The Project Gutenberg eBook of Maternità

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Title: Maternità

Author: Ada Negri

Release date: May 8, 2011 [eBook #36061]

Language: Italian

Credits: Produced by Maria Grazia Gentili and the online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

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ADA NEGRI

MATERNITÀ
MILANO
 
Fratelli Treves, Editori
PROPRIETÀ LETTERARIA.
 
I diritti di riproduzione e di traduzione sono
riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia,
la Norvegia e l'Olanda.
 
Si riterrà contraffatto qualunque esemplare
di quest'opera che non porti il timbro a
secco della Società Italiana degli Autori.

Milano, Tip. Treves--1922

Indice

MATERNITÀ

MATERNITÀ

Io sento, dal profondo, un'esile voce chiamarmi:
sei tu, non nato ancora, che vieni nel sonno a destarmi?
 
O vita, o vita nova!... le viscere mie palpitanti
trasalgono in sussulti che sono i tuoi baci, i tuoi pianti.
 
Tu sei l'Ignoto.—Forse pel tuo disperato dolore
ti nutro col mio sangue, e formo il tuo cor col mio core;
 
pure io stendo le mani con gesto di lenta carezza,
io rido, ebra di vita, a un sogno di forza e bellezza:
 
t'amo e t'invoco, o figlio, in nome del bene e del male,
poi che ti chiama al mondo la sacra Natura immortale.
 
E penso a quante donne, ne l'ora che trepida avanza,
sale dal grembo al core la stessa devota speranza!...
 
Han tutte ne lo sguardo la gioia e il tremor del mistero
ch'apre il lor seno a un essere novello di carne e pensiero;
 
urne d'amore, in alto su l'uomo e la fredda scïenza,
come su altar, le pone del germe l'inconscia potenza.
 
È sacro il germe: è tutto: la forza, la luce, l'amore:
sia benedetto il ventre che il partorirà con dolore.
 

*

Oh, per le bianche mani cucenti le fascie ed i veli
mentre ne gli occhi splende un calmo riflesso de i cieli:
 
pei palpiti che scuoton da l'imo le viscere oscure
ove, anelando al sole, respiran le vite future:
 
per l'ultimo martirio, per l'urlo de l'ultimo istante,
quando il materno corpo si sfascia, di sangue grondante
 
pel roseo bimbo ignudo, che nasce—miserrima sorte!...—
su letto di tortura, talvolta su letto di morte:
 
uomini de la terra, che pure affilate coltelli
l'un contro l'altro, udite, udite!... noi siamo fratelli.
 
In verità vi dico, poichè voi l'avete scordato:
noi tutti uscimmo ignudi da un grembo di madre squarciato.
 
In verità vi dico, le supplici braccia tendendo:
non vi rendete indegni del seno che apriste nascendo.
 
Gettate in pace il seme ne i solchi del campo comune
mentre le forti mogli sorridon, cantando, a le cune:
 
nel sole e ne la gioia mietete la spica matura,
grazie rendendo in pace a l'inclita Madre, Natura.

GÈRMINA

Calma e silenzio, in torno.
Dietro le mie cortine
muore tra nebbie fine
il giorno.
 
Ne la penombra, i volti
noti, da le cornici,
mi affisano.—Che dici,
che ascolti,
 
che abissi d'acqua fonda
schiudi al mio nero sguardo,
o amor di Leonardo,
Gioconda?...
 
.... Ne la penombra io sono
sola.—Non veramente.—
L'anima veglia e sente
un suono
 
lievissimo, un tremare
d'ali, un sommesso pianto,
come in conchiglia il canto
del mare.
 
L'anima veglia e prega:
e su la vita informe
che nel mio grembo dorme
si piega.
 
Io sembro inerte. E pure
son come zolla al sole.
S'aprono in me viole
oscure
 
di sogni, ardenti flore
d'un incantato maggio.
Porto io forse un messaggio
d'amore?...
 
Di pace un senso pio
per ogni vena io sento.
Sono io forse strumento
di Dio?...
 
La Sfinge dolorosa
sul tuo mortal destino
come suggel divino
si posa;
 
ma tu, che da me bevi
la forza essenzïale,
ed il bene ed il male
ricevi,
 
rompi, potente seme,
la zolla inturgidita.
Benedirem la vita
insieme.

L'ÈSTASI

Cuce, in silenzio, sotto la lampada,
una cuffietta rosa.
Mai non si vide più leggiadra cosa.
 
Trasale, a un tratto, ne l'ampia tunica,
con un sorriso strano.
La cuffietta le scivola di mano.
 
Così, velato lo sguardo, pallida
come una morta, ascolta.
A qual raggio l'intenta anima è vôlta?...
 
Mai questo acuto spasimo d'èstasi
le scolorò la faccia
quando la cinser l'adorate braccia;
 
mai fu sì bella, fra riso e lacrime,
quando, folle d'amore,
il suo prescelto le posò sul core.
 
Così la bruna figlia di Nàzareth
udì la sacra voce,
congiungendo le mani ùmili in croce:
 
piccola voce nova e terribile
che dice a l'infinita
tenerezza materna: Eccomi, o vita!...

LE DOLOROSE

Ed a me giunse un ulular di pianti
come suono di molte acque scroscianti.
 
E mi parea venisse di lontano,
col bianco spumeggiar de l'Oceàno:
 
e mi parea sorgesse di sotterra,
dal cuore immenso de la Madre Terra:
 
e mi pareva empisse il mondo e l'aria
in torno a la mia stanza solitaria:
 
entrò con la fremente ombra e col vento,
mi travolse fra il buio e lo sgomento:
 
e la voce che udìi fra la tempesta
qui, eterna, ne la scossa anima resta.
 
«Noi concepimmo senza gioia il figlio
che splende ai sogni come splende un giglio.
 
Noi portammo nel sen la creatura
con fatica, con fame e con paura.
 
Ne le soffitte dove manca l'aria,
ne le risaie infette di malaria,
 
ne' campi dove passa, orrida Iddia,
la pellagra con occhi di pazzia,
 
ne' luoghi di miseria e di servaggio,
chiedemmo a Dio Signor forza e coraggio;
 
pregando, allor che la virtù svaniva:
—Prenditi il figlio, o Dio, prima ch'ei viva—.

*

«Noi procreammo in viscere malate
le tristi creature a pianger nate.
 
Il guasto sangue de le nostre vene
ebbero, e il peso di nostre catene;
 
ben vorremmo, nel giorno, esser con loro
ma il giorno è breve ed è lungo il lavoro:
 
ci afferran del bisogno i rudi artigli,
mentre la strada ne corrompe i figli.
 
Madri noi siamo per l'angoscia e il pianto,
non per cantar su rosee culle un canto:
 
cantalo tu—che il mondo abbia pietà—
questo supplizio di maternità!...

*

«Tu che scrivi col sangue de i fratelli
caduti e coi singulti de i ribelli;
 
tu che lottasti con nemica sorte,
canta il dolor più forte de la morte.
 
Ricòrdati, ricòrdati: così
pianse tua madre ne i lontani dì.
 
Ricòrdati, ricòrdati: e il tuo grido
sia come uccello di selvaggio nido;
 
come popol che irrompe a la battaglia,
come fiamma che incendia la boscaglia:
 
dica a la terra: Salvezza non v'ha
se umiliata è la maternità!...»

*

Tacquer—ma come, in notte senza lume
di stelle, mugge un procelloso fiume,
 
durò ne l'aria in fremebondi giri
l'eco dei pianti e dei lunghi sospiri.
 
Oh, fin ch'io soffra in questa esil parvenza
ove s'infiamma la mia pura essenza,
 
sempre, nel ritmo de la vita oscuro,
dovunque, nel presente e nel futuro,
 
udrò quel lagno senza fine e quelle
vane preghiere d'anime sorelle:
 
sempre nel cuore avrò, come un rimorso,
quel torvo e disperato urlo: Soccorso!...—

INSIEME

Sul letto sta, rigida e scialba,
la Morta, che sembra dormire.
Ai vetri è il sospiro de l'alba.
 
La Morta è vestita di bianco
come una fanciulla, con fiori
di neve sul petto, sul fianco;
 
e pare una vergine, un giglio;
ma incrocia le mani, in eterno,
sul grembo ove dorme suo figlio.
 
Il grembo che il germe raccolse
e il germe anelante a la vita
la stessa tempesta travolse;
 
al vento che romba e che geme
piegarono il boccio ed il fiore
insieme; si spensero, insieme,
 
il grande ed il piccolo cuore.

*

La Morta sorride.—Una pace
di sogno e di cielo s'imprime
sul volto, sul labbro che tace.
 
Le mani incrociate con pio
lor gesto, sul grembo che è tomba
al figlio, par dicano: È mio.—
 
—Io n'ebbi la prima parola
che sola compresi: nessuno
lo sa, ciò ch'ei disse a me sola.
 
Se visse de l'anima mia,
morì de la stessa mia morte:
laggiù ci farem compagnia.
 
Chi sa?... forse avrebbe smarrita,
lontano da me, la sua strada.
Che è mai, senza madre, la vita?...
 
Chi sa?... forse un solo ed un vinto
nel mondo che è senza pietà....
.... Oh, meglio, o mio sangue, a me avvinto
 
sparire, ne l'eternità.—

MARA

La donna fila, presso il focolare.
Fra la cenere è ancor qualche favilla.
La lampadetta d'olio a tratti brilla
sul dolce viso che d'avorio pare.
 
Non vecchia ancora—ma son tutte bianche
le rade chiome, e l'orbite infossate
non contan più le lacrime versate.
La donna fila, con le mani stanche.
 
Suo figlio ha ucciso un re.—Più mai, nel mondo
ella potrà vedere il suo figliuolo.
Solo è, per sempre e senza fine solo,
vivo e pur morto, d'un abisso in fondo
 
pieno di sangue—e il nero sangue a fiotti
corre, sprizza, zampilla insino al cuore
materno.—O sempre rinnovato orrore
de i lunghi giorni, de le lunghe notti!...
 
Ella non pensò mai che fosse ingiusto
per l'altrui pane coltivar la spica,
con tristezza, con fame e con fatica
guadagnando la vita a frusto a frusto:
 
arò la terra e dondolò la culla,
senza riposo e senza gioia.—Al fianco
le crescea quel figliuolo esile e bianco,
esile e bianco come una fanciulla;
 
e le chiedea talor, con veemente
desìo ne gli occhi, una storia di re.
«Non so narrarti una storia di re:
che ne sa del suo re, l'umile gente?...
 
Egli è solo e lontano, come Iddio:
fra la sua torre e il nostro casolare
ci sta tutta la terra e tutto il mare:
egli è in alto ed è solo, o figlio mio.»
 
.... Ed il figlio partì.—Ne le rombanti
fabbriche il torvo ansare udì dei mostri
d'acciaio a mille artigli, a mille rostri,
de le donne sposarsi ai tristi canti;
 
il tremendo silenzio udì talvolta
de gli scioperi: star, muti ed inerti,
i mostri vide, ma con gli occhi aperti
per afferrar le prede un'altra volta.
 
.... E passò.—Qualcheduno egli cercava
al di là de la folla e de la strada,
col grigio sguardo acuto come spada
pieno di lampi tra la chioma flava.
 
E passò tra il fetor de le taverne,
tra l'immensa putredine ove langue
l'ignota gente che di pianto e sangue
bagna il calvario de l'angosce eterne;
 
tra l'orror de le carceri e l'orrore
de gli ospedali e il fango del selciato
passò, co' suoi felini occhi in agguato,
una fiaccola d'odio accesa in cuore;
 
e un giorno—un giorno, finalmente, a Quello
ch'egli cercava da l'età lontana
giunse, fendendo una muraglia umana,
e gli cacciò nel petto il suo coltello.

*

Tu fili, o Madre, presso il focolare
insanguinato.—Le tue labbra smorte
che bevvero a la coppa de la morte,
non osan più, non sanno più pregare.
 
Entro il tugurio tuo nulla è mutato.
V'è l'uguale miseria e v'è l'uguale
nuda tristezza, e un tanfo glacïale
qual di covo selvaggio abbandonato.
 
Tu fili, o Madre, o Martire, il lenzuolo
ove sarai, per la tua pace, avvolta.
E implori presso il figlio esser sepolta,
perch'ei non sia, pur ne la morte, solo.
 
L'ami, il tuo figlio che ne l'odio scritto
portò il suo fato.—Forse, incoscïente,
un germe de la tua psiche dormente
passò in lui, fecondando il suo delitto.
 
L'ami, ferita in lui, per lui dannata
de la vergogna a l'implacabil giogo,
de l'insonne rimorso al laccio al rogo,
complice ignara, santa e disperata.
 
E ancor nel sogno l'accarezzi, come
ne gli spenti crepuscoli di pace,
quand'ei, lupatto indomito rapace,
scarno fra l'ombra de le flave chiome,
 
ti chiedeva, col grigio occhio felino
pieno di lampi, una storia di re.
Tu tremavi—e gravar su lui, su te
sentivi, enorme e fredda ombra, il Destino.

MARTHA

Sopportò gli urti de l'acerba doglia
ritta, bianca, silente, al suo telajo.
Quando ogni opra cessò, sotto il rovajo
corse a la casa, e cadde su la soglia.
 
E gemè senza freno—e allor che sôrto
fu il pallido mattin, la sventurata
con un urlo di bestia lacerata
mise a la luce un angioletto morto.
 
Il piccolo cadavere fu tolto
da gli occhi de la madre—e tutto tacque.
Tre dì sovra i guanciali ella si giacque,
fatta di pietra ne l'immobil volto;
 
ma il quarto giorno—e gelido il rovajo
soffiava ancora—volle alzarsi, esangue
come avesse perduto tutto il sangue....
.... Così disfatta, ritornò al telajo.

ELIANA

Un'ombra è ne' suoi strani
occhi. Il suo petto è scosso
da un brivido. Sul rosso
velluto le sue mani
 
s'abbandonano, come
morte. E di morta è il volto,
fra l'ondeggiar disciolto
de le scomposte chiome.
 
Premerà dunque il greve
travaglio, il peso enorme,
le sue scultorie forme,
la sua beltà di neve?...
 
Spasimerà la pura
marmorea carne anch'essa,
dilanïata, oppressa
da l'immortal tortura?...
 
No.—La superba vuole
de i balli fra le chiare
pompe gioir, regnare,
come rosa nel sole!...
 
E le purpuree tende
quasi regali, e i densi
tappeti, e i vasi immensi
ove l'oro s'accende,
 
son complici a l'abisso
perfido che la tenta.
Oh, come ella diventa
livida!... oh, come fisso
 
si fa il suo sguardo!... come
arde!... ma condannato
ha il figlio.—È decretato
l'atto che non ha nome.

*

.... Morrai fra poco, umano
germe che il mondo ignora,
e che, nel sonno, l'ora
vital sognasti in vano:
 
morrai fra poco, o cuore
soffocato ne i brevi
tuoi battiti da lievi
mani, senza rumore:
 
pura alba, che diritto
avevi a la tua sera!...
Non teme la galera
chi osò questo delitto.
 
Ne i balli andrà, qual giglio
immacolato il viso,
la Pallida, che ha ucciso
se stessa nel suo figlio:
 
andrà, come se fosse
viva.—Ma un sordo male
misterïoso, da le
viscere che le rosse
 
sue mani han profanate
succhierà il sangue, lene
lene, fin che le vene
avrà tutte vuotate;
 
e una manina informe
l'attirerà fra l'onda
del gorgo senza sponda
ove il rimorso dorme.

«VENGO, NINÌ»

«Vengo, Ninì.—So bene
che mi aspetti da tanto
tempo, e ti struggi in pianto
quando la notte viene.
 
So che non hai riposo
che col tuo capo sulla
mia mano.—A la tua culla
di fango il furïoso
 
uragano s'abbatte.
T'infràdicia la piova
la camicina nova
ch'io t'ho cucita. E batte
 
e batte la manina
su l'assi de la bara:
—Mamma, la terra è amara
se non mi sei vicina!...—
 
.... Lascia ch'io metta i fiori
ne i vasi, e accenda il foco
pel babbo, che fra poco
ritornerà da fuori.
 
Ch'ei trovi ogni sua cosa
linda, anche in questo giorno;
e i crisantemi in torno
al tuo ritratto rosa....
 
.... Povero babbo!... solo
sarà, per sempre.—Vengo,
Ninì.—Se mi trattengo
un poco, o mio figliuolo,
 
se m'indugio così,
è perchè penso, sai,
al babbo, che più mai,
più mai....—Vengo, Ninì.—»

È PARTITA

Stesa fra il letto e il muro
ei la trovò stanotte.
Sul cuore un grumo oscuro
 
di sangue; fra le dita
la rivoltella; calmo
il volto, come in vita;
 
bella qual'era ai lieti
anni di giovinezza,
quando mirti e roseti
 
non eran freschi come
il fior de la sua bocca,
il fior de le sue chiome.
 
Nulla lasciò: nè pure
un foglio che dicesse
perdonami. —Nè pure
 
una riga d'addio.
Ne la sinistra ancora
stringe,—davanti a Dio
 
che il suo Ninì le prese,—
un ricciolo del bimbo
seppellito da un mese.

L'ABBANDONATO

Un'ombra di donna comparve ne l'ombra notturna,
strisciante, radente, fuggente pel vicolo tetro.
Depose un fardello, disparve—così, taciturna,
così, senza volgersi indietro.
 
È vivo il fardello.—Ne parte un sottile vagito,
lamento d'implume perduto che chiama il suo nido.
Le mura, le porte, le pietre di cupo granito
ascoltan quel tremulo grido.
 
La bassa finestra ne parla al rossiccio fanale
che s'apre qual fumida piaga nel cuor de la via.
Il vento che passa ne parla a la stella immortale,
al cielo che in alto s'oblìa.
 
Il trivio, con sordo ribrezzo, bisbiglia a la fogna:
—C'è un bimbo là in fondo, c'è un bimbo che muor sul selciato:
Colei che nel mondo lo mise, per fame o vergogna
al fango così l'ha gettato....
 
.... Perchè?... che ferocia di leggi su gli uomini grava
se fame o vergogna può vincer l'istinto materno?...
che benda t'accieca?... che lacci, o degli uomini schiavi
t'attorcono il cuore in eterno?...»
 
Il fioco vagito che chiama la madre e la culla
diventa singhiozzo, poi rantolo.—Il vicolo guarda
con occhi sbarrati, morire quel bimbo, quel nulla,
in grembo a la notte codarda....
 
La notte trapassa, fremente di pianti non pianti,
d'angosce non dette, di sdegno terribile e muto.
Vorrebbe, non può—vano strazio di tenebre oranti!...
salvar quell'umano rifiuto.
 
Si spengono gli astri nel brivido primo de l'alba
che sparge di cenere il cielo, che schiude le porte,
che chiama le donne a le soglie, fantastica, scialba,
dicendo: È passata la Morte....
 
Là giù, come un piccolo cencio che il lastrico ingombra
appare, nel giorno, l'Ignoto.—Egli è nudo ed è solo.—
Nè madre, nè casa, nè croce.—Più lieve di un'ombra....—
.... Raccoglilo tu, cenciaiuolo.

ZINGARESCA

Fra i pioppi, mentre sorge alta la luna,
al tardo passo de i cavalli stanchi,
l'errante casa va de i saltimbanchi,
inseguendo l'ignoto e la fortuna.
 
V'è un lumicino ad una finestrella,
e guizza e trema ne l'incerto andare;
presso il lume, il suo pargolo a cullare,
canta una donna con fioca favella;
 
limpida e triste, di dolcezza piena,
di lacrime e d'amor,
ai pioppi de la via la cantilena
tesse i suoi fili d'ôr.
 
«Dormi a l'ombra de' miei lunghi capelli,
de' miei lunghi capelli zingareschi,
piccolo bimbo tutto mio, da i freschi
labbri e da gli occhi regalmente belli:
 
quando tramonterà la luna chiara
sul fiume, al primo impallidir de l'alba,
sostando fra le siepi di vitalba
saluteremo la stella boara;
 
respirerem la brezza vagabonda
che avviva fiore e stel;
liberi come barca sopra l'onda,
allodola pel ciel!...

*

Di questi cenci non aver paura,
non temer quando sibila il rovajo,
o la neve implacabile, a gennajo,
ci blocca su le vie. La vita è dura.
 
Meglio liberi andar con freddo e fame
che infrangerci a le sbarre de la legge.
Questa che tutto afferra e tutto regge
pesando come cupola di rame
 
su i ricchi schiavi ai quali è scudo e cella,
si chiama civiltà.
Piccoli schiavi de la vita bella,
voi ci fate pietà!...

*

Dormi.—T'avvolge la mia chioma nera,
ombra di sogno e sfavillìo di spada.
Dormi, o nato su l'orlo d'una strada,
senza dolore, un giorno di bufera.
 
Io t'ho create vèrtebre di belva,
occhi di falco ed anima di sole.
La magnifica terra a sè ti vuole
co' suoi effluvii di solco e di selva;
 
quel ch'io t'ho dato è sangue rutilante
di razza imperïal
che de la piena libertà vagante
sa il fascino immortal!...»

*

Va e va per la tacita pianura
come un fantasma al raggio de la luna,
inseguendo l'ignoto e la fortuna
il carro zingaresco, a la ventura.
 
Va e va.—Ma gorgheggiano le smorte
labbra di lei che stringe il bimbo al core
la canzone più forte del dolore,
più forte del martirio e de la morte;
 
ebra di spazio e di malinconia,
ai rami, ai nidi, ai fior
l'indomita selvaggia rapsodìa
tesse i suoi fili d'ôr....

IL CORREDINO

Da l'alba, febbrilmente,
ella cuce, in silenzio.
Sul lavoro le lacrime
come gocce d'assenzio,
cadono a tratti, lente.
 
Un'angoscia infinita
il petto le attanaglia.
E pure ella sa vincersi,
stoica ne la battaglia
del cor contro la vita;
 
e lavora, lavora.
Par che non pensi a nulla
fuor che a quel bianco e morbido
corredino di culla....
Lavora—e passa l'ora.
 
Oh, cessare un istante,
oh, rotolarsi a terra,
gridando a Dio lo strazio
cieco che il cor le serra,
povero cor tremante!...
 
No.—Dev'esser finito
il corredino, a sera.
Reclina ella su l'agile
mano color di cera
il visino patito;
 
e ammassa febbrilmente
punti e punti, in silenzio.
Sul lavoro le lacrime,
come gocce d'assenzio,
cadono a tratti, lente.

«MATER INVIOLATA»

Un bambino agonizza a l'ospedale:
suor Benedetta veglia al suo guanciale.
 
Le manine contratte sul lenzuolo
annaspano, e la bocca un nome, un solo
 
nome sospira: O mamma!...—ne l'affanno
del rantolo. I velati occhi si fanno
 
di vetro. Egli non vede più.—Ma ancora,
perdutamente,—O mamma, o mamma!...—implora.
 
La suora a confortar quell'agonia
dice, mentendo con la voce pia:
 
—Ecco la mamma: ecco, è venuta: taci:
senti le mie carezze ed i miei baci?...
 
Starò con te, fin che sarai guarito:
taci.—Verrà l'april gaio e fiorito,
 
e il tuo visetto tornerà di fiamma:
càlmati, dormi presso la tua mamma....»
 
.... S'acqueta il bimbo. Il moribondo viso
si ricompon ne l'ultimo sorriso;
 
fra l'invocate ali materne giace;
spira la consolata anima, in pace.
 
.... Ma quando l'alba torna a la crociera,
trova la suora immobile, dov'era.
 
Sta presso il morticin curva a ginocchi,
e una luce novella è ne' suoi occhi:
 
uno spasimo strano, una diffusa
onda di amore irruppe ne la chiusa
 
sua vita: sopra un mar glauco e sonoro
aprirsi vide ella una porta d'oro;
 
le parve in quelle immense onde sparire,
tremò, comprese, si sentì morire.

NINNA-NANNA DI NATALE

Ninna-nanna....—gelato è il focolare,
fanciul: non ti svegliare.
Per coprirti dal freddo, o mio bambino,
cucio in un vecchio scialle un vestitino.
 
Ma il lucignolo trema e l'occhio è stanco,
bimbo dal viso bianco.
Chi sa se per domani avrò finito
questo che aspetti povero vestito!...
 
Ninna-nanna —È la notte di Natale....
Libera nos dal male.
Cade la neve senza vento, fitta:
sgocciola un trave qui, ne la soffitta.
 
Io ti narrai la storia di Gesù,
bimbo.—Guardavi tu
lontano coi pensosi occhi che sanno
già tristi cose, e tante ne sapranno;
 
e mi chiedesti: È ver che nacque in una
stalla, ed ebbe per cuna
un po' di paglia, e andò povero e solo
per noi, nel mondo?...—È vero, o mio figliuolo.
 
E redimerci volle, ed un feroce
odio il confisse in croce;
e invan, da venti secoli di guerra,
l'ombra de la sua croce empie la terra;
 
chè sempre il viver nostro si trascina
fra bettola e officina,
fra l'ignoranza e la miseria nera,
fra il vizio, l'ospedale e la galera.
 
.... Pace ed amor non avrem dunque mai?...
O bimbo!... tu non sai.—
La notte è santa.—Mulinando cade
la neve bianca su le bianche strade;
 
e domani, con l'alba, le campane
diran: riposo e pane
a gli uomini di buona volontà!...—
Ma menzogna terribile sarà.
 
Sarà menzogna sino a quando, o figlio,
in ogni aspro giaciglio
simile a questo, in ogni nuda stanza
simile a questa, ove non è speranza,
 
a l'alba di Natale ogni bambino
che soffra il tuo destino
e mangi pan con lacrime commisto,
si sveglierà con l'anima di Cristo:
 
e tutte le soffitte avranno un fiero
fanciul che andrà il pensiero
temprando a gli urti de la vita grama,
sino a foggiarne un'invincibil lama:
 
e un giorno insorgeranno a milïoni
con fulmini e con tuoni
questi profeti: e al loro impeto alato
il vecchio mondo crollerà, stroncato:
 
ed il Vangelo allor sarà sovrana
legge a la vita umana:
e—Pace,—allora, dire si potrà
agli uomini di buona volontà!...
 
Ne le viscere nostre oppresse e macre
di popolane, sacre
a la fatica ed al servaggio muto,
il miracol di Dio sarà compiuto.
 
Ed ora, o figlio, del tuo letto al piede,
con inesausta fede
questa leggenda di Natale io dico:
—Cristo del sangue mio, ti benedico.—

QUEL GIORNO

Quel dì la terra avrà, sotto i divini
cieli adoranti, un rispuntar gioioso
di fronde, e un mite aulir di biancospini.
 
Ogni soglia quel dì sarà fiorita
d'ulivo, a custodir la dolce casa
ove l'amor benedirà la vita.
 
Ed ogni madre allatterà suo figlio
con letizia e con pace, in lui versando
la potenza del suo sangue vermiglio;
 
o pur, china sul forte giovinetto
da lei cresciuto, d'incorrotti sensi
gli tesserà salda corazza al petto,
 
con le parole che le labbra oranti
ripeteran ne' giorni in cui si muore,
pensando il casto viso e gli occhi santi.
 
Più non dovrà, più non dovrà nessuna
donna, per legge di servil fatica,
lasciar la casa e abbandonar la cuna.
 
Libera Dea di tempio immacolato,
verso la luce condurrà l'Eroe
da la sua carne e dal suo spirto nato.
 
E tutti allor saran fratelli in questa
religïon del doloroso grembo
che li creò pel sole e la tempesta:
 
nel sogno, nel lavoro e ne la messe
fratelli:—in nome di Colei che in tutti
gl'idiomi del mondo e con le stesse
 
infinite carezze in fondo al pio
sguardo e le stesse lacrime nel cuore,
perdonando susurra: O figlio mio!...—

RITORNO A MOTTA VISCONTI

Ella dintorno si guardò, tremando,
e riconobbe la selvaggia e strana
terra che a fiume si dirompe e frana
entro l'acque, che fuggon mormorando.
Il guado antico riconobbe e il prato
e le foreste, azzurre in lontananza
sotto il pallor de i cieli:
e il passato di lotta e di speranza,
il suo ribelle e splendido passato
ricomparve, senz'ombra e senza veli.
Piegavano gli steli
in torno, ed ella respirava il vento:
vento di libertà, di giovinezza,
soffio di primavere
sepolte, belle come messaggere
di gloria, piene d'ali e di bufere
vïolente e d'immemore dolcezza!...
 
Ora, silenzio.—Un battere di remi,
solitario, nel fiume: un lontanare
di cantilene lungo l'acque chiare,
e nel suo petto il cozzo de' supremi
rimpianti.—Oh, prega, anima che t'infrangi
a l'onda de i ricordi, travolgente
come tempesta a notte:
anima stanca in vene quasi spente,
così giovane ancora, oh, piangi, piangi
con tutte le tue lacrime dirotte
qui dove i sogni a frotte
ti sorrisero un giorno!... Ora è finita.—
.... E strinse fra le mani il capo bruno:
a lei da la profonda
coscïenza, com'onda chiama l'onda
nel plenilunio a fior de l'alta sponda,
salivano i ricordi ad uno ad uno.
 
E rivide la vergine ventenne
con la fronte segnata dal destino
sfiorar diritta il ripido cammino,
baldo aquilotto da le ferme penne.
La nuda stanza fulgida di larve
rivide, e il letto da le insonnie piene
di cantici irrompenti;
ed il sangue gittato da le vene
robuste, il sangue di veder le parve,
ne la febbre de l'arte su gli ardenti
ritmi a fiotti, a torrenti
gittato—E i versi andarono pel mondo,
da la potenza del dolor sospinti;
e parvero campane
a martello; e le case senza pane
e senza fuoco e la miseria inane
dissero, e l'agonie torve de i vinti.
 
Ma la vinta or sei tu, che de la morte
senti, a trent'anni, il brivido ne l'ossa,
e ben altro aspettavi da la rossa
tua giovinezza così salda e forte!...
Tutto dunque fu vano?... e così fugge
oscuramente dal tuo cor la vita,
dal cerebro il fervore
de i ritmi, come sabbia fra le dita?...
Ah, niun guarisce il mal che ti distrugge!...
.... Pur de le sacre tue viscere il fiore,
la bimba del tuo amore
torna da i boschi, carica di rose.
Essa che porta la divina fiamma
del sogno tuo ne gli occhi,
lascia cader le rose a' tuoi ginocchi,
e dice, e par che l'anima trabocchi
ne la sua voce: Perchè piangi, mamma?...—

LA CULLA

Ora ella veglia, calma nel sorriso,
presso il lettuccio ove la bimba dorme.
Hanno nel sonno le infantili forme
una soavità di paradiso.
S'addormentò la bimba con la mano
ne la sua mano; ed ella più non osa
toglier le sue da quelle
piccole dita, petali di rosa.
S'addormentò la bimba su lo strano
ritmo d'una canzon d'ali e di stelle
e di bionde sorelle,
ch'ella cantava:—ora la sogna, forse.—
E ne la calma quasi augusta, piena
di taciti pensieri,
la smorta donna dai grand'occhi neri
ripete nel suo cor la cantilena.
 
«C'era una volta....»—ma perdutamente
si spezza la canzon nel triste cuore.
L'anima antica insorge in un clamore
di tempesta.—Sei tu, quasi morente?...
Sei dunque tu la zingara boema
libera come il raggio e come l'onda,
che respirò l'ebrezza
del sole e de la rondine errabonda,
e ne i canti onde l'aria par che frema
ancor, tutta versò la giovinezza?...
L'infinita stanchezza
del tuo viso confessa il lungo male
che a poco a poco ti vuotò le vene.
E pur tu condannata
non sei.—Ti vuole a sè quest'adorata
culla ove dorme e palpita il tuo bene.
 
—Vivrai per questa bianca creatura
che uscì da la tua carne dolorosa.
Una potenza che a te stessa è ascosa
avvampa ancor ne la tua fibra oscura.
Ancor tu guarderai la vita in faccia
per lei, per lei ch'è sangue del tuo sangue;
e ascenderai le cime
eccelse, ove lo spirito non langue;
per lei, per lei ritroverai la traccia.
Se l'anima nel pianto si redime,
raccogli tu ne l'ime
fibre la poesia del tuo dolore:
poi va—trasumanata.—E avanti, avanti,
fin che ti regga il piede,
fin che non abbia la tua nova fede
infiammati d'amor tutti i tuoi canti!....
 
.... Passano l'ore e passano le stelle
pallide su quel sonno d'innocente,
mentre la donna fragile e possente
dal fermo cuore ogni viltà si svelle.
.... «O creatura mia, piccolo fiore
che chini e chiudi le tue foglie a sera
per riaprirle al raggio
de l'alba: solo ed inesausto amore
oltre la vita, oltre la morte nera:
guida il mio sogno, tempra il mio coraggio
lungo il cammin selvaggio!...»
.... Passano l'ore e passano le stelle.
La madre veglia—e ancora, nel divino
silenzio, ella non osa
toglier la sua da quella man di rosa
che tiene avvinto tutto il suo destino.

UN RICORDO

Un meriggio di luglio, un'afa bassa:
io consunta di febbre, abbandonate
su le lenzuola le braccia stroncate,
e immobil come salma ne la cassa.
 
Ne l'orrenda stanchezza un solo, acuto
pensier: la bimba.—La sua voce piana
giungeva a me da una stanza lontana,
come ne i sogni:—tutto il resto, muto.—
 
E il suo piccolo passo udìi venire,
dopo, sino al mio letto.—Dolcemente
mi prese, mi baciò la mano ardente....
.... ed a quel bacio io mi sentìi morire.
 
Precipitava i colpi vïolenti
il cor malato, sino a soffocarmi.
Le tempie, come tizzi, eran roventi;
le membra, fredde come freddi marmi.
 
Tentavi con le tue di riscaldare
queste povere mani moribonde.
Io mi sentiva l'anima affondare
in un mar senza scampo e senza sponde.
 
Dissi, come in un soffio: La bambina.—
E vidi ne' tuoi buoni occhi una forte
promessa.—Al buio, come un'assassina,
stava in agguato, dietro a me, la morte.

DESTINO

Non dovevo morir.—V'è una parola
Che niuno ancora su la terra ha detta.
Scriverò la parola benedetta
col puro sangue del mio grembo, io sola.
 
Solo una madre il gran mister può dire
che disserra le fonti de la vita.
Io sarò quella madre.—Io l'infinita
gioia che fa ogni volto impallidire
 
canterò.—Coi fanciulli su i ginocchi,
febbricitanti di dolcezza, tutte
le donne in me saran sospese, tutte
le donne avranno in me raccolti gli occhi,
 
e un'ebrezza d'orgoglio al cor profondo
sentiranno affluir per ogni vena
al mio grido: Ave o Madre, o Gratia plena,
che porti e nutri ne' tuoi fianchi il mondo.

IL CALVARIO DELLA MADRE

Grembo materno strazïato e forte,
di tua fecondità l'invitto segno
in te impresso sarà fino a la morte.
Ave.
 
Bocca materna, non avrai più baci
che non sien quelli di tuo figlio—come
sigilli d'oro fulgidi e tenaci.
Ave.
 
Occhi materni, voi vedrete il mondo
dietro un velo di lagrime, seguendo
ansiosi il folleggiar d'un bimbo biondo.
Ave.
 
Mani materne, voi più non saprete
che blandire e sanar le rosse piaghe
di colui che a la terra offerto avete.
Ave.
 
Vita materna, non sarai più nulla
fuor che l'Ombra vegliante ad ali aperte,
con lunghe preci, a fianco d'una culla.
Ave.
 
Cuore materno, cuore crocifisso,
cuor benedetto, cuore sanguinante,
cuore pregante a l'orlo d'un abisso,
 
non più per te, non più per te vivrai;
ma pel figlio, pel figlio in mille forme
di perdono e d'amor rinascerai.
Ave.

DOLCEZZE

A Giovanni

SONETTO D'INVERNO

Cade la neve a falde larghe e piane
da ore e ore, senza mutamento.
Non una voce, non un fil di vento,
non echi a le casupole montane.
 
Ne i boschi e su le immote alpi lontane
ogni soffio di vita sembra spento:
sotto il bianco lenzuolo è un sognar lento
di piante, d'erbe e di tristezze umane.
 
Qui, nel camino, ardon le fiamme a spire:
tu mi sorridi: io penso, amico mio,
che dolcezza ha in quest'ora il nostro nido.
 
Cerco il tuo labbro che non sa mentire,
mi stringo al cor che non conosce oblìo,
m'abbandono tremante al petto fido.

PRIMULE

Sbocciano al tenue sole
di marzo ed al tepor de' primi venti,
folte, a mazzi, più larghe e più ridenti
de le viole.
 
Pei campi e su le rive,
a piè de' tronchi, ovunque, aprono a bere
aria e luce, anelando di piacere,
le bocche vive.
 
E son tutti esultanza
per esse i colli; ed io le colgo a piene
mani, mentre mi cantan per le vene
sangue e speranza;
 
e a dirti il dolce amore
che a te solo m'allaccia e a cui non credi,
con un palpito in cor getto a' tuoi piedi
fiore su fiore.

IL RITORNO DI BIANCA

Ella verrà.—Noi ci guardiamo in viso
pallidi, col tremor che dà la gioia
quando trabocca; e il tuo labbro ha un sorriso
 
di gaiezza così trepida e buona,
che a l'aperte tue braccia io vengo, amico,
con l'anima che tutta s'abbandona.
 
Ella verrà.—La casa è trasformata,
pel giunger de la piccola regina,
come da un tocco magico di fata.
 
Ella si guarderà con meraviglia
dintorno, spalancando i suoi grand'occhi
già pensierosi sotto lunghe ciglia;
 
e i suoi piccoli piedi, come rose
freschi, e le mani piene di carezze,
e i trilli, e i giochi, e le leggiadre cose
 
di quell'infanzia saran nostra vita:
per essa tu ritornerai bambino,
io sarò come pianta rifiorita.
 
Troverò nuovi ritmi e nuovi canti
che a onde a onde sgorgheran dal cuore,
i suoi sonni a cullare e i lunghi pianti;
 
e tu starai, devoto, ad ascoltare
quel che ogni essenza di bellezza aduna:
d'un bimbo il blando e placido sognare,
 
e una mamma che canta su la cuna.

RICÒRDATI

Ricòrdati, ricòrdati, anima,
 
il tempo, il luogo, il sogno ed il tremore.
Ricòrdati la rossa
tunica ch'io vestivo, il mattutino
cinguettìo de le rondini, il pallore
del cielo,
la voce di mia figlia nel giardino.
 
 
Ricòrdati, ricòrdati, anima:
 
—Mamma!... trillava la voce d'argento.
E come per malìa
tutti i mandorli e i peschi erano in fiore,
e tremavano i petali nel vento:
ricòrdati
com'io sentìi spuntarmi l'ali al cuore.
 
Tutto l'essere mio ne l'infinita
delizia era sommerso,
come àtomo nel sole, come fronda
sul ramo, e vita ne l'eterna vita:
non mai
letizia umana fu così profonda.
 
 
Ricòrdati, ricòrdati, anima,
 
di quell'ora perfetta e fuggitiva:
pei giorni che verranno,
per la noia, per l'ombra e per il male
che t'aspettano, oh, serba intatta e viva
l'imagine
di quell'ora che a te parve immortale.
 
Ricòrdati, ricòrdati, anima!...
 
Cadrà questo mio corpo esile in polve,
e in altre forme, in altre
vite tu passerai.—La creatura
ove, per il mister che il mondo avvolve,
o anima,
rivivrai come forza di Natura,
 
in un'ora d'aprile da un'ebrezza
di gioia sarà vinta,
senza saper perchè: dirà, tremando:
—Dove, come io provai questa dolcezza
un giorno?...
In qual giardino sconosciuto, e quando?...—
 
Ricòrdati, ricòrdati, anima!...
 
Il gaudio a lei verrà da la radice
de l'essere, ove freme
la memoria del senso.—E non saprà
in quell'unica e sacra ora felice,
o anima,
donde le venga la felicità!...

ACQUERELLO

Gioca una schiera
di bambini sul prato.—È mite il giorno.
Piena di luce e di carezze, in torno
aleggia Primavera.
 
Ridono i cieli
e l'erbe nuove: senza fronde, pura,
biancheggia la virginea fioritura
de i mandorli e de i meli.
 
A le finestre
schiuse a la gioia de l'aria e del sole,
portano i venti olezzi di viole,
di timo e di ginestre.
 
Svolan canore
le rondini, che amor tutte conduce;
salutano coi freschi inni la luce,
il nido, il bimbo, il fiore.
 
E sono belli
i bimbi, e v'è fra lor la mia piccina
che, incerta ancor del passo, una manina
tende ai più grandicelli:
 
timidamente
coglie primule d'oro, e poi pispiglia;
e le brilla d'ingenua meraviglia
il bruno occhio ridente.

CANTILENA

Dammi la piccola mano,
vieni con me tra le selve.
Per l'aria fragrante d'aromi
le bianche farfalle ti cercano.
 
Sei la sorella de i fiori,
de le libellule azzurre;
de l'erbe il sommesso linguaggio
comprendi, e rispondi cantando.
 
Sento un accordo sommesso
fra lo stormir de le foglie,
fra i brividi lunghi de l'acque,
o figlia, e il tuo gaio parlare.
 
Forse eri un giorno la felce
che a l'ombra folta verdeggia;
riscioglierai forse il tuo volo,
o allodola, un giorno, pei cieli.

L'ACQUAZZONE

Si sciolsero le nubi, a l'improvviso:
piovve a dirotto.—Al limite del campo
vidi la bimba, fra uno scroscio e un lampo,
bello fra i ricci bruni il fresco viso.
 
Tesi le braccia; ed a traverso il nembo
la bimba accorse, fradicia e ridente,
e mi cadde sul cuore, e il suo fremente
piccolo corpo mi raccolsi in grembo....
 
.... Passano i giorni, passano—e si muore.
Ben altre furie di tempesta tu
affronterai—ma non ci sarà più
la tua mamma a raccoglierti sul cuore.

CANTA A' MIEI PIEDI....

Canta a' miei piedi, come uccel fra i rami,
la bimba.—Come zolla a primavera,
per lei la stanza olezza di ciclami.
 
Parla con la sua bambola, e la culla
con miti atti materni, e con lei ride.
Nulla mirai di così dolce, nulla
 
udìi che avesse la freschezza alata
di questa voce: aura tra foglie, vena
garrula d'acque, musica sognata....
 
.... Testina bruna e bocca di sorriso,
cuore che vivi di felicità,
io penso, intenta e scolorata in viso,
 
a l'avvenir che fra le nebbie sta.
 
Come lontano!... ma verrà.—V'è un'ora
per tutto.—Or giochi; ed in te dorme intanto
l'eterna sfinge che se stessa ignora.
 
Dormono istinti e sogni, e il bene e il male,
e l'energie de la tua razza, e il foco
roditor de la carne, e l'ideale;
 
l'opera forse ch'io non ho compìta,
e che risorgerà per la vittoria
in te, vibrando di più vasta vita;
 
forse il poema de l'uman dolore....
.... Potrò seguirti per l'ignota via?...
Perdutamente ora ti stringo al cuore,
 
o bimba, o bimba, or che sei tutta mia.

L'OMBRA

Sediamo, tacendo, sul queto
balcone che guarda il giardino:
io cucio, e tu fingi di leggere:
ti gioca la bimba vicino.
 
Rintoccan da lungi le piane
campane de l'Ave Maria.
Un'ombra ci scende su l'anima,
non sai, non sappiamo che sia;
 
così, come un'ombra di nube
o d'ala, che rapida passa.
Non dico la cosa terribile,
nè pur con la voce più bassa:
 
lo so, temerario è tentare
la morte, sia pur con un detto.
—Silenzio.—Tu stringi con braccia
di ferro la bimba al tuo petto.
 
.... Passaron per te, con la vita,
le torve tempeste del cuore,
le smanie che a te pur sembravano,
—e forse non eran—l'amore:
 
passaron per me, con la vita,
degli estri il magnifico grido,
e i sogni di gloria.—Ci pènetra
ormai la dolcezza del nido;
 
per questa dolcezza viviamo,
serrati a la bimba, così....
Che cosa faremmo, se l'angelo
di casa non fosse più qui?...

*

Io, sì, potrei vivere ancora,
sai?... viver fra i muti balocchi,
gli sparsi alfabeti e le bambole
sue bionde, che chiudono gli occhi:
 
canuta e disfatta, ma vivere,
per vincer con torbida e forte
superbia il mio strazio, e costringerlo
nel verso che sfida la morte:
 
costringerlo tutto, con brani
di cuore, cogli urli supremi,
con tale irruenza di spasimo
che il mondo ne soffra e ne tremi....
 
Ma fuor de la semplice culla
che il bianco tuo fiore cullò,
oh, tu non avresti più nulla,
tu t'ammazzeresti.—Lo so.—

PICCOLA CASA

Piccola casa che da' tuoi balconi
respiri il verde e ridi a Primavera,
piccola casa ov'Ella un dì non era,
ov'Ella schiuse i suoi lucenti occhioni:
 
piccola casa linda come un fiore
ove il mio core in Lei trovò la pace,
che taci, mesta, se la bimba tace,
che lieta echeggi a l'infantil rumore:
 
in te sien puri ogni atto, ogni parola:
schiuse sien le tue porte a chi domanda
pane, e a la tua pietà si raccomanda:
da te prorompa il gesto che consola.
 
Palpita, come un nido: apri tua fronda,
come un rosajo. Il calmo declinare
del giorno aduni, in torno al focolare,
pie fronti ove rimorso non s'asconda;
 
e le finestre a l'albe senza veli
schiudansi per desìo di luce e d'aria,
salutando l'allodola che svaria
inebriata pel nitor de i cieli;
 
salutando col sol la gioia eterna
del moto, e il ritmo de le forze umane.
Amore, amore, amor dona col pane,
piccola casa semplice e fraterna:
 
ogni cantuccio in te serbi un'alata
eco, un sorriso, una gentile istoria:
tutto di te sia dolce a la memoria,
piccola casa ove mia figlia è nata.

TU SOLA

Corona di spine e di raggi,
martirio invocato con braccia
protese, con supplice cuore,
maternità!...
tu sola
sul mesto femineo destino
fiorito d'amore e di pianto
imprimi il suggello divino.
 
Torrente di vita che rompi
le viscere d'Eva, a nutrire
la gioia e il vigor de la terra,
maternità!...
tu sola
redimi e consacri del senso
la cieca follìa; tu, sbocciata
da un bacio, in aromi d'incenso.
 
 
La gracile Schiava, strumento
d'ebrezza, di sogno e di morte,
fra l'ombre de gli evi te attese,
maternità!...
te sola
che a lei redimisse la fronte
di pallide rose, a celare
del lungo servaggio le impronte.
 
 
Se, libera e sacra, Ella segua
domani la fulgida via
che il Dio de la vita le impone,
maternità!...
tu sola
potrai, col tuo verbo profondo,
avvincer le razze: tu sola
sarai la salvezza del mondo.

LA CENTENARIA

Prega—e in un soffio spirali le preghiere
tremanti su la bocca ùmile e tarda—
la venerata candida Vegliarda
che vide più di cento primavere.
Tutto ne la sua casa è come un giorno
era: ma triste, solitario, immoto:
figli e nepoti verso il grande ignoto
fuggiron tutti, senza far ritorno.
 
Prega—ma non ricorda, e non desìa.
—Forse ella è morta prima di morire.—
Lo stanco cuor che non sa più soffrire
s'aggela in una immemore agonia.
.... Fuori, da l'alba, neve senza vento.
Bianche le case, bianca la pianura.
Par che avvolga un candor di sepoltura
la cieca Ava pregante, il mondo spento.
 
Ella fu un giorno fresca come il fiore
de i prati, ed ebbe la serena fronte
d'Ebe, e sciacquò le vesti al chiaro fonte,
stornellando di rondini e d'amore.
Andò sposa a colui che fra i valenti
figli del solco a lei parve il più forte;
cinse d'ulivo e d'edera le porte
de la sua casa, e custodì gli armenti.
 
Nacquero i figli dal suo bronzeo grembo
di vincitrice, audaci come belve,
liberi per radure e campi e selve,
esperti in guadar fiumi al sole e al nembo.
Crebbero come il grano su l'arista,
in un fulgor di forza aspra e possente;
e ognun lasciò la Madre, avidamente
sognando il mondo per la sua conquista.
 
Ella rimase presso il focolare
sacro, traendo a l'alta rocca il fuso.
Nuova talor de' figli al nido chiuso
come rondin venìa, da terra e mare.
Tumultuanti d'energie superbe
trasfuse in lor da le materne vene,
toccavan essi il sommo segno, il bene
eccelso, invitti ne le pugne acerbe.
 
Ella rimase, casta guardiana
de la casa e de i campi abbandonati.
Quante volte tornò l'erba ne i prati,
quante volte fiorì la maggiorana?...
Quante volte passò l'aguzzo dente
de l'aratro nel solco, ed il baleno
di cento falci sotto il ciel sereno
rise di gioia fra la messe aulente?...
 
Ella non sa.—Più non ricorda.—Prega.—
Forse or non è che un vano simulacro
di vita,—Il corpo assiderato e macro
sotto un terror d'eternità si piega.
Ella fu come l'albero che diede
tutti i suoi fiori e tutte le sue fronde;
ella temprò le forze sitibonde
de i figli con l'ardor de la sua fede;
 
creò la stirpe e fu sovrana.—Espande
or la stirpe selvaggia un irruente
fiume di gioia per le arterie spente
de gli uomini.—E la Madre, ùmile e grande,
posa.—Sovra le innumeri vittorie,
tremula e bianca illusïon di vita,
posa, a custodia de la casa avita
che tace, oppressa da le sue memorie.
 
E tutto tace, in torno a l'alte mura.
La neve cade, lenta e maliarda,
avvolgendo la terra e la Vegliarda
ne lo stesso candor di sepoltura.
Sogna la terra, sotto il largo oblìo,
fiori di pesco e gemme di vermène.
Sogna l'Ava la pace ultima, il lene
battito d'ali che la porti a Dio.

ACQUEFORTI

GLI AMANTI DELLA MORTE

Essi erano stanchi di tutte
le cose vedute.
Nessuna veniva, di tutte
le cose sognate.
La vita, come una straniera
dal freddo sorriso indolente,
ignota passava, fra gente
ignota.—Non era, non era
la vita che un pugno possente
brandisce, scudo, asta o bandiera.
E accadde che un giorno
i fieri assetati pensarono
la fonte che sazia ogni arsura,
la fuga che è senza ritorno,
la gioia de l'ultima oscura
rinuncia, del freddo guanciale,
del bacio che è senza l'uguale,
del sonno immortale.
E ti chiamarono, o Velata.—
Ma tu non rispondi che a l'ora
nel tempo fissata.—
Ed essi sognarono allora
vïolentare le tue labbra smorte:
sognarono il gesto feroce, lo stupro terribile, o Morte!...

*

E tu, prostituta del mondo,
che sai tutti i baci,
vampiro che succhi ogni vena
con labbra voraci,
tu fosti a quegli occhi la fata
dormente nel chiuso giardino,
il giglio lontano e divino,
la bocca non anco baciata.—
Ti pregarono, a capo chino.
Ti dissero: Vieni, o Velata.
—Con te nel silenzio
del bosco ove foglia non s'agita
e voce d'uccello non canta:
fra cespi di mirto e d'assenzio,
fra tronchi che l'edera ammanta,
o amore di terra lontana,
o luce di fata morgana!...—
.... Fu vana, fu vana
la lunga preghiera, o Velata.
Tu solo rispondi ne l'ora
dal tempo fissata.—
Ed essi sognarono allora
vïolentare le tue labbra smorte:
sognarono il gesto feroce, lo stupro terribile, o Morte!...

*

E come fanciulla dormente
t'han presa.—Lo so.—
La bocca brutale rovente
la tua soggiogò.
E tu, che prepari implacate
torture a colui che ti fugge,
col morbo che làncina e strugge,
con lunghe agonie disperate,
tu fosti l'Amante che rugge
d'ebrezza fra braccia adorate,
e versa le estreme
delizie con l'ultimo rantolo;
l'Amante com'edera avvinta
che tutta si dona, che freme,
che morde—tu vinta, tu vinta!...
.... Fra cespi di mirto e d'assenzio
or giaccion gli Atleti, in silenzio.
Eterno è il silenzio,
eterna la pace.—Un sorriso
di fiera dolcezza s'effonde
sul rigido viso.
Risognan le gioie profonde
ch'hanno strappate a le tue labbra smorte:
poichè tu ben ami chi t'ama, o bianca, o terribile Morte.

LACRIME SILENZIOSE

Mute, senza singhiozzi, allor che nessuno le vede,
quando, venute l'ombre, de i visi la maschera cede,
 
mute, senza singhiozzi, solcando roventi le gote,
goccian, da fiere mani nascoste, le lacrime ignote.
 
Come inesausta fonte, oh, sgorgan nel freddo silenzio,
sciogliendosi su i labbri con acre sapore d'assenzio.
 
L'ombra le guarda e tace, le ascolta cadere dirotte,
e tace; e in essa il loro segreto d'angoscia s'inghiotte.
 
Stille di piombo fuso su viscere dilanïate,
ricadono su i cuori—e tutti ne abbiamo versate.
 
Chi mai, chi mai, fratelli, nel mondo può dir che le sole
lacrime sieno quelle che i cenci rivelano al Sole,
 
porte e finestre aprendo per chieder pietà su le vie,
pietà pei bimbi scarni, pietà per le ignude agonie?...

*

Mute, senza singhiozzi, allor che nessuno le vede,
quando, venute l'ombre, de i visi la maschera cede,
 
mute, senza singhiozzi, solcando roventi le gote,
goccian, da fiere mani nascoste, le lacrime ignote.
 
Piangon su i vecchi sogni, sul vecchio lontano dolore
che il labbro dice—spento—che è piaga insanabil nel core;
 
piangon su i figli ingrati, sul mesto avvizzir de la vita
che, come sabbia d'oro, ne sfugge da l'avide dita;
 
su quel che tu non dici nè pure a te stessa talvolta,
anima miseranda, nel buio, nel dubbio travolta!...
 
Gocce di vivo sangue, o lacrime ignote, sgorgare
da ignoti occhi vi sento—e, ahimè!... non vi posso asciugare.
 
Lo metteran sotterra, il cor che in segreto vi pianse:
non saprà mai nessuno che oscura tristezza l'infranse.

LA VECCHIA PORTA

Quadro di A. Baertsoen.
 
A Elisa Ricci.
La vecchia porta s'apre nel fianco del vicolo oscuro:
goccia miseria e lebbra la crosta del viscido muro.
 
Nera come un abisso, è muta, è sinistra la porta:
sotto le basse nubi sta, fredda, terribile, morta.
 
Morta?... no, pensa.—Cose nel tempo sepolte ella sa.
Molto ricorda—amore, dolore, delitto, pietà.
 
.... Passò, scherzosa, a l'alba, tornò, stanca e pallida, a sera,
con le compagne, l'esile fanciulla che avea ne la fiera
 
bocca e ne gli occhi glauchi la luce d'un sogno.—Non fu
vista tornare, un giorno. Nessuno la vide mai più.—
 
.... La vecchia porta pensa:—ne l'andito buio, una notte,
due corpi avviticchiati, un colpo, uno schianto, due rotte
 
parole: A me! soccorso!...—Durò, dentro l'andito muto,
tutta la notte il rantolo de l'uom che morì senza aiuto.
 
Piccole, strette bare di bimbi rachitici, spenti
da tabe e da miseria nel fiore de gli anni innocenti,
 
passarono.—Non pianse la madre, o assai breve fu il pianto:
è dolce ai bimbi infermi la pace del pio camposanto.
 
Passarono i braccianti, cantando. Ma avevan le note
un ritmo grave, un senso d'ignote tristezze, d'ignote
 
lacrime.... e una fanciulla da l'alto guardava, chinato
il viso fra i cespugli di qualche geranio malato.
 
Quanti singhiozzi e sogni di povere vite ascoltò
la vecchia porta?... ora essa è stanca. —Ora pensa: Cadrò.—

*

Con voluttà di gioia, le picche e i martelli, domani,
faran le grigie case del sordido vicolo a brani.
 
Abbatteranno i muri stillanti la febbre del tifo,
le garrule ringhiere, degli anditi immondi lo schifo,
 
le stanze ove s'ammucchian, su stretti promiscui giacigli,
pel torbido riposo i padri e le madri coi figli.
 
Udran le tristi razze la prima parola d'amore,
sapran che su la terra vi sono degli alberi in fiore,
 
e gioie ùmili e sante, e case dai lindi balconi
pieni di vento, pieni di gaie ridenti canzoni.
 
E tu, tu, vecchia porta, travolta ne l'ampia ruina,
vedrai la prima volta, cadendo, la luce divina:
 
coi palpiti di marzo che sveglian le fresche viole,
respirerai, morendo, la gloria feconda del sole.

L'ORGANETTO

Amo le tue canzoni, o vecchio organetto scordato,
da un monco veterano per ùmili strade guidato.
 
A lui, che in Aspromonte pugnava fra i pallidi insorti,
tu canti ancor: «Si scopron le tombe, si levano i morti....»:
 
quando s'addensan l'ombre de' plumbei tramonti pei cieli,
tu arridi a lui con l'inno fedel di Goffredo Mameli.
 
Amo i tuoi stanchi ritmi, che sanno a la povera gente
portare un soffio, un raggio di queta gaiezza ridente;
 
che a le donne, sedute coi bimbi rachitici al seno,
dicon non so che sogno, non so che miraggio sereno.
 
Rapsodo vagabondo, nel buio de' freddi cortili
getti, come d'incanto, l'effluvio de' liberi aprili;
 
Nina, Rosetta, Bice discendono a salti le scale,
ansando un poco, smorte del lento terribile male
 
che sugge a goccia a goccia le vene del povero.—E tu
suoni per quella gioia le danze del tempo che fu:
 
oh, vana, oh, breve gioia di corpi a la vita anelanti,
chiusi doman fra il sordo fragor de le macchine urlanti!...
 
Rapsodo vagabondo, va dunque, le tue serenate
cantando a le finestre d'anemica ruta infiorate:
 
getta i tuoi vecchi ritmi ne' trivii ove il popolo muore,
così, come si getta sul fango del lastrico un fiore:
 
Beethoven de la strada, un vento di turbine, un'onda
d'oscura angoscia infrange talor la tua voce profonda.
 
Ne le tue rotte corde, nel buono ramingo tuo core
l'anima de la plebe passò col suo stanco dolore,
 
e piange....—come il cieco vagante a tastoni entro il velo
d'ombra che gli contende l'azzurro implorato del cielo.

L'ULTIMO VALZER

Fra le sue braccia
ella è flessibile
come un virgulto
nel lungo strascico
color viola.
Danzano, danzano
senza parola.
Fra densi effluvii,
fra luci gemmee
piegano, ondeggiano,
stretti trasvolano
ritmicamente;
ed ella fingere
tenta un sorriso
nel bianco viso;
ma il viso mente,
ma il valzer mente,
non s'aman più.
 
A onde, a fremiti,
a spire, a vortici
si snoda il valzer
pieno di lagrime,
pieno di baci.
E passan agili
coppie fugaci:
corpi di giglio,
spume di rosei
veli, auree treccie,
lenti bisbigli,
carezze lente....
bellezza e musica,
eterna e vana
fata morgana:
follia di danza,
fresca esultanza
di gioventù!...
 
.... La dama pallida
non è più giovane,
non è più bella.
Fra i ricci morbidi
v'è un filo bianco,
nel petto il fragile
cuore è già stanco.
Danzano, danzano,
avvinti inseguono
nel ritmo l'ultimo
miraggio, l'ultima
speranza in vano.
Giro di valzer
rapido e lieve
sei, vita breve!...
La terra accoglie
le vizze foglie:
il sogno fu.
 
.... Danzano, danzano
la ridda funebre
sui fiori morti.
L'amore in livido
gorgo s'affonda;
ma ancor del valzer
spumeggia l'onda.
Con lunghi brividi,
con molli e perfide
carezze avvinghia,
trascina, intorbida
l'anima e il senso.
Oh, fra le immemori
ultime spire
così sparire:
di mari ignoti
naufraghi ignoti,
non soffrir più!...

SETTE MAGGIO 1898

Ho quell'ore ne l'anima inchiodate:
la via deserta, sotto un ciel di piombo:
ad un tratto, da lungi, un sordo rombo
di folla, e un grandinar di fucilate.
 
Porte e finestre in un balen serrate
lugubremente—poi silenzio.—Il rombo
già s'avvicina, sotto il ciel di piombo:
colpi, fischi di palle, urli, sassate.
 
Fin ch'io vivrò mi resterà ne l'ossa
quell'angoscia, quel soffio d'agonia
su gente inerme del suo sangue rossa;
 
e vedrò quel fanciul, senza soccorso
morente—un bimbo!...—in mezzo de la via,
china e intenta su lui come un rimorso.

FUNERALE DURANTE LO SCIOPERO

Carro povero e nudo e senza un fiore
che lentamente porti
il fèretro del vecchio muratore
a la casa de i morti,
 
come un carro di re verso il riposo
che non ha fine, vai:
il corteo che ti segue è glorïoso
come niun altro mai.
 
Son diecimila e pur sembrano un solo,
calmi, quasi sereni.
Unica e grande sul compatto stuolo
par che un'idea baleni;
 
e nel ritmico passo e ne l'uguale
respiro e ne le assorte
fronti parli e s'affermi, alta sul male,
sul pianto e su la morte.
 
«O Camerata, che ne l'aspro e degno
conflitto eri con noi,
e moristi, sperando, in questo segno,
fra le braccia de' tuoi;
 
volgiti indietro, e guarda. Eccoci tutti
a le tue pompe estreme.
Quel giorno solo noi verrem distrutti
che non saremo insieme.
 
Sappiamo ormai che, in nostra fede avvinti,
rinnoveremo il mondo.
Son retaggio de i deboli e de i vinti
il gesto furibondo,
 
il cieco sasso, de gli incendii il lume
sanguigno, e il pazzo urlare.
Noi siamo il grande e maestoso fiume
che volge il corso al mare;
 
il ghiacciaio noi siam bianco e silente
che leva al ciel la fronte,
e a poco a poco, inesorabilmente,
spacca e sommuove il monte.
 
L'ultimo aiuto e la speranza estrema
perduta avrem dimane.
Non tener, Camerata. Il cor non trema
se pur ci manca il pane.
 
Oh, come lungi ancor le radïose
battaglie del lavoro,
fra canti di fanciulli e aulir di rose
sboccianti a l'albe d'oro!...
 
Quante vittime ancor lungo la via
irta di sassi e spine,
ne la guerra inugual, ne l'agonia
tremenda e senza fine
 
de la fatica che non ha conforto,
de la scarsa mercede,
del duro pane!... O Camerata morto,
dormi, ne la tua fede.
 
Siam diecimila in torno a la tua cassa,
doman sarem milioni.
L'ira nostra non è turbin che passa
denso di lampi e tuoni:
 
è l'avanzar compatto ed incessante
fra torbidi perigli,
non per noi, non per noi, ma per le sante
gioie de' nostri figli:
 
è il batter senza tregua coi pesanti
martelli il duro masso,
a poco a poco disgregando, ansanti,
le vèrtebre del sasso:
 
nostra fede portar come un bel fiore
su l'elsa d'una spada:
stringer le file se un fratel ci muore,
e seguitar la strada.»

REDENZIONE

L'uomo che molto pianse e maledisse
e s'abbrutì per fame,
a colei che di sè mercato infame
lungo i trivii facea,—Seguimi—disse.
 
Vide ch'ella, a vent'anni, rifinita
era, come vegliarda;
e avea ne la pupilla opaca e tarda
la vergogna e il terror de la sua vita.
 
Egli dunque le disse: «O condannata
al bacio, àlzati e vieni.
Con quest'occhi che un dì furon sereni
tra i rifiuti del mondo io t'ho cercata.
 
Perduta sei com'io perduto sono:
pietà di me nessuno
commoverà, pietà di te nessuno:
chi è fuor di legge non avrà perdono.
 
La tua china è la mia, giù, sino al fondo.
In questo è la salvezza.
Noi avrem la terribile dolcezza
d'amarci come niun s'amò nel mondo.
 
Per l'infanzia di stenti e di percosse
che ricordi tremando,
pel tuo livido corpo miserando,
per la fame che a venderlo ti mosse;
 
pel trivio cieco, ove randagie e scarne
ombre velate in viso
offronsi col più squallido sorriso
che mai finga il piacere in triste carne;
 
per le taverne ove il barabba porta
il rauco ritornello
d'un'oscena canzone, il suo coltello
pronto a ferire, e la sua donna smorta;
 
per l'alba d'ôr che Iddio promise, io t'amo,
io t'amo.—Così sia.—
V'è una terra nel mondo ove s'espìa
per rinascere.—Credi: àlzati: andiamo.»

*

Vanno—per espiar.—Tutto il rossore
de i colpevoli e ciechi anni trascorsi,
e i tumulti de l'anima e i rimorsi
vibrano in quell'amore:
 
come lavacro su le fronti oranti,
scroscïando dal ciel tinto di lutto,
cadono al par di tempestoso flutto
tutti del mondo i pianti.
 
Vanno—per espiar.—La fulgida ora
non suonò—ma rischiara a poco a poco
le trepidanti anime un riso, un foco
di speranza e d'aurora.
 
Passano ignoti per ignote strade,
fin che cessa la pioggia e il giorno appare:
giungono a un piano vasto come il mare,
magnifico di biade.
 
E caste madri e giovani e vegliardi
da la libera festa del lavoro
tra l'erbe verdi e tra le spiche d'oro
miran con dolci sguardi
 
i due ploranti, e tendono le braccia,
salmodiando il cantico di Cristo:
—Ben venga chi sofferse ignudo e tristo,
e chi smarrì la traccia:
 
chi, delitti non suoi scontando, infranse
le mura de la legge per un pane,
e tutte seppe le vergogne umane,
e il suo sfacelo pianse!...
 
Qui ogni vita risorge e si trasmuta:
qui si crede e si canta; e la sublime
giustizia de l'amor salva e redime
il ladro e la perduta.—

INCONTRO

Noi c'incontrammo. Io mi sentìi repente
il gelo su la faccia e un tuffo al core,
e per tutte le membra un'opprimente
 
gravezza.—Ella era smorta del pallore
stesso che volto e labbra a me coprìa:
tremava del medesimo tremore.
 
Piegò vêr me la testa in atto muto,
silenzïosa io reclinai la mia:
e mai covò tant'odio in un saluto.

DILUVIO

E piove, e piove senza mai cessare:
piove con odio su la terra scossa.
La rauca voce del torrente ingrossa
più e più, sotto il cieco imperversare.
 
Empie la stretta valle che s'infossa
fra i monti—e sale, e pare urlo di mare,
l'eco de gli opifici a soverchiare
come rombo di popoli in sommossa.
 
.... Ascolto—sola.—E penso a le fiumane
che, non lungi di qui, sfascian le rive,
tutto affogando in gialle onde incalzanti;
 
di qui non lungi, udir credo, su schianti
di case e lagni d'ombre fuggitive,
un ruinar precipite di frane.

CAMPANA A MARTELLO

Dan-dan di campana lontana che turbi la pallida Notte,
che rompi la calma del sonno con grida d'angoscia, con rotte
parole, che piangi, che incalzi ne l'ombra, portato da i venti,
e piombi e ripiombi su i cuori, che al buio trasalgono, intenti:
qual fiume strarìpa?... qual dramma
si svolge di sangue fraterno?... qual fiamma
divora le case, divora le vite, ed avventa ne i cieli
da l'arse ruine con folle superbia le spire crudeli?...
 
E pur non rosseggia d'incendio de i cieli la curva profonda,
non rombo di fiume ne giunge che gonfio travolga la sponda.
Dan-dan di campana lontana che chiami, che chiami, che chiami,
da quale fantastica torre tu mandi i tenaci richiami?...
Non sei de la terra?... nel vuoto
ti getta il dolor d'uno spirito ignoto?...
Le bianche, le tacite stelle che piano tramontano in mare
te ascoltan con voce inesausta pregare, pregare, pregare.
 
Dan-dan di campana a martello squillante dal buio Infinito,
ne l'ora d'un sogno tremendo noi tutti t'abbiamo sentito.
Vorremmo assopirci ne l'ombra, ma tu sei de l'ombra più forte:
ci sveli il perchè de la vita, ci sveli il perchè de la morte.
E tutte le cose bugiarde,
e il tempo perduto ne l'opere tarde,
e tutte le ignavie vigliacche del cor che a se stesso ha mentito,
ne dici, campana a martello squillante dal buio Infinito!...
 
E il piccolo cuor che ha creduto di battere eterno, la Sfinge
a un tratto comprende: si sente caduco; ma il tempo già stringe.
Fu errata la strada e la fede; fu un sogno la gloria; fu vano
l'amore.—Mentisti a te stesso—ripete il rintocco lontano.
—O cuore, riprenditi intero:
t'imbevi di luce, combatti pel vero:
vuoi dunque morir senza dirla, la pura, la grande Parola
che devi?...—Così la campana singhiozza—fatidica—sola.—

ALPE

Non posso amarti, o vetta ove risplende
fredda la neve ne' silenzî immoti,
ed il ghiaccio cristàllino si fende
su abissi ignoti.
 
Tu stai sovra le nubi e sovra il male,
t'avvolge l'ampia nudità de l'aria:
pria di sfiorarti irrigidiscon l'ale,
o Solitaria
 
che non sai, che non senti e che non muori.
Fra la mia vita e le tue nevi eterne
sta un miserrimo stuol d'odii, d'amori,
d'ansie fraterne:
 
tremano gli echi de i singhiozzi umani,
danzan le ridde de gli umani strazî;
ma tu non hai pietà, da' tuoi lontani
gelidi spazî.
 
E se l'uom, te mirando, un'ideale
grandezza pensa, gli rispondi: Mai:
a questa calma eccelsa ed immortale
non giungerai.—

*

Forse, chi sa?... tu pur soffri.—Tu, stanca
forse de' tuoi silenzî ampî di tomba,
e d'esser sempre immobilmente bianca
sul mondo che qua giù turbina e romba,
 
sogni.—Sogni un torrente aureo di lava
che salga dal tuo core a le tue cime,
e vi squarci un cratere, e su te schiava
trabocchi, ardendo d'un amor sublime.

A MIA MADRE LONTANA

Ti sogno.—A le gracili mani
appoggi la testa che langue.
Oh, mai così pallida, oh, mai così esangue
ti vidi ne i tempi lontani.
 
Tu ascolti il cammino de l'ore,
o madre, d'intense memorie vivendo;
e passano l'ore, cadendo
pesanti sul chiuso tuo core.
 
E pensi a me sola, a me sola:
con tutta l'oscura energia
di quella che t'arde mortal nostalgia
chiamando me sola, me sola.
 
Oh, qui, dove perdutamente
a un rogo d'amore la vita abbandono,
ti grido—Perdono, perdono—
o madre diserta e cadente;
 
e sempre ti sogno. Le mani
raccogli, bianchissime, in croce,
e parli—e nel soffio de l'esile voce
rivivono i tempi lontani.

SUL MONUMENTO DI EDVIGE V***

Ritta presso il sarcofago, non geme
l'alta immobile donna, e non impreca:
ascolta, intenta e dolorosa insieme.
 
Lo sguardo e il viso essa tremando tende,
socchiuso il labbro, giunte ambo le mani:
e forse il sogno del mistero intende,
 
poi che le vibra tutta la persona,
e gli occhi, fissi al limitar del cielo,
spiran l'essenza d'ogni cosa buona.
 
In questi giorni di novembre, grevi
di nebbie, e quando coprirà l'inverno
le fosse col pallor de le sue nevi,
 
e sempre, nel fluir del tempo ignoto,
muta sfinge di bronzo, ascolterai,
perduti i supplicanti occhi nel vuoto;
 
ma quel che intendi non saprem giammai.

*

Noi non sappiamo nulla.—Ferrea porta
si chiude, nel presente e nel futuro,
su quel che resta de la nostra Morta.
 
Noi null'altro che ciechi atomi siamo,
e su la Cara che ci lasciò soli
oh, nulla, fuor che pianger, non sappiamo.
 
Luceva in Essa quell'ardor di bene
che sommove le pietre e tutti i cuori
trascina e spezza tutte le catene:
 
e mentre Ella, di fiori una regale
copia spargendo con le bianche mani,
assurgeva al suo culmine mortale,
 
mentre un suo riso semplice e gagliardo
a noi volgeva, a un tratto sparve.—Sola
tu sai, tu, sfinge da l'intento sguardo,
 
del suo sepolcro l'intima parola.

*

È parola di speme e di quiete
che a te sommessa come un bacio giunge
da queste ov'Ella dorme ombre secrete?...
 
O pure è pianto, è gemito d'angoscia,
urlo e singhiozzo per cui trema il marmo
come a tumultuosa acqua che scroscia?...
 
O è sogno d'altri mondi e d'altri cieli,
cantico e riso di novella vita
che commove i tranquilli echi fedeli?...
 
.... Noi non sappiam che piangere, vaganti
come bimbi smarriti ne la notte,
mentre il tempo ne spinge avanti, avanti,
 
ove Ella aspetta.—E tu, sfinge, che il puro
viso tendi ascoltando e preghi e tremi,
tacerai nel presente e nel futuro,
 
sino al cieco affondar de gli anni estremi.

PASQUA DI RISURREZIONE

Io canto la canzon di Primavera
andando come libera gitana
in patria terra ed in terra lontana,
con ciuffi d'erba ne la treccia nera.
 
E con un ramo di mandorlo in fiore
a le finestre batto, e dico: Aprite:
Cristo è risorto e germinan le vite
nove e ritorna con l'April l'amore!...
 
Amatevi fra voi, pei dolci e belli
sogni ch'oggi fioriscon su la terra,
uomini de la penna e de la guerra,
uomini de le vanghe e de i martelli.
 
Schiudete i cuori: in essi irrompa intera
di questo dì l'eterna giovinezza.
Io passo e canto che vita è bellezza,
passa e canta con me la Primavera.

IN MEMORIA

Alla mia seconda bambina
vissuta un mese.
Non odi?... il frondoso giardino
è tutto un cantare di passeri,
è tutto un susurro di foglie
nel fresco mattino.
 
Mio piccolo fiore selvaggio,
perchè rifiutasti di vivere?...
È ver, tristi giorni ha novembre;
ma poi torna maggio.
 
Velata di candidi veli
saresti or fra queste mie braccia;
avresti ne gli occhi vaghissimi
l'azzurro de i cieli;
 
ed io ti direi le gioiose
parole che tutte bisbigliano
le madri ai bambini, cogliendoti
a fasci le rose.
 
Ma tu non volesti. Il vagito
tuo primo, o mia bimba, fu l'ultimo:
suggella i tuoi labbri il silenzio:
eterno, infinito.
 
Schiudesti sul mondo l'ignara
pupilla, o mia bimba, un sol attimo:
che vide?...—Suggella il silenzio
la culla e la bara.
 
E pure al mio sogno che sparve
io grido: perchè?... Fra le braccia
materne, perchè, bimba, inutile
la vita ti parve?...

PICCOLA TOMBA

O piccola tomba lontana,
è il giorno de i Morti.—Chi sa
se l'erta stradetta montana
qualcuno per te salirà!...
 
M'han detto che cadde la neve
su i colli di Santa Maria:
io penso la grigia, la breve
 
colonna troncata, fra un chiuso
di fronde rossiccie, di rami
bagnati, in un velo diffuso
 
di nebbia.—La candida Morta
io penso, che quasi non visse.
S'aprì, si rinchiuse la porta
 
di Vita, in un'ora, per lei.
E fuor che quegli occhi, sì grandi,
sì limpidi e simili ai miei,
 
io d'essa non vedo.—Nel cuore
non so ricomporre quel viso,
quell'esile grazia di fiore....
 
.... Morivo, lo so.—Sui cuscini
rizzata la testa convulsa,
io vidi quegli occhi divini.
 
Tentaron le labbra una pia
parola di benedizione.
Poi vinse, su me, l'agonia.—
 
O tu che portavi ne i tristi
tuoi occhi il perchè del mio male,
o tu, che di quello moristi;
 
da lunge mi guardi, mi guardi,
con muta struggente pietà.—
Comprendi?... mi aspetti?... È già tardi,
fra poco la mamma verrà.

PIAZZA DI SAN FRANCESCO IN LODI

Se de la patria il giovanile e fresco
disìo sale al mio cor come un incenso,
tutta bianca nel sole io ti ripenso,
piazza di San Francesco.
 
Cresce fra le tue pietre, o solitaria,
tranquilla l'erba come in cimitero.
—Sole e silenzio.—Un passo—un tremar nero
d'ali, fendenti l'aria.
 
Ed eran quel silenzio e quella pace
che in te bevevo a sorsi larghi e puri;
e il bacio amavo su' tuoi vecchi muri
de l'edera tenace.
 
L'antico tempio, presso l'ospedale,
svolgea sue linee semplici e divine.
Per due bifori in alto, snelle e fine,
rideva il ciel d'opale.
 
L'antico tempio avea canti e colori
d'una soavità che ancor mi trema
dentro.—O speranze, o poesia suprema
de gli anni miei migliori!...
 
Gravi note de l'organo, salenti
a gli archi de le vôlte longobarde,
su l'alte mura tremolar di tarde
stelle e fluir di venti!...
 
Come un suggello mistico al pensiero
da voi mi venne—e forse ho sempre amate
per voi le grigie case abbandonate
ove dorme il mistero,
 
i muschi densi a piè de l'erme, i queti
cortili pieni di sole e di verde,
i portici de i chiostri ove si perde
l'anima de i poeti;
 
i tristi luoghi ruinanti in pace
ove sol parla il soffio de le cose,
de i sogni morti e de le morte rose,
e tutto il resto tace.

IL SOGNO DI DRAGA

Sorrise con labbra procaci,
con piccoli denti felini
la donna al suo sogno, ne l'ombra.
Sì grande era il sogno
che vincer le parve follìa;
ma grande era pur la malìa
de gli occhi d'amore,
di sotto a le pàlpebre chini;
ma il fiero destino era scritto
nel suo nome, nel suo nome,
lucente, terribile e dritto
qual filo di spada.
Creata ad ambigue vittorie
ella era; in quel corpo era chiusa
la forza di tutte le glorie
del senso.—Ella sorse.—L'effusa
sua chioma pareva una veste
regale.—Ella andò.—Le tempeste
a lei saettavano i fianchi,
gonfiandole il labbro di sfide,
gonfiandole il cuore d'orgoglio.
Salì fino a te,
salì dal tuo letto al tuo soglio,
o giovine re!...

*

Co' suoi tenebrosi capelli
la pallida Maga t'avvinse.
Tu, contro la storia e la plebe,
tu, contro i destini
di patria, fanciullo selvaggio,
bevesti a quel bacio, a quel raggio
la fede, la vita.
Ed ella il tuo cuore si strinse
nel piccolo pugno di fata,
invincibile, invincibile,
allor che, al tuo piede prostrata,
susurrava: T'amo.—
Mentiva. Mentiva, pel trono
gonfiando il suo grembo infecondo,
indegna di tregua e perdono,
profanante a gli occhi del mondo
per sete di regno un altare.
Sfidò, come scoglio nel mare,
il nembo fischiante.—Fu sola
in faccia a l'Europa.—Con denti
difese e con unghie di belva
il suo sogno, o re.
E cadde qual tigre a la selva,
ma cadde con te!...

*

Regina di Serbia, stanotte
scordasti, per l'ore solenni,
la veste di rosso broccato?...
Purpurea qual sangue
di vinti è la tunica slava
che avvolger ti dee, prima schiava
d'un torbido regno,
di patria ne l'ore solenni.
Ma gli ebbri soldati, o superba,
ti preparano, ti preparano,
col piombo, la tunica Serba.
Per vènti ferite
cadendo, due volte sovrana,
scontando con l'empio martirio
la gloria terribile e vana,
il vano infecondo delirio,
scagliando ancor l'ultimo insulto
sul viso a la Serbia in tumulto,
tu insanguinerai terra e mare
col tuo sangue di leonessa.
Il manto regal di Teodora
volesti per te.
Or cadi, com'essa, ne l'ora
fatale de i re!...

*

Nel campo ove immemore l'erba
verdeggia su l'umili fosse,
o Draga, il tuo sogno è sepolto
con te.—Tu passasti
sul capo di cento ribelli,
sul filo di cento coltelli,
fra il plumbeo silenzio
che cova fragor di sommosse,
armata di scudo e d'elmetto
pel tuo sogno, pel tuo sogno,
che or serri, in eterno, sul petto.
Tessuto di perle
e d'oro, gemmato di ardenti
rubini, grondante di sangue,
ti avvolge le membra possenti
fra spire fantastiche d'angue.
In vita toccasti il tuo segno:
nel mondo godesti il tuo regno:
se rosso martirio ti lava,
se crisma di morte t'assolve,
riposa—o pirata del soglio.—
Riposi con te,
sgabello al tuo misero orgoglio,
il fosco tuo re!...

NATALIA

E tu, che di beltà quasi divina
fosti, ed or soffri nel lontano esiglio,
e pregare non puoi, se pur regina,
su la terra ove ucciso hanno il tuo figlio!...
 
Stai, come Niobe, curva sotto il fato,
senza lamenti.—E pur sento cadere
lacrime e grida sul tuo cor malato,
—gocciole di veleno in un bicchiere:—
 
sento, o vagante e tragica Sorella,
—e la pietà per te mi fa più buona—
l'inconfessato intimo strazio della
maternità che porta una corona.

IL MINUTO

Minuto che passi fuggendo, veloce pulsante
fra il cielo e la terra fiorita,
minuto che passi, fermare nel ritmo sonante
io voglio la breve tua vita.
 
Io fragile donna con gesto d'amor ti conquido,
ti strappo a la notte d'oblìo:
rapito a la corsa del tempo, nel bronzo t'incido:
sei bello, sei vinto, sei mio.
 
E sento vibrar nel tuo cerchio le immense energie
de l'aria, de l'acque, de l'uomo;
il vento ne i boschi, su l'alpi, fra vele e sartìe
di alati navigli sul dòmo
 
abisso de i mari; fragor di veicoli urtanti
gli asfalti di libere strade,
respiro di folla, respiro di fronde, vaganti
canzoni per campi di biade;
 
stridore di seghe e di leve, di cinghie e catene,
vicenda di remi su l'onda,
di mine fra i monti, d'aratri spaccanti le vene
al sen de la Madre feconda.
 
Mi giungon risate e singhiozzi, susurri di baci,
preghiere di voci commosse;
baleni di falci che taglian le messi feraci,
di vanghe che scavan le fosse;
 
conflitti di forze lottanti ne l'aspra conquista
de l'uom su i selvaggi elementi;
bisbigli sommessi de l'erba che cresce non vista
ne gli orti de i vecchi conventi.
 
Rapisco a la donna che siede con gli occhi su l'ago
il sogno che ride al suo cuore;
il primo suo gemito al bimbo che nasce, presago
di pianto, fra il sangue e il dolore;
 
l'alato onniforme pensiero a la folla dispersa
su mari su terre fraterne;
ti chiudo in me sola, minuto di vita universa,
lanciato a le tènebre eterne:
 
io centro del cosmo, regina de gli atomi erranti,
respiro, adorando, i fulgori
di tutti i tuoi raggi, la gioia di tutti i tuoi canti,
l'aroma di tutti i tuoi fiori.

MADRE TERRA

La Terra Madre chiama.
Ne la luce del sol stesa e sommersa,
de i tristi figli la tribù dispersa
tenacemente chiama.
 
La Terra Madre piange.
Ne le pallide notti senza luna
sotto le stelle abbandonata e bruna,
perdutamente piange.
 
E grida: Ove fuggiste,
o figli, o figli del mio grembo nero,
ch'io pel mio bacio crebbi, unico vero,
e per le bionde ariste?...
 
Quale malvagio istinto
vi trascinò ne le città tremende
ove a l'intrigo verità s'arrende,
ove il respiro è vinto
 
da torpidi miasmi,
per meandri tortuosi ed atri,
—.... o nati per le falci e per gli aratri!...—
vanno i vostri fantasmi?...
 
Arde come in un rogo
la gran città di febbre e di peccato.
Tra quelle fiamme un sogno insazïato
vi preme, arido giogo.
 
In brume ampie s'avvolge
la città di menzogna e di tumulto.
Di passïone un trepido sussulto
per essa vi travolge:
 
averla al piè, domata
come una schiava avvinta per le chiome,
e ch'ella gridi il vostro, il vostro nome,
con voce innamorata....
 
Ma la leggiadra belva
vi dissangua con bocca di vampiro.
Tornate, o figli, al libero respiro
del vento ne la selva;
 
ai fiumi vinti a nuoto,
ai voli in groppa di puledri indòmi.
Io so l'ombre de i lauri e so gli aromi
del desiderio ignoto.
 
Io vi darò le pure
notti, quando tra il fien cantano i grilli,
e par che il cielo tremulo sfavilli
amor su le pianure;
 
e il fiorir bianco e lento
de l'albe a maggio, allor che il giorno pare
un campo di conquista ove balzare
cogli orifiammi al vento.
 
.... Gonfie di vizio e d'oro
cadranno a fascio, in un boato immane
di ruina ciclòpica, le insane
città, vinte dal loro
 
orgoglio.—Io sola e grande
resterò.—Verran vergini e poeti
ai miei solchi, ai miei tralci, ai miei roseti,
a le mie vaste lande.
 
Chini sovra il mio cuore
dal ritmo innumerevole, sapranno
la verità che Iddio, sul basso inganno
de gli uomini e l'errore,
 
pose.—E dal mio possente
seno gonfio di germi e di dolore
zampillerà per quelle bocche in fiore
la magica sorgente
 
di Vita: polla d'acque
fresche come nel biblico mattino,
quando, vergin di forze, ad un divino
cenno, la Vita nacque.

SACRA INFANZIA

A Ersilia Majno
Sacra infanzia del povero, io ti vidi
soffrire e mendicar per tutti i lidi.
 
Vidi fragili carni avvelenate
da tabe; esili membra già piagate
 
da i colpi; labbra fatte pel sereno
riso, schiudersi al ghigno, al detto osceno;
 
grandi occhi d'innocenza aperti in fondo
a turpi abissi; anime dal profondo
 
palpito, ansanti verso la bellezza
del mondo, anime piene di dolcezza
 
e d'impeto, stroncarsi al giogo, intrise
di melma e d'odio, mutilate, uccise.
 
Sacra infanzia del povero, io lo sento
entrar ne le mie fibre il tuo lamento.
 
Viene da i bassi vicoli ove i muri
sanno l'istoria di delitti impuri;
 
da i rossi forni de le vetrerie,
da i fondaci, da i porti, da le vie
 
d'esilio, da le torride solfare,
da le soffitte strette come bare,
 
da tutti i luoghi ove son vite ardenti
di bimbi oppressi, torturati a lenti
 
spasimi, deturpati in mille forme
di servaggio e d'infamia, a torme a torme.
 
 
Noi, liete madri di superba prole
che va coi piè ne i fiori e il viso al sole,
 
non lo vogliamo, su le creature
nostre, il rimorso de le tue torture;
 
non le vogliam, le viscere de' tuoi
martiri, per nutrire i nostri eroi.
 
Coi rosei figli su le forti braccia
di te veniam, fra sterpi e fango, in traccia;
 
su te gettando, con l'amor che ignori,
gioia di baci e nuvole di fiori;
 
te guidando con gesto ardente e pio
ove ogni vita tocca il suo disìo.
 
 
Oh, madri anche per te!... Le consacrate
viscere che a crear furon create,
 
tanta han potenza in lor gioir fecondo
da contener tutto l'amor del mondo.
 
Vieni coi nostri figli, benedetta
com'essi, al sole, a l'avvenir che aspetta.
 
Vieni al robusto anelito, a la febbre
de la conquista e de la gloria, a l'ebbre
 
ore di gaudio che la vita dona
quando al suo bacio il forte s'abbandona:
 
godi il tuo maggio e cogli il frutto e il fiore,
fra cielo e terra respirando amore.

IL SALUTO FRATERNO

Salve, fratello.—
Tu non mi conosci,
non so il tuo nome: non ti vidi mai
prima d'ora.—Qui, dove t'incontrai,
mugghia il fragor de' carri e batte il polso
vibrante de la strada affaccendata.
Ognuno accorre con lena affannata
verso il suo sogno o il suo dolore. Ognuno
s'urta, senza guardarsi.—Ed io ti miro,
lieve passando—oh, il tempo d'un respiro,
oh, il tempo d'un addio breve, d'ignota
a ignoto, in mezzo a la ruggente via:
—Dio ti salvi, fratello—e così sia.—
 
Non m'importa saper donde tu venga
nè chi tu sia, nè che farai domani.
Non m'importa saper se le tue mani
sien pure.—O nato, come me, da grembo
dolente; o fatto de la stessa carne,
o preda de le stesse adunche e scarne
unghie de l'Ombra che in silenzio attende
dietro una porta, a l'angolo d'un muro,
per colpir quando il colpo è più sicuro:
tu che piangesti come forse io piansi,
volgiti a questa voce de la via:
—Dio ti salvi, fratello—e così sia.—
 
Pel dondolìo de la lontana culla
che ti cullò; pei baci di tua madre,
se madre avesti che di sue leggiadre
cantilene protesse il tuo riposo;
per le poche dolcezze e per le molte
lacrime, e le speranze che hai sepolte,
come piccoli morti, in fondo al cuore;
pel senso oscuro de la vita, uguale
in tutti; per la sacra ansia immortale
che sospinge le razze a l'avvenire;
per la tua fede e per la fede mia,
—Dio ti salvi, fratello—e così sia.—
 
E vada, come a te, questo saluto
a l'ampia folla che le strade ingombra:
a la donna che passa, ombra ne l'ombra,
contro i muri, velata: a chi un amore
insegue, o un odio, o il pane: a l'uom del maglio
e del telajo, fiero del travaglio
compiuto, e gaio d'una sua canzone:
al poeta, al fanciullo, al morituro
che sogna, e crede eterno il suo futuro,
e domani, con me, con te, dissolto
andrà pel cosmo in onde d'armonia:
—Dio ti salvi, ora e sempre—e così sia.—

Fine

Nota dei trascrittori

I seguenti refusi sono stati corretti (tra parentesi il testo originale):

157 Prega—ma non ricorda, e non desìa [desia]
165 vïolentare [violentare] le tue labbra smorte
195 non per noi, non per noi, ma per le sante [sarte]

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK MATERNITÀ ***