TEOFILO FOLENGO
OPERE ITALIANE
A CURA
DI
UMBERTO RENDA
VOLUME PRIMO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1911
II
CAOS
DEL
TRIPERUNO
INDICE
Dialogo de le tre etadi
Selva prima
Sestina li cui capiversi dicono quella sentenzia: «Concordantia — durant — cuncta — nature — federa»
De la puerizia ed aurea stagione
Selva seconda
Prefazione
La Carossa
La Matotta
Dialogo primo (Limerno e Merlino)
Lamento di bellezza
Centro di questo Caos, detto «laberinto»
Amore di Triperuno e Galanta
Dialogo secondo (Limerno, Triperuno e Fúlica)
La Asinaria — Dialogo terzo (Fúlica, Limerno e Triperuno)
Tumuli Galanthidis mustellae
Selva terza
Prefazione
Triperuno
Dialogo (Cristo e Triperuno)
Dissoluzione del Caos
Dialogo (Natura e Triperuno)
Paradiso terrestre
De aurea urna qua includitur Eucharistia
Mira duorum amicitia
De Georgio Anselmo
Tumulus Marci
A l'integerrimo signor Alberto da Carpo
Ad un altro Alberto da Carpo di tal nome indegno
DIALOGO
DE LE TRE ETADI
Paola attempata — Corona giovene — Livia fanciulla.
Paola. Tu piagni, figliuola, e che ti senti tu?[1]
Corona. Nol sai, madre, senza che me lo chiedi?
Paola. Se 'l sapessi giá, non tel dimandarei.
Livia. Dicerottilo io, dapoi che le molte e abbondevoli lagrime
t'interrompeno la voce.
Corona. Taci lá tu, pazzarella, ché pur troppo è di soperchio a me sola
questo cordoglio, senza che tu v'involvi dentro e lei ancora.
Paola. Non siano parole tra voi! O tu, o tu me lo narri senza piú
indugio.
Corona. Piango la mala sorte di mio fratello Teofilo, a te figliuolo.
Paola. È forse morto?
Corona. Sí, d'onore e reputazione.
Paola. Maladetto sia l'uomo il quale disprezza la fama sua.[2]
Corona. Dio pur volesse che la vergogna fusse di lui solo!
Paola. So male che responderti, non t'intendendo ancora: dimmi, ha
commesso qualche adulterio?
Corona. Grandissimo.
Paola. È di carne... Ma in che modo?
Corona. Qual trovasi maggior adulterio essere che de lo ingegno suo
pellegrino, che de le tante lui grazie dal ciel donate usarne male?
Paola. Grande ingratitudine per certo! Ma comincio giá la causa di
questo tuo rammarico intendere: lo poema da lui composto sotto il nome
di Merlino Cocaglio ancora non ti si parte dal cuore?
Corona. Anzi ognor piú me lo parte e straccia.
Paola. Deh! stolta, tu t'affanni oltra quello che a te non tocca.
Corona. Piú d'ogni altro mi tocca, ché piú d'ogni altro son certa che
l'amo.
Paola. Piú di me?
Corona. Piú di te.
Paola. Di me, ch'io gli son madre?
Corona. Ed io doppia sorella.
Paola. Non l'ami tu giá dunque, se doppia gli sei.
Corona. La causa?
Paola. Tant'è dir «doppio» quanto «falso».
Corona. Or su, non motteggiamo, prego![3]
Paola. In che modo gli sei dunque doppia sorocchia?
Corona. Carnale e spirituale.
Paola. Carnale sí bene, spirituale non piú giá.
Corona. La cagione?
Paola. S'ha gittato il basto da dosso l'asinello.
Corona. E rottosi 'l capestro.
Livia. E tratto di calzi.
Paola. Or cangiamo cotesto ragionamento in altro. Hai tu letto
l'Orlandino?
Corona. Letto? trista me! appena veduto.
Paola. Come? ti vien interdetto forse che da te con l'altre tue sorelle
non si poscia leggere?
Corona. Sí.
Paola. Chi fu questo pontifice?
Corona. La ragione.
Paola. Perché cosí la ragione?
Corona. La quale m'avvisava dover essere peggior Limerno che Merlino.
Paola. Leggerlo almanco voi dovevati.
Corona. A che perder il tempo?
Paola. Taci, ché d'ogni libro qualche cosa s'impara.
Corona. Questo è falso.
Paola. È sentenzia di Plinio.
Corona. Vada con le altre sue menzogne!
Paola. Negarai tu che d'ogni libro non s'impari qualche cosa?
Corona. Anzi, piú de li tristi e disonesti che de li boni.
Paola. Or basta: non sai che 'n doi mesi, e non piú, sotto il titolo di
Limerno l'ha composto?
Corona. E' viemmi detto che, tutto a un tempo che lo componeva, eragli
rubato da gli impressori.
Paola. Cotesto è piú che vero; ché ove interviene stimulo di sdegno,
spizziano versi senza alcun ritegno.
Corona. Potrebbe forse pentirsene, credilo a me.
Paola. Di che?
Corona. Dir tanto male.
Paola. Anzi solamente si dole che non pur Merlino, ma Limerno compose
cosí precipitosamente che li stampatori non poteano supplire a
l'abbondanzia e copia de' suoi versi; laonde pargli un errore
grandissimo non aver servato lo precetto oraziano.[4]
Corona. Doverebbe via piú tosto il meschino piangere e crucciarsi aver
consumato il tempo circa tanta liggerezza.
Paola. Non dir liggerezza, figlia, ché non per cosa liggera simulossi
giá Ulisse devenuto essere pazzo.
Corona. Troppo son certa io de la lui malizia, il quale fingesi
«pitocco» e furfante per dar bastonate da cieco.
Paola. Tu non sai la cagione.
Corona. Cosí non la sapessi!
Paola. Dimmi, qual è?
Corona. Per farci morir tutti spacciatamente di doglia, acciò piú oltra
non avesse chi gli gridasse in capo.
Paola. Tu te 'nganni grossamente.
Corona. Anzi pur tu te 'nganni.
Paola. Come?
Corona. In creder alcuno dir male a bon fine.
Paola. Che male dice?
Corona. Non voglio parlarne.
Paola. Perché?
Corona. Temerei di qualche maladizione.
Paola. Or su confortati, figliuola, ché al poledro fu sempre concesso
puoter fin a doi capestri rumpere.[5]
Corona. Non rumpa giá lo terzo.
Paola. Anzi totalmente nel ternario numero fermatosi, ha messo a luce il
Caos del triperuno.
Corona. Qual Caos del triperuno?
Livia. El pare che non ti sovvegna!
Corona. Non mi sovviene per certo.
Livia. Le tre «selve», le quali heri legessimo, e, per segno di ciò, una
allegoria bellissima tu di quelle saggiamente cavasti, quantunque io sia
di senso molto dal tuo discosto.
Corona. O smemorata me, ch'ora me lo ricordo! Ma dimmi: è di Teofilo?
Livia. Non sai che solamente vi si fa menzione di Merlino, Limerno e
Fúlica?
Corona. Troppo me lo ricordo! Ma che fusse di tuo fratello Camillo mi
pensava.
Livia. Tu non pensasti dritto: è di Teofilo.
Paola. Cosí è; ma ditemi ambe dua lo argomento vostro che imaginato vi
avete sopra questo Caos, ché ancora io lo sentimento mio vi narrerò.
Comincia tu, Livia.
ARGOMENTO PRIMO
LIVIA.
Questo Caos, in «selve» tripartito, la vita de l'autore, la quale in
tre fogge sin a quest'ora presente col tempo veloce se n'è gita,
contiene. Nacque egli (come di me voi sapete meglio) a gli otto giorni
ed ore duodeci di notte, nel mese di novembre, sotto Scorpione, essendo
allora grandissimo freddo: laonde in questa sua prima «Selva» narra
l'orribile freddura in cui egli miseramente nacque, fingendo natura
essergli stata, piú di madre, madregna, e pur ne la puerizia, la quale
appella «aurea etade», gustò alquanto di securo e dolce riposo.
Ne la seconda «selva», pervenuto egli omai ne gli anni di qualche
cognizione, ritrova molti pastori, la cui vita e costumi e quieta pace
molto gli piacquero, volendovi inferire che di sedeci anni egli co'
l'abito cangiò la vita. E veramente sí come a li pastori apparve
l'angelo e mostrò loro dove giacesse il nasciuto fanciullo Iesú Cristo,
cosí allora, su quel principio che egli prese a far vita comune co' gli
altri pastori, trovò Cristo parvolino entro il presepio collocato; ma
col tempo poi, per cagione di... (ma non voglio parlarne chiaro, ché
ancora egli va piú riservato che sia possibile) traviato, si mise a
seguir amorosamente una donna bellissima, la quale sopra un sfrenato
cavallo gli scampa innanzi per tirarsilo drieto al precipizio d'ogni
perdizione. Né chi sia questa dongella né dove finalmente lo conducesse,
vogliovi manifestar se non in l'orecchia dicendolo: ma, conchiudendo la
seconda «selva», dico che 'l laberinto intricatissimo, nel quale
ultimamente si ritrova, pare a me una soperstizione tenacissima
significare, de la cui caligine se non per divin aiuto si pò essere
liberato. Ed in questa tal foggia seconda di vivere, essendo egli giá
fora del sentiero diritto, compose lo poema di Merlino con tutte l'altre
favole e sogni amorosi, li quali ne la «selva» seconda si leggono.
Or dunque Cristo si gli scopre in quel centro d'ignoranzia de la «selva»
terza apparendo, e d'indi smosso, lo driccia sul cammino al terrestre
paradiso duttore. Ché per divina inspirazione conoscendosi egli perder
il tempo supersticiosamente in quella seconda «selva», ritornasi a la
sincera vita da l'evangelio primamente a lui demonstrata; e fatto del
suo core un dono a Cristo Iesú, da lui ne riceve tutto 'l mondo in
ricompenso e guiderdone di esso; e giunto nel paradiso terrestre, gli
vien ivi comandato che non mangi de l'arbore de la scienza del bene e
male, ma solamente si pasca e nudrisca del legno vitale, per darci sopra
ciò un bell'avviso: che, quantunque ogni constituzione o sia tradizione
de alcun santo padre bona e fundata su l'evangelio sia, nulla di manco
assai piú secura e utile cosa è non partirsi dal mero evangelio; perché,
sí come ogni norma e regula de santi ha in sé figura de l'arbore del
saper il bene e il male, cosí de l'arbore di vita contiene in sé lo
leggier peso del Servatore nostro. Laonde esso mio zio Teofilo
commetteria la terza sciocchezza quando mai lasciasse piú lo vecchio
sentiero per tornar al novo. E questo è il senso mio circa la
dechiarazione di questo Caos.
ARGOMENTO SECONDO
CORONA.
Arguto ed ingenioso fu questo da te pensato soggetto, Livia cara; ma non
tanto a l'intenzione di tuo zio mi par agiatamente accascare, quanto
quello ch'heri ti dissi ed ora sono ad ambe dua per ragionare. Move
dunque mio fratello piú generalmente il voler scrivere di qualunque
altro uomo che del suo proprio fatto; onde ne la prima «selva» narra la
infanzia e puerizia umana, ne la seconda la precipitosa giovenezza, ne
la terza la matura e virile etade.
Or dunque, ne la prima descrive in quanti affanni e travagli qualunque
uomo, per fallo del primo nostro padre Adam, nasce in questo mondo,
chiamandovi Natura «crudele matregna»: da la quale di scorze, peli,
piume e squame provveduto viene ad ogni altro animale quantunque
vilissimo; ed egli solo, nudo nascendo, non ha schermo alcuno e difesa
contra le ingiurie del tempo. Ma poscia, per beneficio de la industria
ed arte pervenuto a la puerizia, dimanda quella «l'aurea etade», perché
la innocenzia del fanciullo sen passa quel poco di tempo senza sapere
che sia rigidezza di legge, téma di tiranno ed inquietudine di avarizia.
Uscito poi egli dal bel giardino di puerizia, entra ne l'impetuosa
giovenezza, la quale, innanzi che da l'ardente desio anco non vien
assalita, comincia, con la mente tutta svegliata, de l'esser non pur
suo, ma d'ogni altra cosa a ripensare. E quivi, ne la seconda «selva»,
mio germano, in persona (come giá sopra dissi) d'ogni altra razionale
creatura, fingesi trovar pastori, e Cristo Iesú tra quelli nasciuto, per
darci questo avviso: che l'uomo, quanto prima ne gli anni di ragione
entrar comincia, per favore del suo bon genio, incontanente ricorre a la
cognizione di veritade, la qual è Cristo nostro Servatore. Ma, levatasi
poi la consueta tempestade di nostra carne, ecco la voluptade, ecco 'l
desio sotto il viso di vaga dongella, sul sboccato cavallo de la
delettazione, lo riconduce al varco de le due strade, per tirarsilo
drieto a la sinistra del vizio, lasciando la destra de la veritade.
Quivi dubitoso, ne la prima giunta, stassi ove gir si debbia: quinci, da
belli e boni avvisi a la destra invitato; quindi, da gli umani piaceri
combattuto che egli muovasi a la mancina. Soperato dunque e vinto
finalmente dal fugace desio, vágli impetuoso drieto, dovunque la falsa
incantatrice, losingando, a sé in guisa di calamita lo smarrito animo
tira, passando tutta fiata per sogni, chimere ed amorose favole, quali
sono le «fizzioni macaronesche», come gli appellano, di Merlino, li
sonetti, ed altre assai vane frascuzze, per signar il tempo da la
giovenezza inutilmente trapassato, in fin che poi nel laberinto di
qualche travaglio si ritrova essere: cosa che 'l piú de le volte dopo
gli piaceri sòle a gli gioveni accascare.[6]
Laonde, come ne la terza «selva» noi leggemo, l'uomo angustiato ricorre
al divino suffragio: e Cristo gli appare bello e pietoso, cavandolo
benignamente di quella ignoranzia d'amore, e talmente li tocca il core,
che 'l giovene, giá venuto virile, si mette in considerazione di quanto
mai fece Iddio per l'uomo. Dil che mio fratello sopra questo finge che,
avendo Cristo ricevuto il core da lui, criògli tutto quanto il mondo, e
al paradiso terrestre dricciatolo, gli comanda che, pascendosi egli del
legno de la vita, il quale ha di sua grazia in sé la figura, non gusti
per niente di quello del bene e male; il quale a me par dover
significare che l'uomo, facendo le bone opere, quelle non debbe a soi
meriti tribuire, anzi tutte nel divin favore collocarle. Tal è dunque il
concetto mio dal Caos divenuto.
ARGOMENTO TERZO
PAOLA.
Sentenzia divina è che «la lettera uccide l'anima». Fermamosi, prego,
dunque sul Caos di questa materia, lasciando in parte sí la vita di mio
figliuolo in spezialitade, la quale per vigor e sottiezza de peregrini
ingegni forse col tempo verrá in luce piú secura, sí quella ancora di
qualunque altro uomo, in questa umana gabbia precipitato.
Ne la prima «selva» contienesi, adunque, l'uomo studioso ed avido
d'imparare mettersi prima in considerazione di queste cose piú basse de
l'umana natura, fra le quali se l'arte liberale con la industria insieme
non fusse, oh quanto inferiore a gli altri animali sarebbe l'uomo, non
cosí provvisto da natura contra le ingiurie del tempo, quanto di piume,
squame e peli sono quelli! Onde pare che meritamente piú lei chiami
«madre» che «madregna», se la nuditade od altra miseria nel nascere ben
si comprende. Ma contemplando per mezzo di queste divine arti liberali
aver da non curarsi di qualunque onta naturale, si move al studio
simplicemente di umanitade, lo quale «aurea etade» meritatamente
appella, quando che tutta d'oro sia cotesta disciplina e d'ogni scrupulo
del nostro intelletto fora.
Ne la seconda «selva», questo medemo studente si delibera pur di trovar
la veritade di quante cose naturali e soprannaturali ne' libri si
contengono. Partesi da gli umani giardini per saltar ne la filosofia; ma
tosto lo genio suo bono gli antepone la umanitá di Iesú Cristo e
affermali non essere altra veritade di questo. Eppur la curiositade di
pescar piú sul fondo, in guisa di donna sopra un sfrenato destriero, lo
tira per vie scabrose in fin sul passo che divide lo sentiero in due
parti: quinci a la man destra invitalo l'evangelica, quindi a la
sinistra la peripatetica d'oggidí teologia. Ma, vinto da la curiositade
ancora, si avventa senza freno drieto a quella per chimere, sogni e
favole sofisticali, trovandovi drento Merlin Cocaio; per notificarci la
grossa e incorretta retorica ed elocuzione de la maggior parte de'
nostri moderni teologi, ove quelli loro vocaboli «causalitade»,
«entitade», «intuitiva» ed «abstractiva», con l'altra barbaria tengono
corte bandita: per che al fine di mille dubitanze, errori ed eresie, nel
laberinto egli avviluppato si ritrova e seppellito.
Or ne la terza «selva», commosso Iesú Cristo da dolce pietade verso
quella anima invischiata ed allacciata in quei tanti «utrum, probo,
nego, arguo, pro, contra», ecc., tiralo al mero e puro latte del
santissimo Vangelo ed al fidel e tutissimo porto di san Paolo, con tutto
il resto de' libri del Testamento novo e vecchio, nel qual egli
studiosamente ruminando a Dio fa un dono del suo core. Lo quale, in
cambio di sí legger cosa, fallo signore de l'universo, criandogli di
novo il cielo, il mar e la terra; e dapoi tanto, al paradiso terrestre
mandatolo, quivi gli comanda che voglia solamente pascersi di contemplar
quanta sia verso noi la divina misericordia, ma non quale e quanta sia
la maiestade e potenzia sua. E questo è l'arbore de la bona e mala
scienza, sí come quell'altro è legno de la vita. A me cotesta allegoria
pare de le vostre meglio quadrare al Caos di mio figliuolo. Orsú,
leggemolo dunque di compagnia, e prima li tre nomi di esso.
MERLINUS.
Tres sumus unius tum animae tum corporis. Iste
nascitur, ille cadit, tertius erigitur.
Is legi paret naturae, schismatis ille
rebus, evangelico posterus imperio.
Nomine sub ficto «triperuni» cogimur idem:
infans et iuvenis virque, sed unus inest.
LIMERNO.
Giove, Nettuno, Pluto d'un Saturno
ebber a sorte il ciel, il mar, l'inferno;
fulmini, denti, teste in lor governo:
tre trine insegne per tre cause fûrno.
Tre fonti, oltra le tre del mio Liburno,
nacquer d'un capo santo al sbalzo terno:[7]
cosí Merlino, Fúlica, Limerno
si calcian d'un Teofil il coturno.
Mantoa sen ride e parla con Virgilio:
— Tu sei pastor, agricola, soldato,
perché del nòmer terno Dio s'allegra.
Ridi tu meco ancora, dolce filio,
quando che sotto un nome triplicato
sortisca una confusa mole e pegra.[8]
FÚLICA.
Fermati alquanto, lettore amantissimo. Son certo che lo exastico e
sonetto di mei compagni di sopra ti parono duri e scabrosi. Non vi
slungar, in guisa di rinoceronte, suso il naso, ti prego, ché 'l ladro
il quale rubasse di giorno saria tantosto compreso. Quivi ci fa mistiero
di scurezza e caliginosa nebbia: ma se li capoversi per tutto il nostro
Caos provvidamente scegliere saperai, chiaro e limpido finalmente ti
parrá lo intricato soggetto nostro. Ma solamente un bell'avviso quivi
darti intendo: che totalmente sul ternario numero siamosi, per
conveniente ragione, fundati. Prima tu vedi lo titolo del libro essere
tre parole: Caos del triperuno.[9] Segueno poi le tre folenghe,[10]
ovver fòliche son dette, le quali sono antiquissima insegna di casa
nostra in Mantoa. E sotto specie di loro succedono le tre donne[11] di
tre etadi[12] e di tre fogge di parentela[13], da le quali derivano li
tre prolissi argomenti[14], ciascuno di loro in tre parti diviso[15].
Noi siamo poi di tre nomi: Merlino, Limerno, Fúlica.[16]
Li quali, cominciando il nostro Caos, in tre «selve» lo spartimo,[17]
con li soi tre sentimenti[18]; ma lo piú autenticato al giudicio de
l'ingenioso lettore dimettemo.
SELVA PRIMA
DISTICHON
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe;
tres dixere Chaos: numero Deus impare gaudet.
HEXASTICHON
Quae nat aquis coeloque interdum attollitur ales,
vel nat amore aquilae vel volat icta metu.
Nam quae solis adit, veluti Iovis ales, acumen?
est Fulicae ut Minti ludat in amne sui.
At, si illa huc humile ad stagnum descenderit ales,
quae nat aquis, aquilis digna erit esca suis.
TRIPERUNO.
Voi, ch'ad un'alta e faticosa impresa
vedete or me salir audacemente
per via mai forse da null'altro intesa,
piacciavi d'ascoltare queste lente
mie corde in voce lagrimosa e mesta,[19]
ch'altro non s'ha d'un'anima dolente.
E, bench'i' veda alzandovi la testa
mia virtú debil al salir tant'alto,[20]
di che sovente per viltá s'arresta;
pur spiego l'ale, e quanto so m'exalto
lá 've m'accenna il lume d'ogni lume,
per cui non temo alcun spennato salto.
Ché, mentre su con le 'ncerate piume[21]
tolgomi de le nubi sopra 'l velo,
d'un Dedalo megliore sotto 'l nume,
vedrò ch'immobil stassi e volge 'l cielo,[22]
sostien la terra, e l'universo a 'n cenno,
volendo, pò cangiar o 'n foco o 'n gelo.
Or dunque, di piú sana audacia e senno
ch'Icaro mai non ebbe, a l'ardua via
ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.
E cantovi di questa nostra ria[23]
prigion che «vita» nominar non oso,
le frode di essa, il volgo, la pazzia;
e di quel Re, che 'n un presepio ascoso
vidi fra le duo bestie a gran bisogna,
ver' se stesso crudel, ver' noi pietoso,[24]
che svelse il mundo tutto di menzogna
con sua dottrina colma di quel foco,
ch'arde sí dolce in alma che non sogna.
Io dico te, Iesú, lo qual invoco
mio Febo, mio Elicona, mio Parnasso,
ov'ogni bel pensier al fin collòco.
So ben che di te dir via piú t'abbasso,
che tacendo non alzo; e pur m'offersi,
ecco, a dricciar nel tuo bel nome il passo.
Ché, come vedi, son questi miei versi[25]
d'amor almanco e caritade in cima,
se non toscani, ben sonori e tersi.
TRIPERUNO.
Di quella spera piú capace ed ima[26]
del ciel, ove l'Artefice soperno
fabbrica ognor quanto mai finse prima,
io novamente usciva, fatto eterno
candido spirto leggiadretto e bianco,
che bianca piú non vien neve d'inverno;
quando 'l mio stesso fabbro un calzo al fianco
vibrommi tal, che giú ne venni a piombo
in loco basso e d'ogni posa manco.
E come vago e timido colombo[27]
vola quando si parte da la torma,
del ciel tonante al subito ribombo;
tal io vi errava tanto che, d'un'orma
uscendo in l'altra, mi trovai sul porto,
dove l'oblio nostro 'ntelletto addorma.
Guardomi intorno paventoso e smorto,[28]
ché teso in ogni parte vedo un rete,
onde ch'entrarvi debbia mi sconforto.
Quivi spicciando fora d'un parete
largo cosí, ch'ampio paese cinge,
chiara fontana porsemi gran sete.
La qual fra sassi mormorando astringe
al dolce ber qualunque vi s'applica;
ma tosto se ne pente chi lei tinge,
perch'ella il senso e lo 'ntelletto intrica.
Però non men a un vischio tal m'accolsi,[29]
tratto dal bere e da l'usanza antica.
Quivi cum brame tanto me ne tolsi,
che tutto 'l bene che capisce in noi
non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi.
Acque maligne, acque di tòsco, voi
piú del mèle soavi, piú che manna,
scoprite il fele al nostro error dopoi:
ché chi vi gusta pur, non che tracanna,[30]
presto ne gli occhi, anzi nel cor s'annebbia:
dura cagion, che a questo ci condanna!
Cangiasi d'un bel raggio in scura nebbia,
né qual era pur dianzi non ricorda,
né su quel punto sa che far si debbia.
Io dunque, alma di bere troppo ingorda,
le parti mie d'alti pensieri dotte
perdei qual cieca forsennata e sorda.
Perché non so: sássel colui, che notte
far giorno e giorno notte pote solo,
e dá sovente a noi d'amare bòtte.
Per fallo d'uno preme tutto 'l stolo,[31]
e vedesi alcun padre umil e domo
irsene giú per colpa del figliuolo.
Or chi l'intenderebbe, che d'un pomo
succeda tanto incomodo, ch'ognora
sostegna il ceppo uman l'error d'un uomo?
Ben fu di acerbe tempre, poi ch'ancora
foggia non è la qual digesto l'abbia,
né mai (tant'esser deve crudo!) fôra,
se chi nostr'alme spinge in questa gabbia,[32]
col raggio di pietá nol dissacerba
e tempra di giustizia in sé la rabbia;
né stomaco di struzio né onto né erba,
mentre da noi per quest'ombre si viva,
è per smaltir un'esca tanto acerba.
I' non fu' mai di tal cibo conviva,
e pur padirlo, anzi patirlo, deggio,
per cui vien ciascun'alma del ciel priva.
La qual ir non dovria di mal in peggio,[33]
se, al priego d'una femina, colui
morse 'l mal frutto e pèrsevi 'l bel seggio.
A che unqua nascer noi, se per altrui
fallir par ch'anco l'ira non s'estingua
divina in noi, per loghi alpestri e bui?
Ahi miser! taci e morditi la lingua,
ché maladetto fie chi in ciò s'adira:
giá Dio mai d'uman sangue non s'impingua;
anzi ama l'opre sue, contempla e mira,
e studia l'uomo a sé fatto simile
scampare dal suo stesso foco ed ira.
Ma non pensar, non che cercar, suo stile[34]
via troppo da l'uman pensier rimoto,
ché alto pensier non cape in senso vile.
Dunque dirò che quanto chiaro e noto
m'era dinanzi al ber de l'acque sparve,
onde fui d'ombra pieno e di sol vòto.
Eccomi sogni intorno, fauni e larve,
che mi facean per quella notte scorta,
né mai piú 'l bel ricordo dianzi apparve.
Pur mi raffronto a quella orribil porta[35]
fiso mirando, e qui fermai lo piede
com'uom ch'entrarvi drento si sconforta,
e, fin ch'altri vi passi, dubbio sede.
GENIO.
«Alma, che per altrui difetto al varco
dubbioso arrivi e Dio ti vi destina,
or quivi entrando inchina
l'orgoglio, alzando gli occhi al ciel che carco
gira di stelle e mostrasi luntano!
Di lá scendesti, e piú non ti rimembra[36]
qual eri avanti 'l poculo di Lete!
Ma se tornarvi brami, quelle membra,
ove tu déi corcarti a man a mano,
fa' che raffreni fin che 'n lor s'acquete
l'uman desio che le conduce al rete
sí di legger, ove ne resti presa.
Ma strenua contesa
non sa fatica, finalmente, o carco».
TRIPERUNO.
Queste parole, in man d'un vecchio bianco,
vedendo appese di quell'uscio in fronte,
io tremai forte e tremone pur anco.
Anzi n'ho, rimembrando, a gli occhi un fonte:
ché allor, mentre per me giá si delibra
non ir piú innanzi e volgomi dal ponte,
donna m'appar accanto, che mi vibra[37]
un pugno al fianco e drieto mi flagella,
ch'avea ne l'altra man un'aurea libra.
Ritornomi a la porta, dove quella
mi piega col temone di sue pugna,
drieto chiamando sempre: — Alma rubella,
alma proterva, fa' che non ti giugna
scamparti da colui che qui ti move
ad una faticosa e strana pugna,
ch'avrai con esso teco e non altrove,[38]
e per vincer leoni, tigri ed orsi,
vincendo te, minori son le prove! —
I' non mil fei ridir, ma via trascorsi,
qual timido cavallo che s'arresta
ne l'apparir d'un'ombra e sta su' morsi;
poi, vòlto in fuga, soffia ad alta testa,
ma chi gli sede addosso presto il torna,
stringel ai fianchi e fra l'orecchie il pesta;
ond'egli per le bòtte si ritorna
in quella parte onde lo smosse l'ombra,
di passo no, ma corre e non soggiorna.
Traggomi drento, al fine, ove me 'ngombra[39]
notte ch'ancor piú m'ebbe ottenebrato,
in luogo cui la terra intorno adombra.
Ed io ne stetti non d'abisso al lato,
ma in centro d'ombre grosse denso e folto,
qual talpa preso in gli occhi e smemorato.
Cosí piú mesi in quella tomba involto,[40]
io, pronto spirto ne la carne inferma,
stetti non pur prigione, ma sepolto,
fin che, o Natura, l'opra tua fu ferma.
MELPOMENE.
Mentre piangendo l'alte strida ed urli,
sorelle mie, sí duramente innalzo
(da me sol viene il tragico costume),[41]
lasciáti i crin al vento, ché ridurli
qui non bisogna in trezza né 'l piè scalzo
guidar per vaghi fiori e verdi piume
de' prati lungo al fiume,
anzi, sdegnando quella piaggia e questo
poggetto ameno, statine qui meco
in solitaro speco,
fin che mie rime udite sian di mesto
e lagrimoso canto, il qual risulte
da quei sassosi monti e valli inculte.
Depon, Urania mia, la tua siringa,[42]
che settiforme ha in sé del ciel il tipo;
e tu, Clio, la lira, ove 'l mantòo
al greco vate fai ch'egual attinga;
e mentre i lauri e l'edere dissípo,
spargi quei fior del corno, che l'eròo
giá svelse ad Acheloo,
Erato mia: né tu, Polinnia, il plettro,
né, Calliope, l'arpa, né la cetra,
Talia (s'unqua s'impetra[43]
grazia da voi!), pulsate, ch'ora il settro
tengo fra noi, cessando ancor le stanze
di Euterpe, e di Tersicore le danze.
Ahi! di qual gioia e quanto bella effige
traboccar vidi l'uomo in tanto scorno!
Miráti 'l ciel come, di grado in grado,
sol per causarli util piacer, s'afflige[44]
volgersi tra duo moti adversi intorno!
Miráti 'l Gange, l'Istro, Nilo e Pado,
ogni altro fiume e vado
tornarsi d'onda in onda al vecchio padre!
Pioven le nubi e la porosa terra
dal centro si disserra,
sorbendo il dato umor, onde giá madre
fassi di questo fior e di quel pomo,
per aggradir ed aggrandir un uomo:
l'uomo che, ingrato a Dio non ch'a Natura,[45]
per antiporre un fral desire al dolce
suo fermo stato, giustamente abietto
fu d'alta gloria in infima iattura,
la cui durabil colpa in ciel si folce,
che mai non parte dal divin aspetto.
Però sta fermo e stretto
destin, a penitenzia d'un tal fallo,
che l'uomo in grembo a morte quivi nasca:
cosí dal cielo casca[46]
l'alma di novo fatta in scuro vallo,
dove se stessa oblia cieca ed inferma,
giá devoluta in sterco, fango e sperma.
Indi Natura, per supplicio degno,
men se gli mostra madre che noverca;
la qual ogni animal provvede contra
l'onte del tempo, dandogli sostegno.
Nasce pur l'uomo ignudo, il quale cerca[47]
schermirsi d'un agnello, volpe o lontra,
dal gelo in cui se 'ncontra,
ché di scampo megliore non ha copia.
Ma di squame coperti, penne e lane
per fiumi, selve e tane
van pesci, augelli e fiere. In somma inopia
sol nasce l'uomo, cui cadé per sorte
pianger nascendo e, nato, gir a morte.
Non cosí tosto un augelletto spunta
de l'uovo fora, quando a tempo nasce:
ecco s'addriccia e, con soppresso grido,
del becco l'esca piglia in su la punta,
e senza documento di chi 'l pasce
su l'orlo estremo tirasi del nido,
donde giú funde al lido
ciò che smaltisce per servarsi netto.
Non cosí l'uomo, no, ché d'ora in ora[48]
convien di fascie fora
cavarlo, in cui legato stassi stretto,
e trarlo di sozzura e puzzo lordo,
al misero suo stato e cieco e sordo.
Or dite, prego, quand'egli mai s'erge[49]
co' l'aspetto nel ciel onde si parte,
che pria carpone de le braccia gambe
non faccia, mentre in foggia d'angue perge?
Ché se al contrasto di natura l'arte,
l'industria in suo ripar non fusser ambe,
mentr'egli sugge e lambe
lo sin materno, peggio de le belve
ne rimarrebbe, tanto l'odia e sdegna
e fassigli matregna
colei ch'abbella monti, valli e selve,
e d'un sí gentil figlio non tien cura[50]
pel torto del primier; dico Natura!
Solo la donna artifice e la industre
parton de le sue membre l'officina;
ma quant'è 'l pianto e quante le percosse
anzi ch'ancora il misero s'industre
saper su piedi starsi! onde ruina
sovente sí, che molte fiate mosse
di luogo porta l'osse,
restandone d'un mostro piú deforme.
Cosa non giá, che ne li armenti caschi:
cercate e' verdi paschi,
le nubi, i fiumi, quante sian le forme
che, nate appena, chi 'l nòto, chi 'l volo,
chi prende il corso; e l'uomo casca solo!
Deh! perché nasce lo 'nfelice dunque[51]
di tanti strali ad esser un versaglio?
Ogni tempesta in lui s'aggira e scarca,
ogni virgulto se gli attacca, ovunque
move di questa selva nel travaglio.
S'avvien ch'egli pur goda, ecco la Parca[52]
rumpelo al mezzo, e varca
la vita, al sol qual nebbia o fumo al vento:
stato penoso e miserabil tanto!
Ch'altro che affanni e pianto,
travagli, sdegni, lagrime, scontento
attende uomo che nasce? e se lo move
fortuna a qualche onor, morte vi 'l smove.
Queste parole in capo
voglio sculpite sian d'ogni tiranno,
lo qual non esser Dio, ma fumo e nebbia[53]
s'intenda, e che non debbia
farsi adorar al mondo, perché vanno
e vengon tutti eguali di fral seme,
ma tal le piume, tal le paglie preme.
TRIPERUNO.
Dapoi li giorni e mesi, che 'n tal centro
sí lordo il mio destin crescer mi fece,
donna m'apparse a quel girone dentro,[54]
ch'indi sciolto mi trasse d'orbo in vece,
poi molto altiera disse: — Or tienti in mente,
mortal, che piú tornar qui non ti lece! —
E ciò parlando, l'empia ed inclemente,[55]
nudo fanciul ne la stagion piú acerba
lasciommi solo e sparve incontanente.
Sparve costei d'aspetto alta e soperba,
ed ove allor passava, in ogni canto
seccar facea con fior e frondi l'erba,
fin che di neve col gelato manto
mi ricoperse intorno e monti e selve;
di che tremavo con dirotto pianto.
Miravami da lato e fiere e belve
con ogni augello d'alcun pel guarnito,
qual sia che 'n grotte alberghi o qual s'inselve;
ma sol io nudo sopra il nudo lito
stavami d'Aquilone sotto 'l fiato,
né fui per tanto da pietade udito.
Il qual piangendo mover quel spietato[56]
avrei potuto, ch'ogni fanciullino
uccise per mal zelo del suo stato.
Chi vide mai d'inverno un cagnolino
tremar su l'uscio chiuso di chi 'l tiene
usato starsi di madonna in sino;
cosí veder potea me con le rene
in terra nude, vòlto in quella parte
del ciel ove 'l suo moto si conviene,
ed ove 'l Serpe tortuoso parte[57]
l'orribil Orse, dove nasce il spirto
del fier Boote che non mai si parte
(qual fiume e lago, ch'aspro duro ed irto
non ferma il corso) di Callisto in braccio.
Ma non vidi poi sí d'un lauro e mirto,
anzi con altri assai di quell'impaccio
lor vidi sciolti, e con bella verdura
starsen di neve in mezzo e presso al ghiaccio,
mercé le calde gonne, che Natura[58]
lor diede per servarli eterna vita:
a lor sí mite, a noi maligna e dura!
Ma una dongella, non so d'onde uscita,
presta ne gli atti e d'abito succinta,
m'accolse in grembo, di servir spedita:
poi lunga fascia intorno m'ebbe cinta,
portatomi giá dentro una spelonca
ben chiusa intorno e di fuligin tinta.
Ver è che, d'uomo come statoa tronca
di braccia e gambe, in que' legami resto,
e cosí giacqui stretto in picciol conca.
Onde col capo sol (ch'un'oncia il resto
mover non poscio) vòlto a lei parlava,
con quell'istesso di fanciullo gesto
qual fece altrui con Dio, quando d'ignava[59]
lingua mostrossi e proferir non valse,
dovendo predicar a gente prava.
— Chi fu la donna — dissi — cui sí calse
gittarmi in terra nudo al vento e pioggia,
onde 'l mio corpo di gran gelo n'alse? —
Ella sorrise, lagrimando, in foggia
di chi nel petto amaro e dolce copre;
poi disse: — Eternamente non s'alloggia
in questa terra, né si cela e scopre
il sol eternamente: sol un franco
e fermo stato è molto al ciel dissopre.
Di lá cadesti e sei per montarvi anco,
se 'n questa umana vita di due strade[60]
dritto sentiero pigli e lasci 'l manco.
Però ch'al fin de la piú molle etade
ti trovarai sul passo di Eleuteria,
che per doi rami è guida a dua contrade.
Quinci ratto si viene a la miseria,
quindi al pregio acquistato per lung'uso,
che s'ha quanto di aver si dá materia.
Ovver fia dunque tempo che 'n ciel suso
ritornarai vittor di questa giostra
o cascarai, di quel che sei, piú giuso.
La donna, che sí cruda ti si mostra,
fidel ancilla de l'Eterno Padre,
non odiar, perch'è la madre nostra,
nostra non pur, ma d'ogni pianta madre,
Almafisa chiamata, che riceve
sua fama in variar cose leggiadre.[61]
E s'or il mondo t'ha cangiato in neve,
non d'aspettar t'incresca, perché i lidi
rinnovellar de' fiori ancor ti deve.
Né sia perch'animale alcun invídi
uomo per piume o squame o pel che s'abbia,
né perché sappian tesser antri o nidi;
e tu sol, nudo, isposto a l'empia rabbia
di Borea, veda ogni vil canna e legno
armato contra 'l freddo ed atra scabbia.
Questo forse ti pare d'odio segno;
pur sta' sicuro e fa' che ti conforte,
ch'odio non è, ma sol un breve sdegno.[62]
S'odio tal fusse, ti darebbe morte,
né avrebbeti produtto Dio giammai
né fatto del suo regno al fin consorte.
— O me felice — dissi allor — non mai
esser nasciuto e, senza altra vittoria
di carne, gioir sempre in gli alti rai!
— Ne' rai — quella rispose — de la gloria,
de cui ragioni, per gioir non eri,
se pria non dato avessi qui memoria.
Alma non fu né fôra mai che speri,
innanzi d'esta vita i vari affanni,
viver del ciel in que' lunghi piaceri.
Guarda, figliuol, che forse tu te 'nganni,
s'esser for che 'n idea ti pensi eterno,
nanti la forma de' corporei panni.
Li quali ebber principio dal soperno
Padre, con l'alma scesa in questi guai,
ove, de la vertú se col governo[63]
di questo vento l'onde sosterrai,
che non ti caccia quinci e quindi a voglia,
oh lode, oh fama, oh pregio che n'avrai!
Però d'esser nasciuto non ti doglia,
né di Almafisa il sdegno oltra ti prema,
ché 'n ciel déi riportar felice spoglia,
e salirai sopra la cinta estrema,
che le soggette del suo moto avvisa
e molto di lor proprio moto scema.
Anchinia industre sono, sempre fisa[64]
supplir ai mancamenti con bell'arte,
se mancamento è in quella d'Almafisa.
Né son, quand'ella cessi, per mancarte[65]
di pronti avvisi e di sagaci modi,
scoprendoti mie prove in ogni parte.
Fra tanto cosí stretto in questi nodi
voglio tenerti, fin che a tempo ritto
ti sosterrai su piedi fermi e sodi.
Ma viene ecco mia sore, che 'n Egitto[66]
uscita, da' caldei l'uman dottrina
portò de le scienze a tuo profitto;
ed anco è audace sí, ch'assai vicina[67]
sovente a Dio poggiando si ritrova
e vede lui d'una persona e trina.
Costei l'altezza di natura prova,[68]
distingue, insegna in argomenti fermi,[69]
ma sopra lei sol contemplar le giova,[70]
ché sa quanto sian debil ed inermi
gli sensi umani e la divina altura,
non che i ragionamenti ottusi e 'nfermi.
Costei la terra, il mar, il ciel misura,[71]
nómera le cagion di piogge e venti[72]
con l'osservar di stelle ogni mistura.[73]
Costei qua giú gli armonici concenti[74]
seppe cavar su dal soave moto,
per levamento de l'afflitte genti.
Costei, de' spirti con vigor, l'ignoto[75]
cognito fa, li quali sotto l'etra
pendon ne l'aere piú dal ciel rimoto.
Costei sa le virtú d'ogni erba e pietra,[76]
orando persuade il giusto e il torto,[77]
e canta e' gesti altrui ne l'aurea cetra.[78]
Senza costei non è stabil conforto[79]
di questo mare al travagliato corso:
da lei tu sempre avrai securo porto.
Ed io con lei ti mostrarò quell'Orso[80]
con l'Orsatino suo, che sian tuo guida
per ogni spiaggia e periglioso dorso.
Non sará vento mai che ti divida,
stanne sicuro, dal governo loro,
che la sua luce altéra nol conquida.
Quel di Vinegia sommo concistoro
muove sotto costei lo gran stendardo
e pose in man de l'Orso il leon d'oro:
Orso non men di senso che di guardo,[81]
pronto a le imprese, liberal e schietto,
veloce al perdonar, a l'onte tardo. —
Parlava la dongiella e gran diletto
favoleggiar di quello si prendea,
quando l'altra, giungendo a lei rimpetto,
con voce e viso altier cosí dicea:
TECNILLA.
Su, presto, Anchinia, su, che tardiam noi?[82]
Esca d'impaccio omai, né piú si lasce
tanto bel spirto avvolto in quelle fasce,
ché aver eterni in ciel dé' i giorni soi!
ANCHINIA.
Far una impresa tostamente e bene,
che d'alto pregio ed eccellente sia,
nostra vertú non è, Tecnilla mia,
ma solo al Re celeste ciò conviene.
Egli sol è, che tra 'l pensier e l'atto
non cape tempo, quanto esser può, breve;
che producendo un fior non ha men leve
fatica, ch'ebbe a far quanto è mai fatto.
Quest'animal è di maniera tale,[83]
che, qual sia per venir, non vien sí presto;
cosa non giá d'altro animal, ché questo
vive dapoi, quell'è caduco e frale.
Però gran tempo, ove l'arte s'impaccia,
va tanto piú quant'è l'opra piú degna:
tu stessa el sai, né alcun altro te 'nsegna,
se non la prova e le tue stanche braccia.
TECNILLA.
Non le dir stanche, ove 'l sudor gradisce,[84]
ché un dolce incarco mai non fa stracchezza;
onde, quanto lo indugio, la prestezza
perfettamente ogni opra sua compisce;
ché, ove intervien de nostri alti pensieri
volunteroso ed avido consenso,
sí pria l'affetto e poi l'effetto immenso[85]
cresce, ch'al fin non ha che piú alto speri.
Io sola in l'uomo tutti e' miei concetti
lieta riposi, e non in altra cosa;
e tu, Almafisa, benché neghittosa
gli sei, non temo giá che 'l sottometti.
ANCHINIA.
Taci, non dir cosí, germana sciocca,
ch'error di lingua va né mai ritorna;[86]
troppo sei baldanzosa; e chi le corna
in ciel vòl porre, al fin giú si trabocca.
Natura non pur l'uomo, ma, piú d'uomo
se cosa altéra nasce, per la chioma
la tien al segno; egli la grave soma,
volendo o no, sen porta, umile e domo.
TECNILLA.
Sí; quando l'arte mia non vi s'arrisca[87]
opporsi a quante passioni ed onte
fargli può mai quella soperba fronte,
ch'ei sotto soi flagelli s'invilisca.
ANCHINIA.
Tu fermamente, se non tutta, in parte
sei fatta stolta e garrula, Tecnilla,
la qual in foggia d'arrogante ancilla
a tua madonna crediti agguagliarte.
So ben ch'ogni pensier hai d'imitarla[88]
e, vòlta in tal desio, sempre la invídi;
onde, perché non mai la giugni, gridi
e latri come chi d'altri mal parla.
Ma sta' sicura che senz'onda il mare,
senza splendor il sole, senza belve
e nanti senza augelli fian le selve,
ch'un picciol nevo mai lei poscia equare.
E ciò saper non m'è durezza alcuna,
quando ch'io d'ambe voi son l'aiutrice,
ed anco Pirra, donna ferma, altrice[89]
di tutte prove, vien meco in quest'una
sentenza: che Natura, in un momento
formando un picciol vermo, eccede tanto
l'arte operante al sforzo estremo, quanto
ogni vil cosa l'ampio fermamento.
Di che qui darti intendo un sano avviso:
se alcuna è in te virtú, la riconoschi
sol d'Almafisa, che se i monti e boschi
ci nega, l'opre nostre son un riso.
TECNILLA.
Non far, Anchinia, piú di ciò parole;
so ben ch'Industria in losingar Natura
fu sempre vaga, onde non ha misura[90]
lo giudice che tien la parte sola.
ANCHINIA.
Se d'adular son vaga nostra madre,
tu adulterarla piú; ché 'n l'altrui vista
fai natural quel ch'opra è di sofista,[91]
né men le mani hai de le voglie ladre.
TECNILLA.
M'allegro ben che te stessa condanni!
O scema d'intelletto, non t'accorgi
quanto di scorno, me biasmando, porgi
a te medema e 'l tuo veder appanni?
Son io ne l'opre mie piú da ragione
che da l'industria mossa, e 'n l'aspra imago
de la viril Etía ben piú m'appago,[92]
che 'n la tua, ornata sol di fizzione;
ché quanto avanzar puoi de le nostr'opre,[93]
t'industri porlo in grembo d'avarizia,
e fai cosí, che l'empia tua malizia
col manto mio ne gli occhi altrui si copre.
Però qual maraviglia se la fraude
di veritá sta involta ne la pelle
e se imputate a l'arte sian le felle[94]
tue astuzie, onde Almafisa ride e plaude?
Sen ride e plaude in foggia di chi, altrui
odiando, il vede scorso in qualche scherno.
E tu quella pur sei, che ne l'inferno
t'ingegni penetrar ai luoghi bui
e trarne la cagion di tante risse,
furti, omicidii, stupri e sacrilegi:
dico 'l metallo, con cui adorni e fregi
le menti umane sí, che 'n quel stan fisse
né piú s'innalzano a specchiar il lume,[95]
ch'io di Natura posi oltra la cima,
e men d'un'arca d'or' si prezza e stima
un atto generoso e bel costume!
Ma perché l'ingordigia di quel mostro,
c'ha ventre e morso d'adamante e foco,
empir non puoi, ché ogni esca gli par puoco
e va fremendo in questo mortal chiostro;
tu che levarmi d'Arte il nome cerchi
e quel che Alchimia si dimanda pormi,
altri metalli in or' par che trasformi:
oro non sono ed esser pur alterchi!
Misera che tu sei, non vedi chiaro[96]
ciò che fai senza l'arte sa di froda?
non vedi ben che non si rumpe o snoda
il laccio che a la gola tien lo avaro?
Quanto meglio farai non dipartirti
dal primo nostro rito e modi antiqui,
e 'nvestigar in ciel qua' sian li obliqui,
e qua' gli dritti segni, e piú alto i spirti
che causan e' duo moti e tante fiamme
scoperte a l'uomo nostro, che 'n la culla
qui tieni avvolto come cosa nulla,
cui rumper giá s'affretta Cloto il stamme!
ANCHINIA.
S'io sí rubalda qual or m'hai depinto
io teco fusse, o maldicente donna,
rubalda anco sarei con mia madonna,[97]
c'ha fatto l'uomo e non, come tu, finto.
Tu fingi l'uomo, anzi tu 'l stempri e spezzi,
tu 'l snervi, tu 'l disossi, guasti e spolpi,
e poi, se mal gli vien, Natura incolpi,[98]
che piú d'un uomo una formica apprezzi.
Dimmi, insolente donna, perché resti
con quella forza tua, che d'Almafissa
passa l'altezza (sí la sai prolissa!),
oprar che mal alcun non l'uomo infesti?
Se ferreo è il nervo, se d'azzale è il braccio,
se tant'è 'l tuo valor ch'aver ti vanti,
perché non smovi le cagion de' tanti
uman affanni, febre, caldo e ghiaccio?
perché non freni (se la Grecia tua,
ove sí splende, parla sempre il vero)
quell'Eolo, de' venti c'ha l'impero,
e fa sentir altrui la forza sua?
perch'anco in cielo, d'Orion a tergo
latrando, un picciol Cane tanta rabbia
sparge d'ardor, e tant'umor e scabbia
diffunde il Drago dal suo eterno albergo?
Oltra dirò: per qual cagion non svelli
de le sanguigne mani di Tanéta[99]
la falce, che giammai non si racqueta
troncar gli umani e farne polve d'elli?
Tanéta i' dico, sí, atra ninfa e cruda,
che i tuoi Platoni e Socrati non scelse;
anzi, quanto le teste son piú eccelse,
lor spezza, e d'elli tu ne resti nuda!
TECNILLA.
Quanto a le dua stagioni a l'uomo infeste,
non ti rispondo, perché giá la impresa
ti diedi di ciò degna: far la spesa,[100]
contra lor, d'ombre, tetti, piume e veste.
Ad altri morbi assai per te si occorre,
c'hai simil esercizio, né vergogna
ti paia impreso aver da la cicogna
un ventre adusto foggia per diporre.
E come a la mia ninfa Filomusa[101]
la tibia per isporre il canto usata
trovasti giá, cosí ha Farmacia grata
la tromba che al purgar un ventre s'usa.
Di ta' remedi al miser uomo e schermi
contra l'offese di Natura certo
studio ti vien, e poi la laude e 'l merto,
perché sollevi, Anchinia mia, gl'infermi.
Ma quanto a quel che l'invincibil ferro[102]
de l'improba messora frenar debbia,
voglio non puoter farlo, ché di nebbia,
per mezzo suo, gli alti intelletti sferro.
La morte a miei seguaci è un'esca dolce
e di Natura for del fango i purga,
ed è cagion ch'un'alma d'ombra surga
ne l'alta luce, di che 'l mondo folce.
«Qual è chi viva e non vedrá la morte?»,
David cantava lieto ne la cetra,
bramoso il gentil spirto d'esta tetra
prigion uscir a la celeste corte.
Però di' meglio, ch'io puotendo tiri
tanti miei figli tosto d'esta tomba,
ché un cor non piú s'incende al son di tromba,
d'un'alma santa a gli ultimi sospiri,
né farle può Natura piú grand'onta
che 'n questa vita sua menarla in lungo,
la qual pò invidiar un fior, un fungo,
che nasce e mor fra un sol ch'ascende e smonta.
ANCHINIA.
Stolto parlar se non stolta risposta
potrebbe aver; onde chi sempre tacque
a gli insolenti detti, sempre piacque:
dico quanto al clistero o sia sopposta.
Ben si potrebbe un portico, un palagio,
un vestal tempio ed un anfiteatro
addurre in loda mia, l'arme, l'aratro,
la nave e tante cose; ma 'l malvagio
rancor t'accieca e légati la lingua,
che non pò dir quel che ragion la sferza.
Tu non sei prima né seconda e terza,
quando che l'ordin nostro si distingua,
se ti credi esser, non di te son quarta.
Roditi pur, se sai, che non ti cedo;
e s'attendermi vòi mentre ch'io riedo,
possio condur chi tal dubbio diparta.
TECNILLA.
O temeraria ed arrogante! mira
come si gonfia questa fabbra vile!
Qual giudice sará tanto sottile,
che nostra lite concia? dimmi, è Pira?[103]
dico quell'altra de le prove mastra,
che, come tu, vantandosi va ch'io
cosa che vaglia senza lei non spio,
e di Almafisa appellami figliastra.
ANCHINIA.
Vantarsi drittamente può qualunque
trovasi aver servito qualche ingrato;
ché quanto ben è in te non l'hai trovato
se non per il suo mezzo. E pur, ovunque
esser ti trovi, ch'altri non conosca
l'astuziette tue donde prevali,
ti fai sí grande che, s'avessi l'ali
cosí d'ogni altro augel com'hai di mosca,[104]
egual salir vorresti al gran Monarca;
lo quale sol vòl essere, che senza
sian l'opre sue d'alcuna esperienza,
ove egli pienamente e ratto varca.
TECNILLA.
Di me medema meco mi vergogno,
trovandomi altercar con essa teco!
Hai forse il capo tepido di greco,
ubriaca che tu sei? ch'ancor bisogno
farotti aver del tempo, c'hai qui speso
in dirmi oltraggi, meretrice lorda!
ANCHINIA.
Non mi toccar, Tecnilla, questa corda,
ché peggio sentirai quel c'ho sospeso
di lingua in cima. Or taci e fia tuo meglio!
Dir onte altrui né udirle voler poscia,[105]
è di pazzo costume; ma, d'angoscia
mentre sei pregna, va' mirarti al speglio,
se vergognarti vòi piú del tuo volto
fatto di mostro per soverchia furia,
che litigar qui meco e dirmi ingiuria,
le quali di te meglio forte ascolto.
TRIPERUNO.
Eran le dua sorelle omai sí d'ira,[106]
per la puntura di sue lingue, in cima,
che fu tra lor per esser pugna dira.
Ma grave donna di molt'altre prima,
dolce cantando, fuvvi sopraggiunta,
la cui beltá non quanta sia s'estima.
Un'arpa con sua voce ben congiunta
fece che da le dua giá in arme prone
la gara venne tostamente sgiunta.
Latte di tigre o sangue di dragone[107]
ben mostrarebbe aver beuto infante,
chi non saltasse udendo sua canzone!
Non è di pietra cor, non d'adamante,
non di Neron, Mezenzio, Erode, Silla,
che non si dileguasse a lei davante.
Onde non pur Anchinia con Tecnilla
lasciâr l'ingiurie fattesi, ma sono
e questa e quella piú che mai tranquilla;
anzi leggiadre, al numerabil sòno
di diece corde, mosser una danza,
dandosi un bascio ad ogni sbalzo nono.[108]
Quivi Almafisa venne con l'onranza,
fra mille ninfe d'arbori e de fiumi,
ché ognun concorre a quella concoranza:[109]
né men scherzan in cielo e' chiari lumi,
nel mar e' pesci, e 'n cielo quei dal volo,
le fiere in terra e i serpi ne' lor dumi.
Stavami ne le fascie stretto e solo,
sí come l'augelletto, il qual distende
l'ale, ma non s'innalza e n'ha gran dolo.
Chi su, chi giú quel tutto che s'intende
da l'uom, se non a pieno, almen in parte,
va, vien, traversa, corre, monta e scende.
— Ciascun mai d'Omonía non si diparte! — [110]
cosí la cantatrice udi' chiamare,
che i passi altrui col canto suo comparte.
Io che l'errante macchina danzare,
per quel dolce concento, vidi al moto[111]
universal e poi particolare,
di quei legami tutto mi riscuoto,
come colui che lungo indugio annoi,
dovendosi asseguir qualche suo voto.
Svelsi di quelle scorze un braccio e poi,
con quella svelta man che i nodi sterpe,
tanto cercai ch'usciron ambi doi.
E con quel modo ch'un immondo serpe,
vedendo, ov'era 'l ghiaccio, nato il fiore,
si sbuca lieto d'un'angosta sterpe,
dove si spoglia il vecchio corio fore
tutto d'argento, ed or fassi piú cinte[112]
del ventre al capo ed or segue 'l suo amore;
tal io, poi che le spoglie risospinte
m'ebbi d'addosso, per danzar su m'ersi;
ma fûrno dal desio mie forze vinte.
Ché surto in piede starvi non soffersi,
anzi cascai, donde corse a comporre
Anchinia un carro, il qual meco si versi.
Su tre rotelle il carriuolo corre,
ed è, sí come io son di lui, mio guida
che al passo infermo e debile soccorre.
Di ciò par ch'Almafisa se ne rida,
che 'l legno arguto poggia ovunque poggio,
e che l'industre Anchinia è che m'affida.
Ma con le mani a lui mentre m'appoggio
ed ir con seco quinci e quindi bramo,
ecco me 'ntoppo in qualche adverso poggio;
di che sossopra il carro ed io n'andiamo:
quel resta intégro ed io n'ho rotto 'l naso,
e che ritto mi torni Anchinia chiamo.
Anchinia mi rileva, e d'ogni caso
per le percosse ch'atterrato piglio
presta ricorre de l'onguento al vaso.
Ed io, ch'oltra 'l dolor esser vermiglio
comprendo il lito del mio sangue, invoco
lei con la mano posta al pesto ciglio.
Ma quella mi risana, ed anco al gioco[113]
di quel mio tal destriero mi riduce,
in fin che da me stesso, a poco a poco,
ir poscia senza il carro ed altro duce.
SESTINA LI CUI CAPIVERSI DICONO QUELLA SENTENZIA:
«CONCORDANTIA — DVRANT — CVNCTA — NATURE — FEDERA».
URANIA.
C ome 'l primo veloce mobil cielo,
O pposto a quei che volgono le stelle,
N on li distempra e sé tramuta in foco?
C om'è sospesa? e chi sostien la terra?
O nde con lei forma ritonda il mare
R itien, e mai posando non ha pace?
D'una concorde e ragionevol pace[114]
A vvinse l'alta causa cielo a cielo,
N é men con pace in maggior cerchio il mare
T iensi a la terra, e giran sette stelle
I n sette sfere, il cui centro è la terra,
A nti da l'aer cinta e poi dal foco.
D ubbio non è che 'l mondo o in acqua o 'n foco
V errá sommerso, quando la lor pace
R otta sará, per sfare il mar, la terra,[115]
A llor che dé' fermarsi il nono cielo
N é piú rotarsi 'l sol con le sei stelle,
T rarsi nel centro de la terra il mare.
C rebbe, fu tempo giá, su l'alpe il mare;
V orar il mondo deve ancor il foco;
N on fia perpetuo il giro de le stelle,
C he al fin col cielo avran quiete e pace;
T ratto giá il ceppo uman o su nel cielo
A starvi sempre, o 'n centro de la terra.
N on t'invaghir dunque, omo de la terra.
A nzi contendi (ove di gloria il mare
T u lieto solcarai) salir in cielo,
U' sempra t'arda l'amoroso fuoco,
R iposto d'alma in alma in somma pace,
E sotto i piedi ti vedrai le stelle.
F ece l'alto fattor, sopra le stelle
E giú nel piú profundo de la terra,
D ue stanze, l'una detta eterna pace,
E l'altra, di perpetuo foco mare.
R inchiuso entro la terra, a l'ombre, è il foco;
A l'alme, gioia eterna su nel cielo.
Fe' Dio l'uomo di terra, che 'n le stelle
avesse pace; ma chi nacque in mare[116]
trallo dal cielo in sempiterno foco.
TRIPERUNO.
Poscia che vide, per Industria ed Arte,
Natura finalmente l'uomo in piede
correr veloce in questa e 'n quella parte,
ed esser l'animale, il qual possede
alto saper e di ragion dottrina,
che fôra poi d'eterna vita erede,
con lieto e dolce aspetto a me s'inchina,
qual mansueta madre che al figliolo
prima di sdegno fu cruda e ferina.
D'innumerabil figli dentro il stolo
da lei fui ricondutto al bel giardino
dove altrui vive lieto e senza dolo.
Quivi sotto 'l pacifico domíno
ed aurea stagione di Akakía,[117]
vissi gran tempo semplice bambino,
fin ch'indi mosso poi, per lunga via,
fui ricondutto a ritrovar Altèa[118]
e l'altra donna che 'n nostra balía
commette ambe le strade e bona e rea.
DE LA PUERIZIA ED AUREA STAGIONE
EUTERPE.
Giá rinnovella intorno la stagione,
ch'eternamente verdeggiar solea
prima ch'avesse Astrea[119]
gli uomini a sdegno e sé tornasse ai dèi,
lasciando in lor quell'altra cosí rea
che li arde, mentre Febo alto s'impone
al tergo di Leone,
o quella che dai monti iperborèi
riporta il gielo a gli afri e nabatei.
Or che l'occhio del ciel aggiorna in Tauro,
or che 'l fior spunta ove 'l ghiaccio dilegua,[120]
or che 'l scita co' l'indo vento tregua[121]
fatt'hanno e dato è in preda il tempo al Mauro,
Zefiro torna incolorar i lidi,[122]
e i pronti a tesser nidi
vaghi augelletti, per lor macchie errando,
natura van lodando,
c'ha ricondutto cosí lieti giorni,
d'aura gentile, d'erbe e fronde adorni.
Férmati, Apollo, pregoti, nel grado,
ch'oggi ascendendo e poggi e selve abbelli,
e gli aurei tuoi capelli
tempratamente spandi a l'universo;
onde amorosi, leggiadretti e snelli[123]
ne vengon gli animali tutti al vado
non d'Istro, Gange o Pado,
ma del suo natural obbietto verso,
c'ha l'un de l'altro, quand'è 'l ciel piú terso,
verde la terra, il mar tranquillo e piano.
Férmati, Apollo, e 'n sí bel trono sedi,
fin che a le mani, al collo, a l'ale, ai piedi
del Tempo (egli scamparse a man a mano[124]
s'asseta, tant'è vano!)
Pirene ed Appennino sian appesi,
che non si parta e i mesi
porti con seco e l'aura e 'l dolce umore,
ch'or monta in ogni foglia, in ogni fiore.
L'aureo, gioioso e mansueto aprile,
ch'or sparger d'ombre i verdi campi veggio,
piacciali eterno seggio
qui prender nosco, ch'altri non succeda.
Partito lui, si va di mal in peggio;[125]
mentre vi spira l'ausura a gentile,
Parca non sia, che file
umana vita, e Morte a Pluto rieda,
sol ombre ove posseda;
rinverdasi da sé omai la terra;
valete aratri, marre, falci e zappe!
non più vepri saranno, cardi e lappe.
Quella natia vertú che 'n lei si serra,
senza ch'altri la sferra,
uscendo stessa ci dimostra quanto
sia di natura il manto
piú bello senza l'arte e piú verace,[126]
ch'opra di voglia piú de l'altre piace.
Ecco di latte scorreno giá i fiumi,
sudano mèle i faggi, olio li abeti,
e su per que' laureti
celeste manna ricogliendo vanno
le virgin ape; e i rosignoli lieti,
c'han d'or' le penne, entro purpurei dumi
nidi d'argento e fine perle fanno,
securi di rapina o d'altro danno.[127]
L'impaventosa lepre lato al cane,
l'agnella presso al lupo queta dorme,
ché tutti li animal, giá in lor conforme,
natura tiene in sue medeme tane:
securi pesci e rane,
questi da lontra, quelle da le biscie:
non è chi strida o fiscie
l'un contra l'altro per stracciarsi 'l pelo,
ché l'aurea etade giá scese dal cielo.
Date quiete, posti li aspri giovi,
a' vostri armenti omai, duri bifolci,
ed a que' fonti dolci
lasciateli appressare! né quel rivo
di voi sia alcun che piú 'l sostegna o folci,
né chi di loco a loco lo rimovi,
ché 'n questi giorni novi
non è di libertá chi venga privo.
Cantate anco, pastori, ché l'estivo
e freddo ardore non privar piú deve
di latte od appestar e' vostri greggi!
Non piú clamosi fòri, non piú leggi,
ché ciò vita gioiosa non riceve.
O giovo dolce e leve
a l'uomo ancora, il qual sprezza fortuna,[128]
siagli pur chiara o bruna,
ché chi vivendo non fa oltraggio altrui
securo di l'aurea stagion è in lui.
E simplicetta e pueril canzone,
come richiede il suo stesso soggetto,
fu questa mia, dottissime sorelle;
di che a voi chiama: — Non son io di quelle
che, Urania, scrivi con sí bel soggetto
e n'empi il sino e petto
ai duo novi Franceschi, l'un ch'agnelli
canta, lupi e ruscelli,
l'altro del Senator l'alta pazzia!
Ma chi fa il suo poter con gli altri stia.
FINISCE LA PRIMA SELVA DEL TRIPERUNO.
DIVVS VATES
OPTIMA QVAEQVE DIES MISERIS MORTALIBVS AEVI
PRIMA FVGIT SVBEVNT MORBI TRISTISQVE SENECTVS
ET LABOR ET DIRAE PARIT INCLEMENTIA MORTIS
SELVA SECONDA
DISTICHON
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe;
tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
HEXASTICHON
Mintiadas inter fulicas mihi sueta phaselus
currere, nunc tumidis aequore fertur aquis.
Quonam tanta animi fiducia? Nobile sidus
adstitit en capiti quae praeit Ursa meo.
Ursa potens mundi, firmo quem torquet ab axe,
ursa potens pelagi, qua duce nauta canit.
PREFAZIONE
Or pervegnuti siamo al centro confusissimo di questo nostro[129] Caos,
lo quale ritrovasi ne la presente seconda «selva» di varie maniere
d'arbori, virgulti, spine e pruni mescolatamente ripiena, cioè di prose,
versi senza rime e con rime, latini, macaroneschi, dialoghi, e d'altra
diversitade confusa, ma non anco sí confusa e rammeschiata che,
dovendosi questo Caos con lo 'ntelletto nostro disciogliere, tutti gli
elementi non subitamente sapessero al proprio lor seggio ritornarsi.
TRIPERUNO.
D'errori, sogni, favole, chimere,[130]
fantasme, larve un pieno laberinto,
ch'un popol infinito, a larghe schiere,
assorbe ognora, tien prigione e vinto,
voglio sculpir non ne l'antiche cere,
non ne le nove carte; anzi depinto
di lagrime, sudor, di sangue schietto
avrollo in fronte sempre o 'n mezzo 'l petto.
In fronte o 'n mezzo 'l petto, ovunque io perga,
terrò qual pellegrino mie fortune;
datimi, o muse, una cannuccia o verga,
ch'io, scalzo e cinto ai fianchi d'aspra fune,
veda come 'l sol esca e poi s'immerga
ne l'Oceàno, e come ardendo imbrune
qua li etiòpi e lá di neve imbianchi
tartari e sciti del bel raggio manchi.
Ma poi che di mia sorte il duro esempio
mostrato abbia del mondo in ogni clima,
fia cosí noto, appeso in qualche tempio[131]
od in polito marmore s'imprima,
che chi mirando 'l cosí acerbo ed empio,
considri ben qual sia buon calle, prima
che l'un d'ambi sentieri d'esta vita
si metta entrare a l'ardua salita.
Oh, ben saggio colui che 'l suo dal mio
voler avrá diverso ne' prim'anni
di nostra sí dubbiosa etade, ch'io
volendo scorsi ne' miei stessi danni,
travolto in vie sí alpestri dal desio,
ch'anco ne porto il viso rotto e' panni,
fin che mia sorte, poi che assonto in alto
m'ebbe, giú basso far mi fece un salto!
TRIPERUNO.
D e l'innocente ninfa l'aurea etade,[132]
I l bel giardino, le colline, i fonti
V annosi omai, ché 'l tempo invidioso[133]
I n un istante quelli s'ingiottisse.
B andito dunque sol per l'altrui fallo,
E rrava quinci e quindi ove pur l'alma
N atura mi torcea con fidel scorta.
E ra quella stagion quando Aquilone,[134]
D a l'iperboree cime sibilando,
I n vetro i fiumi, in latte cangia i monti;
C ácciomi dentro un bosco tutto solo;
T anto vi errai, ch'al fine mi compresi
I n le capanne de' pastori giunto.
R iposto s'era Febo drieto un colle,
E la sorella con sue fredde corna
G iá percotea le selve ed ogni ripa.
V ago di riposarmi su lor fronde,
L a porta chiusa d'una mandra i' batto:
A l sesto e nono cenno fummi aperto.[135]
S tarsene quivi ben rinchiusi e caldi
V idi quei pegorari, al foco intorno,
B ere acque dolci e pascersi de frutta.
Q ual stato mai per che si sia sublime,
V'ha pare al pastoral di contentezza?
A ltri di strame rifrescar ed altri
M onger vidi gli armenti, altri purgarli.
I ntenti ancor son altri gli agnelletti
P ortar di luogo a luogo e ritornarli
S otto lor madri, ed altri con virgulti
E gionchi acuti tessono sportelle.
M a parte ancora, di piú verde etade,[136]
I ntenti sono a giovenili giochi,
L otte, salti diversi e slanzar dardi.
I n altra parte s'usan dicer versi,
T occar sampogne e contrastar di rime.
A ltri, de' piú attempati, di lor gregge
T rattano, s'han piú spesa che guadagno.
V adon e riedon altri, piú robusti,
R icercando le mandre, ove ben spesso
V olpe, lupi selvaggi e piú gli umani
S oglion discommodar lor santa pace.
I n ogni lor impresa vanno lieti,
A mandosi l'un l'altro con gran fede,
M ercé che 'l capo lor sa l'arte a pieno.
I vi raccolto fui nel dolce tanto[137]
N umero lor e fatto di sua prole.
G iá in mezzo al corso di sua lunga via
R otavasi la notte, passo passo:
E cco, dal sommo d'una capannella,
D ove molti pastori guarda fanno
I nsieme al grande armento con lor cani,
O desi, dentro una mirabil luce,
R esonar canti e dolce melodia.
P orgon l'udita e sentono che — Gloria
I n excelsis — dicean i bianchi spirti;
E d avvisati dove 'l Salvatore
N asciuto giace, lá, con allegrezza
T osto da noi partiti, s'avventaro
I n quella banda che fu lor mostrata.
S ol io ritratto in parte for de gli altri
S edevami pensar tal novitade,
I n fin che, ritornati, cose orrende,
M ai non udite piú, d'un fanciullino
A noi contaron di stupor insani.
E cco, senza far motto alcun ad elli,[138]
T utto soletto quinci mi diparto,
E sollevando gli occhi al ciel sereno
V idi una stella rutilar fra l'altre,
A nti scorgendo sempre il mio sentero,
N é mai fermossi fin che al santo loco
G iunto non mi vedesse e poi smarritte;
E d una voce ancor dal ciel mi venne,
L a qual dicea: — Felice criatura,
I o son quella verace e schietta donna
C he vai cercando in terra e stommi 'n cielo.[139]
A ltea mi chiamo: or entra qui sicuro. —
E poi ch'ebbe parlato, un bel concento
S'udiva d'arpe, cetre, plettri e lire.
T acendo poscia, fu non so chi disse:
TERSICORE
Or tienti fermo e non girar altrove,[140]
o spirto avventuroso, di tal guida;
ma cauto va', ché un lupo non t'uccida,
lo quale altrui dal dritto calle smove.
Né da l'antiche leggi, per le nove,
sia mai, se non Iesú, che ti divida,
lo qual non pur è saggia scorta e fida,
ma via che da vertú non si rimove.
Ben vedi a quanta gloria il ciel ti degna,
ché Dio (qual nome dirsi può maggiore?)
volse adempir sua legge in tuo conforto.[141]
Egli farsi uomo sol per te non sdegna,
e guida tal, che 'n questo uman errore
conduceratti di salute in porto.
TRIPERUNO
Io ben intesi di tal voce il sòno;
ma, lasso, che servarla fui poi tardo!
E so che quanto tuttavia ragiono
non vien inteso; ma sotto 'l stendardo
de l'Orso grande, ove posto mi sono,
spero dir chiaro senza alcun risguardo.
Or dunque in una grotta entrai soletto,
con passo lento e colmo di sospetto.
Qui la piú bella, onesta, saggia, umile[142]
donna che mai Natura, col sopremo
suo sforzo e col di rado usato stile,
finger potesse in questo ben terreno,
avea sul strame, in loco abbietto e vile
(trovavasi al bisogno troppo estremo)
riposto un suo nasciuto allor infante,
nudo, a la rabbia d'aquilon tremante.
E se d'un bianco e liggiadretto velo,
levandosi 'l di testa, non fatt'ella
qualche riparo avesse al crudo gelo,
pensato avrei che 'l parvolino in quella
paglia mancar dovesse, e lui, che 'n cielo
volge coi giri soi ciascuna stella,
stringesse la stagion orribil: tanto
prender gli piacque di miseria il manto!
Con quel contratto volto ed alto ciglio
ch'alcuno mira cose strane e nove,
stavami prono a contemplar quel figlio,
sí di me stesso for, che men del bove,[143]
de l'asinelio men, ebbi consiglio
di riconoscer lui che 'l tutto move
essersi carne fatto, non per boi,
non altri bruti, no, ma a servar noi.
Un for di stile e d'uso uman sembiante,
una celeste angelica figura
di quel nasciuto allor allor infante
fu, ch'al veder mi tolse ogni misura.
Ché s'al visibil sol non è costante,
or che al divin potea nostra natura?
Bench'era in carne ascoso, pur non pote
di fora non aver de le sue note.
Non che 'ntendessi allora la cagione
ch'io fussi in quel fanciullo sí conquiso;
ma, vinto da non so qual passione,
piú tosto che ritrarmi dal bel viso
lasciato avrei non pur le belle e bone[144]
cose del mondo, ma anco il paradiso.
E finalmente io, sciocco (temo a dirlo!),
stetti piú volte in voglia di rapirlo;
rapirlo meco in parte ove sol io,
nutrendol prima, l'adorassi dopo,
sperando non mai fôra ch'altro Dio
maggior di lui mi soccorresse a l'uopo;
quando che 'l mundo tant'era in oblio,
che l'indo, il mauro, il scito e l'etiòpo
cingevan il gran spazio, ove chi 'l sole,
chi 'l mar, chi un sasso, chi 'l suo rege cole.
Ma, forse accorta del pensier mio folle
in far tal preda, la pudica donna,
levatolo di paglie, sí sel tolle
in grembo e 'l ricoperse ne la gonna;
ché esser d'uomo veduta giá non volle
mentre li porge il latte. Poi l'assonna,[145]
ed assonnato il bascia, e tornal anco
sul strame, a lato un vecchio grave e bianco.
Ma non sí tosto giú posato l'ave,
ch'un giovenetto a lato, in veste bruna,
qui sotto entrando porta un grosso trave
di ponderosa croce, ed altri d'una
colonna carco; e dopo loro grave
e longa tratta d'angioli s'aduna
intorno del presepio, lagrimosa,
ciascun in man avendo una sol cosa:
questo di spine una corona, quello
sopra la canna una spongia bibace;
chi un chiodo, chi una sferza, chi 'l martello,
chi l'asta, chi la fune, chi la face.
La donna, quando i vide, in atto bello
presto si leva e vereconda tace.
Quelli non men di lei onor le fanno,
poi taciti al fanciullo intorno stanno
(dorm'egli) in atto di basciarlo mille
e mille volte, né esserne satollo:[146]
par che nettar, ambrosia e manna stille
da gli occhi soi, dal mento, fronte e collo!
Eran le cose in modo allor tranquille,
ch'al mondo non sentivi un picciol crollo,
come se con la notte l'universo
stesse nel sonno, co' l'infante, merso.
Ma dopo alquanto indugio, ecco 'l piccino
subitamente non so chi disturba.
Egli alza il guardo e vedesi vicino
cinger intorno la celeste turba,
ch'ognun sta penseroso e 'n terra chino,
con quelle orribil armi; onde si turba
nel volto il bel sembiante e di spavento
piange, tremando come fronda al vento.
Sí come al vento foglia, trema e piange,
né 'l viso piega mai da quella croce;
e mentre qui si dole, cruccia ed ange,
quattro angioletti in lagrimosa voce
incomenciar un inno detto il Pange;[147]
il qual pensando, ancor m'incende e cuoce
de l'amoroso foco, il cui soggetto
spezza di fiera non che d'uom un petto.
Non fu giá pietra in quelle mura (pensi
un cor gentil ch'esser dovea la madre!)
che non s'intenerisse ai forti intensi
gemiti del fanciullo, a le leggiadre
rime di que' cantori. Ond'io con densi
sospiri m'avvicino al bianco padre,
col qual piangendo mi proposi allotta
non mai distormi piú di quella grotta.
Grotta gioiosa, che degnossi 'l cielo
partir de le sue cose in mia salute!
grotta felice in cui di carne il velo
intorno vidi aver l'alta virtute!
grotta salúbre, ove servato il stelo
di pudicizia nacque, tra le acute[148]
mondane spine, il fior tant'anni occulto,
di terra uscito senza umano culto!
Poscia che i quattro spirti bianchi fine
poser al Pange lingua gloriosi,
quel da la croce, c'ha l'aurato crine,
d'avolio il viso e gli occhi sí amorosi,
l'ale tessute d'oro e perle fine,
dritto si leva in piedi con ritrosi
guardi ver' me, stendendo la man destra,
e la croce sostien con la sinestra.
GENIO
Uomo, animale — disse — fra gli altri solo de la ragione capace, che de
gli eterni piaceri con meco sei ad essere felicissimo consorte (non giá
perché né tu né di tua natura alcuno giammai facesse impresa veruna per
la cui dignitade ciò guadagnar si potesse, ma l'infinita d'Iddio bontade
cosí a dover avvenire nel principio dispose); or odi quale e quanta
verso voi uomini sia stata di lui la benevolenzia. Lo quale, da l'antico
legame di perdizione per scatenarvi, giá non sofferse aver a schivo se
istesso condennare ad essere un simile vostro di carne, una vittima, un
sacrificio, un miserabilissimo spettacolo, dovendosi egli sottomettere a
la severa legge, di lei non pur conditore ma distretto[149] osservatore,
mostrandovi, con esempio prima e con dottrina poi, per quanto piacevole
sentiero ciascuno di voi, le sue vestigia seguendo, potrebbe al lume di
veritá pervenire. Da la quale, per l'infiata soperbia de gli ignoranti
dottori e saviezza mondana, tutti[150] omai sète miserabilmente sotto
l'empia potestade d'un tiranno traboccati, lo quale sepolti, non che
imprigionati, nel puzzo d'ogni scelleraggine sin ad ora v'ha ritardati.
Vedi tu cotesto bellissimo fanciullino, questa leggiadretta sopra ogni
altra criatura? questo uomo di spirto e carne testé nasciuto? Lo quale
so che ti pare soave tanto, che giá di non voler indi partire tu ti sei
fermamente deliberato. Se io, che sol spirito sono, cosí fussi agevole
di ragionar la lui potenzia, la lui maiestade, la lui smisurata
benignitade, come tu, uomo carnale, manco idonio sei ad ascoltare,
potrei quivi acconciatamente dar principio. Ma debilissima è pur[151]
troppo de noi angioli la natura, e vieppiú la vostra umana, in
comparazione di quella profundissima, incomprensibile e impenetrevole
divina. Dilché sciocchi e presontuosi furono pur troppo alquanti
dottori, che cosí leggermente a tal cosa isperimentare si sono
abbandonati.
Ora dunque saperai prima qualmente la intelligenzia del Sempiterno
Padre, la quale noi similemente «prima sapienza e divino sermone» con
grandissimo tremore nominamo, tanto di vostra salute le calse, tanto
l'incommutabil sua natura si commosse verso di voi a pietade, che non
me, non alcun altro di angelica stirpe si elesse per vostro redentore e
de l'inferno distruggitore, ma da se medema, volendo oggimai la
divinitade sua con la umanitade vostra conciliare, discese occultamente
da l'empireo nostro in questo vostro passibile stato, constituendosi ad
essere con essi voi fratello, compagno e servitore; quando che non volse
il benignissimo figliuolo vestirsi la forma d'alcun potente signore, ma
ben gli piacque con perfettissima umilitade sottoporsi a vile servitude
per confutare l'alterigia de' sapienti mondani. Eccolo quivi d'una
polcella, mediantovi la vertú del Spirito Santo, poverissimamente
nasciuto. Dimmi, uomo, dimmi, animal di ragione, qual umiltade di
cotesta maggiore potriasi unqua imaginare? Páronti forse quelli duo
animaluzzi vilissimi, fra li quali sul feno lor egli giace, convengano a
la omnipotenzia di sua profundissima maiestade? parti ch'un diversorio
immondo, un presepio de bovi, la diroccata stanza, lo notturno
pellegrinaggio, la freddissima stagione siano al divino trono, a la
celeste beatitudine, a le ierarchie d'infiniti spiriti convenevoli e
corrispondenti? parti che questa diminutezza d'un infante a la grandezza
del criatore e fondatore de l'universo s'adegui? Ma quanto piú di
maraviglia prenderai tu, se mai fia tempo che l'instrumenti orribili, li
quali con questa croce intorno a lui miri essere portati, tu veda
crudelmente adoperati ne la innocentissima sua persona! O gran fortezza
di pietade, la quale puote l'altissima giustizia[152] cosí piegare, che
'l padre, per riscotere il servo, traditte l'unico figliuolo, che avesse
ad essere tra gli suoi domestichi un bersaglio di mille onte, ingiurie,
bestemmie, derisioni, contumelie, scorni, guanciate, battiture,
flagelli, sputi, lanciate e finalmente un vituperoso spettacolo, tra li
doi scellerati, su la contumeliosa croce inchiavato! O affocato amore, o
benivolenzia verso noi uomini ardentissima! Iddio fassi omo per te
salvar, o uomo: offende sé, difende te; ancide sé, vivifica te! O
mansuetissimo agnello! Vedi, vedilo lá, uomo, vedi lo tuo salvatore,
vedi la via, la veritade, vedi come lagrimoso dal presepio ti mira e
guata, vedi come gestisse d'abbracciarti in foggia di caro germano! Egli
ben sa che per te, uomo, solo in questa miseria fu dal Padre mandato,
discese in terra per guidarti al cielo, s'ha fatto famiglio per
costituirti signore! Or dunque chi renderá mai guiderdone a tanto[153]
beneficio eguale? qual grazie, qual lode a tanto premio? fia forse di
oro, di gemme, di porpora, di altri beni temporali cotesto premio? anzi
del preciosissimo suo sangue. Con questo ti laverá, ti monderá de le
peccata, de le tante scelleraggini; con questo ti pascerá e nudrirá,
lasciandotilo, con la carne sua propria, ad essere tuo cibo di vita
eterna. Sfattene dunque, uomo, nel santo proposito in cui testé
amorosamente ti ritrovi; e quando pur sotto 'l gravissimo peso di questa
tua carne avverrá che ne trabocchi, lévati presto, chiama dal ciel
aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le radici. L'abito solo è
quella peste, quel morbo se non per grandissima misericordia d'Iddio
sanabile, quell'inferno d'ignoranzia, quel laberinto d'errori, ove
dubito non sii finalmente per tua inavvertenzia dal sfrenato desio
tirato.
TRIPERUNO
Finitte appena l'angelo divino questo sermone, che quattro de gli piú
vaghi angioletti cantando cosí dolcemente incomenciaro:
Un aspro cuor, un'empia e cruda voglia,
una durezza, impresa giá molt'anni,
se altrui depor contende, non s'affanni
sperar ch'altri ch'Iddio mai vi 'l distoglia.
E s'uomo stesso il fa, dite che spoglia
non riportâr tirannide tiranni
di questa mai piú bella e che piú appanni
ogn'altra gloria, ch'uomo al mondo invoglia.
Ma il ciel di stelle e d'acque il mar fia manco,[154]
qualor accaschi in uomo tanta forza,
ch'ei vecchio stile da sé levi unquanco.
Però convien ch'al bon Iesú si torza,
mercé attendendo, ed anco il prieghi ed anco,
fin che qual serpe lásciavi la scorza.
TRIPERUNO
V enuti al fine de l'orribil metro
E ran li cantator empirei, quando
R uppesi un sòno fuor de la capanna,
U n sòno di percosse e battiture
M eschiate con minacce ed altri gridi.
I n quell'instante (ah mio crudel destino!)
G iunsevi un altro frettoloso genio
N on senza gran spavento, e disse: — Or presto
A ffrettati, Iosefo, prendi 'l figlio:
T u, con la madre sua, scampa in Egitto;
I nsta giá 'l tempo ch'un fier mercenaro
I nsanguinar si vol di questo agnello.[155]
F ra gli pastori ha ricondotto d'empii
L upi cotanta rabbia, che gli agnelli
O morti verran tutti o lacerati.
R isse, discordie, gare, aspri litigi[156]
E sser fra lor non odi ancor diffora?
N on piú dramma d'amor, non piú di pace
T ra quelli omai si trova; di che scampa
I n altre bande ove giá nacque Móse.
N é quindi fa' ti parti, fin che a tempo
I o venga darti avviso del ritorno. —
T aciuto ch'ebbe il nunzio, vidi gli altri
A ngioli su le penne al ciel salire,[157]
N é pur un solo a dietro vi rimane:
T anto le liti, le contese e zuffe
A la corte d'Iddio son odiose!
— A rme, arme! — cosí chiaman tuttavia;
M a stavami sol io ne l'antro ascoso,
B attendomi gran téma sempre il cuore.
I n su quel punto similmente un'atra
T empesta, con gran vento e spessi lampi,
I ncomenciò tonando farsi udire
O ve 'l contrasto cresce ognor piú acerbo.[158]
V inse una parte finalmente, e l'altra[159]
T rassesi ne la grotta per suo scampo.
I o mi discopro e la cagion di tanta
L ite fra loro cerco di sapere.
— L asso! — rispose un vecchio — non m'accorsi
A vvolto in un agnello esser un lupo!
LAMENTO DI CORNAGIANNI
P iangeti meco, voi fiere selvatiche,
V oi sassi alpestri, voi monti precipiti,
R ipe, virgulti e stipiti:
I esú da noi si parte, ché le pratiche
T rovate fra pastori tanto crebbero,
A imè! ch'al fin non ebbero
S e non forza di far le gregge erratiche.
A hi mercenaro e lupo insaziabile,[160]
N ato d'inganno e mantellata insidia!
I n cui tanta perfidia
M ai puote luogo aver? O incommutabile,
O giustissimo Dio, perché non subito
R isguardi a noi? deh! dubito
V ani sian nostri prieghi, ché stoltizia
M aggior non è s'un reo chiede giustizia.
TRIPERUNO
P arlava il vecchio lacrimando forte,
E poi le labbra cosí chiuse, ch'egli
N on mai piú volse aprirle; ma co' gli occhi
I n un parete fissi, geme e piagne
T anto che fece l'ultimo sospiro.
— V attine al ciel, alma d'ogni ben carca! —
S'udí una voce dir — vanne felice! —
C osí di que' pastori giacque il padre,
O rbato d'esta vita, ma in ciel suso
R apito a l'altra; e l'empio mercenaro
R imase de gli armenti possessore,
V olgendo e' be' costumi de gli antichi[161]
P astori audacemente in frode e furti,
T anto che le sampogne e dolci rime
A ndati sonsi e d'arme sol si parla.
D eposto dunque fu lo gran pastore
E ntro d'un cavo sasso; e a quello sopra,
C armi leggiadri e rime di gran sòno
I nscritte fûrno da pastori e ninfe.
D ond'io piangendo ancor questi vi posi:
TUMULO DEL CORNAGIANNI
«E cco, del monte congrega — ciò nella
R uppe — gran pianto pel suo cor Narciso.
I l fior anti no fu sua morte fella».
T al fu 'l mio verso, ma, per téma, scuro.
TRIPERUNO
Io da' pastori alquanto dilungato,
con quali esser mai giunto ancor mi dole,
d'un monticello in largo e verde prato
mi porto, giú, fra rose, gigli e viole;
poi dentro ad un antico bosco entrato,
tanto vi errai che sul montar del sole
si m'appresenta un'ampio e bel palaccio:
cerco l'entrata e presto vi mi caccio.
Nòve cose giammai non anti viste
veggio fra quelle mura in un vallone,[162]
di urtiche, vepri, spine e lappe miste
densato sí, che mai non vi si pone
piede senza lacciarlo a l'erbe triste,
e farsi, o voglia o no, di lor prigione;
ma sí mi preme l'ira d'una donna,
ch'io scampo e lascio a squarzi la mia gonna.
Perocché, ne l'entrar, quella soperba,[163]
pallida in volto, magra e macilente,
con voce altéra minacciante acerba
seguivami gridando: — Mai vincente
uomo non fia, se l'animo non serba
a' miei flagelli forte e paziente! —
Io allor m'offersi al suo comando, e presto
scorro di qua di lá, né unqua m'arresto.
Dov'ir mi deggia segno non appare
di bestial non che d'uman vestigio:
di che sovente fammi traboccare
de panni co' miei passi gran litigio,
fin tanto che, sul lido accosto il mare
giunto, m'assisi stanco a gran servigio
di nostra fragil vita, e poi mi levo,
e del cammin doppio pensier ricevo.
Se al dritto o manco viaggio me ne vada
non so, ché nòve m'eran le contrate.
Ma, tra ambi doi mentre 'l voler abbada,
ecco a le spalle, co' le labbra infiate
di sdegno, m'è la donna tutta fiada
quanto mai fusse nuda di pietate.
— Tu vòi pur anco — dice — chi t'accolga,
rubaldo, e ne' capei le man t'involga! —
Io, dal spavento piú che mai commosso,
lungo la manca spiaggia formo e stampo
miei passi, lor frettando quant'i' puosso,
sin che dal suo furor mi fuggo e scampo.
Cosí infelice non piú aver riposso
giammai vi spero; e d'uno in altro campo,
qual timidetta lepre, uscendo, un fosco
antro di spine trovo e vi me 'mbosco.
Ma ne l'entrar (ah quanta mia sventura!),
ecco si mi raffronta un uomo strano,
anzi doi, sgiunti fin a la cintura:
piú mostro assai che finto non fu Giano
o Proteo falsator di sua figura;
tal anco è scritto Castor e 'l germano,
ché sol due gambe quel corporeo peso
di duo persone tengono sospeso.
Ei, quando avanti lui giunto mi vide,
scosse le membra e tutte si li ruppe.
Stupido, il guardo ch'ei digrigna e ride
e par che 'n altri volti s'avviluppe.
I non era né Teseo né anco Alcide
o chi nel ventre il gran Piton disruppe,[164]
che fronteggiar bastassi un mostro tale;
onde spiegai pur anco al corso l'ale.
Per un sentier (sol un sentiero v'era)
sferzo me stesso, e gran téma mi punge.
Ma poi che da l'incerta e 'nstabil fiera
esser mi vidi al trar d'un arco lunge,
fermo mi volgo; ed egli, sua primera[165]
forma cangiando, in doi corpi si sgiunge:
questo di donna, vago, pronto, ameno;
quel d'un formoso e bianco palafreno.
Oh qual mi feci a l'apparir di loro
sí grata vista e dolce leggiadria!
Mill'altre prime facce assai mi fôro
moleste in cui cangiato egli s'avia,
ché né orso né leon né pardo o toro
né cervo né animal chi chi si sia,
gradir mi puote, anzi mi fe' spavento:
di questi doi sol ne restai contento.
Ella, succinta in abito gentile,[166]
tra fiori a l'aura si rendea piú degna.
Vidi anco intorno lei (sí 'l feminile
aspetto valse) con lor verde insegna,
stesi per l'erbe e fronde, Marzo e Aprile
la terra far d'assai colori pregna,
e su per folte macchie lieti e snelli
facean cantando errar diversi augelli.
Piú bello, altero, candido e vivace[167]
nullo animal di questo vidi mai;
tanto mi piacque allora, che 'l fugace
e timido desio presto frenai,
volgendol tutto ove sperava pace
in duo begli occhi, anzi potenti rai,
ch'umilemente alzati sol d'un cenno
quanto temea davanti obliar mi fenno.
Tratto dal mio voler giá torno in dietro
e di mai non partirmi da lei bramo.
Ella quel bel destrier c'ha 'l fren di vetro
è giá salita, e d'un frondoso ramo
di mirto il tocca e contra un folto e tetro
bosco lo caccia. Io che pur troppo l'amo,
correndo a tergo, me ne doglio e strazio,
e luntanato son da lei gran spazio.
Per un sentier, colmo di tòsco e fèl va
battendo sempre il palafren da tergo,
tanto che scórse ne l'oscura selva
e mi si tol di vista; ond'io sol m'ergo
de l'orme ai segni (ché si vaga belva[168]
perder non voglio), e tutto mi sommergo,
non, pur d'averla, ne le insane voglie,
ma ne' intricati rami, sterpi e foglie.
Tanto durai nel corso a quella traccia,
ch'al fin del bosco, fra tre alte colonne,
la via par che 'n duo branchi vi si faccia,
qual oggi e' greci fingon l'ipsilonne;
di che dubbio pensier l'andar m'impaccia,
fin ch'una turba di polite donne[169]
mi fûr in cerco, e losingando parte
di loro a manca man mi tranne ad arte.
Quivi d'accorte e ladre parolette
foggia non è che non mi circonvenga;
ma l'altra parte di luntano stette
pensando in quale guisa mi sovvenga.
Io, che fra tanto sono entro le strette
d'abbracciamenti e garrula losenga,
irmene al manco viaggio mi delibro;[170]
ma donna mi vietò, c'ha in man un cribro.
Un cribro in mano la dongella tiene,
d'acqua ripieno, e goccia non si versa,
che di la turma luntanata viene,
gridando forte: — Non far, alma persa,
non far; se 'l fai, tu sol n'avrai le pene,
ché non sai quella via quant'è perversa.
Ma qui piuttosto volge a la man destra,
che da l'errante volgo altrui sequestra. —
A la cui voce giá lo entrato piede[171]
ritrassi al modo di chi un serpe calca.
— Deh! saggia ninfa, dimmi per mercede,
— risposi a lei — dove 'l mio ben cavalca?
Perché fra voi questo altercar procede?
perché tanto di tempo mi diffalca?
Quella sen fugge e tuttavia non cessa,
onde non spero mai piú veder essa.
— Lascila gir — diss'ella, — ché la truce[172]
e pestilente donna, tuo malgrado,
de l'improba Fortuna ti conduce
al seggio incerto ed a l'instabil guado.
Ma se tu segui me, ti sarò duce
nel destro calle, ove di grado in grado
montando, e non col volo di fortuna,
vedrai quel ben che 'n sé vertú raguna.
Or viemmi dopo, ché su l'alte cime
di sapienza trovarai l'ascesa.
Fuggi costoro, perché al fin de l'ime
valli d'errore mostran la discesa. —
Allor io per costei lascio le prime
e seco me ne vo; ma gran contesa
ecco nascer fra l'una e l'altra turba,
che 'l mar, la terra e sin al ciel disturba.
E prima di parole tanta rabbia
si sullevò tra quelle donne e queste,
che non bastò menar con scura labbia
la lingua e denti, ma l'ornate teste[173]
vengon a scapigliarsi, e su la sabbia
giá molte veggio, per l'orrende peste
de' calci e pugna, traboccar avvolte.
Ma presto vien chi via l'ebbe distolte.
Ché a l'apparir di donna antica e grave[174]
tosto la pugna fu da lor divisa:
chi si racconcia il sino e chi le flave
chiome si annoda e chi di dar sta in guisa.
Ma la matrona con parlar soave
voltossi a me dicendo: — Qui s'avvisa
per me qual porta entrar deve chi brama
o quinci o quindi racquistarsi fama.
Quinci Vertú, quindi Fortuna alloggia,
i' ti l'ho detto: va', ch'ambo le porte[175]
ti mostro aperte. — E detto ciò, s'appoggia
sul petto il viso di Vertute e sorte
fra le colonne. Ed io ne stava in foggia
di chi non sa de le dua porte apporte
quale si prenda, s'una prender deve;
e mentre dubbia, gran duolo riceve.
La destra via mi elessi finalmente:
cosí movea di Nursia il saggio spirto.
Ma le sinistre donne, triste e lente,
trasser a l'ombra insieme d'un suo mirto.
Quivi tra loro un lupo immantenente
comparse (onde non so) minace ed irto,
del quale una di lor, se ben rimembro,
svelse sdegnando il genitale membro.
Poscia chi per il piè, chi per l'orecchia
lo tranno a terra giú quelle fanciulle,
mentre l'altare e 'l foco una apparecchia.
Ciascuna par che 'n quello si trastulle
svenarlo, e qui s'accoglie e si sorbecchia
tanto del sangue suo, che 'n tante mulle[176]
le vidi esser cangiate a me davante,
e 'l foco stesso le arse tutte quante.
E 'l mirto similmente in altra forma
mutarse vidi, ch'ogni suo rampollo
contrasse al tronco dentro, e si trasforma
in bella donna, e gambe e braccia e collo;
e 'l lupo, il qual sul lido par che dorma,
prende a l'orecchia, e dritto sullevollo,
cangiato omai di lupo in un destrero:
sáltavi addosso e sgombra via 'l sentiero.
Io la conobbi, aimè! nel sguardo acuto,
acuto sí, ch'anco smovermi puote
dal bel proposto e farmi sordo e muto
a le preghiere d'ogni effetto vòte
de l'altre donne; anzi mi faccio un scuto[177]
d'infamia contra il ben che mi percuote,
e gridami nel capo, mi urta ed ange,
ma nulla fa, ché 'l suo voler si frange.
Onde le donne insieme neghittose,
poi ch'e' soi prieghi gittaron a l'aura,
in un pratel de gigli, viole e rose,
sott'ombra de la petrarchesca Laura,
stetter in cerchio contra me sdegnose;
ed un quadrato altare qui s'instaura,
sul qual, mentr'arde un tenero licorno,
ivan quelle piangendo intorno intorno.
Io pur, quantunque l'ascoltassi invito,
la fin volsi veder del sacrificio,
ch'un nuvol bianco su dal ciel partito
sí mi l'ascose, e per divin giudicio
tal tono seco fu, che tutto 'l lito
tremò d'intorno, e sparve lo edificio,
le donne, la matrona e 'l nuvol anco,
restando pur la via del lato manco.
Stavami, su quel punto che la terra
tutta tremò, non men for di me stesso
che 'l viandante, il quale mentre ch'erra
cercando un tetto, perché un nimbo spesso
li tona in capo, il fulmine si sferra
dal ciel gridando e piantasigli appresso,
ché un'alta pioppa in sua presenzia tocca
e tutta in foco e fumo la dirocca.
— Non temer d'alcun ciel che ti minaccia,
ché bella botta non mai colse augello! — [178]
A cotal voce rivoltai la faccia,
ed ecco un uomo lieto, grasso e bello
mi sovraggiunge e stretto a sé m'abbraccia.
S'io gli fussi figliol, padre o fratello,
io l'addimando vergognosamente.
Chi fusse, egli rispose immantenente.
LA CAROSSA
MERLINUS COCAIUS
Ille ego qui quondam formaio plenus et ovis
quique, botirivoro stipans ventrone lasagnas,
arma valenthominis cantavi horrentia Baldi,
quo non Hectorior, quo non Orlandior alter,
grandisonam cuius famam nomenque gaiardum
terra tremit baratrumque metu se cagat adossum,
at nunc Tortelii egressus gymnasia, postquam
tanta menestrarum smaltita est copia. Baldi
gesta maronisono cantemus digna stivallo.
Huc, Zoppine pater, tua si tibi chiachiara curae,[179]
si tua calcatim veneti ad pillastra Samarchi
trat lyra menchiones bezzosque ad carmen inescat,
huc mihi cordicinam iuncta cum voce rubebam
flecte soporantem stantes in littore barcas,
ut dorsicurvos olim delphinas Arion.
Tuque, Comina, tene guidam temonis, et issa
issa, Pedrala, mihi ad ghebbam tuque alta sonantem
ad cighignolam velamina pande levanto,
Berta, grego, postquam salpata est áncora fundo.
Non ad muscipares voltanda est orza canellos,
non ad fangosas ladrorum daccia Bebbas,
Bebbas, cui nomen tum splenduit, aequore postquam
Cingar anegavit pegoras, saltantibus illis
una post aliam, nullo aiutante Tesino,
dumque trabuccabant, «bè bè» sonuere frequenter:
hinc Bebbas dixere patres, quod nomen ad astra
surgitur, et lunge soravanzat honore Popozzas.
Non mihi Fornaces per stagna viazus ad udas,
perque Padi gremium ad Stellatam Figaque rolum
undantem contra et retro cava ligna ferentem,
seu sit Bondeni seu sit mage Francolini
piatta, vel Argentae, vel burchius Sermidos audax.
Bramai Alixandrae portus mea barca tenere.
NARRATIO
Thebanis fabrefacta viris, antiquior altris
urbibus Italiae, dum Mantua rege sub uno,
nomine Gaioffo, quasi iam dispersa gemebat,
viderat in somnis venientem a Marte baronem
mozzantemque caput Gaioffo, seque gridantem
libertatem urbi et populo praestasse vetusto.
Hinc aliquod confortum animi conceperat illa
speranzamque omnem Baldi ficcaverat armis.
Non erat huic toto quisquam affrontandus in orbe
forcibus aut potius destrezza corporis ipsa.
Nil illum (tanta est hominis baldanza gaiardi!)
arma spaventabant, nil coelum, nilque diavol.
Vir iuste membrosus erat, mediocriter altus,
largus in expassis relevato pectore spallis,
at brevis angustos stringit centura fiancos;
nerviger in gambis, pede parvus, cruribus acer;
rectus in andatu, levibus qui passibus ipso
vix sabione suas poterat signare pedattas.
Aurea iungebat faciei barba decorem,
vivacesque oculos huc illuc alta rotabat
frons, quae spaventat quando est turbata diablos,
sed ridens noctemque fugat giornumque reducit;
spadazzam laevo semper gallone cadentem
portabat, guantumque presae mortisque daghettam.
Saltando legiadrus erat, qui pleniter armis
indutus montabat equum sine tangere staffam.
Ipse gubernabat terram, quam diximus olim
nomine Cipadam, gentemque illius habebat
ad cennum prontamque armis habilemque bataiae.
Praecipuos hinc tres elegerat ille sodales,
quorum Cingar erat strictissimus alter Acates.
Is veterem duxit Margutti a sanguine razzam,
qui risu, quondam simia cagante, crepavit.
At Cingar trincatus erat truffator in arte
Cingaris, aut vecchium segato dente cavallum
per iuvenem vendens, aut bolsum fraude barattans.
Scarnus in aspectu, reliquo sed corpore nervis
plenus erat nudusque caput rizzusque capillos.
At sassinandi poltronam exercuit artem,
in machiis quandoque latens mala guida viarum,
namque viandantes ad boscos arte tirabat
spoiabatque illos, sibi nec restante camisa.
Sacchellam semper noctu post terga ferebat,
sgaraboldellis plenam surdisque tenais;
is mercadantum reserabat saepe botegas
compagnosque ipsos pannis finoque veluto
tornabat caricos ad ladrorum antra Cypadam,
officioque boni compagni, quisquis aiuttum
porrexisset ei, tolta sibi parte botini
ibat contentus. Precibus sed denique Baldi
destitit, et savius forcam lazzumque soghetti
scansavit, iam iam illorum compresus ab orma.
Huic tanto coniunctus erat Falchettus amore
(Falchettus qui ortum Pulicani ab origine traxit),
quod sine Falchetto poterat nec vivere Cingar,
nec Falchettus idem faciens sine Cingare vixit.
Non fuit in toto cursor velocior orbe,
namque erat a cerebro ad cinturam corporis usque
semivir, et restum corsi canis instar habebat.
Hic cervos agilesque capras leporesque fugaces
captabat manibus saltuque (stupibile dictu!),
saepe grues tardas se ad volum tollere coepit.
Multi illum reges, reginae, papa, papessae
ducere tentabant, donantes munera, secum.
At ille, incagans papae regumque parolis,
cum Baldo semper dormit mangiatque bibitque.
Inde gigantonem Fracassum Baldus amabat,
progenies cuius Morganto advenit ab illo,
qui iam suetus erat campanae ferre bataium.
Huius longa fuit cubitos statura quaranta,
grossilitate stari aequabat sua testa misuram,
andassetque trimus per buccam manzus apertam;
in spatio frontis potuisses ludere dadis
auriculisque suis fecisses octo stivallos;
spallazzas habuit largas, schenamque decentem
ferre boves carrumque simul pesosque ducentos;
arripiens quandoque bovem per cornua grassum
ad centum passus balzabat, more quadrelli.
Marmoreos etenim pillastros atque columnas
tergore gestabat, nulla straccante fadiga;
streppabat digitis quercus stabilesque cipressos,
ac si fortificam foderet tellure cipollam.
Castronem mediumque bovem denasque menestras,
trenta simul panes coena mangiabat in una.
Tanto ibat strepitu, libras ter mille pesoccus,
tota sub ipsius pedibus quod terra tremebat.
At viltatis homo crudeltatisque minister,[180]
Gaioffus, Baldum Baldique timebat amicos.
Imperii zelosus erat, noctesque diesque
masinat in cerebro, lambiccat, fabricat altos
aëre castellos, velut est usanza tiranni,
suspectumque super Baldum plantaverat omnem.
At quia grandilitas animi generosaque virtus
tum gratum patribus tum plebi fecerat illum,
stat regno metuens, ut vulpes vecchia quietus.
Verum mille modos fingit groppatque casones,[181]
summittitque homines falsos, nugasque silenter
seminat in populo; Baldi bona fama, gradatim
malmenata, fluit, iam facta infamia crescit
bacchaturque omnem coelo montata per urbem,
deque viro illustri canto straparlat in omni,
quod ladronus erat, quod fur, quod mille diablos
corpore gestabat, quod forcas mille merebat.[182]
Hinc nactus causam patres Gaioffus adunat,
conseiumque facit, pensans comprendere Baldum,
mittaturve suo capiti firmissima taia.
Maxima patricii generis convenerat illuc
squadra, repossato disponens cuncta vedero.
Est locus in quadro, «salam» dixere moderni,
bancarum populique capax sibi iura petentis:
illius ad frontem, inter multa sedilia patrum,
aurea Gaioffi solio est errecta levato
scrannea, spadiferis semper circumdata bravis.
Hic sedet ille, minax vultu sitiensque cruoris.
Non delatores unquam longantur ab illo,
non giottonorum bardassarumque potentum
copia, non ladri, furfantes mille, parati
condonare suam minimo quadrante balottam.
Inter eos garrit centum discordia linguis,
minibus et zanzis populi complentur orecchiae,
semper ut offendant proni referuntque per urbem
ambassarias, quibus arma repente menantur.
Ergo ubi nobilium cumulata caterva resedit
claudunturque fores plebisque canaia recedit,
imperat annutu prius ille silentia dextrae,
talia dehinc solio parlans commenzat ab alto:
ORATIO
Vos, Domini patriaeque patres circumque sedentes
consiliatores, qui nostrae ad iussa bachettae
praesentati estis, causamque modumque sietis
quare ad campanae bottos huc traximus omnes.[183]
Quippe (diu nostis) vestra non absque saputa
omnia semper ego dispono, tracto, ministro,
non quia me pactus vel lex magis obliget ulla,
verum solus amor vestri et dilectio regis,
id quod amicitiae, tamquam sit iuris, adoprat.
Hactenus insimulans tacui, grossumque magonem
pectore nutrivi, saepe ut prudentia reges
expetit; at, vobis veluti experientia monstrat,
tegnosum fecit mater pietosa fiolum.
Nostis enim pridem quae, quanta et qualia Baldi
sint probra, nec modus est in furtis atque rapinis.
Incoepit postquam aetatem intrare virilem,
incoepit secum mariolos ducere bravos,
quos «mangiaferros» vocitant «taiaque pilastros»,
aut «taiaborsas» melius quis dicere posset.
Non fuit in mundo giottonior alter, et ipsum
rex ego sustineam? patiar? fruiturque ribaldus
sic bontate mea? quid non pro pace meorum
cittadinorum tolero, postquam improbus iste
urbis in excidium, novus ut Catilina, pependit?
Nostra illum patres patientia longa ribaldum[184]
fecit, ut in ladris non sit ladronior alter.
Quid me vosque simul bertezat, soiat, agabbat?
ad quam perveniet sua tandem audacia finem?
non illum facies tanta gravitudine vestrae
maiestasque mei removent, non guardia noctis,
non sbirri zaffique simul, non mille diavoi
spaventat, tanta est hominis petulantia ladri!
An sentit coelo, terrae baratroque patere
iam caedes gladiosque suos? an contrahit omnem,
quae sassinorum semper fuit arca, Cipadam,
ut cives populumque meum gens illa trucidet?
illa, inquam, gens nata urbem pro struggere nostram?
Quis, rogo, scoppatur nostrae sub lege cadreghae,
quisve tenaiatur mediaque in fronte bolatur,
berlinaeque provat scornum forcaeque soghettum,
ni Baldi comes et villae mala schiatta Cipadae?
doctoratur ibi robbandi vulgus in arte,[185]
estque scholarorum Baldo data cura magistro.
Hinc docti iuvenes sub praeceptore galanto
blasphemare Deum variis didicere loquelis;
mox sibi boscorum ladri domicilia quaerunt,
expediuntque manus furtis stradasque traversant,
assaltant homines, amazzant inque paludes
omnia spoiatos buttant pascuntque ranocchios.
Quum simul albergant, squadraque serantur in una
mille cruentosas roncas teretesque zanettas,
spuntonesque, alebardas, quae sunt arma diabli,
dantque focum schioppis, tuf taf resonante balotta.
Semper habent foedas barbazzas pulvere, semper
cagnescos oculos nigra sub fronte revolvunt.
Protinus ad cifolum se intendunt esse propinquum
quem faciant robbas pariterque relinquere vitam.
Praesidet his ergo Baldus caporalis, ab ipso
tot mala dependent: Baldo cessante, quid ultra
mercator timeat? quid gens peregrina? quid urbs haec?
Ad caput, o patres, est ad caput ensis habendus,
membra nihil possunt quum spallis testa levatur:
frange caput serpae, non amplius illa menazzat!
Dixi: nunc vero quaenam sententia vestra est
expecto, ut cunctis sit larga licentia fandi.
Dixerat, et sdegnum premere alto in pectore fingit.
Confremuere omnes, aut quae contraria Baldo
pars erat, aut vafri quos longa oratio regis
spinserat in coleram, tollentesque ora manusque,
iustitiam clamant: — Quid adhuc mala bestia vivit,
quid nisi iacturas, homicidia, furta, rapinas,
o rex, a ladro poterit sperarier unquam?
picchentur fures, brusetur villa Cipadae,
ipseque squartatus reliquis exempla ribaldis
praestet, amorbator coeli terraeque marisque! —
Tum vero ingemuit strictis pars altera buccis
compescens digito, Gaioffo adstante, labellum.
At Gonzaga pater, quo non audentior alter
iustitiae in partes et linguae et robore spadae,
omnium ut aspexit vultus firmarier in se,
stat morulam, dehinc quantus erat de sede levatus
apparet, solvitque ingentem ad dicere linguam:
RESPONSIO
Inclyte rex, regisque viri, vosque urbis honori
instantes proceres, quamvis locus iste soluta
labra petat laxasque velit sine vindice linguas,
attamen, aut iure hoc aut quadam lege rasonis,
quam natura docet, ne me angat culpa tacendi,
incipiam. Baldi animum Baldique valorem,
Baldi consilium novi a puerilibus omne.
Ingenium est homini, quum prima aetate tenellus
luxuriat, facili scelerum se inferre camino,
si incustoditus fuerit nulloque magistro:
cursitat huc illuc, ceu fert ignara voluntas.
At puer ingenuus, quamvis retinacula brenae
non tulit, illecebras seguitans, si forte virum quem
maturum semel audierit leviterque monentem[186]
principio, ne virga nimis tenerina, potenti
contrectata manu, media spezzetur in opra,
deposita sensim patitur feritate doceri,
seque hominem monstrat, quem humana modestia tantum
retrahit a vitio iurisque in glutine firmat.
Cernimus indomitos plaustro succumbere tauros,
quorum duriciem removet destrezza biolchi;
semper idem saeviret equus cozzone carente,
nec venit ad pugnum sparaverius absque polastro.
Ne, rogo, conscripti patres (id forsitan unquam
rex sensit), pigeat miras audire prodezzas
quum fanciullus erat Baldus baculumque sbriabat.
Gallicus, ut fama est, e Franzae partibus olim
in Lombardiae, gravida cum uxore, paësum
straccus arivavit, nostramque hanc ductus ad urbem
albergavit agro tantum una nocte Cipadae,
donec ibi gravidata uxor sub fine laboris
ederet infantem, qua Baldus prodiit iste,
qui nascens oculos (veluti dixere comadres
huic circumstantes) coelo tendebat apertos,
quem nemo, ut mos est infantum, flere notavit.
Hinc vox e summo fuit ascoltata solaro:
— Nascere macte, puer, cui coelum, terra fretumque
ac elementa dabunt tot afannos totque malhoras;
non terrae sat erit centum superare travaios,
ense viam faciens inter densissima tela,
verum quam citius pelago tu intrare parabis,
cinctus ab undosis montagnis nocte dieque
fortunae ingentis patiere tonitrua, ventos,
fulmina, corsaros ac centum mille diablos.
Sed tandem, haud dubites, gaiarditer omnia vinces.
Vocis ad hunc sonitum, mater meschina, vel ipso
supplicio partus vel sic pirlamina fusi
finierant Parcae, puerum pariterque fiatum
sborravit: puerum vulva, pulmone fiatum.
Vos meditate suo qualis tunc doia marito
ingruit, ut mortam uxorem natumque puellum
ante oculos proprios tractu sibi vidit in uno!
Ergo infantillum villano tradidit uni,
mox abiit tacitus nec post apparuit unquam.
Nescitur, fateor, qui sit, verum alta gaiardi
forcia si Baldi, si animi prudentia, si frons[187]
gentilesca alacris, si tandem forma notatur,
non nisi fortis erat, prudens, gentilis et acer
formosusque pater, licet huic sors aspra fuisset,
namque bonum semper fructum bona parturit arbor.
Interea villanus (adhuc cum coniuge vivit)
infantem ad gesiam causa baptismatis affert.
Quem dum pretus aqua signat, terque ore gudazzum
compadrumque rogat quod debet nomen habere,
en quoque ter facta est summo responsio templo:
— Baldum, vos Baldum fantino imponite nomen! —
Constupuere omnes: devenit murmur ad urbem,
hic testes centum tantae novitatis habentur.
Lactiferam Baldus tantum bibit ergo madregnam,
ut iam carriolum, quo imprendit ducere gambas,
linqueret ecussis rotulis cantone refractum,
et pede firmatus nunc huc, nunc cursitat illuc,
quem pater, ignarum veri patris, instruit omni
rusticitate, docens villae poltronus usanzam.
Post merdulentas iubet illum pergere vaccas,
sed gentilis eam reprobat natura facendam:
non it post vaccas; at saepe venibat ad urbem,
atque ad villani despectum praticat illam.
Solis in occasum villae tamen ipse redibat,
atque reportabat testam quandoque cruentam;
magnanimus quoniam puer, ut solet esse per urbes,
semper pugnorum guerris gaudebat inesse,
sive bataiolis bastonum sive petrarum.
Nec pensetis eum quod certans ultimus esset;
at ferus ante alios squadram exortabat amicam,
et centum lapides saltu reparabat in uno.
Quum villanus eum villam abhorrere notavit,
experimentum aliud, puerum quo exturbet ab armis
in quibus immersum cognoverat esse, provavit:
nam neque villanus sese cum milite confat.
Comprat ei fortem tabulettam roboris (illam
rupisset subito), qua sculptum addisceret «a, b»:
ille scholam primo laetanter currere coepit,
inque tribus magnum profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret sine fallere iotam.
At mox Orlandi grandissima bella nasavit,
non vacat ultra deponentia discere verba,
non species, numeros, non casus atque figuras,
non Doctrinalis versamina tradere menti.
Regula Donati, prunis, salcicia coxit;
ivit et in centum scartozzos Norma Perotti.
Quid Catholiconis malnetta vocabula dicam,
quae quot habent letras tot habent menchionica verba,
et quot habent cartas tot culos illa netarent?
Orlandi tantum cantataque gesta Rinaldi
agradant puero, quamdam in cor dantia bramam,
ut cuperet iam vir fieri spadamque galono
cingere et auxilio rationis quaerere soldum;
ut legit errantes quondam fecisse guereros.
Viderat Ancroiam, velut orlandesca necarat
dextra, gigantissam, vel quum de funere Carlum
dongellettus adhuc rapuit, tractoque guainis
ense durindana secat alto e tergore testam
ingentem Almontis, Franzamque recuperat omnem.
Viderat ut miris Agricanem forcibus atque
mille alios fortesque viros fortesque gigantos,
arce sub Albracchae, giorno truncavit in uno.
Viderat ut nimias scoccante Cupidine stralas,
ipse gaiardorum princeps, ipse orbis acumen[188]
duxerat ad mortem, rupto gallone, cusinum;
at manus Angelichae, dum coelo brazzus ab alto
mortalem ferret colpum, succurrit, et ipsum
orlandescum animum tenuit spadamque pependit.
Saepius his lectis puer instigatur ad arma,
sed gemit exigui quod adhuc sit corporis, annos
praecipites cupiens, ut vir se denique posset
vestire ingentemque elmum ingentemque corazzam.
Is tamen hispanam semper gallone daghettam
dependentem habuit, qua plures saepe bravettos
terruit inque fugam solettus verterat omnes.
O pueri audentes animos agilemque prodezzam!
At video e vobis hinc plures volvere testam,
nasutosque mihi parlanti ostendere nasos.
Quam bene nunc vestri pensiria nosco magonis!
An subsannatis quia nostra oratio tandem
finiet, ut mores videatur in hasce favorem
porgere sbriccorum? veluti si Baldulus infans
tum bene fecisset quum Lanzalotta vigazzum
traiecit gladio? sic divi nonne sbisaos
castigare solent? sic nonne superbia nostra
cogitur interdum vilem portare cavezzam?
Quid, rogo, quid?...
TRIPERUNO
V olea seguir ancora il vecchio grasso,
N é molto mi spiacea di starlo udire:
I l dol, nulladimanco, il troppo indugio
C h'era di ricercar la vaga ninfa,
A ndarmi allor da lui luntan mi astrinse.
Q ueto mi stoglio, senza dirli «_vale_»,
V olgendomi d'un rio lungo a la ripa,
E pur egli mi segue passo passo.
F iumi di latte, laghi di falerno,[189]
V alli di macaroni e lasagnette,
E cco mi veggio intorno, e poggi ed alte
R upi di cacio duro e sodo lardo,
A cque stillate de capponi grassi,
T orte, tortelli, gnocchi e tagliatelle.
— B eata vita — dissi allor mirando —
È questa, che di tante trippe abbonda!
N on mai quinci partire mi delibro. — [190]
E con questo pensier, mentre ad un fonte
D i moscatella malvasia m'abbasso,
I o tolsene, bevendo, in quella copia
C h'un bove sitibondo d'acqua sorbe.
— T rinch trinch! — con altro vaneggiar tedesco
I ncomenciai balordo a proferire.
R otavasi giá 'l mondo a gli occhi miei,
E sottosopra il mar, la terra, il cielo
G iran intorno e fannomi qual foglia
V olar al vento, e gli arbori, le ripe,
L e spiagge mi parean cotanti veltri
A i fianchi de le capre gir correndo.
S altano ad alto l'erbe e gli virgulti,
A lpe con monti e 'nsieme con poggetti
C orreno in rota e danzano leggiadri.
R apito poi con elli il mio cervello,
I n un momento scorse l'universo
S enza posarsi mai, senz'ulla tregua.
M entre cosí danzava a la moresca,[191]
O do dir: — Triperuno! — Ed ecco in mezzo
R atto mi vidi posto d'una turba.
I o contemplai non so che volti grassi
B ere sovente e poi cantar sonetti,
V otando zaine, fiaschi e gran bottazzi;
S altavan poi chi su chi giú d'intorno,
I n quella foggia che vili fasoli[192]
G irano, a spessi tomi volteggiando,
N el caldaio su fiamme ardenti posto.
A llor con quelli insieme canto in gorga[193]
T utta tremante: — Bacco evoé! —
I ncomenciando poi cosí dir versi:
FUROR
— S urgite trippivorae, Merlini cura, Camoenae:
«T rinch trinch» si canimus, quid erit? cantate, bocali!
E cce menestrarum quae copia quantaque stridet
R ostizzana super brasas squaquarare bisognat.
C urrite, gnoccorum smalzo lardoque colantum
O conchae, plenique cadi plenique tinazzi!
R umpite brodiflues per stagna lasagnica fontes,
E rrantesque novo semper de lacte ruscelli!
F estinate meam per buccam intrare, foiadae
E t vos formaio tortae filante sotilum;
D um canimus trippas, trippae sint gutture dignae
A tque altis cubitum calchetur panza fritadis!
P ande tuae, Merline, fores spinasque catinae,
V ernazzam gregumque simul corsumque bevandae
T rade todescanae, donec se quisque prophetam
R erum cognoscat venientum qualis et ipse est,
E t quisquis cyatosque levat vodatque caraffas! —
T alia dum loquimur, somno demergimur alto.
V enit at interea mihi trippiger ille Cocaius,
I lle, inquam, cui panza pedes cascabat ad imos
R umpebatque uteri multa grassedine pellem.
— T une — ait — o Triperune tener, Triperune tenelle,
V enisti? venisti etiam, Triperune galante?
T une ades? o mi lac, mi mel, mi marzaque panis,
E ya age, zuccarate puer, ne, puppule, dormi,
S urge oculosque leva! hui, sbadacchias? surge, gaiarde!
A n, mellite, fugis sic me? me, ingratule, scampas?[194]
B astardelle levis levisque cinedule, sic sic
I ndignatus abis? Sta mecum, argutule, semper:
E n paradisus adest, en hortus deliciarum;
R elligio quaenam melior, quae tam bona lex, quam
E sse hac in vita, qua vivimus absque travaio?
O vitam sanctam, o ritus moresque beatos!
M ellis molle mare est, illud travogabimus ambo,[195]
N os ambo travogabimus, ambo errabimus, ambo
E t simul ad poggiam simul et veniemus ad orzam.
S urge, poëta novelle, cane, heus, puer, accipe pivam!
D ic improviso macaronica gesta cothurno,
I ncipe, parve puer: qui non suxere fiascos,
I lli, consumpto lardo, sonuere carettam.
TRIPERUNO
V ano ha il pensier ed il desir inutile,
E sser chi crede un cielo a questo simile.[196]
R idi, cor mio, ché cosa verisimile
T ornar un'alma a Dio non è, ma futile.
I tene, leggi, e voi scritture ambigue,
T empo ch'eterno sia gli dèi s'appropriano,
E pel nostro sperar di risa scoppiano.
MERLINUS
S unt tibi tortificae faciles ad carmina musae,
O mi belle puer, sic sic bene concinis? an sic
R ecte recta canis? iam iam macaronicus esto.
T ale tuum carmen nobis, quale ocha plena
E st aio mensis, quale est damatina todesco
M alvasia recens, sus caulae, melque fritellis.
TRIPERUNO
N é per speranza d'altri beni, né[197]
V oglio per alcun pregio for di qui
R eddurmi ad altri piú felici dí.
S ciocco sperar il ben ch'anco non è!
I o nacqui solo per gioir qua giú:
N oi dunque in terra e Dio nel ciel si sta;
I ndarno altrui sperarvi chi non sa!
MERLINUS
V era ais! O corsi, o admiranda potentia greghi!
T antula ne in puero doctula lingua meo?
TRIPERUNO
R iposte cime, poggi ombrosi e colli,
E voi di lardo e di persutto ripe,
D ensi antri d'onto e tripe,
E mpíti noi, che pieni e ben satolli
A vostro onore scoppiaremo versi,
T a' forse, che non mai sonôr sí tersi!
MERLINUS
P annadae hinc abeant, aqua coctaque febribus apta!
R adices herbaeque habiles in pascere capras,
I te ad menchiones, ite ad saturare legeros,
S tant qui per boscos, per montes perque cavernas[198]
T essere sportellas, tenuatum battere corpus,
I nglutire favas, giandas ac millia quae fert
N atura et porcis et asellis atque cavallis!
A t nos hic melius starnae turdoque studemus.
TRIPERUNO
N on sia cagion che mai da te mi scioglia,
O mio maestro e guida,
R iposo, oggetto mio, mia scorta fida!
M angiamo dunque e rallentamo i fianchi,
A cciò ch'un bon castron da noi si franchi.
MERLINUS
P ersutti accedant primo, bagnentur aceto,[199]
A pponatur apri lumbus, cui salsa maridet,
T ripparumque buseccarumque adsit mihi conca,
R ognones vituli lessi sapor albus odoret,
I nsurgant speto quaiae, mostarda sequatur!
S ic vivenda vita haec: veteres migrate fasoli!
LA MATOTTA
TRIPERUNO
Stavami un giorno fra li altri col mio maestro Merlino su la ripa d'un
rapidissimo fiume di latte, lo quale, impetuosamente le fragil sponde di
pane fresco diroccando, un suavissimo talento di mangiar suppe di cotal
mistura porgevaci. Ma io talmente trovavami esser allora di frittelle
compiuto e satollo, che (in mia laude vo' dirlo!) col dito per la gola
quelle toccare averei potuto: laonde mi fu mistero la cintura, se
scoppiare non vi voleva, rallentarmi su' fianchi. Vero è che 'l mio
precettore, assai di me non[200] pur meglior poeta, ma bevitore,
mangiatore e dormitore, tutto che di quelle istesse frittelle dovea
ripieno essere, niente di meno erasi pur anco apposto agiatamente a
l'impresa di espugnare un capacissimo vaso di lasagne, non giá di pasta
per zappatori usata, ma di pellicole de grassi capponi, li quali de
l'istesso colore, c'hanno la testa li giudei, erano. E mentre io, con
seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco col griffo nel
caldaio di broda lí guazzare, ed egli per non perder il tempo mi ascolta
solo e mai nulla risponde, ecco vi sovraggiunse un damigello, d'aspetto,
per quel che mi ne parea, molto gentile e saputo, lo quale una sua cetra
soavemente ricercando, cosí accomodatosi con la voce al sòno e
appoggiatosi ad un lauro a lui vicino, disse:
LIMERNO
La fama, il grido e l'onorevol suono
di vostra gran beltá, madonna, è tale,
che 'n voi tanto 'l desio giá spiega l'ale,
che non mi val s'addrieto il giro o sprono.
Di che s'al nome sol l'arme ripono
con cui spuntai d'Amore piú d'un strale,
or che fia poi vedendo l'immortale[201]
aspetto vostro, a noi sí raro dono?
Ma, lasso! Mentre i' bramo e 'nsieme tremo
vederlo, piú s'arretra la speranza
quanto l'ardor piú cresce col desio.
Però di quella omai poco m'avanza;
e pur s'un riso vostro aver poss'io,
resorto fia da voi sul punto estremo.
TRIPERUNO
Al soavissimo canto e suono di quel giovene tacquero sí le selve,
racquetatosi ogni vento, che le fronde niente si moveano, non giá perché
nel contado del mio maestro fusse de fioriti prati, ombrosi boschi,
verdi poggetti amenitade veruna (quando che la vaghezza di quel luogo
era solamente di lardo, botiro, cagiate, brode grasse ed altre simili
leccardie), ma quella fiumara, che dissi essere di latte, eravi confine
di tre molto differenti regioni, come se fussero la Europa, l'Africa e
l'Asia. La prima regione, ove io col mio maestro abitavamo, giá
pienamente dessignata avemo, la quale Carossa fu nominata. La seconda,
tutta vaga[202] e ripiena di vive fontane, frondosi lauri, mirti, faggi,
abeti, frassini, olive, querze, e d'altri assai bellissimi legni
addombrata, chiamavasi Matotta, ove questo Limerno dimorava. La terza,
per[203] il contrario, tutta sassosa, rigida, secca, sterile ed arenosa,
Perissa[204] fu appellata, ne la quale un eremita detto Fúlica, senza
ch'altrui lo invidiasse, abitava. Or dunque m'accorsi quel giovenetto
dover essere del paese di Matotta, lo quale, cosí polito de vestimenta e
perfumato di muschio, sapeva dolcemente a l'instrumento concordare la
voce; onde io tratto in quella parte celatamente, che né egli né Merlino
se n'avvedesse, trapassai lo fiume di latte in quella verdura di lá e,
drento uno cespuglio di rose e spine appiattatomi non troppo da lui
remoto, stetti ad ascoltarlo. Lo quale, dopoi un lunghetto ricercare di
quelle sonore corde, in queste rime cosí proruppe, dicendo:
LIMERNO
So ben che 'l mio lodarvi, donna altera,
quando che non vi giunga, avete a sdegno;
so ben che 'l mio avvezzato in fiumi legno
trovar porto nel vostro mar dispera.
Ma de' vostr'occhi se quell'alma spera[205]
mi si scoprisse alquanto, forse al segno
uguale mi vedrei, che 'l nostro ingegno
ascende amando e piú oltra gir non spera.
Non è barchetta cosí lenta e frale,
ch'avendo voi, e vosco Amor, in poppa,
per ogni ondoso mar non spieghi l'ale.
Onde la musa mia va pegra e zoppa,
se schiva udite lei; ma se vi cale
il suo cantarvi, allor lieta galoppa.
TRIPERUNO
Tosto che finito ebbe di dire, eccovi sprovvedutamente un augelletto, o
per caso o tratto dal suo concento, si ripose appresso d'un arbore sopra
un ramo secco, ove, taciuto ch'ebbe Limerno, con un dirotto gemito
faceva la selva intorno richiamare: di che egli, alzata la fronte a
quella, cosí a l'improvviso incominciò con seco a ragionare:
LIMERNO
— Vaga, solinga e dolce tortorella,
ch'ivi sul ramo di quell'olmo secco
ferma t'appoggi ed hai pallido il becco,
spennata, pegra e men de l'altre bella;
dimmi, che piagni? — Piango mia sorella
perduta in queste selve, e lei dal stecco
di questo antico legno chiamo, ond'Ecco
miei lai riporta a la piú estrema stella. —
Lasso! ch'anco la mia pennando i' chero
per questi boschi, e 'ndarno quella abbraccio,[206]
fingendo lei quell'albero, quel pino.
Ma acciò che 'l nostro affanno men sia fiero,
partiamo a l'uno e l'altro il suo destino,
ché altrui miseria al miser è solaccio.
TRIPERUNO
Piacquemi sommamente quella foggia di dire, senza ch'avessevi egli, come
si sòle, faticosamente avanti ripensato. Ma, levandosi quella un'altra
fiata su le penne, giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si
tolse. Ed esso, rallentata la corda del canto piú de l'altre affaticata,
mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto sopra di sé, come
penseroso, levandosi, non avendo ancora scorto lo mio maestro di lá dal
fiume, su la ripa del pane fresco, agiatamente disteso. Ma vedutolo cosí
sprovveduto, ritenne il passo e, tutto il viso in riso cangiatosi,
cominciò ad interrogarlo in questo modo.
DIALOGO PRIMO
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che fai, Merlino?
Merlino. Empiomi lo magazzeno.
Limerno. Avvantaggiato mercadante sei tu! mangi tu forse?
Merlino. Non hai tu gli occhi da vederlo?
Limerno. Ben veggio con gli occhi, ma non comprendo.
Merlino. Per qual cagione mi domandi tu adonca s'io mangio, non lo
potendo chiaramente vedere?
Limerno. Io so che i fabbri trattano solamente cose da fabbri:[207]
laonde parrebbemi cosa disusata e nova veder Merlino far altro che
mangiare.
Merlino. Io so ben far altro ancora.
Limerno. Credolti troppo; ma che ne facci testé la prova, non molto mi
cale.
Merlino. Perché cosí?
Limerno. Vi faressi sentire d'altro che zibetto e acqua nanfa!
Merlino. È cosa naturale.
Limerno. Via piú asinale.
Merlino. Da quanto tempo in qua sei tu cosí delicato e schivoso
devenuto? non ti fai, se mi rammento bene, chiamar Limerno?
Limerno. Limerno son per certo.
Merlino. Limerno Pitocco?
Limerno. Io son pur desso.
Merlino. Dimmi adonca, Limerno Pitocco, per qual cagione tu ti mostri
ora tanto schivo e ritroso d'udir nominare quella cosa con cui
lordamente hai sconcacato quel tuo Orlandino?
Limerno. Da te solo ne tolsi lo esempio, Merlino.
Merlino. E dove?
Limerno. Ne la quinta fantasia del tuo volume.
Merlino. Piú questo in un Zambello potevasi tollerare che in un
cavallero e paladino di Franza, e piú col mio stile macaronico che col
vostro tanto onorevole toscano.
Limerno. Adonca, se ben comprendo, appresso di te lo stile toscano è
avuto in riverenzia, che «cosí onorevole» lo chiami?
Merlino. Perché no?
Limerno. Che ne so io? mi pare di stranio ch'un uomo macaronesco voglia
magnificare l'eloquenza toscana.
Merlino. La cagione?
Limerno. Perché lo bove si rallegra nel suo puzzo.[208]
Merlino. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia? in che
openione l'hai tu?
Limerno. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e
contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ché, quando talora
per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca
aver in mano ovvero quella fontana eloquentissima del Boccaccio,
uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, una
fantasma, per soverchia maraviglia di cotanta dottrina! Qual piú
elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si può
leggere? qual prosa orazione si può eguagliare di dottrina, di arte, di
arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dilché io
reputo gli uomini litterati, li quali nulla delettazione di questa
lingua si pigliano, essere non pur di lei ma di cortesia, gentilezza ed
umanitade privi.
Merlino. E quali sono questi detrattori di essa?
Limerno. Alquanti persianisti pedagogi o pedantuzzi.
Merlino. Che cosa dicono?
Limerno. Cotesta lingua essere cagione di lasciar la romana.
Merlino. Ed io nel numero di costoro mi rallegro essere, ché di te e
d'altri toi simili ignoranti maravigliomi, li quali, non intendendo
dramma de la tulliana facondia e gravitade virgiliana, vi sète
totalmente affisi ed adescati al «quinci», «quindi», «testé», «altresí»,
«chiunque», «unquanco», «altronde», ed altri dal tosco usitati vocaboli.
Limerno. Ah volto di tavolazzo, ubriaco che tu ti sei! presumi tu forse
di tanta sufficienzia essere che tu poscia la sublimitade de la toscana
lingua diminuire?
Merlino. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei! ardisci tu dunque
cotanto lodare lo stile petrarchesco e boccacciano, che la romana
eloquenzia, non essendo da te nominata, da te riporti infamia?
Limerno. Tu ne menti molto bene, ché non biasmo io la romàna lingua.
Merlino. Tu ne stramenti molto piú, ché, mentre innalzi[209] quella
troppo, questa abbassi e deonesti molto.
Limerno. Deh, vedi cotesto poetuzzo macaronesco in che modo non pur
giudice ma advocato di Tullio e Virgilio da se medemo si constituisse!
Merlino. Deh, mira cotesto zaratano lombarduzzo come si mette al rischio
di saper ragionar toscano, ove egli non men si affá d'un asino a la
lira!
Limerno. Che zaratano? che lombarduzzo? Come se un conte di Scandiano,
un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo, un Lelio, un Molza ed altri molti
valentuomini non fussero in Lombardia nasciuti!
Merlino. Non sei tu giá del numero loro?
Limerno. Desidro esserne: onde ogni mio studio è di, se non eguarmi,
almanco appressarmi a loro.
Merlino. Molto luntano tu li vai!
Limerno. Lo bon animo non vi manca. Ma tu come hai bene osservato le
divine vestigia di Virgilio in quel tuo perdimento di tempo!
Merlino. Quale?
Limerno. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze de non so
chi Baldo cachi e canti.
Merlino. Quanto al cantare non ho io giá da imitare Virgilio, quando che
del mio idioma, lo quale sopra tutti li altri appresso di me vien
reputato nobile, io non mi tegna aver superiore alcuno; ma quanto al
cacare, non voglioti rispondere altrimente, perché, se ne l'opera mia
son stato io sin a li galloni in quella tal materia puzzolente, tu,
Limerno mio, sin a gli occhi ti vi sei lordamente voltato. Però
lasciamo, pregoti, questo soprabbondevole ragionamento in disparte, ché
tu ed io abbiamo in ogni modo strabocchevolmente errato.
Limerno. Io tolsi lo nome solamente di Pitocco per dire un tratto lo mio
concetto.
Merlino. Ed al soggetto, qual è quello, non accascava se non
malagevolmente il nome di Pitocco, ed anco dedicarlo a un signore non si
doveva.
Limerno. Orsú dunque, lasciamo, Merlino caro, le dette tra noi ingiurie,
e siamo amighi come prima.[210]
Merlino. Fa' come ti pare.
Limerno. Ma vorrei da te una grazia sola, caro mio Cocaio, impetrare:
non mi la negare, pregoti, se 'l bottazzo non mai ti si parti dal
gallone.
Merlino. Tu non pòi fallire di domandarmi, ché a me stará poi,
parendomi, darti.
Limerno. Non ti voler piú oltra con esso meco turbare se un mio
concetto, aúto giá molti mesi, ora sono per scoprirti....
Merlino. Con la lingua di' pur ciò che ti pare, ma tacciano sopra tutto
le mani.
Limerno. Non vi è pericolo, mediante fra noi lo fiume, di conflitto
alcuno, Merlino caro. Ma taci, prego: non odi? Conosco la dotta mano,
conosco lo novo Anfione, conosco lo mio Marco Antonio, o mirabilissimo
musico, ché ben quella virtude a la gentilezza d'un tal animo degnamente
conviene. Non odi tu lo accomodatissimo ricercare d'un laúto? Costui
discese da Vinegia, di tutta Italia nutrice. Egli per doi giorni s'è
dignato[211] qui fra noi dimorare. Or ascoltamolo, ti prego: egli ancora
non ci ha veduto, e men voglio che ci lasciamo da lui vedere, acciò lo
rispetto suo verso de noi cessare noi faccia da sí dolce impresa.
A l ciel or triunfando spiego l'ale;
N on ho di sorte ch'io piú tema l'onte,
D a poi ch'anti sí altera e degna fronte[212]
R agiono, ed ella udirmi assai le cale;
E perché del suo nome alto immortale
A lzar piú non potrei le note cònte,
S crissile in capo de' miei versi al monte,
D ove salir vorrei con piú alte scale.
G loria del mondo non che d'un sol stato
R egna costui, ch'ai fatti egregi e ad essa
I ntegra forma ogni mortal eccede.
T urchi, mori, tedeschi, e d'ogni lato
V ien gente al grido; e mentre l'ode e vede,
S ovra la fama esser il ver confessa.
LIMERNO
A l'eccellenzia e magnanimitade d'un cotal principe meglior tuba, che lo
sollevi e innalzi, non si potria giammai trovare di questa. E se
d'intender brami lo nome del lodato signore, li capoversi del cantato
sonetto chiaramente quello ti appresentano. Ma ecco si move a dirne
appresso: sta' queto.
Voi che soavi accenti, alte parole,
rime leggiadre e pronti sensi ognora
impetrate dal ciel, deh! perch'un'ora
ei non me 'nspira esser di vostra prole?
Direi che d'un tal principe non sòle
giá 'l mondo esser adorno, il qual onora
non pur Vinegia bella, ma di fora[213]
le genti sotto l'uno e l'altro sole.
Cantate 'l dunque voi, ché, a me se diede
benigna udienza (onde lieto ringrazio
l'inclita sua virtú), l'atto gentile
quanto piú voi di dire avrete spazio!
Ma ben v'annunzio che stolt'è chi crede
poter tant'alto porger uman stile.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Or ecco, Merlino, che a tempo questo gentil musico porsemi bona
cagione di dirti lo giá mio promesso a te concetto. Per qual dunque
ragione tu, omai attempato, di questo tuo paese di Carossa, paese dico
da ubriachi, parassiti,[214] lurconi, crapuloni, oggi mai non ti svelli?
perché pur anco vi dimori tu? Qual foggia di vita potrai tu forse in
questa regione de lupi adoperare, la quale posciati con la utilitade
insieme recarti qualche onorevol fama in questo mondo e removerti
finalmente quel nome di Cocaio; nome, dico, di somma leggerezza, sí come
il nome di Pitocco ancor io spero di lasciare?
Merlino. De l'onorevol fama tanta io me ne acquisto col mio botiro e
lardo, quanto tu con quelli toi zibetti e ambracani. Ma de l'utilitade
io t'ho saggiamente da rispondere: niuna cosa essere piú utile che 'l
mangiare e bere. Non dicoti le antiche giande da tutti lodate e non
toccate se non da' porci, anzi parlo di questi miei delicatissimi
liquori, ove la vera e dritta via di ben vivere giá molti anni passati
mi ricondusse.
Limerno. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per bere o mangiare?
Merlino. Or come potrai tu, grossolano che tu ti sei, vivere senza
queste due parti?
Limerno. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa è vita bestiale.
Merlino. Va' al diavolo! Vivi tu forse senza mangiare?
Limerno. Ben mangio, ma sol per vivere.
Merlino. Ed io vivo per mangiare.
Limerno. Grandissima differenzia è cotesta.
Merlino. Anzi è una istessa cosa, ma non la comprendi.
Limerno. Ben io la conosco, ché assai ti fôra meglio mangiare per vivere
che vivere per mangiare.
Merlino. Ed io quell'istesso ti replico: che meglio sarebbeti mangiare
per smaltire che smaltire per mangiare.
Limerno. Qual fama, qual gloria, qual immortalitade ne averai poi? non
ti reuscirebbe meglio mangiar per vivere e, vivendo, acquistarti
perpetuitade di gloria?
Merlino. Di qual gloria intendi tu?
Limerno. Di questo mondo.
Merlino. Aspettava che mi parlassi del cielo.
Limerno. Mi pensi tu forse cosí pazzo ch'io creda sopra la luna?
Merlino. Ed io di te assai manco credo; ché, volendo una fiata salir un
arbore di fico ad empirmene de le sue frutta, per mia sventura venendovi
abbasso, ruppimi una spalla, onde d'allora in qua non ho mai voluto piú
credere sin a l'altezza de li arbori. Ma qual è questa gloria del mondo
c'hai detto?
Limerno. Innamórati, raccendati, affócati, impazzisceti di qualche bella
donna!
Merlino. Con diavolo impazzirmi? dòlti forse d'essere solo pazzo che me
in compagnia cerchi di aver ancora? Ben doppia saria cotesta mattezza,
che io omai vecchio ribambito mi cacciassi in cotal impresa. E quando
pur io lo facessi, qual fama onorevole, come hai tu detto, ne
conseguisco poi?
Limerno. O dolce, o soave mattezza di questo tenero Cupidine, lo quale
di tanta virtude si rende ne gli amanti cagione! Voglio primeramente che
a grande contento siati lo gire non[215] pur de fini e strafoggiati
panni ma de costumi e gesti lascivi ornato, perfumarti le mani, lo viso,
le labbra, li capelli sovente di zibetto, muschio ed altri unguenti con
acque di grato odore, sforzarti di sapere ogni arte, ogni astuzietta con
qualche simulata invenzione di farti o pur conservarti grato a la tua
madonna, non perdonar a la borsa in feste, danze, conviti, notturne,
mattinate, e qualche dono per truzzimani a lei celatamente dricciato. Ma
sopra tutto per il sprono e dolce incarco di questo amoroso affetto tu
sempre averai lo componer arguti versi pronto e dilettevole; laonde
voglio che totalmente a la musica vocale tu[216] ti abbandoni, cantando
le cortesie, gli sdegni, gli atti, le parole, o in lira o in laúto o in
altro soave strumento, de la tua diva.
Merlino. Non mi fa mistiero lo giá perfettamente imparato imparare di
novo. Pensi tu forse, o Limerno, ch'io non sappia le passioni di quello
arciere, per cui giá tanto cantai ch'ora ne son roco e imbolsito?
Limerno. Troppo til credo, ché 'l fiasco per soverchio bere[217] consuma
un corpo.
Merlino. Anzi lo bere fa bona ed espedita voce.
Limerno. Ed anco li quattro fa parerti otto. Ma dimmi: soni tu d'altro
instrumento che di fiasco?
Merlino. Ecco lo sacco.
Limerno. Per la croce di Dio! tu déi essere un boia.
Merlino. Che voi dir boia?
Limerno. Un mastro di giustizia, al quale si dá per sua mercede tre
libre di piccioli e un sacco.
Merlino. Ma non gli dánno però la piva drento.
Limerno. Tu dunque vi tieni drento la piva?
Merlino. Eccola.
Limerno. Gonfia, ti prego!
Merlino. Lirum bi lirum. Vuoi ch'io ti mostri s'io so meglio di te
cantare?
Limerno. Aspetta, prego, ch'io prima dirò ne la cetra, e tu con la piva
mi succederai.
Merlino. Io ne son molto ben contento. Ma dimmi in lombardo stile, ché
non t'intenderei toscano.
Limerno. Farollo veramente. Odi un endecasillabo del sonno:
Huc, huc, noctivage pater tenebrae;
huc som.....
Merlino. Taci lá! questo mi par latino, e non lombardo.
Limerno. Anzi e' lombardi fanno pessimamente, partendosi elli da gli
antiqui soi maestri di lingua latina, quando che lo materno parlare
tanto rozzo e barbaro gli sia. Onde s'io considero chi di Mantoa, chi di
Verona e altri luoghi di Lombardia nacque,[218] dirò che 'l proprio
parlare de' lombardi saria lo latino.
Merlino. Or ben conosco che sei uomo vano e smemorato,[219] ch'ora
contradici a la openione tua innanzi detta. Anzi lo proprio de' lombardi
è lo barbaro, da' longobardi derivato: ma di' meglio (forsennato che tu
ti sei!), che 'l proprio idioma de gli abitatori di Lombardia sarebbe lo
latino, perché Lombardia non fu Lombardia se non dapoi che i longobardi
la barbarie cosí del parlare come de' costumi portarono in quelle parti.
Li costumi se ne sono in sua malora partiti, e lo parlare vi è restato;
e però confermarotti quello che giá sopra dissi: che tu, essendo
lombardo, piú presto avvezzarti doveressi a la paterna tua lingua latina
che a la pellegrina a te toscana; ché molto piú di fama e gloria
conseguiranno per lo avvenire li scrittori latini che li toscani,
quantunque oggidí a molti lo contrario appaia, servando però sempre la
dignitade de la mia macaronesca. Or dunque, mentre io m'apparecchio
responderti, di' suso quel tuo promesso endecasillabo: o latino o
lombardo che si sia, non voglio di cotesto piú teco disputare.
LIMERNO
Huc, huc, noctivage pater tenebrae;
huc, Somne; huc, placidae sator quietis
Morpheu; huc, insiliens meis ocellis
amplexusque thorum, cuba aut pererra
totum hoc populeo madens liquore
corpus, tum gelidum bibens papaver.
Hinc hinc mordicus intimis medullis
haerentes abeant cadantve curae,
ut grato superum fruar sopore,
mox grates superis feram diurnas.
MERLINUS
Post vernazzi flui sugum botazzi,
post corsi tenerum greghique trinchum,
et roccam cerebri capit fumana
et sguerzae obtenebrant caput chimaerae.
O dulcis bibulo quies todesco,
seu feno recubat canente naso,
seu terrae iaceat sonante culo!
Mox panzae decus est tirare pellem,
mos est sic asino bovique grasso.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Ah! ah! ah! tu mi rumpi de le risa il petto con questa tua
gentil Camena. Veridico filosofo ben fu quello che disse: lo ranocchio
non sapersi comportare del suo fango fora.
Merlino. Non mi dar piglio a la coda, Limerno, ch'io so meglio mordere
che tu pigliare.
Limerno. Non ti adirare, prego, ché d'adirarti causa non è. Giá cotal
proverbio non dissi per biasmo tuo, anzi contra me solo volsi accennare,
che via piú sono manco agevole a dir latino che toscano.
Merlino. Ed io similemente trovomi essere manco idonio ad ascoltare
toscano che bergamasco, e questo men aggradiscemi del romano o vòi
latino. Dilché se hai pur a dirne piú, ecco ai nomeri latini mille
orecchie ti spalanco e sbaratto.
Limerno. Di qual nome fassi degno, Merlino mio, un uomo che ingrato sia?
Merlino. Dilli ragionevolmente «bestia».
Limerno. Cosí da bestia te ne voglio trattare uno. Or odi:
Iam geris humanos nec quidquam, perfide, vultus,
iam cole cum nemorum stirpe, ferine, nemus,
immemor accepti qui muneris infremis instar
belluae, et in nostrani saevis, inique, fidem.
Prodis amicitiae foedus, nec te pudor ullus
arguit! i, pete (vir non eris inde!) feras.
Chiamavasi costui per nome Urbano; e male convenivagli veramente, ché
mai né il piú scortese né il piú rozzo né il piú aspro si puote vedere
di lui fra quante ville di Padoa o Vicenza si trovano. Del quale fu giá
composto quella similitudine contraria:
Lucus luce carens nomen de luce recepit;
bellum, quod bellum sit minus, inde venit.
Hinc quoque te Urbanum merito appellamus, ut isto
nomine rusticitas sit tua nota magis.
Deh! pregoti, amantissimo Merlino, lasciami ch'io canti di Amore in
toscano idioma, ché veramente non so io piú che dirti latino.
Merlino. Non lo farò io giammai: tu canti a me e non a te.
Limerno. Non voglio per niuna guisa esserti ritroso; e perché di cotesta
materia latina ho molta penuria, e tu vi hai pur piantato ostinatamente
lo chiodo ch'io non debbia se non latinamente cantare, non mi ritraggo a
dirti alquanti versi da me ancor fanciullino composti, trovandomi su
quello di Ferrara in certa villa, mandatovi da mio padre per imparare
lettere appresso d'un prete, lo quale molti scolari teneva soggetti, e
piú li belli che li brutti; nel qual luogo, per corruttela di grosso
aere, soprabbondavano tante biscie, rane, zenzale e pipastrelli, che uno
inferno mi pareva di tormentatori. Laonde, ritrovandomi ogni sera in
guisa d'un Lazzaro mendico tutto da le punture di quelli volatili
animaluzzi impiagato, cosí al mio maestro puerilmente recitai:
LIMERNUS
O mihi Pieriis liceat demergier undis,
o veniat votis dexter Apollo meis!
Quidquid ago, fateor, sunt carmina, carmina sed quae
non sapiunt liquidas Bellerophontis aquas.
Hic nisi densa palus iuncis et harundine tordet,
hic nisi stagnanti me Padus amne lavat.[220]
Advoco sic musas: pro musis ecce caterva
insurgit culicum, meque per ora notat!
Dum cantare paro fletu mihi lumen inundat,
factaque per culices vulnera rore madent.
Hic quoque noctivagae strident ululantque volucres,
ac ventura nigrae damna minantur aves.
Quid referam pulices, agili qui corpore saltant?
Utraque quos caedens iam caret ungue manus!
MERLINO
Questi toi versi quantunque mi sappiano di puerizia, pur non vi manca
l'arte e, per dir meglio, la veritade. Imperocché io molto piú
voluntieri abitarei su lo contado di qualunque altra cittade che su
quello di Ferrara, non giá perché ella non abbia tutte le bone
condizioni che si ricercano in una simil terra, cosí di reggimento come
di nodrimento, ma baldamente dirò che causa veruna non le occorre perché
de l'aere o sia del cielo ella si debbia lodare, ché, quando la
industria piú de la natura non vi avesse provveduto, guai a le sue
gambe! Laonde, essendovi non so qual poeta mantoano, per un eccesso non
piccolo, destinato dal signore a partirne in onesto esiglio, e giá
pervenuto su l'entrata di essa, in queste parole sospirando ruppe:
MERLINUS
Insperata meis salve. Ferraria, curis,
tale sis exilium ne, rogo, quale daris!
Me non parva reum fecit tibi culpa: reatum
ex te num luerit congrua poena meum?
Noster, ais, veni; nostros quoque suscipe ritus;
vivitur humano sanguine, trade cibum!
Mantous culicis funus iam lusit Homerus;[221]
mantous culicum tu quoque gesta cane.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che quelle bestiuole siano causa per cui lo usar in Ferrara non
ti aggrada, malamente te lo credo.
Merlino. Poco errore è questa tua mescredenza.
Limerno. Perché dici tu dunque la menzogna?
Merlino. Se per mezzo de la menzogna tu intendi la veritade, perché
mentitore mi fai?
Limerno. Mentitore sei per certo.
Merlino. Sí, ma verace.
Limerno. Qual veritade ho io giá inteso per la bugia testé fatta?
Merlino. Perché Ferrara cortesa non per mosche o tavanelle mi è a noia,
ma perché ivi raccoglionsi lor vini su le groppe de le rane. Pensa mò tu
qual eccidio, qual ruina sarebbe del mio stomaco!
Limerno. Ferrara e Mantoa di molte qualitadi si corrispondano. Ma voglio
che, sí come ora ti concessi lo mio cantar latino, cosí non manco tu ti
comporti ne l'ascoltarmi un breve capitolo.
Merlino. Chi fu lo autore di esso?
Limerno. Perché ciò mi domandi tu?
Merlino. Quando che non mi dilettino molto le cose tue, e
consequevolmente non ti presto udienza se non sforzato.
Limerno. Non è mio veramente: io giá fora d'un scrigniolo quello rubbai
dentro di Lementana, o Nomentana meglio diremo,[222] luntano da Roma
diece migliara; castello nobile sí per la vecchiezza di esso sí per la
generosissima famiglia de Orsini, di quello ed altre assai terre
posseditrice e madonna. E benché io molte volte l'abbia per mio
recitato, nulla di manco (mi confesso a te) non esser egli mio son
certo, ma d'un Gian Lorenzo Capodoca secretario del signore del loco.
Merlino. Ora incomincia, ed io frattanto un sonetto voglioti comporre.
LIMERNO
Sia pur contrario a noi l'aspro furore
d'ogni stella crudel, d'ogni elemento,
ché l'ira sua non piega un stabil cuore:
latri chi vol latrar, io gli 'l consento,[223]
ché tanto si alza piú la fiamma accesa
quando lei spegner vole un picciol vento.
Qual piú lodevol, qual piú chiara empresa
d'una costante, d'una fede pura,
ch'odio non teme né di sorte offesa?
Un fermo scoglio d'onde non ha cura
né un stabil cuore di qualunque oltraggio,
ché fede intorno a lui piú allor s'indura.
Sol ne gli affanni si conosce il saggio,
lo qual, per ch'un bersaglio sia di sorte,
non parte mai dal cominciato viaggio.
Né di ferro minacce né di morte,
mentre animosamente spiega l'ale
di fede, mai paventa un uomo forte.
Però la forza lor in noi che vale?
Giá chi congiunse il ciel altrui non scioglie
perché non svaria mai corso fatale.
Lasciali pur empir lor empie voglie:
livido cuor sol di se stesso è pena,
e chi semina tòsco, tòsco accoglie.
Pingon in ghiaccio e solcan ne la rena,
e quelli de le pugna al vento dánno,
che rodon la fidel nostra catena.
Ma tu la lor malizia, il loro inganno
impara di conoscer, e lor fraude,
ché bello è l'imparar a l'altrui danno.
Se ride 'l tuo nemico, se 'l t'applaude,
tu similmente applaudi e ridi ad esso,
ch'esser falso co' falsi è somma laude.
Se ancora ti minaccia e morde spesso,
contienti d'ira, ché ti fia gran palma:
summa vittoria è 'l vincere se stesso.
Non dé' turbarsi un'incolpevol alma,
s'ognor in lei piú l'odio si rinforza,
ch'un gir leal non sa peso né salma.
Ma se considri ben sua debil forza,
tu riderai di lor invidia ed onte:
ardor di paglie subito s'ammorza.
Sian dunque lor insidie occulte o cònte,[224]
osserva quelle e queste ridi e sprezza,
ché 'l bon nocchier, se tien la fronte a fronte
di sorte accortamente, mai non spezza.
MERLINO E LIMERNO
Merlino. Oh quanto m'è giovato questa dolcezza!
Limerno. Or vedi tu dunque che sin a te la soavitade di rime toscane
sono aggradevoli?
Merlino. Per qual segno conosci tu in me cotal effetto essere?
Limerno. Come! tu non hai giá detto questa dolcezza averti non poco
gradito?
Merlino. Sí, del sonno che ho fatto.
Limerno. Tu dormevi dunque mentre io cantava?
Merlino. Che maraviglia! non sei tu giá di minor vigore d'una sirena!
Limerno. Dormevi tu, caro Merlino?
Merlino. Domine, ita. Ben ti lo dissi da prima.
Limerno. Che cosa?
Merlino. Di componerti un sonnetto.
Limerno. Or baldamente t'intendo: grandissima è la differenzia tra lo
«sonnetto» e «sonetto».
Merlino. Quanto è tra 'l persutto e lo schenale.
Limerno. Io ti voleva domandare lo giudizio tuo sí de lo verso come del
recitatore; ma, per quello che me ne pare, ho ragionato con le mura.
Merlino. Anzi, e la campana e lo campanaro mi è piaciuto, ma...
Limerno. Ma che?
Merlino. Aggradito m'averia piú, se...
Limerno. Se che?
Merlino. Se piú lungo fusse proceduto.
Limerno. La cagione?
Merlino. Per piú dormire.
Limerno. E pur gran torto me fai non ascoltarmi cosí come io voluntieri
ascolto te, non giá per fasto e vanagloria, ma per avere solamente
qualche avviso da gli uditori, se dicendo nell'instrumento mi sconcio
troppo nel volger il capo, nel girar de gli occhi, nel finger caldi
sospiri, se graziosamente o no tengomi sul braccio la cetra, se abbasso
oppur troppo innalzo la voce,[225] e altri simili particulari effetti
d'un amante, acciò che per l'altrui avviso piú ragionevolmente avvezzare
mi sapessi, dovendomi egli poscia essere a molto accrescimento de lo
amore di mia donna.
Merlino. Se queste parti non hai, ben ti le poscio mostrar io, se mi
ascolti per una pezza; e forse lo sonno ti stará luntano per vigor de la
mia piva. Or odi una oda in loda d'una mia amorosa detta la Mafelina, ed
impara da me gli affettuosi gesti.
Limerno. Comincia, ch'io mi sento voglia di mangiar riso!
MERLINUS.
Aspra, crudelis, manigolda, ladra,
fezza bordelli, mulier diabli,
vacca vaccarum, lupaque luparum
porgat orecchiam,
porgat uditam, Mafelina, pivae;
Liron o bliron, coleramque nostri
dentis ascoltet, crepet atque scoppiet,
more vesighae!
Illa stendardum facie scoperta
fert puttanarum, petit et guadagnum
illa, marchettis cupiens duobus
saepe pagari.
Semper ad postam gabiazza, rosso[226]
plena belletto, sedet ante portam,
chiamat, invitat, pregat atque tirat
mille famatos;
mille descalzos petit ad cadregam,
perque mantellum faciens carezzas,
intus agraffat, quid habent monetae
prima domandat.
Quis mihi credat quod avara stabit
salda ad unius pagamenti bezzi?
Quis bagassarum similem scoazzam
vidit Arena?
Nulla Veronae meretrix Arenae
peior Ancroia reperitur ista,
heu! tapinelli poverique amantes,
ite dabandam,
ite luntani, moneo! Provator
ipse crustarum putridae carognae
ibit in Franzam. Pochi pendit istum[227]
quisquis avisum.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Merlino mio, questa tua foggia di cantare non si domanda
«cantare», ma un abbagliare, un muggire, un tonare su per le ripe del
Pado.
Merlino. Sonano li pifari su per li argini del Pado.
Limerno. E raggiano, come dice il mantoano, li asini.
Merlino. Tu vòi dunque dire che in questa mia chiusura fra tanti asini
io canto?
Limerno. Ed anco peggio ti direi, s'io sapessi.
Merlino. Piú rozzo cantore di lui non saperei io giá mai trovare.
Limerno. Sí, di canto figurato.
Merlino. Cantano forse altramente che di figurato?
Limerno. Lo suo naturale e nativo.
Merlino. Qual è?
Limerno. Canto quadrato, largo, sonoro e molto di gorga, e piú de le
volte fannoli drento un strano contrappunto.
Merlino. In qual modo?
Limerno. Con la musica di drieto, la quale mantengono con la eguale
battitura de' calzi, non mai alterandovi la misura.
Merlino. Dunque lo asino ha una parte da natura piú de gli altri
animali.
Limerno. Come cosí?
Merlino. Che l'asino con due voci in una istessa musica può cantare.
Limerno. Anzi può cantare, sonare e battere insieme.
Merlino. Annòdavi un altro groppo a questa virtú.
Limerno. Quale?
Merlino. Messer lo asino sa chiudere una borsa senza serraglie.
Limerno. Maravigliavimi se da gli asini si potesse guadagnare altro che
calzi e corregge e da un Merlino altro che sporche e stomacose parole.
Or stattine, tuo mal grado, in questa tua lordura, porco da brotaglie
che tu sei, ché ben di me medemo non possio fare che non mi maraviglia,
standomi quivi ad altercar con un devorone di lasagne, nemico di
gentilezze e cortesie.
Merlino. Vanne tu, vanissimo ed effeminato cinedo! ché gli odori de
quelli toi unguenti e impiastri fumentati per altra cagione non porti
tu, se non per ammortare e spegnere lo fetore de le sozze bagascie fra
le quali giorno e notte sempre tu dimori.
LIMERNO
Forsennato e pazzo che son io! essermi raffrontato a favoleggiare con
questa destruzione di rafiòli! O meschino me! se la unica mia signora e
divinissima dea giammai presentisse lo suo Limerno aver dimorato una
bona pezza con un lordissimo porco, or che direbbe? or che farebbe ella?
Per lo vero, non mai piú se non con torto sembiante mi guardarebbe. Voi
adunque, chiari fonti, cristallini ruscelli, porporei fiori, amene
piagge, riposti antri; voi, gai augelletti, lascivetti conigli,
guardativi che alcuno di voi non presumi lo folle mio errore a lei
manifestare; a lei dico, la cui presenzia tutti con un sol riso vi
abbella, che molte volte dégnavi de l'angelico suo conspetto,
appoggiando le belle membra or su quella fiorita sponda del vivo
ruscello or sotto quel speco inederato di allori, mentre l'ardente sole
a gli animali rende l'ombre aggradevoli. Deh! pregovi, tenetimi dal mio
sole coperto; ché dubbio non è, quando ella non piú si degnasse di
comportar le mie lodi, lo mio ver' lei amore, io ne morirei, io da me
istesso di quell'olmo al vecchio tronco mi sospenderei. Ma, inanti la
miserabil morte mia, annunziovi che crudel vendetta di tutti voi ne
pigliarei: non è fiore, non è pianta, non è fonte, che impetuosamente
non stracciassi, svellessi e disturbassi. Statene dunque, o de' miei
secreti consapevoli, statene taciti e quieti, ma non sí taciti e quieti
che le rime mie, le quali ora sono cantando per isfogare, non subito le
riportati e recantati a le sue divine orecchie. E perché voi avete ad
essere miei fidelissimi compagni, consequevolmente voglio che d'ogni mio
secreto voi siate participevoli.
Io dunque meritar puotei la entrata di questo santissimo giardino allora
quando la fama sola d'una non pur bellissima ma prudentissima madonna mi
cocque le medolle, lo cui bel nome voi ne' capoversi di questo
succedente sonetto potreti conoscere, lo quale giá lo fido mio Falcone
nel scorzo di quel frassino intagliando scrisse:
G loriosa madonna, il cui bel nome
I n capo de' miei versi porrò sempre,
V orrei pur io saper de quali tempre
S ian que' vostr'occhi neri ed auree chiome!
T rema ciascun in lor, mirando come[228]
I vi sia la virtude, che distempre
N ostra natura e 'n ferro i cuori tempre,
A cciò piú di leggier lor tiri e dome.
D i calamita dunque se non sète,
I n voi di cotal pietra è forza almanco
V ivace sí, ch'ogni materia liga.
I o tragger vidi de' vostr'occhi al rete
N atura, Amor e 'l Sol di sua quadriga.
A ltra simile a voi chi vide unquanco?
LIMERNO
Mirabilissima è per certo di costei la beltade e cortesia, la cui fama
sola (or che fa poi la presenzia?) puote di luntane contrade altrui
ricondurre a vedere e contemplare la tanta lei vaghezza, la tanta lei
graziosissima onestade. Laonde chiunque al primier assalto la vede,
subitamente vien constretto a prorumpere in coteste simili parole:
Or non piú fama, or non piú 'l sparso grido
l'unica sua bellezza mi dichiara;
ché, mentre agli occhi nostri non fu avara,[229]
vidila sí, che cosí ardendo i' grido:
— Per l'universo non che 'n questo lido
piú bella, accorta, pronta, onesta e rara
donna chi vide mai? quivi s'impara
nata beltá d'Amore ad esser nido. —
Però se questo e quello od altri l'ama,
maraviglia qual è? ma ben saria,
s'uom è che lei mirando non s'impetra!
Quel guardo pregno d'alta leggiadria,
quel dolce riso anco nel cuor mi chiama:
— Costei sola del ciel le grazie impetra!
LIMERNO
Ma sí come dal ciel ogni grazia in lei discese, cosí ella in me non
dedignossi la sua impartire, contentandosi ch'io di lei faccia resonare
voi, sollevati colli e ombrosi poggetti. Or dunque abbassativi, o verdi
cime de voi, faggi ed abeti; de voi, lauri e mirti; de voi, querze ed
ilici; de voi, viti ed olmi: abbassativi, dico, ad ascoltare questa mia
sonora cetra, ma non bastevolmente sonora a l'altezza di quella madonna;
ad udire queste mie leggiadre rime, ma non leggiadre al merito di quella
dea; a sentire lo mio dirotto pianto, ma non sí dirotto che poscia
l'ardentissime faci spegnere de l'affocato core! E se troppo
baldanzosamente vi paio di fare mentre io dico di lei d'ogni alto stile
degna, incolpate sol Amore, lo quale mi fa sovente dire quello che di
tacere assai mi fôra meglio, e, sognandomi piú volte, movemi a
vaneggiare quanto ora sète per udire in questa mia debil cetra:
LIMERNO
Questa madonna, che sí dolce, altiera,
un sol di tante stelle in mezzo asside,[230]
dimmi, dond'è che austera in volto ride
scoprendo insieme il verno e primavera?
Vedi se di vertú donna sí intera
fu mai, ch'un cor a un sol riso conquide!
Ma lui tropp'alta speme non affide,
ché fugge 'l riso ed egli piú non spera.
Cosí l'alta guerrera e sferza e freno
tien di chi l'ama, ed ama chi la vede,
anzi chi l'ode, anzi chi dir ne sente.
Cosí 'l regno d'amor costei possede,
ove tanti be' spirti, saggiamente
bella, nudrisce al dolce suo veleno.
LIMERNO
Quando l'alma gentile, per cui sola
moro la notte e poi rinasco 'l giorno,
venne dal ciel, per farvi anco ritorno,
in questa vita ch'è d'errori scola,
Amor, che 'nqueto quinci e quindi vola,
si le fe' contra di sue spoglie adorno,
qual fier tiranno ch'al suo carro intorno
ha tanti uomini e dèi, ch'al mondo invola.
Ma, lei di sé maggiore e d'altre frezze
vista luntan alteramente armata,
stette smarrito e dal triunfo scese.
Quella da sue virtú, da sue bellezze,
di che l'ornò natura e 'l ciel, levata
nel carro stesso, in noi l'arco si tese.
LIMERNO
Alluntanato è 'l sole, e noi qui manchi
del suo bel raggio (fan piú giorni) lassa.
Io, pur spiando s'altri quindi passa,
spesso alzo gli occhi, di mirar giá stanchi!
I' dico, s'alcun passa, che rifranchi
noi d'esta valle del suo lume cassa,
narrando il suo ritorno; ma trapassa
con speme l'anno, e morte abbiamo ai fianchi.[231]
Sleguasi 'l tempo né pur anco appare
chi dica: — Annuncio a voi grande allegrezza:
ecco torna colei che 'l mondo abbella! —
Lasso! non so che piú mi speri, ché ella
per su que' monti con Diana, pare,
va solacciando e noi qui giú non prezza.
LIMERNO
In quelle parti, ove di poggio in valle,
di valle in poggio va scherzando aprile,
madonna or giace e in atto signorile
sovente in l'erbe pon su' fior le spalle.
Zefiro intorno baldamente válle
spirando in quella faccia, in quel gentile[232]
sino d'avorio schietto, e chiama vile
di Borea l'Orizia e biasmo dálle.
Talor ella si parte al loco, dove
giá di sua Laura sí altamente disse
colui che 'n rime dir ha 'l piú bel vanto.
Quivi s'inchina umíle al sasso e move
a l'ossa ch'entro stanno un dolce pianto,
ch'Amor sul marmo di sua man poi scrisse.
LIMERNO
Quando 'l tempo, madonna, a noi sí parco,
dramma di sé concedami talora
di vosco ragionar, i' grido allora:
— Dolci fiamme d'amore, dolce l'arco! —
Ma quando invidia le piú fiate il varco
mi serra ai lumi, ove convien ch'io mora,
vo richiamando mille volte l'ora:
non è amarezza a l'amoroso incarco!
Qui poi la fede, che di par col sole[233]
certar solea, s'annebbia di sospetto,
fulgura il sdegno e zelosia tempesta.
Però scusar si deve se, d'un petto
scacciato 'l cor dal vermo che l'infesta,
non giá d'invidia ma d'amor si dole.
LIMERNO
Invido ciel che tante stelle e tante
in grembo hai sempre e di lor vista godi,
a che per cento vie, per cento modi,[234]
la mia levar contendi a me davante?
N'hai mille e mille di splendor prestante,
e pien d'invidia pur t'affanni e rodi!
Per cui? sol per colei che, acciò mie lodi
sianle piú belle, starmi degna innante.
Bastar ti deve il tuo, lascia 'l sol mio,
che 'nfiamme i spirti e sopra sé l'innalzi,
come 'l tuo nutre i corpi, l'erbe, i fonti.
Ma 'l mio perché piú bello, in tal desio
rancor ti sferza, che ne trai de' calzi,
e 'n su le cime tue vòi ch'egli monti.
LAMENTO DI BELLEZZA
I o tratto a l'ombra d'un gentil boschetto
V idi, giacendo su la piaggia erbosa,
S tarsi donna solinga e penserosa,
T urbata in vista, col mento sul petto.
I n tal vaghezza stava, ch'ivi intorno
N é fu pianta né augel che non movesse
A lei mirar e seco ne piangesse.
I' mi le appresso e per veder m'abbasso.
V idila troppo, aimè! ché, alzando il viso,
S i mi scoperse in lei tal paradiso,
T al, dico, che mi fece d'uom un sasso.
I n me si volse e disse: — Fa' ritorno,
N é star qui meco ove star sola deggio
A pianger quel che, tarda, in me correggio.
I l dolo amar che piú sempre si acerba
V ien d'alterigia molta e troppo orgoglio;[235]
S on bella, come vedi, e mi raccoglio
T utta sovente in donna, ma soperba
I nalzo lei cosí, che 'n questo scorno
N e son rimasta, onde l'alta bontade
A ma suppor l'orgoglio ad umiltade.
I n queste bande su dal primo cielo
V ols'egli in scherno mio, ch'un'alma stella
S cendesse umile assai di me piú bella.
T ant'ella è piú gentil quant'ha piú 'l velo
I n cerco de ligustri e rose adorno.
N acque non per mostrar quant'è bellezza,
A nzi, benché sia bella, lei disprezza.
I o son (perché ti miro star sospeso)
V ana beltá, ch'orno di gigli e rose[236]
S ol de le donne i volti, ma ritrose
T utte le faccio e di cuore scorteso
I n lor amanti, cui di giorno in giorno
N udrendo van di speme, e mai non giunge
A lor il patto, ma si fa piú lunge.
I n questo l'alto padre piú adirato
V er' me ch'abbello i visi e i cuor inaspro
S culpendo lor di porfido e diaspro,
T olse 'l bel spirto e l'ebbe incatenato
I n quelle belle membra ove soggiorno.
N on fa soperbia mai, non schivo sdegno,
A nzi è d'alte virtudi un vaso pregno.
I l nome suo dal ciel in terra stette.
V olendolo saper, fa' che misure,
S cendendo d'alto, le maggior figure:
T re volte e quattro il trovarai di sette
I n sette versi. — Allor indi mi torno,
N é possio piú di lei dolermi fina
A tanto che sei nosco, alma divina!
CENTRO DI QUESTO CAOS, DETTO «LABERINTO»
CLIO
Qual gode in carne perché in carne viva
e, in terra stando, l'animo da terra
non leva al ciel (onde si parte) unquanco,
colui d'umana spezie, in cui si serra
l'alta ragione, ad or ad or si priva,
sí come di candela il lume stanco
vedesi, giunto al verde, venir manco.
Di che, giá spento, non che morto, il sole
de la giustizia, resta cieco e palpa
la circonfusa nebbia e, come talpa
sotterra errando, uscir né sa né vole;
tanto che 'l miser sòle
un nuvol d'ignoranzia farsi tale[237]
che mai del ciel non sa trovar le scale.
Se mi deggia pensar o in terra dentro
o sotto 'l ciel, fra terra e l'aer puro,
esser in pene stabil altro inferno
d'un core ne' peccati antico e duro,
non so, sássel pur Dio! Mi par un centro,
l'abito nel mal far, di foco eterno;
quando che né d'estade né di verno
forza veruna o sia losinga d'uomo
(questo sperar dal cielo sol si debbe!)
quell'infelice misero potrebbe
indi ritrarlo piú di bestia indomo.
Però tal vizio nomo
l'orribil ombre del Caós deforme,
cui sempre a morte in grembo un'alma dorme.
TRIPERUNO
S tavami basso nel cespuglio e queto,
V ago d'udire piú che mai Limerno,
E giá m'era disposto per adrieto
V olgermi di Merlin for del governo.
E al fin sbucato da la macchia, lieto[238]
R ichiamo lui: — Deh! svellemi d'inferno! —
A lui dico, che giá, calando il sole,
T olsesi dal cantar dolci parole.
— O vago — a lui diceva — giovenetto,
B en mi terrei de gli altri piú beato,
S'io fusse tale che tu avessi grato
T enermi (ecco son presto!) a te soggetto. —
R estossi allora quello, e col bel viso
I l novo Ciparisso ovver Narciso:
— C hi chiama? — disse e, vistomi soletto,
T ennesi a lungo il naso fra le dita:
— O h tu! mi sai — dicea — di lorda vita!
C ácciati presto in quel fragrante rivo,
L avandoti lo puzzo fin ch'io torni. —
A llor si parte ritrosetto e schivo,
V edendo una carogna in luoghi adorni.
S pogliomi nudo in quel fonte lascivo[239]
T emprato d'acque nanfe, che da' forni
R igando viene giú d'un monticello,
O ve Ciprigna gode Adonio bello.
C elavasi, ne l'alpe giunto, il sole.
E cco, fra molte ninfe vaghe e snelle
L imerno torna solacciando, e quelle
L ui van ferendo a bòtte de viole.
I o, ch'era nudo, ambe le mani aduno
Su quelle parti oscene che ciascuno,
Q uantunque sia piccino, coprir sòle.
— V edrai — parla Limerno — quant'è meglio
E sser di miei che di quel sporco veglio!
R ecativi 'l in braccio, o belle ninfe,
E d a la dea portandolo direte:
— M adonna, dentro le muschiate linfe
O fferto s'è costui nel nostro rete:
T egnamolo qui nosco, se 'l vi pare,
I donio testimon, quando che v'abbia
S empre a lodar ne l'amorosa rabbia. —
— O — dissi allor, — o di vaghezza fiore,
C hi mi porge la stola ond'io mi copra?
— C uor mio — rispose — quivi non s'adopra
V estir alcuno dove regna Amore,[240]
L o qual ignudo va co' soi seguaci:
T aci lá dunque, pazzarello, taci! —
A llor fui ricondutto a grand'onore
T ra gioveni leggiadri e damigelle,
A vanti una piú bella de le belle.
V enere fu costei, la qual nel seggio
R egina di Matotta il settro tiene.
— B enedetto sia 'l cuore di chi viene
— I ncomenciossi allor cantar intorno —
S otto Amatonta al dolce lei soggiorno! —
L aúti, cetre, lire ed organetti
I van toccando parte, parte al sòno
T enean le voci giunte, ahi quanto vaghe.
I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta,
B asciandosi l'un l'altro insieme stretti[241]
V anno danzando intorno, e questi sono
S inceri giovenetti e donne maghe.
E rano mille fiamme intorno accese
S otto gli aurati travi de la sala:
S tanno da parte alquanti e fan un'ala
E qua e di lá mirando le contese.
P endono da' pareti alte cortine
R icchissime di seta, argento ed oro,
O ro sopr'oro, dico, spesso e rizzo
C on mille groppi, ziffere e beschizzo;
V asi di pietre di gran pregio e fine
L ungo a le mense fanno un bel tesoro.
A cque rosate, nanfe ed altri odori
T endon spruzzare i pargoletti Amori.
N ascosi molti a le cortine drieto
V anno non so che far, ed escon dopo
N el volto fatti in guisa di piropo
C he furon d'alabastro per adrieto.
AMORE DI TRIPERUNO E GALANTA
I o dunque nudo fra cotanti nudi
N on piú arrossisco, non piú mi vergogno,
F atto di lor famiglia, ove m'agogno
L assivamente in quei salaci studi.
A lato la regina sta Limerno,
T enendole la bocca ne l'orecchia,
O nd'io ne fui chiamato possia al trono.
I n terra umilemente i' m'abbandono,
N anti ch'al primo grado vi montassi,
C he d'altro che de marmi, petre e sassi
E rano, ma sol oro e gemme sono.
D ritto poi sullevato giá m'avento
I n fretta nanti a l'alta imperatrice,
T remando per viltá qual foglia al vento.
I ncomenciò l'altiera: — O Triperuno,
V assallo mio, de gli altri non men caro,
S appi che 'l tuo Limerno saggio e raro
T'ha impetrato da me quel che nessuno
I n questa corte mai gioir non puote.
N ove anni e sei non passa una fanciulla:
A te la dono e facciovi la dote.
C ostei, pronta, vivace, accorta e bella,
V oglio ch'ami, desidri prima ed ardi
C he piagna e canti, assorto ne' soi guardi,
V ersi pregni d'Amor e sue quadrella.
L imerno fia tuo mastro e fida scorta:
L imerno sa quel si ricerca amando.
O h dolce sorte a chi entra cotal porta!
A ffrettati, Lagnilla, e qui Galanta[242]
T ien modo di condur furtivamente,
Q uando ch'ella non esce mai di ciambra. —
V enne la ninfa chiesta finalmente,
E tutto di rossore il viso ammanta.
— G alanta mia — dicea l'imperatrice —
A lza la fronte e mira il novo amante! —
L evò la vista, dunque, ove si elice
E cco una fiamma ed ove un cieco infante,
R accolto l'arco e la saetta, altrice
A hi! di quanti martiri, lo diamante
T rito mi ruppe al petto e quindi svelse
I l cor giá fatto de' sospiri al vento
S tridente face e d'acque un fiume lento.
O h quante da quell'ora incomenciaro
P ene, tormenti, affanni, sdegni ed ire,
T ravagli, doglie, angoscie e zelosie!
A rsi, alsi di ghiaccio e fiamme dire,
T al che 'l dolce al fin divenne amaro.
I mperò ch'una Laura sozza e lorda,
N efanda, incantatrice, invidiosa
E ra del nostro amor la lima sorda.
S orda lima costei fu senza posa,
S enza quiete mai, del dolce nodo,
E bra sol di spuntar col chiodo il chiodo.[243]
T ant'ella fece, ch'io nel fin m'accorsi
O mbrosa esser cotesta ria cavalla.
G alanta ne ridea, donde piú acerba,
I niqua piú, ne venne ai duri morsi,
S í ch'io le scrissi questo in una querza:
TRIPERUNO
Sléguati in polve, fulminando Giove,
o tu, che, sozza tanto, lorda e vieta,
lo nome hai di colei che 'l gran pianeta
mosse da prima ad altre imprese e nòve!
Fogo dal ciel giammai non casca dove
natura strinse l'onorata meta
del sempre verde lauro, che non vieta
ulla stagion far le sue antiche prove.
Ma Dio tal legge in te servar non deve,
ché hai sol il nome e non di Laura i gesti:
sei di carbone e credi esser di neve.
Pur meglio, acciò 'l bel lauro non s'incesti,
quel «v», che 'l terzo seggio vi riceve,[244]
tolgasi 'l quarto, acciò che «larva» resti.[245]
DIALOGO SECONDO
LIMERNO, TRIPERUNO E FÚLICA
LIMERNO
Io canto sotto l'ombra del bel lauro
che pose il gran Petrarca in tanta altura,
lo qual, mercé d'Amore, mentre dura
il ciel, terrá la chiave del tesauro.
Nel mese quando 'l sole si alza in Tauro
ed empie il monte e 'l piano de verdura,
nacque una bella e saggia creatura,
che riconduce a noi l'etá de l'auro.
Cantar vorrei sue lodi, o fresche linfe:
linfe fresche di Cirra, or dati bere
a chi dicer d'un Febo novo brama!
Girolamo sol dico, in cui non spere
piú di me affaticar altrui le ninfe,
ché piú di me, so bene, altrui non l'ama.
LIMERNO
H or che per prova, Amor, t'intesi a pieno
I n fiamme ove giá n'alsi e 'n ghiaccio n'arsi,
E cco mi tieni d'altro dol a freno.
R egnar di se medemo e suo giá farsi
O h chi potrá giammai sotto 'l tuo giovo?
N iun, o se pur gli è, non sa trovarsi.
I o quella via, quest'altra cerco e provo,
M a che mi val? tu mi travolvi e giri
A l'aspro tuo voler, né schermo i' trovo.
D iluntanarmi volsi e placar Tiri
(I ri tant'empie!) di te, fier tiranno,
E nulla feci, ché piú in me t'adiri:
D i maggior pene, onde maggior è 'l danno,
A mor, mi sproni e fai il tuo costume.
H aggia chi piú s'allunga piú d'affanno.
I o piansi giá molt'anni sotto 'l nume
E rrando d'una ninfa, onde, per pace
R ecarmi, mi privai del suo bel lume.
O h qual mi crebbe ardente e cruda face
N el petto allor che gli occhi, anzi due stelle,
I o non piú vidi, e 'l raggio lor mi sface!
M i sface il raggio lor; e pur senz'elle
I' non vivrei giammai, perché non pinse
M ai Zeusi un sí bel volto o 'ntagliò Apelle.
E cco, donna, il martír, ch'al cor s'avvinse:
R itrassimi da voi, ma non lo volle
C olui che 'n me sovente ragion vinse.
A dunque per gir lunge non si tolle
T anta mia passion, ch'ebbi giá inante;
E questo avvien ché 'l mal è in le medolle.
L untan il corpo mi portâr le piante,
L untan il cor non giá, perché vel diede
I n su l'aurata punta il vostro amante.
D iedel a voi, ch'avesse ad esser sede
I mmobile perpetua d'esso, e voi
V i 'l toglieste per cambio, data fede
A l'un e l'altro sempre esser fra doi.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Nel vero, caro mio maestro, non sono giammai tanto fastidito
ed annoiato che, udendo voi e l'aurea vostra lira insieme cantare, non
subitamente mi racconsoli.
Limerno. Ed io credevami tanto da la turba e volgo entro questa selva
luntanato essere che niuno, se non le querze ed[246] olmi, avessero ad
ascoltare.
Triperuno. Dogliomi essere uomo di turba e vulgare; ma, la dolcezza di
vostre muse ovunque mi volgo sentendo, non men di ferro a la tenace
calamita son io da quella tirato. Nulla di manco, se da me voi sète del
vostro singular concento impedito, parendovi, ora mi parto e solo vi
lascio.
Limerno. Solo non è chi ama, anzi de' pensieri ne la moltitudine
sommerso! Io sopra ogni altro veggioti volentieri, Triperuno mio. Vero è
che lo essermi da la consueta nostra compagnia distratto potevati
accertare che da me dovevasi far cosa la quale fusse da essere secreta.
Io, come tu sentisti, cantai testé una canzone, li cui capoversi non
vorrei giá ch'uomo del mondo avesse notato, che 'l gentilissimo spirito,
di cui sono (giá molto tempo fa) umile servitore, non men ha cura de
l'onorevole suo stato che del comun obietto di questo nostro amore.
Dimmi dunque: hai tu lo nome suo compreso?
Triperuno. Non, per il dolce groppo di mia Galanta!
Limerno. Non senza molta cagione ricondutto mi sono a l'ombra di questo
lauro, lo quale, tanto agiatamente difeso da queste duo collaterali
querze cosí da venti e procelle come da' raggi de l'ardentissimo sole,
al sopranominato giovene con le sue sempre chiome verde fa di sé
gratissimo soggiorno. Ma dimmi, se 'l sai, questi doi versi latini, li
quali nel tenero scorzo di esso lauro tu vedi quivi intagliati essere,
chi fu lo sottil interpretatore di essi?
Triperuno. Isidoro.
Limerno. Isidoro Chiarino?
Triperuno. Esso fu.
Limerno. Oh divino spirito d'un fanciullo! ché veramente nel sino di
Talia succiò le dotte mamme, né maggior fama ed onore si arreca lo
autore che 'l commentatore loro.
Triperuno. Sono assai male insculpiti.
Limerno. Scriveli, prego, un'altra volta piú ad alto, e perché lo
argomento loro in quello... sai? intagliali col ferro acuto.
Triperuno. Intendo.
DE SOMNO
Hic Iaceo, Et Repens Oculis Natat Intima Mors, At
Divorum Imperio Est Dulcior Ambrosia.
LIMERNO
Tu quelli hai giá scritto? Oh quanto bene stanno! Fammi appresso un
piacere, perché lo ingegno del giovenetto piú ognora posciasi
addestrare: scrivi ancora un altro enigma non men di questo laborioso,
lo quale dopoi la morte di Giulio pontifice, sotto Leone, fu nel
candidissimo tumulo di Catarina, dal suo consorte crudelmente uccisa,
sculpito, dove ella cosí parlando dice:
TUMULUS CATHARINÆ
CONfodit SORS ME VSum ROBoris ERige TUScha
Sphera, necis causa est non nisi nulla meae.
TRIPERUNO
Cotesta Catarina, se bene mi sovviene, fu gentilissima ed amorosa donna;
a la quale fu giá mandato quel sonetto con un paio de guanti insieme, li
capoversi del quale dicono lo nome suo:
D'una tenera, bianca, leggiadretta,
I ntegra onesta man elesse 'l cielo
V oi, puri guanti, ad esser dolce velo:
A ndati a lei, ch'omai lieta v'aspetta!
C ortesamente la terrete stretta,
A nzi pur calda contra l'empio gelo,
T utto, però, ch'io per soverchio zelo
H abbia di voi non a prender vendetta.
A mo l'alta virtú che 'n sé diversa
R egna piú ch'in Aracne od ella istessa
I nventrice de l'ago e bel trapunto.[247]
N é man piú dotta né piú dolce e tersa
A vvinse guanto mai, né chi promessa
Onestamente piú servasse appunto.
LIMERNO E TRIPERUNO
Limerno. Dirotti la veritade, o Triperuno: questi capoversi, non usati
mai da valentuomo veruno, poco a me sono aggradevoli e a gli altri
sodisfacevoli, imperocché altro non vi si trova se non durezza di senso
ed un impazzire di cervello. Ma ragionamo d'un'altra cosa di assai piú
importanza di questa. Confessati meco, e non vi aver un minimo
risguardo. Chi fu lo compositore di que' versi, li quali oggi furono da
tutta la corte in una querza letti e biasmati?
Triperuno. Perché, caro maestro? sapeno forse come gli altri miei?
Limerno. Di che?
Triperuno. Di mastro di scola.
Limerno. Perché cosí dí': «mastro di scola»?
Triperuno. Li quali, per la varietá de' stili da loro adoperati
pedantescamente, come voglio dire, scrivono e fanno un Caos non men
intricato del mio.
Limerno. Io bene di cotesto tuo ravviluppato Caos mi sono
maravigliato, lo quale potrebbe a gli uomini dotti forse piacere; ma non
lo credo, e spezialmente per cagione di quelle tue postille latine suso
per le margini del libro sparse.
Triperuno. Io per confonderlo piú, come la materia istessa richiede,
volsivi ancora la prosa latina in aiuto de lo argomento porre.
Limerno. Lasciamo in disparte lo stile tuo, o sia pedantesco o triviale;
ma peggio è, che sono quelli versi mordaci de la fama di tale che
leggermente potrebbeti offendere. Tu non conosci ancora, buono uomo, la
rabbia d'una adirata ed orgogliosa donna, la quale tengasi da qualcuno
oltraggiata e sprezzata.
Triperuno. Qual bene o male posso io sperare o temere da questa larva o
volsi dire Laura?
Limerno. Voglia pur Iddio che tu non ne faccia veruna isperienza!
Triperuno. In qual modo un sacco di carcami, una cloaca di fango, una
stomacosa meretrice del dio Sterquilinio è per vendicarse di me?
Limerno. Con mille modi, non che uno.
Triperuno. Come?
Limerno. È peritissima vindicatrice.
Triperuno. Qual sí terribile ruffiano d'una trita bagascia prenderia
giammai la difesa?
Limerno. Non vi mancano gli affamati al mondo. Ma sei male, Triperuno,
su la via di conoscere, in cui posciati ella danneggiare.
Triperuno. Avvelenarmi?
Limerno. No.
Triperuno. Farmi con ferro uccidere?
Limerno. Né questo ancora.
Triperuno. Tôrmi la fama?
Limerno. Non ha credito.
Triperuno. In qual foggia dunque?
Limerno. Trasformarti in uno asino.
Triperuno. Che dite voi?
Limerno. Un asino, sí; tu ti maravigli dunque?
Triperuno. Ho ben io piú volte inteso queste donne aver possanza, con
non so che unguenti, voltar gli uomini in becchi.
Limerno. Anzi, assai piú becchi fanno che castroni. Quanti oggidí
conosco io, li quali giá per violenzia de suffumigi da queste maghe
adoperati furono in bovi, buffali ed elefanti conversi!
Triperuno. Questo saria ben lo diavolo! Se questa Laura mi trasfigurasse
in un becco, vorrebbemi piú oltra bene Galanta?
Limerno. Piú che mai.
Triperuno. Come? io sarei pur un becco?
Limerno. Ed ella una capra.
Triperuno. Cambiarebbe ancora lei?
Limerno. Che 'n credi tu?
Triperuno. Io giá comincio temere.
Limerno. Tien stretto.
Triperuno. Forse che non sa ella ancora chi sia lo autore?
Limerno. Tu sei pazzo persuadendoti una malefica non sapere quello che a
tutta la corte giá divolgato leggesi.
Triperuno. Lasso! ch'io me ne doglio.
Limerno. Tu vi dovevi piú per tempo considerare e prenderne[248] da me
consiglio.
Triperuno. Non l'ho fatto, in mia malora!
Limerno. Se tu sapessi la importanza di questo scrivere e lo mandar cosí
facilmente a luce le cose sue, vi averessi meglio pensato; ché pagarei
un tesoro di Tiberio, non mai ne gli occhi de tanti valentuomini una mia
operetta scoperta si fusse.
Triperuno. Come farò io dunque, misero me? ch'io debbia un asino
devenire?
Limerno. Or va' piú animosamente! tu giá sei vòlto in fuga, e niuno ti
caccia: non ti partirai da me se non bene consigliato e consolato. Ma
pregoti, Triperuno mio, non t'incresca sotto l'ombra di quel platano
corcarti, fin che io faccia la prova di alquanti versi con la cetra, da
essere in questa sera da me recitati avanti la regina; e veramente assai
averò che fare, se li quattro sonetti da lei richiesti aggradirla
potranno.
Triperuno. Questo tal comporre a l'altrui petizione difficilmente può
sodisfare a coloro li quali non vi hanno parte alcuna. Ma ditemi, prego,
avanti che da voi mi parta, lo soggetto de' quattro sonetti.
Limerno. Dirottilo ispeditamente. Giá la signora non è cagione propria
di questi: ma heri Giuberto e Focilla, Falcone e Mirtella mi condussero
in una camera secretamente, ove, trovati ch'ebbeno le carte lusorie de
trionfi, quelli a sorte fra loro si divisero; e vòlto a me, ciascuno di
loro la sorte propria de li toccati trionfi mi espose, pregandomi che
sopra quelli un sonetto gli componessi.
Triperuno. Assai piú duro soggetto potrebbevi sotto la sorte che sotto
lo beneplacito del poeta accascare.
Limerno. E questa tua ragione qualche bona iscusazione appresso gli
uomini intelligenti recarammi, se non cosí facili, come la natura del
verso richiede, saranno. Ora vegnamo dunque primeramente a la ventura
ovvero sorte di Giuberto; dopoi la quale, né piú né meno, voglioti lo
sonetto di quella recitare, ove potrai diligentemente considerare tutti
li detti trionfi, a ciascaduno sonetto singularmente sortiti, essere
quattro fiate nominati sí come con lo aiuto de le maggiori figure si
comprende:
GIUSTIZIA, ANGIOLO, DIAVOLO, FOCO, AMORE
Quando 'l Foco d'Amor, che m'arde ognora,
penso e ripenso, fra me stesso i' dico:
— Angiol di Dio non è, ma lo nemico
che la Giustizia spinse del ciel fora.
Ed è pur chi qual Angiolo l'adora,
chiamando le sue fiamme «dolce intrico».
Ma nego ciò, ché di Giustizia amico
non mai fu chi in Demonio s'innamora.
Amor di donna è ardor d'un spirto nero,[249]
lo cui viso se 'n gli occhi un Angiol pare,
non t'ingannar, ch'è fraude e non Giustizia.
Giustizia esser non puote, ove malizia
ripose de sue faci il crudo arciero,
per cui Satán Angiol di luce appare.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Molto arguto parmi questo primo, né anco di soverchio
difficile; ma che egli aggradire debbia la regina con l'altre donne, non
credo.
Limerno. Dimmi la causa.
Triperuno. Lo sobbietto non lauda il feminile sesso.
Limerno. E Giuberto non lo volse d'altra sentenzia di quella c'hai
udito. Or vengone al secondo, nel quale la sorte di Focilla contienesi.
MONDO, STELLA, ROTA, FORTEZZA TEMPERANZIA, BAGATTELLA
Questa fortuna al mondo è 'n Bagattella,
ch'or quinci altrui solleva, or quindi abbassa.
Non è Tempranzia in lei, però fracassa
la forza di chi nacque in prava Stella.
Sol una temperata forte e bella[250]
donna, che di splendor le Stelle passa,
la instabil Rota tien umile e bassa;
e 'n gioco lei di galle al mondo appella.
Costei tempratamente sua Fortezza
usato ha sempre, tal che 'l Mondo e 'nsieme
la sorte de le Stelle a scherzo mena.
Ben può fortuna con sua leggerezza
ir ne le Stelle di piú forze estreme:
chi sa temprarsi lei col Mondo affrena.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Questo altro sonetto appresso di me piú del primo lodevole mi
pare: cosa che giá per lo contrario giudicai da prima dover essere,
attendendovi quella sorte del «Bagattella» non potere se non li soli
consorti disconciare. Ma, sí come a me pare, de gli altri assai meglio
vi quadra.
Limerno. Ogni cosa che ad essere patisce durezza, lo piú de le volte
eccellente diviene: laonde Focilla, donna, come si vede, prudentissima,
contristandosi prima di cotal leggerezza a lei per ventura sortita, or
che reuscita la vede in maggior suo onore, giubila e saltella. Ma vengo
a l'oscurissimo soggetto de li disordinati trionfi di Falcone, al quale,
sopra tutti gli altri gentile, doveva la meglior fortuna accadere.
LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA
Europa mia, quando fia mai che l'una
parte di te, c'ha il turco traditore,
rifráncati lo Papa o Imperatore,
mentre han le chiavi in man, per lor fortuna?
Aimè! la traditrice ed importuna
ripose in man . . . . . . . . . . onore[251]
di . . . . . e tien . . . . . furore
sol contra il giglio e non contra la Luna.
Ché se 'l . . . . non fusse una . . . .
che per un piè . . . . . . . . sospeso tiene,
la Luna in griffo a l'aquila vedrei;
ma questi . . . . . . . . . . miei
fan sí che mia Papessa far si viene
la Luna, e vo' appiccarmi da me stessa[252].
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Voi giocate, maestro mio, sovente al mutolo in questo
sonetto.
Limerno. Fu sempre lodevole.
Triperuno. Che cosa?
Limerno. La veritá...
Triperuno. Confessare?
Limerno. Anzi tacere.
Triperuno. La cagione?
Limerno. Per scampar l'odio.
Triperuno. Di poco momento è questo odio, se non vi susseguisse la
persecuzione.
Limerno. Però lo freno fu trovato per la bocca.
Triperuno. Meglio è martire che confessore.
Limerno. Cotesto è piú che vero. Ma veggiamo finalmente lo sonetto di
Mirtella, la cui sorte fu questa:
SOLE, MORTE, TEMPO, CARRO, IMPERATRICE, MATTO
Simil pazzia non trovo sotto 'l Sole,
di chi a gioir del Tempo tempo aspetta:
Morte, su 'l Carro Imperatrice, affretta
mandar in polve nostra umana prole.
Al Sole in breve tempo le viole
col strame il villanel sul Carro assetta:
Matto chi teme la mortal saetta,[253]
ch'anco l'Imperatrici uccider vole.
Però de' sciocchi avrai sul Carro imperio
s'indugi, donna, piú mentre sei bella,
ché 'l Sol d'ogni bellezza invecchia e more.
Godi, pazza! che attendi? godi 'l fiore!
fugge del Sol il Carro, e il cimiterio
la nera Imperatrice empir s'abbella.
TRIPERUNO, LIMERNO E FÚLICA
Triperuno. Or questo de gli altri piú sodisfarmi pare, maestro mio.
Limerno. Avrei con men durezza composto loro, se la divisione di essi
trionfi in mia balía stata fusse. Onde pregoti non t'incresca udirne un
altro, molto (per quello che me ne paia) de gli giá recitati men rozzo e
triviale, quando che la libertade di esso tutta in me solo stata sia,
dove li ventiuno trionfi, aggiungendovi appresso la Fama ed il Matto, si
contengono:
Amor, sotto 'l cui impero molte imprese
van senza Tempo sciolte da Fortuna,
vide Morte sul Carro orrenda e bruna
volger fra quanta gente al Mondo prese.
— Per qual Giustizia — disse — a te si rese
né Papa mai né, s'è, Papessa alcuna? —
Rispose: — Chi col Sol fece la Luna
tolse contra mie Forze lor difese.
— Sciocco qual sei! è quel Foco — disse Amore —
ch'or Angiol or Demonio appare, come
temprar sannosi altrui sotto mia Stella.[254]
Tu Imperatrice ai corpi sei, ma un cuore
benché sospendi, non uccidi, e un nome
sol d'alta Fama tienti un Bagattella.
Ma che miracolo è questo ch'ora veggio, Triperuno mio?
Triperuno. Dove?
Limerno. Quel matto solenne di Fúlica veggio a noi venire.
Triperuno. È dunque passato di Perissa in Matotta?[255]
Limerno. Costui veramente, se non fallo, ha gittato in disparte le
sportelle col breviario e vole de' nostri farse. O vecchio forsennato,
che cosí inutilmente da gli soi primi verdi anni s'ha ricondutto fin a
la impossibilitade di poter piú gioire di questi nostri piaceri! Oh come
ha lunga barba il santo eremita! Oh come va savio, noverandosi li passi,
questo santuzzo del tempo vecchio!
Triperuno. Tacéti, per Dio, ché, omai troppo vicino, potrebbevi sentire.
Fúlica. Dio vi salvi, amici miei.
Limerno. Et vos, domine pater.
Fúlica. Di che cosa ragionate voi?
Limerno. Di amore.
Fúlica. Amore spirituale?
Limerno. No, animale.
Fúlica. Sta molto bene.
Limerno. Ma, dite voi, qual importante causa vi mena in questa regione
amorosa? qual convenienzia è di questi nostri muschi ed ambracani con
quelli vostri rigidissimi costumi?
Fúlica. Causa non pur importante, ma importantissima, mi driccia a te,
Limerno mio, acciò che con gli altri toi simili omai da questo mortal
sonno vi svegliáti. Queste tre nostre regioni, Carossa, Matotta e
Perissa, veramente sono uno laberinto di cento migliara di errori; né
mai se non testé la ignoranzia, la sciocchezza, la soperstizia di me e
mei compagni ho conosciuto, li quali avevamo la felicitade nostra
riposto ne l'andar scalci, radersi il capo, portar cilizio ed altre cose
assai, le quali, quantunque siano bone, fanno però lasciar le megliori.
Ma non v'incresca udirmi, ché forse oggi la comune nostra salute averá
principio.
Limerno. Vi ascoltaremo voluntieri: or incomenciate.
LA ASINARIA
DIALOGO TERZO
FÚLICA, LIMERNO E TRIPERUNO
Fúlica. In poco frutto reuscirebbe lo mio ragionamento assai lungo, se
primamente non mi movessi al sommo principio de tutte le cose, e
pregarlo ch'egli si degni aprirvi gli occhi ed il core, giá tanto tempo
fa cieco e da la veritade di lungo intervallo disgiunto.
Omnipotens pater, aethereo qui lumine circum
mortale hoc nostrum saepis ubique genus,
ut queat artificis tenebrarum evadere fraudes,
utve queat recti tramitis ire viam,
excipias animam hanc, usu quae perdita longo,
iam petit infernas non reditura sedes!
Limerno. Ah! ah! ah! ridi meco, Triperuno mio! vedi questo insensato
come ha pregato non so che suo dio per me, come se altro iddio fusse piú
di Cupidine da esser temuto e pregato.
Triperuno. Ascoltiamolo, caro maestro, ché egli giá si leva da la
orazione.
Fúlica. Ritrovandomi heri, per avventura, non molto luntano da la
spelonca mia col mio fidelissimo Liberato, da me molto amato e aúto
caro, avvenne che, vedendomi egli tutto nel viso maninconioso, di me
tenero e pietoso divenuto, sí come colui che di benigno ingegno era e
non poco mi amava, umilemente mi domandò la cagione per che sí tristo io
fussi e penseroso e quasi tutto in uno freddo ed insensibile sasso
tramutato. Ed appresso tanto mi pregò che insieme con esso lui in sin ad
un boschetto, lo quale assai vicino era a la grotta mia, ne andai.
Camminando dunque noi con lenti e tardi passi verso il delettevole
boschetto: — Deh! — dissi allora, — caro mio Liberato, giá fussi io morto
in culla! ché, poi ch'io mi sono dato a gli vani studi de la naturale
filosofia, a cercare di conoscere le proprietadi de le cose a noi
occulte e impenetrabili, non ebbi mai l'animo mio tranquillo né quieto,
ed ora piú che mai l'ho travagliato e de vari e diversi pensieri tutto
ripieno e distratto. Io non veggio omai quello che per me si debba
adoperare o credere; perché, se veraci sono gli evangelici dottori e se
parimente li sottili e tenebricosi maestri in teologia e nostri sofisti
dicono il vero; se li pontificali decreti ovvero umane leggi, che
vogliamo dire, ligano o ligar possiano le nostre coscienze; ed oltra di
questo se alcuni altri dottori moderni non sono né capitali nemici de la
vera fede né bugiardi, ma hanno la veritá ritrovata; a cui crederò io? a
cui prestarò fede? Nel vero, io non comprendo come tutti non possino
errare sí come coloro che omini sono, né mi può entrare nel capo come a
tutti egualmente noi debbiamo o possiamo credere. O miseri cristiani!
ov'è fuggita la ferma fede e piena di credenza de li venerabili
patriarchi, de gli santi profeti, de' poveri apostoli e de tutti i
nostri maggiori? Oimè! donde sono tante e sí diverse openioni? donde sí
contrarie sètte e sí ripugnanti? onde tante vane quistioni? onde tante
liti ed empie contenzioni? Se una è la fede e uno battesmo, poscia che è
uno sol Dio e un signore e fattore de tutte le cose, cosí invisibili ed
incorporee ed eterne come ancora de le visibili e corporee e mortali,
perché dunque siete voi tra voi tutti divisi? — Non cosí tosto quelle
poche parole ebbi detto, una asinina voce, subitamente rumpendo lo aere,
con soi pietosi accenti percosse le nostre orecchie.
Limerno. Ditemi la veritá, Fúlica.
Fúlica. Io son presto.
Limerno. Donde veniti?
Fúlica. Da Perissa. Per qual cagione questo mi domandi?
Limerno. Le parole vostre mi sapiono di Carossa: baldamente che Merlino
vi ha retenuto ne la catena sua! non gli è mancato una dramma, che
questo asino da la bocca vostra non abbia parlato!
Fúlica. Anzi cosí chiaramente con queste mie orecchie io l'ho sentito
ragionare, come ora facemo noi.
Limerno. Con diavolo! ch'un asino ha parlato?
Triperuno. Lasciamolo finire, caro maestro.
Limerno. Séguiti a sua posta.
Fúlica. — Confortativi — disse quella voce — o boni uomini, e non abbiate
paura, ma siate di forte animo! — Per la qual cosa noi tutti sbigottiti,
dattorno vòlti, guardavamo se alcuno vi fusse che noi, senza esserne
avveduti, ascosamente ascoltasse. Ma nessuno vedendovi se non questo
asino, che vecchissimo essere pareva e molto attempato, il quale quivi
nel boschetto pasceva, essendo noi giá al fine pervenuti del nostro
cammino, vie piú che innanzi, la pietosa e lamentevole voce udendo,
temuto non avevamo, incomenciammo a stordire e forte temere, e varie
cose fra noi stessi a rivolgere.
Laonde questo asino, alzata un poco la testa, quasi sorridendo, un'altra
volta racconfortandoci disse: — Cacciáti da voi ogni gelata paura. Io
sono a voi da Dio mandato a mostrarvi la cristiana e vera fede e
sciolvervi ogni dubbio ed ogni vostra questione a finire e terminare.
Le quali parole udendo noi, quale e quanto fusse lo stordimento, voi da
voi stessi puotete pensare: dico che tutti li capelli se ne arricciarono
e, quasi perdute tutte le sentimenta, piú morti che vivi in terra
cademmo. Ma ritornate poscia in noi le perdute forze ed il natural
vigore e rassicuratene alquanto, lo comenciamo a scongiurare ed a
comandare da parte de Dio che, se ciò inganno fusse del diavolo, tosto
indi si dipartisse. Ma egli, che veramente da Dio era, tutto immobil si
stette; e per levarci ogni sospetto ed ogni dubbiosa mescredenza che ne
l'animo nostro nasciuta fusse o nascerci potesse, con voce assai umana
ed umile rispose cosí: — Quanto sia, figliuoli miei, da fuggire e
biasimare l'essere sciocco e imprudente, e troppo agevolmente e di
leggiero dare orecchie ed aver fede a visioni e parole, quantunque e
buone e veracissime quelle ne paiano, io non potrei giammai con parole
spiegare né con la penna scrivere. Ma colui, il quale vorrá piú
sottilmente con l'acume de lo intelletto considerare la cagione de tutte
l'umane miserie, non potrá certamente ritrovar alcuna altra che la
sciocchezza e la súbita ed empia credenza aúta da li nostri primi
parenti al velenato e mendacissimo serpente. Onde Cristo, che troppo
bene conosceva il malvagio ingegno di questo fallace
nemico: — State — disse a gli apostoli e a' suoi cari discepoli — saggi ed
avveduti a guisa de li serpenti e de gli aspidi sordi, i quali, come è
scritto nel salmo, si riturano gli orecchi acciò che non sentano la voce
né li versi de l'incantatore. — Perché io reputo gran senno a sapersi
guardare e defendere da gli agguati e da gl'inganni de l'infernale
Lucifero primo inventore e padre de la bugia. E voi bene in ciò e
saggiamente avete adoperato; ché, ancora che per avventura alcuna volta
il credere scioccamente non rechi il creditore né lo metta in grande
miseria, anzi il tragga da grave noia e da grandissimi pericoli e
ripongalo in sicurissimo e felice stato, non è perciò da commendare
molto, dove la instabile fortuna e non l'umano ingegno s'interpone. Né
per il contrario è da biasimare e riprendere colui lo quale, essendogli
la fortuna nemica e niente favorevole, si ritrova al fine in povero e
assai vile stato e in grandissima miseria, dove bene adoperare egli si
sia ingegnato, ponendo ogni sollicitudine ed ogni arte ed ogni forza per
potere a buono e laudevole fine condurre i fatti suoi. Ma lasciamo ora
stare cosí fatti ragionamenti, e sí per non esser troppo lunghi (ed in
quella cosa massimamente ne la quale non è di bisogno) e sí ancora per
potere piú pienamente ragionare de la cristiana fede, la quale assai
larga ed ampia materia di sé ne dará da parlare.
Limerno. Non mi maraviglio punto se, nel parlare, molto sète lungo e
fastidioso; e piú di noi, che stiamovi quivi ad ascoltare.
Fúlica. Perché son io cosí lungo e fastidioso?
Limerno. La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicemi voi essere di
flemma tutto ripieno.
Triperuno. Un flemmatico è dunque molto verboso?
Limerno. Sí, secondo li fisici nostri. Né solamente la flemma causa
moltiloquio e nugacitade, ma tutte l'altre operazioni del corpo rende
piú tarde e pegre; al contrario d'uno che collerico sia, lo quale il piú
de le volte le cose comencia due fiate, non riescendogli bene la prima
per l'ingordigia solamente del soperchio desiderio.
Triperuno. Tu vòi forse inferire che egli flemmatico ti neca!
Limerno. Che vòl dir «neca»?
Triperuno. «Ammaccia», «uccide», «ancide».
Limerno. Anzi gli sta cotesto vocabolo molto bene, ché fermamente non
trovo «morte» a quella d'una lingua, quale è quella d'un Alberto da
Carpo di testa rasa.
Triperuno. Io molto bene lo riconosco, lo quale, giá d'anni carco ed
attempato, ha fatto la piú bella pazzia che fusse mai, che dirotti poi;
ma fra l'altre sue vertú è mordacissimo, loquacissimo e vanissimo: ed
appresso lui un Sebastiano non men[256] di lui chiacchiarone e
puzzolente di bocca, lo quale mentendo fassi fiorentino.
Limerno. Megliore vendetta non si può fare che scrivere (se non ti
lasciano stare) li soi costumi.
Triperuno. Anzi odi questo mio tetrastico de la nugacitade di quello da
non nominare Alberto, fondato sopra questo verbo latino:
NECAT
|
N | on necat ulla magis nos | N | ex, non unda necat, no | N |
E | t necat igne modo, necat | E | t modo Iuppiter imbr | E, |
C | um necor a lingua, mos | C | ui nescire loqui, ne | C |
A | t tamen obthurat tot hy | A | ntia dentibus or | A, |
T | e necat ore, necat ges | T | u, nece totus abunda | T. |
LIMERNO, FÚLICA E TRIPERUNO
Limerno. Molto è bello e artificioso, ma, per quello che me ne paia,
oscuro e faticoso.
Fúlica. Deh, per lo amore de la passione di Cristo, non siate cosí
ritrosi a la salute vostra! Lasciatimi finire, non mi sconciate dal bono
e santo proposito, ch'io sono certo delettarannovi li miei ragionamenti.
Limerno. Posciovi molto bene ascoltare, ma non voluntieri, se non mi
parlate di qualche bella donna.
Triperuno. Or oltra, ché vi porgemo le orecchie.
Limerno. Assai men lunghe di quelle del suo asino.
FÚLICA
Stupefatto dunque Liberato, ch'un asino cosí qual uomo saputamente
parlasse, gridando disse: — Oh che cosa è questa ch'io veggio e sento?
dove son io? or dormo io ancora o son pur desto? Io, per quello me ne
paia, non so se vedo quello che vedo, né so altresí se odo quel che odo.
Sarei io mai un altro divenuto? Dimmi dunque, messer l'asino, come può
egli essere che, essendo tu una bestia la quale di grossezza ogn'altra,
quantunque grossissima ella si sia, avanzi, ora parli e ragioni non
altrimenti che se uno saggio uomo fussi e molto avveduto? Questo è
contra a la tua natura. Né di ciò è meno da maravigliare che se il fuogo
freddo divenisse e piú non rescaldasse. E qual mai fia colui sí stolto e
d'intelletto sí scemo e senza senno che, raccontandogli noi quello che
ora con gli occhi de la fronte ne pare di vedere, non ci reputi
ubbriachi ovver dormiglioni? Perché voluntieri io saperei se vano sogno
è quello che io veggio o no. — Queste ed altre simiglianti parole udendo,
messer l'asino schioppava tutto de la risa; ma aspettando poi il fine di
quelle, poi ch'egli si tacque, cosí incomenciò:
— Estimava io assai sofficiente e bastevole testimonianza avervi potuto
fare i vostri scongiuri allora quando per essi non mi mossi io punto, ma
tutto immobile mi vedeste stare. Ma egli è altrimenti avvenuto che io
avvisato non mi sono. Per la qual cosa nel rimanente di questo giorno,
che fia poco, intendo io di dimostrarvi con vere ed aperte ragioni
quello che voi vedete e udite non essere né vana spezie o sogno né
favole né alcuno inganno. E ciò di leggero mi potrá venire fatto, dove
voi vorrete con intento animo raccogliere tutte le mie parole. Però,
quando a grado vi sia, vi potrete su la verde erba porre a sedere, per
ascoltare piú agiatamente le mie ragioni, a le quali, poscia che il sole
con frettolosi passi incomencia giá traboccare da la sommitá del cielo,
tempo mi pare convenevole da dar omai principio.
Dovete adunque sapere che ogni artefice, il quale secondo il suo
arbitrio e voluntá opera, può fare ed altresí non fare uno medesimo
effetto come e quando il meglio li piace. E cotale principio è
dirittissimamente da l'empio Averoi chiamato principio di contradizione.
È un altro principio naturale, il quale è determinato ad un sol fine, e
solamente uno medesimo effetto in ogni luogo e in ciascuno tempo sempre
necessariamente produce: il che manifestamente essere veggiamo nel
fuogo, il quale è, come dicono, formalmente caldo e sempre genera il
calore e sempre scalda e non può altrimenti adoperare dove egli si
ritrove. Né sono da essere ascoltati quelli filosofi, li quali niegavano
affatto cotesto naturale principio, dicendo ogni cosa essere or buona or
rea, or dolce or amara, or calda or fredda, e brievemente ogni cosa
essere tale, quale a noi ne paia e quale le varie e diverse openioni de
gli uomini essere giudicassino. Nel vero stoltissimo fôra colui, che
dicesse le cose gravi ugualmente e senza alcuna differenza, ma secondo
la falsa openione e umano giudicio, or scendere nel centro ed or salire
a la circonferenza, conciosiacosaché qua giú sempre quelle da loro
gravezza sospinte discendano, ma lá sú mai elevare non si possino se non
per violenza e per altrui forza e contra loro natura; ancora che
altrimenti estimi la nostra openione, la quale mutare non può le nature
e proprietati de le cose, sí come colei che naturalmente seguitare dee,
e la cui veritade pende e nasce da loro veritá, come apertamente si può
vedere ne gli sopradetti esempi. Che perché noi crediamo la grave pietra
discendere, non è perciò la nostra openione cagione de la veritá de lo
scendere de la pietra; ma sí bene il discendere di quella è cagione
perché vera sia la nostra openione e credenza. Ma perché mi distendo io
in piú parole? Dico che ogni nostra openione o conoscenza, o vera o
falsa che ella si sia, viene dietro a le cose, come scrive Aristotile
nel libro De la interpretazione, ed ogni cosa procede e va innanzi a
la nostra scienza, sí come oggetto e cagion di quella. Ma il contrario
avviene de l'eterna ed immutabil sapienza del Padre, la quale è
principio e cagione de tutte le cose, de la quale ancora ne parlaremo
con lo aiuto di Colui che ogni cosa col suo intelletto e governa e regge
e dispone con la sua infinita vertú e provvidenza. Ma da ritornare è
(perciò che troppo dilungati siamo) lá onde ne departimmo.
Dissi che duo erano gli principi, l'uno libero e voluntario, l'altro
naturale, necessario e determinato. Iddio dunque, il quale (come
cantando dice il profeta) criò e produsse tutto ciò che egli volle e
fece i cieli e la terra con l'intelletto, non è da dire che egli sia
alcuno naturale principio o determinato, ma del tutto libero e
voluntario, anzi essa prima ed eterna voluntá e potentissimo arbitrio
senza principio e sopra ogni principio, come piú pienamente dimostraremo
quando ragionare ne converrá de la creazione di questo mondo sensibile
contra a gli naturali filosofi, e massimamente contra al principe de li
peripatetici e contra[257] al suo ostinato commentatore, gli quali
vogliano questo mondo[258] sempre essere stato senza mai comenciare e
sempre dovere durare senza mai finire. Non è dunque gran maraviglia,
nonché impossibile, purché a Dio piaccia, che uno asino parli e ragioni
cosí come un uomo d'alto ingegno dotato ragionarebbe. Or non può egli
fare ciò che egli vole? è forsi egli cosí infermo ed impotente che
adempire egli non possa ogni sua voglia e sodisfare a ogni suo appetito
e desiderio? Il che se fare non può, ov'è la sua onnipotenza? ove è la
sua infinita vertú? ove è la sua perfettissima beatitudine e felicitá?
Nel vero, io non so come egli possa cosí agevolmente a uno sasso, non
pur a uno animale come l'asino è, dare la vita e l'intelletto, come
liberalissimamente a gli uomini dare gli piace. Né veggio
simigliantemente alcuna differenza tra 'l nostro e vostro corpo, e
perché piuttosto il vostro possa ricevere tanta nobile forma quanto è
l'intelletto, che non possa ancora il nostro. Ma lasciamo ora alquanto
le ragioni ne' loro termini stare, e produciamo in mezzo le sacre e
veracissime istorie, e manifestamente vedremo nessuna cosa essere a Dio
faticosa e impossibile.
Leggiamo nel Genesi che la verga, la quale teneva Mosé in mano, d'uno
legno, per divina potenza, divenne uno serpente e ritornò poi di
serpente ne la sua primiera forma. Ecco chiaramente veggiamo che puote
Egli le spezie mutare e le forme de le nature de le cose, sí come colui
nel cui arbitrio è dare e tôrre ogni essere ed ogni vita ed ogni
intelletto. Leggiamo ancora che molte statue o idoli di metallo o di
pietra per diabolica virtú parlavano e rispondevano a coloro che gli
domandavano. Che direte voi qui? niegarete voi non potere Iddio operare
in uno asino quello che gli diavoli hanno potuto operare in uno
insensibile marmo o metallo? Questo certamente non niegarete voi, ché
niegare non si dee il vero né a quello mai contrastare, ma dargli
perfetta e piena fede. Taccio io Lazzaro e molti altri da Cristo e da'
suoi santi risuscitati, taccio altresí molti ciechi alluminati, taccio
gli attratti dirizzati, taccio e' leprosi mondati, taccio finalmente
tutti gl'infermi da lunghe e mortifere infermitati con la sola parola
curati e a perfetta ed intera sanitá renduti, i quali tutti senza alcun
dubbio ne mostrano la divina potenza e vertú. Ora vengo a piú aperto
argomento di quella; e dico che niuno è il quale non sappia che l'asino,
o asina che ella si fusse, di Balaam profeta non solamente parlò ma,
profeta ancora divenuto, profetò e predisse quelle cose le quali da Dio
gli erano state rivelate. Che piú dunque m'affatico di volere ciò piú
apertamente dimostrare? Chiarissimo argomento è quella cosa essere
possibile, la quale alcuna volta è ovvero fu giá buono tempo passato. Né
mi fa qui ora mistieri di produrre l'Asino d'Apuleio, anzi di Luciano,
stimolo de tutti i filosofi e morditore d'ogni laudevole openione, per
ciò ch'io non intendo né voglio ora dimostrare come possino gli uomini
in uno asino o in qualunque altro animale mutarsi; di che io non ho
dubbio alcuno. E volesse Iddio che pochi fussero quelli, li quali
sovente di uomini divengono crudelissime fiere e, rivolgendosi ne la
bruttura de tutti e' vizi e peccati, sono vie piú peggiori de le bestie,
le quali buone sono per ciò che vivono secondo la loro natura, la quale
buona fu dal sapientissimo ed ottimo Maestro criata. Né altro forsi
Pitagora, divinissimo matematico, volse intendere per lo trasmigrare
d'uno in uno altro animale: il che ancor mi pare che abbia confermato il
principe de tutti e' filosofi, Platone dico, il quale di gran lunga
avanza e trapassa d'ingegno ogni altro filosofo che mai fusse o sará nel
mondo, togliendo dal nuovero quelli solamente li quali alluminati furono
da la vera fede, o saranno, per opera del Spirito Santo, il quale per
tutte le cose averá scienza. Io credo fermamente avere sodisfatto
secondo il mio giudizio a le vostre quistioni: ora intendo piú
dimesticamente con voi ragionare e ricontarvi le piú maravigliose cose
del mondo.
LIMERNO, FÚLICA E TRIPERUNO
Limerno. Fatimi, prego, o padre Stúnica, un piacere.
Triperuno. Con cui parlate, maestro? ove trovasi questo Stúnica?
Fúlica. Volse egli dirmi Fúlica.
Limerno. O sia Fúlica o Stúnica, vorrei da Vostra Santitade una grazia.
Fúlica. E dua, potendo.
Limerno. Non mi vogliate piú oltra imbalordire lo debol cervello con
queste vostre filosofie. A che tanti Platoni, Aristotili e asini? voi
potreste cosí con le mura ragionare!
Triperuno. Anzi vorrei, caro mio maestro, che vi piacesse di ascoltarlo.
Ma facciamone qualche poco di pausa.
Limerno. Ditemi, prego, santo Fúlica: foste giammai di alcuna bella
donna innamorato?
Fúlica. Io fui e sono innamorato per certo.[259]
Limerno. Oh Sia lodato il Dio d'amore, che piú oltra non verrò necato di
parole al vento gittate! Voglio che 'n questa mia cetra cantiamo tutti
noi tre successivamente qualche amoroso canto, come piú al suo
particolar soggetto ciascuno de noi aggradirá. Io dunque sarò,
piacendovi, lo primiero e cantarovvi di mia diva la summa cortesia, la
quale dignossi mandarmi un bianchissimo panno di lino, lo quale, dapoi
lungo sudore nel danzare preso, mi avesse a sciugare le membra.
«Bruggia la terra il lino col suo seme»,[260]
disse cantando il mantoan Omero.
Perché un verso non gionse a dir piú intiero?
Del lin cosa non è ch'un cor piú creme!
Quel lino, che le man vostre medeme
dopo il grato sudor, donna, mi diero,
tessuto l'ha (chi 'l nega?) il crudo arciero:
tanto m'incende l'ossa e 'l cor mi preme!
Vi lo rimando. Ahi! rimandar non posso
l'ardor però, ch'ogni or sta 'n le medolle,
né umor di pianto v'ha che giú mil lave!
Ma prego Amor, sí come incender volle
tutte le mie, che almanco roda un osso
in voi, o di mia vita ferma chiave!
Piacquevi cotesto bel soggetto, o padre eremita?
Fúlica. Molto aggradisce l'umana generazione questa vocale musica.
Limerno. Or segui, Triperuno.
Triperuno. Dirò io alquante parole d'un oroglio di vetro, con lo quale
mediantovi una tritissima rena si misura d'ora in ora lo tempo.
Pensarsi non sapea piú agevolmente
cosa che d'uman stato avesse imago
d'un fragil vetro in vista cosí vago,
che libra il tempo a polve giustamente.
Vedi le trite rene come lente
filan e' giorni pel foro d'un ago,
e fan col fiume or quello or questo lago
in doi grembi, s'altrui volge sovente!
Ma cotal opra tosto va in conquasso,[261]
se avvien che fra doi vetri a la giuntura
quel debil filo e cera si dissolve.
O forsennato, chi d'aver procura
in terra stato, sendo un vetro al sasso,
al foco molle cera, al vento polve!
Fúlica. Assai piú lo discipolo mi piace che lo maestro, e
particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto, Triperuno mio
dilettissimo; ed annunzioti che in breve cangiarai vita e costumi in
assai megliore stato.
Triperuno. Io non son tale che mai puotessi adeguare l'alto ingegno del
mio maestro. Ma tóccavi, padre, la volta vostra.
FÚLICA
Nacque di fiera in luogo alpestro ed ermo,
ed ebbe co' le man il cor d'incude
(ove dí e notte giá molt'anni sude
far a l'inopia il pover labro schermo),
qualunque al pio Iesú giá stanco, infermo
a l'onte, ai scherni, a le percosse crude,
sofferse in croce le sue membra nude
al segno trar per darvi un chiodo fermo.
Quinci una mano, quindi affisse l'altra
ed ambo e' piedi al smisurato trave;
né vinse lui quel mansueto aspetto.
Ma questo avvien, ché in prava mente e scaltra
e che di sangue uman sempre si lave,
non cape amor né alcun pietoso affetto.
Limerno. Non altramente sperava io dover avvenire di questo ipocrita e
torto collo, e degno da esser nominato (se lo capo raso vien bene
considerato) «cavallero de la gatta». Mal abbia chi giammai ti mise
quello bardocucullo al dosso, frate del diavolo!
Triperuno. Deh, caro maestro, non vi partite!
Fúlica. Lascialo andare, figliolo. Colui che su nel cielo regna, solo
può fare di Saulo, Paolo; di lupo, agnello; di notte, giorno. Ma tu ne
verrai meco e, acciò che la lunghezza del cammino siati meno a noia,
seguirò de lo asino la miracolosa dottrina.
Triperuno. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo vostro
favoleggiare m'addolcisca il core, avendo voi parlamenti di vita.
FÚLICA
— Voglio che sappiáti — diceva quello — che gli asini e gli bovi ancora
hanno lo 'ntelletto; non che lo possono avere. Di che ve ne può far
chiari Esaia quando dice: «Conobbe il bove il suo possessore, e l'asino
lo presepio del suo signore», e David: «Non vogliate — dice — divenire
cavalli e muli», e soggiungevi la ragione: «perché sono — dice — senza
senno e senza alcuno avvedimento». Per che Cristo, umile e mansuetissimo
signore e obbedientissimo figliuolo al suo Padre, non volse montare
suopra gli cavalli né suopra gli muli, superbissimi animali e oltre a
modo ostinati, ma sí voluntieri si degnò ascendere suopra il mansueto
asinello. O beati gli asini e vie piú ch'ogni altro animale felici! O
beati quelli che asini divengono e sono degni di portare il Re de la
gloria in Gierusalem, cittá de li angioli e de tutti i santi! li quali
sempre veggono il sole de la giustizia che rasserena le nostre menti
piene d'errori oscuri e folti, e sempre mirano la divina e vera
bellezza, la quale gli fa in eterno beati e giulivi. Non posso io qui
tacere la soperbia e 'l fasto di coloro che «servi di Cristo» e «suoi
discepoli» si fanno chiamare, e temo forte che siano a guisa di quelli
servitori dalli quali è luntano il loro signore. Ma se pur di cosí sacro
nome si[262] vogliono gloriare, perché essi con piú pompa e con maggiore
fasto cavalcano piú ricchi cavalli e piú belli muli che Cristo mai non
fece? e perché non cavalcano essi gli asini, come 'l loro maestro e
signore (come dicono) gli ha dato esempio? Ma in ciò prudentemente hanno
fatto e fanno, ancora cavalcando quelli animali gli quali loro piú
assomigliano.
— Deh! guarda bene — disse allora Liberato a l'asino — e considera quello
che tu parli; ché se per mala sciagura mai si saprá, tu ne sarai molto
male trattato, ed io ti so bene accertare che tutte l'ossa con un grosso
bastone rotte ti saranno in dosso in cosí fatta guisa che mai piú non
portarai soma, ma miseramente di questa vita passarai. Né ti giovará
mercé per Dio chiedere: per te morta sará pietá, né potrai alcuno aiuto
o conforto ritrovare. Deh! non sai tu quello che indíce Iddio per bocca
del profeta: che dobbiamo lasciare stare i Cristi suoi? Perché dunque tu
gli tocchi, perché gli mordi, perché non gli lasci stare?
Rispose l'asino con un mal viso e disse: — Se temessi io il bastone e le
busse piú che Iddio, io mi tacerei, né sarei mai oso di dire la veritá.
Ma perciò che io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire, se mi
fia di bisogno, non ho paura di confessare e dire il vero. Né perché io
dica la veritá, si debbono essi reputare essere offesi da me, se
veramente discepoli sono e servi o amici di Cristo, il quale, come egli
di se medesimo fa vera testimonianza, è essa prima veritá e cagione
d'ogni nostra veritá. Io non mordo loro, io non gli tocco né pungo; io
lascio stare, anzi riverisco e temo i veri Cristi e sacerdoti e regi. Io
favello di quelli che vogliono essere creduti buoni[263] pastori e
vogliono essere commendati e riveriti, li quali nel vero sono mercenari
e prezzolati, che a prezzo temporale e vilissimo pascono le pecore di
Cristo e sono per avventura affamati lupi; ché a li buoni e veraci
pastori e santi prelati de la Chiesa convenevole cosa è, anzi
necessaria, a fargli ogni onore il piú che noi gli possiamo. Sí che
giusto sdegno mi sospinge a biasimare la lorda e malvagia vita de li
mali cherici e rettori de la Chiesa. Né può l'animo mio sofferire di
vedere quelli cavalcare con tanta pompa e compagnia, quanta mai non si
vide in Campidoglio ne gli vittoriosi trionfi de li romani, nel tempo
che avevano in mano il freno e 'l governo de tutte le provincie e de le
genti barbare, le quali di dí in dí soggiogano i nostri dolci paesi,
togliendoci oggi una cittá e domani l'altra, ed or questo castello ed or
quell'altro, e temo che in brieve non ci togliano le persone. Cristo
cavalcò una sol volta sopra l'asino, ma gli soi discepoli trionfalmente
a le piú volte si fanno portare dove a piè andare devrebbono.
— Non hai tu — disse Liberato — di ciò troppo da rammaricarti e da
dolerti, che dove una fiata portasti sopra gli omeri tuoi il nostro
Signore, leggerissimo e soave peso, ne la santa cittá di Ierusalem, ora
ti converrebbe portare i suoi vicari e suoi discepoli per oscuri boschi
e per le frondute selve, discorrendo or in qua or in lá, a le maggiori
fatiche del mondo, senza che[264] oltre al convenevole saresti carico
d'una gravissima soma, in maniera che staresti male. Per che ti déi
assai bene contentare del tuo quieto stato, né vogli procurare scabbia
al tuo corpo che sanissimo esser veggio. E maravigliomi io forte di cosí
fatte parole quali sono state le tue; ché io fermissimamente creduto
avrei, ed ancor credo, che voi asini sempre fuggito avereste cotali
pompe, lá dove ora mi pare che procacciate voi d'averle. Io sempre ho
udito dire che a gli asini non dilettino molto l'ornate e nobili selle
né gli aurati freni né le fregiate vestimenta e quelle che d'oro sono o
d'ariento dipinte. Né vidi io mai alcuno di voi essere troppo vago del
sòno de le corna o d'altri dilettevoli istromenti, onde sogliono e'
greci dire d'alcuno, che sia d'alcuna cosa rozzo e grosso, uno cotale
proverbio: «Egli è a guisa d'un asino a la lira». De l'uccellare e de
andare a cazza non mi è ora di bisogno che io ne parli, perciò che
dilettare non vi possono quelle cose le quali contrastano a la vostra
natura, la quale non vi diede l'ali a volare né veloci piedi e leggieri
a potere forte correre. Per le quali tutte cose io brievemente conchiudo
che ingiustamente voi e senza ragione facciate alcuna querela o romore
de lo vostro sbandeggiamento, recandovi a vergogna l'essere scacciati da
coloro, il cui maestro, se pur suoi veraci discepoli sono, vi elesse per
suo portatore, quasi come piú vi caglia il giudicio de gli uomini che
quello di Dio. Per che vi dovete voi dare pace di tutto ciò che a Colui
piace, a la cui direttissima volontá ed eterna disposizione e legge
immutabile ogni cosa si creda per certo essere soggetta. Or dubitate
forse voi de la divina ordinazione ed infallibile provvidenza? Credete
voi che alcuna cosa senza ordine e senza alcuno reggimento qua giú
sempre errando vada? Il che se voi credete, perché incolpate voi gli
uomini e non la instabile fortuna? Non avete dunque voi giusta cagione
da dolervi né da riprendere i chierici e prelati de la madre Chiesa; a
li quali, benché di scellerata e cattiva vita siano alquanti e avvenga
che facciano le sconcie cose, nondimeno dovete voi fargli ogni onore ed
ogni riverenza come a vostri maggiori e come a quelli li quali sono da
Dio ordinati e mandati a nostra utilitá, abbiando riguardo al
divinissimo precetto di Cristo che ne comanda e dice: «Facete voi quelle
cose le quali essi vi dicono e predicano che fare dobbiate; ma le
malvagie opere loro, le quali essi sovente fanno, non vogliate voi
fare».
— Non piú — rispose l'asino — non piú parole. Io non niego che non
debbiano essere ascoltate ed ubbidite loro leggi oneste e pie, né
vitupero io in tutto loro decreti e canoni o regole del ben vivere. Non
sono io di coloro che forse v'immaginate, ma di Cristo e vivo e morto,
al quale io servo e servire voglio nel suo dolce e grazioso evangelio,
né di servirgli sarò mai sazio. Al quale cosí piangendo son astretto di
dire: — O benignissimo Padre, riguarda! riguarda, o bono pastore, con
l'occhio de la pietá le tue povere e deboli pecorelle, le quali tra
crudelissimi lupi sono poste drento a cardi, vepri, spine ed altre
viziose erbe a pascere! Ecco, oimè! di quelli uno piú de gli altri
affamato e fiero, Licaone, a passo a passo, senza alcuno rispiarmo,
tutte le caccia, le svena, le straccia, le divora. Defendile,
potentissimo Signore, defendile da gli soi crudi artigli. Che...
TRIPERUNO
E ra per seguir anco il vecchio bono
G iá su l'entrar d'un poggio il qual si monta
N on senza gran sudore, quando un grido
A l tergo viemmi, rotto di dolore.
T orsi la fronte, ed ecco for d'un bosco
I o vidi una dongiella scapigliata
V enir fuggendo, ed ha chi l'urta ed ange
S empre battendo lei con aspra fune.
S tetti prima qual sasso; ma dapoi,
Q uando comprendo il viso di Galanta,
V olgo le spalle piú d'un strale in fretta
A Fúlica per trarla for d'affanni.
R ompeva la meschina l'aere intorno
C on alte strida e suon di petto e mani.
I ntendo l'occhio a chi la fea gridare:
A hi! ch'io la riconobbi, ahi! cruda ed empia
L aura maligna, incantatrice e maga,
V enefica non men di Circe fiera,
P utta sfacciata, vecchia, il cui fetore
V olgea gli uomini in bestie, augelli e serpi,
S tringendo ai carmi soi l'altrui costumi.
F úlica su pel monte ansando scampa,
L o qual non piú vedere i' puoti mai.
O vunque una sen fugge, e l'altra segue.
R atto m'avvento al fondo d'un vallone:
E cco vidi Galanta in un instante
N on esser piú Galanta, ma curvarsi
T utta ritratta, e capo e braccia e gambe,
I n una picciol forma di mustella.
N on puoti far allora, che non, ratto
V òlto in gran fuga e lagrimando forte,
S campassi per nascondermi da Laura.
D i passo in passo mi volgeva a drieto,
E rrando e qua e lá come stordito.
S tettesi la malvagia su duo piedi
T utta minace in vista e neghittosa.
R esto ancor io nel folto d'una macchia,
V edendo lei ma non da lei veduto.
C essò dunque la vecchia scellerata
T ener piú via d'avermi allor nel griffo;
O nde, quindi partita, io mi discopro
R itornando a veder ov'è Galanta.
R amparsi lungo al fusto d'un sambuco
E cco la veggio, oh quanto vaga e snella,
L eggiadra, pronta, sedula, sagace!
I o la richiamo come far solea:
— G alanta mia, perché mi fuggi, ingrata?
I o son il tuo fidele Triperuno:
O ve serpendo vai? vieni a me, vieni,
N on ti levar da me, ché bona cura
I o sempre avrò di te, fin che col tempo
S i trovi chi ti renda a l'esser vero. —
D issi queste parole e passo passo
I' m'avvicino, losingando, a lei.
V enne dunqu'ella, dolce mormorando,
I ntratami nel sino a starvi ad agio.
B asci soavi quella mi porgeva,
E d io basciava lei, non men insano,
N on men caldo di quel che fui davanti.
E ra sul picciol dorso tutta d'oro,
D i latte il corpo e leggiadretti piedi,
I ntorno al collo un circolo di perle
C into l'adorna e fammi esser men grave
T utta la doglia che m'assalse, quando
I o vidi lei cangiarsi a me davante.
L o giorno mai, la notte mai non cesso
A ppagarmi di questo sol piacere.
V enni a Perissa finalmente, dove[265]
R estar non volse Fúlica, ché 'l loco
E ra d'errori e soperstizia pieno.
S tetti qui molti giorni, mesi ed anni
I n una grotta sol per fiere usata,
B evendo acque de stagni torbe immonde,
I onci e palme tessendo e molli vinci.
N on mi levai dal dosso mai la gonna,
O nde l'immondi vermi di piú sorte
M'erano sempre intorno vigilanti,
E d un setoso manto folto ed aspro
N on mai giú da le nude carne i' tolsi.
V arcar un uomo in ciel non io credea,
I l qual fuggisse vivere famato,
N udrirsi d'erbe, more, fraghe e giande,
D estarsi a mezzanotte e macerarsi
I l corpo giá omicida di se stesso,
C orcarsi o su le frondi o in terra nuda,
A rrecarsi a gran merto il girne scalzo,
V ender se stesso ad altri, non avere
I l proprio arbitrio in sé, che Dio concesse
T enacemente al spirto di ragione.
A l fin, essendo sotto l'altrui voglia,
T olta mi fu la mia dolce Galanta:
L o mio solaccio, il mio contento e spasso,
A imè! da me fu radicato e svelto.
R imasi d'alma privo, ma nel dolo
V ivendo sempre tanto piansi ed arsi,
A rsi d'amore, piansi di dolore,
M orte chiamando ognor, che al fin privato
I o fui de gli occhi e d'ogni sentimento.
L aura qui ottenne il seggio, e sol de volpi,
L upi, tigri, pantere, draghi e serpi,
V entrosi vermi empitte boschi e selve,
M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.
A ttonita scampavasi la turba
P er le fantasme, sogni e negre larve,
P er l'ombre infauste che da l'empia Erinni
E rano sparse drento al laberinto,
L aberinto d'errori colmo e pieno,
L aberinto che giá di Dio fu stanza.
A ugellazzi notturni d'ogn'intorno
N on cessano volar con alte strida;
D el sole omai non piú v'entran le fiamme,
V olti de spirti neri sempre in gli occhi
M'erano fisi digrignando e' denti.
E la Galanta mia fu in preda d'altri
S uso al bel mondo, in grembo altrui, rimasa:
S uso al bel mondo, ed io nel piú profondo
E ra del Caos, centro e laberinto!
C olui che l'ebbe in mano fu l'egregio,
E gregio mio Grifalco, il qual non ebbe,
N on ha, non avrá mai di sé piú fido.
S trinse Galanta mia fra l'uscio e muro.
E lla morí chiamando: — Triperuno! —
M a 'l giovene magnanimo e cortese
V olse che d'alabastro un fino vaso
S epolcro fusse a la gentil mustella.
TUMULI GALANTHIDIS MUSTELLAE
GRIFALCO
Cogimur exiguam deflere Galanthida, virtus
quippe sub exiguo corpore multa fuit.
Hanc neque tum poterat limen collidere, vixit
quae pede cervus, aper fulmine, corde leo.
At magis offensas ulta est Saturnia priscas,
solvit ubi, invita hac, ventre Galanthis heram.
FÚLICA
Si brevis hic tumulus, breve carmen, me breve fatum,
quae mustella fui tam brevis, huc rapuit.
MERLINUS
Ter mutata, fuit Mulier, Mus, Stella, Galanthis:
me Mulier, tumulum Mus pete, Stella polum.
LIMERNUS
Quae mulier quondam, quae nunc mustella fuisti,
hic medium linquis nomen et astra tenes.
PAULUS F.
Lusus eram, nunc luctus heri, qui fraude peremptam
Lucinae officio me decorat tumuli.
MARCUS C.
An misera, an felix? dominum damnemve probemve,
Cum dederit mortem qui modo fert tumulum?
Si pius, unde mihi mors est? si non pius, unde
et decus et laudes et lacrymae et tumulus?
IDEM
Dum placeo interi. Occidit dum diligit, ingens
struxit Amor tumulum, sed prius ille necem.
IDEM
Mole brevi brevis ipsa tegor mustella, gementis
delitiae nuper, nunc lacrymae domini.
ISIDORUS C.
IUNONIS QUERELA
O ego quantum egi! extinxisse Galanthida dudum
credideram lethaeisque immersisse sub undis,
dum terris prohibere paro, coelum occupat audax
et vatum celebri late iam carmine vivet.
IDEM
Indulges lacrymis inane quiddam
deflens et teneram gemens alumnam,
Grifalco; at nihil huic magis salubre,
magis nobile praestitisse posses.
Vivens cognita vix tibi latebat.
Vitae munere functa, nunc perenni
vivet iam celebrata laude! per te
haec dum mortem obiit, absoluta morte est.
TRIPERUNUS AD DEUM CONFITETUR
Summe opifex rerum, pater instaurator et unus,
qui Deus existens coelo terraque potenter
cuncta regis, certo dum lapsu saecula torques,
en ego, si ante tuum debentur vota tribunal
assistique hominum curae trutinisque movendae,
quid faciam, tanto qui absumpto tempore noctes
produxi vigiles ea per figmenta, volumen
nugarum aedificans? En culpae cognitor omnis,
en quibus ingenium, quo nos decora alta subimus,
turpiter implicui fabellis, quo per ineptos
consenuit lusus viridis squalore iuventa!
Pars melior consumpta mei, redituraque nunquam
rapta est, unde animi ratio me conscia torquet.
Heu! heu! quid volvi misero mihi? sordibus aurum,
perditus, et gemmas immisi fecibus indas.
FINISCE LA SECONDA SELVA.
SELVA TERZA
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe:
tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
F | ortuna, con soi larghi e pronti | G | iri |
R | otandosi, nel volto ad altri | R | ide, |
A | d altri pur par sempre che s'ad | I | ri. |
N | on so, Grifalco mio, che me ne | F | ide: |
C | ostei veggio ch'a molti spenna le | A | le |
E | dal ciel tratti in terra li col | L | ide, |
S | i come Borea fa de le ci | C | ale. |
C | he temer lei, s'un Dio nel ciel ad | O | ro |
O | ver s'in terra un Mecenate o | N | oro? |
Or sbuco giá qual nottula di tomba,
ed oltra quella spera, onde la pioggia
descende e per augel rado si poggia,
date mi son le penne di colomba.
Tant'alto salirò, che mi soccomba
chi ha 'l giro di trent'anni, e 'n l'aurea Loggia,
ove 'n se stesso un Trino Sol s'appoggia,
fia tempo ch'al convito suo discomba.
Quivi non sotto enimma, non per velo
ch'abbia su gli occhi Móse, non per mano
posta al forame di l'eburneo ventre,
non piú a le spalle no, ma in vista piano
l'Altissimo vedrò quanto sia, mentre
si turba entro lo 'nferno e ride il cielo.
MAGNANIMVS TEMPLVM HOC MVSIS GRIFALCO LOCAVIT
PREFAZIONE
Lo animale ragionevole, lo quale per vivere o soperstizioso o
lascivamente, ovvero che per falsa dottrina avvezzato e abituato non piú
sente lo errore suo, ma cieco ed oblivioso nel grembo de la regina de'
peccati e difetti, che è la ignoranzia, sede e dorme, costui non pur di
bestia peggiore, ma un'ombra, anzi uno niente si pò chiamare, come
quello che non ode, non sente, non vede, non tocca piú di se stesso lo
essere. Or dunque trovasi egli nel Caos, e a lui non è fatto ancora il
mondo: dilché per divina pietade apparegli una fiammella d'intelletto, e
cosí a poco a poco entra egli in cognizione di queste cose per lui da
Dio criate e talmente vi affigge il core, che distinguendo e scegliendo
va lo smisurato beneficio da Dio a lui dato. Ma non troppo egli vien poi
rassicurato da questa nostra umana e corrotta natura, che non caschi o
poscia egli cadere in alterigia, vedendosi essere di tante belle cose
tiranno. Però l'anima, d'ogni macchia purgata, è nello stato che giá fu
Adam (intendendosi questo allegoricamente) avanti lo gustato pomo: la
natura gli è ancora incorrotta; non vi è lo tempo, non vi è la morte.
Vero è che nel paradiso terrestre de la purgata conscienzia potrebbe
ella facilmente con lo arbore del libero arbitrio fallire: o sia nel
tornare a la soperstiziosa vita lasciando lo vangelo, secondo Livia; o
sia per lo tribuire a soi istessi meriti la acquistata grazia, secondo
Corona; o sia nel voler comprendere e diffinire la incomprensibil ed
infinita potenzia di Dio, dando opera al studio de li nostri moderni
teologi infruttuosamente per noi affaticati, secondo Paola.
TRIPERUNO
Quel spaventevol mar, che a' naviganti[266]
promette l'Epicuro sí soave,
solcai gran tempo in feste, gioie e canti,
fin che la gola, il sonno e l'ozio m'ave
travolto in bande ove d'acerbi pianti
nel scoglio si fiaccò mia debol nave,
che aperse a l'acque il fondo ed ogni sponda
e 'n preda mi lasciò de' pesci a l'onda.
E l'ignoranzia d'ogni ben nemica,
tosto che 'n grembo a morte andar mi vide,[267]
corsevi come donna ch'impudica
con vista t'ama e col pensier t'ancide.
Quindi svelto mi trasse ove s'intrica
nostr'intelletto in quel sogno, ch'asside
fra le sirene, e dormevi egli in guisa,
che sua spezie da sé resta divisa.
Vago mi parve sí l'aspetto loro,[268]
che froda in tal sembianza non pensai;
ma ciò che splende poi non esser oro
tardo conobbi e subito provai.
Un d'angeliche voci eletto coro
entrato esser mi parve, e poi mirai
cangiarsi e' bianchi volti in sozze larve,
e il lor concento in stridi ed urli sparve.
Ed una nebbia orribile, che adombra
la ragion, lo 'ntelletto e l'altro lume,
m'avea offoscato sí ch'inutil ombra
io mi trovai for d'ogni uman costume
e in stato di color cui sempre ingombra
la dolce sete a l'oblioso fiume;
ché, come egli son vani e fatti nulla,
tal vien chi in ignoranzia si trastulla.
D'onde s'ardisco dire che 'n niente
m'avea travolto la regina cieca,
taccia chi 'n l'altrui fama sempre ha 'l dente
né dica il mio cantar favola greca.
Ma Dio, com'era fece a me, sua mente
svella dal stesso nuvol che l'accieca
e scotalo dal sonno (ah troppo interno!)
che puoco fummi ad esser pianto eterno.
Però ti rendo mille grazie, e lodo,
lodar quanto può mai potèsta umana,
te, dolce mio Iesú; te, fermo chiodo
de l'alta fede ch'ogni dubbio spiana;
te, dico, che disciolto m'hai quel nodo
il qual ci lega e fanne cosa vana;
te, sommo autor di tal' e tante cose,
che 'l suo tesor per noi lá suso ascose.[269]
Né lingua voci né 'ntelletto sensi
muova giammai senza 'l tuo nome sacro,
nome, che sempre, o canti o scriva e pensi,
spero pietoso e temo giusto ed acro,
Iesú, te dunque invoco per l'immensi
chiodi amorosi, ch'alto simulacro
t'han fatto in terra al popolo cristiano!
Or mentr'io scrivo scorgimi la mano;
scorgi la man non piú cruda, rapace,
non piú del mondo posta in servitute;
la man che particella, se 'l ti piace,
scriver desia de l'alta tua vertute,
la quale d'ogni senso uman capace
mi ricondusse al poggio di salute,
e nel tuo nome pareggiar vorria
mio basso stile un'alta fantasia.
TRIPERUNO
Il grave sonno, in cui m'era sepolto[270]
quanto di bono vien dal primo cielo,
ruppemi orrendo grido, qual in molto
scoppio far sòle il fulgurante telo.
Apro le ciglia e, quando ebbi distolto
da' sensi un puoco l'importuno velo,
dritto m'innalzo, guato e nulla veggio,
perch'era il mondo ancora d'ombre un seggio.
Anzi né ciel né terra né 'l mar era,
né averli mai veduto mi sovvenne;
non verno, estate, autunno, primavera,
non animai de' peli, squamme o penne;
non selve, monti, fiumi, non minera
d'alcun metallo; non veli né antenne,
mercé ch'era del Caos in la massa
d'ogni ombra piena e d'ogni lume cassa.
Né piú sapea di me stesso, né manco
di chi vaneggia in forza di gran febre,[271]
star o insensibil pietra o trar del fianco,
aver maschile o sesso muliebre,
esser o verde o secco o negro o bianco:
sí m'eran folte intorno le tenèbre!
Pur sempre non vi stetti, ma ecco d'alto
un sol m'apparve, onde ne godo e salto.
Perché, sí come il pullo dentro l'uovo,
bramando indi migrar, si fa fenestra
col becco donde v'entra il raggio nuovo,
e poscia da le spoglie si sequestra;
tal io, mentre me stesso in l'ombre covo,
luce spontar mi vidi a la man destra,
ch'empí la notte, onde ratto m'avvento
lá col desio che 'l corso far sòl lento.
Inusitato e subito conforto
ardir m'offerse al cuor ed ale al piede.
Lungo un sentier de gli altri men distorto
affretto i passi ovunque l'occhio il vede.
Oh avventurosa fuga, che a buon porto
giunger mi fece d'un tal pregio erede!
Ben duolmi che, narrarvi ciò volendo
mentre son carne, in van mie rime spendo!
Di luce un gioven cinto, anzi un'aurora,[272]
ch'appare spesso a l'alma cieca e frale,
ecco si mi presenta e mi 'ncolora
col viso piú che 'l sol di luce eguale.
Onesto e lieto sguardo, che 'namora
ogni aspro e rozzo core, onde immortale
so ben che a tal beltá l'avrei pensato,
se allor io fussi, quel ch'oggi son, stato!
Que' soi begli occhi ch'abbellâr il bello,
quanto su ne risplende e giuso nasce,
raccolsi a la mia vista, e fui da quello
non men depinto che quando rinasce[273]
Proserpina in obietto del fratello
e de' soi rai, benché luntan, si pasce.
Né il lume pur, ma un amoroso ardore
sentiva entrarmi dolcemente al core.
Pur come avvenne a Piero, in sua presenzia
la vista persi, il senno e le ginocchia.
Chi sopra uman valor si fa violenzia
portar tal peso, vinto s'inginocchia.
Veggendomi egli a terra, di clemenzia
pingesi 'l volto e con pianto m'adocchia:
poi, sollevando i lumi al ciel, tal voce
muosse, ch'anco m'abbruggia e mai non cuoce.
FIGLIO AL PADRE
O tu, che 'ntendi te, te, qual son io,[274]
quant'alto sei, quant'eccellente e saggio,
lo qual in nulla cosa mai non manchi,
sublime sí, che sotto e sopra quello
che sei pensar non puossi, e quest'è 'l mio
non mai dal lume tuo smembrato raggio,
io non di te né tu di me ti stanchi
mirar quanto ti sia e mi sii bello;
né quel spirito snello
e fuogo che fra noi sempre s'avvampa
ed or in dolce lampa
or in colomba formasi, minore
di noi giammai procede né maggiore.
Padre, Figliol e l'almo Spirto un Dio
eterno siamo, fuor d'ogni vantaggio.
Tre siam un, ed un tre, securi e franchi
che l'un vegna de l'altro mai rubello;
non cape in noi speranza né desio,
non spazio tra 'l comun voler né oltraggio.
Io del tuo lume e tu del mio t'imbianchi;
né dal nodo che tien l'alto suggello
unqua, Padre, mi svello.
Però d'ogni bontá nostra è la stampa,
che l'amorosa vampa
del Paracleto imprime; onde 'l «Motore
del Tutto» siamo detti e «Creatore».
Or di quel nostro incomprensibil rio,
cosí soave a l'umile coraggio
(s'umile mai verrá ne' spirti bianchi
conoscitor di noi), l'uomo novello
nasce d'animo e sangue santo e pio,
ch'avrá del mondo in man tutto 'l rivaggio.[275]
Né voi verrete in suo servigio stanchi,
stellati cieli e tu, nostro scabello,
ritonda terra; ma ello
s'indura contra noi l'ungiuta ciampa,
e giá si finge e stampa
di ferro e pietra statue, quell'onore
lor dando che a Dio vien, del tutto autore.
Nascon insieme l'uomo e l'alto oblio
del dritto ed anteposto a lui viaggio:
dico 'l sentier, che al fin porge doi branchi,
l'un stretto, dolce; l'altro piano, fello.
Quinci al gioioso, quindi al stato rio
s'arriva, onde giustizia in lor dannaggio
a' tristi vegna, e tengali ne' fianchi
téma per sprono e morte per flagello:
morte che, in un fardello
cogliendo tutti, ovunque vòl si rampa.
Nullo da lei mai scampa;
sia pur bel volto, sia pur verde il fiore,
far non può mai che morte nol scolore.
Ma guai, chi 'n mal far sempre ha del restio,
ché ogni sempre di lá trova 'l paraggio;
que' dí che mai di colpa non fûr manchi
men fian di pena ove gli rei flagello,
in fin a l'ore estreme, quando 'l fio
pagar verrammi inante ogni linguaggio,
dal ciel i destri e da l'inferno i manchi.
Pur stando in carne, lor spesso rappello:
— Non son tigre né agnello:
chi 'l perso ben per racquistar s'accampa,[276]
chi 'l viver suo ristampa,
intenda realmente che 'l Signore
del ciel in ciel non sdegna il peccatore!
Dunque, Padre, mi 'nvio dare suffragio
a loro, che non san chi sia pur quello
ch'altri da morte scampa, ed esso muore!
TRIPERUNO
A li alti accenti d'un tal sòno eroico,
del quale ne tremai com'uom frenetico,
vennemi voce altronde: — A che esser stoico,
miser, ti giova né peripatetico?
che ti val fra l'un mar e l'altro euboico
pigliar oracli e ber fiume poetico?
a che spiar la veritá da gli uomini,[277]
che di menzogna furon mastri e domini? —
Io, che sculpito in cuor le note aveami
d'un sí bel viso, d'un parlar sí altiloquo,
a poco a poco gli occhi aprir vedeami
al sòno di colui tanto veriloquo.
Pur tal era l'error ch'anco teneami,
che a pena svelto fui; perché 'l dottiloquo
gioven mi sciolse, onde ciò che anti nubilo
mi parve intendo, ed intendendo giubilo.
Giubilo perché intendo (intenda e Plinio,
ch'or vive morto!) viver sempre l'anima;
non sí però, ch'i' stia sotto 'l dominio
di chi 'l tegume d'uman spirto inanima.
Stetti gran tempo in tale sterquilinio,
nel qual concedo ben che l'alma exanima
la troppo vaga ed addolcita letera,[278]
e molti uccide il canto d'esta cetera.
Qual è chi 'l creda, ch'oggi tanta insania
la nostra veritá sí prema e vapoli?
S'io mi diparto a l'umile Betania
per alto mar da Roma o sia da Napoli,
ecco a man manca dal Parnasso Urania
scopremi l'Elicona, ove mi attrapoli.[279]
Ben sa che a lei m'avvento, benché 'l Tevere
lasciassi per Giordan, quell'acque a bevere.
Acque sí dolci! quanto piú bevémone,
piú a la tantalea sete si rinfrescano!
Quivi l'argute ninfe lacedemone[280]
a gli ami occulti nostre voglie adescano;
cosí non mai dal bianco il negro demone
sceglier mi so, non mai l'onde si pescano,
cui trasser a la destra del navigio
Piero e Gioan de' pesci il gran prodigio.
Però dal mio Iesú se detto fiami
giammai: — Di poca fede, or perché dubiti? —
scusarmi non saprò, quando che siami
concesso por le dita fin ai cubiti
nel suo costato e trarvi 'l ben, che diami
fidi pensieri e al vero creder subiti.
Non lece dunque piú d'Egitto in gremio
starsi, ma gir con Móse al certo premio.
Assai d'oro forniti e gemme carichi,[281]
di Faraon scampiam omai la furia;
né sí men gravi paran i rammarichi
e pene che ci dava l'empia curia,
che nel deserto alcun de noi prevarichi,
dicendo in faccia a Móse questa ingiuria:
— Mancaron entro Egitto forse i tumuli,
ché morir noi per queste valli accumuli? —
Ma non cosí l'alma gentil improvere
a chi oltra 'l mar asciutto mena un popolo;
ché nel primo sentier, quantunque povere
sian le contrate, ove sol giande accopolo
per cibo, al fin vedrassi manna piovere,
sorger un largo rio di nudo scopolo,
che cominciando a ber nostri cristigeni[282]
san quanto noccia usar co' li alienigeni.
Deh! non ci chiuda il passo ai rivi, ch'ondano
di latte e mèle, nostra ingratitudine:
rivi che noi di lepra e scabbia mondano,
contratta dianzi ne la solitudine.
O di qual mèl e' nostri petti abbondano,
ch'assaggiâr pria di fèl l'amaritudine!
Ma ciò non prima seppi, che 'n cuor fissemi
Iesú questi sí dolci accenti e dissemi:
DIALOGO
CRISTO E TRIPERUNO
CRISTO
Pace tra noi, ch'amor ciò vòl, o privo
d'amor e pace miser animale,
sí bello dianzi ed or sí lordo e schivo!
Amor sia, prego, e pace teco, ché ale
né augel mai vola senza, né alma, cui
amor e pace manchi, ad alto sale.
Ma non m'intendi (sí contende i tui[283]
sensi la folta nebbia!): u' l'aurea face
del cuor spent'hai, né vedi te né altrui.
Ahi! misero, che speri? ove fugace
te sottraendo a l'ira vai? ché altrove
ben giugne al varco l'empio contumace!
Le tue (non solle?) mal pensate prove
t'han scolorato 'l viso e spento a' piedi
la scorta luce. Dove vai? di', dove?
Or vegno liberarti: spera e credi,
porge la man, né aver, uomo, di téma[284]
el spirto sol, d'amor anco 'l possedi.
Ma un dono qui ti cheggio, cui l'estrema
vertú del ciel, ch'or tu non sai, si pasce,
né in lui divina fame unqua vien scema.
TRIPERUNO
Il vago vostro aspetto, onde mi nasce
un trepido sperar (qual che voi siate,
Signor), deh, in questo errore non mi lasce!
O dolce man ed occhi di pietate,
(ch'or man i' stringo, ch'or begli occhi veggio),
morrò se 'l venir vosco mi negate!
Mentre vi guardo e 'nsieme favoleggio,
si rasserena e sfassi quella scabbia
nel cor giá fatta un smalto e duro seggio.
Qual sí fort'ira, qual schiumosa rabbia
non ratto cade al viso vostro onesto?
E pace mi chiedete in questa gabbia?
in questa d'error gabbia chiuso e mesto,
privo d'ogni, se non sia il vostro, aiuto,
dunque, ch'i' v'ami e doni son richiesto?
Amarvi, anzi adorarvi, non refuto;
ché, quanto parmi al bel sembiante altéro,
amarvi, anzi adorarvi son tenuto.[285]
CRISTO
Oh se co' l'occhio avessi 'l cor sincero,
piú che di for me 'ntenderessi dentro!
Però di me non hai giudicio intero.
TRIPERUNO
Non pur voi, ma me stesso, e 'n questo centro
come 'ntrassi non so. Ben or vi dico:
s'uscirne poscio, mai, non mai piú v'entro!
Non trovo in lui né porta né postico
per cercar chi' mi faccia, e brancolando
in guisa d'orbo, piú miei passi intrico.
Oggimai tempo è trarsi d'ombra, quando
la luce de vostr'occhi essermi scorta
non sdegni a l'uscio per voi fatto entrando.
CRISTO
Questa prigion da tutte parti porta
non ha, for ch'a l'entrare; ma ritorno
far indi e sovra girsen, via piú importa.[286]
Questo è quel lungo nel mal far soggiorno:
non speri uman valor, chi uscirci vòle;
ed io lo guida son ch'altrui distorno.
Di che se ben sentissi, o ingrata prole,
quanto ti diedi e darti anco apparecchio
di questa cieca ed inornata mole,
non fôra mai che per alcuno specchio
di veritá lasciassi 'l vero lume,
avendo al falso pronto sí l'orecchio.
Son io la veritá, son io l'acume
del raggio che, volendo, sempre avrai:
persona i' son de l'inscrutabil nume.
Io son l'amor divin, che ti criai
uomo simile mio, del ciel consorte,
se 'l cor porgi che pria t'addimandai.[287]
A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte
convien. Stolto sarai se darmi 'l nieghi,
ché nol facendo ti verrá la morte!
Morte, fera crudele, ai lunghi prieghi
che le sian fatti acciò non ti divore,
immobil sta, non che punto si pieghi.
Ma se remetti ne le man mie il core
e per altrove porlo indi nol svelli,
non fia perché abbi tu di lei timore.
Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli
e quant'urne s'affretta empire d'ossa
non temer, né di forza ch'aggian elli.
Lei, di catene vinta in scura fossa
rinchiusa, freno; ché, sciôrse volendo,
talora si dimena con tal possa,
ch'ella, te il cor ritolto avermi udendo,
subito rotte lasciaralle a dietro.
E, quant'or ti son bello e ti risplendo,
questa piú lorda e d'aspro viso e tetro
ti assalirá co' l'insaziabil ferro
di nervo tal, ch'ogni altro li è qual vetro;
e 'n peggior stato, di cui ora ti sferro,
respinto ancideratti, e parangone[288]
farai del gran destin che altrove serro
a te, sol d'intelletto e di ragione
bell'alma. Poi ch'ucciso morte t'aggia,
in Dio de l'opre tue sta 'l guidardone!
Pur speme né timor da te ti caggia,
ma l'una e l'altro insieme fa' che libri;
ché chi spera temendo alfin assaggia
di me quale dolcezza lá si vibri,
ove sfrenato amor ragion non stempre,
ma sian le due vertú del senso i cribri.
TRIPERUNO
Se per cosa, Signor, di basse tempre
da voi sí largo pregio me n'acquisto,
ecco, vi dono il cuor! abbiatel sempre!
Ma (dirlo vaglia!) non piú bello acquisto
far si potria di quel ch'or faccio: averve,
o d'ogni ben bellezza, in fronte visto,
in quella fronte, onde tal foco ferve[289]
in l'alma mia, che ardendo s'addolcisce,
mentre che 'l suo del vostr'occhio si serve.
Non ho che io temi morte se perisce
ogni sua forza, pur che sempre v'ami;
e il sempre amarvi troppo m'aggradisce.
CRISTO
Non mancheranno tesi lacci ed ami
d'un adversario tuo, che 'nvidioso
al don, ch'or ti darò, sotto velami
di veritá cerchi farti ritroso
a l'amistade nostra; ma piú bassi
che puoi gli occhi terrai col piede ombroso.
Muovi tu dunque accortamente i passi
per questo calle che a man destra miri,
onde al terrestro paradiso vassi.[290]
Cosa non avvi per cui unqua sospiri,
anzi gioisci di quel dolce ch'io
t'apporto, acciò che m'ami e toi desiri
commetta a me che t'ho svelto d'oblio.
TRIPERUNO
Com'esser può ch'un arbore, ch'un fiume
l'un stia verde giammai senza radice,
l'altro piú scorra se acqua non s'elice
di fonte, o neve a l'austro si consume?
Com'esser può che 'ncendasi le piume,
mancando il sole, l'unica fenice,
o ch'ardi al spento foco cera o pice
di natural e non divin costume?
Com'esser può, dal cor un'alma sgiunta,
che 'n corpo viva, come allor viss'io
che 'l cor al car mio dolce Iesú diedi?[291]
Ma 'n ciò tu sol, amor, natura eccedi,
ch'un corpo viver fai, benché 'l desio
sen porti altrove il cor su l'aurea punta.
TALIA
Piú di voi fortunati sotto 'l sole
fra quantunque animal non muove spirto,
ch'al fin d'esta mortal incerta nebbia
migrar ci è dato sovra l'alte stelle!
Bontá di lui, che, a man destra del Padre
regnando, fassi degna nostra guida.
Nostra per cieco labirinto guida,
ove smarri de lo 'ntelletto il sole;
nostro fermo dottor, che sé col Padre
esser c'insegna un Dio co' l'almo Spirto,
un Dio, che stabil muove il mar, le stelle,
augelli, belve, frondi, vento e nebbia.
Ma da l'Egeo mar un'atra nebbia,[292]
che a tanti perder fa la dolce guida,
levata in alto fin sotto le stelle,
ai saggi erranti cela il vero sole:
ché piú credon salir di Plato il spirto,
che Paolo e Móse, che d'Isacco 'l padre;
né Archesilao né de stoici il padre
sin qui gli han tolto via del cuor la nebbia,
che penetrar non lascia ove sia 'l spirto
motor di ciò che muove, mastro e guida.
Però van ciechi e bassi, e solo al sole
molti dricciâr altari ed a le stelle.
O voi dunque, mortali, de le stelle,
de l'anime e di noi cercate il sole,
e non del dubbio Socrate la nebbia.
Meglio è morendo aver Iesú per guida
che ad Esculapio offrir d'un gallo il spirto![293]
I' veggio trasformato il negro spirto
in angelo di luce, per le stelle
volando, a noi mostrarsi esser lor guida,
se leggo Averois, d'errori padre.
Ma l'aquila Gioanni in bianca nebbia
sublime affise gli occhi al Sol del sole;
al Sol del sole, onde 'l figliuol, dal padre
mandato in questa nebbia su a le stelle,
si è fatto nostra guida, amor e spirto.
DISSOLUZIONE DEL CAOS
TRIPERUNO
Finito che fu dunque l'alto verbo,
benché infinito sempre lo servai,
disparve 'l mio Signor in un soperbo
triunfo tolto a mille e mille rai;
ma nel fuggir un sòno cosí acerbo
tonò dal negro ciel, ch'io ne cascai
come frassino o pino, il qual per rabbia
di vento stride e stendesi a la sabbia.
Vidi la cieca massa, in quell'istante
che 'l capo m'intronò l'orribil scopio,
smembrarsi in quattro parti a me davante,
ed elle sgiunte aver giá loco propio,
due parti in capo e due sotto le piante:
sommmistrarmi sento effetto dopio,
qual puro e caldo, qual sottil e leve,
qual molle e freddo, qual densato e greve.[294]
Vidi anco le 'ncurvate spere intorno
de la terrestre balla farsi cerchio,
che rotan sempre e mai non fan ritorno:
sol'una è fatta a noi stabil coperchio.
Ma 'l ciel d'innumerabil lumi adorno
(un solo non mi parve di soverchio)
m'offerse al fin girando un sí bell'occhio,
che lui per adorar fissi 'l ginocchio.
Egli, sé alzando, tal mi apparse, ch'io
lasciai pur anco 'l fren in abbandono,
drieto a l'error del credulo desio,
che 'n tal sentier non sferzo mai né sprono.[295]
Ma strana voce, onde quell'occhio uscío,
mentre ch'assorto in lui sto fiso e prono,
scridommi come Paolo ai listri fece,
che di Mercurio l'adorâr in vece.
SOLE
Alma felice, c'hai sola quel vanto[296]
aver di l'alta mente simiglianza,
onde guardar mi puoi frontoso, altero,
qual or ti fai, ché 'n me, codarda tanto,
piú estimi questo raggio che l'orranza
del dato a te sovra ogni stella impero?
Non Dio, ma un messaggero
di lui ti vegno da quell'una luce,
ove ben sette volte intorno avrai
di me piú bianchi rai;
da Quel senza cui nulla fiamma luce,
ma come in vetro egli per noi traluce.
Or dunque piú alto e non sí basso adora,
ché l'esser mio fu solo in tuo servigio.
Mira come ascendendo passo passo,
senza mai far in lunga via dimora,
di miei cavalli tempro sí 'l vestigio,
che l'ampia rota, ove tornando passo,
non unqua vario e lasso,
finir a la prescritta meta deggio.
Vedi come l'estreme parti abbraccio,
e quanto puosso faccio
sol per accomodarti l'uman seggio,
ove di quanto sai voler provveggio.
Mira quell'ampia zona come obliqua[297]
mi volge a drieto, onde ne vado e riedo[298]
insieme, ostando al mio tornar sí ratto.
Né di' che tal ripulsa mi sia iniqua;
ché risospinto, mentre vi procedo,
l'un emisfero aggiorno, l'altro annotto,
scorrendo quattro ed otto
segni per tanti mesi, e passeggiando
causo molta bellezza di natura,
c'ha, variando, cura
farti piú vago e lieto il mondo, quando
d'ambi solstici a l'equinozio scando.
Quinci l'arista, e 'l ghiaccio quindi apporto,
lá il fior e 'l frutto a piú tua dolce gioia.
Ma non usar del ben concesso in male,[299]
ché sentiressi quanto è ratto e corto
il mio gir lento, e ti darei gran noia
solcando il cerchio estivo e glaciale.
Poi 'l tempo c'ha cent'ale
a gli omeri, a le mani, al capo, ai piedi,
ch'ora sotterra giace in le catene,
verria stôrti dal bene
ch'oggi sí lieto godi e te 'l possedi;
e ne faria soi giorni e mesi eredi.
Ben tempo fu, che chi sia 'l tempo e morte
quello provasti, e questa dir sentisti;
e l'uomo Dio, che d'uomo a tempo nacque
(ma sempre di Dio nasce, ed or le porte
del ciel entrar hai visto), giá servisti,
quando per l'uomo farsi uomo li piacque;
ché nel presepio giacque
nudo, fra l'asinello e bue nasciuto.
Ma, d'ignoranzia in grembo, l'hai scordato:
però da Dio novato
col mondo sei, che dianzi eri perduto,
e novo Adamo fatto sei di luto.
Luto non sei piú, no, ma novo Adamo
per cui ruppe oggi Dio la massa, e d'ella
novellamente noi per tuo ben scelse;
noi, dico, stelle, ch'anzi ti eravamo
co' l'altre cose nulla o quel si appella
«Caos», donde 'l bel seclo Dio ti svelse.
Ma sovra le piú excelse[300]
corna de' monti, onde ti porto il giorno,
piantato t'è un terrestre paradiso,
che di solaccio e riso
onestamente sendo sempre adorno,
Iesú spesso vi fa teco soggiorno.
Adora lui, se forse quanto sia,
(dandogli 'l cor sí come hai fatto), gusti.
Quel non son io, perché da te adorato
ne vegna, come al mondo errore fia
di Manicheo e soi sequaci ingiusti.
Cristo non son, perch'egli sempre a lato
del Padre sia chiamato
«sol di giustizia»; dond'ei dir si puote
Cristo esser sole, e 'l sol non esser Cristo.
Sol son io 'l sole, visto
d'occhio mortal; ma l'altro sol percuote
di cieco error chi vòl mirar sue rote.[301]
Ora piú non m'attempo,
ché senza me vedi ogni errante stella
(per trarne frutto, chi testé, chi a tempo),
volersi unir indarno a mia sorella,
che adultera s'appella[302]
d'ogni pianeta, e pur senza noi dua
con puoco effetto va la vertú sua.
TRIPERUNO
A l'increpar umíle del mio Apollo,
come uom che cade e sú vergogna l'erge,
mi rilevai, mirando quanto armollo
di sua potenzia Dio, che, ovunque asperge
li aurati raggi, il mondo fa satollo[303]
di caldo lume, e ratto che s'immerge
a l'altro uscito giá d'un emispero,
imbianca quello, e questo lascia nero.
Ma non sí tosto il giorno fu dal lume
solar causato e nanti mi rifulse,
che lá una fonte, qua bagnar un fiume
vidi le ripe sue da l'onde impulse:
parte stagnarsi e mitigar lor schiume,
parte volgersi al mar e l'acque insulse
far salse, ove l'orribil Oceáno
distende l'ampie braccia di luntano.
In mille parti ruppesi la terra,
donde montagne alpestri al ciel ne usciro.
Quinci una valle, quindi un lago serra
de' colli e piagge qualche aprico giro.
L'alto profundo mar giá non pur erra
la sua consorte che rotonda miro,
anzi, fatta la via per calle stretto,
in grembo a lei si fece agiato letto.
Giá d'erbe, fiori, piante e de' virgulti
la terra d'ogn'intorno si verdeggia;
quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti
han di frondose cime, e qual pareggia
monte le nebbie. Ma de' boschi adulti
ecco giá sbuca l'infinita greggia
de gli animali: chi presto, chi pegro,
chi fier, chi mansueto, o bianco o negro.
Anco d'augelli un'alta copia vidi
sciolti vagar per l'aere, ed altri tanti
su per le frondi e macchie tesser nidi
o rassettar col becco li aurei manti
(non è poggetto e riva, che non gridi
lor vari e ben proporzionati canti),
altri lasciare il volo e al nuoto darsi
e, in acque scesi, d'augei pesci farsi.
Stavami affiso, e nel mirar un dolce
pensier alto diletto m'apportava:
gran cosa il mondo, e piú chi 'l guida e molce
troppo mi parve allor, e ch'ei non grava
né l'un né l'altro polo che lo folce,
e ch'un sí magno artefice l'inchiava!
Né fu mirabil men, che de niente
pender lo vidi ad alto incontanente.[304]
Tra nulla e tutto 'l mondo alcun indugio,
quantunque pargoletto, in Dio non cape.
Or stracco di stupir non piú m'indugio:
ma, vòlto il passo ad un pratel che d'ape
tutto risona, dando a lor rifugio
sí l'aura dolce come i fior le dape,
mi si presenta ratto in bella gonna,
ch'esce d'un bosco, sola e grave donna.
Presta ne' gesti, e di sguardo matura,
ma piú d'augello ne l'andar spedita,
ha vesta bianca, gialla e di verdura,
e ciò che 'ncontra tocca e dálle vita.
Che nulla a drieto lasciasi procura;
e sopraggiunta ov'era l'infinita
mandra de l'ape, tutte le raguna,
e fece lor non so che, ad un' ad una
Vago di lei saper, non che la causa
perché sí or questa or quella cosa tocchi,
vadole contra; e poi, di farle nausa
temendo, mi ritraggo e basso gli occhi.
Ella che accorto m'ebbe fece pausa
con le man giunte al ciel e li ginocchi
piegati in terra, e tal parole sciolse,
che poi finite, a me lieta si volse:
NATURA
Quell'inclito animale d'alto pregio,
ch'ogni altro avanza e tiensil basso e domo,
ecco, celeste Padre Santo, il nomo,
se da voi porre i nomi ho privilegio!
Ma giá trovai nel nostro sortilegio,
che nominar il debba «fragil uomo»,
per quel sí dolce e pestilente pomo
cui si nascose il primo sacrilegio.
Ben vedo che per me, «Natura» detta,[305]
l'eterno oprar che destemi si perde,
e nasce ognor che mi persegua il tempo.
Onde, per ch'ora sia sempre sul verde,
altre stagion verranno assai per tempo,
che al fine mi trasportan qual saetta.
DIALOGO
NATURA E TRIPERUNO
NATURA
Spirto immortale, a cui sol alza Dio[306]
la fronte in cielo e fattene capace,
fa' che a me torni udendo l'esser mio!
TRIPERUNO
Io sospicai di troppo esser audace,
volendo e te sapere e l'opre tue:
però mi volsi adrieto per mia pace.
NATURA
Anzi dal Padre destinato fue
che sol da l'uomo l'esser mio s'intenda
fin a la meta de le fiamme sue;
ma che l'ottavo cerchio non trascenda,
se non quando abbia seco parte in cielo
e l'alto pegno, d'onde 'l tolse, renda.
Ch'i' sia la tua Natura non ti celo,
da Lui fatta del mondo servatrice
sempre, se sempre dura l'uman velo.
TRIPERUNO
Dunque sei quella mastra, quell'altrice,
quell'onoranda madre, quella grande[307]
di Dio ministra e del mio ben radice?
Ecco se lunge tua beltá si spande,
o causa se non prima, almen seconda,
ecco se chiara sei da tutte bande!
Verd'è la terra, gialla, rossa e bionda,
che 'l tuo pennello intorno mi la pinse
e mi la rese agli occhi sí gioconda.
E 'l ciel ne lodo, e lui che il mondo avvinse
di quel forse non mai solubil groppo,
né men chi a l'opra nobile t'accinse.
NATURA
Saggio animal, pur son colei che 'ngroppo
le fila ch'altri lá dissopra ordisce:[308]
lieta ne vo, ma non sicura troppo.
Anzi 'l vivo pensier, che m'addolcisce
pensando al tuo, non pur al mio decore,
sento che passo passo in me languisce.[309]
Deh! non fallir, alma gentil, amore,
che ad esser ti degnò suo dolce obietto,
dandoli tu, de cui si pasce, il cuore!
TRIPERUNO
Il cuor a lui giá diedi, ed ogni affetto
ho di seguir e non lasciarlo unquanco
per non privarmi del suo bello aspetto.
Non sazio mai, non mai vedrommi stanco[310]
mentre mi volgo a contemplar ognora
l'amor per cui di gioia mai non manco.
E pur se dubbia sei, madre, né ancora
ben stabile considri esser il chiodo,
battil cosí che mai non esca fora!
NATURA
Figliuol, giá strinsi a l'altre cose un nodo,
donde sferrarsi quelle non potranno,
se Dio non le ritorna al primo sodo.
A te con li altri, che saputi vanno,
diede l'alto motor un liber giovo,
che o lor in pregio vegna o lor in danno.
Però mistier non è ch'io batta 'l chiovo;
altro braccio del mio sovente il preme;
tu stesso il sai che 'l fatto non t'è novo.
Ragion, memoria, e lo 'ntelletto insieme[311]
sceser in te da le soperne idee,
c'han di tua libertá le parti estreme.
Se mai verrá che contra 'l ben si cree
pensier in te, non temer, che non senta
le voglie entrate se sian bone o ree.
Perché la scorta tua sta sempre intenta
del cor al varco e sa chi va chi viene,
né in darti avviso mai fia pegra e lenta.[312]
Però ch'io sol la rabbia in te raffrene!
forse tempo verrá che da me impetri
de le stagion di foco e ghiaccio piene.
Ché quando sia che i dí brumali e tetri
volgerti il chiaro ciel sossopra miri,
e i monti neve, e i stagni farse vetri,
nostra in balía sará che 'l mondo giri,
lo qual il tempo adorno riconduca,
e l'erbe e' fior novellamente aspiri.
Ma non sia ch'alcun serpe mai t'induca
de l'arbore vietato a côr il frutto,
che ancide altrui se 'l morde o se 'l manuca.
TRIPERUNO
Piú tosto il sol fermarsi e 'l mar asciutto
forse vedrò, che mai contra la voglia
cosa mi faccia di chi move 'l tutto.
Ma scoprimi tu giá (quando che foglia
mai senza tuo vigor non penda in ramo)
quanto sii vaga e bella sotto spoglia!
NATURA
Qual pianta, qual augel, qual fiera piú amo
di te, saggio animal? Però mie cose
io piú mostrarti, che tu veder, bramo.
Voi dunque, freschi rivi, piagge erbose,
opachi colli, cavernosi monti,
campi de gigli, de ligustri e rose;
voi, rilevate ripe, laghi e fonti,
riposte valli, ruscelletti e fiumi,
ch'anco miei segni non gli avete cònti;
anzi del ciel voi fiammeggianti lumi,
quella vertú spandete a l'uomo nostro,
ch'omai l'assenni e del mio ben l'allumi!
Nel cui servigio mosse l'esser vostro[313]
un Dio: però ch'ei sol v'intenda lece,
al qual faceste un altro piú bel chiostro;
chiostro di tante stelle ornato in vece
d'un bel trapunto, ove specchi e gioisca
le quattro e sette lá, qua l'otto e diece.
E quanto su contempla e giú, sortisca
in grazia tal, che lo 'ntelletto pigli
non men de l'occhio, e par a lui salisca.
Orsi, tigri, leon, lepre, conigli,
pantere, volpi, orche, ceti, delfini,
aquile, strucci, nottole, smerigli,
non sia de voi chi umile non s'inchini
a l'assennata forma, ovunque scorre
tra voi platani, abeti, faggi e pini.
Di tutte vostre cause in lui concorre
una dal sommo artefice criata,
che a l'uomo suo voi tutti ebbe a comporre.
Ma sento giá l'error! Ahi, scellerata
soperbia, che pur l'uscio trovi aperto,
ben cara costaratti quell'entrata,[314]
ch'io vengo il premio compensarti al merto!
TRIPERUNO solo
Se dir volessi a mille e mille lingue,
se por in carte a mille e mille penne,
col senno ch'ogni groppo ci distingue,
dramma del sommo ben ch'allor mi venne,
dapoi che l'alta donna con le pingue
di sdegno gote al ciel spiegò le penne,
direi che tra' mortali l'esser mio
saria non d'uomo anzi terrestre Dio.
Giá mai sí bel secreto fu di lei
né in erbe, fonti, pietre, stelle occulto,
ch'al subito girar de gli occhi miei
non mi restasse in l'alta mente sculto.
So ben che mille Atlanti e Tolomei
de l'intelletto, ch'oggi m'è sepulto,
non sen trarrebber una particella,
perché saliscon d'una in altra stella.
Ma, lasso! il chiaro vetro in ch'io solea
specchiar da fronte i secli, e poi le spalle,
per ch'io 'l trovai sí fosco? perché Astrea
piú star non volse meco in questa valle?
perché ridir non so quant'io scorgea
per un angosto ma soave calle?
Lassiamlo dunque; anzi a le cose parve
scendiamo, poscia che l'altezza sparve!
Sparve Natura molto neghittosa,
mercé che volse a Dio l'orgoglio equarse.
I' mi fermai sott'una macchia ombrosa,[315]
mirando l'ape, quinci e quindi sparse,
a sacco porre una campagna erbosa
ed a vicenda in loco poi ritrarse,
ove locar di cera e mèle vidi
per cave querze i tetti lor e' nidi.
Se fu ne' grandi corpi molto industre
Natura, ove mirabil officina
corcò, quanto piú parmi saggia e illustre
fingendo l'apa in forma sí piccina!
Né l'apa sol, ma ciò ch'umor palustre
nudrisce, dico, o riscaldata brina,
donde sbucarse veggio tarli e culci,
vespe, cicade, mosche, ragni e pulci.
Dimmi tu, senso altier che a tutta puossa
intender cerchi Dio né mai lo aggiugni,
perché, s'han elli sangue, nervi ed ossa
sol per sapere, non te stesso impugni?
perché sottrarsi da qualche percossa
lor presti miro, che morte no 'i giugni?
Segno evidente ch'in tal corpicello
non men la madre oprò ch'in un gambello.
Ch'instrusse mai quella solerte vespa
svenar il ragno e trasferirlo al speco,
dove co' piedi e rostro pria l'increspa
e tienlo poi, qual uovo, in grembo seco,
in fin ch'un figlio in quella tana crespa
gli nasca d'ale privo, ignudo e cieco,
ma di troncate mosche tanto 'l pasce,
ch'egli giá vespa salta fuor di fasce?
Qual mastro dito a l'errabondo fuso
volve di quel del ragno piú bel stame,
ch'or suso va cosí veloce, or giuso,
nodando, per far preda, l'alte trame?
Poi, ne la stanza pendula rinchiuso,
attende al varco, per scemar la fame,
qual animal vi caschi ne le stuppe,
che con prolisse gambe ravviluppe.
Né la formica men sagace parmi,
ch'ognor s'affanna per schivar il stento.
Di quanta forza veggio che co' l'armi[316]
e schiene va burlando il gran frumento
(cosí nel far teatri grevi marmi
sòlsi condur per gli uomini al cimento),
poi l'incaverna e fiedelo col rostro,
che non s'imboschi dentro l'ampio chiostro!
Ecco sen passa d'una in altra forma
quel vermo onde la seta for s'elice.
O bell'instinto natural e norma,
che sanza le sua fila né testrice
né aurefice ben soi trapunti forma!
Taccio l'ovra del candido bombice
che dal svelto per pioggia fior di querza
nasce cangiato in fin la volta terza.
Mille altre spezie de la picciol greggia
pospongo agevolmente or in disparte.
Segue ch'io solamente l'ampia reggia
de l'ape contemplando chiuda in carte;
ché 'l magistrato lor forse pareggia,
se non in tutto, il nostro almen in parte,
sí come quelle c'han statuti e legge,
né manca il duca lor che le corregge.
Anzi de la piú parte da' suffraggi
lo eletto imperator sostien la verga;
satelliti, littori, servi e paggi
vannogli sempre appresso ovunque perga.
Esso le pene simili a li oltraggi
librando va: però non è chi s'erga
soperbamente contra lui, ché amando
temesi un rege piú che minacciando.[317]
Non come l'altre l'umido mucrone
(armollo assai sua maiestade) cura.
Mentre la plebe strenua compone
senza Vetruvio tanta architettura,
egli sta sopra e lor case dispone,
servando (ove convien) modo e misura.
Non esce mai di corte se non quando
del popol manda una gran parte in bando.
E se a tardarla fusse allor men tosta
qualche armonia di ferro o d'altro sòno,
l'impulsa torma irebbe assai discosta.
Cosí dal rege suo guidate sono:
però Natura vòl che senza sosta
lor di concento arresti qualche tono,
e 'nsieme le raguni a nova tomba,
in guisa de' soldati al sòn di tromba.
Ma s'io non voglio che 'l mio popol n'esca
di sue contrade per migrar altrove,
un'ala tronco al capo de la tresca,
la qual non senza lui mai fuga move.
S'ei langue infermo, dangli bere ed esca;[318]
chi 'l porta, chi 'l sostien, chi 'n grembo il fove;
s'anche smarrito errando va per caso,
vien cònto, qual patron da' cani, a naso.
E se di qua di lá trovar nol sanno,
allora per consiglio si delibra
condurse ad altro duca, e for sen vanno
a la cittade altrui, né alcun si vibra
de' cittadini contra e fa lor danno,
anzi nel tetto si compensa e libra
di quanta plebe sia capace; dopo
né piú né men li accettan che li è uopo.
Tal volta ch'egli morto caschi occorre:
pensi chi ama il suo rege qual supplizio!
Di tutte bande al corpo si concorre,
gittate a terra l'util esercizio;
con lagrime non san elle giá sporre
lor gran cordoglio al funeral uffizio;
dirò ben veramente aver udito
strepito d'ale con vocal ruggito.
Se d'ordinato e regolar costume
giammai l'uso mortal restasse privo,
puoterlo aver da l'api si presume,
né l'uomo forse l'averebbe a schivo;
ché, stando elle di notte ne' lor piume
si il stato per servar sí il rege vivo,[319]
la vigil guarda sempre a l'uscio ascolta,
cascando a queste e quelle la sua volta.
Ma de l'augel cristato non sí presto
s'annunzia giá spuntarse nova luce,
ecco di tromba un sòno manifesto
fa dar per le contrate il pronto duce.
S'ode di par il sòno: è il volgo desto,
al solito lavor che si riduce,
o lieto ch'in cospetto al rege primo
va fuora e riede carco sol di timo.
La verde giovenezza è che sen fugge
a la ricolta in bande assai longinque.
Chi qua la rosa, chi lá il giglio sugge;
chi assale questo fior e chi 'l relinque.
Fassi gran preda, ed Ibla si distrugge
co' l'altre terre che vi son propinque;
la turba d'ogn'intorno succia e lambe,
né cessan riportar l'enfiate gambe.
Ma de le piú attempate un storno arguto
col suo signor in ròcca stassi a l'ombra,
cui per ufficio vien locar in tuto
la roba che, portata, il tetto ingombra:
depor i fasci a parte dan aiuto,
parte, giá leve, a la campagna sgombra.
Tanto al divin servigio, a l'uman gusto[320]
di piacer brama un vermo si robusto!
Talora un vento subito (quantunque
del tempo sian presaghe) di tranquillo
cosí molesto vien, che scossa ovunque
si pascon elle in fin l'umil serpillo.
Ecco la madre le ha provviste dunque;
ché, toltosi ne' piedi alcun lapillo,
van elle poco del gran vento in forza,
librando qual nocchier il volo ad orza.
Ed anco se la notte per la loro
molta ingordigia d'acquistar le assale,
raccolte insieme quasi in concistoro
le gambe al ciel e 'n terra posan l'ale;
ché de le stelle il rugiadoso coro
le avvinge sí che poco il volo vale,
se non s'industran starsene sopine
tutta la notte ad aspettar il fine.
Taccio le ultrici guerre, ch'a le volte
tra l'un vicino rege e l'altro fansi.
Tu vedi tante squadre intorno accolte,[321]
che poscia a tôr la vita irate vansi,
e se ritornan parte in fuga vòlte,
ritrandosi lor duci fiacchi ed ansi,
parte seguendo vittoriosa gode,
né altro che plausi e voci liete s'ode.
Indi iattura tal (se non dissolve
l'agricola prudente lor litigi
co' l'importuno fumo e secco polve)
vi nasce, che la morte ai campi stigi
la parte vinta e la vittrice involve.
O grandi spesso al stato uman prodigi!
ché de lor code mandon l'alte spine,
cui per grand'ira seguon l'intestine!
La vile mandra de' pannosi fuchi
trovan sovente starsen al presepe,
ove cosa non è che non manuchi;
ma poi nel faticarse, pegra, tepe.
Tu vedi lor scacciati esser da' buchi,
e morti far in cerco folta sepe;
e il simil fan de l'apa tarda e pigra,
che uccisa vien s'occulta non sen migra.
Tra gli diversi lor nemici e morbi
come vespe, crabroni e rondinelle,
ragni, lacerte, acqua de stagni torbi,
puzzo de cancri, culici, mustelle,
par che la rana piú le affanni e storbi;
perch'ella contra i brandi lor ha pelle
non men sicura e di maggior fiduccia,
del ferro al colpo, d'una fral cannuccia.
Ecco mirabil vermo, che disopre
li altri animali (non pur dico insetti,
ma quanti piuma, squame e lana copre)
esser fatto mirai per santi effetti,
tra' quai conobbi le lodevol opre
di cera, dentro ai cristiani tetti,
ove non ben di notte Dio si cole,
se máncavi di cere acceso il sole.
D'altri animali, dicovi seguendo,
tenni le cause d'infallibil prova;
ma quante rimembrar in me contendo
e porle inanzi a voi, nulla mi giova.
Cosí volse il mio fallo che, s'io spendo,
per risaper ciò ch'in natura cova,
il tempo invan, ne pianga giustamente
e faccia come quel che tardo pente!
Di poggio in piano, di campagna in selva,
giravami qual spirto che di gioia
pascendosi lá su per l'ampio ciel va,
né mai cosa v'incontra che lo annoia.
Qual orso, qual leon, qual altra belva
restò venirmi (non che desse noia)
scherzar intorno, e dentro le lor sanne
prendermi leggermente ambo le spanne?
Palpava il dorso al tigro, come solsi
far d'un cagnolo o d'altro picciol pollo.
Comai le sete a li apri e mi ravvolsi
le vipere a le braccia, al capo, al collo,
li augelli al pugno e' pesci al lido accolsi,
né de mirarli venni unqua satollo.
Poscia mi volsi a la man dritta, come
sopra mi disse quel dal dolce nome.[322]
PARADISO TERRESTRE
TRIPERUNO
Dopoi che sopra e sotto 'l ciel usciro
l'opre del summo artefice sí belle,
né molto spazio andò che l'empio e diro
popol de li demón fu da le stelle
bandito al centro basso, ove periro
con l'ombre eternamente al ciel rubelle,
su l'uomo Dio fondò stabil disegno,
ch'empir di novo avesse il vodo regno.
Né piú son pesci in acque né piú foglie
in selve, come in ciel private stanze.
Però Michel, poi ch'ebbe l'atre spoglie
di Pluto trionfando su le lanze
sospese ai tetti ove l'onor s'accoglie,
discinto il brando e tolte le bilanze,
venne qui giú per farvi non piú guerra,
ma sol un paradiso a l'uom in terra.
Qui, di soperba fatta invidiosa[323]
la greggia de' cornuti negri, quando
questo antivede, cruda e neghittosa,
ripiglia contra noi l'occulto brando
(i' dico «brando occulto» a piú dannosa
nostra ruina), e sempre va celando
quinci quel vischio, quindi quella pania,[324]
tanto che la piú parte avvinge e lania.
Piantato dunque in terra un paradiso
da l'angiol fu di Dio detto «Fortezza»;
luoco non privo mai d'onesto riso,
de sòni, canti, giochi a gran dolcezza.
Quivi trovai pur anco l'aureo viso
di quel Iesú che l'amorosa frezza
nel cor m'immerse prima, e seco poscia
portollo, me lasciando in dolce angoscia.
Su ne le piú levate cime, donde
Febo riporta il mattutino giorno,
un monte, c'ha l'inaccessibil sponde
e cento millia passi volge intorno,
vidi che al ciel lunar il capo asconde
e par che tocchi i piedi a Capricorno.
Lá fui chiamato d'una nebbia scura:
— Vieni oggimai, o santa creatura! —
Suso mi porto, ed ecco alte muraglie
vidi luntano con quadrata cinta
serrar de poggi e campi e di boscaglie
una provincia in piú parti distinta.
Ma quello muro quasi mi abbarbaglia
la vista, dal suo lume resospinta,
mercé ch'era cristallo ed oro, intorno
di perle e tutte l'altre gemme adorno.
Or su per quel parete schietto e fino
vidi ch'avean Michel e Raffaele
(non l'urbinate, dico, o 'l fiorentino,
ch'or lascian dopo sé gran lode in tele)
depinto per mio specchio il fier destino
di Lucibello, a se stesso crudele,
che, bello troppo a se medemo, d'alto
prese co' gli altri un smisurato salto.
LA PORTA
«Uomo, che vedi a quanto onor ti degna[325]
l'altissimo Fattore,
or entra ad obbedirlo, acciò che 'l cuore
da te giá dato in grazia ti 'l mantegna!
Ma ne la gioia tua, ch'avrai sí lieta,
fa' che raffreni accortamente; cui
non repugnando, provarai col male
quant'era il ben, anzi che l'un di dui
pomi gustassi. Ché se Dio ti 'l vieta,
toccar non déi, per non venir mortale.
Dal serpe il piede e dal legno fatale
se non vieti la mano,
ecco d'un legno more il ceppo umano,[326]
e un legno per sua croce Dio non sdegna!».
TRIPERUNO
Queste parole, trapuntate in oro,
sopra la porta, in un bel smalto, lessi;
ma i fregi e gli archi ed ornamenti loro
sono di fine gemme carchi e spessi.
Entrovi lieto per sí bel tesoro,
e in cerchio con le mani esser rannessi,
d'angioli pargoletti e nudi un stolo
vidi scherzando volteggiarsi a volo.
E su per merli e for de gli balconi,
quei di diamante e questi di cristallo,
mill'altri con diversi canti e suoni
muoveno d'altri tanti un lieto ballo:
arpe, laúti, citere, lironi,
senza mai farvi punto d'intervallo,
addolciscon le orecchie d'uditori
al nome c'hanno impresso dentro i cuori:
al dolce nome sovra ogni altro grato,
nome amoroso, nome aureo e soave,
nome del mio Iesú forte, sacrato,
nome di grazie ponderoso e grave!
Non è macchia sí lorda di peccato,
che 'l dolce nome di Iesú non lave;
nome che chi noma in spirto, sente
mordersi 'l cuore d'un pietoso dente!
Quivi se non in danze e giochi stassi,
danze pudiche, giochi allegri, onesti:
chi su le penne, chi su lievi passi,
que' leggiadretti spiriti modesti
scorron il bel giardino, or alti or bassi,
quelli de' boschi per le cime, questi
per le fiorite piagge e verdi prati,
succinti o in bianche stole o nudi alati.
Altri con reti d'oro i pesci snelli
tranne di questo rio, di quello fonte;
altri tendon guazzarsi ne' ruscelli
chi piè, chi man, chi l'ale, chi la fronte;
altri celan archetti ai vaghi augelli
per macchie e ripe, o sotto o sopra un monte;
altri scaccian de' boschi e folti vepri
damme, conigli, cervi, capre e lepri.
Vidine molti ancora, con bei freni
di seta e d'oro, stringer lioncorni:
chi li rallenta il morso, chi 'l sostiene
con lievi sbalzi e volgimenti adorni.
Franguelli, piche, merli e filomene
con pappagalli, rondinelle e storni
volan di ramo in ramo, a schiera a schiera,
cantando la sua eterna primavera.
Eterna primavera qui verdeggia,
ché 'n le catene il Tempo giace altrove;
aprile quivi e marzo signoreggia,
né mai da l'ombre zefiro si move,
per cui soavemente sempre ondeggia
l'altezza de colline e poggi, dove
pini, cipressi, querze, faggi, abeti
adombrano vallette e campi lieti.
Quivi onoratamente fui raccolto
da duo barbati e candidi vecchioni.
L'uno fu Enocco, e l'altro che, distolto
di terra, ascese in ciel fra spirti boni,[327]
quando Eliseo videlo nel molto
foco volar a l'alte regioni.
Questi con lieto volto m'abbracciaro,
mostrando il mio advenir quant'ebber caro.
Vado fra loro poscia, lento lento,
favoleggiando verso il gran palaccio.
Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento
lascian chi l'arpa, chi 'l danzar, chi 'l laccio,
e vengono assalirmi in un momento
con un soave intrico e dolce impaccio,
perché mi carcan gli omeri, la testa
di sua leggiera salma e fanno festa.
Entrato ne l'adorna ed ampia stanza
non men di quelle del signor mio bella,
bella e gioiosa for d'umana usanza
(qual oggi a Marmiròl si rinnovella,
e qual li ombrosi campi sovravanza
in Pietole sul chiaro Minzio, e quella
ch'entro l'antiqua terra di Gonzaga
mostrasi al viatore tanto vaga),
trovamo un spacio quadro d'una liscia
piazza de marmi lustri ed altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia,
come sotto acqua fanno le lampetre,
sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia;
ché 'l capo ha di dongiella e par ch'impetre,
col vago suo sembiante, che chi passa
subitamente al suo voler s'abbassa.
S'abbassi tostamente a la sua voglia
di por le mani a quel vietato ramo
e dispiccarne il frutto, onde la doglia
succede poscia al nostro interno, Adamo;
lo qual non mai si vede senza spoglia,
se non dapoi che l'esca di quell'amo
l'attosca sí, che morto ne rimane,
fin che 'l rilevi poi lo empireo pane:
quel pane dolce bianco ed immortale
che pasce in ciel l'angelica famiglia.
Non è morbo né peste sí mortale,
che questo pan, salúbre a chi se 'l piglia
con salda fede, nol risani, quale
fu de' leprosi giá la maraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
a un sí soperbo cibo admove il dente!
Soperbo cibo, che d'umilitade
profundissima sorse in mia salute;
soperbo cibo, ove l'alta bontade
cercò d'erger a' morti la virtute;
soperbo cibo, il qual con veritade
convien che 'n corpo e sangue si trasmute,
in corpo e sangue de l'umano Dio,
che disse: — Or manucate il corpo mio! —
Ma come egli togliesse il grave assonto
in sé d'ogni mia colpa su la croce,
avrovvi a dir col tempo, s'io m'affronto
a un stil piú grave, e non piú che veloce.
Ché se d'altri concetti al giogo monto
col senso, non sussegue poi la voce
se non debile e inferma; come chiaro
si vede ch'io non so, ma tardo imparo.
Vedrò, se 'l debil filo non si taglia
nel mezzo del cammin di nostra vita,
quel raggio, ch'ora il senso m'abbarbaglia,
con vista piú vivace e piú spedita.
De' bianchi e negri spirti la scrimaglia
ben tengo de le muse al monte ordita;
ma ch'abbia, se non tutto, almen in parte
di Lodovico attendo il stile e l'arte.
Non piú Merlino, Fúlica e Limerno
oltra sarovvi, ma sol Triperuno.
Tratto son oggi mai di quell'inferno
ove chi faccia ben non vi è sol uno.[328]
Per te, Iesú, per te vedo e discerno
esser del cibo tuo sempre degiuno;
ed «ingannato al fine si ritrova
chi lascia la via vecchia per la nova».
FINISCE LO CAOS DEL TRIPERUNO.
DE AVREA VRNA QUA INCLUDITUR EUCHARISTIA
Urnula, quam gemmis auroque nitere videmus,
quaeritur angusto quid ferat illa sinu.
Haud ea, pestifero Pandorae infecta veterno,
intulit omnivagas orbe adaperta febres!
At pretium, quo non aliud pretiosius, ipsa haec
quod rerum amplexus non capit, urna capit.
MIRA DUORUM AMICITIA
F | ortius an posset domus | A | rdua calce tener | I, |
R | oboraque an piceum fir | M | a ratis oblita glute | N, |
A | rctius, amborum, ut vide | O, | se vestra catheni | S |
N | ectere amicitiae tum | R | arae pectora? et alt | O |
C | olle fidem vestram stabile | E | rexisse tribuna | L? |
I | nstat enim quercum dum | T | aurus vellere corn | V, |
S | axaque spumosis in | F | luctibus ardua dum su | B |
C | autibus unda quatit, magis | I | ma e sede mover | I |
O | mnia tunc possent, quam | D | ivum haec unio, qua ni | L |
R | ectius humanis viget, | E | t ferit aethera laud | E, |
UM | braque post cineres con | S | tat per saecula grandi | S. |
de Georgio Anselmo
G | randi vectus equo ruit | E | cce Georgius, hast | A |
E | recta in colubri le | T | hum, cui guttur et ingue | N |
O | ra per abrumpit tum in | D | ignos virginis artu | S |
R | egalis bibitura. Quod | E | t tibi nomen honosqu | E |
G | loriaque obtingit, iacu | L | is cum, Phoebe, nigrum fe | L |
I | ngentes per agros furis | I | n pytona vomente | M |
V | atem ergo ad tantum facit | U | num id nomen, ut act | V |
S | it pro eodem Phoebus ver | S | u tituloque Georgiu | S |
TUMULUS MARCI
F | elicem ingenio, lin | G | ua, patria, patre, Marcu | M |
I | mmatura secat mors | E | cce, tuumque sub arc | A |
L | umen obiisse gemis, stirps | O | Cornelia, nec cu | R |
I | ngratae possis te | R | omae credere postha | C |
V | ideris: ipse quidem dum | G | rato ad maxima vult | V |
S | ceptra galeratus volat, | I | tur . . . . . . . .[329] | S. |
A l'integerrimo signor Alberto da Carpo
Signore mio, l'altissima cui fama
sin oltra 'l ciel ottavo s'alza e gira,
amor mi sprona e la ragion mi tira
dir quanto in terra ognun v'onora ed ama.
E mentre son per adempir mia brama,
giungendo rime al sòn di bassa lira,
mi resto e dico: — Ahi! mente mia delira,
che gir ti credi ove 'l desio ti chiama!
Chi salirà tant'alto? né la lingua
di Tullio e di Virgilio l'aurea tromba
potria montar di sua vertude al giogo! —
E pur, come che 'l stile mio soccomba
a quell'altezza tanta, non si estingua
di lui cantar un desioso fuogo.
Ad un altro Alberto da Carpo di tal nome indegno
LIMERNO
Caro germano, potriati facilmente pervegnire a le orecchie che,
favoleggiando noi, Fúlica e Triperuno insieme, ed io con loro, de la
miracolosa dottrina de uno asino, mi occorse adducerti in testimonio o
sia esempio di coloro li quali, non sapendo parlare, si intromettono
temerariamente fra gli saputi e savi uomini a ragionare de li altrui
fatti e costumi, volendosi elli con lo biasmar altri mostrarsi di
qualche onore e reputazione degni. E perché tu da me ti chiamarai forse
oltraggiato essere e vituperato, ti rispondo, nanti tratto, che con
l'altre tue bone condizioni matto ancora ti mostrarai, quando in te non
voglia patire quello che in altro giammai non cessi adoperare, io dico
ne l'altrui fama e onore. Dimmi, uomo dappocaggine che tu ti sei, con
che ragione, con che giustizia, con qual caritade tu con quell'altro che
fiorentino si fa, Sebastiano «puzzabocca», e con altri toi simili
furfanti, a li quali ben sta quella sentenzia del mio barbato Girolamo:
«Possident opes sub paupere Christo, quas sub locuplete diabolo non
habuerint»; per qual, dico, necessaria cagione non mai vi straccate di
cercare far danno ne la fama ed onore del giovene innocente Triperuno?
in che cosa egli vi offende, diavoli che voi siete? Ah maladetta rabbia
di questa invidia! come se indraca piú, come se invipera nel sangue
innocente, perché sa, perché vede lui aver posseduto di libertade lo
paradiso terrestre, de lo evangelio la luce anti smarrita, d'un Orso
mansuetissimo la grazia! Roditi dunque da te istessa, o conscienzia
diabolica, la quale, per tua soperbia, lo perduto seggio a l'uomo esser
donato vedi! Lasciatelo stare in vostra malora, arrabbiati cani, ché
egli non pur non vi offende, ma si sdegna pensar cosí bassamente de voi,
malvagi e invidiosi spiriti, non tutti dico, non tutti appello, anzi
lodo e reverisco li uomini quantunque rari conscienzienti. Ma tu,
Alberto, al quale un tal nome di quello non pur accostumato e saputo
signore ma profondissimo filosofo cosí conviene come ad uno asino la
sella d'un bel destriero, per mio consiglio studiati avanti di meglio
raffrenar la lingua, che non facevi lo tuo cavallo grosso, al tempo de
le barde, essendo soldato vecchio; che nol facendo, mostrarotti una
penna di oca piú eloquente essere che la lingua d'uno baboino. Guardati!
FINE DEL VOLUME PRIMO.
Nota del Trascrittore
Le Note, ad esclusione della 252 e 329, riportano
annotazioni manoscritte dall'autore in alcune copie della prima
edizione.
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.