The Project Gutenberg eBook of Guida delle Prealpi Giulie

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Title: Guida delle Prealpi Giulie

Author: Olinto Marinelli

Illustrator: Antonio Pontini

Release date: January 30, 2013 [eBook #41948]
Most recently updated: October 23, 2024

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GUIDA DELLE PREALPI GIULIE ***
Copertina

GUIDA DEL FRIULI

IV.


GUIDA
DELLE PREALPI GIULIE

Distretti di Gemona, Tarcento, S. Daniele, Cividale e S. Pietro
con Cormòns, Gorizia e la valle dell'Isonzo

DI

OLINTO MARINELLI

G. Bragato, G. Costantini, G. B. de Gasperi, G. Feruglio,
M. Gortani, P. S. Leicht, A. Lorenzi, F. Musoni, G. Trinco.

Con disegni in penna

di ANTONIO PONTINI

ED ALTRE ILLUSTRAZIONI

UDINE
SOCIETÀ ALPINA FRIULANA

1912


Firenze, 1912. — Tipografia M. Ricci, Via San Gallo, 31.


ALLA MEMORIA
DI
FEDERICO CANTARUTTI
CHE CON LUNGA AMOROSA TENACE OPERA
SOMMAMENTE CONTRIBUÌ
ALL'INCREMENTO DELLA SOCIETÀ ALPINA FRIULANA
E NEL RIVOLGERNE L'ATTIVITÀ
ALL'ILLUSTRAZIONE DELLA NOSTRA TERRA
FU IL PIÙ VALIDO COLLABORATORE
DI
GIOVANNI MARINELLI


[vii]

PREFAZIONE

Corre ormai il quinto anno dacchè venne iniziata la compilazione di questa guida, e già il terzo dacchè ne fu iniziata la stampa. Io non sto a dire delle cause che giustificano sì grande lentezza, nè a cercare quanta parte ne sia da ascrivere alle intrinsiche difficoltà del lavoro, quanta a me, quanta in fine alle molte e diverse persone che erano state chiamate a dar mano a quest'opera. Si trattava di illustrare un nuovo lembo di questa regione, seguendo un piano già ottimamente tracciato, e messo in atto nella Guida di Udine, in quella del Canal del Ferro ed in quella della Carnia. Conveniva che il nuovo volume, nella buona riuscita del quale era impegnato non meno il nome della Società Alpina, che quello del nostro Friuli, non riuscisse inferiore ai precedenti mentre mancava, pur troppo, Colui che a quelli aveva dato vita. Chi ne ebbe ad ereditare il grave compito chiese aiuto a quanti per particolari studi e speciali conoscenze locali fossero in grado di contribuire in qualche modo all'opera. Se non tutti risposero, se alcuni risposero con sole promesse, vi fu pure chi diede intera e disinteressata l'opera propria. [viii]

Il nome dei principali collaboratori figura nel frontespizio ed accanto alle parti da ciascuno scritte; ma alcuni — e fra questi mi piace qui ricordare in modo speciale il sig. Giuseppe Bragato — estesero il proprio lavoro al di fuori dei capitoli dei quali risultano autori, altri modestamente e disinteressatamente ci furono larghi di consigli e di informazioni mentre il nome loro non figura in modo alcuno. Agli uni come agli altri esprimiamo qui i nostri ringraziamenti.

Un particolare ringraziamento dobbiamo poi al prof. Antonio Pontini, che, mettendo a nostra disposizione la ricca raccolta di artistici disegni da lui fatti in varie parti del Friuli, ci permise di illustrare convenientemente la guida con ben riuscite vignette, mentre ringraziamo pure tutte le molte persone che fornirono per scopo analogo fotografie di paesaggi, sia o no indicato il nome loro sotto a ciascuna riproduzione.

Dobbiamo anche ringraziare i sindaci dei comuni compresi nel territorio illustrato dalla Guida per le informazioni date. Tutti, salvo alcuni di località d'oltre confine, risposero al nostro appello. Mentre la provincia di Udine ed i comuni di Cividale, Gemona, Fagagna, S. Daniele, S. Pietro, Tarcento, Moruzzo, Ragogna, Segnacco, Buttrio, Lusevera, Martignacco, Nimis, Rodda e Manzano, aggiunsero un aiuto finanziario per l'edizione di questo volume.

Alla quale giovò pure in notevole misura il ricavato di una sottoscrizione che per la morte di Federico [ix] Cantarutti la Società nostra iniziò ed a cui contribuirono parenti ed amici Suoi, i quali tutti intendevano che degnamente ne fosse onorata la memoria con la presente pubblicazione.

A Federico Cantarutti quindi la Guida è dedicata.

Dal ricordo di Lui e da quello di Giovanni Marinelli, il compianto mio Padre, la gioia di aver, per ora, finito non è oggi turbata. Mi par quasi vederli rivivere lieti che sia continuata l'opera che l'Uno in varia guisa promosse, l'Altro magistralmente avviò: il Loro giudizio di benevolenza e d'incoraggiamento mi nasconde quasi le non poche nè lievi imperfezioni del mio lavoro.

Ad essi va attribuita la concezione prima della Guida del Friuli, ad essi, per notevole parte, l'esecuzione di questa. Sotto i loro auspici ben vada fra il pubblico questo nuovo volume.

Firenze, maggio 1912.

Olinto Marinelli.

[xi]

INDICE GENERALE


PARTE PRIMA

IL PAESE E LE SUE GENTI.

I. Cenni generali sulla regione considerata. (O. Marinelli) Pag. 3
La regione presa in esame, sua denominazione e limiti, precedenti illustrazioni ivi
II. I monti fra Tagliamento ed Isonzo e la loro struttura. (O. Marinelli) 9
Le Prealpi Giulie. Limiti e divisioni ivi
La serie dei terreni 11
Tectonica della regione. Alpi e Prealpi 20
Le catene prealpine. Linee principali del rilievo e suoi caratteri 23
La regione degli altipiani e le pendici pedemontane 27
L'anfiteatro morenico del Tagliamento 30
Altri depositi glaciali 33
Formazioni quaternarie ed attuali nelle regioni non occupate da ghiacciai 35
Terremoti 38
Le valli; il deprimersi dei loro fondi e dell'intera regione verso oriente 40
I passi 43
Le regioni naturali 44
III. Le acque: le loro vie sotterranee e la loro utilizzazione. (G. Feruglio e O. Marinelli) 46
I corsi d'acqua delle Prealpi Giulie. Il Tagliamento ed i suoi affluenti ivi
I corsi d'acqua dell'anfiteatro morenico 53
Torre e Natisone 54
L'Isonzo 58
Le condizioni idrologiche del territorio più interno delle Prealpi 59
La zona ad idrografia carsica. Le grotte 60
Le zone povere d'acqua. I canali artificiali 63
IV. Aria e temperie. (Giuseppe Feruglio) 68
Le osservazioni meteorologiche ivi
Temperatura 69
Stato del cielo e precipitazioni 72
Movimenti aerei. Venti e brezze 75
V. La flora. (Michele Gortani) 77
La flora delle Prealpi Giulie Occidentali e i suoi elementi più rari ivi
Le diverse zone di flora 80
Relitti glaciali e mediterranei 82
VI. La fauna. (Arrigo Lorenzi) 84
La conoscenza zoogeografica delle Prealpi Giulie ivi
Caratteri zoogeografici generali delle Prealpi Giulie 87
Zone ipsometriche e planimetriche. Gruppi biologici e loro gradi 90
Zona pedemontana 93
Zona montana. Mutamenti della fauna dovuti all'uomo 97
Corsi d'acqua prealpini 100
Zona culminale 101
Le caverne e le acque freatiche 104
VII. Gli abitanti: il loro numero e la loro distribuzione. (Francesco Musoni) 106
I più vecchi dati statistici relativi alla popolazione del nostro territorio ivi
Il numero di abitanti nel 1766 111
L'aumento della popolazione nell'ultimo secolo 113
La densità della popolazione dei singoli distretti 118
La popolazione assoluta e relativa dei singoli comuni 120
La distribuzione della popolazione in relazione con l'altimetria e con la struttura geologica. L'aggruppamento in villaggi 126
L'emigrazione permanente 132
L'emigrazione temporanea. Lo sviluppo e l'intensità del fenomeno 133
Caratteri della nostra emigrazione. Danni e vantaggi 137
VIII. Gli abitanti: i loro caratteri fisici, la loro origine e le differenze etniche e linguistiche. (Francesco Musoni) 140
Alcuni dati antropometrici ivi
Alcuni dati nosologici 144
La pellagra 146
Note paletnologiche. L'epoca della pietra 148
L'età del bronzo 150
Distribuzione delle località ove sono resti preistorici 152
I primi abitatori della nostra regione 153
I Celti 156
Slavi e Friulani 159
L'immigrazione slava 161
Il numero degli Sloveni del Friuli 163
La antica maggiore estensione degli Sloveni 165
Toponomastica slava e toponomastica friulana 166
I diversi gruppi dialettali degli slavi 167
Tradizioni, leggende, usi e costumi degli Slavi 171
Le parlate friulane 176
Le «villotte» tradizioni e leggende friulane 179
IX. Le condizioni agricole. (Francesco Musoni) 182
Le zone agricole. Zona montana e submontana ivi
La zona collinesca 193
La zona morenica 203
La regione piana 207
X. Industrie e commerci. (Francesco Musoni) 212
Giacimenti minerarî ivi
Materiali da costruzione. Cave. Fornaci 215
Industria della seta 218
Industria della lana. Tessitura. Cotonifici 219
Industrie varie 221
Utilizzazione delle acque 223
Piccole industrie 224
Condizioni generali delle industrie 226
Il commercio ivi
XI. Vie e mezzi di comunicazione. (Francesco Musoni) 228
Le vie romane ivi
La viabilità nel medio evo e fino ai tempi moderni 235
Considerazioni sulla viabilità attuale 242
Le ferrovie 244
XII. La Storia. (Pier Silverio Leicht) 245
La nostra regione nell'antichità ivi
Il dominio romano. Le vie commerciali 246
Il cristianesimo, le prime invasioni barbariche 250
La caduta di Aquileia e l'importanza assunta da Cividale. Il periodo dei Goti e dei Bisantini 252
I Longobardi. Cividale capitale del ducato 255
Invasioni degli Avari e degli Slavi 257
Il periodo più splendido del ducato Longobardo. Il patriarca a Cividale 258
La dominazione franca. Berengario. Le invasioni degli Ungari 261
La decadenza del Friuli. I feudatarî tedeschi 264
Il dominio della chiesa di Aquileja 266
Lo sviluppo dei commerci 273
Il parlamento della Patria. Comuni rurali e città 275
Il patriarcato di Pertoldo e dei suoi successori 278
I nemici dei patriarchi 279
L'importanza acquistata da Udine. I Savorgnano. Il patriarca Bertrando 282
Le lotte col duca d'Austria 284
Il Patriarcato di Marquardo 285
Le ultime vicende del dominio dei patriarchi 286
Il dominio di Venezia 288
Lo sviluppo delle arti e delle scienze. Il prevalere della borghesia 290
Le invasioni dei Turchi 293
Lotte fra Venezia e l'Impero. La difesa di Osoppo. La guerra di Gradisca 294
Le benemerenze del governo di Venezia. La rappresentanza dei contadini. Il fiorire delle arti e delle scienze 298
La decadenza del secolo XVIII. La venuta dei Francesi 301
Il dominio austriaco. Il 1848 305
Il Friuli riunito all'Italia 306
XIII. Uomini ragguardevoli. (Giuseppe Costantini) 309
Illustri Friulani anteriori al millecinquecento ivi
Secolo XVI 310
Secolo XVII 312
Secolo XVIII 314
Secolo XIX 315

Nota del Trascrittore

La Seconda Parte dell'Indice, che qui segue, si riferisce a un volume separato, non presente in questa edizione elettronica.

PARTE SECONDA

DESCRIZIONI LOCALI ED ITINERARI.

Premessa Pag. 323
I. Venzone e dintorni. (G. Bragato e O. Marinelli) 325
Venzone ivi
I dintorni di Venzone 337
Da Venzone a Piano di Portis 338
Salita al S. Simeone 339
Giro intorno al S. Simeone per il lago di Cavazzo 342
Salita al monte Plàuris 347
Salita al Lavri o Làvora 351
Salita del Jôf d'Ungarina 352
Salita alla Cima di Campo ivi
Salita del Monte Cadin 353
Da Venzone a Resia per la forca di Campidello ivi
Salita al M. Ledis 354
Giro del Monte Ledis 356
Da Venzone alla Valle del Torre 357
Via alta per la Forcella di Musi ivi
Via per il fondo della Venzonassa 358
Via per le forcelle di Ledis e Tacis ivi
Strada da Venzone a Gemona 359
II. Gemona e dintorni. (G. Bragato e O. Marinelli) 361
Gemona ivi
I dintorni di Gemona 376
Passeggiata a S. Agnese ed al Cumièli ivi
Da Gemona a Maniàglia ivi
Salita del Ciampòn od Ambrusèit 378
Dal Ciampòn al Cuel di Lanes lungo la cresta 381
Al Cuèl di Lanes per le casere di Gleriis 382
Salita del Quarnan 383
Da Gemona a Pradielis per il Forador 384
Ascesa del Naruint ivi
Escursione al lago di Cavazzo 386
III. Osoppo, Artegna, Buia, Magnano e i loro dintorni. (G. Bragato e O. Marinelli) 391
Da Gemona ad Osoppo ivi
Osoppo ivi
I dintorni di Osoppo 395
Salita al M. Corno ivi
Salita al Covria 397
Da Osoppo a Forgaria per il Cianèt, ritorno per Cornino ivi
Passeggiata da Osoppo al lago di Cornino, con ritorno per Peonis e Trasaghis 399
Da Gemona ad Artegna 400
Artegna 401
Escursioni da Artegna 404
Salita del Quarnan ivi
Da Artegna a S. Maria Maddalena di Flaipano ivi
Da Artegna al M. di Magnano 405
Da Artegna a Montenars ivi
Da Artegna a Buia 407
Buia 408
Da Artegna a Magnano 411
Magnano 412
Da Magnano a Tarcento 413
IV. Tarcento e la valle del Torre. (G. Bragato e O. Marinelli) 416
Tarcento ivi
Gli immediati dintorni di Tarcento 422
Al castello di Tarcento 423
Il giro di Sammardenchia 424
Al monte Ciampeòn 425
Da Tarcento a S. Eufemia. Segnacco 426
Il giro di Sedilis 428
Alla sorgente di Patòchis 429
Da Tarcento a Torlano per Sedilis e Ramandolo ivi
Da Tarcento a Madonna di Aprato per la Riviera ivi
Salita del Monte Stella 431
Salita al Monte Bernadia 433
A S. Maria Maddalena per la valle del rio Zinòr 434
Salita al Quarnan 436
Escursioni nella valle del Torre 437
Escursione alle sorgenti del Torre ivi
Lusevera ed il Gran Monte 442
Da Lusevera a Monteaperta 445
Da Lusevera a Villanova 446
Villanova e la grotta ivi
La grotta di Viganti 447
Da Villanova a Torlano per Chialminis 449
Traversata della cresta del Cuel di Lanes 450
Traversate e salite del Musi 451
Traversata del Musi per la Stilizza 453
Traversata del Musi per la forcella del Selenipatok ivi
Traversata della catena del Musi con la salita della cima più elevata 454
Dalla Valle del Torre a quella di Resia per la forcella di Tasajaur 456
Dalla Valle del Torre a Resia per Uccea 457
Dalla valle del Torre a quella dell'Isonzo per Uccea 458
Da Zaga a Caporetto 460
Da Zaga a Raibl per il Predil ivi
V. Tricesimo e dintorni. (Giuseppe Costantini) 462
Da Tarcento a Tricesimo ivi
Tricesimo 465
Gita a Tarcento, passando per Fraelacco e Loneriacco 474
Gita a Collalto, Buerîs e Tarcento ivi
Gita a Cassacco e Treppo Grande ivi
Cassacco 475
Treppo Grande 477
Gita a Colloredo di Montalbano 479
Colloredo di Monte Albano ivi
Gita a Felettano e Leonacco 482
Gita a Tavagnacco per Laipacco, e di là fino a Cavallicco 485
Tavagnacco 487
Gita a Reana e Ribis 489
Reana ivi
Gita al Roiale 492
VI. I paesi della zona morenica fra il Cormor ed il Corno (G. Bragato e G. B. De Gasperi) 496
Pagnacco 496
A Fontanabona 498
Da Pagnacco a Colloredo di Montalbano 499
Castellèrio e Zàmpis ivi
Da Pagnacco a Moruzzo 500
Moruzzo 501
Passeggiata a S. Margherita 505
Da Moruzzo a Brazzacco 507
Da Moruzzo a Colloredo di Montalbano 509
Da Moruzzo a Fagagna ivi
Alla stazione di Martignacco ivi
Martignacco 510
Da Martignacco a Pagnacco lungo il piede dei
colli 512
Da Martignacco a Fagagna 513
Fagagna 515
Al Castello di Villalta 519
Da Fagagna a Caporiacco. Il castello di Caporiacco 522
Da Fagagna a S. Daniele ivi
Da Fagagna a Rive d'Arcano 623
Rive d'Arcano 524
Il Castello di Arcano ivi
Da Arcano a S. Daniele 526
S. Vito di Fagagna ivi
VII. S. Daniele e dintorni. (G. Bragato e G. B. De Gasperi) 527
S. Daniele ivi
Gli immediati dintorni di S. Daniele 537
La passeggiata del colle ivi
Da S. Daniele a Maiano ivi
Passeggiata al lago 538
Al passo a barca del Cimano 540
I comuni attorno a S. Daniele ivi
Dignano ivi
S. Odorico 541
Coseano 541
Maiano 542
S. Tomaso 543
A Susans 544
A Pers 545
Ragogna 546
Escursione al M. di Ragogna 549
Al lago di S. Daniele 550
Da Ragogna a Pinzano ivi
VIII. Nimis e la valle del Cornappo. (G. Bragato e O. Marinelli) 551
Da Tarcento a Nimis ivi
Nimis 553
I dintorni di Nimis e la valle del Cornappo 558
Da Nimis al Gran Monte per Montaperta ivi
Da Nimis alla Punta di Montemaggiore per Taipana 562
Da Nimis per Platischis a Prossenicco e per il Pradolino a Stùpizza 564
Da Nimis a Montediprato per Vallemontana 565
Da Nimis alle Zuffine per Cergneu 566
Da Nimis a Tricesimo 569
IX. I colli di Attimis e Faedis. (G. Bragato e O. Marinelli) 570
Da Nimis ad Attimis ivi
Ai castelli di Attimis 573
Da Attimis a Subit ed alle Zuffine ivi
Da Attimis a Faedis 574
Faedis 577
Ai castelli di Zucco e Cuccagna 579
I dintorni di Faedis 580
Salita al Monte Juanes (m. 1168) ed al M. S. Lorenzo ivi
Salita del M. Carnizza 581
Da Faedis a Prossenicco ivi
Da Faedis a Povoletto 583
Da Faedis a Cividale. Prestento e Torreano 584
Da Torreano al M. Juanes 587
X. Cividale e dintorni. (Pier Silverio Leicht) 589
Cividale ivi
I dintorni di Cividale 608
Gita a Castel del Monte e di là a Merso, ad Albana, a Purgessimo 609
Gita al Mladessiena 611
Moimacco e Remanzacco 612
Moimacco 613
Remanzacco 614
Nella Valle del Judrio 616
Prepotto 617
XI. S. Pietro e la Valle del Natisone. (Giovanni Trinco) 620
Da Cividale a S. Pietro ivi
S. Pietro al Natisone 622
Passeggiata a Vernasso 626
Da S. Pietro a Tarcetta 628
S. Silvestro e S. Giovanni d'Antro 629
Da Tarcetta al Mladessiena ed a Pegliano 634
Da Tarcetta a Montefosca. Juanes e Lubja ivi
Da S. Pietro al confine 638
Salita al Matajur 642
Dal confine a Caporetto 646
Da Robic a Bergogna 648
Diverse vie che da Bergogna conducono al di qua del confine politico 649
Salita allo Stol 651
Salita al M. Mia 652
XII. Le valli dell'Aborna, del Cosizza e dell'Erbezzo. (Giovanni Trinco) 654
La valle di Savogna ivi
Da S. Quirino a Savogna ivi
Savogna 658
Da Savogna al Matajur 660
Da Blasin a Luico per Tercimonte 664
La vallata di S. Leonardo 669
Da Azzida a S. Leonardo ivi
Da S. Leonardo a S. Nicolò di Jainich 672
Da Merso di sopra a Cràvero 673
Da Scrutto al M. S. Bartolomeo 674
Da Scrutto a Clodig e il comune di Grimacco 675
Da Clodig al M. S. Martino 676
Da Clodig al M. Kum 678
Da Clodig a Drenchia 679
Il giro delle borgate di Drenchia 682
La salita al Colovrat 684
Da Merso a Stregna ivi
In giro per i paeselli del comune di Stregna 685
XIII. I colli di Buttrio e di Rosazzo e la pianura del Natisone. (G. Bragato e G. B. de Gasperi) 689
Premariacco ivi
Da Premariacco a Buttrio 691
Da Premariacco ad Ipplis 692
Ipplis 693
Le colline di Ipplis e Rosazzo ivi
Da Ipplis a Buttrio 695
Buttrio 696
I colli di Buttrio 699
Manzano 701
I dintorni di Manzano. L'Abazia di Rosazzo 703
S. Giovanni di Manzano 705
Corno di Rosazzo 708
Passeggiate sui colli di Rosazzo 711
Passeggiate sui colli del Romagno 712
XIV. Cormòns ed il Collio 713
Da S. Giovanni di Manzano a Cormòns ivi
Cormòns 714
I dintorni di Cormòns 717
Monte S. Quirino ivi
Sul Collio 718
Da Cormòns a Ruttàrs, Lonzano, Dolegna e Mernico 721
Salita al Corada 723
A Medea 725
A Mariano 726
Da Cormòns a Gorizia 727
XV. Gorizia e dintorni 730
Gorizia ivi
Passeggiate da Gorizia. I dintorni di Gorizia 736
Da Gorizia a Salcano 737
Da Gorizia al Monte Santo ivi
Da Gorizia alla Selva di Ternova 739
Da Gorizia verso la valle del Vipacco 740
XVI. Una corsa nella valle dell'Isonzo 742
Da Gorizia a Caporetto risalendo la valle dell'Isonzo. Da Gorizia a S. Lucia ivi
Da S. Lucia ad Idria 746
Da S. Lucia a Tolmino 748
Salita al Krn 751
Da Tolmino a Caporetto 752
Aggiunte e correzioni 755
Indice dei nomi di luogo 765

[1]

LE PREALPI GIULIE


PARTE PRIMA

IL PAESE E LE SUE GENTI.

[3]

I.
CENNI GENERALI
SULLA REGIONE CONSIDERATA

di O. MARINELLI

La regione presa in esame, sua denominazione e limiti, precedenti illustrazioni.

La regione presa in esame, sua denominazione e limiti, precedenti illustrazioni. Il presente volume della Guida del Friuli considera la regione prealpina fra il Tagliamento e l'Isonzo, la quale raggiunge, in Val di Resia e lungo il corso inferiore della Fella, il territorio già illustrato nella Guida del Canal del Ferro e tocca pure, per breve tratto, quello considerato nella Guida per la Carnia. S'intitolò dalle Prealpi Giulie, sebbene vengano considerate anche le colline pedemontane e quelle dell'anfiteatro morenico, nonchè alcuni lembi della stessa pianura, e quantunque, così nella parte generale, come in quella itineraria, ai limiti naturali spesso sieno sostituiti confini amministrativi e talora si sia usciti dagli uni e dagli altri. Si può anzi affermare che questo volume illustri principalmente i cinque distretti di Gemona, di S. Daniele, di Tarcento, di Cividale e di S. Pietro al Natisone.

Il nome di Prealpi Giulie dato alla parte montuosa di questo territorio è ormai entrato nell'uso degli scienziati e degli alpinisti e viene completamente giustificato da una lunga tradizione. I nostri monti rappresentano infatti la parte più esterna e più occidentale di quell'ampio sistema, che la Fella ed il Tagliamento separano dalle Alpi e dalle Prealpi Carniche [4] e che, in molteplici catene ed altipiani, si estende, col Carso, fino ai confini orientali d'Italia. Il nome di Alpi Giulie compare già nell'antichità classica: Tacito[1] è il primo autore che lo ricorda, mentre Ammiano Marcellino[2] ci avverte che in suo luogo precedentemente era usato quello di Alpi Venete. Il nome di Alpi Carniche è, anche esso, d'uso più antico, poichè lo troviamo già in Plinio[3] per indicare i monti ove nasce la Sava. Il nome di Giulie prevalse però su ogni altro, sia presso i geografi dell'antichità, sia presso quelli del medio evo: però in genere è adoperato, dagli uni e dagli altri, in forma assai vaga, talora ad indicare soltanto i passi attraverso i quali si valicavano le Alpi (generalmente quello di Nauporto, importante già al tempo della repubblica e più comunemente conosciuto col nome di monte Ocra), tal'altra a designare tutte le montagne che segnan le frontiere d'Italia verso nord-est. Solo alcuno degli umanisti cominciò a contrapporre Alpi Carniche ad Alpi Giulie, mentre i più usavano i due nomi isolatamente o promiscuamente ritenendoli sinonimi. Onde non poca confusione; la quale del resto non cessò fino al secolo testè trascorso, quando i geografi moderni, ripresa la questione, s'accordarono quasi tutti (e in ciò merito non piccolo spetta a Giovanni Marinelli), se non nei confini precisi, certo nel distinguere le montagne Friulane in una parte occidentale, cui si assegnò il nome di Carniche ed in una orientale, cui si attribuì quello di Giulie[4].

Che questo alluda alla gente Giulia, e probabilmente ad alcuno dei suoi più illustri rappresentanti, forse ad Augusto, appare fuori di dubbio, ma il suo tardo apparire mostra come [5] non sia di derivazione diretta in quanto indica un gruppo montuoso; è più verosimile che esso come tale provenga dall'insieme delle località che, nelle stesse Alpi Orientali erano chiamate Giulie, ovvero da una di esse: se mai con maggior probabilità, da quel Forum Julii, l'attuale Cividale[5], da cui più tardi doveva designarsi l'intera nostra provincia. Nel nome di questa, qui ai confini d'Italia, risuona ancora nella bocca del popolo il ricordo del dominio romano; mentre presso gli studiosi e le persone colte, accanto al nome di Friuli, s'è diffuso quello, pur regionale, di Venezia Giulia e altresì le designazioni orografiche di Alpi Giulie e di Prealpi Giulie. Che se l'esatta storia del nome è quella accennata per ultima, in alcuna altra parte del sistema alpino il suo uso è meglio giustificato che in questa, la quale si stende fra il Tagliamento e l'Isonzo, divisa in due porzioni disuguali dalla valle del Natisone, nella quale, dove s'apre verso la pianura, siede appunto Cividale.

Il territorio che consideriamo comprende però, come già s'accennò, oltrechè la regione montuosa e qualche lembo di piano, anche una serie di colline, di cui alcune rappresentano solo le ultime falde prealpine, altre invece ne sono quasi staccate, formando vere isole nella pianura, come i colli di Buttrio e quello di Medea, ovvero sistemi di rilievi del tutto indipendenti per la costituzione geologica e per l'aspetto loro. Tale è il caso delle molteplici cerchie di colline che si distendono fra S. Daniele e Tarcento.

Nel complesso non si può dire che l'area da noi considerata costituisca una regione naturale, nel senso che i geografi sogliono attribuire a questa espressione. Non è il caso quindi nè di insistere in tentativi di designarne partitamente i confini, nè [6] in quello di ricercarne l'estensione[6]. Tanto meno si potrà sperare di trovarne precedenti illustrazioni complete. Per ciò bisognerà richiamarci, da un lato alle monografie geografiche [7] dell'intero Friuli, quali quelle del Girardi[7] e del Ciconi[8], dall'altro ad opere statistiche e storiche pure interessanti l'intera provincia, come, per ricordarne una sola, l'Annuario statistico della Provincia di Udine pubblicato negli anni 1876, 1878, 1881 e 1889[9], dall'altro ancora a singoli studî di vario argomento e di diverso valore, che, più o meno completamente, saranno citati, a suo luogo, nel presente volume.

Anche per ciò che riguarda la sua rappresentazione cartografica, la regione non può tenersi distinta dal resto del Friuli[10]. [8] La prima esatta carta topografica fu certamente quella del Regno Lombardo Veneto all'86400[11] pubblicata dall'Istituto topografico militare dello Stato Maggiore austriaco nel 1833. Oggi però questa ha perduto ogni suo valore di fronte ai rilievi dell'Istituto Geografico Militare al 25 ed al 50 mila, eseguiti fra il 1885 ed il 1891, ed alla carta[12] al 100 mila che risulta dalla riduzione di questi, e di cui è riprodotta con qualche correzione ed accompagna questo volume la parte che comprende le Prealpi Giulie ed il territorio vicino.

[9]

II.
I MONTI FRA TAGLIAMENTO ED ISONZO
E LA LORO STRUTTURA

Cenni di O. MARINELLI

Le Prealpi Giulie. Limiti e divisioni.

Le Prealpi Giulie. Limiti e divisioni. Non può essere discussione sui limiti delle Prealpi Giulie verso mezzogiorno, ove le ultime falde s'immergono nella pianura, nè ai lati, dove Tagliamento ed Isonzo, i maggiori fiumi friulani, costituiscono ben segnate linee divisorie; qualche incertezza invece si ha nello scegliere il confine settentrionale, che Giovanni Marinelli, badando alle condizioni orografiche, indicava nella sella di Carnizza (1109 m.)[13], mentre, tenendo conto piuttosto dei caratteri geologici, converrebbe[14] fissare nella valle di Resia e nella sella del M. Guarda (m. 1682). Non è questa una depressione molto notevole, ma chi dal fondo della vallata di Resia [10] volga lo sguardo verso l'origine di questa, scorge ben netto il distacco esistente fra la verdeggiante e morbida catena, la quale comincia col Guarda e prosegue col Suovit, col Chila, col Niska ecc. da un lato e quella aspra e rocciosa che con i due Baba, con lo Slebe e col Lasca Plagna raggiunge dall'altro il Canin. La selletta rappresenta del resto la diretta continuazione tectonica della Valle di Resia, la quale segna poi, come meglio si dirà appresso, una decisa separazione fra due zone montuose a struttura assai diversa e di aspetto pure ben distinto, quella alpina da un lato, quella prealpina dall'altro.

Tav. I. Monte S. Simeone e Gemona visti dalla via di Artegna (fot. di A. Malignani).

Quest'ultima, per il tratto che qui ci interessa, presenta una sola profonda valle che l'attraversa completamente, quella cioè del Natisone, alla cui testa la bassa soglia di Starasella (256 m.) conduce, dopo breve percorso, all'Isonzo. Sotto l'aspetto puramente orografico le Prealpi che consideriamo vengono separate quindi in due parti, che in genere si distinguono coi nomi di Prealpi Giulie occidentali o del Torre e di Prealpi Giulie orientali o del Judrio[15]. Abbastanza staccate, non solo dalla regione di vera montagna, ma anche dalla meno elevata che a quella s'appoggia, appaiono così le alture fra S. Daniele e Tarcento come le colline fra Buttrio e Gorizia, fra le quali la pianura occupa una zona abbastanza continua, mentre però s'insinua tra i singoli rilievi in modo da isolarli spesso più o meno completamente. Per la prima soltanto di queste regioni collinesche è usato ormai, anche dai non geologi, il nome espressivo di anfiteatro morenico del Tagliamento.

Qualora si badasse al semplice rilievo esterno, si sarebbe indotti a considerare le Prealpi del Torre come una serie di catene e di contrafforti i quali dal gruppo del M. Plauris, la cui cima, con i suoi 1959 m. di altezza, rappresenta il punto culminante [11] della regione, si distendono, per varî rami più o meno tortuosi, in differenti direzioni, ma specialmente verso oriente e verso mezzogiorno, degradando in questo senso fino alla pianura; si sarebbe pure indotti a riguardare le Prealpi del Judrio come un sistema di dossi staccantisi dal groppone del Matajur (m. 1643); nell'anfiteatro morenico un insieme di poggi riuniti attorno a due rilievi principali, quelli di Ragogna e di Buia, e finalmente nelle alture pedemontane fra Buttrio e Gorizia una serie di colline sporadicamente elevantesi dalla pianura.

Il quadro della regione appare però un po' diverso quando si tenga debitamente conto della struttura. Diciamone brevemente, considerando anzitutto

La serie dei terreni.

La serie dei terreni[16]. I più antichi sono quelli ritenuti [12] raibliani (trias superiore) che nelle Prealpi Giulie compaiono sotto forma di marne scure, con lenti o vene di gesso subcristallino, bianco o leggermente roseo, di dolomie cariate ad esso associate [13] e di una dolomia marnosa friabile e facilmente erodibile, frequentemente caratterizzata pure da numerose superficie speculari. Codeste formazioni hanno sempre un limitato sviluppo, salvo che nella valle di Resia, ove soltanto si presentano gessifere.

Ben maggiore importanza nella costituzione dei nostri monti, anzi la massima per quelli più interni ed elevati, ha la formazione che fa seguito alla precedente e che comprende una pila di strati misuranti uno spessore complessivo di forse 1000 metri, e costituiti da calcari i quali si sogliono ascrivere complessivamente alla così detta dolomia principale, sebbene una parte di essi sia forse più antica, ed una parte più recente spetti secondo ogni probabilità ai più antichi piani del lias. In questa [14] potente formazione non è facile stabilire distinzioni, data la uniformità litologica e la scarsezza, ovvero la scarsa conservazione dei fossili. Come altrove nel Veneto, non si tratta mai di vere dolomie, ma di calcari che contengono meno del 20 per [15] cento di magnesia e che sono ben stratificati e spesso con struttura zonata. Presentano poi intercalazioni bituminose ed in qualche punto lenti del così detto boghead, cioè d'una specie di carbon fossile, compatto, bruno, che brucia facilmente, il quale fu anche, a più riprese, scavato nelle località di Rio Serai e di Rio Resartico non lungi da Resiutta e ricercato nel M. Musi sopra Tanataviele. Sembra che questo boghead provenga dalla accumulazione nel mare triasico di talli di alghe (fucacee). I pochi fossili finora ritrovati nella Dolomia principale delle Prealpi Giulie (pseudomelanie, myophorie, Megalodon Gümbelii, Turbo solitarius, ecc.) provengono da una zona appena superiore a quella dei calcari bituminosi. Negli strati più elevati della serie dolomitica si notano con relativa frequenza sezioni di grosse bivalvi, sembra Megalodon e Dicerocardium, inoltre i calcari sono spesso più bianchi e farinosi alla superficie, hanno talora aspetto brecciato, nè mancano venature e sottili intercalazioni di sostanza marnosa rossastra.

Fig. 1ª. — Schizzo geologico di una parte delle Prealpi Giulie. Scala: 1:500.000.

Alla serie triasica fa seguito quella giurese, e forse in parte cretacea, rappresentata da un complesso di calcari della potenza in generale di 200-400 m., che si distinguono per la presenza di liste e noduli di selce per lo più grigia o nerastra. Questi calcari selciferi, sono ora chiari e compatti, ora rossicci e ammandorlati, ora verdognoli (cloritici) e brecciformi o nodulosi. Le liste ed i noduli di selce grigi, rosei o neri, sono costituiti, come è dato scorgere nelle sezioni microscopiche, in gran parte di scheletri di radiolarie; qualche fossile macroscopico, specialmente ammoniti ed aptici, si presenta, però, quasi sempre, in cattivo stato di conservazione, sulle superficie esposte agli agenti esterni degli strati calcarei, più che altro in quelli nodulosi ed ammandorlati. Del resto il materiale paleontologico finora raccolto nella regione è insufficiente per stabilire quali livelli del giura od eventualmente della stessa creta siano in essa rappresentati.

Nell'area più interna delle Prealpi ai calcari selciferi fa seguito una formazione, quasi ovunque di assai scarsa potenza — da 40 a 100 metri — e della quale sono conservati lembi [16] poco estesi, costituita da una marna scagliosa, rossa o bruna raramente selciosa ed alla quale sono talora intercalati strati di calcare compatto bianco ovvero di calcare brecciato. Questa marna scagliosa, sebbene qua e là sembri passare lentamente alle marne ed arenarie eoceniche, si giudica in genere cretacea. Tuttavia le condizioni stratigrafiche nelle quali codesta formazione si trova verso Uccea e nella valle di Dresenza (Caporetto), appena oltre Isonzo, ove la formazione stessa ha uno sviluppo ed una potenza assai più considerevole che nel nostro territorio, indurrebbero a ritenerla piuttosto eocenica. Per decidere la questione mancano elementi paleontologici, poichè finora nella marna scagliosa in parola furono trovati unicamente fossili microscopici (Globigerina, Textularia), che giovano solo a precisare la natura dei sedimenti non la loro età.

Finora poi questa «scaglia» fu tenuta distinta da un'altra marna calcarea simile come aspetto, la quale compare, sia pur raramente, nelle colline più esterne, a contatto con la creta e la quale, essendo evidentemente ed in più luoghi intercalata con strati nummulitici, si ritenne spettasse certamente all'eocene. Questa marna vinacea eocenica si distinse dalla precedente anche per essere meno scagliosa e per rappresentare in molti casi quasi il cemento di una specie di conglomerato con elementi di calcari secondarî.

Va aggiunto come nella regione più esterna delle Prealpi manchino in genere così i calcari selciferi come la marna scagliosa ritenuta cretacea, sembrando quei terreni sostituiti da una formazione, potente nell'insieme 500 o 600 metri e forse talora anche più, di calcari grigi più o meno compatti, caratterizzati specialmente dalla presenza di camacee. Queste sono in generale comprese nella roccia in modo che difficilmente si possono isolare e per lo più si è in grado di osservarne solo le sezioni, spesso assai caratteristiche, alla superficie dei massi rimasti a lungo esposti alle intemperie. In questi calcari a camacee è possibile fare una distinzione grazie alla presenza, almeno locale, di una sottile zona di strati più sottili bituminosi, i quali dividono una serie più profonda spettante, a quanto si [17] crede, alla creta inferiore ed al giura, da una più elevata ascritta alla creta media e superiore. Nella prima fu trovato nella valle del Cornappo un livello fossilifero con coralli, itierie, diceras ecc. che sembra titonico, nella seconda un notevole orizzonte a caprinide, nerinee, lime, ostree ecc. probabilmente turoniano, come è indicato dalla presenza, in strati appena superiori, di ippuriti (Hippurites cfr. giganteus). Al livello a caprinide forse corrisponde l'orizzonte fossilifero del colle di Medea, la cui fauna consta quasi per intero di radioliti, le quali là si presentano abbastanza bene isolate dagli agenti meteorici.

I piani più recenti della creta sono rappresentati da masse che compaiono isolate nell'eocene sotto forma di scogli (Klippen). I più notevoli sono quelli di Vallemontana, ove si ha un calcare grigio suboolitico ed un calcare bianco subcristallino con serpula, lima, cidaris ecc., e quello di Vernasso, ove compare un calcare bianco e grigio, bituminoso, con filliti e ostriche, inocerami, echini ecc. Questa ultima massa fa evidentemente parte, assieme ad altre, pure cretacee, di uno strato eocenico. Si ha cioè da fare con un conglomerato di questa età ad elementi calcarei talora giganteschi, conglomerato diffusissimo nel Friuli orientale e dal quale appunto provengono alcuni fra i migliori fossili cretacei descritti dal Pirona. Questo autore chiamava i conglomerati stessi pseudocretacei; i più vecchi geologi li avevano ritenuti come spettanti alla creta. Però mentre le osservazioni da me fatte alcuni anni or sono inducevano a ritenere eocenici tutti i conglomerati di questo tipo, le recenti ricerche del Kossmat, fanno dubitare che, almeno nella valle dell'Isonzo, una parte di essi sia veramente cretacea.

I conglomerati eocenici talora sono costituiti da elementi minuti, qualche volta anzi minutissimi, in modo da presentarsi sotto forma di brecce calcaree o di veri calcari a grana. Sono allora conosciuti col nome espressivo di piasentine e si lavorano come buona pietra da taglio. Talvolta sono nummulitici e contengono, oltre a varie specie di nummuliti, orbitoidi, crinoidi, radioli d'echini, alghe calcaree, ecc. Più raramente i calcari sono compatti, ovvero presentano disperso nella massa qualche piccolo [18] ciottolo di selce. Essi formano poi zone dello spessore da qualche metro a qualche decina di metri, le quali alternano con zone di marne e di calcari marnosi, talora utilizzati per cementi, e di arenarie, qualche volta grossolane ed assai compatte, in modo da prestarsi alla estrazione di mole, altra volta più minute e meno resistenti e tali da servire solo come poco pregiato materiale da costruzione (la pietra così detta vernadie). In questa zona compaiono anche banchi bituminosi (Flaipano, Taipana, Cergneu, fra Forame e Subit, Canale di Grivò, Canebola, fra Montefosca ed Erbezzo, presso Tribil di Sopra ecc.) che non forniscono però materiale sfruttabile industrialmente.

In alcune delle zone arenacee — la cui natura si riconosce anche da lontano per la più abbondante vegetazione che le riveste e perchè ad esse corrispondono parti di suolo incavate e meno pendenti, mentre i calcari son più nudi e corrispondono a rilievi sporgenti — sono marne con ciottoli di varia natura nelle quali non è riconoscibile una stratificazione, ovvero, se lo è, dà a divedere che la roccia fu profondamente rimestata. Ciò è del resto provato anche dall'aspetto dei ciottoli, che di frequente mostrano di essere stati frammentati e le loro parti malamente risaldate, e dalla deformazione dei fossili spesso da esse contenuti. Rare sono le nummuliti e le altre foraminifere tipiche dell'eocene, assai più comuni gasteropodi e lamellibranchi, nè mancano coralli, alghe calcaree ecc. Le specie più caratteristiche sono la Crassatella plumbea, la Velates Schmideliana, la Natica hybrida e la sphaerica e lo Strombus Tournoueri, tutte spettanti all'eocene medio.

A questo piano appartiene l'intera serie calcareo — arenacea, la quale forma in generale la parte più profonda dell'eocene friulano, come pure quella superiore, di cui diremo appresso. Manca cioè, per quanto è noto, tanto l'eocene inferiore quanto il superiore. Che poi vi sia un hyatus fra la creta e l'eocene risulta non solo dalla mancanza, in posto, dei piani superiori del primo terreno ed inferiori del secondo, ma altresì dal fatto che il contatto fra i due avviene per una superficie non piana, ma [19] con irregolarità che indicano una erosione della creta intervenuta prima dei depositi eocenici.

Nella parte più elevata della formazione, l'eocene ha sviluppo prevalentemente marnoso-arenaceo, sebbene non manchi qualche lente più o meno notevole di calcare nummulitico. Le rocce del resto sono simili a quelle della serie inferiore. Notevole per l'abbondanza dei fossili è un livello di marne a coralli con numerose specie di gasteropodi e lamellibranchi, un secondo, che sembra un po' superiore, caratterizzato specialmente dalla grande ricchezza delle nummuliti e delle assiline ed un terzo, che sembra il più recente, di brecciole con Rotularia spirulea ed echini oltre a varie specie di nummuliti. Marne a coralli compaiono nei monti di Buia e Tarcento, ma specialmente abbondanti presso Noax (Rosazzo), Brazzano e Cormons; strati a grandi nummuliti più che altro nei dintorni di questa ultima località, presso l'Abbazia di Rosazzo e nel lembo isolato di Rio Lavaria sopra Piano di Portis; gli strati ad echini sono specialmente nel colle di Buttrio.

L'eocene, potente poche decine o poche centinaia di metri nella regione più interna, raggiunge spessori che credo non inferiori ai 1000 metri nell'area montuosa più bassa e nelle colline; esso è quindi il terreno che occupa una maggiore estensione superficiale ed è altresì quello che costituisce, ove ha sviluppo la zona arenacea superiore, i colli più feraci delle nostre prealpi; in qualche tratto però «ove le marne sono prevalenti senza l'intermezzo di brecciole e di puddinghe, come avviene presso Orsaria di Buttrio, presso Ipplis e nei monti di S. Lorenzo, a levante di Faedis, quivi la vegetazione è scarsa e si stende il vago pascolo. È sempre però la regione più produttiva del Friuli, specialmente per frutta e vigneti, i quali ultimi, in genere di uve bianche, danno delle pregiatissime specialità enologiche, quali la Ribolla di Cividale ed il Romandolo di Tarcento» (Taramelli).

I più recenti terreni eocenici del Friuli orientale hanno a ridosso la pianura o l'anfiteatro, e le alluvioni e le morene seppelliscono quasi completamente la serie miocenica. Questa, come [20] è noto, nel Friuli, consta alla base di glauconie, nella parte media di arenarie, argille e sabbie micacee che, verso l'alto, alternano con conglomerati, i quali nella parte superiore divengono via via prevalenti. Sebbene saltuariamente e con la mancanza dei membri più profondi, la serie si può seguire quasi per intero entro l'area da noi considerata, lungo la sponda sinistra del Tagliamento, ma assai meglio si osserva sulla destra. Al piccolo rilievo isolato che sorge presso i piedi settentrionali del colle di Osoppo, fanno riscontro, oltre il fiume, i maggiori lembi miocenici di Braulins e del Cianet di Peonis, mentre la zona di Susans e del colle Ragogna, più o meno completamente nascosta da morene ed alluvioni, si continua con sviluppo ben più considerevole nei poggi fra Forgaria e Pinzano.

La serie spetta per la massima parte al miocene medio, i conglomerati di Ragogna si ritengono però del superiore. Già in questa epoca forse la nostra regione era entrata nel regime continentale; tuttavia le formazioni sicuramente di tale natura finora note sono quasi tutte e forse tutte quaternarie. Esse poi assumono importanza notevole specialmente nell'anfiteatro morenico del Tagliamento a proposito del quale ne faremo parola.

Qui invece importa esaminare come e con quale disposizione i terreni che abbiamo brevemente descritto prendano parte alla formazione delle nostre Prealpi.

Tectonica della regione. Alpi e Prealpi.

Tectonica della regione. Alpi e Prealpi. Al qual proposito avvertiremo come, prescindendo dai limitatissimi lembi miocenici che compaiono nelle parti più esterne della nostra regione e in condizioni tectoniche non sempre ancora ben precisate, i terreni che la formano sono quelli che si succedono dal raibliano all'eocene medio, durante il quale lungo periodo geologico la regione, salvo una breve interruzione, alla fine della creta, fu costantemente nel regime marittimo. Il fatto però, che, se non nell'area da noi considerata, certamente nel Friuli occidentale, il tortoniano è ancora compreso nelle pieghe prealpine più esterne, mentre non lo è in quelle più interne, fa pensare alla circostanza, che nelle nostre Prealpi il ripiegamento cominciasse già verso il termine dell'eocene e proseguisse, almeno [21] per le regioni più esterne, fino alla fine del miocene. Non è ancora accertato se esso andasse di pari passo colla progressiva emersione del territorio, ovvero se questa fosse posteriore; alcuni indizî accennerebbero poi ad un sollevamento in massa della regione avvenuto probabilmente nel pliocene, e misurante alcune centinaia di metri. Comunque, quale si sia l'età e la natura di questi movimenti orogenetici, essi ebbero, se non caratteri, certo conseguenze diverse nella regione più interna delle prealpi, in quella media ed in quella pedemontana.

Nella prima, che chiamai zona montana, la coltre dei terreni triasici (raibliano e dolomia principale), giuresi (calcari selciferi), cretacei (scaglia) ed eocenici, potente intorno ai 1500 m., appare sollevata e compressa in modo da costituire un fascio di pieghe ristrette, allungatissime, complicate localmente da accavallamenti (pieghe-faglie) e scorrimenti, arrovesciate, salvo alcune interne, verso la pianura. Queste pieghe sono dirette quasi esattamente da est ad ovest, deviano però assumendo direzione di sud-est in corrispondenza presso a poco all'Isonzo; trovano tuttavia la loro continuazione tanto oltre questo fiume, quanto in senso opposto al di là del Tagliamento. Le pieghe stesse presentano ondulazioni trasversali che si manifestano col diverso livello a cui compaiono le formazioni giuresi, cretacee ed eoceniche le quali costituiscono in generale i nuclei dei sinclinali. Queste formazioni e le ultime specialmente, dove l'erosione non le ha asportate completamente, non compaiono in genere nel fondo delle valli meglio incise, ma in limitati lembi sulle più alte insellature o nei pendii più interni; onde percorrendo il fondo delle valli del Tagliamento e del Torre la presenza di alcune pieghe può completamente sfuggire all'osservatore e si ha l'illusione che la formazione della dolomia principale, già di fatto così potente e diffusa, lo sia ancor maggiormente; onde pure l'impressione di un territorio ancora più nudo e desolato di quanto sia in realtà. Ciò non avviene della valle dell'Isonzo, in corrispondenza alla quale i sinclinali si deprimono assai, onde la presenza lungo il percorso del fiume, ovvero lungo i suoi affluenti, [22] di ampî e ridenti bacini eocenici (Plezzo, Uccea, Dresniza) che ricordano, per le condizioni geologiche e geografiche loro, quelle delle prealpi Carniche (Claut, Erto).

Fig. 2ª. — Profilo geologico attraverso le Prealpi Giulie. Scala 1:150.000.

Si può tuttavia affermare che questa zona montana sia costituita, nel complesso, prevalentemente dalla dolomia principale, la quale del resto forma quasi totalmente anche i più interni gruppi montuosi delle Giulie, come quelli del Canin e del Montasio. Il paesaggio orografico di questi differisce però profondamente da quello dei rilievi prealpini, ciò che sta in relazione, anzitutto con la diversa struttura dei due territorî, poi con la diversa misura del sollevamento e infine con la diversa azione glaciale; là le grandi masse calcaree sono continue e in genere debolmente inclinate, qui disposte a zone e con forti pendenze, onde là il prevalere degli altipiani, qui delle catene; là le cime più eccelse raggiungono quasi i 2800 metri d'altezza, qui no toccano mai i 2000; là l'azione glaciale fu intensa in modo da dare alle cime ed alle creste l'impronta dell'alta montagna, qui più debole e limitata ai versanti settentrionali, onde forme di media montagna dovute al prevalere dell'azione delle acque correnti. Una misura della differenza altimetrica esistente fra le nostre prealpi e le alpi retrostanti può essere data dai seguenti valori di media elevazione: Gruppo del Canin: metri 1240, Prealpi [23] Giulie occidentali: metri 690, Prealpi Giulie orientali: metri 380[17].

È solo in parte chiarito in quale rapporto tectonico stieno le masse del Canin e quelle del Krn, — che, oltre Isonzo, ne rappresentano la continuazione — con quelle della Prealpi: sembra però si tratti di una piega-faglia, per cui le dolomie del trias, sovraspinte verso mezzogiorno, possono poggiare anche sull'eocene. Meglio accertato è che la zona montana delle Prealpi è separata dalla submontana con una serie di pieghe faglie — dai vecchi geologi interpretate come vere fratture — che rappresentano l'accidente tectonico forse più notevole della regione. All'esterno di queste pieghe-faglie la coltre dei terreni sedimentarî — che qui è costituita diversamente da quella delle aree più interne, perchè diverso e più notevole è lo sviluppo della serie cretacea, come pure talora di quella giurese (calcari a camacee), e ben maggiore quello della eocenica — fu assai meno sollevata — onde in un sol caso sono a giorno le roccie triasiche — e corrugata in modo assai meno accentuato e direi quasi opposto che nella zona montana. Anzichè pieghe lunghe compresse e coricate, ne abbiamo di assai brevi ed ampie: si presenta cioè quella struttura che è stata detta ad elissoidi. Questi elissoidi hanno talora la gamba esterna raddrizzata, mentre i terreni più recenti che vi si appoggiano possono essere addirittura ribaltati verso il piano; onde si può parlare, sebbene il fenomeno non sia costante, di un grande rovesciamento pedemontano. Questa zona del rovesciamento ovvero del forte rialzamento degli strati, coincide col predominio dei terreni marnoso-arenacei dell'eocene, i quali però nel tratto fra Buttrio e l'Isonzo fanno forse parte di un piatto sinclinale che intercede fra gli elissoidi cretacei di Prepotto e di Salcano da un lato e quello di Medea dall'altro. Comunque sia, questa zona fra gli elissoidi e la pianura può chiamarsi pedemontana.

Le catene prealpine. Linee principali del rilievo e suoi caratteri.

Le catene prealpine. Linee principali del rilievo e suoi [24] caratteri. Assai diverso, in relazione con la diversa natura dei terreni e col modo con cui questi sono disposti, è il rilievo delle tre zone indicate.

Fig. 3ª. — Schizzo Orografico DELLE PREALPI GIULIE. Scala di 1:600.000

Quella montana è il territorio delle catene, lunghe ed uniformi, interrotte da poche valli trasversali, separate invece da notevoli depressioni longitudinali. In relazione con la forma delle pieghe e con la loro troncatura per azione degli agenti [25] esterni (sul principio forse la stessa abrasione marina) sta infatti la disposizione dei terreni diversamente erodibili a striscie allungatissime da est ad ovest; alla scaglia ed alle arenarie ed alle marne eoceniche, come pure alle formazioni raibliane, corrispondono le aree più facilmente erodibili e in esse si svilupparono le valli e le selle, alla dolomia principale corrispondono le zone più resistenti alle azioni subaeree e in esse rimasero le creste e le cime. Queste nella regione sono singolarmente uniformi e livellate; supponendo di colmare completamente le valli si otterrebbe la superficie di un altipiano in nessun punto raggiungente i 2000 m., in nessuno scendente sotto i 1500, inclinato uniformemente verso sud. Ci rappresenta su per giù la regione quale si può imaginare sarebbe se su di essa non avessero esercitato negli ultimi tempi geologici il loro lento lavorio le acque correnti e gli altri agenti della degradazione ovvero quale essa fu realmente alla fine di un ciclo d'erosione sviluppatosi con un livello del mare (di base) 1500 metri più alto dell'attuale. Fra le masse in cui l'altipiano fu smembrato la più elevata è quella interna del Plauris (m. 1959), che trova la sua continuazione verso oriente nel Làvora (m. 1907) e poi, geologicamente, nel minore rilievo del M. Cuzzer (m. 1463) e finalmente nella catena del Chila (1421), del Guarda (m. 1760), la quale recinge superiormente la valle di Resia riattaccandosi al gruppo del Canin. In questa serie di monti, che le valli strette del Rio Nero (Cernipotok) e del Rio Barman dividono in tre parti diseguali, la più notevole ed anche la più complessa è quella più occidentale. Una serie di valli (Resartico, Serai, Campers, Lavaria, Varuzza) penetrano profondamente nella giogaia montuosa rendendo questa aspra ed irregolare specialmente nei versanti settentrionale ed occidentale. La giogaia stessa che, oltre il Plauris, presenta, notevoli, le cime del Jof Ungarina (1845 m.) e del Làvora (m. 1907), si riattacca per mezzo della forca di Campidello (m. 1462) — alla quale corrisponde un lembo di marne scagliose, che ad oriente collegandosi con gli altri di casera del Confine, Ungherina, della chiesetta di S. Antonio e ad occidente raccordandosi con la zona eocenica della valle di [26] Uccea, segua uno dei più notevoli sinclinali delle prealpi Friulane — al monte Musi.

Costituisce questo una vera catena, notevole per l'uniformità della sua cresta che in nessun punto sale oltre i 1875 metri, mentre in parecchi supera i 1800 e non scende sotto i 1700 se non al passo di Tasajaur (1612) presso la sua estremità orientale, onde «da lungi, specialmente dalla pianura friulana, presenta propriamente l'aspetto di una vera e continuata muraglia. La quale poi per essere elevata in media un 200 metri più di quelle più meridionali del Ciampon e del Monte Maggiore, ma, in pari tempo, trovandosi di qualche chilometro più di esse lontana dall'occhio dell'osservatore, per effetto di prospettiva, pare non più alta di esse, fra le quali apparisce parete di congiunzione posta sull'istesso piano prospettico» (G. Marinelli). La continuazione occidentale del Musi va cercata nel Monte Ledis (m. 1055) dal dirupato fianco meridionale. La forcella di Ledis (m. 764), quella di Musi (m. 1012) alla testa della Venzonazza, la soglia di Tanamea (m. 853) fra il rio di Mea e la valle di Uccea, limitano verso nord la più meridionale delle catene montuose delle nostre prealpi, quella che corre diritta fra Tagliamento ed Isonzo per 35 chilometri, divisa in due parti disuguali dalla incisione del Torre, l'occidentale che culmina col Ciampon (m. 1716) e l'orientale che prende nome dalla punta di Montemaggiore (m. 1626) e dallo Stol (m. 1668). Queste due catene presentano caratteri assai differenti negli opposti versanti. A sud si hanno pendii assai erti e singolarmente uniformi; alla sommità si scorgono infatti le testate dei calcari dolomitici formare una specie di orlo alle catene, inferiormente invece estesi ricoprimenti di falda, qua e là interrotti dalle bianche righe dei solchi torrentizî, costituiscono chine erbose ad inclinazioni via via degradanti; più in basso si staccano le boscose colline formate dai terreni eocenici, che, per le pieghe-faglie accennate, qui rappresentano in certo modo l'imbasamento della serie triasica. Ben differenti sono i versanti settentrionali: meno ripidi ed assai irregolari già per la presenza delle formazioni selcifere e, in qualche caso, delle marne scagliose cretacee, subirono [27] poi l'azione di piccoli ghiacciai, che lasciarono evidenti tracce del loro passaggio in depositi morenici (Val Moeda, Valle Pozzus, Rio del Sole, Pian di Tapou) ed in circhi. Questi pendii settentrionali sono ricchi di faggete e nella parte più elevata presentano, qua macchie isolate, là una zona continua di pini mughi. La cresta delle catene è sempre relativamente ristretta, ma non al punto che non riesca possibile percorrerla senza difficoltà per quasi tutta la sua estensione; è poi singolarmente uniforme, cioè piccoli sono i dislivelli fra le punte e le insellature intermedie. Nella catena del Ciampon, oltre alla cima suprema (m. 1716) è notevole il caratteristico cocuzzolo detto Cuel di Lanes (m. 1630). Nella catena Montemaggiore Stol, oltre alle cime che portano questi nomi, le quali pure poco bene si distaccano dalla linea uniforme della cresta, nessuna altra merita di essere menzionata; ricorderemo piuttosto che tutta la parte occidentale della catena prende il nome di Gran Monte.

Tav. II. La catena del Musi dalla valle di Resia (fot. di A. Malignani).

La regione degli altipiani e le pendici pedemontane.

La regione degli altipiani e le pendici pedemontane. A sud delle catene ora descritte si stende la regione che dissi submontana, caratterizzata geologicamente dagli elissoidi ed orograficamente dai monti a dossi e ad altipiani. Fra le due s'interpone quella serie di ampî bacini, di cui i maggiori sono quelli di Vedronza e di Bergogna, i quali, per la natura del suolo (eocene ed a Bergogna depositi morenici), per le forme di questo, per la flora, per le colture e per le abitazioni, ricordano le ridenti colline pedemontane recingenti la nostra pianura; essi si presentano infatti quasi oasi di vegetazione e di vita in mezzo a regioni desolate, oasi che si possono raggiungere solo superando montagne elevate e rocciose ovvero percorrendo gole anguste e selvagge. Specialmente strette si presentano quelle (Torre, Cornappo, Pradolino, Natisone) che conducono alla pianura, le quali sono appunto le stesse che, attraversando l'intera zona submontana, separano in questa l'uno dall'altro i singoli dossi ed altipiani onde la regione risulta costituita. Due sole montagne per l'altezza ed anche per la costituzione loro si avvicinano a quelle della regione più interna, cioè da un lato il Quarnan (m. 1372), dall'altro il Matajur (m. 1643); nello spazio [28] intercedente fra le due montagne, che sorgono simili per forma e in posizione analoga, alle due estremità della zona, sono, procedendo dal Tagliamento: il dosso eocenico che prende nome, prima di Monte di Magnano e poi di Ciampeon (m. 764), il piccolo lembo cretaceo di Stella (m. 791), il quale, col maggiore altipiano del Bernadia (m. 879) ed il minore di Montediprato (m. 627), forma geologicamente l'elissoide più caratteristico della regione, mentre orograficamente le due prime sono montagne che stanno completamente a sè, l'ultimo si riattacca al sistema di altipiani che culmina con le Zuffine (m. 1094), il Jauer (m. 1094) ed il Juanes (m. 1168) e termina verso nord-est col Ljubja (m. 1124) che fa già parte tectonicamente dell'anticlinale del Matajur. A questo spetta anche l'altipiano cretaceo del Mja (m. 1244), che la valle del Natisone e la forra di Pradolino isolano da ogni lato.

Ad oriente del Natisone e fino all'Isonzo, pur seguitando la caratteristica formazione degli elissoidi (uno con nucleo giurese è traversato dall'Isonzo, sopra Ronzina ed uno cretaceo sopra Salcano, senza tener conto dei minori di Prepotto e di Medea), manca quasi il carattere di altipiano e nell'orografia della regione prevalgono lunghe dorsali collinesche, che dal Matajur (m. 1643) e dal rilievo del Colaurat (M. Kuk, m. 1243), il quale in qualche modo ne rappresenta la continuazione oltre la sella di Luico (m. 720), scendono verso la pianura in direzioni prevalentemente parallele al Natisone ed all'Isonzo. Fra i rilievi più notevoli di questa zona collinesca ricorderemo il S. Martino (m. 983) di fronte a Cepletischis, l'Hum (m. 917) a nord-est di Tribil, il Kuze (m. 807) presso Stregna, il monte Spigh (m. 661) sopra il santuario di Castel del Monte ed il Corada (m. 812) dal quale si diramano i dossi del Collio. La tipica conformazione ad altipiano torna a prevalere nei monti oltre l'Isonzo, con caratteri così accentuati che con la montagna di Locavez, subito ad oriente di Canale e con quella di Ternova che ne rappresenta l'immediata prosecuzione verso oriente, entriamo già nel Carso propriamente detto. Nelle stesse Prealpi Giulie, tanto ad est quanto ad ovest della valle Natisone, le regioni cretacee [29] sono assai ricche di manifestazioni carsiche sotto forma di solchi, di doline, di voragini e di grotte[18]; questi fenomeni, sia pure con distribuzione più sporadica, non mancano nemmeno negli altipiani eocenici (Campo di Bonis, Pian delle Farcadizze ecc.) ove alternano zone calcaree con zone arenacee.

Il paesaggio morfologico delle aree culminanti della zona di cui parliamo, contrasta con quello delle aree più basse — siano queste le strette gole che incidono la regione, sieno le aree collinesche che la circondano — non solo per la frequenza dei fenomeni carsici, ma per tutti i caratteri del rilievo; fra i dossi spianati, abbiamo valli dal fondo assai ampio e dai dolci fianchi, pochi e a lento corso i torrenti, che in qualche caso scendono in cascata nelle depressioni inferiori. Tutto dà l'idea che si abbia da fare con una regione la quale fu in altri tempi, probabilmente nel pliocene, soggetta ad un lunghissimo periodo erosivo con un livello del mare qualche centinaio di metri superiore all'attuale, in modo da risultarne se non spianata, certamente ridotta a quelle forme che i morfologi sogliono dire mature se non anche vecchie. Poi un sollevamento relativamente rapido, rinnovò l'attività erosiva dei corsi d'acqua, che incisero le profonde gole del Torre, del Cornappo, del Natisone ecc., ed in genere delle altre valli, che mostrano tutte caratteri di gioventù. Solo nelle aree eoceniche facilmente erodibili questo ciclo attuale d'erosione potè procedere più spedito. [30] Comunque rimane, in alto, conservato in parte dallo stesso processo carsico, un territorio che deve le sue forme ad un ciclo più antico; dal quale l'attuale ereditò i suoi fiumi; almeno i principali fra essi.

Anche per la loro storia gli altipiani montani delle Giulie rappresentano forse gli avamposti del vero Carso; un tempo ammantati tutti da ricche faggete, sono oggi, prescindendo dalle ristrette aree coltivate, in buona parte nudi o rivestiti da magri prati o da rade macchie e cespugli; solo le loro pendici meridionali e cioè dove nell'eocene prevalgono le formazioni marnoso-arenacee, il suolo è tutto ormai si può dire nel dominio del bosco di castagno e del vigneto. Onde il contrasto fra le colline pedemontane, con le molli ondulazioni, con il verde rivestimento arboreo, con i sentieri ombrosi, con i casali e le case isolate sparsi sui dossi e sulle chine a solatio e la regione più interna in gran parte nuda e povera di coltivazioni e di villaggi. Le più umili e più esterne colline eoceniche per l'aspetto loro talora si assomigliano ai rilievi morenici, pure così estesi nell'area che consideriamo.

L'anfiteatro morenico del Tagliamento.

L'anfiteatro morenico del Tagliamento. La serie più notevole di questi rilievi è quella che forma il già menzionato anfiteatro morenico friulano, quell'insieme cioè di alture costituite dai materiali abbandonati alla propria fronte dal grande ghiacciaio che nel quaternario scendeva dalla valle del Tagliamento fino a raggiungere il piano. Non è a credere che il ghiacciaio accumulasse le sue morene su di un'area spianata, o quasi, bensì su di un suolo collinesco assai irregolare, che il ghiacciaio stesso modificò poi profondamente sia con la sua azione erosiva sia col suo potere d'accumulare. Della prima azione si scorgono, a dir vero, tracce quasi soltanto nella regione a monte dell'anfiteatro, ove ne sono testimonianza il colle arrotondato del Comielli e la conca racchiudente il lago di Ospedaletto e la soglia rocciosa d'Interneppo e i rilievi montonati sopra Bordano, le stesse valli principali del Tagliamento e del Fella sovraescavate e sovralluvionate e con vallette pensili (per es. Val Varuzza, rio Lavaria) e cascate laterali, ed anche il campo di Osoppo, resto [31] di un antico lago d'erosione piuttosto che di sbarramento glaciale. Di questo ampio specchio d'acqua, di cui un ramo si protendeva a guisa di fiord, verso la Carnia, ultimo relitto, non ancora interrato, può considerarsi il lago di Cavazzo, profondo appena 38,5 m. e col pelo d'acqua a 195 m. sul mare. L'accumulamento glaciale prevalse invece nella vera area dell'anfiteatro; tuttavia nella parte più interna e precisamente a nord di una retta che unisca Ragogna con Tricesimo non fu tale da mascherare completamente la topografia originaria. Onde sporgono tuttora dalle morene, spesso però senza bene distaccarsi da queste, rilievi terziari; fra i quali come già si disse, i più notevoli sono quello di Ragogna (m. 512) costituito da conglomerati miocenici e quello del castello di Buia (m. 332) formato da marne ed arenarie eoceniche.

Prescindendo da cotesti rilievi terziari ed anche da alcune basse colline verso Leonacco, ove sembra sieno tracce di una più antica glaciazione (rissiano), l'intero anfiteatro si crede opera dell'ultimo periodo glaciale (vurmiano) ed appare costituito da tre cerchie principali, via via scemanti d'altezza dall'esterno all'interno e separate una dall'altra da ripiani e di cui le due interne sono multiple, in relazione con l'ostacolo che i rilievi preesistenti doveano opporre alla massa fluente del ghiaccio. La cerchia esterna è quella che ha per suoi punti culminanti i colli di S. Daniele (m. 267), di Fagagna (m. 266), di Moruzzo (m. 270), di Brazzacco (m. 249) e di Tricesimo (m. 241); essa si estende, con forma regolarmente arcuata, da questa ultima località a Ragogna, passando perifericamente in modo insensibile al conoide fluvio-glaciale, cioè alla inclinata pianura fra il Tagliamento ed il Torre. A monte, cioè internamente, si stende, ad essa parallela, una zona, elevata dai 180 ai 200 m., pianeggiante e paludosa, con depositi alluvionali recenti, alcune torbiere (le più importanti sono quelle del bacino del Rio Lini presso Fagagna, conosciute comunemente dal nome di questa ultima località) e zone acquitrinose. La cerchia frontale esterna prosegue verso oriente nella morena laterale sinistra, che forma i colli morenici fra Tricesimo e Tarcento; [32] a monte di questo borgo, la morena stessa è conservata in pochi lembi, come quello su cui poggia Billerio (elevazione massima circa m. 300), quello che si stende a nord di Artegna (elevazione massima circa m. 350) e finalmente quelle di Montenars (elevazione massima 476 m.). Non è facile decidere se queste morene laterali si devono raccordare alla più esterna delle cerchie ovvero ad alcuna delle susseguenti; lo stesso vale per le morene laterali di destra, che sono oltre il Tagliamento, sui colli di Flagogna e Forgaria, verso i quali del resto si spingeva solo una digitazione del grande ghiacciaio, determinata dal Colle di Ragogna, il quale non sembra sia stato mai ricoperto completamente dal ghiacciaio stesso nemmeno durante il periodo della massima espansione di questo.

La seconda cerchia morenica, cioè la media, non è continua, come la più esterna, ma si divide in tre lobi principali, corrispondenti ai tre rami nei quali il ghiacciaio, ormai dimagrato, era scisso dai rilievi di Buia e di Susans. Ad occidente si ha il cordone elevato fino a 300 m. di S. Giovanni, Pignano, Ragogna, Canodusso, dietro il quale è l'interessante lago di S. Daniele (m. 188 sul mare, prof. m. 9,5) e quello, meno conservato, che va da S. Tommaso a Muris; nel mezzo sono i colli elevati in pochi punti oltre i 210 m. di Caporiacco e Colloredo che si continuano lateralmente da un lato verso Majano dall'altro verso Buia; in fine ad oriente sorgono le morene di Treppo e Collalto, che raggiungono i 220 ed anche i 230 m. d'altezza, e che di fianco proseguono, esse stesse, verso Buia. Anche a monte di queste cerchie si trovano spianate alluvionali acquitrinose e torbiere (fra queste le più importanti sono quelle di Collalto e Bueris).

La terza e più interna cerchia dell'anfiteatro è essa pure biforcuta in corrispondenza al colle di Buia; in questa è specialmente ben conservato, quasi nella freschezza originaria, il ramo orientale, che si stende a ridosso del Campo di Osoppo, fra la Madonna di Buia e Magnano, elevandosi al massimo fino a m. 231.

Nell'insieme le colline dell'anfiteatro del Tagliamento con le [33] dolci ondulazioni separate da ampi avvallamenti e con la incerta idrografia, presentano i caratteri tipici del paesaggio morenico; esse però non sempre sono ridenti per rigoglioso rivestimento di vegetazione spontanea, o per ricche coltivazioni o per densità di abitati; non ostante la varietà degli elementi che costituiscono il suolo, questo è nelle bassure nel dominio delle paludi e degli acquitrini, nelle alture spesso ricoperto appena da prati o da radi querceti o da acacie e presenta poche località abitate. Se non mancano i vigneti ed i campi ben coltivati, nel complesso la regione appare assai meno fertile di quella eocenica e di parte della stessa pianura. Più nudi ancora dei morenici sono poi i rilievi di conglomerati terziari racchiusi dall'anfiteatro, tale è il caso di quello di Ragogna, dove non mancano nemmeno manifestazioni carsiche[19].

Altri depositi glaciali.

Altri depositi glaciali. Il grande ghiacciaio del Tagliamento lasciò entro l'area da noi considerata ben pochi depositi morenici oltre quelli dell'anfiteatro qui sommariamente considerati, in genere abbandonò solo massi erratici più o meno dispersi. Un sottile velo morenico riveste la sella pianeggiante di Togliezzo (m. 510) e materiale glaciale contribuisce, assieme ad una caratteristica soglia rocciosa, a chiudere, salvo il breve varco del fiume, la valle di Resia presso Resiutta. Resti morenici di una digitazione del ghiacciaio del Fella sono anche nella valle di Resia fra Stolvizza e Coritis.

Una serie di piccoli ghiacciai ebbe, come già s'accennò, il versante settentrionale della catena del Ciampon; ne sono testimonianza sicura i piccoli apparati morenici che si trovano al pian di Tapou (da 850 a 950 m.), nella valle del Rio del Sole (a circa 750 m.), in quella di Pozzus (fra 750 ed 800 m.) ed in quella della Moeda (verso i 750 m.), ed altresì il circo della casera superiore di Gleriis. Circhi sono anche nella catena Montemaggiore-Stol, solo però al nord dei due tratti più elevati della cresta. È incerto se alcune piccole conche che sono [34] a settentrione della punta del Matajur sieno in rapporto con azioni glaciali, comunque l'insieme dei dati finora raccolti nelle Prealpi Giulie tende a provare che il limite climatico delle nevi trovavasi durante l'epoca glaciale (vurmiano) intorno ai 1300 metri sul mare.

Ben più notevoli delle morene ultimamente indicate sono quelle abbandonate dal ghiacciaio dell'Isonzo. A dir vero nella valle principale i terreni glaciali, pur essendo abbastanza frequenti specialmente nel tratto fra Caporetto e S. Lucia — l'ultimo lembo che segnerebbe il limite inferiore del ghiacciaio, è quello presso Sala — non sono però molto considerevoli, nè costituiscono un apparato in alcun modo paragonabile a quello del Tagliamento. Lo sarebbe piuttosto, salvo le dimensioni assai minori ed altri caratteri speciali, l'insieme dei depositi abbandonati nella regione fra Louch, Prossenicco, Bergogna, Sedula, Boreana e Creda, dal ramo del ghiacciaio dell'Isonzo che, insinuandosi per il passo di Starasella, occupava l'alta valle del Natisone. Prescindendo anche dalla singolare barra rocciosa di Robic, la di cui presenza va certamente posta in relazione col lavoro erosivo del ghiacciaio (soglia di diffluenza) alla potenza accumulatrice di questo si deve in buona parte la morfologia di quella ridente regione; accanto alle vere morene, costituenti rilievi con caratteristiche forme d'erosione, sono qua e là pure argille le quali sembrano depositate in raccolte d'acqua di sbarramento glaciale.

Del resto il ghiacciaio dell'Isonzo — come in qualche caso quello stesso del Tagliamento — potè determinare sbarramenti di valli laterali, ma dove poggiava la sua fronte produsse una escavazione che come quella del campo di Osoppo, fu occupata da acque lacustri e poi interrita. Si hanno appunto tracce di un lago posglaciale nella regione fra Caporetto e Tolmino. Altri indizi di una notevole azione erosiva del ghiacciaio sono del resto nella valle principale dell'Isonzo ed in quelle laterali, come alla soglia di Starasela, donde passava il ramo del Natisone (il quale mandava anche una digitazione a sud fin verso il Pulfero, mentre il ramo principale penetrava nella conca di [35] Bergogna, profittando per lo scolo delle acque di fusione della stretta di Pradolino), e alla confluenza del rio Uccea. Anche questo era infatti rimontato da un ramo del ghiacciaio dell'Isonzo, che sembra in uno dei più antichi periodi glaciali superasse anche la sella di Tanamea e penetrasse nella valle del Torre fino al bacino di Vedronza. Questo ramo ha però lasciato resti insignificanti.

Nelle Prealpi Giulie non mancano nemmeno tracce di morene non spettanti ai periodi glaciali, ma agli stadî d'arresto o di piccolo avanzamento che ebbero luogo durante l'ultimo ritiro dei ghiacciai. Tali sarebbero alcune morene locali della Valle di Resia ed il minuscolo, ma caratteristico apparato morenico — deposto da un piccolo ghiacciaio della catena del Musi — della Madonna di Carnizza. Queste morene spetterebbero allo stadio detto di Bühl durante il quale il limite climatico delle nevi era da 200 a 300 m. superiore che non nell'epoca glaciale (vurmiano), da 900 a 1000 più basso di oggi.

Formazioni quaternarie ed attuali nelle regioni non occupate da ghiacciai.

Formazioni quaternarie ed attuali nelle regioni non occupate da ghiacciai. Però, conviene avvertirlo, la maggior parte delle Prealpi Giulie, e specialmente delle regioni montana e pedemontana, rimase al di fuori di qualunque invasione glaciale. Nell'area stessa continuarono quindi, si può dire ininterrottamente, i normali processi del disfacimento meteorico e dell'erosione delle acque correnti, onde la maggior estensione dei suoli di trasporto o di locale alterazione e la impossibilità di una netta determinazione dell'età dei terreni stessi in relazione con l'epoca glaciale. Lungo i pendii dei monti si formarono estesi ricoprimenti detritici di falda, che oggi si presentano sotto forma di brecce, quali si osservano per esempio nel versante meridionale del Bernadia o di crostoni conglomeratici, sviluppati, come si disse, specialmente sui declivi meridiani della catena del Ciampon e di quella Montemaggiore-Stol; simili formazioni si osservano nella stessa valle del Tagliamento, ove si fondono alla base con le antiche alluvioni fortemente cementate di questo fiume[20]. [36] Le formazioni stesse stanno ad indicare effettivamente i fianchi, tuttora conservati nelle parti superiori, ove non giunse l'azione erosiva del ghiacciaio, della valle preglaciale del Tagliamento. Mentre nella regione montuosa prima, durante, e dopo l'epoca glaciale, si andavano accumulando abbondanti materiali di falda, nelle basse colline e specialmente nella regione verso Cormons i terreni eocenici subivano un processo di disfacimento meteorico per il quale appaiono rivestiti di suoli argillosi rossastri simili al lehm. Ma, come ovunque, i materiali di accumulazione furono abbondanti specialmente nei fondi delle valli e nella pianura ove li portavano i varî corsi d'acqua della regione. Abbondanti alluvioni quaternarie non mancano nelle stesse valli occupate dai ghiacciai, sono anzi assai diffuse in quella di Resia, in quella dell'Isonzo e nella stessa del Tagliamento. Nelle due prime anzi formano notevoli sistemi di terrazzi. Ma più abbondanti che mai appaiono le alluvioni quaternarie nelle valli prealpine che furono in parte sgombre di ghiacciai e specialmente dove sboccano nel piano. Caratteristiche serie di terrazzi alluvionali presentano le valli del Torre presso Tarcento, quella del Cornappo presso Nimis, quella del Natisone da S. Pietro in giù e parecchie altre. Nella regione pedemontana fra il Torre e l'Isonzo con i grandi trasporti di materiali avvenuti durante il quaternario determinarono un caratteristico fenomeno che si può dire di sovralluvionamento della pianura, per cui lembi di questa penetrano in certo modo nelle valli occupandone anche le più interne insenature laterali e seppellirono d'altra parte le falde prima subaeree dei colli pedemontani in modo che alcune parti più sporgenti di questi poterono qua e là rimanere come rilievi isolati che sorgono dai materiali di trasporto fluviale. Codesto sovralluvionamento — il quale va accentuandosi verso l'Isonzo — fu opera soltanto dei corsi d'acqua maggiori, onde in corrispondenza a quelli meno [37] attivi poterono risultarne ristagni d'acqua, di cui si trovano talora anche oggigiorno le tracce, tanto fra le colline a contatto col piano, quanto nell'interno delle valli. Le aree tuttora paludose attorno alla collina di Buttrio, molti depositi di argilla dei margini della pianura, i sedimenti con conchiglie lacustri della valle inferiore di S. Leonardo di Savogna, sono tutti da mettersi in relazione col sovralluvionamento accennato.

Particolari alla valle del Tagliamento sono gli ampî conoidi torrentizî, generalmente terrazzati, di cui i più notevoli sono quello del Rio Vegliato di Gemona e i Rivoli Bianchi di Venzone. Gli ultimi sono tuttora assai attivi e presentano per gran parte della loro estensione un suolo ghiaioso in continuo movimento ed aumento. Questi conoidi costituiscono rispetto al campo di Osoppo qualcosa di simile ai ben maggiori dei fiumi prealpini rispetto alla bassa pianura veneta, onde la presenza ai loro piedi di una zona di grosse sorgenti simili a quella ben nota dei fontanili. Il sottosuolo del campo di Osoppo è, in parte almeno, costituito da materiali sottili, e ciò in relazione con la esistenza al suo posto di un lago di escavazione e di sbarramento glaciale successivamente colmato; ma alla sua superficie prevalgono i materiali ghiaiosi portati dal Tagliamento che oggi stesso ha un amplissimo letto di piena. Gli altri fiumi della regione entro l'area da noi considerata corrono per lo più in letti ristretti e affondati nei terreni sedimentari della regione o nelle loro stesse antiche alluvioni. Suoli recenti sono abbastanza estesi nell'area dell'anfiteatro morenico, sotto forma di alluvioni minute o di torbiere, ma di essi si fece già cenno precedentemente. Qui basti rammentare che alle torbe sono sempre associate argille, spesso, come quelle, utilizzate industrialmente e che le une come le altre sono indizio di stagni o di laghi.

Oltre a quelli di escavazione glaciale, a quelli di sbarramento alluvionale ed a quelli intermorenici, altri laghi quaternarî di cui restano tracce sono esistiti alle sorgenti del Torre, sotto Vedronza, presso Serpeniza; essi però nulla hanno da fare con le circostanze finora brevemente accennate, ma furono, a quanto [38] sembra, originati da frane. Di frane posglaciali non mancano altri esempi; presso Venzone, nelle colline di cui una porta le rovine del vecchio castello e nei grandi massi sparsi nel letto del Tagliamento, è da riconoscere il materiale — in gran parte sepolto dalle alluvioni — accumulato da un grande scoscendimento; uno di notevole è rappresentato pure dal mucchio di frammenti angolosi di roccia che si osserva al passo di Starasella. Alcune di queste frane possono eventualmente porsi in relazione con la circostanza che i ghiacciai, sovraescavando le valli, lasciarono nei fianchi di queste pendii eccessivamente ripidi. Oggi del resto le frane costituiscono nella regione un fenomeno poco comune; la costituzione dei monti in genere poco le favorisce; di notevoli, avvenute in epoca storica, quasi non se ne conosce; il Ciconi[21] ne ricorda però una che, nel 1748, avrebbe arrestato momentaneamente il corso della Venzonazza, le cui acque poi, rovesciandosi furiosamente su Venzone[22], vi avrebbero atterrato la chiesa ed il convento di S. Giorgio ed allagato e guasto tutto il borgo di sopra; il Girardi d'altra parte fa parola di un'altra, la quale nel 1825 sarebbe scesa dal monte di Magnano; mentre piccoli smottamenti del suolo, come quello del rivolo di Vicinale descritto dal Lorenzi[23], sono comuni in tutte le colline eoceniche pedemontane.

Terremoti.

Terremoti. Se poco la nostra regione ebbe a soffrire per le frane, non molto ha da temere per i terremoti. Sebbene l'Hoernes[24] facesse correre attraverso la regione pedemontana delle [39] Giulie la zona di più frequenti terremoti delle Alpi Venete e cercasse inoltre di stabilire l'esistenza di una grande linea radiale di scotimento Venezia-Villacco — la quale naturalmente passerebbe nel bel mezzo del territorio da noi considerato — e quantunque d'altra parte l'Hoefer[25] sostenga l'esistenza di una linea sismica del Tagliamento e di altre due che interesserebbero le nostre prealpi cioè la Tolmino-Adelsberg e la Gemona-Muggia e, finalmente, non ostante che il Baratta nella sua Carta sismica d'Italia (1901), segni due aree di scuotimento principali in corrispondenza a Gemona ed a Cividale ed una minore a sud-ovest di questa località, considerando i terremoti veramente notevoli che colpirono le Prealpi Giulie[26], si ha l'impressione che manchino ben definiti centri locali, salvo forse quello, in ogni caso poco notevole, di Cividale, e che l'origine delle scosse più violente deva cercarsi quasi sempre al di fuori e prevalentemente nell'area sismica di Tolmezzo ed in quelle ben più importanti della Carinzia (Villacco) e della Carniola (Lubiana). A queste ultime conviene riportare secondo ogni probabilità tanto il terremoto del 25 gennaio 1348, quanto quello del 26 marzo 1511, i due che, per quanto la storia ricordi, furono più disastrosi per la nostra regione[27]. Nel primo caddero [40] due torri del castello di Ragogna, crollò quello di S. Daniele facendo molte vittime, Gemona e Venzone furono pure assai danneggiati, a Cividale il duomo rovinò facendo molte vittime; nel secondo vennero gravemente colpiti molti dei castelli dell'anfiteatro morenico (Moruzzo, Villalta, Fagagna, Colloredo, Pers, Mels), Osoppo pure diroccò in parte, a Gemona caddero moltissime case, la torre delle ore, buona parte delle mura comunali, il dormitorio del convento di S. Agnese, la massima parte del monastero di S. Clara, le chiese di S. Maria La Bella e di S. Biagio di Sopra; fuvvi rovina di case pure a Venzone; a Tarcento il castello fu quasi distrutto; a Cividale rovinarono la chiesa, i campanili di S. Domenico e S. Francesco e del monastero di Valle e circa ventotto case; anche Tolmino ebbe gravi danni, lievi invece Gorizia e Cormons. Si vuole che, nel 1511, a Cividale più che le scosse del 26 marzo abbia recato danni una replica dell'8 agosto; è da dubitare però dell'esattezza di questa notizia desunta da un solo cronista; essa forse indusse qualcuno a pensare ad un centro locale, al quale fu ascritto anche il terremoto, abbastanza forte, sebbene non disastroso, del 20 febbraio 1898[28]. Seppure esiste, questo centro non dà luogo a manifestazioni sismiche notevoli per la intensità; lo stesso dicasi delle altre pretese aree di scotimento della nostra regione.

Per quanto si può dedurre poi dai pochi dati che finora si posseggono, non risulta nemmeno alcun evidente rapporto fra i danni maggiori o minori dei terremoti che colpirono le nostre prealpi e la loro struttura.

Le valli; il deprimersi dei loro fondi e dell'intera regione verso oriente.

Le valli; il deprimersi dei loro fondi e dell'intera regione verso oriente. Non è escluso che nel determinare il tracciato della valle del Tagliamento e di quella dell'Isonzo e forse di altre, possa aver avuto qualche influenza il diverso andamento delle [41] superficie strutturali[29], tuttavia noi possiamo affermare che lo scavo di tutte quelle delle Prealpi Giulie, comprese le maggiori che ne segnano i confini, fu opera quasi esclusivamente dell'erosione. Seppure esse coincidono con linee tectoniche, non si può infatti in alcun caso riconoscere una loro relazione diretta con movimenti orogenetici, mentre è spesso evidente una coincidenza con zone di terreni più erodibili. Ciò vale naturalmente solo per alcune valli longitudinali, come quella di Resia e la superiore d'Uccea; le trasversali, in relazione con la diversa natura dei terreni, presentano una successione di tratti più ampî con vere strette. L'alternanza di anguste chiuse con larghe conche, è senza dubbio caratteristica tanto della valle del Torre, quanto di quelle del Cornappo e del Natisone. Così la prima, dopo essersi espansa nel bacino di Vedronza, diviene assai ristretta fra i monti Stella e Bernadia, e similmente quella del Cornappo esce dal bacino di Monteaperta per la gola che separa il Bernadia dal Montediprato. Ambedue queste chiuse fanno pensare a fenomeni di sovraimposizione se non addirittura, per il Torre, di antecedenza rispetto al sollevamento della regione più esterna delle Prealpi. Nella vallata del Natisone sono da distinguersi poi due bacini, quello superiore a monte della stretta di Robic, e quello inferiore, nel quale, fra S. Pietro e Cividale, convergono le valli secondarie di Savogna, Grimacco e S. Leonardo[30]. Queste ultime, come le altre minori di Cergneu, di Attimis, di Faedis, e quella del Judrio, traversando prevalentemente od esclusivamente terreni eocenici, anche se abbastanza lunghe, si presentano diritte ed uniformi e, fra altro per non essere mai state occupate nemmeno parzialmente dai ghiacciai (solo nella valle della Riecca penetrò per breve tratto dal passo di Luico, m. 695, una digitazione del ghiacciaio [42] dell'Isonzo) mancano di alcuni dei caratteri che si notano nelle altre e specialmente in quelle del Fella e Tagliamento e dell'Isonzo. Queste valli che limitano la nostra regione sono assai complesse ed irregolari, però non soltanto per l'azione che su di esse esercitarono i ghiacciai, ma anche perchè risultano dalla congiunzione di elementi morfologici diversi. Queste valli si possono dire infatti, solo nell'insieme, trasversali, per alcuni tratti sono invece evidentemente longitudinali. In quella dell'Isonzo non si ha poi solo la struttura a bacini; ma il decorso complessivo di questo fiume, simile ad una gigantesca linea spezzata, apparve strano anche ai vecchi geologi (Stur), i quali però non seppero darvi una spiegazione plausibile; spiegazione che manca del resto anche oggi. L'Isonzo fu poi oggetto di molti scritti che trattarono di supposti antichi corsi suoi o del Natisone. Richiamò l'attenzione specialmente la soglia di Starasella, che alcuni ritennero anticamente percorsa dall'Isonzo, altri, con più verosimiglianza, dal Natisone e la chiusa di Pradolino — singolare gola che nessun corso d'acqua tiene sgombra dai materiali che, cadendo dalle pareti, si accumularono irregolarmente nel suo fondo — che da molti si considerò un tronco morto di una vecchia valle del Natisone e che, comunque, sembra servisse ad allontanare le acque di fusione del ramo di Bergogna del ghiacciaio quaternario dell'Isonzo.

Per quanto riguarda le condizioni altimetriche generali delle nostre valli prealpine, va notato il deprimersi del loro fondo man mano si procede dal Tagliamento all'Isonzo; così il Torre presso Tarcento ha il suo letto a 215 m. sul mare, il Natisone presso Cividale a 110, l'Judrio presso Visinale a 50, l'Isonzo presso Gorizia ad appena 40. Questo abbassarsi del fondo delle valli verso oriente significa l'abbassarsi di tutto l'imbasamento delle nostre masse montuose ed anche il diminuire della loro media altezza. Questa effettivamente è di 500 m. per la zona montana e pedemontana delle Giulie Occidentali, di 380 per le Giulie Orientali. L'abbassamento stesso trova un riscontro naturalmente anche nel deprimersi della pianura; fenomeno questo che ha la sua ripercussione nelle condizioni climatiche ed agricole [43] della zona collinesca e piana delle nostre prealpi, nella quale specialmente i vini e le frutta mostrano il progressivo diminuire dell'umidità e l'aumentare della temperatura verso oriente. Tutti i limiti altimetrici sono del resto singolarmente depressi specialmente nella regione verso Gorizia, come notarono già i vecchi studiosi della flora di quella regione.

Per quanto riguarda poi l'anfiteatro morenico del Tagliamento, questo, come già s'accennò, non presenta vere valli, ma irregolari avvallamenti, congiunti fra di loro in modo più o meno completo da corsi d'acqua, degni d'attenzione quasi solo per il loro cammino tortuoso ed incerto. Si può infatti malamente parlare anche di una valle del Corno e di una del Cormor, in corrispondenza ai due maggiori torrenti della regione. Questi però, giunti alla zona pedemorenica, cioè al conoide di transizione dell'anfiteatro, corrono in letto incavato; ma qui, come nel caso dei percorsi d'alta pianura del Tagliamento, del Natisone e dell'Judrio, non si ha da fare con valli, ma solo con alvei incisi nelle antiche alluvioni. Tali solchi fluviali che si continuano entro le valli sono notevoli specialmente nella pianura di Premariacco, dove presentano sulle loro sponde interessanti fenomeni d'erosione[31]. Anche molti dei minori corsi, d'acqua sia provenienti dalla regione morenica, sia prealpini, hanno affondato nella pianura in modo notevole il letto loro. Ma di ciò sarà detto più a lungo nel capitolo seguente.

I passi.

I passi. Le valli delle Prealpi Giulie sono quasi sempre chiuse, cioè non presentano alla loro testa un passo notevole. Il caso più tipico di queste condizioni di cose è fornito da quella del Torre, che ha origine ai piedi dell'alta ed uniforme catena del Musi, la quale in corrispondenza ad essa non mostra alcuna notevole depressione della linea di vetta. Sui due lati però, cioè rimontando i corsi d'acqua che, confluendo sotto Tanataviele, danno origine al Torre, si raggiunge verso oriente la bassa soglia di Tanamea (m. 853), che mette nella valle di [44] Uccea, verso occidente le forcelle di Musi (m. 1012) e di Tacis (m. 1103) per le quali si raggiunge la valle della Venzonazza. Trasversali e quindi giovevoli piuttosto per le comunicazioni fra Tagliamento ed Isonzo, che per quelle fra le Alpi e la pianura, sono anche la maggior parte delle selle della regione più interna, fra le quali veramente importante è solo quella di Carnizza, che mette in comunicazione la valle di Resia con quella di Uccea. Il più depresso dei passi delle nostre prealpi è certamente quello di Starasella (256), ove si ha da fare con una tipica soglia alluvionale a spartiacque poco netto. È anche l'unico dei nostri varchi superato da una strada carrozzabile. Ad oriente del Natisone le Prealpi presentano un solo passo notevole, quello cioè di Luico (m. 695), alla testa della valle della Riecca.

Le regioni naturali.

Le regioni naturali. Fu già accennato precedentemente come l'insieme del territorio considerato in questa guida non costituisca una regione naturale, nel senso comprensivo che si suole attribuire dai geografi a codesta espressione; aggiungeremo qui come essa non costituisca nemmeno un complesso di regioni naturali ben deliminate e distinte e designate con nomi speciali. Ciò non toglie che alcuni dei bacini e delle valli o tronchi di valli precedentemente indicati non rappresentino piccoli territori abbastanza isolati e con speciali caratteristiche e che si denominano o da un corso d'acqua o da una località notevole — così per esempio si parla di un canale di Uccea, di un canale di Musi (regione sorgentifera del Torre), di un canale di S. Pietro (valle del Natisone fra S. Pietro e Robic), di un canale di Savogna (valle dell'Alberone-Riecca), di un canale di S. Leonardo (valle della Cosizza-Erbezzo), di uno del Judrio e via di seguito[32] — ma non sempre questi limitati territorî rappresentano regioni naturali nel senso più comprensivo della espressione; nè i loro nomi corrispondono ad un lungo uso [45] tradizionale. Pur riferendosi ad aree meno individualizzate orograficamente rispondono piuttosto a questo concetto la designazione di Schiavonia (Sclavonie) — alla quale più modernamente volentieri si sostituì quella di Slavia italiana — con la quale si designa la regione occupata da genti slovene, quella di Riviera (Riviere), con cui si indica la costiera di poggi tra Magnano e Nimis, e quello di Collio (Cuèj, in sloveno «Briske», in tedesco «in den Ecken»), col quale è conosciuta da secoli l'area collinesca fra Prepotto, Cormons e Gorizia. Hanno poi carattere territoriale anche alcuni nomi di comuni o di frazioni che non si trovano usati per designare alcuna singola borgata di questi, come è il caso di Buia, di Ragogna e di Montenars, di Rodda ecc.

[46]

III.
LE ACQUE
LE LORO VIE SOTTERRANEE E LA LORO UTILIZZAZIONE

di G. FERUGLIO e O. MARINELLI

I corsi d'acqua delle Prealpi Giulie. Il Tagliamento ed i suoi affluenti.

I corsi d'acqua delle Prealpi Giulie. Il Tagliamento ed i suoi affluenti. Le Prealpi Giulie, per la ristrettezza dello spazio occupato e per le condizioni orografiche, non posseggono fiumi importanti che si possano considerare loro proprî per avere in esse le sorgenti e la maggior parte del loro corso. Il Natisone ed il Torre, che pure sono i maggiori, non reggono certo a confronto, nè per lunghezza, nè per estensione di bacino, nè per portata col Tagliamento e coll'Isonzo e nemmeno col Fella, i quali riguardano la nostra regione in quanto ne segnano i limiti per una parte più o meno considerevole del suo contorno[33].

[47] Il tratto di Tagliamento che ci interessa è quello fra la confluenza della Fella e la sua uscita dalla stretta di Pinzano; se convenga considerarlo come tronco medio del fiume o come spettante ancora al superiore o come pertinente all'inferiore è [48] difficile decidere; certo si è che mentre da un lato esso attraversa territorio montuoso e riceve ancora ricco alimento da corsi d'acqua alpini e prealpini, in esso si anticipano quasi le condizioni del piano. Nel campo di Osoppo infatti il Tagliamento, [49] non solo si espande e si dirama in amplissimo letto ghiaioso, ma subisce già quelle notevoli perdite d'acqua caratteristiche dell'alta pianura friulana; acque che poi riacquisterà[34], grazie ad una serie di abbondanti risultive e al Ledra, dal corso lento e tortuoso, che riproduce ottimamente il tipo dei fiumi litoranei delle Basse[35]. Anche la pendenza è piccola, poichè su di uno sviluppo di 27 km., quale si ha dalla confluenza del Fella al termine della stretta di Pinzano, la caduta di appena 110 m. cioè del 4 per mille. Incompletamente si conosce il regime del fiume, sebbene qualche misura di portata sia stata fatta isolatamente e alcune serie di determinazioni idrometriche a Venzone, alla presa del Ledra e presso Pinzano.

Per ciò che riguarda in generale le piene e le magre del fiume si rimanda a quanto è stato detto in precedente volume della guida (Carnia, pag. 30), qui si avverte solo come sembrano [50] esagerate, se non pure le portate medie attribuite al fiume in 70 e 90 mc. al secondo, rispettivamente a Venzone ed a Pinzano, certo le minime di 35 e 50 mc. Alla presa del canale sussidiario del Consorzio Ledra-Tagliamento, secondo le osservazioni fatte per conto del Consorzio stesso, le portate ordinarie sarebbero di inverno da 20 a 25 mc. al secondo, d'estate da 30 a 35 e le [51] massime magre scenderebbero fino a soli 12-15 mc. Va notato però che, per l'assorbimento del suolo alluvionale di cui sopra si fece cenno, nel punto al quale si riferiscono queste misure si hanno quantità d'acqua di alcuni mc. inferiori che non a Venzone e di parecchi che non a Pinzano. Si avverta pure che, secondo i dati ufficiali, il bacino del Tagliamento misurerebbe una superficie di 1940 kmq. a monte di Venzone e di 2280 a monte di Pinzano.

Fig. 4ª. — Schizzo idrografico delle Prealpi Giulie. Scala 1:600.000.

Almeno un terzo delle acque che il Tagliamento ha sotto la confluenza del Fella provengono da questo ultimo fiume. Su di esso non intendiamo qui fermarci poichè ne fu trattato espressamente nel secondo volume di questa guida. Diremo solo che lambisce le Prealpi Giulie per una lunghezza di 11 chilometri (quanti se ne contano fra la confluenza della Resia ed il suo sbocco nel Tagliamento) mantenendo una pendenza media dal 6 al 7 per mille, e che le pubblicazioni ufficiali gli attribuiscono una portata media di 22 mc. al secondo ed una minima di 11 ed un'area del bacino di 710 kmq.; tali valori sono però forse, pure in questo caso, eccessivi. Anche della Resia, già altrove considerata, diremo solo che, secondo i dati ufficiali, l'estensione del suo bacino sarebbe di 116 kmq. e la sua portata di minima magra di 3 mc. al secondo; anche questo valore stimiamo però eccessivo.

Dopo la Fella, il Tagliamento riceve sulla sua riva sinistra due soli affluenti notevoli, i quali ambedue spettano alla regione prealpina da noi considerata, cioè la Venzonazza ed il Ledra. Il primo è un torrente montano che ha tutto il suo corso — che misura una lunghezza di poco più di 10 km.[36] — incassato in una valle diritta e ristretta. L'area del bacino è, secondo i [52] dati ufficiali, di 56 kmq., la portata minima è stimata di 0,60 mc. al secondo, e di 0,75 in magra ordinaria.

Al Ledra ed ai suoi caratteri generali s'è già accennato precedentemente, si aggiungerà qui come il fiume consti dalla riunione di una assai considerevole massa di acqua la quale ha origine, da un lato in una serie di sorgenti che sgorgano alle falde dei conoidi — il maggiore è quello del Vegliato su un lembo del quale siede Gemona — fiancheggianti verso oriente il campo di Osoppo, dall'altro in alcune grosse polle, di cui la maggiore è quella del così detto Rio Gelato, che nascono nel bel mezzo della pianura ora indicata. Evidentemente doppia è la provenienza delle acque che formano queste sorgenti e quindi il Ledra, da un lato i torrenti prealpini che si perdono nelle alluvioni dei conoidi sovraindicati, dall'altro le dispersioni stesse del Tagliamento. Solo in rari casi di forti piogge, il Rio Vegliato, l'Orvenco ed altri torrenti minori raggiungono con acque superficiali il piano, e in questo le acque meteoriche sono generalmente assorbite senza riunirsi in ruscelli superficiali; onde si può dire che il Ledra riceva il suo alimento quasi unicamente da sorgenti, quali costanti o quasi nella loro portata (Rio Gelato), quali variabili, ma sempre entro limiti ristretti. Dagli studi fatti alcuni decennî or sono per la costruzione di un canale di cui sarà detto fra breve, appariva che la portata media del fiume fosse di circa 20 mc. al secondo, aumentante a 100 nelle piene e discendente a soli 9 nelle grandi magre. Secondo le osservazioni fatte negli ultimi anni dal consorzio Ledra-Tagliamento sembra invece che la portata ordinaria si aggiri intorno ai 9 mc. al secondo, quella della massima piena raggiunga gli 80, mentre nelle maggiori magre si scenderebbe a 6,5 o 7[37].

[53] Questa, sempre notevole, massa d'acqua, assieme ad altra derivata dal Tagliamento, è stata incanalata e condotta nella pianura friulana; ma di ciò si dirà a proposito delle modificazioni apportate dall'uomo al reticolato idrografico della nostra regione.

I corsi d'acqua dell'anfiteatro morenico.

I corsi d'acqua dell'anfiteatro morenico. Dopo il Ledra, il Tagliamento non riceve dalle nostre prealpi alcun fiume o torrente notevole, poichè i colli dell'anfiteatro morenico non mandano che in minima parte le loro acque verso quel fiume ed in piccola parte pure nel Torre, formando essi nell'assieme una speciale regione idrografica. Due sono i torrenti maggiori dell'anfiteatro, il Corno ed il Cormor, che nascono entrambi nei colli di Buia a non grande distanza l'uno dall'altro, mentre vanno poi allontanandosi tendendo l'uno verso SO, l'altro verso S, lasciando posto nel mezzo ad una serie di torrentelli conosciuti sul luogo col nome generico di lavie, i quali, avendo origine nella cerchia morenica esterna, scendono in pianura mantenendosi indipendenti l'uno dall'altro e dai corsi d'acqua maggiori. Nella regione pedemorenica in questi torrentelli avviene la perdita completa, non solo delle acque assorbite dal bibulo suolo alluvionale, ma altresì dell'alveo. Nel Cormor questo traversa tutta l'alta pianura, per terminare poco a valle delle prime risultive, senza inserirsi però a nessuno dei rivi da queste formati. Il Corno invece, dopo aver attraversato la pianura e oltrepassata la zona delle risultive, ha continuità di alveo col Taglio, il qual nome designa l'affluente dello Stella che porta a questo le acque dei fontanili della regione sotto Codroipo e Bertiolo. In via ordinaria tanto il Corno però quanto il Cormor perdono le acque che ricevono dai numerosi, ma insignificanti, ruscelli provenienti dalle torbiere e dalle bassure intermoreniche (il Corno riceve fra altro l'emissario del lago di S. Daniele)[38] [54] dopo pochi chilometri di corso. Ciò avviene tuttora per il Cormor ed avveniva per il Corno. Di questo però si approfittò ora per il canale Ledra-Tagliamento di cui diremo in seguito, come del resto si usurpò, per un tratto al di fuori della regione da noi considerata, l'alveo al Cormor, per la roggia di Udine. Dato il carattere effimero ed accidentale delle lavie e la loro scarsa importanza (la maggiore quella di Peraria non supera che di poco i 16 km. di sviluppo) non è il caso di parlare di portate, vanno piuttosto ricordate le loro piene che scendono rapide e quasi inopinate in seguito a rovesci d'acqua. In quanto al Corno ed al Cormor, essi entro l'area dell'anfiteatro morenico, che traversano ambedue con un percorso di quasi 17 km., hanno per un tratto più o meno lungo acqua (il Cormor per solo 7 km.), ma la portata di magra non raggiunge, nemmeno nel primo, che pure ha maggiore importanza, i 300 litri al secondo.

Torre e Natisone.

Torre e Natisone. Assai maggiore che l'area delle Prealpi Giulie la quale idrograficamente spetta al Tagliamento, ovvero ai varî bacini dell'anfiteatro, è quella che manda direttamente od indirettamente le sue acque all'Isonzo; però a questo proposito va tenuto conto di una circostanza che induce a considerare come fiumi quasi a sè tanto il Torre quanto il Natisone. Le acque di questi e dei numerosi loro affluenti giungono infatti soltanto in parte all'Isonzo e ciò avviene non solo al di fuori del territorio da noi considerato, ma in condizioni tali, per il quasi costante totale assorbimento esercitato su quei fiumi dalle alluvioni del piano, che una vera continuità idrografica manca quasi sempre: manca fra Isonzo e Torre, come del resto manca fra Natisone e Torre[39]. Quindi per doppio motivo noi possiamo [55] parlare dei nostri due fiumi veramente prealpini come se fossero ambedue indipendenti dall'Isonzo e l'uno dall'altro.

Il Torre ha le sue sorgenti nella zona più interna delle Prealpi, non così il Natisone, tuttavia quest'ultimo ha più lungo il suo corso ed esteso il suo bacino; non però maggiore copia d'acque nelle magre. Il Torre inoltre nasce da una fonte ben determinata ed assai abbondante, poichè non consta abbia avuto mai una portata inferiore a 700 litri al secondo (febbraio 1909), mentre il Natisone risulta dalla riunione di più torrenti di poco diversa importanza fra i quali è difficile decidere quale sia il vero ramo sorgentifero. Assai diverso è anche l'andamento dei due fiumi rispetto alle linee orografiche e tectoniche della regione.

Da sotto Tanataviele, ove nasce a 529 m. sul mare, il Torre raggiunge Tarcento dopo un corso di appena 12 km., e qui esce da una valle per traversare una zona di basse colline e toccare il piano poco sopra Zompitta. Coll'avvicinarsi al piano cominciano anche qui le dispersioni, le quali fanno sì che non molto a valle dell'ultima località indicata il letto del fiume si traversa generalmente a piede asciutto. A rendere più breve il corso superficiale contribuì però da secoli ed in non scarsa misura, anche l'uomo mercè le due rogge che si derivano appunto alla presa di Zompitta; ma la totale scomparsa delle acque avverrebbe per lo più egualmente, solo un po' più a valle. Il fiume del resto presenta non solo questa caratteristica degli altri fiumi friulani, ma un analogo regime (piene primaverili ed autunnali, magre estive ed invernali, queste ultime più persistenti), salvo le piene più repentine e di più breve durata di quelle, per esempio, del Tagliamento. La portata media del fiume a Tarcento, [56] dove si raccolgono le acque di un bacino esteso 80 kmq.[40], è stimata a 4 mc. al 1, quella delle magre ordinarie di 1,6-1,9, delle eccezionali di 1,2[41], nelle piene si sale ai 200 o 300 mc. al 1″ e in qualche caso sembra si sieno raggiunti i 500 mc. al secondo[42]. Mentre a monte di Tarcento il Torre ha di affluenti degni d'essere ricordati solo la Vedronza (7 km.) ed il Rio Zimor (6 km.), a valle riceve il Cornappo che ad esso porta oltre 300 litri al secondo anche nelle massime magre. Il Cornappo ha un corso di 15 km. ed è formato da più rami sorgentiferi che scendono dal versante meridionale del Gran Monte.

Sebbene il nome non cominci che alla confluenza dei due torrenti, l'origine del Natisone si può riconoscere o nel Rio Bianco o nel Rio Nero, i quali scendono, poco lontani uno dall'altro ed ambedue relativamente ricchi d'acqua, dal versante meridionale della catena di Monte Maggiore. Altri torrentelli notevoli riceve il Natisone nel suo corso superiore, ma una volta uscito, presso Robic, dal suo alto bacino, il fiume, mentre fruisce ancora di notevoli contributi d'acqua da sorgenti (Poiana, Arpit, Naklanz), non ha alcun affluente notevole; un gruppo di questi (Alberone, Cosizza, Erbezzo) si riunisce poi a formare l'Azzida, il quale però, pur raccogliendo le acque di un esteso territorio (113 kmq.), porta, in condizioni ordinarie, alimento assai scarso al Natisone, onde a Cividale, quantunque il bacino sia più che doppio (294 kmq.)[43] di estensione, le portate minime (0,8) sono minori di quelle del Torre a Tarcento.

Le piene del Natisone sono rapide e talora assai notevoli, [57] grazie però all'alveo del fiume generalmente assai incavato, di rado furono causa di danni[44]. Le condizioni di altimetria e pendenza dei letti del Torre e del Natisone sono qui posti a confronto:

Torre
 
PUNTO ALTEZZA LETTO DISTANZA DALLE SORGENTI PENDENZA ‰
m. km.
 
Sorgente 529
Vedronza (ponte) 313 5,5 39
Tarcento (ponte) 215 11,8 16
Confluenza Cornappo 179 17,3 6
Zompitta (inferiormente alla diga) 170 19,2 5
Strada Udine Cividale 109 30,0 5
Ponte ferrovia Buttrio 75 37,3 5
Presso Percotto 55 42,0 4
Confluenza Natisone 40 47,0[45] 3
 
Natisone
 
Sorgente (confluenza Rio Bianco-Rio Nero) 420
Presso Robic 244 11,7 15
Alla sorgente Naklanz 203 16,8 8
Pulfero 179 22,0 5
Ponte S. Quirino 126 29,5 7
Cividale (ponte) 107 34,3 4
Premariacco (ponte) 87 40,0 4
Ponte ferrovia Udine-Cormons 57 49,7 3
Confluenza Torre 40 55,0[46] 3

Questi dati mostrano non solo le minori pendenze del letto del Natisone rispetto a quello del Torre, ma anche le maggiori [58] irregolarità, irregolarità che non crediamo solo apparenti, cioè dovute unicamente alla insufficiente precisione dei dati altimetrici. Qualora le tratte considerate fossero state più brevi le pendenze risultavano però crescenti con minore uniformità nello stesso Torre.

Fra il Torre e il Natisone e fra il Natisone e l'Isonzo è posto per alcuni corsi d'acqua che, anche questi, possono considerarsi quasi indipendenti l'uno dall'altro e dai fiumi maggiori. Da un lato abbiamo la Malina, il Grivò ed il Chiarò[47] i quali, assieme col Lagna affluente del Cornappo, scendono dagli altipiani che culminano con le Zuffine e col Juanes, dall'altro, oltre a ruscelli minori, si ha il Judrio dal corso assai lungo (km. 55), ma con bacino poco esteso (64 kmq. a monte di Prepotto) e poverissimo d'acque negli stati ordinarî anche nel tratto montano; è noto più che altro perchè segna per buon tratto il limite politico fra Italia ed Austria. Il Judrio nelle magre perde del tutto le sue acque nella pianura, per riprenderne una parte verso l'estremo suo corso, non portando all'Isonzo mai meno di 400 litri al secondo.

L'Isonzo.

L'Isonzo. Questo fiume, che limita ad oriente le nostre Prealpi gareggia per importanza col Tagliamento ed ha con questo alcuni caratteri comuni, ma non poche particolarità. Esso, mentre attraversa la zona prealpina (circa 62 km.), conserva ovunque i caratteri di corso montano, poichè trovasi sempre nel fondo di una valle e spesso corre rinserrato fra strette pareti rocciose[48], solo a Gorizia o poco al di sotto esce nel piano, l'alveo si allarga e cominciano, come negli altri fiumi friulani, le divagazioni e le dispersioni, le quali fanno sì che fra Cassegliano e Pieris, per un tratto di pochi chilometri, [59] nelle maggiori siccità il letto rimanga quasi asciutto. Sul suo regime abbiamo notizie sempre incomplete relative a vecchi studî fatti a proposito del problema di irrigare l'agro monfalconese e recenti determinazioni all'idrometro di Gorizia. Anche questo fiume, come il Tagliamento, va soggetto a piene specialmente primaverili ed autunnali, mentre sono stagioni di basse acque l'inverno e l'estate. Sembra che a Gorizia l'Isonzo non abbia mai meno di 12 mc. al secondo, mentre le portate minime ordinarie per la stagione estiva si possono stimare fra 20 e 30 mc. al secondo, per l'invernale da 15 a 20. Si badi che a monte di Gorizia il bacino dell'Isonzo ha una estensione di circa 1600 kmq.[49].

Per l'Isonzo, oltre che osservazioni idrometriche si fanno, a Gorizia, determinazioni di temperatura. Risulta da esse che l'acqua del fiume, eccetto che nei mesi invernali, è più fresca dell'aria, nella media annua di circa 3°, nelle medie di alcuni mesi estivi di 9° e più. Del resto le medie mensili della temperatura dell'acqua del fiume salgono, in modo analogo a quelle dell'aria, raggiungendo generalmente in luglio od agosto i valori massimi e scendendo in dicembre o gennaio ai minimi.

Degli affluenti montani dell'Isonzo noi abbiamo motivo qui di ricordare solo il rio di Uccea, il quale ha un corso complessivo di 15 km. (di cui 9 in territorio italiano) ed è sempre assai ricco d'acqua, specialmente dopo la confluenza del rio Bianco (7 km.) che scende dal Musi passando presso alla soglia di Tanamea.

Le condizioni idrologiche del territorio più interno delle Prealpi.

Le condizioni idrologiche del territorio più interno delle Prealpi. I principali corsi d'acqua prealpini da noi ricordati, come risulta dalle indicazioni finora fornite, hanno la loro origine e principale loro alimento dalla parte più interna ed elevata [60] delle nostre montagne, ove sono la catena del Musi e quelle del Ciampon e di Montemaggiore. Parecchie circostanze spiegano questa condizione di cose, le più notevoli precipitazioni e l'essere queste in maggior proporzione sotto forma di nevi, il ricoprimento di boschi relativamente più denso ed esteso; ma sopratutto una condizione favorisce l'abbondante raccolta di acqua nel sottosuolo ed il lento suo ritorno a giorno, la diffusione relativamente grande di terreni sciolti superficiali. Più spesso che vere alluvioni sono falde detritiche, talora attuali, altra volta quaternarie e debolmente cementate; non mancano nemmeno depositi glaciali e fluvioglaciali. Abbondanti questi ultimi sono però quasi solo nel versante settentrionale della catena del Ciampon, mentre ricoprimenti di falda rivestono quasi tutti i pendii che erano scoperti durante l'epoca glaciale, onde estesissimi sono per esempio sulla china meridionale del Gran Monte, dove hanno origine le molte fonti del Cornappo e del Natisone. A masse alluvionali è invece da attribuirsi principalmente la sorgente del Torre. Nella regione che consideriamo non mancano però sorgenti di origine diversa da quella qui accennata, poichè i calcari delle aree più elevate del Musi, del Ciampon e del Montemaggiore sono ovunque fessurati, spesso rigati da solchi carsici e qua e là cospersi di doline. Fra le più notevoli sorgenti dovute a queste masse calcaree foracchiate è da ricordarsi qui il fontanon di Barinan nella valle di Resia.

La zona ad idrografia carsica. Le grotte.

La zona ad idrografia carsica. Le grotte.[50] Però l'idrografia tipicamente carsica, caratterizzata dalla mancanza di correnti superficiali anche mediocremente importanti e dalla presenza invece di una complicata idrografia interna per la quale [61] le acque, assorbite dalle doline, circolano per grotte e canali più o meno ampi, per venire a giorno nelle valli più profonde sotto forma di grosse sorgenti, assume il suo massimo sviluppo nella zona montuosa più esterna delle Prealpi. Come fu altrove (pag. 29) avvertito, tali condizioni di cose si presentano in tutti gli altipiani submontani, in grado diverso però a seconda che ci si trova in territorî completamente calcarei (cretacei), ovvero in quelli (eocenici) dove calcari ed arenarie e marne si succedono ed alternano. Mentre nei primi mancano completamente i corsi d'acqua superficiali questi si possono invece trovare nei secondi, sia pure con esiguo sviluppo e per lo più destinati prima o poi a scomparire completamente, o quasi, sotterra. A queste perdite dei ruscelli talora, ma non sempre, corrisponde un brusco chiudersi delle vallette da essi percorse. In ogni caso, sieno le acque meteoriche assorbite quasi appena cadute dalle cavità carsiche, ovvero abbiano prima potuto per un tratto più o meno lungo riunirsi in corsi d'acqua superficiali, esse sono egualmente destinate ad alimentare una circolazione sotterranea di tipo ben diverso da quella che si osserva nei consueti terreni permeabili.

Quantunque l'attività di parecchi studiosi, organizzata in questi ultimi anni dal Circolo Speleologico ed Idrologico di Udine, si sia rivolta alla loro ricerca, specialmente nel territorio qui considerato, tuttavia poco sappiamo delle vie che le nostre acque percorrono sotterra. Delle molte grotte finora esplorate, alcune sono del tutto asciutte e seppure hanno in altri tempi rappresentato canali percorsi da acque, sembrano troppo superficiali per aver avuto una grande importanza per la idrografia sotterranea; altre tuttora attive poterono essere solo in parte seguite nel tortuoso loro cammino. Fra le più importanti, [62] delle quali però particolarmente verrà detto nella parte itineraria di questa guida si possono qui ricordare, quella di Vedronza, quella di Villanova, quella di Viganti e quella di Proreak; la prima rappresenta lo sbocco di un temporaneo corso d'acqua sotterraneo, di cui è ignota la provenienza; la seconda è notevole, per un perenne ruscello che oggi ne segue le gallerie più profonde e per la complicazione e ristrettezza di queste; la grotta di Viganti è lo sfogo della piccola valle chiusa di Tapoteletia che, scavata nelle marne ed arenarie, è verso sud sbarrata da una massa calcarea in cui si apre la grotta, la quale poi si continua (come è presumibile, sebbene la esplorazione completa non sia ancora stata fatta) con quella di Proreak, che s'apre a pochi metri dal fondo della valle del Cornappo, dando uscita, durante le piogge, ad un vero torrente. Questo sistema ricorda, per la grandiosità, le grotte del vero Carso; esso è sviluppato nei calcari cretacei, mentre la grotta di Villanova caratterizzata dai canali piccoli e ristretti è scavata nei terreni eocenici.

In connessione con la regione del Bernadia, ove sono le caverne ora indicate, è certamente la grossa sorgente che sgorga a Torlano (ora utilizzata per l'acquedotto di Nimis), sulla destra del Cornappo, mentre quella sulla sinistra è in rapporto evidente con l'altipiano carsico di Montediprato.

Fra il Cornappo e l'Isonzo sono pure grotte degne di attenzione: quella cioè di Canal di Grivò, il Foran di Landri, il Foran des Aganis presso Prestento, la Tapotcelan Jama presso a Tercimonte, quella di S. Giovanni d'Antro, la Velika Jama presso Blasin di Savogna, quella di S. Ilario presso Robic ed altre ancora; tuttavia, se alcune presentano grande importanza non solo sotto l'aspetto fisico, ma, come meglio si dirà in seguito, anche sotto quello paletnologico e storico, tutte però hanno limitato interesse dal punto di vista idrologico. Da questo punto di vista non hanno grande importanza nemmeno le numerose voragini (pozzi verticali) finora esplorate, voragini che del resto, se sono degne di studio per ciò che riguarda la loro origine e per i caratteri morfologici (tipiche fra altre sono alcune [63] bottigliformi), non possono certo competere, come dimensioni, con quelle del Carso ovvero delle Cevenne, nè in genere sembrano condurre a corsi d'acqua sotterranei.

Notevoli invece in questa regione sono le sorgenti più o meno tipicamente carsiche. Ricorderemo anzitutto quella di Montina, con una portata nelle magre ordinarie di 20 litri al secondo[51], che venne utilizzata per l'acquedotto di Premariacco. Notevolissime poi, sebbene per alcune possa essere dubbio sulla loro vera natura, sono quelle della Pojana, la quale ha presumibilmente il suo bacino di raccoglimento sul Mia e sgorga sulla destra del Natisone appena oltrepassato il confine politico, e quelle di Naklanz ed Arpit, le quali si crede derivino dalle acque cadute sul massiccio del Matajar e sgorgano alla sinistra del Natisone un po' più a valle della Pojana; la quantità d'acqua che esce dalle 3 sorgenti, e che è stata calcolata in 80 litri al secondo per la Naklanz, 175 per la Pojana e 370 per l'Arpit, è così grande che il Natisone dopo il loro incontro ha più che raddoppiata la sua portata.

Le zone povere d'acqua. I canali artificiali.

Le zone povere d'acqua. I canali artificiali. Relativamente poveri d'acque sotterranee e superficiali sono i territorî costituiti dalla zona marnoso-arenacea dell'eocene e da quello morenico. Le piogge che cadono sul suolo poco permeabile scendono quasi tutte direttamente e per lo più sollecitamente ai corsi d'acqua, che hanno, od assumono in questa area, regime spiccatamente torrentizio. La zona pedemontana però, sia perchè per essa passano necessariamente i corsi d'acqua che hanno origine nelle regioni più interne, sia perchè da queste non lontana, non ha sì grande scarsità ovvero sì grande difficoltà di provvedersi di acque per gli usi comuni della vita come quella dell'anfiteatro. In questa, dove sono pure tanti tratti di suolo paludoso e acquitrini — questi non mancano del resto, come s'è accennato altrove, nemmeno ai piedi delle colline [64] eoceniche — ed estese torbiere, che attestano l'esistenza in passato di numerosi laghi — uno solo è tuttora conservato, quello cioè di S. Daniele — è la regione del nostro territorio che più difetta di sorgenti costanti di discreta portata ed, in genere, di acque utilizzabili dall'uomo[52]. I terreni morenici sono infatti quasi del tutto impermeabili e troppo limitate ed isolate sono le masse alluvionali quaternarie e quelle conglomeratiche mioceniche affioranti nell'anfiteatro per costituire notevoli sistemi d'idrografia sotterranea, troppo piccole e male sviluppate poi le valli per dare luogo ad un notevole reticolo di corsi d'acqua superficiali. Questa scarsità di acque si accentua divenendo vera mancanza in tutta l'ampia zona pedemorenica o dei depositi fluvioglaciali, dove, come si disse, sono totalmente assorbite le acque dei torrenti che scendono dall'anfiteatro; tale zona è del resto sotto l'aspetto idrografico la continuazione di quella dei conoidi di deiezione di tutta l'alta pianura Friulana. In completo contrasto con la regione morenica e con quella esterna dell'anfiteatro sta la ricchezza già indicata di quella interna, cioè del campo di Osoppo. È facile comprendere come da molto tempo si pensasse di trarne profitto a beneficio delle aride terre del medio Friuli, tanto più che le condizioni speciali della valle del Corno rendevano assai facile traversare l'anfiteatro e la testa della valle stessa era separata dal Ledra da una soglia non molto larga ed alta appena 3 metri sul livello di questo[53]; solo nel 1881 fu inaugurata la nuova opera per [65] la quale le acque del Ledra, a cui furono poi aggiunte, mercè un canale sussidiario (lungo 9 km.), una parte di quelle del Tagliamento, sono portate nella nostra pianura a beneficio delle industrie e della agricoltura[54].

Ben prima che di fronte a Branlius si facesse la derivazione del Tagliamento per il canale del Ledra[55], cioè già nel Medio [66] Evo (XII o XIII sec.), una minore ne era stata fatta più a monte, quella cioè della roggia di Gemona (detta anche Piovega), la quale, raccolte le poche acque che provengono per vie sotterranee dal laghetto di Ospedaletto e quelle di alcune sorgenti che escono all'unghia del conoide del Rio Vegliato, va poi ad ingrossare il Ledra. Altra derivazione del Tagliamento è la roggia della fabbrica Stroili, che, appena passata la Fabbrica, si divide in tre rami, di cui un primo si dirige verso Gemona, un secondo passa per l'abitato di Osoppo ed un terzo si scarica nel Tagliamento.

Altra diversione notevole ed antichissima di corsi d'acqua è quella del Torre presso Zompitta, dove hanno principio le rogge di Udine e quella di Povoletto detta prima di Sciacco, poi Cividina. Le rogge di Udine sono di data assai remota poichè, se non si conosce precisamente in qual modo, quando e da chi siano state per la prima volta costruite, certo si è che esistevano già nel 1171. Per il loro percorso attuale rimandiamo, a quanto se ne dice nel 1º volume di questa guida (pag. 32 e 33). La roggia di Povoletto, la cui costruzione rimonta al sec. XIII, un tempo al di là di Remanzacco si perdeva nella Malina, mentre ora passa sotto il letto di quel torrente, prosegue per Buttrio e raggiunge nuovamente il Torre. Le acque del Torre in altri punti sono pure, per brevi tratti, tolte dal loro alveo per utilizzazioni industriali; i due canali più importanti di tal genere son quelli di assai recente costruzione, di Ciseriis, che fornisce la forza motrice al cascamificio di Bulfons (Tarcento) e di Pradielis, che dà l'energia elettrica per il tram di Udine. La diga di presa del primo costituì un notevole sbarramento del Torre onde la formazione di un lago artificiale, lungo in origine intorno ad 1 km., ma ridotto ora ad appena 400 metri.

Un altro canale che qui merita di essere ricordato è la roggia di Torreano, la quale porta le acque del Chiarò al Natisone passando per Cividale. Ha una lunghezza di circa 6 km.

Le opere idrauliche qui indicate hanno tutte scopo industriale od irrigatorio, poche invece nella regione da noi considerata furono fatte per bonifiche. La più importante è quella, [67] in via di esecuzione, intesa a prosciugare la palude di Bueris. Del resto acquitrini e ristagni d'acqua, comuni come s'è detto specialmente nell'area morenica, non richiedono fra noi provvedimenti molto solleciti; perchè assai raramente, nel nostro clima, favoriscono la malaria.

Per completare il breve cenno sulle modificazioni apportate dall'uomo sulla idrografia della regione diremo anzitutto che numerose sono le diversioni d'acqua per acquedotti. Gemona, prescindendo dalle vecchie condutture, si provvede d'acqua potabile al rio Pozzolons, S. Daniele al Rio Gelato, Udine alle sorgenti di S. Agnese (ove rinascono o si raccolgono in galleria filtrante le acque del vicino Torre), Nimis alle sorgenti di Torlano, Cividale a quella (carsica) di Torreano, Premariacco a quella di Montina, S. Pietro a quella di Naklanz e via di seguito. Un cenno meritano forse le due derivazioni attualmente allo studio, delle quali una partirebbe dal Rio Gelato e si diramerebbe in moltissimi paesi alla destra del Torre, l'altra usufruirebbe l'acqua della sorgente Pojana già accennata e la porterebbe a Cividale ed ai paesi dei conoidi del Torre (riva sinistra) e del Natisone che sono poverissimi d'acque.

Lungo e forse fuor di luogo sarebbe tanto fare una enumerazione completa di tutte le acque utilizzate in qualche modo dall'uomo, quanto seguirne la dispersione fino alle ultime diramazioni delle condutture.

Fuor di luogo sarebbe anche trattare qui delle opere di difesa che l'uomo, ha dovuto costruire contro la violenza dei torrenti. Diremo soltanto che simili opere, nel nostro territorio, sono più che altro nel campo di Osoppo e riguardano tanto il Tagliamento quanto l'Orvenco e i minori torrentelli dei dintorni di Magnano, tutti dall'alveo pensile. Gli altri corsi d'acqua, almeno entro l'area prealpina, hanno invece il letto o nel fondo di valli o più o meno profondamente incastrato nel piano, onde raramente richiedono ripari.

[68]

IV.
ARIA E TEMPERIE

Cenni del Dott. GIUSEPPE FERUGLIO

Le osservazioni meteorologiche.

Le osservazioni meteorologiche. Le notizie che si possono dare intorno alle condizioni climatiche della regione illustrata sono poche, giacchè le osservazioni non solo scarseggiano, ma molte volte sono tali da non potersene ricavare alcuna conclusione positiva. Limitandoci al territorio entro i confini del Regno, la prima stazione meteorologica fondata nel 1876 fu quella di Cividale, per iniziativa di G. Marinelli. La stazione stessa funzionò poco regolarmente e per un periodo inferiore ai due anni. Più tardi, nel 1888, per iniziativa del Prof. Giovanni Clodig a Faedis, Gemona e Podresca vennero piantate stazioni facenti parte della rete termo-udometrica provinciale. Di esse solo la seconda funzionò per un numero di anni abbastanza lungo (19) arrivando fino al 1906; la prima cessò dopo sole due annate, la terza invece ebbe una vita di 14 anni, di cui però i primi sei come sola stazione pluviometrica, gli altri anche come stazione termometrica. I dati raccoltivi sono stati pubblicati negli «Annali del R. Istituto Tecnico di Udine» fino al 1897 dal Prof. Giovanni Clodig, dal 1898 in poi dal Prof. Nazzareno Pierpaoli[56].

[69] Verso il 1905 si vennero poi piantando dalla Società meteorologica italiana per merito specialmente del Prof. Achille Tellini[57], numerose altre stazioni e precisamente a Ciseriis, Lusevera, Monteaperta, Pradielis, Tarcento nel bacino del Torre, Montemaggiore, Oblizza, S. Pietro al Natisone, Stupizza in quello del Natisone, Montenars in quello del Tagliamento, ma alcune di esse funzionarono per tempi brevissimi mentre delle altre non sono ancora pubblicati i dati e solo si sono potuti avere dalla gentilezza di alcuni osservatori. In questi ultimi tempi ha poi provveduto all'impianto di parecchie stazioni pluviometriche, in qualche caso fornite anche di termometro a massima e minima, il R. Magistrato alle acque per le provincie venete e di Mantova.

Oltre a queste osservazioni, eseguite da enti speciali con un piano determinato e abbastanza regolari, si devono annoverare poi quelle fatte da altri enti o da singoli privati che hanno tenuto regolare nota di alcuni fenomeni meteorologici. Di tutte è stato tenuto conto, per quanto era possibile, per le conclusioni generali sul clima della nostra regione.

Vediamo ora i fatti meteorologici che maggiormente interessano.

Temperatura.

Temperatura. I dati che si hanno sulla temperatura della regione sono forniti dai 19 anni di osservazione di Gemona, e dagli 8 di Podresca. Ma purtroppo la maniera con cui furono fatte le osservazioni o meglio ancora il criterio col quale nelle suaccennate pubblicazioni i dati stessi sono stati riassunti fanno loro perdere ogni più piccolo valore quando da esso si voglia ricavare un dato sulla temperatura media delle due stazioni. Infatti fino al 1898 incluso, si è usato riportare per ogni mese esclusivamente le temperature minima e massima assolute. Voler da queste ricavare la media di ogni mese o pure anche di [70] ogni anno sarebbe cosa che molto probabilmente porterebbe ad una determinazione grossolanamente errata. Tutt'al più si possono ricavare per i singoli mesi la media delle temperature massime e minime assolute il che è appunto fatto nello specchietto seguente:

Medie delle temperature massime e minime assolute.

GEMONA PODRESCA
(17 anni) (8 anni)
massima minima massima minima
Gennaio 10,4 -5,1 11,1 -7,0
Febbraio 10,5 -5 13,9 -5,9
Marzo 15,7 -2,6 16,9 -3,1
Aprile 20,2 2,0 21,3 1,5
Maggio 25,8 5,5 25,7 4,6
Giugno 28,8 10,1 28,6 7,6
Luglio 31,0 12,4 31,8 10,1
Agosto 30,0 12,0 31,0 9,3
Settembre 26,2 8,7 28,0 8,1
Ottobre 21,1 3,6 23,2 3,4
Novembre 14,6 -1,4 16,1 -2,1
Dicembre 11,6 -4,0 12,3 -5,0

Dallo spoglio dei dati raccolti si può ricavare la media (per gli anni di osservazione di ciascuna stazione), della escursione annua della temperatura. Essa risulta per

Gemona (17 anni) 38,2
Podresca (8 anni) 41,6

La massima escursione riscontrata fu per Gemona di 44,9 nel 1901 e per Podresca di 44,2 nel 1893.

Soltanto nel 1899 si cominciò nelle due stazioni a calcolare la temperatura media mensile e quindi annuale e soltanto sui [71] dati posteriori a quell'annata sono stati ricavati i dati del seguente specchietto:

Temperature medie mensili ed annuali.

GEMONA PODRESCA
(8 anni) (3 anni)
 
Gennaio 2,898 2,950
Febbraio 3,696 3,420
Marzo 7,007 5,920
Aprile 11,061 10,283
Maggio 15,265 14,623
Giugno 19,632 18,810
Luglio 22,108 21,006
Agosto 21,543 20,280
Settembre 17,542 17,460
Ottobre 12,482 12,820
Novembre 7,601 7,943
Dicembre 4,032 4,333
 
Anno 12,445 11,666

Considerata l'altezza e la latitudine delle due stazioni da cui sono stati ricavati i dati (Gemona, altezza m. 280 circa, latitudine 46° 17′; Podresca alt. 205 m., latitud. 46° 5′) si può dire che la regione gode di un clima mite abbastanza temperato. La leggera diminuzione della temperatura media annuale che si verifica per Podresca, che, data la posizione astronomica e l'altezza sul mare di questa, dovrebbe essere invece in aumento, dipende molto probabilmente dal fatto che il paese si trova nella valle dell'Judrio battuta dal vento di bora che, provenendo da nord-est, può portare un non indifferente abbassamento di temperatura. Gli inverni non sono eccessivamente freddi, come eccessivamente caldi non sono neppure gli estati: a Gemona la minima temperatura raggiunta nel periodo dei 19 anni di osservazione fu di -11,7 (13 Gennaio 1893) e la massima di 35,2 [72] (21 Agosto 1892), a Podresca furono per 8 anni di osservazione rispettivamente di -13,9 (23 Gennaio 1901) e di 36,5 (31 Agosto 1898).

I mesi nei quali si verificano i minimi assoluti sono per lo più il dicembre ed il febbraio per Gemona, il gennaio per Podresca, quello nel quale invece si hanno le massime è per Gemona e Podresca, il luglio.

Tenendo conto soltanto delle osservazioni posteriori al 1893, si ha che i mesi più caldi sono per le due stazioni il luglio e l'agosto, i più freddi gennaio e dicembre.

Stato del cielo e precipitazioni.

Stato del cielo e precipitazioni. Molto più numerosi ed esaurienti che per la temperatura sono i dati che in vari luoghi della regione in esame sono stati raccolti intorno alle precipitazioni meteoriche.

Osservazioni sullo stato del cielo si fecero però esclusivamente a Gemona, Faedis e Podresca; esse ci danno:

STAZIONI GIORNI
sereni misti coperti
Gemona (19 anni) 111 155 97
Podresca (14 anni) 162 102 100
Faedis (3 anni) 121 163 83

Le osservazioni naturalmente non hanno che una importanza relativa essendo prese a stima dagli osservatori e quindi troppo incerte, tuttavia esse già ci mostrano come la percentuale dei giorni sereni vada aumentando da Gemona (la stazione più settentrionale) a Podresca (la più meridionale); fenomeno che si constata anche nella precipitazione e della cui causa verrà detto più avanti.

Le osservazioni sulla grandine, sulla nebbia e sulla brina, vennero fatte a Gemona e a Podresca soltanto dal 1894, esse ci danno rispettivamente per ogni anno 11 e 1 giorni di grandine, 21 e 17 di brina ed 8 e 7 di nebbia, in complesso come si vede [73] i tre fenomeni non sono molto frequenti nella regione, tranne naturalmente in certi luoghi e questo in modo speciale per quanto riguarda la nebbia, che è piuttosto frequente sul piano alluvionale d'Osoppo e nelle bassure che si trovano fra le tre cerchie dell'anfiteatro morenico.

Per quanto riguarda la caduta della pioggia si hanno osservazioni oltre che nelle stazioni, ormai tante volte citate, di Gemona e Podresca in quella di Faedis pel periodo di 2 anni ed in quella di Tarcento per 3 (1897-98-99). La media dell'acqua caduta durante l'annata è la seguente:

Gemona (19 anni) mm. 2288,4
Podresca (14 anni) » 2037,1
Tarcento (3 anni) » 1471,0
Faedis (2 anni) » 1369,3

La distribuzione mensile della pioggia nelle 3 prime stazioni è poi data dal seguente prospetto:

Pioggia mensile in mm.
 
Gemona Podresca Tarcento
 
Gennaio 96,7 80,5 48,3
Febbraio 129,9 92,7 110,3
Marzo 209,3 195,6 155,5
Aprile 210,9 188,2 75,0
Maggio 251,3 193,2 109,6
Giugno 242,4 216,4 153,0
Luglio 211,8 204,4 182,0
Agosto 182,1 138,2 129,3
Settembre 204,5 186,1 139,3
Ottobre 299,5 275,3 179,0
Novembre 199,3 143,1 69,3
Dicembre 161,9 108,5 218,6

[74] Considerando le differenti stagioni[58] si hanno i seguenti dati:

Gemona Podresca Tarcento
Inverno 288,5 281,7 377,2
Primavera 671,5 577,0 340,1
Estate 636,3 559,0 464,3
Autunno 703,3 604,5 387,6

Dall'uno e dall'altro prospetto risulta chiaro che il periodo più piovoso dell'anno è l'autunnale ed in esso specialmente il mese d'ottobre, il periodo meno piovoso è invece l'inverno ed il mese con minori precipitazioni quello di gennaio. Nel calcolo dell'acqua caduta nei mesi invernali è stata compresa anche la neve sciolta. Osservazioni speciali sulla caduta di questo elemento non sono state fatte in nessuna delle tre stazioni suaccennate, nè sulla sua altezza nè sulla frequenza, solo pel 1906 si hanno per Gemona due giornate di neve.

Il Tellini che ebbe nei suoi studî[59] ad occuparsi anche di questo elemento dà una media altezza di mm. 901 per Gemona, di 616 per Lusevera, di 207 per Faedis, di 446 per Podresca, non è però noto da dove questi dati sieno stati ricavati, non avendo la seconda delle pubblicazioni accennate in nota un opuscolo illustrativo.

In ogni modo, fatta eccezione per i luoghi elevati sul mare e per le vallate più interne, si può ammettere che la quantità inedia annuale di neve non è troppo abbondante, nè troppo frequente e non persiste nemmeno per lungo tempo sul suolo. Dalla predetta seconda pubblicazione del Tellini si può ricavare [75] che i giorni di neve sono annualmente a Gemona 7, a Lusevera 6, a Faedis 6, a Podresca 8, a Caporetto 10, a Palmanuova 7, a Gorizia 3, e che essa permane in media da 10 a 25 giorni sul suolo in quasi tutta la regione illustrata, escluse naturalmente le zone più elevate dove permane molto di più.

Ritornando alle precipitazioni acquee si deve anche ricordare come, oltre ai dati delle citate stazioni, se ne abbiano anche altri come quelli di Caporetto (mm. 2321,3 dal 1901 al 1905), Cividale (mm. 1939,0 per il 1876), Gorizia (mm. 1650,6 dal 1870 al 1901 escluso il 1880), Maria Zell (mm. 2377,3 per il 1899-1900), Lusevera (mm. 2484,3 per il 1884-85), ecc.

Tenendo presenti tutti questi dati una cosa risalta subito agli occhi; la stessa che abbiamo qui visto risaltare dal computo annuo dei giorni sereni, misti e coperti. La precipitazione va aumentando gradatamente dal sud verso il nord della regione studiata. La ragione è semplicemente rintracciabile. Come è noto sono specialmente i venti di scirocco, provenienti quindi da sud ovest quelli che portano per solito la pioggia. Arrivando in Friuli essi incominciano a incontrare le basse montagne eoceniche e poi proseguendo a nord sbattono contro alle alte catene secondarie del M. Ciampon, dei Musi ecc. le quali essendo più alte hanno un potere di condensazione molto maggiore delle prime e quindi producono via via una più grande quantità di pioggia.

Movimenti aerei. Venti e brezze.

Movimenti aerei. Venti e brezze. Le cose che anche su questo punto si possono dire non hanno una base sicura, non essendo fondate su alcuna osservazione regolare. La parte orientale della regione, specialmente quella corrispondente in senso lato al bacino del Natisone è battuta come la pianura Friulana, dalla bora, prevalentemente nell'inverno, nella quale stagione qualche volta assume una impetuosità veramente straordinaria, dal vento stesso sono invece quasi completamente esenti per le loro particolari condizioni geografiche trovandosi riparati dalle prossime elevazioni la riviera di Faedis, Tarcento e Magnano e la stessa valle del Tagliamento, nonchè l'anfiteatro morenico. In questa ultima regione è invece abbastanza comune il vento di [76] nord o tramontano che pure può soffiare con forte violenza. I venti prevalenti nelle varie parti delle nostre Prealpi sono in fondo in stretta relazione con l'orografia della regione; la completa protezione poi delle correnti settentrionali che offrono le catene più interne ad alcune aree pedemontane (la Riviera predetta, il Collio ecc.), spiegano assieme alla scarsa altezza ed alla meno alta umidità ed alle minori precipitazioni, la mitezza del clima, per cui esse meriterebbero la stessa celebrità che sotto tale aspetto già gode Gorizia. Meno mite è invece il clima appena ci si interna nelle vallate e ciò non solo per il crescere dell'altezza, ma anche per la maggiore esposizione ai venti. Fra questi vanno qui menzionate le brezze di monte e di valle, caratteristiche specialmente delle giornate calme e comunissime particolarmente nella regione corrispondente al bacino del Tagliamento, dove si presentano con sufficiente costanza e regolarità; meno notevoli, sebbene frequenti, sono nella valle del Torre, più rare in quella del Natisone. Con le brezze di valle che, come è noto, soffiano durante la parte calda del giorno, sta evidentemente in rapporto il frequente coprirsi di nubi delle creste montuose più elevate, durante le ore meridiane delle giornate serene di estate, nubi che talora danno luogo a piogge. Moti temporaleschi sono però generalmente di provenienza occidentale e si risolvono talora in grandinate devastatrici, che colpiscono specialmente la regione pedemontana.

[77]

V.
LA FLORA

Brevi cenni di MICHELE GORTANI

La flora delle Prealpi Giulie Occidentali e i suoi elementi più rari.

La flora delle Prealpi Giulie Occidentali e i suoi elementi più rari. La flora delle Prealpi Giulie Occidentali è nota solo in modo incompleto e saltuario[60]. Accanto a territori accuratamente perlustrati, come i dintorni di Gemona, S. Pietro, Buttrio, Cormons, Gorizia, S. Daniele e Fagagna, abbiamo plaghe [78] quasi ignote, come i bacini superiori della Torre, del Cornappo, del Grivò, del Corno e dell'Judri; e, dal poco che ne sappiamo, non sembra davvero che queste siano le più scevre d'interesse e povere di flora. Le nostre cognizioni son monche sopra tutto nelle variazioni e nelle piccole specie; talchè, sopra 1750 forme vegetali che sappiamo crescere spontanee nella regione considerata, appena 500 spettano a queste minori entità tassonomiche[61].

[79] Malgrado le ampie lacune, possiamo tuttavia stabilire fin d'ora le principali linee fitogeografiche del territorio. Il quale, prossimo al confine tra le due province italiana ed illirica, partecipa in varia guisa dei caratteri botanici dell'una e dell'altra; e, mentre per la sua storia neogenica e la sua vicinanza all'Adriatico serba vestigia di una già ricca flora mediterranea, le sue vicende nel quaternario antico e i legami con i massicci alpini hanno contribuito a popolarlo di elementi propri dell'alta Europa centrale.

Tali motivi, e sopra tutto la posizione geografica eccezionalmente favorevole, mentre spiegano la notevole ricchezza di flora delle nostre Prealpi[62], ci fanno pure intendere come possiamo quivi trovare e il limite orientale di diffusione di qualche forma (ad es. l'Euphorbia carnica Fiori), e il limite occidentale di altre parecchie (quali Cerastium sonticum Beck, Spiraea ulmifolia Scop., Astrantia carniolica W., Hacquetia Epipactis D. C., Rhamnus rupestris Scop., Homogyne silvestris Cass.). Vi è quindi più spiccato che non in Carnia il carattere di transizione che ha la flora dell'intero Friuli e che assume qui un particolare rilievo. Sono invece due soltanto i vegetali la cui area geografica non si estende oltre i confini della regione in esame: Gentiana rhaetica Kern. var. candida De Toni in Gort., propria dell'anfiteatro morenico del Tagliamento, e Senecio pseudo-crispus Fiori, delle colline eoceniche orientali. Accanto a questi vanno ricordati, perchè endemici del Friuli, Polygala forojuliensis Kern., Gentiana sturmiana Kern. var. pseudo-pilosa Gort., Leontodon Brumari Rchb., Hieracium Gortanianum Arv.-T. et Belli; nonchè, honoris causa, Alyssum petraeum Ard. e Medicago Pironae Vis., che, noti oggi in più larga plaga, furono scoperti quello dall'Arduino sulle rupi di Gemona, questa dal Pirona sulle rocce del Mataiur.

[80]

Le diverse zone di flora.

Le diverse zone di flora. Studiando la distribuzione verticale delle piante nelle Prealpi Giulie, vediamo rappresentate largamente quattro regioni botaniche: submontana, montana, subalpina e alpina. A queste è da aggiungere la mediterranea, cui appartiene, come i non lontani rilievi del Carso, almeno una gran parte dell'isolato Colle di Medea. Convien dir subito che i caratteri della tipica flora mediterranea sono qui attenuati, e che essa vi è prevalentemente rappresentata da elementi sparsi o da piccole colonie piuttosto che dalle associazioni sue proprie; ma non per ciò è meno interessante questa località, come la più settentrionale, forse[63], a cui giunga la flora che abbellisce le coste del mare nostrum.

La regione submontana abbraccia per intero il Coglio e l'anfiteatro morenico; comincia a restringersi nel bacino del Natisone, si riduce nel bacino della Torre, e, passato Osoppo, si assottiglia ancor più lungo il Tagliamento fino a lambire soltanto il piede delle Prealpi e a perdersi nel greto della Fella vicino alla sua confluenza. I caratteri di questa zona, varia più di ogni altra per costituzione del suolo e modellamento del rilievo, sono tutt'altro che uniformi. Intensamente coltivata nella parte più meridionale, ancora selvaggia a settentrione, coperta di castagni nell'alto Cividalese e di querceti sui dossoni aridi prevalenti a nord-ovest, talora rupestre come attorno a Gemona e sparsa altrove di paludi e torbiere come fra le cerchie moreniche, e abbellita dai due soli bacini lacustri del territorio, la regione submontana ha largamente rappresentate le più diverse stazioni, che vi si succedono e alternano in modo saltuario. Per [81] l'intervento dell'uomo, pascoli e prati abbondano, e non piccola è l'area occupata dalle colture e dalle specie arvensi e ruderali; ma il fattore antropico, a differenza di quanto avviene nella pianura, si aggiunge per lo più agli altri senza soverchiarli e lasciando così largo campo libero di diffusione alla flora spontanea. Si spiega in tal modo come nella regione submontana troviamo quasi tutte le specie più rare, interessanti e caratteristiche del territorio.

Poco minore della precedente è l'area della zona montana. Il suo limite inferiore, oscillante in generale intorno ai 400 metri s. m., si innalza talvolta fino a 500 nei luoghi meglio esposti, come a nord di Gorizia e sul monte Bernadia, e scende fino ai 250 al piede dei monti dolomitici e nelle gole chiuse, come la stretta di Pradolino. Si spinge in alto a 1500 o 1600 metri, elevandosi di rado a 1700 nelle posizioni meglio favorite e retrocedendo di qualche centinaio di metri sulle pendici più ripide volte a settentrione. È da notare la poca altitudine di questi limiti, che è generale per tutto il Friuli e si collega a tutta una serie di fenomeni e di problemi degni di studio. Ma su ciò non possiamo fermarci. Entro i confini accennati, spettano alla regione montana quasi tutte le cime meridionali a cominciare dal m. Corada, gran parte del bacino del Natisone, quasi per intero i gruppi dolomitici. L'essenza forestale dominante è il faggio, a cui si mescolano sovente larici e abeti. Presso il limite con la regione submontana, nella zona del faggio può penetrare anche in massa il castagno, come in alcuni punti del Cividalese, o sostituirsi al faggio il consorzio del pino (Pinus silvestris e P. nigricans), come sulle falde montuose che prospettano il Tagliamento. Passando alla vegetazione erbacea, va ricordato, accanto al consorzio del pino, quello della Centaurea rupestris, che, associata alla Spiraea decumbens e alla Scabiosa graminifolia dà una fisonomia caratteristica alle grandi conoidi dolomitiche. Elementi non privi di interesse ha la flora rupestre, sviluppata sopra tutto al nord; fra i prati e pascoli meritano particolare ricordo quelli del Quarnan e del Mataiur, esaurientemente studiati.

[82] A questi ultimi, sul Mataiur ove è ridottissima la vegetazione arborea e arbustacea, seguono con passaggi lenti e graduali i pascoli della regione subalpina. Essa domina in un territorio così poco esteso, da occupare, insieme con la regione alpina, 3100 appena dell'intero distretto. Le appartengono infatti soltanto le cime del Mataiur e dello Stol, e delle creste Cianipon-Gran Monte e Plauris-Musi; e solo in quest'ultima le piante esclusive della regione alpina abbelliscono le vette supreme. Si tratta però in ogni caso di associazioni vegetali povere e poco variate, anche per l'uniforme natura del suolo. Gli arbusti subalpini non dànno al Mataiur che cespugli isolati di alni; su tutte le altre montagne più alte domina il mugo associato col Rhododendron hirsutu. Molti i pascoli, ma in prevalenza sassosi e legati quindi strettamente alla flora rupicola; manca invece la vegetazione palustre. Con tutto ciò, l'insieme delle piante subalpine e alpine è tutt'altro che scarso e non privo di interesse; vi si notano elementi di rarità eccezionale, e alcuni sembrano mancare agli altri monti friulani. Così Cerastium subtriflorum, Beck, Arabis serpyllifolia Vill., Astrantia carniolica W., Hladnikia Golaka Rchb.

Relitti glaciali e mediterranei.

Relitti glaciali e mediterranei. Se è ristretto il campo ove domina sovrana la flora propria dei luoghi elevati, son però innumerevoli i punti in cui essa manda lontane propaggini o ha lasciato sparse colonie. Queste e quelle, per la loro frequenza particolare nei monti dolomitici, si possono spiegare in gran parte con la facilitata discesa offerta da simili terreni agli elementi microternaici; ma in parte devono l'origine loro anche a un altro fenomeno. Tutta quanta la zona submontana, massime nell'anfiteatro morenico del Tagliamento, è sparsa di vegetali termofughi o psicrofili (propri delle regioni montana o subalpina), che vi si trovano ora isolati, ora in gruppi e colonie anche assai numerose. Quando si noti che fatti analoghi ci mostra altresì la pianura friulana, e che perfino il nostro lido marittimo è abbellito da piante che hanno sui monti la loro abitazione consueta, non si può disconoscere a tutto ciò una causa comune. E tale causa va ricercata nella storia geologica della regione, [83] che nel quaternario antico fu invasa e ricoperta a lungo da immensi ghiacciai.

Ma prima delle invasioni glaciali le nostre colline, lambite dal mare, erano coperte da una flora di tipo piuttosto caldo; e questa flora, benchè ricacciata e in massima parte distrutta nel periodo frigido, potè in qualche punto meglio riparato resistere o rimmigrare più tardi. Testimoni di tali vicende sono alcune specie schiettamente mediterranee, che vivono tuttora sui colli di Quisca, Gorizia e Cormons, e per Albana, Faedis, Tarcento si spingono fino a Gemona lungo l'antichissima costa del golfo friulano.

[84]

VI.
LA FAUNA

Schizzo zoogeografico di ARRIGO LORENZI

La conoscenza zoogeografica delle Prealpi Giulie

La conoscenza zoogeografica delle Prealpi Giulie[64]. La fisonomia delle diverse contrade della Terra dipende da un insieme di circostanze esteriori, quali il profilo delle montagne, la colorazione del cielo, la forma delle nubi, la trasparenza dell'aria, le piante e gli animali. Così il modo di essere della natura esterna conduce la mente dell'osservatore ad avvezzarsi e a certe formule definite della vita, espresse da specie viventi in determinate condizioni, e a certi quadri complessivi risultanti dal convegno delle dette specie in uno spazio. Studiare, con la guida dei risultati della geografia fisica regionale, una regione ristretta come sede della vita animale, cioè la costituzione dei gruppi biologici della sua fauna nelle stazioni disponibili, le correlazioni spaziali di queste e la reciproca distribuzione di quelli, è il tema della zoogeografia speciale (regionale, locale), fondamento primo e indispensabile per la soluzione di più generali e vasti problemi sulla distribuzione della vita. Il metodo dello studio corologico delle faune locali è simile a quello delle flore, ma non può dirsi ancora bene stabilito.

[85] Sin dalla metà del secolo scorso non mancarono tuttavia naturalisti che si diedero a illustrare almeno parzialmente alcune faune locali, con criteri topografici e geografici: ma questo indirizzo fu quasi del tutto trascurato in Italia, dove gli zoologi [86] più spesso attesero alle pure determinazioni sistematiche, accontentandosi il più delle volte di segnalare le specie in un catalogo. Per quanto riguarda il Friuli, un primo breve sguardo sintetico alla flora e alla fauna si trova in una pubblicazione [87] del prof. G. A. Pirona, al quale si deve anche un catalogo di molluschi; dove di molte specie egli riferisce le condizioni di dimora, senza però prendere in particolare esame la distribuzione altimetrica, per cui allora mancava il sussidio delle carte topografiche con piani quotati. Questo catalogo, non è ricco di località: servì tuttavia a determinare il posto tenuto dalla fauna friulana nelle grandi divisioni della regione paleartica; posto geobiologico intermedio, precisato dalle ricerche posteriori, e che sembra anche confermato dalle ricerche del Gortani sui coleotteri e trova riscontro nella coesistenza di elementi nordici e pontici nella flora.

Caratteri zoogeografici generali delle Prealpi Giulie.

Caratteri zoogeografici generali delle Prealpi Giulie. Cinque regioni faunistiche abbastanza bene individuate s'incontrano in Friuli: la germanica, l'alpina meridionale, l'alpina orientale, la carsica e l'italica. Affinchè però non sia dato un valore troppo generale a tale classificazione zoogeografica del Friuli occorrerà tener presenti le grandi differenze che si verificano nella distribuzione geografica dei vari gruppi del sistema zoologico, rispetto a molti dei quali si richiedono ancora ricerche metodiche di specialisti.

I molluschi proprii dei paesi settentrionali d'Europa (come alcuni Limax, Conulus fulvus[65], Helix hispida, H. arbustorum, [88] H. ruderata, Balea perversa, Planorbis spirorbis, Pl. rotundatus, alcune Limneae, Pisidium pusillum) si trovano nelle Prealpi Giulie insieme a specie della regione mediterranea (come alcuni Zonites, Pomatias, Cyclostoma elegans, alcune Clausiliae, del qual genere vi è gran numero di specie in Friuli e nelle contigue province orientali) e a specie dell'Europa orientale (Helix solaria, H. candicans, H. austriaca, Bulimus quinquedentatus, Clausilia filograna). Altre specie sono invece ristrette all'Italia settentrionale o alla regione alpina in senso largo: Vitrina elongata, Buliminus tridens, Helix personata, H. ciliata, H. fruticum, H. intermedia, Clausilia ventricosa, alcune Pupae ecc. ecc. Il genere Horatia, della penisola balcanica, è nella valle del Natisone rappresentato da un particolare sottogenere (Hauffenia) che con H. Tellinii e H. valvataeformis costituisce un notevole endemismo: anche Paludestrina forojuliana e Acme Pironae, come le due precedenti, descritte dal dott. C. Pollonera, sono proprie delle nostre prealpi. A esse si possono aggiungere le specie cavernicole esclusivamente friulane, che saranno nominate più avanti.

Siffatti convegni di forme provenienti da diversi centri dispersivi sono il risultato di cause molto complesse, che agirono lungamente e variamente, e per le quali la regione friulana assunse l'attuale fisonomia fisica e biologica. Così, analogamente a quanto fu già dimostrato per la flora friulana e dallo Heer per la flora e per la fauna svizzera, la presenza di molluschi nordici nelle nostre prealpi, ai quali si possono aggiungere alcuni [89] coleotteri (Harpalus laevicollis, Oreina tristis, O. gloriosa ed altri) sembra non potersi attribuire se non alle antiche glaciazioni, che della loro esistenza, insieme alle morene ed ai massi erratici, lasciarono testimoni piante ed animali che giustamente furono chiamati erratici[66]. In complesso però l'epoca quaternaria è ben lungi dal determinare un hiatus tra la fauna attuale e le precedenti, colle quali è intimamente collegata; la distribuzione di molti gruppi zoologici inferiori risalendo a remoti periodi geologici. Ma non è questo il luogo di trattare delle vicende geologiche e climatiche del Friuli e delle ardue questioni zoogeografiche che vi sono connesse.

Ci limiteremo invece ad osservare come, assai meglio dei mobilissimi e molto diffusi omotermi o dei pochi vertebrati eterotermi, a caratterizzare nettamente la fauna locale servirebbero molti gruppi di invertebrati che sono ricchi di specie, compiono movimenti più o meno lenti e sono più intimamente legati ai molteplici fattori della dimora e del clima. Li additiamo alle ricerche dei giovani alpinisti; per i quali in queste pagine non intendiamo certo di presentare una sequela di tanti nomi scientifici quante sono le specie del paese; bensì di tratteggiare rapidamente, servendoci anche di qualche notizia inedita, le condizioni di habitat; affinchè il dilettante o lo studioso, con la scorta della bibliografia regionale, possa tener presente sotto quali condizioni varî la distribuzione degli animali e delle loro [90] comunioni, e quali, per intenti così generali come speciali, siano le stazioni ove rivolgere le ricerche[67]. E come l'artista getta su un foglio uno schizzo, qua con linee nette e precise, là ancora incerte e indefinite, e attende un miglior momento per la sua concezione, così la zoogeografia deve oggi accontentarsi di trattare a grandi linee, e con diversa misura, dei gruppi zoologici delle Prealpi Giulie, perchè non debba un giorno pentirsi della smania di concludere.

Zone ipsometriche e planimetriche. Gruppi biologici e loro gradi.

Zone ipsometriche e planimetriche. Gruppi biologici e loro gradi. Accanto a specie animali ristrette a determinate zone altimetriche dei nostri monti, ve n'ha delle altre che si mostrano indifferenti a condizioni di clima molto diverse. Di queste specie localmente estese, citeremo alcuni esempi: la Daphnia obtusa, piccolo crostaceo, dagli stagni presso Udine (m. 100) sale a m. 1702 sulle Alpi Gortane; Polyphylla fullo, il grosso maggiolino marmorato, in Friuli vive tanto nelle basse pianure quanto presso i ghiacciai del m. Canin (m. 2130); le vitrine, piccole conchiglie sottili e pellucide, dalla pianura salgono ad altitudini considerevoli, fino a strisciare sui nevai; l'ululone Bombinator igneus si trova nelle pozze di pianura e nell'alta montagna; la lucertola, Zootoca vivipara ha un'analoga distribuzione.

Ma simili casi di specie che si direbbero resistenti, perchè ubiquitarie, non sembrano essere molti: in generale le parti alte dei monti escludono molte specie delle regioni basse, talvolta sostituendole con altre strettamente affini, sì da aversi anche, dal basso all'alto una seriazione di forme affini (p. es. farfalle del gen. Parnassius); in generale ogni specie ha un limite altimetrico superiore (e spesso anche inferiore) cioè abita una determinata zona ipsometrica conveniente alle sue esigenze biologiche, rispetto ai varî fattori climatici, topografici ed [91] edafici[68]. Questo in tesi generale: uno spigolo montuoso sufficientemente alto, ha le sue falde fasciate da tali zone ipsometriche della vita, che nelle Prealpi Giulie si presentano nettamente nelle catene interne, nelle quali è spiccato il contrasto biologico tra le parti più basse e le più elevate. Ma se consideriamo la distribuzione della vita nell'insieme della regione montuosa qui esaminata, vediamo che sulla ripartizione in zone altimetriche prevale quella in zone planimetriche, dall'esterno verso l'interno, in corrispondenza alle tre zone geognostico-tectoniche distinte dal prof. O. Marinelli[69]. Oltre alle molteplici azioni esterne attuali, entrano a complicare la distribuzione altimetrica, togliendo anche ai limiti il carattere della fissità rigorosa, le peculiari e svariatissime attitudini biologiche delle specie (prima fra queste attitudini la facoltà di moto), dipendenti dalle organizzazioni e funzionalità tanto diverse per grado di complicazione e per varietà di adattamenti. Gli aspetti di quel complesso poliedro che è la vita animale, non possono restringersi in definizioni unilaterali dei limiti altimetrici o nel semplicismo delle cause: la molteplicità e interferenza di queste, la reciprocità fra esse e i loro effetti, esigono che nello studio delle variazioni corologiche, come in quello delle somatiche, si tenga presente e si scruti un gran numero di fatti. Diremo brevemente che tutti gli animali, la cui esistenza è in qualche modo subordinata a tutto un insieme di determinate condizioni esterne, variabili essenzialmente nel caso nostro, con l'altitudine e dall'esterno all'interno della regione montuosa, si daranno convegno nella stessa zona, di cui si ripartiranno la dimora, formando così comunioni (biocenosi), abbastanza ben definite da una sorta di equilibrio biologico. Nelle Prealpi Giulie, in relazione allo stato attuale delle nostre cognizioni e provvisoriamente, [92] possiamo distinguere tre zone o regioni corrispondenti a tre biocenosi fondamentali: 1º regione delle colline pedemontane; 2º regione degli altipiani; 3º regione delle creste o culminale. Nella prima comprendiamo non solo le vere e proprie colline pedemontane, ma anche l'anfiteatro morenico del Tagliamento, e i rilievi più bassi delle due zone interne; nella seconda oltre agli «altipiani submontani» anche la zona delle medie altezze più interne, nella terza le parti cacuminali delle montagne più elevate. Queste tre regioni esprimono in modo sintetico un complesso di fattori climatico-edafici, dai quali, perchè fissa al suolo, è influenzata intensamente la vegetazione, con cui l'animalità vive, per così dire, consocialmente. La regione delle colline corrisponde alla regione fitogeografica della quercia, del castagno e dell'orno; quella «degli altipiani» principalmente alla zona del faggio; quella culminale alla zona degli arbusti alpini. In ciascuna regione ci accontenteremo di distinguere gli animali terragnoli dagli animali acquatici, accennando, secondo l'opportunità, alle distinzioni di gruppi biologici minori: nelle biocenosi dei terragnoli potremmo distinguere i boschi fitti e radi, i prati secchi e umidi, i greti asciutti e le rupi, tenendo conto della insolazione, della ventilazione, ecc.; e potremmo passare a distinzioni di terzo e quarto grado fino a considerare separatamente, per esempio, nei boschi gli alberi, il sottobosco, il suolo; e poi le cortecce, i tronchi infraciditi, l'humus, i muschii, i sassi smossi, i fiori, come altrettante sedi particolari di insetti, miriapodi, onischi, aracnidi, molluschi, con tutta la varietà più o meno legata a quelle condizioni tanto speciali, di animali superiori, dalle vipere insidiose agli uccelli canori. Altrettanto potremmo fare per la stazione acquatica e distinguere non solo le acque stagnanti, le sorgive e le correnti, ma dalle stazioni intermedie con le terrestri (terricoli, muscicoli, limicoli) passare alla stazione riparia con le sue numerose gradazioni e varietà, per considerare poi le acque libere in uria infinità di contingenze. E, in tutte queste diverse condizioni di ambiente, vedremmo animali fitofagi (p. es. di certe crittogame, di radici o tuberi, di legno, di foglie normali o florali, [93] di nettare, di frutti ecc.), animali che tramano insidie, esercitano violenze sopra altri e li divorano, animali che costruiscono difese contro i nemici, che si riparano contro l'inclemenza delle stagioni, che presentano curiose armonie di colorazione con l'ambiente, che sono gregarî o solitarî, che presentano singolari fenomeni di sviluppo, che abbandonano i loro nati o invece li guidano e li allevano, e via via, pur senza entrare a discorrere delle specie men note o delle questioni meno facili di biologia. Ma non occorre essere naturalisti, per veder subito la vastità e complessità di tali quadri biologici, per i quali potrebbe essere insufficiente un grosso volume.

Zona pedemontana.

Zona pedemontana. Nella regione pedemontana comprendiamo le colline più basse, dal Collio all'anfiteatro morenico, fino ai limiti della quercia e del castagno che sono le essenze vegetali caratteristiche di questa zona, limiti che qua non sono superiori ai 300 m. là possono attingere i 600 metri. Notiamo subito che l'anfiteatro morenico, come si distingue dai rilievi d'origine marina per la natura geologica e per le condizioni topografiche che ne sono la conseguenza, e ha particolari caratteri fitogeografici, così anche sotto l'aspetto faunistico, per ripercussione delle predette circostanze, merita di essere considerato a parte. Particolarmente le numerose basse raccolte d'acqua in diversi stadî di evoluzione (laghi, pozze, torbiere) recinte dalle morene, assai ricche di crostacei, insetti, molluschi e vertebrati acquatici, formano un vero contrasto biogeografico tra la regione morenica e l'attigua regione prealpina propriamente detta, priva, può dirsi, di cavità limniche. Anche il lago di Ospedaletto, scavato nei calcari giuresi dall'antico ghiacciaio, subito a nord dell'anfiteatro morenico, e di carattere stagnale, può includersi nell'aggruppamento zoogeografico delle colline glaciali.

Molte e svariate sono le forme riparie che trovano alimento e albergo tra gli anfibiotici canneti marginali: le succinee, i carichii tra i molluschi gasteropodi; esapodi quali parnidi, Donacia sericea, reticulata, typhae, alcune larve di lepidotteri; efemere Libellula, Agrion, Lestes barbara, Diplax flaveola, Gomphus vulgatissimus [94] ed altri insetti le cui larve vivono nell'acqua; in questa, tra le idrofite marginali, si agita un minutissimo microcosmo di entomostraci, alcuni dei quali limicoli, di briozoi, vermi (naidi, gordiidi) che darebbero molto da fare allo specialista. Sulle rive della piccola pozza a nord di Ceseretto, origine di un ramo della Lavia, tra le foglie infracidite raccolsi in dicembre il Trichoniscus pusillus Bd. L., piccolo crostaceo isopodo. I coleotteri acquatici (Diticus marginalis, D. circumflexus; Graphoderes austriacus, Acilius fasciatus, Hydrophilus piceus, Gyrinus natator); e i rincoti acquatici (Corixa Geoffroyi, C. striata Latr., Notonecta glauca Fab., Gerris paludum Latr., Gerris lacustris Latr.) sono cumuni nelle pozze anche artificiali; coi gasteropodi dei generi Limnea, Paludina, Planorbis, Physa; le bivalvi Unio pictorum e Anodonta cygnea trovansi nelle maggiori raccolte d'acqua. Le acque delle sorgenti e dei ruscelli limpidi albergano un'idracna (Lebertia insignis), molti crostacei del genere Gammarus assai diffuso in Friuli dalla bassa pianura ai laghi alpestri; lungo le rive dei canali un emittero (Velia currens Latr.); i gammari si trovano anche nel canale del Ledra, mentre l'Asellus aquaticus preferisce acque lente o stagnanti dove talora si trova in gran numero. Il lago torboso di San Daniele ha un notevole specchio di acqua libera e una profondità discreta, cosicchè offre albergo non soltanto a specie riparie, ma anche a specie limnetiche (pelagiche): Ceratium furca, Cyclops minutus, Diaptomus gracilis, Bosmina longirostris; mancherebbero, secondo il Senna, le forme pelagiche tipiche. Il lago di S. Daniele alberga anche parecchie specie di pesci: Anguilla vulgaris, Tinca vulgaris, Alosa vulgaris, Alburnus alborella, Scardinius erythrophthalmus, Leuciscus Aula, Petromyzon Planeri, Squalius cavedanus, Cottus gobio, Barbus plebeius; alcune di queste, insieme a poche altre, si trovano in altre acque dell'anfiteatro, che per la povertà di rivi perenni esclude le specie che amano le correnti ricche e profonde. Il fiumicello Ledra della pianura a nord dell'anfiteatro mette foce nel Tagliamento e ne ricetta alcune specie (trota, temolo) che si pescano anche nella derivazione. Il lago di Ospedaletto, pochissimo profondo e [95] ricco di idrofite, ha una fauna stagnale caratteristica. Compiono il quadro delle stazioni acquatiche gli anfibi schiettamente acquaioli (Triton punctatus e taeniatus, Rana esculenta); accanto ai quali possiamo porre quelli il cui sviluppo avviene nell'acqua e che abitano i luoghi umidi (Rana Latastii, Bufo cinereus, Salamandra maculosa) sono pure frequenti le biscie d'acqua (Tropidonotus natrix e Tropidonotus tessellatus). Stazionarie o di passaggio si notano parecchie specie di uccelli che vivono lungo le ripe Alcedo hispida, Acrocephalus arundinaceus e parecchi trampolieri o che hanno speciali disposizioni per il nuoto come le anitre selvatiche e i tuffetti.

Nella regione eocenica le stazioni d'acqua corrente (superficiali e sotterranee) predominano sulle limniche, le quali si riducono alle piccole bassure paludose, prive di torba, alla periferia dei colli e alle pozze artificiali che in molti luoghi, specialmente nel Collio ed altri punti della zona marnosa, suppliscono alla deficienza di sorgenti e di pozzi. Il ciprino dorato della Cina (Carassius auratus) si è acclimato qua e là negli stagni della regione eocenica; presenta un grande numero di variazioni. Tra le specie legate alla presenza delle acque nella regione pedemontana ricorderemo Rana agilis, e Bufo viridis, specie questa in Friuli, a quanto pare, piuttosto rara, mentre è comune in altre province del Veneto.

I luoghi ombrosi ed umidi sono generalmente la dimora di molti molluschi terrestri; alcune specie però si trovano anche sulle rupi soleggiate, come Helix (Xerophila) unifasciata, H. obvia, Pupa secale, Clausilia binotata. Nella zona pedemontana è notevole il fatto che alcune specie di molluschi rimangono confinate nelle colline eoceniche fra Natisone e Isonzo, mentre altre si trovano nell'area occidentale dalla valle del Cornappo o del Torre all'anfiteatro morenico: facendo attenzione alle molte località date dai cataloghi, sembra risultare che le forme nordiche ed alpine si presentino specialmente nella regione morenica. Invece le specie politiche e nordorientali vivrebbero nella plaga più a levante: nel bacino Torre-Natisone passerebbe pertanto una linea zoogeografica importante, come termine d'area di specie [96] orientali: analogamente sulla collina di Buttrio passa il limite occidentale della Hacquetia Epipactis, pianta della regione pontica. È un fatto che merita ulteriori ricerche.

Lasciando ciò che si riferisce alla distribuzione orizzontale, per riguardo a quella verticale diremo che la regione pedemontana ha molte specie d'insetti comuni con la pianura. Ne fanno fede, tra i lepidotteri: Papilio Podalirius L., P. Machaon L. (che sembra elevarsi più del precedente), Aporia crategi, varie Pieris, Colias Edusa Fabr., Polyommatus virgaureae L., Tecla rubi L., Lycaena Icarus Rott., alcune Vanessae (atalanta, antiopa, urticae). Invece Anthocharis cordamines L., Leucophasia sinapis L., Colias Hyale L., Rhodocera rhammi L., Polyommatus Phleas L., Erebia Medea W. V., Epinephele Janira L. si spingono alquanto al di sopra della regione pedemontana, la quale rispetto alla montana, non presenta neppure riguardo ai coleotteri, secondo il Gortani, nette differenze. I boschi sono poveri di coleotteri, le ricche associazioni di coleotteri floricoli della pianura si riscontrano anche nei prati secchi delle colline pedemontane, dove si notano quasi gli stessi neurotteri ed ortotteri: lo studio accurato della dott. Mei si riferisce tutto alle prealpi Giulie da Gorizia a Gemona, ma il numero delle località e delle specie non permette conclusioni di corologia altimetrica. Tra i fiori pratensi ronza una schiera svariatissima di insetti d'altri ordini, dei quali finora si sa assai poco: l'entomologia friulana, considerata non come un'arida ricerca fatta con criterî da raccoglitore di francobolli, ma intesa sotto il duplice aspetto corofenologico offre un campo interessantissimo quasi del tutto inesplorato.

La fauna pedemontana dei vertebrati oltre ai pesci ed anfibi già nominati, annovera alcuni rettili, dei quali si dirà più avanti, e parecchie specie di uccelli, sedentarie (come Accipiter nisus, Syrnium aluco, Corvus corone, cornix, frugilegus); estive (Coracias garrula, Oriolus galbula, Iynx torquilla, Silvia nisoria, Lanius rufus, Columba oenas, livia ecc.). Alcune altre come Garrulus glandarius, Picus major, Sitta europaea, Parus major, P. coeruleus, Turdus viscivorus, musicus, Fringilla coelebs, Ligurinus [97] chloris; Hirundo rustica, Muscicapa grisola, Lanius collurio, Columba palumbus ecc. si trovano anche nella regione montana. Dei mammiferi si dirà complessivamente trattando di quest'ultima.

Zona montana. Mutamenti della fauna dovuti all'uomo.

Zona montana. Mutamenti della fauna dovuti all'uomo. La regione montana (degli altipiani), può ritenersi compresa fra i 500-600 m. e i 1500-1600 m. è fitogeograficamente distinta dall'associazione del faggio, ma può poco nettamente separarsi dalla regione inferiore: queste due zone sfumano l'una nell'altra, e i loro contrasti corologici si notano tra le quote estreme. I luoghi montani scoperti, come nella zona pedemontana, sono in gran parte dovuti al disboschimento, per il quale l'uomo ha in qualche luogo del tutto sostituito alle associazioni arboree le coltivazioni e i prati, alterando l'economia delle biocenosi originarie: così, ad esempio, dovette diminuire il numero degli uccelli silvicoli; e i gruppi biologici degli insetti pratensi dovettero estendersi grandemente. Inoltre l'uomo ha distrutto a poco a poco molte specie di vertebrati pericolose e dannose ed ha diminuito di assai la selvaggina, mentre ha introdotto specie domestiche, estranee alla fauna regionale.

Un'idea della vertebro-fauna originaria, molto più ricca dell'attuale, ci può essere data dai recenti reperti d'avanzi di mammiferi nelle grotte abitate dall'uomo neolitico, dove accanto a specie domestiche (cane, gatto, capra, pecora, bue, maiale) s'incontrano i resti di prodotti della caccia. Il cervo e il cinghiale della grotta Velika ci fanno pensare ad un paesaggio prealpino ben diverso dall'attuale; così ad un ammanto d'alto fusto sugli elevati dossi delle montagne, come a folte macchie scendenti a confondersi nelle distese paludose, alla periferia dei colli. Altri reperti delle grotte sono di specie ancor oggi viventi (lepre, ghiro) o divenute rare (gatto selvatico) o di recente scomparse (lupo). Gli avanzi dell'orso delle caverne (Ursus spelaeus Blum. et Ros. e U. minor) trovati nelle grotte di Viganti e S. Giovanni d'Antro, ci riconducono alle specie estinte, ancora poco note in Friuli. Meritano speciale menzione i resti di marmotta (Arctomys marmotta L.). secondo il prof. Gortani, di tipo antico: [98] questa specie, se ancora esiste nelle nostre prealpi, deve trovarsi confinata nelle parti più elevate, come doveva esserlo già all'epoca neolitica, in seguito al definitivo ritiro dei ghiacciai che seguì quello dei limiti altimetrici della vita. Dell'attuale fauna mammalogica pedemontana e montana si conoscono le seguenti specie: Myoxus glis, Sciurus vulgaris, Lepus timidus, Mus amphibius, Mus musculus, Arvicola arvalis, Talpa europaea, Erinaceus europaeus, Sorex araneus, S. fodiens, Vespertilio noctula, murinus, Vesperugo serotinus, Plecotus auritus, Rhinolophus ferrum equinum, R. hipposideros; Meles taxus, Mustela martes, M. foina, M. vulgaris, M. putorius. Il vero gatto selvatico non è ancora scomparso dal Friuli: recentemente ne fu ucciso uno nei dintorni di Pontebba. La lontra (Lutra vulgaris) si trova lungo il Natisone e qua e là in tutta la regione prealpina e morenica. La lince e l'orso sono del tutto scomparsi come il lupo: questi carnivori delle Alpi, presenti in Europa ancor prima dell'epoca glaciale, giungevano un tempo sino alla regione dell'olivo: perseguitati dall'uomo, ne furono respinti nei recessi delle nostre valli e snidati infine anche da queste. E giacchè abbiamo incominciato dai mammiferi, continuiamo dicendo degli altri vertebrati della regione montana. Tra le specie di uccelli sedentarie nella regione montana citeremo Buteo vulgaris, Bubo maximus, Dryocopus martius, Troglidytes parvulus, Regulus flavicapillus e ignicapillus, Dandalus rubecola, Lullula arborea, Parus ater, P. cristatus. La maggior parte delle specie montane scende a svernare al piano, mentre altre specie sono soltanto estive e per la zona montana considerata e per l'intero Friuli. Tra queste menzioneremo: Phyllopneuste sibilatrix, Ph. trochilus, P. acredula, P. Borelli, Sylvia curruca, S. hortensis, Monticola cyanea, M. saxatilis, Arthus arboreus, Agrodroma campestris, Pyrgita petronia (sedent.?), Chrysomitris spinus, Serinus hortulanus: esse si spingono sino a circa 1000 m. di altezza.

Tra i sauri si annoverano: Lacerta viridis e Anguis fragilis in molte varietà di colorito, Zootoca vivipara che si spinge anche nella zona culminale, Podarcis muralis di cui sono notevoli [99] le varietà dal ventre rosso, Zamenis viridiflavus, con la varietà carbonarius, si trova tanto nelle parti basse quanto nelle montane; così gli altri due serpenti innocui Coronella austriaca e Callopeltis Aesculapi. Ma il fatto senza dubbio più interessante nella corologia dei rettili è la presenza di tre serpenti velenosi: la vipera del M. Corno presso Purgessimo è Pelias berus; nel Cividalese si trova anche la Vipera aspis; la terza specie è così ben distinta da caratteri rilevati anche dai nomi volgari, che sembra impossibile sia stata confusa con le altre due: la Vipera ammodytes ha il capo nettamente cordiforme, con all'apice una verruca conica. L'esemplare che conservo al liceo di Rovigo proviene dal Monfalconese, ha il tronco superiormente marezzato di cinereo e bruno, inferiormente grigio acciaio, l'apice della coda rossastro: la striscia dorsale è fatta di macchie romboidali leggermente nere col margine fortemente segnato, oblique rispetto all'asse del corpo, tra loro parallele e unite dai vertici appuntiti. Degli anfibi anuri già presenti nella zona submontana alcuni si elevano alquanto nella regione montana come la Rana esculenta, superata però dalla Rana muta. Un notevole abbassamento ha il limite inferiore del Triton alpestris, la cui forma branchiata fu trovata dal Lazzarini presso Tarcento a circa 250 m. sul mare.

Quel fenomeno che alcuni autori hanno chiamato abbassamento dei limiti altimetrici nelle nostre prealpi è del resto, come s'è già detto, già da tempo dimostrato per le piante e recentemente constatato per i coleotteri, dei quali alcune specie (Harpalus luteicornis, Aphodius fossor, Geotrupes autumnalis, Athous aterrimus, Otiorrhyncus bisulcatus var. longicollis) alla stretta di Pradolino furono dal compianto ing. Luigi Gortani trovate più in basso del consueto. Analogamente si comportano le farfalle: Parnassius Apollo fu da me trovato in val del Torre, appena a 300 m. d'altezza, nell'agosto del 1892. Tra gl'invertebrati terrestri della regione montana è da ricordarsi la Clausilia ventricosa, mollusco caratteristico delle faggete. Alcuni ortotteri e rincoti, araneidi e falangidi potrebbero menzionarsi; ma qui non facciamo un catalogo; e in uno studio come questo è necessario [100] lasciar da parte ciò che per ora non si presta a considerazioni corologiche.

Corsi d'acqua prealpini.

Corsi d'acqua prealpini. E veniamo alla stazione acquatica superficiale della regione montana: della sotterranea parleremo trattando della fauna oscuricola. Fatta eccezione delle pozze e bassure giacenti alla periferia dei colli, ancora poco note, e delle raccolte d'acqua artificiali, che suppliscono alla scarsità delle sorgenti e dei pozzi, le acque superficiali sono tutte correnti. Le acque fredde e calcaree dei rapidi e sassosi corsi superiori offriranno certamente allo specialista una messe ricchissima d'invertebrati: là sono da studiarsi i tipici rappresentanti delle forme torrenziali: larve d'insetti, idracnidi, crostacei e turbellari. Le sorgenti montane poi albergano molluschi (Bythinia Lacheineri ed altre) gammaridi ed entomostraci; meritano poi speciale attenzione le uscite a giorno dei ruscelli delle caverne.

I corsi d'acqua della regione prealpina, eccettuati alcuni brevi affluenti di sinistra del Tagliamento, sono tutti affluenti di destra dell'Isonzo: quantunque siano alimentati da una ricca ed ampia superficie imbrifera, la infiltrazione li esaurisce ben presto quando entrano nella ghiaiosa pianura pedemontana, nella quale gli ampi alvei, normalmente asciutti per parecchi chilometri, dopo le piogge e gli acquazzoni montani sono caricati da enormi masse d'acqua torbida ed effimera. A tali condizioni è da attribuirsi non solo la mancanza o rarità dei pesci migranti che pur si trovano nell'Isonzo e ne' suoi affluenti di sinistra, ma anche la esclusione di molte specie puramente fluviatili, generalmente comuni nell'Italia settentrionale. Le specie di pesci si riducono a 13: Anguilla vulgaris (assai rara, è l'unica migratrice), Salmo fario, Tinca vulgaris, Barbus plebeius, Alburnus alborella, Squalius cavedanus, Phoxinus laevis, Chondrostoma Genei, Cobitis barbatula, C. taenia, Cottus gobio, Gobius fluviatilis, Carassius auratus acclimato qua e là negli stagni. Tutte queste specie si trovano negli affluenti di sinistra o nell'Isonzo stesso che complessivamente ne alberga 43, delle quali quindi appena il 30,2 per cento si trova nel bacino di destra Torre-Natisone. La forma fluviale della trota se non manca [101] nelle parti basse, caratterizza però le parti più elevate dei bacini idrografici; anche il Phoxinus si spinge talora molto in alto si trova nelle sorgenti e ne' ruscelli montani e subalpini, come pure nel laghetto inferiore del monte Krn (m. 1383). Il barbo è invece più proprio delle parti meno elevate del corso del Natisone. Questi fatti accennano chiaramente alla legge ittiocorologica del von der Borne, già riscontrata per molti fiumi delle Alpi. Ma un fatto ben più importante è quello della stretta somiglianza che presenta la fauna ittiologica del bacino dell'Isonzo con l'attiguo della Sava. Se si prescinde dalle specie migranti dell'Adriatico e del Mar Nero, naturalmente diverse, e si considerano attentamente le altre, si trova che a molte specie proprie di un bacino corrispondono delle affinissime nell'altro, dello stesso genere. Tale è il caso di alcuni ciprinidi, che anzi dai moderni non si considerano più come specie distinte. Da tali fatti il Glowacki conclude che le due faune debbano avere un'origine comune: esclude in generale la possibilità di una migrazione e crede che l'affinità stretta delle due faune non possa spiegarsi se non in base ai risultati paleogeografici e paleontologici. Verso la metà dell'èra terziaria, l'Europa era un arcipelago di grandi e piccole isole separate da bracci di mare. Una parte dell'ittiofauna d'acqua dolce di allora, proveniva da un'età più antica (cretaceo, eocene), un'altra invece apparve nel miocene e si distinse in una serie multiforme: nell'insieme la ittiofauna terziaria dell'Europa era essenzialmente simile all'attuale e i bracci di mare facilitarono la sua dispersione da isola a isola. Verso la fine del terziario si compì il lavoro delle forze che eressero la chiostra alpina, determinando la principale linea di spartiacque dell'Europa centrale e separando l'ittiofauna d'acqua dolce mediterranea da quella pontica, l'una e l'altra più antiche dei rispettivi bacini idrografici. A simili conclusioni si giunse con lo studio della fauna dei molluschi, dei quali molte specie comuni ai due versanti delle Alpi Orientali hanno una distribuzione più antica del corrugamento alpino.

Zona culminale.

Zona culminale. La zona superiore ai 1700 metri forma delle [102] aree disgiunte comprendenti le parti cacuminali delle catene Plauris-Musi-Tasajaur; Gran Monte-M. Maggiore; M. Ciampon; M. Matajur. Questa zona culminale è fitogeograficamente distinta dai pini mughi, dai rododendri e dai ginepri nani, corrisponde cioè alla regione botanica degli arbusti alpini o «subalpina», dove si fa già sentire l'influenza del clima delle zone elevate. Il livello infatti delle massime condensazioni rimane certo al di sotto delle zone culminali, dove appaiono i consorzî di xerofite. La siccità delle parti elevate dei monti, per la quale (congiunta alle oscillazioni termiche) queste presentano riscontri con la steppa, è un fattore geobiologico tutt'altro che trascurabile; diminuzione rapida delle precipitazioni oltre una certa altezza, diminuzione della pressione atmosferica, diminuzione della temperatura, variabile con lo stato igrometrico e la nebulosità, aumento delle differenze termiche fra il giorno e la notte, fra i luoghi a bacío e a solatío: tali i caratteri del clima culminale, i quali si estrinsecano nella fisionomia spiccata della fauna, che per certi riguardi richiama quella polare, per altri quella insulare: ma l'azione singola dei detti fattori climatici sugli animali, complicata dalle condizioni di alimentazione e da quelle topografiche fisiche e chimiche del suolo, è quasi del tutto sconosciuta per la difficoltà o l'impossibilità di studiarne separatamente gli effetti. Nelle parti cacuminali può vivere l'ovovivipara Salamandra atra; priva di ogni legame con le raccolte d'acqua ove si sviluppano i suoi affini, s'incontra nei giorni piovosi qua e là sulle creste, verso i 1800 metri. Nelle pozze dovute a qualche sorgente o all'arte s'incontrano il tritone alpestre e l'ululone, il quale ultimo con la Rana muta rappresenta in questa zona gli anfibi anuri. L'avifauna, secondo le particolari informazioni favoritemi dal distinto ornitologo signor G. Vallon, annovera: Gyps fulvus (raro), Aquila crysaëtos (rara), Pyrrhocorax alpinus, P. graculus, Corvus corax, Tichodroma muraria, Accentor alpinus, Merula torquata, Anthus aquaticus, A. pratensis, Montifringilla nivalis, Lagopus alpinus (quasi completamente candido d'inverno), Perdix saxatilis. Queste specie sono sedentarie per il Friuli; ma relativamente alla [103] zona cacuminale non tutte, nè in tutti gl'inverni. Così alla fine d'ottobre del 1908 mi consta che un grifone (Gyps fulvus) fu catturato in basso, a Torreano di Cividale; il corvo e la ticodroma citati scendono anche molto in basso negl'inverni rigidi; i due gallinacei si abbassano negl'inverni nevosi; i due Anthus vanno in gran numero a svernare nella regione litoranea. Le specie estive della zona superiore ai mille metri sono, secondo il Vallon, Cypselus melba, Hirundo rupestris, Ruticilla titis, Pratincola rubetra, Saxicola Oenanthe, Linaria rufescens, Pyrrhula europaea, Eudromias morinellus.

Tra i mammiferi d'alta montagna è accertata la presenza del camoscio Rupicapra europaea, del capriolo, Cervus capreolus, della lepre alpina, Lepus variabilis, dell'ermellino Foetorius Erminea: i due ultimi presentano il cosidetto albinismo di stagione.

Pochissimo conosciuti sono invece gli artropodi delle zone elevate, mentre meriterebbero serio studio per la grande quantità di questioni biologiche e geografiche che essi presentano. Le farfalle, perchè facilmente richiamano anche l'attenzione dei profani, sono particolarmente raccomandabili agli alpinisti ed ai dilettanti: esistono forme a colori scuri (melanotiche) tra i nostri lepidotteri d'alta montagna? P. es. la fauna dei Pirenei, secondo Harcourt-Bath, è priva di forme melanotiche, mentre in altre montagne europee sono state segnalate interessanti varietà dai colori scuri. Le tinte scure degli insetti d'alta montagna non sembrano costituire quella regola generale che Heer ammetteva: così i rincoti (Gerris) dei nostri laghetti e delle pozze d'alta montagna hanno tinte relativamente chiare, mentre i colori scuri si riscontrano frequentemente nei coleotteri.

Anche i molluschi terrestri delle cime prealpine sono poco conosciuti; il Pirona però ha segnalato, come propria delle elevate cime calcaree, la Helix (Campylaea) phalerata Ziegl., la quale specie, certamente non artica, secondo la verosimile spiegazione del Kobelt, deve considerarsi come uno di quei relitti glaciali che, derivati da specie preesistenti adattatesi al freddo, seguirono poi il regresso dei ghiacciai, sopravvivendo nelle [104] nostre disgiunte aree culminali al definitivo mutamento climatico.

Le caverne e le acque freatiche.

Le caverne e le acque freatiche. Un cenno a parte, come ben distinta è la natura dell'ambiente, deve farsi della fauna oscuricola, cioè delle caverne e delle acque freatiche: in queste ultime è notevole un crostaceo cieco, Niphargus dolenianensis, del pozzo co: Trento di Dolegnano, recentemente trovato anche nel Covolo della Guerra (Euganei)[70]. Crostacei ciechi (troglobii) si trovano anche nelle numerose caverne delle Prealpi Giulie: alcuni, molto piccoli, del gruppo degli oniscidi, appartengono certamente al genere Trichoniscus e si trovano nelle grotte di Villanova, Robie, Ciastita e Clenia. La specie acquatica più interessante è quella descritta dal dottor G. Feruglio, e dall'Alzona prima e dal Racovitza poi, riferita al genere Monolistra. Sono poi di grande importanza le scoperte malacologiche fatte dal dott. Pollonera nelle posature (in friulano menadizzis) del Natisone; Zospeum isselianum, Z. Tellinii, Z. venetum, Z. lyratum, provengono indubbiamente dagli scoli delle grotte dell'alta valle del Natisone: tale genere di molluschi veniva, su materiale friulano, per la prima volta segnalato in Italia; anche la Paulia? Tellinii, interessante conchiglietta descritta dal Pollonera, tra quelle raccolte dal Tellini nelle posature del Natisone, deve provenire da caverne che hanno sbocco nella valle. Cinque specie di aracnidi furono segnalate nelle nostre grotte: in quella delle Agane (Prestento): Meta Merianae, M. Menardi che con Pholcus phalangioides si trova anche nella grotta di S. Giovanni d'Antro; Tegenaria campestris e Nesticus cellulanus nella cavità del M. Roba presso S. Pietro al Natisone; a queste aggiungasi Pholcus opilionoides della grotta di Villanova, determinato dal mio Maestro Giovanni Canestrini: occorre ricercare le specie scolorate e cieche, molto modificate, che numerose nella vicina Carniola, dovrebbero essere bene rappresentate anche [105] nelle nostre grotte. Ospiti accidentali o abituali delle caverne sono alcune specie di chirotteri, sovente aggrediti da un parassita (Nycteribia), moltissime di insetti (ditteri, stafilini); sono costanti due specie di ortotteri: Troglophilus cavicola e Tr. neglectus, che trovansi anche nelle caverne del Carso, ove sostituiscono le dolicopode dell'Europa occidentale. Ma non sarebbe il caso di istituire confronti per ricercare i caratteri della nostra fauna cavernicola, sia rispetto a quella superficiale della regione, sia a quella del Carso e della Francia, che sono le più studiate del continente europeo. La contiguità geografica e la comunanza della storia geologica facevano a priori pensare all'affinità della fauna delle nostre grotte con quella, assai ricca, del vicino Carso. Di tale affinità si hanno già alcuni importanti indizii; ma i dati raccolti sono ancora troppo pochi, e non consentono alcuna sintesi. Conosciute le condizioni topografiche e fisiche delle nostre grotte, può ora inoltrarsi in esse lo specialista, cui attendono certamente molte gradite sorprese. E queste non mancheranno neppure a coloro che vorranno dedicarsi ad una metodica esplorazione della fauna superficiale, per una compiuta illustrazione zoogeografica di queste prealpi.

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VII.
GLI ABITANTI
IL LORO NUMERO E LA LORO DISTRIBUZIONE

Cenni di FRANCESCO MUSONI.

I più vecchi dati statistici relativi alla popolazione del nostro territorio

I più vecchi dati statistici relativi alla popolazione del nostro territorio[71]. Riassumere la storia del movimento demografico della regione da noi considerata, non è cosa facile, perchè le più antiche notizie che abbiamo sull'argomento sono o incomplete o di dubbia fede; e quando incominciano ad essere attendibili, si riferiscono sempre a circoscrizioni ecclesiastiche od amministrative che non corrispondono alle odierne, come quelle che furono più volte mutate e rimaneggiate.

Il primo computo di tutta la popolazione delle città e terre della Repubblica Veneta fu quello ordinato nel 1548 dal Provveditore generale Stefano Tiepolo che ci diede pel Friuli d'allora ab. 182,744[72]; mentre un'altra numerazione fatta pochi anni dopo, cioè nel 1557, ce ne diede 157,030[73]. Senonchè è da notare che, specialmente in quest'ultima cifra, non tutti i paesi [107] facenti parte della Patria erano compresi, per cui il Beloch giustamente argomenta doversi le medesime portare a 210,000 pel 1548 ed a 230,000 pel 1557[74].

Ma se dai menzionati documenti possiamo dedurre la popolazione di tutto il Friuli e da alcuni altri anche quella di singoli paesi o villaggi, tuttavia per esser questi raggruppati insieme secondo le giurisdizioni feudali da cui dipendevano, estendentisi spesso con molta irregolarità a varie parti della Provincia, nessuna cifra esatta possiamo ricavarne relativamente all'intera plaga da noi considerata. Limitandoci perciò a riportare alcuni dati, riferentisi alle terre più grosse ed illustri, diremo che Gemona nel 1548 contava 614 uomini da fatti e 2080 inutili; Fagagna rispettivamente 269 e 684; Tricesimo 109 e 310 e, colle ville sotto la sua giurisdizione, 1811 e 5529; Tarcento, colle terre che ne dipendevano, 539 e 2867; Venzone, con giurisdizione su Bordano, Pioverno, Portis, Interneppo, 330 e 1530; infine Cividale contava complessivamente 2903 ab. in città, e in tutto il territorio 15815 nel 1548 e 16035 nel 1557[75].

Molte delle suddette cifre appaiono notevolmente più basse riferite all'anno 1557[76]. Per capirne la ragione convien notare [108] che nella seconda metà del secolo XVI vi fu in Friuli, un decrescimento generale della popolazione tanto che il Luogotenente Stefano Viaro nel 1559 ebbe a scrivere che la medesima era discesa a 97,000[77]. Certamente il fenomeno va attribuito alle tristissime condizioni in cui versava la Patria in quell'epoca secondo la testimonianza di tutti i Luogotenenti, che ne attribuiscono la causa alle prepotenze, alle usurpazioni, alle angherie d'ogni specie da parte dei signorotti feudali; alle continue lotte sui confini, male stabiliti, tra i nostri e gli Imperiali, con relativi incendi di boschi e furti di bestiame; da ultimo alle frequenti inondazioni, carestie e pestilenze[78].

Nel 1559 Cividale col suo territorio fu separata dalla rimanente provincia ottenendo propri Provveditori, che dipendevano direttamente dal Governo centrale. Esistono molte relazioni di questi funzionari che contengono interessanti notizie d'ogni specie: storiche, geografiche, economiche, militari; e vi sono anche notizie relative al numero degli abitanti le quali però spesso presentano sensibili differenze tra loro, tanto da sembrare quasi contradditorie e fanno pensare o a reali oscillazioni nel numero degli abitanti stessi o ad errori di calcoli, i quali certamente non dovevano essere fatti con soverchia meticolosità[79].

Così la relazione di Francesco Soranzo nel 1583 ci dà la cifra di 17.000 anime per tutto il territorio e il corpo della città. Vincenzo Bollani nel 1588 calcolava 3300 ab. in città, 3904 nelle [109] contrade di Antro e di Merso, comprendenti 72 villette di poca importanza che formavano insieme 33 comuni; più altri 2569 ab. di lingua slava divisi fra 30 villette pure nei monti e 6 nel piano; da ultimo 32 ville non slave nel piano con 29 comuni e 6985 anime: complessivamente, in tutto il territorio, ville 135, comuni 80, anime 13,458. Il Bollani osserva che la regione era scarsamente abitata e povera e ne attribuisce la colpa alla dappocaggine degli abitanti che coi molti pascoli e luoghi incolti avrebbero potuto allevare gran copia di bestiame, mentre non ne possedevano che pochissimo e nemmeno di biade producevano a sufficienza; solo il vino era un raccolto importante e quando veniva esportato in Austria per la strada del Pulfero rendeva un dazio annuo di 2000 ducati.

Domenico Bon nel 1595 calcolava che tra città e territorio gli abitanti fossero 14000, dei quali appena 2700 nella «Schiavonia». Alvise Marcello in una sua prima relazione del 1592 scrisse che nella città grande di circuito si trovavano non più di 2800 anime, pochissimi negozi e molta miseria; e in una seconda relazione del 1599 ne assegnava 12,000 a tutto il territorio, dei quali 3400 appartenenti alla Schiavonia, comprendente 100 villaggi e ricca, come oggi, di bestiame, latticini, formaggi, castagne, frutta, noci. Francesco Boldù nel 1602 ci dà 3000 ab. per la città e 11000 pel territorio. Tre anni dopo Tomaso Lipomano riportava a 12000 quelli del territorio; ma nel 1607 Francesco Valier, in base all'ultima descrittione, li riduceva a 8000, 3000 essendo quelli della città; e Lorenzo Longo nel 1609 a 7000! Quest'ultimo si dice stupefatto di vedere che «sendo il territorio amplissimo et fertilissimo di biave, vini et pascoli, siano quei contadini et per numero si pochi et per povertà si miserabili che si posson dire la miseria stessa»; e anch'egli ne attribuisce la colpa alle estorsioni esercitate dai padroni, oltrecchè al malo modo con cui era amministrata la giustizia civile e penale, per cui intere famiglie erano costrette ad emigrare trasferendosi nei luoghi soggetti agli arciduchi d'Austria. Tutti i provveditori poi sono unanimi nel deplorare le continue discordie tra popolani e nobili in Cividale città, causa anche [110] questa non ultima della poca floridezza economica della stessa.

Senonchè già un anno dopo del Longo, Andrea Pisani faceva risalire a 4000 gli abitanti di essa e ad 11,000 quelli del territorio; e nel 1615 Giovanni Soranzo ci dava rispettivamente le cifre di 4000 e 16,000. Esse rappresentano un considerevole aumento sulle precedenti; tutte però, qualunque valore possano avere, date le oscillazioni e contraddizioni che presentano, sono sempre basse e indicano che la popolazione dei nostri paesi non andava affatto aumentando, se pure non era in diminuzione. Il Pisani, il Querini, il Soranzo affermano come una delle principali cause della decadenza del Cividalese in quest'epoca fosse stata la chiusura per parte del Governo della Serenissima della strada del Pulfero al commercio del ferro che già scendeva di qui dalla Carinzia proseguendo fino a Marano e quindi per mare fino a Venezia. In città erano stati già 2000 operai addetti alla lavorazione di detto minerale e molte botteghe; i carri adibiti al trasporto di esso, facendo poi ritorno in Carinzia, vi esportavano il nostro vino che in seguito rimase invenduto e vennero a mancare i lauti dazi di confine, come vennero a mancare i guadagni di molti campagnoli che in detto commercio trovavano occupazione coi loro carri ed animali. La Repubblica chiuse la strada del Pulfero perchè vi si esercitava il contrabbando, sostituendo ad essa quella della Pontebba, che per Venzone e Gemona conduceva a Portogruaro. Cividale non risorse più, mentre assai guadagnò e crebbe rapidamente di case e di popolazione Gorizia, dopo che gli Austriaci, cogliendo il destro che loro si offriva, resero ruotabile la strada di Caporetto, Ronzina per Gorizia e S. Giovanni di Duino; strada per la quale cominciò presto a discendere anche il ferro di Carinzia ed a risalire il vino del contado goriziano, sostituendosi a quello del cividalese. I Provveditori furono unanimi nel reclamare dalla Serenissima, allo scopo di togliere il malessere economico onde era travagliato il territorio, il ripristino del commercio del ferro per la via del Pulfero, chiusa del resto inutilmente in quanto che il contrabbando, [111] che aveva fornito il pretesto al divieto, veniva egualmente esercitato per la nuova via di Gorizia[80].

Il numero di abitanti nel 1766.

Il numero di abitanti nel 1766. Per le altre parti della zona da noi considerata troviamo notizie nelle relazioni dei Luogotenenti della Patria; senonchè i dati statistici in esse contenuti, che vanno dalle dianzi ricordate cifre del 1548 e 1557 fino al 1626, non riguardano speciali luoghi, ma sempre si riferiscono più o meno all'intera provincia. Notizie particolareggiate sicure si cominciano ad avere appena nel 1766, quando la Serenissima compilò per la prima volta le anagrafi di tutti i suoi dominî[81].

Ma quella più antica regolare e metodica numerazione aveva a base le parrocchie di allora a cui non sempre corrispondono le odierne. Ve n'è parecchie che nel 1766 non esistevano, istituite in séguito per frazionamento delle già esistenti; esempi: Billerio, Magnano, Sedilis, Portis, Segnacco, S. Maria di Rosazzo; altre si estendevano oltre gli attuali confini politici del Regno a paesi che più tardi vennero aggregati alla diocesi di Gorizia: così Nimis comprendeva Bergogna; Attimis Long; Prepotto Collobrida, Mernicco, Scriò, Vercoglia, Sinicco: viceversa parecchie cappellanie, dipendenti da parrocchie d'oltre confine, oggi fanno parte di parrocchie site di qua del medesimo; esempi: Mediuzza, già sotto Chiopris austriaco ora sotto S. Giovanni di Manzano; S. Andrat, Vicinale e Villanova, già sotto Brazzano, ora le due prime passate a Corno di Rosazzo, l'ultima a S. Giovanni di Manzano. Inoltre non sempre le parrocchie sono comprese entro i confini amministrativi di un solo distretto, esempi: [112] Attimis e Nimis che sono in parte sotto Cividale e in parte sotto Tarcento; Artegna sotto Tarcento e Gemona: anzi talune volte invadono i territori di distretti che escono dalla stessa zona da noi considerata; esempi: S. Giovanni di Manzano che con Manzinello; S. Margherita di Gruagno con Ceresetto e Torreano; Cicconicco con Plasencis penetrano in quel di Udine: Cavazzo Carnico che in parte è sotto Tolmezzo e in parte con Bordano e Interneppo sotto Gemona. Si badi che le anagrafi della Repubblica veneta non dànno la popolazione distinta per villaggi e comuni o cappellanie, che è lo stesso, ma raggruppati per parrocchie e si comprenderà la difficoltà di stabilire quanta parte di essa fosse in ciascuno dei territori corrispondenti agli odierni distretti[82]. Ciò io ho cercato di fare con una serie di trasposizioni, sottrazioni ed aggiunte, applicando alle singole cifre riduzioni corrispondenti all'aumento percentuale della popolazione dal 1766 ad oggi nei vari luoghi, lavoro che mi diede i seguenti risultati:

DISTRETTI Popolazione nel 1766 Popolazione nel 1901
 
Cividale 25,995 44,745
S. Pietro al Natisone 9,645 15,699
Tarcento 13,044 33,653
Gemona 14,638 35,374
S. Daniele 19,599 38,452
TOTALE 82,921 167,923

[113] L'aumento complessivo fino ai nostri giorni (ultimo censimento) fu di 102,36%, ossia di 0,75% l'anno: massimo nel distretto di Tarcento (157,99%), minimo in quello di S. Pietro (62,66%). Che se badiamo alla popolazione delle singole parrocchie, troviamo spesso dati addirittura sorprendenti. Così, per citare alcuni esempi, quella di S. Lorenzo di Buia da 2700 è salita a 10,000; Venzone-Portis da 1339 a 5305; Susans da 844 a 3144; Cassacco da 880 a 3226; tutte con popolazione quasi quadruplicata. Sembra poi incomprensibile come la parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio di Nimis da 991 sia aumentata a 8574, secondo il computo ecclesiastico del 1907, pur comprendendo in passato oltre le attuali cappellanie, quelle di S. Elena di Grivò, ora sotto Faedis, e di Bergogna, ora parrocchia austriaca a sè[83].

L'aumento della popolazione nell'ultimo secolo.

L'aumento della popolazione nell'ultimo secolo. Nel 1802 il governo austriaco compilava anch'esso un computo anagrafico redatto col precedente sistema veneto: ma la popolazione vi è raggruppata per giurisdizioni feudali non coincidenti con alcuna circoscrizione o ecclesiastica o amministrativa d'altra specie. A Cividale città vi sono attribuiti appena 2846 abitanti; 5890 alla convalle d'Antro, 6187 a quella di Merso, compresi i villaggi dell'odierno comune di Luicco che ne contava 600; complessivamente ab. 11477 entro i confini dell'attuale distretto di S. Pietro. Altri 1938 ab. formavano la popolazione del distretto dei Roiali comprendente gli odierni comuni di Torreano e Prestento; e 1318 il distretto del Bassopiano. Quanto ai centri maggiori, Gemona coi borghi contava ab. 4685; S. Daniele [114] e borghi 635, Artegna 2013, Tarcento 1982, Tricesimo 832, S. Pietro al Natisone, detto allora degli Schiavi, 258[84].

Durante il breve periodo napoleonico (1806-1814) la nostra regione faceva parte del Dipartimento di Passeriano, diviso in Cantoni, dei quali Cividale, S. Pietro degli Slavi e Faedis costituivano il distretto del Natisone; Gemona, Tricesimo e S. Daniele facevano parte di quello di Udine. Essi nel 1810 avevano la seguente popolazione:

Cividale ab. 21,951
S. Pietro » 13,044
Tricesimo » 13,191
Gemona » 23,984
S. Daniele » 8,766
Faedis » 8,663
Totale ab. 89,599

Si noti però che i cantoni napoleonici non coincidevano se non in parte coi successivi distretti austriaci, sebbene abbiano fornito ad essi la base, e nemmeno con quelli d'oggi. Faedis, per esempio, abbracciava Bergogna e Robedis-ce, più tardi passati all'Austria; Cividale comprendeva Starasella, Patocco, Creda, Boreana, Dolegna, pure appartenenti all'Austria, inoltre i paesi sulla destra del Natisone, oggi dipendenti da S. Pietro, il quale a sua volta si estendeva fino a Luicco e Ravne, oggi austriaci; Gemona abbracciava buona parte del distretto, allora cantone, di Tricesimo, oggi Tarcento, il quale a sua volta aveva parte del suo territorio nell'odierno distretto di Udine[85].

Ed ecco ora la popolazione durante i primi anni del dominio austriaco, rinnovellato nel 1814, secondo il compartimento [115] territoriale promulgato dall'i. r. Governo di Venezia il 30 novembre 1815 ed entrato in vigore il 1º gennaio dell'anno successivo, aggiuntivi gli abitanti nel 1821: S. Daniele ab. 19,542; Gemona 16,853; Tricesimo 11,497; Faedis 9,545; Cividale 19,546; S. Pietro 10,450[86]; totale: 87,433.

Il territorio di questi sei distretti — come pure, presso a poco, di quello degli odierni comuni che da quell'epoca ripetono le loro origini — corrisponde a quello dei cinque distretti da noi considerati in seguito al distacco che venne fatto dal regno Lombardo-Veneto dei più sopra menzionati paesi (Bergogna, Starasella, ecc.) assegnati definitivamente all'Austria, notando inoltre che il distretto di Faedis veniva più tardi conglobato in quello di Cividale, tranne i comuni di Platischis e di Nimis i quali furono uniti a quello che poi in luogo di Tricesimo diventò, come dicemmo, Tarcento; e che di due comuni, pur rimasti nell'ambito del medesimo distretto, il primo cambiò il nome di Collalto in quello di Segnacco, il secondo, cioè Castelmonte, si fuse con Prepotto: perciò i calcoli anagrafici successivi a quello del 1821 cominciano ad essere suscettibili di confronti fra loro per l'intera nostra regione.

Comunque, la sensibile diminuzione delle cifre relative al 1821, rispetto a quelle più sopra ricordate del 1810, dipende non tanto dagli avvenuti restringimenti territoriali, quanto da una reale diminuzione degli abitanti di tutta la provincia causa la carestia onde fu afflitta durante gli anni 1816 e 1817[87] e la conseguente epidemia cui diede luogo. Infatti mentre il numero dei medesimi nel 1815 raggiungeva i 335,623 nei limiti [116] del Friuli odierno, lo troviamo ridotto a 323,861 nel 1818, e nel 1823 non era ancora superiore a 327,497[88]. E nella nostra regione la popolazione del distretto di S. Pietro, come vedemmo più sopra, già nel 1802 aveva raggiunto gli 11,477, mentre ora la vediamo ridotta a 10,450.

Altri due compartimenti territoriali colle relative popolazioni vennero pubblicati nel 1839 e nel 1846. Eccone il prospetto:

1839 1846
Cividale ab. 23,652 ab. 24,525
S. Pietro » 13,497 » 13,658
Faedis » 13,667 » 13,992
Gemona » 21,383 » 22,245
Tricesimo » 15,074 » 15,251
S. Daniele » 23.876 » 24,318
Totale ab. 111,249 ab. 113,989

In 32 anni di dominio austriaco l'aumento complessivo era stato di 26,556, ossia di circa 30%, e di quasi 1% all'anno. Fino a quest'epoca però in Austria i calcoli della popolazione erano fatti dall'Ufficio statistico e topografico di Vienna in base a dati forniti dai parroci e i quali venivano manipolati separatamente e se ne lasciava trapelare solo quanto era giudicato non pericoloso. Fu solo nel 1859 che, rompendola colle troppo prudenti tradizioni del passato, fu dato luogo alla prima seria numerazione da parte di quel Governo: numerazione statistica cui seguirono poi i censimenti italiani del 1871, 1881 e 1901. Eccone i risultati:

1857 1871 1881 1901
Cividale 36,571 38,591 38,637 44,745
S. Pietro 13,892 14,051 14,239 15,699
Tarcento 20,248 25,776 27,678 33,653
Gemona 24,344 27,972 28,886 35,374
S. Daniele 25,205 28,668 31,013 38,452
Totale 120,260 135,058 140,453 167,923

[117] Lo straordinario aumento del distretto di Cividale nel 1857 rispetto al 1846 dipese dall'annessione surricordata al medesimo della maggior parte del distretto di Faedis; quello più che normale di Tarcento dalla pur accennata annessione al medesimo dei due comuni di Nimis e di Platischis.

Il censimento del 1857 tenne conto della sola popolazione di diritto: per gli ulteriori censimenti, i quali del resto vennero fatti con criteri uniformi, noi prendiamo qui in considerazione la popolazione di fatto. Ecco la percentuale complessiva ed annua dell'aumento di essa durante l'ultimo trentennio:

Aumento percentuale
 
complessivo annuo
dal 1871 al 1881 dal 1881 al 1901 dal 1871 al 1881 dal 1881 al 1901
 
Cividale 0,12 8,27 0,01 0,41
S. Pietro 1,34 5,37 0,13 0,26
Tarcento 7,30 8,27 0,73 0,41
Gemona 3,26 11,75 0,32 0,58
S. Daniele 8,18 12,85 0,81 0,62

La massima percentuale nel complesso viene data da S. Daniele che è il distretto a popolazione più fitta: cui seguono Gemona, Tarcento, Cividale, S. Pietro, presso a poco secondo l'ordine decrescente della loro popolazione relativa. In generale lo stesso fenomeno si avverte anche a proposito dei singoli comuni, dei quali i più fittamente popolati sono altresì quelli i cui abitanti aumentano più rapidamente.

L'accrescimento annuo della popolazione fu in conclusione maggiore tra il 1881 e il 1901 che non durante il decennio 1871 e 1881; ciò non solo perchè l'aumento demografico è in via normale costantemente progressivo, ma anche perchè proprio durante il predetto decennio le condizioni delle nostre popolazioni rurali erano più che mai difficili per la crisi agraria generale che allora infieriva causa i diminuiti prodotti della seta e del vino, insidiati da malattie che ancora non si sapevano combattere; per l'imperversare dell'usura che le numerose casse cooperative [118] e altri istituti di credito oggi rendono quasi impossibile; da ultimo per l'odiosa tassa sul macinato gravante specialmente sugli abitanti delle campagne. D'altra parte è innegabile che le condizioni economiche dell'intera provincia sian venute notevolmente migliorando dopo il 1881, specie nell'ultimo decennio, grazie all'istruzione e alla propaganda agraria, all'introduzione di macchine agricole, all'adozione di più razionali e produttivi sistemi di colture, al miglioramento del bestiame bovino, allo sviluppo delle istituzioni di previdenza e di credito, ai sempre maggiori guadagni derivanti dall'emigrazione temporanea, mentre frattanto veniva sempre più riducendosi quella permanente.

La densità della popolazione dei singoli distretti.

La densità della popolazione dei singoli distretti. Secondo nuove mie misure[89] l'area totale dei 5 distretti qui considerati è di 1320 kmq. La popolazione relativa, cioè la densità, secondo il censimento del 1901, era perciò di 135 ab. per kmq., mentre quella generale della provincia non era che di 92. Ecco come la medesima andava ripartita fra i cinque distretti da noi considerati:

Area in kmq. Densità
 
Cividale 393.05 114
S. Pietro 168.73 93
Gemona 220.82 123
Tarcento 286.73 152
S. Daniele 251.07 153

Mentre nel complesso la densità decresce da ovest a est a misura che la parte montagnosa va prevalendo sulla piana, dimostra di essere intimamente dipendente dalle condizioni fisiche generali e quindi anche economiche della regione. Il massimo di S. Daniele — che supera sotto questo riguardo anche gli altri distretti tutti della Provincia, eccetto Udine, con [119] cui del resto non è possibile alcun paragone, pel forte agglomeramento di popolazione urbana che ivi si trova — si spiega colla singolare amenità di quella plaga morenica, tutta alture tondeggianti, bene aereate, assai fertile nella sua parte orientale dove è costituita di materiali prevalentemente eocenici, specie nelle depressioni che separano fra loro i vari colli e nelle quali si raggiungono anche 30 quintali di frumento per ettaro[90]: plaga la quale inoltre in nessun punto supera i 350 m. sul livello del mare e perciò in ogni sua parte è atta ad essere coltivata ed abitata, mentre di tutti gli altri distretti una più o meno grande superficie si trova ad altitudini assai maggiori in condizioni decrescenti di abitabilità fino a raggiungere l'assoluta inabitabilità. S. Daniele è seguito, a grande distanza, da Tarcento, plaga meno elevata e più produttiva nella sua parte collinesca e montuosa, prevalentemente arenacea e marnosa, che non Gemona con maggior superficie di calcari, in buona parte nudi, e quindi affatto spopolati, e che occupa il terzo posto. Viene quindi Cividale dove ai piedi dei bacini del Malina, del Chiarò, del Chiarsò e del Iudrio, valli strettissime e piuttosto gole che valli, si estende una vasta zona piana bensì, ma costituita in molta parte di alluvioni ghiaiose magre, dovuta ai conoidi di deiezione del Torre e dei detti suoi affluenti.

L'ultimo posto l'occupa il distretto di S. Pietro al Natisone, come quello che è interamente montuoso e senza alcun fondo di valle veramente larga, tranne un breve tratto di quella del Natisone e dove inoltre nessuna industria importante è mai fiorita in passato, ma la popolazione è sempre vissuta quasi esclusivamente di agricoltura e di bestiame, ragione per la quale ha avuto l'aumento più lentamente, ma nello stesso tempo anche più uniformemente, progressivo. Tuttavia la popolazione di questo distretto non si può dire scarsa se si confronti con quella di altri distretti interamente montuosi della Provincia che gli rimangono [120] di molto inferiori sotto questo riguardo, quali: Tolmezzo con 52 ab. per kmq., Ampezzo con 29, Moggio con 31, Maniago con 38: credo anzi di poter affermare che la medesima vi sia fin troppo fitta — data specialmente la scarsità dell'emigrazione temporanea — come spesso avviene nelle montagne, nonostante queste nel nostro caso, appartenendo quasi esclusivamente all'eocene, per la natura litologica dei terreni, oltrechè per ragioni di altimetria, siano dappertutto coperte di vegetazione e si possano dire produttive e sfruttabili quasi in ogni loro punto.

La popolazione assoluta e relativa dei singoli comuni.

La popolazione assoluta e relativa dei singoli comuni. Senonchè, più che stabilire confronti fra i singoli distretti, trattandosi di regione limitata come la nostra, conviene istituirli fra territori più piccoli come i comuni, ciascuno dei quali rappresenta nel complesso, specialmente in montagna, una piccola regione topografica a caratteri peculiari. Nella seguente tabella sono indicati i dati relativi all'area di ciascun comune, alla sua popolazione assoluta ed a quella relativa[91].

Comuni del distretto di Cividale:
 
Superficie in kmq. Densità per kmq.
 
Attimis 24.76 148
Buttrio in Piano 17.90 126
Cividale 51.56 176
Corno di Rosazzo 12.69 102
Faedis 46.67 128
Ipplis 11.85 87
Manzano 28.59 119
Moimacco 12.03 103
Povoletto 38.47 103
Premariacco 21.76 128
Prepotto 31.11 71
Remanzacco 31.22 102
S. Giovanni di Manzano 23.95 112
Torreano 34.39 90
 
Comuni del distretto di S. Pietro al Natisone:
 
Drenchia 13.26 94
Grimacco 16.20 89
San Leonardo degli Slavi 26.56 94
San Pietro al Natisone 23.59 136
Savogna 21.98 90
Rodda 17.61 87
Stregna 19.07 92
Tarcetta 29.36 69
 
Comuni del distretto di Tarcento:
 
Cassacco 11.79 230
Ciseriis 20.57 179
Lusevera 46.68 56
Magnano 8.55 291
Nimis 34.30 149
Platischis 64.53 49
Segnacco 5.44 343
Tarcento 9.48 506
Treppo Grande 11.66 214
Tricesimo 7.82 598
[122]
 
Comuni del distretto di Gemona:
 
Artegna 10.75 342
Bordano 14.77 83
Buia 26.17 321
Gemona 57.26 157
Montenars 26.44 81
Osoppo 23.37 118
Trasaghis 78.05 53
Venzone 49.92 82
 
Comuni del distretto di S. Daniele:
 
Colloredo 21.81 113
Coseano 24.18 105
Dignano 15.82 162
Fagagna 37.54 133
Majano 33.12 203
Moruzzo 17.88 113
Ragogna 24.25 186
Rive d'Arcano 22.83 116
S. Daniele 28.17 235
S. Odorico 17.02 100
San Vito di Fagagna 8.45 198

I quattro comuni di Reana del Rojale, di Tavagnacco, di Pagnacco e di Martignacco spettanti al distretto di Udine, ma che interessano in qualche parte la nostra regione, hanno rispettivamente le aree e le densità di popolazione qui di seguito indicate:

  Superficie in kmq. Densità per kmq.
 
Reana 19.97 205
Tavagnacco 9.59 196
Pagnacco 15.10 154
Martignacco 26.53 151

La porzione dell'alto bacino del Natisone a Monte di Robic, compresa in Austria, è composta dei tre comuni austriaci di Bergogna (ab. 1106), Creda (ab. 1311) e Starasella (ab. 816), ha [123] una superficie di kmq. 59,20 e quindi una popolazione relativa di 59. Quanto al Collio, anch'esso di là del confine politico, sopra un'area di kmq. 119,71 ha non meno di 32,239 ab., ossia 269 per kmq.[92].

Dalle suesposte cifre risulta che il comune più fittamente abitato è quello di Tricesimo, con una popolazione di ben 598 per kmq., straordinaria densità dovuta certamente, oltrechè alla varia produttività del suolo, alla insuperata amenità di quella plaga, ricca di splendide posizioni, sparsa di ville signorili e che, insieme al contiguo comune di Tarcento (506 ab. per kmq.) è il più ridente lembo di tutta la regione friulana.

Seguono i comuni di Segnacco con ab. 343, Artegna con 342, Buia con oltre 300 e Magnano in Riviera con quasi 300 per kmq. Questi comuni però, eccetto Buia, sono tutti di scarsa superficie e in quelli pedemontani è addensata buona parte della popolazione, la quale sfrutta terreni appartenenti amministrativamente ai comuni adiacenti. Così tutta la zona da Tarcento a Gemona, detta la Riviera, appoggiata a declivi di elevazioni terziarie e moreniche, lembi laterali staccati dell'anfiteatro tilaventino, forma quasi un ininterrotto sistema ecografico, che non ha riscontro altrove in Friuli, mentre i monti sovrastanti, se si fa eccezione del bacino dell'Orvenco, e il fondo della sottostante ghiaiosa valle del Tagliamento sono spopolati o quasi.

[124]

Fig. 5ª. — Cartina della densità di popolazione nei distretti di Gemona, S. Daniele, Tarcento, Cividale e S. Pietro (Scala 1:600.000).

[125] Quanto a Buia, comune fittamente abitato su tutta la sua vasta superficie, verso N e verso E è circondato da una zona di scarsa densità, da cui la popolazione si è ritirata verso migliore e più sana ubicazione sui declivi di quelle verdeggianti colline eoceniche, foderate all'ingiro da morene; ivi però si trova in numero talmente eccessivo che sopra 8412 abit., quanti ne conta il comune, quest'anno ne emigrarono temporaneamente ben 4000, cioè tutti gli atti ai lavori faticosi.

Poco meno densi di popolazione sono gli altri comuni dell'anfiteatro morenico, dove la medesima è distribuita abbastanza uniformemente; e densissima è pure nella maggior parte dei comuni del Collio, regione che orograficamente somiglia all'anfiteatro, climaticamente si trova in condizioni assai più favorevoli. Seguono i comuni che sono allo sbocco delle valli maggiori quali: Cividale, Gemona, Nimis, Attimis, Ciseriis, semprechè i medesimi non comprendano anche una vasta area montagnosa, come Faedis (ab. 102). Invece scarsa è nel piano dove prevalgono terreni ghiaiosi e magri, quali: Povoletto (103), Moimacco (103), Remanzacco (102), S. Odorico (100), siti sopra conoidi di deiezioni fluviali, ed Ipplis (87), occupato in gran parte dalla non molto produttiva collina della Rocca Bernarda.

Pei comuni in montagna vale quanto abbiamo già detto di generale: la densità degli abitanti è in relazione colle condizioni altimetriche, morfologiche e litologiche di ciascuno d'essi, per cui da un minimo di 49 a Platischis e di 53 a Trasaghis, si sale a un massimo di 94 in quel di Drenchia, tutto a dossi tondeggianti e soleggiati, ricchi di praterie verdeggianti, atti mediocremente all'agricoltura, moltissimo all'allevamento del bestiame. Convien però notare che sul fondo e sui declivi dei bacini terziari delle alte valli del Natisone (comuni di Starasella, Creda, Bergogna e Platischis), del Cornappo e del Torre (comuni di Platischis e Lusevera) la popolazione assoluta è abbastanza fitta, mentre la relativa è scarsa principalmente perchè quei vasti comuni si estendono anche a zone circostanti più elevate e geologicamente diverse, costituite di calcari mesozoici ripidi e dilavati dalle acque meteoriche e quindi inabitabili. Così il [126] comune di Platischis i suoi 3166 abitanti li ha raccolti sopra una ristretta superficie, mentre l'area di tutto il comune è di ben 64,44 kmq. ed è quasi la massima della regione; e lo stesso si dica dell'alto bacino del Natisone, sito in Austria, i cui 3468 ab. non occupano che una minima parte dei 59,20 kmq. ai quali il medesimo si estende. In complesso pei comuni di montagna avviene l'inverso di quanto constatammo a proposito dei comuni siti lungo la linea di falda della montagna stessa: che cioè la popolazione relativa, mentre in quelli è aumentata, in questi vien diminuita dalle vicinanze di terre più elevate.

La distribuzione della popolazione in relazione con l'altimetria e con la struttura geologica. L'aggruppamento in villaggi.

La distribuzione della popolazione in relazione con l'altimetria e con la struttura geologica. L'aggruppamento in villaggi. Fra i vari fattori che contribuiscono a determinare la ineguale distribuzione della popolazione nei nostri distretti, ha importanza speciale quello altimetrico. Per esempio, come risulta da un mio studio altrove pubblicato[93], nella valle media del Natisone la popolazione più fitta è sotto i 200 m. di altezza (306 ab. per kmq.) e poi fra 500 a 600 m. (131 ab.) per decrescere poi via via, fino a ridursi minima sopra i 1000 (10 ab.). Per rendersi ragione del primo fatto conviene richiamarsi alla legge sopra stabilita che cioè le plaghe basse, immediatamente vicine ai declivi montani, presentano non tanto maggiore amenità e salubrità dei siti, quanto specialmente la possibilità di sfruttare i declivi stessi senza obbligo di dimorarvi stabilmente con maggior disagio che nel piano. Da ciò consegue anche che le zone altimetriche più vicine al piano sieno meno popolate che le successive più alte: infatti la montagna comincia ad essere abitata colla massima intensità solo a quell'altezza in cui non può essere sfruttata se non da chi vi abiti stabilmente, il che nella nostra regione succede fra i 500 e i 600 metri sul livello del mare. In tale zona altimetrica si coltivano ancora con successo il castagno, la vite, il granoturco: essa è perciò la vera [127] zona agricola della montagna, mentre superiormente si ha la zona pastorale che domanda maggior estensione di terre e quindi sopporta minor densità di popolazione. Si aggiunga che più in basso le pendici montane sono spesso assai erte e il fondo delle valli strettissimo e riducentesi quasi al solo letto del fiume: le popolazioni se ne allontanano per salvarsi dalle inondazioni, per sfuggire l'ombra, adagiandosi al sole, per godere di orizzonti non chiusi interamente ma aperti.

Qualche altra considerazione circa la distribuzione altimetrica della popolazione potremmo fare in base alle condizioni puramente geologiche della regione. I territori eocenici sono abitati dovunque, anche alle maggiori altezze. Ravna gorenja (m. 1041) e Ravna dolenja (m. 1020), sul Colovrat, sono i due villaggi più elevati di tutte le Prealpi friulane. I terreni eocenici, come in questa zona segnano il limite del castagno calcifugo, rappresentano anche un limite di abitabilità. Infatti così le strettissime valli, o meglio chiuse, scavate attraverso gli altipiani calcarei secondari, come i declivi degli stessi sono quasi completamente spopolati: i villaggi si spingono in alto fino al punto a cui arriva l'eocene: così intorno al Matajur e al Vogu, al Quarnan e al Ciampon, allo Stella e al Bernadia, così lungo tutta la catena Musi-Montemaggiore-Stol. Sulle masse cretacee non solamente rarissimi sono i centri abitati, ma inoltre limitati esclusivamente a spianate o a vicinanze di spianate leggermente depresse nel centro, in cui si sia potuto raccogliere terriccio prodotto dalla decalcificazione delle rocce e a cui è dovuta la ricchezza di pascoli che perciò vi si trovano e rendon possibile l'esistenza di alcuni villaggi quali Stella, Viganti, Villanova, Monteprato: senza tener conto che sulla distribuzione della popolazione influisce la distribuzione delle sorgenti che nei terreni eocenici sono a tutti i livelli; in quelli calcarei elevati, quasi solamente alla base.

Per quanto abbiamo detto risulta questa singolare distribuzione della popolazione nella nostra regione che cioè in essa si distinguono tre zone parallele, allineate da ovest ad est, in corrispondenza all'alternarsi dei terreni geologici. La prima e più [128] settentrionale comprende i bacini eocenici del medio Torre, dell'alto Cornappo e Natisone che mediante canali strettissimi comunicano a stento colla pianura, di cui perciò solo debolmente subiscono gli influssi di ogni specie. Il clima vi è alquanto rigido pei molti luoghi che sono nell'ombra, per la più difficile penetrazione dei venti meridionali, per la già abbastanza notevole altitudine, per la vicinanza alle spalle di montagne spesso coperte di neve: ivi perciò il castagno non è dappertutto, manca ad es. nell'alto bacino del Natisone, la vite dà poco prodotto e non buono, gli alberi fruttiferi non sovrabbondano: la popolazione quindi non è fitta, senza essere tuttavia eccessivamente scarsa: essa è tutta agglomerata in pochi e relativamente grossi centri, la maggior parte situati su declivi montani esposti a mezzogiorno, come Cesariis, Micottis, Monteaperta, Cornappo, Montemaggiore, Bergogna, Stanovis-ce, Homic, Boreana, Patocco, Prossenicco; rare volte sul fondo delle valli, all'incontro di più vallecole convergenti, come Vedronza, Debellis, Creda; o sopra una strada di passaggio da una valle all'altra, come Starasella; o su dossi tondeggianti, come Lusevera e Lonch; o entro a conche aperte da un lato, come Platischis.

La seconda zona, costituita dagli altipiani prevalentemente calcareo-cretacei più volte accennati, è senza confronto la men popolata e i pochi villaggi vi sono situati in alto, come dicemmo, raramente su declivi soleggiati, come Ramandolo, mai sul fondo delle valli strettissime e senza sole.

La terza finalmente comprende la fascia eocenica esterna agli altipiani cretacei, terminando sulla pianura ed assumendo sviluppo sempre maggiore a misura si procede verso est, dove anzi si estende a tutta la nostra regione. È la meglio esposta al sole e ai tepori mediterranei, di clima perciò più mite, di ottimi prodotti, atta ai vigneti e ai frutteti, aperta ad ogni influenza, anche civile, del piano; è la zona a popolazione più fitta e più progredita, dove i villaggi possono sorgere in qualsiasi posizione e alle maggiori altezze. Sul fondo delle valli sono solo fin dove le medesime presentano sufficiente larghezza, ubicate o alla confluenza di parecchie di esse, come Scrutto, Azzida; [129] o dove si allargano in più ampi bacini, come Prepotto, S. Pietro, Torreano, Prestento, Ciseriis; o dove è lo sbocco naturale di una considerevole parte di montagna, come: Clodig, Savogna, Pulfero, Canal di Grivò, Canalutto, Forame; o dentro il cavo delle insenature che si aprono nei fianchi delle catene tra cui sono chiuse le valli, come Purgessimo, Vernasso.

Fig. 6ª. — S. Silvestro d'Antro (distr. di S. Pietro). Fot. G. Feruglio.

Sui contrafforti montani amano le posizioni soleggiate; e, se più catene sono allineate nel senso dei paralleli, sulle retroposte sono più alti che sulle anteposte, in maniera da superarle coll'altezza; o si trovano in corrispondenza di insellature, così da guadagnare la loro parte di sole e d'orizzonte: esempio tipico i villaggi di Mersino in confronto di quelli di Rodda. Ordinariamente siedono su ripiani orografici appoggiati ad elevazioni [130] maggiori alle spalle, rare volte su dossi isolati, troppo esposti ai venti, come Cras, Costalunga, Coia; più spesso sopra valichi tra una valle e l'altra, come Ravna, Ocnebrida, Clastra, Sedilis.

I massimi centri di popolazione sono lungo la linea di falda della zona montagnosa o collinesca che, come dicemmo, è anche la più popolata; e precisamente allo sbocco delle singole valli, d'importanza proporzionale a quella delle valli stesse. Senza dire di Gorizia, situata dove la massima valle dell'Isonzo riesce sul bassopiano friulano e centro il più ragguardevole della regione prealpina, Cividale ebbe grande importanza in ogni tempo come quella su cui sfocia la valle del Natisone, che è non solo la più amena e ricca di tutte le Giulie friulane, punto di convergenza di un intero sistema di minori vallette, ma è aperta alla testa sulla stessa valle dell'Isonzo unitale mediante l'unica strada internazionale che attraversa le nostre Prealpi. Similmente Cormons, Tarcento, Nimis, Attimis, Faedis sono tutti allo sbocco di valli trasversali più o meno lunghe. Nella valle del Tagliamento, Venzone è prossima alla confluenza della medesima col canale del Ferro; Gemona dove l'alto Friuli settentrionale comincia seriamente ad allargarsi sul piano.

In questo non vi sono punti di convergenza se non a grandi distanze, come Udine, verso cui tutta l'alta e media regione friulana è disposta a semicerchio, perciò i villaggi di territori limitati, come il nostro, sono di grandezza più uniformemente eguali. La loro ubicazione ha anch'essa fondamenti geografici e topografici, ma in generale di più difficile determinazione e, meglio che coll'osservazione diretta, mediante l'esame attento delle carte. Infatti mentre i centri abitati in mezzo ai monti sono visibili da ogni parte nella loro ubicazione e distribuzione, quelli nel piano non sono osservabili se non dall'alto: o dai monti più vicini, fino a una certa distanza; o da edifizi elevati, come i campanili. Comunque, si può stabilire che la esistenza di essi sia dovuta o agli incroci di strade, o alla presenza di sorgenti, o ai guadi di fiumi e torrenti, o a speciali condizioni di fertilità dei terreni, o al fiorire di industrie. Anche ivi però, dove esistono alture, i villaggi tendono ad avvicinarsi alle medesime, [131] senza tuttavia salirvi: così intorno alla collina di Buttrio sono Premariacco, Buttrio, Vicinale, Manzano, Orsaria, Manzinello, Camino, Caminetto; intorno a quella di Rosazzo, Corno di Rosazzo, Dolegnano, Ipplis, Oleis: in alto non vi sono che villeggiature signorili o case sparse[94]. Nell'anfiteatro morenico invece — e allo stesso modo nel Collio — tendono a salire sui declivi e sui dossi ritirandosi dalle bassure, spesso malsane e paludose: ivi si notano quattro centri di maggiore importanza in corrispondenza ai quattro lati di quel gruppo di colline: a nord Buia, dove esso scende sul piano od atrio di Osoppo; ad ovest S. Daniele, centro delle comunicazioni e del commercio fra Gemona e l'alto Friuli da una parte, Spilimbergo e la riva destra del Tagliamento dall'altra; a est Tricesimo e a sud Fagagna dove l'anfiteatro converge colle vie che ne scendono sopra Udine.

E quanto alla forma dei villaggi, questa dipende quasi esclusivamente dalle condizioni orotopografiche a cui i medesimi devono adattarsi, difficile essendo scorgere in essi alcuna accertata traccia d'influenze etniche. In montagna sono accentrati: sviluppantisi parallelamente ai fianchi della montagna stessa, colle case sollevantisi a gradinata se in luogo erto, esempio: Topolò, Masseris, Monteaperta, Micottis, Cesariis; disposti più o meno circolarmente quando su ripiani, o racchiusi in conche, o a cavaliere di dossi e selle. Le vie non vi hanno nessuna regolarità: strettissime, tortuose, a fondo ineguale, spesso coperte di pergole di viti, in molti luoghi con alberi da frutta.

I villaggi nel piano son più regolari e con abitazioni migliori: oggi vengono adattandosi alle strade nuove, costruite o che si vengono costruendo dappertutto, sempre più alterando l'antica fisionomia. Non infrequente è il tipo di villaggio sviluppato lungo una strada, nè mancano esempi di forme a croce o a stella.

Da osservare finalmente che nel piano la popolazione sparsa è più numerosa che in montagna, dove — fatta eccezione del Collio e delle alture moreniche — rarissime sono le case [132] isolate, nonostante le fallacie del censimento. La popolazione sparsa abbonda specialmente intorno ai più grossi centri di Cormons, Cividale, Tarcento, Nimis, Gemona. Il fatto si spiega con ragioni di maggior sicurezza in passato, colla più grande comodità delle comunicazioni, coi vantaggi di ogni specie del risiedere vicino a centri considerevoli, sopratutto pel commercio dei prodotti agricoli, finalmente colle industrie che amano svilupparsi specialmente in prossimità dei medesimi.

Fig. 7ª. — Scrutto (S. Leonardo), tipo di villaggio sviluppato lungo una strada. (Fot. G. Feruglio).

L'emigrazione permanente.

L'emigrazione permanente. Fenomeno demografico dei più notevoli nella nostra regione, comune del resto alla maggior parte del rimanente Friuli, è quello dell'emigrazione temporanea per cui la provincia di Udine ebbe sempre il primato tra tutte le consorelle del Regno, mentre pochissima importanza vi ha l'emigrazione permanente, tranne forse alquanto nei comuni pianigiani.

Infatti, secondo le statistiche ufficiali, la media annua di coloro che abbandonarono definitivamente la patria durante il [133] quinquennio 1895-99 nei cinque distretti fu la seguente: Cividale 78,2, S. Daniele 39,6, Gemona 38, Tarcento 18, S. Pietro al Natisone 3,6[95]; e nel successivo quadriennio 1900-03 fu ancor minore, e cioè: per Cividale 28, per Gemona 18,5 e per Tarcento 17,5; crebbe invece per S. Daniele a 67,5 e S. Pietro a 18[96]. Ma quest'ultimo aumento non è che apparente, poichè proprio intorno il 1903 dai due distretti di S. Daniele e S. Pietro si iniziò quella emigrazione temporanea verso l'America del Nord che, per essere transoceanica, venne impropriamente confusa colla permanente. Ed invero da S. Pietro in quell'anno si recarono oltre l'Atlantico ben 50 partenti e da S. Daniele 122; cifre senza confronto superiori a quelle di tutti gli anni precedenti. Anzi, sto per dire, che quelle stesse cifre più antiche, per quanto tenuissime, non esattamente si riferivano a emigranti stabili, poichè la maggior parte di coloro che già si portarono in America dai nostri paesi, furon visti, dopo un più o men lungo periodo di tempo, ritornare in patria a godersi la posizione economica conquistata nel Nuovo Mondo. Data la quale difficoltà di secernere emigranti stabili da emigranti temporanei anche in ogni altra parte del Regno, giustamente dopo il 1903 la Direzione generale di statistica soppresse la distinzione tra le due forme del fenomeno. Comunque, l'emigrazione propria non ebbe mai importanza reale nella nostra zona, al contrario di quanto già avveniva, e, sebbene in più debole misura, in parte ancora avviene nei distretti del piano.

L'emigrazione temporanea. Lo sviluppo e l'intensità del fenomeno.

L'emigrazione temporanea. Lo sviluppo e l'intensità del fenomeno. Fortissima vi è invece l'emigrazione temporanea che anche qui, come nel resto del Friuli, aumenta a misura si sale verso la montagna, decresce a misura si discende verso il [134] mare, ove prevale l'emigrazione propria. Ciò trova la sua principale, non unica, spiegazione nel fatto economico della proprietà maggiormente frazionata, oltrechè meno redditiva, nei monti, e da cui le famiglie non possono ricavare quanto basti per vivere, costrette perciò ad aumentare le scarse rendite con guadagni che, per un complesso di ragioni ben note, si recano a cercare all'estero; mentre i lavoratori del piano, in gran parte fittavoli, non possono abbandonare i più estesi terreni dei loro padroni e, quando emigrano, preferiscono farlo stabilmente, nulla lasciando dietro a sè a cui il loro cuore sia attaccato durevolmente. Fra le cause d'ordine psicologico, per cui i montanari emigrano più facilmente, oltrecchè il maggiore spirito d'indipendenza proprio di uomini liberi e completamente padroni di sè stessi, v'è chi mette la maggior svegliatezza d'ingegno e il maggior grado d'istruzione di quegli abitanti; ma io credo che la maggiore istruzione sia piuttosto un effetto che una causa della maggiore emigrazione: infatti tra gli alpigiani del distretto di S. Pietro al Natisone, ai quali certamente non si può negare ingegno svegliatissimo, gli analfabeti son più numerosi che negli altri distretti montani della provincia dai quali finora si migrò in ben più forte misura.

Questo movimento dai nostri paesi prealpini verso l'estero ripete le sue origini fin dall'inizio del secolo XVIII; e i notissimi venditori di salumi e frutta al Prater di Vienna, più tardi beneficati di una carta di privilegi da Maria Teresa, erano quasi tutti dei distretti di Gemona e Tarcento. Anche i comuni di Bordano, Trasaghis, Venzone vantano un'emigrazione che risale a qualche secolo: così pure il distretto di S. Pietro contava già un buon numero di fuoruscenti che si recavano in Russia, Croazia e specialmente in Ungheria ad esercitare il commercio girovago, ed a vendere imagini di santi: un tempo nella Slavia italiana si diceva andare in Ungheria per recarsi all'estero, proprio come oggi nel resto del Friuli si usa dire recarsi in Germania.

Ma il fenomeno in allora veniva appena avvertito, e non aveva luogo che dove per la povertà del suolo i mezzi di sussistenza [135] mancavano quasi interamente; cominciò a diventar generale e ad avviarsi verso la straordinaria intensità d'oggi quando in Germania, Austria-Ungheria, Francia, Svizzera si dette principio ai grandiosi lavori connessi coll'enorme sviluppo industriale recente di quei paesi. Dopo di allora, nonostante leggere oscillazioni, è venuto via via aumentando fino ad assumere le straordinarie, impressionanti proporzioni di questi ultimi anni. Secondo i dati ufficiali, durante il quinquennio 1895-9 la media annua degli emigranti dalla nostra regione fu la seguente:

Gemona 5899 ossia di 16,21 % sulla popol. calcolata
S. Daniele 5366 » 13,01 % »
Tarcento 3282 » 10,46 % »
Cividale 1590 » 3,54 % »
S. Pietro al Natisone 493 » 2,97 % »

La percentuale più elevata fu raggiunta da Gemona, ricca, come fu detto più volte, di terreni montagnosi assai poveri; e poi da S. Daniele, il distretto a popolazione più fitta in provincia dopo Udine; seguivano Tarcento e, a grande distanza, Cividale e S. Pietro. Quest'ultimo veniva ultimo tra tutti gli altri del Friuli, eccetto Palmanova; ciò in parte era dovuto alle stesse ragioni per cui la popolazione qui è più densa che negli altri distretti montuosi, in parte al temperamento degli Slavi che vi abitano, abituati a una vita tranquilla e patriarcale, non tormentati da soverchi bisogni, incapaci perciò di decidersi ad abbandonare per lunghi mesi la famiglia sia pur per migliorare la propria condizione.

Negli otto anni successivi (1900-1907) le cifre ufficiali oscillarono fra un massimo di 19344 nel 1903 e un minimo di 6513 nel 1904, pur essendo nel complesso assai rilevanti[97]. E mentre nei distretti di montagna si mantennero quasi stazionarie, forse per avervi raggiunto il limite massimo di potenzialità, son venute via via elevandosi nel piano e nei comuni dove in passato [136] erano più basse: così in quelli del distretto di S. Pietro si raggiunsero 1071 partenti nel 1907, cifra senza confronto superiore a quelle di tutti gli anni precedenti. Ciò prova che anche l'esempio, la suggestione, i crescenti bisogni della vita esercitano influenza non solo nell'accentuare, ma nel rendere sempre più diffuso il fenomeno dell'emigrazione.

Senonchè le cifre ufficiali, pubblicate dal Ministero di Agricoltura, su cui si basano queste osservazioni, hanno un valore assai relativo e furon più volte oggetto di aspre critiche pel modo onde ne vengono raccolti ed elaborati gli elementi; e non senza ragione, come ne sono prova, tra altro, i dati spesso contradditori che sullo stesso argomento viene pubblicando talvolta il Ministero degli Esteri. Infatti il numero degli emigranti è calcolato in base ai passaporti che vengono rilasciati ogni anno dai singoli Municipi; ora è noto che un passaporto è valevole per tre anni e siccome viene più volte adoperato dallo stesso individuo, è naturale che il numero degli emigranti rimanga di molto superiore a quello dei passaporti. Ciò è risultato in modo perspicuo da un'inchiesta che venne fatta quest'anno presso tutti i Comuni dalla «Patria del Friuli» e la quale dette le seguenti cifre[98]:

  Emigranti Per ogni 100 ab.
 
S. Daniele 9017 21,93
Gemona 9150 19,35
Tarcento 7056 18,40
S. Pietro 2026 11,83
Cividale 3690 7,51

Sono tutte cifre di molto superiori a quelle ufficiali e che, tra altro, portano a sempre più notevole altezza la percentuale già sì bassa del distretto di S. Pietro. Esse non possono non [137] riuscire impressionanti se si pensi che su 100 ab. 29 sono di età inferiore ai 16 anni, 20 superiore ai 50, i veramente atti al lavoro si riducono a 50, dai quali detraendo ancora il 10% di individui che par ragioni di agiatezza, di uffici civili, di servizio militare non possono o non devono allontanarsi dalla patria, resta una cifra di 40%, di cui 21 è costituito di donne, 19 di uomini, sui quali ultimi devono essere reclutati gli addetti all'agricoltura, alle industrie, i partecipanti all'emigrazione[99]. Ora la percentuale degli emigranti nei distretti di Gemona e S. Daniele supera il 19 e di poco inferiore gli è quella di Tarcento. Che se dalle cifre generali discendiamo a quelle più particolari riguardanti singoli comuni, si raggiungono percentuali di un'elevatezza addirittura spaventevole, e che fanno pensare a qualche cosa di anormale e di patologico; così dal comune di Majano gli emigranti furono 38%, da Nimis 37, da Ragagna 31, da Grimacco 31, da Osoppo 30, cioè più che 13 dell'intera popolazione; da Artegna, Buia, Attimis, Colloredo di Montalbano di oltre 14; da Segnacco, Treppo Grande, Bordano, Montenars, Manzano, Cassacco circa 15. Invece furono appena del 4% nei comuni pianigiani di Cividale e Remanzacco, di 2,5 a Corno di Rosazzo e Buttrio, di 1 a Manzano, S. Giovanni di Manzano, Moimacco ed Ipplis.

Caratteri della nostra emigrazione. Danni e vantaggi.

Caratteri della nostra emigrazione. Danni e vantaggi. I paesi ai quali è maggiormente diretta la nostra emigrazione temporanea sono la Germania e l'Austria Ungheria, dove, specialmente in Baviera, nel Würtemberg e in Croazia, fanno i fornaciai, mestiere duro e mal retribuito e al quale, disgraziatamente, si viene dedicando un sempre maggior numero anche di donne e fanciulli, tanto che nel 1908, secondo l'inchiesta della Patria, emigrarono 4300 delle prime, 2000 dei secondi! In buon numero si recano pure agli stati balcanici, alla Svizzera, in Francia, Russia, e quelli di Osoppo, Forgaria e Clausetto fino al Siam, al Tonchino, alla Cina e alla Siberia. In questi ultimi [138] anni una notevole corrente migratoria ebbe per meta l'America del Nord (Stati Uniti e Canadà) specialmente dai distretti di S. Daniele e S. Pietro, composta di minatori, sterratori e braccianti che si occupano nei lavori edilizi e ferroviari e in altre colossali costruzioni di vario genere. Tale corrente, interrotta durante la crisi monetaria e industriale che imperversò negli Stati Uniti un paio d'anni fa, sta ora ridiventando vigorosa e promette di riuscir fruttifera come lo fu in passato.

Secondo informazioni comunicate dal Segretariato dell'Emigrazione in Udine, le occupazioni per le quali i nostri emigranti si recano all'estero sono così ripartite tra i vari distretti:

S. Daniele: la maggioranza è di fornaciai, manovali e pochi muratori; questi ultimi provenienti specialmente da Colloredo di Montalbano, Majano, Rive d'Arcano, Ragogna.

Gemona: il massimo contingente è di muratori, sopratutto da Artegna, Bordano, Gemona, Montenars, Trasaghis, Venzone, Osoppo.

Tarcento: i più sono fornaciai; pochi muratori dànno Segnacco, Ciseriis (10%), Tarcento, Magnano; scalpellini Segnacco.

Cividale: partono fornaciai da Remanzacco, Cividale, Faedis, Moimacco, Povoletto, Premariacco; alquanti scalpellini da Faedis e Torreano; muratori da Faedis.

S. Pietro al Natisone: braccianti, manovali, fornaciai, a quanto sembra, mancando notizie precise in proposito.

L'esodo dei partenti è massimo nei mesi di marzo e aprile, nei quali rappresenta il 75% dell'emigrazione annua totale: la permanenza all'estero varia dagli otto ai nove mesi e l'epoca del ritorno è determinata dai primi rigori autunnali, cagionanti la sospensione dei lavori. In complesso i nostri emigranti abbandonano la madre patria quando questa ne avrebbe maggior bisogno, cagionando la sempre più sentita mancanza di braccia nelle campagne e la continua crescita dei salari, che, se da un lato risponde alle odierne idee di giustizia sociale, dall'altro mette in grave imbarazzo specialmente la proprietà media, condotta in economia. Se il fenomeno andrà ancora aumentando [139] d'intensità, certamente alla nostra agricoltura si preparano giorni non lieti.

Tuttavia non si può disconoscere l'utile economico da esso derivante al Friuli, al quale è fonte di sensibili guadagni, che per tutta la provincia si calcolano non inferiori a 30 milioni di lire annue: prova ne sono l'edilizia migliorante dovunque e la progressiva estinzione dei numerosi debiti, per cui gli abitanti delle campagne in passato erano alla mercè delle banche e di privati speculatori, più o meno onesti. Che se da un lato è causa forse dell'estendersi dell'alcoolismo e di qualche altro vizietto, dall'altro, col migliorare il tenore di vita nei paesi più poveri, molto concorse a far decrescere la pellagra e coll'influire sullo sviluppo intellettuale dei lavoratori, li rende sempre più solleciti dei proprî interessi e li spinge a partecipare alla vita pubblica, la qual cosa, al postutto, checchè ne pensino i laudatores temporis acti, è un bene. Se finalmente consideriamo che il Friuli, di cui una buona parte è montuosa, un'altra ghiaieti magri di scarsissima fertilità, non dà prodotti sufficienti a mantenere la pur non molta fitta popolazione e che nè le nostre industrie, nè l'agricoltura, per quanto intensificate potrebbero per molto tempo occupare tutti i lavoratori, viene da sè la conclusione che l'emigrazione vi rappresenta non solo un bene, ma una necessità.

[140]

VIII.
GLI ABITANTI
i loro caratteri fisici, la loro origine e le differenze etniche e linguistiche

Note di FRANCESCO MUSONI.

Alcuni dati antropometrici.

Alcuni dati antropometrici. Fonte principale per la conoscenza antropologica del nostro territorio è l'opera di Rodolfo Livi, che, come è noto, mise insieme per tutta Italia una enorme massa di misure raccolte nelle leve militari[100]. Disgraziatamente il distretto di S. Pietro vi è considerato unitamente a quello di Cividale, mentre sarebbe convenuto tenerlo distinto, chè avrebbe servito quale termine di paragone tra la popolazione slava pura di esso distretto e le popolazioni friulane, più o meno mescolate con elementi slavi, dei distretti contermini.

Comunque, ecco alcuni dati che nell'anzidetta raccolta troviamo riguardo alle stature:

DISTRETTI Numero delle osservaz. Per cento di stature
    sotto i m. 1,60 sopra i m. 1,70
Cividale 590 6,1 38,8
Tarcento 286 5,6 41,3
Gemona 322 9,3 29,2
S. Daniele 325 6,2 30,8

Da queste cifre apparisce che la nostra zona ha le stature [141] più elevate non solo di tutta Italia, dove la percentuale di stature sotto m. 1,60 è di 18,2, di quelle superiori a m. 1,70 di 17,6, ma dello stesso Veneto, che a sua volta eccelle fra tutti gli altri compartimenti del Regno.

Disgraziatamente, se il Livi ci dà i dati relativi anche alle stature medie per province, non ci dà quelle per circondari o distretti. Queste potei avere dal senatore conte A. Di Prampero, ricavate da misurazioni fatte sopra militari dell'età di 21 anno appartenenti a parecchie leve di molti anni fa. Eccole:

DISTRETTI Numero delle osservaz. Statura media
S. Pietro al Natisone 574 cm. 168,92
Tarcento 897 » 167,35
Cividale 1211 » 167,14
Gemona 1076 » 166,03
S. Daniele 926 » 166,29

Come si vede, qui il numero di osservazioni è di molto superiore a quelle del Livi e quindi le medie che ne risultano presentano maggior valore.

Ne emerge che le stature più elevate — e non solo della nostra zona, ma di tutta la provincia — appartengono al distretto di S. Pietro al Natisone, abitato da popolazione esclusivamente slava, della quale è risaputo essere più alta che non la rimanente friulana. Già nel 1599 Alvise Marcello, Provveditore della Serenissima a Cividale, parlando degli Slavi delle montagne di S. Pietro, scriveva: «sono quasi tutti bellissimi homini et delli più alti»[101]. I distretti di Tarcento e Cividale che vengono subito dopo, contano anch'essi rispettivamente 1009 e 905 famiglie parlanti abitualmente lo sloveno.

Anche rispetto alle stature altissime potei ricavare dati preziosi dallo stesso materiale fornitomi dal senatore conte Di Prampero e il quale, nel complesso, conferma quanto vale per [142] le stature elevate. Infatti, sempre secondo il numero di misurazioni surricordate, nei

DISTRETTI DI Superavano m. 1,80 individui Superavano m. 1,85 individui
S. Pietro al Natisone 37 ossia 6,4 % 11 ossia 1,90 %
Tarcento 27 » 3,01 % 4 » 0,44 %
Cividale 22 » 1,01 % 4 » 0,31 %
Gemona 21 » 1,95 % 4 » 0,46 %
S. Daniele 14 » 1,54 % 3 » 0,32 %

La percentuale degli altissimi nel distretto di S. Pietro è più che doppia per le stature superiori a m. 1.80, più che quadrupla, per quelle superiori a m. 1.85 che non negli altri distretti.

Ecco ora i dati relativi all'indice cefalico medio secondo il Livi: Cividale 85.4; Gemona 85.2; S. Daniele 84.6; Tarcento 85.4. Notevole la maggior brachicefalia dei distretti di Cividale (comprendente pure S. Pietro) e Tarcento, anch'essa probabilmente dovuta a influenza slava.

Quanto al colore dei capelli, si hanno le seguenti cifre:

DISTRETTI Numero di osservaz. Rossi Biondi Castagni Neri
 
Cividale 588 4 153 161 70
Gemona 321 2 67 189 63
S. Daniele 322 2 48 191 81
Tarcento 286 3 54 175 54

In complesso il castagno prevale dappertutto, col massimo numero di biondi nel distretto più brachicefalo di Cividale-S. Pietro, minimo in quello meno brachicefalo di S. Daniele. Finalmente riguardo al colore degli occhi il Livi ci offre i seguenti dati, sempre sopra lo stesso numero di osservazioni:

DISTRETTI Celesti Grigi Castagni Neri
 
Cividale 182 141 245 18
Gemona 90 76 141 11
S. Daniele 62 84 151 25
Tarcento 71 59 162 13

[143]

Fig. 8ª. — Tipo sloveno della valle d'Erbezzo.

Giova infine avvertire che nella nostra zona, paese di contatti e d'incroci etnografici, manca un tipo etnico deciso, come in Carnia, in Resia e in qualche altra parte del Friuli: fanno eccezione alquanto il distretto di S. Daniele che ha le stature più basse, i crani meno rotondi, il colore più scuro di occhi e di capelli; e in assai maggior misura quello di S. Pietro e gli altri paesi slavi della montagna, la cui popolazione si conserva immune da contatti col piano, verso il quale ha bensì luogo una sporadica leggerissima emigrazione di famiglie che si stabiliscono in città o si trapiantano nelle campagne, non però una controemigrazione. Se noi mettiamo un gruppo di slavi puri accanto a un altro eguale di friulani, non vi sarà pericolo che possano essere confusi con essi: stature, nel complesso, più elevate, capelli più frequentemente biondi, occhi celesti o grigi. [144] forme spesso angolose e magre, zigomi alquanto sporgenti, naso rincagnato, specialmente nelle valli dell'Erbezzo e del Judrio, fronte un po' schiacciata: caratteri questi che ricordano lontanamente il tipo mongoloide, come l'assonanza vocalica della parlata dei Rečanji (valle dell'Erbezzo) è, secondo taluni, dovuta a remote e forse preistoriche influenze di linguaggi turanici.

Alcuni dati nosologici.

Alcuni dati nosologici. La media dei riformati militari per infermità o deformità durante il quinquennio 1880-84 fu pei cinque distretti la seguente[102]:

Gemona 24,23 % di cui 3,94 per deficienza di statura
S. Daniele 19,21 % » 3,11 »
Tarcento 19,00 % » 5,20 »
S. Pietro 15,85 % » 2,85 »
Cividale 14,42 % » 2,74 »

Quattordici anni dopo, durante il quinquennio 1904-1908, questi dati subirono notevoli modificazioni e si ebbero le seguenti cifre[103]:

Tarcento 25,04 % di cui 8,27 per deficienza di statura
S. Pietro 22,54 % » 8,47 »
Gemona 21,47 % » 13,27 »
Cividale 19,94 % » 0,74 »
S. Daniele 18,40 % » 8,32 »

Se ne deduce un leggiero peggioramento generale ed uno più forte particolare pei distretti di Tarcento e S. Pietro: in quest'ultimo forse dovuto all'emigrazione — causa di vita poco igienica, di precoci fatiche, di vizi debilitanti l'organismo — che [145] già quasi nulla, vi ha preso, come vedemmo, un notevole movimento ascendente da pochi anni. Degno di attenzione è il forte aumento del coefficiente dei riformati per deficienza di statura, salito dappertutto, tranne a Cividale, dove è ridotto quasi a zero.

I dati relativi a ciechi, sordomuti, mentecatti, imbecilli, scemi risalgono al 1875; ed è veramente a deplorarsi che gli ultimi censimenti non ne abbiano tenuto conto, tali imperfezioni fisiche e psichiche essendo in relazione coi costumi, più o meno morali, e col modo di vivere, più o meno igienico, delle popolazioni. Ed ecco che qui ci accade di dover accennare a una funesta piaga che viene sempre più infierendo anche in questa come in ogni altra parte del Friuli, anzi d'Italia: intendo alludere all'alcoolismo. Cause: il continuo aumento dei salari alla mano d'opera; l'emigrazione temporanea che fa restare in ozio, provvisti di denaro, durante la stagione invernale, un sempre maggior numero di lavoratori; il progrediente sviluppo di alcune industrie nella zona pedemontana che, facendo correre tutti i giorni la moneta per le mani degli operai, se da una parte preserva dalla cattiva alimentazione e dalla pellagra, dall'altra è incentivo all'alcoolismo, grandissimo fattore di caratteri degenerativi ognor crescenti insieme all'agglomeramento negli opifici, alla vita sedentaria e di chiusura in ambienti malsani, al rilassamento dei vincoli famigliari e dei principî etici[104]. Ora l'alcoolismo, insieme alla pellagra, è una delle principali cause [146] del continuo aumento di malattie mentali in tutta la nostra regione[105].

La pellagra.

La pellagra. E qui per addentellato, poichè l'abbiamo ricordata, è necessario riferire intorno a quell'altra vergogna nostra e d'Italia, che è precisamente la pellagra. Essa in Friuli infierì già molto, ma certo in nessun'altra parte del Regno fu come qui oggetto di studi e di cure amorevoli e sapienti, tanto che oggi vi è in sensibile diminuzione, nè è forse lontano il tempo in cui sarà scomparsa interamente. Rispetto alla sua distribuzione geografica, aumenta di intensità in senso inverso all'altitudine, al contrario di quanto fino ad oggi avveniva del fenomeno dell'emigrazione; perciò è nulla, o quasi, nel distretto montuoso di S. Pietro; appena avvertita da qualche rarissimo caso nelle parti veramente montuose dei distretti di Gemona e Tarcento; colpisce un sempre maggiore, ma pur sempre esiguo, numero di individui lungo la striscia pedemontana cui appartengono in buona parte i distretti di Cividale, Tarcento, Gemona, S. Daniele; finalmente infesta abbastanza fortemente la zona pianigiana dei distretti di Cividale e S. Daniele.

Le cause di questa così varia distribuzione del fenomeno patologico si possono intuire facilmente. In montagna l'emigrazione è fonte di agiatezza, sconosciuta per molti abitanti del piano: inoltre, siccome ivi di granoturco si produce appena 110 di quanto basta per tutto l'anno, pel rimanente è necessario ricorrere al mercato dove certo 11011 viene acquistato quello di peggior qualità, mentre è ormai generalmente ammesso — dopo [147] i lavori del Lombroso — causa principale della malattia essere il maiz guasto. Arrogi che in montagna l'alimentazione è più varia, al maiz ed ai legumi aggiungendosi le carni suine ed i formaggi egregiamente confezionati nei molti caseifici cooperativi e facendovisi anche troppo uso di vino, di cui si fa sempre maggiore importazione dalla pianura e dal mezzogiorno d'Italia.

Più depresse invece sono le condizioni economiche degli abitanti del piano, fittavoli la maggior parte, base della cui nutrizione è la cosidetta polenta, fatta con maiz spesso ammuffito, e quindi intossicante, per mancanza di essiccatoi. Anche ivi però igiene e alimentazione e condizioni generali delle popolazioni sono venute via via migliorando negli ultimi anni in seguito specialmente all'impulso che vi fu dato all'allevamento del bestiame e agli eccellenti formaggi che si producono nelle numerose latterie sociali: perciò anche ivi il numero dei pellagrosi è venuto sensibilmente riducendosi, come lo provano le più recenti statistiche in proposito. Infatti erano pellagrosi nei distretti di

  nel 1898 nel 1904    
 
Cividale 134 122 ossia 2,70 ‰ abitanti
S. Pietro 3 » 0,18 % »
Gemona 91 66 » 1,82 % »
Tarcento 116 111 » 3,24 % »
S. Daniele 181 131 » 3,37 % »

Nel 1830 i pellagrosi in tutta la provincia erano: 48.38‰ abitanti; nel 1881: 15.62; nel 1892: 3.92; nel 1904: 2.90[106].

Tale confortevole decrescimento di una malattia, che già fece da noi vittime non meno numerose che altrove la malaria, è dovuta in gran parte al lungo studio e grande amore con cui [148] la benemerita Commissione provinciale della Pellagra viene combattendo il terribile morbo.

Note paletnologiche. L'epoca della pietra.

Note paletnologiche. L'epoca della pietra. La nostra regione lieta di colli ridenti e di fertili piani, atrio aperto d'Italia verso la Penisola Balcanica, antica officina gentium, prossima a quel mare che le primissime memorie e le concordanze toponomastiche ci affermano risalito all'ingiro da popoli affini sino alla Messapia, è naturale fosse abitata fittamente fin da tempi preistorici. Infatti, mentre altrove in Friuli furono rinvenute solo scarse e sporadiche tracce dell'età della pietra levigata, qui, oltre a oggetti sparsi trovati a Cividale[107] e dintorni[108], tra i due villaggi di Sedilis e Molinis[109], presso Cormons[110] e altrove, siamo in presenza di due vere e proprie stazioni neolitiche nella Velika Jama (Grotta Grande) in comune di Savogna, distretto di S. Pietro al Natisone e in quella di S. Ilario presso Robic, poco a monte del confine politico dove il Natisone penetra nel Regno d'Italia.

Fig. 9ª. — Stazioni preistoriche nelle Prealpi Giulie. (AVVERTENZA: È stato omesso il segno della necropoli veneta di Darnazacco posta non lungi da Cividale ad est-sud-est di questa).

Nella Velika Jama si rinvennero frammenti di vasi fittili, i quali trovano stringenti raffronti nelle ceramiche solite a essere scoperte nelle grotte, nelle stazioni all'aperto ed anche nelle palafitte dell'Italia settentrionale, presentando più dirette analogie coi trovamenti fatti nelle grotte del Colombo dei Mori nel Trentino, nelle palafitte di Arquà-Petrarca e di Fimon e nelle stazioni atestine del monte Lozzo. Oltre i prodotti vascolari, notevoli vi sono alcuni altri oggetti isolati, cioè: un frammento di macinello ellittico di pietra arenaria; due pezzi di corno lavorati, probabilmente per servire da manichi; tre punteruoli [149] d'osso. Durante tutto il neolitico le armi e gli strumenti d'osso sostituirono, a quanto pare, presso i trogloditi gli oggetti simili di selce e si rinvennero numerosi nelle caverne tanto sepolcrali come di abitazione della Busa di Adamo (Trento), di Gabrovizza presso Trieste e in molte altre. Un frammento di valva di Mytilis edulis, senza alcuna lavorazione, è difficile accertare se fosse destinato a formare un ornamento, o a servire come mezzo di scambio, o a essere adoperato come strumento di lavoro; certo è che larghissimo fu l'uso delle conchiglie sopratutto durante il neolitico e il cuprolitico tanto di qua che di là delle Alpi. Appartenendo la nostra a una specie marina, [150] ci dimostra come vi fossero relazioni tra gli abitanti dei monti e quelli della pianura litoranea sottostante. Quanto agli avanzi di animali — cervo, capra, pecora, bove, cinghiale, maiale, gatto selvatico, ghiro — sono rifiuti di pasti e provano che le famiglie dimoranti nella grotta eran dediti alla pastorizia e alla caccia[111].

Trovamenti analoghi, la cui tecnica e ornamentazione ci rimanda pure all'età neolitica, vennero fatti, sebbene in minor copia, nella grotta di Robic, dove inoltre fu rinvenuto un bell'ago di bronzo a cruna[112].

L'età del bronzo.

L'età del bronzo. Maggior ricchezza di materiale, appartenente alle successive età del bronzo[113] e protoferrea venne esumata specialmente dalle necropoli a tombe piane presso S. Pietro al Natisone e di Darnazacco presso Cividale: materiale prima trovato sporadicamente e casualmente, raccolto nei musei di Roma, Trieste e Cividale[114]; poscia messo in luce per opera di scavi sistematici eseguitivi a cura del R. Museo archeologico di Cividale negli anni 1908 e 1909[115].

[151] A S. Pietro al Natisone, sul secondo dei tre terrazzi conglomeratici che si estendono a piè del monte Berda, furono scoperte parecchie decine di tombe per combustione, con avanzi depositati o in semplici buche, o, più raramente, in grandi urne cinerarie, racchiudenti variati oggetti, documenti muti delle industrie e del grado di civiltà dei nostri antenati preistorici, i quali avevano la pietosa consuetudine di comporre intorno ai resti mortali dei defunti tutto ciò di cui avevano usato in vita: ornamenti della persona, servizi delle mense, arnesi, strumenti, diversi secondo l'età, sesso e condizione.

Tali materiali appartengono al III periodo atestino del Prosdocimi, analoghi e coevi a quelli delle vaste necropoli nella valle dell'Isonzo a Caporetto e specialmente a S. Lucia[116]. Anche la necropoli di S. Pietro dovette occupare un'area assai vasta, dai pressi dell'odierno cimitero fin oltre il ponte di Vernasso, a est della strada romana da Forogiulio a Starasella, come provano gli assaggi di scavi praticati in vari punti, e ci attesta che fin da quei tempi una numerosa popolazione dovette abitare in queste contrade, popolazione non ricca però, come lo provano la mancanza di ossuari metallici e la relativa povertà e uniformità degli oggetti trovati.

Assai più abbondante suppellettile funeraria ci diedero gli scavi nella necropoli di Darnazacco, più profonda e meno manomessa di quella di S. Pietro, della quale tuttavia presenta caratteri meno arcaici. Oltre i soliti vasi fittili, tra gli oggetti enei, [152] vi predominano le fibule della Certosa, di piccole e grandi dimensioni, meno frequenti negli strati superiori, dove invece più frequente è la fibula La Tène di vari tipi, più o meno evoluti; inoltre si trovarono pendagli, braccialetti, anelli a spirale, aghi crinali; finalmente lame di ferro, picche, spade, anche ritorte, celt e palstab, però solo negli strati più superficiali. Le tombe sono assai fitte: sopra un'area esplorata equivalente a un campo friulano ne furono scoperte circa 400[117].

Distribuzione delle località ove sono resti preistorici.

Distribuzione delle località ove sono resti preistorici. Dal lato geografico l'ubicazione di queste ed altre sedi umane preistoriche della nostra regione ha importanza pel fatto che ne resta dimostrato come le medesime sono in ogni tempo determinate dalle stesse cause e conferma la universale tendenza nei popoli a diffondersi lungo le vie naturali, specie quando siano più facili i passaggi da una valle all'altra. Infatti la Velika Jama è nella valle della Rieca-Alberone, per cui il bacino del Natisone comunica con quello dell'Isonzo mediante la sella di Luicco, la quale, vista in distanza dal piano, si presenta come un'ampia depressione tra il Matajur e il Colovrat e dove pure vennero fatti dei trovamenti preistorici[118]: mentre la stazione di Robic era sopra l'altra più comoda via naturale che per la sella di Starasella (slov. Stare-Sedlo = villa antica) mette in comunicazione fra loro gli stessi due bacini. Ed è lungo questa antichissima via, forse la «Ad Silanos» della Tabula Peutingeriana, che dovettero sorgere più tardi i castellieri del m. Der e di S. Ilario presso Robic, quello di S. Antonio presso Caporetto; e a valle del passo di Luicco sull'Isonzo il castelliere che corona il colle isolato di Tolmino e quello di S. Lucia; finalmente lungo di essa troviamo le necropoli protoferree di Caporetto e di S. Lucia, nella valle dell'Isonzo, di S. Quirino e [153] Darnazacco in quella del Natisone: non lontano dagli odierni abitati di Caporetto, Tolmino, S. Pietro al Natisone e Cividale. Perciò è da ritenere che la nostra regione, contrariamente a quanto un tempo si credeva, prima cioè che alcuno scavo fosse stato seriamente praticato su questo versante meridionale delle Giulie, a differenza di quanto era stato fatto su quello settentrionale, fosse non solo abitata ab immemorabili, ma, considerato anche che altri trovamenti paletnologici vennero fatti in qua e in là pei colli e pel piano del Cividalese, la sua popolazione avesse nel complesso la stessa distribuzione topografica e formasse aggruppamenti in luoghi poco discosti dagli odierni.

I primi abitatori della nostra regione.

I primi abitatori della nostra regione. Di che stirpe fossero quei primitivi abitatori dei nostri paesi, la scienza non è ancora in grado di stabilire, perchè gli scavi non hanno dato nè monete, nè iscrizioni, nè memorie scritte, ma solo documenti muti dai quali si può argomentare tutt'al più il grado di civiltà dei popoli cui appartennero. Giudicando dalle analogie, i neolitici dovettero essere di quella gente antichissima la quale lasciò così larghe tracce di sè nel vicino Carso e lungo tutto il versante meridionale delle Alpi e le coste bagnate dal Mediterraneo, con una uniformità meravigliosa di costumi, di riti, di civiltà, il cui centro di diffusione alcuni cercarono in Asia, altri in Africa, altri infine nelle regioni settentrionali dell'Europa. Forse proprio qui si incontrarono due correnti della grande migrazione primitiva: dei Liguri cioè che si estesero in tutta Italia dall'Alpi alla Sicilia, e dei Pelasgi che si diffusero per la Penisola balcanica[119]: ma si tratta di ipotesi che, per quanto fondate, non è improbabile abbiano a essere modificate dagli studi avvenire.

Certo è che questi popoli, costretti ad abitare in piccoli gruppi e discosti fra loro nelle caverne, non poterono dare alcun impulso al vivere sociale; come è pure certo che nelle Prealpi nostre, poco carsiche, non poterono essere numerosi [154] come nel vicino Litorale, tutto foracchiato di grotte delle più varie dimensioni. È da presumere anzi che presto uscissero ad abitare all'aperto, vuoi per l'accresciuto numero, vuoi pel molto bestiame che dovevano possedere in regione ricca di rivestimento vegetale e nella quale viveva forse anche l'uro (confr. Urusperg = monte dei Bovi, presso Sanguarzo). Per ragioni di vicinanza e di analogia col prossimo Litorale è lecito argomentare che anche qui le prime dimore sorgessero in luoghi elevati e atti ad essere difesi dai nemici, dando origine a quelle costruzioni cui si dà il nome di castellieri: nome veramente improprio e che vale a indicare dimore rese forti naturalmente dalla elevata posizione, fortificate artificialmente mediante valli o muri.

Di esse, per dir vero, nessuna esplorazione ancora venne fatta nella nostra provincia, ma è certo che, come parecchi ne sorsero nel piano, a giudicare dalla toponomastica o da caratteristici accidenti del terreno, come ad Orsaria a Firmano e altrove[120], in numero non meno grande dovettero esistere nella regione collinesca e montana delle Prealpi, lieta di ubertose pendici, coperta di verdi pascoli, atta ad allevare una popolazione di pastori, importante per le vie di comunicazioni tra la zona litoranea e la regione transalpina. Probabilmente, oltre i già ricordati, ve ne fu uno sul m. Berda presso S. Pietro al Natisone, dove uno scavo praticato recentemente mise in luce avanzi di rozze costruzioni[121]; un altro presso la chiesa di S. Antonio di Cravero a poca distanza dalla quale sulla cima del monte vi sono tracce di muri che un'incerta tradizione dice essere già appartenuti a un convento; così presso Prapotnizza in quel di Drenchia v'è una vetta che chiamano Fortin (m. 708), e sopra Subit un'altra è detta Na-grad; nè mancano località coi nomi di Grad, Gadis-ce, Na Gradu. Similmente si hanno motivi di ritenere vi fossero castellieri presso la chiesa di S. Andrea di Erbezzo, [155] e dove oggi sorge il santuario di Castelmonte colle annesse abitazioni[122]. Anzi io son d'avviso che alcune delle numerose chiesette, tutte antiche, le quali in questa regione sorgono per ogni dove sulle vette dei monti, siano state fabbricate sul posto di antichi castellieri, forse già preesistendo come delubri pagani, convertiti poscia in sacelli cristiani, in epoca, secondo me, non molto antica, il cristianesimo essendo qui penetrato lentamente solo dopo che s'era già diffuso per le città e pel piano. Ed anche parecchi dei castelli medievali è probabile abbiano approfittato di posizioni già indicate e rese adatte, almeno in parte, da castellieri preistorici. Comunque, è tendenza di tutti i popoli primitivi il cercare sedi in luoghi sicuri contro fiere e nemici: quindi nella nostra zona sulle vette dei colli e dei monti; nei paesi piani sulle palafitte in mezzo ai laghi e alle paludi.

Ma frattanto è avvenuto l'insensibile passaggio dell'età della pietra a quella dei metalli. Il bronzo apparisce già verso la fine del neolitico tra gli abitanti delle grotte: abbiamo accennato all'ago a cruna rinvenuto in quella di Robic. È certo che questo metallo venne diventando sempre più comune nei castellieri e nelle stazioni all'aperto, pur continuando accanto ad esso, che in allora dovea essere di gran costo, l'uso degli oggetti litici.

E qui merita osservare che nei castellieri isontini v'è accenno in quest'epoca a uno sviluppo di civiltà assai superiore alla neolitica e che non può essere spiegato coi progressi locali, ma fa pensare a un'immigrazione di genti nuove. Donde queste venissero, forse col tempo sapremo: la maggioranza degli scienziati d'oggi ritengono siano immigrati dall'Asia Minore, attraverso gli stretti fra il Ponto e l'Egeo, alla Penisola Balcanica prima, e poscia da questa ai nostri paesi. I primi arrivati, forse all'inizio del secondo millennio a. C., dovettero essere l'avanguardia di più recenti immigrazioni, ed appartennero alla famiglia dei popoli illirici e precisamente a quel ramo [156] d'essi cui si dà il nome di veneti. È probabile siano giunti qui alla spicciolata, o in più riprese, o con moto forse continuo, prolungatosi per secoli, insediandosi pacificamente accanto ai neolitici non molto numerosi, occupando luoghi ancora disabitati, crescendo via via di numero fino a cambiare completamente la fisionomia etnografica della regione, assorbendo la gente primitiva e imponendole la propria lingua e civiltà. Che siano penetrati in via pacifica, lo si argomenta dalla scarsezza di armi che si trovano in tutti gli scavi relativi a quest'età.

I quali scavi, almeno quelli finora eseguiti, ci provano anche che questo popolo dovette fiorire nei nostri paesi specialmente durante il II e III periodo dell'età protoferrea (VII-VI sec. a. C.): epoca in cui aveva già qui occupato tutta la regione alpina e subalpina coll'intera pianura veneta e fuori d'Italia la Croazia, la Dalmazia, la Carniola, anzi la maggior parte dell'Europa media, come si può stabilire in base al ricco materiale epigrafico ed archeologico scoperto in dette contrade.

Senonchè fra i varî gruppi di così estesa popolazione vi dovevano essere differenze più o meno sensibili; anzi, confrontando tra loro i vari trovamenti, differenze abbastanza notevoli esistono fra le stesse nostre necropoli pur così vicine le une alle altre. E il curioso è che fra Darnazacco e S. Pietro, vicinissime, tali differenze sono assai più accentuate che non fra quest'ultima e la valle dell'Isonzo. Ciò, a parer mio, non deve sembrar molto strano se si pensi che anche oggi fra Cividale e S. Pietro, a pochi km. di distanza, v'è assai maggiore differenza etnografica che non fra S. Pietro e Caporetto-Tolmino.

I Celti.

I Celti. Ed ecco che sullo scorcio di quest'epoca le Alpi e buona parte dell'Italia superiore venivano invase dai Celti: solo i Veneti poterono conservare contro di essi la propria autonomia, pur subendone più tardi largamente l'influenza, come sappiamo da Polibio. Quale importanza abbiano avuto nella nostra provincia, non è facile stabilire: è probabile vi siano penetrati di buon'ora dalla Carinzia e dalla Carniola, dove lasciarono larghe tracce di sè in numerose necropoli, pei passi di Saifnitz e del Predil: è probabile anche ne occupassero tutta [157] la regione montana col nome di Carnia, che ancora oggi si conserva. Se non stabilmente, almeno temporaneamente dovettero scendere nel piano, dove a 12 miglia da Aquileia fondarono un oppidum. Lottarono coi Veneti con varia fortuna, ora spingendosi fino al mare, ora rigettati di là dell'Alpi, onde le incertissime e spesso contradittorie notizie tramandateci dagli scrittori antichi intorno ai luoghi da essi occupati. Certo è che nell'idioma friulano esistono parecchi fenomeni fonetici ritenuti celtici, perchè caratteristici dei parlari sonanti su le labbra gallo-romane, comuni a quasi tutti i territori primamente celtici: ad esempio, il palatinizzarsi di ca o ga proprio a tutte le favelle ladine che ricorre parimente nel francese (tranne nel picardo) e nel provenzale settentrionale, ossia anche in territori sicuramente gallo-romani, sebbene nei dialetti gallo-italici dell'Italia superiore vi siano altri indizi celtici che non occorrono nel friulano. Ora noi sappiamo che il friulano fu parlato a Trieste, che Strabone disse borgata carnica, ed in Istria donde scomparve, non però interamente, per l'influenza civile di Venezia[123]. Degno di nota è pure il fatto che la maggior parte dei molti nomi locali in acco, suffisso che, quando però non si tratti di nomi slavi, si vuole d'origine celtica, sia o non sia dipendente da una diretta ragione etnica, sono a nord-est della Stradalta, sulla sinistra del Tagliamento, mentre che nella parte più bassa del Friuli mancano affatto o quasi (Turiacco, Noacco, Popereacco).

Nulla dirò qui degli altri argomenti che militano a favore dell'influenza celtica in Friuli, quali: la famosa epigrafe dei fasti trionfali che ci ricorda i Galli Karnei; il culto del dio Beleno in Aquileia che, forse, trova riscontro nell'odierno costume carnico de «lis cidulis»[124]; i nomi locali di pretesa, per quanto non sicuramente provata, origine celtica, e specialmente di quelli [158] in cui entra la radice kar che, mentre si trova in paesi oggi abitati da Slavi, slava non è, ma sarà piuttosto, secondo pare assai verisimile, una sopravvivenza celtica nella lingua come nella toponomastica slava d'oggi[125]: soggiungerò soltanto che gli scavi archeologici di S. Pietro e Darnazacco non ci offrono prove seriamente dimostrative, poichè tombe celtiche non furon trovate, ma solo oggetti dispersi che accennano a influenze della civiltà celtica, la quale può essersi fatta qui sentire, come nel resto del Veneto, senza una vera e propria conquista dei Celti. Infatti nelle necropoli di S. Lucia e di Tolmino che pel loro contenuto appartengono all'ultimo periodo veneto, troviamo non pochi oggetti di carattere celtico, come fibule ed armi, in epoca nella quale i Celti non potevano ancora essersi qui stabiliti: è interessante anzi seguire quivi la graduale trasformazione della fibula Certosa sino a riuscire in quella tipica di La Tène. Di questa nella necropoli di S. Pietro si hanno solo scarsi esemplari, laddove in quella di Darnazacco essa rappresenta il 15% di quante ne furono scoperte. E ancora altri oggetti gallici, come spade ritorte e torqui, furon qui rinvenuti sparsamente sopra la necropoli paleoveneta: ma, ripeto, nessuna tomba propriamente gallica; oltrechè a quest'epoca le stesse necropoli venete si arrestano bruscamente. Ciò potrebbe significare che la regione, diserta da guerre contro quella gente feroce, rimase dopo d'allora per molto tempo spopolata: ciò potrebbe anche dipendere dal fatto che i sepolcreti gallici più recenti, occupanti gli strati superficiali del terreno, rimaneggiato più volte dai lavori agricoli, sono stati dispersi come lo furono i romani, frammisti alle cui reliquie si trovano oggetti gallici; ciò potrebbe infine essere indizio che, se pure i Celti si stabilirono in altre parti del Friuli, in questa zona prealpina dovettero essere rimasti poco tempo, conquistati e assimilati dai Romani assai più rapidamente che nella regione montuosa della Carnia.

[159] È sperabile che nuovi scavi, ripresi con maggior lena e non in un sol punto della nostra plaga così ricca di storia, specialmente intorno ai maggiori centri abitati, che dalla stessa topografia vengono additati siccome i più antichi, portino nuova luce su questo argomento intorno al quale purtroppo ancora regna così grande oscurità, come del resto intorno a tutta la paletnologia friulana, di cui solo da pochi anni a questa parte si è cominciato a travedere qualche cosa di positivo. Si avranno così dei punti di partenza per ulteriori, più semplici e sicure conclusioni in mezzo alla faraggine di infondate, inutili e spesso puerili argomentazioni che troviamo in tutta la nostra passata letteratura.

Senonchè coi Celti cessa la preistoria dei nostri paesi e il paletnologo deve cedere il campo allo storico: dirà esso del dominio romano in mezzo a noi, del periodo delle invasioni barbariche e degli insediamenti stranieri: all'etnologo spetta ancora delineare brevemente le condizioni etniche attuali della regione.

Slavi e Friulani.

Slavi e Friulani. Oggi la zona da noi considerata è abitata da popolazioni che linguisticamente si distinguono in due gruppi: lo slavo, o meglio jugoslavo, o slavo meridionale, e più particolarmente sloveno, cui appartiene la grandissima maggioranza degli abitanti delle montagne; ed il reto-romanzo, o ladino, o più particolarmente friulano, cui appartengono gli abitanti del piano. Di questi potremo dir poco più di quanto già si conosce di generale circa la rimanente popolazione friulana, dalla quale diversificano solo per qualche carattere fonetico proprio, in piccola parte dovuto forse a influenze subite dal più immediato contatto coll'elemento slavo.

Di più particolari indagini furono oggetto gli idiomi slavi che attrassero maggiormente l'attenzione specialmente di glottologi stranieri, per la stranezza della loro penetrazione in Italia, di cui intaccano leggermente la meravigliosa omogeneità etnografica.

Il confine linguistico tra slavi e ladini si può dire che nel complesso coincida colla linea di falda dei monti e dei colli, i [160] quali sono interamente slavi, mentre la pianura è tutta friulana e non un solo villaggio slavo vi si trova oggigiorno: villaggi friulani anzi sono sul fondo stesso delle valli dove queste cominciano a essere abbastanza larghe ed a subire più direttamente la soverchiante influenza del piano; tali sono, ad es.: Prepotto e Albana nella valle del Judrio; Sanguarzo e Purgessimo in quelle del Natisone; Torreano in quella del Chiarò; Canal del Ferro in quella del Grivò; Attimis e Forame in quella del Malina; Nimis e Torlano in quella del Cornappo; Ciseriis in quella del Torre.

Più minutamente, cominciando dal ponte di ferro presso Gorizia, il confine linguistico passa sopra Lucinicco e Mossa, raggiunge il torrente Versa, in maniera però che la parte settentrionale del comune di Lucinicco, con Gradiscutta e Trebez, sia ancora slava. Prosegue ad ovest coincidendo coi confini amministrativi dei comuni di Cormons, Brazzano e Ruttars. A Venco e Dolegna, già slavi, oggi si parla friulano, ma Lonzano e Croazia sono a popolazione mista[126].

Penetrando nella nostra provincia, passa per Albana e risalendo il torrentello oltre Centa, raggiunge il m. Subit (m. 344), si attiene alla strada carreggiabile verso Castelmonte fino alla c. Muldiaria, donde si abbassa per la costa del monte di Purgessimo fino al confluente dell'Azzida col Natisone. Da Ponte S. Quirino si spinge su pel m. dei Bovi (m. 374) e, girando intorno a Bundig, fino al Mladesiena: ne ridiscende sopra Canalutto presso il molino Forano; guadagna il S. Lorenzo e quindi il Piccat, seguendo il confine tra i comuni di Torreano e Faedis. Di lì torna indietro dirigendosi sotto Costalunga e per Canal di Grivò verso il m. Pojana; e poi lungo il confine tra Faedis ed Attimis, inferiormente a Porzus, fino al m. Celò (m. 713). Passando sopra Forame e sotto Cergneu di Sopra presso il molino sul Lagna, raggiunge il Zoban, il Zuccon e il Plajul.

[161] Di qui cala sul fondo della valle del Cornappo, seguendone il corso fino a girare intorno alle case di Ramandolo; e, attraversando Sedilis, oltre Patocchis e Lucchin, raggiunge il Torre sopra Menot. Quindi piega direttamente ad ovest sopra Zomeais, risale il Torrente sotto Sammardenchia; e pel confine tra i comuni di Ciseriis e Montenars e pel Campeon ritorna indietro al Zimor, su per il quale, passando sotto i casali di Cretto di Sopra, di Sotto e di Frattin, si spinge fino a toccare il Quarnan: donde pel confine tra Gemona e Lusevera raggiunge il Ciampon e il Cuel di Lanes. Da questo per Forcella Musi si porta al Cadin, dopo il quale confina col comune pure slavo di Resia, di cui però solo la valle del rio Bianco appartiene alla nostra regione[127].

A nord-est di questo confine tutta la zona prealpina è abitata da popolazioni slave che si estendono ininterrottamente fino all'Isonzo confondendosi oltre il medesimo coi paesi slavi dell'Austria, dei quali rappresentano la più recente trasgressione etnica di qua dalle Alpi: una delle tante trasgressioni di popoli comuni all'intera zona alpina d'Italia.

Dalla posizione che gli Slavi occupano sembra evidente siano penetrati in Friuli dalla valle dell'Isonzo: pei passi di S. Nicolò, di Clabuzzaro, di Luicco e di Starasella riversandosi sui territori di S. Pietro e Cividale; per l'alta valle del Natisone invadendo il bacino del Torre; per il rio Bianco e la sella Carnizza la val di Resia.

L'immigrazione slava.

L'immigrazione slava. Quando ciò sia avvenuto non fu ancora dimostrato in modo soddisfacente. J. Baudouin de Courtenay emise anzi l'opinione che possano essere esistiti nella nostra regione fin da tempi antestorici[128]: opinione la quale non deve sembrar poi tanto strana oggi che sulla origine e degli Arii in genere e degli stessi Slavi in ispecie esistono [162] così contradditorie ipotesi. Essi vi avrebbero occupate le montagne, mentre sul fondo delle valli più ampie erano forse altri popoli di maggior civiltà dei quali soli perciò ci son rimaste tracce nei trovamenti archeologici. Gli Slavi passarono inavvertiti ed entrarono tardi nella storia perchè questa si occupa principalmente di popoli guerrieri, avvezzi con gesta belliche a far rumore intorno al proprio nome.

Di essi comincia a far sicuro cenno appena nel VI secolo dopo Cristo, quando li vediamo sui confini d'Italia, prima accanto agli Avari e poscia da soli lottanti con varia fortuna contro i Langobardi forogiuliesi. Sotto Vettari sembra fossero stabiliti definitivamente almeno fin presso l'odierno ponte di S. Quirino[129]. Più tardi sotto i Franchi, importati o accettati in qualità di coloni in molti luoghi del piano, diserti da guerre e da pesti, analogamente a quanto avvenne nell'Istria, fondarono parecchi nuclei di popolazione che si protesero fin oltre il Tagliamento, come dalla toponomastica ci viene provato a esuberanza[130].

Ma nel piano, quantunque arrivati più tardi, dove formarono delle isole linguistiche disperse, non seppero mantenersi, venendo presto assorbiti dal soverchiante elemento friulano: ben vi riuscirono in mezzo ai monti, quantunque, come vedremo, ridotti di molto, non per deliberato proposito di resistenza, ma unicamente perchè ivi più debolmente si fe' sentire l'influenza degli elementi preponderanti in pianura, oltrechè perchè si appoggiano colle spalle agli slavi austriaci, coi quali formano un'unica massa etnica.

Soggetti, come il resto del Friuli, prima ai Patriarchi, poscia a Venezia, le furono più che fedeli affezionati, tanto da ottenerne [163] rispetto delle proprie consuetudini, autonomie amministrative, esenzioni da gravezze ed altri privilegi. Amanti di libertà, perciò odiatori del regime austriaco, insorsero contro di esso, come gli altri friulani, nel 1848 e parteciparono con entusiasmo alle guerre per l'indipendenza[131].

Nè oggi sotto il libero e democratico governo d'Italia, pienamente rispondente all'indole loro, sono certo fra i meno buoni cittadini.

Il numero degli Sloveni del Friuli.

Il numero degli Sloveni del Friuli. Ma qual'è la cifra da essi raggiunta in Friuli? Il censimento del 1901, procedeva alla statistica degli alloglotti dimoranti entro i confini del Regno. Senonchè, anzichè tenere conto dei singoli individui, provvide alla numerazione delle sole famiglie parlanti idiomi stranieri. Ed ecco il riassunto di quelle parlanti slavo nella zona da noi considerata[132].

DISTRETTI Comuni Numero delle famiglie che parlano abitualmente lo slavo Numero complessivo delle famiglie
 
S. Pietro al Natisone S. Pietro 573 589
  Drenchia 218 218
  Grimacco 261 261
  Rodda 254 257
  S. Leonardo 448 449
  Savogna 297 299
  Stregna 294 294
  Tarcetta 328 329
 
    2673 2698
[164]
Tarcento Lusevera 469 484
Platischis 540 560
 
    1009 1044
 
Gemona Montenars 112 115
 
Cividale Attimis 295 311
  Faedis 280 320
  Torreano 122 122
  Prepotto 208 355
 
    905 1108
 
Moggio Resia 1077 1083
 
  Totale generale 5776

Si hanno complessivamente 5776 famiglie che, in ragione di 5.5 membri ciascuna, danno un totale di 31,768 individui, comprendendovi i resiani.

Senonchè il censimento pecca di alquante inesattezze come venne già in altro mio studio dimostrato[133], non avendo considerati come slavi parecchi villaggi che lo sono. Nel comune di Ciseriis infatti sono quasi interamente slave le frazioni di Sammardenchia (ab. 578) e Stella (ah. 476); lo sono in parte Malamaserie (lo slavo vi è parlato da molti dei nati da oltre 12 anni), Coia slava e Sedilis (lo slavo vi è conosciuto da tutti, parlato però soltanto dai nati da oltre 30 anni). E quanto al comune di Nimis vi sono slave le frazioni di Cergneu di Sopra con Pecolle (ab. 86), Chialminis (408), Monteprato (ab. 321) e in parte anche Ramandolo. Si aggiunga che vi sono molte famiglie slave trapiantate nel piano le quali tra le pareti domestiche parlano tuttora la lingua nativa, mentre pubblicamente fanno uso del [165] friulano. Per le quali ragioni tutte è mia opinione che il numero dei parlanti slavo in Friuli si aggiri intorno ai 35.000: dai quali deducendo gli abitanti di Resia, ch'escono dalle Prealpi, tranne quelli di Uccea (318) che soli vi sono compresi, gli Slavi nella nostra regione sono circa 32.000. Essi vi rappresentano perciò poco più di un quinto dell'intera popolazione (167.923) dei cinque distretti da noi considerati, mentre ne occupano quasi una metà della superficie.

La antica maggiore estensione degli Sloveni.

La antica maggiore estensione degli Sloveni. Certo è però che in passato dovettero estendersi, sia pure sparsamente, sopra un'area assai più vasta dell'attuale, anche prescindendo da quelli che di buon'ora scomparvero dal piano. Infatti un tempo si parlava slavo a Prepotto, Albana, nonchè in buona parte dei comuni di Torreano, Faedis, Attimis, Nimis e Ciseriis. Marin Sanudo collocava i confini della Slavia alle stesse porte di Cividale[134]; così pure il Provveditore della repubblica veneta in questa città Vincenzo Bollani[135]; e il Rutar assicura che si parlava slavo, oltrechè nei grossi centri di Faedis, Nimis e Attimis, anche a Moggio[136].

Solo nel distretto di S. Pietro al Natisone, che occupa la posizione più centrica della Slavia friulana, e forma quasi una regione a sè, la quale in ogni tempo fu anche base di un'unità amministrativa, già conosciuta sotto il nome di Convalli d'Antro e di Merso, dove inoltre il clero nelle chiese si vale esclusivamente del linguaggio sloveno e gli abitanti, grazie forse ad una superiore cultura, presentano una maggiore resistenza etnica, solo ivi l'elemento slavo non ha subito riduzione alcuna, ma la lingua ne è parlata da tutte le famiglie a qualunque condizione [166] sociale appartengano, sebbene la grandissima maggioranza degli abitanti comprenda pure l'italiano e il friulano grazie alle scuole e alle relazioni di ogni specie col piano.

Negli altri distretti invece, dove sono in più diretto contatto coll'elemento friulano e, o fusi con esso amministrativamente, o, in tutti i casi, disgregati fra loro, e dove nelle chiese si predica e si istruisce in friulano, vengono sempre più assottigliandosi di numero, dal piano ritirandosi verso le alte valli e i monti, inquinando con una sempre maggior quantità di furlanismi il proprio idioma, che in taluni luoghi è ormai talmente corrotto da riuscire quasi incomprensibile e ai friulani e agli stessi Sloveni puri, e si può prevedere non lontano il tempo in cui l'idioma ladino li avrà guadagnati a sè completamente.

Toponomastica slava e toponomastica friulana.

Toponomastica slava e toponomastica friulana. Gli studi toponomastici potrebbero fornire un indice della intensità e direzione topografica delle varie influenze etniche nella regione. Un fatto degno di nota è che specialmente in quel di Tarcento e nell'antico distretto di Faedis l'influenza ladino-friulana si fa sentire con un maggior numero di nomi bilingui, affatto indipendenti tra loro nel significato; esempi: Valle (Pod cierkvo), Costalunga (Vile), Clap (Podrata), Canal di Grivò (Podklap), Canal del Ferro (Pod Vilo), Forame (Malina), Chialminis (Vizont), Monteprato (Karnica), Villanova (Za Vrh), Lusevera (Brdo), Monteaperta (Viskuorsa), Pradielis (Ter), Nongruella (Dobje), Vedronza (Njívica), Cesariis (Podbrdo), Pers (Breg), Ovse (Cretto). Invece nella valle del Natisone, sicuramente abitata fin da tempi preistorici, notevole è il numero di nomi di etimologia incertissima, adattati alla fonologia slava da una parte, a quella italiana o friulana dall'altra: esempi: Vernasso (Barnas), Azzida (Algida? Azla), Rodda (Ruonac), Pulfero (Podbuniesac), Brischis (Brisca), Pegliano (Ofijan), Spagnut, Biacis (Biaca), Erbezzo (Arbec), Oculis (Naukula), Mersino (Marseu); ciò si avvera anche sul fondo delle altre valli fino dove le medesime sono abbastanza larghe e aperte sul piano. Nella stessa valle del Natisone non infrequenti sono i nomi di origine prettamente [167] latina, adattati e talvolta alterati dalla pronunzia slava, esempi: Sorzento (Sarzenta), Biarzo (Biarc), Mezzana (Mecana), Costa (Kuosta), Tercimonte (Tarcmun), Montemaggiore (Matajur), S. Giovanni d'Antro (Landar), Masseris (Masera), ecc.; rarissimi i nomi bilingui, quali: Montefosca (Cernivrh), Castelmonte (Staragora), Tiglio (Lipa). Nelle valli della Cosizza, dell'Erbezzo e dell'alto Judrio prevalgono nomi di origine prettamente slava, a etimologie sicure, senza intrusioni italiane o dirette o parallele. Ciò proverebbe da un lato che le parti più basse della zona montana furono abitate da genti non slave a cui si sovrapposero le slave, forse dopo che a quelle si erano sovrapposte le romane, alterandone completamente la fisionomia etnica ed accettando la preesistente toponomastica, già passata attraverso i Romani, i quali ai più vecchi avevano aggiunto dei nuovi nomi, anch'essi quindi accettati dagli Slavi che ne aggiunsero dei propri: dall'altro proverebbe che il carattere prettamente slavo si accentua dal basso verso l'alta montagna e da ovest verso est: allo stesso modo che in dette direzioni si attenuano gli elementi ladini e italiani che più o meno compenetrano tutti i parlari slavi del Friuli data la perenne appartenenza politica dei medesimi a dominî siti di qua dalle Alpi.

I diversi gruppi dialettali degli slavi.

I diversi gruppi dialettali degli slavi. Secondo gli studi dell'illustre slavista polacco J. Baudouin de Courtenay dialettologicamente i nostri slavi si distinguono in quattro gruppi, cioè:

I. Resiani appartenenti al distretto di Moggio e solo quelli di Uccea (Ucja) nella valle del rio Bianco, affluente dell'Isonzo, compresi nella nostra zona: essi rappresentano la continuazione storica di una fusione di diverse tribù slave mescolate con un elemento etnico straniero abbastanza forte per aver potuto lasciare di sè nella lingua tracce fonetiche indelebili, principale l'assonanza vocalica. Anche fisicamente (occhi e capelli neri, color della carnagione olivastro) differiscono dagli altri Slavi del Friuli. La loro provenienza da diverse tribù è indicata da almeno quattro varietà dialettali in cui si distingue il loro idioma. Quella di Uccea è derivazione della parlata di Oseacco, [168] a caratteri alquanto più arcaici, più rozza e maggiormente vicina allo sloveno con cui è confinante, dicendo sou, dou, biu, invece di sol, dol, bil[137].

[169]

Fig. 10ª. — Gli Slavi delle Prealpi Giulie. — Scala 1:600.000.

II. Slavi del Torre, nei distretti di Gemona e Tarcento, che sono Serbo-croati affini a quelli dell'Istria e del Quarnero[138]. Nel [170] territorio di questo dialetto è scritto il più antico documento datato della lingua slovena che perciò presenta uno straordinario interesse[139]. È un diario della confraternita di S. Maria in Cergneu che comincia l'anno 1459 in latino, ma dal 1497 al 1588 continua in sloveno.

III. Slavi di S. Pietro al Natisone (valli del Natisone, dell'Alberone, della Cosizza e dell'Erbezzo), risultato di una combinazione dell'elemento serbo-croato e dell'elemento sloveno: loro base è il serbo-croato del gruppo precedente con sovrapposizione slovena accentuantesi verso est. Come dialetti di transizione dal II al III gruppo si possono considerare quelli di Canebola e Maserolis. Però non poche differenze si avvertono fra i parlari della valle del Natisone e quelli della Cosizza-Erbezzo[140].

IV. Slavi del Judrio, appartenenti alla schiatta slovena, la cui parlata non è che la continuazione del dialetto sloveno del Coglio che si estende verso est e fin sopra Canale verso nord[141].

[171] Quantunque tale divisione s'imponga sotto il rispetto scientifico — linguistico ed etnografico — tuttavia gli ultimi tre gruppi non differiscono tra loro che per leggerissime sfumature; solo il resiano ne diversifica, non però più di quanto si scosti dalla lingua letteraria italiana la maggior parte dei nostri dialetti.

Tradizioni, leggende, usi e costumi degli Slavi.

Tradizioni, leggende, usi e costumi degli Slavi. Gli Slavi del Friuli non hanno una letteratura propria: alquante novelle, la maggior parte delle quali patrimonio comune ad altri popoli; poche canzoni popolari d'indole religiosa — qualcuna, per dir vero, bellissima — o amorosa, o satirico-umoristica. Qualche canto patriottico, venuto in luce durante i moti antiaustriaci tra il 1848 e il 1866; alcune scarse poesie letterarie, pubblicate specialmente sui giornali di Lubiana, lamentanti il vergognoso abbandono in cui viene lasciata la lingua del popolo, costretta a cercar l'ultimo rifugio nella chiesa; finalmente una lodata raccolta di versi, non però nel dialetto del paese, ma nell'idioma letterario sloveno, di Zameiski.

Anche il folk-lore locale va sparendo via, via, come del resto da ogni altro luogo. Si novella ancora di krivopete, dai [172] piedi ritorti, dai lunghi capelli verdi scendenti sulle spalle e sul petto, crudeli e cibantisi di carne umana, dimoranti nelle grotte: si ricordano le torke giranti la notte per le case a sorprendere le massaie che lavorano in ore proibite; i vedomci o balladanti, i quali per un destino a cui non possono sottrarsi son costretti ad errare nelle tenebre ed a percuotersi ai crocicchi delle vie così fortemente che le membra ne volano per aria; gli skrati, dalla statura nana, coperti la testa di un berretto rosso che nel silenzio della notte, seduti nei focolari, si passano per le mani i carboni ardenti, mettendoli e rimettendoli in un'urna di metallo; e molte altre cose si raccontano, sebbene sempre più incertamente e vagamente, di streghe e di maghi, di spiriti folletti (strasila), di apparizioni di morti; e vi sono leggende relative al tuono, alle stelle cadenti, ai bolidi, alla via Lattea. Si festeggiano coi fuochi i due solstizî, con significato religioso diverso dall'antico; rimane tuttora qualche cosa delle antiche costumanze in ordine alle principali festività ecclesiastiche: Natale, Capo d'anno coi Koledari, Pasqua, S. Giovanni Battista colle margherite (roze svetega Ivana) onde si adornano i ballatoi delle case; si porta il fuoco sacro, ottenuto dalla combustione di casse di morto, nelle famiglie il Sabato santo; si praticano scongiuri, bruciature di olivo benedetto e dei «fiori di S. Giovanni» durante i temporali. A molte piante si attribuiscono virtù terapeutiche e innumerevoli pregiudizi si conservano intorno al modo di curare ogni specie di malattie (ai più semplici non ispirando ancora soverchia fiducia la medicina scientifica), intorno alle stagioni, alle influenze lunari sul taglio delle piante, sulle semine e sul travaso dei vini, intorno a tutti i fenomeni meteorologici[142].

[173] Delle usanze nuziali antiche, non si hanno che deboli rimasugli[143]. Pur nel vestire la universale moda ha dovunque sostituito le pittoresche fogge di un tempo: e il modo di nutrirsi e di vivere viene sempre più uniformandosi a quello del piano. La pinza vi è forse ancora il piatto nazionale; la gubana vi ha avuto origine ed è immancabile alle sagre.

Fig. 11ª. — Casa a ballatoi sovrapposti in Merso di Sotto (distr. di S. Pietro). Fot. G. Feruglio.

Abitazioni alquanto caratteristiche, sempre più rare del resto, sono solo nei villaggi più discosti dalle strade. Dalla facciata principale di ogni casa, sporgono poggiuoli, talvolta doppiamente sovrapposti, spesso lavorati con pretese d'arte, che servono da essiccatoi; vicino alle case in montagna, specialmente nel Drenchiotto, vi sono le kaste, appositi edifizi, specie [174] di guardarobe, in cui ripongono di ogni cosa; e in quel di Savogna le supe, dove raccolgono foraggi e foglie secche. La casa primitiva a un solo ambiente, con due piani, è quasi scomparsa: se ne conservano ancora degli esemplari, ma ordinariamente servono da stalle o fienili. Nelle izbe (sale da mangiare) di buona parte della montagna, specie nel distretto di S. Pietro, sono caratteristici i forni-stufe (pec) che nella stagione invernale durante la notte vengono convertite in lettiere, distendendovi sopra le coltri. A Montefosca, ad Erbezzo, a Mersino ho notato molti passaggi a galleria sotto le case, e nel primo dei detti villaggi dànno assai nell'occhio numerosi pozzi-cisterne, in cui si raccoglie l'acqua piovana che scola dai tetti, resi necessari dalla scarsezza delle acque di sorgente. Finalmente dappertutto richiamano l'attenzione i dvori o cortili, intorno ai quali sono le abitazioni di parecchie famiglie, di solito aventi lo stesso cognome, assai probabilmente originate da un'unica famiglia primitiva divisasi in più parti. Un tempo il maggior numero dei [175] tetti erano coperti di paglia: oggi lo sono sempre meno, sia in causa d'incendi onde spesso furono abbruciati interi villaggi, come Cepletischis, Drenchia superiore, Lombai; sia perchè realmente un notevole progresso edilizio si è fatto strada dovunque. Tali tetti sono ancora abbastanza frequenti in quel di Drenchia dove è una relativamente copiosa produzione di frumento; rarissimi nelle parti più elevate di alcuni altri comuni, come: Savogna, Rodda, Platischis. In questo ultimo, nel villaggio di Monteaperta, parecchie case hanno il tetto ancora coperto di lastre di pietra e circa 30 anni fa lo avevano tutte.

Fig. 12ª. — Casa col tetto di paglia a Rucchin (distr. di S. Pietro) Fot. G. Feruglio.

Come ogni altro popolo, anche lo slavo-friulano viene sempre più uniformandosi non solo ai tempi e costumi, ma anche alle idee nuove, spogliandosi grado grado dei più caratteristici tratti della sua psiche primitiva; conserva però ancora in parte quello spirito particolarista e un po' anarchico, ereditato dalla vita pastorale nomade di un tempo, per cui difficilmente si adatta a disciplina ed è refrattario a ogni idea di associazione e cooperazione. Non essendovi in mezzo ad esso nè servi, nè padroni, ma tutti proprietari, è naturale sia dominato da idee di eguaglianza, ed abbia un perfetto sentire democratico; chi colloca ad altri, più o meno temporaneamente, la propria opera, ne è trattato alla pari; i rari domestici sono oggetto dei maggiori riguardi[144]. In generale lo Slavo non è tormentato da grandi bisogni, ma facilmente si accontenta della propria condizione: lavoratore instancabile, è gaio nella lieta, non si lascia scoraggiare dall'avversa fortuna. Più che a conquistare, mira a conservare quanto possiede e ne è geloso e perciò litiga volentieri e spesso ricorre ai tribunali. È di costumi semplici, ligio alla morale, difficile a commettere delitti. Pieno d'amor proprio, pratica largamente l'ospitalità in quanto i mezzi glielo permettano, ed ama figurare in qualsiasi circostanza, talvolta fino all'esagerazione. Sveglio d'intelligenza, facilmente adattantesi a nuovi ambienti e costumi, dotato di attitudini [176] assimilatrici e imitative più che creative, è suscettibile di qualsiasi grado di educazione e di istruzione.

Le parlate friulane.

Le parlate friulane. Venendo ora ai friulani, noto è come il loro idioma appartenga al gruppo orientale del sistema dei linguaggi reto-romanzi o ladini[145] tra i quali, pur differendone per alcuni importanti caratteri fonologici, si può considerare come il più cospicuo, grazie all'ampia e libera espansione della sua attività assai robusta. È deplorevole che si abbiano solo scarse notizie intorno alle varietà più o meno spiccate in cui si distingue, nonostante i molti canti popolari ed i proverbi raccolti in ogni parte del Friuli, ma pubblicati senza che ne venisse indicata la provenienza topografica. Comunque, la nostra zona appartiene a quella varietà dialettale che è fondamento al dizionario del Pirona[146] e che l'Ascoli[147] chiamò tipo udinese, e prima ancora il Cherubini aveva appellato generico o centrale ed è lo stipite da cui dipendono gli altri dialetti e sottodialetti del Friuli. Benchè l'atticismo di esso si riconosca specialmente nelle terre di S. Daniele, di Pers, Mels ecc., alla radice dei monti verso nord, esso è parlato con abbastanza purezza in tutto il rimanente territorio tra Tagliamento ed Isonzo. L'Ascoli distingue da esso il tipo goriziano avvertendo che molte altre suddistinzioni sono riservate all'avvenire[148]: al tipo goriziano si avvicina alquanto, secondo me, il cividalese per l'a in luogo di e nel singolare dei nomi femminili. Il Gartner però afferma che vi sono solo minutissime differenze tra i parlari di questa zona e concernono quasi tutte la pronunzia[149].

[177] Noto è come il friulano venga sempre più subendo l'influenza del Veneto, che ne ristringe progressivamente i confini: così già nello scorso secolo è scomparso da gran parte dei distretti di Sacile e Pordenone; così non è più parlato a Trieste, dove lo fu sino al principio del secolo passato[150]; mentre sulla spiaggia settentrionale dell'Adriatico presso Grado, come nel distretto di Monfalcone sulla sinistra dell'Isonzo, fu sempre in uso il veneto[151], il quale va oggigiorno guadagnando terreno anche nei maggiori centri della nostra zona: a Cividale, Cormons, Tarcento e Gemona, dove è parlato cumulativamente al veneto quasi da tutti. È nelle campagne, e segnatamente sotto i monti, che presenta maggior forza di resistenza e, delle perdite che altrove subisce, ivi si rivale sullo slavo.

Il più antico documento letterario dell'idioma friulano appartiene alla nostra zona: è la famosa epigrafe di Racchiuso del 1103[152]. Nonostante la sua grande antichità, esso ha conservato la originalità e impronta primitiva, perchè rimasto unicamente lingua del popolo ed, escluso dalle scuole e dai pubblici uffici, non però dalla chiesa nella predicazione, non ha avuto se non una scarsa letteratura[153]. Nè molto influirono su di esso il contatto collo slavo verso est e la penetrazione etnica slava di un tempo, quando questa lingua era forse intesa alla stessa corte dei duchi langobardi[154]; e nemmeno l'invadenza germanica durante due secoli di dominio langobardico prima, poscia durante oltre due secoli (1019-1250) di Patriarchi quasi senza eccezione tedeschi, alla cui corte Tommasino dei Cerchiari scriveva [178] nella lingua dei minnesingeri[155], e i quali infeudarono a nobili tedeschi buona parte della nostra regione, come molti nomi di castelli, ad esempio: Grünenberg, Urusperg, Schärfenberg (Soffumbergo), Perchtenstein (Partistagno), Braunberg (Prampergo) ecc.[156], testimoniano tuttora; durante il dominio di Venezia più tardi, quando attraverso il Friuli un attivissimo commercio veniva esercitato colle città tedesche specialmente di Augusta e Norimberga: commercio di cui fu centro Gemona e lungo tutta la strada commerciale vi avevano mercanti tedeschi e borgate o città con nomi tedeschi accanto agli italiani, quali: Peutscheldorf (Venzone), Haseldorf (Nogaredo); o adattati alla pronuncia tedesca, quali: Clemaun (Gemona), Weiden (Udine), ecc. Contuttociò piccolissimo è il numero di voci tedesche e slave penetrate nel nostro idioma, come fu messo in evidenza da quanto il Pirona[157], lo Schneller[158], lo Schuchardt[159] scrissero in proposito[160].

Certo è tuttavia che anche qui, come in tutto il resto del Friuli, nonostante l'omogeneità del linguaggio, dovettero fondersi insieme elementi etnici disparati, onde fu determinato non solo il tipo fisico, ma anche quello psichico degli abitanti. Assai più che non i Veneti del piano, essi, per temperamento, si avvicinano ai popoli settentrionali. Rudi alquanto e tagliati un po' all'antica, ma seri, positivi, sinceri: amanti di essere più che di parere, dei comodi materiali più che del lusso: lavoratori non frettolosi, ma tenaci ed esatti: sobrii nel parlare, incapaci [179] di corteggiare, rifuggenti dalle vie trasverse per farsi innanzi e salire. Riescono meglio negli studi scientifici e pratici che in quelli ameni, sebbene siano da essi usciti i due maggior poeti dialettali del Friuli: Ermes di Colloredo e Pietro Zorutti. Tuttavia l'arte ha segnato cospicue impronte di sè nei loro principali centri di Venzone, Gemona e Cividale: quest'ultima città anzi non ha rivali in Friuli per la sua collezione di cimeli preziosi e di antichità.

Le «villotte» tradizioni e leggende friulane.

Le «villotte» tradizioni e leggende friulane. Nonostante l'apparenza di freddezza e serietà, il popolo delle campagne è imaginoso, sentimentale, poeta; e la sua musa ci ha dato innumerevoli villotte di cui pubblicarono raccolte il Teza[161], il Leicht[162], l'Arboit[163], il Gallerio[164], il Podrecca[165], l'Ostermann[166]: succinta, concisa e quasi epigrammatica nella forma, si vale di imagini, di confronti, di allusioni: la vita di tutti i giorni, la famiglia, la casa, la piazza del natio villaggio, le relazioni coi villaggi vicini sono gli argomenti intorno a cui di solito si aggira: l'amore, molte volte sensuale, è la nota che più comunemente la muove e genera la maggior parte delle liriche spontanee, non di rado accompagnate da melodie così patetiche che possono reggere al confronto delle più felici ed elaborate produzioni musicali. Rari sono i canti patriottici, sia perchè la politica non ha voce nel poco istruito popolo dei campi, sia perchè si andava cauti in passato nel manifestare i propri sentimenti d'odio contro [180] l'ombrosa polizia straniera e preferivasi esprimerli più efficacemente mediante i proverbi. Di questi, che rispecchiano intero il carattere della parte più semplice delle popolazioni, le quali vi hanno condensato tutto il patrimonio delle loro cognizioni morali e fisiche, frutto di ripetute esperienze, oltre parecchie altre minori, un'importante raccolta venne pubblicata dall'Ostermann[167]. Nè mancano tradizioni storiche e fiabe popolari, religiose, morali, burlesche, satiriche, erotiche, romanzesche, ricche queste ultime di tutto il bagagliume di meraviglie di cui riboccano i poemi cavallereschi. Molto qui si potrebbe riferire pure in fatto di pregiudizi e superstizioni a volerne parlare di proposito e ne verrebbe dimostrato quanta ricchezza di materiale folk-lorico sia tuttora in mezzo alla nostra gente[168]. La quale fu in ogni tempo profondamente religiosa e, se vogliamo, anche superstiziosa, specialmente nelle campagne per cui religioso è il substrato di quanto ne riguarda le più comuni manifestazioni del pensiero; e vi hanno tramandate, accumulatesi, travisate nel corso dei secoli, tracce pagane, bibliche, cristiane e fors'anco del rozzo feticismo dei più antichi tempi. Ogni ordine di fenomeni e leggi naturali che non comprende, cosmici, astronomici, geografico-fisici, meteorologici, biologici, colpisce la sua fantasia e per ispiegarli ricorre spesso a cause soprannaturali. Iddio, gli angeli, i santi ed i beati; i demoni, le streghe, i maghi, gli incubi e i succubi, gli ossessi e gli spiriti folletti offrono ancora argomenti a credenze strane, a racconti inverosimili, a ridicole paure; nè è lontano il tempo in cui si praticavano i maleficî, i sortilegi e gli scongiuri. Finalmente molte caratteristiche usanze intorno a tutte le fasi [181] della vita individuale e sociale, nascite, matrimoni, morti, festività, divertimenti, giochi, occupazioni, colla loro grande varietà — insieme a tutto il complesso di materiale folk-lorico che abbiamo ricordato — testimoniano la fusione di più elementi etnici e l'incontro e la sovrapposizione di parecchie civiltà popolari.

Nel vestire non hanno più nulla di speciale; nel modo di vivere, base della nutrizione sono il maiz, i legumi, le carni suine, e, più o meno, altri prodotti nelle singole zone agricole con cibi variamente preparati secondo le condizioni sociali delle famiglie e le circostanze per cui devono servire; nelle abitazioni degnissimo di nota è il focolaio che contraddistingue la casa friulana nella quale non manca mai: ampio, bello, bene illuminato, d'inverno tutta la famiglia e spesso anche i vicini vi si raccolgono intorno al fuoco a passare allegramente le serate in lieti conversari improntati alla semplicità e bonomia proprie del carattere friulano.

[182]

IX.
LE CONDIZIONI AGRICOLE

Cenni di FRANCESCO MUSONI.

Le zone agricole. Zona montana e submontana.

Le zone agricole. Zona montana e submontana. La regione considerata in questa guida può essere divisa in quattro principali zone agrarie: la montana e submontana, la collinesca e pedemontana, la morenica extralpina e la zona delle alluvioni grossolane del piano. Questa divisione coincide presso a poco con quelle fisiche indicate nei precedenti capitoli della guida e con quella adottata, sebbene con denominazioni in parte diverse, dalla Statistica integrale delle colture e dei prodotti agrari nella provincia di Udine pubblicata dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio[169].

Alla prima zona appartengono i comuni di Montenars (Gemona), Lusevera e Platischis (Tarcento), tutto il distretto di S. Pietro al Natisone, nonchè i comuni austriaci di Creda, Bergogna e Luicco (Tolmino).

La parte più elevata di questa zona, costituita dalle più interne catene prealpine, si può considerare quasi improduttiva, non mancano però boschi, specialmente di faggio, nei versanti settentrionali dei monti e praterie in quelli meridionali.

Poco produttiva nel complesso si può considerare anche la zona submontana, con le aree carsiche e grandi distese a boscaglia e a magro pascolo. Gli stessi ampî e ridenti bacini dell'alto [183] Torre, dell'alto Cornappo e dell'alto Natisone, non ostante la somiglianza della costituzione geologica, sono meno fertili dei pendii esterni delle prealpi. Si deve certamente a ragioni climatiche se nei comuni di Creda, Bergogna, Platischis e Lusevera mancano affatto, o quasi, alcune coltivazioni: ad esempio il frumento, la vite, il gelso: gli ultimi due sono insignificantemente coltivati solo nel comune di Lusevera che produce 120 hl. di vino e 812 kg. di bozzoli[170]. Invece nel distretto di S. Pietro, il frumento è più o meno coltivato dappertutto, perfino sul rialto di Ravne, a più che 1000 m. sul livello del mare, con una produzione media da 13 a 15 hl. per ettaro, presso a poco eguale a quella delle più ubertose plaghe del piano[171].

Coltivata vi è pure la vite con produzione in alcuni comuni abbastanza forte, come a S. Pietro (hl. di vino 3150), Rodda (3450), Tarcetta (2665), Savogna (1935), San Leonardo (1719); più debole nei più elevati comuni di Stregna (1060), Grimacco (665) e Drenchia (190)[172]. In generale in questa plaga i limiti altimetrici [184] di essa sono i più elevati delle Prealpi Giulie. Sul versante meridionale del Colovrat, sopra Ocnebrida, Laze, Trinco, Drenchia raggiunge le altezze di quasi 750 m.; intorno al San Martino si spinge fino a 771 m. sopra Plataz; sul Matajur a 700 sopra Tercimonte, a 727 sopra Masseris nell'aperta campagna e a 762 intorno alle pareti delle abitazioni meglio soleggiate; a 781, punto il più elevato dove io l'abbia osservata, fra Stermizza e Montemaggiore; a 777 nei pressi di Pechiniè: in tutti due questi ultimi luoghi con esposizione a est. Nella valle del Natisone prospera a m. 666 in quel di Rodda, sopra Oriecuia, con esposizione a sud-ovest; a 676 sotto la chiesa di S. Odorico con esposizione a sud: in quel di Mersino non va oltre Pozzera (m. 662) pur avendo esposizione meridiana, e solo sporadicamente si trova anche ad Oballa (m. 760). Sulla destra del fiume, tra Erbezzo e Montefosca, arriva a m. 713, raramente spingendosi fino a Cala (m. 720) con esposizione a est. In complesso possiam dire che nel bacino medio del Natisone alligna e fruttifica dappertutto, con tendenza a salire quanto più ci spostiamo a est verso l'Isonzo: solo i villaggi di Clabuzzaro, Ravne, Luicco, Jevs-cek, Montemaggiore, Mersino alto, Montefosca ne sono privi interamente.

I vini però, tranne alquanto nel piano, specie nel comune di San Pietro, dove esistono pure alcuni vigneti specializzati di viti nostrane (verduzzo, cabernet, blaufränkis, riesling) sono acidetti e poveri di alcool e vengono dati per 45 dal vitigno isabella, per 15 da uve bianche coltivate specialmente nei luoghi più elevati (ribolla bianca ad acini grossi e minuti, ducigla, zelen, drijenak, marvinza, cividino). Il cividino dà rinomati prodotti nella plaga di Vernassino in comune di S. Pietro e [185] un tempo era molto ricercato nel piano durante la stagione estiva.

Anche il gelso, come la vite, è coltivato specialmente nei più bassi comuni di S. Pietro (18425 kg. di bozzoli), Tarcetta (3450), Rodda (2650), S. Leonardo (2050): molto meno in quelli di Grimacco (300) e Stregna (400): non lo è affatto nei comuni di Savogna e Drenchia.

La produzione più importante di tutta la zona è però quella del maiz, da 20 (Stregna) a 31 (Tarcetta) qt. per ettaro[173]. È coltivato alle maggiori altezze: si trova a 837 m. in comune di Luicco, sopra Ausa; a 836 sopra Perat. In quel di Drenchia, sebbene poco coltivato e non sempre giunga a maturazione, si spinge fino a m. 750, anzi a Zuoder fino a m. 805. Nella valle della Cosizza arriva a m. 771 sopra Canalaz; in quella dell'Alberone a 777 sopra Pechiniè; in quella del Natisone sopra Rodda si spinge fino ai limiti della vite, ed a Mersino oltre i medesimi; così pure a Montefosca dove tocca gli 810 m. Nei due soli villaggi di Ravne (m. 1041) e Montemaggiore (m. 954) non è coltivato affatto: in quest'ultimo anzi un tempo lo era; ora vi è stato sostituito da altre coltivazioni più redditive.

Il maiz, come del resto tutte le altre piante erbacee, in montagna è intensivamente coltivato, con molto stallatico, in piccoli appezzamenti di terreno, in alcuni luoghi a terrazzi sostenuti da muricciuoli a secco, in altri, come si vede a Drenchia, [186] Topolò, Cepletischis, Tercimonte, Montemaggiore, Stermizza, Erbezzo, Prossenicco, Canebola e altrove, in caratteristici campetti (vedi fig. 13ª) di forma irregolarmente trapezoidale, seguenti la pendenza dei terreni, privi di solchi e i quali, data la mancanza di bruschi dislivelli, meglio dei terrazzi si prestano a usufruire in maggior misura dei raggi solari. Tale vantaggioso sistema di coltivazione è possibile pel terreno argilloso e tenace cui la continua lavorazione conferisce una certa perenne porosità contraria al suo costipamento per effetto delle pioggie[174]. Le coltivazioni in generale non discendono sotto una linea che segna fin dove arriva l'ombra proiettata per buona parte della giornata dagli opposti versanti, irregolari [187] come i profili delle montagne e varia non solo da valle, ma da luogo a luogo in una stessa valle: linea alla quale durante la stagione invernale è presso a poco parallela quella delle nevi, or più or meno alta, secondo l'abbondanza delle nevicate e la varia intensità del freddo.

Fig. 13ª. — Campi senza solchi ad Ocnebrida (Drenchia). (Fot. G. Feruglio).

In alto i limiti ne sono segnati più uniformemente dal clima, dalla maggiore o minore esposizione al sole, dalle condizioni di fertilità del suolo, dalla distanza rispetto ai centri abitati. In generale però i campi sono piuttosto a valle che a monte di questi ultimi e ciò specialmente per la comodità del trasporto dei concimi che si fa a spalla d'uomo e in montagna è il più faticoso d'ogni altro. Nonostante però le sudate fatiche e la accurata lavorazione degli abitanti, i cereali non bastano ai bisogni dei medesimi, che per buona parte dell'anno devono farne acquisto al mercato.

Quasi eguale importanza a quella del maiz ha la coltivazione delle patate, di cui forte è la produzione in tutti i comuni[175]: mentre tra le coltivazioni secondarie occupano il primo posto i fagiuoli, che si producono in abbondanza nei comuni di Montenars (qt. 867), Lusevera (383), Platischis (364), Tarcetta (238), Savogna (261), S. Leonardo (203); alquanto meno nei comuni di Stregna (134), S. Pietro (90), Grimacco (92): e subito dopo [188] vengono le rape e le carote[176]. Il saraceno è quasi esclusivo del distretto di S. Pietro, che ne produce qt. 1178 in tutti i comuni, specialmente in quelli di Tarcetta (qt. 569), Stregua (147), Grimacco (102), Rodda (132). La segala è coltivata nei comuni di Drenchia (qt. 133), Grimacco (111), Savogna (109), S. Leonardo (132), Stregna (60): l'orzo, più debolmente ancora, in tutti i comuni e meno che negli altri in quelli di Tarcetta e S. Pietro.

Grande risorsa per questi paesi è, e maggiore potrebbe essere, la frutticoltura. Anche riguardo a questa però notevoli differenze esistono fra i comuni orograficamente chiusi o più piovosi di Creda, Bergogna, Platischis, Lusevera e Montenars, non producenti pesche, nè susine, pochissime pere, solo alquanto di mele, maturanti a stagione avanzata, e quelli più aperti verso mezzogiorno del distretto di S. Pietro al Natisone, che dànno copia di numerose specie e varietà, le quali salgono a grandi altezze e, in tutti i casi, sono più precoci e squisite. Sotto questo rispetto anzi i villaggi di Rodda coi loro declivi soleggiati, con coltivazioni razionali e specializzate, costituiscono una vera oasi fruttifera che richiama compratori anche da lontano; e l'esempio di Rodda comincia a essere seguito nei comuni di Stregna, Tarcetta, S. Pietro. La mela Zeuka vi ha assunto in pochi anni straordinaria importanza: basti dire che da tutto il distretto se ne esportano in media 20.000 quintali l'anno, oltre 10.000 quintali di altre varietà; 800 quintali di [189] pere estive; 600 di autunnali; 1500 di vernine[177]. La piazza di Cividale è in gran parte alimentata dal commercio di queste frutta e delle castagne; a Brischis (Rodda) vi è pure un attivo mercato durante i mesi di settembre e ottobre: mentre le qualità più scadenti rimangono invendute e in molti luoghi, con metodi invero primitivi, se ne estrae il sidro che vien bevuto solo o mescolato con vino.

Anche la susina domestica è molto diffusa, coltivata specialmente nell'interno degli abitati o intorno ai medesimi, tal volta consociata a noci, di cui si vedono numerosi esemplari, come a Rucchin, Lombai, Peternel, Ravne, Pik, Crostù, Cepletischis, Montefosca, Cosizza, Montemaggiore, ecc., tanto da formare spesso veri boschi dai quali i villaggi sono come nascosti e di cui preannunziano col loro comparire la presenza. Se ne distilla lo slivovitz, ma in maggior misura viene esportata nel vicino Collio ove alimenta l'attivissima industria delle prunelle.

Le pesche, tranne a Rodda, dove sono impianti specializzati della varietà settembrina Golden Eagle, sono di qualità selvatiche.

Tra le piante legnose fruttifere merita speciale menzione il castagno, diffuso dappertutto, tranne nei più freddi ed umidi bacini alti del Natisone, Torre e Cornappo e nelle plaghe esclusivamente calcaree. Perciò non ne producono affatto i comuni di Luicco, Creda e Bergogna; pochissimo i comuni di Platischis (qt. 300) e Lusevera (300); meno ancora quello di Montenars (100). Invece nel solo distretto di S. Pietro la produzione si può calcolare di circa 20.000 quintali, abbondando specialmente nei comuni di Savogna, Grimacco, Tarcetta. I limiti altimetrici di questo prezioso fruttifero, che concorre per buona parte alla alimentazione dei montanari, variano da luogo a luogo, innalzandosi o abbassandosi secondo il predominio del sole o dell'ombra. Nel bacino dell'Erbezzo sul versante meridionale del [190] Hum sale fino a 848 m. sul livello del mare; in quel di Drenchia a m. 778 sopra Zavart, a 800 sopra Trinco. Nel canale di Cosizza si trova a m. 800 sul versante est, a 770 sul versante ovest del S. Martino: in quel di Savogna, che ne è forse il meglio rivestito, manca nei pressi della sella di Luicco alta metri 695, mentre si trova a m. 735 sotto Jevs-cek, a 812 tra Montemaggiore e Stermizza. Nella valle del Natisone sale a 782 m. sopra Oriecuia (Rodda) con esposizione a ovest, a 743 sotto la chiesa di S. Odorico (pure a Rodda) con esposizione a sud; arriva fino a Oballa sopra Mersino. Sull'opposto versante a destra del Natisone, con esposizione a est, tocca 740 m. tra Montefosca e Goregnavas, 701 sopra Pegliano. Le varietà più coltivate sono gli obiachi, di grossezza più che mediocre e ben pagati; meno i marroni, più grossi e di sapore più squisito, ma più tardivi e richiedenti maggior asciuttezza di atmosfera ed esposizione solare; inoltre castagne comuni che vengono consumate nelle famiglie.

Riguardo al bestiame la massima importanza l'hanno i bovini, di cui, secondo l'ultimo censimento, in tutta la zona esistono 10409 capi. Data la natura orografica dei luoghi, è logico abbiano assoluta prevalenza le vacche, sfruttate al doppio scopo di ottenerne latte e vitelli, mentre buoi e cavalli non si trovano che sul fondo delle valli e dove la non eccessiva pendenza del terreno permette il traino di carri e di slitte. Per influenza della situazione geografica e delle relazioni storiche e commerciali coi territori limitrofi si incontra in questi bovini la fusione, in misura diversa da luogo a luogo, di variati caratteri zoologici, innestati sopra un fondo comune, di origine svizzera e diffusosi fino a qui da tempi anteriori ad ogni registrazione, che appartiene al tipo alpino-iurassico, con prevalenza di caratteri alpini: tipo a statura piccola, a sviluppo organico tardivo, con buona attitudine lattifera. Strabone già al suo tempo accennava alla ricchezza di latticini che gli abitanti di questi monti scambiavano, commerciando, coi prodotti del piano. Ma l'industria zootecnica non vi ha seguito i progressi fatti altrove in Friuli: trascurata completamente è la praticoltura, [191] pur dove crescono naturalmente foraggi preziosi per aroma e sapidezza; empirica nè sempre rispondente alle esigenze del bilancio fisiologico l'alimentazione; poco oculata la scelta e irrazionale l'impiego dei riproduttori; infine la stabulazione è permanente ed ha luogo, quasi ovunque, in ambienti malsani e senz'aria: tutto ciò ha portato al decadimento del bestiame bovino qui dove potrebbe essere massima fonte di ricchezza[178]. Nè sembra che nel lungo periodo di tempo intercorso fra gli ultimi due censimenti pastorali il medesimo sia aumentato sensibilmente, se nel distretto di S. Pietro da 6296 capi è salito appena a 6480 e nei comuni di Platischis e Lusevera da 2777 a 3188. Molti montanari, con errato criterio economico, preferiscono ancora vendere i foraggi all'aumentare i redditi della stalla!

Nelle parti più elevate dei comuni di Platischis, Lusevera, Tarcetta, Rodda, Savogna si pratica la monticazione, conducendo per circa 90 giorni l'anno 1145 capi grossi ai pascoli alpini che gli Slavi dicono planine. Queste differiscono dalle casere carniche non solo per differente costruzione, scopo e disposizione dei grossolani e primitivi edifici che servono di ricovero ad uomini ed animali e vengono detti casoni — numerosi sono specialmente sopra Mersino Alto e presso Montemaggiore di Platischis a Srednjobardo — ma anche nel sistema di sfruttamento del pascolo che ciascun proprietario fa per proprio conto, mentre collettiva è solo la lavorazione del latte, primo passo verso il più perfetto tipo di azienda cooperativa della maggior parte dei pascoli dell'alpe[179]. Del resto le latterie sociali, come ogni altra forma di cooperazione, sono difficili ad attecchire in tutta questa zona, trovando il principale ostacolo nel temperamento della popolazione slava, diffidente per natura, oltrechè nel pregiudizio diffuso in montagna che la sottrazione del latte alla [192] alimentazione diretta sia causa di deperimento fisico, specie nelle donne e nei bambini: quindi anche l'industria del caseificio è in condizioni assai arretrate e ogni famiglia si lavora da sè il proprio latte ottenendone un burro mediocre che si vende sul mercato e consumandone essa o facendone consumare alle bestie i residui[180].

Gli equini nel distretto di S. Pietro sono appena 146; non più di 10 negli altri tre comuni della zona; ed è naturale, trattandosi di paesi montuosi. Non presentano caratteri di razza locale, venendo acquistati sui mercati del piano, alimentati da importazione austriaca di varia provenienza. Tipico è il cavallo caporettano, vigoroso, di forme massiccie e tondeggianti, atto al tiro pesante rapido, che viene allevato nell'alto Goriziano ed è frequente anche nei distretti di Cividale e S. Pietro[181].

Di pecore (724) e capre (254) in oggi il numero è assai limitato. Le prime appartengono nella proporzione del 60% al tipo O. A. asiatica e alla cosidetta razza slava, con lana lunga, di color bianco e di color nero bruno: sono numerose anche in pianura, essendo dotate di molta virtù di adattamento. Se ne fa esportazione dalla nostra regione oltre i confini della Provincia, fino a Treviso, Venezia e Padova. I caprini, ancora men numerosi, vengono allevati nei luoghi più alpestri, dove possono usufruire di erbe irraggiungibili al bestiame bovino. Esse perciò prevalgono nelle più sterili e rocciose parti dei comuni di Lusevera (262), Platischis (276), Tarcetta (161): sono in numero affatto insignificante negli altri comuni. Queste due specie di animali domestici sono destinate a scomparire dai nostri paesi. Basti dire che, secondo il censimento della Repubblica [193] Veneta del 1766[182], le pecore erano in numero di 5985, le capre di 4025 nelle due sole parrocchie di S. Pietro e S. Leonardo, cioè nell'attuale distretto di S. Pietro, non compreso il comune di Drenchia. Gli è che in allora buona parte dei terreni di questa zona erano proprietà dei comuni. Intorno al 1851-2-3 furono divisi e passarono in proprietà dei privati: il numero degli ovini e caprini venne quindi progressivamente riducendosi fino allo scarso numero d'oggi e plaghe già nude, o con rari cespugli, si ricopersero grado grado di un ricco mantello vegetale palesando la loro attitudine alle più svariate coltivazioni e produzioni.

Quanto al sistema di conduzione delle terre, gli abitanti di questa zona sono tutti minuscoli proprietari che se le coltivano da sè. Ma i metodi di coltivazione sono ancora primitivi. Manca l'istruzione agraria, causa l'isolamento in cui gli Slavi sono sempre vissuti finora; mancano i capitali perchè sia resa possibile l'introduzione delle macchine agrarie; mancano strade d'accesso, e animali da soma perchè si possano importare i concimi chimici necessari a correggere le deficienze dei terreni, i quali vengono ingrassati quasi unicamente collo stallatico e colla poca cenere di legno che le singole famiglie riescono a produrre. Le condizioni degli abitanti non sono però cattive: non conoscono vera miseria; generale è un certo benessere economico, sebbene relativo e guadagnato a forza di lavoro costante, sudato, coraggioso. Oggi l'emigrazione verso l'America settentrionale è un grandissimo aiuto alle già esclusive risorse dell'agricoltura.

La zona collinesca

La zona collinesca. Corrisponde questa allo sviluppo dell'eocene arenaceo-marnoso ed è separata dalla precedente da una linea che da Magnano per Sammardenchia raggiunge la chiusa del Torre a Ciseriis, indi costeggia il monte Bernadia fino a Torlano, passa a nord di Cergneu, Attimis e Faedis, [194] raggiunge il Natisone sopra Cividale[183] ed, attraversando il Judrio, abbraccia anche la maggior parte del Collio austriaco che si protende fino all'Isonzo. Le appartengono parte dei distretti di Tarcento (comuni di Magnano in Riviera, Tarcento, Ciseriis, Nimis) e di Cividale (comuni di Attimis, Faedis, Torreano, Cividale, Prepotto, Buttrio, S. Giovanni di Manzano, Manzano, Ipplis e Corno di Rosazzo), nonchè i comuni austriaci di Bigliana, Brazzano, Dolegna, Cosbana, Medana, S. Martino di Quisca, Podgora e S. Floriano, compresi fra il Judrio e l'Isonzo[184]. Questa zona per la natura del terreno è tutta feracissima, salvo poche aree calcaree.

Intorno alla linea di falda dei colli, sono poi strisce di terreni argillosi pure assai fertili. Essi hanno sviluppo specialmente nelle insenature laterali delle valli, come lungo il Natisone a Vernasso, Purgessimo e Guspergo, e dove perciò le acque furon costrette a stagnare; come a piè dei colli di Gagliano dove il conoide di deiezione del Natisone stesso originò una serie di bassure parallele ai medesimi; ai piè degli isolati colli di Buttrio e Rosazzo intorno ai quali pure le alluvioni formarono una zona leggermente depressa[185]; nel piano di Savorgnano, Marsure e Ravosa su cui il conoide del Torre produsse già un ristagno delle acque del Malina[186]; parallelamente ai colli che si protendono da Tarcento a Gemona; in qua e in là anche nel piano dove le acque ebbero modo di stagnare più o meno a lungo.

In questa zona i colli, pur tanto fertili naturalmente, sono debolmente popolati, lo sfruttamento dei medesimi facendosi [195] piuttosto dal piano. Vi predomina il bosco ceduo — in cui le principali essenze sono il castagno, la quercia e l'invadente acacia: meno frequenti il frassino, la robinia, il carpino, l'ontano, il noce, il nocciuolo, il corniolo — che insieme al prato stabile, l'uno e l'altro di scarso prodotto, occupa i 24 della intera regione. Tra i cereali, non molto coltivati, prevale il maiz che in alcuni luoghi è in rotazione biennale col frumento. Gli spazi piani, periferici o interposti alle colline, nei luoghi argillosi e umidicci sono abbandonati a prato stabile. La maggior parte del terreno rimanente, costituito di alluvioni più o meno minute, mediocremente fertili, per 13 della superficie è coltivato a frumento, 13 a granoturco, 13 ad erba medica ed è arborato e vitato.

Ciò premesso, la produzione generale di granoturco in tutta la zona nel 1907 fu di quintali 101.119 con una media di circa 27 quintali per ettaro[187]: quella del frumento di quintali 41.075, ossia di 17.03 per ettaro, cifra relativamente molto elevata: sono coltivate le varietà: nostrana, cologna, noè, rieti[188].

[196] Abbastanza diffusa è la segala comune di autunno (quintali 2052), però quasi solo nel distretto di Cividale, dove la paglia trova un buon impiego nella industria delle sedie, fiorentissima nei comuni di Manzano, S. Giovanni di Manzano e Corno di Rosazzo. Anche l'avena, varietà primaverile, va sempre più diffondendosi (quintali 1063); mentre va decrescendo la coltura dell'orzo (quintali 159). Dei fagiuoli riescono nella zona collinesca e pedecollinesca così le varietà rampicanti consociate al granoturco, come le nane che crescono indipendenti tra i filari delle viti: ne producono specialmente i comuni di Manzano (qt. 543), S. Giovanni di Manzano (586), Nimis (474), Corno di Rosazzo (344).

Tra le piante del tubero le patate sono abbastanza coltivate, meno però che nella zona precedente: varietà principali la cinquantina, la gigante, la matilde e la rosa americana. La produzione complessiva nel 1907 fu di qt. 21816, la media per ettaro di qt. 79.22: massima nei comuni di Cividale (qt. 3292), Attimis (2323), Nimis (2855), S. Giovanni di Manzano (2720). Di rape si raccolsero 2149 quintali: aggiungi qualche piccola coltivazione di barbabietole nella zona pianeggiante; insignificanti saggi di piante industriali come colza, e lino; e mi risparmio la enumerazione delle molte specie di piante ortensi, più o meno coltivate dappertutto, specialmente in vicinanza dei più grossi centri abitati.

[197]

Fig. 14ª. — Produzione del vino nei distretti di Gemona, S. Daniele, Tarcento, Cividale e S. Pietro.

[198] Per la sua speciale conformazione orografica, con prevalenza di colli e di leggere ondulazioni, questa zona è singolarmente adatta alla coltivazione di piante legnose fruttifere. La vite va guadagnando terreno ogni giorno[189]; e, mentre in passato gli impianti si facevano a casaccio, dopo che fu iniziata la ricostituzione de' vigneti con viti bimembri preparate in Gagliano (Cividale) a cura del Consorzio Antifillosserico Friulano, un miglior indirizzo ha cominciato a presiedere alla scelta dei vitigni. Fra i maggiormente coltivati sono la ribolla (bianca), il refosco, il refoscone (nero), il verduzzo (bianco), la pokalza[190], senza dire di quelli di nuova importazione: cabernet, pinot, riesling, blaufränkisch, frontignan, gamè, borgogna, ecc.; senza dire dell'isabella, prevalente nel piano e per la cui coltivazione, quando più irrimediabilmente infieriva l'oidium, territorio classico fu già il comune di Cividale, oggi però decaduta molto dalla simpatia degli agricoltori, dopo che, per la comparsa della peronospora, richiede anch'essa dispendiose cure senza tuttavia assicurare [199] un prodotto uniformemente abbondante. Dànno vini pregiati i dintorni di Faedis, Torreano, la conca di Prepotto, i ronchi sopra Gagliano, i colli di Buttrio e Rosazzo. La produzione complessiva per l'intera zona nel 1907 fu di hl. 93.700, massima nella regione da noi considerata tanto sotto il rispetto assoluto come sotto quello relativo. I singoli comuni vi presero parte col seguente ordine decrescente di produzione negli anni:

  1906 1907
 
Faedis Hl. 11160 Hl. 16000
Nimis » 7500 » 14250
Cividale » 7000 » 9000
Ciseriis » 6910 » 9500[191]
Manzano » 6170 » 8000
Torreano » 3400 » 6100
Prepotto » 3225 » 5000
Buttrio » 3560 » 5600
S. Giov. di Manzano » 2650 » 5200
Attimis » 1870 » 3800
Tarcento » 1575 » 4200
Ipplis » 2300 » 3200
Corno di R. » 1560 » 2050
Magnano » 1250 » 1800

Il gelso è coltivato abbondantemente, specie nel piano, e la produzione di bozzoli in tutta la zona nel 1907 fu di ql. 279.700: massima nei comuni di Cividale (29675), Faedis (29300), Tarcento (23405), S. Giovanni di Manzano (19525), Magnano in Riviera (18800); minima in quelli di Prepotto (4550), Attimis (4850), Nimis (8650), Ciseriis (9575)[192]; media negli altri.

Anche per la produzione delle frutta la sezione collinesca di questa zona sarebbe plaga adatta più d'ogni altra in Friuli; [200] tuttavia essa non ha saputo ancora creare una frutticoltura razionale e intensiva. Verso i colli di Attimis, Faedis, Togliano, e specialmente in quelli di Ciseriis (ql. 1500) e di Magnano (ql. 1000) si coltivano con profitto le ciliegie tarcentine con larga esportazione in Austria (Cormons).

Si coltivano in qua e in là le pere estive Janis e Claudio Blanchet, tutte le varietà di pere autunnali, molte di vernine. I meli non prosperano nei terreni asciutti di collina, ma trovano condizioni più adatte ai piedi delle alture dove non fa difetto la frescura. Meglio riescono le pesche della cui varietà Amsden interi filari si vengon piantando sui colli di Buttrio, Rosazzo e Spessa. Si coltivano fichi tardivi e primaticci, albicocchi, peschinoci e sopratutto susini, i quali rappresentano i 23 di tutta la frutticoltura di queste colline che anche qui alimentano la già ricordata industria del Collio. Il melagrano, l'azzeruolo, l'olivo (un tempo assai più diffuso, cfr. il nome del villaggio Oleis), coltivati presso le case nei siti più riparati e soleggiati, sono più che altro piante ornamentali[193]. La produzione complessiva delle frutta nel 1907 fu di ql. 12,413; cifra meschinissima, la quale rivela il molto che resta ancora da fare in questo campo di economia agraria, assai lontano dall'essere convenientemente sfruttato. A detta cifra conviene aggiungere circa 40,000 quintali di castagne (marroni, obiachi, castagne comuni), che si producono in tutti i comuni, e specialmente in quelli di Torreano, Faedis, Ciseriis, Nimis, Tarcento.

E qui, a proposito di coltivazioni legnose, va ricordato il Collio, dimostrazione evidente dell'importanza a cui può assurgere la frutticultura in regioni per conformazione orografica e struttura geologica analoghe alla nostra. Il terreno è come quello eocenico del resto del Friuli, ma il clima ne è più asciutto e dolcissimo per la grande vicinanza al mare (circa 20 km. in linea retta). Ciò spiega a sufficienza la sua specialissima attitudine alle colture arbustive, i vigneti a fruttiferi e gelsi ed i [201] boschi occupandone circa i 23 di tutta l'area coltivata. All'aprirsi della primavera il Collio visto dall'alto, per es. da S. Martino di Quisca, presenta l'aspetto di un immenso giardino, biancheggiante di fiori, olezzante di profumi.

Fra tutte le coltivazioni la vite naturalmente vi occupa il primo posto: la ribolla gialla, detta anche garganica e la ribolla verde producono vini bianchi pregiati; mentre anche vitigni forestieri, quali il pinot bianco, il riesling italico e renano, il blaufränkis, il borgogna, ecc., importati in questi ultimi anni, con innesto sull'americano selvatico allo scopo di porre un argine alla fillossera già largamente diffusa, specie nella valle della Groina, dànno ottimi risultati.

Tra le frutta il primato spetta alle ciliege precoci (zgodnje) di cui si fa enorme esportazione in Russia: varietà principali sono: le cepljenke, conosciute a Pietroburgo sotto il nome di Görzer Kirsche, le cepike nere e le cepike rosse, dette anche cufarice o schopfkirsche. Seguono le susine di cui si essiccano non meno di 70,000 quintali l'anno per un valore di circa 700,000 corone, industria fiorentissima insieme a quella dei canditi, già su larga scala esercitata da alcune fabbriche di Gorizia: le pesche, le albicocche, i fichi, i perifichi, poche mele richiedenti terreni umidi, melagrani, mandorli, olivi. A proposito dei quali ultimi d'alto interesse è la particolarità dei vetusti avanzi di estesi oliveti che nel medio evo ricoprivano quasi l'intero Collio ed oggidì rappresentano il limite più settentrionale della coltura dell'olivo in Europa, non superata neppure dalle latitudini a cui si spingono gli oliveti nella valle del Rodano e nel Trentino (Sarca)[194]. E qui torna opportuno ribadire l'osservazione, la quale trova riscontro in altre fatte precedentemente in questo volume, che nelle Prealpi Giulie le uve e le frutta guadagnano in precocità e squisitezza a misura si procede verso est, per il graduale abbassarsi della regione e per il clima più mite. Della valle dell'Isonzo poi possiamo dire che [202] è grandemente frutticola in tutta la sua lunghezza, per quanto appartiene alla nostra zona, grazie alla direzione meridiana e alla notevole profondità per cui a Canale presenta ancora soli 104 m. di altitudine, a Tolmino 160, a Mlinsko, presso Caporetto, 201. Invece la valle del Tagliamento e le altre minori valli delle Prealpi Giulie occidentali hanno attitudini fruttifere senza confronto inferiori.

Viticoltura e frutticoltura sono base di tutta l'economia agraria del Collio per modo che, pur dando la debita importanza alle culture orticole di primizia, specialmente alle patate introdotte nel 1799 da Giacomo Fabricio, affatto secondaria vi è la produzione dei cereali, scarsissimo l'allevamento del bestiame — fatta eccezione dei suini e volatili domestici — e lo stesso allevamento del baco da seta va sempre più perdendo terreno causa il deprezzamento dei bozzoli e il deperimento crescente dei gelsi. Tuttavia — e, malgrado l'infierire della crittogama dell'uva prima, della malattia del baco da seta poi, quindi della peronospora, della fillossera; malgrado le crisi del vino e degli ortaggi, — la popolazione è fittissima e — senza dar luogo a forte emigrazione — tocca, come abbiamo visto, i 268 abitanti per kmq., mentre la media dell'intero Goriziano non è che di 73, oscillando tra un minimo di 16 nel distretto giudiziario di Plezzo e un massimo di 156 in quello di Gradisca. E nonostante l'uniformità delle produzioni, i terreni di buona qualità vi si vendono all'elevato prezzo di 1600-2000 corone il campo (13 di ettaro).

Venendo finalmente all'allevamento del bestiame, i bovini in collina di regola scarseggiano: non però nel piano dove sono in continua selezione e miglioramento e costituiscono il principal cespite di guadagno per gli agricoltori. Il loro numero complessivo nei 14 comuni friulani della zona è di 14607; di 3840 negli otto comuni di Collio. Il tipo che vi prevale è il Jurassico nella sua veste di friulano Simmenthal a triplice sfruttamento di latte, carne e lavoro: però tra la razza dominante in montagna, di cui dicemmo, e quella del piano esiste una zona grigia nella quale i caratteri etnici e zootecnici dell'una [203] e dell'altra si compenetrano. La razza del piano mostra precocità, attitudine spiccata alla produzione della carne e all'ingrassamento, discreta potenzialità lattifera e sufficiente attitudine al lavoro in terreni non troppo profondi.

Di cavalli, importati in massima parte dall'Austria-Ungheria, si allevano appena 846 capi, oltre a 28 muli e 52 asini; di suini 8496. Questi sono il prodotto dell'accoppiamento disordinato dell'antica e pregiata razza friulana con quella di Yorkshire e di Berkshire. Un tempo si conducevano al pascolo vagantino nei boschi di querce: ora si allevano con grano e rifiuti di cucina per cui si ottengono animali più grassi, ma carni forse un po' meno saporite. Gli ovini sono in numero di 1297, i caprini di 438, gli uni e gli altri dominando nelle plaghe elevate o carsiche dei comuni che più si addentrano nella zona montuosa, come Prepotto, Torreano, Faedis, Attimis, Nimis.

La piccola proprietà, condotta in economia, prevale nella zona collinesca friulana: nel Collio però accanto ai piccoli proprietarî v'è quasi un egual numero di coloni che corrispondono ai padroni i due terzi del vino e percentuali, diverse secondo i luoghi, degli altri prodotti. Caratteristiche del piano sono la media e grande proprietà con sistemi misti di affitto e colonia parziaria. Quivi in passato le condizioni degli agricoltori non erano molto liete, come le statistiche della pellagra testimoniano: oggi sono migliorate di molto grazie a progressi di ogni specie e soprattutto grazie ai cresciuti redditi della stalla.

La zona morenica.

La zona morenica. Compresi nella zona extraalpina prevalentemente morenica sono i comuni di Buia (Gemona); Cassacco, Segnacco, Treppo Grande, Tricesimo (Tarcento); Fagagna, Majano, Ragogna, Rive d'Arcano, S. Daniele, Moruzzo (San Daniele).

In questa zona tutte le comuni culture sono rappresentate. Tra le piante in rotazione occupa il primo posto il maiz pel quale si hanno grandi cure dandosi la preferenza alle varietà nostrane gialle, precoci e ben pagate anche sul mercato, più che alle americane difficilmente maturanti. La produzione relativa [204] è di qt. 27.06 per ettaro, superiore alla media delle zone da noi considerate: più alta nei comuni orientali dell'anfiteatro, come Cassacco (29.43), Tricesimo (28.77), Segnacco (27.35), che in quelli occidentali di Ragogna (18.99) e Fagagna (20.87)[195].

Segue per importanza il frumento con una produzione relativa media che nell'anno 1907 fu di qt. 14.79 per ha.: vi predominano le varietà nostrane, quantunque da pochi anni siano state introdotte e vengano coltivate con successo pure le varietà cologna, rieti, victoria. L'aratura alla pari, la semina a macchina, l'uso di appropriati concimi chimici ne vengono aumentando ogni anno la produzione già piuttosto scarsa[196].

[205] Tra le colture secondarie la saggina è coltivata in tutti i comuni, specialmente a S. Daniele (qt. 1330), Rive d'Arcano (792), Ragogna (434); assai meno negli altri: così pure il cinquantino come succedaneo del frumento, nonostante richieda molto lavoro, dia poco reddito e sia di scarso valor nutritivo; la segala che, amante di terreni magri, da un massimo di qt. 987 a S. Daniele, discende a un minimo di qt. 29 a Segnacco; ultimi vengono l'avena e l'orzo che è quasi incoltivato.

Meno considerevole che nella zona precedente è la produzione dei fagiuoli (qt. 2508) e delle patate (qt. 11744). Di quelli la massima quantità dànno i comuni di Majano (qt. 352), Fagagna (391), S. Daniele (333), Rive d'Arcano (120) e Ragogna (128); assai meno gli altri. Per patate primeggiano S. Daniele (1439), Colloredo di Montalbano (1677), Majano (1230), Fagagna (1350), Tricesimo, (1365), Buja (926); ultimi vengono Cassacco (235), Treppo Grande (577) e Segnacco (617). La produzione massima fu di 152.5 per ha. a Segnacco, minima di 66.5 a Moruzzo.

Coltivazione caratteristica, specialmente dei comuni di Fagagna e Tricesimo, è quella degli asparagi di cui il primo produce 40 e l'altro 90 qt. l'anno.

Fra le piante legnose coltivatissimo è il gelso, e per quantità di bozzoli questa zona supera tutte le altre della regione prealpina, come risulta dal seguente specchietto relativo alla produzione dei medesimi:

  1906 1907
 
Buia Ql. 46.000 Ql. 48.000
Cassacco » 14.300 » 16.000
Segnacco » 15.600 » 17.200
Treppo Grande » 11.040 » 11.700
Tricesimo » 42.000 » 46.200
Colloredo di Montal » 10.170 » 11.800
Fagagna » 16.500 » 17.000
Majano » 17.600 » 19.000
Ragogna » 11.660 » 12.700
Rive d'Arcano » 13.500 » 15.000
S. Daniele » 31.900 »
Moruzzo » 10.800 » 12.800

[206] La vite è coltivata a sufficienza, se non quanto potrebbe esserlo.

I vitigni più comuni sono il frontignan, il merlot, il refosco, il blau fränkis, il verduzzo. La produzione complessiva di vino pei comuni appartenenti alla zona da noi considerata fu di ettolitri 24.325 pel 1906 e di 30.945 pel 1907, col massimo nel comune, in parte eocenico, di Buia e il minimo in quello di Rive d'Arcano[197].

Anche i frutteti hanno pochissima importanza nell'anfiteatro morenico. Nelle statistiche da noi compulsate furono prese in considerazione solo 200 qt. di castagne in quel di Buia e pel valore di 2000 lire in quel di Ragogna, oltre a circa un migliaio di lire tra pere e mele in quest'ultimo comune.

Tra le foraggere sono assai coltivate l'erba medica e il trifoglio, e l'allevamento del bestiame vien fatto ogni anno con maggior cura. L'incrocio Simmenthal e in minor misura la razza Schwyz per la produzione del latte hanno dovunque la prevalenza: numerose sono le latterie sociali cooperative. Il complesso della popolazione bovina, secondo l'ultimo censimento, [207] tocca i 13.325 capi, abbastanza egualmente ripartiti tra i singoli comuni. E in proporzioni poco differenti dalla zona precedente sono le altre specie di animali domestici, cioè 1023 cavalli e 8150 suini. Notevole un maggior numero di muli (360) e la quasi assoluta assenza di capre (50), inutili dove manca completamente il terreno roccioso, accanto a circa 800 pecore delle quali il maggior numero possiedono i comuni di Rive d'Arcano (142), Moruzzo (112), Fagagna (102), i cui declivi più erti sono spesso a magre praterie.

La proprietà nell'anfiteatro morenico è assai frazionata, non però quanto in Carnia e nella Slavia, pur essendovi un certo numero di proprietarî medî e parecchie grandi aziende agrarie bene organizzate. Secondo gli Atti della Giunta per l'Inchiesta Agraria, per quel che possono valere ancora oggidì, nel distretto di S. Daniele v'eran 16.015 proprietarî con rendita fondiaria da 1 a 100 lire; 466 con rendita da 100 a 1000 e soli 30 con rendita superiore alle 1000 lire. Ciò, insieme alla eccezionale densità della popolazione, specie in alcuni comuni, come Tricesimo (597 per kmq.) e Buia (321), spiega il forte contingente che questa zona dà all'emigrazione temporanea. I sistemi di conduzione delle terre sono l'economia, l'affitto e in taluni luoghi anche la colonia parziaria. In complesso questa plaga sotto il rispetto agrario si può considerare come la più progredita delle Prealpi Giulie e quella che meglio delle altre viene applicando i metodi dalla moderna scienza suggeriti per aumentare la produzione dei campi, dei prati, delle stalle.

La regione piana.

La regione piana. Ci resta a dire dei comuni il cui suolo è costituito di alluvioni grossolane circumambienti l'anfiteatro morenico o lambenti i colli eocenici orientali. Tali sono i comuni di Bordano, Trasaghis, Venzone, Gemona, Osoppo, Artegna (Gemona); quelli di Dignano, S. Odorico, Coseano e S. Vito di Fagagna (S. Daniele); finalmente i comuni di Povoletto, Moimacco, Remanzacco, Premariacco (Cividale). Gli ultimi otto comuni appartengono ai terreni magri del medio Friuli, a monte della linea delle risorgive, spesso a terrazzi ampi, di scarsa fertilità [208] naturale; i primi hanno parte del loro territorio nel piano, pure ampiamente ghiaioso, di Osoppo, parte in montagna.

I prati stabili qui hanno notevole estensione, occupando gli spazi più magri, con aspetto di brughiere, permettenti un unico e scarso sfalcio annuale. Tra le piante erbacee nei seminativi occupa il primo posto il granoturco e, a notevole distanza, il frumento. Questo è coltivato assai poco nei più freddi e piovosi comuni a monte dell'anfiteatro morenico, soggetti all'influenza dei venti nordici: anzi non lo è affatto a Bordano e Venzone, dove ha quasi esclusivo predominio il maiz, per quanto anch'esso con produzione notevolmente inferiore a quella dei comuni a valle dell'anfiteatro. Ivi il quantitativo dell'uno e dell'altro cereale è assai forte, e il secondo sta al primo nella proporzione di uno a due, o di uno a tre.

La produzione media di maiz per ettaro è bassa nei più ghiaiosi comuni di Dignano (14.70), Osoppo (20.35), S. Odorico (21.96): notevolmente più alta in quelli più prossimi ai monti, quali Gemona (28.32), Venzone (28), Povoletto (26.98): oscillante fra 22-24 negli altri[198]. Quella del frumento è abbastanza elevata nei comuni di Gemona (17.25), Moimacco (16.82), Povoletto (15.12), Premariacco (15.37): bassa in quelli di Artegna (11.43), [209] S. Odorico (11.31), S. Vito di Fagagna (11.75), Dignano (11.25): oscillante fra 13-14 negli altri[199].

Abbastanza coltivati nei comuni appartenenti ai distretti di Cividale e S. Daniele sono il cinquantino e la saggina: mediocremente dappertutto le patate e i fagiuoli: le prime specialmente nei più elevati comuni di Venzone (qt. 3222), Gemona (2704), Osoppo (1975): i secondi a Gemona (1184) che per questo prodotto porta la palma in tutta la regione prealpina friulana. Nei comuni bassi è coltivata alquanto anche la segala (Coseano qt. 529, Dignano 351, Moimacco 247, Povoletto 250, Premariacco 167).

È naturale che la vite, amante di alture aereate e soleggiate, qui non sia nel suo dominio: perciò la massima produzione di vino si ha nei comuni i quali si avvicinano ai colli, come Gemona, Povoletto, Artegna, dove inoltre prevalgono le varietà nostrane: decresce a misura nei comuni stessi prevale l'area pianeggiante, costituita di suolo ghiaioso, come a S. Vito, S. Odorico, Dignano, Coseano, Moimacco, nei quali invece predomina il gelso, e varietà coltivate sono quasi esclusivamente l'isabella ed il clinton: a meno che la scarsa produzione non sia dovuta a ragioni di clima e di esposizione del suolo, come [210] a Bordano e Venzone[200]. Per ragioni analoghe anche la frutticoltura in questa zona ha scarsissima importanza e non alimenta affatto il commercio.

Il gelso è coltivatissimo dovunque ed occupa tutti i margini degli appezzamenti. La produzione complessiva media di bozzoli negli anni 1906-07 fu di ql. 280.133; massima nei comuni di S. Vito di Fagagna, Remanzacco, Gemona, Osoppo, Premariacco, Coseano, Dignano: minima nei comuni più prevalentemente montuosi di Bordano, Trasaghis e Venzone[201].

[211] Quanto al bestiame, vale ciò che abbiamo già detto per le parti piane delle zone precedenti: 15857 bovini, con prevalenza assoluta del tipo Simmenthal, che va sempre più diffondendosi ed è fonte di ricchezza vera; 719 cavalli e 1666 pecore, allevate ove maggiore è l'estensione di prati naturali magri (Coseano 650, Povoletto 311, ecc.); un abbastanza rilevante numero di capre nei più montuosi comuni di Venzone (366), Gemona (254), Trasaghis (177), insignificante negli altri. I suini son più numerosi nei comuni a valle dell'anfiteatro morenico che non in quelli a monte del medesimo (Bordano 13, Osoppo 96, Trasaghis 43, Venzone 150).

Per ciò che riguarda la conduzione dei terreni, la piccola proprietà condotta in economia prevale nelle parti montuose e più povere dei comuni di Gemona, Venzone, Trasaghis, Bordano, Osoppo, Artegna dai quali forte è l'emigrazione all'estero. Negli altri comuni, come nelle parti pianeggianti delle zone precedenti, gli agricoltori sono in massima parte fittavoli con sistemi misti di affitto e colonia parziaria. Le loro condizioni in oggi sono migliorate di molto rispetto a quelle di un tempo quando maggiormente infieriva in mezzo ad essi la pellagra.

[212]

X.
INDUSTRIE E COMMERCI

Note di FRANCESCO MUSONI.

Giacimenti minerarî.

Giacimenti minerarî. Scarso in ogni tempo fu lo sviluppo industriale della nostra regione, eccentrica rispetto al resto della Provincia e del Regno, mancante di grossi centri abitati, infine estremamente povera di giacimenti minerali. Da documenti del 1454, 1486 e 1488 risulta bensì che il ferro era in quegli anni lavorato a Venzone, ma nessun altro cenno ne viene fatto posteriormente[202]. Nel 1497 il cividalese Virgilio Formentini scopriva la miniera, poscia diventata celebre, di mercurio ad Idria, nel territorio di Tolmino, allora sotto la giurisdizione di Cividale e ne ottenne insieme ad altri due cividalesi l'esercizio, che riuscì a mettere in commercio una rilevante quantità di siffatto minerale così da farne decrescere il prezzo[203]: senonchè in seguito al trattato di Noyon e alla pace di Wormazia la miniera passò per sempre in proprietà degli austriaci[204].

[213] È ben vero che nel 1845 sui Ronchi di S. Giuseppe in quel di Spessa e nel 1854 sui colli di S. Anna (S. Pietro di Poloneto) a sud-est di Gagliano vennero trovate tracce di mercurio nativo, illustrate queste ultime dal Pirona[205] e dal Hauer[206]: ma si trattava di giacimenti affatto sporadici. Così, nessuna importanza industriale ebbero alcuni altri piccoli giacimenti pure di mercurio rinvenuti sul Matajur nei dintorni di Montemaggiore[207] e nei pressi di Cisgne in comune di S. Leonardo[208], i quali ultimi forse sono quelli stessi cui accenna un documento del 1517[209].

Nè dei vari minerali ferriferi che furono segnalati in qua e in là (pirite sopra Gemona, presso Lusevera, sul colle di Buia, fra Magnano ed Artegna, presso S. Guardo, sui colli di Rosazzo, sul Matajur sopra Montemaggiore, presso Caporetto) può alcuno vantarsi di avere oggi la benchè minima importanza industriale. E lo stesso dicasi delle numerose tracce di scisti bituminosi, alcuni dei quali abbastanza ricchi di materie volatili, formanti banchi non indifferenti rinvenuti, come fu già avvertito in un precedente capitolo[210], così nella Dolomia Principale, come nella zona eocenica.

[214] Per quanto riguarda le ligniti mioceniche, noteremo che difficile e poco proficua riuscì la lavorazione dei depositi nel colle di S. Rocco presso Osoppo e che per i giacimenti fra Ragogna e il castello di Susans si tentò senza vantaggio lo scavo nel 1854, nel 1867 e nel 1876, ottenendone combustibili per le cave di fornaci e laterizi ch'erano sui luoghi[211].

Assai maggiore importanza delle ligniti ebbero in mezzo a noi i depositi di torba di cui la regione è copiosamente provvista e della quale da ben oltre un secolo fu introdotta in Friuli l'escavazione e l'uso a merito di A. Zanon[212]; e del cav. Fabio Asquini, che si fece banditore della recente scoperta[213] e primo pose mano alla lavorazione di una torbiera presso Fagagna, la sola allora conosciuta, che venne perciò detta Nuova Olanda. In seguito, a poco a poco, gli scavi si estesero a tutto l'anfiteatro morenico e l'uso della torba si fece sempre più largo seguendo lo sviluppo di alcune industrie locali. Oggi il più importante bacino torbifero è quello di Collalto-Bueris-Zegliacco, appartenente, sotto il rispetto amministrativo ai quattro comuni di Magnano in Riviera, Treppo Grande, Cassacco e Segnacco[214] e già producente 30,000 m. c. di torba all'anno: altri bacini più ristretti sono quelli di Nasor e Precariapo (Buia), di Casasola e San Salvatore (Maiano) e infine di Farla (S. Daniele)[215].

[215]

Materiali da costruzione. Cave. Fornaci.

Materiali da costruzione. Cave. Fornaci. Ma se la nostra regione difetta di filoni metalliferi e di giacimenti carboniferi importanti, è però abbondantemente provvista di materiali da costruzione, tra i quali posto principale occupano i numerosi, estesi e assai potenti depositi di argilla in moltissimi luoghi esistenti, come più volte fu accennato. Mancano è vero da noi il caolino e le argille refrattarie, ma parecchie invece sono le varietà di argille comuni a composizione assai varia e perciò di vario valore industriale. Il Marinoni nel 1881 indicava come preferibili i depositi di Molinis presso Tarcento, estesi verso occidente fino a Collalto e a Bueris in relazione colle formazioni torbifere, di Faedis e Cerneglons sul talus di deiezione del torrente Malina, riconoscendole di una plasticità e omogeneità affatto speciali; faceva quindi seguire quelle dei territori di Buia, Qualso, Fagagna che si potrebbero definire del tipo delle argille calcari; mentre altre sarebbero di tipo ancor più scadente e vengono lavorate per non esservene di migliore qualità[216].

Il miglioramento dei processi tecnici di lavorazione, l'applicazione dei forni a fuoco continuo e dei motori elettrici diedero un notevole impulso a questa industria negli ultimi anni. La produzione tuttavia — mattoni pieni e forati, quadrelle, tegole curve e marsigliesi, comuni e verniciate, tavelloni — è assorbita quasi interamente dai sempre crescenti bisogni dell'edilizia locale: solo le maggiori fabbriche fanno alquanta esportazione in Austria per le vie della Pontebba, del Pulfero e di Cormons. Notevole per la eccezionale bontà dei suoi prodotti è la fabbrica di Zegliacco fondata nel 1870; per copia dei medesimi, le fornaci di Rubignacco (Cividale), [216] Torreano, Tarcento, Artegna, S. Daniele, Manzano, Cerneglons[217]; altre fabbriche sono a S. Leonardo (Cemur), S. Pietro al Natisone (Clenia), Cassacco, Rive d'Arcano, Fagagna. A Buia si fabbricano inoltre terre cotte ornamentali; a Corno di Rosazzo da molti anni durano attive due piccole fabbriche di stoviglie comuni.

La straordinaria, più volte accennata, ricchezza di marne, con vario tenore di argilla e di calce in tutta la regione dell'eocene costituisce una sorgente preziosa e inesauribile di materia opportuna alla fabbrica di calci e cementi idraulici. Il Taramelli già nel 1868 richiamava su tale fatto l'attenzione dei friulani e otteneva si facessero esperimenti pratici in proposito. Però l'industria vera non sorse se non in questi ultimi anni quando venne finalmente imposta dal sempre maggiore consumo di cementi che si dovevano importare. E così ebbero origine le due grandi fabbriche di Udine con tre motori elettrici e 163 cavalli di forza e di Cividale con 150 cavalli effettivi e una potenzialità di 150.000 qt. l'anno di Portland a tipo unico. Delle due fabbriche la prima lavora specialmente per le imprese friulane, la seconda anche per l'esportazione, l'una e l'altra ricevendo alimento di materia prima esclusivamente dai distretti di S. Pietro e Cividale, le cui strade perciò vengono continuamente percorse da innumerevoli pesanti carri. Anche a Buia esiste una piccola e più antica fabbrica di cementi a media presa, dove inoltre, come pure a Gemona e Manzano, si fanno col cemento lavori svariati, pietre artificiali, decorazioni in gesso, ecc.

Senonchè il sempre maggiore impiego dei cementi nella costruzione di edifizi privati e pubblici, prestandosi i medesimi a facili, meno costose e nello stesso tempo più eleganti ornamentazioni, ha diminuito sensibilmente l'importanza già grandissima delle cave di pietra da taglio, un tempo numerose specialmente nei distretti di Cividale (22) e S. Pietro (9), i cui [217] prodotti erano venduti, oltrechè in provincia, anche a Gorizia, Zagabria, Sissek[218]. Oggi la maggior parte di tali cave sono abbandonate e il mestiere dello scalpellino, già bene retribuito, attraversa un gravissimo periodo di crisi, tanto che i più sono costretti o ad emigrare o a dedicarsi ad altre occupazioni. Sono tuttora attive alcune cave di pietra piacentina, nome che si dà volgarmente alla brecciola calcare eocenica, nei comuni di Torreano (in numero di 8), ove esiste ancora un abbastanza forte nucleo di scalpellini; di S. Pietro al Natisone (3 ad Azzida, 1 a Clenia), di Faedis (2), Cividale (1 a Sanguarzo), Nimis (1): e ve n'è una di pietra vernadia — nome volgare delle arenarie — a Faedis, e un'altra di conglomerato (friul. tôf) ad Osoppo[219]. [218] Nessuna cava di pietre ornamentali, sebbene sia stata segnalata la presenza di marmi saccaroidi in Vallemontana (Nimis); di marmi comuni compatti rossi o rosei a Bordano e Pioverno sopra Venzone, alla sella di S. Agnese (Gemona); di marmi bianchi a Bordano, Pioverno, Purgessimo (Cividale) e nel colle di Medea (Cormons).

Fig. 15ª. — Fabbrica di cementi a Cividale.

Anche le fornaci di calce comune, per cui abbonda la materia prima non solo nella zona montana ma anche nella piana, fornendola i ciottoli calcarei del letto dei torrenti e delle campagne stesse ove sono maggiormente ghiaiose, nonostante il progrediente sviluppo della industria dei cementi e delle calci idrauliche, sono abbastanza numerose e ve n'è di importanti a Cividale, S. Daniele, Tarcento, Cerneglons.

Industria della seta.

Industria della seta. Che l'abbondanza di materie prime sia stata quasi unica causa fino ad oggi del sorgere di ogni industria in mezzo a noi, dove mancavano in passato condizioni naturali speciali atte a favorire la lavorazione di materie importate, ce n'offrono un'altra prova le industrie tessili. Allorchè nel secolo XVI si diffuse sempre più la coltivazione del gelso e l'allevamento del filugello[220], ebbe principio in Friuli quella trattura e filatura della seta cui nel secolo XVII diede forte impulso G. B. Zamparo, e nella prima metà del XVIII Antonio Zanon, il quale coi suoi scritti di Agricoltura, Arti e Commercio[221], precorse i tempi odierni e, propugnatore di ogni altro interesse economico del Friuli, molto contribuì pure all'incremento della nostra gelsicoltura e bachicoltura. Da una serie di provvedimenti presi dal Municipio e dal governo veneto in Cividale negli anni 1620, 1655, 1681 e 1695 relativamente al commercio e ai dazi sulle galette, si ricava che già in allora forte doveva essere la quantità del prezioso prodotto in quel territorio[222], tanto che nel 1703 lo Zamparo sopra ricordato vi teneva [219] aperta una filanda in borgo S. Pietro. Oggi, favorite dalla mano d'opera abile e a buon mercato esistono filande, oltrechè a Cividale, a Buttrio, Gemona, Tarcento, Segnacco, Colloredo di Montalbano, Venzone, Dignano. Vi sono adibiti 1200 operai — la maggior parte donne — e 588 bacinelle con riscaldamento e movimento a vapore. Inoltre a Bulfons (Tarcento) e ad Artegna da parecchi anni sono attivi due grandi stabilimenti fondati ed esercitati da una Società con sede a Milano, per la filatura dei cascami di seta, in cui sono impiegati oltre 1200 operai.

Fig. 16ª. — Cascamificio di Bulfons (Tarcento).

I prodotti ne vengono smerciati a Milano, Vienna, Lione, Basilea, Zurigo, Crefeld e nell'America settentrionale. Questa industria della seta, rifiorita dopo un breve periodo di decadenza a cui l'aveva ridotta la malattia del filugello (atrofia parassitaria o pebrina), rimane ancora la principale del Friuli come quella che è alimentata da abbondanza di materia prima (oltre 3 milioni di kg. di bozzoli l'anno) e impiega il maggior numero di operai, avendo insieme adottato i macchinari più perfezionati e redditivi. Purtroppo però ora di bel nuovo è seriissimamente minacciata dalla finora invincibile diaspis pentagona che, specialmente nella zona pedemontana, va guadagnando spaventosamente terreno ed ha già ridotto di molto la forza produttiva dei gelsi.

Industria della lana. Tessitura. Cotonifici.

Industria della lana. Tessitura. Cotonifici. L'allevamento [220] delle pecore, che tanta importanza già ebbe da noi[223], fin dal 1410 fece sorgere in Cividale un lanificio al cui uso erano adibite le acque della Roggia di S. Pietro. Nel terzo decennio dello stesso secolo si cercò dare maggiore incremento all'arte della lana con vietare l'esportazione di quella greggia; e nel 1459 si composero gli statuti per l'arte stessa e nuovi provvedimenti in favore della medesima vennero presi successivamente. Senonchè nel secolo XVI, come tutta l'economia pubblica, anche questa industria decadde in Cividale, nè dopo risorse più, poichè frattanto l'allevamento delle pecore venne riducendosi progressivamente. A. Zanon già al suo tempo scriveva che, data la gelosa cura che in Friuli si aveva ormai della vite, bisognava sempre più impedirne la moltiplicazione[224].

Nel 1748 un carnico, il Foramiti, che la città riconoscente più tardi si aggregò alla nobiltà, fondava in Cividale un impianto per la tessitura con telai a mano. Tale industria in poco tempo prese sviluppo così grande che l'intiera contrada di S. Domenico vi si applicava, tanto da venire chiamata borg dei Çhargnei. Oggi però le grandi fabbriche con telai meccanici, sorte a Pordenone, Udine e nella stessa nostra zona a Gemona, l'hanno uccisa quasi totalmente e viene ancora debolmente esercitata in qua e in là come industria famigliare. Nel 1890 vi erano ancora 115 telai a mano in distretto di Cividale, 249 in quel di Gemona (la maggior parte nel comune di Buia, 135), 150 in quel di Tarcento, 85 a S. Daniele e 32 a S. Pietro[225]: attualmente sono ridotti complessivamente a circa 150[226]. Centro dell'industria cotoniera nella nostra zona oggi è diventata [221] Gemona ove esistono tre opifici meccanici di cui uno impiega da 400 a 500 operai nella filatura del cotone, un altro circa 300 nella tessitura e torcitura dello stesso, un terzo, minore, 70[227]. Questa industria è quasi l'unica che venga alimentata da materia prima importata e deve il suo fiorire alle stesse cause per cui ha preso sviluppo quasi in ogni altra parte del mondo. Connessa colle tessili è l'industria delle tintorie, di cui esistono parecchie, sparse un po' dappertutto, come a S. Daniele, Majano, Coseano, Tarcento, Osoppo, Tricesimo, Remanzacco e, più che altrove, fiorenti a Cividale e Gemona.

Fig. 17ª. — Cotonificio Morganti a Gemona.

Industrie varie.

Industrie varie. Le industrie derivanti dal legname non hanno importanza nella nostra regione dove scarseggiano i boschi a fustaie[228]. Tuttavia funzionano alcune segherie principali — poca cosa in confronto delle molte che sono attive in [222] Carnia e nel Canale del Ferro, ricchi di conifere — a S. Pietro al Natisone (Periovizza), Cividale, Povoletto, Tricesimo, Venzone, Manzano, S. Giovanni di Manzano, Corno di Rosazzo. In questi ultimi tre comuni esistono ben 40 fabbriche di sedie di cui si fa larga esportazione anche all'estero. Tale industria è sorta primamente a Cormons — i cui prodotti sono noti perfino in Egitto — e di là si è propagata ai comuni limitrofi sulla destra del Judrio. A Gemona vi è qualche laboratorio di mobili artistici; a Buttrio, Faedis e Nimis si fabbricano vasi vinari; infine parecchie industrie famigliari, di cui diremo più sotto, si appoggiano alla lavorazione del legname.

In diretta dipendenza dell'agricoltura sono le distillerie, di cui ve n'è in tutti i principali centri vinicoli: a Faedis, Cividale, Nimis, Tarcento, Gemona, Ciseriis, Buttrio, Corno di Rosazzo, Tarcetta (Biacis); i numerosi molini esistenti in ogni comune, di cui parecchi a cilindri, e fra essi due, a Treppo Grande e S. Daniele, mossi da forza elettrica, due, a Tricesimo e S. Daniele, a gas povero; gli altri a forza idraulica. Ai più importanti, quasi tutti nel piano, vanno unite numerose trebbiatrici, alcune delle quali sono anche autonome, che mancano affatto in montagna dove scarsa è la produzione del frumento e dove rare, del resto, sono le macchine agrarie d'ogni specie. La produzione della paglia ha fatto pure sorgere l'unica cartiera esistente nella nostra regione: quella di Cividale che produce unicamente carta gialla da imballaggio. Nessuna fabbrica di carta bianca a mano, da scrivere: eppure già nel 1293 a Cividale in borgo S. Silvestro si erano stabiliti Prosperino e Giacomo cartari di Bologna, fratelli; e nel 1366 è fatto cenno di un altro cartaro, Nicolò di Ser Guglielmo; infine dal 1394 al 1401 vi fabbricò carta un certo Masolino, cartaro, figlio del fu Mattiusso di Sammardenchia. Anche in Venzone, come altri documenti comprovano, si lavorò carta tra il 1349 e il 1414[229].

[223] Dall'allevamento del bestiame ha origine l'industria delle latterie sociali, turnarie o cooperative, e ve n'è 18 in distretto di Tarcento, 17 in quel di Gemona, 16 a S. Daniele, 9 a Cividale, 1 a S. Pietro, oltre quelle primitive di prestanza del latte e i caseifici privati; inoltre l'industria della conceria delle pelli un tempo assai florida in tutta la provincia quando i prodotti ne andavano non solo sui mercati del Veneto, ma altresì, e in gran parte, all'estero: ora, dopo un periodo di decadenza, nuovamente in progresso. Nella nostra regione esistono concerie a Cividale e Fagagna[230].

Quanto alle industrie alimentari più dirette, i prosciutti di S. Daniele godono di una rinomanza che si spinge assai oltre i confini della Provincia; e le gubane cividalesi sono una ghiottoneria di cui non mancano di fare la conoscenza quanti si recano in pellegrinaggio alla storica città di Gisulfo.

Naturalmente solo nei centri maggiori e più culti possono vivere l'industria dell'arte fotografica, rappresentata da un rinomato stabilimento a Cividale, e da qualche altro a Tarcento, S. Daniele, Tricesimo; e l'arte tipografica, con officine a Cividale, S. Daniele e Gemona. E qui non va sottaciuto che il più antico libro stampato nella nostra provincia vide la luce in Cividale il 24 ottobre 1480, giorno memorando negli annali della bibliografia friulana, per opera di un Gerardo di Fiandra quivi stabilitosi nel 1476[231].

Utilizzazione delle acque.

Utilizzazione delle acque. Le nostre industrie che finora si valsero di legname da ardere, di torba, di gas povero, di vapore acqueo, di forza motrice delle acque, di carboni importati, solo da pochi anni a questa parte hanno cominciato a chiedere aiuto all'energia elettrica che, come nel resto del Regno, anche qui viene gradatamente sostituendo la mancanza di combustibili fossili, già principale ostacolo allo sviluppo industriale d'Italia. Purtroppo però le Prealpi Giulie sotto questo riguardo si trovano in condizioni d'inferiorità rispetto alla rimanente [224] regione friulana, poichè solo il Tagliamento, che tocca per breve tratto la nostra regione, lambendone il confine occidentale, e il Torre sono corsi d'acqua veramente notevoli. Ciò nonostante esiste già un buon numero d'impianti elettrici a scopo commerciale che dànno illuminazione pubblica e privata e movono importanti opifici a Gemona, Treppo Grande, S. Daniele, Tarcento, Cividale, Buia, Osoppo, Reana: il più cospicuo tuttavia è quello di Vedronza (Lusevera) che usufruisce delle acque dell'alto Torre e dispone di ben 1650 cavalli di forza che vengono trasportati a Udine, ove sono distribuiti a scopo d'illuminazione privata e di forza motrice: senza dire di numerosi altri impianti elettrici a scopo industriale.

Piccole industrie.

Piccole industrie. E qui va aggiunto un breve cenno intorno alle industrie piccole o famigliari, o casalinghe[232] che un tempo fiorirono, più o meno, dovunque, in mezzo a noi, come in genere in tutti i paesi agricoli; oggi vanno perdendo terreno davanti al sempre maggiore sviluppo delle grandi industrie che le opprimono colla schiacciante concorrenza dei prezzi. Più che importanza economica hanno ormai importanza quasi esclusivamente folklorica, quali documenti delle occupazioni a cui un tempo si dedicavano in maggior misura le semplici popolazioni delle campagne. Della più sviluppata fra esse, cioè della tessitura con telai a mano, dicemmo già. Non meno notevole è un'altra industria domestica che venne promossa dall'Associazione Agraria Friulana: la lavorazione dei vimini coi quali si fabbricano panieri, cestelli, canestri, cestoni per stufatura dei bozzoli, culle, ecc. Essa ha la sua sede principale in Osoppo, vicino ai folti giuncheti che crescono spontanei in riva al Tagliamento, e dove si intrecciano ogni anno circa 16000 ceste bianche per la esportazione delle frutta. Questa industria viene esercitata durante la stagione invernale anche nei comuni di Cividale, Corno di Rosazzo, Gemona (succursale del Manicomio provinciale), Grimacco, Prepotto, S. Giovanni di Manzano, San [225] Leonardo, Tarcento, Trasaghis, Treppo Grande, Torreano. Pure durante la stagione invernale dagli adulti nelle stalle, durante l'estiva dai fanciulli ai pascoli nei paesi di montagna, specialmente nei comuni di Cividale, Prepotto, Tarcento, S. Leonardo. Torreano, Treppo Grande, si lavorano utensili di legno per uso domestico: spine per botti, scodelle, cucchiai, cucchiaini, rocchetti, bussoli, mortai, portaovi, spremi-limoni, manichi da lima e da cazzeruola, ecc. Nei comuni di Rodda, Savogna, Corno di Rosazzo si fabbricano rastrelli; in molti comuni di montagna gerle con striscie di faggio; in quelli di Cividale e Rodda palle da gioco (bocce); graticci a Treppo Grande; sporte a Moimacco, Rive d'Arcano, S. Daniele (Manicomio), Reana; scope a Gemona; sedie ordinarie di basso prezzo che si vendono sui mercati della regione, a Corno di Rosazzo, Fagagna, Rodda, S. Giovanni di Manzano, Tarcento, Treppo Grande; manichi da frusta a S. Giovanni di Manzano (10 laboratorî): zoccoli di legno quasi dappertutto.

Attrezzi per agricoltura (vomeri, zappe, badili, tridenti) si lavorano a Buia, Buttrio, Cividale, Dignano, Fagagna, Ipplis, Manzano, Remanzacco, Rive d'Arcano, S. Daniele, Tarcento, Torreano, Tricesimo; attrezzi per cantina (vasi vinari, botti e tini, mastelle e imbuti di legno, spine e cerchi per botti) nei comuni di Attimis, Buttrio, Buia, Cividale, Colloredo di Montalbano, Gemona (Manicomio), Corno di Rosazzo, Magnano in Riviera, Ragogna, Rodda, S. Daniele, Tarcento, Treppo Grande, Tricesimo, Venzone; carri, carrette, carriuole e gioghi nella maggior parte dei comuni pedemontani e pianigiani; a Cividale e Tarcento chiodi; succhielli a Tarcento.

Industria non spontanea, ma importata, è quella dei merletti a fusello, sorta nel 1892 per opera della contessa Cora di Brazzà, che ne fondò una scuola a Fagagna, e sul tipo di essa altre minori a Moruzzo e Martignacco: vi sono addette molte giovani che lavorano vestitini da battesimo, cuscini, ventagli, tovaglie, salviettine, merletti, tramezzi, e vengono venduti alla Società Nazionale per l'industria dei merletti la quale ne fa esportazione a Berlino, Londra e in America.

[226] Finalmente a Cividale, Tarcento, Tricesimo e Corno di Rosazzo si lavorano maglierie; e in questo ultimo comune giocattoli di terra cotta; quasi dappertutto poi scarpe di panno che i contadini calzano nei giorni feriali durante i mesi estivi.

Condizioni generali delle industrie.

Condizioni generali delle industrie. Come da questo quadro risulta, le Prealpi Giulie non sono una regione industriale nel vero senso della parola, importanza senza confronto maggiore avendovi l'agricoltura di cui vive la grandissima maggioranza degli abitanti. Le non molte industrie vi si possono considerare come un prodotto in gran parte spontaneo, sorte naturalmente, imposte dai bisogni e dalle condizioni dei luoghi, più che create dalla speculazione capitalistica, che non ha avuto finora un ragguardevole slancio in mezzo a noi. Gli è perciò che il paese non vive di vita artificiale, ma, per quanto entro modesti limiti, si presenta economicamente solido. Notevole è la distribuzione topografica delle industrie stesse che hanno sviluppo specialmente lungo la linea di falda dei monti e dei colli, cui appartengono i maggiori centri di popolazione, e nel complesso aumentano d'intensità da S-E a N-O a misura che la regione aumenta di altitudine e l'ambiente diventa meno atto all'agricoltura; a misura ci si avvicina ai due più considerevoli corsi d'acqua della zona: al Torre cioè, e al Tagliamento, presso i quali sorgono Tarcento e Gemona, i due principali centri industriali delle Prealpi.

Il Commercio.

Il Commercio. Quanto al commercio, ci mancano dati numerici positivi per venire a conclusioni concrete; solo possiamo affermare che dalla regione si fa larga esportazione di filati di seta, di bestiame bovino, di uova e pollame, di frutta e castagne, di fieno e paglia, di sedie, di laterizi, di tessuti di cotone, di prosciutti: mentre s'importano coloniali, vini, agrumi, farine e grani, formaggi fini, suini giovani, cavalli, concimi chimici, macchine agrarie, cotoni grezzi, medicinali, stoffe di lana. Già nel secolo XII si ebbero le prime manifestazioni della vita commerciale delle nostre principali piazze e nei due seguenti raggiunsero grande importanza come sedi doganali e nei riguardi del transito Venzone, capolinea delle due strade Pontebbana e di [227] Montecroce; Gemona, luogo di scarico delle mercanzie; Cividale sulla linea Pulfero-Predil. Un regolamento pubblicato nel 1380 dal Parlamento della Patria sull'importazione ed esportazione delle derrate alimentari, permettendone lo smercio solo in determinate piazze, mette in evidenza come tra i più attivi centri commerciali del Friuli fin d'allora fossero Venzone, Gemona, S. Daniele e Cividale[233], quelli stessi cioè che, insieme a Tarcento, il cui sviluppo è recente, lo sono ancora oggigiorno. In Gemona il primo mercato venne istituito nel 1184 per opera del governo patriarcale e a incremento di esso fu proibito ogni altro commercio a monte fino ai confini di Pontebba e Montecroce e a valle per un miglio in giro[234]: Venzone ne ottenne uno settimanale nel 1261 dal conte Glizoio[235]. Cividale ebbe fiere e mercati franchi che risalgono al 1133 e alla sua ancor oggi rinomata fiera di S. Martino (11 novembre) già nel 1337 il patriarca Bertrando concedeva l'esenzione da qualsiasi gravezza, mentre quella pur essa importante di S. Michele (29 settembre) venne istituita con deliberazione consigliare del 1493[236]. Anche la principal fiera di S. Daniele che ricorre nella seconda domenica di ottobre, ha origini remote poichè dai documenti ricaviamo che già nel 1392 il patriarca Giovanni V di Moravia concedeva a quegli abitanti un mercato franco per due giorni innanzi e dopo la festa di S. Luca evangelista: mercato che in seguito ebbe a cessare per l'incuria degli abitanti stessi, ma Lodovico II nel 1414 ripristinava nella seconda domenica di ottobre e continua ancor oggi col nome di merçhat des bueris[237].

[228]

XI.
VIE E MEZZI DI COMUNICAZIONE

Note di FRANCESCO MUSONI.

Le vie romane.

Le vie romane. La distribuzione delle sedi umane preistoriche fa supporre che fin dai più remoti tempi esistessero strade artificiali nella nostra regione e attraverso la catena prealpina. Esse dovettero certamente coincidere colle vie naturali e coi più depressi valichi montani che sempre furono i primi veicoli alla diffusione dell'umanità e alle relazioni fra i vari popoli. Il loro sviluppo procede di pari passo collo sviluppo economico e civile di ciascun paese: da ciò l'importanza di ricostruirne la storia, risalendola fin dove possibile.

I più antichi documenti che accennino all'esistenza di strade nelle Prealpi Giulie, sono l'Itinerario di Antonino e la Tabula Peutingeriana.

In quello è fatta menzione di due vie, entrambe partenti da Aquileia, di cui la prima toccava Tricesimo e per Giulio Carnico conduceva a Loncium e ad Aguntum; l'altra, detta Belono o Beloio, pur avendo una stazione a XXX miglia da Aquileia, divergendo dalla precedente, conduceva per Larice a Santico e a Virunum[238].

[229] Non si mette in dubbio che quella corrispondesse alla odierna di Montecroce Carnico o di Plöcken; quanto alla seconda tutto induce a credere che risalisse il Canal del Ferro, conducendo per la sella di Saifnitz verso Klagenfurt: strada lungo la quale molte tracce romane furono rinvenute in ogni tempo.

La Tavola di Peutinger ci parla pur essa di una via da Aquileia a Virunum per le stazioni ad Silanos, Tasinemeto e Saloca[239]. Molti autori opinarono fosse la stessa cosa colla Beloio forse perchè conduceva allo stesso punto, forse anche perchè altrimenti non si spiegherebbe l'omissione dalla Tavola della più importante e quasi universalmente ammessa strada del Canal del Ferro: la diversità dei nomi delle stazioni dipenderebbe dal fatto che nell'Itinerario queste distavano maggiormente una dall'altra perchè corrispondenti a giornate di viaggio dei funzionari governativi; nella Tavola eran più frequenti, in quanto che indicavano le varie tappe delle marce militari.

Lo Czoernig però sostenne vigorosamente doversi la «ad Silanos» considerare distintamente dalla Beloio, come quella che da Aquileia conduceva a Cividale, e per Caporetto e il Predil a Virunum, risalendo il corso del Natisone che, secondo lui, traeva origine dal Mons Picis[240], il quale sarebbe stato il Predil stesso, [230] e per la sella di Starasella raggiungeva l'attuale suo letto, proseguendo poi pel medesimo, mentre la valle dell'Isonzo da Caporetto a Tolmino sarebbe stata occupata da un lago[241]. Ma, anche ammessa l'esistenza di una strada romana pel Predil, lo Czoernig si basa sopra presupposti dimostrati falsi dagli studi geologici e paletnologici recenti: poichè nè l'Isonzo mutò corso in epoca storica, nè la sua valle media, dove si rinvennero le vaste necropoli preistoriche, più volte accennate, potè essere un lago a quell'epoca.

L'Ankershofen, pure optando pel Predil, unica via, secondo esso, tra Aquileia e Virunum, è d'avviso però che la medesima risalisse l'Isonzo per Canale e Tolmino, comunicazione ch'egli afferma la più breve tra Aquileia e Virunum, da lui collocata nello Zollfeld sopra Klagenfurt: lungo di essa sarebbero discesi i Celti quando vennero a 12 miglia lontano da Aquileia e per essa Papirio Carbone si sarebbe recato a combattere i Cimbri nel Norico[242]. Tale opinione aveva in parte già emesso il Cluverio per cui la stazione «ad Silanos» era «circa Sontii Hidriaeque fluminum confluentes»[243] e fu pure condivisa dal Reichardt e dal Mannert[244]. Ma è assai improbabile che l'Isonzo a quei tempi potesse essere risalito da una strada per Plava e Canale, date le angustie che in molti punti la sua valle presenta, spesso chiusa tra rupi che le si serrano addosso strapiombanti, come nel tratto fra Selo [231] e Tolmino: e già dicemmo ch'essa venne aperta e resa rotabile dagli arciducali d'Austria solo dopo la metà del secolo XVI allo scopo di far concorrenza alla via del Pulfero, venendo lavorata cogli scalpelli, secondo quanto nel 1615 ebbe a scrivere il provveditore Giovanni Soranzo[245].

Da tanta disparità di opinioni sarà difficile, se nuovi documenti non verranno in luce, che mai si possa venire a una conclusione interamente accettabile. Infatti, checchè sia stato più volte scritto in contrario, tranne quello della stazione di Tricesimo, nessun altro nome, sia dell'Itinerario come della Tavola, è identificabile con nomi odierni; e ciò è veramente stranissimo e fa pensare ai grandi mutamenti che nel corso dei secoli devono essere avvenuti nella nostra toponomastica e forse anche nella stessa distribuzione dei centri abitati, per lo meno delle stazioni commerciali. D'altra parte affatto insufficiente è il numero delle pietre miliari scoperte per poterci essere di sicura guida, coll'aggravante che spesso vennero trovate lontano dai luoghi dove furono collocate primitivamente, in maniera da disorientarci completamente e da condurci a deduzioni errate.

Senza essere in grado di dimostrarlo con sicurezza, noi tuttavia possiamo argomentare con presunzione di cogliere nel vero, che una strada romana, e forse preromana, da Cividale risalisse il Natisone, attraversando il ponte di S. Quirino, il quale un'antichissima tradizione vuole di fattura romana[246], passando per l'odierno S. Pietro (necropoli paleoveneta) presso cui ne vengono indicate ancora le rotaie incavate nella roccia conglomeratica, toccando Broxas (la Brischis e non la Brocchiana d'oggi, come altri vuole) e Starasella, oltre cui metteva nella valle dell'Isonzo discendendovi fino a Tolmino. Tale via forse, [232] come opinò il Hauser[247], proseguiva per la valle dell'Idria fino ad Emona, che fu la più importante piazza romana dell'antica Pannonia. Se poi da essa divergesse un'altra via pel Predil, come già si ammise, specialmente dopo le recise affermazioni dello Czoernig, allo stato attuale degli studi paleogeografici e archeologici nulla ci autorizza ad affermarlo: nè l'Alpis Julia di Paolo Diacono[248] o di Venanzio Fortunato[249] io credo possa riferirsi al Predil o a qualche altro passo delle Giulie, [233] come molti vollero, ma piuttosto alla sella di Saifnitz, se non forse, e più verosimilmente, al passo di Montecroce carnico, come apparisce dal contesto di quanto scrissero quei due autori.

Fig. 18ª. — Lo storico ponte di S. Quirino.

Assai probabilmente detta via arrivava da Aquileia a Cividale passando per Medea, Brazzano, Ipplis — tutti luoghi con antichità romane — Rualis, avvicinandosi alla città col nome, che porta ancora oggi, di aquileiese e attraversando il Natisone presso porta Broxana, proseguendo quindi lungo la destra del fiume fino al surricordato ponte di S. Quirino. Sembra certo che anche lungo la sinistra del Natisone dalla strada aquileiese maestra risalisse un ramo parallelo al precedente attraversando il torrente Lesa mediante un ponte che rinnovato esiste e un altro che scomparve sul fiume Algido (Azzida) riunendosi al precedente presso S. Quirino[250].

Senonchè l'importanza politica e civile cui assurse Cividale — sia pure dopo la decadenza di Aquileia — non solo non si spiegherebbe qualora la medesima non si fosse trovata sopra una strada importante, come la descritta, ma logicamente ci fa supporre ch'essa fosse centro di altre strade ancora. Dalla via seguita dagli Avari nella loro calata in Friuli, che certo doveva essere la più comunemente percorsa ed esistente fin dall'epoca romana, possiamo argomentare che da una parte fosse collegata pure con Ipplis e Cormons, valendosi di un tratto della strada precedente; dall'altra con Nimis, Gemona, Osoppo, Ragogna[251]. E niente strano sarebbe che proprio con questa via, anzichè [234] col Predil o con altre, coincidesse la «ad Silanos», stazione che il Mommsen colloca a poca distanza da Gemona[252].

Le lapidi miliari trovate a Pieve sotto Camino di Codroipo[253], a Fagagna[254], Colloredo[255], Vendoglio[256] e Pers[257], fanno supporre che anche per quei luoghi passasse una via che univa Concordia a Zuglio Carnico: via in parte forse coincidente o parallela a quelle che Venanzio Fortunato ricorda[258]. Certo è ch'essa esisteva nel medioevo, staccandosi poco sotto a Gemona dalla Pontebba-Udine-Aquileia per discendere a S. Daniele, Codroipo e Latisana.

Ma non è da credere che uniche vie della nostra regione fossero le vagamente indicate dagli scarsi documenti accennati: la sopravvivenza di una toponomastica romana assai diffusa fa supporre che altre vie di minore importanza, e perciò passate inavvertite, collegassero fra loro pure i centri abitati dei quali non ci fu tramandato alcun ricordo. Tali vie però non eran per nulla paragonabili alle carreggiabili, ma dovevan piuttosto somigliare alle campestri del piano o alle mulattiere nei monti dei giorni nostri. Le meglio costruite saranno state certamente le consolari, militari e commerciali: senonchè le rotaie sopra ricordate che ancora si conservano presso S. Pietro al Natisone, strette e su fondo ineguale e spesso roccioso, ci dimostrano come anche quelle moltissimo dovessero lasciar a desiderare.

[235]

La viabilità nel medio evo e fino ai tempi moderni.

La viabilità nel medio evo e fino ai tempi moderni. Nè durante i tempi barbarici dovettero migliorare gran che, da frequenti documenti risultando che spesso si trovavano in cattivo stato tanto da essere impraticabili. Comunque, la preferita nel medioevo fu quella del Canal del Ferro che per la gola strettissima di Chiusa e per Resiutta conduceva a Venzone e Gemona ed ebbe importanza non solo commerciale, ma anche politica, tanto che chi la possedeva poteva dire di tenere in sua mano la porta del Friuli. Nel secolo XII cominciò a dar luogo a un attivissimo commercio di transito tra Italia e Alemagna, redditivo di forti somme coi dazi che si percepivano prima alla Chiusa e poscia a Venzone e Gemona, dove le merci avevano l'obbligo di scaricare e di trattenersi una notte. Tale strano privilegio che risale alla prima metà del secolo XIII fu detto con vocabolo tedesco niederlec e fu principal causa della floridezza economica passata di Venzone e Gemona, dove affluirono numerosi mercanti fiorentini, ebrei e tedeschi, quelli a esercitare negozi di panni, questi di ferrarezze. Quasi continue furono le competizioni fra le due terre per l'esazione dei diritti doganali e buona parte della storia gemonese dal 1300 fino alla metà del 1600 si compendia nelle disposizioni, grazie, condanne, sequestri, rappresaglie, pratiche e suppliche riguardanti il niederlec; ed è perciò che quivi nessuna industria od arte fiorì, ma la città visse quasi esclusivamente di vita parassitaria[259].

Questa strada del Canal del Ferro, sempre favorita sopra ogni altra dal governo di Venezia, venne più volte restaurata, specialmente negli anni 1748, 1774, e tra il 1820 e il 1836 fu interamente rinnovata sotto l'Austria[260].

Rivale costante di essa, così nella storia come nei commerci, fu la via, più volte accennata, del Predil. Fosse o non fosse la [236] «ad Silanos» della Tavola, durante quasi tutto il medio evo dovette essere abbandonata, perchè infestata da briganti, secondo lo Czoernig[261], più probabilmente perchè devastata da acque torrentizie e da frane. In un documento del 1326 è detta ancora nova et insueta[262] ma è certo che nel 1345 fece concorrenza alla pontebbana ed il patriarca Lodovico nel 1364 si serviva di essa come di un mezzo contro il prevalere dell'Austria nel Canale del Ferro[263]. Nel 1377 Cividale si accordò col patriarca Marquardo per la costruzione, o meglio ricostruzione, del tratto Cividale-Caporetto-Tolmino[264]; nel 1396 pel tratto che da Caporetto volge a settentrione per giungere a Tarvis[265]: fu anche allora stabilita una tariffa per le merci che di essa si valevano[266]. Il diluvio del 1468 dovè guastarla in gran parte. Nel 1492 il doge Girolamo Vendramin accordava agli abitanti della valle del Natisone esenzione da gravezze perchè provvedessero alla sua manutenzione[267]. Che non dovesse essere nelle migliori condizioni anche più tardi, si rileva da Jacopo Valvasone di Maniago il quale verso la metà del secolo XVI scriveva che la via del Predil poteva essere frequentata solo quattro mesi l'anno con carri stretti e piccoli e non senza difficoltà, ed anche nel tratto da Caporetto a Cividale spesse volte era impraticabile causa nevi e acque grosse[268].

Dicemmo altrove come nel 1559 Venezia l'avesse chiusa al commercio del ferro col pretesto del contrabbando, realmente per favorire Gemona in confronto di Cividale. Dopo d'allora [237] sono continui i reclami dei Provveditori di questa città al governo ducale per ottenerne la riapertura, anche perchè frattanto (1576) gli austriaci avevano resa ruotabile la via per l'Isonzo fino a Gorizia attirando da quella parte tutto il commercio per cui già era stata prospera Cividale: ma in ciò ebbero la costante opposizione dei Gemonesi. Questi, in una scrittura presentata alla Serenissima intorno al 1620, le ricordavano la promessa fatta di tenerla chiusa per sempre e insistevano vivamente perchè non venisse riaperta al commercio coll'Austria, dicendola asprissima, incapace di sostenere la concorrenza della Ronzina-Gorizia e insinuando che avrebbe reso facile un'invasione austriaca da quella parte[269]: gli stessi argomenti insomma che intorno al 1870 furono messi in campo contro la costruzione di una ferrovia pel Predil; gli stessi, in parte, che oggi servono per combattere l'allacciamento della Udine-Cividale colla transalpina dei Tauri. Tuttavia, malgrado tali proteste, la strada del Pulfero venne ampliata nel 1630[270] senza che si avverassero nè le speranze che su di essa avevan concepito i Cividalesi, nè i danni che i Gemonesi ne temevano.

Il favore per essa risorse nel secolo XVIII e specialmente dopo il 1732. Durante gli ultimi anni del dominio Veneto e il primo dominio austriaco venne riattata e migliorata non una sol volta col concorso dell'opera dei valligiani[271]. Nel 1811, sotto il Regno d'Italia il ponte romano di S. Quirino, ch'era largo appena m. 2.30, fu ampliato e munito di solidi poggiuoli in legno di castagno dipinti[272]; e di nuove riparazioni esso [238] ebbe bisogno nel 1814, per essere stato danneggiato dal ritiro dell'armata francese[273], e nel 1830[274]. Nel 1812 su tutto il tratto Cividale-Caporetto vennero fatti importanti lavori di restauro: portata la larghezza a m. 6 fino a S. Pietro, a m. 4.5 e 5 a monte di S. Pietro; levati i sassi di grossa mole, colmate le innumerevoli buche, livellate le asperità, il fondo coperto di ghiaia fina del Natisone, costruiti muri di sostegno contro frane e lavine[275]. Nuovamente un generale rinnovamento della strada venne fatto a spese del Governo nel 1825: anche allora però molti lavori si omisero per il poco commercio cui la medesima dava luogo, ma i quali nel 1832 si dovettero fare con tutta urgenza, quando, interrotto il transito della pontebbana sottoposta a radicali restauri, la via del Pulfero cominciò a essere frequentata da voluminosi e pesanti carri[276].

Non parleremo di riparazioni più recenti, fatte in varie riprese: solo tra i molti manufatti, oltre un nuovo allargamento dello storico ponte di S. Quirino, meritano menzione i due importanti ponti sul Torre e sulla Malina che, reclamati da secoli, vennero finalmente costruiti nel 1876. Oggi la strada del Pulfero si può dire una delle meglio tenute; e deliberatamente ci siamo indugiati intorno ad essa perchè è la più importante della regione prealpina, come quella che sola la attraversa da parte a parte, pel giusto mezzo, dividendola in occidentale ed orientale e mettendone in comunicazione i due opposti versanti.

In che stato fossero nei secoli passati le rimanenti strade attraverso le Prealpi, lo rileviamo da Jacopo Valvasone[277]. Egli [239] afferma che dalla sinistra dell'Isonzo al suo tempo solo per vie difficili e sassose si poteva entrare nel Collio, nobile per vaghezza di colli, bontà di vini e frutta. Medesimamente da Tolmino la più breve comunicazione con Cividale era pei monti di Tranchie (sic), o Drenchia, per due strade malagevoli da cavalcare e che mettevano a S. Leonardo per le valli della Cosizza e dell'Erbezzo. Un'altra, pure dalla valle dell'Isonzo, per i passi di Long e il Grivò conduceva a Faedis: quest'ultima è forse quella stessa cui si attribuisce origine romana per le antichità scoperte a Homic e sotto lo Stol[278].

Finalmente lo stesso Valvasone accenna a parecchi passi, da pedoni e cavalli, «per certi canali et monti difficili e strani» poco usati e perciò degni di poca considerazione, che mettevano in comunicazione l'alto bacino del Natisone colle valli dei torrenti Malina (Attimis), Lagna e Cornappo (Nimis), Torre (Tarcento). Di tutte cotali strade montane, come della maggior parte delle altre, si potrebbe ancora oggi ripetere quanto il Valvasone scrisse alla metà del secolo XVI.

Le vie del piano dovevano essere certamente in migliori condizioni, non però molto dissimili dalle strette, basse, sassose e ineguali vie campestri odierne. La riduzione di esse all'attuale stato e forma — rese più ampie, più rettilinee, più alte sui terreni circostanti, indipendenti dalle acque di scolo, condotte mediante ponti attraverso a rivi e torrenti, ghiaiate e sottoposte a regolare manutenzione — cominciò appena all'epoca napoleonica.

Potremmo seguirne passo passo lo sviluppo, coll'aiuto degli innumerevoli documenti raccolti nell'Archivio del Genio Civile in Udine, ma ciò uscirebbe dai limiti e dagli scopi della presente guida. Così, per limitarci ad alcuni esempi, troviamo che nel 1811 fu allargata, sistemata e resa carreggiabile la strada, fino allora quasi intransitabile, che allacciava Nimis alla centrale Udine-Tricesimo, toccando Qualso, Vergnacco, Remugnano, Ribis, Vat, dove si incontrava colla già riattata conducente ad [240] Attimis, proseguendo poi con essa fino a Udine[279]: così due anni più tardi fu ordinato il sollecito riatto della via, che staccandosi dalla predetta centrale di Udine al bivio di Paderno, conduceva per Pagnacco, Buia e Colloredo ad Osoppo[280]; e mi risparmio altri esempi che troppo sarebbe lungo il numerare.

La carta topografica del Capellaris del 1798 segnava ancora soltanto le strade Udine-Gemona-Pontebba, Udine-Cividale-Caporetto-Predil, Cividale-Cormons-Gorizia e Udine-Beivars-Godia-Attimis[281]. Quella del barone De-Zach[282] — la prima carta esatta e scientifica per l'insieme delle provincie venete — a dette vie aggiungeva la Udine-Martignacco-Fagagna, senza che però ancora arrivasse a S. Daniele.

In quella del Malvolti[283], che fu ingegner capo del R. Corpo Acque e Strade in Udine sotto il Governo napoleonico, sono segnate come strade regie la Udine-Gemona, la S. Odorico-S. Daniele-Osoppo, la Cividale-Caporetto-Predil; come comunali principali la Udine-Fagagna-S. Daniele, ormai condotta a termine, e la Cividale-Corno di Rosazzo-Cormons: sono dette comunali secondarie tutte le altre.

Ma lo sviluppo delle strade a sistema moderno crebbe rapidamente anche dopo il dominio francese: a provarlo bastano le edizioni 1833 e 1852 della carta topografica austriaca. Questo però possiamo finora affermare solo del piano, non dei monti, in mezzo ai quali nessun reale progresso ancora era stato fatto. Infatti nel 1852 in tutto il distretto di S. Pietro non esisteva [241] che il tratto da Ponte S. Quirino a S. Leonardo: la pedemontana univa bensì Cividale a Faedis, non però questa con Attimis, da cui si risaliva pel Lagna fino a Forame: nè Attimis era ancora allacciato con Nimis e nemmeno questo con Tarcento, nè Tarcento con Gemona. Così nessuna comunicazione esisteva fra Cividale e la valle del Judrio, priva anch'essa, come le altre valli, di qualsiasi strada a fondo artificiale; e Buia, se comunicava con Udine, non era però unita a Gemona e Tarcento.

Dopo l'annessione del Veneto all'Italia i progressi della viabilità furono ancora più rapidi grazie alla legge sulle strade obbligatorie emanata nel 1868: di ciò possiamo renderci esatto conto confrontando tra loro le varie carte corografiche e topografiche comparse dopo quell'epoca intorno alla nostra regione: da quelle del Pirona[284] e del Marinelli[285] alle varie edizioni della Carta Topografica d'Italia, alle carte stradali turistiche più recenti[286]. Risulta da esse che la rete del piano ormai si può dire ultimata e già è iniziata la fase della rapida costruzione delle strade in montagna, che, trascurate in passato, per cause che facilmente si comprendono, oggi son richieste imperiosamente dall'aumentata ricchezza e dai cresciuti e crescenti bisogni delle popolazioni. E già buone carreggiabili dal fondo delle valli salgono sui declivi montani a Montenars, a Lusevera, a Monteaperta, a Vernassino, a Jainich, senza dire di quella non più recente che unisce Cividale a Castelmonte, o di quella che fra non molto raggiungerà i villaggi del comune di Stregna: non considerando come montane le strade serpeggianti pei tondeggianti dossi morenici dell'anfiteatro o per quelli non meno dolci del Collio.

[242]

Considerazioni sulla viabilità attuale.

Considerazioni sulla viabilità attuale. Che se ora diamo uno sguardo generale all'intera rete della regione, questa ci suggerisce parecchie considerazioni. Anzitutto va osservato che le più importanti vie d'oggi corrispondono alle più antiche di cui fu ragionato sopra, prova che le condizioni topografiche s'impongono in ogni tempo come alla ubicazione dei centri abitati e delle sedi umane, così al modo di svilupparsi e di estendersi delle reti stradali e che fra le une e gli altri esistono strette relazioni di dipendenza. Tali vie, in generale ampie e ben tenute, sono: la nazionale Codroipo-S. Odorico-Dignano-S. Daniele-Osoppo-Venzone; la già nazionale, ora provinciale perchè parallela alla ferrovia, Udine-Tricesimo-Artegna, poscia innestantesi alla precedente; la Udine-Cividale, pure diventata provinciale per fatto della ferrovia, che prosegue come nazionale verso il Pulfero ed il confine austriaco, oltre il quale a Caporetto si unisce alla Gorizia-Predil: da questa stessa strada, colla qualifica di provinciale, dirama la Cividale-Cormons, già assai più frequentata ed importante quando fu la continuazione attraverso l'Italia della via del Predil, prima che venisse aperta la Ronzina-Gorizia.

Notevole è pure la linea pedemontana, che unisce tutti gli sbocchi delle valli prealpine e i centri di popolazione che vi si trovano, quali: Cormons, Cividale, Faedis, Attimis, Nimis, Tarcento, Artegna, Gemona: via anche questa forse esistente, come dicemmo, fin dall'epoca romana, quantunque nella maggior parte ricostruita modernamente solo negli ultimi tempi. Da essa si staccano molte strade secondarie, che da una parte risalgono le valli fino alla loro testa, tutte di costruzione assai recente, dall'altra — e queste sono più antiche — discendono verso il piano e direttamente o indirettamente fanno capo a Udine, natural foco di convergenza di tutte le comunicazioni del semicerchio morenico-prealpino sulla sinistra del Tagliamento.

Quanto all'anfiteatro morenico tilaventino, ivi l'odografia appare assai confusa, come la disposizione di quei colli e la disordinata distribuzione dei villaggi, onde le vie s'incrociano bizzarramente fra loro e irradiano in ogni direzione. Tuttavia [243] anche ivi il maggior centro di popolazione è insieme principal centro stradale: S. Daniele, in diretta comunicazione con Gemona ed Udine, con Spilimbergo e Codroipo: anche ivi lo sviluppo [244] stradale è improntato anzitutto alla necessità di stabilire comunicazioni fra i singoli centri abitati e il capoluogo della Provincia; in secondo luogo dominato dalla tendenza di collegare gli stessi centri colle tre strade principali — nazionali e provinciali — fra cui tutto l'anfiteatro è rinchiuso come in un triangolo.

Fig. 19ª. — La rete stradale nelle Prealpi Giulie.

Le ferrovie.

Le ferrovie. Da ultimo poche parole intorno alla rete ferroviaria. Questa, non essendo altro che la trasformazione più moderna delle strade carreggiabili, è naturale che prime a subire detta trasformazione siano state le più importanti, cioè le più antiche, adattandosi alle mutate condizioni storiche, convergendo sopra Udine, subentrata ad Aquileia come centro massimo della regione. Così nacquero la Udine-Cormons-Gorizia nel 1860; la Udine-Canal del Ferro-Pontebba nel 1875; la Udine-Cividale nel 1888, quale primo tronco di una progettata, fortemente voluta e fortemente contrastata, che dovrebbe far capo a Canale nella valle dell'Isonzo collegandosi colla transalpina austriaca dei Tauri: riprendendo, sia pure con mutato itinerario, la concorrenza che la via del Pulfero già volle fare alla Gemona-Pontebba. Queste vie, insieme alla Gemona-Spilimbergo-Casarsa, in parte costrutta e in parte costruenda, servono o serviranno al grande commercio internazionale e di transito, mentre al commercio interno della regione, oltre le medesime, provvede anche una linea a scartamento ridotto (Udine-S. Daniele) tra l'anfiteatro morenico e il capoluogo della Provincia; e di una pedemontana, parallela alla carreggiabile sopradescritta, fu ventilato più volte il progetto, che certamente finirà con imporsi.

[245]

XII.
LA STORIA

Sommario di PIER SILVERIO LEICHT[287].

La nostra regione nell'antichità.

La nostra regione nell'antichità. Le recenti scoperte archeologiche hanno un po' diradata l'oscurità che avvolgeva la protostoria friulana e l'hanno tolta dalla labile base delle leggende poetiche, per fondarla sui dati positivi offerti dagli scavi. Dei risultati ottenuti sin qui, e dei problemi varî ed interessanti che restano ancor da risolvere il lettore troverà ampia notizia nella parte etnografica, a noi basterà ricordare i punti principali. Pare ormai assodato che per un lungo periodo i nostri colli e la pianura pedemontana fossero occupati da popoli di ceppo veneto-illirico, genti d'indole mite, di civiltà assai elevata, con notevoli attitudini per le manifestazioni artistiche, che avevano larghe relazioni commerciali con l'oriente. Questo popolo, i cui castellieri ed i sepolcreti si diffondono, dall'Istria e dal basso Friuli orientale, lungo l'Isonzo e sui colli e nella pianura del Natisone e del Tagliamento, si trova in lotta, forse verso il III secolo a. C. con i celti che occupano le Alpi e spingono innanzi altri popoli sottomessi da loro come i carni. La lotta fu lunga ed ostinata, ed i veneto-illirici dopo una tenace [246] resistenza, furono a poco a poco respinti dai loro limiti incastellati, sempre più addietro verso l'Istria dai barbari e bellicosi avversarî. Le tracce delle successive sconfitte son rivelate dagli strati archeologici e Strabone ne è il testimonio storico quando parla di Trieste come di una sede carnica. È nel fervore di questa lotta secolare che il gran nome di Roma fa la sua prima apparizione nella storia antichissima della nostra regione. Ambedue i popoli erano in buone relazioni coi romani al principio del secolo II a. C. quando una colonna di celti, attraversata la pianura che le ostilità avevano resa deserta, si pose a fabbricare, in un luogo non precisato, distante 12 miglia da quello dove poi sorse Aquileja, un castellum. I veneti protestarono e i romani, cui questi movimenti celtici dovevan sembrare minacciosi, intervennero costringendo i galli a ritirarsi ed alle proteste di costoro per le violenze subite da M. Claudio in tale occasione, il Senato rispose intimando loro di non scendere dalle Alpi (188-185 a. C.).

Il dominio romano. Le vie commerciali.

Il dominio romano. Le vie commerciali. I pericoli che potevan derivare all'Italia settentrionale dalla lotta celto-veneta persuasero il Senato a fondare nel 182 a. C. una colonia latina nella pianura friulana poco lungi dai lidi del mare, colonia che fu chiamata Aquileja e doveva divenir poi uno dei più grandi centri commerciali della romanità. Di là i romani mossero spedizioni verso la Dalmazia e verso il nord per assoggettare completamente la regione, giovandosi spesso delle lotte che dividevano i varî popoli. L'ultimo fatto guerresco di questo periodo fu la spedizione di M. Emilio Scauro fra i taurisci (115 a. C.) che assicurò le buone relazioni di costoro con Roma, e la sicurezza dei valichi alpini a nord di Trieste che quei popoli tenevano: da quel tempo in poi tutta la cerchia delle Alpi orientali fu in potere dei romani.

Non si sa con certezza quali fossero i confini dell'Agro colonico aquileiese; par certo nondimeno che esso abbracciasse buona parte della pianura al di sotto di Udine e Cividale, mentre ad ovest dovette lasciar libero il territorio in cui sorse più tardi la colonia Julia Concordia. I latini dedotti dal Senato romano [247] a popolare Aquileja, dilatarono ben presto nella regione la lingua ed i costumi romani, innestandoli su quelli delle genti celtiche e venete che li attorniavano. Questa profonda penetrazione fu dimostrata dalle pazienti indagini toponomastiche del compianto prof. Wolf[288], da cui risulta che se la terminazione icco ed acco di moltissimi nomi di luogo friulani, è da ritenersi di indole celtica, nondimeno la base, su cui il suffisso celtico terminale s'innesta, appartiene di regola all'onomastica romana. Così per esempio Laipacco, l'antica Laviacus si deve intender formata dal nome proprio romano Lavius che si trova in patere aquilejesi, e dal suffisso acus; così Rubeniacus oggi Rubignacco, deriva da Rubenius altro nome proprio romano, che si trova in iscrizioni della regione, congiunto al solito suffisso e così via. Questi nomi di luogo appartengono ad antichi fundi romani e cioè a grandi poderi, di cui era disseminata la pianura ed il pedemonte, che portavano il nome dell'antico proprietario; dobbiamo pensarli organizzati secondo le regole dell'economia agraria romana, colle terre coloniche e quelle servili, rette dalla villa (cfr. il friulano vile per paese) padronale dov'eran l'abitazione, gli horrea del proprietario e le case dei coltivatori.

L'estendersi dell'elemento romano nel paese dovette però procedere di pari passo coll'importanza sempre maggiore che il paese stesso ebbe per i Romani e col tramutarsi che fece Aquileja da semplice colonia militare a grande centro commerciale e ad uno degli strumenti più importanti di quella politica di espansione metodica, regolare della dominazione romana al di là delle Alpi che comincia coll'Impero.

Perciò furono meglio regolate e assicurate le strade che attraverso il piano mettono ai valichi alpini. Il nostro territorio presto abbandonato dalla Gemina di cui un braccio andava verso Trieste lungo il mare, l'altro attraverso la valle del Vipacco nei monti, era invece percorso per lungo dalla Via Julia che passando ai piedi di Udine si dirigeva per Tricesimo ed Amaro [248] al valico di Montecroce, ed era attraversata dalla Postumia che da Cittadella, Castelfranco, Oderzo metteva a Codroipo e di là attraverso la campagna a Cormons. Oltre a queste, altre dovettero esservene che non hanno nome, ma tuttavia ebbero certo frequenza di transito. Tale quella che senza dubbio congiungeva Aquileja e Cividale e di qui poi muoveva verso le chiuse di Plezzo (ad Silanos?); tale l'altra che, come c'insegna Venanzio Fortunato, dalla Carnia scendeva per Osoppo e Ragogna verso Codroipo e di là poi verso Julia Concordia. Strade queste che vennero assicurate con castelli destinati nel tempo stesso a presidiare le vie ed a porgere i mezzi di rifornimento all'esercito in marcia.

Lungo queste strade dovettero esistere nei primi tempi delle cannabae, piccoli centri dove qualche mercante aquileiese stabilì dei fondaci per lo smercio e lo scambio dei prodotti, e ricoveri per il riposo dei viandanti e dove i legionari romani tenevano le loro famiglie. Coll'organizzazione della provincia pannonica ed il suo successivo ampliamento nel II secolo d. C. il traffico delle regioni settentrionali ed orientali verso l'Adriatico crebbe moltissimo ed Aquileja ne ebbe ricchezza e potenza. Le borgate situate lungo le strade commerciali e militari ne trassero pure incremento: così avvenne che sulla Julia superiore sorgesse, probabilmente da antiche cannabae, il Forum Julii carnico (Zuglio) e sull'altra via del Natisone il Forum Julii orientale (Cividale) probabilmente al tempo di Cesare o di Ottaviano prima che questi si dicesse Augusto; l'uno e l'altro furono piccole comunità di cittadini romani ordinate dai magistrati per la sicurezza e comodità dei traffici. Quei due Fora furono poi più tardi elevati al grado di colonia: l'orientale prima dell'avvento di Claudio all'impero, il carnico durante il reggimento di questi[289]. Alla colonia di Giulio Carnico dovette essere [249] aggregata Glemona, che aveva magistrati vicani ed abbracciava col suo territorio la media valle del Tagliamento. Altri notevoli centri abitati, fra il Tagliamento e l'Isonzo, furono poi presso il colle ove oggi è S. Daniele e poi Tricesimum, Reunia (Ragogna) ed Osoppo; antichità romane notevoli si trovano a S. Pietro al Natisone ed altrove.

Nel Forum Julii orientale troviamo lapidi che ricordano le importanti magistrature romane del luogo: i quatuorviri iuri dicundo principali amministratori della res publica che presiedono l'ordo municipale, i sexviri che ordinano le feste ed i giochi pubblici; gli Augustales, corporazione onorifica cui si accede dal sevirato o per decreto dei decurioni; troviamo altresì il patronus della colonia, scelto fra i cittadini più eminenti.

Anche a Gemona, le pietre iscritte, ci recano memoria dei magistrati vicani: il curator ed il patronus.

Certamente i cittadini che facevan parte di queste nostre comunità erano in buona parte liberti, non mancavano tuttavia i liberi appartenenti a vecchi ceppi romani come ad esempio il P. Fabius Pudens che è patrono del municipio forogiuliese, e la stolata femina Valeria Maximilla che vi fu sepolta. Il governo aveva nella regione alcune stationes per la riscossione delle gabelle; una lapide di Montecroce ci mostra come appunto a Gemona si riscuotesse il portorio dell'Illirico. A possessi imperiali in Friuli sembra poi alludere una lapide cividalese ove si ricordano due Servi Caesaris.

La grande prosperità cui assurge Aquileja vi richiama un gran numero di speculatori, negozianti, ricchi proprietarî dalla Macedonia, dalla Siria, e persino dall'Egitto. L'influenza della [250] grande città «italorum emporium opulentum imprimis et copiosum» come dice l'imperatore Giuliano, diffuse nella provincia le arti più squisite: lo dimostrano gli scavi di Zuglio colla grande statua in bronzo del procurator di Claudio, C. Bebio Attico, e così le trabeazioni graziosamente scolpite, i musaici, le belle fistulae decorate, le oreficerie, i vetri cividalesi, le tombe famigliari di Glemona; le lapidi ci tramandano nomi d'illustri famiglie romane che abitavano qui come i Valerî, i Fabî e più tardi i Decii; l'agricoltura poi era celebre in tutto l'impero per la bontà dei suoi prodotti.

Sembra che le genti friulane subissero, accanto all'influsso romano quello celtico così nel dialetto, come nelle fogge del vestire e nelle forme artistiche: anche la religione mostra larghe tracce di tale preponderanza se non altro nel culto caratteristico di Beal il cui nome rimane in molte denominazioni di luogo della provincia, ed i simboli in numerosi monumenti. Delle grandi feste beleniche che si celebravano in tutto il mondo celtico nei solstizî di estate e d'inverno, rimase ancora nei nostri giorni un pallido ricordo nel getto di ruote infocate (cidulis) della Carnia e forse anche nei fuochi di S. Giovanni e dell'Epifania in tutta la provincia.

Il cristianesimo, le prime invasioni barbariche.

Il cristianesimo, le prime invasioni barbariche. Aquileja, dove affluivano genti così diverse, doveva però esser strumento al diffondersi di altri culti provenienti da lontane regioni: nei suoi monumenti si trovan tracce di religioni orientali, asiatiche ed egiziane. Anche il Cristianesimo[290] dovette introdursi abbastanza presto nella grande città e vi provenne forse direttamente dall'Oriente, poichè nelle altre sedi dell'Italia settentrionale esso si fece strada abbastanza tardi. Tali correnti orientali sembrano attestate dai numerosi martiri che di là furono introdotti nel martirologio friulano. Il primo vescovo della comunità cristiana aquilejese di cui si conosca il nome fu Ermacora [251] che visse, come vuolsi, nella prima metà del secolo terzo; nei primi anni del quarto il vescovo d'Aquileja doveva esser grandemente cresciuto in importanza se lo vediamo intervenire a lontane riunioni come il Sinodo di Arles (314): dopo il riconoscimento del Cristianesimo, quale religione ufficiale dello stato, si tenne nel 381 ad Aquileja un Sinodo importantissimo contro gli Ariani cui intervenne S. Ambrogio. Aquileja dette alcuni martiri il cui nome fu celebre nella cristianità dei primi secoli, come Fortunato ed i Canziani, ai quali si intitolano ancora talune vetuste chiesette delle nostre vallate. Quale fosse la diffusione del Cristianesimo nei centri minori è difficile però dirlo. Certo il Forogiulio orientale, che pure col decadere di Aquileja verso la fine dell'Impero acquistò molta importanza, non ebbe vescovo, finchè nel VII secolo vi trasportaron la lor sede quelli dell'omonimo carnico: segno che la comunità cristiana non dovette esservi numerosa. Certo, nel 238, sulle cime dei nostri monti esistevano ancora le are delle Deità custodi d'Italia, e nella stessa Aquileja, proprio in quell'anno, la fantasia popolare vide Beleno, non già gli angeli cristiani, accorrere in soccorso della città assediata dall'atroce Massimino, ed oltre alle are pagane fatte ristaurare da Arbogasto alla fine del IV secolo sulle nostre Alpi, c'è da ricordare il timore, attestatoci da omelie antiche, nei nostri comprovinciali, di danni da parte dei gentili, che dovevano dunque esistervi numerosi. La definitiva vittoria del cristianesimo si deve soltanto a Teodosio I ed a suo figlio Onorio.

Intanto però precipitavano le sorti dell'Impero d'Occidente e con esse quella della provincia aquilejese. Dopo parecchi decenni di pace profonda dovuta agli energici provvedimenti degli imperatori della casa Antonina, che respinsero i marcomanni, giunti fin sotto Aquileja, le nostre terre dovevano esser messe a ferro ed a fuoco dalle sanguinose competizioni dell'Imperatore Massimo con il feroce Massimino, che perì sotto le mura di Aquileja, da lui indarno assediata. Pochi anni più tardi (252), la marea germanica traboccò una prima volta dalle Alpi e fu respinta da Gallieno: l'incursione dovette cagionare però infiniti [252] danni ed incendî di cui ci parlano gli scrittori del tempo e ci resta testimonio negli strati di prodotti di combustione che troviamo negli scavi archeologici fra le vestigie romane.

Altre lotte intestine vide la provincia aquilejese: Costantino II, figlio dell'instauratore del Cristianesimo a religione dello Stato fu ucciso (a. 340) fra Aquileia e le prossime lagune. Alcuni anni più tardi il grande Teodosio decise due volte nel basso Friuli la supremazia della discendenza di Valentiniano: la prima nel 388 quando disfece ed uccise nei pressi di Aquileja Massimo, in favore di Valentiniano II, la seconda nel 394 quando sconfisse l'uccisore di quest'ultimo, il generale barbaro Arbogasto e la sua creatura, l'imperatore Eugenio, presso il Fiume Freddo, non lontano dal Vipacco, ed in seguito alla vittoria riunì insieme i due imperi, d'oriente e d'occidente. È da notare il fatto, interessante per la storia fisica della regione, che la vittoria molto contrastata, di Teodosio fu decisa dall'imperversare di terribili raffiche di Bora, che soffiava impetuosa contro alle truppe di Arbogasto.

La caduta di Aquileia e l'importanza assunta da Cividale. Il periodo dei Goti e dei Bisantini.

La caduta di Aquileia e l'importanza assunta da Cividale. Il periodo dei Goti e dei Bisantini. Ma ben altre sventure preparava alla nostra regione la minaccia barbarica che già da tanto tempo pesava sopra di lei, minaccia che ormai derivava così dai barbari di fuori, come da quelli di dentro che avevano in poter loro l'esercito. Nei primi decenni del V secolo il Friuli fu corso dai Goti di Alarico più volte, e per quanto Aquileja resistesse, ne andaron di mezzo, a quanto si dice, i territori del Forogiulio orientale e il concordiese; alcuni decennî più tardi invece fu la volta di Aquileja, e la distruzione che Attila arrecò colle sue orde efferate fu tale che la città non potè più risorgere con vigor di vita. Il fatto ha grandissima importanza per il tratto di Friuli di cui ci occupiamo giacchè la caduta di Aquileja e la distruzione del Forogiulio carnico, avvenuta pure in quel turno, per quanto non si sappia esattamente quando, fecero sì che il centro del governo, della difesa militare ed anche della economia della regione Giulia si trasportasse nella parte media che fin'allora era rimasta quasi nell'ombra, e più [253] che altro nella città orientale di essa: Cividale[291]. Il disastro unnico non atterrò tuttavia interamente Aquileja. Ancora ottant'anni più tardi il prefetto del pretorio di Re Teodato in un decreto relativo a contribuzioni della provincia parla delle tre città: Aquileja, Concordia e Forogiulio; dunque neppure il terribile scontro fra Odoacre e gli ostrogoti, anche questo avvenuto nella pianura, al guado dell'Isonzo, divenuto campo di battaglia delle nazioni, aveva avuto per conseguenza la totale scomparsa dell'antica città. Piuttosto è da pensare che abbattuta e abbandonata in gran parte dopo l'incendio unnico, essa sia andata sfacendosi a poco a poco per la malaria derivata dalla mancanza di braccia che coltivassero il piano circostante, dal cessare del commercio cagionato dalle guerre barbariche che avevano tolta ogni sicurezza alle vie che dall'Adriatico mettevano nel Norico e nella Pannonia strumento indispensabile alla prosperità del grande emporio, e forse anche dal penetrare delle acque marine nella terra ferma per quel lento abbassarsi della regione che fu esiziale ad Eraclea, ad Altino ed a tanti altri celebrati luoghi del litorale. Anche le lotte lunghe e spietate tra bisantini e goti dovettero contribuire a tale decadenza, favorendo Grado dove molti profughi s'erano rifugiati, e dove la flotta bizantina aveva una delle sue stazioni.

Nel periodo gotico, il Friuli dovette esser diviso in tre zone: la più alta invasa dai franchi discesi dal Norico sotto specie di venir in aiuto dei goti, la media in possesso di questi fino agli ultimi tempi del loro dominio, la bassa infestata dai Bisantini. Certo Totila trovò aiuti in questi luoghi quando da Treviso mosse alla riscossa contro i bisantini: a Cividale fu scoperta nel 1500 nella casa Canussio (ora di Craigher) una lapide [254] col suo nome, ora perduta, e quando poi Narsete discese coi suoi per domare questi ultimi avanzi gotici, dovette marciare attraverso le lagune, lungo il lido del mare, per evitare gli attacchi franchi e dei goti che dovevano, dunque, essere ancor forti nella regione.

La vittoria di Narsete diede l'ultimo tracollo al sistema di accordi fra romani e barbari che era stato già abbozzato dai generali barbarici della Casa di Teodosio e che ebbe il suo culmine nella monarchia di Teodorico. Ormai non s'ebbe, in Italia che pieno dominio di greci o pieno dominio di germani.

Cividale. Ponte del Diavolo, visto da nord.

Nulla ci dicono le memorie di questi tempi sulle condizioni del Friuli durante il procelloso governo di Narsete; con tutta probabilità, nei nostri paesi, si dovette combattere aspramente da bisantini e da franchi dal 555 sino al 565 anno in cui riuscì finalmente a Narsete di cacciarli. Qualche traccia della signoria bisantina rimase in Friuli nella organizzazione militare e nel sistema delle strade imperiali. Certo parecchie fra le arimannie del successivo periodo longobardo, colonie di guerrieri-coltivatori cui era affidata ereditariamente la custodia di un castelliere che sbarrava una valle alpina, o la vigilanza di una strada militare, o che erano collegate al sistema di fortificazioni di una città, si richiamano, per l'origine dell'istituzione, alle stratie, istituzioni consimili del sistema militare limitaneo bisantino. A questo sistema appartengono anche gli excusati che son pure ricordati da posteriori documenti friulani e così le strade basiliche (imperiali) di cui troviamo ricordo nella toponomastica friulana, specialmente nel basso Friuli dove la signoria bisantina fu più forte, ma anche nel medio, come presso a S. Daniele sulla classica strada che viene da Ragogna, e nel nodo di Basaglia-penta (cinque strade)[292]. Molti, fra i castelli che [255] coronano le alture friulane, richiamano di certo la loro origine a questo periodo in cui la difesa delle frontiere orientali d'Italia dovette restringersi forzatamente al medio e al basso Friuli, mentre nel periodo più antico essa era assicurata dai valli e dagli oppidi del Norico e della Pannonia.

Fig. 20ª. — Il castello di Ragogna.

I Longobardi. Cividale capitale del ducato.

I Longobardi. Cividale capitale del ducato. Queste difese non giovarono però a tener lontani i barbari. Mentre i franchi posavano, divisi da discordie intestine, nel 568 un nuovo e possente nemico si avanzava per la piana ed aperta via di Lubiana verso il Friuli, e ne doveva poi reggere pienamente le sorti per due secoli. Alboino, come sembra, occupò la regione senza colpo ferire e costituì Forogiulio sede del primo ducato longobardo al comando del suo parente Gisulfo, lasciandogli un forte nucleo di armati che furon poi assegnati alle molte arimannie sostituitesi, come si disse, alle stratie. Così ne rimasero muniti molti castelli friulani. Di alcuni di essi ci risulta il nome ed appartengono tutti alla nostra zona, Cormons, Artegna, Nimis, Ragogna, Osoppo, Venzone, S. Daniele, Lavariano. che sono ricordati dagli scrittori e documenti del tempo ed anche Udine dove si conservano sculture che si possono attribuire senza sforzo all'età longobarda, senza parlare di Gemona [256] che rimase anche in questo periodo uno dei centri più importanti della provincia essendovisi fissati oltre ai comuni arimanni anche taluni nobili (edelingi). Arimannie si trovano poi in moltissimi altri luoghi: Tarcento, Reana, Montenars, Fraelacco, Attimis, ed altri, senza contare quelle di Rubignacco, Gagliano ecc. attorno alla capitale del ducato. Questo si costituì coi suoi sculdasci e decani a similitudine dell'esercito.

Quali siano state le sorti della popolazione romana in Friuli non ci si può avventurare a dirlo. Certo, il fatto stesso della facilità estrema della conquista, riferitoci da Paolo, che pure doveva, meglio di ogni altro, conoscere le tradizioni locali, sembra dimostrarci che vi furono accordi, come accadde a Treviso, a Vicenda, e altrove. Sembra che le guarnigioni bisantine si siano, quanto ai nostri paesi, ritirate a Grado, e ad Oderzo, città, quest'ultima, dove risiedette poi il duca bisantino di queste regioni, che col mare comunicava più facilmente e fu poi presa da Rotari. Le grandi famiglie, che pare vi avessero dominii come i Decii[293], abbandonarono certamente i luoghi prima della venuta dei barbari e si ritirarono nei territorî bisantini, alcuni proprietarî furono poi uccisi nei primi anni di disordinato dominio, ma non si può escludere che parecchie schiatte di medî e piccoli proprietarî siano sopravvissute; come si sa, i racconti del Diacono non escludono affatto questa possibilità. Rimase di certo poi il popolo dei coltivatori che, probabilmente, ebbe a soffrire poco per il mutamento. Cambiò padrone, null'altro; la grande donazione dei nobili friulani Erfo, Xanto e Marco alle badie di Sesto e di Salto[294], unico documento friulano dell'età longobarda che ci sia rimasto, ci mostra largamente come l'ordinamento della proprietà fosse rimasto lo stesso dell'età romana, coi suoi coloni, coi suoi servi, colla organizzazione dei varî poderi ecc. Del resto lo stesso carattere assolutamente romanzo del dialetto friulano dimostra apertamente quale si mantenesse attraverso [257] i secoli barbari la gran massa della popolazione. Questo non vuoi dire però che la occupazione longobarda non fosse intensa: soltanto s'intende che una popolazione romana numericamente preponderante rimase in paese, come dimostrano i patti dotali, e l'organizzazione della famiglia in fraterna compagnia, istituti della romanità decadente che rimangono consuetudinari nelle nostre plebi. I longobardi, da parte loro, conservarono a lungo i proprî costumi e la propria lingua, e lo dicono i racconti di Paolo Diacono relativi al Friuli; soltanto verso la fine della loro dominazione indipendente, sembra si accostassero alle arti ed ai costumi romani.

A mantenerli fieri e gagliardi giovò di certo il perpetuo stato di guerra contro gli ávari e contro gli slavi.

Invasioni degli Avari e degli Slavi.

Invasioni degli Avari e degli Slavi. Paolo Diacono, come si sa, ci fa conoscere molti episodî di queste terribili lotte e sarebbe qui troppo lungo il descriverli. Particolarmente importante per noi, è la prima invasione avarica per la morte del Duca Gisulfo e per il fantastico episodio di Romilda, cantato poi tante volte nelle successive età, e per l'incendio di Cividale e di molti altri luoghi della provincia, incendio che ci tolse probabilmente gli ultimi avanzi dei monumenti romani ancora esistenti. La seconda invasione scatenata, come dice Paolo, dagli accordi di Grimoaldo e del Kagan degli ávari ai danni di Lupo duca del Friuli e competitore di Grimoaldo stesso nel trono d'Italia, non fu così fatale perchè dopo l'uccisione di Lupo, Grimoaldo fatto accorto che alla fine gli ávari si sarebbero stabilmente impadroniti di una fra le più importanti provincie del Regno, mosse in soccorso dei suoi comprovinciali.

Ma un altro avversario sovrastava: gli slavi. Anche questi furono attirati dalle fatali discordie dei longobardi. Paolo Diacono ci narra infatti come Arnefrit, il figlio di Lupo, calasse dalla Carantania (dove gli slavi, sconfitti i Franchi, si erano assisi) alla testa di un corpo di slavi, presso i quali si era rifugiato dopo la morte del padre, sperando ricuperare col loro aiuto il ducato, ma poi fu rotto dai friulani presso Nimis. Sembra quindi che, questa prima volta, fossero discesi dal nord [258] e che per il valico di Attimis si dirigessero verso Cividale. La prossima invasione percorse invece la via orientale e cioè il canale del Natisone se, come sembra, furono affrontati dal Duca Vettari e sconfitti a Broxas non lungi da S. Giovanni d'Antro dopo di che ritornarono nelle loro sedi carantane: ciò mostrerebbe che in quei tempi ancora le valli montane non erano occupate stabilmente da loro. Certo però disturbavano continuamente i pascoli vicinali dove i pastori friulani tenevano le lor greggi, come ci insegna Paolo Diacono. La battaglia decisiva vinta dal valoroso duca Pemmone avvenne poi a Lauriana, probabilmente nell'alta valle della Drava ed i confini longobardi ne furono stabilmente assicurati.

Un ducato così ampio, con milizie avvezze a diuturni combattimenti, non poteva a meno di avere, in tempi come questi, grandissima importanza.

Il periodo più splendido del ducato Longobardo. Il patriarca a Cividale.

Il periodo più splendido del ducato Longobardo. Il patriarca a Cividale. Uomini animosi presero le mosse di qui per cingere la corona italiana come Grimoaldo, ed i due fratelli Ratchis ed Astolfo, ovvero perirono nel tentativo di carpirla come il duca Lupo ed Ansfrit di Ragogna, e l'esercito friulano fu tenuto in gran conto da chi voleva dominare la penisola come ci mostrano le premure di Alahis per ottenerne l'aiuto nell'impresa contro Re Cuniberto.

Il periodo più splendido fu certamente l'ultimo, in cui i figli del valoroso Pemmone salirono, l'un dopo l'altro, sul trono longobardo. Fra le mura di Cividale risiedeva allora il Patriarca Aquileiese che aveva abbandonata l'antica sede esposta alle incursioni bisantine ed era rimasto poi per lunghi anni a Cormons, mentre nella capitale dimorava il vescovo del Forogiulio carnico. Il vescovo carnico fu espulso dal suo palazzo dal Patriarca Callisto che per questo venne imprigionato dal Duca Pemmone. Però Liutprando Re cattolico e fine politico sostenne il Patriarca, ed il Prelato divenne così quasi un primate dell'Italia longobarda in larvata opposizione col Pontefice. Tale Sigualdo successore di Callisto che assume titoli pomposi, nei suoi documenti, quasi ad emulare il capo della Cristianità.

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Fig. 21ª. — Porta Broxana, Cividale.

L'influenza possente della romanità aveva conquisi questi barbari negli ultimi decennî del regno longobardo. La conquista dell'esarcato, l'affluire degli artisti di questo alla corte regia, l'aumentare della cultura, son tutti fatti che si collegano col crescer d'importanza degli elementi romani; anche in Friuli questa trasformazione avvenne rapidamente e non vi fu estraneo lo spirito dei due ultimi Re friulani, di cui uno, Ratchis, fu persino sospetto ai più severi longobardi per la sua simpatia verso il romanesimo. Sorsero nella capitale edifizî adornati in modo che risentiva del gusto ravennate. L'ara che Ratchis, non ancor divenuto Re, dedicò al suo illustre genitore Pemmone risente delle rudi forme barbariche[295], ma il battistero [260] di Sigualdo svela influenze ben diverse e se la cappella del palazzo regio divenuto poi proprietà del Monastero di S. Maria in Valle si deve attribuire, come sembra, a quest'epoca, che fu la più splendida per Cividale, in essa le tracce dell'arte ravennate sono ancóra maggiori. Le grandi famiglie friulane dedicarono i lor patrimoni alle dotazioni di ricchi monasteri come Salto e Sesto; uomini di lettere insigni come Paolo Diacono[296], Paolino grammatico, indi Patriarca, resero celebre il nome friulano in tutta l'Europa. Un fremito di cultura e di grandezza aveva pervaso in questo tempo la regione che, forte nell'armi più d'ogni altra dell'Italia settentrionale, patria di uomini veramente insigni, avrebbe potuto esercitare un efficace predominio sui destini dell'Italia se le solite discordie e l'indisciplina caratteristica nella gente longobarda, insieme alle armi dei franchi, non avessero tratto a ruina il regno nazionale di Desiderio.

Se dobbiamo ascoltare la tradizione trasmessa da un continuatore di Paolo Diacono, Andrea di Bergamo, l'esercito friulano insieme al vicentino, e al trevisano avrebbe dato battaglia ai franchi, già vittoriosi a Pavia ed a Verona, al ponte della Livenza e li avrebbe rotti, ma poi per le callide arti di alcuni grandi che erano stati corrotti da Carlo magno, la resistenza sarebbe stata troncata e il duca friulano Rotgaudo avrebbe piegato alla nuova signoria. Ma Rotgaudo erasi sottomesso soltanto apparentemente: il fiero leone longobardo fremeva sotto la signoria dell'odiato franco e nell'inverno 775-76, cogliendo l'occasione che Carlo era impegnato coi sassoni, i friulani sotto la guida del loro duca, e di suo suocero Stabilino, forse un romano, divenuto duca di Treviso, levarono la bandiera della ribellione, cui parteciparono anche i duchi di Spoleto e di Benevento, e l'arcivescovo di Ravenna. Rotgaudo, come sembra, era destinato ad occupare il trono d'Italia. Carlo, cercò dividere i congiurati promettendo maggiore indipendenza ai duchi meridionali [261] i quali, colla solita perfidia, se ne stettero colle mani in mano attendendo l'esito della lotta. Dove avvenisse la battaglia fra Rotgaudo e Carlo non è dato di sapere: forse al Brenta. Questa volta fu nemica la fortuna. L'esercito friulano fu rotto, e perì colle armi alla mano, insieme al fiore della nobiltà, il duca che solo fra tutti i longobardi, aveva osato sostenere l'indipendenza italiana contro i franchi. Fra i nomi degli uccisi è ricordato Waldando figlio di Mino di Lavariano. i due fratelli Ratgaudo e Felice di Cividale: fra i prigioni i cui beni, come quelli degli uccisi, furono, senza pietà, confiscati, è celebre Arechi il fratello di Paolo Diacono: altri fuggirono fra gli ávari od in Baviera come il nobilissimo Ajone che più tardi rientrò nelle grazie di Carlo ed ebbe da questi restituite le vaste possessioni in Friuli[297].

La dominazione franca. Berengario. Le invasioni degli Ungari.

La dominazione franca. Berengario. Le invasioni degli Ungari. Così, con la oppressione della nobiltà friulana, colla nomina di Paolino, friulano di nascita, ma fidatissimo a Carlo, a Patriarca aquileiese[298], colla imposizione di guarnigioni franche, di un duca franco al Friuli, e certo con la concessione di numerose terre date in benefizio a vassalli franchi, la dominazione carolingia era assicurata in Friuli.

Ma benchè la supremazia longobarda fosse finita e con essa la speranza di una stabile signoria nazionale, l'importanza del Friuli per la politica generale non fu per questo diminuita; anzi essa crebbe dacchè la nostra regione, affidata al valoroso Eric di Strasburgo divenuto conte della marca friulana (e detto anche duca) fu designata come il centro dell'espansione dell'impero franco verso oriente, e divenne il punto di partenza delle spedizioni carolingie contro gli ávari. Da questo momento deriva [262] probabilmente la denominazione di Cividale, che fin allora era chiamata Forum Juli, come Civitas Austriae, ossia centro della regione più australe (orientale) del regno franco, denominazione che è affatto estranea al racconto di Paolo Diacono.

Nel 791 gli ávari discesero con la solita irruenza verso la Baviera e verso il Friuli; le due colonne furono affrontate e sconfitte l'una da Carlo stesso che lor mosse incontro da occidente, l'altra dal Re d'Italia Pipino che li respinse dal Friuli, penetrando nella Pannonia Inferiore. Quattro anni più tardi Erico, cui era stato affidato il comando delle tre contee del confine (Friuli, Istria, Treviso) sconfisse completamente gli ávari penetrando nella lor capitale, il Ring, le cui ricchezze furon tratte ad Aquisgrana. Finchè durò il suo governo, il Friuli fu centro d'un vasto territorio i cui confini si estendevano sino alla Drava. Anche l'amministrazione ecclesiastica aquilejese si estese di molto nei paesi nuovamente conquistati e i suoi confini vennero poi limitati, al tempo del Patriarca Orso successore di Paolino, al corso della Drava. Quando la dominazione carolingia fu stabilmente assicurata, anche l'antico commercio della Pannonia e del Norico col mare dovette risorgere, ed a questo suo rifiorire son coordinate probabilmente le intraprese commerciali della chiesa di Grado ed i privilegi che alle navi del Patriarca Fortunato concesse Carlomagno.

L'unità della marca friulana fu in questi tempi più volte rotta e poi ricomposta per necessità di difesa[299]. La tenne intera probabilmente Eberardo, discendente da potente ceppo franco della Mosa e marito ad una figlia di Ludovico il bonario, che resse i nostri paesi dall'836 sino all'866. Cividale fu allora centro notevole di cultura e d'insegnamento non solo per la regione friulana e per l'Istria, ma anche per Treviso e per i paesi conquistati sugli ávari. La corte di Eberardo fu splendida [263] per l'ospitalità largita a dotti nostrali e forestieri; vi fu ospite quel Godescalco, famoso poeta sassone del IX secolo, che cantò in teneri versi la munificenza del duca che lo proteggeva dai suoi persecutori, e le vicende ora liete ora tristi della splendida progenie di Eberardo.

Fig. 22ª. — S. Giovanni d'Antro.

A questa famiglia il Friuli doveva molta gloria, ma pure anche grandissime sventure. Dopo il breve reggimento di Unroco, il maggior figlio di Eberardo, successe Berengario che dall'874 all'888 fu Marchese-Duca friulano e, dopo la morte di Carlo il Grosso e l'estinzione dei legittimi carolingî divenne re e quindi imperatore. Il Friuli e la contea di Verona fornirono costantemente il nucleo dei fedeli a Berengario che di qui partì in guerra, considerato come re difensore dell'elemento italiano avverso ai franchi, contro a Guido di Spoleto, qui si rifugiò quando questi col denaro e colla corruzione riuscì a [264] superarlo, e di qui partì poi nell'897 dopo la morte di Guido e dell'imperatore Arnolfo per cingere la corona imperiale. Ma se queste terre gli furono costantemente fedeli, pure egli non seppe difenderle quando nell'899 calarono i ferocissimi ungari, mettendo a ferro e fuoco il paese. Le incursioni ungariche si rinnovellarono poi nel 904, nel 923 e nel 942; fin dove giungessero, quali borghi distruggessero non ci è dato sapere. Dai diplomi degli Ottoni parrebbe che le devastazioni maggiori fossero da loro compiute lungo la così detta Strad'alta: Vastata Hungarorum nel basso Friuli, ma certo anche la parte alta dovette sentirne gravissimi danni: il commercio che era andato rifiorendo fu tronco, la maggior parte dei vassalli imperiali, che quantunque d'origine straniera s'erano ormai quasi confusi coi nativi, fu uccisa, la luce di cultura e di gentilezza che si era accesa in Friuli fin dall'ultimo secolo del regno longobardo e s'era mantenuta fin a questo tempo spenta, tutto questo fu conseguenza delle orribili devastazioni ungariche per le quali il Friuli perdette d'un tratto il posto eminente che aveva acquistato in Italia e cadde in una tale oscurità che a mala pena se ne conoscono le vicende durante il secolo che seguì.

La decadenza del Friuli. I feudatarî tedeschi.

La decadenza del Friuli. I feudatarî tedeschi. Tutto bisognava ricominciare da capo: erigere fortilizii, ripopolare di difensori le mura, restituire ai campi i loro coltivatori. In queste condizioni non ci dobbiamo meravigliare se il Friuli perdette, in certo modo, la propria individualità e se ci troviamo dinanzi a due fatti di grande importanza per la nostra storia: l'assoggettamento del paese, divenuto semplice contea, alla Marca di Verona, forse già col regno di Berengario II[300], l'abbiatico dell'imperatore friulano, e il rapidissimo ingrandirsi della potenza secolare della chiesa aquilejese.

Il primo fatto acquista un peso anche maggiore quando si pensi che la Marca veronese fu poi dagli Ottoni resa dipendente, [265] insieme alla Carinzia, del ducato di Baviera, e dopo il 976, del ducato Carinzia. Si inferì da questo fatto che tali paesi d'Italia, ossia l'antica «Austria» longobarda, venissero in tal modo staccati dal regno italico e congiunti colla Germania, però la supposizione non è attendibile, perchè mai troviamo i nostri nobili frequentare i giudizî d'oltr'alpe e i documenti, e le stesse infeudazioni parlano sempre di paesi situati «nel regno italico». Si tratta dunque di unione personale, meditata dagli imperatori sassoni allo scopo di tener maggiormente soggetta la parte d'Italia che era stata culla della dinastia nazionale dei Berengarii ed aveva mostrato maggiori velleità d'indipendenza ed assicurare così la propria discesa nella penisola in ogni occasione. Convien però anche confessare che gravi e durature furono le conseguenze di quest'unione perchè per essa molte grandi famiglie d'oltr'alpe ottennero possessi allodiali, feudi e diritti in Friuli, beni che essendo posseduti da feudatarî dipendenti dal duca di Carinzia o anche diretti dell'Impero, costituirono, anche quando il Friuli riebbe, coi Patriarchi, la sua piena indipendenza, dei territorî separati, delle vere isole politiche e giurisdizionali che pur essendo teoricamente comprese nel regno italico, in pratica erano appendici del regno germanico e lo furono purtroppo per sempre alcuni, altri per molto tempo. Così Pordenone, Cordenons, e la bassa valle del Fella (Venzone) appartenenti prima agli Eppenstein, poi agli Ottocari, infine agli Habsburg. Così Salcano e Gorizia prima forse degli Eppenstein e poscia dei Peilstein ed infine dei Conti di Gorizia che da costoro li ricevettero in feudo insieme all'avvocazia della chiesa d'Aquileja, di Cividale e di Udine; così Tarcento dei Machland-Perg e poi degli Hohenzollern; così Madrisio dei Treven e poscia dei Lechsemunde; così Attimis ed altri castelli e terre senza contare numerosi possessi di monasteri tedeschi. Si formò così all'oriente quella Contea di Gorizia che, nell'esteriorità politico-amministrativa, doveva rompere irrimediabilmente l'unità friulana, e ristretta dapprima alla sinistra dell'Isonzo, doveva poi estendersi anche sulla destra.

[266] Oltre a questa, altre conseguenze scaturirono probabilmente da quell'unione: ad essa son dovute certo in buona parte le origini di parecchie fra le nostre famiglie feudali: i liberi in particolar modo come, per il territorio fra l'Isonzo e il Tagliamento, i di Castello (Tarcento-Frangipane), Villalta, Caporiacco, ed anche alcuni fra i ministeriali, come gli Spilimbergo, i Ragogna, i visconti di Mels, i Prampero ed altri. Pochi, di certo, sono fra i nostri quelli che rimontino ad anteriori età: soli, per i quali si può supporlo, con qualche fondamento, sono i Savorgnan. D'altronde questa origine post-ottoniana dei nobili friulani si accorda benissimo colla strage degli antichi militi carolingi che sappiamo esser avvenuta nelle battaglie ungariche e nelle lunghe ed atroci dissensioni dell'epoca dei Re d'Italia. Oltre a ciò a quest'epoca si deve probabilmente l'introduzione da parte dei feudatari stranieri di un certo numero di slavi che furono destinati a ripopolare alcuni paesi della pianura e del pedemonte friulano devastati dalla guerra. Il riferimento a quest'epoca riesce certo quando si osservi che tali paesi sono disseminati precisamente intorno alla strada detta ungaresca, come Grorizzo e Gorizzizzo, Virco, Sclaunicco, S. Maria di Sclaunicco ecc.

Il dominio della chiesa di Aquileja.

Il dominio della chiesa di Aquileja. Di fronte a questo fatto ed alle sue conseguenze, sta l'altro che si può, per certi rispetti, considerare il suo contrapposto, l'ingrandirsi cioè della chiesa Aquilejese come potenza politica.

Dopo la discesa degli ungari, la desolazione che questi avevano recata, l'uccisione dei feudatarî principali, lo sparire del marchese friulano e la sua sostituzione con un semplice conte il cui territorio fu molto ristretto, certamente la Chiesa Aquilejese aveva forte preponderanza in Friuli, arricchita come si era per lungo decorso di anni con le donazioni degli Imperatori, dei Marchesi e dei maggiorenti friulani. A lei quindi, come accadde per le altre chiese vescovili, e per le badie nel resto dell'Italia settentrionale, venne il carico di riorganizzare la difesa del paese in tutti i vasti territorî che le spettavano, ed essa profittò della circostanza per riedificare molti villaggi e distretti [267] i cui signori eran periti; gl'Imperatori ed i Re favorirono questo compito della chiesa, concedendole territorî e luoghi importanti per la lor posizione e munizioni interessanti. Dal 900 in poi s'incontrano di frequente tali concessioni. Così la chiesa ebbe (904) la porta di S. Pietro di Cividale, (900 e 931) il fiume Natissa col placito di Ampliano, (964) il castello di Incisas sopra Cormons, (967) il castello di Farra e il territorio fra la Livenza e la strada di Ungari e il fiume delle due sorelle, (983) i castelli di Udine, Buia, Fagagna e Brazzano, (1001) la metà del territorio di Gorizia. Che buona parte dei paesi distrutti dagli Ungari sia stata riedificata dalla chiesa d'Aquileja lo dice il diploma di Ottone III del 1001 al Patriarca Giovanni in cui concede alla Chiesa stessa la giurisdizione delle ville riedificate da questa nei proprî beni ed in quelli dei boni homines morti senza eredi post Hungarorum nefandam devastationem, e del terreno d'intorno nel raggio di un miglio.

Fig. 23ª. — Castelli di Zucco e Cuccagna (Faedis).

Da questa vasta azione della chiesa aquilejese trae le sue origini, in gran parte, la fitta rete di rapporti feudali che copre durante tutto il M. E. ed anche nei tempi posteriori la nostra [268] regione. Il sistema beneficiario che la chiesa adoperava già per le necessità interne della sua amministrazione, si estende a sostenere tutti i servizî d'indole pubblica che essa deve organizzare nei vasti territorî a lei sottoposti. Dall'obbligo dei castellani di militare a cavallo nelle soldatesche patriarcali, a quello degli habitatores di difender le mura di un borgo o un vallo incastellato, dall'amministrazione della giustizia alla riscossione delle imposte, dal trasporto delle derrate del principe all'obbligo di prestare i materiali per il riatto delle vie e delle mura pubbliche, tutto ciò si organizza col sistema benefiziario su cui si innesta la fedeltà vassallatica: si concedono terre e redditi coll'obbligo di prestare al Signore fedeltà e servigî determinati. Così accanto agli ultimi resti dell'aristocrazia longobarda e dei militi carolingî, a lato della riottosa feudalità imperiale del Conte friulano, s'allinea la caterva di feudali della chiesa aquilejese, derivanti in gran parte da antichi dipendenti che abitavano nei dominî della chiesa stessa, oppure dalla familia dei vari Patriarchi. Questi feudali, quasi tutti d'origine non libera, costituiscono il nerbo dello stato che i Patriarchi andavano, a poco a poco, costituendo.

Questi fatti ebbero grande importanza per l'avvenire, dacchè la potenza della chiesa aquilejese ne crebbe a dismisura. Ciò si vide in particolar modo quando venne al Patriarcato l'energico Popone appartenente alla potente dinastia stiriana di Traungau. Nei ventisei anni (1019-1045) in cui questi ebbe la sedia Aquilejese, non solo ottenne col mezzo dell'Imperatore Corrado II di cui fu famigliare e fra i principali ministri, di fissar meglio le immunità del grande possesso della sua Chiesa di fronte al Duca di Carinzia e Marchese di Verona, e di vincere la lunga lotta di supremazia contro Grado, ma cercò poi di rassodare il suo potere col restaurare Aquileja e di ristabilire le vie commerciali che dalla Germania, attraverso il Friuli, mettevano al mare. A tal fine dotò riccamente i canonici Aquilejesi e li interessò al risorgimento commerciale di Aquileja concedendo loro parte del suolo dell'antica città per erigervi delle stationes ossia depositi di mercanti, ed altrettanto fece per il [269] porto marino di Pilo a cui faceva capo il commercio aquilejese. Ad ambedue questi scopi, commerciale cioè e di supremazia religiosa, si deve probabilmente il suo tentativo di annientare addirittura Grado con una violenta incursione nella isoletta adriatica.

Questo risorgere del commercio, non potè a meno di esser legato al ristabilimento delle vie che attraverso i passi delle Alpi conducevano al mare: dovette quindi, da quel punto, cominciare per le città e per le borgate friulane situate su quelle: Venzone, Gemona, Udine e, naturalmente, anche per Cividale una nuova vita, e rompersi il cerchio di ferro che aveva cinto il Friuli durante tutto il periodo che comincia dalle prime incursioni ungariche e va fino al principio del secolo XI. Anche le arti dovettero riprendervi vigore e come si vede da ciò che ci rimane del duomo poponico in Aquileja, queste arti subirono l'influsso veneto-orientale e non, come si sarebbe potuto credere, quello germanico. Le pitture aquilejesi arieggiano infatti (e di molto) i mosaici ravennati e veneziani. Questo si rannoda benissimo col risorgere del commercio per le vie friulane, che doveva portare fra noi l'influenza dei paesi dove, proprio in quei tempi, l'arte aveva un rigoglioso risveglio. Il rinvenimento di un denaro di Popone in Polonia, avvenuto qualche anno fa, ci permette appunto di constatare con certezza come le carovane dei mercanti provenienti, attraverso la penisola, dall'oriente attraversassero il Friuli: il tesoretto con tutta probabilità pertinente ad un mercante, contiene infatti non solo monete di zecche polacche, tedesche e boeme, ma anche lucchesi ed arabe, ed, insieme a queste, il prezioso esemplare del denaro di Popone cui allora allora Corrado II aveva concesso il diritto di batter moneta[301].

Mercè l'attiva politica poponica la Chiesa Aquilejese era divenuta così l'effettiva padrona del Friuli, al cui conte restava soltanto la porzione, abbastanza limitata, del territorio in mano [270] di suoi vassalli e di arimanni, mentre nella stessa Cividale una buona parte doveva appartenere al Patriarca come la porta di S. Pietro, tutto il terreno e le case pertinenti al Monastero di S. Maria in Valle e allo Xenodochio di S. Giovanni, che eran proprietà del Patriarca senza contare le vaste case patriarcali. Agli Imperatori quindi, fu di sommo interesse il mantenere il Patriarcato in mani lor fedeli. La elezione patriarcale, nelle mani dei canonici aquilejesi, cadde da quel giorno, sino al secolo XIII, sempre su tedeschi: ciò dipese probabilmente dalla originaria composizione poponica del Capitolo che lo legò strettamente alla politica imperiale.

Fig. 24ª. — Castello di Partistagno.

I Patriarchi appartennero quasi sempre a potentissime famiglie; basterà ricordare fra essi Gotepoldo, zio dell'Imperatore Enrico III. Il motivo di questo interesse imperiale per la sedia aquilejese stava certamente nella necessità d'assicurarsi i passi delle Alpi: tale necessità divenne anche maggiore per Enrico IV quando gli si schierarono di contro i duchi di Svevia, di Baviera e di Carinzia, marchesi di Verona oltre a molti vescovi tedeschi e Gregorio VII, appoggiato alla potente casa di Canossa di cui Matilde era l'ultima rappresentante, gli oppose una formidabile resistenza dalla Toscana sino a Mantova. Di [271] questa condizione di cose è frutto il diploma dato a Pavia il 3 aprile 1077 in cui Enrico IV concedè al suo fedelissimo Patriarca Sigeardo dei conti di Plaien, la contea del Friuli colle prerogative ducali e ciò, si noti, pochi giorni dopo che la dieta di Forcheim a cui aveva preso parte anche il duca di Carinzia, Bertoldo, aveva dichiarato deposto Enrico, e aveva nominato Rodolfo di Svevia quale anti-re. Nel maggio l'Imperatore fece ritorno in Germania, attraversò il Friuli, perchè il duca di Carinzia da lui destituito gli aveva chiusi tutti gli altri passi delle Alpi.

Dalla concessione di Enrico IV in poi, la chiesa aquilejese ebbe quindi il compito, non facile di certo, di organizzare una stabile dominazione in Friuli e dovette perciò comprimere la riottosa nobiltà che il marchese di Verona le aveva trasmesso, sostenere un'aspra lotta di supremazia col conte di Gorizia che non solo possedeva direttamente dall'Impero una vasta porzione della provincia, ma nell'interno di essa, per essere avvocato della chiesa, amministrava la giustizia criminale ed era il vero capo della feudalità, e cercar di eliminare o almeno di neutralizzare le tante isole straniere che, come vedemmo, si eran costituite nella regione nostra, e formare insomma quel saldo territorio, politicamente unito, cui risponde il nome di patria che dall'XI secolo sta a designare il Friuli. Cessa in ogni modo l'era dei grandi rivolgimenti politici per le città e le borgate friulane, dacchè i Patriarchi tengono con mano ferma il paese ed hanno quasi sempre dai legami di parentela, che li stringon a potenti famiglie di confine, o per stretti rapporti colla casa imperiale, forza sufficiente per far fronte ai nemici interni. Dal 1077 al 1251, quando l'ultimo Patriarca tedesco venne a morte, pochi fatti di rilevante importanza militare e politica si ponno ricordare per la nostra regione. Nemico principale era sempre il conte di Gorizia e la sua nimistà per il Patriarcato giunse al punto di far prigione il Patriarca Pellegrino I nel 1149. Argomento delle discordie erano naturalmente l'esercizio dei diritti d'avvocazia e i possessi indipendenti che il conte teneva in Friuli. Per ambedue furono fatte paci nel [272] 1150 e nel 1202, nelle quali se i primi furono attenuati, i secondi per converso furono riconosciuti: fra questi notiamo Belgrado con tutti i paesi che gli eran soggetti, Sclaunico, S. Marizza ed altri molti. L'altro nemico, che stringeva il Patriarcato da occidente, e benchè non insidiasse, come i Goriziani, lo stato Aquilejese fin nel suo cuore, nondimeno lo minacciava sovente, era il potentissimo comune di Treviso. Già al tempo del Patriarca Gotofredo, i nemici corsero fino al Tagliamento (1192): più grave ancóra fu l'altra guerra avvenuta coi Trevigiani stessi otto anni più tardi, quando reggeva il Patriarcato Pellegrino II, perchè i nemici occidentali eransi alleati al conte di Gorizia e questo aveva fatto sollevare anche parecchi feudatarî friulani: la vallata del Tagliamento dovette essere teatro di sanguinose discordie e sembra che l'esercito patriarcale le toccasse non lontano da Valvasone. A favore del Patriarca intervennero i duchi d'Austria, di Carinzia e di Merania che fecero far pace coi Goriziani, e Venezia il cui potente intervento persuase anche i Trevisani a consigli di pace.

Fig. 25ª. — Castello di Prampero.

[273] Ancora più pericolose furon poi le ostilità rinnovate negli anni 1212-1220 dai Trevigiani contro il Patriarca Pertoldo di Andechs, perchè ai nemici esterni si aggiunsero più numerosi che mai quelli interni e cioè oltre ai castellani di Polcenigo e di Solimbergo, i principali della nostra zona: Villalta, Urusbergo, Caporiacco, Tarcento, Strassoldo, Fontanabona, Castellerio, Buttrio. Il fatto ha grande importanza perchè questi costituiscono la grande maggioranza dei vassalli liberi della chiesa Aquilejese i quali reclamavano diritti di sovranità, come lo jus sanguinis, il diritto di far leghe fra di loro, quello di disporre dei pascoli e altre terre pubbliche, di aprir mercati, e di provvedere intorno alle acque pubbliche. L'aiuto dei Padovani e l'intervento dell'imperatore Federico e del Papa permisero a Pertoldo di superare la grave crisi, e dopo la vittoria il Patriarca potè dare opera definitiva all'ordinamento del suo principato.

Lo sviluppo dei commerci.

Lo sviluppo dei commerci. Il Friuli dopo venuto in potere dei Patriarchi aveva dunque goduta una pace almeno relativa e ne aveva profittato per risorgere dallo stato di profondo abbattimento in cui era caduto. L'opera di Popone che vedemmo diretta a far prosperare i commerci nella regione non era stata perduta. Durante il tempo delle crociate, di continuo i convogli diretti all'oriente passavano dalle nostre strade, e ai fianchi di queste, specialmente delle due che scendevano dai passi settentrionali lungo il Tagliamento, e l'altra sotto il colle di Udine, sorsero nel sec. XII e XIII ospizî diretti al ricovero dei pellegrini. Aquileja risorgeva dalle sue ruine: i trattati dei Patriarchi coi veneziani ci dimostrano come questi vi avessero ufficiali propri, vasti possessi e fondaci ciò che indica una certa intensità di traffici.

La vita economica della regione friulana subiva quella stessa mutazione che si avverte in buona parte d'Italia, l'economia naturale andava trasformandosi e divenendo più complessa. Vediamo alcuni nobili friulani che nei secoli precedenti non avrebbero saputo far altro che maneggiare la spada o angariare i loro dipendenti, farsi arditi speculatori commerciali e commettere a cantieri navali del basso Friuli la costruzione di navi [274] con cui essi stessi poi esercitavano in lucrose imprese il trasporto dei pellegrini di Terrasanta. Le nostre città divenivano luoghi di scambio per i mercanti che vi accorrevano numerosi da tutta Italia. Fra queste colonie la più notevole fu quella dei prestatori toscani che aprirono a Cividale, a Gemona, a Udine, ad Aquileja filiali delle banche fiorentine e senesi che, come si sa, avevano allora il monopolio del denaro nell'Europa intera[302].

Questa preponderanza della vita commerciale ha grande importanza nello svolgersi degli ordinamenti dello Stato Aquilejese dacchè vi fa prender notevole posizione alle città. Da Popone, il quale, come si disse, cercò di ravvivare Aquileja, in poi, è un continuo succedersi, prima lento e poi sempre crescente, di diplomi di franchigia a favore di mercati permanenti (fora) dove valevano di continuo le libertà che già in antico erano concesse alle fiere occasionali (nundinae). Ivi in giudizio speciale decidevan con procedura più spiccia le liti insorte, ivi liberi e servi erano uguali, e le pretese del padrone o del creditore si arrestavano di fronte all'immunità del luogo. Alla metà del secolo XII il diritto di foro è concesso a Cividale, nell'istesso tempo l'ebbe di certo Gemona, alla fine l'ottenne Sacile ed alla metà del XIII troviamo poi comparire in questa serie di documenti una nuova unità che in breve acquisterà grande importanza e cioè Udine. Castello importante nel X secolo, luogo di riunioni giudiziarie nell'XI, documenti del XII ci mostrano come esso fosse uno dei centri amministrativi a cui affluivano le derrate dovute al Patriarca per le imposte e pei censi, uno dei Palatia a cui facevano capo i vastissimi dominî della chiesa Aquilejese nella provincia[303]. Da ciò e dall'esser situato lungo la via di Germania, ognor più frequente di traffici, il sorgere del mercato che fiorì in breve tempo così da consigliare il Patriarca Pertoldo a dargli privilegi cittadini e foro stabile. Palatium fu [275] pure Gemona e così S. Daniele. L'elemento cittadino sorge così di fronte all'elemento feudale che aveva, sino allora coperto, come già si disse, con una serie inestricabile di rapporti beneficiari e vassallatici quasi tutta la regione e riducendo a ben poche le terre libere e trasformando gli antichi liberi, gli arimanni, incensiti, quasi coloni del Patriarca o dei grandi signori laici ed ecclesiastici.

Il parlamento della Patria. Comuni rurali e città.

Il parlamento della Patria. Comuni rurali e città. La costituzione del Friuli in salda unità territoriale trova la sua espressione nelle istituzioni parlamentari che sono precipuo vanto della sua storia[304]. Il parlamento sorge in Friuli, come nelle Marche, in Piemonte, in Sicilia e in molte regioni francesi e tedesche, dovunque poterono costituirsi dei vasti territorî amministrativi. Le sue principali funzioni sono quelle di fissare per accordo fra i baroni ed il principe l'ammontare del contributo di denaro e di milizie dello stato. V'intervengono pertanto i capi delle grandi circoscrizioni feudali, i prelati e monasteri che non potevano esser aggravati di nuovi carichi se non per loro consenso in seguito alle antiche immunità e privilegi, e i comuni più importanti da Pertoldo in poi. Questa competenza è comune a tutti i parlamenti provinciali, ma l'assemblea friulana ha poteri molto più estesi; si concentrano in essa le antichissime riunioni provinciali giudiziarie, militari, legislative a cui i dignitarî della contea o della marca prendevano parte dall'età più remote. Perciò il parlamento friulano è in pari tempo il maggior tribunale d'appello, l'assemblea legislativa, vi si tratta la pace o la guerra ed un po' alla volta diviene anche supremo tribunale amministrativo. In seno ad essa si costituisce nei sec. XIII e XIV una giunta, che tratta gli affari correnti e sta costantemente a lato del principe con cui divide il governo degli stati aquilejesi, ed è eletta dall'assemblea [276] con diritto di approvazione da parte del Patriarca. I luoghi dove il parlamento si riunisce sono Cividale, capitale della provincia, Campoformido dove avean luogo le mostre della milizia, e S. Daniele uno dei centri dell'amministrazione demaniale aquilejese, più tardi poi si fissa stabilmente a Udine.

La provincia si divideva in varie circoscrizioni di cui la maggior parte era retta da feudali, altre invece erano amministrate da ufficiali patriarcali detti, alla longobarda, gastaldi. Anche le città erano sottoposte a questi gastaldi che vi tenevano la giurisdizione criminale maggiore e la civile e stavano nei consigli cittadini accanto ai consoli o provveditori. Il comune, anche cittadino, è presso di noi in uno stadio arretrato di svolgimento se lo si confronti coi comuni del rimanente d'Italia; oltre alle parti più importanti della giurisdizione gli sfugge il potere di pace e di guerra e l'esercito generale che dipendono dal Parlamento dove esso però manda i suoi rappresentanti. La città si distingue dal comune rustico soltanto per l'organizzazione militare diretta alla difesa delle mura, per le pene elevate che difendono l'ordine pubblico nella sua cerchia, per i privilegi di quel riparto speciale che è il mercato. Le sue magistrature sorgono a poco a poco dalla riunione di tutti i cavalieri e pedoni pertinenti alla sua difesa, assemblea che certo si dovette riunire in tempi antichissimi anche sotto il governo del conte. L'assemblea generale è l'arrengo dove si trattano soltanto gli affari più gravi; al governo provvede il consiglio composto per metà dai nobili (equites) e per metà dai plebei (pedites), agli affari quotidiani provvedono poi i consoli o provveditori. Lo statuto abbraccia gli argomenti di competenza di tali magistrature: i provvedimenti per la difesa, le misure di polizia e d'annona, il regolamento delle cariche, dei beni comuni e le norme per il mercato.

Accanto ai comuni cittadini vi son poi le comunità rustiche che però vivono all'ombra di un signore. Questi comuni son formati dalla gran massa degli antichi servi, da coloni, dagli aldioni, e anche dai liberi, che si chiamano, tutti insieme, la contadinanza, in cui la consuetudine ha fissati obblighi e diritti [277] di fronte al padrone, di guisa che la situazione secolare non può esser mutata nè dagli uni, nè dagli altri, se non con accordi reciproci. Espressione di questa situazione è lo statuto rurale in cui si fissano appunto le consuetudini del gruppo rusticano.

Certamente già nel sec. XIII e più poi nei successivi, la maggior vita economica rese più gagliarde queste plebi così cittadine come rustiche, e se ne vedono le prove prima di tutto nelle concessioni che essi ottengono dai lor signori: principale quella dei Patriarchi che concessero ai lor censuali il diritto di testare liberamente dei lor beni, e poi nelle affrancazioni di servi che divengon sempre più numerose e di solito son comprate da costoro coi lor peculî acquistati nell'agricoltura o nei traffici. Questo ascendere delle plebi è poi vittoria dell'elemento romano sul germanico, specialmente nel nostro Friuli ove, dopo tre secoli e mezzo di principato quasi sempre tenuto da tedeschi, la cultura germanica aveva certo preso piede nelle classi più elevate; Tomasino de' Cerchiari appartenente ad una delle principali famiglie cividalesi era certamente italiano di lingua e di cultura, nondimeno poetava anche in tedesco[305]. Il popolo era invece (se si faccia astrazione dalle poche isole slave) interamente latino e si serviva o del volgare romanzo, il dialetto friulano, o della lingua letteraria comune a quasi tutta l'Italia settentrionale e cioè il veneto. L'affluire dei commercianti toscani, lombardi, veneziani, la potente immissione di sangue italiano che segue coi patriarchi successori di Pertoldo, come diremo, decidono la definitiva vittoria del popolo sull'aristocrazia feudale e dànno prevalenza assoluta al linguaggio friulano-veneto.

Punto saliente di questa trasformazione si può considerare il periodo che abbraccia in sè gli ultimi anni del Patriarcato di Pertoldo di Andechs, e quello di Gregorio da Montelongo.

[278]

Il patriarcato di Pertoldo e dei suoi successori.

Il patriarcato di Pertoldo e dei suoi successori. Mentre nel periodo in cui le armi di Federico II brillavano nel loro più vivo splendore, il Friuli fu una vera porta aperta fra la Germania e l'Italia e grandi assemblee di principi tedeschi ed italiani si riunirono a Cividale e ad Aquileia, come quella che nel 1231 condusse alla riconciliazione dell'Imperatore col suo figlio ribelle Enrico, di cui fu mediatore il Patriarca Pertoldo insieme ad altri principi, nel periodo successivo, dopo il concilio di Lione (1245) in cui lo Svevo fu deposto e scomunicato, l'indirizzo della politica friulana cambia improvvisamente e comincia per il nostro paese una nuova era guelfa, in perfetta opposizione col periodo precedente che fu quasi sempre ghibellino. Diverse furono le cause che ci riesce di cogliere per questo mutamento. Non vi dovettero essere estranee le difficoltà finanziarie del Patriarcato e perciò l'influenza dei banchieri fiorentini che, come vedemmo, avevano poste salde radici in Friuli, ed erano segretamente avvinti alla politica papale; grande importanza vi ebbe pure l'azione personale del legato pontificio Gregorio da Montelongo che dimorò per lungo tempo nel basso Friuli e dovette stendervi sottili intrighi fra il clero contro l'amico di Federico II, il Patriarca Pertoldo; ma forse decisiva fu la minaccia di Ezzelino da Romano che, signore ormai dell'intera marca trivigiana e di buona parte della Lombardia, non mancava di occhieggiare con cupido sguardo anche la ricca regione friulana ed era aiutato dalla potente casa di Prata a lui stretta da vincoli di parentela e principale fra quei liberi che già vedemmo riottosi nel piegar di capo al Patriarca. Si rinnovavano così i tristi giorni che funestarono gl'inizî del Patriarcato di Pertoldo. Ezzelino invase a più riprese il Friuli dove aveva numerosi partigiani fino fra gli ecclesiastici; nel 1250-51 troviamo decreti patriarcali e pontifici diretti contro Ulvino di Sbrojavacca, e contro il parroco Rizzardo di Fagagna e l'arcidiacono di S. Pietro in Carnia che avevano data man forte al ghibellino assalitore. I due ecclesiastici furono destituiti e la pieve di Fagagna fu sottoposta al Capitolo di Cividale. Davanti al pericolo, il Patriarca dovette per necessità [279] cercar aiuto nel partito avversario, visto che l'Imperatore ormai stremato di forze non aveva autorità sufficiente per tener in freno il suo violento ed ambizioso vicario: di qui la lega che unì Pertoldo al Marchese d'Este, ai bresciani ai mantovani a tutto il partito guelfo insomma, di cui era anima il legato pontificio Gregorio di Montelongo.

Il 23 Maggio 1251 morì il Patriarca Pertoldo e gli successe nella sede aquilejese lo stesso Montelongo. Il Friuli divenne così, con quest'uomo, uno dei punti strategici più importanti della lega guelfa e continuò ad esser tale per lungo tempo anche coi successori di Gregorio, i Turriani: per un secolo dal 1250 fino al 1350 il patriarcato, che sino allora era stato costantemente in mani tedesche, passa in mani italiane: ciò che è dovuto specialmente ai mutamenti arrecati alla costituzione del capitolo aquilejese cui spettava la presentazione, ed alla politica fieramente ostile ai Cesari tedeschi della sedia Papale che aveva, già fin dai tempi di Onorio III, rivendicata a sè la definitiva elezione del Patriarca.

I nemici dei patriarchi.

I nemici dei patriarchi. Non che però la vittoria fosse definitiva; tutt'altro! Nel seno della regione stessa covava un nemico ambizioso e gagliardo cui facevano capo i feudali a lui legati da rapporti di vassallaggio per feudi concessi, o che addirittura risiedevano in sue terre, e cioè il conte di Gorizia. Ma non questi soltanto stendeva la mano sul Friuli; il germanesimo vi penetrava anche per un'altra via: Pordenone, che se da Pertoldo, nei tempi della sua maggiore potenza, era stato tenuto come proprio, era poi al tempo del Montelongo ricaduto in mano dei duchi di Stiria che per un certo tempo esercitano una notevole supremazia in Friuli specialmente quando vengono in potere del retaggio dei duchi di Carinzia. Più tardi vedremo poi un altro potente signore tedesco, il duca d'Austria intromettersi violentemente nelle cose del Patriarcato.

Ma se i nemici tedeschi insidiavano così l'indipendenza e la nazionalità stessa del Friuli, altri nemici italiani stavano in vedetta minacciando il potere politico del Patriarca: tali i Caminesi che fra la fine del sec. XIII e il principio del XIV fanno [280] ripetuti e gagliardi tentativi per impossessarsi della provincia, e Venezia che non cessa mai di insidiare il Patriarcato, agognando nei primi tempi i dominî aquilejesi della sponda orientale dell'Adriatico, e poi lo stesso Friuli. I Veneziani sin dal XIII sec. tenevano loro ufficiali ad Aquileja e cercavano di stringere a sè, con rapporti di vassallaggio, i fedeli del Patriarca: più tardi poi, come vedremo, avvincono alla propria politica con denaro e con la fine arte diplomatica di cui erano maestri, famiglie potenti e comuni principali del Friuli. Certo, per essi la regione friulana-istriana rappresentava da un lato uno strumento importantissimo per la prosperità del loro commercio facendovi capo alcune delle strade di Germania, dall'altro una continua minaccia perchè i porti del basso Friuli, e Trieste in special modo, potevano esser, alla potenza Veneta, formidabili concorrenti.

Nella storia del Friuli convien considerare quindi sempre il giuoco di questi fattori esterni che molte volte, più che gl'interni, determinano gli avvenimenti. E la storia del Friuli è in questi secoli un seguito continuo di guerricciuole, di assalti di fendatarî contro comuni, di comuni contro castelli, discordie sanguinose, il più delle volte fomentate dai pretendenti esterni.

Alla morte del Patriarca Gregorio che era stato imprigionato dal Conte di Gorizia e liberato soltanto per l'intromissione del Re di Boemia Ottocaro, Cividale vien ferocemente contesa fra i partigiani di questo e quelli di Filippo duca (o almeno pretendente) di Carinzia. La lotta fra i due contendenti fu poi interrotta dopo la elezione del Patriarca Raimondo della Torre per la morte di Filippo e per le ostilità scoppiate fra il Re tedesco Rodolfo I, ed Ottocaro. Il Patriarca Raimondo, anche per la notevole forza della sua casa, tenne abbastanza saldamente il potere e cercò di riconquistare sui veneziani i dominî che questi avevano tolto al Patriarcato da Duino all'Istrie. Per questo egli cercò di tenersi amico il Conte di Gorizia e con una politica poco antiveggente consentì alla cessione, che la casa di Mels fece a questi, di Venzone, la vera chiave, in quei tempi, del Friuli settentrionale (1288), preparando così una serie di asprissime lotte alla chiesa aquilejese ed al Friuli.

[281] L'accrescimento di potere del conte di Gorizia e le continue minacce dei Da Camino condussero più tardi ad una vera egemonia dei Goriziani in Friuli. Già la forza dell'esercito patriarcale, abbastanza esigua, si vedeva diminuita dalle sanguinose discordie scoppiate verso la fine del secolo XIII fra la casa di Zuccola, detta così dal castello presso Cividale di cui esistono oggi appena le ruine, e quella di Castello (Frangipani di Tarcento) per la eredità del gran barone Walterpertoldo di Spilimbergo, discordie che diedero nuovo modo ai Caminesi ed ai Goriziani d'intromettersi nelle interne faccende del paese. Durante i tempestosi patriarcati di Pietro Gera (1299-1301) e di Ottobono de' Razzi (1302-1315) le nostre pianure furono corse in guerra quasi di continuo.

È interessante notare come ora le comunità prendano una parte sempre maggiore nella politica del paese. Dal 1299 al 1307 si può dire che le comunità lottino di continuo contro i feudali per impedire l'egemonia del conte di Gorizia nella provincia. E contro di esse si dirige poi il maggior sforzo dei collegati diretti da W.P. di Zuccola-Spilimbergo, in questo tempo principale feudatario della regione, quando si riprendono le ostilità. Nel 1308 le truppe assalitrici degli spilimberghesi giungono fino nel cuore di Cividale ed a mala pena i cittadini riescono a respingerle, nell'anno successivo Walterpertoldo trova poi la morte in un asprissimo tentativo di scalata alle mura di Udine in cui è assistito da Gerardo Da Camino. Il Patriarca per cercar salvezza deve piegare intieramente alle pretese del Conte di Gorizia; dal 1310 fino alla venuta del patriarca Pagano questi sia il vero signore del Friuli; risiedeva a Cividale, aveva posti suoi ufficiali nelle gastaldie patriarcali, nel 1313 Gemona gli aprì le porte, e il Patriarca a mala pena poteva tenere Udine.

Soltanto il ritorno al governo del Friuli della potente e ricca consorteria dei Turriani potè liberare il paese, per un lungo periodo, dal Conte di Gorizia; nel 1319 Pagano sborsò 6000 marche di denaro (circa 4 milioni di valuta odierna), per aver di ritorno i luoghi occupati dal Goriziano e dovette lasciargli in [282] pegno ancora le valli slave (capitanato di Arisperg) e quelle carniche. Il governo di Pagano è uno dei periodi più notevoli della storia friulana; tenuto in rispetto il conte di Gorizia che era occupato nel governo di Treviso, posto un freno ai feudatarî, il commercio potè espandersi, e i mercanti fiorentini e lombardi sotto il patronato dei ricchi Turriani che, dopo la rotta di Vaprio, si rifugian tutti dalla Lombardia in Friuli, hanno libero campo ai loro traffici. In questo periodo si organizza più saldamente il parlamento e si disegna in particolar modo il potere del Consiglio del parlamento che, come già si vide, costituiva una specie di ministero della repubblica friulana.

L'importanza acquistata da Udine. I Savorgnano. Il patriarca Bertrando.

L'importanza acquistata da Udine. I Savorgnano. Il patriarca Bertrando. L'aumento di traffico che, con la pace, ha luogo nella regione, accresce l'importanza delle città e in particolar modo di Udine che va eguagliando rapidamente Cividale, in attesa di superarla alla metà del sec. XIV. A Udine aveano fatto la lor sede principale le società bancarie toscane, e anche i nobili prendevano parte alle loro operazioni e in particolar modo i Savorgnan che, dal loro castello presso Tarcento, vi avevano fissata stabile dimora. Nei documenti del tempo ci restan memorie di colossali operazioni finanziarie che questi grandi signori conducono a termine col Patriarca, e coi principati germanici insieme a potenti case toscane come i Soldonieri.

Dal tempo di Pagano sembra datare anche l'assoluta preponderanza che la casa Savorgnana esercita a Udine dove dopo lotte sanguinose riesce, coll'aiuto di Pagano e dei Cividalesi, a sopprimere i proprî rivali. Nel breve periodo che corre dal 1320 al 1333 i Savorgnan stesero il loro dominio sui Forni della Carnia, su Osoppo, Cergneu e Flagogna contesa aspramente loro dai di Castello. Poi con Bertrando furono strumento principale dell'aspra lotta con cui questi cercò di liberare il paese dalle preponderanze straniere e continuarono la sua politica anche quando quello cadde sotto i colpi dei congiurati alla Richinvelda. Quanto c'entrasse Venezia in questa politica di Udine e dei suoi signori non si può dire con sicurezza: però alcuni [283] documenti ci mostrano come i rapporti fra Francesco Savorgnan e la Serenissima dovessero esser molto stretti. In ogni modo è su di un nuovo e poderoso elemento che si deve contare d'ora innanzi nella storia friulana. La borghesia industriosa e commerciale di Udine si faceva innanzi nella politica friulana e vi prendeva una posizione eminente, ed i Savorgnan ne erano i vessilliferi. Venezia verso la quale, come il prossimo gran centro commerciale, questa borghesia Udinese non poteva a meno di gravitare, doveva più tardi farsene scudo a conquistare il Friuli.

Bertrando fu certamente una fra le più grandi e belle figure che ci offrano i Patriarchi aquilejesi: il suo duro genio ebbe grandiosità di concezioni ed energia implacabile nel porle in opera. Le truppe friulane che sino allora s'erano acquistate buon nome combattendo assoldate in paesi lontani, oppure in guerre fratricide, furono da lui condotte risolutamente contro i secolari nemici del Patriarcato. Rizzardo da Camino, ultimo della sua casa, cadde combattendo a S. Vito, i fautori della contessa di Gorizia capitanati da W. P. di Spilimbergo furon sbaragliati a Braulins il 24 agosto 1336 e Venzone aprì le porte al vincitore che in pari tempo estendeva oltre Conegliano le frontiere del suo principato e spingeva poi le sue armi vittoriose fin sotto il castello di Gorizia (1340). E in pari tempo poneva le basi di nuovi ordinamenti amministrativi dividendo la provincia in quattro quartieri di qua del Tagliamento e uno di là, aumentava le difese, aiutando le comunità a riattare le proprie fortificazioni, si adoperava (1339, 1343, 1344) per dar vita ad uno Studio generale a Cividale, cercava di correggere i costumi e di frenare le usure.

L'azione di Bertrando poteva riuscire efficacissima per ricostituire saldamente lo stato patriarcale, ove non fosse stata di inceppo, da un lato la stessa indole del prelato troppo violenta e severa, dall'altro le segrete intelligenze che univano Cividale e molti nobili friulani ai conti goriziani. I due ultimi anni del suo reggimento furon turbati da gravi torbidi e la sorda lotta fra i Savorgnan e il Patriarca da un lato, e i Goriziani dall'altro [284] giunse al punto di dar origine alla congiura macchinata da costoro, dai Portis di Cividale, dagli Spilimbergo e da altri, per la quale il prelato fu assassinato alla Richinvelda il 6 giugno 1350.

Le lotte col duca d'Austria.

Le lotte col duca d'Austria. Gli successe Nicolò di Lussemburgo fratello illegittimo dell'Imperatore Carlo IV che trasse atroce vendetta dell'eccidio squartando e martoriando i congiurati che potè aver fra le mani. La protezione imperiale rendeva abbastanza sicuro il governo del lussemburghese; tuttavia anch'esso non riuscì a domare i riottosi feudali, e dovette spesso rifugiarsi nella tranquilla solitudine di Soffumbergo, la bella villeggiatura patriarcale presso Faedis, lasciando che le frazioni nemiche si combattessero a lor posta, mettendo a ferro e fuoco il paese.

Un terribile nemico si disegnava intanto sull'orizzonte friulano e doveva porre in forse la dominazione patriarcale, il duca Rodolfo IV d'Austria che per il continuo dilatarsi dei suoi dominî stava ormai minaccioso ai confini settentrionali del Friuli. Il pericolo divenne grandissimo quando il Patriarca Nicolò morì e mancò quindi al Friuli la protezione che Carlo IV largiva al fratello. Il nuovo principe Ludovico della Torre era energico ed avveduto e cercò di riunire intorno a sè tutte le forze friulane per l'impari lotta. A tal fine mutò il governo di Cividale per rompere i legami che univano l'antica aristocrazia cividalese al partito feudale e cercò di farvi trionfare nuovi elementi democratici. Tuttavia malgrado l'unione delle comunità, dei Turriani, dei Savorgnan, la lotta contro il duca d'Austria non fu, nei primi tempi, meno disgraziata.

Movente occasionale furon differenze insorte fra mercanti tedeschi ed i gemonesi che per rappresaglia diedero l'assalto a Venzone ed alla Chiusa; S. Daniele aggiunse esca al fuoco assaltando le terre dei signori di Varmo parenti degli Spilimbergo principali sostenitori, questi, dei Goriziani e degli Habsburg in lega fra loro.

Nell'agosto 1361 Gualtierpertoldo di Spilimbergo sconfisse a Barbeano i patriarcali e mise a sacco i dintorni di S. Daniele, [285] nel settembre successivo Rodolfo IV ed i Goriziani, presi Manzano e Buttrio, si diressero contro Udine. Le condizioni del Patriarca eran così disperate, che il disgraziato dovette consentire a recarsi a Vienna insieme a Francesco Savorgnan e Simone di Valvason i principali capi della sua parte. Il Patriarca divenuto ostaggio in mano del duca, fu liberato soltanto nel 1362 per l'intervento dell'Imperatore; nell'anno successivo il suo partito riprese forza in Friuli perchè Carlo IV, impensierito della minacciosa potenza austriaca, gli diede aiuto e più ancora perchè il Patriarca potè, a duri patti, ottener pace dai Goriziani irritati contro Rodolfo che aveva nel contempo carpita l'eredità del duca del Tirolo loro congiunto. I patriarcali ebbero in breve il sopravvento; spianarono i due castelli feudali che dai prossimi colli minacciavano Cividale, cioè Zuccola e Urusbergo (settembre-novembre 1364) e perseguitarono gli Spilimbergo fin dentro il loro borgo. Il Patriarca nel contempo venne a morte, ma pochi giorni prima aveva chiusi improvvisamente i suoi giorni anche Rodolfo; Francesco Savorgnan rannodò i suoi partigiani e continuò la lotta e gli riuscì finalmente a Fagagna di dare una rotta definitiva agli Spilimbergo ed alle truppe del partito austriaco. Venzone aprì le porte al Savorgnan che chiuse così gloriosamente questa prima êra dell'influenza austriaca in Friuli.

Il Patriarcato di Marquardo.

Il Patriarcato di Marquardo. La nomina di Marquardo di Randek, già cancelliere imperiale, ricondusse la pace nella regione e colla pace la vita normale delle istituzioni. Il Parlamento ebbe di nuovo riunioni regolari e si potè in breve condurre a termine l'opera cospicua delle Constitutiones Patriae Foriuli, corpo di leggi in gran parte civili e procedurali che formò il nucleo principale del diritto friulano sino alla caduta della Repubblica veneta[306]. Le constitutiones sono dovute in gran parte alla raccolta ed alla coordinazione delle costituzioni precedentemente emanate dal Parlamento, e dei principî giuridici stabiliti dalle sentenze di questo; tuttavia vi si trovano [286] notevoli progressi. La linea femminile fu equiparata alla maschile nella successione, si proclamò la libertà di tutti i Friulani, si cercò di dar vita alla tutela romana ecc.

Oltre al regolare la vita del diritto, Marquardo protesse le arti ed a lui si deve la splendida ricostruzione del duomo di Aquileja[307]. Egli cercò pure di rialzare il commercio; accolse nei suoi stati i toscani perseguitati dalle scomuniche pontificie e la loro affluenza fu tale che nel 1369 Gemona potè costruire il suo palazzo civico con la gabella pagata dai toscani che tenevano bottega nelle sue mura. Lo sforzo principale che Marquardo durò per ristorare la vita economica del Friuli sta poi nel tentativo di assicurare per sempre alla nostra regione il suo porto naturale, Trieste. Per questo, l'energico prelato fece adesione alla lega contro Venezia e prese parte alla così detta guerra di Chioggia. Trieste fu dopo il 1369 presa e ripresa più volte dal Patriarca e dai Veneziani; Marquardo non aveva però la forza necessaria per assicurarsene il dominio contro i potenti nemici palesi o coperti che agognavano il possesso del porto adriatico: dissipato colla pace di Torino il pericolo veneziano, si fece innanzi il duca d'Austria il quale seppe così abilmente disporre le sue reti che nel 1382 gli riuscì d'impossessarsi pacificamente della città.

La perdita definitiva di Trieste fu fatale per il Patriarcato, dacchè ormai il commercio friulano doveva di necessità rivolgersi verso Venezia e raddoppiarsi così i legami che stringevano la borghesia e buona parte della feudalità della regione alla grande repubblica uscita ormai vincitrice dalle strette dei genovesi, di F. da Carrara, del Re d'Ungheria e del Patriarca uniti insieme.

Le ultime vicende del dominio dei patriarchi.

Le ultime vicende del dominio dei patriarchi. Il periodo veramente glorioso di Marquardo è l'ultima luce del secolare [287] principato patriarcale. I suoi successori, insidiati dai potenti vicini che suscitavano di continuo fazioni e ribellioni, stremati nelle finanze, e per di più inetti, conducono lo stato a pieno sfacelo. I Savorgnan si accostano sempre più a Venezia, e con essi sta Udine e parecchie altre comunità e castelli; dall'altra parte sta Cividale che ha l'aiuto del Re d'Ungheria e di Francesco da Carrara signore di Padova e principale avversario dei Veneziani. Il primo cozzo delle due parti avverse avviene durante l'effimero reggimento del principe francese Filippo d'Alençon parente del Re di Francia cui era stato dato il Patriarcato in commenda ed era difeso da Cividale. Nel 1384 i Patriarcali hanno il di sopra in una battaglia presso Rubignacco, poi nel 1385 riprendono il sopravvento i collegati e, dopo la caduta di Gemona, Alençon dovette abbandonare il Friuli.

I Savorgnani trionfano e dal loro stesso trionfo son tratti irresistibilmente a idee di predominio. Qui sta, in gran parte, il motivo dell'aspro conflitto che nel penultimo decennio del secolo XIV scoppia fra il violento e dissoluto Patriarca Giovanni di Moravia, figlio naturale, come dicesi, dell'Imperatore Carlo IV, e Federico di Savorgnan. Il Patriarca volendo liberare d'un tratto lo stato Aquilejese da questa interna minaccia, fece il 15 febbraio 1389 sorprendere ed uccidere dai suoi sicarî il Savorgnan. Il sangue chiamò, al solito, altro sangue; Udine e il giovane figlio di Federico, Tristano, strinsero ancora più forte gli accordi segreti con Venezia e d'ora innanzi la repubblica giocherà la prima parte nella politica friulana ed, abbandonate le prudenti riserve dei suoi antichi padri, cercherà di ingrandire il suo dominio di terraferma annettendovi il Friuli. Il Patriarca cercò di rafforzarsi contro i nemici esterni ed interni col circondarsi di soldati tedeschi, col mutare le magistrature delle comunità per porvi suoi partigiani, e col tentativo di attentare alle libertà del paese per ridurlo ad assoluto principato. Udine però si mantenne sempre ostile, e Tristano Savorgnan andava tessendo congiure e macchinazioni contro l'uccisore di suo padre: il 13 ottobre 1394 il giovane signore di Udine uccise di sua mano il Patriarca.

[288] Lo sparire del sanguinario prelato non diede, tuttavia, immediata vittoria al partito veneziano ed ai Savorgnan; per un certo tempo ancora ebbe prevalenza Cividale col partito opposto che, riceveva aiuti da Francesco da Carrara, dagli imperiali e dal Re d'Ungheria: son gli antichi legami stretti da Marquardo che ancora sorreggono il vacillante Patriarcato. Ma dopo il breve periodo in cui il romano Antonio Caetani resse con sufficiente tranquillità il Friuli, il partito veneziano ebbe finalmente il suo eletto nel Patriarca Antonio Pancera di Portogruaro. Come si poteva prevedere, Cividale dopo essere stata per poco tempo in pace col Patriarca, gli suscitò contro l'antica fazione carrarese. A rinfocolare la resistenza contro il Pancera giunse in Friuli Gregorio XII che cercava scampo dai Cardinali suoi avversarî che lo volevano deposto ed ai quali aderiva il Patriarca[308]. A Cividale si riunì il concilio bandito da Gregorio contro l'emulo Alessandro V. Gemona, gli Spilimbergo, i Prata e la maggior parte dei feudali aderivano agli avversari del Pancera; Udine sembrò prendere per un istante il sopravvento quando alla partenza del Papa le riuscì di sorprenderne la comitiva e di toglierle denaro e salmerie, ma tosto Cividale ed i suoi collegati ricevettero soccorso di buon nerbo di truppe dall'Imperatore e con ciò ebbero vittoria definitiva. Ad un tratto parve che le speranze del partito veneziano cadessero così interamente; nel 1411 Filippo Scolari generale di un esercito di Re Sigismondo d'Ungheria che aveva nel contempo ottenuta la corona imperiale, entrò a Udine e vi pose un capitano sfrattandone Tristano Savorgnan ed i principali suoi aderenti; il rivolgimento fu completo: gli avversari di Savorgnan ebbero per un decennio il governo di Udine ed i beni dei banditi furono posti all'incanto. Il nuovo Patriarca Ludovico duca di Teck e cognato del duca di Ortemburg rappresentante imperiale in Friuli sembrava saldamente assiso sul trono.

Il dominio di Venezia.

Il dominio di Venezia. Pochi anni bastarono però a mutare radicalmente la situazione. Tristano Savorgnan, da Venezia che [289] gli aveva dato ospitalità e larghi aiuti, non posava; egli conservava ancora in Friuli castelli, amici e ricchezze e potenti aderenze in Italia e fuori che procurarono a suo favore perfino un voto del concilio di Costanza. Quando al Patriarca nel 1418 venne a mancare l'aiuto del Re ed Imperatore Sigismondo, egli non fu più in grado di sostenersi contro il partito veneziano che prendeva apertamente l'offensiva; il paese era d'altronde stremato di forze e il governo patriarcale era affatto senza denari, i feudali indebitati e in buona parte già avvinti di segreti patti con Venezia, le comunità rovinate nei commerci dalle guerre continue. Cividale che era già stata principale sostegno del governo patriarcale, e vedeva ora la rivale Udine in grazia presso il tedesco Patriarca, era tratta nelle spire del partito veneziano dalla speranza di poter ricuperare sotto il dominio di S. Marco l'antico fervore dei suoi traffici caduti in grave decadenza. Nell'11 luglio 1419 Cividale si arrese spontaneamente al generale Filippo d'Arcelli che comandava il corpo di occupazione veneziano e molte altre comunità e famiglie parlamentari ne seguiron l'esempio; così il 14 agosto Sacile e nella seconda metà dello stesso mese buona parte delle terre oltre Tagliamento ad eccezione di Prata che, dopo valida resistenza fu rasa al suolo il 23 settembre. Tristano Savorgnan tentò invano all'11 settembre l'assalto di Udine; la città doveva resistere ancora fino all'anno successivo.

Nella primavera del 1420 il Patriarca Ludovico tentò la riscossa con ausiliarî ungheresi e tedeschi, ma la resistenza di Cividale, cui pose l'assedio insieme agli udinesi, sventò il tentativo: anzi gli assediati in vigorosa sortita sgominarono le truppe patriarcali e presero prigione il conte di Gorizia. Questa vittoria dei cividalesi diede il segnale della resa anche alle terre che ancora serbavano fede al Patriarca. Il 6 giugno 1420 gli udinesi si acconciarono ad aprir le porte ai veneziani, e rientrò solennemente nella città, dopo dieci anni d'esilio, il Savorgnano. Seguirono l'esempio di Udine il 3 luglio i gemonesi ed il 16 quelli di S. Daniele e con ciò tutta la provincia fu in mano di Venezia. Il Patriarcato aquilejese, dopo tre secoli [290] e mezzo di governo, cessava di esistere come potenza politica[309].

Il tramonto del potere patriarcale costituisce un fatto di grande importanza storica per il Friuli non tanto per il cessare del governo del prelato aquilejese la cui influenza a ben guardare era, nel complesso, così debole che il paese si può quasi dir retto da un'oligarchia repubblicana rappresentata dai membri parlamentari, quanto perchè a questo vacillante potere si sostituisce la poderosa e consapevole potenza di Venezia. Con ciò il Friuli che sin allora era stato di continuo, campo disputato delle influenze degli Imperatori, del Re d'Ungheria, del duca d'Austria, dei principi stiriani o boemi, del conte di Gorizia, dei Carraresi, di Venezia, è ridotto per sempre nell'orbita della politica italiana non solo per coercizione esterna, ma anche perchè tale era divenuto il volere della parte più influente della popolazione. Come vedremo, quasi un secolo dopo la dedizione, il Friuli è corso ancora una volta per parecchi anni dalle truppe austriache del Re Massimiliano, ma per quanto il soverchiare degli assalitori costringa talvolta gli abitanti a cedere alla violenza, è forza tuttavia riconoscere che, dove poterono, i Friulani si difesero con accanimento dall'assalto imperiale e che, dove pure dovettero cedere, rialzarono, appena fu possibile, il vessillo di S. Marco in gran fretta. Ciò contrasta di molto con i continui mutamenti di partito, colle frequenti leghe collo straniero, che son caratteristici nella politica friulana anteriore al 1420.

Lo sviluppo delle arti e delle scienze. Il prevalere della borghesia.

Lo sviluppo delle arti e delle scienze. Il prevalere della borghesia. Nè la trasformazione si manifesta in soli fatti politici: in tutta la vita friulana si fan più saldi quei legami che l'avvincevano già prima all'Italia, ma che subivano le alterne vicende degli avvenimenti guerreschi. Nel mezzo secolo di pace che il Friuli gode dalla conquista veneta alle prime avvisaglie [291] delle incursioni turchesche esso matura in sè un rivolgimento che della travagliata provincia contesa fra germani, ungheresi, slavi, veneziani, fa un centro, non ultimo per importanza, della cultura italiana e questo centro si costituisce per eccellenza proprio nella parte del Friuli cui si riferiscono queste note. Non che pur nel periodo precedente non vi fossero testimoni di arti e di lettere, ma son scarsi e deboli e spesso lontani dalle correnti italiane. Il bellissimo duomo di Gemona ha caratteri quasi prettamente teutonici, le chiesette sparse nelle vallate del Natisone e del Torre sono dovute ad architetti slavo-tedeschi che continuano la loro attività sino alla fine del secolo XVI, bellissimi trittici in legno dorato, preziosi pezzi di oreficeria dei tesori di S. Daniele e Cividale son pure dovuti ad artisti austriaci: lo stesso magnifico ponte di Cividale è opera di un architetto carinziano: accanto a questi si trovano opere di artisti italiani come le chiese francescane, i palazzi comunali di Venzone, Gemona, Cividale, di più antichi monumenti romanici si conservano traccie persino nella romita valle di Lusevera ed alcune antiche pitture hanno carattere così prettamente italiano da essere state attribuite a pennelli toscani[310], ma certamente esse non si possono neppur da lontano paragonare alle belle fioriture del secolo XIV delle città venete. Più tardi invece, nei due secoli successivi, il paragone non è affatto sfavorevole al Friuli.

Lo stesso accade per le lettere. Nel grande movimento umanistico del trecento si cercherebbero invano nomi di friulani cospicui e quei pochi che salirono in rinomanza l'ebbero fuor di patria come il medico Mondino di Cividale, il poeta Pace, il filosofo Paolo Veneto[311], e qualche altro: conforme alla natura bellicosa del nostro paese è invece il fatto che la celebre scuola di scherma italiana del medioevo deva al Friuli il nome e l'opera del notissimo Fiore di Premariacco.

[292] Dalla metà del '400 invece tutto il movimento artistico-letterario dimostra una vitalità intensa nella regione. Sono soltanto principî, però interessanti. La scuola dei Da Tolmezzo che coprì d'affreschi e di belle pale intagliate tante chiese del Friuli, il Belunello che ne illustrò altre, sono i primi rappresentanti di un movimento che dà poi nel '500 meravigliosi risultati.

Per le lettere si ponno ricordare per la nostra zona il cividalese Antonio Cremense che fu fra i precettori di Carlo V, il dictator Giovanni de Pitacolis di Venzone, e l'antiquario e bibliofilo Guarnerio d'Artegna che fondò a S. Daniele, col suo testamento del 1477, una biblioteca pubblica ricca di preziosissimi codici ed altri. E non dobbiamo dimenticare che l'arte della stampa s'introduce abbastanza presto: Cividale ebbe i primi libri a stampa del Friuli dallo stampatore girovago Girardo di Fiandra nel penultimo decennio del '400. Questo movimento ha in sè tale energia da non esser arrestato neppure dai terribili guasti delle invasioni turchesche, nè dalla lunga e disastrosa guerra derivata dalla lega di Cambray, nè dai rivolgimenti sociali del 1511: anzi è nella seconda metà del sec. XVI, al cessare di questi fatti, che esso ci dà i suoi più bei frutti. Egli è che esso ha la sua radice in un profondo mutamento sociale. Il regno dell'aristocrazia feudale finisce, e comincia quello delle borghesie cittadine. Il governo di Venezia che toglie ogni funzione politica ai castellani, toglie anche la ragione della loro supremazia; costretti a deporre le armi, essi emigrano alle corti straniere o se rimangono in città, vi imprendono una gara di lusso con la borghesia in cui hanno facile vittoria i mercanti arricchiti coi commerci che rifioriscono sotto la ferma e pacifica signoria veneziana. Ma questo ci spiega anche perchè le arti che si accompagnano a tale fastosità siano prettamente italiane, dacchè se l'aristocrazia feudale aveva ancora seguíti rapporti feudali, politici ed anche famigliari con genti d'oltr'alpe, la borghesia invece traeva la sua radice dalla Lombardia, dalla Toscana o dalle provincie venete o dal basso popolo friulano e perciò latino. La vittoria del partito veneziano conduce, in fondo, alla vittoria di questo elemento. La prevalenza della [293] borghesia udinese nel parlamento divien così forte che l'emula Cividale nel 1553 domanda ed ottiene il suo distacco e la costituzione di un territorio separato, e più tardi sorgono violente e interminabili dispute nel parlamento stesso per la precedenza pretesa dai rappresentanti di Udine su tutti gli altri membri. A questo mutarsi delle condizioni sociali si accompagnano nella nostra regione gravi cambiamenti nei rapporti fra le plebi e le classi dominatrici. I nuovi bisogni rendono queste più avide di denaro e desiderose di nuove forme economiche che lo procaccino, d'onde continui attentati all'antico assestamento consuetudinario. D'altra parte le plebi, nel contempo, avevano acquistata maggior coscienza di sè: avevano militato nella milizia paesana (cernide), erano state accarezzate dai partiti politici ed aizzate contro gli avversarî, avevano visti antichi dominatori cader di sella e salire di nuovi. Così si accende una sorda lotta fra rustici e feudali, fra plebei e borghesi.

Le invasioni dei Turchi.

Le invasioni dei Turchi. Il disagio delle plebi è reso ancor più forte poi dalle sventure che travagliarono il paese fra la fine del secolo XV e il principio del XVI.

Prima fra queste fu l'invasione dei Turchi che, imbaldanziti per le continue vittorie riportate nei Balcani, dopo aver già minacciati i confini friulani nel 1415[312], si spinsero nel 1472 fino all'Isonzo, ma poi nel 1477, sconfitto il generale veneziano Giovanni Novello, devastarono, orribilmente, tutti i villaggi fra l'Isonzo e la Livenza del basso Friuli, guastando persino i dintorni di Udine e di Cividale; ancora più terribile fu poi l'incursione del 1499 in cui per la viltà di Andrea Zantani comandante delle truppe veneziane furono lasciati scorazzare per la pianura friulana fino a Porcia. Sanudo riferisce che bruciarono 132 villaggi d'onde portaron via robe e prigioni; a Valvasone [294] una banda di ottocento villani armati cercò di far loro fronte, ma invano, e poterono ripartire indisturbati con le loro prede. La repubblica cercava di provvedere alle difese: nel 1478 aveva costruiti ripari fra Lucinico e Gradisca cui concorsero tutte le città di Terraferma: nel 1500, temendosi nel marzo una nuova discesa dei barbari, mandò Leonardo da Vinci nelle valli del Vipacco e dell'Isonzo per studiare un piano di difesa e sembra che il grande ingegnere proponesse un sistema di briglie per alzare il livello dell'acqua in quei nostri fiumi[313].

Lotte fra Venezia e l'Impero. La difesa di Osoppo.

Lotte fra Venezia e l'Impero. La difesa di Osoppo. La guerra di Gradisca. Appena rimesse un po' le popolazioni dal terribile rovescio, nuovi danni preparavano loro le discordie suscitate dalla morte dell'ultimo conte di Gorizia, Leonardo, fra la repubblica veneta e l'Impero. I Goriziani avevano ricevuta dal Doge l'investitura dei loro feudi in Friuli, dopo la caduta del governo patriarcale, ma Leonardo, in esecuzione delle convenzioni di famiglia intercorse fra la casa di Gorizia e quella d'Austria lasciò erede nel 1497 quest'ultima di tutti i suoi beni e diritti. La Repubblica protestò, ma gli austriaci che già possedevano nel cuore del Friuli la contea di Pordenone, vennero in possesso tranquillamente dei vasti domini della casa di Lurn. Ciò fu semente di una lunga guerra e causa non ultima della celebre lega di Cambray. Nel 1508 la repubblica che era all'apogeo della sua potenza credette, con rapida mossa, di poter rivendicare i suoi diritti. Il suo generale Bartolaneso d'Alviano sconfisse i tedeschi nel Cadore prendendoli in mezzo, a Pieve, fra due colonne venete provenienti l'una dalla Mauria, l'altra da Belluno, e poi attraversata con le truppe vittoriose la Carnia scese al piano, espugnò e mise a sacco Cormons, occupò Gorizia e, coll'aiuto della flotta, rivolgendo l'assalto dal lato di Prosecco, prese infine Trieste.

Il 4 Dicembre 1508 fu stretta la lega detta di Cambray fra [295] Impero, Francia, Spagna e il Papa e in primavera, sconfitto l'esercito veneziano alla Ghiara d'Adda, quasi tutta la terra ferma, meno Treviso e il Friuli, cadde in potere dei nemici di S. Marco. Nel Luglio 1509 le truppe imperiali attaccarono dai due lati il Friuli ma, a nord, la gloriosa resistenza di Chiusaforte, e nel basso Friuli quella non meno valida di Monfalcone permisero ai Veneti di organizzare la difesa[314].

L'esercito austriaco, guidato dal Duca di Brunswik fece un tentativo contro Udine fra il 26 ed il 28 di Luglio fors'anche per soccorrere Pordenone che però fece dedizione a Venezia il 26; saputo questo il Duca si ritirò e rivolse invece tutte le sue forze contro Cividale. Fra il 28 e il 30 l'esercito austriaco abbruciò tutti i villaggi fra Cormons e il Natisone e smantellò la rocca di Rosazzo e poi si accampò sotto le mura di Cividale. La città, che aveva debole presidio capitanato da Federico Contarini, e fu poi soccorsa da una piccola ma valorosa schiera guidata da Antonio da Pietrasanta, venne bombardata per due giorni, e oppose validissima resistenza, non solo per la gagliardia del presidio, ma ben anche per la intrepidezza dei cittadini fra cui si distinsero Zenone de Portis, Annibale Salone e Girolamo Locatelli. Il 1.º Agosto Giampaolo Gradenigo provveditor generale dell'esercito veneziano in Friuli tentò di soccorrere la città movendo da Udine con un certo numero di stradiotti, la cavalleria castellana comandata da Tiberio Porcia, e le cernide di Antonio Savorgnan, ma, presso Remanzacco, fu sconfitto dal Co. Cristoforo Frangipane di Veglia. Intanto gli austriaci tentavano l'assalto per una breccia aperta dalle loro artiglierie. I difensori con disperata energia respinsero tre volte i nemici e l'ultima, usciti fuori dalla breccia li posero in tale rotta che l'indomani levarono il campo e si ritirarono verso Cormons. Difesa questa la cui fama si diffuse in tutta l'Europa.

La vittoria fu molto benefica a Venezia per la quale rappresentò [296] un primo raggio di luce dopo i disastri dei mesi precedenti. Cividale però non ne trasse profitto dacchè, malgrado i suoi sforzi, perdette fra l'Agosto e il Settembre le chiuse di Plezzo (Flitsch) e Tolmino, possessi per lei importantissimi che le assicuravano il commercio della via del Predil. Tale perdita fu l'ultimo colpo alla prosperità dell'antica città friulana.

Fig. 26ª. — Una delle torri (la toratte) delle mura di Venzone.

La guerra continuò con alterne vicende, e continui saccheggi e desolazioni negli anni successivi. I Veneziani che in tanti disastri non potevano tener fermo dovunque e talvolta smarrivano l'animo, non seppero opporre valida resistenza dove più ne era il bisogno. Nel 1511 tutta la Patria cadde in mano del nemico: il 18 Settembre S. Daniele, il 20 Udine, nei giorni successivi anche Cividale e Gemona dovettero aprir le porte all'esercito austriaco, e, ciò che fu più dannoso, il 19 Settembre il presidio veneto di Gradisca cedette vilmente al nemico; Venezia e con lei l'Italia avevano perduto per secoli quel territorio così prezioso alla difesa dei confini orientali! Fra il 1511 e il 1514 le sorti furono alterne: alcune città, come Cividale nel 1513 rialzarono la bandiera di S. Marco; terre rigogliose [297] subirono invece, come Buia in questo stesso anno, i danni del nemico; la lotta definitiva doveva però combattersi nella primavera del 1514 sotto le rupi di Osoppo. Il campo imperiale che aveva Gemona come base d'operazione strinse per quaranta giorni con diuturni bombardamenti ed assalti la fortezza di cui Gerolamo Savorgnan ed il connestabile Teodoro dal Borgo dirigevano con animo gagliardo le difese. Soccorsi di vettovaglie mandati animosamente da S. Daniele, e forse da altri luoghi vicini, dacchè come si disse l'animo delle popolazioni era profondamente ostile agli Austriaci, permisero ai difensori di tener fermo finchè gl'Imperiali, saputo che il generale d'Alviano era entrato in Friuli con buon nerbo di truppe veneziane e ripreso e messo a sacco Pordenone, si volgeva verso Udine, sciolsero il campo e per il canale del Ferro impresero la ritirata, che il Savorgnan e le sue truppe molestarono a più riprese[315].

Le città friulane, che ancora obbedivano all'impero, riaprirono, tutte, le porte all'esercito veneto e s'aprì così per la maggior parte del Friuli una lunga era di pace che doveva finire soltanto colla caduta della repubblica veneta. Soltanto alcuni luoghi del territorio da noi considerato furono turbati un secolo più tardi dalla nuova guerra fra la Repubblica e la Casa d'Austria, poichè tale guerra che fu detta di Gradisca (perchè l'obbiettivo principale dei Veneti era il riacquisto di questa fortezza che non si riuscì a strappare al nemico) si svolse nel basso Friuli intorno all'Isonzo. Non mancarono però anche qui episodî onorevoli per i Friulani, come la cacciata degli austriaci che avevano occupato Pontebba per opera di truppe friulane comandate dal prode cividalese Marc'Antonio di Manzano e di ausiliarî Venzonesi e Gemonesi capitanati da un Bidernuccio di Venzone (13 Agosto 1616). Lo stesso Manzano discese nel gennaio 1617 da Castel del Monte presso Cividale nella valle dell'Isonzo per tentar di riprendere Caporetto e le chiuse [298] di Plezzo, ma non fu efficacemente aiutato dal generale veneto Giovanni de' Medici. Il valoroso cavaliere friulano doveva poi trovar la morte in un fatto d'armi presso l'Isonzo il 12 Luglio 1617. La guerra di Gradisca finì senza risultati. La repubblica che avrebbe voluto unificare i suoi possedimenti ed estendere il suo territorio dal Timavo alla Livenza, dovette rassegnarsi a rispettare i feudi austro-goriziani che ne interrompevano la continuità. Alla perdita del baluardo orientale, Gradisca, si doveva aggiungere quindi la conservazione in mano dell'Austria del territorio di Aquileia, di Castel Porpeto, di Gorizia, S. Maria e varii altri paesi nel centro del Friuli, di Albana sulla riva destra dell'Judri. Nondimeno la unificazione del Friuli si poteva dire molto più avanzata di quanto non fosse nell'età patriarcale per l'acquisto stabile di Pordenone e di Latisana e per la conservazione di Monfalcone, e la difesa assicurata con l'erezione della fortezza di Palma (1593) che chiuse per due secoli la fatale breccia orientale dei confini italiani.

Le benemerenze del governo di Venezia. La rappresentanza dei contadini. Il fiorire delle arti e delle scienze.

Le benemerenze del governo di Venezia. La rappresentanza dei contadini. Il fiorire delle arti e delle scienze. A queste benemerenze il governo veneto doveva poi aggiungerne altre per l'opera compiuta a vantaggio della pacificazione delle classi sociali. Il periodo 1500-1514 già così disastroso al Friuli per la guerra austro-veneta era stato pure funestato da un terribile movimento sociale. Abbiamo visto quali sorde ostilità covassero fra rustici e signori feudali, e fra il popolo minuto e la nobiltà cittadina. Antonio Savorgnan che negli ultimi decenni del XV secolo e nel primo del XVI, si può considerare per le grandissime ricchezze, la vastità delle clientele e per il predominio, esercitato con fredda audacia ed inumana crudeltà, quasi come un re non coronato del Friuli, trasse partito da queste inimicizie per muovere il popolo di Udine ed una torma di contadini delle cernide, da lui riunita nella capitale friulana col pretesto di minacce austriache, a trucidare i suoi avversarî della potente consorteria dei Turriani ed a saccheggiarne le case. Fu il celebre sacco del giovedì grasso 1511. Ma l'incendio non si arrestò qui: le plebi di campagna udite le novelle [299] di Udine si affrettarono ad assaltare i castelli, a dar sacco alle abitazioni patrizie, ad incendiare ogni cosa[316].

Il sabato furono abbruciati e saccheggiati i castelli di Villalta, Brazzacco, Arcano, la domenica mattina si sentivano, dice un contemporaneo, in ogni parte tumulti e si vedevano accesi i fuochi che abbruciavano i Castelli di Susans, Colloredo, Caporiacco, Tarcento, Fagagna, S. Daniele, Spilimbergo, eran posti a ruba Morazzo, Zoppola, Cusano, Varmo ed altri, i castellani messi in fuga colle loro famiglie e costretti a rifugiarsi taluni in boschi od in spelonche, i più fortunati in qualche castello rimasto intatto come Pers, oppure a Venezia o nei luoghi forti d'oltre Tagliamento. Dopo il primo sbigottimento i castellani si rannodarono, la repubblica veneta mandò truppe, e degli atroci fatti fu tratta terribile vendetta specialmente quando Antonio Savorgnan, insospettitosi dei procedimenti del governo Veneto e delle proposte fatte contro di lui nel Consiglio dei X e più, forse, intimorito dalla debolezza dei presidî veneziani in Friuli, abbandonò improvvisamente l'antica fede e si diede alla nemica secolare della sua casa, l'Austria. Tradimento memorabile che, quanto alla famiglia Savorgnan fu lavato dal gagliardo Girolamo, il difensore d'Osoppo, ma che non valse ad Antonio l'impunità, dacchè egli fu ucciso poco dopo da gentiluomini friulani, parenti delle sue vittime ed il suo cadavere fu divorato dai porci per le vie di Villacco.

La repubblica si preoccupò nondimeno, del grave disagio che aveva prodotto gli eccessi, e durante tutto il secolo XVI e XVII malgrado l'opposizione del parlamento friulano, la Signoria emanò una serie di leggi a favore dei rustici, per impedire ai signori di togliere alle comunità rurali i compascui di cui godevano, per fissare le mercuriali delle derrate dei canoni [300] livellarî, per rendere gli attrezzi, le masserizie e gli animali da lavoro dei coloni insequestrabili, e sopratutto per costituire, con larghezza di vedute unica in Italia, ai contadini una rappresentanza separata che ne difendesse le ragioni, ne esigesse le imposte e custodisse le armi delle cernide, togliendo tutto ciò ai signori feudali. Questa rappresentanza detta dei sindaci generali della contadinanza, era eletta dai sindaci dei varî villaggi del Friuli diviso in otto quartieri, quattro di qua e quattro di là del Tagiiamento. Con essa si può dire che ai tre membri del Parlamento: clero, castellani e borghesi se ne aggiunga un quarto: quello dei contadini. Anche il territorio di Cividale separatosi, come s'è detto nel 1553, ha il suo corpo della contadinanza coll'arrengo cui partecipano anche i villaggi delle valli Slave ordinati in un consorzio a capo del quale sta in luogo di un sindaco generale, una magistratura detta la banca di Antro e di Merso. Queste provvide disposizioni fecero cessare in buona parte il malcontento dei rustici, mentre a poco a poco la pace risanava le gravissime piaghe che le guerre, i saccheggi, la peste, le carestie avevano recato alla desolata provincia[317].

D'un certo benessere son prova le arti che fioriscono con notevoli monumenti. Dal '500 al '600 il Friuli dà una bella serie di artisti specialmente alla pittura. Pellegrino da S. Daniele, Giovanni da Udine, il Pordenone, l'Amalteo abbelliscono coi loro pennelli famosi non solo chiese delle cittadette friulane, ma anche romite cappellette di campagna, che si fregiano di bei trittici di legno scolpiti da scultori pure locali, mentre anche le case private si adornano di mobili intagliati con fine gusto e sovente mostrano facciate frescate da abile mano. Il movimento letterario si accentua anch'esso: nella prima metà del '500 la poesia friulana può finalmente noverare un nome egregio: Erasmo di Valvasone mentre altri letterati come Scipione di Manzano, Ermanno Claricini, e una pleiade di antiquarî e scrittori di cose patrie come il Nicoletti di Cividale, il Pittiano di [301] S. Daniele ed altri meno noti fecero riscontro nelle nostre piccole città, al bel movimento di Udine. Ed anche più tardi quando il marasmo del '700 colpisce le nostre non meno che le altre città venete le lettere continuano a dare qualche bel nome come l'arcivescovo Giusto Fontanini bibliofilo e antiquario di S. Daniele, il diligente raccoglitore di patrie memorie Giuseppe Bini di Gemona, e la pleiade di nobili scrittori che vanta la scuola dei Somaschi apertasi nel 1705 a Cividale fra cui Iacopo Stellini, il gran filosofo, e il matematico G. B. Pisenti. Cividale dava pure in quel tempo al Friuli il suo maggiore storico Bernardo Maria de Rubeis, cui seguiva di poco nello stesso arringo l'acuto G. G. Liruti signore di Villafredda presso Tarcento[318].

La decadenza del secolo XVIII. La venuta dei Francesi.

La decadenza del secolo XVIII. La venuta dei Francesi. Per contro tutte le istituzioni pubbliche nostre volgono a piena decadenza via via che ci avviciniamo alla fine del '700: il parlamento si riduce un'ombra di sè ed è continuamente sorvegliato nella sua attività dai magistrati veneti; i Luogotenenti erano sovente invisi alle popolazioni, le giurisdizioni feudali non davano alcuna garanzia di giustizia ed erano quasi sempre strumento d'oppressione. Le comunità non avevano còlta l'occasione di rinnovarsi col ristabilire le antiche assemblee a larga base, ma al contrario o avevano serrato l'arrengo riducendolo a poche famiglie, come a Gemona, ovvero l'aveano soppresso addirittura accogliendo poche famiglie plebee fra i nobili di consiglio, come accadde a Cividale. Anche la benefica rappresentanza dei contadini istituita, come vedemmo, dalla repubblica veneta, ha poco effetto per i brogli e le corruzioni e la trivialità dei sindaci. Non che il Friuli fosse in condizioni peggiori delle rimanenti provincie venete e di molte altre italiane, anzi sotto qualche aspetto aveva progredito. L'industria della seta p. es. dava circa un milione di libbre di bozzoli di cui buona parte era esportata in Germania, e circa 120.000 libbre di sete lavorate; [302] filature e tessiture, specie verso la fine del '700, sorgevano qua e là nella provincia[319]; l'agricoltura migliorava per le sapienti cure di teorici e pratici come lo Zanon, l'Asquini, il Canciani ed altri, ma il marasmo dovuto alla neghittosità dei ricchi, all'ignoranza generale e più alla natura stessa delle istituzioni era così grande che contro di esso si spezzavano vanamente in buona parte questi sforzi generosi e ciò non poteva a meno di generare malcontento in special modo contro i privilegî dei nobili e contro l'inerzia dei poteri costituiti. Non mancava poi il lievito delle dottrine democratiche, venute dal di fuori delle quali si faceva banditore persino qualche veneto magistrato. Non era dunque interamente impreparato l'ambiente in cui le armi rivoluzionarie di Francia portarono ad un tratto vita nuova.

Nel Marzo 1797 il Friuli fu conteso fra l'arciduca Carlo comandante le truppe austriache, e Napoleone Bonaparte capo dell'esercito francese: Venezia assisteva impotente alla lotta che doveva decidere le sue sorti. Il 17 i due eserciti si scontrarono sul Tagliamento e gli austriaci ebbero la peggio; il 20 tutto il Friuli fino all'Isonzo era in potere dei Francesi che dal Pulfero e da Pontebba movevano ad inseguire gli avversarî. La provincia e particolarmente il cividalese patì gravissimi danni dai belligeranti: requisizioni senza pietà, incendi, saccheggi, donne violate e contadini costretti a seguire coi carri ed i buoi l'armata francese fin nell'interno dell'Austria, tutto ciò doveva riuscir molto duro a popolazioni che la lunga pace aveva ormai rese ignare degli orrori della guerra; ma ben maggior danno preparava poi la politica egoistica della repubblica francese che tolse al Friuli l'indipendenza nazionale e lo cedette all'Austria colla pace, detta di Campoformio, il 17 Ottobre 1797 insieme alle altre terre venete fino all'Adige, in compenso della parte dei Paesi Bassi che l'Austria a sua volta cedeva alla [303] Francia. Questa proclamava per se stessa i diritti dell'uomo, ma mercanteggiava gli altri popoli come torme di schiavi.

Il Friuli rimane così soltanto, per pochi mesi, sotto la signoria francese: nel maggio partirono i magistrati veneti, e il generale Bernadotte costituì a Udine il 26 giugno un Governo centrale di 23 membri in parte udinesi, in parte della provincia. Dopo Campoformio costoro dovettero cedere il campo ai governatori austriaci che per brevissimo tempo restituirono gli antichi ordinamenti ma poi li mutarono a somiglianza di quelli che reggevano gli stati ereditarî. Il parlamento friulano si riunì per l'ultima volta nel febbraio 1798, poi la provincia fu sottoposta ad un consiglio di Governo sedente a Venezia ed a un capitano provinciale; naturalmente cadevano le divisioni precedenti della provincia che assicuravano l'autonomia a Palma ed a Cividale.

L'Austria tenne allora il Friuli per sette anni; perseguitò i liberali, ed accarezzò i nobili e gli ecclesiastici, ma la provincia stette tranquilla sotto la pesante burocrazia Absburghese; il brevissimo periodo di libertà del 1797 era stato macchiato da troppi errori perchè il ricordo potesse destare qualche fremito di ribellione. Nel 1805 questo torpore fu scosso dai generali di Napoleone; il 16 novembre Massena era a Udine, il 17 a Palmanova e gli Austriaci si dileguavano nuovamente. La pace di Presburgo (25 dicembre 1805) diede al Regno italico la destra riva dell'Isonzo; la convenzione di Fontainbleau del 1807 doveva però restituire all'Austria parte del territorio fra l'Isonzo e lo Judri che diviene nuovamente, come al tempo veneto, confine fra i due stati. Le sorti della provincia dovevano esser disputate di nuovo fra Napoleone e l'Austria nel 1809. L'Arciduca Giovanni comandante l'esercito austriaco moveva fra il 10 e l'11 aprile di quell'anno da Cividale verso il Tagliamento: il vicerè d'Italia Eugenio l'attendeva alla Livenza e dopo il combattimento sfavorevole di Fontanafredda doveva ritirarsi sul Piave. Intanto però le vittorie che la grande armata napoleonica otteneva in Germania mutavano le sorti della guerra: l'Arciduca iniziò nel maggio la ritirata e dopo un combattimento [304] avvenuto a S. Daniele, le sue truppe erano costrette ad abbandonare il Friuli per il canale del Ferro. L'armata d'Italia lo inseguiva e doveva poi colla splendida vittoria di Raab rivendicare il suo onore. La pace di Vienna assicurò a Napoleone per quattro anni non solo il Friuli veneto, ma Gorizia, Gradisca e Trieste. Il Friuli alla sinistra del Tagliamento costituì il dipartimento di Passeriano, il Goriziano appartenne invece alla così detta provincia illirica: tutte soggette però al Vicerè d'Italia.

Il periodo 1805-1813 ha importanza decisiva per la storia Friulana, perchè rinnovò, si può dire, in gran parte lo spirito della provincia. L'abolizione dei privilegi nobiliari, l'applicazione del codice civile, la soppressione delle corporazioni religiose, l'aver abituato nuovamente tanti giovani alla milizia accendendo nell'animo il sentimento della gloria e facendoli uscire dal ristretto e mortifero ambiente locale, la costruzione di grandi strade che rendevano rapide e sicure le comunicazioni, l'aver fatto risorgere fortemente l'idea dello Stato soffocando la prepotenza di tanti tirannelli locali sotto l'impero di un'amministrazione ferma ed inesorabile, ed infine il gran nome (ed era poco più) del Regno d'Italia, tutto ciò suscitò anche tra noi pensieri, speranze, entusiasmi gagliardi che la caduta del gran Corso doveva far tacere repressi, ma non spegnere interamente.

Nell'agosto 1813 scoppiate le ostilità fra Napoleone e gli alleati, l'armata d'Italia attraversò il Friuli per attaccare gli Austriaci che furon respinti dapprima sulla Sava e sulla Drava. Più tardi, alla fine di settembre, in seguito alla defezione della Baviera che minacciava le retrovie del Vicerè, questi decise di ritirarsi sull'Adige. Fra il 17 e il 24 settembre le divisioni dell'armata italiana attraversavano per l'ultima volta il Friuli; alla fine del mese tutta la provincia era in mano degli austriaci ed il tricolore sventolava soltanto ad Osoppo ed a Palmanova. Vi doveva esser abbassato anche là nell'aprile dell'anno successivo per l'armistizio di Schiavino-Rizzino: il 12 giugno 1814 le provincie lombarde e venete furono costituite in Regno a vantaggio della dinastia lorenese.

[305]

Il dominio austriaco. Il 1848.

Il dominio austriaco. Il 1848. S'aprì allora per il Friuli un lungo periodo di tranquillità che la ferrea vigilanza austriaca cercava di render sempre più profonda. Il governo compiè qualche buon lavoro stradale, pose un collegio militare a Cividale e, senza dubbio, la pace diede modo alla provincia di riparare ai danni delle guerre precedenti che avevano decimata la popolazione e ruinata l'agricoltura. Però l'oppressione poliziesca, la rapacità fiscale, l'oscurantismo eretto a sistema di governo erano ben più dannosi di questi vantaggi economici; i soldati napoleonici insofferenti del giogo straniero, i giovani fidenti nell'avvenire mordevano il freno in silenzio e preparavano in segreto la riscossa. Dal '40 in poi i segni di malcontento divennero sempre più manifesti finchè nel 1848 al primo sentore della rivoluzione scoppiata a Venezia anche il Friuli si sollevò. E già, nel primo inizio dei moti nel Veneto, troviamo i friulani Rocco Sanfermo e Michele Leicht, fra i capi degli studenti insorti a Padova l'8 febbraio 1848[320], e quest'ultimo pure fra i primissimi che entrarono arditamente nell'Arsenale di Venezia, il 22 marzo 1848, per strapparlo agli stranieri. Alle notizie venute da Venezia, i liberali udinesi con rapida mossa costrinsero le autorità austriache a segnare la capitolazione di tutta la provincia, e per essa anche Osoppo e Palmanova apriron le porte agli insorti il 24 marzo; a Cividale gli stessi allievi del collegio militare atterrarono le aquile austriache: la provincia era così tutta libera dallo straniero[321].

Fu gioia troppo breve! Già al principio d'aprile Nugent rannodava le truppe austriache a Gorizia e preparava la sua congiunzione con Radetzky chiuso nel quadrilatero. Il governo provvisorio affidò ad un comitato di soldati napoleonici: Cavedalis, Conti, Duodo l'incarico di preparare la difesa. Nelle cittadelle e nelle borgate della nostra regione pedemontana si [306] costituirono bande per cooperare con Udine nella disperata impresa: a Buia sotto gli ordini di Domenico Barnaba, a Cividale, a Colloredo al comando del co. Filippo di Colloredo. Ad Osoppo fu posto un piccolo presidio sotto il comando del modenese Licurgo Zannini e del friulano Leonardo Andervolti, a Palma il vecchio generale napoleonico Zucchi cercò di rannodare la difesa. Tutti i centri anche minori della provincia dettero bei nomi a quelle fortunose giornate: S. Daniele il poeta Teobaldo Ciconi, Tarcento il gagliardo Lanfranco Morgante. Purtroppo però le forze erano impari agli animi; mancavano armi, munizioni e il tempo per la preparazione. Le bande furono sconfitte il 16 aprile a Visco dalle truppe austriache che avanzavano dal basso Friuli; Palma fu bloccata e Udine investita il 20 aprile e bombardata nei giorni successivi. Il 23 aprile Udine che aveva resistito più di quanto si potesse attendere da città difesa soltanto da antiche mura del '500, dovette arrendersi: l'11 giugno successivo caddero, colla battaglia del monte Berico le ultime speranze di soccorso dall'esercito italiano. Palmanova cedette, dopo notevole resistenza, il 24 giugno; Osoppo invece, difesa da un pugno d'eroi, resistè ancor quattro mesi fra sofferenze e patimenti inauditi; gli austriaci bruciarono e saccheggiarono il villaggio sottostante per impedire che giungessero soccorsi agli assediati esercitando inumana crudeltà contro gli abitanti. Finalmente il 12 ottobre la guarnigione, a stremo di forze, capitolò uscendo dal forte cogli onori militari, a miccie accese e bandiere spiegate. I superstiti si recarono a Venezia a continuare la lotta disperata per l'onore d'Italia e colà trovarono altri nobilissimi friulani: Cavedalis ministro della guerra, Valassi e Somma segretarî dell'assemblea e tutti i valorosi componenti la gagliarda legione friulana che, insieme a tanti altri animosi di ogni parte d'Italia, cementavano col sangue l'unità della patria.

Il Friuli riunito all'Italia.

Il Friuli riunito all'Italia. La sollevazione del 1848 lasciò gli animi inquieti ed anelanti alla riscossa nel gran sogno d'una Italia indipendente dallo straniero. L'atroce delusione del '59 rese quest'attesa anche più fremente; alcuni animosi delle nostre [307] terre presero parte nel 1860 alla spedizione dei mille, altri si arruolarono nell'esercito regolare o combatterono nei successivi moti garibaldini, altri infine lavorarono intensamente in patria per la causa nazionale, sia che obbedissero alle direttive della Società Nazionale, sia che fossero spinti dal partito d'azione che segretamente organizzò nel '64 un moto insurrezionale. Questo fallì nel suo piano generale, tuttavia nell'ottobre due piccole schiere si riunirono; una di esse, di cui era l'anima il generoso dottor Andreuzzi di S. Daniele, dopo una breve e gloriosa resistenza contro gli austriaci che l'accerchiavano si sciolse sul Dodismala presso Spilimbergo, l'altra comandata da G. B. Cella partì da Venzone e giunta ad Illeggio in Carnia dovette sciogliersi anch'essa. L'Austria infierì con persecuzioni e condanne, ma il moto aveva mostrato all'opinione pubblica, più che qualsiasi disquisizione, come il giogo austriaco fosse insopportabile al Friuli[322].

Fig. 27ª. — La rupe di Osoppo, vista dalle ghiaie del Tagliamento. (Fot. G. Dainelli).

[308] Anche nei due anni successivi i friulani non posarono; depositi d'armi furon tenuti con grave pericolo a S. Daniele, al Pulfero, a Cividale e altrove; nel luglio del '66 si tentò pure di costituire una piccola banda sul monte Juanes colla cooperazione di taluni patrioti di Cividale, di Codroipo, del Pulfero, di Canebola, ma l'ora della liberazione finalmente si avvicinava. Il 25 luglio i primi reggimenti italiani entravano a Udine e di lì avanzavano verso Cividale, Palmanova e Artegna; dopo pochi giorni però l'esercito nazionale ripiegava sul Tagliamento e Cividale, Gemona, Venzone erano occupate di nuovo dagli austriaci che tenevano sempre Osoppo e Palma. Furon giorni di terribile ansietà per chiunque nutrisse amor di patria. Finalmente il 2 ottobre fu firmata la pace; ultimo frutto di errori e di sventure secolari essa dava all'Italia le frontiere amministrative del Regno Lombardo Veneto, frontiere assurde così dal lato politico-militare come da quello geografico e storico, che corrono a caso dal monte al piano separando territorî geograficamente indivisibili e spartendo case e campi per il mezzo.

Fra il 12 e il 16 ottobre gli austriaci abbandonarono successivamente Palma, Osoppo, Gemona e Cividale; nel 21-22 ottobre con 144,988 voti favorevoli contro 36 soli contrarî il Friuli affermava solennemente il suo fermo volere di unirsi al Regno d'Italia sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele.

[309]

XIII.
UOMINI RAGGUARDEVOLI

Appunti di GIUSEPPE COSTANTINI.

La parte del Friuli illustrata in questa Guida, è stata più feconda delle altre d'uomini ragguardevoli: principali gli storici, i giuristi, i teologi, i filosofi, i militari, i naturalisti. Per ragioni varie conviene però che qui se ne dia poco più che un elenco[323].

Illustri Friulani anteriori al millecinquecento.

Illustri Friulani anteriori al millecinquecento. Noi possiamo risalire ai secoli VII e VIII menzionando come nati nella nostra regione: Grimoaldo figlio di Gisulfo (n. Cividale 647, m. 671) che fu re dei Longobardi; S. Paolino D'aquileja (n. Premariacco (?) 776, m. 802) che insieme con P. Diacono ordinò lo studio di Parigi, e compose alcuni inni ritmici che fanno ancora parte del Breviario; Paolo Diacono di Varnefrido (n. Cividale 720, m. Montecassino 799), il quale scrisse una ventina d'opere in prosa o in verso, tra cui De gestis Langobardorum [310] e gli inni sacri, da uno dei quali Guido aretino prese il nome delle note musicali.

Passiamo poi ai secoli XIII e XIV con Tommasino Cerchiari o Circlaria (n. Cividale 1185), il quale compose in tedesco un poema didattico, L'ospite romanico, ed in neolatino alcune poesie che sono andate disperse; con Pace del Friuli (era a Gemona nel 1319) che fu maestro di lettere a Udine e poi all'Università patavina, e compose un poemetto elegiaco in garbati versi latini, Festa delle Marie; con Giuliano canonico cividalese (m. 1327 (?)) che scrisse la Cronaca dal 1252 al 1327, pubblicata da L. A. Muratori; con Iacopo di Fontanabona (m. 1326) che fu rinomato condottiero di ventura; con Curzio Mondino (n. Cividale 1250, m. Bologna 1318) uno dei restauratori della chirurgia e della medicina, professore all'Università bolognese, autore di una assai pregevole opera d'anatomia. Accanto a lui, sebbene spettante al secolo XV, poniamo Geremia Simeoni di Raspano (viveva in Udine nel 1463), le cui opere mediche si conservano nella Guarneriana. Sempre al 500 spettano Giovanni Nimis di Nimis buon poeta elegiaco; Niccolò Canussio cividalese (m. 1501) storico della città natale; altro storico è il gemonese Antonio Franceschino che nel 1470 era cancelliere della patria; e fra Giovanni da Gemona, minorita, inquisitore del santo uffizio. Sopra tutti questi s'inalza Guarnerio d'Artegna (n. Artegna 1387, m. Sandaniele 1467); dotto ed erudito raccolse molti mss. in Sandaniele ov'era parroco. In questo secolo un altro Friulano lasciò gran nome di sè, Fiore dei Liberi di Premariacco, il più grande schermitore del suo tempo: l'opera da lui dettata è classica.

Secolo XVI.

Secolo XVI. Più lunga è la serie dei personaggi che conviene ricordare in questo secolo. Tra gli storici rammento: Venceslao Boiano, cividalese (m. 1560), arguto epigrammista latino; i sandanielesi fratelli Carga pregiati poeti, e così il loro concittadino Giorgio Cichino (m. 1599) e il cividalese Francesco Filomeno, e il sandanielese Nussio Nussi che fu anche ellenista ammirato. Godettero fama maggiore come poeti latini il cividalese Franc. Paciani (m. 1560), Alessandro Paolini [311] tricesimano e suo figlio Pio (n. 1535, m. 1605), e Valconio Valconi sandanielese; Giangiuseppe di Partistagno, che fu anche buon verseggiatore italiano; Bernardino Locatello gemonese; Girolamo Montegnaco (n. 1507, m. Cassacco 1573) che tradusse anche felicemente dal greco in latino; Ascanio Boreato (n. Fraelacco 1540), e Giov. Mauro d'arcano (n. Arcano 1490(?), m. Roma 1537) che si rese celebre come copioso poeta burlesco italiano. G. B. Natolini sandanielese, oltre che stampatore rinomato, fu soldato e oratore; Niccolò Claricini è il più antico dei nostri dantisti; Scipione di Manzano (m. Cividale 1596) è il più antico dei nostri poeti eroici. Girolamo Sini sandanielese (n. 1529, m. 1602) fu latinista erudito e compilatore della storia della sua città; Giacomo Sini si deve porre tra i primi che scrissero versi friulani: era cameriere di Clemente VII. Uno dei più grandi letterati nostri fu Cornelio Frangipane (n. Tarcento 1508, m. Udine 1584), era oratore perfetto tanto in latino che in italiano, buon poeta, eccellente giureconsulto. Fu pure lodato poeta ed oratore il suo parente Federico (n. Tarcento 1530 (?), m. Porcia 1599) eremita agostiniano, noto sotto il nome di Paraclito.

Fra gli storici o raccoglitori di memorie patrie del sec. XVI, si deve indicare Sebastiano Mulioni gemonese; Franc. Crema o Cremense (m. Cividale 1525) che fu precettore di Carlo V, unitamente a colui che fu poi papa Adriano VI; G. B. Cergneu (n. Udine 1490, m. Cergneu 1567); Ercole Partenopeo (n. Reana 1530 (?), ivi era curato nel 1566), a cui dobbiamo la prima descrizione della Patria del Friuli, e la narrazione più completa delle incursioni turchesche; e il suo fratello maggiore Giovanni (n. Crappio di Napoli) che fu storico, guerriero, indi curato di Reana fino al 1551. Il cividalese Pier Paolo Locatelli lasciò un commentario delle cose cividalesi; e di lui più erudito e ardimentoso Leonardo di Maniago (n. Cividale 1550 (?), m. Maniago 1601) compose una storia universale dal 1541 al 1597. Al cividalese Marcantonio Nicoletti (n. 1536, m. 1596) dobbiamo un gran numero d'importanti monografie storiche e di biografie, alcune delle quali attribuite a Paolo Veneto, profondo [312] filosofo udinese. Un grande raccoglitore di notizie storiche fu il sandanielese G. B. Pittiani che ne lasciò molti volumi. Dovrei porre qui Antonio Belloni, perchè, secondo Raff. Sbueltz, nato in Adorgnano nel 1480, morto in Udine forse nel 1552; questi fu accurato latinista ed epigrammista, e lasciò due monografie storiche, raccolte da L. A. Muratori.

Ricordo poi il filosofo e teologo domenicano Benedetto da Colle di Prampero (m. Padova 1520), il giurista sandanielese G. B. Liliano (m. Sandaniele 1550) ed il suo concittadino Tranquillo Liliano, acuto giureconsulto e verseggiatore latino, che fu accusato d'eresia (m. Gorizia 1581). Levò gran fama di sè il giurista Giulio d'Arcano che nel 1560 insegnava diritto nell'Università patavina; il cividalese Giov. di Manzano; il sacerdote Vincenzo di Pers (m. 1576).

Celebri militari friulani del secolo XVI sono: Girolamo Savorgnano (n. Osoppo o Savorgnano 1466, m. Venezia 1529) che abbattè sotto Osoppo l'esercito di Massimiliano, e scrisse un'opera in lode dei Paladini di Francia; suo figlio Giulio (n. Osoppo 1509, m. Venezia 1595), grande architetto militare; e l'altro figlio di nome Germanico (n. Osoppo 1514, m. Lione 1555) pure grande architetto.

Tra i diplomatici c'è Giacomo de Nordis cividalese, legato di Perugia sotto Paolo III; tra i medici il cividalese Lionardo Clario che scrisse anche poesie morali; tra i pittori Giulio Urbanis, sandanielese, che fu discepolo dell'Amalteo.

Secolo XVII.

Secolo XVII. Anche in questo secolo il nostro paese conta uomini di bella fama. Il missionario Basilio Brollo (n. Gemona 1645, m. in Cina 1704) conoscitore di parecchie lingue orientali, viaggiò per l'India transgangetica e la Cina, ove compilò il maggior dizionario sinico-latino dei secoli passati, contenendo esso 32 mila parole cinesi; Francesco Mantica (n. Venzone 1534, m. Roma 1614) per la profondità delle sue vedute teologiche, fu nominato cardinale e auditor di Rota: delle molte sue opere ricordiamo De coniecturis ultimarum voluntatum e Decisiones Rotae; ed all'onore della porpora fu pure inalzato il friulano Leandro di Colloredo (n. Colloredo 1639, m. Roma [313] 1709), teologo, diplomatico e consultore dell'Indice. A questi aggiungeremo fra Paolo da Gemona (m. Venezia 1626), il quale oltre che filosofo e teologo fu tra i minoriti più eloquenti; Cornelio Frangipane o Claudio Cornelio (n. Tarcento 1553, m. Venezia 1643) giurista e feudalista di grido, che lasciò opere legali di gran merito, alcuni poemi latini ed una schematica tragedia; egli è l'unico Friulano che abbia opere tra i testi di lingua raccolti dal Gamba. Il sacerdote Giulio Liliano (n. Sandaniele 1560) nel 1606 fondò l'accademia udinese e ci lasciò molte poesie ammirate, tra cui L'impenitenza di Giuda che fu stampata come opera di T. Tasso; Ermes di Colloredo (n. Colloredo 1622, m. Gorizzo 1692) più che quale guerriero è noto come primo illustratore della poesia friulana, nella quale gareggia con lo Zorutti; così Ciro di Pers (n. Pers 1599, m. 1662) più che viaggiatore nel mediterraneo orientale e cavaliere di Malta, è noto quale uno tra i migliori poeti d'amore del suo secolo. E alla poesia non amorosa, ma burlesca deve la sua fama il cividalese Giampaolo Fabbri; alla lirica civile gli altri due cividalesi Girolamo Pichissini che riscosse il plauso universale, ed Emilio Miuttini che fu anche epico e drammatico e facondo oratore. Venzone dette i natali ai fratelli Mistruzzi che verseggiarono in latino garbato, uno dei quali, Pietro, lasciò anche discreti versi italiani. Ara Piccola di Tricesimo dette i natali a Giuseppe Colautti che morì parroco di Reana nel 1649, lasciando buoni epigrammi latini. Bisogna ricordare la Cronaca di Cristoforo di Prampero (n. Gemona 1575), che va dal 1615 al 1631, perchè in essa sono notate perfino le vicissitudini atmosferiche, le mercuriali, le malattie epidemiche; il medico Bernardino Pittiani (n. Sandaniele 1667) che pubblicò opere mediche importanti; e Gianfrancesco Mistruzzi (n. Venzone 1598, m. Villacco 1662) medico per le corti della Germania e padre dei poeti sunnominati.

Tra gli uomini d'arme c'è Fabrizio di Colloredo che combattè in Affrica contro i Turchi, e morì a Firenze ministro del granduca; e G. B. Persa di Gemona, valentissimo cavallerizzo, il quale, nel 1688, pubblicò in Padova un libro sul modo d'ammaestrare i cavalli.

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Secolo XVIII.

Secolo XVIII. Questo è per noi il secolo dei grandi eruditi. Giangiuseppe Liruti (n. Villafredda 1689, m. 1780) fu il vero storico della nostra letteratura. Compose monografie di grande valore; ma la sua fama imperitura è affidata alle Notizie delle cose del Friuli, e alla poderosa opera Notizie delle vite ed opere dei letterati del Friuli. Gian Francesco de Rubeis o de Rossi (n. Cividale 1687, m. 1775), domenicano consultore del santo uffizio in Venezia, compose più d'una ventina d'opere storiche ecclesiastiche e civili, ricche di profonda dottrina. Giusto Fontanini (n. Sandaniele 1666, m. Roma 1736), arcivescovo d'Ancira e poi abate di Sesto al Réghena, fu uno dei più grandi eruditi del mondo: pubblicò oltre una ventina d'opere storiche, teologiche, letterarie, per due delle quali polemizzò vittoriosamente con L. A. Muratori; difese l'Aminta del Tasso, e coi Libri dell'eloquenza italiana sostenne una lotta gloriosa contro i denigratori della nostra letteratura. Iacopo Stellini (n. Cividale 1699, m. Padova 1770), mente enciclopedica ed una delle più alte dell'ordine somasco e dello studio patavino, lasciò opere profonde; a lui associamo il concittadino Antonio Evangeli (n. 1742, m. 1805), agile e pur vigoroso traduttore di molte poesie bibliche, che ne raccolse e pubblicò gli scritti. Sebbene nato altrove (Varmo 1689, m. Gemona 1773), facciamo il nome di Gius. Bini che fu per molti anni arciprete di Gemona, ove manifestò la sua grande attività letteraria, raccolse una voluminosa collezione di scritti storico-eruditi, e curò la pubblicazione di Rer. Italic. script. di L. A. Muratori. Altro benemerito collezionista di memorie storiche fu Domenico Ongaro (n. Sandaniele 1713, m. Colloredo 1796 ove era parroco); Daniello Farlati (n. Sandaniele 1690, m. Roma 1773) che compilò la ponderosa Storia dell'Illirico Sacro; il cividalese Niccolò Nicoletti che fu uomo erudito e poeta lodato; Giandomenico Guerra che raccolse 60 grandi volumi di notizie friulane; e Gaetano Stùrolo che ne raccolse 6 grossi volumi. Degni di nota sono pure Bernardo Fant, detto latinamente Fanzio, (n. Qualso 1657, m. Firenze 1719), servita che sgomberò la filosofia dai paradossi averroisti; e il suo nipote Enrico che fu [315] teologo consultore della Repubblica; il filosofo Antonio Beltrame da Camino di Butrio; i due storici Iacopo e Daniele Concina di Sandaniele; il poeta epico maestro dello Stellini, Gaspare Leonarduzzi (m. Cividale 1752); il poeta latino Pietro Silio (n. Venzone 1660, m. Udine 1722); e Filippo del Torre (n. Cividale 1657, m. arcivescovo in Adria 1717) che compose importanti monografie storiche: l'ab. Carlo Narducci (n. Sandaniele 1691, m. 1779) che tradusse il Paradiso di Milton e pubblicò un discorso contro il duello.

Le scienze naturali vantano nel settecento parecchi cultori: G. B. Beltrame di Camino di Butrio, intelligente agronomo; Fabio Asquini (n. Udine 1726, m. 1818) che primo in Italia scavò la torba e la usò come combustibile; Giuseppe Suzzi (n. Ragogna 1701, m. 1764) che scrisse d'idraulica e di matematica, e insegnò fisica all'Università patavina; il valente medico gemonese Giuseppe Bertossi che nel 1759 pubblicò un Trattato delle terme padovane; e il rinomato chirurgo Leonardo Braida (n. Cividale 1710, m. Gorizia 1783).

Nella pittura ricorderemo Francesco Chiaruttini (n. Cividale 1748, m. 1796) scenografo e affreschista; e G. B. Tonolini di Felettano, buon dipintore di quadri sacri.

Secolo XIX.

Secolo XIX. Ancora più lunga è la serie degli uomini notevoli che la nostra regione ha avuto in questo secolo. Non contiamo molti eruditi; emergono però gli scienziati e alcuni cultori d'arte.

Cominciamo col nostro massimo poeta dialettale Pietro Zorutti (n. Lonzano 1792, m. Udine 1867); col nostro maggiore drammaturgo Teobaldo Ciconi (n. S. Daniele 1824, m. Milano 1863) che fu anche soldato valoroso; con una tra le migliori novellatrici del secolo, Caterina Percoto (n. Soleschiano 1812, m. 1887); con la più felice interprete tragica del secolo, Adelaide Ristori (n. Cividale 1821, m. Roma 1905). Forse unico nostro buon traduttore dall'inglese, da cui ci diede una ventina di opere letterarie e poi commentò la Vita di P. Sarpi del Fontanini, è Pietro Antoniutti (n. S. Daniele 1732, m. Venezia 1827). Raimondo de Puppi (n. Cividale 1794, m. Villanova 1849) [316] fu elegante verseggiatore e raccolse varianti dantesche; Valentino Ostermann (n. Gemona 1841, m. Treviglio 1904), fu indefesso raccoglitore di memorie patrie, e benemerito folklorista; il sacerdote Pietro Peruzzi (n. Buttrio 1767, m. Udine 1841) trattò l'esametro latino con gusto classico; G. B. Gallerio (n. Tricesimo 1812, m. Vendoglio 1881) fece delle buone poesie friulane; Gius. Brignoli (n. Gorizia 1749) fu gentile poeta e forte drammaturgo: la sua commedia La Vedova letterata, nel 1795, ebbe al teatro di Venezia 19 rappresentazioni successive; Graziano Is. Ascoli (n. Gorizia 1829, m. Milano 1907) fu uno dei più grandi glottologi del mondo. Sebbene non friulano, ma poichè passò in Colloredo i suoi anni più belli, ci corre l'obbligo di nominare il grande romanziere, grazioso novelliere e poeta Ippolito Nievo che morì ventenne nei gorghi del mare, quando maggiormente gli arrideva la gloria dell'armi e la patria risorgente. Tra gli storici rammento l'infaticabile annalista Franc. di Manzano (n. Giassicco 1801, m. 1895); Valentino Baldissera (n. Gemona 1840, m. 1905) sacerdote erudito e avveduto raccoglitore di notizie storiche ed artistiche; il notaio Federico Barnaba di Buia (m. Udine 1905) incettatore di notizie storiche; suo padre Domenico agile narratore e piacevole poeta; Giorgio della Martina (m. Tricesimo 1807) che riunì in parecchi volumi tutto quanto trovò riguardo la pieve di Tricesimo. Gian Jacopo Pirona (n. Dignano 1789, m. Udine 1870) fu uno dei Friulani più colti, riunì moltissimi documenti patrî, e compose l'unico pregevole vocabolario friulano. Michele Leicht (n. Tarcento 1827, m. Cividale 1897) ha lasciato alcune pregevolissime monografie d'indole storica. Giov. Manzini (n. Rodda 1828, m. Cividale 1904) fu pellagrologo competente e appassionato. Gius. Onorio Marzuttini (n. Premariacco 1802, m. Padova 1849) fu filosofo, teologo e assiriologo; raccolse e cominciò la pubblicazione delle opere dei Padri Aquilejesi, commentandole e traducendole con molta spigliatezza. Francesco Foramitti (n. Cividale, m. Venezia 1843) fu grande giureconsulto e matematico: a lui dobbiamo le Pandette giustiniane, il Corpus iuris ed altre opere ponderose. Innocenzo Liruti (n. [317] Villafredda 1741, m. vescovo a Verona 1827) fu canonista e teologo.

Fra i cultori di scienze naturali v'è Guglielmo Menis (n. Artegna 1790, m. Trieste 1850), medico rinomato e buon verseggiatore latino, pubblicò alcune monografie di geografia fisica ed un Saggio di topografia statistica medica; Giuseppe Berini (n. Monfalcone 1746, m. 1831) coltivò le scienze naturali e singolarmente la botanica, di cui ci ha lasciato notevoli scritti; Giovanni Brignoli (n. Gradisca 1774, m. 1850), naturalista e viaggiatore pubblicò la descrizione delle piante più rare del Friuli, ed una ventina di monografie botaniche; G. A. Pirona (n. Dignano 1822, m. Udine 1895) naturalista di grande valore, occupa un posto eminente tra i botanici, gli zoologi ed i paleontologi. Egli, pubblicando il dizionario friulano dello zio Jacopo, lo arricchì delle voci relative a piante ed animali. Quantunque non compaesano (n. Udine 1846, m. Firenze 1900) è nostro dovere ricordare qui Giov. Marinelli, uomo dotto, scrittore efficace e insigne cultore della geografia, in cui preparò una pleiade di maestri all'Italia; lo comprendiamo tra i nostri perchè considerò Tarcento come sua seconda patria.

L'arte ha avuto tra noi Vincenzo Lucardi (n. Gemona 1808, m. Roma 1876) scultore esente da manierismi, ardito e spesso solenne; Luigi Minisini (n. S. Daniele 1816, m. Ronchi di Treviso 1901) statuario di molto merito, dopo che s'era saputo svincolare dall'accademicismo dei canoviani; Giacomo Gabrici (n. Faedis 1846, m. Cividale 1904) scultore variamente venusto; Antonio Dugoni (n. Cividale 1827, m. 1874) pittore dalla composizione calma, ritrattista ricercato. Ricordiamo Domenico Fabris (n. Osoppo 1814, m. 1901), affreschista, ultimo imitatore degli Amaltei; e Gius. Ub. Valentinis (n. Tricesimo 1819, m. 1901) paesista corretto come ogni discepolo del Markò, ma più noto come perfezionatore del metodo di rigenerazione Pettenkofer; egli stese per il Cavalcaselle l'appendice alla Storia delle belle arti in Friuli. Due veramente dimenticati artisti sono il conte Ascanio di Brazzà e Antonio Fantin: il primo riprodusse su tela i paesaggi da lui visitati nell'Asia minore e nell'Affrica [318] mediterranea, incise i monumenti di Roma, e come a dotto archeologo il papa gli affidò i musei capitolini da riordinare; il secondo visse molti anni a Tricesimo ed a Gemona, affrescando e dipingendo quadri da chiesa; morì a Parigi nel 1888, presso il suo parente Luca Madrassi, scultore tricesimano ancor vivente. Non sarà fuor di luogo rammentare il sacerdote Angelo Noacco (n. Rizzolo 1832, m. Cassacco 1904) quale ingegnoso architetto di chiese.

La musica sacra ha avuto in Jacopo Tomadini (n. Cividale 1820, m. 1883) uno dei cultori sommi; le sue numerose composizioni hanno riscosso l'universale ammirazione per la molteplice melodia soavemente grave.

Un ultimo accenno ad alcuni fra i cittadini più benemeriti. Gabriele Luigi Pecile (n. Fagagna 1829, m. 1902) dedicò la vita all'educazione popolare, e fondò in Fagagna la scuola di caseificio; Pietro Biasutti (n. Forgaria 1843, m. Villafredda 1900), con la sua indefessa attività recò un soffio potente di nuova vita nelle numerose istituzioni di cui fece parte; il conte Giac. del Torre di Romans, dal 1856 per oltre 40 anni diffuse col lunario Il contadinel, una modesta ma sana coltura tra i campagnoli; G. B. Locatelli (n. Pignano 1809, m. 1878) dedicò lunghissimi anni per istudiare il tracciato del canale Ledra, nel quale lavoro gli furono larghi d'incoraggiamento e di lumi G. B. Bassi e G. Corvetta; il sacerdote Placereani (n. Montenars 1821, m. Mortegliano 1893) riuscì a portare a buon punto un tempio sontuoso in questo villaggio.

Dei viventi che in un modo o nell'altro illustrano la piccola patria, non è, per ragioni evidenti, qui il caso di trattare; nè certo è questo il luogo di esporre conclusioni generali sullo sviluppo della letteratura, della scienza e dell'arte nella regione da noi considerata; tanto più che qualche accenno fu già fatto nel precedente capitolo.

NOTE:

1. Histor., L. III, c. 8.

2. Rerum Gestarum, XXXI, 16.

3. Nat. Hist., III, 25 (28).

4. Cfr. G. Marinelli, Nomi propri orografici, Alpi Carniche e Giulie, «Annali dell'Ist. Tecnico di Udine», 1872; — Le Alpi Carniche, nome, limiti e divisioni nella storia e nella scienza, «Boll. d. Cl. A. It.», 1887.

5. Vedi su questo argomento, oltre gli scritti di G. Marinelli, citati alla nota precedente, Musoni (F.), Del nome «Alpi Giulie», «Pagine Friulane», 1903, pag. 1-3 e «Atti del Congresso internazionale di scienze storiche» (Roma, Aprile 1903), Vol. X, Roma, 1904, pag. 309-315; Bartoli (M. G.), Lettere Giuliane, Capodistria, 1903.

6. Diamo qui in nota gli elementi relativi alla posizione geografica di alcune delle località più notevoli del territorio da noi considerato, desumendoli, per i punti italiani, da: Istit. Geogr. Mil. Elementi geodetici dei punti contenuti nei fogli 13-14 della Carta d'Italia, Firenze, Barbera 1897 o da Elementi geodetici dei punti contenuti nei fogli 25-26 (Udine-Cividale) della Carta d'Italia, Firenze, 1899; e, per quelli austriaci, da: Militargeogr. Inst., Die Ergebnisse der Triangulierungen, IV Bd., Wien, 1906:

Località Latit. nord Long. est da Roma Long. est da Greenwich
 
Resiutta (campanile) 46°23′27″ 0°46′  1″ 13°13′13″
Gemona (torre del Castello) 46°16′33″ 0°41′16″ 13°  8′29″
S. Daniele (campan. del duomo) 46°  9′35″ 0°33′33″ 13°  0′46″
Tarcento (camp. della chiesa) 46°12′56″ 0°46′13″ 13°13′25″
Cividale (campanile del duomo) 46°  5′33″ 0°58′46″ 13°25′59″
Gorizia (duomo) 45°56′34″ 1°10′21″ 13°37′33″
Tolmino (campan. della chiesa) 46°11′  5″ 1°15′13″ 13°42′25″

La differenza di latitudine fra i punti estremi qui considerati è appena di 27′ (cioè di 27 miglia = 50 km.), quella di longitudine di meno di 42′, cioè di meno di 3 minuti in tempo. Rispetto all'ora del meridiano dell'Europa Centrale (15° ad E di Greenwich) è una differenza da 5 a 7 minuti; per passare dal tempo locale (meridiane) a quello «civile» non basta però mandare innanzi gli orologi di quei 5, 6 o 7 minuti, ma conviene fare anche la correzione dipendente dalla circostanza che gli orologi sono regolati col tempo «medio», non con quello «vero» e il primo si discosta dal secondo fino a 14 minuti in più nel febbraio e 16 in meno nell'ottobre. Per passare dal tempo vero locale (meridiane) a quello medio dell'Europa centrale può essere utile la tabella pubblicata dal sen. Di Prampero nel suo op. L'ora esatta in Friuli, Udine, tip. Doretti, 1898. Dei fusi di 15′ (corr. a un minuto in tempo) in cui il Di Prampero ha suddiviso il Friuli, uno prende il nome da Cividale, esso racchiude le località poste nella parte media delle nostre prealpi, mentre quelle ad occidente fan parte del fuso di Udine; quelle ad oriente pertinenti ad un terzo fuso, non sono considerate, perchè fuori della provincia. I tre fusi portano i numeri 28, 29 e 30 nella serie dei 48 in cui ha diviso l'Italia il Rajna (L'ora esatta dappertutto, Milano, 1897).

In nessuna delle località comprese nel nostro territorio, vennero fatte determinazioni degli elementi del magnetismo terrestre, salvo che a Gorizia (Liznar, Eine neue magnetische Aufnahme Oesterreichs, «Sitzungsber. d. Ak. d. Wissensch. in Wien. Math. Naturw. Classe», 103, Wien 1894, pag. 48). Limitandoci qui alla declinazione magnetica, elemento la cui conoscenza può avere, anche praticamente, maggiore interesse, indicheremo come essa fosse a Gorizia 13° 58′, 5 nel 1850, 10° 25′, 3 nel 1890 e si può quindi calcolare attualmente di circa 8° 39′, sempre occidentale. Del resto possiamo aggiungere come, secondo quanto risulta da Tacchini, Sulle carte magnetiche d'Italia eseguite da C. Chistoni e L. Palazzo (estr d. «Ann. Uff. Centr. di Met. e Geodin.», vol. 14, parte I, 1892, Roma 1893), attualmente nel nostro territorio essa deva oscillare fra 8° 30′ (verso l'Isonzo) e 9° (verso il Tagliamento).

7. Storia Fisica del Friuli, S. Vito, 1841. Cfr. su questa opera e su quelle citate appresso: Marinelli (O.), La illustrazione geografica del Friuli ed una lettera inedita di Antonio Zanon, «In Alto» 1905.

8. Udine e sua provincia, Udine, 1862.

9. La parte delle Prealpi Giulie che s'estende oltre l'attuale confine politico si trova illustrata nelle opere concernenti il Goriziano, fra le quali ricorderemo qui: Antonini (P.), Il Friuli orientale, Milano 1865 — dove due capitoli sono dedicati alla descrizione della contea di Gorizia e Gradisca — e Czörnig (C.), Das Land Görz und Gradisca, Wien, 1873; Noè (H.), Landschaftliche Schilderung aus Görz und Gradiska, in «Die österreichisch-ungarische Monarchie in Wort und Bild. Das Küstenland.», Wien 1891; Czoernig e Schneider, Vorgeschichte, Geschichte und Culturentwicklung von Görz und Gradiska, nella stessa opera.

10. Per la storia delle rappresentazioni cartografiche del Friuli in genere e della nostra regione in particolare cfr. Marinelli (G.), Saggio di cartografia della Regione Veneta, Venezia, Dep. di St. Patria, 1881; Biasutti (G.), Cartografia Friulana. Appunti, «In Alto», 1900 e 1901; Marinelli (O.), Una antica carta geografica del Friuli, Firenze, (per nozze) 1902; — I monti del Friuli nelle più antiche carte geografiche stampate della regione, «In Alto», 1902; — I monti del Friuli nelle carte geografiche nel secolo XVII, «In Alto», 1903 e 1904; Costantini (G.), Una vecchia carta dei dintorni di Tricesimo, «In Alto», 1906.

11. Interessano le nostre prealpi i 4 fogli: G. 2, G. 3, H. 2, H. 3. Su questa carta cfr. Marinelli (G.), Saggio ecc., al n. 1649. Fra le carte precedenti si potrebbero tutto al più menzionare qui quella del Malvolti (Carta topografica della Provincia del Friuli ecc.) pubblicata intorno al 1818 ed alla scala di 1:160mila circa (cfr. Marinelli (G.), Saggio ecc. al n. 1516).

12. Interessano la nostra regione, per piccola parte, i quadranti II («Chiusaforte», ril. 1891, corr. 1902) e III («Tolmezzo», ril. 1891, corr. 1902) del foglio 14 della Carta dell'I. G. Mil.; e, per parte maggiore, le tavolette I, NE («Montemaggiore», ril. 1891, e di nuovo 1906), I, SE («Platischis», ril. 1891, corr. 1902), I, SO («Tarcento», ril. 1891, corr. 1906), I, NO («Lusevera», ril. 1891 e di nuovo 1906), II NE («Cividale», ril. 1891, corr. 1902), II SE, («Premariacco», ril. 1891, corr. 1902), II, NO («Tricesimo», ril. 1891, corr. 1906), III, NE («Fagagna», ril. 1891, corr. 1902); III, NO («S. Daniele», ril. 1891, corr. 1902), IV, NE («Gemona», ril. 1885, corr. 1906), IV, SE («Buia», ril. 1885, corr. 1902), IV, SO («Maiano», ril. 1885, corr. 1906), IV, NO («Trasaghis», ril. 1885, corr. 1902) del foglio 25; le tavolette III, NE («Stregna», ril. 1891, corr. 1902), III, SO («Prepotto», ril. 1891, corr. 1902), III, NO («S. Pietro al Natisone», ril. 1891, corr. 1902), IV, SE («Drenchia», ril. 1891, corr. 1902) e IV, SO («Rodda», ril. 1891, corr. 1902) del foglio 26 e la tavoletta I, NE («Manzano», ril. 1891, corr. 1902) del foglio 40. Per l'area oltre confine si deve ricorrere ai fogli col. IX, zona 20 («Flitsch», ed. 1906) col. IX. zona 21 («Tolmein», ed. 1903), e col. IX, zona 22 («Görz u. Gradisca», ed. 1901), della così detta Spezialkarte della Monarchia Austro-Ungarica, alla scala 1:75.000.

13. Marinelli (G.), Le Alpi carniche ecc., loc. cit., pag. 124 Guida del Canal del Ferro, Udine 1894, pag. 20.

14. Marinelli (O.), Descriz. geolog. dei dint. di Tarcento citat. alla nota seg. pag. 127. A. Böhm (Eintheilung der Ostalpen, «Geogr. Abhandl. herausg. v. A. Penck», I, fasc. 3, Wien 1887, pag. 471) sceglie un confine intermedio fra i due qui indicati, uno cioè che fra il torrente Resia e l'Uccea, passerebbe per Vplanieh (1661 m.) della carta austriaca «Flitsch» (ed. 1881). Lo stesso autore denomina assai impropriamente le prealpi fra Tagliamento ed Isonzo «Maggiore Gruppo» — nella carta che accompagna la memoria è scritto anzi «Maggiora Gruppe» — e questa designazione erronea ed impropria è usata poi anche dal Futterer, nella carta tectonica che accompagna la memoria Durchbruchsthäler in den Süd-Alpen («Zeitschr. d. Gesellsch. für Erdkunde zu Berlin», 1895, tav. I).

15. Vedi Marinelli (G.), La Terra, Vol. IV, Italia, pag. 150.

16. Assai ricca è la letteratura geologica della regione considerata in questo capitolo; fra i lavori vecchi si consulteranno sempre con profitto: Pirona, Lettere geologiche sul Friuli, estr. dall'«Annotatore Friulano», Udine 1856; Hauer, Ein geologischer Durchschnitt der Alpen von Passau bis Duino, «Sitzungsber. d. math.-nat. classe der k. Akad. der Wissensch.», Vol. XXV, 1857, pag. 78-94 dell'estr.; Stur, Das Isonzo Thal von Flitsch abwärts bis Görz, die Ungebungen von Wippach, Adelsberg Planina und Wochein, «Jahrb. d. k. k. geol. Reichsanst.», 1858; Pirona, Sulle antiche morene del Friuli, «Atti della Soc. Ital. di Sc. Nat.», II, 1860; — Cenni geologici sul Friuli, «Ann. dell'Ass. Agr. Fr.», IV, 1861; Taramelli, Sulla formazione eocenica del Friuli, «Atti Acc. Udine», I, 1870; — Dei terreni morenici ed alluvionali del Friuli, «Annali dell'Ist. tecn. di Udine», 1875; — Marinoni, Di un lembo eocenico alle falde settentrionali del Monte Plauris, «Atti Ist. Ven.», 1877; — Ulteriori osservazioni sull'eocene friulano, «Atti Soc. It. Sc. Nat.», 1879; Taramelli, Catalogo ragionato delle rocce del Friuli, «Mem. Acc. Lincei. Cl. Sc. Fis. Mat. e Nat.», I, 1877; — Spiegazione della Carta Geologica del Friuli, Pavia, 1881. In queste due ultime pubblicazioni del Taramelli e nell'altra: Geologia delle Provincie Venete, «Mem. d. Acc. di Lincei. Cl. Sc. Fis. Mat. e Nat.», 1882, sono riassunte tutte le cognizioni che si avevano 30 anni fa sulla geologia del Friuli e quindi della regione che ci interessa. Delle pubblicazioni uscite nell'ultimo trentennio le più importanti sono Gumprecht, Der mittlere Isonzo und sein Verhältnis zum Natisone, Leipzig, 1886; Tommasi, Sul lembo cretaceo di Vernasso nel Friuli, «Ann. Ist. Tecn. Udine», 1889; Marchesetti, Sull'antico corso del Fiume Isonzo, Trieste 1890; Clerici, I legni fossili quaternarî rinvenuti alle sorgenti del torrente Torre, «In Alto», 1891; Tellini, Da Tarcento a Resia, «In Alto», 1891; Tommasi, I fossili senoniani di Vernasso presso S. Pietro al Natisone, «Atti Ist. Ven.», 1891; Bozzi, La flora cretacea di Vernasso in Friuli, «Bollettino della Società Geologica», 1892; Mariani, Appunti sull'eocene e sulla creta nel Friuli Orientale, «Ann. Ist. Tecn. di Udine», 1892; Tellini, Descrizione geologica della tavoletta Maiano, «In Alto», 1892; Brückner, Eiszeit-Studien in den südöstlichen Alpen, X «Jahresbericht d. Geogr. Gesellsch. in Bern», 1890; Taramelli, Una brevissima ma interessante gita dal Ponte di Moggio a Portis, «In Alto», 1893; Boehm, Beitrag zur Gliederung der Kreide in den Venetianer Alpen, «Zeitschr. d. D. Geol. Gesellsch.», 1897; Tellini, Intorno alle tracce abbandonate da un ramo dell'antico ghiacciaio del fiume Isonzo nell'alta valle del fiume Natisone e sull'antica connessione fra il corso superiore dei due fiumi, «Ann. Ist. Tecn. di Udine», 1897; Sacco, Gli anfiteatri morenici del Veneto. Studio geologico, «Ann. Acc. Agr. Torino», 1899; Oppenheim, Ueber einige alttertiäre Faunen der Oesterreichisch-Ungarischen Monarchie, «Beitr. z. Pal. u. Geol. Oesterr. Ung. und d. Orients», XIII, 1901. Non sono qui citati alcuni miei scritti perchè i risultati degli studî geologici da me fatti nella regione, specialmente fra il 1893 ed il 1896, sono esposti poi nell'opera: Marinelli (O.), Descrizione geologica dei dintorni di Tarcento in Friuli, «Pubbl. dell'Ist di Studî Sup.». Firenze, 1902. Fra gli scritti posteriori vedi: Marinelli (O.), Il Senoniano di Vernasso, i klippen ed i conglomerati pseudo-cretacei del Friuli orientale, «Atti acc. Scient. Ven. Trent. Istr. Cl. Sc. Fis. Mat.», I, 1904; — Osservazioni varie fatte durante una escursione al Matajur, «In Alto», 1905; Kossmat (F.), Geologie des Wocheinertunnels und der Südlichen Anschlusslinie, «Denkschr. d. Math. Naturwiss. klasse d. k. Ak. d. Wissensch.», LXXXI, Wien 1907; Feruglio (D. e G.), Contributo allo studio delle carte agronomiche in Friuli preceduto dalla descrizione geologica della tavoletta Tricesimo, «Bollettino dell'Associazione Agr. Friulana», 1907-1908; Nievo (J.), L'anfiteatro morenico del Tagliamento e le successive fasi glaciali, «Boll. della Società Geol. Italiana», 1908; Kossmat (F.), Beobachtungen über den Gebirgsbau des mittleren Isonzogebietes, «Verhandl d. k. k. Geol. R. A.», 1908, n. 1-2, pag. 69-84; Penck e Brückner, Die Alpen in Eiszeitalter, Leipzig, 1909; Kossmat, Das küstenländische Hochkarst und seine Tektonische Stellung, «Verk. d. k. k. Geolog. R. Anst.». 1909; De Gasperi (G. B.), I dintorni di Cividale nel Friuli, studio geologico, «Bull. Ass. Agr. Fr.», 1909; Dainelli (G.), Nota preliminare sopra i lamellibranchiati eocenici del Friuli, Estr. d. «Mem. Soc. Tosc. Sc. Nat.», vol. XXV, Pisa, 1909.

L'unica carta geologica a scala abbastanza notevole che abbraccia l'intera regione è quella al 200 mila del Taramelli; uno schizzo al 75000, ove sono segnati i terreni diluviali e le morene della valle dell'Isonzo fra Saga e Sela accompagna la memoria del Gumprecht sopra citata, una carta geologica al 25 mila dei dintorni di Bergogna, Prosenicco e Starasella è annessa a quella del Tellini: Intorno alle tracce abbandonate ecc., alla mia Descr. geol. d. dint. di Tarcento va unita una carta geol. al 100 mila che rappresenta le prealpi dal Tagliamento fino un po' ad oriente di Oseacco, Carnizza, Monteaperta e Forame, comprendendo anche la parte di NE dell'anfiteatro morenico; al lavoro del Feruglio sopra citato è unita una riduzione al 50 mila della tav. «Tricesimo» colorita geologicamente e a quello del De Gasperi una della tav. «Premariacco» (con l'aggiunta della parte del comune di Cividale che non vi è compresa), il lavoro del Kossmat per primo citato è accompagnato da una carta geologica al 75000 che abbraccia anche un lembo delle nostre prealpi verso Tolmino e S. Lucia. Lo schizzo geologico che accompagna la presente guida (fig. 1ª) è basato in gran parte su osservazioni personali; per la sua costruzione si tenne però conto della letteratura e delle carte qui indicate ed inoltre, per il bacino di Plezzo, di: Diener, Ein Beitrag zur Geologie des Centralstockes der Julischen Alpen, «Jahrb. d. k. k. Geol. R. A.», 1884, con carta geologica.

17. Del modo con cui sono ricavati questi dati orometrici renderò conto altrove.

18. Cfr. sull'argomento: Marinelli (O.), Fenomeni carsici, grotte e sorgenti nei dintorni di Tarcento, «In Alto», 1897; — Fenomeni carsici, grotte e sorgenti nelle Prealpi Giulie Occidentali, «Riv. Geogr. Ital.». 1897; — Escursione nei dintorni di Faedis, «In Alto», nov. 1901; — Osservazioni fatte durante una escursione al Matajur, «In Alto», 1905; Lazzarini, L'altipiano carsico del M. Bernadia, «Mondo Sotterraneo», II, 1905; Musoni, Esplorazione di due voragini, Ivi, III, n. 5, 1907; — Fenomeni carsici sopra Iainich, Ivi, IV, n. 1-3, 1908; Bubba, Fenomeni carsici a Merso di sotto, Ivi, IV, n. 4-5, 1908; Musoni, Fenomeni carsici sopra Mersino, Ivi, V, n. 1-2, 1908; — Una voragine sul monte Hum, Ivi; De Gasperi (G. B.), Una gita al Juanes, «In Alto», 1909; vedi, del resto, per ciò che si riferisce più specialmente alle grotte, la nota bibliografica data al capitolo seguente.

19. Cfr. Lorenzi (A.), Fenomeni simili ai carsici nei conglomerati messiniani di Ragogna e Pinzano, «In Alto», 1902-03.

20. Di un particolare morfologico relativo ad un lembo di tali formazioni si tratta in Lorenzi, Lis Foranis, nicchie di disfacimento meteorico nella breccia di Portis, «Mondo Sotterraneo», II, n. 2-3, Udine, 1905.

21. Op. cit, pag. 49.

22. Op. cit., I, pag. 171. In Joppi, Notizie della Terra di Venzone in Friuli (Nozze Stringari-Marzona, Udine 1871, pag. 33) si legge: «Nel 1748 una frana di monte chiuse il corso della Venzonassa; formatosi un lago pensile, al sopraggiunger di nuove pioggie si ruppe la diga e seguì l'innondazione del borgo di sottomonte, la distruzione della chiesa di S. Giorgio con rilevante guasto di tutta la campagna».

23. La collina di Buttrio ecc. «In Alto», 1903, pag. 11.

24. Hoernes, Erdbeben-Studien, «Jahrb. d. k. k. Geol. R. A.», 1878, pag. 441 e seg., tav. XI.

25. Hoefer, Die Erdbeben Kärntens und deren Stosslinien, «Denkschr. d. Mat. Naturw. Classe der Ak. der Wissensch.», Bd. 42, Wien 1880, pag. 44-48.

26. Vedi: Tommasi, I terremoti nel Friuli dal 1116 al 1887, estr. d. «Annali dell'Ufficio Centrale di Meteorol. e geodinam.», vol. VIII, parte IV, 1886, Roma 1888; Taramelli, Pirona e Tommasi, Dei terremoti avvenuti in Tolmezzo ed in altre località del Friuli nell'anno 1898, estr. d. «Ann. dell'Uff. Centr. ecc.», vol. XII, parte I, 1890, Roma, 1893; Cabaletto, Terremoto a Tricesimo, «Pagine Friulane», VI, 1893, pag. 17; Tellini (A.), Alcuni documenti riguardanti terremoti del Friuli, «In Alto», 1895, pag. 13 e seg., 43 e seg., 55 e seg.; Baratta, I terremoti d'Italia, Torino, Bocca, 1901, specialm. pag. 707-709.

27. Su questi terremoti vedi specialmente, oltre allo scritto dell'Hoefer prima citato: Hoernes, Erdbeben und Stosslinien Steiermarks, «Mitt. d. Erdbeben Comm. d. k. Ak. d. Wissensch. in Wien», Neue Folge, n. VII Wien 1902; pag. 21 e seg., 24 e seg., 65-67, 71-73.

28. Oltre l'opera già citata del Baratta cfr. Mojsisovics (E.), Allgemeiner Bericht und Chronik der im Jahre 1898 innerhalb des Beobachtungsgebietes erfolgten Erdbeben, «Mitt. d. Erbeben ecc.», X, Wien, 1899, pag. 122 e seg.

29. Vedi Marinelli (O.), Studi orografici sulle Alpi orientali, (Serie 1900), «Boll. Soc. Geogr. It.», 1902 §§ 116-118.

30. Cfr. Musoni (F.), Le sedi umane nel bacino medio del Natisone, in «Scritti di Geografia e di Storia della geografia concernenti l'Italia pubbl. in onore di G. Dalla Vedova», Firenze, 1908, pag. 80 e seg.

31. Cfr. Lorenzi, La collina di Buttrio ecc. loc. cit. De Gasperi, I dintorni di Cividale, ecc.

32. Altri di questi nomi usati per indicare valli o parti di valli sono: Canale del Torre, Canale di Crosis, Canale del Pulfero, Canale di Roncina, Canale di Drenchia o Drenchiotto.

33. La letteratura relativa alle acque superficiali e sotterranee delle Prealpi Giulie è assai ricca, come risulta anche dalla nota bibliografica che segue, la quale non ha però in alcun modo la pretesa di essere completa, ma rappresenta l'elenco delle principali opere consultate dagli autori per compilare il presente capitolo. Si avverte però in proposito: anzitutto come qui si sia omessa la citazione dei precedenti tre volumi della Guida, ove sono pure importanti notizie anche sulle acque del nostro territorio; in secondo luogo che, non ostante la numerosa serie di studî relativi alla idrografia, all'idrologia ed all'idraulica della regione considerata, manca un recente studio monografico sulle acque della zona che ci interessa, come d'altronde su quelle del resto del Friuli; in terzo luogo che per un tale studio, e quindi per il saggio di esso da noi tentato nel presente scritto, assai scarsi sono gli elementi sicuri specialmente per ciò che riguarda il regime dei corsi d'acqua e delle sorgenti. Solo quando sarà completamente organizzato ed avrà funzionato per qualche anno il servizio idrometrico che sta piantando il Magistrato delle acque, si potrà avere qualche notizia sicura, ma per ora, relativamente ai corsi d'acqua che ci interessano, non sono pubblicati elementi se non per l'Isonzo dal servizio idrografico austriaco (Hydrographischer Dienst in Oesterreich. Jahrbuch d. k. k. hydrographisches Bureaux, I, 1893 ed annate seguenti). Per supplire alla deficienza di dati sicuri relativi alle portate dei nostri fiumi e poco fidandoci di quelli delle nostre pubblicazioni ufficiali abbiamo raccolto, per quanto ci fu possibile, anche dati di osservazioni fatte da privati o da consorzi idraulici e società industriali; per i materiali fornitici dobbiamo anzi ringraziare i signori L. Armellini fu Giacomo, P. D'Orlandi, A. Malignani e ing. A. Zanoletti.

Segue ora l'elenco bibliografico disposto per ordine cronologico: Bassi (G. B.), Memoria sull'antico divisamento di costruire un Canal Navigabile da Udine al mare, Udine, Mattiuzzi, 1829; Notizie statistiche intorno ai fiumi, canali, lagune e porti comprese nel governo di Venezia, Milano. 1834; — Bucchia (G.). Relazione informativa sui progetti intesi a derivare dal Fiume Ledra acque irrigue e potabili a benefizio di un vasto territorio inacquoso nella Provincia del Friuli, Udine, 1858; — Bertozzi (G. C.), Relazione al commissario del re Q. Sella sul divisamento di formare con le acque dei fiumi Tagliamento e Ledra una rete di canali d'irrigazione, Torino, 1866; — Moschini (L.) e Sporeni (A.), Determinazioni del grado idrotimetrico di alcune acque potabili del Friuli, «Ann. Istituto Tecn. Udine», I, 1867; III, 1869; — Bucchia, Sul progetto d'irrigazione dell'agro Monfalconese compilato dall'Ing. Dott. Raffaello Angelo Vicentini, Gorizia, 1868; — Tatti (L.), Progetto di un canale da ricavarsi dal Ledra e dal Tagliamento, Milano, 1869; — Rinaldi (G.), Relazione intorno alle condizioni attuali del torrente Tagliamento, sui gravi pericoli d'innondazione ecc., Udine, 1870; — Marinelli (G.), Territorio e Clima, in «Annuario statistico per la provincia di Udine», anno I, 1876; — Min. Dei Lav. P., Cenni intorno ai singoli servizî compilati in occasione dell'Espos. Univ. di Parigi del 1878, Roma, 1878; — Broili (G.), La nuova presa d'acqua del consorzio rojale di Udine, Udine, 1880; Sulle sorgenti del Torre, «La Patria del Friuli», 5 Agosto 1880; — Pestalozza (A.), Sullo stato attuale dei canali del consorzio Ledra-Tagliamento, Udine, 1881; — Min. Dei Lav. P., Cenni ecc. comp. in occ. dell'Espos. di Milano, 1881, Roma, 1881; — Nallino(G.), Saggio analitico dell'acqua delle sorgenti del Torre, «Cron. S. A. F.», 1881; — Vicentini (R. A.), Sulla irrigazione e bonifica dei terreni posti sulla sponda destra del fiume Isonzo, Trieste, 1882; — Broili, Compimento in muratura della Pescaja del consorzio Rojale di Udine, Udine, 1884; — Min. Dei Lav. P., Cenni ecc. compil. in occas. dell'Espos. di Torino 1884, Roma, 1884; — Valussi (P.), Riassunto descrittivo della provincia del Friuli sotto l'aspetto naturale ed economico, «Annali d'Agric.», 1885, Roma, 1885; — Markus (A.), Sul progetto d'irrigazione dell'Agro Monfalconese, Gorizia, 1886; — Mantica (N.), Controsservazioni sul progetto di un canale d'irrigazione dell'agro Monfalconese, Udine, 1887; — Puppati (G.), Rendiconto morale-tecnico economico del nuovo acquedotto della città di Udine derivato dalle sorgenti di Zompitta a tutto l'anno 1892, Udine, 1893; — Tellini (A.), I pesci e la pesca d'acqua dolce in Friuli, «Ann. Ist. Tecn. Udine», 1895; — Lorenzi (A.), Il lago di Ospedaletto nel Friuli, «In Alto», 1897; — Min. Di Agr. Ind. E Comm., Carta Idrografica d'Italia, Relazioni, Veneto, Roma, 1897; — Croci (A.), Il fiume Tagliamento e la sistemazione dei suoi tronchi inferiori, «Giornale del Genio Civile», 1899; — Rizzani (G. B.), Opere economiche di difesa lungo i torrenti, Ivi, 1900; — Tellini (A.), Le acque sotterranee del Friuli e la loro utilizzazione, «Ann. Ist. Tecn. Udine», 1898-1901; — Tonini (V.), Inventario delle forze idrauliche della provincia di Udine, Udine, 1903; — Musoni (F.), Il lago di S. Daniele del Friuli, «Mondo Sotterraneo», II-III, 1906-1907; Le sorgenti della valle media del Natisone, «Mondo Sotterraneo», IV, 1907-1908; — Fratini (F.), L'acqua della sorgente Mòntina in comune di Torreano da servire per l'acquedotto di Premariacco (Udine), «Mondo Sotterraneo», IV, 1908; — Musoni (F.), La regione sorgentifera del fiume-torrente Natisone, «Mondo Sotterraneo», V, 1908; — Frattini (F.), L'acqua della sorgente Fontanate in comune di Nimis (Udine), Ivi; — De Toni (L.), Progetto per l'acquedotto consorziale del Rio Gelato, Udine, 1908; — Tellini (A.), Relazione geologica sopra la sorgente Pojana, Cividale, Stagni, 1908; — Paoletti (G.), De Paciani (E.), Granzotto (U.), Intorno a nuovi studi sulla possibilità di toglier l'acqua dalla fonte Pojana in territorio italiano, Cividale, Fulvio, 1908; — Musoni (F.), La sorgente Naklanz e le altre due, l'Arpit e la Pojana, «Patria del Friuli», 24, X, 1908; — Fratini (F.), La dibattuta questione dell'acquedotto Naklanz, Ivi, 31, X, 1908; — Camurri (L.), L'acqua della sorgente Naklanz, «Il Paese», 20, XI, 1908; — Feruglio (G.), Una ultima parola sulla Naklanz e la Pojana, «Patria del Friuli», 19, XII, 1908; — Lorenzi (A.), Intorno alla caratteristica idrografica della pianura pedemorenica del Friuli, «Riv. Geogr. It.», 1909; — Fratini (F.), L'acqua della falda acquea sotterranea del Torre raccolta con speciale galleria filtrante per l'acquedotto di Povoletto. L'acqua ecc. per l'acquedotto di Segnacco, «Mondo Sotterraneo», 1909; — Marinelli (O.) Les conditions hydrologiques du Frioul, «La Géographie», XX. n. 2, 15 Agosto 1909.

34. Qui si prescinde dalle condizioni artificiali create dopo la costruzione del canale Ledra-Tagliamento di cui si dirà in seguito.

35. Che le condizioni idrologiche del campo di Osoppo sieno identiche, come già s'avvertì nel capitolo precedente (pag. 37), a quelle della pianura friulana, che esso riproduce in iscala minore, risulta anche dal fatto ricordato dal Tellini, che «dove esiste la presa del rio Gelato (vedi su di esso quanto si dirà in seguito), approfondendo di qualche metro tubi di ferro, si ebbe acqua saliente».

36. I dati di lunghezza dei fiumi sono quasi tutti tratti dallo scritto di G. Marinelli citato nella nota bibliografica, quelli di aree dei bacini da varie fonti; solo nei casi in cui non si trovarono siffatti elementi s'eseguirono misure col curvimetro e planimetro sulle tavolette dell'Istituto Geografico Militare e sulla carta austriaca al 75 mila. I dati risultano quindi poco omogenei e di diverso valore, ma non credemmo prezzo dell'opera rifare tutte le determinazioni, specialmente sapendo imminente un lavoro simile da parte del Magistrato delle acque e ritenendo sufficiente per lo scopo nostro l'approssimazione dei valori accettati.

37. Si badi che questi valori di portata rappresentano non solo l'acqua che naturalmente raccoglie il Ledra, ma anche quella (meno però di 1 mc.) che ad esso porta la roggia di Gemona, alla quale si accennerà in seguito.

38. Emissario del L. di S. Daniele è il così detto Repudio; degno di nota è il fatto che questo durante i periodi di siccità, anzichè uscire dal lago, v'affluisce, portandovi l'acqua del Toia.

39. Si badi che sebbene il Torre abbia alveo che prosegue fino all'Isonzo, non solo manca generalmente la continuità del corso superficiale, ma è probabile, come notò il Tellini «che una parte delle sue acque sotterranee prendano, come le rogge le quali ne furono derivate, una via diversa da quelle di piena, cioè più occidentale e vengano ad alimentare le sorgenti che nascono a mezzodì di Palmanuova e che formano poi il fiume Ausa-Corno». Si aggiunga che la continuità idrografica manca, non solo fra Torre ed Isonzo (per circa 35 km.), ma anche fra Malina e Torre (per circa 10 km.), fra Natisone e Torre (per circa 8), fra Corno di Dolegnano e Judri (per circa 7), fra Judri e Torre (per circa 10).

40. Il bacino del Torre a monte della sua confluenza col Natisone, secondo i dati ufficiali austriaci, ha una estensione di 441 kmq.; l'intero bacino del Torre è, secondo la medesima fonte, esteso 1105 kmq.

41. Da qualcuno si ritiene però che il Torre a Tarcento in siccità straordinarie sia sceso anche sotto 1 mc. per secondo.

42. Si stima che questa portata abbia raggiunto il Torre a Tarcento nella notte fra il 6 ed 7 ottobre 1909. La piena è stata causata da un vero nubifragio limitato alla zona prealpina.

43. Il bacino del Natisone a monte della confluenza col Torre, ha, secondo i dati ufficiali austriaci, un'area di 337 kmq.

44. Sulle piene più notevoli del Torre e del Natisone vedi: Ciconi (G. D.), Sulle principali inondazioni del Friuli, in «Strenna Friulana» per l'anno 1855; Antiche inondazioni in Cividale, «Foro giulio», numero unico a beneficio degli inondati, 11 nov. 1882, Cividale, 1882; Dal Torso (F.), Una inondazione del Torre nel 1724, «Pag. Friulane», VIII, 1895, pag. 97 e seg.

45. Secondo i computi di G. Marinelli la lunghezza del Torre fino alla confluenza del Natisone sarebbe di km. 49, anzichè 47 ed il corso totale di 68.

46. Secondo le misure di G. Marinelli la lunghezza complessiva del Natisone (compreso il ramo sorgentifero iniziale, cioè il R. Bianco) sarebbe di 60 km. Il R. Bianco è lungo effettivamente circa 5 km.

47. Col nome di Chiarò si designano due corsi d'acqua, cioè il Chiarò di Torreano e quello di Prestento o Sclesò; qui ci si riferisce al primo, come più importante.

48. Tuttavia fra Caporetto e Gorizia la pendenza del fiume non è maggiore in media del 4 per mille, inferiormente è di poco più dell'1 per mille.

49. Secondo i dati del Servizio Idrografico austriaco il bacino dell'Isonzo sarebbe esteso: a monte della confluenza con l'Idria kmq. 630, a monte della confluenza del Torre 2290 kmq., alla foce 3457 kmq. Il bacino complessivo del Tagliamento secondo i dati ufficiali italiani ha un'area di 2390 kmq.: quindi è molto meno esteso di quello dell'Isonzo.

50. Nel capitolo precedente (pag. 29 e pag. 33) fu già data la bibliografia relativa ai fenomeni carsici nella regione considerata, e nella nota al principio di questo quella relativa a sorgenti ed acquedotti; per quanto riguarda le grotte, si rimanda da un lato agli scritti là citati e dall'altro alle indicazioni che relativamente ad ogni singola caverna saranno date nella parte speciale di questa guida. Fin d'ora però si ricordano, per l'importanza loro: Tellini (A.), Peregrinazioni speleologiche in Friuli, «In Alto», 1898-99; — Coppadoro (A.), Le due Maseriate, Ivi, 1899; — Musoni (F.), La Velika Jama, «Mondo Sotterraneo», 1905; — De Gasperi (G. B.), Visite ad alcune grotte, Ivi, 1908; — Gortani (M.), Avanzi di mammiferi rinvenuti in alcune grotte friulane, Ivi, 1908; — De Gasperi (G. B.), La grotta di Vedronza, Ivi, 1909; Cret dal Landri, Ivi, 1909; La base da l'Ors, Ivi, 1909.

51. Nelle eccezionali può scendere fino ad 8, mentre può salire forse a 50 ed oltre nelle piene.

52. Tuttavia da sorgenti che sgorgano nella cerchia morenica fu derivato il vecchio acquedotto di Udine e quello di Feletto-Umberto. Il primo, che ha la presa nei pressi di Lazzacco, ora è quasi abbandonato; il secondo, che s'inizia sulle colline di Leonacco superiore, funziona ancora; ma manca d'acqua nei periodi più caldi e meno piovosi dell'anno.

53. La prima proposta di incanalare le acque del Ledra e del Tagliamento per l'irrigazione delle aride pianure del Friuli fu fatta nel 1457 dal nobile Nicolò di Maniago al consiglio minore di Udine. Ma, come scrive G. Occioni Bonaffons, «quella volta il Consiglio maggiore vi si oppose. Nel 1487 due luogotenenti ripresero il progetto, e già erasi cominciata la escavazione, quando il Parlamento della Patria, cioè la rappresentanza provinciale, negò il suo voto all'opera benefica, e la Signoria, sconfessando l'operato dei suoi luogotenenti, diede ragione al Parlamento. Invece nel 1527, per la viva opposizione dei gemonesi, non ebbe seguito un più modesto progetto, sebbene lo approvasse la Signoria, presso la quale s'erano recati all'uopo il co. Gerolamo Savorgnano e il dott. Giacomo Florio. Così passarono parecchi lustri, finchè nel 1592 il famoso ingegnere militare e generale delle artiglierie, conte Giulio Savorgnano, ripropose da Venezia al consiglio della città di Udine la escavazione del canale, ma anche questa volta senza esito alcuno. «Prima del moderno definitivo trionfo della buona causa, il progetto, di cui è parola, era stato rimesso in piedi nel 1666 dall'ingegnere Giuseppe Benoni, e finalmente nel 1829 il professore Giambattista Bassi ne fece lettura e proposta concreta all'Accademia udinese. In proposito cfr. oltre gli scritti relativi ai moderni progetti sul canale Ledra-Tagliamento citati in precedente nota bibliografica: Girolamo Savorgnano, Scrittura sull'incanalamento del Ledra, per Nozze Occioni-Crisicopulo, Udine, Seitz, 1876; Rapporto alla signoria di Venezia nel 1488 per l'alveo del Ledra, per Nozze Di Colloredo-Manin, Sandaniele, Pallarini, 1877; Atto sulla condotta del Tagliamento in Udine, per Nozze De Chantal-Braida, Milano, Rechieidei, 1884; Marcotti, Il Ledra, in «Bull. Ass. Agr. Fr.», numero unico, nel 50º della fondazione, Udine, 1895.

54. Il canale principale del Ledra fino oltre la ferrovia a mezzodì di Udine (distacco del canale di Castions) è lungo km. 34.7; la portata del primo tronco del canale principale è di mc. 17-12 e diminuisce man mano per modo che ad Udine è ridotta a mc. 4. Le derivazioni principali sono quelle di Giavons, di S. Vito di Fagagna, di Martignacco, di Passons e di S. Gottardo. Quest'ultima alimenta le così dette rogge di Udine e di Palma con 12 mc. per ciascuna. A valle della ferrovia, dopo la derivazione di Castions, il canale continua, col nome di canale di Palma, che a circa 5 km. si divide nei due di Trevignano e di S. Maria.

55. Si sta ora provvedendo al trasporto dell'attuale presa ad Ospedaletto, con che lo sviluppo del canale sussidiario del Ledra sarà aumentato di km. 2.3.

56. «Annali del R. Istituto Tecnico di Udine», Serie II, anno VII, 1889; anno XXIV, 1905. Udine, Tip. Seitz e Del Bianco.

57. Tellini (A.), Sulle stazioni meteoriche nuove o riattivate in Friuli, «Bollettino Mensuale della Soc. meteorol. It.», nn. 11-12, anno 1903, Vol. XXIII, Torino, 1905.

58. Inverno si considera il periodo dicembre, gennaio, febbraio; Primavera marzo, aprile, maggio; Estate giugno, luglio, agosto; Autunno settembre, ottobre, novembre.

59. Tellini (A.), Carta delle pioggie nelle Alpi Orientali e nel Veneto, «Atti dell'Ist. Ven. di Scienze Lettere ed Arti», Anno accademico 1904-05, Tomo LXIV, parte II, pag. 149 e Carta delle nevi delle Alpi Orientali e del Veneto, Udine, 1905.

60. Trattano della flora delle Prealpi Giulie: P. Arduino, Animadversionum botanicarum specimen alterum, Venetiis, 1764; — N. T. Host, Synopsis plantarum in Austria provinciisque adiacentibus sponte crescentium, Vindobonae, 1797; — [P. de Suffren], Principes de botanique etc. Venise, 1802: — G. Mazzucato, Viaggio botanico alle Alpi Giulie, Udine, 1811; — N. T. Host, Flora austriaca, Viennae, 1827-31; — Koch, Synopsis florae Germanicae etc., Francofurti, 1836-39; — M. Tommasini, Ausflug auf den Berg Matajur, «Flora», XXV, 2, 1842; — G. A. Pirona, Florae forojuliensis Syllabus, Utini, 1855; — G. A. Pirona, Vocabolario botanico friulano, Udine, 1862; — F. Krašan, Beiträge zur flora der Umgebung von Görz, «Oesterr. botan. Zeitschr.», 1863-65; — R. de Visiani e P. A. Saccardo, Catalogo delle piante vascolari del Veneto, «Atti R. Istit. Veneto», (3) XIV, 1868-69; — F. Krašan, Anschlusse an die Flora von Görz, «Oesterr. bot. Zeitschr.», 1870; — C. Marchesetti, Una passeggiata alle Alpi Carniche, Trieste, 1877; — F. Krašan, Vergleichende Übersicht der Vegetationsverhältnisse der Grafschaften Görz und Gradisca, «Oesterr. bot. Zeitschr.», 1880; — A. Kerner de Marilaun, Schedae ad floram exsiccatam austro-hungaricam, I-VII, Vindobonae, 1881-96; — T. Caruel, Note di una corsa botanica nel Friuli, «N. Giorn. bot. ital.», 1886; — E. De Toni, Note sulla flora friulana, I-II, «Cron. S. A. F.», 1886-88; III, «Malpighia», 1889; IV, «Atti Acc. Udine», 1895; — F. Del Torre, Crittogame del Cividalese, Udine, 1890; — P. Bolzon, Contribuzioni alla flora veneta, I-XII, «Boll. Soc. botan. italiana», 1896-1905; — A. Fiori, G. Paoletti, A. Béguinot ecc., Flora analitica d'Italia, Padova, 1896-1908; — A. Lorenzi, Il lago di Ospedaletto, «In Alto», 1897; — P. Bolzon, Supplemento generale al Catalogo delle piante vascolari del Veneto, «Atti R. Ist. Ven.», (7) IX, 1897-99; — G. Crichiutti, Piante raccolte sul M. Quarnan, «In Alto», 1898-99; — E. Pospichal, Flora des Oesterreichischen Küstenlandes, Leipzig, 1897-99; — A. Lorenzi, Prime note geografiche sulla flora dell'anfiteatro morenico del Tagliamento e della pianura friulana, «Malpighia», 1901; — M. Gortani, Sopra alcune forme di vegetali raccolte in Friuli, «Bull. Soc. Bot. ital.», 1903; — A. Lorenzi, Schizzo fitogeografico della collina di Buttrio, «In Alto», 1904; — A. Lorenzi, La sorgente del Clapuçç presso Ruttars nel Coglio, «In Alto», 1905; — M. Minio, Erborazioni nel bacino medio del Natisone, «N. Giorn. bot. ital.», 1905; — A. Béguinot, L'area distributiva di Saxifraga petraea, «Atti Acc. Sc. Ven.-trent.-istr.», 1905; — L. E M. Gortani, Flora friulana con speciale riguardo alla Carnia, Udine, 1905-06; — A. Fiori, A. Béguinot, R. Pampanini, Schedae ad floram italicam exsiccatam, I-X, «N. Giorn. bot. ital.», 1905-08; — G. Paoletti, La flora del lago di San Daniele, «Mondo Sotterr.», Udine, 1907; — G. V. Beck, Vegetationsstudien in den Ostalpen. I. Die Verbreitung der mediterranen, illyrischen und mitteleuropäisch-alpinen flora im Isonzo-Tale, «Sitzb. k. Ak. Wiss. Wien», CXVI, 1, 1907; — G. v. Beck, Bemerkungen über Cerastium subtriflorum Reich. und C. sonticum n. sp. aus dem Isonzotale, «Oesterr. bot. Zeitschr.», 1908. — Bibliografia e testo si riferiscono alle solo piante vascolari, essendo le cellulari quasi del tutto ignote.

61. Le 1250 specie di piante vascolari spontanee delle Prealpi Giulie Occidentali sono i 71100 di quelle viventi nell'intera regione friulana (1762); le 500 varietà e forme sono invece appena i 40100 (in tutto il Friuli 1615). Tali cifre, che tolgo dall'ultimo censimento delle piante friulane, compilato da mio Padre e da me, non potrebbero oggi subire che modificazioni lievissime.

62. L'espressione non è esagerata, quando si rifletta che le 1250 specie segnalate con sicurezza in un territorio relativamente così ristretto sono i 310 delle specie italiane, quali risultano dalla Flora Analitica di A. Fiori, G. Paoletti, A. Béguinot.

63. Secondo il v. Beck, il Colle di Medea sarebbe occupato dalla flora illirica, mentre la flora mediterranea comparirebbe in massa sulle alture di Cormons, di Podgora e di Quisca (monte Sabotina), ove secondo me non si hanno invece che relitti più o meno numerosi. Non è qui il luogo di discutere tale questione; per ora noto soltanto, a scanso di equivoci, che per vegetali caratteristici della flora mediterranea intendo quelli propri di tutti i littorali circummediterranei epperò anche della penisola balcanica), mentre non posso considerare tali le piante che in Italia si trovano comunemente anche nell'ambito della flora submontana.

64. Interessano la fauna del nostro territorio i seguenti scritti: Laurenti (I. N.), Specimen medicum exhibens sinopsin reptilium emendutam. Vienna, 1768 (contiene forse le più antiche notizie su anfibi e rettili delle Prealpi Giulie); — Prada (T.), Catalogo dei gasteropodi terrestri della valle dell'Isonzo, «Giorn. dell'Istit. Lombardo», III, 1852; — Pirona (G. A.), Voci friulane significanti animali e piante, Udine, Tip. Trombetti e Murero, 1853; — De Betta (E.), Erpetologia delle provincie venete, Verona, 1857; — Pirona (G. A.), Animali [di Gemona e distretto] nel Cap. IV della pubblic. «Gemona e il suo distretto», Venezia, 1859; — Nardo, Prospetto sistematico degli animali delle provincie venete, «Atti Ist. Veneto», Venezia, 1860; — Pirona (G. A.), Prospetto dei molluschi terrestri e fluviali finora raccolti in Friuli, «Atti dell'Istituto Veneto», serie III, vol. X, 1865; — Ninni e Saccardo, Commentari della Fauna Flora e Gea del Veneto e del Trentino, Venezia, 1869; — De Betta (E.), Malacologia veneta, «Atti del R. Ist. Veneto», vol. V. ser. III, 1870; — Pirona (G. A.), Relazione intorno alla pesca di lago e di fiume nella prov. di Udine, «Annali del Min. di Agricolt.», vol. II, p. I, pag. 538-568, Genova, 1874; — La provincia di Udine sotto l'aspetto storico-naturale, «Cronaca del R. Liceo Stellini per l'anno 1875-76», Udine, 1877; — Erjavec, Molluschi della contea di Gorizia, 1877; op. riassunta dal Kobelt, Studien zur Zoogeographie, 1897, pag. 293; — De Betta (E.), Sulla Vipera ammodite nell'Italia, «Atti dell'Istit. Ven.», ser. V, Tomo V, 1879; — Sulla distribuzione geografica dei serpenti velenosi in Europa, «Atti Ist. Ven.», ser. IV, Tomo VI, 1880; — Camerano (L.), Monografie dei rettili ed anfibi italiani, pubbl. nelle «Mem. della R. Accademia delle Scienze di Torino», tomi 35, 36, 37, 39, 41; — De Betta, Terza serie di note erpetologiche, «Atti dell'Ist. Veneto», serie VI, tomo I, 1888; — Sulle diverse forme della Rana temporaria in Europa, «Atti d. Ist. Ven.», 1885; — Ninni (E. P.), Sopra le Ranae fuscae del Veneto, «Atti R. Ist. Ven.», serie VI, Tomo III, 1885; — Cenno critico sopra il recentissimo scritto del Comm. De Betta sulle diverse forme etc. «Atti Soc. Ital. di Scienze Natur.», vol. XXXIII, 1886; — Vallon (G.), Note sull'avifauna del Friuli, «Boll. Società Adriatica di Scienze naturali», IX, 2. 1886; — Pollonera (C.), Molluschi della valle del Natisone, «Boll. Soc. Malacol. Ital.», vol. XII, 1886; — De Betta, Sulla questione delle rane rosse in Europa, «Atti dell'Ist. Veneto», tomo V, serie VI, 1887; — Pirona, Nuove catture di Vipera ammodite in Friuli, «Atti Ist. Ven.», ser. IV, vol. VI, 1888; — Tacconi (G.), Le libellule del Friuli, «Boll. Assoc. Agr. friul.», Udine, 1888; — Pollonera (C.), Un nuovo Zospeum italiano, «Boll. d. Soc. Malacologica Ital.», vol. XVI, 1889; — Senna (A.), Escursione zoologica a due laghi friulani, «Boll. della Soc. Entomologica Italiana», 1890; — Leskovic (S.), La grotta di Villanova, «In Alto», 1892; — Mariani (F.), Contributo alla fauna del Friuli [Aracnidi], «In Alto», III, 1892; — Tacconi, La fauna [del Canal del Ferro]. Guida del Canal del Ferro, p. 73-99, 1893; — Lazzarini (A.), Catalogo di coleotteri friulani, «In Alto», V e VI, 1894-95; — Tellini, I pesci e la pesca d'acqua dolce in Friuli, «Annali Istituto Tecnico di Udine», XIII, 1895; — Lazzarini (A.), Catalogo di ortotteri e neurotteri del Friuli, «Pastorizia del Veneto», nn. 20-23, Udine, Doretti, 1886; — Lorenzi (A.), Una visita al laghetto di Cima Corso, «In Alto», Cronaca d. Società Alpina friulana, Udine, 1896; — Glowacki (Julius), Die Fischfauna der Save und des Isonzo. Eine Studie über die Süsswasserfische unserer Heimat, «I. Jahresbericht des kk. Staatsgymnasiums in Cilli», Cilli, 1896; — Lazzarini, Anfibi e rettili del Friuli, «Pagine friulane», 1897; — Lorenzi (A.), Esistenza di una fauna profonda nel lago di Cavazzo, «In Alto», Udine, 1897; — La fauna dei laghi del Friuli, «In Alto», Udine, 1897; — Il lago di Ospedaletto nel Friuli, «In Alto», Udine, 1897; — Tellini (A.), Il gabinetto di storia naturale del R. Istituto Tecnico «A. Zanon» in Udine, «Annali del R. Istituto Tecnico di Udine», serie II, anno XIV, 1896; — Lorenzi (A.), Prime osservazioni zoologiche sulle acque freatiche del Friuli, «In Alto», 1898; — De Toni (E.), Note sulla flora e fauna veneta e trentina, «Atti dell'Accademia di Udine», ser. II, anno V, 1898; — Scotti (L.), La distribuzione dei pesci d'acqua dolce in Italia, Roma, «Giornale italiano di pesca e acquicoltura», n. 1-6, 1898; — Pollonera (C.), Intorno ad alcune conchiglie del Friuli, «Bollettino dei Musei di Zoologia ed Anatomia comparata di Torino», n. 334, 1898; — Lazzarini, La fauna (della Carnia). Nella «Guida della Carnia», I ediz., 1898; — Tellini (A.), Peregrinazioni speleologiche nel Friuli, «In Alto», Cron. Soc. Alpina friulana X e XI, 1898-1899; — Lorenzi (A.), Note zoologiche sul pozzo di Pozzuolo nel Friuli, «In Alto», 1900; — Per la faunistica friulana: presenza in Udine dell'Orchestia gammarellus, «In Alto», 1900; — Vallon (G.), Intorno alla nuova specie di civetta scoperta nel Friuli, «Atti Accad. di Udine», ser. 3ª, vol. VIII, Udine, 1901; — Fauna ornitologica friulana, «Boll. Soc. Adriatica di Scienze Naturali», XXI, Trieste, 1902; — Lorenzi (A.), La collina di Buttrio nel Friuli, «In Alto», annate 1902, 1903, 1904 e particolarmente l'ultima; — Alcune notizie biologiche sul laghetto di Cornino, «In Alto», 1904; — Feruglio (G.), Spelaeosphaeroma julium. Nuovo crostaceo isopodo cavernicolo, «Mondo sotterraneo», I, 1904; — Pollonera (C.), I Zospeum italiani, «Proteus», Rivista di Biologia sotterranea, Bologna, 1905; — Mei (Lea), Ortotteri del Friuli, «Bollett. dei Musei di zoologia ed anatomia comparata della Univ. di Torino», n. 510, vol. XX, 1905; — Gortani (M.), Saggio sulla distribuzione geografica dei coleotteri in Friuli, «In Alto». ann. XVI e XVII (1905-1906); — Gozo (A.), Gli aracnidi di caverne italiane, «Boll. Soc. Entomol. Italiana», XXXVIII (1906), 1908.

65. Per ragioni di spazio, ometto i nomi degli autori: per comodo degli studiosi, particolarmente dei principianti e dei dilettanti, avvertiamo che per i mammiferi ci riferiamo al Compendio della fauna italiana dei prof. Camerano e Lessona; per gli uccelli alla seconda Avifauna italica del Giglioli (1907), per i rettili e gli anfibi al De Betta e al Camerano e particolarmente al citato Compendio, per i pesci alla fauna del Canestrini. Nella bibliografia, che non è tutta quella consultata, per economia di spazio, si evitarono inutili sfoggi di erudizione: un ricco elenco bibliografico per i vertebrati del Veneto si troverà nella memoria dell'Arrigoni sulla fauna padovana («Atti della Soc. Veneto-Trentina di Scienze Naturali», serie II, vol. II, fasc. I, 1895, pag. 44-81). Le specie di invertebrati sono seguite dal nome dell'autore se per il Friuli sono inedite; negli altri casi, mi riferisco ai lavori speciali sul Friuli citati nell'elenco, che in ogni caso fu, di proposito, ristretto ai soli lavori puramente regionali.

66. Questo fatto è complicato nelle Prealpi nostre col generale abbassamento dei limiti altimetrici delle specie animali e vegetali componenti le attuali associazioni biologiche e provenienti da centri dispersivi ben diversi, e con la presenza di specie (piante, entomostraci, coleotteri e molluschi) propri del versante alpino settentrionale. Che una specie animale o vegetale sia un relitto glaciale non può stabilirsi se non con l'attento esame delle affinità sistematiche delle aree di distribuzione e dei centri di origine, dei documenti paleontologici. Le difficoltà di distinguere tra i fenomeni di cui si parla non sono nè piccole nè poche; ma non sarebbe questa una buona ragione per confonderli insieme, classificando tra i relitti glaciali delle specie schiettamente pontiche o orientali solo perchè trovate in luoghi poco elevati sul mare.

67. Non ripetiamo qui le considerazioni svolte al cap. V, § 5 («In Alto», 1904), della Collina di Buttrio. Un esempio di minuta indagine entomogeografica, condotta con rigore di metodo, è il citato saggio del prof. M. Gortani.

68. Intendonsi qui col nome di edafiche, per analogia con la nomenclatura fitogeografica, le particolari condizioni locali determinanti le stazioni delle specie, quali le qualità fisico-chimiche del suolo, il nutrimento disponibile, l'esposizione ecc.

69. Studi orografici nelle Alpi Orientali, § 45 e 55. «Boll. Soc. geografica Ital.», 1900.

70. Vedi A. Virè, «Bulletin du Muséum d'histoire naturelle», Paris, 1902, n. 2.

71. Come si è già altrove avvertito qui si considerano specialmente i cinque distretti di Cividale, S. Pietro, Tarcento, Gemona e S. Daniele.

72. Archivio di Stato di Venezia, Cod. Miscell., 125.

73. Arch. di Stato, Cod. idem.

74. Bevölkerungsgeschichte der Republik Venedig, Estr. dai «Jahrbüchern für Nationalökonomie und Statistik», Jena, 1889, pag. 13.

75. Queste cifre sono ricavate da una Relazione anonima della Patria del Friuli, Arch. di Stato in Venezia, Segreta, Filza 49. Cifre poco differenti relative a singole località ci danno pure un Sommario delle città, castelli, ville et anime che sono in terraferma sotto l'ill.ma Signoria di Venezia (senza indicazione dell'anno, ma certo di quell'epoca) in un Codice Contarini della Bibl. di S. Marco (Cod. ital. Cl. VII 924); inoltre tre Codici Cicogna del Museo Correr, cioè 2177 (1880), 1316 (1440), 1315 (1070). Finalmente dati parte coincidenti, parte alquanto differenti dai sopraindicati ci dà un codice manoscritto della Bartoliniana di Udine, senza data, nè autore, intitolato: Elenco delle ville e comunità della Patria del Friuli col rilievo delle anime fatto nel 1548.

76. Le cifre relative al 1557 si trovano nella stessa precitata Relazione anonima ecc. aggiuntevi posteriormente, come provano l'inchiostro e la scrittura differenti, da altro autore sui margini delle singole pagine accanto ai dati del 1548, trascrittivi pur essi.

77. Relazione pubblicata per nozze Mangilli-Ronchi. Udine, Seitz, 1875, pag. 10.

78. Intorno a queste relazioni scrisse: Marchesi (V.), Le relazioni dei Luogotenenti della Patria del Friuli. Udine, «Ann. del R. Ist. tecnico», 1897. — Per ciò che riguarda le pestilenze vedi: Alfonso Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, opera in VII volumi, con appendice. Bologna, 1892.

79. Tutte queste relazioni sono conservate unite in apposito cartolario nell'Arch. di Stato in Venezia. Relazioni. Collegio V (Secreta) F. 49. Parecchie di esse furono stampate in varie occasioni: io le esaminai manoscritte per la comodità di averle tutte insieme.

80. Per queste notizie vedi le relazioni precitate dei Provveditori di Cividale del Friuli all'Archivio di Stato.

81. Circa il modo onde eran fatti i censimenti della Repubblica veneta, vedi: Beloch, Bevölkerungsgeschichte ecc., cit.; Cecchetti (B.). Delle fonti della statistica negli Archivi di Venezia, «Atti del R. Ist. ven. di Sc. Lettere e Arti», Serie IV, vol. I, 1871-2; — Contento (A.), Il censimento della popolazione sotto la Repubblica veneta, «Nuovo Arch. Ven.», T. XIX, Parte I, Venezia, 1906; — Morpurgo (E.), Saggi statistici ed economici sul Veneto, Padova, Prosperini, 1868.

82. I dati relativi al Friuli si trovano nel V volume delle Analisi di tutto lo stato della Serenissima Repubblica di Venezia, comandata dell'ecc.mo Senato coi suoi decreti ed eseguita dal Magistrato ecc.mo de' signori deputati ed aggionti sopra la provisione del danaro, divisa in cinque volumi. Venezia, Stamperia ducale, 1768. Se ne conservano esemplari, di cui furono impressi solo 7, alla Marciana e all'Archivio di Stato. Altre numerazioni furono ripetute nei successivi quinquenni fino al 1790, ma di essi non si hanno che risultati riassuntivi per larghe circoscrizioni, inseriti a penna sui formulari a stampa. Secondo Emilio Morpurgo (Saggi statistici, ecc., cit.), Cividale e territorio nel 1795 contavano ab. 30609. Vedi anche Romanin, Storia documentata di Venezia, vol. IX, documenti.

83. Vedi Anagrafi ecc. vol. V: Parrocchia SS. Gervasio e Protasio: Comuni: Bergogna, Canal di Grivò, Cergneu di Sotto, Cergneu di Mezzo, Cergneu di Sopra, Chialminis, Monteaperta, Nimis, Remandolo, Taipana, Torlano, Val di Montagna: famiglie 178, anime 991. — D'altra parte vedi: Stato personale del Clero della città e Arcidiocesi di Udine per l'anno 1908. Udine, tip. del Crociato, 1907, pag. 93. Parrocchia dei SS. Gervasio e Prot. Mm. di Nimis: Nimis, Torlano e Valle Montana, Chialminis, Monteaperta, Monteprato, Cergneu, Taipana: anime 8579.

84. Compartimento territoriale delle città, terre, castella, borghi, ville, comuni ed anagrafi della popolazione delle province austro-venete, formate con il fondamento delle note manoscritte spedite dalle province. Archivio di Stato, ms. della Miscellanea C. 12-13.

85. Dipartimentazione dei paesi veneti di nuova aggregazione al Regno d'Italia 22 dicembre 1807. «Bollett. delle leggi del Regno d'Italia», Parte III, n. 283, pag. 1401. Milano, Stamperia Reale.

86. Compartimento territoriale delle province venete approvate definitivamente da S. M. imp. apostol. con sovrana risoluzione 8 febbraio 1818 ecc., ristampata d'ordine della stessa nell'anno 1821 aggiuntevi le popolazioni e le classificazioni delle comuni. Venezia, Andreoli, 1821.

87. Il prezzo del frumento che nel 1816 era di lire 39,72 e quello del granturco di lire 22,44, negli anni 1818 e 1819 discese rispettivamente pel frumento a lire 10,86 e 9,76, pel granoturco a lire 7,65 e 4,64 (V. Quadri, Atlante di LXXXII tavole sinottiche relative al prospetto statistico delle province venete. Venezia, Franc. Andrea, 1827).

88. Vedi Ciconi, Udine e sua provincia, Trombetti e Murero, 1862.

89. Queste misure furono eseguite col planimetro sulle carte al 25.000 dell'Ist. Geogr. Mil. con tutte le precauzioni necessarie. Non mi potei servire dei dati ufficiali perchè poco attendibili.

90. Statistica integrale delle colture e dei prodotti agrari nella provincia di Udine, Roma, tip. Bertero, 1908, pag. 32.

91. L'area dei comuni risulta da mie determinazioni. Cfr. in proposito la nota 1 a pag. 118.

92. Secondo i dati ufficiali austriaci essi vanno così ripartiti fra i singoli comuni:

  Superficie in kmq. Densità per kmq.
 
Bigliana 9,59 269
Brazzano 4,92 397
Dolegna 12,84 223
Cosbana 20,77 123
Medana 6,82 143
S. Martino 28,85 302
Podgora 22,51 346
S. Floriano 13,41 355

93. Musoni (F.), Le sedi umane nel bacino medio del Natisone (Friuli). «Scritti di geografia e di storia della geografia pubblicati in onore di Giuseppe Dalla Vedova», Firenze, Ricci, 1908, pag. 79-103.

94. Lorenzi (A.), La collina di Buttrio, cit.

95. Musoni (F.), Sull'emigrazione, specialmente temporanea, dal Veneto e più particolarmente dalla provincia di Udine, «Atti del III Congresso geogr. italiano», Milano, 1901.

96. Ministero di Agr. Ind. e Comm., Direzione generale di Statistica. Statistica dell'emigrazione italiana per l'estero, fino all'anno 1907, inclusive. Roma. G. Civelli.

97. Confr. le accennate Statistiche ecc. del Ministero di A. I. e C.

98. Picotti (F.), L'intensità del fenomeno migratorio nel circondario di Udine, «Patria del Friuli», 28 ottobre 1909. — Altri articoli sullo stesso argomento scrisse il Picotti nei numeri 27-28-31 ottobre e 6-7-10 novembre della stessa «Patria del Friuli».

99. Cosattini (G.), L'emigrazione temporanea nel Friuli, Roma, Bertero, 1903, pag. 32.

100. Antropometria militare (Classi 1859-63), Parte I. Roma, 1896.

101. Relazione cit.

102. Pirona (G. A.), Relazione del Consiglio Sanitario provinciale al Ministero dell'Interno intorno alle condizioni igienico-sanitarie della Provincia di Udine, Udine, Bardusco, 1888.

103. Sono dedotte dalle Tabelle delle infermità ed imperfezioni che motivarono la riforma degli inscritti appartenenti alle predette leve, presso la R. Prefettura di Udine.

104. Il vizio del bere sembra fosse diffuso in Friuli fin dal sec. XVI. Il Luogotenente Stefano Viaro (Relazione cit.) scriveva nel 1599 che in Udine erano innumerevoli bettole, nè vi aveva strada che non ne contasse almeno due. — Da un'inchiesta ufficiale fatta in provincia di Udine a cura del Consiglio sanitario provinciale nel 1907 risulta che l'alcoolismo è in aumento — per ciò che riguarda la nostra zona — nei comuni di Treppo, Nimis, Ciseriis, Artegna, Montenars, Cividale, Faedis, Osoppo, Ragogna, S. Daniele, Moruzzo, Corno di Rosazzo: immune ne è tutto il distretto di S. Pietro al Natisone, eccetto alquanto il Drenchiotto (vedi Relazione del dott. G. Antonini).

105. Statistica degli alienati raccolti durante il 1907 nel Manicomio provinciale di Udine dai distretti di:

S. Daniele 32 di cui 3 per pellagra, 2 per alcoolismo, 0,89 ‰ ab.
Cividale 34 » 2 » 2 » 0,70 ‰ »
Gemona 16 » 2 » 2 » 0,58 ‰ »
Tarcento 20 » 2 » 1 » 0,46 ‰ »
S. Pietro 7 » » » 0,42 ‰ »

Da Antonini (E.), Relazione alla Deputazione provinciale sull'andamento del manicomio di Udine pel 1907, Udine, 1908.

106. G. B. Cantarutti, L. Perissutti, La Pellagra in Friuli nell'anno 1904. — Secondo informazione avuta dal medico provinciale prof. cav. Fortunato Fratini, nel 1908 il numero dei casi era ancora diminuito per S. Pietro (0), Tarcento (47), Gemona (49); ma notevolmente aumentato per Cividale (204) e S. Daniele (295).

107. Zorzi (A.). Notizie, Guida e Bibliografia del R. Museo Archeologico, Archivio e Biblioteca di Cividale del Friuli, Cividale, Fulvio, 1899.

108. Taramelli (T.), Di alcuni oggetti dell'epoca neolitica rinvenuti in Friuli, «Annali Ist. Tecn. Udine», Anno VII, 1873, da pag. 41 a 70 e: Di alcuni oggetti di pietra lavorata in Friuli, «Atti del R. Ist. ven. di S. L. e A.», Vol. III, Serie IV, 1874.

109. Marinelli (O.), Un'ascia preistorica, «Pagine friulane», 1893.

110. Gregorutti (C.), Iscrizioni inedite aquileiesi, istriane e triestine, «Archeogr. triest.», Nuova Serie, Vol. XIII, pag. 120 e seg.

111. Per queste ed altre notizie vedi Musoni (F.), La Velika Jama, grotta e stazione neolitica in distretto di S. Pietro al Natisone, «Mondo Sotterraneo», anno I, 1905.

112. Tellini (A.), Peregrinazioni speleologiche nel Friuli. «In Alto». Anno X, 1899, pag. 38. — I materiali neolitici di queste due grotte sono conservati presso i musei di Udine (Robic e Velika Jama) e di Cividale (Velika Jama).

113. Marinoni (C.), Bronzi preistorici del Friuli, «Atti della Soc. di Sc. Nat.», Milano, 1874; — Leicht (M.), L'età del bronzo nella valle del Natisone, «Atti del R. Ist. Ven. di Sc. L. e A.», 1874. — Un'ascia di bronzo venne trovata a Gabrovizza (distretto di San Pietro); un coltello, pure dell'età del bronzo, presso Tarcento; altri bronzi lavorati a Madriolo, presso Cividale, portati al Museo di Roma.

114. Pigorini, Note paletnologiche friulane, «Boll. di Paletnol. ital.», Anno VI, fasc. 7 ed 8 del 1880; — Marchesetti, Relazione degli scavi preistorici eseguiti nel 1889, «Boll. della Soc. di Sc. Nat.», Vol. XXI, Trieste, 1890; — Grion (G.), articolo in «Forumjulii», Cividale, 20 nov. 1897.

115. Vedi in proposito Pellegrini, in: «Notizie degli scavi di antichità comunicati alla R. Accademia dei Lincei», anno 1909, fasc. 3. — Il Pellegrini ne riferì anche verbalmente al III Congresso delle scienze in Padova (settembre 1909). Negli «Atti» (pag. 567) se ne fa però appena cenno.

116. Su queste necropoli vedasi: Bizzarro in «Mitth. d. k. k. Centralkomm. in Wien», 1880, pag. IX e CLV; — Chierici in «Boll. di paletn. it.», 1882, pag. 121; — Much in «Mitth. d. k. k. Centralkomm.», 1884, pag. CX-CXVIII; — Orsi in «Boll. di paletn. it.». 1884; — e specialmente i magistrali lavori del Marchesetti, La necropoli di S. Lucia presso Tolmino, Trieste, 1886; — Scavi nella necropoli di S. Lucia presso Tolmino, Trieste, tip. del Lloyd austriaco, 1893. Il copiosissimo materiale raccolto dal Marchesetti forma la gloria del Museo di Storia Naturale di Trieste.

117. Gli scavi di S. Pietro e Darnazacco furono praticati sotto la direzione del sig. Alfonsi del R. Museo di Este, del prof. co. R. Dalla Torre, direttore del R. Museo di Cividale, e del prof. Pellegrini, della R. Università di Padova sopraintendente agli scavi e musei della regione veneta.

118. Marchesetti, Scavi nella necropoli di S. Lucia, cit. pag. 319.

119. Marchesetti, I castellieri di Trieste e della regione Giulia, «Atti del Museo civico di Storia Nat. di Trieste», Trieste, 1903, pag. 11.

120. Tellini, Descrizione geologica della Tavoletta di Udine, Udine, Seitz, 1900, pag. 20-21.

121. Pellegrini, Notizia degli scavi ecc., cit.

122. Rutar, Beneška Slovenija. Prirodoznanski in Zgodovinski opis, Lubiana 1899, pag. 97.

123. Confr. Vidossich, Studi sul dialetto triestino, «Archeografo triestino», Nuova serie, vol. XXIII e vol. XIV supplemento.

124. Leicht (P. S.), Tracce galliche fra i Carni: «les cidulis», «Memorie storiche forogiuliesi», anno III, fasc. III-IV, pag. 155-6, 1907.

125. Intorno alla dibattuta questione dei Celti in Friuli vedi: Musoni (F.), Sull'etnografia antica del Friuli, Estr. dagli «Atti dell'Accademia di Udine», anno 1900, cap. V.

126. Cfr. Rutar (S.), Poknežena grofija Goriška in Gradiščanska, Izdala Matica Slovenska, Lubiana, 1892, pag. 61-62. Questo autore però commette parecchi errori.

127. Anche a proposito di questi confini vedasi S. Rutar, Beneška Slovenija ecc., cit., pag. 54-56.

128. Sull'appartenenza linguistica ed etnografica degli Slavi d'Italia, «Atti del Congresso storico tenuto in Cividale del Friuli nell'XI centenario di Paolo Diacono», Cividale del Friuli, 1899.

129. Musoni (F.), Il cap. 23 del libro V della «Historia Longobardorum» e gli slavi del Friuli, Ivi.

130. Rutar (S.), Slovenske naselbine na Furlansken, «Ljubljanski Zvon», n. 1 e 11 del 1883, sebbene lo scritto contenga molti errori e sia spesso esagerato nelle conclusioni. — Musoni (F.), I nomi locali e l'elemento slavo in Friuli, in «Rivista geogr. italiana», n. I-II-III del 1897, Firenze, 1897.

131. Musoni (F.), Il 1848 tra il Natisone ed il Judrio, «Pagine Friulane,» 5 maggio, 1898.

132. Fracassetti (L.), La statistica etnografica del Friuli secondo l'ultimo censimento, in «Atti dell'Acc. di Udine», 1902. — Musoni (F.), Tedeschi e Slavi in Friuli secondo l'ultimo censimento, in «Boll. della Soc. geogr. ital.», fasc. III, 1908.

133. Tedeschi e Slavi in Friuli ecc., cit.

134. Itinerario per la Terraferma Veneziana nel 1483, Padova, 1847, pag. 139.

135. «Il Rossiglione (rivo Emiliano) entra nel Natisone subito fuori della porta Bressana, lassando quella parte di esso borgo che è dentro della muraglia nella città et nell'Italia, l'altra parte che è fuori della muraglia in Schiavonia». Arch. di Stato in Venezia, Relazioni, Collegio V (Secreta), F. 49.

136. Beneška Slovenjia, pag. 56.

137. Baudouin de Courtenay (G.), Opit fonetiky rezijanskih govorov, Varsavia, E. Wende e Comp., Pietroburgo, L. E. Cožančikow, 1878; — Rezijanski Katikisis kak priloženie k' «Opitu fonetiki rezijanskih govorov», Varsavia, 1875; — Rezija i Rezijane, «Slavjanskij Zbornik», 1876, 223-371; — Koe-čto po povodu rezjanskoj garmonji (sozvucija) glasnih, «Filologičeskija Zapiski», A. Hovanskago, Voronez, 1876, V, p. 1-16; — Il catechismo resiano con una prefazione del dott. Giuseppe Loschi, Udine, tip. del Patronato, 1894; — Materialen zur südslavischen Dialektologie und Ethnographie, I. Resianische Texte. Pietroburgo, 1895, pubbl. dall'Accademia delle Scienze.

Sullo stesso argomento dei Resiani vedasi, oltre a quanto se ne dice nella seconda parte (Canal del Ferro) di questa guida, Viviani (Quirico), Gli ospiti di Resia, Udine, 1827; — Arboit (A.), Resia, «Giornale di Udine», 1869, n. 213-214; — Bergmann (J.), Das Thal Resia und die Resianer in Friaul, «Jahrbücher der Literatur»; — Das slavische Resia-Thal, «Arch. für Kunde oesterr. G. Q.», Wien, 1849, Bd. II; — Černy (A.), Vudoli Resie, «Slovansky Prehled», Praga, 1899, n. 1-3; — Einspieler, Rezijan, «Solski prijatel», 1856, p. 86-93; — Fiammazzo (A.), I nuovi ospiti di Resia, «Cron. della Soc. Alp. Friul.», 1887-8; — Kociančič (Step.), Rezija in Rezijani, Cvetnik, berilo za slovensko mladino, vredil Janéžič (A.), parte II, Klagenfurth, 1869; — Loschi (G.), Resia. Paesi, abitanti, parlate, saggi di letteratura popolare; — Marinelli (G.), Dei dialetti resiani, Udine, Accademia, 1875; — La valle di Resia e un'escursione al monte Canino, «Boll. del Cl. Alp. Ital.», 1876; — Musoni (F.), Un po' di bibliografia resiana, «Pag. friul.», Anno IV, n. 7, 1891; — La Resia e i Resiani, «Geogr. per tutti», Bergamo, Cattaneo, 1892, anno II, n. 20-21, pag. 306 e seg. e 321 e seg.; — Pišely, Ueber die Slaven im Thale Resia «Slavin», Praga, 1834, pag. 118-124. — Potocky (Jan), Die Slaven im Thale Resia, «Barth. Kopitar's kleine Schriften», herausg. v. Fr. Miklošič, Wien, 1857, pag. 323-330; — Rutar (Simon), Rezija in Rezijani, «Liubljanski Zvon», febbr. 1890, pag. 100 e seg. — Šafarik, O Rezijanah i Furlanskih Slovinah, «Denica, lit. gazeta», 1842, pag. 109-113; — Trinko (I.), Hajdimo v Rezijo, «Dom in Svet.», n. 6, 7, 9, 10, 11, Lubiana, 1907. — Schoultz (De) Adajevski (Ella), Chansons et airs de danse populaires, precédés de textes, recueillis dans la vallée de Resia, Estr. dai «Materialen ecc.», I vol. (vedi più sopra) di Baudouin de Courtenay, Pietroburgo, 1891; — Valente (S.), Sul linguaggio slavo della valle di Resia in Friuli, «Giorn. di Udine», 1868, n. 293.

138. Il prof. Rešetar dell'Università di Vienna mi scriveva recentemente ch'egli non ritiene abbastanza fondata questa opinione: nulla parlata degli Slavi del Torre egli non può riconoscere un dialetto serbo-croato, bensì un dialetto sloveno che in vari punti assai importanti si scosta dagli altri dialetti sloveni, avvicinandosi al serbo-croato. È un fatto però che le relazioni dell'accento vocalico e della quantità delle vocali vi sono totalmente serbo-croate e non slovene.

139. Oblak, Das älteste datirte slovenische Spachdenkmal, «Archiv für slavische Philologie», Berlin, 1891, pag. 192-235; — Strekelj (Karol), O čarneiskem rokopisu, «Lijubljanski Zvon», 1892, pag. 192-235; — Baudouin de Courtenay, Anniversario latino-italiano-slavo del secolo XV e XVI, composto nella regione degli Slavi del Torre, Pietroburgo, tip. dell'Accademia imperiale, 1906.

140. Non so con quanto fondamento il Guyon (B.), (Colonie slave d'Italia, «Studi glott.» diretti da Giacomo De Gregorio. Vol. IV, pag. 123-159) affermi che nella parlata dei Rečanji (abitanti della valle dell'Erbezzo) vi siano più elementi lessicali esotici che non in quella dei Nedis-ci (abitanti della valle del Natisone); e certo arrischiata sembra la sua supposizione che la medesima presenti dei caratteri fonetici derivati dalle lingue finniche e turaniche.

141. Sui dialetti slavi in Friuli e su altri argomenti che li riguardano, oltre le già citate, vedansi le seguenti opere: Ascoli (G.), Studi critici, Gorizia, Paternolli, 1861, pag. 46-49; — Baudouin de Courtenay, Note glottologiche intorno alle lingue slave e questioni di morfologia e fonologia ario-europea, «Atti del IV Congr. intern. d. orient. ten. in Firenze nel sett. 1878». Vol. II, Firenze, 1881, pag. 3-21; — Materialen zur südslavischen Dialektologie und Ethnographie. II. Sprachproben in den Mundarten der Slaven von Torre in Nordost Italien. Pietroburgo, 1904; — O Slawianach we Wloszech, (Ognisko, Varsavia, 1882, pag. 325-334); — O Slavianah v Italii (Ruskaja, Mysl) Mosca, 1893, giugno, pag. 24-46; — Biondelli, Prospetto topografico-statistico delle colonie straniere in Italia, «Studi linguistici», Milano, 1856, pag. 54-56; — Einspieler, Beneški Sloveni, Solski prijateli, 1852, pag. 319-320; — Kociancič Step., Od Benečanskih Slovencov, «Arkiv za poviestnico Jugoslav.», 1854, III, 306-9; — Pigorini-Beri (C.), I nostri confini. Dagli Slavi ai Valdesi, «Nuova Antologia», 1 nov. e 1 dic. 1884; — Podrecca (Carlo), Slavia italiana, Cividale, tip. Fulvio, 1884; — Le vicinie, Cividale, 1887; — Podrecca (A.), Osservazioni circa la lingua slava parlata sulle Alpi del Friuli, Udine, Seitz, 1864; — Sreznevskij J. J., O Friulskih Slavjanah, Moskvitjanin, 1844, IX, 341, 344; — Trinko Ivan, Poceta rozsireni Italstych Slovincu, «Slovanski Prehled», Praga, 1898, n. 1, pag. 44 e seg.; — Beneška Slovenija, «dom in Svet». n. 2, 3, 6, 7, 8, Lubiana, 1898.

142. Musoni (F.), Usi e costumi degli Sloveni Veneti, «Archivio per le tradizioni popolari», Palermo, C. Clausen, 1900; — Idem, La vita degli Sloveni, Palermo, Clausen, 1902; — Idem, Gli studi di folk-lore in Friuli, Udine, Bardusco, 1904; — Trinko (I.), Narodne stvari (Vedomec, divje žene), «Liubljanski Zvon», 1884.

143. Podrecca (C.), Slavia italiana, cit. e: Usi nuziali nella Slavia italiana; in «Secolo» di Milano, n. 28 aprile 1897.

144. Musoni (F.), Sulle condizioni economiche sociali e politiche degli Slavi in Italia, «Atti del IV Congr. geogr. Ital.», Roma, 1896.

145. Ascoli (G.), «Archivio glottol.», Vol. I, pag. 475, Torino Loescher, 1873.

146. Vocabolario friulano, Venezia, 1875.

147. «Arch. Glott.», cit. p. 477-8. Confr. in proposito anche Gartner, Ractoromanische Grammatik, pag. XXXVI, secondo il quale le parlate della nostra zona dovrebbero appartenere a quello ch'egli dice Innerfriaul.

148. Ibidem, pag. 485.

149. Viaggi ladini, Linz, 1882.

150. Confr. Mainati (G.), Dialoghi piacevoli in vernacolo triestino colla versione italiana, Trieste, 1828.

151. Czoernig, Die alten Völker Oberitaliens, Italiker (Umbrer), Rhaeto-Etrusker, Rhaeto Ladiner, Veneter, Kelto-Romanen; eine ethnologische Skizze, Wien, 1885.

152. Illustrata da Jacopo Pirona, «Atti del Ginnasio di Udine», Udine, tip. Vendrame, 1859.

153. Confr. Joppi (V.), Testi inediti friulani dei secoli XIV al XIX. «Arch. glott. ital.», vol. IV, Loescher 1878.

154. Rutar, Beneška Slovenija, cit. pag. 110.

155. Der wälsche Gast von Thomasin von Zirklaria ecc., Quedlimburg und Leipzig, MDCCCLII.

156. Manzano, Annali del Friuli, vol. II, pag. 157, nota; — Zahn, I castelli tedeschi in Friuli, Udine, 1884.

157. Vocab. friul. cit.

158. Deutsche und Romanen in Süd-Tirol und Venetien, «Pet. Mitt.», 1877.

159. Slawo-deutsches und slawo-italienisches, Graz, 1885.

160. Dell'elemento slavo e tedesco nel friulano si occupò anche il Cosattini, nel suo Contributo allo studio etimologico del vocabolario friulano, «Pagine friul.», anno III, 1891.

161. Canti d'amore nel Friuli, «Nuova Antol.», voi. IV, fasc. III, marzo 1867, pag. 540-46.

162. Prima centuria di canti popolari con Prefazione, Padova, Prosperini, 1865. — Prima e seconda centuria di canti popolari friulani con prelezioni, Venezia, Naratovich, 1867, pag. 73; — Terza centuria di canti popolari friulani. Saggi di dialetto. Venezia, Naratovich, 1867, pag. 88.

163. Villotte friulane, Piacenza, Del Maino, 1867, pag. 318.

164. Per nozze Brunetti-Cardini, Udine, Seitz, 1882.

165. Villotte friulane, Cividale, Fulvio, 1882. — «Illustrazione italiana», n. 13 del 1889; — «Fanfulla della Domenica», anno XI, n. 30, del 28 Luglio 1889.

166. Villotte friulane, Udine, Del Bianco, 1892.

167. Valentino Ostermann, Proverbi friulani raccolti dalla viva voce del popolo, Udine, 1876.

168. Per la quasi completa bibliografia su questo argomento, come sugli altri qui accennati, vedasi F. Musoni, Gli studi di folk-lore in Friuli, Udine, Bardusco, 1894. — Una veramente cospicua raccolta di materiale folk-lorico è quella dell'Ostermann, La vita in Friuli, Udine, Del Bianco, 1894.

169. Roma, Tipografia Nazionale di G. Bertero e C., 1908.

170. Media degli anni 1906-1907. I dati statistici relativi ai singoli comuni, quando non riportati per intero, rappresentano le produzioni medie degli anni 1906 e 1907: quando invece riguardano intere zone o regioni si riferiscono al 1907, del quale anno soltanto furono pubblicati nella Statistica integrale sopra ricordata. I dati di cui io mi valgo, furono pubblicati, solo riassuntivamente e pel solo anno 1907, per zone, nella memoria dianzi accennata: quelli relativi ai singoli comuni — riguardanti anche l'anno 1906 — sono inediti, tranne per la produzione del vino, e furono messi a mia disposizione dall'Associazione Agraria Friulana presso la quale se ne conservano gli originali.

171. Produzione del frumento:

  nel 1906 nel 1907
 
Drenchia Ql. 257 Ql. 242
Grimacco » 432 » 414
Rodda » 150 » 153
S. Leonardo » 720 » 935
S. Pietro » 700 » 775
Savogna » 588 » 594
Stregna » 710 » 722
Tarcetta » 113 » 128

172. Nei secoli passati affatto insignificante dovette essere la produzione del vino in questa zona. Da un documento del 1660 (Grion, Guida storica di Cividale e del suo Distretto, Cividale, Strazzolini, 1899, Appendice LXXXXIII) si rileva che, mentre per la protezione del vino locale era stato inibito a tutti gli osti del territorio cividalese di spillar vino importato, nella proibizione non vennero compresi «li habitanti delle due contrade d'Antro e di Merso per la sterilità delle quali, debolezza e crudità dei loro vini meritano restare in libertà».

173. Produzione del maiz:

  nel 1906 nel 1907
 
Montenars Ql. 1549 Ql. 1265
Lusevera » 3656 » 3290
Plaitschis » 6806 » 6633
Drenchia » 244 » 274
Grimacco » 1443 » 1515
Rodda » 864 » 850
S. Leonardo » 2869 » 2612
S. Pietro » 8535 » 8405
Savogna » 1798 » 1796
Stregna » 1612 » 1675
Tarcetta » 5385 » 5144

174. Cfr. anche G. Feruglio, Il bacino di Drenchia, Prime note, «Boll. Ass. Agr. Fr.», 1910.

175. Produzione delle patate:

  nel 1906 nel 1907
 
Montenars Ql. 3339 Ql. 3323
Platischis » 3237 » 3083
Lusevera » 1503 » 2070
Drenchia » 2855 » 3047
Grimacco » 3093 » 2997
Rodda » 1818 » 1835
S. Leonardo » 4144 » 4273
S. Pietro » 1399 » 2291
Savogna » 3197 » 5142
Stregna » 2986 » 3275
Tarcetta » 1031 » 866

176. Produzione delle rape:

  nel 1906 nel 1907
 
Drenchia Ql. 552 Ql. 595
Grimacco » 308 » 325
Rodda » 944 » 516
S. Leonardo » 487 » 446
S. Pietro » 336 » 357
Savogna » 748 » 612
Stregna » 900 » 765
Tarcetta » 335 » 276

177. Dorigo (D.), La frutticoltura nel Mandamento di Cividale e il vivaio di fruttiferi di S. Pietro al Natisone, «Boll. Ass. Agr. Fr.», 1909.

178. Selan (U.), L'industria zootecnica nella Slavia italiana, «Boll. Ass. Agr. Fr.», 1906.

179. Confr. Marinelli (O.), Osservazioni varie fatte durante un'escursione sul Matajur, «In Alto», 1905.

180. Confr. in proposito Tosi (E.), Un'ispezione alle latterie nel distretto di Tarcento; e Una gita di propaganda casearia nella Slavia italiana, «Boll. Ass. Agr. Fr.», 1904.

181. Selan (U.), Il cavallo caporettano, appunti, «Boll. Ass. Agr. Fr.», 1908. Allo stesso U. Selan devo molte delle altre notizie relative al bestiame comprese in questo scritto.

182. Anagrafi di tutto lo Stato della Serenissima Repubblica di Venezia, Vol. V, cit.

183. Confr. Marinelli (O.), Descr. geologica dei dint. di Tarcento, ecc.

184. Va da sè che parecchi dei nominati comuni solo colla maggior parte della loro superficie entrano a far parte di questa zona geologica.

185. Confr. De Gasperi, Feruglio, Rubini, Nussi: I dintorni di Cividale del Friuli ecc., pag. 30.

186. Feruglio (D. e G.), Descrizione geologica della Tavoletta «Tricesimo», ecc., pag. 18.

187. Produzione del maiz:

  nel 1906 nel 1907
 
Magnano in Riviera Ql. 2622 Ql. 1895
Tarcento » 3400 » 3687
Ciseriis » 8436 » 6750
Nimis » 7922 » 7462
Attimis » 6759 » 6295
Faedis » 8121 » 9636
Torreano » 9568 » 9187
Cividale » 17963 » 17546
Prepotto » » 6124
Buttrio » 9374 » 8400
Ipplis » » 2152
Manzano » 10240 » 11058
S. Giovanni di Manzano » 7842 » 7875
Corno di Rosazzo » 2968 » 3089

188. Produzione del frumento:

  nel 1906 nel 1907
 
Magnano in Riviera Ql. 450 Ql. 484
Tarcento » 595 » 661
Ciseriis » »
Nimis » 318 » 325
Attimis » 133 » 136
Faedis » 935 » 1138
Torreano » 1005 » 1134
Cividale » 8360 » 10350
Prepotto » 810 » 1038
Buttrio » 4272 » 5044
Ipplis » 1591 » 2009
Manzano » 6998 » 8487
S. Giovanni di Manzano » 5465 » 6305
Corno di Rosazzo » 1850 » 2640

189. Un vitigno ormai scomparso, o quasi, è il piccolit del cui prodotto l'Asquini, il Zanon, il Gallesio ed altri scrissero mirabilia e G. B. Michieli cantò le lodi nel suo ditirambo Bacco in Friuli (Gorizia, verso la fine del 1700). L'Asquini lo rese noto in Europa inviandone bottiglie per tutta Italia, a Parigi, Londra, Amsterdam, in Germania, Russia, nonchè alle corti di Francia e Sardegna (cfr. G. Perusini, Il Piccolit, in «Rivista», organo della r. Scuola di Viticoltura e di Enologia e del Consorzio Agrario di Conegliano, anno 1905, n. 15). Della bontà dei vini nostri in genere nei tempi passati scriveva lo Zanon (1696-1770): «Quanto si glorierebbe l'Inghilterra se avesse le nostre vigne, i nostri Refoschi, i nostri Piccoliti, i nostri Cividini, le nostre Ribolle? Vini son questi che possono competere coi migliori di Francia», (5.ª ediz. compl. degli Scritti di Agricoltura, Arti e Commercio, Udine, 1828, Vol. I, p. 293).

190. La vite anche nei secoli passati fu grandemente coltivata in questa zona. Da un documento del 1282 (F. Musoni, G. Sirch, per nozze Rieppi-Caucig, Cividale, Tip. Fulvio 1910) si ricava che già in allora la conca di Albana-Prepotto era in gran parte vitata. Dalle relazioni dei Provveditori alla Repubblica veneta in Cividale risulta che risorsa principale di quel territorio fu già l'esportazione del vino in Austria per la strada del Pulfero: quando essa venne inibita, il paese cadde in preda a una gravissima crisi economica.

191. Queste due cifre ci sembrano assai esagerate.

192. Le cifre relative ai singoli Comuni rappresentano sempre la media degli anni 1906-7.

193. Cfr. Dorigo, La frutticultura ecc., e De Gasperi, Feruglio, Rubini, Nussi, I dintorni di Cividale, ecc.

194. Secondo informazione avuta dal prof. C. Hugues dell'i. r. Società agraria di Gorizia.

195. Produzione del maiz:

  nel 1906 nel 1907
 
Buia Ql. 10387 Ql. 8864
Cassacco » 5376 » 5139
Segnacco » 2415 » 2253
Treppo Grande » 4210 » 3545
Tricesimo » 10857 » 9936
Colloredo » 5322 » 5084
Fagagna » 12927 » 11060
Majano » 9206 » 8360
Ragogna » 8600 » 7777
Rive d'Arcano » 10145 » 9947
S. Daniele » 18612 » 17615
Moruzzo » 6488 » 5615

196. Produzione del frumento:

  nel 1906 nel 1907
 
Buia Ql. 796 Ql. 938
Cassacco » 690 » 753
Segnacco » 387 » 440
Treppo Grande » 553 » 586
Tricesimo » 1880 » 2145
Colloredo » 1688 » 1823
Fagagna » 3696 » 4055
Majano » 1154 » 1315
Ragogna » 849 » 891
Rive d'Arcano » 1497 » 1654
S. Daniele » 3567 » 3765
Moruzzo » 733 » 909

197. Produzione del vino:

  nel 1906 nel 1907
 
Buia Hl. 3140 Hl. 4550
Cassacco » 1620 » 1920
Segnacco » 1430 » 1750
Treppo Grande » 3195 » 4400
Tricesimo » 2000 » 2400
Colloredo di Montalbano » 1120 » 1350
Fagagna » 1700 » 2550
Majano » 3490 » 4100
Ragogna » 1750 » 2000
Rive d'Arcano » 960 » 1425
S. Daniele » 2070 » 1800
Moruzzo » 1850 » 2700

198. Produzione del maiz:

  nel 1906 nel 1907
 
Bordano Ql. 865 Ql. 872
Trasaghis » 1588 » 1548
Venzone » 3963 » 4060
Gemona » 12094 » 10752
Osoppo » 2430 » 2384
Artegna » 2592 » 2478
Dignano » 6872 » 6600
S. Odorico » 4753 » 5388
Coseano » 9871 » 8715
S. Vito di Fagagna » 4365 » 4235
Povoletto » 7682 » 8260
Moimacco » 4776 » 6140
Remanzacco » 12437 » 12460
Premariacco » 14166 » 14490

199. Produzione del frumento:

  nel 1906 nel 1907
 
Bordano Ql. Ql.
Trasaghis » 178 » 211
Venzone » »
Gemona » 728 » 842
Osoppo » 432 » 474
Artegna » 112 » 123
Dignano » 1374 » 1579
S. Odorico » 1169 » 1346
Coseano » 3400 » 3702
S. Vito di Fagagna » 1472 » 1681
Moimacco » 3225 » 3821
Remanzacco » 5582 » 5672
Premariacco » 7768 » 7448

200. Produzione del vino:

  nel 1906 nel 1907
 
Bordano Hl. 100 Hl. 130
Trasaghis » 1465 » 2400
Venzone » 195 » 380
Gemona » 5675 » 7400
Osoppo » 2260 » 3000
Artegna » 2400 » 3800
Dignano » 750 » 1150
S. Odorico » 820 » 680
Coseano » 650 » 450
S. Vito di Fagagna » 225 » 450
Povoletto » 3360 » 4560
Moimacco » 715 » 950
Remanzacco » 990 » 2000
Premariacco » 1050 » 1250

201. Produzione dei bozzoli:

  nel 1906 nel 1907
 
Bordano Kg. 1520 Kg. 1600
Trasaghis » 1500 » 1500
Venzone » 3107 » 3200
Gemona » 40550 » 49000
Osoppo » 20000 » 22000
Artegna » 17600 » 21000
Dignano » 15000 » 17000
S. Odorico » 13000 » 15000
Coseano » 20000 » 22000
S. Vito di Fagagna » 64000 » 72000
Povoletto » 19980 » 21500
Moimacco » 11400 » 11500
Remanzacco » 14300 » 15730
Premariacco » 23080 » 24200

202. Marinoni (C.), Sui minerali del Friuli, Appendice II in «Annuario statistico friulano», anno quarto, pag. 54-55. Udine, 1889.

203. Ciconi (G. D.), La provincia di Udine; 2ª ediz. 1862.

204. Grion (G.), Guida storica di Cividale e del suo distretto, pag. 461. Cividale, Strazzolini, 1899.

205. Pirona (G. A.), Miniera di mercurio presso Cividale del Friuli, nel «Collettore dell'Adige», 1855, n. 42; — Cenni geognostici sul Friuli, pag. 30.

206. Hauer (F.), Das Quellsilbervorkommen von Gagliano bei Cividale, ecc. «Jahrb. der k. k. geolog. Reichsanst. von Wien», 1855, anno VI, n. 4.

207. Taramelli (T.), Catalogo ragionato delle rocce del Friuli, Accademia dei Lincei. Roma, 1877, pag. 42.

208. Ciconi, La provincia di Udine;Taramelli, Catalogo ecc.

209. Marinoni, Sui minerali del Friuli, cit., Append. II, pag. 58: vi si parla di «una miniera di argento vivo due miglia sopra Cividale, in sito chiamato in lingua slava Veisnech, in italiano Ceresis». Va osservato però che Cisgne è più che a due miglia da Cividale, mentre a tale distanza si trova Cesarutte presso Cagliano che sembrerebbe essere il corrispondente di Ceresis: ciò che non si capisce è come quest'ultima potesse avere anche un nome slavo.

210. Cfr. pag. 15 e pag. 18.

211. Per tutti questi giacimenti di combustibili vedasi Taramelli, Catalogo ragionato, ecc., cit.; — Pirona, La provincia di Udine sotto l'aspetto storico-naturale, Udine, 1877; — Cenni geognostici sul Friuli, Udine, 1861; — Cossa e Taramelli, Sui combustibili fossili del Friuli, ricerche, «Annali del R. Ist. tecn. di Udine», 1867; — Marinoni, Sui minerali, ecc., cit.

212. Sulla formazione ed uso della torba ed altri combustibili, Udine, 1767.

213. Discorso sopra la scoperta e gli usi della torba in «Memorie e Osservazioni» pubblicate dalla Soc. di Agr. pratica di Udine raccolte nel 1771, Udine, 1772.

214. Biasutti (G.), Per la sistemazione del torrente Urana e conseguente bonifica delle paludi di Bueris, Zegliacco, Collalto nel mandamento di Tarcento, Udine, Del Bianco, 1903.

215. Notizie sulle condizioni industriali della Provincia di Udine, «Annali di Statistica», fasc. XXVII, pag. 38-40. Pubbl. del Min. di A. I. e C., Roma, Botta, 1890.

216. Sui minerali, ecc., pag 136-7. Ciò non è vero che in parte: poichè ottimi, tra altri, sono, per es., anche i depositi argillosi di Manzano.

217. Secondo informazioni avute dalla Camera di Commercio in Udine.

218. Notizie sulle condizioni industriali, ecc.

219. Guida delle industrie e del Commercio del Friuli, pubblicata dal dott. G. Valentinis, segretario della Camera di Commercio di Udine. Udine, Tosolini, 1910.

220. V. Mantica, Produzione, mercato e prezzo dei bozzoli da seta in Udine, 1895.

221. Citati a pag. 198, n. 1.

222. Grion, Guida, ecc., cit. pag. 464.

223. Ciò risulta, oltre da quanto fu detto a pag. 192, anche da una determinazione del Consiglio di Cividale del 1463 che ciascun cittadino potesse condurre ai pascoli comunali fino a 200 pecore di età superiore ai 6 mesi (Grion, cit., pag. 462).

224. Vol. II, pag. 349.

225. Notizie sulle condizioni industriali della prov. di Udine, cit., pag. 83.

226. Secondo informazioni avute dalla Camera di Commercio di Udine.

227. Guida delle industrie, ecc. cit. pag. 60.

228. Alle notizie già altrove sparsamente accennate in proposito, qui aggiungiamo che nella zona montana e submontana delle Prealpi Giulie friulane vi sono appena 390 ettari di boschi latifoli d'alto fusto, 249 in quella collinesca e pedemontana e non ve n'è affatto nelle zone rimanenti.

229. Joppi (V.); L'arte della stampa in Friuli, con Appendice sulle fabbriche della carta, «Atti dell'Accademia di Udine», serie II, volume III, pag. 3-27. Udine, Doretti, 1880.

230. Guida delle industrie ecc., cit.

231. Joppi (V.), L'Arte della stampa, ecc., cit.

232. Le notizie relative a queste industrie mi vennero fornite dalla Camera di Commercio in Udine.

233. V. Cassi (G.), Notizie sul commercio friulano durante il dominio veneto, Udine, Vatri, 1910 cit. pag. 46-47.

234. Baldissera, Da Gemona a Venzone ecc., cit., pag. 20 e 25.

235. Zahn, Studi Friulani, cit., pag. 142.

236. Grion, Guida, ecc., pag. 456.

237. Cronaca della magnifica comunità di S. Daniele del Friuli di Girolamo Sini esposta e corredata di note per Giuseppe Barbaro, Venezia, Cecchini, 1865, pag. 20 e 25.

238. Antoninianum, pag. 276.

   
Aquileia
  XXX
via Bellono (sic. cod. Escorialensis).
  Belloio (reliqui)
   
Lacire (Larice)
   
Santico
  XXX
Virunum

(Da Mommsen, C. I. L. V., pag. 167).

239.

   
Aquileia
  XXXV
Ad Silanos
  plura hic ceciderunt
Tasimeneti
  VIII
Soloca
  XI
Viruno

(Mommsen, C. I. L. V., pag. 167).

240. Pix nel latino medievale Ampicuim, nel latino chiesastico Ampletium, italiano Plez o Plezzo, sloveno Bez o Bovz, tedesco Flitsch (Czoernig, a pag. 111 dell'opera sottocitata).

241. Czoernig, Das Land Görz und Gradiska, pag. 445, Wien, 1873.

242. Handbuch der Geschichte der Herzogth, Kärnten bis zur Vereinigung den österr. Fürstenthümer, Klagenfurt, Leon, 1850, 1º vol. pag. 563. — Anche il Crivellucci scrisse che alla fine del II secolo antico i Cimbri discesero in Italia dal Norico pel passo del Predil e per la valle del Natisone e che dopo la sconfitta dei campi Raudî vi ritornarono per la stessa via per la quale erano discesi (Studi storici, period. dell'Univ. di Pisa, 1892, pag. 298). — Confr. pure Dahn, Die Benutzung der Alpenpässe in Altertum, Heilderbeg, 1892.

243. Italia antiqua, Lugduni Batav. CIↃIↃCXXV, pag. 205.

244. In Ankershofen, luogo cit.

245. Relazione citata.

246. Esso esisteva certamente al tempo di Paolo Diacono il quale scrisse: «ad pontem Natisonis qui ibidem est ubi Sclavi residebant» (Paolo Diac. D. G. L. 1. V. cap. 23).

247. Der Predilpass and der Isonzo, «Carinthia», anno 1887, pagina 123 e seg.

248. Parlando del viaggio di Fortunato alla tomba di S. Martino di Tours dice che si recò «per fluenta Tiliamenti et Reuniam perque Osupum et Alpem Juliam perque Aguntum castrum», Paolo Diac. D. G. L. 1, 11, cap. 13.

249. Op. poet. recens. Frid. Leo in Mon. Germ. hist., Berlino, Weidmann, 1881, Vita S. Martini, pag. 368, v. 650 e seg. ecc. «Heic montana sedens in colle superbit Aguntum — Hinc pete rapte vias ubi Julia tenditur Alpis — Altius adsurgens et mons in nubila pergit — Inde Foro Julii de nomine principis exi — Per rupes, Osope, tuas; qua labitur undis — Et super instat aquis Reunia Tiliamenti».

250. Confr. Grion (G.), Delle antiche vie commerciali per la valle del Natisone, per nozze Fr. Musoni-Emilia Velliseig, Udine, Bardusco, 1897, pag. 12.

251. «Communierant se Langobardi et in reliquia castris quae his vicina erant, hoc est in Cormones, Nemas, Osopo, Reunia, Glemona, vel etiam in Ibligine, cuius positio omnino inexpugnabilis existit», Paolo Diac. D. G. L. IV, 37.

252. C. I. L. V. pag. 169. — Confr, anche Oberziner (G.), Le guerre di Augusto contro i popoli alpini, Roma, Loescher, MCM. p. 207. — Il Baldissera (Da Gemona a Tarcento, Guida storica ecc. cit. pag. 121) informa che a Godo, poco lungi da Gemona, v'è una fonte d'acqua perenne chiamata Silans, che ricorderebbe il nome della stazione ad Silanos.

253. C. I. L. V., n. 79994.

254. Ibidem, 79995.

255. Ibidem, 79996.

256. Ibidem, 79997.

257. Ibidem, 79999.

258. Confr. Nota 3 a pag. 232.

259. Confr. in proposito Zahn (G.), Studi friulani cit. pag. 113 e seg. — Baldissera (D. V.), Da Gemona a Venzone, Guida storica e artistica, Gemona, Tessitori 1891, pag. 17-18.

260. Confr. Marinelli (G.), nella II parte (Canal del Ferro) di questa Guida, cap. X, pag. 173-174.

261. Op. e luogo cit.

262. Protocollo del cancelliere Gabriele, f. 22, Museo civico di Udine.

263. Zahn (G.), Austro friulana, Wien. Gerolds Sohn, 1877, 46-48-49-50.

264. Grion (G.), Guida storica di Cividale cit. pag. 458.

265. Grion (G.), Delle antiche vie commerciali cit. pag. 15.

266. Grion (G.), Guida storica ecc. Append. XC.

267. Della Bona, Strenna cronologica per l'antica storia del Friuli, ecc. Gorizia, 1856, pag. 142.

268. Descrizione dei passi e delle fortezze che si hanno a fare in Friuli, Venezia, 1876, pag. 6.

269. Scrittura presentata al Senato veneziano, dalla comunità di Gemona contro l'apertura della strada del Pulfaro. Per nozze Mangilli-Ronchi, Venezia, tip. della «Gazzetta», 1875.

270. Cassi (G.), Notizie sul commercio friulano ecc., pag. 35.

271. Confr. Statistica del vice prefetto del distretto del Natisone al Prefetto del Dipartimento di Passeriano, mns. presso la Bibl. della Soc. Alp. Friul.

272. Archivio del Genio Civile in Udine: Busta: 1811, Ponti. I lavori vennero eseguiti su progetto dell'ing. Mantoani e costarono L. 3672.75, più L. 120 per la dipintura dei poggiuoli.

273. Arch. Genio civ. ecc.: Busta: 1824, Ponti.

274. Arch. cit.: Busta: 1830, Ponti.

275. I lavori di restauro, progettati dall'ing. Mantoani predetto, dovevano costare L. 14671,57, ma poi vennero ridotti a sole L. 7024.89, cioè al puro necessario: furono resi praticabili i passi più pericolosi e tutta la strada venne resa rotabile, mentre prima per 34 non lo era più, tanto era caduta in deperimento (Arch. del Genio Civile di Udine, Busta: 1812, Strade nazionali).

276. Archivio cit. Busta: 1832, Strade regie e postali.

277. Op. cit.

278. Rutar (S.), Beneška Slovenija ecc. cit. pag. 100.

279. Archivio del Genio Civile, cit. Busta: 1811, Strade comunali.

280. Archivio ecc. Busta: 1813, Strade comunali.

281. Carta topografica di tutto il territorio del Friuli, Goriziano ed Udinese ecc. colle Strade e Poste delineato ed aumentato dal cesareo regio ingegnere Gio. Antonio Capellaris l'anno 1798. Venezia presso Lodovico Furlanetti.

282. Il ducato di Venezia astronomicamente delineato dall'anno 1801 al 1805 dallo Stato Maggiore sotto la direzione del Barone Anton de Zach.

283. Carta topografica della provincia del Friuli di Giuseppe Malvolti, 1819.

284. Il Friuli, Milano, Vallardi, 1871: annessa al Vocabol. friulano cit.

285. Carta del Friuli tra i fiumi Livenza ed Isonzo: scala 1:200.000. Udine, litogr. Passero, 1879.

286. V. specialmente la Carta d'Italia per Automobilisti, Ciclisti e Turisti, scala 1:250.000, dell'Istituto d'Arti Grafiche in Bergamo.

287. Per la bibliografia rimando il lettore alle opere del Valentinelli, Bibliografia del Friuli, Venezia 1861 e dell'Occioni-Bonaffons, Bibliografia storica friulana (1861-1895) I-III Udine 1833-1899. Di altre opere più recenti farò cenno quando occorra ricordarle.

288. Wolf A., Toponomastica friulana (s. l., ma Udine. 1905).

289. Non mi pare possibile il contrastare il titolo di colonia al Forum Julii orientale (Cividale) dato: 1º l'esplicito ricordo di Tolomeo, 2º la lapide ivi rinvenuta che ricorda un colonus, 3º il fatto che esso appartiene ad una tribù diversa (Scaptia) dal resto della provincia che in gran parte (Julium Carnicum, Glemona, Concordia) è Claudia, in parte (Aquileja) è Velina. Il dubbio del Mommsen deriva da ciò che nelle lapidi Forum Julii (Cividale) si trova detto respublica o municipium: ora quanto a quest'ultimo mi rimetto agli esempi addotti da De Ruggiero, Le Colonie dei Romani, Spoleto 1897, p. 32 in cui i due termini colonia e municipium si usano in molte colonie promiscuamente; quanto a res publica è termine generale che si adopera persino ad indicare la comunità politica del vico.

290. Ved. Paschini, La Chiesa aquilejese ed il periodo delle origini, Udine 1909 e bibl. ivi citata.

291. A questo Forum soltanto accennano i noti versi di Venanzio Fortunato dove descrive il viaggio da Agunto in poi

Hinc pete rapte vias ubi Iulia tenditur Alpes

Altius assurgens et mons in nubila pergit

Inde Foroiuli de nomine principis exi,

Per rupes Osope, tuas qua lambitur undis

Et super instat aquis Reunia Taliamenti.

292. Ved. M. Leicht, I limitanei nella Patria del Friuli, «Atti dell'Acc. di Udine», 1894-95, p. 169 seg.; P. S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel M. E. II, 89 e seg., Padova 1907: Checchini, I fondi militari romano-bisantini considerati in relazione con l'arimannia, Modena 1907.

293. Ved. Cortinovis, Sopra una tessera antica, ecc. Udine, 1770, p. 20 seg.

294. L'ultima edizione in Degani, La Badia di Sesto, Venezia 1908.

295. Anche in questo non mancano però punti di contatto con monumenti romanici contemporanei, ved. Paschini, Brevi note archeologiche sopra un gruppo di monumenti longobardi a Cividale, «Bull. della civ. Bibl. di Udine», IV, 2, (1910) p. 84 n. 1.

296. Ved. per la recente bibliografia. Menghini, Sullo stato presente degli studî intorno alla vita di Paolo Diacono, 1904.

297. Ved. la prefazione di E. Mühlbacher, ai Diplomi inediti attenenti al patriarcato d'Aquileja, dal 799 al 1082 di V. Ioppi, Venezia 1884.

298. Su S. Paolino ved. la Miscellanea di studi storici e ricerche critiche ricorrendo l'XI centenario della morte del Patriarca Paolino, Milano 1905 e Paschini, S. Paolino e la Chiesa aquilejese alla fine del secolo VIII, Udine 1906.

299. Ved. Hofmeister, Markgrafen und Markgrafschaften in Italischen Königreich, nel VII vol. compl. delle «Mittheilungen» dell'Istituto storico austriaco, Wien 1904, p. 316. Su Everardo ved. Favre, La famille d'Evrard marquis du Frioul, Paris 1896.

300. Su ciò ved. Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino, Torino 1908, p. 104 e «Memorie storiche forogiuliesi», V, 1, p. 87, Cividale, 1909.

301. Leicht (P. S.), Il denaro del Patriarca Popone d'Aquileja in «Memorie storiche forogiuliesi», I, 50, Cividale, 1905.

302. Ved. Battistella, I Toscani in Friuli, Bologna 1898; Senigaglia, Le compagnie bancarie senesi nei sec. XIII-XIV, Torino, 1908.

303. Ved. P. S. Leicht, Una notizia inedita intorno a Udine nel secolo XII, «Mem. stor. for.», IV, 125, Cividale, 1908.

304. Ottenthal, L'Administration du Frioul sous les Patriarches d'Aquilée, Mélanges Paul Fabre, Paris 1902; Leicht P. S., Il Parlamento della Patria del Friuli, sua origine, costituzione e legislazione, in «Atti dell'Accademia di Udine», 1903-1904.

305. Ved. Torretta, Il Wälscher Gast di Tommasino di Cerclaria e la poesia didattica del sec. XIII, «Studî Medievali», Torino 1904, voi. I. fasc. I p. 24 seg. e «Mem. stor. for.», I, 115 seg. Cividale 1905.

306. Edizione Ioppi, Udine 1900.

307. Ved. su questo splendido tempio Planiscig, Il rinascimento nella Basilica d'Aquileja, in «Forumjulii», I, 2, Gorizia 1910 e sopratutto la grande opera: Der Dom von Aquileja del co. Lanckoronski, Wien, 1906.

308. Zanutto, Itinerario del Pontefice Gregorio XII, Udine, 1901.

309. Ved. Cogo, La sottomissione del Friuli al dominio della repubblica veneta (1418-1420), negli «Atti dell'Accademia di Udine», 1896, p. 95 e seg. e Cassi, I Veneziani in Friuli, Padova 1903.

310. Cortinovis, Sopra le antichità di Sesto nel Friuli, Udine, 1801, p. 23.

311. Momigliano, Paolo Veneto e la corrente del pensiero religioso e filosofico del tempo suo, «Atti Acc. di Udine», 1907, p. 61 e seg.

312. Levec, Die ersten Türkeneinfälle in Krain und Steyermark, nelle «Mittheilungen des Musealvereins für Krain», XVI, 169 e Fresco, Una prima minaccia turchesca in Friuli, nel «Bull. del Museo di Udine», 1909 p. 35 e seg.

313. Ved. Solmi, Leonardo da Vinci e la Repubblica di Venezia in «Archivio storico lombardo», 1908 p. 332 seg. e Suttina, Leonardo da Vinci in Friuli, in «Mem. Stor. Forogiul.» V, p. 190, Cividale 1910.

314. Ved. Leicht (P. S.), La difesa del Friuli nel 1509, in «Mem. Stor. Forogiul.» V, p. 93 e seg., Cividale 1910.

315. Brambilla, Girolamo Savorgnan e la difesa di Osoppo, Udine 1906.

316. Su questi fatti ved. Degani, I partiti politici in Friuli nel Cinquecento, Udine 1900, Leicht P. S., Studi e Frammenti, Udine 1903 p. 130 e Un movimento agrario nel cinquecento nella «Riv. it. di Sociologia», XII, 6, Roma 1908, e Marchesi, Il Friuli al tempo della lega di Cambray, Venezia 1903.

317. Leicht (P. S.), Studi e Frammenti, Udine 1903, p. 123 e seg.

318. Ved. Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII, Venezia 1806, I, 151 e seg. ed ora Chiurlo, Carlo Goldoni e il Friuli nel settecento, in «Forumiulii», Gorizia 1910, I, 116.

319. Borgherini, Il territorio padovano alla caduta della repubblica veneta, Padova 1909, p. 179.

320. Ved. Fracassetti, Gli studenti nella rivoluzione italiana del 1848, Udine 1898.

321. Per tutto questo periodo ved. Larice, Il Friuli nel risorgimento italiano, Udine 1905.

322. Cosmi, Antonio Andreuzzi e i moti di guerra del 1864, S. Daniele, 1903.

323. Giovarono all'autore per la compilazione, oltre che la classica opera del Liruti (Notizie delle vite ed opere dei letterati del Friuli, vol. 4; Venezia-Udine, 1760-1830) e gli elenchi del Ciconi (Udine e sua provincia ecc.) e del Manzano (Cenni biografici dei letterati ed artisti del Friuli dal secolo IV al XIX; Udine, 1885), molte biografie di singoli letterati, scienziati, od artisti, che sarebbe troppo lungo nominare. Per parecchi personaggi poi, sono state fatte indagini particolari.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Longobardi/Langobardi, ancora/ancóra, pseudo-cretacei/pseudocretacei, ampi/ampî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare, a pag. 104 è stata mantenuta la scrittura "co: Trento di Dolegnano", possibile variante dell'abbreviazione "c/o" (presso).