Title: Pro Judaeis: Riflessioni e Documenti
Author: Corrado Guidetti
Release date: May 28, 2014 [eBook #45807]
Language: Italian
Credits: Produced by Enrico Segre and the Online Distributed
Proofreading Team at PGDP (http://www.pgdp.net)
Chiunque avesse notizie o documenti sopra le questioni discusse nel presente volume, farà cosa grata indirizzandoli al sig. Dottore Corrado Guidetti presso la tipografia Roux e Favale.
CORRADO GUIDETTI
DOTTORE IN LETTERE
RIFLESSIONI E DOCUMENTI
Das Aergste weiss die Welt von mir und ich
Kann sagen ich bin besser als mein Ruf.
Schiller, Maria Stuarda.
TORINO
TIPOGRAFIA ROUX e FAVALE
1884.
Diritto di riproduzione e traduzione riservato
Chi consideri superficialmente i fenomeni sociali, non può non essere colpito dal risvegliarsi in molti Stati d'Europa di una agitazione più o meno sorda contro gli Ebrei.
A primo aspetto, sembrerebbe che il soffio vigoroso della prima rivoluzione francese avesse dovuto far sparire ogni distinzione fra cittadini, basata sul semplice fatto della fede professata.
Sembrerebbe che il diritto di adorare Dio secondo la propria credenza, fosse uno dei più saldi, dei più indiscutibili portati della moderna civiltà.
Sembrerebbe, sopratutto, oltraggio alla umana ragione dover invocare dagli scrittori discorrenti degli Ebrei, che applichino loro quell'elementare principio di equità da Carlo V, Re di Francia, nel xiv secolo sancito con apposita legge: non doversi l'intiera nazione ebrea tener responsabile delle colpe di ogni singolo ebreo.
Eppure, non è così.
Non soltanto nell'Oriente di Europa, dove la questione si complica e si innesta ad altre di svariata natura, si sveglia un movimento contro gli Ebrei; ma da questo movimento non vanno immuni i paesi più civili d'Europa.
In Germania, la terra classica della persecuzione contro gli Ebrei, come sin dal diciassettesimo secolo avvertiva Basnage (1), si bandisce una crociata contro di loro, ed a capo del movimento stanno un ateo, dichiarato e riconosciuto, il signor Henrici (2), ed un ministro protestante, il dott. Stöcker, predicatore di Corte a Berlino.
In Francia lo stesso movimento si accentua ed è già abbastanza vivo per darsi il lusso di un organo speciale, l'Antisémitique, che vede la luce in Montdidier, ed al quale ci sarà pur forza consacrare più innanzi qualche parola, benchè ci sia noto che l'opera insensata dei redattori di quel giornale non giova che ad ammassare sulle loro teste il generale disprezzo.
Ed anche nella nostra Italia, dove, dal 1848 sino alla completa unificazione della penisola, gli Ebrei sembrarono identificarsi col resto della popolazione, colla quale avevano avuti comuni i patimenti della oppressione ed i pericoli delle congiure e delle battaglie, oggi non manca chi soffi nel fuoco, e libelli di propaganda antisemitica vanno spargendosi a piene mani nelle campagne.
Se la guerra contro gli Ebrei avesse a ragione la differenza di fede; se a capo di questo movimento fossero i Papi, i Vescovi, la Chiesa in una parola; se agli Ebrei di oggi giorno si volesse far scontare la colpa dei loro antenati, la pertinace convinzione con la quale, malgrado persecuzioni d'ogni sorta, mantennero intatta la loro fede, noi non avremmo che a constatare una nuova manifestazione di quel fanatismo di cui tutti i secoli e tutte le credenze hanno dato numerosi esempî.
Le persecuzioni per ragione di fede non ci sorpresero mai. E se, mossi da quello spirito di carità che è nel cuore di ogni uomo, quando l'alito delle passioni non lo spegne, guardiamo inorriditi alle fiamme dei roghi, li accenda, come in Ispagna, un domenicano fanatico, o, come in Ginevra, il bieco Calvino, al nostro orrore non si mesce sorpresa.
La fede è il più nobile patrimonio dell'uomo, e per ciò appunto i suoi eccessi generano il fanatismo più pericoloso. I più atroci delitti hanno sovente origine dalla esagerazione delle più elevate passioni.
Ma sì, che i moderni antisemiti pensano proprio a tutto ciò! L'idea di vendicare il Dio crocifisso è tanto lungi da loro, quanto lo era dalle orde fanatiche che nell'xi secolo trucidarono gli Ebrei di Worms, che affermavansi discendenti da una colonia giudaica, migrata da Palestina ben prima della nascita di N. S. G. Cristo, e quindi ad ogni modo non responsabili di quella morte, neppure se le colpe degli avi s'avessero a vendicare sui tardi nepoti.
Guardiamoli in viso questi persecutori degli Ebrei, questi individui, scarsi di numero e ricchi di audacia, che senza aver tampoco la scusa del fanatismo religioso, vogliono ricondurci ai più tristi tempi del medio evo; squarciamo il velo sotto cui si asconde questo movimento, decorato del pomposo nome di antisemitismo, e vedremo che sotto di esso si cela una nuova faccia di quel mostro che vuole avvolgere il mondo nelle sue spire, e che, per usare una parola, oggi abusata, chiamerò radicalismo (3).
L'ebreo è ricco, od almeno lo si crede tale — se lo sia, e perchè lo sia, vedremo nel corso di queste pagine — ma è creduto tale, e per ciò soltanto gli si muove guerra.
La sua ricchezza è e fu sempre il suo delitto.
L'industria, la coesione, la ricchezza degli Ebrei ebbero sempre il triste privilegio di eccitare l'invidia e il malvolere. I Faraoni eran gelosi di loro sin da quando i figli di Israele cominciarono ad arricchire nella terra di Gessen, e gli idalghi ed i priori della Spagna cattolica furono gelosi a loro volta, allorquando un Ebreo divenne ministro delle finanze del Re Alfonso.
Ed oggi ancora i persecutori degli Ebrei appartengono a quel partito, che potrebbe a buon dritto chiamarsi il partito dell'invidia.
Cerchiamo oggi gli agitatori delle passioni antisemitiche in quei paesi, dove l'ignoranza dei più permette loro di mostrarsi a viso aperto, in Ungheria per esempio, e li vedremo sedere in Parlamento sui banchi della estrema sinistra (4).
In Francia, non son sei o sette anni, si combatteva dai radicali la elezione a consigliere generale di un membro della famiglia Rothschild, trattandolo da clericale!! Oggi che l'antisemitismo va facendo progressi, lo si combatterebbe perchè ebreo!
Clericale od ebreo, è tutt'uno per coloro che mirano a scuotere la società dalle sue basi, a distruggere la famiglia, la proprietà, la religione.
E non è soltanto la ricchezza, vera o creduta tale, degli Ebrei che li designa ai colpi dei loro avversarî.
L'ebreo, in qualsivoglia paese del mondo civile lo si consideri, è essenzialmente liberale. — Mi sia concesso avvalorare questa mia affermazione colle parole di uno dei più illustri scrittori del nostro secolo, di Ernesto Rénan (5):
“Il giudaismo, scrisse il professore francese, che ha tanto giovato per lo passato, gioverà anche in avvenire. Esso servirà la vera causa, la causa del liberalismo, dello spirito moderno. Ogni ebreo è liberale. Lo è per natura. I nemici del giudaismo, al contrario, guardateli da vicino, e vedrete che sono generalmente i nemici dello spirito moderno” (6).
In queste poche parole è mirabilmente riassunta la questione.
Sì; l'ebreo è liberale, essenzialmente liberale. Dalla sua lunga persecuzione, dalle sue secolari tribolazioni, esso ha imparato una cosa sola: ad odiare non i persecutori, ma la persecuzione, ad amare di vivo affetto la libertà, ma la libertà vera, quella che come sole fulgentissimo riluce per tutti gli uomini, qualunque sia la loro opinione, qualunque l'abito che vestano.
E di questo spirito del giudaismo la letteratura, la storia offron prove a bizzeffe. Ne addurremo soltanto due:
Uno dei più illustri fra gli scrittori ebrei, il più illustre forse dopo il Maimonide, Abarbanello (7), che alla teoria dell'uomo di studî congiungeva la pratica dell'uomo di Stato, ci lasciò nei suoi Commentarî delle dissertazioni di pubblico giure degnissime di studio. In queste egli esamina le diverse forme di governo e dà la preferenza alla forma repubblicana, od almeno alla monarchia temperata (notisi che Abarbanello scriveva nel xv secolo!). Esaminando in seguito quale sia il dovere dei sudditi, anche sotto un re malvagio e tiranno, insegna che il popolo non ha nè il potere, nè il diritto di ribellarsi, “contrariamente, dice egli, all'opinione dei saggi cristiani che scrissero di questo argomento” (8).
Nè si creda che le teorie del dotto ebreo non siano seguite da coloro che professano la religione mosaica. La rivoluzione francese fu per gli Ebrei un'êra di redenzione; essa soltanto ha spezzato i ceppi in cui da diciotto secoli gemeva la nazione ebraica; essa prima, dallo stato vilissimo in cui vivevano, li ha elevati a dignità di uomini, di cittadini. Nessuna meraviglia adunque che gli Ebrei favorissero quella rivoluzione e ne sposassero con ardore i principî. Pure il filosofo della storia non deve dimenticare che non un ebreo — non uno — si trova fra gli uomini che bruttarono coi loro eccessi quella rivoluzione, non uno fra i sicarî del 93 e fra coloro che colle più efferate licenze coprirono di obbrobrio il sacro nome di libertà (9).
E ciò, ripetiamolo, perchè l'ebreo è assolutamente liberale, nel buono, nel vero senso della parola.
Il radicalismo, invece, è essenzialmente nemico del liberalismo, perchè è essenzialmente persecutore. E questa è una nuova ragione dell'odio che il radicalismo nutre contro gli Ebrei.
Esso, che prova sempre il bisogno di nuove vittime, che oggi espelle i RR. Padri della Compagnia di Gesù, che domani perseguita altri pel solo fatto che nacquero da illustre prosapia, non può non esser nemico dello Ebreo, il quale vuole per sè la libertà come la vuole per gli altri, e combatte per essenza, per indole, per interesse, tutte le distinzioni basate sulla nascita, sulla fede.
Ecco perchè, con mostruoso connubio, Culturkampf ed antisemitismo poterono nascere quasi ad un tempo e sulla stessa terra (10).
E qui ci si para spontanea dinanzi un'obbiezione.
Ci si dirà. Voi dipingete i radicali come i più feroci nemici degli Ebrei; eppure noi tutti conosciamo radicali notissimi che sono ben lungi dal partecipare a quest'odio, e vediamo invece assaliti tutto giorno gli Ebrei da giornali e da uomini del partito che è notoriamente il più avverso al radicalismo.
L'obbiezione è giusta, giustissima; ma è giusta solo per quanto risguarda gli uomini, non per quanto risguarda il partito.
Spieghiamo il nostro concetto.
Se è vero che tutto si può pretendere dall'uomo fuorchè la logica, è anche più vero che è specialmente nella politica che la logica si va facendo ogni giorno più rara.
Tutto giorno udiamo uomini vantarsi conservatori, liberali, radicali, e raramente li vediamo informare tutte le loro azioni ai principi di cui si dicono seguaci.
Nei paesi specialmente, come l'Italia, da poco educati alla vita politica, è accaduto che uomini appartenenti ad opposte scuole politiche si trovarono per lungo tempo affratellati da un intento comune, la liberazione della patria.
Questo intento comune, e l'azione comune che ne fu conseguenza, han fatto sì che le idee degli uni esercitassero qualche influenza su quelle degli altri, mitigassero la logica inflessibile dei principii, dessero vita a quella specie di eccletismo politico di cui ogni giorno vediamo prove in Italia.
Ecco perchè, sebbene il radicalismo sia per natura il peggior nemico degli Ebrei, i radicali italiani si separano in ciò dalla maggioranza del partito cui appartengono.
Se una serie di miracoli eguali a quelli, per cui l'Italia da ancella divenne nazione, facesse domani risorgere la Polonia, l'Europa vedrebbe uno spettacolo più singolare ancora; vedrebbe per alcun tempo i radicali ed i clericali polacchi vivere assieme d'amore e d'accordo, tutti assorti in un sol pensiero, la salute della patria (11).
Ma sarebbe tregua di anni, che nella storia dei popoli sono un momento, e i due principî opposti non tarderebbero a darsi battaglia anche nella terra degli Jagelloni.
La storia naturale ci insegna che animali, i quali allo stato selvaggio sono nemici inconciliabili, possono allo stato di servitù vivere fra loro d'accordo.
E se ciò avviene per animali di diversa razza, come non avverrebbe per l'uomo?
Veniamo all'altra parte dell'obbiezione.
È vero del pari che gli Ebrei sono oggigiorno combattuti con violenza da taluni giornaletti di provincia, che si dicono cattolici e si vantano rappresentanti non già di Papi o di Vescovi, dinanzi ai quali ci inchineremmo reverenti, ma di sodalizi più o meno ignorati ed in nessun caso autorevoli.
Errerebbe di gran lunga chi credesse che quei giornali rappresentino lo spirito, la parte pensante del loro partito (12).
È comune errore il credere alla disciplina della stampa cattolica, e l'errore è tanto comune che i fatti i più lampanti, l'opposizione accanita, per esempio, che taluni giornali sedicenti cattolici fanno ai Presuli delle loro diocesi, non valgono a sradicarlo.
A provare che tutta la stampa non partecipa all'opinione dei suddetti giornalucoli, addurrò quattro fatti quasi contemporanei.
1º Or sono due o tre anni, in occasione delle elezioni amministrative a Roma, l'Unione Romana, associazione cattolica presieduta da S. E. il signor Duca Scipione Salviati, venne ad accordi colla Associazione Costituzionale. Quest'ultima portava un israelita siccome candidato al Consiglio Provinciale.
Sarebbe stato impossibile, assurdo, pretendere che in Roma una Associazione cattolica portasse fra i suoi candidati un non cattolico: pure la lista fu concordata ed i giornali cattolici la sostennero, togliendo, è vero, il nome del candidato israelita, ma sostituendolo con una riga di punti. Se si ponga mente che ciò avveniva per una elezione che aveva luogo su di un sol nome, si converrà, che il dichiarare esplicitamente, che al candidato israelita non si opponeva nessuno, equivaleva da parte dei giornali cattolici a dire: non possiamo appoggiarlo, ma desideriamo vederlo eletto.
2º L'organo del partito cattolico di Genova, Il Cittadino, fu per molto tempo, ed è ancora, arbitro assoluto delle elezioni amministrative di quella città, e fra i suoi candidati fu sempre almeno un israelita.
3º La Rassegna Nazionale, importante rivista che vede da cinque anni la luce in Firenze, che è l'organo della parte più liberale del partito cattolico, ed in cui collaborano gli uomini più insigni di quel partito, come il Cantù, lo Stoppani, ecc., ecc., pubblicava nel suo numero di luglio u. s. una splendida difesa degli Israeliti dovuta a quel luminare del giudaismo, che è il prof. Ad. Frank, dell'Istituto di Francia. E qui cade in acconcio il ricordare che il signor Frank dettava, pregatone, quel suo articolo per gli Annales de philosophie chrétienne pubblicati dal signor Roux con tanto zelo a Parigi (13).
4º Or son pochi mesi, infine, l'Osservatore Romano, il solo giornale, ricordiamolo bene, che la Corte Pontificia riconosca come suo organo, recava nel suo N. 165 del 21 luglio 1883 una corrispondenza da Nyiregyhaza, 16 luglio, sull'iniquo processo di Tisza Eszlar, che ha testè disonorato l'Ungheria, corrispondenza ispirata a sentimenti così nobili ed elevati che non sappiamo resistere al desiderio di riferirne un brano, per istruzione di coloro che della stampa cattolica giudicano dagli ignobili giornali di provincia cui abbiamo testè accennato:
“Dopo l'ultima mia, che vi dava conto dell'8ª seduta, ebbe luogo una pausa di tre giorni; quindi si continuò nell'audizione di testimonî a carico e scarico, si aprì la discussione sul presunto trafugamento e tentata sostituzione di cadavere, e furono uditi i periti medici dell'università di Pest in contesto di quelli che esaminarono il cadavere e stesero il repertum facti. Le varie scene a cui diedero luogo queste diverse fasi dell'ormai sciaguratamente celebre processo non valsero a portar miglior luce sui fatti, ma contribuirono purtroppo a mettere in evidenza lo stato anormale dell'amministrazione della giustizia in Ungheria, non che lo sfogo di passioni, crassa ignoranza, corruzione, abbiezione di caratteri.
“Ester Solymossy è scomparsa. Questo è l'unico fatto certo.
“Fu dessa vittima d'un sacrifizio rituale?
“Ne manca ogni prova attendibile. Non si ha per base dell'accusa che la denuncia d'un figlio contro del proprio padre.
“Accetti chi vuole una tal base; io la respingo con orrore.
“Onorerai il padre tuo e la madre tua! proclamò Iddio dall'alto del Sinai. Chi calpesta questa legge divina, a cui fecero omaggio tutti i popoli della terra, sanzionando nei loro codici per ogni caso e senza eccezione alcuna il diritto dei figli di non deporre in giudizio contro dei genitori; chi, ripeto, calpesta questa legge, non è più uomo, è un bruto; ed i bruti non meritano fede in giudizio.
“Ciò sia detto in risposta ai fanatici, ai dilettanti di casuistica, ed agli stolti, quorum infinitus est numerus, che stimano non si possa essere buon cattolico senza essere antisemita e giudeofobo.”
Abbiamo trascelto a caso questi esempî, e molti ne tralasciammo dei tanti che ci si affacciavano alla memoria; perocchè questi siano più che sufficienti a dimostrare che lo spirito animante la stampa cattolica, degna di questo gran nome, verso gli Ebrei non vada cercato in quei fogliucciacci di provincia che seguono le pedate dell'Osservatore Cattolico di Milano, giornale più volte riprovato dalla Autorità Ecclesiastica.
E chiudiamo la lunga digressione.
Il radicalismo, abbiam detto, combatte l'Ebreo perchè ne invidia le pretese ricchezze (14); lo combatte, perchè vede in lui incarnati quei principî di libertà e di tolleranza politica e religiosa, che sono l'antitesi la più perfetta delle dottrine radicali, basate sulla violenza ed ispirate al detto del gran satirista di Roma: Stat pro ratione voluntas.
E non senza un perchè il radicalismo ha scelto l'Ebreo a bersaglio dei suoi strali.
La società posa su basi solide, e i radicali, malgrado la loro buona volontà, non riescirebbero certamente a scuoterla d'un tratto.
Perciò volsero prima le loro armi contro la Chiesa cattolica, sicuri di aver a compagni nella lotta molti liberali di buona fede che credevano giovare alle idee di progresso intellettuale e sociale, combattendo la Chiesa e privandola non soltanto di quei privilegi che contrastavano all'ordine politico degli Stati moderni; ma ponendola eziandio fuori del diritto comune, e violando a suo danno i più elementari principî del giure naturale, siccome fu fatto in Francia, in Germania ed in Isvizzera.
Se la lotta contro la Chiesa offriva ai radicali il vantaggio di aver ad alleati molti liberali, la lotta contro gli Ebrei assicurava loro il concorso dei più esagerati campioni del fanatismo religioso.
Ora un partito, che apre in America pubbliche scuole per insegnarvi ad usufruire la dinamite per giungere al progresso sociale, non può essere schifiltoso nella scelta dei mezzi. Dopo aver combattuto a fianco ai liberali contro Ignazio di Loyola, esso si allea ad Arbues e a Torquemada per combattere contro gli Ebrei, per rinnovare contro di loro gli eccessi onde vanno disonorati nella storia i nomi di Ferdinando ed Isabella di Spagna, di Emanuele di Portogallo e di tanti e tanti sovrani delle età media e moderna.
E così, applicando il vecchio precetto, tanto caro ai tiranni, divide et impera, viene il radicalismo man mano sgretolando il vecchio mondo, pronto poi, siccome disse il poeta, a cogliere i frutti del mal di tutti.
Questo abbiamo voluto dire per spiegare il perchè prendiamo oggi a difendere gli Ebrei. Non ci muove interesse di casta, non spirito di religione, ma convinzione profonda, immutabile, che in essi non si osteggia la credenza religiosa, ma si combatte uno dei ripari della moderna società.
Come oggi difendiamo gli Ebrei, avremmo ieri difeso le corporazioni religiose espulse di Francia (15), difenderemmo domani qualsivoglia setta, corporazione o sodalizio cui si volessero negare i beneficî del diritto comune, e questo non per uno spirito alla Don Chisciotte, ma perchè crediamo necessario mettere in guardia la società moderna contro gli assalti del radicalismo, il quale rinnova precisamente la tattica riuscita tanto bene ai precursori della prima rivoluzione francese.
Come costoro, prima di attaccare la monarchia di fronte, vennero man mano scalzando tutti i principî su cui essa poggiava; così i radicali, prima di assalire di fronte la società, la minano sotterra, e vellicando stolte ed abbiette passioni, tentano inocularle l'odio per la libertà, il disprezzo pel diritto, l'amore per le leggi di violenza partigiana, di persecuzione ingiustificata.
A questo lavorìo deleterio bisogna tutti si oppongano: e per opporvisi con frutto, per combattere vittoriosamente questa santa battaglia della civiltà e del progresso, occorre stringersi intorno al labaro dei nuovi tempi su cui sta scritto: Libertà per tutti.
Recoaro, agosto 1883.
Corrado Guidetti.
Dott. in lettere.
(1) Hist. des Juifs, p. 2852.
(2) Rassegna Nazionale, Firenze, 1º luglio 1883, p. 42.
(3) Per evitare una confusione altrettanto perniciosa quanto, ai tempi nostri, comune, quella che proviene dal non intendersi sul significato che si annette alle parole, spieghiamo qui ciò che intendiamo per radicalismo.
Lungi da noi il pensiero di designare con questo nome coloro che aspirano ad una piuttosto che ad un'altra forma di reggimento politico.
Radicale può essere tanto il monarchico quanto il repubblicano, e sì l'uno che l'altro possono esser liberali. Per noi la distinzione fra liberali e radicali sta in ciò soltanto: che il liberale vuole raggiungere i più alti ideali dell'avvenire rispettando i diritti, la libertà, la vita di ognuno; il radicale, invece, è disposto a violare ad ogni momento la libertà ed i diritti altrui, per conseguire il suo intento.
Posta così nettamente la questione, diremo subito che fra quel prototipo leggendario di inquisitore che, dinanzi a un massacro in cui cadevano egualmente vittime eretici e cattolici, avrebbe sclamato: uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi, e Barnave, il girondino, che di fronte alle prime stragi che insozzarono la rivoluzione francese, sintetizzando in una frase cinica e crudele i concetti del radicalismo, nella seduta del 23 luglio 1789, chiede ironicamente dall'alto della tribuna: Le sang qui coule est-il donc si pur? non sentiamo preferenza alcuna.
(4) Appartenevano del pari all'estrema sinistra intransigente del Parlamento romeno quei quattro deputati che nel 1878 escogitarono una mozione intesa ad un tempo a inorpellare l'Europa, che insisteva perchè agli Ebrei si accordasse l'eguaglianza civile, ed a rendere a questi impossibile o quasi il conseguirla. V. Marco Antonio Canini. La verità sulla questione degli Israeliti in Rumania. Roma, Barbera, 1879.
In Italia poi, uno dei rarissimi deputati che faccia pompa del suo antisemitismo, e che si diverta a parlare nelle sue corrispondenze giornalistiche di Giornali della Sinagoga e di altre simili amenità da medio evo, è quello stesso che in piena Camera dichiarò egli non conoscere un Papa Pio IX, ma soltanto un conte Giovanni Mastai Ferretti di professione Vicario di Dio! ho nominato l'on. Petruccelli della Gattina. Anche in Francia la questione semitica fu sollevata per la prima volta, in questi anni, da un articolo, perfidamente abile, intitolato: Dieu des Juifs tu l'emportes! pubblicato dal noto mangiapreti signor Francisque Sarcey, nel xix Siècle di Edmond About nel maggio o giugno 1875.
(5) Errerebbero a gran partito coloro che credessero il signor Rénan un amico degli Ebrei; egli, nel suo libro sull'Ecclesiaste, ne ha ultimamente schizzato un ritratto dal quale risulterebbe che essi sono oggi quello che erano or sono quattromila anni alle falde del Sinai: gli adoratori del vitello d'oro. E nei suoi Souvenirs d'enfance et de jeunesse parla degli Ebrei in guisa da meritarsi che il primo numero dello Antisémitique di Montdidier gli consacri una colonna di elogi. Ciò avvertiamo non per far colpa allo scienziato francese delle sue tendenze; ma perchè gli avversari nostri, ogni qualvolta citiamo il Rénan, non ci rinfaccino di appoggiarci all'autorità di chi ha negata la divinità di N. S. Gesù Cristo. Il Rénan potrà essere anticristiano fin che si vuole, ma non certo per filosemitismo.
(6) Ernest Rénan. Le Judaïsme et le Christianisme. Paris, Calmann Levy, 1883, p. 24 e 25.
(7) Nacque a Lisbona nel 1437; fu intendente delle finanze di Alfonso V, re di Portogallo, di Ferdinando il Cattolico, re di Castiglia, di Ferdinando il Bastardo, re di Napoli, di Alfonso II suo successore che non abbandonò quando i francesi lo cacciarono dal Regno. Abarbanello si stabilì in Italia e fu preso per arbitro in una questione commerciale fra il Re di Portogallo e la Repubblica di Venezia. Morì a Venezia nel 1508 e fu sepolto in Padova. Veggansi per maggiori notizie: Bartolocius, Bibl. Rabb.; Bayle, Dict. Crit.; Boissi, Dissert., p. 2; Schwab, Abravanel et son époque; S. Honel, Lien d'Israel, 5º anno, pag. 355 e segg.; e tutte le biografie.
(8) I. Bedarride. Les Juifs en France, en Italie et en Espagne. Paris, Michel Levy, 1861, p. 294. È appena necessario avvertire che, riferendo l'opinione di Abarbanello, facciamo sulle ultime parole sue le più ampie riserve. Nè S. Tommaso, nè scrittori approvati ed autorevoli, nè tanto meno la Chiesa Cattolica si espressero nel senso della liceità di ribellarsi o peggio di uccidere il tiranno, anzi la negarono recisamente.
(9) Merita a questo proposito di esser riferito il giudizio che uno dei più dotti Rabbini del nostro secolo, il professore S. D. Luzzatto di Padova, dava della rivoluzione francese.
Trascriviamo un brano di una sua lettera inedita del 26 dicembre 1836 inserita nel Vessillo Israelitico di Casale, ottobre 1876, p. 325.
“Nello scorso secolo gli spiriti della Francia, scatenandosi ad un tempo con un diluvio di scritti religiosi e contro i Governi assoluti e contro il Cristianesimo, produssero nelle menti quello stravolgimento, che poi si sviluppò nella funestissima rivoluzione francese, la quale pose in trambusto per tanti anni il mondo intero.”
(10) Vi sono taluni ingenui che si chieggono come il principe di Bismarck tolleri il risvegliarsi dell'antisemitismo in Germania. A questi ingenui osserviamo che il non cade foglia che Dio non voglia si avvera anco in politica, specialmente quando il Dio si chiama: il signor di Bismarck. Le vere dottrine di libertà sociale ed economica che furono la gloria dei quattordici primi lustri del nostro secolo non ebbero, non hanno nemico più mortale del cancelliere di ferro. E chi è nemico di libertà è nemico naturale degli Ebrei. Lo stesso Bismarck in una conversazione avuta con un diplomatico straniero, telegrafata al Morning Post nell'agosto dello scorso anno, diceva per assicurarlo delle sue intenzioni pacifiche: “La Germania non è nelle mie mani, come crede la gente. La Germania è nelle mani degli Ebrei, che hanno orrore per la guerra in causa dei loro interessi e delle signore che hanno orrore della guerra per la vita dei loro mariti e dei loro figli.” Aver orrore della guerra vuol dire esser fattori di civiltà, ma vuol dire ad un tempo esser odiati a morte dal signor di Bismarck.
(11) Cade proprio in acconcio notar qui che lo stesso Governo russo, che deportava in Siberia monsignor Felinsky, il venerando Arcivescovo di Varsavia, puniva più volte colla carcere e coll'esilio il patriottismo dell'illustre Michel B. Meisel, Rabbino di quella città.
(12) I nostri lettori troveranno fra i documenti un discorso dell'eminentissimo cardinale Manning, il quale ci dà la vera opinione della parte pensante del partito cattolico sulla questione semitica.
(13) Ci sia concessa una lieve digressione. È uno spettacolo che solleva l'animo del pensatore quello che ci offrirono quasi contemporaneamente gli Annales de philosophie chrétienne, invitando un ebreo a discutere nelle loro colonne la questione semitica, e la Société des Etudes juives di Parigi, chiamando nel suo seno un non israelita a dissertare “sul Giudaismo e sul Cristianesimo.” Malgrado i gufi, che tentano di oscurare il sole, è d'uopo convenire che siamo assai lontani dai tempi di San Luigi, Re di Francia (Cfr. Joinville, p. 11) quando un cavaliere, trovandosi presente ad una di quelle discussioni che allora frequentemente avvenivano fra sacerdoti cattolici e rabbini ebrei, sulla prevalenza delle rispettive religioni, vedendo come gli ebrei avessero il sopravvento nella discussione, stese morto ai suoi piedi con una bastonata l'ultimo rabbino che aveva parlato, dicendo ai preti cattolici, in atto di rampogna: “Vous avez fait folie d'avoir occasioné telle dispute d'erreur.”
(14) Queste linee erano già scritte, allorchè ci venne fatto di leggere nella Revue Britannique (luglio 1883) un dotto articolo, tolto dall'Edimburgh Review, nel quale si accenna appunto allo spirito di odio e di persecuzione che oggi si manifesta sotto il falso nome di liberalismo repubblicano.
(15) Non faccia meraviglia se in questo nostro lavoro, ispirato, osiamo vantarcene, ai principî della maggiore tolleranza, ci accada di paragonare sovente i Gesuiti agli ebrei. Sì gli uni che gli altri furono perseguitati da nemici, i quali, ben più che osteggiarne i principî, miravano ad attribuirsene le ricchezze; contro gli uni come contro gli altri si ripeterono le stesse accuse di usure, di accaparramenti, di massime antisociali, sicchè non è raro vedere nelle opere antigesuitiche del secolo scorso i Gesuiti paragonati agli Ebrei. Ho sott'occhi, per esempio, i “Lupi smascherati, Ortignano, nell'officina di Tancredi e Francescantonio padre e figlio Zaccheri di Strozzagriffi, mdcclx” libello antigesuitico, attribuito all'abate Capriata, ed a pag. 57 (nota) trovo: “I principi l'hanno rigettati da loro [i gesuiti] e sono omai riguardati come Giudei.”
Che se qualcuno ci rammentasse le prediche di qualche gesuita contro gli Ebrei, risponderemmo ricordando il Qui gladio ferit; e se ci si obbiettassero certi articoli antisemitici della Civiltà Cattolica, l'organo massimo della Compagnia, diremmo che ad essi la persecuzione non ha nulla insegnato, e compiangeremmo quei perseguitati che dalle violenze di cui furono vittima non appresero la sublime virtù della tolleranza.
Costituiscono gli Ebrei una razza speciale?
La tendenza scientifica cui si inspira il nostro secolo ha voluto trovare una formola con cui giustificare la persecuzione contro gli Ebrei, e si disse che essi costituivano tuttora una nazione speciale, che quindi erano da considerarsi nei diversi Stati, in cui dimoravano, come stranieri, e per poco non si propose di equipararli agli zingari ed ai gitani. Ricacciare gli Ebrei in Palestina è la proposta la più moderata che esca dalle labbra degli odierni antisemiti.
Sarebbe agevole rispondere a questa pretesa opinione scientifica con una sola parola, dimostrando, cioè, come oggi tutte le legislazioni dei paesi civili si affrettino a cancellare dai loro codici ogni differenza fra cittadini e stranieri, progresso questo, in cui l'Italia fu, col suo codice civile, vessillifera alle altre nazioni.
Ma questa difesa respingerebbero gli Ebrei, perocchè essi si sentano italiani in Italia, francesi in Francia (16), inglesi in nghilterra (17) ed Ebrei soltanto nei loro tempî (18).
Noi non abbiamo, d'altronde, ad avversarî nè filosofi, nè cristiani, nè liberali: ognuno di questi, infatti, troverebbe, nelle proprie convinzioni morali, religiose o scientifiche, argomenti per esserne condotto alla pratica della più larga tolleranza. Abbiamo di fronte, invece, quella fazione, oggi pur troppo numerosa, che vorrebbe la legislazione sociale non inspirata a nessun principio superiore all'uomo, e serva al più gretto utilitarismo; quella fazione che in America, la terra classica della libertà, propone ed ottiene provvedimenti straordinarî contro i Chinesi!!
Vinciamo quindi la naturale ripugnanza, e facciamoci a provare come gli Ebrei differiscano dagli altri italiani per la religione soltanto, non per l'amore al paese, non per la razza.
Non ricorderemo qui come ogni Ebreo di Roma abbia iscritto nel suo libro di preghiera fra le date fauste della sua vita il 20 settembre 1870, segnandovi persino l'ora precisa della liberazione: dieci e mezza antimeridiane, come già un quarto di secolo prima vi aveva iscritto la Pasqua del 1847, quando, per opera di Pio IX, caddero le mura e le porte che chiudevano il ghetto (19). Ci sembra che, per dimostrare come gli Ebrei in Italia si sentano italiani e non altro, basti, e ce ne sia di avanzo, della nobile figura del martire di Mantova, di Giuseppe Finzi (20)!
Se fra gli antisemiti italiani vi ha qualcuno cui scaldi il petto amor di patria, si faccia innanzi ed osi contestare l'italianità a quel monumento di patriottismo che è l'on. Finzi.
Ma ove al nome venerato del patriota lombardo noi aggiungessimo quelli di Angelo Usigli, compagno di Ciro Menotti (21), del milanese Bachi, che fu tra i precursori del movimento del 1848, di Daniele Manin cattolico di religione, ma di famiglia ebrea (22), e se a questi nomi facessimo seguire quelli dei numerosi Ebrei che accorsero volontarî sotto le bandiere nelle diverse guerre della indipendenza (23), i nostri avversarî ci risponderebbero sempre coll'adagio favorito dei sofisti: L'eccezione prova la regola.
Attacchiamo dunque di fronte il pregiudizio, larvato a scienza, e mostriamo che è tanto assurdo il credere che gli Ebrei sieno oggi i discendenti di Abramo quanto sarebbe ridicolo il sostenere che il Kedive d'Egitto sia l'erede diretto dei Faraoni, o che nelle vene degli odierni Romani corra il sangue dei Bruti e degli Scevola.
Già sin da quando gli Ebrei abbandonarono l'Egitto, numerosi stranieri si mescolarono a loro, sicchè ben può dirsi che da quel momento la razza di Giacobbe cominci a fondersi colle altre (24).
Nei tempi biblici i progenitori delle dodici tribù non esitarono ad imparentarsi con altre razze non esclusa la cananea pur tanto odiata. Mosè sposò una madianita. Fra le proavole di Davide vi ha la cananea Tamar e la moabita Rut. Nelle vene di Ezechiello corre il sangue di Raab la cananea, nè egli è il solo profeta d'Israello che tragga origine da idolatri. Più tardi i proseliti non solo non furono rigettati, ma vennero accolti senza reluttanza in grembo alla fede. Lo provano le leggi favorevolissime ai proseliti dimoranti nella Palestina, sparse in tutto il Pentateuco: lo provano i Gabaoniti che, entrati nell'Ebraismo mediante l'inganno e la frode, pure vi furono più che benignamente trattati, allorchè, per vendicare un oltraggio ad essi fatto, fu versato sangue di Re (25): lo provano le centinaia di migliaia di proseliti di cui si fa menzione al tempo della monarchia degli Israeliti, specialmente all'epoca di Salomone (26): lo provano i proseliti dei tempi di Ester (27) e quelli dei popoli trapiantati dal conquistatore Senacheribbo in Palestina (28), non che varie conversioni individuali abbastanza notevoli, come quella di Naaman il supremo ministro del regno siro (29) e quelle di Ebena regina di Adiabene e di suo figlio Izak, di cui fa cenno Giuseppe (30). Nè gli Ebrei aveano a vile di mescolare il sangue con questi proseliti; chè anzi il loro Talmud ci ha tramandato, quasi a titolo di gloria, che i principali maestri d'Israello, come Hillel, Rabbi Jehudà il Santo, Akiva martire della crudeltà romana, Rabbi Meir ed altri moltissimi discendevano da proseliti, e che proselite era Onkelos, uno dei più grandi tra i parafrasti caldei.
Insomma, gli Ebrei di Palestina non furono, come volgarmente si crede, un popolo segregato dal consorzio umano. Ecco come un autore non sospetto e che, vivo, non si sarebbe mai immaginato di vedersi citato nel secolo xix a difesa degli Ebrei, scrive:
“Questi ultimi Ebrei [dopo la morte di Erode] erano un miscuglio di parecchie nazioni. Se ne erano stabiliti in tutti i paesi che sono sotto il sole, siccome dice la Scrittura. Parecchi venivano ad abitare nella Giudea, od almeno vi facevano qualche devoto viaggio per poter offrire sacrifizi a Dio nel solo tempio in cui fosse permesso di farlo. Oltre a ciò vi erano sempre ad ogni qual tratto dei Gentili che si convertivano, e divenivano proseliti. Così gli Ebrei, a parlar propriamente, non eran più un popolo solo colla stessa lingua e gli stessi costumi, ma parecchi popoli che si riunivano in una sola religione. Persino quelli che abitavano la Terra Santa erano un miscuglio di diverse nazioni, di Idumei e di altri Arabi, di Egiziani, di Fenici, di Siriaci e di Greci.”
Fin qui il Fleury (31), ai cui Mani chiediamo umile venia se lo abbiamo tratto a testimoniare in favore degli Ebrei, ciò che certamente egli non avrebbe desiderato; ma non è proprio colpa nostra, se le accuse che si muovono a questo disgraziato popolo sono tanto svariate e contraddittorie, che quanto veniva scritto per far loro onta possa, poche generazioni dopo, essere addotto ad argomento di difesa.
Ma se la nazione giudaica era già dopo Erode una mescolanza di diverse nazioni, come ci insegna il Fleury, e come ci confermano gli Atti degli Apostoli: “Or in Giudea dimoravano degli uomini religiosi d'ogni nazione di sotto il cielo” (32), non bisogna neppur credere che, dopo la dispersione seguita alla distruzione del secondo tempio, gli Ebrei abbian cessato di fare proseliti fra genti di schiatte diverse.
Numerose colonie di Ebrei popolavano Roma e le altre città dell'impero. A Roma soltanto ve v'erano 20,000 sotto Augusto, e narra Strabone che v'erano numerosi Ebrei in quasi tutte le città d'Italia (33). E numerosi eran pure in molti altri paesi non ancora sottoposti al giogo di Roma. In ogni luogo, al dire di Filone, gli Ebrei esercitavano una salutare influenza sulle credenze religiose e sui costumi; in ogni luogo avevano stabilito sinagoghe, dove si riunivano nei giorni di sabato per pregare e commentare la Bibbia. A queste riunioni partecipavano sovente molti pagani, che aderivano poco a poco alle nuove dottrine udite proclamare, e che, rigettando gli errori del politeismo, accettavano le pratiche più essenziali del giudaismo, il riposo settimanale e l'annuo digiuno dell'espiazione. In tutte le classi sociali del mondo romano abbondarono i giudaizzanti, ben prima che sorgesse l'apostolato cristiano; sicchè si può dire coll'Havet (34) che, se colle parole l'avvento del Cristianesimo, deve intendersi la conquista del mondo greco e romano da parte del Dio degli Ebrei, si può dire che questo avvento aveva avuto luogo sin dai tempi di Augusto e di Tiberio, e che questa conquista era in via di compiersi, ben prima che fosse questione di Cristo.
Ad Alessandria di Egitto, a Roma, in Siria la propaganda giudaica fu sempre intensa ed efficace.
Giuseppe Flavio ci apprende come molti greci passassero in Antiochia al Giudaismo (35).
A Roma il proselitismo ebraico, nascosto nelle vie adiacenti al Tevere, forse in prossimità almeno dei luoghi dove oggi ancora sorge il ghetto, guadagnò neofiti persino nelle famiglie patrizie, salendo dallo schiavo al liberto, dal liberto al padrone (36).
E di questo spirito di proselitismo e della efficacia sua ci dà prova Svetonio (37).
L'influenza delle idee giudaiche sul paganesimo preoccupava gli spiriti: Victoribus victi legem dederunt sclama Seneca nel De Superstitione, ed il poeta Rutilio geme: Atque utinam nunquam Judaea subacta fuisset.
Nè il legislatore se ne mostra meno impensierito. Al tempo di Domiziano le conversioni al giudaismo erano così frequenti che parecchie leggi furono fatte per impedirle (38). I convertiti erano puniti di morte e colla confisca dei loro beni, e la stessa pena colpiva coloro che erano accusati di aver cooperato alla loro apostasia.
Nè pare che queste leggi avessero risposto allo intento, perchè vediamo Costantino obbligato a proibir di nuovo con severissime pene agli Ebrei di far proseliti.
Ma a toglier ogni dubbio sull'efficacia dello spirito di propaganda che animava gli Ebrei nella Roma pagana, ci piace recar qui un brano di Dione Cassio (39). “Questo paese si chiama Giudea, e Giudei i suoi abitanti. Non conosco l'origine di questo secondo nome, ma esso si applica ad altri uomini che, quantunque di razza diversa, hanno adottate le istituzioni di questo popolo. E fra i Romani sonvi molta gente di tal fatta, e quanto si fece per porvi ostacoli, non giovò che ad aumentarli, tanto che fu forza accordar loro la libertà di vivere secondo le loro leggi.”
Altro modo, di cui gli Ebrei dovettero giovarsi per acquistar proseliti, fu il possesso degli schiavi; e le numerose precauzioni, che per lunga serie di secoli prendono le autorità spirituali e le temporali, per impedire agli Ebrei di convertire alla loro religione gli schiavi da essi posseduti, bastano a farci persuasi quanto zelo mettessero gli Ebrei nel deluderle.
Ma anche senza tener conto di questo coefficiente pure importantissimo per l'adulterazione della razza, la storia delle età di mezzo ci porge non infrequenti esempi di conversioni al giudaismo.
Alla fine del iv secolo dell'èra nostra Abu-Karibba-Tabban re dell'Yemen (40) e nel 740 Bulan re dei Kazari (41) abbracciano il giudaismo.
All'epoca dell'imperatore Enrico II il cappellano di un Duca Corrado, di nome Vecelino, passò al giudaismo, locchè fece adirare al massimo grado l'imperatore, ma non produsse altro castigo che quello di una erudita confutazione (42).
Un caso simile sotto Lodovico il Pio è narrato da Krabano Mauro (43).
In Francia le conversioni al giudaismo non sono senza esempio. Parecchi cristiani lasciarono nel ix secolo la Chiesa per abbracciare il giudaismo, e fra questi si citava un diacono palatino a nome Putho (44), e sino ai tempi di Filippo il Bello (xiv secolo) si segnalano conversioni (45).
Nel 1040 un celebre rabbino di Granata, Giuseppe Halevy, è accusato di aver fatto proseliti alla fede mosaica in Ispagna e messo a morte (46).
Le conversioni al giudaismo erano, nel xiii secolo ancora, tanto frequenti da meritare che Nicolò IV, appena assunto al Pontificato, se ne occupasse con una lettera datata da Rieti, 5 settembre 1288; lettera che non deve aver prodotto grande effetto, se Giovanni XXII è obbligato a promulgarne una consimile il 13 agosto 1317.
Rainaldo ci assicura che nel xiv secolo molti fra i discepoli di Giovanni Viclefo abbracciarono la perfidia giudaica.
Il primo di agosto 1603 sulla Piazza Ribeiro in Lisbona venne bruciato fra Diego di Assunçao, monaco francescano, che, dopo aver abbracciato il giudaismo, andava predicando ed insegnando questo solo doversi considerare vera religione.
Ricorderò ancora quel Giovanni Mica, cristiano portoghese del xvi secolo, che, fattosi ebreo, prese il nome di Giuseppe Nassi, visse in Costantinopoli e pubblicò varie opere lodatissime (47).
Nel secolo scorso rimase celebre in Inghilterra la conversione di lord Giorgio Gordon (48).
Molti altri esempî potremmo citare (49); ma crediamo che quelli da noi portati sien più che sufficienti a provare che il Giudaismo devesi considerare come una religione, non come una razza (50).
Come dubitare che gran parte degli Ebrei attuali non discenda da questi nuovi convertiti (51)? Certamente, grazie alle persecuzioni che per lunghi secoli afflissero i credenti nella legge di Mosè, non un Ebreo si trova oggi nel luogo di origine della propria famiglia.
Cacciati or di qua, or di là, essi andavano concentrandosi nei paesi, dove leggi, non più miti, ma meno crudeli permettevano loro di vivere con una sicurezza relativa; sicchè, oggi, tanto varrebbe voler cercare i veri discendenti dagli Ebrei di Palestina, per ricacciarli nella loro terra, quanto il cercare in Italia i discendenti degli antichi barbari per ricacciarli oltre Alpi.
Ma se si volesse adottare contro gli Ebrei un provvedimento qualsiasi, ispirato a questa pretesa differenza di razza, come a noi italiani non si affaccierebbe alla mente la testimonianza, già da noi invocata, di Dione Cassio e come non ci tormenterebbe il dubbio che questi pretesi stranieri, questi abborriti semiti sieno proprio figli di quei Romani convertiti al Giudaismo, di cui parla lo storico latino, tornati fra noi, dopo Dio sa quali peregrinazioni, mossi da quell'amore del paese di origine che, come un istinto, sopravvive forse in noi alla memoria?
Nè gioverà spender molte altre parole intorno a siffatta questione di razza, perchè, assurda dovunque, essa raggiunge fra noi l'apice della assurdità.
Gettiamo uno sguardo sulla storia dei secoli scorsi, e vedremo, finchè durò la potenza di Roma, accorrere fra noi stranieri d'ogni razza e d'ogni lingua, e quando i destini d'Italia mutarono sì che da donna divenne ancella, vedremo gli schiavi di ieri mutarsi in predoni, correre sulle terre nostre e devastarle. Goti, Longobardi, Normanni, Saraceni persino si impiantano fra noi, e vi spadroneggiano, e noi osiamo oggi parlare di razza!
E poi cosa è la razza di fronte al grande principio del secolo nostro, quello delle nazionalità? E caratteristica della nazionalità è la lingua, non la religione, non l'origine.
Per riconoscere nome e qualità di italiano a chi è nato in Italia da genitori italiani, a chi parla la nostra lingua, sarà forse d'uopo aprirgli le vene per riconoscere quante goccie di sangue non italiano vi corra?
Or via, l'Italia, che a buon dritto considera come fratelli i Valdesi del Piemonte, i Cimbri dei Sette Comuni (52), gli Slavi del Molise, gli Albanesi ed i Greci del Mezzodì, vorrà contestare nome e qualità di italiani agli Ebrei, che nei tempi di schiavitù divisero la sorte degli altri Italiani?
Un'ultima ragione infine, e potentissima, dovrebbe spingere i moderni antisemiti a non insistere sulla questione di razza.
Essi, che non arrossiscono di farsi persecutori, ma che arrossirebbero di giustificare la persecuzione colla sola causa che la renderebbe meno odiosa, lo spirito di religione, verrebbero, ponendo innanzi tale questione, a provocare una enorme ingiustizia.
Non vi ha dubbio che negli scorsi secoli o per convinzione, o per sottrarsi a persecuzioni, o per ispirito di cupidigia, milioni di Ebrei apostatarono per abbracciare il Cristianesimo.
Pel Cristiano che ripugna dall'Ebreo, perchè vede in lui l'ostinato avversario della sua Fede, l'uccisore del suo Dio, l'acqua del Battesimo lava queste colpe originali, sicchè egli a buon dritto considera eguali a se stesso l'ebreo battezzato e i suoi discendenti.
Ma per l'antisemita moderno, ateo e materialista, che odia nell'ebreo non la religione, ma la razza, l'acqua del Battesimo non lava nulla; perocchè nessun teologo ha mai asserito che il Battesimo muti un semita in un giapeto.
Sicchè, se il moderno antisemitismo non vuol commettere una enorme ingiustizia, egli deve cercare, per avvolgerle nel suo odio, quelle migliaia di famiglie cristiane che hanno nelle vene sangue di ebreo (53).
Il dilemma è stringente: o gettare la maschera e confessare che non si perseguitano gli Ebrei perchè semiti, ma unicamente perchè ebrei, od intraprendere ricerche etnografiche e genealogiche, che sarebbero appena possibili, se ogni uomo, da Adamo in poi, si fosse iscritto in un stud book, come un cavallo di puro sangue.
Ma prevediamo sin da ora la risposta che si farà a questo dilemma. Ci si dirà che gli Ebrei vanno perseguitati non soltanto perchè di razza diversa, ma perchè la loro legge contribuisce a mantenere una barriera fra essi ed i popoli fra cui vivono; perchè alla Santa massima del Vangelo: Amatevi scambievolmente, l'esecrando Talmud ha sostituito quest'altra: Odiate quanto non è ebreo.
A questa obbiezione vecchia quanto la malignità umana risponderemo nel veniente capitolo, bastandoci per ora di riferire un ultimo fatto a prova del modo con cui gli Ebrei intendono l'amor di patria. Allorquando nel Sinedrio dei principali rabbini di Europa, convocato a Parigi d'ordine di Napoleone I, i delegati imperiali chiesero fin dove giungesse, secondo gli Ebrei, il dovere dell'amor di patria, tutti i congregati e primi fra essi i rabbini Segrè, Zingheim e Worms, ortodossi fin nel midollo e negli insegnamenti e nella pratica della vita, si alzarono in piedi gridando: “Fino alla morte.”
(16) Nella predicazione [in Francia] nessun rabbino si lascierà sfuggire l'occasione di rammentare ai suoi uditori quanto devono alla Francia che li ha liberati dalla schiavitù (Rassegna Naz., loc. cit., pag. 47). Non citiamo esempî italiani, perchè a tutti sarà accaduto di leggere nei giornali politici le relazioni di solennità celebratesi nelle sinagoghe in occasione di feste ed anniversarî patriottici.
(17) Gladstone, in una sua lettera 6 ottobre 1876, indirizzata al signor Leopoldo Gluckstein e pubblicata negli Archives Israélites di Parigi, 1º novembre 1876, così si esprime: “Ho sempre ammirato il contegno degli Israeliti inglesi nell'adempimento dei loro doveri civici.”
(18) Una curiosa prova della assurdità dell'accusa che si muove agli Ebrei di sentirsi estranei alla terra in cui nacquero ce la porge l'Antisémitique francese. Mentre in ogni numero scaglia questa calunnia contro gli Ebrei, rinfaccia poi alla maggior parte degli Ebrei francesi di esser di origine tedesca e si sforza di aizzare contro di loro le passioni popolari, dipingendoli quasi altrettanti agenti del governo germanico. O logica, proprio antisemitica!!
(19) Sei mesi in Italia, pel dott. A. Berliner; versione dell'abate prof. Pietro Perreau.
(20) Abbiamo citato a preferenza del nome di altri patrioti Ebrei quello dell'on. Finzi, e perchè pochi possono a lui paragonarsi per inconcusso patriottismo, e perchè rammentiamo d'aver letto nell'Arena di Verona del 10 novembre 1876 il seguente brano di una lettera che in occasione delle elezioni generali l'illustre uomo scriveva a quel giornale.
“Ebreo realmente, mi trovai iscritto nei registri di popolazione dove nacqui: ma nè per religione, nè per abitudini mi sono sentito ebreo in tutta la vita. Ho una religione anch'io vivida e pura che mi affratella a tutta l'umanità senza distinzione d'ebrei, di cristiani, di cattolici, di turchi, che mi è inspiratrice di nobili e delicati sentimenti, che mi insegna il volontario sacrifizio e mi dà vigore e conforto nelle ore perplesse della sventura.”
Questa lettera, fatta per attirare sul capo dell'on. Finzi i fulmini degli intolleranti di tutte le religioni, giova mirabilmente all'assunto nostro, perchè dimostra — e ce n'era bisogno? — che il fatto di esser nati ebrei piuttosto che cristiani o turchi non ha proprio nulla a vedere coi sentimenti patriottici.
(21) Angelo Usigli, nato nel 1803 a Modena, morto a Londra, nel 1875, fu congiurato con Ciro Menotti, anzi dei pochi che collo stesso Menotti furono nella costui casa circondati dalle truppe estensi. L'Usigli propose di dar fuoco alla casa piuttosto che arrendersi, ma, dissentendo i compagni, fu con loro arrestato e condannato a morte. Commutatagli la pena in esiglio perpetuo, si rifugiò a Londra e collaborò nella Giovane Italia. V. Gazzetta d'Italia, 15 aprile 1875.
(22) L'avo di Daniele Manin era ebreo. Il comm. Pincherle lo seppe dalla sua bocca stessa. V. La vita ed i tempi di Daniele Manin per Errera e Finzi, Venezia, 1872. Cfr. Rudolph Gottschill, Un mois d'automne en Italie.
(23) Ci limiteremo a riferire qui l'elenco degli Ebrei che fecero parte della gloriosa schiera dei Mille; sono otto e cioè: Alpron Giacomo, da Padova; Colombo Donato da Ceva; D'Ancona Giuseppe da Venezia; Donati Angelo da Padova; Luzzatto Riccardo da Udine; Ravà Eugenio da Reggio Emilia; Uziel Davide Cesare da Venezia. Calcolato a venticinque milioni il numero degli italiani nel 1860, ed a quarantamila il numero degli ebrei, si vedrà di leggieri quanto sproporzionatamente numeroso sia stato il concorso degli Ebrei in quella spedizione. I nomi che precedono abbiam desunto dal n. 21 dell'anno 1864 del Bollettino delle nomine e promozioni. Giornale Ufficiale militare, pag. 169 e seg.
(24) Esodo, xii, 38.
(25) Giosuè, ix, x. — ii. Sam. xxi.
(26) I. Re.
(27) Ester, viii, 17.
(28) II. Re, xvii, 24 e seg.
(29) II. Re, v, 17, 18.
(30) Antiq., l. xx, cap. 2 a 4.
(31) Mœurs des Israélites, cap. v. In Œuvres de l'abbé Fleury, Paris, Michel Desaiz, 1837, pag. 183, col. i. Cfr. Frank, De l'état politique, religieux et moral de la Judée dans les derniers temps de sa nationalité. In Vérité Israélite, tomo ii, pag. 7 e segg.
(32) Atti degli apostoli, ii, 5.
(33) Cfr. Degubernatis, Matériaux pour servir a l'histoire des études orientales en Italie.
(34) Havet, Le Christianisme et ses origines. L'ellénisme, t. ii, pag. 248. Cfr.: Delaunay, Philon d'Alexandrie. Les écrits historiques, pag. 123 e 124; Nicolas, Des doctrines des Juifs, pendant les deux siècles antérieurs a l'êre chrétienne, pag. 113; Beuss, Hist. de la Théologie chrétienne au siècle apostolique, v. 1, pag. 107 e 109.
(35) Avendo condotto al loro culto un gran numero di Greci, ne fecero una parte della loro comunità. (De bello jud., libro vii, cap. iii, § 3).
(36) Les philosophes du siècle d'Auguste in Revue contemporaine. Tomo v, prima dispensa.
(37) Judaeorum juventutem per speciem sacramenti in provincias gravioris cœli distribuit, reliquos gentis ejusdem vel similia sectantes urbe summovit. (Svetonio, in Tiber., § 36).
(38) Judaeus qui eum qui judaicae religionis non esset contraria doctrina ad suam religionem traducere praesumpserit, bonorum proscriptione damnetur, miserumque in modum puniatur. (Leg. 7, Cod., de Jud.; Dione Cassio, Hist. rom.; Spencer, In orig., p. 33).
(39) Hist. rom., xxxviii, 17.
(40) Oggi ancora, secondo una corrispondenza della Presse di Vienna, riferita nel n. 20 dell'Israelit di Magonza dell'anno 1875, esistono nell'Yemen più di 500 mila ebrei.
(41) A quest'epoca, il giudaismo salì nuovamente sopra un trono regio, sopra quello dei Cazari, popolo della Tartaria, ai quali eransi mischiati alcuni ebrei, cristiani e mussulmani. Fu senza dubbio per effetto del commercio crescente in quel regno, così favorevole all'industria e situato vicino il mar Caspio, che Balan, capo dei Cazari (o Cozari) si lasciò convertire al giudaismo. Da quell'istante un ebreo regnò costantemente per meglio di tre secoli. (Schwab, Storia degli Ebrei, tradotta dal prof. Pugliese. Venezia, Longo, 1870, pag. 95. Cfr. Ad. Neubauer, Relazione al Ministro ed osservazioni del sig. Munk in Journal Asiatique, 1865, tomo i).
(42) Monumenta Histor. German. Scriptores, vi, p. 704 e 720.
(43) Würdtwein, Nova subsidia diplomatica, i, p. 125.
(44) Bedarride. Op. cit., pag. 84.
(45) Basnage. Op. cit., libro vii, cap. 18.
(46) Bartholoccius. Bibl. rabb., t. iii. — Salomon ben Virga, Scevet Jehudà, 5 excidium.
(47) Cfr. De Rossi, Diz. storico degli Autori Ebrei, Parma, 1802, a. v. Nassi e Steinschneider, Catalogus Libr. Hebr. in Bibl. Bodleiana, col. 1515.
(48) Cfr. Macaulay, Speeches, vol. 6, pag. 141, 2ª ediz. Tauchnitz.
(49) È innegabile che nell'età moderna lo spirito di propaganda degli Ebrei è completamente cessata. Pare che ora abbiano preso alla lettera l'insegnamento del Talmud: Son perniciosi i proseliti agli Israeliti come la lebbra o come la calvizie (Talm. Bab., capo iv, folio 47 b. et alibi) sicchè si può oggi asserire che la religione mosaica è la sola, fra quelle professate nel mondo civile, che non si occupi di far proseliti. Pure oggi ancora non mancano esempî, benchè rarissimi, di Cristiani che abbracciano volontariamente il Giudaismo. Cooper, nelle sue lettere sugli Stati Uniti, parla di una società di Ebrei costituitasi nello Stato di Nuova York per provocare la conversione dei Cristiani. Se la notizia, che non vedemmo mai confermata da altre fonti, non è un humbug americano, la fondazione di questa società è una prova che gli Ebrei di America non si sentono, per quanto almeno concerne l'eccentricità, estranei alla terra in cui vivono; perocchè possiamo affermare che non vi ha in Europa oggigiorno fra gli Ebrei la più leggiera traccia di spirito di proselitismo.
(50) Anche il Rénan si è testè occupato di questo argomento in una conferenza da lui tenuta il 27 gennaio 1883 al Cercle Saint-Simon ed edita poi dal celebre editore parigino Calmann Lévy col titolo: Le Judaïsme comme race et comme religion. In questa conferenza, cui rimandiamo coloro che fossero vaghi di maggiori particolari sull'argomento, il dotto francese, dopo aver spiegato come la scienza delle religioni le divida in due grandi classi, universali (il buddismo, il cristianesimo, il maomettismo) e nazionali o locali cui devono ascriversi tutte le altre, viene a mostrare come tutte le religioni nazionali sieno perite e come la religione ebraica, precorrendo per opera dei suoi profeti al Cristianesimo, abbia assunto, col monoteismo che ne è la caratteristica la più spiccata, forma appunto di religione universale. Gli Ebrei, che dalle loro profezie eran fatti persuasi tutti i popoli dovere col tempo convertirsi alla loro Fede, cercavano affrettarne la realizzazione cercando proseliti fuori della loro nazione. E di questo spirito di propaganda del giudaismo antico molti esempî reca il Rénan. Nessuno poi potrà dire di aver un'idea completa dell'argomento, ove non abbia letto l'importantissimo opuscolo del cav. Marco Mortara: Le prosélytisme juif. Paris, Witt. Hersheim, 1875.
(51) È innegabile che la segregazione forzata in cui gli Ebrei vennero tenuti fino a pochi anni addietro impedì loro sempre di confondersi colle popolazioni in mezzo alle quali vivevano; sicchè si può asserire con qualche certezza che esiste un tipo speciale al quale si possono conoscere gli Ebrei. Ma questo tipo è egli il tipo semita puro? Quale antropologo potrebbe asserirlo? Non è più ovvio il ritenere che esso sia più che il carattere di una razza, la risultante di speciali abitudini di vita, che si sarebbe perpetuata per eredità fisiologica? Ed infatti, non vediamo questo stesso tipo andar man mano cancellandosi negli Ebrei, che, vivendo nei paesi civili, finiscono coll'adottare le abitudini delle popolazioni fra cui si trovano, mentre si mantiene inalterato in Ungheria, in Polonia ed in tutti i paesi dove la minor civiltà delle popolazioni e la conseguente rozzezza dell'ebreo rende difficile ogni contatto, ogni assimilazione?
(52) Usiamo la denominazione la più comunemente accettata, pur conoscendone l'inesattezza, per non ingolfarci in una questione etnografica affatto estranea al nostro argomento.
(53) Ricordiamo che il Conte di Molé, famoso ministro francese dei tempi di Luigi Filippo, discendeva da una ebrea, la figlia di Samuel Bernard il banchiere di Luigi XIV, che si era battezzata per isposare il cancelliere Molé. Nè questa dei Molé è la sola nobile famiglia europea nelle cui vene sia frammisto qualche gocciolina di sangue giudaico; e, per non moltiplicare gli esempi, ricorderò come da famiglia ebrea discendesse Pier di Leone, noto antipapa del secolo xii, e come discendesse pure da una ebrea — la figlia del celebre generale Ventura, modenese — quel marchese di Trazignies, belga, che, spinto da fanatismo religioso e politico, venne in Italia a combattere il movimento nazionale nelle file dei briganti, e fatto prigioniero colle armi alla mano, fu, da un picchetto del 43º reggimento fanteria, fucilato in Isoletta li 11 novembre 1861.
Il Talmud
Tutti hanno udito menzionare, ed anche maledire, il Talmud, questo libro che lo storico Milman (54) chiamava: “monumento straordinario dell'attività umana, della intelligenza umana, e dell'umana pazzia;” molti certamente ignorano cosa esso sia, o ne hanno nozioni assai incomplete; e non vi sarebbe troppo da meravigliarsi se qualche semidotto credesse ancora che il Talmud fosse un uomo, siccome avvenne a quel buon Cappuccino d'Henry de Seyne che ebbe con tutta tranquillità a scrivere: Ut narrat Rabbinus Talmud.
Cercheremo, in brevi parole, di dirne quel tanto che sarà necessario per far chiaro ciò che dovremo dire in appresso.
Fintanto che gli Ebrei rimasero nella Terra Promessa, la Legge scritta, il Pentateuco, fu, per essi, solo codice religioso, morale, politico.
Coloro che eran chiamati ad insegnarlo ed a curarne l'osservanza, ne conoscevano ed applicavano, caso per caso, l'interpretazione tradizionale.
Essi erano, a sentirli, depositari di una tradizione orale trasmessa in buona parte da Dio stesso a Moisè sul Sinai (alachà lemoscè Missinai) (55), da Mosè trasmessa a Giosuè, da questo agli anziani, dagli anziani ai profeti e dai profeti agli uomini della Grande Sinagoga (56).
Agli Ebrei però era allora vietato di raccogliere per iscritto tale tradizione. Il motivo di questo divieto non è noto. Chi crede ne fosse causa il desiderio connaturale ai popoli orientali, siccome ci mostrano la storia dell'India e dell'Egitto, di concentrare in poche mani il monopolio della scienza (57); chi ne cerca ragione nel timore che errori di copisti o volontarie falsificazioni (58) producessero nuovi scismi; chi nel desiderio di impedire che la legge tradizionale acquistasse eguale autorità della scritta; S. D. Luzzatto (59) infine, pensa che tale divieto provenisse dall'aver, gli antichissimi dottori, voluto che la teoria e la pratica della religione rimanessero in buona parte modificabili, giusta i bisogni dei tempi, ragione per cui nulla scrissero e nulla permisero si scrivesse per non scemare ai posteri la libertà di modificare gli insegnamenti dei predecessori (60).
Per quanto incredibile possa ciò sembrare a' giorni nostri, non è meno certo che questi insegnamenti passavano per tradizione orale dall'una all'altra generazione. La memoria sviluppatissima, come è noto, presso i popoli orientali, dovette aver parte grandissima nelle scuole ebraiche (61).
Caduto il secondo tempio e venutane la gran dispersione degli Ebrei, i loro dottori compresero che ove si fosse continuato nell'antico sistema, la tradizione avrebbe molto probabilmente finito coll'andar dispersa.
Pensarono quindi di ridurla in iscritto, e Giuda di Tiberiade, soprannominato il Santo, a causa della sua scienza e della purezza dei suoi costumi, e conosciuto anche sotto il semplice nome di Rabbì, quasi il maestro per antonomasia, compilò, nel primo quarto del terzo secolo, la Mischnà o seconda legge (62).
Che egli poi la scrivesse, come afferma il Maimonide e con lui moltissimi altri, o che invece egli si limitasse ad insegnarla ai suoi numerosi uditori, sicchè essa si tramandasse inalterata per molte generazioni e venisse soltanto dopo lungo tempo posta in iscritto, siccome vogliono con S. D. Luzzatto, il Graetz e molti altri moderni, è questione sulla quale non ci sentiamo da tanto di pronunciarci. Ciò che è certo è che la Mischnà sta al Pentateuco, come il Mitri ai Veda, la Sunnah al Corano e che è qualche cosa di analogo alle Ῥήτραι greche, alla lex non scripta dei Romani ed alla Common Law degli Inglesi.
Nella Mischnà Giuda raccolse tutti i decreti, gli statuti, le sentenze pronunciate dai saggi, diverse massime religiose e morali, tutto ciò che era stato adottato durante l'epoca dei profeti dai membri della grande Sinagoga, tutte le ordinazioni del Sahnedrin e dei tanaim (63), cioè dei dottori più celebri vissuti durante i due secoli anteriori, e ne fece un'opera divisa in sei parti principali, dette ordini.
Ogni ordine è diviso in trattati (letteralmente: contesti), ogni trattato in capi, ogni capo in paragrafi (detti mischnà, nel senso più ristretto della parola). La prima parte od ordine che dir si voglia intitolata delle sementi tratta delle leggi dell'agricoltura e delle decime (64). Vi è premesso un trattato sulle benedizioni quotidiane e su quelle che devonsi pronunciare in varie circostanze. La seconda parte delle Feste tratta delle cerimonie da compiersi nei giorni feriali e solenni. La terza: della Donna o del matrimonio e dei doveri della famiglia. La quarta: dei danni, si occupa della indennità dovuta pei danni che si occasionano altrui ed in generale di tutto quanto si riferisce al giure civile ed al punitivo. Questa parte offre in moltissimi punti una grande analogia col diritto romano (65). A questa parte è aggiunto un trattato di morale che contiene una raccolta di sentenze morali dei padri della Sinagoga. La quinta parte tratta della Santità e dei sacrifizi che si offrivano nel Tempio, che vi è minutamente descritto, e contiene inoltre i precetti sui cibi. La sesta verte sulle purificazioni e sulla purità ed impurità legale.
Lo spirito generale della Mischnà trova la sua migliore espressione nelle parole del suo stesso redattore, che servono quasi di epigrafe alla intiera raccolta: “Siate tanto coscienziosi nell'adempimento dei piccoli precetti quanto dei grandi perchè ignorate la ricompensa che va annessa ad ognuno di essi. Paragonate la perdita temporale che vi occasiona l'adempimento di una legge, colla ricompensa celeste che vi è congiunta, ed il beneficio che risulta dalla trasgressione della legge colla pena che deve seguirla. Per evitare il peccato abbiate sempre presente tre cose: che al dissopra di voi vi ha un occhio che tutto vede, un orecchio che tutto intende, e che tutte le vostre opere sono scritte in un libro” (66).
La Mischnà ha più carattere di codice che di trattato di metafisica. Però essa non trascura l'occasione di inculcare quegli alti principii morali cui deve informarsi la stretta lettera della legge. Nell'esecuzione di un fatto guarda più all'intenzione che all'atto in sè stesso. Chi reclama un diritto, basandosi sulla lettera della legge, ma senza tener conto del sentimento di umanità, che dovrebbe spingerlo a non insistere nelle sue pretese, non è amato nè da Dio nè dagli uomini. Quegli invece che spontaneamente fa buon diritto agli altrui reclami, anche quando la legge non gliene impone l'obbligo, colui, in una parola, che non si ferma alla porta della giustizia, ma che varca la linea della misericordia, guadagna l'approvazione del saggio. “Gerusalemme, vi è detto, non andò distrutta se non perchè in essa si giudicava col rigor della legge” (67). Certi doveri, come, ad esempio, il rispetto ai genitori, la carità, l'applicazione precoce allo studio, l'ospitalità, il metter pace fra nemici traggono seco (68) la loro ricompensa in questo mondo, ma questa non è che un interesse; la vera ricompensa, il capitale, viene pagato nella vita futura. Nella Mischnà non è parola dell'inferno. Oltre le pene sancite dalla legge la Mischnà non minaccia ai peccatori che un solo castigo misterioso e formidabile mandato da Dio, “lo sradicamento;” è lo sterminio (cared) di cui già parla la Scrittura. Le colpe si riscattano generalmente o col pentimento, o colla carità, o col sagrifizio e nel giorno della espiazione; se gravissime, il pentimento giova soltanto a sospendere gli effetti dell'ira divina, ed ove esso continui sino alla morte, questa tutto espia. I peccati commessi contro gli uomini non sono perdonati se la parte offesa non riceve piena riparazione, e non si dichiari soddisfatta. La virtù la più alta consiste nello studio della legge, siccome quello che conduce all'esercizio della virtù (69). Un bastardo istrutto è più onorevole di un gran sacerdote che non lo sia (70).
Esistono due redazioni della Mischnà, le quali non presentano per altro notevoli differenze.
La Mischnà, la quale non contiene generalmente che la decisione finale della tradizione, secondo i pareri dei diversi dottori, fu naturalmente argomento di note, di scolii, di discussioni, nelle due accademie religiose di Palestina e di Babilonia. In ciascuna di queste due accademie si fece più tardi una raccolta di queste discussioni: queste raccolte, molto più voluminose della Mischnà che serve loro di testo, presero il nome di Ghemarà o complemento. La Mischnà e la Ghemarà insieme unite formano il Talmud (71).
Per conseguenza si hanno due Talmud; uno frutto degli studi dell'Accademia di Palestina chiamato Ghemarà di Gerusalemme, l'altro dovuto all'Accademia di Babilonia e detto Ghemarà di Babilonia.
La Ghemarà di Gerusalemme venne redatta a Tiberiade ed ultimata probabilmente verso la fine del iv secolo dell'èra nostra, sotto la direzione di rabbi Iochanan, detto anche bar nappachà, ossia, figlio del fabbroferraio (72). Conteneva i commentarii sulle cinque prime parti della Mischnà, ma quelli risguardanti la quarta parte andarono perduti.
Anche le altre quattro parti contengono taluni trattati incompleti. Questa Ghemarà venne negletta, negli studii delle scuole ebree del medio evo. Essa subì la sorte delle Accademie, da cui aveva avuto origine, e che vennero ecclissate da quelle di Babilonia. Se le edizioni del Talmud gerosolimitano sono meno buone, è perchè ancora non se ne è scoperto un esemplare manoscritto colla cui scorta si possano ristabilire i differenti brani mutilati dai copisti. Inoltre questo Talmud offre molta difficoltà, grazie alla lingua, in cui è scritto, imbarbarita dalla mescolanza di molte voci greche e siriache.
La Ghemarà di Babilonia, la cui autorità prevalse fra gli Ebrei, venne redatta, in una lingua mescolata d'ebraico e d'aramaico, nel corso del quinto secolo, da Aschè, celebre dottore dell'Accademia di Sora (73), da Ravenà suo discepolo e terminata l'anno 500 da rabbi Jossè. Essa è almeno quattro volte più voluminosa dell'altra, quantunque a noi non sian giunti che i commenti a trentasei dei sessantatre trattati, di cui si compone la Mischnà. Le discussioni vi sono più sviluppate, essendo stato chiuso più tardi. Contiene, oltre alle dispute di numerose scuole babilonesi, anche quelle di talune scuole di Palestina.
Questa Ghemarà, al paro della Gerosolimitana, è composta di due parti principali: la parte rituale, detta Alachà, in cui si discorre anco dei riti che divennero impraticabili dopo la distruzione del tempio e una parte non rituale, detta Agadà che contiene narrazioni, leggende, allegorie, proverbi, regole di vita sociale, dottrine morali e sentenze (74). Morale, metafisica, giurisprudenza, astronomia, medicina, tutte le scienze trovano luogo nel Talmud (75).
Le nozioni, che sopra ognuna di esse vi si leggono, sono certamente ben lungi dal raggiungere la perfezione, ma, a traverso gli errori moltissimi che danno a quel libro l'impronta dell'epoca in cui fu scritto, appare che, sin da allora, esisteva presso gli Ebrei il germe della Enciclopedia umana. E ciò è tanto vero che l'Etheridge, scrittore certamente non favorevole al giudaismo, si lascia scappare questa confessione: “Quando il Talmudismo come sistema religioso sarà scomparso, il Talmud non cesserà perciò di essere una preziosa miniera di leggende divertenti e di lezioni inapprezzabili che resteranno vere per tutti i tempi futuri” (76).
Quanti scrissero del Talmud notarono il disordine con cui è redatto. L'Alachà e l'Agadà vi si incontrano promiscuamente, senza sistema nè ordine, sicchè un illustre scrittore disse sembrar quasi che i dottori, minacciati dalla dispersione, agissero come uomini che in un incendio salvano tutto quanto loro viene sotto mano, lasciando ad altri la cura di tirare più tardi il miglior partito da quanto venne sottratto alle fiamme (77).
Questo disordine non deve recar meraviglia. Chi non sa che, malgrado gli sforzi di Triboniano, il Digesto abbonda in germinationes, leges fugitivae, errativae? Gli stessi famosi capitolari di Carlo Magno, o meglio dei Re Franchi (Capitula Regum Francorum), non sono, se si considerano colle idee dei nostri tempi anzichè con quelle dell'epoca in cui vennero scritti, che una indigesta e disordinata farraggine (78). Eppure i Capitolari son di vari secoli posteriori al Talmud.
Una questione importante a risolversi sarebbe quella di conoscere, se il disordine che tanto si lamenta nel Talmud, sia una ripercussione di quello che avrebbe sistematicamente regnato nelle discussioni delle accademie ebraiche; ma l'esame di tale questione ci porterebbe fuori del ristretto campo di questo modestissimo libercolo, sicchè contentiamoci di averla accennata.
Il miscuglio però dell'Agadà coll'Alachà ci viene spiegato da un aneddoto che troviamo narrato nel Talmud stesso, e che ci piace riferire anche perchè vale a render ragione delle iperboli esagerate che spesso si riscontrano nel Talmud, e di cui si fecero un'arme coloro che vollero denigrarlo, senza tener presente l'aureo consiglio di Goëthe, che chi vuole comprendere un poeta deve recarsi nel paese dove egli visse. Un vecchio maestro, narra adunque il Talmud, accorgendosi un giorno che i suoi scolari sonnecchiavano durante la lezione, si interruppe d'un tratto per dire: “Vi fu una volta in Egitto una donna, che diede alla luce seicentomila uomini.” Si può di leggieri immaginare l'effetto prodotto da questo meraviglioso racconto. “Era, continuò tranquillamente il maestro, Jochebed, la madre di Mosè, il quale valeva da solo i seicento mila uomini d'arme che uscirono dall'Egitto”; e rieccitata in tal guisa l'attenzione dell'uditorio, continuò la sua lezione. Chi conosce l'indole immaginosa degli Orientali comprenderà come i maestri, per tener desta l'attenzione degli uditori, dovessero spesso ricorrere a tale sistema, mescolare la leggenda divertente e fantastica col precetto rigido e positivo.
L'Agadà fu spesso segno a motteggi, ed è sempre o quasi sempre di essa che si parla, allorquando si discorre di fantasticherie rabbiniche, o si scaglia contro gli Ebrei il vecchio insulto: Lex Judaeorum, lex puerorum (79).
Niun miglior giudice però dell'importanza che devesi annettere ad un'opera, dello stesso autore; ora nel Talmud stesso troviamo questo giudizio che può fare apprezzare l'importanza che gli stessi rabbini annettevano all'Agadà: “Colui che la trascrive non avrà la sua parte nell'altro mondo, colui che la spiega sarà bruciato e colui che l'ascolta non riceverà ricompensa” (80).
Ogni popolo ha le sue leggende, ma non accade sovente di vedere i contemporanei giudicarle coll'indipendenza d'opinione di cui dà prova questo rabbino.
Ed è veramente strano il vedere che, malgrado siffatta indipendenza di giudizio, si sia potuto da taluno asserire che gli Ebrei di ogni paese si sarebbero obbligati con patto solenne ad accettare il Talmud nella sua integrità, a non aggiungervi ed a non togliervi una sola parola. Con ben maggiore ragione un illustre professore tedesco scrisse: “che i Talmud non hanno essenza dogmatica, che persino i risultati scientifico-legali sono soltanto opinioni individuali e provvisoriamente valevoli, che la sinagoga non li sanzionò mai, e non riconobbe mai in essi l'autorità di decretali riconosciute e generalmente valevoli.” (81).
Infatti il Talmud non fu mai accettato dalla nazione, in assemblea generale o speciale. Le sue decisioni legali, come quelle che emanavano dalle più alte autorità teologiche del Giudaismo, formarono certamente la base della legge religiosa, la norma di tutte le decisioni future. Ma è probabile, per non dir certo, che egli non deve la autorità di cui gode, che ad una causa non prevista dai suoi stessi autori. Durante le persecuzioni contro gli Ebrei, che ebbero luogo nell'impero persiano sotto Ysdegerd II (440 d. G. C.), Peroze e Cobade, le scuole furono chiuse per quasi ottant'anni. Lo sviluppo permanente, continuo, della legge che era lo spirito del Giudaismo fu violentemente interrotto; ed il libro ottenne una autorità suprema, che era ben lungi dalla mente dei suoi autori.
Ma qual sia questa autorità, ce lo dice Samuel Naghid, il dottissimo ebreo spagnuolo che fu nell'xi secolo segretario di un re di Granata, e che è autore di una introduzione al Talmud, tenuta in tanto conto dagli Ebrei, che forma oggidì parte integrante di tutte le edizioni del Talmud stesso:
“Tutto quanto si trova nel Talmud, e che non abbia rapporto con la legge rituale dicesi Agadà; nè da questa devesi trarre altro insegnamento se non quello che persuade. È da notarsi eziandio che quello che i dottori fissarono essere dottrina rivelata a Mosè sul Sinai deve ritenersi come legge fissa ed immutabile, mentre le deduzioni da essi fatte coll'appoggio di commenti a testi biblici, son cose fatte a seconda delle esigenze, delle circostanze e delle proprie idee; per cui mentre devesi ritenere quanto in questi ultimi insegnamenti vi ha di persuadente, il resto non è cosa su cui si abbia l'obbligo di appoggiarsi.” Se così scrivevano gli antichi non meraviglia che con eguale indipendenza il rabbino Hurwiz di Londra abbia scritto nella sua opera Hebrew Tales: “Sono lungi dal sostenere che il Talmud sia un libro irreprensibile, sono disposto ad ammettere che contiene molte cose, che ogni spirito illuminato, ogni israelita pio desidererebbe non vi fossero mai state o vi fossero, almeno, state tolte da molto tempo.” (82).
Se piacque dunque a taluno, dice, ben a ragione, il dottissimo Bedarride (83) di porre a paro le prescrizioni del Talmud con quelle della legge di Mosè, questa dottrina non è mai stata ammessa dagli Ebrei siccome articolo di fede. Nelle cerimonie del culto giudaico è il Pentateuco che il ministro della religione presenta ai fedeli dicendo: “Ecco la legge che portò Mosè ai figliuoli di Israello.” Se il Talmud avesse formato un tutto colla legge di Mosè non si sarebbe mancato di unirlo a quella in siffatte funzioni.
“Negli articoli di fede del Maimonide, che ottennero l'approvazione di tutti gli Ebrei, si legge: “Tutta la legge che è oggi nelle nostre mani ci è stata trasmessa da Mosè.” Anche qui evidentemente non può trattarsi che del solo Pentateuco.
“Infine, in tutte le epoche, i più dotti rabbini si sono espressi liberamente sul conto del Talmud, ciò che non avrebbero osato fare se fosse stato parte della legge rivelata.
“Così Judas Levy, che fiorì nell'undecimo secolo, dichiara nel Cozri, che vi sono nel Talmud cose che già ai suoi tempi non si sarebbero scritte (84).
“Maimonide, nel Morè hanevohim, critica numerosi brani del Talmud, ed allorquando taluni zelanti vollero scomunicarlo, una folla di dotti ebrei alzò la voce per adottarne e difenderne le opinioni.
“Così Aben Ezra, Giuseppe Albo, e gran numero di altri dottori che meritarono il nome di sapienti, pur rendendo alle tradizioni, che si trovano nel Talmud, il tributo di rispetto che meritano, non hanno esitato a dichiarare che vi si contengono cose che non è possibile ammettere.”
Non si creda però che noi intendiamo invocare quanto siamo venuti finora dicendo per sostenere che dal Talmud non si può desumere un sicuro criterio per giudicare della moralità degli Ebrei. Lungi da noi siffatta idea.
Volemmo soltanto dire che coloro i quali asseriscono avere gli Ebrei egualmente autorevole il Pentateuco ed il Talmud sono in grande errore, siccome errerebbe chi asserisse che, pei Cristiani, il Vangelo e la Summa di San Tommaso hanno eguale valore.
Certamente non mancan Cristiani che non curano o non comprendono i sacri misteri della loro fede per correr dietro alle stupide fole di Maria Lateau (85) come non mancano Ebrei che trascurarono quasi il Pentateuco e le opere sublimi dei loro filosofi, dei loro pensatori per perdersi nelle quisquilie del Talmud.
Ma questo, ci si permetta dirlo, non prova nè contro gli Ebrei, nè contro i Cristiani, prova soltanto, per la millesima volta, una verità antica quanto il mondo: che ogni religione, come ogni nazione, come ogni partito conta infinito numero di... spiriti deboli.
Nè gli Ebrei potrebbero non aver in gran conto questo libro, che non soltanto fu il legame che li tenne uniti, durante le secolari persecuzioni di cui furono vittime, ma che giovò eziandio a conservare intatta la loro fede. Nessuno infatti potrà negare che questo commento minuziosissimo della legge fosse incontrastabilmente utile al Giudaismo, come quello che lo preservò da quelle grandi discussioni religiose che furono cagione di tanti scismi nelle altre credenze. Le religioni che, o non hanno, come il Giudaismo, un codice particolareggiato, o non obbediscono, come il Cattolicismo, all'autorità indiscutibile di un Supremo Gerarca, sono naturalmente soggette a suddividersi in un numero infinito di chiesuole, come avvenne del Protestantesimo, e come sarebbe avvenuto del Giudaismo, se il Talmud non vi avesse posto riparo, a tutto provvedendo, e realizzando, sin dal V secolo, l'ideale di moderni filosofi: la libertà nell'unità. Sicchè, in questo senso, ben può dirsi giusta e veritiera la parola del Talmud stesso: “Dio non ingiunse ad Israello tante leggi e tanti precetti che per renderlo felice” (86).
Il Talmud, ripetiamolo, è di somma autorità presso gli Ebrei, e noi, dopo aver mostrato che essi, pur avendolo e dovendolo avere in gran conto, apportarono nel suo studio quello spirito di libero esame, innato nel Giudaismo e da esso reso obbligatorio (87), che permette di sceverare il grano dal loglio, vogliamo ancora dimostrare due cose: che il Talmud non è legge di iniquità, siccome pretendono gli stolti, ma legge di amore, di carità, di tolleranza, e che se vi sono nel Talmud dei passi non pochi che contraddicono ed all'intonazione generale dell'opera, ed alla vera morale, ciò è facilmente spiegabile e giustificabile.
Prima per altro di entrare nello spinoso argomento, ci si conceda una dichiarazione. La Chiesa Cattolica ha condannato a parecchie riprese il Talmud (88). Nulla di più naturale che siffatta condanna.
Il Talmud, codice di una fede non cristiana, deve contenere e contiene massime, precetti, argomentazioni contrarie al Cristianesimo. Se altrimenti fosse, gli Ebrei sarebbero Cristiani e la questione sarebbe bella e terminata. A buon dritto adunque la Chiesa Cattolica condannava il Talmud siccome libro pernicioso alla Fede e noi faremmo opera stolta pretendendo scagionarlo da questo addebito.
Ciò che vogliamo provare è che la morale del Talmud non è punto diversa, nè sopratutto peggiore di quella che può trovarsi in qualsivoglia opera umana scritta nelle identiche condizioni di tempi, di luoghi, di costumi; ciò che ci preme constatare, non per artificio di polemica, ma per omaggio alla verità è che la legge talmudica non è legge di odio come volgarmente si crede, e che l'Ebreo non soltanto può restarvi fedele rimanendo in pari tempo ottimo cittadino (89), ma attinge da esso quelle virtù domestiche e sociali che sono base di ogni civile consorzio (90).
E questa avvertenza che qui facciamo, desideriamo che il signor lettore applichi a tutto il contesto di questo lavoruccio. Difendendo l'Ebreo, compiamo opera sociale, non religiosa, non sopratutto anticristiana.
Fra le principalissime accuse che si vanno continuamente movendo al Talmud vi è quella di eccitare l'animo degli Ebrei contro i Cristiani.
Chi si è fatto banditore di queste accuse? Il Talmud, lo sanno anche i bimbi, non venne mai sinora completamente tradotto, i numerosi estratti che se ne hanno sono per la maggior parte opere polemiche e quindi da accogliersi con prudente riserbo.
I traduttori erano in generale o ebrei rinnegati (91) o feroci nemici dell'Ebraismo da una parte, o dall'altra rabbini e dotti israeliti. Una traduzione imparziale non abbiamo e non si avrà mai, perchè nessun dotto, non mosso da spirito di parte o da sentimento religioso, potrebbe accingersi all'improba e semi-inutile fatica.
Aggiungasi a ciò che le diverse edizioni del Talmud sia per imperizia degli amanuensi, sia per ostacoli ed impedimenti frapposti dalle censure politiche ed ecclesiastiche, presentano notevoli differenze e varianti, sicchè il volere ristabilire il testo primitivo sembrò sino ai giorni nostri opera quasi impossibile (92).
Infine lo stile del Talmud è lungi dall'esser sempre piano e facile; le iperboli vi abbondano e se vi si leggono pensieri squisitamente gentili siccome quando per dimostrare come l'uomo sia cosmopolita dice che “la polve con cui fu plasmato conteneva gli atomi più delicati della polvere di tutto il mondo” (93) vi si trovano eziandio frasi siffattamente oscure da doversi ritenere inesplicabili. Queste per esempio: La migliore fra le donne è una maliarda (94), il miglior medico (ebreo) va all'Inferno (95).
Questo linguaggio figurato che domina sovente nel Talmud, e la confusione grandissima nella redazione di cui abbiamo tenuto parola, furon causa che il Talmud fosse spesse volte frainteso.
Si avverta altresì che il Talmud è in gran parte composto di discussioni fra dottori, ognuno dei quali sostiene opposte dottrine (96). Per mostrare quanto sia facile per avversari di mala fede snaturare il concetto di un libro di siffatta natura addurrò un esempio.
Nel 1879, alla Camera francese, il noto radicale Paul Bert sostenne che un celebre teologo e casuista francese, il padre Gury, appoggiandosi alla dottrina cattolica giustificava il furto.
Naturalmente l'asserzione fece chiasso. Il deputato Granier di Cassagnac padre volle andare a fondo della cosa, e cercato il passo incriminato dal Bert trovò che il padre Gury, risolvendo un caso di coscienza, ha proposto il seguente esempio.
Il pastorello Titiro credendosi condannato ingiustamente dal Tribunale ad una indennità verso il suo padrone, ha cercato di indennizzarsi con un furto segreto.
Il padre Gury espone dapprima la tesi di Titiro, conchiudente alla liceità del compenso. Dopo ciò reca la soluzione teologica, decidendo che quella compensazione è illecita, e che Titiro è obbligato alla restituzione. Nulla di più semplice, di più retto, di più naturale. Ma il signor Bert si era limitato a leggere dalla tribuna testualmente la tesi di Titiro, tacendo la soluzione del teologo, ed attribuendo al padre Gury precisamente la dottrina, che il dabben prete condannava.
Se questo fu possibile ai giorni nostri con un libro che come quello del padre Gury è scritto in una lingua accessibile a tutti e che è effettivamente diffusissimo, quanto più facile non sarà falsificare qualche brano del Talmud e fargli dire proprio il contrario di quanto era nell'intenzione dei compilatori?
Due esempi fra mille.
Si pretende che nel Talmud vi sia questo precetto: “Il migliore degli idolatri uccidilo.” Che il precetto manchi di carità e di tolleranza non vorremmo certamente negare, e dato proprio che lo si trovasse allo stato di precetto nel Talmud, non saremmo noi gli ultimi ad invocare i fulmini dell'opinione pubblica contro l'empio libro. Ma esiste proprio questa frase nel Talmud? Possiamo accertare che sì, e che essa si trova nel Talmud gerosolimitano alla fine del trattato dei Kidduscin, accanto proprio a quella testè citata che manda i medici all'inferno, ed a molte altre egualmente strane e bizzarre. Molte ipotesi furono messe innanzi per spiegare questa frase, e l'illustre Zunz concluse che il passo debba intendersi così: “Il migliore degli idolatri (parlando di un ebreo) dice uccidilo.” Ciò che sarebbe stata semplicemente una constatazione delle persecuzioni di cui gli Ebrei erano fatti segno da parte dei gentili, divenne in bocca ai nemici del Giudaismo, un feroce appello all'assassinio ed allo sterminio, fatto da quello stesso libro dove è invece sancita la massima: “Chi alza la mano contro il prossimo, quand'anche non lo batta, è chiamato colpevole (97).” Del resto volere basare una conclusione qualsiasi su qualche brano staccato del Talmud sarebbe cosa impossibile. Nessun uomo imparziale vorrà dire si debba interpretare alla lettera un libro in cui si trovano massime come questa: “Chiunque pronuncia una decisione al cospetto del suo maestro merita la morte (98).”
Un'altra accusa che si muove al Talmud e che è ripetuta, con non ammirabile unanimità, da tutti gli scrittori antisemitici a cominciare dal Wolf nella sua Biblioteca (99) e venendo giù giù fino agli ultimi libellisti, è che il Talmud insegni agli Ebrei: “Voi, voi siete degli uomini, ma gli altri popoli non sono tali.” Senza essere atroce come quello di cui ci siamo testè occupati, anche quest'altro passo sarebbe sufficientemente antisociale e ridicolo, sicchè si sarebbe non poco sorpresi di trovarlo in quello stesso libro dove sono pur scritte queste massime di assoluta tolleranza (100): “Un non israelita il quale si governi dietro la legge di Dio, acquistasi merito, niente meno di un sommo pontefice; imperciocchè la legge dice (101): L'uomo eseguendo le mie leggi si procura la vita; nè dice già i Sacerdoti, i Leviti, gli Israeliti, ma dice Adam l'uomo.”
“Benefica, o Signore, i buoni. I buoni è scritto e non gli Israeliti, i buoni quindi di tutte le nazioni (102).”
Per chiunque sia in buona fede, basta la citazione di questi passi tanto chiari, tanto espliciti, per far comprendere che in quello che nega la qualità di uomini ai non Israeliti deve essere incorso qualche errore di interpretazione; e l'errore c'è, ed evidente.
La proposizione che i non Israeliti non si chiamano uomini, si trova effettivamente nel Talmud (103), ma, isolandola dal suo contesto, la si riduce ad un senso che mai non ebbe nella mente di chi la dettava. Si sa che la legge mosaica (104) colpisce di impurità per sette giorni chiunque sia entrato in una abitazione ove si trovi un uomo morto. Ora un talmudista, volendo alleggerire questa prescrizione, disse che la era da ritenersi unicamente applicabile ai morti israeliti, i quali soltanto generavano impurità col loro contatto; i morti non israeliti non avendosi per gli effetti di siffatta legge a considerare siccome uomini. Questa opinione, tutta individuale, a proposito di una questione affatto bizantina, e rigettata, lo si noti, da tutti gli altri talmudisti (105), bastò, perchè da secoli si vada ripetendo che gli Ebrei, per obbedire al Talmud, devono considerare sè soli uomini ed avere in conto di bestie tutti i non ebrei (106).
Accusa altrettanto assurda e ridicola, quanto quella che si muove al Cristianesimo di aver negata l'anima alle donne, per ciò solo che Gregorio da Tours lasciò scritto nella sua Historia ecclesiastica, come nel concilio di Macon (a. 525) un Vescovo facesse la proposta, respinta dai suoi colleghi, non potersi la donna chiamar uomo, nè formar essa parte del genere umano!
Il Cristianesimo, che ha tra i suoi potissimi vanti di aver dato alla donna la parte che le spetta nel civile consorzio, è accusato di averle negata l'anima, il Talmudismo che eleva a massima il precetto: “Amato è l'uomo perchè fu creato ad immagine di Dio, amore straordinario gli fu manifestato perchè fu creato ad immagine di Dio” (107) è accusato di aver assimilato alle bestie la quasi totalità del genere umano.
Aberrazioni dell'odio e dell'intolleranza. Per aggiungere poi un'altra prova della spudorata mala fede di taluni avversari degli Ebrei, e della supina ignoranza di altri, dirò, che allorquando oggi ancora, si vogliono citare i due passi del Talmud, dei quali siamo venuti sinora discorrendo, si suole in entrambi tradurre la parola goim che vale idolatri o gentili, coll'altra cristiani, siccome fece anche poche settimane or sono un sedicente abate Chabauty nelle colonne dell'Antisémitique (108). Dimostreremo ora che la parola goim non deve mai intendersi applicata ai Cristiani ma, prima di farlo, vogliamo avvisare il signor Chabauty che i due passi incriminati, di cui ci siamo venuti sinora occupando, sono scritti entrambi nella prima metà del secondo secolo dell'èra nostra, in una epoca, cioè nella quale non si parlava ancora nè di Cristiani, nè di Cristianesimo, ed in cui le due religioni di Mosè e di Cristo confondevansi quasi ancora in una sola; e sono scritti appunto da quel Simeon ben Johai che, condannato a morte dalla tirannia pagana, si tenne per quattordici anni nascosto in una caverna, nutrendosi di erbe e di radice.
Se questo sapeva il signor Chabauty, traducendo goim per cristiani die' prova di impudente mala fede; se non lo sapeva, di supina ignoranza, perocchè, lasciando anche in disparte l'osservazione, certo non trascurabile, della poca importanza che in quell'epoca aveva il Cristianesimo, non occorre davvero grande acume per comprendere che se Simeon ben Johai si lasciò trasportare dall'odio, è ben naturale che i suoi strali fossero diretti agli atroci suoi persecutori e non a coloro che in quei tempi dividevano cogli Ebrei i dolori del martirio.
Parrebbe quindi sprecata ogni parola per dimostrare che, egli almeno, colla parola goim non potè alludere ai Cristiani (109).
Siccome però questa parola, che alla lettera significa stranieri, viene usata nel Talmud, anche da scrittori ben più moderni che non sia Rabbi Simeon ben Johai, e non mai in senso di benevolenza, così ci converrà soffermarvici sopra alquanto, per dimostrare falsa e calunniosa l'opinione di quei nemici degli Ebrei che sostennero doversi questa parola tradurre con quella di cristiano.
Se si ammettesse questa interpretazione sarebbe facile scavare nel Talmud non poche massime e sentenze dove si parla del goi, e farsene un'arma per dimostrare l'ebreo nemico delle popolazioni in mezzo a cui vive.
Sventuratamente pei sobillatori l'interpretazione che essi vorrebbero dare alla parola goi (plur. goim) non regge alla critica.
Il Talmud, considerato nello spirito che lo informa, non è intollerante, neppur verso la idolatria: “Gli stranieri fuori di Palestina non sono idolatri, ma essi seguono semplicemente i costumi de' padri loro.” (110), e, come corollario di questa massima, l'altra: “L'esercizio della carità e della giustizia son le uniche condizioni che il Giudaismo impone per l'eterna salute” (111). Tanto meno quindi esso può essere intollerante verso i monoteisti a qualunque religione appartengano, ed effettivamente i dottori del Talmud fanno enorme differenza fra idolatri e monoteisti. È idolatra chiunque non rispetti i sette precetti imposti da Dio ai figliuoli di Mosè (112):
1. Costituirsi tribunali.
2. Non bestemmiare.
3. Non servire ad idoli.
4. Non fornicare.
5. Non versare sangue.
6. Non rubare.
7. Non mangiar carne strappata da un animale ancora vivente.
Chiunque invece ottempera a questi precetti si chiama giudeo: “Chi rinnega l'idolatria si chiama giudeo” (113). Precetto questo che basterebbe a far chiaro qual concetto di alta tolleranza abbia il Giudaismo per tutte le religioni monoteistiche. Basta non essere idolatra per meritarsi quel nome di giudeo, di cui la stolta malignità delle plebi fece una ingiuria, ma che è, naturalmente, la più grande espressione di benevolenza che si possa trovare nel Talmud. E tanto differenziano gli Ebrei fra idolatri e monoteisti che Maimonide, il massimo fra i loro filosofi, potè ridurre ad assioma il principio, essere il Cristianesimo e l'Islamismo mezzo di preparazione all'êra messiaca.
Da quanto si è fin qui detto parrebbe già evidente non doversi mai in nessun caso la parola goi applicare ai Cristiani, ma ne piace far più chiara siffatta dimostrazione, esaminando la questione sotto un altro aspetto.
La Mischnà annovera tra le feste dei Goim le Calende ed i Saturnali. Ci volle davvero nel Bustorfio singolar mala fede, per tradurre nel suo Lessico Talmudico (colonna 2043), in questa guisa le parole della Mischnà. Haec autem sunt festa Christianorum (!) Calendæ, Saturnalia, Quadragesima. Che le Calende ed i Saturnali non siano state mai feste cristiane sanno anche i bimbi, nè vi ha chi ignori come i primi scrittori cristiani stigmatizzassero con santo zelo gli osceni riti dei saturnali pagani.
Come adunque supporre che la Mischnà abbia potuto dire essere feste dei Cristiani quelle che notoriamente erano dai Cristiani riprovate? Goim, in questo caso come sempre, non può tradursi con Cristiani, ma con Pagani o Gentili.
Nè si obbietti che se i Saturnali o le Calende sono feste pagane, è la Quaresima essenzialmente cristiana; poichè a questa obbiezione si risponde che l'introduzione della parola Quaresima in questo passo è un parto della immaginazione del Bustorfio, il quale non seppe, o non volle, trovare nella lingua greca il vocabolo misnico Kratesein. Questa festa è ritenuto dai Talmudisti essere la solennizzazione anniversaria del giorno in cui Roma ha preso l'impero e l'antico lessico talmudico, detto Aruch, dice essere voce greca. La voce è accorciata da Κρατησίμαχος vincitore in battaglia, ed indica la festa istituita in commemorazione di qualche solenne vittoria, qual era, per es., presso i Romani il giorno degli Idi di aprile, consecrato a Giove vincitore od alla libertà. E ben a ragione il Perengero tradusse questo vocabolo: Dies Κρατησίμαχος, sive memoria subjugati alicujus imperii.
Spiegato per tal guisa che nel passo, citato dal Bustorfio, non si parla di alcuna festa cristiana, ma bensì di tre feste pagane, sarà d'uopo convenire che allorquando nel Talmud si incontra la parola goim converrà renderla con quelle di gentili, pagani, idolatri, ma non mai con quella di cristiani.
Ma, si dirà, sien pure gli idolatri quelli che il Talmud designa col nome di goim, non è però men vero che egli inculca l'odio ed il disprezzo verso di loro, ciò che è sempre contrario ai precetti di carità e di tolleranza.
Obbiezione questa giustissima in bocca di coloro che, conoscendo i santi precetti del Vangelo, vorrebbero che ogni libro di ogni religione a quelli si informasse.
Ma il Talmud non è il Vangelo, ed errerebbe a partito chi volesse confrontare l'uno coll'altro. Il Vangelo è, come il Pentateuco legge rivelata, il Talmud è legge tradizionale. Nei primi è Dio che parla, nel secondo è l'uomo, con tutte le sue debolezze, con tutti i suoi difetti.
Ed il Talmud, non dimentichiamolo, fu composto, quando le persecuzioni, atroci, efferate dei Romani contro gli Ebrei, imperversavano ancora. Il Talmud è il libro di una gente oltraggiata nella sua fede, cacciata dalla sua patria, conculcata nella sua nazionalità, libro umano e non divino, sicchè se lascia talvolta trapelare l'odio dell'oppresso contro l'oppressore, non si può biasimarlo, senza involgere nello stesso biasimo ogni grido di dolore, ogni imprecazione che esca dal petto di una nazione oltraggiata, vilipesa, martirizzata.
Leggiamo le opere dei primi Cristiani che ebbero comuni cogli Ebrei i patimenti e le sofferenze, e vediamo se, malgrado le massime di sublime carità, bandite dal Vangelo, non rivelano l'odio verso il Pagano oppressore e tiranno.
Perdonare agli oppressori, lambire la mano che vi schiaccia, sono atti di virtù eroica, ma appunto perchè tali sarebbe assurdo il far colpa a chi non se ne sente capace.
Ciò che importa notare è che la legge giudaica non fa espressa distinzione dallo israelita al non israelita (nochrì) in alcuna di quelle leggi che la giustizia e l'umanità hanno suggerite a tutti i popoli civilizzati. Per esempio i precetti: Non commettere omicidio, non commettere adulterio, non rubare, sono espressi in modo illimitato ed assoluto; e questi misfatti sono indistintamente proibiti, sia che si tratti di commetterli a danno di un israelita o di un non israelita. Ciò fu chiaramente enunciato dal rabbino Eliezer figlio di Natan, vivente in Magonza verso il 1140, e fratello ad un genero di Rascì (114).
Ed anche i Talmudisti, se talvolta si lasciarono sfuggire qualche espressione di ira verso gli oppressori, non mancarono però di inculcare il perdono delle offese, una delle più sublimi fra le virtù evangeliche.
“Perdona a chi ti ha maltrattato, e dà a quello che a te ha rifiutato; se tu cerchi di vendicarti lo rattristerai e ti pentirai del male che avrai fatto. Se invece tu perdoni e ti mostri liberale, te ne rallegrerai in ogni tempo ed in ogni momento” (115).
Ed altrove:
“Sii sempre pieghevole come giunco (benigno con tutti), nè essere mai inflessibile come un cedro (inesorabile verso chi ti offese)” (116).
E più chiaramente:
“Coloro che umiliati da altri non ne anelano la rivincita, che ingiuriati non hanno un pensiero di vendetta, la di cui religione è amore di Dio, che con tacita rassegnazione soffrono le sventure di questa vita, vengono dalla sacra scrittura designati lorchè leggiamo (Giudici, v. 31): Quelli che amano il Signore, sieno come quando il sole esce fuori nella sua forza” (117).
Oppure:
“Se offendesti il tuo prossimo ti sembri grave l'offesa; se facesti il bene, lieve il beneficio. All'incontro se il tuo prossimo ti rese un servizio stimalo grandissimo; se verso te si permise una ingiustizia dimenticala come di poco momento.
“Apprendi a soffrire paziente e perdonare le ingiurie” (118).
Molti poi fra i precetti talmudici, che i nemici del Giudaismo interpretarono come eccitamento all'odio verso i gentili, non erano in fatto che precetti precauzionali intesi a guarentire la vita e gli averi degli Ebrei, dalle popolazioni, loro infestissime, frammezzo alle quali vivevano.
Si leggano taluni di questi precetti e si dia torto agli Ebrei di averli inscritti nelle loro leggi, quando si sappia, per dirne una sola, che una legge dei Franchi Ripuarii, non abrogata che qualche secolo dopo, da Lodovico il Pio, vietava, si procedesse contro un cristiano per qualunque delitto, l'assassinio compreso, che avesse commesso contro un ebreo (119)!
“Non si fermi solo un israelita con un idolatra perchè sono sospetti di versar sangue. — Se viene a trovarsi per via, insieme ad un idolatra che cinga spada, se lo metta a destra; se ha il bastone in mano, se lo metta a sinistra. — Se salgono o scendono non sia l'idolatra di sopra e l'israelita sotto, e ad ogni modo se lo metta un po' a destra, mai poi non gli si abbassi davanti. Se gli domanda: dove vai? quando abbia bisogno di andare un miglio, gli dica due miglia” (120).
Un esame particolareggiato del Talmud non è nell'indole di questo nostro lavoro, sicchè mentre non possiamo, nell'interesse degli Ebrei, che far voti perchè siffatto esame sia eseguito da uno scrittore veramente imparziale, ci limiteremo a darne qui taluni brevissimi estratti per far chiaro lo spirito che anima quello, che a buon diritto potrebbesi chiamare, il corpus juris degli Ebrei.
Fu detto, ed a ragione, che tutte le verità del Vangelo potrebbero riassumersi nel precetto: Amate il vostro prossimo come voi stessi.
Nè il fatto che questo precetto che Rabi Akivà diceva essere il più bel precetto della religione (121), trovisi nell'Antico Testamento (Lev. xix, 20), attenua il merito grandissimo del Cristianesimo che, sostituendosi al Paganesimo, mise in pratica il precetto della scambievole benevolenza, in scala ben più larga che non avesse fatto prima il Giudaismo e gli diede la sanzione di un dovere religioso. Ma il merito del Cristianesimo non deve renderci ingiusti verso gli Ebrei che seppero mostrarsi degni del sacro deposito della legge che avevano ricevuto da Dio.
Infatti nel Talmud troviamo:
“Amerai il tuo prossimo come te stesso. È questa la gran legge di tutta la legge. Guai a chi dice: Sono avvilito, sia avvilito anche il mio prossimo, sono maladetto, sia maladetto anche il mio prossimo. Pensi costui chi avvilisce, chi maledice; egli avvilisce e maledice chi porta in sè l'immagine divina” (122).
Ed altrove:
“Un pagano si presentò ad Hillel (123) e gli disse:
“Io sarò ebreo, ma a questo patto; voglio che tu mi insegni tutta la legge in tanto tempo quanto posso tenermi ritto su d'un piede solo. Hillel sorride, accetta la prova, e incomincia in questo modo: Ama il tuo prossimo; non fare ad altri quello che a te spiacerebbe. Ecco, amico mio, tutta la legge. Tutte le altre prescrizioni sono una conseguenza di queste: va e studiale” (124).
In altro luogo due rabbini discutendo sulla base della morale, e sul vero criterio della religione esprimono le seguenti opinioni. L'uno dice che tutto è fondato sul precetto dell'amore del prossimo, l'altro invece sulla unità della razza umana (125).
Nè l'amore del prossimo, tanto filosoficamente espresso in questa ultima massima, è, pei Talmudisti, soltanto un precetto scritto sulla carta e non applicato.
Ognun sa che gli odii religiosi, sempre vivi ed accaniti, lo sono tanto più fra differenti sètte della stessa religione; e sono pur note le dissensioni fra la scuola di Hillel e quella di Shamai, dissensioni che, per dirla colla espressione rabbinica, d'una legge sola ne facevan due.
Ora ecco cosa leggiamo nel Talmud a questo proposito:
“La scuola di Shamai e la scuola di Hillel, in perpetue disputazioni religiose l'una contro l'altra dividevano Israello in due grandi partiti, di cui uno parteggiava pel primo e l'altro per l'altro. Una scuola dichiarava immonde molte cose che l'altra voleva pure; quella dichiarava illegittimi i matrimoni in certi gradi di parentela, che questa credeva permessi. E tuttavia i due partiti e le due scuole vivevano comodamente insieme; non si astenevano dal mangiare l'uno in casa dell'altro, e legavano maritaggi gli uni cogli altri” (126).
Nè questo spirito di tolleranza vien meno, allorquando si tratta di altre religioni. Le prove che potremmo addurre sono tali e tante che ci troviamo obbligati a scegliere.
“La giustizia non è un retaggio particolare, non è di discendenza; solo i sacerdoti sono sacerdoti, solo i leviti sono leviti; chi volesse divenire o sacerdote o levita, non può: tutti che vogliono, possono divenire giusti, anche il pagano” (127).
Ed a confermare il precetto coll'esempio non mancano nel Talmud leggende e racconti, nelle quali, idolatri sono rappresentati come specchio d'ogni virtù! Si legga, a cagion d'esempio, la leggenda del pagano Damo d'Ascalona che riferiamo fra i documenti, giovandoci della bella traduzione datane dal Levi, e ci si dica se, in tutte le letterature antiche, esiste una pagina dove un nemico, un infedele, sia ritratto con così splendidi colori (128).
Ma la tolleranza è, checchè se ne sia detto, virtù essenzialmente giudaica, ed un sereno pensatore, anche ignorando il Talmud, dovrebbe convenire che un popolo non avrebbe potuto sopportare per secoli e secoli, senza trascendere a vendette e ad eccessi quella lunga serie di persecuzioni di cui Milman ebbe a dire “che furono le più schifose e le più continue che possano citarsi fra le nazioni al dissopra dello stato selvaggio” (129), se non avesse trovato nella propria legge il fondamento di ogni virtù, e non avesse succhiato col sangue il precetto dei suoi maestri: “Scopo principale dei religiosi precetti si e l'avvicinamento fra Israello e tutti gli esseri creati” (130).
La carità verso i peccatori è spesso raccomandata dal Talmud. “Non giudicate gli altri senza mettervi al loro posto.” (131).
Ed altrove:
“Tre cose conducono, anzi trascinano l'uomo malgrado suo al male, — l'errore della idolatria, la passione e la povertà.
“Meritano perciò grande compassione gl'infelici che ne sono trascinati, ed è dovere nostro di pregare Iddio per loro” (132).
E come moralità di uno dei tanti apologhi che formicolano nel Talmud:
“Il giusto non deve mai provocare la punizione di Dio sul colpevole” (133).
Nè il Dio degli Ebrei è animato da quello spirito di crudeltà e di intolleranza che i nemici del Giudaismo gli prestano, per poi torcere contro gli Ebrei il noto detto che non Dio ha fatto l'uomo a sua immagine, ma che ogni uomo si foggia un Dio ad immagine sua. Mentre i pagani sono vinti dagli Ebrei, Dio geme e sclama:
“Ebrei e pagani sono opera delle mie mani, potrei io annientare gli uni per far trionfare gli altri?” (134).
Ed altrove:
“Il Signore così protestava a Mosè: Ebreo o gentile, uomo o donna, servo o libero, tutti sono eguali per me; ogni buona opera è accompagnata dal premio” (135).
E questo principio si riscontra, ad ogni pie' sospinto, nel Talmud.
“Giuro pel cielo e per la terra, risponde un dottore, che ebreo od idolatra, uomo o donna, schiavo o ancella, tutti sono giudicati secondo le loro opere e su tutti può scendere lo spirito divino” (136).
E questo giuramento, monumento insigne di tolleranza, e quale difficilmente si troverebbe nei codici religiosi di altre nazioni, trovasi ripetuto nel Tanà Devè Eliau, libro antichissimo dei tempi talmudici, e così autorevole presso gli Ebrei che la pietosa leggenda lo attribuisce al profeta Elia.
Nè, checchè siasi preteso in contrario, questo spirito di tolleranza venne meno negli Ebrei moderni.
Un illustre rabbino italiano del secolo xvii scrive:
“..... E dicono i Rabbini che honorar similmente si deve ogni Vecchio, ben che non sia Hebreo, come Cittadino del mondo di molto tempo, che ha passato molti avenimenti et in conseguenza per esperienza saggio; da Giobbe, cap. 12. In antiquis est sapientia et in multo tempore prudentia” (137).
Un altro italiano, S. D. Luzzatto, è autore di queste parole che noi vorremmo seriamente meditate da coloro, che, non sappiamo per quali satanici intenti, si sforzano a metter zizzania fra Cristiani ed Ebrei: “Chi volesse confutarli [gli scrittori che presero a difendere il Cristianesimo], quand'anche lo facesse per difendere il Giudaismo, commetterebbe una immorale azione, poichè contribuirebbe ad immergere molta parte dell'umana società nella irreligione, essendo quasi impossibile che le nazioni nate fuori dal Giudaismo lo abbraccino... Che se taluno poi pensasse a confutare gli apologisti del Cristianesimo coll'idea di guarentire i suoi correligionari dalla seduzione dei loro scritti, il suo procedere non cesserebbe di esser men che onesto, siccome quello che nuocerebbe a milioni per giovare ad uno o due” (138).
A queste parole di stragrande importanza, e pel valore dell'uomo che le dettava, che fu può dirsi il maestro di tutti i Rabbini oggi viventi in Italia, e per essere scritte in una lettera particolare, non destinata a veder la luce, tanto che rimase inedita per ben quarant'anni, fanno degno riscontro le seguenti del venerando M. Isidore, gran Rabbino di Francia.
“La Religione..... non ha che una missione, quella di raccomandare la concordia e la giustizia e benedire gli uomini di cuore a qualunque culto appartengano, nessuno essa eccettua ed a tutti richiede annegazione e sincerità” (139).
Ad un accanito nemico degli Ebrei, a Paolo Medici, autore di un libro scritto espressamente per provocare l'odio ed il disprezzo contro gli Ebrei (140), la verità strappa queste due preziose confessioni che mostrano, al paro dei passi da noi citati, lo spirito di tolleranza del Giudaismo.
“Nella formola della confessione degli Ebrei in cui chiedono l'assoluzione dei loro peccati è fra gli altri annoverato il seguente: abbiamo altri in abbominazione” (141).
Locchè ci pare provi che se gli Ebrei nutrono odio contro chicchessia, e questo accade naturalmente anche a loro, perchè non sono migliori degli altri uomini, la loro religione però li obbliga ad accusarsene come di un peccato.
E lo stesso Medici ci reca la seguente prova dello spirito di tolleranza de' Rabbini:
“Nel trattato Tahamit, cap. 4 (142), prescrivono i Rabbini e dicono che se alcuno vuol digiunare, digiuni il lunedì, il martedì, il mercoledì o il giovedì, non mai però il venerdì, il sabbato o la domenica... La causa perchè non digiunano la Domenica, dice nello stesso luogo Rabbi Jochanan, per amor di Cristiani” (143).
Ogni spirito imparziale converrà, che non è possibile dar prova maggiore di tolleranza che vietare ai seguaci di una religione di far penitenza in un dato giorno, per ciò soltanto che, in quel giorno, i seguaci di un'altra religione celebrano la loro festa.
Se il Talmud è, come abbiamo dimostrato, legge di tolleranza, esso, seguendo il precetto del salmista (xxxiv, 15) “Ritratti dal male e fa il bene” è anche legge di carità e si informa a quella universale pietà ed umanità che formarono in ogni secolo la gloria degli Israeliti. I Siri dopo una battaglia perduta, dicono al proprio Re: noi abbiamo udito dire che i Re della casa d'Israele sono Re benigni (144). I Talmudisti dicono: “Gli Ebrei si distinguono per tre caratteri: essi, cioè, sono pietosi, verecondi e beneficienti” (145); ed altrove: “Chi non ha pietà non è della stirpe d'Abramo” (146).
Ed in altro luogo: “Caratteristica dei discendenti di Abramo è la pietà verso tutti gli esseri creati” (147).
Ed estendendo lo spirito di beneficenza anche ai non israeliti: “Per conservare l'unione e l'armonia che devono regnare fra tutti i membri della famiglia umana è prescritto di nutrire i poveri idolatri al paro dei poveri israeliti, di visitare i malati idolatri al pari dei malati israeliti, di rendere gli estremi uffici tanto agli idolatri morti, quanto agli israeliti” (148).
Ed il Modena constata come questo spirito di carità fosse ancor vivo negli Ebrei dei suoi tempi: “Hanno anco tanto per opera pia il dare elemosina, e sovvenir ogni misero, benchè non sia Hebreo; in particolare a quelli delle città, e luoghi dove abitano; come cosa propria della pietà humana indifferentemente et espressamente lo raccontano i Rabini” (149).
Di questo spirito di carità presso gli Ebrei rende splendida testimonianza un autore non sospetto, l'illustre De-Gerando con queste parole: “Tanta è la forza della legislazione biblica sulla carità, che essa ha conservato tutti i suoi effetti attraverso alle vicissitudini che ha subito questo popolo da tanti secoli. Qualunque siano state le sue disgrazie, fuggitivo, sparpagliato, perseguitato, non si è punto visto i suoi figli ricorrere alla carità pubblica. Anche là dove i diritti civili gli sono stati negati, là dove egli si trovava escluso dai principali rami di industria e dalla facoltà di possedere degli immobili, egli ha trovato nella comunità religiosa e morale, che unisce tutti i membri, dei mezzi sufficienti per sovvenire a' bisogni di quelli fra essi che non poterono sussistere coi loro proprii mezzi” (150).
Ed oggi ancora uno dei più illustri letterati e pensatori francesi, Maxime du Camp, in un notevole lavoro sulla carità (151) può scrivere senza tema di essere smentito queste parole:
“Ho molto viaggiato, e molto osservato, e non ho trovato in nessun luogo razza più benefaciente e più soccorrevole della razza ebraica.”
Dopo un pensatore un romanziere, ed un romanziere alla moda, Ernest Dandet che nel suo Jack scrive:
“Quando un ebreo si mette ad esser generoso la sua carità è inesauribile.”
Se dal frutto si giudica l'albero, da questi concordi giudizi sarà agevole argomentare quali sieno le dottrine giudaiche in materia di beneficenza. Ci piace però raccogliere anche su questo argomento talune sentenze talmudiche e non ci sarà difficile raccoglierne nelle opere di quei dottori che avevan per massima: “Fine della sapienza, esser la penitenza e le buone opere” (152), e che dicevano “lo stesso povero che vive di elemosina non esser dispensato dalle opere di carità” (153), e che insegnavano “principio della divina legge esser la carità; fine la carità” (154).
Ed ecco taluni precetti sull'argomento: “Tieni la tua casa a chiunque aperta e sien i poveri tuoi famigliari” (155). — “Val più la carità che la beneficenza” (156). — “Amare l'umanità equivale ad amar Dio (157).” — “Quattro caratteri vi sono nella beneficenza. Chi dà volentieri, ma non vuole che altri dia, è geloso de' meriti altrui. Chi vuol ch'altri dieno, ma egli stesso non dà, è avaro. Chi dà del suo e vuole ch'altri dieno, è uomo pio. Chi non dà, nè vuole ch'altri dieno, è malvagio” (158).
Si noti però che mentre il Talmud eccita il ricco alla beneficenza, eccita il povero al lavoro dicendogli: “L'uomo che è mantenuto foss'anche dal padre, fosse anche dalla madre e dai figliuoli suoi, non prova mai l'ineffabile compiacenza di chi si mantiene colle proprie fatiche” (159) e dipingendogli la sorte dell'uomo che vive dell'altrui beneficenza usa queste parole che rammentano i famosi versi del nostro Dante:
“Quand'uno trovasi costretto a ricorrere all'altrui beneficenza, egli è come fosse condannato a due supplizi, a quello del fuoco e a quello dell'acqua” (160).
E perciò il Talmud contiene consigli di previdenza così saggia, che nessun economista moderno sdegnerebbe di firmare; questo, per esempio: “Ti costruisci prima una casa, acquista qualche terreno, coltivalo e quindi pensa ad ammogliarti” (161).
Ma ogni legge sulla beneficenza sarebbe incompleta e manchevole, se non consigliasse più il soccorso che permette all'infelice di rialzarsi, mercè la propria attività, che la elemosina pura e semplice, che abbassa il carattere di chi la riceve. Come non plaudire quindi a questo precetto talmudico: “Ha maggior merito chi presta che chi dona”? (162).
E dopo essersi dato tanto pensiero per inculcare la beneficenza, provvedono i dottori del Talmud ad impedire, per quanto sta in loro, che i malvagi sfruttino la beneficenza dei pii: “Chi non abbisognando di vivere di elemosina, pur la riceve, non morrà di vecchiaia se pria non sia stato ridotto alla stringente necessità d'implorare l'altrui beneficenza. D'altro canto, chi oppresso dalla miseria fa ogni onorato sforzo per non accattare il suo pane, perverrà prima di morire a nutrire egli stesso degli sventurati co' suoi averi. È di lui che disse Geremia (xvii, 7) Benedetto l'uomo che si confida nel Signore e la cui confidenza è il Signore” (163).
In questo stesso Talmud, tanto calunniato, si trovano, con grandissima meraviglia, trattate e risolute questioni che nel xix secolo preoccupano ancora lo spirito pubblico.
La questione della pena di morte vi è esaminata (164).
“Se un tribunale, vi si legge, pronunzia ogni sette anni una sentenza capitale, si ha il diritto di chiamarlo crudele. Esso merita questo rimprovero, dice Rabi Eleazzaro, anche se pronuncia una condanna di morte ogni settanta anni. Se noi avessimo fatto parte del gran tribunale (aggiungono Rabbi Tarfon e Akivà), mai nessun uomo sarebbe stato condannato a morte.
“Questo sarebbe, dice un ultimo rabbino, causa che i delitti di sangue si farebbero frequenti in Israello” (165). È a questo stesso Talmud, a questo stesso libro ove sta scritto anche al reo scegli una morte dolce (166) che si è ispirato uno scrittore ebreo dell'xi secolo, Giuda Levi, per scrivere queste parole che nessun moderno criminalista respingerebbe.
L'opera è in forma di dialogo tra un re Cosri ed un Ebreo che rappresenta le opinioni dell'autore:
“Cosri. Le pene imposte pei reati sono forse fissate dalla legge dove è detto: Occhio per occhio, dente per dente. Ciò che un uomo ha fatto di male ad un altro, deve a sua volta soffrirlo?
“L'Ebreo. Non è detto nello stesso luogo: Chi avrà ucciso una giumenta la pagherà o la compenserà. Vita per vita. Chi colpirà un animale lo prenderà e lo pagherà?
“Questi due casi intendonsi del pagamento del prezzo, perchè ciò non vuol dire: Se qualcheduno ha ferito il tuo cavallo, tu ferisci il suo; ma bensì: Prendi il suo cavallo e pagati. Difatti non vi sarebbe per te nessun vantaggio a colpire il cavallo. Così se qualcuno ti taglia la mano, non è detto tagliagli a tua volta la mano, perchè non vi sarebbe per te nessun vantaggio a tagliargli la mano. È inutile far notare tutto ciò che vi sarebbe di contrario alla giustizia ed alla sana ragione in sentenze pronunziate sulla base del principio: frattura per frattura, ferita per ferita, cattiveria per cattiveria. Difatti come potremmo noi misurare, graduare esattamente tali cose; uno, per caso, muore in conseguenza d'una ferita ed un altro no. Possiamo noi essere giudici esatti del più e del meno? Strapperemo noi un occhio tanto a chi ne ha uno solo come a chi ne ha due? Così uno diverrebbe cieco, l'altro soltanto monocolo. La legge dice: l'uomo sopporterà le conseguenze del male che ha fatto” (167).
Le dottrine giuridiche del Talmud meriterebbero, del resto, da sole, l'onore di uno speciale volume. “Quando è, dice un dottore, che giustizia e benevolenza s'incontrano? Allorquando due litiganti vengono ad un accomodamento pacifico.” Legislatori che tanto prediligevano la conciliazione, non potevano dimenticarsi di reprimere l'avidità di coloro che, troppo spesso, spiegano dinanzi ai tribunali azioni temerarie. “Chi esige ciò che non gli spetta, nonchè veder frustrate le ingiuste sue richieste perde pure ciò che di fatto possiede” (168). Le più minuziose raccomandazioni sono fatte ai giudici, perchè non si lascino in nessun modo influenzare da nessuna delle due parti contendenti: “Non ti costituir giudice, nè del tuo amico, nè del tuo nemico, poichè nel primo non sapresti ravvisare la colpa, nel secondo l'innocenza” (169). Il precetto del Levitico (xix, 15): Non aver riguardo alla qualità del povero, vi è ampiamente sviluppato, e, mentre da un lato si impiega ogni mezzo per impedire che il giudice faccia traboccare la bilancia della giustizia a pro del ricco, gli si raccomanda poi di non lasciarsi vincere dalla compassione verso il povero a scapito della giustizia.
Si direbbe che il motto di Lessing “bisogna esser giusti anche col diavolo,” sia il compendio delle dottrine talmudiche; e se, sventuratamente per la magistratura francese, il famoso motto: “La Cour rend des arrêts et non des services” non venne mai pronunciato (170), i giudici del Talmud si ispirano ad un principio di giustizia ancor più completo: I Tribunali non rendono servigio ai potenti e non beneficano gl'indigenti. Il fatto solo del resto che il legislatore abbia creduto necessario moltiplicare i precetti per mettere in guardia i giudici contro gli impulsi del cuore, troppo facile a favorire l'indigente a danno del ricco ed a scapito della giustizia, mostra di qual tempra fossero, in quei tempi, i giudici in Israello.
Nè men bella è la disposizione talmudica che mentre eccettua talune classi di persone dal deporre in giudizio, dispone poi che tutti indistintamente possano esser sentiti nelle cause criminali, ma unicamente come testi a difesa. Le stesse formalità di cui è circondata la pena di morte, che vedemmo del resto eseguirsi assai di rado, mostrano quanto rispetto, anco in quelle epoche di ferrea giurisprudenza, avessero i dottori del Talmud per la vita umana.
Prima di lasciare questo argomento ci si permetta notare un'altra disposizione del Talmud, che mostra quanto quei dottori avessero nettamente tracciata la distinzione tra la legge religiosa e la civile. I Tribunali non potranno costringere chicchessia all'osservanza di un precetto affermativo, quando la legge divina abbia sancito un premio per l'osservanza di tale precetto.
E, come nelle dottrine giuridiche, così anche nelle sociali, il Talmud precorreva i tempi. Nessun libro, crediamo, del medio-evo, inculca ed esalta tanto i beneficii dell'istruzione quanto il Talmud.
Se la bella massima del Salmista, che la sapienza cristiana volle sempre sotto gli occhi degli studiosi: Initium sapientiae timor Domini non è espressamente scritta nel Talmud vi è in compenso quest'altra, prova dell'infinita tolleranza dei Talmudisti anche in materia di dottrina; “Chiunque pronuncia qualche sapiente parola, anche se idolatra, è sempre savio” (171).
Frequentissime sono nel Talmud massime come questa: “Chi istruisce il compagno sarà ben accolto nel cielo. — Chi istruisce la plebe, la sua preghiera sarà sì potente, da volgere in suo favore i divini giudizi” (172).
Oppure: “Chi istruisce le masse ha ugual merito di chi offre sacrifizi” (173).
E quest'altra, in cui all'amore dell'istruzione si congiunge il sentimento della vera democrazia: “Curate l'istruzione dei poveri, che da essi sorgeranno i veri cultori della scienza. Perchè ordinariamente i dotti escono di mezzo a loro? Perchè non si creda che la scienza sia un'eredità” (174).
Nè l'istruzione deve essere soltanto religiosa, ma anco professionale. “Come è dovere del padre di istruire il figlio nella religione, così egli è obbligato a fargli apprendere una professione. Chi non fa apprendere a suo figlio una professione è come se lo indirizzasse per la via dell'assassinio” (175).
E, cosa strana, pel libro di una religione che fu accusata di trascurare la donna, non mancano nemmeno, nel Talmud, precetti per raccomandare l'istruzione della donna: “Ogni uomo è obbligato ad insegnare la legge a sua figlia” (176).
Del resto se la parte assegnata alla donna nel mondo giudaico non è al tutto conforme alle idee del nostro secolo, sarebbe ingiustizia il negare che il Talmud curò con ogni mezzo di rinserrare i vincoli di famiglia, di innalzare la dignità morale della donna. Valgano queste massime a dimostrarlo.
“Dicono i savii, chi ama la propria moglie come se stesso, e la onora più che se stesso, e chi indirizza i suoi figli e le sue figlie nella via retta, e colloca questi quando sono giunti all'età del matrimonio, di lui è detto: e riconoscerai che è pace nella sua tenda” (177).
“Chi ripudia la sua prima moglie, persino l'altare versa su di lui lagrime” (178).
“Sempre dee esser l'uomo attento di non addolorar sua moglie perchè le sue lagrime essendo pronte, anche la pena è pronta.
“Sempre deve essere l'uomo attento di onorare sua moglie, perchè la benedizione non si trova in casa dell'uomo che in grazia della moglie” (179).
“Per merito delle donne pie furon liberati gli Ebrei dall'Egitto” (180).
“Augusta ricompensa serba Dio alla donna. Rav diceva a Rabì Hiyà, grande è il merito della donna, comecchè dessa sparga i primi più efficaci semi della religiosa educazione nei teneri petti de' fanciulli, dessa accuratamente veglia alle domestiche cose, mentre il marito s'occupa degli affari e degli studi religiosi” (181).
“L'uomo deve nutrirsi d'alimenti che sieno al dissotto della sua fortuna, vestirsi come la sua fortuna gli consente, ma provvedere ai bisogni di sua moglie e dei suoi figli al dissopra della sua fortuna, perocchè questi ultimi dipendano da lui, egli dal Creatore dell'Universo” (182).
“Se la tua sposa è di bassa statura, e tu ti china per udirne il parere” (183).
“Ogni perdita può ripararsi, eccetto che quella della donna del nostro cuore. Il marito non muore che per sua moglie, e la donna che per suo marito” (184).
Il Talmud del resto non è estraneo a nessuno di quei gentili sentimenti dei quali la età nostra sembra reclamare il privilegio.
Fin dal xvi secolo il già citato Modena scriveva:
“Per effetto di pietà si guardano molto anco di non tormentare, nè maltrattare, nè far morire crudelmente niun animale irrationale, e da che tutte son cose create da Dio, dalle parole del Salm. 144. Et miserationes eius super omnia opera eius” (185).
Ed infatti non mancano nel Talmud precetti che sembrano articoli staccati dal regolamento di qualche moderna società zoofila, e che farebbero balzare dalla gioia il cuore di qualunque vecchia pulzellona protestante di Londra e di Boston:
“È proibito all'uomo di prendere alcun cibo, sino a che non abbia dato da mangiare ai suoi animali” (186).
“Il divieto di maltrattare gli animali è divieto della divina legge” (187).
“Deve l'uomo tenere per buon augurio, il vedere le proprie bestie mangiare e saziarsi” (188).
E chiudo questa, troppo lunga, serie di citazioni con questa altra, che basta da sola a provare, il concetto dell'uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio non essere monopolio esclusivo di nessuna religione:
“Presso di noi, il povero è spesso respinto mentre il ricco è ascoltato. Ma dinanzi a Dio tutti gli uomini sono eguali; egli ascolta i ricchi ed i poveri, le donne e gli schiavi” (189).
Altre citazioni non faremo, perchè queste bastano a dare un'idea esatta del Talmud a quelli che non apportano nessuna idea preconcetta nell'esame delle questioni.
Quanto agli altri, anco se moltiplicassimo queste citazioni all'infinito, non mancherebbero di opporci che abbiam citato i brani del Talmud che fanno onore a chi li scrisse, ed abbiamo taciuto gli altri.
E certamente, lo abbiamo già detto, lo ripeteremo, e lo grideremmo, occorrendo, anche sopra i muricciuoli, vi sono nel Talmud dei brani che sono lungi dal deporre in favore di coloro che li dettarono.
Ma prima di tutto convien osservare che essi si trovano in quella parte del Talmud che dicesi Agadà e che non è obbligatoria per gli Ebrei (190).
Ma, dato pure e non concesso, che l'Halahà, cioè quella parte del Talmud che racchiude le prescrizioni rituali, contenesse qualche precetto che non fosse intieramente in armonia colle idee larghe e liberali del secolo, ogni uomo veramente imparziale dovrebbe incolparne, più che gli autori del Talmud, i tempi e le condizioni, in cui scrissero.
Ciò che ogni Cristiano, ogni uomo ha il diritto di conoscere, sono i criteri coi quali gli Ebrei d'oggigiorno applicano il Talmud, e questi criteri ce li dà il più illustre Rabbino italiano del nostro secolo, il più volte citato prof. S. D. Luzzatto, di Padova.
“Del resto qualunque proposizione e qualunque racconto, che potessero trovarsi nel Talmud o negli altri scritti talmudici, i quali fossero in opposizione coi sentimenti di universale umanità e giustizia, insinuati dalla natura egualmente e dalla Sacra Scrittura, debbono riguardarsi non già come dettami della Religione, e nemmeno della Tradizione, ma siccome sgraziati suggerimenti delle calamitose circostanze e delle pubbliche e private vessazioni e sevizie cui gli Ebrei andavano esposti nei secoli di barbarie” (191).
Riassumendo tutto quanto siam venuti dicendo, concluderemo:
1º Il complesso delle dottrine del Talmud è ispirato a principii di tolleranza, carità ed amore;
2º Vi si riscontrano per altro dei brani, frutto di opinioni individuali, che ripugnano ai principii moderni.
3º Questi brani sono rigettati dagli Ebrei moderni, siccome il portato naturale delle condizioni di altri tempi; sicchè sarebbe altrettanto vano ed odioso far colpa ad essi di siffatte teorie, che solennemente ripudiano, quanto far colpa alla Chiesa Cattolica di certi brani del Molina, dell'Escobar e del Sanchez o delle espettorazioni stupide e calunniose di quel sacerdote Rohling, di cui, sormontando il ribrezzo che ispirano i rettili, dovremo occuparci più tardi.
Non faccia poi meraviglia il vedere che non abbiamo parlato dell'accusa che si muove al Talmud di eccitare gli Ebrei a frodare coloro che non professano la fede mosaica, questo argomento si connette tanto strettamente all'altro dell'usura che assieme li verremo svolgendo nel futuro capitolo; paghi per ora di por fine a questo, con un'ultima citazione, che ci pare abbastanza espressiva: “Chi commette ingiustizia verso il forestiero è come la commettesse verso Dio” (192).
(54) History of cristianyty from the birt of Christ to the extinction of paganism by Dan H.H. Milmann.
(55) Lo stesso fatto si ripete per le tradizioni che servono di spiegazione al Zend-Avesta e che si fanno risalire allo stesso Zoroastro. (Cfr. Spiegel, Erân, pag. 365). Nella letteratura indiana i nomi degli autori dei principali Upanishads sono del paro sconosciuti. “E deve essere così, nota l'illustre Max Müller, per questa sorta di opere; perocchè contengono trattati sulle più elevate questioni, i quali perderebbero ogni autorità se fossero presentati agli occhi del popolo come opera dell'immaginazione di un uomo.” (History of ancient sanskrit literature, ed. 2, pag. 327).
(56) Avod, capo I, § 1.
(57) Questi, a nostro subordinato parere, dimenticano che il monopolio dello studio della legge non è, e non fu mai nell'indole della religione mosaica. Nei tempi biblici, sacerdoti e leviti non formarono mai una casta privilegiata — Lex major sacerdotio — ma costituivano la parte più dipendente e meno provveduta di tutta la nazione: “Tu non avrai alcuna eredità nella terra loro e non avrai parte fra loro” (Num. xviii, 20). Moltissimi profeti e dottori non appartenevano a caste sacerdotali o levitiche ma uscivano dalle infime classi del popolo. Nei tempi talmudici poi, la maggior parte dei più eminenti dottori non furono che umili artigiani: fabbricanti di tende o di sandali, tessitori, falegnami, conciatori, fornai, cuochi. Un presidente dell'accademia nominato in luogo di un altro, che era stato deposto per la sua insolenza, venne trovato da coloro che si recavano ad annunziargli la sua elezione, nero e sudicio fra i suoi mucchi di carbone; nè di ciò potrà meravigliarsi chi sappia essere scritto nel Talmud: “È bella la scienza religiosa accoppiata al lavoro; congiunti insieme salvano dal peccato. Scienza religiosa senza lavoro si perde e mena al male.”
(58) Gli Ebrei non sarebbero stati i soli fra i popoli orientali a diffidare dei commentatori. È notevolissimo su di essi, questo giudizio che ci vien proprio dalla terra classica dei commentatori: “Quello che è troppo oscuro lo tralasciano, e ti dicono: è cosa chiara; nelle cose chiare si perdono in infinite lungaggini, con gran paroloni, con molte chiacchiere che non fanno al caso, causano confusione a chi li sente: insomma tutti i commentatori imbrogliano le cose.” Così Bhojatâjâ nel commento al Pâtanjalam yogasutram (The yoga aphorisms, Calcutta, 1851, Bibl. Indica).
(59) Israelitischen Annalen del dott. Jost, anno 3º, vol. i, pag. 143 et alibi.
(60) È un fatto costante l'antipatia degli Ebrei per le leggi codificate. Anche il Talmud, come vedremo, è ben lungi dall'aver forma di legge; è una raccolta di discussioni e non più, sicchè si può dire che il primo a dar forma di codice alla tradizione presso gli Ebrei, fosse il Maimonide, che del resto fu perciò aspramente criticato da molti ed anche ai nostri giorni da S. D. Luzzatto. (V. Israelitischen Annalen di Jost, Francoforte s. M. Anno iii, 1841, pag. 21 e 22). Se un giorno potrà stabilirsi che il divieto di scrivere la tradizione presso gli Ebrei, proveniva dal desiderio di lasciar aperta la porta a continue modificazioni della legge orale, senza scemarne il prestigio, sarà curioso trovare, in tanta differenza di tempi e di costumi, presso gli Ebrei, lo stesso sentimento che impedisce agli inglesi di codificare la loro costituzione, sicchè mantenendosi fedeli al loro vecchio adagio Nolimus leges Angliae mutari camminano pur sempre alla testa di ogni vero progresso politico. Ed a questo proposito giovi, per completare il parallelo, far notare che l'assioma talmudico, la consuetudine sradica la legge, (Talmud Gerosol., Bavà Mezià, capo vii in principio) è massima sempre viva in Inghilterra.
(61) Lo stesso accade agli Indiani: una parte della loro letteratura non fu conservata che per tradizione orale: “Non si può farsi un'idea, dice Max Müller (Op. cit., pag. 501), delle potenti facoltà che acquista la memoria in un organismo sociale tanto differente dal nostro, quanto i Parishad indiani lo sono dalle nostre Università. La forza della memoria, quale noi la vediamo e l'intendiamo, mostra come le nozioni che noi abbiamo dei limiti di questa facoltà siano del tutto arbitrarie. La nostra memoria fu da tempo remotissimo sistematicamente indebolita. Oggi ancora che i manoscritti non sono nè rari, nè cari, i giovani bramini non apprendono i canti dei Veda, i Brâhmana ed i Sutra se non per tradizione orale e mandandoli a memoria.” A queste osservazioni dell'illustre professore di Oxford aggiungeremo che oggi ancora nei paesi dove gli Ebrei studiano il Talmud non è difficile trovare giovanetti che lo sanno quasi intieramente a memoria, sicchè possono a prima vista trovare, in quella immensa e disordinata farraggine, il brano che da loro si richiede; sei o sette anni or sono tutti i giornali parlarono di un giovane ebreo di 25 anni, David Rosenfeld, di Minsk in Russia, che non soltanto sapeva tutto il Talmud a memoria e poteva indicare in qual pagina si trovasse ogni frase che gli si accennava, ma aveva nello stesso modo presenti alla memoria i due vasti commentarii di quell'opera: Rascì e Tossafot. Ciò del resto non deve far meraviglia allorquando si pensa che nella Legge di Mosè sta scritto: “Tu li ripeterai ai tuoi figliuoli, e ne parlerai con essi, stando in casa, camminando per la via e coricandoti ed alzandoti.”
(62) La Mischnà venne pubblicata con una versione latina del testo e dei commentari di Maimonide e di Bartenora ed accompagnata da note di parecchi dotti, per opera del Surenusio in Amsterdam 1698–1703, volumi 6 in folio. Se ne ha pure cogli stessi commenti una versione spagnuola, Venezia, 1601, ed una tedesca ne pubblicò il Rabe in Anspach nel 1761.
(63) Tanà è verbo caldaico, corrispondente all'ebraico Scianà che vale insegnare, sicchè Tanaim varrebbe maestri come Mischnà significa insegnamento.
(64) Voglia, signor lettore, notare che la legge orale di un popolo che vedremo più tardi accusato di disprezzare i lavori della campagna, si apre appunto con un trattato sull'agricoltura.
(65) Nelle novelle di Giustiniano la Mischnà è designata sotto il nome di δευτέρωσις (Cfr. Novella 146, 1 e Sant'Agostino, Contra adversar. legis et prophetarum, ii, 1). Questa parola greca che significa seconda legge, non traduce esattamente la parola mischnà. L'errore proviene dall'avere il verbo scianà due significati, insegnare e ripetere, e dall'avere taluni creduto che in questo secondo significato anzichè nel primo si dovesse cercare l'origine della parola mischnà.
(66) Abot, capo ii.
(67) Bavà Metzià, 30, 6.
(68) Peà, cap. i.
(69) Chiduscim, 40, 6.
(70) Ghittin, cap. 5, Mischnà, 8.
(71) Il nome di talmud deriva dal verbo lamad apprendere, insegnare, quasi a dire: dottrina, insegnamento.
(72) I professori S. D. Luzzatto e Graetz opinano, contro l'autorità del Maimonide, che tanto la Ghemarà di Gerusalemme, quanto l'altra di Babilonia non sieno state poste in iscritto che molti anni dopo la morte dei rispettivi compilatori. Come già osservammo a proposito della Mischnà è questione controversa assai, ed a noi basti averla accennata.
(73) Sora, città della Mesopotamia, posta in una regione fertilissima, sui laghi formati dall'Eufrate, e di cui uno appunto era chiamato Sora. Rab, detto anche Abbà Areckha, vi stabilì una scuola importante, quella di Neardeà non potendo bastare per tutta la popolazione ebraica fra il Tigri e l'Eufrate. V. Neubauer, La Géographie et le Talmud, Parigi, 1868, p. 343.
(74) Heine giudicando, col suo istinto di poeta, il Talmud, che non aveva mai letto, definisce nel Romancero, l'Agadà un giardino, e l'Alachà una sala di scherma.
(75) La lettura del Talmud, dice Stern (Ueber den Talmud, Wurzbourg, 1875, p. 21), prova che i suoi compilatori sono a giorno della scienza contemporanea e che accolgono la verità dovunque si trovi. L'osteologia del corpo umano è spiegata nel Talmud in un modo quasi conforme ai portati della scienza attuale. Il Talmud spiega diverse asserzioni della Mischnà mercè proposizioni geometriche che a quell'epoca dovevano essere note soltanto ad un piccolissimo numero di matematici. Il calendario elaborato da' dottori del Talmud può dirsi relativamente al tempo in cui venne compiuto, un vero capolavoro per l'abilità con cui seppero risolvere la duplice difficoltà che si parava loro dinanzi, evitare che alcune date feste non avessero a cadere in alcuni dati giorni della settimana, senza incorrere nell'altro gravissimo inconveniente di una soverchia disuguaglianza nella lunghezza degli anni. (Cfr. S. D. Luzzatto, Discorsi storico-religiosi, Padova, Crescini, 1870, pag. 16 e 17 in nota).
(76) Jerusalem and Tiberias, Sora and Cordova, an Introduction to the study of Hebrew, Literature by J. W. Etheridge M. A. Ph. D.
(77) J. Salvador. Hist. des Institut. de Moise et du peuple Hebreu. Paris, Levy, 1862, tome ii, p. 311.
(78) Blanqui, Hist. de l'Ec. Pol. Paris, 1860, vol. i, pagina 143.
(79) Imparziali sempre, non negheremo che vi siano nel Talmud sciocchezze puerili. Vi si discute quanti peli bianchi può avere una giovenca rossa, perchè si possa chiamar rossa; se il gran sacerdote doveva indossare prima una od altra parte dei suoi indumenti; se è lecito di sabato uccidere una pulce od un pidocchio; quando e come si possa mangiare un uovo fatto da una gallina in giorno festivo; ed altre simili insanità. Ma, di grazia, coloro che a siffatte questioni legarono il nome di bizantine erano ebrei? Passiam oltre dunque ridendo, perchè c'è di che ridere, ma ripetendo con Terenzio: Homo sum umani nihil a me alienum puto.
(80) Trattato Soferim.
(81) Franz Delitsch, Gesch. der jüd. Poesie, p. ix.
(82) Revue Britannique, 1868, tomo i, pag. 424.
(83) Op. cit., p. 451, nota n. 8 al cap. ii.
(84) Cozri, discorso iii.
(85) Non a caso, fra le stupide fole con cui si tentò, da fanatici imbecilli, disonorare la religione di Cristo, cito questa di Maria Lateau. Nel corso di questo lavoro dovremo occuparci di un tale professore dell'Università di Praga che colla stessa penna con cui sciolse anni sono un peana alla ciurmatrice belga va ora accatastando calunnie e menzogne contro gli Ebrei; ho nominato il famigerato prof. Rohling.
(86) Maccot, cap. iii.
(87) Saadia ben Josef, capo dell'Accademia di Sora, ed il più illustre fra gli ebrei del x secolo, nella sua opera Haemunoth Vehadeoth riconosce assieme alla scrittura ed alla tradizione l'autorità della ragione, proclama non soltanto il diritto, ma il dovere di esaminare la credenza religiosa, e dimostra come la religione, ben lungi dall'avere a temer la ragione, possa trovarvi un solido appoggio. Munk Melanges de phil. juive, p. 478.
(88) Nulla, più della storia del Talmud, giova a provare come la violenza sia impotente a combattere le idee. Il Talmud fu proibito in epoche nelle quali il divieto della Chiesa non si limitava, come ora, ad una platonica iscrizione nell'Index librorum prohibitorum. Giustiniano, nel 553 dell'êra nostra, lo proscrive, consacrandogli una intiera novella, la cxlvi. Il re di Francia, San Luigi, fece bruciare, nelle vie di Parigi, 24 carrettate di scritti talmudici. A Cremona, un monaco fanatico vantò di averne bruciato dodici mila esemplari. In un periodo di meno di cinquanta anni, durante la ultima metà del secolo xvi, il Talmud venne bruciato non meno di sei differenti volte e non ad esemplari isolati, ma in massa, a carra. Giulio III pronunciò il suo bando, contro quello che egli chiama erroneamente il Talmud Gemaroth, nel 1553 e nel 1555; Paolo IV nel 1559; Pio V nel 1566; Clemente VIII nel 1592 e nel 1599. Pio IV autorizzandone una nuova edizione stipulava espressamente che sarebbe pubblicato col nome di Talmud. Si tamen prodierit sine nomine Talmud tolerari deberet. Ai tempi di Massimiliano imperatore, il dottissimo Reuchlin potè, soltanto dopo fierissima lotta, ottenere che non si assecondassero i voti di un Pfefferckorn, fanatico ebreo rinnegato, che eccitava l'imperatore a far bruciare tutti gli esemplari di questo libro. I particolari di questa strana contesa, che divise il mondo dotto di allora in due grandi partiti si possono leggere nelle Epistolae obscurorum virorum. Fino al principio del decimosettimo secolo la persecuzione verso i detentori di libri ebraici era spinta al punto che una famiglia di ebrei portoghesi stabilitasi a Londra, conserva tuttora preziosamente come una rarità ereditaria un esemplare della scrittura, stampato in caratteri romani anzichè in ebraici, perchè nei giorni oscuri della persecuzione bisognava ingannare i domestici cattolici sulla natura ed il contenuto del libro. Eppure malgrado tutto ciò le edizioni ed i manoscritti del Talmud ci pervennero in tanta copia, che una sola descrizione bibliografica di essi ci occuperebbe molte e molte pagine! È proprio il caso di esclamare, con Terenziano Mauro: Habent sua fata libelli.
(89) Gli Arabi, al tempo della loro dominazione in Ispagna non avevano del Talmud il triste concetto che ne hanno molti cristiani, e ciò per una buona ragione, che essi cioè lo conoscevano nella sua integrità, Rabi Joseph avendone, verso la fine del x secolo, compiuta una traduzione in arabo per ordine del califo Haschem II. Fu forse per ciò che due secoli dopo molti fra gli Ebrei di Spagna avendo preteso negare ogni autorità al Talmud, e la questione essendo stata portata dinanzi al Re Alfonso VII, questi proscrisse quelli fra gli Ebrei che non volevano osservare le leggi talmudiche.
Il Talmud era ancora troppo noto in Ispagna perchè lo si potesse calunniare impunemente! (Cfr. Basnage, Hist. des Juifs, libro vii, cap. viii, t. 4, pag. 1611; Bartoloccius, Bibl. Rabb., t. iii; Davide, Ganz Tzemach David., p. 130; Jochassim, p. 126).
(90) Il celebre Alfonso de Candolle nella sua Histoire de la science et des savants così parla degli Ebrei: “Se l'Europa fosse abitata da soli Ebrei, avremmo uno spettacolo stupendo. Non più guerre, non più leso il sentimento morale, nè milioni d'uomini strappati alle industrie ed agli studi. I debiti degli Stati sarebbero minimi e quasi sconosciute le contribuzioni. Il culto fiorirebbe altamente. L'industria ed il commercio prenderebbero sviluppo assai maggiore. Pochi delitti. La forza non si impiegherebbe quasi mai. La ricchezza del popolo in generale si eleverebbe immensamente, mercè un intelligente e moderato lavoro congiunto a sana economia. Queste ricchezze servirebbero a spandere una carità senza limiti. La potestà religiosa, i ministri del culto non verrebbero mai a conflitto collo Stato.”
(91) Usiamo espressamente in questo caso la parola rinnegato anzichè quella di convertito, perocchè altrettanto ci sembrano degni di rispetto e di venerazione coloro che, mossi da profonda convinzione, abbandonano la fede avita per abbracciare quella che credono migliore, e si adoperan poi con mezzi di carità a procacciare ciò che essi reputano la salvezza morale dei loro antichi correligionari, altrettanto sentiamo disprezzo ed esecrazione per coloro che, da qualsivoglia sentimento mossi, scagliano calunnie contro la fede in cui sono nati ed in cui vissero i loro genitori. Ai convertiti come i Lehmann, i Ratisbonne, i Pasquali ogni onesto deve rispetto; ai rinnegati come il Medici, come il Padre Alfonso Spina, rettore dell'Università di Salamanca, il quale nel Fortalitium fidei afferma — e niuno più di lui sapeva di mentire — che gli Ebrei perdono ogni mese una certa quantità di sangue, a tutti coloro infine dei quali il Talmud ha detto: Tal fiata si toglie dalla foresta un tronco per farlo manico a scure che ne abbatta tutti gli altri (Sanhedrin iv), sia condegna mercede il fico di Giuda.
(92) Il dotto talmudista signor R. N. Rabinowitz di Monaco sta pubblicando un lungo lavoro intitolato Dikdukè soferim in cui riduce alla vera lezione i passi del Talmud di cui si hanno varianti. Questo lavoro è il frutto del confronto da lui fatto non soltanto di infinite edizioni del Talmud, ma di quanti mss. gli fu dato confrontare nelle diverse biblioteche d'Europa. Il compimento di questa opera paziente è tanto più ardentemente atteso che il Talmud è ormai reso irriconoscibile dalle continue e spesso inintelligenti mutilazioni che vi introdussero i censori. La stessa edizione di Basilea 1578 che è fra le antiche la più nota e la più facile a trovarsi fu in siffatta guisa mutilata e snaturata per opera del censore Marco Marino da Brescia, da divenire in varii punti grottesca. Più integra, ma difficilissima a rinvenirsi, è l'edizione che ne diede il Bamberg a Venezia (1520–3) e che è la prima, dopo quella dei celebri Soncino, di cui non rimangono che pochi trattati. Chi volesse farsi un'idea di ciò che era negli scorsi secoli la censura dei libri ebraici, legga un articolo di Emanuele Deutsch, l'eminente conservatore del British Museum, nella Quarterly Rewiew di ottobre 1867, ed un altro Un curiosissimo incidente storico del cav. Mortara a pag. 161 dell'Educatore Israelita di Vercelli, anno 1862.
(93) Sanhedrin, fol. 38.
(94) Soferim, fol. 15, 10.
(95) Malgrado questo odio inesplicabile contro i medici il Talmud contiene nozioni preziose di medicina. (Cfr. Ginsburger, Medicina ex thalmudicis; Haller, Bibl. medica, lib. 2); questa scienza era da lungo tempo praticata dagli Ebrei. Oltre i precetti di igiene che occupano tanta parte nella legge di Mosè, l'Esodo pare accenni proprio in vari punti (xv, 26 — xxi, 19) all'esistenza di medici. Sotto i re, medicina e chirurgia fanno progressi. Salomone si occupa della ricerca delle virtù delle piante, e il libro dei Re ci mostra Isaia curare e guarire il re Ezecchia. L'uso del balsamo ed i medici son noti a Geremia (viii, 22): “Non vi è egli alcun balsamo in Galaad? non vi è egli alcun medico?” E ad Ezechiele (xxx, 21): “Figliuol d'uomo, io ho rotto il braccio di Faraone re d'Egitto; ed ecco non è stato curato applicandovi de' medicamenti, e ponendovi delle fascie per fasciarlo e per fortificarlo per poter tenere in mano la spada.” [Cfr. Prunelle, Discours sur l'influence de la médecine sur la renaissance des lettres (nota 3, p. 92); Salvador, Op. cit., p. 264; Pasqualigo, Della condizione delle mediche scienze presso il popolo Ebreo, Piacenza, Mancherotto, 1870]. Quanto poi gli Ebrei, malgrado lo strano anatema talmudico, coltivassero con profitto la medicina, è a tutti noto, come del paro è noto che nei primi secoli del Medio Evo, e prima che venissero in fiore le scuole di Salerno e di Montpellier, che del resto furono fondate principalmente da Ebrei, (cfr. Prunelle, Op. cit., p. 44 e 60, e Austruc, Hist. de la fac. de méd. de Montpellier, p. 14), essi furono quasi i soli ad esercitare l'arte salutare nel mondo allora conosciuto.
(96) Il Talmud stesso deplora talvolta queste discussioni interminabili che fanno considerare la legge come due leggi, ed altrove attribuisce queste controversie all'orgoglio dei dottori (Archives Israélites de France, anno i, 1840, pag. 586–587). A parer nostro queste controversie non sono che la conseguenza naturale dell'opinione che i rabbini esprimono con una delle solite iperboli, dicendo che la legge ha settanta faccie, ciò che vuol dire che ogni parola uscita dalla bocca di Dio è suscettibile di almeno settanta interpretazioni diverse; dottrina questa che il Santo Vescovo di Ippona accetta nelle sue confessioni; dove dice varii e numerosi essere i sensi della Scrittura. Se poniam mente oltre a ciò che i dottori del Talmud furono duemila e duecento otto, c'è da meravigliare che i trentasei trattati del Talmud che pervennero soli sino a noi, abbraccino soltanto (coi due commentarii più importanti; il Rascì e Tossafot) 2947 fogli, ripartiti in 12 vol. in foglio.
(97) Sanhedrin, fol. 58.
(98) Hiruvim, fol. 63.
(99) Tomo 2, pag. 903.
(100) Kamà, fol. 38.
(101) Si allude qui al passo del Levitico (xviii, 5) dove è scritto: Osservate, dico, i miei statuti e le mie leggi, le quali chiunque metterà in opera vivrà per essi.
(102) Sifrà, sez. Acharè-Mod verso la fine.
(103) Jevamot, 61 a.
(104) Numeri xix, 14.
(105) Veggansi Tossafod, Jevamod, fol. 61. Smemagheâgn e l'opera del rabbino Mosè Kunchyed, intitolata Ben Jochai, pag. 27.
(106) Credo aver provato la falsità della accusa mossa al Talmud, ma se qualcuno riescisse proprio a convincermi, locchè non credo, che gli Ebrei consideravano gli altri popoli siccome bestie, risponderei che chi è senza peccato lanci la prima pietra, certo che non potrebbero lanciarla neppure i Cristiani. Trovo infatti nel dottissimo libro del signor Dumont: Justice criminelle des Duchés de Lorraine et de Bar, de Bassigny et des Trois Evêchés (Nancy, 1848, 2 vol. in 8º), questa curiosissima notizia. Dopo aver parlato delle leggi criminali contro coloro che si rendevano colpevoli di atti di libidine contro natura sulle bestie, soggiunge (p. 184, v. ii): “Ciò che si durerà fatica a credere è che a questa categoria di delitti venivano ascritti anche i rapporti naturali dei due sessi cogli infedeli, come per esempio Turchi ed Ebrei, per la ragione che la nostra santa religione li considera come bestie, non per natura, ma per la loro durissima malizia, la Fede proibendo di conversare con loro ed a maggior ragione di giacere e di conversare carnalmente con essi loro.” Si noti che mentre la frase del Talmud rimaneva nella peggior ipotesi telum imbelle sine ictu, la disposizione benignissima che ho testè riferito conduceva a questa pratica applicazione. Siccome nel caso di bestialità, la bestia, strumento passivo, veniva bruciata assieme al colpevole, perchè, dicevano, bisognava annientare tutto quanto poteva rammentare un così orribile scandalo, così un'ebrea od una mussulmana anche se violentemente stuprata da un cristiano, doveva venir con esso bruciata! E dire che noi Europei, con questi esempi in casa nostra, osiamo tuttodì calunniare l'Islam e parlare di giustizia turca!
(107) Avod, 3, 19.
(108) N. 3 del 16 giugno 1883.
(109) Veggasi quanto su questo argomento scriveva tre secoli or sono il dottore Davide de Pomis (De Medico Ebreo, sectio septima): Cfr. Lampronti, Dizionario Rituale e Benedetto, Apologetica. Mantova, 1775.
(110) Holin, fol. 13 b.
(111) Talmud Perck Helek, pag. 105. — Tossaftà, cap. xiii.
(112) Sanhedrin, 56 a.
(113) Haghigà, 13, 1.
(114) Luzzatto, Teol. morale israelitica. Padova, Bianchi, pag. 27.
(115) Plantavitius, Florilegium rabbinicum, pag. 216, n. 1428.
(116) Talmud, Tahanid, cap. 3. Chi ne avesse agio legga in Parabole, leggende e pensieri raccolti dai libri talmudici dal prof. Giuseppe Levi, Firenze, Le Monnier, 1861, la novella di cui questa massima non è che la morale, e legga l'intiero libro chi vuol formarsi del Talmud un esatto concetto.
(117) Sabat, i.
(118) Abot di Rabbi Natan, xli.
(119) Leggi Ripuarie, tit. xlvi; Montesquieu, Esprit des lois, libro xxx, cap. 20.
(120) Baraidà deribbi Ismael.
(121) Talmud Jerusalmì, Nedarim, ix.
(122) Rabot, pag. 28, a.
(123) Hillel fu, siccome è noto, illustre caposcuola del tempo di Erode.
(124) Talmud, Trattato Sciabad, pag. 31. Cfr. Plantavitius, Flor., p. 261, n. 1393.
(125) Berescid Rabbà, cap. 24, Cfr. Genesi, v, 1.
(126) Talmud, Jevamot, pag. 13.
(127) Talmud, Hiruvim, fol. 41.
(128) Vedi fra i documenti.
(129) Op. cit.
(130) Tanhumà, Sez. Scimini.
(131) Avod, ii. 5.
(132) Rabot, fol. 225, a.
(133) Talmud, Berahot, fol. 2.
(134) Talmud, Sanhedrin, 98 b. Cfr., ib. 396 e Meguillà 106.
(135) Jalkut, pag. 20, 2.
(136) Jalkut, Jeossua, fol. 9, 2.
(137) Leon Modena, Rabi ebreo da Venezia. Historia dei riti ebraici, Venetia, mdclxix. Appresso li Prodotti, p. iv e xi, 109 e 110.
(138) Lettera inedita di S. D. Luzzatto, Padova, 26 dicembre 1836; in Vessillo Israelitico, ottobre 1876, p. 325.
(139) Da una circolare con cui ordina le preghiere d'uso per l'inaugurazione dei lavori parlamentari nell'anno 1876.
(140) Paolo Medici, Riti e costumi degli Ebrei confutati. Venezia, Bartoli, mdccxlvi.
(141) Medici, op. cit., pag. 101–102.
(142) Più esattamente Tahanid, 27, 2.
(143) Op. cit., pag. 129.
(144) I. Re, xx, 31.
(145) Jevamod, fol. 79.
(146) Jom Tov, fol. 32.
(147) Talmud Betzà, 32, 6.
(148) Ghittin, 61, a. Nello stesso trattato è raccomandato agli israeliti di non impedire agli stranieri idolatri di prendere la loro parte di quanto avanza dopo la mietitura e la vendemmia. Cfr. Maimonide, De jure peregrini, v. 12.
(149) Modena, op. cit., parte 1ª, cap. 14, pag. 33.
(150) De Gerando. Della beneficenza pubblica, in Bibl. dell'Econ., serie ii, vol. 13, pag. 1599.
(151) Revue des deux Mondes, 1º luglio 1883.
(152) Berachod, 59.
(153) Ghittin, capo i.
(154) Sotà, 14, a.
(155) Avot, capo i.
(156) Smà, 49 b.
(157) Talmud Sotà, 14 a.
(158) Avot, v.
(159) Havod Deribi Nadan, cap. 31.
(160) Sothà, fol. 6.
(161) Sothà, viii.
(162) Sciabbad, 39.
(163) Peà v, Cfr. Avot de R. Nathan, iii.
(164) Ecco sulle leggi ebraiche un non sospetto giudizio: Patres christiani summopere jura hebraeorum commendarunt et apud Grecos philosophos placita juris Hebraici plurima reperire licet. Ugolini, tomo x, pag. 513 e 514, ex Seldeno, De jure naturali et gentium, cap. x.
(165) Mischnà Macod, capo i, § 10.
(166) Sanhedrin, fol. 45, a.
(167) Giuda Levi, Cosri.
(168) Sothà, i.
(169) Cheduvod, capo xiii.
(170) Fournier, l'Esprit dans l'Histoire, Paris, Dentu, 1852, pag. 425.
(171) Meghilà, 16, 1.
(172) Bavà Mezià, 85 a.
(173) Havod Deribi Natan, capo 4.
(174) Nedarim, 81.
(175) Kidduscim, i.
(176) Sothà, cap. 3. — Mischnà 4 al nome di Ben Azai.
(177) Jevamod, capo v.
(178) Ghittin, capo ix.
(179) Bavà Mezià, capo 4.
(180) Sothà, ii.
(181) Berahot, 2.
(182) Holin, vi.
(183) Bavà Mezià, capo iv.
(184) Sanhedrin, ii.
(185) Op. cit., parte i, capo 14, pag. 33.
(186) Ghittin, 62 a.
(187) Bavà Mazià, 118 b.
(188) Sifri Sez. Ekev, capo 43.
(189) Rabod, fol. 139.
(190) Isaac Levy, Défense du Judaïsme. Paris, Librairie Internationale, 1867, pag. 56.
(191) Luzzatto, Lezioni di teol. morale Israel. Padova, Bianchi, 1862, pag. 33 e 34.
(192) Haghigà, 5.
Attitudini economiche dell'Ebreo.
L'Ebreo è essenzialmente commerciante ed usuraio, egli non è e non vuol essere agricoltore, operaio; non vuol partecipare alla vita dei popoli frammezzo a cui vive, ma si tiene accampato in mezzo ad essi pronto a sugger loro il sangue dalle vene coi suoi raggiri commerciali. Il Talmud, sempre l'esecrando Talmud, gli impone il dovere di derubare, di spogliare il Cristiano.
Ecco le accuse che un tempo si muovevano agli Ebrei, e che loro si muovono ancora nei paesi meno civili.
L'Ebreo si accaparra i più lauti impieghi, le funzioni cui sono annessi maggiori stipendi e maggiore influenza. In Francia, in Italia, in Germania si è reso padrone della stampa; il numero dei deputati e dei senatori ebrei, nei paesi, ove, infrante tutte le barriere, godono della pienezza dei loro diritti, è strabocchevole in confronto del loro esiguo numero.
Ecco le accuse che oggi si muovono agli Ebrei nei paesi più civili d'Europa.
E su questi temi si ricama a sazietà, e non mancano i belli spiriti per far notare la mirabile duttilità di questo popolo, che sempre intento al proprio interesse, si piega ai varii tempi, ed ai varii paesi; usuraio nell'evo medio, ed oggi ancora in Polonia, in Ungheria, in Rumenia, dovunque insomma le condizioni generali della società di poco differiscono da quelle del medio evo; legislatore, pubblicista, uomo di lettere, avvocato, in Inghilterra, in Francia, in Italia, nell'Europa civile insomma; ma sempre, dovunque, inteso soltanto ad arricchirsi.
Se i frizzi fossero argomenti, noi potremmo chiedere ai nostri contraddittori quale sia l'uomo, quale il popolo, che non cerchi di migliorare la propria condizione economica e sociale.
Ma preferiamo argomenti più serii.
Prima della ruina di Gerusalemme il popolo ebreo non dovette essere estraneo a nessuna professione. Vi erano in Giudea pubblici edifizi, la cui manutenzione esigeva la presenza di operai abili. Una nazione, che nelle sue lunghe emigrazioni e durante la cattività, era stata in grado di attingere, nei varî paesi dove aveva stabilito la sua dimora, l'idea di molti e nuovi bisogni, non mancava certamente di uomini capaci di procurarle gli oggetti che le erano necessari: non vi può quindi esser dubbio che gli Ebrei si consacrassero nella loro patria all'esercizio delle arti meccaniche.
La pastorizia e l'agricoltura — le due industrie che Sully, il grande ministro di Enrico IV, chiamava le due mammelle dello Stato — erano in favore appo loro. Mosè, lo dice il signor de Segur, e chiunque abbia letto la Bibbia non può negarlo, aveva fatto degli Ebrei un popolo di agricoltori.
Una sola industria pare non attecchisse fra gli Ebrei di Palestina: il commercio.
“Il popolo ebreo, dice Roscher, per ciò che riguarda le sue doti morali non secondo ad alcuno altro popolo della terra, durante la sua indipendenza politica, per la rigorosa disciplina però della legge mosaica, s'era lasciato circoscrivere all'agricoltura ed alla pastorizia con esclusione di tutte le altre parti dello sviluppo economico. Dispregiavasi allora tanto più il commercio, in quanto che lo spirituale contatto con vicini dediti al paganesimo era grandemente temuto” (193). Nè poteva esser commerciante un popolo come l'ebreo dedito alla vita campestre e siffattamente avverso ai pericoli marittimi ed alle peregrinazioni, che, costretto per forza alla vita girovaga nelle sue prime cattività, serba però l'amore della sua terra, vi ritorna numeroso, e sforzato a mutar paese, preferisce all'esilio la morte (194).
Come va dunque che questo popolo essenzialmente agricolo, questo popolo che, come ebbimo già occasione di notare, pone, a capo delle sue leggi tradizionali, un trattato di legislazione agricola, questo popolo, cui nessuna industria, tranne il commercio, era estranea, divenisse a poco a poco esclusivamente commerciante e concentrasse per secoli la miglior parte della sua attività in quella industria appunto da cui maggiormente abborrivano i suoi antenati?
A Roma, dove, come già vedemmo, gli Ebrei erano numerosissimi, essi, vivendo sullo stesso piede dei cittadini romani, si consacravano ad ogni genere di industria.
Vennero i tempi delle persecuzioni, e delle numerose interdizioni economiche di cui gli Ebrei furono vittima, e prima fra queste interdizioni fu quella che proibiva loro l'acquisto di beni stabili. Da qui l'impossibilità per l'ebreo agiato di consacrarsi all'agricoltura. È vero che questo divieto di possedere beni stabili non fu sempre e dovunque osservato con uguale rigidezza, ma anche là dove la legge avrebbe forse permesso loro l'acquisto di qualche pezzo di terra, come mai avrebbe potuto risolversi un ebreo a comperarlo, se sempre e dovunque essi non erano che tollerati e continuamente minacciati di espulsione? Chi non sa la sicurezza essere la prima condizione della proprietà fondiaria? Tolta agli Ebrei agiati la possibilità di divenir proprietari, ne veniva per conseguenza che gli Ebrei poveri rifuggissero dall'agricoltura. Chi è mai quell'uomo che abbraccia spontaneamente un'arte, un mestiere qualsiasi, quando sa già da prima che in quell'arte, in quel mestiere, gli sarà vietato ogni progresso? Chi entrerebbe volontario nelle milizie, quando avesse la certezza assoluta di non divenir mai tampoco caporale? e chi vorrebbe darsi ai lavori agricoli sapendo di non poter mai divenir proprietario del più modesto pezzo di terra? E d'altronde l'odio cui eran fatti segno gli Ebrei avrebbe loro permesso di trovar lavoro sui campi altrui, quando ai loro correligionari ricchi era vietato di possederne? È almeno lecito il dubitarne.
E se ad essi era vietata l'agricoltura, lo era del pari l'esercizio delle arti, delle manifatture.
Il regime delle corporazioni di arti e mestieri, che fu la forma quasi esclusiva dell'ordinamento del lavoro, dall'età di mezzo fino a Turgot ed a Luigi XVI, bastava da solo a togliere agli Ebrei ogni possibilità di esercitare qualsivoglia industria.
Tenuto a vile, dispregiato, odiato, l'Ebreo è costretto ad abbracciare l'unica professione che gli si lascia libera, e questa professione è quella che fin dai tempi di Cicerone era ritenuta sordida (195): il commercio.
Sarà gloria dell'Ebreo aver rialzato questa professione, e se stesso con essa, ed aver sempre lottato e reagito contro il pregiudizio castigliano che aveva infettato l'Europa intiera: la nobiltà consistere nell'ozio.
Ma già udiamo obbiettarci che ciò che si rimprovera agli Ebrei non è soltanto l'abbandono dell'agricoltura e delle altre industrie, ma specialmente l'esercizio dell'usura e la disonestà nel commercio.
Veniamo quindi all'usura.
Fra le molte accuse lanciate contro gli Ebrei dei tempi di Augusto a Roma non troviamo questa di usura.
Ma sarebbe un voler negare la luce del sole, negare che essi abbiano nei tempi posteriori esercitato l'esosa industria.
Sarà però opportuno intendersi subito sul significato vero di questa brutta parola.
“L'interesse dei capitali prestati, dice il principe degli Economisti francesi, chiamato mal a proposito interesse del danaro, chiamavasi anticamente usura (fitto dell'uso, del godimento), ed era la parola propria, poichè l'interesse è un prezzo, un fitto che si paga per avere il godimento di un valore. Ma questa parola è diventata odiosa, essa non desta più se non l'idea di un interesse illegale, esorbitante, talchè se ne è a lei sostituita un'altra più onesta e meno espressiva secondo il solito” (196).
Allorquando noi troviamo quindi impiegata dagli storici la parola usura, non dobbiamo prenderla nel senso che oggi vi si annette.
Oggi che le leggi, informandosi ai canoni della scienza economica, riconoscono la libertà dell'interesse, oggi che il negoziante, l'industriale, trova facilmente, ad equo interesse, i capitali di cui abbisogna, oggi infine che il denaro è a buon diritto considerato una merce come qualsivoglia altra, oggi l'usuraio è quel vilissimo trafficante che specula sulle dissipazioni della gioventù, o sui bisogni di quegli infelici che ridotti alla estrema miseria non potrebbero procurarsi altrimenti il denaro di cui abbisognano.
Nei tempi andati ben diversamente procedevano le cose.
Tutti sanno quanto odiosi si fossero resi nell'antica Roma i prestatori di denaro.
Bruto, Cassio, Antonio, Silla, persino il gran Pompeo ed il severo Catone prestano ad usura e non arrossiscono di esigere interessi che variano dal 48 al 70 per cento all'anno.
Cicerone, governatore della Cilicia, si crede il benefattore della provincia per aver abbassato il saggio dell'interesse al 12 % annuo, più un diritto di commissione in caso di ritardo o di rinnovamento.
Il Cristianesimo, venuto a bandire al mondo una parola d'amore, doveva reagire in senso opposto.
Da ciò negli antichi dottori della Chiesa, a cominciare da San Giovanni Grisostomo, quella tendenza a riguardare come illecito il prestito ad interesse, tendenza che diveniva tanto più pronunciata quanto più l'abuso, contro cui volevasi reagire, era più frequente e radicale; e che questo abuso si mantenesse tale nei primi secoli dell'età di mezzo, ce lo provano i capitolari di Carlo Magno, che più di venti volte tornano sull'argomento e non cessano di biasimare l'usura in ogni modo, lasciando intendere che era allora colpa comune così al clero come agli altri abitanti (197).
San Tomaso d'Aquino, per dir d'un solo, fondandosi sul principio che le cose fungibili, che formano la materia del prestito, non hanno guari un uso che sia distinto dalla cosa stessa, ne conclude che vendere questo uso esigendone un prezzo è vendere una cosa che non esiste (198), ovvero esigere due volte il prezzo della medesima cosa, poichè la sorte principale restituita è esattamente l'equivalente della cosa prestata, e che non avendo niun dato valore al di là della cosa prestata, l'interesse che se ne riceverebbe in dippiù sarebbe un prezzo doppio (199).
Sarebbe sfoggio di erudizione altrettanto facile quanto impertinente riunire qui centinaia di decisioni di Concilii, di bolle pontificie, di passi di autori i più ortodossi, che, tutti ad una voce, condannano l'usura, designando con tal nome, non l'usura quale oggi si intende, ma il semplice prestito ad interesse.
Verso la metà del secolo scorso, un papa, ed un gran papa, Benedetto XIV, esortava ancora i vescovi a dimostrare ai popoli quanto sia grave il peccato di usura, reprimendo i discorsi di quelli che lo spacciavano come indifferente (200).
Non è còmpito nostro indagare quale influenza siffatto divieto esercitasse sui progressi della ricchezza nei paesi cattolici. Sismondi, storico ed economista valentissimo, ma alla Chiesa cattolica punto benevolo, ne fa risultare “nel popolo assai più grande abitudine di dissipazione, perchè l'economia non conduceva all'agiatezza, e un capitale ammassato non era se non una occasione di più a peccare qualora si avesse voluto farlo fruttare” (201). Non è possibile non convenire in questo giudizio dello scrittore protestante, ma l'imparziale filosofo della storia potrebbe esprimere il proprio rammarico che il Sismondi non abbia tenuto conto di due cose; e cioè della reazione necessaria che il Cristianesimo doveva portare contro i feneratori di Roma pagana, e delle condizioni della società nell'evo medio, che rendevano assai raro il bisogno del mutuo veramente ed economicamente utile, cioè del mutuo contratto per dar vita a traffichi e ad industrie, e frequentissimo invece il mutuo dannoso ed antieconomico, quello cioè contratto per far fronte ai bisogni della vita, o peggio, della dissipazione.
Non ci eleveremo dunque noi a giudici dell'opinione che vietava ai cattolici di dar denaro ad interesse, paghi di far notare che siffatta opinione, benchè in altri tempi universalmente adottata, non venne mai ritenuta come essenzialmente legata alla Fede; e ce lo prova, incontestabilmente, il diritto romano, che, compilato quando il Cristianesimo già era la sola religione dell'impero, autorizza, esplicitamente, il prestito ad interesse (202).
Vietato ai Cristiani il dar denaro ad interesse (203), vietata agli Ebrei ogni altra industria, era naturale, era forzato che gli Ebrei dovessero dedicarsi tutti, o quasi tutti, all'arte feneratizia, nella quale però ebbero predecessori e compagni i lombardi ed i caorsini.
Nè si potrebbe negare che gli Ebrei, specialmente nell'età di mezzo, esigessero interessi tanto esorbitanti da sembrarci oggi impossibili.
Ma i fenomeni economici hanno questo di comune coi poemi, che non possono essere apprezzati al loro giusto valore se non si pon mente alle condizioni di tempo e di luogo in cui si producono.
Poche parole di Giambattista Say ritrarranno queste condizioni meglio che noi non potremmo fare in un intiero volume: “Quando il bisogno di pigliare a prestanza ne faceva tollerare l'uso presso gli Ebrei, questi erano esposti a tante umiliazioni, avarie, estorsioni, ora sotto un pretesto, ora sotto un altro, che solo un interesse considerabile era capace di contrappesare vilipendii e perdite tanto moltiplicate. Lettere patenti del re Giovanni dell'anno 1360 autorizzano gli Ebrei a prestare sopra pegno ritirando per ciascuna lira, ossia venti soldi, quattro denari di interesse per settimana, il che fa più di ottantasei per cento l'anno; ma nell'anno successivo quel principe, il quale non di meno passa per uno dei più fedeli alla propria parola, di quanti ne abbiamo avuti, fece segretamente diminuire la quantità di metallo fino contenuto nelle medesime monete (204), talchè i prestatori non ricevettero più in rimborso un valore eguale a quello che avevano prestato. Basta ciò per spiegare e giustificare i grossi interessi che essi esigevano” (205).
Se a noi fosse lecito tessere in queste pagine la storia cruenta delle persecuzioni di Israello, e studiare i rapporti tra questa storia e le condizioni economiche dei varî paesi d'Europa, noi vedremmo un fenomeno singolare. Vedremmo i feudatarî, i principi, talvolta, ma più raramente; anche i Comuni, accordare agli Ebrei privilegi esorbitanti, facilitare loro con ogni modo l'esercizio dell'usura, servirsene quindi come di stromento per suggere tutto l'oro del paese e poi vessarli, imprigionarli, martoriarli in ogni guisa, per togliere loro sino all'ultimo obolo il denaro ammassato. I principi e i governi si valgono degli Ebrei come di una macchina di drenaggio, e praticano verso di loro il sistema che un ministro belga opponeva anni sono, con raro cinismo, dall'alto della tribuna, a coloro che gli rimproveravano di permettere che le corporazioni religiose venissero costituendosi dei patrimonî. “Lasciatele arricchire, un giorno o l'altro una nuova legge di incameramento farà ricadere tutti quei beni così laboriosamente accumulati in proprietà dello Stato. C'est une poire pour la soif.” E gli Ebrei furono, per secoli intieri, la poire pour la soif di principi, di baroni, di Comuni.
L'interesse che essi esigevano dagli infelici, che avevano ricorso a loro per denaro, doveva quindi esser esorbitante; e un osservatore imparziale può di una sola cosa meravigliarsi, che esso non fosse anche maggiore di quello che fu. Chi ha studiato le leggi più elementari della economia sociale, non ignora infatti che il saggio dell'interesse, come il prezzo di ogni derrata, non dipende dalla volontà del legislatore, ma da determinate circostanze di luogo e di fatto, alle cui conseguenze nessuna forza umana può sottrarsi. Queste circostanze costituiscono ciò che, nel linguaggio dei moderni uomini d'affari, si chiama la situazione del mercato. Abbondano i capitali, l'orizzonte politico, scevro di nubi, promette lunghi anni di pace e di tranquillità, ed il saggio dell'interesse si riduce a bassissimo livello. Scarseggiano invece i capitali, le condizioni politiche fanno presagire rivoluzioni o guerre, il denaro si rimpiatta, ed il saggio dell'interesse sale, con altezza vertiginosa, e ciò per due ragioni. E perchè il numerario obbedisce, come ogni altra derrata, alla legge della offerta e della domanda, ed è tanto più caro quanto più è domandato, tanto più a buon mercato quanto più offerto; e perchè in questo contratto speciale del mutuo entra un elemento specialissimo, che non entra in nessun altro contratto. Per quanto rara sia una derrata, la sola legge dell'offerta e della domanda basta a determinarne il prezzo. Nel contratto di mutuo invece, chi dà a prestito deve tener conto della maggiore o minor probabilità cui va incontro di non aver più restituito il capitale che dà a mutuo. Questa è la ragione per cui, mentre oggi il saggio dell'interesse è del 3 per cento per gli effetti di primo ordine, è del cinquanta e del sessanta pei figli di famiglia e per gli impiegati. Questa è la ragione, per cui chi investe i suoi denari in consolidato inglese ne ricava appena il tre per cento, chi li investe in carte turche o spagnuole, ne ottiene, sulla carta, il sessanta ed il settanta per cento.
In fatto di investimento di capitali è sempre vero l'assioma di quel banchiere: chi vuoi mangiar molto, dorme poco, e chi si contenta di mangiar poco, dorme molto; ciò che equivale a dire che nell'arte feneratizia è impossibile conciliare la sicurezza del capitale impiegato col largo profitto degli interessi.
Si giudichi, al lume di queste premesse, quale doveva essere il saggio generale degli interessi negli scorsi secoli. La storia ci insegna come, per lunga serie di anni, i capitali fossero così scarsi da essere impari agli scarsissimi bisogni, e ci apprende come gli annali di Europa altro non fossero che una serie non interrotta di guerre, di rapine, di pestilenze, di carestie.
Ma quasi tutto ciò non bastasse a rendere elevatissimo il saggio generale dell'interesse nei tempi scorsi, un altro elemento vi concorreva potentemente.
Il fondatore della moderna scienza economica, Adamo Smith, annoverando le ragioni che contribuiscono a rendere più o meno elevato il salario di talune professioni, vi comprese, a grandissima ragione, la maggiore o minore stima da cui sono circondate.
L'asserzione dell'immortale scozzese non ha d'uopo di essere dimostrata. Non de solo pane vivit homo è verità incontestabile, ed ognuno si acconcierà più volontieri a ricevere un più modesto salario in una professione, che lo faccia segno alla pubblica considerazione, di quello che riceverne uno più elevato per vedersi oggetto della generale animaversione.
Ora, quale era il concetto che nei tempi andati avevasi dei feneratori? Ce lo dica il buon ministro di Luigi XVI, Turgot, l'uomo di cui fu detto, che avrebbe salvato la monarchia in Francia, se la monarchia avesse potuto essere allora salvata:
“Piace prendere a prestito, ma è duro essere obbligati a restituire. La soddisfazione che si prova nel trovare ciò di cui si ha bisogno allorquando si è stretti dalla necessità, svanisce assieme al bisogno appagato, che invece rinasce ben presto. Il debito resta, ed il peso se ne fa sentire ad ogni momento sino a che siasi potuto pagarlo. Si crede che colui che presta non dia che il suo superfluo, superfluo che è il necessario per colui che riceve. Quantunque la giustizia rigorosa sia intieramente a favore del prestatore che non reclama che quanto gli è dovuto, la commiserazione, la simpatia sono sempre dal lato del debitore. Si sente che questi restituendo sarà ridotto all'ultima miseria, mentre il creditore può vivere anche senza ciò che gli è dovuto. Questo sentimento si verifica anche allorquando il prestito è puramente gratuito; a maggior ragione allorquando il prestito non fu pattuito che contro un interesse; il debitore, che in questo caso si tiene sgravato da ogni gratitudine, soffre con indignazione le persecuzioni del creditore.”
Ed ecco quindi la disistima, la antipatia universale perseguitare il creditore, e tanto più acerbamente in quei tempi nei quali l'opinione pubblica vede, in chi dà denaro a mutuo, uno spregiatore di ogni legge divina ed umana.
E questa disistima, questa pubblica antipatia costituiscono un nuovo elemento che viene ad accrescere il saggio dell'interesse, perchè chi ne è vittima vuole trovare un indennizzo a questa impopolarità nella larghezza dei profitti.
Queste erano le condizioni generali dell'industria feneratizia nei secoli scorsi, e se l'indole del nostro lavoro non ci consente di seguirne le differenti fasi da Carlo Magno sino alla Rivoluzione francese, possiamo però dire che se le condizioni, che abbiamo visto influire a mantener sempre elevatissimo il saggio dell'interesse, aumentarono o scemarono d'intensità in diversi tempi, ed in diversi paesi, esse sussistettero però sempre, dalla caduta dell'impero romano sino alla rivoluzione francese.
I lombardi, i caorsini che precedettero gli Ebrei nell'esercizio dell'arte feneratizia (206), e che la esercitarono poi per lungo tempo assieme ed in concorrenza con loro, non isfuggirono certamente a queste leggi generali e le poche notizie che abbiamo sul saggio dell'interesse da essi prelevato bastano a far chiaro come questo raggiungesse altezze mostruose, che le leggi proibitive della usura non giovavano, naturalmente, che ad accrescere.
Nessuno ha mai detto che gli Ebrei esigessero un interesse maggiore di quello che esigevano Lombardi e Caorsini (207); nè avrebbero potuto farlo, perchè se è pur vero che l'industria feneratizia è, fra tutte, quella in cui il fenomeno della concorrenza si esplica meno palesemente, è anche vero, che nessuno avrebbe consentito a pagare, ad un Ebreo, un interesse maggiore di quello che avrebbe potuto pattuire con altri.
Eppure abbondano argomenti per dimostrare che se Ebrei e Lombardi esigevano eguale interesse, ciò che per i secondi era lauto profitto, diveniva interesse meno che rimuneratore per gli Ebrei.
Ad ogni momento leggi ed editti di principi li cacciavano dai paesi dove avevano dimora; ad ogni momento altre leggi esoneravano i Cristiani dall'obbligo di pagare i loro debiti verso gli Ebrei; o, ciò che per questi infelici tornava esattamente lo stesso, obbligava i debitori cristiani a pagare al principe, al signore, le somme che loro erano state mutuate dagli Ebrei.
Nell'impossibilità assoluta di dare neppure un breve quadro delle sofferenze della nazione giudaica, piglieremo a prestito dal Blanqui poche linee, che se si riferiscono ad un sol paese e ad un solo regno, sono però l'esatta dipintura di quanto avveniva sempre e dovunque:
“Di tutti i Re che occuparono il trono [di Francia] durante circa due secoli [1180–1328], non ve ne fu uno che trascurasse di dar prova della sua potenza e della sua ortodossia con provvedimenti severi contro gli Ebrei; ad ogni istante si vedono pubblicate ordinanze contro questi paria del medio-evo, considerati siccome la materia imponibile per eccellenza. Filippo Augusto ne promulgò quattro rimasti celebri: nella prima li minaccia, nella seconda li spoglia, nella terza li scaccia, e nella quarta proscioglie i loro debiti. Luigi VIII pubblicò del pari la sua: soppresse ogni specie d'interesse, ed ordinò si pagassero ai signori le somme che erano dovute agli Ebrei. Abbiamo già veduto San Luigi non essersi mostrato meno severo con loro (208); Filippo il Bello, Luigi il Protervo, continuarono il sistema dei loro predecessori (209).”
Si vede, da quanto precede, che allorquando un Ebreo si toglieva una moneta di tasca, per darla a prestito, egli doveva calcolare che novantanove volte sopra cento non l'avrebbe mai più riveduta.
Ed in fatti quando i pubblici poteri non erano autori delle spogliazioni commesse a danno degli Ebrei, i debitori trovavano un modo spiccio assai di pagare i loro debiti.
Si accusava un ebreo di qualsivoglia più pazza ed impossibile scelleraggine; di aver avvelenato i pozzi, di aver diffuse le pestilenze, di aver vituperato il Santissimo Sacramento o che so io; e senza altra forma di processo, si dava mano alle armi, si massacravano gli Ebrei, si spogliavano le loro case, e soprattutto si distruggevano i titoli di credito che esistevano presso di loro.
Fu notato, che, in certi paesi, le rivoluzioni cominciano sempre col dar fuoco agli archivi criminali, tanto importa a certi rivoluzionari di far sparire le traccie del loro passato, e le sommosse contro gli Ebrei si manifestavan sempre, in tutti i tempi ed in tutti i paesi, col distruggerne i registri ed i titoli di credito.
Questa verità non è sfuggita agli storici ed il Roscher, l'illustre professore dell'Università di Lipsia, l'esponeva con queste parole: “Molte persecuzioni del più tardo medio-evo, nelle quali soprattutto si trattava di annullare le obbligazioni di debito verso gli Ebrei, sono a considerarsi quali crisi di credito in foggia barbarica, quale una forma medio-evale di quelle che oggi si chiamano rivoluzioni socialistiche (210).”
Anche il Beugnot riconosce che più d'una volta gli Ebrei vennero massacrati, ben più come creditori che come eretici (211).
Meno scientificamente, ma più efficacemente forse, un brioso giornale cittadino, il Pasquino, definiva testè l'antisemitismo altro non essere che un anticreditorismo.
Se a queste persecuzioni sistematiche, a questi massacri periodici, aggiungiamo il fatto che, anche nei paesi dove erano meglio trattati, gli Ebrei erano soggetti a gravissime tasse speciali, per ciò soltanto che erano Ebrei; se poniam mente che i loro poveri essendo esclusi dalla pubblica beneficenza, toccava ai ricchi ebrei di provvedere ai loro bisogni, si comprenderà di leggieri che essi erano costretti a gravare la mano sugli infelici loro debitori.
È un circolo vizioso cui non si sfugge: le persecuzioni, i massacri contro gli Ebrei, obbligano questi a mostrarsi più avidi, più duri coi loro debitori; e questa avidità e questa durezza generano nuove persecuzioni, nuovi massacri.
Qui si presenta naturale una domanda: come mai malgrado tante e così violente persecuzioni, malgrado il continuo timore in cui dovevano vivere, di vedersi frustrati ad un tempo e dello sperato beneficio e del loro stesso capitale, continuavano essi ad esercitare l'industria feneratizia? La risposta è semplice. Davan danaro a prestito perchè non era loro permesso di impiegare in altro modo quella parte dei loro capitali che era esuberante ai loro commerci; perchè non potevano acquistare o coltivar terre, nè divenir proprietari di edifizi urbani, perchè erano, come vedemmo, sopracarichi di imposte e di spese di beneficenza, e perchè occorreva loro spender molto denaro per soddisfare l'avidità dei sovrani e dei principi che vendevan loro a caro prezzo il diritto di soggiornare nei loro paesi, e quella dei cortigiani che intercedevano per loro, presso il governo, protezione che era sempre ben lungi dall'essere gratuita.
Sarebbe del resto singolare contraddizione del secolo nostro, che esalta, forse oltre il dovere, i beneficî del credito, dimenticare che all'esercizio dell'arte feneratizia praticata dagli Ebrei, devono ascriversi quei grandi progressi economici di cui oggi si mena tanto vanto e che i nuovi popoli devono agli Ebrei del medio evo:
1º L'introduzione degli interessi del capitale, senza cui non sarebbe neppur pensabile uno sviluppo superiore del credito, ed anzi nemmeno della formazione del capitale e della divisione del lavoro. Se questo progresso era in parte soltanto una ristorazione di quanto aveva conosciuto l'epoca, altamente incivilita, dei Greci e dei Romani, non è così del
2º Dell'invenzione, cioè, della cambiale, la quale è innovazione di un valore storico mondiale, essendo quella di uno stromento che ha per il commercio del danaro, presso a poco la stessa importanza della ferrovia per la industria dei trasporti, e del telegrafo per lo scambio delle notizie (212).
Nè l'azione benefica esercitata dagli Ebrei sul progresso economico, nei tempi più caliginosi del medio evo, si limita all'industria feneratizia; soli, concentrando, sul commercio dell'oro e dell'argento, una attenzione che i pregiudizi dei loro contemporanei li impedivano di occupare altrove, prepararono la grande rivoluzione monetaria, che la scoperta delle miniere d'America e l'impianto delle banche europee dovevano compiere nel mondo; e quasi ciò non bastasse, ogni qual volta le leggi non lo vietavano loro, e spesso anche malgrado il divieto delle leggi, essi esercitavano ogni specie di commercio.
“Allorquando la moltiplicità dei pedaggi e la tirannide dei signori feudali rendevano impossibile ogni speculazione che non fosse quella dei piccoli mercanti dei borghi e delle città, gli Ebrei, più arditi, più facili a muoversi, volgevano l'animo a più vaste operazioni e lavoravano in silenzio ad avvicinare continenti ed a riannodare i regni. Essi evitavano le barriere ed i fortilizi, nascondendo accuratamente, sotto miserabile apparenza, la loro reale ricchezza ed il segreto delle loro transazioni. Andavano a cercare a grandi distanze e mettevano a portata dei consumatori meno poveri, i prodotti poco conosciuti dei paesi i più remoti. A forza di errare e di correre di paese in paese, avevano acquistato una conoscenza esatta dei bisogni di tutte le piazze commerciali; sapevano dove si doveva comperare e dove si poteva vendere: pochi campioni ed un libriccino di note bastavano per le loro operazioni le più importanti. Corrispondevano fra loro sotto la fede di impegni che il loro interesse li obbligava a rispettare (213), circondati come erano da nemici di ogni specie. Il commercio ha perduto la traccia delle ingegnose invenzioni che furono il risultato dei loro sforzi, ma è alla loro influenza che sono dovuti i progressi rapidi di cui la storia ci ha segnalato il brillante fenomeno in mezzo agli orrori della notte feudale (214).”
Il valore economico degli Ebrei non può del resto esser revocato in dubbio da nessuno storico imparziale; è ad esso, ad esso soltanto, che questo popolo va debitore della sua conservazione, malgrado le atroci, inaudite persecuzioni di cui fu vittima; senza il loro valore economico, gli Ebrei sarebbero stati distrutti, ed il loro nome, come quello di molte sètte del Cristianesimo, non sarebbe più che una memoria storica.
Questo valore economico fu spesso riconosciuto dai loro stessi più acerbi nemici, che or proscrivendoli, or richiamandoli, attestavano l'importanza che ha la ricchezza mobiliare creata dal lavoro e dall'industria. Egiza, re visigoto di Spagna, uno dei loro più crudeli persecutori, mentre li bandisce dai suoi Stati, fa eccezione per quelli della Settimania, “allo scopo, diceva, di riparare le sventure che questa provincia aveva provato, e perchè gli Ebrei potessero ristabilirne le finanze sia per via dei tributi che pagavano al fisco, sia colla loro attività ed industria” (215). Luigi III e Filippo l'Ardito dissero nelle loro lettere di richiamo agli Ebrei, nei loro Stati, che non trovavano altro mezzo per ristabilire le decadute finanze, che il richiamare gente propria a far fiorire il commercio e circolare il denaro (216).
San Pio V, uno dei pochissimi Papi che perseguitarono gli Ebrei, dichiara, nelle sue bolle, che mantiene gli Ebrei in Ancona per non distruggere il commercio col Levante.
Quasi contemporaneamente il glorioso restauratore della Dinastia Sabauda, l'eroe di San Quintino, Emanuele Filiberto, accordando con un decreto del 1572, che è, per quei tempi, monumento insigne di tolleranza, facoltà agli Ebrei di stabilirsi nei suoi Stati, dichiara espressamente esservisi indotto “per commodo delli nostri sudditi et beneficio del paese” (217).
Altri esempi potremmo addurre, ma bastino questi, come basti l'accennare che il declinare della grandezza spagnuola comincia positivamente dal giorno in cui 300,000 israeliti, scuotendo dai loro calzari la polvere della terra di Torquemada, trasportarono e sparsero sulla superficie dell'Europa le ricchezze, l'istruzione e la industria loro. E ben lo sa Livorno, che deve il suo porto agli Ebrei portoghesi, come Ancona che riconosce la sua floridezza da certo dott. Fermo, ebreo, che fu il primo ad avanzare le sue imprese per l'ampliazione di esso (218).
Da quanto abbiamo detto finora risulta, chiaramente provato, che gli Ebrei furono, nei secoli scorsi, altamente benemeriti del traffico e delle industrie; è però innegabile che oggi ancora in certi paesi d'Europa, che di civile hanno poco più che il nome, sorgono serie lagnanze contro gli Ebrei che vengono accusati di essere i monopolizzatori di ogni commercio. E questo avviene specialmente in Polonia.
In altri tempi i sovrani di quel paese reputarono sana politica proteggere gli Ebrei, tanto che Boleslao e Casimiro, due re di quella contrada, per difenderli contro il fanatismo religioso delle popolazioni, affermarono in pubblici atti che la popolazione di Gerusalemme, essendo stata sterminata dalla conquista romana, è difficile rendere gli Ebrei moderni responsabili del sangue di Cristo. In grazia di questa protezione gli Ebrei si accrebbero siffattamente in quelle regioni che non è esagerazione affermare che oltre un sesto degli Ebrei di tutto il mondo è ripartito fra la Polonia russa, la Galizia e la Posnania. Il governo russo è troppo parco di documenti statistici, perchè si possa conoscere con precisione qual sia la parte degli Ebrei nel movimento economico del paese, ma non abbiamo difficoltà ad ammettere, che essi abbiano concentrato nelle loro mani tutto il commercio di quelle contrade, e non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, perchè sappiamo come i polacchi non abbiano mai avuto indole commerciale.
Un insigne scrittore di cose economiche scrive di loro il seguente giudizio, che si potrà forse chiamare severo ma non certamente immeritato.
“L'ufficio della Polonia nella storia del Commercio è intieramente passivo. Nessuna altra nazione in Europa si è mostrata così poco atta e chiamata al traffico ed alle industrie. Anche ai tempi della sua grandezza, quando confinava al Sud col Mar Nero ed al Nord col Baltico, quando perciò riuniva le più favorevoli condizioni per l'esercizio del Commercio internazionale, la Polonia non seppe trar alcun partito da simili vantaggi. Non ebbe mai navigazione; non seppe neanche giovarsi nell'interesse del suo dominio, del commercio marittimo dell'Asia che le conquiste della Russia occidentale nel 1460 e quelle della Livonia nel 1583 avevano messo in suo potere, o per lo meno crearsi sul Baltico una posizione uguale a quella degli altri paesi di riviera. Che cosa non sarebbero divenuti in altre mani i porti di Riga e di Danzica come emporio di un paese simile a quello che si estendeva dietro a loro! Col suo mirabile sistema di corsi d'acqua, e con la varietà delle sue naturali ricchezze, la Polonia fu ai tempi del suo splendore uno dei paesi più felicemente collocati per isvolgere un attivo commercio. Ma la sua deplorevole costituzione, l'amore delle conquiste, l'indole bellicosa, il poco gusto per le arti pacifiche, per il lavoro, ridussero i polacchi ad un ufficio molto subalterno come popolo commerciante” (219).
Ciò che lo Scherer scrive dei polacchi, può dirsi a buon dritto di tutta la razza slava, ed è perciò appunto che dai paesi slavi giungono continue lagnanze contro il monopolio degli Ebrei e dei tedeschi, lagnanze inspirate da quel sentimento di invidia connaturale all'uomo che suole muovere alti lamenti quando vede altri cogliere abbondanti frutti da un albero che egli ha sdegnato. E che questo, e non altro, sia il movente dell'agitazione vivissima che nell'Oriente d'Europa si manifesta contro gli Ebrei, lo proclamava recentemente l'ex-dittatore dell'Ungheria, Kossut, in una lettera da lui diretta al deputato Mezey per combattere l'antisemitismo:
“L'agiatezza degli Ebrei, dice Kossut, dipende dalla loro attività e dal loro spirito di risparmio, e del regresso generale non sono colpa gli Ebrei, ma coloro, che per gli errori antichi, non sanno rivaleggiare con quelli.
“Ricordo ai magiari, che tra i Cresi americani non v'ha neppure un Ebreo, perchè l'Ebreo non può rivaleggiare con l'Americano” (220).
Del resto anche la pretesa ricchezza degli Ebrei venne assai esagerata, e noi, che ci siamo prefissi di avvalorare sempre le nostre parole coll'autorità degli uomini più eminenti di tutti i tempi e di tutti i paesi, lasciamo, anche su questo proposito, la parola ad un valentissimo economista inglese, il Mac Culloch, e gliela lasciamo tanto più volentieri in quanto che il brano che stiamo per riferire, riassume maestrevolmente quanto siamo venuti finora dicendo.
“Si è detto che gli Ebrei erano un esempio di un popolo la cui proprietà era stata lungo tempo esposta a una serie quasi non interrotta di assalti, e che nondimeno avevano continuato ad essere ricchi e industriosi. Ma allorchè lo si esamini rettamente, si troverà che gli Ebrei non fanno eccezione alla regola generale. I fortissimi pregiudizi che si sono quasi universalmente nudriti contro di loro, ebbero per lungo tempo l'effetto di impedir loro di acquistare nessuna proprietà in terra, e li esclusero dal partecipare ai fondi delle istituzioni pie dei varî paesi in cui erano sparsi. Non avendo perciò sussidi avventizi su cui basarsi, caso che divenissero infermi o poveri, provavano un bisogno fortissimo di risparmiare e di accumulare, ed essendo banditi dall'agricoltura erano per necessità costretti a coltivare il commercio e le arti. In un'età in cui la professione mercantile era guardata generalmente come cosa sordida, e in cui per conseguenza avevano pochi competitori, devono aver fatti grandi guadagni, sebbene questi si siano assai esagerati. Ma era naturale che quelli che si erano indebitati cogli Ebrei, dicessero che i loro profitti erano enormi: perchè così si infiammavano i pregiudizi che vi erano contro di loro, e si offriva un pretesto miserabile per defraudarli dei loro giusti diritti. Vi sono alcuni Ebrei ricchi nella massima parte delle vaste città dell'Europa, ma la gran maggioranza di quel popolo fu sempre ed è anche ora poverissimo” (221).
A queste parole del Mac Culloch ci sia permesso aggiungere due ultime considerazioni.
I nemici del nome giudaico, e non son pochi, se da un lato fanno colpa agli Ebrei delle ricchezze di taluni loro correligionari, irridono poi all'umile professione di molti dei più poveri e dei più avviliti tra essi; quella del rivenditore di abiti e masserizie usate, del rigattiere.
Eppure l'economista non isdegna quell'umile mestiere, e gli riconosce la sua larga parte di utilità economica; è il povero rigattiere che, colla industria sua, colla sua mano d'opera, ridà un valore a quanto lo aveva perduto, ed offre alle classi povere il mezzo di acquistare a poco prezzo le cose più necessarie alla vita. Le Temple (222) est la providence du peuple, ha detto, e con ragione, un gran romanziere, che era nello stesso tempo uno degli apostoli del socialismo: Eugenio Sue.
Questo pei poveri; quanto ai ricchi è pur d'uopo convenire che se essi sono tali è perchè le interdizioni di cui erano vittima nei tempi andati, non soltanto li spingevano forzatamente verso le professioni le più lucrative, ma li costringevano loro malgrado a tesaurizzare.
Vietato agli Ebrei il conseguire gradi accademici, era tolto loro ogni incentivo agli studi letterali e cavallereschi, studi, che come ognun sa, non hanno mai arricchito nessuno. Litterae non dant panem.
Vietato agli Ebrei, da numerose leggi suntuarie, l'uso di vesti fastose ed obbligati se non dalla legge, dalla prudenza, a dissimulare sotto sordide vesti la loro agiatezza, per non esporsi a rapine ed a violenze.
Vietato il possedere case, il fabbricarne, e costretti a dimorare nei sordidi ghetti, atti soltanto a far fuggire ogni idea di adornare e di abbellire anco l'interno della propria dimora.
Vietata ogni sontuosità nei loro tempî, nei loro cimiteri, in tutte le pratiche di culto dove la pia munificenza dei Cristiani profondeva, negli scorsi secoli, tesori a dovizie.
Vietata ad essi ogni ingerenza nei pubblici affari.
Vietato ad essi l'aver domestici cristiani, e, persino, l'aver commercio con femmine da conio.
Voglia il signor lettore esaminare questo breve elenco di interdizioni, che molte e molte ne ommette per brevità, voglia compararlo col bilancio della propria azienda domestica, e poi dovrà convenire con noi che il popolo ebreo, obbligato a consacrarsi alle industrie che maggiormente arricchiscono, e costretto a star lontano da quelle, che sono, per ogni uomo civile, le maggiori cause di dispendio, avrebbe finito coll'assorbire tutte le ricchezze del mondo, se le persecuzioni, i massacri, le rapine non gli avessero tolto colla violenza, quanto la violenza lo aveva costretto ad ammassare.
Perchè gli Ebrei dovessero divenire ricchi ed usurai abbiamo veduto; i loro nemici però non paghi di averli costretti ad esercitare un traffico ignominioso, non paghi di rinfacciar loro come una colpa, quello che era necessaria conseguenza della condizione ad essi creata, vennero dicendo che il Talmud non soltanto autorizza gli Ebrei ad opprimere i Cristiani con usure, ma ne fa loro espresso obbligo, permettendo ad essi di esercitare ogni maniera di frode verso i non Ebrei.
Il Talmud, lo abbiamo detto a sazietà, non è per gli Ebrei che il complemento della legge, e la legge dà agli Ebrei precetti ben diversi.
Quali sieno i precetti biblici in questo argomento tutti sanno, ma a noi piace ricordarli colle parole stesse di uno dei più accaniti nemici del nome giudaico:
“Secondo la legge mosaica non possono ingannare, nè defraudare alcuno, che con essi contratti. So bene che ciò veniva espressamente loro vietato nel Levitico al capo 19, v. 11, con queste parole: Non mentiemini, nec decipiat unusquisque proximum suum. In molti altri versi del medesimo capitolo e in più luoghi è replicato un tale comandamento. Ed essendo egli morale, e non cerimoniale, non è cessato, ma va in vigore, e nella prima osservanza” (223).
Ed il Talmud che ha per scopo di spiegare la Bibbia, non di cambiarla, non sopratutto di stabilire precetti che a quella ripugnino, conferma questi principii di elementare onestà.
I Talmudisti dicono:
a) che non è permesso di fare altrui illusione, nemmeno ad un Goi, per esempio, di fargli regalo di alcun oggetto, facendogli credere che è di maggior valore di quello che è (224).
Samuele ordinò al servo di accordarsi col barcajuolo che dovea tragittarlo al di là d'un fiume. Nei patti dell'accordo eravi di dargli a bere una bottiglia di vin puro: il domestico mescolò il vino con acqua, nè il barcajuolo se ne accorse. Samuele seppe l'inganno, e sgridò acerbamente il suo servo (225).
b) che chi deruba il Goi è tenuto alla restituzione, e che è anzi peggio derubare il Goi che l'Israelita, poichè ne rimane profanato il nome di Dio (226).
c) che l'Israelita pecca, ed è tenuto all'indennizzamento, qualora nella misura, nel peso o nel calcolo faccia sopruso al non israelita, non altrimenti che facendolo ad un israelita. Chi trafficando, sia coll'israelita, quanto coll'idolatra, misura o pesa scarso, contraviene ad un divino precetto ed è tenuto al risarcimento. È parimente vietato di gabbare il Goi nel calcolo, ma devesi usare seco lui ogni esattezza, come dice il sacro testo (Lev., xxv, 59), e faccia ragione col suo compratore; il quale testo tratta di un non israelita da sè dipendente (vivente cioè nella Palestina quando questa era in potere degli Israeliti); quanto più non dovrai tal legge osservare con chi non è a te soggetto? D'altronde la Scrittura dice (Deut., xxxv, 16): Chiunque fa tali cose, chiunque fa iniquità è in abbominazione al signore Iddio tuo, proposizione assoluta e senza alcuna condizione (227).
d) I Gheonim (228) insegnano, allegando l'autorità del Talmud (229), esser permesso, anzi esser dovere di far testimonianza anche innanzi ai non israeliti (presso giudici non iniqui), anche se il frodato sia un Goi ed il frodatore un israelita (230).
e) Il celebre ed autorevole R. Mosè Couci dice: Anche quel Talmudista che opina non essere vietato derubare il Goi, parla di un tale che abbia fatto del male allo israelita, ed anche in questo caso la sua sentenza non viene adottata; fuori però di questo caso anche quel Talmudista riconosce essere vietato rubare al Goi (231). E qui giovi notare che questo Mosè Couci o Kotzi, che fioriva nel 1230, è ben lungi dall'essere stato, in massima, modello di tolleranza. Nelle prime edizioni delle sue opere (232) trovansi non pochi passi anticristiani, ma il fanatismo religioso, di cui nessuno vorrà far colpa ad un ebreo del xiii secolo, non gli impedì però di fare il suo dovere d'onesto uomo, proclamando la massima che abbiamo testè riferita.
Nè del resto poteva essere altrimenti, checchè abbiano farneticato i malevoli; la legge mosaica espressamente comanda di non molestare il forestiero, e lo inculca con queste parole: E non oppressare il forestiero, perciocchè voi sapete in quale stato è l'animo del forestiero, essendo stati forestieri nella terra d'Egitto (Esodo, xxiii, 9). Ed altrove dopo aver detto che Dio è il Dio degli Dei, ed il padrone dei padroni; Dio grande, potente e tremendo, ecc, aggiunge che egli fa giustizia all'orfano ed alla vedova, ed ama il forestiero, per somministrargli vitto e vestito; indi conchiude: Voi dunque altresì amate i forestieri; conciossiachè siate stati forestieri nel paese d'Egitto (Deut., x, 17, 19). Raccomanda di non far soffrire ingiustizia al forestiero ed all'orfano, e di non pignorare l'abito della vedova, ed aggiunge: E ricordati che tu sei stato schiavo in Egitto (Deut., xxiv, 17 e 18). Ognuno sa che la memoria dei mali da noi stessi altre volte sofferti accresce forza al naturale sentimento della pietà dei mali altrui.
Nè la legge scritta, nè la legge rivelata concedono dunque all'ebreo di usar frode a pregiudizio dei gentili.
Il Levi nella sua raccolta talmudica già più volte citata ha spigolato nel Talmud alcune regole di commercio che giovano a mostrare come i dottori del Talmud si preoccupassero di inspirare negli Israeliti, i più rigorosi principî di probità commerciale:
“È peccato far incarire i frutti — portare aumento nei prezzi correnti.
“Oltre il sesto del valore v'ha lesione e il contratto è nullo (233).
“Non deve il vinajo spargere nel suo negozio profumi di vini aromatici, per far credere di tenere nel suo negozio vini squisiti.
“Non deve il negoziante regalare dolci ai giovanetti per allettarli al suo negozio.
“Il vindice nel diluvio è vindice di chi non mantiene la sua parola.
“Il capo dei ladri è quegli che defrauda nel peso e nelle misure (234).
“Il negoziante deve ripulire i suoi pesi e i suoi vasi una volta ogni settimana, per conservarli sempre nella giusta misura” (235).
Ma, si dirà, ammesso pure che agli Ebrei sia vietato usar frode in commercio, tanto col correligionario quanto col Goi, non potrete negare, che la stessa Bibbia, mentre vieta loro di dar denaro ad usura agli Ebrei, permette ad essi di darne ai goim.
Ed infatti è scritto nel Deuteronomio (xxiii, 19, 20) ed altrove: “Non prestare ad usura al tuo fratello, nè danari, nè vittuaglie, nè cosa alcuna che si presta ad usura.
“Presta ad usura allo straniero, ma non al tuo fratello.”
La cattiva interpretazione di questo precetto espresso e ripetuto nella Bibbia, fu causa principalissima delle accuse mosse su questo argomento contro gli Ebrei e della ripugnanza che ebbe il Cristianesimo contro l'industria feneratizia.
Per bene interpretare questo precetto, conviene in primo luogo aver presente che la parola usura va intesa, anche in questo brano, nel senso di interesse. Abbiamo già dimostrato, colle parole del Say, che quello che noi ora diciamo interesse dicevasi usura negli antichi tempi, ci sia lecito aggiungere qui, che la lingua ebraica non ha la parola usura, nel senso che oggi volgarmente le si attribuisce, sicchè ogni qualvolta troviamo scritto nella Bibbia la parola usura dobbiamo leggere interesse.
Quanto al divieto biblico di prestar ad interesse al fratello, ed alla facoltà di prestare al forestiero, è un di quei precetti che debbono considerarsi parti della legge civile, non della religiosa, e che, come tale, cessarono di aver vigore colla esistenza politica della nazione ebraica.
Non diciamo cose nuove, ripetiamo, costretti, cose trite e ritrite.
Questo precetto, come prescrizione di legge civile, è facilmente spiegabile.
L'Ebreo in Palestina non era commerciante, lo abbiamo veduto; il commercio della contrada era in mano dei forestieri; da ciò consegue che se l'Ebreo prendeva a prestito denaro vi era costretto dalle necessità della vita, mentre il forestiero ne abbisognava per dar vita ai propri traffici; da qui il divieto, altamente economico, di far pagare interesse al primo ed il permesso, logico e naturale, di farlo pagare al secondo, che, dal denaro mutuato, presumeva ricavar lucro e vantaggio.
E questa nostra interpretazione è ampiamente suffragata dal versetto 25 del capitolo xxiii dell'Esodo:
“Quando tu presterai danari al mio popolo, al povero che è appresso a te, non procedere inverso lui a guisa di usuraio: non imponetegli usura.”
Il più volte citato Luzzatto così commenta questo versetto:
“Al popol mio, cioè ad Israello. A qualche povero che è appresso a te, spiega l'antecedente e cioè che l'esenzione dell'interesse è diritto solamente di chi è assolutamente povero, non del ricco che cerca danaro per speculazione.”
Anche il Mortara, onore di Mantova e del Rabbinato italiano, così interpreta questo precetto (236):
“Il prestito fatto al povero viene considerato dalla morale religiosa come una carità e non un contratto. Essa riguarda pertanto il povero vergognoso come un congiunto, ed impone di prestargli, e non usare verso di esso come creditore che conceda dilazione al pagamento. È evidente che tale obbligazione morale non può vincolare che verso i prossimi e perciò la religione non la impone che verso i concittadini ed i correligionari.
“I nostri Dottori applicano il testo d'Isaja, “allora tu invocherai il Signore ed egli ti esaudirà,” a colui che ama i suoi vicini, porta operoso affetto a' suoi congiunti e presta una moneta al povero nel momento del suo bisogno; e nell'esposizione del testo (salmo xv, 5): Il quale non dà i suoi danari ad usura, comprendono espressamente il non Israelita fra quelli cui si devono far prestiti, senza percepirne interesse” (237).
E con questo commento dei due dottissimi rabbini si accorda quello di un eruditissimo sacerdote cristiano, l'abate M. Mastrofini, il quale conchiuse che il precetto “riguarda le usure di ricchi Ebrei su poveri, i quali tra loro convivono” (238).
E più sotto, lo stesso Mastrofini, riassumendo il risultato dell'acuta sua disamina sui varii passi del Vecchio Testamento ove è discorso dell'usura, così conchiude:
“La legge mosaica intorno le usure, ci rassicura ancora che non tutte le usure sono contrarie alla legge della natura. Imperocchè Dio, per Mosè, permise le moderate e discrete col ricco, tanto ebreo quanto forestiero” (239).
Questi i precetti biblici riassunti da scrittori dotati di sana critica. Vediamo ora come i talmudisti interpretarono la legge:
“Chi entrerà nel tuo sacro monte? dice Davide. Chi cammina sinceramente e chi non dà il suo danaro a usura. Osserva un dottore: Chi non dà il suo danaro a usura neppure a un Gentile” (240).
“L'Ebreo il quale presta il suo denaro al Gentile, anzichè all'Israelita, perchè dal primo può prendere interesse, commette peccato” (241).
“Chi accumula ricchezza con interesse e usura, l'accumula per chi è benefico coi poveri. Dice Salomone.”
“Il dottore Hunà dichiara che qui allude all'usura tolta dai Gentili. Un altro dottore osserva che Mosè permette di dare a interesse a' Gentili. Risponde il primo dottore, che il testo biblico ha altro senso. Concludesi che tutto al più può l'Israelita prestare a interesse al Gentile, tanto da guadagnarsi il vitto (242).
“Quando il Salmista (xv, 5) encomia chi presta il suo denaro senza percepire frutto, intende che lo faccia anche col Goi” (243).
Ed in altro trattato:
“Vieni e vedi, tutte le creature di Dio ritraggono (prendono a prestito) l'una dall'altra.
“Il giorno ritrae (prende in prestito) dalla notte, la notte dal giorno: la luna dalle stelle, le stelle dalla luna: il sole dalla luce, la luce dal sole: il senno dalla scienza, la scienza dal senno: la carità dalla giustizia, la giustizia dalla carità.
“Tutte queste creature divine ritraggono (prendono in prestito) l'una dall'altra e sono amiche ed in pace.
“Solo l'uomo presta al compagno e cerca di rovinarlo con l'usura e col furto.
“Questi usurai dicono quasi a Dio: Perchè non prendi usura de' tuoi prestiti agli uomini? Tu inaffii la terra, tu fecondi i campi, tu illumini, tu soffii l'alito vitale, tu conservi: chè non ti fai pagare?
“Dice Iddio: Vedete quante cose io presto, e non prendo interesse.
“Guai a chi prende usura: egli non vivrà.
“Un re apre all'amico il suo regno: l'amico entra, calpesta i poveri, uccide le vedove, distrugge, rovina, e riempie ogni cosa di frode e iniquità.
“Così l'usuraio a cui Iddio ha aperto il regno dei suoi tesori, porta ovunque la sterilità e la morte (244).”
Ed altrove:
“Bada cecità degli usurai. Se taluno ingiuria il compagno chiamandolo empio, l'ingiuriato arde d'ira e medita vendetta. E costoro in uno scritto, sancito da notai e da testimoni, di propria volontà scrivono e sottoscrivono e dichiarano..... d'avere rinnegato il Dio d'Israele” (245).
Chiudiamo questo troppo lungo capitolo colla citazione di un brano del più volte ricordato Rabbino Leon Modena, il quale porrà in luce cosa pensassero su questo argomento gli Ebrei italiani, or sono due secoli.
“Per obbligo della Legge, così di Mosè, come a bocca, devono esser realissimi, e non fraudar, ne ingannare alcuno, sia chi si voglia, o Hebreo, o non Hebreo, osservando sempre, e con ogni persona, quelli buoni modi di negotiar comandatogli in molti luoghi nella Scrittura, e spetialmente nel Lev. c. 19, versi 11, 13, 15, 33 sino al fine.
“E quello che hanno disseminato alcuni in voce, e in iscritto, che ogni giorno giurano, et hanno per opera pia di ingannar, e fraudare un Christiano, è espressa bugia, così promulgata per renderli più odiosi di quello che sono.
“Anzi molti rabbini hanno scritto et in particolar ne ha fatto raccolta a longo Rabino Bachij nel libro Cadachemah, lettera Ghimel Ghezelà dove dice che è molto più grave peccato il fraudare uno non Hebreo, che un Hebreo rispetto allo scandalo che si da, oltre l'opera sia in se, e si chiama Chillul Ascem, che vuol dire profanare il nome di Dio, che è de' maggiori peccati. Onde se si trova fra essi chi inganna e frauda, è diffetto di quel particolare, che è di mala qualità, ma non che lo facci essendole ne dalla sua legge, ne da Rabini in alcun modo permesso.
“È ben vero che la strettezza, nella quale la captività lunga gli ha ridotti et essendole vietato quasi per tutto il posseder terreni, e molti altri modi di mercantar, et esercitii di riputatione et utili, si sono molti abbassati d'animo e divenuti digeneranti della lealtà israelitica” (246).
Con queste parole il Modena viene a dimostrare quanto giuste sieno queste idee di un pubblicista inglese che noi trovammo testè riferite nella Revue Britannique e colle quali ci piace dar termine a questo capitolo:
“Dovunque le incapacità inerenti alle qualità di ebreo sono sconosciute, lo spirito stretto di sêtta e di tribù disparve, e lasciato a se stesso il giudaismo, in quanto riguarda le materie religiose ed i doveri sociali, si è sviluppato sanamente e senza usurpare sui confini altrui. È questo ancora il miglior rimedio da opporre alla sua estensione che noi possiamo consigliare a coloro che vedono in lui un nemico di cui occorra sbarazzarsi ad ogni prezzo.”
(193) La situazione degli Ebrei nel Medio-Evo. — Giorn. degli Economisti. Padova, 1875, vol. 1, pagg. 88 e segg.
(194) Ac si transferre sedes cogerentur, major vitae metus quam mortis. (Tacit., Hist. xxi).
(195) Ne quidquam ingenuum potest habere officina... Mercatura, si tenuis est, sordida putanda est: sin autem magna et copiosa; multa undique apportans, non est admodum vituperanda..... Nihil enim proficiunt mercatores, nisi admodum mentiantur. (Cicerone, Dei doveri, libro i, sez. 42).
(196) Say, Trattato di Ec. pol. in Bibl. dell'Ec. Serie i, vol. vi, pag. 275.
(197) Blanqui, Hist. de l'Ec. pol., i, 153.
(198) Questo pregiudizio contro l'interesse del denaro, che rimonta ad Aristotile, e che ha per base la massima che il denaro, non essendo di per se stesso fecondo, non può produrre interesse, era comune anche a Shakespeare che, nel suo linguaggio pittoresco, definì l'interesse: La posterità di uno sterile metallo.
(199) Turgot, Memoria sui prestiti di denaro in Bib. dell'Ec. Vol. i, pag. 373.
(200) Bull. mag. lxvi, pag. 328 e pag. 21.
(201) S. de Sismondi, Nuovi principii d'economia politica in Bibl. dell'Econ. Vol. vi, pag. 636.
(202) Le Pandette fissano al quattro per cento il tasso dell'interesse per la persona di un rango illustre, a sei per gli altri, tasso ordinario e legale. Ciò non pertanto si permise l'interesse dell'8 per cento ai manifattori ed ai commercianti e quello del 12 per le assicurazioni marittime.
(203) Gli stessi principi ecclesiastici che vietavano ai Cristiani di dar capitali ad interesse, lo permettevano agli Ebrei; ad esempio l'arcivescovo di Colonia, nel 1266, promise loro di non concedere ad alcuno tranne che ad essi il contrarre prestiti fruttiferi. (Ennen, Storia di Colonia, ii, 327).
(204) Quando il re di Francia, Giovanni, per pagare i suoi debiti adulterò la sua moneta, tutti gli ufficiali della sua zecca furono obbligati a giurare il secreto. (V. Ducange, Glossario, parola Moneta, ed. de' Benedettini). Fin qui il Say; dal canto nostro aggiungiamo che questa adulterazione delle monete, causa principalissima dello esorbitante tasso dell'interesse e che durò sino alla età moderna — Carlo V verso il 1540 inondò l'Europa di una massa di cattivi scudi d'oro di Castiglia. (Blanqui, Hist. de l'Ec. pol., i, 283) — era conseguenza delle dottrine di S. Tommaso. Il Grande Aquinate, come del resto tutti gli uomini dei tempi suoi, aveva curiose idee in fatto di economia politica. Egli (De Regg. Princ., ii, 13), infatti permette che lo Stato faccia uso, moderatamente però, del diritto di alterare le monete sive in mutando, sive in diminuendo pondere. Tutti ricordano le roventi parole con cui il nostro Dante, quasi contemporaneo dell'Aquinate, stigmatizza Filippo il Bello, il re falso monetario, che la dottrina di S. Tommaso aveva appreso da Egidio Colonna; il Dottor Fondatissimo, fu infatti discepolo di Tommaso e maestro di Filippo.
(205) Say, op. cit. pag. 277.
(206) Se l'indole di questo lavoro lo consentisse, potremmo moltiplicare gli esempi per dimostrare che caorsini, lombardi e toscani precedettero quasi dovunque gli Ebrei nell'esercizio dell'usura. Nell'impossibilità di farlo qui, ci limitiamo ad un solo esempio somministratoci da un'eccellente monografia di Antonio Ive (Dei banchi feneratizi e capitoli degli Ebrei di Pirano e dei Monti di pietà in Istria, Rovigno, Bontempo e C., 1881), dove a pagina 7 si legge: “Ai fiorentini succedettero in Istria, nell'esercizio della fenerazione, verso il 1380 circa, gli Ebrei, i quali ne ebbero, per così dire, il monopolio fino alla metà del secolo xvii.”
(207) Non facciamo la storia dell'usura, e dobbiamo quindi trascurare molte e molte citazioni ad appoggio di quanto veniamo dicendo; a mostrare però come l'industria feneratizia non fosse esercitata dai soli Ebrei, riferiamo il seguente brano di un'ordinanza di Luigi il Protervo, 9 luglio 1315: “Et comme nous avons appris que plusieurs Italiens étaient dans notre Royaume, lesquels exercitent marchandises et contrats qui ne sont pas honnêtes, notre intention n'est pas de donner à tels Italiens lesdites frauchises et libertés.”
(208) San Luigi li oppresse colle leggi più intollerabili, liberò i loro debitori, proibì ogni azione giudiziaria a vantaggio degli Ebrei, e spinse il rigore sino a proibir loro di contrattare. (Blanqui, Hist. de l'Ec. pol., i, 186).
(209) Blanqui, op. cit., i, 223.
(210) Loc. cit.
(211) Arthur Beugnot, Les Juifs d'Occident, 2me partie, pag. 35.
(212) Roscher, art. cit.
(213) Il Roscher (loc. cit.) nota, assai saggiamente, che l'azione commerciale degli Ebrei fu favorita anche dalla loro unione altrettanto vivace quanto grandiosa, estesa attraverso tutti i regni cristiani e maomettani. È questo un vantaggio che, in minori proporzioni, si può segnalare anche presso altre minoranze religiose, e su cui, ad esempio, riposano i successi mercantili degli Ugonotti in Francia e dei Quacqueri in Inghilterra.
(214) Blanqui, Hist. de l'Ec. pol., i, 189.
(215) D'aguir, Concil. hispan., t. ii, p. 752.
(216) Réflexions d'un Milord, pag. 52.
(217) Veggasi il documento in Revue des Etudes Juives, anno 1882, pag. 231.
(218) Difesa contro gli attacchi fatti alla nazione ebrea, ecc. Pavia, mdcclxxxiv, pag. 104.
(219) Scherer, Storia del Commercio in Biblioteca dell'Economista, serie ii, vol. iv, pag. 712.
(220) Unità Cattolica di Torino, numero 224, del 26 settembre 1883, 1ª ed., pag. 896. — Veggasi pure fra i documenti una importante memoria del principe Demidoff di San Donato sulla questione semitica in Russia.
(221) Mac Culloch, Principii di Ec. pol. in Bibl. dell'Ec., v. xiii, pagine 17, 18.
(222) Il Temple era un quartiere di Parigi ove i rigattieri avevano le loro botteghe. Oggi ancora quel quartiere, situato nei pressi del sobborgo operaio di Sant'Antonio, è abitato dalla parte più povera degli Ebrei di Parigi.
(223) Medici, op. cit., cap. xii.
(224) Talmud Babilonese Holin, fol. 84. Appoggiato a tale sentenza l'autore del libro Hassidim, vivente in Francia verso il 1200, condanna e dichiara peccatori coloro che nel salutare il non israelita gli dicono sottovoce villanie, cui l'altro suppone esser parole amichevoli. (Hassidim, § 51).
(225) Id. id.
(226) Tossaftà Kamà, cap. iv.
(227) Maimonide dietro il Talmud, trattato Ghenevà, capitolo 7, lez. 8.
(228) Capi di Accademia in Persia, succeduti ai Talmudisti dal 600 al 1038 di G. C.
(229) Kamà, fol. 113.
(230) Semach Gaon, nelle decisioni dei Gheonim, stampate a Salonico e sotto il titolo di Sciaon Zedek, fol. 84 retro.
(231) Samag, precetto negativo, 152.
(232) Cfr. De Rossi, Diz. storico degli autori Ebrei, Parma, 1802, vol. 2, p. 67 a. v. Mosè di Kotzi.
(233) Bavà Metzià, fol. 49.
(234) Levi, op. cit., pag. 281.
(235) I Talmudisti sembrano essersi assai preoccupati della esattezza dei pesi e delle misure. “Il commerciante all'ingrosso ripulisca le sue misure una volta al mese, quello al minuto una volta ogni dodici mesi. R. Simeone, figlio di Gamliel, dice all'opposto: il bottegaio ripulisca le sue misure due volte per settimana e netti i suoi pesi una volta per settimana, e netti la bilancia dopo ogni pesata. R. Simeone dice, questo intendere trattandosi di cose molli, ma di cose aride non occorre.” (Bavà Badrà, 88 a). “Si instituiscono commissari per le misure [perchè siano giuste] ma non per i pesi [perchè dipendono dalla concorrenza]. Rami bar Hamà dice: si stabiliscono commissari sia per le misure, sia per i prezzi a motivo degli ingannatori.” (Ivi, 890).
“È proibito di tenere in casa misure mancanti o soverchianti..... quest'intendesi nei paesi ove non sono bollate, ma dove sono bollate quando non vede il bollo non prende.” (Ivi, 897).
E certamente a queste massime si è inspirato il Maimonide quando facendo suo il precetto che leggesi in Bavà-Badrà, 886, scrisse: “È più grave la punizione di chi defrauda colle misure che di chi commette incesto, perchè questo è tra lui e Dio, e quello tra lui e il prossimo” (Maimonide, Leggi sul furto, cap. vii, lez. 8).
(236) Marco Mortara, Compendio della religione israelitica, Mantova, Beretta, 1855, pag. 86.
(237) V. Talmud Sanedr. 76b e Maccot 24a.
(238) Mastrofini, Le usure. Milano, Silvestri, 1841, pag. 9. Cfr. Genovesi, Lezioni di economia civile in Bibl. dell'Economista, 1ª serie, vol. iii, pag. 207. Il dotto filosofo napoletano fu forse il primo in Italia a comprendere e ad esporre nettamente il concetto biblico del prestito ad interesse.
(239) Op. cit., pag. 37.
(240) Talmud Makot, pag. 24.
(241) Jalkut Mislè, fol. 144, 1.
(242) Jalkut, fol. 295, 2.
(243) Makot, fol. 24.
(244) Bavà Mezhia, fol. 71.
(245) Rabot Mishpatim, sez. 2, verso la metà. Nella stessa sezione molti altri passi sono diretti a biasimare l'usura: p. e. “Vieni e vedi: chiunque è ricco, e benefica i poveri e non prende usura, Iddio lo considera come se avesse osservato tutti i precetti.
“Diede ad usura, prese aumento e vivrebbe? Non vivrà.” (Ezechiele 18, 17) “dice Iddio benedetto: Chi visse d'usura in questo mondo, non vivrà nel mondo venturo.”
“Non gl'imporrete usura (Esodo, 22, 27) bastava imporrai, perchè dice: imporrete? si riferisce ai testimoni, al garante, ai giudici ed allo scrivano, perchè se non fossero questi, egli non prenderebbe nulla, e quindi vengono puniti tutti quanti.
“A che si assomiglia l'usura? A chi viene morso da un serpente, e non se ne accorge, e non lo sa sino a che non lo investe (?) tutto.
“Il povero che è con te (Esodo, 22, 27) dice il santo, benedetto egli. Non gli basta la sua miseria che tu gli prendi ancora usura?”
(246) Modena, op. cit., parte ii, cap. v, pag. 49.
Dell'uso del sangue cristiano nei riti ebraici
Oggi ancora, nell'ultimo quarto del secolo decimonono, abbiamo veduto, in un paese che si dice civile, Ebrei accusati di aver assassinato una fanciulla cristiana, non per scopo di lucro o di libidine, non per vendetta, o per qualsiasi altro dei soliti moventi cui obbediscono gli assassini, ma nell'intento di raccoglierne il sangue, sangue che si pretende necessario agli Ebrei per l'adempimento di tenebrosi loro riti (247).
E mentre il processo si dibatteva in Ungheria, abbiamo veduto in Italia, in Francia, in Germania, nei paesi insomma del continente d'Europa che sono alla testa del movimento intellettuale, pubblicarsi giornali ed opuscoli per sostenere che la religione ebraica impone ai suoi seguaci l'obbligo di valersi del sangue di umane vittime per compiere non sappiamo quali infami riti.
Che più? un professore dell'I. R. Università di Praga, il Rohling, si è persino procacciata una tal qual nomea, facendosi banditore della oscena accusa; e quasi ciò non fosse bastante, il Figaro di Parigi, il giornale certamente più diffuso dell'Europa continentale, e che ha parecchi Ebrei fra i suoi collaboratori, riproduceva, a proposito del processo di Tisza Eszlar, nel suo numero del 15 luglio 1883, un lungo e calunnioso articolo contro gli Ebrei, togliendolo da un infame libello antisemitico, il Paderboner Judenspiegel.
Certamente, di fronte agli scarsi accusatori, sorsero numerosi i difensori degli Ebrei, e fra questi, solleva l'animo il poterlo dire, non mancarono dotti ecclesiastici di tutte le confessioni cristiane.
Certamente gli stessi Tribunali Ungheresi, con tre conformi sentenze, proclamarono l'innocenza degli Ebrei accusati nel famoso processo di Tisza Eszlar; ma è pur troppo nell'indole della natura umana il prestare più facile orecchio a chi accusa che a chi difende, a chi proclama il male che a chi lo nega, sicchè non è a meravigliarsi che uomini di buona fede, liberali sinceri, rimangano oggi ancora dubbiosi di fronte alla strana accusa.
Si fa la grazia agli ebrei, che dimorano nei paesi più colti, di ammettere che abbiano rinunziato al sanguinoso rito, ma si pretende che esso si mantenga ancora rigoglioso in quei paesi dove il progresso della civiltà trova refrattarii ebrei e non ebrei.
I più benevoli arrivano ad accordare che non tutti gli Ebrei pratichino la nefanda cerimonia, ma insinuano che può bene essere sorta in seno al giudaismo, una setta la quale abbia imposto ai suoi seguaci l'obbligo di versare umano sangue e di cibarsene (248).
Insomma, mentre tutti gli onesti provano ribrezzo ad involgere nella orrenda accusa gli Ebrei che conoscono personalmente, quelli che vivono in continuo contatto con loro, non mancano però parecchi che vanno cercando argomenti per persuadere a loro stessi che Ebrei di remote contrade possono bene essere colpevoli.
Noi che scriviamo, conosciamo in Italia fior di onesti uomini che protesterebbero indignati se domani una simile accusa si muovesse ad un loro conterraneo, ad un loro amico ebreo, ma che la trovano invece naturale, naturalissima, quando viene rivolta ad un ebreo ungherese o siriaco (249).
Anzi abbiamo sentito taluno che pretendeva difendere gli Ebrei, non negando la stolta calunnia, ma invocando questa singolare attenuante: che cioè se simili accuse non si muovono più, contro gli Ebrei che dimorano in paesi civili, egli è perchè essi rinunciano all'orribile pratica, non appena cessano di esser fatti segno alle oppressioni di cui furono e sono bersaglio nei tempi e nei paesi meno civili.
Certamente, al secolo nostro, che, più spesso che non convenga, giudica dalle apparenze, ripugna meno l'accusare di una orribile superstizione il lurido ebreo polacco dal classico cafetano e dai ricci bisunti, od il palestinese dal turbante e dalla turchesca zimarra, che non il gentiluomo lindo ed azzimato che si mescola a noi, che vive della nostra vita e che ormai può dirsi in tutto eguale agli altri suoi concittadini.
Ma tutto ciò non è che parvenza.
Vanto precipuo del giudaismo è, che, malgrado le differenze, dalla civiltà e dal progresso create, fra gli Ebrei dei varii paesi, essi mantennero sempre l'unità del loro culto, delle loro credenze; sicchè le stesse pratiche, gli stessi riti si celebrano tanto a Parigi quanto a Bagdad, tanto a Milano od a Boston quanto nell'ultimo villaggio della Ungheria e della Polonia.
Bisogna dunque ammettere che o tutti gli Ebrei, che oggi vivono fra noi, hanno d'uopo di sangue cristiano per le loro cerimonie religiose, o che questo bisogno non fu mai provato da nessun ebreo, in nessun tempo ed in nessun paese.
La religione ebraica non ha sêtte, non ha discrepanze religiose, sicchè è forza accettare questo dilemma: o tutti innocenti o tutti colpevoli.
E per questo noi — che scriviamo in Italia, dove, da ormai trenta anni, non è più sorta nessuna accusa di questo genere contro gli Ebrei — sentiamo il bisogno di insistere su questo argomento per far chiaro che mai, in nessun luogo ed in nessun tempo, gli Ebrei praticarono l'infame rito; perocchè se ci fosse provato che un solo fanciullo cristiano fosse stato ucciso dagli Ebrei per scopo religioso, in qualsivoglia tempo, ed in qualsivoglia paese, dovremmo noi pei primi riconoscere che oggi ancora gli Ebrei di tutto il mondo celebrano l'infame cerimonia.
Eppure la storia ribocca di accuse simiglianti mosse agli Ebrei, eppure è antichissima la asserzione che gli Ebrei sacrifichino vittime umane a non sappiamo quali orribili superstizioni.
Già Giuseppe Flavio confutava l'asserzione di Appione, il quale accusava gli Ebrei d'ingrassare nel loro tempio degli stranieri fatti prigionieri e di scannarli poi, per offrirli in olocausto a Dio (250).
Nei secoli posteriori, specialmente a partire dal XII secolo, l'accusa di cui ci occupiamo si venne tanto spesso ripetendo sotto diverse forme, che gli Ebrei hanno oggi nella loro lingua una parola speciale (gnalilad dam, la calunnia del sangue) per designare questa calunnia loro sempre tanto fatale, parola questa che non è ignorata nemmeno da coloro fra essi che non sanno neppure una sillaba di ebraico, e che risuona sempre ai loro orecchi come il rintocco di una campana funebre.
Ai tempi di Arcadio imperatore (395–408 d. G. C.) ad Imnestri, piccola località situata tra Calcide ed Antiochia, alcuni Ebrei ubbriachi furono accusati di aver attaccato ad una croce un fanciullo cristiano e di averlo ucciso; ne seguì una lotta terribile. Ma questo fatto fu giudicato da Arcadio con equità e furono puniti soltanto i veri colpevoli (251).
Nel 1080 gli Ebrei furono tutti banditi dalla Francia, ed i loro beni confiscati, sotto l'accusa di avere, alla loro Pasqua, sacrificato un ragazzino.
Basnage ci narra (252), come — sotto il regno di Alfonso X il saggio, Re di Castiglia e di Leon (1252–1284), — tre scellerati di Orsona, città dell'Andalusia, gittassero un cadavere nel giardino attinente alla casa di un ebreo ed accusassero poi questi di averlo ucciso. Questa calunnia essendosi diffusa per la città il popolo massacrò tutti gli Ebrei che gli caddero nelle mani.
Parecchi cercarono un rifugio nelle case dei loro amici cristiani, ma siccome ricorreva la Pasqua, nel qual tempo gli Ebrei non mangiano pane lievitato, e come essi non trovavano naturalmente che di questo, nelle case dei loro amici, poco mancò non morissero di fame, perchè preferivano digiunare ad infrangere la prescrizione religiosa. Gli abitanti di Palma imitarono quelli di Orsona e si dettero a perseguitare ed uccidere gli Ebrei, sicchè questi fecero pregare i loro correligionari di mandar deputati alla Corte per impedire un massacro che stava per diventar generale. I persecutori tenner dietro dappresso ai tre deputati Ebrei che erano stati all'uopo designati. Anzi essi giunsero i primi, perocchè gli Ebrei erano stati obbligati a lasciare le vie battute ed a nascondersi in una foresta per paura di cader nelle mani dei loro persecutori. Giuseppe, capo della Deputazione ebrea, parlò in nome di tutti, con tanta eloquenza che venne ammirato da tutta la Corte. Re Alfonso assolse gli Ebrei dall'omicidio che non era mai stato commesso. Gli accusatori insistevano perchè l'ebreo fosse messo alla tortura, per sapere se egli aveva o meno perpetrato il reato, ma egli potè sottrarsi alla dura prova, chiedendo ed ottenendo si aprisse la tomba da cui era stato tratto il cadavere, per gittarlo nella sua casa.
Simiglianti accuse si produssero in Inghilterra. Nel 1226 gli Ebrei di Norvich furono condannati a 20,000 marche di ammenda per aver voluto crocifiggere un fanciullo (253). Egualmente nel 1255 a Lincoln, dove dopo un simulacro di giudizio, diciotto ebrei furono appiccati ed il piccolo Ugo, il crocifisso, canonizzato.
A Northampton, per delitto di crocifissione, se ne appiccarono cinquanta, e pochi anni dopo, nel 1287, gli Ebrei furono espulsi dall'Inghilterra, dove non ricomparvero che dopo aver ricevuto da Cromwell l'autorizzazione di risiedere a Londra e di costruirsi una sinagoga, di rito spagnuolo (254).
Nel 1432 si pretese che Ebrei avessero fatto morire, lardellandolo di colpi di stile, V. Wernher di Bacharach.
Nel 1443 gli Ebrei di Milano, per un'accusa simile, dovettero pagare 20,000 fiorini.
Nel 1475 tre israeliti furono accusati di aver ucciso un ragazzo a Trento, dove la popolazione era stata prima fanatizzata dalle prediche di Bernardino da Feltre (255), e tutti gli Ebrei furono messi alla tortura e spogliati di tutto.
Nel 1490, Giovanni di Passamento fu aggiunto alla lista dei santi spagnuoli per il suo supposto martirio a Guardia.
Nel 1506, a Venezia, un giovane israelita ungherese venne arrestato per sospetto di voler rapire un fanciullo cristiano, ma, da saggi giudici, riconosciuto innocente, tosto posto in libertà.
Questo fatto ce lo narra il Sanuto nel volume sesto (256) dei suoi diarii, e lo diamo nel suo testo originale, poichè le parole dell'illustre storico mettono in più chiara luce e la illuminata giustizia veneta, ed il retto e sano criterio dei nostri padri.
“22 marzo 1506.
“In questo zorno hessendo gran Conseio suso, achadete chel fo retenuto un zudio hongaro, nominato Isaach, qual studiava et stava perhò in questa terra, et venuto zoso Gran Conseio, ser Hieronimo Quirini et ser Antonio Zustignam dotor, Avogadori, lo andono a examinar. Par chel ditto a San Stin (257) in certa calle havesse trovato un puto di anni 2 ½ in zercha, smarito, e lui lo tolse soto la vesta e lo voleva menar via ut dicitur a marturizarlo como fo il bia Simon a Trento et Sebastian Novello a Porto Bufole del 14.. (258), et visto da alcuni, tandem fu preso detto zudio che fuziva e si buttò al aqua. Et cussì li Avogadori fe la soa examination con interprete et formò il processo. Quello seguirà noterò di sotto, unum che la matina in Rialto alcuni zudei dal vulgo fonno batuti et quasi lapidati. Ma judico nulla sia et nulla seguirà et esser cossa falssa.”
“24 marzo 1506.
“In questa matina in quarantia criminal fu rilassato il zudeo retento per cazon del puto, atento nulla erra con effecto, et cussì li Avogadori messeno di rilassarlo e fu preso.”
Così si vedeva e si giudicava in Venezia nel 1506!
Verso il 1530, un ebreo, di Amasia, presso Erzerum, venne accusato dell'assassinio di un cristiano il quale era stato bensì visto entrare nella casa dell'ebreo, ma non era stato visto uscirne. Secondo il solito i correligionari dell'accusato furono coinvolti nel processo. I disgraziati vennero sottoposti alla tortura, e, sotto l'angoscia di inenarrabili sofferenze, confessarono di aver assassinato un cristiano; tutti furono appiccati, ed un medico, Jacob Abiob, bruciato vivo. Ma l'accusa non era che una orribile calunnia ordita da falsi testimoni e la prova non tardò a farsene palese: la pretesa vittima ricomparve. La causa venne allora portata a Costantinopoli, dinanzi al Tribunale di Solimano II, che non soltanto punì i calunniatori, ma ordinò che altre accuse di questo genere, contro gli Ebrei, che potessero riprodursi, dovessero portarsi dinanzi al divano di Costantinopoli, ogni altra giurisdizione esclusa.
Bastò questa disposizione, bastò l'idea di trovarsi dinanzi a giudici relativamente illuminati, perchè, per ben tre secoli, la calunnia non rialzasse più il capo negli Stati del sultano (259).
Anche nel secolo nostro simili casi si riprodussero sovente, troppo sovente per un secolo che ha la pretesa di essere quello dei lumi. Pur tacendo di altri fatti, ricorderemo come a Damasco un rispettabile e venerando cappuccino italiano, il padre Tommaso, ed un suo domestico, scomparissero nel febbraio 1840. Un barbiere ebreo e sette mercanti ebrei furono arrestati sotto l'imputazione di averli uccisi per compiere un sagrifizio rituale. Il processo venne istruito in modo, che, lord Palmerston, nella seduta della Camera dei Comuni inglesi del 22 giugno 1840, ebbe a dichiarare “esempio di barbarie e di atrocità inaudite nel nostro secolo, e quali non potevansi aspettare in un paese che è in relazione col mondo civile (260).” Atroci tormenti strapparono agli sventurati accusati una specie di confessione che smentirono energicamente dopo. Il console d'Austria, signor Merlato, tentò invano di calmare l'emozione popolare. Una sollevazione dei cristiani siriaci ne seguì, e, malgrado i passi fatti al Cairo, da sir Moses Montefiori e da Cremieux, in favore dei loro correligionari, malgrado che il Vicerè d'Egitto, Mohammed-Ali, prosciogliesse gli Ebrei da ogni accusa, il popolaccio non fu meno convinto, e lo è ancora adesso, che il padre Tommaso venne sacrificato in obbedienza ai riti talmudici delle feste pasquali.
Quasi contemporaneamente, a Rodi, sorgeva una simile accusa, sempre contro gli Ebrei, ma, il 20 luglio 1840, il Consiglio di giustizia della Porta, che aveva avocato a sè la trattazione dell'affare, assolse tutti gli Ebrei dalla accusa portata contro di loro dai Greci, di essersi impadroniti di un fanciullo greco, al solito intento di scannarlo e di servirsi del suo sangue per la Pasqua. Nè pago di ciò, il Governo turco, per dimostrare tutto l'orrore che gli inspiravano le inumane sevizie usate dal pascià di Rodi contro gli Ebrei accusati, lo destituì da ogni sua carica ed il sultano Abdul-Medjid, con un suo firmano, in data del 13 Ramazan 1256 (7 novembre 1840), che si leggerà fra i documenti, pose in piena luce l'innocenza degli Ebrei accusati a Damasco ed a Rodi.
Pochi anni dopo una cittaduzza italiana, Badia, in provincia di Rovigo, vedeva svolgersi un importante processo, di cui pubblicheremo più innanzi i documenti, processo che finì coll'assoluzione dell'ebreo imputato e colla condanna della sua calunniatrice.
Ricorderemo ancora un processo che ebbe luogo or sono venti anni a Saratoff, l'ultimo, crediamo, nel quale gli Ebrei venissero, malgrado le proteste delle autorità civili e militari, e dello stesso ministro di giustizia, condannati, e ciò, in seguito a testimonianze di persone peggio che equivoche e malgrado che la tortura non fosse giunta a strappare la menoma confessione a nessuno dei pretesi rei.
È troppo recente, e troppo presente alla memoria di tutti, un fatto accaduto due anni or sono ad Alessandria d'Egitto, perchè vi spendiamo sopra ulteriori parole.
Non possiamo però resistere al desiderio di fare qualche breve osservazione sul conto dello stranissimo processo che si svolse non ha guari in Ungheria. A Tisza Eszlar — paese situato, è bene notarlo, nella circoscrizione elettorale che inviò alla Tavola dei deputati il famoso antisemita Geza-Onody, — una ragazza quindicenne, di religione protestante, a nome Ester Solymossy, essendo sparita, gli Ebrei furono accusati di averla assassinata per scopo rituale. Mancava ogni base giuridica all'accusa; nelle acque del Tibisco si era persino ritrovato un cadavere che, quantunque deformato, appariva, indubbiamente, dagli indumenti che portava, quello della infelice scomparsa; sul cadavere non si riscontrava nessuna lesione che potesse far sospettare se ne fosse cavata una sola goccia di sangue; malgrado tutto ciò si voleva il processo; ed il processo, ad eterno disonore dell'Ungheria, ebbe luogo.
Non ce ne rammarichiamo noi; perocchè quel processo è la più fulgida testimonianza dell'innocenza degli Ebrei, confermata da tre conformi sentenze pronunciate, malgrado le esorbitanze di una folla briaca d'odio e sitibonda di sangue, fanatizzata dalle mene degli antisemiti.
Solo argomento a sostegno dell'accusa era, orribile a dirsi, la deposizione di un ragazzo quattordicenne, Maurizio Scharf, figlio ad uno dei principali accusati (261). Come si giungesse a costringere un figlio a calunniare il proprio padre, ce lo dica una corrispondenza che il Figaro di Parigi riceveva da Vienna in occasione del processo.
“Per slegare la lingua a quel Maurizio Scharf, il Deus ex macchina di quel processo, il ragazzo quattordicenne che, con accanimento singolare, si era fatto accusatore del proprio padre, il cancelliere giudiziario Peczely, quel fenomeno di magistrato che nel corso del processo si seppe aver passato quindici anni della sua vita in galera per tentato assassinio, ricorreva ai seguenti mezzi: gli somministrava schiaffi e pugni in buona dose, gli anneriva il dorso con colpi del suo scudiscio da caccia e gli minacciava di fargli finire i suoi giorni in una oscura cella, talmente sucida che neppure un cane vi accetterebbe un pezzo di pane. Al contrario gli prometteva mari e monti nel caso in cui si decidesse a parlare.”
Nè diversi erano, sempre secondo la citata corrispondenza, i mezzi usati cogli altri imputati. Ora venivano gettati in qualche cella umida e fredda, ora si esponevano ai raggi del sole, quel sole della Pusztah che ha i suoi quaranta gradi al minimum, e quando si lagnavano di aver sete, si versavano loro nella gola torrenti d'acqua che li soffocavano. Del resto il knut non riposava gran fatto.
Più efficace ancora è la descrizione che, dei mezzi usati contro gli imputati di quell'iniquo processo, ci fa un eminente scrittore francese, il Cherbuliez — che mal si cela sotto il pseudonomo di Valbert — nella Revue des deux Mondes del 1º agosto 1883: “Il giudice d'istruzione (262), non potendo cacciar nulla dall'imputato Vogel, dopo avergli applicato un ceffone, chiamò i suoi sgherri, e minacciò di bastonarlo: rispose che quanto si voleva fargli dire era falso, siccome potevano confermare ventiquattro testimoni che desiderava si citassero. Tre pugni fortemente appiccicatigli sulla mascella ne fecero sgorgare il sangue; rifiutò di confessare. Gli si fece allora inghiottire tanta acqua che fu costretto a lasciarsi cadere a terra per poterla recere; quando l'ebbe rigettata, lo si costrinse a bere tre bicchieri di acqua salata. Rifiutò di confessare. Gli vennero allora legate le mani dietro il dorso, il commissario lo prese per uno dei ricci dei suoi capelli, un altro per l'altro e tirarono così forte che i due ricci restarono loro nelle mani. Rifiutò di confessare. Lo si spogliò, lo si fece coricare sulla paglia minacciando di appiccarlo pei piedi. Rifiutò di confessare. Poi lo si obbligò a correre sino ad Eszlar dinanzi al cavallo d'un panduro. Il calore era soffocante ed egli non si reggeva più, ma ricusò di confessare. Si finì col rinchiuderlo in una oscura cella. Vi dimorò tre settimane e vi cadde gravemente malato sempre chiedendo, invano, che si sentissero i suoi testimoni.”
Dopo queste narrazioni di scrittori e di giornali autorevoli nessuno oserà meravigliarsi se il governo ungherese, in una corrispondenza di origine evidentemente iperofficiosa, in data 3 luglio 1883, pubblicata nella République française, è obbligato a lasciarsi strappare questa preziosa confessione:
“Mentre l'Ungheria è governata da una legislazione eminentemente liberale — una fra le più liberali d'Europa — la magistratura ungherese non ha quasi subìto nessuna trasformazione, nessuna riforma, ed è rimasta ad un dipresso tal quale era il secolo scorso”.
Malgrado tutto ciò, malgrado l'eloquenza ed il talento grandissimo che il Szalay, avvocato della parte civile, aveva posto al servizio di questa iniqua causa, tre conformi sentenze posero in luce la piena innocenza degli accusati (263).
Nella impossibilità in cui eravamo di riferire tutti i fatti calunniosi di questa natura addebitati agli Ebrei, siam venuti scegliendo imparzialmente tanto fra quelli che terminarono colla condanna dell'innocenza, come fra quelli in cui l'innocenza finì per trionfare.
Ma, di fronte all'odiosità di questi processi, ci piace porre la testimonianza di coloro che si adoperarono a scagionare gli Ebrei dalla iniqua accusa.
E tra questi vogliamo citare, fra i primi, molti ebrei che abbandonarono la religione avita per abbracciare il cristianesimo. Si sa che in generale coloro che abbandonano una religione od un partito ne divengono i più fieri avversari, sicchè questi neofiti, se avessero avuto conoscenza dell'infame rito, non avrebbero mancato di denunziarlo e, per dovere di coscienza, sopratutto, ed anche forse un pochino per astio verso gli antichi correligionari. Invece non uno fra essi (264) si fece propalatore di simili accuse. L'abate Ratisbonne, i fratelli Lehmann di Lyon, nati ed educati nella religione ebraica, e divenuti più tardi zelantissimi sacerdoti di Cristo, non ne fecero cenno, ma anzi la smentirono. Eisenmenger — fiero nemico degli Ebrei — nel suo Giudaismo svelato ci tiene parola di un Tommaso neofita, il quale, nell'anno 1413, interpellato da un re spagnuolo per conoscere cosa vi fosse di vero in questa accusa, che il Vescovo di Madrid muoveva dal pergamo agli Ebrei, ne proclamò altamente la falsità adducendo prove in contrario. Un altro neofita, Gerolamo di Santa Fè, confessò a Papa Benedetto VIII nulla esservi di vero in questa accusa che si vuol fare agli Ebrei. Aloisio di Sonnenfels (265) pubblicò in Vienna un dottissimo opuscolo: Ripugnanza degli Ebrei contro il sangue ossia il Giudaismo accusato, inquisito ed assolto dal preteso uso del sangue cristiano innocente nel quale, con copia di irrefutabili argomenti, scagiona gli Ebrei dalla orrenda accusa. Fra i documenti, che vanno uniti al presente libercolo, si troverà la solenne dichiarazione fatta a Vienna dal predicatore di Corte, Veit, nel 1840, colla quale solennemente proclamava dal pergamo la innocenza dei suoi antichi correligionari. A questi si debbono aggiungere, sempre tra i neofiti, il dott. Alessandro M. Caul (266) in Londra che nella opera “Reasons for Believing ecc.”, dedicata alla sua Graziosa Sovrana, dimostra come i sacrifizi umani ed il versar sangue stieno in aperta contraddizione coi principii fondamentali del Mosaismo. Ed a questo libro va unita una dichiarazione firmata da 35 ebrei, convertiti al cristianesimo, i quali, unanimemente, dichiaravano essere l'accusa di cui ci occupiamo una vile e diabolica menzogna. Anche un altro ebreo convertito, il dott. Augusto Neander (267) rilasciò nel 1840 una dichiarazione contro quest'accusa e del paro il dott. Biesenthal di Berlino (268) ed il dott. Tugendhold di Varsavia (269) hanno, nei loro scritti dimostrato nel modo il più rigorosamente scientifico, come tale accusa altro non sia che una orribile menzogna (270).
A questi autori, che appartengono tutti alla categoria degli Ebrei convertiti, convien aggiungere due scrittori tedeschi, il Wagenseil e l'Eisenmenger, già citato, autori, il primo della Tela ignea ed il secondo del Giudaismo svelato, entrambi accaniti nemici degli Ebrei, ma abbastanza onesti per non calunniare scientemente i loro avversari.
Il primo chiama l'uso falsamente attribuito agli Ebrei del sangue cristiano spaventevole menzogna che ha privato degli averi e della vita tante migliaia di persone innocenti (271).
Il secondo scrive: Da ciò puossi giudicare che in questa cosa si fa torto agli Ebrei, particolarmente dacchè è severamente vietato nei libri di Mosè.
Si noti che entrambi questi autori avean fatto profondi studi sul Giudaismo ed avevano avuto parte alla conversione di moltissimi Ebrei.
Un italiano, Chiarini, uno dei più feroci nemici del giudaismo, a pag. 161 della sua introvabile Teoria del Giudaismo, scrive: che dopo aver fatto il più maturo esame della legge mosaica si viene necessariamente a concludere che: 1º l'amore del prossimo vi è comandato sempre e verso tutti; 2º che l'avversione che vi s'inspira contro i riti e i costumi degli altri popoli non cade sopra le persone, ma non è che una cautela che Mosè dovette usare per impedire agli Ebrei di darsi alla idolatria alla quale erano sì inclinati; 3º che infine l'odio comandato contro i Cananei, gli Amaleciti, ecc., fu una conseguenza necessaria del rigore dell'antico diritto di guerra e di rappresaglia provocata contro di sè stessi da quegli stessi popoli; odio perciò di nazione e passeggiero e voluto soltanto per quei dati popoli designati dalla legge (272).
Anche Giovanni Hornbeck, olandese, e non certamente amico degli Ebrei, come lo prova il solo titolo del suo libro: De convertendis Judæis (1655), scrive a pag. 26 dei prolegomeni:
“Bisognerebbe sapere se è vero ciò che nelle storie si legge comunemente per irritare gli Ebrei contro i Cristiani o piuttosto questi contro quelli, cioè, che ogni anno alla preparazione della pasqua, questi Ebrei sacrificano barbaramente un fanciullo cristiano ch'essi hanno furbescamente involato, e che fanno questo per deridersi della pasqua del Cristo che si celebra in quell'epoca istessa: io non voglio nè posso affermarlo, sapendo bene che nei tempi in cui si inventarono simili racconti e specialmente dopo che il Tribunale dell'Inquisizione fu stabilito dal papismo, mille di coteste fandonie vennero inventate e gli storici di quei tempi non cessarono di pubblicarle. A dir il vero, io non ho ancor letto alcuna relazione che mi provi esser veri quei fatti. Tutto si fonda su delle donnicciolate popolari sempre molto incerte o per lo meno raccolte alla meglio dalla bocca di qualche monaco inquisitore, senza calcolare poi la cupidigia delle spie che tutto si facevano lecito per rendersi padroni dei beni degli Ebrei e se non padroni, almeno riscuotere buon premio del loro spionaggio. Ciò è provato da quanto si legge nel 1º libro delle costituzioni di Sicilia, titolo vii. L'imperatore Federico ci dice: Si vero Judaeus vel Saracenus sit, in quibus, prout certo perpendimus, Christianorum persecutio minus abundat ad praesens, etc., cioè: Se poi vi sia Ebreo o Saraceno, in cui come certamente sappiamo che la persecuzione dei cristiani meno abbonda al presente, ecc. Questo fa supporre che i Cristiani sono sempre più o meno animati contro gli Ebrei, che se però questa volta è avvenuto per caso che un Cristiano è stato ucciso da un Ebreo, non si è per questo in diritto di asserire che gli Ebrei ogni anno si fanno un obbligo di uccidere un bambino cristiano, e ciò che Tommaso Cantipratensis nel suo ii libro, capitolo 23 assicura, cioè esser noto a tutti che ogni anno ed in ogni Provincia gli Ebrei tirano a sorte il borgo od il villaggio o la città che deve fornir loro l'olocausto, (cristiano, s'intende, dice lui), non è che una di quelle menzogne, di quelle calunnie, e di quelle fandonie, di cui ha pieno il suo libro.”
Giuseppe De Maistre, scrittore cattolico ed ortodosso se ve ne fu uno, un omino che dava gloria ai suoi fratelli e non viveva, come altri, della gloria che il fratello riflette, sopra di loro, Giuseppe De Maistre, dico, ha scritto un Trattato sui sacrifizi che fa seguito alle Serate di Pietroburgo. Ora in quel trattato non soltanto non si fa menzione del preteso rito di sangue addebitato agli Ebrei ma si viene indirettamente a scagionarli con queste parole che leggonsi a pagina 368 (Ed. di Lyon, 1836): “Una esperienza di quaranta secoli ci apprende che dovunque il vero Dio non sarà, in forza di una esplicita rivelazione, riconosciuto e servito, l'uomo immolerà sempre l'uomo e spesso lo divorerà.”
Citiamo ancora, fra i moltissimi, due sacerdoti cattolici. Il padre Riccardo Simon dell'Oratorio, che in occasione del processo di Raphael Levy, bruciato vivo a Metz il gennaio 1670, sotto l'accusa di aver assassinato un fanciullo cristiano, ne scrisse una splendida difesa (273); ed il R. P. Bonaventura du Maine dell'ordine dei Minori Conventuali, che discorrendo, nel 1865, al Congresso Cattolico di Malines (si noti: al Congresso Cattolico) dello orribile assassinio del padre Tomaso, accaduto nel 1840 a Damasco, ebbe a dire che questo reato “non può essere imputato che ai suoi assassini, giacchè nessun uomo serio crede più oggi che in nessun luogo di questo mondo, gli Ebrei si credano autorizzati dalla loro religione ad immolare dei Cristiani” (274).
Anche principi secolari e Pontefici, spesso si adoperarono a purgare gli Ebrei dalla indegna calunnia.
Bona e Gian Galeazzo Sforza, duca di Milano, con particolare decreto 19 maggio 1470, che si troverà fra i documenti, non esitarono a dichiarar l'accusa falsa e calunniosa.
L'imperatore Carlo V, con editto del 3 aprile 1544, dannava tali imposture e proclamava, che, in forza delle dichiarazioni papali, quanto viene imputato agli Ebrei, necessariamente non può sussistere ed impartiva disposizioni a tutela degli innocenti calunniati.
Una pubblica sentenza, pronunciata in Verona, l'ultimo febbraio del 1603, proclamò l'innocenza dell'imputato Giuseppe Ebreo, all'appoggio, più che d'altro, del divieto di Sommi Pontefici di prestar credenza a tali accuse, la quale osservanza condusse i giudici a provare falsi e calunniosi tutti i testimoni intervenuti nel processo.
Nel 26 luglio dello stesso anno Vincenzo I duca di Mantova e Monferrato, illuminato dalla pietà di Monsignor Vescovo e del Padre Inquisitore, per levare, come si esprime, la suddetta vana e falsa voce che s'era levata in odio agli Ebrei, proibì persino di parlarne sotto comminatoria di 200 scudi d'ammenda commutabili, per chi non li pagasse, in pene corporali ad arbitrio nostro.
Tullio Carreto, vescovo di Casale, con pubblica sentenza, 27 luglio 1611, resa d'accordo con frà Benedetto Ruota, inquisitore generale di Casale e d'Alba, proclamò l'innocenza di un'infelice donna israelita, accusata dell'immaginario reato. Federico III, Massimiliano II e Leopoldo, dietro l'esempio dei predecessori, ed appoggiandosi alle Bolle dei Sommi Pontefici, bandirono la falsità dell'accusa, e tutelarono gli imputati con ogni sorta di leggi e di penalità.
E, invocando finalmente l'autorità dei Sommi Pontefici, esporremo:
Che un Gregorio IX, sulle orme apostoliche di Calisto, Eugenio, Alessandro, Celestino, Innocenzo, Onorio e tanti altri, pronunciò scomunica contro gli autori e propalatori dell'iniqua calunnia, e con particolar Breve, in data 9 settembre 1236, che comincia Lacrimabilem Judaeorum, vi rese palese, anche ai Principi secolari, la pia e retta sua intenzione (275).
Che il pontefice massimo Innocenzo IV, con suo Breve 5 luglio 1247, scrisse ad arcivescovi e vescovi di Francia e di Germania, ingiungendo alle persone ecclesiastiche, ed ai principi, nobili, secolari e cittadini di astenersi dal supporre negli Ebrei la colpa di cui trattasi, Breve che comincia: Archiepiscopis et episcopis per Alemaniam constitutis. Lacrimabilem Judaeorum Alemaniæ recepimus questionem, ecc. (276).
Che analoghe dichiarazioni ebbero a fare Clemente VI nel 1342, e Sisto IV;
Che il sommo pontefice Alessandro VII infine, nel settimo anno del suo pontificato, con suo Breve od Editto, fu pietosamente indotto a condannare siffatte calunnie contro gli Ebrei.
Basterebbe davvero la concorde testimonianza di tanti autori, di tanti principi, di tanti pontefici a ridurre al silenzio ogni uomo di buona fede (277).
Pure non è così; e noi che vorremmo schiacciare per sempre la testa all'idra della calunnia, siam costretti ad abusare della cortesia e della pazienza dei lettori ed a soffermarci troppo su di un'accusa che Sir Robert Peel, nella seduta della Camera inglese del 22 gennaio 1841, dichiarava indegna di ogni attenzione (278).
Ma siamo obbligati a farlo dalla malizia, o, diremo meglio, dalla malignità dei nemici degli Ebrei, la quale non ha limiti.
I papi, come si è visto, hanno più volte scagionato gli Ebrei dalla stolta calunnia. Un giornale cattolico ed onesto, l'Unità Cattolica di Torino, aveva, pochi anni or sono, ripetuta l'accusa, ignorando quanto i Papi avevano scritto in proposito. Ma bastò che un dotto israelita facesse avvertito il Teologo Margotti dell'errore, perchè questi nel N. 112 del 1872 della sua Unità pubblicasse la seguente leale dichiarazione:
“Nella vigilia del giorno natalizio del nostro Santo Padre Pio IX, vogliamo emendare un articolo sugli Ebrei pubblicato nel nostro numero 106, discorrendo dei tumulti di Smirne e del supposto sagrifizio di un fanciullo. Ed è nostro debito il dichiarare che già ab antico fu apposta agli Ebrei questa calunnia, ma ne vennero purgati dai Papi medesimi, tra i quali vogliamo annoverare principalmente Gregorio IX ed Innocenzo IV. Noi abbiamo voluto vedere in fonte i documenti e, consultati gli Annali del Baronio continuati dal Raynoldo, nel volume ii, a pag. 395, vi abbiamo letto le seguenti parole che tradurremo dal latino:
“Fu tocco Papa Innocenzo IV dalle dolorose lagnanze degli Ebrei che in Germania ed in Francia piangevano oppressi da gravissime ingiurie e mali. Imperocchè correndo attorno la falsa voce che essi nelle feste pasquali si mangiassero, a guisa di sacra comunione, il cuore di un ucciso fanciullo, questa calunnia loro si appiccò talmente, che per la più lieve causa venivano spogliati dei beni, gettati in carcere ed anche colpiti, senza forma alcuna di giudizio, di ingiustissima e crudelissima morte. Per proteggerne l'innocenza e liberarli da quel feroce zelo di Principi e popoli, il Pontefice scrisse agli Arcivescovi e Vescovi di Germania che resistessero al furor popolare, perchè non si straziassero in sì crudel modo gli innocenti, dovendosi colla massima prudenza riflettere che dal sacro loro archivio ci venivano quasi i testimoni della fede cristiana. Ecco la lettera di Innocenzo IV: “Agli Arcivescovi e Vescovi costituitisi per la Germania. Abbiamo ricevuto lagrimose lagnanze dagli Ebrei di Germania perchè non pochi Principi sì ecclesiastici come secolari ed altri nobili potenti delle vostre città e diocesi per rapire ed usurpare i loro beni, macchinando contro di loro empi disegni, fingendo varii e diversi casi, non considerando saggiamente che dalle origini loro quasi provennero le testimonianze della fede cristiana nè che la divina scrittura tra gli altri precetti dice: — Non ammazzare — e agli Ebrei vieta nella solennità pasquale qualunque omicidio, falsamente li accusano che nella stessa solennità essi si comunichino col cuore di un ucciso fanciullo, credendo di ubbidire alla stessa legge, mentre ciò è a questa legge medesima affatto contrario, e malignamente a quelli imputano l'uccisione di un uomo se loro accade di scoprire in qualche luogo un cadavere. E per questa ed altre molte finzioni incrudelendo contro di essi nè accusati, nè confessi, nè convinti e contrariamente a' privilegi loro benignamente concessi dall'Apostolica Sede, li spogliano, contro Dio e la giustizia, di tutti i loro beni, e li opprimono colla fame, la prigionia, e tante molestie e sì grandi tormenti, infliggendo loro diversi generi di pene, e spessissimo condannandoli a turpissima morte, che gli stessi Ebrei, trovandosi quasi sotto il dominio dei predetti Principi, nobili e potenti, in peggiore condizione di quel che fossero i loro padri sotto Faraone d'Egitto, sono costretti a miseramente esulare da' luoghi abitati da essi e da' loro antecessori da tempo immemorabile: laonde, temendo il proprio esterminio, stimarono di dover ricorrere alla prudenza della Sede Apostolica.
“Non volendo adunque che siano ingiustamente vessati i predetti Giudei, la cui conversione aspetta il misericordiosissimo Iddio; credendosi per testimonianza del Profeta, che saranno salvi i loro avanzi; mandiamo che, mostrandosi ad essi favorevoli e benigni, qualunque delle predette cose avete trovato essersi temerariamente tentata contro gli stessi Ebrei dai predetti prelati, nobili e potenti, legittimamente rivocando qualunque ordine, non permettiate che essi per l'avvenire siano indebitamente molestati intorno alle dette ed altre simili cose. Dato a Lione, III nov. dell'anno V. Questa lettera fu altresì mandata ai prelati della Francia”.
“Il chiarissimo professore Giuseppe Levi, direttore dell'Educatore Israelita di Vercelli, ci indicò il documento riferito più sopra; e noi dopo averlo consultato negli annali del Baronio, continuato dal Raynaldo, non tardammo a tradurlo e pubblicarlo. Aggiungiamo pure di non aver saputo trovare nel Talmud nessun testo che comandi o consigli agli Ebrei l'uccisione di bambini cristiani per celebrare la Pasqua. Francesco Domenico Guerrazzi nel 1857 stampava nel suo Asino questa calunnia. Protestammo, scrive il professor Levi, e, dopo lungo carteggio, convinto delle nostre ragioni, Guerrazzi disdiceva nella seconda edizione il già detto, e ci scriveva da Genova nel 20 luglio 1857: Non mi resta che a congratularmi con voi dell'essere rimasti soddisfatti dell'ammenda fatta, e di avermi porta occasione di raddrizzare un errore il quale, certo contro la mia volontà, vi recava gravame”.
Lasciamo a parte la buona fede del Guerrazzi, che il Levi avrà avute le sue buone ragioni per trovare soddisfacente, e confessiamo che il contegno dell'Unità Cattolica fu così onesto, così leale da giustificare pienamente quanto noi scrivemmo a pag. 15.
Ma, pur troppo, non tutti i giornalisti cattolici son del valore di Don Giacomo Margotti. Un articolaio della Civiltà Cattolica a pag. 234 del vol. vii del 1881 vuole provarsi ad aggiustare il latino in bocca al papa, e vien fuori con questo bel ragionamento che noi, più onesti dell'articolaio suddetto, amiamo riferire per esteso prima di rispondervi:
“Che fra queste pratiche giudaico-talmudiche vi sia anche quella di comunicarsi la Pasqua col cuore di un fanciullo cristiano assassinato questo noi nol crediamo: nè se ne trova a nostra notizia cenno nel Talmud e neanche sappiamo che mai sia stato formato sopra un tale misfatto un regolare autentico processo. Ma quanto alla legge ed alla pratica talmudica di assassinare dei cristiani fanciulli e non fanciulli per servirsi del loro sangue nella confezione degli azimi nelle feste pasquali, questa è legge fondata nel Talmud, e praticata più volte dai Giudei come consta da molti processi anche recenti (ma, articolaio del mio cuore, se è fondata nel Talmud, non dovrebbe constare dal Talmud stesso, anzichè dai processi?) secondo che fu già da molti e sarà anche da noi colla scorta dei processi ampiamente, chiaramente ed indubbiamente dimostrato”.
Che sorta di ciuco sia l'articolaio della Civiltà dimostreremo a luce meridiana in una lettera indirizzata al chiarissimo direttore di quel periodico, lettera che i nostri lettori troveranno più innanzi; ma qui non si tratta di maggior o minor dottrina, ma bensì di spudorate calunnie, tanto più infami, in quanto che scritte su di una imputazione che costò già la vita a molti innocenti e scritte allorquando pendevano processi sull'argomento, coll'evidente intento di esercitare, mercè l'autorità del giornale che le accoglieva, una pressione sull'animo dei giudici (279).
Affermiamo dunque che nel brano succitato sono più le infamie, e le menzogne scientemente scritte, di quello che non siano le parole — e lo proviamo:
1. Che razza di papi, e che razza di uomini, sarebbero stati Gregorio IX ed Innocenzo IV se, sapendo che gli Ebrei avevan per obbligo di uccidere fanciulli cristiani per compiere tenebrosi riti, avessero impiegato la loro parola a scagionare gli Ebrei dall'accusa di comunicarsi col cuore di un fanciullo cristiano? Che la religione mosaica non abbia nulla di simile al Sacramento della Eucaristia sanno anche i bimbi; e quei papi sarebbero stati i peggiori fra i malfattori se, arzigogolando sulle parole, come un volgare scrittore della Civiltà, avessero detto ai Cristiani: Non è vero che gli Ebrei ammazzino i fanciulli per comunicarsi col loro cuore, sottointendendo, con strana restrizione mentale, ma li ammazzano per servirsi del loro sangue nella confezione degli azimi.
Ingiuria più atroce e più insana di questa, verso la memoria di due Sommi Pontefici, non poteva scagliarsi da nessun ebreo, da nessun ateo, da nessun nemico della Chiesa, ed è bello, è istruttivo sopratutto, che l'abbia scagliata un articolaio della Civiltà Cattolica.
2. Assassinare dei cristiani fanciulli e non fanciulli per servirsi del loro sangue nella confezione degli azimi nelle feste pasquali, questa è legge fondata sul Talmud.
Chi asserisce ha sempre avuto l'obbligo di provare. Noi, per esempio, affermiamo qui anche una volta che l'odio dell'articolaio e dei pari suoi contro il Talmud proviene da ciò: che, mentre essi desiderano la immediata conversione degli Ebrei (V. Civiltà Catt., Quaderno 814, p. 487), quel libro tanto esecrato giovò specialmente a confermare gli Ebrei nella loro fede, e, siccome lo affermiamo, lo proviamo subito, citando le parole di un autore ultra-cattolico, il Rohrbacher (280): “Questa raccolta di tradizioni farisaiche (il Talmud) chiosate, predicate dai rabbini, è appunto, siccome pare, il maggior impedimento alla conversione dei giudei”.
L'articolaio invece, asserendo che nel Talmud è fatta agli Ebrei prescrizione di celebrare l'orrendo rito, afferma, ma non prova, e sì che la prova qui era tanto facile e semplice, bastava citare il trattato ed il foglio del Talmud dove si trova imposto agli Ebrei il nefando rito.
Ma questo l'articolaio non potè fare per una ragione semplicissima; ed è che frammezzo alle bellissime cose ed alle matte stranezze di cui riboccano i dodici volumi in foglio del Talmud, non vi è una riga, neppur una, che possa, per quanto torta e ritorta, venire in appoggio alla bieca accusa.
Sa invece l'articolaio cosa c'è nel Talmud?
Legga l'articolaio, se li sa leggere, per tacer d'altri, i trattati Choiln, Keridut, Pesachim, Jebamoth, Zevachim e vi troverà ad ogni pie' sospinto rinnovato il divieto fatto agli Ebrei dalla Bibbia (281) di cibarsi di sangue, e non solo lo troverà rinnovato, ma lo troverà aggravato da tutte quelle siepi che, secondo il detto talmudico, i Rabbini si sono piaciuti a porre attorno alla legge di Dio per renderne più sicura la osservanza. E perciò non soltanto troverà vietato l'uso del sangue di animali, ma troverà minuziose, ridicole prescrizioni perchè i cibi sieno preparati in modo che non vi rimanga la più piccola traccia di sangue, troverà persino fatto divieto all'ebreo di inghiottire il boccone che ha in bocca, se per caso venisse, mentre lo sta masticando, ad uscirgli una goccia di sangue dalle gengive, o di sorbire un uovo nel quale si trovi una goccia di sangue.
Rida finchè vuole l'articolaio di queste minuzie e noi rideremo con lui, e di buon cuore; ma, vivaddio, non accusi coloro che le osservano di pasti da antropofaghi.
Che se poi l'articolaio fosse vago di sapere cosa pensano i padri del Talmud dello omicidio, gli diremo che al tempo delle persecuzioni di Trajano, raccoltisi i maestri del Giudaismo in segreto consiglio, stabilirono: che qualunque ebreo potesse tenersi sciolto dall'obbligo di adempiere i riti religiosi, ognora che ne potesse seguire pericolo di morte; e che solo per sottrarsi a un atto di idolatria, all'omicidio e all'adulterio fosse cosa onorevole e giusta, spendere la propria vita (282).
E questa opinione è cento volte ripetuta nel Talmud dove a tacere d'altri mille passi si legge anche il seguente:
“Chi versa il sangue dell'uomo sarà versato il suo sangue.
“Molti è vero, hanno le mani lorde di sangue umano, eppure muoiono tranquillamente nel letto loro. Ma il loro sangue sarà versato nel giorno del giudizio (283)”.
E se ciò non basta all'articolaio, se non gli basta la dichiarazione dell'Unità Cattolica di non aver trovato nel Talmud nessun precetto che comandi o consigli il nefando rito, ci stia a sentire; non potremo esser brevi, e ne chiediam venia ai lettori, ma vorremmo farla finita una buona volta con questa stolida calunnia.
Vi è all'Università di Praga, un I. R. professore di antichità giudaiche, che dopo essersi fatto una bella fama di cretino sostenendo i pretesi miracoli della stigmatizzata Lateau (284), e coprendo di contumelie i protestanti, ha pensato in occasione del processo di Tisza-Eszlar di riconfermarla, mandando fuori parecchie sue cicalate, intese a dimostrare come gli Ebrei facciano uso pei loro riti di sangue cristiano.
Queste cicalate provocarono le risa di tutti i dotti di Europa, senza distinzione di culto; fu provato che il Rohling è un vigliacco calunniatore, un ignorante di tre cotte, nella migliore ipotesi, un mattoide della più bell'acqua.
Ma tutte queste qualità che rendono il Rohling indegno di esser citato a qualsivoglia persona seria, lo costituiscono invece la più bella, la più luminosa autorità che possa opporsi all'articolaio della Civiltà. Similia similibus.
Ora questo Rohling, in una lettera, scritta il 19 giugno 1883, al famoso deputato antisemita ungherese Geza di Onody, lettera che venne riprodotta il 24 giugno nell'Ungarischer Grenzbotes di Presburgo scrive queste precise parole: “Avevo detto nella mia Antwort an die Rabbinen che io non avevo trovato nel Talmud — per quanto ne conosciamo delle edizioni stampate — nessuna prova dell'assassinio ritualmente ordinato agli Ebrei”.
Mentre quindi l'articolaio, poco civile e meno cattolico, con quella sicumera che si addice alla sua ignoranza, afferma nel 1881 questa legge di sangue fondata nel Talmud, due anni dopo, il suo degnissimo Rohling, professore di antichità giudaiche, è costretto ad affermare che non seppe trovare nel Talmud una riga che facesse al caso suo.
Prevediamo però l'obbiezione che si potrebbe farci. Si potrebbe dirci che la malafede del Rohling è uguagliata soltanto dalla sua crassa ignoranza, sicchè nessun uomo, per poco che si rispetti, è obbligato a prestar fede alle sue parole.
E rispondendo così anche l'articolaio sarebbe perfettamente nel suo diritto e nessuno saprebbe dargli torto.
Ma cosa, risponderebbe, di grazia, alla testimonianza di due principi della Chiesa, emessa in occasione di un recente processo e citata da un giornale non sospetto: la Gazzette de France del 2 luglio 1883? Stia a sentire, l'articolaio:
“In occasione del processo di Tisza-Eszlar il dottor Samassa, arcivescovo d'Erlau, ed il cardinale Luigi Haynald, arcivescovo di Kalocza, non esitarono a dichiarare che in nessuno dei libri religiosi degli Ebrei si contenevano simili prescrizioni.”
Ma taluno a corto di migliori argomenti, ci dirà che se non è nel Talmud stampato, può essere in qualcuno dei manoscritti antichi.
Rispondiamo che cataste di quei manoscritti furono sequestrate in illo tempore, da preti e da frati, in tanta copia che oggi riescono rarissimi, sicchè il solo completo che si conosca è quello della Biblioteca Reale di Monaco. Ora questi preti e questi frati, se vi avessero trovato la nefanda legge, avrebbero avuto l'obbligo sacrosanto di renderla pubblica.
Non l'hanno fatto? segno evidente che non hanno trovato niente.
E siccome conosciamo e disprezziamo il modo di polemizzare dei nostri avversari e non vogliamo servirci dell'arte loro di citar una riga di uno scritto per snaturarne il concetto, così confesseremo francamente che il Rohling, nella lettera citata, prosegue affermando di aver trovato l'obbligo imposto agli Ebrei di far uso di sangue, in un libro stampato nel 1868 a Gerusalemme.
Ma, il degnissimo compare, non sa e non può citare il titolo del libro, perchè egli non ha fatto che copiare una calunnia messa in giro da un immondo libello antisemitico, il Paderboner Judenspiegel, siccome luminosamente dimostra l'illustre Delistsch, un cristiano, professore della facoltà di Teologia di Lipsia, nel Pester Lloyd del 16 marzo 1883.
3. L'ultima infamia che leggesi nelle poche righe dello sconcio articolo, che ci piacque riferire, è nelle parole: che fu già da molti e sarà anche da noi, colla scorta dei processi, ampiamente, chiaramente ed indubbiamente dimostrato.
Siccome infinitus est numerus stultorum, non abbiamo difficoltà ad ammettere che molti abbiano voluto trarre da quei processi una illazione qualsiasi.
I processi in proposito furono molti, moltissimi anzi, e noi ne abbiamo ricordati una buona serqua.
Ma chiediamo, non all'articolaio, evidentemente convinto essere il medio evo il periodo più splendido della storia dell'umanità, ma a qualunque uomo non sia del tutto cretinizzato dal fanatismo, che valore abbiano tutti i processi nei quali gli imputati, ed anco i testimoni se occorre, sono assoggettati alle torture.
Ce lo dica il Fleury, quando narra che ai servi dei primi cristiani si estorceva coi tormenti la confessione dei pretesi infanticidii commessi dai loro padroni.
E se l'autorità del Fleury non basta, adduciamo quella di tale che fu ad un tempo un Santo, ed un Pontefice, San Nicola I (858–867), e perchè non ci si accusi di falsare le citazioni, riferiamo l'opinione di questo Santo Pontefice tal quale come la riferisce uno scrittore, cui, è a sperare, non si negherà fede (285):
“Il papa S. Nicolò I, rispetto all'usanza che avevano i giudici di porre alla tortura i sospetti di alcun delitto, dichiara non ammessa nè dalla divina nè dalla umana legge, vale a dire dalla romana; volontaria, dice, dovendo esser la confessione e non forzata. Per la tortura può un innocente patir eccessivamente senza nulla confessare; e in tal caso la è un'empietà da parte del giudice: o, vinto dal dolore, dirsi reo, quand'anche non sia; empietà, anche allora non minore da parte del giudice.”
Ora, dopo avere dimostrato come un Papa del ix secolo la pensasse, in materia di processi istruiti col mezzo della tortura, invitiamo l'articolaio a por mente che tutti i processi, che ebbero esito fatale per gli Ebrei, furono istruiti mercè quel mezzo, che egli probabilmente deplora in cuor suo di non poter applicare all'autore di queste pagine. E quasi questa infamia della tortura non bastasse a togliere ogni valore a questi processi, è opportuno ricordare che in molti fra essi, e specialmente nei primi, cioè in quelli che più degli altri giovarono ad accreditare lo stolto pregiudizio contro gli Ebrei, la prova della loro pretesa colpabilità fu ottenuta mercè il giudizio di Dio. Così avvenne, per esempio, a Blois nel 1171. L'unico testimonio che accusava gli Ebrei fu posto sul fiume dentro una barca ed essendo egli riescito a salvarsi, la sua accusa venne tenuta per vera.
Ed è sulla base di tali processi che l'articolaio vuole ampiamente, chiaramente, indubbiamente dimostrare?
Non è difficile che, in mancanza di altri argomenti, ci si opponga l'antichità della accusa, il numero grande delle vittime, e dei relativi processi, l'universale diffusione della accusa; i soliti argomenti, insomma, di tutti quelli che non ne hanno di migliori.
Rispondiamo:
Quale colta persona crede oggi giorno che vi sieno mai state persone capaci di diffondere ad arte pestilenze e morbi?
Eppure le storie riboccano di processi contro i pretesi untori; ed oggi ancora una grave epidemia non si manifesta in un paese, senza che la plebe non accusi questo o quello di diffondere il morbo, e nella prima metà del nostro secolo ancora, Parigi, il cervello d'Europa, vide dei pretesi avvelenatori uccisi a furor di plebe (286).
Chi crede oggi alle streghe, ai commerci col demonio, a tutto quanto farneticavano, su questi argomenti, i nostri buoni nonni?
Eppure le storie abbondano di processi contro streghe, le quali furono, non soltanto convinte di reati impossibili, ma persino confesse; eppure le vecchie biblioteche sono ingombre di volumi in cui si tracciano ai giudici le vie da seguire per giungere alla scoperta di delitti che il progresso della umana ragione dimostrò non poter accadere; eppure non sono tanto remoti i tempi obbrobriosi nei quali un sacerdote cattolico, Urbano Grandier, veniva accusato di aver stregato diciassette monache di Loudun, in cui si costringeva un'altro curato, il Gianfredi, a confessare che aveva soffiato il diavolo nel corpo di Maddalena Lapallu ed in cui si vide il gesuita Girard sul punto di essere condannato al rogo, per aver gittato un sortilegio sulla Cadière.
Se i processi contro gli untori, se quelli contro le streghe, non bastano a farci persuasi che un uomo possa diffondere una pestilenza senza esserne la prima vittima, che una donna possa attraversare dozzine di leghe, a cavallo di una scopa, perchè i processi contro gli Ebrei avranno, soli, virtù di persuaderci che essi facciano uso di sangue cristiano nei loro riti?
Nè maggior autorità dei processi, ha la antichità della accusa. Ciò che forma il principale pericolo di ogni calunnia è questo appunto: che per quanto luminosamente smentita dai fatti, e dalla ragione, essa persiste sempre in talune menti più ottuse, sicchè, quando sembra completamente vinta e debellata, la si vede poi ogni qual tratto rinascere più viva e rigogliosa che mai.
Circa all'esser stata questa accusa mossa agli Ebrei in tempi e luoghi diversissimi, locchè può parer prova della sua veridicità, rispondiamo subito che, in tempi ed in paesi diversissimi, si credette agli untori ed alle streghe; che la chiromanzia ebbe seguaci fra i greci antichi e fra i moderni francesi; che all'astrologia credettero, per tacer d'altri, gli antichi Caldei, gli Arabi del medio evo, e gli uomini più colti di tutti i paesi sino a pochi secoli or sono; e che oggi noi ridiamo di tutte queste cose, e ci faremmo beffe di chiunque invocasse, sul serio, l'argomento dell'universale diffusione che ebbero in passato queste credenze per persuaderci della loro verità.
La progredita civiltà dell'epoca nostra non impedisce poi che anche oggi perdurino talune incredibili superstizioni. I montanari di Scozia credono ancora che un tale e tal lago abbia il suo kelpie e il suo caval d'acqua; nel fondo di certe provincie di Francia i contadini son lungi dal negar fede al lupo mannaro; e qui, nella nostra Italia, il romano, per non dir d'altri, crede ancora al cattivo occhio e gli ospedali di Napoli ricevono, ogni anno, qualche infelice martoriato da malvagi superstiziosi, che pretendono ottenere in tal guisa i numeri del lotto.
Un'ultima osservazione ci rimane poi a fare circa il preteso valore dei numerosi processi che si fecero, con esito diverso, contro gli Ebrei.
L'articolaio stesso osserva, che man mano che un paese va incivilendosi, i processi di questo genere divengono più rari, mentre sono tanto più frequenti, e hanno esito peggiore per gli Ebrei, quanto più avvengono in epoche remote ed in paesi meno civili.
In Inghilterra, dacchè gli ebrei vi furono richiamati dal protettore Cromwell, non ebbe più luogo nessun processo di tale natura. In Francia non se ne ebbe nessuno, dopo la sentenza del parlamento di Metz che dannò a morte Raphael Levi (16 giugno 1670), sentenza che è riconosciuta da tutti come un errore giudiziario e contro cui si scagliò un venerando ed illustre sacerdote cattolico, il padre Simon dell'Oratorio.
In Italia l'ultimo processo, che terminasse con una condanna, risale al 1480. Vi furono bensì, varie volte dopo, dei tentati ammutinamenti contro gli Ebrei, come a Casale Monferrato nel 1611, a Mantova nel 1824, per pretese sparizioni di fanciulli che poi vennero trovati vivi e sani.
Un immondo libello pubblicato l'anno scorso a Prato, libello al quale non è certamente estranea la mano dello articolaio della Civiltà, col titolo Il sangue cristiano nei riti ebraici della moderna sinagoga reca un lungo elenco di pretesi assassinii rituali commessi dagli Ebrei; ora da quell'elenco stesso desumiamo che nel corso di questi due ultimi secoli nessuno di questi assassinii fu commesso in Francia, Inghilterra, Italia o Germania; tutti i segnalati hanno per teatro la Polonia, l'Ungheria, la Russia e l'Oriente.
Abbiamo già dimostrato che una è la religione mosaica in tutti i tempi ed in tutti i paesi, sicchè dal fatto che simili processi divengono impossibili nei paesi civili, non è lecito dedurre la conseguenza che gli Ebrei di questi paesi si astengano dal compiere quello che, secondo i loro nemici, sarebbe per essi un dovere di coscienza; ma ben piuttosto è logico l'argomentare che il progredire della civiltà renda impossibile nonchè il condannare neppure l'iniziare processi sopra una così stolida accusa. E persino in Germania, la terra classica dell'antisemitismo e dei processi inverosimili, se crediamo al seguente fatto narrato mesi sono dai giornali, pare, o articolaio diletto, che il tempo cessi d'esser propizio agli arrosti.
“Sino dal 22 gennaio 1883, a Skurz, paese di due mila abitanti, nella Prussia occidentale, presso Danzica, fu rinvenuto il cadavere mutilato di un ragazzo di 15 anni. La voce popolare accusò del misfatto gli Ebrei, asserendo che essi avevano assassinato il ragazzo per servirsi del suo sangue ne' loro riti religiosi. Un ebreo, certo Josephsohn, come sospetto dell'orribile delitto, fu subito arrestato. Malgrado precise deposizioni di testimoni, che dichiaravano di aver veduto ed udito tutto, non si poterono ottenere prove sicure contro di lui. Adesso la direzione della polizia di Berlino ha spedito a Skurz un valente commissario di polizia, il quale ha potuto fare la luce su lo strano avvenimento e scoprire il vero autore dell'assassinio nella persona del macellaio cattolico Giuseppe Behrendt. Costui, più di tutti, aveva gridato contro gli Ebrei e con minaccie era riuscito a indurre uno de' principali testimoni del misfatto a deporre di aver veduto sul luogo l'ebreo Josephsohn. Il Behrendt è stato, sul momento, tratto in arresto” (287).
Dopo ciò, — con buona venia dell'articolaio, passiamo ad occuparci di altro, lieti di avergli dimostrato:
1. Che ha calunniato due papi.
2. Che ha mentito, tirando pei piedi quel povero Talmud, che probabilmente non conosce neppur di vista, e che c'entra in tutto ciò quanto la Civiltà ed il Cattolicismo nei suoi articoli.
3. Che i processi su cui si appoggia contano giusto altrettanto quanto la sua scienza talmudica, e la sua critica, perocchè nessun uomo di senno presta fede ai processi nei quali, come ebbe a dire il poeta:
La torture interroge et la douleur répond
a processi che giustificherebbero quasi il detto di Voltaire: “Giudizio tanto più cristiano, quanto più sprovvisto di prove”.
Giunti a questo punto potremmo credere di averla finita coll'increscioso argomento, se non ci rimanesse ad indagare quali sieno le origini di questa abbominevole calunnia, quali le ragioni per le quali potè diffondersi ed acquistar credenza, a carico specialmente di un popolo che avrebbe dovuto esser l'ultimo a venir fatto segno a così stolida accusa.
L'ingegno umano non è tanto ferace in maligne invenzioni quanto comunemente si crede, e questa, del servirsi del sangue umano per riti tenebrosi, non è stata rivolta contro gli Ebrei soltanto, ma contro molte altre sette, molte altre persone.
Ed è naturale; perocchè l'identità del sangue e della vita fu per tutta l'antichità assioma quasi indiscusso; da cui derivò per processo naturale l'idea che il cielo irritato contro gli uomini non potesse placarsi che col sangue. L'ostia sanguinosa domina la religione, come la storia, della antichità. Nella storia di Roma il sangue di Lucrezia caccia i Tarquinii e quello di Virginia i decemviri (288).
Siffatte idee che dominarono intiera l'antichità non poterono non lasciar traccia nello spirito dei popoli, sicchè la superstizione che il sangue giovi a forzare la volontà divina fu attribuita ora a questi ed ora a quelli.
I primi Cristiani, per non risalire ad epoche più remote, erano già stati, con egual verità, accusati della orribile pratica. Ecco cosa dice a questo proposito il Fleury (289); di cui ci piace riferire un lungo brano, perchè si veda, colla scorta di un autore non sospetto, come tutte le accuse che oggi si muovono contro gli Ebrei erano pure rivolte contro i primi Cristiani.
“Questo segreto dei misteri non cessava di essere un grande argomento di calunnie contro i Cristiani (290), perchè si suole più sovente nascondersi per fare il male che per fare il bene..... I cattolici poi avevano degli schiavi pagani, ai quali la paura dei tormenti faceva dire contro i loro padroni tutto ciò che volevano i loro nemici. (Oh! Cosa diventano dopo ciò i processi coi quali l'articolaio voleva ampiamente, chiaramente, indubbiamente dimostrare ciò che non ha mai esistito?) Così si diffuse la favola che i Cristiani nelle loro assemblee notturne uccidessero un fanciullo per mangiarlo, dopo di averlo fatto arrostire, copertolo di farina, ed aver immerso il loro pane nel suo sangue; ciò che manifestamente traeva origine da una mala interpretazione del mistero dell'Eucaristia. Si diceva anche che dopo il loro pasto in comune, in cui mangiavano e bevevano con eccesso, gittavano un'offa ad un cane che era legato al candeliere, in guisa che il cane saltellando rovesciava il solo lume che li rischiarava, sicchè dopo col favore delle tenebre quanti erano uomini e donne si mescolavano assieme indifferentemente come sogliono le bestie.
Gli Ebrei furono i principali autori di queste calunnie (291), e per quanto assurde esse fossero, il popolo vi credeva, sicchè si era pur costretti a giustificarsene seriamente (292).
“Si accusavano ancora i Cristiani di esser nemici del genere umano . . . . La carità che avevano gli uni per gli altri era una congiura odiosa . . . Le persecuzioni stesse di cui erano vittime erano un argomento di odio contro i Cristiani, venivano ritenuti colpevoli perchè dovunque erano come tali trattati e dal tremendo rigore dei supplizi si argomentava della enormità dei loro delitti; erano considerati come gente destinata alla morte, al rogo, alle forche, e se ne componevano loro sopranomi ingiuriosi (293). Ecco ciò che rendeva i Cristiani così odiosi al popolo ed agli ignoranti, ecco il fondamento di quanto, seguendo l'opinione comune, ne dicono Svetonio e Tacito. Svetonio dice che Claudio imperatore “cacciò da Roma gli Ebrei che istigati da Cristo (294) intrigavano senza posa”, quasi che Gesù Cristo fosse ancor vivo e fosse divenuto capo di parte fra gli Ebrei. Annovera fra le buone azioni di Nerone l'aver fatto soffrire supplizi ai cristiani, genti, soggiunge, di una superstizione nuova e malefica (295). Tacito (296) parlando del fuoco che Nerone fece appiccare a Roma per divertirsi, dice che egli ne accusò genti odiose pei loro delitti che il popolo chiamava cristiani (297); poi aggiunge: Questo nome veniva da Cristo che Ponzio Pilato aveva fatto giustiziare, imperatore Tiberio. E questa perniciosa superstizione allora formatasi (298) si rialzava di nuovo non soltanto in Giudea sorgente del male, ma anche a Roma dove tutto quanto vi ha di nero e di infame nel mondo si riunisce e si pratica (299). Si presero dapprima coloro che confessavano, poi dietro le loro deposizioni una gran moltitudine fu convinta non tanto dell'incendio quanto dell'odio verso l'uman genere. Più innanzi li tratta da colpevoli, e da gente che meritavano gli ultimi esempi.”
I pochi ed oppressi seguaci della vera Fede essendo, col progresso dei tempi divenuti possenti e numerosi, la calunnia cessò di esercitarsi contro di loro, ma non scomparve per questo, rimase anzi intatta e solo mutarono le vittime, probabilmente altrettanto innocenti.
I Luciferiani ed altri eretici ebbero a subire le conseguenze della stessa calunnia.
Ad essi si addebitavano tenebrose conventicole nelle quali si calpestavano le leggi della morale e del più elementare pudore. I bambini, nati in seguito a queste tenebrose orgie, erano solennemente immolati pochi giorni dopo la loro nascita, il loro sangue raccolto con cura, il loro corpo bruciato, e le ceneri mescolate col sangue s'adoperavano a formare un pane che serviva all'eucarestia dei settarii (300). Questa accusa fu applicata anche ai Bogomili della Tracia ed agli Euchiti, di cui uno dei rami sembra essersi fuso coi Templari. Essa fu egualmente posta a carico dei Templari, con una variante però, che era per ottenere l'olio che doveva servire a consacrare l'idolo (Bafometto) che avrebbero avuto luogo i sacrifizi di bambini rimproverati ai Templarii: “Un enfant nouvel engendré d'un Templier et d'une pucelle estoit cuit et rosti au feu et toute la graisse ostée, et d'icelle estoit sacrée et oint leur idole (301)”. E sempre, nell'età dimezzo sopratutto, la fantasia popolare farneticava ora di bambini immolati, ora di bagni di sangue umano, adoperati come rimedio d'incurabili malattie cutanee. E di questo farnetico, se ne trovan tuttora le traccie nelle fiabe e ne' racconti tradizionali; onde sbuca fuori di quando in quando: ed il sospetto o l'odio del volgo attribuisce l'atto nefando, ora al tiranno esoso, ora a questo, ora a quello. Veggasi fra le Ducento Novelle, di Celio Maleyuni (Venezia 1609), quella intitolata Matrimonio di Filenia, figliuola del Re d'Egitto.
E nel Cunto de li Cunte, il trattenimento della Giornata iii, Rosella, di cui ecco l'argomento: “Lo Gran turco, pe' farese no vagno de sango de signore, fa pigliare 'no prencepe. La figlia se ne 'nnamora; e se ne fujeno. La mamma l'arriva e le so tagliate le mano da lo Prencepe. Lo Gran Turco ne more de crepantiglia. Ma jastemmata la figliola da la mamma, lo Prencepe se ne scorda, ma, dopo varie astuzie, fatte da essa, torna a memmoria de lo marito e se gaudeno contente.”
Nè mancano monumenti che ci abbiano portato le prove di siffatta credenza. Il sacrificio di un bambino è rappresentato infatti su certi monumenti del medio evo, ma queste scolture portano dei segni evidenti della dottrina gnostica delle emanazioni, che non ha nulla a che fare cogli Ebrei (302).
In uno dei lati d'un cofanetto trovato presso Volterra, e che fece poi parte della collezione del duca di Blacas a Parigi, si vede raffigurato un fanciullo colla testa e le braccia pendenti nell'abbandono della morte: due uomini sono occupati a lavare il cadavere immerso per metà in una vasca. L'altro lato rappresenta questo cadavere posato su di un rogo le cui fiamme l'inviluppano. Uno degli assistenti volge la testa e se la nasconde fra le mani con un gesto di pietà e di orrore. Su un lato opposto del cofanetto è rappresentata la purificazione del cadavere.
Indubbiamente queste scolture rappresentano un rito religioso nel quale viene sacrificato un fanciullo.
Ma a chi apparteneva quel cofanetto? Ad Ebrei certamente no. Ed a noi basta quindi averne accennato l'esistenza per dimostrare come, questi riti sanguinosi sian forse stati, per lo passato, praticati da sêtte che cogli Ebrei non ebbero nulla di comune, e lasciamo ad altri il decidere se il cofanetto di Volterra appartenesse ai Templari, ai Gnostici od a qualsivoglia altra setta.
Anche un papa, Innocenzo VIII, fu accusato di aver fatto rapire de' fanciulli per sgozzarli e bagnarsi nel loro sangue (303), e la stessa accusa fu ripetuta quasi un secolo dopo contro un re di Francia, Francesco II, il marito della bella ed infelice Maria Stuarda, come ne fa fede il seguente brano della Histoire Nationale de Paris et des Parisiens, par H. Gourdon de Genouillac (tom. ii, 1882, pag. 3–4):
“Il y eut un certain nombre de gens pendus, vers la fin du 1559, pour avoir répandu une calomnie contre Catherine de Médicis et son fils; voici le fait: Le jeune roi s'étant trouvé malade à Fontainebleau, les médecins l'envoyèrent a Blois pour y respirer l'air natal, mais les gens du pays, prétendirent que ce n'etait pas de la fièvre quarte, comme le prétendaient les médecins, dont souffrait François, mais bien de la lèpre, et on raconta que plusieurs enfants avaient disparu depuis l'arrivée du roi, que ces enfants avaient été mis à mort pour que le roi pût prendre des bains de sang, remède qui convenait d'autant mieux au royal malade, que sa mère ne l'avait conçu que lorsque, d'après l'ordonnance du premier médecin Fernel, elle s'était décidée, après dix ans de stérilité, à ne remplir ses devoirs d'épouse que pendant certaines époques, où d'ordinaire les femmes s'en abstiennent. Ce bruit, habilement semé par les calvinistes, trouva vite de l'écho; des bords de la Loire il arriva à Paris, où il fut colporté partout, et le parlement dut sévir contre ces propagateurs; ce fut un prétexte tout trouvé pour arrêter et envoyer à la potence le gens suspects. On ne négligea pas de s'en servir, et plus d'un Parisien bavard alla réfléchir au Châtelet au danger qu'on court lorsqu'on a la langue trop longue.”
Malgrado la severa lezione, qualche secolo dopo la calunnia ricomparve in Francia, non più contro un re, ma vaga ed indeterminata; si accusarono delle sparizioni, pur troppo reali, di vari giovani, ora una principessa che si dilettava di bagni di sangue, ora, naturalmente, gli Ebrei; chi fossero i colpevoli ce lo dica il seguente brano delle Mémoires tirés des Archives de la Police de Paris, pour servir a l'histoire de la morale et de la police depuis Louis XIV jusqu'à nos jours, par I. Peuchet (Paris, Levavasseur, 1868, 6 vol. in-8. Tom. i, pag. 144 e segg.):
“Eran già varî anni, dacchè il signor de la Reynie copriva, con soddisfazione generale, l'ufficio di luogotenente generale di polizia, allorquando nei principali quartieri di Parigi si diffuse repentinamente un grave panico occasionato da straordinarie sparizioni di persone.
“Nello spazio di circa quattro mesi, ventisei giovani, il più giovane dei quali aveva raggiunto il diciasettesimo anno, ed il più vecchio non toccava il venticinquesimo, sparirono, lasciando le rispettive famiglie inconsolabili per la loro perdita. Voci misteriose e contraddittorie circolavano a questo proposito nel sobborgo Sant'Antonio, che aveva in questa guisa perduto quattro o cinque bei giovani, figli di ebanisti e di mercanti di vecchi mobili. Le donnicciuole pretendevano che una principessa, la cui vita era posta in pericolo da una malattia di fegato, lottasse contro il male tuffandosi tutti i giorni in un bagno di sangue umano. Altri affermavano che gli Ebrei, per odio al Dio crocefisso, crocefiggessero di quando in quando dei Cristiani. Questa pazza opinione fortunatamente non prevalse. Ad ogni modo però Parigi era in preda al terrore ed alla desolazione. Il duca di Gêvre ne parlò al Re, e questi, quando il luogotenente di polizia si recò da lui, per l'ordinaria relazione, si lagnò vivamente che si tollerasse un simile succedersi di rapimenti che, senza dubbio, erano seguiti da morte violenta, perchè nessuno degli scomparsi aveva mai fatto ritorno.
“La Reynie, disperato pel malcontento espressogli dal Sovrano, se ne fece ritorno a Parigi; appena giuntovi chiamò a sé un agente abilissimo della sua amministrazione, certo Lecoq, di cui fino a quel giorno egli si era non inutilmente servito in tutte le occasioni difficili. Lecoq comparve ed il luogotenente di polizia gli manifestò il suo imbarazzo, parlò del malcontento del Re e fece tali promesse di ricompense che Lecoq, cedendo ad un sentimento di avidità, esclamò:
“— Andiamo! monsignore, vedo bene che per togliervi dall'imbarazzo dovrò rinnovare il sacrificio d'Abramo.
“Lecoq non si spiegò maggiormente ed il signor de la Reynie, che lo considerava come il suo migliore agente, lo congedò con un gesto col quale gli trasmetteva i poteri più estesi. A quei tempi negli uffici di polizia era in uso un linguaggio di cenni muti, specie di telegrafia la cui chiave non era nota che ad un piccolo numero di iniziati.
“Ecco il complemento indispensabile di questo singolare aneddoto.
“Una accolta di gente, predestinata al patibolo ed alle galere, si era costituita in associazione di malfattori. Il capo della banda procedeva in questa guisa. Una ricca inglese, moderna Messalina, che egli aveva reclutata nei suoi viaggi, serviva di richiamo ai giovani. Questi infelici, dopo aver appagato le voglie di quella femmina impudica, erano dati in preda agli assassini. Venivano uccisi e la testa separata dal busto. Questo era venduto agli studenti di chirurgia e la testa, probabilmente disseccata ed imbalsamata, serviva allora in Germania agli studi di una scienza, che ebbe di poi uno strano sviluppo. Intendiamo parlare della scienza di cui Gall e Spurzheim furono fra noi i propagatori.
“Il governo temette il divulgarsi di una tal serie di misfatti; furono presi provvedimenti per la punizione pronta, severa ed occulta dei colpevoli. Tutti furono impiccati. Anche la donna doveva essere dannata nel capo . . . . . ma il destino dispose altrimenti” (304).
Un altro fatto simile ebbe luogo anche a Parigi quasi nello stesso tempo; precisamente nel maggio 1750.
Ecco come viene narrato dal Quillet, Chronique de Passy (Tomo ii, pag. 114). Anche questa volta traduciamo testualmente.
“Un agente di polizia, nella speranza di estorcere del denaro ad una sventurata madre gli rapì il figliuolo. Questa ne divenne furiosa; i suoi lagni furono così amari, i suoi gemiti così strazianti che tutto il quartiere ne fu commosso.
“Altre madri si unirono a lei; la voce corse che quel fanciullo non era il solo ad esser stato rapito ma che migliaia d'altri lo erano stati al pari di lui, e che il Re, novello Erode, stava per ricominciare la strage degli innocenti. Si giunse persino a dire che quei rapimenti avevano per oggetto l'esecuzione di prescrizioni mediche che ordinavano bagni di sangue umano, e del più puro, per guarire taluni gran signori sfiniti dalla lussuria e dai disordini.
“Queste voci sinistre, aggiunte ai gridi strazianti delle desolate madri, infiammarono gli spiriti. Parecchi uomini si aggiunsero loro e divennero furiosi. La sommossa ebbe principio nel sobborgo Sant'Antonio, ma ben presto i disordini si estesero in tutti i quartieri di Parigi. Ogni agente di polizia che cadeva in potere dei tumultuanti era messo a brani. Il popolaccio si dirigeva al palazzo del luogotenente di polizia, e non avrebbe tardato ad investirlo. Il luogotenente di allora, Berrier, che si era reso odioso per la sua aria dura e il suo procedere tirannico, fuggì. Qualcheduno dei suoi dipendenti, meno timido, fece aprire le porte. Questo colpo ardito intimidì i più furiosi; credettero si volesse loro tendere un agguato, e che una voragine stesse per aprirsi sotto i loro piedi e restarono immobili. Intanto le guardie francesi e le guardie svizzere si radunarono. Si aggiunsero loro due compagnie di moschettieri della guardia e diversi corpi della Casa del Re. Le orde indisciplinate dei tumultuanti furono circondate. Si mise la mano sui più accaniti dei quali la forca fece giustizia, gli altri fecero giudizio.
“Qualche mese dopo venne l'epoca del viaggio che il Re faceva annualmente a Compiègne. Per recarvisi si passava abitualmente da Parigi. Luigi XV non volle onorare colla sua presenza una città che aveva osato rivoltarsi, qualunque ne fosse stata la causa, e fece costruire in tutta fretta una strada fra Versailles e Saint Denis in modo da potersi recare al suo destino senza dover attraversare Parigi. È questa la strada che dicesi le chemin de la Révolte.”
Come si vede dalle, forse troppo numerose, citazioni che siamo venuti facendo, basta che un bambino sparisca, perchè subito il popolo farnetichi di bagni di sangue umano, di atroci riti religiosi, e si ricusi, sino a che l'evidenza non venga a convincerlo, a cercarne la spiegazione in qualche volgare delitto. Ci si consenta un'ultima citazione per provare la strana vitalità di tale superstizione che il volgo degli indotti e dei semi dotti, accoglie e ripete, per poco che gli accusati, o si elevino come i Papi ed i Re che abbiamo citato, al dissopra del comune per la loro posizione, o si circondino come i primi Cristiani, i Luciferiani, i Templarii di quel mistero che colpisce sempre le immaginazioni popolari.
Una rivista mensile che si pubblica a Mosca, il Messager russe, in un articolo riprodotto in giugno 1819 da diversi giornali francesi (305) ci ha fatto conoscere gli usi di due sêtte ancora esistenti in Russia, i Khlysty e gli Skoptsi (306) (mutilati).
Riti sanguinari, o pretesi tali, furono denunziati allo imperatore Alessandro in una memoria del metropolitano di Mosca. Secondo questa memoria, di cui un giornale di Pietroburgo pubblicò dei frammenti, quando una ragazza incompletamente mutilata concepisce, per opera di un uomo estraneo alla setta, e mette al mondo un ragazzo di sesso mascolino, gli Skoptsi, considerando questa nascita come un avvenimento miracoloso e come una benedizione del cielo, immolano il neonato alla mezzanotte del settimo giorno dopo la sua nascita; lo lavano in seguito nell'acqua tiepida, avendo cura di spremere dalla sua ferita la maggior quantità di sangue possibile. L'acqua in cui il fanciullo è stato immerso si conserva come cosa sacra. Quanto al corpo è deposto in un vaso pieno di zucchero polverizzato dove si giunge a disseccarlo. È in seguito ridotto in polvere, e questa polvere entra nella confezione dei pani consacrati che i settari tagliano a pezzi e distribuiscono agli assistenti alla fine delle loro riunioni. È questo ciò che essi nominano la grande comunione della carne dell'agnello, in opposizione a quella di sangue che si fa con quella con cui la vittima venne purificata. I giornali russi assicurano che questi fatti, denunciati dal metropolitano di Mosca, Mgr. Platone, vennero constatati da una inchiesta ufficiale.
Potremmo citare altri fatti a dozzine per provare che questa accusa di giovarsi del sangue umano pei riti tenebrosi è vecchia quanto il mondo, ma ogni cosa ha un limite e temiamo ne abbia uno anche la pazienza dei lettori che consentirono a seguirci sin qui, sicchè ci limiteremo a citare un ultimo fatto quasi incredibile. Chi vorrebbe credere infatti che un dotto letterato francese, e cattolico di nascita, se non di convinzione, Arsène Houssaye potè, non sono ancora cinque anni, calunniare i cattolici, di epoche a noi vicine, asserendo che sino al xv ed al xvi secolo si massacravano dai cattolici dei bambini per convertire in reliquie i loro ossami?
Traduco letteralmente un brano di un articolo dell'Houssaye, sul museo Basilewski, pubblicato nel Gaulois del 24 dicembre 1879:
“Ecco per esempio uno smalto che rappresenta il Massacro degli Innocenti. Cosa pensereste se io vi dicessi che più di una chiesa in Francia contiene ancora delle cripte in cui si trova il pozzo dei sacrifizi? Si conosce così male la storia che non mi si crederà quando affermerò che, sino al quindicesimo secolo, e fors'anche fino al sedicesimo, vi furono il venerdì santo dei fanciulli immolati. A Caen e a Tournus si trovarono degli ossami che fanno fede ancora di questi sacrifizi umani — perdonatemi il sacrilegio — volevo dire inumani”.
Provata dunque la facilità con cui simili accuse calunniose si riprodussero sempre, e trovarono sempre credenza, qual meraviglia se bastò qualche assassinio isolato e non ispirato certamente a scopo religioso, perchè se ne accusassero gli Ebrei, quegli Ebrei che a Strasburgo, nel Delfinato ed altrove, si erano, ben inteso sotto la tortura, confessati autori della peste, sicchè fu necessaria una bolla del papa che li scagionasse dalla strana accusa (307), quegli Ebrei che dovevano ritenersi capaci di ogni scelleraggine (308) dacchè San Giovanni Grisostomo (309) aveva potuto dire che “le sinagoghe erano case di prostituzione, covili di bestie feroci, domicilio dei Demoni e che non vi si adorava Dio, perchè non vi si adorava il figlio, e che colui che conosce il padre conosce il figlio e che il culto che vi si rende si termina al Demonio perchè Dio l'ha abbandonato.”
Quando personaggi, come San Giovanni Grisostomo, coi loro scritti, rendono siffattamente odiosa una parte della popolazione, non deve recar meraviglia che ogni più strana accusa contro di questa trovi credenza.
Data la facilità con cui il volgo crede sempre ad accuse di questa natura, data l'ignoranza dei tempi, dato il fanatismo contro gli Ebrei, eccitato dal Grisostomo, e dai troppo numerosi suoi seguaci, dobbiamo anzi meravigliarci assaissimo se tutte le volte che furono accusati di aver assassinato un cristiano non furono condannati, ed invece abbiamo già veduto come, in tutti i tempi, uomini imparziali ed onesti, di tutte le credenze, abbiano protestato contro la calunnia di cui eran vittima gli Ebrei.
Ma se è agevol cosa il dimostrare l'assoluta falsità della accusa mossa agli Ebrei di giovarsi di sangue umano per scopi rituali, o magici (310), sarebbe impossibile il dimostrare che qualche bambino cristiano non sia caduto talvolta vittima di un assassino ebreo.
Gli Ebrei erano nei secoli passati universalmente odiati. Quando la Chiesa Cristiana aveva raggiunto nel mondo civile il suo ideale, l'unità della Fede, gli Ebrei soli, razza maledetta e dispersa, restarono a guastare la simmetria ammirabile di questa unità.
In mezzo a popoli che, concordi, piegavano le ginocchia dinanzi al Redentore del Mondo, restavano soli a negarlo i pochi ed avviliti discendenti di coloro che lo avevano trascinato al disonor del Golgota.
Qual meraviglia che perciò soltanto essi fossero oggetto della universale esecrazione? (311) Oppressi, umiliati, fatti segno ad ogni più orrenda persecuzione, gli Ebrei reagivano colle armi dei deboli, e le armi dei deboli non furono mai generose.
Da qui recrudescenza d'odio nei persecutori, e l'odio non partorì mai amore, che si sappia.
Chi potrebbe negare che qualche Ebreo, cacciato dalla patria, insidiato nella sua fede, nei suoi averi, diseredato persino del culto dei propri morti, come troppo spesso avveniva nei tempi più caliginosi del medio evo, imbattendosi un giorno nel figlio di uno dei suoi oppressori, lo abbia sgozzato?
Chi rivangasse gli annali del delitto, in tutti i paesi, vi troverebbe registrate a centinaia storie di innocenti fanciulli uccisi da vigliacchi assassini per vendicarsi dei loro parenti.
E quantunque le statistiche criminali di tutti i tempi e di tutti i paesi ci provino come l'Ebreo rifugga dal sangue, vorremmo, potremmo noi negare, che mai uno di questi assassini sia stato ebreo, una di queste vittime cristiana?
Certamente no; ma la stessa franchezza con cui noi, senza averne le prove — perchè, ripetiamolo, non son prove per noi quelle estorte dalla tortura — pure riconosciamo non impossibile che qualche fatto di questo genere abbia potuto accadere per opera di un individuo ebreo, spinto da un sentimento di vendetta, questa stessa nostra franchezza ci dà diritto ad esser pienamente creduti allorquando recisamente neghiamo che gli Ebrei abbiano per precetto religioso di valersi in certe cerimonie del sangue di un fanciullo cristiano.
Ammettiamo pure una di queste isolate vendette. Nessun processo ne fa fede, perocchè agli occhi dell'odierna critica non hanno valore i processi istituiti sotto il regime della tortura; ammettiamo pure questo caso isolato, che ci gioverà a comprendere, a spiegarci come l'orribile calunnia abbia potuto esser messa in giro la prima volta, ma respingiamo, fino a che non saranno addotte prove categoriche in argomento — e sarà impossibile addurle, perchè non esiste il fatto — ogni accusa generica che si volesse formulare contro gli Ebrei a tale proposito.
Tanto varrebbe, perchè un Umiliato attentò alla vita di San Carlo Borromeo, perchè un prete assassinò un Arcivescovo di Parigi, dire che i frati e i preti cattolici hanno per dovere religioso di ammazzare Santi ed Arcivescovi!
È certo che dacchè esistono Cristiani ed Ebrei qualche ebreo avrà ammazzato un cristiano; è probabile, probabilissimo anzi, che qualche fanciullo cristiano sia caduto vittima di un assassino ebreo, ma non è nè certo, nè probabile, nè possibile che l'assassino sia stato mosso da scopo religioso a compiere il suo misfatto.
Ciò invece che, se non è certo, è però assai possibile ed assai probabile è che, accaduto, per chi sa qual motivo, l'eccidio di un fanciullo cristiano ad opera di un ebreo, i nemici degli Ebrei — quelli stessi che andavano diffondendo contro di loro le più strane ed inverosimili accuse — si siano fatta un'arma di questo fatto isolato per coinvolgere tutti gli Ebrei nella stessa accusa, accusa che, già lo vedemmo, deve essere facilmente accolta dai volghi come quella che fu spesso lanciata or contro l'uno or contro l'altro.
Abbiamo detto però e ripetiamo che se vi era un popolo che dovesse andar immune da questa orribile accusa era certamente il popolo ebreo.
Abbiam veduto come la Bibbia e il Talmud in più luoghi vietino agli Ebrei l'uso del sangue. Ma non basta, chè lo stesso Maimonide ci dice il perchè gli Ebrei abborriscano l'uso del sangue; apriamo il suo libro Morè Nebuchim, parte iii al capo 46 e troveremo: “Sappi che quantunque non vi fosse nel concetto degli idolatri cosa più immonda ed impura del sangue, nientedimeno essi lo mangiavano, perchè stimavano che fosse il cibo de' demoni, e che colui, che di esso sangue si alimentasse, acquisterebbe una qualche famigliarità e stretta comunicazione con essi demoni, sicchè questi dovessero rivelar loro il futuro, secondo crede il volgo che essi demoni sogliono fare. Ad alcuni però tra questi idolatri, tornava difficile mangiare il sangue, cibo per sè stesso all'umana natura ripugnante. Questi, quando scannavano qualche animale, ne prendevano il sangue, lo raccoglievano in qualche vaso e, sedendo attorno a questo vaso, mangiavano la carne di esso animale. Si persuadevano, così, che mentre essi mangiavano la carne, i demoni mangiassero il sangue, loro prediletto cibo, e che in questo modo potessero contrarre secoloro amicizia, famigliarità e fratellanza, perchè tutti mangiavano ad un desco e insieme banchettavano. Credevano inoltre che i demoni dovessero apparir loro in sogno; avvisar loro quel tanto che dovea succedere ed esser loro di grandissimo giovamento.” Fin qui il Maimonide.
Anche lo Zohar, libro a cui taluni ebrei vogliono annettere molta importanza, commentando il capo 17 del Levitico, dice queste parole, parlando degli incantesimi e dell'arte magica esercitata dagli Egiziani: “Quando gli Egiziani si ragunavano per fare i loro incantesimi, andavano al campo in un monte alto assai, facevano una fossa in terra e spargevano sangue intorno ad essa, ragunavano il rimanente del sangue in essa fossa, offrivano i loro sacrifici agli spiriti maligni, e contraevano famigliarmente tra loro in esso monte. Gli Ebrei i quali erano schiavi in Egitto si accostavano a quelli, e preparavano quel sangue e offerivano il sacrifizio, si radunavano questi spiriti maligni, e apparivano loro in figura d'Irchi irsuti e dicevano loro quel tanto che essi addomandavano.”
O ammettere dunque, con San Giovanni Grisostomo, che gli Ebrei adorino il Demonio, o riconoscere che essi non possono aver mai fatto uso di sangue, e tanto meno di sangue umano.
E davvero è strana la persistenza di una simile calunnia contro una religione i cui maestri, i cui dottori predicarono dottrine diametralmente opposte. Mosè Nachmanide che fiorì nel xii secolo in Ispagna e che era considerato come il supremo maestro fra i Rabbini, e chiamato per antonomasia il dottore (312), lasciò scritto nel suo libro dei Precetti: “Ci è ordinato di curare la vita dei Cristiani, salvarla con tutte le nostre forze da pericolo di morte, p. e. quando sono caduti in acqua o sepolti sotto le macerie”. Giuda il Pio, vivente a Ratisbona nel sec. xii nel suo libro dei Pii dice: “Nel trattare coi non Israeliti, studiati di usare la stessa onestà come cogli Ebrei: se un Ebreo vuol uccidere un cristiano dobbiamo assister quest'ultimo; se a te si rifugia un omicida, non gli accordare protezione, anche se fosse un ebreo”.
Come dunque malgrado tutto ciò l'accusa potè diffondersi ed acquistar credenza? Ecco la domanda che molti mossero ed a cui nessuno potè dar risposta soddisfacente.
Chi ne cercò la causa nel racconto dell'Esodo dove è spesso menzione di sangue (313); chi in una leggenda rabbinica notissima, secondo la quale, Faraone Re d'Egitto trovandosi colpito dalla lebbra, si impadronì di un gran numero di fanciulli ebrei, affine di bagnarsi nel loro sangue e di guarire. La leggenda aggiunge che in memoria di questo sangue innocente versato, gli Ebrei bevono vino rosso nelle cerimonie della sera di Pasqua (314). L'illustre prof. Oort da Leida, in un discorso tenuto in quella città in occasione del vi Congresso degli Orientalisti, vuol trovare la causa della calunnia nella venerazione che negli antichi tempi i primi Cristiani conservavano pel pane azzimo degli Ebrei, ed intesse su questa ipotesi un lungo ragionamento che non arriva però a convincerne del tutto.
Affaccieremo noi pure una supposizione senza pretendere di aver sciolto il problema.
Nei primi tempi del Cristianesimo, non soltanto gli Ebrei erano in odio ai Cristiani ortodossi, ma molte sette eterodosse professavano un odio speciale non soltanto verso gli Ebrei, ma verso l'Antico Testamento.
La storia delle religioni ci apprende che il principio di un Dio del male, nemico del Dio del bene, quel principio che gli antichi Persiani incarnavano in Ormus e in Arimane, era comune anche a molte sêtte dei primi tempi del Cristianesimo. I Catari, i Bogomili, i Luciferiani professavano siffatte dottrine. Per essi il Dio maligno si rivelava nell'Antico Testamento, mentre nel Nuovo era il Dio buono che si manifestava.
Ecco, dicevano, perchè è scritto nel Nuovo Testamento: “Che Iddio è luce, e che non vi sono in lui tenebre alcune” (315). Il Dio della Genesi crea il cielo e la terra, ma “la terra era una cosa deserta e vacua e tenebre erano sopra la faccia dell'abisso” (316), il cielo e la terra, al paro delle tenebre, sono l'opera di Lucifero. Ecco perchè ancora, secondo l'Antico Testamento, i figli di Dio peccano (317), mentre nel Nuovo è detto: “Chiunque è nato da Dio non ha peccato” (318). “Non è il Dio buono che ha parlato a Mosè, non è il Dio buono che ha guidato il patriarca. Mosè ha ricevuto la legge da un ingannatore, egli stesso era un mago, un ladrone” (319).
Congiungendo questa opinione che taluni eretici avevano del Mosaismo, coll'altra, universalmente diffusa, che il demonio gradisca i sagrifizi umani (320), non sarà fuor di luogo il supporre che da quegli eretici abbia potuto avere origine la prima calunnia.
Un'altra fra le possibili origini di quest'accusa, o meglio fra le cause che poterono contribuire a mantenerla in vigore, ed a confermarla nelle menti volgari, ci è suggerita dall'attento esame, che abbiamo fatto, degli atti del processo che si è svolto non ha guari a Nyiregyhaza. Fra le infantili prescrizioni rituali degli Ebrei ve ne ha una che vieta ad essi di toccare nella sera del venerdì e nel giorno del sabato fuoco e lume. Siffatta prescrizione è, dai veri credenti, osservata così strettamente che essi si fanno scrupolo di portare una lampada da un luogo all'altro, o di rimuovere dal fuoco una pentola che bolla. Siccome però le necessità della vita si impongono agli Ebrei come ai Cristiani, gli agiati fra essi provveggono ai lor bisogni mercè l'opera di domestici di altri culti; i più poveri invece vi provvedono come possono, invocando l'aiuto di un vicino o di un passante. Servigi di siffatta natura si richieggono più facilmente, anche per evitare il ridicolo, a ragazzi che non a persone mature. Qual meraviglia dunque, se come nei tempi di pestilenza basta che un individuo si accosti ad una fontana pubblica, per essere accusato di avvelenarla, od in tempi di assedio basta che uno si aggiri nelle camere del suo appartamento con un lume in mano, perchè venga accusato di far segnali all'inimico (321); qual meraviglia diciamo se sarà bastato il fatto di un ebreo che abbia chiamato a sè un fanciullo cristiano per richiederlo d'uno dei servigi sopra accennati, perchè l'accesa immaginazione del volgo vi ricamasse sopra un preteso tentativo di rapimento, preludio di futuri eccidi (322)?
Ma senza perderci più oltre nella ricerca delle cause che potevano concorrere a far nascere l'orrenda accusa, verremo a dire delle vere, delle sole ragioni per cui essa persistette attraverso i secoli.
Un illustre letterato francese, Dureau de la Malle, nella introduzione alla sua eccellente traduzione di Tacito, ricerca le cause dei delitti inconcepibili commessi dagli imperatori romani; e ne reca una spiegazione che sembra assai plausibile; e cioè che quei sovrani non avendo nè lista civile, nè demanio pubblico e dovendo pur sostenere enormi spese, erano obbligati ad assassinare per procurarsi il denaro di cui avevano d'uopo. E come i malfattori volgari uccidevano per rubare. Questo precetto di governo informa diverse fasi della storia, e dalle proscrizioni di Augusto, venendo giù sino agli eccidi del 1793, ne troveremmo esempi non pochi.
Nel medio evo i ghetti degli Ebrei avevano il non desiderato privilegio di essere la zecca per eccellenza; quando s'aveva bisogno di denaro si accusavano gli Ebrei di avvelenare i pozzi, le sorgenti, le fontane — quasi che gli Ebrei non facessero uso dell'acqua, — di oltraggiare in mille guise il Santissimo Sacramento — che non hanno nessuna ragione di oltraggiare, non riconoscendovi essi nessun carattere sacro — od infine di ammazzare bambini — quasi la religione professata dalla Beata Vergine e da Nostro Signor Gesù Cristo fosse una religione di antropofaghi.
In quei tempi le accuse, assurde o meno, erano sempre egualmente buone. Bastava che un facinoroso qualunque le ponesse in giro, perchè si desse di piglio alle armi, si corresse al ghetto, e si punissero gli Ebrei col saccheggiarne i beni. L'intiero popolo ebreo potè per secoli far sua l'amara esclamazione del romano proscritto. “La mia villa di Alba mi ha perduto.”
Col progresso dei tempi si capì che era assurdo parlare di fontane avvelenate, o di oltraggi al Santissimo Sacramento; ma l'accusa di antropofagia rimase, come quella che oltre a colpire più facilmente le immaginazioni della plebe, sempre avida di racconti di misteriosi delitti, era sorretta da un altro importante fattore.
Per ogni fanciullo che gli Ebrei erano accusati di aver ucciso, la Chiesa cattolica acquistava un martire di più.
E ciò che importa, e che spiega assai cose, un martire che faceva miracoli.
La narrazione di questi miracoli, quali ce li dà un autorevole e moderno scrittore cattolico, Rohrbacher, è troppo interessante, perchè noi, a costo di ripeterci, resistiamo al desiderio di metterla sotto gli occhi dei nostri lettori.
“L'anno 1250 gli Ebrei di Saragozza attaccarono con chiodi contro la parete un fanciullo cristiano di sette anni, gli squarciarono, in odio di Cristo, il costato con una lancia e lo seppellirono di notte sulla riva. Ma in mezzo alle tenebre il luogo era irradiato d'una splendida luce. Accorsivi i Cristiani, trasportarono le reliquie con gran pompa alla chiesa principale, dove accadde un gran numero di miracoli. A quella vista l'ebreo Mosè Albayhuzet, che aveva rapita la vittima innocente, abbracciò il Cristianesimo. Ecco quanto riferisce lo storico aragonese Girolamo Blanca, giusta gli Archivi della chiesa di Saragozza.
“Nel 1255 i principali ebrei di tutta Inghilterra sì adunarono a Lincoln per rinnovare la passion di Cristo su d'un fanciullo di otto anni per nome Ugo. Uno faceva da preside Pilato, altri l'officio di carnefice. Fecero soffrire al giovinetto tutti gli oltraggi che il Vangelo riferisce aver i loro antenati fatto patire al Salvatore del mondo. Lo batterono crudelmente colle verghe, gli conficcarono in capo una corona di spine, lo affissero ad una croce, gli diedero a bere del fiele e finalmente gli trafissero il costato con una lancia.
“Tale fu il loro pasquale sacrificio che solevano immolar ogni anno, se l'occasione lo permetteva, come confessarono dappoi. Per colmo di scelleratezza gli strapparono le viscere per servirsene a magiche operazioni. Nascosero profondamente sotto terra il corpo, per tema che i Cristiani ne venissero in cognizione; ma la giustizia di Dio non lasciò impunito questo misfatto. La terra ogni notte rigettava il corpo della vittima. Gli Ebrei, avendolo così più volte sepolto, finirono col gettarlo in un pozzo.
“Intanto la madre del fanciullo cercava dappertutto il suo figliuolo. Avendo saputo che era entrato nella casa d'un ebreo, vi penetra, fruga per tutto, guarda entro il pozzo e vi scorge il corpo del figlio. Senza dir nulla avverte il giudice; il padrone della casa viene arrestato, confessa tutta la serie delle cose (anche il miracolo dunque?) e viene attaccato alla coda di cavalli per essere squartato. Novanta ebrei sono condotti nelle prigioni di Londra per subirvi il supplizio che meritano. Il corpo del fanciullo cavato dal pozzo è solennemente trasportato, come il corpo di un martire, nella Chiesa cattedrale. Il re Enrico III fa procedere giuridicamente contro tutti gli Ebrei d'Inghilterra, affine di distoglierli col terrore dei castighi dal commettere ancora simili misfatti. Ecco quanto riferisce tra gli altri Matteo Paris, autore del Paese e del Tempo.
“Un ebreo di Germania aveva una nutrice cristiana, chiamata Agnese, la quale insegnava alla moglie di lui le preghiere de' Cristiani. L'ebreo, accortosene, entra in furore, va a trovar la nutrice addormentata, l'uccide con tre colpi di pugnale nel cuore, sotto gli occhi di sua moglie, poscia se ne va alla sinagoga. La moglie, presa da spavento, si chiude nella propria camera. L'ebreo di ritorno non trova più il cadavere della nutrice, e s'immagina che l'abbia trasportato la moglie; questa non trovandolo più, pensa che l'abbia levato il marito. Nè l'uno nè l'altra cerca più oltre. Quaranta giorni dopo passa una donna forestiera che li saluta affettuosamente (splendido, quell'avverbio!!) da parte della nutrice Agnese. L'ebreo allora domanda alla moglie: “Come avviene ch'ella viva? Non l'ho io ammazzata?” La moglie risponde: “Egli è che il Cristo suo Signore è abbastanza possente per risuscitare una defunta. — Ed ecco, ripigliò l'ebreo, quel ch'io ho sempre temuto, che ella non ti faccia apostatare. — ” E tosto legolla e la rinchiuse per due anni in una stanza. Essendo l'ebreo andato lontano, la donna fuggì con due figlioletti ed un terzo ond'era incinta e si rifuggì nella chiesa dove ricevette il battesimo col nome di Geltrude, con grande allegrezza de' fedeli, che sapevano esser lei ricchissima (qui sta il busillis) ed onestissima donna. Ella dimorò nella diocesi di Colonia, dove incontrò la nutrice Agnese che portava tuttora le cicatrici dei tre colpi di pugnale. Essa disse ch'era stata guarita all'istante medesimo, e che erasi sottratta clandestinamente per non accendere di più il furore dell'ebreo. Tutti questi fatti vennero a cognizione di Corrado Arcivescovo di Colonia. Agnese mori l'anno 1265: Geltrude viveva ancora quando Tommaso Cantipratese ne scrisse la storia.
“L'anno 1271, nel borgo o villaggio di Pfortzheim, una vecchia, divenuta famigliare cogli Ebrei, vendette loro, per esser uccisa, una figlioletta di sette anni, che aveva perduti il padre e la madre. La distesero su molti drappi, le posero alla bocca una sbarra, le fecero delle incisioni a quasi tutte le giunture delle membra, ne spremettero a viva forza il sangue ed accuratamente lo raccolsero entro pannilini. Quando dopo questi tormenti, fu estinta, la gettarono nel vicin fiume, e vi ammassarono sopra un mucchio di pietre. Il terzo e quarto giorno la trovarono alcuni pescatori per un braccio levato verso il cielo. Fu riportata nel borgo: il popolo gridava con orrore non altri, che gli Ebrei avere commesso quel misfatto. Il margravio di Baden, che trovavasi nelle vicinanze, vi accorse. Tosto il corpo, levatosi a sedere, stese le mani verso il principe, quasi per chieder vendetta o misericordia, e dopo mezz'ora si ricoricò cadavere. Essendo stati condotti gli Ebrei a questo spettacolo, tutte le ferite cominciarono a bollire ed a sparger sangue in copia. Il grido del popolo levavasi sino al cielo domandando vendetta. Dietro alcuni indizi la vecchia viene arrestata e convinta, principalmente dalla confessione della giovinetta (!!!), che rivelò tutto. Gli Ebrei che avevano messo mano sulla giovane vittima furono presi, arruotati ed appiccati colla vecchia: due di essi si scannarono a vicenda fra loro. Ecco quanto riferisce Tommaso sopracitato, sulla testimonianza di due frati predicatori, Rainieri ed Egidio, che furono a Pfortzheim tre giorni dopo l'avvenimento.”
Chiediamo ancora venia al lettore se lo abbiamo tediato con la riproduzione di queste insensate leggende, ma abbiamo voluto farlo, perchè, dalle pagine del Rohrbacher scaturisce un argomento irresistibile a favore della assurdità dell'accusa mossa agli Ebrei.
Fatti di questo genere non si possono scindere; non si può accettare ciò che conviene e respingere il resto. O bisogna riconoscere che tutti i fatti narrati dal Rohrbacher sono parto, nella migliore ipotesi, di una malata fantasia, o bisogna credere ai cadaveri irradiati da luce celeste, ai morti respinti dalle tombe, alle nutrici risuscitate ed a tutte le assurdità che il buon professore della Università di Lovanio è venuto accumulando.
Già questi miracoli parevano sospetti fin dai secoli scorsi ad uno scrittore protestante, il Basnage, che scriveva:
“Nè si può tacere a discarico degli Ebrei che oltre queste ragioni se ne hanno altre che aumentano il sospetto. Sono i miracoli che accompagnano quasi sempre la morte del crocefisso. Non è meraviglioso che la terra abbia tremato allorquando morì G. C., era il Signore di gloria che veniva crocifisso. Ma le si prestano emozioni più frequenti per uomini volgari che per Gesù Cristo. Essa respinge i cadaveri e lo fa parecchie volte, e non può soffrire che si rinchiudano nel suo seno; ne abbiamo visto un esempio nel fanciullo cui si erano strappate le viscere per servirsene in operazioni magiche, cosa non meno sospetta del resto.
“Ma ce n'è un altro più famoso in Turingia, perchè gli Ebrei, cui si fa scegliere la vigilia di Pasqua per simili delitti, avendo ucciso un fanciullo a nome Corrado, portano il corpo morto in diversi luoghi della Turingia senza poterlo seppellire.
“Sortiva sempre dalla tomba, perlocchè furono costretti di appiccarlo ad un albero. Il delitto fu perciò rivelato, ed allora non vi fu piccolo o grande che non si gittasse sugli Ebrei e non si insozzasse le mani nel loro sangue. Si vide una luce sul corpo di un fanciullo a Vesel 37 anni dopo, e di più il cadavere esalava un odore così buono che lo si trasportò in un tempio dove operò sorprendenti prodigi, ma gli Ebrei se la cavarono con denaro. Questa specie di racconti pieni di miracoli e riferiti dai Leggendari avvezzi a correr dietro a simili finzioni, sono assai sospetti” (323).
E davvero non può non sembrar strano, che mentre Santi poterono essere martoriati e straziati in mille guise senza che Dio, ne' suoi imperscrutabili fini, manifestasse il suo corruccio con segni visibili agli umani, mentre pii e dotti Presuli sopportarono atroci martirii senza che la natura si commovesse, mentre Pier Luigi Farnese potè infliggere l'ultimo degli oltraggi al vescovo di Fano e Sciarra Colonna percuotere Bonifazio VIII, senza che nessun prodigio rivelasse l'ira celeste, bastava che un ebreo fosse accusato di aver ucciso un poppante cristiano perchè quel poppante divenisse d'un tratto un taumaturgo!
E, cosa più strana ancora, le uniche fra le pretese vittime degli Ebrei, che non abbiano fatto miracoli, sono quelle il cui eccidio si sarebbe compiuto in epoche a noi vicine, benchè tra queste vi fosse il davvero venerando padre Tommaso da Calergiano assassinato a Damasco nel 1840 (324).
Ora, noi abbiamo tutto il rispetto per la Religione, ma crediamo che questo rispetto non ci obblighi a confondere, cogli eterni dogmi della Religione di Cristo, le invenzioni di pochi fanatici, che mostrano col loro esempio quanto giustamente il Voltaire asserisca che il fanatismo sta alla superstizione come la rabbia alla collera.
Non vi è, e non vi può essere, nella Religione cattolica nulla che ci costringa a riconoscere per veri, o per attendibili, i pretesi miracoli del Beato Simoncino da Trento e di tutte le altre pretese vittime degli Ebrei.
Negando fede a quei miracoli, come negando fede a quelli della Salette, di Lourdes, ed alle stimmate della Lateau, noi sappiamo di non vulnerare nessuno dei principii fondamentali del Cattolicismo, e da questa nostra convinzione tragghiamo argomento per affermare che, come oggi per assicurare la prosperità di un paese attirandovi a migliaia i pellegrini e gli illusi, si ricorre alle innocue apparizioni di Lourdes e della Salette, si potè in altri tempi aver ricorso ai miracoli delle pretese vittime degli Ebrei.
Errerebbero però di gran lunga gli avversari della Chiesa se volessero, appoggiandosi su queste nostre parole, trarne argomento per affermare che noi accusiamo la Chiesa di calunnia.
Spesse volte i Papi ebbero a riconoscere che ciurmerie impudenti si eran volute gabellare per miracoli e non li riconobbero, ma li biasimarono e ne riprovarono il culto.
È irriverenza, è eresia l'affermare che talvolta la buona fede dei Papi possa esser sorpresa?
Nol crediamo, perocchè non crediamo che la Religione imponga l'obbligo assoluto di aggiustar fede ad altri miracoli da quelli in fuori che sono registrati nelle Sacre Carte.
Riassumendo:
L'accusa mossa agli Ebrei di far uso di sangue cristiano nei loro riti:
1º Si rivela calunniosa e falsa, perchè già rivelatasi tale, quando venne mossa ad altre religioni, ad altre credenze;
2º È smentita dai libri sacri degli Ebrei e non ha prove in nessun libro ebraico anche di nessun conto;
3º È smentita da Papi, da Sovrani, da dotti di ogni tempo e di ogni paese;
4º È sorretta dalle risultanze processuali quando le confessioni sono estorte colla tortura, smentita in tutti gli altri casi:
5º È frutto della cupidigia che spingeva nel medio evo ad accusare gli Ebrei di ogni reato per ispogliarli, e della impudenza di taluni fabbricatori di martiri a buon mercato ed il suo rinnovarsi ai giorni nostri altro non prova che la mancanza assoluta di scrupoli nei moderni antisemiti.
E crediamo che basti; fino al giorno almeno in cui il dotto articolaio della Civiltà Cattolica non avrà scoperto il famoso passo del Talmud, che prescrive l'assassinio rituale.
(247) Naturalmente i calunniatori non vanno tra loro d'accordo nello spiegare l'uso che gli Ebrei farebbero di questo sangue procacciatosi a prezzo di tanti delitti.
L'opinione più diffusa è che se ne giovino per mescolarlo al pane azzimo od al vino di Pasqua; ma non manca chi asserisce invece che con questo sangue si scrivano tre bollettini magici che poi si pongono sul capo, sulla bocca e nella mano destra delle donne prossime al parto per agevolare l'opera della natura; altri pretende che a questo stesso scopo le puerpere ebree tracannino addirittura sangue cristiano in quanta maggior copia possono procurarselo; altri ancora che col sangue dei fanciulli cristiani si componga un farmaco destinato a cicatrizzare la ferita che si fa, circoncidendoli, ai neonati ebrei; nè mancano coloro i quali pretendono che questo sangue si impieghi nei riti nuziali, o che con esso si aspergano i moribondi ebrei (una sanguinosa parodia dell'Estrema Unzione!) pronunziando queste parole: “Se Gesù Cristo fu il vero Messia, che questo sangue di un Cristiano, reso prezioso per virtù del suo Salvatore, giovi ad espiazione dei tuoi peccati”. Nella quale ultima supposizione sono tali e tante le stranezze che non possiamo altrimenti spiegarnela se non attribuendola ad un pazzo.
Nell'inverno dell'anno 1756 a Jampol (Podolia — Russia Europea), essendosi trovato il cadavere di un uomo nel fiume, gli Ebrei vennero accusati di averlo assassinato per scopo rituale. Due Padri Gesuiti che colà trovavansi affermarono che, nascendo gli Ebrei ciechi, per acquistare la vista, dovevano ungere i propri occhi col sangue de' cristiani!!
Fu in seguito a questo fatto che l'em. A. cardinale Corsini, scriveva, il 9 febbraio 1780, al Nunzio apostolico di Polonia la lettera, che riferiamo fra documenti, dove, fra altre cose, è detto: “la mal fondata persuasione del volgo ch'ella (la nazione ebrea) mischii sangue umano e specialmente cristiano nell'impasto delle azimi.”
(248) L'autore di questa strana ipotesi è, sventuratamente, un italiano, e, più sventuratamente ancora, un italiano nel quale il molto, moltissimo ingegno non andò mai del paro con l'elevatezza del carattere, F. D. Guerrazzi.
Lo scrittore livornese, nella prima edizione dell'Asino (Torino, Franco, 1857, in 8º — Cap. ix, pag. 200), aveva scritto queste testuali parole: “Questo vediamo praticato in diverse guise o cibando le vittime umane già offerte a Dio ed accettate da lui, come, fino a tutto il 1820, costumarono i Benderusi, o gli azzimi intinti col sangue umano, come fecero gli Ebrei, finchè lo poterono fare”.
Ed in nota aggiunge il Guerrazzi le seguenti parole:
“Che questo nei tempi barbari costumassero gli Ebrei non sembra potersi revocare in dubbio; fra i moderni scrittori ne parlano A. Mackiewitz (sic) e Jacob il bibliofilo”.
Il prof. Levi di Vercelli si prese la scesa di capo di provare all'illustre ex-triumviro, che egli si era fatto organo di una volgare calunnia; ciò non pertanto il Guerrazzi non si ritratta, ma, nella terza edizione (Torino, Seb. Franco e Figli, 1859, in-16º — Cap. ix, pag. 173 e 174), ripete tutto quanto aveva detto nella prima, compresa la storpiatura in Mackiewitz del nome del grande poeta polacco e, quasi per grazia, aggiunge alla nota succitata questa nuova insinuazione:
“Diligenti ricerche ci hanno chiarito come questa inumanità non pure consentano, ma vietino le leggi ebraiche: se qualche setta iniqua l'abbia praticata non è sicuro (no, on. Guerrazzi, è sicuro che nessuna setta del giudaismo la praticò mai) e in ogni caso sarebbe fantasia e ferocia di qualche uomo-belva, non punto rito di popolo”.
(249) Se crediamo ad una corrispondenza che il Figaro di Parigi riceveva da Vienna in occasione del processo di Nyèregyhaza, questa credenza è ancora abbastanza diffusa, persino a Vienna. Citiamo testualmente:
“Anche a Vienna incontrerete facilmente persone che vi dicono coll'aria la più ingenua: Come, non lo sapete? tutti gli anni a Pasqua allorquando gli Ebrei si accingono ad impastare i loro pani rituali detti azimi, essi hanno l'abitudine di aromatizzare uno di questi pani col sangue di una vergine cristiana. Questo pane, sacro fra tutti gli altri, serve a tutto il giudaismo, e se ne distribuiscono dei pezzetti in tutta la superficie del mondo.
“Altri aggiungono che ogni anno la vergine viene fornita da una comunità diversa. Si estrae a sorte, fra le varie comunità, a chi spetti il dovere di rubare il fanciullo, di proceder alla panificazione religiosa e di far pervenire agli ortodossi del mondo intiero una briciola della sacrosanta focaccia, profumata secondo le regole del Pentateuco e dotata di quel sapore particolare che si vuole prescritto dal Talmud; sicchè ora l'incarico spetta alla comunione di Francoforte, ora a quella di Gerusalemme, di Parigi, di Salonicco e via dicendo.”
Se così si pensa a Vienna, qual meraviglia che in Romania, in Moldavia, in Russia, in Polonia, la stessa credenza persista con tanta intensità che, dice uno scrittore russo, “allo avvicinarsi della Pasqua il terrore dei contadini non è punto simulato”?
(250) È a notare, come bene osserva il Rohrbacher (Storia della Chiesa, Torino, Marietti. Vol. i, pag. 374 e segg.), che prima del trionfo del Cristianesimo i sacrifizi di umane vittime erano comuni a quasi tutti i popoli barbari. Rimandando, chi fosse vago di maggiori notizie, all'autore da noi citato, ricorderemo soltanto che, al dire di Dione Cassio, nell'anno 708 a. u. c., l'ultimo della vita di Giulio Cesare, e men di cinquanta anni prima della nascita di N. S., i pontefici ed i sacerdoti di Marte sacrificarono ancora due uomini sul Campo Marzio. Si era quindi lungi dal risentire in quei tempi l'orrore che oggi tutti proviamo pei sacrifizi umani. Non vi era quindi nessuna ragione al mondo perchè Giuseppe negasse recisamente l'addebito, mosso agli Ebrei da Appione, se fosse stato vero.
Quanto ai Cristiani essi non possono in alcun modo farsi forti contro gli Ebrei delle parole di Appione e devono anzi negarvi ogni fede, perocchè è evidente che, se gli Ebrei di Palestina avessero praticato l'infame rito di cui parla Appione, N. S. G. C. avrebbe primo levata la voce per stigmatizzare l'orrenda pratica. Il silenzio del Divin Redentore su tale accusa è, parci, la prova più evidente della menzogna di Appione.
(251) Questo fatto è narrato da Schwab, Storia degli Ebrei recata in italiano dal Pugliese (Venezia 1870, pag. 69). Nè il Basnage, nè il Graetz, nè altri storici da noi consultati ne fanno menzione.
(252) Basnage, Hist. des Juifs, vii, 15, vol. 5, pag. 1771–2 Cfr. Salomon ben Virga, Historia Judaica, pag. 78–92.
(253) Questo fatto è narrato nella Historia major di Matthieu Paris (m. nel 1259) che, come recenti studi hanno provato, non fece, per tutto quanto è anteriore al 1235, che copiare la Cronaca o Fiori di Storia di Ruggiero di Wendoser, monaco benedettino al pari di Matthieu. Il Matthieu narra che il bambino prima di essere crocifisso fu circonciso, e questo basta a provare l'assurdità di tutto il racconto. Di fatti, una volta circonciso, il bambino diventava ebreo, ed una volta ebreo, perchè mai i suoi correligionari l'avrebbero immolato?
(254) Gli Ebrei, cacciati nel 1290, da Edoardo I, dall'Inghilterra, non vi rientrarono che sotto il protettorato di Cromwell. In questa occasione varii libelli contro gli Ebrei vennero pubblicati allo scopo di indurre il Lord protettore a recedere dalle benevoli disposizioni che aveva mostrato verso di loro. Un dottissimo ebreo portoghese, Menassè ben Israel — autore di opere lodatissime (per una delle quali Piedra Gloriosa o de la estatua de Nebuchadnesar, Paolo Rembrandt non disdegnò di eseguire quattro incisioni) che fu amico intimo dei Vossii, del Barleo, dell'Episcopio, del Grozio, di quanti, insomma, uomini eminenti gli furono contemporanei — mandò alla stampa un opuscolo: Vindiciae Judaeorum or a Letter in answer to certain questions on the nation of the Jews, Londra, 1756. In questo opuscolo, inteso a scagionare gli Ebrei da varie accuse che contro loro si movevano, dimostra, con forti argomenti, come sia calunniosa l'imputazione di cui ci occupiamo. Fa rilevare che gli Ebrei, assai peggio trattati in Oriente che in Occidente, dovrebbero, se avessero tale orribile rito, giovarsi del sangue dei Mussulmani, più atroci loro nemici che non fossero i Cristiani, mentre nessuna accusa di questo genere venne mai loro rivolta. Infine il dottissimo uomo aggiunge: “Se quanto ho detto non basta ancora a scolparci, giacchè tutto si riduce soltanto a negare, senza produrre testimoni, mi vedo, nell'obbligo di ricorrere ad altro mezzo di giustificazione che il Signore, benedetto eternamente, ci ha prescritto in simili casi (Esodo, xxii): intendo parlare del Giuramento. Io giuro dunque con tutta la sincerità del mio cuore per il Dio Altissimo che ha creato il Cielo e la Terra e che ha dato la Legge al Popolo d'Israele sul monte Sinai, che fino ad oggi non ho veduto infamie consimili fra il popolo d'Israele, e che essi non vi sono obbligati a farlo nè per legge divina, nè per comando degli avi, e che mai le hanno commesse, nè tentato commetterle, e ciò dico perchè mai ne fui informato da chicchessia, nè lessi coteste cose in alcun rituale ebraico. Se io mentisco in ciò, possano cadere su di me tutte le maledizioni delle quali si parla nel Levitico e nel Deuteronomio, e possa io non vedere mai le benedizioni e consolazioni di Sion e non raggiungere il Risorgimento dei Morti”.
Per non dover ritornare su questo argomento aggiungeremo che il celebre filosofo Mendelsohn (1729–1786), pubblicando la traduzione dell'opuscolo di Menassè ben Israel, rinnovò per suo conto tale giuramento.
(255) Wadding, Annales Minorum, xiv, pag. 132 e segg.
A proposito di questo fatto, il più clamoroso, forse, fra quanti ne vennero addebitati agli Ebrei, ci piace riportare quanto scriveva il dottissimo Francerco Gar, negli Annali del Principato Ecclesiastico di Trento, da lui annotati dall'anno 1022 al 1540, compilati sui documenti da Francesco Felice degli Alberti, vescovo e principe, Trento 1860.
“Noi abbiamo creduto debito nostro di riferire fedelmente ciò che l'Annalista Alberti, canonico e poi vescovo di Trento, registrava, intorno questa orribile tragedia, della quale dai fanatici si sarebbe tentata la ripetizione anche ai dì nostri (alludesi al processo di Badia di cui parleremo più sotto), se a tali feroci delirii non avessero posto freno la voce della ragione e il sentimento dell'umanità.”
A mostrare come tutto quel processo non meriti fede, diremo soltanto come fra le pretese confessioni estorte agli Ebrei dalla tortura siavi anche questa, che essi nell'uccidere il fanciullo pronunziassero queste parole: Tolle Jesse misrà elle parichief elle passussen pegnalem che avrebbero dovuto significare: “Noi facciamo morire questi della morte di Gesù Dio dei Nazareni, che è nullità; così si perdano i nostri nemici per sempre.” Ora, malgrado l'istituzione ordinata da Clemente V di cattedre di lingua ebraica, questa lingua nel 1475, era ancora assai poco conosciuta dai Cristiani, sicchè quelle parole dovettero essere inventate a capriccio mentre è certo che non appartengono nè alla lingua ebraica nè a nessuna delle lingue parlate nel Trentino.
Del resto questo processo sembrò dubbio anche ai contemporanei. Quando col pretesto del fatto di Trento alcuni predicatori vollero suscitare la plebe a fare man bassa sugli Ebrei, anche nel territorio della Repubblica veneta, il Doge e il Senato per reprimere lo scandalo ordinarono ai magistrati di Padova di trattare gli Ebrei come gli altri sudditi, e impedire ogni violenza, perchè quell'accusa sembrava loro una calunnia inventata ad arte per certi fini, che il Senato non voleva indagare. (Ordinanza del Doge Pietro Mocenigo in data 22 aprile 1475).
(256) Già stampato per cura dei signori comm. Barozzi, comm. Berchet, cav. prof. ab. Fulin e cav. Stefani.
(257) San Sten. Ora San Stin, cioè S. Stefano confessore, detto volgarmente S. Stefanino, per distinguerlo da S. Stefano protomartire (V. Tassini, Curiosità veneziane).
(258) Cioè 1480.
(259) Damas, Paroles de défense par M. le D. Zunz in Archives Isr. Paris, vol. i, pag. 429.
(260) Notiamo di sfuggita che il popolo ebreo fu forse l'unico dell'antichità, cui fosse ignota la tortura che doveva poi straziare le membra di tanti infelici israeliti, e notiamo ancora, che i signori Montefiori e Cremieux, recatisi al Cairo nel 1840, per ottenere, da Mohamed Alì, giustizia a favore dei loro correligionari di Damasco, dopo averla ottenuta, non seppero far miglior uso della influenza guadagnata sull'animo del Vicerè che di chiedergli abolisse per sempre la tortura nei suoi Stati. (V. Archives Isr. Paris, vol. i, pag. 612).
(261) Pei dilettanti di riscontri storici segnaliamo qui un altro caso in cui gli Ebrei ebbero a soffrire per le calunnie di un figlio contro il proprio padre. Già nell'anno 66 dopo G. C., ad Antiochia, un ebreo snaturato avendo accusato il proprio padre e parecchi suoi correligionari d'aver volato appiccare il fuoco alla città durante la notte, si credette necessario alla pubblica sicurezza di uccidere gli autori di così scellerato progetto. (Basnage, Op. cit., cap. viii, vol. i, pag. 229).
(262) Anche di questo giudice istruttore, Bary, la succitata corrispondenza del Figaro ci fa un singolare ritratto. Eccolo: “Questo signore si siede durante il pubblico dibattimento in un punto della sala dal quale tutti i testimoni sono obbligati a passare, li intimida col gesto, collo sguardo, e siccome gode le simpatie del Presidente, gli avvocati non giunsero ancora a farlo espellere dalla sala.” Si noti che la corrispondenza da cui abbiamo tolto queste notizie è, per la sua intonazione generale, tutt'altro che favorevole agli Ebrei, che essa accusa, fra le altre cose, di possedere certaines capacités d'accaparer, contre lesquelles les paysans sont presque sans défense.
(263) In una epoca come la nostra, nella quale si è sempre tanto proclivi ad accusare di ogni nefanda impresa il clero cattolico, ci piace riprodurre, e far nostre, le seguenti parole con cui si chiude un opuscolo che abbiamo sott'occhi Les Juifs et la Hongrie devant l'Europe, par M. M. Morel. (Paris, s. a.): “La nostra ultima osservazione sarà per scagionare il partito cattolico ungherese da ogni partecipazione nella persecuzione contro gli Ebrei. Questa venne organizzata dai corifei di quel partito protestante che spinse l'Ungheria a diventare l'avanguardia della gran Germania sul Basso Danubio e in Oriente.”
(264) È bensì vero che a Prato venne pubblicato mesi addietro un libello nel quale, collo appoggio delle pretese rivelazioni di un Rabbino moldavo, convertito all'ortodossia greca, si ribadisce contro gli Ebrei la sconcia accusa. Dimostreremo a suo luogo la nessuna serietà di quell'immondo libello.
(265) L'opuscolo cui accenniamo ha tanto maggior importanza in quanto che l'autore vi si chiarisce tutt'altro che amico dei suoi antichi correligionari. Aloisio di Sonnenfels era figlio del primo Rabbino di Berlino e di tutto l'Elettorato di Brandeburgo ed, indirizzato dal padre al Rabbinato, avrebbe avuto agio di apprendere ogni segreto della religione ebraica, se questa avesse segreti, invece nell'opuscolo succitato egli scrive queste precise parole: “Chiamo Iddio in testimonio, in coscienza dell'anima mia, che non vi è al mondo, nè vi è stata, calunnia più nera di questa”. Il Sonnenfels adduce in questo suo opuscolo un argomento che ci piace far nostro. Egli dice: “Se gli Ebrei avessero d'uopo di sangue cristiano pei loro riti, perchè, anzichè arrischiare la vita per procurarselo, non lo comprerebbero con un po' di denaro dai flebotomi, negli ospitali, ecc.? Eppure non si è mai visto un Ebreo fare di siffatti acquisti!”
(266) Il Rev. Alessandro Mac Caul (1799–1866) non nacque ebreo, ma protestante. Fu dottissimo ebraizzante e professore di ebraico nel R. Collegio di Londra. Dimorò molti anni in Varsavia come capo della missione protestante per la conversione degli Ebrei. Lo comprendiamo fra i neofiti perchè nell'opuscolo Reasons for believing that the Charge lately revived against the Jewish People is a Baseless Falsehood, scritto da lui, in occasione del fatto di Damasco, per difendere gli Ebrei, reca una dichiarazione di molti Ebrei convertiti a sua cura.
(267) Neander (Giovanni Augusto Guglielmo), uno fra' più eminenti scrittori di Storia Ecclesiastica di questi ultimi tempi, nacque addì 16 genn. 1789 a Gottinga da genitori ebrei; si chiamava propriamente Davide Mendel, ricevette dalla madre un'educazione devota, frequentò il ginnasio ed il Johanneum d'Amburgo, si fece battezzare nel 1806, nella qual occasione cambiò nome, e studiò poi teologia ad Halle e Gottinga. Nel 1811 diede gli esami ad Eidelberga e vi fu nominato professore di teologia, si trasferì tuttavia quello stesso anno a Berlino, dietro invito di quella Università; ed ivi Neander, efficacissimo propugnatore della cosidetta “teologia pettorale”, rivestì le cariche di professore ordinario di teologia, consigliere dell'Alto Concistoro, membro del Concistoro della provincia di Brandeburgo e membro della R. Accademia delle Scienze. Morì a Berlino il 14 luglio 1850.
Fra le sue numerose opere sono da notarsi:
Ueber den Kaiser Julianus und sein Zeitalter (Lipsia, 1812; 2ª ed. Gotha, 1867); Der heil. Bernhard und sein Zeitalter (Berlino, 1813, 3ª ed. 1865); Genetische Entwickelung der vornehmsten gnostischen Systeme (ivi, 1818); Der heil. Johannes Chrysostomus und die Kirche in dessen Zeitalter (ivi, 1821–22, 2 vol.; 3ª ed. 1849); Denkwürdigkeiten aus der Geschichte des Christenthums und des christlichen Lebens (ivi, 1822–24, 3 vol.; 4ª ed. 1866); Antignosticus, Geist des Tertullian (ivi, 1826, 2ª ed. 1849); Allgemeine Geschichte der christlichen Religion und Kirche (Amburgo 1825–52, 6 vol. in 11 sezioni; 4ª ed. Gotha, 1863–65, 9 vol.); Kleine Gelegenheitsschriften (Berlino, 1824, 3ª ed. 1829); Geschichte der Pflanzung und Leitung der christlichen Kirche durch die Apostel (ivi, 1832–33, 2 vol.; 5ª ed. 1862); Das Leben Jesu in seinem geschichtlichen Zusammenhang (ivi, 1837, 7ª ed. 1873).
Jacobi pubblicò le sue Wissenschaftlichen Abhandlungen (Berlino, 1851) come pure la sua Christliche Dogmengeschichte (ivi, 1857, 2 vol.), Beyschlag il suo Kommentar zu den Briefen an die Korinther (ivi, 1859), Messner le sue Vorlesungen über Katholicismus und Protestantismus (ivi, 1863) ed anche la sua Geschichte der christlichen Ethik (ivi, 1864).
Una raccolta delle sue opere si è pubblicata a Gotha. Krabbe (Amburgo, 1852) e Rauh (Elberfeld, 1865) scrissero la sua vita.
(268) Biesenthal Giovanni Enrico, dotto ebraizzante, nacque nel 1804, nel ducato di Posen, da una famiglia ebrea, fece studi profondi sul Talmud e si convertì al cristianesimo. Si stabilì a Berlino come agente della società di Londra per la conversione fra gli Ebrei. Fra le sue opere citeremo: Dizionario ebraico-latino, 1840; Storia della chiesa cristiana nei primi tre secoli desunta dalle fonti talmudiche, 1851; Commentario su San Luca, in ebraico talmudico, 1851; Epistola di San Paolo ai Romani ed agli Ebrei, con commentario rabbinico (1853–57). Rivide inoltre con J. C. Reichardt la versione ebraica del nuovo testamento.
(269) Jac. Tugendhold fu censore in Varsavia e pubblicò, in ebraico ed in polacco, un'opera (Varsavia, 1844, in-8º), che contiene una raccolta di passi, ricavati da recenti ed antiche opere, circa il modo di regolarsi con persone di altra credenza. Si ha pure di lui un opuscolo (Berlino, 1858, in-8º di pag. 90) Der alte Wahn vom Blutgebrauch der Israeliten am Osterfest (che tratta appunto del preteso uso del sangue cristiano nei riti ebraici). Giova però avvertire che questo opuscolo fu tradotto in tedesco da uno che si dichiara amico della verità (von einem Freunde der Wahrheit) ed è un estratto dell'opera in polacco di detto Tugendhold, appellata Obrone Israelitow, ecc., Varsavia, 1831.
Anche il Tugendhold nacque israelita.
(270) Veggasi per tutto quanto è detto sopra delle negazioni opposte alla accusa da Ebrei convertiti la Real Enciclopedia per Bibbia e Talmud del D. J. Hamburgher, Strelitz, 1883; parte ii, a. v. Zurückweisung der Blutbeschuldigung, pagina 1318–1319.
(272) Civiltà Cattolica. Vol. v, pag. 229.
(273) Factum servant de réponse au livre intitulé: Abrégé du procès fait aux Juifs de Metz (pag. 11).
Riccardo Simon (1638–1712) fu celebre critico e scrittore di cose religiose; la sua maggior celebrità è dovuta alla sua Storia critica del vecchio e del nuovo testamento, per la quale ebbe a sostenere una guerra atroce da parte del Bossuet.
La difesa, che il padre Simon scrisse a favore di Raffaele Levi, fu la prima sua pubblicazione che levasse qualche rumore. Sarebbe però assolutamente erroneo il giudicare il Simon un giudeofilo; combattendo la stolta accusa egli non obbediva che a quei sentimenti d'onestà ch'eran in lui connaturali. Le seguenti parole lo provino: “Io so, egli scriveva in tale proposito, che tale nazione ci odia mortalmente, ma noi dobbiamo mostrarle come pratichiamo verso di lei la massima del Vangelo che ci comanda di amare i nemici nostri”.
(274) Civiltà Cattolica, XI serie, vol. 7, pag. 474.
(275) Raynald, Ann. Eccl., tomo xiii, a. 1235, n. 20; e 1236, n. 48.
(276) Raynald, op, cit., n. 84.
(277) Anche il popolo talvolta rese giustizia agli Ebrei. Victor Tissot nel suo libro Les Prussiens en Allemagne (Paris, Dentu) ci narra a pag. 56: “Due lampade d'oro, sospese alla volta della Sinagoga di Worms, ardono da sette secoli in memoria di due cristiani che si fecero ammazzare per salvare dal furor popolare alcuni ebrei accusati di aver mangiato dei bambini. Ancora attualmente si celebra un servizio funebre nel giorno anniversario della loro morte.” Forse da questo tributo di gratitudine ha origine il proverbio popolare tedesco che suona: Ebrei di Vorms, buona gente.
(278) Nella stessa seduta, l'illustre statista inglese proclamava che gli Ebrei in tutti i paesi in cui vissero si sono sempre conciliati la stima generale e la benevolenza dei loro simili mercè la loro condotta ed il loro tenor di vita.
(279) Le personalità ci ripugnano; ma vi sono casi nei quali lo smascherare disonesti avversari diviene un dovere. E, che l'articolaio della Civiltà Cattolica sia, letterariamente almeno, disonesto, lo prova a luce meridiana il seguente fatto. Nel quaderno del 3 marzo 1883 l'articolaio si è messo in testa di provare (risum teneatis), colla scorta delle profezie, che gli Ebrei abbiano una malattia speciale. La sua corta intelligenza non gli ha permesso di comprendere che le malattie, le piaghe che Mosè minaccia agli Ebrei (Deut. xxviii, 61. Cfr. Salmo xliv, e lxxiv) sono appunto le calunnie orribili che scrittori senza fede e senza coscienza scagliano contro di loro e le persecuzioni atroci che ne sono conseguenza, malattie e piaghe di cui però Ezechiele (xxvi, 13–15) ha anche predetto la fine. Ciò non comprendendo l'articolaio e volendo dimostrare che una malattia speciale affligge gli Ebrei, è andato a scavar fuori una dotta memoria di un medico francese, il dott. Fernando Castelain, La circoncision est-elle utile? e siccome intendeva giovarsi di questa memoria contro gli Ebrei, impudentemente e scientemente mentendo, comincia dall'affermare che il Castelain sia ebreo. Dopo di che, con quella buona fede che gli è speciale, l'autore fa dire al dott. Castelain, che vi è une maladie très repandue chez les Juifs, sciocchezza che l'autore, non ebreo ma cattolico apostolico romano, non si è mai sognato di dire, avendo egli soltanto affermato che gli Ebrei allorchè vivevano nei loro paesi (cioè venti e più secoli addietro) andavano soggetti ad una speciale malattia, prodotta dal clima, per antivenire la quale venne loro ordinata la circoncisione.
Ribadiamo quindi sul viso all'articolaio l'accusa di disonestà letteraria, e siccome egli veste un abito che non gli consente di chiedere una di quelle riparazioni che s'usano fra gentiluomini, glie ne offriamo una di altro genere, e lo preghiamo di dichiarare nella Civiltà Cattolica se la accetta, o meno. Depositi egli nelle mani dell'Eminentissimo Alimonda mille lire, diecimila ne depositeremo noi. Se il dott. Castelain è ebreo, le nostre diecimila lire andranno a beneficio di quell'Opera pia che l'articolaio designerà, se è cristiano designeremo noi l'Opera pia cui andranno le mille del reverendo articolaio. Ben inteso che nel primo caso faremo ammenda onorevole e gli chiederemo scusa di ogni nostra parola men che cortese, nel secondo ci riserbiamo il diritto di proclamarlo, sempre e dovunque, mentitore e calunniatore. Egli non accetterà però la scommessa perchè sa che provare la menzogna ci sarebbe facile, ma si trincererà dietro la pretesa sua buona fede, perchè crederà più difficile possiamo riunir prove contro di questa. Vogliamo dargli, perciò, qui, un buon consiglio. Non invochi per carità l'attenuante della buona fede; potrebbe pentirsene ed amaramente pentirsene. O taccia, o dica: ho calunniato; sarà meglio per lui.
(280) Op. cit., vol. iii, pag. 62, col. 1.
(281) Gen., ix, 4 e segg. — Lev., iii, 17; vii, 26 e 27; xvii, 12, 14; xix, 26. — Deut., xii, 16, 23–25; xv, 23. Cfr. I. Samuele, xiv, 32, 33 e 34. — Ezecchiele, xxxiii, 25. — Che questi precetti biblici fossero rigorosamente osservati dagli Ebrei ci è poi provato dagli Atti degli Apostoli, xv, 28 e 29, nè poteva essere altrimenti se ricordiamo Maimonide aver lasciato scritto non esservi vera interpretazione della Bibbia se non quella che non si allontana dal senso naturale. Anche il Medici, acerbo nemico del nome giudaico, conferma in due luoghi questa ripugnanza degli Ebrei pel sangue. A pag. 72 della più volte citata sua opera scrive: “Si astengono parimenti dal sevo di Bue, di Capra e di Agnello e da qualsivoglia sorta di sangue, e di animale. Per non mangiare il detto sangue, scannan la bestia con molte loro superstizioni . . . . . Avanti di cuocere la carne la tengono per lo spazio di un'ora nel sale acciocchè esca tutto il sangue e poscia la lavano con diligenza.” E più innanzi a pag. 82: “Circa la proibizione del sangue è necessario sapere che in molti luoghi della Scrittura Iddio l'ha proibito.”
(282) Levi, op. cit., pag. 431. Cfr. Talmud Pesachin, fol. 35.
(283) Rabot, fol. 290, 2.
(284) Luisa Lateau, la famigerata stigmatizzata di Bois d'Haine nel Belgio, la quale ogni venerdì pretendeva soffrire i dolori della Passione di N. S. e sudava sangue dalle stimmate!!
(285) Rohrbacher, Storia universale della Chiesa Cattolica. Torino, Marietti, 1869, vol. vi, pag. 558.
(286) Anche nell'epidemia colerica di questo anno fatti simili si ebbero a deplorare, non soltanto in Marsiglia, ma anche nel nostro Piemonte. (Cfr. un carteggio da Cuneo, 31 luglio 1884, nella Gazzetta Piemontese).
(287) Lo scopo per cui si ordiscono simili infami calunnie contro gli Ebrei è sempre un solo: il saccheggio. Chi avesse d'uopo di nuove prove per esserne convinto legga quanto scrivevasi da Pietroburgo, 30 giugno 1884, alla Gazzetta Piemontese:
“Eccovi ulteriori ragguagli sulla sommossa antisemitica che ebbe luogo il diciannove del corrente mese nella popolosa Nijni-Novgorod.
“Verso le otto di sera di quel giorno si sparse la voce, nel sobborgo di Konovino, posto sulla riva sinistra dell'Oka, che gli Ebrei si erano impossessati d'un ragazzo e lo avevano nascosto nella sinagoga. Una folla immensa si raccolse tosto nei pressi dell'oratorio israelitico e cominciò a gridare: Morte agli ebrei!
“La polizia del sobborgo essendo insufficiente per numero a calmare e disperdere la folla, mandò per soccorsi in città. Questi soccorsi però, mancando un ponte permanente sull'Oka, ritardarono ad arrivare, e la folla, spinta da alcuni facinorosi, ebbe campo a sfogare l'ingiusta ira contro gli Ebrei e le loro sostanze.
“Afferrato un giovane israelita, che in quel punto passava per la via, la plebaglia lo bastonò a sangue. La folla corse quindi alla sinagoga, ne ruppe i vetri e le porte e la invase. Gl'israeliti addetti al servizio del tempio, che si erano rifugiati nelle soffitte, vennero tratti dal loro nascondiglio e battuti ancor essi.
“Mentre tali valentie si compivano nella sinagoga, un altro centinaio di quei furibondi invase la casa d'un israelita impresario di costruzioni. La casa venne saccheggiata e gli abitanti assaliti a colpi di bastone e di pietre. Sei altre case furono demolite ed alcune altre saccheggiate.
“Nove israeliti caddero vittime di quei forsennati. Questi disgraziati non poterono opporre alcuna resistenza, poichè a Konovino le famiglie israelite non oltrepassano la dozzina, mentre il numero dei loro assalitori saliva a parecchie centinaia.
“La folla abbandonò l'inonorato campo delle sue prodezze all'arrivo della truppa, che operò centocinquanta arresti.
“Il procuratore generale Murawief è partito da Pietroburgo per Nijni-Novgorod per istruire il processo.
“Questa volta pare sul serio che il Governo intenda dare agli antisemiti un esempio salutare. Sarebbe ora!”
La Wiener Abend Zeitung ha da Pietroburgo 2 agosto, che, chiusa l'inchiesta preliminare per questi fatti, vennero chiamati a risponderne 109 persone, divise in 46 gruppi. Il processo avrà luogo in settembre davanti all'autorità militare.
(288) Anche Mosè cedette alle idee dei tempi, non senza però aver contro di esse reagito quanto più poteva; restrinse però di assai i sacrifizi, proibì gli umani ed ordinò che gli altri non si facessero se non nel tempio, presago quasi che un giorno la distruzione del tempio, trascinerebbe seco la fine di ogni effusione di sangue.
(289) Mœurs des Chrétiens, cap. xiii. Lo stesso Fleury, nella sua Histoire Ecclésiastique, dà prova, in questa questione, di una grande e rara imparzialità.
Nel libro lxxiii, cap. 40 (ed. Avignone 1777, vol. x, pag. 555) dopo aver riferito vari fatti di questo genere, addebitati agli Ebrei nel XII secolo, scrive: “Je ne vois point que jusque-là on ait formé contro les Juifs de telles accusations, qui devinrent très frequentes depuis. Les Juifs prétendent que ce sont des calomnies: mais pourquoi les chrétiens les auroient ils avancées en ce temps plutôt qu'en un autre, s'il n'y avoit eu quelque fondement?” Evidentemente il sostituto del buon Fénélon scrivendo queste parole era convinto che qualche cosa di vero ci fosse nell'accusa mossa agli Ebrei; ma egli progredisce nella sua opera e giunto al secolo xiii si imbatte in nuovi fatti congeneri addebitati agli Ebrei, non manca, è vero, di riferirli nel libro lxxxviii, cap. 40 (vol. xii, pag. 177 e segg. dell'ed. succitata) ma evidentemente pentito di quanto aveva scritto nel volume precedente, fa seguire la narrazione di tali fatti da questa dichiarazione:
“Quelques auteurs disent que les Juifs commettoient ces cruautés pour avoir du sang des chrétiens, et l'employer à des remèdes ou des opérations magiques; mais les raisons qu'ils en rendent sont si honteuses et si frivoles, que je ne daigne les rapporter. Au reste je ne trouve aucun de ces faits appuyé des preuves incontestables: et il importe peu de les verifier, si ce n'est à cause de ces prétendus martyrs. Car l'église n'a intérêt que de convertir les Juifs et non pas de les détruire ou les rendre odieux.”
(290) Origenes in Celsum.
I. Tertulliani, Apologeticus, 7.
Clemens Alexandrinus, Protrept. lix, 9.
Gregorius Nazianzenus, Orationes, 33, 532, C.
Castor, Ap. Hist., 7.
Baronius, Annales ecclesiastici, An. 120. n. 22, ecc.
Epiphanius, Contra octaginta hoereses, 26 e 27.
Irenaeus, i, 24.
Eusebii, v, Historiae, 1.
Justinus, Apologia, 50, c.
Historia Ecclesiastica, iii, 21.
Eusebii, iv, Historiae, 7.
Athenagoras.
Justinus, 1, Apologia.
Minucius Felix.
(291) Il dottissimo Mortara in una dissertazione pubblicata nel Mosè, Antologia Israelitica, di Corfù, dell'aprile 1884, col titolo Origine dell'accusa del cibarsi di sangue umano nelle agapi dei primi cristiani, scagiona gli Ebrei dall'accusa di aver diffusa questa calunnia contro i primi cristiani. Il dotto Rabbino prova come Minuzio Felice e Tertulliano non soltanto non abbiano attribuito agli Ebrei l'invenzione di siffatte calunnie, ma ne abbian fatto speciale addebito ai Romani. Appoggiandosi poi all'autorità del Renan (Saint Paul, p. 269 e l'Église Chrétienne, p. 306) prova come l'accusa potesse facilmente sorgere da una cattiva interpretazione delle parole del Vangelo relative al Sacramento dell'Eucarestia e fors'anche da qualche trista pratica religiosa in uso presso sette cristiane. Locchè è confermato anche dal Fleury che nello stesso capitolo, da cui abbiamo tolte le nostre citazioni, scrive: “Questi sospetti erano appoggiati dagli abbominii che i gnostici, i carpocrati ed altri eretici commettevano nelle loro assemblee.” Proseguendo poi nella sua dimostrazione il chiar. Mortara pone in luce come Eusebio, Atenagora ed altri, non escluso lo stesso Giustino, attribuiscano al diavolo le calunnie di cui eran vittima i Cristiani. Conchiude infine il chiar. autore quella parte della sua dissertazione che concerne l'argomento nostro, facendo risultare come nella epoca in cui sorsero quelle accuse contro i primi Cristiani, gli Ebrei, confusi con essi, fossero coinvolti nelle stesse persecuzioni da parte dei gentili. Locchè esclude che ne fossero gli istigatori. Infine rileva come da un lato i gentili avessero nelle loro storie numerosi esempi di atrocità e di incesti, sicchè potevano agevolmente essere indotti a pensare a siffatti delitti e ad accusarne altri, mentre gli Ebrei, cui riti siffatti furono sempre sconosciuti, non avrebbero avuto dove attingerne l'idea. — Aggiungiamo a queste osservazioni del chiarissimo Mortara che il Pamelio (1536–1587), nel suo commento a Tertuliano, espressamente nota che tale accusa deriva la sua origine dalla Cena cristiana.
(293) Tertull., Ap., 50. Baron., an. 138, n. 5 Bioeothanati. Sarmenticii. Semaxi. Bar. 385, N. 5.
(294) Svetonius, Claud., n. 25. Judæos, impulsore Christo, assidue tumultuantes Roma expulsit.
(295) Svet., Ner. n. 16. Affecti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae.
(296) Tacit., 15, Annal.
(297) Quos per flagitia invisos vulgus christianos appellabat.
(298) Repressaque in praesens exitiabilis superstitio.
(299) Quo omnia undique atrocia et pudenda confiuunt celebranturque.
(300) Guibertus Novigentinus, pag. 519, 520. Ademari, Chronicon, al tomo x dei Historiens des Gaules, pag. 159.
(301) Grandes chroniques de France, (édit. Paulin, Paris) Cfr. Pierre Du Puy, pag. 26.
(302) Cfr. Jules Loiseleur, La Doctrine Secrète des Templiers. Paris. Durand, 1872, Libro rarissimo, come quello che non venne tirato che a duecento soli esemplari. Quello che noi abbiamo potuto esaminare si trova nella Biblioteca Nazionale di Firenze.
(303) Cfr. Diarium Johannis Burchardi, pubblicato da Achille Gennarelli, pag. 193, Firenze, 1854.
(304) Abbiamo fedelmente tradotto il brano dell'autore da noi citato; se in esso si riscontrano delle oscurità e delle lacune, non voglia il cortese lettore farne colpa al traduttore, il quale può dire, con serena coscienza, Quod potui dedi, convinto del resto che ciò che ha dato è sufficiente a confortare le sue asserzioni.
(305) Veggasi in particolare il Temps del 24 giugno 1869, dove si trovano degli estratti del rapporto di Mgr. Platone, metropolitano di Mosca, all'imperatore Alessandro.
(306) Gli Skoptsi, setta religiosa russa, fondata, a quanto sembra, da Selivanoff, uno dei tanti impostori che nel secolo scorso si spacciarono per l'imperatore Pietro III; trae la sua origine da una inesatta interpretazione del versetto del Vangelo di s. Matteo: (xix, 12) “Perciocchè vi sono degli Eunuchi i quali sono nati così dal ventre della madre; e vi sono degli eunuchi, i quali sono stati fatti eunuchi dagli uomini; e vi sono degli eunuchi, i quali si sono fatti eunuchi loro stessi, per lo regno de' cieli. Chi può esser capace di queste cose sialo.”
Il Leroy Beaulieu consacra a questi Skoptsi varie pagine del suo studio L'Empire des Tsars et les Russes (Revue des Deux Mondes, 1875, vol. 3, pag. 600 e seguenti). Egli però non fa parola di questo orribile addebito ed anzi scrive: “Leurs réunions sont innocentes, on y chante des chastes cantiques, et un mouton blanc ou un pain de blanche farine (Kalatch) y sert à la communion.” I Khlysty, o flagellanti, sembra abbiano avuto origine verso la metà del xvii secolo. A proposito di essi e dei skakonnys, o saltatori, che ne sarebbero una emanazione, il Leroy Beaulieu (loc. cit.) scrive: “A en croire leurs adversaires orthodoxes, des sacrifices humains et une sort de cannibalisme sacré se seraient ainsi rencontrés chez des sectaires de la Russie moderne. Chez les uns c'était un enfant nouveau-né, l'enfant d'une fille non mariée qu'on égorgeait après le baptême, et dont le sang et le cœur mêlés à du miel tenaient lieu d'eucharistie et du sang de l'agneau de Dieu (Mgr. Philarète, Istoria Rousskoi tserkvg). Chez d'autres . . . . . . De telles pratiques sanglantes . . . . . signalées il y a mille ans par les annales de Nestor chez les païens de la Russie, se seraient retrouvées de nos jours chez des tribus finnoises de l'empire. On est d'autant plus tenté de croire à l'exagération ou aux fantastiques illusions des récits de ce genre que le paysan russe est naturellement plus doux.”
Fin qui l'illustre economista francese; dal canto nostro, senza dare in proposito nessun giudizio, osserviamo, che la pretesa mitezza del contadino russo ci sembra divenir ferocia sotto l'impero del misticismo religioso cui è grandemente inclinato. Chi non ricorda infatti i delitti di coloro che si mutilavano da sè e dei stranniki (che fanno un atto meritorio dell'assassinio di un eretico), e chi non sa i vani sforzi della polizia per venire a capo dei Bezpopotzi di Jaroslaw (che uccidono i neonati)?
Mentre stiamo correggendo le bozze di questo capitolo, giugno 1884, i giornali politici ci recano la seguente notizia che infirmerebbe alquanto l'asserto del Leroy-Beaulieu: “Telegrafano da Pietroburgo alla France essere stata scoperta in Crimea una nuova setta religiosa, estremamente sanguinaria, il cui dogma è il culto di San Agostino e di Sant'Elena. I credenti di simile setta si obbligano ad uccidere tutti coloro che si rifiutassero di abbracciare la loro religione. Questi fanatici hanno già assassinato gran numero di contadini.”
(307) Raynold ad. an. 1308.
(308) Infinite erano le accuse assurde mosse contro gli Ebrei nel medio evo. Il favore di cui essi godevano da parte degli Arabi infedeli era causa di nuove persecuzioni nei paesi cristiani. Gli Ebrei del mezzodì della Francia furono accusati di aver chiamati i Saraceni per liberarsi dalla crudele tirannia del vescovo di Tolosa. Nell'xi secolo gli Ebrei di Orléans sono accusati di avere eccitati i Mussulmani di Gerusalemme a profanare il sacro sepolcro. L'accusa è assurda, ma basta a dar pretesto a lunghe e sanguinose persecuzioni, (Cfr. Dom. Bouquet, Recueil des Hist. de France, tom. xii, pag. 240 e Rodulph. Glabr. ap. Sism., tom. iv). Nel 1222 in Germania sono accusati di favorire le conquiste dei Persiani e dei Tartari (Cfr. Basnage, op. cit., pag. 1862). Insomma basta che una sciagura minacci un paese, perchè tosto se ne accusino gli Ebrei. Non basterebbe poi lo intiero volume se volessimo riferire tutte le strane dicerie che ebbero corso fra le plebi sul conto degli Ebrei, e che forse oggi ancora non sono del tutto bandite dalle menti più rozze. Vi fu chi disse che l'ebreo uscendo dall'alvo materno abbia una mano piena di sangue; altri che ogni ebreo porti seco dalla nascita una macchia, od una piaga, che si inciprignisce ogni mese; si farneticò che in mano ad ogni ebreo moribondo si pongano tre pietruzze perchè entrando in paradiso le scagli contro N. S. Gesù Cristo e si arrivò persino ad asserire un fatto che tutti possono coi loro occhi verificare falso; cioè che ogni qualvolta imperversa un temporale, ravvisando nell'infuriare della natura un segno precursore della venuta del Messia, spalanchino le finestre perchè questi possa più agevolmente entrare in casa loro!!
Di fronte a cosiffatte accuse diviene inutile soffermarsi su tutte le altre che nel medio evo si rivolgevano agli Ebrei, come ad esempio di prestare un'adorazione idolatra ai libri della Bibbia, di tosare le monete, di bestemmiare, ecc., ecc. La falsità evidente delle une, basti a provare la falsità delle altre.
(309) Adv. Jud., Hom. 1, pag. 391; Hom. 3, pag. 439. Cfr. Basnage, Hist. des Juifs, v, 1668.
(310) Non mancò neppure chi, volendo scusare gli Ebrei dalla turpe accusa, sostenne che tali omicidii di bambini sarebbero stati commessi da Ebrei per compiere col sangue ricavatone sortilegi, magie ed altre operazioni diaboliche. Esaminiamo dapprima se la pratica di tali sortilegi sia conciliabile colla religione mosaica.
Son noti a tutti i precetti della Bibbia che vietano agli Ebrei i sortilegi e le arti magiche di qualsivoglia natura, precetti riconfermati dal Talmud in più e più luoghi.
E gli Ebrei si mantennero generalmente ligi a tali precetti, anche quando i popoli fra cui vivevano erano infetti di pregiudizi di ogni natura.
Maimonide, il massimo fra gli scrittori ebrei, è l'autore di una lettera ai Rabbini di Marsiglia, in cui demolisce le basi dell'astrologia giudiziaria, lettera che fu approvata da due papi: Sisto V ed Urbano VII (Const. XVII. Bullarii t. ii).
La ripugnanza degli Ebrei per le arti magiche ci è poi confermata dal seguente brano del Modena, (op. cit., p. v, c. ii, pag. 113). . . . . .“Il dar fede ad ogni qual si sia sorte di Auguri alla giuditiaria, tutti sortilegii, Geomantia, Chiromantia et ogni simile divinatione hanno per grave peccato.
Et molto più operar qualsivoglia Negromantia, Magia, Prestigii, Theorgia, scongiuri di demoni o d'angioli, cercar responsii da morti et ogni cosa di queste espresse e comprese dal Deut. xviii, 10, 13.”
Non ci si dica che gli Ebrei seguaci della Cabala poterono consacrarsi alla Magia, perchè le dottrine cabalistiche, da cui non fu alieno neppure san Gerolamo, (Hieron., Ep. 155, ad Paulam Urbicam, pag. 1307 e 1308. Basnage, op. cit., lib. iii, cap. 24, pag. 1016, 1017), non hanno niente di comune colla magia. Dopo ciò, se fosse provato che qualche ebreo ha ucciso un fanciullo cristiano per adoperare il suo sangue in operazioni magiche, l'autore di tale nequizia non potrebbe considerarsi che come apostata dalla propria religione, nè più nè meno di quello che siano a considerarsi apostati dal Cristianesimo tutti coloro che ad arti magiche, ed a sortilegi si consacrarono.
(311) “Depuis près de deux mille ans cette misérable Nation est eparse sur la terre, elle en est l'excrément, la malédiction, la raclure, elle gémit dans une longue et cruelle captivité” (Jurieu, L'accomplissement des Prophéties, t. 3, 12. Rotterdam, 1690, pag. 205).
(312) De Rossi, Dizionario storico degli autori ebrei, a. v.
(313) vii, 17, 20; xii, 7, 22, 23.
(314) Cfr. Archives Israélites, 1º marzo 1862, pag. 163 e 164, e D. H. Streak. Monatsbb. ii (1882), pag. 221 e segg. tolto dall'Evang. Kirchenzeitung, 12 agosto 1882.
(315) Prima Epistola di S. Giovanni, i, 5.
(316) Genesi, i, 2.
(317) Genesi, vi, 2.
(318) Prima Epistola di S. Giovanni, iii, 9.
(319) Schmidt, Hist. des Cathares, ii, pag. 22, e gli Actes de l'inquisition de Carcassonne, 1247, che conservansi manoscritti nella Biblioteca Imperiale di Parigi.
(320) Ancora in pieno secolo decimonono il Rohrbacher nella sua Storia della Chiesa (Torino, Marietti, vol. i, pag. 374) premette ad un rapido cenno sui sacrifizi umani queste parole:
“Satana, il Dio di questo secolo, è non solo uno spirito di superbia, usurpatore degli onori celesti, uno spirito immondo che spinge l'uomo a impurità d'ogni fatta; ma egli fu altresì omicida fin da principio, ed è questo un terzo carattere dell'impero che egli ha esercitato sulla terra sotto il nome d'idolatria.”
Se così si ragiona ai tempi nostri, come si sarà ragionato un quindici o sedici secoli fa?
(321) Il fatto avvenne a Parigi durante l'assedio che quella città ebbe a soffrire da parte dei Prussiani.
(322) Nei tempi in cui si diffuse per le prime volte questa calunnia gli Ebrei non erano ancora confinati nei Ghetti.
(323) Basnage, op. cit., libro vii, cap. xi, 1679 e segg.
(324) La Chiesa non vide mai di buon occhio la canonizzazione di siffatti bambini. Quel Papa miracolo che fu Benedetto XIV, seccato dal principe vescovo di Bressanone perchè canonizzasse un tal Andrea, nato a Rinn, e che si pretendeva immolato presso Innsbruch dagli Ebrei il 9 luglio 1462 (si noti se il fatto fosse vero l'imprudenza e la demenza degli Ebrei che avrebbero commesso a soli tredici anni di distanza due delitti di questo genere a poche miglia l'uno dall'altro) scappò fuori colla costituzione Beatus Andreas che si legge nel tomo xix del Bull. Magn., pagina 120, emanata a' 23 maggio 1755 e diretta a mons. Benedetto Veterani promotore della fede, per dichiarare che non conveniva canonizzare i bambini per più ragioni: 1º per la novità; 2º per non avvilire colla frequenza le canonizzazioni; 3º perchè da questi bambini niun esempio di virtù possono cavare i fedeli, non potendoli essi aver dati in così tenera età. Quindi ordinò al promotore della fede, doversi in tale maniera rispondere a chiunque domandasse la canonizzazione di simili bambini (Cfr. Moroni, Diz. di Erudiz. Storico-Ecclesiastica, vol. vii, pag. 312).
Di varie pubblicazioni antisemite.
Al chiarissimo sig. Direttore della Civiltà Cattolica,
Firenze.
I primi capitoli di questo mio, qualsiasi, lavoro erano già licenziati alle stampe, allorquando, ricercando nella Civiltà Cattolica i documenti che sapevo esservi stati pubblicati sul preteso uso del sangue cristiano nei riti ebraici, mi accorsi che il coscienzioso indagatore di quei documenti li aveva fatti precedere da alcune sue articole sulle qualità generali degli Ebrei.
All'articolaio suo non risponderei; chè quelle articole non meriterebbero proprio che io sprecassi attorno ad esse tempo ed inchiostro; ma rivolgo la mia risposta alla Signoria Vostra Preclara, perocchè quelle articole non hanno, agli occhi di ogni uomo spassionato, altro valore, da quello infuori che ad esse deriva dall'essere state accolte in un periodico tanto importante, quale è quello, diretto da V. S. Chiarissima.
Io non so quanto siavi di vero nella comune credenza, che asserisce, la Civiltà Cattolica essere l'organo di quella Compagnia, che nei secoli scorsi ha dato all'Italia, nel Padre Lana Terzi, il divinatore delle maggiori scoperte, per cui vada orgoglioso il secolo nostro, e che, nell'età, nostra, ci diede quel Padre Secchi il cui nome, la cui memoria ut sidera fulgent.
Ma appartenga Ella, o meno, alla dotta Compagnia, di una cosa io sono sicurissimo, che cioè Ella risente per essa la maggior stima, e considera le persecuzioni delle quali fu, è, e, pur troppo, sarà, vittima, da una parte, come una prova della malvagità dei tempi, dall'altra, come una grazia specialissima del Signore che vuole, con triboli e persecuzioni immeritate, sperimentare la fedeltà di quei devoti Suoi servi.
Ora, vorrebbe Ella dirmi, riveritissimo signor mio, qual cuore sarebbe il suo se un giorno, aprendo qualche giornale, e non ne mancano, nemico di quella Compagnia, le accadesse di leggervi le seguenti pagine?
“Assurdo è il supporre che i varî popoli si siano data la voce e la parola d'ordine, di odiare, disprezzare e perseguitare così, senza scopo nè perchè, un ordine speciale. Dunque bisogna ammettere in quest'ordine speciale una causa a lui inerente, insita e quasi connaturata, che sempre mostra i suoi effetti ed eccita sempre l'odio, il disprezzo e la persecuzione non evitabile, nè di fatto mai evitata, in pressochè un secolo e mezzo. La qual causa consiste nel suo odio teorico e pratico contro il genere umano non gesuita. E la causa di quest'odio dove si trova? Ossia, come si forma così e si educa l'indole e la natura gesuitica a quest'odio teorico e pratico contro il genere umano? Non per fermo colla legge morale ed educazione religiosa semplicemente cattolica, qual è rivelata da Dio nell'antico e nel nuovo Testamento. Resta dunque, che la Compagnia di Gesù, si sia foggiata una legge, una morale ed un'educazione religiosa novella e non cristiana, che seco si porta in tutti i paesi dove si va ad abitare, e che mai non ha abbandonata per tanti anni, ed anzi andò sempre più perfezionando, ossia corrompendo in teoria ed in pratica, ottenendo così da tutti i popoli e da tutti i tempi quel ricambio di odio, di disprezzo e di persecuzione che essa ha giurato e praticato sempre contro tutti i popoli ed in tutti i tempi. Or questo impasto di veleno, di odio, di immoralità e di empietà che forma ora la regola e la morale, se non sempre pratica, almeno sempre certamente teorica, della Compagnia di Gesù è quello che si chiama Monita secreta.
“. . . . . Del resto, sarebbero ben sciocchi i gesuiti se non negassero anche in tal caso la verità conosciuta. Ma si mostrerebbero molto più accorti e più savî se invece di negare a parole ciò che le loro autentiche e canoniche leggi dimostrano a chi sa leggere i loro libri, negassero invece coi fatti quello che invece pur troppo coi fatti certamente e notoriamente sempre confermarono e confermano ancor presentemente. Senza i quali fatti, conformi alle loro leggi, chi potrebbe mai spiegare quelle sì ognora rinascenti sollevazioni contro di loro di tanti popoli? Le quali non si sono verificate mai contro nessun altro ordine religioso; perchè nessun altro ordine religioso vi ha mai dato somigliante motivo. Giacchè anche qui è vero che nihil fit sine ratione sufficienti. E se la Compagnia di Gesù sola fra tutti gli Ordini religiosi fu sì odiata sempre, convien bene che vi sia in lei insita una sufficiente ragione eccitante questo continuo e comune odio contro di lei di tutte le nazioni. Or questa ragione sufficiente non può trovarsi certamente nella Legge religiosa. È dunque, anche per ciò solo, necessario il supporre che vi sia ora un'altra legge che la regola e governa, ossia la sregola e la sgoverna.
“La quale legge non è altro che i Monita secreta, lambiccati e quintessenza dell'odio e della malizia antisociale ed anticristiana e dei gesuiti cacciati per divino castigo dalle loro sedi, e dispersi tra le genti fino al giorno in cui riconosceranno anche essi il vero Messia: la libertà. Allora avremo forse anche noi salutem ex inimicis nostris et de manu omnium qui oderunt nos. La Compagnia di Gesù infatti, come fu ed è dappertutto influentissima nel male, dopo che abbandonò la vera dottrina di Cristo, così sarebbe stata e sarà senza dubbio, influentissima nel bene quando o non l'avesse abbandonata, o le ritornasse in seno.”
Io sono certo che leggendo siffatto ammasso di banali insolenze, non sorrette da nessuna ragione, non confortate da nessun fatto, da quello infuori, brutalmente vero, delle persecuzioni sofferte, Ella proverebbe un impeto di sdegno.
Ed avrebbe, Riverito Signor mio, non una, ma mille ragioni; perocchè oggi chi studia le questioni sociali e storielle, sopra libri alquanto più seri che non sieno i romanzi di Eugenio Sue, sa, con certezza, che l'invenzione dei Monita secreta è una delle più spudorate calunnie che sieno mai uscite dalla penna di libellista settario.
Ma sa Ella donde ho tratto le pagine surriferite contro la Compagnia di Gesù?
Sono nè più nè meno che quanto si legge nel volume 6º, anno 1881, pagg. 601 e 735 della sua Civiltà; soltanto, non per ricordare anco una volta. a V. S. Ill.ma il noto qui gladio ferit, gladio perit, ma per mero artifizio di polemica, mi son permesso di sostituire sempre e dovunque alla parola ebrei quella di gesuiti, alla parola Talmud quella di Monita secreta (calunnia per calunnia) indicando del resto sempre e dovunque le mie modificazioni con carattere corsivo; buona fede questa alla quale nè i Gesuiti, nè gli Ebrei sono avvezzi da parte dei loro avversari.
Capisco che Ella mi dirà che ciò che si è detto dei Monita è calunnia nera, e verità invece sacrosanta quanto l'articolaio suo blatera contro il Talmud; ma io le risponderò pregandola a rileggere quanto è scritto nei precedenti capitoli e ad esaminare, con serena coscienza, se più sian convincenti gli argomenti miei o quelli dell'articolaio suo; ma siccome in quei capitoli io non pigliavo di fronte uno piuttosto che un altro nemico del giudaismo, e combattevo, non il calunniatore, ma la calunnia, così consenta che in questa mia lunga lettera io risponda a talune delle più impudenti osservazioni dell'articolaio suo.
Abilità miranda, malizia sopraffina od arte infernale, Riveritissimo Signor mio, è invero quella di cui fa prova l'articolaio suo, allorquando a pag. 4 e 5 del vol. V, pretende provare che l'Assemblea dei notabili ebrei, prima, ed il Sinedrio da poi, convocati a Parigi dal primo Napoleone, ingannarono la Francia ed il mondo, e facendo mostra di amore pei Francesi e per gli uomini civili in generale, proclamarono invece altamente il loro odio per tutti quanti non sono Ebrei.
Riassumo l'argomentazione dell'articolaio suo.
Egli dice: Gli Ebrei dichiararono in quelle solenni adunanze, di avere in conto di fratelli coloro che osservano i sette precetti noachitidi. E questo è vero. Ma, prosegue l'articolaio, fra questi precetti vi ha quello di non mangiar carne strappata da animale vivo, e l'altro di aborrire dal culto degli idoli. Ora nessun popolo, tranne l'ebreo, aborre dall'uso di carni strappate da animali vivi e l'ebreo considera idolatri i Cristiani pel culto di latria che rendono a N. S. Gesù Cristo, pel culto di dulia che professano alla Beata Vergine. Quindi gli Ebrei dicendo di aver in conto di fratelli coloro che osservavano i sette precetti noachitidi, venivano, alla fin dei conti, a dire che non avevano in conto di fratelli altro che se stessi.
Non mi affannerò io certamente a provare che il Dio della Bibbia rivelò a Noè ed a' suoi figli i sette precetti che i talmudisti dicono noachitici.
Son fole, indegne che Ella ed io ci perdiamo tempo.
Ma vorrà Ella negarmi che quei sette precetti rappresentino il minimum, per così dire, della morale?
Che vi ha dunque di strano se gli Ebrei dicono doversi considerare fratelli quelli soltanto che quei precetti noachitici osservano?
Per noi, educati alle idee di moderna tolleranza, di quella tolleranza che l'articolaio suo chiama massonica e che io dico cristiana, è infame eccettuare, teoricamente almeno, dalla fratellanza universale il cannibale e l'antropofago; alla S. V. Illma — nel cui giornale si tributano continui elogi alla cattolica Spagna, che non paga di aver bruciato Mori ed Ebrei in casa sua, ha distrutto, quasi, in America, le razze autoctone — alla S. V. Illma, siffatta eccezione deve sembrar naturale quando le sia provato che non si riferisce a' popoli cristiani o maomettani, ma soltanto agli idolatri ed ai cannibali propriamente detti. E questo lo proverò in poche righe, malgrado i sofismi, diremo rabbinici, dell'articolaio suo.
Cominciamo in amoenis, e cioè dal precetto di non mangiar carni strappate da animali vivi. Nessuna religione, dalla giudaica in fuori, dice l'articolaio suo, ha tale precetto siccome rivelato da Dio; sopra il che ricorda quanto è scritto nei Fioretti di San Francesco nel capo i della vita di Fra Ginepro: “Visitando un frate infermo, domandollo: Possoti io fare servigio alcuno? Rispose l'infermo: Molto mi sarebbe grande consolazione uno peduccio di porco. Disse Frate Ginepro: Lascia fare a me. E va e piglia un coltello, ed in fervore di spirito va per la selva dov'erano certi porci a pascere, e gittossi addosso ad uno e tagliali il piede e fugge lasciando il porco col piè troncato” violando così — prosegue l'articolaio — un precetto noachitico e rendendo indegni sè e il Frate infermo che mangiò il peduccio di porco, della carità universale ebraica.
L'articolaio ha dimenticato che il buon Fra Ginepro ha violato, non uno ma due precetti noachitidi — tanto è vero che i precetti della legge morale sono strettamente connessi gli uni cogli altri — ed ha violato proprio un precetto che Dio ha dato, non soltanto a Noè, ma a Mosè sul Sinai, che la Chiesa cattolica ha conservato fra i comandamenti di Dio, e che i codici penali di tutti i paesi del mondo, non cannibale, hanno accolto nelle loro ampie braccia: Settimo: Non rubare.
Non farò io colpa a Fra Ginepro del furto commesso e della crudeltà di cui si rese colpevole verso quel povero porco; il fervore della carità giustifica colpe ben più gravi che non sian quelle del buon fraticello, ma chieggo a V. S. Illma di indicarmi una nazione civile, un uomo solo, il cui senso morale non sia completamente ottuso, che consenta a recidere un membro ad un animale vivo per cibarsene.
Allorquando i Talmudisti scrivevano non si conosceva morale indipendente; sola sorgente di ogni morale era Dio; se essi posero sotto la salvaguardia di Dio un precetto che Dio non ha certamente rivelato a Noè, ma che ha scolpito nel cuore di ogni uomo, vorrà Ella farne colpa agli Ebrei? E lo potrebbe Ella, pensando con quanto accanimento i giornali di parte sua, e forse la stessa sua Civiltà, perseguitarono la vivisezione, certamente altrettanto crudele quanto l'atto di Frà Ginepro, ma, forse, giustificata dal grande incremento che apporta alle anatomiche discipline?
Creda, creda pure l'articolaio, che il mondo civile intero professa il precetto noachide di non mangiar carne strappata ad animali vivi.
Sed majora premunt. Al dire degli Ebrei, i Cristiani sono idolatri, quindi non osservano i sette precetti noachitidi e quindi sono esclusi da quella che l'articolaio suo chiama, elegantemente, fratellanza giudaica.
Non uso a valermi di altre espressioni, dirò soltanto che in questa argomentazione sono altrettante le inesattezze quante le parole. Gli Ebrei negano la divinità di N. S. Gesù Cristo — se non la negassero, non sarebbero Ebrei — ma ammettono e riconoscono che i Cristiani lo adorano, non come Uomo, ma come Figlio di Dio. Potranno deplorare questo, che per essi è un errore, ma non cadono nell'altro di non comprendere che l'Unità di Dio, il monoteismo, è dogma anche pei Cristiani. Non adorano certamente la Santissima Trinità, non si arrogano di spiegare ciò che è mistero per la Religione cristiana, ma sanno che il dogma della Trinità non esclude il monoteismo. E se il suo articolaio conoscesse almeno di nome la Cabbala e le opere di Knorr, di Rosenroth, di Reuchlin e di Rettangel, non ignorerebbe che nella Cabbala — che gli Ebrei, come Ebrei, non hanno del resto in nessun conto — si trovano parecchie allusioni favorevoli al dogma della Trinità.
Ma senza perderci in questioni cabalistiche, lo stesso articolaio non cita a pag. 732, vol. vi, queste parole del Maimonide? “La concezione, colui che concepisce e chi è concepito sono in Dio tre modi di essere i quali non costituiscono che la stessa essenza, nè formano punto una pluralità.”
Io non mi sento di addentrarmi nel ginepraio di una discussione teologica o filosofica, ma parmi, che queste parole provino abbastanza chiaramente che, nella mente del massimo filosofo e teologo ebreo, il dogma della Trinità non è incompatibile col monoteismo.
Parmi adunque aver dimostrata falsa ed insussistente la calunnia che il suo articolaio addebita agli Ebrei adunati a Parigi di avere, con un abile gioco di parole, manifestato il loro odio verso i popoli non israeliti, facendo credere a sentimenti di fratellanza cui avrebbe repugnato la loro religione. Ma, ad esuberanza, voglio addurre una altra prova.
Il suo articolaio, che a pag. 485 del vol. v enumera abbastanza esattamente i precetti noachitidi, si accorge poi che tutta la sua argomentazione, per provare che, a giudizio degli Ebrei, i Cristiani non osservano quei precetti, claudica, zoppica. Ed allora cosa fa quel bravo signore, che in parecchi luoghi del suo articolo accusa gli Ebrei di aver falsato la Bibbia, con un tratto di mala fede, veramente rabbinica, a pag. 99 del vol. vii, include fra i precetti noachitidi, risum teneatis, la circoncisione! Tantae molis erat provare che gli Ebrei non credono che i Cristiani osservino i precetti noachitidi!!
E passo ad un altro capo d'accusa.
L'articolaio suo è andato ad esumare, dai libri di uno dei tanti Ebrei rinnegati, il Drach, una vecchia, vecchissima accusa contro gli Ebrei.
“Ancora ai nostri giorni, egli dice, un tribunale di tre Ebrei, talvolta i meno civilizzati ed i più ignoranti del luogo, ma che dinanzi alla sinagoga ha piena autorità, si arroga il diritto (noi gemiamo di doverlo dire) di sciogliere i loro correligionari dai loro giuramenti, di annullare le loro promesse ed i loro impegni più sacri, così pel passato, come pel futuro.” Che il Drach fosse un malvagio ed un mentitore impudente, sapevamcelo da un pezzo; che il suo articolaio non conoscesse verbo del Talmud, se non a traverso le opere venali degli Ebrei rinnegati, aveva avuto cura di avvertircene egli stesso con queste parole (pag. 215, vol. vi):
“Alle rivelazioni dei Rabbini convertiti si dee pressochè esclusivamente quella qualunque (assai scarsa!) siasi cognizione in cui ora siamo (parli per sè, il dotto articolaio, chè gli uomini di buona fede sanno attingere ad altre, meno impure, sorgenti) di quella perversa legge (il Talmud).” Ma che nel secolo xix toccasse rispondere, per la millesima volta, ad un'accusa di questo genere, e che quest'accusa fosse riferita dal giornale di una Compagnia meritamente celebre per vastità di dottrina ed acutezza di mente, è cosa che davvero non mi sarei mai aspettato.
Siccome però tengo per assioma il precetto che a qualunque anche stolida accusa convenga rispondere, così rispondo al Drach ed allo articolaio.
Anche in questo caso si verifica il detto volgare, che non c'è fumo senza fuoco, ma è un fuocherello ben piccolo, glielo accerto, in paragone di quello dei roghi che bruciarono tanti poveri Ebrei ed anche, une fois n'est pas coutume, il R. P. Malagrida, che io tengo per altrettanto innocente quanto, quei poveri Ebrei.
Mi stia dunque a sentire, Riverito Signor mio!
È vero che una volta all'anno l'Ebreo si fa prosciogliere dalle promesse non mantenute; ma bisogna distinguere, perchè, come Ella mi insegna: Qui bene distinguit, proximus est veritati.
Non si tratta dunque, come il Drach rabbinicamente insinua, e l'articolaio pecorescamente copia, di promesse fatte a qualsivoglia persona o di giuramenti fatti a privati, a tribunali, a principi; si tratta soltanto di voti religiosi fatti a Dio e non adempiuti per cause indipendenti dalla volontà di chi li ha fatti (325).
Ora giova avvertire due cose: e cioè che se un Cattolico si trova nello stesso caso, ricorre alla Santa Sede, che avendo ricevuto da N. S. Gesù Cristo facoltà di sciogliere e di legare, lo proscioglie dal voto; l'Ebreo, che non ha autorità spirituale, ricorre a tre, che chiamerei probiviri, i quali adempiono ad un atto di carità, tranquillizzandone la coscienza. Oltre a ciò, è a sapersi che gli Ebrei non furono mai troppo teneri dei voti. Nell'Ecclesiaste è detto: “Meglio è che tu non voti, che se tu voti e non adempi” (v. 5) e Rabbi Meir commentando questo versetto soggiunge: “Ma meglio assai non far nessun voto” (326). E forse il buon Rabbi nell'emettere tale parere, aveva presente il versetto 14 del vi dei Numeri, nel quale il Signore comandò che chi ha fatto un voto e lo ha osservato, debba, tra gli altri sacrifizi, offrirne uno in espiazione del peccato di aver fatto un voto.
E se il suo articolaio non fosse convinto e volesse fare un atto di giustizia inconsueto in lui, e che si riassume nel precetto audietur et altera pars, legga la Défense du Judaisme, di Isaac Levy, ed a pag. 62 vi troverà ampiamente confutata la sciocca accusa sulla quale, per mio conto, mi sono anche troppo dilungato.
Un'altra accusa che trovo nel vol. vi, pag. 605, è la seguente:
“I giudei poi non accettano la testimonianza dei non giudei; perchè non si dee credere a chi è sospetto di delitti. E tali sono tutti i non giudei. E perciò, anche secondo il Talmud, nessun ebreo dee porre una sua bestia da soma, o qualsiasi altra nelle stalle dei non giudei, nè lasciar sola con essi una loro donna, e neanche rimanere egli stesso solo con loro, per sospetti espressi chiaramente nel Talmud; ma che bello è il tacere (e più bello il non accennare, in omaggio al proverbio: non parlar di corda in casa del... padre Sanchez). “Sospettano dunque, gli Ebrei di tutto il genere umano non ebreo, e credono birbanti ed infami tutti fuorchè loro: e ciò notisi bene in forza della loro legge e per precetto religioso.”
Sicuro; gli Ebrei ed i loro Rabbini avevano, nel secolo V in cui fu scritto il Talmud, il gran torto di non fidarsi di chi non professava la loro religione; ma di grazia, a che sentimento si ispiravano i Padri del vi Concilio d'Adge e del Concilio Epaonense, vietando ai Cristiani di non mangiare cogli Ebrei? (327). A che sentimento si inspirava papa Benedetto XIII, per tacer d'altri, vietando agli Ebrei di formare società coi Cristiani, di esercitare la medicina, di aver domestici cristiani, ecc., ecc. E quei predicatori che, al dire di papa Martino V (328), che cristianamente ne li biasima, vietavano persino ai Cristiani di cuocere pane per gli Ebrei, obbedivano, di grazia, a che sentimento?
Ma Ella mi dirà che, verso l'Ebreo, empio e spregiatore di ogni legge umana e divina, la diffidenza non è mai troppa, ma che l'Ebreo, sempre trattato amorevolmente dagli altri popoli, aveva obbligo di avere verso di loro la maggior confidenza.
Le storie tutte attestano di questa amorevolezza con cui eran trattati gli Ebrei, ma a me basta spigolare pochissimi fatti, che non sono però fatti isolati, per mostrare quanto torto avessero gli Ebrei di diffidare di coloro che professavano altre religioni, anche se queste imponevano come obbligo, la carità e l'amore verso l'uman genere.
A Beziers nella settimana santa era permesso ai Cristiani di pigliare a sassate gli Ebrei (329).
Ma pigliarli a sassate non basta, e nelle Assise di Bretagna nel 1239, si trova una disposizione che vietava di procedere contro chiunque avesse ucciso un ebreo (330).
E questi empi Ebrei, così ben protetti dalle leggi dei popoli fra cui vivevano, osavano iscrivere nei loro libri religiosi, massime di precauzione contro i loro persecutori!
Perchè, invece, non affidarsi alla pietà di questi? Perchè non invocare, per esempio, l'appoggio di quel buon Ugo, cappellano del visconte di Rochechouart, di cui voglio narrarle le gesta, ad edificazione dell'articolaio suo.
È quasi certo che Ella sa, e che l'articolaio suo che nulla sa, ignora, che una di quelle sante leggi del passato, di cui l'articolaio invoca parecchie volte il ripristinamento, disponeva che gli Ebrei di Tolosa dovessero ricevere uno schiaffo alla porta del maggior tempio, cerimonia piissima ed edificante, che durò fino al principio del xii secolo (331).
Ora quel buon cappellano..... ma val meglio lasci la parola ad un autore non sospetto di soverchia benevolenza verso gli Ebrei: “Quo tempore Ugo, capellanus Americi vicecomitis Rocacardensis, cum eodem seniore suo Tolosæ adfuit in Pascha: et colaphum judaeo, sicut illic omnis Pascha semper moris est, imposuit et cerebrum illico et oculos ex capite perfido ad terram effodit. Qui judæus statim mortuus, ad synagogam judæorum de basilica Sancti Stephani elatus, sepulturæ datus est.” (332).
E badi, Riverito Signor mio, che questi perfidi Ebrei avevano tanto maggior torto di diffidare di questi mitissimi avversari, in quanto la legge li tutelava così bene, che al piissimo cappellano Ugo non fu torto un capello!
Ma che vado io cercando esempi nel tanto calunniato medio evo (come si suol dire nel suo giornale), per provare il torto grandissimo che avevano gli Ebrei di non fidarsi dei loro nemici?
Lo stesso suo articolaio mi fornisce un argomento prezioso. È noto, lippis et tonsoribus, che la Spagna, fra tutte le nazioni europee, è quella che gode la maggior simpatia di V. S. Ill.ma e dei redattori del suo giornale, tanto è vero che a pag. 456 del volume v la trovo chiamata “la più cavalleresca ed anche forse la più cattolica di tutte le nazioni.”
Ora, il suo pio articolaio visto, che se i tempi non volgono propizi agli arrosti, non sono neppur adatti a ristabilire la colafizazione di Tolosa, appena sente che il Governo spagnuolo si mostra disposto a richiamare gli Ebrei, scrive queste precise parole:
“Poco si fidano gli Ebrei dell'ospitalità spagnuola. E non hanno torto. Tanto più che la Spagna passa ora per avere le finanze sì pubbliche e sì private un po' ammalate. E quando gli Ebrei vi avessero seco portati i loro milioni, non si sa se poi qualche moto antisemitico non dovesse ricacciare gli Ebrei dalla Spagna, ritenendo i milioni. Sono cose già accadute, e che il presente dominio liberalesco non può che rendere sempre più facili a riaccadere.”
Lascio a parte l'insinuazione contro il dominio liberalesco; non oppongo l'osservazione che Ferdinando ed Isabella, che cacciarono gli Ebrei, ebbero dalla storia un nome che, grazie a V. S. Ill.ma, ed a pochi suoi accoliti, significa l'opposto di liberale; ma chieggo, a chiunque abbia pratica di arguzie rabbiniche, se dalle linee che ho testè riferito, non appare chiaro il desiderio del pio articolaio suo, che avvenga ciò ch'egli ipocritamente finge di temere, che cioè la cattolica e cavalleresca Spagna scacci cavallerescamente gli Ebrei, e ne ritenga, altrettanto cavallerescamente, i milioni, dato e non concesso che milioni ci sieno?
E quando oggi ancora, in pieno xix secolo, esistono pie persone come l'articolaio suddetto, come il Rohling, come il sucido falsario dell'anonimo opuscolo di Prato, come quel rinnegato di tutte le nazioni e di tutte le religioni che si fa chiamare Osman bey, vi è di che meravigliarsi se gli Ebrei del v secolo avevano ricorso a qualche provvedimento precauzionale contro i loro nemici?
E qui giunto alla fine mi nasce, Riveritissimo Signor mio, un dubbio.
Valeva egli la pena di discutere coll'articolaio suo che mi dà prove luminose di dottrina, collocando Damasco in Egitto (vii, 476); facendo di S. E. il generale Menabrea un ebreo (vii, 238), quando sanno anche i bimbi che quell'egregio uomo di Stato fu tra i fondatori dell'Armonia, ed infine mettendo, come già ebbi a rilevare, la circoncisione fra i precetti noachidi? Ma istruire gli ignoranti è opera di carità, ed io non rimpiangerei le mie parole se non temessi che l'articolaio in questione, fosse fra quegli ignoranti che non vogliono essere istruiti.
Come si fa per esempio ad ammettere la buona fede, altrimenti che spiegandola colla crassa ignoranza, dello scrittore che a pag. 736 del vol. vi, scrive queste parole:
“Polemicamente poi si manifesta la reazione religiosa ebraica con quell'informe ammasso dei loro libri, tutti diretti contro quanto non è ebreo. Più celebri fra questi, perchè più empî e più blasfematorî, sono il Toldos Jescou ossia la generazione di Gesù, e il Maase Talony, ossia Storia dell'impiccato. Ma gli Ebrei si vantano ancora di possedere tre Nizacchi ossia Libri vittoriosi contro i Cristiani e contro il Vangelo, composti l'uno dal Rabbino Matatial, l'altro dal Rabbino Lipman, ed il terzo dal Rabbino Giuseppe Kimchi.
“. . . . . Orribili veramente sono quei libri: ma però necessari a conoscersi da chi vuol sapere ciò che veramente pensano dei Cristiani gli Ebrei.”
Apra l'articolaio il Dizionario storico degli Autori Ebrei, opera di quell'eccellente sacerdote cattolico che fu il prof. De Rossi, a pag. 152 del vol. 2º, e troverà che il Toledoth Jesù ed il Maasse Jésù o taluì sono un libro solo con due titoli diversi, e quanto poi al farne colpa agli Ebrei vedrà che il celebre Mendelssohn protesta “che è uno di quei libri che nessun ebreo di buon senso legge o conosce” e che lo stesso De Rossi conviene che “tutti i più savi e dotti Rabbini sono talmente persuasi della sua impostura che non ne trovo veruno di tanti che hanno scritto di controversie, e difesa la loro religione contro de' Cristiani, che abbia osato citarlo per genuino, per antico, per autorevole.”
Mi è impossibile riportare intiero il capitolo del De Rossi, ma lo legga l'articolaio, e vedrà che l'autore del libercolo è ignoto e non è neppur provato che esso sia un ebreo; sicchè volerne far colpa all'intiera nazione giudaica, sarebbe come dire che tutti gli Europei sono empî, perchè in Europa fu pubblicato, se pur fu pubblicato, il De Tribus impostoribus. Quanto a quelli, che in gergo romanesco-giudaico, l'articolaio chiama Nizzacchi, legga il De Rossi ed all'articolo Matatia, e non Matatial, come sproposita l'articolaio, troverà che questo Rabbino d'incerta età e luogo, è autore di un libro polemico manoscritto, noti l'articolaio manoscritto, contro il Vangelo, intitolato: Nitzachon, o Libro della Vittoria.
All'articolo Lipman, troverà che costui compose nel 1399 un altro Nitzachon in cui confuta gli atei, i sadducei, i caraiti, e specialmente i Cristiani, ed esamina tutti i testi della scrittura da loro prodotti per provare i loro dogmi; all'articolo Kimchi Giuseppe, troverà accuratamente notati i varî titoli delle opere anticristiane di questo dottissimo Rabbino spagnuolo del xii secolo, il quale, al pari degli altri due scellerati Rabbini sunnominati, ha avuto il torto di scrivere dei libri in difesa della religione che professava senza chiederne il permesso all'articolaio suo.
Ed il suo articolaio può rabbrividire ed inorridire e raccapricciare quanto vuole nel ricordarli, ma deve sapere che le opere, quasi tutte inedite, del Kimchi, per dir di questo solo, vennero ritenute dal celebre Michaelis, dal Bruns, dall'anonimo autore delle Effemeridi di Gotha, e da altri letterati moderni, valentissimi nella filologia orientale e sacra, tanto utili per il progresso della medesima e di tanto pregio e importanza, che vivamente desiderarono che venissero ricercati con diligenza e dissotterrati e pubblicati.
Un'ultima osservazione ed ho finito. L'articolaio suo accusa gli Ebrei (vol. x, pag. 611) di aver sostituito al precetto biblico: “Ama dunque il Signore Iddio tuo con tutta l'anima tua e con tutto il tuo maggior potere” l'altro che Dio non si dee amare ma soltanto temere.
Se fossimo ancora nei tempi in cui la lingua ebraica era ignota ai Cristiani, se i riti e i costumi degli Ebrei fossero avvolti nel più profondo mistero, simile accusa potrebbe forse comprendersi; ma essa riesce, oggigiorno, peggio che inesplicabile.
Tutti sanno che gli Ebrei hanno una speciale preghiera, lo Sceman, che devono ripetere almeno due volte al giorno, e che è per loro il simbolo della loro fede, ciò che il Credo è pei cattolici, sicchè tutti i martiri ebrei, morirono collo Sceman sulle labbra.
Ora i primi versetti di questa preghiera, di questo credo, sono testualmente i versetti 4–9 del libro vi del Deuteronomio, e quindi le parole: Ama dunque il Signore Iddio con tutta l'anima tua e con tutto il tuo maggior potere, che non sono altro che il 5º versetto del libro citato del Deuteronomio, forman proprio parte di questa preghiera quotidiana.
Ma non basta; chè gli Ebrei aggiustano tanta importanza a questo versetto, che secondo l'articolaio avrebbero invece posto in non cale, che oggi ancora pronunziandolo “all'oggetto di concentrare la loro attenzione sopra questa verità fondamentale della Religione, usano, dietro l'esempio di un antico dottore della legge, coprirsi gli occhi colla mano destra” (333).
Come ella vede a farlo apposta l'articolaio per una delle poche volte che ha accusato gli Ebrei, senza riprodurre calunnie trite e ritrite, ha avuto proprio la mano felice!
E chiedendo scusa a Lei, della lunga cicalata, depongo la penna, pregandola di credere che è con sommo dolore che devo dar posto ad uno scrittore della Civiltà Cattolica fra un Rohling ed un Osman bey.
Gradisca, ecc.
Corrado Guidetti
Dottore in lettere.
(325) Tur Orach Chaim, cap. dcxix.
(326) Chulin, i, a.
(327) Conciliorum coll., t. iv, pag. 1389.
(328) Bolla, anno 1429.
(329) Ex Cronica Gonfredi Vosiensis, anno 1167, Dom. Bouquet, t. xii, p. 496.
(330) D'Argentré, Histoire de Bretagne, libro iv, capo xxiii, p. 207.
(331) Dom. Bouquet. His. d. Fr., t. xii.
(332) Ex Chronico Ademari Cabanensis ad an. 1020 in Recueil des hist. de France di Dom. Bouquet, tomo x, p. 154. Cfr. Mary Lafon. Hist. du midi de la France, t. ii, p. 122.
(333) Mortara, La religione israelitica compendiosamente esposta, Mantova, Beretta, 1855, pag. 40.
La questione semitica e la sua possibile soluzione.
Un senatore del Regno, l'on. G. B. Borelli, si è occupato dell'argomento che ci preoccupa in un opuscolo intitolato: la Questione semitica e la sua possibile soluzione. Il Borelli, diciamolo subito, conviene con noi che oggi la questione semitica è questione sociale non religiosa, e nemico come egli si addimostra di tutte “le superstizioni religiose e di tutte quelle modalità materiali di culto che isteriliscono ed ammorbano il sentimento religioso” vede la soluzione della questione nei matrimoni misti.
Alieni siccome siamo da ogni pregiudizio religioso, non proviamo nessuna ripugnanza per la soluzione proposta dall'on. Borelli. Gli osserviamo però che egli manca di logica.
Poichè egli ammette che il fanatismo religioso non entra per nulla nella persecuzione degli Israeliti, poichè egli ammette che gli Ebrei sono perseguitati “perchè assorbono e monopolizzano molti interessi commerciali ed industriali e sono in via di impossessarsi della maggior parte di essi” a che cosa crede egli di rimediare coi suoi matrimoni misti?
Se l'on. Borelli legge i giornali, egli vedrà che oggi il partito che aspira al sovvertimento sociale ha messo in pratica il principio della divisione del lavoro.
In quei paesi dove le maggiori ricchezze sono nelle mani dell'aristocrazia, giornalisti, indegni di questo nome, vanno racimolando nella storia tutto quanto può servire a gittar l'onta ed il discredito sugli eredi dei più grandi nomi storici; dove l'aristocrazia è povera, e perciò non odiata, e l'industria potente, sono gli industriali che si designano alle ire del popolino come sanguisughe efferate, come sfruttatori dei loro operai, ecc., ecc. Là infine dove gli Ebrei sono più ricchi è contro di essi che si eccitano le malvage passioni della plebe ignorante e fanatica.
Metta in pratica l'on. Borelli la sua panacea del matrimonio misto, vada anche anche più in là se vuole, converta tutti gli Ebrei al Cristianesimo, li copra magari della cocolla del cappuccino o li ascriva al terz'Ordine di San Francesco, e la questione muterà forse nome, ma resterà intatta.
Se tutti i membri della famiglia Rothschild si unissero in matrimonio con Cristiani, ciò non scemerebbe punto il numero degli invidiosi della loro fortuna.
E la questione sociale, come la questione semitica, è fatta di invidia.
Ora creda pure l'on. Borelli che l'invidia non si attutisce coi matrimoni misti.
Ciò che occorre, ciò che è necessario, è che i perseguitati di ieri, come i perseguitati d'oggi, come quelli di domani, tutti coloro insomma che hanno qualche cosa da perdere, si stringano in un fascio, che tutti concorrano a dissipare le calunnie che gli interessati vanno sobillando or contro una casta, or contro una Corporazione religiosa, or contro i seguaci di una credenza.
Il pericolo che minaccia gli uni, minaccia gli altri e l'Ebreo che ridesse delle persecuzioni che contro il clero cattolico si organizzarono in taluni paesi, non sarebbe meno insensato del Gesuita che plaudisse agli eccessi che i degni successori degli Unni, commettono in Ungheria.
Gli uni e gli altri riderebbero del trionfo dei loro nemici!
Abbiamo sormontato quel disgusto che ad ogni uomo onesto ispirano la menzogna la più impudente e la calunnia la più schifosa, ed abbiamo letto, con scrupolosa attenzione, i primi dieci numeri dell'Antisémitique che vede la luce a Montdidier collo scopo apparente di combattere gli Ebrei, collo scopo reale di combattere le convenzioni ferroviarie proposte dal ministero francese, e di farsi gettare nelle fameliche fauci un'offa dal Barone di Rothschild.
Il nostro coraggio nel leggere il giornale-libello non vogliamo sia inutile, sicchè daremo ai lettori nostri una breve recensione dell'immondo fogliaccio.
A dimostrare la sciocchezza e l'ignoranza crassa dei redattori di quel giornale, addurremo tre prove soltanto.
Nel suo sesto numero, annoverando gli Ebrei che occuparono altissime cariche in Europa, pone fra questi, non lo si indovinerebbe in mille, il cardinale Antonelli! E quasi ciò non bastasse, nel numero 8, ribadisce la strana asserzione con queste precise parole: Le feu cardinal Antonelli qui était juif de sang et de naissance.
Come meravigliarsi dopo ciò che lo stesso giornale che tratta da ebreo un cardinale di Santa Chiesa, affermi, con sicumera tutta propria, che gli Ebrei esalano un odore speciale? e come meravigliarsi che difetti a tal segno di logica, da pubblicare, nel suo numero 9, una lettera d'un tal di Hervilly, — che pare voglia farsi credere letterato e poeta — il quale si lagna di tre scortesie ricevute dal conte di Larochefoucauld duca di Bisaccia, uno dei capi del partito cattolico francese, dalla duchessa di Magenta, la cui severa pietà è universalmente nota, e dalla principessa Riccardo di Metternich e trova che la colpa è, risum teneatis, degli Ebrei, che hanno bandito di Francia la cortesia francese!!
Parmi bastino questi tre esempi, a dimostrare che l'organo magno dell'antisemitismo francese è redatto da idioti; uno solo basterà a provare che è redatto da malvagi e lo trarrò dal solo articolo del giornale in cui non sia discorso di Ebrei.
È inserito nel numero 10 del giornale ed è tutto rivolto contro gli inglesi. E l'immondo libellista osa proporre che — in caso di guerra tra la Francia e l'Inghilterra — la Francia, calpestando i trattati che seguirono la guerra di Crimea, ristabilisca le lettere di marca e, per danneggiare la nemica potenza, si valga dell'opera infame dei corsari!!
Davvero che vi è da arrossire di dover, nell'ultimo quarto del xix secolo, occuparsi di tali sanguinose aberrazioni.
Noi toccheremo dunque di questo giornale, soltanto perchè pur troppo, nel secolo nostro che pur si vanta illuminato, non vi ha voce, per quanto uscita da infame luogo, che non possa produrre le sue conseguenze.
E ce ne occupiamo anche perchè nell'Antisémitique troviamo la conferma di parecchie fra le asserzioni che siam venuti mettendo innanzi nel corso di questo lavoruccio.
Abbiam detto che l'antisemitismo è una delle tante manifestazioni di quel mostro proteiforme che è il radicalismo, e nel numero 7 dell'Antisémitique troviamo a proposito del famoso processo di Tisza Esslar e dell'equanime contegno di quel procuratore del Re, sig. Szeyffert, le seguenti parole:
“Nous ne sommes pas surpris d'apprendre que tous les membres du barreau presque tous des démocrates et des ennemis déclarés du cléricalisme sont indignés de la partialité du procureur du roi Szeyffert.”
E quasi ciò non bastasse, l'Antisémitique ci prova le strette relazioni che passan fra esso e la Massoneria francese, e nel numero 5 ne apprende che les franc-maçons antijuifs sont innombrables (334) e nel numero 6 che le nombre des maçons antisémites est légion. Dichiarazioni queste di grandissima importanza, e perchè non contraddette dalla Massoneria francese e perchè scritte in un paese dove, chi ha un po' di memoria, non ha dimenticato gli aiuti che la Massoneria, col pretesto di porsi mediatrice fra la Comune ed il Governo di Versailles, ha prestato alla prima.
Abbiam detto che i persecutori dei Gesuiti sono ad un tempo i persecutori degli Ebrei e l'Antisémitique ci porge, anche di questo prove abbondanti.
Nel num. 2 in una lettera ai suoi corrispondenti dichiara, parlando degli Ebrei: “Noi sapremo renderli in esecrazione al mondo intiero facendoli conoscere” e poche righe prima non ha trovato ingiuria più grave da scagliare contro gli Ebrei di questa: Association jésuitique. Notiamo, per semplice curiosità, e per mostrare più a nudo i sicari della penna che abbiam preso a smascherare, che essi nella stessa lettera si appropriano l'odiosa massima il fine giustifica i mezzi, che attribuita, a ragione od a torto, ai Gesuiti, fu meritamente stigmatizzata dalla coscienza di tutti gli onesti.
Non è infatti Rodin, od il padre d'Aigrigny, e non è neppure un ebreo, che esclama nell'articolo già citato: Qu'importent les moyens quand le but est loyal!
Nel numero 6 per eccitare l'odio verso quella eccellente, e veramente caritatevole Associazione che è l'Alliance Israélite Universelle, dice che essa si compone d'autant de Jésuites et de Bonapartistes que de Juifs e rincara la dose nei numeri seguenti, e specialmente nell'8º, dove, in una corrispondenza da Londra, accusa due reverendi Padri della Compagnia di Gesù, di essersi legati in complicità con dei banchieri ebrei per commettere, non sappiamo qual grossa frode finanziaria, a proposito di un prestito della repubblica di Honduras!!
Infine abbiam detto che gli antisemiti attuali, non hanno che fare colla Chiesa cattolica e con nessuna Comunione cristiana, ed il nostro compiacente libellista prova anche più di quello che noi avevamo asserito.
Esso vien pubblicando dei così detti studi sulla Bibbia, dove, attingendo a piene mani agli scritti di Voltaire e di Pigault Lebrun, volge in ridicolo il Libro che è egualmente sacro ai Cristiani ed agli Ebrei, e che entrambe le Religioni hanno siccome rivelato. Una sola linea tolta da quel lavoro basterà a darne un concetto esatto. La tolgo dal num. 3: “Les gens grossiers qui construisirent la Bible.”
Nel num. 10 poi lo stesso giornale ci dà la notizia che la società dei Liberi Pensatori di Orléans ha deciso di escludere dal suo seno gli Ebrei, per ciò soltanto che sono Ebrei. Alla grazia di quei Liberi Pensatori!
Ho dimostrato che l'Antisémitique non è soltanto idiota e malvagio, ma che è radicale, massone, persecutore dei Gesuiti, irrisore della Bibbia, negatore di ogni religione rivelata, libero pensatore.
Dopo ciò è difficile a spiegarsi che tre giornali cattolici abbiano annunziato con favore il giornale-libello.
Certamente tre in confronto di tutti i giornali cattolici che vedono la luce in Europa, non è gran cosa e questo numero scema di importanza ancora, quando si sappia che a comporre quel numero concorre un ridicolo giornaluccio di Modena, e l'Univers di Parigi, che non seppe mai serbar misura in nessuna questione e che è l'organo del fanatismo il più cieco. Addolora invece trovare fra i giornali che accolsero favorevolmente il libello di Montdidier, l'Ateneo di Torino, giornale cattolico nel buon senso della parola, e scevro da ogni fanatismo; e tanto più ci addolorano le parole che il giornale cittadino indirizzava nel suo numero del 10 giugno 1883, al libello di Montdidier, in quanto le vediamo accompagnate da una tenera ammonizioncella, che dimostra proprio il desiderio dell'Ateneo di ricondurre il figliuol prodigo sulla buona strada.
Mettiam pegno che il 10 giugno l'egregio e reverendo teologo Biginelli non era in Torino, e che il saluto mandato dall'Ateneo all'organo dell'antisemitismo e della pirateria è opera dello scaccino della parrocchia.
(334) L'antisemitismo non sarebbe cosa nuova in massoneria se è vero, e crediamo lo sia, quanto ci apprende la Civiltà Cattolica (serie ix, vol v, p. 107), che tuttora dura in più luoghi e segnatamente in Austria ed in Germania, l'antica, e già comune, legge di escludere gli Ebrei dalle loggie.
Allorquando un amico mi mandò da Venezia questo libricciattolo, conoscevo già di nome l'autore. È un grafomane, mezzo turco e mezzo russo, mezzo osmanli e mezzo cristiano, mezzo bey e mezzo gentiluomo, semibovemque virum, semivirumque bovem. Ho perciò lungamente esitato prima di dar luogo in questo mio lavoruccio ad una qualsiasi risposta, ed ho esitato specialmente, perchè, pei gentiluomini non turchi, vi è qualcheduno di più sacro della donna, del bimbo, del vecchio, del prete — queste quattro debolezze — ed è il soldato che tollerò, paziente, sanguinose offese.
Dopo che un signor prof. Ottolenghi di Venezia, rispondendo a questo signore, ha potuto scrivere impunemente queste parole: “Se osaste ripetermi in faccia che l'Italia s'è fatta coll'oro, getterei le mie scarpe nelle immondizie dopo aver loro fatto fare la vostra conoscenza” pare davvero poco decoroso l'occuparsi di questo bey.
Ma lo stesso amico che mi inviò l'opuscolo, mi previene ora che si è trovata nel Veneto una accolta di persone, non so se più imbecilli o maligne, per acquistare molte copie dell'opuscolo del bey e diffonderlo a larghe mani; è dunque forza occuparsi di questo libricciattolo e lo faremo.
Chi è Osman bey? La sua grafomania lo ha spinto a rivelarcelo egli stesso in un libro che col menzognero titolo: Gli Inglesi in Oriente (335), non è che la storia sua e della sua famiglia. In quell'opuscolo il bey gitta a piene mani l'oltraggio sulla nobile figura di suo padre, il dottor Giulio Millingen, egregio medico e pubblicista inglese dimorante in Oriente, e su una sua stessa sorella, di cui tutta Venezia onora la profonda pietà, l'intemerato carattere, la contessa Evelina Millingen ne' Pisani.
Il bey è un rinnegato di tutte le nazioni, di tutte le religioni. Nato inglese, lo troviamo poi or turco, or russo; anglicano dapprima, poi cattolico e conte del papa, poi musulmano, ed ora crediamo greco-scismatico, il bey fu sin dalla sua prima infanzia il protagonista di un dramma religioso (336).
Adesso lo troviamo animato da un odio veemente, implacabile, contro gli Ebrei.
Duplice è la causa di quest'odio.
Il povero bey ha due nobili passioni nel cuore. Detesta, esecra la sua famiglia e la sua patria: l'Inghilterra.
Ora, sua sorella, costretta da lui ad una lite assurda, temeraria, affidò le sue ragioni ad un avvocato ebreo, l'illustre comm. Diena, onore del veneto foro, che ebbe anche l'impudenza di vincerla.
Apriti cielo; il bey impugna la sua penna e scrive, in sua favella, queste belle parole (337).
“Che una dama ultra-cattolica sia ridotta a farsi difendere da un israelita, non è la minore anomalìa che abbella codesto dramma.”
Questo per la famiglia.
Ma non basta, che un ebreo abbia osato assumere contro di lui la difesa di una sua sorella; egli vede “in Inghilterra il giudaismo onnipossente, mercè la sua alleanza con la Gran Brettagna. Interessi comuni stabilirono un cordiale accordo fra quelle due nazioni commerciali,” egli vede, o sogna, che il giudaismo mette a disposizione dell'Inghilterra, “l'influenza finanziaria di cui dispone ed il suo concorso commerciale” e raccapricciando, egli inglese, scorge che, “intanto che l'Inghilterra e la Russia si contendevano il primato sulla Turchia, il giudaismo servì d'ausilio alla prima facendo una guerra inesorabile alla Russia.”
Acciecato dall'odio pel suo paese, — nobile sentimento invero — il bey volle fulminare colla sua penna d'oca, molto d'oca, gli Ebrei che egli crede gli alleati dell'Inghilterra e lo fece con tanto acume, con tanto buon senso, che, dimenticando di avere scritto i brani che ho finora citato, scrive a pag. 55, del suo povero opuscolo, queste parole: “Quando l'Inghilterra e la Francia erano arbitre dell'Europa, il giudaismo si basava sulle loro influenze... dopo il 1867 disertarono la bandiera tricolore e la croce di San Giorgio.”
Ma perdoniamo al bey queste sue contraddizioni; perdoniamogli anche la sua ignoranza assoluta della nostra lingua che gli fa scrivere, come a pag. 63, questa pretesta per questo pretesto, o come a pag. 64, ciurma di intrighi invece di non so che; ed occupiamoci alquanto del suo opuscolo.
Prima però completiamo, con due citazioni dell'opuscolo stesso, il ritratto morale dell'autore. Il bey fu militare, e pose, è lui che lo dice, la sua nobile spada al servizio di un generale che proteggeva i briganti (pag. 5). Fu forse al servizio di questo generale che egli imparò la lealissima arte di polemica, di cui parla a pag. 75. “Fu necessario che io mi recassi a Parigi per impossessarmi (leggi: rubare), di trofei negli stessi uffici dell'Alleanza Israelitica.”
Ed ora vediamo cosa ci sa dire contro gli Ebrei questo rinnegato inglese, questo seida di un generale che protegge i briganti, questo polemista, che va in casa altrui, ad impossessarsi di trofei.
Avverto però che non rileverò le accuse contro gli Ebrei che il bey ripete, se già in altra parte di questo libro io abbia avuto ad occuparmene:
A pag. 13 accusa l'Ebreo di mancare d'amor proprio e soggiunge: “se voi l'insultate non ne farà caso alcuno.” Chi ha vissuto in società sa che vi sono Cristiani ed Ebrei assai suscettibili in materia d'onore, e Cristiani ed Ebrei privi di amor proprio: io, per esempio, conosco un bey, che professò tutte le religioni meno l'ebraica, e che non si risentì quando il prof. Ottolenghi lo minacciò per le stampe di prenderlo a pedate... nel beylicato.
Del resto questo bey ha, fra le tante sue virtù, quella di veder sempre il fuscello che è nell'occhio dell'Ebreo e di non veder mai la trave che è nel suo.
Se così non fosse, come oserebbe questo bey accusare gli Ebrei di essere insensibili ad ogni soddisfazione di amor proprio, e soltanto avidi di denaro, ricordandosi di aver scritto a pag. 216 di un altro suo libello, gli Inglesi in Oriente, queste precise parole:
“La stampa in Londra (dice lui), fu unanime a riscontrarvi dei meriti, (in una sua opera); questa fu la sola soddisfazione e il solo vantaggio, a ricompensa delle mie fatiche, un centinaio di sterline m'avrebbe meglio pagato.”
Ebreo d'un bey!
E se avesse meglio pensato ai casi suoi come avrebbe potuto scrivere a pag. 41 della sua compassionevole catilinaria contro gli Ebrei queste parole: “Gli Ebrei meriterebbero che si stigmatizzassero (sintassi beylicale!) col nome di lupi sotto pelle d'agnello; perchè in fin dei conti, tale è il nome che si deve dare a coloro che pretendono aver in una volta due nazionalità distinte.”
Nessun professore, ebreo o cristiano, potrebbe minacciare impunemente un lupo di pigliarlo a pedate; l'agnello è tipo di mansuetudine; io non farò dunque a quelle brave bestie il torto di paragonarle a chi so io; ma, ti domando, o bey, se chi ha in una volta due nazionalità distinte deve paragonarsi ad un lupo mascherato d'agnello, a che si deve paragonare un bey che — avuta l'immeritata fortuna di nascere suddito inglese — pianta un bel giorno in asso patria e religione e diventa prima diplomatico turco, poi mussulmano, poi ufficiale turco, finchè un bel e giorno, piantata anche la Turchia, offre prima la sua nobilissima spada ai Candioti che non sanno che farsene, e poi la vende, per pochi copecchi, al Governo russo?
Per siffatte palinodie il regno animale non offre paragoni, ma la nobiltà di carattere che le inspira è quella che si suole volgarmente attribuire ai rettili.
Ma questo spaccamontagne di bey ha una faccia tosta tutta sua per asserire senza provare; si vede proprio che le sue imprese militari, al servizio di generali che proteggevano i briganti, non gli hanno lasciato tempo di apprendere il quod gratis asseritur, gratis negatur.
A pag. 30, per esempio, egli mi caccia là l'osservazione che gli Ebrei non hanno mai fatto grande paura ai loro conquistatori, i Romani.
Ecco, dirò: io non sono un bey; io non ho al mio servizio tre o quattro nazionalità diverse ed altrettante religioni, ma un po' di storia, umilmente, l'ho studiata anch'io, e credo che nessuno mi smentirà se dirò che, malgrado le asserzioni di tutti i bey del mondo, gli Ebrei seppero tenere in scacco per lungo tempo dinanzi a Gerusalemme quella potenza romana che pur faceva piegar tutto dinanzi a sè, tanto che Tacito, — sa il bey chi è Tacito? — ebbe a scrivere: Augebat ira quod soli Judæi non cessissent (338). E lo stesso Tacito, a proposito di quegli Ebrei, che il nostro bey taccia di vili o poco meno, dice altrove (339) che non temevano la morte; e lo provarono del resto, in quelle guerre, i difensori di Massada che, anzichè cedere alle armi romane, scannarono prima le loro donne ed i loro fanciulli, poi si uccisero scambievolmente.
Eroismo barbaro, se vogliamo, ma di cui non sono certo capaci i bey mercenari che servono, contro la loro patria, generali che proteggono i briganti.
Ma non creda il grafomane bey che noi vogliamo fargli l'onore di seguire passo a passo la sua tantafera; come pigliar sul serio l'esposizione ad usum bey che egli fa della storia biblica? Aspetteremo ad occuparcene che egli abbia scoperto la storia dei Filistei e quella dei Faraoni, di cui deplora la mancanza e quando egli, dopo averla scoperta ed illustrata, ci avrà mostrato la verità delle sue gratuite deduzioni, allora soltanto consentiremo ad occuparcene.
Intanto gli diciamo una cosa sola: se egli professava nel quarto d'ora in cui scriveva, una religione — questo bey ne cambia più spesso che di camicie — che ammette la Rivelazione, la sua raffazzonatura della storia biblica è empia; se egli non l'ammette, empietà per empietà, leggeremo più volontieri i libri del Voltaire che, almeno, riboccano di quello spirito che manca completamente negli sproloqui beylicali.
Del resto, a che occuparsi degli spropositi storici di questo spaccamontagne cosmopolita, quando essi non son messi là che per provare un asserto incomprensibile?
Ciò che il bey vuoi provare è questo:
“L'interesse costituisce un centro verso il quale convergono le aspirazioni e le ingordigie umane; dunque il suo possesso equivale al dominio universale.”
Se tu, o bey, sei maggiore come scrittore, compiango i briganti che tu dovevi proteggere per ordine del tuo degno generale.
Più ho letto quel periodo, e meno l'ho capito. C'è un suo sopratutto che non posso capire a che cosa si riferisca, e sì che bramerei saperlo, perchè saprei allora cosa occorra possedere per ottenere, secundum bey, il dominio universale.
Un'altra accusa, tu, o bey, fai agli Ebrei. A tuo poco illuminato giudizio, essi hanno eretto ad assioma il principio dell'antagonismo perpetuo fra gli uomini. Stammi a sentire, o bey. Un certo Plauto, che nel Miles gloriosus ha fatto la satira ad un bey del suo tempo, ha lasciato scritto in un'altra sua commedia: homo homini lupus, e Plauto non era ebreo, che io sappia. Un sommo pensatore francese che, anche senza esser bey, aveva pure qualche valore, ha scritto un intiero capitolo col titolo: Le proufit de l'un est dommage de l'aultre (340), e Montaigne non era ebreo.
Ai tempi nostri una scienza è sorta per mostrare agli uomini che il loro ben inteso interesse consiste nell'armonia, una scienza che, indagando le ragioni del progressivo sviluppo dei popoli, ha posto in chiaro la falsità degli apotemi del commediografo pagano e del pensatore francese; e questa scienza, che è l'Economia Politica, conta fra i suoi maestri molti, moltissimi Ebrei e nessun bey; tanto è vero che nell'Antisémitique del 27 ottobre u. s. un tal Joseph Roland, in mezzo a molte serque di spropositi, ebbe a scrivere questa verità sacrosanta: La science économique est juive.
E già che ho nominato l'Antisémitique, me ne valgo per opporlo ad un'altra tua asserzione. Non sono inglese, ma provo un certo gusto a far combattere le bestie.
A pagina 34 tu scrivi: “La solidarietà ebraica è tale, che se voi toccate un ebreo, gli ebrei delle cinque parti del mondo si levano ritti come un sol uomo.”
Leggi, o deliziosissimo bey, un articolo pubblicato nell'Antisémitique del 26 ottobre intitolato: Les juifs peints par eux-mêmes, e firmato da un tale che si dice Ben Joudi, e che probabilmente è tanto Ben Joudi quanto tu sei bey, che finisce con queste parole: “Récompense honnête à qui pourra me dire où reste ce bel adage: Tous les juifs se soutiennent entre eux.”
Mettetevi d'accordo, dirò anch'io col Giusti, e per non far al diavolo di troppo brutti augurî, non finirò il verso.
Del resto, o simpatico bey, tu hai un modo di argomentare tutto tuo. Quando ti conviene mostrare che gli Ebrei dominano dovunque nella politica, tu scrivi che Arnim è un semita, ciò che è falso; che Castellar è un semita, ciò che è falso; che Thiers, Odilon Barrot, Jules Simon, Léon Say, sono semiti, ciò che è falso, falsissimo, arcifalso. Non posso provarti che tutti coloro che ho nominato sono cristiani, ma dal momento che tu li qualifichi di semiti sta a te a darne le prove. Pel solo Say ti dirò, che chiunque ha occupato il suo tempo altrimenti che penetrando nelle altrui case per impadronirsi di trofei, sa che Léon Say discende da una nobile e gloriosa famiglia di protestanti svizzeri.
Ma per te, o bey, che consideri arte lecita di polemica l'impadronirti di trofei, la menzogna è peccato veniale; per ciò mi limiterò a farti odorare, col tuo beylicale naso, un'altra sola delle sozzure che tu hai seminato nel tuo libricciattolo.
Tu dici che Blanc, il celebre fondatore del Casino di Montecarlo, è un ebreo. Menzogna altrettanto spudorata, quanto quella di certi giornali che vanno insinuando esser la casa di giuoco di Montecarlo sorretta dai Gesuiti. Blanc non fu mai ebreo; è un cristiano cattolico apostolico romano, come potrà fartene fede tutta Parigi. E ciò dico non per far ricadere la colpa della speculazione del Blanc su tutti i suoi correligionari, perchè questo modo di argomentare non è lecito che ad un bey, ma pel gusto di darti una volta di più del mentitore sfacciato.
Un'altra sciocchezza, un'altra menzogna tu dici nel tuo libricciattolo.
A pagina 38 tu scrivi: che fra le differenti industrie cui si dedicarono gli Ebrei non havvene una che abbia contribuito al benessere sociale.
Quale sia stata l'influenza economica degli Ebrei, ho dimostrato alla gente seria, in un precedente capitolo, con argomenti serî.
Ora voglio dimostrarlo con argomenti tratti dal tuo ridicolo libro.
Non ti dirò che la più disonesta fra le industrie degli Ebrei è migliore di quella dello sgherro di ogni tirannide, del sicario della penna, dell'agente segreto del Governo russo, ma domanderò, non a te che scrivi senza capire ciò che ti si fa scrivere, ma a chi ha un dito di buon senso, come è conciliabile tale tua asserzione con quanto scrivi a pag. 50 “gli ebrei si dedicarono alla medicina, alla letteratura, all'istruzione pubblica, al giornalismo.”
Capisco che tu non debba ammettere che la medicina contribuisca al benessere sociale; tu devi dirti che i medici dell'ospedale di Salerno, che hanno salvato la tua vita, che non vale una buccia di fico, giovano assai meno al benessere sociale del veterinario che guarisce un somarello che vale cinquanta lire; capisco che per un dotto della tua specie letteratura, istruzione pubblica, giornalismo, sieno arti improduttive; ma non capisco come tu non comprenda che se gli Ebrei, come tu stesso confessi a pag. 39, infestavano gli Stati italiani quando questi erano prosperi e ricchi è perchè, checchè tu ne blateri, gli Ebrei sono fattori di prosperità e di ricchezza e tutti gli esempi che tu adduci in quella pagina provano contro di te: non è che gli Ebrei calassero, come cavallette voraci, nei paesi prosperi e ricchi per divorarli, perchè, in quei tempi di cui tu invochi il ritorno, gli Stati non accoglievano gli Ebrei se non ne avevano bisogno, ma è che colla loro attività e con quelle virtù che tu stesso, esagerando perchè ti fa comodo, riconosci loro, concorrevano potentemente a creare questa prosperità, questa ricchezza.
E passo ad altro, scorrendo il tuo libro senz'ordine, ma come vien viene, perchè davvero non merita di più.
A pagina 70 tu hai l'impudenza di venirla a fare da maestro a noi italiani e di rimproverarci, perchè nelle nostre assemblee legislative è fatta agli Ebrei una parte troppo preponderante.
Potrei risponderti che in Italia scegliamo i nostri deputati ed i nostri senatori basandoci sul valore morale ed intellettuale delle persone e senza preoccuparci della loro religione e, sopratutto senza darci il menomo pensiero di ciò che ne pensa il più sconclusionato di tutti i bey.
Ma preferisco risponderti con un argomento ad hominem. Come tra gli Ebrei vi sono dei bricconi, così anche tra i bey ci sono delle persone ammodo. Ed una di queste, il comm. Paternostro-bey, fu prima deputato e poi senatore del Regno d'Italia. Ti parrebbe logico se qualcuno ragionasse così: in Italia non ci sono che due bey, Osman Seify bey, che non osa portare il suo vero nome ed il suo vero titolo di Conte Millingen, e Paternostro-bey, fior di gentiluomo, che si è sempre chiamato così. Ora due bey sopra 28,459,451 abitanti, non hanno diritto a nessuna rappresentanza, per ciò la presenza di un bey fra i legislatori italiani è contraria al diritto costituzionale.
Io non so cosa tu penseresti di chi ragionasse così, so che noi italiani lo chiameremmo un matto.
Un'ultima gemma però voglio rilevare nel tuo libricciattolo. A pag. 42 tu scrivi: “Crémieux e Armand Levy, due celebrità israelitiche del nostro tempo, hanno categoricamente dichiarato ch'essi sono fieri di esser ebrei fino all'estremità delle unghie. Evidentemente, siccome al di là dell'estremità delle unghie non vi è gran che, la nazionalità francese deve trovarsi molto incomoda in simili individui.”
Bisognava proprio che tu li insozzassi colla tua immonda bava, perchè io pigliassi a difendere il Crémieux, che come repubblicano non mi è punto simpatico, il Levy, che come comunardo mi è addirittura odioso; ma qui non facciamo della politica.
Sicchè ti ricordo che un illustre patrizio e letterato italiano, il conte Tullio Dandolo, abbiatico di un ebreo battezzato e padre di quei due Dandolo, il cui nome è legato alla eroica difesa di Roma nel 1849, aveva assunto per divisa: “Prima sono cattolico e poi italiano”; e nessuno pensò mai che in Dandolo la religione fosse ostacolo alla nazionalità. Ma tu che hai avuto il merito di far sì che il professore Ottolenghi potesse vantarsi di minacciare di pedate, nella tua persona, cinque o sei religioni e cinque o sei nazionalità diverse, certe cose non le puoi sapere.
Ed ora prendo commiato da te perchè, pur intendendo discutere le tue calunnie contro l'Alliance Israélite Universelle, non intendo di mescolare il tuo nome a quello di cose serie; ti do per altro un ultimo salutare consiglio: se mai il Governo russo ti sopprime il backscich, va in Ungheria; fra gli eredi degli Unni potrai far fortuna: ma in Italia abbiamo abbastanza dei matti di casa per pigliarci cura dei matti forestieri.
Senza rancore, bey!
*
* *
Nel 1860 venne fondata a Parigi l'Alliance Israélite Universelle col triplice scopo:
1º Di lavorare dovunque per l'emancipazione e pel progresso morale degli Israeliti;
2º Di prestar un appoggio efficace a quanti soffrono per la loro qualità di Israeliti;
3º Di incoraggiare ogni pubblicazione adatta a produrre questo risultato.
A questa società si vanno muovendo dagli antisemiti le più atroci e sconclusionate accuse; le si rimprovera di non aver in nessun paese esistenza legale, di essere una società segreta, di costituire uno Stato nello Stato, di creare fra i suoi affigliati una incompatibilità fra i doveri di cittadino e quelli di socio; e perchè la nota allegra non debba mancare le si rimprovera persino il suo emblema, che consiste in una figura allegorica rappresentante il globo sormontato dalle tavole della legge, quasichè l'Alleanza aspirasse al dominio dell'Universo.
Non so davvero quale persona seria potrebbe far colpa ad una associazione, di un emblema che significasse il desiderio di condurre il mondo all'osservanza del decalogo. Cristiani ed Ebrei abbiamo tutti egualmente sacra quella divina legge che il Redentore è venuto a perfezionare, non a mutare, sicchè le tavole della legge prese ad emblema altro non significano che la speranza nel trionfo della legge di Dio senza allusione a nessuna speciale confessione.
Ma le tavole della legge poste sopra il globo nel suggello dell'Alliance, significano proprio tutto ciò o non piuttosto che quel sodalizio, fedele al suo titolo di universale, vuole estendere la sua azione dovunque vi sia un Ebreo da proteggere e da educare?
Ed inteso così nel suo vero senso l'emblema e lo scopo dell'Alliance, qual più severo indagatore troverà in essa qualche cosa da biasimare?
Ogni religione ha sodalizi propri intesi a propagare la sua fede, a difendere i suoi addetti.
Il cattolicismo ha la sua Société pour la propagation de la foie, che non va confusa colla Propaganda fide di Roma; il protestantesimo ha le sue Società bibliche e le une e le altre rendono immensi servigi alla causa della civiltà e maggiori ne renderebbero se anzichè combattersi tra loro consentissero ad esercitare la loro azione in paesi differenti.
Il mosaismo, più modesto, ha la sua Alliance che non si propone scopo di propaganda, ma soltanto di difesa, di protezione, d'educazione.
In molti e molti paesi le condizioni morali dell'Ebreo sono lungi dall'essere prospere; per quel circolo vizioso cui abbiamo accennato altrove, l'Ebreo dove è più umiliato e maltrattato è anche meno civile, meno adatto a fondersi colle popolazioni tra cui vive.
Gli Ebrei di Francia, d'Italia, d'Inghilterra, del mondo civile insomma, potevano fare opera più nobile che costituirsi in sodalizio per proteggere questi loro sventurati correligionari, per educarli, per renderli migliori e preparare così quell'auspicato giorno, in cui, compiuta dovunque l'opera d'incivilimento degli Ebrei, cadranno di necessità le barriere che li separano dai loro concittadini?
L'Alliance che si è prefissa il generoso intento agisce alla piena luce del sole; i suoi bollettini regolarmente pubblicati fanno fede che i mezzi da essa impiegati sono: l'istituzione di scuole, la diffusione di buoni libri, i soccorsi ad intraprese di colonizzazione o di emigrazione, tutti quei mezzi insomma che condur possono allo scopo surriferito.
Tacciare l'Alliance di società segreta è mostrare di ignorare o cosa essa realmente sia, o cosa significhi società segreta.
Accusarla di non aver esistenza legale in nessun paese è sciocchezza e peggio. Italiano, scrivo in Italia e per italiani, e fra noi, tutti sanno che nessuna società ha d'uopo di avere esistenza legale se non si propone di acquistare beni stabili. Perchè dunque l'Alliance si esporrebbe a spese inutili per essere legalmente costituita in ente morale quando pei suoi scopi non ha nessun bisogno di fare uso dei diritti che da questa costituzione scaturiscono, tanto più quando è notorio che se domani una ragione qualsiasi le imponesse di farsi giuridicamente riconoscere, essa non incontrerebbe il più piccolo ostacolo?
Ma l'Alliance tratta da paro a paro coi Governi, essa invia dei memorandum ai ministri che si permettono persino di risponderle, essa crea uno Stato nello Stato.
Ricordiamo che ai tempi di S. M. Re Carlo Alberto il Magnanimo, la figlia di un ex-diplomatico olandese passò in Torino, malgrado la volontà paterna, dalla religione protestante alla cattolica.
Ciò dette luogo a proteste diplomatiche dell'Olanda non solo, ma di tutti gli Stati protestanti. Ora è evidente che se l'Olanda in questo caso agiva, indipendentemente anche da ogni idea religiosa, per difendere l'autorità paterna di un suo suddito, di un suo rappresentante, gli altri Stati protestanti non avevano nessuna veste per intervenire nella questione, da quella infuori della loro qualità di protestanti.
Che meraviglia dunque se gli Ebrei che non hanno nessun Governo che li rappresenti officialmente, pensarono di costituire un sodalizio il quale colla sola forza della persuasione, dell'appello alla pubblica opinione, tuteli i loro interessi religiosi?
E chi non sa che nel secolo nostro la forza delle associazioni è tale, che ogni sodalizio, per poco importante che sia, ha facile mezzo di far pervenire ai Governi le proprie rimostranze. Sono Stati negli Stati, le società geografiche e commerciali, i sodalizi operai e quegli altri infiniti Corpi morali che non si peritano di indrizzare memorie a Governi e Parlamenti, forti della coscienza di aver solidali nelle loro domande tutti gli ascritti al sodalizio?
Perchè gli Ebrei soltanto dovrebbero essere esclusi dal diritto di associarsi per la tutela dei loro interessi religiosi quand'anche i Governi che più combattono il così detto clericalismo, permettono le società per gli interessi cattolici?
Prevediamo un'obbiezione desunta dal carattere internazionale dell'Alliance; ci si dirà: l'Alliance ha carattere essenzialmente internazionale, accoglie soci di ogni paese ed in ogni paese esercita la sua azione; chi vi è ascritto, chi ne è protetto specialmente, rimane in certa guisa suo suddito e partecipa quindi quasi di una doppia sudditanza.
È la stessa sciocca accusa che si muove agli ordini religiosi, sicchè non mi meraviglierei che qualcuno parodiando la celebre frase, pronunciata contro i Gesuiti nel Procès de tendance del 1825, dicesse che l'Alliance est une épée dont la poignée est a Paris et la pointe partout.
Questo modo di argomentare proviene da un residuo involontario di vecchie idee che ormai hanno fatto il loro tempo. Si credette che lo Stato avesse diritto anche sulla coscienza del cittadino; da qui gli sforzi brutali dei Governi per conseguire l'unità della fede, perseguitando i protestanti come in Francia ed in Ispagna, i cattolici come in Inghilterra ed in Isvezia.
Ammesso il principio della libertà di coscienza, si capisce che un inglese può obbedire alla Santa Sede in tutto quanto concerne le questioni religiose, pur rimanendo tanto buon inglese da poter essere come Lord Ripon, vicerè delle Indie.
Ma si noti che l'Alliance non avendo altri scopi che quelli infuori che ho accennato, non impone ai suoi soci il più piccolo dovere, tranne quello di pagare una quota annua di sei lire; quanto alla protezione che essa accorda a tutti gli Ebrei, sieno o non sieno ascritti al suo sodalizio, essa non può esplicarsi che nelle forme e nei modi consentiti dalle leggi dei diversi paesi, sicchè è tanto assurdo il voler dire che l'Alliance costituisce un pericolo per gli Stati anche i più deboli, quanto il credere che l'Inghilterra possa veder indebolita la sua potenza dagli scritti di un Osman bey.
Intendiamoci però bene, l'Alliance non è un pericolo per nessuno Stato, ma essa, come tutti i sodalizi che si propongono uno scopo retto ed onesto, ha, dietro di sè l'opinione pubblica e questa anche da sola e senza il soccorso dell'Alliance finisce per trionfare di tutto quanto si oppone al vero progresso.
E certamente non fu per paura dell'Alliance, ma per paura dell'opinione pubblica, che Coloman Tisza, il Presidente del Consiglio dei ministri ungheresi ebbe a dichiarare al suo collega della giustizia che il famoso processo di Tisza Esslar, in cui figuravano ex-galeotti divenuti giudici, avea reso la Hongrie la risée de l'Europe.
(335) Venezia, Favaj, 1882.
(336) Veggasi un opuscolo, omai rarissimo, di suo padre, il dottor Millingen, Arbitrary detention of three Protestant children.
(337) Gli Inglesi in Oriente, p. 240.
(338) Hist., lib v, § 10.
(339) § 5.
(340) Montaigne, Essais, lib. i, cap. 21. Nello stesso capitolo si legge: Il ne se faict aulcun profit qu'au dommage d'aultruy.
Il signor lettore si tranquillizzi, chè, prendendo a pretesto quest'opuscolo, non rientreremo nell'esame della calunnia già da noi, forse con soverchia abbondanza, discussa in altra parte del presente lavoro. Vogliamo soltanto spendere poche parole attorno a questo libro per dimostrarne il nessun valore (341).
L'opuscolo, stampato, duole il dirlo, coll'Imprimatur della Curia ecclesiastica di Prato, consta di 97 pagine; ma colla pagina 39 finisce la parte di cui intendiamo occuparci, il resto non essendo che una copia testuale delle articole della Civiltà Cattolica.
Le prime 39 pagine dunque contengono le pretese rivelazioni di un Rabbino moldavo convertito al cristianesimo e da lui pubblicate nel 1803.
Secondo queste rivelazioni gli Ebrei farebbero un uso così frequente di sangue cristiano, che, se fosse vero, avrebbero dovuto finire collo spopolare il mondo.
Ma di ciò, ripetiamo, non vogliamo occuparci. Vogliamo soltanto far rilevare che il preteso Rabbino non ha mai esistito.
Infatti si comincia dall'editore stesso, col dire che tutte le traduzioni di questo libro sono rarissime, perchè fatte sparire dall'oro ebreo!
Ciò sarà verissimo; ma, di grazia, perchè non cominciare dal dirci dove fu stampata l'edizione originale che, alla fin fine, non rimonta, secondo l'editore, che al 1803?
Si sarebbe perduta persino la memoria della città, dove avvenne la pubblicazione?
Quale era il nome ebraico dell'autore? L'editore non lo sa, o sapendolo, non lo dice.
Quale era il suo nome da cristiano? mistero egualmente insoluto; Neofito non essendo un nome proprio ma significando soltanto un convertito al cristianesimo.
Ora queste pretese rivelazioni, non avendo altro valore da quello infuori che deriva dalla affermazione dell'autore che dice di aver veduto, è necessario per aggiustarvi fede, sapere il nome dell'autore ed aver sottocchi l'originale sua deposizione.
Invece lo stesso editore non ha mai veduto l'originale, non ne conosce che delle traduzioni, posteriori di 30 anni alla pretesa edizione originale, e non soltanto non sa dirci il nome dell'autore, ma non può nemmeno farci sapere in che paese sia stata stampata l'edizione originale.
Non occorre davvero essere nè un Magliabecchi, nè un Muratori per riconoscere in tutto ciò i caratteri di una delle più volgari mistificazioni che mai siansi tentate nel mondo bibliografico. Ma quasi ciò non bastasse il libro stesso ci porge le prove le più evidenti che l'autore, non soltanto non era un Rabbino, ma ignorava i riti e i costumi degli Ebrei.
A pagina 22 il preteso Rabbino dice gli Ebrei soggetti a malattie speciali. Oggi, nelle scuole, nei collegi, nelle caserme, nelle carceri, negli ospedali, ebrei e cristiani sono mescolati e nessuno ebbe mai contezza di tali malattie speciali. L'affermarne l'esistenza è prova certa che l'autore non fu mai ebreo, ma che invece partecipava a tutti i pregiudizii che il volgo nutre contro gli Ebrei.
A pagina 27 afferma che “quando tra gli Ebrei si celebra il matrimonio, si preparano i contraenti con un digiuno rigoroso per ventiquattro ore, astenendosi perfino dall'acqua fino al tramonto del sole” e ciò pure è falso, falsissimo, come può affermarsi da chiunque conosca i riti degli Ebrei.
A pagina 34 è detto “Quando io pervenni alla età di 13 anni, nella quale gli Ebrei sogliono imporre in capo ai loro figliuoli una corona che chiamano corona di fortezza...” Ed anche questo è falso. L'ebreo compiuti i 13 anni è religiosamente maggiorenne, ma le corone di fortezza non esistono che nella mente dell'autore.
Ho scelto per citarle tra le molte falsità addotte dall'autore quelle soltanto che provano la sua ignoranza, non la sua mala fede, perocchè basta la sua ignoranza dei riti ebraici a provarne che l'autore non è un ex-Rabbino, e neppure un ex-ebreo.
L'astio, l'interesse o qualsiasi altro motivo può spingere un neofita, Rabbino o no, a calunniare i suoi antichi correligionarii, ma egli si guarderà bene, a proposito di cose indifferenti, ed a tutti note dal cadere in inesattezze che non giovano al suo scopo, ma nuocono togliendo credito alle altre sue affermazioni.
Ed un'altra di tali inesattezze voglio segnalare:
L'autore ignora che gli Ebrei usano tuttora il calendario lunare. Dice (pag. 29) che gli Ebrei piangono la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta per opera di Tito, il 9 luglio e (pag. 30) che solennizzano l'anniversario del trionfo di Ester il 14 febbraio. Ora, invece, essi celebrano il primo di questi due anniversari il 9 del mese lunare di ab, ed il secondo il 14 del mese di adar; date che non si riproducono mai in uno stesso giorno dell'anno solare. Le pretese rivelazioni del Neofito essendo state, a quanto si dice, pubblicate nel 1803, abbiamo voluto verificare in qual giorno questi due anniversari cadevano in quell'anno e nell'anno precedente ed abbiamo trovato che nel 1802 il 9 di ab cadeva l'8 agosto, ed il 14 di adar il 18 marzo, e nel 1803 il primo il 28 luglio, il secondo l'8 marzo.
Questo preteso Rabbino ignorava dunque persino il calendario ebraico!
Da queste poche osservazioni ci sembra, a luce meridiana, provato che il preteso Rabbino Neofito, non ha mai esistito e che le pretese sue rivelazioni non sono che l'opera di un falsario il quale foggiò nel 1834 la traduzione di un libro che non fu mai scritto ed il cui autore non è mai vissuto. E credo che basti.
Abbiamo raccolto sotto questa generica denominazione di documenti le narrazioni di varii processi sul preteso uso del sangue cristiano nei riti ebraici e le dichiarazioni di sovrani, principi e personaggi competenti sopra siffatta calunnia, nonchè un discorso dell'Eminentissimo Cardinale Manning, ed una memoria del principe Demidoff sulla questione semitica in Russia, e persino una leggenda talmudica intesa a far noto lo spirito di tolleranza cui si informarono, generalmente, i padri del Talmud.
Aggiungeremo che molti fra i documenti che seguono sono tratti da un opuscolo pubblicato a Vienna nel 1883, col titolo: Die Blutbeschuldigung gegen die Juden von christlicher Seite beurtheilt. Al numero d'ordine, che precede questi documenti, facciamo seguire un asterisco.
La leggenda di Dama.
Ci piace riprodurre questa leggenda talmudica la quale giova a mostrare come i dottori del Talmud riconoscessero che, anche nei pagani, potevano trovarsi virtù non comuni.
Viveva in Ascalon un pagano per nome Dama, figlio di un certo Nedina, il quale era tutto in sul traffico di pietre preziose, e ne traeva discreti guadagni.
Accadde una volta ch'egli trovossi abbondantemente provvisto appunto di quella qualità di gemme che il rito mosaico prescrive per l'efod (manto) del sommo sacerdote di Gerusalemme; nè era tanto facile che altra favorevole occasione gli si presentasse di venderle con profitto.
Un giorno Dama vede entrare nella sua bottega i sapienti venerabili d'Israello, i quali con una certa inquietudine ed ansia che di leggieri traspariva dal loro volto, gli chieggono se per avventura tenesse ancora nel suo negozio di quella sorta di gemme che all'efod abbisognavano.
“Ascolta! soggiungevano i vecchi: appunto per provvedere il sacro manto di queste gemme che ora gli mancano, ci siamo mossi noi stessi in tutta fretta, per tema che da altri si frapponesse ritardo a compire questa pia provvista. Se tu ne sei fornito ben puoi dirti fortunato; però che poco c'importa del prezzo, purchè abbiamo al più tosto le gemme, e possiamo ritornare colà ove con tant'ansia siamo aspettati.”
Giubilava il mercante a questa notizia e a questa proposta e tutto nel pensiero del grasso guadagno che ne avrebbe fatto, diede mano a quelle poche pietre preziose che gli stavano davanti, e presentatele ai sapienti d'Israello:
“Signori! disse: osservate se queste si affanno al vostro bisogno, e tosto che ci saremo accordati nel prezzo, io spero di potere in sull'istante darvene quel numero che sarà nel desiderio vostro.”
Le osservarono attentamente i saggi, e come le ebbero riscontrate eguali a quelle che il religioso rito prescrive, “È il caso nostro, risposero; ora parliamo del prezzo. Purchè non ci sia alcun ritardo nella rimissione delle pietre.”
Ma quanto al prezzo non ebbero a discorrere nè a discutere lungamente, poichè dall'un canto eravi facile arrendevolezza a ben pagare, dall'altro l'offerto guadagno superava di gran lunga le concette speranze. Onde, conchiuso il contratto, “Aspettate alquanto, o signori; in sull'istante io sarò qui di ritorno colle gemme.”
Tutto lieto della buona giornata, va per salire in sulle stanze e prendere dallo scrigno le riposte pietre. Lento lento però egli monta la scala, perocchè nella stanza appunto ove stava la preziosa arca, giaceva il vecchio padre infermiccio. Egli entra quasi in punta di piedi, e adagio adagio si accosta al letto per dargli notizia del buon contratto, e farsi rimettere la chiave dello scrigno che il vecchio timoroso teneva sempre presso di sè. Ma, o sorpresa! il vecchio dorme. Da lungo tempo non aveva più gustato riposo, ed ora era tutto immerso in dolce sopore.
Il figlio contempla un momento con gioia quel riposo del padre; poi pensa alla chiave, e ricorda che il vecchio soleva tenerla sotto al capo. Lo guarda ancora amorosamente, lo fissa immobile, poi dice fra sè stesso: — Pazienza! non si farà il contratto; ma io non disturberò il dolce riposo del padre mio. —
Ridiscese lento lento la scala, e “Signori; disse ai sapienti, per ora io non posso rimettervi le gemme.”
“Ma noi non possiamo aspettare, gli risposero tra indispettiti ed attoniti: o sull'istante, o ci rivolgeremo altrove.”
“Avete ragione: duole assai anche a me; ma io non posso altro.”
I saggi d'Israello se ne andarono; ma quando si venne a sapere la ragione del fatto, tutti lodarono il figliale rispetto di Dama.
L'anno dopo nacque nella greggia di Dama, caso veramente raro, una giovenca tutta rossa senza macchia alcuna quale appunto era prescritta per un sacro rito mosaico (342). Tosto i sapienti d'Israello corsero in casa sua per farne acquisto.
“Signori, disse egli, io so bene che nessun prezzo mi sarebbe da voi diniegato; ma a me basta soltanto che mi compensi della perdita che ho fatta l'anno scorso, per non mancare del debito mio verso il padre.”
I Rabbini meditando su tutto questo fatto, dissero: “Quanti tesori di ricompensa non debbono aspettarsi i fedeli dalla misericordia di Dio, la quale dà il premio delle buone opere anche a coloro che non hanno accettata la santa legge?” (Talmud Kiduscim, cap. 1).
(342) Veggasi il Pentateuco. Numeri, cap. xix.
Lettera patente dell'Imperatore Federico III
Noi Federigo, per grazia di Dio, Imperatore Romano, ecc.
Omissis
. . . . . Abbiamo saputo che l'illustrissimo Margravio Carlo di Baden, conte di Sparheim, Nostro caro cognato e principe, pigliando motivo da contestazioni insorte fra taluni Ebrei e Cristiani, ha commesso, verso questi primi, atroci azioni, martorizzandoli in guisa che ne morirono, ed impadronendosi poi dei loro beni. Ora come abbiamo invitato il predetto Margravio a non più commettere simili atti da Noi non permessi, così invitiamo voi tutti a voler obbedire a questa Nostra Patente. Il predetto Margravio Carlo avendo agito in siffatta guisa senza motivo, ma, a quanto ci consta, per odio e per sospetto che essi Ebrei abbiano fatto uso di sangue cristiano di cui hanno assoluto bisogno e che perciò abbiano commesso dei delitti, richiamiamo la vostra attenzione su quanto siamo per dire. I nostri santi padri, i papi, hanno fatto studiare la cosa da dotti e da giurisperiti ed hanno dichiarato che tali misfatti sono infondati e proibiti, ed hanno vietato vi si aggiusti fede. Ci affrettiamo quindi a dichiarare che essi Ebrei sono, coi loro averi, sudditi del Nostro Imperial Dominio e che perciò ci saremmo affrettati di studiare le accuse lanciate contro di loro se veramente vi fosse stata giustizia nel procedere del Margravio e se non vi fossero stati altri motivi che lo indussero ad agire frettolosamente e senza farcene rapporto. Ripetiamo pertanto in tutta la sua forza la Nostra imperiale Volontà, che tutti si astengano da simili azioni non avendo il Margravio avuto il diritto di agire come ha fatto, e mandino a Noi, cui tocca di giudicarne, ogni lagnanza. E questo ordiniamo seriamente, perchè tali ingiustizie non abbiano mai più a verificarsi, sicchè non dobbiamo più scrivere su tale argomento. Ordiniamo, poi, sotto pena di grave ammenda, si mettano subito in libertà gli Ebrei imprigionati e si restituiscano loro, conformemente a questa mia lettera imperiale, i loro averi. Tanto ordiniamo in forza dell'Imperial Nostro Diritto, e di più ordiniamo, al predetto Margravio, di pagare subito, alla Nostra Camera Imperiale, una multa di 100 marchi in oro fino, essendo nostra assoluta volontà, che se egli, o qualchedun altro, si dimostrasse disobbediente ed azzardasse, per nessuna ragione, di toccare, come già ha fatto, gli Ebrei od i loro beni, cadrebbe tosto in disgrazia.
Il Margravio, e tutti con lui, sono invitati a proteggere in ogni guisa gli Ebrei del Nostro Impero, e nessuno in nessun paese, città, villaggio, borgo o distretto, possa permettersi di toccare loro od i loro beni se non vogliono cadere nella disgrazia nostra e dell'Impero e se vogliono evitare un'altra volta la succitata multa. Questa è assoluta volontà Nostra, ed eseguendola non vi mancherà la Nostra benigna grazia.
Dato a Volkmark, suggellato col Nostro Imperiale Suggello, il venerdì avanti il giorno di San Giovanni, dopo la nascita di Cristo 1470. Nel 31º anno del Nostro romano Regno, il 19º dell'Impero ed il 13º del Regno Ungarico.
(Giovanni Cristoforo Wagenseil, “Benachrichtigungen” ecc., pagine 168–172).
Lettera del Doge di Venezia, Pietro Mocenigo, al podestà e capitano di Padova.
Rub. Pro Judeis in causa beati Simonis de Tridento.
Cart. 14 retro.
Petrus mocenigo dei gratia dux Venetiarum etc. Nobilibus et sapientibus viris Antonio erizo de suo mandato potestati et Bertucio contareno capitaneo padue et successoribus suis fidelibus dilectis salutem et dilectionis affectum. Ad nostram pervenit notitiam quod ex causa cuinscumque rumoris dissipati scilicet in tridento inventum fuisse puerum necatum a Judeis illius loci molestantur et verberantur Judei habitantes in terris et locis nostris. Et quod absurdius est facto impetu a christianis soditis nostris aggredi illos et predari sursum deorsum commeantes. Queritur usque adeo ut transire de loco ad locum dubitent, ne cedantur et dispoliantur: cuius quidem temeritatis auctores et impulsores esse dicuntur quidam predicatores et etiam ipsi zaretanì contionem de his habentes in populo. Que res quantum nobis displiceat, quantum molesta et ingrata sit optime intelligere pro vestra prudentia potestis. Credimus certe rumorem ipsum de puero necato commentum esse et artem ad quem finem (343) videant et interpretentur alii. Nos vero volumus semper ut in terris et locis nostris Judei secure et impune inhabitarent: et omnis vis et iniuria absit ab illis non secus quod sit erga ceteros fideles et subditos nostros. Et si quis est qui aliter vel presumat vel cogitet, male nos et indignationem nostram novit. Et licet non dubitemus quod pro una circumspectione probe intelligatis ista non convenire: et presertim hoc tempore provideritis quod provisuri quod sitis nec in ista civitate et territorio nostro contra Judeos innovetur quodcumque dicta de causa. Tamen volumus et vobis mandamus ut sub severissimis penis providere debeatis, et talem operam dare quod secure et tute inhabitare voleant: et ut sursum deorsum ire et redire Judei omnes istic habitantes procedendo contra inobedientes et obviando ne a predicatoribus aut aliis excitetur populus ad tales insultus, quo nihil displicentius audire et intelligere possemus: has autem nostras literas in actis Cancellerie vestre ad futurorum memoriam registrare faciatis.
Datum in nostro ducali palatio
Die xxii aprilis — Jndictione viii, 1475.
Copia tratta dal Registro originale della Cancelleria di Padova segnato col N. xxvi — e chiamato Registro Verde. Si conserva nell'Archivio Antico annesso al Museo Civico.
(343) A che fine? Risponda per noi un contemporaneo e precisamente un Sacramorus, ambasciatore milanese a Roma e Protonotario apostolico, il quale scrivendo da Roma, a Cicco Simonetta, segretario del Duca di Milano, in data 7 agosto 1475, vien fuori, a proposito di questo fatto, con queste precise parole: “... èt il prefato nostro Signore manda el vescovo de Ventimiglia a Trento per vedere et examinare questo che se scrive, acciò che se pur sia vero, e non sia appetito de qualche roba...” (Cfr. Bollettino Storico della Svizzera Italiana; anno iv: gennaio-febbraio 1884, pag. 21). Il fine dunque si sospettava fin d'allora, ed era quello che noi siam sempre venuti dicendo: Appetito de qualche roba, come diceva quel buon Sacramorus, per non dire netto e schietto il desiderio di derubar le vittime, calunniandole.
C. G.
1479 . . . Aprile.
Carteggio relativo all'arresto di alcuni Ebrei della provincia di Pavia, falsamente imputati d'avere, nelle loro cerimonie, crocifisso un fanciullo cristiano; e dichiarazione di provata innocenza, emessa il 28 aprile 1479, da Bona e Giovanni Galeazzo Maria Sforza, con ordine di liberazione e resa dei beni confiscati (344).
Illustrissimi et excellentissimi principes et domini domini mej metuendissimi. Aviso vostre excellentie qualiter noviter domino Antonino locumtenente del Cardinale ha dextenuto uno hebreo che sta in la tera dela Stratella per famiglo de uno Belhomo hebreo che sta in la terra de Arena, perchè el debe haver piglato uno puto et mandato al dicto Belhomo per fare le cerimonie deli hebrey, lo qual puto non se trova. El qual famiglo he stato examinato, et prout posso intendere ha confessato haver mandato esso puto al dicto Belhomo. Et intexo questo ho facto dextenire esso Belhomo: Et aziò se possa haver il vero dal dicto Belhomo bexognaria haver esso famiglo, et etiam la confessione per luy facta et li altri indicij per esso domino Antonino et seu il suo potestà assumpte, aziò etiam possa intendere li complici et participi de tal delicto, et provvedere circha il punire similli errori, li quali non sono da tollerare. Per la qual cossa piaqua a vostre excellentie scrivere al dicto domino Antonino, me vogla dare nele mane cussi dicto famiglo, come la confessione sua et altri indicij circha ciò assumpto per intendere il vero; avisando esse vostre excellentie che più virilmente se procedarà nante a mi che al dicto domino Antonino, perchè etiam questo he uno officio, et vostre excellentie non debano tolerare me sia tolta la jurisdicione, la qual cosa etiam cedarà ad utillitate de vostre excellentie, ala qual humiliter me racomando.
Papie, xx aprilis 1479.
Earundem illustrissimarum et excellentissimarum dominationum, fidelis servitor
Johannes Calzavacha.
A tergo. — Illustrissimis et excellentissimis principibus et dominis dominis ducibus Mediolani et dominis meis metuendissimis.
Mediolani — cito — cito.
(344) Questi documenti, il cui originale esiste nell'Archivio di Stato di Milano, (Raccolta Ebrei 1479) vedono ora la luce per la prima volta.
C. G.
Illustrissimi signori mei. Per una mia di xx del presente avisaj vostre signorie illustrissime dela captura di uno ebreo facta per il locotenente del reverendissimo Cardinale di questa città, qual inculpava uno Belhomo pur ebreo che havea havuto nele mane uno puto christiano qual no se trova et se dubita lo habia facto morire, et pregava vostre illustrissime signorie facesero ch'io havese li indicij e la confessione di quelo ebreo era nelle mane di esso locotenente, aciò ch'io potese procedere contra dicto Belhomo, qual havea et ho nele mane luj e uno altro nominato Saya da Piasenza, quali examinandoli li ho trovati varij et mendazi. Pur il dicto Belhomo fin a questa hora sta sula negativa, ma invero dubito sia culpevele. Ora in questa il locotenente del reverendissimo Cardinale m'ha presentato una littera de xxi del presente di vostre illustrissime signorie, quale mi comandano deba vedere de havere dicto Belhomo nele mane et consignarlo al Capitaneo de Justicia de Milano, qual già duij dì fa, como ho scripto a prelibate vostre illustrissime signorie ho nele mane cum il cumpagno sopranominato, et como filiolo di ubedienza lo haveria de subito mandato ad esso capitaneo. Ma il locotenente ante me presentase le mie littre già havea facto intendere il tenore di queste littre a molti citadini quali di subito fycero convocare la provisione et hanno ellecto duy cittadini che hozi si partino per venire a vostre excellentie per obviare non si mandano, li quali som domino Ambrosio Pizono, et frate Boniforto Strazapata, et questa comunità m'ha facto grandissima instantia non manda dicto Belhomo finchè li ambasciatori loro non siano venuti da vostre excellentie, ma non seria già stato a sua richesta, ma il locotenente del Cardinale vene in previsione et dise che ante mandare il suo, volea venire prima lì, et così vene una a cum dicti ambasatori. Vedendo così mi som confidato de avisare prima prelibate vostre signorie di questo, ante lo mandi, qual tenerò in bona custodia donec vostre illustrissime signorie mi scriverano altro. Ho mandato ad Arena a fare fare discretione di tuti li beni del dicto Belhomo; e così ad investigare il vero ho dati certi tracti di corda al dicto Belhomo; pur non ha ancora voluto confessare. Ma se vostre illustrissime signorie mi lasaranno procedere non dubito trovare il vero. Ma non farò altro finchè vostre excellentie non me avisano di quanto habia a fare, quale ubedirò senza rispecto alcuno, et a quelle humilmente mi ricomando.
Papie, xxii aprilis 1479.
Earundem illustrissimarum et excellentissimarum dominationum.
Servitor
Johannes Calzavacha.
A tergo. — Illustrissimis et excellentissimis principibus et dominis dominis ducibus Mediolani etc, dominis meis metuendissimis etc.
Mediolani, — cito — cito.
Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini singularissimi. Havemo inteso vostre signorie havere scripto al magnifico domino Comissario et Potestà di questa sua città, deba mandare in le mane del Capitaneo dela Justitia di quella città certi ebrey qualì, ut dicitur, hanno occixo in grandissimo vilipendio de tuta la christianità uno fanzullo in la terra de Arena; del quale caxo tuto questo populo, maxime li cittadini di questa città, et quanto sonno da più tanto etiam più se ne stupisseno et fanno grande murmuracione, che quando sij vero non sarebe allo pacto, da esser tollerato, imo speramo vostre signorie ne debiano fare grande dimostracione. Et perchè in quella jurisdicione unde è comisso el delicto debe anchora esser facta la punicione et sie in Pavia. Il che etiam ultra che sii de rasone, e molto honesto poj che il loro sangue et persone sonno taliter indebite oltragiate, essendo cossì, havemo deliberato mandare da esse vostre signorie il spectabile doctore domino Ambroxio Pizono advocato di questa comunità et domino frate Guiniforto Strazapata, ambo cittadini, quali ad nostro nome exponerano ad vostre signorie circha questo quanto da nuy hanno in comissione. Supplicando ad quelle se degnano darli benigna audientia et piena fede como ad nuy proprij, como speramo in le prelibate vostre signorie, ale quale si ricomandiamo.
Datum Papie die xxii aprilis 1479.
Earundem dominationum vestrarum fidelissimi servitoris
Deputati officio provixionis
comunis civitatis vestre Papie.
A tergo. — Illustrissimis principibus et excellentissimis dominis dominis ducibus Mediolani etc., Papie Anglerieque comitibus, ac Janue et Cremone dominis dominis singularissimis.
Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini mei singularissimi. Quest'hora per Ambroxio correro ho la secunda di vostre excellentie data heri circha il facto deli Judei quali mandarò omnino questa sera al Capitane dila Justicia, secundo m'è scripto per vostre excellentie, quibus me humiliter comendo. Datum Papie die 23, hora 10ma, aprilis 1479.
Earumdem dominationum vestrarum, ad Deum devotus orator.
Antoninus Malvicinus de Font.
locumtenens etc.
A tergo. — Illustrissimis principibus et excellentissimis dominis dominis ducibus Mediolani, dominis meis singularissimis.
Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini mei singularissimi. In executione dele litere de vostre signorie ho consignato a Johanne da Napoli dicto Rosso et ali compagni suoi provixionati de vostre signorie Belhomo judeo quale era qui destenuto, aciò che lo debano condure lì in le mani del capitaneo de castello di vostre signorie sempre secondo la continencia de epse lettere. A vostre signorie mi racomando. Papie die 25 aprilis 1479.
Illustrissimarum dominationum vestrarum
servus
Joannes Calciavacha, eques et doctor
commissarius et potestas ibi.
A tergo. — Illustrissimis principibus et excellentissimis dominis dominis ducibus Mediolani, Papie Anglerieque comitibus, ac Janue dominis dominis meis singularissimis.
1479. die xxviii aprilis de mane.
Congregatis infrascriptis senatoribus videlicet.
Magnifico domino Sfortia Secundo.
Reverendo domino Episcopo Comensi.
Domino | Petro Francisco Vicecomite. | ||
” | Nicodemo Tranchedino. | ||
” | Orpheo de Richano. | ||
” | Azone Vicecomite. | ||
” | Cicho Symonetta. | ||
” | Johanne Symonetta. | ||
” | Bortholomeo Chalco | } | Secretari. |
” | Johanne Jacobo Symonetta | ||
” | Francisco Ritio, | Cancellario. |
Fuerunt vocatì dominus Antoninus Malvicinus vicarius reverendissimi domini cardinalis Papientis et dominus Ambrosius Pizonus et frater Bonifortus Strazapatta oratores Papienses, presente Turlurù puero quem asserebant a Belhomo hebreo in Arena crucifixum. Et petentibus ipsis oratoribus remitti hebreos detentos ob hanc causam ad potestatem Papiene laedatur sua juridictio etc.; fuit eis responsum quod illustrissimi principes nostri nolunt rumpere eorum jurisdicionem, sed quia huiusmodi imputacio fuit data hebreis alias et tamen fuit inventa falsa, voluerunt prefati principes nostri hoc intelligere, quia huiusmodi casus, si fuisset verus, erat atrocissimus et offendebat totam christianam religionem, ideo erat officium principis hoc ad se advocare et veritatem intelligere; et si fuissent reperti culpabiles, fuissent etiam remissi ad potestatem Papie ut punirentur. Et sic fuerunt dimissi dicti oratores et ordinatum quod scribantur littere huiusmodi responsionis ad comunitatem Papie, et, relaxerunt et liberentur omnes hebrej hac de causa detenti, et eorum bona eis serventur et extorta restituantur.
Ex Mediolano die xxviii, aprilis 1479.
Commissario et potestati ac duodecim provisionis
Comunitatis Papie.
Dilecti nostri. Sonno stati da nuj el nobile doctore messer Ambrozio Pixono et Boniforto Strazapatta vostri ambaxatori li quali se sonno per vostra parte gravati che havendo noi facto condure qui Belhomo et Donato hebrei imputati de havere morto in Arena uno putto nominato Turlurù sia lesa la jurisdicione de quella nostra città, allegando la condemnatione et punitione deli dicti hebrei, casu quo essent culpabiles, et la absolutione sì essent innocentes doversi fare per voi Commissario et potestà suo judice ordinario; et per questo rechiedeveno volessimo rimettere li dicti hebrei. Noj gli havemo facto rispondere che nostra voluntà non fo maj, ne è, alterare ne rumpere la jurisdicione de quella nostra fidele Comunità, immo conservarla cusì como la conserviamo a tutti li altri nostri subditi. È ben vero che essendone venuto a notitia quanto di sopra è dicto della imputatione che se dava alli dicti hebrei, et considerato che quando tale cosa fosse stata vera de gravissima atrocità tendente in generale oprobrio della christiana religione et ad manifesta offensione della dignità nostra, ce è parso como a catholici et christiani principi essere nostro officio, et ad noj principalmente pertenere la investigatione et cognitione de sì horibile et detestando delicto, et fargli quella provisione che alla observantia della fede de Christo et al debito et honore nostro sè conveneva. Et per questo havemo voluto havere quì li dicti hebrei, et fare investigare con diligente examino la verità de questa cosa, con ferma dispositione che trovandosi culpabili li dicti hebrei fossero puniti et castigati in quella nostra città sotto voj Commissario et Potestà juxta suoi demeriti. Et cusì se veneva ad essere satisfacto al honore nostro, alla justicia et al desiderio de quella nostra comunità, benchè come principi et signori haressimo possuto et possemo simili et altri errori farli punire arbitrio nostro, dove et como ad noi paresse più conveniente, et ad più salubre exemplo. — Hora havendo effectualmente trovato che tale imputatione è stata falsa, et calumniosamente facta, como etiam altre volte è accaduto, et essendosi trovato el dicto putto ghiamato Turlurù vivo et senza lesione alcuna, conducto al cospecto nostro et veduto per li dicti vostri ambaxatori, se siamo maravigliati non senza molestia de questa scandalosa inventione dalla quale sonno stati per uscire periculosi inconvenienti tra populari et gente imperita; et havemo commandato et per tenore delle presente commandiamo che li predicti hebrej et tutti li altri destenuti per dicta casone siano liberamente relaxati senza offensione et danno alcuno, et alla liberatione deli dicti hebrei non c'è parso in cosa tanto manifesta s'y conveniente procedere per via judiciaria, ma summariamente quoniam effectus ipse declaravit falsitatem dicte imputationis, cuius autor nullus comparuit ad accusandum.
De questa nostra resposta et deliberatione havemo voluto darvi aviso per nostre littere, perchè distinctamente intendiati el tutto, et cognosciati che non haveti casone de posservi dolere de quello havemo facto per debito et honore nostro in questa facenda; immo doveti referircene gratie et como fideli subditi recevere a beneficio singulare che habiamo facto retrovare la verità de sì scandalosa imputatione. Volemo et ve comandiamo che debiati provedere, presertim voi potestà et comissario, che alli hebrej in quella città et sua jurisdicione non sia facta indebita molestia nè ultragio perchè non intendemo comportarlo, como a bocha havemo facto dire ad epsi vostri ambaxatori.
Illustrissimi principes et excellentissimi domini domini mei singularissimi. Per exeguire quelo ho in comissione per lettere de vostre illustrissime Signorie Mediolani date sub die 28 instantis mensis et signate Cichus, de fare restituire tute queli pigni sono tolti ali Ebrey de Arena, quali sono retenuti pel el judice del Malleficio, Sindici fiscali et notari et familia mia, li quali sindici judice notari et familia li ho havuto da mi et li ho facto intendere quelo me comete vostre illustrissime signorie sia restituite esse robe ad essi Ebrey senza spexa alcuna; et essi me hanno resposto che sono paratissimi ad obedire ali comandamenti de vostre illustrissime signorie, et così me hano consignate apreso di me tute esse robe. Ma dicono che essendo loro stati giorni sei sopra la hostaria cum cavali da victura, pare sia honesto siano satisfacti dela loro mercede et deli cavali da victura etiam se may non fuseno in dolo essi Ebrey, perchè questi tali officiali quali sono andati a fare questa tale descriptione sono in bona fede hano obedito ad quelo lì è comandato, maxime che essi Ebrey, per simile poca spexa, son certo non serano tropo retrogradi (345). Nichilominus exequiro sempre quelo m'è comisso per vostre illustrissime signorie le quale pregole se degnano scrivere quelo ho ad fare, se li pare tracta qualche composicione per così minima cosa, adciò che questi tali officiali in li facti dela camera, quando acaderà, siano più vigilanti, ale quale cum fede et devocione sempre me racomando. Datum Papie die ultimo aprilis 1479.
Earumdem dominationum vestrarum,
Fidelissimus servitor
Johannes de Calzavacha
ibidem Comissarius et Potestas.
A tergo. — Illustrissimis principibus et excellentissimis dominis dominis Ducisse et Duci Mediolani, Papie Anglerieque Comitibus ac Janue et Cremone dominis, dominis suis metuendissimis etc.
Dentur in manibus magnifici domini Cichi ducalis primi secretari dignissimi etc.
(345) Si noti singolare giustizia de' tempi. Gli Ebrei erano stati riconosciuti innocenti, il fanciullo che si pretendeva ucciso da loro, era vivo e sano, ma ciò non toglieva che ad essi non si facessero pagare le spese del giudizio.
Bona, et Joannes Galeaz Maria Sforcia Vicecomites Duces Mediolani, ac Papie Anglerieq, Comites, ac Januæ et Cremonæ domini, Parte universitates heb.m in dominio nostro commorantium tenoris huiusmodi accepimus supplicationem V.z
Ill.mi ac Excell.mi Principes, Già sonno m.ti anni che li heb.i del duminio uro p. uarij modi sonno statti tribulati et aflitti nelle Robbe, et persone sue, non ostante che sempre siano statti pronti, et uolenterosi al bene, et utile del statto uro, in modo se trouano in li mali termini se le Ecc.me u͠re non si degnano prouedergli, però che da certo tempo in quà sonno perseguitatti nelle persone, et non pensando alc.i u͠ri offitiali quanto più è speso tanto manco gli è rimasto, cercando per uia inderetta di molestargli nelle persone de dì in dì, et de tempo in tempo studiando far noui inuentioni e che sij uero da dui mesi in quà sonno acaduti l'infrascritti casi, V. g. in ualenza trouandossi mancare un putto hebbeno suspitione contra li heb.i di d.a Terra, et li fù minaciato assai, et se per Dio gratia lo putto non si fusse trouato annegato in una foppa per certo l'incoreua mal assai. Similiter essendo perso un putto di Monte Castillo fù imputato alli heb.i di d.a Terra e poi fu trouato era caduto uia per una sua amida. Il simile accadete a Bormio, item a pauia essendo rimasto un putto da sera seratto fuori dal ponte di Ticino, et condotto p. un Zentilhuomo a casa sua a' fine di restituirlo à quello de chi era, et non se trouando così subbitto, fù suspicato et mormorato contra heb.i et cercato in casa sua et minaciatoli, in modo chel patrone della casa fugito per paura, et ancora non è ritornato, et se poi non fusse ritrouato non sariano passati senza pericoli, et molestie assai, come è accaduto a quello della stradella, et come alias acadete à Pauia che fureno sachegiati et fatto leuar il popolo à Rumore à risego di far nascere qualche gran scandolo et disordine con detrim.to et pericolo del statto de V. I. S. delle qual cose V. S. sono assai informate le quali sono diuulgate non solum in Lombardia ma etiamdio fuori di Lombardia, et li imputatti al detto luoco darena p. li tormenti grandi a loro fatti in diuersi luochi hanno confessato hauer comesso quello di che erano inocenti, et condotti in Castello et a casa del Cap.o di giust., p. tutto hanno Ratificato esser uero ciò haueuono d.o et se Dio per sua gratia non hauesse mandato che fusse trouato sariano statti tratatti pegio che quelli da Trento, che Dio sà sel fosse uero ò non pure sperano che Dio ne debba fare demostratione al tempo; è p. che se poderia desuiare qualche putto fuori del Dominio, aut per qualche altro inderetto fine inuilupato da qualche soy emuli per disfargli gli pare grauiss.mo che hauendo persa la Robba debbono sobiacere à tale, è tanto pericolo delle Robbe, è persone sue, per che à loro sarà imposibile hauer cura ne render conto de quanti putti si perdono nelli paesi doue habbitano. Però credono che ne uno de sanno intelleto debbia credere tale pazzie come li fi imputato per che la legge sua e nemicha dell'Umicidio, Item naturalm.te cadauno sia crudele quanto si uoglia aborisse, et hà in abominatione il sangue humano, et chel sia uero ch'essi heb.i non siano in dolo, si proua pm.te effecacissime rasone, et argomenti, così legalli come naturale, per degnis.me autoritate, et primo per la loro legge Moysaycha gli è prohibito l'humicidio, et in più luochi il mangiar sangue non pur humano, mà di qualunque animale se sia — et q.to si osserua tra heb.i item naturaliter cadauna creatura humana hà in erore, et abominatione non solo lo usare mà puro lo uedere, sangue humano, ò un corpo morto, quanto magis saria in erore ucidere uno p. usare del sangue suo, et chi uolesse dire che questo si facesse in dispretio di Christo, se risponde non è uero, ne uerissimile, p. che da Christo in quà sono statti m.ti heb.i che sono fatti Christiani, et Dottori Ecc.ti di grande fama, et authoritade come S. Paolo, Nicolo de lira, Bonaventura, et m.ti altri che erono informatiss.mi delli Ritti, et consuetudine heb.e et se hauessero saputo essere tale consuetud.e apud heb.i p. certo l'haueriano manifestatta, et pupallata, et la chiesa non gli haueria non solo concessi m.ti priueleggi, ma non li haueria tolerati ne toleraria, come hà fatto, et fà in tutte le prouincie de chrestianitate, mà li haueria scaciati et perseguitatti, et cosi li altri S.ri temporali e spirituali, et se forse se dicesse che questa fusse consuetudine secreta si risponde gli sonno statti heb.i Batezzati, per uarie prouincie di chrestianità degni di fede dalli qualli si può dimandare, et sapere se l'è uero ò no pure non si toglia tale informatione da trouati ne persone leggiere, ma mature, et de buono intelleto, et sentimento, et chi dicesse forse li sono alcuni pazzi che p. sua fantasia si mettano ad cometter tale neffando mancamento, si dice che comuniter li pazzi sono poueri, et non sono patresfamiglias imo sonno regiuti da altri, et se uolessero bene commettere tali mancamenti li altri suoi non la patirebbono, si per non contrafare alle legge così diuine come humane, etiam per non incorere in pericolo et descrimine delle persone et robbe sue, et li pazzi non saperiano ne imaginare, ne gouernare tale cose, ne haueria rispetto farlo secretto, ò palese, item se questo fosse uero li sono ut ita dicant inumerabili heb.i richi in terre de Turchi, Morri, et Saraceni, et altri infideli, che teneno schiaui et fameglij et poteriano hauer delli putti ad suo piacere da fare cio che uolesseno senza tanti rispetti ne pericoli senza impaciarsi da fare tale cose in Terra de cristiani con tanti pericoli non solum della robba ma etiam delle persone loro, Item della destrution de ierusalem fatta per titto uespasiano in qua che li heb.i furono condotti à roma non si e mai ditto ne trouato habbino fatto tale mancam.to et saria impossibile se lo hauessero fatto che p. qualche modo, et in qualche tempo non fusse statto scuoperto, et desiderando de obuiare in futurum a tale machinatione, et pericoli, et che all'auidità d'alc.i offitiali, et altre persone sia ripresa et estinta, et gitatta à parte in totum, supp.no ut is attentis si degnano V.re S.rie scriuere et mandare p. sue patenti le͠re sub indignationis pena alli suoi offitiali p.te et futuri, che à modo non s'impazzano da fare nouitatte alc.a occ.ne alicuius imputationis fiende in antea contra di supp.ts et se pur a V. I. S. non piacesse de cosi fare, saltem si degnino scriuere et mandare che acadendo p. disgratie alc.e imput.ne fatti p. persone degne di fede contra li supp.ti, che li uff.li predetti siano obligatti sub.o mandare q.to tale imputato qua à Milano da V. I. S. quali habino ad rimettere la cognitione del tutto a chi li pare et piace in la pte città, il quale sia obligato p.mo et ante omnia hauer denanti à se l'imputatori e testimonij quali siano degni di fede, et omni eceptione maiores con l'imputati et li diano copia delli inditij perchè forsi li purgariano per altra uia che per tormenti, et non ficendo purgatti per altra uia non mettono alc.o d'essi heb.i alla tortura senza partecipatione, et espresso consentimento di uno christiano sudd.to uro effetto per li heb.i allo esamine ad presso à d.o uffitiale ad cio la cosa passa maturamente et se cosi facendo li trouarano in dolo li faciano punire senza alc.a rimissione, et se sarano innocenti de sibi imputatis non siano torterati, robbati ne malmenati, et eo casu li falsi imputatori siano poniti pena talionis, accio loro imprendano et siano essempio ad li altri da astenerse da false imputationi, et cosi s'obuiarà à tali è tanti inconuinienti, et se alc.o falera sarà punito il che hauerano per gratia singolare da V. S. alle qualle se raccomandeno, et nelle qualle hanno sua speranza con rasone. Cuius intelleto et considerato tenore constitoq., nobis non nullis ec memoratis hebreis superioribus diebus fuisse indebitte imputatos quemadmodum ec eorum etiam naratur suplicatione nec sensum obicientis quas ex ea suplicatione nobis causas exposuerunt sed eas admittentes ueluti a ratione non dissentientes dignum arbitramur oportune fore prouidendum ne qua indebita afficiantur iniuria, Tenore igitur presentium comitimus et expresse mandamus omnibus et singulis comissarijs, et potestat. Jusdicentibus, et offitialibus nostris ac Pheudatariores nostrorum presentibus et futuris, ut sub indignationis nostre pena de cetero, eis oblata uel alicui eom querella seu denuntia, uel acusatione, seu imputatione q. alicquis heb.i seu aliquis eorum debuerint seu debuerunt aliquem Christianum seu christianam aliquam ocidisse uel aliqua pena afficisse ut eius biberunt sanguinem seu aliud quicqua contra fidem Christianam, uel in eius contumelia et iniuriam faciant uel q. in graue scelus inciderint, contra huiusmodi imputatum, seu imputatos, seu acusatos, non procedant, sed eos legitimis prius precedentibus indicijs saltem per duos testes omni suspitione carentes seu sufficientia indicia que alies de Iure equiperent: inditijs duorum testium, ut puta unius testis omni suittione carentis deponentis de uero actu ipsius delitti duntacat personaliter detineat seu detineri faciant, ad nos postmodum illico mittendos una cum accusatoribus, et testibus, prouidendo deiude ne aliquis fiat tumultus, uel iniuria contra alios hebreos uel eorum bona comittentes ex nunc officiali ad hoc p. nos deputando, quod p.mo et ante omnia coram se habeat huiusmodi delictti imputatores et testes una cum imputatis indiciorunq. copia ipsis imputatis trade͠n: ut ea purgare ualeant infra debitum terminum ipsi imputato statuendum, que si non purgauerit id post modum faciat quid iustitia suadebit habito apud se ad omnia facenda aliquo iurisperito uel causidico christiano, qui bone sit fame per eum seu alios hebreos agentes pro eo aligendo, qui intersit ecamini, et sine cuius partecipatione et consensu ad predicta, ne aliquid predictorum facere possit si uero falso fuerint imputati puniantur imputantes de calumnia, et ad satisfactionem damnorum interesse et expensarum, que et quas talis indebite imputatus proinde, passus fuerit ac fecerit et ultra contra eum ciuiliter et criminaliter fiat quod aduersus similes de Iure fieri debet, si uero testes conuincti fuerint de falsitate, contra eos procedatur et puniantur secundum formam Decretorum nostrorum super hoc disponentium ne heb.i predicti indebite uecentur cum per ecclesiam patiantur, Christianorum terras inhabitare pro christi redemptoris n.ri memoria, et hec omnia aliquibus legibus decretis statutis ordinibus et consuetudinibus in contrarium facientibus non attentis, quibus quo ad premissa ec certa scientia, et de n.re Potestatis plenitud.ne etiam absolute derogamus et derogatum esse omnino uolumus in quorum testimonium presentes fieri iussimus et registrari nostriq. sigilli impressione muniu. Dat Mediolani die xviiij. Maij mcccclxx nono.
Ego Jo Antonius f. q. D. Vincentij de insullo inferiori uerone pub. et imperiali authe notarius predicta omnia fideliter exemplaui ab alio in carta simili ecistenti mihi esemplandum tradito, et restituto nilq. illi addidi uel diminui ita ut mutet sensum sententiamus in aliquo in quorum fidem me subscripsi cum signi mei tabelionatus opositione.
S. Cichus.
(S T) Ego Jacobus Bagatta f. g. D.ni Bonifatij de S. Michaele ad portus uerone pub. ueneta authe not: premissa omnia fideliter exemplaui ab alio in carta simili in foleo magno ecistenti mihi esemplandum tradito, statimq. postea restituto uel addito, nel dimenuto quod sensum nutet sententiaq: in aliquo, in quorum fidem me subscripsi signaq mei tabelionatus apposui Consuetum etc.
Nos Jacobus suriano Pottas et michael Priulo Capitanehus Rect.res Verone pro ser.mo Ducali Dominio Venetiane uniuersis et singulis attestamur suprasc.tum Dominum Jacobum Bagattam esse Notarium publicum et legalem istins mag.ce Ciuitatis et eius publicis scripturis hic et ubiq locorum plena fides hadibenda esse in quorum fidem et Verone ex offi.o mag.ce cam nre fisc.a Die Iune 4.to maij 1626 Ind. nona etc.
Alcides Cimarlinus Coa.r M.e Cam.e uerone Concordat cum suo originali Ego fr Dominicus M.a de Bononia Not Apostolius S.ore Inq.m Verone, etc.
(346) Il presente documento si conserva negli Archivii della Comunità israelitica di Verona.
Massimiliano II.
Noi Masimilian secondo Diuina fauente clementia romanorum imperator sempre Augusto
omissis
faciamo noto publicam.te con le presenti a chiascheduno, sicome l'Università hebraica habitante nel sacro Imperio per suoi nontij, con scritt.re degne di fede humilm.te ha fatto presentar un preuilegio, ouer imunità all'istessa uniuersità heb.ca dato et concesso gratiosamente dall'inuitiss.mo Imperator Carlo Quinto felice memoria n.ro diletto cugino, et socero, qual è del tenor è di parola in parola come qui a basso cioè
Noi Carlo Quinto
omissis (347)
“Hauendone più oltre segnificato l'uniuersità heb.ca qualm.te più uolte sonno statti imputatti che per il lor bisogno sia necessario auer sangue Christiano, et per cio per colpe, et fatti qualli debeno per essa causa perpetrare à Christiani non è manifesto à sciente fatto ne ancora sufficiente proue, et inditij, mà per causa di depressione, et suspitione; ò uer à nuda delatione, ò simplice segnificatione de suoi maleuoli contra li loro priuileggi, et antichi consueti sono grauissimamente molestatti, tratenuti captiui, tormentatti, condenati di uita alla morte, tolto le lor robbe et facultà, euidentem.te non obstante che li santiss.mi padri n.ri li pontefici habbino fatto dichiarat.ne et prohibitione di credere, et ancora il q. N.ro S.re et Attauo imperator fedrico preclariss.me memorie per tali papali declarationi specialm.te fatto espedire seriose comess.ne et mandati per tutti li statti del Imperio, et specialm.te ad alcuni di essi di tal intento desistere, et etiamdio prouedere, et non permetter quello anci occorendo tali casi rimetter quelli à sua Maiestà, come supremo S.re et giudice dell'unita heb.ca senza alcun mezzo spetante, et seriosam.te hà commandato etiam contra li priuilegij, et antichi soliti delli heb.i grauem.te molestatti pregionati, tormentati, di uita alla morte, condenati, et li beni et facultà loro uiolentem.te statti tolti et noi per esse declarationi papale, ò dell'espeditte comissioni del n.ro Attauo imper.re Fedrico preso tanta informatione che quello è imputatto alli heb.i necessario non hà da esser. Pertanto etiam per altre più cause mouente ordinamo et sancimo, che p. l'hauenire ne un di qual sia grado si uoglia per tal causa prenda più ne un heb.o ò heb.a et senza precedenti, et sufficiente inditij, o uer proua di Testimonij fide degni, ò trouando in frangenti crimine non tormentatti, ne condenati da uita alla morte, Ma occorendo tali querimonie ò imputationi quel p.mo rimettere, o riportare a noi, et nri sucessori Rom: Imperatori, o Regi, come suprema superiorità in Imperio dell'Uniuersità heb.a et cui eupeture la risolutione, per il che statuimo, ordinamo, sancimo, declaramo, et uolemo, dalla predetta ampia nra atta imperiale, et di certa scienza che per l'auuenire tutti li priuileggi, ire, libertadi, gratie, defensioni, protectioni, saluaguardie, saluicondotti, et confermatione della prefatta uniuersità heb.a in tutti, et cadaun suoi punti, articoli, clausale, continentie, sententie, comprehensioni siano totalmente roborosi, ualidi et stabilm.te osseruati, et essequiti in tutti i modi, come tutti et cadauno specialm.te di parola in parola in questa nra imperial Lra fussero descritti, et espressi, quali etiamdio sono in q.a sufficientem.te compresi et espressi hauer uolemo, Et ancora che la prefata unita heb.a et suoi sucess.ri generalm.te et specialm.te debba hauer li soprascritti nostri di nouo concessum Priuilegij, gratie, deffensioni, protectioni, saluaguardie, et saluicondutti, permanere in quelli, et contra essi, ne in generale, ne in speciale da niuno, ne per rapina, offensione personale ne reale di beni, et facoltà loro, ne espulsione, ne ridutione, obserciatione di scole sinaghoghe di essi, ne alias per altra uia debano esser molestatti perturbati, et impediti, anci loro, et suoi sucessori q.ti quietam.te godere et fruire posino, et debino senza impedim.to da niuno et si e contra inscientem.te o importuna instantia, da noi, o nri sucessori in imperio si statuisse è concedesse, ò si espedisse alcuna cosa in contrario alli sopradetti, et à questo nro priuileggio parim.te se a quelli se facesse acordo alcuno ò altro incomparso senza nra uolonta et assenso tutto questo contra essi non debba hauer effetto ne robore, ne ualore, anzi tutto esser inualido infirmo, et impregiudiciale; Per che noi tutto questo, et cadaun particolarm.te ec nunc pro ut ex tunc, et ec tunc pro ut ex nunc, cassamo, anulamo, irritamo, inualidamo in uirtù di q.ta lera sopra cio comandiamo à tutti, et qualunque Principi ecclesiastici, et seculari, prelati, Conti, Baroni, S.ri cauaglieri, Nobili, Capitani, Prefetti, Prouinciali, Vicedomini, Profetti, Locotenente, officiali, Giudici, Potestadi, Consiglieri, Cittadini, comuni, et tutti li altri nri et del Imperio sudd. fideli, di qualunque grado, Dignità, ò conditione, siano pnti et futuri, seriosamente con questa littera, et uolemo che lassate totalm.te permanere la prefatta nra unita heb.a in generalità et particularità, con le sopra scritte papali declarationi, et de nri Predecessori nel imp.rio et q.ta nra libertà, priuilegij, confirmatione, deffensione, protectione, saluaguardie, et salui condotti, osseruare, defendere, et protegere, et non contrafar, ne ad' altri permetter contrafar in modo, et in uia niuna, cossi cara à cadauno sia la nra, et imperii indignat.ne, et pena graue, è ancora molta nominatiua di schiuare Marche cinquanta d'oro puriss.mo quale cadauno tante uolte temerariamente contrafarà, se non uorà abstenersi, la qual per la mittà à noi, et la nra imperial cam.a et l'altra mittà all'Unita heb.a ò uer alli offesi irremisibilmente sarà aplicata senza Inganno. In fede de cio sigilato col nro imperiale appendente segillo.
“Datta in nra, et imperij, Cittade Spira alli 3 del mese di Aprille di poi la nattiuità di Christo diletto S.re 1544: Nel nro imperial gouerno nel uigesimo quarto ò altri nri Regni nel uigesimo nono anni etc.”
Et de più humilm.te han pregato, et supplicato à noi, come Imp. de Rom. che gratiosam.te ghe uogliono renouar, confirmar et aprobar i suoi descritti Priuileggij et immunità
omissis (348)
Datta nella nra ò del nro Imperio. Città d'Augusta alli 8 del mese di marzo dopo la natiuità del nro S.re e saluator 1566: nel nro imperial gouerno nel quarto nel Hungaro nel Terzo, et nel Boheno nel 18 anno etc. Masimigliano
Vice ac Nomine R.mi Dni Archicancell Magautini
Ad m.tu sac. ces. Miti propriu.
V. Io: Bap: Weber e. Haller etc.
Ego Gaspar f. q. D. Iac. Antonis de seraualle pnb: imperiali autte not.s et V. Cancell. Mag.ce Coiatis Rob.ti attestor fidemque indubia facio quibuscuq — Priuilegium concessa Uniuersitatti Hebraice ab inuictissimo Cesare Carolo Quinto sub die 3 aprilis 1544: ex Ciuitate Spire et confirmatum ab inuictissimo Cesare Masemigliano secundo ex Ciuitate Auguste sub die 8 Martij 1566: munitum sigillo magno imperiali
omissis
et hoc ec suo authentico transupto e lingua germana, qua caleo in Italam fideliter, et sincere, a suo sensu penitus non discendis uertisse, et traduisse in omnibus pro ut sopra etc in quoru testimoniu me manu propria subscripsi, signoq. meo actis tabelionatus solito muniui
Ad Laudem Dei Opt.i Maximi
Nos Carolus Rusca. I. V. D. Perginen: Roboretti, e sui districtus pretor — omissis (349) — Roboreti die X Juni. MDCII.
Ego Jacobus Bagatta f. q. D. Bonifatij de S. Michaele ad portas Verone publicus Veneta Anthe Notarius (350). . .
Nos Iacobus suriano Pottas, et Michael Priulo capitaneus Rectores Verone (segue la legalizzazione). Verone ex uff. magn. Cam.e n.re fisc.s Die lune 4.to maij 1626. Ind. nona. — Concordat cum suo originali ver.a F. Fr: Dominicus M.a de Bononia Not.ro Apliu S.ne Inq.nis Verone.
(347) Conferma i privilegi concessi agli Ebrei dai Pontefici ed Imperatori e stabilisce varie disposizioni in loro favore.
(348) Segue l'approvazione, la sanzione è: — la graue indegnatione n.ra o dell'imperio, et di più sotto pena di sessanta marche —
(349) Segue la legalizzazione.
(350) Segue autenticazione della propria copia.
Martino Lutero.
Tomo 5, Witt. Foglio 443. Pregai si trattasse bene (gli ebrei) si istruissero nella Sacra Scrittura, e così avrebbero potuto rimanere presso di noi; ma se noi li cacciamo colla forza, li incolpiamo di avere sparso sangue cristiano, di puzzare e di altre simili sciocchezze, trattandoli come cani, qual guiderdone possiamo da essi sperare? (351).
(351) Vedi Christianus Cerson: “Der Jüden Talmud 1613” Epistola dedicatoria al principe Enrico Giulio, vescovo del convento di Halberstadt, duca di Brunswick e Lüneburg; Giovanni Cristoforo Wagenseil: Benachrichtigungen, 1705.
Stefano Re di Polonia
Noi Stefano, per grazia di Dio, Re di Polonia, omissis, pubblichiamo a tutti ed a ciascuno che ne abbia bisogno.
Giunse a noi ed alle nostre orecchie, cosa meravigliosa e da noi non prima udita, sulla uccisione di fanciulli cristiani e precisamente sul ratto e sulla uccisione del figlio di un certo eccellentissimo Studsionsky nel circolo di Gostina. Siccome non soltanto si sospettano gli Ebrei di questo misfatto, ma vengono anche apertamente accusati, così crediamo necessario investigare e cercare premurosamente quanto siavi di vero in quest'accusa; e tanto più ciò ci sembra necessario in quanto simili accuse non si sollevano ora per la prima volta, essendo per numerose testimonianze venuto a conoscenza nostra che già da lungo tempo si è sparsa la voce aver gli Ebrei rubato ed ucciso fanciulli cristiani ed anche comperato (per farne vilipendio) il Santissimo Sacramento, voce che dette origine a scene deplorevoli.
Ora avendo due gentiluomini Studsionsky portato apertamente dinanzi a noi una simile accusa contro gli Ebrei ed avendoci mostrato un fanciullo morto, ordinammo si procedesse a severe indagini. Siffatte indagini furono dai nostri ufficiali condotte col maggior zelo, furono citati gli Ebrei e da ambe le parti si addussero prove e testimonii per porre in luce il vero; il risultato fu che non soltanto gli Ebrei non erano colpevoli, ma che nessun sospetto poteva venir su di loro formato. Anzi i predetti signori, saputo di essere stati tratti in errore e che nulla si era rinvenuto a carico degli Ebrei ritirarono l'accusa. Dimostrata, nel modo più assoluto, la loro innocenza in questo fatto, gli Ebrei si lagnarono meco amaramente perchè da queste popolari credenze che essi abbisognando di sangue cristiano, rapissero ed uccidessero fanciulli cristiani, o che vilipendessero il Santissimo Sacramento comperandolo dai Cristiani, e facendone spicciare sangue umano, non soltanto erano derivate loro numerose persecuzioni, ma s'eran trovati spesso in pericolo di vita, ed avevano dovuto soffrire crudelissimi martirii e persino acerba morte. Dopo averci dimostrato, con decreti e privilegi dei nostri antecessori, l'ingiustizia di tali pene, ci supplicarono caldamente, per mezzo di alcuni nostri Senatori, di provvedere, in modo definitivo, perchè non abbiano per lo stesso motivo a rinnovarsi gli insulti, le persecuzioni ed altre ingiustizie di cui già ebbero a soffrire. Commossi da questa preghiera, e desiderando precludere l'adito a simili calunnie e rimuovere una causa di tumulti e di persecuzioni che gli Ebrei ebbero spesso a soffrire per questo argomento, abbiamo deliberato in base alla nostra ferma convinzione ed in seguito a parere dei nostri Senatori, che nessuno osasse d'ora innanzi muovere agli Ebrei, nel nostro Regno e nei nostri dominii, l'ingiusto rimprovero del rapimento e dell'uccisione di fanciulli cristiani, o della compera del Santissimo Sacramento. Ed essendo essi innocenti di entrambi questi misfatti non devono perciò essere calunniati, nè accusati dinanzi un giudice o qualunque altro magistrato, essendosi nel fatto dimostrato che queste accuse non hanno base di fondamento, e che gli Ebrei non fanno uso di sangue, nè cercano di procurarsi il Santissimo Sacramento. Perciò chiunque si facesse lecito di ripetere tali accuse, vogliamo che, senza riguardo a rango, venga severamente punito, come autore di grandi disordini. Chi dunque incolpasse gli Ebrei di questi misfatti sarà punito come calunniatore; e colui che per questi motivi portasse contro di essi un'accusa dinanzi ad un giudice, sarà passibile della poena talionis e dannato nel capo.
Questa nostra decisione portiamo a cognizione di ciascuno che avesse bisogno di saperlo, e specialmente vogliamo che venghi notificato a tutti i Woiwodi, Starosti e Sottostarosti ed in generale a tutti impiegati, Sindaci e Consiglieri, ed ordiniamo che la Nostra Volontà sia da essi strettamente eseguita, portata a cognizione di tutti perchè agiscano solamente secondo la Nostra Volontà, altrimenti cadrebbe su di loro la nostra disgrazia.
Noi firmiamo per maggior sicurezza questo scritto e vi apponiamo il suggello della Nostra Corona.
Dato a Varsavia il 5 del mese di luglio dell'anno del Signore 1576 nel secondo anno del nostro Regno.
Stephanus Electus Rex.
Sentenza a favore di Giuseppe, Ebreo veronese.
Exemplum ab alio ex concione undecima Ill.mi D.ni Iustiniani contareno Verone Potestatis die ult.o mensis februarij milesimi sexcentesimi tertij Jndictione prima
De
Ioseph hebreus q. Abrahamini dictus anselmi Accusatus a Bernardino Bertono calligarum resarcitore de sancto marco quia cum sero factum esset uigilie admirabilis ascensionis D.ni anni modo lapsi non nulli adolescentuli puerilibus iocis incumberent in curte uulgo nuncupata di Panthei idem Joseph scienter et dolose eiusdem Bernardini paruulum figlium hostio proprie domus assidentem ui rapuerit ac inuolutum palio nisi fuisset impijs eius manibus ereptus in uicinam heb.m stationem deferre tentauerit uel ut christianam animam è gremio sacrosancta Ecclesia matris disceptam ad iudaicam perfidiam, et perditionem deduceret, uel ut eodem infante crudeliter necato, et sacratiss.me morti n.ri saluatoris illuderet et innocenti sanguine ad pessimos et nefandos usus uteretur sicut alius factum esse quibusdam circonforanete — historie monamentis probare conatus est ipse accusator uel etiam ut huiusmodi facinore uindicaret amissionem figlie sue que quide per lauacrum regenerationis ab eius prauitatis errore ad aternam salute confugere proximis precedentibus mensibus elegerat, et ut in processu diffuse legitur.
Detentus et constitutus dictus Joseph negauit tantum comissise scelus et ipsi deffensionibus intimatis tam in scriptis quam in uoce p. Exc.m eius aduocatum nedum suas satis legitimas deffensiones deduxit uerum etiam demonstrauit uarijs allegatis sacre bibilie locis hebraicum ritum a sanguinis effusione abhoreri, segnificando etiam quod uarij principis hanc huiusce sanguinis usus famam pro uana nulla et falsa habuerunt publicis datis priuilegijs nempe Bona et Ioannes Galeatius Maria Sfortia Duces Mediolani ut constat sub die 19 maij 1479. Petrus Mocenigo Dux Venetiarum sub die 22 aprilis 1475 (352): et denique fridericus tertius Carolus Quintus et Maximiglianus secundus sub die octauo martii 1566; in quibus affirmatur olim à sanctissimis pontificibus prohibitum fuisse quicquam credere de huiusmodi obiecto impio sanguinis christiani abuso, et ex quibus omnibus tollitur omnis suspitio tam facinorosi sceleris obiecti, Eà propter Ill.mus Dnus Potestas una cum Ecc.mo consulatu antedictum Joseph relaxauit.
(352) In un foglio sciolto unito al libretto è citata questa Ducale come esistente — nel Registro di Padova in Bergamina sig.to con Letra M nel'Arcivo della Cancelaria pretoria di padous a 118.
Ego Christophorus Nicolius notarius deputatus ad conciones comunis uerone antedictam sententiam per me scriptam et publicatam esemplaui et in fidem manu propria scripsi et subscripsi cum meo sollitto tabelionatus segno.
(L T) Premissa sententia fideliter exemplata fuit per mè Cyprianum masser.m D. Baptista figlium publicum ueneta auctoritate not.m ab alio simili exemplo autentico sub signo et nomine contedicti q. D. Christophori Nicolij, in quorum testimonium me propria manu subscripsi solito tabelionatis signo apposito.
Nos Jacobus surianus pro ser.m Ducali D.nio uenetiarum e Verone et Districtus Potestas. Uniuersis etc. attamur suprascriptum D. Cyprianum Masserium esse notarium publicum huius ciuitatis cuius publicis scripturis ubique locorum plena fidis merito est adhibenda In quorum etc. Verone die 5 Maij 1626.
Aloysius Cinthius Coad.r Pret.s m. etc.
Presens copia desumpta fuit ex suis proprija originalibus de uerbo ad uerbu aliena manu mihi in fida; et collationata concordat, salua semp megliori.
Fr. Dumenicus M.a de Bononia eiusd' ord.e Magr et Inq.or Verone attestor d.m f. Dom.cus Marie esse Not.mo huius S.te Inq.nis.
Giovanni Cristoforo Wagenseil.
Aiutaci o Dio! Come è mai possibile scoprire la verità in mezzo a tante schifose accuse, ognuna delle quali contraddice alle altre? Come non capir subito che non le sono che miserabili chiacchiere, e che da bocca cristiana mai dovrebbe esser proferita l'accusa che gli Ebrei in diverse occasioni si servano di sangue cristiano? E meno male ancora non le fossero che chiacchiere, ma pensare che in grazia di queste maledette menzogne, gli Ebrei furono maltrattati e torturati, che migliaia e migliaia ne furono messi a morte è cosa che commuoverebbe e farebbe gridar anche le pietre. (Benachrichtigungen, p. 130 e seg.).
Fu, ed è sempre, opinione fra i Cristiani, che gli Ebrei abbiano bisogno di sangue cristiano per mischiarlo agli azimi che mangiano di Pasqua ed al vino che bevono. Io stesso sono stato spesse volte spettatore quando Ebree od Ebrei, (perchè fra gli Ebrei anche uomini ricchi ed a modo sogliono aiutare a queste incombenze per far onore alla festa di Pasqua) apparecchiavano la pasta per le azzime, vidi come l'impastavano, come levavano la Challa, la bruciavano e dopo allestita la focaccia la infornavano, ma non mi accadde mai di osservare vi mischiassero qualche cosa che assomigliasse a sangue.
Fra tutti gli altri oggetti ed arnesi che gli Ebrei credono sacri e di cui si servono nelle loro funzioni posseggo anche una grande focaccia d'azimo e posso mostrarla a chicchessia per provare che non vi si trova la più piccola traccia di sangue. Il vino che si beve durante le feste di Pasqua deve essere cascher o purissimo, e guai se un cristiano avesse toccato, soltanto col dito mignolo, il torchio od il tino nel quale viene preparato, tanto meno adunque si permetterebbe vi si mischiasse una goccia di sangue cristiano (ibid., p. 132 e seguenti).
Qui non si tratta di sapere se un ebreo insultato da un fanciullo cristiano possa averlo ucciso. Il caso può benissimo essere accaduto, assai raramente però, se lo stesso dottissimo Grozio potè scrivere nel 5º libro del suo De Verit. Rel. Christ. che gli Ebrei non incorrono nè in idolatria, nè in adulterio, nè in reati di sangue. “Judaeos a tanto tempore nec ad falsum Deorum cultum deflexisse ut olim nec caedibus se contaminasse nec de adulteriis accusari” (ibid., p. 149).
A nulla valgono le stesse confessioni degli Ebrei perchè strappate loro con torture e tormenti così terribili che essi avrebbero confessato ben più di quanto non si pretendeva da loro. Taccio di quei malvagi Cristiani che bene spesso volendo denunciare gli Ebrei, per avvalorare l'accusa, uccidevano, Dio sa in che modo, i loro stessi bambini, ed i cadaveri o mettevano segretamente nelle case degli Ebrei, o sotterravanli nelle cantine o nei giardini loro, fatti questi pei quali migliaia e migliaia di Ebrei non soltanto furono spogliati dei loro beni e ridotti alla miseria, ma furono eziandio giustiziati coi più orribili supplizi (ibid., p. 198).
Malgrado accurate indagini, non mi venne fatto di trovare nessuna legge che scagionasse gli Ebrei dall'accusa di usar sangue cristiano, eccezione fatta per una legge di non so qual re di Polonia (353), che trovasi in un Codice manuscripto ben ordinato e conservato nella biblioteca di Lipsia col titolo: Promtuarii statutorum omnium et Constitutionum Regni Poloniae di Paulo Scerbicz anno 1590 ad usum domesticum, dove nella parte 1ª, cap. 15, De Judaeis, leggesi: Judaeus caedis pueri Christiani accusatus tribus Christianis, et totidem Judaeis convincatur: alioquin pro usu humani sanguinis non culpetur. Deficienti vero Actori in probatione poena talionis irrogetur (354).
Volesse Dio che leggi così giuste si fossero fatte dovunque, e si avesse spiegata maggior oculatezza allorquando gli Ebrei venivano accusati o per calunnia o per futili indizi prima di ricorrere alla tortura ed al supplizio per far loro confessare ciò che si voleva. Se poi talvolta fu provato aver gli Ebrei commesso qualche misfatto, ed è inevitabile che in un gran popolo non si trovino dei malfattori, non avviene ogni giorno lo stesso anche fra noi Cristiani? Perchè dunque non punirli, secondo giustizia, in ragione del delitto commesso, invece di sottoporli a pene stravaganti, colpendo assieme colpevoli ed innocenti ed ammazzandoli alla rinfusa? Le autorità dovrebbero pensare all'ammonizione del Re Giosafat: “Riguardate ciò che voi fate; perciocchè voi non tenete la ragione per un uomo, ma per lo Signore, il quale è con voi negli affari della giustizia. — Ora dunque, sia lo spavento del Signore sopra voi; prendete guardia al dover vostro e mettetelo ad effetto; perciocchè appo il Signore Iddio nostro non vi è alcuna iniquità” (2 Croniche xix, 6, 7). Esse avrebbero dovuto pensare a non gravare le loro povere anime e le loro conscienze della scomunica pronunciata da migliaia di leviti, e confermata da un Amen di centinaia di migliaia di persone contro chi contravviene ai precetti del Deuteronomio (xxvii, 19, 25) “Maledetto sia chi pervertisce la ragione del forestiere, dell'orfano e della vedova. Maledetto sia chi prende presenti per far morire l'innocente” (ibid., pag. 203 e segg.).
(353) Boleslao il Pio, duca di Kalisch, nell'anno 1274. (Regnò col nome di Boleslao V, 1227–1279). Vedi Sternberg, Geschichte der Juden in Polen.
(354) Un ebreo accusato di aver ucciso un fanciullo cristiano deve essere convinto colla testimonianza di tre ebrei e di tre cristiani; senza di che non potrà essere condannato per uso di sangue cristiano; se l'accusatore non potrà in tal guisa provare la sua accusa sarà punito colla pena del taglione.
Parere della facoltà teologica di Lipsia dell'8 maggio 1714.
Dopo che certi accaduti avvenimenti esigono la soluzione del quesito “se si possa provare e credere che gl'Israeliti, secondo le leggi della propria religione, o per introdotte superstizioni, abbiano bisogno del sangue d'un cristiano, e che uccidano secretamente teneri fanciulli, che procurano di rapire” fu sopra ciò desiderato anche il nostro coscienzioso parere in nome di S. M. il Re di Polonia e del serenissimo principe elettore di Sassonia.
Quindi noi, conforme il nostro umilissimo obbligo, incominciamo la soluzione del quesito con una negativa, e di tale nostra negazione alleghiamo le ragioni seguenti:
I. Prima del 13º secolo dalla nascita di Cristo non si è parlato mai di questa grave accusa addossata al popolo ebreo, nè in tempi in cui niente si perdonava alla nazione ebrea, si saprebbe trovare conferma di ciò in qualsiasi documento, nè degli Ebrei dell'Oriente nè dell'Occidente. Perchè dunque dovevano gli Ebrei per così lunga epoca ommettere una crudeltà, e tosto dopo quest'epoca averla incominciata? Perchè non dovrebbero essi averla commessa del pari nei primordi del Cristianesimo, che quasi s'innalzava sulla loro rovina, ed allorquando la gelosia e l'amarezza dovevano esser maggiori? Perchè dovrebbero essi aver ommessa questa pratica ai tempi degli imperatori pagani, allorquando con maggior sicurezza potevano eseguirla? Perchè incominciare allora soltanto quando maggior pericolo li attendeva sotto principi cristiani? O come avrebbero taciuto questa cosa i Cristiani dei primi tempi, a cui tali fatti non potevano rimanere celati, mentre essi d'altronde non sanno mai abbastanza descrivere l'odio degli Ebrei contro di loro?
Ma per procedere alquanto innanzi colla storia intorno a questo fatto, e mostrar più chiaramente la sua falsità, osserviamo che intorno al 13º secolo, l'odio contro gl'Israeliti, in Germania particolarmente, erasi grandemente aumentato, e ciò principalmente a cagione di un certo monaco di nome Rodolfo, il quale, secondo ogni apparenza, tratto da ambiziosa imitazione di quelli che predicavano la crociata contro gl'infedeli in Oriente, instigò il popolo in Colonia, Spira, Magonza e Strasburgo a una simile crociata contro gli Ebrei, immaginandosi di acquistarsi così una fama in Germania come San Bernardo in Francia colle crociate contro i Maomettani; ma appunto il Santo Bernardo, in una lettera diretta ad Enrico Arcivescovo di Magonza, dannò il da colui eccitato eccidio degli Ebrei, lettera che s'incontra fra le sue epistole. Ciò nondimeno si continuarono nelle publiche prediche le veementi accuse; e varii frati si adoperarono valorosamente ad empire non solo le loro prediche, ma anche i loro libri di simili tragiche favole contro questa nazione, favole che facilmente irritavano il volgo insensato. Fra tali favole si è diffusa anche questa dell'uso del sangue cristiano in varie pratiche di religione o superstizione ebraica, e potrebbe ben essere che a ciò avesse dato occasione una sentenza dei dottori ebrei (spiegata da Elia levita nel suo Tisbì) la quale dice che niuno potesse sedere in Tribunale, vale a dire coprire onorevole carica se non avesse damim (la quale parola suona sangue ed anche denaro e qui è da intendersi nel senso di denaro).
L'epoca della favola ci è resa nota e chiara da Papa Gregorio IX, il quale, dopo scrupolose indagini intorno alle accuse che venivano date agli Ebrei, volendo impedire che si versasse il loro sangue, mandò fuori, nel 1235, una bolla pontificia, nella quale dichiara gli Ebrei immuni da questo e da altri delitti di cui venivano incolpati, e si lagna che tali accuse provengano dall'avarizia dei loro autori i quali agognano ai beni degli Ebrei, ed abusano della religione cristiana per palliare il proprio desiderio di arricchire; le quali cose egli ripete ancora in una bolla dell'anno seguente, come pure in un'altra diretta a San Luigi Re di Francia. Egli fu imitato, nell'anno 1247, dal Papa Innocenzo IV, in un'epistola agli Arcivescovi d'Alemagna, in cui esplicitamente rigetta come una falsità che gli Ebrei uccidano fanciulli cristiani e facciano uso del loro sangue.
E così pure gl'imperatori romani, incominciando dal decreto, intorno a ciò promulgato dall'imperatore Federico III, hanno riconosciuto gli ebrei innocenti rapporto a questa accusa; lo che apparisce dal formulario dei privilegi ad essi confermati, come da quelli che sogliono essere accordati dagli imperatori quando vengono eletti, come può vedersi presso Linneo, tomo i, addit. ad 1, 3, c. (355).
Con eguali pubblici attestati furono gli Ebrei difesi da quest'accusa da Galeazzo e Bona Sforza Duchi di Milano, da Pietro Mocenigo, Doge di Venezia, e da altri grandi principi i quali facilmente si citerebbero, se ciò non ci portasse troppo in lungo.
Se poi nell'esame storico di questa cosa cerchiamo i giudizi d'uomini celebri intorno a questo fatto, troviamo che Pietro di Blois, nel libro Contra perfid. Jud., c. 8, dà chiaramente a divedere com'egli teneva la cosa per dubbiosa. Il dottor Martino Lutero nella parte undecima dell'antico Testamento, fol. 323, ha già da lungo tempo rigettata questa favola, che cioè gli Ebrei abbiano bisogno del sangue di un Cristiano, qual menzogna e follia. Lo stesso fece anche Horembek nei prolegomeni del suo libro De convertendis Judaeis, ed il professore, peritissimo nelle cose giudaiche, Wagenseil nel suo Infundibulo, pag. 99, ed in una apposita confutazione dell'opinione che gli Ebrei abbiano bisogno del sangue di un Cristiano, si è dichiarato contro questa calunnia. La rigettò anche di recente il celebre Basnage nel settimo libro della sua storia degli Ebrei. E ciò prescindendo da quanto hanno scritto a propria difesa contro questa falsa accusa in particolare Abarbanel nel suo Ezechiello, 36, 13; l'Ebreo Cardoso nel suo libro in lingua spagnuola “Los Excell.: decima calunnia de los Hebr. pagina 412”; Isacco Vira nel “Vindice sanguinis” e gli Ebrei di Metz in uno scritto pubblicato a Parigi nel 1670 col titolo: Factum servant de réponse au livre intitulé: Abrégé du procès fait aux Juifs de Metz.
Dacchè esiste la religione di Cristo, abbiamo veduto molte migliaia di Ebrei che l'hanno abbracciata, e fra questi neppure uno ha potuto deporre una testimonianza degna di fede in conferma di questa favola. Al contrario, il profondo dotto Cristiano Gerson, passato al Cristianesimo con onore sincero, ha combattuto questa favola, nella prefazione del suo Talmud degli Ebrei. Con lui è d'accordo il noto Pfeffercorn nel Spec. adhort. Jud. parte ii, dove egli fa una buona distinzione, dicendo che potrebbe ben essere che si sieno trovati degli Ebrei e che oggidì pure se ne trovino, che spinti da collera, odio e vendetta, uccidano segretamente un fanciullo Cristiano, nella stessa guisa che in mezzo a tutte le nazioni non può evitarsi qualche bricconeria; ma sostiene non potersi dare che ciò avvenga per aver essi bisogno del sangue di un Cristiano.
E il di sopra citato signor Wagenseil nella suaccennata confutazione, p. 163, attesta in nome della verità di Dio e del padre di Nostro Signore Gesù Cristo che fra tanti Ebrei battezzati che egli ha praticati, non ne ha trovato uno che confessasse che i suoi connazionali adoperassero in certi casi il sangue d'un Cristiano, per quanto egli intorno a ciò gl'interrogasse tutti accuratamente.
Noi potremmo a tutto ciò aggiungere la testimonianza di Tommaso, che viene ritenuto per un Ebreo convertito al Cristianesimo, il quale interrogato sopra questa cosa da Alfonso Re di Spagna, la negò, adducendo ragioni dedotte dalle leggi giudaiche, le quali non permettono ad un Ebreo simile uso del sangue, come puossi diffusamente riscontrare nel Scevet Jehudà, fol. 6, col. 2, ed anche nel Giudaismo svelato da Eisenmenger, tom. ii, cap. iii, pag. 226. Veramente gli annali della Chiesa dopo il tredicesimo secolo abbondano di diversi esempi di tali omicidii commessi dagli Ebrei, e fra questi molti furono raccolti da Genebrando nel quarto libro della sua Chronor., e dall'autore del libro intitolato: Quanto sia difficile a convertire il cuore di un Ebreo.
Ma in ciò tre cose sono da rimarcarsi:
1. Che le circostanze della maggior parte di queste storie sono talmente contraddicenti l'una all'altra, e con tali differenze sono raccontate dai diversi autori, che fra se stesse si distruggono, come nota il celebre Wagenseil.
2. La maggior parte di queste storie rimontano ai tempi dell'ignoranza e della credulità, e si rendono assai sospette mediante gli strani miracoli, dai quali sono accompagnate, ed è quindi da prendersi bene in considerazione quello che osserva Eisenmenger, (del resto dichiarato nemico dei Giudei), il quale dopo aver riportato alcuni esempi di tal fatto, dice: Non si odono ora più in Germania di consimili crudeli fatti (l. c., pag. 221); senza dubbio perchè la Germania dopo di esser divenuta più colta, ha perduta quella troppa credulità a simili fandonie, come pure ad altre, le quali ci fecero cauti anche verso di questa.
3. Finalmente devesi in riguardo a queste storie, avere in considerazione la distinzione fatta da Pffeffercorn che, dato anche che il più di esse sieno vere, che cioè alcuni Ebrei abbiano versato il sangue di cristiani o de' loro fanciulli, in nessuna guisa però non può ciò essere avvenuto per cagione che essi abbisognassero di quel sangue per la loro religione o per superstizione.
II. Ma dalle prove storiche della nullità di questa accusa, passiamo a quelle che la calunnia per se stessa ci offre, d'onde apertamente si vede, quanto incerti sieno stati gli autori della medesima, in quanto essi non hanno saputo a che cosa attribuire la necessità in cui sieno gli Ebrei di provvedersi di questo sangue.
Perocchè gli uni dicono: 1) gli Ebrei hanno bisogno del sangue dei Cristiani per non puzzare; altri: 2) per le loro focacce e il loro vino della pasqua; alcuni: 3) per arrestare il sangue della circoncisione; altri: 4) per ungere le mani dei sacerdoti quando danno la benedizione; altri: 5) per la benedizione degli sposi; taluni: 6) per ungere i loro morti, ai quali in pari tempo si grida all'orecchio: Se Gesù è il vero Messia, possa il sangue di questo innocente cristiano morto sperando nel suo Salvatore, procurarti la vita eterna; altri ancora: 7) per facilitare il parto; alcuni: 8) per curare malattie occulte; ed altri ancora: 9) per preparare un certo filtro. In tutte queste supposizioni non è soltanto la discrepanza che cade sotto gli occhi, ma anche la nullità delle medesime. Poichè in quanto alla prima non è provato che gli Ebrei mandino un odore particolare diverso dagli altri uomini, nè che quello si possa cangiare con del sangue, il quale nè fluido, nè secco tramanda alcun odore. La 2, 3, 4 e 5 supposizione sono del tutto assurde, poichè il sangue umano contaminerebbe quelle sacre operazioni. La sesta supposizione, cioè l'unzione dei morenti, è del tutto contraria alla fede degli Ebrei, i quali non potrebbero mai considerare come espiatorio il sangue di un fanciullo ucciso, e molto meno in vista del sangue di Cristo. La settima supposizione, di farne uso nei parti difficili, ci viene per semplice ragguaglio di un Ebreo rinnegato di nome Brenzen, il quale, spinto da ignoranza e malignità, sparse molte altre manifeste favole. 8) Non si sanno indicare le malattie occulte ed incurabili degli Ebrei, per le quali deve servire il sangue di un Cristiano, e non hanno altro fondamento se non che in un libercolo molto frivolo, di cui corre voce che vi sia la descrizione delle malattie particolari a ciascuna tribù, mentre è pur noto che la distinzione delle tribù d'Israele è già da lungo tempo andata perduta. 9) Secondo anche l'opinione di quelli che ancora credono ai filtri non può alcun altro sangue servire per formarne una bevanda che ispiri amore, tranne quello della persona verso cui si vuoi destare l'affetto, e non si può comprendere qual amore gli Ebrei vogliono far nascere col sangue dei bambini cristiani; laonde in tutte queste asserzioni risultano l'inverisimiglianza e la nullità.
III. Se veniamo ora ai principii ed alle leggi fondamentali della fede degli Ebrei, troviamo che questa non può in verun modo tollerare l'uso del sangue di fanciulli uccisi, e conseguentemente l'uccisione di essi. È principalmente noto con qual rigore gli Ebrei osservano la legge dei cibi puri ed immondi, e quanto debbano essere rilassati prima di mangiare, per esempio, la carne di porco. Or dunque il sangue principalmente, e tanto più il sangue umano, è fra i cibi vietati. Lev. 17. Così fra i comandi di Mosè che sono in alta riverenza presso gli Ebrei, sta la proibizione del sangue. Gen. 9, v. 4, nè può alcun Ebreo fruirne nè per cibo, nè per medicina. Non si può fare a meno di ripetere qui le parole di Tommaso al re Alfonso tolte dall'ebraico Scevet Jehudà: Ecco noi abbiamo veduto che un Ebreo non mangia sangue di tutto ciò che ha vita, anzi riguardano come proibito il bere il sangue dei pesci, dei quali i Talmudisti pure dicono che non merita il nome di sangue, perchè l'Ebreo non vi è abituato, sebbene egli veda che molti popoli ne mangiano; e quanto più orrore deve destare nell'Ebreo il sangue umano, del quale egli non ha veduto che alcun altro uomo faccia uso! Il re può accertarsi della cosa anche da questo che se un Ebreo mangiando fegato (od altra, cosa dura a masticare) gli venga sangue dai denti o dalle gengive, non continua a mangiarne se prima non l'ha nettato. È cosa nota che l'uomo ha in abborrimento il sangue de' suoi simili, assai più che il proprio sangue, perchè non vi è abituato. Anzi è da essi con tanta cura evitato il mangiar sangue, che essi, dietro i dettami del Talmud, non mangiano nemmeno un uovo in cui si mostri una piccola vena rossa di sangue, nè una bestia se fosse uccisa da un uccello di rapina, od altrimenti non sia stata scannata a dovere, per timore che non siavi rimasto alcun che di sangue. E non solamente è loro proibito mangiare il sangue, ma anche il toccare il sangue di un uomo morto, ed è riguardato come la più grande impurità. Noi troviamo su di ciò la legge nel Num. 19, secondo la quale il toccare tutto ciò che proviene da un corpo morto rende immondi, per il che eglino stessi non conservano il sangue dei loro martiri se mai sia spruzzato, ma lo lavano, raschiano, sotterrano. E con quanta esattezza non conservano essi la legge della purità, specialmente nelle loro solennità e sacre cerimonie, fra le quali primeggiano la Pasqua e la Circoncisione, e quanto assurda non è la supposizione che nelle medesime si servano del sangue di un Cristiano! Che se finalmente si volesse supporre che gli Ebrei non sieno spinti ad uccidere dei fanciulli da un bisogno della loro religione o superstizione, nè per alcuno degli usi fin qui addotti, ma bensì da quello stesso odio verso i Cristiani e la loro fede, pel quale essi per far onta a questa fede mettono in croce o martorizzano fino alla morte i fanciulli cristiani come ne vengono allegate alle varie storie, la quistione verrebbe a cangiarsi da quello che fu in principio proposto; ma per altro rimane tuttavia da ponderare che mentre simili barbarie non sono agli Ebrei comandate nè insinuate, e ch'essi non possono sperare alcun vantaggio, ma al contrario quel solletico ch'essi potrebbero risentire dall'onta recata con tali tragedie alla religione cristiana, sarebbe ben lungi dal compensare il pericolo, le sventure, l'odio, la persecuzione che avrebbero a temerne per la loro propria religione, non è credibile che volessero intraprendere tali orribili azioni, cui si oppongono la ragione e l'umanità.
E qui non puossi far a meno di convenire coll'intelligente Basnage nel succitato luogo, ove dice: È da temersi, che anche queste pretese crocefissioni di fanciulli cristiani non sieno state generalmente altro che pretesti per aizzare sovrani e popoli contro gli Ebrei: e più avanti, simili storie gli sembrano molto sospette, perchè sempre congiunte a manifesta crudeltà ed ingiustizia per parte dei cristiani, i quali invece di punire quelli soltanto che in seguito ad una sufficiente investigazione giuridica fossero trovati colpevoli, formavano un processo tumultuario, e innocenti e rei erano tratti a morte, purchè fossero ebrei; che in ogni tempo simili sollevazioni del popolo rendono la cosa incerta, perchè suole dietro una vaga diceria ammutinarsi ed essere causa dell'esecuzione, prima che siasi fatto campo ad un'ordinata investigazione. A conferma di ciò non possiamo a meno di riportare dagli annali di Bzovio ciò ch'è accaduto di simile in Praga nell'anno 1395.
Erasi sparsa voce che dagli Ebrei fosse stato flagellato e crocefisso un fanciullo cristiano, ed il popolo era per questo nel più grande inasprimento; e siccome temevasi che aspettando il ritorno del re Venceslao, che era assente, potesse egli ponderare la cosa ed investigare, specialmente essendosi egli esternato che in mezzo all'ira si deve ricordarsi della clemenza, così senza attendere la di lui presenza si fece un gran massacro, uccidendo quanti Ebrei si incontravano, senza alcuna distinzione e considerazione se fossero rei od innocenti.
Quando da alcuni Ebrei fossero pur commesse tali iniquità non si dovrebbero almeno attribuire all'universalità dei Giudei, in riflesso che non sono commesse in forza dei principii della loro religione, e soltanto come gli altri delitti dovrebbero esserne puniti gli autori, senza ulteriori conseguenze.
Il Dio della verità e della giustizia faccia che in ogni luogo venga ad ognuno fatta giustizia, senza distinzione di persone, e giudichi poi con clemenza i giudici della terra.
Questo nostro teologico attestato e parere è da noi rilasciato in forma autentica, munito del sigillo della nostra facoltà teologica.
Dato a Lipsia nell'8 maggio 1714.
(L. S.) | Decano Seniore, nonchè gli altri dottori
e professori della facoltà teologica presso
l'Università di Lipsia.
Visto, concorda col suo autentico e vero originale in ogni punto e clausola. |
(L. S.) | Tanto certifico io sottoscritto. In fede. Giovanni Sigismondo Tellemann, pubblico notaio per autorità imp. |
(355) Così il testo; ma più correttamente Limneo (Limnaeus), nome col quale era conosciuto Giovanni Wirn pubblicista e storico tedesco, nato a Jena nel 1592, morto nel 1663. Fra le varie sue opere ricordiamo: Juris publici imperii romano-germanici, lib. ix. (Strasburgo, 1629–1632, 3 vol. in-4º), cui son da aggiungersi i 2 volumi di supplemento qui citati col titolo: Additiones (1650–1660), e che costituiscono il primo trattato completo sulla costituzione dell'impero.
C. G.
Lettera dell'Em. Card. Corsini.
A Monsignor Nunzio Apostolico di Polonia.
Varsavia.
“Molt'Illustre e Revmo Sigr come fratello: — Il renditore a V. S. della presente sarà l'Ebreo Giacobbe Selech di nazione Polacco, quello appunto, che fin dall'anno 1758, vivendo ancora il Sommo Pontefice Benedetto xiv, si portò in Roma per umilissimamente implorare in nome della nazione Ebrea di codeste parti caritatevole protezione dalla S. Sede a riparo degli intollerabili aggravi, che, nelle facoltà e nelle persone rappresentò soffrire dai Cristiani la medesima nazione frequentemente incolpata d'omicidii, sulla mal fondata persuasione del volgo, ch'essa, meschii sangue umano, e specialmente cristiano nell'impasto dell'azzime. Il regnante Sommo Pontefice Clemente XIII ha già fatto di questo ricorso diligente disamina, appigliandosi ancora a quelle provvidenze che sono convenienti al merito del medesimo, e che per altra parte giugneranno segretamente a di Lei notizia. Frattanto però ha espressamente ordinato S. S. che debba scriversi a V. S. e se le faccia palese essere Sua intenzione ch'Ella comparta al medesimo Giacobbe ogni più efficace e proficua assistenza, affinchè nel ripatriare non soffra il medesimo alcuna vessazione e molestia di chicchessia, e da quelli massimamente che V. S. potesse credere contro di lui male animati per il ricorso portato al Trono apostolico. In veduta pertanto del Sovrano Pontificio comando apparterrassi alla sperimentata di Lei prudenza l'adoperare i mezzi conducenti alla di lui esecuzione, prevenire chi si deve e compartire all'Esibitore di questa aiuto tale, onde conosca coll'effetto dover egli alla clemenza e pietà di nostro S.re la propria sicurezza e durevole tranquillità. Con che le auguro da Dio felicità”.
Roma, 9 febbraio 1760.
Come Fratello aff.mo
F.o A. Card. Corsini.
Legge ungherese dell'anno 1791.
Art. 38. Per guarentire la sicurezza di questa nazione (l'ebraica) spesso turbata da questo erroneo pregiudizio, la R. Luogotenenza ha ordinato a tutti i Comitati di darsi premura per sradicare dagli animi del popolo, anche il pregiudizio che gli Ebrei usino, nei loro riti, vittime umane, impiegando tutti i mezzi migliori e più adatti alle condizioni locali e giovandosi anche, se fosse necessario, dell'opera dei sacerdoti. Bisogna persuadere e convincere il popolo che questo orribile delitto è contrario alle leggi ebraiche ed agli scritti dei profeti, ripugnante soprattutto a tutto il vecchio testamento sul quale ha base principale la religione ebraica e contrario eziandio ai precetti delle altre religioni. Per conseguenza se da qualsiasi Ebreo venisse commesso un assassinio, anche se risultasse che il delitto fu commesso per animosità religiosa, non si avrebbe nessuna maggior ragione di incolpare l'intera nazione ebraica, di quello che non si avrebbe di incolpare la cristianità se simile delitto fosse commesso da un Cristiano.
Una fanciulla smarrita a Mantova e poi trovata.
Anche a Mantova, nel 1824, si era preteso che gli Ebrei avessero ucciso una ragazza per usarne il sangue nei loro riti. I seguenti documenti varranno a mostrare non tanto la falsità della accusa, quanto il giudizio che di quelle accuse recavano, in tempi non certamente favorevoli agli Ebrei, l'autorità politica e l'ecclesiastica.
I. R. Delegazione di Mantova.
AVVISO.
Da alcuni giorni si è destata qualche inquietudine in questa città.
Lo smarrimento di una fanciulla, che dappoi si rinvenne, diede occasione alla malevolenza d'immaginare dei fatti i più assurdi e calunniosi in odio degli Israeliti, alcuno dei quali soffrì anche delle ingiurie ed offese personali; i colpevoli sono stati all'istante arrestati.
Qualche apparato maggiore di forza che si è trovato di spiegare in questo incontro richiamò la curiosità del popolo, il quale verso sera si affolla intorno alle pattuglie; inceppandone il movimento. Ciò diede già causa a degli inconvenienti, la repressione dei quali è tanto più importante in una fortezza.
A prevenirli quindi si ricordano le seguenti sanzioni penali:
(Omissis)
Dall'Imp. R. Delegazione Provinciale.
Mantova, 12 giugno 1824.
Il Consigliere di Governo Imp. R. Delegato Provinciale
Marchese Benzoni.
Dalla Tipografia Provinciale di L. Caranenti.
S. E. Illma e Revma Mons. Vescovo di Mantova, con lettera pastorale dello stesso giorno, plaudiva ai provvedimenti presi in questa circostanza dall'Autorità politica ed alle ragioni che li avevano inspirati.
Il predicatore di corte canonico Giovanni Emanuele Veith.
L'Illustrirtes Wiener Extrablatt recava nel suo numero 153 del 5 giugno 1882 la seguente notizia:
“Nell'anno 1840 quando gli animi erano eccitati, come lo sono adesso in Ungheria, il celebre canonico e predicatore della cattedrale di S. Stefano, dott. Emanuele Veith, che per il suo zelo religioso era tenuto in altissima considerazione dal principe Arcivescovo di Vienna, Milde, reputò necessario calmare gli animi eccitati. Ricorrendo la solennità dell'Ascensione, l'applaudito predicatore, dinanzi a migliaia di devoti cristiani pronunciò alla fine del suo discorso le seguenti notevoli parole: Voi tutti sapete, o devoti miei ascoltatori, e lo apprendano coloro che non lo sapessero, come io nascessi ebreo e per effetto della Divina Grazia divenissi cristiano, come servissi a questa mia convinzione nelle missioni cristiane, e come in ogni occasione dessi testimonianza alla verità ed obbedendo alla mia vocazione sinceramente pastorale, offrissi, per quanto sapevo ed in tutta coscienza, consolazione e speranza ai fedeli cristiani. E l'eccellente uomo, impugnato il Crocifisso, continuò con voce commossa: E così qui dinanzi a voi, ed al cospetto del mondo intero giuro in nome di Dio e della Santissima Trinità che tutti adoriamo, che la perfida bugia sparsa con perfida astuzia, che gli Ebrei nella solennità delle loro feste pasquali adoperino il sangue di un Cristiano, è sacrilega calunnia; giuro che niente di ciò si trova nè nel Vecchio Testamento nè negli scritti del Talmud che conosco profondamente ed ho attentamente studiati. Così Dio mi aiuti e mi sia indulgente nell'ultima mia ora”.
Il sig. dottor L. A. Frankl cavaliere di Hochwarth, segretario della Comunità israelitica di Vienna, per accertarsi dell'esattezza di questa notizia, si recò dal professore dottor Giovanni Veith, fratello superstite del fu canonico Veith, per ottenere da lui maggiori informazioni. In conseguenza gli venne rilasciata la seguente dichiarazione:
“A richiesta del sig. L. A. Frankl dichiaro esser vero quanto fu detto nell'Illustrirtes Extrablatt del 5 giugno e cioè che il fu mio fratello canonico Giovanni Emanuele Veith si pronunciò alla fine di una predica sull'inesattezza della fiaba che gli Ebrei adoperino pei loro riti pasquali il sangue di un fanciullo cristiano e dichiaro che mi rammento ciò essermi stato detto da mio fratello.
“Prof. Veith m. p.”
N. 15536.
Colla presente dichiaro che il signor dottor medico Giovanni Veith, a me personalmente cognito, dimorante in Vienna ha sottoscritto di suo proprio pugno la firma qui sopra esistente (356).
Vienna, 17 giugno 1882.
Francesco Krischker, m. p.
L. S. | nominato sostituto dell'I. R. Notaio dottor Adolfo Faber con decreto dell'I. R. Tribunale di Vienna, 18 aprile 1882, n. 25074. |
(356) L'originale di quest'atto trovasi nell'Archivio della Comunità Israelitica di Vienna.
Dichiarazione del Professore Molitor.
Nel terzo volume della mia Philosophie der Geschichte (Münster, Heisinger, 1839) avrei avuto l'occasione più adatta di esprimermi scientificamente sulla falsa imputazione adossata agli Ebrei di far colpevole uso di sangue, ma non me ne occupai, perchè ritenni che quest'accusa, la di cui falsità tanto spesso fu provata, fosse troppo avventata perchè valesse la pena di occuparsene, fosse pure per confutarla. Avendomi però il signor L. H. Loewenstein, autore del Damascia, istantemente invitato di esprimere pubblicamente, per onore della verità, la mia convinzione su questo importante soggetto, che pur troppo ha costato negli ultimissimi tempi tante vittime sanguinose, così non esito un solo momento a dichiarare la mia convinzione più coscienziosa.
“Ho fatto, degli scritti dei Rabbini e dei cabalisti, oggetto di uno studio di lunghi anni, e posso lusingarmi di conoscere abbastanza bene tanto la parte casuistica come la mistica dell'ebraismo, e mai mi si è presentato, nè negli scritti dei talmudisti, nè in quelli dei cabalisti, nè in qualunque siasi scritto ebraico, il più lontano motivo di credere a quella sciocca incolpazione lanciata contro l'ebraismo; nè ho mai scoperto la più lontana traccia di una simile tradizione sanguinaria fra gli Ebrei, benchè abbia studiato per lungo tempo le tradizioni ebraiche.
“Per quanto conosco delle leggi ebraiche è affatto impossibile che una tale vergognosa prescrizione possa essere stata introdotta nell'ebraismo, senza distruggere prima affatto la legge mosaica e quella del Talmud. Poichè il Pentateuco proibisce assolutamente e severamente in più luoghi l'uso di ogni sangue, ed il Talmud, secondo la sua abitudine, spinge questo divieto mosaico fino alle conseguenze più estreme, come è provato nello scritto Damascia, capitolo viii, pagine 363–368.
“Io non voglio negare l'esistenza di qualche stupido individuo ebreo, che abbia adoperato sangue umano a scopi magici, ma devo affermare assolutamente, che la magia nera è assolutamente proibita nell'ebraismo, e che nella Bibbia, nel Talmud e nella Kaballah non mi è noto nessun passo che potesse giustificare tali delitti. Se adunque singoli Ebrei commettessero tali delitti, essi agirebbero contro la loro legge, come agirebbero contro la propria i Cristiani, se li commettessero.
“L'incolpazione, che gli Ebrei facciano uso di sangue cristiano nelle loro cerimonie religiose, è un'idea che ha origine dal medio evo, e dimostra una totale ignoranza dell'ebraismo e dei suoi usi mentre ricorda una simile incolpazione, che una volta fu lanciata dai Pagani ai Cristiani, cioè che questi facessero sacrifici umani.
“In tutti i tempi però s'innalzarono nella cristianità potenti voci contro questo pregiudizio basato su di una crassa ignoranza.
“Specialmente i papi Gregorio IX (1235) ed Innocenzo IV (1287), hanno espressamente proibito nelle loro bolle, di perseguitare gli Ebrei per questa favolosa incolpazione.
“Anche il papa Sisto IV si dichiara energicamente contro la calunnia mossa agli Ebrei, e dopo l'istruzione fatta sulla morte di San Simoncino da Trento, che si pretese fosse stato ucciso dagli Ebrei per scopo religioso, proibì lo si santificasse ed ordinò non si molestassero più gli Ebrei di Trento. (Purtroppo se ne avevan già bruciati molti). Il doge di Venezia, Pietro Mocenigo in un decreto del 22 aprile 1475, ed uno Sforza duca di Milano dichiararono innocenti gli Ebrei di questo inventato delitto. Così dichiarò anche l'imperatore Federigo III e dopo lui molti Imperatori romani.
“Il Wagenseil tanto versato e pratico negli scritti degli Ebrei nel suo Unwidersprechlichen Widerlegung, e l'ex-ebreo e poi sacerdote cattolico Sonnenfels nel suo Jüdischen Bluteckel provarono a fondo e incontestabilmente la nullità e la piena falsità della incolpazione.
“Lutero, che non era certo amico degli Ebrei, dichiara (parte xi, foglio 323 ed. Altemb.) questa incolpazione bugiarda e pazza. A questa dichiarazione si unisce anche Basnage nella sua Histoire des juifs (parte vii, cap. xi).
“A questi e ad altri attestati più antichi devesi aggiungere l'esteso parere della Facoltà teologica di Lipsia dell'8 maggio 1714, ed in questi ultimi tempi:
“a) Il predicatore di corte a Vienna Veit. Questo pio sacerdote, ebreo battezzato, prestò dal pulpito, col crocifisso in mano, un solenne e sacro giuramento che nell'incolpazione verso gli Ebrei non vi era una parola di vero.
“b) Il vescovo Dräseke in una dichiarazione (accompagnata da un obolo per gl'infelici) nella Allgem. Zeitung des Judenthums.
“c) G. H. di Schubert, nella sua dichiarazione nella Allgem. Zeitung del 30 aprile 1840. (Damascia, pag. 54, 55).
“d) Il missionario, e già ebreo Giorgio Wildon Pieritz, sostenne quanto a questo riguardo è affermato nel giuramento di purificazione del Rabbino Manasse ben Israel, il cui testo leggesi nello scritto “Damascia” (pag. 237).
“e) Il D. Augusto Neander in Berlino, già ebreo, fece la stessa dichiarazione nella Berliner Zeitung, ed aiutò inoltre nel suo lavoro l'autore della Damascia (Damascia, pag. 104).
“f) Lo stesso fece anche il predicatore e missionario William Ayerst, A. M. (Dam. stesso) che nel suo scritto al Dott. Neander ne lodò l'impresa chiamandolo un “Laudable endeavours.”
“g) Uno dei più caldi ed intelligenti confutatori di questa assurda accusa fu in tempi recentissimi l'altrettanto zelante e costante avversario della religione ebraica Alessandro M. Caul, D. D., il quale dimostra nel suo “Reasons for believing ecc. ecc.”, dedicato alla Regina d'Inghilterra, nella maniera la più irrefragabile come stiano in contraddizione assoluta i sacrifici umani e lo spargimento di sangue, con le dottrine fondamentali dell'Ebraismo. In questo scritto trovasi anche una dichiarazione, firmata da trentacinque Ebrei convertiti al Cristianesimo, che dice che l'incolpazione è “una miserabile e diabolica bugia” (a foul and Satanic falsehood).
“h) Alle fatiche del Dr. M. Caul per la verità e giustizia si associò recentissimamente anche il dotto e intelligente sindaco, dottore in teologia Federigo di Meyer in una dichiarazione, depositata nelle mani del signor L. H. Loewenstein, perchè venisse pubblicata.
“Dopo così numerosi e chiari argomenti, dopo tante ed importanti voci, non mi resta altro a fare che di associarmi assolutamente alla dichiarazione del signor predicatore di Corte Weit e di inalzare con pura coscienza, senza inganno e ritegno le mani all'Onnipotente e di dichiarare e giurare solennemente che io non sono mai venuto a sapere, nè a voce nè in iscritto, o per altra via cosa alcuna che potesse servire di giustificazione all'incolpazione, che gli Ebrei si servano di sangue umano per qualunque cerimonia religiosa; anzi mi consta che agli Ebrei è proibito dalla loro legge nel modo più severo qualunque uso di sangue, e che essi proteggono da ogni contatto, col sangue in special modo, la pasta del Maza (azimo) perchè con tal contatto la Maza cesserebbe di poter essere mangiata secondo le leggi, giacchè il contatto del sangue la fa divenire Chamez (impura).
“Questa dichiarazione l'ho data perchè richiesto, chiamando testimonio l'Altissimo, il Dio della verità e dell'amore e l'affermo e la sostengo, per la pura e genuina verità del mio sapere e della mia convinzione.
“Voglia preservare Iddio i cuori di tutti i Cristiani da questa odiosa incolpazione.
(Firm.) L'autore dello scritto: “Filosofia della storia, o sopra la tradizione nel Vecchio Testamento e la sua relazione alla Chiesa del Nuovo Testamento.”
“Prof. Molitor”.
Si dichiara previa collatione, sub fide notariali, che la suddetta copia concorda col suo originale.
Francoforte sul Meno, 14 maggio 1841.
(L. S.) Fir. Dr. Giovanni Jacob Glöckner
Notaio della libera città di Francoforte.
Consigliere aulico Prof. Dott. G. H. von Schubert (357).
Altrettanto dobbiamo trovar naturale, che l'improvvisa scomparsa del Priore dei Francescani, o, come altri dicono, dei Cappuccini, di Damasco faccia impressione per la tragica natura del fatto, quale venne riferito da molti giornali, altrettanto ci riesce incomprensibile che sia stata fra noi, Cristiani del secolo xix, accettata e discussa una fiaba medioevale barbara ed insensata, posta in giro dai Turchi, sul modo con cui quegli scomparve; per essere cioè stato assassinato dagli Ebrei. Lo scrittore di queste righe, nella sua qualità di viaggiatore cristiano, ebbe occasione di conoscere a fondo gli Ebrei dell'Oriente e può asserire colla maggiore convinzione che quella strana ed atroce invenzione è in aperta contraddizione non soltanto coi sentimenti degli Ebrei dell'Oriente, ma con quelli di tutti gli Ebrei in generale, coi loro antichissimi usi, e coi loro riti religiosi osservati con scrupulosa severità. Per ciò siffatte dicerie dovranno essere poste fra le bugie anche nel caso che la tortura turca strappasse delle confessioni alle sue vittime fosse pure in dieci diversi luoghi, ed anche nel caso che dieci diversi corrispondenti troppo creduli, si facessero a ripetere tale voce per averla udita da altri. Infine chi scrive non può fare a meno di dubitare assaissimo, e ciò fino a prova in contrario, che quell'assassinio sia stato commesso da Ebrei.
(357) Allgemeine Zeitung, 30 aprile 1840.
Narrazione del Reverendo M. Pieritz (358).
Allorchè noi, cioè la Missione di Gerusalemme alla quale ho l'onore di appartenere, udimmo, come gli Ebrei di Damasco soffrissero per effetto della stessa calunnia, tante volte, e specialmente nel xiii secolo lanciata contro di voi, come già lo era stata contro i Cristiani dai Pagani nei primi tre secoli, fu risolto dalla nostra Missione e specialmente dal nostro reverendissimo signor Sopraintendente, che io dovessi subito recarmi a Damasco per dimostrare, coll'aiuto dei Consoli europei, come la vostra religione ben lungi dall'ordinare l'assassinio e l'uso del sangue ne formi espresso e severo divieto, e per ripetere in mio proprio nome lo spaventevole giuramento del vostro celebre Menasse Ben Israel.
Non possiamo da questa distanza decidere se gli Ebrei abbiano o meno commesso un assassinio, ma vogliamo in ogni caso evitare che di questo delitto si faccia colpa all'intera nazione.
Mi si destinò a tale Missione perchè, nato ebreo e versatissimo nelle discipline rabbiniche, senza essere in nessun modo amico o difensore del Rabbinato, ero specialmente designato per testimoniare su tale argomento.
Non voglio descrivere ciò che provai, quando fui a Damasco. Vidi che tutta l'accusa contro gli Ebrei era una cosa artificiale, e che loro si negava ogni onesto e giusto modo di difesa, mentre si impiegavano i più crudeli supplizi per estorcere loro false confessioni della colpa.
(358) Estratto dal suo scritto agli Ebrei di Alessandria. (Vedi Zeitung des Judenthums, 1840, n. 31).
Traduzione del Firmano accordato da S. M. imperiale il Sultano Abd-el-Medijd agli Israeliti del suo impero.
Sulla domanda di Sir Moses Montefiore, membro della Società Reale, ed a lui consegnato a Costantinopoli, da Sua Eccellenza Reschid-Pascià, ministro degli affari esteri della Porta Ottomana, l'11 Hesvan 5601, 13 del mese di Ramazan 1256, corrispondente al 7 novembre 1840.
Firmano indirizzato al Capo della Giustizia a Costantinopoli, in testa del quale Sua Maestà Imperiale ha scritto di sua propria mano le parole seguenti: “Si eseguiscano gli ordini contenuti nel presente Firmano.”
Un antico pregiudizio esisteva contro gli Ebrei. Gli ignoranti credevano che gli Ebrei avessero l'uso di fare dei sacrifizi umani per impiegare il sangue nelle solennità della loro pasqua.
In conseguenza di questa opinione, gli Ebrei di Damasco e di Rodi (sudditi del nostro impero) vennero perseguitati da altre nazioni. Le calunnie inventate contro questi Ebrei, e le vessazioni alle quali vennero esposti, pervennero sino al nostro trono imperiale.
Non ha gran tempo che taluni Ebrei, abitanti nell'isola di Rodi, vennero tradotti a Costantinopoli, dove furono messi in istato di accusa e giudicati in conformità della nuova legislazione. La falsità delle accuse che loro si movevano venne completamente provata. Tutto quanto l'equità e la giustizia esigevano venne fatto per loro.
In oltre i libri religiosi degli Ebrei vennero sottoposti all'esame di uomini istruiti, assai versati nella loro letteratura teologica. Il risultato di questo esame dimostrò essere estremamente vietato agli Ebrei di fare uso non soltanto di sangue umano, ma persino di sangue d'animali. Necessaria conseguenza di questa proibizione è, che le accuse portate contro loro ed il loro culto non sono che pure calunnie.
Per questi motivi, e per l'affezione che portiamo a tutti i nostri sudditi, non possiamo permettere che la nazione ebraica (la cui innocenza nell'appostole delitto venne già riconosciuta) sia vessata e tormentata a proposito di accuse che non hanno nessun fondamento di verità. Ma vogliamo che conforme allo Hatti-scerif (359) promulgato a Gulhanè, la nazione ebraica posseda gli stessi vantaggi e goda degli stessi privilegi accordati alle altre nazioni sottoposte alla nostra autorità.
La nazione ebraica sarà protetta e difesa.
In conseguenza di questo divisamento nostro abbiam dato gli ordini i più positivi perchè gli Ebrei residenti in tutte le parti del nostro impero sieno d'ora innanzi protetti al pari di tutti gli altri sudditi della Sublime Porta, perchè nessuno possa in verun modo molestarli se non per giusta cagione, nè nello esercizio della loro religione, nè in quanto concerne la loro sicurezza e tranquillità.
In conseguenza, il presente firmano rivestito in testa della nostra firma, ed emanato dalla nostra Cancelleria imperiale, venne rilasciato alla nazione ebrea.
Così, dopo aver preso cognizione del presente firmano, voi, capo della magistratura, avrete gran cura di conformarvi strettamente a quanto esso dispone, e per impedire che in avvenire nulla si faccia in contraddizione di quanto esso dispone, lo farete registrare negli archivi del Tribunale. Lo rimetterete in seguito alla nazione israelitica, e veglierete scrupolosamente all'esecuzione dei Nostri ordini e della Nostra volontà sovrana.
Dato a Costantinopoli, il 12 Ramazan 1256 (6 novembre 1840).
(359) Hatti-scerif dicesi in Turchia un'Ordinanza sovrana che porta un segno fatto di propria mano dal Sovrano. È parola persiana, formata da due parole arabe Khatt (linea, scrittura) e scerif (illustre). Hatt-humaiun, anche dal persiano kumaiun (reale), ha lo stesso significato.
L'ultimo processo italiano sul preteso uso del sangue cristiano nei riti ebraici.
Benchè assai, nel corso del presente lavoro, ci siamo diffusi a confutare questa grossolana calunnia, ci sembra non inopportuna cosa consacrare qualche pagina all'ultimo processo cui l'oscena accusa dette luogo in Italia; processo omai dimenticato, benchè ancora gli attori siano vivi, e tanto più importante nel nostro assunto, in quanto che si svolse il 29 settembre 1857 dinanzi all'I. R. Tribunale provinciale di Rovigo, in un'epoca cioè, che non volgeva, nella Monarchia Austriaca, troppo favorevole agli Ebrei.
L'imputata era una tal Giuditta Castilliero, contadina dei Masi presso Badia Polesine; l'accusa quella di calunnia a danno dell'israelita sig. Caliman Ravenna, mediante falsa imputazione di restrizione della libertà personale e dissanguamento.
Ecco come erano andati i fatti. Una bella domenica l'imputata, ragazza dai costumi leggieri anzichè no, dopo aver ascoltata la messa in Badia sparisce, e per quattro o cinque giorni la famiglia non ha più contezza dei fatti suoi.
Quattro o cinque giorni dopo la Giuditta Castilliero riappare, pallida e disfatta, in casa di una sua zia: alla piegatura d'ambe le braccia, sul dorso delle due mani, alla regione d'ambo i polsi la poveretta portava le traccie visibilissime di sei salassi, praticatile da mano, che i periti ebbero poi a dichiarare espertissima in quell'arte di dissanguare il prossimo, allora tanto cara ai figli d'Esculapio.
Chi aveva conciato la poveretta in quel modo?
Ecco ciò che essa narrò alla famiglia prima, all'autorità giudiziaria poi:
Appena escita di chiesa s'era recata in una bottega di ferramenta tenuta in Badia dal sig. Caliman Ravenna per acquistarvi delle forcelle. Trovato chiuso il negozio, fece per entrare dalla porta di casa, da cui per comunicazione interna si accedeva anche alla bottega, ma il proprietario stesso, il quale era in pari tempo esattore dei tributi erariali, la sorprese, l'afferrò e la cacciò in una camera a pian terreno, dove la chiuse a chiave.
La notte la Castilliero venne tolta dal suo carcere improvvisato, cacciata in una carrozza dove già si trovava una signora, e via.
Ommetto le peripezie del viaggio; dopo molto tempo la carrozza giunge in una città ed entra nel cortile di una casa; là la poveretta è tolta di carrozza ed introdotta in una camera ove sta giacente un'altra ragazza a metà dissanguata. Dopo molte e molte ore, durante le quali le due giovani non erano state visitate che da un domestico che aveva loro recato da mangiare, ecco entrare nella camera tre uomini, un vecchio e due giovani, afferrare la giovane Castilliero, praticarle i sei salassi sopra descritti, raccoglierne e pesarne il sangue e poi escire, lasciando la Castilliero sempre prigione, assieme alla compagna. Come il domestico si movesse a pietà delle due prigioniere, e nonchè agevolarla, loro proponesse la fuga, come questa si effettuasse, e la Castilliero e la sua compagna escissero dalla casa, teatro di così esecrabile mistero, io non dirò.
Basti il sapere che una volta fuor di gabbia, la giovane e misteriosa compagna di sventura della Castilliero si ricusa di seguirla, sicchè questa prosegue sola la fuga. Oltrepassa la soglia della città, trova un carrettiere compassionevole che la riceve sul carro, che le dice come la città da cui proveniva fosse Verona e che la conduce a Legnago, da dove poi fa ritorno a Badia.
È facile comprendere come quest'accusa nella quale trovavasi coinvolto uno dei principali negozianti del luogo, commovesse la piccola terra di Badia.
Il signor Ravenna fu arrestato, più forse per sottrarlo al furore popolare che lo voleva morto, che perchè la stolida accusa trovasse credenza nell'Autorità; ed il processo cominciò.
Dal processo apparvero molte e stranissime cose:
1. Che nella camera della casa Ravenna dove la Castilliero pretendeva essere stata prigione, e nelle ore appunto della presunta prigionia, erano entrate almeno mezza dozzina di persone tutte cristiane, e quindi non sospette di complicità col Ravenna in un reato che avrebbe avuto scopo rituale.
2. Che nell'ora notturna in cui la misteriosa carrozza sarebbe uscita dalla casa Ravenna, nessun rumore di ruotabile aveva turbati i sonni dei pacifici abitanti di Badia.
4. Che invece la Castilliero era stata vista, proprio quella domenica, camminar sola e perfettamente libera alla volta di Legnago.
5. Che nei giorni in cui sarebbe avvenuto il romanzesco fatto, la Castilliero si trovava a Legnago, dove si era allogata come domestica presso i signori Ferragù, dalla cui casa era poi fuggita, portando seco quanto aveva potuto rubare ai padroni, per tornarsene a Badia a narrare la sua storiella.
6. Che le più minuziose ricerche fatte in tutto il Veneto dalle autorità non avevano fatto trovar traccia della misteriosa fanciulla, compagna alla Castilliero nella cattività e nella fuga.
Di fronte a siffatte risultanze processuali, il signor Ravenna fu scarcerato e un processo per calunnia e per furto domestico fu iniziato contro la Castilliero.
Costei confessò la calunnia, confessò il furto, ma quando le fu dimostrato che essa contadina ed analfabeta non avrebbe saputo inventare la favoletta, che essa non avrebbe potuto da sola farsi le ferite prodotte dai pretesi salassi, che infine non essendo mai stata a Verona ed avendo descritta con sufficiente esattezza quella città, qualcuno doveva a ciò averla addottrinata, essa si confuse, si contraddisse, inventò alcune favole, una più assurda dell'altra, ma non volle mai nominare i proprii complici.
In seguito a questo dibattimento l'I. R. Tribunale provinciale di Rovigo pronunciava la seguente
Sentenza.
In forza del potere conferitogli da S. M. Apostolica.
L'i. r. Tribunale provinciale in Rovigo, in esito al dibattimento tenutosi nei giorni 29, 30 settembre e 1º ottobre 1856, coll'intervento del presidente Felice dottor Saccenti e dei consiglieri Gio. Battista Ranzanici, Giuseppe Cavazzani, Gio. Battista Munari, Francesco Provasi, quali giudici nella causa penale pei crimini di calunnia e furto in confronto dell'arrestata Giuditta Castilliero di Lorenzo, nativa di Barucchella, abitante ai Masi, dell'età d'anni 23, villica, nubile, difesa dall'avvocato Antonio dott. Farsetti;
Veduto il conchiuso 29 luglio anno corrente, N. 1424, col quale Giuditta Castilliero fu posta in istato d'accusa, come legalmente indiziata dei crimini di calunnia e di furto contemplati dai §§ 209, 171, 176 ii, b, del Codice penale;
Udite le conclusioni e proposte dell'i. r. Procuratore di Stato Gio. Battista consigliere Meraviglia, e le deduzioni dell'avvocato Alessandro dott. Cervesato patrocinatore di Caliman Ravenna per quanto concerne le ragioni di diritto privato, nonchè le deduzioni dell'avvocato Antonio dottore Farsetti difensore ufficioso dell'accusata Castilliero;
Sentita anche l'accusata medesima che ultima ebbe la parola;
Osservato che Giuditta Castilliero ha incolpato Caliman Ravenna di un crimine, e precisamente di pubblica violenza a termini del § 93 Codice penale, avendo giuratamente deposto alla Pretura di Badia e raccontato a più persone che il detto Ravenna nella mattina della domenica 17 giugno 1855 fra le ore 10 e le 11 la avea tratta nel suo locale terreno ad uso esattoria, e colà lasciata chiusa, sola, senza cibo ed assistenza, all'oscuro, fino alle prime ore antimeridiane del dì successivo, nella qual ora la fece escire, e la collocò in un calesse, ove fu poi tradotta in una città che avrebbe poi inteso essere Verona, e le furono praticati dei tagli come di salassi con effusione di sangue ai polsi al dorso delle mani, ed alle braccia;
Osservato che contro Caliman Ravenna per questa incolpazione datagli dalla Castilliero, fu proceduto a giudiziali indagini, ed al personale di lui arresto, che ebbe la durata di 16 giorni;
Osservato che, data la falsità di detta incolpazione, sorge pel sopra esposto a carico di Giuditta Castilliero il crimine di calunnia definito al § 209, Codice penale;
Osservato che tale falsità risulta manifestamente stabilita:
a) per la confessione della stessa prevenuta Castilliero, la quale ritrattò pienamente l'accusa da lei data al Ravenna, e la riversò dapprima sopra uno sconosciuto signore, poscia sopra ignoto carrettiere, dal quale sarebbe stata sedotta a deporre quanto realmente depose a carico del Ravenna;
b) per le deposizioni delli Brusemini, Vanzetti, Brancaleoni, Gabussi impiegati nella esattoria di Alessandro Levi, condotta da Caliman Ravenna, i quali attestano la loro presenza in quel locale, ed escludono quella della Castilliero nella mattina della domenica 17 giugno 1855 fino dopo le ore 11; confermate tali deposizioni da quelle non dissimili di Luigi Dolcemini, Chiara Margutti, Maria Zanella, Giovanni Parisutti;
c) pel deposto di Antonio Fadin, che due volte ricevette in quella domenica nelle ore pomeridiane in detta esattoria da Caliman Ravenna del danaro per conto del dispensiere signor Spech ed esclude che ivi si trovasse alcuna estranea persona;
d) pel deposto di Felice Mantovani e Filomena Chinaglia che assicurano di aver veduta la Castilliero quella domenica a ore 11 circa antimeridiane dirigersi da Badia verso l'ospitale d'onde si procede per la Bova del Zecchino verso Villabona, indi Legnago;
e) pel deposto di Celeste Tosetto ed Antonio Rizzi, che in ora più tarda la videro passare per la detta Bova, e dirigersi verso Villabona;
f) pel deposto di Maria Massari, Marianna Turcatto, Giovanni Ferragù, Teresa De Stefani-Ferragù, Carolina e Marianna Ferragù, Natalina Scapin, e Gaetano Fantoni, i quali attestano dell'arrivo in Legnago della Castilliero nel pomeriggio della ripetuta domenica, e dell'essersi ella colà trattenuta al servizio della famiglia Ferragù fino alla mattina del lunedì 25 giugno 1855;
Ritenuto che la pravità della intenzione è inseparabile dalla falsità dell'accusa, non potendosi ignorare le funeste conseguenze che derivar ne poteano;
Osservato che quanto all'altro crimine di furto, del quale è pure aggravata la Giuditta Castilliero, la prova della sussistenza e della criminosità, trattandosi di furto commesso da donna di servizio a danno del padrone sopra effetti di un importo eccedente i cinque fiorini, sorge dalle deposizioni del derubato Giovanni Ferragù e suoi famigliari, e la prova di reità desumesi dalla confessione della Castilliero avente tutti i requisiti di legge, e dal possesso delle cose rubate;
Visto quanto alla pena i §§ 34, 210, 178, Cod. pen. e
Ritenuto concorrere gli estremi delle lettere a, b, del citato § 210, quindi stare a carico della prevenuta le aggravanti dell'aver commesso due crimini di specie diverse, dell'aver perpetrato il crimine di calunnia con duplice aggravamento di singolare malizia, e di grave pericolo, l'averlo sostenuto con giuramento, mentre la favoriscono la precedente condotta incensurabile, l'età poco al di sopra dei 20 anni, la patita seduzione;
Ha giudicato:
Essere Giuditta Castilliero di Lorenzo, dell'età d'anni 23, nativa di Barucchella, abitante ai Masi, villica, nubile, colpevole dei crimini di calunnia, e furto previsti dai §§ 209, 171, 176 ii, b, Cod. pen.: e come tale viene condannata giusta i §§ 34, 210, 178, alla pena del carcere duro per anni 6, ed al pagamento delle spese processuali a senso del § 331, e colle riserve del § 343, del Reg. di proc. penale; ommesso di pronunciare sul risarcimento del danno a Caliman Ravenna, avendo il medesimo rinunciato all'azione civile verso l'accusata Giuditta Castilliero; restituiti a Giovanni Ferragù gli effetti in presentazione al medesimo rubati.
Contro questa sentenza la Castilliero ricorreva in Appello, non — vi si badi — per ottenere di essere prosciolta dall'accusa di calunnia, ma soltanto per conseguire una mitigazione di pena. Il risultato dell'appello non le fu troppo favorevole siccome emerge dalla seguente sentenza:
TRIBUNALE D'APPELLO VENETO
(Sessione del 5 novembre 1856).
Avendo la Giuditta Castilliero interposto ricorso non già contro la condanna, ma semplicemente per ottenere una mitigazione della pena, il Tribunale d'appello nella sessione suindicata,
Preso in esame il ricorso per mitigazione di pena interposto dall'arrestata Giuditta Castilliero, nativa di Barucchella, abitante ai Masi, d'anni 23, villica, nubile, contro la sentenza 1º ottobre p. p., n. 4247 dell'I. R. Tribunale provinciale in Rovigo, che siccome colpevole dei crimini di calunnia e di furto, la condannò alla pena del duro carcere per anni 6 e negli accessorii di legge;
Visti gli atti processuali;
Vista la sentenza reclamata;
Sentito il signor Procuratore superiore;
Ritenuto che la inquisita Castilliero non ricorre che per ottenere mitigazione di pena;
Osservato che la pena da infliggersi all'inquisita pel crimine di calunnia era estendibile anche fino a 10 anni di carcere duro, a tenore del § 210, Codice penale, in vista massime della spiegata singolare malizia;
Osservato che il crimine stesso si presenta pur aggravato dalle circostanze del pericolo cui fu esposto l'incolpato Ravenna, e dalle altre tristissime conseguenze che ne derivarono o che potevano derivarne;
Osservato che l'inquisita confermò il calunnioso suo deposto persino anche col giuramento;
Ritenuto che la medesima si presenta colpevole altresì del crimine di furto;
Ritenuta per conseguenza immeritevole l'inquisita stessa di ogni mitigazione di pena;
Respinto il ricorso,
Dichiarava
Di confermare la sentenza 1º ottobre p. p., n. 4247, dell'I. R. Tribunale provinciale in Rovigo.
Il resoconto sommario che abbiam dato di questo processo non sarebbe però completo se non lo facessimo seguire da una importante lettera che il dott. Alessandro Cervesato, di Rovigo, l'avvocato cui il signor Caliman Ravenna, costituitosi parte civile, aveva incaricato di sostenere le sue ragioni contro la sua calunniatrice, indirizzava all'Eco dei Tribunali di Venezia.
Eccola tal quale:
Signor Redattore!
Chiudeasi in quest'oggi il pubblico dibattimento nel confronto della giovine Giuditta Castilliero e questo r. Tribunale dovette condannarla per crimine di calunnia a sei anni di carcere duro, sebbene assistita da circostanze attenuanti e meglio ancora da quelle simpatie che durante il dibattimento avea saputo, a fronte delle più sinistre prevenzioni, destare in suo favore colla pacatezza del contegno, colle misurate parole, colle accorte risposte e con tale un'apparenza d'innocente candore da rendere il più singolare contrasto colla scaltrita malizia della quale seppe usare, e con felice successo, dal principio alla fine per fuorviare le più accurate investigazioni.
Ma se indipendentemente dalle ritrattazioni della Castilliero e la mercè delle più irrecusabili testimonianze, risultava a luce meridiana comprovata la piena innocenza del mio cliente Caliman Ravenna, rimaneasi spiacevolmente delusa la pubblica aspettazione sul punto cardinale di un così interessante processo.
Nessuno può dubitare che la favola dalla Castilliero spacciata in odio del signor Ravenna sia stata la fedele parodia di quella antica calunnia che in tempi d'intolleranza e di barbarie venne scagliata contro i figli d'Israele, e la quale, sebbene percossa dai fulmini del Vaticano, compulsata dagli editti de' principi, e smascherata da cento formali processi, non ha però, mai cessato di riapparire a quando a quando, e sempre o quasi sempre prodromo infausto ed esca di sociali perturbamenti.
Dove adunque potea la povera villica ed ignorante attignere quell'assurda fola? Chi le apprese a vestirla con tanta sembianza di vero e con sì minute ed abbaglianti descrizioni di persone, di luoghi, di oggetti da essa indubbiamente non mai veduti ed ignorati? Chi per acquistarle fede maggiore le ha praticate quelle varie incisioni alle braccia, ai polsi, alle mani a modo da imitare i più perfetti salassi? Chi la indusse a propalarla, a deporla in giudizio, a confermarla con suo giuramento? Per quale scopo ve la indusse, se il signor Ravenna non aveala tampoco mai veduta, s'egli non saprebbe indicare un suo personale nemico, se in Badia, ove soggiorna da ben diciott'anni, ha sempre goduto di una intera fiducia e della più conclamata generale estimazione? Chi potea finalmente inspirarle tanta forza di spirito, tanta pertinacia di volontà, e tanta annegazione di sè medesima, nel tenerne occulto l'autore morale, resistendo ad ogni maniera di legittime coartazioni e sfidando, sarei per dire, colla indomata rassegnazione di un martire la vindice spada della giustizia?...
In tali incognite si racchiude il mistero del dramma; dramma tenebroso e che nessuna luce ha ricevuto da un processo, avvegnachè condotto con sì circospetto e paziente amore del vero.
Quale patrocinatore del danneggiato signor Ravenna, ammonito di dovermi attenere a quanto fosse di mestieri per la giustificazione delle sue ragioni di privato diritto, io mi trovai collocato in assai difficile condizione; perchè da un canto il signor Ravenna non volea a patto nessuno associarsi all'accusa nemmanco coll'apparenza di coltivare basse ed illusorie vedute di materiale interesse; e perchè dall'altro canto io non potea spiegare quella più ampia difesa che reclamata quasi era dall'onore di lui e di tutti gl'Israeliti sì crudelmente intaccati da quella falsa imputazione, non che dalla viva rimembranza del corso pericolo da parte del volgo contro essi esasperato; e ciò nella speranza che sì solenne giustificazione avesse potuto farla una volta per sempre finita con un pregiudizio assurdo, immorale e cotanto vituperoso ad un'êra della più progredita civiltà com'è la nostra.
Ella, o signore, conosce assai meglio di me che nessun rito rabbinico ha mai permesso l'uso del sangue, e che anzi gli Ebrei ne hanno in ogni tempo provato tale un abborrimento da tenersene contaminati al solo toccarlo. È notorio che, ben lungi dal cibarsene, respingono essi con orrore le carni degli animali non isgozzati giusta la prescrizione della loro legge, per la tema appunto che una qualche stilla di sangue ne sia rimasta nei visceri o tra le fibre; ond'è che nessun altro popolo ha mai come l'ebreo servito a rigore di lettera il precetto che Dio tramandava per la bocca di Mosè — non verserete sangue; non vi ciberete di sangue; il contravventore perisca. —
Non potrebbe sospettarsi tampoco che quella pratica feroce sia un avanzo di vetuste superstizioni redate dagli Ebrei ne' loro contatti co' gentili cui fossero abituali i riti di sangue, e che sia sorta dal supposto lor odio contro i seguaci di Cristo, mentre depongono in contrario le storie ed i formali processi in più occasioni istituiti.
Ci narra Tertulliano che nei primi tempi di Nostra Chiesa e duranti le persecuzioni ordinate dagl'Imperatori contro i Cristiani, veniano questi accusati di immolare vittime umane, di beverne il sangue, di mangiarne le carni e che quell'ignominiosa incolpazione fu per ben tre secoli l'incentivo di persecuzioni ognora più crudeli. Ma nella storia di quei tristissimi giorni non abbiamo pur cenno che altrettanto siasi detto o sospettato degli Ebrei, sebbene all'imperversare di quella grande rivoluzione religioso-morale dovessero trovarsi in massimo grado inaspriti gli animi, e più facili e sicure le vie della calunnia.
Ella sa pure, o signore, assai meglio di me che, soltanto nel secolo xiii apparve per la prima volta l'accusa che gli Ebrei in date loro solennità versassero il sangue di un innocente Cristiano quale simbolo di espiazione, o ne usassero quale filtro portentoso. Ma se gli Ebrei non hanno infierito contro i Cristiani quando più vivi ed operosi erano gli odii, e quando deboli e percossi i Cristiani dalle ricorrenti persecuzioni avrebbero potuto farlo impunemente, come ammettere in buona logica che sieno stati osi di adottare quella pratica inumana, allorchè di fronte al Cristianesimo per tutto trionfante avrebbero posta in compromesso quell'unica protezione sociale che loro era rimasta in una legge di tolleranza? — Mirando alla coincidenza degli avvenimenti ed all'agitazione religioso-sociale a que' giorni inferita dal bando della crociata per cui pareva che tutto Occidente dovesse, a modo d'immensa valanga, rovesciarsi sopra Oriente, saremmo indotti a sospettare che un qualche fanatico od un qualche ambizioso, a parodia di quel gigantesco movimento siasi pensato di bandire una specie di crociata anche contro gli Ebrei; e nel fatto ebbe la storia a registrare il nome di un certo Rodolfo uomo di gran seguito in Lamagna, il quale pel primo appunto avrebbe tentato in Colonia, Spira, Magonza e Strasburgo di levare la croce contro gli Ebrei. Senonchè Gregorio IX, durante il suo pontificato, con tre Bolle ha proclamata l'innocenza del popolo ebreo, condannando quell'insensata calunnia. Lo stesso Pontefice con suo Breve ne ammoniva i principi cristiani perchè si stessero a buona guardia e non vi prestassero fede. Anche i papi Innocenzo IV ed Alessandro VII fecero altrettanto e dottori della Chiesa e santi insigni presero le difese del calunniato Israele. S. Bernardo tra gli altri scrivendo ad Enrico arcivescovo di Magonza protestava contro il diffondersi di quella vergognosa calunnia e ne deplorava le funeste conseguenze.
È notabile il fatto che tale diceria non sia mai sorta nella Spagna, mentre tutti sanno che in nessun altro paese di Europa furono gli Ebrei sì duramente perseguitati come ai tempi di Ferdinando ed Isabella in quella contrada.
Anche i principi secolari se ne occuparono seriamente, e forti delle decisioni pontificie vollero con formali processure quella calunnia sventare e punire. Abbiamo i bandi dei duchi di Milano e di Mantova, abbiamo gli editti imperiali di Federico III, di Carlo V, di Massimiliano II, abbiamo le decisioni dei senati di Casale e di Venezia; documenti tutti che comprovano la malvagità di quella calunnia per non dire delle molte sentenze proferite in casi particolari da giudici imparziali e competenti e che sono tuttora negli archivi nostri e forestieri. — E qua cade in acconcio rammentare il voto che sopra ricerca del Re di Polonia veniva pronunciato dalla Facoltà teologica di Lipsia nell'anno 1714; voto che, ridondante di dottrina e di erudizione, respinge fin anche il sospetto che con quella pratica brutale siansi mai disonorati gli Ebrei. Io son dell'avviso, che ov'Ella, signore, ne facesse dono a' suoi molti associati in appendice al processo che sta pubblicando colle stampe, non solo presterebbe un ottimo servigio alla verità, ma recherebbe ben anche un raggio di luce a quelle parti del processo che non emersero a sufficienza chiarite.
S'io avessi potuto su questo terreno allargare la difesa, avrei forse conseguito il vantaggio di paralizzare più compiutamente ogni sinistra prevenzione e di rettificare qualche torta idea nei menoveggenti a maggiore presidio e conforto di una casta sociale per molti rispetti onorevole e per illustri notabilità benemerente.
Sarà forse credibile appena dai lontani che in un secolo di tanto senno, di tanta tolleranza e di tanta umanità siasi agitato, e qui tra noi, un processo di quella fatta: tra noi, che governati da sapientissime istituzioni, tolto ogni privilegio di classe e di stirpe, siamo tutti uguali in faccia alle leggi e quasi altrettanti figli di una sola famiglia. — Giova sperare però che le Autorità competenti non vorranno desistere da ulteriori indagini, mentr'è nell'interesse del pubblico ordine e della pubblica sicurezza che l'occulto motore della Castilliero venga scoperto.
Eccole, o mio buon signore, i poveri cenni che le ho promessi quasi a compimento della difesa del signor Ravenna, sarò ben lieto se si compiacerà di usarne a suo grado.
Suo dev. servitore
Allessandro dott. Cervesato.
A questa dotta lettera dell'egregio avv. Cervesato, il direttore dell'Eco dei Tribunali che era, piace il ricordarlo, quel valoroso pubblicista e fervido cattolico che oggi dirige la Gazzetta di Venezia, Paride Zajotti, faceva seguire queste considerazioni sue:
Compiuto il resoconto del dibattimento, col pubblicare l'appendice fattavi dal chiarissimo avv. Cervesato, coi due importantissimi documenti (360) che ne formano per così dire necessario supplimento, resterebbe che ancor noi scendessimo nell'arringo, come, con soverchia fiducia, avevamo promesso nell'imprendere questa pubblicazione.
Ma, obbligati a rimanere entro quella ristretta cerchia che chiamasi la questione legale, non potremmo estenderci a quelle considerazioni e dimostrazioni, che sono suggerite e richieste dalla questione sociale, di cui questo processo non è che un passaggiero fenomeno, senza correre grave pericolo o di entrare in un campo a noi straniero, o di nuocere alla cosa stessa, parlando con un riserbo incompatibile colla fermezza delle nostre convinzioni.
Perciò crediamo più savio partito il tacere, e lasciar parlare per noi l'eloquenza dei fatti, accertati con tutto il rigore delle forme processuali e con quella scrupolosa esattezza, di cui tu testimonio chiunque assistette allo svolgersi di questo dibattimento.
I fatti parlano da sè. Ed è fatto incontrastabile che il primo racconto della Castilliero fu provato falso nel modo più luminoso che si potesse. Diciamo nel modo più luminoso, perchè, lasciando da parte la manifesta sua inverisimiglianza, la falsità ne fu dimostrata oggettivamente e subbiettivamente.
Oggettivamente per mezzo di tutti quei testimoni, i quali coabitando col Ravenna, e dovendo necessariamente aver avuto qualche sentore del fatto, se qualche cosa di somigliante fosse colà avvenuto, esclusero ad una voce qualunque circostanza che potesse avervi anche remota allusione; e per mezzo principalmente della deposizione di Antonio Fadin, che fu nel locale stesso in cui la Castilliero voleva essere stata rinchiusa, e nelle ore in cui doveva essa pure esservi stata; deposizione suffragata e da dichiarazioni d'altri testimoni e dalle corrispondenti annotazioni, fatte, a caso vergine, nei registri dell'Ufficio postale.
Subbiettivamente, per quella serie sterminata di testimoni tutti concordi, benchè appartenenti a varie condizioni della società ed a differenti paesi, i quali con tanta precisione ci attestarono la presenza della Castilliero, ora qua ed ora là, appunto nei varii giorni, in cui secondo il primo suo esame essa voleva essere stata in quella fantastica fortezza, in cui si entra e da cui si esce, di giorno e di notte, in carrozza chiusa senza incontrare una guardia di polizia o di finanza che chiegga conto dei misteriosi passeggieri. E fu savissimo intendimento del Tribunale quello di citare al dibattimento tutti quei testimoni, benchè deponessero su circostanze affatto secondarie, dopo tanta luce di prove, affinchè il numero stesso delle persone, la loro qualità di Cristiani, la franchezza di tante svariate deposizioni, ma tutte coincidenti nell'argomento che interessava, valesse a persuadere i più testerecci.
Dopo tutto questo, che cosa importa se la Castilliero, a cui il parlare a nulla personalmente avrebbe giovato, dacchè il fatto rimaneva in ogni modo ed in ogni caso una calunnia, si chiuse in un inviolabile silenzio, e volle farla da romanzesca eroina, dicendo — nessuno fuorchè lei sapere come la cosa fosse stata — oppure calcolò sui frutti del suo silenzio? Che cosa occorre di più, oltre la prova che il fatto era una menzogna? La spiegazione delle cause, che indussero la Castilliero, e pongasi anche, la condanna dei correi, non avrebbero nè provato maggiormente la falsità dell'accusa, nè persuaso nemmeno uno solo di quelli che credono a tutto, fuorchè a quanto fu provato in questo processo.
Anzi, la specialità delle circostanze che accompagnarono questo caso, ci dà una notevole guida per giudicare di altri fatti consimili in addietro processati, specialmente nei tempi in cui dominava in tutto il suo rigore il sistema inquisitorio. Secondo la massima parte delle leggi, ne' secoli scorsi la deposizione del danneggiato, appoggiata ad una prova qualsiasi del fatto in genere, bastava per applicare all'imputato la tortura; ora qui si aveva la deposizione della danneggiata, che esclusa l'inverosimiglianza del fatto per se stessa, era improntata di tutti i caratteri della veridicità; si aveva una specie di prova del fatto in genere nella sparizione, nei primi momenti inesplicabile dell'odierna imputata, e nelle tracce della scalfitura alle mani ed alle braccia; ora se fossero stati altri tempi ed il signor Ravenna fosse stato messo sull'eculeo, noi vorremmo fortemente dubitare che, frammezzo agli strazi della tortura e col progressivo accrescersi del martirio, egli non avesse, come gli Ebrei di Damasco, tutto affermato pur di sottrarsi agli spasimi.
E quale argomento per la sussistenza del fatto, qual prova si avrebbe potuto dedurre dalla sua condanna? Questa conclusione, a cui è pur forza di venire, fa che, per noi, questo processo, in cui sulle prime le stesse Autorità furono tratte in inganno dal racconto della Castilliero (tanto da ordinare l'arresto del Ravenna), assuma un'importanza storica immensa.
Per chi volesse di più, basti il fatto che in questo processo, il Presidente del dibattimento non reputava nemmeno meritevole di discussione la questione in massima, ed il Pubblico Ministero qualificava l'oggetto dell'accusa della Castilliero quale pregiudizio del volgo.
Paride Zajotti.
(360) Di questi due documenti uno, e cioè il Parere della Facoltà teologica di Lipsia, 8 maggio 1714, fu da noi pubblicato fra i presenti documenti; il secondo che è una dichiarazione del R. Procuratore generale prussiano di Aquisgrana, pubblichiamo qui appresso.
Dichiarazione del R. Procuratore generale prussiano di Aquisgrana.
(Stadt-Aachener Zeitung, N. 82).
Un caso, testè avvenuto nel mio circondario d'Ufficio, e che destò gran chiasso e porse argomento a diversi articoli di giornale, m'induce a pubblicare la seguente notificazione ufficiosa.
Il 6 corrente una donna fece in Jülich a quel funzionario della polizia giudiziaria la denunzia che la sua figliuolina novenne, da lei mandata il mattino a Broich verso le sette, per mendicarvi un po' di pane, era stata assalita per via da un Ebreo e maltrattata nel modo più orribile. La ragazza, colla massima consonanza con un suo fratellino di sei anni, che l'avea accompagnata, depose in ripetuti esami, apparentemente nella massima commozione di animo, che quando fu dietro la contrada di Broich, le venne incontro l'Ebreo di Broich, si siedette, l'afferrò improvvisamente, se la pose sui ginocchi, e poscia, dopo aver estratto un coltello ed averle alzate le gonne, le diede un colpo al bassoventre.
Ed in realtà quelle parti del corpo, ove, secondo l'attestazione della ragazza, sarebbe stato dato il colpo, erano lorde di sangue.
Poco dopo aperta l'investigazione di polizia, condotta con molta diligenza ed avvedutezza, la ragazza, asserentesi maltrattata, vide una coppia di Ebrei che passavano pel mercato di Jülich, e facendo mostra d'essere quasi fuori di se stessa, gridò: “Questo è colui che m'ha ferita!”
Gli Ebrei furono tosto arrestati, e nel confronto coi ragazzi furono riconosciuti da questi colla massima precisione per gli autori del fatto.
La donna ebrea, della quale originariamente non era stato fatto alcun cenno, secondo una nuova dichiarazione della ragazza, le avrebbe coperto il viso, sicchè non potè gridar bene. Nel corso degli ulteriori esami, quei ragazzi deposero altresì che alle loro grida era accorso un vecchio, il quale era stato ammazzato dall'Ebreo col suo coltello, e che gli Ebrei aveano presa la fuga soltanto all'avvicinarsi di altre persone.
Giuntimi gli atti, feci avviare un'istruzione giudiziale, al quale scopo un giudice istruttore ed un procuratore di Stato si recarono il 12 corrente a Jülich.
Il risultato dell'istruzione assunta fu il seguente:
“Una ispezione personale, assunta con tutta esattezza da un impiegato medico giudiziario, coll'intervento anche di un altro medico, sul corpo della ragazza asserentesi ferita, non lasciò scoprire nè una ferita, nè una tumefazione, nè una infiammazione delle parti che secondo la sua dichiarazione sarebbero state lese.
“Gli Ebrei arrestati erano forniti di passaporti in piena regola; essi sostennero di non essere stati in Broich, o sulla via, che da Broich conduce a Jülich, ma di avere dormito nella notte dal 5 al 6 corrente in Aldenhoven (in direzione affatto diversa di Jülich) e di essersi di là diretti a Jülich per la strada postale.
“Tutto ciò fu confermato pienamente dalla deposizione delle gente (cristiana) presso cui volevano avere pernottato e di due gendarmi, i quali nella mattina del 6 aveano scortato degli arrestati da Jülich ad Aldenhoven e per via incontrarono i coniugi ebrei, che provenivano nella direzione di Aldenhoven. Un confronto dei diversi tempi dimostra che gli imputati, al momento dell'attentato loro addebitato, si trovavan distanti dal luogo, ove esso sarebbe stato commesso, per lo meno un'ora, ma con somma verosimiglianza, più ore.
“L'uomo, che i ragazzi indicavano essere stato ammazzato dall'Ebreo, fu rinvenuto facilmente. Egli non aveva alcuna lesione e dichiarò di avere incontrato quei due fanciulli sul luogo dell'asserito maltrattamento, ove piangendo si lagnarono con lui di quanto dicevano essere loro accaduto; egli però, al pari delle altre persone indicate dai ragazzi, assicurò di non avere assolutamente veduto in quel luogo alcuna persona sospetta.”
Ignazio von Döllinger.
Da un discorso tenuto nella solenne seduta dell'Accademia delle scienze a Monaco, il 25 luglio 1881, dal presidente Ignazio von Döllinger, ed intitolato, Gli Ebrei in Europa, togliamo il seguente brano che chiaramente dimostra quale concetto abbia il dotto teologo tedesco sulle accuse che si muovono agli Ebrei:
. . . . . . Abituati ad immaginarsi che ogni Ebreo fosse il nemico nato ed il debitore dei Cristiani, i popoli ritenevano gli Ebrei, in un'epoca in cui si prestava fede volentieri anzi con avidità a cose crudeli e soprannaturali, capaci di qualunque delitto, anche dell'inverosimile ed impossibile. Dopo il 12º secolo corse la fola che gli Ebrei abbisognassero di sangue Cristiano, gli uni dicevano per la loro festa Pasquale, gli altri, come rimedio contro un segreto male ereditario; perciò furono accusati di uccidere ogni anno un ragazzo. Inoltre si diceva ch'essi crocifiggevano ogni anno un Cristiano per oltraggiare il Salvatore.
Se si rinveniva in qualche luogo un cadavere con traccie di violenza, un bambino morto, l'assassino doveva essere stato un Ebreo, e si poneva alla tortura finchè confessava. Seguivano allora crudelissimi supplizi ed in parecchi casi una strage in massa dell'intera popolazione ebrea della città e della campagna. Non c'era neanche idea d'una regolare procedura giudiziaria. I giudici e le Autorità stesse tremavano dinnanzi all'ira del popolo imbestialito; poichè c'era la convinzione che si potessero attendere le più infami azioni da un ebreo. Talvolta era anche un'immagine di Cristo che un ebreo avrebbe trafitta con un coltello o mutilata, ciò che era il segnale d'una strage. Dopo il 1200 si aggiunsero le voci di ostie oltraggiate e miracolosamente sanguinanti. Da Parigi, dove era accaduto il primo caso, la nuova fiaba si diffuse nei paesi vicini, ben presto si volle possedere anche altrove una tale reliquia, e sembrò che gli Ebrei, presi da demonìaco delirio, credessero e non credessero ad un dogma della Chiesa e contemporaneamente desiderassero una morte tormentosa tanto spesso essi cadevano vittime di questi delitti immaginarii.
A Londra gli Ebrei furono uccisi perchè volevano incendiare la grande città.
La gran peste che desolò e spopolò nel 1348 tutta l'Europa fu subito attribuita soltanto agli Ebrei. Il fatto che quel popolo intelligente e che conduceva vita regolare n'era colpito molto meno dei Cristiani, cambiò la supposizione in certezza. Essi avevano avvelenato dappertutto in seguito ad una cospirazione, i pozzi e le sorgenti, e perfino i fiumi. In una città si volle aver rinvenuto realmente del veleno in un pozzo. Posti alla tortura, alcuni Ebrei confessavano il delitto. Scoppiò allora una tale esplosione di fanatismo, di bramosìa di vendetta e di volgare avidità, quale l'Europa non aveva mai veduto prima, nè vide mai dopo. Le vittime in alcune città, si contarono a migliaia. Molti prevennero il furor popolare suicidandosi. Invano il Papa Clemente VI dichiarò in due bolle gli Ebrei innocenti. Coloro che si salvarono con una rapida fuga trovarono un asilo soltanto nella lontana Lituania.
Professore dott. Nöldecke di Strasburgo.
È assolutamente deplorevole che oggi ancora debba esser necessario di respingere sul serio l'accusa che l'ignoranza e la malvagità muovono agli Ebrei di far uso nelle loro solennità di sangue umano e specialmente cristiano. Non soltanto quest'accusa manca di ogni fondamento, ma tale barbarie ripugna a tutti i principii del Giudaismo, sicchè gli Ebrei che avessero commesso un tale misfatto dovrebbero essere assolutamente esclusi dalla Comunità religiosa.
Coloro che credono e divulgano tali fiabe, dovrebbero sapere che siffatte accuse di misteriosi sagrifizi umani, di uso rituale di sangue umano, e di altre simili mostruosità si facevano già in Oriente in tempi antichi ad altre sêtte religiose per ragione di odio confessionale, o per cupidigia di nefando lucro.
Cristiani lanciarono tali accuse verso sêtte cristiane, e dagli scritti sacri dei Mandei (cristiani di San Giovanni) si ricava una orrenda descrizione dei misfatti che i Cristiani in generale commettevano per celebrare la S. Comunione.
Colui che afferma gli Ebrei adoperare sangue cristiano per una solennità rituale si pone al livello degli orientali più abbrutiti dall'odio di religione e dalla superstizione.
Herren Alb (Foresta Nera), 20 agosto 1882.
Dott. Th. Nöldecke
Prof. ordinario nell'Università
Imperatore Guglielmo in Strasburgo.
Professore Dott. A. Merx di Heidelberg.
Essendosi in questi ultimi mesi ripetutamente parlato in diversi luoghi e segnatamente a Dresda ed a Berlino dell'uso che si farebbe dagli Ebrei del sangue cristiano per festeggiare la Pasqua (Pessach) e tale voce essendo stata diffusa per agitare le plebi ignoranti, venni invitato a dichiarare se un tale delitto, designato col nome di assassinio rituale, sia prescritto dalle leggi della religione ebraica. Dichiaro perciò:
1. La legge ebraica proibisce l'assassinio in generale e assolutamente: “Il sangue di colui che spanderà il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo” (Gen., ix, 6) “Non uccidere” (Es., xx, 13).
2. La legge ebraica proibisce l'uso del sangue in generale ed assolutamente: “Chiunque ne mangerà (sangue) sia sterminato” (Lev., xvii, 14). Questo precetto è la principale ragione del rito con cui gli Ebrei uccidono gli animali allo scopo di sbarazzare completamente la carne dal sangue. Da ciò risulta assolutamente falso che gli Ebrei adoperino sangue per preparare la loro focaccia di Pasqua, in caso contrario il precetto generale dovrebbe essere annullato da un precetto speciale.
3. Nella legge sulla festa di (Pessach) Pasqua (Es., xii, 13) non si trova tale precetto speciale e non può trovarvisi, giacchè allorquando fu data questa legge non esistevano fanciulli cristiani; ma al contrario non era permesso uccidere, come pretende la vieta calunnia, nè fanciulli, nè adulti di altra religione. Nell'intiera legge non vi è neppure una parola sulla uccisione di uomini.
4. Nella legislazione della Bibbia non è prescritto per la festa di Pasqua l'uso del sangue di fanciulli cristiani. Nessuno potè trovare un solo passo, il quale provi che l'assassinio rituale sia prescritto.
5. In seguito a ciò l'affermazione, sorta del resto dopo il xv secolo, che gli Ebrei adoperino sangue cristiano per la loro festa di Pasqua, risulta non vera, e non può appoggiarsi a nessun testo della legge ebraica. Quello che la ripete senza addurne prove, ciò che del resto gli riescirebbe assai difficile, e quello che in riunioni pubbliche pretende dimostrare che è basata su fatti, deve essere condannato come un miserabile calunniatore, col quale si deve adoperare il Codice penale.
San Remo, 10 ottobre 1882.
D. A. Merx.
Professore di Esegesi del Vecchio Testamento
nell'Università di Heidelberg.
Prof. dott. Carlo Bernardo Stade di Giessen.
Colui che afferma gli Ebrei adoperare sangue cristiano per una solennità rituale, dà saggio di ignorare assolutamente la storia ed il carattere della religione ebraica.
In qualsiasi modo sia per finire il processo di Tisza Eszlar è fin d'ora sicuro che non potrà mai venir invocato nè contro la religione ebraica, nè contro l'indole degli Ebrei, i fatti di cui sono accusati i macellai di quel paese, essendo ripugnanti all'indole degli Ebrei, e detestati dalla religione ebraica.
Giessen, 10 ottobre 1882.
Dott. Carlo Bernardo Stade,
Professore ordinario.
Facoltà teologica dell'Università di Amsterdam.
La facoltà teologica di Amsterdam è riconoscente ai Rabbini che, adunatisi in Buda Pest il 5 luglio di questo anno, (1882), deliberarono di invitarla a dare il suo parere sopra una vecchia accusa che ora viene nuovamente scagliata contro gli Ebrei.
Essa si crede perciò obbligata di far pubblica la sua disapprovazione contro la diffusione di una asserzione altrettanto infondata quanto pericolosa, ed unendosi al giudizio di tutti gli uomini competenti in siffatta materia, si dichiara profondamente convinta, che in nessuno dei libri religiosi degli Ebrei si contenga la prescrizione di adoperare, per iscopi rituali, sangue umano ottenuto da un assassinio.
La Facoltà teologica dell'Università di Amsterdam,
P. D. Chantepie de la Saussaye, praes.
J. G. D. Martins, cancelliere.
Professore Dott. Carlo Siegfried di Jena.
Chiunque ha voglia di aprire la Bibbia può convincersi che l'accusa che gli Ebrei adoperino sangue cristiano non è che una invenzione di malvagi, accolta soltanto dagli imbecilli, poichè nei cinque libri di Mosè nulla è più severamente vietato agli Ebrei dell'uso del sangue. (Genesi, ix, 4. — Levitico, vii, 26, 27. — Deut., xii, 16, ed altri).
Siffatta accusa, spessissimo ripetuta dall'odio di religione e di razza, non venne in nessunissimo caso provata; anzi coloro che sostennero le polemiche più accanite contro il Giudaismo, o, non appena cominciarono a conoscere gli usi ebraici, lasciarono cadere l'accusa, o, come dice Wagenseil, riconobbero l'impossibilità di sostenerla.
Ogni nuova ripetizione di tale accusa dimostra una imbecillità ed una impertinenza grandissime e costituisce una vergogna pei popoli cristiani che la permettono, una vergogna pei giornali cristiani che ne rimangono spettatori, o mal celano dietro frasi pietose i loro istinti di Caino.
Professore Francesco Delitzch.
Nella questione di sangue venuta nuovamente a galla in seguito al fatto di Tisza-Eszlar ho dato già due attestati che saranno arrivati in Ungheria da Colonia e da Berlino; però non voglio lasciar senza risposta anche il di lei invito giacchè una triplice corda si rompe meno facilmente.
In quei due pareri ho minuziosamente provato il fatto, che nei due Talmud non soltanto non si trova nessuna prescrizione, che ordini o raccomandi l'uso rituale di sangue umano non ebraico, ma che anche nella legge rituale non si può scoprire assolutamente nessun appoggio per questa insinuazione. Essa è una pura immaginazione, un'idea senza fondamento, un parto dell'ignoranza, dell'astio e della menzogna.
La Civiltà Cattolica dell'anno 1881, pag. 731 infinocchia ai suoi lettori, che l'uso del sangue sia una tradizione segreta, che non esiste che a voce e precisamente quale segreto ereditario fra i discreti e fidati. Questo è un nuovo tentativo di salvare la causa ormai perduta dell'accusa, volendo far credere che quello non si può provare quale Halaca (precetto scritto) sia un Minhag (uso) conosciuto solamente dagli iniziati. Ma anche questo tentativo è un peccato contro il comandamento: “Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo.”
In causa della mia relazione colla missione degli Ebrei ho fatto conoscenza da 50 anni con un certo numero di proseliti, ma posso assicurare dinanzi a Dio, che nessuno sapeva qualche cosa di quell'uso assassino. — Tutti dichiararono unanimi una pura invenzione l'incolpazione di sangue.
La pacificazione della Sinagoga colla Chiesa è stata sempre la mèta principale dei miei desiderii. Tanto più antipatico mi riesce ogni tentativo di aumentare l'abisso esistente per mezzo dell'odio di razza antisemitico, ed il vantaggio che gli antisemiti vorrebbero trarre per la loro causa dalla sorte tuttora ignota di Esther Solymossy, il di cui assassino, se essa fu assassinata, sarà non solamente dal punto di vista cristiano, ma anche dal punto di vista ebraico, un mostro che offende il nome di Dio.
Se ella vuole pubblicare questa mia testimonianza, sarò lieto se gioverà a domare la furia scatenata dell'odio che si fa arma di una bugia.
Lipsia, 13 ottobre 1882.
Devotissimo suo
Professore Francesco Delitzsch.
Lettera di S. E. Illma e Revma Monsignor Giorgio Kopp
vescovo cattolico di Fulda
al Rabbino provinciale della stessa città Dott. Chaan.
Fulda, 4 novembre, 1882.
Pregiatissimo signor Dottore,
Assecondando il di lei desiderio, non esito a ripeterle in iscritto la dichiarazione che già varie volte le ho fatto, doversi ritenere una maligna bugia la supposizione, che gli Ebrei abbiano mai usato sangue cristiano per iscopi rituali: tale supposizione non si può provare nè con la religione ebraica, nè con la storia, sicchè devesi respingere ogni accusa di questo genere su qualunque base fosse fondata.
Con perfetta stima, ecc.
Kopp. Vescovo di Fulda.
Ernesto Renan (361).
Parigi, 16 novembre 1882.
Fra tutte le calunnie, generate dall'odio e dal fanatismo, la più assurda è certamente quella per cui si incolpano gli Ebrei di commettere assassinii allo scopo di aver modo di compiere riti sanguinosi. Uno dei tratti più caratteristici della religione ebraica è la proibizione del sangue quale nutrimento dell'uomo. Questa precauzione che era in altri tempi assai adatta ad inspirare il rispetto della vita, venne osservata dal Giudaismo con tutta coscienza, anche quando i tempi e le condizioni della civiltà ne rendevano assai penosa l'osservanza, ed ora si pretende che il pio ebreo, che morrebbe di fame e affronterebbe il martirio piuttosto che inghiottire un pezzetto di carne non del tutto monda di sangue, si nutrisse proprio di sangue in un'agape religiosa! È questa una orribile sciocchezza. Sono convintissimo che non uno dei racconti che parlano di pasti pasquali con sangue ha base reale; se un tal delitto fosse stato commesso, direi che il miserabile che ne fu autore ha violato tutti i precetti dell'Ebraismo; ma io vado più in là e non credo che simile delitto sia mai stato commesso. L'immaginazione umana non è molto fertile nell'inventare calunnie. La fiaba di pasti misteriosi conditi con sangue umano fu sempre artificio tratto in campo per combattere coloro che un cieco pregiudizio voleva rovinare. Questa stessa calunnia fu in altri tempi occasione a deplorabili persecuzioni contro i Cristiani. Eppure è ben certo che la Sacra Cena dei Cristiani non venne mai insozzata da tale misfatto. Altrettanto innocenti sono certamente le pasque ebraiche. Sarebbe degno della cristianità impedire che da questa miserabile bugia, per la quale in altri tempi ebbero tanto a soffrire i Cristiani, si traesse profitto contro altri.
(361) Neue Freie Presse, 24 dicembre 1882.
Discorso dell'Em. Cardinale E. O. Manning
Arcivescovo di Westminster.
Abbiamo detto che gli avversari sistematici degli Ebrei non devono cercarsi nel partito che comunemente si designa col nome di clericale; il seguente discorso pronunciato dall'Em.mo Cardinale Manning (362), in un meeting tenuto a Londra per protestare contro i maltrattamenti cui son fatti segno gli Ebrei della Russia, è la più eloquente conferma delle parole nostre.
Mylord, Signore e Signori,
Ho spesso dovuto proporre mozioni in assemblee simili a questa, ma non ricordo di averne mai proposto alcuna con una convinzione più perfetta della mia ragione, e con un più completo assenso della mia coscienza. Prima di continuare sarà forse miglior consiglio leggervi questa mia mozione. Essa è così concepita:
“Questa Assemblea, pur riconoscendo di non aver nè diritto, nè desiderio di ingerirsi negli affari interni di un altro paese, e pur desiderando che le relazioni le più amichevoli tra l'Inghilterra e la Russia vengan continuate, crede suo debito manifestare l'avviso, che le leggi della Russia che risguardano gli Ebrei, tendono ad avvilirli agli occhi della popolazione cristiana, e ad esporre gli Ebrei russi ai furori di una ignoranza fanatica.”
Io non ho bisogno di dirvi che noi non siamo qui adunati per uno scopo politico. Se vi fosse la menoma traccia di politica, io non sarei qui. È perchè io credo che noi siamo ben al disopra delle passioni e delle lotte politiche, che noi siamo nella serena regione delle simpatie e della giustizia umana che oggi io mi trovo qui. Posso anche dichiarare che nulla è più lontano dalle mie intenzioni — sono convinto che voi siete del mio avviso — che di far cosa che fosse come una infrazione a quelle leggi di pace, d'ordine e di mutuo rispetto che uniscono le nazioni fra di loro o di tentare d'intervenire o d'ingerirsi nella legislazione interna della Russia (applausi). Io sono anche costretto a dichiarare che partecipo di tutto cuore ai sentimenti di venerazione espressi dal nobile Conte [di Shaftesbury] verso la Famiglia Imperiale di Russia. Non si può aver osservato quella famiglia durante questi ultimi anni, non si può pensare alla posizione dell'Imperatore attuale senza provare una profonda simpatia che ci impedisce ogni intenzione di usare una sola parola che possa ferire l'animo dello Czar (applausi). Io posso adunque dichiarare in modo assoluto che non una delle mie parole — e credo poter parlare in nome di voi tutti — si scosterà intenzionalmente dalla venerazione dovuta ad una persona gravata d'una responsabilità così pesante come quella che è toccata in sorte all'Imperatore di Russia. Di più posso dire, pur non volendo toccare alla questione della legislazione interna della Russia, che esistono leggi più forti di tutta la legislazione russa, leggi che sono egualmente imperative a Londra, a Pietroburgo ed a Mosca, — le leggi della umanità, della natura e di Dio, che sono il fondamento di tutte le altre leggi; e se in una legislazione qualsiasi esse sono poste in non cale, tutte le nazioni dell'Europa cristiana, tutta la comunione degli uomini civili e cristiani, avranno all'istante il diritto di protestare apertamente contro di essa (applausi).
Ed ora bisogna che io tocchi un argomento che, lo confesso, mi ha recato molto dolore. Noi abbiamo tutti seguito durante un anno ciò che in Germania si chiama il movimento antisemitico. Io provo, guardandolo, due sentimenti: prima un sentimento d'orrore, perchè tende a rovesciare i fondamenti della vita sociale, poi un sentimento grandissimo di paura, perchè può tendere ad eccitare ancora l'odio che ha già fatto esplosione in Russia e che potrebbe estendersi maggiormente. Ho letto con molto dispiacere un elaboratissimo articolo, pieno, non vi ha dubbio, di osservazioni esatte, scritto in Prussia e pubblicato nel Nineteenth Century, in cui si descrivono le animosità sociali, le gelosie e le rivalità che dominano ora in quel paese. Leggendo questo articolo, il mio primo sentimento fu il dolore di vedere che il potere e la forza dell'Antico Testamento, sieno nel Ducato di Brandeburgo così superiori al Nuovo. Io sono afflitto vedendo che una società imbevuta di razionalismo non abbia abbastanza cristiana dottrina, cristiano potere, cristiano carattere e cristiana virtù, per rendere impossibile che il popolo ebreo per quanto sia colto, raffinato, laborioso ed energico, faccia tremare la società cristiana di quel grande Regno. Ho letto, del pari con dolore, le narrazioni sulla condizione degli Ebrei russi e le accuse di cui sono l'oggetto. Se vi accenno prego i miei amici israeliti che mi ascoltano di credere che le respingo con incredulità e disgusto. Leggo che la causa degli avvenimenti in Russia, è che gli Ebrei fanno dei mestieri infami, che sono usurai, immorali, demoralizzatori e non so che altro ancora. Leggendo quelle accuse io mi chiedevo: l'oltraggio è forse un rimedio? Si potranno forse guarire con l'oltraggio, l'assassinio, le abbominazioni di ogni specie? Non imitano essi quelli che dovrebbero insegnar loro una morale più alta? E dato pur fosse vero, locchè non credo, che essi fossero in queste condizioni, non gravitano forse su di loro leggi deplorevoli? Vi ha cosa che maggiormente avvilisca gli uomini che il precludere alla loro energia, alla loro intelligenza, alla loro industria, tutte le carriere onorevoli della vita (applausi). Vi ha cosa che maggiormente degradi od irriti l'uomo che il dirgli: “voi non potete andar oltre questo limite — voi non potete accostarvi a più di quindici miglia da questo confine; — voi non potete dimorare in questa città — voi siete costretto a dimorare in questa provincia?” (applausi). Non so se vi sia qualcuno che possa credere che tutta la popolazione non sia colpita in fondo all'anima da tali leggi, e se è possibile il renderla peggiore questo è certamente il modo di riescirvi. Si fanno questi rimproveri agli Israeliti russi. Perchè non si fanno anche agli Israeliti tedeschi? Gli autori del movimento antisemitico confessano essi stessi che gli Israeliti in Germania sono superiori ai loro concittadini (applausi). Perchè simili accuse non si muovono contro gli Israeliti francesi? (applausi). Vi ha una carriera di utilità pubblica, una via di onore civile o militare nella quale gli Israeliti non abbiano camminato a fianco dei loro concittadini? Se queste accuse si fanno agli Israeliti della Russia, chi vorrebbe farle a quelli d'Inghilterra? (vivi applausi). Per rettitudine, coltura, generosità, carità, per tutte le grazie e per tutte le virtù insomma che abbelliscono l'umanità, dove si troveranno, io lo domando, esempi più brillanti, più pieni della vera grandezza umana, che in questo ramo della razza ebraica? (Applausi immensi. Una voce grida: Grazie!).
Ed ora ci si dice che non devesi prestar fede alle narrazioni di quelle atrocità. Io domando se nei giornali del continente si stampassero lunghe e particolareggiate narrazioni di omicidii, di rapine e di altre atrocità commesse nelle parti le più frequentate di Londra, se si asserisse che il Lord Maire vi ha assistito, che la polizia è rimasta inoperosa, che le guardie della Torre hanno fatto causa comune colla folla, voi o Mylord [il Lord Mayor di Londra, che presiedeva all'adunanza], ringraziereste, credo, chiunque vi fornisse occasione di smentire simili racconti. Ebbene io dico che noi, con quanto facciamo, rendiamo un gran servigio alle Autorità ed al Ministero russo, e credo che ciò sarà una consolazione pel gran principe che regna su quel vasto impero (applausi). Ma supponiamo un istante che queste cose siano vere — ed io non appoggio la mia ipotesi della credibilità di quei fatti su quanto ne stamparono il Times o la Pall Mall Gazette che se ne è resa garante. — Io ne ho delle prove in mano (applausi). Donde le traggo? Da un documento ufficiale del Ministro dell'Interno, il generale Ignatieff. Nella mozione che io vi ho presentato si parla delle leggi della Russia rispetto ai sudditi Ebrei. Io non pretendo esser giurista nel diritto inglese ed ancor meno nel diritto russo; io non pretendo decidere ciò che siano su questo punto le leggi della Russia, e non saprei che dire su questa mozione, se non avessi in mano un rescritto di una grande importanza. Spero che non lo si dirà falso. Queste orribili atrocità durarono i mesi di maggio, giugno e luglio. In agosto comparve questo documento. Comincia coll'affliggersi e col desolarsi, ma di che? Delle atrocità forse che furono commesse contro gli Ebrei, sudditi dello Czar? Oh no! ma bensì della triste condizione dei Cristiani nelle provincie meridionali. Poi dice che la principale causa di questi movimenti e tumulti, come li chiama, ai quali la nazione russa era sino ad ora rimasta straniera, è una causa commerciale; continua dicendo che la condotta degli Ebrei provocò delle proteste da parte del popolo il quale manifestò la sua indignazione; ed in che modo? lo si crederebbe? colla violenza ed il saccheggio. Infine il Ministro dell'Interno ci dice che il paese è esposto a dei segreti intrighi, che sono, come è noto, la vera causa dell'agitazione. Se la forma di questo documento è calma, la rettorica e le insinuazioni vi sono incendiarie, ed io duro fatica a comprendere come il popolo Russo, avuto questo rescritto nelle mani, non siasi trovato incoraggiato a continuare nelle sue violenze (applausi). Il documento continua e dice: “Abbiamo nominato una Commissione per eseguire un'inchiesta...” su che? Prima di tutto “sui mestieri esercitati dagli Ebrei che arrecano nocumento agli abitanti delle rispettive località;” in secondo luogo — prego l'Assemblea di volerlo ben notare — “sulle cause che impediscono l'applicazione delle leggi esistenti, che restringono i diritti degli Ebrei di comperare e condurre terre, di darsi al commercio dei liquori ed all'usura;” in terzo luogo “sulle modificazioni da introdursi in queste leggi perchè gli Ebrei non possano più eluderle, e sull'esame delle nuove leggi che sarebbero necessarie per metter fine alla loro perniciosa condotta.” Finalmente oltre le risposte a tali questioni dovevansi riunire notizie: 1º sull'usura esercitata dagli Ebrei nei loro affari coi Cristiani, nelle città, borghi e villaggi; 2º sul numero delle osterie; 3º sul numero delle persone attualmente al servizio degli Ebrei; 4º sull'estensione dei loro terreni ed infine sul numero degli agricoltori ebrei. Ecco dunque le leggi russe concernenti gli Ebrei dell'Impero. Io vorrei chiedere qual rimedio sia possibile per una popolazione sottoposta ad un simile regime. Forse nell'accrescimento delle penalità? o nella incapacità di possedere terreni? o nella proibizione di mandare i giovinetti israeliti negli stabilimenti d'istruzione superiore? Tutto ciò venne fatto. Ma io credo che il rimedio sia in questi due provvedimenti: primo, l'applicazione formale della legge cristiana in tutta la sua intierezza. Non è con simili leggi che i Cristiani hanno guadagnato il mondo ed acquistato il regolare potere di amministrare la giustizia fra gli uomini, e non sarà che con leggi diverse che il gran potere imperiale della Russia riunirà la popolazione dell'impero ai suoi sudditi israeliti (applausi). L'altro rimedio è la condanna severa e rigorosa di tutti i malfattori, unita alla concessione, del paro ferma, di tutti i diritti che la legge naturale e divina accorda ad ogni uomo. Ciò è necessario per proteggere la vita e le persone, la loro sicurezza ed i loro beni, ciò costituisce la libertà umana, tutto ciò — e nulla di meno — è necessario per prevenire i mali di cui si lagna il Ministro dell'Interno.
Voi avete parlato, o Mylord, con gran fiducia dei risultati che vi attendete da questo meeting. Non facciamoci soverchie illusioni. Se ci immaginiamo che esso ponga fine alla questione, sicchè dopo potremo tacere, temo che l'effetto non sarà quale lo desideriamo. Ma non scoraggiamoci neppur troppo. Son d'avviso che in tutta l'Inghilterra, posso dire in tutta la Gran Brettagna, questa Assemblea troverà eco (applausi). Manchester e Birmingham hanno già cominciato e dovunque si parla inglese, si saprà ciò che oggi fu qui detto con tanta eloquenza. Io credo che in questo momento un simile meeting sia adunato a New York (applausi). Ciò che qui si dice verrà tradotto in tutte le lingue d'Europa, e la voce di quanto abbiam fatto varcherà anche i confini della Russia. Nè si potrà trattenerla, più di quanto si possa trattenere la luce e l'aria in qualsivoglia parte del mondo dove sianvi sentimenti umani, le dichiarazioni fatte qui ed altrove troveranno un'eco che contribuirà a por fine a queste orribili atrocità.
Non ho più che una parola a dire. Ho tentato di trattare questa questione con un modo giusto e calmo. Ho parlato della importanza di una giustizia politica eguale per tutti, arrossirei di terminare senza dire una parola di quanto deve risvegliare fortemente le simpatie cristiane. Vi ha un libro, che è proprietà comune della razza di Israello e di noi Cristiani. Questo libro ci stringe in un vincolo comune, ed in quel libro io leggo che il popolo di Israello è il più antico popolo del mondo. La Russia, l'Austria, l'Inghilterra non datano che da ieri in confronto di questo popolo imperituro che — con una inesauribile vitalità, con tradizioni immutabili, colla sua fede in Dio e nelle leggi di Dio, disperso su tutto il globo, passando a traverso il fuoco senza bruciarsi, trascinato nel fango senza insozzarsi — è ancora qui in mezzo a noi, come un testimonio ed un avvertimento. Noi abbiamo con lui un patto di fraternità. Il nuovo Testamento ha nel vecchio la sua base. Gli Ebrei accettano la metà delle credenze per cui noi daremmo volentieri la vita. Confessiamo adunque che essi sono uniti a noi in una simpatia comune. Io leggo in quel libro queste parole: “Io sono infiammato da un gran corruccio contro le nazioni possenti e ricche, perchè io era un po' irritato contro Israele ed essi aumentarono la sua afflizione.” Ciò vuol dire: “Il mio popolo era disperso; ha sofferto disgrazie inaudite ed inconcepibili, e le nazioni che erano potenti, che erano ricche e che avevano il potere, lo hanno colpito ed hanno aumentato l'afflizione di cui già soffriva.” Io spero non vi sia in tutta Inghilterra una persona che si dica civile e cristiana che possa avere il cuore di accrescere con una sola parola le sofferenze di questo popolo così grande, così antico e così afflitto, ma spero che coi nostri sforzi, colla nostra parola, colla nostra preghiera, faremo quanto è in noi per diminuire, se è possibile, quelle atrocità od almeno per non associarvisi mai. (Lungo scoppio di applausi).
(362) L'Eminentissimo Manning figurava coi principali personaggi della Chiesa Anglicana e col fior fiore della Società londinese fra i promotori del Meeting.
Il giornale SION e l'opinione di un Archimandrita greco.
Col titolo di Sion si pubblica da circa quattro anni in Atene, in lingua greca, un importante periodico ebdomadario, il quale si occupa particolarmente di Sacra letteratura, di religione e di scienza biblica. Ne è Direttore il rev. Archimandrita D. Latta, cui, ci si assicura, attende un alto posto nell'episcopato greco-scismatico.
Nel numero 29 giugno (v. s.) 1883 questo giornale conteneva un ammirabile articolo ispirato a vero sentimento di religione e di carità, dove dopo aver posto a nudo le inique trame che dettero origine al mostruoso processo di Tisza Eslar, passa a dimostrare, quanto sieno ingiuste le persecuzioni di cui in ogni tempo furono vittime gli Israeliti e specialmente quelle occasionate dal preteso uso del sangue cristiano nella celebrazione del loro rito pasquale.
“Questa, scrive il succitato giornale, è una grossolana menzogna, una mera calunnia. Infatti sono molti secoli che di quando in quando si sparge la voce che gli Ebrei commettono un tale atto, e quindi si sollevano torbidi, si agitano le popolazioni, si consumano massacri ed uccisioni di Ebrei; ma dopo alcun tempo, succeduta la calma, si prova che tutto non fu altro che menzogna, e la tragica rappresentazione termina col solito vocabolo turco Giaglis (errore).”
Ci è impossibile riprodurre l'intiero articolo, che consta di ben cinque compatte colonne, ne daremo quindi soltanto un altro brano:
“La Sion compie un dovere cristiano esortando i Cristiani tanto Greci, quanto Rumeni, Russi ed Ungheresi ed in generale i Cristiani di qualunque nazione, a cessare da queste odiose calunnie contro gli Ebrei. Fu già epoca in cui gli stessi Cristiani trovavansi presso i Romani in una condizione di avvilimento simile a quella in cui si trovano oggi gli Ebrei rimpetto ai Cristiani! Sapete che cosa fecero a quell'epoca gli idolatri per isterminare i Cristiani? Calunniarono questi presso l'imperatore Antonino, di scannare uomini, mangiarne le carni e berne il sangue nelle loro cene. Ed appoggiarono la loro calunnia sulla voce sparsa che i Cristiani raccogliendosi per adorare il loro Dio fanno sacrifizi e mangiano del corpo e del sangue del loro liberatore Gesù Cristo.
“Intorno a quell'ingiusta calunnia che valse ad eccitare l'ira dell'Imperatore contro i Cristiani, e che costò un numero considerevole di Martiri, San Giustino, filosofo e martire, scrisse un'apologia all'Imperatore, nella quale prova l'insussistenza di questi pretesi sagrifizi umani che a carico dei Cristiani furono denunziati. A quest'apologia dell'insigne filosofo cristiano, noi rimandiamo chiunque desiderasse conoscere i particolari della ignominiosa accusa. Ma se gli idolatri agivano in tal guisa contro i Cristiani d'allora, è forse lecito a noi Cristiani, la generazione eletta, il reale sacerdozio, la gente santa a cui fu commesso di predicare la virtù di Colui che ci chiamò dalle tenebre alla sua meravigliosa luce, è forse lecito a noi ordire tratto tratto simili calunnie, e promuovere scene sanguinose, agitazioni sociali a danno di una nazione, la quale sopportò coraggiosamente ogni male per mantenersi fedele alle sacre sue tradizioni? — E andando più avanti diremo: Lice a noi di sollevarci contro una nazione che fu l'origine della nostra redenzione, che per secoli faticò, pregò, sacrificò per far discendere Iddio all'uomo . . . . . ”
In seguito a questo articolo il Rabbino Maggiore di Corfù, un dotto e valente nostro compatriota, il prof. Levi, avendo indirizzato al Rev. Latta alcune parole di gratitudine, ne ebbe in risposta la seguente lettera che riproduciamo, traducendola, da un supplemento del giornale israelitico, Il Mosè, che vede la luce in Corfù:
“Reverendissimo signor Gran Rabbino Levi,
“Abbiamo letto con animo grato e con soddisfazione la lettera del 4 luglio che ci indirizzaste da Corfù, ed abbiamo rese grazie a Dio per il progresso, che, mercè il divino aiuto, ha fatto in questi giorni di luce e di civiltà, il vero spirito di religione.
“Vi siamo cordialmente grati per i sentimenti nobili ed amorosi che, obbedendo all'impulso del cuore, avete manifestato verso di noi, perchè abbiamo scritto un articolo contro le calunnie, notoriamente false, ed assolutamente infondate che vengono diffuse nel mondo cristiano contro la nazione israelitica. Noi, reverendissimo signore, scrivendo in quella guisa non facemmo, sappiatelo, che servire da umili sacerdoti la cristiana religione. La storia della umanità chiaramente prova che molteplici superstizioni secolari, errate credenze, false e bugiarde tradizioni, hanno tanto influito sullo spirito dell'umanità da ridurla per molti secoli bassa e cieca serva di principii falsi e dannosi. Ma il nostro Gesù Cristo ha giustamente proclamato primo e fondamentale scopo della sua venuta in terra, esser la liberazione dell'umanità da questa servitù, liberazione che ha conseguita infondendoci la coscienza della verità. E conoscerete la verità e la verità vi francherà. (S. Giov., viii, 32).
“Ogni superstizione, ogni falsa tradizione, ogni fallace credenza è assolutamente nemica della verità cristiana e tende, per conseguenza, a distruggere il grande scopo che il Cristianesimo si propone di raggiungere in questo mondo.
“È perciò, reverendissimo, che noi, che siamo nelle file dei sacerdoti della religione, abbiamo il dovere di lottare con tutte le nostre forze ed a prezzo di qualunque sagrifizio contro la menzogna e di procurare il trionfo della verità. Ora abbiamo sempre affermato colla parola e colla penna e sempre affermeremo, sino a che avremo vita, esser menzogna, infame, vergognosa menzogna, atta soltanto a dissolvere i vincoli della sociale convivenza quella che si diffonde nella Cristianità, e cioè che gli Ebrei uccidano i figli dei Cristiani per raccoglierne il sangue.
“Vi dichiariamo infine, reverendissimo, che è per noi cagione di vivo e costante dolore il vedere come coll'imperdonabile pretesto di apparenti differenze religiose, si tenti di promuovere dissidii fra due nazioni che si resero egualmente benemerite della umanità, l'una l'ebraica, pregando in Gerusalemme per far discendere Iddio nell'uomo, l'altra la greca, filosofando in Atene per rialzare l'uomo sino a Dio.
“Ci è grato per altro di constatare come, in questi ultimi anni, tali ingiustificabili dissidi sieno divenuti rarissimi e tendano quasi a scomparire.
“Non ci è dato intendere come la fondamentale differenza religiosa che ci separa, e che, come è noto, consiste in ciò soltanto che voi Israeliti proclamate non esser ancora venuto il Messia, possa impedire agli uomini delle due nazioni di vivere d'amore e d'accordo fra loro in qualunque paese si trovino. Questa concordia sembra a noi tanto più necessaria che Dio stesso ha detto agli Israeliti: “Voi mi sarete un tesoro riposto d'infra tutti i popoli . . . . . e mi sarete un Reame sacerdotale e una gente santa.” (Es., xix, 5, 6), mentre poi lo stesso Dio comparso nel mondo sotto spoglie umane disse a noi Cristiani: “Ma voi siete la generazione eletta, il real sacerdozio, la gente santa, il popolo d'acquisto” (i. Pietro ii. 9).
“Facciam voto infine di tutto cuore, reverendissimo, e speriamo lo facciate voi pure che Ebrei e Cristiani, compreso il vero spirito della loro religione, abbandonino per sempre gli imperdonabili odii e rifuggano, con ogni maggior studio, da dar causa a queste lotte, dissidi o differenze religiose vivendo reciprocamente d'amore e d'accordo, siccome conviene sopratutto oggi a popoli che pretendono far parte del civile consorzio.
“E con questo amorevole sentimento vi abbracciamo, reverendissimo, e confidando che i nostri desiderii si realizzino vi confermiamo i sentimenti della nostra considerazione.
“Atene, 11 luglio 1883.
“L'Archimandrita
“Dionisio Latta.”
La questione semitica in Russia
esposta dal principe Demidoff di San Donato.
Crediamo non inopportuno dar luogo, fra' documenti, alla seguente memoria del principe Demidoff, sulla questione semitica in Russia.
“Il movimento popolare antisemitico verificatosi in questi ultimi tempi, sotto diverse forme e con notevole insistenza, ha di nuovo messo sul tappeto la così detta questione semitica.
“La nomina di un presidente della Commissione incaricata dell'esame di un così grave argomento, fa sperare che la questione sia per avviarsi verso una soluzione regolare, soluzione che dovrà essere tradotta in atto con lo allontanamento di tutte le condizioni anormali in cui si aggira l'esistenza degli Israeliti, sia sotto il punto di vista politico, sia sotto l'aspetto sociale. Il che costituisce appunto il nodo della questione medesima.
“Uno dei caratteri essenziali e distintivi della situazione fatta in Russia alla popolazione israelitica è l'impossibilità in cui si trovano i sudditi appartenenti alla religione ebraica di trasportare liberamente il proprio domicilio al di là dei confini assegnati per la loro dimora. In virtù di questa legge restrittiva, la quasi totalità del contingente israelitico, che ascende a circa tre milioni di abitanti, si concentra nei Governi del Nord e del Sud-Ovest. E la forzata agglomerazione sopra un territorio relativamente ristretto, nonchè la concorrenza per procacciarsi i mezzi di esistenza, derivata da questa agglomerazione medesima, mettono gli abitanti israeliti in critica quanto penosa condizione, obbligandoli in certo modo a transigere sulla scelta dei mezzi che possono assicurare la loro sussistenza.
“Ognuno conosce la miseria, talvolta straziante, che stringe la grandissima maggioranza degli Ebrei russi; ed è appunto da questa miseria che provengono, come conseguenza naturale, quei fenomeni economici mostruosi, che indignano il mondo civile, quali lo sfruttare con ogni mezzo la popolazione indigena, l'usura e molti altri frutti riprovevoli ed odiosi dei costumi israelitici.
“Qualunque provvedimento repressivo riescirà sempre inefficace a sradicare questi mali, i quali non possono essere soppressi che col mezzo di una non interrotta e coordinata sequela di riforme sostanziali nella esistenza degli sfruttatori, non che in quella degli sfruttati. La diffusione della istruzione, l'impianto del credito rurale, la diminuzione delle imposte e dei balzelli di ogni specie, e nello stesso tempo l'abolizione di quelle leggi antiquate, restrittive e convenzionali, che vietano agli Ebrei la libertà di azione per procacciarsi i mezzi di esistenza, ecco dove bisogna cercare il rimedio ai mali deplorati, con fondata speranza di guarigione.
“Il solo fatto di permettere agli Israeliti, di eleggere il loro domicilio dove meglio loro talenta, basterebbe a rendere più regolari i rapporti anormali fra Ebrei e Cristiani, nei Governi del nord e sud-ovest, inquantochè ciò sarebbe come il lasciare libera l'azione a quella fondamentale legge economica, conosciuta sotto il nome di legge della domanda e della offerta. Tanto più che questa specie di domicilio coatto imposto agli Israeliti non vieta che, in tutto il rimanente del territorio russo, l'usuraio indigeno e nazionale, conosciuto sotto il nome di Kulak, cioè pugno, e che non ha nulla da invidiare all'usuraio ebreo, non compia liberamente le sue alte gesta, quando gli se ne presenta l'occasione.
“I provvedimenti che saranno messi in opera onde garantire il contadino da tutte le forme che riveste l'usura, devono essere di tal genere da condurre seco l'abolizione di questo flagello.
“Ma la questione che esaminiamo ha un altro lato non meno grave e deplorevole.
“Quell'indeterminato sentimento di odio e di disprezzo contro gl'Israeliti che si osserva nel popolo russo, è senza dubbio motivato da quel pregiudizio, tramandato di generazione in generazione, e di secolo in secolo, che si basa sulla differenza della religione, e che al giorno d'oggi, più che mai, ha perduto qualunque ragione di essere.
“E se devesi rimpiangere che nessuno cerchi di sradicare questi pregiudizi, diffondendo nel popolo una razionale spiegazione delle leggende e dei fatti storici, molto più è da deplorarsi che si voglia mantenere questo stato di latente ostilità per mezzo della ineguaglianza civile, che mette gli israeliti in una condizione inferiore a quella di tutti gli altri cittadini dello Stato. Da ogni parte si innalzano mormorii contro lo spirito di corpo e la solidarietà degli Israeliti, contro il loro isolamento dal resto della nazione, contro il loro cocciuto dogmatismo religioso, che li allontana dal consorzio umano, ecc. Ma non è egli anche da chiedersi se possa essere altrimenti, dal momento che si mantengono tutte le condizioni anormali che accompagnano la loro esistenza?
“E questo isolamento degli Ebrei non potrà cessare che se la nostra legislazione si occuperà seriamente di metterli in posizione meno umiliante di fronte a noi, sopprimendo qualunque restrizione ai loro diritti di cittadini; altrimenti non solo l'odio contro gl'Israeliti non verrà sopito, ma dovrà forzatamente scoppiare sempre con crescente violenza.
“L'unificazione reale di tanti e così variati elementi che compongono la popolazione russa, non è possibile se non a patto di vedere istaurato un sistema di grande libertà civile e di assoluta eguaglianza nei diritti e nei doveri di ogni cittadino. È soltanto per mezzo di questi due potenti motivi e livellatori della vita pubblica, che si potranno cancellare le differenze di razza e di religione, differenze che non hanno nessuna significazione per lo Stato; è soltanto con tali fattori che si potrà creare la solidarietà dei pubblici interessi, nonchè l'unione effettiva di tutta una vasta contrada.
“E siccome in questo processo di assimilazione di popoli diversi, la nazionalità che avrà la supremazia sarà sempre quella che si troverà essere la più forte e per il numero e per il grado del suo sviluppo morale, così è da ritenersi per certo che la russificazione effettiva, non quella apparente, di tutti gli abitanti dell'Impero, non potrà aver luogo che quando la Russia saprà atteggiarsi di fronte agl'Israeliti come messaggera di principii nuovi, differenti da quelli che furon loro creati dalla loro esistenza antecedente all'epoca in cui essi furono totalmente allontanati dalla vita pubblica del paese.
“Ecco cosa osserva Macaulay, a proposito della elargizione dei diritti politici e civili agli Israeliti in Inghilterra:
“— Quando la società gode del benessere nella vita, un contratto naturale ed inevitabile fa nascere spontaneo il sentimento del patriottismo nella mente dei cittadini, i quali sanno com'essi devono e il benessere e i piaceri dell'esistenza al luogo che li unisce in un compatto sodalizio. Ma sotto un Governo dispotico e partigiano questa fusione di idee non può avere il significato che avrebbe avuto con un miglior ordine di cose. Gli uomini sono costretti a cercare nel seno del loro partito quella protezione ch'essi avrebbero dovuto trovare nelle leggi del paese loro; questo ha per conseguenza logica e necessaria di far rivolgere verso il partito quei sentimenti che dovrebbero essere dedicati alla patria.”
“Noi, in Russia, abbiamo cura di sequestrare gl'israeliti dal rimanente della popolazione, e poi ci meravigliamo se scorgiamo nei primi una riluttanza spiccata contro ogni tentativo di assimilazione o di unione. La causa della scissura e dell'odio è dunque in noi medesimi, ed è dal nostro seno che bisogna estirparla.
“Se il Governo non vuole riconoscere gli Israeliti quali cittadini proprii ad esercitare tutti i diritti accordati agli altri, e se egli li subisce solamente come un male inevitabile non vi è da aspettarsi, da parte di questi paria, sentimenti diversi da quelli ch'essi nutrono per noi.
“In un caso analogo al nostro possiamo prendere esempio dalla Francia, la quale ci prova come in certe date condizioni gli Ebrei possono divenire, quanto altri mai, membri utilissimi della nazione e del Governo. Essi stanno alla popolazione totale di Parigi nella proporzione di 3 per 100; eppure la questione israelitica è totalmente sconosciuta colà.
“Ci rimarrebbe adesso da trattare un altro punto di vista dell'argomento, quello cioè delle stolide accuse lanciate agli Israeliti, cominciando dalle false interpretazioni con cui si snaturano i libri del loro culto, e terminando coll'addebito che vien loro fatto di servirsi del sangue cristiano per compiere alcuni loro riti religiosi; ma nessuna di queste insulsaggini merita di essere presa in esame e sottoposta alla critica, perciò noi le mettiamo senz'altro da parte prendendo piuttosto in considerazione altre accuse, le quali sembrano a prima vista, non prive di qualche fondamento.
“Si dice per esempio che gl'Israeliti sono incapaci di sopportare qualunque lavoro fisico in generale, ed in ispecial modo quello della coltivazione delle terre; che in qualunque località essi si trovino i loro cespiti di guadagno saranno sempre ricavati dal mestiere di rivenditore, di usuraio, di mezzano, e che per conseguenza, accordando loro il diritto di muoversi liberamente, si mettono a portata della loro capacità, quei distretti ove essi potranno andare a stabilirsi. In queste accuse un solo punto è vero, ed è quello che afferma l'attitudine speciale degli israeliti alla mercatura di ogni genere; e quest'attitudine ch'è infatti una particolarità tipica della razza israelitica, la si deve a circostanze che esistono da migliaia di anni. Ma però non bisogna neppure dimenticare che una parte assai considerevole della popolazione israelitica si occupa di ogni specie di mestieri, senza eccettuare i più faticosi ed i più penosi, come a mo' di esempio, quelli del maniscalco, del fabbro ed altri simili. Ed è altresì accertato che in diverse località gl'Israeliti si dedicano anche alla agricoltura; così nel Governo di Kiew, oltre 10,000 Ebrei di ambo i sessi sono impiegati nella coltura della terra. Secondo i calcoli della decima revisione fatta nel governo di Vilna, apparisce che sopra 61,645 israeliti, 2966 erano agricoltori; nel Caucaso una buona parte di operai agricoli è di razza israelitica; anche nel Libano vi sono più di 100 famiglie delle quali nove decimi lavorano la terra.
“In molte altre località si riscontrano agricoltori israeliti, ma noi reputiamo che gli esempi fino a qui addotti bastino a provare che la razza israelitica non è poi tanto refrattaria al lavoro della terra, quanto comunemente si sostiene.
“E questo fatto è tanto più degno di nota, inquantochè, eccezione fatta dalle colonie sperimentali fondate da Araktcheff, le quali ebbero ad abortire, nessuno incoraggiamento ed appoggio è mai stato accordato a questi tentativi, non solo, ma è provato che ogni sforzo di questo genere ha sempre incontrato difficoltà insuperabili nei regolamenti legislativi. Basterà citare a conferma dell'asserzione il testo della ben conosciuta legge del 1864, con cui viene proibito agli Ebrei di comperar terre dai privati nei governi di Vilna e di Kovno, mentre s'inibiva ai proprietari russi di vendere, affittare od ipotecare agli Ebrei le loro terre.
“Nell'anno 1881 questa legge fu estesa con un articolo addizionale a tutta la popolazione israelitica a cui si vietava la compra e l'affitto di terre in tutto il territorio dell'Ovest. Ciò non di meno, com'è stato detto sopra, la parte predominante della popolazione israelitica costituisce la classe dei mezzani e rivenditori di prodotti delle industrie locali. E se la mediazione rappresenta una delle funzioni vitali nella esistenza economica delle nazioni finchè si mantiene nei limiti necessari, essa diventa una calamità quando nella quantità vi è eccedenza a questi limiti.
“In ultima analisi è appunto sopra questa circostanza che noi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Ognuno deve sapere che in ogni località, ove siano praticati l'industria ed il commercio rurali, esiste una proporzione matematica fra il numero dei produttori ed il numero dei distributori.
“Eccezione fatta dalle condizioni della produzione locale, vi sono altre cause da cui dipendono le proporzioni sopra indicate. Tali sono il grado di densità della popolazione, i mezzi di trasporto, ed infine tutta una serie di altri fattori, i quali si trovano in rapporto col mercato locale; ma nei governi del nord e del sud-ovest della Russia, le regole di detta proporzione sono assolutamente infrante. Ed è in conseguenza di questa sproporzione che si verifica un eccedente considerevole di forze improduttrici, che escono dai limiti menzionati, ed il cui mantenimento è un penoso aggravio pei produttori. È in queste circostanze che devonsi cercare le cause dei tumulti avvenuti in questi ultimi tempi.
“Accordando agl'Israeliti un'assoluta eguaglianza nei diritti civili ed il concorso di stabilire le loro dimore nei governi della grande Russia, si otterrebbe senza dubbio alcuno per i nostri confini il voluto equilibrio fra i due motori fondamentali della nostra economia locale. In pari tempo, fissandosi colà ove è maggiormente sentita la mancanza dei mediatori per lo scambio dei prodotti, è evidente che una parte della popolazione israelitica riempirebbe in breve tempo questa grande lacuna.
“In questa guisa, sopprimendo le condizioni dannose che obbligano gl'Israeliti ad abitare certe date località, si trasformerebbe un elemento nocivo in un fattore utile alla nostra esistenza politica.
“Nominato membro della Commissione instituita onde esaminare la questione israelitica, ho creduto mio dovere di fare immantinente noto alla Commissione stessa il mio modo di vedere a questo proposito.”
L'ortografia originale è stata preservata fedelmente. Sono state mantenute tutte le varianti (o gli errori) nei nomi incontrati: per esempio Judei/Judaei/Judæi; Mosè/Moisè; Bartholoccius/Bartolocius; Crémieux/Cremieux; Esslar/Eszlar; Cosri/cozri/Cosari; Kosut per Lajos Kossuth; Montefiori per Moses Montefiore; Krabano Mauro per Hrabanus Maurus; Pfefferckorn/Pfeffercorn/Pffeffercorn per Johannes Pfefferkorn.
Le trascrizioni dall'ebraico sono pure varie e mutevoli, come in Mezià/Metzià/Mezhià, Abot di Rabbi Natan/Havod Deribi Nadan/Avot de R. Nathan/Havod Deribi Natan. In generale, la lettera ebraica ת è alternativamente trascritta con d o con t.
Sono stati mantenuti gli errori bibliografici del testo: ad esempio, il titolo corretto del libro citato a nota 1 di p. 41 è: The history of Christianity: from the birth of Christ to the abolition of paganism in the Roman Empire by Rev. H. H. Milman; in nota a p. 61 Davide, Ganz Tzemach David. sta per il Tzemach David di David Gans; il curatore degli Annali del Principato Ecclesiastico di Trento citati in nota 1 a p. 147 è Tommaso (non Francerco) Gar; il titolo del saggio sulla storia della chiesa russa citato nella Revue des deux mondes è Istoriia Rousskoï tserkvy.
La trascrizione dei documenti antichi è stata riportata tal quale, non essendo possibile risalire agli originali. Sono stati mantenuti accenti dubbi, come il "Fuerunt vocatì" di p. 285. Non si è tentato di differenziare le lettere u e v secondo l'uso moderno nei documenti IV. (9º), V. e VIII.
I seguenti refusi, indubbi, sono stati corretti:
Sono stati aggiunti accenti tonici mancanti sui termini greci, in originale Ρήτραι, Κρατησιμαχος, δευτερωσις.
Punti e virgole mancanti o sovrabbondanti nelle abbreviazioni, nei titoli, nelle citazioni bibliografiche e nelle firme dei documenti, come pure virgolette mancanti o superflue, punti invece di segni ordinali nei titoli delle Varie pubblicazioni antisemitiche, sono stati tacitamente corretti.