Title: Il re dei re, vol. 3
Author: Ferdinando Petruccelli della Gattina
Release date: December 5, 2013 [eBook #44355]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
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BIBLIOTECA NUOVA
PUBBLICATA DA G. DAELLI
Stabil. tip. già Benietti, diretto da F. Gareffi.
IL
RE DEI RE
CONVOGLIO DIRETTO
NELL'XI SECOLO
PER
F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA
VOL. III.
MILANO
G. Daelli e C. Editori.
1864.
Tra duri monti alpestri
Ove di corso umano
Nessun vestigio si vedeva impresso,
Per sentier più silvestri
Giva correndo invano.
Tre mesi l'imperadore Enrico passò a Spira domestica e ritirata vita, confortato dalle amorevolezze della tenera Berta e dalle blandizie del suo figliuolo. E veramente di queste cure affettuose aveva bisogno per addolcire fino ad un certo segno le acerbità del suo cuore! Non che egli si fosse querelato troppo del pontefice, il quale, alzata bandiera contro di lui, così severamente l'aveva osteggiato. Erano corse presso a poco eguali rappresaglie fra loro; Gregorio, primeggiando la gerarchia ecclesiastica, era anch'esso sovrano e potente. Dolevasi della femminea mutabilità dei suoi vassalli, dell'ingratitudine dei principi che aveva stracarichi di ricchezze, di feudi, e di prove d'amicizia—e segnatamente di quel duca Rodolfo di Svevia a (p. 8) lui cognato e come primo sposo di sua sorella Matilde e come marito in seconde nozze di Adelaide sorella della regina Berta. Questi non aveva saputo resistere all'ambizione di scavalcare dal soglio Enrico, cedendo alle tentazioni lusinghiere di Gregorio, che a quella corona lo confortava aspirare. Si era perciò messo alla testa dei ribelli e non cessava dal muovere le torme contro lo sfortunato re, il quale al suo popolo additato come malvagio dai principi, come empio dagli ecclesiastici di Gregorio, non vedeva speranza di potere un giorno ristaurare l'onore. Intanto la dieta di Augusta approssimava. Quanto avesse a mettervi fiducia Enrico comprendeva assai bene. Ai suoi partigiani, perchè gente scomunicata, inibivano assistervi; accusatori e giudici sedevano i suoi nemici; ed egli, re decaduto, doveva sottomettersi alla censura, al giudizio dei suoi vassalli. Questo amaro pensiero lo decise. Calcolò essere minore umiliazione per lui di piegarsi al papa, regolatore dei cristiani, e subire penitenza canonica, quasi ad iscompito delle sue peccata, anzi che trascinarsi avanti a' suoi sudditi come reo di sovversione dell'impero e d'incapacità di governo. Per lo che, onde prevenire la mossa di Gregorio in Germania dove non avrebbe mancato ribadire più salda alleanza coi ribelli, risolse discendere in Italia, e con lui rappattumarsi. Imperciocchè, una volta aggiustato col pontefice e liberato dagli anatemi, i paurosi dei (p. 9) fulmini di Roma gli si sarebbero novellamente accostati; coloro che aveva dovuti allontanare da sè, per stare ai patti della dieta di Tribur, avrebbe richiamati; gli Italiani, che tanta speranza in lui mettevano, lo avrebbero secondato; ed e' si sarebbe levato incontanente a capo di poderoso esercito onde ridurre i rivoltosi. Stabilì quindi la partita per Italia ed all'opera si accinse.
Non soldati, non cortigiani, non servi teneva al castello di Spira. Con lui non trovavansi che la moglie, il figliuolo, ed un uomo, il quale, mentre tutti da lui dipartivansi, aveva instato con lui dimorare e servirlo, Baccelardo.
Questo disgraziato, fastidito della durezza del pontefice, a lui tornato alquanto in uggia pel caldeggiare a favore del re, nè più sperando soccorsi al ricupero degli Stati paterni, aveva bravato la scomunica, e la sua sorte di diseredato e ramingo avea accomunata e con quella del re abbandonato. Ed Enrico lo aveva accolto tanto più volentieri che gli capitava fedele nella mala fortuna, ed era il solo che non temeva di obbedirgli. Pochi giorni innanzi Natale quindi si fermò la partenza.
Non eravi nello scrigno tanto di quattrini da potere tentare il viaggio. Bisognò rivolgersi agli antichi favoriti da lui arricchiti e colmi di grazie. Ma di questi, chi si disse squattrinato affatto, chi dichiarò non voler saperne dello scomunicato, chi rimandò il postulante Baccelardo (p. 10) altresì con più brutali risposte. Il solo Ulrico di Cosheim, non ricco, somministrò quanto potè. Laonde si videro ridotti a vendere alcune poche gioie dell'imperatrice, ed impegnare la corona imperiale in mano ai Caorsini. Nè Enrico si lamentò di questa novella prova d'ingratitudine dei suoi cortigiani. Oramai e' si era rassegnato ad ogni contumelia, contentandosi scriversela nel cuore e rammentarsela tutti i dì.
Si posero in cammino. Non avevano che tre cavalli solamente, quello del re, che cavalcava la regina Berta col figliuolo Corrado in groppa, quello di Baccelardo, che portava Enrico, ed un mal ronzino per Baccelardo. Rodolfo, Bertoldo e Guelfo avevano occupate le chiuse e tenevano il passo delle Alpi svizzere, carniche e friulane. Si prese la volta della Borgogna, dilungando la strada, e si trovarono a celebrare il Natale a Besanzone, ove il conte Guglielmo, zio di Agnese madre del re, li ristorò di ogni fatica e di ogni miseria, e meglio li fornì di oro, servi e cavalcature. Riconfortati così ripresero il viaggio.
Costeggiarono la catena del Jura avviluppata già nel suo mantello di neve. Riposarono lo sguardo sul lago Lemano, le cui azzurre acque lievemente increspate dal vento, scintillavano come topazi percossi dal sole, ad onta del verno dardeggiante nel cielo turchino. Contemplarono quei gioghi di monti, le cui canute creste l'une sull'altre elevansi come i gradini di un anfiteatro, (p. 11) per fare in fine torreggiare la testa superba del monte Bianco, il re di quel popolo di montagne, perduta nell'azzurro dei cieli. Giunsero in fine a Vevey, borgata resa celebre poi da Rousseau, alla cui porta, sotto un baldacchino, trovarono la marchesana Adelaide madre di Berta che rendeva giustizia.
Teneri furono gli amplessi della madre e della figliuola, solennemente cortesi le accoglienze al re. Questa signora governava a nome del figlio suo Amadeo, capostipite della casa di Savoia, grande estensione di paese, e guardava il passaggio delle Alpi Cozie e delle Alpi Craie. Enrico le si volse per dimandarle sussidi di truppe e di scorte a calare in Italia. Ma colei, che ambiva vantaggiare gli Stati del figliuolo, glieli negò, sotto pretesto di non voler querele col papa. Il re dovette venire ad accordi. Caldo fu il discutere, perocchè Adelaide pretendeva cinque vescovadi con tutte le terre dipendenti ed i dritti, ed Enrico voleva solamente donarla di una parte della Borgogna imperiale. Però, angustiato dal tempo e dalle circostanze, Enrico investì Amadeo del vescovado di Litten, vale a dire di un buon quarto della Svizzera, e con questo pedaggio ottenne permesso di sormontare le Alpi. Appena segnati gli accordi la marchesana ripassò in Italia.
I montanari non ricordavano inverno più aspro. Le nevi cadute in settembre ghiacciavano, (p. 12) e sovra quelle, novelli strati più spessi cadevano tutto dì. Sia quindi pel periglio dei cammini, nullamente praticati, sia che gli alpigiani schivassero contrattare con gente scomunicata, per non incorrere anch'e' negli anatemi, difficilissimo tornava procacciarsi guide, anche a peso d'oro. Così che fu mestieri mutar di nome, darsi per tutt'altro di ciò che erano, e, per tal fatta mascherati, di villaggio in villaggio, penosamente trascinarsi fino a Lanslebourg, ai piedi del monte Cenisio.
Questa montagna, alta 8670 piedi di Parigi sul livello del mare, non aveva allora quella bella strada che, nel 1805, in cinque mesi, per ordine di Napoleone, il cavaliere Giovanni Fabbroni faceva aprire da tremila operai al dì; nè quelle case di rifugio, abitate da cantonieri per riparare i varchi e soccorrere i viaggiatori; come neppure quei piuoli che, elevati di tratto in tratto, accennano il calle meno sinistro a tenersi. Allora non era che una marmorea lamina di ghiaccio, praticata solamente nell'estate da un sentieruolo per uso dei cacciatori di camoscio, che serpeggiava tra i precipizi e le voragini dell'erta sterminata. Gli avvallamenti, colmati, dalla neve quivi accumulata dagli uragani, o non si discernevano, o malamente per alcune creste di rocce sporte in fuori quasi denti di ferro. Ogni varietà di picchi e di rupi, capricci della natura tormentata delle montagne, era scomparso. Il (p. 13) monte aveva addossato il suo fallace lenzuolo di neve, e sotto di quello spalancavansi le voragini ed i crepacci, movevansi le valanghe. Enrico si fe' venire grosso numero di guide, e voltosi al loro capo dimandò:
—Compare, mi fa d'uopo scavalcare la montagna, e discendere in Italia: sareste voi al caso di additarmi e facilitarmi la via?
Il capo guida, che si chiamava Giacomo, si grattò l'orecchio sinistro e si lisciò la barba; poi disse:
—Monsignor no.
—No, per dio! Eppure dovrà esser così. Mettete voi il prezzo ai vostri servigi.
—Non si tratta di questo, monsignore, rispose Giacomo, ma sibbene che la sgualdrinella, quest'anno qui, si ha ficcato in testa non volersi lasciar montare: ecco tutto.
—Dite dunque che vi manca il coraggio, sclama Enrico con un poco di male umore. Cercherò allora chi ne abbia più di voi.
—Provatevi, monsignore, e vi do parola, che, se in trenta miglia d'intorno troverete chi vi sappia servir meglio, io rinunzio al mestiere di cacciatore, ed alla salute dell'anima.
—Baie! riprende Enrico, vi mette paura sporcarvi le uose di neve, perchè vi piace sporcarvele piuttosto di cenere. Questo è l'arcano, non già le difficoltà che mi state a contare.
—Uhm! mormora Giacomo.
(p. 14) —Già, insiste Enrico, credete voi che io non abbia fatto altro in vita mia che novellare con dame in un salotto caldamente intarsiato a legno di quercia, e scottarmi le sure alle brace? Anch'io son cacciatore, compare, e so come con l'aiuto di Dio, si affonda nelle ghiacciaie e nei pantani, si sta digiuno due giorni, e si dorme sotto il padiglione delle stelle. Capite?
—Capisco sì, monsignore; ma sapete cosa sono le vostre ghiacciaie ed i vostri pantani per chi ha fiutato un po' il respiro di questa pedina? Una pozzanghera in cui un gallo non arriverebbe ad imbrattarsi lo sprone, una tazza per bevervi dentro l'acquarzente. Se conosceste un tantino che vezzi sa fare questa matta quando le frulla! Mi aiuti Iddio, monsignore, io credo di averla alquanto addomestichita; ma quando vedo che i fumi le saltano, io le dico: Cecina mia, fatti prima passare il ruzzo col favore di San Benedetto, e poi ci vedremo.
—Insomma, compare, ad ogni costo a me urge valicare questo monte dannato. Trovate voi uomini e mezzi, perchè io non voglio saperne altro che si parta prontamente.
—Sta bene, monsignore. Giacchè ci avete dato del vigliacco, e vi siete proprio incocciato in questa pazzia, bisogna cavarvela. Io non vi assicuro bene che toccherete le pianure d'Italia. Però vi assicuro bene che moriremo innanzi noi tutti, prima che alcun disastro accada a vostra (p. 15) grandezza. Dopo, sarà di voi quel che sarà. Noi saremo morti fino all'ultimo—raccomandandovi a Dio.
—Quando si parte dunque? Bene inteso che si dovrà trasportare con noi questa signora e questo ragazzo, con ogni bagaglio e cavalcatura.
—Ma sì, partirà tutto con noi; salvo, monsignore, che non ve ne guarentisco l'arrivo.
—Dunque?
—Dunque per oggi è ito. Vedete lassù quella parrucca bianca che si accapperuccia al monte? Ebbene, di qui sembra nebbia, ma vi do parola che fra due ore, vedrete che è quel buffon di uragano, il quale si trastulla a far mulinelli di neve, e trascinarsi seco fino i cucuzzoli delle rocce, che gli si parano avanti. Così che, monsignore, contentatevi per oggi di farvi una bella provvisione di caldo col fuoco e col vino di Vevey, perchè vi so dire io che domani ne avrete ben d'uopo.
—Sacramento! sclama Enrico impazientito, questa diabolica Italia non vuolsi dunque lasciar penetrare?
—Eh! monsignore, risponde Giacomo schiettamente, è Italia come la bocca; per penetrarvi dentro ed assaporar tutti i gusti bisogna passar le mascelle. Le mascelle d'Italia sono le Alpi.
(p. 16) —A domani, disse Enrico, e le guide si congedarono.
Al domani infatti, come l'alba si mostrò, tutto era sul punto, e si partì.
Per la regina Berta avevano preparata una specie di barella, che i montanari portavano sulle spalle dandosi la muta quattro per volta. Baccelardo ed Enrico andavano a piedi, muniti di grossi bastoni a punte di ferro. Si cominciò l'ascensione allegramente, perchè il tempo mostrava voler venir bello. Però non stette guari, che delle larghe nuvole bianchicce principiarono ad elevarsi dietro il vertice del monte. Quelle nuvole, a poco a poco dilatandosi e congiungendosi insieme, ondularono da prima placidamente nell'orizzonte. Poi quel loro cullarsi voluttuoso come il manto di un'odalisca che si gonfia alla brezza della sera, addivenne più celere, più violento, il colore bianco si cangiò in cenericcio, poi in bruno, per ultimo in buio perfetto. Intanto regnava una calma solenne, un assopimento mortuario di tutta la natura. Non un uccello, non uno spiro di vento, non un brivido d'arboscello, neppure una parola dei montanari, i quali solamente guatavano di tanto in tanto la cima del Cenisio e gittavano un sospiro. Il cammino d'altronde si faceva sempre più difficile. Affondavano nella neve fino al ginocchio. Sentivano sotto i piedi scricchiolare il ghiaccio di un (p. 17) rumore sordo e profondo, poi di lontano, di tempo in tempo, cader le valanghe come tuoni. Toccavano già la regione del gelo. Puntando i bastoni ferrati, sorreggendosi a vicenda, e facendo catena avanzavano. Ma non così spediti come Giacomo avrebbe voluto, e come il mutamento del tempo richiedeva. Perocchè la regina sentiva già un malessere indefinibile, e come se il cuore le si stringesse. Enrico non si reggeva quasi più sulle gambe, irrigidite dal freddo. Lo assaliva il capo giro, vedeva da per tutto, abbarbagliato, delle larghe macchie di sangue. A Berta dettero alcune sorsate di latte e mele, al re dell'acquavita. Ma fu mestieri di sorreggerlo delle braccia, tanto più che costeggiavano una screpolatura di ghiaccio, nel cui fondo si perdeva la vista. Baccelardo, più uso alle fatiche, curava meno sè stesso che il cavallo, il quale, armato ai piedi di ferri a punte acuminate, allungava i passi, come se volesse strisciar della pancia sul gelo, fiutava il sentiero, e calcava le peste del padrone. Come però si furono scostati dalle sponde di quell'abisso, Enrico si lasciò cadere sopra scarna punta di roccia, e sclamò:
—Che Dio perda questa scellerata montagna! Non reggo più, e credo che a quest'ora ambo le mani siano ite al diavolo, perchè non me le sento affatto.
—Monsignore, udite a me, dice Giacomo, non (p. 18) facciamo ragazzate; perchè quando la montagna si mette di mal umore, non v'ha di meglio che starsene a casa se si può, e raccomandarsi l'anima ai suoi santi avvocati, quando si è a mezzo del cammino. Sicchè dunque, in piedi e trottiamo; perchè mi accorgo già che a questa pettegola comincia seriamente a venire mal ruzzo. Io ne conosco il carattere.
—Il diavolo ti porti con essa, compare! risponde Enrico. Io non ho forza nemmeno di fare un passo lungo come il tuo naso. Trovami in vece dove possa dormire.
—Sì bene, monsignore, soggiunge Giacomo, a casa vostra farete ciò che piace a voi, qui dovete stare alla nostra regola. Vi va della vita, e della vita di tutti. Andiamo.
E sì dicendo tolgono Enrico di peso nelle braccia, e si rimettono in viaggio. Superata così una prima cresta, Giacomo si volge ai compagni e parla:
—Figliuoli, abbiamo guadagnato la colezione. Coraggio: beviamo un gocciolo, rosicchiamo una crosta, ed avanti in nome di Dio, se questa furfantaccia di nebbia, che cala giù pettoruta come un curato che ha finita la predica, ce ne darà ancora il permesso.
E detto fatto, in pochi minuti si sbarazzano dell'asciolvere, e ricominciano la salita. Enrico non avrebbe voluto toglier cibo, non sentendo altra voglia che una irreffrenabile di dormire. (p. 19) Ma gli alpigiani lo costrinsero a mangiare alcuna cosa, bere una tazza d'idromele, e camminare a piedi per ridestare il calore. Varcavano allora una spina, sopra cui appena i danzatori di corda si sarebbero avventurati, una specie di ponte di ghiaccio gittato sur una screpolatura che sprofondava in abissi incommensurabili. Ecco allora che quella nebbia, la quale maestosa e lenta calava dal vertice della montagna, li raggiunge. Distinguevano appena un piede al di là della persona. Una nevuscola sottile come farina di frumento e penetrante come punte di ago gli involgeva. Si dovettero arrestare. I polmoni spasimavano di trafitte acute ed insopportabili. Dopo un'ora però quel nebbione si dirada alquanto; ma un muro di ghiaccio, elevato, quasi a picco, si para loro di fronte.
Le guide si guardano in faccia, e stanno lì presso a proporre di tornare indietro, tanto più che alla nebbia era succeduto il garbino. Se non che, rianimati da Baccelardo e punti da Enrico che li chiama cuori di damme e mal pratici, Giacomo si avventura alla scalata del baluardo. Con le azze cominciano a tagliare un sentiere nella spessezza del ghiaccio, un sentiere a forma di scaglioni serpeggianti onde avessero potuto inerpicarvisi anche le cavalcature, aiutate dagli uomini. Questo lavoro riuscì a maraviglia, quantunque pericolosissimo. Da poichè, se un piede veniva meno a qualcuno, rotolava nell'abisso e perdevasi (p. 20) sotto un trenta piedi di neve. Come però furono sull'erta di quella piattaforma, il vento li prende più gagliardamente. Tentano fare ancora alcuni passi, ma torna loro impossibile. Imperciocchè vedevano calar giù precipitosi dalla vetta immensi castelli di neve girati a turbine, innanzi a cui nulla poteva resistere. Si gittano perciò bocconi sulla neve, si accollano a qualche sporgenza di roccia, e di lontano odono ruinar le valanghe, screpolarsi il ghiaccio sì che ne tremava tutto il monte, muggire il vento furibondo che passava sui loro corpi, trascinando turbini di neve, grandi come palagi di sovrani. Erano intirizziti. I loro volti sformati, fatti piombini; gli occhi sanguigni; l'alito gelato; il respiro difficile. Intanto mezzo le persone restavano seppellite nella neve. I cavalli stessi si erano accovacciati al suolo; e qualcuno, che non fu sollecito, tratto dall'uragano rotolò ne' precipizi facendo udire grido lamentevole e straziante.
Così trascorsero due ore nella più terribile agonia, atterriti, più che dal pensier della morte, da quelle convulsioni fragorose della montagna, che sembrava volersi scardinare e fuggire l'ira della bufera. Quello sbrigliato infuriare però cesse alfine alcun poco. Il vento spirava ancor forte, ma potevano mantenersi in piedi, l'uno attaccandosi all'altro, mercè una specie di gomena, reggendosi ai bastoni ferrati. Il loro (p. 21) andare da prima fu lento; dappoichè, quantunque si fossero sempre agitati ed avessero battuti i piedi per intrattenere il calore, si potevano dire stecchiti dalla neve che come sottil polverio aveva compenetrati i panni, ed agghiadate le persone. A poco a poco però accelerarono, e giunsero alla cima del Cenisio, all'ospizio.
Di questo luogo di rifugio si attribuisce fondazione a Carlomagno, a Luigi il Buono, o ad una certa contessa Adalasia. Sia chiunque, i cenobiti accolsero quella gente con ogni carità, e prodigarono loro quelle cure che lunga serie di sperienze aveva insegnate giovevoli. In poco d'ore, e' furono interamente rifocillati. Si seccarono o mutarono i pastrani; con la neve fecero strofinarsi le parti aggelate; pigliarono ristori di brodi e di cibo. Sicchè, alle due dopo il meriggio si trovavano in istato di principiare la discesa, perchè il sole già fulgido e bello splendea nel cielo, quasi la vicinanza d'Italia lo rallegrasse. Da prima percorsero un po' di piano, costeggiando un lago, che sembrava oramai una tavola di piombo damascata, le cui punte splendevano al sole come prismi di diamanti. Si andò innanzi così per un tratto. Però, come furono al pendio dell'ultima vetta restarono lungo tratto a saziare lo sguardo, che già lontano poteva spaziare sull'Italia per le pianure piemontesi e lombarde, fino alle montagne di Genova. Un grido di gioia prorompe da (p. 22) ogni petto, meno da quello di Enrico. Enrico non sapeva qual fortuna avrebbe incontrata laggiù, e rodevasi nel cuore che egli dovesse percorrere da penitente e da esule una terra dai suoi maggiori percorsa da trionfatori. Si avventurarono poscia alla discesa.
Per l'imperatrice avevano recata una specie di tegghia di cuoio, a foggia degli antichi cocchi, affidata a grosse funi armate di uncini che ficcavano e sficcavano nel ghiaccio. Sopra delle stanghe, inchiodate a croci, eransi allogati i bagagli, anch'essi mantenuti da funi.
—Badate ai cavalli, gridava continuamente Baccelardo, esaminate i ferri; avviluppateli tutti in pelle di montoni, onde, se cadono, non si feriscano a questi diabolici stiletti di giaccio; tenete loro le briglie corte; sempre due di fianco ad ogni cavalcatura ed adagio. Gli uomini scandaglino prima i sentieri con i bastoni.
—Lasci pure, lasci pur fare a noi, bel cavaliere, rispondeva Giacomo. La discesa è più difficile dell'erta; ma la marchesana di Susa ci ha costumati a questi valichi ed a menare uomini e bestie. Però, ascoltino bene. Dove non si va con i piedi bisogna bene aiutarsi con le mani, andar carponi, mettersi sul sedere; dove non si può reggersi in su, occorre scivolare e Dio provveda a che non si scivoli nelle voragini. Quei crepacci sono ghiotti di carne umana, di carne viva. Dio solo ed il diavolo giunge a strappar (p. 23) loro le anime, se pur non vi restano apprese dal gelo.
—Occorrerebbe avere gli artigli con che l'abate di Fulda addunghia i suoi vassalli per calarsi giù a quattro zampe, diceva Enrico a Baccelardo, un po' riconfortato.
—Ovvero la sveltezza con che l'abate di Montecassino corre dietro alle gonne delle sue vassalle, faceva eco Baccelardo.
—Dall'altro lato mi soffocava la nebbia e la nevuscola, qui mi abbacina il riverbero del sole, sclamava l'imperatrice Berta. Gli occhi mi schizzano; credo ne sprizzi il sangue. Veggo tutto rosso.
—È il tramonto, madonna, diceva Giacomo per confortare quella bella creatura, che il desio di vedere la sua terra natia aveva rifocillata, sì che aveva tolte via le bende del collo, del capo e del volto, ed allargate le pellicce.
Il sole infatti si dileguava dietro le vette più alte di quei picchi, ma non perciò il cielo si offuscava. Infrattanto, a misura che scendevano, le spalle della montagna divenivano più piane, meno ripide, più praticate, la crosta del gelo meno spessa. I precipizi che lambivano erano gli stessi; l'ossatura della montagna si mostrava egualmente accentuata a forti gibbe, a moltiplici punte. Ma tutto sembrava meno salvaggio, avviluppato da un aere più cilestre, dissimulato dalle ombre tra il purpureo ed il violetto di cui la luce del (p. 24) cielo d'Italia li avvolgeva, raddoppiandone la distanza.
Malgrado le precauzioni però, un uomo da prima, fra quei che si davan la muta in sostenere la treggia che portava la regina, scivolò e precipitò. Ma per avventura e' se la trasse con la rottura di uno stinco ad una prominenza di roccia, che lo rattenne a mezzo dell'abisso. E lo si giunse a salvare. Poscia precipitò giù e perì sprofondato nelle nevi di quei gorghi un cavallo: quindi rotolò una barella da carriaggio, che pure si perdè. Si raddoppiarono le cure. Si legarono tutti con una fune sì che formassero una sola catena; e per buona ventura s'incontrarono corrieri, nativi di quelle alpi, che avevano fatta la via due dì innanzi, e che facilitarono i passi. Così che, all'oscurarsi della notte, la comitiva si trovò a Susa. Il cielo splendeva di stelle sopra un azzurro profondo.
Al vocio ed allo scalpitar dei viaggiatori, gli abitanti della contrada mettevano fuori delle loro finestre il capo ed uscivano sull'uscio, salutando di un ave Maria chi passava o dimandando l'elemosina. Accorsero tutti però, portando torce, tizzoni, lucerne, lanterne, quando la voce si sparse che fosse Berta, che in mezzo a loro ritornava: e gli echi più lontani del Cenisio risonarono di alleluia! e di benedizioni.
All'indomani, Enrico partì per Torino.
Non sono i regni e le potenze unite.
Nè possono esser; perchè il papa vuole
Guarir la Chiesa delle sue ferite.
L'imperador con l'unica sua prole.
Col presentarsi al successor di Piero,
Al Gallo il colpo ricevuto duole.
Il primo ad andare incontro all'imperadore fu l'arcivescovo di Ravenna Guiberto. Enrico lo accolse con ogni segno d'amorevolezza, ed egli, dopo essersi seco lui congratulato del prospero arrivo in Italia:
—Sire, disse, vi domando il permesso di presentarvi il clero ed i nobili della vostra fedele Lombardia, i quali al pari di me desiderano profferirvi ossequio.
Quella parte d'Italia chiamavasi allora quasi tutta Lombardia.
—Mercè a voi, monsignore, rispose il re, che in questi generali dissidi mi avete mantenuti obbedienti i miei bravi Italiani.
(p. 26) —Sire, soggiunse l'arcivescovo, io conosco di buon lato che Vostra Altezza soffre questi guai per aversi meco voluto mostrar grazioso ed avermi colmo di favori. Quel diabolico uomo di mastro Ildebrando non perdona mai per proprio stile; me poi non vuole udire neppure se dovesse dannarsi, e semina i triboli sopra quanti usano meco e di grazie mi largheggiano. Ecco donde la frega di toglier via le investiture, di abolire le mogli, e' che già si ha rubata la mia, e le liti che v'intenta per avermi fatto arcivescovo. Vedremo, però, chi di noi vincerà la puntaglia. Io sono già alla testa di ottocento lance e duemila balestrieri a piedi. Gli altri prelati e signori italiani vi formano esercito meglio di quattromila cavalli e diecimila arcadori, tutti pronti al vostro cenno e caldi di entusiasmo, per morire con voi o vincere.
—Ed il resto d'Italia, monsignore? dimanda Enrico pensieroso.
—Del resto d'Italia, sire, quelli che ricordano la vittoriosa memoria di Enrico III, trepidano, e predicono giorni funesti. Dappoichè duole ad ognuno la guerra cittadina ed il guasto della patria. Quelli che han ricevuto onta da Gregorio rimangono inflessibili a rimbeccargliela più amara e crudele; e questi sono i più ed il meglio delle Provincie italiane, tutti alti membri del clero e feudatari. Vi ha infine la gioventù, fastidita dell'inoperosa anarchia in che, per la lunga assenza (p. 27) della grandezza vostra, Italia hai gemuto, e della vita ingloriosa che trascina. E questi, nemici naturalmente di un papa severo ed orgoglioso che vorrebbe fare del mondo un cenobio, e degli uomini dei servi del clero, anelano a nuovo ordine di cose, a destino più nobile, a libertà e gloria. Per modo che, sire, dove appena mandiate bando di esser venuto per sostenere Italia nell'indipendenza dei suoi diritti, e di mettere, a ragione questo petulante pontefice, confirmando le franchigie del clero e dei laici, e volendo salde e riverite le antiche constituzioni dell'impero, tutta Italia alzerà una voce sola di giubilo, e vi troverete a testa di un esercito di cui mai maggiore ne levarono gli antichi tempi, nè la Germania.
—Sire Iddio, sclama l'imperatore scintillando negli occhi, fa che io mi vendichi del figlio del falegname di Soano e di quei traditori miei vassalli, e poi rinunzio senza sconforto alla vita ed all'impero.
—Vi è anche di più, sire, soggiunge Guiberto, il concilio che ho raccolto a Pavia ha condannato Gregorio come eretico, e lo ha deposto dalla sede di Pietro, in conformità del sinodo di Worms.
—E gliene avete fatti intimare gli atti?
—Sicuramente, dal vescovo di Bovino, anch'esso qui fuori ansioso di prestarvi omaggi per sè e pel suo padrone, Roberto Guiscardo.
(p. 28) —Ah! l'ardito conquistatore?
—Sì, sire, ed udrete quali generose profferte e' manda a farvi pel suo ambasciadore.
—Sta bene. E voi, monsignore, vi siete composto con lui per quel prezioso disegno di presentarvi al papa come un pezzo di selvaggina?
—L'ho dovuto, sire, onde guadagnarlo al vostro partito. Però non l'ho ancora perdonato; nè il perdonerò, se prima non abbiamo insieme rotta qualche lancia, dove che siasi e quando ciò possa avvenire.
—Siete un bravo, monsignore arcivescovo, riprende Enrico stringendogli la mano. Sol che vi somigliassero un paio di dozzine di que' miei poltroni di nobili, che ora non saremmo qui in Italia per impetrare perdono.
—Per impetrare perdono! mormora l'arcivescovo maravigliato. Ma, con la vostra sopportazione, sire, quale sarebbe dunque la vostra mente?
—Lo lascio decidere a voi, Guiberto, appena rifletterete che l'anno della scomunica è prossimo a spirare, e che se non mi trovo assolto di anatema, per costituzione di Germania, decado dal regno.
—Dunque pensereste, sire....?
—Ad ogni costo aggiustarmi col pontefice, e farmi sciogliere dalla scomunica.
—Anche a costo di umiliarvi? dimanda Guiberto.
(p. 29) —Mai no, per certo! Ma se le circostanze mi vi traessero, la vittoria del domani non compenserebbe ella forse il rovescio di oggidì?
—Compenserebbe! mormora l'arcivescovo.
—Si, continua Enrico con calore. Che credete, Guiberto, che mi potessero giovare i vostri dodici o quindicimila uomini, in faccia a due nazioni non bene decise nè ben rassodate? Poi la contessa Matilde ha anch'essa un esercito, nè è nostra amica. Gli Italiani sono volubili; e per quanto si mostrino divoti all'impero, non so lusingarmene, conosco che quel freno lor torna insopportabile ed esoso, e spiano l'opportunità di spezzarlo. Sì che, Guiberto, vedete anche voi a qual partito mi rimanga appigliarmi.
—Sire, replica l'arcivescovo dignitoso, io non so nè vi rispondo della mente dei miei concittadini. Sia però quale si voglia la vostra fortuna, contate, sire, e potete giurare di non fare assegnamenti falliti, contate sulla persona e sulla fedeltà dell'arcivescovo di Ravenna, che vi verrà manco solo con l'ostacolo della morte.
Enrico gli stringe la mano fortemente, velando gli occhi di una lagrima, poi dopo alcuni minuti di silenzio soggiunge:
—Monsignore di Ravenna, compiacetevi di presentarmi i miei fedeli di Lombardia.
Quei signori, ragunati nella sala vicina, lo accolsero con un grido prolungato di applausi e di gioia. Enrico li salutò grazioso, dicendo loro (p. 30) cortesi parole, ringraziandoli della lealtà e divozione che gli mostravano. Essi gli fecero tutti sacramento di essergli fedeli, e di non abbandonar la sua causa per qualunque sfortunato volger di cose. Enrico li ringraziò novellamente; poi alla testa di così brillante corteggio e risoluta truppa partì di Torino per Piacenza. Due giorni dopo vi giungeva anche il re.
Egli aveva evitato Parma; aveva poi costeggiato l'Enza, ed era venuto a valicarla a Rio di Vico.
Dopo aver nevicato tutto il dì, verso il tramonto il cielo si era rasserenato. Il sole si coricava come un globo di fuoco. Guadato il fiume, lo sguardo di Enrico s'ingolfò di subito in una gola di monti. In mezzo a quelli,—monte Atesio e costa di Grassa,—questo sguardo si urtò ad un burrone che si levava a picco comme una zanna. Brullo, tormentato, dirupato era il burrone. A cima di esso però elevavasi una vasta rocca, che, increspata il dì dal pulvinio della neve, ed ora indorata dagli ultimi raggi del sole sanguigno, scintillava quasi fosse incrostata di ardenti carboni. Era Canossa. Enrico si arresta; gli occhi divaricati ed immobili si fissano su quel fatale castello folgorante come un'aureola. La foga dei pensieri e degli affetti produssero nell'anima del re come una nebbia, in cui, vedendo tutto vago e vertiginoso, dispera penetrare. Dà quindi di sprone, si lascia a destra il forte maniero (p. 31) di Rossena, e per la straduzza di Grassano che costeggia Rio di Vico se ne viene a Vico di Canossa, a piè del castello.
Non vi si fermò; anzi mosse subito per Canossa, avendo saputo da corrieri dell'arcivescovo di Ravenna e del vescovo di Vercelli, che la contessa Adelaide, dopo aver venduto a lui il passaggio delle Alpi, era discesa in Italia a spargervi la nuova di sua venuta. Per lo che gl'Italiani, che ora lo circondavano, si erano uniti al bando di Guiberto; e mentre questi, chiuso il concilio di Pavia, cavalcava la notte per alla volta di Torino, Gregorio, della presenza del re in Italia spaventato, la notte istessa erasi andato a rinchiudere nel Castel di Canossa con la sua bella penitente Matilde.
Egli aveva lasciato in dietro la truppa per non dar sospetti nè appiccagnoli al papa. Seguíto solamente da Guiberto, da Baccelardo ed altri pochi cortigiani prese dunque stanza nel piccolo romitaggio votato a s. Nicolao, che trovavasi in quello spicchio di casupole dei vassalli della contessa, alle falde del burrone su cui torreggiava la fortezza.
Come la contessa Matilde udì dell'arrivo dell'imperatore, gli si recò tosto a far visita, comandando che di ogni cosa, con real munificenza, il cenobio fosse fornito. L'accompagnavano Adelaide di Susa col suo figliuolo Amadeo, il marchese Azzo d'Este, e l'abate di Cluny, che era (p. 32) stato padrino del re al fonte battesimale. Enrico, vedendo apparir la contessa, le andò incontro, e baciandola sulla fronte:
—Qual cortesia, sclama, nella nostra bella cugina di venire a visitare uno scomunicato, senza paura d'imbrattarsi di peccato!
—Ne abbiamo tolto permissione da Gregorio, risponde Matilde senza badare, o senza comprendere l'ironia delle parole del re.
—Ah! vi dimandiamo perdono dunque, bella cugina, del sospetto temerario, soggiunge Enrico, componendo il volto a sorriso. Ma sì che non poteva essere altrimenti! Ed in vero, e' sarebbe doluto anche a noi che creatura così bella avessero dovuto adunghiare i demoni, ed ottenere quei villani cialtroni più che non ottennero i fedeli battezzati, divoti al papa.
Dappoichè gli è mestieri sapere che Enrico voleva qui accennare al marito di lei, Goffredo di Lorena, detto il gobbo, già morto, col quale giammai Matilde si aveva voluto accoppiare. La contessa lo comprende, e rimbeccandolo del fastidio in che anch'egli aveva presa un dì la regina Berta, sorridendo egualmente risponde:
—Veramente, sire, sotto questo rapporto bisogna dire che non avessimo tradita la parentela! Ma, a proposito, non vorreste avere la cortesia di presentarci alla nostra bella cugina Berta?
—Ella è restata a Piacenza con la corte e (p. 33) l'esercito, riprende Enrico, il quale a questa dimanda rientrò nella sua situazione, obbliata un momento all'aspetto di Matilde. Indi soggiunge: Berta ha fatto questo pellegrinaggio per amore: ma nè la nostra fierezza d'uomo, nè il nostro onore di cavaliere avrebbero sopportato che, anch'ella, avesse patita umiliazione o amarezza qualsiasi.
—Sire, papa Gregorio non è insensato da dimandar penitenza da chi è immune di colpa, risponde Matilde con molta serietà; nè noi, per quanto gli fossimo divote, avremmo tolto in pace che così bella e pia donna si sconfortasse.
—Voi siete allucinata, Matilde, sclama Enrico alquanto vivamente, e ci duole come vostro parente, che la vostra condotta debba consolidare il sindacato di Europa, la quale vi dice pazzamente imbertonata di tanto dissidioso energumeno. Come imperatore poi vi dobbiamo rimproverare di tradimento al vostro legittimo padrone, e d'infedeltà all'impero.
—Sire, replica con grande calma Matilde, se l'Europa giunge a persuadersi che noi potessimo sentir tenerezza per un vecchio di settant'anni, l'Europa è una stolida. Noi nel papa adoriamo Iddio, come quegli che lo rappresenta sulla terra, come la provvidenza umanata. Noi gli tributiamo la cieca riverenza che ai decreti di Dio si deve, e ci prosterniamo ai suoi voleri, perchè ai voleri di Dio è stolto chi resiste. Noi insomma, (p. 34) sire, non veneriamo nè Gregorio VII, nè Alessandro II, nè Nicolò II, ma la dignità, ma lo spirito scevrato d'ogni forma terrena. Lo abbiamo idealizzato nel papa. Nel papa che passa, noi riconosciamo il papato, e più che il papato, la Chiesa. Se poi vostra grandezza ci trova ribelli all'impero germanico, da cui dipendiamo, non è nostra colpa, sire. Noi siamo inspirati da un'intima convinzione che, avanti tutto, debba andare la salute e la gloria dell'anima, poi l'indipendenza della patria.
—E quando, bella cugina, si è trattato di anima e di patria nella lotta della Chiesa e dell'Impero?
—Le vostre querele col pontefice, sire, con la vostra sopportazione, non hanno altro scopo. Voi in lui cercate avvilire, o rovesciare il propugnacolo dei popoli, l'altare a cui si va a supplicare. La terra ha due braccia. L'uno che semina offese e schiavitù, ed è quello dell'imperatore; l'altro che rileva gli oppressi e resiste agli oppressori, ed è quello del pontefice. Questo braccio, sire, voi avreste voluto troncare; voi avreste voluto togliere ai popoli ogni rifugio; soffocare la voce che in nome di Dio chiama a dovere i potenti e regola la giustizia dei sommessi. La vostra lite col pontefice interessa l'umanità. Non è un duello di uomo ad uomo, di popolo a popolo, di forte con forte. E dove, sire, si tratta di mantenere l'equilibrio tra i diritti (p. 35) dei soggetti e le pretensioni dei despoti, dove si tratta di serbare immaculate le ragioni dell'anima, tutte nel pontefice concentrate, allora, sire non v'ha ribellione di sorta; ma chi brandisce la spada esercita un dovere di uomo e di cittadino, ed è benedetto da Dio.
—Cugina, risponde Enrico placidamente, si vede che la vostra immaginazione è esaltata. Voi delirate di sogni. Vi siete riscaldata ad un fuoco fatuo; vi han travolto il cervello le parole sediziose di un uomo, che ambisce al dominio del mondo, che vorria collocare il suo soglio sulla base delle corone dell'universo. Qui non si tratta punto di diritti di popoli e di libertà di coscienze, cugina. Qui si tratta che il vescovo di Roma, fino a ieri vassallo dell'impero, oggi se ne vuole elevare a padrone. Si tratta di un ribelle che insulta il suo signore; che gli nega ogni obbedienza, ogni soggezione, ogni fedeltà. Si tratta insomma che il figlio del falegname di Soano ambisce ad avvilire i sovrani di Europa; bandisce il suo potere sul potere dei re; si tramezza nei loro interessi; vuol regolarne le leggi; vuole annullarne il dominio; vuol tornare i reami di Europa Provincie di Roma. Egli annunzia alla terra, io sono il re dei re! Ecco di che si tratta, graziosa cugina, non già delle vostre rimbombanti fiabe, che puzzano di fanatismo le mille miglia.
—Così la intendete voi, o sire, ma non la (p. 36) intendono così i popoli, ed i vostri stessi vassalli.
—Gli è perchè, bella cugina, i pessimi trovano sempre a guadagnare nelle sedizioni, e perchè i pessimi sono i molti, ed i più facili ad essere prevaricati, segnatamente quando assumono maschera speciosa e se l'adattano al sembiante. Ma sia come si vuole, noi veggiamo che voi siete nel più caldo parosismo di superstiziosa cecità, e che tenteremmo opera vana ritornarvi alla luce. Essenziale adesso gli è che vogliate prestarci mano a ricomporci col vostro Gregorio, e farci ritrarre la scomunica.
—Sire, risponde Matilde, comunque voi ci crediate allucinata, noi vi abbiamo sempre stimato quel prode e magnamimo che siete, e non abbiam giammai desistito di difendervi innanzi al pontefice, e di calmare il suo sdegno. Siate certo perciò che, dove persuasione e sacrifizio di uomo può giungere, noi tutto tenteremo per ristabilire la pace.
—E noi, sire, faremo altrettanto, risposero la contessa Adelaide ed il marchese d'Este, se per avventura papa Gregorio vorrà lasciarsi piegare.
—Ed io, a costo di dovergli dar della picozza sulla memoria, soggiunge l'abate di Cluny che già veleggiava per gli spazi aristotelici, gli farò comprendere che egli geme sotto il dominio dell'illusione. Perciocchè quest'universo, che egli crede già cavalcare, per fisica predeterminazione non (p. 37) è che puro fenomeno della nostra intelligenza, una scena fantasmagorica che non ha nè realtà nè esistenza vera fuori della rappresentazione del nostro spirito. Di modo che, se lo spirito non esistesse per far l'eduzione delle forme materiali, non vi sarebbe che il niente, o almeno nulla si potrebbe provare, ed egli, il caro scettico Ildebrando che si cuoce il grifo all'astrusa sapienza di santo Aristotile, egli sarebbe papa come il mio alano è poeta.
A questa stramba uscita dell'abate, Enrico fece un moto di dispetto. Onde, dandogli sulla voce imperiosamente, si volge a quei baroni, che già sotto i barbigi ridevano, e con fierezza parla:
—Uditeci, signori. Noi ci siam condotti ad un passo che a Gregorio dovrebbe bastare, e dovrebbe far senno di cedere. Ma se egli è tanto intestato di ambizione da non comprendere lo stato di entrambi noi ed a qual giuoco ci siamo messi, sappia che meglio di quindicimila uomini sono già al campo di Piacenza ad attendere gli ordini nostri. E questi soli sarebbero sufficienti a togliere d'assedio codesta vostra piazza di Canossa, Matilde, e darci nelle mani la sua persona. Ma noi faremo ancora di più. Noi bandiremo libertà ad ogni città italiana, che ci manderà un contingente di truppa a questa guerra; e quando avremo rovesciato nel fango codesto vitello d'oro degl'infedeli, e ridotti i ribaldi di Lamagna, ci contenteremo meglio di avere alleata questa nobile (p. 38) Italia, che vassalla. Adesso andate, e voi principe Baccelardo con loro onde trattare col pontefice, giusta le istruzioni che vi abbiamo date.
Quei signori partirono sgomentati. E' sapevano per prova come Gregorio fosse ostinato, capace Enrico di mantenere le sue promesse; segnatamente adesso che l'agitava disperata irritazione.
Gregorio ricevette Baccelardo, presentato da Matilde, senza dar segno di conoscerlo, con molta freddezza e distrazione. Però, quando Baccelardo cominciò:
—Santo padre, l'imperatore di Germania Enrico mi manda a voi...
Gregorio gli tagliò le parole in bocca, e fiero sclamò:
—La Germania non ha imperatore.
Baccelardo si arroventa nel volto, e fisa gli occhi scintillanti sopra il pontefice quasi avesse voluto fulminarlo. Ma poi ricordandosi che egli era lì per supplicare perdono, e che la posizione del suo padrone oltremodo diveniva precaria di giorno in giorno, raffrena l'impeto che lo dominava, e soggiunge:
—Santo padre, Enrico è venuto fin di Lamagna per dimandarvi l'assoluzione della scomunica. Egli è stato calunniato presso di voi da vassalli infedeli, che avevano troppo a guadagnare nei dissidii; e voi gli avete posti anatemi sopra base di colpe che giammai lo lordarono. (p. 39) Prega perciò vostra beatitudine di udire le sue difese e discioglierlo dalle censure.
Gregorio, torvo in viso, lo sta ad ascoltare, poi dopo lungo indugio risponde:
—Sappia Enrico di Germania che gli è contro le leggi ecclesiastiche giudicare accusato, assenti gli accusatori, e portar sentenza qualsiasi. Se egli era conscio a sè d'innocenza, non avrebbe evitata la dieta di Augusta, dove noi, udite le ragioni di ambo le parti, avremmo pronunziato con quella giustizia che Iddio ci inspirava. Perchè dunque da quel giudizio è rifuggito?
—Enrico non ha paventato il giudizio, santo padre. Ma, innanzi della corona e della vita, bisogna riguardare l'onore. Ed il suo onore di cavaliere, e la sua dignità di re malamente sopportavano di soggiacere alle accuse ed al giudizio di vassalli.
—Che pretende dunque da noi?
—Pretende che, come capo de' cristiani, udiate le discolpe di un cristiano calunniato ed oltraggiato da scellerati; pretende che, come vicario di Dio, spogliate ogni terrena passione ed udiate i lamenti dell'innocente, e gli facciate quella giustizia che gli faranno i posteri, non agitati da ire di parti, ed Iddio al suo eterno tribunale. Ecco ciò che pretende Enrico; e perchè giusta le costituzioni dell'Impero perderebbe la corona se con l'anno vicino a spirare non fosse assoluto, egli vi dimanda codesta assoluzione e si offre (p. 40) a qualunque ammenda e soddisfazione onorevole a lui vogliate richiedere.
—Ah! scoppia Gregorio irritato, non è dunque contrizione delle sue peccata che a noi lo guida, è la paura di decader dall'impero? Ebbene, noi non vogliamo riceverlo. Il perdonarlo sarebbe violare il nostro santo ministero. Egli è venuto a fare un nuovo oltraggio alla sedia di Pietro ed alla persona del vicario di Dio col dimandare mercè; e noi non possiamo, noi non vogliamo accordargliela.
—Ma, santo padre, prosegue Baccelardo, di che deve dunque contrirsi chi non ha colpa? Come voi lo chiamate peccatore, se non l'avete ascoltato ancora? Come lo pretendete penitente se la sua coscienza è tranquilla? Non abusate del potere che vi hanno dato i popoli onde tutelare la giustizia dei loro diritti, per condannare inesorabilmente gl'innocenti su calunnie che torna bene a taluno di addossar loro.
—Si sottometta dunque alla dieta dei principi tedeschi.
—Ma l'anno della scomunica spira, sclama Baccelardo contenendosi appena, ma la somma dignità di re ne rimane vituperata...
—Noi non vogliamo ascoltarlo, l'interrompe Ildebrando. Sappiamo troppo quanta saldezza abbiano i giuramenti di lui; come li ha mantenuti con i Sassoni; quanto fermo ha il carattere. Si umilia adesso, stretto da angustie. Ma domani (p. 41) non ristarebbe di elevare superba cervice contro di noi novellamente, contaminare il santuario, e sperperare la casa e le masserizie di Dio. Egli è volubile, guasto nel cuore, protervo, non teme la giustizia del Signore, non rispetta i dritti dei popoli; la nostra voce non obbedisce nè paventa. Noi dunque non vogliamo vederlo; e succeda di lui ciò che sta scritto nelle pagine eterne, del cielo.
—Santo padre, riprende Baccelardo, sforzandosi ad esser calmo, voi giudicate Enrico secondo ve lo hanno dipinto, non quale egli è veramente. Egli ha nobili e pii intendimenti, non è corrotto, non è mutabile. Se i vostri legati, per brusco ed orgoglioso condursi, lo irritarono contro di voi, adesso ne è pentito, e protesta di assoggettarsi a qualunque penitenza per riconciliarsi con la Chiesa. Non vi fate maggiore di Dio voi, che ne siete il vicario. Iddio dimentica i trascorsi di chi torna a lui umiliato; e voi, uomo, voi, peccatore eziandio come ogni uomo lo è, sareste voi inesorabile e scagliereste la prima pietra? La parola d'ordine del vostro apostolato è carità. Non date ragione ai vostri nemici che vi dimandano tiranno, lupo rapace, usurpatore, di cuore duro, di anima perversa. Riflettete, santo padre, che la vostra protervia schiaccerà il re, sì; ma come Sansone ne resterete schiacciato anche voi. Perchè i popoli vi toglieranno ogni credenza, ogni rispetto, e tornerete (p. 42) esosa quella cattedra di Pietro che volevate venerata cotanto.
Baccelardo fa alcuni passi per allontanarsi, allorchè Gregorio dimanda:
—Egli è dunque veramente pentito, dite?
—Ma sì! che se nol fosse, egli avrebbe profittato dell'esercito che ha lasciato a Piacenza per istrapparvi con la forza una parola che così fieramente vi ostinate a negargli.
—Ebbene, risponde Gregorio, se egli è appunto come voi affermate, ser cavaliere, che Enrico si pente dei suoi sacrilegi, che in arra di pentimento e' consegni ai legati apostolici lo scettro ed il diadema, e si confessi indegno dell'onore e della potestà imperiale.
—Ma questo è infame! scoppia Baccelardo non contenendosi più, questa è una tirannia da forsennato senza coscienza e senza pudore!
Matilde che vedeva quanto iracondo ed avventato fosse l'oratore di Enrico e come pertinace Gregorio, se gli lascia allora cadere ai piedi e comincia a supplicarlo. Nella fortezza erano ancora molti prelati oltramontani ed italiani messi al digiuno di pane ed acqua. Questi, che taciti avevano assistito allo strano dibattimento, vedendo la contessa in quell'atto, ne seguono tutti l'esempio; e tanto dissero, tanto pregarono che l'invincibile pontefice consentì alfine persuadersi. Egli accorda quasi per grazia ciò che ben egli comprendeva, per fina politica, tornargli (p. 43) estremamente vantaggioso. E perchè grave pericolo correva dalla disperazione di Enrico, illimitato utile ed importanza dall'avvilimento di lui, si volge a Baccelardo e parla:
—Sta bene. Dite dunque al vostro padrone: primo, che in avvenire curi di meglio scegliere i suoi messaggeri, e che non ci mandi più innanzi un insolente, il quale, vestito della divisa di oratore, si reputa in dritto di balestrar le parole come un giumento ubbriaco balestra i calci: inoltre, che sappia grado e renda mercè alle suppliche pietose di questi signori, se noi gli concediamo di accostarsi a Canossa per cancellare con la sommessione e la penitenza l'oltraggio recato alla nostra persona ed alla Chiesa. Andate.
Baccelardo si stringe nelle spalle sdegnosamente e prima di partire fissandogli addosso alteramente gli occhi, risponde:
—Ser papa, l'imperatore Enrico udrà la vostra prudente risposta, e non mi avrei mai perdonato, se, per mia poca umiltà, non vi foste condotto a questo giudizioso partito. In quanto a me poi, santo padre, gli è ben che sappiate aver deposta oramai qualunque speranza, fuori quella di morire da cavaliere illibato, fedele a colui per cui mi piacque prestarmi. Io non curo quindi la vostra ingiuria più che non curerei dell'infelice arguzia di chi giungesse solamente a farmi sbadigliare. Addio.
(p. 44) Ciò detto saluta della mano quei signori, bacia la destra della contessa Matilde, e volgendo le spalle superbamente al pontefice esce. Gregorio lo seguì dello sguardo sanguigno fino a che non l'ebbe perduto di vista, e senza avvedersene, i denti della mascella superiore si eran tanto addentro ficcati nel labbro inferiore che il sangue ne spiccava.
J'ose a peine le croire:
Mais ce jour à jamais emplira ma memoire.
Il castello di Canossa nel secolo XI era tra le piazze forti d'Italia la più famosa e la più solidamente munita. Messo, come accennammo, a cavaliere di picco dirupato, era di quel lato imprendibile assolutamente per assalto o scalate. Dall'altro lato poi, da quello ove era il borgo di Vico di Canossa, come l'erta del burrone addolcivasi, era stato munito di tre ordini di rampe, che ripiegavansi a foggia di ferro di cavallo. Ogni giro di quelle rampe era chiuso da una porta, che si sopraponevano, guarnita di saracinesche e petriere. Al termine della seconda rampa, innanzi di arrivare alla terza porta, era stato scavato nella roccia un fosso, cui si traversava su ponte levatoio e si colmava di acqua mercè la grande cisterna esteriore della corte. L'ultima porta immetteva sur un vasto spianato, che dava sul principio del burrone, in un angolo del quale, (p. 46) quello che guardava il Vico di Canossa e le rampe, elevavasi il vasto edifizio. Al castello atteneva un piccolo cenobio con sei celle per sei frati benedettini, di cui capo era il Donizone che le serviva un po' di tutto. Tra il cenobietto ed il castello eravi un cortile con impluvio, un orto, poi le cucine. Si entrava nel castello per un vestibolo. All'angolo mattina del castello torreggiava sul burrone un'immensa rocca quadrata, e quivi si trovavano le prigioni e la cappelletta, dedicata a S. Apollonio, a cui scendevasi per qualche gradino. Ornavano la cappella colonne di marmo rosso che ne sostenevano la volta. Le mura, ossia le rampe, erano guarnite di merli, di bastie, di grossi mangani da lanciar pietre. Così che quel castello non poteva levarsi d'assedio, per poco che fosse provvisto di scorte e di uomini, per quanto grosso fosse il numero degli assediatori. Ed infatti Ottone tre anni vi fece consumare al re Berengario, quando volle ghermire Adelaide vedova di Lottarlo, nè il prese. Imperciocchè Adelaide chiamò in suo soccorso Ottone re di Germania, che la liberò, la sposò—e con questa unione fuse nella sua casa il regno d'Italia. Alla morte di Goffredo di Lorena, marchese di Toscana, e di Beatrice sua moglie, Matilde, figlia di costei e del primo marito Bonifazio, riunì l'immensa eredità dell'antico marchesato di Toscana a quella della casa di Canossa, e divenne sovrana del più grosso feudo d'Italia.
(p. 47) Due furono sempre i movimenti di questi marchesi: levarsi a signori d'Italia tutta; favorire i papi nelle lutte cogl'imperatori di Lamagna. Matilde aveva deposto il primo pensiero. Ma più che tutti i suoi antenati, più che ogni altro principe divoto, ella caldeggiava per la sede di Pietro.
Matilde, nella prima giovinezza, aveva anche essa forse soccombuto all'imperio dei sensi, alle tentazioni della voluttà, alle seduzioni dell'amore, al fascino di quelle parole che danno la vertigine alle fanciulle. Poi, disingannata forse, oltraggiata in sua fierezza, o inebbriata di più alto sentire di sè e di sua dignità, più matura negli anni, più dotta della realità dell'esistenza, si era isolata da qual si fosse passione terrena. Nel suo cuore aveva spento l'amore, che è tutta la vita di giovane donzella. Aveva scacciata la vanità di essere la più bella castellana d'Italia, che gli era un soffogare le più soavi e brillanti illusioni di una donna. Aveva sepolto nell'anima l'orgoglio del fasto e del potere, ch'è quanto mai femmina possa ambire e desiderare. Ella aveva concentrato il suo spirito sull'elevato pensiero della vita futura e del destino dell'anima oltre la tomba. Le sue facoltà intellettuali avevano perciò acquistata una visione indeterminata; le sue idee un colorito vago e fantastico. Ma nel tempo stesso, con l'ostinato meditare sopra oggetti ascetici, aveva assunto un (p. 48) rigore di principii, una solidità di carattere che nulla valeva a riscuotere, e che le davano quella specie di cieco coraggio che nulla cura, nulla bada. Si era devoluta come schiava all'arbitrio dei pontefici. E questi, non è a dirsi, se avessero saputo profittare della fatale tendenza di una principessa tanto potente. Matilde aveva seriamente contemplata la dignità del papa. Lo aveva scevrato dall'uomo, e gli aveva assegnato il dominio della parte morale dell'universo. Il papa, per lei, era il pugno di Dio che stringeva le anime de' suoi popoli. Non essendo dunque il pontefice che un organo mosso dall'intendimento di Dio, che un portavoce dei comandi del cielo, il non obbedirgli significava ribellarsi al Signore. Identificato così il pontefice e Dio, Matilde aveva messo a scopo della sua vita soddisfarne ogni volere indefinitamente, per poi lasciargli l'eredità dei suoi Stati. E così fece.
La sua corte componevasi. di uomini austeri ed ipocriti. Non fasto di abiti, non pompe di feste, non brio di banchetti, non fulgore e spirito di cortigiani, non perigliose delizie di cacce, non treno ricco di servi e cavalli, di astori e di alani. I menestrieri fuggivano il castello come soggiorno maledetto. I giullari e gl'istrioni vi passavano del capo chino mormorando una maledizione alla fredda castellana. I merciaiuoli e le cortigiane lo detestavano, non trovandovi a (p. 49) trafficare le loro merci. Gli stessi guerrieri, per cui la vita scioperata e le forti crapule sono elemento necessario di esistenza, in quella corte avevano attinto sussiego severo; e perciò appunto più duro e feroce carattere. Non dividevano le grazie della contessa che due individui. Una vecchia dama, alquanto sorda, alquanto losca, alquanto zoppa, del resto, nel cuore soda come macigno e capace di starnutire un buon migliaio di paternostri al dì; e Donizone, stravagante ed ubbriaco frate, che nell'ebrietà scriveva la vita di lei in versi esametri latini, e nei momenti di lucidi intervalli si tagliava le mani al torno. E quella le prestava i pochi uffizii di damigella che le potessero occorrere; questi le diceva la messa tutte le mattine, le benediceva la mensa, le faceva l'esposizione del sacramento all'ora di compieta, bene inteso però che Donizone adempiva a quest'altri doveri quando non si trovava ubbriaco, lo che spessissimamente avveniva. Vi servivano infine altri pochi famigliari, i quali acquistavano importanza solo in occasioni solenni come questa, che albergava gente al castello. Ed allora, perchè persone non pratiche e ad opposti mestieri addette, commettevano goffagini e disattenzioni senza fine, cui la distratta castellana neppur essa avvisava. E questi stessi erano un vecchio avanzo della corte del marchese Goffredo, i quali per loro vecchiezza, (p. 50) Matilde non aveva avuto il coraggio mettere sulla strada a mendicare.
A questo castello, verso l'ora di sesta del domani l'imperatore Enrico si approssimò. E' non portava divisa da re. Non aveva abito che annunciasse un principe o dimostrasse pompa. La testa coperta da berretto a foggia di capperuccio, il corpo di una tonica di grosso drappo verde, corta fino al ginocchio ed azzeccata al fianco da cinto di cuoio, le brache strette fino alla noce del piede sovramontate da coturnetti, ed un piccolo mantello uso a portare alla caccia per essere più spiccio e svelto. Del resto, niun'arma, nemmanco il pugnale.
Sorgeva intanto rigidissima giornata. Le nevi, cadute a iosa il giorno avanti, ridotte a minutissima polvere dal ghiado della notte, levava a turbine freddo vento di tramontana ed appiccava alle persone ed al muro come mastice. Lo stesso fiato si gelava uscendo dalla bocca. Enrico salì a piedi l'erta della rocca. Lo accompagnavano Baccelardo, Guiberto, il vescovo di Vercelli, quel di Bovino, e parecchi signori, venuti appositamente di Piacenza, udito della prossima riconciliazione, ed attendati per su le circostanti alture, non trovando ove albergare. Giunti sul piccolo spianato innanti le fortificazioni della prima porta, videro uscir fuori dalla postierla di soccorso l'abate di Cluny che, da star sugli spaldi, (p. 51) li aveva scorti. Ugone trasse incontro all'imperatore e gli disse:
—Sire, io ebbi l'onore di tenere vostra magnificenza al fonte del battesimo, e vi ebbi caro come figliuolo, venerandovi come re. Duolmi perciò che papa Gregorio abbia voluto darmi una parte a sostenere nelle disgrazie che vi hanno colpito. E duolmente maggiormente adesso che debbo dirvi, d'ordine suo, ingrate parole. Imperciochè so, sire, come sovente i grandi comunichino alle persone l'odiosità delle opere.
—Ma che vi han dunque comandato di dirci, messer abate? domandò Enrico impaziente.
—Eccovi, sire. Nel primo recinto di queste mura lascerete il vostro seguito: indi solo, spogliato dei sandali, del berretto e del mantello, i piedi e la testa nuda sotto l'aperta volta del cielo, pel tempo perverso che fa, e digiuno, attenderete nella seconda rampa che il papa vi appelli al castello per perdonarvi.
—Sacramento di Dio! scoppia Enrico digrignando ferocemente, ma costui ha dunque intieramente dimenticato che noi siamo re, unto come lui, ed inviolabile della persona? Vuole dunque gittarci ad eccesso da disperato, e demente cozzare con un demente?
—Sire! risponde Ugone tutto peritoso, vedendo la figura sformata del re, che percorreva a lunghi passi lo spianato. Sire, per la misericordia di Dio, quietatevi. Prestatevi a quest'atto di umiltà. (p. 52) Ne avrete larga ricompensa dal cielo, e trionferete dei vostri nemici. Che vi giova ribellarvi adesso, che vi sta nel pugno la vittoria, e che siete alla vigilia di mostrarvi ai popoli vostri più grande e più forte? Un segno più o meno di umiltà non vi sconforti. Ricordatevi che Cristo patì avvilimenti peggiori. D'altronde, gli è l'affare di un momento. Sarete tosto introdotto, io spero, e riconciliati; perchè quanti siamo nel castello non desistiamo dal tornare favorevole il pontefice.
Enrico lo stette ad udire, poi rispose:
—Dovremo dunque sorbirci questo calice fino alla feccia?
—Sire, si fe' a dire Guiberto, anch'io vi prego di non guastare l'opera cominciata per sì lieve formalità, che i canoni richiedono. Se aveste udito il mio consiglio, non vi sareste messo con sì nobile e generosa fiducia all'arbitrio dell'impudente pontefice. Ma poichè la bisogna si è cominciata così, finiamola come si può meglio, in nome di Dio, e lasciateci poi cura di ristorarvi l'onore quando che sia.
Enrico gitta un sospiro e sclama:
—Così vuoi, mio bravo Guiberto? Farò così: ma giuro alla Beatissima Vergine di Goslar...
—Perdonatemi, sire, se ardisco interrompere il vostro giuramento. Non sappia la luce del dì ciò che passa nel fondo della vostra coscienza. Nei tempi che corrono, anche la luce può divenire infedele.
(p. 53) Ugone di Cluny lo comprese, e gittando un sospiro susurra a voce sommessa:
—Dio ti perdoni, arcivescovo di Ravenna: da voi ho meritato questa sopruso.
Enrico strinse la mano di Guiberto e si prestò a Baccelardo che gli scioglieva i calzari ed all'arcivescovo che gli toglieva il mantello. Indi seguì l'abate che, a passo lento e taciturno, precedeva. Giunti innanzi la porta della seconda rampa, la postierla si aprì per lasciare entrare Ugone, il quale recava la novella a Gregorio, e si rinchiuse di nuovo sul volto del re. I frati del cenobio, i prelati rinchiusi nel castello, salmeggiavano dietro i merli della rampa. Enrico restò lungamente, degli occhi accollati a quella porta, immobile, assorbito in una nuvola di nere idee, che gli rinnovellavano i fatti diversi della sua vita come le vedute di un panorama. A tempi lontani, a scene varie egli viaggiò della mente, e considerò quanta improba fosse la natura degli uomini, che solamente nel male debbano star cheti, e ribellarsi ai modi dolci ed alle azioni generose.
Finalmente, assiderato, si tolse di quella posizione immobile, e conciossiachè passeggiasse sulla neve, cominciò a muoversi per bandire il freddo.
Intanto erano passate parecchie ore ed alcuno non si vedeva. I piedi arrossiti gli dolevano: il volto egualmente, ma più rosso di sdegno che (p. 54) di freddo; imperciocchè il sangue, a ventisei anni, rigoglioso gli bolliva per le vene. Suonò mezzogiorno; suonò vespero: nè alcuno da parte di Gregorio comparve. Enrico era digiuno. La neve, il vento gli percotevano il viso. Non udiva voce fuori di quella lugubre salmodia e di quella della natura crucciata. Ma egli non sentiva più fame, non sentiva più freddo, dell'ira dell'uragano non temeva; perocchè uno, ancora più terribile e fosco, imperversava nel suo cuore. Quelli della sua corte non ardivano presentarsi a lui onde non mortificarlo peggio nella sua umiliazione. Ma il loro cuore dava sangue, anche più concitato di quello del re. Infine suona compieta. Allora Baccelardo, non resistendo oltre, entra nel secondo girone, e recando ad Enrico i panni e gli usatti:
—Sire, dice, ho qui un'azza: comandate che quella porta vada a terra, e vi do parola di cavaliere che, ferrata com'essa è, ci andrà.
—E vada, sclama Enrico furibondo, ritirandosi.
Baccelardo, in men che si dice, comincia a scaricare sull'uscio tal tempesta di colpi, che la postierla principiava a sgangherarsi e ben presto gli avrebbe aperto il varco, se non si fosse affacciato tra i merli delle mura il vescovo Giovanni di Porto ed avesse detto:
—Ser cavaliere, a nome della contessa Matilde e del pontefice Gregorio v'intimo desistere (p. 55) dall'opera pazza, e di allontanarvi, se non vi torna più grato di esser salutato da qualche centinaio di frecce.
Baccelardo sospende i colpi e sta ad udire il parlamentario; e come questi ebbe finito:
—Cane di un vescovo, grida, tu sei un poltrone come il tuo padrone, e tutti agite da poltroni malcreati. La mia risposta intanto è questa; e così potessi darne una somigliante anche al figlio del falegname di Soano.
E sì dicendo, scagliava l'azza contro il vescovo, che ne avrebbe avuto certo spaccato il cranio, se sollecito non si tirava indietro. Egli allora tolse la balestra di mano ad un soldato per rimandargli il saluto; ma Baccelardo era scomparso dietro la rampa delle seconde mura, e unitamente al re ed al resto della corte tornava al romitaggio di San Nicolao.
L'imperatore non tolse cibo che pochissimo e la notte non dormì.
Allo spuntare del giorno voleva partire per Piacenza e tentare la fortuna delle armi, l'ultima che gli restasse nel naufragio, e morire da guerriero come aveva vissuto da re. Se non che i signori della sua corte, e Matilde, che tutta confusa e peritosa andò a fargli visita per confortarlo, lo supplicarono di non si disperare così tosto, e correre alla violenza, ma facesse tentativo, quel giorno ancora, perchè forse Gregorio, soddisfatto di sua umiltà e convinto del suo pentimento, (p. 56) gli avrebbe aperte le braccia e perdonato. Enrico battagliò lungamente questo avviso. Infine, vinto dalle preghiere della pia donna, si prestò a secondarli. Sull'ora di sesta quindi si presentò di nuovo al castello.
L'abate di Cluny che quivi lo attendeva, non ardì profferir parola. Enrico comprese cosa significasse la sua presenza, e facendo cenno ai suoi di restarsi, si fe' cavare i borzacchini ed il mantello, e seguì l'abate. La postierla si aprì di nuovo, come il dì avanti, e di nuovo si richiuse.
Quattro ore mortali Enrico ebbe il coraggio di attendere ancora quel giorno: niun messaggio del papa gli giunse. Ed era medesimamente digiuno, ed il tempo orrido al pari. Questa volta però le ore passarono più sollecite. Egli restò più tranquillo. Imperciocchè cominciò a correre con la mente l'avvenire, e vagheggiare un piano di vendette. E per tal modo vi si addentrò, e le sorbiva con tanta delizia, che, immemore e fuori di sè, disse all'arcivescovo di Ravenna che, corrucciato, lo veniva a rilevare:
—Restiamo ancora; prolunghiamone l'agonia.
—Sire, risponde Guilberto, gli è inutile attendere di più. Vestitevi, montate a cavallo e ritiratevi. Io compirò il rimanente. Dimani poi, cavalcheremo alla volta di Piacenza, se uopo è, e Iddio deciderà della vittoria. Questo infame portamento di Gregorio irriterà chiunque ha nel petto cuore di un uomo.
(p. 57) —Infame sì, risponde Enrico, ancora stravolto e col viso scomposto, o meglio convulso, a gioia feroce, infame certo; e perciò appunto prolunghiamone l'agonia, e ricordiamogli le ore spasimate che mi fece passare a Canossa.
Guiberto comprese che l'irritazione del pensiero ed il freddo avevano concentrato il sangue nella testa del re, e che la febbre ed il delirio lo travagliavano. Lo condusse perciò fuori le mura, ed affidollo ai cortigiani, affinchè lo menassero al romitaggio e lo andassero a ristorare di un bagno.
Due ore dopo, un cavaliere si presentava a Gregorio come parlamentario, e le porte della stanza si chiudevano.
—Ebbene, messere, che vuol dir ciò? dimandava Gregorio con voce alquanto commossa.
—Vuol dire, Ildebrando, rispose l'altro, che tu non devi temere ed ascoltarmi.
—Guiberto! grida il pontefice levandosi da sedere, che chiedi tu qui?
—Guiberto appunto, risponde l'arcivescovo di Ravenna, alzando la visiera. Tu non aspettavi la mia visita, fratello; ma io, che ho miglior cuore del tuo, che che tu ne possa pensare, ho voluto gustare del piacere di abbracciarti.
—Indietro, assassino, grida Ildebrando ritraendosi, qual novello delitto sei venuto qui a commettere?
—Per l'anima di quel nostro bravo Bonizone, (p. 58) fratello, tu non hai cangiato in nulla! Tu sei sempre quel petulante giovane, che fantasticava in ogni cosa il male e non si piegava nè per consigli, nè per forza. Ed a dire che neppure nel volto sei mutato! Io invece... eh! fratello, la vita del campo e tra le femmine consuma; e tu ben ti sei avvisato farti papa. Minchione che non lo hai fatto prima!
—Ma, che cosa è dunque codesto insolente favellarmi? aprimi passo o va via, grida Gregorio turbato, sbalordito, non sapendo quasi che dicesse, affogato da cento affetti diversi.
—Corpo di mille lance, qui non ci ascolta nessuno, Ildebrando. Lascia dunque, con tutti i diavoli, codesto sussiego, perchè con me non sei nè più nè meno dell'intrigante frate che ha barattata la cocolla per la tiara, e del figliuolo di Bonizone come me, arcivescovo di Ravenna eccetera. Inoltre egli è necessario che io ti favelli. E stammi bene ad udire, sai! Perchè già da te conosci come il nostro sangue sia infiammabile, e come entrambi siamo maledettamente corrivi allo sdegno ed alle mani.
—Parla dunque, e toglimi presto il fastidio di vederti, mormora Gregorio, cadendo sul suo seggio spossato dall'assalto delle interne passioni.
—Ma di', sclama di un tratto Guiberto come colpito da un'idea, ti brulicherebbe forse ancora per la mente lo scherzo che ti feci a Cariati? Eh! (p. 59) via, fratello, non istà bene ad un vecchio pensare a queste umane debolezze, e ad un pontefice covare sdegni sì lunghi. D'altronde tu mi provocasti così villanamente, e ne ho fatta di poi una penitenza che non saprei dirti. Lasciamo stare dunque i vecchi rancori, che nulla omai ci potrebbero giovare e nuocerci moltissimo, e pensiamo a perdonarci l'un l'altro. Io già mi strugge una rabbia di perdonare, che perdonerei ....
—Non mai, non mai, non mai! grida Ildebrando interrompendolo e rizzandosi di nuovo in piedi, no, non mai!
—Che uomo diabolico che sei, Ildebrando!—continua Guiberto sorridendo e mettendosi a sedere—gli è più facile cavare i denti ad un orso che te dal broncio. Eppure, se ci riconciliassimo, sarebbe lo spettacolo più commovente di cristianità; ed io muoio proprio della voglia di darlo codesto spettacolo e di udire a piangere le donne pie per la tenerezza, e le buone comari che griderebbero al miracolo. Via, piegati dunque fratello, pensa, corpo del diavolo, che hai sessantaquattro anni sonati, e sei prossimo ad andare innanzi a monsignore Iddio, che con voce terribile ti dimanderà, come a Caino: cosa hai tu fatto del tuo fratello? Perchè vedi, Ildebrando, se io sono stato un poco discolo, e forse lo sono ancora un tantino, se sono forviato, la è colpa tua, che, invece di darmi (p. 60) bravi consigli, mi spingi alla perduta nelle follie. Andiamo dunque, abbracciamoci, e qui finisca ogni mal'animo. Vedi che io ho fatto il primo passo, ora come sempre!
—Indietro, ti dico, grida Gregorio, e sgombrami la via, scellerato, perchè alla tua vista, alla tua memoria, io sento l'anima farsi a brani, la ragione disquilibrarsi. Chi è dunque che ha permesso a questo rettile di avvicinarsi fino a me? Perchè Iddio della divorante sua pupilla non ha per anco incenerito quanto di più nefando, quanto di più scellerato abbia prodotto la terra?
—Via, via Ildebrando, non facciamo zannate! Tu già conosci che io non rinculo avanti le aste, come vuoi dunque che mi spaventi di parole e di collere? Animo su, un abbraccio, ed a tutti i diavoli i picchi e le smancerie. Siamo fratelli alla fine. E poi io ti perdono; e poi io non ti domando neppur conto di mia moglie, di mia moglie che tu hai vituperata, di Alberada che io ho amato col più robusto delirio che possa agitare il cuore di un giovane. E tu me l'hai tolta, me l'hai rubata, mi hai oltraggiato negli affetti e nell'onore. Facciamo pace dunque. Le passioni domestiche cedano ai doveri politici. I rancori di uomo si seppelliscano sotto l'esigenze di papa e di arcivescovo. Prendi la mia mano.
—Indietro, ribaldo, la tua persona, il tuo contatto, (p. 61) il tuo respiro stesso avvelena l'atmosfera che respiriamo e mi lorda.
—Ah! sclama Guiberto, cambiando accento e levandosi. Bisogna dunque mutar tuono, non è vero, pontefice? Bisogna che ogni voce di natura si soffochi, che non siamo mai più Ildebrando e Guiberto, ma l'arcivescovo di Ravenna e Gregorio, ma i nemici che si han giurata guerra mortale e che non si perdoneranno mai, neppure con la certezza dell'eterno castigo? Ebbene, tal mi avrai, se così vuoi, Ildebrando. Ma, per l'ultima volta, io te ne supplico, dimentichiamo ogni sdegno, torniamo fratelli.
—Fratelli! grida Gregorio, fratelli, dici? ed Iddio, se io ti perdonassi, avrebbe Iddio coraggio di perdonarti egli ancora? Tu hai oltraggiata l'opera delle sue mani; tu hai vilipeso il suo vicario. E se vero è che vada ligato nei cieli ciò che io ligo sulla terra, e che io abbia qualche potere, me ne valgo onde perseguitarti quaggiù, per dannarti alle fiamme dell'inferno nell'altra vita.
—Eh! sclama Guiberto accigliando, hai pensato a provvedermi con tanta carità per questo mondo e per quello; e di te, che sarà di te? Sappilo adunque. Io non mi imbratterò mai più le mani del tuo sangue, perchè il sangue dell'inerme mi pesa. Ma un'ora tranquilla di sonno tu non gusterai mai più, no, mai più! Già sono a testa (p. 62) di esercito numeroso, e meglio che tanto ne leverò. Gl'Italiani ti odiavano prima, ora per la tua durezza con l'imperatore ti detestano. Tu non hai che le armi della parola e le poche truppe di Matilde. La tua parola sarà portata dal vento come quella dell'insensato; la gente di questa pettegola calpestata sotto le unghie dei nostri cavalli. Io ti darò la caccia quasi belva feroce. Io calcherò le tue peste; insozzerò il tuo abitacolo; turberò i tuoi sonni fuggenti, i tuoi desinari frugali. Non ti darò tregua neppure di supplicare Iddio che ti tolga da codesta carriera di spine. Inoltre mi farò creare papa ancor io; e tu sarai incolpato da Dio e dagli uomini dello scisma. Le città ti cacceranno dalle loro mura come perturbatore della pubblica pace, e nella tua coscienza non potrai restar tranquillo, perchè come un flagello, come Attila, sei venuto a gittare la guerra e la discordia nell'universo. Io insomma, io sarò la pietra angolare per rovesciare i giganteschi tuoi progetti, il demonio che ti vedrai innanzi nell'agonia per dirti: Ricórdati, Ildebrando, come seducesti la moglie di tuo fratello; ricórdati come tentasti sedurre Alberada, e fosti la cagione del suo ripudio, e l'autore della sua morte—se morta è pure e non si dispera in lento strazio nel fondo di una prigione: ricórdati, Ildebrando, che per te tuo fratello si macchiò di omicidio e si gittò nel corrotto: ricórdati quanti pontefici (p. 63) prevaricasti coi tuoi consigli, quanti principi spingesti al delitto, quanta gente morì impenitente per le tue scomuniche, quanto fosti ambizioso e crudele, come turbasti le leggi dei popoli e la tranquillità. Ricórdati....
—E ne hai ancora di codesta infame litania?
—Oh! la è lunga, Ildebrando, e niuno meglio della tua coscienza può saperlo.
—Ebbene, giacchè te ne appelli alla mia coscienza, io ti rispondo, che le tue parole sono le parole di un perverso, i progetti tuoi quelli dell'empio. Mi hai messa innanzi lo sguardo una tela di delitti a commettere. Ma chi ti assicura che i tuoi giorni dureranno fino a domani, che tu tenterai la mano di Dio lungamente?
—Cosa è, fratello? Ti diletteresti anche tu di veleni e di comprar la mano di traditori? Eh! piano per Dio, perchè, per le sante ossa di tutti i martiri, se minimamente di alcuna cosa mi avvedo, ti prometto di non darti tempo neppure di confessarti, e da cavaliere e da vescovo di Cristo ti terrò la parola.
—I protervi li giunge Iddio; il giusto li disprezza. Ma insomma finiamola. Cosa sei venuto a cercare qui?
—Il tuo bene, risponde Guiberto, la tua potenza e la tua tranquillità. E ciò non potrai ottenere, fintanto che sarai in guerra con l'imperatore e con me. Ti propongo dunque la pace, (p. 64) e da fratello ti consiglio d'assolvere Enrico. Allora io mi contenterò di aver restituita Alberada e di essere arcivescovo; egli di andare a dimandar ragione ai suoi vassalli della fellonia; e tu tornerai a Roma a dispotizzare sicuro. Ma se ti ostini, prepárati allora a guerra terribile, perchè domani noi torneremo a Piacenza, e diman l'altro ci vedrai con formidabile esercito sotto le mura di Canossa per levarvi d'assalto od affamarvi. E vengano poi le truppe di Matilde che troveranno solletico al ricevimento.
—Credi tu dunque di spaventarmi, quell'uomo?
—Spaventarti no, perchè so di qual tempra d'inferno è il tuo cuore; ma vorrei persuaderti. Perchè, ti confesso il mio debole, per quanto mi faccia violenza, io non so dimenticare che siamo entrambi figli di Bonizone. Arrenditi dunque e perdona Enrico. Non tirarlo dai capelli nella disperazione; non tentare di piegar l'arco di soverchio, che può uscirti di mano e ferirti. Il tuo, è un fatale proponimento!
—Se Enrico è veramente contrito sarà perdonato, perchè Iddio non vuole la morte del peccatore ma la salute.
—Ma quando sarà perdonato, io domando?
—E chi siete voi per metter legge al vicario di Cristo, per tentare di scandagliarne il pensiero? I suoi disegni sono arcani come quelli di Dio, nè men tremendi.
(p. 65) —Ma l'anno della scomunica è prossimo a scorrere, ed egli perderà la corona.
—Il sacerdote ha la benda e non guarda nè l'uomo, nè la condizione di chi si presenta ad implorare perdono di sue peccata. Enrico è re? ma che sono i re avanti a Dio ed avanti a me che ne sostengo le veci? Fango sul quale il soffio della mia voce passa ed essi non sono più.
—Ma sai, Ildebrando, che tu sei un terribile uomo? sclama Guiberto, il quale le braccia incrociate sul petto era restato ad udirlo, a rimirarlo radiante di luce inspirata. Tu hai prese sul serio tutte codeste storie, e finirai per dio per farle tôrre sul serio anche altrui. Peccato che abbi al tuo comando solamente alcuni preti, alcune parole latine e qualche pettegola. Ah! se tu avessi un esercito. . . .
—Il mio Dio è il Dio degli eserciti, e dove esso pieghi il ciglio i popoli e l'universo sfumano come i sogni del demente. Ed io sono voce di questo Dio e questa voce vale più di un esercito, più di una corona.
—E vuoi perciò abusarne?
—Tu menti! Enrico sarà perdonato, ma quando io sarò convinto del suo pentimento, e che non covi malvagi progetti; quando l'ora sua sarà giunta.
—Ed io?
—Giammai! L'ora della tua grazia è passata. E (p. 66) se vero egli è che tu hai onore e coscienza, e che codesta coscienza possa l'uomo tribolare da togliergli il sonno, la fame, e fino il desiderio di vivere, sappi, sappi, uomo perverso, che per te solo io ho perseguitato e perseguiterò Roberto Guiscardo; per te solo perseguito Enrico; per te perseguiterei S. Pietro, se vedessi che ti potesse proteggere; perseguiterei la Vergine; perseguiterei Cristo; perseguiterei Dio. Tu e codesto vigliacco di re menaste vampo e mi scherniste, quando ad arcivescovo di Ravenna ti elevasti; per darmi rovello me lo gittasti sul volto con una lettera infame; per isfidarmi a guerra mortale, quasi già fomite d'ira fra noi non fosse stato, dentro Roma, a casa mia venisti ad insultarmi. Ebbene, io sottrarrò agl'imperatori ed ai laici la facoltà d'investire feudi ecclesiastici; a voi toglierò le mogli, Italia strapperò all'Alemagna; i despoti calcherò coi miei piedi; e primo tu—primi Enrico, Guiscardo e tu sarete le vittime.
—Sta bene, ci siamo intesi, sclama Guiberto dopo averlo udito attentamente, addio dunque, e ricadano sul tuo capo le miserie che stanno per contristare l'Europa. Noi non ci vedremo mai più da fratelli; il tuo contatto ha disseccato il mio cuore: ma guai!
—Addio, rispose Gregorio, ed uscì, la testa alta, il passo fermo, calmo, solenne, il guardo rivolto al cielo.
(p. 67) Guiberto lo lasciò partire, lo perdè di vista, poi piegò il capo ed uscì anch'egli mormorando fra sè:
—È un santo, un furbo o un forsennato costui?
Ric.—Stanley, quali novelle?
Stan.—Niuna buona, milord, perchè voi possiate ascoltarla con piacere: niuna tanto cattiva da dovervi esser taciuta.
Ric.—Codesto è un indovinello! Nè buone nè cattive! A che tante frasi prima di venire allo scopo? Una volta ancora, quali notizie?
Guiberto non disse nulla al re dell'abboccamento che aveva tenuto con Gregorio: solamente mandò corriere a Piacenza pe' capitan delle truppe di tenersi presti a recarsi a Canossa dietro il comando dell'imperatore, e spedì araldi ai suoi feudi per far novella tolta di militi. Al levarsi di Enrico la mattina, gli parlò delle disposizioni prese la notte, e come egli portasse avviso di non muoversi più dal romitaggio, mandar l'araldo d'armi a chiamar le truppe in su quel di Canossa, ed attenderle, mentre un altro distaccamento di Lombardi e di suoi vassalli, sotto la condotta del vescovo di Vercelli, avrebbe bloccato Mantova, dove svernava (p. 70) l'esercito in piede di Matilde. Enrico approvò le provvidenze, però e' dichiarò volere attendere un paio di giorni ancora onde piegare il tenace volere di Gregorio. Imperciocchè, dopo aver subíto umiliazione così bassa, ei sarebbe stata scioperatezza non cavarne construtto, per poi compierne vendetta tremenda.
—L'opera è compiuta a metà, egli diceva, niuno mi toglierà l'onta che quest'uomo mi ha fatta, quando io fiducioso mi venni a gittar nelle sue braccia come in quelle di mio padre, e sperai nella sua misericordia, più inesorabile di quella di Dio. Egli si è mostrato crudele e vigliacco; perchè non bisogna insevire contro il nemico il quale dimanda mercè. Ora, se non giungo ad ottenere che mi si tolga la scomunica, cosa avrò guadagnato? L'onore no, perchè vi ha un mezzo solo di ristorarmelo, e questo è quello delle armi, rovesciando lui ed i principi miei vassalli che hanno stretta lega codarda. L'amor dei miei popoli neppure, perchè so come i Tedeschi tengano all'osservanza delle costituzioni dell'Impero. Avrò forse guadagnato gli Italiani, ma questi sono mutabili e superstiziosi. Mi difendono oggi; domani, vedendo che trattasi di rovesciare il pontefice, potranno compungersi, tornar divoti, ed abbandonarmi. E poi credete voi, monsignore, che Gregorio non si appellerà ai Tedeschi e li chiamerà in Italia per aiutarlo? Ad ogni modo, bisogna tentare di aggiustarmi (p. 71) con lui, se ciò si potrà. In ultimo, ci appiglieremo al partito delle armi; e sarà quel che sarà, perchè allora consiglia la disperazione.
—Ma almeno, sire, fingiamo di voler decidere la sorte con le battaglie. Perchè la contessa, che teme per la vita del suo papa, non teme meno per i suoi Stati, nei quali non desidera certamente che si accenda la guerra. Ella pregherà vostra sublimità per usar moderazione ancora e pazienza, e voi fingerete cedere alle sue preghiere: pregherà il pontefice a non ostinarsi; e Gregorio, che non ha mica gusto di sconfortare questa santa creatura e di alienarsela, l'ascolterà. Perchè Gregorio, meglio di tutti, comprende di quanto periglio possa essere una guerra in Italia, giusto attorno alla sua persona. Così, sire, si serberà almeno la dignità di uomo e la fierezza del guerriero.
—Sì bene! Mettete dunque voce che si è ordinata la mossa del campo di Piacenza, e che domani il vescovo di Vercelli ed il principe Baccelardo cavalcheranno sopra Parma, voi sopra Mantova, e noi al blocco del castello.
Sparsa la voce di questo piano fra il popolo numeroso, accorso a vedere la pace tra il pontefice e l'imperatore, proruppe ognuno in grido di giubilo; imperocchè tutti strabiliavano della pertinacia di Gregorio. Matilde, che si era recata all'albergo dell'imperatore per visitarlo e calmarne (p. 72) l'irritazione, udì ancora ella quei fremiti, e ne rimase colpita. Non per paura, perchè educata fra le armi, ma perchè vedeva pericolare la salute di due uomini a lei carissimi, l'imperatore ed il pontefice. Ella si sentiva alle strette di osteggiare il suo parente e signore, o il papa e quindi Iddio. Cominciò perciò a supplicare caldamente Enrico che facesse novello tentativo per piegare l'irritato prete, e confidasse nelle intercessioni sue. Perocchè ella conosceva di fermo Gregorio non aver animo malvagio ed ostile contro di lui, ma agire per severo zelo di sacerdote. Lo persuadeva pure a non perdere il frutto delle umiliazioni già fatte, sendo che sapeva di sicuro Gregorio inclinare già a perdonarlo; e che ella gli prometteva, dove ciò non fosse avvenuto fra un paio di giorni, di restar neutrale nella contesa. Che perciò non disperasse, e mandasse nuovi negoziatori per intercedere pace, ed aggiustare le pretensioni ed i patti. Alle preghiere di Matilde si aggiunsero quelle caldissime della contessa Adelaide e dell'abate di Cluny. Per modo che Guiberto, fingendo anch'egli di calmare il corrucciato re, gli cadde ai piedi e lo scongiurò di arrendersi e di non gittare Italia nella guerra civile, prima che nella sua coscienza non fosse convinto di avere operato per evitarla quanto uomo poteva operare. Allora Enrico si lasciò vincere. E promise che, in sul mezzodì, e' si sarebbe recato, come i (p. 73) giorni precedenti, al castello per ottenere l'assoluzione.
Infatti vi andò. L'abate di Cluny, d'ordine dell'impenetrabile Gregorio, compì la sua cerimonia come avanti; ed il re scalzo, scoverto, e medesimamente, travagliato dalla neve e dal vento si presentò nel secondo ricinto delle mura. Aspettò fino al vespero, aspettò fino a compieta. Ma neppur questa volta il pontefice lo chiamò. Allora, agghiadato dal freddo, i piedi fatti lividi ed il viso piombino, con una violenza disperata nell'animo, si decise seriamente a partire di Canossa. Egli appariva chiaro oramai che Gregorio non aveva altra mente che insultarlo, conculcare nel fango la regia dignità, assaporare a centellino la voluttà della vendetta e dell'alterigia. Si tolse perciò di quel sito infame, e venne alla sua corte per ritornare al romitaggio, risoluto di non più avvicinarsi a Canossa che alla testa di un esercito onde dimandar conto dei vecchi e dei nuovi vituperi.
A piedi dell'erta però, una specie d'orso ed una giovane si aprirono il passo tra la folla stivata della gente, che pendeva da quell'avvenimento, ed all'imperatore si presentarono.
—Sire, disse l'uomo, cui Baccelardo conobbe subito per Laidulfo, qual compenso mi darete voi se per domani mastro Ildebrando farà aprirvi quelle maledette porte della fortezza?
(p. 74) Enrico gitta lo sguardo su costui, poi volgendo le spalle con dispetto ordina, allontanandosi:
—Frustatemi quel cialtrone.
Baccelardo si approssima a Laidulfo, e tiratoselo da parte lo rimprovera:
—Compare, v'ha dunque bisogno di pattuire con un re? Tu gli renderai grande servigio; devi perciò sperare grosso compenso.
Laidulfo si gratta l'orecchio sinistro e risponde:
—Perciò appunto che egli è re voglio patteggiare. Io conosco come costoro mantengono la parola! Per tutto ringraziamento, ti fanno nascondere quattro o cinque pollici di stiletto nel cuore, o qualche graziosa dose di veleno nello stomaco in un gotto di Sicilia o in un pasticcio di cavriuolo, e buon dì a chi rimane. Mai no: patti innanzi e ricompensa sicura.
—Pezzo di birbo! ed avresti cuore di andare a mercanteggiare con un sovrano ridotto a quello stremo?
—Cuore! e chi ti ha detto che ne abbia cuore io? Però questo è il mio stile.
—E che faresti tu insomma?
—Quel che vorranno. induco mastro Ildebrando ad accogliere questo minchione di re, che ha tanta frega di benedizioni, o l'uccido e ne lo libero intieramente. Ma io posseggo un mezzo a cui il prete non resisterà.
—In ogni conto lo fredderai se lo trovi ostinato, non è vero?
(p. 75) —Credi che m'imbratterei l'anima per questo? mi regolerò giusta i patti che stabiliremo.
—Ucciderlo no, risponde Guaidalmira, io nol permetterò giammai.
—Zitto tu, berghinella. Chi ti ha imparato a rispondere dove parlo io? La è questa la veneranza che si deve ai consigli dei più provetti?
—E dimmi un po', Laidulfo, continua Baccelardo pensieroso, la testa in giù, riflettendo alla proposta di colui, dimmi un po' che pretenderesti tu per codesto pietoso uffizio.
—Spieghiamoci chiari. Che cosa si vuole? Che il re venga ricevuto? Ebbene ei mi darà una contea con tutte le terre ed i diritti pertinenti—bene inteso però che la voglio nei paesi d'Italia.
—Per Dio, compare, tu fili grosso. E che pretenderesti se dovessi ucciderlo?
—Che? Vedi un poco cosa si dà nel suo paese per Wehrgeld[1]. Venti soldi per uno schiavo: 30 per un porcaiuolo: 36 per uno schiavo divenuto colono tributario: 40 pel maniscalco che cura 12 cavalli, pel cuciniere che ha un aiutante, pel pastore che guarda 80 montoni, per l'orefice, pel ferraio: 45 per (p. 76) un servo della chiesa e del re: 80 per uno schiavo affrancato in presenza della chiesa o con una carta formale: 100 per l'uomo di condizione media, pel romano che ha beni proprii o viaggia, per l'uomo del re e della chiesa: 160 per l'uomo libero: 200 pel chierico nato libero, per l'uomo affrancato a danaro: 300 pel romano conviva del re: 400 pel suddiacono; 600 pel diacono: 600 pel prete nato libero, pel conte, pel sagibero[2]: 640 pel parente di un duca: 900 pel vescovo: 960 pel duca: 1800 pel barbaro libero, compagno del re, attaccato ed ucciso nella sua propria casa da una banda armata—Ora ti lascio considerare cosa valga la vita di un pontefice! Mi contento che mi dia un vescovado.
—Uhm! compare, tu non hai mica voglia di guadagnarti la vita con l'aiuto di Dio.
—Ti par troppo?
—Ma sì per Dio! Non pertanto, mettiti all'opera, compila, e forse il re sarà ancora più generoso che tu non desideri.
—E chi mel guarantisce?
—Io.
—Tu? Uhm! ragazzo mio, con questo suono non mi muovo nemmeno quanto son lungo.
—Tu sei un ebreo, Laidulfo! E non ti pare che la stessa natura del servigio e l'urgenza del (p. 77) caso fossero garanti ancora più possenti di una parola?
—Sicuro. Ma per togliersi poi da scrupoli, e' potrebbe anche regalarmi una bella collana di corda e farmi appendere speditamente ad un albero. Che te ne pare? Tu non conosci, ragazzo mio, di che pasta si facciano i re, e come essi intendano la faccenda della coscienza, dei dritti e dell'onore! Questi sono legami del volgo e degl'imbecilli. Ma non l'accoccano a me, no; te lo giuro pel santo asino di Balaam!
—Tu calunnii l'imperatore, Laidulfo. Egli non si è mostrato mai taccagno con chi gli ha praticati degli uffici.
—E se adesso volesse fare eccezione?
—Impossibile. Egli tiene all'opera che tu imprendi più che alla vita.
—Ne sei certo?
—Come dell'anima. D'altronde, vedi che non v'ha mezzo per avvicinarti a lui e patteggiare. Val meglio perciò tentare la cosa che starne così; perchè una mercede, e generosa, l'avrai sicuro—e ti farò risparmiare altresì la frusta che ha comandato di largheggiarti.
—Ecco le munificenze regali! Ecco di che i re non sono mai avari! Una pena per tutti i falli; la fame e l'obblio per tutte le virtù.
—Diavolo! tu fai della morale, sclama Baccelardo ridendo.
—Dio me ne scampi! riprende Laidulfo, io (p. 78) non sono ancora si disperato. Orsù dimmi un po', come si fa a penetrare nella fortezza?
—Niente di più facile. Ti condurrà l'arcivescovo di Ravenna. Bada però di non farlo troppo domesticare con codesta giovane. E sarai ammesso come parlamentario in piena sicurezza. Ne abbiamo parola della contessa.
—Vediamo dunque cosa saprà fare codesto arcivescovo, e lasciate a me cura del resto.
Sul cader della sera, infatti, Laidulfo e Guaidalmira venivano introdotti nel gabinetto di Gregorio dalla stessa contessa Matilde, la quale non si lasciò a ciò indurre senza prima aver tastato un po' il messo, ed attinto un barlume dei mezzi che si volevano adoperare. Laidulfo veramente non le disse tutta la verità. Però seppe dare alle sue parole una forma di credenza, e d'altronde Guaidalmira guarentì della sua vita che non sarebbe al papa venuto male di sorte. Gregorio, occupato vicino al camino a scrivere lettere ai principi di Germania, non avvertì della coppia entrata nella sua stanza; nè questa fece pressa per aprire l'abboccamento. Ma come Ildebrando ebbe finita di scrivere lunga pagina, e prendeva fiato per voltar l'altra, alza lo sguardo e scorge Laidulfo che, le mani congiunte dietro i reni, aspettava. Allora questi si fece più avanti fin presso il tavolo e disse:
—Ser papa, mi conosci?
—Chi sei tu?
(p. 79) —Uhm! un bravo ed onesto mercante, pontefice.
—Santo padre, soggiunge Guaidalmira traendosi innanzi, è mio padrino.
—Quella giovane, ti bisognerebbe dunque alcuna cosa?
—A me no, santo padre; ma piacciavi di ascoltare le suppliche di mio padrino.
—Vale a dire, suppliche no. Io vengo invece a proporti un bel contratto, pontefice, se da te si può cavar qualche cosa.
—Parmi che la tua laida figura non mi torni affatto nuova.
—Sicuramente. La vigilia di Natale del 76 venni ad offrirti un altro bello affare, che commettesti la balordaggine di non accettare. Se ti ricordi, quel tale vescovado di Oria! Pare proprio che io sia destinato ad esser vescovo, perchè ci ho un'inclinazione tale, ma tale da sembrare una malattia ed ostinata mi frulla nel pensiero ovunque mi volga. L'è una fissazione, bisogna convenirci.
—Ma dimmi un po', quella giovane, costui è matto?
—No, signor pontefice, risponde impudentemente Laidulfo stesso, piuttosto tristo, come dicono gli sciocchi. Ma che vuoi! L'uomo non può esser diverso da ciò che lo ha fatto Iddio. Or dunque, per venire a bomba, nel 76 proposi di venderti un segreto, e quel segreto era niente (p. 80) meno, che la notte ti avrebbero assassinato come avvenne....
—Ah! scellerato, ora ricordo meglio la tua persona. Ancora tu eri degli assassini.
—Appunto, mi avevano pagato perciò, e feci il mio dovere. Ma non andare in bestia, pontefice, perchè tu perdonasti a tutti, e buon pro adesso.
—Ed è forse per qualche attentato simile che ora qui ti han mandato?
—Eh! eh! quel galantuomo! non calunniamo la gente dabbene. Io sono qui per venderti un segreto, anche più rilevante.
—Ma tu sei dunque il demonio che conosci quanti segreti mi riguardano?
—Presso a poco, pontefice; e se non son demonio, gran cosa non può mancarmi—solo che mi facessi vescovo....
—Esci furfante, se vuoi che non ti faccia frustare, grida Gregorio divampando di sdegno.
—Frustare, frustare! mormora fra i denti Laidulfo, prendi un granchio, pontefice: io sono nobile. Ma lasciamo stare queste bazzecole e parliamo sul serio. Con un primo esempio hai veduto, come io sia veritiero ed onesto. Ora ho un altro segreto da vendere. Perchè, vedi bene, entrambi noi siamo mercanti e spacciamo parole: con la differenza che tu, come chierico, pontefice, le spacci latine; io volgari, come laico. Or dunque, (p. 81) di', vuoi mercanteggiar meco da bravo cristiano?
—E che riguarda cotesto segreto?
—Da capo! è un segreto come il miracolo di S. Donegilda, cui la sera tagliano i capelli e la mattina le pie monache li fanno trovar cresciuti. Dimmi solo se vuoi comprarlo a patti equi, perchè altrimenti saprò a chi venderlo e.... E tu non ci avrai gran gusto, pontefice. Ti pentirai anzi di non aver dato metà dei tuoi feudi a chi tel proponeva.
—Tanta importanza ha dunque codesta bisogna?
—Tanta! rinunzio al prezzo, per dio, se, dopo che l'avrai udito, non dirai: corpo dei santi! Laidulfo, tu sei un buon diavolo, et quia super pauca fuisti fidelis, cardinale di santa Chiesa te constituam.
—E chi mi assicura che tu non menta?
—Chi? Un tal falegname di Soano chiamato Bonizone. Per sodo devi conoscerlo, Ildebrando.
—Lui! E cosa entra Bonizone coi tuoi segreti?
—Ci entra benissimo come vedrai. Ma non andiamo anguillando per pigliar terreno. Un santo padre dovrebbe esser uomo di poche e sagge parole, e tu sei ciarliero anzi che no. Di' dunque, vuoi sapere il segreto?
—Favella.
—Ascolta prima i miei patti. Domani, allo spuntare dell'alba, manderai la contessa Matilde, (p. 82) la contessa Adelaide, l'abate di Cluny ed il marchese Azzo d'Este all'imperatore Enrico....
—Che dici?
—Ma, per Abramo, ascolta. Manderai questa nobile commissione al re, e questa, in nome tuo, gli prometterà che lo riceverai incontanente, senza più pettegoleggiare e fare il fiero. E tu, come il re verrà, lo ascolterai, lo assolverai e mangerai con lui come fratello. Ecco ciò che io richiedo da te. Vuoi starci?
—No.
—Bisogna dunque dire che farnetichi. Allora io ti propongo un altro partito. Se, come avrai saputo il mio segreto, stimerai esagerato il compenso che ti richiedo, io consento a non ottenerlo.
—Ma che cosa è dunque che devi dirmi? favella in nome di Dio. Domani riceverò il re.
—Parola di sommo pontefice?
—Parola.
—Ebbene, sclama allora Laidulfo cavandosi di sotto il mantello uno scrignetto, conosci tu le armi di questo mobile?
—Mio Dio! e come in mano tua quello scrigno?
—Ecco qui. Io peregrinava Italia come zingano, vendendo specifici e talismani per le malattie degli uomini e delle bestie, e reliquie pei divoti, allorchè una sera capitai a Soano. Impaniato tra quei viuzzi a notte alta, era deciso passarla (p. 83) al sereno, coricato sul suolo, allorchè, nella magione vicina, mi sembrò udire gente che ancora vegliava. Cercai la porta, e venne ad aprirmi un servo. Gli dissi che avesse pregato il padrone di ricovrarmi fino al mattino, e di qualche vitto, perchè arrovellava della fame. Il servo portò la dimanda, e ritornò rispondendo che poteva entrare.
—Abbrevia, l'interrompe Gregorio.
—Io non ho fretta, ripete Laidulfo, mettendosi a sedere, e continua.
—Io mi trovai presso di un falegname venuto in fortuna. Mi accolsero caritatevolmente. Alcuno non mi domandò nè nome, nè condizione; mi fu dato lautamente da cenare, e poi un buon letto, sicchè io dormii come un canonico fino a giorno alto del domani. Appena alzato, mi recai per render grazie al mio ospite, palesargli il mio nome ed il mio stato, e presentarlo di un amuleto pel mal di pietra, da cui il povero vecchio andava travagliato.
—È vero, sclama Gregorio.
—Se è vero! ripiglia Laidulfo, io parlo evangelio.
—Avanti e presto.
—Va bene. Il falegname stava in sul punto di morire. Io vestivo in quel tempo schiavina di romeo, perchè, essendo stato attossicato da una zingara ed essendomene tirato con un controveleno, avevo fatto fra gli spasimi un cotal voto alla Madonna di (p. 84) Loreto e là mi recavo per soddisfarlo. Piacqui al vecchio. Ei mi credette un santo, o su quel torno. Ora, costui si aveva in casa una bimba trista e piagnucolosa da fare strabiliare un demonio. Morendo, quella monnelluccia restava Dio sa a chi. Il vecchio voleva mandarla a Roma a qualcuno che ne avesse dovuto pigliar cura. Eran giorni di guerra. Correvano il paese Tedeschi, e saccomanni, e lance del papa ed ogni ben di Dio di malandrini. Alcuno dei terrazzani di Soano non voleva torsi la missione di condurre la bimba a Roma, per prezzo che offrisse il vecchio moribondo. Io gli sembrai l'uomo mandato da Dio. Il mio vestito, il mio portamento umile, contrito, divoto, lo sedussero. Mi domandò se volessi accettare la commissione. A vero dire, io allora abborrivo le creature peggio che non abborrissi il duca di Puglia, Roberto Guiscardo. Però, per farmi dispetto, per fare arrabbiare la mia bestiale natura, accettai. Si trattò del prezzo che mi si offriva per il viaggio e le spese della bimba e di me. Mastro Bonizone era taccagno anzi che no; ma le ore sue sembravano contate, io non tenevo punto all'affare, alcuno non si presentava per rendergli servigio a miglior patto; bisognò dunque calare all'accordo. Restava un dubbio.
—Uno solo? dimandò Gregorio.
—Almeno il più grave.
—E quale? conchiudi dunque.
(p. 85) —Ecco qui. Io dovevo condurre quella scimiuzza stridula a Roma e consegnarla a qualcuno. Ora costui l'avrebbe egli tolta senza una pistola di chi la mandava e senza un breve di ricordanza sull'identità della puttina?
—Ah! ed allora? sclama Gregorio turbandosi visibilmente.
—Allora fu mandato a chiamare un tabellione, un tal mastro Anasprando.
—Viveva dunque ancora? sclama Gregorio quasi suo malgrado.
—Se viveva! Era fresco come l'abate di Nonantola che si conforta con trenta beghine, di cui la più vecchia ha venti anni. Mastro Anasprando dunque fece una lettera ed un bel breve di ricordanza, a scrittura grossa come i rosoni della chiesa di Sant'Ambrogio di Milano; mastro Bonizone vi mise sotto una croce; quattro altri testimoni vi cincischiarono degli scorbi come campanili; dentro questo forzierino chiusero questo libro di ore che qui vedi, e mel consegnarono, dicendomi che dovessi darlo a colui cui conducevo la fanciulla, sendo una memoria di sua madre. Ora il libro di ore ed il forzierino è questo qui, con le armi del conte di Reggio, perchè il libro apparteneva alla sua figliuola Bertradina...
—E la ragazza? dimanda Ildebrando ansioso.
—La ragazza... Veramente fui tentato all'indomani di venderla a qualche zingano o a qualche (p. 86) ciurmadore. Ma poi pensai che avevo tolto un bel prezzo della commissione e dovevo compierla da galantuomo. Soddisfatto quindi il mio voto di Loreto, mi recai a Roma. L'uomo a cui la bimba, la lettera, il forzerino erano inviati non vi era più.
—Davvero?
—Sissignore. Egli era partito proprio per quella stessa Soano, donde io era mosso, e per vedere proprio morire quel vecchio che io avevo veduto moribondo, e forse per aver proprio quella scimiuzza di bimba che io gli recavo a Roma. Il vecchio che lo attendeva e che forse disperava vederlo venire, che sentiva sfuggirsi l'anima, che conosceva l'indole dell'uomo a cui aveva a fare, si era affrettato nelle risoluzioni.
—Ma allora cosa facesti tu del mandato?
—È giusto quello che io m'accingo a dirti e per cui mi vedi qui. Quella fanciulla, nella mia vita dissipata e randagia mi tornò da prima di grave fastidio, e più di una fiata mi frullarono pel capo disegni tristi. Però, pensando poscia che io ero solo come la notte, mi feci violenza e la tenni. Tanto più che la poverina riesciva ogni dì più vispa e non piangeva più, avvegnachè passasse sovente interi giorni digiuna. Poi si fe' grande, uscì di fanciulla, ed io le aveva messo un amore pazzo. Bestione! La amavo quasi mi fosse figliuola; e la guardai perchè non capitombolasse, essendo fatta belloccia, ed i fottivento la rimorchiavano. (p. 87) D'altronde ella si guadagnava bene la vita, avendole una zingana insegnati certi segreti per pescare nell'avvenire. Ed eccola qui questa galuppa, che sì è fatta rossa come una ciligia di Genova.
—Ella! sclama Gregorio.
—Appunto. Che ne dici, Ildebrando? non è un tocco da far gola ad un monsignore?
—Ed io sono figlia di una contessa? mormora Guaidalmira come parlasse a sè stessa.
—Sissignore, della contessa di Reggio, monella, soggiunge Laidulfo stringendole il capo sul seno e baciandola sulla fronte.
—Ma la lettera, ma lo scritto del tabellione, dimanda Gregorio impaziente ed ansioso, divaricando gli occhi; lo scritto non l'hai tu conservato altresì?
—Se l'ho conservato? Magari! Gli è il mio tesoro. Ed ecco il segreto che ti riguarda, pontefice, e che io avrei venduto ai tuoi nemici, ad un concilio, a Satana, i quali ne avrebbero menata galloria come di una battaglia guadagnata. Leggi, leggi un poco se ti piace.
Gregorio toglie la pergamena di mano tremante, e legge:
»In nomine di Dio, dalla beata Vergine e di S. Inegilda amen.
»Hogi che sono li 27 di Martio die di Giovedì santo dell'anno dell'incharnatione del nostro signore Gesù Cristo 1057 anno secundo (p. 88) del regno di Enrico IV dominus noster et primus ponteficis Stephanis IX, Inditione VII—actum Soani civitate nella casa di mastro Bonitione di cumditione falegniame in cubiculum dela chamminata il quale Bonitione in nostra præsentia et testimonibus Marcho congnomento Digitomutio Gelasio Canaiuolo Pietro servus marchionis Etrurie affrancato cum danario, et Zaccheria subdiacono tutti non habili di scrittura e perciò crocie segniati che noy tabellio communis Soani certioriamo come facta e propris personibus qui fuerunt testimoni della comseguazione quem predictum mastrum Bonitionem have fata di una bambina, che il medesimo Bonitione certiorat esse la propria figla del suo filiuolo Ildebrando et dela Bertradina filiuola del conte di Reggio uxorem alii fili suis Guiberto che perciò have trucidata fino a morire cum un coltelo la detta molie, ad un ebreo...
—Questa è infame, è esecrabile menzogna! sclama Ildebrando alzandosi da sedere.
—Non puoi negare però che l'atto è in tutta regola, Ildebrando, sclama Laidulfo, tirando dalle mani del papa la scritta e mostrandogliene un'altra, non puoi negar che questa è la lettera diretta a te dal tuo padre a Roma, con cui ti manda la tua figliuola, non puoi negare che questi atti in mano dei tuoi nemici.....
—Questa è scelleratissima calunnia, proseguiva Ildebrando riscaldandosi sempre più, e la (p. 89) giustizia di Dio non potrà permettere che si faccia onta ad innocenti, si vituperi la memoria di una pia...
—Tutto sta bene, tutto eloquentemente detto. Però devi convenire che se questo scritto cadesse in mano dei tuoi nemici...
—Qualcuno ha letta dunque codesta pergamena?
—Nessuno, ed il segreto, se il tabellione ed i testimoni sono morti, non potrebbe palesarsi che da questa triste di scritta.
—Resti dunque il segreto ed il vero al cospetto di Dio, che questa scritta non tradirà più alcuno.
E sì dicendo, Gregorio strappava di un lancio dalle mani di Laidulfo sorpreso l'atto della consegna della fanciulla e la lettera e le gittava nel fuoco, e con le molli ve l'incalzava, ve la teneva. Guaidalmira stende subito la mano nella brace per cavarle, sclamando:
—Voi consumate la mia esistenza, pontefice!
Ma Gregorio con la molle le spinge più dentro tra le fiamme. E quella carta si rattrappa, si fa nera, si arroventa—infine non resta del testimonio della vita civile di quella povera giovane che poca cenere. Ella si mette le mani sul volto per non assistere a quella specie di omicidio morale, e prorompe in pianto.
—Pontefice, dimanda allora Laidulfo che aveva (p. 90) veduto tutta codesta scena in apparenza senza muovere palpebra, ma tastando sul petto il suo pugnale, pontefice, manterrai adesso la tua parola?
—A domani.
—Sta bene allora, risponde Laidulfo, ritirando la sua mano dal giubbetto, lasciando il pugnale e facendo una riverenza. A domani.
Guaidalmira si avvicina allora tutta tremante a Gregorio quasi avesse voluto gittarsegli ai piedi, e gli dice:
—Voi dunque...
Ma Gregorio le taglia in bocca le parole, e facendole cenno imperioso di partire sclama:
—Donna! il segreto che udisti muoia con te.
La giovinetta gli alza addosso gli occhi lucidi di lacrime, ed uscendo dietro a Laidulfo prorompe:
—La mia scienza non m'ingannava!
Gregorio loro tenne dietro col guardo ansioso, finchè non furono scomparsi, poi alzando al cielo gli occhi e le mani gaudioso gridò:
—Sono libero. Quei cialtroni non saranno creduti. La terra non avrà più macchia da appormi: per i presenti sarò un eroe; per i posteri un santo. Ma Iddio!...
A questo pensiero Gregorio cadde sulla sedia, e non passò guari ed un sopore lo avviluppò. Era quello il sonno del giusto, o un subito rilasciamento delle fibre del cervello che da violenta (p. 91) tensione posavano? Dio e la storia han giudicato quest'uomo: lasciamolo al loro giudizio.
Appena svegliato però Gregorio si fe' venire il vescovo Giovanni di Porto e gli dimandò:
—Giovanni, hai tu veduto quell'uomo e quella giovane che hanno meco favellato?
—Santo padre, sì, risponde il maligno vescovo.
Gregorio si guarda intorno per osservare se qualcuno lo ascoltasse, poi a voce intelligibile appena soggiunge:
—Vescovo di Porto, quell'uomo mi ha fastidito.
Il formidabile vescovo sbircia fitto fitto Gregorio per comprendere il significato di quella frase, indi risponde:
—Santo padre, si lasci servire da me.
E quelle parole, come l'indice delle sacerdotesse di Vesta che, al dire di Reboul de Nimes, était un poignard, furono la sentenza di morte di Laidulfo.
Humble et timide, a plaire elle est plein de soins,
Elle est tendre, elle a peur de pleurer votre absence,
Fidèle...
Non appena Laidulfo ebbe messo piede fuori la rocca si diede a correre a rompicollo per arrecare la novella al re dell'esito felice del suo negoziato. Giunse al cenobio che il dì era compiutamente finito, ma si vedeva ancora per quella specie di luce opaca che dava la neve donde il suolo gremivasi. Il re desinava. Laidulfo si fe' chiamare Baccelardo, e come questi venne e lo vide, ansioso dimanda:
—E sì, compare?
—A maraviglia, risponde Laidulfo.
—L'hai ucciso?
—Non ci è stato bisogno. Dimani il re sarà ricevuto e benedetto come un uovo di Pasqua.
—Dici il vero?
—E conosci che io burli mai? Domattina verranno (p. 94) qui a rilevare l'imperatore le due contesse, l'abate di Cluny, il marchese d'Este; e Gregorio lo accoglierà per assolverlo.
—Sacramento! e come hai tu fatto per rammollire quel demonio?
—Eh! al mio scongiuro difficilmente e' poteva resistere. Ma dimmi un po' adesso, e tu hai favellato col re?
—Altro! Enrico ha detto: che quel monello mi cavi di questa pania, e poi scelga il più pingue vescovado o principato di Germania, e gli giuro sulla mia corona imperiale che glielo darò.
—Ha detto proprio monello?
—Monello o galuppo, poco importa; qualche cosa di così infine.
—Che magnifico signore! Il fatto sta adesso che io m'imbroglio a scegliere. Già un vescovado vuol essere e non altro, perchè io sento una vocazione di farmi santo da ridurre a strabiliare un diavolo. Di' dunque, Baccelardo, che mi consiglieresti tu eh!
—Per me ti consiglio a dimandare l'arcivescovado di Magonza che è un buon quarto dell'impero.
—Diamine! sai, Baccelardo, che tu hai giudizio? Sta bene: dimanderò l'arcivescovado di Magonza.
—Si; ma ci è una lieve difficoltà.
—Quale?
—Che l'arcivescovo Sigofredo è vivo ancora
(p. 95) —Non altra che questa?
—Ti par poco?
—Fih! dammi ventiquattro ore di tempo, e mutami nome, se non farò restare la chiesa di Magonza vedova come.... come.... aiutami a dire dunque il nome della moglie di quel bellimbusto che trascinarono di un piede attorno le mura di quella città di Puglia che sta presso Biccari.
—Troia?
—Già: come si chiamava la moglie?
—Di Troia?
—Eh! dell'altro che fu trascinato.
—Ma!
—Capisco, compare, tu non sei più forte di me in letteratura. Or bene dunque, giacchè io sono arcivescovo di Magonza debbo fare qualche cosa per te. Ti piacerebbe la città di Reggio qui presso?
—Sogni!
—Mica. Io dunque ti do questa bella giovinetta in moglie, e la città di Reggio per dote, investendoti altresì dei miei dritti sul principato di Capua.
—Ah! vuoi dunque barattare i tuoi dritti coi miei sul ducato di Puglia e Calabria, compare?
—Io parlo del miglior senno, disse Laidulfo. Questa giovine adesso è da marito. L'ho guardata finora, perchè aveva a renderne conto. Il conto l'ho reso da fedele custode. È stata sventurata; (p. 96) non ho che fare di più. La mia parte è compiuta. Ho fatto finora il buffone perchè ero giovane. Ora mi sento venir vecchio, voglio far l'arcivescovo e chiamar fratello il papa. Ella è orfana, tu del pari, Baccelardo; sposala ed io vi darò la santa benedizione.
—Ma taci in nome di Gesù, disse Guaidalmira arrossendo tutta.
Baccelardo la contemplava attentamente.
—Ci pensi sopra? soggiunge Laidulfo, vedila, essa è bellissima, è pura come il vento delle Alpi. Potrai trovare più ricca donna, ma nè più avvenente, nè più amorosa. Se sapessi che cure ha avuto di me...! Bah! non ne parliamo, chè per poco che lo rammenti, questi tristi de' miei occhi scorreranno come grondaie. E ad un arcivescovo sta male il piangere.
—Ma taci, taci, padrino; cosa vai raccontando.
E Baccelardo la squadrava attentamente.
—Eh! quel giovane, riprende Laidulfo, cosa è? Sei restato infatuato come gli apostoli che si han veduta sfumar d'innanti la Vergine nel quadro della chiesa di Santa Maria Maggiore? Andiamo, risolviti. Se non la puoi togliere in moglie, accettala per compagna, giurami di proteggerla e di rispettarla.
—Ma qual novello mercato intendi fare di me, padrino? scoppia con fierezza Guaidalmira. Io non mendico protezione da alcuno.
(p. 97) —Dimmi, Laidulfo, conosci i natali di questa giovane? dimanda Baccelardo.
—Nobilissimi. Per madre discende dal conte di Reggio, di cui è erede unica; per padre si va più alto ancora. Però non è maturo il tempo da rivelarlo.
—Ma costei sarebbe allora la figlia di quella Bertradina, che fu un dì moglie dell'arcivescovo di Ravenna? dimanda Baccelardo.
E Laidulfo:
—No, bel cavaliere. Vi ho detto che non era tempo ancora rivelare il segreto del suo nascimento; attenetevi alla mia parola. Quel dì verrà, ed ella stessa, o io, vi faremo di tutto chiaro. Per ora contentatevi di ciò.
—Ma pure la sola Bertradina era erede del conte di Reggio.
—Ed io ti dico che Guaidalmira non ha nulla da partire con codesta dama. Saprete tutto a tempo opportuno; acquietatevi adesso.
—Sta bene, risponde Baccelardo, non occorre saper oltre. So già tutto. Se ella dunque non ripugna, io sarò il suo amico, il suo fratello; e se la mia stella si rischiara, il suo sposo.
—Te Deum laudamus! sclama Laidulfo, prendila dunque, ella è tua.
Guaidalmira fatta rossa come bragia si covre il volto con le mani; e Baccelardo, accostandosele, la bacia sulla fronte ed esce dicendo:
—Reco la lieta novella all'imperatore.
(p. 98) Al domani, Gregorio tenne la parola. Matilde cogli altri signori della rocca si recò all'albergo dell'imperatore per confortarlo di appressarsi di nuovo al castello ed aver l'assoluzione. Perocchè, dopo il lungo loro pregare, avevano infine ottenuta promessa dal pontefice che li avrebbe soddisfatti. Enrico resistette alcun tempo: infine si lasciò persuadere, e sull'ora di sesta a Canossa si ravvicinò per la quarta volta. La neve ed il vento sembrava che avessero voluto imitare la pertinacia del pontefice, poichè ingagliardivano di giorno in giorno peggio. Avanti la porta delle prime mura si presentò l'abate di Cluny per rinnovellare la cerimonia dei tre giorni precedenti.
Egli aveva l'aspetto attonito, lo sguardo immobile. Si avanzò al cospetto del re e parlò:
—Dunque, santo padre, convincetevi che dovete assolvere Enrico, non potendolo condannare all'inferno, perchè l'inferno non ha azione sull'anima. L'anima, ha detto il beato Aristotile, è la forma della materia, ossia l'attività prima del corpo organico, e racchiude la causa sufficiente della facoltà per cui le funzioni vitali si esercitano. Ora siccome tutti i sensi esercitano la loro azione mercè un certo medio, così anche l'anima, la quale ha sede nel fuoco, perchè il senso d'attività va spesso unito col senso del calore. E siccome il cuore ha una natura calda, quivi è la sede dell'anima. Ma nel cuore vi sta ancora l'etere, (p. 99) dunque il medio dell'azione dell'anima è il fuoco, o spirito, o l'etere. E perchè i simili non si distruggono, così l'inferno non distruggerebbe l'anima di Enrico, e dovete assolverlo, e dovete...
L'imperatore stette attento ad udire dove diavolo l'abate volesse andare a parare con quel ragionamento, che probabilmente era lo stralcio di un discorso da lui tenuto al pontefice; ma non arrivandone a comprender nulla, gli volse le spalle, si nudò, rimase il seguito nel primo atrio, ed entrò.
Egli aspettava che lo avessero subitamente intromesso. Non fu così. Imperciocchè attese fino all'ora di nona senza che alcuno apparisse. E stava già per andar via, furibondo di questo frustraneo novello atto di sommessione, malgrado le preghiere dell'abate con lui restato fuori ed in sè rinvenuto; allorchè le porte si aprono, e vengono fuori la contessa Matilde, la marchesana Adelaide, Azzo d'Este, ed il vescovo di Porto con molti altri prelati italiani e tedeschi nel castello ricoverati. Il vescovo di Porto va dritto al re, e gli dice:
—Enrico di Germania! perchè vieni tu in abito da penitente alle porte di questa fortezza?
—Per essere assoluto della scomunica da papa Gregorio, risponde il re.
—E sei tu veramente pentito delle tue colpe? dimanda il vescovo di nuovo.
(p. 100) —Sono, risponde Enrico.
—Entra dunque in nome di Dio e di Gesù, e che l'assoluzione che ti rechi a ricevere possa giovare all'anima tua.
E, sì dicendo, il vescovo di Porto si apriva il varco fra quei signori che si schieravano in due ale, ed Enrico lo seguiva nel castello.
Avanti a te o Gran Cuccu mi prostro,
Che dai per ineffabile mistero
Fatidica virtù di un corvo al rostro
D'annunziar l'impercettibil vero,
Ma nessun seppe mai, nessun saprà
Donde viene il tuo spirito, e dove va.
Enrico non fu ammesso però direttamente alla presenza di papa Gregorio. Egli si ebbe ad arrestare nel vestibolo e ad assoggettarsi ancora a pause non brevi fino a che il vescovo di Porto non ritornò col permesso di progredire. Tutta la gente del seguito di Enrico, unitamente ai signori del castello, rimase nelle antisale; solo il re, accompagnato dal vescovo fino alla porta, si recò innanzi. Ildebrando sedeva ad un trono di legno di quercia, ricco di intagli a gotici disegni e colonnette attortigliate, elevato da terra e collocato dentro una nicchia dello stesso legno, medesimamente scolpita. Sopra un tavolo, ad un angolo della stanza, poggiava il camauro. Egli (p. 102) poi si teneva ad un altro tavolo alzato al livello del petto con mobile da scrivere.
Vestiva gli abili ponteficali, sfarzosi di ricami d'oro e di fimbrie intorno al collo, all'apertura del petto ed alle maniche. Ai piedi aveva i sandali bianchi ricamati della croce d'oro; in testa il rosso berretto che gli lasciava scoverta a metà la calva fronte e mirabilmente faceva risaltare quella sua nobile fisonomia, la quale forse non piaceva a causa di quell'aria accigliata che la troppo severità le dava. La bianca barba gli scendeva profusa sul petto. Tutto intento, ovvero fingendo di esserlo, alla scrittura, non fece cenno di accorgersi della presenza del re, sia per umiliarlo ancora, sia per imporgli con la sua maestosa figura. Ed Enrico, che aveva sorbito l'ostica bevanda fino al limo, battendo i denti del freddo, i panni bagnati ed agghiadati sulla persona, sformato in viso dal gelo e dall'interna lutta degli affetti, bilanciava tra il partire definitivamente e rompere quella tirannica catena di obbrobrii; interromperlo nella scrittura ed avvisarlo di sua presenza; avventarsegli addosso ed ucciderlo. E questo nero pensiero, più seducente e più ostinato, gli tornava d'innanzi, talchè forse lo avrebbe vinto, se Gregorio, vergognando in sè stesso del dilegio in che prendeva quel caduto, non avesse alzata la testa e mostrato avvedersi di lui. Come Enrico si ebbe questo lieve segno di favore, si avvicinò al soglio, e cadendo (p. 103) ginocchioni e baciandogli la mano biascicò più che non disse.
—Santo padre, perdono.
Gregorio, senza muoversi, piegò gli occhi sulla testa del re, e forse quel bello e giovane sembiante lo toccò. Enrico aveva allora ventisei anni. L'occhio turchino scintillava ardito come quello dell'aquila. La nobile chioma bionda, avvegnachè dall'acqua inzuppata, gli scendeva sulle spalle come la giubba del lione. La magnanimità, la fierezza gli si leggevano nel naso aquilino e nell'elevata fronte; del pari che la carnagione perlata e trasparente come quella di fanciulla additava la blandizia del suo cuore. Gregorio contemplava quel giovane pino, che della sua rigidezza aveva tentato spezzare; e forse un rimorso lo travagliò. Perchè troppo egli sapeva che la perversità non ricetta in un cuore il quale si specchia in volto così fresco e così bello. E poi volava con la mente agli anni suoi primi. E rammentava di qualche essere che lo aveva colpito; rammentava di suo fratello, e di tante imagini e scene della vita domestica, che nel suo lungo peregrinare e per uffizio del suo ministero aveva vedute, e s'inteneriva. Imperciocchè nulla v'ha che più intimamente favelli al cuore e di carità e di Dio, che l'aspetto della gioventù, e della gioventù potente ma sventurata. Così che papa Gregorio, quasi a sua insaputa, sedotto da interno moto, stese la mano al re supplicante e (p. 104) lo sollevò. La natura umana si era in lui strisciata di furto sotto al pontefice. Ma come Enrico sorse in piedi, e la taglia maestosa e l'aspetto ardito dissiparono quanto di supplice aveva avuto fino allora, sì che il pontefice ne era restato commosso; questi cambiò istantaneamente, e dimenticando il penitente per vedere il re, dimenticando il contrito per ricordare l'offensore, e l'avvilito per temere l'uomo terribile e minaccevole, fattosi novellamente aspro e severo dimandò:
—Ma sei tu dunque veramente pentito, Enrico di Germania?
Enrico allora gli mise addosso gli sguardi torvi e rispose:
—Ti sembrano dunque poche, o pontefice, o ancora dubbie le prove che te ne ho date finora?
—Uomo, hai tu dunque obbliate le colpe che cotanto magnifichi la penitenza? Ma se tu l'hai dimenticate, non l'ha dimenticate già Dio, nè colui che lo rappresenta sulla terra come supremo giudice degli uomini.
—Pontefice, se ti ha indotto nell'errore di avermi per reo la mia umiltà, ricrediti. Io mi sono presentato a te non come all'uomo, nè come al tribunale dell'uomo, perchè sulla terra alcuno non mi sovrasta, ma come al vicario di Cristo, come al sacerdote che Iddio raffigura. E se avanti al mondo io sono puro, al conspetto (p. 105) di Dio non posso vantarmi di esserlo. Tu però hai malamente tenuto il luogo del Signore della misericordia.
—Ah! son dunque falsi gli atti dei conciliaboli di Worms e di Pavia, che ci calunniarono così vilmente e ci deposero dalla sedia di Pietro? Il priore di Lacedonia, da noi perseguitato come infame, non fu da te creato arcivescovo di Ravenna per vilipenderci? Il favore agl'impudichi ecclesiastici da noi condannati, la resistenza nel non ispogliarsi delle investiture . . . non è vero. Enrico di Germania, son falsi e non dettati sotto la tua inspirazione quegli atti, quelle resistenze, quei favori? Non è Guiberto arcivescovo?
—No, non sono falsi. Ma tu, Ildebrando, avevi varcati i limiti del tuo ministero, ed io mi serviva del dritto degl'imperatori di Lamagna.
—Ed io di quello dei supremi pontefici, riprende Gregorio interrompendolo, e percotendo del pugno la tavola. Io come capo dei cristiani ho udito i loro lamenti. Tutti i giorni, i tuoi sudditi di Germania han recato ai miei piedi querele contro la perversità e la ferocia del tuo cuore. Hai vedovate e pollute le chiese; vituperati i sacerdoti; corrotto il paese che Iddio ti avea dato a governare; afflitti i vassalli; oltraggiati i signori. E se questi a te, infistolito nel male, Enrico, non sembrano delitti, a me, supremo signore dell'impero, feudo di santa Chiesa, lo apparvero troppo, e ti giudicai non con la severità (p. 106) che meritavi, ma come padre, come amorevole padre che il figliuol suo vuol ravvedere, non perdere.
—Codeste son le solite frasacce dei sacerdoti, pontefice, e ne ho udite troppe per non riconoscerle, risponde Enrico sdegnosamente. Avete appreso una serie di motti spregevoli e di luoghi comuni, che applicate a tutti i casi, a tutte le circostanze, a tutte le persone senza distinzione di sorta, e così fatte egida alla petulanza della vostra condotta ed ai vostri disegni, che nulla hanno di santo e di puro. Chiese pollute! sacerdoti vituperati! gregge afflitto! pastori! pecorelle! e che so io. Ma citate, per dio, citatemi un esempio solo specificato di coteste ipocrite parole. Che un cavaliere solo dei nobili e virtuosi, che pur ne ha tanti Germania, venga a farmi arrossire di un'opera da tiranno e da perfido; ed allora io rassegno la corona come indegno di portarla. Ma finchè una mano di schiavi, ribelli ad ogni freno e ad ogni legge, finchè dei preti avidi di guadagno e di potere, e dei signori ambiziosi, che null'affatto vorrebbero esser ligi di padrone ed al padrone forfanno, si tirano avanti per baiare alla luna, ed eruttar delle scempiaggini scellerate, con niun discernimento spilluzzicate nelle omelie della Chiesa contro l'antica memoria di Domiziano e di Nerone; finchè, pontefice, questi servi vituperati si arrogano di calunniare il loro re, onta a te che li ascolti e (p. 107) presti loro un braccio, il quale solo dovrebbe alzarsi per ristorare i caduti e proteggere i malignati.
—E perchè dunque, se ti sentivi incontaminato, perchè hai rifuggita la dieta di Augusta? dimanda il pontefice. Quivi, in presenza mia e dei signori dell'impero, avresti potuto fare le proteste medesime, ed innanzi a cento e cento testimoni, chi avrebbe ardito mentire?
—Perchè, dovresti ricordarlo, o pontefice, sta scritto: Date a Cesare ciò che è di Cesare, ed il servo non si leverà a censore del suo padrone. Perchè la dignità dell'imperio si sarebbe prostituita. Perchè la giustizia umana e divina non tollera che alcuno si constituisca giudice ed accusatore ad un tempo. Perchè coloro erano stati corrotti da te, pontefice, da te che dovresti portare la pace del Vangelo non la sovversione di Satanno, e ne sieno testimoni le tue lettere ai principi Rodolfo, Bertoldo, ed altri signori di Germania. Perchè quella dieta era contraria alle costituzioni dell'impero, come convocata da signore straniero, e da lui preseduta. Perchè infine io era re, e sul re non giudica che Iddio, ed un re deve morire, deve rinunziare allo scettro, se d'uopo è, ma non avvilirsi. Ma lasciamo il passato, pontefice, e più calmi discutiamo i nostri affari.
Gregorio accigliato e scuro come una notte di (p. 108) tempesta in gennaio, ascoltava digrignando e contorcendosi senza rispondere. Enrico continuò:
—Per bene dell'anima, io ho creduto farmi cavar gli anatemi, e per non desolare di guerre e di scismi il paese che Iddio ed i dritti ereditari mi han dato il reggimento. Siano qualunque i principii che t'indussero a scomunicarmi, ora, santo padre, dovresti esser soddisfatto delle prove che per riconciliarmi con la Chiesa ti ho date. Bastino. Non tentare gittarmi nella disperazione, perchè, come ti sovviene, sta scritto, che, chi ama il pericolo in quello perisce.
—E sei tu veramente pentito, Enrico di Germania, dei soprusi che hai fatti alla Chiesa ed a me che ne sono capo?
—Io non so veramente troppo di quali soprusi tu intenda parlare, pontefice. Ma se cosa avrò commessa che al cospetto di Dio non fosse tornata gradevole, men pento pure, ed amaramente men pento.
—Sta bene. Però i pentimenti non bastano, signore; guarentigie vi vogliono.
—Dimandate.
Allora Gregorio tolse la pergamena finita di scrivere allora allora in presenza del re, e disse:
—Ecco i capitoli della pace, se vuoi la pace, figliuolo. Li ratificherai, li firmerai, e presterai giuramento di osservarli. Dove però essi, o alcuno articolo di essi non ti tornasse gradevole, (p. 109) puoi andarne pure, perchè io sono fermo, Enrico, di non recedere, per qualsiasi considerazione, da essi.
—Li firmerò dunque senza leggerli, se non mi è dato discuterli, e li giurerò.
—No; gli è mestieri che gli ascolti, onde per l'avvenire non ti ritragga dall'osservarli, e spergiuri.
—Leggili.
—Eccoli. «1.o Nel giorno e nel luogo segnalati dal papa, Enrico si presenterà alla dieta degli Stati tedeschi onde purgarsi delle accuse postegli dai principi. Il papa sarà giudice supremo ed unico fra lui e tutti gli accusatori di lui».
—Ah! fece Enrico, incrociando le braccia sul petto, il papa sarà giudice, giudice dell'imperatore, giudice dei suoi baroni, giudice dei suoi vassalli—signor dell'impero in una parola. A maraviglia! E poi?
Gregorio lo sta ad udire fissandolo di sguardo accigliato, poi senza rispondere continua a leggere.
—«2.o Quando, a giudizio del papa, Enrico fosse chiarito innocente, con sentenza del pontefice conserverà la corona imperiale: se colpevole, la rinuncierà senza contrasto, nè potrà per qualunque modo dimandare o tôrre vendetta da chicchessia».
—Comprendo, riprese Enrico componendo il (p. 110) volto ad un sorriso che avrebbe spaventato Satanno, Samuele ha trovato il suo David perchè Saulle l'ha fastidito. Ed inoltre? Gregorio si tacque ancora e lesse.
—«3.o Per sino al giorno di questo giudizio Enrico non porterà le insegne imperiali, non si arrogherà l'amministrazione del regno, ed eccetto la esazione dei regi dritti per tanta somma quanta sarà necessaria al vitto suo e dei suoi, non toccherà il tesoro della Camera, libererà dal giuramento di vassallaggio e di fedeltà tutti quelli che glielo avessero prestato a contare da un anno».
—Tanto valeva di soggiungere di mandare a tua paternità quei tesori ed infeudarli l'impero, continuò Enrico col medesimo ghigno beffardo. Ve n'è ancora molti di codesti patti di pace?
Gregorio legge:
—«4.o Quando trionfasse delle accuse dei principi e dal papa fosse confermato in monarca, Enrico sarà ognora fedele, devoto, obbediente al romano pontefice: e sia nel ricomporre i disordini dell'impero germanico, sia nel riformare gli abusi delle chiese italiane e tedesche, non potrà giammai essere d'avviso diverso di quello del papa».
—Ciò è di ragione, sclama Enrico; il papa è il re dei re, il papa è Dio. Conchiudiamo.
—«5.o Mancando ad un solo di tali capitoli, o scostandosi dal loro senso più ovvio, l'assoluzione (p. 111) della scomunica sarà irrita, nulla, e come non per anco avvenuta; e si terrà considerato per convinto di tutti i delitti che gli vengono apposti dai principi, e decaduto dall'impero. Infine consegnerà al pontefice l'arcivescovo di Ravenna prigioniero».
—Anche questa? Un imperatore sacrestano non basta; deve anche essere il birro ed il boia di santa Chiesa. Stupendo!
Gregorio non rileva l'osservazione. Solleva il capo, e gittandogli innanzi sul tavolo la copia dei capitoli:
—Ecco, Enrico, soggiunge, a quali patti ti potrai riconciliare con Dio e con me. Se non li approvi io non te li impongo.
Enrico non risponde più nulla. L'indegnità di quei capitoli e l'insigne tradimento che Gregorio gli aveva ordito, gli sembrarono talmente infami, che gli venne financo fastidio di favellare, e mille anni gli parvero di torsi dalla presenza di quell'uomo. Per lo che, con una specie di convulsa rabbia, toglie d'innanzi al pontefice la pergamena e la sottoscrive. Gregorio s'avvide dei pensieri che concitavano il re, e comprese senza stento che quei capitoli non sarebbero stati osservati. Ma siccome da documenti di questa natura, e con questi mezzi carpiti, egli aveva assunta la prepotenza ed i titoli alla signoria degli altri regni, così contentossi della cosa fatta e del presente, riserbandosi per l'avvenire di profittare delle (p. 112) circostanze. Onde, rivolgendosi ad Enrico, gli dice:
—Adesso fa d'uopo che giuri.
—Hai cominciato, finisci, risponde costui quasi distratto. Detta dunque tu stesso il giuramento ancora, perchè io sono a tutto rassegnato.
Allora Gregorio fa entrare tutta la corte e le annunzia la riconciliazione seguita. Poi, in presenza di tutti, Enrico pone la mano sul libro degli Evangeli, tenuto dal vescovo di Porto ginocchioni, e legge sur una pergamena presentatagli dal papa presso a poco queste parole:
«Io, Enrico, re di Germania, prometto che entro il termine prescritto da papa Gregorio, darò, conforme alla sola sentenza di lui, pubblica e piena soddisfazione a tutti i principi e grandi del regno che ora sono malcontenti di me, per quanto riguarda le accuse che essi mi appongono, e la discordia che travaglia l'impero. Se papa Gregorio vorrà passare oltremonti o visitare una provincia del regno, sarà, per parte mia e di tutti coloro ai quali potrò comandare, al sicuro da qualunque lesione tanto per la libertà, la vita e le membra sue proprie, quanto per la libertà, la vita e le membra dei suoi seguaci ecclesiastici laici, i quali in qualità di legati viaggino dimorino in una parte qualunque del regno. Non consentirò che veruno, mio suddito o no, violi la maestà del pontefice; e se mai qualche (p. 113) empio lo ingiuri o contristi, lo vendicherò con tutte le forze del regno».
«Io lo giuro oggi 26 gennaio 1077, a Canossa.
—Sei contento adesso, o pontefice? domanda Enrico quando fu letto ciò.
—Non ancora, risponde Gregorio. Tu hai firmato dei patti, li hai giurati, ma chi malleva e giura in proprio nome per te che li osserverai?
Questo novello affronto indignò quanti signori stavan presenti.
—Io, giusta la regola del chiostro, dice l'abate di Cluny, non posso giurare, ma sulla mia garantisco la parola del re.
—Ed io giuro, sclama il vescovo di Vercelli, che Enrico manterrà le condizioni.
—Ed anch'io lo giuro, soggiunge la contessa Matilde.
—Ed io pure, risponde Adelaide.
E così giurarono del pari Azzo d'Este, Eppone vescovo di Zeitz e molti altri signori italiani e tedeschi. Allora Ildebrando dà ad Enrico la benedizione e l'abbraccio di pace. Quindi, scendendo dal suo soglio e mettendosi alla testa del corteo, esce dal castello, muove alla cappella e comincia la messa. Alla consacrazione dell'ostia e' fa accostare il re all'altare, ed innalzandola sovra il suo capo con voce solenne sclama:
—Re di Germania, tu ed i tuoi seguaci ci avete accusati di aver, per simonia, usurpata la (p. 114) santa sede, macchiato di sacrilegi il santuario e la nostra vita di nefandi delitti, sì che avevamo meritato bando dall'altare. Potremmo confondere la calunnia con la testimonianza dei vescovi, che sanno come noi fossimo vissuti e nel chiostro e ministro dei papi, e collocato sul settemplice candelabro del tempio. Pure, perchè nessun'ombra offuschi lo splendore tremendo della tiara, non ci appelliamo alla giustizia degli uomini, ma provochiamo il giudizio da Lui che scruta i cuori e trova macchie nel sole. Il corpo vivente di Cristo, che dobbiamo inghiottire, attesti al conspetto del mondo l'innocenza del suo vicario. Iddio onnipossente dissipi quest'oggi il sospetto se siamo incontaminati, ci fulmini di morte se rei.
E sì dicendo, acclamato da tutti, inghiotte la particola. Indi si volge ad Enrico e favella:
—Fa ciò che noi facemmo, figliuolo, e chiama in testimonio l'Eterno che il tuo cuore non si è ribellato alla Chiesa. I tuoi accusatori, e sono tutta la Germania, vogliono che tu sia giudicato; appéllatene dunque a Dio che solo non può essere ingiusto. Eccoti l'ostia consacrata: se peccasti, non farti reo ancora del sangue e del corpo di Cristo. Ma se sei mondo di colpe, vinci con questa prova le accuse, suggella ai tuoi nemici la bocca, e guadagnati un difensore nel papa.
Enrico, dopo tante prove, si vedeva ancora esposto ad un giudizio di Dio—in quell'epoca (p. 115) tremendo sopra ogni giudizio. Alla profferta del papa, con mal umore, risponde:
—Pontefice, i miei accusatori non sono presenti, e quindi, o niente affatto o debolmente creduto sarebbe questo novello esperimento di mia innocenza. Si rimetta dunque al giorno della dieta.
—Fa come vuoi, o figliuolo, risponde Gregorio, e finisce di celebrare la messa.
Allora Giovanni di Porto, che aveva assistito il pontefice, nel voltarsi, vede Laidulfo che faceva capolino all'uscio, tutto contento della riconciliazione ottenuta mercè sua.
Que le prélat surpris d'un changement si prompt
Apprenne la vengeance aussitôt que l'affront.
Il vescovo di Porto, memore delle parole di Gregorio, guizza di mezzo alla corte, ed andando incontro a Laidulfo gli fa segno di seguirlo. E come l'ebbe menato in disparte gli dimanda:
—Figliuol caro, non saresti tu per avventura colui che ha reso segnalato servigio al pontefice?
—Monsignor sì. Se posso renderne qualcuno ancora a te, non devi che favellare. È la mia debolezza quella di prestarmi per tutto il mondo... che mi paghi, bene inteso!
—No, compare, a me non occorre nulla. Ho invece comando di sdebitarmi con te, per quella larghezza che devi aspettarti dalla natura del servigio prestato e dalla persona che ten richiese.
—Innanzi tutto da parte di chi mi favelli tu, magnifico vescovo di Porto, dalla parte del re o (p. 118) da quella di Gregorio, poichè entrambi io mi obligai?
—Dalla parte di Gregorio, risponde il vescovo.
—Allora bisogna dire, sclama Laidulfo, o che io sia nato vestito, o che il mondo vada per iscoppiare; perchè, quando pagano i preti, i diavoli fanno orgia.
—E noi vogliam mettere, eccezione ai tuoi principii. Seguimi dunque un poco.
E sì parlando, lo menava traverso molti corridoi oscuri, gli faceva scendere e salire scale a chiocciola e ballatoi, finchè non furono in un'ampia camera, quasi buia, perchè prendeva luce da alto abaino, praticato per rispondere in una stanza anch'essa poco illuminata. In questo salone si levava una specie di trono, ed alcuni sgabelletti più bassi. Quivi usava la contessa tener mallo per le condanne di morte, e diverse porte di trista apparenza in essa si aprivano. Laidulfo guardava intorno e diceva:
—Dunque, monsignore, vorrà esser grosso il compenso che il santo padre ti ha comandato di darmi?
—Veramente egli non me lo ha comandato propriamente, perchè Gregorio non è gran fatto facondo su queste cose, e bisogna pigliarlo a volo; ma io, che son vecchio balestriere, l'ho capito subito.
—Ha avuto torto il santo padre: non si (p. 119) dimenticano i buoni amici. Ma, dico, monsignore, che cos'è che andiamo pescando quaggiù? Questa camera non ristora lo spirito niente affatto.
—Figliuol caro, vorresti tu mo' che i tesori si tenessero così esposti all'aria per chi voglia beccarseli? Signor no, si custodiscono ben guardati in fondo alle castella, e son noti solamente alla gente fedele.
—In fondo alle castella sono altresì le prigioni, monsignore; e non è la prima volta che vostra religione paghi così i grossi servigi.
—Non ti apponi, compare; ma i servitori di Dio non si conducono per tal modo.
—Sì bene, posto già che tu fossi servitore di Dio. Ma dove dunque si va?
—Siam giunti. Non devi che aspettarmi in quella stanza, perchè non voglio, gioia bella, che tu sappia i nostri affari; ed in due minuti sarò da te. Cosa è! tu dubiti?
—In questa stanza, dici? Ma questa stanza ha una porta, questa porta ha una toppa, questa toppa una chiave, e questa chiave può dare alcuni giri, e mastro Laidulfo restarci dentro assediato dalla fame come Cristo nel deserto. Monsignor no: in questa stanza non entro io.
—Allora togli la chiave e mettila in tasca, se non trovi meglio di chiuderti di dietro come io vorrei; perchè, ti ripeto, non mi solletica niente affatto di essere spiato da te.
—In questo modo la cosa potrebbe camminare, (p. 120) diceva Laidulfo, esaminando la porta, se... se.... Sta bene! non ci sono più nè toppe, nè saliscendi, nè lucchetti. Dunque hai detto cinque minuti, non è vero, monsignore?
—Presso a poco.
—Giuochiamo a capo a nascondere: comprendo. Non importa: vada, sia pur così. Ma bada, monsignore, che il compenso sia grosso, perchè....
—Rilevante fu il servigio; lo so.
—E che non aspetterò più di cinque minuti; e che se mi volessi usare tradimenti, ho un pugnale che non è novizio. M'intendi?
—Troppo.
—Andiamo dunque in nome del dia....
Laidulfo aveva aperta la porta, e messo il primo piede sul pavimento della stanzuccia. Ma siccome il solaio era stato collocato a bilanciere, per modo che dove il passo si metteva sprofondava e si alzava dal lato opposto; così Laidulfo si vide aperto d'avanti un abisso profondo ed oscuro, in fondo al quale sentiva un murmure come d'acqua che corre. Egli però, poggiando il piede si era squilibrato. Il vescovo di Porto, che spiava ogni suo moto, ne profitta, e dandogli una spinta gagliarda lo manda giù, senza che avesse neppure intera potuta proferire la frase. Ciò fatto, con una mazza urta il lato del solaio sollevato, e tirandosi la porta se ne va fregandosi le mani e zufolando, dopo aver detto:
(p. 121) —Corpo dell'ostia! Mastro Ildebrando non si fastidierà più di te, mariuolo!
Allora tumultuoso levare di voci gli giunge dalle corti che dicevano:
—Abbasso l'infame pontefice, abbasso il re codardo, abbasso.
Il vescovo di Porto tende prima le orecchie ad udire, poi crolla alquanto la testa, sorridendo volge gli occhi al suo fianco, dove nascondeva il pugnale, fa scricchiolare le nocche delle dita, e dicendo: andiamo in nome di tutti i diavoli! ed al pontefice si presentò.
Enrico, che asciolveva con Gregorio, a quei da lui pure uditi rumori aveva preso commiato. Gregorio lo aveva licenziato con un vade in pace. E si avviava per uscire, allorchè gli viene incontro il vescovo di Vercelli che divenuto estremamente pallido sclama:
—Sire, gl'Italiani sono in rivolta.
A quell'annunzio il re si scuote, e subitamente trae sullo spianato per parlar loro. Lo spianato trova deserto. I capi si erano ritirati per consultare fra loro, il popolo aveva cercati gli abituri per andare raccontare ai suoi figli ed alle sue femmine dell'atto osceno a cui aveva assistito, e mandarne ai posteri vituperata memoria.
Enrico allora seguito da pochi, riviene al romitaggio. Però come penetra nelle sue stanze, (p. 122) egli si arresta, poi retrocede, colpito da terribile spettacolo.
L'arcivescovo di Ravenna, piagato al petto da grave ferita e legato alla gola con un balteo, penzolava da un piuolo del camino, piombino in viso, oscillando ancora, convulsamente rattrappito. Enrico gli fa tosto apprestare soccorsi, se pur erano ancora a tempo di salvarlo, e dimanda di Baccelardo.
Baccelardo ed una giovane erano partiti da un'ora.
E due ore dopo, tre legati del papa, divisati da pellegrini, movevano per la Germania.
(p. 125) Sorgi, ungilo perchè egli è desso. Prese dunque Samuele il corno di olio, ed in mezzo ai suoi fratelli lo unse.
Gregorio si era costituito in quell'altezza maggiore che l'uomo sopra l'uomo può alzarsi. Aveva però compressa una molla elasticissimamente temperata, e così bruscamente, e con tanta violenza, che doveva aspettarsi per fermo reazione non meno ostile nè meno ostinata. Perocchè non solamente egli aveva gravata la mano sull'incauto re, venuto a penitenza, ma lungi dal perdonarlo, come quegli aspettavasi, con tradimento lo aveva rimandato per l'assoluzione al tribunale stesso, che avanti e' non aveva creduto competente, gli aveva interdette le divise regie, ed imposti patti vergognosi, a fine di tornarlo pienamente ligio e vassallo della Chiesa e dei pontefici. Ond'è che gl'Italiani, i quali niuna amorevolezza gli avevano mai posta per la sua troppa severità, gli tolsero affatto adesso ogni (p. 126) riverenza. Gl'Italiani vedevano conculcato con tanta petulanza l'onore del trono, da cui dipendeva l'unione e la franchigia del popolo. Vedevano rassodarsi il dispotismo teocratico del pontefice e lo temevano nemico più aspro, che Enrico mai non si era mostrato contro lo spirito di municipio e la costituzione dei comuni che allora cominciavano a pigliar vita. Per lo che, non dissimularono nè il loro sdegno, nè il loro sprezzo contro Enrico, che aveva siffattamente prostituita la dignità di re e la maestà dell'impero, nè il loro corruccio contro il vescovo di Roma che all'impero si sostituiva e sovraponeva. E di là comprendendo quanta arroganza avrebbe addimostrata per l'avvenire un pontefice, già per sè stesso intollerante e dispotico, contro di lui bandirono guerra, contro Enrico disdegnosi tumultuarono.
Ma Enrico non era tal uomo da non saper profittare dell'opportuna disposizione degli animi. Da Canossa si reca tosto a Reggio, dove vescovi e signori lo attendevano per penetrar chiari nei suoi disegni, e sapere a quale determinazione pensasse attenersi. Egli si giustificò. E lo credettero. E non vi fu più mestieri di sprone per mettersi sulla via di rompersi con Gregorio.
La guerra si dichiarò. Gli antichi amici di Enrico di Germania scesero in Italia. Da ogni terra italiana a storme cavalcavano militi al campo di lui, ed i nobili gli prestavano omaggio, gli (p. 127) giuravano fede gli ecclesiastici, forniva la plebe vettovaglie e danari.
Vuolsi che a quell'epoca, in un eccesso di divozione, avesse Matilde dichiarata la Toscana e la Liguria, paterni ed assoluti dominii, patrimonio di S. Pietro. Questa donazione però, è contestata da gravi e spassionati scrittori, ed assai dubbie sono le tracce negli antichi cronisti, sì che i soli spigolisti vi leggono chiaro. Ad ogni modo, voce ne corse in Italia, e l'imperatore avrebbe tolta ragione anche di quest'altra rapina, come erede della contessa, se Gregorio, per allontanarlo d'Italia, non avesse soffiato coi suoi legati nelle cose di Lamagna, e macchinata trama che miserie, morti e delitti infiniti originò.
La Germania, spartita in fazioni come l'abbiamo lasciata, divampava ogni giorno peggio dopo la discesa del re in Italia. Aspettava ansiosa la composizione del pontefice e del re, e trepidava, non sapendo a quali patti sarebbesi fatta. E come Rodolfo di Svevia, capo dei nemici di Enrico, udì che questi già riabilitato capitanava un esercito d'Italiani, comprese subito che, colte le opportunità, se lo avrebbe veduto piombare nel paese, dove a quell'ora partigiani moltissimi lo attendevano e sollecitavano. Intimò perciò dieta di nobili tedeschi a Forcheim, pregando tutti intervenire, e provvedere in comune alla salute dell'impero e della Chiesa. Gregorio, che avrebbe ambito mettersi in mano la somma (p. 128) delle cose di Lamagna, udito della dieta, alla quale oratori di Rodolfo lo invitavano, richiese Enrico, che barricava le Alpi, di un salvocondotto per recarvisi. Enrico gliel rifiutò. Allora Gregorio, per mezzo di corrieri, manda ai suoi legati doppio protocollo d'instruzioni, pubblico l'uno e tutto affusolato di pace e di carità, l'altro segreto cui la storia ha potuto sospettare, non mai stabilire per fermo.
I legati, arrivati già in Germania, cominciarono a tentar pratiche presso i signori della dieta per soppannarli dei loro principii e dei loro disegni.
Il giorno della dieta giunge. Radunati a Forcheim l'arcivescovo di Magonza, i vescovi di Wurzburg e di Metz coi prelati delle loro diocesi, i duchi Rodolfo di Svevia, Guelfo di Baviera e Bertoldo di Carintia alla testa di margravi, conti, baroni, valvassori e quanti mai stessero dalla parte dei Sassoni, i legati mostrarono le lettere di credenza ed all'assemblea si presentarono. Poscia, primo Rodolfo, e dietro a lui gli altri in ordine di grado e di autorità, principiarono a lungamente produrre accuse di ogni maniera contro Enrico. Non è a dirsi di quanti delitti quei signori, tutti a lui nemici, lo accagionassero! Rodolfo ed il conte di Nordheim, che avevano animo nobile, prendevano a schifo l'impudenza di quei vili. Ma i legati, che nulla meglio cercavano, fingendo i peritosi, lodarono la lunganimità e la fedeltà dei nobili tedeschi per avere (p. 129) fino a quel ponto tollerato sì pazzo e crudele monarca. Conchiusero che, se non volevano ulteriormente tentare Iddio, e l'animo paterno di papa Gregorio addolorare, bisognava privarlo di regno ed eleggere un altro re. I principi, prevaricati di soppiatto, acclamarono il partito. Ma i legati che conoscevano di quanta delizia Gregorio vagheggiasse esser l'arbitro supremo nella contesa, supplicarono la dieta, non procedesse all'elezione prima della venuta di lui, ora bloccato in terra lombarda senza potere nè rientrare a Roma, nè le Alpi varcare.
I principi tedeschi non rifiutarono da prima, ma la notte considerarono com'e' fossero depositari della sovranità nazionale, che il papa non era balio dell'impero e non aveva dritto nè consultivo nè deliberativo nell'azienda dello Stato. Laonde alla tornata del domani, Ottone di Nordheim dichiarò ai principi ed ai legati: che, essendosi stabilita la deposizione di Enrico, gli era pericoloso lo attendere; mal condursi senza capo il governo, non patire l'intervento del papa nè le leggi, nè l'onor dell'impero, e che avrebbero creato il novello monarca senza aspettarlo niente affatto.
Per lo che, non curando le contestazioni dei legati, le diverse classi dei nobili si divisero in separate consulte. Ma siccome ciascuno aveva particolari interessi ed ambiva guadagni dalla qualità di elettore, così presero a metter fuori (p. 130) pretensioni, patteggiare, aprir mercato, sì che di tanto solenne attributo si sarebbe fatta vendereccia prostituzione, se i legati, assumendo dritto di regoli, non avessero dato in sulla voce ai petulanti ed agl'ingordi. Stabiliti prima alcuni canoni generali, i nobili ed il popolo delegarono ai prelati alemanni la prerogativa dell'elezione. Sigofredo, arcivescovo di Magonza, che aveva il primo voto lo diede a Rodolfo di Svevia. Adalberto di Wurzburg imitò Sigofredo; e l'esempio dei capi trasse dietro l'assentire del clero. Ottone, Guelfo e Bertoldo aderirono alla sentenza dei vescovi. I legati la sanzionarono, sapendo come caro a Gregorio fosse lo Svevo, per età, per costumi, per nascimento ed ingegno a quell'onore non disadatto.
Però come a Rodolfo, nel letto travagliato da febbre, Ottone di Nordheim, commissario della nazione, andò a recarne novella, quegli titubante rispose:
—Mercè, conte, dell'onor sommo donde i principi di Germania m'investono. Io non credetti mai meritarlo: e perciò lo rinunzio.
—Lo rinunziate, sire! sclama il Nordheim stupefatto. Vostra sublimità parlerebbe dunque da senno?
—Sì, signore di Nordheim. Nè per avventura crediate che io m'infinga. Conosco che per conservar questo scettro v'ha d'uopo della spada e del sangue civile. Enrico è fiero, ostinato, di (p. 131) spiriti guerreschi, ed ora a capo di esercito poderoso. Non si lascerà perciò, a volere di pochi ed a persuasione del pontefice, balzar così dall'eredità dei padri suoi, prima di aver tentate le fortune delle armi e funestato l'impero di sangue. Io non voglio esser causa di desolazione nel mio paese. I legati han persuaso fatal consiglio per ispalleggiare la vendetta di Gregorio. Si preparano per queste sfortunate contrade giorni terribili; credetelo, sire di Nordheim. Mandiamo invece i suoi messi al pontefice, ed invitiamo Enrico alla pace, noi signori di Lamagna che ne siamo i custodi.
—Con la vostra sopportazione, sire, risponde il Nordheim, non mai. Da molti anni noi conosciamo la mente di Enrico. Egli non perdona mai. Ed ora dobbiamo paventarlo più indragato ancora, perocchè, dal nostro forfare come egli dice, ebbe ad ingozzare tanto vitupero dal pontefice. Se dunque ad ogni andare è inevitabile la guerra civile, si faccia pure, se non con certezza di vittoria, con speranza che l'onte nostre saranno pagate, i nostri dritti redenti. Arrendetevi dunque, o sire, e bandite gli scrupoli.
—E non conti, fratello, soggiunge Rodolfo intessendo le mani sul petto e sospirando, non conti la mutabilità del popolo, l'instabilità della sorte maligna, e l'invidia, e la fraudolenza dei signori che fino da ieri mi ebbero compagno e (p. 132) commilitone e mi amarono, e domani sdegnerebbero venerarmi come sovrano?
—Sire, perdonate se oso dirvi che vi apponete. Nè il popolo, nè i nobili tedeschi tennero mai lo stile degli Italiani che disvogliono oggi ciò che ieri desiderarono fino al delirio. Piegatevi, sire, ed accettate la corona che il popolo di Germania vi ha profferta.
—Così vuoi, sire di Nordheim? disse Rodolfo rassegnandosi dopo un po' di pausa; sia pure così. Possa io però, in un giorno di sangue, non rimproverarti questa violenza.
Ed il dì 15 marzo 1077 accettava lo scettro senza dritto di successione pei suoi, e con solenne promessa di vassallaggio alla Chiesa.
Il 26 lo consacrava a Magonza legittimo re e difensore del regno dei Franchi, l'arcivescovo Sigofredo, vicario pontificio in Lamagna.
Nel tempo stesso si spandeva la voce che Enrico già riedeva in Germania alla testa di grosso esercito.
Infatti questi, dopo aver celebrata la Pasqua a Verona, per la via che d'Aquileia mena al Friuli, alla testa di truppa lombarda penetrava nella Carintia. Poi non appena ebbe messo piede in Lamagna, comandava brillante esercito a lui devoto per volontà non per obbligo di feudale servizio.
Rodolfo che ogni dì assaporava novelle amarezze (p. 133) per le città che gli chiudevano sul viso le porte e gli mandavano ambascerie d'ingiurie, per le diserzioni che provava nei ranghi dei suoi partigiani, con soli cinquemila Svevi schivò la pugna ed entrò in Sassonia. E' lasciò Enrico inoltrarsi nel paese a dare il guasto, e muovere per la fedele Augusta dove mille altri cavalli della città lo raggiungevano. Enrico traversò la Baviera desolando, e vene a Ratisbona. Quivi il patriarca d'Aquileia gli condusse novella squadra di Lombardi che a loro volta, dopo essere stati tante fiate visitati dai Tedeschi, cercavano a menare le mani nelle terre di loro. Luogotenente di quello squadrone era Baccelardo seguito da un paggio. Egli si presentò al re. Allo scorgerlo, Enrico aggrotta fieramente le ciglia, non avendolo più visto dopo la trista avventura di Guiberto. Baccelardo piega a terra il ginocchio e sommessamente mormora:
—Sire, io vengo a mettermi a mercè di vostro valore.
—Alla mercè? per che cosa? dimanda Enrico.
—Sire, soggiunge Baccelardo, per l'appiccagione dell'arcivescovo di Ravenna, e per avervi lasciato senza torne licenza.
—Per Nostra Donna di Goslar! sclama Enrico, bisogna dire che tu sii veramente uno scomunicato, che ti imbratti così per gioco le mani nel sangue degli unti!
(p. 134) —Vi dimando perdono, sire, se oso appormi che non fu mica per giuoco.
—E perchè dunque, messere, se Dio ti aiuti?
—Sire, un uomo che è scomparso dalla faccia della terra come fuoco fatuo, quasi per testamento mi aveva confidata una giovane che apparteneva a nobile famiglia d'Italia, onde l'avessi protetta e le fossi stato amico e fratello. Nel metter piede nelle vostre stanze, sire, trovo questa donna dinoccolata dal lungo dibattersi, svenuta fra le braccia dell'arcivescovo. Lo sdegno mi acceca; e cedendo ad un impeto primo lo assalto, lo ferisco, lo disarmo, lo prostro, e stringendogli la gola col balteo della mia spada, non tanto forte veramente, l'appendo al camino. Indi, per salvarmi dall'ira di vostra possanza, con la donzella svenuta com'era mi partii. Ecco, sire, la mia colpa, punitemi se vi piace.
—Capestro di un arcivescovo! sclama Enrico ridendo. E la giovane era bella, eh!
—Sì, sire; ma fosse stata laida come la maga di Endor, il mio dovere di cavaliere m'imponeva difenderla da ogni oltraggio, quand'anco non mi fosse stata affidata a proteggerla.
—E cosa hai adesso fatto di lei, messere?
Baccelardo esitò un momento a rispondere, poi disse:
—L'ho collocata tra le benedettine di San Sisto di Piacenza, sire.
—Sta bene, risponde Enrico; ti perdono l'attentato (p. 135) sacrilego, perchè nobile fu la cagione che ti spinse, e perchè niun male da ciò avvenne, sendo noi arrivati a tempo per salvare quel povero arcivescovo. Pensa però a meritarti la nostra grazia ed i nostri favori con quell'ardimento che suoli, ed a combattere da valoroso nella campagna che stiamo per aprire.
—Non chiedo meglio, sire, risponde Baccelardo inchinandosi, e rientrando negli ordini dei suoi.
Le ostilità infatti cominciarono. Alle sponde del Neckar, più volte Rodolfo gagliardamente armato chiamò il nemico a giornata, e parzialmente il re disfidò. Ma il re, che di truppa gli era inferiore, ogni partito ricusò, e mandò parlamentario per introdurre pratiche di pace. Enrico e Rodolfo si abboccarono. E' convennero di una tregua; e fissarono che i dritti e le ragioni di entrambi avrebbero esaminati i principi della dieta che intimavano in riva al Reno. Conchiuso il trattato, Rodolfo licenziò le sue genti e si ritirò in Sassonia. Enrico non si mosse. Anzi, ricevuti i rinforzi, si gittò nella Svevia, e sarebbe penetrato in Sassonia, se i principi constituitisi mallevadori della tregua non lo avessero arrestato. Saputasi l'infrazione dei patti, Rodolfo convoca a Goslar assemblea di patrizii e di vescovi, ove i legati del papa scomunicano novellamente Enrico, e le insegne reali gl'interdicono.
Enrico non curò gli anatemi. E' corse, a danno (p. 136) dei nobili e dei prelati avversi, il paese, e la battaglia andò a presentare al nemico. I due rivali si scontrarono nelle pianure di Melrichstadt alle sponde della Strewe. Dubbio e terribile fu l'urto. Quelli di Enrico finalmente sfondarono e cacciarono in rotta i partigiani di Rodolfo. I Lombardi sovra tutti, demonii capitanati da un demonio, dietro loro lasciavano solco di cadaveri come vi fosse strisciato il fulmine. Rodolfo tentò invano ricucire i fuggitivi. Ed e' credeva già perduta la pugna, allorchè Ottone di Nordheim, gridando la parola dei Sassoni: San Pietro! San Pietro! si rovescia sulle genti di Enrico ed a sua volta le sgomina.
Rodolfo passò la notte sul campo a celebrare la vittoria. Ma al domani, 15 agosto, Enrico ricomponeva le schiere, riprendeva Vurzburg, ed offeriva novellamente battaglia ai Sassoni che la schivarono. Il re fece affardellare il bagaglio, bruciare il resto, e si diresse a gran giornate a Smalkalda, mentre i suoi guerrieri saccheggiando il paese celebravano il trionfo cantando. I Sassoni si attribuirono l'onore di questa vittoria per essere restati padroni del campo. Ma la loro non era che illusione, dappoichè avevan perduta tanta gente che, al domani, non potevano trar profitto dallo scheltro di truppa malconcia che restava ancora.
Questa però non fu che foriera di battaglia più terribile, quella di Fladenheim. La quale, (p. 137) ferocemente combattuta da ambo le parti, e da ambo le parti guadagnata da un'ala perduta da un'altra, indusse Rodolfo a scrivere al pontefice, che con lui godesse della vittoria, ed Iddio ne ringraziasse. Però Gregorio riceveva due messaggi ad un tempo.
Sur les bancs dorés d'un concile romain
Presida dans Costance un brandon à la main.
De Jean Hus, en priant, signa l'arrêt barbare,
Au front d'un Alexandre égara la tiare.
La posizione d'Ildebrando era cangiata dopochè alla vetta della sua ambizione aveva poggiato. Gl'Italiani lo schernivano e gli si volgevano contro, fin nella Toscana sua divota. L'arcivescovo di Ravenna armava per invadere gli Stati della contessa Matilde e dentro Roma bloccarlo. Il re di Polonia, Boleslao l'ardito, da lui consacrato perchè protestava sottrarsi al dominio di Enrico, gli assassinava i vescovi a' piè degli altari, noiato dai loro troppi consigli e pretensioni. Il re di Francia, burlandosi degli anatemi, persisteva nel trafficare le investiture ecclesiastiche, e permettere le mogli al suo clero. Roberto Guiscardo, malgrado le scomuniche reiterate, addoppiava i conquisti nel patrimonio della Chiesa; ed il conte di Capua Giordano abbottinava arredi sacri nel (p. 140) monistero di Montecassino. Niceforo Botoniate scacciava dal soglio a Costantinopoli Michele Parapinace, che si era dichiarato quasi vassallo della Chiesa di occidente, e mandava tutti gli anni duecento libre di argento a suffragio dell'anima sua. Berengario si ostinava nella sua eresia. Guglielmo il conquistatore faceva il papa in Inghilterra. Il re di Dalmazia, creato da lui ed a lui come schiavo dedito, era oppresso dai nemici. Ed i Sassoni, dai suoi consigli e dalle sue promesse sedotti e nell'elezione del nuovo monarca e nella guerra civile indotti, lo insultavano per aspre lettere. Gregorio protestava non aver comandata proprio l'elezione di Rodolfo, ma avere dato instruzione ai suoi legati di solo promuovere la deposizione di Enrico e la scelta del novello re. Quella scelta e' riserbava a sè stesso, sia per aver ligio come cane l'uomo da ungersi; sia per arrogarsi il dritto di disfare i re e crearli; sia per mostrarsi alla terra insignito di quest'altro potere, per godere la gioia di veder le teste coronate, prostrate innanzi a lui, spazzargli il suolo della clamide, per consolidare il dritto di feudo che pretendeva sulla Germania, per mettersi infine alla testa dell'amministrazione dell'impero e tenere i Tedeschi, di lui già divoti, umiliati ed obbedienti come frati da cenobio. Quando udì dunque i principi non averlo curato, ed esercitato da sè il dritto che le constituzioni teutoniche davan loro, prese il broncio e ne concepì (p. 141) astio e dispetto. Sicchè fermò non procedere, se non all'estremo, alla sanzione dell'operato a Forcheim, e quando la somma delle cose ed il volger fatale della fortuna ve lo avessero spinto.
I Sassoni compresero i suoi intendimenti. S'incollerirono, e gli scrissero come a gente tradita convenivasi.
Gregorio rispondeva alle acerbe lettere per un guazzabuglio di luoghi comuni che nulla significava.
Ed ecco giungergli, primo, il messo di Rodolfo, che della vittoria di Fladenheim gli riferiva, e quindi non a guari l'oratore di Enrico che attribuiva a sè quella vittoria e con maligna compiacenza ne lo teneva conto per amareggiarlo, impaurirlo, spiccarlo dal partito di Rodolfo. A questa novella più precisa, il corruccio di Ildebrando ogni limite ruppe. Mandò araldi sacri, e per mezzo di colombi, ordinò ai suoi legati, sparsi per tutta Europa, di significare ai prelati cattolici che per la settimana santa avessero studiato il tempo ed il cammino di trovarsi al settimo concilio di Roma. In effetti e' vi giunsero.
E frequente, oltre ogni dire, di vescovi e abati riuscì il concilio. La contessa Matilde non vi mancò, perocchè dessa era l'ombra di papa Gregorio. Si ribadì al solito il chiodo delle investiture e del celibato, si scomunicarono Guiscardo, Guiberto, Ugo Candido e Rolando da Siena, nemici indomabili del papa, sempre fulminati, (p. 142) prostrati mai. Infine sorsero gli ambasciadori di Rodolfo che infinite calunnie vomitarono contro di Enrico, e di tutti i guai di Lamagna lo accagionarono. Allorchè Gregorio bandì novellamente spaventevole anatema e profetizzò che in quell'anno il falso re sarebbe morto! Mandò poscia a Rodolfo una corona d'oro nel cui cerchio stava scolpito questo cattivo calembour per epigrafe
Petra dedit Petro, Petrus diadema Rodulpho.
Dall'altro canto Enrico convocava prima a Magonza assemblea di principi e di prelati, dove si discusse a minuto la condotta di Gregorio, e colpe molte gli si apposero; poi l'arcivescovo di Ravenna indisse un sinodo a Brixen nel Tirolo, come luogo agl'Italiani ed ai Tedeschi più comodo, da lui stesso preseduto.
Sul finire di giugno il concilio si aprì. Vi trassero tutti i vescovi di Lombardia e moltissimi degli altri Stati d'Italia, tutti prelati partigiani di Enrico, sì che essi soli avrebbero composta numerosa curia, tutti i capitani e gli ottimati dei due eserciti italico e tedesco, quasi tutti i signori dell'impero che pel re tenevano, ed egli stesso. Si passò a rassegna con severo scrutinio la vita di Gregorio. Se ne ponderarono le opere, se ne interpretò lo spirito, si discussero tutte le riforme che aveva volute introdurre, si scese alla (p. 143) sua condotta privata, alle relazioni, ai disegni, ai gusti, alle passioni, e dopo averlo esaminato d'ogni lato con acuta penetrazione, con inesorabile sangue freddo fu giudicato e pubblicato il decreto che lo deponeva dalla sedia di Pietro.
Indi proclamarono papa l'arcivescovo di Ravenna. E mentre Enrico ripassava in Lamagna per dar l'estremo crollo al suo rivale, Guiberto, ora Clemente III, sormontava il Brenner, accompagnato da splendido corteggio di vescovi e di nobili, scendeva in Italia, si metteva alla testa degli uomini d'armi, di quaranta vescovi e meglio di duecento baroni, assaltava le terre toscane e le correva a guasto, ed a Volta presso Mantova, avendo sotto la sua condotta lo stesso secondogenito dell'imperatore Enrico, investiva le numerose truppe di Matilde e riportava completa vittoria.
E Gregorio aveva ad un tempo la novella della sua deposizione, quella dell'elezione di Guiberto, quella dell'invasione della Toscana, quella della vittoria di Volta sopra la sua bella penitente, unitamente ad un'altra, che più di tutte lo spaventò, da un foglio grazioso del suo amorevole fratello Guiberto, ora come abbiam detto, Clemente III.
Enrico, recatosi a Ratisbona vi congregava una dieta, dove intervenivano i grandi della sua fazione, i condottieri dell'esercito, Federico il bellicoso, conte di Staufen, sire di un castello (p. 144) sul cucuzzolo più sublime delle Alpi, e Goffredo di Buglione, quel pio Goffredo
che nel purpureo ammanto
Ha di regio e d'augusto in sè cotanto!
Goffredo, discendendo da Carlomagno per parte del padre, e dai re lombardi della madre, sembrava
Veramente costui nato all'impero,
Sì del regnar del comandar sa l'arti,
E non minor che duce è cavaliero,
Ma del doppio valor tutte ha le parti:
Nè fra turbe sì grandi uom più guerriero
O più saggio di lui potrei mostrarti.
Enrico si alzò da sedere, e prendendo il gonfalone dell'impero, appoggiato al suo soglio, si trasse presso al giovane duca, e gli disse:
—Messer Goffredo di Buglione, questo, come vedi, è lo stendardo dell'impero: te lo affido a portare nella campagna che siamo per aprire, e riposo sicuro che, sia che fossimo vinti, sia che vincessimo, mel renderai incontaminato.
—Mercè, sire, dell'onor grande che mi fate, rispose Goffredo, piegando a terra il ginocchio e stringendo la bandiera; la difenderò per quanto Iddio mi darà di forza e di vita.
Allora il re si rivolse a Federico di Staufen e soggiunse:
—Signor conte, io ti ho trovato il più prode nelle armi ed il più fedele in tempo di pace. Io (p. 145) serbo memoria dei tuoi servizi; e vedete, o baroni, se coi miei fedeli so essere grato! Prendi, giovane guerriero, la mia unica figlia in isposa, perchè conosco che vi amate, e sii conte di Svevia, paese che i ribelli hanno invaso.
Federico resta da prima mutolo, non ben sapendo raccogliere i suoi pensieri, poscia bacia la mano del re e mormora:
—Mercè, sire! voi mi avete degnato di guiderdone che supera ogni mio poco servizio ed ogni mia speranza.
Ed Enrico stringendogli la mano, risponde:
—Va, conte di Svevia, e sii prode come sempre il fosti.
Indi consultò coi suoi il piano della guerra; e dopo averlo fermo, ringrazia tutti della fedeltà mostrata, li prega di non istancarsi nè mutarsi per infausto mutar di cose, e scioglie la dieta.
In ottobre di quell'anno 1080 Enrico aprì la campagna invadendo la Sassonia con forze poderose, e disertò il paese. La mattina del 15 ottobre risolse dare la battaglia. Allogò sull'Elster le truppe di rincontro al nemico, in luogo non opportuno al guado, e senza scampo alle spalle. Ridusse così i suoi a vincere o a morire da eroi.
Al levarsi del sole, Enrico, scoperto il movimento dell'oste nemica, ordina le sue genti in battaglia. I Sassoni, trafelati dal cammino e manchi d'uomini, affogati tra le male fitte dei paduli percorsi, secondano il movimento del re, ma pavidi (p. 146) e scorati; perchè i loro fanti, nerbo dell'esercito, impediti dalle vie rotte tardavano; i cavalli stanchi non sentivano più lo sprone. I fanti si stringono in ordini serrati; i cavalieri smontano da cavallo, ed a passo di carica vanno a cercare l'antiguardo nemico. I vescovi intuonano il salmo 82, Deus quis similis erit tibi! e cantando precedono. Quando ecco che alle parole: fac illis sicut Madian et Siræ..... disperierunt, facti sunt ut stercus terræ; si trovano in faccia al nemico, separatine solo dalla palude di Grona. Da una parte e dall'altra si provocano al valico, onde, dando addosso all'incauto che lo tentava, affogarvelo. Ma niuno è tanto imprudente. I Sassoni, rialzati di spirito ed in Dio confidenti, girano la costa e si presentano alle truppe regie che al varco li attendevano. La battaglia s'impegna con furore. Enrico teneva già in pugno la vittoria, quando alcuni suoi fanti ritrassero dalla mischia il cadavere di Rapoto, sire di Iunthal, il più ricco principe di quei tempi, che da Boemia a Roma poteva pernottar sempre in castelli di suo dominio, e gridano: fuggite! fuggite!
Di fatti sopraggiungevano a briglia sciolta i cavalli del duca di Nordheim, reduce da Goslar, e questi, sbaragliati gli arcieri che avevan respinto l'antiguardo sassone, sfondavano un battaglione di fanti ed invadevano il campo del re. I Sassoni, certi della vittoria, volevano sbandarsi a predare. Ottone di Nordheim li contenne, serrò (p. 147) gli ordini e li fermò con le lance in resta. In effetti non aveva appena ristabiliti i ranghi dei suoi, che ecco appare il conte Enrico di Lacha alla testa di coorti trionfanti, cantando Alleluia! e Baccelardo, coi Lombardi, che all'altro lato aveva guadagnata la pugna. Il Nordheim li aspetta fermo un tratto. Indi dicendo ai suoi: Coraggio, figliuoli di Sassonia, raccomandatevi ai santi e seguitemi, perchè nulla costa a Dio con un drappello fugare un esercito! investe con tale impeto le truppe nemiche che parte ne rovescia nel fiume, parte ne vede afferrare l'opposta sponda malconci e fuggitivi. Però i Lombardi, che venivano dietro a quelle schiere, gli si serrano allora addosso e pugna mortale si stabilisce. Non durò lungamente. Perocchè, mentre gl'Italiani si vedevano piegare innanzi le lance i cavalli del Nordheim, irono alle spalle i fanti sassoni che, da Radolfo riaccozzati, avevano novellamente caricato Enrico e lo avevano vinto. I Lombardi si cominciano a ritirare passo a passo, battagliando sempre, senza nullamente scomporre gli ordini. Allora si presenta ad Enrico Goffredo di Buglione e dice:
—Sire, la battaglia è perduta. Rimetto nelle vostre mani lo stendardo dell'impero, che niuno più valorosamente di vostra grandezza saprebbe difendere, ed io spero nel potente Signore degli eserciti e nella Beata Vergine di Goslar di dar qui termine alla guerra.
(p. 148) E sì dicendo, Goffredo volgeva il cavallo per partire, allorchè il re, comprendendo che il prode meditava alcuna audace impresa, lo raggiunge e parla:
—Andremo insieme.
E vedendo venir Baccelardo, tutto brutto di fango e di sangue, senza neppure dimandargli novella dell'esito della pugna dall'altro lato, soggiunge:
—Principe Baccelardo, ti affido questo sacro deposito, eredità di eroi: mel renderai o vi morrai sotto da valoroso.
E sì parlando gli gittava in braccio la bandiera imperiale, e senza attender risposta, sicuro che ben l'aveva data a custodire, seguì Goffredo. Questi però, sia che temesse per la vita del re, sia che fosse geloso dell'opera concepita, nel passar di galoppo tra un gruppo di baroni tedeschi, in mezzo ai quali stava Federico di Staufen, grida loro:
—Baroni, se vi è caro il nome di fedeli arrestate il re dal disegno di seguirmi. Si tratta di morte: fategli violenza.
E mentre questi accerchiavano Enrico, risoluti dalle parole e dall'accento del duca di Buglione, questi attraversava il campo come uno strale e spariva.
E già i Sassoni predavano nel campo reale tende di porpora, ornamenti ecclesiastici, vasellame d'oro e di argento, moneta, cavalli, vestimenta, (p. 149) armi d'incomparabile tempra e splendore, tutte le ricchezze degli arcivescovi di Colonia e di Treviri, di quattordici vescovi, del duca di Buglione, del conte di Staufen, di Enrico palatino, di molti altri cavalieri e baroni, ed in fine il bottino di Erfurt, e già la pianura echeggiava dei canti della vittoria; quando ecco l'allegrezza si muta in subito terrore, e la novella che Rodolfo spirava giunge.
Rodolfo in un drappello dei suoi menava ancora gli ultimi colpi al nemico abbattuto, allorchè si vede a briglia sciolta rovesciar sopra un cavaliero che gli grida:
—A me, duca di Svevia, a Goffredo di Buglione!
Rodolfo ebbe appena il tempo di volgergli contro il cavallo e di ricevere da mano degli scudieri un'asta più salda, che già Goffredo gli si spingeva contro. Terribile fu l'urto dei due valorosi. I cavalli si piegano sui garretti, i cavalieri percuotono dei reni le groppe; e l'asta di Rodolfo si spezza in mezzo alla rotella di Goffredo, e va in minute schegge, quella di costui gli colpisce il cimiero crestato, rompe le gorgiere, manda per aria l'elmo, scoprendogli la testa, e s'infigge al suolo. Goffredo traversando di volo, la riprende; e gli scudieri son presti a darne un'altra al loro signore Rodolfo, che coprendosi il capo con lo scudo ricarica il duca. Questa volta l'asta di Rodolfo piaga alla spalla sinistra il Buglione: questi (p. 150) lo coglie agl'inguini, la lancia vi si spezza e vi resta infisso profondamente il moncherino. Nulla curante della mortale ferita, lo Svevo tira la spada. Il Buglione gli scarica sopra il capo, difeso dallo scudo, tal poderoso colpo, che fende in due la rotella, lambisce di sghembo il vertice del cranio, e colpitolo all'avambraccio destro glie lo taglia netto con la mano. Allora Rodolfo, rintronato, cade di cavallo, e Goffredo, dopo averlo considerato un momento con occhio malinconico, sclama:
—Era un eroe! pace all'anima sua.
Indi volgendo al cielo gli sguardi ringrazia Iddio della vittoria, ripone la spada, ed a passo lento ritorna dove aveva lasciato il re.
La voce della morte di Rodolfo gitta l'allarme nel campo dei Sassoni. Corrono i baroni subitamente, e lo trovano che già boccheggiava. Tentano invano portargli soccorsi. Lo adagiano sopra una barella e sel recano al campo sotto il padiglione di Enrico, nel letto stesso di lui. I vescovi, ornati di stola, cominciano a recitare i salmi dei morti. I baroni, col capo dimesso e gli occhi velati di lagrime, fanno cerchio ginocchioni al suo feretro. Allora, moribondo, Rodolfo dimanda vedere la sua mano. Il duca di Nordheim glie la presenta ed egli:
—È quella appunto, sclama, con la quale giurai obbedienza ad Enrico!
Indi, sentendo vicina la sua fine, solleva alquanto (p. 151) il capo, tentando riconoscere alcuno, chè la vista gli si era già velata, e dimanda:
—Ora di chi è la vittoria?
—È vostra, sire, risponde il duca di Nordheim malinconicamente; ma che ci giova la vittoria se vi dobbiamo perdere, o sire!
Rodolfo ricade sui guanciali, e con voce intelligibile appena susurra:
—Mi rassegno ai voleri di Dio! Non mi grava la morte celebrata dal trionfo.
E spira.
La profezia di Gregorio si era avverata—avvegnachè non nel senso di lui.
Rodolfo, dopo una vita di guerriero, ed una lunga corona di vittorie, era morto da eroe sul campo di battaglia, e da cristiano, senza mormorare di alcuno. Ildebrando lo aveva sedotto, come attestano le sue lettere, e spiccato dal partito dell'imperatore a cui era stato sempre carissimo. Il suo corpo fu deposto nel sepolcro dei re. Nel duomo di Merseburg esiste un'urna magnifica, e sovra di quella la sua statua di bronzo. Nel duomo medesimo si conserva e si mostra ancora la sua destra, il suo scettro, la corona e la spada.
I Sassoni fecero gran duolo della morte di lui, e ricche elemosine si distribuirono ai poveri, alle chiese ed ai conventi in suffragio dell'anima sua. Essi lo avevano conosciuto buono, affabile, di (p. 152) cuore gentile; lo avevano amato qual padre e salvator della patria, venerato qual prode.
La battaglia dell'Elster decise del destino dell'impero.
E Gregorio udiva ad un tempo, della morte del suo propugnacolo Rodolfo, e che l'imperatore Enrico, correndo precipitoso in Italia, era alle Chiuse.
Fine del terzo volume.
1: Si chiamava Wehrgeld una somma di danaro che in composizione l'uccisore pagava alla famiglia dell'ucciso per impedire le faide o vendette. Il soldo di argento allora valeva 46 franchi e 63 centesimi se non erriamo.
2: Il sagibero era una specie di giudice.
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