianti, e domiciliato, il primo in Ravenna, il secondo in Forlí.

Sentito in iscritto, ed in voce il difensore dei prevenuti, tutti carcerati, all'appoggio della confessione del ripetuto ZANOLI in ambedue i delitti, che lo riguardano, e di altre [191] prove, ed indizi risultati dagli Atti, furono condannati come rei convinti all'ULTIMO SUPPLIZIO

LUIGI ZANOLI,

ANGELO ORTOLANI,

GAETANO MONTANARI,

GAETANO RAMBELLI,

ABRAMO ISACCO FORTI, detto MARCHINO.

Fu condannato poi alla Galera per anni sette

BENIAMINO FORTI detto CARLINO per l'espressa complicità nel surriferito omicidio con qualità di mandato:

Ed alla Detenzione per anni cinque

ANGELO BRANZANTI, di Ravenna, orefice, maggiore di età, riconosciuto indiziato di qualche dolosa prescienza nel sopraddetto Omicidio del direttore Matteucci.

Si ordinò finalmente, che MARIANO ZAULI, altrimenti detto GANGA, fabbro e DOMENICO MONTALETTI, fornaio, ambedue di Ravenna, il primo preteso complice in uno degli appostamenti fatti al lodato E.MO, ed il secondo preteso complice nell'accennata fabbricazione del pane, fossero dimessi dal carcere coll'ingiunzione dei precetti contro di loro decretati.

Dato dalla Cancelleria della Commissione speciale questo dí 9 di Maggio 1828.

Natale Lorenzini, Cancelliere.
Faenza, dalla tipografia Montanari e Marabini.

Il capo custode Mariani (ricordato anche nel cap. XXVII) era prima addetto alle carceri di Forlí e ne fu tolto per la sentenza del Rivarola: fu padre di Angelo, celebre musico vissuto dal 1824 al 1875 (cfr. Regli, op. cit., p. 307). — Monsignor Andrea Gianolli non era vicario (vicario generale arcivescovile dal 1827 in poi fu monsignor Giulio Buoninsegni di Borgo S. Sepolcro), ma uditore di S. E. R.ma l'arcivescovo Chiarissimo Falconieri (nato a Roma nel 1794, fatto arcivescovo di Ravenna il 3 luglio 1826, cardinale il 12 febbraio 1838, morto nel 1859): con tale ufficio il Gianolli appare negli anni 1827-30, e secondo il Frignani (op. cit., LVII) era un «prete della diocesi di Cesena». — Il caso dello Spada è narrato anche, con piú abbondanza di parole, dal Frignani (op. cit. LVII, LVIII), che lo designa col nome di Spadini, «mugnaio, famoso brigante sino dai tempi della Repubblica cisalpina.» È singolare [192] che non si sia trovato il nome di questo Spada (tale era veramente il suo casato) nei registri parrochiali dei defunti; ma, mi scrisse l'ottimo F. Miserocchi, sta il fatto «che costui era un brigantone di tre cotte; che faceva il magazziniere di professione, e che all'atto dell'esecuzione dei cinque impiccati si dilettava di beffeggiare i pazienti contandoli ad uno ad uno con aria di soddisfazione di mano in mano, che salivano il patibolo, come mi narrano alcuni testimoni oculari ancora viventi; tanto che col suo schifoso contegno era giunto quasi a provocare una sorda ma rumoreggiante reazione da parte degli spettatori, ma il caso provvide alla vendetta...»

XXI. Sino dall'11 settembre 1826 pubblicando in Ravenna il suo primo proclama la Commissione presieduta dall'Invernizzi invitava i cittadini alla denunzia dei reati politici; e da un'altra notificazione in data di Faenza 16 aprile 1827 appare che l'istituto della Spontanea era stato introdotto con l'editto pontificio del 6 luglio 1826 con termine utile fino al 15 marzo 1827, prorogato poi al 10 giugno, sino al quale giorno avvertiva monsignor Invernizzi esser egli delegato da Sua Santità a ricevere «le spontanee abdicazioni e le denuncie da chiunque volesse a noi presentarsi». Degli atti e procedimenti di questa Commissione speciale poche notizie si hanno nella storia (cfr. Farini, op. cit., lib. I, cap. II); non sarà inutile però avvertire che fin da principio ad uno dei suoi membri, Giovanni Ruffini, trattenuto forse in Roma dall'ufficio di luogotenente criminale, fu sostituito Filippo Francesco Carli, giudice nel tribunale d'appello di Bologna, e al cancelliere primamente nominato succedette Natale Lorenzini. Le sentenze della Commissione, di cui ho potuto avere notizia (oltre le due riferite nelle note ai capp. XX e XXV), sono le seguenti:

1827, 7 giugno: come rei di appartenere alla Società Carbonica e di aver promosse o frequentate adunanze anche dopo l'editto 6 luglio 1826 furono condannati i seguenti pesaresi: Vincenzo Pennacchini domestico, alla galera in perpetuo; Giovanni Spinaci calzolaio e Raffaele Pascucci vetraio a 25 anni, Romualdo Carandini domestico e Terenzio Ghirlanda sartore a 5 anni di opera pubblica, Nicola Conti minore di età, muratore, a sei mesi di prigionia. — Detto giorno: altra sentenza della Commissione contenente notizie particolareggiate delle società segrete di Gubbio, cioè della Vendita [193] dei figli di Bruto istituita nel maggio 1824, della società dei Figli della speranza e Fratelli del dovere istituita nell'anno 1825 e di quella dei Buoni amici promossa nel febbraio 1826 contro la società antiliberale dei Compari. — 1827, 5 luglio: Pasquale Santi pescivendolo, di Cesena, fu condannato a 10 anni di galera perché l'8 febbraio 1821 in casa Salberini durante una festa di ballo ferí mortalmente Mariano Pierini «e da una deposizione testimoniale appare che dalla Sètta Carbonica fosse designata la di lui uccisione»: il Pierini era «un esploratore della polizia» e il Santi era «sorvegliato all'epoca del delitto dall'officio della polizia locale per la sua aderenza coi facinorosi»; perciò il Santi fuggí all'estero, dando cosí indizio di colpa, e la voce pubblica lo designò subito come autore del misfatto. — 1827, 1 agosto: sono condannati Giacomo Leoni di Meldola, domiciliato in Forlimpopoli, tintore e oste, di anni 50 a dieci anni di galera, Paolo Bendandi detto Grametto mercante di bestiame, di Forlimpopoli, a sette anni di galera, Luigi Pasolini canepino, di Forlimpopoli, di anni 17, a un anno di casa di correzione, e Michele Bendandi mercante di bestiame, di Forlimpopoli, a un anno d'opera pubblica, per essere appartenuti alla società dei Fratelli del dovere «ch'è la società media fra la Carbonica e quella della Speranza» (sentenza importante per conoscere le vicende delle sezioni di società segrete in Forlimpopoli). — Detto giorno: Antonio Ballardini, di Faenza, calzolaio, condannato alla prigionia per 6 mesi per ferimento semplice avvenuto la sera del 24 maggio 1827 in Faenza a danno di Bartolomeo Savini Casadio per il «sospetto in taluno ingeritosi pochi giorni prima al fatto che il Casadio servisse qualche autorità giudiziaria nella qualità di delatore.»

1828, 10 aprile: «Risultò dagli atti che lo zelo di Antonio Bellini ispettore di polizia in Faenza nel dare opera che gli individui addetti alle proscritte società segrete non turbassero la pubblica tranquillità, eccitasse contro di lui l'odio di alcuni ascritti alle medesime»; e perciò, dopo altri inutili tentativi, egli fu ucciso la sera del 2 luglio 1826 in Faenza da due colpi di pistola esplosi per opera di Vincenzo Galassi detto Cuccolotto pignattaro e Antonio Biffi detto Biffotto vetturino, entrambi faentini, diretti nella delittuosa operazione da Carlo Filiberti flebotomo in Faenza, con complicità di Niccola Benedetti di Gubbio, cameriere in Faenza, di Tommaso Antolini oste, di Faenza, e di Sante Spada di Cotignola; con questo [194] che Galassi, Biffi e Filiberti fuggirono dal loro domicilio e dallo Stato pontificio. Per questi motivi sono condannati Vincenzo Galassi all'ultimo supplizio, Niccola Benedetti a 5 anni di galera, Tommaso Antolini a 3 di opera pubblica; si ordina l'arresto di Antonio Biffi, Carlo Filiberti e Sante Spada, e si dimette dal carcere col precetto di rappresentarsi Luigi Masotti, sartore, di Faenza, e guardia provinciale arrestato per pretesa complicità. — 1828, 6 giugno: Biagio Fedeli di S. Alberto, carabiniere addetto alle carceri politiche di San Vitale, perché «guadagnato da taluno dei detenuti, vilmente si determinò a tradire il suo officio, portando e riportando sí al di dentro che al di fuori di dette carceri, ambascerie e viglietti», fu espulso dal corpo e condannato a cinque anni di galera, piú ad altri cinque di opera pubblica come detentore di uno stile proibito. — 1828, 23 luglio: fu condannato a tre anni di opera pubblica Luigi Venturelli di Imola, «degente in Faenza», il quale «imaginò che sarebbe stato di molto suo profitto, se avesse indotto la Commissione speciale nella credulità «che dalle società segrete si macchinava una rivoluzione dai confini del Ferrarese a quelli della delegazione di Pesaro, sotto la denominazione di Vespri Siciliani»: inventò e denunziò perciò uomini, luoghi, contrassegni; poi, arrestato, confessò il delitto «accusandone per impulso i debiti contratti ed il desiderio di procurarsi qualche straordinario guadagno per estinguerli». — 1828, 4 settembre: Michele Ronci di Morciano, sartore, «addetto a società secrete», fu condannato a dieci anni di galera per aver tentato, prima in Fano, poi in Rimini il 10 maggio 1824 di avvelenare Andrea Medri di Cesena «per odi privati». — Detto giorno: Giosafat Geminiani, guardiano, nativo di Fusignano, domiciliato in Ravenna, «sospetto non leggiermente d'appartenere «ad alcuna delle società segrete», fu condannato a 10 anni di galera, perché la sera del 19 marzo 1826 mentre in Ravenna «corrissava con alcuni giovani addetti a società segrete il calzolaio Gaetano Gugnani, detto Vobis, malveduto dai settari per la sua contrarietà alle loro massime», esso Geminiani si mise in mezzo e ferí il Gugnani, che della ferita morí pochi giorni di poi. — Detto giorno: Giacomo Battuzzi, possidente, di Ravenna, fu condannato a dieci anni di galera (senza pregiudizio degli altri 15 di detenzione inflittigli per sentenza del card. Rivarola del 31 agosto 1825) perché la notte del 19 marzo 1819 colpí d'arma da fuoco il direttore della polizia provinciale di Ravenna Giuseppe [195] Lausdei, avendo complici i contumaci Vincenzo Battaglini e Tommaso Quatrini di Ravenna, che furono condannati l'uno a dieci, l'altro a cinque anni di galera. — 1828, 30 settembre (in Rimini): Niccola Martinini di Rimini, maestro di scuola privata elementare, fu condannato a 7 anni di galera perché mentre il Governo attendeva a scoprire gli autori dell'attentato contro il card. Rivarola «falsamente testificò in giudizio avergli confidato Giuseppe Previtali, che disse essere suo amico, che il legale Ottavio Bottoni coll'intelligenza del Previtali medesimo, di Luigi Serpieri, marchese Ercole Buonadrata, Domenico Piolanti, Francesco Serpieri, Achille Bocci, Giuseppe Ferranti, Giacomo Martinelli, e di Gio. Battista Grilli, era stato l'autore del vero attentato suddetto col mezzo di pistola, essendosi il Martinini approfittato della scienza, che il nominato Bottoni trovavasi in quell'epoca in Ravenna per un suo privato affare. Per siffatta testimonianza, avvalorata ancora da altri amminicoli, tanto esso Bottoni, quanto gli altri suddetti soggiacquero all'arresto e alla detenzione, fino a che non si conobbe giudizialmente la loro innocenza nel sopradetto sacrilego attentato.»

XXIII. Gaetano Bianchini fu ispettore di polizia in Ravenna sino al 1823, poi destituito perché compreso nei processi del Rivarola che lo assoggettò al precetto politico; arrestato per ordine dell'Invernizzi, si liberò colla spontanea: finí amministratore di casa Guiccioli. — Di Antonio Spada vedasi cap. LIV.

XXV. La condanna dell'Uccellini fu pronunciata dalla Commissione speciale il 23 luglio 1828: eccone il testo riprodotto di sulla stampa originale:

COMMISSIONE SPECIALE | PER LE QUATTRO LEGAZIONI | E PER LA DELEGAZIONE D'URBINO E PESARO | RESIDENTE NELLA CITTÀ DI FAENZA | Sessione delli 23. di luglio 1828. | TRANSUNTO | DELLA SENTENZA NELLA CAUSA RAVENNATE DI LIBELLO FAMOSO.

Prima che apparisse l'alba del giorno 5. d'Ottobre 1826., si trovò affisso in due luoghi della Città di Ravenna un lungo scritto in versi contenente un Dialogo fra li due Ss. Martiri Apollinare, e Vitale, principali protettori della nominata Città, ingiurioso al Governo, ed ai suoi Ministri. Restatone per qualche tempo occulto l'autore, giunse poi [196] la COMMISSIONE SPECIALE a riconoscerlo nel giovane Primo Ucellini di Ravenna, d'età maggiore, impiegato nell'officio del Registro, e sospetto d'appartenere a Società Secrete. Non avendo presentato l'incarto quella sicurezza di prove, che richiedevasi per la pena ordinaria, la COMMISSIONE stessa, inteso il Difensore, ha condannato il suddetto Primo Ucellini alla pena straordinaria di anni tre d'Opera pubblica.

Dato dalla Cancelleria della Commissione Speciale questo dí 30. di Luglio 1828.

NATALE LORENZINI, CANCELLIERE.
Faenza dalla tipografia Montanari e Marabini.

Su monsignor Pietro Marini, qui accennato, si veda la nota al cap. LXXV. — Nella Rocca d'Imola, dove fu condotto a scontare la pena convertita in semplice detenzione, l'Uccellini trovò ed ebbe compagni alcuni dei condannati dal Rivarola: il conte Eduardo Fabbri di Cesena, notissimo scrittore di tragedie e insigne tra i liberali di Romagna, e l'avvocato Battista Franceschelli Carrozza di Castel Bolognese: del Gamberini, pur carcerato in Imola, non ho piú precise notizie. — Del tempo della prigionia imolese restano le seguenti lettere dell'Uccellini a Giulio Fanti: 1. Lo esorta a credere nella sua amicizia inalterabile e gli rende buona testimonianza di fedele amicizia: «...... Il tuo carattere sempre integro e leale abbia ora quel risalto, che gli si conviene, e col rendere ad altri ostensibile questa mia resti garantito l'onor tuo. Io non esito a dichiarare che era in tuo arbitrio l'accrescere il mio sagrificio, e tu n'avevi opportuni mezzi, ma l'interesse, funesta e principale sorgente di tutti i mali, non ha potuto tralignare nell'animo tuo, dotato di quelle prerogative, che ben distinguono il buono dal falso amico»; e seguita dicendo di aver ben conosciuto tutti i suoi avversari e di esser «la vittima dell'interesse e dell'infamia» (17 settembre 1828). — 2. «Dietro a quanto t'annunziai nell'ultima mia, è d'uopo che ti risponda per un titolo che non può fare a meno di non interessare ogni uomo, cui stia a cuore il bene del suo simile. Tu m'annunziasti che la patria trovasi in discordia per sospetti e diffidenze a segno che ne temi tristissime conseguenze. Ma come può esser questo? Non riflettesi che il malumore e la dissensione sono l'intera rovina dei popoli? Non sono forse [197] state sufficienti le passate vessazioni per opprimerci, che noi stessi ne vorremo delle nuove e piú funeste suscitare? ah! no, miei cari ed amati cittadini. Sbandite gli odi, ritorni in voi la pace e l'amore. Contro coloro, che spronati dall'interesse osarono indegnissime azioni, provvederà la giustizia divina, che non mai lascia impuniti peccati snaturati. Non li vedete voi già in preda ai rimorsi di coscienza, illanguidir tutto giorno, e venir meno come cera al fuoco? I sentimenti di natura sono fortissimi sí che uomo alcuno invano tenta di superarli. Qual maggior persecuzione di questa? Ben suppongo che all'aspetto di tanti mali la vostra immaginazione sarà alterata ed il vostro cuore disacerbato. Ma ricorrete voi stessi alla ragione, adattatevi ai di lei giusti consigli e voi troverete nel vostro turbamento un pronto ed efficace rimedio. Non tutti meritano disprezzo. Fa d'uopo riflettere alle circostanze prima di decidere sull'altrui carattere, né può riputarsi indegno chi si è attenuto a' mezzi prudenti, e chi strascinato dalla forza ha saputo accudire agli atti che questa ha voluto disporre. Siate in questo punto ragionevoli. Assicuratevi pure che pochi sono stati veramente i perfidi, che si sono lasciati accecare dall'ambizione e dall'interesse. E nel frangente in cui attualmente siamo v'è però una regola sicura che serve a conoscere l'uomo, come l'oro la pietra di paragone. Chi non sa vincere le proprie passioni, emanciparsi dai vizi è sempre un soggetto pericoloso, cattivo, capace d'ogni nequizia. Questa verità, convalidata dagli esempi, vi sia sempre dinanzi agli occhi, e vi serva di guida nel stringer vincoli d'amicizia: ché dagli ignoranti e viziosi non può esser mai l'amicizia rispettata. Non sempre il male suol esser danneggevole. Se la trista catastrofe non ha guari successa vi sarà d'esperienza per l'avvenire, riflettendo sulle cause che l'hanno originata, ne risulterà un bene maggiore del passato. Non disperatevi adunque; ripacificatevi, o miei cari: tra voi piú non regni quella ingiuriosa diffidenza, che contrasta i bei principi del ben sociale. È forse il tempo questo di rivolger contro voi stessi l'ingiurie ed il disprezzo? L'ammalato si sostiene piú colla propria energia che coi rimedi dell'arte, e se viene che s'intorbidisca l'animo la perdita è quasi irreparabile. Gettate uno sguardo di compassione sulla misera Romagna, nostra comune madre, e spero che di [198] subito vi si accenderà desiderio di soccorrerla, obbliando le private dispiacenze e facendo argine al danno, che sembra soprastarvi. Queste e non altre sono ora le prove di tenerezza filiale, che compartir possiamo verso ad una madre che non fida che nelle nostre affettuose sollecitudini. E che deggio di piú dirvi? La vostra saviezza e prudenza non permetteranno sicuramente che intervengano tristi effetti da una diffidenza, che deve essere ammorzata o almeno ridotta a quel semplice dubitare proprio d'ogni uomo probo ed assennato, e voi saprete ben ponderare le circostanze a seconda di quell'amore di cui dovete sempre essere inspirati a vantaggio comune. Deve pertanto il tuo zelo animarti presso gli amici a far sí che dimentichino gli odi e si risguardino invece come quell'amore che è il perno principale dell'umano consorzio. E chi non sa che dove manca la concordia ogni cosa è in pericolo ed in rovina? Questo sentimento deve esser proprio d'ogni cittadino, anche del piú neutrale, perché a tutti preme il bene della Società in cui si vive e con orrore da tutti si risguardino le guerre intestine. Però tu non farai che adempiere ad un sacro dovere civile, adoperandoti in modo e per quanto ti sia possibile che non intervengano dei danni fra i tuoi ed i miei concittadini, che io amo piú della mia vita. Se mi sono dilungato in questa materia, imputane la cagione alle premure che prendo al mio loco nativo; io di tutto farei per vederlo tranquillo, né potevo rimanermi in silenzio sopra un punto cosí importante: nessuno potrà darmene disprezzo, perché è di obbligo civile e naturale il procurare il bene del suo simile e specialmente dei propri concittadini. Ti assicuro che la trista notizia, che riguardo ad essi tu mi dasti, mi fece un'impressione terribile e bastò ad affliggere ed alterare l'animo mio, già da lungo tempo assuefatto alle disgrazie con esemplare imperturbabilità.» (19 settembre 1828). — 3. «Che bella temerità: ma sono in prigione; e tutto possono azzardare... Leggi quanto il Mercuriali ha ardito di scrivermi: ma le sue ciarle son vane: il fatto è quello che conta. Io credo che sia per impazzire; il costituto che mi ha apposto in garantimento è curioso, e tutto fantastico..... Pondera bene la nota del l'art. 1º; essa ti risguarda; e quella colpa per quanto vedo, che ha egli, vorrebbe a te addossarla. Puoi ben credere che io già non gli rispondo; e a te dirigo la lettera, onde [199] ne facci quelle riflessioni di fatto e di circostanze, che io non posso conoscere, e me le affacci....» (senza data, ma della fine di maggio 1829). — 4. Lunga lettera a proposito di un dissidio tra il Fanti e la sorella dell'Uccellini «per causa di amore» (19 marzo 1830). — 5. «Ieri ebbi un assalto febbrile che mi tenne in camera......»; per divagarsi rilesse piú volte il canto XII della Gerusalemme liberata e dai casi di Clorinda trasse ispirazione a comporre un sonetto In morte di Orsola Montanari giovane pregevole per beltà e per onesti costumi, rapita ai viventi nel fior degli anni (12 maggio 1830). Ecco, per dare anche un saggio delle rime dell'Uccellini, il sonetto pietoso:

Qual fulge in cielo la diurna stella

Allor ch'è nunzia di ridente giorno;

Tal viddi in sogno oltre l'usato bella

Donna, che divo amor spirava intorno.

Tu del mio lido, ti ravviso, quella

Sei che lo festi di tue grazie adorno.

Oh! quanto 'l casto spirto tuo si abbella

Al lume del beato almo soggiorno.

Lieta sorrise, e con benigno ciglio,

Vedi, mi disse, come ingiusto è il pianto,

Che scorre ancor su'l mio terrestre esiglio.

Morta non son io già: vita migliore

D'eterni beni ho nell'empireo santo.

E in grembo ascese all'infinito Amore.

La terza lettera merita uno schiarimento. L'Uccellini, durante il processo, aveva saputo che a suo carico avesse deposto come testimonio il suo concittadino e amico Angelo Mercuriali, e dopo la condanna se ne dolse fortemente. Il Mercuriali gli scrisse allora una lunga lettera, del 23 maggio 1829, protestandosi innocente, riferendo l'interrogatorio subito innanzi al giudice Mazzoni e descrivendogli nebulosamente chi fossero i veri denunziatori: e in codesta sua difesa, riferendo da uno scritto di Santo Rossi (scrittore politicante dei tempi della Cisalpina) alcuni tratti sui falsi amici, alle parole La lingua sa affettare la sincerità, ma l'anima è bugiarda e sleale, vi appose questa nota: «Fra questi è uno appunto che tu gli scrivi; basta.....» L'Uccellini intese che si alludesse al Fanti, e sicuro della fedeltà e amicizia sua, mandò a lui stesso la lettera del Mercuriali, dichiarandosi convinto che da costui fosse venuto il sospetto per cui era stato condannato (cfr. ciò che ne dice nella lettera sul processo, riferita nella nota al cap. XVI).

[200] XXVI. In questo e nei seguenti capitoli sulla rivoluzione del 1831 e sulle sue conseguenze l'Uccellini, oltre che ai ricordi personali, molto attinse all'operetta di Antonio Vesi, Rivoluzione di Romagna del 1831, narrazione storica corredata di tutti i relativi documenti, Firenze, tip. Italiana, 1851: a illustrazione di questi capitoli è da vedere anche il libro di Gioacchino Vicini, La rivoluzione dell'anno 1831 nello Stato romano, memorie storiche e documenti inediti, Imola, Galeati, 1889.

Sulla liberazione dell'Uccellini abbiamo due lettere di lui al Fanti: nell'una, dell'11 luglio 1830 da Imola, gli annunzia di essere libero e in casa dell'amico Mondini e che tornerà a Ravenna la sera del 13 accompagnato dagli amici Zotti, Mondini e Daiana, e desidera sia preparata una buona cena in casa sua «ove concorrino i piú buoni e cari amici, che io tengo come una parte di me stesso, come Venturi, Guerrini, Ortolani, Roncuzzi»; nell'altra, del 12 luglio, scritta «dalla casa dell'amico dott. Mongardi», conferma ciò che ha scritto nella precedente.

Sulla morte di Ferdinando Rossi si veda G. Mazzatinti nella Rivista storica del Risorg. ital., vol. II, pag. 240.

XXVII. Prolegato in Ravenna al momento della rivoluzione del '31 era monsignor Giuseppe Antonio Zacchia, che da tre deputati del popolo, Apollinare Santucci, Giovanni Montanari e Agostino Bcccaccini fu invitato il 6 febbraio a cedere il governo a una commissione provvisoria di sette cittadini: questi furono i sei ricordati dall'Uccellini e il prof. Pietro Ghiselli da lui dimenticato.

Gli accenni che l'Uccellini fa qui e altrove all'onorando patriota Odoardo Fabbri saranno piú pienamente chiariti quando pubblicheremo in questa Biblioteca un volume di Ricordi e lettere di lui, e specialmente dai Sei anni e due mesi della mia vita passati in prigione, narrazione dettata dal Fabbri «con intendimento di lasciarla per ricordanza dei delitti dei papi»; per ora si può vedere ciò che ne dice G. Mestica, Manuale della letter. ital. nel secolo decimonono, vol. II, pp. 404 e segg.

Di Gaspare Della Scala trovasi il nome sotto la protesta Gamba Ghiselli, cosí: Gaspare Della Scala, che giurò di viver libero e di osservare la Costituzione, domanda l'esterminio dei persecutori della medesima; e però nelle liste di proscrizione del 1799 era detto di lui: «Costui è stato uno dei [201] piú scelerati e sanguinari di Ravenna; sempre meditava arresti di povere persone innocenti; ambiva di poter sottoscrivere sentenze di morte, essendo uffiziale ne' Granatieri: insomma perfido al maggior segno». Durante il Regno italico chiese il 23 ottobre 1808 l'ufficio di commissario di polizia di Ravenna, che tenne per piú anni, e riebbe nel '31 quando molti furono richiamati agli stessi uffici che avevano avuti sotto il governo napoleonico.

XXVIII. Ruggero Gamba Ghiselli, figlio del conte Paolo e di Marianna Cavalli, nacque in Ravenna nel 1770; di undici anni fu posto agli studi nel Collegio dei nobili, ma nell'85 si dovette levarlo «per riformarlo dall'indole troppo focosa», dicono i registri dell'istituto: fu allora mandato al Collegio di Parma, e vi si segnalò per ingegno facile e vivo. Alla venuta dei Francesi in Romagna nel febbraio 1797 si mostrò ardentissimo giacobino e fu fatto comandante della Guardia Nazionale di Ravenna; promotore indefesso di dimostrazioni democratiche e di feste repubblicane, recitò e pubblicò parecchie allocuzioni e discorsi pieni di fremiti e di frasi altosonanti (p. es. vedasi il suo tra i Discorsi pronunciati in Ravenna nel giorno della festa patriottica prescritta dalla legge 22 Pratile anno VI Repubbl. in occasione di solennizzare l'alleanza della Repubb. Cisalpina con la Gran Nazione, Ravenna 1798, p. 8-11): tra gli altri, notabile l'indirizzo di protesta al Corpo legislativo Cisalpino quando si sospettavano alterazioni nella Costituzione per opera dell'ambasciatore Trouvé (fu letto nella seduta del 21 luglio 1798 ed è stampato, con altri consimili indirizzi di patrioti d'altre città di Romagna, nel Redattore del Gran Consiglio della Repubb. Cisalpina, bimestre 5º, pag. 1311-16), scritto dal Gamba Ghiselli e firmato da molti altri cittadini, con le piú esaltate e strambe dichiarazioni. Nei tempi piú quieti del Regno italico il Gamba Ghiselli si tenne in disparte; ma restaurato il Governo pontificio, si mescolò alle trame della Carboneria sí che il Rivarola lo condannò a venti anni di detenzione: fu liberato nel 1829. Dopo breve esilio nel '31, ritornò in patria, e morí poi nel 1846. È nota l'amicizia sua con lord Byron che amò la Teresa Guiccioli e trasse seco a morire in Grecia Pietro Gamba, l'una e l'altro figli di Ruggero.

L'ordine del giorno del Gamba Ghiselli, accennato dall'Uccellini, è in data del 13 febbraio 1831 e indirizzato alla Colonna mobile della Guardia nazionale comandata da Giovanni [202] Montanari, che «vi sarà fida scorta in ogni evento», diceva il Gamba, come «vi fu capo nella difficile giornata della Rigenerazione»: un altro ordine del giorno del 23 febbraio riguarda l'ordinamento della Guardia sedentaria.

XXX. La narrazione del Fabbri, qui accennata dall'Uccellini, dei fatti cui partecipò nel 1831 la Colonna mobile dei Ravennati si può leggere nel Diario ravennate per l'anno bisestile 1864, già cit., alle pag. 18-23.

Vescovo di Rieti era sino dal 1827 Gabriele Ferretti (nato in Ancona nel 1795, morto in Roma nel 1860), non ancora cardinale, alla qual dignità fu riservato in petto nel 1838 e pubblicato nel '39: sulla difesa da lui organizzata in Rieti nel '31 si veda A. Vitali, Gabriele de' conti Ferretti card. di S. R. C. e vescovo di Sabina, Roma, tip. Aureli, 1867, pag. 22-24.

XXXI. Tommaso Fracassi Poggi cesenate fu chiamato a far parte del Comitato di governo nella sua patria il 6 febbraio 1831, poi con Vincenzo Fattiboni fu deputato all'Assemblea di Bologna, e il 16 marzo fu nominato prefetto di Ravenna, ove tenne breve governo: ritiratosi a Cesena, vi morí poi il 21 gennaio 1836.

Luigi Bonaparte, terzo fratello di Napoleone I, nacque nel 1778, fu re d'Olanda dal 1806 al 1810; caduto l'impero, visse prima a Roma, poi a Firenze occupato negli studi di storia e letteratura; morí a Livorno nel 1846. Dalla moglie Ortensia Beauharnais ebbe tre figli: Napoleone Carlo (n. 1802, m. 1807), Napoleone Luigi (n. 1804, m. 17 marzo a Forlí) e Carlo Luigi Napoleone (n. 1808, m. 1873) che fu imperatore dei Francesi col nome di Napoleone III. Questi ultimi, educati in Italia e ascritti a società segrete, si gettarono per legami di sètta nei moti romagnoli del '31, contro il volere del padre, ma il Governo provvisorio cercò di allontanarli mentre essi si erano uniti al corpo dei volontari che assediava Civita Castellana: se non che il primo cadde malato a Forlí, e morí dopo breve malattia; mentre l'altro, con l'aiuto della madre, sfuggiva agli Austriaci riparando in Francia. Si veda, in proposito, G. Mazzatinti nella citata Riv. storica, vol. II, pag. 248.

XXXII. Dei due ravennati caduti nel fatto di Rimini sappiamo solamente che Antonio Baccarini era volontario e Domenico Zotti, figlio di Giuseppe, era caporale nella Colonna mobile.

[203] XXXIII. Sulla questione della firma del Mamiani nella capitolazione di Ancona si può vedere il mio scritto, La giovinezza e l'esilio di T. Mamiani, 2ª ed., Firenze, Sansoni, 1896, pag. 32, 52, 92-94.

XXXVII. Per i nomi e le notizie dei 38 eccettuati dall'amnistia gregoriana si veda pure La giovinezza e l'esilio di T. Mamiani, pag. 40-47. Fra essi il medico Sebastiano Fusconi potè tornar presto in patria, donde, essendo rimasto fedele ai principi liberali, dovette riprendere poco dopo la via dell'esilio, ritraendosi a vivere con la famiglia a Santa Maura nelle Isole Jonie. Rimpatriò solo allorché, instaurato il governo costituzionale di Pio IX, fu eletto rappresentante di Ravenna alla Camera dei deputati, della quale fu vicepresidente; si trovò il 15 novembre 1848 tra i pochi accorsi in aiuto di Pellegrino Rossi, già colpito dal pugnale omicida, e tentò inutilmente i rimedi della scienza a salvarne la vita preziosa; piú tardi andò a Gaeta presso Pio IX, per eccitarlo in nome della parte piú moderata al mantenimento delle franchigie costituzionali, ma non n'ebbe che vane parole; dopo il 1859, fu deputato al Parlamento, fece parte dei Consigli comunale e provinciale di Ravenna, e fu amministratore giudiziario della Pineta; morí nel 1888 (cfr. P. D. Pasolini, Giuseppe Pasolini, memorie, Torino, Bocca, 1887, pag. 145 e segg.).

XXXVIII. Si veda il Racconto dell'assalto di Gaetano Tarroni e dei suoi seguaci contro la Guardia urbana nel 1831 nel Diario ravennate per l'anno 1879, pag. 34-40: il fatto fu il 16 dicembre 1831.

XXXIX. Sui fatti del gennaio-febbraio 1832 si vedano le notizie date sotto il titolo: 20, 21 gennaio e 5 febbraio 1832, L'ingresso delle truppe pontificie nelle Romagne nel Diario di Ravenna per l'a. 1863 (Ravenna, tip. Angeletti, 1862), pp. 14-18, e quelle tratte dalla Storia della città di Forlí di Giuseppe Calletti e messe in luce da G. Mazzatinti in un elegante opuscolo senza titolo, pubblicato per le Nozze Fortis-Saffi (Forlí, tip. Bordandini, 1892). Inoltre a illustrazione di questo capitolo è opportuno citare la Narrazione esatta e sincera degli avvenimenti i quali ebbero luogo in Ravenna nei giorni 7 ed 8 febbraro dell'anno 1832, distesa nel 1841 dal capitano Sante Paganelli, indirizzata da lui al Gonfaloniere di Ravenna e quasi per giustificare sé stesso dall'accusa [204] di essersi diportato male in quelle tumultuose e dolorose giornate (conservasi nella Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, Mss. Risorgimento 75).

XL. Il Canosa qui ricordato è il napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, feroce tipo di reazionario, che presto sarà fatto conoscere nei suoi scritti e nei suoi atti ai lettori della nostra Biblioteca: il «colonnello austriaco», come dice l'Uccellini, deve essere il barone Francesco Marschall von Bieberstein, brigadiere d'artiglieria nell'esercito austriaco.

XLIV. La vittima qui ricordata degli odi settari è Domenico Antonio Farini, che morí colpito dal pugnale dei Sanfedisti il 31 dicembre 1834: di lui parlerà degnamente Luigi Rava, pubblicando in questa Biblioteca il suo scritto inedito sulla Romagna dal 1796 in poi; per ora, il meglio sopra Domenico Antonio Farini si ha nei cenni dettati da Luigi Carlo Farini e pubblicati nella Biografia Universale del Passigli.

XLVI. Di questi arresti ravennati del dicembre 1832 fu data notizia nella Giovine Italia (n. V, pag. 215-216) con queste parole di corrispondenza da Forlí: «17 dicembre. Eccovi i nomi de' sei individui ultimamente arrestati a Ravenna la notte del dí 15 al 16 corrente, e poi tradotti a Bologna. Scala, professore di liceo, già direttore di polizia in altri tempi. — Ghiselli, professore, idem. — Due Boccaccini fratelli, ricchi possidenti. — Buraccina, locandiere. — Uccellini, ex-segretario del colonnello della guardia civica. — Il Boccaccini Agostino esciva da malattia mortale: era convalescente, ed aveva un vessicante al collo aperto: la carità pretina lo ha trascinato tra ceppi a Bologna. — 24 dicembre. ..... Dopo essere stati tradotti a Bologna, i sei hanno avuta intimazione d'esiglio dallo Stato. Or non potevano averla in Ravenna? e perché dar tanto affanno alle loro famiglie?» — Non sarà inutile avvertire che erroneamente il Della Scala era qui indicato come professore del liceo, poiché non tenne mai questo ufficio, e che Buraccina era il sopranome di Antonio Ghirardini (cfr. cap. XLVIII).

XLVII. Di Gaspare della Scala già si è parlato nelle note al cap. XXVII. — Pietro Ghiselli fu professore di fisica e chimica nel collegio o liceo di Ravenna dal 1819 [205] in poi; e dopo la breve interruzione per questo arresto, ritornò alla sua cattedra, che tenne fino al 1840. — I due fratelli Boccaccini, dopo breve esilio, rimpatriarono: Agostino morí in Ravenna il 24 gennaio 1875; Gregorio fu dopo il 1860 capitano della Guardia nazionale e morí circa nel 1864.

XLVIII. Della dimora dei profughi Ravennati nel territorio lucchese abbiamo piú precise notizie da una lettera che l'Uccellini scrisse dalla villa di Tofari il 13 febbraio 1833 a Giulio Fanti; vi si ricorda come presente in quel luogo il Della Scala, e tra l'altre cose vi si legge: «... Io non so qual destino m'attenda. Io mi voglio recare direttamente a Parigi, e presentarmi di persona al Ministro degli affari interni coll'appoggio delle persone a cui sono raccomandato; una pensione almeno, anche maggiore dell'ordinario, sembra che non mi dovesse mancare.... Saluta caramente la mia famiglia, insinuale disinvoltura; io sto bene, non sono in mani dei satelliti della Commissione, e ciò non è poco.» — Una breve biografia di Antonio Ghirardini sopranominato Buraccina pubblicò l'Uccellini nel Diario ravennate per l'a. bisestile 1864, p. 23-25, e da questa e dall'Elogio di Antonio Ghirardini scritto da A. Frignani (Parigi, tip. Delaforest, 1835, in-8º; pp. 20) si raccoglie che il Ghirardini, oste nel sobborgo di Porta Sisi, aveva formato una società composta di lavoranti nei molini e nella pineta, che egli veniva disciplinando a servigio di eventuali disegni politici in senso liberale; perciò nel 1821 fu arrestato e dopo quattro anni condannato alla detenzione (perpetua, secondo l'Uccellini, per dieci anni secondo il Frignani; ma fu invece di 20 anni, cfr. p. 149). Liberato intorno al 1830, ritornò in patria e partecipò ai fatti dell'anno di poi, colla Colonna mobile ravennate, poi al principio del 1832 accorse con altri ravennati contro le milizie pontificie entrate in Romagna. Fallito quel tentativo di resistenza, il Ghirardini fu, il 7 febbraio, alla testa dei cittadini che costrinsero i papalini a fuggir di Ravenna; e piú tardi, designato come uno dei capi liberali in uno degli opuscoli del principe di Canosa, fu arrestato, come sappiamo dall'Uccellini; e con lui esulò in Francia, dove fu assegnato al deposito di Mende con il sussidio governativo di lire 23 il mese: ivi morí il 16 dicembre 1834, compianto da tutta l'emigrazione romagnola.

[206] Da questo punto innanzi, sino al cap. LIV, formano opportuno riscontro e compimento alle Memorie le lettere che l'Uccellini scrisse dalla terra d'esilio, 64 delle quali ho potuto vedere, dirette per la maggior parte a Giulio Fanti, anche per gli altri suoi di casa; sí che credo utile darne via via succinto ragguaglio e qualche estratto, che chiarisca e compia la narrazione delle Memorie. — La lettera 1ª, da Marsiglia 14 marzo 1833 al Fanti (come tutte le altre che saranno citate senza speciale indicazione), contiene un racconto del viaggio di mare da Livorno in Francia: «Montai a bordo del brigantino toscano denominato l'Adelaide, comandato da un genovese, il giorno 7, e non partii che il giorno successivo in compagnia di tre modenesi ed un parigino. Il vento era favorevole ed il cielo sereno. Si navigò bene tutto il venerdí, il sabato e parte della domenica; ma verso sera s'intorbidò l'atmosfera, onde il capitano, prevedendo un temporale, aveva deliberato di prender porto ad Angavi. Ma il pilota, che era un napolitano, lo persuase in contrario; e si tirò di lungo. Erano le nove della sera, quando mosse da sud-ovest un vento fierissimo, che mise in furore il mare; si ammainarono in fretta le vele e si praticarono tutte le operazioni richieste dalla nautica in simili emergenti; ma la burrasca diveniva sempre piú terribile. Noi vivevamo tranquilli nel camerotto del capitano, quando l'urlare del vento, le scosse straordinarie del legno, le manovre e i gridi dei marinari ci scossero e ci avvertirono del pericolo. Io pel primo salii in coperta, ma oh Dio! che vista: un cielo carico di nubi, rischiarato di quando in quando da un piccolo barlume di luna; un mare tumultuoso che alzava le onde di sopra al legno; un vento che orribile fischiava; i marinari in iscompiglio; il timone abbandonato: tutto ci annunziò una inevitabile perdita. Il capitano ordinò il getto delle merci, consistenti in ossa, che qui servono alla raffinazione dello zuccaro. Tutti noi ci mettemmo a sgombrare il legno; il vento ci trasportava da una parte e dall'altra, e le ossa da noi gittate ricadevano su di noi, onde riportammo non poche contusioni. Dopo di aver esaurito ogni sforzo, alcuno di noi cadde come in isfinimento, oppresso dalla fatica ed esterrefatto dal pericolo. Io specialmente mi distesi in un angolo della barca in una terribile agonia. La patria, la famiglia, gli amici preoccupavano con dolore la mia mente. Il morire è penoso, ma il veder la morte con [207] tutti gli orrori i piú spaventevoli, è un'angoscia indicibile. Agghiacciato, tutto molle dall'acqua e dalla neve che cadeva, mi ritirai nella camera del capitano, invano cercando di dar tregua all'affanno. I miei compagni si ridussero pure sotto coperta, tutti al sommo afflitti. Il napolitano, che aveva dissuaso il capitano a non prender porto, prese a reggere il timone abbandonato ed il regolò con somma bravura. Apparve finalmente l'alba del giorno 11, il vento cominciò a moderarsi, e noi ci trovammo quasi dirimpetto a Tolone. Il capitano vuole proseguire il viaggio, giacché aveva il vento in poppa, e nel dopo pranzo di detto giorno ci trovammo nel golfo di Marsiglia dopo un viaggio di tre giorni e mezzo.... Un altro legno, portando emigrati modenesi, ha naufragato; «ed i passeggieri si sono salvati sull'albero maestro del legno, approdando in una montagna vicino a Tolone; un di loro, siccome erano ignudi, è perito dal freddo, si chiamava Malagoli. Ho trovato qui molti italiani; io partirò presto per Moulins, da dove mi trasferirò a Parigi...» — La lettera 2ª, da Moulins, 22 aprile '33, parla della richiesta fatta al Valli, viceconsole francese in Ravenna, di un certificato che specificasse appieno l'evento dell'ultima mia detenzione, l'intimatomi esilio, i mali sofferti per cause politiche, le mie plausibili qualità morali e il bisogno che ho di assistenza... Spada, che ne ha uno quasi simile del console d'Ancona, ha conseguite e consegue non tenui gentilezze.....»; è giunto a Moulins quando «per ordine governativo era installata una Commissione incaricata di riformare il deposito» (degli esuli pensionati): «io mi sono ad essa presentato, dietro un di lei ufficiale invito, e le ho esposto l'ultima mia storia in un breve ma forte promemoria, sanzionato dalla certificazione del capitano Montallegri, membro di detta Commissione,» ma nulla ha ottenuto per mancanza di recapiti; ha scritto al Frignani a Parigi «accludendogli le commendatizie di Sercognani e Mamiani «per essere riconosciuto come rifugiato e avere il sussidio, ma la risposta è stata poco confortante, perché il Frignani non ha potuto ottener nulla, neppure con l'interessamento del generale Sebastiani; rende conto del suo stato morale e materiale e dice di essere stato accolto presso una signora Genovieffa Praneraque, per dare lezioni d'italiano a sua figlia; convive con lo Spada, che è «lo specchio dell'economia.»

[208] XLIX. Lettera 3ª da Moulins 31 maggio '33: «... Una parte dei rifugiati si ritiene piú abietta di un'altra, perché meno facoltosa ed educata, inveisce, minaccia, figura di essere oltraggiata, dirige accuse di ambizione e di superbia perché non è seguita nei suoi vizi, si raduna, elegge capi di sua soddisfazione, diviene ad insolenze forti, ed ecco che la parte offesa se ne risente, dalle parole si passa ai fatti, e ieri sera sul boulevard des Italiens successe una seria baruffa, battaglia a bastonate, fortuna che non comparirono ferri. Io mi trovai in mezzo alla faccenda, come parte passiva; non feci altro, unito ai buoni, che di sedare il tumulto, e pare assopito e pare che non abbia a rinnovellarsi, si sono ritirati i ricorsi dal procuratore reale. Ho la consolazione di dire che nessun romagnolo vi ha avuto la benché minima parte: intanto il nome italiano soffre; ecco il mio rammarico, il mio piú acerbo dolore: fratelli contro fratelli, che orrore!»; ha ottenuto in via provvisoria la pensione mensile di 45 franchi e si duole che gli amici di Romagna non abbiano saputo raccogliere qualche scudo per lui; vivono insieme, sei romagnoli «idest io, due Morandi di Lugo, Morri di Faenza, Montallegri e Spada» e per poco tempo è con essi Palombi di Ancona, che ritornerà a Marsiglia, e cosí provvedono ai pasti in comune spendendo 16 soldi a testa per giorno; «Abbiamo fatto i funerali a due rifugiati modenesi, uno vecchio morto di etisia senile e l'altro di mezza età rapito da un accidente, uno ricco e l'altro povero; noi tutti li abbiamo accompagnati alla chiesa, indi al cimitero, e sulla tomba venne proferito energico discorso, riportato sui fogli francesi»; dà notizia della sua «degna ed ammirabile scolara», lasciando intendere di esserne innamorato: «Dirai a Scala che non è molto che ho avuto notizia de' miei compagni d'infortunio, so che si trovano a Tofari; il di lui padre, scrivendomi, mi rese sicuro che in giugno si sarebbe diretto a queste parti; rapporto alla sua domanda, posso dire che molti italiani medici fanno qui fortuna, conosco Pironi, Tampellini di Modena, i quali agiscono assai; so ancora che un altro medico italiano è al servizio militare in Algeri; se decisamente si arruolano medici per le colonie, è cosa che qui non si sa precisamente, prenderò altre informazioni dall'alto e.... gliele farò note»; Angelo Frignani è a Parigi, rue de Bac, 13, «povero giovane, la letteratura lo ha di troppo alterato!»; [209] si rallegra che il fratello Terzo siasi dato a un mestiere e manda saluti ai parenti e agli amici Venturi, Rambelli, Romanini, Ortolani, Guerrini, Bosi, Casacci, Casali, ecc. — Lettera 4ª. da Moulins, 14 giugno '33: «.... Sai tu il fatto ultimamente avvenuto nel deposito di Rodez? Ascoltane il dettaglio preciso. Quasi 200 rifugiati italiani lo componevano; puoi credere che la concordia è esclusa dal numero e dalla diversità delle opinioni e dai diversi modi di procedere; aggiungi certe mire dettate dall'interesse e dall'ambizione e potrai dedurre qual ne dovesse essere la posizione tra individui di poco plausibili principi ed alquanto fantastici. Tutto ciò fin dal primo momento produsse una alienazione di animo negli abitanti, e divise il deposito in due fazioni. Allora una mano occulta se ne prevalse, animò una di queste fazioni a divenire ad atti risoluti, onde trar causa di sciogliere il deposito, peso da cui il Governo, si vuole liberare. Emiliani di Modena, l'avv. Lazzareschi di Lucca ed altri pochi furono di questa terribile fazione; appoggiati in ogni loro azione, insultavano, minacciavano di continuo il resto degli emigrati, e tutto ponevano in opera, onde la popolazione, per sé superstiziosa e nemica d'ogni liberalismo, coadiuvasse alle loro manovre. Difatti le vessazioni, gl'insulti che hanno sofferto i rifugiati, non addetti alla linea Emiliani, sono incredibili; io ne ho avuto un preciso ragguaglio da persone imparziali, ed è maraviglioso come non sia colà avvenuto un fatto terribilissimo, prodotto di una forte esasperazione. Ma pure qualche cosa doveva nascere ed è nata: Emiliani un giorno affronta con uno stile alla mano molti emigrati; questi a propria difesa respingono l'assalitore con sassi, gli assaliti sono presi e posti in prigione e l'Emiliani n'è escluso, altri sono confinati fuori del deposito. Viene il giorno 31 maggio; il tribunale diviene alla condanna dei prigionieri e sono inflitti a loro 3 e 5 anni di galera; cosa incredibile. Già in tal epoca il deposito non contava che 60 individui, chi era partito per una direzione e chi per un'altra, stanchi di soffrire ulteriori vessazioni. Fu quello il giorno in cui un certo Gavioli di Modena, preso da uno straordinario furore per la disgrazia de' suoi colleghi, entra nel caffè Cavez; assale con un coltello alla mano il Lazzareschi e lo stende a terra morto; indi si rivolge furente all'Emiliani, e gli dona un colpo terribile; questi, quantunque ferito, insegue [210] il Gavioli, ma cade estinto sulla porta del caffè; la moglie cerca vendicare il marito, presso al quale ella trovavasi, e riceve anche una ferita mortale, da cui però va a riportare guarigione. Alle grida, all'assassino! all'assassino! quantità di popolo accorre addosso al Gavioli, egli si difende maravigliosamente, ma preso a sassate e circondato da ogni parte, si arrende ed è condotto in prigione. Il Gavioli è un giovine di 25 anni; il coraggio e l'energia che ha dimostrato nell'azione, lo dimostra anche tra i ferri. Tra i condannati vi è Budini di Castel Bolognese. Raimondi è stato dimesso. Già, come puoi credere, quel deposito è interamente sciolto ed il progetto in tal modo effettuato; tutti i giornali parlano di questo avvenimento; i ministeriali incolpano il fatto a Mazzini, come presidente di non so qual congrega detta la Giovine Italia, e riportano una sentenza emessa in suo nome; ma tutto ciò viene con fondamento smentito dal giornale La Tribuna e da altri fogli...»; in conseguenza di questo fatto di Rodez, molti rifugiati sono espulsi dalla Francia per ordine del Ministro dell'interno; cosí sopra 27 rifugiati del deposito di Moulins, 15, che sono «il fiore dei galantuomini, persone probe e distinte», sono espulsi, tra essi lo Spada e il Montallegri; di un altro deposito sono esiliati 50 rifugiati, fra i quali il generale Ollini; si dice che anche il deposito di Moulins sarà sciolto — Lettera 5ª, da Moulins, 16 giugno '33: annunzia lo scioglimento del deposito e il trasferimento dei rifugiati nei dipartimenti della Bretagna: «Io mi sono accordato coi migliori, che dopo gli esigli annunziati....sono qui rimasti, e specialmente con la famiglia del colonnello Maranesi, con quella del commissario Reggianini di Modena, con Morri e Morandi, ed abbiamo scelto il dipartimento di Morbihan e la città di Vannes per dimora..... Io aveva deliberato di rinunziare alla pensione, e coi 90 franchi che il Governo accorda ai rinuncianti, voleva correre la sorte de' miei compagni d'esilio e seguirli nella Svizzera. Ma vengo ad intendere che essi non saranno ricevuti; e quando arriveranno a Nantua il Governo gl'intimerà di partire per Tolone, e da qui tradotti in Algeri; la cosa non è per ora ancora positiva, ma se si verifica, guardate un poco come sono trattati i poveri rifugiati. Ho meglio riflettuto; e mi sono deciso di restare ancora a respirare l'aria di Francia, quantunque non molto sana. E dove andare? Ormai non [211] abbiamo suolo che ci accolga. O trista vita dell'esiliato! Il Governo ci accorda un tanto per lega a titolo d'indennità di via; ma in modo scarso, cosí che sarò costretto di ricorrere alla pietà de' miei camerata per superare questa nuova crisi. Essi pure sono in critica posizione, onde il sagrificio che per me faranno gli sarà da me compensato col risultato di altrettanti sagrifici, ai quali mi anderò ad assoggettare per fare buona figura presso i miei amici e per adempire ai doveri che mi prescrivo... Vado ad abbandonare una famiglia, che mi adorava di tutto cuore e che io pure teneramente amo; con quante lagrime e con quanto dolore mi lascia, è impossibile esprimerlo.... Ieri sera alle 10 partí l'amico Spada; datene avviso alla sua famiglia, io gli scriverò da qui a Nantua». — Lettera 6ª, da Moulins, 21 giugno '33: fra poche ore partirà per Vannes; fa un lungo sfogo confidenziale pel dolore della separazione «da una giovine di 17 anni, gentile, educata e piena dí nobili e virtuosi sentimenti», della quale è amante riamato; hanno formato il proposito di riunirsi presto e madre e figlia sono disposte a trasferirsi in Italia, dove, con il loro patrimonio superiore a 40 mila franchi, potrebbero vivere agiatamente: «....So che Ghiselli ha ottenuto di e restare in Toscana, so che i miei compagni d'infortunio sono tuttora in Lucca, e sperano non solo di restare in Italia, ma di ritornare in patria; dunque pare che non senza risultato si potrebbe chiedere il mio ritorno, se non in Romagna, almeno in Toscana; tu promovi l'istanza, tu fa di tutto onde sia ben appoggiata, induci mio padre a tal passo senza notificargli il motivo [lo sperato matrimonio con la giovine Praneraque, della quale ha parlato prima].....» — Lettera 7ª, da Vannes 1º luglio '33: «Nuovi tormenti e nuovi tormentati. Eccomi in Vannes, separato dall'Italia per un enorme spazio, in terra presso che barbara e circondato da mille pericoli. Io non posso trascurare di darti un preciso dettaglio del mio viaggio per le molte particolarità che presenta. Ebbi il passaporto dalla Prefettura di Moulins, unitamente all'indennità di via assegnataci, il giorno 17 scorso; ma ritardai quattro giorni a partire. Mi scelsi compagni di viaggio tre modenesi ed un bolognese, persone a me cognite per merito e prudenza. La sera del 21, alle ore 9 e mezzo montai in diligenza, abbandonando con indicibile rammarico la città di Moulins, che io riteneva come una mia seconda patria. [212] Tutta la notte si viaggiò senza posa, e la mattina del 22 alle ore 11 arrivai alla Charité. Presa ivi una piccola rifocillazione, si proseguí il viaggio sino a Bourges, in cui giunsi alle 7 della sera. Prima nostra cura fu quella di vedere la Cattedrale, tempio magnifico e sorprendente, indi si pensò a rinforzare il corpo; ed alle ore 8 si montò di nuovo in vettura. A noi si aggiunsero compagni di viaggio due giovani polacchi del deposito di Bourges, uno de' quali si trasferiva alla Rochelle a prendere i bagni di mare per tentare la guarigione di una perdita concepita nel maneggio del cannone: giovane gentile e molto educato. La mattina del 23 pervenni a Châteauroux, e la sera a Tours. Non eravamo distante da Tours che una lega, quando saltò via dalla vettura una ruota. Noi tutti che eravamo piazzati dentro al legno, fummo illesi da percosse; ma due francesi che stavano sull'imperiale, all'impeto della caduta del legno, stramazzarono a terra, e ne riportarono qualche tenue contusione. Fu forza di percorrere la lega a piedi, poco incomodo invero a confronto di quanto poteva accaderci. Si fece soggiorno in Tours, bella e galante città, tutto il giorno 24 e parte del 25 sino alle ore 10 del mattino, momento in cui montai in diligenza per Angers, ove pervenni la sera alle ore 11. È dilettevole il viaggio da Tours ad Angers per l'amenità delle campagne, abbellite da deliziosi casini, che in gran numero sono lungo la strada. La Turenna è decisamente il giardino della Francia e mi ha consolato, facendomi sovvenire il dolce suolo della mia patria. Giunti ad Angers il conduttore della diligenza scoperse un pericolo, che poteva esserci fatale se il viaggio fosse stato piú lungo; cioè che una ruota cominciava a prender fuoco. Si pernottò in Angers; e la mattina del 26 verso le ore 8 montai sul battello a vapore, che ogni giorno percorre la Loire fino a Nantes. La Loire, atteso la stagione, ora è scarsa d'acqua; quindi non tardò il vapore ad arenarsi e nello sforzo che si fece per rimetterlo in cammino, ricevè un largo foro, onde, cominciando a condurre molta acqua e ad affondarsi, il capitano ordinò che tutti i passeggieri, i quali erano in forte numero, disbarcassero sin che si fosse riparata la rottura. Difatti sopra vari battelli fummo condotti a riva presso un villaggio di montagna, ove rimanemmo 4 ore consecutive. Due ore me le passai dormendo sotto un albero. Finalmente suonò la campana del battello e fummo di nuovo imbarcati. Ma in [213] ogni istante il legno era arenato ed il pilota, per il terribile vento che soffiava e per la dirotta pioggia che cadeva, non potendo conoscere la corrente del fiume, si trovava in un serio imbroglio. Quindi il capitano deliberò di fermarsi la notte in Ancenis, piccolo paese di fianco alla Loire, distante 9 leghe da Nantes, e di riprendere il viaggio solamente la mattina. Colà giunti, ci fece tutti disbarcare. Era un freddo terribile; cosicché sopra les chemises da viaggio avevano i miei compagni indossati i ferraiuoli; e cosí vestiti passeggiavamo il paese. Tutti gli abitanti ci guardavano con ammirazione: noi di ciò non femmo alcun caso, ma tutto ad un tratto sentimmo a gridare dietro alle spalle: i San Simoniani, i San Simoniani, e donne e uomini e fanciulli cominciavano ad inseguirci con insulti e minaccie. Allora noi, allungando frettolosamente il passo, ci ricovrammo a bordo del battello, ove trovammo due vecchi del paese che ci avevano tenuti d'occhio, e ci chiesero da qual parte venivamo. Fatta a loro nota la nostra condizione di rifugiati italiani e la nostra destinazione, partirono, e credo che ad essi fosse dovuto lo dileguamento del complotto. Noi deponemmo subito e la chemise ed il tabarro, ed andammo alla piú prossima osteria a rifocillarci: ivi giunti trovammo delle faccie poco omogenee; tuttavia con complimenti divennero meno truci. Accettarono quei signori ospiti di bere in comune; i discorsi però d'esterminio che tra loro tenevano contro i San Simoniani e i liberali in genere ci tenevano in qualche agitazione. Niun moto ed atto di risentimento demmo a conoscere e la nostra prudenza ci fu di salute. Era l'ora di notte circa, quando sopravenne un caporione del paese; si mise a sedere alla nostra tavola, chiese da bere, senza togliere giammai da noi lo sguardo. Poi prese parola con uno de' suoi che gli era vicino, levò il cappello e frugando dentro di esso, levò due piccoli involti, ne svolse uno che era pieno di cartuccie e battendole sopra la tavola, esclamava con un sorriso ironico: Questo è pepe di buona qualità per tutti i chouans. Allora ognuno in nostro cuor disse: la commedia vuol finir male! Partí egli poco dopo e vennero in seguito due gendarmi, i quali ci chiesero i passaporti, e ne segnarono in un taccuino i rassegnamenti. Si fece l'ora del riposo, noi tutti convenimmo di non restare nell'osteria e si recammo a bordo del battello, ove dormimmo alla meglio. La mattina del 27 si [214] riprese il viaggio, non senza ulteriori intoppi e si arrivò a Nantes verso le 10. Colà trovammo altri italiani. Magnifica oltre ogni credere è la città di Nantes, è la migliore che io abbia visto dopo Marsiglia e Lione; è quasi tutta fabbricata di nuovo, e non tarderà ad essere annoverata tra le prime città della Francia. Ho visto la casa dove fu arrestata la duchessa di Berry, posta in rue Chateau n. 3. Si fece soggiorno colà tutto il giorno 27 e 28. Io era rimasto senza un soldo, ed i miei compagni non potendo per me incontrare dei sagrifici, mi deliberai di fare il viaggio sino a Vannes a piedi che è di 26 leghe di posta, cioè di 65 miglia incirca. Un certo Mellini di Modena seguí la mia deliberazione e noi partimmo la sera del 28. Non avevamo percorso che poche leghe quando cominciò a piovere, tuttavia non ci arrestammo, e la mattina del 29 fummo a Mont-château, distante 12 leghe da Nantes, paese orribile, tana di lupi; cercammo una vettura da spender poco, ma inutile fu la ricerca, onde disperati ci demmo a proseguire il viaggio sino a la Roche-bernard, ove giungemmo alle ore 10 antimeridiane, cosicché in meno di 12 ore noi avevamo percorse 16 leghe. Io era stracco ed affaticato all'ultimo segno. Si diede una buona mangiata, ed alle 2 pomeridiane ci accolse il letto, ove rimanemmo sino alle ore 5 del mattino seguente. Che bella dormita di 15 consecutive ore! Indi si tirò di lungo sino a Vannes, in cui entrammo ad un'ora pomeridiana. Prima cura fu quella di far ricerca de' nostri compagni, e si seppe che per reclamo fatto dagli abitanti, il Governo ci ha destinato per deposito un luogo che si chiama Auray, piccolo paese e porto di mare posto nel dipartimento. Vannes è una città che non comprende che 10 mila anime, è murata, brutta e mal costruita. È lungi dal mare una lega, col quale si comunica col mezzo di un canale. Non v'è che scarso commercio, manca di vino e quel poco che si trova è carissimo. Gli abitanti sono infinitamente devoti, hanno chiesto al Governo di fare un giubileo, invece di perdersi in vani passatempi impiegano gran parte della giornata in preghiere ed orazioni. Ieri mi trovai in una libreria a prender carta, quando una quantità di paesani ivi era raccolta ad acquistare uffici e libri di devozione. Non v'è persona che passando innanzi ad un Santuario non tenghi il cappello in mano qualche minuto, e non reciti preghiera. Se Dio mi concedesse tanti anni di salute quante croci ho vedute [215] innalzate ad onor suo da Nantes sin qui io vivrei certamente piú del doppio che visse Noè. Io sono alloggiato alla Croce bianca, piazza di Luigi 18º. Molti alberghi hanno insegne di simil genere. Il vestiario sa pure di religioso. Le donne portano un abito nero lungo, di vita cortissima, chiuso sino al collo, con un grembiale che si annoda dietro sulle spalle e che copre tutto il petto, portano in testa una piccola cuffia stretta che copre tutta la capigliatura, e sopra la cuffia un altro arnese a guisa di mitra con due grandi code sul di dietro; non diversifica che dalla testiera la quale è assai piú bassa: gli uomini portano un grande gilè, ad uso dei nostri antichi, di panno bianco filettato di rosso, e sopra al gilè una larga giubba a quattro falde, due toccano i fianchi e due restano sul di dietro; un cappello di bassa testiera, ma di un'ala immensa, piegata in mille diversi modi, copre loro la testa; hanno i capelli lunghissimi di dietro e sono nel davanti rasati. Tal modo di vestire abbruttisce e dà un'aria atroce. I costumi loro, trattandosi di civismo, sono incolti, non hanno degenerato dai Bretoni, loro ascendenti. Non si vede un'ombra di gaiezza, non un viso che spiri un generoso sentimento. Gran quantità di bestiame: ieri, che fu giorno di mercato, tutto il paese erane pieno di vitelli e di buoi: vi è gran commercio di butirro. Ho visto in qualche casa di campagna a dormire gli animali insieme coi contadini; sono sucidi all'ultimo segno e pieni di scabbia. Il migliore paese che sia nel dipartimento è Lorient, fabbricato non è molto dalla compagnia dell'Indie, ma il Governo non vuole concederci di andare colà. Quello che assai incomoda e ci riesce di pena è il linguaggio: è un misto di francese, d'inglese e d'antiche espressioni bretoni, pronunziate in guisa che si rende impossibile l'intenderle. Tutto giorno si odono degli eccessi commessi dai chouans, di cui il dipartimento è pieno: l'altro giorno fu da loro massacrato un povero soldato che veniva a Vannes da Auray. Messo tutto in complesso, e riflettendo bene alla nostra situazione, ai pericoli da cui siamo attorniati, alle mire del Governo tendenti a sgravarsi del peso dei depositi, riflettendo che nel preventivo del 1834 non si fa menzione che dei sussidi per i polacchi, e che il pane che or la Francia ci porge, oltre di essere duro, è per cessare, riflettendo che una semplice insinuazione nell'animo di gente ignorante può rovinarci, che una mancanza d'uno dei nostri [216] può segnare il nostro esterminio, che il fatto di Ancenis ne è una prova, ed il reclamo di Vannes ne è un'altra ben chiara, messo tutto a ponderazione, si va decidendo di rinunziare ad un sussidio il quale non apporta che persecuzioni ormai insopportabili. Chi ha mezzi si reca in Inghilterra; chi è povero si dedica al militare. Io che non ho mezzi; che il mio debole fisico m'impedisce di fare il soldato, che mi resta di risolvere? Sia quello che si vuole, io pure rinuncio. Io sono stanco di condurre una vita tanto penosa, e d'essere strascinato da una parte e dall'altra, sempre in preda a nuove tribolazioni: avvenga ciò che può avvenire, io rinuncio. Ma prima tenterò di poter ottenere Lorient per deposito, tenterò ogni via per sortire da queste tane e di avere un miglior sito per vivere in pace. Sarà difficile di ottener la grazia, lo vedo pur troppo: converrebbe recarsi di persona a Parigi, ma è vietato di rilasciare a qualunque rifugiato il passaporto per quella capitale. Il certificato, che Valli mi ha promesso di fornirmi se ne ottiene l'autorizzazione, forse potrà servirmi allo scopo. Ma in ogni modo, ed anche ottenendo l'intento, io non resterò in Francia, stando le cose come sono, che 4 mesi al piú, nel quale tempo voglio bene consultare me stesso, e prendo una tal proroga per avere un riscontro dalla patria. Questa mattina ci siamo portati presso al Prefetto: è un buon uomo, ci ha accolti favorevolmente e ci ha fatto conoscere che non può concederci di scegliere Lorient per deposito; che se in Auray non ci troveremo contenti, allora potremo avanzare un'istanza al Ministro per un traslocamento di deposito, ed egli ci sarà di appoggio in ogni occorrenza. Egli stesso ha convenuto che il paese è pieno di chouans. Il bisogno m'induce di adattarmi alla circostanza, è forza partire, domani vado a prendere il passaporto e il tributo della prima quindicina di luglio, compenso ben scarso agli appuntamenti che mi trovo avere: da' miei sacrifici tutto saprò conseguire ed appena sarò in pareggio, allora mi risolvo a rinunciare, dimandando di restare in quel luogo della Francia che mi può aggradire. Farò il cameriere, farò di tutto piuttosto che vivere in tanta agitazione. Il pane che trangugerò non sarà mai salato come quello che ora assaggio, sarà il prodotto del mio sudore, non dell'altrui ostentazione. Ma per ottenere di restare in Francia, anche rinunciando alla pensione, mi è duopo di un appoggio, ed il piú adattato ed opportuno è il certificato di Valli; e caso [217] non ottenesse di rilasciarmelo in via autentica, bisogna pregarlo di rilasciarmi una lettera, ampia, che specifichi appieno i mali che per titoli politici ho sofferti, e faccia elogio alla mia civile condotta, e concluda col dichiararmi degno di tutta l'assistenza e protezione. In ultimo per condurre a un punto meno terribile la mia situazione mi è necessario un ultimo sforzo di pietà da miei concittadini romagnoli. Io ritengo che rese loro cognite le mie traversie, si presteranno di buon animo a soccorrere un disgraziato, vulnerato da tutte le parti, ed io spero col loro mezzo di sortire da tanti affanni. Già tu sai qual luogo io posso destinare qua in Francia per mia dimora e tu sai che un lampo di sorte mi balena sul capo. Non per questo che io mi risolvo a rinunciare, perché anche qui restando so che non svanisce; ma è decisamente la situazione difficile e pericolosa, in cui il Governo ci pone; e da quanto ti ho esposto chiaramente si ravvisa senza ulteriori schiarimenti. Impegna dunque l'amicizia a mio favore, procurami dalla Romagna un sussidio, da cui unicamente dipende il mio miglioramento; e quando avrai esaurito tutti i mezzi per riuscire nell'intento tu mi scriverai ad Auray, dipartimento di Morbihan, aggiungendo nella mansione il titolo di refugié italien. Se le tue premure restano inefficaci, io allora mi darò totalmente in braccio alla fortuna; e le mie risoluzioni saranno quali convengono ad un disperato: sarà di me ciò che il destino vuole. Appena giunto ad Auray ti darò mie notizie e ti spiegherò la posizione di quel paese e come gli abitanti ci riguardano, e poi chiudo la mia corrispondenza sino al punto della mia rinuncia. Tu hai tempo nel corso dei 3 o 4 mesi che qua resterò, di tentare tutti i mezzi che possono favorirmi. Addio: domani parto per la mia destinazione. Salutami gli amici che sai essermi cari, rapporta loro la mia trista situazione, abbraccia per me tutta l'intera famiglia. Io godo una perfetta salute nonostante le traversie che soffro. Ricordami alla buona famiglia di Orioli. Procura che nessuno mi scriva perché le lettere costano 3 franchi: io non attendo che la tua in riscontro alla presente, la quale spero mi sarà di consolazione. Amerò di sapere il risultato delle premure di Medri presso il Marchese Cavalli. Salutami Signorini. Addio.»

L. Da Auvray sono scritte le lettere seguenti dall'8ª alla 12ª delle quali riferisco la sostanza. — Lett. 8ª. 10 luglio [218] '33: descrive il soggiorno di Auvray, dov'è da 8 giorni, chiamandolo «asilo di chouans e di refrattari»; parla del costo dei viveri, della mancanza di vino, dell'uso del cidre; desidererebbe di essere trasferito a Valence, «ove è stabilito un nuovo deposito»; soggiunge: «Qui non siamo che 15 circa.... Le persecuzioni contro i rifugiati sento che proseguono tuttora in Marsiglia e in altri luoghi. Pare che i nostri esiliati da Moulins ripassino la Francia per andare nel Belgio e nell'Inghilterra, giacché la Svizzera li ha rifiutati. Montaliegri ha ottenuto di restare in Orleans». — Lett. 9ª, 7 agosto '33 al padre: da 15 giorni malato di febbri, è in tanta miseria che si è deciso a vendere il tabarro; insiste per avere un sussidio e il certificato del viceconsole francese. — Lett. 10ª, 10 settembre '33: ha ricevuto il certificato rilasciato a suo favore dal Gonfaloniere di Ravenna, legalizzato dal viceconsole, e se ne varrà per chiedere di esser trasferito al deposito di Dijon, dove potrebbe far gli studi alla facoltà di diritto; se non ottiene, seguirà a Lorient i compagni che già vi sono andati: «Duillio mi scrive che entro il corr. mese spera di rientrare in Italia»; ha sentito con dolore che il padre è malato; si lamenta del proprio stato; «Spada è nel Belgio insieme con altri esigliati da Moulins, ed ora si trova in Gand: sono stati distribuiti in tre alberghi e percepiscono 40 soldi al giorno; si va ad aprire una forte sottoscrizione: egli si lagna perché la famiglia non ha spedito ad esso alcun soccorso». — Lett. 11ª, 29 ottobre '33: ringrazia per l'aiuto procacciatogli di denari raccolti tra gli amici; credeva di aver ottenuto di andare a Dijon, non senza indennità di via, ma invece gli hanno concesso di andare a Poitiers, dove è pure la facoltà di legge: «Barbetti passò da Moulins ai primi di giugno, deciso di andare in Portogallo; non valsero ragioni per farlo prendere altra direzione, era in compagnia di altri due romagnoli. Ieri sera parlai con un ufficiale proveniente da Oporto, esso è italiano e ci diede contezza di molti nostri; io gli ricordai alcuni romagnoli, e precisamente Barbetti, ma egli non me ne seppe dar nuova. A quello che asserisce il numero degli italiani è d'assai diminuito; si contano due terzi tra morti e feriti, disse che i rimasti non son piú guardati di buon occhio e ben trattati come era per l'avanti, cosí è degli altri stranieri:... tale fu sempre il guiderdone di chi serví fuori di casa sua»; ha avuto lettera del 19 dallo Spada, «il solo oramai tra gli esigliati di Moulins, che non abbia ottenuto di rientrare [219] in Francia;.... io credo che viva sulla generosità di Batuzzi e di Catti, di cui mi fa cordiali saluti»; si lamenta che i ricchi di Ravenna, già a lui benevoli, siano stati renitenti ad aiutarlo, e insiste sulle difficili sue condizioni: «uno che sapesse lavorare stenterebbe averne il permesso per l'opposizione degli ouvrieri, i quali dicono che, avendo un assegno dal Governo, potressimo arrecare un ribasso ai lavori: ciò non è una asserzione, ma un fatto positivo avvenuto a Quimper ad un certo Simoni. Certo non è cosí di tutta la nazione, ma dai buoni dipartimenti noi siamo esclusi, che è quanto dire sottratti ad ogni risorsa. Tutti quelli che avanzavano dal deposito di Rodez entrano in Brettagna, dispersi in vari siti». — Lett. 12ª, 16 dicembre '33: «L'amico Frignani coll'appoggio del generale Sebastiani mi ha fatto finalmente conseguire il permesso di recarmi a Dijon»; partirà perciò fra pochi giorni, con la idea di fermarsi a Moulins, dove abbraccierà il Frignani «il quale da Parigi si rende a Marsiglia»; a Dijon si darà agli studî legali; auguri agli amici e alla famiglia.

LI. Altre lettere ci danno notizia dell'Uccellini durante il viaggio e la dimora a Dijon; e sono le seguenti: — Lettera 13ª, da Moulins 8 gennaio '34 al padre: racconta il viaggio da Auvray a Tours, dove ha fatto il capodanno «presso la vera amicizia», ma non è giunto in tempo per abbracciare il Frignani che doveva consegnargli una somma (60 franchi) per lui raccolta a Parigi; vorrebbe rimanere a Moulins, dove ha una «seconda famiglia» che gli ha offerto «un nobile alloggio, un trattamento signorile, una accoglienza sincera ed affettuosa»; gli trascrive il dispaccio 13 novembre '33 del ministro nell'interno D'Argut che lo autorizza a risiedere a Dijon. — Lett. 14ª, da Gannat 27 gennaio '34: si è recato colà per godere la compagnia di alcuni amici, ma l'indomani ritornerà a Moulins donde per Mâcon, dove altri amici lo aspettano, si recherà a Dijon; ha scritto a Pescantini perché solleciti il Frignani a mandargli i 60 franchi; ha visto «il nostro bravo romagnolo Montallegri che è stato nominato capitano della Legione straniera d'Algeri ed in breve otterrà il grado di capo-battaglione». — Lett. 15ª, da Dijon 15 febbraio '33: «....Il deposito italiano che qui esiste, si compone di pochi, ma saggi individui. Mi sono compiaciuto di ritrovare tra essi il bravo capitano Ravaioli di Forlí; egli mi ha accolto con [220] tutta l'affezione romagnola; è un anno da che si è maritato; ed avendo una casa bene avviata, ho convenuto di prendere presso di lui alloggio»; dimostra la difficoltà di tirare avanti con soli 45 franchi mensili; il Frignani, che lo ha aiutato sinora e che trovasi a Montpellier, non ha saputo dargli consiglio sicuro sull'idea di fare il corso di giurisprudenza, per le spese che dovrebbero sostenersi. — Lett. 16ª, 7 marzo '34 al padre: dà notizia di sé e del deposito: «Dodici sono gl'italiani segnati in ruolo e che partecipano del sussidio, quattro modenesi dei quali due studenti, due romagnoli, io compreso, e sei piemontesi...», tutti con risorse proprie, compreso il Ravioli che «dà lezioni di scherma e lucra non poco»; egli solo si trova senza aiuti e però non può darsi agli studî: «ai 15 abbraccierò Pescantini, e poco dopo Frignani che torna a Parigi: se Fanti parla di Mondo Barbetti, gli dica che è in Africa: Pio Pio di Cesena arrivò qui il 18 scorso con altri; nel mentre che si procurava per loro dei mezzi per recarsi in Belgio, il Pio sparí, lasciando tutti i suoi effetti, senza aver potuto sapere a qual luogo si sia diretto, e veramente una tale partenza non ci ha lasciati senza gravi dolori: e perché lasciare i suoi effetti? le sue armi da chirurgo? egli era molto malcontento della sua posizione, nulla sappiamo ancora di positivo». — Lett. 17ª, 16 aprile '34 alla sorella Reparata: le parla molto affettuosamente di tutti i suoi di casa; le commette di salutare «la virtuosa Antonia Rambelli» e di baciare il figlio di lei, Epaminonda: «Frignani ritornando a Parigi mi ha compiaciuto di restare in mia compagnia quattro giorni che ci hanno compensato di una lunga lontananza di sette anni; noi non abbiamo fatto che parlare delle nostre passate vicende: Pio Pio di Cesena è da qualche tempo in queste carceri e verrà tradotto dalla forza armata fino a Calais, da dove si dirigerà nel Belgio». — Lett. 18ª, 26 maggio '34: preoccupazioni per la salute del padre, speranze di miglior avvenire: «Frignani ha assunto di farmi conseguire dal Ministro dell'Istruzione il grado di baccelliere in forza del certificato comprovante i studî fatti in cotesto collegio, onde essere ammesso a questa università di diritto... Dammi notizie de' miei compagni d'infortunio. È piú di un mese che sono senza nuove di Spada: moltissimi rifugiati sono stati esigliati da Bruxelles; fosse egli del numero? non è difficile». — Lett. 19ª, 23 giugno '34, alla madre: dolorosa lettera per la morte del padre (inclusa in altra scritta al Gonfaloniere [221] di Ravenna). — Lett. 20ª, 28 luglio '34: chiede notizie dei suoi; «Frignani è stato sensibilissimo alla mia disgrazia, egli me lo dimostra con una energissima sua in data di Strasbourg dell'11, mi promette di far ogni possibile per conseguire il permesso di andare a Parigi presso di lui, quando sarà colà ritornato» — Lett. 21ª, 19 settembre '34: si rallegra della pensione accordata dal Municipio a sua madre; dà notizie di sé; «Il povero Burracina è a Mende, département de Lozere, a mezzo soldo, cioè con soli 25 franchi al mese: ho fatto sentire a Parigi il bisogno dell'amico, ho instato perché si procuri di fargli ottenere l'intero sussidio, ed in caso sfavorevole gli si facci una colletta mensile per altri 23 franchi, come si è verso qualchedun altro praticato: in un modo o in un altro, spero sarà provveduto»; gli commette di ringraziare tutti quelli che hanno aiutato la sua famiglia nella sventura, specialmente Giuseppe Orioli e i suoi e il segretario Miserocchi. — Lett. 22ª, 23 gennaio '35: il Buraccina è morto mentre si aspettava che il Comitato italiano di Parigi gli ottenesse l'aumento del sussidio; si compiace che il Roatti sia succeduto al padre nella redazione del Diario, impresa lodevole; approva che si scriva a monsignor Marini per interessarlo a favore della famiglia Uccellini; accenna al disegno di pubblicare con due amici un'opera «che non ferendo in nulla parte la politica e la morale potrà senza contrasto essere introdotta in Italia». — Lett. 23ª, 25 marzo '35, alla sorella Reparata: non gli è stato riconosciuto titolo sufficiente per l'ammissione alla facoltà di legge il certificato degli studî fatti nel collegio, ne vorrebbe un altro legalizzato dall'Università di Bologna; «il generale Olini è morto il 22 corrente, tutto il corpo dei rifugiati sí italiani che polacchi è concorso al suo funerale». — Lett. 24ª, 27 maggio '35: ieri arrivarono e furono a trovarlo Achille Montanari e il suo compagno Frignani, dai quali ebbe notizie recenti dei suoi e degli amici di Ravenna; ha udito con rammarico «la morte del buonissimo Montanari e quella di Santucci e di tanti altri»; vive da due mesi in campagna con un modenese e un polacco. — Lett. 25ª, 21 luglio '35: parla dei certificati scolastici che gli sono necessari; poi in un paragrafo per il Roatti, della partecipazione di lui alla diffusione dell'opera di morale, cui intende; in un altro per il Sittignani scherza sulla vita campestre; in uno per l'Ortolani lo ringrazia dei suoi auguri; in un altro per il Rasi si conduole della perdita da lui fatta di una persona cara; e finalmente in [222] uno per la famiglia dà notizie di sé. — Lett. 26ª, 31 agosto '35: dà proprie notizie; «dirai al Roatti che attendo tutti i momenti da Parigi il libraio Decailly coi fascicoli del Dizionario du ménage, col programma del Giornale cattolico e con tutte le informazioni relative; che ha creduto bene di far precedere il Dizionario al Giornale per formarsi un fondo di cassa, necessario a far fronte alle spese dell'associazione di questo, che, come si sa, si paga anticipatamente; e che l'articolo pel Diario l'avrà quando gli spedirò le stampe in discorso». — Lett. 27ª, 27 novembre '35 alla sorella Reparata: dà proprie notizie; ha intrapreso a tradurre opere francesi da diffondere in Italia per mezzo di associazioni e spera di trarne buon profitto sí da poter aiutare la famiglia; «dirai a Roatti che non gli ho spedito il discorso promessogli pel Diario perché quello che aveva scelto era troppo lungo». — Lett. 28ª, 19 dicembre '35: la prima opera tradotta è La morale del Cristianesimo in azione, la quale è stata loro conceduta «dall'editore francese, che è un certo Teodoro Penin, membro di varie accademie» e si stamperà appena siano giunte le liste degli associati; dà istruzioni sul modo di procacciare sottoscrizioni, e si raccomanda a don Carlo Bacchetta, a Giovanni Valli ecc. — Lett. 29ª, 19 dicembre '35, a don Carlo Bacchetta parroco di SS. Nicandro e Marciano in Ravenna: memore dell'amicizia tra lui e suo padre, lo prega di favorire l'impresa della pubblicazione dell'opera predetta e di procacciargli abbonati [nel febbraio '36 il prete rifiutò di ritirare dalla posta le stampe inviategli dal povero esule, la sorella del quale dovette pagare le spese relative!) — Lett. 30ª, 28 gennaio '36: ha spedito a don Bacchetta 60 copie del programma della pubblicazione, una parte delle quali sono per Edoardo Fabbri «da cui ieri ebbi lettera, e mi assicura di trovarmi associati alla nostra opera e di inviar programmi a Roma per tale oggetto»; allo stesso fine ha scritto l'Uccellini all'amico Tozzola in Imola, al Della Scala in Lucca, a monsignor Marini in Roma; «l'opera ha fatto qui molto incontro, l'editore francese ha di già annunziato nel 3º fascicolo la nostra traduzione». — Lett. 31ª, 13 febbraio '36: gli dà lunghe e minute istruzioni per le associazioni, in risposta ai quesiti fattigli dal Fanti; si rallegra che siasi ottenuta la firma di monsignor Falconieri «che può tirare moltissime sottoscrizioni». — Lett. 32ª, 13 maggio '36: si rallegra col Fanti per il matrimonio con la sorella Reparata; dà notizie di sé e come abbia appreso l'arte [223] del compositore in una tipografia; «scrivo un compendio della storia d'Italia dai primi tempi, cioè dall'arrivo d'Enea, sino a tutto il 1835», di cui la parte antica si sta traducendo in francese da un avvocato suo benevolo; i suoi compagni nell'impresa delle associazioni, Roberti e Tavani, si sono messi nel commercio degli aceti e hanno rinunziato tutto a lui; gli dà altre spiegazioni sulla spedizione e distribuzione dei fascicoli: e suggerisce che il fratello Terzo si metta in giro per i paesi di Romagna a procurare associati; all'impresa sua dà favore un certo Monti di Modena, professore di lingua italiana e latina, per mezzo di un suo zio, canonico in quella città; si duole della morte del Tozzola, ancora tanto giovine. — Lett. 33ª, 18 maggio '36: altri schiarimenti sull'associazione e ricerca di un corrispondente di Livorno, che fu Giuseppe Magherini; spera che in giugno sia pronto il 1º fascicolo. — Lett. 34ª, 15 luglio '36: altre istruzioni sullo stesso argomento; è stato malato di reumatismi e non ha potuto lavorare; ma ora lo supplirà un altro emigrato, Lolli, che ha con lui appreso la tipografia. — Lett. 35ª, 26 settembre '56: il 1º fascicolo della sua pubblicazione è già stampato e sarà a giorni spedito in Italia; ne manderà a Ravenna 250 copie. — Lett. 36ª, 4 novembre '36: oltre alla notizia dell'invio del 1º fascicolo, si ha in questa lettera il primo accenno alla grave controversia tra l'Uccellini e il Frignani, della quale si parlerà piú sotto. — Lett. 37ª, 4 gennaio '37: manda altri fascicoli; l'ultimo dell'anno ha visto don Casimiro Rossi «che andava a Parigi a servire il Nunzio apostolico in qualità di segretario»; loda l'idea del fratello Terzo di avviarsi alla carriera ecclesiastica. — Lett. 38ª, 21 gennaio '37: tutta relativa alla controversia suaccennata. — Lett. 39ª, 5 marzo '37: accenni alla questione stessa; avvertimenti per la nota pubblicazione; il sussidio governativo è stato diminuito di un quinto e il Prefetto ha ordine di non accogliere reclami; «penso di scrivere a Rossi per sentire se ha modo di farmi pervenire al Ministro una mia istanza diretta ad ottenere l'intero sussidio». — Lett. 40ª, 1 aprile '37: dà schiarimenti sulla spedizione dei fascicoli dell'opera pubblicata per associazione; dimostra che sul primo fascicolo ha perduto franchi 198; don Rossi gli ha risposto che non si può ottenere l'intero sussidio, di modo che si trova ridotto con 36 lire mensili; si meraviglia che il fratello Terzo abbia preso moglie senza avvertirlo prima. — Lett. 41ª, 22 luglio [224] '37 alla sorella Reparata: dà notizie di sé; al cognato Fanti: parla della pubblicazione della Morale, che egli non può continuare con 100 abbonati, perché ne bisognerebbero almeno 300; si giustifica rispetto ai lamenti degli associati per l'interrotta pubblicazione; ha già sotto i torchi il 1º fascicolo della Storia d'Italia contenente «la descrizione geografica, politica e storica per ordine cronologico dello Stato romano e della repubblica di San Marino; sebben redatto nel nostro idioma deve servir per la Francia». — Lett. 42ª, 7 dicembre '37: «Ammalato, senza legna, senza tabarro e senza tante altre cose necessarie; afflitto per la malattia pure di quella, da cui solo posso sperar conforto, tu puoi arguire qual è la mia posizione. Un mio amico ha preso l'assunto di proseguire la stampa della mia operetta. Di piú mi promette di stampare un diario, che ho dedicato ai Romagnoli [intitolato: Il Romagnolo, diario per il 1838]»; ne manderà copie perché si vendano a suo profitto. — Lett. 43ª, 4 gennaio '38; manda 500 copie del Romagnolo, da vendersi a 10 baiocchi l'una; sarà tradotta in francese la sua operetta sull'Italia e il Tissot, professore di filosofia al Collegio reale, ha redatto il programma per l'abbonamento; perciò ha bisogno di alcuni libri per compierla e commette al Fanti di inviarglieli. — Lett. 44ª, 24 maggio '38 al fratello Terzo: ha ricevuto i 150 franchi, prodotto del Diario, e aspetta sempre i libri commessi e il giornale modenese La voce della verità; è fidanzato alla signorina Sofia Berger e la madre di lei, signora Royer, ha scritto al Gonfaloniere di Ravenna per avere informazioni sulla famiglia Uccellini; procaccino quindi per mezzo del segretario Miserocchi perché la risposta sia favorevole: «basterà il dire che mio padre era impiegato nella Comune, che l'ha servita onoratamente e con zelo, che in premio del suo lungo servizio la famiglia gode ora una condegna pensione, che abbiamo sofferte molte peripezie, che non abbiamo avuto mai a soffrire alcun processo criminale»; parla a lungo di molti amici ravennati.. — Lett. 45ª, 11 luglio '38 alle sorelle Reparata e Vigilia: è arrivata la risposta del Gonfaloniere alla signora Berger, di sua piena soddisfazione perché attesta la onorabilità della famiglia; è uscito il 1º fascicolo della sua opera, che ha già 100 associati, ma ne bisognerebbero 500; ha ricevuto i documenti necessari per il matrimonio che avverrà presto; parla di cose domestiche. — Lett. 46ª, [225] 25 Ottobre '38: ha ricevuto i libri e un ragguaglio letterario steso per lui da Giulio Guerrini; manderà l'almanacco per il seguente anno, «redatto coi fiocchi», e spera che sarà subito venduto — Lett. 47ª, 14 dicembre '58: ha spedito l'almanacco. — Lett. 48ª, 31 gennaio '39, alla sorella Vigilia: si duole che l'almanacco sia giunto in ritardo e non si sia venduto; accenna alle traversie che hanno mandato a monte il disegno del suo matrimonio. — Lett. 49ª, 16 maggio '39, alla madre: dà notizie di sé: «quantunque non sia mia abitudine di occuparmi di politica, pure per tranquillizzarvi pei gridi sinistri che circoleranno dopo gli avvenimenti del 12 e 13 del corrente, deggio dirvi che l'ordine e la tranquillità è rinata in Parigi, e che tutti gli sforzi degl'innovatori resteranno senza successo fin che il Governo può disporre della Guardia nazionale, che per la sua forza fisica e morale è l'arbitra dei destini della Francia». — Lett. 50ª, 20 luglio '39: affari privati; «Frignani ha pubblicato la sua pazzia nelle carceri, volendo imitare Silvio Pellico; non so qual esito avrà questa sua opera; io l'ho sott'occhio, è ben scritta se il ramassar parole scelte ed il passarle mille volte pel setaccio si chiama ben scrivere, ma manca d'azione, di passione e di quello spirito drammatico che dona colore e forza alla narrazione. In essa sono menzionati molti distinti personaggi di Romagna, tra i quali l'abate Maccolini, il dottor Anderlini, il conte Fabbri, Domenico Farina, ecc., ma non parla che di persone distinte o per natali o per lettere; tutti gli altri suoi amici che hanno avuto molti affari con lui e che sono del rango degli operai sono lasciati da parte: parla del dottor Lorenzo Urbini e lo taccia di matto, fulmina Torricelli perché lo accolse di mal garbo a Firenze al momento della sua fuga»; ringrazia per le notizie ravennati; «penso di scrivere una lettera di condoglianza al figlio di Pasolini; qualunque fosse l'opinione di suo padre, è certo ch'ei nelle circostanze le piú difficili mostrò molto attaccamento al suo paese e lo serví con zelo; ciò basta perché meriti d'essere compianto [si tratta di Pier Desiderio Pasolini, patrizio ravennate, morto il 10 giugno 1839 e padre di Giuseppe, che fu poi ministro di Pio IX e di Vittorio Emanuele II e presidente del Senato italiano]; il Governo francese a poco a poco riduce i sussidi agli emigrati, forse per lasciarli liberi dalla dipendenza dal Ministero dell'interno. — Lett. 51ª, 25 agosto [226] '39, alla famiglia: il sussidio governativo è ridotto al minimo, è impossibile trovar un impiego, impossibile il dar lezioni perché «due vecchi piemontesi qui rifuggiti sino dal 1821 assorbono le lezioni come il serpente boa assorbe i conigli»; non si può mutar paese senza il permesso del Governo; non si può far un buon matrimonio; ha tentato la produzione letteraria con l'aiuto del professor Tissot e di Jules Pautet pubblicista e scrittore, e ha pubblicato i due primi fascicoli di un lavoro sull'Italia relativi allo Stato della Chiesa, ma il commesso che amministrava l'impresa gli ha rubato 800 franchi; non ha potuto quindi pubblicare il 3º fascicolo, concernente il regno di Napoli; fallita questa impresa, è rimandato a tempo migliore il matrimonio con la Berger; ha pensato di darsi al commercio dei generi alimentari italiani, e perciò chiede campioni di olio, vino, frutta secche ecc. — Lett. 52ª, 6 novembre '39 a Demetrio Orioli: fino dal 26 ottobre ha mandato al Fanti il manoscritto del Diario per il 1840 perché si stampi a Ravenna a cura di Giulio Guerrini; spera che se ne venderanno un migliaio di copie e di ritrarne tanto da potersi trasferire nel Belgio; ivi «degli amici d'influenza mi procureranno il sussidio ch'è di 45 franchi, inalterabile, ed un impiego: di già un redattore d'un giornale a Gand, in seguito delle premure d'un rifuggito mio intrinseco [lo Spada?] «m'aveva offerto un impiego di due mila franchi; all'anno: ma nella questione del Luxembourg fu arrestato e la pubblicazione del giornale è ancor sospesa... Quella che destino mia sposa mi seguirebbe...»; là si potrebbe viver meglio, perché i viveri sono a buon mercato; «la Francia è stato un buon paese nel principio dell'emigrazione, tutti vi volevano, tutti v'abbracciavano: v'era emulazione nel fare del bene ai rifuggiti; ma passato questo primo trasporto, questa furia dell'asino che trotta, addio fichi»; si raccomanda dunque per la stampa e lo spaccio del Romagnolo. — Lett. 53ª, 17 dicembre '39 alle sorelle Reparata e Vigilia: spera sia stampato il Diario; racconta che due rifuggiti (Gallerati e Pirra, l'uno lombardo e l'altro piemontese) sono stati arrestati come falsi monetari, e questo ha gittato il sospetto e il discredito su tutti gli altri emigrati; vuol sapere se è viva la madre dell'emigrato Giuseppe Numaj di Forlí e se un altro emigrato, Francesco Pomatelli di Ferrara, abbia persone di famiglia che possano pagare 90 franchi per lui; vorrebbe dall'amico Guerrini un [227] sommario storico della Repubblica di S. Marino. — Lett. 54ª, 25 dicembre '39: si duole che non siasi potuto stampare il Romagnolo, da cui sperava trarre un aiuto. — Lett. 55ª, 14 gennaio '40 alla madre: «Un rimpatrio? e se non l'accettassi? mi rendereste un bel servizio! mi fareste perdere il meschino sussidio che la Francia m'accorda. La mia miseria? Dunque si sono scancellate dalla vostra memoria le prove di fermezza che in altri tempi offersi contro le avversità che mi avvilupparono? La miseria? non è forse il retaggio del proscritto? Un rimpatrio? lo considerate voi su tutti i suoi diversi rapporti? ne conoscete voi a fondo l'entità? lasciamolo, lasciamolo in riposo per ora»; si consola che la sua miseria è effetto di disgrazie, non di vizi; «partendo da Moulins ebbi ampi certificati da quelle autorità; partendo da Auray n'ebbi egualmente; partendo da Dijon n'avrò pure; e ritornando un giorno in patria dirò a certuni: Fui nell'estremo bisogno, chiesi l'obolo di Belisario, mi fu ricusato, ma, vedete, mai prevaricai»; attende le risposte che dovranno deciderlo a recarsi nel Belgio. — Lett. 56ª, 2 marzo '40, alla famiglia: «Tentate di raccogliere quel che si può per mettermi nel caso di trascinarmi a Bruxelles, ove per l'impiego che ho ottenuto posso infine godere un'esistenza piú agiata»; a ciò concorrano i suoi benevoli, il Fanti, Giuseppe Orioli, i Boccaccini, il segretario Miserocchi; dà altre notizie di sé. — Lett. 57ª, 28 aprile '40: si duole della morte «del buon Giuseppe» e della malattia dell'amico Guerrini; «ma Terzo è un pazzo, perché esporsi cosí? quando uno ha moglie e figli bisogna che sia circospetto e che scansi le occasioni pericolose: come il male non è grave credo ben fatto il costituirsi: oh la vita dell'errante quanto è mai dura! ma che impari ad esser piú saggio e pensi che la sua vita non appartiene piú a lui, ma a sua moglie ed ai suoi figli»; si raccomanda perché a suo vantaggio si dia un'accademia musicale; le «Mie pazzie di Frignani non hanno ottenuto qua il minimo successo: Mr. Nicolas stesso, direttore des assurances mutuelles contro gl'incendi che n'è il traduttore invece di Mr. St. Hildelfonse, me ne diede una copia in italiano che lessi e spedii a Spada: so che Mr. Nicolas ha garantito per le spese della stampa, e so che a gran stento si trova modo di pagarle. Se le Mie pazzie movono curiosità in Romagna, ciò è l'effetto di circostanze particolari indipendenti dalla volontà dell'autore. [228] Se i Romagnoli dovessero leggere i graziosi opuscoletti di Mr. De Cormenin sopra la lista civile, si scuoterebbero tanto quanto i Francesi si scuotono nel leggere le Mie pazzie di Frignani; perché quando si tratta una materia locale e coi colori locali, essa non vive che nel luogo che le è proprio: è una pianta esotica che non vegeta che nel suo suolo. Ma perché dunque Silvio Pellico piace a tutti? perché il suo racconto è basato sulla morale, sentimento comune a tutti gli uomini, sulla rassegnazione evangelica, virtú pregiata da tutti, e le Mie prigioni di Pellico sarebbero piaciute, io credo, anche nella China. E poi quello stile semplice, sí diverso dall'affettato di Frignani? Quanto prima deve rendersi a Marsiglia un mio amico, l'incaricherò di farti pervenire per la via di Toscana la Mia pazzia, a condizione però che non diverrai pazzo tu stesso»; gli manda per la riscossione una tratta di mille franchi dovuti al libraio Forey di Beaune da Giuseppe Numaj, che era stato tre anni prima al servizio del Forey, poi aveva aperto una libreria a Seuzze, quindi era andato a Lione, dove «fu riconosciuto, arrestato e condotto di brigata in brigata sino alle frontiere del Belgio». — Lett. 58ª, 4 maggio '40 ai concittadini: è un appello alla loro generosità perché lo aiutino sí che possa trasferirsi nel Belgio, dove Mr. Sanmart, amico dello Spada, gli ha procurato «un impiego di 600 franchi all'anno, alloggio e vitto» [la data 4 maggio sembra alterata d'altra mano; forse la primitiva era 4 marzo sí che questo appello potè essere mandato con la lett. 56ª, alla quale interamente consuona]. — Lett. 59ª, 8 maggio '40, alla famiglia: aspetta sempre gli aiuti necessari per potersi recare nel Belgio; dà notizie di sé e delle sue miserie. — Lett. 60ª, 5 giugno '40: «In questo punto ricevo una lettera da Spada, professore come sapete di lingua italiana nel collegio di Namur in Belgio. Ei si è recato per me a Bruxelles, e come il governatore di Namur è divenuto primo ministro, l'ha vivamente interessato per farmi avere il sussidio de' 45 franchi. Il Governatore ama molto Spada, l'invitava sempre alle sue conversazione, e perciò mi dà a sperare di riuscire: 45 franchi riuniti a 50 dell'impiego, vitto e alloggio pagato, non posso che star bene»; ma non sa come andar colà senza gli aiuti sperati, tuttavia partirà ad ogni modo né scriverà piú che da Parigi o da Bruxelles. — Infatti la lett. 61ª, [229] 15 settembre '40, è scritta da Parigi, dove l'U. dice esser giunto «da vari giorni», incantato dalle meraviglie della città: «Resterò qui ancora qualche giorno per esaudire i vóti di tante antiche conoscenze, e specialmente per favorire Madama Berger che da poi qualche mese si è stabilita qui per compiere l'istruzione di Sofia nell'arte della pittura... Oggi vado a vedere Rasi;... anderò pure a vedere Gatti; mi dispiace che sua moglie, che occupa un rango sí distinto nel corpo de' letterati sia a Bruxelles; ma ei mi farà una lettera onde abbia l'onore di fare la di lei conoscenza»; dice che non sapeva come procurarsi i mezzi di fare il viaggio e che, dopo i rifiuti di sussidio avuti dal Ministro dell'interno, ebbe un'idea: «fu quella di redigere delle Effemeridi per Dijon e pel dipartimento de la Còte d'or; in men d'un mese il lavoro fu compito, approvato, e l'ho venduto 200 franchi; e con tal somma ho potuto vestirmi e sostenere il viaggio: io ve ne spedirò una copia onde possiate conoscere il paese che mi ha dato asilo durante 6 anni; buon paese, ma privo di risorse, senza industrie e senza commercio, ove il partito del progresso ha buon cuore, ma pochissimi mezzi»; ha sentito dire che Duilio Scala è in Parigi, ma non ha saputo dove abiti; spera che gli affari vadano bene sí da poter chiamare presso di sé la Vigilia o la Festa; gli rispondano a Namur, «rue des Lombards, chez Madame Gerand».

Si è accennato sopra, a proposito delle lett. 36ª, 38ª e 39ª, ad una controversia tra l'Uccellini e il Frignani, la quale, sebbene entrambi non ne facciano parola nelle loro Memorie, va raccontata, come testimonianza dei dissidi, cosí poco e mal conosciuti, tra i nostri proscritti politici. Il primo accenno è nella lettera del 4 novembre 1836: «Una voce, non so da che mossa, sorge ora a dilaniare la mia fama ed a sottopormi all'accusa di esser stato in patria un capo di scellerati, un traditore, un venale al segno d'aver venduto per la vil somma di 30 paoli l'amicizia e l'onore. Quanto pesi al cuore una simile taccia, quanto dolore arrechi, ognuno che pregia l'onoratezza lo può da sé arguire. A che mi hanno servito tante pene e tanti sacrifizi? Se il giudizio della mia coscienza non mi sostenesse, assicurati che l'accusatore avrebbe su di me ottenuto il trionfo che si è prefisso. La testimonianza vostra può sola guarirmi da queste funeste ferite, che mettono in pericolo la mia vita morale; e voi non saprete [230] negarmi quanto la verità mi dà diritto di reclamare. Piú tardi vi farò conoscere il fatto. Amo che la testimonianza che da voi sollecito sia concepita in questi termini: — che io ho sempre goduto in patria la stima de' miei cittadini; che l'amicizia non ha a rimproverarmi mancanze di fede che discreditino l'uomo e lo rendano indegno dell'altrui benevolenza; che niun allettativo m'ha sottratto da' miei doveri; e che per tale condotta mi furono confidati impieghi delicati...». La testimonianza fu subito formulata, amplissima e solenne: il 25 novembre '36 avanti il notaio ravennate Gaetano Achille Santucci si costituirono i signori il conte Francesco di Giovanni Lovatelli, avv. Gabriele del fu Giulio Guerrini, avv. Antonio del fu Giovanni Garzolini, dott. Giacomo di Domenico Montanari, dott. Scipione del fu Vincenzo Urbini, dott. Giuseppe del fu Sebastiano Valentini, dott. Domenico del fu altro dott. Domenico Guarini, Carlo del fu Luigi De Rosa, Alessandro del fu Giuseppe Bagnara, Giuseppe del fu Felice Taffi, Angelo del fu Lodovico Gavina, Antonio di Lorenzo Morigi tutti possidenti, Pietro del fu Melchiorre Runcaldier, Gaetano del fu Giuseppe Testoni, Giuseppe del fu Francesco Orioli, Mariano del fu Francesco Meldolesi, possidenti e negozianti, Romualdo del fu Paolo Miccoli contabile e Domenico del fu Giovanni Buranti cursore anziano presso il tribunale, tutti maggiorenni e salvo il conte Locatelli superiori agli anni quaranta; i quali, dichiarando di aver conosciuto «assai da vicino il giovane Primo Uccellini... di questa nostra Patria,... con tutta asseveranza» fecero fede «essersi egli sempre contenuto in quei doveri che sono dell'uomo onesto e dell'educato cittadino: esso ha dimostrato in ogni incontro di essere buon figlio ai suoi genitori, leale amico agli amici, ingenuo di carattere, onesto di costumi, di buona morale e di non comune ingegno; cosicché per siffatte sue qualità meritamente godeva e gode tuttora in patria fama di onest'uomo, a carico del quale non si è mai sentito a dir cosa, che offender potesse la sua riputazione: esso ha coperto in patria piú d'un impiego ed anche in questi incontri ha saputo dar prove di sua onestà, di probità e di saggezza, maggiore fors'anche di quella, che dalla non matura sua età era da ripromettersi; per le quali cose, a lode del vero, che esponiamo, ci troviamo in obbligo di commendare a larghe parole la morigeratezza de' suoi costumi e quella sua ingenuità, [231] che lo resero caro a tutti que' molti che o per affari o per amicizia ebbero occasione di avvicinarlo». L'atto, scritto e firmato nelle forme legali, registrato dall'ufficio del Registro, ratificato dal Gonfaloniere di Ravenna Carlo Arrigoni e dal viceconsole di Francia dott. Giovanni Valli, fu spedito in Dijon all'Uccellini, il quale se ne valse per ismentire le accuse sparse contro di lui. Da chi e come queste accuse procedessero dice l'Uccellini stesso nella lettera, che in parte qui si riassume, del 21 gennaio 1837 al cognato Giulio Fanti: accennata la lunga amicizia che fin dall'infanzia lo aveva legato al Frignani, descritta la florida condizione di lui in esilio (perché aveva preso moglie e si era stabilito presso la famiglia di lei in Mâcon, fruendo dell'alloggio e del vitto gratuito, aveva guadagnato con la pubblicazione dell'Esule e col dar lezioni di lingua italiana, e risparmiava una buona parte del sussidio governativo) al confronto della miseria propria (che spiega raccontando di nuovo le sue vicende già a noi note, nei vari depositi, in Bretagna e a Dijon), narra come il Frignani non volesse prestargli aiuto traducendo o rivedendo la traduzione dei fascicoli delle note sue pubblicazioni (cfr. le lettere 25ª e seguenti), anzi intralciasse in ogni modo l'impresa e giungesse persino a richiedergli «continuamente d'inviargli dieci franchi» dei quali esso Uccellini gli era debitore. «Tutto ciò, egli dice, mi mise di malumore, e gli scrissi una lettera non offensiva, ma espressa in stile ironico, dichiarando che se proseguiva a seccarmi in tal guisa, a ricusarmi la sua cooperazione diretta, io avrei gettato tutto al fuoco. Quella lettera dovette essere per lui peggio che un colpo di cannone, perché la risposta fu di disdirmi la sua amicizia e a rinnegarmi per cittadino. Non contento di ciò, ebbe la perfidia di scrivere agli emigrati di qui, accusandomi di essere stato in patria un traditore, un scellerato, un infame, un caporione dei perversi, e di essermi venduto per denari. Potete imaginare qual effetto produsse fra gl'Italiani una tale accusa, e come io rimasi oppresso da una sí nera taccia. I miei antecedenti erano noti, io li misi allora vieppiú in chiaro; e gli emigrati amici della giustizia e della ragione mi accordarono un tempo opportuno per far constare con documenti autentici le mie assertive. Scrissi a tutti i proscritti italiani che ben mi conoscono, e n'ebbi risposte favorevoli; scrissi a voi, e il documento che m'inviaste finí per far svanire l'accusa di [232] Frignani. Il Deposito gli scrisse risentitamente: allora cominciò a dire che non aveva inteso di toccare la mia qualità politica in riguardo al paese, ma rapporto a lui solamente. Vive dispute sono nate tra il Deposito di Mâcon e di Dijon; e riflettete bene che Frignani dalle lettere successive scritte agli emigrati di qui ha cosí indebolito la sua causa, che si era ridotto a chiamarmi semplicemente un sleale; e questa sua incongruenza è stata per me la migliore giustificazione del mondo. Come, direte voi, Frignani ha potuto per delle personalità commettere una perfidia tale? La paura di perdere la mercede assegnatagli per la traduzione del mio giornale, l'acciecò, lo sconvolse tutto, e per uccidermi, trovò l'espediente di toccare il punto delicatissimo della politica. Che sarebbe stato di me, se qui vi fossero stati dei fanatici? Frignani nascondeva nella sua accusa altri fini che or bene appariscono e che lo caratterizzano per qual egli è veramente. L'altro giorno venne qui per accomodare alcuni suoi affari col Tipografo che gli ha stampato un certo suo libercolo [dovrebbe essere quello delle Profezie sopra l'Italia, stampato a Dijon 1836, nella tipografia Brugnot]. Io mi prevalsi di questa occasione per avere con lui un colloquio alla presenza di altri Italiani: la disputa fu viva ed animata; e lo ridussi al punto che dichiarò non esser stata la sua accusa che un'induzione. Ciò non mi basta: il mio onore non è abbastanza soddisfatto; bisogna che metta in iscritto quanto ha proferito nel mio ultimo colloquio e che ritiri dalle mani degl'Italiani la lettera d'accusa: pare disposto a far tutto ciò, per quanto mi vien riferito da chi si è intromesso in questo affare. Non crediate però che possi riavere la mia amicizia. Oh no, certamente: un uomo tale n'è indegno. Il tempo farà vedere chi ha piú buon cuore, se io o lui. Egli mi ha fatto de' piaceri, non lo nego, tutto il mondo lo sa; ma ne ha perduto il merito dall'istante che me li ha sí pubblicamente rinfacciati: io ho tenuta nota di tutto ciò che gli devo, e sarà mia premura di soddisfarlo. Eccoti una risposta categorica, precisa e genuina alla tua del 2 corrente. La storia è tale quale te l'ho riportata con quel linguaggio naturale e franco che si richiede: tutti i documenti dell'accaduto esistono presso gl'Italiani, e temo che l'affare avrà delle conseguenze ben triste per Frignani». Se cosí terminasse la faccenda, come l'Uccellini s'imaginava, noi non sappiamo; [233] ma ben conosciamo, della incresciosa controversia, alcuni altri particolari che rappresentano, per dir cosí, l'altra campana. Poiché tra gli altri, ai quali l'Uccellini mandò in Mâcon le sue giustificazioni e documenti, fu un esule modenese, il dottore Gavioli (forse quel dott. Emilio che è accennato dal Vannucci, I martiri, ediz. cit., vol. II, p. 85), il quale il 12 dicembre '36 gli rispose una lettera lunga e violenta, che è tutta un'apologia della persona del Frignani e una censura della condotta dell'Uccellini. Racconta che il Frignani da lui interrogato dichiarò verissime tutte le cose dette in onore di Uccellini dalle persone tutte onoratissime e stimatissime sottoscritte nel documento ravennate, ma che verso di lui l'Uccellini era colpevole di molti atti d'ingratitudine; che anche il capitano Ravaioli s'era doluto di lui; e che maggiori spiegazioni avrebbe date in una riunione da tenersi tra gli esuli. Questi si riunirono una sera presso il Gavioli: «Frignani letta la prima lettera ch'egli diresse agl'Italiani suoi amici a Dijon, soggiunse: Intendete voi che io per questa lettera abbia accusato Uccellini qual traditor della patria? No, dicemmo ad una voce; questo non apparisce; ma sibbene che ha tradito la tua amicizia e la tua causa che difendevi nella Speranza contro un Piavi, il quale ha dovuto poi essere un traditore. Cosí è, rispose il Frignani». Dopo altri discorsi inconcludenti si venne poi alla lettura della risposta dei sei e cioè di sei esuli italiani dimoranti in Dijon; i quali erano due a lui ignoti, uno da lui veduto solo una volta e per caso, due modenesi poco favorevolmente giudicati dai lor concittadini (uno di questi il Tavani, l'altro non è nominato) e finalmente il Gentilini, «del quale Frignani non dice altro se non che lo ama e lo stimerà sempre, amico ovvero nemico che gli sia» e che già gli aveva per mezzo del Ravaioli fatte le sue scuse per aver firmato quella risposta. Alla lettera dei sei replicò il Frignani con un'altra (è sempre il Gavioli che scrive tutto questo all'Uccellini) «tanto chiara, vera, giustificativa e dichiarativa,... per la quale si vede ad evidenza palmare ch'egli non ha mai detto, e non ha mai voluto dir altro, se non che voi siete uno sleale uomo e che avete sempre risposto con ingratitudini nere e con perfidie ai generosi attestati di sua amicizia. Il traditor della patria è dunque una parola che avete inventato voi per far chiasso con gli sciocchi per muoverli a compassione di voi e per aizzarli contro Frignani». E qui segue [234] una gran lavata di capo, una sfuriata mista d'improperi e di consigli, all'Uccellini, al quale ricorda: Frignani «vi perdonò una grave ingiuria che gli faceste nella Speranza, e vi ridonò la sua amicizia e la sua stima.... perché, essendovene voi pentito, vi dimostraste poi onorato giovane in tutte le azioni vostre di parecchi anni in Italia». Lo ammonisce poi che sarebbe vano qualsiasi tentativo di attaccare il Frignani in Italia per l'onorato nome e l'autorità di cui vi gode; vano di attaccarlo in Francia, dove egli è in tanta estimazione: «Cresce sempre di giorno in giorno la fama sua; e meritamente, perché dice cose utili, vere e degne: e le dice con tanta bontà di stile e di lingua, che non pochi sono quelli, pure scrittori lodati, che gli hanno nobile invidia. Lasciatelo ancora scrivere cinque o sei anni (poiché egli è scrittor giovanissimo), e vedrete che non solamente Ravenna si loderà di un tanto suo onorato figliuolo, ma Italia pure vorrà compiacersene. Queste cose veggono e sanno tutti; e se voi non le sapete, domandatene ai Tommaseo, ai Mamiani, ai Pepoli e a tanti altri chiarissimi scrittori nostri che sono in Francia: domandate loro qual'è l'opinione che hanno del Frignani, come giovane scrittore. Ovvero, se di mala voglia vi faceste ad ascoltare quello che diranno, ma voleste sapere quello che s'è detto, pigliatevi il Reformateur, e leggete quello che di lui ha stampato il Lamennais d'Italia, voglio dire Tommaseo; poi vergognatevi della vostra bassa e ignorante invidia.... Vergognatevi ancora in pensare, che quando costí erano buoni italiani, non avevano sciocca invidia a Frignani, ma amore e stima. Leggete il giornale che si pubblica a Dijon, e vi troverete articoli in lode della Vita di Dante, scritta dal Frignani; e sappiate che chi lo lodava era l'ottimo e dotto Corsi. Tacerò le lodi che di lui hanno piú volte pubblicate i Francesi, gli Svizzeri e i Belgi; e fra questi la chiarissima signora de Gomont, oggi moglie di Gatti ravennate, la cui antica e adorata amicizia con Frignani voi avete pure tentato sturbare. Ripensate a tutte queste cose, e vergognatevi; ma sopratutto vergognatevi delle vostre nerissime ingratitudini.....» La sfuriata del medico modenese mi ha tutta l'aria di un'auto-apologia del Frignani, dal quale forse fu dettata al compiacente amico. Certo, se il Frignani non la dettò, molto se ne teneva perché, trascrittala di suo pugno e fattala firmare al Gavioli e autenticare al Maire [235] di Mâcon, la mandò a Ravenna ai firmatari della testimonianza in favore dell'Uccellini, del quale in una lettera, del 15 dicembre indirizzata al notaio Scipione Urbini per lui e per tutti gli altri che avevano firmato, denunziava le opere indegne e le ingratitudini, le bassezze e le slealtà! E a questo proposito ricordava come «davanti un popolo di proscritti, che, pochi mesi fa, ascoltavano una sua orazione funebre, letta sopra una tomba», avesse detto: «L'esilio è castigo piú pericoloso e sotto il quale è piú lubrico il fallire che non sotto gli stessi martori e la carcere. Infiniti esempi, e funesti, ne abbiamo davanti i nostri occhi: giovani presuntuosi, incauti, mal fermi nella prudenza e nella virtú, i quali avresti alle case loro reputati santissimi, imperversati insaniscono, a sé non meno che all'Italia innocente, apportando vitupero e rossore»; e concludeva che «cosí appunto incontra ad Uccellini».

Fra i molti che lessero a Ravenna le scritture del Frignani e del Gavioli fu Giulio Fanti, il quale mandò al suo concittadino una bella e onesta lettera, che è anche una meritata lezione: «...Voi potevate (ne cito i passi piú salienti) prendere da quella carta [il documento ravennate del 21 nov. '36], se cosí vi piaceva, argomento a tessere, siccome faceste, il vostro elogio, senza dilaniare la fama di colui col quale aveste comune la Patria ed aveste comuni le disgrazie. Io non saprei ben dire, se a vergar quelle righe v'abbia mosso piú presto la manía di screditare Uccellini, oppure il desiderio che qui si conosca aver voi nome di eccellente scrittore, e di oratore che le gesta del trapassati sulle lor tombe encomia. Le quali cose come sarebbero belle dette di voi da altri, altrettanto si deturpano leggendole scritte di vostra mano...»; seguita poi esprimendogli il comune dispiacere dei parenti e degli amici per la questione sorta fra i due concittadini, gli dimostra la scorrettezza dell'aver reso pubblico, e in qual modo!, un privato dissidio, gli dice d'aver scritto anche al Gavioli il quale avrebbe dovuto comporlo anziché acuirlo, lo invita a «cessare di bersagliare un infelice» che nelle sue lettere aveva sempre fatti i piú grandi elogi di lui e persino richiedendo il certificato non aveva detto il nome dell'accusatore, e conclude esortandolo a pacificarsi con l'Uccellini secondo il desiderio di «tutti i buoni che di siffatta inimicizia vanno assai dolenti.» Il silenzio dei ravennati e le lettere del Fanti dovettero sapere di forte agrume ai due [236] amici di Mâcon; i quali si misero d'accordo e gli risposero entrambi, con lettere separate, il 23 gennaio '37. Il Frignani con tono dapprima burbanzoso giustifica come effetto di sincerità la diffusione delle proprie lodi e si lamenta che l'Uccellini avesse scritto contro di lui anche a Bruxelles, a Giovanni Gatti («e il tenore mi fu manifesto per le acerbissime parole che esso Gatti mi scrisse e le quali turbarono la nostra antica amicizia, fino a che gli ebbi palesate le ragioni mie»); ma poi abbassando la voce si dice disposto a perdonare il passato e a tacere purché non sia provocato; da ultimo fa un grande elogio del Gavioli (generoso con gli amici, medico insigne, «lui, che, italiano, fu segretario della principale accademia medica di Francia, e la cui parola è tanto autorevole, eziandio presso a deputati ed a ministri, che moltissimi tra quelli, i quali, per aver fatto parte della sventurata spedizione di Savoia, perderono la pensione, a lui non hanno ricorso invano per riaverla») dolendosi che il Fanti gli abbia scritto in modo poco conveniente: ed il Gavioli, anch'egli cominciando col fare altezzoso dell'uomo «molto piú avvezzo a dare che a ricevere consigli», afferma cattiva la condotta dell'Uccellini non solo per il «procedere suo verso il Frignani, ma ancora per testimonio del procedere suo verso degli italiani che sono in Dijon», ma poi a un tratto abbassando pur esso il tono si dice disposto alla riconciliazione, come v'è disposto il Frignani, e a fare presso «questo onorando giovane» le opportune insistenze: «chi onora la patria in esilio è mio amico; chi la vitupera, mio nemico; di tal natura è il mio attaccamento al nome italiano.» La tempesta finiva cosí in un bicchier d'acqua; né alcun'altra traccia ho trovata se non una lettera del Frignani al proprio zio Cesare, dello stesso giorno 23 gennaio, nella quale gli trascrive la risposta mandata al Fanti, facendola precedere da parecchie chiacchiere inconcludenti; se ne ritrae per altro che a Ravenna non si fosse dato un gran peso alle accuse del Frignani, che finisce montando sul cavallo d'Orlando: «Se Uccellini fosse cosí sprezzato in Ravenna, come è sprezzato in Francia da tutti que' pochi che lo conoscono, io mi vergognerei di farmegli incontro per combatterlo... Ma a Ravenna non posso cosí sprezzare quest'uomo, come fo qua, s'egli è vero ch'egli sia cosí stimato come attesta il certificato. Per la qual cosa potrei essere forzato di combatterlo costí, come [237] combattei un tempo Mazzoni e Piavi, dichiarandoli infami, quando tutti pensavano fossero degni liberaloni: e non avevano di liberale che la corteccia di fuori, e nel di dentro erano pieni di iniquità; la quale fu poi manifesta per le circostanze in che si trovarono due anni dopo».

Da un riavvicinamento malizioso tra l'Uccellini e il Piavi (cfr. p. 174) era sorta la contesa tra quello e il Frignani; con un ricordo analogo finisce questo triste episodio, che rispecchiava del resto la lotta di due tendenze opposte: il Frignani, posto dalla fortuna in condizioni d'agiatezza e innebbriato dei sogni di gloria letteraria, aveva temperati i propri ardori d'un tempo e s'era volto a quella parte moderata dell'emigrazione che seguiva il Mamiani, il Gioberti, il Tommaseo; l'Uccellini, duramente provato dalla miseria e letterato soltanto per procacciarsi il pane salatissimo, era rimasto fedele alle vecchie idee carbonaresche ringiovanite dal Mazzini. L'uno restò sempre in Francia e vi morí ricco di guadagni fatti traducendo gli Annali della propagazione della fede; l'altro tornò povero in patria ad affrontare nuove persecuzioni, decorosamente sostenute, per mantener fede alle idee che lo avevano sospinto ancor giovine alle carceri e nell'esilio. Entrambi ebbero la virtú di tacere, nei molti anni che vissero ancora, l'episodio della loro turbata amicizia; che ora non sembrerà inopportuno l'aver rivelato, perché è pur esso un elemento per conoscer meglio uno dei capitoli piú oscuri della storia del nostro Risorgimento: la vita dell'emigrazione politica italiana.

LII. La lettera 62ª, da Bruxelles 18 ottobre 1840 alla sorella Reparata, contiene piú minuti ragguagli del viaggio dell'Uccellini e dell'incidente di frontiera: egli vi racconta che prima di lasciare Parigi visitò Aristide Rasi, il quale si disponeva ad abbandonare la professione di orologiaio per seguire quella del cantante, seguendo i consigli della signora di St. Edme, che avendolo udito cantare trovò in lui una bella voce di basso, lo accolse in casa sua ove viveva allora e lo istruí si ch'egli avrebbe potuto salir presto le scene del teatro italiano. Non trovò invece il Gatti («figlio bastardo di Cappi») marito della signora de Gomont di Bruxelles, «donna bruttissima ma rinomata nelle lettere.» Partí da Parigi il 20 settembre e il 21 giunse alla frontiera, a Quievrain. «Là si visitano i baulli de' viaggiatori e si visano loro i passaporti; in questo mentre si fa colazione: io aveva [238] finito prima degli altri e fumava tranquillamente un zigaro e di Avana, quando il gendarme del posto mi chiama e mi fa passare nella stanza dell'agente politico. — Signore, ei mi dice, bisogna che retrocediate, voi non potete entrare nel Belgio. — E perché? gli rispondo, tutto attonito. — Perché siete rifuggito, soggiunse egli. Invano gli faccio vedere e toccar con mano che non sono scacciato dalla Francia, invano gli espongo che vado nel Belgio per occupare un impiego, invano gli metto sott'occhio i certificati di cui era munito. Sostiene che ha degli ordini positivi in proposito e bisogna ubbidire. Lascio il mio baulletto in custodia all'albergatore di Quievrain; scrivo subito una lettera agli amici di Bruxelles che avevano preso tanto interesse per me; lor conto l'incidente arrivatomi; li prego di far pervenire l'ordine di passare e prendendo sul braccio sinistro il mio mantello, dall'altro l'ombrello ed un pacchetto di librucci, m'incammino verso Valenciennes, prima città di Francia, distante da Quievrain tre leghe, sei miglia. Scorsa una lega, incontro i gendarmi francesi, m'arrestano e mi chiedono il passaporto, mi domandano perché non entri nel Belgio, dico loro la pura verità, ma non mi credono: infine mostro loro i miei certificati, e si decidono di lasciarmi il cammin libero. Già molti contadini s'erano riuniti attorno a me per vedere l'esito di tale incidente, e vedendomi sortirne vittorioso, alcuni mi dissero in un linguaggio mezzo fiammingo e mezzo francese che facevo un cattivo girare in tale momento a causa del tentativo di Luigi Bonaparte. Infine giungo a Valenciennes, dopo tre ore di cammino: come aveva poco danaro, avendo pagato anticipatamente la diligenza sino a Mons, mi ritiro in un alberguccio, mangio una frittata e mi vado in letto. Malgrado tante traversie dormii profondamente sino alle nove del mattino del giorno seguente, 22. Che diavolo farò?, diceva io fra me stesso, in un paese ove non conosco persona; se avessi pensato un tal caso, mi sarei procurato a Parigi delle raccomandazioni: poi tutto ad un tratto mi viene l'idea di andare alla polizia per informarmi se vi erano a Valenciennes degli italiani; detto fatto, vengo a sapere che v'era Andrea Piani di Faenza, ottengo il suo indirizzo, corro da lui senza ritardo, e lo trovo ancora a letto. Ei vedendomi si mette a sedere sul letto domandandomi piú volte con un sentimento di gioia e di sorpresa incredibile, s'ero veramente Uccellini: [239] quando n'è assicurato, m'abbraccia e mi fa subito portare il café al latte, che bevo attendendo si vesta. Insomma m'installo in casa sua, come se fossi stato in casa mia. Allora tornato in me stesso, scrivo un'altra lettera a Bruxelles e un biglietto a Quievrain, al proposto dei passaporti che m'aveva respinto, pregandolo d'avvertirmi quando avrebbe ricevuto l'ordine di lasciarmi entrare. In meno di tre giorni ricevei 20 franchi da Bruxelles per far fronte alle spese del momento e fui assicurato che quanto prima avrei ricevuto l'ordine che desiderava. Infatti due giorni dopo ricevei una lettera del proposto che mi annunziava avere l'amministratore della sicurezza pubblica permesso il mio ingresso nel Belgio e nello stesso tempo ordinato che mi fossero dati 25 franchi nel mio passaggio da «Quievrain.» Partí il 27, lasciando desolato il Piani, della cui gentilezza si loda grandemente: «voi dovete averlo conosciuto; dimorava in casa della Sambi, antica casa di Beltrami.» Il proposto si scusò, gli diede i 25 franchi e di piú da colazione. «Notate bene che il Belgio mi dava 25 fr. per fare 20 leghe di strada e che la Francia me ne aveva dati 32 per sostenere il viaggio di 130 leghe.» Alla sera del 27 era a Namur presso Spada: «Niun rifuggito è cosí ben visto come Spada a Namur; è l'idolo del paese, ei frequenta la piú alta società, è membro onorario di tutti i casini che ivi esistono, e certamente nulla ha da desiderare. Ei mi ha presentato nelle case più cospicue ed ho potuto vedere coi miei occhi l'influenza che vi esercita: ha imparato la musica, ed è invitato in tutte le conversazioni. La Reggenza, o Comune, gli ha accordato per eccezione una cattedra di lingua italiana nell'Ateneo con un emolumento di 600 franchi all'anno, che spera ancora d'aumentare; ha varie lezioni particolari ed il sussidio: il tutto insieme monta a 200 franchi il mese.» L'Uccellini confessa di dover molto allo Spada: fino al 2 ottobre rimase con lui a Namur, poi il giorno dopo, anniversario del suo arresto (cfr. p. 19) giunse a Bruxelles in casa di Nicola Fantini di Faenza, «sempre accolto dai rifuggiti con segni della piú leale amicizia.» Si è presentato al Lebeau, ministro degli esteri e presidente del consiglio, che esaminati i suoi certificati ha promesso di parlare al ministro della guerra per fargli avere la pensione, e all'Haumann «capo della società letteraria belgica» per ottenere l'impiego promessogli. Bruxelles gli piace e lo descrive, toccando [240] delle cose che piú lo hanno colpito, e fra esse le ferrovie, delle quali non aveva che un'idea imperfetta: «Qui vi sono moltissimi rifuggiti, in gran parte piemontesi; di Romagna non vi sono che io, Spada, Fantini, Bendandi, che io non ho ancora visto perché allontanato da tutti: io frequento la casa di un Conte, Colonnello, il signor Bianco, ove intervengono i migliori rifuggiti.»

Il colonnello accennato dall'Uccellini è Carlo Angelo Bianco, morto suicida il 9 maggio 1843; cfr. su lui il Vannucci, op. cit., vol. I, p. 323-327. Il ministro belga era Giuseppe Lebeau (n. a Huy 1794, m. 1865) avvocato e giornalista, membro del Congresso nazionale, che fu uno dei creatori della Costituzione belga del '30, e fatto ministro degli esteri ebbe una parte notevolissima negli avvenimenti posteriori fino a che nel 1840 fu chiamato a costituire il primo gabinetto liberale, che ebbe corta durata.

LIII. Lett. 63ª, da Mons, 31 dicembre 1840: Malgrado la protezione del ministro Lebeau, del deputato Garcia e di altri, non ha avuto il sussidio perché i fondi per i rifugiati sono esauriti: anche l'impiego a lui promesso dall'Haumann è sparito: perciò non trovando a Bruxelles occupazione, è venuto a Mons, dove non vi è alcuno che dia lezioni di italiano e spera di far la fortuna di Spada. Ha già due lezioni in casa Hennekinne e spera trovarne presto altre. Ha fatto domanda al Borgomastro per essere autorizzato a dar lezione nell'Ateneo, e poiché molti l'appoggiano spera di riuscire; ciò che sarà un gran passo. A Mons è solo, non vi sono divertimenti, non italiani fuor che un lombardo, mercante di incisioni che vi dimora da 18 anni, uomo duro e piú belgio che italiano, e un chincagliere Cavalli che ancora non ha conosciuto. Nonostante egli sta bene ed è contento.

LIV. Delle persone nominate in questo capitolo, notissimo è il De Merode, pel quale è da vedere al cap. LIX; meno noti Franciade Fleurus Duvivier di Rouen, n. 1794, ufficiale d'artiglieria nel 1814, segnalatosi nelle spedizioni d'Algeria del 1828 e di Costantina del 1859, nominato comandante superiore del campo di Guelma nel 1839 e generale di divisione nel 1848, anno della sua morte avvenuta per le ferite toccategli reprimendo l'insurrezione di luglio; [241] e il barone Carlo Emanuele Chazal, generale belga, n. a Tarbes 1808, che prese parte attiva alla rivoluzione belga del '30 e contribuí a salvare Anversa dal bombardamento, entrò nel '31 nell'esercito col grado di colonnello, poi fu fatto generale e aiutante di campo di re Leopoldo e nel 1844 naturalizzato belga: egli fu ministro della guerra in piú gabinetti e oratore parlamentare di prim'ordine; pensionato nel 1873, viveva ancora nel 1890.

L'ultima lettera che ci resti dell'Uccellini esule è la 64ª, dell'8 settembre 1843 da Mons alla sorella Vigilia; lettera per piú rispetti singolare: «Che dire dei movimenti politici di cui mi date conto? noi ne parliamo con una meraviglia inesprimibile, perché non comprendiamo un'acca. Da qual fonte scaturiscono? qual ne è la base? quai sono i mezzi d'azione? Niuno di noi, esaminando lo stato attuale d'Europa e pesando il partito radicale esistente, trova modo di sciogliere tali quesiti. La Gazzetta di Cologna li fa dipendere da un complotto creato dai membri della Giovine Italia: ma noi non potiamo supporre che gl'Italiani dopo le molte e triste lezioni ricevute dalle sette, abbiano ancora fiducia in esse: converrebbe comporle di semidei, onde sperare di tenerle occulte sino al momento opportuno dell'azione, e poi, ammettendo anche che si abbia potuto sormontare tale difficoltà, si domanda: Codesto complotto agisce isolatamente o con l'accordo del partito radicale d'Europa? Se agisce da sé, quanto progetta è una vera utopia; se agisce coll'intelligenza di tutto il partito che gli è omogeneo, s'arroga un privilegio funesto e si dà la mannaia sui piedi. Supponendo che il radicalismo si senta abbastanza forte per insorgere, sta forse all'Italia il dar fuoco alla macchina? no, senza dubbio. Non havvi in tutto il mondo che un paese, a cui tale iniziativa convenga, e questo paese è Parigi. Un'altra Gazzetta ci fa sapere che il movimento è nato in seguito ad una voce sparsasi dell'arrivo in Ancona di truppe francesi. Il prestar fede ad una tal voce è dichiararsi insensato. E poi qual magia ha in sé il nome francese per entusiasmare tanto gli italiani? Credesi forse che la Francia sia in grado di soddisfare i vóti de' liberali? vana credenza; il partito su cui questi possono contare è estenuato dalle lotte sostenute col sistema vigente; ha d'uopo di lungo riposo, e non vuole certamente far nuovi sforzi col pericolo inevitabile di rovinar sé stesso senza poter [242] giovare agli altri. Non parlo dei radicali degli altri Stati, perché oltre che sono in peggior situazione di quelli di Francia, non possono avere alcuna influenza diretta su l'Italia. Una Gazzetta che ho sotto gli occhi annunzia che piú di 600 uomini, organizzati in bande ed armati da capo a piedi, hanno avuto uno scontro con un corpo di carabinieri, il di cui capitano è stato ucciso, alcuni dei suoi presi e fucilati: ma qual sarà la sorte di codesti disperati, quando si troveranno a fronte di corpi piú numerosi, disciplinati e sostenuti da cannoni? Chi verrà in loro aiuto? insomma non si trova modo di disbrigare un tal fatto; perciò nella prima che mi scriverete indicatemi quanto si vocifera sull'origine, sullo scopo e sull'appoggio «di esso». Dopo ciò, parla del Dizionario portatile da lui compilato e stampato in sei mesi, e ceduto all'editore Lenglumé, «un'arpia che vuol tutto per niente»; accenna alle critiche del suo Dizionario fatte in Ravenna dal Roatti; ha pronta una grammatica francese per gli italiani, per la quale vorrebbe che gli trovassero in patria un editore. Si rallegra che il Fanti sia stato fatto proposto del Registro. Bendandi è maritato da un mese e si è stabilito a Namur, non crede che adesso possa aiutar la famiglia perché non ha cicatrizzate ancora le piaghe di tanti anni di miseria sofferta dal 1834 al 1842, epoca in cui ebbe l'impiego di conduttore delle mercanzie nella Ferrovia del sud. Spada è stato a Mons otto giorni: «abbiamo parlato a lungo degli sconvolgimenti successi senza poter nulla intendere; è grasso, grosso, e in buon arnese; è curioso: non sa piú dire una sola parola ravegnana e mi ha di continuo parlato francese». Quanto al proprio stato, l'Uccellini non ha ancora ottenuto il sussidio piú volte richiesto; Spada gli ha dato speranza di ottenergli un posto nell'uffizio di uno spedizioniere a Charleroi. «Compiango tanti buoni amici che il torrente politico strascina in un abisso di disgrazie».

LVII. Al card. Francesco Saverio Massimo succedette, come ministro dei lavori pubblici, il 16 gennaio 1848 monsignor Giovanni Rusconi; il 12 febbraio questi rinunziò e in suo luogo fu chiamato l'avv. Francesco Sturbinetti; il quale passò il 10 marzo al ministero di grazia e giustizia ed ebbe per successore ai lavori pubblici Marco Minghetti.

[243] LVIII. Intorno ai fatti accennati in questo capitolo, oltre gli storici in generale e i giornali del tempo, è da vedere il libro, pienissimo di notizie, di R. Giovagnoli, Ciceruacchio e Don Pirlone, vol. I, Roma 1895.

LX. L. C. Farini, Lo Stato romano, lib. III, cap. XIV parla della propria commissione a Bologna nell'agosto 1848 per sedare l'anarchia; il suo biografo G. Badiali (L. C. Farini, Ravenna, 1878, pag. 103) è il solo che accenni al complotto ordito a Roma per assassinarlo: gliene parlò l'Uccellini, il quale non si vantò mai, dopo il 1860, quando sarebbe stato cosí proficuo!, di avere stornato dal capo del Farini un sí grave pericolo.

Gli onori funebri al conte Tullo Rasponi furono il 9 ottobre 1847 e li diresse Giovanni Montanari; come si rileva da alcune Note mss. dell'Uccellini.

LXI. Il Consiglio Comunale di Ravenna, con deliberazione del 5 ottobre 1848 «in seguito ad opportuno avviso di concorso e sopra 9 concorrenti.... a maggiorità di voti elesse e nominò Protocolista ed Indicista Comunale il sig. Primo Uccellini cogli obblighi e collo stipendio di scudi 12 mensili, come all'anzidetto avviso di concorso» (comunicazione di Francesco Miserocchi). Il fratello, accennato in questo cap., è Terzo Uccellini, del quale resta vivente la sig. Ines Uccellini, che per la memoria dello zio patriota ha un culto vivissimo: a lei dobbiamo il ritratto che adorna questo volume, ove auguriamo ch'ella possa rileggere per molti anni ancora i ricordi cari al suo cuore.

Francesco Lovatelli meriterebbe un biografo, che ne mettesse in luce le benemerenze e la condotta politica: morí assassinato nel 1856; cfr. P. D. Pasolini, Gius. Pasolini, p. 520.

Antonio Monghini ravennate, deputato all'Assemblea costituente nel 1849, fu dopo il '60 direttore della Banca nazionale in patria e console di Turchia; nel 1865 si attentò alla sua vita, non si sa se per vendetta privata o settaria; morí in Firenze nel 1875 e fu portato a seppellire nella sua villa di Gambellara. — Sulla parte dei ravennati in «quella camarilla che faceva pratiche a Gaeta col papa» contro la Repubblica sono preziose informazioni nel cit. libro del Pasolini, cap. VIII.

[244] LXII. Poco si sa di questa fuga dell'arcivescovo Falconieri (cfr. la nota a pag. 191) a Venezia: nelle cit. Note mss. l'autore registra sotto la data dell'11 aprile 1849 un indirizzo del Capitolo a Falconieri profugo a Venezia».

LXIII. La festa patriottica celebrata in Ravenna il 15 febbraio 1849 e quella del 19 nel sobborgo di Porta Sisi sono descritte nel Diario ravennate per l'a. 1871, Ravenna, tip. Angeletti 1870, p. 21-24; ma ivi non si accenna alla donna che coronò il fusto dell'albero: è facile però riconoscere in lei la vedova di Gaetano Rambelli giustiziato nel 1828 (cfr. pp. 24, 188) e madre di Epaminonda giustiziato nel 1854 (cfr. p. 246): essa era Antonia Mazzotti e morí in Ravenna nel 1880 di 73 anni.

LXVI. Della gloriosa ritirata di Garibaldi da Roma nel 1849, ha scritto la storia, seguendolo di luogo in luogo, giorno per giorno, sino a San Marino e al Cesenatico, il prof. Raffaele Belluzzi; e il suo lavoro sarà prossimamente pubblicato in questa Biblioteca. Nella quale ci proponiamo di dare anche la storia documentata dello scampo di Garibaldi per opera dei patrioti comacchiesi e ravennati, dallo sbarco a Magnavacca sino al suo arrivo in Forlí: intanto, chi voglia conoscere questi fatti, oltre il libretto dell'Uccellini citato nella prefazione, può vedere: Gioacchino Bonnet, Lo sbarco di Garibaldi a Magnavacca, episodio storico del 1849, Bologna, Società tipografica Azzoguidi, 1887; Pietro Grilli, Narrazione genuina e veritiera sullo sbarco di Garibaldi, Anita, Ugo Bassi e Livraghi alla Pialazza, comune di Comacchio, Ravenna, tip. nazionale, 1891; Primo Gironi, Note illustrative alla carta grafica del percorso da Garibaldi da Cesenatico a Forlí, profugo nell'agosto 1849 dopo la ritirata di Roma, Ravenna, tip. Calderini, 1888; Id., Appunti storici (con l'Elenco cronologico dei salvatori di Garibaldi) nel Diario ravennate per l'a. 1885, Ravenna, tip. Alighieri, 1884, p. 27-29; Saturnino Malagola, Epigrafi, Ravenna, tip. nazionale, 1883, sono sei epigrafi per i luoghi di fermata di Garibaldi; Anonimo, Giuseppe Garibaldi profugo a Ravenna nell'agosto 1849, Ravenna, tip. Calderini, 1884; Primo Gironi, Anita Garibaldi (3ª ediz. riveduta). Cippo ad Anita e XXX anniversario della Società operaia in Sant'Alberto di Ravenna, Ravenna, tip. Ravegnana, 1896.

[245] LXXI. Ecco il testo della sentenza qui ricordata:

SACRA CONSULTA.

Nel dí 28 gennaro 1851.

Il secondo turno del Supremo Tribunale adunato nelle solite stanze per giudicare la causa Ravennate di piú titoli antipolitici contro Gaspare Saporetti, e Primo Uccellini maggiori di età, adempite tutte le formole di procedura, intese le conclusioni fiscali, e le ragioni del difensore, ha dichiarato, e dichiara che consta in genere d'ingiurie e minaccie fatte al Magistrato anche letali in odio di officio, e che in ispecie ne furono, e ne sono colpevoli per ispirito di parte i suddetti Gaspare Saporetti, e Primo Uccellini, a perciò in applicazione degli art. 139 e 103 dell'Editto penale, li ha condannati, e condanna a cinque anni di opera pubblica. Inoltre passando al titolo secondo ha dichiarato, e dichiara che consta in genere di ritenzione di carte antipolitiche, e che in ispecie ne fu ed è colpevole Primo Uccellini, senza licenza alcuna del governo, e perciò lo ha condannato, e condanna alla pena di detenzione a forma e per gli effetti dell'art. 97 del sudd. Editto penale, ultima parte. Ha pure dichiarato che le enunciate pene decorrino a forma di legge. Ed in ultimo ha condannato, e condanna Saporetti, ed Uccellini alla rifazione delle spese del Pubblico Erario.

Stefano Rossi Presid.

L. Colombo — P. Paolini — A. Negroni — A. Sibilia — L. Fiorani.

Per Copia conforme
Il Cancelliere — M. Evangelisti.

La presente Copia conforme al suo originale è stata notificata al sud.o sig.r Primo Uccellini consegnandola a lui stesso in persona detenuto in queste carceri.

Ravenna 5 febbraio 1851. P. Traversari cursore.

(Seguono gli art. 139 del titolo VIII e 103 e 97 del titolo II dell'Editto 20 settembre 1832).

LXXIII. Il maresciallo preposto alle carceri di San Michele era Angelo Renzetti, detto dapprima il Monco dei Monti, poi il Bronco: di lui parlano a lungo A. Lucatelli e L. Micucci, Carità di patria, ai fratelli dimenticati ricordo, [246] Roma, stamperia reale D. Ripamonti, 1889, p. 135-136; nel qual libro sono molte altre informazioni sulle carceri politiche romane dopo il 1849.

LXXIV. Di Epaminonda Rambelli trovo nelle carte dell'Uccellini, in un frammento della biografia del padre di lui, queste notizie: «Suo figlio Epaminonda corse nel 1849 a Roma per cooperare alla caduta di quel dominio perverso, che gli aveva rapito il padre, e fece perciò parte della colonna dei finanzieri che tanto si distinse, sotto il comando di Zambianchi, contro gli stranieri che venivano a sostenerlo; il povero Epaminonda fu arrestato, e decapitato in Roma nel 1854.»

LXXV. Della supposta traslazione dell'Uccellini al carcere di Paliano è cenno in una minuta di supplica che la sua famiglia inviò al card. Marini, perché ottenesse una diminuzione della pena, tanto piú che «il caso di grazia per condanne emanate dalla S. Consulta non è né nuovo né infrequente, e valga l'esempio di Eugenio della Valle e di Giovanni Polidori, ai quali è stata rimessa interamente la pena.»

Il Marini, qui e altrove ricordato come benevolo agli Uccellini, è Pietro Marini, nato in Roma nel 1794, il quale dopo esser stato in Ravenna assessore del Legato Malvasia, tornò in patria, intraprese la carriera ecclesiastica, e in essa salí ai piú alti gradi; fu fatto cardinale da Pio IX il 21 dicembre 1846. Di lui parla D. A. Farini nell'op. cit. nelle note al cap. XLIV.

LXXVII. La data della partenza da Roma si è ricavata da una lettera scritta da questa città a Giulio Fanti, il 4 marzo '52, da A. Donati, il quale gli annunzia di aver contrattata «la vettura per Primo» e che «esso parte oggi istesso»: esiste anche il contratto, in data 3 marzo, col proprietario di vetture Luigi Chitarroni, per il viaggio da Roma a Ravenna del «signor Primo Uccellini e suo compagno» per scudi 17 e mezzo (vitto e alloggio compreso), fissandone la partenza alle 6 antimeridiane del 4 marzo.


[247]

INDICE DELLE PERSONE E DELLE COSE NOTEVOLI

Abbati Biagio di Savignano, precettato, 162.

Accademia del Magnismo istituita dall'A., 177-179.

Acquacalda Antonio, di Ravenna, compagno di carcere all'A., 124.

Acquisti Antonio, di Forlí, precettato, 160; — Francesco, id., id., 160; — Giuseppe, id., ascritto alla Carboneria, condannato a 15 anni di galera, 156.

Adelfi (degli), società segreta, 143.

A. F., ravennate, soccorre a Castel Bolognese l'A. e i suoi compagni di prigionia, 122.

Aguccini Giuseppe, di Bologna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Alberighi Alberigo, di Faenza, precettato, 162.

Albanesi Tommaso, id., ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Albani Giuseppe, card., commissario straordinario nelle legazioni, 54; suoi atti, 56.

Aleotti Pietro, di Forlí, precettato, 160.

Almanacco del Dipartimento del Rubicone, VIII; — della provincia di Ravenna, X; — di Romagna, VIII.

Amaducci Antonio, di Cesena, precettato, 157; — Giovanni, di Meldola, id., 164. — Luigi, di Forlí, id., 160.

Americani (degli), società segreta, 143, esistente in Ravenna, 149, 155, 156.

Ancona: assediata e presa dalle milizie nazionali nel '31, 39; sede del governo nel '31, 43; capitolazione fatta in Ancona tra il governo ed il card. Benvenuti, 45, 203; occupazione francese del '32, 57-59.

[248] Anderlini Paolo, dottore, ricordato nel libro di Angelo Frignani, 225.

Andreati Luigi, di Ferrara, precettato, 162.

Annali della propagazione della fede, 237.

Antolini Tommaso, di Faenza, complice nell'assassinio di Antonio Bellini, condannato, 193-194.

Antonioli Michele, di Cesena, appartenente alla Carboneria, condannato alla galera perpetua, 153.

Apostolato (L'), giornale mazziniano, 62.

Appuntatore (l'), sopranome di Francesco Mantellini (vedi).

Ardoin, negoziante di Auray, benevolo agli esuli, 71.

Armari Carlo, capitano, muore nel combattimento di Rimini, 43; — Domenico, di Ferrara, ufficiale, di guarnigione in Ravenna, 173, precettato, 162.

Armuzzi Luigi, di Faenza, precettato ed espulso dal corpo dei soldati provinciali, 162.

Arrighi Giuseppe, di Faenza, precettato, 161.

Arrigoni Carlo, gonfaloniere di Ravenna, 46, 231, prolegato, 47, 57.

Arrigotti Vittorio, piemontese, dimorante in Forlí, appartenente alla Carboneria, esiliato, 157.

Artosini Carlo, di Forlí, precettato, 162; — Giuseppe, id., id., 162.

Assassinio di Angelo Bandi; Sante Bertazzoli; Antonio Bellini; Alessandro Cappa; Luigi Del Pinto; Mosé Forti; Francesco Gamberini; Giuseppe Lausdei; Lolli; Domenico Manzoni; Domenico Matteucci; don Domenico Montevecchi; Mariano Pierini; Pellegrino Rossi; Filippo Torricelli (vedi ai nomi rispettivi).

Assiari Antonio, di Forlí, ascritto alla Carboneria, partecipa a tumulti, condannato a 10 anni di galera, 156; — Giuseppe, id., 156; Luigi, id., a 7 anni, 156; — Luigi, di Forlí, flebotomo, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Attentati contro il card. Agostino Rivarola, Giuseppe Gentilini, Pietro Morigi, Luigi Carlo Farini (vedi ai nomi).

Azzalli Giuseppe, di Faenza, precettato, 162.

Avvelenamento di Andrea Medri (vedi).

Babalotto, sopranome di Domenico Mazzesi (vedi.)

Baccarini Antonio, di Ravenna, morto a Rimini nel '31, 44, 202; — Sebastiano, di Faenza, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Baccinetti, conte, addetto alla corte di Baviera, ottiene ai fratelli Boccaccini il condono dell'esilio, 64.

[249] Bacchetta don Carlo, di Ravenna, rifiuta il suo aiuto all'A., 222.

Bagnara Alessandro, fa testimonianza per l'A., 230.

Baietti Gregorio, di Cesena, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Balasso, sopranome di Bartolomeo Rondini (vedi).

Balboni Carlo, di Faenza, ascritto alla Carboneria, condannato alla detenzione perpetua, 149.

Baldassarri Francesco, di Faenza, id., condannato a 15 anni di detenzione, 150.

Baldi Gaetano, di Faenza, id., 146, condannato a morte, 148; — Luigi, id., precettato, 162.

Baldini Angelo, di Faenza, id. a 20 anni di galera, 154; — Luigi, di Forlí, precettato, 161.

Baldrati Giuseppe, di Faenza, id., 157.

Balducci Giuseppe, di Forlí, id., 160.

Balella di Ravenna, compagno di carcere all'A., 122.

Ballardini Antonio, di Faenza, feritore di Bartolomeo Savini Casadio, condannato a sei mesi di prigione, 193.

Balsani Giovanni, di Forlí, precettato, 160.

Baluga, sopranome di Francesco Manini (vedi).

Banchittone, sopranome di Antonio Amaducci (vedi).

Bandi Angelo, suo assassinio per odio di parte, 147, 158.

Bandini Giovanni, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150; — Giuseppe, di Forlí, precettato, 162.

Barberini Pietro, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159, emigrato, 168.

Barbetti Mondo, di Ravenna, esule, 218; va in Africa, 220.

Barbieri Pietro, autore dell'assassinio di Francesco Gamberini e d'altri delitti, 146, 147, 152, 155; condannato a morte, 148; eccettuato dalla grazia, 167.

Barchetta, sopranome di Francesco Garaffoni (vedi).

Bardelli Giacomo, di Ravenna, precettato, 160.

Barduzzi Giovanni, di Brisighella, condannato a 20 anni di detenzione per ingiurie contro il Papa, 149.

Bargamino, sopranome di Domenico Maioli (vedi).

Bargozzi Giuseppe, di Forlí, precettato, 162.

Baroncelli Andrea, di Faenza, antico carbonaro, ispettore delle carceri di Forte Urbano, 95; condannato a 15 anni di detenzione, 150.

Bartolazzi Domenico, di Forlí, precettato, 162.

Bartolotti Antonio, di Bologna, id., 158; — Giulio, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

[250] Barzellone, sopranome di Sebastiano Presenziani (vedi).

Bassetti Luigi, di Teodorano, ascritto alla Carboneria, 145, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Bassi Giovanni, di Ravenna, id. a 10 anni.

Bassi Ugo, sua prigionia nella Villa Spada, 91.

Bastianino, sopranome di Sebastiano Vignuzzi (vedi).

Bastogi Pietro, accoglie l'A. in Livorno, 66.

Battaglini Vincenzo, di Ravenna, condannato per l'assassinio Lausdei, 194.

Batuzzi Giacomo, di Ravenna, ascritto alla Carboneria e condannato a 15 anni di detenzione, 150; id. per l'assassinio Lausdei, 194; esule nel Belgio, 219.

Bavari, maggiore nelle truppe pontificie, 39.

Bazzica Carlo, di Faenza, precettato, 162.

Bedeschi, di Lugo, prigioniero a Forte Urbano con l'A., 96.

Bellini Antonio, assassinato per odio politico in Faenza, 163; — Luigi, di Forlí, precettato, 165.

Belloni Emidio, id., id., 162.

Bellotti Giovanni, di Cesena, id., 164.

Bellenghi Girolamo, di Forlí, per aver fatto cartucce per la Carboneria, condannato alla galera perpetua, 152.

Benati Gaetano, di Bologna, ascritto alla Carboneria e complice nel ferimento di Giacomo Greppi, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Bendandi Giovanni, di Forlí, precettato, 160.

Bendandi Paolo e Michele, di Forlimpopoli, appartenenti alla Carboneria e condannati, 193.

Bendandi, romagnolo, addetto al Mazzini in Marsiglia, 66; esule del Belgio; 240; sue notizie, 242.

Benedetti Giuseppe, di Faenza, ascritto alla Carboneria, 145, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Nicola di Gubbio, complice nell'assassinio di Antonio Bellini e condannato, 193-194.

Bensi Francesco, di Forlí, precettato, 162.

Bensoni Alessandro, id., id., 160.

Bentivogli Matteo, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Vincenzo, id., precettato, 162.

Bentivoglio, colonnello pontificio, 46.

Benvenuti Gio. Antonio, card. legato nel '31, 41; arrestato in Osimo e condotto a Ravenna, 41-42; convenzione del Governo provvisorio con lui, 45.

Berger Sofia, di Dijon, fidanzata all'A., 224, 229; il matrimonio va a monte, 225, 226.

[251] Berghinzoni Cesare, di Ravenna, promotore dell'omicidio Del Pinto, condannato a 20 anni di galera, 153.

Berghinzoni Giulio, processato per l'assassinio Chiappa, 128; suo padre, 128.

Bernetti Tommaso, card., segretario di Stato, suoi atti, 39, 41, 45, 51, 54, 59.

Berry (di) duca, Carlo Ferdinando di Borbone, assassinato dal Louvel, 15, 172.

Berry (di) duchessa, entusiasmo per lei in Brettagna, 68, 214.

Bersaglieri (dei), società segreta, 143.

Bertazzoli Sante, vetturino di Faenza, assassinato per odio politico, 146, 149, 152, 154, 155.

Berti Carlo, di Faenza, precettato, 157; — Pietro, id., addetto alla Carboneria, condannato alla galera perpetua, 153.

Bertini Battista, di Forlí, precettato, 160.

Bertolazzi Gio. Battista, organizzatore dei Centurioni, 60.

Bertolotti Vigna Giuseppe, di Bologna, ascritto alla Carboneria, condannato a 7 anni di detenzione, 151.

Bertoni Andrea, di Forlí, precettato, 162; — Angelo, id., id., 162.

Bettoli Giuseppe, di Faenza, condannato a 20 anni di galera, 154; — Michele, id., 154.

Bezzi Angelo, ravennate, scultore in Roma, 79, amicissimo di Ciceruacchio 79-80.

Biagioli Bernardo, di Faenza, precettato ed espulso dal corpo dei soldati provinciali, 162; — Francesco, id., precettato, 162.

Bianchini Gaetano, di Ravenna, arrestato, 29-30; precettato, 162; sue notizie, 195.

Bianco Carlo Angelo, conosciuto dall'A. a Bruxelles, 74, 240.

Biancucci Antonio, di Meldola, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150.

Biffi Antonio, di Faenza, precettato, 157; fuoruscito, per l'assassinio di Antonio Bellini, 193-194.

Biffotto, sopranome di Antonio Biffi (vedi).

Birinaccio, sopranome di Paolo Donati (vedi).

Boccetti Girolamo, di Forlí, precettato, 160.

Boccaccini Agostino e Gregorio, fratelli, arrestati, 63, 204, trasferiti a Bologna, 64, vanno in Toscana, 65, poi in Baviera, 65, rientrano in patria, 65; loro notizie, 200, 205; loro famiglia benevola all'A., 227.

[252] Bocci Achille, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Boesmi Giuseppe, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 151.

Boldura, sopranome di Giuseppe Bettoli (vedi).

Bologna: sede dell'alta vendita della Carboneria, 8; sede del governo provvisorio nel '31, 40-41; occupata dagli Austriaci, 43; in balía dei demagoghi nel '48, 83.

Bonafé Attilio, di Ravenna, impiegato nel ministero dei lavori pubblici, ottiene un impiego all'A., 80.

Bonaparte Luigi, ex-re d'Olanda, 41; suoi figli, 202; parte avuta da essi nei fatti di Romagna, 41; tentativo di Luigi Bonaparte, 238.

Bonazzoli Luigi, di Faenza, precettato, 162.

Bondandi Vincenzo, di Forlí, id., 162.

Bondini Pietro, di Cesena, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Bonini Giuseppe, possidente di Cesena, id., 159; — Giuseppe, falegname e oste di Forlí, precettato, 160.

Bordandini Luigi, di Forlí, precettato, 162.

Bordi Michele, di Cesena, id., 161.

Borghi Francesco, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 20 anni di galera, 154.

Borgognoni Adolfo, raccoglie notizie sulla Commissione Invernizzi, 173; collaboratore dell'A., X; scrive un ritratto di lui, XIII.

Bormida (forte di): prigionia in esso dell'A., 123-129.

Borna Pietro, nome assunto dall'A. come corrispondente di G. Mazzini, 75.

Borsi Paolo, di Lugo, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Boschi (dei), sopranome di Giacomo Sangiorgi (vedi).

Bosdari, gonfaloniere di Ancona, ucciso, 59.

Bosi, amico dell'A., 209.

Bottini Domenico, di Genova, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Bottoni Ottavio, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Braghini Roberto, di Ravenna, ric. nella sentenza id., 158.

Branca, maresciallo dei carabinieri, 189.

Branzanti Angelo, reo di delitti comuni e impunitario, 23, condannato a 5 anni di detenzione, 191; — Augusto, patriota, rappresentante nel Congresso di Cesena il comitato [253] repubblicano di Ravenna, 111, arrestato e tradotto a Bologna, resiste alla tortura, 111.

Bratti Ciro, di Forlí, ascritto alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato a 20 anni di galera, 154.

Brini Giuseppe, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Bronco dei Monti, sopranome di Angelo Renzetti (vedi).

Brunetti Angelo, detto Ciceruacchio, capopolo in Roma, amico di Angelo Bezzi, scultore, 79; conosciuto dall'A.,80; sua azione la sera del 28 aprile '48, 81.

Bucchi Pietro, di Forlí, precettato, 161.

Bucci Antonio, di Faenza, id., 162.

Budini Giuseppe, di Castelbolognese, 147, addetto alla Carboneria, condannato a 15 anni di detenzione, 150; esule in Francia e condannato per i fatti di Rodez, 210.

Buonadrata Ercole, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Buoni amici (dei), società segreta in Gubbio, 193.

Buraccina, sopranome di Antonio Ghirardini (vedi).

Buranti Domenico, fa testimonianza per l'A., 230.

Byron lord, ricordato, 201.

Cacciaguerra Pietro, di Cesena, precettato, 161.

Caldesi Vincenzo, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di galera, 155, partecipa in Roma a una dimostrazione politica, 92.

Calletti Angelo, di Forlí, precettato, 160; — Giuseppe suo racconto dei fatti del '32, 203.

Calura Giovanni, di Ravenna, ascritto alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato alla detenzione, 150.

Canè Vincenzo, d'Imola, precettato, 157.

Canestri Pellegrino, di Forlí, id., 161.

Canosa (principe di), Antonio Capece Minutolo, 56, 204, 205.

Cantoni Giuseppe, di Forlí, ascritto alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato a 20 anni di galera, 154.

Capaccini Tommaso, di Forlí, precettato, 163.

Capilli Ottavio, id., id., 163.

Caporali Pier Maria, di Cesena, ascritto alla Carboneria e ad altre società segrete, condannato alla detenzione perpetua, 148.

Cappa Alessandro, procuratore del re in Ravenna, assassinato, 127.

Cappi, padre naturale di Giovanni Gatti (vedi).

Cappuccini Carlo, di Forlí, imputato del ferimento Piolanti, [254] condannato a 10 anni di galera, 155; — Guglielmo, di Forlí, precettato, 163.

Capra Giuseppe, di Castel Bolognese, ascritto alla Carboneria e condannato a 7 anni di detenzione, 151.

Caracchetti Vincenzo, di Forlí, precettato, 161.

Carandini Romualdo, di Pesaro, condannato a 25 anni d'opera pubblica come carbonaro, 192.

Carboneria in Ravenna, 6, 9; sue sezioni, 6-7; sua azione generale, 143; alta vendita di Bologna, 8; vendita di Forlí, 149, turba di Forlí, 152, 158; vendita di Bologna, 149; vendita di Gubbio, 192 (detta dei figli di Bruto); in Pesaro, 192; in Forlimpopoli, 193; depressa dalla Spontanea, 27-28; ultime sue diramazioni tra gli esuli in Francia, 67; testimonianze e fonti per lo studio della storia e organizzazione della Carboneria, 135, 138, 139, 140-142; denominazioni carbonaresche: Consigli, 143; Consiglio superiore carbonico, 145; Fratelli del dovere, 193; Protettrice, la 1ª sezione, 6, 131, 182; Reggente, 146, 149; Sezioni, 6, 7, 143; Speranza, la 2ª sezione, 6, 174, (figli della Speranza), 185, 193 (figli della Speranza), 193, 233, 234; Squadre, 143; Turba, la 3ª sezione, 7, 143, 152, 174; Vendita, 143; Visibile, 148.

Cardinali Giovanni, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Carli Filippo Francesco, giudice nella Commissione Invernizzi, in luogo di G. Ruffini, 192.

Carlo Alberto, re di Sardegna, lettera del Mazzini a lui, 61.

Carlo X, re di Francia, 34.

Carnevali Alessandro, di Lugo, precettato, 164.

Carpegiani Antonio, di Castelbolognese, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150.

Carrara Giovanni, di Ravenna, appartenente alla sètta degli Americani, condannato a 15 anni di galera, 155-156. — Giuseppe di Cesena, complice di Eduardo Fabbri, e condannato id., 155.

Carrari Vincenzo, sua Storia di Romagna, X-XI.

Casacci, amico dell'A., 209.

Casadio, di Ravenna, compagno di carcere all'A., 121-122.

Casali, amico dell'A., 209; — Giovanni, di Forlí, precettato, 161.

Casamurata Domenico, di Forlí, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Massimiliano, id., precettato, 161.

[255] Caselli Giovanni, di Faenza, precettato, 157; — Sebastiano, id., id., 162.

Casoni Antonio, giacobino ravennate, 135.

Cassani Giacomo, di Forlí, precettato, 163.

Castel Bolognese: due giovani di detto luogo, compagni di carcere all'A., 92.

Castelli, Antonio, di Forlí, precettato, 161; — Vincenzo, id., id., 165.

Catti, esule nel Belgio, 219.

Castellini, di Ravenna, compagno di carcere all'A., 123.

Cavalieri Romualdo, di Ravenna, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 151.

Cavalli, esule a Mons, 240.

Cavalli Antonio marchese, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158; nominato, 217; — Vincenzo, id., presiede il Circolo popolare in Ravenna, 85.

Cavazzuti Gioacchino, di Castel Bolognese, precettato, 157.

Cavina Angelo, fa testimonianza per l'A., 230.

Celli Domenico, di Ravenna, della sètta degli Americani, condannato a 5 anni di galera, 156.

Centurioni: loro organizzazione e condotta, 60-61.

Cerchioli Domenico, di Forlí, precettato, 163; — Nicola, id., id., 163.

Cerotti Carlo, di Forlí, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Cesena: fatto d'armi ivi accaduto, 55.

Chateaubriand, suo opuscolo citato, 49.

Chazal C. E., generale e ministro nel Belgio, 241; suoi figli discepoli all'A. a Mons, 77-78; procura all'A. un sussidio per rimpatriare, 79.

Chiaraffoni Giulio, di Ferrara, precettato, 162.

Chiccoia, sopranome di Francesco Baldassarri (vedi); — Chiccoia della Zucchina, id. di Francesco Borghi (vedi).

Chitarroni Luigi, trasporta l'A. da Roma a Ravenna, 246.

Ciamino, id. di Giacomo Ravaioli, di Forlí (vedi).

Ciceruacchio, id. di Angelo Brunetti (vedi).

Cicognani Domenico, di Forlí, precettato, 163; — Giacomo, di Ravenna, id., 157; — Giacomo, di Forlí, id., 163; — Pietro, id., id., 160 e 163.

Cicognara Girolamo, di Ferrara, id., 164.

Circoli: in Roma, Circolo popolare, 80, del Commercio, 81; in Ravenna, Circolo popolare, 84, 85, 87.

Civilino, sopranome di Pietro Barbieri (vedi).

[256] Coatti, di Argenta, maestro dell'A., 6.

Cocchi Gio. Battista, di Minerbio, precettato, 160.

Codronchi Antonio, card., arcivescovo di Ravenna, avversato dal Rivarola, 13, 140; rinunzia all'arcivescovado, 14.

Collina Gaspare, giacobino ravennate, 135.

Colombo Luigi, giudice della Sacra Consulta, 245.

Coltellaccio, sopranome di Vincenzo Rossi, (vedi).

Comandini Luigi, di Cesena, precettato, 157.

Combes, capitano francese, occupa Ancona nel '32, 58; vi favorisce lo spirito liberale ed è rimandato in Francia, 59.

Comitato in Parigi per la rivoluzione italiana, 33; — repubblicano in Ravenna dopo il '49, 110-111; si fonde nel '59 con la Società nazionale, 111.

Commissione provvisoria di governo nel '31 in Ravenna, 36.

Commissione speciale straordinaria in Romagna 1826-28, 17; membri di essa, 173; si stabilisce in Ravenna, 17, 173; passa a Faenza, 173, notizie sul suo operato raccolte da A. Borgognoni, 173-174; sue sentenze, 189-191, 192-196 (vedi Invernizzi Filippo).

Compari (dei), società antiliberale in Gubbio, 193.

Congresso in Bologna nell'agosto '31 dei rappresentanti di Romagna, 54; in Cesena, dei comitati repubblicani di Romagna, 111.

Conti Antonio, ufficiale, patriota, 38; — Giuseppe, di Faenza, precettato, 157; — Nicola, di Pesaro, minorenne, condannato a sei anni di prigionia come carbonaro, 192.

Corbizzi Nicola, di Forlí, precettato, 161.

Corlari Andrea, sua Cron. di Ravenna, XI.

Cormenin, suoi opuscoli francesi, 228.

Corsi, lodatore del Frignani, 234.

Cortesi Fabio, di Forlí, precettato, 163.

Costa Domenico, id., id., 163.

Costa Paolo, sue poesie in onore di Rosa Morandi, 138.

Cottignola, abate di Ravenna, sonetto di lui alterato a sua infamia, 182, 186.

Covich Bernardo, di Forlí, precettato, 161.

Crescimbeni, modenese, condannato a morte per detenzione di armi, 89, graziato, 90.

Cristini Andrea, di Forlí, precettato, 161.

Croci Antonio, di Meldola, appartenente alla Carboneria, condannato a 20 anni di detenzione 149; — Sebastiano, di Forlí, precettato, 163.

[257] Cubières A. L., generale francese, comandante della spedizione di Ancona, 58, suoi atti, 59.

Cuccardina, sopranome del card. Antonio Rusconi (vedi).

Cuccolotto, id. di Vincenzo Galassi (vedi).

Dadi Giuseppe, di Bologna, precettato, 164.

Daiana, amico dell'A., 200.

Dall'Agata Nicola, di Ravenna, aiutante nella guardia civica, 46.

Danesi Giuseppe, di Forlí, precettato, 161; — Luigi, calzolaio, id., id., 163; — Luigi, ferraio, id, id., 161; — Marcello, id., id., 160; — Vincenzo, id., id., 163.

D'Argut, ministro dell'interno in Francia, 219.

Dassani Antonio, di Forlí, appartenente alla Carboneria, condannato alla galera per 15 anni, 155; — Giuseppe, id. a galera perpetua, 155.

Dati, cantante applaudita in Ravenna, 179.

David, famiglia ravennate, presso cui dimorò l'A., 89.

De Cailly, libraio di Parigi, suoi rapporti con l'A., 222.

De Fontaine Jean, scolara dell'A. a Mons., 78.

Delitti politici: vedi Assassinio, Attentato, Avvelenamento, Ferimento.

De Leuze Enrichetta, scolara dell'A. a Mons, 73.

Della Scala Gaspare, fatto direttore di polizia nel '31, 38; arrestato, 63, 204, trasferito a Bologna, 64, va in Toscana, 65, 205, 222; sue notizie, 200-201; suo figlio (vedi anche Scala Duilio).

Della Valle Eugenio, condannato dalla Sacra Consulta e poi graziato, 246.

Della Volpe Gio. Battista, di Imola, precettato, 162.

Del Pinto Luigi, capitano, comandante di piazza in Ravenna, assassinato, 153.

De Merode Francesco Saverio, scolaro dell'A. a Mons, 77, 240; incontro con lui nel '48 a Roma, 82; cameriere segreto di Pio IX, 107.

Denti Antonio, di Forlí, precettato, 163.

Deny Girolamo, di Grenoble, per aver fornito armi alle sètta degli Americani, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Depositi di esuli italiani in Francia: Dijon, 232; Mâcon, 232; Moulins, 207-208; Rodez, 209-210.

De Rosa Carlo, fa testimonianza per l'A., 230.

De Stefanis Antonio, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

[258] De Vicari Domenico, compilatore del Diario di Ravenna, VIII.

Diario di Ravenna, sue vicende, VIII-IX.

Difensori della Patria (dei), società segreta, 143.

Di Rosa Prospero, sua resistenza ai Tarroniani, 53.

Donati Burlamacchi, famiglia lucchese, proprietaria della villa di Tofari, 65.

Donati Antonio, di Forlí, precettato, 165; — Paolo, id., id., 165.

Donati A., aiuta l'A. in Roma, 246.

Dovere (del), società segreta, 143, 148; in Gubbio (Fratelli del Dovere), 193, in Forlimpopoli (id.), 193.

Ducci Antonio, di Faenza, precettato, 162.

Dulcini Luigi, di Forlí, id., 163.

Duvivier F. F., generale belga, 240; suo figlio scolaro dell'A. a Mons, 77, gli annunzia l'amnistia di Pio IX, 78.

Emiliani Angiolo, di Faenza, precettato, 157.

Ermolaisti (degli), società segreta, 143, 147.

Emiliani, di Modena, sua condotta a Rodez, 209.

Esule (l'), periodico di Angelo Frignani, 231.

Evangelisti Marco, cancelliere della Sacra Consulta, 245.

Fabbri Eduardo, gran liberale e letterato, 27; ricordato nel libro del Frignani, 225; in carcere a Imola, 32, 196, trasferito a Civita Castellana, 34; suo ritorno trionfale in Romagna, 37; vice-prefetto in Cesena, 38; in Ancona nel '31, 45; accuse contro di lui, 148, 155; e condanna alla detenzione perpetua, 148; amico dell'A., 222; sue notizie, 200; — Giuseppe, di Ravenna, esiliato, destituito e processato, 157; — Luigi, di Faenza, fuoruscito ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Pietro, sua lettera sui fatti di Rieti nel '31, 40, 202.

Fabri Francesco, di Forlí, precettato, 165; — Gaetano, di Ferrara, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Fabrizi, prolegato in Ancona, 58.

Faentini Giuseppe, di Forlí fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Faenza: conturbata dai Centurioni, 60.

Falconieri Chiarissimo, card., arcivescovo di Ravenna, 26, 85; sua fuga a Venezia, 86, 244; notizie di lui, 191, 222.

Fanelli Ambrogio, ufficiale, 173.

Fanti Francesco, di Faenza, precettato, 162; — Sireno, di Forlí, id., 163.

Fanti Giulio, compagno d'ufficio dell'A., 135, lettere dell'A. [259] a lui, 178, 196-199, 200, 205-240; sposa Reparata sorella dell'A., 135, 199, 222; sua parte nella contesa tra l'A. e il Frignani, 235.

Fantini Nicola, di Faenza, esule nel Belgio, 239, 240.

Fantozzi Domenico, di Savignano, precettato, 164.

Farini Domenico Antonio, vittima della reazione, 60, 204; ricordato nella sentenza Rivarola, 159 id. nel libro del Frignani, 225; suo scritto sulla Romagna, 246; — Luigi Carlo, complotto per assassinarlo, sventato dall'A., 83-84, 243; suoi cenni su D. A. Farini, 204.

Faro, sopranome di Antonio Carpegiani (vedi).

Fattiboni Giacomo, di Cesena, precettato, 161; — Vincenzo, di Cesena, 202.

Fava Giovanni, sua famiglia convertita al giacobinismo da Luigi Uccellini, 133.

Fedeli Biagio, di S. Alberto, carabiniere condannato per favori fatti ai detenuti politici, 194.

Fenina, sopranome di Giuseppe Dassani (vedi); — id. di un brigadiere, 189.

Ferranti Giuseppe, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Feralli Felice, di Forlí, ascritto alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato a 10 anni di galera, 156; — Lattanzio, id. a 15 anni di galera, 155; — Pietro, id. a 10 anni, 156.

Ferrari Angelo, pittore, raccoglie armi con l'A., 35.

Ferimento di Michele Ghirlandi; Giacomo Greppi; Gaetano Gugnani; Domenico Lama; Francesco Mamini o Francesco Manini; Giuseppe Numai; Stefano Piolanti; Luigi Ravaioli; Bartolomeo Savini Casadio (vedi ai nomi rispettivi).

Ferretti Gabriele, vescovo, poi cardinale, organizza nel '31 la resistenza di Rieti, 39; sue notizie, 202; — Giuseppe, di Cesena, precettato, 161.

Ficcafava, sopranome di Pietro Montanari (vedi).

Figlio di Sant'Orsola (il), sopranome di Pietro Tonducci (vedi).

Filiberti Carlo, di Faenza, fuggiasco, complice nell'assassinio di Antonio Bellini, 193-194.

Fiorani L., giudice della Sacra Consulta, 245.

Forey, libraio francese, 228.

Fiorentini Vincenzo, di Ravenna, amico dell'A., 178.

Fiori Michele, di Forlí, precettato, 161.

[260] Fiorini Luigi, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Forlí: movimento rivoluzionario del '31, 35; eccessi ivi commessi dai soldati pontifici, 55.

Forlivesi Benedetto, di Forlí, fuoruscito e precettato, 161.

Fornioni Francesco, d'Imola, precettato, 107.

Forti Abramo Isacco, ebreo di Lugo, carcerato, 26, sua condanna, 190-191; — Beniamino, id., condannato a 7 anni di galera, 199-191; — Mosè, id., assassinio di lui, 189-191.

Foschi Nicola, di Cesena, precettato, 157. — Giuseppe, di Forlí, id., 165.

Foschini Giuseppe, di Faenza, precettato, 162; — Natale, id., id., 162.

Fracassi Poggi Tommaso, prefetto di Ravenna nel '31, 41; sue notizie, 202; — suo figlio, 45.

Frampolesi Pietro, di Forlí, precettato, 163; — Raffaele, id., mandato d'arresto contro di lui, 159, emigrato, 168.

Franceschelli Carrozza Battista, avv. di Castel Bolognese, in carcere a Imola, 32, 196; trasferito a Civita Castellana, 34; ascritto alla sètta degl'Illuminati, complice di favoreggiamento e nell'assassinio Gamberini, 146; condannato a morte, 148.

Francesco IV, duca di Modena, partecipe alle congiure liberali, 33.

Francia: sua politica rispetto alle cose italiane, 42, 57; occupazione di Ancona, 57.

Francia Alessandro, di Forlí, precettato, 160; — Gaetano, id., id., 163. — Giovanni, id., id., 160; — Vincenzo, id., id., 161.

Frasinetti Evaristo, di Forlí, precettato, 161.

Fratelli Arditi (dei), società segreta, 143, 148.

Fregnani Michele, di Faenza, precettato, 162.

Frignani, di Ravenna, va in Francia con Achille Montanari, 221; — Angelo, di Ravenna, sue memorie di carcere, 176, 225, 227; scrive l'elogio di A. Ghirardini, 205; notizie varie di lui, 207, 208; aiuta l'A., 219, 221; sua contesa coll'A., 223, 229-237.

Frisoni Domenico, di Forlí, precettato, 163.

Fugarelli Giuseppe, di Ferrara, id., 164.

Fusconi Sebastiano, medico di Ravenna, eccettuato dall'amnistia, 51; ricordato nella sentenza Rivarola, 159; sue notizie, 203.

[261] Gabrielli Pompeo, principe romano, comandante militare nella legazione di Ravenna, 173.

Galassi Luigi, di Morciano, ricordato nella sentenza Rivarola, 158; — Vincenzo, di Faenza, fuggiasco, condannato a morte per l'assassinio di Antonio Bellini, 193-194.

Gallerati, lombardo, esule in Francia, 226.

Gallina Francesco, di Forlí, precettato, 160; — Francesco, di Ravenna, satire composte nel suo negozio, 188. — Vincenzo, id., fa parte del Consiglio superiore della Carboneria 145; ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Gallois, ufficiale francese, favorevole in Ancona alle idee liberali, rimandato in Francia, 59.

Gamba Ghiselli Ruggero, sue notizie, 133, 201; sua parte nei fatti del '31, 38; appartenente alla Carboneria, 143, 145; condannato alla detenzione per 20 anni, 149; — Pietro, suo figlio, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; morto in Grecia, 201; — Teresa, sua figlia, in Guiccioli, amata dal Byron, 201.

Gamba Ippolito, erudito ravennate, VII.

Gambelli Luigi, aiutante di piazza in Ravenna, 173.

Gambi Luigi, di Forlí, ascritto alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato a 10 anni di galera, 156.

Gamberini, reo di delitti comuni e impunitario, 23; — di Castel Bolognese, in carcere ad Imola, 32, 196; — del Mancino di Castel Bolognese, ricordato nella sentenza Rivarola, 158; — Francesco, di Castel Bolognese, assassinato perché uscito dalla Carboneria, 146, 147, 150, 152; — Pietro, di Ravenna, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 151.

Gandolfi Francesco, di Forlí, condannato alla galera, 151.

Ganga, sopranome di Mariano Zauli (vedi).

Garaffoni Francesco, di Cesena, ascritto agli Ermolaisti e reo dell'assassinio di Angelo Bandi, 147, condannato a morte, 148; eccettuato dalla grazia, 167.

Garavini Antonio, capo della Carboneria in Ravenna, 7; presiede il Circolo popolare, 85; suo entusiasmo nelle feste repubblicane del '49, 87; notizie biografiche di lui, 135-137; — Domenico, di Castel Bolognese, addetto alla Carboneria, complice nell'assassinio di Francesco Gamberini, condannato a 15 anni di detenzione, 150; — Sebastiano, di Brisighella, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Gardenghi Giuseppe, di Faenza, ascritto alla Carboneria, condannato a 10 anni di galera, 155.

[262] Garibaldi Giuseppe, dopo la difesa di Roma si ritira in Romagna, 88; suo scampo per opera dei patrioti ravennati, 89, 244.

Garcia, deputato belga, aiuta l'A., 240.

Gardi Carlo, di Faenza, precettato, 162; — Giuseppe, id., ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Gardini Alberico, di Forlí, precettato, 163; — Domenico, id., id., 160.

Garzia, segretario di legazione in Ravenna, 97-98.

Garzolini Antonio, fa testimonianza per l'A., 230.

Gatti Giovanni, di Ravenna, vive in Parigi, 229; sposa la De Gomont, 237; ricordato, 234, 236.

Gaudenzi Lorenzo, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Pellegrino, di Forlí, ascritto alla Carboneria, condannato a 10 anni di galera, 156.

Gavazzi Alessandro (padre), predica in Ravenna, 85.

Gavioli, esule a Rodez, autore di omicidi e ferimenti per odio di sètta, 209-210; — dottore (Emilio?), esule a Mâcon, sua parte nella contesa tra l'A. e il Frignani, 233-236.

Geminiani Giosafat, di Fusignano, condannato a 10 anni di galera, 194.

Gentilini, esule in Francia, amico dell'A. e del Frignani, 233; — Giuseppe, custode delle carceri di Castel Bolognese, attentato contro di lui, 147, 153 (dove è detto Vincenzo).

Geppert, generale austriaco nel '31, 43.

Gerand, signora di Nemur, 229.

Ghetti Luigi, riunione della Carboneria in casa sua, 7; notizie di lui, 135.

Ghinassi Gaetano, di Forlí, precettato, 160; emigrato, 168; — Luigi, di Faenza, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Ghirardini Antonio, oste in Ravenna, fa parte della Giovine Italia, 63, 114; arrestato, 63, 204; malato e separato dai compagni, 64; esule in Francia, 65; ascritto alla Carboneria, condannato a 20 anni di detenzione, 149; sue notizie biografiche, 205; sua morte, 221.

Ghirlanda Terenzio, di Pesaro, condannato a 5 anni di opera pubblica, come Carbonaro, 192.

Ghirlandi Michele, ferito per odio di parte, 154.

Ghiselli Giovanni, di Forlí, condannato a 20 anni di detenzione, 149; — Pietro, di Cesena, professore di fisica a Ravenna, 204, 205; fa parte della Commissione di governo, [263] 200; arrestato, 63, 204; trasferito a Bologna, 64; va in Toscana, 65; vi resta, 211.

Ghisino, sopranome di Sante Reggiani (vedi).

Giangrandi Paolo, di Cesena, precettato, 160.

Gianotti Andrea, di Cesena, mons., uditore dell'arcivescovo Falconieri, 26, 191.

Ginnasi Francesco, di Faenza, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Gioberti Vincenzo, conosciuto dall'A. a Bruxelles, 74; a Roma nel '48, 82; ricordato, 237.

Giovine Italia, società promossa da Giuseppe Mazzini, 6; sua sezione in Ravenna, 63, 114; accuse contro di essa per i fatti di Rodez, 210; giornale della società, cit. 62, 204.

Giro, sopranome di Antonio De Stefanis (vedi).

Gironi Primo, succede all'A. nella redazione del Diario, X; suoi scritti sullo scampo di Garibaldi, 244.

Giuggioli Francesco, di Saludecio, fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Giulianini Luigi, di Cesena, complice dell'assassinio Bandi, condannato alla galera perpetua, 153.

Giulino Pacifico, di Pesaro, mandato d'arresto contro di lui, 160.

Giuracco, sopranome di Giovanni Bassi (vedi).

Gobbo (il), sopranome di Giuseppe Rondinini (vedi).

Golfarelli Giuseppe, di Forlí, precettato, 163.

Gordini Federico, impiegato municipale di Ravenna, sostituito dall'A., 84.

Gorzowsky, generale austriaco, residente nella villa Spada presso Bologna, 91.

Grabinsky Giuseppe, capo del Comitato di guerra nel '31, a 41; Forlí, 43.

Grametto, sopranome di Paolo Bendandi (vedi).

Grandi, commissario di polizia in Bologna, 65.

Granella A., firmato come notaio della commissione sotto la sentenza Rivarola, 165.

Graziani Giulio, di Bagnacavallo, precettato, 164.

Graziosi Gaspare, organizzatore della milizia pontificia, 48.

Gregorio XVI, papa, suoi atti nel '31, 39, 45, 51: nel '32, 58; ricordato, 49, 50.

Greppi Giacomo, di Bologna, ferito per odio di parte, 149, 151, 158.

Grilli Giovanni Battista, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

[264] Guarini Domenico, fa testimonianza per l'A., 230.

Gubbio, notizie sulle società politiche segrete di quella città, 192-193.

Guelfi (dei), società segrete, 143.

Gueltrini, già membro del Comitato repubblicano, poi direttore di polizia in Ravenna, 112-113.

Guerrini Gabriele, fa testimonianza per l'A., 230; — Giulio, avv., amico dell'A., XI, 225, 227 (forse anche 200, 209); segretario con lui del Circolo popolare, 85.

Guidi Angelo, di Faenza, precettato, 162.

Gurioli Giovanni, di Forlí, ascritto alla Carboneria, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Gugnani Gaetano, malveduto dai settari di Ravenna e ferito, 194.

Haumann, belga, promette un impiego all'A., 239, 240.

Hennekinne, famiglia di Mons, conosciuta dall'A., 240.

Iena (la), sopranome d'un maresciallo dei carabinieri, 189.

Illuminati (degli), società segreta, 143, 146, 150.

Imola, conturbata dai Centurioni, 60.

Impaccianti Giacomo, giudice nella Commissione Invernizzi, 173.

Imperator Superbo (l'), sopranome di Giuseppe Gardenghi (vedi).

Imperiali Carlo, di Ferrara, precettato, 162.

Invernizzi Filippo, presiede la Commissione straordinari, 17, 28, 31, 67, 173, visita l'A. in carcere, 22-23.

Lacchini Gaetano, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Giuseppe, id., precettato, 163.

Laderchi Achille, di Faenza, ricordato nella sentenza Rivarola, 158; — Camillo, id., ascritto alla Carboneria e alla Massoneria, 149; maestro degli Illuminati, 150; condannato a 15 anni di detenzione, 150; — Giacomo, id., ascritto a società segrete, 145, condannato a morte, 147; — Pietro, id., precettato, 160.

Lafayette, ministro in Francia, favorevole alla causa ital., 42.

Lama Domenico, ferito, 154.

Lamartine, cit. dall'A., 129.

Lampo (il) sopranome di Giacomo Cicognani (vedi).

Landi Pietro, di Forlí, capitano, mandato d'arresto contro di lui, 159; destituito, 164.

Lapi Antonio, di Faenza, precettato, 160.

Lassi Angelo, di Faenza, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

[265] Latinisti (dei), società segreta, 143.

Lausdei Giuseppe, direttore di polizia in Ravenna, assassinato, 194.

Lazzareschi, di Lucca, avv., ucciso a Rodez, 209.

Lazzarini Giovanni, comandante pontificio in Ancona, 58.

Lebeau Giuseppe, ministro dell'interno nel Belgio, 72, 239; sue notizie, 240.

Leonardi Ugo, di Ravenna, compagno di carcere all'A. e ammalato, 126.

Leone X, papa, ricordato, 50.

Leone XII, papa, sua elezione, 11.

Leoni Giacomo, di Meldola, condannato a 10 anni di galera per appartenenza a società segrete, 193.

Lepori Pellegrino, di Forlí, precettato, 161.

Lichtenstein (duca di), ferito a Rimini, 44.

Liverani Giuseppe, di Faenza, precettato, 160.

Lodovichetti Carlo, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Lolli, assassinato, 152; — altro (di Modena?), esule in Francia, 223.

Longanesi, vedi Venturi Agostino.

Lorenzini Natale, cancelliere della Commissione Invernizzi, 191-196; sostituito a Lorenzo Sindaci, 192.

Loreta Clemente, fa parte del governo nel '31, 36.

Lorini Niccolò, comandante la guarnigione di Ravenna, 173.

Losanna Giuseppe, di Forlí precettato, 161.

Lossada, reo di delitti comuni e impunitorio, 23.

Louvel Luigi Pietro, assassino del Duca di Berry, 15, 172.

Lovatelli Francesco, fa testimonianza per l'A., 230; capo battaglione nella guardia civica, reprime il tentativo del Tarroni, 52-53; fonda in Ravenna il comitato della Giovine Italia, 63, 114; evade 63; non accetta la candidatura di deputato alla Costituente Romana, 86; sua morte, 243; — Giovanni, gonfaloniere di Ravenna, 47; — Tommaso, giacobino ravennate, 135.

Lugo, conturbato dai Centurioni, 60.

Luigi Filippo d'Orleans, re di Francia, 34, 41, 42, 69.

Luciani Angelo, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Maccolini Giuseppe, abate, ricordato nel libro del Frignani, 225; — Luigi, di Faenza, precettato, 160.

Maestri Perfetti (dei) società segreta, 143.

Magherini Giuseppe, corrispondente dell'A. in Livorno, 223.

[266] Magliano Costanzo, piemontese, dimorante in Forlí, appartenente alla Carboneria, esiliato, 157; — Vittorio id., precettato, 161.

Magnani Pietro, di Ravenna, carcerato per truffa, trascrive fogli di Eduardo Fabbri, 148.

Magni Giuseppe, di Forlí, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 151.

Maioli Domenico, id., id., 151.

Malagoli, esule, muore presso Tolone, 207.

Malvasia Alessandro, card. legato in Ravenna, 102, 246.

Malvezzi Giuseppe, di Brisighella, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Mamiani Terenzio, rifiuta di firmare la capitolazione d'Ancona, 45, 203; sua commendatizia per l'A., 237; loda il Frignani, 234; in Roma nel '48, 81; ricordato, 237.

Mamini Angelo, di Forlí, precettato, 160.

Mamini Francesco (vedi Manini Francesco).

Mangelli Filippo, di Forlí, precettato, 160; — Pietro, id. id., 160.

Manini Francesco, di Faenza, ferito per spirito di parte, 152.

Mantellini Francesco, di Faenza, addetto alla Carboneria, condannato a 20 anni di galera, 154.

Manzieri Francesco, di Lugo, precettato, 162; — Pietro, id., 164.

Manzoni Domenico, banchiere di Forlí, assassinato d'ordine della Carboneria, 149, 152.

Maranesi Francesco, colonnello, esule in Francia, 210.

Marchesini Gaetano, di Bologna, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Marchino sopranome di Marco Pezzi (vedi).

Marcucci Gallo, di Faenza, precettato, 162.

Mariani Angelo, musicista, 27, 191; — Marco, di Bagnacavallo, precettato, 162; — Natale, capo custode delle carceri, liberale, 26-27, 37, destituito, 158; sue notizie, 191.

Marii Carlo, di Faenza, precettato, 160.

Marini Giuseppe, di Faenza, ascritto alla Carboneria, promotore dell'assassinio di Francesco Gamberini, condannato alla galera perpetua, 152; — Pietro, monsign., poi card., amico della famiglia Uccellini, 32, 102, 107, 196, 221, 222; sue notizie, 246.

Marioni Giuseppe, di Forlí, precettato, 161.

Maroncelli Francesco, id., id., 161.

Marozzi Antonio, id., id., 163.

[267] Marschall di Bieberstein barone Francesco, brigadiere nell'esercito austriaco, 56, 204.

Marsili Gaetano, ufficiale, 173.

Martinelli Giacomo, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Martini Carlo, di Faenza, precettato, 160; — Giuseppe, di Forlí, id., 161; — Pietro, di Faenza, id., 162.

Martinini Nicola, di Rimini, condannato per falsa testimonianza sull'attentato Rivarola, 195.

Masi avv. di Lugo, prigioniero a Forte Urbano coll'A., 96.

Masina Angelo, capo in Bologna della parte demagogica, 83.

Masotti Gio. Battista, di Saludecio, fuoruscito ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Luigi, di Faenza, sospetto complice in assassinio, 194; — Paolo, di Forlí, precettato, 161; — Vincenzo, id., id., 161.

Masottino, sopranome di Vincenzo Masotti (vedi).

Massimiliano II, re di Baviera, suo viaggio a Roma, 98.

Massimo Francesco Saverio, card., ministro dei lavori pubblici, 80, 242.

Massoneria: ricordata nella sentenza Rivarola, 143, 149.

Mastai Gio. Maria, vescovo di Spoleto, 44; vedi Pio IX.

Mattarelli Sante, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di galera, 155.

Matteucci Andrea, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Antonio, mons., direttore generale di Polizia in Roma, 106, 110; — Domenico, direttore di Polizia in Ravenna, assassinato, 140, 175, 190; — Giovanni, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Mattioli Benvenuti Luigi, giudice nella commissione Invernizzi, 173.

Mattiucci Vincenzo, di Forlí, precettato, 160.

Matto Sarto, sopranome di Luigi Giulianini (vedi).

Mayer Enrico, accoglie l'A. in Livorno, 66.

Mazzesi Gaetano, di Ravenna, addetto alla carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 151.

Mazzini Giuseppe, fondatore della Giovine Italia, 61, suo elogio e sue idee, 61-62, 237; l'A. gli porta a Marsiglia carte consegnategli dal Bastogi, 66; è suo corrispondente, 75; accuse contro di lui per i fatti di Rodez, 210; società mazziniane dopo il 1859, 114.

Mazzolani Pietro, di Bologna, precettato, 164.

Mazzolini Ignazio, di Forlí, precettato, 161; — Michele, id., id., 161.

[268] Mazzoni Alessandro, di Forlí, precettato, 163; — Girolamo, medico, sospettato come spia, 20, 50, 176, 188, 237; — Vincenzo, giudice processante nella commissione Invernizzi, 173, 177, 178, 199.

Mazzotti Antonia, moglie di Gaetano Rambelli (vedi).

Medri, barbiere in Ravenna, riunione di Carbonari nella sua bottega, 7, ricordato, 217; — Andrea, di Cesena, tentativi di avvelenarlo, 194.

Meldolesi Mariano, fa testimonianza per l'A., 230.

Mellini, di Modena, esule in Francia, viaggia con l'A., 214.

Meli, protomedico di Ravenna, 36-37.

Melonà Anastasio, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Memorandum degli ambasciatori al governo pontificio nel '31, 50.

Mengen, generale austriaco nel '31, 43.

Mengolini Ignazio, di Faenza, precettato, 162; — Marco, id., id., 162.

Menotti Ciro, 34, 42.

Menz, incaricato d'affari in Milano, 63.

Menzetti Serafino, giudice processante, 178.

Mercuriali Angelo, di Ravenna, depone a danno dell'A., 180, 181, 186, 198-199.

Metternich (principe di), sua politica verso l'Italia, 42, 63.

Miccoli Romualdo, fa testimonianza per l'A., 230.

Micheletti Andrea, di Forlí, precettato, 163.

Michelotto, sopranome di Michele Fregnani (vedi).

Miglietti Alessandro, di Forlí, precettato, 163; — Carlo, id., id., 163.

Milani Gio. Battista, di Cesena, precettato, 164.

Minghetti Marco, ministro dei lavori pubblici sotto Pio IX, 80, 242.

Mingone, sopranome di Domenico Garavini (vedi) e di Domenico Profili (vedi).

Mirri Giuseppe, di Forlí, precettato, 163; — Sante, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Miserocchi Lorenzo, segretario del comune di Ravenna, benevolo all'A., 221, 224, 227; — Francesco, possessore degli autografi dell'A., V, 192.

Misley Enrico, 34.

Missioni religiose, in Ravenna, con fine politico, 12-13, 140, oggetto di satira, 182.

Monco dei Monti, sopranome di Angelo Renzetti (vedi).

[269] Mondini, di Imola, amico dell'A., 200.

Mongardi, id. id., 200.

Monghini Antonio, deputato di Ravenna alla Costituente Romana, 86; fa atto di ossequio al Papa, 86; sue notizie, 243; — Gaetano, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Mongo, sopranome di Girolamo Bellenghi (vedi).

Monnier, generale francese, durante l'assedio di Ancona commette un incarico ad Antonio Garavini, 136.

Montaletti Domenico, di Ravenna, arrestato per l'attentato Rivarola, è assolto, 191.

Montallegri Atanasio, di Faenza, esiliato e precettato, 160; — Luigi, di Faenza, già medico militare, condannato alla detenzione perpetua, 148; — Sebastiano, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 15 anni di detenzione, 150; esule in Francia, 207, 208, 210, 218, 219.

Montanari Achille, va in Francia, 221; — Domenico, di Ravenna, in casa sua si fanno coccarde, 35; giacobino, 135; — Gaetano, di Ravenna, condannato a morte, 190, 191; — Giacomo, id., fa testimonianza per l'A., 230; — Giovanni, sua parte nei fatti del '31, 200, 202; comanda i volontari ravennati nel '31, 38; fa parte del Comitato della Giov. It., 63, 114; dirige i funerali di T. Rasponi, 243; — Giuseppe, di Forlí, precettato, 163; — Giuseppe, medico in Ravenna, 126; — Ignazio, sue poesie in onore di Rosa Morandi, 138; — Orsola, sonetto dell'A. in sua morte, 199; — Pietro, di Forlí, precettato, 161.

Montevecchi Domenico, sacerdote di Faenza, assassinato per spirito di parte, 152, 154.

Montesi Sante, di Cesena, ascritto alla Carboneria, 145, condannato alla detenzione perpetua, 149.

Monti Domenico, di Faenza, id. a 10 anni, 150; — Giosuè, id. a 20 anni di galera, 154; — di Modena, doveva aiutare l'A., 223.

Morandi Rosa, cantante, feste ravennati in suo onore, 9, 137-138.

Morandi, di Lugo, due fratelli, esuli in Francia, 208, 210; uno di essi prigioniero a Forte Urbano con l'A., 96.

Mordani Filippo, sue poesie in onore di Rosa Morandi, 158.

Morgagni Lorenzo, di Forlí, precettato, 160.

Morigi fratelli, ramai in Ravenna, fabbricano cartucce, 35; — Antonio, fa testimonianza per l'A., 230.

[270] Morigi-Strocchi Pietro, di Ravenna, aggredito perché sparlò degli Americani, 155, 156.

Morini Giovanni, addetto alla Carboneria, complice del ferimento Manini e degli omicidi Bertazzoli e Montevecchi, condannato alla galera perpetua, 151.

Morinino, sopranome di Giovanni Morini (vedi).

Morosi Massimino, di Saludecio, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150.

Morri Antonio, di Faenza, id. a 20 di galera, 154; esule in Francia, 208, 210; — Francesco, id., precettato, 160.

Moschini Andrea, di Ravenna, esiliato e precettato, 160; — Antonio, di Forlí, precettato, 163; — Giuseppe, di Cesena, precettato, 161.

Motu-proprio di Gregorio XVI, 5 luglio '31, 51.

Mugolti Domenico, di Forlí, fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Mulazzani Antonio, commissario di polizia nel Rubicone durante il Regno italico, 134.

Muti Ignazio, canonico, ferito invece del Rivarola, 16, 190, notizie di lui, 122-173.

Naldi Francesco, di Faenza, precettato, 162.

Nannini Michele, id., id., 157.

Nardi Simone, di Cesena, id., 161.

Nardoni, segretario del colonnello Ruvinetti, 28.

Nasaccio, sopranome di Andrea Micheletti (vedi).

Navicchia Giuseppe, di Cesena, precettato, 157.

Negri Giuseppe, avv. di Bologna, id., 161.

Negroni A., giudice della Sacra Consulta, 245.

Neri Agostino, di Cesena, precettato, 164..

Nicolas, traduttore del libro di Angelo Frignani, 227.

Numai Giuseppe, di Forlí, ferito in Faenza per spirito di parte, 153; esule in Francia, 226; notizie di lui, 228.

Ollini Gio. Paolo, generale, nei fatti del '31, 43; suo esilio in Francia, 210; sua morte, 221.

Oppizzoni Carlo, card., arciv. di Bologna, assume nel '31 il governo, 43.

Origo, colonnello pontificio, attentato contro di lui, 59.

Orioli Antonio, ascritto agli Americani, condannato a un anno di detenzione, 156; — Demetrio, lettera dell'A. a lui, 226; — Gaetano, custode dell'ufficio degli ingegneri in Ravenna, 21; — id., vetraro di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Gio. Battista, di Faenza, appartenente alla Carboneria, condannato a 20 anni di galera, [271] 154; — Giuseppe, id., precettato, 162; — Giuseppe, di Ravenna, aiuta gli Uccellini, 217, 221, 227; fa testimonianza per l'A, 230; — Leonardo, ufficiale della guardia civica nel '31, 46; precettato, 162.

Orselli Giuseppe conte, di Forlí, ascritto alla Carboneria, 145, membro del Consiglio superiore Carbonico, 145, fuoruscito ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Ortolani Angelo, di Ravenna, sua biografia scritta dall'A., 174-176; sua condanna, 190-191; — Andrea, id., suo zio, 175; — Marco, di Ravenna, precettato, 162; — Raffaele, id., fratello di Angelo, 176, amico dell'A. 200, 209, 221; — Paolo, id., padre di Angelo, 174.

Oste delle Chiavi, sopranome di Mariano Savini (vedi).

Paci Giacomo, di Forlí, precettato, 163; — Giovanni, id., id., 163.

Paganelli Sante, capitano pontificio, sua condotta nel '32 e narrazione relativa, 203-204.

Paggi Girolamo, di Cesena, precettato, 161.

Paliano, castello della prov. romana, carcere politico, 106, 246.

Palmieri Giuseppe, di Forlí, tenente di linea, precettato, 163, destituito, 164.

Palombi, di Ancona, esule in Francia, 208.

Panzarota Antonio, di Forlí, precettato, 161.

Paolini Giuseppe, di Cesena, addetto alla Carboneria, fuggiasco dal forte di Pesaro, condannato a 20 anni di galera, 155; — P., giudice della Sacra Consulta, 243.

Parentelli Domenico, id., a 7 anni di galera, 156.

Partisetti Nicola, di Meldola, precettato, 161.

Pascoli, di Ravenna, amico dell'A. 179.

Pascucci Domenico, di Forlí, precettato, 160; — Raffaele, di Pesaro, condannato a 25 anni d'opera pubblica come Carbonaro, 192.

Pasi Michele, di Faenza, precettato, 162.

Pasini Angelo, di Forlí, id., 160.

Pasolini Giuseppe, sue notizie, 223; — suo padre Pietro Desiderio, fa parte del governo nel '31, 36; rappresenta Ravenna al Congresso di Bologna, 54; sua morte, 225.

Pasolini Luigi, di Forlimpopoli, condannato per appartenenza a società segrete, 193.

Pasolini Zanelli Giuseppe, di Faenza, precettato, 162.

Pasotti Antonio, di Castel Bolognese, precettato, 161; — Francesco, di Imola, ascritto alla Carboneria, condannato a 15 anni di detenzione, 150.

[272] Pasquali Pier Paolo, di Forlí, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150.

Pasti Gio. Battista, di Ferrara, precettato, 164.

Patanina, sopranome di un guardiano arrestato, 18.

Pautet Jules, pubblicista francese, aiuta l'A., 226.

Patuzzi Giuseppe, di Bologna, precettato, 164.

Pazzi Enrico, scolpisce il busto di Andrea Garavini, 137.

Pediani Giacomo, di Castel Bolognese, promotore dell'assassinio di Francesco Gamberini, condannato alla galera perpetua, 152; — Vincenzo, id., precettato, 160.

Penin Teodoro, editore della Morale del Cristianesimo, 222.

Pellico Silvio, suo libro paragonato a quello del Frignani, 225, 228.

Pennacchini Vincenzo, di Pesaro, condannato alla galera perpetua come Carbonaro, 192.

Pepoli Carlo, loda il Frignani, 234.

Perfetti Michele, custode delle carceri di Forlí, ascritto alla Carboneria, destituito, 158.

Perier Casimiro, ministro in Francia, contrario alla causa italiana, 42.

Perlini Ermenegildo, Carbonaro, condannato a 20 anni di detenzione, 149; — Paolo, suo figlio, id. a 10 anni, 150.

Pescantini Federico, esule in Francia, 219, 220.

Petresi Giovanni, di Forlí, ufficiale di linea, mandato di cattura contro di lui, 159, destituito, 164 (dove è detto Girolamo, per un errore della stampa originale).

Petrignani Francesco, di Forlí, precettato, 160.

Petrucci Luigi, di Forlí, appartenente alla Carboneria, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Pettini Alessandro, di Forlí, precettato, 161; — Enrico, id., id., 161.

Pezzi Marco, di Castel Bolognese, autore dell'attentato contro Giuseppe Gentilini, custode delle carceri, 147, condannato alla galera perpetua, 153.

Piana Francesco, precettato, 164.

Piancastelli Antonio, di Brisighella, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Piani Andrea, di Faenza, esule a Valenciennes, aiuta l'A., 73, 238-239.

Pianori Bartolomeo, id., id., 159.

Piavi Giuseppe, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158; — Stefano, capo di una sezione della Carboneria, traditore della setta, 17-18, 174, 237.

[273] Piazza Francesco, di Faenza, precettato, 160.

Piazzoli Carlo, di Forlí, precettato, 163; — Domenico, id., id., 161.

Piccolino, sopranome di Domenico Cicognani (vedi).

Pierini Mariano, di Cesena, fatto uccidere dalla Carboneria come spia, 193.

Pignattaro, sopranome di Francesco Fabri (vedi).

Pio VII, papa, sua morte, 11; fa cardinali Antonio Rusconi e Agostino Rivarola, 139.

Pio IX, essendo vescovo di Spoleto riceve le armi della legione Sercognani, 44; sua amnistia, 78; feste e tripudi in suo onore, 80; sua enciclica del 29 aprile, 81; viene meno l'amore del popolo per lui, 82; sua inettitudine, 83; ricordato, 203.

Pio Battista, giacobino ravennate, 135; — Gaetano, di Cesena, precettato, 164; — Giuseppe, id., id., 164; — Pio di Cesena, esule in Francia, 220; — Vincenzo, di Cesena, precettato, 161, amico dell'A., 178.

Piolanti Domenico, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195; — Giuseppe, di Forlí, ufficiale pontificio, ascritto alla Carboneria, 70; precettato, 163; destituito, 164; esule a Auvray, 70; ottiene una gratificazione dal re, 71; — Stefano, di Forlí, ferito per odio di parte, 155.

Pirazzoli Gio. Battista, d'Imola, precettato, 160; — Vincenzo, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Pironi, medico, esule in Francia, 208.

Pirra, esule piemontese id., 226.

Pistocchi Andrea, di Meldola, precettato, 164.

Piva, sopranome di Giuseppe Bonini di Forlí (vedi).

Placci Sebastiano, di Faenza, precettato, 157.

Placucci Pietro, di Forlí precettato, 163.

Poggetto, sopranome di Vincenzo Stefani (vedi)

Poggi Paolo, di Faenza, ric. nella sentenza Rivarola, 157.

Poletti Luigi, di Modena, custode carcerario in Forlí, condannato a 5 anni di detenzione per favoreggiamento di settari, 151.

Polidori Giovanni, condannato dalla Sacra Consulta e graziato, 246.

Pomatelli Francesco, di Ferrara, esule in Francia, 226.

Pozza (della), sopranome di Giovanni Bandini (vedi).

Praneraque Genovieffa, accoglie l'A. a Moulins, 207; l'A. doveva sposare sua figlia, 211.

Prati Marcello, di Forlí, precettato, 157.

[274] Precetti politico-morali del Rivarola; loro tenore, 165-167.

Precursore (Il), giornale mazziniano, 62.

Presenziani Sebastiano, di Forlí, precettato, 163.

Previtali Giuseppe, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Processi politici in Ravenna: testimonianze e documenti, 140-172.

Profili Domenico, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 15 anni di detenzione, 150.

Quatrini Tommaso, di Ravenna, condannato per l'assassinio Lausdei, 194.

Querzola Angelo, di Faenza, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Ragonesi Giuseppe, di Cesena, precettato, 161.

Raimondi, esule in Francia, arrestato pei fatti di Rodez, 210.

Raisi Pompeo, suo Giornale di Ravenna, XI, 135.

Rambelli Gaetano, arrestato, 18, 105; sua condanna, 190-191; suo supplizio, 26, 103, 106, 174, 188; — sua moglie Antonia Mazzotti nella festa repubblicana del '49, 87, 244; accennata, 107, 220; — Epaminonda suo figlio, accennato, 87, 220, 244, arrestato, 103, sue vicende, 104, 106, 246.

Rampi Ferdinando, di Faenza, precettato, 162.

Randi Luigi, di Porli, precettato, 163.

Ranuzzi Zaccaria Giuseppe, di Ravenna, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Rasi Aristide, amico dell'A. 221, in Parigi, 229, 237; — Chiara, moglie di Luigi Uccellini e madre dell'A., 133; — Girolamo, avv., rappresenta Ravenna al Congresso di Bologna, 54.

Raspi Francesco, di Ferrara, mandato d'arresto contro di lui, 160.

Rasponi Federico, delegato pontificio in Ravenna, 46; — Francesco, fa parte del governo nel '51, 36; succede a Gabriele nel comando della guardia civica, 52; lo lascia, 37; — Gabriele, il Rivarola in casa sua la sera dell'attentato, 15-16; comandante della guardia civica, 46; sostituito da Francesco, 52; — Giulio, fa parte del governo nel '31, 36; — Tullo, muore a Comacchio per un accidente di caccia, 84; onori funebri a lui resi, 243.

Raulli, reo di delitti comuni e impunitario, 23.

Ravaioli Antonio, di Forlí, precettato, 163; — Giacomo, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 15 [275] anni di detenzione, 150; esule a Dijon, 219, 220, 223; — Luigi, ferito, 154; — Pietro, di Forlí, precettato, 163.

Ravenna, moti e congiure politiche in essa, 6, 9, 36; moto reazionario del Tarroni, 52-53; eccessi commessi dai soldati pontifici, 56; fatti del 1849, 85-87, 97-98; feste repubblicane, 87-88, 244; società politiche in essa, 114, 127; società religiosa della Pia Unione della Mercede, 128; Liceo fondatovi dal viceré Eugenio, 135.

Reggiani Giovanni, di Forlí, precettato, 161 e 163; — Giuseppe, id., id., 163; — Pellegrino, id., id., 161; — Sante, id., id., 163.

Reggianini Giuseppe, di Modena, esule in Francia, 210.

Regnoli Baldassare, di Forlí, precettato, 160; — Giorgio, id., id., 161; — Nicola, id., id., 160; — Valeriano, id., id, 160.

Regoli Filippo, di Faenza, precettato, 160.

Renzetti Angelo, maresciallo dei gendarmi, preposto al carcere di San Michele, 104, come trattava Epaminonda Rambelli, 105, 107; notizie di lui, 245.

Ricci Corrado, collaboratore dell'A., X; — Melchiorre, di Forlimpopoli, precettato, 162.

Ricciotti Nicola, comanda la legione di liberali in Ancona nel '32, 58.

Rieti, sua resistenza nel '31 ai liberali, 39-40.

Rifugiati in Francia: trattamento fatto loro dal Governo, 207, 210, 215, 218, 225; dissidi tra essi, 208, 209, 210.

Riminino, sopranome di Pasquale Romagnoli (vedi).

Rinieri Antonio, di Ferrara, precettato, 164.

Rivarola Agostino, card., legato in Romagna, 11; suo governo, 12, 139-140, 175; suoi processi, 14, sentenza del 31 agosto 1825, 14, 194; testo di essa, 141-172; attentato contro di lui, 15, 30, 67, 175, 190, 195; satira sull'attentato attribuita all'A., 188; suo ritorno a Roma, 17; notizie di lui, 139.

Rivoli Nicola, di Forlí, precettato, 163.

Rivoluzione del 1831 in Modena, 34, in Bologna, 35, in Forlí, 35, in Ravenna, 35-36.

Roatti, compilatore del Diario, IX, 221; cooperatore dell'A., 222; censura il suo Dizionario, 242.

Roberti, esule in Francia, suoi rapporti con l'A., 223.

Roli Paolo, di Forlí, fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Roma, fatti del 1848-49, 80-83; carceri politiche in essa, [276] Carceri Nuove, 100, di Termini, 100-102, 108-110, di San Michele, 105, di Monte Citorio, 108, 109.

Romagnoli Girolamo, di Forlí, precettato, 165; — Pasquale, id, id., 161; — Pietro, id., id., 160.

Romagnolo (il), diario compilato dall'A., IX, 224.

Romanini, amico dell'A., 209.

Roncaldier Pietro, di Ravenna, mandato d'arresto contro di lui, 159; fa testimonianza per l'A., 230.

Ronci Michele, di Mordano, condannato a 10 anni di galera, 194.

Roncuzzi, amico dell'A., 200.

Rondini Bartolomeo, di Forlí, capo di movimenti in Forlí e aggregato alla Carboneria, condannato alla galera perpetua, 153.

Rondinini Annibale, di Brisighella, precettato, 161; — Francesco, di Faenza, id., 160; — Giuseppe, di Faenza, mandato d'arresto contro di lui, 159; emigrato, 168.

Rondoni Angelo, di Forlí, precettato, 163.

Rosa Michele, id., id., 163.

Roscio (il), sopranome di Vincenzo Francia (vedi).

Rossi Agostino, di Forlí, precettato, 163; — Casimiro, segretario del Nunzio a Parigi, 223; — Ferdinando, patriota, ucciso in Forlí, 35, 200; — Francesco, di Forlí, precettato, 161; — Giacomo, id., id., 163; — Giuseppe, id., id., 163; — Lorenzo, id., fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Pellegrino, sue illusioni e suo assassinio, 83, 203; — Santo, scrittore politico, cit., 199; — Stefano, presidente della Sacra Consulta, 245; — Vincenzo, di Forlí, capo della turba in Forlí, sospetto di complicità in omicidi, condannato alla galera perpetua, 152.

Rosso della Topa (il), sopranome di Giuseppe Toschi (vedi).

Rota Girolamo, fa parte del governo nel '31, 36; — Luigi, di Forlí, quartiermastro dei carabinieri, precettato, 163, destituito, 164.

Royer vedova Berger, di Dijon, madre della fidanzata dell'A., 224, 229.

Roverella Giovanni, di Cesena, precettato, 164.

Ruffini Giovanni, giudice nella Commissione Invernizzi, 173; sostituito da F. F. Carli, 192.

Rusconi Antonio, card. legato in Ravenna, 10, 138; va al Conclave, 11; sue notizie, 139; — Giovanni, ministro dei lavori pubblici, 242; — Giuseppe, di Faenza, ascritto alla Carboneria, complice degli assassini Bertazzoli e Montevecchi, 154.

[277] Ruspoli, colonnello pontificio, cede Ancona ai Francesi, 58.

Ruvinetti Giacinto, colonnello dei gendarmi, fa parte della Commissione Invernizzi, 17, 22, 28, 31, 173.

Sacra Consulta, sua sentenza contro l'A., 245.

Saint-Aulaire, ambasciatore francese in Roma, 59.

Saint-Edme, protettrice di Aristide Rasi, 237.

Saint-Hildelfonse, doveva tradurre il libro del Frignani, 227.

Samaritani, ravennate, esule a Moulins, 67.

San Leo, preso dai liberali nel '31, 39.

Sancasciani Clemente, medico in Ravenna, 126.

Sandi Antonio, di Forlí, precettato, 161.

Sangiorgi Giacomo, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150; — Vincenzo, id., precettato, 157; — Pio, id., ricordato nella sentenza Rivarola, 158; — Luigi, di Castelbolognese, id., 158; — Domenico, di Forlí, precettato, 160; — Francesco, di Forlí, id., 160.

Sanmart, belga, aiuta l'A., 228.

Sansavini Sebastiano, di Forlí, precettato, 163.

Santetto della Posta, sopranome di Sante Bertazzoli (vedi).

Santi Pasquale, di Cesena, autore presunto di un assassinio politico, fuggiasco, condannato a 10 anni di galera, 193.

Santucci Apollinare, suoi atti nel '31, 200; ufficiale della guardia civica, 36; sua condotta nel fatto di Rimini, 43; sua morte (?), 221; — Battista, aiutante nella guardia civica, 46; — Gaetano Achille notaio, roga la testimonianza a favore dell'A., 230; — Pietro, impiegato nel Municipio di Ravenna, 29.

Saporetti Gaspare, arrestato nel '49; accenno alla causa, 98; è trasferito a Bologna, 92, 94, poi a Ravenna e Roma, 98-99, sentenza contro di lui, 245.

Saragoni Gaetano, di Bologna, precettato, 164; — Vincenzo, di Forlí, ascritto alla Carboneria, condannato a 10 anni di galera, 156.

Sarti Placido, di Bologna, precettato, 162.

Savelli Battista, di Forlí, ascritto alla Carboneria, condannato a 10 anni di galera, 156.

Savini Mariano, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Savini Casadio Bartolomeo, ferito da un settario perché ritenuto spia, 193.

Sbrighi Vincenzo, di Cesena, precettato, 164.

[278] Scala Duilio, di Ravenna, in Francia, 208, 209.

Scannelli Giovanni, di Forlí, precettato, 161.

Scardi Vincenzo, id., id., 163.

Sebastiani, generale francese, 207, 219.

Segorini Gio Battista, ascritto agli Americani, condannato a tre anni di detenzione, 156; — Luigi, suo figlio, id. a un anno, 156.

Sercognani Giuseppe, generale, 38-40; voci a suo carico, 44; sua commendatizia per l'A., 207.

Serfi Cristoforo, di Forlí, precettato, 161.

Serpieri Luigi, sospettato complice nell'attentato Rivarola, 195.

Serti Domenico, ascritto alla Carboneria, condannato a 10 anni di galera, 156.

Severi Antonio, di Forlí, appartenente alla Carboneria, partecipe a tumulti, condannato a 20 anni di galera, 154; — Biagio, di Forlí, precettato, 161; — Giuseppe, giacobino ravennate, 135, ricordato nella Sentenza Rivarola, 158; — Luigi, di Forlí, precettato, 163; — Marco, di Ravenna, id., 158.

Seymour, ambasciatore inglese a Roma, 51, 54.

Sgrappagnello, sopranome di Giacomo Pediani (vedi).

Sgubbi Giovanni, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 180.

Siberia (della) società segreta, 143.

Sibilia A., giudice della Sacra Consulta, 245.

Signorini di Ravenna, amico dell'A., 179, 215.

Signorini Giuseppe, di Forlí, precettato, 161.

Silvegni Antonio, id., id., 165.

Silvestrini Giuseppe, di Castelbolognese, esiliato, destituito e precettato, 157; — Pellegrino, di Meldola, precettato, 161.

Simoni, esule in Francia, 219.

Simonetti Giuseppe, di Cesena, precettato, 157.

Sindaci Lorenzo, cancelliere della Commissione Invernizzi, 175.

Sittignani, amico dell'A., 221.

Società segrete: vedi Carboneria, Massoneria, Adelfi, Americani, Bersaglieri, Difensori della Patria, Dovere, Ermolaisti, Figli di Marte, Fratelli Arditi, Guelfi, Illuminati, Latinisti, Maestri Perfetti, Siberia, Turba, Buoni Amici.

Soragni Eleonoro, di Ravenna, imputato d'aver partecipato a satire politiche, 183-185.

[279] Spada (o Spadini), reazionario, sua fine, 27, 191-192.

Spada Antonio, liberale, arrestato, 30; esule, 30; l'A. lo trova a Moulins, 66, 207, 208; suo contegno nei processi dell'Invernizzi, 30, 66; espulso dalla Francia, 68, 210, 211; va nella Svizzera, 72; poi nel Belgio, 72, 218, 220, 226, 227, 228, 239, 240, 242; aiuta l'A., 72, 73; sua influenza a Namur, 74; sua morte e onoranze fattegli, 78; — Attilio, fratello di Antonio e suo erede, 78; — Gabriele, di Faenza, aggregato alla Carboneria e condannato a 7 anni di detenzione, 151; — Sante di Cotignola, complice nell'assassinio di Antonio Bellini, 195-194.

Spallazzi Filippo, proposto dell'ufficio del Registro in Ravenna, 135.

Spinaci Giovanni, di Pesaro, condannato a 25 anni d'opera pubblica come Carbonaro, 192.

Spinucci, custode delle carceri in Imola, 52.

Spoglianti Angelo, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Spontanea: ritrattazione imposta ai Carbonari e altri sospetti in linea politica, 24, 27, 192.

Spreti Camillo, di Ravenna, lettere storiche a lui scritte da I. Muti, 173.

Stefani Vincenzo, ascritto alla Carboneria e fuggiasco dal forte di Pesaro, condannato a 7 anni di galera, 156.

Stelluti, maggiore nelle milizie nazionali nel '31, 59.

Sterbini Pietro, in Roma nel '48, 81.

Sturbinetti Francesco, ministro dei lavori pubblici, 242.

Strocchi Angelo, di Faenza, precettato, 162; — Francesco, id., id, 160; — Giuseppe, id., id., 160.

Succi Arduino, d'Imola, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Vincenzo, di Faenza, ascritto alla Carboneria 146; condannato a morte, 148.

Sughi Nicola, di Forlí, precettato, 160.

Suhtermann, Comandante pontificio in Ancona, 39.

Supplizio di 5 ravennati il 13 maggio 1828, 24-27.

Tabanelli Andrea, di Faenza, precettato, 162; — Battista e Teodoro, fratelli, id., ascritti alla Carboneria, condannati a 15 anni di detenzione, 150.

Taffi Giuseppe, fa testimonianza per l'A., 230.

Tamberlicchi Fabrizio, di Forlí, precettato, 165.

Tampellini, di Modena, medico, esule in Francia, 208.

Tampuri Giuseppe, di Faenza, precettato, 161; — Giuseppe, id., id., 163; — Tommaso, id., id., 163.

Tanti, sopranome di Gaetano Zampigli (vedi).

[280] Tappacelli Arcangelo, di Forlí, precettato, 161.

Taraborelli Luigi, di Forlí, ascritto alla Carboneria, promotore di tumulti e condannato a 20 anni di galera, 154.

Tarroni Gaetano, capo di un moto reazionario in Ravenna, 52, 53, 203.

Tassinari Ignazio, di Castel Bolognese, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Tavani, esule in Francia, suoi rapporti con l'A., 223, 233.

Taveggi Agostino, di Ferrara, precettato, 164.

Tesini Giuseppe, capitano dei carabinieri-pontifici, 173.

Testoni Gaetano, fa testimonianza per l'A., 230.

Tissot, professore a Dijon, aiuta l'A., 224, 226.

Titira, sopranome di Giuseppe Baldrati (vedi).

Tommaseo Nicolò, loda il Frignani, 234; ricordato, 237.

Tonducci Pietro, di Faenza, addetto alla Carboneria, e complice del ferimento Manini e dell'omicidio Bertazzoli, condannato alla galera perpetua, 151.

Torricelli Filippo, di Meldola, assassinato per mandato, 149; — Francesco, di Meldola, Carbonaro, condannato alla detenzione perpetua, 148; sospettato di mandato nell'omicidio di Filippo Torricelli, 149; ricordato dal Frignani, 225.

Toschi Giuseppe, di Faenza, addetto alla Carboneria, complice del ferimento Manini e dell'omicidio Bertazzoli, condannato alla galera perpetua, 151.

Tosi Giovanni, di Faenza, precettato, 160.

Tozzola, di Imola, amico dell'A., 222; sua morte, 223

Traversari Carlo, di Faenza, precettato, 162; — Pietro, usciere in Ravenna, 245.

Trentini Luigi, di Cesena, id., 164, espulso dal corpo dei carabinieri, 164.

Tribune (la): giornale francese, difende il Mazzini per i fatti di Rodez, 210.

Turba, denominazione della 3ª sezione della Carboneria, 7, 143.

Turchi Camillo, di Forlí, precettato, 163; — Giuseppe, id., id., 163; — Salvatore, id., id., 163.

Tutrino, sopranome di Simone Nardi (vedi).

Uccellini Primo, autore delle Memorie, III, V, seguace del Mazzini, 62, 114; sua nascita, 5, 133; studi, 6, 135; entra nella Carboneria, 7-8; impiegato nell'ufficio del Registro, 135; arrestato, processato, 19-21, 177-188; visitato dal padre, 22, e da mons. Invernizzi, 22-23, dal Nardoni, [281] 28-29; condannato, 31, 195, 196, e trasferito a Imola, 32; lettere scritte di là, 196, 199; liberato, 34; torna a Ravenna, 200; sua parte ai fatti del 1831, 35; entra nel Comitato della Giov. Italia, 63, arrestato, 63, 204, trasferito a Bologna, 64, va in Toscana, 65, 205; esule in Francia, 65-72; a Marsiglia, 66, 206; a Moulins, 66-68, 207-211; a Vannes, 211-217; a Auvray, 68-72, 217-219; a Dijon, 72, 219-229; sua contesa con Angelo Frignani, 223, 229-237; va a Parigi, 229; va nel Belgio, 72-74, 237-240; sua dimora a Mons, 75-79, 240-242; ritorna in Italia e va a Roma, 79; sua dimora a Roma, 79-83; a Bologna, 83-84; torna a Ravenna, 84; ottiene un impiego municipale, 84, 243; sua parte nei fatti del '49, 84-88; è perquisito il suo alloggio, 89; arrestato e tradotto a Bologna, 89-95; a Forte Urbano, 95-96; a Ravenna, 96-97; condannato, 97, 245; trasferito a Roma, 98-110; rimandato a Ravenna e liberato, 110; fa parte del Comitato repubblicano, 110-111; resta in disparte nel movimento del 1859, 111-112; piccola persecuzione, 112-113; è nominato vicebibliotecario, XIV, 113; suo arresto e prigionia nel forte di Bormida nel '68, 117, 128; sua liberazione, 129; sua morte, XIII; scritti pubblicati dall'Uccellini, VI, VIII, IX, XIII; sue intraprese editorie andate a male, VI, 221-224, 226.

Uccellini Festa, sorella dell'A., ricordata, 229; — Ines, nipote dell'A., 243; — Luigi, padre dell'A., 5; sue notizie biografiche, 133-135; sua malattia, 218, e morte, 220; compilatore del Diario sacro, IX; — Reparata, sorella dell'A., sposa Giulio Fanti, 135, 222; lettere dell'A. a lei, 221, 222, 224, 226, 237; — Terzo fratello dell'A., ricordato, 209, 223, 224, impiegato nell'ufficio d'Annona, 84; — Vigilia, sorella dell'A., ricordata, 224, 229, lettere dell'A. a lei, 225, 226, 241.

Ugolini Paolo, di Cesena, precettato, 164.

Urbini Lorenzo, tacciato di pazzo dal Frignani, 230; — Scipione, fa testimonianza per l'A., 230; lettera del Frignani a lui, 235.

Utili Battista, di Brisighella, ric. nella sentenza Rivarola, 158.

Valbonesi Cesare, di Meldola, precettato, 161.

Valdrà Luigi, di Castel Bolognese, ricordato nella sentenza Rivarola, 158.

Valentini Decio, di Forlí, precettato, 163; — Giuseppe, fa testimonianza all'A., 230.

[282] Valli Giovanni, viceconsole di Francia in Ravenna, 207, 216, 218, 222, 231

Vallicelli Rufillo, id., id., 164.

Vangelli Antonio, di Meldola, id., 164.

Varoli Pellegrino, di Forlí, precettato, 161.

Venturelli Luigi, d'Imola, sue invenzioni di rivoluzione e sua condanna, 194.

Venturi, amico dell'A., 200, 209; — Agostino, di Russi, detto Longanesi, appartenente alla Carboneria, condannato alla galera per 20 anni, 154; — Bartolomeo, di Faenza, ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di reclusione, 151; — Mauro, di Cesena, precettato, 164; — Sante, id., id., 161.

Versari Camillo, di Forlí, id., 164.

Vesi Antonio, suo libro sul '31 servito all'A., 200.

Vespignani Stefano, di Forlí, precettato, 163.

Vicini Giovanni, avv., presidente del governo nel '31, 41.

Vignuzzi Sebastiano, di Ravenna, fabbricante di stili per gli Americani, condannato a 15 anni di galera, 155.

Villa Carlo, di Faenza, notaio, ascritto alla Carboneria, 145, ricordato nella sentenza Rivarola, 159; — Giovanni, di Forlí, precettato, 163.

Vincenti Vincenzo, di Bologna, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Vinelli Alessandro, di Forlí, precettato, 160.

Virgili Domenico, di Forlí, fuoruscito, ricordato nella sentenza Rivarola, 159.

Visibelli Benedetto, di Bologna, mandato d'arresto contro di lui, 159.

Vitali Battista, di Forlí, precettato, 163.

Viviani, ucciso in chiesa dai soldati pontifici, 55.

Vobis, sopranome di Gaetano Gugnani (vedi).

Zacchia Giuseppe Antonio, prolegato nel '31 in Ravenna, 36, 38, 200.

Zalamella Giuseppe, avv., maestro dell'A., 6; fa parte del governo nel '31, 36.

Zambelli Francesco, di Faenza, ordine d'arresto contro di lui, emigrato, 168.

Zambianchi, colonnello sotto la Repubblica Romana, 103, 246; — Luigi, di Forlí, precettato, 160.

Zamboni, colonnello pontificio, 56; — Aleandro, di Forlí, precettato, 164.

Zamboni Mauro, di Cesena, fa parte del Consiglio superiore [283] della Carboneria, 145, condannato a 20 anni di detenzione, 149.

Zampetta, sopranome di Giuseppe Budini (vedi).

Zampigli Gaetano, di Forlí, precettato, 164.

Zampieri, tenente dei carabinieri, 189.

Zanoli Luigi, di Ravenna, condannato a morte, 190-191.

Zavaresi, prete, maestro dell'A., 6.

Zattoni Giovanni, di Forlí, precettato, 191.

Zauli Mariano, arrestato per l'attentato Rivarola, è assolto, 191.

Zignami Girolamo, di Forlí, mandato d'arresto contro di lui, 159; — Marco, id., precettato, 164.

Zirardini Claudio, sua breve biografia dell'A., XII, 133; cura la ristampa di uno scritto di lui, XII.

Zoli Antonio, di Forlí, precettato, 164; — Francesco, id., ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150; — Giovanni, id., precettato, 164; — Lazzaro, id., id., 164; — Luigi, id., id., 164; — Vincenzo, id., ascritto alla Carboneria e condannato a 10 anni di detenzione, 150.

Zondini Giuseppe, di Cesena, precettato, 161.

Zoppo (il), sopranome di Michele Fiori (vedi).

Zoppo Zignana, sopranome di Antonio Acquisti (vedi).

Zotti, agente dell'arcivescovo, 13; — Giovanni, suo figlio addetto alla Carboneria, 13, 202; — Domenico, morto nel fatto di Rimini, 44; amico dell'A., 200.

Zuboli o Zubboli Onofrio, sedicente Luigi, di Ravenna, ascritto alla Carboneria e Massoneria, 145-146, condannato a morte, 147.

Zuccadelli Lorenzo, di Ravenna, id., a 10 anni di detenzione, 151.

Zucchi Carlo, generale, nei fatti del '31, 43, 44.

NOTE:

1. L'autografo è di 61 cartelline scritte a matita: il testo di esso trascritto senza i necessari avvedimenti fu pubblicato infedelmente in un periodico di Ravenna, Il Ribelle, organo della Consociazione repubblicana Pensiero e Azione, Anno I, n. 1-15 (5 gennaio, 12 aprile 1884), col titolo di Memorie inedite delle vicende politiche di Primo Uccellini; ma il giornale morí poco dopo, né oggi se ne trova piú alcuna copia, salvo quella conservata nella biblioteca Classense: sí che le Memorie dell'Uccellini furono stampate, ma non si può dir che fossero veramente pubblicate.

2. La narrazione dei Cinque mesi di carcere nel forte di Bormida fu pubblicata nel Diario ravennate per l'anno 1870, pag. 29-40: che l'Uccellini la considerasse come parte integrante delle sue Memorie si rileva dal cenno che egli fa alla fine del cap. LXXV (pag. 108).

3. Tutte le lettere e carte dell'Uccellini da me vedute e studiate si trovano presso il Miserocchi: al quale rendo pubblicamente le piú vive grazie per essermi sempre stato cortese di ciò che egli possiede nella splendida raccolta del Risorgimento italiano.

4. Parigi, presso J. Langlumé e Peltier, librai, contrada du Foin-Saint-Jacques, 11, 1842; in-32º di pag. VI-630, a due colonne.

5. Ravenna, nella tip. del Ven. Seminario Arcivescovile 1855: in-4º, di pag. 513.

6. Vedo, p. es., che lo cita e se ne vale anche l'egregio ing. E. Rosetti nel suo eccellente libro La Romagna, geografia e storia, Milano, Hoepli 1894, p. 642.

7. «Eccovi, o benevoli lettori, il Diario sacro di questa Città e Diocesi per la prima volta da me compilato.»

8. In quello del 1847 è narrato l'assedio di Ravenna per opera di Teodorico; nel '48 e '49 si parla di due scismi della Chiesa ravegnana; nel '51 si dà un quadro cronologico della storia ravennate, con altre notizie storiche diverse.

9. Il proposito espresso nel Diario del 1856 di pubblicare ogni anno un libro della Storia di Romagna del Carrari non ebbe seguito; invece furono dati estratti delle Cronache ravennati del Corlari e del Raisi per il periodo 1796-97 nei Diari degli anni 1858, 1866-68, 1870-73.

10. Di questo notevole scritto dell'Uccellini furono tirati a parte alcuni estratti, in forma di opuscolo in-8º, di pp. 44, aggiuntavi la storia e la fotografia del Capanno del Pontaccio, come si ha dal titolo seguente: Relazione | dello scampo | del | Generale Garibaldi | dalle ricerche degli Austriaci | nell'estate 1849 | coll'aggiunta | della | Storia della fondazione | del Capanno del Pontaccio | ornata | della fotografia del Capanno stesso. Ravenna, Stabilimento tipogr. di G. Angeletti, 1868; e sono rarissimi (uno ne ha la Classense, 83, 2, Busta XII, 8). Ma del tutto introvabile è la ristampa che ne fu fatta in Ravenna a cura di C. Zirardini, che vi aggiunse una breve biografia dell'autore, e si proponeva di illustrare e compiere la narrazione dell'Uccellini con una serie di note, che non furono poi né scritte né stampate; e cosí i fogli già impressi furono distrutti. Un esemplare di essi, forse il solo scampato, fu da me acquistato alla vendita dei libri di Curzio Gallina; è un volumetto in-16º piccolo, di pp. 112, che porta questo titolo: Primo Uccellini | Giuseppe Garibaldi | sottratto dai patrioti ravegnani | alle ricerche degli austriaci | nell'estate del MDCCCXLIX | Ravenna 1883 | Tipografia editrice | di Claudio Zirardini.

11. Ravenna, stabilimento tip. di G. Angeletti, 1865, in-8º, pp. 16.

12. Nel giornale Il Ravennate, 31 marzo 1882 (a. XIX, n. 61) si legge una necrologia dell'Uccellini e sono riprodotti, in parte, i molti manifesti che le Associazioni cittadine pubblicarono per i funerali. Notevole quello degl'impiegati municipali, steso da Adolfo Borgognoni, che è un vero e compiuto ritratto dell'Uccellini: «Egli appartenne alla sacra legione di quei generosi che tutto dedicarono al risorgimento morale e politico della Nazione. Militò dapprima nel segreto delle cospirazioni e preparò l'armi per fronteggiare la mala signoria che manomise il paese, e si ebbe assidua persecuzione e duro carcere. Carattere incrollabile, non cedette all'impeto della forza che lo opprimeva, ma riprese l'ineguale tenzone, e ne ebbe l'amaro esiglio, dove sofferenze, privazioni, dolori non valsero a cancellare, ma ingagliardirono nell'animo invitto il pensiero e la fede nei futuri alti destini della patria. Ritornato in seno a questa, illustrò di opere notevoli la letteratura di Romagna, e fu prescelto dal Municipio all'ufficio di vicebibliotecario della Classense, nella quale rese importanti servigi. Non chiese mai premio delle opere patriottiche da esso compiute. La religione del sacrifizio in cui visse e morí vota al suo nome l'aureola intemerata dei martiri del dovere».

13. Questa condizione si metterà se sarà un Artiere, o un Giornaliero, o a qualunque che non abbia conosciuti mezzi per vivere; si lascierà per i Possidenti, o per qualunque altro che tragga dalla personale industria un'agiata, o bastevole sussistenza.

14. Se non sarà abitante della Città si dirà di non allontanarsi dal nativo Paese, o dalla Casa Paterna, o dal suo ordinario domicilio.

15. Questa clausola servirà strettamente per le persone del Popolo, per i Braccianti, e per quelli che si possono considerare come facinorose; mentre per le persone civili, e per quelli che esercitano certe Arti, o mestieri coi quali avverrebbe che fosse incompatibile la fissazione dell'ora, bisognerà dire di non vagare di Notte oltre le ore necessarie all'esercizio dell'arti medesime; per le Persone Civili oltre le consuete delle oneste conversazioni, e della fine del Teatro.

16. Questa frase servirà per le persone del Popolo, e verrà cangiata nella ritenzione in un Forte per le persone Civili.

17. Oltre alle sopraespresse dichiarazioni, sarà riservato alli E.mi Signori Cardinali Legati, ed a Monsignor Delegato di Urbino e Pesaro l'accordare qualche ulteriore modificazione ai precetti medesimi, secondo i casi e le diverse circostanze e impensate eventualità del Precettato.

18. Le avvertenze marginali del Precetto Politico-Morale di Prim'Ordine, varranno all'uopo ancora di questo Secondo.

19. Le lacune provengono dall'essere qui ritagliato il margine esterno di una carta; né a tutte ho saputo supplire per congettura.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (benefici/beneficî, natio/natío, setta/sètta e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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