Title: Annali d'Italia, vol. 1
Author: Lodovico Antonio Muratori
Commentator: Gian Francesco Galleani Napione
Release date: May 15, 2012 [eBook #39704]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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LODOV. ANTONIO MURATORI
ANNALI
D'ITALIA
1
DAL
PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE
SINO ALL'ANNO 1750
COMPILATI
DA L. ANTONIO MURATORI
E
CONTINUATI SINO A' GIORNI NOSTRI
Quinta Edizione Veneta
VOLUME PRIMO
VENEZIA
DAL PREMIATO STAB. DI G. ANTONELLI ED.
1843
scritta da
GIAN-FRANC. GALEANI NAPIONE
Che un uomo d'ingegno, il quale sappia far capitale del tempo, non abbia cagion di lagnarsi della brevità della vita, potendo ad infinite cose attendere, il Varrone dell'Italia moderna, Lodovico Antonio Muratori, palesemente il dimostrò; tuttochè non sia giunto a vivere, come dell'antico Varrone ci narra Plinio, ed a scrivere oltre all'ottantesimo ottavo anno, nè a poetare, come il Bettinelli, al nonagesimo. Non oltrepassò egli guari i termini di un corso ordinario di vita, e di una vita impiegata in massima parte negli esercizii religiosi, cioè come cherico attento a' doveri del suo stato ne' primi suoi anni, quindi come parroco zelantissimo sino oltre al sessagesimo, e sempre come sacerdote esemplare sino al fine de' suoi giorni; ma seppe, ciò non ostante, non meno colle azioni sue virtuose che coi dotti suoi libri, giovare agli uomini, instruirli ed eziandio dilettarli; e le opere da lui dettate formano una biblioteca.
Nato in umile fortuna il giorno vigesimo primo di ottobre dell'anno 1672 in Vignola, terra del Modenese, patria del celebre architetto Barozzi, che da quella prese il nome, non potè avere nella età sua fanciullesca altri per institutore che un maestro assai comunale di grammatica latina, che lungamente in quelle spine lo avvolse, per cui tanti vivaci ingegni prendono il più delle volte in abbominio ogni specie di lettere. Essendogli però capitati alle mani i romanzi di madama di Scuderì, ben s'avvide che esistevano libri più dilettevoli che le triviali grammatiche non sieno. Servirono questi in certo modo di correttivo, gli aprirono la mente e l'invogliarono sempre più della lettura. Chi si sarebbe dato a credere giammai che l'autor degli Annali e delle Antichità italiane, e di tante altre opere di storia e di critica la più dotta e severa, abbia incominciata, s'egli stesso non l'avesse asserito, la sua carriera letteraria dal gran Cairo, dall'illustre Bassà e da altre simili fole, leggendole avidamente? Ma il punto sustanzialissimo si è, che curiosa brama, qualunque siasi, di leggere e di imparare sorga nelle anime nuove, non riesce poi arduo gran fatto l'alimentare e meglio dirigere questa nobile fiamma; ma guai! se in principio inavvedutamente altri la spegne, in vece di nutrirla.
Migliori maestri trovò poscia in Modena il Muratori, di grammatica non tanto quanto di umane lettere, ed eziandio di filosofia; anzi quest'ultimo (cosa singolare allora in persona di chiostro), oltre al sistema peripatetico, gli spiegò i sistemi moderni; e se la filosofia neutoniana non era ancora a que' tempi uscita dall'isola natìa, già avea avuto molto prima l'Italia il Galilei ed il Torricelli, e del loro modo di filosofare (che sistema veruno non volle inventare saviamente il Galilei) convien dire che avesse avuta una idea da giovane il Muratori, da che dettò una [V-VI] dissertazione intorno allo innalzamento e depression del barometro, oltrepassando di poco il vigesimo anno. Vestito avea egli l'abito chericale, quando giovanetto per gli studii a Modena si portò. Suoi studii principali doveano essere le leggi civili e canoniche e la moral teologia; così pensava il padre di lui, costretto dalle angustie domestiche, come tanti altri, a riguardar la dottrina come un capo di entrata. La pratica perfino della giurisprudenza intraprese il Muratori; ma da quella professione, al pari di tanti altri uomini insigni nella letteratura, il genio suo dominante il ritrasse. La poesia da prima e l'eloquenza riempivano di delizia gl'istanti che poteva aver liberi; ma essendo a que' tempi in Lombardia comunemente corrotto il gusto delle lettere più amene, di quelle ampollosità che aveano voga, e di quelle argutezze egli s'invaghì tanto, che il nostro ampolloso e concettoso Tesauro era il suo maestro, il suo autore. Corresse però ben tosto il suo gusto, dopochè venne ammesso ad una letteraria conversazione, dove il marchese Giovanni Rangoni ed altri svegliati ingegni modenesi seguivano guide migliori. Ciò non ostante, se si riguarda bene, nel fraseggiare, anche più trascurato, del Muratori, restò un non so che dello stile del Tesauro, segnatamente ne' traslati.
Dalla lettura de' poeti e degli oratori passò a quella dei filosofi. Molto si compiacque di Seneca e di Epitteto, e la filosofia degli Stoici pigliò in concetto grande, sebben presto si avvedesse, come, senza la religione rivelata, quella orgogliosa dottrina è un albero pomposo, ma privo di solida radice, e che non produce frutti di vera sapienza. Lo studio delle massime degli Stoici il condusse alla lettura di Giusto Lipsio, gran partigiano di quella setta, e delle sentenze stoiche zelante promulgatore. E siccome è cosa consueta, che tutto si apprezza in quelle persone che si [VII-VIII] hanno per qualche rispetto in grande estimazione, passò il Muratori a studiare i libri, assai più pregevoli del Lipsio, riguardanti le antichità romane, e cominciò a dar opera indefessamente alla erudizione profana. Per inoltrarsi in essa vide però che gli mancavano e la copia di libri e il presidio della lingua greca. In una libreria di poveri claustrali trovò il giovane Muratori ciò che di rado o non mai si trova ne' palagi de' facoltosi, voglio dir libri in numero sufficiente e piena facoltà di valersene. Della greca lingua da sè stesso in breve tempo con ostinata fatica s'impadronì. Seguì questo in principio dell'anno 1693, ed a quei giorni maggior ventura gli toccò in sorte, cioè di rinvenire un direttore per gli studii suoi, di cui non potea desiderarne uno migliore, che lo iniziò alla diplomatica ed alle antichità del medio evo, e che a coltivare la sacra erudizione, propria al suo stato, principalmente lo animò. Fu questi l'abate cassinese Benedetto Bacchini, dottissimo personaggio, capitato allora in Modena, il Mabillon dell'Italia, che salito sarebbe ad egual fama, se avesse avuto, come il Mabillon, un più vasto teatro ed i favori di un potentissimo monarca; ma che però ebbe il vanto, che non potè avere il Mabillon, di esser padre, a dir così, nelle cose appartenenti alla soda erudizione, di due uomini sommi, il Muratori ed il Maffei. La storia ecclesiastica e gli ecclesiastici scrittori e i concilii ed i santi padri furono il nuovo pascolo che aprì il Bacchini alla mente avida del Muratori, che non lasciava passar giorno in cui lungamente non si trattenesse con lui, studiandosi di far tesoro di quanto ne' famigliari ragionamenti (la miglior disciplina di tutte) usciva dalla bocca di quell'uomo raro.
Già abbandonato avea egli gli studii delle leggi e della teologia scolastica, punto non curando, purchè soddisfar potesse al [IX-X] genio suo prepotente, que' premii che da chi le professa si ottengono, da' letterati non mai. Ma in questo mezzo avendo il Muratori fatto conoscenza col marchese Gian Gioseffo Orsi, coltissimo patrizio bolognese, e con monsignor Marsigli, poscia vescovo di Perugia, col mezzo loro ottenne di essere invitato dal conte Carlo Borromeo alla famosa biblioteca Ambrosiana di Milano. Singolare ventura fu questa per lui di venir collocato in età giovanile nella piena luce del giorno, aprendosegli in tal modo la strada di far quella luminosa comparsa che ognun sa nella letteraria repubblica; e que' gentiluomini fecero dono del Muratori all'Italia. Novella prova fu questa che per far fiorire le lettere assai più giova la coltura ed il buon giudicio ai privati, che non la potenza ed i tesori stessi de' principi. Laureato prima in leggi in fine dell'anno 1694, si recò adunque il Muratori in Milano in principio del susseguente, dottore dell'Ambrosiana, e prima che terminasse quell'anno medesimo fu ordinato sacerdote.
Gli aneddoti latini, colà due anni dopo pubblicati, (gli
aneddoti greci videro la luce poscia in Padova) furono il primo
saggio ch'ei diede del suo sapere, molti argomenti trattando di
antichità cristiane, di disciplina e di erudizione ecclesiastica, in
parecchie dissertazioni, con cui gli aneddoti suoi illustrò. Prima
di venirsene a Milano, non poche cognizioni avea già acquistato
egli appartenenti alla paleografia, facendone studio colla scorta
del p. Bacchini sulle pergamene dell'archivio di Modena: e nell'Ambrosiana,
ricca di rari e copiosi codici, vi si perfezionò.
Grande fu la fama in cui salì il Muratori, giunto appena a toccare
il vigesimo quinto anno, per questa prima opera sua; e si procacciò
la benevolenza e la stima de' primi letterati, e principalmente
di un Noris, di un Bianchini, di un Ciampini, di un
Magliabechi in Italia; di un Mabillon, di un Ruinart, di un
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XII]
Montfaucon, di un Papebrochio oltremonti. Cinque anni interi
si passarono da lui nell'Ambrosiana, quasi in proprio elemento,
in mezzo a que' codici, facendo studio indefesso di erudizione
sacra e profana, d'iscrizioni, di antichità, ed esercitandosi nel
tradurre dal greco. Nè lasciava di attendere per sollievo agli
studii delle lettere più gentili. Interveniva ad un'accademia,
detta de' Faticosi, e ad un'altra di filosofia e di belle lettere,
apertasi a suo suggerimento nella casa Borromeo; ed essendo
passato ad altra vita in quella città nell'anno 1699 il Maggi,
poeta di grido per que' tempi e suo grande amico, intraprese
tosto il pietoso letterario ufficio di dettarne la vita, che nell'anno
seguente 1700 si pubblicò, e con un idillio e con altri versi
(chè poeta pur era allora il Muratori) ne celebrò la memoria.
Le ricerche genealogiche, che per parte dell'elettore di Annover si facevano, onde chiarire l'origine italica della Casa di Brunsvico, derivata dal comun ceppo della Estense, furono quelle che richiamarono il Muratori da Milano alla contrada sua natía. In somma confusione era l'archivio estense. Per riordinarlo, e per compiacere quel principe che avea spedito un letterato tedesco a visitarlo, il duca di Modena, Rinaldo I, nominò suo archivista e bibliotecario il Muratori. Lasciò egli tosto Milano e l'Ambrosiana, non senza però qualche rincrescimento; e si restituì, nel fine della state dell'anno 1700, in Modena ai servigii del suo amato principe: e rinunciando ad ogni più splendida fortuna, mai più abbandonar non volle, durante un intero mezzo secolo, che ancor visse, l'estense biblioteca, pago, come Plutarco, di essere l'ornamento della sua patria, mentre per tutta Italia chiaro suonava il suo nome.
La genealogia de' principi estensi occupò da prima i suoi
pensieri; e le Antichità estensi, dotta opera e laboriosa, in cui,
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XIV]
d'accordo col famoso tedesco Leibnizio, fissò l'origine di quella,
prima in Italia, quindi in Germania ed Inghilterra, nobilissima
famiglia, furono il frutto delle sue fatiche. Ma come i chimici
valenti, che attenti sono oltremodo a prevalersi delle scoperte
ed invenzioni che si presentano nel corso degli esperimenti loro,
sebben non formassero l'oggetto principale, lo scopo delle loro
ricerche, così il Muratori, dovendo rivoltare tanti diplomi e
cronache e monumenti de' bassi-tempi, concepì il vasto disegno
dell'unica e dottissima opera delle Antichità italiane del medio-evo,
che rese il nome suo immortale, e che, secondo le prime idee,
altro non avea ad essere se non una continuazione delle Antichità
estensi, cui servir dovea di commento e quasi far loro corteggio.
Dallo studio incessante, a norma delle più sane regole di critica, posto intorno alla storia di que' principi, nacquero non solo quelle tante scritture in favor di essi per lo dominio di Ferrara e di Comacchio, nelle quali superiore di tanto si dimostrò al focoso suo avversario monsignor Fontanini, e mediante le quali si fece conoscere per uno de' più scienziati gius-pubblicisti; ma inoltre la gran raccolta da lui ordinata ed illustrata di tutti gli scrittori originali delle cose d'Italia per lo corso di mille anni; e finalmente gli Annali d'Italia, l'unico ed il miglior corpo che sinora si abbia della storia della nazion nostra, stesi da lui nella età di sessantasette anni nel breve spazio di un anno solo; cosa incredibile, se da testimoni oculari degni della maggior fede non venisse asseverata. Che se dettati sono in istile umile, pedestre, inelegante, come le altre opere sue italiane, non mancano però mai di chiarezza, di precisione, di naturalezza, e talvolta di vivacità, non senza una certa efficacia e festività, direi così, lombarda. Del resto, e chi mai esigere potrà in un colosso la squisitezza del lavoro di un cammeo?
Mentre per altro incominciava il Muratori a gittar i fondamenti dell'edificio immenso di cognizioni storiche che innalzar intendea, compose, quasi per sollievo e diporto, il suo trattato della Perfetta Poesia, in cui spiegò un sistema conforme ai pensamenti dell'oracolo dell'Inghilterra, Bacone da Verulamio, sistema più filosofico di quello che prima di lui da' sottili grammatici, e dopo di lui da Francesco Maria Zanotti e da altri, che han grido di filosofanti, vennero esposti alla luce del giorno. Se filosofico fu il trattato della Poetica del Muratori, poetico, a dir così, fu il disegno della Repubblica Letteraria, che pubblicò in fronte all'opera sua del Buon Gusto, o sia riflessioni sopra le scienze tutte; disegno concertato col dotto Bernardo Trevisano, che reggeva in Venezia quella cattedra di filosofia morale, che sempre occupata era da un veneto patrizio; e disegno con cui tenne lungamente e piacevolmente in sospeso la curiosità degli scienziati. Agli studi suoi di amene lettere riferir si debbono pure le Vite del Petrarca, del Castelvetro, del Sigonio, del Tassoni, del marchese Orsi, da lui in diversi tempi dettate. Ma qui non è il luogo di annoverar distintamente le opere tutte del modenese bibliotecario. Il solo catalogo, colle necessarie notizie bibliografiche, eccederebbe i confini a questa vita prescritti. Basterà il dire che la sua fecondità era tale, che due opere ad un tratto stava scrivendo per l'ordinario; e che temendo ancora non gli mancasse materia, chiedeva agli amici argomenti per comporne delle nuove. Alla erudizione sacra e profana, alle antichità romane e barbariche, alla critica, alla teologia, all'ascetica, alla giurisprudenza, alla filosofia, alla politica e perfino alla medicina, come il trattato del Governo della peste e la dissertazione De potu vini calidi ne fanno fede, a tutto rivolse le sue speculazioni e le sue fatiche.
L'erudizione sacra formò il primo oggetto de' suoi pensieri, e sempre, sino al termine de' suoi giorni, gli studii delle materie ecclesiastiche coltivò, congiungendoli coll'adempimento il più esatto ai doveri tutti del suo stato. Giovane sacerdote in Milano, in mezzo agli studii suoi più fervidi e più graditi, esemplarmente vi attendea. Fatto quindi in Modena preposto della Pomposa, con cura di anime, con vivo zelo e con amor grande le funzioni tutte del sacro suo ministero indefessamente esercitò, trovando ancora tempo, come già il celebre Pignoria, per le letterarie fatiche. Ma non contento di edificar coll'esempio e d'instruire colla voce il popolo suo, le virtù praticando che insegnava, s'ingegnò eziandio di giovare coi libri alla religione ed ai costumi. Non una persona sola, ma più persone e più anime, e tutte attivissime, operose, infiammate dell'amor de' suoi simili, pare che fossero nel Muratori concentrate. Se la vera filosofia consiste nel far del bene agli uomini, qual filosofo antico può venire in paragone con lui? Chè non parlo di coloro che negli ultimi tempi ne usurparono il nome, di tante sciagure infausta e mai sempre deplorabile cagione. Ascetico savio ed illuminato si mostrò egli (per toccar soltanto di alcuno di tali libri) negli esercizii spirituali; espertissimo conoscitore de' santi Padri, compreso del vero spirito della religione nel trattato della Carità cristiana, virtù che tutte perfeziona le cristiane virtù; maestro in divinità profondo nella dotta opera latina De ingeniorum moderatione in religionis negotio, opera in Italia non solo, ma in Germania ed in Francia eziandio riputatissima.
Ma il Muratori, avanzando in età, e già sessagenario, non
potea più reggere alle parrocchiali fatiche, e specialmente alla
predicazione. Rinunciata dunque la prepositura, attese a scrivere
negli anni che ancora gli restarono. In lui si verificò il detto di
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Cicerone, nulla esservi di più dolce e giocondo di una vecchiaia
munita degli studii della gioventù; e non solo gli Annali d'Italia
sopraccennati, ma parecchie altre opere di genere disparatissimo
furono il frutto degli anni suoi senili; che anzi in quel periodo
di tempo videro la luce le opere sue maggiori, già preparate
prima, come, per tacer degli ultimi volumi della gran raccolta
delle Cose d'Italia, furono le dissertazioni famose delle Antichità
italiane del medio-evo (negli ultimi suoi anni poi in lingua italiana
compendiate), la seconda parte delle Antichità estensi, il
nuovo Tesoro delle Iscrizioni, per non parlar di tante altre opere
di minor mole, ma non meno rilevanti, parte filosofiche, come i
trattati della morale Filosofia, delle Forze dell'intendimento
umano e della Fantasia; le altre riguardanti le antichità profane,
come la Dissertazione de' servi e liberti, dei fanciulli alimentari
di Trajano, dell'obelisco di Campo Marzio, e parecchie appartenenti
alla erudizione sacra e alle materie ecclesiastiche, studii,
da' quali avea prese le mosse nella letteraria carriera, da lui mai
intermessi, e con lui la terminò. Tali furono l'opera contro
l'inglese Burnet, le Missioni del Paraguay, l'antica Liturgia
romana, e l'aureo trattato della regolata Divozione. Nè straniero
alle, sebben da lui abbandonate, legali dottrine, scrisse dei difetti
della Giurisprudenza, opuscolo sensatissimo, il quale se riscontrò
obbiezioni, trovò eziandio difensori presso i giurisprudenti medesimi;
e col trattato della pubblica Felicità, vale a dire, della
vera scienza di governo, che le scienze e le arti tutte dirige al
vero bene degli uomini, opera che vide la luce nell'anno antecedente
alla sua morte, pose degno ed onorato fastigio a tutte le
letterarie sue fatiche.
Fu quel trattato, come disse il dottissimo cardinale Gerdil,
la voce del cigno; ed aureo chiamandolo, giusti e meritati trova
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segnatamente gli encomii in quel sensato libro dal Muratori tributati
ad un savio monarca, per avere nella università della capitale
de' suoi stati aperto una cattedra di morale filosofia. Nè
questo fu il solo provvedimento di quel principe lodato dal Muratori,
che in quel medesimo libro per altri rispetti eziandio il
celebra, e singolarmente per avere instituito peculiare carica in
ciascuna provincia, che al pubblico vantaggio soprantendesse.
Riguardano la maggior parte degli uomini il Muratori semplicemente
come critico, come istorico, come antiquario, come
filologo ed erudito, e non credono che al vanto di filosofo aspirar
possa. Ma se la vera, la utile filosofia consiste nel giudicar
delle cose rettamente e nel buon senso (più raro che altri non
creda), e nel difendere antiche ed importanti verità piuttosto
che sostenere nuovi, ingegnosi, ma inutili e dannosi paradossi,
pochi furono al certo più filosofi del Muratori. Combattè come
teologo contro l'irragionevole voto sanguinario, contro le pratiche
esteriori di religione vane od anche superstiziose, contro
l'indiscreto zelo e la ignoranza e le stravaganze divote; ed il
dotto suo libro De ingeniorum moderatione, ec. se piacque a' savii
tutti, spiacque (il che ascriversi dee a distinto pregio) a
quelli del pari che troppo poco, come a quelli che troppo al
Capo visibile della Chiesa concedono. Che se ne' libri suoi filosofici
ex professo avverso si mostrò al Loke ed all'Uezio, se
gliene vuol dar lode piuttosto che biasimo. Al primo si mostrarono
pure contrari il celebre Paolo Mattia Doria, ed altri chiari
ingegni italiani: nè ebbe seguaci in Italia prima del fiorentino
medico Antonio Cocchi, non sempre religiosissimo. Di fatto, la
filosofia lokiana, come dimostrò poscia dottamente il prefato
cardinal Gerdil, troppo al materialismo inchina, come allo
scetticismo quella postuma dell'Uezio. Persino nelle materie
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mediche, se vi fu chi la opinion sua sulla origine delle pestilenze
disapprovò, l'insigne professore di medicina in Torino, Carlo
Richa, ne prese la difesa. Le matematiche discipline soltanto
furono quelle, a cui, come que' due lumi primari della letteratura
francese, il Bossuet ed il Fenelon, non volle mai applicare
il Muratori, sia che temesse d'insuperbire, quando alle altre
vaste sue cognizioni aggiunto avesse la parte più astrusa e recondita
dell'umano sapere, sia che stimasse essere quegli studii
incompatibili collo studio di altre facoltà da lui riputate più
vantaggiose.
Compiuto egli avea intanto il settuagesimo settimo anno del
viver suo, quando un fiero colpo di paralisia gli tolse prima la
luce degli occhi, e quindi la vita nel giorno vigesimoterzo di
gennaio dell'anno 1750. Placidamente riposò nel Signore tra
le braccia del nipote ecclesiastico, dopo compiti tutti gli uffizi e
ricevuti tutti i soccorsi della cristiana pietà. Fu il Muratori di
statura ordinaria, ma quadrata, e che inclinava al pingue, di
faccia colorita, di aspetto misto di gravità e di dolcezza; nel
conversare affabile, cortese ed anche gioviale; a lui piaceva la
gioventù onestamente lieta. Del rimanente candido, sincero, modesto,
frugale, di singolare prudenza dotato, alle morali congiungea
le cristiane virtù. Invitato a Padova in modo onorevolissimo,
ed a Torino con offerta di pingue stipendio e con tutti
gli agi dal marchese di Ormea, mai non volle abbandonar la
sua patria ed il servizio del principe suo signore, a cui sagrificò
sempre ogni privato suo vantaggio. Di fatto amico di quell'anima
ingenua e generosa di papa Benedetto XIV sin prima del
pontificato, credesi che per gl'insigni meriti suoi verso la religione
cattolica e per l'esemplarità de' costumi lo avrebbe fregiato
della sacra porpora, se non avesse temuto di recar dispiacere
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alla corte per le cose dal Muratori scritte nelle controversie
di Ferrara e Comacchio. Non mancò di coraggio, dote non
sempre famigliare agli uomini di lettere. Minacciato della vita
con lettera anonima, se non ritrattava certe espressioni che credette
di dover adoperare parlando di una contrada armigera,
consegnò senza turbarsene il foglio alle fiamme, nè se ne pigliò
il menomo pensiero. Da Modena manteneva corrispondenza il
Muratori con tutti i primi letterati d'Italia, e ne coltivò l'amicizia,
e tra gli altri amico fu infino agli estremi della vita del
celebre marchese Scipione Maffei, non ostante alcuni dispareri
in punto di erudizione. Bello si è negli ultimi giorni in cui visse
il Muratori, vedere il Maffei, quasi eguale di età, protestargli di
averlo sempre riputato il primo onore d'Italia; ed il Muratori
vicendevolmente pregare il cielo che conservasse il Maffei, come
il campione più vigoroso e più coraggioso della italiana letteratura.
DI
LODOVICO ANTONIO MURATORI
Allorchè io stesi la prefazione al tomo 1 delle mie Antichità Italiane, stampato in Milano nell'anno 1738; accennai il bisogno che avea la Storia d'Italia d'esser compilata da qualche persona ben conoscente delle antiche memorie, ed amante della verità. Giacchè l'avanzata mia età e varie mie occupazioni non permettevano a me d'imprendere allora tal fatica, animai alla stessa gl'ingegni italiani, dopo averne loro agevolata la via colla gran raccolta degli Scrittori delle cose d'Italia, e colle suddette Antichità Italiane. Pure tanto di vita e di forze a me ha lasciato la divina Provvidenza, che accintomi io stesso alla medesima impresa, ho potuto se non con perfezione, certo con buona volontà, trarla a fine. Parlo io qui non già della Storia che riguarda gli avvenimenti della Chiesa di Dio, perchè di questa ci ha forniti per tempo la penna immortale del cardinal Baronio colla principal parte di essa, accresciuta poi e migliorata dal p. Antonio Pagi seniore, continuata dallo Spondano, dal Bzovio e dal Rinaldi. Abbiamo anche illustrati non poco i primi secoli del Cristianesimo dall'accuratissimo Tillemont, e l'intera Storia di essa Chiesa felicemente maneggiata dal Fleury: talchè per questo conto al comune bisogno pare sufficientemente provveduto; se non che la lingua italiana può tuttavia dirsi priva di quest'ornamento, non bastando certamente l'aver noi qualche compendio degli Annali del Baronio in volgare.
La sola Storia civile d'Italia quella è che dimanda e può ricevere aiuto
ed accrescimento dai giorni nostri. Certamente obbligo grande abbiamo a
Carlo Sigonio, insigne scrittor modenese, per aver egli assunta questa
fatica, e trattata la storia suddetta ne' suoi libri de Occidentali Imperio, et
de Regno Italiae, che tuttavia sono in onore, e meritano bene di esserlo.
Ma oltre all'aver egli solamente cominciata la sua carriera dall'imperio di
Diocleziano e Massimiano, e terminatala nell'imperio di Ridolfo I austriaco;
tali e tante notizie si son dissotterrate dipoi per cura di molti valentuomini,
tanto dell'Italia che d'altri paesi, gloriosi per avere aumentato l'erario
della repubblica letteraria, che oggidì si può ampiamente supplire ciò che
mancò al secolo del Sigonio, e rendere più copiosa e corretta la storia Italiana.
Aggiungasi, avere il Sigonio tessuto le storie sue senza allegare di
mano in mano gli scrittori onde prendeva i fatti: silenzio praticato da altri
suoi pari, ma o mal veduto o biasimato oggidì da chi esige di sapere i
fondamenti su cui i moderni fabbricano i racconti delle cose antiche. Tralascio
di rammentare qualche altro scrittore della Storia universale d'Italia,
perchè niuno ne conosco che sia da paragonar col Sigonio, e niun certamente
vi ha che abbia soddisfatto al bisogno. Ai nostri tempi poi prese il sig. di
Tillemont a compilar le Vite degl'imperadori romani, cominciando dal
principio dell'Era cristiana con tale esattezza, che se egli avesse potuto
continuare il viaggio, dalle mani sue sarebbe a noi venuta una compiuta
storia, ed avrebbe forse risparmiato a tutt'altri il pensiero di tentar da qui
innanzi una tal navigazione. Ma egli passò poco più oltre all'imperio di
Teodosio Minore e di Valentiniano III Augusti, con esporre gli avvenimenti
d'Italia per soli quattro secoli e mezzo, lasciando i lettori colla sete del
rimanente. Pertanto ho io preso a trattar la Storia Civile o sia gli Annali
d'Italia dal medesimo principio dell'Era di Cristo, conducendoli sino
all'anno 1500; nel quale ho deposta la penna, perchè da lì innanzi potrà
facilmente il lettore consultare gli storici contemporanei, che non mancano,
anzi son molti, se pure non verrà voglia ad alcuno di proseguire la medesima
mia impresa sino ai dì nostri. E chi sa che non nasca, o non sia nato
alcun altro, che prenda anche a trattar la storia dell'Italia dal principio
del mondo sino a quell'anno dove io comincio la mia? Quanto a me, tanto
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più ho creduto di dover far punto fermo nel suddetto anno 1500, perchè
nella Parte II delle mie Antichità Estensi, avendo io stesso in qualche guisa
abbozzate le avventure universali d'Italia sino all'anno 1738, mi sarebbe
incresciuto di aver da ridire lo stesso.
Ma prima di mettere in viaggio i lettori, mi convien qui istruire i men
periti di quel che debbono promettersi dalla mia fatica. Che non si ha già
alcun di essi da aspettare, che la Storia d'Italia proceda per tanti secoli
sempre con bella chiarezza, e con bastevol cognizione degli avvenimenti e
delle azioni de' principi e de' popoli, che successivamente comparvero nel
teatro del mondo, e colla tassa dei tempi precisi, ne' quali succederono i
fatti a noi conservati dagli storici delle passate età. Un così bell'apparato
di cose si può ben desiderare, ma non già sperare. Pur troppo si scorgerà,
non essere più felice la Storia d'Italia di quel che sia quella delle altre
nazioni. Di assaissime antiche storie ci ha privati l'ingiuria dei tempi, la
frequenza delle guerre, e la serie d'altri non pochi pubblici e privati disastri.
Nello stesso secolo terzo dell'Era cristiana, ancorchè le lettere tuttavia
si mantenessero in gran credito, pure si comincia a provare gran penuria
di luce per apprendere le avventure d'allora, e per ben regolare la cronologia
di que' tempi. Pur questo è un nulla rispetto al secolo quinto, e incomparabilmente
più ne' seguenti, cioè dacchè le nazioni barbare impossessatesi
dell'Italia, fra gli altri gravissimi mali v'introdussero una somma e deplorabile
ignoranza. Non solamente sono venute meno le storie di quei tempi,
ma possiamo anche sospettare, se non credere, che pochissime ne fossero
allora composte; e se la nostra buona fortuna non ci avesse salvata la Storia
longobardica di Paolo Diacono sino all'anno 744, resterebbe in un gran
buio allora la Storia d'Italia. Continua nulladimeno la medesima ad essere
anche da lì innanzi sì povera di lumi sin dopo il 1000, che qualora fosse
perita la cronica di Luitprando, e non ci recassero aiuto quelle de' Franchi
e dei Tedeschi, noi ci troveremmo ora, per così dire, in un deserto per
conto di quasi tre secoli dopo il suddetto Paolo. Oltre poi all'essersi
perduta la memoria di moltissimi avvenimenti d'allora, quegli ancora che
restano, sì mal disposti bene spesso ci si presentano davanti, che di poterne
assegnare gli anni via non resta, stante la negligenza o discordia degli
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scrittori, ed è forzata non di rado la cronologia a camminare a tentoni. A
questi malanni si vuol aggiugnerne un altro, comune alla storia di tutti i
tempi, cioè la difficoltà, meglio è dire, l'impossibilità di raggiugnere la
verità di molte cose che a noi somministra la storia. Lo spirito della parzialità
o dell'avversione troppo sovente guida la mano degli storici. Quello
che osserviamo nella dipintura delle battaglie accadute a' tempi nostri,
fatta da differenti pennelli, con accrescere o sminuire il numero de' morti e
prigioni, e talvolta con attribuirsi ognuna delle parti la vittoria: lo stesso
si praticava negli antichi tempi. E secondochè l'adulazione o l'odio prevalevano
nella penna degli scrittori, il medesimo personaggio veniva innalzato
o depresso. C'è di più. Allorchè gli storici prendevano a descrivere quanto
era accaduto ne' tempi lontani da sè, per mancanza di documenti o per
semplicità e poca attenzione, talvolta ancora per malizia, vi mischiavano
favole e dicerie, o tradizioni ridicole dell'ignorante volgo. Di queste false
merci appunto abbonda la storia de' secoli barbarici dell'Italia, e più di
gran lunga l'ecclesiastica che la secolare.
Ora come mai potere in quell'ampio fondaco di verità e bugie,
mischiate insieme, sbrogliare il vero dal falso? In tale stato ognuno ritrova
la storia della sua nazione; ma chi vuole oggidì scrivere onoratamente le
antiche cose, si studia, per quanto può, di depurarle, di dare schiettamente
ad ognuno il suo secondo l'ordine della giustizia, cioè di lodare il merito,
di biasimare il demerito altrui; e quando pur non fia possibile di raggiugnere
il certo, di almeno accennare ciò che sembra più probabile e verisimile
tanto dei fatti che delle persone. Questo medesimo mi son io ingegnato
di eseguire nella presente mia Opera, per soddisfare al debito di sincero
scrittore. Così avessi io potuto rendere dilettevole tal mia fatica, siccome
ho procurato di formarla veritiera. Ma sappiano per tempo coloro, che
nuovi si accostano alla antica storia, che io son per condurli talvolta per
ameni giardini, ma più spesso per selve e dirupi orridi a vedere: e ciò
secondo la diversità dei principi buoni o cattivi, delle felici o infelici
influenze delle stagioni, della pace o delle guerre, o d'altre pubbliche
prosperità o disgrazie. Anche allorquando era in fiore l'imperio romano,
s'incontrano dominanti, obbrobrii del genere umano, mostri di crudeltà, e
[XXXVII-
XXXVIII]
nati solamente per la rovina altrui, e in fine ancor per la propria. Scatenossi
poi il Settentrione contro l'italiche contrade, con introdurvi la barbarie
de' costumi, l'ignoranza ed altri malanni. Finalmente cominciarono le guerre
a divenire il pane d'ogni giorno nell'Italia, e le pazze e furiose fazioni
dei Guelfi e Ghibellini per parecchi secoli sconvolsero le più delle città: di
maniera che nella Storia d'Italia assai maggior copia troviamo di quel
che può rattristarci, che di quello che è possente a dilettarci. Ma questo
non è male della sola Italia. Anche nell'altre nazioni si fan vedere queste
medesime brutte scene, così avendo Iddio formato il mondo presente, con
volere che più in esso abiti il pianto che il riso, acciocchè ognuno si rivolga
a cercarne un migliore, di cui dà una dolce speranza la Fede santa che
professiamo. Intanto fra le altre utilità che reca la storia, da noi riconosciuta
per una delle efficaci maestre della vita umana, non è picciolo quello che
io andrò talvolta ricordando ai lettori. Cioè, che nel mirare sì rozza e
sconvolta, sì malmenata ed afflitta in tanti diversi passati tempi l'Italia,
possente motivo abbiamo di riconoscersi anche per questo obbligati a Dio,
cioè per averci riserbati a questi giorni, non esenti certamente da mali, ma
pure di lunga mano men cattivi e dolorosi de' vecchi secoli.
DAL
PRINCIPIO DELL'ERA VOLGARE FINO ALL'ANNO 1500
Anno di | Cristo I. Indizione IV. |
Cesare Augusto imper. 45. |
Consoli
Cajo Giulio Cesare figlio d'Agrippa, Marco Emilio Paolo.
Già avea la libertà della repubblica romana ricevuto un gran tracollo sotto il prepotente governo di Giulio Cesare, primo ad introdurre in Roma il principato sotto il modesto titolo d'imperadore, non altro significante in addietro che generale d'armata. Non so s'io dica ch'egli pagò le pene della sua ambizione con restar vittima de' congiurati; so bene che fu principe odiato dai più in vita, ma dopo morte scusato ed amato, massimamente da chi avea cominciato ad accomodarsi al comando di un solo; e so del pari che questo principe certamente abbondò di molti pregi, e che pochi pari di credito avrebbe avuto nell'antichità, se non avesse offuscata la sua gloria coll'oppression della patria. Caio Ottavio, o sia Ottaviano, da lui adottato per figliuolo, e da noi più conosciuto col nome di Cesare Augusto, ancorchè giovane, seppe ben deludere l'espettazione del senato. Adoperato per rimettere in piedi la repubblica, si servì egli della fortuna delle a lui confidate milizie, per assoggettar [2] Roma di nuovo, e stabilir quella monarchia che, durata per qualche secolo, cedette in fine al concorso e alla possanza delle barbare nazioni. Di gran politica abbisognò Augusto per avvezzar il senato e popolo romano alla novità del governo cominciato da Giulio Cesare, e per ischivar nello stesso tempo quel funesto fine a cui egli soggiacque. I due suoi favoriti, cioè Marco Vipsanio Agrippa, marito prima di Marcella di lui nipote, e poi di Giulia di lui figliuola, e Mecenate, personaggi di gran senno e onoratezza, non gli furono scarsi di consiglio per fargli ottenere il suo intento. L'arte dunque sua fu quella di saper fare da padrone, senza mostrare di esser tale; e di conservare il nome e il decoro della repubblica, come era in addietro, ma con ritenere per sè il meglio dell'autorità e del comando. Perchè non solamente lontanissimo si diede a conoscere dall'ammettere il nome di Re o Signore, a cui non erano avvezzi i Romani, essendogli anche esibito [Sueton., Vita August., cap. LII.] dal popolo (forse per segreta sua insinuazione) l'usitatissimo di Dittatore, grado portante seco una gran balìa, fece la bella scena di pregar tutti con un ginocchio a terra, che lo esentassero da questo onore, parendogli assai d'essere riguardato e nominato principe, titolo non altro significante allora che primo fra i cittadini. Compariva [Dio. Cass., Histor.] [3] dappertutto la stima ch'egli professava al senato; e per maggiormente cattivarselo, non volle già egli sottoporre alla propria direzione tutte le provincie, ma la maggior parte lasciò alla disposizion del medesimo e de' proconsoli, e d'altri uffiziali scelti e spediti dal medesimo senato. Ad esso parimente lasciò l'erario pubblico, la facoltà di metter imposte, di far nuove leggi, di amministrar la giustizia; con che pareva alla nobiltà di conservar tuttavia l'antico onore e dominio. Nè minor fu il suo studio per guadagnarsi l'amore del popolo, col volere ch'egli continuasse a godere della facoltà di dare i suoi suffragi nelle pubbliche elezioni, col mantener sempre l'abbondanza de' viveri in Roma e la quiete della città, e con tenerlo allegro e divertito mediante la frequente rappresentazione di varii giuochi e spettacoli, e con magnifici congiarii o vogliam dir donativi. Finalmente si conciliò l'affetto dei pretoriani, cioè delle guardie del palazzo, con far loro dar doppia paga, e con usar altri atti di liberalità verso le legioni, cioè verso il resto della milizia. Che meraviglia è dunque, se Roma, che ne' tempi della libertà avea tante traversie patito per la disunion de' cittadini, cominciò a gustare i vantaggi d'esser governata dipendente da un solo?
Ma intanto Ottavio riservò per sè le provincie dove occorreva tener delle soldatesche, o per buona guardia contro dei Barbari confinanti, o per imbrigliar i popoli facili alle sedizioni, con che il nerbo maggiore della repubblica, cioè tutta la milizia, restò in suo potere. A questo fine egli prese o volentieri accettò il titolo di imperadore, conceduto in addietro ai generali d'armate, dappoichè aveano riportata qualche vittoria; ma titolo accordato a lui a perpetuità, e con autorità sopra l'armi, di maniera che niun cittadino da lì innanzi fu onorato del trionfo, ancorchè vincesse, perchè la vittoria non s'attribuiva se non a chi era capo delle armate; [4] e questo capo era il solo imperadore. Gran possanza, insigni privilegi aveano goduto fin qui i tribuni del popolo. Erano sacrosante ed inviolabili le loro persone, di maniera che il mancar loro di rispetto, non che l'offenderli co' fatti, si riputava sacrilegio e misfatto degno di morte. Questo potere volle a sè conferito, ed agevolmente ottenne Ottaviano, per poter cassare, occorrendo, le leggi e le determinazioni che non gli piacessero, come far solevano talvolta i tribuni; e questa fu appellata Tribunizia Podestà; titolo ben caro agli imperadori romani, e mai non obbliato nel loro titolario; perchè, al dire di Cornelio Tacito [Tacit., Annal., t. III, cap. 56.], vocabolo indicante sommo dominio. Inoltre l'autorità primaria sopra le cose sacre era riserbata ai Pontefici Massimi in Roma pagana. Giudicò Augusto, che tal grado stesse meglio nelle sue mani che nelle altrui; e però tanto egli quanto i successori l'unirono con gli altri titoli della loro possanza. Finalmente il senato, già divenuto adulatore, perchè composto di gente che cercava i proprii vantaggi col promuovere quelli del principe, cercò di onorar questo imperadore colla giunta di un titolo glorioso, che facesse intendere la di lui possanza ed autorità quasi sovrana; e fu quello d'Augusto, indicante un non so che di divinità. Questo, che fu poi congiunto coll'altro di Cesare, che era a lui pervenuto per l'adozione di Giulio Cesare, continuò poscia in tutti i suoi successori, come il più luminoso dell'altra lor dignità. Veggonsi rapportati da Dione Cassio varii altri privilegi accordati dal senato a Cesare Augusto, coronati finalmente dal nobilissimo titolo di Padre della Patria, voluto o pure usato dipoi anche da quegli stessi mostruosi imperadori, che sembrarono nati solamente in danno e rovina della medesima. Salì in tal guisa ad un'ampia podestà Augusto, per cui senza nome di re potea tutto quanto poteano i più dispotici dei re, perchè il senato con tutta l'autorità a lui [5] lasciata, nulla d'importante facea, che non fosse conforme all'intenzione e ai desiderii di lui. Tuttavia per un tratto di fina politica (che è ben lecito il pensare così) andava l'accorto imperadore di tanto in tanto dolendosi del grave peso imposto sulle sue spalle, e facea intendere l'ansietà di scaricarsene, per morir da privato. Arrivò sino a proporlo in senato; ma egli dovea ben sapere, che non correa rischio d'essere esaudito. Ed in fatti così fu. S'unirono le voci de' senatori a pregarlo, per non dire a costringerlo, che continuasse nella fatica del comando finchè vivesse. Allora s'indusse ben egli con tutta modestia ad accettar questo carico, ma con impetrare che solamente per dieci anni avvenire durasse un tale aggravio. Finiti questi, e chiesta di nuovo licenza, s'accordò in cinque altri, e poscia in dieci, tanto che senza mai cessare d'essere signore del mondo romano, e con apparenza di comandare, solo perchè così volevano il senato ed il popolo, terminò poi felicemente nel comando i suoi giorni. Nè mancò chi gli succedesse nell'incominciato onore e in quella signoria, la quale a poco a poco nel proseguimento pervenne all'intero despotismo e talvolta alla tirannia.
In tale stato si trovava nell'anno presente Roma sotto Augusto imperadore, nè la di lei potenza si stendeva già sopra tutto il mondo, come l'adulazione talvolta sognò; ma bensì nella miglior parte di Europa, e in moltissime provincie non meno dell'Asia che dell'Africa. Era nato Augusto sotto il consolato di Cicerone e di Cajo Antonio, cioè l'anno sessantatre prima dell'Era cristiana; e però nel presente, in cui essa Era ebbe principio, correva l'anno sessantesimoquarto dell'età sua, e l'anno XXIII della sua tribunizia podestà, e il XLV del suo principato. Giacchè niun figlio maschio avea a lui prodotto Livia sua moglie, era già egli ricorso al ripiego dell'adozione, per desiderio di perpetuar la sua famiglia, e di trasmettere in un figlio anche la dignità imperiale. [6] Avea egli due nipoti, figliuoli di Marco Agrippa e di Giulia sua figliuola, donna famosa per la sua impudicizia, e in questi tempi a cagion di tale infamia relegata nell'isola Pandataria. L'uno Cajo e l'altro Lucio nominati, aveano già talmente conseguito l'amore d'Augusto sì in riguardo al sangue che scorrea lor nelle vene, che per le loro belle qualità, che gli aveva adottati amendue per figliuoli, innestandoli nella famiglia Giulia, e dando loro il cognome di Cesare. L'uno d'essi, cioè Cajo, fu [Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 13.] nell'anno presente alzato alla dignità più eminente, che dopo l'imperiale dar potesse allora la repubblica romana, cioè al consolato. L'altro console fu Lucio Emilio Paolo, cognato d'esso Cajo, perchè marito di Giulia sua sorella, donna, che per aver imitata la madre Giulia nella disonestà, soffrì anch'essa un eguale castigo. Militava in questi tempi Cajo Cesare console per ordine d'Augusto suo padre, nella Siria, ossia nella Soria, contro de' Parti. Questa era allora la sola guerra che tenesse in esercizio l'armi romane; perciocchè Augusto, tra perchè vecchio, e perchè signore di gran senno, il più che potea s'andava studiando di mantener la pace nell'imperio, senza curar molto l'ambiziosa gloria de' conquistatori. Assai vasto era il dominio de' Romani per appagar ogni sua voglia.
Ora in quest'anno si dee fissare il principio dell'Era cristiana volgare, di cui comunemente ci serviamo oggidì. Non fu già essa affatto ignota ai primi secoli della Chiesa; ma il merito d'averla messa in qualche credito in Occidente, è dovuto a Dionigi Esiguo, ossia il Picciolo, monaco assai dotto, che morì circa l'anno 540 nella Chiesa romana, e poscia a Beda, celebre scrittore d'Inghilterra, che nel secolo ottavo usandola, coll'esempio suo la rendè poi familiare fra i Latini. S'ingannarono amendue; ma non c'inganniamo noi in mettere sotto i consoli suddetti il principio di questa. Il cardinal Baronio, che stabilì senza fallo l'immortalità [7] del suo nome colla gran fabbrica degli Annali ecclesiastici, due anni prima del presente, cioè nell'anno XXI della tribunizia podestà di Augusto, ossia nel XLIII del suo principato, pose il principio della medesima; ma con errore manifesto, siccome han dipoi dimostrato uomini sommamente eruditi. Opinione fu di quell'insigne porporato, che nell'anno XLII di Augusto, cioè tre anni prima dell'anno presente, s'incarnasse e nascesse il Figliuolo di Dio nel di 25 di dicembre; e che nel principio del susseguente egli fosse circonciso, dalla qual circoncisione, collocata nelle calende di gennaio, si avesse da cominciare l'anno primo dell'Era cristiana. Ciò non sussiste. Quanto alla nascita del Signor nostro Gesù Cristo ne è tuttavia incerto l'anno. Solamente sappiamo essere la medesima avvenuta molto innanzi all'anno presente, fra l'altre ragioni, perchè Erode figliuolo d'Antipatro (re vivente allorchè nacque il Signore), cessò di vivere [Joseph., Antiq. Judaicar., lib. 7, cap. 8. Pagius, in Critica Baron.] nel marzo dell'anno 750 di Roma, e XLI di Augusto; e per conseguente [Vaillant, Idem. Pagius, Usserius, Noris, ec.] dovette nascere il Signore almeno nell'anno precedente al preteso dal Baronio, o in alcun altro più addietro. È ben sembrato agli eruditi più verisimile il riferire il suo natale al dicembre dell'anno 749 di Roma, e XL di Augusto; ma questa opinione nondimeno vien contrastata da quella di diversi altri, non mancando chi alcuni anni prima con buone ragioni colloca questo memorabil fatto, senza che finora si sia potuto pienamente accertare un punto di storia di tanta importanza. Ma se ciò è tuttavia oscuro, non è già per l'Era cristiana, il cui principio ormai resta deciso che si ha da fissare nell'anno presente, benchè non manchi taluno che lo riferisce nell'anno seguente. Per le ragioni suddette è un comune errore, ma errore condonabile, e di cui niun s'ha da formalizzare, il chiamar questa Era della Natività del divino [8] Salvatore, oppur della Incarnazione, ovvero della Circoncisione. Questa varietà di parlare, da gran tempo introdotta, non è per anche terminata in Italia, dove abbiamo la maggior parte delle città, che chiamano l'anno della Natività, benchè l'incomincino dalla Circoncisione; ed alcune, che nella Pasqua, o nel dì 25 di marzo precedente, o susseguente all'anno comune, cominciato alla Circoncisione, danno principio al loro anno, le une coll'anteciparlo di quasi nove mesi, e le altre col posticiparlo di quasi quattro. Anticamente molti usarono di dar principio all'anno nuovo nel Natale del Signore, e di là poi venne il chiamar l'Era nostra a Nativitate Domini, il qual nome dura presso i più, contuttochè oggidì il primo giorno di gennaio sia anche il principio dell'anno nuovo. Intanto contando noi sotto questi consoli l'anno primo d'essa Era, seguiteremo da qui innanzi col medesimo ordine ad accennare i fatti principali della Storia d'Italia.
Anno di | Cristo II. Indizione V. |
Augusto imperadore 46. |
Consoli
P. Vinicio e P. Alfenio Varo.
Il primo di questi consoli è chiamato dal padre Pagi Publio Vicinio, dal padre Stampa Publio Vinucio. Sono errori di stampa. Nè la famiglia Vicinia, nè la Vinucia son cognite fra le nobili romane. Bensì la Vinicia, di cui l'Orsino e il Palatino rapportano varie medaglie. Vellejo Patercolo [Vellejus Paterculus, lib. 2.] chiaramente scrisse P. Vinicio Consule, e parla in più d'un luogo di questa famiglia. Il secondo de' consoli è Publio Alfeno presso il Pagi. Altri hanno scritto Alfinio; ma con diversità di poca importanza. Continuò Cajo Cesare, figliuolo adottivo di Augusto, e principe della gioventù, la sua spedizion militare in Soria. Seco era lo stesso Vellejo Patercolo, autore de' pezzi di un'amena storia, [9] che si son salvati dalle ingiurie del tempo. Racconta egli, che inclinando Augusto a far pace coi Parti, perciò seguì un abboccamento di Cajo con Fraate re di que' popoli, sopra un'isola dell'Eufrate, fiume che allora divideva i due imperi. Cajo dipoi sulla riva romana diede un convito a Fraate, ed appresso ricevette anch'egli sull'opposta il medesimo trattamento. Allora fu che Fraate scoprì a Cajo l'infedeltà e venalità di Marco Lollio, a lui dato per aio da Augusto. Però da lì a poco tempo [Plinius, lib. 9, cap. 35.] venne meno la vita d'esso Lollio per veleno, non si sa se preso per elezione di lui, o pure per comando altrui. In questi tempi [Noris, Cenotaph. Pisan. Diss. 2, cap. 14.] Lucio Cesare fratello d'esso Cajo, acciocchè non marcisse nell'ozio della Corte, fu mandato da Augusto in Ispagna. Dovea servir questo viaggio per guadagnargli l'amor delle legioni che soggiornavano in quelle parti. Ma secondo le umane vicende non tardarono ad abortire in breve tante belle speranze di lui e del padre. Giunto egli a Marsilia, s'infermò, e in età di diciotto anni terminò la carriera del suo vivere nell'agosto dell'anno presente. Dione e Tacito non tacquero il sospetto che corse allora di aver Livia moglie d'Augusto procurata con arti indegne la morte di questo giovane principe. Chi fosse questa principessa, convien ora vederlo.
Livia, figliuola di Livio Druso, era in prime nozze stata moglie di Tiberio Claudio Nerone, uno de' più cospicui nobili di Roma [Dio, Suetonius, Tacitus.]. Seppe ella così ben tirar le sue reti, che invaghitosi di lei Augusto, già principe di Roma, ottenne da Nerone che la ripudiasse, per prenderla egli in moglie. Bisogna ben credere che fosse grande in questo principe il caldo, perchè gravida (fu preteso del primo marito) la condusse al talamo suo. Avea già essa partorito Tiberio, che vedremo a suo tempo imperadore. Sgravossi dipoi d'un altro [10] figliuolo, che portò il nome di Nerone Claudio Druso, e fu consegnato al padre, perchè, secondo le leggi, tenuto per figliuolo di lui. Questi poi creato console nell'anno IX, prima dell'Era cristiana, finì quello stesso anno di vivere. Che superba, che scaltra donna fosse Livia, non si può abbastanza dire. Ancorchè Augusto fosse principe di mente svegliata e di raro intendimento, pure possedeva ella il gran secreto di saperlo governare, di condurlo alle voglie sue. L'unico figliuolo a lei restato, cioè Tiberio, era il principale oggetto dell'amor suo, e tutte le sue mire tendevano ad esaltarlo. Essendo morto dodici anni prima dell'Era nostra Agrippa gran confidente di Augusto, e marito di Giulia figliuola del medesimo imperadore, e di Scribonia sua prima moglie, procurò Livia che questa passasse a seconde nozze con Tiberio suo figliuolo [Sueton., in Tiber., cap. 7.], tuttochè a lui dispiacesse assaissimo un tal matrimonio, parte perchè gli convenne ripudiar Agrippina amata sua consorte, e parte ancora perchè non gli era ignota la trabocchevole inclinazione e vita sregolata d'essa Giulia. Suoi figliastri in questa maniera divennero Cajo e Lucio, che già dicemmo nominati Cesari, figliuoli della medesima Giulia e d'Agrippa; ma da lui e da Livia sua madre internamente odiati, perchè adottati per figliuoli da Augusto, e destinati, per quanto si poteva congetturare, ad essere suoi successori nell'imperio. Nacquero in fatti delle gare fra questi due giovanetti fratelli e Tiberio lor padrigno. Sentivano già essi la superiorità della lor fortuna, ed aveano cominciato ad insolentire, e nello stesso tempo miravano di mal occhio il possesso che tenea nel cuore di Augusto la madre di Tiberio, Livia. Per ischivar tutti i pericoli, avea preso Tiberio il partito di ritirarsi: al che s'aggiunse ancora il non poter più egli sopportare i vizii della moglie sua Giulia, castigati in fine colla relegazione da Augusto suo padre. Senza che il potessero ritener le [11] preghiere della madre e del medesimo Augusto, ritirossi Tiberio nell'isola di Rodi, e qui per sette anni in vita privata si fermò. Sazio finalmente di questo volontario esilio, che avea dato occasione di molte dicerie agli sfaccendati politici, fece istanza di ritornarsene a Roma in quest'anno per mezzo della madre. Volle Augusto prima intendere, se a Cajo Cesare fosse rincresciuto il di lui ritorno, perchè i dissapori seguiti fra loro non erano cose ignote. Per buona ventura essendosi allora scoperto, che Lollio, poco fa mentovato, quegli era che seminava zizzanie fra Tiberio ed i figliastri, Caio si mostrò contento che il padrigno rivedesse Roma. Venuto Tiberio, attese da lì innanzi coll'aiuto della madre a promuovere i proprii interessi. E questi presero tosto buona piega per la sopr'accennata morte di Lucio Cesare, non restando più fra i vivi se non il solo Cajo Cesare, cioè quel solo che impediva a Tiberio il poter succedere nello imperio ad Augusto suo padrigno. Cominciò [Vellejus, Historiar. lib. 2.] in quest'anno, se pur non fu nel seguente, anche in Germania una guerra, di cui parleremo all'anno V dell'Era cristiana.
Anno di | Cristo III. Indizione VI. |
Augusto imperadore 47. |
Consoli
L. Elio Lamia e M. Servilio.
Perchè son perite le storie antiche in questi tempi, mancano a noi le memorie di quanto allora avvenne in Roma e in Italia. Forse anche la mirabil quiete che per opera d'Augusto si godea in queste parti, niun avvenimento produsse assai riguardevole per comparir nella Storia romana. Rimasto senza aio in Soria Cajo Cesare per la morte di Lollio [Tacitus, lib. 3 Annal.], Augusto non volendo lasciare la di lui giovanile età senza direzione e briglia, mandò per governatore di lui Publio Sulpicio [12] Quirinio. Questi è quel medesimo che nel Vangelo di s. Luca è appellato Cirino, e che negli anni addietro avea fatta la descrizione degli abitanti della Giudea: nel qual tempo venne alla luce del mondo il nostro Signor Gesù Cristo, senza sapersene finora con certezza l'anno preciso. Ora Cajo Cesare, che nell'anno prossimo passato [Vellejus, lib. 2. Florus, lib. 4, c. 4. Tacitus, lib. 22. Ann.] avea conchiusa la pace coi Parti, ed era penetrato sino nell'Arabia, si diede in quest'anno a regolare gli affari dell'Armenia. Di là si erano ritirate le milizie ausiliarie de' Parti, in vigor della pace suddetta; ma non per questo volentieri ritornarono all'ubbedienza de' Romani quei popoli: e però sul principio fecero qualche resistenza; ma entrato con tutte le forze nel loro territorio Cajo Cesare, gli astrinse a deporre le armi. E poichè non si arrischiavano i Romani di ridurre in provincia un paese tanto lontano, ed avvezzo al governo de' proprii re, fu scelto da Cajo per quella corona Ariobarzane, medo di nazione, e ben veduto dai medesimi Armeni, il quale dovette promettere una buona alleanza col popolo romano. A così felice successo, per cui Cajo acquistato s'era non poco di gloria, ne tenne dietro un funesto. Mal soddisfatto un certo Addo de' Romani e del re novello, mosse a ribellione Artagera, una delle primarie città dell'Armenia [Dio, in Hist. Strabo, lib. 2. Vellejus, ut supra. Ruffus, Festus, in Breviar.]. Corso con tutta la sua armata Cajo ad assediar quella città, troppo credendo al ribello Addo, si lasciò condurre ad abboccarsi con lui. Nel mentre ch'egli leggeva un memoriale, datogli dallo stesso Addo, proditoriamente fu ferito da lui, o da chi era con lui, e con pericolosa ferita. Per tale iniquità irritate al maggior segno le legioni romane, più vigorosamente che mai strinsero la città, l'espugnarono, la ridussero in un mucchio di pietre. Il traditore Addo ebbe anch'egli la meritata pena.
Anno di | Cristo IV. Indizione VII. |
Cesare Augusto imper. 48. |
Consoli
Sesto Elio Cato e Gajo Sentio Saturnino.
Celebre nella storia di Roma per varie sue dignità ed azioni fu questo Saturnino, creato console nell'anno presente. Fra gli altri suoi impieghi [Usserius, Annal. Noris, Cenotaph. Pisan.] avea avuto quello di legato, o sia di vice-governatore, o presidente della Soria, circa l'anno 36 d'Augusto, e undicesimo prima dell'Era volgare. Tertulliano [Tertullian., lib. 4, cap. 19, contra Marcionem.] scrivendo contra Marcione asserì, che Census constat actos sub Augusto tunc in Judaea per Sentium Saturninum. La nascita di Cristo Signor nostro, secondo questo conto, verrebbe a cadere nell'anno suddetto 36 d'Augusto, o pure nel seguente. Ma opponendosi all'asserzione di Tertulliano la canonica di s. Luca, da cui abbiamo che il censo fu fatto da Cirino o sia Quirinio, presidente della Siria o sia della Soria: e sapendosi che a Saturnino nell'anno 38 di Augusto succedette nel governo della Siria Quintilio Varo: altra via non s'è saputa fin qui trovare, che la plausibile e molto ben fondata, di dire che Quirinio, siccome era succeduto altre volte, fosse stato inviato colà con istraordinaria podestà a far la descrizione dell'anime, nel tempo stesso che Saturnino, o pur Varo con ordinaria podestà governava quella provincia. O sì maligna o sì mal curata fu la ferita, da Cajo Cesare riportata sotto Artagera, ch'egli non più si riebbe, e andò peggiorando la sua sanità. Perchè egli [Vellejus, lib. 2. Zonaras, Hist. Svetonius in Aug., c. 68.] non poteva accudire agli affari, gli uffiziali e cortigiani suoi, prevalendosi del tempo propizio, sotto nome di lui vendevano la giustizia, e faceano continue estorsioni ai popoli di [14] quelle contrade. Ed acciocchè non finisse sì presto una sì utile mercatura, indussero l'infelice principe, allorchè Augusto il richiamava in Italia, a rispondere di non voler venire, perchè l'intenzion sua era di passare quel che gli restava di vita, in un ozio privato. Replicò Augusto, che il desiderava e voleva in Italia, dove potrebbe egualmente, ma colla vicinanza ed assistenza de' suoi, se pur così gli piacea, menar vita privata. Convenne ubbidire. Ma mentre egli, benchè suo mal grado, se ne ritornava, giunto a Limira città della Licia, quivi nel dì 24 febbraio dell'anno presente cessò di vivere. Sicchè Augusto, a cui la morte avea rapito Marcello, figliuolo di Ottavia sua sorella, nipote amatissimo, venne ancora nello spazio di diciotto mesi a perdere questi due altri giovanetti Lucio e Cajo, nati nipoti suoi, e poscia adottati per figliuoli; motivo a lui d'inesplicabil dolore. Tuttavia sofferì egli con più di fortezza e pazienza queste perdite, che il disonore cagionatogli dall'impudicizia di Giulia sua figliuola madre dei suddetti due principi, e da lì a pochi anni dall'altra di Giulia sorella de' medesimi. Tante disgrazie faceano ch'egli si augurasse di non essere mai stato padre.
Per lo contrario ne fu ben lieto in suo cuore Tiberio, figliastro di lui, al vedere tolti di mezzo questi due possenti ostacoli al corso della sua fortuna. Livia Augusta sua madre [Tacitus, lib. 1 Annal.], per l'estrema sua ambizione da molti sospettata di aver avuta parte nella morte di que' due principi, non tardò molto ad assalire ed espugnare il cuore del marito Augusto in pro del figliuolo, proponendoglielo qual solo ormai capace e meritevole di succedere a lui nella dignità imperiale. Gli effetti della di lei eloquenza comparvero da lì a pochi mesi. Avea Augusto negli anni addietro conferita ad esso Tiberio la podestà tribunizia per cinque anni che già erano passati. Tornò nel presente ad associarlo seco nel godimento della medesima [15] podestà, nel dì 27 luglio; laonde nelle sue medaglie [Mediobarb., in Numismat.] si cominciò a notare la TRIB. POT. VI. Quel che più importa, l'adottò ancora per suo figliuolo, aprendogli la strada alla succession dei suoi beni, e insieme dell'imperio. Però chi prima era Tiberio Claudio Nerone, cominciò ad intitolarsi e ad essere intitolato Tiberio Cesare figliuolo d'Augusto. Vellejo Patercolo, storico [Vellejus, lib. 2. Dio, Histor., lib. 55.] suo grande amico, si stende qui in immensi elogi di Tiberio, il qual forse allora sotto molte sue virtù sapea nascondere i moltissimi suoi vizii. Nello stesso giorno fu obbligato Tiberio ad adottare per suo figliuolo Marco Agrippa, nato da Giulia figlia d'Augusto dopo la morte di M. Vipsanio Agrippa di lei primo consorte. Ma questi tra per essersi scoperto giovanetto stolidamente feroce, e per le spinte che gli diede Livia Augusta, unicamente intenta ad esaltare i proprii figli, fu dipoi relegato nell'isola della Pianosa, dove, appena morto Augusto, per ordine di Tiberio tolta gli fu la vita. Inoltre nel medesimo giorno 27 di luglio (così volendo Augusto), Tiberio adottò in figliuolo il suo nipote Germanico, nato da Claudio Druso, suo fratello, cioè da chi al pari di lui avea avuto per madre Livia Augusta. Nè pur questa adozione internamente venne approvata da Tiberio; perchè egli avea un proprio figliuolo per nome Nerone Druso, a lui partorito da Agrippina sua prima moglie, verso il quale più si sentiva portato. Non erano mai mancati ad Augusto dei nobili suoi secreti nemici, sì perchè la memoria dell'antica libertà troppo spesso risvegliava lo sdegno contro chi ora facea da signore in Roma, e sì perchè sui principii del suo governo e potere, Augusto, con levare dal mondo non i soli avversari, ma chiunque ancora veniva creduto atto ad interrompere la carriera de' suoi ambiziosi disegni, s'era tirato addosso l'odio dei lor figliuoli e parenti. Traspirò nel presente [16] anno una congiura ordita contra di lui da molti nobili. Capo di essa era Gneo Cornelio Cinna Magno, che per essere nato da una figliuola di Pompeo il Grande, portava nelle vene l'avversione ad Augusto; sì perchè Augusto era successore di chi tanta guerra avea fatto all'avolo suo materno; e sì ancora per essere stato persecutore anch'esso della medesima famiglia. In grande ansietà per questo si trovava Augusto, giacchè il timore o sentore delle congiure quello era spesso che non gli lasciava godere in pace il suo felicissimo stato. Conferito con sua moglie l'affanno, gli diede ella un saggio consiglio, cioè di ricorrere non già alla severità che potea solo accrescere i nemici, ma sì bene ad una magnanima clemenza; predicendogli che in tal maniera vincerebbe il cuore di Cinna, uomo generoso, ed insieme quello di tutta la nobiltà. Così fece Augusto. Dopo aver convinti i rei del meditato misfatto, perdonò a tutti; nè di ciò contento, disegnò console per l'anno prossimo avvenire lo stesso Cinna, benchè primario nell'attentato contra la di lui vita. Un atto di sì bella generosità gli guadagnò non solamente l'affetto di Cinna e degli altri, ma anche una tal gloria e stima presso d'ognuno, che nel resto di sua vita niuno pensò mai più a macchinare contra di lui. Ed ecco i frutti nobili della clemenza; ma ben diversi noi andremo trovando quei della crudeltà e fierezza.
Anno di | Cristo V. Indizione VIII. |
Cesare Augusto imper. 49. |
Consoli
Gneo Cornelio Cinna Magno, Lucio Valerio Messalla Voluso.
Di Cinna, console nell'anno presente, abbiam favellato nel precedente. L'altro Voluso taluno ha creduto che fosse piuttosto cognominato Voleso, perchè una iscrizione rapportata dal Fabretti [Fabrettus, Inscription., pag. 703.] fu [17] posta L. VALERIO VOLESO, CN. CINNA MAGNO COSS. Il Grutero, riferendo la stessa iscrizione, lesse VOLSEO, ma con errore. Certamente un marmo, veduto co' suoi occhi dal Fabretti, bastar dovrebbe a stabilire il cognome di Voleso. Ma mi ritiene una medaglia pubblicata da Fulvio Orsino e dal Patino [Patinus, Famil. Roman.], dove è la figura d'Augusto, e nel rovescio VOLVSUS VALER. MESSAL. III. VIR. A. A. A. F. F. Questi par certamente lo stesso che fu poi console o almeno della stessa casa. Abbiamo da Vellejo [Vellejus, lib. 2.], che nell'anno secondo oppure terzo dell'Era nostra, s'era suscitata in Germania una gran guerra, la qual durava tuttavia. Dappoichè nell'anno precedente Augusto ebbe adottato Tiberio, e volendo accreditarlo maggiormente nel mestiere delle armi e nel comando delle armate, nel quale si era egli anche molti anni prima esercitato con mollo onore, poco stette a spedirlo in Germania. Andò Tiberio, e con esso lui era Vellejo Patercolo generale della cavalleria. Soggiogò i Caninefati, gli Attuari e i Brutteri, e fece ritornare all'ubbidienza i Cherusci. Terminata poi con reputazione la campagna, nel dicembre se ne ritornò a Roma per visitare i genitori. Quindi nella primavera di quest'anno di nuovo si portò in Germania. Le prodezze ivi fate da Tiberio si veggono descritte ed esaltate da esso Vellejo istorico. Per attestato di lui sottomise gran parte di quei feroci popoli, de' quali nè pur dianzi si sapeva il nome. Fra gli altri domò i Longobardi, gente la più fiera e valorosa dell'altre: il che è ben da avvertire: perchè dopo alcuni secoli vedremo questa medesima nazione dominante in Italia. Le conquiste di Tiberio arrivarono sino al fiume Elba; cosa non mai tentata in addietro nè allora sperata da alcuno. Venuta poi la stagion de' quartieri, volò Tiberio a Roma a ricevere i complimenti de' genitori e il plauso del [18] popolo, per così vantaggiosa e gloriosa campagna.
Circa questi tempi, o pur nell'anno precedente, vennero a Roma gli ambasciadori de' Parti, padroni allora della Persia, per chiedere un re ad Augusto [Sveton., in Tiber., cap. 16. Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.]. Volle egli che andassero anche in Germania ad esporre la stessa dimanda a Tiberio Cesare, per avvezzar la gente al rispetto e alla stima di questo suo figliuolo. Era stato ucciso Fraate re dei Parti da uno scellerato suo figlio, per iniqua voglia di regnare, benchè egli poi non solo non conseguì il regno, ma vi perdè la vita. Gli altri figliuoli di Fraate stavano in Roma da qualche tempo, mandati colà per ostaggi della sua fede dal padre. Aveano chiesto i Parti per loro re ad Augusto Orode, uno de' figliuoli di Fraate; ma ottenutolo, fra poco l'uccisero. Richiesero poscia un altro d'essi figliuoli, cioè Venone; e questi andò a prendere il possesso di quella corona, per restare anche egli dopo alcuni anni vittima del furore di quella barbara nazione. Ma non è certo, se all'anno presente appartenga l'andata di esso Venone colà. Abbiamo varii regolamenti fatti da Augusto in questo anno [Dio, Histor. lib. 15.]. Difficilmente s'inducevano allora i nobili a lasciar entrare nel collegio delle vergini Vestali le lor figliuole, perchè presso i Gentili non era in pregio, anzi era in dispregio il celibato; nè mancavano disordini succeduti fra le stesse Vestali. Necessario fu un decreto, per cui fosse lecito alle fanciulle discendenti da liberti di entrarvi. Molte di queste si presentarono e furono elette a sorte; ma niuna d'esse vi entrò. Lamentavasi anche la milizia romana della tenuità della paga. Augusto, per animare i soldati a sostenere il peso della guerra, e molto più per conciliarsi l'affetto loro, siccome preventivamente accennai, volle che si accrescesse lo stipendio tanto alle legioni mantenute in varii siti dell'imperio, quanto ai pretoriani [19] destinati a far la guardia dell'imperadore e del palazzo pubblico. Colla sua propria borsa supplì egli per ora, e nell'anno prossimo vi provvide con un altro ripiego. Dione ci dà il registro di tutta la fanteria e cavalleria che allora continuamente era mantenuta in piedi dalla repubblica romana; e questa andò poi crescendo e calando, secondo la diversità de' bisogni, o pur della pubblica felicità. Il pagamento allora de' soldati era ben superiore a quel d'oggidì.
Anno di | Cristo VI. Indizione IX. |
Cesare Augusto imper. 50. |
Consoli
Marco Emilio Lepido e Lucio Arruntio.
Il Panvinio ed altri hanno scritto, che a questi consoli ne furono sostituiti nel dì primo di luglio due altri cioè Cajo Ateio Capitone e Cajo Vibio Capitone. Ma non è certo il fatto. Essendo mancante la iscrizione rapportata da esso Panvinio, può restar sospetto che tai consoli appartengano ad un altro anno. Vedemmo accresciute da Augusto le paghe ai soldati [Dio, lib. 55.]. Per soddisfare a tali spese, per le quali non era bastante il privato erario d'Augusto, e nè pure il pubblico, si pensò a mettere un nuovo aggravio. Fu dato ordine a tutti i senatori di esporre il loro parere in iscritto. In ultimo col fingerne uno già meditato da Giulio Cesare, si decretò che da lì innanzi si pagasse la vigesima parte delle eredità e dei legali, eccettuate quelle che pervenivano a' figliuoli ed altri stretti parenti, e quelle de' poveri. Sebbene può dubitarsi, se tale eccezione venisse dipoi mantenuta da lutti i susseguenti imperadori: certo è, che questo pesante aggravio rincrebbe assaissimo al popolo romano, e, secondo l'uso delle cose umane, se fu facile l'introdurlo, riuscì poi difficilissimo il levarlo. E però nelle antiche iscrizioni s'incontra talvolta l'uffizio di chi era [20] impiegato in raccogliere questo tributo. Ai lamenti del popolo se ne aggiunsero dei più gravi nell'anno presente per cagione d'una fiera carestia che afflisse la città di Roma [Sveton., in August., cap. 42.]. Oltre ad altre provvisioni e spese fatte da Augusto in aiuto de' cittadini poveri, fu preso lo spediente di cacciar fuori di città i gladiatori e gli schiavi condotti per esser venduti, e la maggior parte de' forestieri: la qual somma di persone ascese a più di ottantamila. Finita poi quella angustia, cadde in pensiero ad Augusto di abolir l'uso introdotto del frumento, che dai granai del pubblico si donava alla plebe, e di cui talvolta erano partecipi dugento e più mila persone, parendo a lui, che per cagione di questa liberalità si trascurasse l'agricoltura. Non mutò poi questo uso, perchè pericoloso sarebbe stato anche il solo tentarlo; ma attese ben da lì innanzi a far più coltivar le campagne, e volea nota di tutti gli aratori, non meno che di tutti i negozianti e del popolo. Più frequenti divennero in questi tempi gli incendii in Roma, originati forse da chi cercava coi rubamenti di sovvenire alla fame. Stabilì pertanto il provvido Augusto sette corpi di guardia, chiamati i Vigili, che la notte battessero la pattuglia: impiego, che egli pensava di abolire in breve; ma ritrovato utile, anzi necessario, fu dipoi continuato anche sotto gli altri imperadori.
Diversi guai parimente si provarono nelle provincie del romano imperio in quest'anno per le sedizioni e ribellioni dei popoli [Dio, Histor., lib. 55.]. In Sardegna, nell'Isauria e nella Getulia dell'Africa, ebbero delle faccende i soldati romani, per tenere in freno quelle barbare genti. Seguitò la guerra in Germania. Tiberio Cesare era ivi generale dell'armata romana. Ma per attestato di Dione niuna rilevante impresa vi fece, quantunque sì Augusto ch'egli prendessero, il primo, il titolo d'imperadore per la quindicesima volta, ed il secondo [21] per la quarta volta: il che solo succedea, dappoichè s'era riportata qualche vittoria. Potrebbe essere che i prosperosi successi delle armi romane in Germania nell'anno precedente guadagnassero loro questo accrescimento di lustro nel presente. Secondo Vellejo [Vellejus, lib. 2.], s'era messo Tiberio in procinto di procedere contro de' Marcomanni, gente per numero e per bravura fin qui formidabile, e non mai vinta. Meroboduo, re loro, alla potenza sapea unire la disciplina militare, e mandando ambasciatori ai Romani, talora parlava da supplicante, talora da eguale. Stendevasi il suo dominio non solamente per la Boemia, ma molto più in là fino ai confini della Pannonia e del Norico, provincie romane, di modo che poco più di dugento miglia era egli lungi dall'Italia. Ma sul più bello de' suoi preparamenti contra di Meroboduo, Tiberio intese che la Pannonia (oggidì Ungheria) e la Dalmazia, per cagion dei tribuni ribellate, tal copia d'armati avevano messo in piedi, che il terrore ne giunse a Roma stessa; giacchè que' popoli, essendo in concordia coi Triestini, minacciavano di voler in breve calare in Italia. Allora fu che Tiberio trattò e conchiuse, come potè il meglio, la pace coi Germani, per accudire a questo incendio, più importante di gran lunga dell'altro a cagione della maggior vicinanza al cuore dell'imperio. Velleio fa conto, che fossero in armi dugentomila fanti, e novemila cavalli di que' ribelli. Aveano trucidato o carcerati i soldati, i cittadini e i mercatanti romani, e già messa a ferro e fuoco la Macedonia. Gran commozione per questo fu in Roma. I paurosi si figuravano che in dieci giornate veder si potesse intorno a Roma il campo di quei sollevati. Perciò a furia si arrolarono nuovi soldati, e Vellejo Patercolo fu incaricato di condurre a Tiberio questi rinforzi. Una sì grossa armata di fanteria e cavalleria si unì, che Tiberio fu costretto a licenziarne una parte. Marciò [22] egli contro i ribelli della Pannonia; presi i passi, li ristrinse ed affamò. In somma li ridusse a tale, che molti di essi, presso il fiume Batino, vennero a deporre l'armi, e a sottomettersi. Dicono che il lor generale Batone o fu preso, o venne anch'egli spontaneamente all'ubbidienza; e pure nell'anno seguente egli si trova coll'altro Batone dalmatino in armi contro i Romani. Voltossi dipoi Tiberio contro i ribelli dalmatini, alla testa dei quali era l'altro Batone. Valerio Messalino, governatore di quella provincia, più di una volta si azzuffò con loro, ora vincitore ed ora vinto. Tutto il guadagno dei Romani si ridusse a frastornar i disegni fatti dai nemici per passare in Italia, ma senza poter impedire ch'essi non dessero il guasto ad un gran tratto di paese finchè arrivò il verno, che mise fine alle azioni militari.
Dacchè mancò di vita nell'anno 41 d'Augusto Erode il grande, re della Giudea [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 17.], Archelao suo figliuolo s'affrettò pel suo viaggio a Roma, affin di succedere nel regno del padre in competenza di Antipa e degli altri suoi fratelli e parenti. Ottenne egli da Augusto, non già il titolo di re, ma il solo di etnarca col dominio della metà degli Stati del padre, consistente nella Giudea, Idumea e Samaria. Per conseguente egli cominciò a dominare in Gerusalemme. Gli avea promesso Augusto il titolo di re, qualora colle sue virtuose azioni se ne facesse conoscere degno. Contrario all'espettazione, anzi tirannico fu il di lui governo, di maniera che nell'anno presente i primati della Giudea e di Samaria spedirono gravissime accuse contra di lui ad Augusto [Dio, lib. 55. Strabo, lib. 16.]. Citato a Roma Archelao, e convinto de' suoi reati, n'ebbe per gastigo la relegazione in Vienna del Delfinato, e la perdita de' suoi patrimoni e tesori, che furono presi dal fisco. Ed allora fu che la Giudea, l'Idumea e la Samaria furono ridotte alla forma delle provincie del romano [23] imperio, ed unite alla Siria o sia alla Soria, e cominciarono ad essere governate dagli ufiziali dell'imperadore: cosa dianzi desiderata dagli stessi Giudei, perchè troppo aggravati dai propri re, speravano essi miglior trattamento dai ministri imperiali. Così cessò lo scettro di Giuda, siccome avea predetto Giacobbe [Genes., cap. 49, v. 10.], nella venuta del divino Salvatore del mondo. Il padre Pagi mette all'anno seguente la caduta di Archelao. Dione ne parla sotto il presente.
Anno di | Cristo VII. Indizione X. |
Cesare Augusto imper. 51. |
Consoli
Aulio Licinio Nerva Siliano e Quinto Cecilio Metello Cretico Silano.
Che il secondo di questi consoli usasse il cognome di Silano, l'hanno dedotto gli eruditi dal trovarsi Cretico Silano proconsole della Siria nell'anno di Cristo 16. Se ciò sussista, nol so. Da un antico marmo ancora ricavarono il Sigonio e il Panvinio che nelle calende di luglio ai suddetti consoli ne furono sostituiti due altri, cioè Publio Cornelio Lentulo Scipione e Tito Quinzio Crispino Valeriano. Procedeva assai lentamente la guerra nella Dalmazia e Pannonia, ed andavano a terminar tutte le prodezze dell'una e dell'altra parte in saccheggi ed incendii [Dio, lib. 55. Vellejus, lib. 3.]. Niuna cosa stava più a cuore di Tiberio che il non esporre a rischio i suoi soldati, parendogli troppo cara anche una vittoria, quando si avesse a comperar colla vita di molti de' suoi. Ma non piaceva ad Augusto una sì melensa maniera di guerreggiare; e dubitando egli che Tiberio non si curasse di finir que' romori, per poter più lungamente godere del comando dell'armi: mandò colà con un copioso rinforzo di genti Germanico Cesare, nipote d'esso Tiberio, e figliuolo di lui per adozione, giovane amatissimo dai soldati [24] per la memoria del valoroso suo padre Claudio Druso. Non vi spedì Agrippa Cesare, figliuolo di Giulia sua figlia, perchè, siccome accennai, trovatolo di sregolati costumi, in quest'anno il relegò nell'isola Pianosa vicina alla Corsica. Le imprese fatte da Tiberio e Germanico in questa campagna furono di poca conseguenza. Vero è che i due Batoni, iti ad assalire gli alloggiamenti romani, furono con loro perdita respinti, e che Germanico recò dei gravi danni ai Mazei e ad altri popoli della Dalmazia; ma altro ci volea che questa, per ridurre al dovere quelle feroci nazioni. Anche Marco Lepido, tenente generale di Tiberio, s'acquistò grande onore, e meritò gli ornamenti trionfali, per essere venuto ad unirsi con lui, aver tagliati a pezzi molti dei nemici che se gli opposero nel viaggio, ed aver dato il sacco ad un gran tratto del loro paese.
Era stato inviato da Augusto per governatore nella Siria nell'anno precedente Publio Sulpicio Quirinio, personaggio illustre, e stato console nell'anno dodicesimo prima dell'Era volgare. Perchè la Giudea ridotta in provincia romana, per la caduta di Archelao di sopra accennata, dipendeva allora dalla Siria, Quirinio ebbe ordine di portarsi colà, per confiscare i beni d'esso Archelao, e per fare il censo, o sia la descrizion delle persone abitanti nella Giudea, e l'estimo delle facoltà d'ognuno [Joseph., Antiq., lib. 17.]. V'andò egli nell'anno presente, ed eseguì puntualmente il suo impiego, ma non senza assaissimi lamenti de' Giudei, a' quali parea una specie di schiavitù una tal novità. Nè mancarono sedizioni in quel popolo, e copiosi ammazzamenti e saccheggi per questo. Il suddetto Quirinio altri non fu che quel medesimo che in san Luca [S. Lucas, in Evang., cap. 2.] vien appellato Cirino, ed ebbe l'incumbenza di fare il censo nella Giudea allorchè venne alla luce del mondo Cristo Signor nostro. Indubitata cosa è che non può parlare il santo Evangelista del censo fatto in quest'anno [25] da Quirinio, essendo nato il Signore, quando anche era vivente Erode il grande; ed avendo noi già accennato ch'esso Erode diede fine alla sua vita nell'anno 41 d'Augusto, cioè quattro anni prima dell'Era cristiana, per conseguente si dee ammettere un altro censo anteriormente fatto nella Giudea dal medesimo Quirinio. Ed ancorchè niun vestigio di ciò si trovi presso gli antichi storici profani, pure è bastante l'autorità dell'Evangelista per istabilirne la verità. E tanto più dicendo egli che: Haec descriptio prima facta est a praeside Cyrino. Imperciocchè quel prima acconciamente fa dedurre, chiamarsi così quella descrizione, per distinguerla dall'altra, fatta nell'anno presente. In qual anno poi precisamente seguisse la prima delle suddette descrizioni, cioè se cinque, o sei, o sette, o più anni prima dell'Era cristiana, non s'è potuto chiarire finora.
Anno di | Cristo VIII. Indizione XI. |
Cesare Augusto imper. 52. |
Consoli
Marco Furio Camillo e Sesto Nonio Quintiliano.
A questi consoli ordinari, nelle calende di luglio furono surrogati Lucio Apronio ed Aulo Vibio Habito. Trovavansi [Dio, lib. 55.] già i ribellati popoli della Pannonia e Dalmazia in grandi strettezze, perchè penuriavano cotanto di viveri, che si erano ridotti a mangiar dell'erbe. Sopravvenne ancora un'epidemia che, mietendo le vite di molti, li ridusse ad un infelicissimo stato, in guisa che già erano i più determinati di chiedere la pace; ma perchè s'opponevano a tal risoluzione coloro che mostravano di credere inesorabili i Romani, niuno osava di mandare ambasciatori al campo nemico. Assediò in questi tempi Germanico una forte città, e la costrinse alla resa. Questo colpo fu cagione che, senza più stare in bilancio, [26] Batone, capo dei Dalmatini ribelli, munito di salvocondotto, venne ad abboccarsi con Tiberio per trattar di pace. Gli dimandò Tiberio i motivi della già fatta e tanto sostenuta ribellione. «Ne siete in colpa voi altri Romani, animosamente allora rispose Batone, perchè a custodir le vostre gregge avete inviato non dei pastori e dei cani, ma sì bene dei lupi:» chè non erano già allora cose pellegrine le violenze ed ingiustizie degli uffiziali romani, per le quali anche altri popoli cercarono di scuotere il giogo. Augusto intanto trovandosi inquieto per questa guerra, la quale, per attestato di Svetonio [Sueton., in Tiber., cap. 16.], fu creduta la più grave e pericolosa che, dopo quelle de' Cartaginesi, avesse patito il popolo romano; e volendo egli essere più alla portata di udirne le nuove, e di provvedere ai bisogni, era venuto nell'anno precedente, o pure nel corrente, a Rimini. Approvò egli le proposizioni della pace; e, in questa maniera, parte colla forza, parte coll'uso della clemenza, que' popoli tornarono all'ubbidienza primiera. Niun altro rilevante avvenimento ci porge sotto quest'anno la Storia romana.
Anno di | Cristo IX. Indizione XII. |
Cesare Augusto imper. 53. |
Consoli
Cajo Pompeo Sabino e Quinto Sulpicio Camerino.
Furono sostituiti ai suddetti consoli nelle calende di luglio Marco Papio Mutilo e Quinto Popeo Secondo, chiamato da alcuni Secondino; ma più sicuro è il primo cognome. Dopo aver pacificata la Pannonia e la Dalmazia, glorioso se ne tornò a Roma Tiberio Cesare [Idem, ibid., cap. 17. Dio, lib. 56.]. Augusto gli venne incontro fuori della città; il fece entrare in Roma con corona d'alloro in capo; e in un palco, dove amendue si misero a sedere in mezzo ai consoli, coi senatori [27] in piedi, mostrò al popolo questo suo vittorioso figliuolo. Furono in onor suo celebrati alcuni spettacoli. In questi tempi Augusto, raunati i cavalieri romani e trovato che in minor numero erano gli ammogliati che gli altri, pubblicamente lodò i primi, biasimò i secondi. Dione rapporta la di lui allocuzione, in cui egli mostrò appartenere non meno al privato che al pubblico bene che tutti avessero moglie, e si studiassero di mettere figliuoli al mondo, per mantenere le nobili famiglie romane, e sostenere il decoro della repubblica, massimamente ne' bisogni delle guerre, con inveire gagliardamente contra di tanti, i quali non già per amore del celibato, ma per avere più libertà allo sfogo della lor libidine, fuggivano il prender moglie. Pertanto in vigore della legge Papia Poppea concedette varii privilegi a chi avesse o prendesse moglie, e pene a chi dentro un convenevol termine non si ammogliasse. Ed affinchè niuno si prevalesse dell'esempio delle Vestali, le quali pure nel loro stato erano sì accreditate, disse, che quando volessero imitarle, bisognava ancora che si contentassero d'essere puniti al pari di quelle vergini, qualora contravvenissero alle leggi della continenza. Fu poi sotto Tiberio mitigata questa legge.
Poca durata ebbe la pace della Dalmazia [Vellejus, lib. 2.]. Quel Batone, capo de' Pannonii, che dianzi avea mossi alla ribellione anche i Dalmatini, dopo aver preso ed ucciso l'altro Batone, tornò a cozzar coi Romani. Vollero questi prendere la città di Retino, ma per uno stratagemma dei sollevati ne riportarono una mala percossa. S'impadronirono bensì i Romani di alcuni luoghi; ma perchè apparenza non v'era di poter così presto terminar quella guerra, e Roma per quest'imbroglio scarseggiava di viveri, Augusto tornò di bel nuovo ad inviar colà Tiberio con un possente esercito. Nulla più bramavano i soldati, che di venire ad una giornata campale. Tiberio, che non voleva espor le genti all'azzardo, e temeva di [28] qualche sollevazione, divise in tre corpi l'armata, dandone l'uno a Silano (o sia Siliano), l'altro a Lepido, e ritenendo il terzo per sè e per Germanico suo nipote. I due primi fecero valorosamente tornare al suo dovere il paese loro assegnato. Tiberio marciò contro Batone, ed essendosi costui salvato in un castello inespugnabile per la sua situazione, perchè fabbricato sopra alto sasso, e circondato da precipizii, non si scorgeva maniera di poter espugnare quella fortezza. Anderio era il suo nome. Furono sì arditi i Romani, che cominciarono ad arrampicarsi per que' dirupi, e al dispetto de' sassi rotolati all'ingiù, giunsero a mettere in fuga parte dei difensori ch'erano usciti fuori a battaglia. Per questo successo atterriti i restati nella rocca, dimandarono ed ottennero capitolazione. Britannico anche egli forzò Arduba ed altre castella alla resa. Disperato perciò Batone il Pannonico, altro scampo non ebbe, che ricorrere alla misericordia di Tiberio. Gli fu permesso di venire al campo, e concessogli il perdono, si rinnovò ed assodò meglio che prima la pace. Volò Germanico a Roma, a portarne la lieta nuova. Tiberio gli tenne dietro, ed incontrato da Augusto ne' borghi di Roma, fece la sua entrata nella città con molta magnificenza. A Germanico furono accordate le insegne trionfali nella Pannonia; a Tiberio il trionfo e due archi trionfali nella Pannonia, con altri privilegii ed onori; ma del trionfo non potè egli godere, perchè poco stette Roma a trovarsi in gran lutto per una sempre memoranda sventura accaduta all'armi romane in Germania, di cui furono portate le funeste nuove cinque soli giorni dopo l'arrivo di Tiberio.
Siccome accennai di sopra, al governo della Siria, o vogliam dire della Soria, era stato inviato Quintilio Varo; di là poi venne in Germania per generale delle legioni che quivi continuamente dimoravano, per tener in dovere i popoli sudditi, ed in freno i non sudditi [Tacitus, Annal., lib. 1.]. Tacito [29] scrive essere state otto le legioni che si mantenevano dai Romani al Reno. Pare che Vellejo [Vellejus, lib. 2. Dio, lib. 56.] ne nomini solamente cinque. Solevano in que' tempi essere composte le legioni di seimila fanti l'una, ed alcune d'esse avevano la giunta di qualche poco di cavalleria. Il nerbo principale delle armate romane era allora la fanteria. Varo, che povero entrò già nella Siria ricca, e nel partirsene ricco, lasciò lei povera, si credette di poter fare il medesimo giuoco in Germania. Cominciò a trattar que' popoli, come se fossero una specie di schiavi, con abolir le loro consuetudini, esigerne a diritto e a rovescio danari, e volere ridurli a quella total sommessione e maniera di vivere, che si usava fra i Romani. Diede motivo questo suo governo a molti di tramare una congiura. Arminio, figliuolo o pur fratello di Segimero, giovane prode e de' principali di quelle contrade, già ammesso alla cittadinanza di Roma e all'ordine equestre, quegli era che più degli altri animava i suoi nazionali a ricuperar l'antica libertà. Quanto più crescevano i loro odii, e si preparavano a far vendetta, tanto più fingevano sommessione ai comandanti, amore e confidenza alla persona di Varo, in guisa tale, che l'avviso dato da più di uno che si macchinava una congiura contra de' Romani, da lui fu creduto una baia, nè precauzione alcuna si prese. Ora essendosi per concerto fatto fra loro mossi all'armi alcuni de' lontani Tedeschi, Quintilio Varo, messa insieme un'armata di tre legioni, d'altrettante ale di cavalleria, e di sei coorti ausiliarie, che forse ascendevano alla somma almeno di ventiduemila combattenti, la più brava ed agguerrita gente che avesse allora l'imperio romano, si mise in viaggio con grossissimo bagaglio, per opporsi ai tentativi de' nemici. Arminio e Segimero suo padre, restati indietro col pretesto di raunar le lor genti in aiuto di Varo, allorchè i Romani si trovarono sfilati e disordinati per selve e strade disastrose, all'improvviso [30] dalla parte superiore furono loro addosso, e cominciarono a farne macello. Per tre giorni durò il conflitto miserabile per i Romani, che non trovando mai sito in quelle montagne da potersi unire, schierare e difendere, rimasero quasi tutti vittima del furore germanico. Varo, e i principali dell'esercito, dopo aver riportate molte ferite, per non venire in mano dei nemici, da sè stessi si diedero la morte. Tutto il carriaggio, e le insegne romane restarono in poter de' Germani. Per attestato di Tacito, il luogo di questa tragedia fu il bosco di Teutoburgo, oggidì creduto Dietmelle nel contado di Lippa, vicino a Paderbona ed al fiume Wessen, nella Westfalia.
Portata questa lagrimevol nuova a Roma, incredibile fu il cordoglio d'ognuno, non minore il terrore per paura [Sueton., in August., cap. 23.] che i Germani meditassero imprese più grandi, e pensassero a passare il Reno, o a volgersi ancora coi Galli verso l'Italia. Più degli altri se ne afflisse Augusto per la morte di sì valorose truppe, per la perdita delle aquile romane e per la cattiva condotta di Varo, uomo male adoperato negli affari di pace, e peggio in quei della guerra. Perciò per più mesi non si fece tosare il capo, nè tagliare la barba; e andò sì innanzi il suo affanno, che dava della testa per le porte, e gridava da forsennato, che Varo gli restituisse le sue legioni. A sì fatti colpi non erano avvezzi i Romani, e dopo la sconfitta di Publio Crasso in Asia non aveano provata una calamità simile a questa. Si rincorò poscia Augusto al sopraggiugnere susseguenti avvisi d'essere la Gallia quieta, e di non avere i Germani osato di passare il Reno, per l'esatta guardia delle altre legioni ch'erano salve in quelle parti, e per la buona cura di Publio Asprenate, generale di due legioni al Reno, il quale seppe anche approfittarsi non poco delle eredità de' soldati uccisi. Perchè in Roma la gioventù atta all'armi non si voleva arrolare, adoperò Augusto [31] la forza, tanto che tra essi e i veterani, che premiati tornarono all'armi e i libertini, compose un bel corpo d'armata, per inviarlo in Germania. L'anno fu questo, in cui il poeta Ovidio in età di cinquanta anni, per ordine d'Augusto andò a far penitenza de' suoi falli, relegato in Tomi città della Scizia, oggidì Tartaria, nel Ponto. Perchè egli si tirasse addosso questo gastigo, non ben si seppe, ed ora almeno non si sa. Dall'aver detto Apollinare Sidonio, ch'egli amoreggiava una fanciulla cesarea, hanno alcuni creduto qualche suo imbroglio con Giulia figliuola d'Augusto: il che non è probabile, perchè molti anni prima questa impudica principessa era stata relegata dal padre, e gastigati i suoi drudi. Potrebbe piuttosto cadere il sospetto in Giulia figliuola della suddetta Giulia, che non la cedette alla madre nella cattiva fama. Altri ha tenuto che il suo libro dell'Arte di amare, siccome opera scandalosa, fosse cagion delle sue sciagure. La sua relegazione è certa; il perchè, difficil è l'accertarlo.
Anno di | Cristo X. Indizione XIII. |
Cesare Augusto imper. 54. |
Consoli
Publio Cornelio Dolabella e Cajo Giunio Silano.
Si trova sostituito all'uno di questi consoli nelle calende di luglio Servio Cornelio Lentulo Maluginense. Credono i padri Petavio e Pagio, che Tiberio Cesare, in quest'anno, dedicasse il tempio della Concordia in Roma, ricavando tal notizia da Dione [Dio, lib. 56.]. Ne parla veramente questo istorico, ma dopo aver detto che Tiberio fu inviato in Germania; e però tal dedicazione appartiene piuttosto ad un altro anno. È mancante, a mio credere, in questi tempi, come in tanti altri, la storia d'esso Dione. Vellejo anch'egli, perchè prometteva una storia a parte dei [32] fatti di Tiberio, con due pennellate qui si sbriga: laonde poco si sa in questo e nel seguente anno della Storia romana. Quel che è certo, unito ch'ebbe Augusto quanto potè levar di gente in Roma, spedì con tali milizie, nella Gallia Tiberio Cesare. Ciò avvenne, secondo Svetonio [Sueton., in Tib., c. 18.], nell'anno presente. Seco probabilmente andò anche il nipote Germanico, perchè Dione sotto il seguente anno scrive che unitamente fecero guerra alla Germania. Le imprese di Tiberio in essa guerra o non son giunte a noi, o piuttosto non meritarono d'essere scritte, perchè di poco momento. Vellejo unicamente ci fa sapere [Vellejus, lib. 2.] che Tiberio, ben disposte le guarnigioni della Gallia, passò il Reno coll'esercito romano. Non altro si aspettava Augusto e Roma da lui, se non che impedisse ad Arminio i progressi, sul timore che costui pensasse a molestare l'Italia. Ma Tiberio fece di più. Entrò nella parte nemica della Germania, mettendo a sacco e fuoco il paese, e in fuga chiunque ebbe ardire di contrastargli il passo: il che gran terrore diede ad Arminio. Così quello storico, gran panegirista, anzi adulator di Tiberio. Con queste poche parole Vellejo manda ai quartieri il romano esercito nell'anno presente. Potrebbono nondimeno appartenere all'anno seguente questi pochi fatti, confrontati colla narrativa di Dione. Secondo l'Usserio [Usserius, in Annalib.], a questo anno si dee riferire la morte di Salome sorella del fu re Erode. Essa era padrona del principato di Jamnia, in cui esistevano due bellissime ville, abbondanti di palme, che producevano frutti squisiti. Di tutto lasciò erede Livia moglie d'Augusto, donna che mieteva da per tutto, e con facilità, perchè essendo conosciuta di gran possanza presso il marito, ognun si procacciava la grazia di lei.
Anno di | Cristo XI. Indizione XIV. |
Cesare Augusto imper. 55. |
Consoli
Manio Emilio Lepido e Tito Statilio Tauro.
Ad alcuni non par certo il prenome di Manio nel primo di questi consoli. Numio è da essi creduto piuttosto. Marco fu appellato da altri. Un'iscrizione legittima potrebbe decidere questa poco importante quistione. Ad Emilio Lepido fu sostituito nelle calende di luglio Lucio Cassio Longino. Sotto questi consoli, narra Dione, che Tiberio e Germanico con autorità proconsolare fecero un'irruzione nella Germania, misero a sacco un tratto di quel paese; ma niuna battaglia diedero, perchè niuno si opponeva; nè sottomisero alcun di que' popoli, perchè, ammaestrati dalle disgrazie di Varo, non volevano esporsi a pericolosi cimenti. Svetonio, benchè poco d'accordo con Dione, anch'egli attesta [Sueton., in Tiber., cap 18.] che Tiberio (avvezzo per altro a far di sua testa le risoluzioni) nulla intraprese in questa spedizione senza il parere de' suoi primari uffiziali. Aggiugne, aver egli osservata una rigorosa disciplina nell'esercito; e che sebben egli non amava di azzardar la fortuna ne' combattimenti, pure non avea difficoltà a combattere, se nella precedente notte all'improvviso si fosse smorzata da sè stessa la sua lucerna, benchè vi fosse dell'olio; perchè dicea d'aver egli e i suoi maggiori trovato sempre questo un segno di buona fortuna; tanto si lasciavano gli antichi pagani travolgere il capo da tali inezie. Ma riportata vittoria un dì, poco mancò che un di que' barbari non l'uccidesse, siccom'egli confessò di poi ne' tormenti di aver meditato. Dovette ancora succedere in quest'anno ciò che narra Vellejo Patercolo [Vellejus, lib. 3.], cioè che essendo insorto un fiero tumulto e dissensione della plebe [34] in Vienna del Delfinato, città allora floridissima, accorse colà Tiberio; e senza adoperar le scuri, quietò quella pericolosa commozione. Sappiamo inoltre da Dione, che dopo l'incursione fatta nella Germania, Tiberio e Germanico si ritirarono al Reno, e quivi stettero sino all'autunno: nel qual tempo fecero giuochi pubblici in onore del natale d'Augusto, e similmente un combattimento di cavalleria. Poscia verso il fine dell'anno se ne tornarono in Italia.
Intanto Augusto mise in Roma un po' di freno alla astrologia giudiciaria, ch'era e fu anche da lì innanzi in gran voga in quella città, proibendo di predire la morte d'alcuno, benchè egli per sè niun pensiero si mettesse della vanità di quest'arte, ed avesse lasciato correre in pubblico l'oroscopo suo. Vietò ancora per tutte le provincie, che nulla più del consueto onore si facesse ai governatori ed altri ministri pubblici, durante il loro impiego, nè per due mesi dopo la loro partenza, imperciocchè per ottener simili dimostrazioni, si commettevano molte iniquità. Ora qui insorge fra gli eruditi una gran contesa, cioè in qual anno fosse Tiberio dichiarato Collega nell'Imperio, cioè ornato di quella stessa podestà tribunizia e proconsolare, che godeva lo stesso Augusto. In vigore dell'ultima era conceduto il comando di tutte le armate fuori di Roma colla stessa balìa che godevano i consoli. Da questo principio si pensano alcuni letterati di poter dedurre l'anno quindicesimo di Tiberio, enunziato da s. Luca. Non è facile la decision della quistione, perchè gli stessi antichi istorici son fra loro discordi, non già nell'assegnare il giorno, credendosi fatta tal dichiarazione dal senato nel dì 28 di agosto, ma bensì quanto all'anno. Svetonio scrive [Sveton., in Tiber., c. 20 e 21.] che, essendo ritornato Tiberio dalla Germania dopo due anni a Roma, per decreto del senato gli fu conceduto di amministrar le provincie comunemente con Angusto. Ma la autorità [35] di Vellejo Patercolo merita ben di essere preferita a quelle di Svetonio per aver egli scritto le avventure de' suoi tempi; e militato allora sotto lo stesso Tiberio, laddove Svetonio visse e scrisse cento anni dipoi. Ora abbiamo da Velleio [Vellejus, lib. 2.] che, a requisizione d'Augusto, il senato e popolo romano concedette a Tiberio l'uguaglianza nella podestà pel governo delle provincie e delle armate: Ut aequum ei jus in omnibus provinciis, exercitibusque esset. Dopo di che Tiberio se ne tornò a Roma. Adunque piuttosto all'anno presente si dee riferire l'esser egli divenuto collega dell'imperio. Anche da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 1.] possiam raccogliere la stessa verità, scrivendo egli, che Tiberio Collega Imperii, consors Tribuniciae Potestatis adsumitur, omnesque per exercitus ostentatur. Pare che Tacito anticipi di qualche anno questa dignità; ma certamente fa intendere la medesima a lui conferita, mentr'esso era all'armata, e non già allorchè fu giunto a Roma. Però assai fondamento abbiamo per credere che dall'anno presente, a cagione di questo innalzamento di Tiberio, alcuni cominciassero a numerare gli anni del suo imperio; sentenza adottata dal padre Pagi e da altri.
Anno di | Cristo XII. Indizione XV. |
Cesare Augusto imper. 56. |
Consoli
Germanico Cesare e Caio Fontejo Capitone.
Tiberio Giulio Germanico Cesare, nipote e figliuolo per adozione di Tiberio Cesare, e nipote, a cagion d'essa adozione, di Augusto, pel merito acquistato nelle guerre della Germania, Pannonia e Dalmazia, ottenne quest'anno il consolato e inoltre gli ornamenti trionfali [Vellejus, lib. 2.]. Nelle calende di luglio a Capitone fu [36] sostituito nel consolato Cajo Visellio Varrone. Con esso Germanico venne anche Tiberio [Sueton., in Tiber., c. 20.], nell'anno presente a Roma. Le guerre sopravvenute gli aveano impedito il trionfo destinatogli dal senato per le guerre da lui felicemente terminate nella Pannonia e Dalmazia. Ricevette egli ora quest'onore, con entrare trionfalmente in Roma. Prima di passare al Campidoglio, scese dal carro trionfale, e andò ad inginocchiarsi ai piedi d'Augusto, che con gran festa l'accolse. Seco era Batone, che già vedemmo capo della sollevazion della Pannonia ed è chiamato re di quella provincia da Rufo Festo, ma impropriamente. A costui professava non poca obbligazione Tiberio, perchè nella guerra pannonica trovandosi egli stretto in un brutto sito, e circondato dai ribelli, Batone generosamente il lasciò ritirarsi in luogo sicuro. Per gratitudine Tiberio gli fece de' grandissimi doni, e il mise di stanza a Ravenna. Seguita a dire Svetonio, aver Tiberio dato un convito al popolo con mille tavole apparecchiate, ed oltre a ciò un congiario, cioè un regalo di trenta nummi per testa. Dedicò eziandio il tempio della Concordia, mettendo nell'iscrizione, come asserisce Dione [Dio, lib. 56.] d'averlo rifatto egli con Druso suo fratello già defunto. V'ha chi crede fatta cotal dedicazione nell'anno di Cristo X, e chi nel precedente IX, tirando ciascuno [Petavius, Mediobarbus, Pagius et aliis.] al suo sentimento le parole di Dione. Ma dacchè lo stesso Dione confessa che prima di questa dedicazione Tiberio era passato in Germania, da dove solamente nell'anno presente ritornò, nè essendo verisimile che in lontananza egli dedicasse quel tempio; sembra ben da anteporsi l'autorità di Svetonio che mette quel fatto sotto l'anno presente, che è inoltre autore più vicino a questi tempi, che non fu Dione. Dedicò parimente lo stesso Tiberio il tempio di Polluce e di Castore [37] sotto il nome suo o del fratello Druso, mettendo ivi le spoglie de' popoli soggiogati.
Quantunque Augusto si trovasse in età molto avanzata, e con vacillante sanità, pure non lasciava di pensare al pubblico bene [Dio, lib. 56.]. Perciò in quest'anno fece pubblicare una legge contro i Libelli famosi, ordinando che fossero bruciati, e castigati i loro autori. E perchè intese che gli esiliati da Roma con gran lusso viveano, e andando qua e là si ridevano delle delizie di Roma, nè parea loro di essere gastigati; ordinò che non potessero soggiornare se non nelle isole distanti dalla terra ferma per cinquanta miglia, a riserva di Coo, Rodi, Sardegna e Lesbo. Ristrinse ancora i lor comodi e la lor servitù. Per cagione poi della poca sua sanità mandò a scusarsi coi senatori, se da lì innanzi non poteva andar a convito con loro, pregandoli nello stesso tempo di non portarsi più a salutarlo in casa, come fin qui avevano usato di fare non tanto essi, ma eziandio i cavalieri ed alcuni della plebe. Finalmente raccomandò Germanico al senato, ed il senato a Tiberio con una polizza: segno ch'egli si sentiva già fiacco di forze, e vicino ad abbandonar questa vita. Molti pubblici giuochi furono fatti nell'anno presente dagl'istrioni e dai cavalieri nella piazza d'Augusto; e Germanico diede una gran caccia nel Circo, dove furono uccisi dugento lioni dai gladiatori. Fece ancora la fabbrica e la dedicazione del portico di Livia, in onore di Cajo e Lucio Cesari defunti. Abbiamo da Svetonio [Sueton., in Caligul., cap. 8.], che in quest'anno, nel dì 31 di agosto, venne alla luce Caio Caligola, che fu poi imperadore, figliuolo di esso Germanico Cesare, e di Giulia Agrippina, nata da Marco Agrippa, e da Giulia figliuola di Augusto. Chi il fa nato in Treveri, chi in Anzio in Italia. Di poca conseguenza è questa disputa, perchè egli non diede motivo ad alcun luogo di gloriarsi della di lui nascita.
Anno di | Cristo XIII. Indizione I. |
Cesare Augusto imper. 57. |
Consoli
Cajo Silio e Lucio Munazio Planco.
Di dieci in dieci anni, o pure di cinque in dieci il saggio Augusto soleva farsi confermare dal senato e popolo romano l'autorità ch'egli avea di reggere la repubblica come suo capo, e di comandare le armate, esercitando la podestà tribunizia e proconsolare. Con questo incenso e con quest'atto di sommessione, quasi che il suo comandare fosse una arbitraria concession de' Romani, egli continuava a far da padrone, tutti a lui servendo, quando egli mostrava d'essere dipendente e servo d'ognuno. Nè già egli dimandava la conferma di tali prerogative. Il senato stesso quegli era, che pregava e quasi forzava lui ad accettar il peso del comando. Non mancavano insinuazioni di così fare: ed anche senza insinuazioni ciascun desiderava di farsi merito con lui. Si mutò nel proseguimento dei tempi la sostanza delle cose: tuttavia l'esempio d'Augusto servì a far continuare l'uso de' quinquennali, decennali, vicennali e tricennali degl'imperadori romani, solennizzandosi con gran festa, cioè con giuochi pubblici e sagrifizii, il quinto, il decimo, vigesimo e trigesimo anno del loro imperio, con ringraziare gl'iddii della vita loro conceduta, e pregar felicità e lunghezza al resto del loro vivere, quand'anche erano cattivi. Nello anno presente [Dio, lib. 56.] fu prorogato da Augusto per altri dieci anni a venire il governo della repubblica; e benchè egli si mostrasse renitente alla loro amorevole offerta, pure si sottomise a tali istanze. Prorogò egli la podestà tribunizia a Tiberio, e a Druso figliuolo d'esso Tiberio concedette la licenza di chiedere fra tre anni il consolato, anche senza avere esercitato la pretura. Intanto perchè la inoltrata sua età e gl'incomodi della salute [39] non gli permettevano più di andare al senato, se non rarissime volte, dimandò di poter avere venti senatori per suoi consiglieri (ne tenea quindici negli anni addietro), e fu fatto un pubblico decreto, che qualunque determinazione ch'egli facesse da lì innanzi insieme coi suddetti consiglieri e coi consoli reggenti e disegnati, e coi suoi figliuoli e nipoti, fosse valida, come se fosse emanata dall'intero senato. In vigore di questo decreto, anche stando in letto per cagion delle sue indisposizioni, prese molte risoluzioni opportune al pubblico governo. Sì malcontento era il popolo romano del poco fa introdotto aggravio della vigesima parte delle eredità che si pagava all'erario militare pel mantenimento de' soldati, che si temeva di qualche sedizione in Roma. Scrisse Augusto al senato che ognuno mettesse in iscritto il suo voto, per trovar altra via più comoda da ricavar il necessario danaro, acciocchè, se non si fosse trovata, facesse conoscere che da lui non veniva il male, vietando a Germanico e a Druso di dire il loro parere, perchè non si credesse quella essere la mente sua. Vi fu gran dibattimento; e continuandosi pure a detestar la vigesima, egli mostrò di voler compartire il peso di quella contribuzione sopra i beni stabili del popolo. Inviò pertanto qua e là, senza perdere tempo, estimatori delle case e terre: il che bastò a fare che cadauno, temendo di patir più danno da questo che da quell'aggravio, si quietò, e restò, come prima, in piedi la vigesima.
Anno di | Cristo XIV. Indizione II. |
Tiberio imperadore 1. |
Consoli
Sesto Pompeo e Sesto Appuleo.
Fece in quest'anno Augusto insieme con Tiberio il censo, o sia la descrizione de' cittadini romani, abitanti in Roma e per le provincie; e per attestato della inscrizione ancirana, riferita dal Grutero [Gruter., Thesaur. Inscription., pag. 230.], [40] se ne trovarono quattro milioni e cento settantasettemila. Eusebio nella sua cronica [Euseb., in Chron.] fa ascendere essi cittadini a nove milioni e trecento settantamila persone, forse per error de' copisti, il quale s'ha da correggere coll'autorità dell'iscrizione suddetta. Svetonio [Sueton., in August., cap. ult.] e Dione [Dio, lib. 56.] attestano, avere Augusto sul fin di sua vita fatto un compendio delle sue più memorabili azioni, con ordine d'intagliarlo in varie tavole di bronzo. Se ne conservò in Ancira una copia. Fu poi spedito Germanico in Germania, perchè non era per anche cessata in quelle contrade la guerra. Prese Augusto anche la risoluzion d'inviar Tiberio nell'Illirico, per assodar sempre più la pace ivi stabilita; e però con esso lui da Roma si incamminò alla volta di Napoli, invitatovi da quel popolo nell'occasione de' giuochi insigni che qui ogni cinque anni in onor suo si facevano all'usanza de' Greci. V'andò, ma portando seco una molesta diarrea, cominciata in Roma. Dopo avere assistito a quella magnifica funzione, e licenziato Tiberio, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Aggravatosi il suo male, fu forzato a fermarsi in Nola, dove poi placidamente morì nel dì 19 agosto, cioè nel mese nominato prima sestile, e poscia dal suo nome Augusto, che tuttavia dura, e in quella medesima stanza, dove Ottavio suo padre era mancato di vita. Sospetto corse [Sueton., Tacitus, Dio.], che la ambiziosa sua moglie Livia, appellata anche Giulia, perchè adottata per figliuola da esso Augusto con istravaganza non lieve, gli avesse procurata la morte con dei fichi avvelenati. Imperocchè dicono che in questi ultimi tempi Augusto, o perchè già conoscesse il mal talento di Tiberio figliastro suo, o perchè gli paresse più convenevole di anteporre Agrippa, figliuolo di Giulia sua figlia, ad un figliuolo di sua moglie Livia, avesse cangiata [41] massima intorno alla successione sua; e che segretamente coll'accompagnamento di pochi si fosse portato a visitar esso Agrippa, che trovavasi allora relegato nell'isola della Pianosa, con dargli buone speranze. Avendo Livia penetrato questo segreto affare, s'affrettò, secondo i suddetti scrittori, ad accelerar la morte del marito. Ma non par già verisimile, che Augusto sì vecchio volesse prendersi lo incomodo di arrivar sino alla Pianosa, vicino alla Corsica, nè potea ciò farsi senza che Livia ed altri nol venissero a sapere. L'affetto poi dimostrato da Augusto sul fine di sua vita alla medesima Livia e a Tiberio, il quale richiamato dal suo viaggio [Vellejus, lib. 2.] arrivò a tempo di vederlo vivo, e di tenere un lungo ragionamento con lui, non lascia trasparire segno di affezione di esso Augusto verso il nipote Agrippa, nè di mal animo contro il figliastro Tiberio e di sua madre.
Comunque sia, terminò Augusto i suoi giorni in età di quasi settantasei anni, e di cinquantasette anni e cinque mesi dopo la morte di Giulio Cesare. Tanto anticamente, quanto ne' due ultimi secoli, si vide posto sulle bilance de' politici e dei declamatori il merito di questo imperadore, lacerando gli uni la di lui fama, per avere oppressa la repubblica romana, e gli altri encomiandolo come uno dei più gloriosi principi che s'abbia prodotto la terra. La verità si è, che hanno ragione amendue queste fazioni, considerata la diversità de' tempi. Non si può negare ne' principii il reato di tirannia e di crudeltà in Augusto verso la sua patria; ma si dee ancora concedere, che il proseguimento della sua vita fece scorgere in lui non un tiranno, ma un principe degno di somma lode pel savio suo governo, per l'insigne moderazione sua, e per la cura di mantenere ed accrescere la pubblica felicità. Può anche meritar qualche perdono l'attentato suo. Trovavasi da molto tempo vacillante e guasta la romana repubblica per le fazioni e [42] prepotenze, che non occorre qui rammentare [Tacitus, Annal., lib. 1.]. Bisogno v'era di un'autorità superiore, che rimediasse ai passati disordini, e non lasciasse pullularne dei nuovi. Però la tranquillità di Roma è dovuta al medesimo, se vogliamo dire, fallo suo. Nè egli a guisa de' tiranni tirò a sè tutto quel governo, ma saggiamente seppe fare un misto di monarchia e di repubblica, quale anche oggidì con lode si pratica in qualche parte d'Europa. Felice Roma, s'egli avesse potuto tramandare ai suoi successori, come l'imperio, così anche il suo senno e il suo amore alla patria. Ma vennero tempi cattivi, ne' quali poi s'ebbe a dire: Che Augusto non dovea mai nascere, o non dovea mai morire. Il primo per mali da lui fatti a fine di rendersi padrone: il secondo per l'amorevolezza e saviezza, con cui seppe dipoi governare la repubblica, e di cui furono privi tanti de' suoi successori, non principi, ma tiranni. Un gran saggio ancora del merito d'Augusto furono gli onori a lui compartiti in vita, e più dopo morte. Vi avrà avuta qualche parte, non vo' negarlo, l'adulazione; ma i più vennero dalla stima, dall'amore e dalla gratitudine de' popoli che sotto di lui goderono uno stato cotanto felice. E tali onori arrivarono sino al sacrilegio [Tacitus, ibidem. Dio, lib. 51. Sueton., in August., c. 59. Philo, in Legation. ad Cajum.]. Imperciocchè a lui anche vivente furono, come ad un Dio, dedicati altari, templi e sacerdoti, e molto più dopo morte. Con pubblici giuochi ancora e spettacoli si solennizzò dipoi il suo giorno natalizio, e memoria onorevole si tenne de' benefizii da lui ricevuti.
Tennero Livia e Tiberio occulta per alcuni giorni la morte d'Augusto, finchè avendo frettolosamente inviato ordine alla Pianosa che fosse ucciso Agrippa, nipote d'esso Augusto, giunse loro la nuova di essere stato eseguito il barbaro comandamento, mostrando poscia di non averlo dato alcun d'essi; che questo fu il bel [43] principio del loro imperio. Allora si pubblicò essere Augusto mancato di vita. Fu portato con gran solennità il di lui corpo a Roma dai principali magistrati delle città, e poi da' cavalieri; furongli fatte solenni esequie, descritte da Dione, con averlo portato al rogo Druso figliuolo di Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l'anima d'Augusto volare al cielo [Sueton., in August., cap. 101. Dio, lib. 56.], come si finse una volta succeduto anche a Romolo, facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch'egli fosse divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne' tempi seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato erede da Augusto suo padrigno, tutta l'autorità e gli onori goduti in addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d'umor nero e di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d'ogni altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de' piccoli. Nel senato non v'era più alcuna di quelle teste forti che potessero rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all'adulazione e al privato, non al pubblico bene. V'entrava anche la paura, perchè Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio. All'incontro l'astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di desiderare non superiorità, ma uguaglianza co' suoi cittadini, esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi poco inclinato [44] comparisse verso di lui [Dio, lib. 57.]. Temeva ancora che Germanico suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per essere allora alla testa dell'armata romana in Germania, e perchè sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl'inginocchiati senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l'impiego [Sueton., in Tiber., cap. 24.], o pur facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo, cominciò francamente ad esercitare l'autorità imperiale. Qui Vellejo Patercolo [Vellejus, lib. 2.] lascia la briglia all'eloquenza sua, per tessere un panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La pace fiorì da per tutto; andò l'ingiustizia, la prepotenza, la frode a nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S'egli sel meritasse, l'andremo osservando nel progresso degli anni.
Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie [Dio, lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.]. Le milizie romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione e d'essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia, e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo figliuolo Druso con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano [45] non poca fatica a mettere in dovere i sollevati che l'assediarono, e ferirono alcuni della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro pe' quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior pericolo fu la sollevazion de' soldati romani nella Germania, perchè quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di Germanico Cesare, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo o sia la descrizione dell'anime. Si ammutinò parte di questo esercito per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l'avea anche adottato per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest'atto li fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch'egli ordinasse in donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la promessa di sì fatta liberalità, e l'aver eziandio accordato il ben servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all'arrivo de' quali di nuovo si sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero anche Agrippina di lui moglie, gravida allora, e il piccolo figliuolo Cajo, soprannominato Caligola. La costanza di Germanico, giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni, Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se avesse voluto, sarebbe stato imperatore [46] Augusto; tanto egli avea in pugno l'affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del popolo romano. Ma superior fu all'ambizione la sua virtù. Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie, Tiberio per ringraziarli [Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, c. 56.]: fece anche un bell'encomio di loro nel senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno proprio si potesse convertire un dì l'amore professato dalle milizie a Germanico [Tacito, Annal., lib. 1, c. 57.]. Non finì quest'anno, che Giulia, figliuola di Augusto e moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito anch'egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell'isola di Cersina presso l'Africa, in castigo della sua disonesta amicizia colla suddetta Giulia, fu anch'egli tolto di vita.
Anno di | Cristo XV. Indizione III. |
Tiberio imperadore 2. |
Consoli
Druso Cesare figliuolo di Tiberio e Caio Norbano Flacco.
Fu massimamente in quest'anno un bel vedere, con che attenzione, moderazione e modestia si applicasse Tiberio al governo [Dio, lib. 57. Suetonius, in Tiber., cap. 26.]. Non volle che si premettesse al suo nome il titolo d'imperadore. Si adirava con chi osasse chiamarlo signore; e a' soldati permetteva il nominarlo per imperadore: giacchè tal nome, siccome dissi, solamente allora significava generale d'armata. Il glorioso nome di Padre della Patria non permise mai che il senato glielo desse, forse perchè abborriva l'adulazione, [47] ed egli in sua coscienza dovea forse sapere di non poterlo meritare giammai. E certamente scrivendo una volta al senato [Sueton., ibid., cap. 67.] che vilmente pregava di ricevere questo titolo, disse: «Se per mia disavventura un qualche dì accadesse, che voi dubitaste della mia buona intenzione e della sincerità dell'affetto che a voi professo (il che se dovesse avvenire, desidero piuttosto che la morte mia prevenga la mutazion della vostra opinione), questo titolo di Padre della patria niente d'onore recherebbe a me, e servirebbe solo di rimprovero a voi per aver fallato il giudicare di me, e per avere spropositatamente dato a me un cognome che non mi conveniva.» Benchè passasse in lui per eredità il titolo d'Augusto, pure non l'usava se non talvolta in iscrivendo ai re; e solamente leggendolo o ascoltandolo a sè dato, non l'avea a male; e però sovente si trova nelle iscrizioni e medaglie d'allora. Il nome di Cesare era a lui famigliare; e talora usò il cognome di Germanico, per le vittorie riportate in Germania, siccome ancor quello di Principe del Senato, cioè di primo fra i senatori. Soleva perciò dire ch'egli era: «Signore de' propri schiavi, imperadore (cioè generale) dei soldati, e primo fra gli altri cittadini di Roma.» Per la stessa ragione vietò sulle prime ad ognuno il fabbricargli dei templi come s'era fatto ad Augusto; nè volle sacerdoti flamini. Col tempo permise ciò alle città dell'Asia, ma nol volle permettere a quelle della Spagna e d'altri paesi. Che se talun desiderava d'innalzargli statue, o di esporre l'immagine sua, nol potea fare senza di lui licenza; e questa si concedea, sempre colla condizione che non si mettessero fra i simulacri degl'iddii, ma solamente per ornamento delle case. Altre simili distinzioni d'onore rifiutò egli, e soprattutto amava di comparire popolare; camminando per la città con poco seguito, e senza voler corteggio servile di gente nobile; onorando non [48] solo i grandi, ma anche la bassa gente, e tenendo al suo servigio un discreto numero di schiavi. Nel senato poi e nei giudizii del foro, non si piccava punto di preminenza, dicendo e lasciando che ogni altro liberamente dicesse il suo parere: nè si sdegnava se si risolveva in contrario al suo. Niuna risoluzione prendeva egli mai senza sentire i senatori consiglieri eletti da lui. Era sollecito in impedire gli aggravi de' popoli e le estorsioni de' ministri; e ad alcuni governatori che l'esortavano ad accrescere i tributi, o pure a quel dell'Egitto, che mandò più danaro di quel che si solea ricavare, rispose: «Che le pecore s'han da tosare, e non già da levar loro la pelle.» In somma Tiberio avea testa per esser un ottimo principe e glorioso imperatore; e pur pessimo riuscì, perchè all'intendimento prevalse di troppo, siccome vedremo, la maligna sua inclinazione [Dio, lib. 57. Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 16. Sueton., in Tiber., cap. 50.]. All'incontro Livia Augusta sua madre, donna gonfia più d'ogni altra di fasto e di vanità, facea gran figura in Roma. Nulla avea omesso, fatte avea anche delle enormità affinchè il figliuolo arrivasse a dominare per isperanza di continuare a dominar come prima sotto l'ombra di lui. Ma era ben diverso da quello d'Augusto l'amor di Tiberio. La tenne egli, per quanto potè, sempre bassa, senza permettere che l'adulatore senato le desse certi titoli d'onore che maggiormente l'avrebbono insuperbita; talvolta diceva a lei stessa, «non esser conveniente alle donne il mischiarsi negli affari di Stato.» Quantunque talvolta si regolasse secondo i di lei consigli, pure il men che potea l'onorava di sue visite; ed anche visitandola, poco vi si tratteneva, affinchè non paresse ch'egli si lasciasse governare da lei. Fece anche di più col tempo, siccome vedremo.
Comandava intanto le armate di Germania il giovane Germanico Cesare. Ancorchè fosse lontano da Roma, per cura di Tiberio gli fu conceduto il trionfo, [49] celebrato poi nell'anno seguente, in ricompensa di quanto egli avea finora operato in quella guerra [Tacitus, Annal., lib. 1, cap. 9.]. Durava questa in Germania, ed erano tuttavia in armi Arminio e Segeste, due primari capitani di quelle contrade; ma fra loro discordi, perchè Arminio, rapita una figliuola di esso Segeste, promessa ad un altro, la avea presa per moglie a dispetto del padre. Con due corpi d'armata assai poderosi, l'uno comandato da Germanico, l'altro da Aulo Cecina, legato dello esercito, fu portata la guerra addosso ai popoli Catti (oggidì creduti gli Assiani) e preso il loro paese. Mosse in questi tempi Arminio una sedizione contra del suocero Segeste, il quale, trovandosi assediato, spedì il figliuolo Segimondo a Germanico per aiuto. Accorsero i Romani; furon messi in rotta gli assedianti, liberato Segeste, e presa con altre nobili donne la di lui figliuola, gravida allora del marito Arminio. Questo fatto e le tante grida d'Arminio cagion furono che presero l'armi per lui i Cherusci ed Ingujomero di lui zio paterno. Seguirono poi due combattimenti. Nel primo toccò la peggio ad Arminio; nell'altro ebbe Cecina colle sue brigate non poca fatica a ridursi in salvo, ma dopo averne riportate molte ferite. Fu allora che Agrippina, moglie di Germanico, fece comparire l'animo suo virile. Per la suddetta disgrazia era corsa voce che i Germani venivano per passare ostilmente nella Gallia. Impedì la valorosa donna che non si guastasse il ponte sul Reno, come volevano que' cittadini. Messasi ella stessa alla testa del medesimo, graziosamente accolse le legioni che malconce ritornavano dal suddetto fatto d'armi, con far medicare i feriti, e donar vesti a chi avea perdute le sue. Riferita a Tiberio questa gloriosa azione d'Agrippina, siccome egli odiava la stirpe d'Agrippa, e il suo pascolo era la diffidenza, ne fece doglianze nel senato, con esporre l'indecenza che una donna si usurpasse lo [50] ufficio de' generali e dei legati, ed accusandola di mire più alte, per esaltare il marito e il figliuolo Caligola. Nè mancò il favorito Sejano di maggiormente fomentar in Tiberio sì fatte gelosie. Meno è da credere che non facesse Livia Augusta, solita a mirar di mal occhio Germanico, e più la di lui moglie secondo lo stil delle femmine. Corsero dipoi gran pericolo di restar affogate nell'acque due legioni comandate da Publio Vitellio. Segimero, fratello di Segeste, col figliuolo si rendè ai Romani; e con questi, poco per altro fortunati avvenimenti, ebbe fine la campagna dell'anno presente. Pagò appunto in quest'anno Tiberio il pingue legato lasciato da Augusto al popolo romano. A ciò fare fu spinto da una pungente burla [Dio, lib. 56.]. Nel passare la piazza un cadavero, portato alla sepoltura, accostatosi alle orecchie del morto un buffone, in bassa voce gli disse o pur finse di dire alcune parole. Interrogato poi dagli amici, rispose di avergli ordinato d'avvertire Augusto della non per anche eseguita testamentaria volontà. Le spie ne rapportarono tosto l'avviso a Tiberio, il quale non tardò a pagare il legato, con far poco appresso morir l'autore della burla, dicendo ch'egli stesso porterebbe più presto ad Augusto le nuove di questo mondo [Panvin., in Fast. Blanchin., in Anast.]. Prese Tiberio in quest'anno nel dì 10 marzo il titolo di Pontefice Massimo.
Anno di | Cristo XVI. Indizione IV. |
Tiberio imperadore 3. |
Consoli
Tito Statilio Sisenna Tauro e Lucio Scribonio Libone.
Al primo d'essi consoli, cioè a Statilio, ho aggiunto il prenome di Tito, ricavandosi ciò da un'iscrizione riferita dal Fabretti [Fabrettus, Inscript., pag. 701.]. Così ancora avea scritto [51] il Panvinio. Al secondo, cioè a Libone, fu sostituito nelle calende di luglio Publio Pomponio Grecino, come consta dalla iscrizione suddetta e dal poeta Ovidio [Ovidius, lib. 4, Ep. 9 Trist.]. In Germania [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 9 et seq.] al fiume Weser due fatti d'armi seguirono fra i Romani sotto il comando di Germanico, e i Germani regolati da Arminio. In amendue la vittoria si dichiarò per li Romani. Avea Germanico fatto preparar mille legni tra grandi e piccoli nell'isola di Batavia (oggidì Olanda) per assalire dalla parte dell'Oceano i nemici. Sul fine della state, imbarcata che fu la copiosa fanteria, con alquanto di cavalleria, a forza di remi e di vele si mosse la flotta per entrar nel paese nemico. V'era in persona lo stesso Germanico. Per una tempesta insorta ebbe a perir tutta quella gente, e gran perdita si fece d'armi, cavalli e bagaglio. Ma quando i Germani per questo sinistro caso de' Romani si credeano in istato di vincere, Germanico spedì Cajo Silio con trentamila fanti e tremila cavalli contra di loro; il che tal riputazione acquistò ai Romani, tal terrore diede ai Germani che cominciarono ad inclinar alla pace. Avrebbe potuto Germanico dar l'ultima mano a quella guerra, se Tiberio con replicate lettere ed istanze non l'avesse richiamato a Roma con esibirgli il consolato e il trionfo già a lui accordato. Al geloso e diffidente Tiberio premeva forte di staccar Germanico da quelle legioni, paventando egli sempre delle novità a sè pregiudiziali, pel sommo amore che quei soldati professavano a sì grazioso generale. Ancorchè Germanico s'accorgesse delle torte mire d'esso suo zio, pure si accomodò ai di lui voleri, ed impreso il viaggio d'Italia, forse arrivò in Roma sul fine dell'anno. Fece [Dio, lib. 57.] Tiberio nel presente accusare in senato Lucio Scribonio Libone, giovane, diverso dal console, quasichè macchinasse delle novità. Prevenne questi la sentenza della morte [52] con uccidersi da sè stesso. Avea già cominciato Tiberio a permettere i processi contra delle persone anche più illustri per sole parole indicanti mal animo o sedizione contra del governo e della sua persona: laddove prima di salire sul trono avea sempre sostenuto [Sueton., in Tiber., cap. 27.], «che in una città libera dovea ciascuno goder la libertà di dire e pensare ciò che gli piacesse.» Questa bella massima, divenuto che fu principe, perdè presso lui di grazia. Siccome ancora quell'altra ch'egli proferì un dì nel senato con dire, «che se si cominciasse ad ammettere accuse di chi parlasse contra del principe o del senato, andrebbe in eccesso il processar persone; perchè chiunque ha dei nemici, correrebbe a denunziarli come rei di questo delitto.» Questi disordini appunto accaddero da lì innanzi sotto il tirannico di lui governo.
Era in gran voga per questi tempi in Roma la strologia giudiciaria ed anche la magia [Dio, ibidem.]. Della prima si dilettava lo stesso Tiberio, tenendo in sua casa uno di questi venditori di fumo, chiamato Trasillo, e volendo ogni dì udire da lui quel che dovea succedere in quella giornata. Trovandosi beffato da costui, se ne sbrigò col farlo uccidere; poi perseguitò tutti gli altri fabbricatori di pronostici. E perchè non erano eseguiti gli editti intorno a questi impostori, chiunque de' cittadini romani fu per tal cagione denunziato dipoi, n'ebbe per castigo lo esilio. Solennemente ancora fu vietato a chicchessia il portar vesti di seta, perchè di spesa grave, non facendosi allora seta in Europa; siccome fu parimente proibito il tener vasi d'oro, se non per valersene ne' sagrifizii; e nè pur furono permessi vasi d'argento con ornamenti d'oro. Affettava Tiberio la purità della lingua latina, e soprattutto usava i vocaboli antichi d'Ennio e di Plauto. Essendogli in un editto scappata una parola [53] non latina, n'ebbe scrupolo, e volle ascoltare il parere de' più dotti grammatici, i quali quasi tutti la dichiararono buona, dacchè era stata usata da sì gran dottore e principe, qual era Tiberio. Con tutto ciò saltò su un certo Marcello, dicendo, «che potea ben Cesare dar la cittadinanza di Roma agli uomini, ma non già alle parole;» bolzonata che ferì non poco Tiberio, e nondimeno seppe egli, secondo il suo costume, ben dissimularla. Proibì ancora ad un centurione il fare testimonianza nel senato con parole greche, tuttochè egli in quello stesso luogo avesse udito molte cause trattate in greco, ed egli medesimo talvolta si fosse servito dello stesso linguaggio per interrogare.
Anno di | Cristo XVII. Indizione V. |
Tiberio imperadore 4. |
Consoli
Caio Cecilio Rufo e Lucio Pomponio Flacco Grecino.
Il primo de' consoli negli Annali stampati di Tacito è chiamalo Celio; Cecilio in quei di Dione. E così appunto si dee appellare. S'è disputato fra gli eruditi intorno a questo nome. Credo io decisa la lite da un marmo da me dato alla luce [Thesaur. Novus Inscription., pag. 301, n. 1.], che si dice posto C. CAECILIO RVFO, L. POMPONIO FLACCO COSS. Erano insorte nell'anno precedente varie turbolenze fra i re d'Oriente, che dipendevano in qualche guisa da Roma [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 1. Joseph., Antiq. Judaic., lib. 16, cap. 3.]. Avea Augusto, siccome accennammo, dato ai Parti Vonone per re. Col tempo cominciarono que' barbari a sprezzarlo, poscia ad abborrirlo, e finalmente a congiurare per detronizzarlo. Chiamato alla corona Artabano del sangue degli antichi Arsacidi, questi, sconfitto sulle prime, sconfisse in fine Vonone. Si rifugiò il vinto nell'Armenia, e fatto re da [54] que' popoli non andò molto, che prevalendo presso gli Armeni il partito favorevole ad Artabano, Vonone si ritirò ad Antiochia con un gran tesoro. Ivi risedeva proconsole della Soria Cretico Silano, che adocchiato quell'oro, l'accolse ben volentieri, e permise ch'egli si trattasse da re, ma nel medesimo tempo il facea custodire sotto buona guardia. Vonone intanto implorava con frequenti lettere aiuto da Tiberio; ma non avea Tiberio voglia di romperla coi Parti, gente che non si lasciava far paura dai Romani, e gli avea anche più volte fatti sospirare. Oltre a ciò avvenne [Dio, lib. 57.] che Tiberio fece citar a Roma Archelao re della Cappadocia tributario de' Romani, col pretesto ch'egli meditasse delle rebellioni. L'odiava Tiberio, perchè, allorchè egli dimorava a guisa di relegato in Rodi, Archelao passando per colà non l'avea onorato di una visita, e grande onore all'incontro avea fatto a Cajo Cesare emulo suo. Venne Archelao a Roma vecchio e malconcio di sanità, dopo aver per cinquant'anni governato i suoi popoli; e fu accusato innanzi al senato. Si mise egli in tal affanno per questa persecuzione, che da lì a qualche tempo, non si sa se naturalmente, o pure per aiuto altrui, terminò la sua vita. Allora la Cappadocia fu ridotta in provincia, e spedito colà un governatore. In que' medesimi tempi vennero a morte Antioco re della Comagene e Filopatore re di Cilicia con gran turbazione di que' popoli, parte dei quali volea un re, ed un'altra desiderava il governo de' Romani. Anche la Soria e la Giudea, lagnandosi de' troppo gravi tributi, ne dimandavano la diminuzione.
Fu questa una bella occasione a Tiberio per allontanar l'odiato nipote Germanico Cesare da Roma, e cacciarlo in paesi pericolosi sotto specie d'onore. Propose dunque in senato, che non v'era persona più a proposito di lui per dar sesto agl'imbrogli dell'Oriente. Già avea esso Germanico conseguito il trionfo nel dì 26 [55] di maggio; e a lui per questa spedizione fu conceduta un'ampia autorità in tutte le provincie di là del mare. Ma Tiberio, per mettere a lui un contrapposto in quelle contrade, richiamato Cretico Silano dalla Soria [Tacit., Annal., lib. 2, cap. 43.], spedì a quel governo Gneo Calpurnio Pisone, uomo violento e poco amico di Germanico. Con costui andò anche Plancina sua moglie, addottrinata, per quanto fu creduto, da Livia Augusta, acciocchè facesse testa ad Agrippina moglie di Germanico. Volle inoltre Tiberio, che Druso Cesare suo figliuolo, lasciato l'ozio e il lusso di Roma, andasse nell'Illirico ad apprendere il mestiere della guerra. Andò egli; ma giunto colà fu forzato a passare in Germania, per cagion delle guerre civili nate fra i Germani non sudditi di Roma. Aspra lite quivi era fra Arminio promotore della libertà, e Maroboduo, che avea preso il titolo di re. Ad una campale battaglia vennero questi due emuli. Fu creduto vincitore Arminio, perchè l'altro per la soverchia diserzione dei suoi si ritirò fra i Marcomanni [Dio, Strabo, Eusebius, in Chron.]. Druso colà si portò con apparenza di voler trattar la pace fra essi. Devastò in quest'anno un fiero tremuoto dodici città dell'Asia, alcune delle quali assai celebri, come Efeso, Sardi, Filadelfia. Tiberio dedicò in Roma varii templi, ma edificati da altri; perchè egli non si dilettò di fabbriche, nè di lasciar magnifiche memorie, per non iscomodar la sua borsa. In Africa si sollevarono i Numidi e i Mori per istigazione di Tacfarinate. Furio Camillo, proconsole di quelle provincie, benchè non avesse al suo comando se non una sola legione e poche truppe ausiliarie, marciò contro quella gran moltitudine di gente, e le mise in fuga. Per tal vittoria si meritò dal senato gli ornamenti trionfali [Hieron., in Chron.]. Negli ultimi sei mesi dell'anno presente diede fine alla sua vita il poeta Ovidio in Tomi, città posta alle rive del mar Nero, dov'era stato relegato da Augusto. Credesi ancora, [56] che questo fosse l'ultimo anno di vita del celebre storico romano Tito Livio padovano.
Anno di | Cristo XVIII. Indizione VI. |
Tiberio imperadore 5. |
Consoli
Claudio Tiberio Nerone imperatore per la terza volta, e Germanico Cesare per la seconda.
Pochi giorni tenne Tiberio il consolato. A lui succedette Lucio Sejo Tuberone; e poscia nelle calende di luglio in luogo di Germanico, fu creato console Cajo Rubellio Blando. Ho aggiunto il prenome di Cajo a Rubellio, secondo la testimonianza di un marmo [Thes. Novus Inscript., pag. 301, num. 2.] da me dato alla luce. Ma si può dubitare, se il consolato di lui appartenga all'anno presente. Germanico si trovava in Nicopoli, città dell'Epiro, allorchè vestì la trabea consolare [Tacitus, Annal., lib. 2, cap. 54.]. Visitò egli le città greche, e massimamente Atene, ricevendo dappertutto distinti onori. Passò a Bisanzio e al mar Nero; e finalmente entrato nell'Asia, arrivò a Lesbo, dove Agrippina sua moglie partorì Giulia Livilla. Intanto Gneo Pisone, inviato da Tiberio per proconsole della Soria, raggiunse Germanico a Rodi. Non era ignoto a Germanico il mal animo di costui; pure avendo inteso ch'egli correa pericolo della vita per una fiera tempesta insorta, spedì alcune galee per salvarlo. Neppur giovò questo per ammansarlo. Appena Pisone fu dimorato un giorno in Rodi, che passò in Soria, dove usando carezze e regali si procacciò l'affetto di quelle legioni, lasciando a' soldati specialmente la libertà di far tutto ciò che loro piacea. Meno non si adoperava Plancina sua moglie, che intanto non si guardava di sparlar dappertutto di Germanico e di Agrippina. Andossene in Armenia Germanico, ed ivi pose per re Zenone figliuolo di Polemone re di Ponto, [57] dopo aver deposto Orode figliuolo di Artabano. Diede dei governatori alle provincie della Cappadocia e della Comagene, con isminuire i tributi di quelle provincie; e poscia continuò il viaggio fino in Soria. Più che mai cresceva la boria e la petulanza di Pisone proconsole; e sforzavasi bensì Germanico di pazientare gl'insulti e i mancamenti di rispetto di costui; ma niuno v'era, che non conoscesse l'aperta nimicizia che passava fra loro. Vennero a trovar Germanico gli ambasciadori di Artabano re de' Parti, per rinnovar l'amicizia e lega, esibendosi quel re di venire alle rive dell'Eufrate per fargli una visita. Una delle loro dimande fu che non permettesse al già deposto re dei Parti Vonone di soggiornar nella Soria. Germanico il mandò a Pompejopoli, città della Cilicia, non tanto per far cosa grata ad Artabano, quanto per far dispetto a Pisone, che il proteggeva non poco a cagion de' regali e della servitù che ne ricavava Plancina sua moglie. Qui ci vien meno la storia di Dione, e però nulla di più sappiamo de' fatti de' Romani nell'anno presente.
Anno di | Cristo XIX. Indizione VII. |
Tiberio imperadore 6. |
Consoli
Marco Giunio Silano e Lucio Norbano Balbo.
Fece in quest'anno Germanico Cesare un viaggio in Egitto [Tacitus, Ann., lib. 1, c. 59.], per curiosità di veder quelle rinomate antichità, e si portò sino ai confini della Nubia, informandosi di tutto. Per cattivarsi que' popoli abbassò il prezzo de' grani, e in pubblico nella città d'Alessandria andò vestito alla greca, perchè quivi predominava quella nazione e la loro lingua [Sueton., in Tiber., c. 52.]. Tiberio, risaputolo, disapprovò la mutazion dell'abito, e più l'essere entrato in Alessandria, afflitta allora dalla carestia, senza sua licenza. Tornossene dipoi in Soria, [58] dove trovò che tutto quanto egli avea ordinato per l'armata e per le città, era stato disfatto da Pisone. Pertanto divampando forte la loro discordia, prese Pisone la risoluzione d'andarsene lungi dalla Soria; ma sopravvenuta una malattia a Germanico già pervenuto ad Antiochia, si fermò, finchè parve che il di lui male prendesse ottima piega; ed allora si ritirò a Seleucia. Ma l'infermità di Germanico andò poscia crescendo. Sparsesi voce, che per malie d'esso Pisone e di Plancina sua moglie l'infelice principe venisse condotto a poco a poco alla morte; e a tal voce si prestò fede, per essersi trovati vari creduti maleficii. In somma se ne morì Germanico nell'età di trentaquattr'anni, lasciando in una grande incertezza, se la morte sua fosse naturale, oppure a lui procurata da Pisone e da Plancina sua moglie; o per segreti ordini di Tiberio. Universalmente fu creduto quest'ultimo. Non si può esprimere il dolore, non solo del popolo romano e delle provincie tutte del romano impero, ma degli stessi re dell'Asia per la perdita di questo generoso principe. Era egli ornato delle più belle doti di corpo e d'animo, valoroso coi nemici [Dio, in Excerptis, et lib. 57.], clementissimo coi sudditi. Posto in tanta dignità, e con tanta autorità, pure mai non insuperbì, trattando tutti con onorevolezza, e vivendo più da privato che da principe. Già vedemmo, ch'egli ricusò l'imperio, per non mancar di fede e di onor a Tiberio. Non mai fu veduto abusarsi della sua podestà, non mai si lasciò torcere dalla fortuna ad azioni sconvenevoli a personaggio virtuoso. Quel ch'è più, con tutti i torti a lui fatti da Tiberio, suo zio paterno, e padre per adozione, e con tutto il suo ben conosciuto mal talento, non mai si lasciò uscir parola di bocca, per riprovar le azioni di lui. Perciò era amatissimo da tutti, fuorchè dallo stesso Tiberio, anzi maggiormente amato, appunto perchè il conoscevano odiato da esso suo zio. Mirabil cosa fu l'osservare, come lo stesso Druso, [59] figliuolo natural di Tiberio, ancorchè Germanico potesse ostargli alla succession dell'imperio, pure l'amasse sempre con sincero amore e come vero fratello. Gran perdita fece Roma in Germanico, ma specialmente perchè Tiberio sciolto dal timore di lui, cominciò ad imperversare, con giugnere in fine a costumi crudeli e tirannici. Restarono di Germanico tre figliuoli maschi, cioè Nerone, Druso, e Cajo Caligola, e tre figlie, cioè Agrippina, che poi fu madre di Nerone augusto, Drusilla e Livilla. Agrippina lor madre, figliuola di Agrippa, e di Giulia nata da Augusto, donna, che ben diversa dalla madre, s'era già fatta conoscere per ispecchio di castità, ed avea dati segni di un viril coraggio, molto più ora abbisognò della sua costanza, rimasta senza il generoso consorte, con dei figliuoli piccioli, e odiata da Livia e forse poco men da Tiberio. Fu consigliata da molti di non tornarsene a Roma: differente ben era il desiderio suo, perchè ardeva di voglia di cercar vendetta di Pisone e di Plancina, tenuti per autori delle sue disavventure. Però sul fine dell'anno colle ceneri del marito e co' figliuoli spiegò le vele alla volta di Roma.
In luogo di Pisone era stato costituito progovernatore della Siria Gneo Sentio Saturnino; ma Pisone, udita la morte di Germanico, dopo averne fatta gran festa, si mise in viaggio con molti legni, e buona copia di milizie, risoluto di ricuperare il suo governo, e di adoperare, occorrendo, anche la forza. Si impadronì d'un castello; ma avendolo Saturnino quivi assediato con forze maggiori, gli convenne cedere, ed intanto fu chiamato a Roma. L'andata di Druso Cesare in Germania, secondo le apparenze, fu per pacificare i torbidi insorti fra Arminio e Maroboduo. Altri documenti avendo ricevuto dall'astuto suo padre, fece tutto il contrario, aggiungendo destramente olio a quell'incendio, acciocchè i nemici si consumassero da sè stessi. Abbandonato poi Maroboduo da' suoi, ricorse a Tiberio, che gli assegnò [60] per abitazione Ravenna, dove aspettando sempre qualche rivoluzione nella Svevia, senza mai vederla, dopo diciotto anni, assai vecchio, compiè la carriera de' suoi giorni. Fin qui Arminio in Germania avea bravamente difesa la libertà della sua patria contro ai Romani; ma avendola poi voluta egli stesso opprimere, fu in quest'anno ucciso dai suoi, in età di soli trentasette anni di vita. Per un decreto d'Augusto era già stato proibito in Roma l'esercizio della religione egiziana con tutte le sue cerimonie; ma seppe essa mantenersi quivi ad onta della legge sino al presente anno. Un'iniquità commessa da que' falsi sacerdoti, collo ingannare Paolina, savia e nobilissima dama romana, e darla per danari in preda a Decio Mondo, giovane perduto dietro a lei, con farle credere che di lei fosse innamorato il falso dio Anubi, siccome diffusamente narra Giuseppe storico [Joseph., Antiq., lib. 18, cap. 4.], diede ansa al senato di esiliar dall'Italia il culto d'Iside, di Osiride e degli altri dii d'Egitto [Tacit., lib. 2, cap. 85.]. Comandò inoltre Tiberio, che si atterrasse il tempio d'Iside, e si gittasse nel Tevere la sua statua. La medesima disavventura toccò ai Giudei [Sueton., in Tiber., cap. 36.], che in gran numero abitavano allora in Roma, a cagion di una baratteria usata da alcuni impostori di quella nazione a Fulvia, nobile dama romana, che avea abbracciata la lor religione; avendo essi convertito in uso proprio l'oro e le vesti ricche, dalla medesima inviate a Gerusalemme, affinchè servissero in onore del tempio. Scelsero i consoli quattromila giovani di essi Giudei di razza libertina, e per forza arrolati li mandarono in Sardegna a far guerra ai ladri ed assassini di quell'isola, senza mettersi in pensiero, se quivi avessero da perire per l'aria che in quei tempi veniva creduta maligna e mortifera. Il rimanente de' Giudei fu cacciato di Roma, e disperso in varie provincie. Vonone, già [61] re de' Parti, volendo in questi tempi fuggir dalla Cilicia, preso da Vibio Frontone, si trovò poi da un soldato privato di vita. Per mettere freno all'impudicizia delle matrone romane [Sueton., in Tiber., cap. 35.], che ogni dì più andava crescendo in Roma, città piena di lusso e di gente, a cui poca paura faceano i falsi dii del Paganesimo, fu con pubblico editto imposta la pena dell'esilio alle figliuole, nipoti e vedove de' cavalieri Romani che cadessero in questo delitto.
Anno di | Cristo XX. Indizione VIII. |
Tiberio imperadore 7. |
Consoli
Marco Valerio Messalla e Marco Aurelio Cotta.
Di grandi onori avea ricevuto in Roma la memoria di Germanico, per ordine di Tiberio e del senato [Tacitus, lib. 3, cap. 1.]; ed anche il popolo in varie guise ne avea attestato il suo dolore. Si rinnovò il lutto in quest'anno all'arrivo di Agrippina sua moglie. Dopo essersi per qualche giorno fermata in Corfù, sbarcò dipoi a Brindisi. Druso Cesare, che era tornato a Roma, co' maggiori figliuoli del defunto Germanico, andò ad incontrarla sino a Terracina. Innumerabil gente, massime de' militari, si portò sino a Brindisi. Caldi furono i sospiri, universale il pianto al comparire dell'urna funebre. Per tutta la via i magistrati e popoli fecero a gara per onorar le di lui ceneri. Gli stessi consoli col senato, e gran parte del popolo si portarono a riceverle con dirotte lagrime; e poi queste vennero riposte nel mausoleo d'Augusto [Ibidem, c. 9.]. Giunse dipoi Pisone con sua moglie a Roma, orgoglioso come in addietro; ma non tardarono a presentarsi al senato accusatori, imputando a lui e a Plancina sua moglie la morte di Germanico. Neppure a questo mal uomo mancavano dei difensori; e [62] difficile era il provar le accuse, siccome avviene in somiglianti casi. Tiberio, che ben sapea le mormorazioni del popolo, quasi che fosse passata buona intelligenza tra lui e Pisone, per levar di vita Germanico, da uomo disinvolto si regolava in questa pendenza, mostrando sempre un vivo affanno per la perdita del figliuolo adottivo, e di voler buona giustizia; ma nello stesso tempo di non volere, che sopercheria si facesse all'accusato. Creduto fu che segretamente a Pisone fosse fatto animo e sicurezza di protezion da Sejano, e che per questo egli si astenesse dal produrre gli ordini a lui dati da Tiberio. Ma se non si provava il reato suddetto, si faceano ben constare altri reati di sedizione, d'ingiurie fatte e dette a Germanico: cosa che mise in fiera apprension Pisone, e tanto più perchè il popolazzo vicino la curia gridava contra di lui, minacciando di menar le mani, qualora egli la scappasse netta dal giudizio de' senatori. Perciò vinto dall'affanno, tenendosi tradito, da sè stesso si diede la morte, liberando in tal guisa Tiberio da un bel molesto pensiero. Plancina sua moglie, che era tutta di Livia Augusta, per le raccomandazioni di lei seguitò a vivere in pace. Al di lei figliuolo Marco Pisone fu conceduto un capitale di cento venticinquemila filippi; il rimanente confiscato, ed egli mandato in esilio. Risvegliossi intanto di nuovo in Africa la guerra, essendo risorto più di prima vigoroso Tacfarinate. Per aver egli messa in fuga una coorte di Romani, sì fatta collera montò a Lucio Apronio proconsole allora in quelle contrade, che infierì contra de' fuggitivi. Ciò fu cagione, che cinquecento soli de' suoi veterani sì valorosamente combatterono dipoi contro l'armata di Tacfarinate, che la misero in rotta. Giunto era all'età capace di matrimonio Nerone, figliuolo primogenito del defunto Germanico [Sueton., in Tiber., cap. 29.]. Tiberio a lui diede in moglie Giulia figliuola di Druso suo figlio: cosa che recò non poca allegrezza [63] al popolo romano. Per lo contrario si mormorò non poco, perchè Tiberio avesse fatto contrarre gli sponsali ad una figliuola del suo favorito Elio Sejano con Druso figliuolo di Claudio, cioè di un fratello di Germanico, di Claudio, dico, il qual poi fu imperadore. A tutti parve avvilita con questo atto la nobiltà della famiglia principesca; perchè era bensì nato Sejano di padre aggregato all'ordine de' cavalieri, ma niuna proporzione si trovava fra lui e Druso, discendente non meno dalla casa d'Augusto, che da quella di Livia. Maggiormente ciò dispiacque per la apparenza che Sejano, comunemente odiato pel predominio suo nel cuor di Tiberio, potesse aspirare a voli più alti, cioè all'imperio. Ma non si effettuarono poi queste meditate nozze, perchè il giovinetto Druso mentre da lì a pochi giorni era in Campania, avendo gittato in aria per giuoco un pero [Sueton., in Claudio, cap 27.], e presolo a bocca aperta nel cadere, ne rimase soffocato, non sussistendo, come dice Svetonio, ch'egli morisse per frode di Sejano.
Anno di | Cristo XXI. Indizione IX. |
Tiberio imperadore 8. |
Consoli
Claudio Tiberio Nerone Augusto per la quarta volta e Druso Cesare suo figliuolo per la seconda.
Ci assicura Svetonio [Sueton., in Tib., cap. 26.], che Tiberio, il quale avea preso il consolato per far onor al figliuolo, da lì a tre mesi lo rinunziò, senza sapersi finora se alcuno subentrasse console in luogo suo. Niuno probabilmente, scrivendo Dione [Dio, lib. 57.], che Tiberio, finito il suo Consolato, ritornò a Roma nè egli vi ritornò, se non alla fine dell'anno. In fatti venuta la primavera dell'anno presente, trovandosi esso Tiberio, o pure fingendo d'essere con qualche [64] incomodo di sanità, volle mutar aria, e se n'andò a Campania. Chi credette ciò fatto per lasciar al figliuolo tutto l'onore del consolato, ed altri, perchè gli cominciasse a rincrescere il soggiorno di Roma, essendogli specialmente molesta l'ambizione di Livia Augusta sua madre, che faceva di mani e di piedi per comandare anch'ella, e per dividere il governo con lui: cosa ch'egli non sapea sofferire. Parve perciò che fin d'allora egli meditasse di volontariamente esiliarsi da Roma, siccome vedremo che succedette dipoi. Turbata fu anche nell'anno presente l'Africa da Tacfarinate [Tacit., lib. 3, cap. 35.]; laonde si vide spedito colà Giunio Bleso, zio materno di Sejano, per regolar quegli affari. Tentò in questo anno Severo Cecina nel Senato di far rinnovar l'antica disciplina de' Romani, che non permetteva ai governatori delle provincie di condur seco le loro mogli. Ma Druso console e la maggior parte de' senatori furono di contrario sentimento. Pericoloso era troppo allora il lasciar le dame romane lungi dai mariti, e in loro balìa: tanta era la corruttela de' costumi. Fu anche proposto di rimediare all'abuso introdotto e troppo cresciuto, che chiunque de' malfattori e degli schiavi fuggitivi si ricoverava alle immagini o statue degl'imperadori, era in salvo. Da tanti asili proveniva la moltiplicità de' misfatti, e l'impunità de' delinquenti. Druso cominciò a far provare ad alcuni nobili rifuggiti colà il gastigo meritato dai lor delitti, e ciò con plauso universale. Nella Tracia si sollevarono alcuni di que' popoli, ed impresero anche l'assedio di Filippopoli. Convenne inviare colà a reprimerli Publio Vellejo, forse il medesimo che ci lasciò un pezzo di storia scritta con leggiadria, ed insieme con penna adulatrice. Poca fatica occorse a dissipar quella gentaglia. Neppure andò in quest'anno esente da ribellioni la Gallia. Giulio Floro in Treveri, Giulio Sacroviro negli Edui, furono i primari a commovere la sedizione in varie città, malcontente de' Romani, a cagion della gravezza [65] de' tributi e dei debiti fatti per pagarli. Restò in breve talmente incalzato Floro da Visellio Varrone e da Cajo Silio legati, o, vogliam dire, tenenti generali de' Romani, che con darsi la morte diede anche fine alla guerra in quelle parti. Più da far s'ebbe a domar Sacroviro, che, occupata la città d'Autun, capitale degli Edui, menava in campo circa quarantamila persone armate. Nulladimeno una battaglia datagli da Silio, con fortunato successo, ridusse ancor lui ad abbreviarsi di sua mano la vita. Fu in quest'anno chiamato in giudizio Cajo Lutorio Prisco cavalier romano, e celebre poeta di questi tempi, il quale avea composto un lodatissimo poema in morte di Germanico, per cui fu superbamente regalato. Avvenne che anche Druso Cesare caduto infermo fece dubitar di sua vita; laonde egli preparò un altro poema sopra la morte di lui. Guarì Druso; ma Prisco, mosso dalla vanagloria, non volendo perdere il plauso dell'insigne sua fatica, lesse quel poema in una conversazione di dame romane. Questo bastò al senato per fargliene un delitto, e delitto che fu immediatamente punito colla morte di lui: a tanta viltà d'adulazione e di schiavitù oramai era giunto quell'augusto consesso [Dio, lib. 57. Tacitus, lib. 3, cap. 50.]. S'ebbe a male Tiberio, non già perchè l'avessero condannato a morte, ma perchè aveano eseguita la sentenza, senza ch'egli ne fosse informato. E però fu fatta una legge che da lì innanzi non si potesse pubblicar nè eseguire sentenza di morte data dal senato, se non dieci giorni dappoi, acciocchè se l'imperadore fosse assente dalla città, potesse averne notizia. Teodosio il Grande, augusto, prolungò poi questo termine sino a trenta giorni per li condannati dall'imperadore, e verisimilmente ancora per le sentenze del senato.
Anno di | Cristo XXII. Indizione X. |
Tiberio imperadore 9. |
Consoli
Quinto Haterio Agrippa e Cajo Sulpicio Galba.
Questo Galba console, non so dire se padre o pur fratello fosse di Galba, che fu poi imperadore, asserendo Svetonio [Sueton., in Galba, cap. 3.] essere stato console il padre d'esso Augusto, e poi soggiugnendo che Cajo fratello d'esso imperadore, per non aver potuto conseguire il proconsolato da Tiberio, si uccise da sè stesso nell'anno 36 dell'Era nostra. Ai suddetti consoli nelle calende di luglio furono sostituiti Marco Coccejo Nerva, creduto avolo di Nerva, poscia imperadore, e Cajo Vibio Ruffino. Era cresciuto in eccesso [Tacitus, lib. 3, cap. 55.] il lusso delle nozze, ne' conviti, e per altri capi nella città di Roma, senza far più caso delle leggi e prammatiche pubblicate da Augusto, e prima d'Augusto: il che s'era tirato dietro l'aumento dei prezzi delle robe e dei viveri. Fu proposto in senato di rimediare al disordine col moderar le spese. Ma una lettera di Tiberio, che ne accennava le difficoltà, distrusse tutta la buona intenzion degli edili. Tacito nota, che si continuò in sì fatto scialacquamento fino ai tempi di Vespasiano imperadore, sotto cui cominciarono i Romani a darsi alla parsimonia, non già per qualche legge o comandamento del principe, ma perchè così facea lo stesso Augusto: tanto può a regolare e sregolare i costumi l'esempio de' regnanti. In quest'anno ancora Tiberio scrisse al senato, chiedendo la podestà tribunizia per Druso Cesare suo figliuolo, affine di costituirlo in tal maniera compagno suo nell'autorità e metterlo in istato d'essere suo successore nell'imperio. Fu prontamente ubbidito, e con giunte di novità all'onore: al che nondimeno Tiberio non consentì. Veggonsi [67] medaglie [Mediobarb., in Num. Imperator.] di Druso, nelle quali è espressa questa podestà. Motivo di lungo e tedioso esame diedero dipoi al senato gli asili delle città greche, tanto in Europa che in Asia. Ogni tempio era divenuto un sicuro rifugio d'impunità ad ogni schiavo fuggitivo, ad ogni debitore e a chiunque era in sospetto di delitti capitali. Furono citate quelle città a produrre i loro privilegii. Si trovò per la maggior parte insussistente in esse il diritto dell'asilo; e però fu moderato quell'eccesso. Infermatasi intanto gravemente Livia Augusta, conobbe Tiberio suo figliuolo la necessità di tornarsene per visitarla. Gareggiarono a più non posso i senatori, per inventar cadauno pubbliche dimostrazioni del loro affanno per vita sì cara e della comun premura per la di lei salute; studiandosi di placare gl'insensati loro dii. Andò tanto innanzi la vilissima loro adulazione, che stomacò lo stesso Tiberio in guisa ch'ebbe a dire più volte in uscir dalla curia: Oh che gente inclinata alla servitù! Nè a lui piaceano tanti sfoggi di una stima verso la sua madre, siccome maggiore incentivo alla di lei natìa superbia e voglia di dominare. Continuavano tuttavia le turbolenze dell'Africa. Tacfarinate ribello era giunto a tale alterigia, che, spediti suoi ambasciadori a Tiberio, gli avea chiesto per sè e per l'esercito suo un determinato paese da signoreggiare: minacciando, non esaudito, una fierissima guerra. Per questa ardita dimanda fumò di collera Tiberio, e mandò ordine a Bleso proconsole di tirar colle buone all'ubbidienza i sollevati, per far poscia prigione, se mai poteva, quel temerario. Grande sforzo fece per tale incitamento Bleso, e prese un di lui fratello, ma non fu già egli stesso. Di poco rilievo furono le sue imprese; contuttociò Tiberio, perchè egli era zio materno del favorito Sejano, gli fece accordare gli ornamenti trionfali. Morì in quest'anno Asinio Salonino, figliuolo d'Asinio Gallo e di Vipsania, ripudiata già da Tiberio Augusto, [68] e però fratello uterino di Druso Cesare.
Anno di | Cristo XXIII. Indizione XI. |
Tiberio imperadore 10. |
Consoli
Cajo Asinio Pollione e Lucio Antistio Vetere o sia Vecchio.
Benchè gli autori de' fasti consolari comunemente dieno ad Antistio Vetere il prenome di Cajo, pure Lucio vien da me nominato sul fondamento d'una iscrizione della mia Raccolta [Thesaurus Novus Inscript., pag. 301, n. 4.], posta Q. IVNIO BLASEO, L. ANTISTIO VETERE; dalla quale eziandio si può raccogliere che nelle calende di luglio ad Asinio Pollione fu sostituito Quinto Giunio Bleso, già da noi veduto governatore dell'Africa. Probabilmente Asinio Pollione, fratello fu del poco fa defunto Asinio Salonino. Mancò di vita sui primi mesi dell'anno presente, dopo lunga malattia Druso Cesare [Tacitus, lib. 4, c. 8.], unico figliuolo di Tiberio Augusto, giovane destinato a succedergli nell'imperio. Voce pubblica fu che un lento veleno, fattogli dare da Elio Sejano, il conducesse a morte. Tacito e Dione [Dio, lib. 58.] danno questo fatto per certo. Druso, giovane facilmente portato alla collera, non potendo digerir l'eccesso del favore di cui godea Sejano presso il padre, un dì venne alle mani con lui, e gli diede uno schiaffo, come vuol Tacito, parendo poco verisimile che il percussore fosse lo stesso Sejano, come s'ha da Dione. Questo affronto, ma più la segreta sete di Sejano di arrivare all'imperio, a cui troppo ostava l'esser vivente Druso, gli fece studiar le vie di levarlo dal mondo. Cominciò la tela, con adescar Giulia Livilla, sorella del fu Germanico Cesare e moglie d'esso Druso, traendola alle sue disoneste voglie. Dopo di che non gli riuscì difficile colle promesse del matrimonio e dell'imperio [69] a farla precipitare in una congiura contro la vita del marito. Scelto Liddo, uno degli eunuchi suoi più cari, un tal veleno gli diede che potesse parer naturale la di lui malattia. Non si conobbe allora l'iniquo manipolator di questo fatto; ma da lì ad otto anni nella caduta di Sejano, ciò venne alla luce per confessione di Apicata sua moglie. Con tal costanza nondimeno portò Tiberio la perdita del figliuolo, che i maligni giunsero fino a sospettare lui stesso complice o autore del veleno, quasichè Druso avesse prima pensato di avvelenare il padre. Neppur Tacito, benchè inclinasse ad annerir tutte le azioni di Tiberio, osò prestar fede a così inverisimil diceria. Del resto non erano tali i costumi e le inclinazioni di Druso, che i Romani internamente si affliggessero della di lui morte. Lasciò egli tre figliuoli di tenera età, ma che l'un dietro all'altro furono rapiti dalla morte, di modo che la succession dell'imperio cominciò a destinarsi ai figliuoli di Germanico. In abbondanza furono fatti onori alla memoria di Druso; ma Tiberio non ammise chi gareggiava per passar seco atti di condoglianza, affinchè non gli si rinnovassero le piaghe del dolore. E perchè da lì a non molto tempo gli ambasciadori d'Ilio, o sia di Troja, venuti a Roma [Sueton., in Tiber., cap. 52.], gli spiegarono il lor dispiacere a cagion della perdita del figliuolo, per deriderli rispose: «Che anch'egli si condoleva con loro per la morte d'Ettore,» ucciso mille e dugento anni prima.
Buone qualità avea Tiberio mostrato in addietro, e competente governo avea fatto [Dio, lib. 57.]. Già dicemmo che tolto di vita Germanico, cominciò egli a declinar al male. Peggiorò anche dopo la morte di Druso. Nondimeno a renderlo più cattivo contribuì non poco l'ambizioso e perverso Sejano, le cui mire tendevano tutte a regnar solo col tempo. Perchè gliene avrebbono impedito l'acquisto i [70] figliuoli di Germanico, nipoti per adozione di Tiberio, e raccomandati in quest'anno dallo stesso Tiberio al senato, nè poteva Sejano sbrigarsi di loro col veleno per la buona cura che avea di essi, e della propria pudicizia Agrippina lor madre: si diede a fomentar ed accrescere l'odio di Tiberio contro d'essi, e il mal animo di Livia Augusta contro d'Agrippina. Chiunque ancora de' nobili sembrava a lui capace d'interrompere i voli della sua fortuna, cominciò egli sotto vari pretesti, e massimamente di aver essi sparlato di Tiberio, a perseguitarli con accuse che in questi tempi ad alcuni, e col progresso del tempo a moltissimi costarono la vita [Tacitus, lib. 4, cap. 14.]. Succedeva talvolta che gl'istrioni, o vogliam dire i commedianti, eccedevano nell'oscenità, e tagliavano i panni addosso a determinate donne romane, o pure porgevano occasioni a risse. Tiberio li cacciò di Roma, e vietò l'arte loro in Italia. Alle persone di merito dopo morte erano state alzate alcune statue da esso Tiberio. Videsi nel presente anno questa deformità, cioè, ch'egli mise la statua di bronzo di Sejano nel pubblico teatro. L'esempio del principe servì ad altri, per esporne molte altre simili. E conoscendo già ognuno che costui era la ruota maestra della fortuna e degli affari, risonavano dappertutto le sue lodi ed anche nello stesso senato; piena sempre di nobili l'anticamera di lui; i consoli stessi frequenti visite gli faceano; nulla in fine si otteneva, se non passava per le mani di lui. Una bestialità di Tiberio vien raccontata sotto quest'anno. Un insigne portico di Roma minacciava rovina, essendosi molto inchinate le colonne che lo sostenevano [Dio, lib. 57.]. Seppe un bravo architetto con argani ed altri ingegni ritornarlo al suo primiero sito. Maravigliatosene molto Tiberio, il fece bensì pagare, ma il cacciò anche fuori di Roma. Tornato un dì costui per supplicarlo [71] di grazia, credendo di farsi del merito, gittò un vaso di vetro in terra; poi raccoltolo fece vedere che possedeva il secreto di racconciarlo. Gli fece Tiberio levar la vita, senza sapersi il vero motivo di così pazza e crudele sentenza. Scrive Plinio [Plinius, lib. 36, cap. 26.] lo stesso più chiaramente, dicendo che quel vetro era molle e pieghevole, come lo stagno, con aggiugnere nulladimeno, essere stata questa una voce di molti, ma poco creduta dai saggi.
Anno di | Cristo XXIV. Indizione XII. |
Tiberio imperadore 11. |
Consoli
Servio Cornelio Cetego e Lucio Viselio Varrone.
Ancorchè Tiberio non chiedesse al senato la confermazione della sua suprema autorità [Dio, lib. 57.], finito il decennio di essa, come usò Augusto, perchè egli non l'avea dianzi ricevuta per un determinato tempo: pure si solennizzarono i decennali del suo imperio con varii giuochi pubblici e feste. E perciocchè [Tacitus, lib. 4, cap. 16.] i pontefici e sacerdoti aveano fatto dei voti per la conservazione della vita di Tiberio, unendo anche con lui Nerone e Druso, cioè i due maggiori figliuoli del defunto Germanico, se l'ebbe a male il geloso Tiberio. Volle sapere, se così avessero fatto per preghiere o per minacce d'Agrippina lor madre; ed inteso che no, li rimandò, non senza qualche riprensione. Poscia nel senato si lasciò meglio intendere, con dire che non si avea con prematuri onori da eccitare od accrescere la superbia de' giovani per lo più sconsigliati. Sejano anch'egli non lasciava di fargli paura, ripetendo essere già divisa Roma in fazioni; una d'esse portare il nome di Agrippina; e doversi perciò prevenire maggiori disordini. Dato [72] fu quest'anno fine alla guerra, già mossa da Tacfarinate in Africa. Era proconsole di quelle provincie Publio Dolabella, e tuttochè fosse stata richiamata in Italia la legione nona che era in quelle parti, pure raccolti quanti soldati romani potè, all'improvviso assalì i Numidi, mentre sotto il comando di esso Tacfarinate stavano raccolti sotto un castello mezzo smantellato. Fatta fu strage di loro, e fra gli uccisi vi restò il medesimo Tacfarinate, per la cui morte ritornò la quiete fra que' popoli. Fu in quella azione aiutato Dolabella da Tolomeo figliuolo di Giuba, re della Mauritania. Erano dovuti al vincitore proconsole gli onori trionfali, ed egli ne fece istanza; ma non gli ottenne, perchè a Sejano non piacque di vederlo uguagliato nella lode a Bleso suo zio, predecessore di Dolabella nel governo che pure avea ricevuto quel premio, con aver operato tanto meno. A Tolomeo re fu inviato da Tiberio in dono uno scettro d'avorio, e una veste ricamata in segno del gradimento dello aiuto prestato. Perseguitò Tiberio in quest'anno alcuni de' nobili, non d'altro delitto rei che d'aver mostrato il loro amore a Germanico e a' suoi figliuoli; e ad alcuni per questo gran misfatto, tolta fu la vita, crescendo ogni dì più la crudeltà del principe, e per conseguente il comune odio contro di lui. Abbondavano allora le spie; orecchio si dava a tutti gli accusatori, e niuno era sicuro. Nelle contrade di Brindisi un Tito Cortisio, soldato pretoriano ne' tempi addietro, mosse a sedizione i servi o, vogliam dire, gli schiavi di quelle parti; e vi fu paura d'una guerra servile. Ma per la sollecitudine di Tiberio e di Curzio Lupo questore, che con un corpo di armati volò contro di loro, restò in breve estinto il nascente incendio. Hanno osservato gli eruditi [Noris, Cenotaph. Pisan., Dissert. 2, cap. 16. Blanch., in Anastas. Schelestratus et alii.] che nell'anno presente avendo Valerio Grato dato fine al suo governo della Giudea, Tiberio [73] spedì colà per procuratore e governatore Ponzio Pilato, di cui è fatta menzione nel Vangelo.
Anno di | Cristo XXV. Indizione XIII. |
Tiberio imperadore 12. |
Consoli
Marco Asinio Agrippa e Cosso Cornelio Lentolo.
Vien creduto che Cosso sia un prenome particolare della casa de' Cornelii Lentoli. Nuovo esempio dell'infelicità dei Romani, regnando il crudele Tiberio e il prepotente Sejano, si vide nel presente anno [Tacitus, lib. 4, cap. 34.]. Cremuzio Cordo, uno de' migliori ingegni de' Romani d'allora, avea composta [Dio, lib. 57.] una storia delle guerre civili di Cesare e Pompeo, conducendola anche ai tempi d'Augusto. Lo stesso Augusto l'avea letta, e, siccome principe saggio e discreto, non se n'era punto formalizzato. Ma avendo Cremuzio dipoi, forse con qualche parola, disgustato Sejano, si trovarono in quella storia dei delitti gravissimi. Egli avea lodato Bruto e Cassio uccisori di Cesare, e chiamato lo stesso Cassio l'ultimo dei Romani. Male non avea detto di Giulio Cesare, nè di Augusto, ma neppure stato era prodigo di lodi verso di loro. Fu accusato per questo nel senato, e Tiberio con occhio arcigno gli diede assai a conoscere d'essere indispettito contro di lui. Si difese egli coll'esempio di Tito Livio e d'altri scrittori e storici precedenti; ma tornato a casa, ed increscendogli di vivere sotto un sì tirannico governo, si lasciò morir di fame. Sentenziati furono al fuoco i di lui scritti; contuttociò avendone Marcia sua figliuola conservata una copia, vennero dopo la morte di Tiberio alla luce, accolti allora con ansietà maggiore dal pubblico appunto per la persecuzione sofferta dall'autor d'essi, ma a noi poscia rubati dalla voracità de' tempi. Osserva Tacito la mellonaggine di que' potenti, che mal operando non vorrebbono [74] che la memoria de' lor perversi fatti passasse ai posteri; e tutto fanno per abolirla. Ma Iddio permette ch'ella vi passi per castigare anche nel nostro mondo chi s'è abusato della potenza in danno de' popoli. Ai Ciziceni in quest'anno levato fu il privilegio di regolarsi colle proprie leggi e co' propri magistrati; e ciò perchè non avevano per anche terminato un tempio eretto ad Augusto ed avevano imprigionati alcuni cittadini romani. Le città di Spagna in questi tempi, inclinate anch'esse all'adulazione, inviarono ambasciatori a Tiberio, pregandolo di permettere che innalzassero dei templi a lui e a Livia Augusta sua madre, siccome egli avea conceduto alle città dell'Asia. Tacito mette le più belle sentenze in bocca di Tiberio [Tacitus, loc. cit.], con riferire il ragionamento di lui fatto nel senato per cui nol volle loro permettere, riconoscendo sè stesso per uno de' mortali, e bastando a lui di avere un tempio nel cuore de' senatori per l'amore e la stima che sperava da essi. Salì poi tanto alto l'ambizion di Sejano, che nel presente anno arditamente supplicò per ottenere in moglie Giulia Livilla, vedova del fu Cajo Cesare, figliuolo adottivo di Augusto, e poi del defunto Druso Cesare, e nuora del medesimo Tiberio. Quantunque fosse eccessivo il favore di Tiberio verso di lui, pure non si lasciò indurre l'astuto principe ad accordargli tal grazia: il che sconcertò forte le misure di Sejano, e lo rendè malcontento della propria per altro smoderata fortuna. Tuttavia mise in ordine altre macchine, siccome vedremo nell'anno seguente. Credono alcuni letterati [Pagius, in Critic. Baron., Stampa et alii.], che in quest'anno corresse l'anno XV dell'impero di Tiberio, enunziato da san Luca, in cui san Giovanni Batista diede principio alle sue prediche. Prendesi tal anno dal fine d'agosto dell'anno undecimo dell'Era cristiana, in cui Tiberio colla podestà tribunizia fu costituito suo collega nell'imperio d'Augusto.
Anno di | Cristo XXVI. Indizione XIV. |
Tiberio imperadore 13. |
Consoli
Cajo Calvisio Sabino e Gneo Cornelio Lentolo Getulico.
Ebbero questi consoli nelle calende di luglio per successori nella dignità Quinto Marcio Barea e Tito Rustio Nummio Gallo. V'ha chi crede non doversi attribuire il nome di Cornelio a Lentolo Getulico. Ma certamente i Lentoli soleano essere della famiglia Cornelia, come si può vedere nei Trattati dell'Orsino e Patino, e di Antonio Agostino. S'erano messi in armi [Tacitus, lib. 6, cap. 46.] alcuni popoli della Tracia, perchè non voleano sofferir che si facesse dai Romani leva di soldati nei lor paesi; negavano anche ubbidienza a Remetalce re loro. A Poppeo Sabino fu data l'incombenza di marciar contro di loro con quelle forze che potè raccogliere; e questi sì fattamente gli strinse, che per la fame e più per la sete, parte rimasero uccisi, e il rimanente se n'andò disperso. Per tal vittoria accordati furono a Sabino gli onori trionfali. Crebbero in questo anno le amarezze fra Tiberio ed Agrippina, vedova di Germanico, perchè fu condannata Claudia Pulcra, o sia Bella, cugina di lei. Parlò alto Agrippina a Tiberio, il pregò ancora di darle marito; ma egli, che temeva competenza nel governo, la lasciò senza risposta. Fu poi gran lite in Roma fra gli ambasciadori delle città dell'Asia, gareggiando cadauna per aver l'onore di alzare un tempio ad Augusto. La decision del senato cadde in favore della città di Smirna. Ritirossi nell'anno presente Tiberio nella Campania, col pretesto di andare a dedicare un tempio a Giove in Capoa, e un altro in Nola ad Augusto, morto in quella città. Suo pensiero era di non ritornar più a Roma, e così fu in fatti. Si misero tutti allora a scandagliare i motivi di questa ritirata. Chi pensò ciò avvenuto per arte [76] e suggestione di Sejano, che voleva restar solo alla testa degli affari in Roma, e seppe così ben dipingere gl'incomodi, a' quali era sottoposto il principe per tante visite, suppliche e giudizii, che l'indusse a cercar la quiete nella solitudine. Furono altri di parere, ch'egli se ne andasse, per non poter più sofferire l'ambizion di Livia sua madre, giacchè ella credeva a sè competente il far da padrona al pari di lui: cosa ch'egli non sapea digerire, ma neppure assolutamente vietare, considerando la signoria sua un dono di lei. Credettero finalmente altri, che si movesse Tiberio a tal risoluzione solamente per impulso proprio originato dall'infame sua libidine, in cui da gran tempo ero immerso, e continuava più che mai il sozzo vecchio, ma con istudiarsi di soddisfarla in segreto al che era più proprio un luogo ritirato. Si aggiungeva l'esser egli d'alta, ma gracile statura, col capo calvo e colla faccia sparsa d'ulcere, e coperta per lo più da empiastri. Hanno perciò creduto alcuni, che ciò fosse un frutto della sua sordida impudicizia, e che il morbo gallico somministrasse ancora in que' tempi un castigo, benchè raro, ai perduti dietro alle femmine prostitute. Vergognandosi egli di comparire in pubblico con sì deforme figura, parve ad alcuni di trovare in lui bastante motivo di fuggire dal consorzio degli uomini. In fatti anche dopo la morte della madre e di Sejano, si tenne egli lontano da Roma, benchè talvolta andasse burlando la gente credula, con ispargere voce del suo imminente ritorno. Pochi cortigiani volle seco Tiberio. Fra essi furono Sejano e Coccejo Nerva, personaggio pratico della giurisprudenza e probabilmente avolo di Nerva, che fu dipoi imperadore. Ad assaissimi lunari e ciarle senza fine dei Romani diede motivo la risoluzion presa da Tiberio, nè queste furono a lui ignote. Con levar la vita ad alcuni, forse anche innocenti, egli insegnò agli altri ad esaminare e censurar con più riguardo le azioni de' tiranni.
Anno di | Cristo XXVII. Indizione XV. |
Tiberio imperadore 14. |
Consoli
Marco Licinio Crasso e Lucio Calpurnio Pisone.
Il primo di questi consoli in due iscrizioni riferite dal Reinesio [Reinesius, Inscription. Class. VII, n. 10, 18.], vien chiamato MARCVS CRASSVS FRVGI. Queste iscrizioni, senz'avvedermi ch'erano già pubblicate, le ho inserite ancor io nella mia raccolta; e sono ben più da attendere, che la rapportata dallo Sponio, per conoscere il vero cognome d'esso console. Andò in quest'anno Tiberio Augusto a fissar la sua abitazione nell'amena isola di Capri, otto miglia distante da Surrento, tre dalla terra ferma, sprovveduta di porto, e solo accessibile a piccole barche, dove ritirato, con suo comodo continuò a sfogare la infame sua lussuria. Non si sa quante guardie egli menasse seco. Molto strano era nondimeno, che un imperadore soggiornasse in sì piccolo sito per dieci anni senza aver paura de' corsari, o di chi gli volesse male. Fors'egli si assicurò sulla difficoltà di approdare colà per cagion degli scogli. Pochi giorni dopo il suo arrivo un pescatore per mezzo di essi scogli penetrò nell'isola [Sueton., in Tiber., cap. 60.], e gli presentò un bel mullo o triglia, pesce allora stimatissimo. Perchè s'ebbe non poco a male Tiberio, che costui per quella difficile via fosse entrato, fece fregargli e lacerargli il volto col medesimo pesce; e buon per lui che non gli accadde di peggio. Sejano intanto non tralasciava diligenza alcuna per accendere sempre più la diffidenza e l'odio di Tiberio contro di Agrippina, vedova di Germanico, e contro di Nerone primogenito d'essa, non quello che fu poi imperadore. Secondo le apparenze dovea questo giovane principe, siccome nipote per adozione di Tiberio, succedere a lui nell'imperio. Sejano, che v'aspirava anch'egli [78] il tenea forte di vista; segretamente ancora inviava persone, che sotto specie d'amicizia il gonfiavano, esortandolo a mostrar più spirito; tale esser il desiderio del popolo romano; tale quel degli eserciti. All'incauto giovane scappavano talvolta parole, che meglio sarebbe stato il tenerle fra i denti. Tutto era riferito a Sejano, e tutto passava, forse anche con delle giunte, alle orecchie di Tiberio, con aggiungere sospetti a sospetti. Però nell'anno presente furono messi soldati alla guardia del palazzo d'Agrippina, affin di risapere chi v'andava e che vi si parlava: tutti segni funesti di maggiore strepito e della futura ruina. Accadde in quest'anno un caso quasi incredibile e sommamente lamentevole, che ha pochi pari nella storia [Tacitus, lib. 2 Annal., c. 62. Sueton., in Tiber., c. 40.]. In Fidene, città lontana da Roma cinque sole miglia, cadde in pensiero ad un uomo di bassa sfera, e neppur ricchissimo, per nome Atilio, di schiatta libertina, di fabbricare un anfiteatro di legno di gran mole, per dar al popolo lo spettacolo de' gladiatori. Siccome non v'era divertimento, di cui fossero sì ghiotti i Romani, come di questo; venuto quel dì, a folla vi corse da Roma la gente, uomini e donne d'ogni età. Ma quella macchina era mancante di buoni fondamenti, e peggio legata; però ecco sul più bello dell'azione precipitar tutto l'anfiteatro. Vi restarono soffocate o per la caduta sfracellate ventimila persone e trenta altre mila ferite in varie guise, con braccia e gambe rotte e simili altri mali, con urli e grida che andavano al cielo. Fu almeno considerabile la carità de' cittadini romani, che nelle loro case accolsero tutti que' miseri, somministrando loro vitto, medici e medicamenti, con isvegliarsi l'antico lodevol costume degli antichi, i quali così trattavano dopo le battaglie i soldati feriti. La pena data ad Atilio per la somma sua balordaggine, fu l'esilio; ed uscì un editto, che da lì innanzi non potesse [79] dare il giuoco de' gladiatori, se non chi possedeva quattrocentomila sesterzi di valsente, e che fosse approvato l'anfiteatro da intendenti architetti. A questa disavventura tenne dietro in Roma un grave incendio, che consumò tutte le case poste nel monte Celio. Tiberio all'avviso di un tal danno spontaneamente si mosse alla liberalità, inviando gran soccorso di danaro a chi avea patito: il che gli fece assai onore, e ne fu anche ringraziato dal senato.
Anno di | Cristo XXVIII. Indizione I. |
Tiberio imperadore 15. |
Consoli
Appio Giulio Silano e Silio Nerva.
Gran romore e compassione cagionò in quest'anno in Roma la caduta di Tizio Sabino, illustre cavaliere romano [Tacitus, lib. 4, c. 68. Dio, lib. 58.]. Era egli de' più affezionati alla famiglia di Germanico, praticava in casa d'Agrippina, l'accompagnava in pubblico. Sejano gli tese le reti. Latinio Laziare, d'ordine suo, s'insinuò nella di lui amicizia cominciando con amichevoli ragionamenti intorno alle afflizioni di Agrippina, e del mal trattamento a lei fatto e a' suoi figliuoli da Tiberio: del che andava mostrando gran compassione. Non potè Sabino ritenere le lagrime, e sdrucciolò in lamenti contro la crudeltà e superbia di Sejano, non la perdonando neppure a Tiberio. Con tali ragionamenti si strinse fra loro una stretta confidenza. In un giorno determinato Laziare trasse in sua casa il mal accorto Sabino, per avvertirlo di disgrazie che soprastavano ai figliuoli di Germanico. Stavano ascosi nella camera vicina tre detestabili senatori per udir tutto, ed udirono in fatti Sabino sparlar di Tiberio e di Sejano. L'accusa tosto andò al senato, ed egli imprigionato, fu nel primo dì solenne dell'anno condotto al supplicio con terrore di ognuno che [80] seppe la frode usata. Ebbe da lì innanzi ognuno sommo riguardo nel parlare del governo, nè pur attentandosi d'ascoltare, nè fidandosi d'amici, e sospettando fin delle stesse mura. Gittato il corpo di Sabino nel Tevere, un suo cane, che lo avea seguitato alla prigione, e s'era trovato alla sua morte, andò anch'esso a precipitarsi e a morire nel fiume: del che altri esempi si son più volte veduti. Plinio anch'egli parla [Plinius, lib. 8, c. 40.] della fedeltà di questo cane, ma con pretendere che fosse di un liberto di Sabino, condannato con lui alla morte. Mancò di vita in quest'anno Giulia figliuola di Giulia, e nipote d'Augusto, la quale non men della madre convinta già d'adulterio, e relegata in un'isola da esso imperadore, e sostenuta ivi da Livia Augusta, per venti anni, avea fatto penitenza de' suoi falli. Ribellaronsi in questi tempi i popoli della Frisia, per non poter sofferire i tributi loro imposti, leggeri sul principio, e poscia accresciuti dagl'insaziabili ministri colà inviati. Contra di loro marciò Lucio Apronio vicepretore della Germania inferiore con un buon corpo di armati; ma volendo perseguitarli per quel paese inondato dall'acque e pieno di fosse, vi lasciò morti circa mille e trecento de' suoi in più incontri, con gloria de' Frisj e vergogna sua. Tiberio, ancorchè dolente ne ricevesse la nuova, pure per li suoi fini e timori politici niun generale volle inviare colà. Troppa apprensione gli facea il mettere in mano altrui il comando di grossa armata. Faceva istanza il senato, perchè Tiberio e Sejano ritornassero; e in fatti vennero essi in terra ferma della Campania; e colà si portò non solamente il senato, ma gran copia della nobiltà e della plebe con ritornarsene poi quasi tutti malcontenti o dell'alterigia di Sejano, o del non aver potuto ottenere udienza dal principe. Diede nell'anno presente Tiberio in moglie a Gneo Domizio Enobarbo Agrippina, figliuola di Germanico [81] e di Agrippina, più volte da noi memorata. Da loro poi nacque Nerone, mostro fra gl'imperadori. Era già parente della casa d'Augusto questo Gneo Domizio, avendo avuto per avola sua Ottavia, sorella d'Augusto. Svetonio [Suet., in Neron., c. 5. Dio, in Neron.], parlando di costui, ci assicura ch'egli fu una sentina di vizii; e però da meravigliarsi non è, se il suo figliuolo, divenuto imperadore, non volle essere da meno del padre. Diceva lo stesso Domizio, che da lui e da Agrippina nulla potea prodursi, se non di cattivo e di pernicioso al pubblico. Convien credere che questa Agrippina juniore, ben dissomigliante dalla madre, fosse in sinistro concetto anche in sua gioventù.
Anno di | Cristo XXIX. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 1. | |
Tiberio imperadore 16. |
Consoli
Lucio Rubellio Gemino e Cajo Rufio Gemino.
Nelle calende di luglio furono sostituiti altri consoli. Ha creduto taluno, che fossero Quinto Pomponio Secondo, e Marco Sanquinio Massimo. Ma il cardinal Noris [Norisius, in epistola Consulari.] con più fondamento mostrò essere stati Aulo Plauzio e Lucio Nonio Asprenate. Certamente egli è da dubitare, che nell'assegnar i consoli sostituiti, si sieno talvolta ingannati i fabbricatori de' fasti consolari. Più d'un esempio di ciò si trova nel Panvinio. Ora sotto questi due consoli Gemini han tenuto e tengono tuttavia alcuni letterati, che seguisse la Passione del divin nostro Salvatore: opinione fondatissima, perchè assistita da una grande antichità, ed approvata da molti de' santi Padri. Se così è, a noi sia lecito di metter qui l'anno primo del pontificato di san Pietro Apostolo. Tertulliano [Tertull. contra Jud., c. 8.], autore che fiorì [82] nel secolo seguente, chiaramente scrisse, che il Signore patì sub Tiberio Caesare, Consulibus Rubellio Gemino et Rufio Gemino. Furono del medesimo sentimento Lattanzio, Girolamo, Agostino, Severo Sulpizio ed il Grisostomo. Altri poi han riferito ad alcuno degli anni seguenti un fatto sì memorabile della santa nostra religione. All'istituto mio non compete il dirne di più; e massimamente, perchè, con tutti gli sforzi dell'ingegno e della erudizione, non s'è giunto fin qui, e verisimilmente mai non si giugnerà a mettere in chiaro una così tenebrosa quistione. A noi dee bastare la certezza del fatto, poco importando l'incertezza del tempo. Sino a quest'anno era vissuta Livia, già moglie d'Augusto, e madre di Tiberio [Tacitus, lib. 5, c. 1.], appellata anche Giulia da Tacito e in varie iscrizioni, perchè dal medesimo Augusto adottata. Morì essa in età assai avanzata, con lasciar dopo di sè il concetto d'essere stata donna di somma ambizione, e non men provveduta di sagacità per soddisfarla, con aver saputo, a forza di carezze e di una allegra ubbidienza in tutto, guadagnarsi il cuore d'Augusto. Con tali arti condusse al trono il figlio Tiberio, poco amata, ma nondimeno rispettata da lui, e temuta da Sejano, finchè ella visse, pochissimo poi compianta da loro in morte. Prima che Tiberio si ritirasse a Capri [Sueton., in Tiber., c. 51.], era insorto qualche nuvolo fra lui e la madre, perchè facendo ella replicate istanze al figliuolo di aggregare ai giudici una persona a lei raccomandata, le rispose Tiberio d'essere pronto a farlo, purchè nella patente si mettesse, che la madre gli avea estorta quella grazia. Se ne risentì forte Livia, e piena di sdegno gli rinfacciò i suoi costumi scortesi ed insoffribili, i quali, aggiunse, erano stati ben conosciuti da Augusto; e, in così dire, cavò fuori una lettera conservata fin allora del medesimo Augusto, in cui si lamentava dell'aspre maniere [83] del di lei figliuolo. Ne restò sì disgustato Tiberio, che alcuni attribuirono a questo accidente la sua ritirata da Roma. In fatti nell'ultima di lei malattia neppur si mosse per farle una visita; e dappoichè la seppe morta, andò tanto differendo la sua venuta, ch'era putrefatto il di lei corpo allorchè fu portato alla sepoltura. Avendo l'adulator senato decretato molti onori alla di lei memoria, egli ne sminuì una parte, e sopra tutto comandò che non la deificassero (benchè poi sotto l'imperio di Claudio a lei fosse conceduto questo sacrilego onore) facendo credere che così ell'avesse ordinato. Neppur volle eseguire il testamento da essa fatto, e di poi perseguitò chiunque era stato a lei caro, e infin quelli ch'essa avea destinati alla cura del suo funerale.
Soleva Tiberio ad ogni morte dei suoi diventar più cattivo. Ciò ancora si verificò dopo la morte della madre, la cui autorità avea fin qui servito di qualche freno alla maligna di lui natura, e agli arditi e malvagi disegni di Sejano, con attribuirsi a lei la gloria di aver salvata la vita a molti. Poco perciò stette a giugnere in senato un'assai dura lettera di Tiberio contro Agrippina vedova di Germanico, e contro di Nerone di lei primogenito. Erano tutti i reati loro, non già di abbandonata pudicizia, non di congiure, non di pensieri di novità, ma solamente di arroganza e di animo contumace contro di Tiberio. All'avviso del pericolo, in cui si trovavano l'uno e l'altra, la plebe, che sommamente gli amava, prese le loro immagini, con esse andò alla curia, gridando essere falsa quella lettera, e che si trattava di condannarli contro la volontà dell'imperadore. Faceano istanza nel senato i senatori, venduti ad ogni voler di Tiberio, che si venisse alla sentenza; ma gli altri tutti se ne stavano mutoli e pieni di paura. Il solo Giunio Rustico, benchè uno de' più divoti di Tiberio, consigliò che si differisse la risoluzione, per meglio intendere le intenzioni [84] del principe. Di questo ritardo, e maggiormente per la commozione del popolo, si dichiarò offeso Tiberio; ed insistendo più che mai nel suo proposito, fece relegar Agrippina [Sueton., in Tiber., cap. 53.] nell'isola Pandataria, posta in faccia di Terracina e di Gaeta. Dicono che non sapendosi ella contenere dal dir delle ingiurie contro di Tiberio, un centurione la bastonò per comandamento di lui sì sgarbatamente, che le cavò un occhio. I di lei figliuoli, Nerone e Druso, benchè nipoti per adozion di Tiberio, furono anch'essi dichiarati nemici; il primo relegato nell'isola di Ponza, e l'altro detenuto ne' sotterranei del palazzo imperiale. Qual fosse il fine di questi infelici, lo vedremo andando innanzi.
Anno di | Cristo XXX. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 2. | |
Tiberio imperadore 17. |
Consoli
Lucio Cassio Longino e Marco Vinicio.
In luogo de' suddetti consoli nelle calende di luglio succederono Cajo Cassio Longino e Lucio Nevio Sordino. Qui vien meno la storia romana, essendosi perduti molti pezzi di quella di Cornelio Tacito; e l'altra di Dione si scuopre molto digiuna, perchè assassinata anch'essa dalle ingiurie del tempo. Tuttavia è da dire essere stati sì in grazia di Tiberio i due suddetti consoli ordinarii, cioè Lucio Cassio e Marco Vinicio, ch'egli da lì a tre anni diede loro in moglie due figliuole di Germanico; a Cassio Giulia Drusilla, a Vinicio Giulia Livilla. Appartiene poi a quest'anno il funesto caso di Asinio Gallo, figliuolo di Asinio Pollione, celebre a' tempi d'Augusto. Dacchè Tiberio dovette ripudiar Vipsania, figliuola d'Agrippa, sua moglie primiera, che già gli avea partorito Druso, per prendere Giulia figliuola d'Augusto, questa Vipsania si maritò col suddetto Asinio Gallo, e gli partorì dei figliuoli, i [85] quali perciò vennero ad essere fratelli uterini di Druso Cesare, ed uno d'essi era stato promosso al consolato. Ma, per testimonianza di Tacito, Tiberio mirò sempre di mal occhio Asinio Gallo per quel maritaggio. Tanto più se la prese con lui [Dio, in Excerptis Vales.], perchè osservò ch'egli facea una gran corte a Sejano, e l'esaltava dappertutto, forse credendo che costui arriverebbe un dì all'imperio, o pure cercando in lui un appoggio contro le violenze di Tiberio. Dovendo il senato inviar degli ambasciatori a Tiberio, fece egli negozio per essere un d'essi. Andò, fu ricevuto con volto ben allegro da esso Tiberio, e tenuto alla sua tavola, dove lietamente si votarono più bicchieri; ma nel medesimo tempo ch'egli stava in gozzoviglia, il senato, che avea ricevuta una lettera da Tiberio con alcune accuse immaginate dal suo maligno capriccio, il condannò, con ispedir tosto un pretore a farlo prigione. S'infinse Tiberio d'essere sorpreso all'avviso di quella sentenza, ed esortato Asinio a star di buona voglia, e a non darsi la morte, come egli desiderava, il lasciò condurre a Roma, con ordine di custodirlo sino al suo ritorno in città. Ma non vi ritornò mai più Tiberio; ed egli intanto senza servi, e senza poter parlare se non con chi gli portava tanto di cibo, che bastasse a non lasciarlo morire, andò languendo in una somma miseria, con finir poscia i suoi guai, non si sa se per la fame o per altro verso, nell'anno 33 della nostra Era, siccome attesta Tacito. Eusebio [Euseb., in Chron.], che mette la sua morte nell'anno primo di Tiberio, non è da ascoltare. Anche Siriaco, uomo insigne pel suo sapere, tolto fu di vita non per altro delitto, che per quello d'essere amico del suddetto Asinio. In quest'anno appunto scrisse la sua storia, di cui buona parte s'è perduta, Vellejo Patercolo, con indirizzarla a Marco Vinicio, uno dei [86] due consoli di quest'anno; però non merita scusa la prostituzione della sua penna in caricar di tante lodi Tiberio e Sejano. Le loro iniquità davano negli occhi di tutti; e quegl'incensi sì mal impiegati, sempre più ci convincono di che animi servili fosse allor pieno il senato e la nobiltà romana. Abbiamo da Dione, che sempre più crescendo l'autorità e l'orgoglio di Sejano, tanto più per paura o per adulazione crescevano le pubbliche e le private dimostrazioni di stima verso di lui. Già in ogni parte di Roma si miravano statue alzate in suo onore [Dio, lib. 58.]. Fu anche decretato in senato, che si celebrasse il di lui giorno natalizio. E a lui separatamente, e non più al solo Tiberio, si mandavano gli ambasciatori dal senato, dai cavalieri, dai tribuni della plebe e dagli edili. Cominciossi ancora ne' voti e sagrifizii che si facevano agli dii del Paganesimo per la salute di Tiberio, ad unir seco Sejano; si udivano grandi e piccioli giurare per la fortuna di amendue; il che era riserbato in addietro per gli soli imperadori. Non lasciava quell'astuta volpe di Tiberio, benchè si stesse nell'infame suo postribolo di Capri, d'essere informato di tutto questo; e tutto anche dissimulava, ma coll'andar intanto ruminando quel che convenisse di fare.
Anno di | Cristo XXXI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 3. | |
Tiberio imperadore 18. |
Consoli
Lo stesso Tiberio Augusto per la quinta volta, Lucio Elio Sejano.
Non ritennero Tiberio e Sejano lungo tempo il consolato, perciocchè, siccome avvertì il cardinale Noris [Norisius, Epist. Cens.], nel dì 9 di maggio subentrarono in quella dignità Fausto Cornelio Sulla e Sestidio [87] Catullino, ciò apparendo da un'iscrizione. Da un'altra ancora da me rapportata [Thesaurus Novus Inscription., pag. 302, num. 4.] apparisce il loro nome, ma con qualche mio dubbio, che SEXTEIDIVS possa essere Sex. Teidius. Il non trovar io vestigio della famiglia Sestidia, ma bensì della Tidia, mi ha fatto nascere un tal dubbio. All'uno di questi due consoli fu surrogato nelle calende di luglio Lucio Fulcinio Trione, e all'altro nelle calende di ottobre, Publio Memmio Regolo, che non era amico di Sejano, come Fulcinio Trione. Con occhi aperti vegliava Tiberio sopra gli andamenti del suo favorito Sejano, pentito ormai d'averlo tanto esaltato. Già s'era accorto che costui avea serrati i passi ai ricorsi, nè gli lasciava sapere, se non ciò ch'egli voleva. Molto più appariva che costui a gran passi tendeva al trono col deprimere i suoi nemici, e guadagnarsi ogni dì più amici e clienti. E giacchè il senato e il popolo erano giunti ad eguagliarlo a lui in più occasioni, ed all'incontro ben sapea Tiberio d'essere poco amato, anzi odiato dai più dei Romani; preso fu da gagliardo timore, che potesse scoppiar qualche gran fulmine sopra il suo capo. Abbiamo ancora da Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.] che Antonia madre di Germanico e di Claudio, che fu poi imperadore, spedito a Capri Pallante suo fidatissimo servo, diede avviso a Tiberio della congiura tramata da esso Sejano coi pretoriani e con molti senatori e liberti d'esso Tiberio, di maniera che egli restò accertato del pericolo suo. Ma come atterrare un uomo sì ardito e intraprendente, e giunto a tanta possanza? La via di prevenirlo tenuta da quell'astuto vecchio, fu quella di sempre più comparir contento ed amante di Sejano, e di colmarlo di nuovi onori, per più facilmente ingannarlo. Il creò console per l'anno presente, e affine di maggiormente onorarlo, prese seco il consolato. [88] Scrisse anche al senato con raccomandargli questo suo fedele ministro. Potrebbe chiedersi, perchè nol facesse strozzare in Capri, e come mai per abbatterlo il facesse salire al consolato, cioè ad una dignità che aumentava non solo il di lui fasto, ma anche la di lui autorità e potere. Quanto a me vo' credendo, ch'egli non s'attentasse nè in Capri nè in Roma di fargli alcun danno, finchè costui era prefetto del pretorio, cioè capitan delle guardie imperiali, il che vuol dire di un corpo di gente consistente in dieci mila de' migliori soldati fra i Romani, ed abitante unito in Roma. Allorchè Tiberio volea farsi ben rispettare e temere dai consoli e senatori, alla lor presenza dava la mostra ai pretoriani. Ma anche a lui faceano essi paura, perchè comandati da Sejano, e ubbidienti a' di lui cenni; ed esso Augusto era attorniato da sì fatte guardie anche in Capri. Adunque con crear Sejano console, ed inviarlo a Roma, se lo staccò dai fianchi, disegnando di torgli a suo tempo la carica di prefetto del pretorio, per conferirla a Nevio Sertorio Macrone.
Dopo pochi mesi gli fece dimettere il consolato, allettandolo intanto colla speranza d'impieghi e premii maggiori [Dio, lib. 58.], cioè di associarlo nella podestà tribunizia, grado sicuro alla succession dell'imperio, e di dargli moglie di sangue cesareo, verisimilmente Giulia Livilla, figliuola di Germanico. E perciocchè Sejano, dappoichè ebbe deposto la trabea consolare, facea istanza di tornarsene in Capri, per seguitar ivi a far da padrone; Tiberio il fermò con dar ad intendere a lui, e spacciar dappertutto, che fra poco voleva anch'egli tornarsene a Roma. Ne' mesi seguenti andò Tiberio fingendo ora esser malato, ora di star bene, e sempre venivano nuove ch'egli si preparava pel viaggio. Talor lodava Sejano, ed altre volte il biasimava. In considerazione di lui facea delle grazie [89] ad alcuni de' suoi amici, ed altri pure amici di lui maltrattava con varii pretesti: tutto per raccogliere segretamente col mezzo delle spie, quali fossero i sentimenti e le inclinazioni del senato e del popolo. Non andò molto che al non vedersi ritornar Sejano a Capri e all'osservar certi segni di rallentato amore di Tiberio verso di lui, molti cominciarono a staccarsi con buona maniera da lui, e calò non poco il suo credito anche presso del popolo. Ma Sejano, tra perchè non gli parea di mirar l'animo di Tiberio alienato punto da sè, e perchè Tiberio conferì a lui e a suo figliuolo in questo mentre l'onore del pontificato, non pensò, siccome avrebbe potuto, a far novità alcuna. Fu poi ben pentito di non l'aver fatto, allorchè era console. Nulladimeno viveva egli con delle inquietudini e con dei sospetti; e strano gli parve che avendo Tiberio con una lettera recato avviso al senato della morte di Nerone, figliuolo primogenito di Germanico e di Agrippina, e suo nipote per adozione, niuna lode, come era usato di fare, avesse fatta del medesimo Sejano. Relegato, siccome già dissi, questo infelice principe nell'isola di Ponza, finì quivi nell'anno presente la sua vita: chi disse per la fame, e chi perchè essendo in sua camera il boja per istrangolarlo, egli da sè stesso si uccise. Certo fu anch'egli vittima della crudeltà di Tiberio.
Ora informato abbastanza Tiberio, che l'affezion del senato e popolo verso Sejano non era quale si figurava egli in addietro, volle passar all'ultimo colpo, ma tremando per l'incertezza dell'esito. Nella notte precedente il dì 18 di ottobre comparve a Roma Macrone, segretamente dichiarato prefetto del pretorio, e ben istruito di quel che s'avea da fare, mostrando di venir per altro negozio; e fu a concertare gli affari con Memmio Regolo, l'uno de' consoli, perchè l'altro, cioè Fulcino Trione, era tutto di Sejano. La mattina per tempo andò al tempio [90] di Apollo, dove s'avea da unire il senato, ed incontratosi a caso con Sejano, che non era per anche entrato, fu richiesto se avesse lettere per lui. Si annuvolò non poco Sejano all'udire che no; ma avendolo tratto in disparte Macrone, e dettogli che gli portava la podestà tribunizia, tutto consolato ed allegro andò a seder nella curia. Macrone intanto, chiamati a sè i soldati pretoriani, una buona mano de' quali facea sempre corteggio e guardia a Sejano, mostrò loro le sue patenti di prefetto del pretorio, e in luogo d'essi alla guardia del tempio distribuì le compagnie dei vigili, comandate da Gracino Lacone consapevole del segreto. Entrato egli poscia colà, presentò una lettera molto lunga, ma ingarbugliata, di Tiberio. Non parlava egli seguitatamente contro di Sejano, ma sul principio trattava di un differente affare; andando innanzi, si lamentava di lui; poi ritornava ad altro negozio; e quindi passava a dir male di Sejano, conchiudendo in fine, che si facessero morir due senatori molto confidenti di lui, e Sejano fosse ritenuto sotto buona guardia. Non si attentò di dire che il facessero morire, perchè temeva che si svegliasse qualche tumulto da' suoi parziali. Confusi ed estatici rimasero i più de' senatori ad ordini tali, perchè già preparati a far de' complimenti ed elogi a Sejano per la promessa a lui podestà tribunizia. Sejano stesso avvilito senza muoversi dal suo luogo, senza mettersi ad aringare (il che se avesse fatto, forse altrimenti passava la faccenda) pareva insensato; e chiamato tre volte dal console Memmio Regolo, non si movea, siccome usato a comandare, e non ad ubbidire. Entrato intanto Lacone colle coorti de' vigili, l'attorniò di guardie e il menò prigione. Niun movimento fecero i pretoriani, perchè Macrone li tenne a freno, con ispiegar loro la mente del principe, e promettere ad essi alcuni premii per ordine del senato. Si mosse bensì la plebe al mirare quel sì dianzi [91] orgoglioso ministro condotto alle carceri, prorompendo in villanie e bestemmie senza fine, e poi corse ad abbattere e strascinar tutte le statue a lui poste, giacchè non poteano infierir contro la persona di lui [Tacitus, lib. 6, c. 25.]. Raunatosi poi nel medesimo giorno 18 di ottobre il senato nel tempio della Concordia, veggendo che i pretoriani se ne stavano quieti, e intendendo qual fosse il volere del popolo, condannarono a morte Sejano; e la sentenza fu immediatamente eseguita col taglio della testa. Accorsa la plebe gittò giù per le scale gemonie il di lui cadavere, e dopo essersi per tre dì sfogata contra d'esso, facendone grande scempio, lo buttò in Tevere. Anche due suoi figliuoli, l'uno maschio e l'altro femmina, per ordine del senato furono privati di vita; ma perchè insolita cosa era il far morire una fanciulla, il carnefice, prima di strozzar quell'infelice, le tolse l'onore in prigione. Apicata moglie di Sejano, benchè non condannata, si diede la morte da sè stessa, dopo aver messo in iscritto il tradimento fatto dal marito e da Livilla a Druso Cesare.
Intanto batteva forte il cuore a Tiberio nell'isola di Capri per sospetto che non riuscisse bene la meditata impresa; ed avea ordinato che, per fargli sapere il più presto possibile la nuova, si dessero segnali da' luoghi alti, frapposti tra Roma e Capri; salì egli in quel dì sul più eminente scoglio dell'isola, aspettando quivi il lieto avviso. Per altro aveva egli preparato delle barchette, affinchè, se il bisogno l'avesse richiesto, potesse ritirarsi in sicuro con esse ad alcuna delle sue armate. Scrivono eziandio, aver egli dato ordine a Macrone, che qualora fosse insorta qualche fiera sedizione in Roma, cavasse dalle carceri Druso figliuolo di Germanico, e il presentasse al senato ed al popolo, con dichiararlo anche imperadore a nome suo. Il fine della tragedia di Sejano fu poi principio d'altre gravi turbolenze, che sconcertarono non [92] poco il senato e la nobiltà romana. Il popolo già commosso, a qualunque dei favoriti di Sejano, che gli cadesse nelle mani, levava la vita. Anche i pretoriani sdegnati si misero a saccheggiare e bruciar delle case. Cominciarono poi dei duri processi contro dei senatori e d'altri nobili, che più degli altri s'erano fatti conoscere parziali di Sejano. Molti furono condannati, e con ignominiosa morte puniti; altri relegati; ed altri da sè stessi si abbreviarono la vita. Tutto era pieno di accusatori, e si rivangavano i processi e le condanne, gastigando chi avea giudicato come per istigazion di Sejano. Si tenne per certo, che le tante adulazioni del senato verso il medesimo Sejano, e gli onori straordinari a lui vilmente accordati, contribuissero non poco ad ubbriacarlo e farlo precipitare. Però lo stesso senato decretò che in avvenire si procedesse con gran moderazione in onorar altrui, nè si potesse giurare se non pel nome dell'imperadore. Contuttociò nel medesimo tempo volle esso senato concedere a Macrone il grado di pretore, e a Lacone quel di questore, oltre ad un regalo in danari; ma essi, addottrinati dal recente esempio, nulla vollero accettare. Incredibil fu la gioja di Tiberio, allorchè si vide sbrigato da Sejano. Ciò non ostante, la sua mirabil politica gl'insegnò di non ammettere all'udienza sua alcuno de' tanti senatori e cavalieri che erano corsi o erano stati spediti dal senato, per significargli la fortunata riuscita dell'affare. E il console Regolo, che l'avea in ciò ben servito, fu costretto a tornarsene indietro senza poterlo vedere. Si figuravano molti, che liberato Tiberio dal giogo, dai mali ufizj e da' sospetti di Sejano, avesse da lì innanzi da fare un governo dolce. Troppo s'ingannarono: sempre più egli imperversò. E giacchè era venuto in cognizione, per la deposizion sopraccennata della moglie di Sejano, degli autori della morte di Druso suo figliuolo, contro d'essi ancora con tutto rigore [93] procedette; e la primo a provarne la pena, fu la stessa Livilla che lasciatasi sovvertir da Sejano, avea tradito il consorte Druso. Scrive Dione [Dio, lib. 58.] d'aver inteso da alcuni, che Tiberio non la facesse morire in grazia di Antonia madre di lei, e di Claudio che fu poi imperadore; ma che la medesima sua madre quella fosse, che la privò di vita con lasciarla morir di fame.
Anno di | Cristo XXXII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 4. | |
Tiberio imperadore 19. |
Consoli
Gneo Domizio Enobarbo e Marco Furio Camillo Scriboniano.
Il primo di questi consoli, marito di Agrippina figliuola di Germanico, siccome già dissi, ebbe per figliuolo Nerone, che divenne poi imperadore. Al secondo de' consoli, che mancò di vita nel consolato, fu sostituito Aulo Vitellio. Non si sa intendere, perchè Svetonio [Suetonius, in Vitellio, cap. 2.], allorchè scrisse, essere nato sotto questi consoli Marco Salvio Ottone, uno de' susseguenti imperadori, chiamasse Camillo Arruntio il collega di Domizio Enobarbo: e che parimente si trova ne' fasti d'Idacio e del Cuspiniano. Forse fu sostituito a Vitellio, o Vitellio a lui. Parve bene [Dio, lib. 58.], che Tiberio volesse por fine ai processi e condanne degli amici di Sejano, con permettere ancora ad alcuni il lutto per la di lui morte; ma poco durò questo barlume d'indulgenza, ed egli più che mai continuò la persecuzione, trovando allora altre accuse ancora d'incesti e di parricidii, per levar la vita a chi non godea di sua grazia. Crebbe perciò cotanto l'universal odio contro di lui, che il poter divorare le di lui carni, sarebbe sembrato un gustoso cibo ad ognuno. Fece anche il timore di lui crescere l'adulazion [94] nel senato. Costume era in addietro che nelle calende di gennaio, un solo leggesse gli ordini di Tiberio con giurar d'osservarli: al che gli altri acconsentivano. Fu creduto maggior ossequio e finezza che cadauno prestasse espressamente quel giuramento. Inoltre per far conoscere a Tiberio, quanto cara lor fosse la vita di lui, decretarono che egli scegliesse chi de' senatori fosse a lui in grado, e che venti d'essi colle spade servissero a lui di guardia quando egli entrava nel senato. Trovò Tiberio assai ridicolo un tal decreto; e quantunque ne rendesse loro grazie, pure non l'approvò, perchè non essendogli ignoto d'essere in odio al senato, non era sì pazzo da voler permettere intorno alla sua persona di sì fatte guardie armate. E da lì innanzi molto più attese a conciliarsi l'amore de' soldati pretoriani, per valersene occorrendo contro il senato. Avea proposto Giunio Gallione che esso senato accordasse un privilegio a quei che avessero compiuto il termine della lor milizia. Tiberio, perchè non gli piacea che le genti militari fossero obbligate se non a lui solo, mandò in esilio lo stesso Gallione fuori d'Italia, e poscia il richiamò per metterlo a penare sotto la guardia de' magistrati, dacchè intese aver egli meditato di passare a Lesbo, dove sarebbe troppo deliziosamente vivuto. Raccontano Tacito [Tacitus, Annal., lib. 6, cap. 2. Dio, ibid.] e Dione che in quest'anno furono processati altri nobili per l'amicizia di Sejano; e fra gli altri fu punito Latinio Laziare che, siccome abbiam veduto di sopra, coll'usare un tradimento a Tizio Sabino, fu cagion di sua morte. Fra gli accusati nondimeno miracolosamente la scappò netta Marco Terenzio. Il suo reato consisteva nel solo essere stato amico di Sejano. Lo confessò egli francamente, e con egual coraggio difese il fatto, mostrando ch'egli così operando avea onorato Tiberio nel suo favorito; e se Tiberio, signor così saggio, s'era ingannato in dispensar tante grazie [95] a chi n'era indegno meritavano bene scusa gl'inferiori, caduti nel medesimo inganno. Nè doversi aver l'occhio all'ultimo giorno di Sejano, ma bensì ai sedici anni della di lui potenza, durante il qual tempo chi non volea perire, dovea studiarsi d'essere a lui caro. E però chiunque volesse condannar chi non avea fallato in altro che in amare ed onorar Sejano, verrebbe nello stesso punto a condannar Tiberio. Fu assoluto, nè Tiberio se l'ebbe a male.
Fu creduto daddovero in quest'anno ch'esso Tiberio tornasse a Roma [Tacitus, ibidem. Sueton., in Tib., c. 72.]; imperciocchè da Capri venne nella Campania, e poscia continuato il viaggio sino al Tevere, quivi imbarcatosi, arrivò agli orti della Naumachia presso Roma, dove oggidì si vede il monistero delle moniche de' santi Cosma e Damiano. Erano disposti sulla ripa del fiume corpi di guardia, acciocchè il popolo non se gli accostasse. Ma non entrò in città, senza che se ne sapesse il motivo, e se ne tornò poco dappoi a Capri. Altro non seppe immaginar Tacito, se non che fosse tirato colà del suo mal genio, per poter nasconder entro quello scoglio il fetore delle immense sue laidezze. Non è certamente permesso ad onesta penna il rammentare ciò ch'esso Tacito e Svetonio non ebbero difficoltà di propalare della detestabil libidine di quell'infame vecchio. Basterà a me di dire che nel postribolo di Capri si praticarono ed inventarono tutte le più sozze maniere della sensualità [Sueton., cap. 43.] che faceano orrore allora ad orecchie pudiche. E a tale stato giunse un principe di Roma pagana, ma senza che ce ne abbiamo a stupire, perchè non conoscevano i Romani d'allora se non degli dii compagni della medesima sensualità; e per altro Tiberio era di coloro che poco conto facevano de' medesimi, ne punto li temevano. Del solo tuono egli avea paura, e correva a mettersi in testa la corona d'alloro, per la credenza [96] che quelle foglie fossero rispettate dai fulmini. Morì in quest'anno Lucio Pisone, prefetto di Roma, che per venti anni con lode avea esercitata quella carica, e in ricompensa del suo merito il senato gli decretò un pubblico funerale. In luogo suo fu posto da Tiberio Lucio Elio Lamia, il quale, nell'anno seguente, diede anch'egli fine a' suoi giorni. Morì parimente quest'anno Cassio Severo, oratore di gran credito, ma portato sempre alla satira, e a lacerar la riputazione delle persone illustri. Per questo mal genio era stato relegato da Augusto nell'isola di Creta, e poscia nella picciola di Serifo, dove in estrema povertà, senza avere neppur uno straccio da coprir le parti vergognose, terminò il suo vivere.
Anno di | Cristo XXXIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 5. | |
Tiberio imperadore 20. |
Consoli
Lucio Sulpicio Galba e Lucio Cornelio Sulla Felice.
Galba, primo dei consoli porta il prenome di Lucio in una iscrizione riferita dal cardinal Noris, e da me inserita nella mia raccolta [Thesaur. Nov. Inscription., p. 303, n. 1.]. In un'altra iscrizione che si legge nel Tesoro di Grutero, il suo prenome è Servio: che così s'ha da intendere il SER. abbreviato degli antichi, e non già Sergio, come ha creduto taluno. Ma è lecito di sospettare, che nell'iscrizion gruteriana sia stato mutato il prenome di Lucio in Servio, perchè ben si sa che Galba imperadore, cioè il medesimo che fu console in quest'anno, era chiamato Servio Galba. Ma Svetonio [Sueton., in Galba, cap. 4.] chiaramente scrive di lui: Lucium pro Servio usque ad tempus imperii usurpavit: il che giustifica quanto ha il marmo del Noris, e fa con fondamento temere della corruttela nell'altro. Tacito e Dione [97] diedero a Galba console quel prenome ch'egli usò fatto imperadore; senz'avvertire ciò che Svetonio avvertì. Nelle calende di luglio a Galba fu sostituito nel consolato Lucio Salvio Ottone creduto da alcuni figliuolo di Tiberio Augusto, cotanto se gli rassomigliava nel volto. Da questo console nell'anno precedente era nato Ottone, che fu poi imperadore di pochi mesi. Volle far conoscere Tiberio in quest'anno ai senatori [Tacitus, Annal., lib. 6.], quanto egli poco si fidasse di loro, e che in breve era per venire a Roma; cioè scrisse chiedendo che qualora egli entrava nel senato, fosse permesso a Macrone capitan delle guardie del pretorio d'accompagnarlo con alcuni tribuni e centurioni della milizia. Tosto fu decretato che potesse menar seco quanta gente voleva. Erano tuttavia serrati nelle carceri, Druso, figliuolo di Germanico e nipote per adozion di Tiberio, ed Agrippina di lui madre. Avea più volte Tiberio fatto condurre questi infelici da un luogo ad un altro, sempre incatenati e in una lettiga ben serrata [Suetonius, in Tiber., cap. 64.], e con guardie che faceano allontanar tutti i viandanti. Doveva egli paventar sempre qualche risoluzione, e che avesse da correre il popolo a sprigionar quell'infelice principe. Saziò poi il suo furore in quest'anno con far morire di fame Druso. La savia Agrippina diede anch'essa fine al suo vivere, senza apparire, se mancasse per non volere il cibo, o pure perchè il cibo le fosse negato [Dio, lib. 58.]. Furono i lor corpi non già portati nel mausoleo d'Augusto, ma sì segretamente seppelliti, che mai non se ne seppe il sito. Tutta Roma si riempiè di dolore e lutto, ma solamente nell'interno delle persone, per sì compassionevol fine della famiglia di Germanico, principe tanto amato da ognuno. Eppur bisognò che il senato rendesse grazie a Tiberio dell'avviso datogli della morte di Agrippina, [98] predicata da lui per sua nemica e adultera, quando era notissima la di lei insigne onestà; ed inoltre convenne decretare che essendo morta nel medesimo dì che Sejano fu ucciso, cioè nel di 18 d'ottobre, da lì innanzi in quel giorno si facesse un'offerta a Giove in rendimento di grazie per la morte dell'uno e dell'altra.
Restava solo in vita dei figliuoli di Germanico Cajo Caligola [Tacit., lib. 6, cap. 20.], giovinetto di costumi sommamente malvagi, ma provveduto di tanto senno da farsi amare da Tiberio. Sapea coprir con finta modestia l'animo suo inclinato alla crudeltà; non gli scappò mai una parola di dispiacere o lamento per l'esilio e per la morte dei fratelli e della madre; ed ottenne per grazia di poter accompagnare Tiberio a Capri, studiandosi quivi di comparir sempre con vesti simili a quelle di lui, e d'imitare per quanto poteva le di lui maniere di parlare; di modo che di lui, divenuto poscia imperadore, ebbe a dire Passieno oratore: «Non esservi stato mai nè miglior servo, nè peggior signore di lui.» Contrasse il medesimo Cajo, di consenso di Tiberio in quest'anno gli sponsali con Claudia o Claudilla figliuola di Marco Silano. Sotto il detestabil governo di Tiberio, gran voga intanto aveano in Roma gli spioni e gli accusatori, parte volontari, parte suscitati dal principe stesso. Bastava per lo più l'accusare, perchè ne seguisse il condannare. Fioccavano in senato i libelli contro delle persone, e moltissimi inviati dal medesimo Tiberio che col braccio del senato andava facendo vendette, e pascendo I' avarizia sua colla morte e col confisco dei beni de' condannati. A parecchi nobili toccò ancor nell'anno presente la disavventura stessa; e massimamente ai senatori, tanti de' quali a poco a poco andò egli levando dal mondo, che non si poteano più provvedere i governi delle provincie [Tacitus, ibid., cap. 49. Dio, eod. lib. 58.]. Fra l'altre più memorabili [99] ingiustizie commesse in quest'anno degna è di menzione l'usata da Tiberio contro di Sesto Mario, da lungo tempo suo amico che, col favore principesco, giunto era ad essere il più ricco gentiluomo della Spagna. Avendo egli una figliuola di bellissimo aspetto, per timore che Tiberio non gliela facesse rapire, come solito era con altri, la trafugò in luogo dove fosse sicura. Avvertitone dalle sue spie Tiberio, fece accusar amendue d'incesto, e gittar giù della rupe tarpeja i lor corpi, con far sue le immense ricchezze dell'infelice Mario. Tacito racconta molti altri spettacoli di somiglianti crudeltà accadute in quest'anno, senza che mai si saziasse il genio sanguinario di Tiberio. Strano bensì parve ai più del popolo, ch'egli in un certo dì facesse morire tutti i principali spioni ed accusatori, e proibisse a tutte le persone militari il far questo infame uffizio, benchè lo permettesse ai senatori e cavalieri. Ma si può ben credere ciò fatto per comparire disapprovatore di que' maligni stromenti, dei quali si serviva la stessa di lui malignità per far tanto male al pubblico. Erano eziandio cresciute a dismisura le usure in Roma; e contro dei debitori furono in quest'anno portate istanze ed accuse assaissime al senato; nè piccolo era il numero di coloro che, ascondendo la pecunia d'oro e d'argento, ne faceano scarseggiare la città. Si vide allora un prodigio di Tiberio. Mise egli nel banco della repubblica una gran somma d'oro e d'argento, da prestarsi a chiunque ne abbisognasse, e desse idonea sigurtà, senza che per tre anni ne pagassero frutto: azione applaudita da ognuno, ma che non fece punto sminuire il comune odio contro del tiranno. Ad Elio Lamia prefetto di Roma defunto succedette in quell'uffizio Cosso, per attestato di Tacito e Seneca [Seneca, epist. 81.]. E Marco Coccejo Nerva, giurisconsulto insigne di questi tempi, ed uno del consiglio di Tiberio, non potendo più, siccome [100] uomo giusto, tollerar le iniquità di quel mostro, se ne liberò con lasciarsi morir di fame: nè per quante preghiere gli facesse Tiberio, per saper la cagione di tal risoluzione, e per tenerlo in vita, volle mutare il fatto proponimento.
Anno di | Cristo XXXIV. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 6. | |
Tiberio imperadore 21. |
Consoli
Paolo Fabio Persico e Lucio Vitellio.
A questi consoli ordinari si crede che ne succedessero nelle calende di luglio due altri [Dio, lib. 58.], de' quali si è perduto il nome. E ciò perchè avendo questi ultimi consoli celebrato l'anno ventesimo compiuto dell'imperio di Tiberio, fecero anche dei voti agli dii pel decennio venturo, come fu in uso a' tempi d'Augusto. Quella gelosa bestia di Tiberio, che avea preso l'imperio non per dieci, nè per venti anni, ma finchè a lui piacesse, parendogli che volessero far conoscere, che la di lui potestà dipendea dall'arbitrio del senato, fece accusarli tutti e due e condannarli, e pare che fosse anche abbreviata immediatamente loro la vita. Questo Persico probabilmente è quello stesso che fu mentovato da Seneca [Seneca, de benefic., lib. 2, cap. 21.], per uomo di cattiva riputazione. Ma nulla di un fatto tale, che avrebbe fatto più strepito di tant'altri, si ha presso Tacito, il qual pure accenna le morti di molti altri di dignità inferiore. Dione stesso attribuisce quei voti e quell'innocente fallo ai consoli ordinari; e pure noi sappiam da Svetonio [Sueton., in Vitellio, c. 2.], che Lucio Vitellio, console nel presente anno e padre di Aulo Vitellio che fu poi imperadore, dopo il consolato ebbe il governo della Soria, e campò molto dappoi. Parimente di Fabio Persico, sopravvissuto, s'ha memoria presso [101] Seneca [Seneca, lib. 2 et 4 de Benefic.]. Però la credenza dei consoli sostituiti, e fors'anche il fatto narrato da Dione può patire dei dubbi. Non mancarono all'anno presente le sue funeste scene, cioè molte condanne e morti d'uomini illustri, avvenute per la crudeltà di Tiberio e per la prepotenza di Macrone prefetto del pretorio; il quale imitando le arti di Sejano ma più copertamente, si abusava anch'egli della sua autorità e del favore del principe [Dio, lib. 58. Tacit., lib. 4, cap. 19.]. Pomponio Labeone, dopo essere stato pretore di Mesia per otto anni, accusato d'essersi lasciato corrompere con danari, tagliatosi le vene, si sbrigò da questa vita: ed altrettanto fece sua moglie. Era anche stato in governo Marco, ossia Mamerco Emilio Scauro, nè già era incolpato di cattiva amministrazione, quantunque vergognosi fossero i suoi costumi. Macrone, che l'odiava, trovò la maniera di precipitarlo, con presentare a Tiberio una di lui tragedia intitolata Atreo, in cui oltre al parlarsi di parricidio, uno era esortato a tollerar la pazzia del regnante; è con fargli credere che sotto nome altrui si sparlasse di lui. Di più non ci volle per far processare Scauro, il quale, senz'aspettar la condanna, si privò da sè stesso di vita, nè da meno di lui volle essere la moglie sua. Costumavasi allora dagli etnici romani di darsi iniquamente la morte da sè medesimi, perchè i corpi de' condannati non era lecito il seppellirli, e i lor beni andavano al fisco; laddove prevenendo la sentenza, loro non si negava la sepoltura: e sussistendo i testamenti, agli eredi pervenivano i loro beni. Fra coloro eziandio che furono accusati si contò Lentulo Getulico, stato già console nell'anno di Cristo 26. Altro a lui non veniva imputato, se non che avesse trattato di dare una sua figliuola in moglie a Sejano. Ma fu buon per questo personaggio ch'egli allora si trovasse in Germania al comando di [102] quelle legioni che l'amavano forte per le sue dolci maniere. Dicono ch'egli scrivesse animosamente una lettera a Tiberio, con ricordargli che non per elezione propria, ma per consiglio di lui stesso, avea cercato di far parentela con Sejano. Essersi ben egli ingannato nel procacciarsi l'amicizia di quell'uomo indegno; ma che niuno più d'esso Tiberio avea amato Sejano: nè essere perciò conforme alla ragione che il comun fallo fosse innocente per lui, e peccaminoso per gli altri. Pertanto riflettendo al pericolo di nuocere a chi aveva l'armi in mano, e poter rivoltarsi, giudicò meglio il desistere dall'impresa; e per lo contrario fece condannar e cacciare in esilio Abudio Rufo, cioè l'accusatore di Lentulo Getulico. Videsi in questo anno in Grecia un giovane [Dio, lib. 58.], che spacciatosi per Druso figliuolo di Germanico, trovò di molti aderenti in quelle contrade; e se gli riusciva di passare in Soria, a lui si sarebbe verisimilmente unito quell'esercito. Ma preso da Pompeo Sabino governator della Macedonia, fu inviato a Tiberio. Tacito scrive [Tacit., lib. 5, c. 10.] ciò avvenuto tre anni prima, quando era tuttavia vivente lo stesso Druso in prigione: il che, se fosse vero, potrebbe questo avvenimento aver dato impulso alla morte del medesimo Druso. Da esso Tacito fu ancora scritto che nel presente anno si lasciò veder di nuovo dopo alcuni secoli l'augello Fenice nell'Egitto, con rapportarne la mirabil genealogia. A simili favole oggidì non si presta fede. Plinio e Dione mettono due anni dappoi lo scoprimento di questo non mai più risorto uccello.
Anno di | Cristo XXXV. Indizione VIII. |
Pietro Apostolo papa 7. | |
Tiberio imperadore 22. |
Consoli
Cajo Cestio Gallo e Marco Servilio Moniano.
Si celebrarono in quest'anno [Dio, lib. 58.] le nozze di Cajo Caligola, nipote per adozione di Tiberio, con Claudilla, figliuola di Marco Silano, in Anzo. V'intervenne lo stesso Tiberio, non avendo voluto neppure per occasion sì propria lasciarsi vedere in Roma, perchè non gli piacea di trovarsi presente alle sanguinarie esecuzioni, che ivi tuttavia si continuavano d'ordine di lui, non mai sazio di perseguitare chiunque fu stretto d'amicizia con Sejano. Fin qui aveva egli sofferto Fulcinio Trione, che fu console nell'anno della caduta del medesimo Sejano, anzi la buona gente il riputava molto favorito da lui. Ora solamente era per iscoppiare il fulmine sopra di lui; ma ciò presentito da Trione, si uccise colle proprie mani dopo aver fatto un testamento, in cui vomitò quante ingiurie potè contra di Tiberio e di Macrone, e dei liberti della corte. Non si attentavano gli eredi suoi di pubblicare un sì obbrobrioso scritto. Avutane contezza Tiberio, volle che si portasse e leggesse nel senato per guadagnarsi il plauso di principe sofferente dell'altrui libertà, giacchè punto non si curava della propria infamia, nè che si scoprissero le iniquità da lui commesse per mezzo di Sejano, ben sapendo che non erano cose ignote al pubblico. Uso certamente suo fu il non mai volere che si occultassero i libelli infamatorii fatti contra di lui, parendo quasi che riputasse sue lodi le sue vergogne. Altri senatori ed altri nobili, annoverati da Tacito [Tacitus, lib. 6, c. 38.] e da Dione, o per mano propria o per quella del carnefice terminarono in [104] quest'anno la lor vita; ed uno fra gli altri merita d'essere rammentato, cioè Poppeo Sabino, poco fa da noi veduto, che dopo il consolato, per ventiquattro anni avea governato la Macedonia, l'Acaia e le due Mesie, e col darsi la morte schivò il giudizio. Soggiornava in questi tempi Tiberio in vicinanza di Roma, per poter più speditamente aver il piacere d'intendere l'esecuzione de' suoi tirannici comandamenti [Tacitus, l. 6, c. 31. Dio, lib. 58.]. Fu allora, che vennero a Roma alcuni nobili Parti, segretamente, cioè senza saputa del re loro Artabano, per chiedere a Tiberio Fraate, figliuolo del fu Fraate re. Era montato Artabano in gran superbia, dacchè la vecchiaia di Tiberio, e il suo abborrimento alla guerra, aveano scemata in molti la stima e paura dell'armi romane. Essendo mancato di vita Zenone o sia Artassia, già creato dai Romani re dell'Armenia, Artabano avea occupato quel regno, e messovi Arsace, uno dei suoi figliuoli, per re, con assalir dipoi la Cappadocia, e minacciar anche di peggio i Romani. Inimicossi oltre a ciò i suoi colla soverchia alterigia, e lor diede ansa che ricorressero a Tiberio. Fu dunque mandato Fraate in Soria per isperanza che i Parti si moverebbero in favore di lui; ma perchè v'andò con poca fretta, ebbe tempo Artabano di premunirsi, e Fraate ammalatosi morì. Non lasciò Tiberio per questo di accudire agli affari dell'Armenia, e costituito Lucio Vitellio, cioè il padre di Vitellio, che fu col tempo imperadore, per generale dell'armata romana in Levante, mosse anche i re d'Iberia e i Sarmati contra di Artabano. Lasciatisi corrompere i ministri di Arsace, già divenuto re dell'Armenia, tolsero a lui la vita; ed entrate in quel paese le truppe dell'Iberia sotto il comando del re Farasmane, presero Artasata capitale del regno. Allora Artabano spedì Orode altro suo figliuolo contra di Farasmane con parte delle sue forze [Joseph., Antiq. Judaicarum, lib. 18, c. 6.]. I Parti, [105] benchè inferiori di gente, vollero battaglia; ma o sia che Orode vi fosse ucciso, o che la nuova ch'egli fosse ferito passasse in credenza di morte, la vittoria si dichiarò per Farasmane, al cui fratello Mitridate re dell'Iberia fu conceduta l'Armenia. Diedesi dipoi una seconda battaglia da Artabano, ma svantaggiosa anch'essa per lui; e perchè nello stesso tempo seppe che Lucio Vitellio coll'armi romane si accingeva a passar l'Eufrate per entrar nella Mesopotamia, abbandonato ogni pensier dell'Armenia, si ritirò alla difesa del proprio paese. Era allora l'Eufrate il confine tra l'imperio romano e il partico o sia persiano.
Anno di | Cristo XXXVI. Indizione IX. |
Pietro Apostolo papa 8. | |
Tiberio imperadore 23. |
Consoli
Sesto Papinio Allenio e Quinto Plautio.
Non è ben chiaro, se Lucio Vitellio, fabbricato un ponte sull'Eufrate, coll'esercito romano passasse in questo o nel precedente anno in Mesopotamia. Certo è bensì che passò, e all'arrivo suo i primati de' Parti si scoprirono allora alienati dall'ossequio verso del re Artabano [Tacitus, lib. 6, c. 42.], e congiunsero le loro armi coi Romani. Trovavasi con Vitellio anche Tiridate, parente del defunto re Fraate. Veduta così bella disposizion dei Parti in suo favore, per consiglio di Vitellio, prese il cammino alla volta di Seleucia, città potente, che gli aprì con gran festa le porte, ed Artabano, veggendosi abbandonato de' suoi, se ne fuggì. Intanto Vitellio, contento di aver fatta la sua sparata con far conoscere a que' popoli la possanza romana, e credendo già assicurato il regno a Tiridate, se ne tornò colle sue legioni in Soria. Fu coronato Tiridate in Ctesifonte, capitale del regno dei Parti. S'egli avesse proseguito il corso di sua fortuna con visitar tutto il paese, e ridurre chiunque titubava alla [106] sua fede, interamente il regno sarebbe stato di lui. Ma essendosi egli impegnato nell'assedio di un castello, dove Artabano avea ridotto il tesoro e le concubine sue, alcuni di que' grandi, che non erano intervenuti alla coronazione o per paura di Tiridate, o per invidia che portavano ad Abdagese, ministro favorito di lui, andarono a trovar Artabano per rimetterlo sul trono. S'era questi ritirato nell'Ircania, dove da povero uomo vivea, guadagnandosi il vitto con la caccia. Credette egli a tutta prima che fossero venuti costoro per assassinarlo. Rassicurato da essi, e presa seco una mano di Sciti, si mise con loro in cammino, e trovata la gente che senza difficoltà tornava alla sua divozione, ingrossato di forze, s'indirizzò verso Seleucia. Stette in forse Tiridate, se dovea andargli incontro per dargli battaglia. Prevalse l'opinion dei dappoco, il primo de' quali era il medesimo Tiridate; e però egli si ridusse in Soria, con isperanza che l'esercito romano avesse da prestargli aiuto per ricuperare il perduto regno, di cui con tutta facilità Artabano ripigliò il possesso. Vitellio non volle altro impegno, ed all'incontro Artabano diventò più che mai orgoglioso, e poco mancò che non portasse la guerra nel territorio romano. Non è inverisimile, che questo fosse il tempo in cui egli scrisse una lettera di fuoco a Tiberio [Sueton., in Tiber. cap. 66.], rinfacciandogli la sua crudeltà, la vergognosa libidine e la poltroneria, ed esortandolo ad appagar prontamente l'odio universale e giustissimo de' popoli con darsi la morte da sè medesimo.
Due disavventure afflissero Roma nell'anno presente, cioè una fiera inondazione del Tevere, per cagione di cui in molte parti della città fu necessario l'andar colle barche, e un incendio che guastò gran copia di case nel monte Aventino e la metà del Circo [Tacitus, lib. 6, cap. 45. Dio, lib. 58.]. Tiberio in questa occasione, dimenticata [107] l'innata sua avarizia, sovvenne con abbondanza d'oro al bisogno di chiunque avea patito. Che per altro amava Tiberio di conservare e d'accrescere il suo tesoro, nè si sa che egli lasciasse alcuna fabbrica insigne, fuorchè il tempio innalzato ad Augusto, e la scena del teatro Pompeo. E neppur queste, se crediamo a Svetonio, le perfezionò. Non passò l'anno presente, senza che si vedessero le usate scene delle accuse e della crudeltà di Tiberio contra de' nobili. Cajo Galba, già console e fratello di chi fu dipoi imperadore, due Blesi ed Emilia Lepida prevennero, con darsi la morte, i colpi del carnefice. Vibuleno Agrippa, cavalier romano, accusato, prese in faccia del senato il veleno che portava in un anello. Caduto a terra moribondo, e strascinato alle carceri, fu quivi frettolosamente strozzato per occupargli i beni. Tigrane, già re dell'Armenia [Tacitus, lib. 6, c. 40. Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.], e nipote del fu Erode re della Giudea, detenuto allora in Roma, ed accusato, lini anch'egli i suoi giorni per mano del pubblico ministro. Trattenevasi in Roma allora anche suo fratello Agrippa, ed avea contratta una famigliarità sì grande con Cajo Caligola, nipote per adozion di Tiberio, che pareano due fratelli. Racconta Giuseppe storico, che essendo un dì amendue a divertirsi condotti in un cocchio, Agrippa per adular Cajo gli disse, essere ben tempo che quel vecchio di Tiberio cedesse il luogo a lui, perchè allora tornerebbe la felicità in Roma. Furono ascoltate queste parole da Eutico liberto d'Agrippa, che gli serviva di carrozziere; e perciocchè costui, per aver fatto un furto al padrone, fu imprigionato, allora si lasciò intendere d'aver qualche cosa da rivelare attinente alla conservazion della vita dell'imperatore. Fu perciò inviato a Capri, dove era Tiberio, e tenuto un pezzo nelle catene senza esaminarlo. Lo stesso Agrippa stoltamente tanto si adoperò, che Tiberio [108] trovandosi nel settembre di questo anno a Tuscolo, oggidì Frascati, vicino a Roma, fece venir Eutico, il quale alla presenza d'Agrippa rivelò quanto avea udito nel giorno suddetto. Ordinò immantinente Tiberio a Macrone capitan delle guardie di far incatenare Agrippa, a cui non valsero nè le negative, nè le suppliche per esentarsi da quell'obbrobrio. Stette egli nelle carceri tanto che Tiberio finì di vivere, ed allora ne uscì, siccome vedremo fra poco [Dio, lib. 58.]. Un augurio della morte d'esso Tiberio fu dai superstiziosi Romani creduta quella di Trasullo, succeduta nell'anno presente [Tacit., lib. 6, cap. 21.]. Costui era il più favorito astrologo ed indovino che si avesse Tiberio; imperciocchè oltre modo si dilettò questo imperadore della strologia giudicaria, arte piena di vanità e d'imposture, che egli stesso condannava in casa altrui. E quantunque scrivano Tacito, Svetonio e Dione, che Tiberio, per mezzo di essa, predicesse a Galba il suo corto imperio, e la morte del giovinetto Tiberio suo nipote per ordine di Caligola, e ch'egli sapesse ciò che doveva avvenire a sè stesso in cadauna giornata: simili racconti più sicuro è il crederli dicerie del volgo. Allorchè Tiberio stette come esiliato in Rodi, studiò forte quest'arte, che in que' tempi era spacciata dai Caldei dappertutto. Quanti professori capitavano a Rodi, Tiberio, accompagnato da un solo robusto liberto, li conduceva in un alto scoglio, e metteali alla prova d'indovinargli il passato o l'avvenire. Se non ci coglievano, dal liberto erano precipitati in mare, senza che alcuno ne avesse contezza. Trasullo capitato colà, fu menato da Tiberio in que' dirupi, e gli predisse l'imperio; ma soggiungendo Tiberio che gli sapesse dire anche l'anno e il giorno della propria natività, s'imbrogliò l'indovino, e confessò tremando di non saperlo, ma che ben sapea d'essere imminente la propria morte. Tra [109] per la buona nuova dell'imperio, e la conoscenza del pericolo in cui si trovava costui, Tiberio l'abbracciò, e il tenne dipoi sempre in sua corte. Perchè la morte di costui facesse credere vicina quella di Tiberio, qualche predizione di cui si dovea essere intesa.
Anno di | Cristo XXXVII. Indizione X. |
Pietro Apostolo papa 9. | |
Cajo Caligola imperad. 1. |
Consoli
Gneo Acerronio Procolo e Cajo Petronio Pontio Negrino.
Ho aggiunto il nome di Petronio al secondo di questi consoli, perchè una iscrizione, riferita dal Fabretti [Fabret., Inscript., p. 674.], fu posta CN. ACERRONIO PROCVLO, C. PETRONIO PONTIO NIGRINO COS. In vece di Negrino egli è appellato Negro da Svetonio [Suet., in Tiber., c. 73.], siccome ancora una inscrizione da me data alla luce [Thesaurus Novus Inscription., p. 303, n. 2.]. Sino alle calende di luglio durò la dignità di questi consoli. Appresso diremo a chi pervennero i fasci consolari. Anche nei primi mesi dell'anno presente si continuarono in Roma le accuse contra d'altre persone nobili; e perchè non erano accompagnate da lettere di Tiberio, credute furono manipolazioni di Macrone prefetto del pretorio, imitator di Sejano, e forse peggiore. Fra gli altri Lucio Arruntio, personaggio illustre, già stato console, non si potè impedir dagli amici, che, tagliatesi le vene, non si desse la morte, allegando che un vecchio par suo non sapea più vivere, battuto in addietro da Sejano ed ora da Macrone; e massimamente non essendo da sperare miglior tempo sotto il successor di Tiberio, che anzi prometteva peggio, e sarebbe governato dal medesimo Macrone; siccome in fatti avvenne. Intanto, dopo essersi fermato Tiberio alcuni mesi nei [110] contorni di Roma senza mai volervi entrare, o perchè non si fidava de' Romani, o perchè qualche impostore gli avea predette delle disgrazie entrandovi, o pure perchè non voleva tanti occhi addosso alla sua scandalosa vita, determinò di tornarsene alla sua cara isola di Capri. Finora, benchè giunto all'età di settantotto anni, e benchè perduto in una nefanda lascivia, avea conservata la rubustezza del corpo, ed una competente sanità, camminava diritto come un palo, senza volersi servire di medicine, e con fare il medico a sè stesso: giacchè solea dire che l'uomo giunto all'età di trent'anni, non dee più aver bisogno di medici per saper ciò che conferisca o sia nocivo alla sanità. Ma egli si ritrovò infine sorpreso da una lenta malattia, arrivato che fu ad Astura [Sueton., in Tiber., c. 72.]. Potè nondimeno continuare il viaggio sino a Miseno [Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50.], celebre porto, dissimulando sempre il suo male, e non men di prima banchettando con gli amici. Deluso dal suo poco prima defunto strologo Trasullo, che gli avea predetto anche dieci altri anni di vita, tenea per lontanissima tuttavia la morte. Fu creduto che Trasullo con buon fine il burlasse con quella predizione, acciocchè persuaso di vivere sì lungo tempo, non si affrettasse a far morire tanti nobili ch'egli avea in lista. E certo non pochi si salvarono per questo saggio ripiego, e fra essi alcuni già condannati, perchè ne' dieci giorni di vita che si lasciavano loro dopo la sentenza, arrivò la nuova della morte di Tiberio.
Fingeva dunque, secondo lo stile della sua dissimulazione, Tiberio di sentirsi bene, tuttochè aggravato dal male, e ridotto a fermarsi nella villa e nel palazzo che fu di Lucullo. Ma Caricle medico insigne, e da lui amato, non già perchè volesse de' medicamenti da lui, ma per li suoi consigli, destramente nel congedarsi da lui gli toccò il polso e conobbe che s'avvicinava al suo fine. Ne [111] avvisò Macrone, e questi sollecitamente cominciò a disporre le cose per far succedere Cajo Caligola nell'imperio. Tre persone viveano discendenti in qualche guisa da Augusto, e però capaci di succedere a Tiberio, cioè esso Caligola figliuolo di Germanico, nato [Sueton., in Caligula, cap. 8.] nell'anno 12 dell'Era volgare, e però nel fiore di sua età. Questi, avendo Tiberio adottato Germanico di lui padre, veniva perciò ad essere di lui nipote legittimo. Ma egli era di pessima inclinazione, violento, e tendente anche alla follia; e se n'era facilmente accorto Tiberio, di modo che un dì ridendosi Cajo di Silla, celebre nella storia romana, Tiberio gli disse: «A quel ch'io veggo, tu sei per avere tutti i vizii di Silla, ma niuna delle sue virtù.» L'altro era Tiberio Gemello, figliuolo di Druso, cioè del figlio naturale dello stesso Tiberio, così appellato perchè nato con un altro fratello da Livilla nel medesimo parto. Ma non avea che diciassette anni, e però non per anche capace di governare un sì vasto imperio. Il terzo era Tiberio Claudio, fratello del suddetto Germanico, in età bensì virile, ma di poca testa, e di niun concetto fra i Romani. Discordano gli autori in dire chi fosse eletto da Tiberio per suo successore. Giuseppe storico racconta un fatto, che ha ciera di favola [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 18.]. Cioè che Tiberio, incerto qual dei due de' suddetti suoi nipoti avesse egli da eleggere, ne rimise la decisione al caso, con destinare di preferir quello che la mattina seguente fosse il primo ad entrar in sua camera; e questi fu Caligola, a cui poscia raccomandò il giovinetto Tiberio, quantunque scrivano che per astrologia antivedesse che Cajo Caligola gli dovea levare la vita. Altri [Dio, lib. 58.] hanno detto che Tiberio non antepose il suo natural nipote, perchè la scoperta amicizia di Livilla di lui madre gli fece dubitare se fosse veramente figliuolo di Druso suo [112] figlio. Tuttavia pare che si accordino Filone Ebreo [Philo, de Legation. Sueton., in Tiber., c. 76.], Svetonio e Dione in dire, che Tiberio in due suoi testamenti lasciò egualmente eredi Caligola e il giovane Tiberio.
Ora Cajo Caligola, per assicurarsi di prendere la fortuna pel ciuffo, facea la corte a Macrone, potentissimo ufficiale, perchè capitano delle guardie, cioè di diecimila soldati che erano il terrore di Roma. Nè men sollecito era a farla ad Ennia Nevia di lui moglie; anzi fu creduto che passasse tra loro un'infame corrispondenza, e di ciò non si mettesse pena Macrone, giacchè anch'egli dal suo canto avea dei motivi di guadagnarsi l'affetto di Cajo, perchè parea più facile che in lui cadesse l'imperio. Però parlava sempre bene di lui a Tiberio, scusandone i difetti, in guisa che un dì Tiberio gli rimproverò questo grande attaccamento a Cajo con dirgli «d'essersi ben avveduto ch'egli abbandonava il sole d'Occidente, per seguitare il sole d'Oriente.» Era cresciuto il male di Tiberio [Dio, lib. 58. Tacitus, lib. 6, c. 50. Sueton. in Tiber., c. 73.], ed avea già patito alcuni sfinimenti. Gliene arrivò uno specialmente nel dì 16 di marzo così gagliardo, che fu creduto morto. Caligola uscì del palazzo; a folla corsero i cortigiani a rallegrarsi con lui: quand'ecco esce uno di corte, che riferisce essere tornato in sè Tiberio, e chiedere da mangiare. Allora spaventati, chi qua, chi là, colla testa bassa sfumarono. Cajo senza poter parlare, più morto che vivo ricorre a Macrone. Ma questi, nulla atterrito, sa ben trovar tosto la maniera di calmare l'altrui spavento. Non van d'accordo gli scrittori nel dirci, come Tiberio si sbrigasse dal mondo. Seneca, citato da Svetonio, scrisse che o sia che Tiberio si sentisse venir meno, o che la sua famiglia l'avesse abbandonato, come è succeduto in tanti altri casi di principi morti senza parenti, chiamò; e niuno rispondendo, si alzasse dal letto, [113] e poco lungi di là caduto, spirasse. Raccontano altri, che Cajo Caligola gli avesse dato un lento veleno che l'uccise. Altri, che sotto pretesto di riscaldarlo, Macrone gli facesse metter addosso di molti panni che il soffocarono; ovvero che gli negasse da mangiare, e il lasciasse morire per mancanza d'alimento. Finalmente scrissero altri, che veggendo Caligola [Sueton., in Cajo, cap. 12.] come Tiberio non la volea finir da sè stesso, lo strangolasse con le sue mani, o pure con uno origliere o sia guanciale gli turasse la bocca, e il facesse ammutolire per sempre. Comunque fosse, morì Tiberio nel suddetto giorno 16 di marzo. Dione scrive nel dì 26. O dell'uno o dell'altro il testo è mancante. Così cessò di vivere questo imperadore, dotato di grande ingegno, ma per servirsene solamente in male; che finchè ebbe paura d'Augusto e di Germanico, nipote e figliuolo suo adottivo, stette in dovere; che simulatore e dissimulator sopraffino si mostrò delle false virtù, ma poi si abbandonò in fine a tutti i vizii; che divenne abbominevole per l'infame sua libidine, ma più per le sue crudeltà ed ingiustizie; che niuno amava fuorchè sè stesso, che fu udito chiamar felice Priamo, per essere morto dopo aver veduti morti tutti i suoi.
Non tardò Cajo Caligola ad avvisare il senato dell'essere Tiberio mancato di vita, con dimandare ancora che decretassero al medesimo gli onori divini. Ma Tiberio era troppo odiato; e siccome il popolo romano a questa nuova diede in risalti d'allegrezza, così commosso andava lacerando la di lui memoria con tutte le maledizioni, e gridando al Tevere, al Tevere, cioè il di lui corpo. Di questa commozione si servì il senato per sospendere la risoluzion degli onori a Tiberio; e Cajo venuto poi a Roma, più non ne parlò. Portato a Roma il cadavere di Tiberio, fu bruciato secondo il costume d'allora; e con poca pompa seppellito. Cajo fece l'orazione funebre; [114] ma con poco encomio di lui, impiegando le parole piuttosto in esaltare Augusto e Germanico suo padre. Già si è detto, quanto fosse amato dai Romani esso Germanico per le sue rare virtù, e Cajo appunto per essere di lui figliuolo, comunemente era amato, giacchè non si erano per anche dati a conoscere se non a pochi tutti i suoi vizii e difetti, che si trovarono poi innumerabili. All'incontro, per l'odio d'ognuno contra di Tiberio, era anche odiato Tiberio Gemello, natural nipote di lui. E però a Cajo non fu difficile l'essere riconosciuto e confermato per imperadore, e il fare che dal senato fosse cassato il testamento di Tiberio, per cui egualmente lasciava ad esso Cajo e Tiberio Gemello l'amministrazion dell'imperio. Così restò egli solo imperadore [Sueton., in Caj., cap. 14. Dio, lib. 59.] colla podestà tribunizia e coll'autorità ed arbitrio di far tutto, siccome attesta Svetonio, benchè non usasse subito i titoli usati dai due precedenti Augusti. Piena d'ammirazione e di giubilo rimase Roma tutta al vedere con che mirabili e plausibili maniere Caligola desse principio al suo governo; senza riflettere che diversa dal mattino suol essere la sera di molti regnanti. Caligola, dissi, che così era volgarmente chiamato con soprannome a lui dato, allorchè fanciullo trovandosi all'armata in Germania, Germanico suo padre il facea vestir da semplice soldato, e portare gli stivaletti, chiamati Caligae, e usati allora nella milizia. Divenuto poi imperadore riputò egli come ingiurioso e degno di gastigo un tal soprannome; e perciò dagli storici vien mentovato per lo più col nome di Cajo. Affettò dunque Cajo sulle prime di comparir popolare, siccome abbiamo da Svetonio e da Dione; poichè, per conto di Tacito, periti seno i libri suoi, che trattavano della vita di questo iniquissimo principe, e dei primi anni del suo successore. Eseguì egli pontualmente tutti i legati lasciati da Tiberio, e quegli ancora, che Livia Augusta nel suo testamento [115] avea ordinato; ma che l'ingrato suo figliuolo Tiberio non avea mai voluto pagare. Diede subito la mostra alle compagnie de' soldati del pretorio, con isborsar a tutti il danaro lasciato lor da Tiberio, ed aggiugnerne altrettanto per ispontanea munificenza. Pagò parimente al popolo romano l'insigne donativo di danaro ordinato da Tiberio colla giunta di sessanta denari per testa, ch'egli non avea potuto pagare, allorchè prese la toga virile, e inoltre quindici altri a titolo di usura pel ritardo. Finalmente a tutti gli altri soldati di Roma, e alle guardie notturne, cioè ai vigili, e alle legioni fuori d'Italia, e ad altri soldati mantenuti nelle città minori, sborsò cinquecento sesterzii ai primi, e trecento agli altri per testa.
Mellifluo fu in un certo giorno il suo ragionamento ai senatori con dir loro, dopo aver toccati tutti i vizii del defunto Tiberio, di volerli a parte nel comando e governo, e che farebbe tutto quanto paresse loro il meglio, chiamandosi lor figliuolo ed allievo. Richiamò gli esiliati, liberò tutti i prigioni, e fra gli altri Quinto Pomponio, tenuto in quelle miserie per sette anni, dopo il suo consolato. Annullò ogni processo criminale, con bruciar anche i libelli lasciati da Tiberio. Queste prime azioni gli guadagnarono un gran plauso, massimamente perchè fu creduto ch'egli fosse per mantener la parola, che in quell'età il suo cuore andasse d'accordo con la lingua. Volle tosto il senato far dimetter il consolato a Procolo e Negrino per conferirlo a lui; ma egli ordinò che continuassero in quella dignità, secondochè era dianzi stabilito, sino alle calende di luglio, nel qual tempo poscia fu egli dichiarato console, ed amò di aver per collega Tiberio Claudio suo zio, che fin qui era stato tenuto in basso stato e nell'ordine de' soli cavalieri, a cagion della debolezza del suo capo. Nelle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] Cajo si trova intitolato CAJVS CAESAR AVGVSTVS [116] GERMANICVS: ed in altre vi si aggiunge DIVI AVGVSTI PRONEPOS. Fece ancora risplendere l'amor suo verso de' suoi, con dare il titolo d'Augusta e di sacerdotessa d'Augusto ad Antonia avola sua e madre di Germanico, e col concedere alle sue sorelle i privilegi delle Vestali, e posto presso di sè negli spettacoli. A Tiberio Gemello, nipote di Tiberio, diede il titolo di Principe della Gioventù, e di più l'adottò per suo figliuolo. Andò in persona alle isole Pandataria e Ponza a cercar le ceneri d'Agrippina sua madre, e di Nerone suo fratello; e con funebre magnificenza portatele a Roma, le collocò nel mausoleo d'Augusto, con determinare in onore e memoria d'essi esequie e spettacoli annuali. Stava tuttavia fra le catene [Joseph., Antiq. Jud., lib. 18. Dio, lib 59.] Agrippa, nipote di Erode il grande re della Giudea, quando restò liberata Roma dal ferreo giogo di Tiberio. Cajo, essendosene tosto ricordato, siccome amico suo caro, mandò ordine al prefetto di Roma di trasferirlo dalla carcere alla casa dove abitava prima; e da lì a pochi giorni fattoselo condurre davanti con abito mutato, gli mise in capo un diadema, dichiarandolo re, e sottomettendo a lui la Tetrarchia, già posseduta da Filippo suo zio, morto poco fa, con aggiugnervi l'altra di Lisania, restando la Giudea come prima sotto l'immediato governo dei Romani. Restituì ancora ad Antioco il regno della Comagene colla giunta della Cilicia marittima. Di gloria medesimamente fu a Cajo l'aver cacciato fuori di Roma que' giovinetti che faceano l'infame mercato de' lor corpi; e poco vi mancò che non li mandasse a seppellir nel Tevere. Ordinò che si cercassero e pubblicamente si potessero leggere le storie soppresse di Tito Labieno, Cordo Cremuzio e Cassio Severo. Ai magistrati lasciò libera la giurisdizione, senza che si potesse appellare a lui. Dalle provincie d'Italia levò il dazio del centesimo denaro che si pagava per tutte le cose vendute all'incanto. Sotto [117] Tiberio, principe d'umor tetro, le pubbliche allegrie, i giuochi, gli spettacoli erano divenuti cose rare. Cajo non tardò a rimetter tutto in uso, e con grande accrescimento: cose tutte stupendamente applaudite dal popolo [Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.]. Dopo aver tenuto il consolato per due mesi, lo rinunziò ai due consoli destinati da Tiberio. Il nome loro non è noto. Stimò il Pighio, che fossero Tiberio Vinicio Quadrato e Quinto Curzio Rufo. Se di queste maravigliose azioni di Cajo Caligola si rallegrasse Roma, veggendo un aspetto sì bello con tanta differenza dal precedente sanguinario governo, non è da chiederlo. Talmente si rallegrò quel popolo a sì gran mutazione di scena, che, per testimonianza di Svetonio, nei tre mesi seguenti dopo la morte di Tiberio, cento sessantamila vittime furono svenate in rendimento di grazie ai loro falsi dii. Ma durò ben poco questo ciel sì ridente, siccome nell'anno seguente apparirà. Artabano re de' Parti, che in addietro odiò forte Tiberio, udita la di lui morte, se ne rallegrò e diede tosto adito ad un trattato di pace. Scrive Dione ch'egli stesso ricercò l'amicizia di Cajo. Ma Svetonio e Giuseppe Ebreo raccontano, che fu Vitellio governator della Soria il promotore di quell'accordo per ordine di Cajo. Seguì in fatti fra esso re e Vitellio un magnifico abboccamento in un ponte fabbricato sull'Eufrate, e quivi fu conchiusa la pace con condizioni onorevoli per gli Romani.
Anno di | Cristo XXXVIII. Indizione XI. |
Pietro Apostolo papa 40. | |
Cajo Caligola imperadore 2. |
Consoli
Marco Aquilio Giuliano e Publio Nonio Asprenate.
Era già cominciato nel precedente anno un impensato cambiamento di vita e di massime nel da noi osservato finora [118] sì amorevole e grazioso Cajo Caligola. Rapporterò io qui ciò che accadde allora e nel presente anno ancora [Dio, lib. 59.]. I conviti, le crapole ed altre dissolutezze di una vita sensuale, a cui si abbandonò di buon'ora questo nuovo imperadore, cagion furono ch'egli cadde nel mese d'ottobre sì gravemente malato, che si dubitò di sua vita [Philo, in Legatione ad Cajum.]. Appena si riebbe, che di volubile, qual era dianzi, cominciò a comparir stranamente agitalo da vari e fieri capricci, quasi che la mente sua per la sofferta malattia avesse patito qualche detrimento, con peggiorar da lì innanzi di maniera, che Roma, sì maltrattata sotto Tiberio cattivo, senza paragone sotto questo pessimo maestro divenne teatro di calamità. Aveano fatto i Romani delle pazzie pel tanto desiderio ch'egli superasse quel malore, perchè dopo aver Cajo dato sì glorioso principio al suo governo, si figurava ciascuno riposta tutta la pubblica felicità nella conservazione della di lui vita. Due persone fra l'altre, cioè Publio Afranio Potito, uomo popolare, ed Atanio Secondo, cavaliere, fecero voto, l'uno di dar la propria vita, se egli ricuperava la salute, l'altro di combattere fra i gladiatori, con esporsi al pericolo della morte, purchè Caligola guarisse. Guarito ch'egli fu, d'inesplicabile giubilo si riempiè tutta la città. Ma non tardò molto a cangiarsi scena. La prima sua strepitosa iniquità quella fu di levar di vita Tiberio Gemello, nipote legittimo e naturale di Tiberio Augusto, e da lui adottato per figliuolo, con obbligarlo ad uccidersi da sè stesso; perciocchè Cajo sì scrupoloso era, che non potea permettere a chicchessia di torre la vita al nipote di un imperadore. Per iscusa di questa crudeltà addusse l'essere egli stato accertato, che il giovinetto Tiberio si era rallegrato della sua infermità, ed avea desiderata la sua morte. Passò oltre il suo bestial capriccio con esigere, che chi avea fatto voto della vita, per salvare la sua, [119] eseguisse la promessa, affinchè non rimanessero con lo spergiuro in corpo.
Fece in quest'anno Cajo alcune azioni che piacquero al popolo [Dio, lib. 59.], perchè restituì alla plebe il suo diritto ne' comizii per l'elezione de' magistrati che Tiberio avea ristretto nei senatori: il che ebbe poco effetto. Ordinò che pubblicamente si rendessero i conti delle rendite e spese della repubblica: regolamento dismesso sotto Tiberio. Essendo sminuito forte l'ordine de' cavalieri, lo ristorò con ascrivere ad esso molti scelti dalla nobilità delle città dell'imperio, purchè ben imparentati, e sufficientemente ricchi, concedendo loro anche de' privilegi. Con decreto del senato diede a Soemo il regno, o sia principato dell'Arabia Iturea; a Cotys l'Armenia minore, e poscia alcune parti dell'Arabia. Concedette ancora una parte della Tracia a Rimetalce, e il Ponto a Polemone, figliuolo del re Polemone; esercitando in tal guisa la giurisdizione romana sopra que' lontani paesi, ed affezionando quei re al romano imperio. Non furono già di questo tenore altre sue azioni nell'anno presente. Già dicemmo ch'egli per opera di Macrone prefetto del pretorio avea ottenuto l'imperio. Perchè quest'uomo, per altro cattivo, osava di parlargli con qualche franchezza [Philo, in Legatione ad Cajum.], forse per ritenerlo dall'esecuzione de' suoi malnati appetiti; Cajo, che non voleva più aver sopra di sè dei maestri, dallo sprezzo passò alla risoluzione di levarlo dal mondo, dopo avergli promesso il governo dell'Egitto. Macrone prevenne il carnefice con darsi da sè stesso la morte; e non meno di lui fece Ennia Nevia sua moglie, quella medesima, con cui Caligola avea tenuta, per quanto fu creduto, una pratica disonesta. Parve ad ognuno troppo nera l'ingratitudine di lui verso persone tali; e più indegno si riputò il delitto apposto loro dal medesimo imperadore, con chiamarli ruffiani, quando in lui ricadeva questo reato. [120] Suocero d'esso Cajo era Marco Giunio Silano, già stato console, uomo di gran nobiltà, di gran senno, e primo nel senato a dire il suo parere, allorchè regnava Tiberio. Sua figliuola Giunia Claudilla maritata con Caligola non per anche imperadore, era, per attestato di Dione [Dio, lib. 59.], stata ripudiata. Tacito [Dio, lib. 59. Tacit., Annal., lib. 6, c. 46.] la dice morta in breve, forse di parto. A questo illustre personaggio tali affronti fece Cajo, che l'indusse, secondo l'empio stile d'allora, a darsi la morte da sè stesso. Di ciò parla Dione all'anno precedente. Abbiamo anche da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae.] e da Seneca, che Caligola volle dar l'incombenza d'accusar Silano a Giulio Grecino, senatore di rara probità, che compose alcuni libri dell'Agricoltura, menzionati anche da Plinio, e che fu padre di Giulio Agricola, la cui vita scritta da Tacito è pervenuta ai nostri giorni. Generosamente se ne scusò egli, e per questa bella azione meritò che il crudele Caligola il facesse morire. Racconta Seneca [Seneca, de Benefic., lib. 2, c. 21.] di questo Grecino, che mancandogli il denaro per celebrar de' giuochi pubblici, Fabio Persico, probabilmente quello stesso che fu console nell'anno 34 della nostra Era, ma uomo screditato, gliene mandò ad esibire una buona somma. La rifiutò Grecino, e agli amici che il biasimavano di questo, rispose: «Come vorreste voi ch'io ricevessi dei danari da uno, con cui mi vergognerei anche di stare a tavola?»
Quanta fosse la corruzion de' costumi in Roma pagana per questi tempi, sarebbe facile il mostrarlo. Caligola anch'egli ne lasciò degl'infami esempli [Sueton., in Cajo, cap. 24.]. Tre sorelle avea egli, cioè Drusilla, Agrippina e Livilla. Con tutte e tre, o vergini o maritate, disonestamente conversò. Sopra l'altre amò Drusilla, a cui tolto avea l'onore giovinetto. Era essa stata dipoi maritata con Lucio Cassio Longino, che fu console. Caligola gliela [121] tolse, e la tenne e trattò da legittima consorte. Dione [Dio, lib. 59.], non so come, la fa moglie (forse in seconde nozze) di Marco Lepido, notando nondimeno anch'egli l'obbrobrioso commercio del fratello con essa. Fu costei in quest'anno rapita dalla morte, verisimilmente verso il fine di luglio. Caio n'ebbe a impazzire, e cadde in istravaganze ridicole. Dopo un solennissimo funerale e lutto pubblico, fece decretare ad essa gli onori dati a Livia Augusta, e deificarla e alzarle dei templi; e si trovò un senator sì vile, cioè Livio Geminio, che con giuramento affermò di aver veduta Drusilla salire al cielo, e ne riportò un buon regalo da Caio. Seneca anch'egli si rise di costui. Oltre a ciò come forsennato all'improvviso si partì da Roma, fece un viaggio nella Campania, arrivò sino a Siracusa, e poi frettolosamente ritornò a Roma, senza essersi fatta radere la barba nè tosare i capelli. Andò tanto innanzi la frenesia di Caio, che fece morir non so quante persone per due opposti motivi o pretesti; cioè le une perchè si erano rattristate per la morte di Drusilla, quasi che fosse un gran delitto l'affliggersi per chi era divenuta partecipe della divinità; e l'altre, perchè o avessero fatto conviti, o balli, o fossero ite al bagno nel tempo del lutto per Drusilla, parendo ciò un rellegrarsi della sua morte. Chi potea indovinarla con un sì furioso e pazzo Augusto? Altri nondimeno han creduto ch'egli spigolasse sì fatti pretesti, per ingoiar le ricchezze dei condannati a diritto o a torto; imperciocchè il folle ne' primi mesi fece un tale scialacquamento di denaro, che consumò colla sua prodigalità in doni e pubblici giuochi gli immensi tesori che l'avaro Tiberio avea radunato; e, trovandosi poi smunto, diede ad ogni sorta di violenza, o pubblica con imporre gravezze, o privata con levar di vita i ricchi innocenti, per soddisfare ai suoi capricciosi voleri colle loro sostanze. Quando altra accusa mancava, [122] sempre era in pronto quella che avessero avuta parte nella morte dei di lui genitori e fratelli.
Un'altra ridicolosa comparsa avea fatto questo imperadore, forse nell'anno precedente, come s'ha da Dione [Dio, lib. 59. Sueton., in Cajo, cap. 25.]. Invitato alle nozze di Caio Calpurnio Pisone con Livia (o sia Cornelia) Orestilla, appena ebbe veduta quella giovinetta che se ne invaghì con dire a Pisone: «Non ti venga talento di toccare mia moglie.» E tosto seco la condusse in corte, poi fra pochi dì la ripudiò; e da li a due anni ragguagliato ch'essa avea commercio col primo marito, relegò l'uno e l'altra. Inoltre pochi giorni dopo la morte di Drusilla avendo esso Caio udito parlare della straordinaria bellezza dell'avola di Lollia Paolina, moglie di Caio Memmio Regolo, già stato console, e che era allora governatore della Macedonia ed Acaia, stranamente avvisandosi che non fosse minor la beltà della nipote, mandò a prendere essa Paolina, e la sposò, con obbligar suo marito ad adottarla per figliuola. Ma svaghitosene fra poco, la ripudiò, con precetto a lei fatto di non avere carnal commercio con altr'uomo in avvenire. Sposò dipoi Cesonia Milonia, che già avea avuto tre figliuole da un altro marito; donna che sapea il mestiere di farsi amare. E la sposò nel dì stesso che la medesima partorì una figliuola, ch'egli riconobbe per sua, ed ebbe nome Giulia Drusilla. Dione la fa nata un mese dopo, e riferisce all'anno seguente un tal matrimonio [Dio, lib. 59.]. Intanto si diede meglio a conoscere la sua furiosa passione di mirar con piacere le morti degli uomini. I giuochi funesti de' gladiatori erano il suo maggior sollazzo. Sollecitava anche i nobili, benchè fosse contro le leggi, a combattere negli anfiteatri e a farsi scannare. Non contento del duello d'uno con uno, ne voleva delle schiere; e un dì fece combattere ventisei cavalieri romani, mostrando [123] gran contento allo spargimento del loro sangue. Talvolta ancora, mancando i gladiatori, facea ghermire taluno della plebe; e colla lingua tagliata, affinchè non potesse gridare, il forzava a combattere con le fiere. Così di giorno in giorno andava egli crescendo nella crudeltà, sfoggiando nelle pazzie, e gettando smoderata copia di danaro in vari spettacoli e in demolir case per nuovi anfiteatri. In quest'anno [Philo, in Flacc. Joseph., in Antiq. Judaic. Eusebius, et alii.], per quanto si crede, la mano di Dio cominciò a farsi sentire in Levante contra de' Giudei, fieri persecutori del già nato Cristianesimo. Ebbero principio in Egitto le turbolenze mosse contra di tal nazione, che in più centinaia di migliaia abitava in quella ricchissima provincia, con essersi sollevato il popolo di Alessandria contra d'essi in occasione che il re Agrippa arrivò a quella città. Gran copia di loro fu maltrattata, tormentata, uccisa; saccheggiate le lor case, spogliati i magazzini, e ridotto quel gran popolo ad un'estrema miseria. La storia distesamente si legge ne' libri di Filone contra Flacco, negli Annali del Baronio all'anno 40, in quei dell'Usserio e d'altri. L'istituto mio non soffre ch'io ne dica di più.
Anno di | Cristo XXXIX. Indizione XII. |
Pietro Apostolo papa 11. | |
Cajo Caligola imperadore 3. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la seconda volta, Lucio Apronio Cesiano.
Solamente per tutto il gennaio tenne Caligola il consolato [Sueton., in Cajo, cap. 17.], e nelle calende di febbraio, per attestato di Dione [Dio, lib. 59.], rinunziò la dignità a Marco Sanquinio Massimo, che era stato console un'altra volta. Continuò Apronio Cesiano nell'uffizio sino alla fine di giugno, per testimonianza [124] del medesimo storico, e nelle susseguenti calende dicono che gli fu sostituito Gneo Domizio Corbulone. Così il padre Stampa [Stampa, Continuat. Fastor. Sigonius et alii.] ed altri, negando la sostituzione d'altri consoli. Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la vittoria d'Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci: ignominia tale, che l'un di essi consoli si uccise di poi da sè stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato Domizio Africano. Secondo Svetonio [Sueton., in Cajo, c. 8.] Cajo Caligola nacque nel dì 31 d'agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de' consoli, e Domizio Africano eletto console da Caligola, tenne il consolato sino al fine dell'anno. Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo Populus elegit. Certo è, essere stati due personaggi diversi Domizio Corbulone e Domizio Africano, come si ricava da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.] che li nomina amendue. Dione anch'egli parla di essi sotto l'anno presente, con dire che Domizio Corbulone si guadagnò il consolato con far dei processi, e poscia aggiugne che anche Domizio Africano fu creato console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo, quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di amendue parla Tacito negli Annali [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.]. Cajo nell'anno presente levò di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva dell'imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in collera contro d'esso popolo, perchè sapea d'esserne odiato; vedea che scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che aveano levato rumore contro [125] le spie e gli accusatori. Però molti di quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo. Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e d'altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo all'udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s'è ragionato, seppe anch'egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala ventura. Credendo costui d'acquistarsi un gran merito, avea esposta una statua di Caligola, con dire nell'iscrizione ch'esso Augusto in età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l'espressione, parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però considerando che uomo accreditato nell'eloquenza del foro fosse Domizio, composta un'orazione con molto studio volle egli stesso accusarlo in senato. L'accorto Domizio, finita ch'egli ebbe la diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente stupefatto per la forza e bellezza dell'orazione di Caio, con rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di difendersi, se potea, rispose d'essere vinto da così forte eloquenza, ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare; e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome, gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.
Ma non meno della crudeltà cresceva [126] in lui anche la frenesia o pazzia, profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli spettacoli [Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio, lib. 59.]. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo prediletto, a cui avea posto il nome d'Incitato. Lo tenea seco a tavola, dandogli biada in vasi d'oro, e in bicchieroni d'oro del vino. Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo console un dì; e che l'avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l'animo di cavalcar sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano [Sueton., in Cajo, c. 19.]: il che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell'Italia. Sopra vi fu fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d'acqua dolce. Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e con sopravvesta ornata d'oro e di gemme, spada al fianco, e scudo imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l'intrepido imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse ad assalire un'armata nemica; e come se fosse stanco per una data battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi [127] che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi, passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d'intorno illuminato da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava al giorno. Nel calore del vino e dell'allegria molti furono gittati per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le immense spese fatte in quest'azion da teatro, incitarono dipoi lo smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo Lucio Anneo Seneca, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo, non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che se l'ebbe a male, o perchè proteggesse co' desiderii quella causa, o perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea campare.
Prese susseguentemente Caligola all'improvviso la risoluzione di passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie romane, ed insieme per dar a conoscere l'insigne suo valore e potenza ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso. Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento cinquantamila armati. Direste ch'egli [128] sicuramente subbissò con tante forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in carrozza in mezzo all'esercito per dei passi stretti, gli fu detto che sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non parendogli mai d'essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno, acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de' trofei dell'oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un'altra volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi sotto la di lui protezione con pochi de' suoi Adminio figliuolo d'uno dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s'egli avesse conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta, quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a tutti, e specialmente [129] agli stessi Germani, i quali s'avvidero per tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è assegnato dagli antichi scrittori.
Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco, gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L'uno fu Gneo Lentolo Getulico della primaria nobiltà romana, che per dieci anni avea tenuto il governo dell'armi della Germania. Perchè egli, secondo il sentimento di Dione, s'era guadagnata la benevolenza de' soldati, questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma probabilmente anch'egli fu incolpato, come mischiato in una congiura tramata contra d'esso Augusto da Marco Emilio Lepido, non so se vera o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio le sue sorelle Agrippina e Livilla, disonestamente amate da lui, e prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere figliuolo di Giulia nipote d'Augusto e sorella d'Agrippina lor madre, e sì per essere stato marito di Drusilla, loro sorella. La confidenza che [130] passava fra essi a cagion della parentela, degenerò facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l'ambiziosa Agrippina a divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola, perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell'isola di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le ceneri del drudo in un'urna. Disse che oltre alle isole egli avea per loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano l'impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali inoltre destinali a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte vendicatore [Sueton., in Cajo, cap. 39.]. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all'incanto nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo, con aver messo de' biglietti sopra cadaun di que' mobili; in uno d'essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest'altro di mio nonno e di mia madre; quest'era di Marc'Antonio in Egitto; questo lo guadagnò Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni spettacoli ch'egli volle dar in Lione prima [131] del suo ritorno, succeduto nell'anno seguente.
Anno di | Cristo XL. Indizione XIII. |
Pietro Apostolo papa 12. | |
Cajo Caligola imperadore 4. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la terza volta.
Solo fu console ad aprir l'anno Cajo Caligola, non già perchè egli non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e da Dione [Sueton., in Cajo, cap. 17. Dio, lib. 59.], il console disegnato morì nell'ultimo dì del precedente anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro appartenesse tale officio nell'assenza e mancanza de' consoli. Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di Caligola nel tempio, l'adorarono; e, come s'egli fosse stato presente, gli fecero l'offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la rinnovò. Null'altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di caricar di lodi l'imperadore, e di augurargli delle immense prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò l'avviso, che Caligola giunto a Lione avea dimesso il consolato nel dì 12 di gennajo. Allora entrarono nella dignità i due consoli sostituiti. Dione li lasciò nella penna. Secondo le conghietture d'alcuni eruditi questi furono Lucio Gellio Poblicola e Marco Coccejo Nerva; ma non è cosa esente da dubbii; e molto meno che nelle calende di luglio fossero sostituiti Sesto Giulio Celere e Sesto Nonio Quintiliano, come altri han creduto. In Lione, siccome accennai, si ritrovò Caligola nelle [132] calende di gennajo [Sueton., in Cajo, cap. 20.], e probabilmente allora per onorare il suo consolato, celebrò quivi gli spettacoli mentovati da Svetonio e da Dione. Furono vari, ma non vi mancò quella della gara nell'eloquenza greca e latina, giuoco solito a farsi in quella città alla statua d'Augusto. Chi era vinto pagava il premio ai vincitori, ed era tenuto a fare un componimento in lor lode. Coloro poi, che in vece di piacere dispiacevano, doveano colla lingua, o con una spugna cancellare il loro scritto, se pur non eleggevano d'essere sferzati dai discepoli, ovvero tuffati nel fiume vicino. Era tuttavia Cajo in Lione, quando arrivò colà chiamato da lui Tolomeo re, figliuolo di Giuba già re delle due Mauritanie, e suo cugino. Fu onorevolmente ricevuto. Ma o sia ch'egli entrato nel teatro per ragione del grande sfarzo recasse gelosia al luminare maggiore, o pure che Cajo, informato delle molte di lui ricchezze, le volesse far sue: fuor di dubbio è, che il mandò in esilio, e poscia (forse nel cammino) con somma perfidia il fece ammazzare: iniquità, per cui i suoi sudditi si ribellarono dipoi al romano imperio. Anche Mitridate re dell'Armenia in altro tempo fu da lui mandato in esilio, ma non ucciso. Poscia, prima di ritornare in Italia, volle Caligola coronar tante sue gloriose imprese con un'azione magnifica [Dio, lib. 59. Sueton., cap. 46. Aurelius Victor de Caesarib.]. Sul lido dell'Oceano per ordine suo andò tutto il suo esercito ad accamparsi con gran copia di macchine e d'attrezzi militari, ed egli imbarcatosi in una galea, per mare arrivò colà. Ognun si aspettava che egli pensasse portar la guerra nella Bretagna: e forse ne avea formato il disegno: quand'ecco smontato egli di nave, salì sopra un alto trono, fece ordinare in battaglia tutte le schiere, e sonar le trombe, dare il segno della zuffa, come se fosse vicino un gran combattimento, senza vedersi intanto nemico [133] alcuno. Poscia tutto ad un punto ordinò ai soldati di raccogliere sul lido quante conchiglie o nicchi potessero nelle celate e nel seno, chiamandole spoglie dell'Oceano da portarsi a Roma, e da mettersi nel Campidoglio. In memoria di questa sua segnalata vittoria fece fabbricare ivi un'alta torre. Vennegli anche in testa prima di partirsi dalla Gallia, di far tagliare a pezzi le legioni che si rivoltarono molti anni addietro contra di Germanico suo padre, ed assediarono anche lui stesso fanciullo. Tanto gli dissero i suoi consiglieri, che depose così matta e crudel voglia; non poterono però tanto, ch'egli non persistesse nel volere almen decimare que' soldati. Feceli per tanto raunar tutti senz'armi e senza spada, ed attorniare dalla cavalleria; ma accortosi che molti d'essi dubitando di qualche insulto, correano a prendere l'armi, fu ben presto a levarsi di là, ed affrettare il suo ritorno in Italia.
Venne egli, ma pieno di mal talento, contro al senato. Si trovavano stranamente imbrogliati i senatori, per non sapere come regolarsi con un sì fantastico e pazzo imperadore [Sueton., in Caligula, cap. 49.]. Se gli decretavano onori straordinari per la sua pretesa vittoria de' Germani e Britanni, temevano del male, quasi che il beffassero; e non decretandone alcuno, o pochi a misura dei di lui desiderii, ne temevano altrettanto. Egli inoltre avea scritto di non volere onori; e pur da lì a non molto tornò a scrivere, lamentandosi che l'aveano defraudato del trionfo a lui dovuto. Ed avendogli il senato inviato all'incontro un'ambasceria, sollecitandolo a venire a Roma: Verrò, verrò, rispose, e con questa, tenendo la mano sul pomo della spada. Fece anche pubblicamente sapere a Roma, ch'egli ritornava, ma solamente per coloro che desideravano il suo arrivo, cioè per l'ordine equestre e popolo, perchè quanto a sè non si terrebbe più per cittadino nè per principe del senato. Nè dipoi volle che alcun de' senatori venisse [134] ad incontrarlo. O rifiutato o differito il trionfo, si contentò dell'ovazione: col qual onore entrò in Roma nel dì 31 d'agosto, giorno suo natalizio, conducendo seco per pompa que' pochi prigionieri disertori tedeschi che potè avere, a' quali unì una mano d'uomini d'alta statura, raccolti nella Gallia, e fatti tosare e vestire alla tedesca. Menò ancora, e buona parte per terra, le galee che l'aveano servito nella ridicolosa spedizione contra della gran Bretagna [Dio, lib. 59.]. Gittò poi in questa occasione dall'alto della basilica giulia gran quantità d'oro e d'argento, e nella folla molti vi perirono. Dopo tal solennità comandò che fosse ucciso Cassio Betulino, e volle che Capitone di lui padre assistesse a sì funesto spettacolo; e perchè questi osò di chiedergli, se permetteva a lui la vita, a lui ancora la levò. Rappacificossi poi col senato per un accidente. Entrato nella curia Protogene, corsero tutti i senatori a complimentarlo, e a toccargli, secondo il costume, la mano. Fra gli altri essendosi a lui presentato Scribonio Proculo uno d'essi, Protogene, ministro della crudeltà di Cajo, guatandolo con occhio torvo: E tu ancora, disse, hai ardire di salutarmi; tu che cotanto odii l'imperatore? Allora i senatori si scagliarono addosso all'infelice, come ad un mostro e nemico pubblico; e con gli stiletti da scrivere, che ognuno portava addosso, tante gliene diedero, che lo stesero morto a terra. Il suo corpo fatto in brani fu poi strascinato per la città. Questo atto de' senatori, e l'aver eglino decretato [Dio, in Excerptis Valesianis.] che l'imperadore avesse da sedere in un sì alto tribunale, che niuno potesse arrivarvi, e tener ivi le guardie, e che si mettessero anche dei soldati alle di lui statue; cagion fu, ch'egli si ammollì e perdonò a quell'augusto ordine: e similmente mostrò piacere, che i senatori più che mai l'adulassero, chi dandogli il titolo d'eroe, e chi di dio; il che servì [135] a maggiormente farlo impazzire. Gran tempo era, che questa legger testa si riputava più che uomo, ed ambiva gli onori divini. Già avea comandato che in Mileto, città dell'Asia, si fabbricasse un tempio in onor suo. Un altro ancora se ne fece alzare in Roma; e si trovarono intieri popoli, e massimamente gli Alessandrini, che a questa ridicolosa divinità davano gl'incensi. Perchè i Giudei, divoti del solo vero Dio, non vollero consentire a tanta empietà, patirono di molti guai, e meraviglia fu che non gli sterminasse tutti. Le pazzie che fece Cajo, per sostenere questa sua vana opinione di deità, raccontate da Dione, sono innumerabili. Sulle prime si pareggiava ai semidei, vestendosi talora, come Ercole, Bacco ed altri simili. Passò ad uguagliarsi agli dii, e a gareggiar con Giove stesso. Al vederlo un dì assiso sul trono in abito di Giove, un ciabattino nativo della Gallia non potè contenere le risa. Avvedutosene Cajo, e chiamatolo, gli domandò chi credeva egli che fosse: Un gran pazzo, con gran sincerità rispose il buon uomo. E pur Cajo, che per tanto meno avrebbe fatto morire un intero senato, male non fece a costui, perchè più sopportava la libertà dei plebei che dei grandi. La via che tenne Lucio Vitellio, padre dell'altro che fu imperadore, per salvare la propria vita, fu la seguente. Richiamato egli in quest'anno dalla Soria, nel cui governo come proconsole s'era acquistato non poco onore, con ripulsare Artabano re de' Parti, venne a Roma. Cajo, parte per invidia alla di lui gloria, parte per paura di un personaggio sì generoso, avea già fissata la di lui morte. Subodorato questo suo pericolo [Sueton., in Vitellio, cap. 2.], Vitellio prese il ripiego dell'adulazione e d'impazzire coi pazzi; e presentatosi davanti a lui con abito vile, e col capo velato, come si faceva ai falsi dii, se gli prostrò a' piedi con dirotte lagrime, dicendo, che non v'era altri che un Dio [136] par suo capace di perdonargli, promettendo di fargli de' sagrifizii se potea conseguir la sua grazia. Non solamente Caligola gli perdonò, ma il tenne da lì innanzi per uno de' suoi principali amici. E Vitellio trovata così utile l'adulazione, continuò poi sotto Claudio Augusto a valersene con perpetua infamia del suo nome. Intanto non mancarono a Roma altri spettacoli della pazza crudeltà di Caligola, accennati da Dione e da Svetonio, non potendosi abbastanza esprimere a quante metamorfosi fosse suggetto quel cervello bisbetico, volendo oggi una cosa, domani il contrario; ora amando ed ora odiando le medesime persone; prodigo insieme ed avaro; sprezzator de' suoi dii, e un coniglio, qualora udiva il tuono; talora perdonando i gran falli, ed altre volte gastigando colla morte i minimi; e così discorrendo; tutti caratteri d'uomo a cui s'era intorbidato più d'un poco il cervello. Fu anche creduto, che Cesonia sua moglie con dargli una bevanda amatoria l'avesse conciato così. La qual poscia fra le carezze che le faceva il consorte, ne sentiva anche ella delle belle: imperocchè baciandole il collo, più volte Cajo le dicea: Oh che bel collo, che subito che me ne venga talento sarà tagliato! Ma sopra tutto tenne egli saldo il costume di far morire chi de' grandi non gli mostrava assai affetto: con avere sempre in bocca il detto di Azzio tragico poeta: Oderint, dum metuant. Mi odiino quanto vogliono, purchè mi temano. Un simile tirannico motto fu in uso a Tiberio [Sueton., in Tiber., cap. 59.].
Anno di | Cristo XLI. Indizione XIV. |
Pietro Apostolo papa 15. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso imperadore 1. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la quarta volta e Gneo Sentio Saturnino.
Che Caligola fosse in questo anno console per la quarta volta, e deponesse tal dignità nel dì 7 di gennaio, l'abbiamo da Svetonio [Suet., in Cajo, cap. 17.], il quale ancora aggiugne, che egli unì i due ultimi consolati, per essere stato console anche nell'anno antecedente. Secondo il Pagi [Pagius, Dissert. Hypatic.] ed altri, in vece di due dovrebbe avere scritto Svetonio tre, perchè egli entrò console anche nell'anno 39 della nostra Era. Che a lui nel consolato fosse sostituito Quinto Pomponio Secondo nello stesso dì 7 gennaio, si raccoglie da Dione [Dio, lib. 59.], che per tale il nomina nel dì 24 del suddetto mese, in cui fu ucciso Caligola. E Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, c. 1.] attesta anche egli, che erano consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, allorchè Claudio salì all'imperio. Nei Fasti di Cassiodoro consoli dell'anno presente son detti Secondo e Venusto: e però il Panvinio ed altri han portata opinione, che nelle calende di luglio questo Venusto succedesse a Saturnino. Monsignor Bianchini [Blanchin., in Anast.], che non trovò consoli in questo anno, e lasciò scappar l'anno medesimo, per assettare la nuova sua cronologia, difficilmente può sperar seguaci in tale opinione. Erano già pervenuti i Romani alla disperazione, veggendosi governati da un Augusto, se non tutto, almen mezzo pazzo e mezzo furioso, il quale specialmente esercitava il suo furore contro la nobiltà; che angariava con insopportabili [138] imposte e gravezze i popoli, con inviare non i soliti uffiziali, ma i soldati a riscuoterle; che avea [Joseph., Antiquit. Judaic., lib. 19, cap. 1.] spogliato ogni tempio della Grecia di tutte le lor più belle pitture e statue; che permetteva agli schiavi di accusare in giudizio i lor padroni (cosa inaudita), di modo che lo stesso Claudio, zio paterno dell'imperadore, accusato da Polluce suo schiavo, corse pericolo della vita, e fu obbligato a difendersi in senato; Augusto finalmente, che tutto dì si vedea far delle nove pazzie, indegne d'ogni persona ragionevole, non che di un imperadore. Perciò tutti sospiravano, chi per vendetta del passato, chi per impazienza del mal presente, e chi per timore di peggio nell'avvenire, che la terra fosse oramai liberata da questo mostro. Ma niuno osava. I soldati pretoriani, cioè delle guardie, grosso corpo di gente avvezza all'armi, ed affezionata a Caligola per le frequenti sue liberalità, faceano venir meno il coraggio a chiunque avesse voluto tentare contro la vita di lui. Contuttociò non mancarono persone, che, per proprii riguardi e compassione del pubblico, il quale andava di male in peggio, cominciarono a tramar delle congiure. I principali e più coraggiosi furono Cassio Cherea e Marco Annio Minuciano. Era il primo uno dei tribuni, cioè dei primi uffiziali delle compagnie pretoriane, uomo di petto e di probità tale, che detestava le crudeltà e pazzie tutte di Cajo; dotato anche di molta prudenza e cautela, e però alto ad ogni grande impresa. Caligola, perchè egli avea poche parole, e parlava con voce languida, il teneva per un effemminato, beffandolo anche bene spesso, come un dappoco, e dato solo alla sensualità; di modo che qualor Cherea andava a prendere il nome per la guardia, ora gli dava quel di Priapo o di Cupido, ora quel di Venere ed altri simili: del che si offese molto Cherea. E buon per lui, che sì vil concetto avea [139] del suo merito Caligola; perciocchè dicono, che gli era stato ultimamente predetto che sarebbe ammazzato da un Cassio, come fu ancora Giulio Cesare: il che fu cagione che egli richiamò a Roma Cassio Longino proconsole dell'Asia [Dio, lib. 59. Suetonius, in Cajo, cap 57.], discendente da Cassio, uccisor di Cesare, con ordine ancora di ucciderlo, ma senza che ne seguisse poi l'effetto. Trasse Cherea nelle sue massime Cornelio Sabino, tribuno anche esso delle guardie; ed amendue si aprirono con Annio Minuciano, uomo della primaria nobiltà, e pel suo raro merito stimato da tutti; ma che stava male presso di Caligola, per essere stato amico intimo di Marco Lepido. Scrive Giuseppe, che questo Minuciano avea sposata una sorella di Caligola. Noi vedemmo che Giulia fu maritata con Marco Vinicio, uomo consolare; e Dione parla di un Viniciano che pretese all'imperio. Però potrebbe essere che Minuciano fosse il medesimo che Viniciano o sia Vinicio, con errore di alcuno de' testi. Si trovò Minuciano non solamente pronto all'impresa, ma più ardente degli altri. A loro si aggiunse Callisto liberto di Cajo, che secretamente coltivava la amicizia di Claudio zio dell'imperadore, con altri non pochi. E Valerio Asiatico, personaggio ricchissimo di beni nelle Gallie, vi tenea mano, ma con gran secretezza e riguardo. Fu destinato al compimento del disegno il tempo de' giuochi che si aveano da fare in onor di Augusto nel dì 21 di gennaio, e nei tre seguenti: giacchè terminata quella festa, Caligola avea fissata la sua partenza per l'Egitto, a far ivi meglio conoscere un impazzito imperadore. Nei tre primi giorni de' giuochi non si trovò apertura a compiere il disegno: laonde Cherea, che non potea più stare alle mosse per paura che messo l'affare in petto di tante persone traspirasse, determinò di sbrigarla nel dì 24 di gennaio.
Nella mattina di quel dì, Cajo più allegro ed affabile che mai fosse stato, si [140] assise nell'anfiteatro, fabbricato di nuovo per quella funzione; fece gittar delle frutta agli spettatori; egli ancora lietamente in pubblico mangiava e beveva, facendo parte di quei regali a chi gli era vicino, e specialmente a Pomponio Secondo console, che sedea ai suoi piedi, e facea la graziosa scena di andarglieli baciando di tanto in tanto. Pericolo vi fu, che Cajo non si movesse di là nel rimanente del giorno; perchè assai satollo ed abboracchiato per la lauta colezione, bisogno non avea di desinare. Contuttociò riusci a Minuciano, ad Asprenate e ad altri cortigiani congiurati di farlo muovere un'ora o due dopo il mezzodì, per andare al bagno, e ritornarsene, pranzato che avesse. Giunto al palazzo, in vece di andar diritto verso dove l'aspettavano i destinati al fatto, voltò strada per vedere alcuni giovanetti delle migliori famiglie dell'Asia e della Grecia [Suet., in Cajo, c. 58. Dio, lib. 59. Joseph., Antiq., lib. 59.] fatti venire apposta per cantare e ballare ne' giuochi. Allorchè fu in un luogo stretto, Cherea se gli presentò davanti, per chiedergli il nome della guardia. L'ebbe, ma derisorio, secondo il costume. Egli messa allora mano alla spada gli diede un tal fendente sul capo, che a Cajo sbalordito neppure restò voce per chiamare aiuto. Fecesi avanti anche Cornelio Sabino, che con un colpo gli tagliò una mascella; ed altri con trenta altre ferite il finirono. Perchè senza rumore non potè succedere quella scena, trassero colà primieramente i portantini della lettiga imperiale colle loro stanghe, e poscia le guardie tedesche, le quali cominciarono a menar le mani addosso a' colpevoli ed innocenti. Fra gli altri vi perderono la vita Publio Nonio Asprenate, che era stato console nell'anno 58, Norbano ed Antejo, tutti e tre senatori. Il cadavere dell'estinto Augusto, portato nella notte seguente nel giardino di Lamia, fu mezzo bruciato, e frettolosamente seppellito in terra, per timore che il [141] popolo lo mettesse in brani. Mandato anche da Cherea un centurione o tribuno, appellato Giulio Lupo, alle stanze di Cesonia moglie di Cajo, la trucidò insieme colla figliuola Giulia, per cui Cajo avea fatto varie pazzie con dichiararla anche figliuola di Giove. E tale fu il fine di Cajo Caligola, fine corrispondente ad un conculcatore di tutte le leggi umane e divine, e che troppo tardi si accorse d'essere non un Dio, ma un miserabil mortale. Abbattute poi furono le sue statue, rasato il suo nome dalle iscrizioni, e trattata la sua memoria come di un pubblico nemico.
Portata la nuova della morte di Caligola all'anfiteatro, dove buona parte del popolo dimorava in allegria godendo il pubblico divertimento, incredibil fu lo spavento di tutti; e tanto più perchè i soldati pretoriani attorniarono colle spade nude quel luogo, e si durò gran fatica a trattenerli che non cominciassero a far vendetta dell'estinto principe sopra quegl'innocenti. Subito che poterono in tanta confusione i consoli Sentio Saturnino e Pomponio Secondo, operar qualche cosa, inviarono tre compagnie di essi pretoriani che si trovarono ubbidienti per la città, affinchè impedissero i tumulti. Raunato poscia il senato nel Campidoglio, corsero colà gli altri soldati del pretorio, chiedendo con alte grida che si cercassero gli uccisori. Ma affacciatosi Valerio Asiatico, uno dei primi senatori, ad un balcone, gridò forte: «Piacesse a Dio, che l'avessi ammazzato io!» Queste sole parole fecero impression tale ne' soldati che si ritirarono. Fu poi dibattuto nel senato quel che fosse da fare in sì pericolosa congiuntura. Il console Saturnino, secondo che scrive lo storico Giuseppe, fece una bella aringa con rammentar tutti i mali patiti sotto Tiberio e Caligola principi sanguinarii ed assassini del pubblico, e conchiudendo che s'avea da ricuperare la libertà oppressa dai precedenti imperadori; ma senza prendere ben [142] le misure necessarie per sì importante risoluzione. In fatti, non tardò molto a scoprirsi la vanità di questo disegno. Tiberio Claudio Druso Germanico, comunemente conosciuto col nome di Claudio fra gl'imperadori de' Romani, figliuolo fu di Nerone Claudio Druso, e fratello di Germanico Cesare, per conseguenza zio paterno di Caligola. Uomo di poco senno e sommamente timido, benchè avesse studiato le arti liberali, era tenuto in concetto piuttosto di stolido, e perciò sprezzato e deriso da tutti. Forse anche egli mostrava d'essere più di quel che era. E questo fu la sua fortuna, perchè salvò la vita sotto Tiberio e Caligola, i quali vedendolo addormentato e dappoco, nè avendo apprensione alcuna di lui, si ritennero dal levarlo dal mondo. Tiberio nondimeno il lasciò sempre nell'ordine de' cavalieri. Cajo suo nipote, benchè fosse dipoi qualche volta tentato d'ucciderlo, pure l'avea alzato al grado di senatore ed anche al consolato. Trovavasi egli in compagnia o poco lungi da Caligola, allorchè i congiurati se gli avventarono addosso. Tutto spaventato corse ad appiattarsi dietro ad una tappezzeria, da dove ascoltava lo strepito di chi andava e veniva, e co' suoi occhi vide le teste d'Asprenate e degli altri uccisi staccate dai busti [Suet., in Claudio, cap. 10. Dio, lib. 60. Joseph., Antiq., lib. 19.]. S'aspettava anch'egli la morte, quando in passare uno de' soldati per nome Grato e scoperti i suoi piedi, il tirò per forza fuori della tappezzeria. Cadde in ginocchioni Claudio e gli dimandò la vita; ma il soldato riconosciutolo per quel che era, non solamente l'animò, ma gli diede anche il titolo di mio imperadore. E menatolo a' suoi compagni, che stavano disputando di quel che s'avesse a fare in quel contingente, siccome per la memoria di Germanico suo fratello l'amavano, tutti concorsero a riceverlo per imperadore. Pertanto postolo in una lettiga, sulle loro spalle il portarono al castello pretoriano, [143] cioè al loro quartiere; tremando egli intanto, e compassionandolo il popolo nel mirarlo così portato, sulla credenza che il conducessero alla morte. Si fermò tutta quella notte nel quartier de' soldati, nè andò al senato benchè chiamato, scusandosi colla forza che gliel'impediva. Venuto poscia il dì 25 di gennaio, giacchè i senatori erano discordi fra loro, nè mezzo appariva da poter ripigliare e sostenere l'antica libertà, non si prendeva risoluzione alcuna nel senato, in cui per altro non mancava il partito di chi proponeva un nuovo principe.
Intanto la natia paura di Claudio l'avea tenuto lungamente sospeso s'egli avesse sì o no da accettare l'esibito imperio, e fu più volte in procinto di rifiutarlo, o di rimettersi totalmente alla volontà del senato; quando, per testimonianza di Giuseppe Storico, Agrippa re di parte della Giudea, che si trovava allora in Roma, ed avea fatto dar sepoltura all'ucciso Caligola, arrivò segretamente colà, ed incoraggiò talmente il vacillante Claudio, che consentì al buon volere de' soldati, da' quali fu universalmente proclamato imperadore, con promettere egli a tutti un buon regalo di denari. Fu questi il primo degl'imperadori, eletto dalle milizie, con esempio infinitamente pregiudiziale allo imperio romano; perchè ne vedremo tanti altri per questa via, e col comperare lo imperio dai soldati, salire al trono. Ora il senato, a cui era già pervenuto lo avviso degli andamenti dei pretoriani e di Claudio, trovandosi ben intricato fra il desiderio di ricuperar la libertà, e il timore di non poterlo, mandò a chiamare il re Agrippa, per valersi del suo mezzo. Questo uomo doppio, quanto altri mai fosse, comparve in senato ben profumato, e fingendo di nulla sapere, anzi dimandando dove fosse Claudio, fu informato del presente sistema dei pubblici affari, ed interrogato del suo parere. Lodò egli sommamente il lor disegno di rimettere in piedi la repubblica, e si protestò pronto [144] a dar la vita per la gloria del senato. Ma nello stesso tempo sparse il terrore in tutti, mostrando la difficoltà di resistere ai pretoriani, e lodando in fine, che si facesse una deputazione a Claudio per esortarlo a desistere: al che egli si esibì. Accettata la offerta, e deputati con lui anche i tribuni della plebe, andò Agrippa a trovar Claudio, e fece pubblicamente la ambasciata. Poscia in un ragionamento a parte espose a Claudio la debolezza ed incertezza del senato, esortandolo a prendere le briglie con mano forte. Perciò, per quanto dicessero dipoi i tribuni per rimuoverlo, e per consentire almeno di ricevere lo imperio dalle mani del senato, Claudio tenne saldo, con promettere solamente un buon governo. Dacchè il senato ebbe ricevuta questa risposta, volle fare il bravo col minacciargli la guerra, e Claudio ne mostrò paura. Passò fra questi dubbi il dì 25 di gennajo. Ma intanto andarono cangiando faccia gli affari. Molta parte del popolo cominciò a gridare di voler un principe, e ne nominò ancora alcuni; e venuto il dì 26, non pochi dei senatori stettero ritirati, senza entrare in senato. Il peggio fu, che quattro compagnie fin qui ubbidienti a Cherea e a Sabino, voltarono casacca, ed abbracciarono il partito di Claudio. Altrettanto fecero i vigili, i gladiatori e gli altri soldati della città, in maniera che i senatori rimasti come in isola nel senato, s'appigliarono in fine, benchè forzati, alla risoluzion di conoscere Claudio per imperadore. Andarono dunque tutti a gara al quartier de' soldati per salutarlo; ma furono sì mal ricevuti da coloro, che ne restarono alcuni bastonati ed altri feriti; e Pomponio Secondo, l'uno de' consoli, corse pericolo della vita, Claudio ed Agrippa s'interposero, ed acquietarono quegli animi turbolenti.
Allora Claudio accompagnato dal senato e dalle milizie, a guisa di trionfante, si mosse, e dopo essersi portato al tempio, per ringraziare gl'iddii della sua [145] esaltazione, passò al palazzo; nè altro di funesto per allora operò, se non che per politica condannò a morte alcuni degli uccisori di Caligola, e massimamente il lor capo Cassio Cherea, che coraggiosamente la sofferì. Volle perdonare a Cornelio Sabino, e conservargli anche la sua carica; ma questi, non sapendo sopravvivere all'amico Cherea, si diede poi la morte da sè stesso. Del resto Claudio, dopo aver ricevuto i titoli di Cesare Augusto e di pontefice massimo, e la tribunizia podestà, si trovò distinto da Tiberio suo antecessore, coll'essere chiamato figliuolo di Druso o pur di Tiberio: laddove Tiberio s'intitolava figliuolo di Augusto. E nelle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imper. Goltzius, Patinus et alii.] Tiberio è mentovato col solo prenome TIBERIVS CAESAR; ma Claudio TIBERIVS CLAVDIVS CAESAR. Nè Claudio solea anteporre il titolo d'imperadore al suo nome, ma posporlo. Ora anch'egli, non meno di quel che avessero fatto i precedenti due cattivi imperadori, diede un bel principio al suo governo. La più gloriosa delle azioni sue fu quella di accordare un general perdono a chiunque avea trattato di ridurre di nuovo Roma allo stato di libertà e di escludere lui dall'imperio. Nè egli rivangò mai più questi conti, anzi promosse a gradi più illustri chi s'era mostrato più zelante in quella occasione. Guai a loro, s'egli avesse avuto il cuor di Tiberio o di Caligola! Anzi neppur fece vendetta di tanti e tanti, che in vita privata o l'aveano oltraggiato, o vilipeso gastigandoli solamente se si provavano rei d'altri delitti. Allorchè giunse in Germania la nuova dell'ucciso Caligola, furonvi molti che sollecitarono Sulpicio Galba, general di quelle legioni, ad assumere l'imperio. Mai non volle egli acconsentire, perchè più poteva in lui l'onore che l'ambizione. Claudio, di ciò informato, tenne sempre Galba per uno de' suoi migliori amici; laddove Tiberio e Caligola furono soliti di [146] levar di vita chiunque credeano riputato degno dell'imperio. Un altro merito si era acquistato Galba nell'anno precedente, perchè appena fu uscito delle Gallie Caligola, che i Germani fecero un'irruzione nelle provincie romane; ma Galba li ripulsò con tal vigore, che fu lodato infin da Caligola, principe per altro invidioso della gloria de' suoi generali. In quest'anno ancora egli sconfisse i popoli Catti nella Germania: laonde Claudio, per tal vittoria e per altra rapportata da Publio Gabinio contro i Cauci, fu nominato imperadore per la seconda volta. Il timido natural di Claudio, avvalorato anche dal recente esempio del nipote, cagion fu, ch'egli per un mese non osò d'entrar nel senato; nè alcuno, ancorchè donna o fanciullo, da lì innanzi a lui si accostò, se prima non era visitato, per vedere se portasse sotto coltello od altre armi. Andando a qualche convito, tenea sempre le guardie intorno alla tavola; e volendo far visita a qualche malato, facea prima ben cercar per la camera e per li letti se armi vi fossero. A fine poi di cattivarsi il pubblico amore, levò tosto, o almeno ristrinse assaissimo, la licenza conceduta ad ognuno in addietro di accusare chiunque si volea di lesa maestà [Sueton., in Claudio, cap. 3. Dio, lib. 60.]; e rimise in libertà o richiamò dall'esilio le persone processate per questo, con volerne nondimeno il consenso del senato. Abolì gli aggravi imposti da Caligola, nè volle i regali annui comandati da esso suo nipote. A chiunque indebitamente era stato spogliato de' suoi beni dal medesimo e da Tiberio, li restituì. Fece anche rendere alle città le statue e pitture che Caligola avea fatto condurre a Roma. Soprattutto ebbe in abbominio gli schiavi e liberti, che sotto il disordinato precedente regno si erano rivoltati contra de' lor padroni; e similmente i falsi testimoni che in addietro aveano avuta gran voga. Egli ne fece morir la maggior parte, obbligandoli a combattere negli anfiteatri colle fiere. La [147] sua modestia era grande. Abborrì l'alzare a lui dei templi; per lo più ricusò anche le statue; altri onori straordinari non volle nè per sè nè per gli figliuoli nè per la moglie. Due erano le sue figliuole: Antonia, che fu maritata a Gneo Pompeo in quest'anno, a lui nata da Elia Petina, sua seconda moglie defunta; ed Ottavia, nata da Valeria Messalina, sua moglie vivente, che fu promessa a Lucio Silano, e poi fu maritata a Nerone crudelissimo imperadore. Gli partorì essa Messalina un figliuolo nell'anno presente, conosciuto dipoi sotto nome di Britannico Cesare. Trattava egli coi senatori con molta bontà e cortesia, visitandogli anche malati, ed assistendo alle lor feste private. Onorava specialmente i consoli, alzandosi anch'egli al pari del popolo in piede, allorchè intervenivano agli spettacoli, e qualora andavano al suo tribunale per parlargli. Parcamente ancora vivea, ed era indefesso a far giustizia, ed attento perchè gli altri la facesse. La sua liberalità verso i re sudditi fu riguardevole. Ad Agrippa, a cui professava di grandi obbligazioni, concedette tutto il regno posseduto da Erode il grande suo avolo, e ad Erode suo fratello il paese di Calcide, col diritto ad amendue di sedere in senato, ed altri onori. Restituì ad Antioco la provincia di Comagene. Mise in libertà Mitridate re d'Armenia, e gli rendè i suoi stati. Richiamò ancora dal loro esilio a Roma Agrippina e Giulia Livilla, che Caligola lor fratello avea relegate nell'isola di Ponza. In somma, sì fatte lodevoli azioni sul principio acquistarono a Claudio l'amore d'ognuno, stupendosi probabilmente tutti, come un uomo creduto da nulla e stolido in addietro, comparisse ora con sì diversa divisa, e sapesse correggere con sì buon garbo gl'innumerabili disordini introdotti dai due precedenti Augusti, e con tanta amorevolezza e giustizia si fosse accinto al pubblico governo.
Anno di | Cristo XLII. Indizione XV. |
Pietro Apostolo papa 14. | |
Tiberio Claudio figlio di Druso, imperadore 2. |
Consoli
Tiberio Claudio Germanico Augusto per la seconda volta, e Cajo Cecina Largo.
Nell'ultimo di febbraio Claudio Augusto si spogliò della dignità consolare, per ornarne non si sa bene chi. Ha creduto taluno, che gli succedesse Cajo Vibio Crispo, ma giocando ad indovinare. Nelle calende di gennaio [Dio, lib. 60.] esso Claudio Augusto console fece ben giurare dai senatori l'osservanza delle leggi d'Augusto, e la giurò egli stesso; ma non pretese, nè permise un simile giuramento per quelle ch'egli facesse. S'erano già ribellati i popoli della Mauritania per la morte data da Caligola a Tolomeo re loro. In quest'anno rimasero essi sconfitti da Svetonio Paolino, che s'inoltrò sino al monte Atlante, e saccheggiò quelle contrade. Due altre rotte lor diede dipoi Osidio Geta, di maniera che posate le armi, quel paese tornò tutto all'ubbidienza di Roma. Claudio per tali vittorie prese il titolo d'imperadore per la terza volta: poichè il merito delle vittorie si attribuiva sempre al generalissimo delle milizie romane (tali erano allora gl'imperadori) e non già agli uffiziali subalterni. Patì in quest'anno [Sueton., in Claudio, cap. 20.] Roma gran fame. Claudio Augusto non mancò al suo dovere, per provvedere al bisogno. E perciocchè Roma si trovava senza porto in sua vicinanza, nè le navi nel tempo di verno osavano portar grani alla città, Claudio imprese a formarne uno di pianta: opera degna della magnificenza romana; e tanto più gloriosa per Claudio, perchè Giulio Cesare avea avuta la medesima idea, ma per la grave spesa e difficoltà di eseguirla l'aveva abbandonata. Alla sboccatura dunque del Tevere, [149] e dal lato del fiume opposto all'altro dove era Ostia, fece cavare un porto vastissimo nel continente, con due ale che si sporgevano molto in mare; il tutto guernito di marmi, e con torre o sia fanale ben alto. Si crederono gli architetti, chiamati per tal fabbrica, di spaventarlo con dirgli la sterminata spesa che costerebbe. Egli tanto più se n'invogliò, e volle farla, e la condusse a fine con gloria grande del suo nome. Resta tuttavia il nome di Porto, a quel sito, ma non già vestigio del porto medesimo. Racconta Plinio [Plinius, lib. 9, c. 6.], come testimonio di veduta, che mentre si facea quell'insigne fabbrica, capitò colà un mostro marino, chiamato orca, di smisurata grandezza. Per prenderlo bisognò inviarvi i soldati del pretorio, e varie navi, una delle quali restò affondata dall'acqua gittatavi dalle narici del pesce. Molte leggi utili e buone fece Claudio in quest'anno, e fra le altre ordinò, che i governatori e ministri delle provincie, eletti nel principio d'anno, e soliti a fermarsi lungo tempo in Roma, per tutto il marzo dovessero trovarsi alle loro provincie; e che gli eletti nol ringraziassero in senato, come era il costume. Dicea, che non essi a lui, ma egli ad essi dovea rendere grazie, perchè l'aiutavano a portare il peso del principato, e cooperavano al buon governo de' popoli, con prometter anche loro maggiori onori se con lode avessero esercitato il loro impiego.
Non sarebbe stato Claudio con tutta la sua poca testa un principe cattivo, perchè non gli mancava una buona intenzione, e mostrava genio alle cose ben fatte, privo, per altro, d'orgoglio e di fasto; e sulle prime regolandosi col consiglio dei savi non metteva il piè in fallo [Dio, lib. 60.]. Ma per sua o per altrui disgrazia cominciò a comparir cattivo, parte per li mali affetti del suo natural timoroso, e parte perchè Messalina sua moglie, la più [150] impudica donna del mondo, e Narciso suo liberto favorito, ed altri mali arnesi della corte, abusandosi della di lui scempiaggine, il faceano precipitare in risoluzioni indegne di lui, e sommamente pregiudiziali al pubblico. Quel che parve strano, dall'un canto era un coniglio pien di paura, e dall'altro uno de' suoi maggiori piaceri consisteva nell'assister agli abbominevoli spettacoli dei gladiatori, e in vedere gli uomini combattere con le fiere, e restarne assaissimi stracciati e divorati. Diede anche da ridere, l'aver egli fatto levar l'insensata statua d'Augusto dall'anfiteatro, acciocchè non vedesse tante stragi, e non convenisse ogni volta coprirla, quando egli vivente non avea scrupolo di guatarle sì spesso, e di prenderne tanto diletto. Certamente fu creduto che avvezzatosi in questa maniera al sangue umano, divenisse poi sì facile a spargerlo co' suoi ingiusti decreti, dacchè lo spingevano al mal fare l'iniqua moglie e i suoi perversi servitori di corte. La prima sua ingiustizia, che cominciò a far grande strepito, fu la morte di Appio o sia Cajo Silano, uno de' più illustri e stimati senatori di Roma, e tenuto in gran conto, ed amato da Claudio stesso, perchè [Sueton., in Claudio, cap. 29. Seneca, in Apocol.] padrigno di Messalina sua moglie, avendo sposata Domizia Lepida, madre d'essa Messalina. E perciocchè si sa che Claudio avea già fatti seguire gli sponsali fra Ottavia figliuola di Messalina, e Lucio Silano, s'è creduto che questo Lucio Silano fosse nato dal medesimo Appio Silano e da Giulia nipote d'Augusto, sua prima moglie. Questi sì stretti legami di parentela non trattennero l'infame Messalina del tentar Appio Silano d'adulterio. Il non aver egli voluto consentire fu un grave delitto, a punir il quale Messalina e Narciso si servirono della seguente furberia [Suet., ibid., cap. 87. Dio, lib. 60.]. Entrò una mattina per tempo Narciso nella camera di Claudio, che tuttavia dimorava in letto colla [151] moglie; e facendo lo spaventato e il tremante, gli raccontò di aver veduto in sogno lo stesso imperadore ucciso per mano del sopraddetto Appio. Saltò su allora Messalina, e calcò la mano con dire, aver anch'ella le notti addietro più volte con orrore sognato un sì orrendo spettacolo. Nello stesso tempo vien bussato all'uscio, ed è Appio Silano che Messalina e Narciso d'accordo aveano fatto venire a quell'ora. Non occorse di più. Claudio, a cui in materia di sospetti le biche pareano montagne, diede tosto ordine che gli fosse levata la vita, e l'ordine fu eseguito. Portò lo stesso Claudio al senato questa bella nuova, come liberato da un gran pericolo, e molto ringraziò il suo liberto Narciso che anche sognando vegliava così bene per la vita del suo padrone. Somiglianti foghe di sospetti e timori fecero, che Claudio in altre occasioni togliesse dal mondo altre persone innocenti con subitaneo furore; ed accadde talvolta (cotanto era stupido) che dopo aver fatto morir taluno, come tornato in sè, dimandava conto, credendolo vivo. Dettogli, che per ordine suo non si contava più fra i mortali, se ne rammaricava poi forte, ma senza profitto dei morti.
Credesi che l'ingiusta morte di Silano, e il mirar la stupidità di Claudio capace d'altre simili false carriere, desse moto ad una congiura contra di lui: tanto più perchè durava in molti l'idea di rimettere in piedi la libertà della repubblica, nè parea ciò difficile sotto un imperadore impastato di paura [Sueton., in Claudio, cap. 13. Dio, lib. 60.]. Annio Viniciano, o Minuciano, fu delle prime ruote di tal cospirazione, siccome quegli che non si tenea mai sicuro, dopo essere stato uno de' principali nella congiura contro Caligola, e proposto anche in senato per succedergli nell'imperio. Ma sì grande impresa non si potea compiere senza l'armi; e Claudio intanto era ben assistito dai pretoriani e dall'altre milizie, che stavano di quartiere in Roma, [152] perchè, oltre alla paga ordinaria, li rallegrava ogni anno con un buon regalo. Si rivolsero dunque i congiurati a Furio Camillo Scriboniano, che comandava ad alcune legioni nella Dalmazia, promettendogli aiuto se armato veniva a Roma. Vi saltò egli dentro, e fattasi giurar fedeltà da quell'esercito, col pretesto di restituire il popolo romano nell'antica autorità, tutto andò disponendo, con iscrivere intanto una lettera fulminante e piena d'ingiurie a Claudio, minacciandogli tutti i malanni se non rinunziava l'imperio. Ricevuta questa imperiosa intimazione, non era lontano Claudio dall'ubbidire; ma un accidente il liberò dal pericolo. Dato da Furio Camillo il segno della marcia, per caso fortuito si trovò difficoltà a sollevar le insegne che, secondo il costume, stavano conficcate in terra. Erano i Romani d'allora la più superstiziosa gente del mondo; badavano a tutto, interpretando anche le menome bagattelle per presagi favorevoli o contrari dell'avvenire. Bastò questo perchè i soldati credessero volontà degli dii il non dar esecuzione al meditato viaggio. Furio Camillo trovandosi deluso, se ne fuggì in un'isola della Dalmazia, dove [Tacit., Historiar. lib. 2, cap. 75.] fra le braccia di Giunia sua moglie fu ucciso da un semplice soldato, appellato Volaginio, il quale premiato poi da Claudio ascese ai primi gradi della milizia. Per questa sedizione terminata con tanta felicità, Claudio fece far di molte perquisizioni in Roma, affin di scoprire i complici. Alcuni furono giustiziati, altri si levarono la vita da sè stessi, fra i quali specialmente si contò il sopr'accennato Viniciano o Minuciano. Non pochi anche dei cittadini romani, de' cavalieri e insin dei senatori furono messi ai tormenti, e data licenza ai servi e liberti di accusare i loro padroni, benchè Claudio nell'anno addietro avesse abolito quegli usi. In somma si riempiè tutta Roma di sospiri e di terrore; e quei soli se n'andarono [153] salvi che seppero guadagnarsi la protezion di Messalina o dei liberti di corte. Fu osservato il coraggio di un liberto di Furio Camillo, per nome Galeso, che interrogato da Narciso nel senato, cosa egli avrebbe fatto se il suo padrone fosse divenuto imperadore: Gli avrei, rispose, tenuto dietro secondo il mio solito, ed avrei taciuto. In questa occasione [Plinius junior, lib. 3, cap. 16.] Cecina Peto, già stato console, che avea sposato il partito di Furio Camillo, fu preso e condotto a Roma in una nave. Arria sua moglie, donna di petto virile, rigettata da quella nave, gli tenne dietro in una barchetta; ed arrivata a Roma, ricorse a Messalina, per raccomandarsele. Avendo trovata con lei Giunia moglie del suddetto Furio Camillo, la rimproverò, perchè tuttavia vivesse dopo la morte del marito. Avrebbe potuto Arria, mercè del favore di Messalina, non solamente vivere, ma anche sperar buon trattamento; pure s'incapricciò tanto di non voler sopravvivere al marito, che dopo aver veduta disperata la di lui causa, prese un pugnale, si trafisse, e poi diede il ferro medesimo al marito, acciocchè facesse altrettanto. Quest'atto d'Arria vien esaltato colle trombe da Plinio il giovane in una delle sue epistole, e da Dione, secondo la falsa idea che aveano i Romani di quel tempo della gloria; quasi che possa essere conforme alla retta ragione l'uccidere un innocente, e non sia più gloriosa quella fortezza che sa sofferir le maggiori calamità. Non si può fallare, credendo che dopo la morte di Furio Camillo, fosse inviato al governo della Dalmazia o sia dell'Illirico, Lucio Ottone padre di Ottone poscia imperadore, di cui parla Svetonio [Sueton., in Othone, cap. 1.]. Fu egli sì rigoroso, che fece tagliar la testa ad alcuni semplici soldati, i quali pentiti d'aver aderito ad esso Camillo, di lor propria autorità, e contro l'ordine, aveano ucciso i loro uffiziali come autori di quella sedizione, senza far egli caso, se dispiaceva [154] a Claudio, da cui erano anche stati promossi alcuni di que' soldati a posto maggiore. Ne acquistò gloria presso i Romani, ma perdè molto della buona grazia di Claudio, con ricuperarla nondimeno da lì a poco, per avere scoperto e rilevato il disegno formato da un cavaliere di uccidere esso imperadore.
Anno di | Cristo XLIII. Indizione I. |
Pietro Apostolo papa 15. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso imperadore 3. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto per la terza volta e Lucio Vitellio per la seconda.
Non più di due mesi tenne l'Augusto Claudio il suo terzo consolato [Sueton., in Claudio, cap. 14.]. V'ha chi crede a lui succeduto nel dì primo di marzo Publio Valerio Asiatico, quel medesimo che avea tenuta mano ad abbattere il crudele Caligola, ma è opinione incerta. Vitellio console quel medesimo è che vedemmo proconsole della Siria, e che ebbe per figliuolo Vitellio poscia imperadore. Coll'adulazione si salvò sotto Caligola, con questa ancora si fece largo presso di Claudio. Nelle calende poscia di luglio giudicarono alcuni eruditi, che ai suddetti consoli ne succedessero due altri, cioè Quinto Curzio Rufo e Vipsanio Lenate. Plausibile è la lor congettura, ma non è più che congettura. V'erano sì smisuratamente moltiplicate in Roma le ferie [Dio, lib. 60.], che la maggior parte dell'anno era feriata; ed allora non si teneano i pubblici giudizii. Vi rimediò Claudio Augusto, riducendo esse ferie ad un numero discreto. Tolse vari uffizi a chi indebitamente gli avea ottenuti da Caligola, e li restituì o li conferì a chi ne era degno. Al popolo della Licia, perchè avea fatto un tumulto, con uccidere ancora non so quanti Romani, levò la libertà e sottomise quella provincia alla [155] Panfilia. Privò della cittadinanza di Roma uno di quel paese, perchè non intendea la lingua latina; ed altri spogliò del medesimo diritto per loro falli; ma conferillo poi a moltissimi altri a capriccio, nè solo ai particolari, ma anche alle università e città. Più nondimeno quelli erano, che ricorrendo con danari a Messalina e ai liberti favoriti di corte, l'impetravano, di modo che si dicea, che la cittadinanza romana, la quale una volta siccome bel privilegio si pagava carissimo, era divenuta sì a buon mercato, che con un pezzo di vetro rotto si acquistava. Nè sol questo si vendea da Messalina e da' liberti palatini, ma ancora gli uffizi militari e i governi, con entrar anche a far traffico e a cavar danaro dalla grascia e dall'altre cose che si vendevano: il che fece incarire i lor prezzi, e necessario fu che Claudio nel campo Marzio alla presenza del popolo li tassasse. Ed intanto Messalina più che mai datasi in preda alla libidine [Juvenalis, Satyra 6. Dio, lib. 60. Sueton. in Claud., cap. 26.], e sfacciatamente adultera, senza rispetto alcuno del marito, era l'oggetto delle dicerie della gente accorta. Se vero è ciò che ne scrisse Giovenale, lasciato la notte in letto l'addormentato buon consorte, travestita passava ai pubblici lupanari; nè contenta dell'infame suo vivere, forzava anche altre nobili donne, con chiamarle a palazzo a prostituire la lor pudicizia ed anche alla presenza de' lor mariti. A chi d'essi si contentava, non mancavano onori e posti, agli altri che non amavano questo vituperoso giuoco fabbricava trappole per farli condannare e morire, trovando maniere che non penetrasse agli orecchi del goffo marito l'enorme sordidezza del viver suo. Perciò Claudio era quasi il solo che non sapesse un'infamia sì mostruosa. Anzi scioccamente talvolta cooperava alle pazze voglie di lei, siccome fra l'altre avvenne di Mnestore famoso istrione o sia commediante. Era perduta nell'amore di costui la bestial [156] Messalina, nè mai con preghiere o minacce avea potuto trarlo alle sue voglie, perchè egli dovea ben misurare il pericolo di quel salto. Lamentossi ella con Claudio, che Mnestore la sprezzava, nè volea ubbidirla in certo altro affare. Fattolo chiamare, l'Augusto bufalo gli ordinò di far tutto quanto ella gli comandasse. Nell'anno presente ancora riuscì a Messalina di levar dal mondo due principesse della casa cesarea [Seneca, in Apocol. Suetonius, in Claudio, cap. 29.], cioè Giulia figliuola di Druso Cesare figliuol di Tiberio, e Giulia Livilla sorella dell'ucciso Caligola, e di Agrippina, poi moglie dello stesso Claudio. Perchè esse voleano gareggiar con lei in bellezza e in possanza, nè usavanle assai finezze, e Livilla inoltre da sola a solo parlava spesse volte con Claudio, seppe così offuscare il cervello del marito Augusto, che senza lasciar loro agio per difendersi, le inviò all'altro mondo, l'una col ferro, l'altra colla fame. Il celebre filosofo Seneca, perchè amico di Livilla, fu in tal congiuntura relegato nella Corsica, e si vendicò poi di Claudio morto con una satira che si è conservata sino ai dì nostri.
Finquì la grand'isola della Bretagna, oggidì appellata Inghilterra, non avea piegato il collo sotto il giogo de' Romani. Perchè quantunque Orazio [Horatius, Odar., lib. 3, I.] sembri indicare, che Augusto vincesse que' popoli, e Servio [Servius, in Virgil., Georg. 3.] chiaramente l'insegni; pure Strabone [Strab., lib. 2.] assai fa conoscere che ciò non sussiste; ed è certo, che anche ai tempi di Claudio que' popoli viveano sottoposti a' vari loro re, amici solamente, ma non sudditi di Roma. Per cagione [Sueton., in Claud., cap. 17. Dio, lib. 60.] d'alcuni desertori non restituiti s'intorbidò la buona armonia fra i Britanni e i Romani; e un certo Berico cacciato dalla Bretagna, tanto seppe dire ad Aulo Plauzio senator chiarissimo, [157] pretore allora e governatore della Germania inferiore, che gli fece credere facili le conquiste in quell'isola. Claudio informato della proposizione, e voglioso di guadagnare un trionfo, vi consentì. Trovò Plauzio una somma renitenza nell'esercito, per uscire del continente e passare in paese incognito; nè si voleano in fatti muovere. Arrivò colà Narciso spedito con ordini pressanti da Claudio. Questo liberto, gonfio pel gran favore del padrone, arditamente salì sul tribunale di Plauzio per fare un'aringa ai soldati. Allora a tutti montata la collera, cominciarono a gridare: Ben venuti i Saturnali; perchè in que' giuochi i servi si travestivano con gli abiti de' padroni. E senza volerlo ascoltare, alzate le bandiere, tennero dietro a Plauzio, il quale colle navi preparate andò poi a fare uno sbarco nella Bretagna. Non si aspettavano que' popoli una tal visita; e perchè non s'erano nè preparati nè uniti, si diedero alla fuga, nascondendosi nelle selve e nelle paludi. Con Plauzio andò anche Vespasiano, che fu poi imperadore. S'impadronirono questi due valorosi uffiziali d'una parte di quel paese sino al Tamigi; nè osando Plauzio di passar oltre, significò con sue lettere la positura degli affari a Claudio, e quali popoli egli avesse soggiogato, quali Vespasiano; e come Cajo Sidio Geta inviluppato dai nemici con pericolo d'esser preso, gli avea poi sbaragliati. Claudio o avea già fatta o fece allora la risoluzione di passar colà in persona. Lasciato dunque il governo di Roma a Lucio Vitellio, ch'era stato o pur tuttavia era console, probabilmente nella state s'imbarcò, e da Ostia fece vela verso Marsiglia, con patire per viaggio una pericolosa burrasca. Poscia parte per terra, parte per mare arrivò all'Oceano: e finalmente raggiunse l'armata, che stava tuttavia accampata presso al fiume Tamigi. Valicato quel fiume, sconfisse i Britanni accorsi in gran copia per impedirgli il passaggio, e prese Camaloduno reggia di Cinobellino. Così [158] Dione [Dio, lib. 60.]: laddove Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 17.] scrive non aver egli data battaglia alcuna. Certo è, che per quelle imprese due o tre volte conseguì di nuovo il titolo di imperadore, titolo indicante qualche nuova vittoria. Anche Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 13.] afferma aver egli conquistato un buon tratto di paese nella Bretagna, e domati ivi alcuni di quei re; e Svetonio [Sueton., in Vesp., cap. 4.] stesso asserisce che Vespasiano in quella spedizione, ora sotto Plauzio ed ora sotto lo stesso Claudio Augusto, si segnalò con essere ben trenta volte venuto alle mani con que' popoli, ed aver sottomesse due di quelle possenti nazioni, prese venti città e l'isola di Vicht. Non molto tempo si fermò Claudio in quelle contrade, e dopo aver tolte l'armi agli abitanti del paese conquistato, e lasciato Plauzio coll'esercito al loro governo, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Sei mesi spese nell'andare e venire; ed abbiamo da Seneca [Seneca, in Apocol.] e da Tacito [Tacitus, Annal., lib. 14, c. 31.], che nella Bretagna fu alzato un tempio a questo imperadore, la cui impresa aprì l'adito all'armi romane di stendersi maggiormente coll'andare degli anni in quella vasta isola. Giunti a Roma molto prima di Claudio, Gneo Pompeo e Lucio Silano, generi d'esso imperadore, coll'avviso del lieto avvenimento [Dio, lib. 60.], il senato decretò il trionfo a Claudio, e diede tanto a lui che al picciolo suo figliuolo Claudio Tiberio Germanico, il titolo di Britannico, con ordinar dei giuochi da farsi ogni anno in sua memoria e l'erezione di due archi trionfali, l'uno in Roma e l'altro al lido della Gallia, dove Claudio entrò in mare per passare in Bretagna. Accordò inoltre a Messalina moglie di Claudio, ancorchè non avesse il titolo d'Augusta, il primo luogo nelle pubbliche adunanze, (il che può parere strano) [159] e il poter andare nel carpento, cioè in carrozza singolare, di cui godeano per privilegio le sole Vestali e i Sacerdoti, ed entrar con essa ne' pubblici spettacoli. Nello stesso tempo pubblicarono un editto, che chiunque avesse monete di rame coll'immagine dell'odiato Caligola, le portasse alla zecca da essere disfatte. Sopra questo rame o bronzo mise tosto le mani Messalina, e ne fece formar delle statue al suo caro drudo Mnestore commediante.
Anno di | Cristo XLIV. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 16. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 4. |
Consoli
Lucio Quintio Crispino per la seconda volta e Marco Statilio Tauro.
Da un'iscrizion del Grutero raccolse il cardinale Noris [Noris, Epistola Consulari.] che il prenome di Statilio Tauro fu Marco. Un'altra tuttavia esistente in Roma nel museo del Campidoglio, e da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 304, num. 3.] pubblicata, fu posta MANIO AEMILIO LEPIDO, T. STATILIO TAURO COS. Quando questa appartenga all'anno presente, si può inferirne, che essendo mancato di vita, ovvero avendo dimessa la dignità, il primo de' consoli Crispino, a lui succedesse Manio Emilio Lepido. Similmente se ne ricaverebbe, che il prenome di Statilio Tauro era Tito e non Marco. Ma di ciò all'anno seguente. Arrivò l'imperador Claudio dalla Bretagna in Italia, e, per testimonianza di Plinio [Plin., lib. 3, cap. 16.], andò ad imbarcarsi ad una delle bocche del Po, appellata Vatreno, in un grosso legno, somigliante piuttosto ad un palazzo che ad una nave. Pervenuto a Roma, trionfante v'entrò [Sueton., in Claudio, cap. 17.] colle solite formalità. Sommamente [160] magnifico e maestoso fu l'apparato, ed ottennero licenza i governatori delle provincie, ed anche alcuni esiliati, d'intervenirvi. Osserva Dione [Dio, lib. 60.], che Claudio salì ginocchione al Campidoglio, sollevandolo di qua e di là i due suoi generi; e che dispensò, ma con profusione, gli ornamenti trionfali non solo alle persone consolari, che l'aveano accompagnato in quella spedizione, ma anche ad alcuni senatori contro il costume. Celebrò dipoi i giuochi trionfali in due teatri. Vi furono più corse di cavalli, cacce di fiere, forze d'atleti, balli di giovani armati. Le altre azioni lodevoli di Claudio in quest'anno si veggono brevemente riferite da Dione. Avea Tiberio tolte al senato le provincie della Grecia e Macedonia, con deputarne al governo i suoi uffiziali. Claudio gliele restituì, e tornarono a reggerle i proconsoli. Rimise in mano dei questori, come anticamente si usava, la tesoreria del pubblico, togliendola ai pretori. Possedeva Marco Giulio Cozio, il principato avito di un bel tratto di paese nell'Alpi che separano l'Italia dalla Gallia, appellate perciò Alpi Cozie. Gli accrebbe Claudio quel dominio, e, per attestato del medesimo Dione, gli concedè il titolo di re: cosa, dice egli, non praticata in addietro. Eppure nell'arco celebre di Susa, tuttavia esistente, la cui iscrizione pubblicata dal marchese Maffei [Scipio Maffei, Diplomat.], ho ancor io [Thesaurus Novus Inscription., pag. 1095.] data alla luce, si legge M. IVLIVS REGIS DONNI FILIVS COTTIVS. Quella iscrizione fu posta ad Augusto. Però sembra che non ora cominciasse il titolo di re in que' principi, e che Augusto, nel conquistar quelle contrade, le lasciasse bensì in signoria a Giulio figliuolo del re Donno, ma senza il titolo di re, il quale fu poi restituito da Claudio a Marco Giulio Corio di lui figliuolo o nipote. Avevano i cittadini di Rodi crocifissi alcuni Romani, che forse meritavano la morte; [161] ma perchè quel supplizio era ignominioso, e in riputazione grande si tenea il privilegio della cittadinanza romana, Claudio levò loro la libertà, cioè il governarsi colle lor leggi e co' propri ufiziali, benchè poi loro la restituisse nell'anno di Cristo 53. Mancò di vita in quest'anno Erode Agrippa re della Giudea, allorchè si trovava in Cesarea [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 19.]. Credevasi che Claudio Augusto lascerebbe succedere in quel regno il di lui figliuolo Agrippa; ma prevalendo i consigli de' suoi liberti, ne diede il governo a Cuspio Fado cavalier romano: con che Gerusalemme restò di nuovo senza i suoi re, immediatamente sottoposta ai governatori romani.
Anno di | Cristo XLV. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 17. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 5. |
Consoli
Marco Vinicio per la seconda volta e Tauro Statilio Corvino.
Secondo le osservazioni del cardinal Noris, tali furono i consoli dell'anno presente, e, secondo lui, Tauro fu il prenome di Statilio: del che certo si può dubitare, perchè in un passo di Flegonte [Phlegon., de Mirabilib., cap. 6.] si parla di un fatto avvenuto in Roma, essendo consoli Marco Vinicio e Tito Statilio Tauro, cognominato Corvilio: dove apparisce Tauro cognome. Abbiam veduto nell'anno precedente rammentata un'iscrizione posta MANIO ÆMILIO LEPIDO ET T. STATILIO TAURO COS. Non ho io saputo dire, e neppure lo so ora, a qual anno precisamente appartenga questo pajo di consoli. Certamente questo Tito Statilio Tauro non sarà stato console tanto in questo che nell'antecedente anno, perchè ciò sarebbe stato notato ne' Fasti; e però lo Statilio di quell'anno dee essere [162] diverso dal presente. Osservarono il Panvinio ed altri, che ai consoli suddetti dovettero essere sostituiti Marco Cluvio Rufo e Pompeo Silvano, ricavandosi ciò da un rescritto di Claudio, riferito da Giuseppe Ebreo [Joseph., lib. 19.], e fatto sul fine di giugno, correndo la quinta sua podestà tribunizia. Per altro, ancorchè finora abbiano faticato vari valenti letterati, non possiam dire superate per anche le tenebre sparse qua e là ne' Fasti consolari, restandovi tuttavia molto di scuro e molte imperfezioni. Piena era oramai Roma di statue [Dio, lib. 60.] e d'immagini pubbliche o di marmo, o di bronzo, perciocchè ad ognuno era permesso il metterne: il che rendeva troppo familiare ed anche vile un onore che dovea essere riserbato alle persone di merito distinto. Claudio ne levò via la maggior parte, ordinando insieme, che da lì innanzi niun potesse esporre l'immagine sua senza licenza del senato, a riserva di chi facea qualche fabbrica nuova, o rifacea le vecchie, per animar ciascuno ad accrescere gli effetti di Roma. Mandò in esilio il governatore di una provincia, perchè fu convinto d'aver preso dei regali, e gli confiscò tutto quello che avea dianzi guadagnato nel governo. Fece ancora un editto, che a niuno dopo un ufizio esercitato nelle province, se ne potesse immediatamente conferire un altro: legge anche altre volte stabilita; acciocchè nel tempo frapposto potesse chi avea delle querele contra di tali persone, proporle con franchezza. Proibì ancora, finiti i loro governi, il pellegrinare in altri paesi, volendo che tutti venissero a Roma, per essere pronti a quello che ora noi chiamiamo sindacato. Nell'anno presente spese Claudio di molto in dar sollazzo al popolo con altri pubblici giuochi; e alla plebe, solita a ricevere gratis il frumento del pubblico, donò trecento sesterzi per cadauno; e vi fu di quelli che n'ebbero per testa fino mille e dugento [163] cinquanta. Nel giorno suo natalizio [Sueton., in Claudio, cap. 2.], cioè nel dì primo di agosto, in cui dieci anni prima dell'Era nostra egli venne alla luce in Lione, correva in quest'anno l'ecclissi del sole. Claudio con pubblico monitorio ne fece alcuni dì prima avvertito il popolo, acciocchè sapessero quello essere un effetto necessario del corso dei pianeti, e non ne tirassero qualche mal augurio, per lui, come per poco soleano fare in tanti altri affari i Romani, essendo troppo quella gente nudrita dagl'impostori nella superstizione. Le medaglie [Mediobarbus, Numismat. Imperator.] ci fan vedere che, tanto nel precedente che nel presente anno, Claudio prese più volte il titolo d'imperadore, trovandosi nominato imperadore per la decima volta. Indizii son questi, che i suoi generali nella Bretagna doveano aver fatti de' progressi coll'armi; ma di ciò non resta vestigio nella storia.
Anno di | Cristo XLVI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 18. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 6. |
Consoli
Publio Valerio Asiatico per la seconda volta, e Marco Giunio Silano.
Dal trovar noi Valerio Asiatico nominato console per la seconda volta, apparisce aver ottenuto l'eccelso grado di console un qualche anno innanzi, sostituito ai consoli ordinari; ma in quale non si è potuto finora esattamente sapere. Se crediamo al Panvinio [Panvinius, in Fast. Consularibus.] e ad altri, nelle calende di luglio a questi consoli succederono Publio Suillo Rufo e Publio Ostorio Scapula. Che ancor questi veramente arrivasse al consolato, ne abbiam delle prove; ma se veramente in quest'anno, ciò non si può accertare. Era [Dio, lib. 60.] Marco [164] Giunio Silano console fratello di Lucio, da noi veduto genero di Claudio Augusto. Diede molto da dire a' Romani la risoluzion presa in quest'anno dal suddetto Asiatico console. Siccome era stato determinato da Claudio per fargli onore, egli dovea ritener per tutto l'anno il consolato; ma spontaneamente lo rinunziò. Aveano ben fatto lo stesso alcuni altri consoli, per mancar loro le ricchezze sufficienti a sostener la spesa enorme che occorreva in celebrar i giuochi circensi, addossata alla borsa dei consoli, e cresciuta poi a dismisura. Era giusta la scusa e ritirata per questi, ma non già per Asiatico, ch'era uno de' più ricchi nobili del romano imperio, possedendo egli delle rendite sterminate nella Gallia, patria sua. Il motivo da lui addotto fu quello di schivare l'invidia altrui pel suo secondo consolato; ma poteva meglio assicurarsene col non accettarlo neppure per i primi sei mesi; e può credersi che non andò esente dalla taccia di avarizia quella spontanea sua rinunzia. Vedremo all'anno seguente i frutti amari di tante sue care ricchezze. Nel presente toccò la mala ventura a Marco Vinicio, personaggio illustre, già marito di Giulia Livilla, cioè d'una sorella di Caligola. Non l'avea nel suo libro Messalina, dopo aver essa procurata la morte alla di lui consorte. Crebbero anche i sospetti e gli odii contra la di lui persona, dacchè (per quanto fu creduto) l'onestà di lui diede una negativa alle impure voglie della medesima Messalina. Seppe ella fargli dare sì destramente il veleno, che il mandò per le poste al paese di là, con permettere dipoi, che dopo morte gli fosse fatto il funerale alle spese del pubblico: onore molto familiare in questi tempi. Da Agrippina, prima che divenisse moglie di Tiberio Augusto, era nato Asinio Pollione, il quale perciò fu fratello uterino di Druso Cesare figliolo di Tiberio. Nel cervello d'esso Pollione entrarono in quest'anno grilli di grandezze e desiderii di divenir imperadore; e cominciò egli per questo alcune tele [165] con sì poca avvertenza, che ne arrivò tosto la contezza a Claudio. Teneva ognuno per certa la di lui morte; ma Claudio si contentò di mandarlo solamente in esilio, o perchè non avea fatta adunanza alcuna di gente o di danaro per sì grande impresa, o perchè il trattò da pazzo, considerata anche la sua piccola statura e deformità del volto, per cui era comunemente deriso, nè ciera avea da far paura a chi sedeva sul trono. Di questa sua indulgenza riportò Claudio non poca lode presso il pubblico, siccome ancora per altre azioni di giustizia e di zelo pel buon governo, e massimamente per la giustizia. All'incontro era universale la doglianza e mormorazione, perchè egli si lasciasse menar pel naso da Messalina sua moglie e dai suoi favoriti liberti; di modo che egli pareva non più il padrone, ma bensì lo schiavo di essi. Condannato fu (che così si usava ancora) a combattere nei giuochi de' gladiatori Sabino, stato governator nella Gallia a' tempi di Caligola, per le sue molte rapine e iniquità. Desiderava Claudio, e gli altri più di lui, che questo mal uomo lasciasse ivi la vita, come solea per lo più succedere. Ma Messalina, che anche di costui si valeva per la sua sfrenata sensualità, il dimandò in grazia, nè Claudio gliel seppe negare. Ed intanto ogni dì più si mormorava, perchè Mnestore, commediante allora famoso, non si lasciava più vedere al teatro. Era egli in grazia grande presso il popolo per la sua arte, e specialmente per la sua perizia nel danzare; ma in grazia di Messalina era egli maggiormente per la sua avvenenza. Dolevasi la gente d'essere priva di un sì valente attore, ma più perchè ne sapeva la cagione, e la sapevano anche i più remoti da Roma. Altri non v'era, che il buon Claudio, il quale ignorasse, quanta vergogna albergasse nel proprio suo palazzo. Eusebio Cesariense [Eusebius, in Chronico et in Excerptis.] solo è a scrivere, che circa questi tempi essendo stato ucciso Rematalce [166] re della Tracia da sua moglie, Claudio Augusto ridusse quel paese in provincia, e ne diede il governo ai suoi uffiziali.
Anno di | Cristo XLVII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 19. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 7. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto Germanico per la seconda volta, e Lucio Vitellio per la terza.
Abbiamo da Svetonio [Suetonius, in Claudio, cap. 4.], che Claudio Augusto non fu già console ordinario con Lucio Vitellio in quest'anno. Un altro, il cui nome non sappiamo, procedette console nel principio di gennaio; ma perchè questi da lì a poco finì di vivere, Claudio non isdegnò di succedere in suo luogo. Vitellio qui mentovato, lo stesso è che fu proconsole della Soria, e padre di Vitellio imperadore. Tanti onori a lui compartiti erano i frutti della sua vile adulazione. Secondo la supputazion di Varrone, questo era l'anno ottocentesimo della fondazion di Roma [Suetonius, in Claudio, cap. 21. Tacitus, lib. 11, cap. 11.]; e però Claudio diede al popolo il piacere de' giuochi secolari, i quali propriamente si doveano fare ad ogni cento anni. Ma a que' giuochi accadde ciò che si osservò nel giubileo romano cominciato nel 1300, che dovea rinnovarsi solamente cento anni dipoi; ma poi fu celebrato in anni diversi. Erano passati solamente sessantaquattro anni, dacchè Augusto diede questi giuochi, e viveano tuttavia delle persone che vi assisterono, e degl'istrioni che aveano ballato in essi, fra' quali Stefanione, commemorato da Plinio [Plinius, lib. 7, cap. 48. Zosimus lib. 1.]. Però essendo solito il banditore, nell'invitare a questi giuochi il popolo, di dire che venissero ad uno spettacolo che [167] non aveano mai più veduto, nè sarebbono mai più per vedere, si fecero delle risate alle spese di Claudio. Ancor qui notata fu l'adulazione del console Vitellio, perchè fu udito dire a Claudio, che gli augurava di poter dare altre volte questi medesimi giuochi. Comparve ne' giuochi suddetti Britannico figliuolo dell'imperadore insieme col giovinetto Lucio Domizio, che fu poi Nerone imperadore; e si osservò che l'inclinazion del popolo correa più verso questo giovine, perchè era figliuolo di Agrippina principessa amata da essi, non tanto per essere stata figlia dell'amato Germanico, quanto perchè la miravano perseguitata da Messalina. Si contano ancora sotto quest'anno alcune azioni lodevoli di Claudio [Dio, lib. 60.]. Prodigiosa era la quantità degli schiavi che ogni nobil romano teneva al suo servigio [Sueton., in Claudio, cap. 25.]. Allorchè i miseri cadeano infermi, costumavano alcuni de' loro padroni, per non soggiacere alla spesa, di cacciarli fuori di casa, mandandoli nell'isola del Tevere, acciocchè Esculapio, a cui quivi era dedicato un tempio, li guarisse, ed esponendogli in tal guisa al pericolo di morir di fame. Fece Claudio pubblicar un editto, che gli schiavi cacciati da' padroni, s'intendessero liberi, nè fossero obbligati a tornar a servire. Che se, in vece di cacciarli, volessero levarli di vita, si procedesse contra di loro come omicidi. Inoltre essendo denunziati alcuni di bassa sfera, quasi che avessero insidiato alla di lui vita, niun caso ne fece, con dire, «non essere nella stessa maniera da far vendetta di una pulce, che d'una fiera.» Ordinò ancora, che i liberti ingrati ai lor padroni tornassero ad essere loro schiavi: legge sempre dipoi osservata. Rimosse dal senato alcuni senatori, perchè, essendo poveri, non poteano con dignità calcare quel posto: il che a molti di loro fu cosa grata. E perchè un Sordinio nativo della Gallia, ed uomo ricco, poteva con decoro sostenere la dignità [168] senatoria, e Claudio intese ch'era partito per andarsene a Cartagine, disse: «Bisogna ch'io fermi costui in Roma con i ceppi d'oro;» e richiamatolo indietro, il creò senatore. Insorsero gravi querele contro gli avvocati che esigevano somme immense dai lor clienti. Fu in procinto il senato di proibire affatto ogni pagamento. Claudio volle che si tassasse una molto leggiera somma.
Ma se Claudio da tali azioni riportò lode, maggior fu bene il biasimo che a lui venne, per essersi lasciato condurre a dar la morte in questo medesimo anno a varie illustri persone, per le maligne insinuazioni di Messalina sua moglie. Aveva egli accasata con Gneo Pompeo Magno, Antonia sua figliuola. La matrigna Messalina, che odiava l'uno e l'altra, seppe inventar tante calunnie, dipingendo il genero Pompeo per insidiatore della vita di lui, che Claudio gli fece tagliar la testa. Per altro costui offuscava la nobiltà de' suoi natali con dei vizii nefandi. Nè qui si fermò la persecuzione. Fece anche morire Crasso Frugi e Scribonia genitori d'esso Pompeo, tuttochè, per attestato di Seneca [Seneca, in Apocol.], Crasso fosse così stolido, che meritasse d'essere imperadore, come era Claudio. Antonia fu poi maritata con Cornelio Silla Fausto fratello di Messalina. A Valerio Asiatico, da noi già veduto due volte console, le sue molte ricchezze furono in fine cagione di totale rovina [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 1.]. Con occhio ingordo le mirava Messalina, e massimamente coi desiderii divorava gli orti di Lucullo, da lui maggiormente abbelliti. S'inventarono vari sospetti e delitti di lui, ed avendo egli determinato di passar nelle Gallie, dove possedea dei gran beni, fu fatto credere a Claudio, che ciò fosse per sollevar contra di lui le legioni della Germania. Condotto da Baja incatenato, ed accusato, con forza si difese, allegando che non conosceva alcuno de' testimoni prodotti contra di lui. Si fece [169] venire innanzi un soldato, che protestava d'essere intervenuto al trattato della congiura. Dettogli, se conosceva Asiatico: senza fallo, rispose. Che il mostrasse: data una girata d'occhi sopra gli astanti, sapendo che Asiatico era calvo, indicò un calvo, ma che non era Asiatico. Niuno dell'uditorio potè contenere le risa, e l'assemblea fu finita. Già pensava Claudio ad assolverlo per innocente, quando entrò in sua camera l'infame Vitellio il console, imboccato da Messalina, che colle lagrime agli occhi mostrò gran compassione d'Asiatico, e poi finse d'essere spedito da lui per impetrar la grazia di potere scegliere quella maniera di morte che più a lui piacesse. Il bietolone Augusto, senza cercar altro, credendo che per rimprovero della coscienza rea egli non volesse più vivere, accordò la grazia richiesta. Asiatico si tagliò dipoi le vene, e rendè contenta, ma non sazia l'avarizia e crudeltà di Messalina, la quale per altre somiglianti vie condusse a morte Poppea moglie di Scipione, la più bella donna de' suoi tempi, e madre di Poppea, maritata poi coll'Augusto Nerone. Nulla seppe di sua morte Claudio. D'altri nella stessa guisa abbattuti parla Tacito, la cui storia maltrattata dai tempi torna a narrarci gli avvenimenti d'allora, quando quella di Dione per la maggior parte è venuta meno. In quest'anno [Tacitus, Annal., lib. II, cap. 14. Suetonius in Claud., cap. 41.] ancora si credè Claudio d'immortalare il suo nome anche fra i grammatici, con aggiugnere tre lettere all'alfabeto latino. Una delle quali fu F scritto al rovescio per significare l'V consonante. Ma dopo la sua morte morirono ancora le da lui inventate lettere. Furono in quest'anno rivoluzioni in oriente. Essendo stato ucciso Artabano re dei Parti, disputarono del regno coll'armi in mano due suoi figliuoli. Prese Claudio questa occasione per inviar Mitridate fratello di Farasmane re dell'Iberia a ricuperare il regno dell'Armenia, già occupato dai Parti. Ed [170] egli in fatti se ne impadronì, e vi si sostenne col braccio de' Romani. Nè fu senza moti di guerra la Germania. Essendo morto Sanquinio, che comandava l'armi romane nella Germania bassa, in suo luogo fu inviato Gneo Domizio Corbulone, che riuscì dipoi il più valente capitano che allora si avesse Roma. Innanzi ch'egli arrivasse colà, i Cauci aveano fatte delle scorrerie nei lidi della Gallia. Subito che Corbulone fu alla testa delle legioni, soggiogò essi Cauci; fece tornare all'ubbidienza i popoli della Frisia, che s'erano ribellati alcuni anni prima: rimise fra le truppe romane con gran rigore l'antica disciplina. Era per far maggiori imprese, se il pauroso Claudio Augusto non gli avesse scritto di ripassare il Reno, e di lasciar in pace i Barbari. Ubbidì Corbulone, ma con esclamare: Felici gli antichi generali! Claudio a lui concedè poi gli ornamenti trionfali. Venuto anche a Roma Aulo Plauzio, il quale s'era segnalato nella guerra della Bretagna, accordò a lui pure l'onore dell'ovazione, che così chiamavano il picciolo trionfo. Già s'era cominciato a riserbare il vero trionfo ai soli imperadori, perchè soli essi erano i generalissimi dell'armi romane, e a loro si attribuiva l'onor di qualunque vittoria che fosse riportata dai subalterni.
Anno di | Cristo XLVIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 20. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso imperadore 8. |
Consoli
Aulo Vitellio e Quinto Vipsanio Poblicola.
Il primo di questi consoli fu poscia imperadore. Per attestato di Svetonio [Sueton., in Vitellio, cap. 3.] ad esso Aulo Vitellio nelle calende di luglio venne sostituito Lucio Vitellio suo fratello: tanto poteva nella corte di allora Lucio Vitellio lor padre, il re degli [171] adulatori. Trattossi nell'anno presente in senato [Tacitus, Annal., lib. II, cap 23.] di crear dei nuovi senatori in luogo dei defunti, e seguì molta disputa, perchè i popoli della Gallia Comata dimandavano di poter anch'essi concorrere a tutte le dignità e agli onori della repubblica romana. Fu contraddetto da non pochi; ma prevalse il parere di Claudio, che, addotto l'esempio de' maggiori, sostenne non doversi negar la grazia, perchè ridondava in pubblico bene, e in accrescimento di Roma. Come censore fece Claudio ancora alcune buone ordinazioni, e fra l'altre spurgò il senato di alcune persone di cattivo nome, e ciò con buona maniera: perciocchè sotto mano lasciò intendere a que' tali, che se avessero chiesta licenza di ritirarsi, l'avrebbono conseguita. Propose il console Vipsanio, che si desse a Claudio il titolo di Padre del senato. Claudio, conosciuto che questo era un trovato dell'adulazione, lo rifiutò. Fu fatto in quest'anno da esso Augusto parimente, come censore, e dal vecchio Lucio Vitellio suo collega, il lustro, cioè la descrizione di tutti i cittadini romani: il che non vuol già dire degli abitanti in Roma, perchè tanti forestieri venuti a quella gran città non erano tutti per questo cittadini di Roma, e molto meno tante e tante migliaia di servi, cioè schiavi che servivano allora in Roma ai benestanti. Niuno degli antichi scrittori ci ha lasciato il conto di quante anime allora vivessero in Roma; città, che in que' tempi forse di non poco superava le moderne di Parigi e di Londra. Un'iscrizione che di ciò parla, merita d'essere creduta falsissima, siccome osservò Giusto Lipsio [Lipsius, in Notis ad Tacit. lib. 40.]. Per cittadini dunque romani si intendevano tutte quelle persone libere, che godeano allora la cittadinanza romana sì in Roma, che nelle provincie; giacchè non per anche questo privilegio s'era dilatato a tutto l'imperio romano, come ne' tempi susseguenti avvenne. Di [172] tali cittadini si trovarono nella descrizion suddetta sei milioni e novecento e quarantaquattromila.
Giunta era all'eccesso l'impudicizia e la baldanza di Messalina moglie di Claudio Augusto. Volle ella nell'anno presente far un colpo, a credere il quale gran fatica si dura, non sapendosi capire come potesse arrivar tant'oltre la sfacciataggine di una donna e la balordaggine di un marito, e marito imperadore. Lo stesso Tacito confessa [Tacit., Annal., lib. 11, cap. 26.], che ciò parrà favoloso: tuttavia tanto egli, quanto Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 26.] e Dione [Dio, lib. 60.], ci dan per sicuro il fatto. Era impazzita questa rea femmina dietro a Cajo Silio, giovane, non men per la nobiltà che per la bellezza del corpo, riguardevole. Avea Claudio a disegnarlo console per l'anno prossimo. Nè bastandole di mantenere un indegno commercio con questo giovane, determinò in fine di contraere matrimonio con lui, benchè vivente Claudio, nè ripudiata da lui. Dicono, ch'essendo ito Claudio ad Ostia per affari della pubblica annona, ella fingendo qualche incomodo di sanità, si fermò in Roma, e con gran solennità fece stendere lo strumento del contratto, munito di tutte le clausole consuete, donando a Silio tutti i più preziosi arredi del palazzo imperiale, e compiendo la funzione coi sagrifizii e con un magnifico convito. Fu poi esposto [Tacitus, Annal., lib. 11, cap. 30.] a Claudio, che alla presenza del senato, del popolo e de' soldati tutto ciò era seguito. Ha dell'incredibile. Svetonio aggiugne, aver Messalina indotto lo stesso imperadore a sottoscrivere quell'atto, con fargli credere che fosse una burla, e ciò utile per allontanare un pericolo che a lui sovrastava, predetto dagl'indovini, e per farlo ricadere sopra Silio, finto imperadore. Sì lontana da ogni verisimile è questa partita, che patisce l'intelletto a crederla vera. Sarà [173] stata probabilmente una diceria del volgo, solito ad aggiugnere ai fatti veri delle false circostanze; nè Tacito ne parla. Comunque sia, un gran dire per questo sì sfoggiato ardimento fu per Roma tutta. Il solo Claudio nulla ne sapea, perchè attorniato dai liberti, tutti paurosi di disgustar Messalina, l'incorrere nella disgrazia di cui, e il perdere la vita, andavano bene spesso uniti. Tuttavia troppo facile era lo scorgere che Messalina, dopo aver fatto Silio suo marito, era dietro a farlo anche imperadore, con un totale sconvolgimento del pubblico e della corte, a cui terrebbe dietro infallibilmente la rovina ancora d'essi liberti, tanto favoriti da Claudio. Si aggiunse ancora, che avendo Messalina fatto morir Polibio [Dio, in Excerptis Valesianis.], uno de' più potenti fra essi nella corte, impararono gli altri a temere un'egual disavventura. Perciò Callisto, Pallante e Narciso, liberti i più poderosi degli altri nell'animo di Claudio, presero la risoluzione di aprire gli occhi all'ingannato Augusto. Ma non istettero saldi i due primi nel proposito, paventando, che se Messalina giugneva a parlare una sola volta a Claudio, saprebbe inorpellar sì bene il fatto, che sfumerebbe in lui tutto lo sdegno. Narciso solo stette costante, nè attentandosi egli a muoverne il primo parola, fece che alcune puttanelle di Claudio gli rivelassero non solamente la presente infamia, ma ancora la storia di tutti i precedenti scandali originati dalla trabbocchevol libidine e crudeltà di Messalina. Attonito Claudio fa tosto chiamar Narciso, il quale chiesto perdono in prima, e addotte le cagioni del silenzio finora osservato, conferma il fallo, e rivela altri complici della disonestà di Messalina. Turranio presidente dell'annona, e Lusio Geta prefetto del pretorio chiamati anch'essi attestano il medesimo, con rappresentare e caricare il pericolo di perdere vita ed imperio, imminente a Claudio per gli ambiziosi disegni di Silio e di Messalina, e il bisogno di [174] provvedervi con mano forte, senz'ascoltar discolpe e parole lusinghiere della traditrice consorte. Rimase sì sbalordito Claudio, che andava di tanto in tanto dimandando, s'egli era più imperadore, se Silio menava tuttavia vita privata.
Era il mese d'ottobre, e fu veduta Messalina più gaia del solito divertirsi alle feste di Bacco [Tacitus, lib. II, cap. 31.], che si faceano per le vendemmie, prendendo essa la figura di Baccante, e Silio quella di Bacco. Quand'ecco di qua e di là giugnere a Roma l'avviso, essere Claudio consapevole di tutte le sue vergogne, e venire a Roma per farne vendetta. Il colpo di riserva, su cui riponeva le sue speranze Messalina, era quello di poter parlare a Claudio, fidandosi, che, come tant'altre volte era accaduto, ora ancora placherebbe l'insensato marito. Ma questo appunto era quello, da cui l'accorto Narciso volea tener lontano il padrone: al qual fine impetrò di avere per quel giorno il comando delle guardie, rappresentando la dubbiosa fede di Lusio Geta; ed insieme ottenne di venir anch'egli in carrozza coll'imperadore a Roma. Nella stessa venivano ancora Lucio Vitellio e Publio Cecina Largo, senza mai articolar parola nè in favore nè contra di Messalina, perchè non si fidavano dell'animo troppo instabile e debole di Claudio. Intanto Messalina, presi seco Britannico ed Ottavia suoi figliuoli, e Vibidia, la più anziana delle Vestali, ed accompagnata da tre persone, perchè gli altri se ne guardarono, s'inviò a piedi fuor della porta d'Ostia, e salita poi in una vilissima carretta, trovata ivi per avventura, andò incontro al marito, non compatita da alcuno. Allorchè arrivò Claudio, cominciò a gridare, che ascoltasse chi era madre di Britannico e d'Ottavia; e Narciso intanto facea marciar la carrozza, strepitando anche egli con esagerar l'insolenza di Silio e di Messalina, e con rimettere sotto gli occhi di Claudio lo strumento nuziale. [175] Nell'intrare in Roma si vollero affacciare alla carrozza Britannico ed Ottavia; ordinò Narciso alle guardie che li tenessero lontani; ma per la venerazione e per gli privilegi che godeano le Vestali, non potè impedir Vibidia dall'accostarsi, e dal far grande istanza, che contra di Messalina non si procedesse a condanna senza prima ascoltarla. Così promise Claudio. Accortamente Narciso condusse a dirittura l'imperadore alla casa di Silio, e fecegli osservar le preziose masserizie della corte portate colà: vista che svegliò pur del fuoco in quel freddo petto. Indi così caldo il menò al quartiere de' pretoriani, istruiti prima di quel che aveano a dire. Poche parole potè proferir Claudio, confuso tra il timore e la vergogna; ed alzossi allora un grido dei soldati che dimandavano il nome e il gastigo dei rei. Silio fu il primo che sofferì con coraggio la morte, poi Vettio Valente, Pompeo Urbico, ed altri nobili, tutti macchiati nelle impudicizie di Messalina. Mnestore il commediante, con ricordare a Claudio d'aver ubbidito ai di lui comandamenti, intenerì sì fattamente il buon Claudio, che fu vicino a perdonargli; ma i liberti gli fecero mutar sentimento. Solamente Suilio Cesonino e Plautio Laterano la scapparono netta, l'ultimo per gli meriti di Aulo Plautio suo zio. Intanto Messalina, ritiratasi negli orti di Lucullo, fra la speranza e l'ira, si pensava pure di poter superare la burrasca; e non ne fu lontana. Claudio arrivato al palazzo con gran quiete si mise a tavola, ed allorchè si sentì ben riscaldato dal vino, diede ordine che s'avvisasse Messalina di venire nel seguente dì, che l'avrebbe ascoltata. Si credette allora perduto Narciso; però fatto coraggio, e levatosi da tavola, come per dar l'ordine suddetto, da disperato ne diede un tutto diverso al centurione e al tribuno di guardia, dicendo loro, che immediatamente si portassero ad uccidere Messalina, perchè tale era la volontà dell'imperadore. La trovarono eglino stesa [176] in terra, ed assistita da Lepida sua madre, che l'andava esortando a prevenir colle sue mani gli esecutori della giustizia. All'arrivo di essi si diede ella in fatti alcuni colpi, ma con mano tremante; più sicura fu quella del tribuno, che la finì. Portata incontanente la nuova a Claudio, che Messalina era morta, lo stupido senza informarsi, se per mano propria o d'altrui, dimandò da bere, e con tranquillità compiè il convito. Ne' seguenti giorni non si mirò in lui nè ira, nè odio, nè allegrezza, nè tristezza, ancorchè osservasse l'ilarità di Narciso e degli altri accusatori, e il volto afflitto de' figliuoli. A farlo maggiormente dimenticar di Messalina, servì l'attenzione del senato; perchè per ordine suo furono levate le di lei immagini tanto dai pubblici che dai privati luoghi. Narciso, in ricompensa delle sue fatiche, da esso senato fu promosso all'ordine de' questori.
Anno di | Cristo XLIX. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 21. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 9. |
Consoli
Aulo Pompeo Longino e Gallo Quinto Veranio.
S'è dubitato, se il primo de' consoli portasse il cognome di Longino o Longiniano. In un frammento di marmo [Thesaurus Novus Inscription., p. 304.], esistente oggidì nel museo del Campidoglio, si legge Q. VERANIO, A. POMPEIO GALLO COS. E però non Cajo, come s'è creduto finquì, ma sarà stato Aulo il di lui prenome. A questi consoli ordinari circa le calende di maggio fondatamente si credono succeduti Lucio Memmio Pollione e Quinto Allio Massimo. Rimasto vedovo Claudio Augusto, si credette che non passerebbe ad altre nozze [Sueton., in Claudio, cap. 26.]; e tanto più perchè egli protestò ai soldati del pretorio di non voler più moglie, [177] dacchè tanta sfortuna avea provato nei precedenti, matrimonii; e che se facesse altrimenti, si contentava d'essere scannato dalle loro mani. Ma andò presto in fumo questo suo proponimento. Tutte le più nobili dame romane si misero in arnese, per espugnar questa debil rocca, mettendo in mostra tutte le lor bellezze naturali ed artificiali, e adoperando quanti lacci sa inventare la loro scuola, sapendo per altro come egli fosse alieno dalla continenza [Sueton., in Claudio, cap. 33.]. Tenevano il primato tre fra le altre, cioè Lollia Paolina, figliuola di Marco Lollio già stato console, e per lei facea di caldi uffizii Callisto, uno dei liberti favoriti di Claudio. La seconda era Elia Petina della famiglia de' Tuberoni, figliuola di Sesto Elio Peto già console, stata già moglie del medesimo Claudio [Idem, cap. 26.] prima dell'imperio, e da lui ripudiata per lieve cagione. Perorava per questa Narciso, altro potente liberto di corte, di cui già s'è parlato. La terza fu Giulia Agrippina, figliuola di Germanico suo fratello, già cacciata in esilio da Caligola per la sua mala vita, e perseguitata in addietro da Messalina. A promuovere gl'interessi di lei si sbracciò forte Pallante, liberto anch'esso di gran possanza nel cuore di Claudio. E questa in fine vinse il pallio. Benchè fosse stata maritata due volte; cioè più di vent'anni prima a Gneo Domizio Enobarbo, a cui partorì Lucio Domizio Enobarbo, che vedremo imperadore col nome di Nerone; e poscia a Crispo Passieno, ch'ella fece morire, per non tardar a godere l'eredità da lui lasciatale; e benchè ella avesse passati gli anni della gioventù, pure era assai fresca, e sosteneva il credito d'esser bella, possedendo anche a maraviglia l'arte degl'intrighi e delle lusinghe femminili. A cagion della stretta parentela, essendo Claudio suo zio paterno, godeva ella il privilegio di visitarlo spesso ed assai confidentemente. Questo bastò per farlo cader nella pania, [178] di maniera che fino dall'anno precedente furono concertate fra loro le nozze ed eseguite poi nel presente. In mani peggiori non potea capitar Claudio, perchè in questa donna non si sa qual fosse maggiore o la fierezza o la superbia o l'avarizia. Pure la sua passion dominante e superiore all'altre era l'ambizione, per cui avrebbe sagrificato tutto. Scrive Dione [Dio, lib. 60.], esserle stato predetto un giorno da uno strologo, che suo figliuolo Nerone sarebbe imperadore, ma ch'egli stesso l'ucciderebbe. Non importa, rispose ella, mi uccida, purchè regni. In fatti, fin d'allora si diede ella a cercar le vie di accasar Lucio Domizio Enobarbo suo figliuolo (che fu poi Nerone), nato sul fine dell'anno 37 dell'Era nostra, con Ottavia figliuola di esso Claudio Augusto. Perchè tra questa principessa e Lucio Silano erano seguiti gli sponsali alcuni anni prima [Tacitus, lib. 12, cap. 4.], bisognò pensare alla maniera di levar un tale ostacolo con ricorrere alla calunnia, giacchè Silano per l'incorrotta sua vita era esente da veri delitti. Lucio Vitellio console fu l'iniquo mezzano della di lui rovina, con far credere a Claudio, che fra Silano e Giunia Calvina sua sorella passassero intrinsichezze nefande. Perciò Silano, che nulla sapea di questo, vide sè stesso tutto ad un tempo balzato dal grado di senatore, obbligato inoltre a rinunziar la pretura, e rotto il suo maritaggio con Ottavia. Questa fu la prima prodezza di Agrippina, e non era per anche moglie di Claudio.
Ma Claudio, benchè ardente di voglia di effettuar questo matrimonio, tuttavia non osava, perchè presso i Romani non era lecito, non che in uso, che uno zio sposasse una nipote. Prese ancor qui l'assunto di provvedere al bisogno quel gran faccendiere di Lucio Vitellio; ne parlò egli con energia al senato; e i senatori, schiavi d'ogni volere del principe, decretarono la validità di un tal contratto. Celebraronsi dunque le nozze, e in [179] quello stesso di Lucio Silano, stato genero di Claudio, si diede la morte da sè stesso. Entrata nell'imperial palazzo Agrippina, poca pena ebbe a rendersi padrona dello scimunito consorte e de' pubblici affari, con voler anch'ella, al pari di Claudio, essere ossequiata dal senato, dai principi stranieri e dagli ambasciadori. Cominciò ad ammassar della roba, senza perdonare a sordidezza alcuna, tirando colle lusinghe alcuni a dichiararla erede, ed atterrando altri con calunnie, per occupare i lor beni. Promosse gli sponsali del giovinetto Lucio Domizio suo figliuolo, già pervenuto all'età di dodici anni, colla suddetta Ottavia figliuola di Claudio, a cui questa alleanza fu il primo gradino per salire al trono imperiale. Fece parimente richiamare a Roma dall'esilio della Corsica Lucio Anneo Seneca, insigne filosofo stoico, e il diede per precettore al figliuolo, sperando di farne una cima d'uomo, e un mirabil imperadore, giacchè a questo bersaglio tendevano le principali sue mire. Impetrò anche la pretura pel medesimo Seneca. Appresso rivolse Agrippina lo spirito vendicativo contro a Lollia Paolina, che seco avea gareggiato pel matrimonio di Claudio. Fecesi comparire, che avesse interrogati strologhi e l'oracolo di Apollo di Clario, in pregiudizio dell'imperadore; questi perciò, senza lasciarle agio per le difese, la cacciò in esilio fuori d'Italia, e confiscò la maggior parte del suo ricchissimo patrimonio. Mandò Agrippina dipoi anche a levarle la vita; e fece appresso bandire Calpurnia, illustre donna, solo perchè accidentalmente a Claudio era scappato di bocca che era bella. Accrebbe Claudio in quest'anno il pomerio, o sia il circondario delle mura di Roma: il che era riputato di singolar gloria. Alle preghiere de' Parti mandò loro per re Meerdate di quella nazione, che poca fortuna provò per sè e svergognò i Romani. Nella Tracia furono guerre tali nondimeno, che io mi dispenso dal riferirle, perchè di niun momento [180] per la storia presente. Se crediamo ad Orosio [Orosius, in Histor.], seguì in quest'anno l'editto di Claudio, che tutti i Giudei uscissero di Roma, del che parla san Luca negli Atti degli Apostoli [Actus Apostolor., c. 18, vers. 2.]. Prodigiosa era la quantità d'essi in quella gran città. Orosio cita Giuseppe ebreo per testimonio di tal fatto all'anno presente; ma nei testi di Giuseppe ebreo oggidì non si trova un tal passo. Per altro è certo il fatto, asserendolo ancora Svetonio [Sueton., in Claudio, cap. 25.] con dire di Claudio: Judaeos, impulsore Chresto (così egli nomina il divino Salvator nostro) assidue tumultuantes Roma expulit. Sotto nome de' Giudei erano allora compresi anche i Cristiani; e forse i Giudei, perseguitando i Cristiani, svegliavano que' tumulti.
Anno di | Cristo L. Indizione VIII. |
Pietro Apostolo papa 22. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 10. |
Consoli
Cajo Antistio Vetere, o sia Vecchio, e Marco Suillio Nervilino.
Ho scritto Nervilino, e non già Nerviliano, come hanno altri, perchè il cognome di questo console si legge formato così in un insigne marmo del museo Capitolino, da monsignor Bianchini [Thesaur. Nov. veter. Inscript., T. 1.], e da me [Thes. Nov. veter. Inscript., cap. 305.] ancora dato alla luce. Un altro gran passo fece in quest'anno Agrippina per innalzar sempre più il suo figliuolo Lucio Domizio Enobarbo [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 25. Dio, lib. 60.]. Tuttochè Claudio Augusto avesse un figliuolo maschio, cioè Britannico, che naturalmente avea da succedere a lui nell'imperio, il semplicione si lasciò indurre ad addottar per figliuolo anche il medesimo Lucio Domizio, il quale, passato nella famiglia Claudia, cominciò ad [181] intitolarsi Nerone Claudio Cesare Druso Germanico, come apparisce dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imp.] battute allora in onor suo. Il mezzano di questo affare, adoperato da Agrippina, fu Pallante, il più confidente che s'avesse Claudio; ed avendo allora Nerone due anni di più di Britannico, si vide la deformità d'aver egli adottivo la mano dal figliuolo legittimo e naturale dell'imperadore, ornati amendue del cognome cesareo. Nè già dimenticò sè stessa l'ambiziosa Agrippina. Non avea mai Claudio conceduta a Messalina il titolo d'Augusta. Lo volle ben ella, nè le fu difficile l'ottenerlo; sicome ancora nell'anno seguente volle l'onore d'entrar col carpento, o sia colla carrozza nei pubblici giuochi. Cresciuta ne' titoli Agrippina crebbe anche nell'autorità, e peggior divenne di Messalina, non già nell'impudicizia, perchè se questa non le mancò, fu almeno occulta, ma nelle rapine della roba altrui, e in procurar la morte a chi si tirava addosso il di lei sdegno, o lo meritava per essere ricco. Quanto ella era diligente a far ben educare e a produrre il suo figliuolo Nerone, altrettanto la scaltra donna si studiava di abbassare e di fare scomparire il figliastro suo, cioè Britannico Cesare. Sotto vari pretesti fece morire, e levare dal di lui fianco le persone che gli poteano inspirare de' sentimenti contrarii ai suoi; e fra gli altri [Dio, lib. 60.] v'andò la vita di Sosibio di lui maestro. Altre persone mise ella in lor luogo, tutte dipendenti dai suoi voleri, di modo che l'infelice principe era in certa guisa assediato e tenuto quasi come prigione, senza ch'egli potesse se non di rado vedere il padre Augusto. Faceva anche correr voce, che egli patisse di mal caduco e fosse scemo di cervello [Tacit., Annal., lib. 12, cap. 41.], quando si sapea che in quell'età di nove o dieci anni era forte di corpo e di spirito molto vivace. Un trattamento tale eccitava la compassione [182] in tutti, ma senza alcun profitto di lui. Nell'anno seguente Britannico, in salutar Nerone, disavvedutamente gli diede il nome di Domizio oppure di Enobarbo. Non si può dir che fracasso e querele facesse per questo in corte Agrippina. Volle essa inoltre la gloria di fondare una colonia che portasse il suo nome. A questo fine mandò alcune migliaia di veterani a piantarla nella città degli Ubii, che da lì innanzi prese il nome di Colonia Agrippina, città tuttavia delle più illustri e floride della Germania, che ritiene il nome di Colonia. Quivi era nata la medesima Agrippina, allorchè Germanico suo padre guerreggiò in quelle parti coi Germani. Riportò in quest'anno Publio Ostorio Scapula molti vantaggi contra de' popoli della Bretagna, e prese, non so se in questo o nel seguente anno, Carattaco, uno dei re o duci loro, colla moglie e co' figliuoli [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 32.]: per le quali imprese conseguì dal senato romano gli ornamenti trionfali, ma con goderne poco, perchè la morte il rapì da lì a non molto. Condotto a Roma Carattaco prigioniero, senza smarrirsi punto, parlò a Claudio da uomo forte: e Claudio restituì a lui e a tutti i suoi la libertà. Ammirava dipoi Carattaco la magnificenza di Roma, e dicea ai Romani, che non sapea capire, come avendo essi cotanti superbi palazzi ed agiate case, andassero poi a cercar le povere capanne de' Britanni. Camaloduno in quella grand'isola, città così denominata dal dio Camalo, fu scelta per condurvi una colonia di veterani, acciocchè servissero di baluardo contro i nemici e ribelli. Anche nella Germania superiore i Catti furono in armi, e fecero delle incursioni nel paese romano. Ma Lucio Pomponio Secondo, insigne poeta tragico, e governatore dell'armi in quelle parti, li mise in dovere, con aver anch'egli perciò meritati gli onori trionfali.
Anno di | Cristo LI. Indizione IX. |
Pietro Apostolo papa 23. | |
Tiberio Claudio, figlio di Druso, imperadore 11. |
Consoli
Tiberio Claudio Augusto per la quinta volta e Servio Cornelio Orfito.
Nelle calende di luglio ebbero questi consoli per successori nella dignità Cajo Minicio Fondano e Cajo Vettennio Severo; e all'uno di questi ultimi due nelle calende di novembre si crede che fosse sostituito Tito Flavio Vespasiano, il quale a suo tempo vedremo imperadore; ciò ricavandosi da Svetonio [Sueton., in Vesp., cap. 4.]. In questo medesimo anno a dì 24 d'ottobre ad esso Vespasiano nacque da Flavia Domitilla sua moglie Domiziano, che fu anch'egli imperadore. Benchè Nerone Cesare [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 41.] avesse solamente cominciato l'anno quattordicesimo di sua età, senz'aspettare di compierlo, come portava la legge e l'uso, per dispensa del senato adulatore, prese la toga virile, abilitato anche al consolato, subito che toccasse l'anno ventesimo: con che potea aver parte agli affari pubblici e agli onori. Venne anche dichiarato principe della gioventù, e gli fu conceduta la podestà proconsolare fuori di Roma: tutti gran passi all'imperio. All'importunità di Agrippina nulla si sapea negare nè da Claudio nè dal senato. Per tanti onori a lui conferiti volle la madre, che si desse alla plebe un congiario, a' soldati un donativo, e che si celebrassero i giuochi circensi, per procacciare con ciò l'amore del pubblico al figliuolo. Intanto il povero Britannico si facea allevare come figlio di un plebeo, e compariva nelle solennità delle funzioni tuttavia vestito da putto; laddove il fratellastro Nerone sfoggiava con abiti da imperadore: dal che ognuno argomentava, qual dovesse in fine essere [184] il destino di amendue. E perciocchè penetrò Agrippina, che alcuni centurioni e tribuni de' soldati pretoriani teneano discorsi di compassione per lo stato miserabile di Britannico, destramente li fece allontanare o li trasse a dimettere i gradi militari con darne loro dei civili più utili. Non si fidava ella di Lucio Geta, nè di Rufo Crispino, ch'erano prefetti del pretorio, o, vogliam dire, capitani delle guardie, perchè li credea parziali dell'estinta Messalina e dei di lei figliuoli. Picchiò tanto in capo a Claudio, con rappresentargli che in mano di due discordi uffiziali pativa non poco la disciplina militare ed essere meglio un solo, che l'indusse a creare un solo prefetto del pretorio; e questi fu Burro Afranio, uomo di molta sperienza nel militare, e creatura d'essa Agrippina. Tal dignità, massimamente conferita ad un solo, e durevole, era delle più cospicue e temute in Roma, e sempre più andò crescendo, dacchè i pretoriani cominciarono ad usurparsi colla forza il diritto d'eleggere gl'imperadori. Carestia si provò nell'anno presente in Roma, e il popolo affamato intronò di grida gli orecchi di Claudio [Sueton., in Claudio, cap. 18.], anzi, mosso un tumulto, se gli serrarono addosso nella pubblica piazza, gittandogli dei tozzi di pane, di modo ch'ebbe fatica a salvarsi per una porta segreta in palazzo, e convenne adoperare i soldati per isbandarli. Tuttavia non ne fece il freddo imperadore risentimento alcuno, nè vendetta; e solamente si applicò con gran cura a far venir grani da ogni parte, dando privilegi ai mercatanti e alle navi di trasporto.
Anno di | Cristo LII. Indizione X. |
Pietro Apostolo papa 24. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso, imperadore 12. |
Consoli
Publio Cornelio Sulla Fausto e Lucio Salvio Ottone Tiziano.
Avendo Ottone (poscia imperadore) un fratello per nome Lucio Tiziano, vien perciò tenuto questo console pel medesimo di lui fratello. Credono alcuni, che a questi consoli nelle calende di luglio succedessero Servilio Barca Serano, chiamato console disegnato da Tacito sotto quest'anno, e Marco Licinio Crasso Muciano; e che, cessando essi, nelle calende di novembre subentrassero in quella dignità Lucio Cornelio Sulla e Tito Flavio Sabino Vespasiano. Questo per congettura. E quando essi vogliano che Flavio Sabino fosse il fratello di Vespasiano (poscia imperadore) s'ha d'avvertire che Tacito e Svetonio ci danno ben a conoscere Sabino per prefetto di Roma, ma non già illustre per alcun consolato [Tacitus, Annal., cap. 52.]. Fu in quest'anno esiliato da Roma Furio Scriboniano, figliuolo di quel Camillo che si sollevò in Dalmazia contro di Claudio Augusto. Per atto di clemenza non avea Claudio nociuto al figlio; ma accusato egli ora di aver consultati gli strologi intorno alla vita dell'imperadore, per questo delitto si guadagnò il bando. Molto non campò di poi, rapito dir non si sa se da morte naturale o pur da veleno. Diede ciò occasione ad un rigoroso editto del senato contro gli strologi, con ordine di cacciarli d'Italia, non che da Roma. Tutto nondimeno indarno: per una porta uscivano, ritornavano per un'altra. Parimente fu pubblicata legge contra le donne libere, che sposassero schiavi. Se ciò facea la donna senza il consenso del padrone dello schiavo, diveniva anch'essa schiava; se col consenso, era [186] poi trattata come liberta. Videsi nell'anno presente, fin dove arrivasse la prepotenza dei liberti di corte, la melonaggine di Claudio e la viltà del senato. Perchè fu attribuito a Pallante, liberto il più favorito dall'imperadore, l'invenzione di questo ripiego, per frenar le donne, il senato a suggestion di Claudio, o pure, come vuol Plinio il vecchio, di Agrippina Augusta, il senato, dico, oltre a molte lodi del suo fedele attaccamento al principe, e delle sue grandi applicazioni pel ben pubblico, il pregò di accettare gli ornamenti della pretura, e la facoltà di portare l'anello d'oro, come faceano i cavalieri, e per giunta un regalo di trecento settantacinquemila scudi romani. Costui accettò gli onori, ma sdegnò di prendere il danaro, con vantarsene dipoi in un'iscrizione, e con dire ch'egli si contentava di vivere nell'antica sua povertà, quando di schiavo ch'egli fu, era giunto a posseder più milioni, ed è registrato dal vecchio Plinio fra gli uomini più ricchi del suo tempo. Plinio il giovane [Plinius, lib. 7, epistola 29.] da lì a molti anni, in leggendo quell'iscrizione e il vergognoso decreto fatto dal senato per costui, non se ne potea dar pace. Callisto e Narciso erano gli altri due liberti dominanti allora nella corte. Per le mani di Agrippina e di costoro passava tutto e di tutto si facea danaro. Si prendeano anche beffe del balordo loro padrone [Dio, lib. 60.]. Un dì mentre Claudio tenea ragione, comparvero alcuni della Bitinia ad accusar con molte grida Giunio Cilone, stato lor governatore, che avea venduta la giustizia per danari; nè intendendo ben Claudio, dimandò che volessero quegli uomini. Rispose Narciso: Rendono grazie per aver avuto Cilone al lor governo. Allora Claudio: Ebbene, l'abbiano per lor governatore anche due altri anni.
Alcuni tempi prima era venuta in mente a Claudio un'impresa che, se gli riusciva, sarebbe stata di gran gloria a [187] lui, e di pari utile al pubblico, cioè [Dio, lib. 60. Suetonius, in Claudio, cap. 20. Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 57.] di seccare il Lago Fucino, detto oggidì Lago di Celano nell'Abbruzzo, per mettere quelle terre a coltura, e difendere le circonvicine dalle inondazioni che andavano di dì in dì crescendo: fattura, per cui quei popoli Marsi avevano fatte più istanze ad Augusto, ma senza nulla ottenere. Vi si applicò con incredibil vigore Claudio, pensando di fare scolar quell'acque non già nel Tevere, come alcuno ha creduto, ma bensì nel fiume Liri o sia nel Garigliano. Plinio il vecchio [Plinius, lib. 36, cap. 15.] per un'opera maravigliosa ci descrive questo tentativo di Claudio, e di spesa infinita; imperciocchè per undici anni vi aveva egli impiegato continuamente circa trentamila lavoratori in far cavare e tagliare una montagna di tre miglia, di profondità incredibile, e condurre un canale lunghissimo da esso lago al fiume. Allorchè l'opera fu creduta compiuta, Claudio, acciocchè si conoscesse da ognuno la magnificenza della medesima, ordinò che si facesse prima un solennissimo combattimento navale sul medesimo lago. Raunati da varie parti dell'imperio diciannovemila uomini (se pur non v'ha difetto in quel numero) condannati a morte, li compartì in due squadre di navi colle lor armi, avendo disposto all'intorno in barche i pretoriani ed altre milizie, affinchè niuno scappasse. Tutte le ripe e le colline d'intorno erano coperte di gente accorsa allo spettacolo o per curiosità, o per corteggiare l'imperadore, che vi assistè con Agrippina [Sueton., in Claudio, cap. 21.], amendue superbamente vestiti. Sperando i destinati a combattere grazia, il salutarono, dicendo che andavano a morire, e non altra risposta ricevendo, se non che anch'egli salutava loro, non volevano più procedere alla battaglia. Tante esortazioni e minacce si fecero, che finalmente le nemiche [188] squadre l'una appellata la siciliana, l'altra la rodiana, si azzuffarono e combatterono da disperate. Molti furono i morti, più i feriti. Chi restò in vita ottenne poi grazia. Quindi passò la corte ad un magnifico convito, nel qual tempo si lasciò correre l'acqua del lago pel nuovo fabbricato canale; ma essa con tal empito corse, che fracassò in più luoghi le muraglie delle sponde, ed allagò talmente il territorio, che Claudio andò a pericolo d'annegarsi. Egli è pur di pochi il prevedere tutte le forze delle acque messe in moto. Altre simili burle da loro fatte ho io letto, ed anche veduto. Agrippina fece allora una gran lavata di capo a Narciso, imputandogli di non aver fatto assai forte il lavoro per risparmiare la spesa, e mettersi in saccoccia il danaro; e Narciso anch'egli rispose a lei per le rime con dei frizzi intorno alla di lei superbia, alle idee della sua ambizione. Aggiugne Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 57.], non essere stato quel canale sì basso da potere scolar le acque del lago troppo profondo nel mezzo. Ordinò nondimeno Claudio, che si rifacesse meglio il lavoro; ma per quanto si può dedurre da Plinio il vecchio, egli non campò tanto da vederlo compiuto. Nerone suo successore per invidia alla di lui gloria non si curò di perfezionarlo; e per quanto poi facessero Traiano e Adriano, il lago sussistè, e tuttavia sussiste. Un'altra maravigliosa impresa di Claudio Augusto fu l'aver egli condotto a fine l'acquidotto cominciato da Caligola, per cui furono introdotte in Roma le acque curzia e cerulea per quaranta miglia di viaggio [Plin., lib. 36, cap. 15.]; e ad una tale altezza, che arrivavano alla cima di tutti i colli di Roma, e in tanta abbondanza, che servivano ad ogni casa, alle peschiere, ai bagni, agli orti e ad ogni altro uso. Plinio il vecchio, descrivendo la grandiosità di quest'opera stupenda, ci assicura, che al veder tagliate montagne, riempiute valli, e tanti archi per condurre quella [189] gran copia d'acque, si conchiudeva, nulla esservi di sì mirabile in tutto il mondo, come quella fattura, la quale costò parecchi milioni. Tacito nota in questi tempi la prepotenza e l'arti cattive di Antonio Felice, chiamato Claudio Felice da Giuseppe Ebreo [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 2.], liberto già d'Antonia e poi di Claudio Augusto, a cui esso imperadore avea dato il governo della Giudea. Quel medesimo egli è, che si legge negli Atti degli Apostoli aver tenuto per due anni in prigione san Paolo apostolo. Costui, oltre al godere un buon posto nel cuore di Claudio, avea anche per fratello Pallante, il più favorito, il più potente, il più ricco dei liberti di corte; e però a man salva commetteva in quel governo quante iniquità egli voleva senza timore che gliene venisse un processo. S'empiè allora la Giudea di ladri e di assassini, e tutto si andò disponendo alla ribellione che accenneremo a suo tempo.
Anno di | Cristo LIII. Indizione XI. |
Pietro Apostolo papa 25. | |
Tiberio Claudio, figliuolo di Druso imperadore 13. |
Consoli
Decimo Giunio Silano e Quinto Haterio Antonino.
Era giunto Nerone Cesare a quindici in sedici anni; anche Ottavia figliuola di Claudio Augusto all'età capace di matrimonio; e però in quest'anno si celebrarono le loro nozze. Così Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 58.]. Ma Svetonio [Sueton., in Nerone, cap. 7.] mette questo fatto due anni prima, allorchè Claudio era console, cioè nell'anno 54 dell'Era nostra, con avere allora Nerone celebrati i giuochi circensi, e la caccia delle fiere nell'anfiteatro per la salute del suocero imperadore. Anche Dione mette il di lui matrimonio prima del combattimento [190] navale sul lago Fucino. Però non è qui sicura la cronologia di Tacito. Affinchè questo giovine bestia facesse per tempo una bella comparsa nell'eloquenza, Agrippina sua madre, e Seneca il maestro, vollero ch'egli servisse da avvocato al popolo d'Ilio o sia di Troja, i cui ambasciadori chiedeano allora in senato l'esenzion dai tributi. Una bella orazione in greco, dettatagli senza fallo dal precettore [Sueton., in Nerone, cap. 8.], recitò Nerone, in cui ebbero luogo tutte le favole inventate dai Romani, cioè la loro origine da Troja e da Enea, spacciato dagli adulatori per propagatore della famiglia Giulia. Nulla si potè negare ad un sì facondo oratore, e a sì forti ragioni; però Tiberio, dopo avere anch'egli tirata fuori una lettera scritta in greco dal senato e popolo romano, in cui esibivano lega al re Seleuco, purchè egli concedesse ogni esenzione al popolo di Troja, parente de' Romani, conchiuse che non si dovea negar tal grazia ai Trojani; nè vi fu chi non concorresse nella medesima sentenza. Perchè i Romani, che componeano la colonia nella città di Bologna in Italia, erano ricorsi all'imperadore e al senato per aiuto a cagion di un incendio che avea devastato le lor case: parimente per loro fece da avvocato con una orazione latina il giovinetto Nerone, ed ottenne in lor soccorso la somma di dugento cinquanta mila scudi romani. Anche il popolo di Rodi supplicava per ricuperare la libertà, che dianzi dicemmo tolta loro dal medesimo Claudio. Per loro perorò Nerone in greco, ed impetrò tutto quanto desideravano. Concedè similmente Claudio per cinque anni l'esenzion dalle imposte a quei d'Apamea, rovinati da un tremuoto, e al popolo di Bisanzio, che si trovò troppo aggravato; e per tutti i tempi avvenire l'accordò dipoi al popolo di Coo. Statilio Tauro (non sappiamo se Marco o Tito) possedeva de' bei giardini. Agrippina gli amoreggiava [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.] anch'essa; [191] però dacchè fu ritornato dall'Africa, dove era stato proconsole, il fece accusare in senato da Tarquinio Prisco, con apporgli falsamente d'essersi mischiato in superstizioni di magia forse contro la vita di Claudio. S'impazientò egli cotanto per questa trappola, che datasi la morte colle proprie mani, prevenne la sentenza del senato.
Anno di | Cristo LIV. Indizione XII. |
Pietro Apostolo papa 26. | |
Nerone Claudio imperad. 1. |
Consoli
Marco Asinio Marcello e Manio Acilio Aviola.
Scrive Tacito [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 64.], che l'uno di questi consoli, sicome ancora un questore, un edile, un tribuno e un pretore, nello spazio di pochi mesi terminarono i lor giorni: accidente interpretato dai superstiziosi Romani per preludio di gravi disgrazie. Noi non sappiamo, nè qual dei consoli morisse, nè chi succedesse al defunto. All'ambiziosa Agrippina faceva ombra Domizia Lepida, donna ricchissima e di gran fasto, sorella del suo primo marito, cioè di Gneo Domizio Enobarbo, e parente d'Augusto, per via d'Antonia sua madre. Mirava Agrippina di mal occhio, che Lepida, oltre ad altri riguardi, si comperasse l'affetto del nipote Nerone con assai carezze e frequenti regali. Ella volea comandare al figliuolo, e però non istava bene in vita chi potea contrastarle un sì fatto imperio. Per attestato di Tacito non era meno impudica Lepida che si fosse Agrippina; tuttavia ella non fu per questo verso assalita. Le accuse che contra di lei inventò la malizia, furono d'aver fatti de' sortilegi per far morire essa Agrippina, oppure per diventar moglie dell'imperadore; e ch'ella non avesse frenata l'insolenza de' suoi servi, i quali, diceva ella, in Calabria turbavano la pace dell'Italia. [192] Fin lo stesso Nerone [Sueton., in Nerone, cap. 7.] fu sforzato dalla madre, donna fiera, a far testimonianza contro l'amata sua zia. In una parola, per sentenza del senato, Lepida perdè la vita, ancorchè Narciso, potente liberto di Claudio, vi si opponesse con tutte le sue forze. E probabilmente questo liberto, che osservando i disegni ambiziosi di Agrippina, si teneva perduto, se il di lei figliuolo fosse pervenuto all'imperio e perciò si dichiarava tutto in favor di Britannico, si servì di tal occasione per rivelare, a Claudio l'amicizia infame che passava tra Agrippina e Pallante, altro onnipotente liberto di corte. Promosse inoltre a tutto potere gl'interessi di Britannico presso il padre, con fargli insieme conoscere, quanto fosse indecente l'anteporre al proprio figliuolo un figliastro, e quali fossero le trame di Agrippina per questo [Idem, ibid., cap. 43.]. In fatti cominciarono a comparire alcuni segni ch'egli si fosse pentito [Dio, lib. 60.] d'aver presa per moglie Agrippina, e d'aver adottato il di lei figliuolo. Si faceva egli condurre più del solito innanzi il proprio figlio Britannico; l'abbracciava, e un dì fu udito dire, che con quella mano con cui l'avea ferito, il guarirebbe. Narciso, anch'egli consapevole della mutata inclinazion del padrone, animava Britannico, e gli facea gran festa intorno. Ad occhi aperti stava Agrippina. Ma dacchè seppe essere scappato detto un giorno a Claudio, che per suo destino egli avea dovuto avere solamente delle mogli impudiche, per poi punirle: non volle aspettar più, e si studiò di prevenirlo. Si sentiva poco bene di sanità Claudio, e sperando aiuto dall'aria e dall'acque di Sinuessa, colà si portò, per quanto scrive Tacito. Quivi fu che Agrippina, dopo aver allontanato Narciso con bella maniera, mandandolo in Campania, si fece preparar un potente veleno da una famosa fabbriciera d'essi, nominata Locusta, che servì gran tempo a [193] simili bisogni della corte. E sapendo, quanto il marito fosse ghiotto di boleti, ne acconciò uno al proposito, e gliel fece poi presentare dall'eunuco Haloto, solito a fare il saggio de' cibi del principe. Mangiò di que' boleti anche Agrippina, ma con lasciare il più bello al marito. Fu portato Claudio come ubbriaco (che questo gli accadeva spesso) dalla tavola al letto [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 67.]. Perchè parve che sciolto il ventre potesse sovvenire al rischio in cui egli si trovava, spaventata Agrippina ricorse a Senofonte medico di sua confidenza, il quale già preparata, col pretesto di svegliargli il vomito, una penna tinta d'altro fiero veleno gliela immerse nella gola. La notte egli perdè i sentimenti, e verso il far del giorno del dì 13 d'ottobre spirò. Abbiamo da Svetonio [Sueton., in Claud., cap. 43.], che in diverse maniere si contò questo fatto: comunemente nondimeno essersi detto e creduto ch'egli morisse di veleno. Incerto è anche il luogo, e sembra piuttosto ch'egli morisse in Roma. Lo stesso storico quegli è che cel dà morto nel dì 13 del suddetto mese, e con lui va d'accordo Dione. Ma pare che Tacito lo supponga prima; perciocchè si tenne (e sembra non delle sole ore) celata la di lui morte, e però potè succedere prima di quel giorno. In Roma si faceano intanto preghiere agli dii per la di lui salute. Agrippina chiamò i commedianti, quasi che li desiderasse Claudio per divertirsi, e spesso facea spargere voce che il di lui incomodo andava di bene in meglio. Tutto ciò per dar tempo a disporre le cose per far succedere Nerone. Ella inoltre si mostrava spasimante di dolore pel marito, e piena di tenerezza per Britannico e per le sorelle di lui, Antonia ed Ottavia, e trattenevali tutti, affinchè non uscissero della loro stanza, con aver anche messe guardie dappertutto.
Preparato ciò che occorreva, sul mezzogiorno del suddetto dì 13 di ottobre [194] si spalancarono [Tacitus, Annal., lib. 12, cap. 69.] le porte del palazzo, e ne uscì Nerone, accompagnato da Burro prefetto del pretorio, che andava ben d'accordo con Agrippina, siccome sua creatura. Fu presentato al corpo di guardia e ricevuto con acclamazioni: indi entrato in lettiga, non senza maraviglia di molti al non veder seco Britannico, fu condotto al quartiere dei pretoriani in Roma, senza che apparisca da Tacito, il quale fa morto Claudio a Sinuessa, alcun lungo viaggio, per venire da quella alla gran città. Dappoichè Nerone ebbe parlato ai pretoriani, e promesso loro un donativo, non inferiore al ricevuto da Claudio, fu acclamato da tutti per imperadore. Non tardò molto a far lo stesso il senato, perchè privo di maniere da resistere ai voleri e alla forza della milizia, già entrata in possesso di far essa gl'imperadori. Furono poi decretati a Claudio i medesimi onori che si praticarono alla morte d'Augusto, con deificarlo, e fargli un solennissimo funerale, in cui Agrippina gareggiò nella magnificenza con Livia Augusta sua bisavola [Sueton., in Claud., c. 45, et in Vespas., c. 9.]. Aveva ella anche cominciato un sontuoso tempio alla memoria del Divo Claudio; ma l'invidioso Nerone lo lasciò poi andare a terra, o lo distrusse per la maggior parte. Fu poi rifatto e compiuto da Vespasiano per gratitudine ad un imperadore che l'avea beneficato. Ed ecco come finì sua vita Claudio, principe annoverato fra i partecipanti del buono e del cattivo, di cuore inclinato alla giustizia, alla clemenza e alla munificenza, e che fece molte azioni da principe ottimo; ma di testa troppo debole, per cui lasciandosi governare da mogli scellerate e da liberti iniquissimi, per gli consigli ed inganni di essi tante altre azioni operò obbrobriose o ridicole. Gallione fratello di Seneca il derise morto, con dire, ch'egli veramente era salito al cielo [Dio, lib. 60.], ma tirato con un uncino, come [195] si faceva ai giustiziati che venivano strascinati dal boia al Tevere. Lodava anche i boleti, perchè divenuti cibi degli dii. Lo stesso Lucio Anneo Seneca, siccome maltrattato da lui, se ne vendicò anch'egli con una satira che tuttavia sussiste, rappresentandolo portato al cielo, ma poi cacciato di là e mandato all'inferno, con essere riconosciuto in entrambi que' luoghi per uno scimunito e per una bestia. L'orazione funebre [Tacit., Annal., lib. 13, c. 3.] composta dal medesimo Seneca in onore di Claudio, fu recitata da Nerone. Era elegantissima; ma allorchè si udì esaltare la provvidenza e sapienza del defunto principe, niuno vi fu che potesse trattenersi dal sogghignare, forse non prevedendo chi si ridea di Claudio, che avea poi da piangere del suo successore, sentina di crudeltà e di vizii. Non fu letto in senato il testamento di Claudio, perchè verisimilmente non volle Agrippina che Britannico a Nerone in esso comparisse anteposto. Comandano i principi quel che vogliono in vita; morti, quel solo che piace al loro successore. Solamente sotto quest'anno il padre Antonio Pagi [Pagius, in Critica Baroniana.] comincia l'anno primo del pontificato di san Pietro, perchè sostiene ch'egli solamente ora venisse a Roma. Trattandosi di punti assai tenebrosi e controversi di storia, si attenga ognuno a quella opinione che più gli aggrada.
Anno di | Cristo LV. Indizione XIII. |
Pietro Apostolo papa 27. | |
Nerone Claudio imperad. 2. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto e Lucio Antistio Vetere o sia Vecchio.
Benchè non fosse Nerone per anche pervenuto all'età stabilita dalle leggi per esser console, non avendo più di diecisette anni, tuttavia siccome superiore alle leggi, e per onorare i principii del [196] suo governo, prese il consolato. Per testimonianza di Svetonio [Sueton., in Nerone.] lo tenne solamente due mesi. Chi succedesse a lui nelle calende di marzo, non si sa. V'ha chi crede Pompeo Paolino, perchè da lì a due anni si trova proconsole della Germania. Diede l'ambiziosa Agrippina principio al governo del figliuolo Nerone con levar di vita Giunio Silano, allora proconsole dell'Asia. Parte per gelosia, perchè fu detto dal popolazzo, ch'egli per via di femmine discendente dalla casa di Augusto potea aspirare all'imperio, e più proprio anche sarebbe stato che il giovinetto Nerone; parte ancora per timore, ch'egli volesse vendicar la morte ingiustamente data a Lucio Silano suo fratello, benchè pericolo non vi fosse, perchè egli era un dappoco, e Caligola perciò il solea chiamare la pecora ricca. Si trovarono persone che seppero dargli il veleno, ed egli se ne andò, senza che Nerone ne penetrasse la trama. Da gran tempo era in disgrazia di essa Agrippina Narciso, liberto e segretario di Claudio Augusto, perchè parzialissimo di Britannico, e perchè a lei stato contrario in molte occorrenze. Aveva egli ammassato delle immense ricchezze, e potendo tutto sopra il padrone, le intere città e gli stessi re, chiunque avea bisogno del principe, il corteggiavano e gli faceano de' regali. Era per altro fedele a Claudio, e vegliava per la di lui conservazione. S'egli si fosse trovato alla corte, non avrebbe osato Agrippina di tradir il marito, o pur sarebbono seguiti differentemente gli affari; ma Agrippina, siccome accennai, seppe bene staccarlo da lui; e poscia [Dio, lib. 62.] cacciatalo in dura prigione, il fece ammazzare, o il ridusse ad ammazzarsi da sè medesimo, ed anche contro il voler di Nerone, che l'amava per la somiglianza de' costumi, essendo egualmente anch'egli più avaro che prodigo. Si metteva Agrippina in istato d'altri simili prepotenze e crudeltà, se Afranio [197] Burro, prefetto del pretorio, ed uomo di costumi saggi e severi, e Seneca maestro di Nerone, non men dell'altro tendente al buono, divenuti amendue principali ministri ed arbitri della corte, non l'avessero tenuta in freno. Andavano d'accordo questi due ministri, e perchè desiderosi erano del buon governo, abolirono sul principio varii abusi, e fecero molti buoni regolamenti. Ad Agrippina accordarono in apparenza quante distinzioni d'onore ella seppe richiedere. Dava ella le udienze ai magistrati, agli ambasciatori, anche senza il figliuolo. Con esso usciva in lettiga; più spesso sel facea tener dietro. Ella scriveva ai popoli e ai re; ella dava il nome alle guardie. Ma a poco a poco i due ministri andarono restringendo la di lei autorità, facendole conoscere che chimerico era il di lei disegno di far da padrona assoluta.
Per conto di Nerone ognun d'essi si studiava di portarlo all'amore e alla pratica delle virtù; ma perchè aveano che fare con un giovinastro vivace, capriccioso, vago solamente di divertimenti e piaceri, e non già di logorarsi il capo nell'applicazione al governo, gli permetteano di sollazzarsi con altri giovani di suo genio in canti, suoni e conviti, e in qualche altra pericolosa libertà di più, sperando ch'egli crescendo in età, e sfogati que' primi bollori di gioventù, prenderebbe miglior cammino. Ma, siccome osserva Dione, non badarono che il lasciar così la briglia ad un giovane, era un aprirgli la strada a divenire uno scapestrato, perchè un vizio chiama l'altro, e formato il mal abito, andando innanzi, sempre più cresce e si rinforza, massimamente in chi può ciò che vuole. Per altro sul principio non nocevano punto al buon governo i suoi divertimenti, lasciando egli operare ai due suoi saggi ministri, i quali finchè ebbero possanza, sempre mantennero la giustizia e il buon ordine con plauso del popolo. Portatosi Nerone ne' primi giorni in senato, parlò così acconciamente della maniera ch'egli [198] pensava di tener nel governo, che innamorò tutti. Seneca gli avea messo in iscritto quegli avvertimenti. Non voleva egli essere il giudice di tutti gli affari; l'autorità del senato dovea esercitarsi liberamente, come ne' vecchi tempi. Non più s'aveano da vendere gli uffizii. Tutto camminerebbe sulle pedate di Augusto. E così ragionando d'altri buoni regolamenti, piacque cotanto la sua orazione, che fu ordinato d'intagliarla in una colonna d'argento, e di rinnovarne la lettura in ogni primo dì dell'anno. In fatti, anche il senato animato da tali parole fece di molti utili decreti in così bella aurora. Disobbligò fra l'altre cose i questori dal fare ogni anno il troppo dispendioso giuoco de' gladiatori, benchè non senza gravi richiami d'Agrippina, la quale fatti venire i senatori al palazzo, dietro ad una portiera ascoltava tutto, e disse che questo era un distruggere gli editti del defunto Claudio. E perciocchè ella volea pur seguitare a comparir sul trono col figliuolo, per dar le pubbliche udienze, Burro e Seneca la finirono, in occasione che i legati dell'Armenia si presentarono al senato. Era assiso Nerone sul trono ascoltando le loro dimande, quando arriva Agrippina, per fare anch'ella la sua comparsa padronale su quel medesimo trono. Allora Nerone, ammaestrato prima da Seneca, discende come per andare incontro alla madre, e trovato un pretesto per rimettere ad un altro dì l'ascoltare gli ambasciatori, diede fine al concistoro, senza che quei forestieri s'accorgessero che Agrippina voleva tuttavia menare il figliuolo grande per le maniche del sajo. Così a poco a poco la disviarono dal far quelle ambiziose comparse con vergogna del figlio. Diede [Tacitus, Annal., l. 13, cap. 7.] Nerone in quest'anno l'Armenia Minore ad Aristobolo di nazione giudaica, e a Soemo la provincia di Sofene, dichiarandoli re amendue. Spedì ordini pressanti ad Agrippa re di una parte della Giudea, e ad Antioco re di Comagene, [199] di unirsi coi Romani per far guerra ai Parti, acciocchè battuti dalla parte della Mesopotamia, uscissero dell'Armenia. Ne uscirono in fatti per le discordie insorte fra Vologeso re d'essi Parti e Vardane suo figliuolo. Portate a Roma cotali nuove, ed ingrandite, mossero il senato adulatore a decretar la veste trionfale a Nerone, ed anche l'ovazione. A Domizio Corbulone fu dato il governo, o pur la cura degli affari dell'Armenia Maggiore: cosa applaudita dai Romani. Il credito di questo generale, non meno che gli uffizii di Cajo Ummidio Durmio Quadrato governatore della Siria, indussero Vologeso a dimandar la pace e a dar degli ostaggi. Segni ancora di clemenza diede Nerone nel non volere che fossero ammesse le accuse contra di un senatore e di un cavaliere.
Tutto il finquì narrato appartiene in parte al precedente anno. Nel presente si cominciarono ad imbrogliar le scritture fra Agrippina e il figliuolo. Erasi Nerone già incapricciato di una giovine, appellata Atte, di bassa sfera, perchè stata schiava, ed allora liberta. Gli tenevano mano due de' suoi compagni negli spassi, cioè Marco Salvio Ottone, che fu poi imperadore, e Senecione. L'amore ch'egli dovea ad Ottavia sua moglie, principessa per avvenenza e saviezza meritevole di ogni lode, si era tutto rivolto verso questa ignobil giovinetta, essendosi fin detto che gli corse più volte per mente di sposarla. Mostravano di non saper questo suo sviluppo i due primi ministri per paura, che se gli si contrastava questo amoreggiamento, da cui non veniva ingiuria ad alcuno, egli si volgesse alle case de' nobili. Ma Agrippina non sì tosto se n'avvide, che diede nelle smanie, e gli fece più e più bravate. Tuttavia accorgendosi a null'altro servire questa sua severità, che ad accendere maggiormente le disoneste fiamme di Nerone, mutò batteria, e si studiò di guadagnarlo colle buone, e con profusion di regali e fin con esibizioni che non son da dire; [200] e tuttochè raccontate da Tacito e da Dione, han tutta la ciera di calunnie, facili, quando si vuol male alle persone. Nerone all'incontro, scelte le più belle gioie e masserizie del palazzo, le inviò in dono alla madre, la quale se ne offese, per voler egli far seco da liberale con quella roba che tutta egli dovea riconoscer da lei. Qui non si fermò Nerone. Levò il maneggio delle rendite del pubblico a Pallante, liberto il più confidente (e forse troppo) che s'avesse la madre, per abbassar sempre più la di lei superbia. Per questo andò nelle furie Agrippina, nè potè contenersi dal dire un dì al figliuolo, che giacchè vivea Britannico, ella ne saprebbe anche fare un imperadore. Anzi, secondo Dione [Dio, lib. 6.], gli ricordò in tal maniera d'averlo fatto imperadore, che parve volesse dire che era anche capace di disfarlo. Queste parole della superba donna incautamente proferite, furono la sentenza di morte dell'infelice Britannico, giovinetto di molta espettazione, amato da ognuno, che già toccava il quindicesimo anno dell'età sua. Nerone il fece avvelenare da Giunio Pollione tribuno di una coorte di pretoriani. Mentre lo sfortunato principe pranzava coll'imperadore, ma, secondo lo stile, ad una tavola a parte, gli fu portata una bevanda troppo calda senza veleno, di cui fece il saggio lo scalco suo. Dimandò Britannico dell'acqua fredda per temperare quel caldo, e recatagli questa con un potentissimo veleno, bebbe; ed appena bevuto, si sentì sconvolgere tutto, e da lì a poco cadde per terra tramortito. Ognuno de' circostanti atterrito tremava; alcuno anche imprudente si ritirò [Tacitus, lib. 13, cap. 7.]; ma i più accorti fissarono il guardo in Nerone, il quale senza punto muoversi da tavola, e senza punto scomporsi, disse che quello era un colpo di mal caduco, a cui fin da fanciullo egli era soggetto. Britannico morì nella seguente notte, e fu immediatamente bruciato il [201] suo corpo, acciocchè non apparissero i segni del veleno. Dione all'incontro scrive, che per coprir que' segni apparenti nel volto, Nerone lo fece imbiancare col gesso; ma sopraggiunta una dirotta pioggia nel portarlo al rogo, si lavò l'imbiancatura, onde ognuno potè scorgere l'iniquità del fatto. Anche Tacito parla di essa pioggia, ma con dir solamente, averla interpretata i Romani per un contrassegno dell'ira degli dii.
Questo colpo sbalordì fieramente Agrippina, sì per vedere di che fosse capace il figliuolo, e sì per trovarsi priva di chi al bisogno avrebbe potuto giovare ai suoi disegni. Ma fece forza a sè stessa, per coprire l'interno affanno. Nè meno di lei seppe contenersi nel mirarsi tolto da sì barbara mano il caro fratello Ottavia, siccome già avvezza a non zittire per qualunque aggravio che le fosse fatto. Colle spoglie di Britannico Nerone arricchì di poi Burro e Seneca: il che diede da mormorare di essi a non pochi. Ne fece anche parte ad Agrippina; ma questa non potea darsi pace al vedere un figlio agitato da sì violente passioni, e al temere di peggio. Laonde per premunirsi cominciò a farsi del partito coi tribuni centurioni della milizia, ed insieme ad adescare i più accreditati della nobiltà, non più altera, come in addietro, ma abbondante di cortesia anche all'eccesso. E soprattutto raunava danaro, creduto il più potente amico nelle occorrenze. Seppelo Nerone; le levò le due guardie de' pretoriani e Germani; la fece anche passare dal palazzo imperiale ad abitare in quello di Antonia sua avola, per tenerla lontana da sè. Portavasi talvolta a visitarla, ma sempre attorniato da molti centurioni, e dopo un breve complimento, se n'andava. Allora comparve a che vicende sia suggetta l'umana potenza, e quanto fragile e vana sia la grandezza de' mortali. Quella dianzi tanto venerata e temuta donna si trovò in isola; niun più andava a visitarla, a riserva di poche femmine; ognun fuggiva d'incontrarla [202] di parlarle, di mostrarsene parziale. A questo arrivò la smoderata ambizion di Agrippina; e pure non finì qui la sua depressione. Giulia Silana, nobilissima dama, già amica sua, e poi gravemente disgustata pel matrimonio di Sesto Africano, concertato da lei, e frastornato da Agrippina, prese ad accusarla, e fece passare all'orecchio, di Nerone per mezzo di Paride commediante, che la madre era dietro a volere sposar Rubellio Plauto, per via di femmine discendente da Augusto, con disegno di sconvolgere poi lo stato. Passata la mezza notte, corse Paride a far questa relazione a Nerone, il quale si ritrovava allora, secondo il solito, ubbriaco. Il primo ed unico pensiero dell'infuriato Augusto fu quello di uccider la madre e Plauto, e di levar la carica di prefetto del pretorio a Burro, sospettandolo d'accordo con Agrippina, da cui egli riconosceva la sua fortuna. Seneca chiamato al romore, il pacificò per conto di Burro, attestandone l'onoratezza. Accorse anche Burro, e promise di torre la vita ad Agrippina, se si recavano prove dell'accusa, mostrando poi la necessità d'ascoltar lei ancora. Fatto giorno, i ministri andarono ad intimarle l'accusa e a rivelarle gli accusatori. Agrippina rispose col non per anche deposto orgoglio, e dimandò di poter parlare al figliuolo: il che non le fu negato. Parlò in maniera, che il rasserenò, e poscia andò il gastigo a cadere sopra Silana, che fu relegata, e sopra alcuni altri complici di lei. Ottenne ella ancora dei posti per alcuni suoi favoriti. Un'altra accusa in questi tempi venne in campo contra del suddetto Burro, e di Pallante liberto da noi più volte nominato, imputati di voler portare all'imperio Cornelio Sulla, uno de' primati romani. Si difesero in maniera, che solamente Peto l'accusatore ne portò la pena con essere relegato. [203]
Anno di | Cristo LVI. Indizione XIV. |
Pietro Apostolo papa 28. | |
Nerone Claudio imper. 3. |
Consoli
Quinto Volusio Saturno e Publio Cornelio Scipione.
Secondochè abbiam da Svetonio, soleva Nerone mutar nelle calende di luglio i consoli. Per questo va congetturando Vinando Pighio, che ai suddetti consoli fossero sostituiti Curtilio Mancia e Dubio Avito, per trovarsi eglino da qui a due anni proconsoli. Cominciò in quest'anno lo sbrigliato giovinastro Nerone a menar una vita più che mai scandalosa [Tacit., Ann., lib. 13, cap. 25. Dio, lib. 61. Suet., in Nerone, cap. 26.]. La notte travestito da servo, accompagnato da alcuni suoi fidi, scorreva per le strade per gli postriboli, per le bettole a sfogare i bestiali suoi appetiti, divertendosi in rompere ed isvaligiar botteghe, e in dar per ischerzo delle battiture a chi s'incontrava per via, e far di peggio a chi resisteva. Essendo poi trapelato venir da Nerone somiglianti insolenze, presero animo altri giovani scapestrati per unirsi insieme, e far lo stesso sotto nome di lui, ingiuriando uomini e donne illustri: con che pericoloso per tutti divenne lo andar di notte per Roma. Perchè Nerone non era conosciuto, toccavano anche a lui talvolta delle busse. Per attestato di Plinio [Plin., lib. 13, cap. 22.] fu sfregiato una notte in volto. Con tassia, incenso e cera avendo unta la percossa, la mattina seguente comparve con la cute sana. Uno di quelli che la notte gli diedero alcune bastonate o ferite, o sia per cagion della moglie, come vuole Svetonio e Dione, o pure per motivo di propria difesa, come s'ha da Tacito, fu Giulio Montano, uomo nobile e già vicino a divenir senatore. Stette Nerone a cagion di questo regalo più dì confinato in casa, nè già pensava a vendetta, [204] perchè si figurava di non essere stato conosciuto, e però non ingiuriato. Ma il mal accorto Montano, saputo con chi egli avea sì malamente trescato, andò ad infilzarsi da sè stesso con iscrivergli una lettera lagrimevole e chiedergli perdono. «Come! gridò Nerone, costui sa d'aver percosso l'imperadore, nè si è per anche data la morte da sè stesso!» Gli fece egli dipoi insegnare come andava fatto. Da lì innanzi usò Nerone di uscir di notte con una banda di soldati e di gladiatori, che il seguitavano in disparte. Se per le insolenze ch'egli commetteva, talun si rivoltava, allora costoro menavano le mani. Dilettavasi parimente il forsennato Augusto di accendere e fomentare le fazioni del popolazzo nelle pubbliche commedie, gustando ora da luogo occulto, ed ora scoperto, di mirare se si davano de' pugni, e tiravano dei sassi, essendo egli talora il primo a gittarne, con avere anche una volta ferito in volto il pretore, presidente ai giuochi. Andò tanto innanzi la confusione per questo, con pericolo di peggio, che bisognò rimettere le guardie ne' teatri, e bandire dall'Italia alcuni dei più sediziosi istrioni e pantomimi. Piena [Tacitus, lib. 13, cap. 26.] era l'antica Roma di schiavi e di liberti. Ancorchè i primi con acquistar la libertà dai padroni, sembra che fossero sciolti da ogni legame, pure o per la pratica, o per le riserve tacite od espresse che si faceano, erano tenuti a servire essi padroni, ma in impieghi più onorevoli. Se mancavano, erano gastigati; se arrivava il lor fallo all'ingratitudine, tornavano schiavi. Grandi lamenti insorsero in questi tempi de' padroni contra dei liberti; e in senato fu proposto di fare una legge rigorosa, che gli abbracciasse tutti. Nerone l'impedì con ordinare, che il gastigo andasse sopra i particolari, per le ragioni che ne adduce Tacito. Fu anche modificata la soverchia autorità de' pretori, degli edili e de' tribuni della plebe. [205] Alcuni altri regolamenti si fecero, tutti utili al pubblico.
Anno di | Cristo LVII. Indizione XV. |
Pietro Apostolo papa 29. | |
Nerone Claudio imper. 4. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto per la seconda volta e Lucio Calpurnio Pisone.
Si sa da Svetonio, che Nerone non tenne se non sei mesi il consolato. Disputano gli eruditi, chi a lui ed al collega succedesse nelle calende di luglio. Nulla s'è potuto accertare finora. Non ci somministra l'antica storia alcun fatto rilevante sotto quest'anno. Tacito [Tacit., lib. 13, cap. ] solamente racconta aver Nerone dato un congiario, o sia regalo, al popolo, e levata l'imposta di venticinque danari sopra la vendita che si faceva degli schiavi. Proibì ancora ai governatori delle provincie il fare spettacoli di gladiatori o di fiere, e simili altri giochi: perchè sotto questo pretesto molestavano forte le borse de' popoli, o cercavano di coprire con tali magnificenze i lor latrocini. Fu accusata Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plauzio, conquistator della Bretagna, perchè seguitava una superstizion forestiera. Hanno creduto, e fondatamente i nostri, ch'ella avesse abbracciata la religion cristiana, la quale in questi tempi s'andava dilatando per la terra, e massimamente in Roma. Fu rimessa tal giustizia, secondo l'antico costume, alla cognizion del marito, il quale, esaminato l'affare coi di lei parenti, la giudicò innocente. Potrebbe essere che appartenesse all'anno presente ciò che narra Dione [Dio, lib. 61.] con dire, che si fecero vari spettacoli in Roma. Uno di tori, che furono uccisi da uomini a cavallo, correnti a briglia sciolta contra di essi. Un altro, in cui quattrocento orsi e trecento lioni caddero al suolo trafitti dalle lance [206] delle guardie a cavallo di Nerone. Anche trenta uomini dell'ordine de' cavalieri romani combatterono nell'anfiteatro alla foggia de' gladiatori, cioè di gente infame. Cresceva intanto lo sregolamento di Nerone ascoltando egli unicamente i consigli di chi adulava le di lui passioni, tutte rivolte ai piaceri anche più abbominevoli. Quei di Burro e di Seneca l'infastidivano, e in fine cominciò a metterseli sotto i piedi. Ottone, che fu poi imperadore, e in tutto simile era a Nerone nelle inclinazioni e nei vizii, siccome ancora gli altri collegati negl'infami di lui divertimenti, gli andavano di tanto in tanto dicendo: «Come mai soffrite che vi facciano i pedanti in questa età? E voi ve ne mettete suggezione, senza ricordarvi che siete l'imperadore, e che non essi, ma voi sopra d'essi avete potere!» Così imparò egli a sprezzare i consigli de' buoni, e, voltata strada, si diede ad imitar Caligola, anzi a superarlo; parendogli cosa degna di un imperadore il non esser da meno d'alcuno neppur nelle cose mal fatte. Tuttavia in questi primi anni si andò ritenendo. I suoi erano finora vizii privati, e nocevano a lui solo, e a pochi altri, senza che ne patisse la repubblica. Si videro anche in lui alcuni atti di clemenza, intorno alla qual virtù gli avea Seneca composto e dedicato nell'anno precedente un trattato che ci resta. Ma fin dove il portasse la sua perversa natura, e questo abbandonamento di sè stesso, poco staremo a vederlo.
Anno di | Cristo LVIII. Indizione I. |
Pietro Apostolo papa 30. | |
Nerone Claudio imper. 5. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto per la terza volta e Valerio Messalla.
V'ha chi dà al secondo console il nome di Marco Valerio Messalla Corvino. Ed abbiamo bensì da Svetonio che il terzo consolato di Nerone durò solamente [207] quattro mesi; ma non sappiamo chi a lui succedesse nelle calende di maggio. Potentissimo avvocato, ed insieme terribile e venale accusatore sotto l'imperador Claudio era stato Marco Suilio [Tacitus, lib. 13, cap. 42.], odiato perciò da molti, i quali, mutato il governo, si studiarono d'abbatterlo. Perchè egli credea suo nemico Seneca, ne sparlava a tutto potere, tassandolo di aver avuto disonesto commercio con Giulia figliuola di Germanico Cesare, per cui giustamente avesse patito l'esilio, e ch'egli fosse filosofo bensì di nome, ma ne' fatti un solennissimo ipocrita, mentre scriveva sì dei precetti di filosofia, ed altro poi non facea che ammassar de' milioni, e andar a caccia di testamenti, e di far usure innumerabili per l'Italia e per le provincie. Nel senato comparvero delle gravi accuse contro di Suilio; ma Nerone si contentò di confiscargli una parte de' suoi beni e di relegarlo in Majorica e Minorica. Anche Cornelio Silla, verisimilmente quello stesso ch'era stato console nell'anno 52 ed aveva avuta in moglie Antonia figliuola di Claudio Augusto, fu relegato a Marsilia. Benchè pel suo genio timido e vile non fosse capace d'imprese grandi, pure gli emuli suoi fecero credere a Nerone, ch'egli, sotto una finta stupidità, covasse dei veri disegni di novità; e gli tesero anche tante trappole, che fu condannato, come dissi, all'esilio ed anche nell'anno 62 tolto dal mondo. Fu parimente accusato Pomponio Silvano d'aver fatto delle estorsioni durante il suo governo nell'Africa. Ebbe de' buoni protettori, perchè lor fece sperar le molte sue ricchezze per eredità, giacchè privo era di figliuoli ed inoltrato molto nell'età. In questa maniera si salvò, con deludere poscia l'espettazione di chiunque facea i conti sulla sua roba, per essere sopravvivuto a tutti. Potrebb'essere un d'essi Ottone, che fu poi imperadore, e forse anche il buon Seneca, da noi veduto in concetto d'attendere a simili prede. Era in questi tempi andato all'eccesso [208] l'orgoglio e l'insolenza dei pubblicani, cioè de' gabellieri di Roma, e ne mormorava forte il popolo. Saltò in capo a Nerone di levar via, tutt'i dazii e le gabelle, per aver la gloria di fare un bellissimo regalo al genere umano; e se ne lasciò intendere in senato. Lodarono i senatori assaissimo la grandezza dell'animo suo; ma appresso gli fecero toccar con mano che senza il nerbo delle rendite pubbliche non potea sussistere l'imperio romano, tanto ch'egli smontò. Furono nondimeno fatti dei buonissimi regolamenti in questo proposito per benefizio dei popoli con reprimere le avanie di quelle sanguisughe: regolamenti nondimeno ch'ebbero corta durata, con ripullulare gli abusi. Tuttavia confessa Tacito, che molti se ne levarono, nè al suo tempo si pagavano più non so quante esazioni introdotte al passaggio de' ponti, e per le navi.
Ebbe principio in quest'anno l'amoreggiamento di Nerone con Poppea Sabina, donna di gran nobiltà, di pari bellezza e ricchezza. Graziosa nel parlare, vivace d'ingegno, e modesta in apparenza, di rado si lasciava vedere per Roma, e sempre col volto mezzo coperto, per non saziare affatto la curiosità di chi la riguardava. Le mancava solo il più bello, cioè l'onestà. Bastava essere liberale per guadagnarsi i di lei favori. Era stata moglie di Rufo Crispino cavaliere romano, a cui partorì un figliuolo; ma innamoratosene Ottone, che fu poscia imperadore, non gli fu difficile colla bizzarria delle comparse, colla gioventù e col credito d'essere uno dei più confidenti dell'imperadore, di distorla dal marito, e di prenderla egli in moglie: chè di questi bei tiri abbondava Roma pagana. Ma il vanaglorioso scioccone non potea ritenersi presso Nerone dal far elogi incessanti della nobiltà e dell'avvenenza della nuova moglie, chiamando sè stesso il più felice degli uomini, per trovarsi in possesso di tal donna. Tanto andò ripetendo questa canzone, che [209] Nerone invogliossi di vederla, e il vederla fu lo stesso che innamorarsene perdutamente. Mostrossi anch'ella sul principio presa della di lui bellezza; poi colla ritrosia, e col fingersi troppo contenta del marito Ottone, e di non apprezzar molto chi era di spirito sì basso da compiacersi dell'amore di una vil serva, cioè di Atte liberta, tal corda gli diede, che sempre più andò crescendo la fiamma. Ne provò ben presto gli effetti lo stesso Ottone con restar privo della confidenza di Nerone, e col non essere ammesso alla di lui udienza, nè al corteggio. Di peggio potevagli avvenire, se Seneca, amico suo, non avesse impetrato, che Nerone l'inviasse per presidente della Lusitania, parte di cui era il Portogallo d'oggidì, dove con buone operazioni per dieci anni risarcì l'onore ch'egli avea perduto in Roma. Da lì innanzi Poppea trionfò nel cuor di Nerone. Dione [Dio, lib. 90.] pretende, che per qualche tempo Ottone e Nerone andassero d'accordo nel possedere costei; ma molto non sogliono durare sì fatte amicizie. Risvegliossi in quest'anno [Tacitus, lib. 13, cap. 34.] la guerra fra i Romani e i Parti, per cagion dell'Armenia. Vologeso re d'essi Parti pretendea di mettervi per re Tiridate suo fratello; i Romani voleano disporne a lor piacimento, come s'era fatto in addietro. Domizio Corbulone, che già dicemmo il più valente generale di Roma in questi tempi, comandava in quelle parti l'armi romane. Ma, più che i Parti, recava a lui pena la scaduta disciplina delle soldatesche sue, per lunga pace impigrite e dimentiche degli ordini della vecchia milizia. La prima sua cura adunque fu quella di cassare gl'inutili, di far nuove leve, e di ben disciplinar la sua gente, usando del rigore ch'era a lui naturale. S'impadronì egli poi di Artasata capitale dell'Armenia e di Tigranocerta; ed avendo voluto Tiridate rientrare nell'Armenia, il ripulsò, divenendo [210] in fine padrone affatto di quella contrada. Probabilmente non succederono tutte queste imprese nell'anno presente. L'Occone e il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperat.], che riferiscono a quest'anno la pace universale, e il tempio di Giano chiuso in Roma, come apparisce da molte medaglie, andarono a tastoni in questo punto di storia. Tacito racconta in un fiato varii avvenimenti tanto dell'Armenia che della Germania, ma non succeduti tutti in un sol anno.
Anno di | Cristo LIX. Indizione II. |
Pietro Apostolo papa 31. | |
Nerone Claudio imper. 6. |
Consoli
Lucio Vipstano Aproniano e Fontejo Capitone.
Comunemente da chi ha illustrato i Fasti consolari, il primo di questi consoli è chiamato Vipsanio. Ma, secondo le osservazioni del cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.], il suo vero nome fu Vipstano; e ciò può ancora dedursi da un'iscrizione pubblicata anche da me [Thes. Nov. Veter. Inscr., p. 305, n. 3.]. In essa s'incontra Cajo Fontejo. Se ivi è disegnato il console di questi tempi, Cajo e non Lucio sarà stato il suo prenome. Giunse in quest'anno ad un orrido eccesso la più che maligna natura di Nerone. Erasi rimessa in qualche credito Agrippina sua madre, dappoichè le riuscì di superar le calunnie di Giunia Silana; ma dacchè entrò in corte Poppea Sabina, cominciò una nuova e più fiera guerra contro di lei. Aspirava questa ambiziosa ed adultera donna alle nozze del regnante, al che, vivente Agrippina, le parea troppo difficile di poter giungere, sì perchè Agrippina amava forte la saggia e paziente sua nuora Ottavia, e sì perchè non avrebbe potuto soffrire presso il figliuolo chi a lei fosse superiore negli onori e nel comando. Cominciò dunque Poppea a stimolar [211] Nerone con dei motti pungenti, deridendolo, «perchè tuttavia fosse sotto la tutela; ed oh che bel padrone del mondo, che nè pure è padrone di sè stesso!» Passò poi in varie guise, e coll'aiuto dei cortigiani nemici di Agrippina, a fargli credere che la madre nudrisse de' cattivi disegni contra di lui. Ingegnavasi all'incontro anche Agrippina di guadagnarsi l'affetto del figliuolo contra di questa rivale; e fanno orrore le dicerie che corsero allora, delle quali Dione Cassio [Dio, lib. 90.] e Tacito [Tac., lib. 14, cap. 2.] fanno menzione, contraddicendo quegli autori anche in parlar di Seneca, che alcuni vogliono concorde coll'iniquo Nerone alla rovina della madre, ed altri parziale della medesima, anzi macchiato di un infame commercio con lei. La stessa battaglia fra quegli scrittori si osserva, rappresentando alcuni [Sueton., in Nerone.], ch'ella con carezze nefande, ed altri colla fierezza e colle minacce procurava di rompere l'abbominevole attaccamento del figliuolo a Poppea. Se nulla è da credersi, è l'ultimo. Perciò Nerone annoiato cominciò a sfuggirla, e ad aver caro ch'ella se ne stesse ritirata nelle deliziose sue ville, benchè quivi ancora l'inquietasse, con inviar persone, le quali, in passando, le diceano delle villanie o delle parole irrisorie. Finalmente si lasciò precipitar nella risoluzione di torle la vita. Non si arrischiò al veleno, perchè non apparisse troppo sfacciato il colpo, siccome era avvenuto in Britannico; e perchè ella andava ben guernita di antidoti. Nulladimeno Svetonio scrive, che per tre volte tentò questa via, ma indarno. Pensò anche a farle cadere addosso il vôlto della camera, dov'ella dormiva, e vi si provò. Ne fu avvertita per tempo Agrippina, e vi provvide.
Ora Aniceto liberto di Nerone, presidente dell'armata navale, che si tenea sempre allestita nel porto di Miseno, siccome nemico di Agrippina, si esibì a [212] Nerone di fare il colpo con una invenzione che parrebbe fortuita; e risparmierebbe a lui l'odiosità del fatto. Consisteva questa in fabbricare una galea congegnata in maniera, che una parte si scioglierebbe, tirando seco in mare chi v'era disopra, esempio preso da una simil nave già fabbricata nel teatro. Piacque la proposizione; fu preparato nella Campania l'insidiatore legno; e Nerone per celebrar i giuochi d'allegria in onor di Minerva, chiamati Quinquatrui, si portò al palazzo di Bauli, situato fra Baia, e Miseno, conducendo seco la madre sino ad Anzo, giacchè era qualche tempo che le mostrava un finto affetto, ed usavale delle finezze. Quivi stando Nerone si udiva dire: che toccava ai figliuoli il sopportare gli sdegni di chi avea lor data la vita, e che a tutti i patti volea far buona pace colla madre; acciocchè tutto le fosse riferito, ed ella, secondo l'uso delle donne facili a credere ciò che bramano, si lasciasse meglio attrappolare. Invitolla dipoi a venire ad un suo convito ad Anzo; ed ella v'andò, accolta dal figliuolo sul lido con cari abbracciamenti, e tenuta poi a tavola nel primo posto: il che maggiormente la assicurò. O sia, come vuol Tacito, ch'ella quivi si fermasse quella sola giornata, o che, al dire di Dione, si trattenesse quivi per alcuni giorni, volle ella infine ritornarsene alla sua villa. Nerone, dopo il lungo e magnifico convito, la tenne fino alla notte in ragionamenti ora allegri, ora serii, baciandola di tanto in tanto, ed animandola a chiedere tutto quel che voleva, con altre parole le più dolci del mondo. Accompagnata da lui sino al lido, s'imbarcò nella nave traditrice, superbamente addobbata, e andò servendola Aniceto. Era quietissimo il mare, e parve quella calma venuta apposta, per far conoscere ad ognuno, che non dalla forza de' venti, ma dal tradimento procedea lo sfasciarsi della nave. Alla divisata ora cadde, secondo Tacito [Tacitus, lib. 14, cap. 3.], il tavolato di sopra, [213] che soffocò Creperio Gallo cortigiano d'Agrippina; ma essa con Acerronia Polla sua dama d'onore si attaccò alle sponde, nè cadde. In quella confusione i marinai credendo che Acerronia fosse Agrippina, coi remi la uccisero. Ad Agrippina toccò solamente una ferita sulla spalla. Fu voltata in un lato la nave, perchè si affondasse; ed Agrippina cadutavi pian piano dentro, parte nuotando, e parte soccorsa dalle barchette che venivano dietro, si salvò, e fu condotta al suo palazzo nel lago Lucrino. Dione in poche parole dice, che, sfasciatasi la nave, Agrippina cadde in mare, nè si annegò. Più minuta, ma imbrogliata, è la descrizione che fa di questo fatto Tacito; ma, comunque succedesse, per consenso di tutti, Agrippina scampò la vita.
Ridotta nel suo palazzo, e in letto, per farsi curare, ricorrendo col pensiero tutta la serie di quel fatto, non durò fatica ad intendere chi le avesse tramata la morte. Prese la saggia determinazione di tutto dissimulare, ed immediatamente spedì Agerino suo liberto al figliuolo, per dargli avviso d'avere per benignità degli dii sfuggito un bravissimo pericolo, e per pregarlo di non farle visita per ora, avendo ella bisogno di quiete per farsi medicare. Nerone ch'era stato sulle spine la notte, aspettando nuova dell'esito degli esecrandi suoi disegni, allorchè intese come era passata la cosa, ed esserne uscita netta la madre, fu sorpreso da immensa paura, immaginandosi ch'ella potesse spedirgli contro tutta la sua servitù in armi, o muovere i pretoriani contra di lui, o comparire ad accusarlo in Roma al senato e al popolo. Sbalordito non sapeva allora in qual mondo si fosse. Fece svegliar Burro e Seneca, chiamandogli a consiglio, essendo ignoto s'eglino sì o no fossero prima consapevoli del delitto. Restarono un pezzo ambedue senza parlare, o perchè non osassero di dissuaderlo, o perchè credessero ridotte le cose ad un punto [214] che Nerone fosse perduto, se non preveniva la madre. Nerone in fatti propose di levarla dal mondo; e Seneca, imputato da Dione d'aver dianzi dato questo medesimo consiglio, voltò gli occhi a Burro, come per domandargli che ne comandasse ai suoi pretoriani l'esecuzione. Ma Burro, non dimenticando che da Agrippina era proceduta la propria fortuna, prontamente rispose, che essendo obbligate le guardie del corpo a tutta la casa cesarea, e ricordandosi del nome di Germanico, non si potea promettere in ciò della loro ubbidienza; e che toccava ad Aniceto il compiere ciò ch'egli aveva incominciato. Chiamato Aniceto, non vi pose alcuna difficoltà, cosicchè Nerone protestò che in quel giorno egli riceveva dalle sue mani l'imperio; e quindi gli ordinò di prendere quegli armati che occorressero dalla guarnigione delle sue galee. Intanto arriva per parte di Agrippina Agerino. Sovvenne allora a Nerone un ripiego degno del suo capo sventato. Allorchè l'ebbe ammesso all'udienza, gli gittò a' piedi un pugnale, e chiamò tosto aiuto, con fingere costui mandato dalla madre per ucciderlo, e il fece tosto imprigionare, e poi spargere voce, ch'egli s'era ucciso da sè stesso per la vergogna della scoperta sua mala intenzione. Intanto Agrippina, ch'era negli spasimi per non veder venire Agerino, nè altra persona per parte del figlio, in vece di essi mira entrar nella sua camera Aniceto, accompagnato da due suoi uffiziali, senza sapere se in bene o in male. Poco stette in avvedersene: un colpo di bastone la colse nella testa; e vedendo sguainata la spada da un di essi, saltando su gridò: «Ferisci questo,» mostrandogli il ventre. Fu di poi morta con più ferite; e portatane la nuova a Nerone, non mancò chi disse di averla voluta vedere estinta e nuda, non fidandosi di chi gli riferì il fatto, e d'aver detto: «io non sapea d'avere una madre sì bella.» Tacito lascia in forse questa circostanza. Fu in quella stessa [215] notte bruciato, secondo il costume d'allora, il suo corpo e vilmente seppellito. Ed ecco dove andò a terminare la sbrigliata ambizione di questa donna, figliuola di Germanico, nipote del grande Agrippa, pronipote d'Augusto, moglie e madre d'imperadori. Le iniquità da lei commesse per far salire il figlio al trono riportarono questa ricompensa dallo stesso suo figlio, mostro d'ingratitudine e di crudeltà.
Fece susseguentemente Nerone una bella scena, mostrandosi inconsolabile per la morte della madre, e dolendosi d'aver salvata la vita propria colla perdita della sua; giacchè voleva che si credesse aver ella inviato Agerino per ucciderlo, e ch'ella dipoi si fosse uccisa da sè stessa. Lo stesso ancora scrisse al senato con aggiungere una filza d'altre accuse contro la madre per giustificar sè medesimo, e con dire fra l'altre cose [Quintilianus, lib. 8 Instit.]: Ch'io sia salvo, appena lo credo, e non ne godo. Perchè quella lettera o era scritta da Seneca, o si riconobbe per sua dettatura, fu mormorato non poco di questo adulator filosofo, il quale compariva approvatore di sì nero delitto. Mostrò il senato [Tacitus, lib. 14, c. 12.] di credere tutto: decretò ringraziamenti agli dii, e giuochi per la salvata vita del principe; e dichiarò il dì natalizio di Agrippina per giorno abbominevole. Il solo Publio Peto Trasea, senatore onoratissimo, dappoichè, fu letta quella lettera, uscì dal senato, per non approvare nè disapprovare, il che poi gli costò caro. Ma Nerone dopo il misfatto [Sueton., in Neron., c. 34.] si sentì gran tempo rodere il cuore dalla coscienza; sempre avea davanti agli occhi l'immagine dell'estinta madre e gli parea di veder le furie che il perseguitassero colle fiaccole accese. Nè il mutar di luogo e l'andare a Napoli ed altrove, servì a liberarlo dall'interno strazio. Neppure s'attentava di ritornar più a Roma, temendo d'essere [216] in orrore a tutti. Ma gl'ispiravano del coraggio i bravi cortigiani, facendogli anzi sperare cresciuto l'amore del popolo per aver liberata Roma dalla più ambiziosa e odiata donna del mondo. In fatti, restituitosi alla città, trovò anche più di quel che sperava, movendosi e grandi e piccoli per paura di un sì spietato principe a fargli onore. Andò dunque come trionfante al Campidoglio, persuaso ch'egli potea far tutto a man salva, dacchè tutti, o perchè l'amavano, o perchè avviliti, non sapeano se non adorare i di lui supremi voleri. Affettò ancora la clemenza con richiamare a Roma Giunia Calvina, Calpurnia, Valerio Capitone e Licinio Gabalo, esiliati già dalla madre. Ma in questo medesimo anno col veleno abbreviò la vita a Domizia sua zia paterna, con occupar tutti i suoi beni posti in quel di Baja e di Ravenna, prima ancora ch'ella spirasse. Quivi alzò de' magnifici trofei, che duravano anche ai tempi di Dione [Dio, lib. 61.]. Mirabil cosa nondimeno fu, che parlando molti liberamente di tali eccessi, ed uscendo non poche pasquinate, pure, egli, benchè dalle sue spie informato di quanto succedea, ebbe tal prudenza da dissimular tutto, e da non gastigar alcuno per questo, paventando di accrescere, altrimente facendo, il romore nel popolo.
Anno di | Cristo LX. Indizione III. |
Pietro Apostolo papa 32. | |
Nerone Claudio imper. 7. |
Consoli
Nerone Claudio Augusto e Cosso Cornelio Lentulo.
Dicendo Svetonio, che Nerone tenne questo consolato per soli sei mesi nelle calende di luglio dovettero succedere a lui e al collega due altri consoli. Il nome loro ci è ignoto. Alcuni han sospettato che fossero Tito Ampio Flaviano e Marco Aponio Saturnino, perchè da Tacito son [217] chiamati uomini consolari, ed ebbero poscia de' governi. Andossi poi sempre abbandonando Nerone [Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 14.] ai divertimenti e piaceri, dappoichè non vivea più la madre, che il tenea pure in qualche suggezione. Sin da fanciullo si dilettava egli di andare in carretta e di condurre i cavalli. Avea anche imparato a sonar di cetra e a cantare. Diedesi ora in preda a questi sollazzi, sì sconvenevoli ad un imperadore. Seneca e Burro gli permisero il primo, per distorlo dagli altri, purchè corresse co' cavalli nel circo vaticano chiuso per non lasciarsi vedere dal popolo. Ma non si potè contenere il vanissimo giovane; volle degli spettatori, e il lor plauso l'invogliò ad invitarvi anche del popolo, il quale godendo di veder fare i principi ciò ch'esso fa, e perciò gonfiandolo con alte lodi, maggiormente l'incitò a quel plebeo mestiere [Dio, lib. 61.]. Tuttavia ben conoscendo, che i saggi erano d'altro sentimento, credette di schivar il disonore, con cercare de' compagni nobili che imitasser lui ne' pubblici divertimenti. Perciò venutogli in capo di far de' giuochi di somma magnificenza in onor della madre, che durarono più giorni, si videro nobili dell'uno e dell'altro sesso, non solo dell'ordine equestre, ma anche del senatorio, comparir ne' teatri, ne' circhi e negli anfiteatri, con esercitar pubblicamente le arti riserbate in addietro alle sole persone vili e plebee, con sonar nelle orchestre, rappresentar commedie e tragedie, ballar ne' teatri, far da gladiatori e da carrettieri: alcuni di propria elezione, ed altri per non disubbidir Nerone che gl'invitava. Mirava il popolo, ed anche i forestieri riconoscevano, che quegli attori, dimentichi della lor nascita, erano chi un Furio, chi un Fabio, chi un Valerio, un Porcio, un Appio, ed altri simili della nobiltà primaria. Al veder cotali novità e stravaganze, ne gemevano forte i saggi, sì pel disonor delle famiglie, come ancora perchè veniva [218] con ciò a crescere troppo smisuratamente la corruttela de' costumi. Rammaricavansi inoltre osservando le incredibili spese che facea Nerone, non solamente in questi sì sfoggiati divertimenti, ma anche negl'immensi regali alla plebe con gittar dei segni, ne' quali era scritto quella sorta di dono che dovea darsi a chi avea la fortuna d'aggraffarli come cavalli, schiavi, vesti, danari. Ben prevedevano che tanto scialacquamento andrebbe a finire in nuovi aggravi ed estorsioni sopra il pubblico, siccome in fatti avvenne. Instituì eziandio Nerone altri giuochi, appellati Giovenali in onore della prima volta ch'egli si fece far la barba: rito festivo presso i Romani. Que' preziosi peli in una scatola d'oro furono consecrati a Giove. In que' giuochi danzarono i più nobili fra i Romani, e bella figura fra l'altre dame fece Elia Catula, giovinetta di ottanta anni, che ballò un minoetto. Chi de' nobili non potea ballare, cantava; ed eranvi scuole apposta, dove concorrevano ad imparare uomini e donne di prima sfera, fanciulle, giovanetti, vecchi, per far poscia con leggiadria il loro mestiere ne' pubblici teatri. Che se alcuno, non potendo di meno, per vergogna vi compariva mascherato. Nerone gli cavava la maschera, e si venivano a conoscere persone impiegate ne' più riguardevoli magistrati.
Nè lo stesso Nerone volle in fine essere da meno degli altri. Uscì anche egli nella scena in abito da suonator di cetra, ed oltre al suonare, fece sentir la sua da lui creduta melodiosa voce, la qual nondimeno si trovò sì somigliante a quella de' capponi cantanti, che niun potea ritener le risa, e molti piangeano per rabbia. Se crediamo a Dione, Burro e Seneca assistenti servivano a lui di suggeritori, e andavangli poi facendo plauso colle mani e coi panni, per invitare allo stesso l'udienza. Tacito [Tacitus, lib. 14, cap. 15.] anch'egli lo attesta di Burro, ma con aggiungere che internamente se ne affliggeva. [219] Nè già era permesso [Sueton., in Nerone, cap. 23.], allorchè cantava questo insigne maestro, ad alcuno l'uscir di teatro, per qualsivoglia bisogno che occorresse. Quella era la voce d'Apollo; niun v'era che potesse uguagliarsi a lui nella melodia del canto. Così gli adulatori. Volle egli ancora che si tenesse una gara di poesia e d'eloquenza, e vi entrò anch'egli coll'invito de' giovani nobili. Non è difficile l'immaginarsi a chi toccasse la palma e il premio. Furono similmente richiamati a Roma i pantomimi, perchè divertissero il popolo nei teatri, ma non già ne' giuochi sacri. Apparve in quest'anno una cometa. Il volgo, imbevuto dell'opinione, che questo predica la morte de' principi, cominciò a fare i conti su la vita di Nerone, e a predire chi a lui succederebbe. Concorrevano molti in Rubellio Plauto, discendente per via di donne dalla famiglia di Giulio Cesare, personaggio ritirato e dabbene. Ne fu avvertito Nerone. Si aggiunse, che trovandosi a desinare il medesimo imperadore in Subbiaco, un fulmine gli rovesciò le vivande e la tavola. Perchè quel luogo era vicino a Tivoli, patria dei maggiori d'esso Plauto, la pazza gente perduta nelle superstizioni maggiormente si confermò nella predizione suddetta. Fece dunque Nerone intendere a Rubellio Plauto, che miglior aria sarebbe per lui l'Asia, dov'egli possedeva dei beni. Gli convenne andar là colla sua famiglia, ma per poco tempo, perchè da lì a due anni Nerone mandò ad ucciderlo. Venne in questi tempi a morte Quadrato, governatore della Siria, e quel governo fu dato a Corbulone, da cui dicemmo ch'era stata acquistata l'Armenia. Trovavasi da gran tempo in Roma Tigrane, nipote d'Archelao, che già fu re della Cappadocia, avvezzato ad una servile pazienza. Ottenne egli da Nerone di poter governare l'Armenia con titolo di re; e andato colà, fu assistito da Corbulone con un corpo di soldatesche tali, che, al dispetto di molti, più inclinati al [220] dominio de' Parti, n'ebbe il pacifico possesso, benchè poi non vi potesse lungo tempo sussistere [Tacitus, lib. 14, cap. 27.]. Pozzuolo in questo anno acquistò il diritto di colonia, e il cognome di Nerone; intorno a che disputano gli eruditi, perchè da Livio e da Vellejo abbiamo, che tanti anni prima Pozzuolo fu colonia, e Frontino fa autore Augusto di una nuova colonia in quella città. In questi tempi Laodicea, illustre città della Frigia restò rovinata da un tremuoto; ma quel popolo la rimise in piedi colle proprie ricchezze senza aiuto de' Romani.
Anno di | Cristo LXI. Indizione IV. |
Pietro Apostolo papa 33. | |
Nerone Claudio imper. 8. |
Consoli
Cajo Cesonio Peto e Cajo Petronio Turpiliano.
Non è certo il prenome di Cajo pel secondo di questi consoli, nè sappiamo chi nelle calende di luglio loro succedesse nella dignità. Motivo [Tacitus, ibid.] ai pubblici ragionamenti diedero in quest'anno due iniquità, commesse in Roma, l'una da un nobile, l'altra da un servo. Mancò di vita Domizio Balbo, ricco, e della prima nobiltà, senza figliuoli. Valerio Fabiano, senatore, con un falso testamento, a cui tennero mano altri nobili colle lor soscrizioni e sigilli, corse all'eredità. Convinto di falsario, degradato con gli altri suoi complici, riportò la pena statuita dalla legge Cornelia. Ucciso fu da un suo servo, o vogliam dire schiavo, Pedanio Secondo, prefetto di Roma. Ne aveva egli al suo servigio quattrocento, tra maschi e femmine, grandi e piccoli, essendo soliti i ricchi Romani a tenerne una prodigiosa quantità al loro servigio. Benchè fossero quasi tutti innocenti di quel misfatto, doveano morire secondo il rigore [221] delle antiche leggi; ma fattasi grande adunanza di gente plebea per difendere quegl'infelici, l'affare fu portato al senato; ed intorno a ciò si fece lungo dibattimento, con prevalere in fine la sentenza del supplicio di tutti. Nerone mandò un ordine alla plebe di attendere ai fatti suoi, e somministrò quanti soldati occorressero per iscortare i condannati. I mali portamenti degli uffiziali nella Bretagna cagion furono di far perdere circa questi tempi quasi tutto quel paese che vi aveano acquistato i Romani; e ciò perchè si volle rimetter ivi il confisco dei beni de' delinquenti, da cui Claudio gli avea esentati. Anche Seneca, se crediamo a Dione [Dio, lib. 61.], avea dato ad usura un milione a que' popoli, e con violenza ne esigeva non solo i frutti, ma anche il capitale. Inoltre, Boendicia o sia Bunduica vedova [Tacitus, lib. 12, cap. 29.] di Prasutago re di una parte di quella grand'isola, si protestava anche essa troppo scontenta delle infinite prepotenze ed insolenze fatte dai Romani a sè stessa, a due figlie e a tutto il suo popolo. Questa regina, donna d'animo virile, quella fu che sonò in fine la tromba col muovere i suoi e i circostanti popoli a sollevarsi contra degl'indiscreti Romani con prevalersi della buona congiuntura che Svetonio Paolino, governatore della parte della Bretagna romana, e valoroso condottier d'armi, era ito a conquistare un'isola ben popolata, adiacente alla Bretagna. Con un'armata dicono, di cento ventimila persone vennero i sollevati addosso alla nuova colonia di Camaloduno, e la presero di assalto. Dopo due dì ebbero anche il tempio di Claudio, mettendo quanti Romani vennero alle lor mani, tutti a fil di spada, senza voler far prigionieri. Petilio Cereale, venuto per opporsi con una legione, fu rotto, messa in fuga la cavalleria, e tutta la fanteria tagliata a pezzi. Portate queste funeste nuove a Svetonio Paolino, frettolosamente si mosse, e venne [222] a Londra, luogo di una colonia scarsa, ma celebre città anche allora per la copia grande dei mercatanti e del commercio. Benchè pregato con calde lagrime dagli abitanti di fermarsi alla lor difesa, volle piuttosto attendere a salvare il resto della provincia. S'impadronirono i ribelli di Londra e di Verulamio, nè vi lasciarono persona in vita. Credesi che in que' luoghi perissero circa settanta o ottantamila fra cittadini romani e collegati. Si trovò poi forzato Svetonio, perchè mancava di viveri, ad azzardare una battaglia, ancorchè non avesse potuto ammassare che dieci mila combattenti; laddove i nemici da Dione si fanno ascendere a dugento trentamila persone, numero probabilmente, secondo l'uso delle guerre, o per disattenzion de' copisti, troppo amplificato. Boendicia stessa comandava quella grande armata. Dopo fiero combattimento prevalse la disciplina militare dei pochi allo sterminato numero dei Britanni, che furono sconfitti, con essersi poi detto che restarono sul campo estinti circa ottantamila di essi, numero anch'esso eccessivo. Comunque, sia insigne e memoranda fu quella vittoria. Boendicia morì poco dappoi, o per malattia o per veleno ch'essa medesima prese, e colla sua morte tornò fra non molto all'ubbidienza de' Romani il già rivoltato paese, con avervi Nerone inviato un buon corpo di gente dalla Germania, il quale servì a Svetonio per compiere quell'impresa.
Anno di | Cristo LXII. Indizione V. |
Pietro Apostolo papa 34. | |
Nerone Claudio imper. 9. |
Consoli
Publio Mario Celso e Lucio Asinio Gallo.
Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina Giunio Marullo, console disegnato, il quale poi non apparisce console, perciò possiam credere ch'egli fosse sostituito ad alcun d'essi consoli [223] ordinari, oppure all'uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio, i quali si tiene che fossero Lucio Anneo Seneca maestro di Nerone, e Trebellio Massimo. Nel gennaio dell'anno presente [Tacitus, lib. 14, cap. 48.] accusato fu e convinto Antistio Sostano pretore, d'aver composto dei versi contro l'onor di Nerone. I senatori più vili, fra' quali Aulo Vitellio, che fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo Peto Trasea ruppe il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un'isola, e confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori. Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il quale mostrò bensì molto risentimento contra d'Antistio, eppur si rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la sentenza del bando. In quest'anno ancora il suddetto Trasea, uomo di petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far l'elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle indebite licenze, per non disgustarli. L'ultimo anno fu questo della vita di Burro prefetto del pretorio, uomo d'onore e di petto, che avea finquì trattenuto Nerone dall'abbandonarsi affatto ai suoi capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s'egli morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive Tacito [Tacitus, ibid., cap. 51.]; poichè, per conto di Svetonio [Sueton., in Nerone, cap. 35.] e di Dione [Dio, lib. 61.], amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d'aver un soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d'uno [224] creò due altri prefetti del pretorio, cioè Fenio Rufo, uomo dabbene, ma capace di far poco bene per la sua pigrizia, e Sofonio Tigellino, uomo screditato per tutt'i versi, ma carissimo per la somiglianza de' depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che Seneca conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe, il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de' cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de' beni a lui finquì pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria propria [Sueton., in Nerone, c. 35.]. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la negativa con tenere espressioni d'affetto e di gratitudine, giungendo sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel che potè dal suo canto Seneca; giacchè non si fidava di sì belle parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio nell'uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio di salute, ed occupato da' suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del veleno.
Già dicemmo, che Ottavia figliuola di Claudio Augusto, e moglie di Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un'adorabile principessa; ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d'inclinazione e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e dacchè introdusse in corte Poppea Sabina, cominciò anche ad odiarla [Tacit., lib. 14, c. 60. Dio, lib. 61. Suetonius, c. 35.] per le continue batterie di quell'impudica, che non potea stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d'Ottavia. Tanto disse, tanto [225] fece questa maga che in quest'anno, col pretesto della sterilità di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea all'intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la guerra. Poppea, sovvertito uno de' familiari di Ottavia, la fece accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed estorta da alcune con sì violento mezzo la confession del fallo; ma altre sostennero con coraggio l'innocenza della padrona, e dissero delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che della morte data poco innanzi a Silla e a Rubellio Plauto già mandati da Nerone in esilio. Fu relegata Ottavia nella Campania, e messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma. Pel suo ritorno andò all'eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia, con altre pazzie d'allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di caricar la mano contra dell'odiata principessa, persuadendo a Nerone che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu perciò chiamato a corte l'indegno Aniceto, che già avea tolta di vita Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere d'aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l'infame accusa colla giunta d'altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di ribellioni macchinate, l'infelice principessa, in età di soli ventidue anni, venne relegata nell'isola Pandalaria, dove passato poco tempo Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma, acciocchè l'indegna Poppea s'accertasse della verità del suo crudel trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse [226] niuna riuscì cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d'una sì saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed indegne calunnie. La ricompensa ch'ebbe Aniceto dell'indegna sua ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo liberto sotto Claudio, morì in quest'anno, e fu creduto per veleno datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui ricchezze.
Anno di | Cristo LXIII. Indizione VI. |
Pietro Apostolo papa 35. | |
Nerone Claudio imper. 10. |
Consoli
Publio Mario Celso e Lucio Asinio Gallo.
Erano tuttavia imbrogliati gli affari dell'Armenia, dacchè Nerone avea colà inviato col titolo di re Tigrane [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 1.]. Vologeso re de' Parti persisteva più che mai nella pretension di quel regno, per coronarne Tiridate suo fratello, che gliene faceva continue istanze. Ma andava titubando, finchè Tigrane il fece risolvere a dar di piglio all'armi, per aver egli fatta un'incursione nel paese degli Adiabeni o sudditi o collegati de' Parti. Dopo aver dunque Vologeso coronato Tiridate come re dell'Armenia, e somministratogli un possente esercito per conquistar quel paese, si diede principio alla guerra. Corbulone, governator della Siria, in aiuto di Tigrane spedì due legioni, e nello stesso tempo scrisse a Nerone, rappresentandogli il bisogno d'un altro generale, per accudire alla difesa dell'Armenia mentre egli dovea difendere le frontiere della sua provincia. Nerone v'inviò Lucio Cesennio Peto, uomo consolare, cioè ch'era stato console: il che ha fatto ad [227] alcuni crederlo lo stesso che Caio Cesennio Peto, da noi veduto console nell'anno superiore 61 di Cristo, ma che da altri vien tenuto per personaggio diverso. Intanto i Parti, entrati nell'Armenia, posero l'assedio ad Artasata capital di quel regno, dove s'era ritirato Tigrane, che non mancò di fare una valorosa difesa. Corbulone allora inviò Casperio centurione a Vologeso, per dolersi dell'insulto che si facea ad un regno dipendente dai Romani, minacciando dal suo canto la guerra ai Parti, se non desistevano da quelle violenze. Servì quest'ambasciata ad inchinar Vologeso a' pensieri di pace, ed avendo chiesto di mandare a Nerone i suoi legati per trattarne, e pregarlo di conferire lo scettro dell'Armenia a Tiridate suo fratello, accettata fu la di lui proferta, con patto di far cessare l'assedio di Artasata: il che ebbe esecuzione. Ma non è ben noto, che convenzione segreta seguisse allora fra Corbulone e Vologeso, avendo alcuni creduto che tanto i Parti quanto Tigrane avessero da abbandonar l'Armenia. Venuti a Roma gli ambasciatori di Vologeso, nulla poterono ottenere; e però il Parto ricominciò la guerra in tempo che Cesennio Peto giunse al governo dell'Armenia, uomo di poca provvidenza e sapere in quel mestiere, ma che si figurava di poter fare il maestro agli altri. Prese Peto alcune castella, passò anche il monte Tauro, pensando a maggiori conquiste; ma, all'avviso che Vologeso veniva con grandi forze, fu ben presto a ritirarsi, ed a lasciar gente ne' passi del monte suddetto, per impedir l'accesso de' nemici, con iscrivere intanto più e più lettere a Corbulone, che venisse a soccorrerlo. Forzò Vologeso i passi: a Peto cadde il cuore per terra, perchè avea troppo divise le sue genti, e colto fu con due sole legioni. Però spedì nuove lettere ad affrettar Corbulone, il quale intanto avendo passato l'Eufrate, marciava a gran giornate verso la Comagene o la Cappadocia, per entrar poi nell'Armenia, Nulladimeno [228] poco giovarono gli sforzi di Corbulone. In questo mentre Vologeso strinse il picciolo esercito di Peto, molti ne uccise; e tal terrore mise al capitano de' Romani, ch'egli solamente pensò a comperarsi la salvezza con qualunque vergognosa condizione che gli fosse esibita. Dimandando dunque un abboccamento con gli uffiziali di Vologeso, restò conchiuso, che l'armi romane si levassero da tutta l'Armenia, e cedessero ai Parti tutte le castella e munizioni da bocca e da guerra; e che poi Vologeso se l'intenderebbe coll'imperador Nerone pel resto. Le insolenze dei Parti furono poi molte; vollero entrar nelle fortezze prima che ne fossero usciti i Romani; affollati per le strade, dove passavano i Romani, toglievano loro schiavi, bestie e vesti; ed i Romani come galline lasciavano far tutto per paura che menassero anche le mani. Tanto marciarono le avvilite truppe, che piene di confusione arrivarono finalmente ad unirsi con quelle di Corbulone, il quale, deposto per ora ogni pensier dell'Armenia, se ne tornò alla difesa della Siria sua provincia.
Secondochè abbiam da Tacito, tutto ciò avvenne nel precedente anno. Dione ne parla più tardi. Nella primavera del presente comparvero gli ambasciatori di Vologeso, che chiedevano il regno dell'Armenia per Tiridate; ma senza ch'egli volesse presentarsi a Roma. Seppe allora Nerone da un centurione, venuto con loro, come stava la faccenda dell'Armenia, perchè Cesennio Peto gliene avea mandata una relazion ben diversa. Parve a Nerone ed al senato che Vologeso si prendesse beffa di loro, e perciò rimandati gli ambasciatori di lui senza risposta, ma non senza ricchi regali, fu presa la risoluzione di far guerra viva ai Parti. Richiamato Peto, tremante fu all'udienza di Nerone, il quale mise la cosa in facezia, dicendogli, senza lasciarlo parlare, «che gli perdonava tosto, acciocchè essendo egli sì pauroso, non gli saltasse la febbre addosso.» Andò ordine a Corbulone [229] di muovere l'armi contro de' Parti, e gli furono inviati rinforzi di nuove truppe e reclute; laonde egli passò alla volta dell'Armenia. Tuttavia non ebbe dispiacere che venissero a trovarlo gli ambasciatori di Vologeso, per esortarli a rimettersi alla clemenza di Cesare. S'impadronì poi di varie castella, e diede tale apprensione ai Parti, che Tiridate fece premura di abboccarsi con lui. Mandati innanzi gli ostaggi romani, Tiridate comparve al luogo destinato; e veduto Corbulone, fu il primo a scendere da cavallo, e seguirono amichevoli accoglienze e ragionamenti, nei quali Tiridate restò di voler riconoscere dall'imperador romano l'Armenia, e che verrebbe a Roma a prenderne la corona, qualora piacesse a Nerone di dargliela: del che Corbulone gli diede buone speranze. In segno poi della sua sommessione andò Tiridate a deporre il diadema a piè dell'immagine dell'imperadore, per ripigliarla poi dalle mani del medesimo Augusto in Roma. Noi non sappiamo che divenisse di Tigrane, re precedente dell'Armenia [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 23.]. Nacque nell'anno presente a Nerone una figliuola da Poppea, fatta andare apposta a partorire ad Anzo, perchè quivi ancora venne alla luce lo stesso Nerone. Ad essa e alla madre fu dato il cognome di Augusta; e il senato, pronto sempre alle adulazioni, decretò altri onori ad amendue, ed ordinò varie feste. Ma non passarono quattro mesi, che questo caro pegno sel rapì la morte. Nerone, che per tale acquisto era dato in eccessi di gioia, cadde in altri di dolore per la perdita che ne fece. Si fecero in quest'anno i giuochi de' gladiatori, e si videro anche molti senatori e molte illustri donne combattere: tanto innanzi era arrivata la follia de' Romani.
Anno di | Cristo LXIV. Indizione VII. |
Pietro Apostolo papa 36. | |
Nerone Claudio imper. 11. |
Consoli
Caio Lecanio Basso e Marco Licinio Crasso.
Andò in quest'anno Nerone a Napoli [Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.] per vaghezza di far sentire a quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di gente v'intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico, un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch'esso teatro cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il motivo. Fra questi divertimenti fece accusar Torquato Silano, insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di Agrippa, come ha Tacito. Dione [Dio, lib. 61.] scrive ciò fatto nell'anfiteatro, dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l'acqua per un combattimento navale; e, dopo averne ritirata l'acqua, diede una battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l'acqua, fece la cena. N'ebbe l'incombenza Tigellino. V'erano superbe navi ornate d'oro e d'avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all'intorno taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza delle prostitute. Che [231] Babilonia d'infamità e di lascivie si vedesse ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un'altra, ma sommamente terribile e funesta [Tacit., Annal., lib. 15, c. 38. Dio, lib. 61. Suet., in Ner., c. 38.]. Attaccossi o fu attaccato nel dì 19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov'era il Circo Massimo, pieno di botteghe di venditori dell'olio. Spirava un vento gagliardo, che dilatò l'incendio pel piano e per le colline con tal furore, che di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte d'assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse allora, più facile è l'immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni durò l'incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli orti di Mecenate, fabbriche anch'esse appresso involte nell'indicibil eccidio.
Che quella bestia di Nerone fosse l'autore di sì orrida tragedia, a cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana. Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra molte case e granai pubblici, che gl'impedivano il fabbricare un gran palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, [232] in quel mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!» Aggiungono finalmente, ch'egli vestito in abito da scena a suon di cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l'altre suddette particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore, conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu l'attribuire a lui l'invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi; comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale (non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio. Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l'alzar di troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione l'acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse, per estinguere al bisogno gl'incendii, con altre provvisioni che meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch'egli imprese allora la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil [233] cosa, e nominato poi la Casa doro. Svetonio [Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 42 et seqq.] ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle. Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti, prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all'intorno a guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare, disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un alloggio conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur lontano sino a cento sessanta miglia per terra l'acqua del mare, costò ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone tutti i vasi d'oro e d'argento, e le altre cose preziose. Mandò anche per la Grecia e per l'Asia a spogliar tutti que' templi delle ricche statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.
Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione degl'imperatori pagani [Sueton., in Nerone, c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.] contra dei Cristiani. Si era già non solo introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de' suoi discepoli, la religione di Cristo; giacchè non duravano fatica i [234] buoni a conservare la santità ed eccellenza in confronto dell'empia e sozza dei Gentili. Nerone, affin di scaricar sopra d'altri l'odiosità da lui contratta per la comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città, calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani, siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e massimamente durante il fervore e l'illibatezza dei primi Cristiani. A che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì mostruoso eccesso? Perciò una gran moltitudine di essi fu con aspri ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si aggiunse ancora l'inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de' martiri. Confessa nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo ordinato Nerone che l'armata navale tornasse al porto di Miseno, fu essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle galee e di altre navi minori s'andò a fracassare nei lidi di Cuma.
Anno di | Cristo LXV. Indizione VIII. |
Lino papa 1. | |
Nerone Claudio imper. 12. |
Consoli
Aulo Licinio Nerva Siliano e Marco Vestino Attico.
In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.], si legge SILANO ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non Siliano, ma Silano sarà stato l'ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano Siliano. Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per le calende di luglio, Plauzio Laterano, dalla cui persona o casa riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed Anicio Cereale. Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome dirò. Fece lo stesso fine Vestino Attico, cioè l'altro console ordinario. Però si può tenere per fermo che Cereale succedesse nel consolato. Roma [Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio, lib. 61. Sueton., in Nerone, cap. 36.] in questo anno divenne teatro di morti violente per la congiura di Caio Calpurnio Pisone, che fu scoperta. Era questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna, grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo Nerone; il che non parea tanto difficile, stante l'odio comune. S'egli fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che Subrio, o sia Subio Flavio, tribuno di una compagnia delle guardie, e Mario Anneo Lucano nipote di Seneca, e celebre autore del poema della Farsalia, furono de' primi ad entrarvi, e de' più disposti ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell'anno 39 dell'Era nostra) non potea digerire che [236] Nerone, per invidia, e pazza credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle cause. Entrò in questo medesimo concerto anche Plauzio Laterano, console disegnato, per l'amore che portava al pubblico. Molti altri, o senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per odio e vendetta privata, e chi per liberar l'imperio da questo mostro, tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de' principali uffiziali dell'armata navale. In fine fu stabilito di ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca avvertenza di Flavio Scevino traspirò. Fece egli testamento; diede la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un pugnale rugginoso, s'avvisò che qualche grande affare fosse in volta. Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran ricompensa, se n'andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito liberto di corte, che l'introdusse all'udienza del padrone. Furono tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese, e rivolse l'accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de' tormenti confessarono il disegno; e rivelarono i [237] complici. Allo intendere si numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo ch'egli si trovasse.
Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti furono gli uccisi, e fra gli altri Caio Pisone, capo della congiura, e Lucano poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell'esilio. Fra gli altri denunziati v'entrò anche Lucio Anneo Seneca, insigne maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a Dione [Dio, lib. 61.], macchiato fu di nefandi vizii d'avarizia di disonestà e di adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato nell'essere stato a visitarlo nel suo ritiro Antonio Natale, e a lamentarsi perchè non volesse ammettere Pisone in sua casa, e trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, non essere bene che favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella di Pisone. Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con Pompea Paolina sua moglie cara, arrivò Silvano tribuno d'una coorte pretoriana ad interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni, nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato alcun segno. Farà bene, replicò allora Nerone, ed ordinò di farglielo sapere. Intesa l'atroce intimazione, volle Seneca far testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi, coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare l'uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli amici, morì. Anche la moglie Paolina volle accompagnarlo [238] collo stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe credere gl'inimicassero l'ingordo Nerone, se non che scrive Dione ch'egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue fabbriche. Ancorchè il console Vestinio non fosse a parte della congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di vita, e lo stesso fece d'altri ch'egli mirava di mal occhio.
Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo fuggito e dei delinquenti [Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.]; e però furono decretati ringraziamenti e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in questi tempi a Roma Cesellio Basso, di nascita Africano, uomo visionario, che ammesso all'udienza di Nerone, gli narrò come cosa certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava nascosa una massa immensa d'oro non coniato, quivi riposta o dalla regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò dentro a piè pari l'avido Nerone, senza esaminar meglio l'affare, senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di scorta. Nè d'altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa, maggiormente s'impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali. Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia [239] d'oro, si acquistò egli almeno un'incomparabil gloria in quest'anno, coll'aver fatta una pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d'altri sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a que' nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in pericolo della vita Vespasiano (poscia imperadore), perchè osservato dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò Nerone, secondo Svetonio e Dione [Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio, lib. 62.], a far correre, stando in carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa [Tacitus, lib. 16, c. 6.], tutto contento di sì gran plauso, trovò la sola Poppea Augusta sua moglie, che gli disse qualche disgustosa parola. Benchè l'amasse a dismisura, pure le insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d'oro alle mule della sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi ogni dì in un bagno formato del loro latte. S'augurava anche piuttosto la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza. Opinione è d'insigni letterati [Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica Baroniana.] che nel dì 29 di giugno del presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il principe degli Apostoli san Pietro, e che nel medesimo giorno ed anno venisse anche decollato l'Apostolo de' Gentili san Paolo. Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare [240] chi ha maneggiato ex professo cotali materie. Nel pontificato romano a lui succedette s. Lino. Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè Antonia figlia di Claudio Augusto, e sorella di Ottavia sua prima moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de' pretesti per farla morire. Quindi sposò Statilia Messalina, vedova di Vestinio Attico console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E Tacito aggiunge l'esilio o la morte da lui data ad altri primarii romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.
Anno di | Cristo LXVI. Indizione IX. |
Lino papa 2. | |
Nerone Claudio imper. 13. |
Consoli
Caio Lucio Telesino e Caio Svetonio Paolino.
Funesto ancora fu l'anno presente a Roma per l'infelice fine di molti illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone, principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli fruttava l'acquisto dei beni de' pretesi rei. Tacito empie molte carte [Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 14 et seq.] di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole, per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte. Basterà solo rammentare che Anneo Mella, fratello di Seneca, e padre di Lucano poeta, accusato si svenò e terminò presto il processo. Caio Petronio, che ha il prenome di Tito appresso Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino, prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo erede, e gli mandò il suo testamento. In [241] questo non si leggevano se non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de' costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il medesimo, che Petronio Arbitro, di cui restano i frammenti di un impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel Cajo Petronio Turpiliano, che abbiam veduto console nell'anno 61 di Cristo, e però diverso da Petronio Arbitro. Più di ogni altro venne onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di Peto Trasea, e di Berea Sorano, amendue senatori e personaggi della prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non potea di meno l'iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la morte loro. Però il fargli accusare, benchè d'insussistenti reati, lo stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due più riguardevoli senatori, ch'ella avesse in que' tempi, crescendo con ciò il batticuore a ciascun'altra persona di vaglia, giacchè in tempi tali l'essere virtuoso era delitto. Non parlo d'altri o condannati o esiliati da Nerone nell'anno presente, mentovati da Tacito, la cui storia qui ci torna a venir meno perchè l'argomento è tedioso.
Secondo il concerto fatto con Corbulone governator della Soria, Tiridate fratello di Vologeso re dei Parti [Dio, lib. 63.], si mosse in quest'anno per venir a prendere la corona dell'Armenia dalle mani di Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di tremila cavalli. L'accompagnava Annio Viviano, genero di Corbulone, con gran copia d'altri Romani. [242] Nerone, che forte si compiaceva di veder venire a' suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza dell'imperio romano. Non volle Tiridate [Plinius, lib. 30, cap. 2.] venir per mare, perchè dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre dell'imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le città per dove passò, magnificamente ornate, l'accolsero con grandi acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la moglie accanto, coperta sempre con una celata d'oro per non essere veduta, secondo il rito de' suoi paesi, che tuttavia con rigore si osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia, montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a Napoli, dove l'imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato all'udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il titolo di Signore. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma. Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti coll'armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch'essi coperti tutti [243] di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito, s'inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole, venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema, dichiarandolo re dell'Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro, ch'era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle d'oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi montato in carretta colla canaglia de' cocchieri, vestito dell'abito loro, gareggiar nel corso con loro.
Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto, senza valersi dell'armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l'intenzion segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche città dell'Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e possanza dell'imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone per questa funzione che [244] costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe pur voluto, che Vologeso re de' Parti fosse venuto anch'egli a visitarlo, e l'importunò su questo. Altra risposta non gli diede Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo: il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di acquistarsi gloria: del che parleremo all'anno seguente. Nacque [Joseph., de Bello Judaico, lib. 2, cap. 40.] bensì nell'anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel popolo per le strane avanie de' Romani, mentre Cestio Gallo era governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo di gente colà, e scelse per comandante di quell'armata Vespasiano, capitano di valore sperimentato. Io so che all'anno seguente è comunemente riferita la morte di Corbulone, ricavandosi ciò da Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo eccellente uomo succedesse nell'anno presente. E per valore e per amor della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de' più rinomati antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l'essere nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita. Coll'apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.
Anno di | Cristo LXVII. Indizione X. |
Clemente papa 1. | |
Nerone Claudio imper. 14. |
Consoli
Lucio Fontejo Capitone e Cajo Giulio Rufo.
Seguendo le congetture di vari letterati, a s. Lino papa, che martire della Fede finì di vivere in quest'anno, succedette Clemente, personaggio che illustrò dipoi non poco la Chiesa di Dio. Ho riserbato io a parlar qui del viaggio fatto da Nerone in Grecia, benchè cominciato nell'anno precedente, per unir insieme tutte le scene di quella testa sventata. La natura, in mettere lui al mondo, intese di fare un uomo di vilissima condizione, un sonator di cetra, un vetturino, un beccaio, un gladiatore, un buffone. La fortuna deluse le intenzioni della natura, con portare costui al trono imperiale; ma sul trono ancora si vide poi prevalere l'inclinazion naturale [Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 22]. Invanito egli delle tante adulatorie acclamazioni che venivano fatte in Roma alla soavità della sua voce, alla sua maestria nel suono e bravura nel maneggiar i cavalli stando in carretta: s'invogliò di riscuotere un egual plauso dalle città della Grecia, le quali portavano anche allora il vanto di fare i più magnifici e rinomati giuochi della terra. Perciò si mosse da Roma a quella volta con un esercito di gente, armata non già di lance e scudi, ma di cetre, di maschere e di abiti da commedia e tragedia. Con questa corte degna di un tal imperadore, comparve egli in quelle parti, astenendosi nondimeno dal visitare Atene e Sparta per alcuni suoi particolari riguardi. Fece nell'altre città in mezzo ai pubblici teatri, anfiteatri e circhi, da commediante, da sonatore, da musico, da guidator di carrette abbigliato, ora da servo, ora da donna, ed anche da donna partoriente, da Ercole, da Edipo e da altri simili [246] personaggi. Le corone destinate per chi vinceva ne' suddetti giuochi, tutte senza fallo toccavano a lui. Dicono che ne riportasse più di mille ottocento. Sì gli erano care, che arrivando ambasciatori delle città, per offerirgli i premii delle sue vittorie, questi erano i primi alla sua udienza, questi tenuti alla sua stessa tavola. Pregato da essi talvolta di cantar e sonare dopo il desinare, o dopo la cena, senza lasciarsi molto importunare, dava di mano alla chitarra, e gli esaudiva. Si mostrava ognuno incantato dalla sua divina voce: egli era il dio della musica, egli un nuovo Apollo; laonde ebbe a dire, non esservi nazione, che meglio della greca sapesse ascoltando giudicar del merito delle persone, e di aver trovato essi soli degni di sè e de' suoi studi. Le viltà, le oscenità commesse da Nerone in tal occasione furono infinite; immensi i regali e le spese. Ma nello stesso tempo, per supplire ai bisogni della borsa, impoverì i popoli della Grecia, saccheggiò quei lor templi, a' quali non per anche avea steso le griffe; confiscò i beni di assaissime persone, condannate a diritto e a rovescio. Mandò anche a Roma e per l'Italia Elio, liberto di Claudio, con podestà senza limite, per confiscare, esiliare ed uccidere fino i senatori; e costui il seppe servire di tutto punto, facendo da imperadore, senza essersi potuto conchiudere, chi fosse peggiore, o egli o Nerone stesso.
Volle questo forsennato imperadore, che i giuochi olimpici d'Elide, benchè si dovessero far prima, si differissero sino al suo arrivo in Grecia, per poterne riportare il premio. Colla sua carretta anch'egli entrò nel circo, ma cadutone ebbe ad accopparsi, e più giorni per tal disgrazia stette in letto. Con tutto ciò il premio a lui fu assegnato. Passava male per chi a lui non volea cedere [Lucian., in Nerone.]. Nei giuochi istmici un tragico, miglior musico che politico, perchè non ebbe l'avvertenza di desistere dal canto, per [247] lasciar comparire quel di Nerone, che dovea certamente essere più mirabile del suo, fu strangolato sul teatro in faccia di tutta la Grecia. Vennegli poi in pensiero di far un'opera stabile per cui s'immortalasse il suo nome: e fu quella di tagliare lo stretto di Corinto, per unire i due mari Ionio ed Egeo [Dio, lib. 63. Suetonius, in Nerone, c. 19.]: disegno concepito anche da Giulio Cesare e da molti altri; ma per le molte difficoltà non mai eseguito. Nulla parea difficile alla gran testa di Nerone. Fu egli nel destinato giorno il primo a rompere la terra con un piccone d'oro, e a portar la terra in una cesta, per animare gli altri all'impresa: il che fatto, si ritirò a Corinto, tenendosi per più glorioso di Ercole a cagione di così gran prodezza. Furono a quel lavoro impiegati i soldati, i condannati e gran copia d'altra gente: e Vespasiano [Joseph., de Bello Judaico, lib. 3] gl'inviò apposta seimila Giudei fatti prigioni. Non più di cinque miglia di terra è lo stretto di Corinto; eppure con tante mani in due mesi e mezzo di lavoro non si arrivò a cavar neppure un miglio di quel tratto. Non si andò poi più innanzi, perchè affari premurosi richiamarono Nerone a Roma. Elio liberto, mandato da lui con plenipotenza di far del male in Italia, l'andava con frequenti lettere spronando a ritornarsene, inculcando la necessità della sua presenza in queste parti. Ma Nerone, perduto in un paese dove giorno non passava che non mietesse nuove palme, non trovava la via di lasciar quel cielo sì caro: quand'ecco giugnere in persona Elio stesso, venuto per le poste, che gli mise in corpo un fastidioso sciroppo, avvertendolo che si tramava in Roma una formidabil congiura contro di lui. Allora sì, che s'imbarcò, dopo essersi quasi un anno intero [248] fermato in Grecia, alla quale accordò il governarsi coi propri magistrati, e l'esenzione da tutte le imposte; e venne alla volta d'Italia. Sorpreso fu per viaggio da una tempesta, per cui perdè i suoi tesori, laonde speranza insorse fra molti, che anch'egli in quel furore del mare avesse a perire. Sano e salvo egli compiè la navigazione, ma non già chi avea mostrata speranza o desiderio di vederlo annegato, perchè ne pagò la pena col suo sangue. Come trionfante entrò in Roma sullo stesso cocchio trionfale d'Augusto, su cui veniva anche Diodoro citarista suo favorito, corteggiato dai soldati, cavalieri e senatori. Era addobbata ed illuminata tutta la città, incessanti le acclamazioni dettate dall'adulazione: «Viva Nerone Ercole, Nerone Apollo, Nerone, vincitor di tutti i giuochi. Beato chi può ascoltar la tua voce!» A questo segno era ridotta la maestà del popolo romano. Mentre succedeano queste vergognose commedie in Grecia e in Italia, avea dato principio Flavio Vespasiano [Joseph., de Bello Judaico, lib. 3] alla guerra contro i sollevati Giudei. Già il vedemmo inviato colà per generale da Nerone. La prima sua impresa fu l'assedio di Jotapat, luogo fortissimo per la sua situazione. Vi spese intorno quarantasette giorni, e costò la vita di molti de' suoi; ma de' Giudei vi perirono circa quarantamila persone, e fra gli altri vi restò prigione lo stesso Giuseppe, storico insigne della nazion giudaica, il quale comandava a quelle milizie. Perchè predisse a Vespasiano l'imperio, fu ben trattato. Di molte altre città e luoghi della Galilea s'impadronì Vespasiano, e Tito suo figliuolo riportò qualche vittoria in vari combattimenti, con istrage di gran quantità di Giudei.
Anno di | Cristo LXVIII. Indizione XI. |
Clemente papa 2. | |
Nerone Claudio imper. 15. | |
Servio Sulpicio Galba imper. 1. |
Consoli
Caio Silio Italico e Marco Galerio Tracalo.
Il console Silio Italico quel medesimo è che fu poeta, e lasciò dopo di sè un poema pervenuto sino ai dì nostri. S'era egli meritata la grazia di Nerone, e nello stesso tempo l'odio pubblico, col brutto mestiere d'accusare e far condannare varie persone. Consisteva la riputazion di Tracalo nell'essere uomo di singolar eloquenza, trattando le cause giudiciali. Non durò il loro consolato più del mese d'aprile, a cagion delle rivoluzioni insorte, che liberarono finalmente l'imperio romano da un imperador buffone, mostro insieme di crudeltà [Dio, lib. 63. Sueton., in Nerone, cap. 40 et seqq.]. Ne' primi mesi dell'anno presente Caio Giulio Vindice, vicepretore e governator della Gallia Celtica, il primo fu ad alzar bandiera contro di Nerone, col muovere a ribellione que' popoli: al che non trovò difficoltà, sentendosi essi troppo aggravati dalle estorsioni e tirannie del furioso imperadore, vivamente ancora ricordate loro da Vindice in questa occasione. Non teneva egli al suo comando legione alcuna, ma avea ben molto coraggio, e in breve tempo mise in armi circa centomila persone di que' paesi. Con tutto ciò le mire sue non erano già rivolte a farsi imperadore; anzi egli scrisse tosto a Servio Sulpicio Galba, governatore della Spagna Taraconense [Sueton., in Galba, cap. 9 et seq.], e personaggio di gran credito per la sua saviezza, giustizia e valore, esortandolo ad accettar l'imperio, con promettergli anche la sua ubbidienza. Perciò circa il principio di aprile, Galba, [250] raunata una legione ch'egli avea in quella provincia, con alquante squadre di cavalleria, ed esposte la crudeltà e pazzie di Nerone, si vide proclamato imperadore da ognuno. Egli nondimeno prese il titolo solamente di legato o sia di luogotenente della repubblica. Dopo di che si diede a far leva di gente, e a formare una specie di senato. Parve un felice augurio e preludio, l'essere arrivata in quel punto a Tortosa in Catalogna una nave d'Alessandria carica di armi, senzachè persona vivente vi fosse sopra. In questi tempi soggiornava l'impazzito Nerone tutto dedito ai suoi vergognosi divertimenti in Napoli quando nel giorno anniversario, in cui avea uccisa la madre, cioè nel di 21 di marzo, gli arrivarono le nuove della ribellion della Gallia e dell'attentato di Vindice. Parve che non se ne mettesse gran pensiero e piuttosto ne mostrasse allegria, sulla speranza che il gastigo di quelle ricche provincie gli frutterebbe degl'immensi tesori. Seguitò dunque i suoi spassi, e per otto giorni non mandò nè lettere nè ordini, quasichè volesse coprir col silenzio l'affare. Ma sopraggiunta copia degli editti pubblicati da Vindice nella Gallia, pieni d'ingiurie contra di lui, allora si risentì. Quel che più gli trafisse il cuore, fu il vedere, che Vindice invece di Nerone il nominava col suo primo cognome Enobarbo, [Philostratus, in Apoll.] e diede poi nelle smanie perchè il chiamava cattivo sonator di cetra. Ne conoscete voi un migliore di me? gridò allora rivolto ai suoi, i quali si può ben credere che giurarono di no. Venendo poi un dopo l'altro nuovi corrieri, con più funesti avvisi, tutto sbigottito corse a Roma, consolato nondimeno per avere osservato nel viaggio, scolpito in marmo un soldato gallico trascinato pe' capelli, da un romano: dal che prese buon augurio. Non raunò in Roma nè il senato nè il popolo; solamente chiamò una consulta de' principali al suo palagio, e spese poi [251] il resto della giornata intorno a certi strumenti musicali che sonavano a forza d'acqua. Fu posta taglia sulla testa di Vindice, ed inviati ordini, perchè le legioni dell'Illirico ed altre soldatesche marciassero contra di lui.
Ma sopraggiunto l'avviso che anche Galba s'era sollevato in Ispagna [Plutarchus, in Galba. Suetonius, in Nerone, cap. 42.]; oh allora sì che gli cadde il cuore per terra. Dopo lo sbalordimento tornato in sè, si stracciò la veste, e dandosi dei pugni in testa, gridò che era spedito, parendogli troppo inaudita e strana cosa di perdere, ancorchè fosse vivo, l'imperio. E pure da lì a non molto, perchè vennero nuove migliori tornò alle sue ragazzerie, lautamente cenando, cantando poscia versi contra de' capi della ribellione, e accompagnandoli ancora con gesti da commediante. Andava intanto crescendo il partito de' sollevati nelle Gallie, e tutti con buon occhio ed animo miravano Galba. Fra gli altri che aderirono al suo partito, uno de' primi fu Marco Salvio Ottone, governatore della Lusitania, il quale gli mandò tutto il suo vasellamento d'oro e d'argento, acciocchè ne facesse moneta, ed alcuni uffiziali ancora più pratici de' Gallici per servire ad un imperadore. Ma nelle Gallie si turbarono di poi non poco gli affari. Lucio (chiamato Publio da altri) Virginio o sia Verginio Rufo, governatore dell'alta Germania, che comandava il miglior nerbo dell'armi romane, o da sè stesso determinò, oppure ebbe ordine di marciar contra di Vindice. In favor di Nerone stette salda quella parte della Gallia che s'accosta al Reno, e sopra tutto Treveri, Langres, e in fin Lione si dichiarò contra di Vindice. Pare eziandio, che l'armata della Bassa Germania, cioè della Fiandra ed Olanda, si unisse con Virginio Rufo, il quale marciò all'assedio di Besanzone. Corse colà anche Vindice con tutte le forze per difendere quella città, e seguì un segreto [252] abboccamento fra questi due generali, anzi parve nel separarsi che fossero d'accordo verisimilmente contra di Nerone. Ma accostatesi le soldatesche di Vindice per entrar nella città (il che si suppone concertato con Virginio) le legioni romane, non informate di quel concerto, senza che lor fosse ordinato, si scagliarono addosso alle milizie galliche: e non trovandole preparate per la battaglia e mal ordinate, ne fecero un macello. Vuol Plutarco [Plutarchus, in Galba.] che contro il voler de' generali quelle due armate venissero alle mani. Vi perirono da ventimila Gallici; e tutto il resto andò disperso, con tal affanno di Vindice, che da sè stesso si diede poco appresso la morte. Se di questa non voluta vittoria avesse voluto prevalersi Virginio Rufo, per farsi e mantenersi imperadore, poca fatica avrebbe durato: cotanto era egli amato ed ubbidito da tutta la sua possente armata. Gliene fecero anche più istanze allora e dipoi i suoi soldati; ma egli da vero cittadin romano, e con impareggiabil grandezza d'animo, ricusò sempre, dicendo anche dopo la morte di Nerone, che quel solo dovea essere imperadore che venisse eletto dal senato e popolo romano. Per questo magnanimo rifiuto si rendè poi glorioso Virginio, e tenuto fu in somma riputazione presso tutti i susseguenti Augusti [Plinius Junior, lib. 6, ep. 10. Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 49.], e carico d'onori menò sua vita in pace sino all'anno ottantatrè di sua età, in cui regnando Nerva, finì i suoi giorni. In non piccola costernazione si trovò Galba, allorchè intese la disfatta di Vindice, e per vedersi anche male ubbidito dai suoi, spedì a Virginio Rufo, per pregarlo di volere operar seco di concerto affinchè si ricuperasse dai Romani la libertà e l'imperio. Qual risposta ricevesse, non si sa. Solamente è noto [Dio, lib. 63. Sueton., in Galba, cap. 11.] che Galba perduto il coraggio si ritirò con gli amici a Clunia, città della [253] Spagna, meditando già di levarsi di vita se vedea punto peggiorare gli affari.
Era intanto stranamente inviperito Nerone per questi disgustosi movimenti. Nella sua barbara mente altro non passava che pensieri d'inumanità indicibile. Quanti di nazione gallica che si trovavano o per suoi affari o relegati in Roma, tutti li voleva far tagliare a pezzi: permettere il saccheggio delle Gallie agli eserciti; levar dal mondo l'intero senato col veleno; attaccar il fuoco a Roma, e nello stesso tempo aprire i serragli delle fiere, acciocchè al popolo non restasse luogo da difendersi. Nulla poi fece per le difficoltà che s'incontravano. Quindi pensò che s'egli andasse in persona contro i ribelli, vittoria si otterrebbe. Figuravasi egli, che al solo presentarsi piangendo alla vista loro, tutti ritornerebbero alla sua divozione. Credendo inoltre, che a vincere la Gallia fosse necessario il grado di console, per attestato di Svetonio, deposti i consoli ordinari circa le calende di maggio, prese egli solo il consolato per la quinta volta. Trovasi nondimeno in Roma un frammento d'iscrizione, da me dato alla luce [Thesaurus Novus Veter. Inscription., pag. 306, num. 2.], in cui si legge NERONE V. ET TRACHA...... parendo per conseguenza, che Tracalo non dimettesse allora il consolato. Ridicolo fu il preparamento suo per questa grande spedizione. La principal sua attenzione andò a far caricare in carrette scelte tutti gli strumenti musicali e gli abiti da scena con armi e vesti da Amazzoni per le sue concubine. E certo, s'egli cantava una delle sue canzonette a que' rivoltati, potevano eglino non darsi per vinti? Ma occorreva danaro, e assaissimo, a questa impresa. Pose una gravosissima colta al popolo romano, facendola rigorosamente riscuotere. Servì ciò ad aumentar l'odio di ognuno contro di lui, e ad affrettar la sua rovina, tanto più che in Roma era carestia, e quando si credette che [254] un vascello d'Alessandria portasse grani, si trovò che conduceva solamente polve per servigio de' lottatori. Cominciarono allora a fioccar le ingiurie e le pasquinate, e tutto era disposto alla sedizione. Per buona fortuna avvenne [Plutarc., in Galba.], che anche Ninfidio Sabino, eletto in luogo di Fenio Rufo, prefetto del pretorio, uomo di bassa sfera, ma fiero, mosso a compassione di tante calamità di Roma, tenne mano a liberarla dal furioso tiranno. Anche l'altro prefetto, o sia capitan delle guardie, Tigellino che tanto di male avea fatto negli anni precedenti, giunse ora a tradire l'esoso padrone. Essendo stato avvertito Nerone del mal animo del popolo, e giuntogli nel medesimo tempo avviso, mentre desinava, che Virginio Rufo col suo esercito si era dichiarato contra di lui, stracciò le lettere, rovesciò la tavola, fracassò due bicchieri di mirabil intaglio, e preparato il veleno si ritirò negli orti serviliani, meditando o di fuggirsene fra i Parti o di andar supplichevole a trovar Galba, o di presentarsi al senato e al popolo per domandar perdono. Di questa occasione profittò Ninfidio [Ibid.] per far credere ai pretoriani, che Nerone era fuggito, e per far acclamare Galba imperadore, promettendo loro a nome di esso Galba un esorbitante donativo. Verso la mezza notte svegliandosi Nerone, si trovò abbandonato dalle guardie, e con pochi andò girando pel palazzo, senzachè alcuno gli volesse aprire, e senza impetrar dai suoi, che alcuno gli facesse il servigio di ucciderlo. Si esibì Faonte suo liberto di ricoverarlo ed appiattarlo in un suo palazzo di villa, quattro miglia lungi da Roma; ed in fatti colà con grave disagio per luoghi spinosi arrivato si nascose. Fatto giorno, vennero nuove a Faonte che il senato romano avea proclamato imperadore Galba, e dichiarato Nerone nemico pubblico, e fulminate contra di lui le pene consuete. Dimandò [255] Nerone, che pene fossero queste? Gli fu risposto di essere trascinato nudo per le strade, fatto morire a colpi di battiture, precipitato dal Campidoglio, e con un uncino gittato nel Tevere. Allora fremendo mise mano a due pugnali che avea seco, ma senza attentarsi di provare se sapeano ben forare. Udito poi, che veniva un centurione con molti cavalli per prenderlo vivo, aiutato da Epafrodito suo liberto, si diede del pugnale nella gola. Arrivò in quel punto il centurione, fingendo di esser venuto per aiutarlo, e corse col mantello da viaggio a turargli la ferita. Allora Nerone, benchè mezzo morto, disse: «Oh adesso sì che è tempo! E questa è la vostra fedeltà [Dio, lib. 63. Suet., in Ner., c. 57. Euseb., in Chr. Eutrop. et alii.]?» Così dicendo spirò in età di anni trentuno, o pure trentadue, nel dì 9 di giugno, restando i suoi occhi sì torvi e fieri, che faceano orrore a chiunque il riguardava. Permise poi Icelo, liberto di Galba, poco prima sprigionato, che il di lui corpo si bruciasse. Le ceneri furono seppellite, per quanto s'ha da Svetonio assai onorevolmente nel sepolcro dei Domizii. E tale fu il fine di Nerone, degno appunto della sua vita, la quale è incerto se abbondasse più di follie o di crudeltà. Manifesta cosa è bensì, ch'egli fu considerato qual nemico del genere umano, qual furia, qual compiuto modello de' principi più cattivi, anzi dei tiranni, non essendo mai da chiamare legittimo principe chi per forza era salito sul trono, ed avea carpita col terrore l'approvazione del senato e del popolo romano, accrescendo di poi col crudel suo governo e colle tante sue ingiustizie e rapine la macchia del violento ingresso. E tal possesso prese allora nei popoli la fama di questo infame imperadore, che passò anche ai secoli seguenti con tal concordia, che oggidì ancora il volgo del nome di lui si serve per denotare un uomo crudele e spietato. Nulladimeno [256] fra il minuto popolo, vago solamente di spettacoli, e fra i soldati delle guardie, avvezzi a profittare della disordinata di lui liberalità, molti vi furono che amarono ed onorarono la di lui memoria. Fu anche messa in dubbio la sua morte, e si vide uscir fuori in vari tempi più di un impostore, che finse di essere Nerone vivo, con gran commozione dei popoli, godendone gli uni, e temendone gli altri.
Non si può esprimere l'allegrezza del popolo romano allorchè si vide liberato da quel mostro. V'ha chi crede, che tolto di mezzo Nerone, fossero creati consoli Marco Plautio Silvano e Marco Salvio Ottone, il quale fu poi imperadore. Ma di questo consolato d'Ottone vestigio non apparisce presso gli antichi scrittori; e Plutarco [Plutar., in Galba.] osserva, ch'egli venne di Spagna con Galba: dal che si comprende, non aver egli potuto ottenere si fatta dignità in questi tempi. Fuor di dubbio è bensì, che consoli furono Cajo Bellico Natale e Publio Cornelio Scipione Asiatico. Ciò consta dalle iscrizioni ch'io ho riferito [Thesaur. Novus Inscription., pag. 306, n. 3.]. In esse Natale si vede nominato Bellico, e non Bellicio, e gli vien dato anche il cognome di Tebaniano. Galba intanto col cuor tremante se ne stava in Ispagna aspettando qual piega prendessero gli affari; quando in sette dì di viaggio arrivò colà Icelo suo liberto, ed entrato al dispetto de' camerieri nella stanza, dov'egli dormiva, gli diede la nuova ch'era morto Nerone, e di essersene egli stesso voluto chiarire colla visita del cadavero, ed avere il senato dichiarato imperadore esso Galba. Racconta Svetonio, ch'egli tutto allegro immediatamente prese il nome di Cesare. Più probabile nondimeno è, che aspettasse a prenderlo due giorni dopo, nel qual tempo arrivò Tito Vinio da Roma, che gli portò il decreto del senato per la sua elezione in imperadore. Servio [257] (appellato scorrettamente da alcuni Sergio) Sulpicio Galba, che prima avea usato il prenome di Lucio, uscito da una delle più antiche famiglie romane, dopo essere stato console nell'anno di Cristo 55, e dopo aver con lode in vari onorevoli governi dato saggio della sua prudenza e del suo valor militare, si trovava allora in età di settantadue anni [Suet., in Galba, c. 12.]. Ne sperò buon governo il senato romano, ed ancorchè si venisse a sapere che egli era uom rigoroso ed inclinato alla avarizia, male famigliare di non pochi vecchi; pure il merito di avere in lontananza cooperato ad abbattere l'odiatissimo Nerone, fece che comunemente fosse desiderato il suo arrivo a Roma. Partissi egli di Spagna, e a piccole giornate in lettiga passò nelle Gallie, inquieto tuttavia per non sapere se l'armate dell'alta e della bassa Germania, comandate l'una da Virginio Rufo, e l'altra da Fontejo Capitone; fossero per venire alla sua divozione. Soprattutto gli dava dell'apprensione Virginio, siccome quello, a cui vedemmo fatte cotante istanze acciocchè assumesse l'imperio. Ma questi con eroica moderazione indusse l'armata, benchè non senza fatica, a giurar fedeltà a Galba; ed altrettanto anche prima di lui fece Capitone. Poco dipoi grato si mostrò Galba a Virginio, perchè chiamatolo alla corte con belle parole, diede il comandò di quell'esercito ad Ordeonio Fiacco, e da lì innanzi trattò assai freddamente esso Virginio, senza fargli del male, ma neppur facendogli del bene.
I due maggiormente favoriti e potenti presso Galba cominciarono ad essere Tito Vinio, dianzi da noi mentovato, che ci vien descritto da Plutarco [Plutarc., in Galba.] per uomo perduto nelle disonestà, ed interessato al maggior segno, e [Tacitus, Histor., lib. 1, c. 6.] Cornelio Lacone, uomo dappoco, e di parecchi vizii macchiato, che Galba senza dimora [258] dichiarò capitano delle guardie, o sia prefetto del pretorio. Per mano di questi due passavano tutti gli affari. Volle anco Marco Salvio Ottone, vicepretore della Lusitania, accompagnar Galba a Roma. Era egli stato de' primi a dichiararsi per lui, nè lasciava indietro ossequio e finezza alcuna per cattivarsi il di lui affetto, e quello ancora di Vinio, avendo conceputa speranza che il vecchio Galba, sprovveduto di figli, adotterebbe lui per figliuolo. E qualora ciò non succedesse, già macchinava di pervenire all'imperio per altre vie. Giunto Galba a Narbona, quivi se gli presentarono i deputati del senato, accolti benignamente da lui, ma senza che egli volesse mobili di Nerone, inviati da Roma, e senza voler mutare i propri, benchè vecchi; il che gli ridondò in molta stima, per darsi egli a conoscere in tal forma signore moderato e lontano dal fasto. Non tardò poi a cangiar di stile per gli cattivi consigli di Vinio. Intanto in Roma si alzò un brutto temporale, che felicemente si sciolse per buona fortuna di Galba. Ninfidio Sabino prefetto del pretorio, che più degli altri avea contribuito alla morte di Nerone, e all'esaltazione di Galba, si credea di dover essere l'arbitro della corte, e far da padrone allo stesso nuovo Augusto che tanto gli dovea. Perciò imperiosamente depose Tigellino suo collega, e sotto nome di Galba si diede a signoreggiare in Roma [Plutarc., in Galba.]. Ma dappoichè gli fu riferito che Cornelio Lacone aveva anch'egli conseguita la dignità di prefetto del pretorio, e ch'esso con Tito Vinio comandava le feste, se ne alterò forte, perchè non amava nè voleva compagno nell'uffizio suo. Mutate dunque idee, meditò di farsi egli imperadore. Trasse dalla sua quanti soldati delle guardie potè, ed anche alcuni senatori e qualche dama delle più intriganti; e giacchè non si sapea chi fosse suo padre, sparse voce di esser egli figliuolo di Caio Caligola. Gli rassomigliava [259] anche nella fierezza del volto e nell'infame sua impudicizia. Voleva spedire ambasciatori a Galba, per rappresentargli che s'egli si levasse dal fianco Vinio e Lacone, riuscirebbe più grata la sua venuta a Roma. Poscia, in vece di questo, tentò d'intimidirlo con fargli credere mal contente di lui le armate della Germania, Soria e Giudea. E perciocchè Galba mostrava di non farne caso, determinò Ninfidio di prevenirlo con farsi proclamar imperadore dai pretoriani. E gli veniva fatto, se Antonio Onorato, uno de' principali tribuni di quelle compagnie, non avesse con saggia esortazione tenuta in dovere la maggior parte de' pretoriani. Anzi arrivò ad indurgli a tagliare a pezzi Ninfidio: con che si quietò tutto quel romore.
Informato Galba di quest'affare, ed avuta nota d'alcuni complici di Ninfidio, e specialmente di Cingonio Varrone, console disegnato, e di Mitridate, quegli probabilmente ch'era stato re del Ponto, mandò l'ordine della lor morte senz'altro processo, e senza accordar loro le difese: dal che gli venne un gran biasimo. Nella stessa forma tolto fu dal mondo Caio Petronio Turpiliano, stato già console nell'anno di Cristo 61, non per altro delitto che per essere stato amico ed uffiziale di Nerone. Giunto poi Galba a Ponte Molle colla legione condotta seco dalle Spagne, e con altre milizie, se gli presentarono senz'armi alcune migliaia di persone, che Svetonio [Suet., in Galba, cap. 12.] dice di remiganti, alzati all'onore della milizia da Nerone: Dione [Dio, lib. 64.] pretende di soldati, che prima erano dall'armata navale passati al grado di pretoriani. Galba avea comandato che tornassero al loro esercizio nella flotta, ed eglino con alte grida faceano istanza di riaver le loro bandiere. Rinforzavano essi le grida, e, secondo Plutarco [Plutarc., in Galba.], che li suppone armati, alcuni misero mano alle spade, Galba allora [260] ordinò che la cavalleria di sua scorta facesse man bassa contro di loro. Per quel che narra Svetonio, furono messi in fuga, e poi decimati. Tacito scrive che ne furono uccise alcune migliaia; e Dione giugne a dire che furono settemila: il che par poco credibile. Quel che è certo, per azioni tali entrò Galba in Roma già screditato; ed ancorchè facesse alcuni buoni regolamenti in benefizio del pubblico, e rallegrasse il popolo colla morte di Elio, Policeto, Petino, Patrobio e d'altri, che con calunnie aveano fatto perire molti innocenti: pure tant'altre cose operò, che fecero parlare molto di lui il popolo. Imperciocchè contro la espettazion di ognuno non punì Tigellino, ministro primario della crudeltà di esso Nerone, perchè costui seppe guadagnarsi la protezione di Tito Vinio, che tutto potea nel palazzo imperiale. Chiedendogli i pretoriani le immense somme di danaro promesse loro da Ninfidio, con fatica donò pochissimo. E pervenutogli a notizia che se ne lagnavano forte, diede una risposta da saggio Romano, con dire: [Sueton., in Galba, cap. 16.] «Ch'egli era solito ad arrolare per grazia, e non già a comperare i soldati.» Ma se n'ebbe ben presto a pentire. Seguitava [Joseph., de Bello Judaico, lib. 4.] in questi tempi la guerra de' Romani sotto il comando di Vespasiano contra de' Giudei. Si andò egli disponendo per far l'assedio di Gerusalemme, con prendere tutte le fortezze all'intorno; e quella città, che nel di fuori provava tutte le fiere pensioni della guerra, maggiormente era afflitta nel di dentro per le funeste e micidiali discordie degli stessi Giudei, che diffusamente si veggono descritte da Giuseppe Ebreo. Ma perciocchè arrivarono le nuove colà della ribellione delle Gallie e della Spagna, che facea temere di una guerra civile, e poi della morte di Nerone, Vespasiano sospese l'assedio suddetto, e spedì Tito suo figliuolo ad assicurar Galba della sua divozione ed ubbidienza; ma da [261] lì a non molto cangiarono faccia gli affari, siccome vedremo andando innanzi.
Anno di | Cristo LXIX. Indizione XII. |
Clemente papa 3. | |
Servio Sulpicio Galba imper. 2. | |
Marco Salvio Ottone imper. 1. | |
Flavio Vespasiano imper. 1. |
Consoli
Servio Sulpicio Galba imperad. per la seconda volta, e Tito Vinio Ruffino.
Perchè Clodio Macro vicepretore dell'Africa si era anch'egli ribellato contra Nerone, e continuava a far delle estorsioni e ruberie, Galba nell'anno precedente ebbe maniera di farlo levar dal mondo [Tacitus, Historiar., lib. 1, cap. 7. Dio, lib. 64.]. Fu ancora accusato di meditar delle novità nella bassa Germania Fonteio Capitone, il qual pure vedemmo che avea riconosciuto Galba per imperadore. Vero o falso che fosse questo suo disegno, anch'egli fu ucciso, senza aspettarne gli ordini da Roma. Al comando di quell'armata [Sueton., in Vitellio, cap. 7.] inviò Galba, a suggestione di Vinio, Aulo Vitellio, uomo pieno di vizii, oppur creduto tale da non far bene nè male, e che, purchè potesse appagar la sua ingordissima gola, pareva incapace d'ogni grande impresa. Fu questa elezione il principio della rovina di Galba. Costui, pieno di debiti per aver troppo scialacquato sotto i precedenti Augusti, arrivò all'armata della Germania inferiore, e niuna viltà o bassezza lasciò indietro per conciliarsi l'amore di quelle milizie, senza gastigar alcuno, con perdonare e far buona ciera a tutti, e donar loro quel poco che potea. Avvenne che le legioni dimoranti nell'alta Germania, già irritate per l'abbassamento di Virginio Rufo, udendo le relazioni, accresciute molto nel viaggio, dell'avarizia e della crudeltà di Galba, cominciarono ad inclinar tutte alla sedizione; nè Ordeonio Flacco lor comandante, uomo [262] vecchio, gottoso e sprezzato dai soldati, avea forza di tenerle in dovere. In fatti, benchè nel primo giorno di gennaio dell'anno presente, secondo il costume, giurassero, ma con istento, fedeltà a Galba, nel dì seguente misero in pezzi le di lui immagini, e giurarono di riconoscere qualunque altro imperadore che fosse eletto dal senato e popolo romano [Plutarc., in Galba. Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 55.]. Tacito scrive che la ribellione ebbe principio nelle stesse calende di gennaio. Volò presto l'avviso di tal novità a Colonia, dove dimorava Vitellio, che ne seppe profittare, con far destramente insinuare ai suoi soldati della bassa Germania di elegger essi piuttosto un imperadore, che di aspettarlo dalle mani altrui. Non vi fu bisogno di molte parole. Nel dì seguente Fabio Valente, venuto colla cavalleria a Colonia, e tratto fuori di casa Vitellio, benchè in vesta da camera, l'acclamò imperadore. Poco stettero ad accettarlo per tale le legioni dell'alta Germania. Le città di Colonia, Treveri e Langres, disgustate di Galba, s'affrettarono ad esibir armi, cavalli e denaro a Vitellio. Accettò egli con piacere il cognome di Germanico: per allora non volle quello d'Augusto; nè mai usò quello di Cesare. Formò poi la sua corte; e gli uffizii, soliti a darsi dall'imperadore ai liberti, furono da lui appoggiati a cavalieri romani. Valerio Asiatico legato della Fiandra, per essersi unito a lui, divenne fra poco suo genero. E Giunio Bleso, governatore della Gallia lugdunense, perchè il popolo di Lione era forte in collera contra di Galba, seguitò anch'egli il partito di Vitellio con una legione e colla cavalleria di Torino.
Galba in questo mentre, il meglio che potea, attendeva in Roma al governo [Tacit., Historiar., lib. 1, cap. 13.], ma per la sua vecchiezza sprezzato da molti, avvezzi alle allegrie del giovane Nerone, e da molti odiato per la sua avarizia. Il potere nella sua corte [263] era compartito fra Tito Vinio, che già dicemmo console, e Cornelio Lacone prefetto del pretorio, e per terzo entrò Icelo liberto di Galba, uomo di malvagità patente. Costoro, emuli e discordi fra loro, abusando della debolezza del vecchio Augusto, si studiavano cadauno di far roba, e di portar innanzi chi potesse succedere a Galba. Ma eccoti corriere, che porta la nuova della sollevazion delle legioni dell'alta Germania. Andava già pensando Galba ad adottare in figliuolo e successor nell'imperio qualche persona, in cui si unisse la gratitudine verso del padre, e l'abilità in benefizio del pubblico. Più degli altri vi aspirava, e confidato nell'appoggio di Tito Vinio sperava Marco Salvio Ottone, più volte da me rammentato di sopra come uomo infame per molti suoi vizii, e veterano negl'intrichi della corte. All'udir le novità della Germania, non volle Galba maggiormente differir le sue risoluzioni per procacciarsi in un giovane figliuolo un appoggio alla sua avanzata età e alla mal sicura potenza. Fatto chiamare all'improvviso nel dì 10 di gennaio, Lucio Pisone Frugi Liciniano, discendente da Crasso e dal gran Pompeo, giovane di molta riputazione e gravità, in età allora di trentun anni, alla presenza di Vinio, di Lacone, di Mario Celso console disegnato e di Ducennio Gemino prefetto di Roma, dichiarò che il voleva suo figliuolo adottivo e successore. Pisone senza comparir turbato, nè molto allegro, rispettosamente il ringraziò. Andarono poi tutti al quartiere dei pretoriani, e quivi più solennemente fece Galba questa dichiarazione per isperanza di guadagnargli l'affetto di que' soldati. Ma perchè non si parlò punto di regalo, quelle milizie mal avvezze ascoltarono con silenzio ed anche con malinconia quel ragionamento. Per attestato di Tacito, la promessa di un donativo poteva assicurar la corona in capo a Pisone; ma Galba non sapea spendere, e volea vivere all'antica, senza riflettere che [264] erano di troppo mutati i costumi. Anche al senato fu portata questa determinazione ed approvata.
Ottone, che di dì in dì aspettava questa medesima fortuna da Galba, allorchè vide tradite tutte le sue speranze, tentò un colpo da disperato. Coll'aver ottenuto un posto in corte ad un servo di Galba, avea poco dianzi guadagnata una buona somma d'argento. Di questo danaro si servì egli per condurre ad una sua trama due, oppur cinque soldati del pretorio [Sveton., in Othone, cap. 5.], a' quali, con tirar nel suo partito pochi altri, prodigiosamente riuscì di fare una somma rivoluzion di cose. Costoro, perchè furono cassati in questo tempo alcuni uffiziali delle guardie, come parziali dell'estinto Ninfidio, sparsero voci di maggiori mutazioni. Quel poltron di Lacone, tuttochè avvertito di qualche pericolo di sedizione, a nulla provvide. Ora nel dì 15 di gennaio, Marco Salvio Ottone, dopo essere stato a corteggiar Galba, si portò alla colonna dorata, dove trovò, secondo il concerto, ventitrè soldati: che così pochi erano i congiurati [Tacitus, Historiar., lib. 1, c. 27. Plutarchus, in Galba.]. L'acclamarono essi imperadore, e messolo in una lettiga, l'introdussero nel quartiere de' pretoriani, senza che a sì picciolo numero di ammutinati alcun si opponesse. A poco a poco altri si unirono ai precedenti, e non finì la faccenda, che tutto quel corpo di milizie, colla giunta ancora dall'altra dell'armata navale, si dichiarò per lui, mercè del buon accoglimento e delle promesse di un gran donativo che Ottone andava di mano in mano facendo a chiunque arrivava. Avvisati di questa novità Galba e Pisone, spedirono tosto per soccorso alla legione condotta dalle Spagne, e ad alcune compagnie di tedeschi. Uscì Galba di palazzo, per una falsa voce che Ottone fosse stato ucciso, sperando che il suo presentarsi ai perfidi [265] pretoriani li farebbe cedere. Ma al comparir essi in armi con Ottone, e al gridare che si facesse largo, il popolo si ritirò, e Galba, in mezzo alla piazza rimasto abbandonato, fu steso con più colpi a terra, ed anche barbaramente messo in brani. Il console Vinio anch'egli restò vittima delle spade. Pisone malamente ferito tanto fu difeso da Sempronio Denso centurione, che potè fuggire e salvarsi nel tempio di Vesta; ma saputosi dov'egli era, due soldati inviati colà anche a lui levarono la vita, e il medesimo fine toccò a Lacone capitan delle guardie. Avvicinandosi poi la sera, entrò Ottone in senato, dove spacciando d'essere stato forzato a prendere l'imperio, ma che volea dipendere dall'arbitrio de' senatori, trovò pronta la volontà e l'adulazione d'ognuno per confermarlo, e per mostrar anche gioia della di lui esaltazione. Gli furono accordati tutti i titoli e gli onori de' precedenti Augusti; e il matto popolo gli diede il cognome di Nerone, per cui non cessava in molti l'affetto. Giacchè non vi erano più consoli, fu conferita questa dignità al medesimo Marco Salvio Ottone imperadore Augusto e a Lucio Salvio Ottone Tiziano suo fratello per la seconda volta. Nelle calende di marzo succederono ad essi Lucio Virginio Rufo e Vopisco Pompeo Silvano: Cedendo questi nelle calende di maggio, furono sostituiti Tito Arrio Antonino e Publio Mario Celso per la seconda volta. Continuarono questi in quel decoroso grado sino alle calende di settembre; ed allora entrarono consoli Caio Fabio Valente ed Aulo Alieno Cecina. Ma essendo stato degradato il secondo d'essi nel dì 31 di ottobre, fu creato console Roseto Regolo, la cui dignità non oltrepassò quel giorno; perciocchè nelle calende di novembre venne conferito il consolato a Gneo Cecilio Semplice e a Caio Quinzio Attico. Tutto ciò si ricava da Tacito [Tacitus, lib. 1, cap. 77.].
Sul principio si studiò Ottone di [266] procacciarsi l'affetto e la stima del popolo. Luminosa fu un'azione sua. Mario Celso poco fu mentovato, che comandava la compagnia delle milizie dell'Illirico, ed era console disegnato, avea con fedeltà soddisfatto al suo dovere nell'accorrere alla difesa di Galba. Dopo la di lui morte venne per baciar la mano ad Ottone [Plutarc., in Othone.]. Gl'iniqui pretoriani alzarono allora le voci, gridando: Muoia. Ottone, bramando di salvarlo dalla lor furia, col pretesto di voler prima ricavare da lui varie notizie, il fece caricar di catene, fingendosi pronto a toglierlo di vita. Ma nel dì seguente il liberò, l'abbracciò, e scusò l'oltraggio fattogli solamente per suo bene. Nè solamente il lasciò poi godere del consolato, ma il volle ancora per uno de' suoi generali e dei più intimi amici, con trovarlo non men fedele verso di sè che verso l'infelice Galba. Alle istanze ancora del popolo indusse a darsi la morte Sofonio Tigellino, da noi veduto infame ministro delle scelleraggini di Nerone. Inoltre si applicò seriamente al maneggio de' pubblici affari, e restituì a molti i lor beni tolti da Nerone: azioni tutte che gli fecero del credito, non parendo egli più quel pigro e quel perduto nel lusso e ne' piaceri che era stato in addietro. Ma i più non se ne fidavano, conoscendolo abituato nei vizii, e simile nel genio a Nerone, le cui statue, come ancor quelle di Poppea, permise che si rialzassero. Osservavano parimente ch'egli mostrava poco affetto al senato, moltissimo ai soldati: laonde temevano che se fosse cessata la paura dell'emulo Vitellio, si sarebbe provato in lui un novello Nerone. E certo egli era comunemente odiato più di Vitellio, non tanto pel tradimento da lui fatto a Galba, quanto perchè il riputavano persona data alla crudeltà, e capace di nuocere a tutti; laddove Vitellio era in concetto di uomo dato ai piaceri, e però in istato di solamente nuocere a sè stesso: benchè in fine amendue fossero poco [267] amati, anzi odiati dai Romani. Intanto era diviso il romano imperio fra questi due competitori. Ottone si trovava riconosciuto imperadore in Roma e da tutta l'Italia. Cartagine con tutta l'Africa era per lui. Muciano, governator della Siria, o sia della Soria, gli fece prestar giuramento dai popoli di quelle contrade [Tacitus, Hist., lib. 1, cap. 1.]. Altrettanto fece Vespasiano nella Palestina. Aveva egli inviato già Tito suo figliuolo, per attestare il suo ossequio a Galba; ma dacchè, arrivato a Corinto, intese la di lui morte, se ne tornò indietro a trovar il padre. Anche le legioni della Dalmazia, Pannonia e Mesia aderirono ad Ottone. Così l'Egitto e le altre città dell'Oriente e della Grecia. Ancorchè Ottone fosse un usurpatore, il nome nondimeno di Roma e del senato romano, che l'avea accettato, bastò perchè tanti altri paesi s'uniformassero al capo dell'imperio.
Ma in mano di Vitellio erano le migliori e più accreditate milizie de' Romani, raccolte dall'alta e bassa Germania, dalla Bretagna e da una parte della Gallia [Idem, ibid., cap. 61 et seq.]. Ne formò egli due eserciti, l'uno di quarantamila combattenti sotto il comando di Fabio Valente, l'altro di trentamila, comandato da Alieno Cecina, a' quali si unirono varii rinforzi di Tedeschi. Ardevano tutti costoro di voglia, non ostante il verno, di far dei fatti, per aver occasione di bottinare (fine primario di chi esercita quel mestiere), mentre il grasso e pigro Vitellio attendeva a darsi bel tempo, con far buona tavola, ubbriaco per lo più. Anche vivente Galba si mossero tante forze sotto i due generali per due diverse vie alla volta d'Italia; cioè Valente per le Gallie, e Cecina per l'Elvezia. Vitellio facea conto di seguitarli dipoi. Nel viaggio ebbero nuova della morte di Galba e dell'innalzamento di Ottone. Dovunque passò Valente per la Gallia, il terrore delle sue armi condusse i popoli all'ubbidienza [268] di Vitellio. Sopra tutto con allegria fu ricevuto in Lione. In altri luoghi non mancarono saccheggi ed anche stragi. Non fece di meno Cecina nel passare pel paese degli Svizzeri. All'avviso di queste armate, che si avvicinavano all'Italia, un reggimento di cavalleria, accampato sul Po, che avea servito una volta in Africa sotto Vitellio, l'acclamò imperadore, e cagion fu che Milano, Ivrea, Novara e Vercelli prendessero il suo partito. Perciò si affrettò Cecina verso la metà di marzo per calare in Italia, ancorchè i monti fossero tuttavia carichi di neve, e spedì innanzi un corpo di gente, per sostenere le suddette città. Gran dire, gran costernazione fu in Roma, allorchè si udì la mossa di tante armi, e l'inevitabil guerra civile [Plutarchus, in Othone.]. Mosse Ottone il senato a scrivere a Vitellio delle lettere amorevoli, per esortarlo a desistere dalla ribellione, offrendogli danaro, comodi e una città. Ne scrisse anch'egli, e dicono [Suetonius, in Othone, cap. 8. Dio, lib. 64. Tacitus, Histor., lib. 1, cap. 74.] che gli esibisse segretamente di prenderlo per collega nell'imperio e per genero. Gli rispose Vitellio in termini amichevoli; tali nondimeno che mostravano di burlarsi di lui. Irritato Ottone gli rispose per le rime, cioè gliene scrisse dell'altre piene di vituperii, e con ridicole sparate, ricordandogli soprattutto l'infame sua vita passata. Non furono meno obbrobriose le risposte di Vitellio. Nè alcun di loro diceva bugia. Amendue ancora inviarono degli assassini, per liberarsi cadauno dall'emulo suo; ma riuscì in fumo il loro disegno. Adunque chiaro si vide, non restar altro che di decidere la contesa coll'armi. Unì Ottone una possente armata anch'egli, composta della maggior parte de' pretoriani e delle legioni venute dalla Dalmazia e Pannonia. E lasciato al governo di Roma Tiziano suo fratello con Flavio Svetonio prefetto d'essa città, e fratello di Vespasiano, [269] dato anche ordine che non fosse fatto torto alcuno alla madre, alla moglie e a' figliuoli di Vitello, nel dì 14 di marzo si licenziò dal senato, e alla testa dell'esercito, non parendo più quell'effeminato uomo di una volta, s'incamminò per venir contro a' nemici. Suoi marescialli erano Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, uffiziali non meno prudenti che bravi. Mancavano ben questi pregi a' Licinio Procolo prefetto del pretorio, che pur faceva una delle prime figure in quell'armata. Alieno Cecina, general di Vitellio, arrivato al Po, passò quel fiume a Piacenza, ed assalì quella città, da cui Annio Gallo [Tacitus, Histor., lib. 2, cap. 21.], dopo due dì di valorosa difesa, il fece ritirare a Cremona, malcontento per la perdita di molta gente. Fu in quella occasione bruciato l'anfiteatro de' Piacentini, posto fuori della città, il più capace di gente che fosse allora in Italia. Anche Marzio Macro, console disegnato, diede a Cecina un'altra percossa coi gladiatori di Ottone. Eppur egli, ciò non ostante, volle venire ad un terzo cimento: tanta era la voglia in lui di vincere, affinchè l'altro general di Vitellio, cioè Valente, non gli rapisse o dimezzasse la gloria. In un luogo detto i Castori, dodici miglia lungi da Cremona, tese un'imboscata a Svetonio Paolino e a Mario Celso; ma questi, avutane notizia, presero così ben le misure, che il misero in rotta, ed avrebbono anche rovinata affatto la di lui gente, se Paolino per troppa cautela non avesse impedito ai suoi l'inseguirli. Per questo fu egli in sospetto di tradimento, ed Ottone chiamò da Roma Tiziano suo fratello, acciocchè comandasse l'armi, sebben con poco frutto, perchè Licinio Procolo, capitan delle guardie, benchè uomo inesperto, la facea da superiore a tutti.
Venne poi Valente da Pavia colla sua armata più numerosa dell'altra ad unirsi con Cecina, e tuttochè questi due [270] generali di Vitellio fossero gelosi l'uno dell'altro, si accordarono nondimeno pel buon regolamento della guerra, e per isbrigarla il più presto possibile. Tenne consiglio dall'altra parte Ottone; e il parere de' suoi più assennati generali, cioè di Svetonio Paolino, Mario Celso ed Annio Gallo, fu di temporeggiare, tanto che venissero alcune legioni che si aspettavano dall'Illirico. Ma prevalse quello di Ottone, Tiziano e Procolo, ai quali parve meglio di venir senza dimora a battaglia, perchè i pretoriani credendosi tanti Marti, si tenevano in pugno la vittoria, e tutti ansavano di ritornarsene tosto alle delizie di Roma [Plutarc., in Othone.]. Lo stesso Ottone impaziente per trovarsi in mezzo a tanti pericoli, fra l'incertezza delle cose e il timore di qualche rivolta de' soldati, era nelle spine; però si voleva levar d'affanno con un pronto fatto d'armi. Ma da codardo si ritirò a Brescello, dove il fiume Enza sbocca nel Po, per quivi aspettar l'esito delle cose; risoluzione che accrebbe la sua rovina, perchè seco andarono molti bravi uffiziali e molti soldati, con restare indebolita l'armata sua in mano di generali discordi fra loro, e poco ubbidienti e senza quel coraggio di più che loro avrebbe potuto dar la presenza del principe. Seguì qualche piccolo fatto fra gli staccamenti delle due armate, ma finalmente quella di Ottone, passato il Po, andò a postarsi a qualche miglio lungi da Bedriaco, villa posta fra Verona e Cremona, più vicina nondimeno all'ultimo, verso il fiume Oglio, dove si crede che oggidì sia la terra di Caneto. Molte miglia separavano le due armate; ed ancorchè Svetonio e Mario ripugnassero alla risoluzion conceputa da Procolo di andare nel dì seguente (cioè circa il dì 15 di aprile) ad assalire i nemici, perchè l'arrivar colà stanchi i soldati era un principio d'esser vinti: Procolo persistè nella sua opinione, perchè sollecitato da [271] più lettere di Ottone, che voleva battaglia. Si venne in fatti al combattimento [Dio, lib. 64.], che fu sanguinosissimo, credendosi che fra l'una e l'altra parte restassero sul campo estinte circa quarantamila persone, perchè non si dava quartiere. Ma la vittoria toccò all'armata di Vitellio. I generali di Ottone, chi qua chi là fuggitivi, scamparono colle reliquie della lor gente il meglio che poterono, valendosi del favor della notte [Plutarc., in Othone.]. Ma perchè nel dì seguente si aspettavano di nuovo addosso il vittorioso esercito, con pericolo d'essere tutti tagliati a pezzi, gli uffiziali, soldati e lo stesso Tiziano, fratello di Ottone, che si trovarono insieme, s'accordarono di fare una deputazione a Valente e Cecina, per rendersi. Fu accettata l'offerta, ed unitesi le non più nemiche armate, ognun corse ad abbracciare gli amici, a detestare gli odii passati, e condolersi delle morti di tanti. Giurarono i vinti fedeltà a Vitellio, e cessarono tutti i rancori. Portata questa lagrimevol nuova ad Ottone, dimorante in Brescello, non mancarono già i suoi cortigiani di animarlo, con fargli conoscere arrivate già ad Aquileia tre legioni della Mesia, salvate altre buone milizie a lui fedeli, non essere disperato il caso. Ma egli aveva già determinato di finirla, chi credette per orrore di una guerra civile, come attesta Svetonio [Sueton., in Othone, cap. 10.], chi per poca fortezza d'animo, e chi per acquistarsi una gloria vana con una risoluzion generosa. Pertanto attese spiritosamente nel resto del giorno a distribuir danaro a' suoi domestici ed amici, a bruciar le lettere scrittegli da varie persone contra di Vitellio, affinchè non pregiudicassero a chi le avea scritte, e a dar altri ordini per la sicurezza di molti nobili ch'erano alla sua corte [Tacitus, Histor., lib. 2, c. 48.]. Prese anche nella notte seguente un po' di sonno, ma fu disturbato da un rumor delle guardie, [272] che minacciavano la morte a que' senatori, i quali d'ordine suo erano per ritirarsi, e sopra tutto aveano assediato Virginio Rufo. Uscì Ottone di camera, e con buona maniera calmò quel tumulto. Poscia, sul far del giorno svegliato, intrepidamente si diede un pugnale nel petto, e di quella ferita fra poco morì in età di trentasette anni [Plutarcus, in Othone.]. Al suo cadavero bruciato fu data quella sepoltura che si potè, cioè in terra, colla memoria del solo suo nome senza titolo alcuno. Una massa di monete d'oro, trovate sui primi anni del secolo, in cui scrivo, sul territorio di Brescello, fece credere ad alcuni che fossero ivi seppellite in occasion delle disgrazie di Ottone. Benchè usurpator dell'imperio, e screditato per varie sue ree qualità, cotanto era amato dai soldati, che alcuni d'essi, non meno in Brescello, che in Piacenza e in altri luoghi, pel dolore accompagnarono la di lui morte colla propria, secondo la detestabil usanza e frenesia di quei tempi. Dacchè i soldati, ch'erano in Brescello, non poterono indurre Virginio Rufo ad accettar l'imperio, si diedero ai generali di Vitellio. In un fiero imbroglio si trovò allora la maggior parte del senato che Ottone avea lasciato in Modena, perchè dall'un canto temeva oltraggi dall'armi di Vitellio, e dall'altro i soldati di Ottone tenendoli a vista d'occhio, e riputandoli nemici dell'estinto principe, cercavano pretesti per menar le mani contra di loro. Finalmente ebbero la fortuna di salvarsi a Bologna, dove si mostrarono disposti a riconoscere Vitellio; ma per qualche tempo se ne guardarono a cagion di una falsa voce portata da Ceno, liberto già di Nerone, che i vincitori erano poi stati vinti. Da queste paure non si riebbero se non allorchè arrivarono lettere di Valente che riferirono la vera positura degli affari. In Roma, subito che s'intese quanto era succeduto di Ottone, Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, fece prestar giuramento dal [273] senato e dai soldati che ivi restavano, a Vitellio, e il senato gli accordò tutti gli onori consueti.
Intanto Vitellio, dopo aver lasciato ad Ordeonio Fiacco un corpo di milizie per la guardia del Reno germanico, col resto delle genti che potè raccorre, si mise in viaggio verso l'Italia. Per istrada intese la vittoria de' suoi e la morte di Ottone, e che Cluvio Rufo, governator della Spagna, avea ricuperate le due Mauritanie. Arrivato a Lione, quivi trovò non meno i vincitori che i vinti generali. Perdonò a Tiziano fratello di Ottone, perchè il conosceva per uomo dappoco. Conservò il consolato a Mario Celso. Svetonio e Procolo si acquistarono la di lui grazia con una viltà, asserendo di aver fatta consigliatamente perdere la vittoria ad Ottone nella battaglia di Bedriaco. Mandò Vitellio a Roma un editto, per cui proibiva ai cavalieri il combattere da gladiatori fra loro e contro le fiere negli anfiteatri. Un altro ancora, che tutti gli strologhi e indovini prima delle calende di ottobre fossero fuori d'Italia. Si vide attaccato nella stessa notte un cartello, in cui essi strologhi comandavano a lui di uscire del mondo prima del suddetto medesimo giorno. Se ne alterò talmente Vitellio, che qualunque d'essi che gli capitasse alle mani, senza processo il condannava alla morte. Grande odiosità si tirò egli addosso coll'aver inviato ordine che si levasse la vita a Gneo Cornelio Dolabella uno de' più illustri Romani, odiato da lui per particolari riguardi, che, relegato ad Aquino, era dopo la morte di Ottone ritornato a Roma. L'ordine fu barbaramente eseguito. Intanto a poco a poco tutte le provincie si andarono sottomettendo a lui; ma l'Italia era afflitta per le tante soldatesche del medesimo Vitellio e dell'altre che furono di Ottone. Senza disciplina saccheggiavano, uccidevano, e sotto l'ombra loro anche molti altri faceano ruberie e vendette. Entrato che fu Vitellio in Italia, trovò modo di dividere le [274] milizie (e specialmente i pretoriani) che avevano servito ad Ottone, perchè le conobbe malcontente ed inquiete, e a poco a poco le andò cassando, con dar loro delle ricompense. Venne a Cremona, e volle coi suoi occhi vedere il campo dove s'era data (già scorreano quaranta giorni) la battaglia; ed avvegnachè fossero tuttavia insepolte quelle migliaia di cadaveri, e menasse un insopportabil fetore, non lasciò ordine che si seppellissero; anzi disse che l'odore di un nemico morto sapea di buono. Menava seco circa sessantamila combattenti, senza i famigli ed altre persone destinate al bagaglio, ch'erano più del doppio. Dovunque passava questa gran ciurma, lasciava lagrimevoli segni della sua rapacità e barbarie. Verso la metà di luglio arrivò a Roma, e, se non era distornato da' suoi amici, volea farvi l'entrata in abito da guerra, come in una città conquistata. L'accompagnavano mandre di eunuchi e commedianti, secondo la usanza del suo maestro Nerone, e questi ebbero poi parte agli affari. Trovata Sestilia sua madre nel Campidoglio, le diede il cognome di Augusta; ma ella non se ne allegrò punto, anzi si vergognava di avere un sì indegno imperadore per figlio. Morì ella dipoi in quest'anno, non si sa se per iniquità del figliuolo, o per veleno da lei preso, prevedendo i mali che doveano avvenire. Fece dipoi Vitellio una nuova leva di coorti pretoriane sino a sedici, tutte di mille uomini per cadauna, e gente scelta. Due furono i prefetti del pretorio, cioè Publio Sabino e Giulio Prisco. Valente e Cecina potevano tutto in corte, ma sempre fra loro discordi. Diedesi poi questo ghiottone Augusto, com'era il suo stile, a fare del suo ventre un dio, ma con eccessi maggiori, a misura della dignità e del comodo accresciuto. Il suo mestiere cotidiano era mangiare e bere e vomitare per far luogo ad altri cibi e bevande. Consumava in ciò tesori; e molti si spiantarono per fargli de' conviti. Non istimava [275] nè lodava questo mostro se non le azioni di Nerone, e le imitava bene spesso, inclinando anche alla crudeltà, di cui rapporta Svetonio [Sueton., in Vitellio, cap. 24. Dio, lib. 64] varii esempli; e se fosse sopravvissuto molto, forse sarebbe riuscito anche in ciò non inferiore a lui. La maniera di guadagnarlo soleva essere l'adulazione; ma siccome egli era timido e sospettoso, poco ci voleva a disgustarlo.
E fin qui abbiam veduto le due tragedie di Galba e di Ottone. Ora è tempo di passare alla terza. Di niuno più temeva Vitellio che di Flavio Vespasiano, generale dell'armi romane nella Giudea, dove si continuava la guerra con apparenza ch'egli fosse per assediar Gerusalemme. Allorchè gli venne la nuova che esso Vespasiano e Licinio Muciano, governator della Soria, il riconoscevano per imperadore, ne fece gran festa. Ed, in vero, sulle prime niuno mai s'avvisò che Vespasiano potesse arrivar all'imperio, nè egli vi aspirava, perchè bassamente nato a Rieti e mancante di danaro. Si raccontavano ancora molte viltà di lui nella vita privata; e Tacito [Tacitus, Histor., lib. 2, c. 97. Suetonius, in Vespasiano, c. 4.] ci assicura ch'egli si era tirato addosso l'odio e il dispregio de' popoli; ma i fatti mostrarono poi tutto il contrario. Comunque sia, Dio l'aveva destinato a liberar Roma dai mostri, e a punire l'orgoglio de' Giudei implacabili persecutori del nato Cristianesimo. Era egli per altro dotato di molte lodevoli qualità, perchè senza fasto, temperante nel vitto, amorevole verso tutti, e massimamente verso i soldati, che l'amavano non poco, ancorchè li tenesse in disciplina; vigilante e prudente, buono soldato e migliore capitano. Sopra tutto veniva considerato come amator della giustizia; la sua età era allora d'anni sessanta. Si può giustamente credere che dopo la morte di Galba i più saggi de' Romani, al vedere che i due usurpatori Ottone e Vitellio, [276] senza sapersi chi fosse il peggiore di loro, disputavano dell'imperio, rivolgessero i lor occhi e desiderii a Vespasiano, e segretamente ancora l'esortassero al trono. Flavio Sabino di lui fratello gran figura faceva anch'egli, coll'essere prefetto di Roma, e le sue belle doti maggiormente accreditavano quelle del fratello. O questo fosse, o pure che gli uffiziali e soldati di Vespasiano mirando quel che aveano fatto gli altri in Ispagna, Roma e Germania, non volessero essere da meno: certo è che si cominciò da essi a proporre di far imperadore Vespasiano. Quegli che diede l'ultima spinta all'irrisoluzione di esso Vespasiano, personaggio guardingo e non temerario, fu il suddetto Licinio Muciano governator della Soria, il quale dopo la morte di Ottone gli rappresentò, che non era sicura nè la comune lor dignità, nè la vita sotto quell'infame imperador di Vitellio. Si lasciò vincere in fine Vespasiano, ed essendo entrato nella medesima lega anche Tiberio Alessandro governator dell'Egitto, fu egli il primo a proclamarlo in Alessandria imperadore nel dì primo di luglio [Joseph., de Bello Judaic., lib. 4.]; e lo stesso fece nel terzo giorno di esso mese anche la armata della Giudea, a cui Vespasiano promise un donativo, simile a quel di Claudio e di Nerone. La Soria, e tutte le altre provincie e i re sudditi di Roma in Oriente, e la Grecia alzarono anche esse le bandiere del novello Augusto. Furono scritte lettere a tutte le provincie dell'Occidente, per esortar ciascuno ad abbandonar Vitellio, usurpatore indegno del trono imperiale [Tacitus, Historiar., lib. 2, cap. 82.]. Si fece intendere ai pretoriani cassati da Vitellio, che questo era il tempo di farlo pentire; e veramente costoro arrolatisi in favor di Vespasiano, fecero di poi delle meraviglie contra di Vitellio.
Essendo così ben disposte le cose, e procacciate quelle somme di denaro che si poterono raccogliere per muovere le [277] soldatesche, e in un gran consiglio tenuto in Berito, fu conchiuso che Muciano marcerebbe con un competente esercito in Italia; Tito, figliuolo di Vespasiano, già dichiarato Cesare, continuerebbe lentamente la guerra contro ai Giudei: e Vespasiano passerebbe nella doviziosa provincia dell'Egitto, per raunar danaro, ed affamare o provveder di grani Roma, secondochè portasse il bisogno. Muciano, uomo ambizioso, e che mirava a divenire in certa maniera compagno di Vespasiano nel principato, accettò volentieri quella incumbenza. Per timore delle tempeste non si arrischiò al mare; ma imprese il viaggio per terra, con disegno di passare lo stretto verso Bisanzio; al qual fine ordinò che quivi fossero pronti i vascelli del mar Nero. Non era molto copiosa e possente l'armata di Muciano, ma a guisa de' fiumi regali andò crescendo per via: tanta era la riputazion di Vespasiano, e l'abbominazion di Vitellio. Nella Mesia le tre legioni che stavano ivi a' quartieri, si dichiararono per Vespasiano; e l'esempio d'esse seco trasse due altre della Pannonia, e poi le milizie della Dalmazia, senza neppur aspettare l'arrivo di Muciano. Antonio Primo da Tolosa, soprannominato Becco di Gallo, forse dal suo naso (dal che impariamo l'antichità della parola Becco), uomo arditissimo [Sueton., in Vitellio, cap. 18.], sedizioso ed egualmente pronto alle lodevoli che alle malvage imprese, quegli fu che colla sua vivace eloquenza commosse popoli e soldati contra di Vitellio, nè aspettò gli ordini di Vespasiano o di Muciano, per farsi generale di quelle legioni. Che più? Chiamati in soccorso i re degli Svevi ed altri Barbari, e trovato che quelle milizie nulla più sospiravano che di entrare in Italia, per arricchirsi nello spoglio di queste belle provincie, di sua testa con poche truppe innanzi agli altri calò in Italia, e fu con festa ricevuto in Aquileia, Padova, Vicenza, Este, ed altri luoghi di quelle parti. Mise in rotta un corpo [278] di cavalleria, ch'era postata al Foro da Alieno, dove oggidì è Ferrara. Rinforzato poi dalle due legioni della Pannonia (soleva essere ogni legione composta di seimila soldati), s'impadronì di Verona, e quivi si fortificò. Colà ancora giunse Marco Aponio Saturnino con una delle legioni della Mesia, e concorse ad arrolarsi sotto di Primo gran copia dei pretoriani licenziati da Vitellio. Ancorchè fosse sì grande il suscitato incendio, non s'era per anche mosso l'impoltronito Vitellio. Svegliossi egli allora solamente, che intese penetrato il fuoco fino in Italia. Perchè Valente non era ben rimesso da una sofferta malattia, diede il comando delle sue armi ad Alieno Cecina, con ordine di marciare speditamente contra di Antonio Primo. Venne Cecina con otto legioni almeno, cioè con tali forze che avrebbe potuto opprimerlo. Mandò parte delle milizie a Cremona, e col più della gente armata si portò ad Ostiglia sul Po. Macchinando poi altre cose, perdè apposta il tempo in iscrivere lettere di rimproveri e minacce ai soldati di Primo, ed intanto lasciò che arrivassero a Verona le due altre legioni della Mesia. Finalmente, dappoichè intese che Luciano Basso, governatore della flotta di Ravenna, con cui teneva intelligenza, verso il di 20 d'ottobre s'era rivoltato in favor di Vespasiano: allora, come se fosse disperato il caso per Vitellio, si diede ad esortare i soldati ad abbracciare il partito di Vespasiano, e molti ne indusse a prestar giuramento a lui, e a rompere le immagini di Vitellio. Ma gli altri, che non poteano sofferir tanta perfidia, e quegli stessi che poc'anzi aveano giurato [Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 13.], presi dalla vergogna e pentiti, si scagliarono contra di lui, senza alcun rispetto al carattere di console, incatenato l'inviarono a Cremona, e cominciarono a caricar anch'essi il bagaglio, per passare colà.
Ad Antonio Primo, ch'era in Verona, [279] fu portata dalle spie l'informazione di quanto era accaduto ad Ostiglia, e subito fu in armi, per impedir l'unione di quell'esercito con quel di Cremona. Inoltratosi sino a Bedriaco, luogo fatale per le battaglie, e circa nove miglia lungi da quel sito, s'incontrò colle soldatesche di Vitellio, che uscite di Cremona venivano per unirsi con quelle d'Ostiglia. Ciò fu circa il dì 26 di ottobre. Dopo sanguinoso conflitto le mise in rotta, obbligando chi scampò dalle sue spade a rifugiarsi in Cremona. Ad alte voci allora dimandarono i vittoriosi soldati di andar dirittamente a Cremona, per isperanza d'entrarvi e per avidità di saccheggiarla. Nè gli avrebbe potuto ritenere Primo, se non fosse giunto l'avviso che s'appressava l'altra armata partita da Ostiglia, e in ordinanza di battaglia. Era già sopraggiunta la notte, e pure i due eserciti vennero alle mani con ardore, con fierezza inaudita, combattendo, per quanto comportavano le tenebre, senza distinguere talvolta chi fosse amico o nemico. Levatasi poi la luna, cominciò Primo a provarne del vantaggio, perchè essa dava nel volto ai nemici. Durò il combattimento tutto il resto della notte, e fatto poi giorno, avendo la terza legione, già venuta di Soria, secondo l'uso di que' paesi, salutato il sole con alti ed allegri Viva, questo rumore fece credere a que' di Vitellio che l'esercito di Muciano fosse arrivato, e diede loro tal terrore, che riuscì poi facile a Primo lo sconfiggerli ed obbligarli alla fuga. Giuseppe [Joseph., de Bello Judaico, lib. 5, cap. 13.], narrando che dei soldati di Vitellio in queste azioni perirono trentamila e dugento persone, quattromila e cinquecento di quei di Vespasiano, verisimilmente, secondo l'uso delle battaglie, ingrandì di troppo il racconto, nè noi siam tenuti a prestargli fede. Bensì possiam credere a Dione allorchè dice, che oscurandosi talvolta la luna per qualche nuvola, cessava il combattimento; e che i soldati emuli vicini parlavano [280] l'uno all'altro, chi con villanie, chi con parole amichevoli, e con detestar le guerre civili, e con invitar l'avversario a seguitar Vitellio o pur Vespasiano. Ma non c'è già ragion di credere che l'uno porgesse all'altro da mangiare e da bere, finchè non si provi che i soldati di allora erano sì bravi od industriosi da portar seco anche nel furor delle zuffe le loro bisacce al collo, coll'occorrente cibo e bevanda. Tanto poi Dione quanto Tacito ci assicurano che incomodando forte una grossa petriera, con lanciar sassi, l'esercito di Vespasiano, due coraggiosi soldati, dato di piglio a due scudi degli avversarii, si finsero Vitelliani; ed arrivati alla macchina ne tagliarono le funi, con render essa inutile, ma con restar anch'essi tagliati a pezzi senza che rimanesse memoria alcuna del lor nome. Dopo lo spoglio del campo, a Cremona, a Cremona, gridarono i vincitori soldati. Bisognò andarvi. Si credevano di saltarvi dentro, ma trovarono un impensato ostacolo, cioè un alto e mirabil trinceramento, fatto fuor della città nella precedente guerra di Ottone, alla cui difesa era accorsa quasi tutta la milizia esistente in Cremona. Fecero delle maraviglie i soldati di Vespasiano per superar quel sito: tanta era la lor gola di arrivar al sacco di quella ricca città, che Antonio Primo avea loro benignamente accordato: il che fatto, assalirono la città. Con tutto che questa fosse cinta di forti mura e torri e piena di popolo, invilirono sì fattamente i soldati vitelliani, che non tardarono a trattare di rendersi. Scatenarono per questo Alieno Cecina, acciocchè s'interponesse nel perdono, ed esposero bandiera bianca. Uscì Cecina vestito da console co' suoi littori, cioè colle sue guardie, e passò al campo dei vincitori, ma accolto da tutti con ischerni e rimproveri, perchè la perfidia suol essere pagata coll'odio d'ognuno. D'uopo fu che Antonio Primo il facesse scortare, tanto che fosse in luogo sicuro, da potersi portare a trovar Vespasiano.; [281] Fu perdonato ai soldati di Vitellio, ma non già all'infelicissima città allora celebre per bellissime fabbriche, per gran popolo, per molte ricchezze [Tacitus, Historiar., lib. 3, c. 33. Dio, lib. 65.]. Quarantamila soldati, e un numero maggior di famigli e bagaglioni, come cani v'entrarono. Stragi e stupri senza numero; non si perdonò neppure ai templi: tutto andò a sacco; e in fine si attaccò il fuoco alle case. Gli stessi soldati di Vitellio, che prima difendeano quella città, gareggiarono in tanta barbarie con gli altri; anzi fecero di peggio, perchè più pratici de' luoghi. Che vi perissero cinquantamila di quegli innocenti e miseri cittadini, lo scrive Dione. A me par troppo. Gli abitanti rimasti in vita furono tenuti per ischiavi, e poi riscattati. Per cura di Vespasiano venne poi riedificata e popolata di nuovo quella città.
Vitellio intanto se ne stava in Roma agitato, e con isfoggiata tavola, niuna apprensione mostrando di tanti romori. Ma quando cominciarono sul fine di ottobre ad arrivare l'un dietro l'altro i funesti avvisi di quanto era succeduto, allora gli corse il freddo per l'ossa. E poscia udendo che Antonio Primo s'era messo in cammino per venire a Roma, buffava, non sapea più dove si fosse, ora pensando a far ogni sforzo per resistere, ora a dimettere l'imperio, ed a ritirarsi a vita privata, ora facendo il bravo con la spada al fianco, ed ora il coniglio, con far ridere il senato, e con trovare ormai poca ubbidienza ne' pretoriani. Tuttavia spedì Giulio Prisco ed Alfeno Varo con quattordici coorti pretoriane, e tutti i reggimenti, di cavalleria, a prendere i passi dell'Apennino [Tacitus, Historiar., lib. 3, cap. 55.], e vi aggiunse la legione dell'armata navale: esercito sufficiente a sostener con vigore la guerra, se avesse avuto capitani migliori. Si postò a Bevagna quest'armata, e colà ancora si portò poi lo stesso Vitellio, benchè solennissimo poltrone, per le istanze dei [282] soldati. Attediossi ben presto di quel soggiorno, e venutagli poi nuova che Claudio Faentino e Claudio Apollinare aveano indotta alla ribellione l'armata navale del Miseno, e le città circonvicine, se ne tornò a Roma, ed inviò Lucio Vitellio suo fratello ad occupar Terracina per opporsi da quella banda ai ribelli. Ma Antonio Primo colle milizie fedeli a Vespasiano, alle quali egli permetteva il far quante insolenze ed iniquità volevano nel viaggio, passò l'Apennino. Pervenuto che fu a Narni, se gli arrenderono la legione e le coorti inviate contra di lui da Vitellio. E pur Vitellio in sì duro frangente seguitava a starsene con tal torpedine in Roma, che la gente sapea bensì esser egli il principe, ma parea di non saperlo egli stesso. Ogni dì nuove, l'una più dell'altra cattive. A Fabio Valente suo generale, ch'era stato preso nell'andar nelle Gallie, e rimandato ad Urbino, tagliata fu la testa, per far conoscere ai Vitelliani falsa una voce, ch'egli avesse messa in armi la Germania e Gallia contra di Vespasiano. Vero all'incontro era che anche le Spagne, le Gallie e la Bretagna riconobbero Vespasiano per imperadore. Poc'altro che Roma ormai non restava a Vitellio; e però Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, che fin qui era stato prefetto della città, con fedeltà e buona intelligenza di Vitellio, desiderando di salvar Roma da più gravi disordini, avea proposto dei temperamenti a Vitellio stesso, per salvargli la vita. Altrettanto aveano fatto con lettere Muciano e Primo; e già s'era in concerto che Vitellio, deponendo l'impero, ne riceverebbe in contraccambio un milione di sesterzii e terre nella Campania. In fatti egli nel dì 18 di dicembre, uscito di palazzo in abito nero co' suoi domestici, e col figliuolo tuttavia fanciullo, piangendo dichiarò al popolo che per bene dello Stato egli deponeva il comando; ma nel voler consegnare la spada al console Cecilio Semplice, nè questi nè gli altri la vollero accettare. A tale [283] spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un'assemblea de' primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso Flavio Sabino, [Dio, lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.] trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio. Alla nuova dell'abortito trattato, fu creduto bene che Sabino andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi incontrato colla guardia de' Tedeschi, si venne ad un picciolo combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni senatori e cavalieri, e co' due suoi figliuoli Sabino e Clemente, e con Domiziano figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece una meschina difesa; v'entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere quell'insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano: accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là Domiziano, i figli di Sabino; non già l'infelice Sabino, che, preso dai Germani insieme con Quinzio Attico console, fu condotto carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò Attico; ma Sabino, uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di Vespasiano, sotto le furiose spade di que' soldati perdè la vita: del che più che d'altro s'afflisse dipoi Vespasiano, ma non già Muciano che il riguardava come ostacolo all'ascendente della sua fortuna.
Antonio Primo, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all'incontro la milizia di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e Petilio Cereale non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche accordo, varii [284] combattimenti seguirono, favorevoli ora all'una ed ora all'altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano. Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de' pretoriani, commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta gente, che Giuseppe [Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio, lib. 65.] e Dione la fanno ascendere a cinquantamila persone [Sueton., in Vitellio, cap. 16.]. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo fuggì nell'Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a trovar Lucio suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se n'era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d'oro, andò a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de' cani, da più di uno de' quali fu anche morsicato. A nulla gli servì questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome Giulio Placido , ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo, senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò la sua vita Vitellio, coll'essere gittato giù per le scale gemonie; il cadavero suo fu coll'uncino strascinato al Tevere, e la sua testa portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua vita, riguardandolo per troppo indegno dell'imperio, e certamente incapace di sostenerlo con tanto perversi [285] costumi e sì grande poltroneria. Restò bensì libera Roma dall'usurpatore Vitellio, ma non già dalle atroci pensioni della guerra civile. Per lungo tempo durarono i saccheggi e gli omicidii. Maltrattato era chiunque fu amico di Vitellio, e sotto questo pretesto si estendeva ad altri la feroce avidità dei vittoriosi e licenziosi soldati: in una parola, tutto era lutto, confusione e lamenti in Roma ed altrove. Ancorchè Domiziano, figlio di Vespasiano, fosse ornato immediatamente col nome di Cesare, pure niun rimedio apportava, intento solo a sfogar le passioni proprie della scapestrata gioventù. Lucio Vitellio, fratello dell'estinto Augusto, venne ad arrendersi colle sue soldatesche, sperando pure miglior trattamento; ma restò anch'egli barbaramente ucciso. Fece lo stesso fine Germanico, piccolo figliuolo del medesimo imperadore. Subito che si potè raunare il senato, furono decretati a Flavio Vespasiano tutti gli onori soliti a godersi dagl'imperadori romani. E bisogno ben grande v'era di un sì fatto imperadore, sì per rimettere in calma la sconcertata Roma ed Italia, come ancora per dar sesto alla Germania e Gallia dove Claudio Civile avea mosso dei gravi torbidi che accenneremo fra poco. Guerra eziandio era nella Giudea, guerra nella Mesia e nel Ponto. Sovrastavano perciò danni e pericoli non pochi alla romana repubblica, se non arrivava a reggerla un Augusto, che per senno e per valore gareggiasse coi migliori.
Anno di | Cristo LXX. Indizione XIII. |
Clemente papa 4. | |
Flavio Vespasiano imperadore 2. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto imperad. per la seconda volta, e Tito Flavio Cesare suo figliuolo.
Ancorchè fossero lontani da Roma Vespasiano Augusto e Tito suo figlio, dichiarato anch'esso Cesare dal senato, pure, per onorare i principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi [286] al consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero per successori nelle calende di luglio Marco Licinio Muciano e Publio Valerio Asiatico: e poscia a questi nelle calende di novembre succederono Lucio Annio Basso e Caio Cecina Peto. Dacchè [Tacit., Histor., lib. 4. Dio, lib. 66.] nell'anno precedente giunse a Roma Muciano, prese egli il governo, facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V'interveniva anche Domiziano Cesare, figliolo dell'imperadore, per dar colore agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le istigazioni degli amici, pure l'autorità era principalmente presso Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s'andava vantando d'aver donato l'imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e facendo perciò alto e basso, come s'egli stesso fosse l'imperadore. Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all'insolenza dei soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un'altra maggiormente n'ebbe per adunar danaro il più che si potea, per rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre che la pecunia era il nerbo del Principato; nè rincresceva di tirar sopra di sè l'odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne profittava non poco anch'egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia Antonio Primo, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato Vitellio; ed Arrio Varo, perchè alzato alla potente carica di prefetto del pretorio. Quanto a Primo, il caricò di lodi nel senato, gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell'amore per lui, e fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli abbominevoli disordini da lui [287] permessi in Cremona, Roma ed altrove, per guadagnarsi l'affetto de' soldati, gli tagliò in fine le gambe [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.]. Per conto di Varo, gli tolse la prefettura del pretorio, dandogli quella dell'annona, e sostituì nella prima carica Clemente Aretino, parente di Vespasiano.
Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava Vespasiano in Egitto, Tito suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava una terribil carestia, e l'Egitto da gran tempo era il granaio de' Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se vogliam credere a Filostrato [Philostratus, in Apollon. Tyan.], Vespasiano fece di gran bene all'Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in addietro per le soverchie imposte, Dione [Dio, lib. 66.] all'incontro attesta che gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense, per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure, come diremo, tal nome gli competeva) che s'avesse Vespasiano. Perciò il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre male de' suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo d'ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse a dovere; e l'avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre, «che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e poi lasciano dire.» Nella state venne [288] Vespasiano Augusto alla volta di Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch'era ito ad incontrarlo colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo Domiziano, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in collera parea disposto a de' gravi risentimenti contra di questo scapestrato figliuolo [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.]. Il buon Tito suo fratello fu quegli che perorò per lui, e disarmò l'ira del padre. Non lasciò per questo Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza, trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno. Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a Lucio Vestino, cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s'era dato principio a sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie di Roma pagana, con essersi gittate ne' fondamenti assai monete nuove e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio [Sueton., in Vespasiano, c. 8.], fu dei primi a portar sulle sue spalle alquanti di que' rottami; e volle che gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro esempio si animasse maggiormente il popolo all'impresa. E perciocchè nell'incendio d'esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin dalla fondazione di Roma, [289] comandò che se ne ricercassero diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo s'incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone [Dio, in Excerptis Valesianis.], e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de' tempi addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse quest'arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori dell'avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch'egli, a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui non accordata ad altre città.
Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l'una in Giudea, l'altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la prima da Giuseppe Ebreo; l'una e l'altra da Cornelio Tacito. Io me ne sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo, ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa; avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei predetto dallo stesso Signor nostro [Joseph., lib. 5 de bello Judaico.]. S'erano ribellati i Giudei all'imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro Cestio, parea che si ridessero delle forze romane [Tacitus, Histor., lib. 5.]. Vespasiano, irritato forte contra di loro, spedì Tito suo figliuolo nella primavera dell'anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei tempi una delle più belle; forti e ricche città dell'universo, perchè i Giudei, sparsi in [290] gran copia per l'Asia e per l'Europa, faceano gara di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un'infinità di Giudei era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel qual tempo appunto aveano crocifisso l'umanato figliuol di Dio. Che sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante quell'assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte dell'altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio [291] il tempio di Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si conservasse quell'insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di sassi e di cenere. S'impadronì poi Tito della città alta e bassa nel mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de' vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell'ira di Dio, siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti, che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di Dio, siccome aveano predetto i profeti.
L'altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio [Tacitus, Histor., lib. 4.]. Claudio Civile, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese l'armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi contra de' Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad Aquilio generale de' Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie militavano per l'imperio, e commosse a ribellione altri popoli della Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile, non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di gente per ismorzar quell'incendio. Annio Fallo e Petilio Cereale furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di quest'armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse all'ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più sconfitte a Civile e a' suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si ridussero a piegare il [292] collo, e a ricorrere alla clemenza romana. Domiziano Cesare in questa occasione, bramoso di non essere da meno di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e Muciano, per paura che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche bestialità in danno dell'armi romane, giudicò meglio, di accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a Roma nell'anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza dappertutto.
Anno di | Cristo LXXI. Indizione XIV. |
Clemente papa 5. | |
Flavio Vespasiano imperadore 3. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la terza volta, e Marco Cocceio Nerva.
Nerva, collega dell'imperadore nel consolato, divenne anch'egli col tempo imperadore. Non tennero essi consoli se non per tutto febbraio quella dignità, e ad essi succederono, nelle calende di marzo, Flavio Domiziano Cesare, figliuolo di Vespasiano, e Gneo Pedio Casto. Merito grande s'era acquistato Tito Cesare presso il padre per la guerra gloriosamente terminata nella Giudea. Maggior anche era il merito de' suoi dolci costumi [Sveton., in Tito, cap. 5.]. Cotanto si faceva egli amar dai soldati, che, dopo la presa di Gerusalemme, l'armata romana, gli diede il titolo militare d'imperadore; e volendo egli venire a Roma, cominciarono tutti con preghiere, e poi con minacce, a gridare o che restasse egli, o che tutti li conducesse seco. Per questo e per qualche altro barlume insorse sospetto presso della gente maliziosa ch'egli nudrisse dei disegni di rivoltarsi contra del padre: il [293] che giammai a lui non cadde in pensiero. Ne fu anche informato Vespasiano; ma siccome egli avea troppe prove dell'onoratezza del figliuolo, così non ne fece caso; anzi udito che già egli era in viaggio, il fece dichiarar suo collega nell'imperio, e compagno anche nella podestà tribunizia, ma senza conferirgli i titoli di Augusto e Padre della Patria. Questi onori equivalevano allora alla dignità dei re de' Romani de' nostri giorni, ed erano un sicuro grado per succedere al padre Augusto nella piena dignità ed autorità imperiale [Philostratus, in Apollon. Tyaneo.]. Passando per la Città di Argos, volle Tito abboccarsi con Apollonio Tianeo, filosofo di gran grido in questi tempi, e di cui molte favole hanno spacciato i Gentili. Il pregò di dargli alcune regole per saper ben governare. Altro non gli diss'egli, se non d'imitar Vespasiano suo padre, e di ascoltar con pazienza Demetrio filosofo cinico, che facea professione di dir liberamente, e senz'adulazione o rispetto di alcuno, la verità; e che non s'inquietasse, se l'avesse ripreso di qualche fallo. Tito promise di farlo. Sarebbe da desiderare un filosofo sì fatto, e con tale autorità in ogni corte; e fors'anche in ogni paese si troverebbe volendolo. Ma è da temere che non si trovassero poi tanti Titi. Ebbe Tito sentore per istrada delle relazioni maligne portate di lui al padre (e forse n'era stato sotto mano autore l'invidioso Domiziano) con fargli anche sospettare che Tito non verrebbe, perchè macchinava cose più grandi. Allora egli s'affrettò, e in una nave da carico, quando men s'aspettava, arrivò in corte; e quasi rimproverando il padre ch'era uscito in fretta ad incontrarlo, un po' agramente gli disse: Son venuto, Signor e Padre, son venuto.
Fu decretato il trionfo dal senato tanto a Vespasiano, quanto al figliuolo, e separatamente per la vittoria giudaica. Ma Vespasiano che amava il risparmio [294] in tutte le occorrenze, nè potea sofferir tanta spesa, si contentò d'un solo che servisse ad amendue. Non s'era mai veduto in addietro un padre trionfar con un figlio: si vide questa volta. Memoria di questo trionfo tuttavia abbiamo nell'arco di Tito in Roma, dato anche alle stampe dal Bellorio, e vi si mira portato l'aureo candelabro del tempio di Gerusalemme. L'essersi felicemente terminate le guerre della Giudea e Germania, diede campo a Vespasiano di fabbricar il tempio della Pace, e di chiudere quello di Giano; giacchè per tutto l'imperio romano si godeva un'invidiabil calma. Questa specialmente tornò a fiorire in Roma insieme colla giustizia, per tanti anni in addietro bandita da essa, e vi risorse la quiete degli animi e l'allegria: tutti effetti del saggio e dolce governo di Vespasiano. Buon concetto si avea nei tempi andati di questo personaggio; ma, divenuto imperadore; superò di lunga mano l'aspettazion di ognuno [Sueton., in Vespasiano, cap. 8.]. Imperocchè tosto si accinse egli con vigore a ristabilire Roma e l'imperio, che tanto aveano patito sotto i precedenti, o principi o tiranni; nè si diede mai posa, finchè visse, per levare i disordini, e per abbellire quella gran città. Chiara cosa essendo che i passati affanni principalmente erano proceduti dall'avidità, insolenza e poca disciplina de' soldati, e soprattutto de' pretoriani, vi rimediò col cassare la maggior parte di quei di Vitellio, ed esigere rigorosamente la buona disciplina dai suoi propri. Per assicurarsi meglio del pretorio, cioè delle guardie del palazzo, con istupore di ognuno, creò lo stesso Tito, suo figliuolo e collega, prefetto del pretorio: carica sempre innanzi esercitata dai cavalieri, e che perciò divenne col tempo la più insigne ed apprezzata dopo la dignità imperiale [Dio, lib. 66.]. La vita di Vespasiano era senza fasto. Il venerava ognuno come signore, ed egli amava all'incontro di [295] comparir verso tutti piuttosto concittadino, e come persona tuttavia privata. Di rado abitava nel palazzo, più spesso negli orti sallustiani, luogo delizioso. Dava quivi benignamente udienza non solo ai senatori, ma agli altri ancora di qualsivoglia grado. Vigilantissimo, soleva avanti giorno, stando in letto, leggere le lettere e le memorie a lui presentate, ammettere i suoi familiari ed amici, quando si vestiva, e favellar con loro delle cose occorrenti. Uno di questi era Plinio il Vecchio [Plinius Junior, lib. 4, epist. 5.]. Anche andando per istrada non rifiutava di parlare con chi avea bisogno di lui. Fra il giorno stavano aperte a tutti e senza guardia le porte della sua abitazione. Sempre interveniva al senato, mostrando il convenevol rispetto a quell'ordine insigne, nè v'era affare d'importanza che non comunicasse con loro. Sovente ancora, andava in piazza a rendere giustizia al popolo. E qualora per la sua avanzata età non potea portarsi al senato, gli partecipava i suoi sentimenti in iscritto, e incaricava i suoi figliuoli di leggerli. Nè solamente in ciò dava egli a conoscere la stima che facea del senato, ma eziandio col voler sempre alla sua tavola molti dei senatori, e coll'andar egli stesso non rade volte a pranzare in casa degli amici e dei familiari suoi. Sapeva dir delle burle, e pungere con grazia; nè s'avea a male, se altri facea lo stesso verso di lui. Dilettavasi massimamente di praticar colle persone savie, per le quali non vi era portiera, e fu udito dire [Philostratus, in Vita Apollonii Tyan.]: Oh potess'io comandare a dei saggi, e che anche i saggi potessero comandare a me! Non mancavano neppure in que' tempi pasquinate e satire contro di lui; ma egli, benchè, ne fosse avvertito, non se [296] ne alterava punto, seguitando, ciò non ostante, a far ciò che riputava utile alla repubblica. Allorchè Vespasiano era in Grecia col pazzo Nerone [Dio, lib. 66. Suetonius, in Vespasiano, cap. 14.], vedendolo un dì nel teatro prorompere in parole, e gesti indecenti alla sua dignità, non seppe ritenersi dal fare un cenno di stupore e disapprovazione. Febo, liberto di Nerone, osservato ciò, se gli accostò, e dissegli che un par suo non istava bene in quel luogo. Dove, volete ch'io vada?, disse allora Vespasiano. E il superbo ed insolente liberto replicò, che andasse alle forche. Costui ebbe tanto ardire di presentarsi, davanti a lui, già divenuto imperadore, per addurre delle scuse. Altro male non gli fece Vespasiano, se non di dirgli, che se gli levasse davanti, e andasse alle forche. Con rara pazienza sofferiva egli che gli si dicesse la verità, e godeva quel bel privilegio, tanto esaltato da Cicerone in Giulio Cesare, di dimenticar le ingiurie. Maritò molto decorosamente tre figliuole di Vitellio; e benchè si trovasse più d'uno che macchinò congiure contra di un principe sì buono, contuttociò niuno mai gastigò se non coll'esilio, solendo anche dire, che compativa la pazzia di coloro, i quali aspiravano all'imperio, perchè non sapevano che aggravio e spine l'accompagnassero. Però sua usanza fu di guadagnar coi benefizii, e non di rimeritar coi gastighi, chi era stato ministro della crudeltà de' tiranni, perchè volea credere che avessero così operato più per paura che per malizia. E questo per ora basti de' costumi di Vespasiano. Ne riparleremo andando innanzi, come potremo, giacchè si son perdute le storie di Tacito, e con ciò a noi manca il filo cronologico delle azioni di questo principe.
Anno di | Cristo LXXII. Indizione XV. |
Clemente papa 6. | |
Vespasiano imperadore 4. |
Consoli
Vespasiano Augusto per la quarta volta, e Tito Flavio Cesare per la seconda.
Dappoichè Muciano venuto a Roma cominciò a godere de' primi onori, il governo della Siria fu dato da Vespasiano a Cesennio Peto. Scriss'egli a Roma, che Antioco re della Comagene, il più ricco dei re sudditi di Roma, con Epifane suo figliuolo teneva dei trattati secreti con Vologeso re dei Parti, disegnando di rivoltarsi. Dubita Giuseppe Ebreo [Joseph., de Bello Judaico, lib. 7.], se Antioco fosse di ciò innocente, o reo, ed inclina piuttosto al primo. Peto gli volea poco bene; e potè ordir questa trama. Vespasiano, a cui troppo era difficile il chiarire la verità, nè volea trascurar l'affare, essendo di somma importanza quella provincia per le frontiere della Soria e dell'imperio romano: mandò ordine a Peto di far ciò ch'egli credesse più convenevole, e giusto in tal congiuntura. Pertanto unitosi quel governatore con Aristobolo re di Calcide, e con Soemo re di Emessa, entrò coll'esercito nella Comagene. A questa inaspettata mossa Antioco si ritirò con tutta la sua famiglia, e senza voler far fronte all'armi romane, lasciò che Peto entrasse in Samosata capitale dei suoi Stati. Epifane e Callinico suoi figliuoli, prese le armi, fecero qualche resistenza; ma tardarono poco i lor soldati a rendersi ai Romani. Si rifuggirono essi alla corte di Vologeso, re dei Parti, che gli accolse, non già come esiliati, ma come principi. Antioco lor padre fuggì nella Cilicia. Peto inviò gente, a cercarlo, ed essendo stato colto a Tarsi, fu caricato di catene, per essere condotto a Roma. Nol permise Vespasiano, e spedì ordini che fosse rimesso in libertà, e che potesse abitare a Sparta, dove gli facea somministrar tutto l'occorrente, [298] acciocchè vivesse da par suo. Per intercessione poi di Vologeso, ai di lui figliuoli fu permesso di venire a Roma. Vi venne anche Antioco, e tutti riceverono trattamento onorevole, senza più riaver quegli Stati. Siamo assicurati da Svetonio [Suet., in Vespasiano, c. 8.] che la Comagene, siccome ancora la Tracia, la Cilicia e la Giudea furono ridotte in provincie sotto Vespasiano, cioè immediatamente governate dagli uffiziali romani. Ma non tutto ciò avvenne sotto il presente anno. Fece in questi tempi Vologeso re de' Parti istanza d'aiuti ai Vespasiano, perchè gli Alani, feroce popolo della Tartaria, entrati nella Media, obbligarono a fuggirne Pacoro re di quel paese, e Tiridate re dell'Armenia, minacciando anche il dominio di Vologeso. Non si volle mischiar Vespasiano negli affari di que' Barbari; e forse di qua venne qualche alterazion di animo fra di loro. Sappiamo da Dione [Dio, lib. 66.], aver quel superbo re scritta una lettera con questo titolo: Arsace re dei re a Vespasiano, senza riconoscerlo per imperador de' Romani. Vespasiano, lungi dal farne rimprovero o doglianza alcuna, gli rispose nel medesimo tenore: Ad Arsace re dei re, Vespasiano. Credesi [Tacitus, in Vita Agricolae, c. 17.] che in questi tempi avvenisse qualche guerra nella Bretagna, dov'era andato per governatore Petilio Cereale, con far quivi l'armi romane nuove conquiste.
Seguitava intanto Vespasiano a far dei saggi regolamenti [Suet., in Vespasiano, c. 9.] per levare gli abusi, e rimettere il buon ordine in Roma. Osservate alcune persone indegne ne' due nobili ordini senatorio ed equestre, le levò via; e perchè era scemato di molto il numero dei medesimi senatori e cavalieri, per la crudeltà de' regnanti precedenti, aggregò a quegli ordini le famiglie e persone più riguardevoli e degne, non tanto di Roma, quanto dell'Italia e dell'altre provincie. Trovò che le liti civili [299] erano cresciute a dismisura, andavano in lungo e si eternavano anche talvolta: male non forestiere anche in altri tempi e in altri luoghi. Cercò di rimediarvi con eleggere varii giudici, che le sbrigassero senz'attendere le formalità e lunghezze ordinarie del foro. Per mettere freno alla libidine delle donne libere che sposavano gli schiavi, rinnovò il decreto che anch'esse, perduta la libertà, divenissero schiave. Per frastornar coloro che prestavano danaro ad usura ai figliuoli di famiglia, vietò il poterlo esigere dopo la morte dei padri. Ma nulla più contribuì alla correzion de' costumi e a far cessare il soverchio lusso de' Romani, che l'esempio dell'imperadore stesso. Parca era la mensa sua; semplice e non mai pomposo il suo vestire; sicura dal di lui potere l'altrui onestà. Il disapprovar egli colle parole e coi fatti gli eccessi introdotti, più che le leggi e i gastighi, ebbe forza d'introdurre la riforma dei costumi nella nobiltà, e in chiunque desiderava d'acquistare o conservar la grazia di lui. Aveva [Suet., in Vespasiano, c. 8.] egli conceduta una carica ad un giovane. Andò costui per ringraziarlo tutto profumato. Questo bastò perchè Vespasiano, guatandolo con disprezzo, gli dicesse: Avrei avuto più caro che tu puzzassi d'aglio; e gli levò la patente. Oltre a ciò, per guarire l'altrui vanità e superbia col proprio esempio, parlava egli stesso della bassezza della prima sua fortuna, e si rise di chi avea compilata una genealogia piena di adulazione, per mostrare [Idem, cap. 12.] ch'egli discendeva dai primi fondatori della città di Rieti sua patria, e da Ercole. Anzi talora nella state andava a passar qualche giorno nella villa, dov'egli era nato, fuori di Rieti, senza voler mai che a quel luogo si facesse mutazione alcuna, per ben ricordarsi di quello ch'egli fu una volta. E in memoria di Tertulla sua avola paterna, che l'avea allevato, nei dì solenni [300] e festivi solea bere in una tazza d'argento da lei usata.
Anno di | Cristo LXXIII. Indizione I. |
Clemente papa 7. | |
Vespasiano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Domiziano Cesare per la seconda volta, e Marco Valerio Messalino.
Console ordinario fu in quest'anno Domiziano [Suet., in Domiziano, cap. 2.], non già per li meriti suoi nè per elezione del saggio suo padre, ma perchè il buon Tito suo fratello, disegnato per sostenere anche nell'anno presente sì riguardevol dignità, la cedette a lui, e pregò il padre di contentarsene. E si vuol qui appunto avvertire che esso Tito era in tutti gli affari il braccio diritto del vecchio padre [Idem, in Tito, cap. 6.]. A nome di lui dettava egli le lettere e gli editti, e per lui recitava in senato le determinazioni occorrenti. Secondochè s'ha dalla cronaca d'Eusebio [Euseb., in Chron.], circa questi tempi (se pur ciò non fu più tardi) l'Acaia, la Licia, Rodi, Bizanzio, Samo ed altri luoghi di Oriente perderono la lor libertà, perchè se ne abusavano in danno lor proprio per le sedizioni e nemicizie regnanti fra i cittadini. Non si mandava colà proconsole o governatore romano in addietro, lasciando che si governassero coi propri magistrati e colle lor leggi. Da qui innanzi furono sottoposti al governo del presidente inviato da Roma, e a pagare i tributi al pari dell'altre provincie. Per attestato ancora di Filostrato [Philostratus, in Apollon. Tyan.], Apollonio Tianeo, filosofo rinomato di questi tempi, grande strepito fece contra di Vespasiano, perchè avesse tolta alla Grecia quella libertà che Nerone, tuttochè principe sì cattivo, le avea restituita. Ma Vespasiano il lasciò gracchiare, dicendo che i Greci aveano disimparato il governarsi da [301] gente libera. Il Calvisio, il Petavio, il Bianchini ed altri, non per certa cognizione del tempo, ma per mera congettura, riferiscono a quest'anno la cacciata de' filosofi da Roma: risoluzione che par contraria alla saviezza di Vespasiano, ma che fu fondata sopra giusti motivi. Le diede impulso Elvidio Prisco nobile senatore romano, e professore della più rigida filosofia degli stoici, la qual era allora più dall'altre in voga presso i Romani. A questo personaggio fa un grande elogio Cornelio Tacito [Tacitus, Historiar., lib. 4, cap. 5.], con dire, aver egli studiata quella filosofia, non già per vanità, come molti faceano, nè per darsi all'ozio, ma per provvedersi di costanza ne' varii accidenti della vita, per sostenere con equità e vigore i pubblici uffizii, e per operar sempre il bene, e fuggire il male. Perciò s'era acquistato il concetto d'essere buon cittadino, buon senatore, buon marito, buon genero, buon amico, sprezzator delle ricchezze, inflessibile nella giustizia, ed intrepido in qualsivoglia sua operazione. Anche Ariano [Arrian., in Epictet.], Plinio [Plinius junior., lib. 4, epist. 23.] il giovane e Giovenale furono liberali di lodi verso di Prisco. Ma egli era troppo invanito dell'amor della gloria, cercandola ancora per vie mancanti di discrezione [Dio, lib. 66.]. Gli esempli di Trasea Peto, suocero suo, uomo da noi veduto lodatissimo ne' tempi addietro, gli stavano sempre davanti agli occhi, per parlare francamente ove si trattava del pubblico bene. Ma non sapea imitarlo nella prudenza. Trasea, ancorchè avesse in orrore i vizii e le tirannie di Nerone, pure nulla dicea o facea che potesse offenderlo. Solamente talvolta si ritirò dal senato, per non approvare le di lui bestialità e crudeltà: il che poi gli costò la vita.
Ma Elvidio si facea gloria di parlar con vigore e libertà senza riguardo alcuno. Così operò sotto Galba, sotto Vitellio; [302] ma più usò di farlo sotto Vespasiano, quasichè la bontà di questo principe dovesse servire di passaporto alla soverchia licenza delle sue parole. Il peggio fu ch'egli, scoprendosi nemico della monarchia, tenendo sempre il partito del popolo, non si facea scrupolo di darsi in pubblico e in privato a conoscere per persona che odiava Vespasiano. Allorchè questo principe arrivò a Roma, ito a salutarlo, non gli diede altro nome che quello di Vespasiano. Essendo pretore nell'anno 70, in niuno de' suoi editti mai mise parola in onore di lui, anzi nè pure il nominò. Ma questo era poco. Sparlava di lui dappertutto, lodava solamente il governo popolare, e Bruto e Cassio; formava anche delle fazioni contra del dominio cesareo. Andò così innanzi l'ostentazione di questo suo libero parlare, che nel senato medesimo giunse a contrastare e garrire insolentemente collo stesso Vespasiano, quasichè fosse un suo eguale [Sueton., in Vespasiano, cap. 15.]; perlochè, d'ordine dei tribuni della plebe, fu preso e consegnato ai littori, o sia ai sergenti della giustizia. Il buon Vespasiano, a cui forte dispiaceva di perdere un sì fatt'uomo, eppur non credea bene d'impedire il riparo alla di lui insolenza, uscì di senato quel dì piangendo e con dire: O mio figliuolo mi succederà, o niun altro: volendo forse indicare che Elvidio con quelle sue impertinenti maniere additava di pretendere all'imperio. Pure la clemenza di Vespasiano non permise che si decretasse ad uomo sì turbolento, che inquietava e screditava il presente governo, e mostravasi tanto capace di sedizioni, se non la pena dell'esilio. Ma perchè verisimilmente neppur si seppe contener da lì innanzi la lingua di questo imprudente filosofo, fu (non si sa in qual anno) condannato a morte dal senato, e mandata gente ad eseguire il decreto. Vespasiano spedì ordini appresso per salvargli la vita; ma gli fu fatto falsamente credere che non erano arrivati a [303] tempo. Probabilmente Muciano, che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione [Dio, lib. 66.] ch'esso Muciano persuase all'imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors'anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l'ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole Ostilio e Demetrio filosofi anch'essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s'infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia [Sueton., in Vespasiano, cap. 13.], dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: Ve' che cane! Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all'orecchio se non queste poche parole: Tu fai quanto puoi perch'io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia. Per attestato di Dione, il solo Caio Musonio Rufo, cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, [304] non fu cacciato di Roma: il che non s'accorda colla Cronica di Eusebio, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall'esilio.
Anno di | Cristo LXXIV. Indizione II. |
Clemente papa 8. | |
Vespasiano imperadore 6. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la quinta volta, e Tito Flavio Cesare per la terza.
A Tito Cesare, che dimise il consolato, succedette nelle calende di luglio Domiziano Cesare suo fratello. Terminarono in quest'anno Vespasiano e Tito il censo, o sia la descrizione de' cittadini romani ch'essi aveano già cominciato come censori negli anni addietro. E questo fu l'ultimo de' censi fatti dagl'imperadori romani. Scrive Plinio il vecchio [Plinius, Histor. Natural., lib. 7, cap. 49.], che in tale occasione si trovarono fra l'Apennino e il Po molti vecchi di riguardevol età. Cioè tre in Parma di cento venti, e due di cento trenta anni; in Brescello uno di cento venticinque; in Piacenza uno di cento trentuno; in Faenza una donna di cento trentadue; in Bologna e Rimini due di cento cinquanta anni, se pure non è fallato, come possiam sospettare, il testo. Aggiugne essersi trovati nella Regione ottava dell'Italia, ch'egli determina da Rimini sino a Piacenza, cinquantaquattro persone di cento anni; quattordici di cento dieci; due di cento venticinque; quattro di cento trenta; altrettanti di cento trentacinque, o cento trentasette, e tre di cento quaranta. Dal che probabilmente può apparire qual fosse tenuta allora per la più salutevol aria d'Italia. Se in altre parti d'Italia si fossero osservate somiglianti età, non si sa vedere perchè Plinio l'avesse taciuto. Circa questi tempi [Dio, lib. 66. Sueton., in Vespasiano, cap. 3.] mancò di vita Cenide, donna carissima a Vespasiano, liberta di Antonia, madre di Claudio Augusto. Avea Vespasiano avuta per [305] moglie Flavia Domitilla, che gli partorì Tito e Domiziano. Morta costei, ebbe per sua amica questa Cenide, e creato anche imperatore la tenne quasi per sua moglie, amandola non solamente per la sua fedeltà e disinvoltura, e per molti benefizii da lei ricevuti quando era privato, ma ancora perchè gli serviva di sensale per far danari. Era l'avarizia forse l'unico vizio per cui universalmente veniva proverbiato questo imperadore [Sueton., in Vespasiano, cap. 3.]. Mostravasi egli non mai contento di danaro. A questo fine rimise in piedi alcune imposte e gabelle, abolite già da Galba; ne aggiunse delle nuove e gravi; accrebbe i tributi che si pagavano dalle provincie, ed alcune furono tassate il doppio. Lasciavasi anche tirare a far un mercimonio vergognoso per un par suo, col comperar cose a buon mercato, per venderle poi caro. Cenide anch'essa l'aiutava ad empiere la borsa. A lei si accostava chiunque ricercava sacerdozi e cariche civili e militari, accompagnando le suppliche con esibizioni proporzionate al profitto dei posti desiderati. Nè si badava, se questi concorrenti fossero o non fossero uomini dabbene, purchè se ne spremesse del sugo. Si vendevano in questa maniera anche l'altre grazie del principe; e le pene, per chi potea, venivano riscattate col danaro. Di tutto si credeva consapevole e partecipe Vespasiano. E tanto egli si lasciava vincere da questa avidità, che cadeva in bassezze [Sueton., in Vespasiano, cap. 23. Dio, lib. 66.]. Avendo i deputati di una città chiesta licenza di alzare in onor suo una statua, la cui spesa ascenderebbe a venticinquemila dramme, per far loro conoscere che amerebbe più il denaro in natura, stese la mano aperta con dire: Eccovi la base dove potete mettere la vostra statua. Era egli stesso il primo a porre in burla questa sua sete d'oro per coprirne la vergogna, e si rideva di chi poco approvava le sue vili maniere per adunarne. Uno di questi [306] fu suo figliuolo Tito, che non potendo sofferire una non so quale imposta, da lui messa sopra l'orina, seriamente gliene parlò, con chiamar fetente quell'aggravio. Aspettò Vespasiano che gli portassero i primi frutti di quell'imposta, e fattili fiutare al figlio, dimandò se quell'oro sapea di cattivo odore. Un giorno, ch'egli era per viaggio in lettiga, si fermò il mulattiere con dire che bisognava ferrar le mule. Sospettò egli dipoi inventato da costui un tal pretesto, per dar tempo ad un litigante di parlargli, e di esporre le sue ragioni. E però gli domandò poi quanto avesse guadagnato a far ferrare le mule, perchè voleva esser a parte del guadagno. Questo forse disse per burla. Ma da vero operò egli con uno de' suoi più cari cortigiani, che gli avea fatta istanza di un posto per persona da lui tenuta in luogo di fratello. Chiamato a sè quel tale, volle da lui il danaro pattuito con fargli la grazia. Avendo poscia il cortigiano replicate le preghiere, siccome non informato della beffa, Vespasiano gli disse: Va a cercare un altro fratello, perchè il proposto da te, non è tuo, ma mio fratello.
Tale era l'industria e continua cura di Vespasiano per ammassar danari, cura in lui biasimata, e non senza ragione dagli storici di allora, e più dai sudditi. Credevano alcuni, che dal suo naturale fosse egli portato a questa debolezza: ed altri, che Muciano gliel'avesse inspirata, con rappresentargli che nell'erario ben provveduto consisteva la forza e la salute della repubblica, sì pel mantenimento delle milizie, come per ogni altro bisogno. Tuttavia il brutto aspetto di questo vizio si sminuisce di molto al sapere, come osservarono Svetonio [Sueton., in Vespasiano, cap. 16.] e Dione [Dio, lib. 66.], che Vespasiano non fece mai morire persona per prendergli la roba, nè mai per via d'ingiustizie occupò l'altrui. Quel che è più, non amava, nè cercava egli le ricchezze, per impiegarle ne' suoi piaceri, [307] perchè sempre fu moderatissimo in tutto, nè poteva spendere senza necessità, contento di poco. Appariva eziandio chiaramente, quanto egli fosse lontano dal covare con viltà il danaro, perciocchè lo dispensava allegramente e con saviezza in tutti i bisogni del pubblico, e in benefizio de' popoli. Sapeva regalare chi lo meritava [Sueton., in Vespasiano, cap. 16.], sovvenire a' nobili caduti in povertà; anzi la sua liberalità si stendeva a tutti. Promosse con somma attenzione le arti e le scienze, favorendo in varie maniere chi le coltivava; e fu il primo che istituisse in Roma scuole d'eloquenza greca e latina, con buon salario pagato dal suo erario. Prendeva al suo servigio i migliori poeti ed artifici che si trovassero, e tutti erano partecipi della sua munificenza. A lui premeva specialmente che il minuto popolo potesse guadagnare. A questo fine faceva di quando in quando de' magnifici conviti; e ad un valente artefice, che gli si era esibito di trasportare con poca spesa molte colonne, diede bensì un regalo, ma di lui non si volle servire, per non defraudare di quel guadagno la plebe. In Roma edificò degli acquidotti, alzò uno smisurato colosso, nè solamente fece di pianta varie fabbriche insigni, ma eziandio rifece le già fatte dagli altri, mettendovi non già il nome suo, ma quel de' primi fondatori. Erano per cagion de' tremuoti cadute, o per gl'incendi molto sformate, assaissime città dell'imperio romano. Egli alle sue spese le rifece, e più belle di prima. La stessa attenzione ebbe per fondar delle colonie in varie città, e per risarcir le pubbliche strade dell'imperio [Aurelius Victor, in Breviar.]. Restano tuttavia molte iscrizioni [Gruterus, Thesaur. Inscription. Thesaurus Novus Veter. Inscription. Muratorian.] per testimonianza di ciò. Gli convenne per questo tagliar montagne e rompere vasti macigni; e per tutto si lavorava senza salassar le borse de' popoli. Rallegrava ancora il [308] popolo colla caccia delle fiere negli anfiteatri, ma abborriva i detestabili combattimenti de' gladiatori. Aggiungasi, per testimonianza di Zonara [Zonaras, Annal.], che Vespasiano mai non volle profittar dei beni di coloro che aveano prese l'armi contra di lui, ma li lasciò ai lor figliuoli o parenti. Ed ecco ciò che può servire, non già per assolvere questo principe da ogni taccia in questo particolare, ma bensì per iscusarlo, meritando bene il buon uso che egli facea del denaro, che si accordi qualche perdono alle indecenti maniere da lui tenute per raunarlo. Se non è scorretto il testo di Plinio il vecchio [Plinius, Histor. Natur., lib. 3, c. 5.], abbiamo da lui, che in questi tempi misurato il circondario delle mura di Roma, si trovò esser di tredici miglia dugento passi. Un gran campo occupavano poi i borghi suoi.
Anno di | Cristo LXXV. Indizione III. |
Clemente papa 9. | |
Vespasiano imperadore 7. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la sesta volta, e Tito Cesare per la quarta.
Nelle calende di luglio furono sostituiti nel consolato Flavio Domiziano Cesare per la quarta volta, e Marco Licinio Muciano per la terza. In gran favore continuava Muciano ad essere presso di Vespasiano [Sueton., in Vespasiano, c. 23.]. Naturalmente superbo, e più perchè alzato ai primi onori, sapea ben far valere la sua autorità [Dio, in Excerptis Valesian.]. Sopra gli altri della corte pretendea d'essere ossequiato e rispettato. Verso chi gli mostrava anche ogni menomo segno di distinzione in onorarlo, andava all'eccesso in procurargli posti ed avanzamenti. Guai all'incontro a chi, non dirò gli facea qualche affronto od ingiuria, ma solamente lasciava di onorarlo; l'odio [309] di Muciano contra di lui diveniva implacabile. Costui pubblicamente era perduto nelle disonestà, e vantava tuttodì i gran servigi da lui prestati a Vespasiano: suo dono chiamava ancora quel diadema ch'egli portava in capo. A tanto giunse talvolta questa sua boria, e la fiducia de' meriti propri, che nemmeno portava rispetto allo stesso imperadore. E pure nulla più fece risplendere, che magnanimo cuore fosse quel di Vespasiano, quanto la pazienza sua in sopportare quest'uomo, temendo egli sempre di contravvenire alla gratitudine se l'avesse disgustato, non che punito. Anzi neppure osava di riprenderlo in faccia; ma solamente con qualche comune amico talora sfogandosi, disapprovava la di lui maniera di vivere, e diceva: Son pur uomo anch'io: tutto acciocchè gli fosse riferito, per desiderio che si emendasse [Sueton., in Vespasiano, c. 14. Dio, lib. 66.]. Fu anche dagli amici consigliato Vespasiano di guardarsi da Melio Pomposiano; perchè egli fatto prendere il proprio oroscopo, si vantava che sarebbe un dì imperadore. Lungi dal fargli male, Vespasiano il creò console (noi non ne sappiamo l'anno) dicendo più probabilmente per burla che da senno; Costui si ricorderà un giorno del bene che gli ho fatto. Dedicò esso Augusto, cioè fece la solennità di aprire e consecrare il tempio della Pace, da lui fabbricato in Roma in vicinanza della piazza pubblica, per ringraziamento a Dio della tranquillità donata al romano imperio, e particolarmente a Roma, dopo tanti torbidi tempi patiti sotto i precedenti tiranni. Plinio [Plinius, lib. 36, cap. 15.] chiama questa tempio una delle più belle fabbriche che mai si fossero vedute. Erodiano [Herodian., lib. 1, c. 14.] anch'egli scrive, ch'esso era il più vasto, il più vago e il più ricco edifizio che si avesse in Roma. Immensi erano ivi gli ornamenti d'oro e d'argento; e fra gli altri vi furono [310] messi il candelabro [Joseph., de Bello Judaic., lib. 7, c. 14.] insigne e gli altri vasi portati da Gerusalemme dopo la distruzione di quel ricchissimo tempio. Ma che? questa mirabil fabbrica circa cento anni dipoi, regnante Commodo Augusto, per incendio, o casuale o sacrilego, rimase affatto preda delle fiamme.
Anno di | Cristo LXXVI. Indizione IV. |
Clemente papa 10. | |
Vespasiano imperadore 8. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la settima volta e Tito Cesare per la quinta.
Abbiamo sufficienti lumi per credere sostituito all'uno di questi consoli nelle calende di luglio Domiziano Cesare, probabilmente per la cessione di Tito suo fratello. Secondo il Panvino [Panvin., in Fastis.], succedette ancora all'altro console ordinario Tito Plautio Silvano per la seconda volta. Ma non altro fondamento ebbe quel dotto uomo di assegnare all'anno presente il secondo consolato di costui, se non il sapere ch'egli due volte fu console. Che nel gennaio di quest'anno nascesse Adriano, il qual poscia divenne imperadore, l'abbiamo da Sparziano. Fiorì ancora in questi tempi, per attestato di Eusebio [Eusebius, in Chronic.], Quinto Asconio Pediano, storico di molto credito; di cui restano tuttavia alcuni Commenti alle Orazioni di Cicerone. In età di anni settantatrè divenne cieco questo letterato, e ne sopravvisse dodici altri, tenuto sempre in grande stima da tutti. Era in questi tempi governator della Bretagna Giulio Frontino, e gli riuscì di sottomettere i popoli Siluri in quella grand'isola all'imperio romano. Era venuto a Roma Agrippa [Dio, lib. 66.] re dell'Iturea, figliuolo di Agrippa il grande, stato già re della Giudea; avea [311] condotto seco Berenice o sia Beronice sua sorella, giovane di bellissimo aspetto, già maritata con Erode re di Calcide suo zio [Joseph., Antiq. Judaic., lib. 18.], e poscia con Polemone re di Cilicia. Se n'invaghì Tito Cesare. Forse anche era cominciata la tresca allorchè egli fu alla guerra contra de' Giudei. Agrippa ottenne il grado di pretore. Berenice alloggiata nel palazzo imperiale, dopo aver guadagnato Vespasiano a forza di regali, sì fattamente s'insinuò nella grazia di Tito, che sperava ormai di cangiar l'amicizia in matrimonio; e già godeva un tal trattamento e autorità, come s'ella fosse stata vera moglie di lui. Ma perciocchè, secondo le leggi romane, era vietato ai nobili romani di sposar donne di nazion forestiera, o sia barbara (barbari erano allora appellati i popoli tutti non sudditi al romano imperio) o pure perchè i re, tuttochè sudditi di Roma, erano tenuti in concetto di tiranni; il popolo romano altamente mormorava di questa sua amicizia, e molto più della voce sparsa, che fosse per legarsi seco pienamente col vincolo matrimoniale. Ebbe Tito cotal possesso sopra la sua passione, e sì a cuore il proprio onore, che arrivò a liberarsene, con farla ritornare al suo paese. Svetonio [Sueton., in Tito, cap. 7.] attribuisce a Tito questa eroica azione, dappoichè egli fu creato imperadore, laddove Dione [Dio, lib. 66.] ne parla circa questi tempi. Ma aggiugnendo esso Dione, che Berenice, dopo la morte di Vespasiano, ritornò a Roma, sperando allora di fare il suo colpo, e che, ciò non ostante, rimase delusa, si accorda facilmente l'asserzione dell'uno e dell'altro storico.
Anno di | Cristo LXXVII. Indizione V. |
Cleto papa 1. | |
Vespasiano imperadore 9. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la ottava volta, e Tito Flavio Cesare per la sesta.
Fu nelle calende di luglio conferito il consolato a Domiziano Cesare per la sesta volta ed a Gneo Giulio Agricola, cioè a quel medesimo, di cui Cornelio Tacito suo genero ci ha lasciata la vita. Terminò in quest'anno Caio Plinio Secondo [Plinius Senior, in Praefatione.] veronese, i suoi libri della Storia Naturale, e li dedicò a Tito Cesare, ch'egli nomina console per la sesta volta, e dà a conoscere quanto amore quel buon principe avesse per lui, e quanta stima per li suoi libri. S'è salvata dalle ingiurie de' tempi quest'opera delle più insigni ed utili dell'antichità, perchè tesoro di grande erudizione; ma è da dolersi che sia pervenuta a noi alquanto difettosa, e che per la mancanza d'antichi codici non sia possibile il renderne più sicuro ed emendato il testo. Anche ai tempi di Simmaco camminava scorretta questa istoria, siccome consta da una sua lettera ad Ausonio. Son periti altri libri di Plinio, ma non di tanta importanza, come il suddetto. Abbiamo dalla cronica di Eusebio [Euseb., in Chron.], essere stata nell'anno presente, o pure nel seguente, sommamente afflitta Roma da una pestilenza così fiera, che per molti dì si contarono dieci mila persone morte per giorno: se pur merita fede strage di tanto eccesso. Ma questo flagello forse s'ha da riferire all'anno 80, regnando Tito. Verso questi tempi [Dio, lib. 66.] bensì capitarono a Roma segretamente due filosofi cinici, che, secondo il loro costume, si faceano belli con dir male d'ognuno. Diogene si appellava l'un d'essi, nome probabilmente da lui preso, per assomigliarsi in [313] tutto all'altro antico sì famoso che fu a' tempi di Alessandro Magno. Costui perchè nel pubblico teatro, pieno di gran popolo, scaricò addosso ai Romani una buona tempesta d'ingiurie e di motti satirici, ebbe per ricompensa, d'ordine dei censori, un sonante regalo di sferzate. L'altro fu Eras, che pensando di aggiustar la partita con sì tollerabil pagamento, più sconciamente sfogò la sua rabbia ed eloquenza canina contra de' Romani, fors'anche non la perdonando ai principi. Gli fu mozzato il capo. Riferisce Dione [Dio, lib. 66.] come un prodigio, che in una osteria in una botte piena il vino tanto si gonfiò, che uscendo fuori, scorreva per la strada. Erano ben facili allora i Romani a spacciare de' fatti falsi per veri, o a credere degli avvenimenti naturali per prodigiosi. Molti di tal fatta se ne raccontano di Vespasiano, ch'io tralascio, perchè o imposture o semplicità di quei tempi. E non ne mancano nella storia stessa di Tito Livio. A san Clemente martire si crede che in quest'anno succedesse Cleto nel pontificato romano.
Anno di | Cristo LXXVIII. Indizione VI. |
Cleto papa 2. | |
Vespasiano imperadore 10. |
Consoli
Lucio Cejonio Commodo e Decimo Novio Prisco.
Son di parere alcuni, che questo Lucio Cejonio Console fosse avolo (se pur non fu padre) di Lucio Vero, che noi vedremo a suo tempo adottato da Adriano imperadore, ciò risultando da Giulio Capitolino [Capitolinus, in Vita Lucii Veri.]. Abbiamo da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 9.], che Gneo Giulio Agricola, stato console nell'anno precedente, fu inviato governatore della Bretagna in luogo di Giulio Frontino. Era Agricola uomo di rara prudenza ed onoratezza. Giunto [314] che fu là, non lasciò indietro diligenza veruna per rimettere la buona disciplina fra le milizie, e per levare gli abusi dei tempi addietro, per gli quali erano malcontenti que' popoli, moderando le imposte, e compartendole con ordine: con che cessarono le avanie de' ministri del fisco, e tornò la pace in quelle contrade. Eransi negli anni precedenti sottratti all'ubbidienza de' Romani gli Ordovici nell'isola di Mona, creduta oggidì l'Anglesei. Agricola v'andò colle armi, e guadagnata una vittoria, ridusse quelle genti alla primiera divozione. Forse fu in questi tempi [Dio, lib. 66.], che si scoprì vivo Giulio Sabino, nobile della Gallia, che nell'anno 70 dell'Era Cristiana avea nel suo paese di Langres impugnate le armi contra de' Romani, e fatto ribellare quel popolo [Plutarch., in Amatorio.]. Sconfitto egli in una battaglia, ancorchè potesse ricoverarsi fra i Barbari, pure pel singolare amore ch'egli portava a Peponilla sua moglie, chiamala da Tacito [Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 67.] Epponina, e da Plutarco Empona, determinò di nascondersi in certe camere sotterranee di una sua casa in villa, con far correre voce di non esser più vivo. Licenziati pertanto i suoi servi e liberti, con dire di voler prendere il veleno, ne ritenne solamente due de' più fidati. E perciocchè gli premeva forte, che fosse ben creduta da ognuno la propria morte, mandò ad accertarne la moglie stessa, la quale a tal nuova svenne, e stette tre dì senza voler prender cibo. Ma per timore, che ella in fatti fosse dietro ad accompagnare colla vera sua morte la finta del marito, fece poi avvisarla del nascondiglio in cui si trovava, pregandola nondimeno a continuare a piagnerlo, come già estinto. Andò ella dipoi a trovarlo la notte di tanto in tanto, e gli partorì anche due figliuoli (l'uno dei quali Plutarco dice d'aver conosciuto), coprendo sì saggiamente la sua gravidanza e il suo parto, [315] che niuno mai s'avvide del loro commercio. Portò la disgrazia, che dopo vari anni fu scoperto l'infelice Sabino, e condotto con la moglie a Roma. Per muovere Vespasiano a pietà, gli presentò Epponina i due suoi piccioli figliuoli, dicendo, che gli avea partoriti in un sepolcro per aver molti che il supplicassero di grazia, ed aggiugnendo tali parole, che mossero le lagrime a tutti, e fino allo stesso Vespasiano. Contuttociò Vespasiano li fece condannare amendue alla morte. Allora Epponina, saltando nelle furie, gli parlò arditamente, dicendogli fra l'altre cose, che più volentieri avea sofferto di vivere in un sepolcro, che di mirar lui imperadore. Non si sa perchè Vespasiano, che pur era la stessa bontà, e tanti esempli avea dato finora di clemenza, procedesse qui con tanto rigore, se forse non l'irritò sì fattamente l'indiscreto parlare dell'irata donna, che dimenticò di essere quel ch'egli era. Attesta Plutarco, che per questo rigor di giustizia, tuttochè l'unico di tutto l'imperio di Vespasiano, venne un grande sfregio al di lui buon nome; ed egli attribuisce a sì odioso fatto l'essersi dipoi in breve tempo estinta tutta la di lui casa. Non saprei dire, se i poeti di questi ultimi tempi abbiano condotta mai sul teatro questa tragica avventura: ben so, che un tale argomento vi farebbe bella comparsa, siccome stravagante e capace di muovere le lagrime oggidì, come pur fece allora.
Anno di | Cristo LXXIX. Indizione VII. |
Cleto papa 3. | |
Tito Flavio imperadore 1. |
Consoli
Flavio Vespasiano Augusto per la nona volta, e Tito Flavio Cesare per la settima.
Essendo in quest'anno, siccome dirò, mancato di vita Vespasiano Augusto, potrebbe darsi, secondo le congetture da [316] me recate altrove [Thesaurus Novus. Inscript., pag. 111.], che nelle calende di luglio il consolato fosse conferito a Marco Tizio Frugi e a Vito Vinio o Vinicio Giuliano. Pacificamente avea fin qui Vespasiano amministrato l'imperio, e meritava ben il saggio e dolce suo governo, ch'egli non trovasse de' nemici in casa. Tuttavia, o sia perchè la morte sola di Sabino, compianta da tutti, rendesse odioso questo principe, oppure perchè Tito destinato suo successore fosse, per quanto vedremo, poco amato, ovvero, come è più probabile, perchè non mancano, nè mancheranno mai al mondo dei pazzi e degli scellerati: certo è che in quest'anno due de' principali tramarono una congiura contra di Vespasiano [Dio, lib. 66. Suetonius, in Tito, cap. 6.]. Questi furono Alieno Cecina, già stato console, ed Eprio Marcello, potenti in Roma, amati e beneficati da esso Augusto. Si credeva egli d'aver in essi due buoni amici, e non avea che due ingrati: vizio corrispondente ad altre loro pessime qualità. Venne scoperta la congiura: si trovò avervi mano molti soldati, e Tito Cesare ne fu assicurato da lettere scritte di lor pugno. Non volle esso Tito perdere tempo, perchè temeva che nella notte stessa scoppiasse la mina, e però fatto invitar Cecina seco a cena, dopo essa il fece trucidar dai pretoriani senza altro processo. Marcello, citato e convinto, allorchè udì proferita contra di lui la sentenza di morte, colle proprie mani si tagliò con un rasoio la gola. Non potea negarsi che la risoluzion presa da Tito contra Cecina non fosse giusta, o almeno scusabile: contuttociò per cagion d'essa egli incorse nell'odio di molti. Dopo questa esecuzione sentendosi Vespasiano [Idem, in Vespasiano, cap. 24.] alquanto incomodato nella salute per alcune febbrette, si fece portare alla sua villa paterna nel territorio di Rieti, siccome era solito nella state. In quelle parti v'erano l'acque cutilie, sommamente fredde da Strabone e da [317] Plinio chiamate utili a curar varii mali. Riuscirono queste perniciose non poco o per la lor natura, o pel troppo berne, a Vespasiano, di maniera che gl'indebolirono forte lo stomaco, e gli suscitarono una molesta diarrea. Era egli principe faceto, e dacchè cominciò a sentir quelle febbri, ridendo e burlandosi del superstizioso ed empio rito de' suoi tempi, nei quali si deificavano dopo morte gl'imperadori, disse: Pare ch'io incominci a diventar dio. Erasi anche veduta poco innanzi una cometa, e parlandone in sua presenza alcuni: Oh, disse, questa non parla per me. Quella sua chioma minaccia il re de' Parti che porta la capigliatura. Quanto a me son calvo. E perciocchè, non ostante l'infermità sua egli seguitava ad operar come prima, attendendo agli affari dell'imperio, e dando udienza ai deputati delle città (del che era ripreso dai familiari) rispose: Un imperadore ha da morire stando in piedi. Morì egli in fatti, conservando sempre il medesimo coraggio, nel dì 23 o 24 di giugno, in età di settant'anni, e non già per male di podagra, come alcuni pensarono: molto meno per veleno, che taluno falsamente [Dio, lib. 66.], e fra gli altri Adriano imperadore, disse a lui dato in un convito da Tito suo figliuolo, principe, in cui non potè mai cadere un sì nero sospetto. Si fecero poscia i suoi funerali colla pompa consueta, e gli fu dato il titolo di Divo. Da Svetonio [Sueton., in Vespasiano, cap. 19.] si raccoglie che a tali esequie intervenivano anche i mimi, o sia i buffoni, ballando, atteggiando ed imitando i gesti, la figura e il parlare del defunto imperadore. Il capo de' mimi, che in questa occasione rappresentava la persona di Vespasiano, probabilmente colla maschera simile al di lui volto, volendo esprimere l'avarizia a lui attribuita, dimandò ai ministri dell'erario, quanto costava quel funerale. Dissero: Ducento cinquantamila scudi. Ed egli [318] Datemene solo dugento cinquanta, e gittatemi nel fiume. Gran disavventura si credeva allora il restar senza sepoltura: ma per un poco di guadagno, secondo costui, si sarebbe contentato Vespasiano di restarne privo.
Era già suo collega nell'imperio, cioè nel comando dell'armi, e nella tribunizia podestà, Tito Flavio Sabino Vespasiano Cesare, suo primogenito; e però bisogno non ebbe di maneggi per acquistare una dignità, di cui egli già buona parte godeva, e di cui anche il padre l'avea dichiarato erede nel suo testamento. Prese bensì il titolo d'Augusto, indicante la suprema potestà, e quella di Pontefice Massimo; e dal senato gli fu conferito il glorioso nome di Padre della Patria, come apparisce dalle sue medaglie. Per testimonianza di Svetonio [Sveton., in Tito, cap. 1.], egli era nato in Roma nell'anno 41 dell'epoca nostra, in cui Caligola imperadore fu ucciso. Siccome suo padre in quei tempi si trovava in molto bassa fortuna, così Tito nacque vicino al Settizionio vecchio entro una brutta casuccia in camera stretta e scura, che si mostrava anche ai tempi del suddetto Svetonio, per una rarità. Fanciullo fu messo alla corte, probabilmente per paggio, al servigio di Britannico, figliuolo di Claudio imperatore, e con esso lui allevato, studiando seco e sotto i medesimi maestri, le lettere e le arti cavalleresche. Tanta era la famigliarità d'esso lui con Britannico, che in occasion del veleno dato a quell'infelice principe, ne toccò anche a lui non poco, per cui soffrì una grave malattia. Divenuto poi imperadore, mostrò la sua riconoscenza ad esso Britannico, con fargli ergere due statue, l'una dorata, e l'altra equestre d'avorio. Giovanetto di alta statura, di gran robustezza, di volto avvenente ed insieme maestoso, con facilità imparò l'arti della guerra e della pace, peritissimo soprattutto in maneggiar armi e cavalli. Egregiamente parlava il latino e il greco linguaggio, sapea far [319] delle belle orazioni, sapea di musica, e tal possesso avea in far versi, che anche fra gl'improvvisatori facea bella figura. L'imitare gli altrui caratteri gli era facilissimo, e scherzando dicea: Ch'egli avrebbe potuto essere un gran falsario. Fece dipoi col padre varie campagne nelle guerre della Germania, e Bretagna, e poscia nella Giudea, siccome di sopra fu detto, lasciando segni di prudenza e di valore in ogni occasione, e comperandosi dappertutto l'affetto delle milizie. Mirabile specialmente era in lui l'arte di farsi amare, parte a lui venuta dalla natura, e parte acquistata colla saggia sua accortezza, perchè in lui si trovava unita un'aria dolce e una rara bontà verso tutti, con affabilità popolare ed insieme con gravità, che guadagnava i cuori, e nello stesso tempo esigeva il rispetto di ognuno. Ebbe per prima sua moglie Arricidia Tertulla, figliuola d'un prefetto del pretorio. Morta questa, sposò Marcia Furnilla di nobilissimo casato, ma dopo averne avuto una figliuola, nomata Giulia Sabina, di cui parleremo a suo luogo, la ripudiò. In tale stato era Tito, allorchè succedette al padre Augusto nel governo della repubblica romana, ma non senza difetti, la menzion de' quali io riserbo all'anno seguente. Nel presente si crede [Plinius Junior, lib. 6, epist. 16 e 20.] che avvenisse la morte di Plinio il vecchio, celebre scrittore di questi tempi, intorno alla cui patria hanno disputato Verona e Como. Nel primo dì di novembre cominciò spaventosamente il monte Vesuvio a fumare [Dio, lib. 66.], a gittar fiamme, pietre e ceneri, che empievano tutti i luoghi circonvicini. Plinio seniore, che si trovava allora a Miseno, comandante di quella flotta, portato dal suo incessante studio delle cose naturali, sopra una galea si fece condurre sino a Castell'-a-mare di Stabia, per essere più vicino a contemplare il terribile sfogo di quel monte; ed ancorchè vedesse le genti scappare dalla parte del mare, per [320] non esser colte dal torrente del fuoco, o dai sassi, pure si fermò quivi la notte. Allorchè volle anch'egli fuggire, non gli fu permesso dal mare, ch'era in fortuna. Sicchè soffocato dall'odore dello zolfo, e dall'aria ingrossata da quelle esalazioni, lasciò ivi la vita. Plinio secondo, il giovane, comasco, suo nipote, e da lui adottato per figliuolo, uomo non men dello zio dotato di meraviglioso ingegno, che soggiornava allora a Miseno, corse anch'egli pericolo della vita in quel brutto frangente, ma ebbe tempo da ridursi in salvo.
Anno di | Cristo LXXX. Indizione XIII. |
Cleto papa 4. | |
Tito Flavio imperadore 2. |
Consoli
Tito Flavio Augusto per l'ottava volta, e Domiziano Cesare per la settima.
Con tutte le belle e plausibili prerogative, colle quali Tito arrivò al trono imperiale, non si vuol dissimulare ciò che scrive di lui Svetonio [Sueton., in Tacito, cap. 7.], cioè aver egli somministrata occasione a molti del popolo romano di credere ch'egli nel governo avesse da riuscire un cattivo principe, anzi un altro Nerone. Si perdeva egli talvolta nelle gozzoviglie coi suoi amici dal buon tempo, stando a tavola sino a mezza notte: dal che si guardavano allora i saggi Romani. Recava loro pena il parere, ch'egli fosse immerso nella libidine anche più abbominevole, stante le qualità delle persone della sua corte, e l'esser egli stato sì sconciamente invaghito della regina Berenice. Temevasi inoltre di trovare in lui un principe, a cui più del dovere piacesse la roba altrui, sapendosi che prendeva regali anche nell'amministrazion della giustizia. Ma dopo la morte del padre cessarono tutti questi sospetti. Tito con istupore e piacer d'ognuno comparve tutt'altro, scoprendosi esente [321] da ogni vizio, e solamente fornito di eccellenti virtù, di maniera che si convertirono in lode sua tutt'i conceputi timori di lui. Licenziò tosto dalla sua corte qualunque persona che dar potesse scandalo, ed elesse amici di gran senno e proprietà, tali che anche i susseguenti principi se ne servirono, come di strumenti utili o necessari al buon governo. Tornò a Roma la regina Berenice, figurandosi, che potendo ora Tito far tutto, molto anch'ella potrebbe sopra di lui. Se ne sbrigò egli e rimandolla alle sue contrade. I conviti, ai quali invitava or l'uno or l'altro de' senatori e de' nobili, erano allegri, ma senza profusione od eccesso. Più non si osservò in lui ruggine d'avarizia; mai non tolse ad alcuno il suo e neppur ammetteva i regali soliti a darsi dalle provincie, città ed università agli Augusti. Eppur niuno d'essi imperadori gli andò innanzi nella munificenza e magnificenza. Imperciocchè in quest'anno egli dedicò l'anfiteatro [Sueton., in Tacit., cap. 8.], appellato oggi il Colosseo, stupenda mole, incominciata, per quanto si crede, da Vespasiano suo padre, e da lui perfezionata. Nulla più fa intendere qual fosse la potenza e splendidezza degli antichi Augusti, quanto i pezzi che restano tuttavia di quel superbo edifizio. Fabbricò eziandio le Terme, o sia i bagni pubblici, presso al medesimo anfiteatro, le cui vestigia pur ora si mirano circa la chiesa di san Pietro in Vincula, per attestato del Nardino, del Donato e d'altri. Ed allorchè si fece la dedicazion di tali fabbriche, cioè quando si misero all'uso pubblico, Tito solennizzò la funzione con maravigliosi e magnifici spettacoli, descritti da Dione [Dio, lib. 66.]. Si fecero combattimenti navali, giuochi di gladiatori, caccie di fiere, cinquemila delle quali furono uccise nell'anfiteatro in un sol dì, e quattro altre migliaia ne' susseguenti giorni. Nè vi mancarono i giuochi circensi, e una gran profusione di doni al [322] popolo. Durarono cento dì così allegre e dispendiose feste.
L'incendio del Vesuvio, di sopra da me accennato, che fu de' più terribili che mai si sieno provati, avea portata la rovina o notabili danni alle città e terre della Campania. Tito inviò colà due senatori, già stati consoli con buone somme di danaro, acciocchè si rimettessero in piedi le fabbriche. Per tali spese assegnò ancora i beni di tutti coloro che erano morti senza eredi, benchè, secondo le leggi, que' beni appartenessero al suo fisco. Ed egli stesso colà si portò, non tanto per mirar la desolazion de' luoghi, quanto per affrettarne il sollievo. Ma a questa disgrazia ne tenne dietro un'altra non meno spaventosa e lagrimevole. Attaccatosi il fuoco in Roma, vi consumò il Campidoglio, il tempio di Giove Capitolino, il Pantheon, i templi di Serapide e d'Iside, siccome quel di Nettuno ed altri; il teatro di Balbo e di Pompeo, il palazzo d'Augusto colla biblioteca, e molti altri pubblici edifizii. Sì ampia fu la strage delle fabbriche, che fu creduto quell'incendio non operazion degli uomini, ma gastigo mandato da Dio. Se ne afflisse sommamente Tito, protestando nondimeno, che a lui come principe apparteneva il risarcimento di tante fabbriche del pubblico. In fatti a questo fine alienò tutt'i più preziosi mobili de' suoi palazzi; e quantunque molti particolari, e varie città, e alcuni dei re sudditi, gli offrissero o promettessero di molto danaro per quel bisogno, non volle che alcuno si scomodasse, riserbando tutte quelle spese alla propria borsa. Dopo sì fiero incendio succedette in Roma una atrocissima peste, di cui parlano Svetonio e Dione, e che, secondo [Aurelius Victor, in Breviar.] Aurelio Vittore, fu delle più micidiali che mai si provassero in quella città, e se ne diede la colpa alle esalazioni del Vesuvio. Dubito io, questa essere la medesima, che di sopra all'anno 77 fu riferita da Eusebio, e però collocata fuor di sito, cioè [323] sotto l'imperio di Vespasiano. La fece Tito da padre in sì funeste circostanze, consolando il popolo con frequenti editti, ed aiutandolo in quante maniere gli fu mai possibile. Certo inesplicabile fu l'amore ch'egli portava ad ognuno, e la bontà sua e la premura di far del bene a tutti. Era lecito ad ognuno l'andare all'udienza sua, ed ognuno ne riportava o consolazione o speranza. E perchè i suoi dimestici non approvavano ch'egli promettesse sempre perchè non sempre poi poteva mantener la parola: rispondeva, non doversi permettere che alcuno mai si parta malcontento dall'udienza del principe suo. Tanta era in somma l'inclinazione sua a far dei benefizii, che sovvenendogli una notte, mentre cenava, di non averne fatto veruno in quel dì, sospirando disse quelle sì celebri e decantate parole [Sueton., Dio, Eutropius, Eusebius.]: Amici io ho perduta questa giornata. Giunse a tanto questa benignità e amorevolezza, che nel poco tempo ch'egli regnò, a niuno per impulso o per ordine suo tolta fu la vita.
Diceva di amar piuttosto di perir egli, che di far perire altrui. In effetto, ancorchè si venisse a sapere che due de' principali romani faceano brighe e congiure per arrivar all'imperio, e ne fossero essi anche convinti, pure non altro egli fece, se non esortarli a desistere, dicendo che il principato vien da Dio, nè si acquista colle scelleraggini; e che se desideravano qualche bene da lui, prometteva di farlo [Suetonius, in Tito, cap. 9. Dio, lib. 66.]. Dopo di che, per timore che la madre d'uno di questi senatori si trovasse in grandi affanni, le spedì dei corrieri, acciocchè l'assicurassero che suo figliuolo era salvo. Inoltre la notte stessa tenne seco a cena questi due personaggi, e nel dì seguente li volle [324] allo spettacolo de' gladiatori a' suoi fianchi. Allora fu che portate a lui le spade di que' combattenti, com'era il costume, le diede in mano ad amendue, acciocchè osservassero s'erano taglienti, per far loro tacitamente conoscere, che più non dubitava della loro fedeltà. Ma ciò che sopra ogni altra cosa gli conciliò l'amore d'ognuno, fu l'aver egli levato via l'insoffribile abuso introdotto sotto i precedenti cattivi imperadori; cioè che a qualsivoglia persona era permesso l'accusare altrui d'avere sparlato del principe, o d'avergli mancato di rispetto: il che era delitto di lesa maestà. Una licenza sì fatta teneva tutti sempre in una apprensione e schiavitù incredibile. Tito ordinò ai magistrati, che non ammettessero più sì fatte accuse, ed egli stesso perseguitò vivamente la mala razza di cotali accusatori, facendoli battere o mettere in ischiavitù, o pure esiliandoli. Soleva perciò dire: Non credo che mi si possa fare ingiuria, perchè non opero cosa, di cui con giustizia io possa essere biasimato. Che se pur taluno ingiustamente mi biasima, egli fa ingiuria più a sè, che a me: ed io in vece d'adirarmi contro di lui, ho d'aver compassione della sua cecità. E se talun dice male dei miei predecessori con ingiustizia, quando sia vero che questi abbiano il potere che loro s'attribuisce nell'averli deificati, sapran ben essi vendicarsene senza di me. Fece parimenti questo buon principe circa questi tempi selciar di nuovo la via Flaminia, che da Roma conduceva a Rimini. Ed Agricola [Tacitus, in Vita Agricolae, c. 22.] continuando la guerra in Bretagna, stese i contini romani sin verso la Scozia, fondando ivi castelli e fortezze, per mettervi delle guarnigioni.
Anno di | Cristo LXXXI. Indizione IX. |
Cleto papa 5. | |
Domiziano imperadore 1. |
Consoli
Lucio Flavio Silva Nonio Basso e Asinio Pollione Verrucoso.
Tali furono i nomi de' consoli di quest'anno, come apparisce dall'iscrizione rapportata da monsignor Bianchini, e da me [Thesaurus Novus Inscript., pag. 312 et pag. 318.]. Ma in un'altra iscrizione da me data alla luce, il primo console è appellato Lucio Flavio Silvano. Di lagrime e sospiri abbondò Roma in questo anno. Un ottimo principe oramai la governava, che amava tutti come figliuoli, comunemente ancora amato da ognuno, e che perciò avea conseguito un titolo, non prima nè poi dato ad alcun altro de' romani imperadori, cioè era chiamato [Suet., in Tito, cap. 10.] la delizia del genere umano. O sia ch'egli non si sentisse ben di salute, o che qualche cattivo presagio gli facesse apprendere vicina la morte; perciocchè non si può dire, quanto i Romani d'allora fossero superstiziosi, e dai vari accidenti vanamente deducessero i buoni o tristi successi dell'avvenire, o pur badassero agli strologhi: fuor di dubbio è, che Tito Augusto nulla operò in quest'anno di singolare. Si fecero degli spettacoli, e vi assistè; ma nel fin d'essi fu veduto piagnere. Comparve ancora in quest'anno nell'Asia un furbo appellato Terenzio Massimo, che si facea credere Nerone Augusto [Zonara, in Chr.], già morto, e fu ben accolto da Artabano re de' Parti. Anzi parea, che quel barbaro re si preparasse per muovere guerra a Tito, con pretendere di rimettere sul trono un sì fatto impostore. Se Tito se ne mettesse pensiero, non è a noi noto. Volle egli, venuta la state, portarsi alla casa paterna nel territorio di Rieti, e melanconico più [326] del solito uscì di Roma, perchè nel voler sagrificare, era fuggita la vittima di mano al sacerdote; ed essendo tempo sereno, s'è sentito il tuono. Alloggiato la sera in non so qual luogo, gli venne la febbre. Posto in lettiga, continuò il viaggio, e come già fosse certo che quell'era la ultima sua malattia, fu veduto tirar le cortine, e mirare il cielo, e dolersi, perchè in età sì immatura egli avesse da perdere la vita; giacchè egli non sapea di aver commessa azione alcuna, di cui si avesse a pentire, fuorchè una sola. Qual fosse questa, non si potè mai sapere di certo, quantunque molte dicerie ne fossero fatte. Dione [Dio, lib. 66.] con più fondamento riferisce ciò al tempo in cui vide disperata la sua salute. Arrivato alla villa paterna, dove il padre avea terminata la sua vita, anch'egli, crescendo il male, vi trovò la morte. Siccome in casi tali avviene, ognun disse la sua. Per quanto scrive Plutarco [Plutar., de Sanit.], i suoi medici attribuirono la cagion di sua morte ai bagni, a' quali s'era talmente avvezzato che non potea prendere cibo la mattina, se prima non s'era portato al bagno. Forse l'acque fredde della Sabina gli nocquero. Anche un certo Regolo, che con esso lui si bagnò nello stesso giorno, fu sorpreso da un colpo di apoplessia, per cui morì. Altri pretesero [Aurelius, in Breviar.], che Domiziano suo fratello il levasse dal mondo col veleno, perchè più volte anche prima gli avea insidiata la vita; ed altri [Dio, lib. 66.], che veramente egli mancasse di malattia naturale. Aggiugne Dione, che Domiziano, allorchè Tito era malato, e potea forse riaversi, il fece mettere in un cassone pieno di neve, non so, se col pretesto di rinfrescarlo, o di ottener quell'effetto, che oggidì alcuni medici pretendono, con dar acque agghiacciale nelle febbri acute, ma con vero disegno di farlo morire [327] più presto. Quel ch'è certo, non era per anche morto Tito, che Domiziano corse a Roma, guadagnò i soldati del pretorio, e si fece proclamar imperadore colla promessa di quel donativo, che Tito avea loro dato nella sua assunzione all'imperio.
Tale fu il fine di questo amabile imperadore, mancato di vita nel dì 13 di settembre [Sueton., in Tito, cap. 10.], e nell'anno quarantesimo dell'età sua, dopo avere per poco più di due anni e due mesi tenuto l'imperio. Credettero alcuni politici d'allora, che fosse vantaggioso per lui l'essere tolto di vita giovane, siccome fu ad Augusto, l'essere morto vecchio. Perciocchè Augusto, sul principio del suo governo, fu costretto per la moltitudine de' suoi nemici e delle frequenti sedizioni, a commettere non poche azioni crudeli e odiose; ed ebbe poi bisogno di gran tempo, se volle guadagnarsi il pubblico amore a forza di benefizii, per li quali morì glorioso. All'incontro meglio fu per Tito il mancar di buon'ora, cioè in tempo che egli già era in possesso dell'amore di ognuno, perchè correa pericolo se fosse più lungamente vissuto, d'essere astretto a far cose che gliel facessero perdere. Volata a Roma la nuova di sua morte, fu per sì gran perdita inesplicabile il dolore di quel popolo, parendo ad ognuno di aver perduto un figliuolo o pure il padre. Altrettanto avvenne per le provincie romane. I senatori, senz'essere chiamati dai consoli o dal pretore, corsero alla curia, ed aperte le porte, diedero più lodi a lui morto, di quel che avessero fatto a lui vivo. Portato a Roma il suo cadavere, fecegli fare Domiziano il funerale, e registrarlo nel catalogo degli dii, ma senz'alcun altro degli onori, che Roma gentile soleva accordare agli altri imperadori, come giuochi annuali, templi e sacerdoti per eternare la loro memoria. Finquì Flavio Domiziano altro titolo non avea goduto, che quello di Cesare [Patin., Vaillant, Mediobarb. et alii.], [328] e di Principe della gioventù. Appena prese le redini del governo, che, siccome persona gonfia di vanità ed ambizione, volle dal senato tutt'i titoli ed onori, che altri imperadori partitamente aveano ricevuto, cioè quelli d'Imperadore, d'Augusto, di Pontefice Massimo, di Censore e di ornato della tribunizia podestà. Le medaglie ancora ci assicurano, che non tardò punto a voler anche il bel nome di Padre della Patria. Qual fosse il merito suo, quali i suoi pregi, lo vedremo all'anno seguente. Egli era nato nell'anno cinquantesimo dell'Era nostra; e però cominciò il suo reggimento in età giovanile; e diede il titolo d'Augusta a Domizia sua moglie.
Anno di | Cristo LXXXII. Indizione X. |
Cleto papa 6. | |
Domiziano imperadore 2. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per l'ottava volta, e Tito Flavio Sabino.
Era questo Sabino console, cugino carnale di Domiziano, perchè figliuolo di Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, e prefetto di Roma, da noi veduto ucciso negli ultimi giorni di Vitellio Augusto. Avea già dato principio Domiziano imperadore al suo governo, non diversamente da alcuni suoi predecessori, buoni sulle prime, e nel progresso del tempo d'ogni crudeltà e scelleraggine macchiati [Sueton., in Domitiano, cap. 8.]. Salito sul tribunale, posto in piazza, bene spesso ascoltava e decideva giudiciosamente e giustamente le liti. Cassò molte sentenze date dai giudici con indebita parzialità, dichiarando infami quei d'essi che si scoprivano aver preso danaro per vendere la giustizia [Aurelius Victor, in Epitome.]. Tanta attenzione ebb'egli anche nel resto dei suoi anni all'amministrazione di essa giustizia, non solo in Roma, ma anche nelle provincie, che, per attestato di [329] Svetonio, non si videro mai in tutto l'imperio romano i governatori e i magistrati sì modesti e giusti, come sotto di lui. E perchè questi dopo la sua morte lasciarono la briglia alla loro malnata avidità di far danaro, furono poi per la maggior parte condannati e puniti. Come censore perpetuo fece ancora alcune belle provvisioni. Volle nei teatri, distinti dalla plebe i sedili de' cavalieri. Abolì le pasquinate e i libelli famosi, pubblicati contro l'onore dei nobili dell'uno e dell'altro sesso, gastigandone gli autori, se venivano a scoprirsi. Cacciò dal senato Cecilio Rufino questore, perchè si dilettava di far il buffone e il ballerino. Alle pubbliche meretrici vietò l'uso della lettiga, e il poter conseguire eredità e legati. Levò dal ruolo dei giudici un cavaliere romano, perchè dopo avere accusata di adulterio e ripudiata la moglie, l'avea dipoi ripigliata. Secondo la legge statinia condannò alcuni de' senatori e cavalieri per la lor impudicizia. Nè il padre nè il fratello di lui aveano presa cura degli adulterii delle vergini vestali, le quali, come ognun sa, venivano obbligate a conservar la verginità. Rigorosamente volle egli, siccome Pontefice massimo, che si eseguisse contra di loro la pena capitale, prescritta dalle leggi; nè risparmiò i dovuti gastighi o d'esilio o di morte ai complici dei lor falli. Parve [Sueton., in Domitiano, cap. 9.] parimente ne' principii del suo governo, ch'egli abborrisse il levar la vita agli uomini, nè fosse punto avido della roba altrui. Anzi inclinava egli molto alla liberalità, e ne diede dei gran saggi verso tutti i suoi cortigiani, parenti ed amici, loro poscia severamente incaricando di guardarsi da ogni sordida azione per far danaro. Le eredità a lui lasciate da chi avea figliuoli, le ricusò. Molte terre decadute al fisco restituì ai padroni di esse. Decretò l'esilio a quegli accusatori che non provavano le lor denunzie ed accuse. Molto più aspramente trattò coloro che intentavano [330] processi calunniosi di contrabbandi in favore del fisco; imperocchè egli diceva: Chi non gastiga i falsi accusatori, anima essi ed altri a questo iniquo mestiere. Non fu minore la sua magnificenza nel rifare il Campidoglio: che fu mirabil cosa, perchè, secondo la testimonianza di Plutarco [Plutarc., in Vita Poplic.], nelle sole dorature egli v'impiegò dodicimila talenti: il che era un nulla rispetto alle spese fatte nell'adornare il proprio palazzo. Rifabbricò eziandio varj templi bruciati sotto Tito Augusto, mettendovi il suo nome, e non già quello de' primieri. Fece di pianta il tempio della famiglia Flavia, lo stadio per gli atleti, l'Odeo per le gare de' musici, e la Naumachia per gli combattimenti navali. Marziale, poeta di questi tempi, sfacciato adulatore di Domiziano, esalta alle stelle tutte queste sue fabbriche, ed ogni altra sua azione. Ora quanto s'è detto fin qui potrà far credere ai lettori, che Domiziano comparisse figliuolo ben degno di un Vespasiano, e fratello d'un Tito, principi che aveano restituito il suo splendore a Roma, e all'imperio romano. Ma noi non tarderemo a vederlo indegno lor figlio e fratello, e tiranno non signore di Roma. Prese egli in quest'anno il titolo d'imperadore per la terza volta, a cagione, per quanto si crede, di qualche vittoria riportata da Giulio Agricola nella Bretagna. Colà s'inoltrò cotanto quel valente capitano coll'armi romane, che arrivò sino ai confini dell'Irlanda [Tacitus, in vita Agricolae, cap. 24.].
Anno di | Cristo LXXXIII. Indizione XI. |
Anacleto papa 1. | |
Domiziano imperadore 3. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la nona volta, e Quinto Petillio Rufo per la seconda.
A Quinto Petilio fu sostituito nel consolato, per quanto si crede, Cajo [331] Valerio Messalino. In quest'anno la Storia ecclesiastica riferisce la morte di san Cleto papa, che col suo sangue illustrò la religione di Cristo. A lui succedette nella cattedra di s. Pietro, Anacleto. Durava tuttavia la guerra nella Bretagna. Giulio Agricola comandante dell'armi romano in quelle parti [Tacitus, cap. 25 et seq.], riportò un'insigne vittoria nella Scozia contra di quei popoli. Aveano i Romani trasportato in quelle grandi isole un reggimento di Tedeschi. Costoro non volendo più militare in quelle parti, fatta una congiura, uccisero il loro tribuno, i centurioni, ed alcuni soldati romani, ed imbarcatisi in tre brigantini si diedero alla fuga. Il piloto d'essi legni seppe far tanto, che ricondusse il suo all'armata romana. Gli altri due fecero il giro della Bretagna, e dopo una fiera fame patita, per cui mangiarono i più deboli, giacchè non poteano approdare ad alcun sito d'essa Bretagna, per essere considerati quai nemici, andarono poi a naufragar nelle coste della Germania bassa. Quivi dai corsari svevi e frisoni furono presi e venduti come schiavi. Perchè alcuni d'essi capitarono nelle terre del romano imperio, perciò allora solamente vennero a conoscere i Romani, che la Bretagna era un'isola e non già terra ferma, come per la poca pratica aveano fin allora molti creduto. Intanto Domiziano teneva allegro il popolo romano [Sueton., in Domitiano, c. 4.] con dei magnifici e dispendiosi spettacoli, non solamente nell'anfiteatro, ma anche nel circo, dove si videro corse di carrette, combattimenti a cavallo e a piedi, siccome ancora cacce di fiere, battaglie di gladiatori in tempo di notte a lume di fiaccole [Dio, lib. 67.], dando nel medesimo spettacolo cena, o almen vino al popolo spettatore. Vidersi ancora zuffe d'uomini, ed anche combattere con le fiere, o fra loro. Mirabili altresì furono i combattimenti navali, fatti nell'anfiteatro, [332] oppure in un lago, cavato a mano in vicinanza del Tevere. Probabilmente a vari anni son da attribuire sì fatti spettacoli, benchè da Svetonio e da me accennati tutti in un fiato.
Anno di | Cristo LXXXIV. Indizione XII. |
Anacleto papa 2. | |
Domiziano imperadore 4. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la decima volta e Sabino.
Non ho io dato alcun prenome e nome a questo Sabino console, perchè intorno a ciò nulla v'ha di certo. Da Giordano [Jord., de Reb. Getic., c. 13.], che altri sogliono chiamar Giornande, egli vien appellato Poppeo Sabino. Parve probabile al cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.], che il suo nome fosse Cajo Oppio Sabino. Ma in un'iscrizione riferita dal Cupero (non so di qual peso) a Domiziano per la decima volta console vien dato per collega Tito Aurelio Sabino. Noi bensì vedremo un console dell'anno seguente appellato Tito Aurelio. In tale incertezza ho io ritenuto solamente il di lui cognome, di cui non ci lasciano dubitare i fasti antichi. Quantunque non si sappia di certo l'anno in cui Domiziano andò alla guerra in Germania, pure, seguendo la traccia delle medaglie [Mediobarbus, Goltzius et alii.], reputo io più verisimile il parlarne nel presente. Erano confinanti i Romani coi Catti, popolo, per attestato di Tacito [Tacitus, de Morib. Germanorum, cap. 30.], il più prudente e meglio disciplinato che s'avesse la Germania, creduto oggidì quel d'Hassia e Turingia. Domiziano, siccome sommamente vano ed ambizioso di gloria, determinò di marciar egli in persona contra d'essi [Dio, lib. 67.], perchè aveano cacciato Cariomero re dei Cherusci dal suo dominio a cagion dell'amicizia ch'egli professava ai Romani. Andò [333] questo gran campione, assai persuaso che il suo solo nome avesse da sbigottire que' popoli; e forse fu allora, che, per quanto abbiam da Frontino [Frontin., in Stratagem., lib. 1, cap. 1.], egli mostrò di portarsi nelle Gallie, ad oggetto unicamente di fare il censo di quelle provincie. Ma giunto colà, all'improvviso passò coll'esercito il Reno, e a bandiere spiegate andò contro ai Catti. Se volessimo credere agli adulatori poeti, uno de' quali era allora Publio Stazio Papinio [Stat., in Sylv., l. 1, c 1.], egli domò la fierezza di quei barbari e mise in pace i vicini. Ma non si sa ch'egli desse loro battaglia alcuna; e probabilmente altro non fece che ridurli ad un trattato di pace, con rovinar intanto i popoli suoi sudditi di là dal Reno. Contuttociò, come s'egli avesse compiuta una segnalata impresa, sparse voce di vittorie riportate; e tutto gonfio del suo mirabil valore se ne tornò a Roma per goder del trionfo, che il senato sulla di lui parola gli accordò. Nelle medaglie di quest'anno si truova più volte coniato il tipo della vittoria, segno di questi pretesi vantaggi nella guerra germanica, per cui cominciò egli ad usare il titolo di Germanico, e si fece proclamar imperadore sino alla nona volta. Può nondimeno essere, che contribuissero alla gloria di Domiziano anche le prodezze di Giulio Agricola nella Bretagna; imperciocchè, per quanto si può conghietturare [Tac., in vita Agric., c. 38 et seq.], nell'anno presente quel saggio uffiziale sottopose al romano imperio le isole Orcadi, ed altri paesi in quelle parti. Di questi felici successi diede egli di mano in mano avviso a Domiziano. Qual ricompensa ne ricavasse, lo diremo all'anno seguente.
Anno di | Cristo LXXXV. Indizione XIII. |
Anacleto papa 3. | |
Domiziano imperadore 5. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per l'undecima volta, e Tito Aurelio Fulvo, o Fulvio.
Questo Tito Aurelio console per attestato di Capitolino [Julius Capitolinus, in Antonino Pio.], fu avolo paterno di Antonino Pio Augusto. Che solamente nell'anno presente Domiziano solennizzasse il suo trionfo per aver ridotti a dovere i popoli Catti, si può facilmente dedurlo dalle monete o medaglie d'allora [Mediobarb., in Numism. imperator.], nelle quali ancora con isfacciata adulazione si legge GERMANIA CAPTA, quasichè a questo bravo imperadore, il qual forse neppure fu a fronte de' nemici, riusciti fosse di conquistar l'intera Germania. Però da lì innanzi egli costumò di andare al senato in abito trionfale. Son di parere alcuni [Blanchinius ad Anastas.], ch'egli nello stesso tempo trionfasse dei Quadi, Daci, Geli e Sarmati. Ma, per quanto sembra indicare Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.], diverse furono quelle guerre, diversi i trionfi. Egli spontaneamente fece la prima spedizione contro ai Catti; e l'altre per necessità. Però ne parleremo andando innanzi. L'avviso delle vittorie riportate da Agricola fu ricevuto da Domiziano con singolare allegrezza in apparenza [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 39, et seq.]; perchè internamente gli rodeva il cuore, che vi fosse altra persona, che lui, creduta valorosa, e da invidioso riputava perdita sua le glorie altrui. Perciò, quantunque, per coprire lo scontento suo, gli facesse decretar dal senato gli ornamenti trionfali, una statua e gli altri onori, de' quali fosse capace una privata persona, dappoichè si riserbavano ai soli imperadori i trionfi: pure determinò di richiamarlo a Roma, indorando questa pillola, col far correr voce di volergli [335] conferire il governo riguardevole della Siria o sia della Soria, giacchè era mancato di vita Attilio Rufo, governatore di quella provincia. Fu detto ancora, che gliene inviasse la patente portata da un suo liberto, ma con ordine di consegnargliela solamente allorchè Agricola non fosse partito per anche dalla Bretagna; perchè dovea Domiziano temere, ch'egli non volesse muoversi, se prima non riceveva la sicurezza di qualche migliore impiego. Ma il liberto avendo trovato, che Agricola, dopo aver consegnata la provincia tutta in pace al suo successore, cioè a Sallustio Lucullo era già venuto nella Gallia, senza neppur lasciarsi vedere da lui, se ne ritornò a Roma, portando seco la non presentata patente. Entrò in Roma Agricola in tempo di notte, per ischivare lo strepito di molti suoi amici, che voleano uscire ad incontrarlo; e si portò a salutar Domiziano, da cui fu accolto con della freddezza. Da ciò intese egli ciò che potea sperare da un tale imperadore; e rimasto senza impiego, si diede poscia ad una vita ritirata e privata. Non mancò in corte chi animò Domiziano a fargli del male, accusando e calunniando un sì degno personaggio, prima ch'egli giugnesse a Roma; ma non avea per anche Domiziano dato luogo in suo cuore alla crudeltà, di cui parlerò a suo tempo; e la moderazione e prudenza d'Agricola ebbero tal fortuna, ch'egli giunse naturalmente alla morte, senza riceverla dalle mani altrui. Abbiamo da Tacito [Tacitus, in vita Agricolae.], che dopo l'arrivo di esso Agricola a Roma, gli eserciti romani nella Mesia, nella Dacia, nella Germania e nella Pannonia, o per la temerità, o per la codardia de' generali, furono sconfitti; e che vi rimasero o trucidati o presi moltissimi uffiziali di credito colle lor compagnie, di maniera che non solamente si perdè alquanto de' confini del romano imperio, ma si dubitò infine di perdere i luoghi forti, dove soleano star le milizie romane ai [336] quartieri d'inverno. Tali disavventure nondimeno si può credere che succedessero in vari anni; a noi resta luogo di distribuirle con sicurezza secondo i lor tempi, perchè son periti gli Annali antichi, e Svetonio e Dione, secondo il loro uso, contenti di riferir le azioni degli antichi Augusti, poca cura si presero della cronologia.
Anno di | Cristo LXXXVI. Indizione XIV. |
Anacleto papa 4. | |
Domiziano imperadore 6. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la dodicesima volta, e Servio Cornelio Dolabella Metiliano Pompeo Marcello.
Tutti questi cognomi ho io dato al secondo de' consoli, seguendo un'iscrizione da me [Thesaur. Novus Inscript., pag. 113, n. 2.] pubblicata, e creduta spettante al medesimo personaggio. Abbiamo da Giulio Capitolino [Capitolinus, in vita Antonini Pii.], che in quest'anno venne alla luce Antonino Pio, il quale vedremo andando innanzi imperadore. E in questi tempi ancora, siccome scrive Censorino [Censorinus, de Die Natali, cap. 18.], Domiziano istituì in Roma i Giuochi Capitolini, i quali continuarono di poi a celebrarsi ad ogni quarto anno, a guisa dei giuochi olimpici della Grecia. Si solennizzavano in onore di Giove Capitolino. Per testimonianza di Svetonio [Suetonius, in Domitiano, cap. 4.], in que' giuochi varie erano le gare e contese dei professori dell'arti. Chi più degli altri piaceva nel suo mestiere, ne riportava in premio una corona. Faceano un giorno le lor forze gli atleti; un altro dì i cantori e sonatori; un altro gl'istrioni o commedianti. V'era anche il giorno destinato per li poeti; e il suo per chi recitava prose in greco o latino. Stazio Papinio poeta [Statius, in Sylv.] recitò allora al popolo una [337] parte della sua Tebaide, che non piacque; e in confronto di lui furono coronati altri poeti. Vi si videro ancora non senza dispiacer de' buoni, fanciulle pubblicamente gareggiare nel corso. Come pontefice massimo presiedeva a questi giuochi Domiziano, vestito alla greca, portando in capo una corona d'oro, perchè i sacerdoti costumavano nelle lor funzioni di andar coronati. Abbiamo da Dione [Dio, lib. 67.] e da Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 4.] che Domiziano, oltre al suddetto spettacolo ed altri straordinari, usò ogni anno di fare i giuochi quinquatri in onor di Minerva, mentre villeggiava in Albano. In essi ancora si miravano cacce di fiere, divertimenti teatrali, e gare d'oratori e di poeti. Non contento Domiziano di profondere immense somme di danaro in tali spettacoli, tre volte in vari tempi diede al popolo romano un congiario, cioè un regalo di trecento nummi per testa. Così nella festa dei Sette monti, mentre si facea uno spettacolo, diede una lauta merenda a tutto il popolo spettatore, in maniera pulita di tavole apparecchiate ai senatori e cavalieri, e alla plebe in certe sportelle. Nel giorno seguente sparse sopra il medesimo popolo una quantità prodigiosa di tessere, cioè di tavolette, nelle quali era un segno di qualche dono, come di uccelli, carne, grano, ec., che si andava poi a prendere alla dispensa del principe. E perchè erano quasi tutte cadute ne' gradini del teatro o anfiteatro, dove sedea la plebe, ne fece gittar cinquanta sopra cadaun ordine de' sedili de' senatori e cavalieri. Certo è che gl'imperadori, per guadagnarsi l'affetto del popolo, coll'esempio d'Augusto, il ricreavano di quando in quando colla varietà de' giuochi pubblici, e più lo rallegravano con dei regali. Ma in fine queste esorbitanti spese di Domiziano tornarono, siccome dirò, in danno dello stesso pubblico, perchè l'erario si votava con sì fieri salassi, e per [338] ristorarlo egli si diede poi alle crudeltà e alle oppressioni de' cittadini.
Anno di | Cristo LXXXVII. Indizione XV. |
Anacleto papa 5. | |
Domiziano imperadore 7. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la tredicesima volta, e Aulo Volusio Saturnino.
Benchè Eusebio nella sua Cronica [Euseb., in Chron.] non rechi un filo sicuro per la cronologia di questi tempi, pure si può ben credergli, allorchè scrive che nell'anno presente cominciò Domiziano a gustare che la gente gli desse il titolo di Signore e fin quello di Dio: empietà non perdonabile a mortale alcuno. Secondo il suddetto istorico, assistito dall'autorità di Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 13.], non solamente egli si compiacque, ma comandò ancora d'essere così nominato: il che, dice Eusebio, non venne in mente ad alcun precedente imperatore. Noi abbiam veduto, avere Augusto veramente vietato con pubblico editto d'essere chiamato Signore; ma anch'egli permise bene e gradì che in sua vita gli fossero eretti dei templi e costituiti dei sacerdoti ad onore della sua pretesa divinità. Per attestato ancora di Vittore [Aurelius Victor, in Epitome.], Caligola forsennato Augusto volle essere chiamato Signore e Dio. Di tutto era vie più capace la smoderata ambizione o frenesia di Domiziano; e pronta ad ubbidire era l'adulazione e la superstiziosa stoltezza dei Pagani. Però fondatamente hanno creduto alcuni, che l'aver Domiziano perseguitati i Cristiani, avesse origine di qui; perchè certo i seguaci di Gesù Cristo, professando la credenza di un solo Dio invisibile ed immortale, non poteano mai indursi a riconoscere per dio un imperadore, vile e miserabil creatura in [339] confronto del Creatore. Abbiamo dallo stesso Eusebio, che in questi tempi i popoli Nasamoni e Daci, avendo guerra coi Romani, furono vinti. Quanto ai Daci non ci somministra l'antica storia assai lume per essere il tempo vero in cui ebbe principio la guerra con essi, e quanto durò, e quando finì. Tuttavia potrebbe darsi che a questi tempi appartenesse il primo movimento di quella guerra, che continuò molto dipoi, e riuscì ben pericolosa e funesta ai Romani. Credesi che l'antica Dacia comprendesse quel paese che oggidì è diviso nella Transilvania, Moldavia e Valachia. Erano popoli fieri e bellicosi quei di quelle contrade, perchè credeano la morte fine della presente vita, e principio di un'altra, secondo l'opinion di Pitagora, che spacciò la trasmigrazion delle anime. Con tal persuasione sprezzavano ogni pericolo, e si esponevano alla morte, sperando di risorgere con miglior mercato in altri corpi. Alcuni Greci [Dio, lib. 67.] diedero ai Daci il nome di Geti e Goti; e veramente si truovano confusi presso gli antichi scrittori i nomi delle barbare nazioni. Quel che è certo, capitano di essi Daci era allora Decebalo, uomo di rara maestria ed accortezza nel mestier della guerra. E questi, se crediamo a Giordano [Jordan., de Rebus Geticis, cap. 12.] scrittore de' tempi di Giustiniano Augusto, mossi dall'avarizia di Domiziano, rotta l'alleanza che aveano con Roma, passarono il Danubio, e cacciarono da quelle ripe i presidii romani [Sueton., in Domitiano, cap. 6.]. Appio Sabino, che il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] crede più tosto appellato Cajo Oppio Sabino, personaggio stato già console, e governatore allora probabilmente della Mesia, marciò colle sue forze contra di que' Barbari, ma ne rimase sconfitto, ed egli ebbe tagliata la testa [Eutrop., Histor.]. A questa vittoria tenne dietro il saccheggio del paese, e la presa di molti villaggi e [340] castella. Giunte a Roma queste dolorose nuove, si vide Domiziano in certa guisa necessitato ad accorrere colà per fermare questo rovinoso torrente. In qual anno egli la prima volta v'andasse (perchè due volte v'andò) non si può decidere. Sarà permesso a me di riserbarne a parlar nell'anno susseguente. Dei Nasamoni, popoli dell'Africa di sopra nominati da Eusebio, noi sappiamo da Zonara [Zonara, in Annal.], che, a cagion delle eccessive imposte, si sollevarono contro ai Romani e diedero una rotta a Flacco governator della Numidia. Ma essendosi coloro perduti dietro a votar molti barili di vino, che trovarono nel campo dei vinti, Flacco fu loro addosso, e ne fece un gran macello. Domiziano, gloriandosi delle imprese altrui, nel senato espose d'aver annientati i Nasamoni.
Anno di | Cristo LXXXVIII. Indizione I. |
Anacleto papa 6. | |
Domiziano imperadore 8. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la quattordicesima volta, e Lucio Minucio Rufo.
Minicio e non Minucio è appellato questo console in una iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscription., p. 314, n. 1.] data alla luce. Nobil famiglia era anche la Minucia. Derisa fu l'avidità di Domiziano (l'avea preceduto coll'esempio Vespasiano suo padre) da Ausonio [Ausonius, in Panegyr.] e da altri, nel continuare per tanti anni il consolato nella sua persona, quasichè invidiasse agli altri un tale onore. Arrivò egli ad essere console diecisette volte: il che niuno de' suoi predecessori avea mai fatto, amando essi di veder compartita anche ad altri questa onorevolezza. Osservò nondimeno Svetonio [Sueton., in Domitian., cap. 13.], che Domiziano non esercitava poi la funzione di console, lasciandone il peso al [341] collega, o pure ai sostituiti. Bastava alla sua boria, che il suo nome comparisse negli atti pubblici, l'anno de' quali per lo più era segnato col nome de' consoli ordinari. Del resto egli constumava di deporre il consolato alla più lunga nelle calende di maggio; e i più d'essi rinunziò nel dì 13 di gennaio. Ma quali persone fossero a lui sostituite in quella dignità, e in qual anno, non si può ora accertare. Volle Domiziano, che si celebrassero nell'anno presente i giuochi secolari, ancorchè, secondo l'istituto di essi, si avessero a celebrare ad ogni cento anni [Censorinus, de Die Natal., cap. 17.], nè più che quarantun anni fosse, che Claudio Augusto gli avea fatti. La prima spedizion di Domiziano contro ai Daci, insuperbiti per la loro vittoria, forse accadde nell'anno presente. Andò egli in persona coll'esercito a quella volta. Racconta Pietro patrizio nel suo trattato delle ambascerie [Petrus Patric., de Legat. Hist. Byzant., T. 1.], che Decebalo veduto venire con sì grande apparato di gente un imperador romano contro sè, gl'inviò degli ambasciatori per trattar di pace. Se ne rise il superbo Domiziano, ed avendoli rimandati senza risposta, ordinò che le milizie imprendessero la guerra, con dare il comando di tutta l'armata a Cornelio Fosco, prefetto allora del pretorio. Decebalo assai informato del valore di questo generale, che avea studiata l'arte militare solamente fra le delizie della corte e in mezzo ai divertimenti di Roma, se ne fece beffe, e spedì altri deputati a Domiziano, offerendosi di terminar quella guerra, purchè i Romani di quelle contrade gli pagassero annualmente due oboli per testa; e ricusando essi tal condizione, minacciava loro lo sterminio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.]. Contuttociò Domiziano, ch'era un solennissimo poltrone, come se avesse pienamente assicurato l'imperio da quella parte, se ne tornò da bravo a Roma, senza apparire se prima che terminasse [342] il presente anno, o pur nel seguente. Per quanto scrivono Svetonio e Giordano [Jordan., de Reb. Geticis, cap. 13.], Fosco avendo passato il Danubio, fece guerra a' Daci, e probabilmente ebbe sopra di loro qualche vantaggio; ma in fine restò sconfitto e ucciso, forse nell'anno seguente. Circa questi tempi, per quanto s'ha da Eusebio [Eusebius, in Chron.], Marco Fabio Quintiliano, eccellente maestro di eloquenza, nato a Calaorra in Ispagna, venne a Roma salariato dal pubblico, per insegnar la oratoria. Ma probabilmente ciò avvenne sotto Vespasiano, il quale fondò quivi varie scuole, e vi chiamò degl'insigni maestri. Certo è intanto, che Quintiliano fiorì sotto i di lui figliuoli, e fu anche maestro dei nipoti di Domiziano.
Anno di | Cristo LXXXIX. Indizione II. |
Anacleto papa 7. | |
Domiziano imperadore 9. |
Consoli
Tito Aurelio Fulvo per la seconda volta, e Aulo Sempronio Atratino.
Siamo accertati da Giulio Capitolino [Capitol., in Antonino Pio.], che Vito Aurelio Fulvo o sia Fulvio, avolo paterno di Antonino Pio Augusto, fu due volte console. Giacchè Svetonio scrive che Domiziano volle un doppio trionfo dei Catti e dei Daci, non è improbabile ch'egli nell'anno presente affrettasse questo onore per far credere ai Romani, che felicemente passavano gli affari nella guerra della Dacia. Attesta il medesimo storico, ch'erano seguite alcune battaglie in quelle parti, e taluna verisimilmente vantaggiosa ai Romani, il che bastò all'ambizioso Augusto, per esigere l'onor del trionfo. Giacchè sopravvenne la sconfitta e la morte di Cornelio Fosco nella guerra che continuava nella Dacia, potrebbe attribuirsi all'anno presente la seconda spedizione del [343] medesimo Domiziano contro ai Daci, essendo noi accertati da Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 6.], che due volte egli andò in persona a quella guerra. Ma se non è possibile il ben dilucidare i tempi delle azioni di Domiziano, a noi bastar deve almeno la certezza delle medesime. Tornò dunque Domiziano alla guerra [Dio, lib. 67.], ma perchè facea più conto della pelle che dell'onore, nè gli piacea la fatica, ma sì bene il godersi tutti i comodi, siccome uomo poltrone, e perduto tra le femmine e in ogni sorta di disonestà: non osò giammai di lasciarsi vedere a fronte dei nemici. Fermatosi dunque in qualche città della Mesia, spedì i suoi generali contra di Decebalo. Seguirono vari combattimenti, ne' quali, per testimonianza di Dione, perì buona parte delle sue armate. Tuttavia, perchè la fortuna delle guerre è volubile, e i suoi riportarono talvolta de' vantaggi, e specialmente Giuliano diede una considerabil rotta a Decebalo: Domiziano di continuo, ed anche allorchè andavano poco bene gli affari, spediva l'un dietro all'altro i corrieri a Roma, per avvisare il senato delle sue felici vittorie. Pertanto, a cagione di questi creduti sì gloriosi successi, il senato gli decretò quanti onori mai seppe immaginare, e per tutto l'imperio romano gli furono alzate statue d'oro e d'argento, se pur non erano dorate ed inargentate. Con tutto il suo valor nondimeno Decebalo cominciò a sentirsi assai angustiato dalle forze de' Romani; e però inviò degli ambasciatori a Domiziano per ottener la pace. Non ne volle il poco saggio Augusto udir parola; ma in vece di maggiormente incalzare il vacillante nemico, venuto nella Pannonia, rivolse l'armi contro ai Quadi e Marcomanni, volendo gastigarli, perchè non gli aveano dato soccorso contra dei Daci. Due volte que' popoli gli fecero una deputazione, per placare il suo sdegno; non solo nulla ottennero, ma Domiziano [344] fece anche levar la vita ai secondi lor deputati. Si venne dipoi ad una battaglia, in cui dai Marcomanni, combattenti alla disperata, fu sconfitto l'esercito romano, ed obbligato l'imperadore alla fuga. Allora fu, che egli diede orecchio alle proposizioni di pace con Decebalo, il qual seppe ben profittare della debolezza, in cui, dopo tante perdite, si trovavano i Romani. Contentossi dunque egli di restituir molte armi e molti prigioni, e di ricever anche dalle mani di Domiziano il diadema del regno; ma si capitolò, che anche Domiziano pagasse a lui una gran somma di danaro, e di mandargli molti artefici in ogni sorta d'arti di guerra e di pace; e, quel che fu peggio, di pagargli in avvenire annualmente una certa quantità di danaro a titolo di regalo. Durò questa vergognosa contribuzione sino ai tempi di Trajano, il quale, siccome vedremo, avendo altra testa e cuore che Domiziano, insegnò ai Daci il rispetto dovuto all'aquile romane. Tutto boria Domiziano per questa pace, quasichè egli l'avesse fatta da vincitore, e non da vinto, scrisse al senato lettere piene di gloria, e fece in maniera ancora, che gli ambasciatori di Decebalo andassero a Roma con una lettera di sommessione, a lui scritta da Decebalo, se pur non fu finta, come molti sospettarono, dallo stesso Domiziano. Per altro Decebalo non fidandosi di lui, si guardò dal venire in persona a trovar Domiziano, e in sua vece mandò il fratello Diegis a ricevere da lui il diadema. Quanto durasse questa guerra sì perniciosa ai Romani, e quando cessasse, non abbiamo assai lume per determinarlo; ma v'è dell'apparenza, che si stabilisse la pace nell'anno presente, e che Domiziano se ne tornasse a Roma nel dicembre per prendere il consolato nell'anno seguente. Nè si dee tacere ciò che Plinio il giovane osservò, cioè che Domiziano [Plinius, in Panegyr.] andando a queste guerre, per [345] dovunque passava sulle terre dell'imperio, non pareva il principe ben venuto, ma un nemico ed un assassino: tante erano le gravezze che imponeva ai popoli, tante le rapine, gl'incendi, ed altri disordini che commettevano le sue milizie, braccia cattive di un più cattivo capo.
Anno di | Cristo XC. Indizione III. |
Anacleto papa 8. | |
Domiziano imperadore 10. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la quindicesima volta, e Marco Coccejo Nerva per la seconda.
Nerva console, quegli è che a suo tempo vedremo imperadore. Siccome il cardinal Noris ed altri mettono la seconda guerra dacica prima di quel ch'io abbia supposto, così credono che Domiziano celebrasse nell'anno 88, o pure nel precedente, il secondo suo trionfo dei Daci, e prendesse il titolo di Dacico. Eusebio [Euseb., in Chron.] lo differisce sino all'anno seguente. Io sto col padre Pagi [Pagius, in Critica Baron. ad hunc Ann.], che riferisce quel trionfo al presente anno. Su tal supposto adunque, fu in quest'anno, per attestato di Dione [Dio, lib. 67.], che Domiziano solennizzò in Roma le sue glorie con magnifiche feste e spettacoli. Si fecero nel Circo vari combattimenti a piedi e a cavallo, e in un lago fatto a posta una battaglia navale, in cui quasi tutti i combattenti restarono morti. Levossi inoltre durante quello spettacolo un fiero temporale con pioggia, che quasi ebbe ad affogare gli spettatori. Domiziano si fece dare il mantello di panno grosso, ma non volle che gli altri mutassero veste, nè che alcuno uscisse, di maniera che tutti inzuppati d'acqua, contrassero poi delle malattie, per cui molti morirono. A consolar poi il popolo per tal disgrazia, [346] trovò lo spediente di dargli una cena a lume di fiaccole; e per lo più fu suo costume di eseguire i pubblici divertimenti in tempo di notte. Ma specialmente fece egli comparire il suo fantastico cervello in un convito notturno, al quale invitò i principali dell'ordine senatorio ed equestre. Fece addobbar di nero tutte le stanze del palazzo, mura, pavimento e soffitte, con sedie nude. Invitati i commensali, cadaun vide collocata vicino a sè una specie d'arca sepolcrale, col suo nome scritto in essa, e con una lucerna pendente, come ne' sepolcri. Sopravvennero fanciulli tutti nudi e tinti di nero, ballando intorno ad essi, e portando vasi, simili agli usati nelle esequie dei morti. Cadauno de' convitati si tenne allora spedito, e tanto più perchè tacendo ognuno, il solo Domiziano d'altro non parlava che di morti e di stragi. Dopo sì gran paura furono in fine licenziati; ma appena giunti alla loro abitazione, ecco che parecchi di loro son richiamati alla corte. Oh allora sì che crebbe in essi lo spavento; ma in vece d'alcun danno, riceverono poi da Domiziano qualche dono in vasi d'argento, o in altri preziosi mobili. Tali furono i sollazzi bizzarri dati da Domiziano alla nobiltà in occasione del suo trionfo. Nondimeno il popolo comunemente dicea, che questo era non già un trionfo, ma un funerale de' Romani nella Dacia, ovvero in Roma estinti. Dopo questi trionfi la vanità di Domiziano, che studiava ogni dì qualche novità, volle che il mese di settembre da lì innanzi s'appellasse Germanico [Sueton., in Domitiano, cap 13. Plutarchus in Num.], e l'ottobre Domiziano, per non essere da meno di Giulio Cesare e di Augusto; e ciò perchè nel primo avea conseguito il principato, ed era nato nel secondo. Ma non durò più della sua vita questo suo decreto. Non si sa mai capire, come Eusebio [Euseb., in Chron.] scrivesse, che molte fabbriche furono terminate in Roma [347] nell'anno presente, o pure nell'antecedente, cioè Capitolium, Forum transitorium, Divorum Porticus, Isium ac Serapium, Stadium, Horrea piperataria, Vespasiani Templum, Minerva Chalcidica, Odeum, Forum Trajani, Thermae Trajanae et Titianae, Senatus, Ludus Matutinus, Mica aurea, Meta sudans et Pantheum. Non si pensasse alcuno, che tanti edifizii ricevessero il lor essere o compimento in quest'anno. Forse furono risarciti. Il Panteon era da gran tempo fatto; e, per tacere il resto, la piazza e le terme di Traiano non furono, siccome diremo, fabbricate, se non nei tempi del suo imperio, cioè da qui a qualche anno.
Anno di | Cristo XCI. Indizione IV. |
Anacleto papa 9. | |
Domiziano imperadore 11. |
Consoli
Marco Ulpio Trajano e Marco Acinio Glabrione.
Trajano, console in quest'anno, il medesimo è che fu poi imperadore glorioso. Il prenome dell'altro console Glabrione, secondo alcuni, fu non già Marco, ma Manio, siccome proprio della famiglia Acilia. Noi abbiamo da Dione [Dio, lib. 67.] esser avvenuti due prodigii, per l'uno de' quali fu presagito l'imperio a Trajano, e per l'altro la morte a Glabrione. Quali fossero, nol sappiamo, se non che per attestato del medesimo storico, Glabrione, benchè console, fu obbligato dal capriccioso ed iniquo Domiziano a combattere contra di un grosso lione, che fu bravamente da lui ucciso, senza restarne egli ferito. Questa azione, che dovea guadagnargli lode e stima presso di Domiziano, altro non fece che incitarlo ad invidia, ed anche ad odio, perchè non gli piaceano i nobili di raro valore. Però col tempo trovò de' pretesti per mandarlo in esilio, e poi imputandogli volesse [348] turbare lo stato (forse nell'anno 95) il fece ammazzare. All'anno presente vien riferita da Eusebio [Eusebius, in Chron.] la strepitosa morte di Cornelia, capo delle Vergini Vestali. Era ella stata accusata dianzi d'incontinenza e dichiarata innocente. Sotto Domiziano si risvegliò questa accusa; e Domiziano affettando la gloria di custode della religione, cioè della superstizione pagana, e volendo rimettere in uso le antiche leggi, la fece condannare e seppellir viva. Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 2.] dice, ch'ella fu convinta de' suoi falli; Plinio il giovane [Plinius, lib. 4, Ep. II.], ch'essa nè pur fu chiamata in giudizio, non che ascoltata, ed essere quella stata un'enorme crudeltà ed ingiustizia. Furono anche processati alcuni nobili romani, come complici del delitto, frustati sino a lasciar la vita sotto le battiture, benchè non confessassero l'apposto reato. E perchè Valerio Liciniano, già senatore e pretore, uno de' più eloquenti uomini del suo tempo, per avere nascosa in sua casa una donna della famiglia di Cornelia, fu accusato, altra maniera non ebbe, per sottrarsi a que' rigori, se non di confessare quanto gli fu suggerito sotto mano per ordine di Domiziano. Tuttavia fu egli cacciato in esilio, e i suoi beni assegnati al fisco. Questi poi sotto Trajano ritornato a Roma si guadagnò il vitto, con fare il maestro di rettorica. Così inorpellava Domiziano i suoi vizii, volendo comparire zelantissimo dell'onore de' suoi falsi dii. Narrasi ancora, che essendo morto uno dei suoi liberti, e seppellito, dappoichè Domiziano intese che costui si era fatto fabbricare il sepolcro con dei marmi presi dal tempio di Giove Capitolino, bruciato negli anni addietro, fece smantellar dai soldati quel sepolcro, e gittar in mare le ossa e le ceneri di colui; tanto si piccava egli di essere zelante dell'onore delle cose sacre.
Anno di | Cristo XCII. Indizione V. |
Anacleto papa 10. | |
Domiziano imperadore 12. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la sedicesima volta, e Quinto Volusio Saturnino.
S'è disputato, e tuttavia si disputa, in qual anno succedesse la ribellione di Lucio Antonio, e la breve guerra civile che in que' tempi avvenne. Alcuni [Pagius, in Crit. Baron.] la mettono nell'anno 88, altri nell'89, e il Calvisio [Calvisius, Tillemont et alii.] la differisce sino al presente anno. A me sembra più probabile l'ultima opinione, confrontando insieme quel poco che s'ha di questo fatto da Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae.], e da Svetonio [Sueton., in Domitiano, cap. 9.], e da Dione [Dio, lib. 67.], o sia da Sifilino; perchè da loro apparisce che dopo questa sollevazione Domiziano lasciò la briglia alla sua crudeltà, e ciò avvenne, siccome dirò, nell'anno seguente. Lucio Antonio, a cui Marziale [Martial., lib. 4, Epist. 9.] dà il cognome di Saturnino, era governatore dell'alta o sia superiore Germania. Perchè ben sapea, quanto per poco Domiziano perseguitasse le persone di merito, e che specialmente sparlava di lui con ingiuriosi nomi, mosse a ribellione le sue legioni, facendosi proclamare imperadore. Portata a Roma questa nuova, se ne conturbò ognuno per l'apprensione che ne succedesse una gran guerra, e si tornasse a provar tutti i malanni compagni delle guerre civili. Domiziano stesso, temendo che quest'incendio si potesse maggiormente dilatare, determinò di portarsi in persona contra di lui, ed avea già in ordine l'armata. Ciò che recava maggiore spavento, era il sapersi che Lucio Antonio s'era collegato coi Germani, e questi doveano rinforzarlo con un potente esercito. Ma che? Lucio [350] Massimo, che il Tillemont fondatamente congettura essere lo stesso che Lucio Appio Norbano Massimo, il qual forse governava allora la bassa Germania, o pure una parte della Gallia vicina, senza aspettare alcun de' soccorsi che gli promettea Domiziano, diede battaglia improvvisamente ad esso Lucio Antonio, prima che con lui si unissero i Tedeschi. Volle anche la buona fortuna, che mentre erano alle mani, crescesse così forte il Reno, che non poterono passare i Tedeschi. Rimase sconfitto ed ucciso Antonio, e la sua testa fu inviata a Roma in testimonianza della vittoria: il che risparmiò a Domiziano gl'incomodi di continuar quella spedizione. Plutarco [Plutarchus, in P. Æmil.] e Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 6.] narrano, che nel giorno stesso, in cui fu data quella battaglia, un'aquila posandosi in Roma sopra una statua di Domiziano, fece delle grida di allegria; e passando tal voce d'uno in altro, nel medesimo giorno si divulgò per tutta Roma, che Lucio Antonio era stato interamente disfatto: ed alcuni giunsero fino a dire di aver veduta la sua testa recisa dal busto. Prese tal piede questa diceria, che gran parte dei magistrati corsero a far de' sagrifizii in rendimento di grazie. Ma cominciandosi a cercare chi avea portata questa nuova, niuno si trovò, ed ognuno rimase confuso. Domiziano, che era in viaggio, ricevette dipoi i corrieri della vittoria, e si verificò essere la medesima succeduta nel giorno medesimo, in cui se ne sparse in Roma la falsa voce. All'anno presente attribuisce Eusebio [Euseb., in Chron.] l'editto di Domiziano contro le vigne [Sueton., in Domitiano, cap. 7.]. Trovatosi che v'era stata molta abbondanza di vino, poca di grano, s'immaginò Domiziano, che la troppa quantità delle viti cagion fosse che si trascurasse la coltura delle campagne. Ma Filostrato [Philostratus, in Vita Apollon., lib. 6.] [351] aggiugne, che non piaceva a Domiziano sì sterminata copia di vino, perchè l'ubbriachezza cagionava delle sedizioni. Ora egli vietò che in Italia non si potessero piantar viti nuove, e che nelle provincie se ne schiantasse la metà, anzi tutte nell'Asia, per quanto ne dice Filostrato. Ma non istette poi saldo in questo proposito, per essere venuto a Roma Scopeliano spedito da tutte le città dell'Asia, il quale non solamente ottenne che si coltivassero le vigne, ma ancora che si mettesse pena a chi non ne piantava. Forse ancora più di ogni altra riflessione servì a fare smontar Domiziano da questa pretensione, l'essersi sparsi de' biglietti [Aurelius Victor, in Epitome. Vopiscus, in Probo.], ne' quali era scritto, che facesse pur Domiziano quanto voleva, perchè vi resterebbe tanto di vino per fare il sagrifizio in cui sarebbe la vittima lo stesso imperadore.
Anno di | Cristo XCIII. Indizione VI. |
Anacleto papa 11. | |
Domiziano imperadore 13. |
Consoli
Pompeo Collega e Cornelio Prisco.
Credesi che a questi consoli fossero sostituiti prima del dì 15 di luglio, Marco Lollio Paolino e Valerio Asiatico Saturnino; e che all'un di essi succedesse nel consolato Cajo Antistio Giulio Quadrato; e il padre Stampa [Stampa, ad Fastos Consular. Sigonii.] ha sospettato che Cajo Antistio o sia Antio Giulio fosse personaggio diverso da Quadrato. Ma qui son delle tenebre, come in tanti altri siti de' Fasti consolari, trovandosi bensì de' consoli sostituiti e straordinari nelle antiche storie e lapidi nominati, ma senza certezza dell'anno in cui esercitarono quell'insigne uffizio. Poichè per altro quai fossero i due poco fa menzionati consoli, l'abbiamo da un marmo riferito dal Grutero [Gruter., Thesaur. Inscript., pag. 189.], [352] e compiutamente poi dato alle stampe dal canonico Gori [Gorius, Inscription. Etrusc., p. 69.], che fu posto M. LOLLIO PAVLLINO VALERIO ASIATICO SATVRNINO. C. ANTIO IVLIO QVADRATO COS. Se poi questi nell'anno presente fossero sostituiti ai consoli ordinari, io nol so dire. Nell'agosto di quest'anno in età di cinquantasei anni diede fine alla sua vita Gneo Giulio Agricola, suocero di Cornelio Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 44.], già stato console: le cui imprese militari nella Bretagna di sopra accennai. Tornato ch'egli fu di colà a Roma, arrivò l'anno in cui potea chiedere il proconsolato, o sia il governo dell'Asia o dell'Africa. Ma non si sentì egli voglia d'altri onori, perchè sotto un imperador cattivo troppo era pericoloso il servire. Poco prima avea Domiziano fatto levar di vita Civica Cereale proconsole dell'Asia per meri sospetti di ribellione. Questo esempio, e il sapere che l'imperadore non avea caro di conferir sì riguardevoli posti a persone di sperimentato valore, indussero Agricola a pregarlo che volesse esentarlo da quel pesante fardello. Era questo appunto ciò che desiderava Domiziano, e ben presto glie l'accordò; e permise, che Agricola il ringraziasse, come se gli avesse fatta una grazia. Seppe di poi vivere questo saggio uomo anche per qualche tempo, senza provar le persecuzioni del bisbetico Augusto, facendo conoscere che gli uomini grandi provveduti di prudenza possono stare anche sotto principi cattivi, e non fare naufragio. Dione [Dio, lib. 67.], ciò non ostante scrive che Domiziano l'uccise; ma Tacito, che più ne seppe di lui, e scrisse la sua vita, dice bensì esser corsa voce di veleno, nondimeno ne restò egli in dubbio.
Ma tempo è oramai di far vedere un principe appunto cattivo, anzi pessimo, nella persona di Domiziano; cosa da me riserbata a quest'anno, non già perchè [353] egli cominciasse solamente ora a riconoscersi tale, ma perchè il suo mal talento dopo la guerra civile di Lucio Antonio andò agli eccessi. Certamente a Domiziano non mancava ingegno ed intendimento: ma questa bella dote, se va unita con delle sregolate passioni, ad altro non serve d'ordinario, che a rendere più perniciosi e malefici i regnanti. Ora non si può assai esprimere quanta fosse la vanità, la prosunzione, e la sete di dominare in lui. Egli si credeva la maggior testa dell'universo, e ch'egli solo fosse degno di comandare: perciò fiero, superbo e sprezzator d'ognuno, astuto ed implacabile ne' suoi sdegni. Era sicuro dell'odio suo chiunque compariva eccellente in alcuna bella dote: che questo è lo stilo delle anime basse [Sueton., in Domitiano, cap. 1.]. Vivente il padre, e creato Cesare fece di mani e di piedi per non esser da meno del buon Tito suo fratello: ottenne vari uffizi, che esercitò con gran boria ed eccesso di autorità. E giacchè Vespasiano, ben conoscente del maligno suo naturale, il teneva basso, non avendo potuto conseguire se non un consolato ordinario, almeno si studiò sempre di essere sustituito come console straordinario al fratello. Morto Vespasiano, fu in dubbio se dovesse offerire ai soldati il doppio del donativo promosso loro da Tito, per tentar di levare a lui l'imperio. Andava spacciando che il padre l'avea lasciato collega del fratello nella signoria; ma che era stato suppresso il testamento. Vantavasi ancora d'aver egli alzato al trono non meno il padre che il fratello; e l'adulatore Marziale approvò questo suo folle sentimento. Vivente esso Tito, non fece egli mai fine a tendergli delle insidie, non solo segretamente, ma anche in palese. Tuttavia tanta era la bontà di Tito, che quantunque consigliato di liberar sè stesso e il pubblico da sì pericoloso arnese, mai non volle ridursi a questo passo, contentandosi solamente di fargli talvolta delle fraterne correzioni colle lagrime agli occhi, benchè [354] senza frutto. Forse quell'unica azione di cui Tito prima della sua immatura morte disse d'esser pentito, fu d'aver lasciato in vita questo fratello, ben conoscendo il gran male che ne avverrebbe alla repubblica. Divenuto poscia imperadore [Dio, lib. 67.] non lasciava occasione, anche in senato [Sueton., in Domitiano, cap. 1.], di sparlare copertamente ed ancora svelatamente del padre e del fratello, biasimando le loro azioni; e per cadere in disgrazia di lui, altro non occorreva che essere in grazia o dell'uno o dell'altro, o dir parole alla presenza di lui in lode di Tito. Per altro egli era un solennissimo poltrone: temeva i pericoli della guerra; abborriva le fatiche del governo [Aurelius Victor, in Epitome.]. Il suo divertimento principale consisteva in giocare ai dadi, anche ne' giorni destinati agli affari. Soleva eziandio ne' principii del suo governo starsene ritirato in certe ore del giorno: e la sua mirabil applicazione era in prendere mosche [Suet., in Domit., c. 3. Dio, l. 67. Aurel. Vict., in Epitome.], o ucciderle con uno stiletto. Celebre è intorno a ciò il motto di Vibio Crispo, uomo faceto. Dimandando taluno, chi fosse in camera con Domiziano, rispose Crispo: Nè pur una mosca. Ora non aspettò egli, siccome dissi, a comparire quel crudele che era, a questi tempi. Anche ne' precedenti anni diede varj saggi di questa sua fierezza per varie e ben frivole cagioni. Fra gli altri (non se ne sa l'anno) fece ammazzare Tito Flavio Sabino suo cugino, perchè avendolo disegnato console, secondo le apparenze, per la seconda volta, il banditore inavvertentemente in vece del nome di Console gli diede quello d'imperadore. Questo bastò per togliere a Sabino la vita. La stessa mala sorte toccò ad alcuni altri, o pure l'esilio: che questo era ne' primi suoi anni di più ordinario gastigo; ed Eusebio [Euseb., in Chron.] al di lui [355] quarto anno scrive essere stati esiliati da lui assaissimi senatori. Probabilmente ciò avvenne più tardi. Ora noi sappiamo da Suetonio [Sueton., in Domit., cap. 10.], che Domiziano prima di questi tempi avea levato dal mondo Salvio Coccejano, solamente perchè avea solennizzato il giorno natalizio di Ottone imperatore suo zio; Sallustio Lucullo, non per altro, che per aver dato il nome di lucullee ad alcune lance di nuova invenzione; Materno Sofista, cioè professor di rettorica, per aver fatta una declamazione contra de' tiranni; ed Elio Lamia Emiliano, per cagione di qualche motto piccante, detto fin quando esso Domiziano era persona privata. Moglie di questo Lamia fu Domizia Longina, figliuola di Corbulone. Gliela tolse Domiziano, e dopo averla tenuta per amica un tempo, la sposò, e diedele il titolo di Augusta. Ad accrescere la crudeltà di questo imperadore, s'aggiunse la smoderata credenza che si dava in questi tempi alle vane predizioni degli strologhi. Più degli altri loro prestava fede Domiziano, uomo timidissimo; e perchè fin da giovane gli avea predetto alcun d'essi che sarebbe un dì ucciso: perciò la diffidenza fu sua compagna finchè visse, e massimamente negli ultimi anni del suo imperio. Di qua venne la morte di vari principali signori dell'imperio; perchè egli si procacciava l'oroscopo di tutti, e trovandoli destinati a qualche cosa di grande, li faceva levare dal mondo. Metio Pomposiano, di cui parlammo all'anno 75, preservato sotto il buon Vespasiano, non la scappò sotto l'iniquo suo figliuolo. Perchè fu creduto che avesse una genitura, che vanamente gli pronosticava l'imperio, e perchè teneva in sua camera una carta geografica del mondo, e studiava le orazioni dei re e dei capitani, che son nelle storie di Livio, il mandò in Corsica in esilio [Dio, lib. 67.], ed appresso il fece ammazzare. Ma soprattutto s'accese, e giunse al [356] colmo l'inumanità di Domiziano, dappoichè se gli ribellò Lucio Antonio Saturnino; del che s'è favellato all'anno precedente. S'accorse più che mai allora questo maligno principe, che l'odio universale è un pagamento inevitabile delle iniquità [Sueton., in Domitiano, cap. 10.]. Trovò anche in Roma dei complici di quella congiura, e molti altri, che almeno sospiravano di vederla camminare ad un fine felice. Incrudelì dunque contra di chiunque era stato, o si sospettava che fosse stato partecipe dei disegni d'esso Lucio Antonio; nè perdonò se non a due uffiziali, che con vergognosa scusa coprirono il loro fallo. D'altre illustri persone da lui uccise parleremo all'anno seguente. Anche Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.] attesta avere bensì Domiziano commessa qualche crudeltà negli anni addietro, ma un nulla essere in paragon di quelle ch'egli praticò dopo la morte d'Agricola, avvenuta nell'anno presente, siccome dicemmo. O nel precedente anno, come vuole il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], o nel presente, come credette il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari, Tillemont et alii.] ed altri, ebbe principio la guerra de' Romani coi Sarmati [Eutrop., in Breviar.]. Aveano que' barbari tagliato a pezzi una o più legioni romane coi loro uffiziali. Ciò diede impulso a Domiziano di accorrere colà in persona con un buon esercito, per frenare l'insolenza di que' popoli. Da Marziale e da Stazio poeti, due trombe delle azioni di questo imperadore, noi impariamo ch'egli ebbe a combattere anche contro ai Marcomanni. Se bene, o male, non si sa. Ben sappiamo [Sueton., in Domitiano, c. 6.] che, secondo il suo costume di attribuirsi le vittorie, anche quando egli era vinto, tornato a Roma nel gennaio di questo anno o pur del seguente, fece credere che gli affari erano passati a maraviglia bene. Tuttavia ricusò il trionfo, e si contentò di portare al Campidoglio la sola [357] corona d'alloro, e di offerirla a Giove Capitolino.
Anno di | Cristo XCIV. Indizione VII. |
Anacleto papa 12. | |
Domiziano imperadore 14. |
Consoli
Lucio Nonio Torquato Asprenate e Tito Sestio Magio Laterano.
Fra gli eruditi è stata finora molta disputa intorno ai consoli ordinari di quest'anno, nè si sapea il prenome e nome di Laterano. Una iscrizione del museo kircheriano, da me [Thesaur. Novus Veter. Inscript., p. 314, num. 2.] data alla luce, ha messo tutto in chiaro. Da un altro marmo apparisce che, in luogo di Laterano, era console nel settembre Lucio Sergio Paolo. Moltiplicarono più che mai in questi tempi le calamità di Roma sotto Domiziano, divenuto oramai formidabil tiranno, e non inferiore a Nerone. Ne lasciò a noi un orrido ritratto Cornelio Tacito [Tacitus, Hist., lib. 1, c. 2 et seq. Idem, in Vita Agricolæ, c. 46.], presente a tutte quelle scene, con dire che si vide il senato circondato ed assediato da genti di armi; a molti che erano stati consoli, tolta la vita; e le più illustri dame o fuggitive o cacciate in esilio. Di persone nobili bandite, piene erano le isole, e all'esilio tenea dietro bene spesso la spada del carnefice. Ma in Roma si facea il maggior macello. Pareva un delitto l'aver avuto delle dignità; pericoloso era il volerne; nè altro occorreva per istar tutto dì esposto ai precipizii, che l'essere uomo dabbene. Le spie e gli accusatori erano tornati alla moda; e fra questi mali arnesi si distinguevano Metio Caro Messalino e Bebio Massa, assassini del pubblico, non nelle strade, ma ne' tribunali stessi di Roma, con essersi attribuita la maggior parte delle crudeltà d'allora più alla lor malignità [358] e prepotenza che a quella di Domiziano. Le spese eccessive fatte da questo prodigo imperadore in tanti spettacoli non necessari, e in accrescere fuor di misura lo stipendio ai soldati, per maggiormente obbligarseli, l'aveano ridotto al verde [Sueton., in Domitiano, cap. 12.]. Si avvisò di cercare il risparmio col cassare una porzion delle milizie; e, secondo Zonara [Zonara, in Annalib.], eseguì questo pensiero. Svetonio sembra dire, che solamente lo tentò, ma che trovandosi tuttavia imbrogliato a dar le paghe, rivolse il pensiero a far danaro in altre tiranniche maniere, occupando a diritto e a torto i beni dei vivi e dei morti. Pronti erano sempre gli accusatori, denunziando or questo, or quello, come rei di lesa maestà per un cenno, per una parola contra del principe o contra uno dei suoi gladiatori; delitti per lo più finti e non provati. Si confiscavano a tutti i beni; e bastava che comparisse un solo a dire di aver inteso che un tale prima di morire avea lasciata la sua eredità a Cesare, perchè tosto si mettessero le griffe su quella roba. Sopra gli altri furono angariati i Giudei, che da gran tempo pagavano un rigoroso testatico, per esercitare liberamente il culto della lor religione. Un'esatta perquisizion di essi fu fatta per tutto l'imperio romano, e processati coloro che, dissimulando la lor nazione, non aveano pagato.
Fra gli altri personaggi di distinzione che, per attestato di Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.], furono tolti di mira in questi tempi dal genio sanguinario di Domiziano, si contarono Elvidio il giovane, Rustico e Senecione. Era il primo figliuolo di quell'Elvidio Prisco, che a' tempi di Vespasiano, siccome fu detto di sopra all'anno 73, per la sua stoica insolenza si tirò addosso l'esilio, e poi la morte [Sueton., in Domitiano, cap. 10. Plinius, lib. 9, Epist. 13.]. Eccellenti qualità concorrevano ancora in questo suo figliuolo, per le quali era in [359] gran riputazione, oltre all'aver esercitato un consolato straordinario. Quantunque egli se ne stesse ritirato per la malvagità de' tempi che correano, pure si vide accusato davanti al senato, per avere, secondochè diceano, in un suo poema sotto i nomi di Paride e di Enone messo in burla il divorzio di Domiziano [Sueton., in Domitiano, cap. 3.], il quale altrove abbiam detto che prese in moglie Domizia Longina. Questa poi la ripudiò, perchè perduta di amore verso Paride istrione, ch'egli fece uccidere in mezzo ad una strada. Contuttociò non si potè contenere dal ripigliarla poco dipoi: del che fu assai proverbiato. Publicio Certo, dianzi pretore, ed ora uno de' giudici dati ed Elvidio, per mostrare il suo zelo adulatorio verso Domiziano, commise la più vergognosa azione che si possa mai dire; perchè mise le mani proprie addosso ed Elvidio, e il trasse alle prigioni. Fu condannato Elvidio, e l'infame Publicio per ricompensa destinato console, senza però giugnere a godere di quella dignità, perchè Domiziano tolto di vita non gli potè mantener la parola. Contra di costui si fece accusatore Plinio il giovine; e tal terrore gli mise in corpo, che disperato finì i suoi giorni. Errenio Senecione, per avere scritta la vita di Elvidio Prisco seniore, somministrò assai ragione al crudel Domiziano e al timido senato, per condannarlo a morte e far bruciare pubblicamente l'opere composte da quel felice ingegno. Un altro personaggio, tenuto in sommo credito per la professione della stoica filosofia [Dio, lib. 67. Plutarchus, de Curios.], fu Lucio Giunio Aruleno Rustico. Aveva egli in un suo libro lodati Peto Trasea ed Elvidio Prisco, uomini insigni, dei quali si è parlato di sopra. Di più non occorse, perchè egli fosse condannato e fatto morire. Plutarco attribuisce la di lui disgrazia all'invidia portata da Domiziano alla gloria di quest'uomo illustre. Sappiamo parimente, che Fannia, moglie [360] di Elvidio Prisco, in tal occasione fu mandata in esilio, e spogliata di tutti i suoi beni; siccome ancora Arria vedova di Peto Trasea; e Pomponia Gratilia, moglie del suddetto Rustico. Fece anche Domiziano morire Ermogene da Tarso, perchè in una storia di lui scritta si figurò di essere stato punto sotto certe maniere di dir figurate. I copisti di quella storia furono anch'essi fatti morire in croce. Di questo passo camminava la crudeltà di Domiziano, e Dione [Dio, in Excerptis Valesian.] ebbe a dire, che non si può sapere a qual numero ascendesse la serie degli uccisi per ordine suo, perchè non voleva che si scrivesse negli atti del senato memoria alcuna delle persone da lui tolte di vita. E con questa barbarie congiungeva egli un'abbominevole infedeltà, perchè servendosi di molti iniqui o per accusare altrui di lesa maestà, o per rapire le altrui sostanze, dopo averli premiati con dar loro onori e magistrati, da lì a poco faceva ancor questi ammazzare, acciocchè sembrasse che da essi soli, e non da lui fossero procedute quelle iniquità. Altrettanto facea coi servi e liberti da lui segretamente mossi ad accusare il padrone, facendoli poi morire anch'essi. Molte arti usò inoltre, per indurre alcuni ad uccidersi da sè stessi, acciocchè si credesse spontanea e non forzata la morte loro. Peggiore ancor di Nerone fu per un conto [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 45.], perchè assisteva in persona agli esami e ai tormenti delle persone accusate, e si compiaceva di udire i loro sospiri, e di mirar quei mali che facea lor sofferire, il maggior dei quali era il veder presente l'autore iniquo de' medesimi lor tormenti. Aggiungeva inoltre la dissimulazione all'inumanità, usando finezze e carezze a chi fra poche ore dovea per suo comandamento perdere la vita. Lo provò tra gli altri [Sueton., in Domitiano, cap. 11.] Marco Arricino Clemente, già prefetto del pretorio sotto Vespasiano, [361] e poi console (non si sa in qual anno), che era anche suo parente, ed amato non poco da lui, perchè l'aiutava nelle iniquità. Convertito l'amore in odio, un dì fattagli gran festa, il prese anche seco in seggetta, e veduto colui che era appostato per denunziarlo nel dì seguente come reo di lesa maestà, disse a Clemente: Vuoi tu, che domani ascoltiamo in giudicio quel furfante di servo? Posti in così duro torchio, se stessero male i cittadini romani, e particolarmente i nobili, non ci vuol molto ad intenderlo.
Anno di | Cristo XCV. Indizione VIII. |
Anacleto papa 13. | |
Domiziano imperadore 15. |
Consoli
Flavio Domiziano Augusto per la diecisettesima volta, e Tito Flavio Clemente.
Non zio paterno, ma cugino di Domiziano fu questo Clemente console, perchè figliuolo di Sabino fratello di Vespasiano. Mostravagli Domiziano molto affetto, e per testimonianza di Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 15.], meditava di voler suoi successori due piccioli figliuoli di lui, a' quali avea anche fatto cangiare il nome, chiamando l'uno Vespasiano, e l'altro Domiziano. Ma appena ebbe Clemente compiuto il tempo dell'ordinario suo consolato, il quale in questi tempi solea durare solamente i primi sei mesi, che Domiziano per leggerissimi sospetti gli fece levar la vita. Il cardinal Baronio [Baron., Annal. Ecclesiast.], il Tillemont [Tillemont, Mém. Hist. Ecclés.] ed altri dottissimi uomini, pretendono ch'egli morisse cristiano e martire; e le lor ragioni mi paiono convincenti. Imperciocchè Eusebio, Orosio ed altri scrittori cristiani mettono sotto quest'anno la persecuzione mossa da Domiziano contro i professori della legge di Cristo; e insin lo stesso Dione [Dio, lib. 67.], scrittore [362] pagano, scrive aver Domiziano nell'anno presente fatto morir Flavio Clemente Console per delitto d'empietà, cioè per non credere nè venerare i falsi dii del Paganesimo; e che furono molti altri condannati a morte, per avere abbracciata la religion de' Giudei: che tali erano creduti e chiamati allora i Cristiani. Svetonio [Sueton., in Domitiano, c. 15.], tacciando questo Clemente di una vilissima dappocaggine (contemtissimae inertiae), indica lo stesso; perchè, per attestato di Tertulliano [Tertull., in Apologetico, cap. 42.], i Cristiani, siccome gente ritirata, che non compariva agli spettacoli, non cercava dignità e gloria nel secolo, e attendeva alla mortificazion delle sue passioni, pareano persone di poco spirito, e gente buona da nulla. Moglie di questo Clemente console era Flavia Domitilla, nipote di Domiziano, cristiana anch'essa, che fu relegata nell'Isola Pandataria. Ebbe inoltre esso Clemente una nipote, appellata parimente Flavia Domitilla. Credesi che amendue queste Domitille, morendo martiri, illustrassero la fede di Gesù Cristo, e la lor memoria è onorata ne' sacri martirologi. Ne parla anche Eusebio [Eusebius, in Chron., et Hist. Ecclesiast. lib. 3.], citando in prova di ciò la storia di Brutio Pagano. O sia perchè il Cristianesimo era considerato come una setta di filosofia, o pure perchè Senecione e Rustico, amendue filosofi, uccisi, come dicemmo, nell'anno precedente (se pur non fu nel presente), irritassero non poco l'animo bestiale e timido di Domiziano: certo è, ch'egli cacciò di Roma tutti i professori della filosofia circa questi tempi, non potendo egli probabilmente sofferir coloro, da' quali ben s'immaginava che erano condannate le sue malvagie azioni. E che ciò succedesse nell'anno presente, lo scrive il mentovato Eusebio [Eusebius, in Chron.]. Però Filostrato notò [Philostratus, in Apollon., lib. 8.], che molti d'essi filosofi se ne fuggirono nelle [363] Gallie, ed altri nei deserti della Scizia e della Libia. Dione Crisostomo, uomo insigne, se ne andò nel paese de' Goti. Epitetto celebre Stoico, fu anch'egli obbligato a ritirarsi fuori di Roma. Amaramente si duol Tacito [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.] di questo crudele editto di Domiziano, perchè fu un bandire da Roma la sapienza ed ogni buono studio, acciocchè non vi rimanesse studio delle virtù, e vi trionfasse solamente la disonestà con gli altri vizii. Pare che a quest'anno appartenga, secondo Dione [Dio, lib. 67.], la morte di Acilio Glabrione, che fu console l'anno 91, fatto uccidere da Domiziano. Epafrodito, già potente liberto di Nerone, lungamente avea goduto gran fortuna anche nella corte di Domiziano, servendolo per segretario de' memoriali [Sueton., in Domitiano, cap. 14.]. Fu mandato in esilio, e condannato ora solamente a morte, perchè avea aiutato Nerone a darsi la morte, in vece d'impedirlo; il che fu fatto da Domiziano per atterrire i suoi domestici liberti, acciocchè non ardissero mai di far lo stesso con lui. Forse ancora è da riferire all'anno presente, o piuttosto al seguente, quanto avvenne, per attestato di Dione [Dio, lib. 67.], a Giuvenio Gelso, creduto da alcuni Publio Giuvenzio Celso, che fu poi pretore sotto Trajano, console sotto Adriano, e celebre giurisconsulto di que' tempi. Fu egli accusato di aver cospirato contra di Domiziano. Prima che si venisse nel senato alle prove, fece istanza di parlare all'imperadore, perchè avea cose rilevanti da dirgli. Ottenuta la permissione, questo accorto uomo se gli gittò ginocchioni davanti come per adorarlo; gli diede cento volte il titolo di Signore e di Dio; protestò di essere innocente; ma che se gli volea dare un po' di tempo, saprebbe ben pescare, ed indicargli chiunque avea mal animo contra di lui. Fu licenziato, ed egli dipoi andò tanto tirando innanzi [364] con vari sutterfugi senza rivelar alcuno, che arrivò la morte di Domiziano, per cui sicuro poi se ne visse. Abbiamo dal medesimo Dione, che in questi tempi Domiziano fece lastricar la via che va da Sinuessa a Pozzuolo. Anche Stazio [Statius, Sylvar., lib. 4, cap. 3.] parla d'una simil via acconciata; ma questa forse andava da Roma a Baja.
Anno di | Cristo XCVI. Indizione IX. |
Evaristo papa 1. | |
Nerva imperadore 1. |
Consoli
Cato Antistio Vetere e Caio Manlio Valente.
Erasi ben ridotta Roma ad un compassionevole stato sotto il crudele e tirannico governo di Domiziano. Non si sarebbe trovata persona nobile e benestante, che continuamente non tremasse al vedere tanti senatori, cavalieri ed altre persone, o private di vita o spinte in esilio o spogliate di beni [Plinius, in Panegyrico, et lib. 7, Epist. 14.]. Si univa bensì il senato, ma solamente per fulminar quelle sentenze che voleva il tiranno, o per autorizzar le maggiori iniquità. Ad ognuno mancava la voce per dire il suo sentimento; parlava quel solo che portava gli ordini dell'imperadore, e gli altri colla testa bassa, col cuor pieno di affanno, approvavano tacendo ciò che non osavano disapprovare parlando [Tacitus, in Vita Agricolae, cap. 2.]. Esente non era da un pari timore il resto del popolo, perchè dappertutto si trovavano spioni, che raccoglievano, amplificavano, e bene spesso fingevano parole dette in discredito del principe; e bastava essere accusato, per essere condannato. Ma se Domiziano facea tremar tutto il mondo, anche tutto il mondo facea tremar Domiziano, chè questa è una pensione inevitabile dei tiranni, i quali col nuocere a tanti, e massimamente ai migliori e agli innocenti, sanno di essere in odio a tutti, [365] e che da tutti, almeno coi desiderii, se non con altro, è affrettata la morte loro. Però la diffidenza, gastigo che rode il cuore di ogni principe crudele ed ingiusto, crebbe sì fattamente in Domiziano, che cominciò a non fidarsi neppur di Domizia Augusta sua moglie, nè di alcuno de' suoi liberti, cioè de' suoi più intimi cortigiani [Sueton., in Domitiano, cap. 15.]. Ad accrescere i suoi terrori si aggiunsero le predizioni a lui fatte in sua giuventù dai Caldei, cioè dagli strologi, che dovea perir di morte violenta. Anche Vespasiano suo padre, che non poco badava alla strologia, vedendolo ad una cena astenersi dal mangiar funghi, gli diede pubblicamente la burla, dicendo, che avea piuttosto da guardarsi dal ferro. Ma specialmente in quest'anno, che verisimilmente gli era stato predetto come l'ultimo di sua vita, non sapea dove stare: tanta era la sua inquietudine e paura, tanti i suoi sospetti contra ancora dei suoi più cari e familiari. A tutti perciò parlava brusco, tutti mirava con aria minaccevole. Avvenne inoltre, che per otto continui mesi caddero di molti fulmini, uno sopra il Campidoglio rifabbricato da lui, un altro nel palazzo imperiale, e nella stessa sua camera, un altro sopra il tempio della famiglia Flavia, e un altro guastò l'iscrizione posta ad una statua trionfale di lui, rovesciandola in un monumento vicino. Il popolo superstizioso di Roma, e più degli altri Domiziano, facea mente a tutti questi naturali avvenimenti e ad altri ch'io tralascio, credendoli segni d'imminente disavventura. Nulla nondimeno atterrì cotanto questo indegno imperadore [Dio, lib. 67.], quanto un certo strologo appellato Ascletarone, che avea predetta la di lui morte. Preso costui e condotto alla presenza di Domiziano, confessò di averlo detto. Sai tu, disse allora Domiziano, che cosa abbia da intervenire a te in questo giorno? — Signor sì, rispose lo strologo, [366] il mio corpo ha da essere mangiato dai cani. Ordinò tosto Domiziano che costui fosse giustiziato, ed immantinente bruciato il corpo suo. Ma appena mezzo abbrustolito, si svegliò una dirotta pioggia, che estinse il fuoco, e costrinse la gente a ritirarsi, sicchè poterono i cani accorrerne, e far buon convito di quel arrosto. Portatane poi la nuova a Domiziano, oh allora sì che smaniò per la paura [Sueton., in Domitiano, cap. 16.]. Più fortunato fu un certo Largino Proclo, aruspice, che in Germania avea predetto dover seguire nel dì 18 di settembre gran mutazione di cose; anzi chiaramente, secondo Dione [Dio, lib. 67.], avea accennata la morte di Domiziano. Mandato perciò a Roma in catene negli ultimi tempi di esso imperadore, fu condannato a perdere la testa dopo il suddetto giorno, supponendosi che falsa avesse da riuscire la di lui predizione. Ma verificatasi questa, egli restò salvo, e fu anche ben regalato da Nerva.
Vanissima arte è la strologia; ma Dio, pei suoi occulti giudizii, può permettere che i suoi professori, per lo più fallacissimi, talvolta arrivino a colpire nel segno. Ma intanto è da osservare, che quest'arte ingannatrice, piuttosto che predire la morte di Domiziano, fu essa la cagione della morte medesima, di maniera che fors'egli sarebbe sopravvivuto molto, se non le avesse prestato fede. Imperciocchè, siccome abbiamo detto, essendosi conficcata nel di lui animo la credenza di dover esser ammazzato un dì, servì essa a lui di stimolo per commettere buona parte delle sue crudeltà, e a divenire odioso a tutti, con togliere dal mondo i migliori, e chiunque egli riputava più capace e voglioso di nuocergli. Il rendè essa inoltre sì diffidente e sospettoso, che temeva fin della moglie e de' suoi più intimi famigliari; ed arrivò, per quanto fu creduto, sino alla risoluzione di volerli privar tutti di vita. Ora, tanto Domizia sua moglie, [367] quanto i suoi più confidenti liberti, Norbano, e Petronio Secondo, allora prefetti del pretorio, dappoichè ebbero veduto, come per sì lievi motivi egli avea ucciso Clemente suo cugino, e personaggio di tanta probità, e faceva troppo conoscere di non più fidarsi di alcun di loro: assai intesero ch'erano anch'essi in pericolo, e che, per salvar la propria vita, altra maniera non restava che di levarla a Domiziano. Sicchè prendendo bene il filo, la soverchia credenza che professò questo screditato Augusto alle ciarle degli strologi, trasse lui ad esser crudele, e a non fidarsi di alcuno: e questa sua crudeltà e diffidenza costò a lui la vita per mano de' suoi più cari. Scrive dunque Dione di aver inteso da buona parte [Dio, lib. 67.], che Domiziano avesse veramente presa la determinazione di uccider la moglie e gli altri più familiari suoi liberti, e i capitani delle guardie stesse. Subodorata questa sua intenzione, si accinsero essi a prevenirlo, ma non prima di aver pensato a chi potesse succedergli nell'imperio. Segretamente ne fecero parola a varie nobili persone, che tutte, dubitando di qualche trappola, non vollero accettar quella esibizione. Finalmente si abbatterono in Marco Coccio Nerva, personaggio degno dell'imperio, che abbracciò l'offerta. Un accidente fece affrettare la di lui morte, se pur è vero ciò che racconta Dione: perchè Svetonio, più vicino a questi tempi, non ne parla, e lo stesso vedremo raccontato di Commodo Augusto, anch'esso ucciso. Soleva Domiziano per suo solazzo tenere in camera un fanciullo spiritoso di pochi anni. Questi, mentre il padrone dormiva, gli tolse di sotto al capezzale una carta, con cui andava poi facendo dei giuochi. Sopravvenuta Domizia Augusta, gliela tolse, e con orrore trovò quella essere una lista di persone che il marito volea levare dal mondo, e di esservi scritta ella stessa, i due prefetti del pretorio, Partenio mastro di camera, ed [368] altri della corte. Ad ognun di essi comunicato l'affare, fu determinato di non perder tempo ad eseguire il disegno.
Venne il dì 18 di settembre, in cui, secondo gli astrologi, temeva Domiziano di essere ucciso. L'ora quinta della mattina, quella specialmente, era di cui paventava. Però, dopo aver atteso nel tribunale alla spedizione di alcuni processi, nel ritirarsi alle sue stanze dimandò che ora era. Da taluno de' congiurati maliziosamente gli fu detto, che era la sesta: perlochè tutto lieto, come se avesse passato il pericolo, si ritirò nella sua camera per riposare. Partenio, mastro di camera, entrò da lì a poco per dirgli, che Stefano liberto e mastro di casa dell'ucciso Flavio Clemente, desiderava di parlargli per affare di somma importanza. Costui siccome uomo forte di corpo, e che odiava sopra gli altri Domiziano per la morte data al suo padrone, era scelto dai congiurati per fare il colpo. Ne' giorni addietro aveva egli finto di aver male al braccio sinistro, e lo portava con fascia pendente dal collo. Entrato egli in tal positura, presentò a Domiziano una carta, contenente l'ordine di una congiura che si fingeva tramata contra di lui, col nome di tutti i congiurati. Mentre era l'imperadore attentissimo a leggerla, Stefano gli diede di un coltello nella pancia. Gridò Domiziano aiuto: un suo paggio corse al capezzale del letto, per prendere il pugnale, oppure la spada, nè vi trovò che il fodero, e tutti gli uscii erano chiusi [Dio, lib. 67. Sueton., in Domitiano, c. 17.]. Ma perchè la ferita non era mortale, Domiziano s'avventò a Stefano, si ferì le dita nel volergli prendere il coltello, ed abbrancolatisi insieme caddero a terra. Partenio, temendo che Domiziano la scappasse, aperta la porta, mandò dentro Clodiano Corniculario, Massimo suo liberto, e Saturio capo de' camerieri, ed altri che con sette ferite il finirono. Ma entrati altri, che nulla sapeano della congiura, e trovato Stefano in terra, l'uccisero. In [369] questa maniera, cioè col fine ordinario dei tiranni terminò sua vita Domiziano, in età di anni quarantacinque. Del suo corpo niuno si prese cura, fuorchè Filide sua nutrice, che segretamente in una bara plebea lo fece portare ad una sua casa di campagna, e dopo averlo fatto bruciare, secondo l'uso d'allora, seppe farne mettere le ceneri, senza che alcuno se ne avvedesse, nel tempio della casa Flavia, mischiandole con quelle di Giulia Sabina Augusta, figliuola di Tito imperadore suo fratello [Sueton., in Domitiano, cap. 22.]. Fu questa Giulia maritata da esso Tito a Flavio Sabino suo cugino germano; ma invaghitosene, Domiziano, vivente ancora Tito, l'ebbe alle sue voglie. Divenuto poi imperadore, dopo aver fatto uccidere il di lei marito, pubblicamente la tenne presso di sè, con darle il titolo di Augusta, e farle un tal trattamento che alcuni la credettero sposata da lui [Philostratus, in Apollon. Tyan., lib. 7.]. Ma, perchè gravida del marito egli volle farla abortire, cagion fu di sua morte. Non ho detto fin qui, ma dico ora che Domiziano nella libidine non la cedette ad alcuno de' più viziosi. Nè occorre dire di più.
Quanto al basso popolo di Roma [Sueton., in Domitiano, c. 23.], non mostrò egli nè gioia nè dolore per la morte di sì micidial regnante, perchè sfogavasi di ordinario il di lui furore solamente sopra i grandi, nè toccava i piccoli. I soldati sì ne furono in grande affanno e rabbia, perchè sempre ben trattati, e smoderatamente arricchiti da lui; però voleano tosto correre a farne vendetta: ma i lor capitani ne frenarono que' primi furiosi movimenti, benchè non potessero dipoi impedire quanto soggiugnerò appresso. All'incontro il senato, contra di cui specialmente era infierito Domiziano, ne fece gran festa, il caricò di tutti i titoli più obbrobriosi, ed ordinò che si abbattessero la sue statue, e i suoi archi trionfali [Dio, lib. 67.]; si cancellasse il di lui [370] nome in tutte le iscrizioni, cassando anche generalmente ogni suo decreto. Ancorchè Domiziano non si dilettasse delle lettere e delle arti liberali, a solamente si conti ch'egli gran cura ebbe di rimettere in piedi le biblioteche bruciate di Roma, con raccogliere [Sueton., in Domitiano, cap. 24.] libri da ogni parte, e farne copiare assaissimi da quella di Alessandria: pure fiorirono a' suoi tempi vari insigni filosofi, fra' quali massimamente risplendè Epitteto, i cui utili insegnamenti restano tuttavia, ed Apollonio Tianeo, la cui vita, scritta da Filostrato, è piena di favole. Fiorirono anche in Roma l'eccellente maestro della eloquenza Marco Fabio Quintiliano, e Marco Valerio Marziale, poeta rinomato per l'ingegno, infame per gli suoi troppo licenziosi epigrammi. Erano amendue nativi di Spagna. Vissero parimente in que' tempi Cajo Valerio Flacco, Cajo Silio Italico, de' quali abbiamo tuttavia i poemi, ma di gusto cattivo; e Decimo Giunio Giuvenale, autor delle satire, poco certamente modeste, ma assai ingegnose e degne di stima.
Terminata dunque la tragedia di Domiziano, cominciò Roma, e seco l'imperio romano, liberato da questo mostro, a respirare, e tornarono i buoni giorni per l'assunzione al trono imperiale di Marco Coccejo Nerva. Era nato Nerva, per quanto ne scrive Dione [Dio, lib. 68.], nell'anno 32 dell'era nostra, di nobilissimo casato. L'onestà dei suoi costumi, la sua aria dolce e pacifica, la sua rara saviezza, prudenza ed inclinazione al ben del pubblico, il faceano amare e rispettar da chicchessia. Queste sue belle doti gli ottennero due volte il consolato, cioè nell'anno 71 e nel 90. Mancava a lui solamente un corpo robusto, e una buona sanità, essendo stato debolissimo lo stomaco. Non si accordano gli storici in certe particolarità della sua vita negli ultimi anni di Domiziano. Filostrato [Philostrat., in Vita Apollonii, lib. 7.] [371] vuole che venuto a Roma Apollonio Tianeo, gl'insinuasse di liberar la patria dalla tirannia di Domiziano, ma ch'egli non ebbe tanto coraggio. Aggiugne che Domiziano il mandò in esilio a Taranto; ed Aurelio Vittore [Aurel. Vict., in Epit.] scrive, che Nerva si trovava ne' Sequani, cioè nella Franca Contea, allorchè trucidato fu Domiziano, e che per consentimento delle legioni prese l'imperio. Ben più credibile a noi sembrerà ciò che lasciò scritto Dione, cioè, che Domiziano, giù da noi veduto persecutore di chiunque o per le sue buone qualità, o per relazion degli astrologi, era creduto potergli succedere nell'imperio, meditò ancora di levar Nerva dal mondo, e l'avrebbe fatto, se uno strologo amico di lui non avesse detto a Domiziano, che Nerva attempato e mal sano era per morire fra pochi giorni. Nè Dione parla punto di esilio; anzi suppone ch'egli si trovasse in Roma nel tempo dell'uccision di Domiziano, e che passasse di concerto coi congiurati, consentendo che si togliesse la vita a lui, giacchè senza di questo egli più non istimava sicura la propria. Estinto dunque il tiranno, fu alzato al trono cesareo Marco Coccejo Nerva, che certo non era lungi da Roma, per opera [Eutrop., in Brev. Dio, lib. 68.] specialmente di Petronio Secondo prefetto del pretorio, e di Partenio principal autore della morte di Domiziano, con approvazione di tutto il senato e plauso del popolo. Ma eccoti alzarsi un rumore e una voce, che Domiziano era vivo, e fra poco comparirebbe [Aurel. Vict., in Epit.]. Nerva di natural timido allora mutò colore, perdè la favella, nè più sapea in qual mondo si fosse. Ma Partenio, che coi suoi occhi avea veduto le ferite e gli ultimi respiri dell'estinto Domiziano, lo incoraggiò, e rimise in sella. Andò pertanto Nerva a parlare ai soldati per quietarli, e promise loro il donativo solito [372] nell'assunzion de' nuovi imperadori. Di là poscia passò al senato, dove ricevette gli abbracciamenti gioviali, e i complimenti cordiali di cadauno de' senatori. Non vi fu se non Arrio Antonino, avolo materno di Tito Antonino poscia imperadore, suo sviscerato amico, il quale abbracciatolo gli disse, che ben si rallegrava col senato e popolo romano, e colle provincie per sì degna elezione, ma non già con lui; perchè meglio per lui sarebbe stato il vivere paziente sotto principi cattivi, che assumere un peso sì grave, ed esporsi a tanti pericoli ed inquietudini, col mettersi fra i nemici, che mai non mancano, e fra amici, i quali credendo di meritar tutto, se non ottengono quel che vogliono, diventano più implacabili degli stessi nemici. Contuttociò Nerva fattosi coraggio, prese le ridini del governo, e si accinse a sostener con decoro la sua dignità, siccome ancora a restituire al senato il primier suo decoro, e la quiete e l'allegria ai popoli. Vivente ancora Domiziano, e non per anche cessata la persecuzione da lui mossa a' Cristiani, sant'Anacleto papa coronò la sua vita col martirio o nel precedente, o piuttosto nel presente anno; ed ebbe per successore nel pontificato romano Evaristo.
Anno di | Cristo XCVII. Indiz. X. |
Evaristo papa 2. | |
Nerva imperadore 2. |
Consoli
Marco Coccejo Nerva Augusto per la terza volta, e Lucio Virginio Rufo per la terza.
Vari altri consoli l'un dietro l'altro si credono dall'Almeloven sostituiti in quest'anno, fra gli altri certo è che Cornelio Tacito istorico, siccome osservò anche Giusto Lipsio, succedette a Virginio, o sia Verginio Rufo. Tal notizia abbiamo da Plinio il giovane [Plinius, lib. 2, ep. 1.]. Era Virginio Rufo quel medesimo che nell'anno [373] 68 ricusò più di una volta l'imperio, datogli in Germania dai soldati. Gloriosamente avea egli menata fin qui la sua vita, senza incorrere in alcuna disgrazia, rispettandolo ognuno, e fin quella bestia di Domiziano, e serbando quell'animo grande, ch'era stato superiore agl'imperi. Nerva anch'egli volle far conoscere a lui ed al pubblico, quanta stima ne facesse con crearlo suo collega nel consolato. Abbiam di certo da Plinio suddetto, che questo fu il Terzo consolato di esso Virginio: al che non fece riflessione il padre Stampa [Stampa sul Fastos Consul. Sig.], quantunque il cardinal Noris [Noris, Epistol. Consul.] ed altri lo avessero avvertito, e si raccolga eziandio da Frontino e dai Fasti d'Idacio. Fu egli sotto Nerone nell'anno 63 per la prima volta console ordinario. Credesi che nell'anno 69 gli toccasse il secondo consolato, ma straordinario, sotto Ottone Augusto. Intorno al prenome di Rufo s'è disputato. Chi Tito, chi Pubblio l'ha voluto. È più probabile Lucio. Ora per la terza volta creato console nell'anno presente, siccome c'insegna Plinio il giovane, mentre sul principio dell'anno si preparava a recitare in senato il rendimento di grazie a Nerva per la dignità a lui conferita, essendo in età di ottantatrè anni, colle mani tremanti, e stando in piedi, gli cadde il libro di mano; e nel volerlo raccogliere gli sdrucciolò il piede pel pavimento liscio e lubrico, in maniera che si ruppe una coscia. Non essendosi questa ben ricomposta o riunita, dopo qualche tempo se ne morì, e gli furono fatti solenni funerali, mentre era console Cornelio Tacito, eloquentissimo oratore e storico, il qual fece l'orazione funebre in sua lode. Scrive il medesimo Plinio, che questo Virginio Rufo era nato in una città confinante alla sua patria Como.
Dacchè l'Augusto Nerva si vide sufficientemente assodato sul trono, fece tosto sentire il suo benefico genio a Roma [374] e a tutto il romano imperio [Dio, lib. 68.]. Richiamò dall'esilio una copia grande di nobili, che aveano patito naufragio sotto il precedente tirannico governo, ed abolì tutti i processi di lesa maestà. E perciocchè questi erano proceduti da mere calunnie, perseguitò i calunniatori, e fece morir quanti servi e liberti si trovarono aver intentate accuse contra dei loro padroni, proibendo con rigoroso editto a tal sorta di persone l'accusare da lì innanzi i padroni. Vietò parimente l'accusar chicchessia d'empietà, e di seguitare i riti giudaici: il che vuol dire ch'egli estinse la persecuzione mossa de' Cristiani, che dai Pagani venivano tuttavia confusi coi Giudei. Perciocchè per conto de' Giudei era loro permesso l'osservar la lor legge. Quanti preziosi mobili si trovarono nell'imperial palazzo, ingiustamente tolti da Domiziano, furono da lui con tutta prontezza restituiti. Non volle permettere che si facessero statue d'oro e d'argento (se pur non erano dorate o inargentate) in onor suo, abuso dianzi assai gradito da Domiziano. A que' cittadini romani che si trovavano in gran povertà, assegnò terreni, ch'egli fece comperare, di valore di un milione e mezzo di dramme, con deputare alcuni senatori che ne facessero la divisione. Perchè trovò smunto affatto l'erario, vendè, a riserva delle cose necessarie, tutti i vasi d'oro o d'argento ed altri mobili, tanto suoi particolari, che della corte, e parecchi poderi e case, con usar anche liberalità ai compratori. E ciò non per covare in cassa il danaro, ma per dispensarlo al popolo romano, apparendo dalle medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] che egli distribuì due volte nel breve corso del suo governo danari e grano. Giurò che d'ordine suo non si farebbe mai morire alcuno de' senatori; e quantunque un di essi fosse convinto di aver congiurato contra di lui, pure altro mal non gli fece che di cacciarlo in esilio. Fu da lui confermata [375] la legge che non si potessero far eunuchi; e proibito il prendere in moglie le nipoti. Attese ancora al risparmio, dopo aver conosciuto il gran male provenuto dallo scialacquamento esorbitante di Domiziano. Levò dunque via molti sagrifizii, molti giuochi ed altri non pochi spettacoli, che costavano somme immense [Aurel. Vict., in Epit.]. Soppresse tutto ciò ch'era stato aggiunto agli antichi tributi a titolo di pena contro quei ch'erano morosi al pagamento; siccome ancora le vessazioni ed angarie introdotte contro ai Giudei, nell'esigere le lor imposte. Le città oppresse da troppe gravezze ebbero sollievo da lui; ed ordinò che per tutte le città d'Italia si alimentassero alle spese del pubblico gli orfani dell'uno e dell'altro sesso, nati da poveri genitori, ma liberti: carità continuata anche dai susseguenti buoni imperadori, anzi accresciuta, come apparisce dalle antiche iscrizioni. Ristrinse ancora l'imposta della vigesima per le eredità e per gli legati, introdotta da Augusto. Fra le lettere di Plinio il giovane [Plinius, lib. 10, Epist. 66.] si trova un editto di questo imperadore, che assai esprime quanta fosse la di lui bontà, con dir egli che ciascuno de' suoi concittadini poteva assicurarsi, aver egli preferita la sicurezza di tutti alla propria quiete, e non aver altro in animo che di far di buon cuore de' nuovi benefizii, e di conservare i già fatti da altri. E però per levar dal cuore d'ognuno la paura di perdere quel che aveano conseguito sotto altri Augusti, o doverne cercar la conferma con delle preghiere d'oro, dichiarava che senza bisogno di nuovi ricorsi, chiunque godeva avesse da godere; perchè egli volea solamente attendere a dispensar grazie e benefizii nuovi a chi non avea finora goduto.
E pure con un principe sì buono, il cui dolce e salutevol governo tanto più dovea prezzarsi, quanto più si paragonava [376] col barbarico precedente, non mancarono nobili romani che tramarono una congiura [Dio, lib. 68. Aurelius Victor, in Epitome.]. Capo di essi fu Calpurnio senatore dell'illustre famiglia de' Crassi: degli altri non si sa il nome. Con esorbitanti promesse di danaro sollecitava egli alla rivolta i soldati. Scoperta la mina, Nerva il fece sedere presso di sè assistendo ai giuochi de' gladiatori, e nella stessa guisa che vedemmo operato da Tito, allorchè gli furono presentate le spade di quei combattenti, le diede in mano a Crasso, acciocchè osservasse, se erano ben affilate, mostrando in ciò di non paventar la morte. Fu processato e convinto Crasso: tuttavia Nerva per mantener la sua parola di non uccidere senatori, altro gastigo non gli diede che di relegar lui e la moglie a Taranto. Fu biasimata dal senato sì grande indulgenza in caso di tanta importanza, e in altri ancora, perchè egli non sapea far male ai grandi, benchè sel meritassero [Plinius, lib. 4, Ep. 22. Aur. Vict., in Epit.]. Trovavasi un dì alla sua tavola Vejento o sia Vejentone, già console, uomo scellerato, che sotto Domiziano era stato la rovina di molti. Cadde il ragionamento sopra Catullo Messalino, che nell'antecedente governo tutti avea assassinati colle sue accuse e colla sua crudeltà, ed era già morto. Se costui, disse allora Nerva, fosse tuttavia vivo, che sarebbe di lui? Giunio Maurico, uomo di gran petto, di egual sincerità, e uno dei commensali immantinente rispose: Con esso noi sarebbe a questa tavola. Ma quello che maggiormente sconcertò Nerva, fu l'attentato d'Eliano Casperio, creato non so se da lui, o pur da Domiziano, prefetto del pretorio, cioè capitan delle guardie. O sia che costui movesse i soldati, o che fosse incitato da loro, certo è, che un dì formata una sollevazione andarono tutti al palazzo [Plinius, in Panegyr.], chiedendo con alte grida il capo di coloro che aveano ucciso Domiziano. A tal dimanda si trovò in una [377] somma costernazione Nerva; contuttociò parendogli che non fosse mai da comportare il dar loro in mano chi avea liberata la patria da un tiranno, ed era stato cagione del proprio suo innalzamento, coraggiosamente negò loro tal soddisfazione, dicendo che se si voleano sfogare, piuttosto colla sua testa cadesse il loro sdegno. Ma costoro senza fermarsi per questo, e con disprezzo all'autorità imperiale, corsero a prendere Petronio Secondo, già prefetto del pretorio, e lo svenarono. Altrettanto fecero a Partenio già maestro di camera di Domiziano, trattandolo anche più ignominiosamente dell'altro. E Casperio, divenuto più insolente, obbligò Nerva di lodar quest'azione al popolo raunato, e di protestarsi obbligato ai soldati, perchè avessero tolta la vita ai maggiori ribaldi che si avesse la terra.
Una sì atroce insolenza de' pretoriani servì a far meglio conoscere a Nerva, ch'egli, stante la sua vecchiaia e poca sanità, non potea sperare l'ubbidienza ed il rispetto dovuto al suo grado, e piuttosto dovea temerne degli altri oltraggi. Il perchè da uomo saggio pensò di fortificar la sua autorità, con associare all'imperio una persona che fosse non men forte d'animo, che vigorosa di corpo. E siccome egli non avea la mira se non al pubblico bene, desiderava di scegliere il migliore di tutti [Aurelius Victor, in Epitome.], così dopo maturo esame, e consigliato anche da Lucio Licino Sura, senza punto badare ai molti parenti, che avea (giacchè non si sa ch'egli avesse mai moglie) fermò i suoi pensieri sopra Marco Ulpio Trajano, generale allora dell'armi romane nella Germania. Era questi di nazione spagnuolo, perchè nato in Italica città della Spagna, come si raccoglie da Dione [Dio, lib 68.] e da Eutropio [Eutr., in Brev.], benchè Aurelio Vittore [Aurel. Vict., in Epitome.] il dica venuto alla luce in Todi; nè alcuno finora avea ottenuto l'imperio, [378] che non fosse nato in Roma o nel vicinato: contuttociò Nerva fu di sentimento, che per iscegliere chi dovea governare un sì vasto imperio, si avea da considerare più che la nazione, l'abilità e la virtù. Pertanto in occasion di una vittoria riportata nella Pannonia, fatto raunare il popolo nel Campidoglio nel dì 18 settembre, come alcuni vogliono [Panvin., Petav., Pagius, Dodwellus, Fabrett., Tillem.], o piuttosto nel dì 27 o 28 di ottobre, come pretendono altri, ad alta voce dichiarò ch'egli adottava per suo figliuolo Marco Ulpio Nerva Trajano, a cui il senato diede nel giorno stesso il titolo di Cesare e di Germanico, e scrisse di suo proprio pugno, avvisandolo di tale elezione [Plinius, in Panegyrico.]. Fors'anche, secondo alcuni, non era pervenuta questa nuova a Trajano, soggiornante allora in Colonia, che Nerva il proclamò Imperadore [Euseb., in Chron.], conferendogli la tribunizia podestà, ma non già il titolo d'Augusto; cioè il creò suo collega nell'imperio. Può essere che ciò avvenisse alquanto più tardi. Almen certo è che il disegnò console per l'anno seguente. Il merito assai conosciuto di Trajano, che era stato console nell'anno 94, ed avea avuto il padre, stato anch'esso console (non si sa in qual anno) fece che ognuno ricevesse con plauso una sì bella elezione, e cessasse ogni sollevazione e tumulto in Roma. Si trovava allora Trajano nel maggior vigore della virilità, perchè in età di circa quarantaquattro anni.
Anno di | Cristo XCVIII. Indiz. XI. |
Evaristo papa 3. | |
Trajano imperadore 1. |
Consoli
Marco Coccejo Nerva Augusto per la quarta volta, e Marco Ulpio Trajano per la seconda.
Credesi che a questi consoli ne fossero sostituiti degli altri nelle calende di luglio, ma quali noi possiamo sapere di [379] certo. Poco sopravvisse il buon imperadore Nerva, nè già sussiste, come taluno ha pensato, ch'egli deponesse l'imperio. Riscaldossi egli un giorno forte in gridando contra di un certo Regolo [Aurel. Vict., in Epit. Tillem., Mém. Hist. Pagius, Crit. Bar.], che doveva aver commessa qualche iniquità, di modo che, quantunque fosse di verno, sudò; e questo raffreddatosegli addosso, gli cagionò una tal febbre, che fu bastante a levarlo di vita. Aurelio Vittore gli dà sessantatre anni d'età [Aurel. Victor, in Epitome.], Dione sessantacinque [Dio, lib 68.] Eutropio settantuno [Eutrop., in Breviar.], ed Eusebio settantadue [Eusebius, in Chron.]. Comunque sia, lasciò egli anche dopo sì corto governo un glorioso nome a cagion delle sue lodevoli azioni di bontà e saviezza; azioni tali, ch'egli ebbe a dire di non sapere d'aver operata cosa, per cui, quando anch'egli avesse deposto l'imperio, non avesse da vivere quieto e sicuro nella vita privata. Ma nulla certo gli acquistò più credito e gloria, che l'aver voluto per successore nell'imperio un Trajano, che poi divenne il modello de' principi ottimi. Con funerale magnifico fu portato il suo corpo, o vogliam dire le ceneri ed ossa sue, dal senato, nel mausoleo d'Augusto. Intorno al giorno di sua morte disputano gli eruditi. Inclinano i più a credere che questa avvenisse nel gennaio dell'anno presente, e nel dì 27; Aurelio Vittore scrive che quel giorno, in cui egli mancò di vita, fu un ecclissi del sole. Secondo i conti del Calvisio si eclissò il sole nel dì 21 di marzo di quest'anno; ma non s'accorda ciò con chi [Dio, lib. 68. Eutropius, in Brev.] gli dà sedici mesi e nove o dieci giorni d'imperio. Sappiamo bensì da Eusebio [Eusebius, in Chron.], dalle medaglie [Mediobarb., in Numism. imperator.], e dalle iscrizioni [Gruter., Thesaur. Insc.], che Nerva per decreto del senato fu alzato all'onore degli [380] dii, e che Trajano non mai stanco di mostrar la sua gratitudine a questo buon principe e padre, che l'avea alzato al trono, alzò anch'egli a lui dei templi, secondo la cieca superstizione e temerità del gentilesimo. Allorchè terminò Nerva i suoi giorni, Publio Elio Adriano, che fu poi imperadore, giovane allora ed amicissimo, anzi parente di Trajano, lasciato già da suo padre sotto la tutela di lui [Spartianus, in Hadriano.], si trovava nella Germania superiore. Arrivata colà la nuova della morte di Nerva, Adriano volle essere il primo a portarla a Trajano, dimorante allora in Colonia; e tuttochè Serviano di lui cognato cercasse d'impedirglielo, con fare segretamente rompere il di lui calesse, per aver egli l'onore di far penetrar con sua lettera il lieto avviso a Trajano: nondimeno Adriano camminando a piedi, prevenne il messagger di Serviano. Ricevute poi che ebbe Trajano [Dio, lib. 67.] le lettere del senato, gli rispose di suo pugno, co' dovuti ringraziamenti, fra l'altre cose promettendo, che nulla mai farebbe contro la vita e l'onore delle persone dabbene; il che poscia confermò con suo giuramento. Mentr'egli tuttavia si trovava in quelle parti, o certo prima di tornarsene a Roma, chiamò a sè Eliano Casperio prefetto del pretorio e i soldati da lui dipendenti, facendo vista di volersi valere di lui in servigio della repubblica. Nerva in ragguagliarlo della elezione sua, l'avea particolarmente incaricato di far le sue vendette contra d'esso Casperio, e di quelle milizie che ammutinate gli aveano fatto, siccome dicemmo, un sì grave affronto. Trajano l'ubbidì. Tolta fu a Casperio la vita e a quanti pretoriani si trovò che avevano avuta parte in quella sedizione. Comandava allora ad una possente armata Trajano, nè v'è apparenza ch'egli nell'anno presente venisse a Roma, ma bensì che egli si trattenesse in quelle ed anche in altre parti per dare un buon sesto [381] ai confini dell'imperio e alla quiete delle provincie [Plinius, in Panegyr.]. Sparsasi nelle nazioni germaniche la fama che Trajano era divenuto imperadore ed Augusto, tale già correa la rinomanza e la stima del di lui valore e senno anche fra quelle barbare genti, che ognun fece a gara per ispedirgli dei deputati e chiedergli supplichevolmente la continuazion della pace. Erano soliti i Tedeschi nel verno, allorchè il Danubio gelato si potea passare a piedi, di venir ai danni dei Romani. Nel verno di quest'anno non si lasciarono punto vedere. Trovavasi in quelle contrade Trajano, e tuttochè le sue legioni facessero istanza di valicar quel fiume, per dare addosso ai Tedeschi, tuttavia egli nol permise. Una delle sue principali applicazioni era stata, e maggiormente fu in questi tempi, di ristabilire l'antica disciplina, l'amor della fatica, e l'ubbidienza nella milizia romana; ed egli stesso, con trattar civilmente tutti gli uffiziali e soldati, si conciliò più che prima l'amore e il rispetto d'ognuno.
Anno di | Cristo XCIX. Indizione XII. |
Evaristo papa 4. | |
Trajano imperadore 2. |
Consoli
Aulo Cornelio Palma e Cajo Sosio Senecione.
Erano questi consoli due de' migliori nobili che si avesse allora il senato romano, e particolarmente godevano della stima ed amicizia di Trajano. Aveano costumato alcuni de' precedenti Augusti di prender essi il consolato nelle prime calende di gennaio, susseguenti alla loro assunzione, cessando perciò i consoli disegnati [Plinius, in Panegyr.]. Trajano, tra perchè non si pasceva di fumo, e perchè gli affari non gli permettevano di trovarsi all'apertura dell'anno nuovo in Roma, ricusò [382] nell'anno precedente l'onore del consolato offertogli dal senato, secondo lo stile, e volle che entrassero i due consoli sopraddetti. Verisimilmente venuta che fu la primavera, fu il tempo in cui egli dalla Germania s'inviò a Roma. Ben diverso fu il suo passaggio da quel di Domiziano. Quello era un saccheggio delle città, dovunque passava egli colle sue truppe. Trajano, benchè scortato da più legioni, con tal disciplina, con sì bel regolamento faceva marciare e riposar la sua gente, che diventò lieve ai popoli quel militare aggravio. Abbiamo ancora da Plinio l'entrata di Trajano in Roma. Fu ben lieto quel giorno al veder venire un buon principe, non già orgoglioso sopra un carro trionfale, o portato dagli uomini, come costumò alcuno de' suoi antecessori, ma a piedi e in abito modesto; che non accoglieva con fronte alta e superba, chi gli si presentava, per rallegrarsi con lui e per ossequiarlo; ma bensì gli abbracciava e baciava tutti, come suoi cari concittadini e fratelli. Andò al Campidoglio, e poscia al palazzo. Seco era Pompea Plotina sua moglie, donna d'alto affare, ed emula delle virtù del marito [Dio, lib. 68.]. Allorchè ella fu sulle scalinate del palazzo imperiale, rivolta al popolo disse: Quale io entro or qua, tale desidero anche d'uscirne, cioè ben voluta e senza rimprovero di alcuna iniquità. In fatti con tal modestia e saviezza visse ella sempre dipoi, che si meritò gli encomi di tutti, e massimamente perchè cooperava anch'essa a promuovere il ben pubblico e la gloria del marito [Aurel. Vict., in Epit.]. Raccontasi, che informata delle avanie e vessazioni che si praticavano per le provincie del romano imperio dagli esattori de' tributi e delle gabelle, sanguisughe ordinarie de' popoli, ne fece una calda doglianza al marito, come egli fosse sì trascurato in affare di tanta premura, permettendo iniquità che facevano troppo torto alla di lui [383] riputazione. Seriamente vi si applicò da lì innanzi Trajano, e rimediò ai disordini, riconoscendo essere il fisco simile alla milza, la quale crescendo fa dimagrar tutte le altre membra. A Plotina fu probabilmente conferito, dopo il suo arrivo a Roma il titolo di Augusta, siccome a Trajano quello di Padre della Patria, che si trova enunziato nelle monete di quest'anno, come pur anche quello di Pontefice Massimo. Avea Trajano una sorella, appellata Marciana, con cui mirabilmente andò sempre d'accordo la saggia imperatrice Plotina. La città di Marcianopoli, capitale della Mesia, per attestato di Ammiano [Ammianus, lib. 27.] e di Giordano [Jordan, de Reb. Geticis.], prese il nome da lei. Ebbe anche Marciana il titolo d'Augusta, che si trova in varie iscrizioni e monete. Da lei nacque una Matidia, madre di Giulia Sabina, che fu moglie di Adriano Augusto, e per quanto si crede, di un'altra Matidia.
Le prime applicazioni di Trajano, dacchè fu egli giunto a Roma, furono a cattivarsi l'amore del pubblico colla liberalità [In Panegyr.]. Aveva egli già pagato alle milizie la metà del regalo che loro solea darsi dai novelli imperadori. Ai poveri cittadini romani diede egli l'intero congiario, volendo che ne partecipassero anche gli assenti e i fanciulli: spesa grande, ma senza arricchire gli uni colle sostanze indebitamente rapite ad altri, come in addietro si facea da' principi simili alle tigri, le quali nudriscono i lor figliuoli colla strage d'altri animali. Da gran tempo si costumava in Roma, che la repubblica distribuiva gratis di tanto in tanto una prodigiosa quantità di grano e di altri viveri al basso popolo dei cittadini liberi, perchè anch'esso riteneva qualche parte nel dominio e governo. Ma i fanciulli che aveano meno di undici anni, non godevano di tal distribuzione. Trajano volle ancor questi partecipi [384] della pubblica liberalità. E perciocchè, siccome dicemmo, Nerva avea ordinato, che anche per le città dell'Italia a spese dei pubblici erari si alimentassero i figliuoli orfani della povera gente libera: diede alle città danari e rendite, affinchè fosse conservato ed accresciuto questo buon uso. Rallegrò parimente il popolo romano con alcuni giuochi e spettacoli pubblici, conoscendo troppo il genio di quella gente a sì fatti divertimenti. Per altro non se ne dilettava egli; anzi cacciò di nuovo da Roma i pantomimi, come indegni della gravità romana. Cura particolare ebbe dell'annona, con levar via tutti gli abusi e monopolii, con formare e privilegiare il collegio de' fornai: di modo che non solo in Roma, ma per tutta l'Italia si vide fiorire l'abbondanza del grano, talmente che l'Egitto, solito ad essere il granaio dell'Italia, trovandosi carestioso in quest'anno, per avere il Nilo inondato poco paese, potè ricevere soccorso di biade dall'Italia stessa. Ma ciò che maggiormente si meritò plauso da ognuno, fu l'aver anch'egli più rigorosamente di quel che avessero fatto Tito e Nerva, ordinato processi e gastighi contra dei calunniosi accusatori, che sotto Domiziano erano stati la rovina di tanti innocenti. Nella stessa guisa ancora abolì l'azione di lesa maestà, ch'era in addietro l'orrore del popolo romano. Ogni menoma parola contra del governo si riputava un enorme delitto. Ma egregiamente intendeva Trajano, essere proprio de' buoni principi l'operar bene, senza poi curarsi delle vane dicerie dei sudditi: laddove i tiranni, male operando, esigerebbono ancora, che i sudditi fossero senza occhi e senza lingua; nè badano che coi gastighi maggiormente accendono la voglia di sparlare di loro e l'odio universale contra di sè stessi. Assistè Trajano nell'anno presente, come persona privata ai comizi, nei quali si dovea far l'elezion de' consoli per l'anno seguente. Fu egli disegnato console ordinario, ma si durò fatica a fargli [385] accettare questa dignità; ed accettata che l'ebbe, con istupore d'ognuno si vide il buon imperadore andarsi ad inginocchiare davanti al console, per prestare il giuramento come solevano i particolari: e il console, senza turbarsi, lasciò farlo. Altri consoli da sostituire agli ordinari, furono anche allora disegnati, siccome dirò nell'anno seguente.
Anno di | Cristo C. Indizione XIII. |
Evaristo papa 5. | |
Trajano imperadore 3. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano per la terza volta, e Marco Cornelio Frontone per la terza.
Gran disputa fra gli eruditi illustratori de' Fasti consolari [Panvinus, Pagius, Tillemont, Stampa.] è stata e dura tuttavia, senza aver mezzo finora da deciderla, quale sia stato il collega ordinario di Trajano nel presente consolato, cioè chi con lui procedesse console nelle calende di gennaio. Parve al cardinal Noris [Noris, Ep. Consul.] più probabile che fosse Sesto Giulio Frontino per la terza volta, scrittore rinomato per li suoi libri, conservati sino ai dì nostri. Poscia inclinò piuttosto a crederlo Marco Cornelio Frontone per la terza volta, come avea tenuto il Panvinio, e tenne dipoi anche il Pagi. L'imbroglio è nato dalla vicinanza dei cognomi di Frontone e Frontino. Certo è che Frontone fu console in quest'anno. E perciocchè sappiamo da Plinio [Plinius, in Panegyr.], essere stati disegnati per quest'anno oltre all'Augusto Trajano due altri, che serebbono consoli per la terza volta, perciò alcuni han creduto anche Frontino console nell'anno presente; ma senza apparire in qual anno preciso, tanto egli quanto Frontone, avessero conseguito gli altri due consolati. Credesi ben comunemente, che nelle calende di settembre [386] fossero sostituiti in quella illustre dignità Cajo Plinio Cecilio Secondo comasco, celebre scrittore di lettere, e del panegirico di Trajano, ch'egli per ordine del senato compose e recitò in questa congiuntura, e Spurio Cornuto Tertullo, personaggio anch'esso di gran merito. Secondo il Panvinio e l'Almeloven, nelle calende di novembre succederono Giulio Feroce ed Acutio Nerva. Ma io [Thesaurus Novus Inscript., pag. 305, n. 5.] ho prodotta un'iscrizione posta nel dì 29 di dicembre dell'anno presente, da cui ricaviamo essere allora stati consoli Lucio Roscio Eliano e Tiberio Claudio Sacerdote. Benchè fosse assai conosciuto in Roma il mirabil talento di Trajano Augusto, pure assunto ch'egli fu al trono, maggiormente comparì qual era, con vedersi inoltre un avvenimento ben raro, cioè ch'egli non mutò punto nella mutazion dello stato i buoni suoi costumi, anzi li migliorò; e che l'altezza del suo grado e della sua autorità servì solamente a far crescere le sue virtù. Fasto e superbia sparivano le azioni di molti suoi predecessori [Plinius, in Panegyr.]. Continuò egli, come prima, la sua affabilità, la sua modestia, la sua cortesia. Ammetteva alla sua udienza chiunque lo desiderava, trattando con tutti civilmente, e massimamente onorando la nobiltà, ed abbracciando e baciando i principali: laddove gli altri Augusti, stando a sedere, appena porgeano la man da baciare. Gli stava fitta in mente questa massima, che un sovrano in vece d'avvilirsi coll'abbassarsi, tanto più si fa rispettare e adorare. Usciva egli con un corteggio modesto e mediocre; nè andavano già innanzi lacchè o palafrenieri per fargli largo colle bastonate, anzi egli talvolta si fermava nelle strade, per lasciar che passasse qualche carro o carrozza altrui. Per un imperadore era assai frugale la sua tavola, ma condita dall'allegria di lui e da quella di varie persone savie e scelte, [387] ch'erano or l'una, or l'altra invitate [Eutropius, in Breviar.]. Distinzione di posto non voleva alla sua mensa, nè sdegnava di andare a desinare in casa degli amici, di portarsi alle lor feste, di visitarli malati, di andar talvolta nelle loro carrozze. In somma, per quanto poteva, si studiava di trattar con tutti, non meno in Roma che per le provincie, con tanta civiltà e moderazione, come se non fosse il sovrano, ma un loro eguale, ricordando a sè stesso, che egli comandava bensì agli uomini, ma ch'era uomo anch'egli. E perchè un dì gli amici suoi il riprendevano, perchè eccedesse nella cortesia verso d'ognuno, rispose quelle memorande parole: Tale desidero d'essere imperadore verso i privati, quale avrei caro che gl'imperadori fossero verso di me se fossi uomo privato. Lo stesso Giuliano Apostata [Julianus, de Caesaribus.], che andò cercando tutte le macchie e i nei dei precedenti Augusti, non potè non confessare, che Trajano superò tutti gli altri imperadori nella bontà e nella dolcezza: il che punto non facea scemare in lui la maestà, e ne' sudditi il rispetto verso di lui. Per questa via, e col mostrar amore a tutti, egli era sommamente amato da tutti, odiato da niuno; e dappertutto si godeva una somma pace e un'invidiabil tranquillità, come si fa nelle ben regolate famiglie.
L'adulazione come in paese suo proprio suol abitar nelle corti; non già in quella di Trajano, che l'abborriva [Plinius, in Panegyrico.]. E però neppur gradiva che se gli alzassero tante statue, come in addietro si era praticato con gli altri Augusti, e di rado permetteva che si gli facesse quest'onore, nè altri che puzzassero di adulazione. Per altro mostrava egli piacere, che il nome suo comparisse nelle fabbriche da lui fatte o risarcite, e nelle iscrizioni de' particolari; laonde apparendo poi esso in tanti luoghi, diede motivo ad alcuni [388] di chiamarlo per ischerzo [Ammianus, lib. 27. Aurelius Victor, in Epitome.] Erba Parietaria, erba che si attacca alle muraglie. Ma conferendo le cariche, neppur voleva esserne ringraziato, quasi ch'egli fosse più obbligato a chi le riceveva, che essi a lui. Le ordinarie sue occupazioni consistevano in dar udienze a chi ricorrea per giustizia, per bisogni, per grazie, con ispedir prontamente gli affari, specialmente quelli che riguardavano il ben pubblico. Sapeva unire la clemenza, la piacevolezza colla severità e costanza nel punire i cattivi, nel rimediare alle ingiustizie de' magistrati, nel pacificar fra loro le città discordi. Sotto di lui in materia criminale non si proferiva sentenza contro di chi era assente; nè per meri sospetti, come si usava in addietro, si condannava alcuno. Un bellissimo suo rescritto vien riferito ne' Digesti [Lege 5. Digestis de Poenis.], cioè: Meglio è in dubbio lasciar impunito un reo, che condannare un innocente. Sotto altri principi il fisco guadagnava sempre le cause. Non già sotto Trajano, che anche contra di sè amava che fosse fatta giustizia. Quanto era egli lontano dal rapire la roba altrui, altrettanto era alieno dal nuocere o inferir la morte ad alcuno. A' suoi tempi un solo de' senatori fu fatto morire, ma per sentenza del senato, e senza notizia di lui, mentre era lungi da Roma: tanto era il rispetto ch'egli professava a quel nobilissimo ordine [Plinius, in Panegyr.]. Ed appunto in quest'anno fu bel vedere, come creato console egli si contenesse nel senato, in esercitando quest'eminente dignità. Nel primo giorno dell'anno volle salito in palco nella pubblica piazza prestare il giuramento di osservar le leggi, solito a prestarsi dagli altri consoli, ma non dagl'imperatori, che se ne dispensavano. Portatosi al senato, ordinò ad ognuno di dire con libertà e sincerità i lor sentimenti, con sicurezza di non dispiacergli. Così diceano [389] anche gli altri Augusti, ma non di cuore, e i fatti poi lo mostravano. Ordinò ancora, che ai voti, i quali non meno in Roma che per le provincie nel dì 3 di gennaio si faceano per la salute dell'imperadore, s'aggiugnesse questa condizione: Purché egli governi a dovere la Repubblica e procuri il bene di tutti. Egli stesso in pregare gli dii per sè medesimo, solea dire: Se pure la meriterò, se continuerò ad essere quale sono stato eletto, e se seguirò a meritar la stima e l'affetto del Senato. Con tal pazienza accudiva egli ai pubblici affari, ascoltava i dibattimenti delle cause, e con tanta attenzione distribuiva le cariche, promovendo sempre chi andava innanzi nel merito, che il senato non potè contenersi dal palesar la sua gioia con delle acclamazioni, che mossero le lagrime al medesimo Trajano, coprendosi intanto il di lui volto di rossore, cioè di un contrassegno vivo della sua modestia. E verisimilmente il senato circa questi tempi conferì a Trajano il glorioso titolo di Ottimo Principe. Plinio nelle sue epistole parla di molte cause agitate in questi tempi nel senato, con aver Trajano ben disaminati i processi, e custodita rigorosamente l'osservanza delle leggi. Il primo gran dono che fa Dio agli uomini, quello è di dar loro un buon naturale, un intendimento chiaro e un'indole portata solamente al bene. Convien ben dire, che ottimo fosse il talento di Trajano, dacchè confessano gli storici, ch'egli poco o nulla avea studiato di lettere, ed era mancante d'eloquenza. Ma il suo ingegno e giudizio, e il pendìo a quel solo che è bene, supplivano questo difetto. E però, benchè non fosse letterato, sommamente amava e favoriva i letterati, e chiunque era eccellente in qualsivoglia professione.
Anno di | Cristo CI. Indizione XIV. |
Evaristo papa 6. | |
Trajano imperadore 4. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la quarta volta, e Sesto Articolajo.
Credesi che l'uno di questi consoli avesse nelle calende di marzo per successore nel consolato Cornelio Scipione Orfito, e che nelle calende di marzo fossero sostituiti Bebio Macro e Marco Valerio Paolino; e poi nelle calende di luglio procedessero colla trabea consolare Rubrio Gallo e Quinto Celio Ispone. Trovasi un'iscrizione, da me [Thesaurus Novus Veter. Inscript., pag. 316, num. 2.] riferita, posta a Marco Epulejo (forse Apulejo) Procolo Cepione Ispone, ch'era stato console. Sarebbe da vedere se si tratti del suddetto Ispone. Per me ne son persuaso, quantunque chiaro non apparisca in qual anno cada il di lui consolato. Han creduto molti storici, che in quest'anno avvenisse la prima guerra di Trajano contra dei Daci. Tali nondimeno son le ragioni addotte dal giudiziosissimo cardinal Noris [Noris, Epistola Consulari.], che pare doversi la medesima riferire all'anno seguente. Nulladimeno il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], scrittore anch'esso accuratissimo, inclinò a giudicarla succeduta in questo anno. Più sicuro a me sembra il differirla al seguente, quantunque si possa credere cominciata la rottura nel presente. Già vedemmo fatta da Domiziano una vergognosa pace con Decebalo re dei Daci, a cui egli s'obbligò di pagare ogni anno certa somma di danaro a titolo di regalo, che in fatti era un tributo. All'animo grande di Trajano parve troppo ignominiosa una sì fatta concordia e condizione, nè egli si sentì voglia di pagare [Dio, lib. 68.]. Per questo rifiuto Decebalo cominciò a formare un possente armamento, e a minacciar le terre [391] dell'imperio con delle sgarate. Forse anche le sue genti commisero qualche ostilità. Portossi perciò nell'anno susseguente l'Augusto Trajano in persona a que' confini, per dimandargliene conto; ed allora, come io vo' credendo, ebbe principio la prima guerra dacica. Non istette certamente in ozio in questi tempi Trajano. Stendevasi la di lui provvidenza e liberalità a tutte le parti dell'imperio. Abbiamo da Eutropio [Eutropius, in Breviario.], ch'egli riparò le città della Germania, situate di là dal Reno. Potrebbe ciò essere succeduto nell'anno presente. E senza questo noi sappiamo ch'egli fece far infinite fabbriche per le città romane, e porti, e strade, ed altre opere, o per utilità o per ornamento; ed era facile a concedere ad esse città privilegi ed esenzioni, e a sollevarle ne' lor bisogni. Tale ancora il provavano i particolari. Bastava avere avuta con lui anche una mediocre familiarità, e poi chiedere. A chi ricchezze, a chi compartiva onori, rimandando consolati gli altri colla promessa di dar ciò che allora non potea. Ma particolarmente premiava egli chi avea più merito; e laddove sotto i precedenti Augusti chi era uomo di petto, e odiava la servitù, e solea parlar franco, o dispiaceva, o correva pericolo dell'esilio o della vita: questi da Trajano erano i più stimati, ben voluti ed esaltati. E tuttochè la nobiltà sua propria si stendesse poco indietro, pure gran cura avea egli di chi procedeva dagli antichi nobili romani, e li preferiva agli altri negl'impieghi. Ne' tempi addietro troppo spesso si vide, che i liberti degl'imperatori la faceano da padroni del pubblico e della corte stessa [Plinius, in Panegyrico.]. Trajano, scelti i migliori fra essi, se ne serviva bensì, e li trattava assai bene; ma in maniera che si ricordassero sempre della lor condizione, e d'essere stati schiavi; e che, per piacere, altra maniera non v'era, che d'essere uomini dabbene [392] e persone amanti dell'onore [Plinius, lib. 10, ep. 3.]. Proibì alle città il far dei regali col danaro del pubblico, ma non volle che si potessero ripetere i fatti prima di venti anni addietro, per non rovinar molte persone, conchiudendo il suo rescritto a Plinio: Perchè a me appartiene di non aver men cura del bene de' particolari, che di quello del pubblico. Così procurava egli anche alle città il risparmio delle spese. Però sapendo [Idem, lib. 4, epist. 22.] questa sua buona intenzione Trebonio Rufino, duumviro, cioè principal magistrato scelto dal popolo di Vienna del Delfinato, proibì che si facessero in quella città i giuochi ginnici, i quali, oltre alla spesa, riuscivano anche scandalosi e contrari a' buoni costumi, perchè gli uomini nudi alla presenza di tutto il popolo faceano la lotta. S'opposero i cittadini. Fu portato l'affare a Trajano, che raccolse i voti de' senatori. Fra gli altri Giulio Maurino sostenne, che non si doveano permettere que' giuochi a quelle città, e poi soggiunse: Volesse Dio, che si potessero anche levar via da Roma, città perduta dietro a simili sconci divertimenti.
Anno di | Cristo CII. Indizione XV. |
Evaristo papa 7. | |
Trajano imperadore 5. |
Consoli
Gajo Sosio Senecione per la terza volta e Lucio Licinio Sura per la seconda.
Certo è bensì che Sura fu console ordinario nell'anno presente. Non v'ha la medesima certezza di Senecione. Il solo Cassiodoro quegli è, che cel mette davanti. Discordano gli altri fasti. Ho io seguitato in ciò i più che han trattato de' consoli. Erano questi due i più cari e favoriti che s'avesse Trajano, degni bene amendue della di lui confidenza ed affetto, perchè ornati di tutte quelle virtù [393] che si ricercano in chi dee servire ad un buon principe. Ma specialmente [Aurelius Victor, in Epitome. Dio, lib. 68.] amava egli Licinio Sura, per gratitudine, avendo questi cooperato non poco, affinchè Nerva adottasse Trajano. Salì questo Sura a tal ricchezza e potenza, che a sue proprie spese edificò un superbo ginnasio, o sia la scuola de' lottatori al popolo romano. Non andò egli esente dai soffi dell'invidia, compagna ordinariamente delle grandi fortune, avendo più d'uno procurato d'insinuare in cuor di Trajano dei sospetti della fedeltà di questo suo favorito, calunniandolo come giunto a meditar delle novità contra di lui. Trajano, la prima volta che Sura l'invitò seco a pranzo, v'andò senza guardie. Volle per una flussione che aveva agli occhi, farseli ugnere dal medico di Sura. Fatto anche venire il di lui barbiere, si fece radere la barba: chè così allora usavano i Romani. Adriano fu quegli che poi introdusse il portarla. Dopo aver anche preso il bagno, Trajano si mise a tavola, e allegramente desinò. Nel dì seguente disse agli amici, che gli mettevano in mal concetto Sura: Se costui mi avesse voluto ammazzare, n'ebbe jeri tutta la comodità. Fu ammirato un sì fatto coraggio in Trajano, ben diverso da que' principi deboli che temono di tutto. Aggiugne Dione, che un altro saggio di questa sua intrepidezza diede Trajano. Nel crear sulle prime un prefetto del pretorio (si crede che fosse Saburano) dovea cingergli la spada al fianco. Nuda gliela porse, dicendo: Prendi questo ferro, per valertene in mia difesa, se rettamente governo: contra di me, se farò il contrario. Forse fu lo stesso Saburano, come conghiettura Giusto Lipsio, che gli dimandò licenza di ritirarsi, perchè Plinio [Plinius, in Panegyrico, §. 86.] attesta essere stato un prefetto del pretorio, che antepose il piacere della vita e della quiete agli onori della corte. Trajano, perchè gli dispiaceva di [394] perdere un uffizial sì dabbene, fece quanto potè per ritenerlo. Vedendolo costante, non volle rattristarlo col negargli la grazia; ma l'accompagnò sino all'imbarco, il regalò da par suo, e baciandolo, colle lagrime agli occhi il pregò di ritornarsene presto.
L'anno verisimilmente fu questo, in cui Trajano con poderosa armata marciò contro a Decebalo re dei Daci. Poco sappiamo delle avventure di quella guerra. Ecco quel poco che ne lasciò scritto Dione [Dio, lib. 68.]. Giunto che fu l'Augusto Trajano ai confini della Dacia, veggendo Decebalo tante forze in ordine, e un sì rinomato imperadore in persona venuto contra di lui, spedì tosto deputati per esibirsi pronto alla pace. Trajano, oltre al non fidarsi di lui, un gran prurito nudriva di acquistar gloria per sè e di ampliare il romano imperio: però, senza voler prestare orecchio a proposizione alcuna, andò innanzi. Si venne ad una terribil battaglia, che costò di gran sangue ai Romani, ma colla sconfitta de' nemici. Raccontasi che in tal congiuntura girando Trajano, per osservare se i soldati feriti erano ben curati, al trovare che mancavano fasce per legar le ferite, fece mettere in pezzi la veste propria, perchè servisse a quel bisogno. Con grande onore data fu sepoltura agli estinti; ed alzato un altare, acciocchè ne' tempi avvenire si celebrasse il loro anniversario. Col vittorioso esercito s'andò poi di montagna in montagna inoltrando Trajano, finchè pervenne alla capitale della Dacia, che si crede Sarmigetusa, città posta in quella provincia che oggidì appelliamo Transilvania; che divenne poi colonia de' Romani col nome di Ulpia Trajana [Thesaurus Novus Veter. Inscription., p. 1121, 7; 1127, 112.]. Nel medesimo tempo Lucio Quieto, Moro di nazione, uffizial valoroso, da un'altra parte fece grande strage e molti prigioni dei Daci; e a Massimo, uno de' generali, riuscì di prendere una buona fortezza; [395] entro la quale si trovò la sorella di Decebalo. Allora dovette accadere ciò che narra Pietro Patrizio [Petrus Patricius, de Legationib., Tom. 1, Hist. Byzantin.], cioè che Decebalo mandò a Trajano prima alcuni de' suoi conti, poscia altri de' suoi principali uffiziali a supplicarlo di pace, esibendosi di restituir l'armi e le macchine da guerra, e gli artefici guadagnati nella guerra fatta a' tempi di Domiziano [Dio, lib. 68.]. Accettò Trajano le proposizioni, con aggiugnervi che Decebalo smantellasse le fortezze, rendesse i disertori, cedesse il paese occupato ai circonvicini, e tenesse per amici e nemici quei del popolo romano. Decebalo, suo malgrado, venne a prostrarsi a' piedi di Trajano, e ad implorar la sua grazia ed amicizia. Non si sa, se in questa prima guerra e pace Trajano restasse in possesso di Sarmigetusa, e di quanto egli avea conquistato in quelle contrade. Certo è, che per questa impresa riportò egli il titolo di Dacico, nè aspettò a conseguirlo nell'anno seguente, come immaginò il Mezzabarba [Mediobarbus, Numismat. Imperator.]; ma nel presente, siccome ancora apparisce da due iscrizioni da me date alla luce [Thesaurus Novus Inscription., pag. 449, 2, 450, 1.], nelle quali è chiamato Dacico, correndo la sua tribunizia podestà V, che terminava circa il fine di ottobre in quest'anno.
Anno di | Cristo CIII. Indizione I. |
Evaristo papa 8. | |
Trajano imperadore 6. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la quinta volta e Lucio Appio Massimo per la seconda.
Intorno ai consoli di quest'anno han disputato vari letterati, pretendendo che il consolato quinto di Trajano, e il secondo di Massimo cadano nell'anno [396] seguente [Noris, Epistol. Consulari.]; e che ciò si deduca da due o tre medaglie, nelle quali Trajano, correndo la sua settima podestà tribunizia, è chiamato COnSul IIII. DESignatus V. Ma concorrendo gli antichi fasti ne' consoli sopraccitati, si può forse dubitare della legittimità di quelle monete, oppur di errore ne' monetari. Finchè si scuoprano migliori lumi, io mi attengo qui al Panvinio, al Pagi, al Tillemont e ad altri, che non ostante l'opposizione di quelle medaglie, mettono in quest'anno il consolato quinto di Trajano. Massimo, il secondo d'essi consoli, verisimilmente è quel medesimo che nell'anno precedente s'era segnalato nella guerra dacica, e fu premiato per la sua prodezza coll'insigne dignità del consolato. Era [Dio, lib. 68.] già tornato a Roma nel precedente anno il vittorioso Trajano. Perchè egli da saggio e buon principe cercava il proprio onore, nè dimenticava quello del senato romano, avea fra l'altre condizioni obbligato Decebalo a spedire ambasciatori a Roma, per supplicare il senato di accordargli la pace, e di ratificare il trattato. Vennero essi verisimilmente in quest'anno, e introdotti nel senato, deposero l'armi, e colle mani giunte a guisa degli schiavi, in poche parole esposero la lor supplica. Furono benignamente ascoltati, e confermata la pace: il che fatto, ripigliarono l'armi, e se ne tornarono al loro paese. Trajano dipoi celebrò il suo trionfo per la vittoria riportata dei Daci: e v'ha una medaglia [Mediobarbus, in Numism. Imperat.], creduta indizio di questo suo trionfo, dove comparisce la Tribunizia Podestà VII; il che può far credere differita questa funzion trionfale agli ultimi due mesi dell'anno corrente. Ma quivi egli è intitolato CONSUL IIII; il che si oppone alla credenza ch'egli nell'anno presente procedesse console per la quinta volta. Un qualche dì potrebbe disotterrarsi alcuna iscrizione o medaglia che dileguasse le tenebre, nelle quali resta [397] involto questo punto di storia e cronologia. Aveva Trajano trovato nelle parti della Dacia Dione Grisostomo eloquentissimo oratore e filosofo greco, di cui restano tuttavia le orazioni. Seco il condusse a Roma, e tale stima ne mostrò, che, se dice il vero Filostrato [Philostratos, in Sophist.], nel suo stesso carro trionfale il volle presso di sè, con volgersi di tanto in tanto a lui per parlargli e far conoscere al pubblico quanto l'apprezzasse. Al trionfo tenne dietro un combattimento pubblico di gladiatori, e un divertimento di ballerini che Trajano, dopo averli due anni prima cacciati di Roma, ripigliò, dilettandosi dei loro giuochi, e sopra gli altri amando Pilade uno di essi. Ma s'egli talvolta si ricreava con tali spettacoli, ciò non pregiudicava punto agli affari; e massimamente s'applicava il vigilante imperadore all'amministrazione della giustizia. Una bellissima villa era posseduta da Trajano a Centocelle, oggidì Cività Vecchia, dove egli andava talvolta a villeggiare, con attendere anche ivi alla spedizion delle cause e liti più rilevanti. Plinio [Plinius, lib. 4, epist. 31.] scrive d'essere stato chiamato a quel delizioso soggiorno (probabilmente in quest'anno) per assistere ad alcuni giudizii ch'egli descrive. Fra gli altri era accusato Euritmo, liberto e procurator di Trajano, di aver falsificati in parte i codicilli di Giulio Tirone, i cui eredi alla presenza di Trajano pareva che non si attentassero a proseguir la causa, trattandosi di un uffizial di casa del principe. Fece lor animo il giusto principe, con dire: Eh che colui non è Policleto (liberto favorito di Nerone) nè io son Nerone. Abbiamo dal medesimo Plinio, che Trajano in questi tempi facea fabbricare un porto vastissimo a foggia di un anfiteatro. Già era compiuto il braccio sinistro, si lavorava al destro, e vi si andavano conducendo per mare grossissimi sassi. Tolomeo [Ptolomaeus, Geograph.] parla del [398] porto di Trajano, lo stesso che oggidì Cività Vecchia; e Rutilio nel suo Itinerario ne fece la descrizione [Rutilius, in Itinerar.].
Anno di | Cristo CIV. Indizione II. |
Evaristo papa 9. | |
Trajano imperadore 7. |
Consoli
Lucio Licinio Sura per la terza volta, e Publio Orazio Marcello.
Il cardinal Noris, il Fabretti e il Mezzabarba stimarono che questi fossero i consoli dell'anno precedente, e che nel presente Trajano Augusto per la quinta volta, insieme, con Appio Massimo, amministrassero il consolato. Finchè si possa meglio chiarir questo punto, io seguito gli antichi Fasti, abbracciati in ciò anche dal Panvinio, dal Pagi, dal Tillemont e da altri. Disputa ancora c'è intorno al primo d'essi consoli, credendo alcuni ch'egli sia stato non già Sura, ma Suburrano. Sarebbe da desiderare qualche marmo che decidesse la quistione. Uno dei più riguardevoli amici di Trajano fu il suddetto Orazio Marcello. Le conghietture dei migliori letterati concorrono [Loydius, Pagius, Tillemont et alii.] a persuaderci, che in quest'anno prendesse origine la seconda guerra dacica. Non sapea digerir Decebalo la pace fatta con Trajano, perchè comperata con troppo dure condizioni; e però subito che si vide rimesso in arnese, cominciò delle novità, e a chiedere un nuovo accordo, lamentandosi specialmente, che molti dei suoi sudditi passavano al servigio dei Romani. Perchè nulla potè ottenere, determinò di venir di bel nuovo all'armi [Dio, lib. 68.]. Diedesi dunque a far gente, a fortificar i suoi luoghi, ad accogliere i disertori romani, e a sollecitare i circonvicini popoli, acciocchè entrassero seco in lega, per timore, diceva egli, che un dietro l'altro non rimanessero oppressi dall'armi romane. [399] Gli Sciti, cioè i Tartari, ed altre nazioni si unirono con lui. A chi ricusò di sposare i di lui disegni, fece aspra guerra, e tolse ancora ai Jazigi una parte del loro paese. Queste furono le cagioni, per le quali il senato romano dichiarò Decebalo nemico pubblico, e Trajano fece tutti gli opportuni preparamenti per domarne la ferocia. Se sussiste ciò che racconta Eusebio [Euseb., in Chron.], in quest'anno Roma vide bruciata la casa d'oro, cioè, per quanto si può credere, una parte di quella fabbricata da Nerone, che si dovea essere salvata nell'incendio precedente. Furono di parere il Loidio e il Tillemont, che circa questi tempi Plinio il giovane, già stato console, fosse inviato da Trajano al governo del Ponto e della Bitinia, non come proconsole, ma come vicepretore colla podestà consolare. Scabrosa è la quistione del tempo in cui ciò avvenne, e mancano notizie per poterla decidere. A me perciò sarà lecito di differir più tardi quest'impiego di Plinio, siccome han fatto il Noris, il Pagi, il Bianchini ed altri.
Anno di | Cristo CV. Indizione III. |
Evaristo papa 10. | |
Trajano imperadore 8. |
Consoli
Tiberio Giulio Candido per la seconda volta e Aulo Giulio Quadrato per la seconda.
Tre iscrizioni spettanti a questi consoli ho io rapportate altrove [Thesaurus Novus Inscription., pag. 316, n. 3 et seq.]. Credesi che l'anno presente quel fosse, in cui l'Augusto Trajano imprese la seconda sua spedizione contra di Decebalo re dei Daci, per aver egli creduta necessaria la sua presenza anche questa volta contro ad un sì riguardevole avversario, e che non fosse impresa da fidare ai soli suoi generali. Adriano, suo cugino, che fu poi imperadore, ed era stato in quest'anno [400] tribuno della plebe [Spartianus, in Hadriano.], andò servendolo per comandante della legione minervia, e vi si portò così bene, che Trajano il regalò di un diamante, a lui donato da Nerva [Dio, lib. 68.]. Non erano certamente le forze di Decebalo tali da poter competere con quelle di Trajano, il quale seco menava un potentissimo agguerrito esercito. Perciò tentò il Dacio altre vie per liberarsi, se gli veniva fatto, dall'imminente tempesta, con inviar nella Mesia, dov'era giunto l'imperadore, dei disertori bene instruiti per ucciderlo. Poco mancò che non succedesse il nero attentato, perchè Trajano, oltre alla sua facilità di dare in tutti i tempi udienza, spezialmente la dava a tutti nell'occorrenze della guerra. Per buona fortuna osservati alcuni cenni di un di costoro, fu preso, e messo a' tormenti, confessò le tramate insidie: il che sconcertò anche le misure degli altri. Un'altra vigliaccheria pur fece Decebalo. Dato ad intendere a Longino uno de' più sperimentati generali d'armi che s'avessero i Romani, di volersi sottomettere ai voleri dell'imperadore, l'indusse a venire ad una conferenza con lui; ma da disleale il ritenne prigione, sforzandosi poi di ricavar da lui i disegni e segreti di Trajano. La costanza di questo generale in tacere fu qual si conveniva ad un uomo d'onore par suo. Decebalo il fece bensì slegare, ma il mise sotto buone guardie, con iscrivere poscia a Trajano d'essere pronto a rilasciar Longino, ogni volta che si volesse trattar di pace: altrimenti minacciava di torgli la vita. Trajano, benchè irritato forte dall'iniquo procedere di costui, gli rispose con molto riguardo, cioè mostrando di non fare tal caso della persona e salute di Longino, che volesse comperarla troppo caro; ma senza trascurare la difesa della vita di quel suo uffiziale. Stette in forse Decebalo, qual risoluzione ne avess'egli da prendere intorno a Longino; e perchè forse [401] si lasciò intendere di volerlo far morire sotto i tormenti, Longino guadagnò un liberto d'esso Decebalo, che gli procurò del veleno; e, per salvarlo dalle mani del padrone, ottenne di poterlo spedire a Trajano, sotto pretesto di procurar un accordo. Il che eseguito, prese Longino il veleno, e si sbrigò dal mondo. Allora Decebalo inviò a Trajano un centurione già fatto prigione con Longino, e seco dieci altri prigionieri, esibendogli il corpo di Longino, perchè Trajano gli restituisse quel liberto. Ma l'imperadore che trovava aliena dal decoro del romano imperio una tal proposizione, nè gli volle consegnare il liberto, e neppur lasciò tornare a lui il centurione, siccome preso contro il diritto delle genti.
Pare che fondatamente si possa dedurre da quanto narra Dione [Dio, lib. 68.], che nel presente anno nulla di rilevante fosse operato da Trajano per conto della guerra contra di Decebalo. Le applicazioni sue prima di esporsi a maggiori imprese, consisterono in far fabbricar un ponte di pietra sul Danubio. Considerava il saggio condottiere d'armate, che essendo egli passato di là da quel fiume, se venissero assaliti i Romani dai Barbari, poteva esser loro impedito il ritirarsi di qua, ed anche il ricevere nuovi rinforzi. Però volendo assicurarsi di simili pericolosi avvenimenti, e mettere una stabile buona comunicazione fra il paese signoreggiato di qua e di là dal Danubio, volle prima che si edificasse un ponte su quel fiume, per quanto credono alcuni [Cellarius Georg., Tom. I.], tra Belgrado e Widen: intorno a che è da vedere il Danubio del conte Marsigli [Marsilius, in Danubii descriptione.]. Altre opere di somma magnificenza fece Trajano, ma questa andò innanzi alle altre, per sentimento di Dione, il quale non sapea abbastanza ammirarla nè decidere qual fosse più grande, o la spesa occorsa per sì gran lavoro, o l'arditezza del disegno. Ognun sa che [402] vastissimo fiume sia in quelle parti il Danubio, e tuttochè fosse scelto pel ponte il più stretto che si potesse dell'alveo suo, ciò nonostante occorreva un ponte di lunga estensione; e cresceva anche la difficoltà, perchè le acque ristrette in quel sito tanto più veloci e rapide correano, e il fondo del fiume, ricco sempre d'acque, era profondissimo e pieno di gorghi di fango. Ma alla potenza e al voler di un Trajano nulla era difficile. Senza poter divertire le acque del fiume, quivi furono piantate venti smisurate pile tutte di grossissimi marmi quadrati, alte cento cinquanta piedi senza i fondamenti, larghe sessanta, distanti l'una dall'altra cento settanta, ed unite insieme con archi e volte. L'architetto fu Apollodoro Damasceno: [Procopius, lib. 4, de Ædific.] e di qua e di là da esso ponte furono fabbricati due forti castelli per guardia del medesimo. Eppure questa mirabil fabbrica da lì a pochi anni si vide in parte smantellata, non già dai barbari, ma da Adriano successor di Trajano, col pretesto, che per quel medesimo ponte i Barbari potrebbono passare ai danni de' Romani. Ma da quando in qua non potea la potenza romana difendere un ponte, difeso da due castelli? Oltre di che, nel verno tutto il Danubio agghiacciato non era forse un vasto ponte ai Barbari per passar di qua, se volevano? Però fu creduto, e con più ragione, che Adriano, mosso da invidia per non poter giugnere alla gloria di Trajano, così gloriosa memoria di lui volesse piuttosto distrutta. Vi restarono in piedi solamente le pile; e queste ancora a' tempi di Procopio non comparivano più. In questo anno parimente, per quanto si raccoglie dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imperat.], e da Dione [Dio, lib. 68.], l'Arabia Petrea, che avea in addietro avuti i propri re, fu sottomessa con altri popoli all'imperio romano per valore di Auto Cornelio Palma governatore della Soria, e stato già console [403] nell'anno 99. Una nuova Era perciò cominciarono ad usar le città di Samosata, Bostri, Petra ed altre di quelle contrade.
Anno di | Cristo CVI. Indizione IV. |
Evaristo papa 11. | |
Trajano imperadore 9. |
Consoli
Lucio Ceionio Comodo vero e Lucio Tuzio Cereale.
Il primo di questi consoli, cioè Comodo Vero, fu padre di Lucio Vero, che noi vedremo a suo tempo adottato da Adriano Augusto. Il secondo console nella cronica di Alessandria è chiamato Ceretano in vece di Cereale, e fu creduto dal Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] diverso da Tuzio Cereale. Ma sufficiente ragione non v'ha, per aderire alla di lui opinione, siccome neppure di tener con lui, che nell'anno precedente avesse fine la seconda guerra dacica. Chiaramente scrive Dione [Dio, lib. 68.], che Trajano, dopo aver fatto il meraviglioso ponte sul Danubio (impresa che senza fallo costò gran tempo e danari), passò di là da quel fiume, e fece la guerra piuttosto con sicurezza, che con celerità; non volendo arrischiar combattimenti, e procedendo a poco a poco nel paese nemico. Plinio [Plinius, lib. 8, Epistol. 4.] con poche parole riconosce, che immense fatiche durò l'esercito romano, guerreggiando in que' montuosi paesi, e gli convenne accamparsi in montagne scoscese, condurre fiumi per nuovi alvei, e far altre azioni, che pareano da non credersi, come simili alle fole. Dione [Dio, lib. 68.] aggiugne, aver Trajano in tal congiuntura dati segni di singolar valore e di savia condotta, e che l'esempio suo servì ai soldati per gareggiare insieme in esporsi a molti pericoli, e per giugnere al sommo [404] della bravura. Fra gli altri un cavaliere che, ferito in una zuffa, fu portato alle tende per farsi curare, dacchè intese disperata la di lui guarigione, mentr'era ancor caldo, rimontò a cavallo, e tornato alla mischia, vendè ben caro ai nemici il poco che gli restava di vita. Le apparenze sono, che nè pure in quest'anno con tutti i suoi progressi Trajano terminasse la guerra suddetta, come altri han creduto. Tutte le medaglie [Mediobarb., in Numism. imperator.] riferite dall'Occone e dal Mezzabarba, per indizio che nel presente anno Decebalo fosse vinto, e ridotta la Dacia in provincia dell'imperio romano, nulla concludono, perchè possono appartenere anche nell'anno 107 e 108. Però chi dei moderni scrive, che Trajano non solamente tornò in quest'anno a Roma, e dopo avere ordinata una strada per le paludi pontine, partì tosto alla volta dell'Oriente, con trovarsi in Antiochia ne' primi giorni dell'anno seguente, probabilmente anticipò di troppo le di lui imprese. E noi abbiamo bensì dalla cronica alessandrina [Cronicum Paschale, seu Alexandrinum.] sotto quest'anno, che mossa guerra dai Persiani, dai Goti, e da altri popoli al romano impero, Trajano marciò contra di loro e sospese l'esazion de' tributi sino al suo ritorno; ma questo ha ciera di favola. Più che mai abbisognava egli allora di danaro; e senza dubbio avvenne molto più tardi la guerra co' Persiani, o sia co' Parti. Può ben verificarsi quella guerra dacica, perchè sotto nome di Goti venivano in que' tempi anche i Daci, come attestano Dione e Giordano. Rapporta il Panvinio [Panvinius, Fast. Consular.] a quest'anno l'iscrizione posta a Lucio Valerio Pudente, il quale, benchè in età di soli tredici anni, nel sesto lustro de' giuochi capitolini fatti in Roma, fu vincitore, e riportò la corona sopra gli altri poeti latini.
Anno di | Cristo CVII. Indizione V. |
Evaristo papa 12. | |
Trajano imperadore 10. |
Consoli
Lucio Licinio Sura per la terza volta, e Caio Sosio Senecione per la quarta.
Ma questo Sura da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.] vien detto Consul bis nell'anno presente insieme con Serviano. All'incontro il Panvinio [Panvinius, Fast. Consular.] con altri fu di parere, che i due suddetti ordinari consoli nelle calende di luglio avessero per successori Cajo Giulio Servilio Orso Serviano, che avea sposata Paolina sorella di Adriano, e cugina di Trajano, e fu molto amico di Plinio, e Surano per la seconda volta. Certo non mancano imbrogli ne' fasti consolari; ed è ben facile il prendere degli abbagli nell'assegnare ai consoli sostituiti il preciso anno del loro consolato. Nel presente si può ragionevolmente credere che Trajano, con felicità bensì, ma dopo immense fatiche, conducesse a fine la seconda guerra contro de' Daci. Per attestato di Dione [Dio, lib. 68.] s'impadronì egli della reggia di Decebalo, o sia della capitale della Dacia, chiamata Sarmigetusa: il che reca indizio, ch'egli non ne fosse restato in possesso nella pace stabilita dopo la prima guerra. Pertanto Decebalo, veggendosi spogliato di tutto il suo paese, ed in pericolo ancora di restar preso, piuttosto che venire in man dei nemici, si diede la morte da sè stesso, e il capo suo fu portato a Roma. Così pervenne tutta la Dacia in potere del popolo romano, e Trajano ne formò una provincia, con fondare in Sarmigetusa una colonia, nominata nelle iscrizioni della Transilvania, che il Grutero ed io [Gruterus, Thesaur. Inscription.] abbiam dato alla luce. In oltre abbiam da Dione che Decebalo, trovandosi in mal punto, affinchè i suoi tesori non [406] cadessero in mano de' Romani, distornò il corso del fiume Sargezia, che passava vicino al suo palazzo, e fatta cavare una gran fossa in mezzo al seccato lido di quel fiume, vi seppellì una gran copia d'oro, d'argento e d'altre cose preziose, che si poteano conservare. Quindi ricoperto il sito con terra e con grossi sassi, tornò a far correre l'acqua pel solito alveo. I prigioni da lui adoperati per quella fattura, acciocchè non rivelassero il segreto, furono tosto uccisi. Ma essendo poi stato preso dai Romani Bicilis, uno de' familiari più confidenti di Decebalo, questi scoprì tutto a Trajano, il quale ne seppe ben profittare. Rimasto spolpato quel paese, ebbe cura Trajano di mandarvi ad abitare un numero infinito di persone, e di fondarvi, oltre alla suddetta, altre colonie, che si veggono menzionate da Ulpiano [Lege Sciendum ff. de Censibus.]: con che divenne la Transilvania una fioritissima provincia de' Romani, essendosi perciò in quelle parti trovate negli ultimi due secoli molte iscrizioni romane, che si leggono presso il suddetto Grutero, presso il Reinesio, e nel mio nuovo Tesoro.
Anno di | Cristo CVIII. Indizione VI. |
Alessandro papa 1. | |
Trajano imperadore 11. |
Consoli
Appio Annio Trebonio Gallo e Marco Atilio Metilio Bradua.
V'ha chi dà il cognome di Treboniano al primo di questi consoli; ma in due iscrizioni, riferite dal Panvinio [Panvinius, Fast. Consul.], si legge Trebonio. Se crediamo al medesimo Panvinio, nelle calende di marzo succederono nel consolato Cajo Giulio Africano e Clodio Crispino. Ma un'iscrizione, conservata in Verona, e riferita dal marchese Scipione Maffei, e poscia anche da me [Thesaur. Novus Veter. Inscription., p. 317, num. 4.], ci fa sufficientemente conoscere, [407] che nel dì 23 di agosto dell'anno presente erano consoli Appio Annio Gallo e Lucio Verulano Severo, o pur Severiano. O sul fine del precedente anno, o nella primavera del presente, sbrigato dagli affari della Dacia, se ne ritornò Trajano a Roma, ed ivi celebrò il secondo suo trionfo dei Daci con magnifiche feste, e massimamente perchè correvano i decennali del suo imperio, che solevano solennizzarsi con gran pompa [Dio, lib. 68.]. Attesta Dione che, arrivato Trajano a Roma, vennero molte ambascerie di nazioni barbare, e fino dall'India a visitarlo, chi per bisogni, chi per ossequio. Quattro mesi durarono in Roma i pubblici spettacoli e divertimenti, consistenti per lo più in combattimenti di lioni e di altre feroci bestie, oppur di gladiatori. Giorni vi furono, nei quali si videro uccisi mille di questi fieri animali, e in più altri arrivò la somma a diecimila. Si fece conto che anche dieci migliaja di gladiatori diedero orrida mostra della lor arte, combattendo fra loro negli anfiteatri. In questi tempi ancora attese Trajano a formare e selciare una strada pubblica per le paludi pontine, con fabbricar anche case e ponti di gran magnificenza lungo di essa via, per comodo de' viandanti e del commercio. E perchè si trovava molta moneta o di bassa lega, o strozzata, o falsa; ordinò il saggio imperadore, che tutta fosse portata alla zecca, dove fu disfatta per rifarne della buona e di giusto peso. A quest'anno si crede che appartenga il terzo congiario o regalo, che Trajano diede al popolo romano, espresso da una medaglia, riferita dal Mezzabarba [Mediobarb., in Numism. Imperat.]. Mette il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] con altri scrittori in questi tempi la spedizion di Trajano contro de' Parti, o sia de' Persiani; ma certamente è da anteporre la sentenza d'altri, che molto più tardi parlano di quelle imprese. Succedette, secondo [408] la cronica di Damasco [Anastas., Bibliothec.], nel presente anno il glorioso martirio di santo Evaristo papa, in cui luogo fu posto Alessandro.
Anno di | Cristo CIX. Indizione VII. |
Alessandro papa 2. | |
Trajano imperadore 12. |
Consoli
Aulo Cornelio Palma per la seconda volta, e Cajo Calvisio Tullo per la seconda.
Si tien per certo, che a questi consoli ordinari fossero sostituiti (forse nelle calende di luglio) Publio Elio Adriano, che poi divenne imperadore, e Lucio Publilio, o piuttosto Publicio Celso. Era stato Adriano pretore in Roma nell'anno 107, per testimonianza di Sparziano [Spartian., in Vita Hadriani.], e Trajano gli avea donato due milioni di sesterzi, che si credono far la somma di cinquantamila scudi d'argento, acciocchè potesse celebrare i giuochi soliti a darsi da chi entrava in quel riguardevole uffizio. Pretende il Salmasio [Salmas., in Notis ad Spartian.], che Sparziano scrivesse il doppio. Fu nel precedente anno inviato con titolo di legato pretorio, o sia di vicepretore esso Adriano nella bassa Pannonia: mise in dovere i Sarmati, che aveano fatto qualche novità ne' confini dell'imperio romano; restituì la disciplina fra le milizie di quelle parti; e fece altre azioni, per le quali si meritò il consolato nell'anno presente. Non avea figliuoli Trajano, e Adriano suo cugino non ometteva diligenza ed arte alcuna per giungere a succedergli nell'imperio, aiutandosi spezialmente con far la corte alla imperadrice Plotina, e col tenersi amico Lucio Licinio Sura, uno de' favoriti di Trajano. Fu appunto in quest'anno, che Sura gli diede la buona nuova, qualmente Trajano [409] pensava di adottarlo; e perchè i cortigiani ed amici di esso imperadore scoprirono qualche barlume di questa sua intenzione, laddove prima mostravano di poco stimare, anzi di sprezzare Adriano, da lì innanzi cominciarono ad onorarlo, e a procacciarsi la di lui amicizia. Mancò poi di vita, forse circa questi tempi, il medesimo Sura. Trajano, che si serviva di lui per farsi dettar le allocuzioni al senato e al popolo, perchè egli sapea poco di lettere, non ignorando che Adriano, siccome persona letterata, era capace di servirlo in quella funzione, il volle presso di sè, e si valeva della di lui penna; il che gli accrebbe la familiarità e l'amor di Trajano. Al defunto Sura fece fare Trajano un solenne funerale, ed alzare una statua per gratitudine [Dio, lib. 68.]. Lo stesso fece egli dipoi alla memoria di Sosio Senecione e di Palma e di Celso, che abbiam detto essere stati consoli nell'anno presente, come ad amici suoi cari. Noi sappiamo che Cajo Plinio Cecilio Secondo, rinomatissimo autore del panegirico di Trajano, dopo essere stato console nell'anno 100, fu poi mandato con titolo di vicepretore al governo della Bitinia e del Ponto. Le sue lettere scritte di là a Trajano si leggono nel libro decimo. Ma per quanto finora abbiano disputato fra loro gli eruditi, non s'è potuto, nè si può decidere in qual anno egli fosse spedito colà. Il Loidio e il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] attribuirono la di lui andata al fine dell'anno 103; il cardinal Noris [Noris, Epist. Consulari.] al presente 109, o pure al susseguente, come ancor fece [Pagius, in Critic. Baron.] il padre Pagi. Eusebio [Eusebius, in Chron.] mette all'anno decimo di Trajano, cioè al 107 dell'Era nostra, la lettera celebre scrittagli da Plinio, esistente allora nella Bitinia. Idacio [Idacius, in Fastis.] ne parla all'anno 112. In tale incertezza di tempi sia lecito ai lettori l'attenersi a [410] quella opinione che più loro aggradirà, e a me di seguitar più tosto il Noris, il Pagi e il Bianchini. A questi tempi, ma colla medesima incertezza, vien riferita dal Mezzabarba [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.] e dal suddetto Bianchini [Blanchinius ad Anastasium.] la selciatura della via Trajana, fatta per ordine di esso Trajano. Altro essa non fu, che la via descritta da Dione, di cui si parlò al precedente anno, cioè la via Appia, che da Roma va a Capua: la più magnifica di quante mai facessero i Romani, ed opera di molti secoli avanti. Perchè la rimodernò ed arricchì Trajano di vari ponti e di fabbriche a canto alla medesima, perciò egli, o il pubblico le diede il nome di via Trajana. Credesi parimente che in questo anno Trajano dedicasse il Circo, cioè il Massimo, ristorato da lui co' marmi presi dalla Naumachia [Suetonius, in Domitiano, cap. 15.] di Domiziano.
Anno di | Cristo CX. Indizione VIII. |
Alessandro papa 3. | |
Trajano imperadore 13. |
Consoli
Servio Salvidieno Orfito e Marco Peduceo Priscinio.
Le iscrizioni pubblicate dal Fabretti, dal Bianchini e da me, ci assicurano tali essere stati i nomi e cognomi di questi consoli, che si trovavano ignorati o guasti presso i precedenti illustratori dei Fasti. Non si sa intendere, perchè il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imper.] e monsignor Bianchini pretendano, che solamente in quest'anno il senato accordasse a Trajano il glorioso titolo di Ottimo, quando questo titolo comparisce in tante altre medaglie, che si rapportano agli anni precedenti. Plinio anch'egli ne parla nel panegirico che dicemmo composto nell'anno 100. Dione [Dio, lib. 68.], per lo contrario, scrive che [411] solamente dopo le conquista dell'Armenia egli fu cognominato Ottimo. Vogliono i suddetti scrittori, che Trajano l'accettasse solamente in quest'anno. Ma non era tale la di lui umiltà, da far sì lunga resistenza a quest'elogio, per altro ben meritato da lui. Augusto non voleva esser chiamato Signore. Trajano all'incontro assai gradiva che gli si desse questo nome. Abbiamo da Eusebio [Euseb., in Chron.], che il famoso tempio del Panteon di Roma, oggidì la Rotonda, fu bruciato da un fulmine. Chi sa che in quella nobilissima fabbrica non entrava legno, crederà bensì che un folgore cadesse colà, ma che lo incendiasse, non saprà intenderlo. Sotto Nerone e sotto Domiziano, principi nemici della virtù, maraviglia non è, se fu perseguitata la santa religione di Cristo. Potrebbe ben taluno stupirsi, come essa trovasse un persecutore in Trajano [Euseb., Histor., lib. 3, cap. 31.], principe amator delle virtù, delle quali vera maestra è la sola religione de' Cristiani. Pure fuor di dubbio è, che sotto di lui la Chiesa di Dio patì la terza persecuzione, non già, come osservò il cardinal Baronio, ch'egli pubblicasse editto alcuno particolare contro di essi Cristiani, ma perchè riferito a lui, come si andava a gran passi dilatando la lor credenza con pregiudizio del dominante culto degl'idoli, con gravi lamenti de' falsi sacerdoti del Paganesimo, e con delle sollevazioni de' popoli contra chi professava la fede di Cristo; Trajano ordinò, o permise che fossero osservate rigorosamente le antiche leggi contra gl'introduttori di nuove religioni. Però i governatori delle provincie, massimamente dell'Oriente, cominciarono ad infierire, probabilmente circa questi tempi, contra chiunque si scopriva seguace dei dogmi cristiani; laonde si videro molti forti campioni attestar col loro sangue la verità di questa religione. Ne han trattato ampiamente [412] il cardinal Baronio [Baron., in Annal.], il Tillemont [Tillemont, Mém. de l'Église.], i Bollandisti [Acta Sanctorum.] ed altri. Forse a questi tempi appartiene la scoperta della congiura tramata da Crasso contra del buon imperador Trajano, che vien solo accennata da Dione [Dio, lib. 68.], senza dirne circostanza alcuna. Altro di più non abbiamo, se non che Trajano ne lasciò la cognizione al senato, da cui gli fu dato il meritato gastigo, senza apparire se pagasse il delitto col capo o coll'esilio. Racconta Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], che Adriano, successor di Trajano, ne' primi giorni del suo imperio fu consigliato da Taziano di levar la vita a Laberio Massimo e a Crasso Frugi, relegati nelle isole per sospetti di aver aspirato all'imperio; ma ch'egli, affettando sul principio il buon concetto di essere principe clemente, niun male avea lor fatto. Tuttavia, perchè Crasso dipoi senza licenza era uscito fuor dell'isola, il procuratore di Adriano, senza aspettarne alcun ordine dall'imperadore, l'avea ucciso, quasichè egli macchinasse delle novità. Questi forse è il medesimo Crasso, di cui parla Dione.
Anno di | Cristo CXI. Indizione IX. |
Alessandro papa 4. | |
Trajano imperadore 14. |
Consoli
Cajo Calpurnio Pisone e Marco Vettio Bolano.
Un'iscrizione pubblicata dal Panvinio [Panvin., Fast. Consular.] ci fa vedere console nelle calende di marzo, se pure è vero, correndo la tribunizia podestà XIV di Trajano, cioè nell'anno presente, Cajo Orso Serviano per la seconda volta e Lucio Fabio Giusto. Quando sia vero che Plinio in questi tempi governasse il Ponto e la Bitinia, probabil cosa sarebbe che a [413] quest'anno appartenesse la celebre lettera [Plinius, lib. 10, epist. 97 et 98.] da lui scritta a Trajano intorno ai Cristiani. Era cresciuta a dismisura in quelle parti, non meno che nell'altre dell'Oriente, la religione di Cristo; e si scorge che Plinio avea ricevuto ordine da Trajano di processare e punire i di lei seguaci. Plinio ne fece diligente ricerca; ma ritrovato, più di quel che credea, esorbitante il numero de' Cristiani di ogni sesso ed età; e, quel che più importa, dopo maturo esame scoperto, ad altro non tendere questa religione, che a professar la pratica delle virtù, e l'abborrimento ai vizi, volle prima informarne Trajano, per sapere come s'avea da condurre in circostanze tali. Abbiamo anche la risposta dell'imperadore, che gli comanda di non fare ricerca de' Cristiani; ma se saranno denunziati, e trovati costanti nella lor fede, sieno puniti, con perdonare a chi proverà di non esser tale, sagrificando agli dii, e col non badare alle denunzie orbe, cioè date contra di loro, senza il nome dell'accusatore. Tertulliano [Tertullianus, in Apologetico, cap. 2.], ben informato di queste lettere, fa conoscere l'ingiustizia di Trajano in non volere che sieno ricercati come innocenti, e in volerli puniti, se accusati. Però continuò la persecuzione come prima: e quantunque non mancassero degli apostati, pure senza paragone maggior fu il numero degli altri, che amarono piuttosto di sofferir coraggiosamente la morte, che di sagrificare ai falsi dii del Gentilesimo. Crede il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], che sia piuttosto da riferire al seguente anno la lettera di Plinio. Il vero è, che non si può accertar questo tempo.
Anno di | Cristo CXII. Indizione X. |
Alessandro papa 5. | |
Trajano imperadore 13. |
Consoli
Marco Ulpio Nerva Trajano Augusto per la sesta volta e Tito Sestio Africano.
Possiam credere che a quest'anno appartengano due opere di Trajano, fatte prima d'imprendere la spedizione verso l'Armenia, delle quali fa menzione lo storico Dione [Dio, lib. 68.]. Cioè l'erezione in Roma di alcune biblioteche, e la fabbrica della piazza, che fu poi appellata di Trajano, nel sito, dove anche oggidì si mira la sua colonna. Un tesoro impiegò Trajano in formar questa piazza, perchè gli convenne spianare una parte del Monte Quirinale, e servendosi di Apollodoro insigne architetto, ornò in varie maniere tutta la circonferenza di bei portici, e l'atrio di alte e grossissime colonne con capitelli e corone, e con istatue e ornamenti di bronzo indorato, rappresentanti uomini a cavallo e arnesi militari. Nel mezzo dell'atrio si vedea la statua equestre d'esso Trajano. Era sì vaga e sì magnifica tal fattura per altre giunte fattevi da Alessandro Severo imperadore, che restava incantato chiunque la mirava. Ammiano Marcellino [Ammianus Marcellinus, lib. 16, c. 10.] scrive, che venuto a Roma Costanzo Augusto, allorchè giunse alla piazza di Trajano, fattura che non ha pari tutto il mondo, e che mirabil sembra fino agli stessi dii (così uno storico pagano), rimase attonito all'osservar quelle gigantesche figure e tanti begli ornamenti. E Cassiodoro [Cassiodorus Var., lib. 7, c. 6.] anch'egli scriveva, che a' suoi tempi, per quanto si andasse e riandasse alla piazza di Trajano, sempre essa compariva un miracolo. In somma non vi fu opera fatta da Trajano, che non desse a conoscere che il suo bel genio era impareggiabile, e il suo buon [415] gusto mirabile in tutto. Credesi che in quest'anno e nel seguente fosse compiuta e dedicata quella piazza. Il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.], fidatosi di Giovanni Malala, scrittore abbondante di favole e di sbagli, mise all'anno 106 e al seguente, la spedizion di Trajano verso l'Armenia. Le ragioni recate dal Cardinal Noris, dal Pagi e da altri, e lo stesso racconto che fa Dione di quella guerra, persuadono abbastanza, che solamente in questo anno Trajano si mosse verso quelle parti [Dio, lib. 68.]. V'ha in oltre qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] indicante i voti fatti pel suo buon ritorno. Ardeva di voglia Trajano di far qualche altra militare impresa, per cui sempre più crescesse la gloria sua. Gli se ne presentò un'occasione, perchè egli non era di que' principi che trovano, sempre che vogliono, nei lor gabinetti delle ragioni di far guerra ai loro vicini. Erano soliti i re dell'Armenia (l'abbiam già veduto) di prendere il diadema reale dai Romani imperadori, dalla sovranità de' quali si riconosceano in qualche maniera dipendenti. Esedare, nuovo re di quella contrada, l'avea preso da Cosroe re de' Parti, dominator della Persia. Trajano fece intendere le sue doglianze a Cosroe, il quale come se fossero burle, o per sua superbia, niuna adeguata risposta diede. Trajano allora determinò di farsi fare giustizia con un mezzo più concludente, cioè coll'armi. Si mise dunque in viaggio nell'anno presente con un possente esercito verso il Levante. Il solo suo muoversi fece calar tosto l'alterigia di Cosroe, e spedire ambasciatori a Trajano con dei regali, per esortarlo a desistere da una guerra di tale importanza, giacchè egli diceva d'aver deposto Esedare, e il pregava di voler concedere l'Armenia a Partamasire, che forse era fratello del medesimo Cosroe. Trovarono questi ambasciatori Trajano già arrivato ad Atene, [416] ma non già in lui quella facilità, di cui si lusingavano. Rifiutò egli i lor presenti, e disse conoscersi l'amicizia dalle azioni, non dalle parole, ed esser egli incamminato verso la Soria, dove avrebbe prese quelle misure che più converrebbono. Continuato poscia il viaggio per terra, secondo Giovanni Malala, nel dì 7 del seguente gennaio, oppure nell'ottobre dell'anno presente, entrò in Antiochia, capitale della Soria, con corona d'ulivo in capo.
Anno di | Cristo CXIII. Indizione XI. |
Alessandro papa 6. | |
Trajano imperadore 16. |
Consoli
Lucio Publicio Gelso per la seconda volta e Lucio Clodio Priscino.
Vogliono alcuni, che nell'occasione che Trajano Augusto si trovò in Antiochia, o sul fine del precedente anno, o sul principio del presente, gli fosse condotto d'avanti santo Ignazio vescovo di quella città [Acta Sanctorum apud Bolland. et apud Ruinartum.], accusato d'essere cristiano, e pastore de' Cristiani. Confessò il santo vecchio intrepidamente il nome di Gesù Cristo: e però d'ordine di Trajano fu mandato a Roma, per essere esposto alle fiere nell'anfiteatro. Gli atti del suo gloriosissimo martirio, compiuto secondo i Greci nel dì 20 di dicembre, e le sue lettere, spiranti un mirabile amor di Dio e una tenerissima divozione, restano tuttavia per edificazion della Chiesa. Altri mettono più presto il suo martirio; ma a noi basti di sapere la certezza del fatto, se non possiamo quella del tempo. L'iscrizione [Gruterus, pag. 190, num. 4.] che si legge nella base della nobilissima Colonna Trajana, tuttavia esistente in Roma, ci vien dicendo, che nell'anno presente seguì la dedicazione di questa maravigliosa fattura a nome del senato in onor di Trajano, che [417] non ebbe poi il contento di vederla prima di morire. Nella gran copia delle figure illustrate dalla penna del Fabretti, rappresentata si vede la guerra di Trajano contra ai Daci. Proseguendo intanto Trajano il suo viaggio, arrivò con un poderosissimo esercito ai confini dell'Armenia. Allora i re e principi di quelle contrade [Dio, lib. 68.] si portarono a gara a visitarlo con ricchissimi presenti, fra' quali si vide un cavallo così ben ammaestrato, che s'inginocchiava e chinava il capo a' piedi di chi si voleva. Abgaro re, o principe di Edessa nella Osroena, parte della provincia della Mesopotamia, gl'inviò regali e proteste di amicizia, ma senza venire in persona, perchè non volea perdere la buona grazia di Cosroe re de' Parti. Tuttavia in sua vece gli mandò [Idem, in Excerptis Valesian.] Arbando suo figliuolo, giovane di bellissimo aspetto, che s'insinuò così bene nel cuor di Trajano, che quando poi questo imperadore passò per Edessa, Abgaro andatogli incontro, agevolmente, per intercession del figliuolo, ottenne il perdono. Partamasire s'era già messo in possesso dell'Armenia con favore de' Parti, ed avea preso il titolo di re. Con questo titolo scrisse egli lettera di sommessione a Trajano; ma, non vedendo venire risposta, ne tornò a scrivere un'altra, senza più intitolarsi re; supplicandolo di voler inviare a lui Marco Giunio, governatore della Cappadocia, per trattar seco d'accordo. Trajano gl'inviò il figliuolo di Giunio, e intanto continuò il suo viaggio, con impossessarsi del paese, dovunque passava, senza trovarvi resistenza alcuna. Arrivato a Satala, città dell'Armenia minore, venne ad inchinarlo Anchialo re degli Eniochi, popoli della Circassia verso il mar Nero. Trajano il ricevè con grande onore, e il rimandò carico di regali. Allora fu, che anche Partamasire, considerando il brutto [418] aspetto de' suoi affari, probabilmente consigliato dal figliuolo di Giunio a rimettersi nella clemenza cesarea, ottenuto il salvocondotto, venne a presentarsi a Trajano. Nol volle egli ricevere, se non assiso sul trono in mezzo al campo. Se gli accostò Partamasire, e depose a' suoi piedi il diadema senza proferir parola: il che veduto dall'immensa corona dei soldati di Trajano, si alzò un sì allegro strepitoso grido di Viva, che quel principe atterrito fu in procinto di fuggirsene, se non si fosse veduto attorniato da sì gran copia d'armati. Chiesta poi una particolare udienza da Trajano, l'ottenne egli bensì, ma non già il diadema, siccome egli dimandava e sperava coll'esempio di Tiridate a' tempi di Nerone. Era ben diverso dal codardo Nerone il coraggioso Trajano. Ne uscì in collera Partamasire; ma risalito sul trono Trajano, il fece richiamare, acciocchè pubblicamente si riconoscesse il ragionamento seguito fra loro in disparte. Lamentossi Partamasire d'essere trattato come un prigioniero, quando egli era volontariamente venuto, e fece nuova istanza, per impetrare il diadema dalle mani di Cesare, a cui giurerebbe omaggio. Trajano gli rispose, che essendo l'Armenia pertinenza del romano imperio, non voleva concederla a chicchessia, ma bensì mettervi un governatore; e licenziatolo, il fece tosto partire, scortato da un corpo di cavalleria, acciocchè non potesse manipolar nel ritorno qualche intrico colla gente del paese. Si venne dunque alla guerra, di cui altro non sappiamo, se non che Partamasire, dopo essersi sostenuto, finchè potè, coll'armi alla mano, finalmente fu ucciso, e tutta l'Armenia restò in potere dell'Augusto Trajano, il quale ne fece una provincia del romano imperio.
Anno di | Cristo CXIV. Indizione XII. |
Alessandro papa 7. | |
Trajano imperadore 17. |
Consoli
Quinto Ninnio Hasta e Publio Manilio Vopisco.
Gran disavventura è stata che uno de' più gloriosi imperadori che s'abbia avuto Roma, quale ognuno confessa Trajano, con un regno fecondo di tante belle imprese, e di sì grandi uomini, qual fu il suo, non sia passato a noi con esatta e convenevole storia della vita e delle azioni di lui. Non mancò già agli antichi secoli una tale storia, anzi più d'una ve ne fu, attestando Lampridio [Lampridius, in Vita Alexandri Severi.], avere Mario Massimo, Fabio Marcellino, Aurelio Vero e Stazio Valente scritta la di lui vita, ed asserendo Plinio [Plin., lib. 8, ep. 4.] il giovane, che Caninio era dietro a descrivere la guerra dacica. Pure tutti questi scritti son rimasti preda del tempo, e son periti i libri di Arriano che avea descritte le guerre dei Parti; sicchè altro a noi non resta che il compendio di Dione, fatto da Giovanni Sifilino, da cui si possano ricavar le imprese di Trajano, ma appena abbozzate, e senza poterne noi trarre i tempi distinti, in cui furono fatte. Perciò solamente a tentone andiamo riferendo a questo e a quell'anno le di lui imprese, senza poterne fondatamente assegnare il tempo preciso. Sia dunque ch'egli nel precedente anno compiesse la conquista di tutta l'Armenia, o che ciò avvenisse in parte ancora del presente, certo è, per testimonianza di Dione [Dio, lib. 68.], che sparsasi maggiormente la fama del di lui valore, e de' suoi acquisti per l'Oriente, i re e i principi circonvicini vennero ad assoggettarsi all'aquile romane, oppure a chiedere amicizia e pace. Diede egli un [420] re ai popoli Albani [Eutrop., in Breviar.]; e i re dell'Iberia, de' Sauromati, del Bosforo e della Colchide gli prestarono giuramento di fedeltà. Avea notato Plinio [Plinius, in Panegyrico, c. 81.], che Trajano, se volea ricrearsi talvolta dalle applicazioni e fatiche del governo, non passava già a divertimenti puerili di giuoco, meno poi ad altri di maggior vergogna, perchè illeciti e scandalosi, ma a passatempi faticosi, per tenere in esercizio il corpo, e giovare alla sanità. Il cavalcare, la caccia erano i suoi trastulli; e se si trovava vicino al mare o ai fiumi, solea talvolta far da piloto in una nave, e mettersi a remigare, facendo a gara co' suoi cortigiani a chi meglio sapea esercitar quel duro mestiere in romper l'onde e passare gli stretti. Non operò di meno questo saggio imperadore in Levante, insegnando coll'esempio suo ai soldati l'amore e la tolleranza delle fatiche [Dio, lib. 68.]. Marciava anch'egli a piedi, e al pari d'essi passava a piedi i guadi dei fiumi. Ordinava egli in persona i soldati nelle marcie, e camminava innanzi, come un semplice uffiziale. Teneva molte spie, per saper nuove de' nemici, e talora ne spargeva egli delle false, per avvezzar la milizia ad ubbidir con prontezza, a star vigilante e preparata sempre con coraggio a tutti i pericoli ed avvenimenti. Son di parere il Mezzabarba e monsignor Bianchini, che Trajano conquistasse in quest'anno l'Assiria, perchè in una sua medaglia si legge ASSYRIA IN POTESTATEM POPVLI ROMANI REDACTA. Ma quella medaglia si può riferire ai due seguenti anni, non avendo caratteristica particolare dell'anno presente; e da Dione, secondo me, si ricava che più tardi succedette l'acquisto dell'Assiria, o sia della parte della Soria che allora era posseduta dai Parti.
Anno di | Cristo CXV. Indizione XIII. |
Alessandro papa 8. | |
Trajano imperadore 18. |
Consoli
Lucio Vipstanio Messala e Marco Vergiliano Pedone.
Che Vipstanio e non Vipstano fosse il nome del primo di questi consoli, apparisce da un'iscrizione da me [Thesaurus Novus Inscription., pag. 319, num. 2.] prodotta, e da due altre del Grutero [Gruterus, pag. 74 et 1070.]. Se crediamo al Tillemont, l'anno fu questo delle grandi imprese di Trajano in Levante, perchè egli entrò nel paese de' Parti, e fece quelle grandi conquiste ch'io accennerò all'anno seguente. Se non c'inganna Dione [Dio, lib. 68.], altro non sappiamo dell'operato da lui in questo, se non ch'egli s'impadronì delle città di Nisibi, capitale della Mesopotamia, e di Singara, e di Barne, città o luogo amenissimo di que' contorni: il che indica abbastanza, che alle sue mani venne l'intera ricca provincia della Mesopotamia, avendo noi anche osservato di sopra, ch'egli passò per Edessa, città parimente di quel tratto dove signoreggiava il re o sia principe Abgaro. Parla dipoi Dione, e parlerò ancor io, fra poco, del tremuoto orrendo d'Antiochia, accaduto sul fine del presente anno. Dopo di che descrive i gloriosi progressi di Trajano contra de Parti, i quali perciò debbono appartenere all'anno seguente, e non già al presente. Anche [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] il Mezzabarba mette in quest'anno la dedicazione fatta in Roma della basilica Ulpia, o sia di Trajano, che può anche riferirsi all'anno 112, e ai quattro susseguenti. Certo è che questa basilica era contigua alla piazza di Trajano, superbo edificio che accresceva la bellezza di quella piazza, sapendo noi, che le basiliche de' Romani furono sontuosissime fabbriche, simili a molte grandi [422] chiese de' Cristiani, con trofei, statue ed altri ornamenti in cima, e con portici magnifici all'intorno, destinate per i giudici che andavano a tener ragione, concorrendovi anche i negozianti a trattar de' loro affari. Tornando ora a Trajano, mentr'egli attendeva all'acquisto della Mesopotamia, Manete, capo d'una nazion degli Arabi, Sporace principe dell'Antemisia, cioè di una parte d'essa Mesopotamia, e Manisare, anch'egli signore in quelle contrade, faceano vista di volersi a lui sottomettere, ma con trovar pretesti ogni dì per dichiararsi, e per venire a trovarlo [Dio, lib. 68.]. Non si fidava Trajano di costoro, e molto meno se ne fidò, dappoichè Mebaraspe, re dell'Adiabene, avendo ottenuto da lui un corpo di soldatesche per difendersi contro di Cosroe, avea da traditore parte trucidati, parte ritenuti prigioni que' soldati. Fra gli ultimi fu un centurione chiamato Sentio, il quale con altri imprigionato in un forte castello, allorchè l'esercito di Trajano, irritato contra del traditore, arrivò nell'anno seguente in vicinanza di quel luogo, ruppe le catene, uccise il castellano, ed aprì le porte agli altri Romani. Scrive Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che Trajano s'impossessò del l'Antemisia. Dovette essere in quest'anno, perchè quella era una delle provincie della Mesopotamia. Secondo che abbiam da Dione, per queste vittorie fu dato a Trajano il titolo di Partico; ma egli più si compiaceva dell'altro di Ottimo, perchè esprimente la soavità de' suoi costumi, e il possesso in cui egli era di tutte le virtù.
Finita la campagna coll'acquisto della Mesopotamia, venne Trajano [Joannes Matala, in Chron. Dio, lib. 68.] a svernare con parte dell'armata ad Antiochia. Ma mentre ivi soggiornava, avvenne in quella città uno de' più orribili e funesti tremuoti che mai si leggano nelle storie. L'ordinario popolo di quella vasta città ascendeva ad un numero [423] esorbitante: ma lo avea accresciuto a dismisura la venuta colà della corte imperiale, e di gran copia di soldatesche. V'era inoltre concorsa un'immensa moltitudine di persone di quasi tutto l'imperio romano, chi per negozi, chi per bisogno del principe, chi per veder quelle feste. In tale stato si trovava quella nobilissima metropoli dell'Oriente; quando nel dì 25 di decembre, come pretende il padre Pagi [Pagius, in Crit. Baron.], venne un sì impetuoso tremuoto, preceduto da fulmini e da venti gagliardissimi, che rovinò buona parte delle fabbriche della città, con restare oppressa sotto le rovine gran moltitudine di persone, ed innumerabili altri con ferite e membra rotte. Si vide il vicino monte Corasio scuotere sì forte la cima, che parea dover precipitare addosso alla città; uscirono da più luoghi nuove fontane, e si seccarono le vecchie. Acquetato il gran flagello, si cominciò a pescar nelle rovine, e moltissimi vi si scoprirono morti di fame. Trovossi una sola donna che avea sostentato per più giorni sè stessa e un suo pargoletto col proprio latte, ed amendue furono cavati vivi: il che par cosa da non credere. Trajano che s'incontrò ad essere in sì brutto frangente, per una finestra del palazzo, in cui abitava, se ne fuggì; e scrivono che un personaggio d'inusitata e più che umana statura lo ajutò a salvarsi. Tal fu nulladimeno la sua paura, che quantunque fosse cessato lo scotimento della terra, pure per molti giorni volle abitare a cielo scoperto nel Circo. In questa sciagura perdè la vita Pedone console, che terminato il suo consolato ordinario ne' primi sei mesi potè molto ben venire pe' suoi affari ad Antiochia; se pur non fu un altro Pedone, stato console in alcun degli anni precedenti.
Anno di | Cristo CXVI. Indizione XIV. |
Alessandro papa 9. | |
Trajano imperadore 19. |
Consoli
Lucio Elio Lamia ed Eliano Vetere.
Chiaramente scrive lo storico Dione [Dio, lib. 68.] che dopo il tremuoto di Antiochia (e però nell'anno presente, e non già nel precedente) venuta la primavera, Trajano con tutto lo sforzo delle sue genti si mosse per portar la guerra nel cuore del regno dei Parti. Conveniva passare il rapido fiume Tigri, le cui sponde, dalla parte del Levante, erano ben guernite di nemiche milizie. Avea egli fatto fabbricar nel verno una prodigiosa quantità di barche con legni presi dai boschi di Nisibi; e per introdurle nel suddetto fiume, pensò ad un arditissimo e dispendioso ripiego, cioè di tirare un gran canale di acqua dall'Eufrate nel Tigri, per cui si potessero condurre le navi. Nacque sospetto, che essendo più alto l'Eufrate dell'altro fiume, potessero le di lui acque accrescere di soverchio la rapidità del Tigri, e che colà si volgesse tutto l'Eufrate, con perdersene anche la navigazione; e però non si compiè l'impresa; o se pur si compiè, non se ne servì Trajano. L'altro ripiego, a cui s'attenne, fu di condurre sopra carri barche fatte, ma sciolte, per unirle poi insieme sulle ripe del Tigri, e lanciarle quivi nel fiume. Così fu fatto. Di queste si formò un ponte; e tanta era la copia delle altre navi cariche di armati, che infestavano i Parti schierati sull'opposta ripa, e di altre che minacciavano in più luoghi il passaggio dell'armata, che i Parti non sapendo intendere, come in un paese privo affatto d'alberi, fossero nate cotante navi, e perciò sgomentati, presero la fuga. Passò dunque felicemente tutto l'esercito romano, e piombò sulle prime addosso al traditor Mebaraspe re dell'Adiabene, con sottomettere tutta quella provincia. Quindi [425] s'impadronì di Arbela e di Gaugamela (dove Alessandro il Grande diede la sconfitta a Dario), e di Ninive e di Susa. Di là passò a Babilonia, senza trovare in luogo alcuno opposizione, perchè i Parti non erano d'accordo col re loro Cosroe, e più di una sedizione e guerra civile in addietro avea snervata la potenza di quella nazione. Volle Trajano osservare in quei contorni il lago onde si cavò il bitume, con cui in vece di calce furono unite le pietre delle mura di Babilonia. Sì fetente è l'aria di quel lago, che l'alito suo fa morire gli animali e gli uccelli che vi si appressano. Di là passò Trajano a Ctesifonte, capitale allora del regno de' Parti, dove fu fatto un incredibil bottino, e presa una figliuola di Cosroe col suo ricchissimo trono [Spartianus, in Vita Hadriani.]. Cosroe se n'era fuggito: ne parleremo a suo tempo. Stese dipoi il vittorioso Augusto le sue conquiste per quelle parti, soggiogando Seleucia [Eutrop., in Breviar.], e i popoli Marcomedi, e un'isola del Tigri, dove regnava Atambilo, e giunse fino all'Oceano. Svernò coll'armata in quelle parti, e vi corse vari pericoli per cagion delle tempeste insorte in quel fiume, vastissimo verso le basse parti per l'union dell'Eufrate.
Lo strepito di tali conquiste arrivato a Roma riempiè di giubilo quel popolo, che non sapea saziarsi di esaltar le prodezze di questo Augusto, giacchè l'aquile romane non aveano mai steso sì oltre, come sotto di lui, i lor voli. Perciò il senato gli confermò il cognome di Partico, con facoltà di trionfalmente entrare in Roma quante volte egli volesse, perchè in Roma non erano conosciuti tanti popoli da lui soggiogati. Trovasi ancora in qualche medaglia [Mediobarbus, in Numismat. Imperator.] accresciuto per lui sino alla nona volta il titolo d'imperadore, e datogli il nome d'Ercole. Ordinò [426] parimente il senato, oltre ad altri onori, che gli fosse alzato un arco trionfale. Preparavansi ancora i Romani a fargli uno straordinario onorevole incontro, allorchè egli fosse ritornato a Roma; ma Dio altrimenti avea disposto. Trajano più non rivide Roma, nè potè goder del trionfo. Intanto stando egli ai confini dell'Oceano, vista una nave che andava alle Indie, cominciò ad informarsi meglio di quel paese, di cui avea dianzi udito tante maraviglie; e gran desiderio mostrava di portarsi colà. Poi dicea, che se egli fosse giovane vi andrebbe; e chiamava beato Alessandro il Grande, per avere in età fresca potuto dar principio alle sue imprese. Contuttociò gli durava questo prurito; ma nell'anno seguente gli sopravvennero tali traversie, che gli convenne cacciar queste fantasie, e cangiar di risoluzione. Intanto egli fece dell'Assiria e della Mesopotamia due provincie del romano imperio. Da una iscrizione [Gruterus, pag. 247, num. 6.] esistente tuttavia nel porto d'Ancona, e riferita da più letterati, si raccoglie, che circa questi tempi fu compiuto il lavoro di quel porto per ordine di Trajano, il quale, dopo aver provveduto il Mediterraneo del porto di Cività Vecchia, volle ancora che l'Adriatico ne avesse il suo. A lui ha questa obbligazione Ancona, ed ivi tuttavia sussiste un arco trionfale, posto in onore di così benefico principe. Abbiamo ancora da Eusebio [Eusebius, in Chron.], che verso questi tempi la nazione giudaica, sparsa per la Libia e per l'Egitto, si rivoltò dappertutto contra de' Gentili, e ne seguirono innumerabili morti. Ebbero i Giudei la peggio in Alessandria. Secondo i conti di Dione vi perirono dugento ventimila persone; in Cirene essi Giudei commisero delle incredibili crudeltà contro de' Pagani.
Anno di | Cristo CXVII. Indizione XV. |
Sisto papa 1. | |
Adriano imperadore 1. |
Consoli
Quinzio Negro e Gaio Vipstanio Aproniano.
Secondo l'opinione de' migliori, l'anno fu questo, in cui santo Alessandro papa gloriosamente terminò i suoi giorni col martirio. Dopo lui, Sisto tenne il pontificato romano. Soggiornando Trajano verso l'Oceano, tuttavia co' pensieri e desiderii di veder l'Indie, si fece condurre in nave pel golfo, che Dione [Dio, lib. 68.] ed Eutropio [Eutropius, in Breviar.] chiamano il mar Rosso, ma che, secondo tutte le apparenze, fu il golfo Persico. Aggiugne Dione ch'egli s'inoltrò in quelle parti sino al luogo, dove si crede che morisse il grande Alessandro, con far ivi le cerimonie funebri in memoria di lui. Ma restò ben deluso, perchè dopo la relazione di tante belle cose che si diceano di que' paesi, altro non vi trovò che favole e luoghi rovinati. In questo mentre gli vien nuova, che i Parti si son ribellati, e si son perdute tutte le conquiste della Persia e della Mesopotamia, colla morte e prigionia delle milizie lasciatevi di guarnigione. Non tardò Trajano ad inviar colà Massimo e Lucio Quieto. Differente fu la fortuna di questi due generali. Massimo in una battaglia vi lasciò la vita. Lucio Quieto, all'incontro, moro di nazione, ricuperò Nisibi, ed espugnata Edessa, le diede il sacco e la incendiò. Alla medesima pena fu esposta la città di Seleucia, presa da Ericio Claro e da Giulio Alessandro. Tali novità fecero risolvere Trajano a mutar disegno intorno a que' paesi, scorgendo assai, che non gli sarebbe riuscito di conservarli come provincia, e sotto il governo dei magistrati romani. Però, tornato a Ctesifonte, e fatti raunare in una gran pianura [428] i Romani e i Parti, salito sopra un eminente trono, dichiarò re dei Parti Partamaspare personaggio di quella nazione, chiamato Psamatossiris da Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], e gli pose in capo il diadema: risoluzione abbracciata volentieri ed applaudita da que' popoli. Indi passò nell'Arabia Petrea, che s'era anch'essa ribellata; ma vi trovò il paese molto brutto, nè vi potè prendere Atra lor capitale, con patirvi ancora insoffribili caldi e molti altri disastri. Credesi nondimeno da alcuni ch'egli pervenisse fino all'Arabia Felice. Negli stessi tempi [Dio, lib. 68.] continuarono più che mai le sedizioni e ribellioni de' Giudei nella Mesopotamia, nell'Egitto e in Cipri. Attesta Eusebio [Euseb., in Chron.], che in Salamina città di Cipri prevalse la forza de' Giudei contra de' Gentili, di modo che quella città rimase spopolata. Ma Artemione capitano de' Cipriotti così fattamente perseguitò i Giudei in quell'isola, che li disertò affatto, facendosi conto, che ivi tra Gentili e Giudei perirono dugento quarantamila persone. Fu anche spedito Lucio Quieto il Moro contra de' medesimi nella Mesopotamia, che, col farne un'orrida strage, diede fine alla loro inquietudine.
Ma che? tutte queste vittorie e conquiste di Trajano, che costarono tanto sangue e tante spese e fatiche ai Romani, non istettero molto a svanir in fumo; perchè appena ritirossi da quelle contrade Trajano, che le cose ritornarono nel primiero stato, senza restarvi un palmo di dominio pe' Romani. E se ne ritirò per forza Trajano, perchè nel mese di luglio cominciò a sentire aggravata la sua sanità da male pericoloso, che da lui fu creduto veleno; ma si attribuisce da altri a cessazion delle emorroidi, e da altri ad un tocco di apoplessia, per cui restò offesa qualche parte del suo corpo. Altri in fine vogliono ch'egli fosse assalito dall'idropisia. Questo qualunque [429] sia malore sopraggiunto a Trajano, allorchè meditava di tornarsene in Mesopotamia, gli fece cangiar pensiero, e l'invogliò di ritornarsene in Italia, dove era continuamente richiamato dal senato; e però verso queste parti frettolosamente s'incamminò [Aurel. Vict., in Epit.]. Giunto ad Antiochia, capitale della Soria, lasciò ivi Elio Adriano, suo cugino, con titolo di governatore, e gli consegnò l'esercito romano. Continuato poscia il viaggio sino a Selinonte, città marittima della Cilicia, appellata poi Trajanopoli, oppresso dal male, che Eutropio [Eutrop., in Breviar.] chiamò flusso di ventre, quivi in età di sessantuno, altri dicono di sessantatrè anni, compiè il corso di sua vita, per quanto si crede nel dì 10 d'agosto. Il detto finora ha condotto i lettori a comprendere le mirabili belle doti, che concorsero a rendere Trajano uno de' più gloriosi imperadori che s'abbia mai avuto Roma, e a cui pochi altri possono uguagliarsi, non che andare innanzi. Oltre alle belle memorie ch'egli lasciò in Roma e in varie parti del romano imperio, in fabbriche sontuose, strade, porti, ponti, si trovano ancora varie città o fabbricate da lui, o che presero il nome da lui. A lui ancora principalmente attribuisce Aurelio Vittore l'istituzione del Corso Pubblico, oggidì appellato le Poste, che veramente ebbe origine da Augusto, ma fu ampliato e regolato in miglior forma da Trajano, acciocchè si potessero speditamente e regolarmente saper dall'imperadore le nuove del vasto imperio romano, e andar e venir prontamente gli uffiziali cesarei: giacchè, come dottamente osservò il Gotofredo [Gothofredus ad Legem 8, Tit. 5, Codic. Theodosiani.], serviva allora la posta solamente per gli ministri ed uomini dell'imperatore, e non già per le persone private, ed era mantenuta alle spese del Fisco con cavalli, calessi e carrette. Ma siccome osserva [430] Aurelio Vittore [Aurelius Victor, de Caesarib.], e si raccoglie dal codice teodosiano, questo lodevol istituto col tempo, e sotto i cattivi imperadori degenerò in uno intollerabil aggravio delle provincie e de' sudditi. Non fu già esente da ogni difetto Trajano, e van di accordo Dione [Dio, lib. 68.], Aurelio Vittore [Aurel. Vict., de Caesarib.], Sparziano [Spart., in Vita Hadriani.] e Giuliano l'Apostata [Julian., de Caesar.] in dire ch'egli cadea talvolta in eccessi di bere; ma non si sa ch'egli commettesse giammai azione alcuna contra il dovere, allorchè era riscaldato dal vino. Anzi, se crediamo ad esso Vittore, egli ordinò di non aver riguardo a ciò ch'egli avesse comandato dopo essere intervenuto a qualche convito. Aggiugne Dione, ch'egli fu suggetto ad un'infame libidine, abborrita dalla natura stessa, ma senza fare violenza o torto ad alcuno. Tutti effetti della falsa e stolta religione dei Gentili, la quale accecava e affascinava talmente le loro menti, che non si attribuivano a vergogna e peccato le maggiori enormità, che san Paolo chiaramente nomina e riconosce per un gran vitupero del gentilesimo allora dominante. Contuttociò nelle virtù politiche, e massimamente nell'amorevolezza, clemenza e saviezza, fu sì eccellente questo Augusto, che [Eutrop., in Brev.] da lì innanzi nelle acclamazioni che faceva il senato al regnante imperadore, si usò di augurargli, che fosse più fortunato d'Augusto, più buono di Trajano. E ben godè sotto di lui Roma e l'imperio tutto una mirabil calma: se non che si sentirono tremuoti in varie città, e peste e carestia in vari luoghi, e in Roma seguì una fiera inondazion del Tevere: malanni nondimeno, che servirono solamente di gloria a Trajano, perchè egli in quante maniere potè si adoperò per rimediare ai lor pessimi effetti, e per sovvenire chi era in bisogno. Fiorirono ancora sotto [431] questo insigne imperadore vari eccellenti ingegni, perchè egli al pari degli altri più rinomati regnanti, amò i letterati, e promosse le lettere. Restano a noi tuttavia le Opere di Cornelio Tacito, di Plinio il giovane e di Frontino, per tacer d'altri, che fiorirono anche sotto Adriano, e d'altri de' quali si son perduti i libri.
Ora Plotina imperadrice, che accompagnò sempre in tutti i suoi viaggi il marito Trajano, dacchè egli fu morto, non lasciò traspirare la di lui perdita, se non dappoichè ebbe concertato tutto per fargli succedere Publio Elio Adriano di lui cugino, giacchè non si sa che Trajano avesse mai figliuolo alcuno. La fama è varia intorno a questo punto. Crederono alcuni [Spartianus, in Vita Hadriani.], che fosse corso per mente a Trajano di lasciar l'imperio a Nerazio Prisco giurisconsulto di que' tempi, e che gli dicesse un giorno: A voi raccomando le provincie, se qualche disgrazia mi accadesse. Altri pensarono [Dio, lib. 69.] ch'egli avesse posti gli occhi sopra Serviano cognato di Adriano, ed altri fin sopra Lucio Quieto, che già dicemmo moro di nazione. Lo creda chi vuole. Vi fu chi disse essere stata sua intenzione di nominar dieci persone, lasciando poi la scelta del migliore al senato, dopo la sua morte. Nulla di ciò fu fatto. Solamente sul fin della vita adottò e nominò suo successore Adriano, e ciò per opera di Plotina Augusta e di Celio Taziano o sia Attiano, tutore di esso Adriano; perchè veramente Trajano non mostrò mai tenerezza alcuna di amore per lui, conoscendone assai i difetti; e l'avea bensì sollevato alla dignità di console, ma senza dargli cariche riguardevoli sussistenti: il che non si accorda con ciò che abbiam detto rivelato a lui da Licinio Sura [Spartianus, in Vita Hadriani.] nell'anno 109, cioè che fin d'allora Trajano meditava di adottarlo per suo figliuolo. Convengono nondimeno gli storici in dire, che [432] Plotina co' suoi maneggi portò il marito infermo a dichiararlo suo figliuolo e successore, siccome quella che, se vogliamo prestar fede a Dione [Dio, lib. 69.], era innamorata di Adriano: il che facilmente potè immaginar la malizia solita a far dei ricami alle azioni altrui, e massimamente dei grandi. Anzi non mancò chi credesse essere stata l'adozion di Adriano una tela interamente fatta da essa Plotina senza notizia e consentimento di Trajano, ed anche dopo la di lui morte, tenuta celata apposta per qualche dì, con fingere fatta da lui l'adozione suddetta. A questo sospetto diede qualche fondamento l'essere state spedite le lettere al senato coll'avviso di tale adozione, ma sottoscritte dalla sola Plotina. Fece la medesima Augusta per solleciti corrieri intendere ad Adriano la nuova dell'operato da Trajano (se pur tutta sua non fu quella fattura) nel dì 9 di agosto. Poscia nel dì 11 gli arrivò la nuova della morte di Trajano [Dio, ibid.]. Non perdè tempo Adriano a scriver lettere al senato, intitolandosi Trajano Adriano, e pregandolo di confermargli l'imperio, e protestando di non ammettere onore alcuno, ch'egli non avesse prima domandato ed ottenuto dal medesimo senato, con altre sparate di non voler fare se non ciò che fosse utile al pubblico, di non far morire alcun senatore, aggiungendo a tali proteste gravi giuramenti ed imprecazioni, se non eseguiva ciò che prometteva. Niuna difficoltà si trovò ad approvare la di lui successione, ben conoscendo i senatori, che, comandando egli al nerbo maggiore delle milizie romane, pazzia sarebbe il negare a lui ciò che colla forza potrebbe ottenere. Oltre di che l'esercito stesso della Soria, appena udita l'adozione di lui e la morte di Trajano [Spartianus, in Vita Hadriani.], l'avea riconosciuto per Imperadore: del che fece egli scusa col senato. Uscì Adriano di Antiochia, per veder le ceneri ed ossa [433] dello stesso Trajano, che Plotina sua moglie, Matidia sua nipote e Taziano portavano a Roma; e poscia se ne ritornò ad Antiochia, per dar sesto agli affari dell'Oriente, prima d'imprendere anch'egli il suo viaggio alla volta della Italia. Furono accolte in Roma esse ceneri colle lagrime e con un trionfo lugubre, ed introdotte in quella città sopra un carro trionfale, in cui si mirava l'immagine del defunto Augusto; e poscia collocate in un'urna d'oro sotto la colonna trajana, con privilegio conceduto a pochi in addietro, perchè non era lecito il seppellire entro le città [Eutropius, in Breviar.]. Egli certo fu il primo degl'imperadori che fossero entro Roma seppelliti. Scrisse Adriano al senato, acciocchè gli onori divini, secondo l'empio costume del gentilesimo, fossero compartiti a Trajano. Non sol questi, ma altri ancora, come templi e sacerdoti, decretò il senato alla di lui memoria; e per molti anni dipoi si celebrarono in onor suo i giuochi appellati Partici.
Anno di | Cristo CXVIII. Indizione I. |
Sisto papa 2. | |
Adriano imperadore 2. |
Consoli
Elio Adriano Augusto per la seconda volta, e Tiberio Claudio Fosco Alessandro.
Credesi che Trajano avesse all'anno precedente disegnato console Adriano per l'anno presente. Ma anche senza di questo, il costume era che i novelli Augusti prendessero il consolato ordinario nel primo anno del loro governo. Era nato Adriano nell'anno 76 della nostra Era, nel dì 24 di gennaio, per testimonianza di Sparziano [Spartianus, in Vita Hadriani.], da cui abbiam la sua vita. Ebbe per moglie Giulia Sabina, figliuola di Matidia Augusta, di cui fu madre Marciana Augusta, sorella di [434] Trajano. Perchè in sua gioventù comparve scialacquatore, si tirò addosso lo sdegno di Trajano, suo parente, e già suo tutore. Tuttavia tal era la sua disinvoltura e vivacità di spirito, che si rimise in grazia di lui, e ricevè anche molti onori da lui; ma non mai giunse in vita del medesimo ad essere accertato di succedergli nell'imperio a cagion del suo naturale, in cui quel saggio imperadore trovava bensì molte belle doti, ma insieme sapea scoprire non pochi vizii, quantunque Adriano si studiasse di dissimularli e coprirli. L'ambizione traspariva dalle di lui azioni e parole, molto più la leggerezza e l'incostanza; e sopra tutto, il suo essere stizzoso e vendicativo, facea temere che sarebbe portato alla crudeltà. Non si può negare, che la penetrazione del suo intendimento, la prontezza delle sue risposte, un'applicazione a tutto quanto può riuscir d'ornamento a persona nobile, l'aiutavano a brillar nella corte e negli uffizi a lui commessi. Prodigiosa era la sua memoria. Tutto quanto leggeva, lo riteneva a niente. Fu veduto talvolta in uno stesso tempo scrivere una lettera, dettarne un'altra, ascoltare e favellar con gli amici. Non si lasciava andar innanzi alcuno nella cognizion delle lingue greca e latina; sapea egregiamente comporre tanto in prosa che in versi, ed anche improvvisava talvolta con garbo [Dio, lib. 69.]. La medicina, l'aritmetica, la geometria le possedeva; dilettavasi di sonar vari strumenti, di dipignere, di lavorar delle statue; e la sua non mai sazia curiosità il portava a voler sapere di tutto, con insino inoltrarsi molto nel vanissimo studio della strologia giudiciaria, o nell'empio della magia. Lasciò anche dopo di sè vari libri di sua composizione in prosa e in versi. Suo maestro, o pure aiutante di studio, fu Lucio Giulio Vestinio, che servì poscia a lui divenuto imperadore di segretario, e vien chiamato sopraintendente alle biblioteche di Roma [435] greche e latine in una iscrizione [Thesaurus novus Inscription.]. Questo suo amore alle scienze ed arti cagion fu, che a' suoi tempi fiorirono in Roma le lettere, e vidersi i professori d'esse sommamente onorati e premiati, come attesta anche Filostrato [Philostratus, in Sophist.]. Piena era la sua corte di grammatici, musici, pittori, geometri ed altri simili. Spezialmente si compiaceva di conversar coi filosofi, poeti ed oratori, e li teneva bene in esercizio, proponendo loro stravaganti quistioni, per imbrogliarli, e rispondendo loro con egual vivacità tanto sul serio, che burlando. Per altro a misura del suo volubil cervello era anche bizzarro ed instabile il suo genio e gusto. E credendosi, per istare sopra gli altri come imperadore, di aver anche questa medesima superiorità nell'ingegno e nel sapere, portava nello stesso tempo invidia a chi parea sapere più di lui, con giugnere a maltrattarli, e a trovar da dire sopra tutte le lor fatiche, e, quel che è peggio, a perseguitarli. Facevasi anche ridere dietro, allorchè anteponeva ad Omero un certo cattivo poeta appellato Antimaco, Ennio a Virgilio, Catone a Cicerone, Celio a Sallustio. E questo suo maligno ed invidioso talento il trasse fino a screditar le azioni e le fabbriche di Trajano, quasichè egli andasse innanzi a quel grand'uomo nel giudizio e nel buon gusto. Ma questo per ora basti del novello imperadore Adriano, e intorno alle sue doti e costumi.
Dacchè fu egli creato imperadore, giudicò di non dover partire di Antiochia senza lasciare in istato quieto le cose d'Oriente [Dio, lib. 69. Spartianus, in Vita Hadriani.]. Avea ben Trajano aggiunto al romano imperio le provincie della Mesopotamia, dell'Assiria e dell'Armenia; ma il mantenere quelle provincie nella dovuta ubbidienza, non era da un Adriano, principe che s'intendea del mestier della guerra per parlarne in sua camera, non per esercitarlo in campagna, [436] perchè mal provveduto di coraggio e di pazienza nelle fatiche. Però si rivolse egli a' trattati di pace con Cosroe, già re de' Parti, e con quei popoli, contento di salvare la dignità del popolo romano: giacchè non si credea da tanto da poter conservar quelle conquiste. Cedette dunque l'Assiria e la Mesopotamia a Cosroe, mandandogli probabilmente il diadema, con ritener qualche ombra di superiorità, e riducendo il confine romano all'Eufrate, come era prima. Levò via Partamaspare, cioè quel re che Trajano avea dato ai Parti, costituendolo re in qualche di angolo quelle contrade. Permise anche ai popoli dell'Armenia l'eleggersi il loro re. Parve che in tutto questo egli cercasse d'estinguere la gloria di Trajano, di cui, per attestato di Eutropio [Eutrop., in Breviar.], si mostrò sempre invidioso. Fece poi anche per questo distruggere, contro il volere di tutti, il teatro fabbricato da esso Trajano nel Campo Marzio. Poco mancò che non restituisse ancora la Dacia ai Barbari. Impedito ne fu dalla persuasion degli amici, acciocchè non cadessero sotto il giogo barbarico tanti cittadini romani, che Trajano aveva inviato ad abitare colà. Creò Adriano sul principio due prefetti del pretorio, cioè Celio Taziano per gratitudine, avendolo avuto per tutore in sua gioventù, e per mezzano a salire in alto; e Simile per la moderazione ed onoratezza de' suoi costumi. Di questi ne dà un saggio lo storico Dione [Dio, lib. 69.] con dire che mentre Simile era solamente centurione, trovossi nella anticamera imperiale per andare all'udienza di Trajano. V'erano ancora molti altri da più di lui, cioè uffiziali primari che la desideravano anch'essi. Trajano il fece chiamare innanzi agli altri, ma egli si scusò con dire, essere contro l'ordine, che un par suo dovesse goder quest'onore, con fare intanto aspettare i suoi comandanti nell'anticamera. Accettò Simile con difficoltà la carica di prefetto, e da [437] lì forse a due anni, scorgendo che verso di lui s'era raffreddato Adriano, dimandò ed ottenne il suo congedo. Ritiratosi alla campagna, quivi per sette anni sopravvisse in tutta pace, comandando poi alla sua morte, che pel suo epitaffio si scrivesse come egli era stato settantasei anni sulla terra, ed esserne vissuto solamente sette. D'altro umore fu ben Taziano, perchè uomo violento. Egli sulle prime scrisse da Roma ad Adriano di levar dal mondo [Spartianus, in Vita Hadriani.] Bebio Marco prefetto di Roma, e Laberio Massimo, e Crasso Frugi, relegati nell'isole, come persone capaci di novità. Adriano non volle dar principio al suo governo con queste crudeltà. Alcune poi ne commise andando innanzi, e di queste diede la colpa ai consigli del medesimo Taziano. Depresse Lucio Quieto, valoroso uffiziale, con levargli la compagnia de' Mori, perchè si sospettava che aspirasse all'imperio. Mandò ancora Marzio Turbone ad acquetare un tumulto insorto nella Mauritania. Probabilmente verso la primavera di quest'anno Adriano, dopo aver dato ai soldati il doppio di quel regalo che solevano dare gli altri nuovi imperadori, e lasciato al governo della Soria Catilio Severo, si mise in viaggio per terra alla volta di Roma. Il senato gli avea decretato il trionfo. Lo ricusò egli, volendo che a Trajano, benchè defunto, si desse quest'onore. Perciò entrò in Roma sul carro trionfale, su cui era inalberata l'immagine di esso Trajano. Cominciò dipoi il suo governo, come far sogliono per lo più i principi novelli, con somma bontà e dolcezza, e con far bene a tutti. Diede un congiario al popolo romano [Mediobarbus, in Numismat. Imperat.], e pare che n'avesse dato due altri nell'anno antecedente. Rimise alle città d'Italia tutto il tributo coronario, cioè quello che si solea pagare per le vittorie degl'imperadori, e per l'assunzione d'essi al trono. Lo sminuì anche alle provincie fuori d'Italia, benchè egli [438] pomposamente esprimesse, quanto allora lo stato si trovasse in gran bisogno di danaro, che ciò nonostante egli faceva quella remissione. Ciò nondimeno che gli produsse un incredibil plauso, fu l'aver condonato tutti i debiti [Dio, lib. 69.] che aveano le persone private da sedici anni in addietro coll'erario imperiale, tanto in Roma che in Italia, e nelle provincie spettanti all'imperadore, secondo la divisione d'Augusto, non sapendosi se questa liberalità si stendesse ancora alle provincie governate dal senato. Parla di questa sua memorabil generosità Sparziano, e ne conservarono la memoria le medaglie e le iscrizioni antiche [Panvinius, Fast. Consular. Spartianus, in Vita Hadriani.]. Se non fallano i conti del Gronovio [Gronovius de Sestertiis.], questa remissione ascese a ventidue milioni e mezzo di scudi d'oro: il che sembra cosa incredibile. Per dare maggior risalto a questa sua insigne azione, e per maggior sicurezza dei debitori, fece bruciar nella piazza di Trajano tutte le lor polizze ed obbigazioni. Apparisce dalle medaglie suddette, ch'egli appena creato imperadore prese i titoli di Germanico, Dacico e Partico, come se ancor questi fossero passati in lui coll'eredità di Trajano. Trovasi anche appellato Pontefice Massimo. Ma per conto del titolo di Padre della Patria, benchè il senato non tardasse ad esibirglielo, e tornasse da lì a qualche tempo ad offerirglielo, nol volle, sull'esempio di Augusto che tardi l'avea accettato.
Anno di | Cristo CXIX. Indizione II. |
Sisto papa 3. | |
Adriano imperatore 3. |
Consoli
Elio Adriano Augusto per la terza volta, e Quinto Giunio Rustico.
Perchè non abbiamo storici che abbiano con ordine di cronologia distribuite [439] le azioni di Adriano e di molti altri susseguenti imperadori, possiamo ben rapportar con sicurezza ciò che operarono, ma non già accertarne i tempi. Le stesse medaglie mancano in questi tempi di note cronologiche, perchè non vi si esprime, se non in generale, la podestà tribunizia e il consolato terzo, ripetuto sempre ne' susseguenti anni, perchè egli più non fu da lì innanzi console. Diede (forse nel precedente e non meno nel presente) dei sollazzi al popolo romano, troppo vago degli spettacoli, correndo il suo giorno natalizio, cioè [Dio, lib. 69.] il combattimento de' gladiatori, e molte cacce di fiere. Giorni vi furono, ne' quali cento lioni ed altrettante lionesse restarono uccisi. Tanto nel teatro che nel circo, dove si fecero altri giuochi, sparse dei doni separatamente agli uomini e alle donne. E perciocchè regnava in Roma l'abbominevole abuso, che nel medesimo bagno e nello stesso tempo si andavano a lavar uomini e donne, proibì così enorme indecenza. Durò [Spartianus, in vita Hadriani.] il suo consolato dell'anno presente solamente i primi quattro mesi, senza che si sappia chi gli fosse sostituito in quella dignità. Ed allora attese ad ascoltar e decidere le cause, che erano portate al senato. Meglio regolò le poste, acciocchè i magistrati delle provincie non avessero l'incomodo di provveder le vetture ai bisogni. Ordinò che da lì innanzi le pene dei condannati non si pagassero al fisco, cioè alla camera cesarea, ma bensì all'erario della repubblica. Accrebbe gli alimenti ai fanciulli e alle fanciulle orfane povere per tutta l'Italia, ampliando la bella istituzione che aveano dinanzi fatto i buoni imperadori Nerva e Trajano. Ai senatori, che senza lor colpa aveano sminuito molto del patrimonio che si esigeva per essere di quell'ordine eminente, diede egli il supplemento con pensioni ben pagate finchè egli visse. Per le spese occorrenti nell'ingresso [440] delle cariche a molti suoi amici poveri somministrò un buon aiuto di costa, e ciò fece ancora con alcuni che nol meritavano. Sovvenne ancora molte nobili donne, alle quali mancava il modo onesto di sostentar la vita. Scelse i più accreditati dell'ordine senatorio per i suoi domestici e familiari, e li teneva alla sua tavola. Fuorchè nel giorno suo natalizio, ricusò i giuochi circensi, che in altri tempi volle il senato decretare in onore di lui. Spesse volte ancora, parlando al senato e al popolo, protestò di voler far conoscere nel suo governo, ch'egli procurava il ben pubblico, e non già il proprio.
La cronica di Alessandria mette sotto questi consoli l'andata di Addano a Gerusalemme [Chr. Paschale, tom. I Histor. Byzantin.], per quietare i tumulti eccitati dai Giudei anche in quelle parti. Prese, se vogliam credere a quello storico, la città di Terebinto, e vendè schiavi al pubblico i Giudei quivi trovati. Atterrò il tempio di Gerusalemme; fabbricò ivi due piazze, un teatro ed altri edifizii. Divise quella città in sette rioni coi lor sopraintendenti, ed abolito il nome di Gerusalemme, volle che quella città dal suo si chiamasse Elia. Anche Eusebio [Eusebius, in Chron.] qualche cosa di ciò parla all'anno presente; e il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] tien per fermo che allora seguisse il viaggio suddetto di Adriano, e che Gerusalemme fosse da lui rifabbricata. Ma non è l'autore della cronica alessandrina di tal peso, da dovergli tosto prestar fede in questo punto di cronologia, quando Dione e Sparziano nulla di ciò dicono verso i tempi presenti; e quello scrittore patentemente s'inganna in attribuire ad Adriano la distruzione del tempio accaduta nella guerra di Tito. Non è perciò, a mio credere, assai sussistente il viaggio colà di Adriano in questi tempi. Possiamo bensì tenere, che nell'anno presente i sediziosi Giudei facessero qualche movimento, [441] e restassero abbattuti, come scrive san Girolamo [Hieron., Comment. in Danymus, c. 9.], e vien accennato anche da Eusebio. Abbiamo inoltre da Eutropio [Eutrop., in Breviar.], che Adriano ebbe una sola guerra, di cui parleremo, nè questa la fece in persona, ma per mezzo di un suo generale.
Anno di | Cristo CXX. Indizione III. |
Sisto papa 4. | |
Adriano imperadore 4. |
Consoli
Lucio Catilio Severo e Tito Aurelio Fulvo.
Per quanto c'insegna Giulio Capitolino [Julius Capitolinus, in T. Antonino.], l'imperadore Antonino Pio fu prima nominato Tito Aurelio Fulvio o Fulvo, ed era stato console con Catilio Severo. Quando quello storico non prenda abbaglio, il secondo de' consoli dell'anno presente dovette essere il medesimo Antonino. Non Lucio Aurelio, come per errore è corso ne' fasti del padre Stampa, ma Tito Aurelio fu il prenome e nome d'esso console, come s'ha da un'iscrizione riferita dal Panvinio [Panvinius, in Fast. Consular.]. Ora all'anno presente, secondochè immaginò il padre Pagi [Pagius, in Critic. Baron.] con altri, e non già al precedente, come volle il Tillemont, pare che s'abbia da riferire la guerra mossa [Dio, lib. 69.] dai Sarmati e dai Rossolani contro le terre dell'imperio romano. A questo avviso Adriano Augusto immediatamente mandò innanzi l'esercito romano, e poi, tenendogli dietro, arrivò anche egli nella Mesia, e si fermò al Danubio, frapposto fra lui e i nemici. Il Cellario [Cellar., Geogr.], che mette i Sarmati verso il mar Nero, e i Rossolani circa la Palude Meotide, non so come ben si accordi col racconto di questa guerra. Un dì la cavalleria romana, di tutte armi [442] guernita, all'improvviso passò a nuoto il Danubio: azione sommamente ardita, che mise tal terrore nei Barbari, che trattarono di pace [Euseb., in Chron.]. Lamentavasi il re de' Rossolani [Spartianus, in Vita Hadriani.], che gli fosse stata sminuita la pensione solita a pagarsegli dai Romani. Adriano, che abborriva i pericoli della guerra, il soddisfece, con accordar vergognosamente quanto il barbaro richiedea. Fu in questi tempi, che egli diede il governo della Pannonia e della Dacia a Marzio Turbone, ch'era stato presidente della Mauritania, conferendogli la medesima autorità che avea il governator dell'Egitto. Fors'anche allora fu ch'egli fece fabbricar nella Mesia una città, che da lui prese il nome di Adrianopoli, oggidì Andrinopoli, città molto cospicua tuttavia. Secondo l'ordine che tiene Sparziano nel suo racconto, parrebbe che appartenessero all'anno presente alcune crudeltà usate da esso Adriano. Dione [Dio, lib. 69.] sembra metterle molto prima, cioè all'anno 118 o 119. Siccome Adriano era principe diffidente e sospettoso, e che facilmente bevea quanto di male gli veniva riferito, così prestò fede a chi accusò Domizio Negrino d'aver macchinato contro la di lui vita: del qual delitto (vero o falso che fosse) furono creduti complici Cornelio Palma, Lucio Publicio Celso e Lucio Quieto, tutti e quattro personaggi di gran credito e nobiltà, e stati già consoli ordinari o straordinari. Ma non s'accordano insieme Dione e Sparziano. Il primo scrive che doveano ammazzare Adriano, allorchè era alla caccia; e l'altro, mentr'egli si trovava impegnato in un sagrifizio. Si può anche dubitare che un tal fatto accadesse quando Adriano si trovava nelle vicinanze di Roma, e non già nella Mesia. Ne scrisse Adriano al senato. Pare che queste persone prendessero la fuga, perchè Palma, per ordine del senato, fu ucciso in Terracina, Celso [443] a Baja, Negrino a Faenza, e Lucio in viaggio. Protestò dappoi Adriano, non essere accaduta la lor morte di commessione sua, e lo scrisse anche nella sua vita, libro che più non esiste. Ma per quanto egli dicesse [Dio, lib. 69.], comune credenza fu, che per insinuazioni segrete da lui fatte, il senato levasse a sì riguardevoli soggetti la vita; nè alcuno si sapea persuadere, che persone di tanta riputazione fossero giunte a meditar simile attentato. Lo stesso Adriano poi in qualche congiuntura non negò d'aver data la spinta alla lor morte, con rigettarne poi la colpa del consiglio sopra Taziano, prefetto del pretorio.
Nè fu questa la sola crudeltà usata da Adriano. Altre nobili e potenti persone credute colpevoli per la suddetta congiura, o per altre cagioni, ed in altri tempi, perderono la vita d'ordine suo, tuttochè l'astuto principe, anche con giuramento, attestasse d'essere in ciò innocente. Così in un altro anno egli fece levare dal mondo Apollodoro Damasceno [Dio, ibidem.]. Siccome di sopra accennammo, era questi un architetto mirabile. Avea fabbricato il maraviglioso ponte di Trajano sul Danubio. Sua fattura parimente furono la superba piazza di Trajano, l'Odeo ed il Ginnasio in Roma. Un giorno si trovava presente Adriano, allorchè l'Augusto Trajano ed Apollodoro trattavano di una di esse fabbriche, e volle anch'egli fare il saccente, come quegli che credea di sapere di tutto. Rivoltosegli Apollodoro gli disse: Andate di grazia a dipingere delle zucche: chè di questo non v'intendete punto. Questa ingiuria non si cancellò mai più dal cuor di Adriano, e fu cagione che mandò poi con de' pretesti quel valentuomo in esilio. Tuttavia maggior male per questo non gli avrebbe fatto; anzi in qualche tempo si servì di lui. Avvenne che Adriano fabbricò il tempio di Venere e di Roma, dove erano le magnifiche statue [444] di queste due falsamente appellate dee. Per prendersi beffe di Apollodoro ch'era fuori di Roma, e forse esiliato, gliene mandò il disegno, acciocchè intendesse che senza di lui si poteano far delle sontuose e belle fabbriche in Roma; e nello stesso tempo desiderò che dicesse il suo sentimento, se fosse o no con buona architettura formato quello edifizio. Rispose Apollodoro, che conveniva fabbricar quel tempio assai più alto, se avea da fare un'eminente comparsa sopra le alte fabbriche della Via sacra: ed anche più concavo, a cagion delle macchine che si pensava di fabbricar ivi segretamente, per introdurle poi nel teatro. Aggiugneva, che le maestose statue ivi poste non erano proporzionate alla grandezza del tempio, perchè se le dee avessero avuto da levarsi in piedi ed uscir fuori, non avrebbono potuto farlo. All'udir queste osservazioni, e al conoscere l'error commesso senza poterlo emendare, s'empiè di tanta rabbia e dolore Adriano, che privò di vita il troppo sincero architetto, degno ben d'altra mercede pel suo impareggiabil valore. Oh che bestia il signore Adriano! griderà qui taluno. Ma convien aspettare alquanto, perchè mirandolo in un altro prospetto fra poco, troveremo in lui tanto di buono da potere far bella figura fra i regnanti. Non so io ben dire in che luogo dimorasse Adriano, allorchè succedette la tragedia dei quattro consolari suddetti uccisi. Ben so ch'egli si trovava fuori di Roma [Spartianus, in Hadriano.], ed avvisato dalla grave mormorazione che si faceva per la morte di sì illustri personaggi, e ch'egli s'era tirato addosso l'odio di tutti, corse frettolosamente a Roma per prevenire i disordini. Quetò il popolo con dispensargli un doppio congiario. Mentre era lontano, gli avea anche fatto distribuire tre scudi d'oro per testa. Nel senato, dopo aver addotte le scuse dell'operato, giurò di nuovo che non avrebbe mai fatto morire senatore alcuno, se non era [445] giudicato degno di morte dal senato. Ma sotto i precedenti cattivi Augusti, un solo lor cenno bastava a far che il senato proferisse la sentenza di morte contra di chi incorreva nella loro disgrazia. Se non falla Eusebio [Euseb., in Chron.], in quest'anno ovvero nel seguente, un fiero tremuoto diroccò la città di Nicomedia, e ne patirono gran danno tutte le città circonvicine. Adriano generosamente inviò colà grandi somme di danaro per rifarle.
Anno di | Cristo CXXI. Indizione IV. |
Sisto papa 5. | |
Adriano imperadore 5. |
Consoli
Lucio Annio Vero per la seconda volta e Aurelio Augurino.
Fu Lucio Annio Vero avolo paterno di Marco Aurelio filosofo ed imperadore, di cui parleremo a suo tempo. Osservossi [Spartianus, in Hadriano.] in tutte le maniere di vivere d'Adriano Augusto una continua varietà, e una costante incostanza. Ora crudele, ora tutto clemenza: ora serio e severo, ora lieto buffone: avaro insieme e liberale: sincero e simulatore. Amava facilmente, ma facilmente passava dall'amore all'odio. S'è veduto com'egli trattò l'architetto Apollodoro, e pure abbiam da Sparziano, che non si vendicò di chi gli era stato nemico, allorchè menava vita privata. Divenuto imperadore, solamente non guardava loro addosso. E vedendo uno che più degli altri se gli era mostrato contrario, disse: L'hai scappata. Tutto ciò può essere, se non che per testimonianza del medesimo storico, Palma e Celso consoli, stati sempre suoi nemici nella vita privata, abbiam veduto qual fine fecero. In quest'anno gli venne troppo a noia Celio Taziano, che già dicemmo alzato da lui al grado di prefetto del pretorio, in guisa che, come dimentico di averlo avuto per tutore, e [446] per gran promotore della sua assunzione al trono, ad altro non pensava che a levarselo d'attorno. Non poteva sofferire la grand'aria di potenza che si dava Taziano; e perciò gli corse più volte per mente di farlo tagliare a pezzi. Se ne astenne, perchè era fresca la memoria dei quattro consolari uccisi, e l'odio che gliene era provenuto. Ma con tutto il suo guardarlo di bieco, non otteneva che Taziano chiedesse di depor quella carica. Gli fece per tanto dire all'orecchio, che era bene il chiederlo; ed appena ne udì l'istanza, che conferì la carica di prefetto del pretorio e Marzio Turbone, richiamato dalla Pannonia e Dacia. Creò senatore Taziano, dandogli anche gli ornamenti consolari, e dicendo che non avea cosa più grande con cui premiarlo. Anche Simile, l'altro prefetto del pretorio, siccome dissi all'anno 118, dimandò il suo congedo. Entrò nel suo posto Setticio Claro. Sì Turbone che Claro erano due personaggi di raro merito; ma anch'essi provarono col tempo, quanto instabile fosse l'amore e la grazia di questo imperadore. Per questa mutazion d'uffiziali parendo oramai ad Adriano d'aver la vita in sicuro, perchè di loro non si fidava più, andò a sollazzarsi nella Campania, dove fece del bene a tutte quelle città e terre, ed ammise all'amicizia sua le persone più degne ch'egli trovò in quel tratto di paese.
Ritornato a Roma Adriano, come se fosse persona privata, interveniva alle cause agitate davanti ai consoli e ai pretori; compariva ai conviti de' suoi amici, e se questi cadevano malati, due ed anche tre volte il giorno andava a visitarli. Nè solamente ciò praticò coi senatori; si stesero le visite sue anche ai cavalieri romani infermi, e insino a persone di schiatta libertina, sollevando tutti con buoni consigli, ed aiutando chiunque si trovava in bisogno. Gran copia d'essi amici volea sempre alla sua mensa. Alla suocera sua, cioè a Matidia [447] Augusta, nipote di Trajano, compartì ogni possibil onore, allorchè si faceano i giuochi de' gladiatori, e in altre occorrenze. Ebbe sempre in sommo onore Plotina Augusta, vedova di Trajano, da cui conosceva l'imperio. E a lei defunta fece un suntuoso scorruccio. Gran rispetto ancora mostrava ai consoli, sino a ricondurli a casa terminati ch'erano i giuochi circensi. Anche con la più bassa gente parlava umanissimamente, detestando i principi che colla loro altura si privano del contento di mandar via soddisfatte di sè le persone. Con queste azioni prive di fasto, piene di clemenza [Dio, lib. 69.], si procacciava l'affetto del pubblico; e lodavasi nel medesimo tempo la continua sua attenzione al buon governo; la sua magnificenza nelle fabbriche; la sua provvidenza ne' bisogni occorrenti, e specialmente nel mantenere l'abbondanza de' viveri al popolo. Assaissimo ancora piaceva il non esser egli vago di guerre, che d'ordinario costano troppo ai sudditi. Tanto le abborriva egli, che se ne insorgeva alcuna, più tosto si studiava di aggiustar le differenze coi negoziati, che di venir all'armi. Non confiscò mai i beni altrui per via d'ingiustizie; troppo si pregiava egli di donare il suo ad altri, non già di far sua la roba altrui. In fatti grande fu la sua liberalità verso moltissimi senatori e cavalieri; nè aspettava egli d'essere pregato; bastava che conoscesse i lor bisogni per correre spontaneamente a sovvenirli. Se gli poteva parlare con libertà, senza ch'egli se l'avesse a male. Avendogli una donna dimandata giustizia, rispose di non aver tempo di ascoltarla. Perchè siete voi dunque imperadore? gridò la donna. Fermossi allora Adriano, con pazienza l'ascoltò, e la soddisfece. Un di ne' giuochi de' gladiatori al popolo non piacea quel che si facea, e con importune grida dimandava all'imperadore, che se ne facesse un altro. Comandò Adriano all'araldo che gli era vicino, [448] di dire imperiosamente al popolo che tacesse, come solea far Domiziano. Ma l'araldo fatto cenno al popolo di dovergli dir qualche parola a nome del regnante, altro non disse se non: Quel che ora si fa, è di piacere dell'imperadore. Non si offese punto Adriano, che l'araldo avesse contro l'ordine suo parlato con tal mansuetudine al popolo, anzi il lodò d'aver così fatto. Credesi ch'egli in quest'anno fabbricasse un circo in Roma. Comincia il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] nell'anno 120 i viaggi di Adriano fuori di Italia; il Pagi [Pagius, Crit. Baron.] nell'anno 121. Io mi riserbo di parlarne all'anno seguente.
Anno di | Cristo CXXII. Indizione V. |
Sisto papa 6. | |
Adriano imperadore 6. |
Consoli
Manio Acilio Aviola, e Cajo Cornelio Pansa.
Per accertar gli anni precisi, ne' quali Adriano Augusto imprese ed eseguì tanti suoi viaggi, non ci ha provveduti la storia di lumi sufficienti. Nè occorre volgersi alle medaglie, nelle quali veramente sono accennati questi suoi viaggi, perchè esse non ritengono vestigio del tempo. L'Occone e il Mezzabarba [Mediobarbus, in Numism. Imperat.] le han distribuite a tentone per varii anni, senza poterne addurre il perchè. Sia dunque lecito a me il tener qui con esso Mezzabarba e col Bianchini [Blanchinius, ad Anastasium.], che in quest'anno cominciasse Adriano a viaggiare. Parte per curiosità, e parte per farsi rinomare, si era egli messo in testa di voler visitare tutto il vasto imperio romano; cosa non mai fatta da alcuno de' predecessori. Venne dunque, a mio credere, nell'anno presente per l'Italia, e passò nella Gallia [Spartianus, in Hadriano.], dove delle sue azioni altro non si sa, se non che sollevò [449] colla sua liberalità quanti bisognosi a lui ricorsero. Certo è che questo suo genio ambulatorio tornava in profitto delle provincie [Dio, lib. 69.] dove egli arrivava; imperocchè a guisa di un ispettore s'informava co' suoi occhi, e col saggio esame delle cose, se i magistrati faceano il lor dovere, oppur mancavano alla giustizia, e quali fossero gli abusi, per rimediare a tutto; nel che maravigliosa era non meno la di lui attività e provvidenza, che la sua costanza in degradare o punire in altre forme i delinquenti. Volea saper tutte le rendite e gli aggravi delle città; visitava tutte le fortezze, per osservare se erano ben tenute e munite, ordinando che si provvedesse quel che mancava, distruggendo ciò che non gli piacea, e comandando, se occorreva, delle fabbriche nuove in altri siti. Dalla Gallia passò nella Germania romana. A que' confini distribuito stava a quartiere il maggior nerbo delle milizie romane sempre all'ordine per opporsi ai Germani non sudditi, i quali più che altra nazione furono sempre temuti e rispettati dai Romani. Era Adriano, quanto altri mai, peritissimo dell'arte militare, e sembra ch'egli anche ne componesse un libro, come altrove ho io accennato [Antiquit. Italicar., tom. 2, Dissert. 26.]. Adunque senza perder tempo, si applicò alla visita de' luoghi forti, esaminando le fortificazioni, l'armi, le macchine militari; e come se fosse imminente la guerra, diede la mostra a tutte quelle legioni, e premiò e promosse a gradi superiori chi sel meritava; fece far l'esercizio a tutti. Trovati moltissimi abusi introdotti nella milizia per trascuratezza dei principi e generali precedenti, si mise al forte, per rimettere in piedi l'antica disciplina romana fra que' soldati. Diede ordini bellissimi intorno a varii impieghi degli uffiziali, e alle spese che si facevano. Levò via dagli alloggiamenti de' soldati (che erano obbligati ad abitar sotto le tende alla [450] campagna) i portici, i pergolati, le grotte ed altre delizie. Niuno de' soldati senza giusta cagione potea uscire del campo. Per divenir centurione (noi diremmo capitano) bisognava aver buona fama e robustezza di corpo. Essere non potea tribuno (noi diremmo colonnello) se non chi era giunto ad una perfetta giovanezza, accompagnata inoltre dalla prudenza. Lecito non era ai tribuni l'esigere o ricevere alcun dono o danaro dai soldati. E per conto de' medesimi soldati disaminò attentamente le loro armi, il lor bagaglio, la loro età, acciocchè niuno prima degli anni diecisette fosse assunto alla milizia, nè fosse tenuto a militar più di trenta, se non voleva. Nell'esattezza della disciplina precedeva egli a tutti, animando col proprio esempio le sue leggi. Mangiava in pubblico, altro cibo non prendendo che l'usato dai soldati gregari, cioè lardo, cacio e posca, o sia acqua mischiata d'aceto. Talvolta armato fece venti miglia a piedi; bene spesso usava vesti dimesse, non dissomiglianti da quelle de' soldati. L'usbergo suo era senza oro, le fibbie senza gemme, di avorio solamente il pomo della spada. Visitava i soldati infermi; disegnava i siti degli accampamenti; sopra tutto badando che non si comprassero robe inutili, nè si desse a mangiare a persone oziose. Da questo poco si può comprendere la saviezza degli antichi Romani nel ben disciplinare la loro milizia.
Sbrigato della Germania Adriano, si crede che nell'anno stesso, cioè come io vo congetturando, nel presente passasse alla visita della gran Bretagna [Spartianus, in Hadriano.]. Quivi ancora trovò molti abusi, e li corresse. Erano i Romani in possesso di buona parte di quell'isola; ma nel principio del governo di Trajano vi era stata qualche ribellione o tumulto in quelle parti. Certo è che la parte settentrionale non ubbidiva all'aquile romane. Per assicurarsi dunque Adriano dagl'insulti di [451] que' Barbari, gente feroce e temuta, ordinò che si fabbricasse un muro lungo ottanta miglia, il qual dividesse i confini romani dalle terre d'essi Barbari. Credono gli eruditi Inglesi, che questo muro fosse nella provincia del Northumberland verso il fiume Tin, e che ne restino tuttavia le vestigia. Ebbe fra le altre cose in uso Adriano di tener delle spie, non tanto per saper tutto ciò che si faceva in corte, quanto ancora per indagar tutt'i fatti particolari de' suoi cortigiani ed amici. Al qual proposito si racconta, che avendo una dama scritto al marito, lamentandosi dello star egli tanto tempo lontano, e del perdersi nei bagni ed in altri piaceri: lo seppe Adriano, e venuto quel tale a prendersi commiato, gli disse ch'era bene l'andare e l'abbandonare ormai i bagni e i piaceri. Il cavaliere non sapendo di che mezzi si servisse Adriano per iscoprire i fatti altrui, allora rispose: L'ha forse mia moglie scritto anche a voi, siccome ha fatto a me? Ora dovette Adriano essere avvisato da Roma, che Svetonio Tranquillo, autore delle Vite dei dodici primi Cesari, che allora serviva in corte nel grado di segretario delle lettere, e Setticio Claro, prefetto del pretorio, ed altri, praticavano troppo familiarmente con Sabina sua moglie, non mostrando quella riverenza che si dovea alla casa dell'imperadore. Di più non vi volle, perchè egli levasse loro le cariche. Aggiungono, ch'era anche disgustato della stessa Sabina sua moglie, perchè gli parea donna aspra e schizzinosa: laonde ebbe a dire, che s'egli fosse stato persona privata, l'avrebbe ripudiata. Succedette in questi tempi qualche fastidiosa sedizione in Egitto. Adoravano que' popoli il dio Apis sotto figura di un bue macchiato; e morendo questo, si cercava un vitello che avesse le medesime macchie. Dopo molti anni trovato questo dio bestia, gran gara, anzi un principio di guerra insorse fra le città, pretendendo molte d'esse di doverlo nutrire nel loro tempio. A questo [452] avviso turbato Adriano, dalla Bretagna tornò nella Gallia, e venne a Nimes in Provenza, dove d'ordine suo fu fabbricata una maravigliosa basilica in onore di Plotina Augusta, già moglie di Trajano. A lui ancora, o pure ad Antonino, vien attribuita la fabbrica dell'anfiteatro, in parte ancora sussistente, ed un ponte ed altre antichità di quella città. Di là poi si portò in Ispagna, e passò il verno in Tarragona.
Anno di | Cristo CXXIII. Indizione VI. |
Sisto papa 7. | |
Adriano imperadore 7. |
Consoli
Quinto Aprio Petino e Lucio Venulejo Aproniano.
I più degl'illustratori de' Fasti consolari danno il nome di Cajo Ventidio Aproniano al secondo di questi due consoli. Io, fondato sopra un embrice o mattone, tuttavia esistente nell'insigne museo del Campidoglio [Thesaurus Novus Inscription., pag. 321, num. 6.], l'ho appellato Lucio Venulejo. Ma in un altro mattone, riferito dal Fabretti [Fabrettus, Inscription., pag. 509.], egli ha il prenome di Tito, e non già di Lucio. Sembra che sotto Nerva s'introducesse l'uso continuato di poi per molti anni, d'imprimere ne' mattoni, e in altri materiali di terra cotta, oltre al nome della bottega o sia della fornace, quello ancora de' consoli per denotar l'anno. Passò Adriano, siccome già accennai, il verno in Tarragona, dove egl'incontrò un pericoloso accidente. Mentre egli un dì passeggiava per un giardino, gli venne incontro furiosamente colla spada nuda un servo del padrone di quella casa. Adriano bravamente si difese, e fermato il micidiale, consegnollo alle guardie [Spartian., in Hadriano.]. Trovossi che il cervello avea data volta a costui. L'imperadore con esempio di rara moderazione il fece curar dai medici, nè [453] volle fargli alcun male. In quella città riparò egli a sue spese il tempio d'Augusto. Ordinò una leva di gente, ma vi trovò delle difficoltà, tuttavia con tal prudenza e destrezza maneggiò gli animi di que' popoli, che ottenne l'intento suo. Motivo di stupore fu, che trovandosi egli in Ispagna, non andasse a visitar la sua patria Italica. Sappiamo nondimeno che le fece di gran bene; ed Aulo Gellio [Gellius, lib. 16, cap. 13.] cita un discorso da lui fatto in senato, allorchè Italica, Utica ed altre città che godeano la libertà dei municipii, dimandarono d'aver delle colonie romane: il che parve strano, essendo migliore la condizion dei municipii, che quella delle colonie. Qualche torbido dovette seguire circa questi tempi nella Mauritania, provincia dell'Africa. Adriano felicemente lo quietò. Deducendosi dalle medaglie [Mediobarbus, Numism. Imper.], che anche in persona a quella provincia egli si trasferì, il Tillemont [Tillemont, Mémoires des Empereurs.] si figura che questo accadesse nell'anno presente. Ma il Pagi [Pagius, in Crit. Baron.] pensa ciò avvenuto più tardi. Dicendo poi Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], che in questi tempi vi fu un principio di guerra coi Parti, il quale con un abboccamento seguito fra esso Adriano e forse con Cosroe re di quella nazione, in breve fu posto fine: potrebbe taluno argomentare, che Adriano passasse dalla Spagna e dalla Mauritania in Soria. Il salto a me par troppo grande. Si tien parimente, che egli andasse dipoi ad Atene, dove si fermò per tutto il verno seguente. Con tal supposizione pare che possa accordarsi l'avere scritto Eusebio [Eusebius, in Chron.], che Adriano, fattagli istanza di nuove leggi dal popolo ateniese, formò un estratto di quelle di Dracone, Solone ed altri legislatori, e loro le diede.
Anno di | Cristo CXXIV. Indizione VII. |
Sisto papa 8. | |
Adriano imperadore 8. |
Consoli
Manio Acilio Glabrione e Cajo Bellicio Torquato.
Perchè si sono smarrite tante antiche storie, e massimamente la vita di sè stesso scritta da Adriano, noi ci troviamo ora troppo intrigati a seguitar questo imperadore ne' suoi viaggi, e ci convien solamente per congetture rapportare a questo ed a quell'anno i suoi passi. Camminando dunque sul supposto che Adriano soggiornasse nel presente verno ad Atene, ne sarebbe seguito ciò che scrive Eusebio nella sua Cronica, cioè, che essendo uscito del suo letto il fiume Cefiso, ed avendo inondata la città di Eleusi o sia Eleusina, egli fabbricò un ponte sopra quel fiume, e verisimilmente lo fece arginar con delle muraglie, in maniera che più non potesse farle di queste burle. Quindi pare ch'egli si portasse alla visita della Bitinia, Macedonia, Cappadocia, Cicilia, Frigia, Pamfilia, Licia, Armenia, e d'altri paesi dell'Asia e dell'isole adiacenti. Ci sono medaglie di tali provincie, che il nominano lor ristauratore; imperciocchè in niun luogo andava egli, che non vi lasciasse dei benefizii, con esenzioni e privilegii, o con fabbriche degne di un par suo. Dione [Dio, lib. 69.] attesta ch'egli magnificamente aiutò ed abbellì le città da lui visitate, chi con danari, chi con acquedotti o porti, chi con templi, ed altri pubblici edifizii, o con accrescimento d'onori. Sotto l'antecedente anno l'autore della cronica alessandrina [Chron. Paschale. Histor. Byzantin.] scrive che Adriano edificò le piazze di Nicomedia e di Nicea, e i Crociali, e le mura che guardano verso la Bitinia. Fabbricò inoltre il tempio di Cizico, e in quella città selciò di marmi la piazza. Colla stessa generosità in molte [455] altre illustri città alzò vari templi, e varie statue fece mettere in essi. Aggiugne lo storico Dione, che nella maggior parte delle città, dove si lasciò vedere, fabbricò de' teatri, e v'istituì dei combattimenti annuali. Così dappertutto risuonava la fama e il nome di Adriano, come di comune benefattore di tutto il romano imperio. Varie iscrizioni in testimonianza di questo ho anch'io rapportato altrove [Thesaurus Novus Inscript., tom. 1.]. Non è inverisimile, che verso il fine dell'anno egli si riducesse di nuovo ad Atene, città sopra le altre a lui cara, e quivi soggiornasse ne' mesi del verno, moltiplicando le grazie verso quella città. In essa volle anche esser presidente dei pubblici giuochi e combattimenti. Fu osservato che molti de' Greci portavano dei coltelli, anche andando ai lor templi. O per ordine o per riverenza di Adriano niuno osò allora di portarli.
Anno di | Cristo CXXV. Indizione VIII. |
Sisto papa 9. | |
Adriano imperadore 9. |
Consoli
Publio Cornelio Scipione Asiatico, per la seconda volta, e Quinto Vettio Aquilino.
Camminando noi sul supposto, che Adriano Augusto soggiornasse nel presente verno in Atene, allora dovette succedere ciò che narra Sparziano, cioè ch'egli volle intervenire [Spartianus, in Hadriano.] alle sacre feste di Cerere, che si faceano nella città di Eleusi o sia Eleusina. Rinomati erano i misteri di que' sacerdoti, cioè i riti e le cerimonie che si adoperavano nel culto di quella falsa deità, appunto perchè segreti e non veduti dal popolo. Per grazia pochi si ammettevano alla conoscenza e participazione di sì fatte superstizioni ed imposture. Adriano, ad esempio d'Ercole e di Filippo il Macedone, ne volle essere partecipe, e farsi ascrivere [456] al ruolo di que' divoti. Venne poi da Atene a visitar le città della Sicilia, ed anche ivi è da credere che con larga mano spargesse benefizii, dacchè abbiamo una medaglia, in cui vien appellato Restitutore della Sicilia. Volle quivi visitare il monte Etna, per vedere la nascita del sole, la quale si dicea che rappresentava l'arco baleno. Dopo tante girate finalmente si restituì a Roma.
Anno di | Cristo CXXVI. Indizione IX. |
Sisto papa 10. | |
Adriano imperadore 10. |
Consoli
Marco Annio Vero per la terza volta, ed Eggio Ambibulo.
Il primo de' consoli Annio Vero, sappiam di certo che fu avolo paterno di Marco Aurelio imperadore; non così certo è il suo prenome di Marco. Ho io appellato il secondo Eggio Ambibulo, fondato sopra un'iscrizione da me rapportata altrove [Thesaurus Novus Inscript., p. 323, n. 2.], ed esistente nel Museo Capitolino. Credette il cardinal Noris [Noris, Espistol. Consular.], ch'egli portasse i nomi di Lucio Vario Ambibulo, adducendone per prova due iscrizioni riferite dal Reinesio. Ma i marmi reinesiani non dicono che quel Lucio Vario Ambibulo fosse console, e perciò nulla si oppongono al marmo da me sopra citato. Il padre Pagi [Pagius, Critic. Baron.] pieno della idea de' quinquennali, decennali, quindecennali, ec. degl'imperadori, de' quali sì spesso favella, pretende che il motivo d'Adriano per tornare a Roma, fosse affin di celebrare in quest'anno le feste che si usavano, allorchè gli Augusti compievano il decimo anno del loro imperio. Eusebio [Eusebius, in Cron.], con cui vanno concordi l'autore della cronica alessandrina, e Paolo Orosio, scrive che nel presente anno dal senato romano fu conferito ad Adriano il titolo di Padre della Patria, e a Giulia [457] Sabina sua moglie quello di Augusta. Ma che ciò succedesse in quest'anno, si può giustamente dubitarne, trovandosi iscrizioni [Gruterus, Thesaur. Inscript.] e medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], nelle quali prima di questi tempi Adriano si vede intitolato Padre della Patria. Abbiamo poi da Sparziano [Spartianus, in Hadriano.] che continuando questo imperadore nel desiderio di visitar tutte le provincie dell'imperio, dopo essersi fermato qualche tempo in Roma, passò in Africa, dove non men si fece conoscere liberale di grazie e di benefizii verso quelle città, che fosse stato verso le altre di sopra menzionate. Veggonsi medaglie [Mediobarbus, in Numismat. Imp.], nelle quali è appellato Ristoratore dell'Africa, della Mauritania, della Libia. Terminata poi la visita di quelle provincie, tornò a Roma, per quivi soggiornare nel verno.
Anno di | Cristo CXXVII. Indizione X. |
Telesforo papa 1. | |
Adriano imperadore 11. |
Consoli
Tiziano e Gallicano.
Finora non si sono scoperti in sicure memorie i prenomi e i nomi di questi consoli. Assai fu in uso de' Romani il distinguere le persone nobili, una dall'altra coll'ultimo lor cognome, o sia soprannome. Questo solo dovea bastare per intendere chi fosse l'uno e l'altro de' consoli. Opinione poi fondata è, che in quest'anno succedesse il glorioso martirio di san Sisto papa, in cui luogo nella cattedra di san Pietro fu sustituito Telesforo. Quanto tempo si fermasse in Roma Adriano, non si sa. Sembra bensì credibile, che ogni qualvolta egli tornava a Roma, rallegrasse il popolo con un congiario, e con altre fogge di regali. Le medaglie [Idem, ibid.] ci hanno conservata la memoria di varie Liberalità di Adriano, e ne contano fin sette. Secondochè scrive [458] Sparziano [Spartianus, in Hadriano.], si rimise poi in viaggio il non mai stanco Augusto, per visitare un'