Title: Le tragedie, gl'inni sacri e le odi di Alessandro Manzoni
Author: Alessandro Manzoni
Release date: July 21, 2018 [eBook #57565]
Language: Italian
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LE TRAGEDIE
GL’INNI SACRI E LE ODI
DI
ALESSANDRO MANZONI
NELLA FORMA DEFINITIVA E NEGLI ABBOZZI,
CON LE VARIANTI DELLE DIVERSE EDIZIONI
E CON GLI SCRITTI ILLUSTRATIVI DELL’AUTORE,
A CURA DI
MICHELE SCHERILLO
PRECEDE UNO STUDIO
SUL DECENNIO DELL’OPEROSITÀ POETICA DEL MANZONI
ULRICO HOEPLI
EDITORE LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1907
Proprietà Letteraria
Milano, Tipografia Umberto Allegretti, via Orti, 2.
Alla gloriosa memoria
di
RUGGIERO BONGHI
con reverenza d’italiano
con affetto di concittadino
dedica
questa prima edizione critica
delle Poesie del sommo Lombardo
Michele Scherillo
Giova fissare alcune date. Il Carme in morte dell’Imbonati, la prima delle sue opere che il Manzoni reputasse degna della stampa, fu pubblicato a Parigi nel 1806. L’Urania, a Milano nel 1809. Poi, dopo un intervallo di sei anni, a Milano nel 1815, i primi quattro Inni sacri: la Resurrezione, composta il 1812, il Nome di Maria e il Natale, del 1813, la Passione, del 1815. Dopo altri cinque anni, la prima tragedia: Il Conte di Carmagnola, Milano 1820; e nel 1822, la seconda, l’Adelchi. Nello stesso anno, il quinto ed ultimo inno sacro, la Pentecoste. Intanto era venuto componendo: il proclama di Rimini, aprile 1815; lo scherzo L’ira d’Apollo; l’ode Marzo 1821, e il Cinque maggio. Dagli ultimi mesi del 1821 agli ultimi del 1827, il Manzoni fu tutto preso dalla composizione, correzione e stampa del Romanzo. Versi, dopo la Pentecoste, o non ne scrisse più o ne scrisse di tali (l’Epigramma sotto il ritratto del Monti e le Strofe per una prima comunione) che mutano in certezza il sospetto, che la bella e limpida vena si fosse presto essiccata.[1]
L’Imbonati e l’Urania sono, per così dire, i documenti ufficiali di quello che io ebbi a chiamare «il noviziato poetico»[xii] del Manzoni[2]: rappresentano autorevolmente il periodo dell’incertezza e delle titubanze, dei passi ricalcati sulle orme altrui, dell’imitazione tra pariniana e alfieriana, soprattutto montiana. L’Urania non era ancora pubblicata (solo il 5 ottobre il Manzoni avvertiva d’aver ricevuto da Milano i primi esemplari della stampa), e già il poeta se ne mostrava scontento. All’amico Fauriel, che aveva voluto prender copia di quel poemetto (a lui forse anche più caro, dacchè Urania, tra i frequentatori della Maisonnette, era chiamata la dea del luogo, la bella Sofia vedova del Condorcet), egli scriveva da Parigi il 6 settembre 1809:
«Vous avez donc voulu copier cette petite rapsodie? Vous! Si j’avais à présent l’envie et l’indiscrétion de vous occuper de ces balivernes, je dirais que je suis très mécontent de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’intérêt. Ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-être de pires, mais je n’en ferai plus comme cela».
Di versi così, con tutto quel lusso di evocazioni e di fantasie mitologiche, con quelle eleganze corinzie nel disegno e quelle sonorità attiche o alessandrine nell’espressione, ne avrebbero, sì, continuato a fare il Monti e il Foscolo; ma la sua via, la via nuova che oramai egli aveva intravista, era un’altra: e per quella ei si sarebbe messo, risoluto di percorrerla tutta. Via erta ed arta, nè prima tentata; ma meglio cadere nell’ardimentosa ascesa verso l’alta cima agognata, che ricalcare l’ampia strada tanto e da tanti battuta:
E, proprio com’egli aveva sentenziato nell’Urania (versi 191-93),
[1] Il Manzoni medesimo confessava, con l’usata modestia ed arguzia, il singolare fenomeno, scrivendo, verso la fine del 1859, alla signora Collet aver egli messo da parte l’Inno Ai Santi, «sitôt que je me suis aperçu que ce n’était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m’essoufflais à courir après elle». Vedi più avanti, pag. 486-88.
[2] Cfr. il I volume di questa ristampa hoepliana delle Opere di A. Manzoni.
[3] Si ricordi Orazio (Epist. I, 19, 21-2):
L’Urania è un inno, ricalcato sul modello di quelli che vanno sotto il nome d’Omero. Il poeta implora dalle Grazie («chieggo a le Grazie») che lo facciano riuscir gradito anche a Firenze. Ma nè chiama Firenze tranquillamente Firenze, nè chiama Milano semplicemente Milano: non sarebbe stato un proceder degno di chi ambiva al «nome che più dura e più onora»! Uno che se n’intendeva, il Monti, il caposcuola, aveva difatto insegnato: «Occorre parecchie volte al poeta di dover nominare una cosa, il cui semplice nome o non ha tutta in sè stesso la poetica dignità, o ripugna alle leggi del metro, o desta un’idea non abbastanza sublime e maravigliosa.... Nè senza l’aiuto di questi favolosi amminnicoli la lingua poetica si sosterrebbe».[4] Il novizio Manzoni proemia dunque, con perifrasi solenni e sonore, così:
E continua. Fin dai primi anni, quando il Desiderio ci è compagno crudele nel cammino della vita, ho nutrito una cara speranza: che l’Italia annoverasse me pure tra’ suoi poeti. L’Italia, che da lungo tempo è ospizio delle Muse; non già la culla, poichè esse nacquero in Grecia. Ma quando queste dive lasciarono i laureti achei, esse sdegnarono di porre la nuova dimora altrove che qui. È vero che vi rimasero mute[xiv] durante tutto quel tempo che i barbari recaron l’oltraggio, non ancor vendicato, alla donna latina, «dal barbaro ululato impäurite»; non però abbandonarono l’infelice amica. Che anzi, la Poesia italiana,—questa vergine bella ed aspettata dalle genti, le quali, tacendo essa, mancarono di qualunque sorriso—, si sollevò poi ad alte cose, rinascendo più vigorosa da le turpi unniche nozze.
Ognuno intende che siamo nel pieno rifiorire di quell’arte paganeggiante, il cui più insigne sacerdote fu Antonio Canova. Codesto divo Alighieri (oh il busto donatelliano del Museo di Napoli, dall’espressione così severa ed arcigna, e con le bande del cappuccio cadenti sugli orecchi!), che conduce la mirabil virgo a bagnarsi e a dissetarsi alle illibate fonti, e l’ammaestra ne le danze sacre,[5] ricorda molto da vicino il canoviano Napoleone di Brera, nudo e formoso come un Apollo e con le insegne e i simboli d’un Cesare Augusto, conquistatore dei Germani o dei Britanni. Ma come al Canova, di tra le carezzose modellature d’una Psiche o delle Grazie, sfuggiva quasi di mano la maravigliosa e vivente testa di papa Rezzonico; così al giovinetto Manzoni, ricercante sulla lira accordi e armonie achee, sbocciavan dalle labbra accenti come questi, che prenunziano il poeta novello:
Alle Muse dunque, alme d’Italia abitatrici, io intendo, continua il poeta, intrecciare un serto di lodi in pria non colte: dacchè una vile parola odo vagare tra il volgo,
Ebbene, io celebrerò gli antichi beneficii prodigati agli umani da quelle Immortali. Urania li cantò una volta al suo diletto Pindaro; io dirò perchè la dea accordasse all’alto poeta un tanto privilegio,
Non so quanta fede meriti quell’aneddoto, raccontato da qualche biografo, che il Monti, dopo d’aver letta l’Urania, esclamasse: «Costui comincia dove io vorrei finire». Questo tuttavia mi par certo, che nel nuovo poemetto il Manzoni mostrò di sapere oramai da maestro mischiare «al bello e vigoroso colorito», di cui già il Monti lo lodava a proposito dell’Adda, quella «virgiliana mollezza» che il vecchio poeta ancor desiderava nell’idillio del 1803. E non mi parrebbe nè un’eresia nè una sconvenienza quella di chi volesse vedere nell’esclamazione montiana, bensì un giudizio amabile e deferente, non un vano complimento. L’Urania è, coi Sepolcri[xvi] del Foscolo, il più bel fiore di quel rinnovamento classico della poesia, che tra noi mette capo al Monti; e sta di mezzo fra il Prometeo di questi e le Grazie foscoliane. Lo ha già osservato il D’Ancona: «il concetto del poemetto del Manzoni è quello stesso che informa il Prometeo del Monti e le Grazie del Foscolo; molto probabilmente il primo ha comunicato qualche cosa di proprio all’Urania, e le Grazie qualche cosa hanno tolto da questa».[8]
Secondo un certo suo proprio «sistema poetico», le Grazie sono per il Foscolo «deità intermedie fra il cielo e la terra, e ricevono da’ Numi tutti que’ doni che esse vanno poi dispensando a’ mortali»; e secondo un suo «sistema storico», quelle deità «diffusero i loro benefizi più particolarmente alla Grecia antica dov’ebbero origine, e all’Italia dov’hanno trasferita la loro sede». Cantando dei loro eterei pregi e della gioia che, vereconde, esse danno alla terra, il poeta chiede a quelle belle vergini
Il Foscolo, che dimorava allora in Toscana, non ha bisogno, come il Manzoni, di chiedere alle Grazie che faccian risonare il suo Inno nella nuova Atene; anzi egli può invitare il Canova al vago rito e agl’inni, proprio
tra quei
Quei colli, che la luna o l’alba scoprivano agli occhi di Galileo, che qui sedeva in compagnia delle Grazie «a spiar l’astro della loro regina»; dacchè
Lo ha pur accennato il Manzoni: le Muse, fuggitive dalla Grecia natia, cercarono asilo in Italia; ma il Foscolo compie quell’accenno, e ridice la cosa più fastosamente:
E non dimentica—e non l’avrebbe potuto!—Dante.
In verità, codesta figurazione di Dante, che, a guisa d’un Genio disdegnoso (o d’un’Aquila sdegnosa, com’è nel rimaneggiamento dell’Orlandini), appollaiato sopra un mirto, starnazza le ali sotto gli occhi della sua donna «beata e bella»[xviii] che guarda dall’alto; e intanto, cerca cieli e abissi e monti sorgenti dalle acque, e sparge folgori e raggi e speme e terrore e pentimento, e canta sciagure quasi un novello Calcante: non è nè perspicua nè cospicua. Come del resto non è ben chiara la poetica perifrasi indicante Milano; che nemmeno essa manca. La compagna della sonatrice d’arpa «viene ultima al rito, a tesser danze all’ara»: dicono fosse al secolo la signora milanese, molto bella, Maddalena Marliani Bignami.
In una lettera, non si sa a chi diretta ma scritta, pare, nel febbraio del 1809, il Foscolo si confessa tutto preso dall’idea di comporre e menar a termine i suoi Carmi: un genere poetico che vantava tutto suo proprio. Scriveva:
«Quanto all’Omero e a’ Carmi, io dormo in vista, sed cor meum vigilat. E non distolgo mai la mente dai Carmi: non ch’io n’attenda onore, nè ch’io creda che la fama giovi a far men vana e più prudente l’umana vita; ma da que’ Carmi (genere di poesia ch’io, tortamente forse, credo nato da me) mi pare che ne’ miei scritti sgorghi pienamente ed originalmente, senza soccorso straniero, quel liquido etere che vive in ogni uomo, e di cui la natura ed il cielo hanno dispensata la mia porzione a me pure. Però li vagheggio sempre con tutti i pensieri; nè passerà quest’anno senza ch’io n’abbia compiuto uno almeno; nè ristarò finchè mi sentirò battere il cuore ad ammirare ed amar la natura. Ma queste forti e soavi palpitazioni s’indeboliscono presto, ed ho quasi toccata la mèta della fredda meditazione».
Una tanta compiacenza del Foscolo per un genere di poesia ch’egli, tortamente forse, credeva nato da lui, derivava dalla[xix] festosa accoglienza fatta ai Sepolcri. «L’oscillazione che produsse questa creazione nel cervello di Foscolo», ha osservato il De Sanctis,[11] «fu così potente, che per lungo tempo gli tenne agitate le fibre, quasi armonia già muta che si continua ancora nel tuo orecchio. E altri Sepolcri vi fermentavano sotto altri nomi, e uscivano fuori a frammenti,... senza che gli fosse possibile venire ad una compiuta formazione.... Da quei frammenti, insieme connessi e aggiustati, uscirono ultimamente le Grazie». Un’opera mancata: non più una poesia, ma «una lezione con accessorii poetici»; un concetto ancor esso vichiano, ma che rimane nell’astrazione e cerca la sua espressione in una forma «raggomitolata, incastonata, lucida e fredda come pietra preziosa».
Gli è che il Foscolo era, senza che se n’accorgesse, fuori della corrente, divenuta impetuosa, dei tempi nuovi. Il secolo decimonono lo aveva investito mentr’egli aveva ancora lo sguardo rivolto al passato, e aveva gettato «il disordine nella sua coscienza». La nuova onda religiosa travolge il suo scetticismo, le nuove idealità politiche rendon vacillante la sua fede repubblicana, il forte vento del nord, che portava di qua dalle Alpi le nuove idee d’arte poetica, turbava il suo classicismo, già compromesso dalle Lettere di Jacopo Ortis e dal Carme sepolcrale. Amico del Pellico, il quale aspirava a pieni polmoni le aure dei tempi nuovi, ammiratore del giovane Manzoni, stanco del Monti e dell’arte sua, egli «avrebbe forse avuto la forza di ricreare in sè l’uomo nuovo, se la sua educazione fosse stata più moderna e meno classica; ma lo spirito moderno era appena una vernice appiccicata sopra il vecchio classicismo». Così, fra tanto rinnovamento morale e letterario, filosofico e politico, il poeta pariniano delle Odi e alfieriano delle Tragedie, l’artista canoviano delle Grazie, il classicista cosciente dei Sepolcri ma incosciente romantico dell’Ortis, «finì chiudendosi nella sua toga come Cesare, e morì sul suo scudo, uomo del secolo decimottavo». Il poemetto delle Grazie chiude, in ritardo, quel secolo; il secolo nuovo è dischiuso dagl’Inni sacri di Alessandro Manzoni.[xx] Curioso a rilevare: il Manzoni era stato presentato al mondo letterario dal Foscolo, con quella noticina ai Sepolcri dov’era proclamato «un giovine ingegno nato alle lettere e caldo d’amor patrio». Ebbene, tra quel Carme e gl’Inni è un abisso. L’uno è come la voce «dell’umanità senza l’anima e senza Dio»: gli altri son come le voci desiose e sospiranti dell’umanità angosciata al Cielo, per chieder la pace, la giustizia, la redenzione; per implorare da Dio, poichè gli uomini s’eran mostrati inetti, il riconoscimento e l’attuazione «tra i nati all’odio» di quei principii di libertà, d’uguaglianza e di fraternità, che avevan fatto versare, pur di recente, nuovo sangue e nuove lagrime.
[4] Monti, Del cavallo alato d’Arsinoe, lettera terza.
[5] Anche più giù (vv. 326-7) il poeta dirà che, senza le Grazie, «nè gl’Immortai son usi Mover mai danza o moderar convito». E senza danze, non pareva possibile una poesia di sapore classico!
[6] C’è, nel concetto e nel concento di questi versi, qualcosa che ricorda il magnifico brano del Mezzogiorno pariniano (v. 285 ss.): «Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra....». Cfr. la mia edizione, la 2ª, delle Poesie di G. Parini, Milano, Hoepli, 1906, pag. 273.
[7] Già nel Parini (Mezzogiorno, v. 882 ss., pag. 290) era un notevole accenno a Urania, confortatrice de’ suoi «irti alunni, smarriti, vergognosi, balbettanti», a opere grandiose di civiltà: le piramidi, gli obelischi, le dighe.
[8] Poesie di A. Manzoni scelte e annotate ad uso delle scuole da A. D’Ancona; Firenze, Barbèra, 1892; pag. 17.—È degno di ricordo che il Monti si proponesse, in una prima forma vagheggiata della Musogonia, «di ricondurre in terra le Muse a beneficare il genere umano, traendo gli uomini dalla vita selvaggia, congregandoli in società, e insegnando loro la virtù, la giustizia, e tutte le arti e tutte le scienze». Così egli scriveva nell’Avvertimento premesso al poema nell’edizione veneziana del 1797.—Codesto era un tema poetico di moda. Anche il Gray aveva, nel Progress of the Poesy, adombrato lo stesso concetto. Cfr. B. Zumbini, Sulle poesie di Vincenzo Monti; Firenze, Le Monnier, 1886, pag. 198 ss.
[9] Il Foscolo stesso nella versione dell’Iliade (II, 848): «e la vallea di Mileto Cui pingui ombrano i buoi».
[10] L’alta regina Amalia Augusta di Baviera, regia sposa di Eugenio Beauharnais, consacrava un candido cigno alle Grazie, «grata agli Dei del reduce marito Da’ fiumi algenti ov’hanno patria i cigni».
[11] Nuovi saggi critici; Napoli, 1879, pag. 160.
Il periodo veramente fecondo dell’operosità poetica del Manzoni va dal 1812, in cui egli scrisse La Resurrezione, al 1822, in cui pubblicò La Pentecoste: un decennio glorioso per la nostra letteratura, del quale ogni anno è contrassegnato da un capolavoro. Un inno sacro apre la serie, un altro inno sacro la chiude.
A chi non ripugna l’immaginoso e il romanzesco nella vita dei grandi uomini, il colpo di scena, il miracolo, piace di vedere una barriera, o un sipario, tra il Manzoni dei due carmi paganizzanti e il Manzoni degl’Inni. E piace di prestar fede all’aneddoto raccontato da qualche biografo, che fa del Manzoni dinanzi alla chiesa di San Rocco a Parigi un quissimile di Paolo sulla via di Damasco. Narrano ch’ei fosse, lì vicino, colto da un malore repentino, ed entrasse. Imbruniva, e nel tempio si pregava. Quei canti sacri che parean lamento lo avrebbero profondamente commosso; e in un subito, l’indurito miscredente e volterriano si sarebbe trasformato—taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio!—in un convinto e fervente cattolico. «Ma così», ha esclamato il D’Ovidio[12], «si convertono forse le nature fantastiche e sentimentali![xxi] Ben altro ci volle, certamente, per ismuovere quel giovane che dovea presto mostrare un animo, ricco bensì di potente fantasia e di vivace sentimento, ma capace di dominar l’una e l’altro con una riflessività ed una razionalità senza pari!»[13].
Il vero è che, proprio a giudizio del Manzoni, il ricorrere al miracolo per ispiegare certe conversioni o rivoluzioni o evoluzioni psicologiche, è da menti ristrette e da fantasie volgari. Si ripensi a quel vero miracolo d’analisi ch’è la conversione dell’Innominato. Chi prima, allora, gridò al miracolo, fu il sarto, il buon uomo che aveva in gran parte formata la sua cultura sul Leggendario dei Santi. A Lucia, che viene ospite gradita in casa sua, egli non esita un momento a dire (P. Sposi, cap. 24): «Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto!». La sicurezza gli veniva dai suoi studi: «perchè non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene». Così quel singolare ravvedimento era giudicato colle norme del Leggendario, ed era consacrato autorevolmente con quel nome che doveva riuscire meglio accetto a chi avrebbe potuto dire, rinarrandolo,—io c’ero! «Ma è però una gran cosa», soggiunge, rimuginando con nuova compiacenza quel ravvicinamento mentale da lui consumato, «d’aver ricevuto un miracolo!». Onde il romanziere, con arguta malizia: «Nè si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perchè aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome».
Sono le frange appunto che possono far parere fuori dell’ordine naturale, cose che un occhio disnebbiato ed esperto riconosce naturalissime. Ci vuole la cultura del sarto, per riguardare il cardinale come quell’«uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, nè anche in Milano»; e per sentire la necessità d’immaginare il miracolo. Ma nulla di meno manzoniano. L’artista psicologo ha, con la sua analisi mirabile, inteso a spiegare umanamente quella conversione che nel Seicento potè parere miracolosa.
E si può, anzi si deve ammettere, che al romanziere sia di molto giovato l’avere sperimentato in sè medesimo una evoluzione psicologica molto affine a quella che doveva rappresentare; ma l’insistenza stessa con cui ha voluto sfrondare la corona del soprannaturale onde le plebi avevan redimita quell’antica conversione, moveva forse dal desiderio di sgombrare d’intorno a sè quella nebbia di leggenda agiografica, che non poteva non dargli noia. Oltre il resto, egli, da buon cattolico, doveva pensare che le conversioni dove interviene troppo palesemente il dito di Dio, non sono edificanti, e non stimolano l’imitazione o l’emulazione. Al Manzoni, osserva il D’Ovidio, «seguiva quel che suole ai fedeli più colti e più discreti, di credere cioè e voler assolutamente credere ai miracoli antichi e, per dir così, storici, del cristianesimo; ma di proceder con molta circospezione quanto ai miracoli recenti e non sanciti dalla Chiesa.... Così è che negli Inni sacri i miracoli sono con sincera fede cantati, e dai Promessi Sposi con ischifiltosa critica eliminati».[14]
Pur troppo a noi non è dato di conoscere le fasi di quel dramma intimo, per cui il Manzoni passò dallo scetticismo alla fede ardente e incrollabile. Egli fu anche in questo diverso da quei letterati di Francia e d’Italia che intrattenevano, e intrattengono, con molto compiacimento proprio, il pubblico dei lettori narrando di sè stessi. Oggettivo nell’arte, più e meglio di qualunque altro nostro scrittore, non esclusi il Boccaccio e l’Ariosto, rimase, quanto agli affetti e ai movimenti della[xxiv] sua anima, un uomo chiuso; uno di quelli, ha detto il Negri, «che, tutto assorti nel sentimento della propria responsabilità, e guidati da una specie di pudore intellettuale, sanno custodire gelosamente dentro di sè tutto quanto non vogliono, di proposito deliberato, comunicare agli altri». Il Manzoni «sta sempre in guardia, e non ha mai permesso ad alcuno di penetrare nel fondo della sua coscienza più in là di quanto egli volesse». Si può, ricercando tutta la varia opera sua, e guardandosi intorno, tirare a indovinare. Non sentiamo forse il sapore acuto, proprio di chi descriva sensazioni provate, nelle parole che ci ritraggono la formazione ed educazione dell’animo eminentemente cristiano di Federigo Borromeo? (Promessi Sposi, cap. 22).
«Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma delle azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero».
Una simile indagine è possibile e lecita; ma a patto che essa sia compiuta
E chi forse, nello scrutare i riposti motivi della così detta conversione manzoniana, s’è più da presso accostato al vero, è l’insigne critico, del quale poco più sù abbiam riferite alcune parole. Egli continua:
«La generazione successa in Francia a quella che aveva fatta la rivoluzione, era tutta imbevuta dello spirito del Voltaire. E il giovane Manzoni fu egli pure un discepolo del terribile dileggiatore. Ma egli doveva essere insieme una di quelle nature che hanno sempre davanti a sè la visione del mistero ultimo delle cose, e sono da quella visione profondamente turbate. Il mistero di uno stato che, com’egli stesso più tardi scriveva, «è così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi di cui rende impossibile l’adempimento, che è un mistero di contradizione, in cui l’ingegno[xxv] si perde se non lo si considera come uno stato di prova o di preparazione per un’altra esistenza»; questo mistero, io dico, gli si affacciava troppo minaccioso, perchè egli potesse acconciarsi ad una filosofia la quale, priva affatto di critica, non distruggeva che col dileggio, e aveva la radice assai più in un impulso politico che in un concetto veramente razionale. Un’anima come quella del Manzoni, che non poteva vivere nell’incertezza sul più grande ed oscuro dei problemi, un problema in cui l’ingegno umano, abbandonato a sè stesso, si perde, doveva cercar l’uscita da quell’abbandono, e sentendosi come arrenata nelle acque basse della filosofia del Voltaire, doveva presto o tardi ritornare alle acque profonde e al gran mare della fede, e ritornando sentirsi attratta dal cattolicismo, il quale, data che sia la premessa, è il sistema più serrato e più logico che esista, un sistema che offre veramente un riparo sicuro a chi vi arriva dalle battaglie del dubbio»[15].
[12] Saggi critici; Napoli, 1878, pag. 50.—E del D’Ovidio si vedano ancora: Discussioni Manzoniane, Città di Castello, 1886, pag. 24; e Due parole sull’Innominato, nell’Illustrazione Italiana del 27 maggio 1894.
[13] E il Bonghi: «....se nell’animo della madre, naturalmente entusiasta, fervido, immaginoso, questa mutazione fu subitanea, nell’animo invece del Manzoni, in cui il poeta s’accompagnava col ragionatore freddo, sottile, acuto, la mutazione fu lenta, effetto di lunga meditazione sulle cose e d’un faticoso lavoro sopra sè medesimo». La conversione della famiglia Manzoni, nelle Horae subsecivae, Napoli. A. Morano, 1888, pag. 148.
[14] Chi sa se tra i motivi del disdegno manzoniano ad ammettere e descrivere conversioni miracolose, non ce ne fossero anche di letterarii! Certo, a lui così sincero e schietto come credente e come artista, dovevan far nausea le ipocrisie religiose e artistiche del Voltaire e dello Chateaubriand. Il primo di essi, a chi osava biasimare l’apparizione dell’Ombra di Nino nella sua Semiramide, opponeva con un candore e un ardore di catecumeno davvero commoventi: «Quoi! notre Religion aura consacré ces coups extraordinaires de la Providence, et il serait ridicule de les renouveler?». (Cfr. la mia Storia d’uno spettro, nell’Illustrazione Italiana del 25 marzo 1906).—L’altro, lo Chateaubriand, nel Génie du Christianisme (parte 4ª, libro VI, capitolo 2), aveva narrato d’un capitano Caraffa napoletano qualcosa di simile a quel che si vociferava intorno al Manzoni. «Un jour», racconta, «comme il se rendait au palais, il entre par hasard dans l’église d’un monastère. Une jeune religieuse chantait; il fut touché jusqu’aux larmes de la douceur de sa voix: il jugea que le service de Dieu doit être plein de délices, puisqu’il donne de tels accents à ceux qui lui ont consacré leurs jours. Il retourne à l’instant chez lui, jette au feu ses certificats de service, se coupe des cheveux, embrasse la vie monastique, et fonde l’ordre des Ouvriers pieux, qui s’occupe en général du soulagement des infermités humaines».—E altrove (pt. 4ª, IV, 1) va tutto in solluchero, nel descriver il modo tenuto dai gesuiti per convertire gl’Indiani del Paraguay. Narra: «ils avaient remarqué que les Sauvages de ces bords étaient fort sensibles à la musique: on dit même que les eaux du Paraguay rendent la voix plus belle. Les missionaires s’embarquèrent donc sur des pirogues avec les nouveaux catéchumènes; ils remontèrent les fleuves en chantant des cantiques. Les néophytes répétaient les airs, comme des oiseaux privés chantent pour attirer dans les rets de l’oiseleur les oiseaux sauvages. Les Indiens ne manquèrent point de se venir prendre au doux piége. Ils descendaient de leurs montagnes, et accouraient au bord des fleuves pour mieux écouter ces accents: plusieurs d’entre eux se jetaient dans les ondes, et suivaient à la nage la nacelle enchantée. L’arc et la flèche échappaient à la main du Sauvage; l’avant-goût des vertus sociales, et les premières douceurs de l’humanité, entraient dans son âme confuse; il voyait sa femme et son enfant pleurer d’une joie inconnue; bientôt, subjugué par un attrait irrésistible, il tombait au pied de la croix, et mêlait des torrents de larmes aux eaux régénératrices qui coulaient sur sa tête».—Questi gesuiti missionarii avevan dunque i modi e le attrattive delle Grazie; chè, dice il Foscolo (inno I), «solo
Si può immaginare come arricciasse il naso il Manzoni, dinanzi a codesto stracco paganesimo larvato e a codesto barocchismo sentimentale!
[15] Gaetano Negri, Segni dei tempi; 3ª ediz., Milano, Hoepli, 1903, pag. 67.—Il Fabris, che fu intimo del Manzoni, narrò (Memorie Manzoniane; Milano, Cogliati, 1901, pag. 131) «che l’origine della sua incredulità fu l’esser entrato in uno dei collegi ecclesiastici dove egli veniva allevato, un ragazzo d’una precoce empietà, il quale sedusse parecchi de’ suoi compagni, fra cui il Manzoni». Soggiunge: «così egli stesso mi raccontò; e quindi chiamava la sua una incredulità ignorante».
Or chi guardi serenamente, che qui vuol dire senza preconcetti confessionali, nelle opere del Manzoni che precedettero il suo ritorno alla fede, non può, a me pare, non riconoscere che l’uomo nuovo trovava già pronta e disposta nell’antico una forma, in cui adagiarsi senza veri urti o resistenze. A buon conto, ateo egli non era mai stato; e son versi appunto di quel Carme in morte dell’Imbonati, contro cui i critici ortodossi inveleniscono sì fieramente, questi, che hanno del dantesco e del petrarchesco insieme:
Dove fin le maiuscole al Quei e al Lui son del poeta, che dovrebb’essere stato miscredente. E son di quel Carme pur[xxvi] questi altri versi, che riaccennano alla città di Dio e alla vita beata che i buoni vi condurranno in eterno:
E non insisterò qui ancora sui precetti e sulle massime morali che in quello stesso Carme vengono, con severità e schiettezza di forma e di pensiero che ricordano il Parini dell’Educazione, inculcate e proclamate. Esse sono bensì quali ogni onesto e probo razionalista accetta e rispetta, ma altresì quali nessun credente rifiuta, o dovrebbe rifiutare. Vi si bandisce una morale profondamente ed eternamente umana, al di fuori e al di sopra d’ogni fede o contingenza religiosa.
E come nel Carme, così nell’Urania. Quel Giove, che qui ancor siede ne’ palagi d’Olimpo, ma così insolitamente pietoso dei mali ond’è afflitta e dolente l’umana stirpe, non ha che da mutar nome per diventare il Dio degl’Inni sacri. Sembrandogli oramai piena la vendetta dell’ardimento di Prometeo, del rapito foco, egli accolse più mite consiglio; e fermò di richiamar dalla terra le Furie, che vi avean fatto troppo empio governo:
A ricondurre l’amore tra gli uomini, quel Padre misericordioso mandò in mezzo ad essi le Virtù. Le quali, nella reggia olimpica, gli alitavan d’intorno.
Una novità mitologica codesta; dacchè i vecchi poeti ci avevan, sì, qualche volta riferito che presso al trono di Giove eran Temide o Dike, ma solo i Padri della Chiesa avevano immaginato intorno al Dio Padre tutto un corteo di Virtù,[xxvii] come la Verità e la Pace, la Misericordia e la Giustizia. Queste—e dalla poetica figurazione trasse partito il Milton—non avean rifinito di perorare pro o contra la redenzione dell’uomo, prima che il Verbo s’incarnasse; e avevan percorso il cielo e la terra, cercando chi potesse degnamente, e volesse, addossarsi le colpe dell’umanità, e riscattarla col sacrifizio di sè stesso.
Anche le Virtù dell’inno manzoniano, spirti obbedienti, discesero nel basso mondo, per attirare a sè gli occhi e le menti degli uomini inselvatichiti; e lo ricercarono tutto, ma in vano,
Del Giove, s’intende, misericordioso e virtuoso; chè invece l’alto consiglio dell’iroso e tirannico Giove omerico, il quale, corrucciato, volle sacrificate all’ira di Achille «molte generose alme d’eroi», s’era bene adempito! (Iliade, I, 5).
Ma il Giove buono non si diede per vinto. Al suo desco sedevano, movendo «una concorde d’inni esultanza» che inebriava «le menti degli Dei», le Muse: egli levò la destra, accennando;
Il Padre le esortò a tentar esse, con le loro arti blandamente persuasive, di schiuder le ardue menti.
Le Muse ritrovaron nel mondo le Virtù, le quali erravano solette e dolenti. Prima Calliope mosse «i bei precetti ad avverar del Padre», e s’accostò all’orecchio di Orfeo, susurrandogli dolci parole; la imitarono le altre sorelle, ciascuna eleggendo un mortale, cui ispirare gli armoniosi ammaestramenti:
Gli uomini, raggentiliti, assistettero a spettacoli non prima veduti:
Le personificazioni le aveva rimesse di moda il Monti. Ma codesta amabile Dea, degl’infelici sorriso, presso che sconosciuta al mondo classico, era stata negletta dai nuovi poeti del classicismo napoleonico. Essi, come quegli uomini primitivi, conoscevano bensì l’Offesa, la quale passeggiava con alta fronte, feroce e stolta, e provocatrice; non quel mite Genio che il Manzoni immagina le si opponesse:
Qui siamo in pieno mondo evangelico, e il poeta dell’Urania dà la mano a quello della Pentecoste. Sui passi del Perdono, veniva Nemesi, «seguace lenta ma certa»; la quale, quando s’accorge che le voci del Perdono non sono ascoltate, «non fa motto ed aspetta».
Chi non ricorda il Coro del Carmagnola?
Videro, quegli uomini primitivi, la Fatica che rimaneva in un cantuccio, inonorata e inascoltata; e a lei si avvicinava, amabile compagno, l’Onore, cercando di renderla più cara.
Codesto senso novo prenunzia, a me pare, molto vicino l’Inno del poeta, che, più risolutamente cristiano e sfranchito di quel ciarpame neoclassico, magnificherà ai «tementi dell’ira ventura» il rinnovato sacrifizio de
Così, a quelle nuove aure di pietà e d’amore, la società umana sorrise come, dopo uno squallido inverno, la terra ai tepori primaverili. Le Muse, «de’ lieti principii in cor secure», donarono agli uomini «il plettro e l’arte sacra del plettro», e le amiche Grazie «il dilettar denaro e il suader potente»:
Era l’ultima aetas virgiliana, il sospirato ritorno dei Saturnia[xxx] regna, ovvero un’età novissima, che si rannodava a quella ch’ebbe già ad annunziare
Era un’utopia, per così dire, retrospettiva, a cui forse spingevano pur le dottrine sociali del Rousseau; o una meditata riconciliazione con la più santa utopia della fratellanza evangelica? A ogni modo, il poeta, che voleva ostentare uno spensierato neopaganesimo, ecco che rivelava, nel fondo del suo cuore, un ardore di neofita e una sete d’idealismo cristiano, che male celavan le ceneri della miscredenza volterriana. In questo Carme, così classicamente drappeggiato, il paganesimo non è che al di fuori, nella forma. La Musa ispiratrice, l’Urania del nuovo poeta, «di caduchi allori non circonda la fronte in Elicona»; e le Grazie, che ne allietano il canto, non mendicano estranei fregi da intessere al vero, o profani diletti. La Musa manzoniana è severa e pudica, e caste e immacolate le Grazie che le fanno corona.
Il Manzoni ha già trovata persino la formola della nuova arte sua; così che più tardi, Apollo, irato contro i Romantici milanesi, non avrà se non da ripetere, nella terribile sua sentenza:
[16] Cicerone chiamò volubilis l’orazione facile, Brut. 28; e il Tasso, Gerus. lib., XX, 13, disse: «Così correan volubili e veloci Dalla sua bocca le canore voci»; e il Monti, Prometeo, I: «Nè della lingua all’imperfetto guizzo Permise la volubile parola».
Dopo la pubblicazione dell’Urania, nel 1809, il genio del Manzoni tacque, fino al 1815, quando vennero fuori i primi quattro Inni sacri. Che cosa era avvenuto in questi sei anni,[xxxi] che vanno dal ventiquattresimo al trentesimo del poeta, e son quelli dunque della virilità operosa? Ce lo dicono soprattutto le preziose lettere a Claudio Fauriel; a quell’amico «cortese»,
come protestava il Manzoni, negli sciolti A Parteneide.
Le lettere al Fauriel a noi pervenute sono cinquantaquattro,[17] e di esse la prima è datata da Susa, 17 febbraio 1807. Parecchie son quelle di quest’anno e dei successivi fino al 20 aprile 1812; poi succede un lungo silenzio di circa due anni. Il 9 febbraio 1814, ecco che il Manzoni si rifà vivo, per dar conto all’amico della sua felicità domestica e dei lavori che aveva tra mani. Comincia:
«Si je voulais m’engager à vous expliquer comment il s’est fait, qu’avec le plus vif et le plus constant souvenir d’un ami tel que vous, j’ai laissé passer tant de tems sans me rappeler à vous....., je ne saurais comment m’y prendre, et j’espère que vous voudrez concilier avec votre indulgente amitié ces deux faits, dont l’un n’est que trop indubitable, et sur l’autre desquels je désire bien ardemment que vous n’ayez jamais eu de doutes. Je romps enfin ce silence que je me suis si souvent reproché, ne sachant pas si quelque circonstance ne viendra pas me le faire garder forcément pour quelque tems, et me priver de la consolation d’avoir une lettre de vous».
Se si pensa ch’eravamo alla vigilia dell’abdicazione di Napoleone, s’intenderà facilmente come il timore di torbidi politici non era davvero campato in aria. Un tal Mantovani, antico servitore dell’Austria e molto devoto alla Chiesa, buon uomo del resto e smanioso dell’ordine, annotava in un suo[xxxii] diario, ora alla Biblioteca Ambrosiana, sotto la data del 1º gennaio di quell’anno:
«Incomincia il nuovo anno con un apparato assai lodevole, cioè non più colla speranza di esser liberati dal nostro governo, ma colla certezza di avere a giorni un grosso corpo di Austriaci a Milano. Questo pensiero ci fa tollerare le gravi e quotidiane contribuzioni, delle quali per la settima volta siamo aspramente angustiati». I sudditi, «gementi per l’orribile scorticazione», frenano le querele in attesa del vicino rimedio. «Milano ha un aspetto brillante, perchè avvivata dalla certezza di finirla».[18]
Occorre ricordare che il Ministro responsabile di quelle «quotidiane contribuzioni» e di quella «orribile scorticazione» era il Prina?
Fin dalla metà del dicembre 1813, l’esercito austriaco, sotto gli ordini del feld-maresciallo conte Bellegarde (di famiglia di condottieri, sul tipo del Conte di Carmagnola), aveva occupata la maggior parte della terraferma veneziana; e si buccinava che il re di Napoli, Gioacchino Murat, trattasse con lui ai danni del vicerè Eugenio. Certo, il 28 gennaio, il quartier generale dell’esercito napoletano era già a Bologna; e il 4 febbraio, Bellegarde occupava Verona. Di qui egli emanò un proclama, che strideva con quelli che il generale Carascosa e il procuratore Poerio venivan pubblicando, in nome del re Gioacchino, nell’ex-ducato di Modena e Reggio e nella provincia pontificia di Ancona. L’uno diceva: «Voi piemontesi, voi nobili toscani, e voi sudditi dell’antica Casa d’Este, tornerete nelle vostre felici condizioni d’una volta; la capitale del mondo cattolico cesserà di essere la seconda città di uno Stato straniero»; gli altri promettevano l’unità e l’indipendenza di tutta l’Italia, sotto l’unico loro re. E il giorno avanti che il Manzoni riprendesse la penna per iscrivere al Fauriel, l’8 febbraio, l’esercito austriaco, a cui il napoletano, venendo meno alle promesse, non s’unì, s’incontrò sul Mincio col franco-italiano condotto da Eugenio. Si combattè[xxxiii] con ardore e bravura dall’una e dall’altra parte; ma nè gli Austriaci riusciron nell’intento di porre il piede sulla riva lombarda, nè i Francesi a respingere il nemico di là dall’Adige. E che sarebbe avvenuto tra qualche giorno?
Il Manzoni aveva da poco comperata una casa, nella «contrada del Morone», al n.º 1171: quella stessa in cui poi passò tutta la lunga sua vita, e dove, fra tante altre, ebbe la visita di Cavour e di Garibaldi e del principe Umberto, e rifiutò garbatamente quella dell’arciduca Massimiliano (il povero Massimiliano!). Ad essa era congiunto, ed è ancora[xxxiv] un piccolo giardino: «où il y a un grand jardin», scriveva egli scherzosamente, «d’à peu près un dixième d’arpent». Poichè negli ozii di Brusuglio era diventato un giardiniere meglio che dilettante, ora si affretta a piantar qui le sue amate robinie[19] e abeti e rampicanti:
«où je n’ai pas manqué de planter des liquidambars, des sophora, des thuya et des sapins, qui, si je vis assez, viendront quelque jour me trouver par la fenêtre».
E intanto gli cresceva la famiglia. Il 21 luglio dell’anno avanti, gli era nato un secondo figliuolo (la primogenita, la Giulietta che poi andò sposa a Massimo d’Azeglio, era nata a Parigi, sul Boulevard des Italiens, al n.º 23, il 23 settembre del 1808; ed era stata tenuta a battesimo dal Fauriel, «homme de lettres, agé de 35 ans», e da Gaetano Boldoni, «homme de lettres, de 45 ans»): un maschietto questa volta, in cui aveva rinnovato il nome di suo padre. Veniva sù bene.
«....après avoir bien fait souffrir mon Henriette pendant la grossesse, il la dédommage à présent, et nous console presque à chaque instant par sa bonne santé, par sa tranquillité, par son hilarité et sa sagesse. Henriette le nourrit, et s’en trouve très bien. Il était né faible, et presque malingre, d’une mère qui était dans le même état; mais peu à peu tous deux se sont remis en force, au point qu’Henriette (à part des petites incommodités dont elle n’a jamais été bien libre) est une excellente nourrice, et mon petit Pierre est un des enfants mieux portants que l’on puisse voir».
La buona signora Enrichetta scriveva, alla sua volta, a una cugina che il neonato era «un bellissimo bambino e rassomigliava intieramente alla sua piccola sorella:... i suoi due primi nomi», aggiungeva, «sono Pietro Luigi, ma noi lo chiamiamo Pedrin». Un vero idillio domestico; e il babbo giardiniere, tra il sorriso dei bambini e le cure agricole, non dimenticava i versi. «Quant à moi», diceva, «je suis entre la famille, les arbres et les vers».
[17] Per codeste lettere, vedi: Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio inedito da Angelo de Gubernatis; 2ª edizione, Roma, 22 maggio 1880.—Sul Fauriel (nato a Saint-Étienne, il 21 ottobre 1772) e sulla sua corrispondenza col Manzoni, son da rileggere i due saggi del Sainte-Beuve, da prima apparsi nella Revue des deux mondes del 1845 e 1846 (il Fauriel era morto il 15 luglio 1844), poi nei Portraits contemporains, t. IV, Paris, 1889.—Scrissero anche del singolare letterato francese il Renan, nella Revue des deux mondes del dicembre 1855, e il Fortoul, nella stessa rivista, maggio 1846.
[18] Cfr. G. de Castro, La restaurazione austriaca in Milano (1814-1817); nell’«Archivio storico lombardo», a. XV. s. II. fasc. 3, 30 settembre 1888; pag. 597.
[19] Con la nipotina Vittoria, figlia di Pietro e moglie poi del senatore Brambilla, egli amava, più che del Romanzo, vantarsi d’essere stato «il primo introduttore delle robinie in Italia!».
Mette conto d’indugiarsi un momento a considerare il Manzoni sotto questo nuovo aspetto, di agricoltore e di giardiniere. Una simile simpatia per gli esperimenti agricoli mostrò prima di lui, tra i nostri grandi poeti, il Petrarca.[20]
In una lettera da Brusuglio, 20 luglio 1810, il Manzoni, ch’era tornato pochi giorni prima, dopo una sosta più o meno lunga a Lione e a Torino, da Parigi, informa gli amici, che con tanto rimpianto aveva lasciati alla Maisonnette, dei risultati ottenuti dalla seminagione del cotone, e dei tentativi fatti a Lecco pel caffè.
«En vérité le climat est bien meilleur ici; le soleil y donne de bonne foi, je suis déjà devenu tout-à-fait cultivateur. J’ai vu le coton dont j’ai envoyé de Paris la graine....: quelques plantes ont déjà plus d’un pied, de sorte que j’espère en cueillir, quoiqu’il ait été planté à la fin de mai. Si cela réussit, il me paraît qu’on pourra ne plus douter de celui qu’on plantera à la moitié d’avril. J’ai demandé compte de celui que j’avais planté moi-même il y a deux ans, et on m’a présenté un panier de cocons, dont une partie bien mûris; que sais-je si ç’a été cueilli à temps? Il y a mieux: c’est qu’on m’assure dans la maison d’avoir pris du café planté et cueilli a Lecco: nous verrons l’année prochaine. J’ai semé de la luzerne; le sainfoin vient ici naturellement dans les blés et parmi les buissons».
Il 21 settembre riscrive, con maggior calore e meglio addottrinato, al suo Fauriel, «à ce divin Fauriel»:
«.... je suis dans les projets d’agriculture jusqu’au cou. J’ai trouvé ici beaucoup d’excellents livres, dont je ne savais pas même l’existence: ce m. Re entr’autres en a écrit plusieurs avec une sagesse, une expérience et une étendue de connaissances qui font vraiment plaisir. Les cotons sont flambés pour cette année, excepté le nankin dont je ferai quelques graines; mais ça ne me décourage nullement....».
In un’altra lettera, del febbraio 1811, discorre ancora lungamente di cotone e di trifoglio, e sollecita una larga spedizione di semi. Soggiunge:
«Pour les graines de fleurs, soyez le plus généreux que vous pourrez; et si on pouvait en avoir d’arbres ou arbrisseaux exotiques, que vous pourrez conjecturer n’être pas encore multipliés en Italie, je me recommande à vous. J’ai le Bon-Jardinier, Dumont-Courset, et Miller. Le professeur Re a publié Il Giardiniere avviato nella sua professione, que je crois un très bon livre.—À-propos, j’ai demandé ici au pépiniériste de la graine de robinier; il m’a dit que cette année en avait donné très peu, que lui n’en avait qu’en petite quantité, et il a ajouté que celle venue ici levait très difficilement; cher et bon ami, ajoutez à votre envoi un bon paquet de cette graine, qui, je crois, se trouve à Paris très facilement. La Datura arborea se multiplie-t-elle par graines? Si cela est, que j’en aie. Et peut-on en avoir du cèdre du Liban? Je ne crois pas vous avoir parlé de mon dattier; il a peut-être six pouces à présent (il a été semé en juillet passé), mais le Dictionnaire d’Agriculture me dit qu’il lui faut vingt ans pour avoir je crois deux ou trois pieds: c’est encourageant».
E ancora, il 6 marzo 1812:
«.... il vaudra mieux vous prier de m’écrire pour me donner avis de votre départ, et pour me parler par anticipation de votre Dante, qui doit à présent être bien avancé.[21] Vous trouverez ici un jardin aussi bien avancé; vous trouverez une montagne qui a déjà presque dix pieds de hauteur, et que les géologues de la postérité assureront avoir été formée par le Seveso, qui est un torrent qui passe a peu de distance de la dite montagne. Vous trouverez aussi des forêts; mais avant qu’elles soient achevées, il faudra que vous ayez la bonté de me procurer les graines dont je joins la note a cette lettre».
Il Fauriel non avrebbe dovuto e potuto resistere a un invito, che presentava tante attrattive! E il Manzoni non si stanca d’insistere: «Venez! venez donc! J’ai mille projets de plantations que nous exécuterons ensemble». E poi: «J’ai trouvé (c’est-à-dire, je sais où trouver) une fameuse pièce pour votre travail; ce n’est rien moins qu’une lettre inédite de Vico sur Dante: Cuoco[22] l’a donnée à Bossi, qui me l’a[xxxvii] promise». Attendeva con impazienza nuove spedizioni di semi, e intanto si scusava pei fastidii che con simili richieste egli arrecava agli amici della Maisonnette: «des longues et[xxxviii] fatigantes recherches que ces graines vous ont coûté». In quell’aprile egli andava a Brusuglio quasi ogni giorno, per[xxxix] attendere e sorvegliare ai lavori del giardino. «Croiriez-vous», scriveva il 20, «que nous plantons encore? et que nous planterons la semaine prochaine? tant la saison est arriérée!».
Ora, pur codesto infatuamento georgico, come gli entusiasmi per la poesia romantica e per la storia medievale, s’erano accesi nell’animo del Manzoni negli anni di Auteuil e della Maisonnette. La dea di quei ritrovi intellettuali, l’amabile e amata signora Condorcet, era stata, e continuava ad essere, un’appassionata studiosa di botanica; e l’amico preferito, il Fauriel, non lo era meno. Negli anni, che anche ora ricordava con inestinta nostalgia, trascorsi a Saint-Étienne e a Tournon, questi aveva alternate le ardenti discussioni d’arte e di politica con lunghe passeggiate attraverso i campi o su per le montagne donde sgorga la Loira. La flora, i muschi soprattutto, avevan meglio attirata la sua simpatia; ed egli, secondando il bisogno del suo spirito, non s’era contentato d’una vaga ammirazione da dilettante, ma aveva approfondito quanto la scienza ne era venuto scrivendo. E quell’amore di gioventù e di provincia s’era confuso più tardi, nella capitale, con un amore che avrebbe poi tenuta avvinta tutta la sua vita. Un giorno dell’inverno 1801, quand’egli era addetto quale segretario particolare presso il Gabinetto del famoso ministro di polizia Fouché, aveva incontrato al Giardino delle Piante la signora Condorcet. Divennero presto amici; e il Fauriel nelle conversazioni di Auteuil e della Maisonnette trovò un appagamento più pieno de’ suoi gusti di scienziato e di storico, che non nel salotto della Staël, dove di preferenza s’agitavano questioni d’alta politica. Dopo, quando la colta signora rimase vedova, egli si era rifugiato con lei nella campagna presso Meulan; dove appunto li avevan ritrovati la Giulia Beccaria e il suo vénéré Charles, e dove venne a ricercarli Alessandro Manzoni.
Il quale conservava religiosamente un caro ricordo agricolo della gentile ospite. In una lettera al Fauriel del maggio 1821, esce a dire:
«Veuillez dire à madame de Condorcet que toutes les fois que je puis m’occuper d’agriculture ou de jardinage, je consulte de préférence l’Almanach du Bon Jardinier de 1820, et que je ne manque jamais de donner un coup d’oeil au frontispice».
Vi era, par facile l’intenderlo, una dedica della donatrice.
Occorre aggiungere che, in Lombardia, di quel tempo, i signori gareggiavano a piantare nelle loro ville begli alberi esotici e a coltivarvi bei fiori: ne aveva dato l’esempio l’abate Crivelli, nel magnifico parco di Mombello. Così che, anche nel Manzoni, si confondevano due amori: quello avito del signore lombardo, e quello nuovo del figlio dell’Enciclopedia e della Rivoluzione.[23]
[20] Vedi nel volume del De Nolhac, Pétrarque et l’humanisme, Paris, 1892, il curioso «excursus» Pétrarque jardinier, pag. 385 ss.
[21] Soltanto nella Revue des Deux Mondes dell’ottobre 1834 il Fauriel pubblicò poi la sua Vita di Dante. Le lezioni su Dante e le origini della lingua e della letteratura italiana furon pubblicate postume, dal Mohl, nel 1854, in due volumi.
[22] Vincenzo Cuoco, l’illustre autore del Platone in Italia e fondatore a Milano del Giornale Italiano, ebbe rapporti d’amicizia col giovane Manzoni. Rimase a Milano dalla metà del dicembre 1800 ai primi d’agosto 1806.—Cfr. l’eccellente studio di Attilio Butti, La fondazione del “Giornale Italiano„ e i suoi primi redattori, nell’«Archivio Storico Lombardo», 30 settembre 1905; pag. 121 ss.
[23] Scrivo queste pagine nella villa Negri alla Cassinetta, sul Naviglio grande, presso Abbiategrasso; dove appunto, tra maestosi tigli ed ippocàstani e noci d’India e gestroemmie e platani e magnolie e ailanti e thuie e abeti, piantati suppergiù nel primo decennio del secolo scorso, torreggiano due magnifici cedri del Libano. Quasi ad illustrazione del giardino, c’è poi una biblioteca ricca di libri d’agricoltura e di giardinaggio: dagli Elementi d’agricoltura di Ludovico Mitterpacher di Mitternburg tradotti da Carlo Amoretti, Milano 1794, in tre grossi volumi, alle Memorie dell’Accademia d’agricoltura commercio ed arti di Verona, 1807; dalla Coltivazione dei bigatti del prete Antonio Abate, 1803, al saggio Dei letami del conte Filippo Re, 1815; dall’opuscolo sulla Coltivazione delle patate e loro uso di Carlo Amoretti, bibliotecario dell’Ambrosiana, 1801, ai Saggi di agricoltura pratica del conte Carlo Verri, 3ª ediz., 1818; dall’École du jardin potager del De Combles, 6ª ediz., 1822, a Le bon jardinier pour l’année 1827, ventottesima edizione!
Il Fauriel era stato messo a parte dell’evoluzione religiosa che si veniva compiendo nell’animo del Manzoni: «il già sì fiero Alessandro», come, non senza enfasi e compiacimento d’apostolo, lo chiamava monsignor Luigi Tosi. Il quale era un po’ come il Sarto dei Promessi Sposi: avendo avuto mano a quella conversione, gridava volentieri al miracolo. Scriveva da Milano all’abate Dègola, genovese (n. 1761, m. 1826), il 26 agosto 1810:
«Buon per me... che il Signore ha fatto tutto in questa famiglia. Egli ha data a tutti tre tanta semplicità e docilità, quanta non ne ho mai trovata in vent’anni di ministero, nemmeno nelle persone più rozze e più basse. Oh qual miracolo è questo della Divina Misericordia! Non la sola Enrichetta, che è un angelo di ingenuità e di semplicità, ma Madama, ed anche il già sì fiero Alessandro, sono agnellini che ricevono con estrema avidità le istruzioni più semplici, che prevengono i desiderii[xlii] di chi dovrebbe dirigerli, che dànno coraggio a chi loro parla onde parli liberamente, che tutto mettono a profitto di loro santificazione. Intanto il sistema di famiglia è ordinato nel modo più savio; l’unione dei cuori è mirabile; e tutti cospirano ad animarsi vicendevolmente, a rinfrancarsi, a disprezzare tutti i rispetti umani. La città nostra è sommamente edificata da questo prodigio della destra del Signore; i buoni sono inteneriti, e presagiscono grandi beni alla causa della Religione da un tratto di grazia così straordinario ed inaspettato... Alessandro ha intrapresa la carriera con estrema docilità e sommessione; domani avremo ancora una lunga conferenza, e se il Signore conserva ed accresce in lui le sue benedizioni, egli pure sarà per fare gran passi»[24]
Non pare di riconoscere, nella pomposa eloquenza di questo monsignore, quella non meno calda e colorita del diacono Martino, nell’Adelchi?
Il Manzoni, dal canto suo, convinto d’essersi rimesso sulla buona via, tentava d’attirarvi, con quella signorilità di garbo che in lui era natura, anche l’amico del cuore. E gli scriveva da Brusuglio, il 21 settembre di quello stesso anno 1810:
«Quant à moi, je suivrai toujours la douce habitude de vous entretenir de ce qui m’intéresse, au risque de vous ennuyer. Je vous dirai donc qu’avant tout je me suis occupé de l’objet le plus important, en suivant les idées religieuses que Dieu m’a envoyé à Paris, et qu’à mésure que j’ai avancé, mon coeur a toujours été plus content, et mon esprit plus satisfait. Vous me permettez bien, cher Fauriel, d’espérer que vous vous en occuperez aussi. Il est bien vrai que je crains pour vous cette terrible parole: Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et revelasti ea parvulis. Mais non, je ne le crains point, car la bonté et l’humilité de votre coeur n’est pas inférieure ni à votre esprit ni à vos lumières. Pardon du prêche que le parvulus prend la liberté de vous faire».
A buon conto, ora ha smesso l’idea di tradurre il poema del Baggesen; come invece n’aveva fatto solenne promessa in quella epistola A Parteneide, del 1807-08, che termina:
Tra’ letterati di Lombardia, quando il Manzoni diffuse codesto poema nella traduzione del Fauriel, esso non era piaciuto. E non tanto per difetti suoi propri, quanto pel genere idillico cui apparteneva, che qui riusciva insopportabile. Il febbraio del 1811, il Manzoni riscriveva all’amico:
«Il ne faut cependant pas que je ne vous dise rien de Parthénéide. Vous savez que j’avais le projet de la faire lire à tous ceux de ma connaissance qui savent lire. Je l’ai fait; mais, entre nous, avec beaucoup moins de succès que je ne l’espérais. Baggesen n’en saura rien: mais voilà ce qui le consolerait s’il en était informé: c’est qu’on dit qu’au moins Parthénéide est plus passable qu’Hermann et Dorothée. Je dis que ça le consolerait, parce qu’il verrait que ce n’est pas contre son Poème, mais contre le genre, qu’on est prévenu. Difatti on a plaint beaucoup son beau talent de s’être exercé sur des niaiseries».
Alla versione il Fauriel aveva premesso un suo dotto, assennato e arguto Discorso preliminare, dove faceva man bassa su tutti i trattati di rettorica, ed inaugurava una critica filosofica, che guardava nell’intimo dell’opera d’arte. «C’est une critique au vrai sens d’Aristote, qui parle chez nous pour la première fois», sentenziava un giudice che se n’intendeva, il Sainte-Beuve.[25] E il Discorso sì, era stato gustato anche qui, da tutti.
«Mais votre discours», continuava il Manzoni, «a été goûté extraordinairement par tous. On admire la sagesse et la nouveauté des principes que vous posez; on est enfin enchanté: mais on dit que le genre Idyllique est insipide, sans variété, sans intérêt, sans vraisemblance: que ces poèmes le prouvent. Arrangez-moi cela. Au reste, ne prenez pas tout cela à la lettre, car il pourrait se faire que j’eusse entendu cela d’une manière plus exagérée qu’on n’a voulu le dire».
Il Manzoni ora aveva per il capo qualcosa di radicalmente diverso dal viaggio delle tre giovani sorelle a traverso l’Oberland[xliv] fino alla Jungfrau: il dio della Vertigine e il dio dell’Inverno, troneggianti sui ghiacciai alpini, nè lo attiravano, nè lo commovevano più. Nel suo ardore di neofito, egli veniva vagheggiando l’idea di comporre una serie di Inni sacri, e fissava sulla carta dodici soggetti: 1. Il Natale.—2. L’Epifania.—3. La Passione.—4. La Risurrezione.—5. L’Ascensione.—6. Le Pentecoste.—7. Il Corpo del Signore.—8. La Cattedra di San Pietro.—9. L’Assunzione.—10. Il nome di Maria.—11. Ognissanti.—12. I Morti. Dall’aprile al giugno 1812, ne aveva già composto uno, La Risurrezione: quel forte aveva finalmente scosso e gettato via il logoro bagaglio neoclassico, che ne impacciava i movimenti;
L’intonazione morale e qualche procedimento artistico permangono pariniani. Le interrogazioni onde l’Inno comincia («Or come a morte La sua preda fu ritolta? Come ha vinte...? Come è salvo...?»); le figurazioni scultorie («dall’un canto Dell’avello solitario Sta il coperchio rovesciato»; «Un estranio giovinetto Si posò sul monumento...»); il colorito realistico («Non è madre che sia schiva Della spoglia più festiva I suoi bamboli vestir»); i precetti morali e sociali, inculcati con bonaria autorità («Sia frugal del ricco il pasto....»): fanno pensare agli ammirati modelli dell’austero predecessore. Ma qui la morale, che vorrei dire stoica, del cittadino abate è pervasa e sublimata dalle essenze più pure ed eterne del Vangelo. Col fiero laico, già volterriano, rifiorisce la poesia che spera e prega, che accenna «al premio che i desidèri avanza», che, sconfortata dell’impotenza dell’umana Ragione, ridispiega fiduciosa le ali verso quel «Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola».
Con la lettera, onde siamo mossi, del 9 febbraio 1814, il[xlv] Manzoni informa il Fauriel d’aver condotti a termine altri due degl’Inni: certamente Il nome di Maria, che fu composto dal 9 novembre 1812 al 19 aprile 1813, e Il Natale, dal 13 luglio al 29 settembre 1813.
«J’ai écrit deux autres Inni, avec l’intention d’en faire une suite: le premier de ceux-ci, qui ne sont que manuscrits, a eu tout le succès que je pouvais désirer; le second n’a pas été si approuvé, ce qui m’a fait croire que tous ceux qui en ont jugé avaient perdu le sens commun, eux qui avaient tant de pénétration quand ils ont trouvé les autres bons! Quand les temps seront un peu plus tranquilles, je les soumettrai à votre jugement, qui est pour moi la plus grande autorité».
[24] Cfr. Eustachio Dègola, il clero costituzionale e la conversione della famiglia Manzoni; spogli da un carteggio inedito di Angelo De Gubernatis; Firenze, Barbèra, 1882; pag. 494-95.
[25] Portraits contemporains; Paris, 1889. IV, pag. 196.
In grazia degl’Inni, il Manzoni aveva messo da parte—per poco tempo, come immaginava, nella certezza di riprenderlo poi più tardi (sono illusioni di cui si può esser vittima anche senza esser «letterati grandi»!)—un altro suo poemetto; che, a giudicarne dagli scarsi indizi, sarebbe riuscito d’ispirazione, anch’esso, tra virgiliana e pariniana.
«Il s’en faut bien que j’aie mis de côté mon petit poème, quoique depuis quelque temps je n’y ai pas mis la main; mais j’ai tout mon plan fait, et quelques morceaux d’écrits».
Di codesto disegno generale e di codesti brani il Bonghi dichiarò di non aver ritrovata traccia nè tra i manoscritti manzoniani, nè presso gli amici del poeta. Non è improbabile che altri, in grazia di più diligenti ricerche, possa essere più fortunato. Ad ogni modo, da una lettera precedente, del 5 ottobre 1809, scritta a Parigi e diretta alla Maisonnette, apprendiamo che il soggetto del poema era la vaccinazione.
«Je suis plus heureux que je ne le mérite, pour ma Vaccine. Je réçois de Milan un extrait d’un ouvrage que l’on va imprimer, et dans lequel il est dit que non seulement on a trouvé la petite vérole dans les vaches en quelques endroits de la Lombardie, mais que dans la Valle di Scalve, qui est dans les montagnes de la Bergamasque, il y avait une tradition, que l’on conduisait les vaches infectes dans les maisons de ceux qu’on voulait preserver de la petite vérole naturelle. Ainsi, voyez, j’ai vaccine, Lombardie, montagnes et tradition!».
Si trattava dunque d’una specie d’ampliamento, sul modello delle Georgiche, con variazioni didascaliche, descrittive e narrative, della famosa ode al dottor Bicetti? A buon conto, oramai il poeta aveva già sotto mani, sulla tavolozza, quel che di meglio, anzi d’essenziale, l’arte sua pretendeva: l’ambiente storico o leggendario della sua Lombardia, e quei monti, quella pianura a perdita d’occhio, quei colli «beati e placidi», quei laghi incantevoli, quei fiumi e quei ruscelli, che son già nello sfondo delle sue tragedie, e son tanta parte del suo romanzo.
Vero è che il momento buono di mettersi intorno a codesto poema non veniva mai. Aveva, sì, fatto un altro passino avanti. Per quanto egli fosse un grande ammiratore del Giorno, e di quel verso sciolto che ha tutta la squisita e snella eleganza d’una clamide, onde gli scultori greci rivestivan le Giunoni o le Minerve, le Flore o le Muse; e ammirasse, anche in questo d’accordo col Fauriel, la stupenda versione montiana dell’Iliade[26]: si era dovuto convincere che, per un poema un po’ ampio, il verso sciolto dovesse riuscire a stancare. Altro è un poemetto, come il Carme all’Imbonati e l’Urania, come il Prometeo del Monti e I Sepolcri; e altro, poniamo, un poema come L’Italia liberata dai Goti o Le Api del Ruccellai o La Coltivazione dell’Alamanni. Il metro veramente acconcio per componimenti di tanta ampiezza, nella nostra poesia, è l’ottava: quella dell’Orlando Furioso, se non anche quella della Gerusalemme Liberata, e della Coltivazione de’ Monti di Bartolomeo Lorenzi.[27]
Il 6 marzo del 1812, il Manzoni riscriveva da Milano:
«Je vous dirai aussi un mot de ce travail dont je vous ai parlé à Paris. Je n’y ai pas trop pensé, ainsi je n’ai fait jusqu’à présent que le plan et le commencement du premier chant. Il est en octaves, auxquelles je me suis decidé par la crainte qu’une suite trop longue de vers blancs ne devint assommante, et je m’en trouve très content. Mais je pense bien vous consulter là-dessus, si vous avez la patience de m’écouter».
Il 20 aprile, si era ancora allo stesso punto: il poema stava molto in mente del poeta, ma quanto al tradurlo sulla carta non sembra fosse progredito. Anzi si direbbe, a giudicarne dalla risposta del Manzoni, che le assennate osservazioni del Fauriel non dovessero contribuir molto a confortare e spingere il poeta a quella traduzione. Riscriveva da Brusuglio:
«Un mot de mon ouvrage; que l’intérêt que vous y prenez m’est cher! Je suis plus que jamais de votre avis sur la poésie; il faut qu’elle soit tirée du fond du coeur; il faut sentir, et savoir exprimer ses sentiments avec sincérité: je ne saurai pas comment le dire autrement. Quel dommage qu’après avoir prétendu faire de la poésie sans ces qualités, on se soit avisé à présent de la gâter dans ces qualités-là même! J’ai bien des choses à vous dire là-dessus, et j’espère que j’en aurai davantage à entendre, car c’est toujours pour moi un grand plaisir et un grand profit».
Certo, anche un poema sulla vaccinazione può dar luogo a poesia sentita, cavata dal fondo del cuore, e può essere espressa con sincerità; ma insomma, non è proprio un poema didascalico-narrativo quel che si sia meglio disposti a comporre, quando si è in quell’ordine d’idee circa la poesia! Il Manzoni non ne aveva però smesso il pensiero, anzi fa, sul proposito, nuove risoluzioni. Continua a dire:
«Vous avez deviné que j’ai agrandi mon plan; je l’ai même bien établi à présent, et j’en vois déjà beaucoup de détails. J’ai cependant pensé de ne pas trop m’occuper de ceux-là que quand j’y serai. Quant au style et à la versification, après m’être un peu tourmenté là-dessus, j’ai trouvé la manière la plus facile, c’est de ne pas y penser du tout. Il me parait qu’il est impossible d’appliquer dans le moment de la composition aucune des règles, ou qu’on peut avoir apprises, ou que notre expérience peut nous fournir; que de tâcher de le faire, c’est réussir à gâter sa besogne, et qu’il faut bien penser, penser le mieux qu’on peut, et écrire. Je me suis souvenu alors du verbaque provisam rem non invita sequentur [Hor., A. Poetica, v. 311], que je trouve être la seule règle pour le style, sans vouloir mettre en doute l’utilité réelle et très grande qu’il y a dans les recherches sur les causes des beautés du style, ni les bons effets de ces études sur l’esprit de celui qui fait des vers, et sur ses vers par conséquent».
Qui ci si affaccia già il critico audace della mirabile Lettera sulle Unità di tempo e di luogo, e il poeta spregiudicato delle tragedie; qui lo scrittore più meditativo, o uno[xlviii] dei due più meditativi, dell’Italia nuova (giusti son duo; ma non sembra vi siano ora molto intesi, dacchè altre faville hanno i cori accesi!), annunzia già il suo programma del pensarci sù!
Dal naufragio, che pare travolgesse il poemetto, furon salvati due versi soltanto, la chiusa d’un’ottava, mercè l’indiscrezione del più intimo degli amici del Manzoni. Scrivendo al Giusti, Tommaso Grossi venne fuori a dire:
«....Quando parli del concetto che si presenta splendido alla mente, e che costa tanto sforzo a tradurlo sulla carta, e riesce sempre monco, mi tornano alla memoria due versi del nostro Alessandro, che si trovano in una certa filastrocca inedita e non compita, che lavorò da giovane, e che avea per titolo: L’innesto del vaiuolo. Volendo anch’egli significare in versi quello che tu significhi in prosa, finiva una ottava così:
[26] «Monti a été enchanté du jugement favorable que vous faites de son Iliade». Lettera del Manzoni al Fauriel, febbraio 1811.
[27] Non è forse inopportuno ricordare che il Parini aveva scritto un sagace Parere su codesto poemetto del Lorenzi. Cfr. la mia edizione 2ª delle Poesie di G. Parini, 1906, pag. 70.
Le vicende politiche venivano a turbare tanto idillio domestico, e tanta operosa pace di studi e di poesia. Ricordo ancora due date: il 20 dicembre del 1813, gli Alleati avevan passato il Reno, e invaso il territorio francese; il 25 gennaio 1814, Napoleone aveva con un nuovo esercito lasciato Parigi, e andava loro incontro. Il 9 febbraio, come ho detto, il Manzoni rompeva il lungo silenzio con l’amico della Maisonnette, per riparlargli della famiglia, del giardino, del poemetto sulla vaccinazione, degl’Inni sacri. Soggiungeva:
«Ne trouvez-vous pas un peu extraordinaire qu’au milieu de tout ce tapage je vous parle de ces affaires? Mais vous savez que c’est un des plus grands mérites des poètes, fra tanti e tanti a lor dal ciel largiti, de trouver toujours le moyen de parler de leurs vers».
L’11 febbraio, la guarnigione francese di Verona, stretta dagli Austriaci, non potè più resistere, e s’arrese. Il 7 marzo, ottomila tra Inglesi e Siciliani, condotti da lord William Bentinck, il quale diceva di propugnare la costituzione di uno Stato libero italiano, sbarcarono presso Livorno; e il 14,[xlix] l’ammiraglio vi proclamò d’esser venuto a stendere la mano agl’Italiani «per liberarli dal ferreo giogo dei Bonaparte». I Napoletani, con propositi non occulti di raggruppar la Penisola in un’unica monarchia indipendente, si fortificavano in Ancona e venivano via via occupando le altre città delle Marche. Sulle lagune, sul lago di Garda, sulle rive dell’Adige e del Mincio, avvenivano frequenti scontri degli Austriaci coi franco-italiani, con varia fortuna. Tra il quartier generale di re Gioacchino, il gabinetto dell’imperatore Francesco e lord Bentinck, era un vivo scambio di lettere. Nonostante le promesse e le belle parole, si capiva che l’Austria intendeva soprattutto alla restaurazione delle antiche dinastie: e il suo esercito, a buon conto, era entrato in Roma e vi aveva occupato il castel Sant’Angelo; e il conte Starkemberg s’era insediato in Firenze; e il conte Nugent creava, nei dipartimenti del Panaro e del Crostolo, un governo militare provvisorio, in nome dell’arciduca Francesco d’Austria-Este, erede di Ercole Rinaldo ultimo duca Estense, morto duca del Brisgau.
La Lombardia, dal Mincio al Ticino, costituiva ancora il Regno d’Italia, e il vicerè Eugenio n’era tuttavia a capo. Sennonchè si presentivan prossimi, e generalmente si auguravano, possibili e più o meno radicali mutamenti. Il Beauharnais non v’era propriamente odiato, ma neanche amato. «Allevato ne’ campi di vincitori e di capitani, ma più d’ogni altro sotto la verga del loro maestro, aveva imparato a guerreggiare, e a temere d’acquistarsi regno da sè. A dirne il vero», soggiunge il Foscolo[28] «pareva nato solo a regnare in tempi tranquilli, dotato com’era di forte senso comune; di cuore perplesso a chi non sapeva incalzarlo; amorevole, non però liberale nè confidente; poco magnifico, se non in cose che potevano fruttare o rivendersi a un tratto; e prontissimo a sentirsi predominare dalle menti e dalle anime superiori alla sua». Amata invece, e da tutti, era la viceregina, la soave Augusta Amalia di Baviera, «bellissima fra le giovani, e d’indole angelica, e madre di principi nati in[l] Italia».[29] Il Foscolo, che la definisce così, disegnava di celebrarla nell’Inno secondo delle sue Grazie; dove aveva abbozzato per lei questi versi:
Rispettato tuttora, ma reso poco valido dagli acciacchi, era il cancelliere Francesco Melzi duca di Lodi, il quale aveva varcata la sessantina. Odiati invece, per la loro arroganza, erano il conte Méjean, segretario del Principe, e il Darnay, zelante direttore delle Poste, che voleva dire efferato intercettatore di corrispondenze: e basterebbe sentire il Manzoni, per farsi un’idea del ludibrio a cui era ridotto il servizio postale. Mal tollerati erano altresì alcuni dei ministri: i conti Vaccari e Paradisi, in ispecie, anche perchè, dice il Foscolo, l’uno essendo bolognese e l’altro modenese, eran «nominati forestieri in Milano».[30] Odiatissimo poi era il[li] novarese conte Prina, ministro delle Finanze, una delle più implacabili sanguisughe che mai abbiano servito alle dispendiose ambizioni del conquistatore. L’oculato duca Melzi lo aveva segnalato come agente pericoloso fin dal 1802, in un rapporto al Primo Console; ma codesti biasimi sonavano elogi all’orecchio del monarca, che della pietà non sapeva cosa farsi. Al cancelliere del piccolo Regno italico, questi avrebbe potuto rispondere quel che più tardi non si peritò di ribattere al Metternich: «Vous n’êtes pas soldat, et vous ne savez pas ce qui se passe dans l’âme d’un soldat. J’ai grandi sur les champs de bataille, et un homme comme moi se soucie peu de la vie d’un million d’hommes!»[31].
Napoleone era ancora «in solio», ma non più «folgorante»: la «reggia» rovinava, e il fantasma del «triste esiglio» si faceva ogni giorno più minaccioso; alle voci di «servo encomio» succedevan quelle di «codardo oltraggio». Anche in Milano gli scontenti levavano il capo. E mentre gli Austriaci premevan di fuori, e richiamavano il Principe e le[lii] sue milizie al confine, di dentro gli austriacanti, per la più parte aristocratici o burocratici, e i così detti Italici, ch’eran gli zelatori di ordinamenti nuovi, facevan leva insieme per rimuovere quel governo prepotente e rapace. Le simpatie del giovane Manzoni erano, s’intende, per gl’Italici; tra’ quali, com’egli si segnalava, oltre che per il resto, per la eccessiva prudenza, così si poneva in vista, con pericolosa imprudenza, il giovane conte Federico Confalonieri. Non so se già allora, certo di poi, nelle tragiche vicende di codesto audace cospiratore, il Manzoni gli si mostrò affezionato estimatore; e non esitò a manifestare, sotto gli occhi sinistri e sospettosi dell’aquila grifagna, la sua ammirazione per la eroica compagna del martire, la contessa Teresa Casati. Pel sepolcro di lei, morta di ansie e di crepacuore il 26 settembre del 1830, quando ancora il marito era imprigionato allo Spielberg, egli dettò una delle poche sue epigrafi, che fu scolpita nella tomba della famiglia Casati a Muggiò presso Monza; dove tra l’altro diceva: «Maritata a Federico Confalonieri il 14 settembre 1806—ornò modestamente la prospera sorte di lui—l’afflitta soccorse con l’opera e partecipò con l’animo—quanto ad opera e ad animo umano è conceduto.—Consunta ma non vinta dal cordoglio—morì sperando nel Signore dei desolati...—Vale intanto, anima forte e soave!». E al Confalonieri medesimo egli non si peritò di dare una esplicita prova dell’immutabile suo attaccamento, mandandogli allo Spielberg il libro dell’abate Ph. Gerbet, Considérations sur le Dogme générateur de la piété catholique (Paris 1833), che, in quei tempi di rinnovato fervore religioso, meritò al suo autore il nome di Platone cristiano. Vi scrisse sulla prima pagina:
A Federigo Confalonieri.
Che può l’amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell’esiglio, la desolazione d’una perdita irreparabile? Qualche cosa, quando preghi: chè, se sterile è il compianto che nasce nell’uomo, e finisce in lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dio ritorna.
Alessandro Manzoni.
Milano, 23 aprile 1836.
[28] Lettera apologetica, nelle Prose; Firenze, Le Monnier, 1850, pagina 556.
[29] A proposito di codesti principi, m’è caro rimandare all’interessante articoletto dell’amico prof. Giovanni Bognetti, Nascite sovrane in Milano (1773-1830), nella miscellanea nuziale Da Dante al Leopardi; Milano, Hoepli, 1904, pag. 652 ss.—Il Bognetti riferisce (p. 659) un brano di lettera del Melzi ad Eugenio, scritta dopo la partenza della viceregina, in cui poteva dirgli senza tema di cortigianeria: «Je puis assurer aussi à mon tour que tout est tranquille à Milan, mais bien triste, surtout depuis le départ de la Princesse, qui a réellement affecté toutes les classes de la population».
[30] Non so quanta fede meriti qui il Foscolo. Egli è di umor nero contro i Milanesi, ora. Comunque, se questi, e allora e poi, peccarono di eccessivo municipalismo, è certo che il maggiore tra essi, e allora e poi, aborrì da un cotal sentimento, perniciosissimo ai suoi ideali di patria. Ricordo un solo episodio. Al genero G. B. Giorgini, che gli aveva mandato da leggere gli stampini del suo opuscolo Dell’unità d’Italia in ordine al diritto e alla storia (Milano, Redaelli, 1861), egli scriveva l’11 marzo 1861: «L’esserti fatto tanto umile, mi fa esser tanto temerario. T’avverto dunque che se non mi viene un tuo avviso in contrario, a posta corrente, farò sulle prove del torchio... un piccolo cambiamento... A un calabrese sostituirò un Fabrizio Maramaldo. E questo perchè non m’avendo tu scritto d’aver trovato che tale fosse veramente la patria di quel colui, posso credere che l’osservazione ti sia sfuggita. E ad ogni modo mi par ben fatto di scansare ogni nome di provincia italiana nei fatti odiosi». Cfr. D’Ancona. VI lettere di A. Manzoni a G. B. Giorgini (per nozze), Pisa, 1896, p. 9-10: e anche D’Ovidio, Saggi critici, Napoli, 1878, p. 76.—Pel sentimento antiregionalista del Manzoni, si vegga pure la mia Introduzione al volume I di queste Opere, pag. XLIII.
[31] Cfr. Mémoires inédits du prince de Metternich, Paris, Plon, 1879; e cfr. «Revue des deux mondes» del 1º dicembre 1879, pag. 490.—Lo spunto delle parole di Napoleone alle prese con quel volpone della diplomazia, ricorda quelle dal Manzoni messe in bocca al Carmagnola tra i volponi del Consiglio dei Dieci (a. V, sc. [1ª]): «Giudice del guerrier solo è il guerriero; Voglio scolparmi a chi m’intenda.....». E la somiglianza, del tutto casuale, tra ciò che disse l’uom fatale e ciò che pensava il poeta del Cinque maggio, non è priva d’interesse!
[32] Dicon dettata dal Manzoni l’ultima supplica, del 12 febbraio 1830, che la Teresa diresse all’Imperatore, perchè le fosse «concesso di terminare i suoi giorni accanto a quello che la Provvidenza le aveva dato per compagno». L’ha pubblicata il D’Ancona, nel volume sul Confalonieri.
Se si vuol prestar fede al Cantù, il Manzoni così avrebbe giudicato, parecchi anni dopo, dei precedenti e delle conseguenze di quelle agitazioni e di quei moti, che segnaron la caduta del primo regno italico.
«—La forza non ha mai fatto bene. In ogni secolo troverai pochi anni di pace, ne’ quali gli uomini progrediscono: tutt’a un tratto si rompe la guerra; chi aveva interesse a conservare il vecchio, torna allo stato di prima, e al fin della guerra si è ancora alla condizione antica, e si deve ricominciare la lotta del vero.
—La rivoluzione francese giovò veramente! Da gran tempo le menti avevano preso in fermento, una spinta verso il meglio. Le opinioni grandeggiando venivano ad imporre alle istituzioni... Poichè non avvennero, è impossibile dire appunto quali avvenimenti sarebbero nati dalla pace: ma i quarant’anni, in cui fosse seguitato quel progresso, senza interromperlo col volgerlo sopra fantasmi o vanità splendide, chi sa dove avrebbero portata l’umanità. All’incontrario, quando la rivoluzione finì nel 1814, si trovò che tutta Europa, stanca, amava di vero amore i rappresentanti del despotismo: primo, perchè pareano rimetterla in quiete; secondo, perchè son ben pochi che sappiano odiare uno senza amare il nemico di esso. Questo dai popoli. Dai re venne stabilito un diritto assoluto, un regnare per la grazia di Dio, per diritto sopra o extra-umano, che prima non v’era. Difatto non v’avea paese (quando forse non se ne eccettui la Lombardia) dove non vi fossero istituzioni indipendenti dal re. Tant’è vero che ogni re, quando veniva eletto, prestava un giuramento: il che suppone che credevano anch’essi qualche cosa superiore a sè, da cui tenevano l’autorità. Di ciò nulla dopo il 1814....
Si dice che in Lombardia non v’era idea di nazionalità prima che venissero i Francesi. Falso. Quando s’è in possesso d’una cosa, meno se ne discorre: d’indipendenza non parlano tanto gl’Inglesi p. es., quanto gl’Italiani. Nazionalità v’era sì, e mostravasi a mille atti aperto l’attaccamento al proprio paese, alle leggi, alle consuetudini; e quando i principi austriaci le violassero, se ne sentiva il lamento comune, si mandavano deputati a richiamarsene. Questa nazionalità è vero ch’era lombarda. Vennero i Francesi, che con manifesto despotismo la conculcarono, facendo tutto venir di fuori, leggi, armi ecc. ecc. Allora ci si pensò di più. E poichè trattavasi di rinnovare il principio, e l’idea di nazionalità lombarda era un assurdo evidente, si prese un simbolo più vero, più esteso: la italiana».[33]
Gl’Italici eran d’accordo nel vagheggiare un ideale d’autonomia e d’indipendenza; ma circa i modi e la via da tenere per conseguirlo, i pareri eran diversi o contrarii. I più reputavan possibile e desiderabile la conservazione di quell’effimero ed assurdo Regno d’Italia;[34] magari con un principe di Casa d’Austria, magari col Duca di Clarence, terzogenito del re Giorgio III d’Inghilterra. Il Manzoni era dei pochi che mirassero, con magnanima e incrollabile persistenza, alla unificazione monarchica di tutta quanta la Penisola,
Egli era convinto come assai spesso «sia più ragionevole chiedere il molto che il poco».[35] E se il supremo benefizio dell’unità avessimo dovuto riconoscerlo da un principe francese, si chiamasse Beauharnais o Murat, viva, per il momento almeno, anche Eugenio o Gioacchino!
Nello scartafaccio del Cantù gli sono altresì attribuite queste osservazioni:
«—Nel 1814 la maggior parte erano abbagliati dal fantasma della gloria passata: molti, per le circostanze delle cose, desideravano ardentemente gli Austriaci; cioè, dopo diciotto anni di tanti casi, desideravasi restituito quell’ordine di cose che allora, per voce di filosofi e confessione dei principi stessi, si era conosciuto disadatto. Pochi, i più quieti, dicevano:—Ma che volete mai fare? lasciate un po’ fare a loro! Volete andare contro tante baionette? ecc. ecc.—Allora si stabilì la pace.....
—Nessuna nazione ha diritto d’intromettersi negli ordinamenti interni delle altre, giacchè ciascuna deve conoscere il proprio meglio, e a questo provvedere di voto comune.....
—Non è mica ben intesa neppure la questione di straniero. Questa è affatto accidentale. Se straniero è chi parla diversa lingua, sono[lvi] dunque sotto padrone straniero l’Alsazia e i dipartimenti tedeschi?[36] Questa è qualità accidentale, giacchè potrebb’essere qui un governo tedesco, senza le cancellerie auliche, ed esser buono, purchè eletto o voluto dalla nazione ecc. Tanto è vero che v’è paesi in Italia sotto principi italiani, ove si sta peggio che sotto gli Austriaci. La questione dunque è più giustamente posata col dire: Governi buoni e Governi cattivi».
E quanto all’Austria, e a quel nefasto bigotto della restaurazione che fu il Metternich, s’affrettava a soggiungere:
«—Libertà, dicono, è obbedire solo alle leggi. Questa definizione potrebbe piacere anche a Metternich, giacchè le leggi le fa lui! Importa sapere da chi e come sono fatte, e se buone o cattive. Era una legge anche quella degl’imperatori romani di adorare gl’idoli; e i cristiani credeansi in dovere di disobbedirla».
La restaurazione cieca, il mantenere o risuddivider l’Italia negli antichi e ridicoli staterelli, rinnegando quei principii, respingendo quegli ammonimenti, rinunziando a quei vantaggi che costavan sì enormi sacrifizii di sangue e di sostanze, questo era il peggio. E poichè il re di Napoli dava non dubbii segni di voler proclamare la guerra santa dell’unificazione, egli, il Manzoni, aveva simpatia per l’avventuriero Murat. Che importava che questi non fosse re per la grazia di Dio? Lo sarebbe stato pel volere concorde del popolo; ch’era un modo più conforme alle conquiste intellettuali della Rivoluzione. E in quella simpatia il poeta non era solo. A Milano passavano per murattisti il conte Giacomo Luini, direttore generale della polizia, e il generale Teodoro Lechi, il cui fratello Giuseppe già militava nelle file dell’esercito napoletano; e fino si buccinava che il generale Domenico Pino, a cui di lì a qualche giorno sarebbe stato affidato il comando militare di Milano, partecipasse agli audaci disegni del re.
[33] Cfr. Cantù, A. Manzoni, reminiscenze; 2ª ediz., Milano, Treves. 1885, vol. II, pag. 311 ss.
[34] Assurdo anche per la sua configurazione. S’immagini che chi avesse voluto dalla capitale recarsi a Bologna, la terza città del Regno, per la più corta, doveva traversare il dipartimento francese del Taro, l’antico ducato di Parma! Tutti sanno che Giuseppe Verdi nacque (il 10 ottobre 1813) in questo dipartimento, così che qualche allegro biografo d’oltr’Alpi ha voluto farne un francese!
[35] Nella Prefazione al Conte di Carmagnola; pag. 157 di questo volume.—Nella lettera a Giorgio Briano, da Lesa il 7 ottobre 1848, il Manzoni chiamava quella dell’unità nazionale «una causa che è stata il sospiro di tutta la sua vita».
[36] Dopo Sédan codesto argomento di fatto ha perduto tutto il suo valore! E non credo che il Manzoni aspettasse il 1870 per mutar d’opinione. Ciò che gl’Italiani migliori pensassero poi pur della signoria o protezione francese, si può vederlo nello scritto del De Sanctis, L’Italia e Murat, pubblicato a Torino nel 1855, e ora ristampato negli Scritti varii inediti o rari; Napoli, Morano, 1898, vol. I, pag. 181 ss.
Il 3 marzo, il Manzoni cominciò a mettere in carta il quarto dei suoi Inni, La Passione. Scrisse:
e andò oltre per tutta la seconda strofa:
Ma l’Isaia novello non seppe proseguire, per allora: il trambusto e lo strazio temuto di questa sua nuova Gerusalemme voleva per sè tutti i suoi pensieri e le sue cure.
Le notizie che venivan d’oltr’Alpi avvertivano che la catastrofe napoleonica era imminente. «Di quel securo il fulmine» scoppiava ancora pauroso a Brienne, a Champaubert, a Montmirail, a Montereau, a Vauchamp; ma le file di quell’ultimo esercito di adolescenti scemavan via via, senza che per il momento fosse possibile rinvigorirle. E intanto gli eserciti degli Alleati s’accavallavano e rinnovavano, e si stringevano ogni giorno più intorno a Parigi. Il 30 marzo, quando Napoleone con una suprema audacia disegnò di portarsi alle spalle del nemico, e raccogliere le guarnigioni lasciate nella Francia orientale e l’esercito d’Italia, gli Alleati precipitarono su Parigi, sconfissero re Giuseppe e Marmont, e il giorno 31 entrarono nella città e vi si accamparono. Napoleone tornò in furia da Rheims, ma comprese che tutto era perduto e si attendò a Fontainebleau, aspettando. Il 5 aprile si seppe anche a Milano della presa di Parigi; e il 15, che a Fontainebleau l’uomo fatale[37] era stato costretto a firmare la sua abdicazione. Il formidabile di ieri si avviava, sotto scorta, al risibile staterello dell’Elba, lasciatogli come per elemosina.
Giorgio Byron, che nel gennaio di quell’anno, pubblicando il Corsaro, aveva espresso il proponimento di non più poetare per lungo tempo, e che il 9 aprile, al mattino, ancora scriveva: «Non più versi oramai; io ho dato le mie dimissioni»; la sera, all’annunzio dell’abdicazione, diffuso da un supplemento della Gazzetta, si sentì invaso da irrompente furore poetico, e il giorno appresso l’Ode to Napoleon Bonaparte era già composta. Essa fu subito stampata e pubblicata, senza il nome dell’autore. L’intonazione e parecchi spunti ricordano molto da vicino il Cinque maggio[38]. Comincia:
Ripiglia alla IV strofa, con un movimento che somiglia al manzoniano La procellosa e trepida..., e riconduce all’epigrafico Ei fu:
Napoleone era stato «the arbiter of others’ fate»: i popoli gli si volsero «come aspettando il fato». Incatenato al tronco che vanamente egli aveva voluto abbattere,—solo—, quali sguardi non gettò egli intorno a sè?
Novello Milone, lo attenderà una sorte ancora più terribile: quegli morì divorato dalle bestie feroci; ma lui divorerà il suo proprio cuore:
Napoleone («the Thunderer of the scene», lo dirà poi nel Childe Harold’s Pilgrimage, III, 36) aveva avuto nelle sue mani «il fulmine»; che ora gli era stato strappato a viva forza.
Se Napoleone avesse saputo ritirarsi in tempo! Ma no! egli volle esser re, come se la porpora onde si camuffava potesse soffocare «il sovvenir»:
Or come mai un tal uomo, il protagonista d’una si grande tragedia, non aveva preferito morire da eroe e da re, gettandosi sulla propria spada come un eroe di Plutarco, al sopravvivere a sè medesimo e alla sua gloria, quasi un povero re da commedia? Fa paura di quella morte, ch’egli aveva seminata nel mondo con tanta prodigalità, ovvero speranza segreta di rilevare il capo minaccioso sulla plebe de’ sovrani per la grazia di Dio, che ora gli facevan da carcerieri? Il superbo poeta, compatriotta di Nelson e di Wellington, non vuol soffermarsi a indagarlo; egli ama meglio rinfacciare al nemico sconfitto e umiliato pur quell’ultima sua coraggiosa viltà.
È verosimile che, se «il massimo Fattor» fosse anche uno scrittore di tragedie sul tipo classico, avrebbe chiusa la terribile catastrofe di Fontainebleau come, poniamo, l’Alfieri il Saul. All’«empia Filiste» del Danubio, Napoleone avrebbe, passandosi il cuore, detto, con un gesto e un atteggiamento che ricordasse il repubblicano Catone (che importava la fede politica di questo antico? forse che l’imperialista Dante s’era peritato di piegare davanti a lui «le gambe e il ciglio», pur dopo d’aver visto Bruto e Cassio nel peggior luogo dell’Inferno, nella sola compagnia di Giuda Iscariota?):
Ma Napoleone, nonostante le sue pretese artistiche e i suoi ukasi estetici, aveva preferito comportarsi, magari a dispetto del corifeo dei nuovi poeti romantici,[49] come un eroe romantico.[lxiii] Anche Macbeth s’era rifiutato di seguire i nobili esempi che pure a lui, barbaro caledone, additava la magnanima storia di Roma. Chè quando codesto efferato ambizioso si vede inseguito com’una belva e senza speranza di scampo, esclama, con nuovo scatto di ferocia:
Il Manzoni, da buon filosofo della storia, e poco tenero oramai dell’arte classicheggiante e dei critici dittatori del buon gusto, dedusse dal mancato suicidio del desolator desolate, del victor overthrown, la conseguenza che la necessità ineluttabile del suicidio negli eroi e nelle situazioni tragiche sia del tutto posticcia, e punto rispondente alla realtà. Nella sua Lettre à m. C*** egli tocca, con una punta d’arguta canzonatura, di quei tragediografi che si sbarazzano degli eroi malencontreux con un sollecito colpo di pugnale; e riferisce, a dileggio, i due versi celebri nei quali «un poëte a donné la formule morale du suicide». Il poeta è, chi non lo sappia, il Voltaire; il quale mise in bocca alla sua Merope, in fine dell’atto secondo della tragedia omonima, queste parole:
In verità, osserva il Manzoni, l’esperienza e la storia mostrano che nella vita i suicidii non sono così frequenti come sulla scena, e specialmente non avvengono nelle occasioni in cui i poeti tragici v’han ricorso.
«On voit des hommes qui ont subi les plus grands malheurs ne pas concevoir l’idée du suicide, ou la repousser comme une faiblesse et comme un crime. Certes l’époque ou nous nous trouvons a été bien féconde en catastrophes signalées, en grandes espérances trompées; voyons-nous que beaucoup de suicides s’en soient suivis? non; et si la manie en est devenue de nos jours plus commune, ce n’est pas parmi ceux qui ont joué un grand rôle dans le monde, c’est plutôt dans la classe des joueurs malheureux, et parmi les hommes qui n’ont ou croient n’avoir plus d’intérêt dans la vie dès qu’ils ont perdu les biens les plus vulgaires: car les âmes les plus capables de vastes projets sont d’ordinaire celles qui ont le plus de force, le plus de résignation dans les revers.»[51]
Una delle catastrofi contemporanee più segnalate, anzi la più grandiosa e memorabile, non era appunto stata quella di Fontainebleau; anche più insigne dell’altra che seguì, di Waterloo, benchè questa avesse conseguenze più definitive?
Il poeta, fedele al suo programma d’arte, di non tradir mai il santo Vero, s’attenne a codesti insegnamenti della storia: così quando, nell’Adelchi, non permise che il protagonista, cuor del suo cuore nonostante la solenne dichiarazione di rammarico per averlo messo al mondo[52], desse volontaria e violenta fine ai suoi giorni; come quando, nel Romanzo, lasciò cader di mano all’Innominato, a codesto piccolissimo Napoleone secentesco della Valsassina, la pistola con la quale aveva pensato un momento di «finire una vita divenuta insopportabile» (cap. XXI). Shakespeare, il «savio gentil» che seppe meglio di qualunque altro leggere nel cuore umano, era, anche questa volta, una guida molto sicura. Vero è che la critica interessata di certi poeti, ambiziosi di dittatura, parlava di costui «come d’un genio selvaggio, d’un capo strano, con de’ lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna arida e scoscesa, dove un botanico, arrampicandosi[lxv] per de’ massi ignudi, poteva trovare un qualche fiore non comune». Ma il Manzoni nè aveva i secondi fini del Voltaire, nè era un caparbio o un parvenu letterario come l’Alfieri; e non si fece scrupolo di riconoscere subito in lui il «grande e quasi unico poeta», e a darglisi tutto, come Dante a Virgilio, per sua salute[53]. I due stupendi monologhi, di Adelchi e dell’Innominato, in cui è descritta nei più minuti particolari la storia di quelle due anime agitate, che accolgon prima come una liberatrice l’idea del suicidio e poi la respingono come una vile lusingatrice, son rimodellati su quello celebre di Amleto[54]. S’intende; del Manzoni possiamo ripetere ciò ch’ei disse del Goethe: si mise sulla strada «segnata dal genio selvaggio,... come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d’imitare»[55].
Sennonchè, quando, sullo scorcio del 1819 e il principio del 1820, il Manzoni scrisse la Lettre a m. C***, sapeva forse che davvero il vinto di Fontainebleau aveva tentato, e meglio che tentato, di farla finita con una esistenza che oramai gli era insopportabile? E se non allora, lo seppe egli quando componeva l’Adelchi, o almeno quando descrisse la tormentosa notte dell’Innominato? Manca il modo di accertar nulla. Comunque, sono assai rilevanti e significative le affinità che si scorgono tra codeste immaginazioni poetiche e quell’episodio storico, rivelatoci poi da testimoni oculari.
L’imperatore aveva, il 4 aprile, segnato un primo atto d’abdicazione, riservando i diritti di suo figlio e quelli della[lxvi] imperatrice reggente, e il mantenimento delle leggi dell’Impero. Ma il 7, costretto dalla diserzione di Marmont, s’era dovuto piegare a rinunciare per sè e i suoi figliuoli a qualunque diritto sui troni di Francia e d’Italia. Non bastava. Il 12, tre generali gli portaron da firmare il trattato di pace che il giorno prima gli Alleati e il governo provvisorio avevan concluso a Parigi. Napoleone, divenuto cupo, lo respinge e reclama il suo atto d’abdicazione del 7. Che cosa mulinava? Gl’intimi s’eran potuto accorgere che sinistri propositi attraversavano la sua mente. Il conte di Turenne gli aveva sottratte e scaricate le pistole; ma egli le aveva reclamate, rimproverandolo. Poi, aveva parlato con calma della sua nuova condizione. La morte, disse averla bensì cercata sul campo di battaglia, per esempio ad Arcis-sur-Aube («anch’io credea morir sul campo!»); ma il pensiero del suicidio sarebbe stato indegno di lui. Egli era cosciente e geloso della sua dignità imperiale; «Se tuer», aveva soggiunto, «c’est la mort d’un joueur!». E ancora, scoprendo tutto un abisso di meditazioni e di speranze: «Il n’y a que les morts qui ne reviennent pas!».—Solo Shakespeare avrebbe forse saputo leggere in una simile anima, in un simile momento; e queste frasi son degne di lui.
Quel giorno, sul punto di apporre la sua firma alla sentenza capitale dell’Impero, Napoleone era così sprofondato in sè stesso, che, narra il generale De Ségur, «il semblait habiter un autre monde». Alle dieci di sera, andò a letto; a mezzanotte, chiamò il servo fedele perchè ravvivasse il[lxvii] fuoco, e gli preparasse da scrivere presso il caminetto. Poi lo mandò via. Si levò agitatissimo, percorse la stanza a passi concitati, si fermò di botto, scrisse, ghermì il foglio e lo buttò sul fuoco; tornò a passeggiare, a sedere, a scrivere, a gettare il foglio sul fuoco. Poi, s’accostò al comodino, vuotò nel bicchiere il sacchetto del veleno che gli aveva preparato il dottore Yvan, e ch’ei portava sempre con sè dopo la guerra di Spagna, e bevve. Si rimise a letto. Per una lunga mezz’ora il cameriere, trepidante, rimase dietro la porta a spiare. Napoleone, maravigliato di vivere ancora, aspettava impaziente gli effetti del veleno. Poichè questi tardavano, ricorse a un altro veleno, già preparatogli dal Cabanis. Soffriva molto, ma non era la morte. Stanco, fece chiamare il medico, per chiedergli un veleno più decisivo. Yvan, atterrito, supplica l’imperatore di prendere invece un contravveleno: non voglia esporlo a terribili sospetti! Napoleone cede, si lascia curare e s’assopisce. Le tenere prove d’affetto di chi lo circondava gli ridanno la forza di vivere. Esclama: «Dieu ne le veut pas!»; domanda il trattato degli 11 aprile, e vi appone il suo nome[56].
La tragedia, che pareva giunta alla catastrofe, era solo alla fine del quarto atto: mancavano ancora l’Elba, Waterloo, Sant’Elena.
[37] Fatal guerriero l’aveva già, nel Beneficio, chiamato il Monti.
[38] Nel 1832 il dott. Amadio Christiano Federico Mohnike (n. 1781, m. 1841) pubblicò, col titolo di Voci di Napoleone dal settentrione e dal mezzogiorno, tradotte in tedesco le Odi napoleoniche degli svedesi Nikander e Tegner, del Byron e del Manzoni. Questi gli scrisse, ringraziando, il 22 agosto: «Il far soggetto d’un Suo lavoro un mio componimento, e il collocarlo in così degno luogo, era già per sè un alto favore; aggiungendovi quello del dono, e d’una gentilissima lettera, Ella ha colmato la Sua bontà e la mia riconoscenza....». Non sembra verosimile che, anche prima d’allora, il Manzoni non conoscesse direttamente l’ode del poeta che fu dai contemporanei proclamato (vedi nel Don Juan, c. XI, 55)
Se un altro, di quell’ode avrebbero potuto parlargli il Pellico e il Berchet, che del Byron furono ammiratori, traduttori ed apostoli in Lombardia.
[39] «Tutto è finito! Ed ieri ancora eri re! e armato per combattere coi re. Oggi sei una cosa senza nome; così abbietta eppure vivente! È questo l’uomo dai mille troni, che seminava la terra di ossa nemiche; e può sopravvivere così? Dopo colui che venne chiamato a torto la Stella Mattutina, nè uomo nè demonio era mai caduto tanto in basso». —Circa le censure all’Ei fu, cfr. D’Ovidio, Discussioni manzoniane, pag. 200. Che quell’esordio riecheggi il ’Tis done byroniano, nessuno pare l’abbia notato.
[40] «Il trionfo e l’orgoglio, la gioia della lotta» [certaminis gaudia, aveva fatto dire Cassiodoro da Attila, prima della battaglia di Châlons], «il grido tonante della vittoria, per te alito di vita; la spada, lo scettro, e quell’impero a cui l’uomo sembrava creato per obbedire e che riempiva di sè la fama—tutto è sparito!—Spirito tenebroso! quale sarà per te il tormento delle memorie!».
[41] «Ma tu—dalla tua mano riluttante il fulmine venne strappato a forza—troppo tardi tu lasciasti il supremo potere, a cui s’attaccava la tua debolezza. Benchè tu sia lo Spirito del Male, noi ci sentiamo stringere il cuore mirandoti così smarrito, pensando che la terra, questa bella opera di Dio, ha potuto esser lo sgabello di un essere così debole». (Strofa IX).
[42] «I tuoi trionfi non aggiungon più nulla alla tua fama, o ne rendon più intense le macchie.... Ma chi vorrebbe spaziare all’altezza del sole, e precipitar poi in una notte sì cupa?». (Strofa XI).
[43] «Messa nella bilancia, la polvere degli eroi è vile quanto l’argilla comune; i tuoi pesi, o Morte, misurano esattamente tutti quelli che spariscon dalla terra. Eppure pensavo che qualche scintilla sublime dovesse animare quei grandi, che ci abbagliano e ci riempiono di trepido stupore; nè avrei creduto che il Dispregio potesse farsi gioco di costoro, i conquistatori della terra». (Strofa XII).
[44] «Affrettati dunque alla tua malinconica isola, e lancia lo sguardo sul mare: quest’elemento può sfidare il tuo sorriso—non ha preso mai la legge da te!». (Strofa XIV).
[45] «E colà che pensieri saranno i tuoi, assorto in una rabbia impotente contro la prigione?—Uno solo: “Il mondo fu mio!„... La vita non potrà trattenere a lungo quello spirito, che voleva essere così largamente e lungamente obbedito—e n’era così poco degno!». (Strofa XV).
[46] «Ma tu davvero hai voluto esser re, e vestire il manto di porpora; come se quell’abito da mascherata potesse strapparti dal cuore il ricordo». (Strofa XVIII).
[47] «Gli è forse un resto delle speranze imperiali che ti fa sopportare con calma un tal cambiamento? o è solo la paura della morte? Morir sovrano—o vivere schiavo: la tua scelta è ignobilmente coraggiosa». (Str. V).—«E la Terra ha versato il suo sangue per lui, che è tanto avaro del proprio!». (Str. X).—«O, simile al rapitore del fuoco celeste, vuoi tu resistere al colpo? e dividere con lui, col maledetto, il suo avoltoio e la sua rupe! Punito da Dio, proscritto dall’uomo, e, per quest’ultima azione, che pur non è delle tue peggiori, deriso dallo stesso Satana: questi, nella sua caduta, serbò intatto il suo orgoglio, e, se fosse stato mortale, avrebbe saputo morire da prode!». (Str. XVI).—La frase The very Fiend’s arch mock è tolta di peso da Shakespeare; che la mette in bocca a Jago (Othello, a. IV, sc. I, v. 71).
[48] Occorre tuttavia osservare che l’Alfieri non reputava molto tragica questa catastrofe, che gli era suggerita dalla Bibbia (Reg. I, 31, 4: «arripuit Saul gladium, et irruit super eum»). Scrive nel Parere sul Saul: «un re vinto, che uccide di propria mano se stesso per non essere ucciso dai soprastanti vincitori, è un accidente compassionevole sì, ma per quest’ultima impressione che lascia nel cuore degli spettatori, è un accidente assai meno tragico, che ogni altro dall’autore finora trattato».
[49] Il quale, del resto, dopo Waterloo, finì coll’ammirare il superbo disdegno con cui il conquistatore andò incontro all’avversa fortuna. Nel canto III del Childe Harold’s Pilgrimage (st. 39), che è del 1816, esce a dire: «Eppure la tua anima ha sopportato i rovesci con quella innata filosofia che non s’impara, e che, frutto di saggezza, di freddezza o di profondo orgoglio, è fiele e assenzio pel nemico. Quando tutta una massa d’odio ti si assiepava intorno, per spiare e beffare la tua fiacchezza, tu hai sorriso con un occhio calmo e rassegnato; quando la Fortuna fuggì via dal suo favorito e viziato pupillo, ei rimase ritto ed in piedi sotto le disgrazie accumulate sul suo capo».
[50] «Perchè lo stolto Romano imiterò, morte cercando Sulla mia stessa spada? Infin ch’io veggo Altri vivi, su lor cadano i colpi!».—A. V, sc. 8ª, v. 1-3. Traduzione del Carcano.
[51] Vedi più avanti, in questo volume, a pag. 301-2, 361-2.
[52] Vedi più avanti, in questo volume, a pag. 12.
[53] Cfr. Del romanzo storico, parte II, in fine: e il mio scritto: Ammiratori ed imitatori dello Shakespeare prima del Manzoni, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1892.
[54] Cfr. Scarano, Amleto e Adelchi, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1892; e Scherillo, Il monologo nella tragedia alfieriana, nella «Rivista d’Italia» dell’ottobre 1903.
[55] Qualche accento alfieriano può tuttavia sentirsi nel monologo di Adelchi. Per esempio, l’apostrofe alla spada: «Tu, brando mio, che del destino altrui Tante volte hai deciso, e tu, secura Mano avvezza a trattarlo... e in un momento Tutto è finito».—richiama e quella di Saul: «Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, Fido ministro, or vieni», e l’altra di Carlo, nel Filippo: «Oh ferro!... Te caldo ancora d’innocente sangue, Liberator te scelgo». Ma anche Shakespeare aveva messo in bocca a Giulietta: «O ferro amico! ecco la tua guaìna: Arrugginisci qui; morte mi dona!...».—Il quale Shakespeare aveva altresì fatto esclamare a uno dei suoi personaggi, al vecchio Gloucester del Re Lear (a. IV, sc. 6ª), sul punto che si getta dalla rupe: «O voi numi potenti! Io rinunzio a questo mondo, e davanti a voi scuoto pazientemente dalle spalle la mia grande afflizione. Se potessi sopportarla più a lungo, senza contrastare ai vostri invincibili voleri, lascerei consumare la spregiata e abborrita mia parte mortale». E gli aveva fatto dar sulla voce da Edgardo, il figliuolo calunniato (a. V, sc. 2ª): «Gli uomini devono sopportare il loro andare colà nello stesso modo che la loro venuta qui: tutto consiste nell’esser maturi». (Men must endure / Their going hence, even as their coming hither: / Ripeness is all.)
[56] Cfr. Saint-René Taillandier, Le général Philippe de Ségur, sa vie et son temps, nella «Revue des deux mondes» del 1º maggio 1875, pag. 138-41.
Or che sarebbe avvenuto dell’Italia, dopo che il colosso era stato gettato «nella polvere»? che cosa di questo che fu detto, e pareva nome di buono augurio, Regno d’Italia? Il 16 aprile [1814], fu concluso, nel castello di Schiarino Rizzino presso Mantova, un armistizio tra l’esercito franco-italiano di Eugenio e l’austriaco di Bellegarde, in attesa che le Potenze decidessero della sorte di queste contrade. Si compiva ancora una volta l’avito destino del Lombardo:
Il momento era solenne; ma gli uomini non si mostraron pari al bisogno. Il solo cancelliere Melzi pare si rendesse conto della gravità dei pericoli; e s’arrogò, nell’assenza del vicerè, l’autorità di convocare il Senato. Oh questo non era più l’antico Senato milanese, che Giuseppe II aveva abolito; e del quale il Manzoni notava, non senza amarezza verso i governanti stranieri:
«Il Senato era una vera rappresentanza nazionale: le leggi dovevano passare per quello, e non divenivano esecutive se non le avesse interinate. È vero ch’era degenerato, divenuto nulla meglio che un tribunale, e le sue decisioni troppo sovente erano goffe o triste. Ma per questo aveva diritto Giuseppe II di distruggerlo? Finchè sussisteva, poteva ringiovanirsi: se egli intendeva far bene, doveva restituirlo alla condizione primitiva, e non già cassarlo».[57]
Il Senato del 1814 era quello creato da Napoleone col decreto 21 marzo 1808, col nome di «Senato Consulente»; e i senatori erano stati scelti parte dai Collegi Elettorali, parte dall’Imperatore, seguendo i suggerimenti del Melzi. Il quale, dunque, ora li convocò d’urgenza, per provocarne un voto alle Potenze: facessero cessare del tutto le ostilità sul territorio italiano, e riconoscessero l’indipendenza del Regno d’Italia e la sovranità di Eugenio. Era risaputo che lo zar Alessandro nutriva una certa predilezione per codesto principe; il quale aveva altresì un naturale protettore nel suocero, Massimiliano Giuseppe re di Baviera. Pareva poi lecito sperare che pur le provincie traspadane (Modena, Bologna, Ravenna, Ancona) si sarebbero dichiarate per la conservazione del Regno. Si trattava, insomma, di sventare abilmente, e senza provocazioni, i disegni ferocemente conservatori dell’imperatore d’Austria e del suo onnipotente e prepotente cancelliere. Ma tutto volse al peggio. Il Melzi, assalito durante la notte dai suoi acciacchi, non potè intervenire alla seduta del Senato; e dovè limitarsi a un messaggio in iscritto. Così, l’opposizione austriacante, diretta dal conte Diego Guicciardi, ebbe agio di sollevare meschine questioni di forma e cavilli di procedura; e non si decise se non di sospender la seduta,[lxix] per permettere ai senatori Guicciardi, Carlo Verri e Dandolo di recarsi a casa del Melzi e discuter con lui. Alle otto della sera di quello stesso giorno 17 aprile, il Senato si radunò nuovamente; e dopo un nuovo interminabile dibattito, si prese una di quelle deliberazioni insulse ma rovinose, a cui troppo di frequente conducono le chiacchiere boriose e saccenti delle assemblee: d’inviare bensì alle Potenze una deputazione che sollecitasse la conservazione del Regno, ma col divieto di raccomandare comunque la candidatura di Eugenio! Il Verri s’era affrettato a proclamare: il popolo di Milano non volerne sapere d’un re Eugenio, il quale da vicerè lo aveva spogliato e spregiato! «Il me semble», aveva avuto già occasione d’osservare il Montesquieu, «que les têtes des plus grands hommes s’etrécissent lorqu’elles sont assemblées; et que, là où il y a plus de sages, il y ait aussi moins de sagesse. Les grands corps s’attachent toujours si fort aux minuties, aux vains usages, que l’essentiel ne va jamais qu’après».[58]
Nessuno a Milano seppe esattamente quel che il Senato avesse deciso, ma tutti se ne mostrarono scontenti: tanto quell’alto consesso era caduto in discredito! I fautori del passato ne presero coraggio per preparare una sommossa che giustificasse l’intervento delle milizie imperiali; e gl’Italici lasciaron fare, quasi che essi in quel torbido fossero stati acconci a pescare. Per proprio conto compilarono una nobile e dignitosa quanto ingenua protesta, con la quale si sconfessava il voto, qualunque esso fosse, del Senato, e si domandava l’immediata convocazione dei Collegi Elettorali, «nei quali solamente», dicevano, «risiede la legittima rappresentanza della nazione». E provvidero che codesto documento fosse sottoscritto da quanto di meglio Milano vantava nell’aristocrazia del blasone, del censo, dell’ingegno, dell’industria. La prima firma fu quella del general Pino; seguirono i Porro, i Trivulzio, i Confalonieri, i Borromeo, i Visconti, i Greppi, i D’Adda, i Cicogna, i Sormani, i Trotti, gli Arese, i Giovio, i Castelbarco.....Firmarono il conte Gian[lxx] Luca della Somaglia, presidente del Consiglio comunale, e il conte Antonio Durini, podestà, con tutti i Savii (gli Assessori). Firmò il poeta Carlo Porta, e l’architetto Luigi Cagnola, e, centoduesimo nella lista, Alessandro Manzoni.
Il Giornale Italiano del 19 pubblicò la convenzione militare del giorno 16, e insieme il proclama del vicerè che congedava le milizie francesi. «Soldati francesi», diceva, «voi ripiglierete il cammino pei vostri focolari!». Carlo Porta mandò dietro a quelle soldatesche, che al focolare francese portavano un grosso bottino,[59] un sonetto riboccante d’amarezza e di una, purtroppo, non ingiustificata sfiducia. La poesia rimaneva la nostra sola arma d’offesa!
Sull’imbrunire di quello stesso giorno 19, furon visti entrare in città drappelli di contadini, in ispecie del Novarese, dall’aspetto e dal contegno sospetti. Intanto, una parte della guarnigione ne era fatta uscire, col pretesto che fossero da rinforzare alcuni punti a Varese e a Sesto Calende, che nessuno minacciava! S’avvicinava, per i reazionarii e i liberali —stranissimo connubio!—, la gran giornata.
[57] In Cantù, Reminiscenze ecc., II, 312-13.
[58] Lettres persanes, lettera 109ª.
[59] Milano era provata alle furibonde depredazioni delle milizie francesi. Che non avevan rubato nel 1796, per ammenda dell’entusiastica accoglienza avutavi! Il generale Dupuy scriveva a un amico: «Ici, tout le monde vole!»; e il Melzi: «Jamais armée plus brutale et plus rapace n’était descendue en Italie, depuis les Lansquenets!».—Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie; Paris, 1902, pag. 591.
Quel che avvenne è notissimo.[60] Pioveva, e un pubblico insolito aspettava, la mattina del 20, sotto gli ombrelli,[61] i senatori che si recavano all’adunanza; e li accoglieva con fischi ed urli, se sospetti di amore per i Francesi, con evviva e battimani, se avversi. Carlo Verri ebbe una vera ovazione; ed egli medesimo raccontò d’aver visto Federico Confalonieri darne il segnale. Il conte Benigno Bossi, capitano della Guardia Civica e uno dei firmatarii della protesta, chiese all’intimorito Senato di rimandare i dragoni di servizio, e d’assumere egli la custodia della sala e del cortile. La folla tumultuava, e il Verri tentò di arringarla; ma invano. Essa cresceva di numero e di audacia. Non riuscendo a farsi ascoltare, chiamò a nome il Confalonieri, perchè esponesse i desiderii dell’assembramento. Fu risposto: Non vogliamo il vicerè; si convochino subito i Collegi Elettorali; si richiami la deputazione senatoriale!—Un urlo formidabile fece da coro: Abbasso il vicerè; abbasso il Senato; scioglietevi!—Il Confalonieri si strinse al fianco del Verri, per proteggerlo; e la turba irruppe furiosa e vandalica nell’aula. Un senatore scrisse, e il Presidente firmò, quest’ordine del giorno, che senatori e segretarii ricopiarono e gettaron tra la folla: «Il Senato richiama la deputazione, e convoca i Collegi Elettorali; la seduta è tolta».
Una voce sciagurata gridò: Alla casa del Prina! a San Fedele! —E quell’onda di popolo si rovesciò nella piazzetta avanti alla chiesa,—che il Manzoni da vecchio frequentava tutte le mattine,—e nei vicoletti che s’aprivano tra il palazzo Marino, allora Ministero delle Finanze (ora palazzo municipale), la bella casa del conte Sannazari (residenza del ministro) e quella degl’Imbonati (allora dei Blondel, ora Teatro Manzoni). Ciò che vi accadesse è stato narrato da molti, e variamente: anche dal Foscolo, con intenti apologetici; anche dal Maroncelli, con le abituali inesattezze, nelle Addizioni alle Mie Prigioni. Ma nessuno è forse valso a dare una fedele dipintura di quelle scene selvagge o grottesche, di quell’eccitazione suggestiva che invase alcuni e dell’inerte titubanza di chi avrebbe dovuto prevenire o impedire, meglio del Manzoni medesimo, là dove, nel Romanzo (capp. XII e XIII), narra della rivolta contro l’affamatore Vicario di provvisione. Questo «sventurato vicario» era, curioso a esser notato, un Melzi, Lodovico Melzo.[62] Ma in codesto malcapitato, che, mentre nella strada si urlava al tiranno e all’affamatore, «girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare....; poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta....»,—non è presumibile il romanziere intendesse ritrarre l’austero e fin temerario Prina. Il quale, potendo, non si seppe risolvere a mettersi in salvo. Vero è che il Manzoni lancia poi un’arguzia, che potrebbe mirare a qualcuno degli storici che s’è mostrato troppo informato degli ultimi tragici momenti del povero ministro. «Del resto», egli soggiunge, «quel che facesse precisamente non si può sapere, giacchè era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza!».
La casa del Manzoni era non molto discosta dalla scena[lxxiii] dove si svolgeva la sconcia tragedia: anzi il giardino confinava coi giardini di quelle case dove ancor semivivo fu spinto e nascosto il Prina da alcuni generosi. Questi non mancarono nemmeno nella sollevazione secentesca.
«Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio: propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro: non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica!...». (Promessi Sposi, c. XIII).
Ma nel caso del Prina, i generosi furon sopraffatti dagli altri, che, inferociti, minacciarono d’incendiar la casa, e vi ammucchiavano sotto già panche e fascine, se non si riconsegnasse loro la vittima. Dalla casa Manzoni si udivano quegli urli di iena. La signora Enrichetta scriveva, di lì a qualche mese, a una sua cugina:
«Voi avete senza dubbio inteso tutto ciò che accadde in Milano, e la trista e miseranda fine del disgraziato Prina. La vicinanza della casa nostra alla sua ci tenne per parecchie ore in una pena ed in un’angoscia terribile».
Quattro giorni dopo la sommossa, Alessandro medesimo ebbe occasione di scriverne al Fauriel. E pur accennando con rammarico a qualche deplorevole eccesso della folla, egli di quella rivolta unanime, saggia e pura, non si mostra punto disgustato; anzi ha il cuore pieno di speranza. Scrive (il 24 aprile):
«Mon cousin [il marchese Giacomo Beccaria] vous racontera la révolution qui s’est opérée chez nous. Elle a été unanime, et j’ose l’appeler sage et pure, quoiqu’elle ait été malheureusement souillée par un meurtre, car il est sûr que ceux qui ont fait la révolution (et c’est la plus grande et la meilleure partie de la ville) n’y ont point trempé: rien n’est plus éloigné de leur caractère. Ce sont des gens qui ont profité du mouvement populaire, pour le tourner contre un homme[lxxiv] chargé de la haine publique, le ministre des finances, qu’ils out massacré, malgré les efforts que beaucoup de personnes ont fait pour le leur arracher».
E qui esce in una di quelle osservazioni, così spiritose e piene di senso storico, ond’è ingemmato il Romanzo.
«Vous savez d’ailleurs», egli continua, «que le peuple est partout un bon jury et un mauvais tribunal; malgré cela, vous pouvez croire que tous les honnêtes gens ont été navrés de cette circonstance».
Da poi qualche notizia più intima: del pericolo, cioè, che avevan corso anch’essi, e dello spavento della madre e della moglie.
«Notre maison est justement située très près de celle où il [Prina] habitait, de sorte que nous avons entendu pour quelques heures les cris de ceux qui le cherchaient; ce qui a tenu ma mère et ma femme dans des angoisses cruelles, parce qu’aussi elles croyaient qu’on ne se serait pas arrêté là. Et réellement quelques mal intentionnés voulaient profiter de ce moment d’anarchie pour le prolonger; mais la Garde civique a su l’arrêter avec un courage, une sagesse, et une activité très dignes d’éloge».
Nous avons entendu stando in casa: mi sembra lecito dedurne che quel giorno il Manzoni non era fra i tumultuanti o fra gli spettatori sulla piazza San Fedele. Vi fu invece chi sparse questa voce, e chi la raccolse e la registrò. Il barone Pietro Custodi novarese, che durante la vice-presidenza del Melzi era stato a capo della divisione di Polizia al Ministero dell’Interno e nel 1814 era Segretario generale del Ministero delle Finanze, lasciò scritto in certe sue Note biografiche di Alessandro Manzoni, riboccanti di fiele e di malevoglienza:
«Assicurasi che Alessandro Manzoni siasi trovato tra i nobili spettatori che nel giorno 20 aprile 1814 applaudivano, su la piazza di S. Fedele di Milano, agli sforzi de’ tumultuanti, i quali finirono coll’assassinio del ministro Prina; e che egli, commosso da quel funesto esito, abbia poi concepito tali rimorsi di avervi indirettamente partecipato, fino ad essere per molto tempo afflitto da veglie notturne agitatissime, che diedero grave timore per la sua salute».
Il mite Manzoni qui è camuffato da Macbeth! In verità, i mali nervosi, onde fu e prima e poi travagliato, ebbero un’origine diversa. Narrava egli stesso che n’era stato colto[lxxv] la prima volta a Parigi, quando, in una festa popolare pel secondo matrimonio di Napoleone, nell’aprile o nel maggio del 1810, furon come travolti, egli e la moglie, da un’ondata della folla; e n’era stato riassalito con maggiore violenza a Milano, nel giugno del 1815, quando, trattenendosi in una bottega di libraio, ebbe la terribile notizia della disfatta di Waterloo. «Noi allora, cogli Austriaci in casa, non si poteva più sperare che in Napoleone», egli chiosava: e ogni speranza era oramai strozzata![63]. Ma il Custodi, nel giorno del tumulto, non era a Milano: nella qualità di Commissario straordinario per le requisizioni, tre giorni prima egli si «era restituito al quartiere generale di Mantova». E la catastrofe lo colpiva in pieno petto; «fra i mucchj delle carte d’ogni sorta, ch’erano state gittate dalle finestre del palazzo del Ministro», un amico raccolse un documento che lo riguardava: la lettera cioè con cui il suo superiore e concittadino lo raccomandava al Vicerè per una sovvenzione straordinaria di lire quattromila, «onde pagare alcuni debiti contratti ne’ passati anni per onestissime cause».
È degno di nota però che fin d’allora (le Note biografiche portano in fronte la data del 20 ottobre 1827) il Custodi osservasse:
«È assai probabile che le reminiscenze di quella orribile scena gli abbiano somministrato più colori per rappresentarci, ne’ Promessi Sposi, con maggior verità, i tumulti che per cagione della carestia precedettero in Milano la peste del 1630».[64]
Potrebbe darsi che le informazioni del Manzoni provenissero da fonti un po’ troppo ottimiste: forse dal Confalonieri stesso o da qualche altro dei capoccia degl’Italici; ma è anche certo che fu poi cura dei fautori della restaurazione austriaca e dei difensori del cessato governo francese di dipinger[lxxvi] quegli avvenimenti con le tinte più fosche. Un altro testimone, degnissimo di fede nonostante il suo prossimo carbonarismo, Silvio Pellico, scriveva il 23 aprile a un amico che si trovava a Piacenza:
«Tutto è quieto; lo scopo era buono; i disordini inevitabili furono tosto repressi; l’esito ha secondate le intenzioni. Milano ha scosso il fango sotto cui giaceva. Un sola vittima è tacitamente compianta da tutti, benchè fosse segnata dall’odio di tutti».[65]
La Guardia civica si segnalò per zelo ed abnegazione, e meritò gli elogi di tutti gli onesti d’ogni partito. Si mormorò invece circa il contegno sospetto dei comandanti delle poche milizie regolari rimaste in città. Qualcuno riferisce che una Compagnia «stazionò, tutto il tempo che durò lo strazio del Prina, sulla piazzetta del teatro de’ Filodrammatici..., nè mai fu chiamata a difesa della vittima del furore della bordaglia, come quella milizia avrebbe desiderato».[66] Se così è, il Manzoni potrebbe aver avuto l’occhio appunto ad essa, quando descrive quel drappello di soldati spagnuoli che, rimasti titubanti ed inerti durante il fermento della rivolta, vennero poi incontro a Ferrer come «il soccorso di Pisa», e al cui ufiziale questi «disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: beso a usted las manos; parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto!».
[60] Cfr. Cusani, Storia di Milano; Milano, 1873, vol. VII.—Bonfadini, Sulla fine del primo Regno d’Italia, nell’«Archivio Storico Lombardo», a. VIII, f. 2, giugno 1881.—De Castro, La caduta del Regno italico; Milano, 1882.—Von Helfert, La caduta della dominazione francese nell’Alta Italia; traduz. di L. G. Cusani-Confalonieri; Bologna, 1894.—Lemmi, La restaurazione austriaca a Milano nel 1814; Bologna, 1902.—Marchesi, Il podestà di Milano conte Antonio Durini, nell’«Archivio Storico Lombardo», a. XXX, 1903, vol. 20.º—Chiattone, Nuovi documenti su F. Confalonieri, ibid., a. XXXIII, 1906, vol. 5.º
[61] Onde poi il titolo del libello anonimo, che si vuole attribuire al Méjean, Le roi Pino à la bataille des parapluies.
[62] Chi sa mai se qualche lineamento del Duca di Lodi il Manzoni non abbia ritratto nel «gran cancelliere Antonio Ferrer»: il quale pure, a ragione o a torto, «era gradito alla moltitudine»!
[63] Cfr. Fabris, Memorie Manzoniane; Milano, 1901, pag. 42-3, 99-100. Dove è erroneamente asserito che, durante i cento giorni, il Manzoni si trovasse a Parigi.
[64] Desumo queste notizie circa il Custodi e i suoi appunti, dal prezioso volumetto di Lucien Auvray, La Collection Custodi à la Bibliotheque Nationale; Bordeaux-Paris, 1906, pag. 114-15, 118-21, 128-29.
Milano rimaneva senza governo: il vicerè lontano e dimissionario, il Consiglio dei Ministri annullato, oltre che per la morte del Prina, per la fuga del Vaccari e del Fontanelli; il Senato disciolto. Una dittatura militare non era possibile, per la scarsezza delle milizie. La notte dello stesso giorno 20, il[lxxvii] podestà Durini trovò in sé l’energia di convocare il Consiglio Comunale; il quale decise la convocazione, pel 22, dei Collegi Elettorali e la nomina immediata d’una Reggenza Provvisoria. Tra i sette reggenti, nessuno apparteneva agl’Italici, e solo uno non era sospettabile di soverchio zelo per l’Austria, Carlo Verri; e questi fu, per prudenza o ipocrisia politica, scelto a presidente. Al general Pino, però, fu affidato il comando delle forze militari.
La Reggenza provvide a ristabilire l’ordine pubblico, ad alleggerire le tasse più odiose, ad abolire quelle leggi che peggio avevano irritati gli animi. E proclamò, su per le cantonate, ai buoni Milanesi: «Collo spirito di quiete che va felicemente a ristabilirsi, voi potrete darvi quel governo che desiderate, giacchè la vostra libera volontà sarà manifestata ai Collegi Elettorali». Questi s’adunarono il giorno fissato, il 22, a mezzogiorno, nel palazzo di Brera. Il consigliere di Stato Lodovico Giovio fu delegato a presiederli; e ne inaugurò i lavori con un elaborato ed enfatico discorso. Accennò all’abdicazione provvidenziale ed insperata di «quell’uomo che tutta avea riempiuta l’Europa di temuta meravigliosa rinomanza», e alle speranze riposte, ohimè, nelle «gesta magnanime delle Alte Potenze Alleate» e nei «principii sociali che i lumi del secolo hanno resi necessarii pel governo delle nazioni incivilite»; ed augurò che «anche la nostra Italia, pesta e sfigurata da replicati oltraggi, possa brillare sull’orizzonte dell’Europa». Continuava:
«La fermezza del carattere, la costanza nelle sciagure, la prudenza nei consigli, la rettitudine nelle amministrazioni, sono i caratteri indelebili dell’Italia, che, dopo essere stata la dominatrice del mondo, fu miseramente oppressa. Risorga essa alfine per la generosa gara delle Potenze Alleate, e si assicuri la felicità dei popoli. A così bello intento domandino i Collegi Elettorali istituzioni politiche liberali, un capo indipendente, che nuovo, non conosciuto da noi, diventi italiano, e che accolga i nostri voti e le nostre benedizioni. Assicurato della nostra lealtà, regni su cuori sensibili, generosi e fedeli, e ne faccia dimenticare la recente dominazione. La storia, maestra di tutte le cose, ci ha infallantemente provato che i regni cominciati coll’inganno finirono nei fondatori o nei figli, con vitupero e danno. Una crisi violenta è scoppiata; terribile ne fu la catastrofe, spaventoso e terribile l’esempio; ma che ne accerta come gli uomini più con l’amore che con la forza si governino».
E concludeva, esclamando:
«Possano le Alpi, le une sopra le altre ammassate, separarci per sempre da quella nazione, che sempre portò l’infortunio e la desolazione nella patria nostra!».
Le ceneri di Vittorio Alfieri avranno esultato, se gli echi lontani di Santa Croce ripercossero questa perorazione misogallica.
Certo, n’esultò il poeta di via Morone. Il quale, in quel giorno medesimo, intonò una canzone, che qua e là ricorda l’alfieriana del 1789, Parigi sbastigliato. Trattandosi d’un primo getto, preferisco riprodurla qui come un documento storico, anzi che darle posto tra le Poesie.
APRILE 1814
CANZONE
22 aprile 1814.
Il poeta è interprete genuino del sentimento popolare. Aveva taciuto fin allora, perchè a nulla sarebbe valso l’ardire; infranto il bavaglio, egli leva alta la voce contro l’ipocrita dominatore, che ci teneva schiavi nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l’Italia, costretta ogni anno a deporre il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull’avara lance di Brenno»![69] E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco, spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano,
Ora tutto, d’improvviso, è mutato: «quando eran più l’onte aspre ed estreme», ecco, di tra le nubi, s’è mostrato il braccio salvatore di Dio, a soccorrere i «ben pugnanti». Ed ha vinto; così che «a ragion si rallegra il popol nostro». Ora son tornati alle loro case sospirate, agli abbracciamenti pii, ai soavi colloquii («i fidati colloqui d’amor», del primo coro dell’Adelchi), quei giovani costretti a ramingare per greppi senz’orma, o tenuti, dall’odio potente del tiranno, in carceri tenebrose; ora è tutto un «favellar di gioia e di speranza», e «il nobil fior de’ generosi» ora veglia nelle armi,
Il poeta è anch’egli pieno di fiducia, che l’itala brama sarà da «quei possenti intesa Cui par che piaccia ogni più nobil cosa». E accompagna coi suoi voti i delegati che i Collegi Elettorali inviarono a Parigi, perchè la secolare brama facessero nota a quei possenti.
I delegati furono Federico Confalonieri, Alberto Litta, il marchese Gian Giacomo Trivulzio e il conte Della Somaglia,[lxxxii] milanesi, i conti Marcantonio Fè di Brescia e Serafino Sormani di Cremona, il banchiere Giacomo Ciani e Pietro Ballabio; segretario, il marchese Giacomo Beccaria, figlio d’un fratello di Cesare. Quest’ultimo si sarebbe presentato al Fauriel con una commendatizia del cugino Manzoni. Il quale così scriveva, il 24 aprile, all’amico della Maisonnette:
«Je profite d’une bonne occasion qui se présente pour rénouer avec vous ma correspondance, qui heureusement n’a pas été très longtemps interrompue, au moins par des obstacles extérieurs. M. Beccaria mon cousin part cette nuit en qualité de secrétaire d’une députation que nos Collèges Electoraux envoyent au quartier-général des Alliés; c’est lui qui vous portera cette lettre, et qui vous donnera de nos nouvelles, si vous voulez bien l’accueillir».
Risolutamente avverso, come i suoi amici francesi, all’autocrazia napoleonica, il Manzoni si compiace con essi della piega che gli avvenimenti avevan presa in Francia. Soggiunge:
«Vous pouvez vous imaginer la part que nous avons pris aux inquiétudes dans lesquelles vous avez dû vous trouver, et à la joie qu’a dû vous causer un dénouement aussi heureux et aussi tranquille. Connaissant l’affection que vous avez pour votre pays, et pour tout ce qui est généreux, sage et utile, je vous félicite de votre noble Constitution».
Una Costituzione simile anche per l’Italia era ciò che vivamente sospiravano quei nostri nobili patrioti del ’14:
Ma il loro sogno doveva spezzarsi dinanzi alla realtà del domani, qual era voluta e preparata dalla grettezza feroce e[lxxxiii] goffa del principe di Metternich; di codesto saccente idolatra di quella politica ciecamente conservatrice
[65] La lettera è diretta a Carlo Trombetti. Fu pubblicata nella Cronaca, periodico di Ignazio Cantù, anno 1858, pag. 167.—Cfr. De Castro, La caduta ecc., pag. 156-7.
[66] Cfr. F. Calvi, Il Castello Visconteo-Sforzesco: 2ª ediz., Milano 1894, pag. 459-60.
[67] Cfr. Parini, Vespro, v. 344-5: «A tal clamore Non ardì la mia Musa unir sue voci»; e Il Cinque Maggio.
[68] Cfr. Il Conte di Carmagnola, I, 5ª (pag. 191): «Ma tra la noncuranza e la servile Cautela avvi una via; v’ha una prudenza Anche pei cor più nobili e più schivi......»
[69] I Francesi avevano cominciato per tempo. Nel 1796, Massena entrò in Milano il 14 maggio, e il 23 scriveva al Direttorio, «avec une certaine fierté, que le tableau général des contributions en pays conquis ne s’élevait pas à moins de 35,571,400 francs».—Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie, pag. 607.
[70] Il Conte di Carmagnola, I, 2ª (pag. 184).
Se il Manzoni era il sincero interprete dei sentimenti della parte più eletta del popolo lombardo, un altro poeta, anch’esso amico di libertà, si ribellava a quei sentimenti, in preda a un’agitazione incomposta. Che cosa precisamente volesse ed auspicasse quell’edizione economica dell’Alfieri che fu il Foscolo, nè seppero allora i suoi amici, nè in verità si riesce a comprendere dalla sua Lettera apologetica, scritta in Inghilterra circa il 1823 e pubblicata molto più tardi, a Lugano, nel 1844. Con un dispetto e un’acredine, che fa vivo contrasto col fiducioso compiacimento di uomini come il Manzoni ed il Pellico, ei vi narra:
«I moltissimi trucidatori d’un solo, e il Podestà e i consiglieri municipali e le spie tedesche e i primati della congiura crearono una Reggenza del Regno, e un’assemblea di legislatori. Deputarono ambasciatori agli Alti Alleati in Parigi a perorare i diritti dell’Indipendenza Italiana; ma per agevolare il trattato, e mostrarsi discordi deboli ed imbecilli, e meritarsi l’indipendenza, fecero legge che dal Regno fossero esclusi tutti quanti i paesi che non erano appartenuti al ducato di Milano. Così di sei milioni di abitatori, lo ridussero a poco più d’uno. Cassarono da’ ruoli gli ufficiali tutti quanti dell’esercito ch’erano nati in Francia, o fuori de’ confini di quel nuovo regnetto, e che non per tanto da vent’anni avevano versato sangue e procreato figliuolanza legittima; e solo per essi gl’Italiani cominciarono a non essere nominati codardi fra le nazioni. I collegj degli elettori, composti de’ notabili fra’ possidenti di terra e di denaro e sapere nel Regno; stabiliti per fondamento di tutte le leggi a rappresentare il popolo tutto, ed eleggere i senatori, i giudici, ed ogni magistratura, e il re ove mancasse la successione; indipendenti dalla corona: non eletti che da’ loro pari; e non revocabili, nè mai pagati: erano fatti radice vera di tutte le costituzioni. Pur nondimeno anche i collegj furono in quella notte pervertiti, mutilandoli di quanti membri rappresentavano i dipartimenti e le città del Regno che non parlavano il puro dialetto lombardo. Finalmente con legge acclamata fu decretato doversi inibire ogni ingerenza e consiglio nelle faccende pubbliche agli uomini dotti, come adulatori venali, inettissimi a tutti diritti ed ufficj di cittadinanza».
Son periodi che hanno la risonanza e l’apparente concettosità di quelli di Tacito o di Sallustio; ma in verità essi velano quel medesimo sentimento rancoroso che male ispirò, qualche mese dopo, i reazionarii senatori Veneri e Guicciardi, ex-presidente ed ex-cancelliere del Senato, a presentare al commissario imperiale una protesta contro le deliberazioni dei Collegi Elettorali. «E se», vi si diceva, «non avrebbero potuto ciò fare tutti gli elettori legalmente riuniti in numero di millecentocinquantatre, tanto meno una frazione di centosettanta elettori di otto soli dipartimenti». Il fatto cui si accenna stava così. Dalla Reggenza s’era discusso sulla convenienza d’invitare o no «gli elettori dei dipartimenti occupati dalle truppe nemiche: alcuni di essi si trovavano a Milano per impiego o casualmente. Si temeva», riferì poi il Verri, «d’irritare gli Alleati con una rappresentanza d’elettori di paesi già da essi occupati: vennero quindi circoscritti i Collegi agli otto dipartimenti ancora liberi: Olona, Mincio, Alto Po, Agogna, Lario, Adda, Serio, Mella».
Può esser curioso sentire che cosa il Manzoni pensasse dalla Lettera apologetica. Il Bonghi narra d’avergliela data lui da leggere, e d’averlo trovato un giorno con essa tra le mani. «Gli domandai come avesse fatto a leggerne tanto. Lui m’ha risposto: Sono arrivato sin qui cercando qualcosa di chiaro e di netto, e un periodo che avesse a che fare con quello che lo precede e che lo segue.—Aprii a caso lo stesso libro...., e lessi il primo periodo...., osservando come non mi riusciva d’intenderlo.—E già, mi rispose, son come quei ripieni d’organo senza nessun motivo (fece il suono dell’organo: oh! oh! oh!), e gira e gira e non sen cava nulla!».—E il Bonghi stesso riferisce quest’altro aneddoto. «Un giorno», racconta, «questionavamo Broglio ed io sul merito di Foscolo come scrittore in prosa. Lui, senza aver sentita la quistione, ci disse: Fate decidere a me, che sono nel giusto mezzo, imparziale.—Io, risposi, sostengo che Foscolo è uno scrittore insopportabile.—Queste cose, riprese lui, io non fo che pensarle!».[71]
[71] Pensieri inediti di Ruggiero Bonghi, ecc.; Lucera, 1899, pag. 89 e 84.—Nella VI delle sue Lettere critiche, da Stresa, 30 aprile 1855 (nell’edizione milanese del 1873, pag. 67), il Bonghi lasciò un pubblico ricordo del giudizio manzoniano. Notata «l’imperfezione grandissima delle facoltà discorsive e ragionative» del Foscolo, «imperfezione tanta e tale da non riuscirgli di ragionare neppure le cose ragionevoli che dice», ripigliava: «Questo difetto insieme cogli altri è molto meno evidente nelle prose scritte in inglese che non in quelle che ha scritto in italiano, e tra le ultime, l’è molto meno nelle prose letterarie che nelle politiche. Le quali sono così sconnesse, che, come diceva un uomo di molto spirito, non si leggono se non per la curiosità di trovarci un periodo che abbia che fare col seguente e col precedente; quantunque non sarei lontano dal concedere che ci possa parere un pregio quella certa vibratezza e concisione con cui sono talora espressi alcuni concetti che fermano».—Dei suoi fini e intendimenti politici poi, il Bonghi così giudicava: «Quanto a me, amo il Foscolo; ho simpatia per lui; le sue sventure m’addolorano; ho per quest’Italia tutto quell’amore che aveva lui; e se non l’amo proprio alla sua maniera, è perchè non mi riesce d’intendere quale fosse propriamente questa sua maniera». E a un tapinello che volle mostrarsi scandalizzato e sdegnato di questo giudizio, il Bonghi replicava (pag. 285): «Mi farebbe, invece, grazia ad insegnarmi cosa il Foscolo sperasse per questa Italia che amava, quale avvenire, quali ordini? Questo è quello che non m’è parso d’intendere da’ suoi scritti».
Il 23 aprile, mentre a Mantova il principe Eugenio firmava una seconda convenzione militare, con la quale si consegnava all’Austria il territorio che già costituì il Regno d’Italia, «insino a che sarà conosciuta la sorte definitiva del paese»; qui a Milano i Collegi Elettorali formulavano l’indirizzo che i loro delegati dovevan presentare, in Parigi, agli Alleati. Vi chiedevano: «l’assoluta indipendenza del nuovo Stato Italiano; la maggiore estensione di confini del nuovo Stato; una Costituzione liberale...., che ammetta una rappresentanza nazionale a cui spetti esclusivamente formare le leggi...; un governo monarchico ereditario, primogeniale, ed un principe che per la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali che abbiamo sofferti durante l’ora cessato governo».
Ah sì! Il 26, l’avanguardia austriaca occupava Pizzighettone,[lxxxvi] e il commissario imperiale, generale marchese Annibale Sommariva lodigiano, giungeva a Milano, a «prendervi possesso, in nome delle Alte Potenze Alleate, dei dipartimenti, distretti, città e luoghi tutti che nel Regno d’Italia non sono ancora stati conquistati dalle truppe alleate». Il giorno stesso, la Reggenza provvisoria pubblicava un proclama al popolo, per esortarlo a ricevere «come veri liberatori» i soldati dell’Austria, «che hanno esposta la vita», diceva, «per la vostra salvezza»; e perciò «accoglieteli coll’ospitalità loro dovuta, aprendo loro le domestiche mura». E a buon conto insisteva, per paura di non esser frantesa: «La Reggenza, fidente nel carattere italiano e assicurata dalle intenzioni dei vostri liberatori, vi avverte che le loro truppe entreranno domani nella capitale, e che il debito e le circostanze esigono che alloggi privati siano posti a disposizione degli ufficiali».
Povero «carattere italiano»! Di buona o cattiva voglia, soprattutto di cattiva, bisognò schiuderle «le domestiche mura» a quelle sudice masnade di tedeschi e di boemi, di croati e di panduri. E anche al Manzoni toccò di vedersi invase, da quegli ospiti così poco gradevoli e graditi, la casa di città e le due di campagna: «un nuovo flagello»! La signora Enrichetta scriveva, il 24 maggio, alla cugina Carlotta:
«Ebbi i miei due bambini malati nei giorni scorsi.... La mamma anch’essa fu malata per un mese... Ora noi siamo ingombri di soldati. Le nostre case in città ed in campagna ne furono e ne sono ancora occupate, e non si sa troppo come bastare alla spesa».
Più tardi, il 26 luglio, la signora Giulia dava qualche nuovo particolare allo zio Michele:
«Ho avuto tanti malati in casa..... Sospiriamo tutti di andare in campagna, ma avevamo tutte le nostre case piene zeppe di soldati. Il nostro Lecco è rovinato intieramente dal soggiorno di otto mesi di soldati, di donne e figli; anche adesso è tutta ingombrata. A Brusuglio avevamo quaranta soldati; ho ottenuto che partissero, perchè per la salute nostra, e massime d’Enrichetta che deve prendere i bagni, necessita la nostra andata colà. Difatto altro non occorrendo, vi andiamo domani. Le spese straordinarie e forzose di questo inverno ci hanno impedito di ultimare la nostra casa nuova; bisogna che abitiamo la vecchia in pessimo stato, perchè non ci conviene riadattarla. Qui fa caldissimo, Milano è piena di gente, perchè i militari vi formicolano...».
E il 6 gennaio 1815, ritornati a Milano dalla villa di Lecco, soggiungeva:
«Grazie a Dio, si sono rimessi tutti [i bambini], mediante la buon’aria di Lecco; chè, a forza d’impegni, ci è stato permesso di andarvi; dico per impegni, giacchè la nostra povera casa era da un anno occupata intieramente da soldati, così che abbiamo dovuto far lavare tutta la casa, dai materazzi, e rimontar tutto, inclusivamente gli utensili di cucina, con una spesa non indifferente. Eravamo bene colà; ma dovemmo presto ritornare qui, perchè ci volevano occupare le nostre proprie stanze con alloggi; e notate che non ne abbiamo una che non ci sia necessaria. Venimmo dunque a Milano.... Alessandro è un po’ affaticato per gli affari».
Disingannato anch’egli come i suoi generosi amici di Milano, Alessandro, in quell’angoscioso trambusto, tacque con gli amici lontani. Dopo la lettera del 24 aprile 1814, ei non riscrive al Fauriel fino al 25 marzo 1816. E quante cose non ebbe da osservare, e quante meditazioni non ebbe da fare, in quei due anni!
Il 28 aprile, l’avanguardia del Neipperg entrò in Milano, alle 4 del pomeriggio, da porta Romana. Una doppia fila di circa ottocento militi della Guardia Civica, «armati e ben montati», faceva ala. Le milizie austriache, cenciose e polverose, sfilarono a suon di musica, tra un silenzio reso più solenne e significativo dagl’isolati evviva interessati o prezzolati.[72] Si sperava ancora che quella soldataglia un giorno o l’altro sarebbe dovuto sloggiare; e si sollecitava perciò la decisione delle Potenze Alleate.
I delegati dei Collegi Elettorali erano in via. Il primo a giungere a Parigi fu il Confalonieri, che aveva compiuto in sei giorni (un tempo che parve assai breve) il viaggio. Era lui il Beccaria. Le notizie che potè raccogliere non furon molto confortanti. Pare che allora gli sorridesse l’idea d’una Confederazione degli Stati italiani, stretta intorno alla dinastia di Savoia, «già la più forte dell’Italia nordica»; rinunziava[lxxxviii] per suo conto anche al piacere di conservar la capitale a Milano. Ma c’era ben altro a cui quei generosi avrebbero dovuto rinunziare! Gli altri delegati tardavano: il Trivulzio e il Sommi giunsero il 3 maggio, il Litta e il Somaglia, il 4; il conte Fè, che fu l’ultimo, il 13. Fin dal 3 maggio il Confalonieri scriveva intanto alla moglie: «Il Veneziano e la Lombardia sono assolutamente devoluti all’Austria: possa questa corona esser posta sulla testa d’un principe da sè, e i nostri voti avranno esito; ma l’orizzonte su di ciò mi fa tremare!». E il giorno appresso: «L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini.... Non trattasi più di domandare alle Alleate Potenze: Costituzione libera, indipendenza, regno ecc. ecc.; trattasi d’implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare!».
Pure, essi intrapresero con coraggio la via crucis. Chiesero ed ottennero d’esser ricevuti, il giorno 7, dall’imperatore Francesco. Il quale dichiarò, con decantata benevolenza: «Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista; vi amo come miei buoni sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore della vostra salvezza e del vostro bene». E non volle sentir parlare di condizioni o di concessioni; e quando uno dei delegati si lasciò sfuggire il nome di Regno Italico, il delicato sovrano interruppe: «Regno Italico no, perchè io non spingo le mie mire a quel che dev’esser d’altri!».—Metternich fu, se fosse stato possibile, anche più esplicito.—L’imperatore Alessandro fece sapere che li avrebbe ricevuti solo come illustri italiani, non potendo loro riconoscere nessuna veste ufficiale; e li congedò, dopo un discorsetto sul bel paese e sul bel tempo, ringraziandoli d’avergli procurato le plaisir de faire votre connaissance individuelle.—Il ministro di Prussia, Guglielmo di Humboldt, fece intendere abbastanza chiaramente che al suo paese non dispiaceva che l’Austria s’ingrandisse in Italia, lasciando così alla Prussia il modo d’allargarsi in Germania.—Rimaneva un’ultima speranza, nel Gabinetto Inglese; e la Reggenza, da Milano, spingeva i Delegati a quest’ultimo passo, con la fiducia della disperazione. Gli ammiragli e i generali inglesi, venuti in Italia, s’eran tanto piena la bocca di libertà e di[lxxxix] costituzioni liberali!.... Ma lord Aberdeen e il visconte di Castlereagh osservarono che a godere il benefizio delle istituzioni inglesi bisognava esser già preparati; e l’Italia non lo era, tanto che in Sicilia la Costituzione aveva fatto cattiva prova; si rassegnasse perciò la Lombardia al governo dell’Austria, che a buon conto non era più la Francia, che anzi era ottimamente disposta a far la felicità degl’Italiani!
Intanto, l’8 maggio, era entrato in Milano, con altri dodici mila uomini (a cui ne seguirono subito altri cinquemila), il maresciallo Bellegarde, investito, com’egli proclamò, «di pieni poteri nelle provincie del Regno d’Italia ora distrutto, e già appartenenti alla Lombardia austriaca»: questo richiamo storico non era inopportuno! Nello stesso giorno, il conte Bubna entrava in Torino come governatore militare del Piemonte, alla testa di altre milizie austriache.—Una commissione dei Collegi Elettorali, con a capo il presidente Giovio, si presentò al Bellegarde per raccomandargli: «Voi tanto vicino al monarca, che con tanta gloria siede sul trono di Carlomagno e degli Ottoni, dovete esser nostro intercessore presso le Potenze Alleate, e procurare al nostro paese l’indipendenza garantita da savie leggi e da un principe che meriti le benedizioni di noi tutti». Ma se il Maresciallo non pensava ad altro!... Che cosa essi intendevano per indipendenza?...
Il 13 maggio, monsignor Rivarola plenipotenziario di Pio VII entrava in Roma, a prepararvi l’arrivo di Sua Santità, che n’era scappato la notte del 6 luglio 1809. —Il 17, sbarcò a Genova, proveniente dalla Sardegna, Vittorio Emanuele I; e, a riceverlo come sovrano, si trovò quel medesimo lord Bentinck, che aveva destate tante speranze repubblicane.—E tra il 17 e il 20, il commissario imperiale conte Strassoldo prese possesso, in nome di Maria Luigia, dei già dipartimenti di Parma, Piacenza e Guastalla. —Il 22, giunse a Milano un messo del Confalonieri, ad avvertire la Reggenza che le Potenze avevano oramai deciso circa la nuova configurazione politica della Penisola.—Il 25, vi si vide su per le cantonate il primo avviso in cui ricomparve l’aquila bicipite.—Il giorno dopo, venivan disciolti i[xc] Collegi Elettorali, soppressi il Senato e il Consiglio di Stato. Fu conservata la Reggenza, ma decapitata dell’unico liberale, il Verri: il Commissario imperiale ne assunse egli la presidenza!—Così, dopo solo nove anni di vita, promettente se non rigogliosa, era trucidato il bello italo regno. Quella gente che si era creduta risorta, veniva scissa nuovamente in volghi spregiati,
risospinta ai prischi dolor.
Il 12 giugno, i banditori del comune percorrevano Milano annunziando, nei crocicchi, a suon di tromba, essere i Lombardi sudditi dell’Austria, in forza del trattato di pace concluso a Parigi il 30 maggio, tra S. M. Francesco I ed i suoi alleati. Il Maresciallo proclamò: «Popoli della Lombardia! Una sorte felice vi è destinata! Le vostre provincie sono definitivamente aggregate all’Impero d’Austria. Voi rimarrete tutti uniti ed egualmente protetti sotto lo scettro dell’augustissimo imperatore e re Francesco I, padre adorato dai suoi sudditi, sovrano desideratissimo dagli Stati che godono la felicità di appartenergli». Sarebbe stato più prudente aspettare che i nuovi sudditi esprimessero spontaneamente una tanta gioia; ma il Commissario si dichiarava così sicuro d’interpretarne fedelmente i sentimenti!.... «Noi siamo convinti», egli soggiungeva, «che gli animi vostri saranno pieni di gioia nel contemplare un’epoca felice del pari che avventurata, e che la vostra riconoscenza trasmetterà alle remote generazioni una prova indelebile della vostra devozione e fedeltà!». L’Italia, dunque, riconquistava, come non riconoscerlo?, la tanto desiderata indipendenza: non voleva essa forse l’indipendenza.... dalla Francia? Ah l’ipocrisia diplomatica!
Il 13, in tutte le chiese della città e del suburbio, fu cantato—e fin dall’alba intermittenti colpi di cannone chiamarono i fedeli al sacro rito—un solenne imperial Te Deum. La sera dopo, al teatro della Cannobiana, «fu dato per tema», narra il Mantovani, «ad un improvvisatore La battaglia di Lipsia. Verseggiando egli, come doveva, in lode degli Alleati, sorse un forte susurro, ed in mezzo ai fischi non si[xci] lasciò continuare. Il teatro fu sgombrato per ordine superiore». Il diarista soggiunge, accorato: «Pessimi preludii!». Certo, non era per rinato amore al vinto di Lipsia; ma al governo austriaco conveniva di crederlo. E fece correre e diffuse le più sconce ed ingenerose satire e caricature del paventato coatto dell’Elba; e s’affrettò a cancellare, in città, le orme del vincitore di Marengo, ribattezzando quello che già fu, ed è tornato, Foro Bonaparte,[73] e quella che era stata chiamata Porta Marengo ed ora è Porta Ticinese, e la Contrada della Riconoscenza ora Corso Venezia, e la Piazza del Tagliamento ora Piazza Fontana.[74] Benchè incatenato, e in gabbia, il leone metteva paura.
Anche la casa mezzo guasta del Prina dava fastidio per le memorie che destava: la sorte che ieri toccò a quel ministro, sarebbe potuta domani toccare ad altri; non c’è forse l’epidemia o la suggestione dei ricordi? E fu deciso di ampliare e regolare la Piazza San Fedele; che voleva dire spazzar via, coi rottami, ogni segno visibile della rivolta. Il 25 maggio, fu pubblicato il primo avviso d’asta per la demolizione; il 6 giugno, il secondo: e furon subito iniziati i lavori. Il 26 luglio, la madre del Manzoni scriveva allo zio Michele:
«Sono appresso a formare una piazza, atterrando la casa del fu ministro delle Finanze: siccome questa è nelle nostre vicinanze, così ve ne parlo».
Oggi, nel bel mezzo della tranquilla piazzetta; con la fronte rivolta a quella che fu la casa degl’Imbonati e poi dei Blondel, e che ospitò dal 1830 al 1834 Massimo d’Azeglio, e ora è il Teatro Manzoni; sorge la statua del grande poeta, opera egregia del Barzaghi, inaugurata il 22 maggio 1883, dieci anni dopo la morte. Dietro, è la chiesa di San Fedele, dove il vecchio venerando si trascinava tutte le mattine; al lato destro, il palazzo del Comune; al sinistro, lo sfondo di quella che fu la casa del Prina, ove poi, nel 1848, dimorò Giuseppe Mazzini. «Ah!», esclamerebbe forse anche qui don Abbondio, «se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male....; ma guarire, ve’!».
[72] Il diarista Mantovani, austriacante, se ne mostra tuttavia contento. Narra che le truppe furono ricevute «con incessanti evviva: nessuna confusione, nè incidenti clamorosi: tanto è vero che l’allegria sincera e cordiale non è mai disgiunta dalla giusta moderazione anche tra il basso popolo!».
[73] Napoleone primo console, con decreto 23 giugno 1800, ordinò che si radessero al suolo i baluardi circondanti il Castello sforzesco, detto allora di Porta Giovia; e il Governo della restaurata Repubblica Cisalpina, con legge del 30 nevoso dell’anno IX (20 gennaio 1801), stabilì: «L’area del demolito castello di Milano e del suo spalto, viene denominata Foro Bonaparte». Con le pietre degli spalti demoliti, si costruì, nel 1805, su disegni di Luigi Canonica, l’anfiteatro che fu detto l’Arena.
[74] Furono anche sospesi i lavori, deliberati dalla città nel 1806, per ricostruire in modo duraturo l’arco trionfale, ideato dal Cagnola per l’ingresso di Eugenio e di Amalia; e alle composizioni scultorie e alle iscrizioni esaltanti Napoleone, ne furono sostituite altre che ne ricordavan la caduta. Così l’arco napoleonico prese il nome, che ancora conserva, di Arco della Pace; benchè ora le epigrafi inneggino all’entrata di re Vittorio e di Napoleone III.
L’11 luglio [1814], il Manzoni riprese tra mani l’inno, che aveva lasciato alla seconda strofa, sulla Passione. Ne scrisse ancora due strofe; e lasciò di nuovo, e non lo riprese che il gennaio successivo, per nuovamente interrompersi e nuovamente riprenderlo nel settembre, e compierlo, finalmente, nell’ottobre. Decisamente le Muse pudiche si rifiutavano di dimorare in una città così ingombra di soldataglia esotica; e il poeta non le poteva ospitare in campagna, perchè le due sue ville v’eran divenute caserme!
Fra tanti danni, questo vantaggio ci fu di sicuro: che quando, pochi anni dopo, il romanziere imprese a descrivere i saccheggi e gli orrori che, due secoli prima, altre e più brutali soldatesche esotiche seminarono in quelle care borgate che s’inerpicano su pei monti o si nascondono nelle valli, intorno al San Martino e al Resegone, ei non ebbe a lavorar molto di fantasia! Quel Bellegarde secentesco e spagnolesco che fu Don Gonzalo, aveva anche lui protestato, in nome del suo re, «di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore»; e il buon popolo ambrosiano, mentre le grandi potenze erano in armi per disputarsi la ghiotta preda, s’era anche allora sfogato con una sedizione, la quale, anche allora, non valse se[xciii] non a richiamare nuova marmaglia straniera; e allora pure, mentre l’un esercito ci stava sul collo, un altro, francese, era venuto a «inondare i nostri dolci campi». E poi, «mentre quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando [II, d’Austria] si avvicinava dall’altra; aveva invaso il paese de’ Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese». Codeste «truppe alemanne» eran guidate dal conte Rambaldo di Collalto, un condottiero meno incivilito del Bellegarde. Mal pagate, esse avevano già «desolata la Germania» sotto il comando del Wallenstein; e ora venivano, come uno sciame di cavallette, giù lungo «tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po», e lungo un buon tratto di questo fino al Mincio. Il giorno che dalla Valsàssina quei demòni «sboccarono nel territorio di Lecco», che spavento per quella povera gente, e che danni!
«Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili; qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto».
Sono scene non solo verosimili, ma vere forse. I nipoti di quei lanzichenecchi il romanziere li aveva veduti, anzi avuti per casa! E aveva pur visto i nipoti di que’ cappelletti, che mettevan nuova paura in corpo al già tanto impaurito don Abbondio. Chi non ricorda?
«Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata: ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva[xciv] costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, nè più nè meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano».[75]
Sicuro: perchè anche il 29 giugno del 1814, il Bellegarde, per reprimere quel vero brigantaggio che i malcontenti d’ogni genere, soldati disertori e impiegati licenziati, esercitavano su larga scala in tutto il territorio e fin presso le mura di Milano, aveva dovuto mandare in perlustrazione uno squadrone di ottocento cavalieri; e quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini!
Oh non era punto un bel vivere a Milano, durante l’imperversare della reazione austriaca; ci si stava press’a poco come durante la guerra per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga! Il Bellegarde riferiva al suo imperatore che se la nobiltà, il clero, la popolazione del contado avevano conservato un certo attaccamento alla Casa d’Austria, le classi medie, i militari e gl’impiegati, le si dimostravano ostinatamente avverse: forse, diceva, la vicinanza di Napoleone e il contegno del Re di Napoli alimentano le loro segrete speranze. Un poliziotto mandato a posta da Vienna, il 26 giugno scriveva al suo governo: «Facendo nuove conoscenze, ho già dovuto rilevare con rammarico che noi Tedeschi siamo quasi generalmente odiati; vi assicuro che il malcontento eccede ogni limite, e che ci caccerebbero precisamente collo stesso piacere con cui ci hanno accolti or fanno sette settimane»[76]. Al Commissario imperiale occorreva procedere con una grande prudenza; la quale poi dava noia, come suole, ai reazionari arrabbiati, che gli mutarono il nome in Belletardi. Si buccinò anche d’una congiura militare, che per il 5 agosto doveva mettere a fuoco e fiamme tutta la Lombardia: le logge dei Frammassoni e le vendite dei Carbonari avevan tutto preparato, si diceva, per la proclamazione della Repubblica Italiana. Il Bellegarde sarebbe stato disposto a non prestar fede a simili fandonie; ma il Gabinetto[xcv] imperiale voleva indagare, avere liste di proscrizioni, reprimere esemplarmente. Alcuni cavalieri d’industria, un Comelli von Stuckenfeld e un Esquiron de St. Agnan, specularono su quella paura e pescarono in quel torbido. Il 5 agosto passa tranquillo; non importa, la sollevazione si seppe esser rimandata all’ottobre. Anche l’ottobre passò tranquillo; ma.... c’era stato un contrattempo. Finalmente, il St. Agnan fa il colpo; ruba alcuni documenti, e nella notte dal 3 al 4 dicembre consegna ai gendarmi il medico Rasori, l’avvocato Lattuada ed altri ardenti e imprudenti complici della terribile trama. Dell’inesorabile imperatore era alfin paga la «terribil ira!».
Fu una sconcia tragicommedia; ma che strazio assistere a un tanto avvilimento della patria, dopo tante illusioni e speranze!
tornava a essere avvinta da
Povera, diseredata, avvilita e derelitta Italia![77]
Sennonché, tra quella folla di sovrani, «tutti anelanti a farle oltraggio», ce n’era pur uno, a cui gli occhi dei patrioti si volgevano con desiderio e fiducia. Era, sì, nato di là dalle Alpi, ma la fortuna e la virtù militare gli avean posto in mano il freno delle più belle contrade della Penisola. Baldo, insofferente, generoso, perchè non avrebbe egli osato finalmente di proferir quella parola «che tante etadi indarno Italia attese?».
[75] Promessi Sposi, capp. XXVII, XXVIII e XXIX.
[76] Von Helfert, La caduta della dominazione francese ecc., pag. 161-62.
[77] Per siffatte figurazioni dell’Italia, rimando a quanto già ebbi a scriverne per illustrare il primo dei Canti leopardiani. (Cfr. I Canti di G. Leopardi ecc., Milano, Hoepli, 1900, pag. 230 ss.). Qui richiamo la prosa prima del Misogallo, in cui l’Alfieri, dedicando quell’operuccia alla Venerabile Italia, le dice: «Onde, ed a quella augusta Matrona, che ti sei stata sì a lungo, d’ogni umano senno, e valore principalissima sede, ed a quella che ti sei ora (purtroppo!) inerme, divisa, avvilita, non libera ed impotente; ed a quella che un giorno (quando ch’ei sia) indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera ed una....».
Gioacchino Murat è, dopo Napoleone, il personaggio forse più interessante della immane tragedia ch’ebbe il suo prologo il 21 gennaio 1793, in quella piazza di Parigi dove il carnefice della Rivoluzione troncò il capo d’un re per diritto divino, e il suo epilogo il 5 maggio 1821, nella remota isola del Pacifico, dove i principi di diritto divino avevan confinato l’audace figlio della Rivoluzione, che s’era incoronato re e imperatore con le sue proprie mani. Nato di popolo, bello, sveglio, manesco, Murat era un seducente tipo di soldato e d’avventuriero. Amava la sua lucente uniforme e il suo[xcvii] cavallo quanto la sua stessa persona; della quale era vano, anche perchè essa valeva a conquistargli subito le più ambite simpatie. Non aveva né principii morali né convinzioni politiche molto salde: così che urlò da prima coi lupi della Rivoluzione, e persino alterò il suo nome in Marat; e poi, quando volle cattivarsi l’animo del despota, diè la caccia a quei lupi, e si compiacque d’esser chiamato Gioacchino Napoleone.
Bonaparte non vide in lui un possibile rivale, e gli agevolò l’ascesa. Lo condusse con sè in Italia, nel 1796; e dopo l’armistizio di Cherasco, ne propose la promozione a generale di brigata. Gli affidò anche missioni militari e diplomatiche a Genova, in Toscana, nella Valtellina, a Roma; lo volle poi in Egitto, dove l’impareggiabile generale di cavalleria manifestò tutta la sua bravura; e lo ebbe a fianco, tra’ più fidi e gagliardi, in Parigi, nei foschi giorni di brumaio. Gioacchino richiese, quasi in compenso di tali servigi, la mano di Carolina, l’ultima sorella del Primo Console, che questi vagheggiava di maritare a Moreau. Il cuore già lo possedeva: lo aveva preso d’assalto qui, quattro anni prima, nelle sale e nei boschetti della villa Crivelli-Serbelloni a Mombello, dove ora è il manicomio. Quelle nozze, in forma puramente civile, furon celebrate il 20 gennaio 1800; ma due anni dopo, esse furon benedette dal cardinal Caprara. Per convenienza politica, questi napoleonidi sollecitarono ciò che, otto anni dopo, i coniugi Manzoni avrebbero compiuto per rinata convinzione religiosa.
Al Murat, in quella eroica primavera, fu assegnato il còmpito di condurre, attraverso il San Bernardo, il grosso nerbo di cavalleria di quell’esercito della riserva, che Napoleone, rinnovando in sè gli ardimenti di Annibale e di Carlomagno, riversava in Italia. Quali ansie, tra quei monti
Come gli saranno parse lunghe quelle quindici ore, che i suoi seimila e duecento cavalieri spesero su per gli aspri[xcviii] sentieri e i balzi dirotti, che separano la gola di Minouée dalla capanna della Vaccheria! La fanteria precedeva per la Valle d’Aosta, ed aveva ricacciata a Châtillon una colonna nemica, quand’ecco si trovò di fronte alle formidabili posizioni di Bard. La natura pareva avesse preparato il campo al nemico: «gli abissi intorno gli scavò per fossati», e i monti eran «le sue torri e i battifredi».
Ma non mancò neppur questa volta chi additò all’esercito invasore un sentiero, onde girare in largo e piombare alle spalle dei difensori. E mentre una divisione asserragliava il forte, la fanteria, e dietro di essa la cavalleria, sfilaron per greppi senz’orma, e giù per Ivrea sboccarono «in mezzo ai campi Ondeggianti di spighe, e ne’ frutteti Carchi di poma».
Non è possibile che il poeta, il quale una ventina d’anni dopo intendeva a ricostruire, sugli scarsi accenni dei cronisti, il dramma della più remota discesa dei Franchi, e metteva sulle labbra del diacono Martino la immaginosa narrazione del suo singolare viaggio attraverso le Alpi ignote[79], non[xcix] avesse l’occhio e la mente al memorando passaggio che s’era compiuto, per così dire, sotto i suoi occhi. Chi sa quanti racconti di testimoni, con quanti particolari, non gli sarà toccato d’ascoltare! E quanti colori non vi avrà attinto, anche per la magnifica scena che segue, dei Longobardi sorpresi, sconfitti, messi in fuga! Essa è così viva e mossa, come nessun’altra del nostro teatro tragico; anche più di quella, pur tanto ricca d’azione e d’affetti, in cui Saul, sopraffatto dai fuggenti e in cospetto dell’irrompente oste vittoriosa, soccombe.
Quel brillante ufficiale, che i Milanesi avevan già ammirato quattro anni avanti, rientrò il 2 giugno, alle 4 del pomeriggio, per porta Vercellina (ora Magenta), nella metropoli cisalpina, preceduto da gran fama, anche pei più recenti prodigi di valore e d’audacia compiuti nel traversare la Sesia e il Ticino, e con nuovo fasto principesco. Ma non ci si fermò se non due giorni: e poi via, a capo dei suoi cavalieri, per Piacenza, dove passò, con temerità sbalorditiva, il Po; per Voghera, dove sfilò al trotto sotto gli occhi sorridenti di Napoleone e quelli sorpresi del parlamentario austriaco; per i piani di Marengo. I Consoli, quando egli potè ritornare a Parigi col glorioso cognato, gli decretarono una spada d’onore. —Nel dicembre, conduce in Italia, pel Piccolo San Bernardo, un nuovo esercito; e occupa Ancona e la Toscana, e si stabilisce[c] a Firenze, per trattare col Papa e col Re di Napoli, e costituire il Regno d’Etruria. Fa un colpo di testa, che gli riesce e gli attira nuove simpatie tra’ cisalpini: chiama «esercito d’Italia» quello che Napoleone aveva battezzato «corpo d’osservazione del Mezzogiorno». Benchè gli utopisti gli tengano il broncio, per non aver egli proclamata la repubblica a Firenze, a Roma, a Napoli; i patrioti meglio ispirati riappuntano in lui, francese, quegli sguardi di desiderio che Campoformio aveva stornati dal Corso fedifrago. Murat se ne compiace; e il 2 agosto, nel proclamare l’atto costituzionale della nuova monarchia, pronunzia un discorso, in cui accenna agli splendori medicei, ed esorta i Toscani a considerare i Francesi come un popolo amico, «il quale sa rispettare presso le nazioni straniere i principii monarchici, al modo stesso che sa mantenere in patria i principii repubblicani». Napoleone lo lascia fare e dire; anzi lo mette a capo di tutte le milizie francesi che si trovavano nella Penisola. Ed egli viene a stare a Milano. Indignato per le malversasazioni dei commissarii repubblicani, affretta la costituzione della Repubblica Italiana, con Napoleone presidente; e il 14 febbraio 1802, dopo d’aver passate in rivista, nella piazza tra il Duomo e la reggia, le sue belle truppe, tiene nella sala delle cariatidi un altro discorso, augurando le sorti[ci] più liete al nuovo Stato italiano che si costituiva sotto gli auspici tutelari di Bonaparte.
Pur troppo, il popolo lombardo aveva ivi stesso, sei anni innanzi, ascoltate proprio dalla bocca di costui parole anche più promettenti. «Vous serez donc libres», egli aveva detto nel fervore di quei primi entusiasmi liberaleschi, «et vous serez plus sûrs de l’être que les Français; Milan sera votre capitale, l’Oglio et le Serio seront vos barrières; la Romagne vous écherra et d’autres provinces encore; vous embrasserez les deux mers, et vous aurez une flotte!». Allora Vincenzo Monti—che fra que’ rapidi mutamenti politici non sapeva che pesci pigliare, o meglio, cercava di pigliarli tutti, ma l’un dopo l’altro gli sguisciavan di mano—aveva mutata, anzi capovolta, la fine della sua Musogonia. Dove prima, nel 1793, aveva inneggiato a Francesco d’Austria, italiano perchè nato a Firenze (il 12 febbraio 1768), invocando sul suo biondo capo il favore dei numi:
ora, nel 1797, si rivolge al «magnanimo eroe» (il Gallo fellon!) che riconduceva di qua dalle Alpi il «furor del seme empio di Brenno», per esortarlo a farsi «d’Ausonia l’Alessandro e il Numa»:
Anche Ugo Foscolo aveva, in quell’anno, intonata la sua ode A Bonaparte liberatore, esclamando fiducioso:
Ma l’eroe gridato «liberatore»; il quale ai Milanesi aveva promesso: «Si l’Autriche revient à la charge, je ne vous abandonnerai pas!», e aveva soggiunto, con l’enfasi propria del tempo, «Un jour peut-être vous tomberez, mais alors je ne serai plus là, et d’ailleurs Sparte et Athènes aussi ont succombé après s’être inscrites dans les fastes du monde!»; di lì a poco aveva patteggiata Venezia
Onde i disperati sconforti di Jacopo Ortis. Il quale, tra imprecazioni che ricordano il Misogallo, ha pur una frase che richiama l’idea intorno a cui s’impernia il primo Coro dell’Adelchi[80]. «Moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro», scrive nella lettera del 17 marzo dell’anno I, «presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia». Strana e assurda presunzione!
«Ma i Francesi», ripiglia l’Ortis, «che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno[ciii] da Timoleoni in pro nostro? Moltissimi intanto si fidano del giovine eroe nato di sangue italiano, nato dove si parla il nostro idioma. Io da un animo basso e crudele non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch’abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace?...».
E i moltissimi ebbero torto!
E in chi dunque oramai fidare e sperare? Non era possibile che tutta la nazione, e non era neanche da consigliare, si appigliasse al partito a cui Jacopo—non Ugo—s’immolò! E poi, non era stato Napoleone a dare un corpo alle vaghe aspirazioni italiane di libertà e d’indipendenza? Ch’egli, in un certo momento della sua vita, vagheggiasse un’Italia tutta unita, era un fatto; che sognasse, un quarto di secolo prima del poeta, una Italia «libera tutta tra l’Alpe ed il mare»,
ce lo hanno rivelato quelle poche tra le «eterne pagine», in cui l’imperiale recluso «ai posteri narrar sè stesso imprese». Gli è che opposto a quell’ambita fusione egli aveva visto un ostacolo politico e morale, che la configurazione topografica della Penisola rendeva più grave, anzi insormontabile. Napoleone lasciò scritto:
«L’Italie, isolée dans ses limites naturelles, séparée par la mer et par de très hautes montagnes du reste de l’Europe, semble être appelée à former une grande et puissante nation.... Quoique le sud de l’Italie soit, par sa situation, séparé du nord, l’Italie est une seule nation. L’unité de langage, de moeurs, de littérature doit.... réunir enfin ses habitants dans un seul gouvernement.... Elle a dans sa configuration géographique un vice capital, que l’on peut considérer comme[civ] la cause des malheurs qu’elle a essuyés et du morcellement de ce beau pays en plusieurs monarchies ou républiques indépendantes: sa longueur est sans proportion avec sa largeur».[82]
Di qui la difficoltà d’un centro unico, che tutti volessero riconoscere e accettare, e che fosse rispondente a tutti i bisogni. Ve n’è, sì, uno: il nostro capo, Roma; ma vi sedeva il successore del maggior Piero. Al generale Bonaparte non sembrava possibile rimuoverlo. E se dopo, alla mente e alla fantasia dell’imperatore Napoleone tutte quelle condizioni topografiche, storiche, politiche, teocratiche, delle regioni e delle nazioni, si presentarono come fin troppo malleabili ed elastiche, e fin trascurabili; allora gli parve anche trascurabile l’ideale d’un’Italia unica, imperniata su Roma laica. Il padre del Re di Roma vagheggiava oramai un’epopea virgiliana; non poteva quindi più sorridergli il modesto idillio romantico, che ebbe il suo poeta in Alessandro Manzoni, la sua prima vittima in Gioacchino Murat.
[78] Il Manzoni riprese poi quest’immagine nell’ode Marzo 1821:
[79] Ebbi già (prima nel numero unico Vesuvio ed Etna, agosto 1892; poi nella Biblioteca delle Scuole italiane, gennaio 1900) occasione di segnalare un curioso riscontro. Nell’ultimo canto, del poemetto autobiografico Il poeta di teatro, Filippo Pananti, descrivendo un suo viaggio nel paese di Galles, esce a dire (st. 14 e 15):
E il poeta stesso annotò: «Questo deserto, di cui qui si parla, s’appella Cum. Qui non s’incontra traccia di vivente, non un albero, non una fronda; un raggio di sole non illumina la deserta via; non si sente altra voce che l’urlo dei torrenti e i gridi dolorosi dei neri uccelli del Nord. La Solitudine sembra il suo trono aver posto nelle caverne delle montagne, e nella orrida maestà degli aspri e nudi macigni; le nubi sono il suo manto, e sono i cupi recessi l’oscuro suo padiglione».—Non si può non risentirvi un’eco della descrizione manzoniana. Non intendo però d’insistere sulle somiglianze e sulle dissomiglianze. In fatto d’imitazioni letterarie, chi ha avuto la buona ventura di scovarne e fintarne una, è facilmente corrivo ad esagerare l’importanza dei tratti rassomiglianti; e chi per contrario è chiamato a osservare e giudicare, tende, quasi mal consigliato da una incosciente ed innocente invidiuzza, ad ingrandire le proporzioni delle divergenze. L’uno guarda le linee che lo seducono con una lente d’ingrandimento; l’altro, quasi seccato, rovescia il cannocchiale, e guarda dispettoso dalla parte opposta. E poi, ciascuno, in queste inezie, tien molto a un suo proprio e speciale senso del limite, a una sua propria e particolare maniera di vedere e d’intendere; così che non riesce facile l’accordo nemmeno tra compagni di studio. A buon conto, che tra i versi del Manzoni e la noterella del Pananti una qualche somiglianza ci sia, non mi pare si possa, senza cedere a un’acuta voglia di contradire, negare. Sta il fatto che io pensai spontaneamente a quelli mentre leggevo, con tutt’altro in mente, il poemetto del Mugellano. Se poi l’incontro sia del tutto casuale; o se invece si tratti d’inavvertite reminiscenze di letture altre volte fatte; o se addirittura è da ammettere che il tragediografo lombardo desumesse consapevolmente qualche tinta al paesaggio nordico, disegnato e colorito con l’abituale e naturale vivacità della sua lingua materna dal commediografo toscano: son questioni diverse, e ben più difficili e delicate da risolvere.—Conviene avvertire che Il poeta di teatro fu edito la prima volta a Londra nel 1808, e ripubblicato poi a Milano nel 1817 (ed io ho tra mani giusto questa più recente edizione); e ricordare che l’Adelchi venne alla luce solo cinque anni più tardi, nel 1822.
[80] Cfr. Zumbini, Werther e Jacopo Ortis; Napoli, 1905, pag. 18 n.
[81] Versi cancellati dalla Censura nel primo Coro dell’Adelchi. Vedi a pag. 145 e 147.
[82] Campagnes d’Italie. Cfr. Bouvier, Bonaparte en Italie, pag. 116.—Al generale Bertrand, a Sant’Elena, Napoleone diceva «qu’il voulait formellement créer indépendante et libre la nation italienne».
Firmata la pace d’Amiens, Murat sollecitò d’esser mandato a Roma e a Napoli, per sorvegliarvi il ritiro delle guarnigioni francesi; e sul Tevere ebbe accoglienze e doni principeschi, sul Sebeto una spada con l’elsa tempestata di diamanti. Il re Borbone prese le sue misure perchè i giacobini napoletani non gli facessero le feste che avevan preparate. Qualcosa i conservatori fiutavano, e l’avevano in uggia. A Milano essi s’erano stretti intorno al Melzi, e profittavano d’ogni occasione per porre Gioacchino in sospetto presso il despota. Insinuavano ch’egli alimentasse le ubbie unitarie, e tollerasse che fin nell’esercito codeste idee fossero diffuse e inculcate. Per parare il colpo, Murat denunziò alcuni ufficiali, e si mostrò scandalizzato che il vicepresidente avesse[cv] sofferto che dei brigands applaudissero in teatro La congiura dei Pazzi e La morte di Cesare (forse il Bruto secondo?). Ma c’ebbe la peggio. Napoleone lo costrinse a rappattumarsi col Melzi; e, profittando d’un nuovo suo congedo, lo trattenne presso di sè, nominandolo governatore di Parigi.
E per la causa italiana l’allontanamento di Murat fu una vera iattura. Eugenio e Giuseppe eran troppo ligi al re ed imperatore, e la loro principale virtù consisteva nell’obbedienza e nella remissione più completa. Valevan poco più di due mediocri prefetti. E quando, nell’agosto del 1808, a Gioacchino fu concesso di ripassare le Alpi, e d’assidersi sul trono di Napoli, era forse un po’ tardi: così per lui, che vi tornava di malavoglia, dopo d’avere invano sperato il trono di Polonia e quello di Carlo V; come pei popoli, disingannati circa l’égalité dei fratelli transalpini, e stanchi, sfiduciati, esausti.
Pure, le festose accoglienze che i Napoletani fecero e a lui e poi alla regina, gli ridiedero lena. Benchè sfornito di una vera flotta, egli, improvvisato ammiraglio, scacciò con un audace colpo di mano gl’Inglesi, che s’eran nientemeno che appollaiati a Capri. E poco appresso, li sloggiò nuovamente da Procida e da Ischia. Represse, con inusitata energia, il brigantaggio politico negli Abruzzi e nelle Calabrie. E intanto iniziò un illuminato riordinamento delle amministrazioni civili e militari. Aprì scuole d’ogni genere, dalle universitarie alle primarie, e non solo nella capitale ma fin nei borghi delle provincie. Si circondò di ministri paesani, non conservando che due soli francesi. Oh dunque, era mai vero che laggiù, in quelle terre così benedette da Dio e così maltrattate dai governi (si pensava che il governo nazionale avrebbe cangiato stile!), quel cavalier che tutta Italia aveva onorato e ammirato, quel signor valoroso, accorto e saggio, veniva creando uno Stato liberale? Alla bella aurora, che annunziava il nuovo sole di libertà presto a sorgere di dietro la rutilante vetta del Vesuvio, i magnanimi pochi rivolsero sospirosi lo sguardo.
Ma codesto appunto inquietava Napoleone. Murat lascia châtrer le code, accarezza il clero, prodiga decorazioni, persino[cvi] fait des singeries pour Saint Janvier: cosa dunque egli macchina con quell’ambiziosa di sua moglie? Per tagliar corto con ogni loro velleità unitaria, un decreto imperiale del 17 maggio 1809 annette gli ex-Stati della Chiesa all’Impero; ma ne pone le milizie agli ordini del Re di Napoli. Murat vede chiaramente che così si vuol renderlo inviso agl’Italiani, e cerca di far comprendere ch’ei non si sente disposto alla parte di gendarme. Nasce intanto il Re di Roma, e Napoleone invita Carolina a esserne madrina. Non è possibile sottrarsi all’insidioso onore, e Murat accompagna la regina a Parigi; ma non aspetta il giorno del battesimo, e torna a precipizio, per riaffermare in modo solenne l’indipendenza sua e dello Stato napoletano. Il 14 giugno (1811) decreta «che tutti gli stranieri, i quali abbiano un ufficio civile nel Regno, sono obbligati a farsene cittadini non più tardi del prossimo 1º d’agosto». Napoleone, inviperito, contrappone al regio un decreto imperiale del 6 luglio: il Re di Napoli, essendo francese e messo sul trono dai Francesi, non può avere inteso di rivolgersi anche ai Francesi residenti nel Regno; chè anzi tous les citoyens français sont citoyens des Deux-Siciles! E richiede diecimila soldati per la guerra contro la Russia. Murat risponde risolutamente di non potere sfornire, senza certo pericolo, i presidii napoletani; ma quanto a sè, riman titubante se debba o no partire pel campo. Napoleone riscrive, facendo appello al suo cuore di soldato; e Murat si lascia vincere. S’incontrano a Danzica. Il maggiore dei due da prima rimprovera, poi s’intenerisce e apre le braccia al figliuol prodigo, che vi si getta commosso. La sera stessa, l’imperial commediante si vantò d’aver molto ben recitata la parte dell’imbronciato e del sentimentale; car il faut tout cela, disse, avec ce Pantalon italien. Soggiunse: «Au fond, c’est un bon coeur: il m’aime encore plus que ses lazzaroni...; il subit l’ascendant de sa femme, une ambitieuse: c’est elle qui lui met en tête mille projets, mille sottises; il en est a rêver la souveraineté de l’Italie entière». Sicuro; ed egli invece sognava la sovranità su tutta la terra! E il rêve di Murat era bello, dacchè collimava coi desiderii e con gl’interessi del paese; il suo era solo il delirio della perniciosa febbre, già[cvii] contratta dormendo, come diceva, nel letto dei re. Torna a singolare onore di Murat, che, regnando in Italia, amasse tanto i suoi lazzaroni da destare la gelosia dell’incoronato e cosmopolita sans-culottes!
In molti fatti d’arme di quella guerra disastrosa, l’insigne generale di cavalleria diè nuove prove del suo coraggio. Qualche episodio vale a richiamarci ancora a mente l’Adelchi. Narrano che, dinanzi a Semenowskoë, un reggimento francese fosse preso da panico sotto l’improvvisa gragnuola delle palle nemiche; e il colonnello stesse per ordinarne la ritirata, quando si vide addosso il Re. «Che fate?», gridò, prendendo l’ufficiale pel colletto. «Voi vedete», questi rispose mostrando il suolo coperto di feriti, «che qui non è possibile rimanere».—Eh! j’y reste bien moi!—E il colonnello, guardandolo ammirato: C’est juste! Soldats, face en tête! Allons nous faire tuer!—Sennonchè la fortuna era stanca d’assecondare le stolte avventure, e l’imperatore stesso si vide costretto a ordinare una ben più vasta ritirata. Il difficile comando ne fu dato proprio a quel generale, glorioso per le sue avanzate! Il quale, quand’ebbe ricondotto l’esercito presso che al sicuro sulla linea dell’Oder, volle, sordo a ogni scongiuro, tornare al suo regno. Napoleone lo fulminò con una nota del giornale ufficiale: l’esercito, disse, è affidato al viceré Eugenio; «ce dernier a plus d’habitude d’une grande administration; il a la confiance entière de l’Empereur». Murat doveva tenersi certo oramai che un nuovo trionfo dell’imperatore avrebbe segnato la sua rovina. E cominciò a pencolare verso la diserzione. Nella sua anima, un’ambizione regale degna di Macbeth s’infrangeva tra le oneste titubanze d’Amleto; e non riusciva a sospingerlo fuori degli scrupoli l’assillo della sua lady Macbeth. Ancora una volta accorse, in Germania, in aiuto di Napoleone, e gli rese segnalati servigi a Dresda e a Lipsia; ma ancora una volta, e fu l’ultima, le cattive notizie della Penisola ve lo richiamarono in fretta. I due antichi compagni d’armi si separarono con presaga tristezza.
Murat ripassò per Milano il 31 ottobre (1813). Eugenio, l’aborrito rivale, cedeva dinanzi agli Austriaci: se Napoleone[cviii] non avesse annientato gli Alleati con una delle sue più clamorose vittorie, questi avrebbero finito col riconquistare l’Italia. Ma il tempo di quelle epiche vittorie pareva finito per sempre. La sera del 4 novembre, Murat rientrava in Napoli; e pochi giorni dopo, avviava trentamila uomini per Roma e le Marche. Che cosa tentava? Per chi quegli uomini avrebbero combattuto? Metternich adopera promesse e minacce perchè Murat si accosti all’Austria: il Regno di Napoli gli sarebbe assicurato; anche gl’Inglesi vi si sarebbero acconciati. Ma il Re non sa rinunziare al sogno d’un regno d’Italia dalle Alpi ai tre mari; ed è convinto che, con l’Austria in casa, quel sogno non si sarebbe mai potuto tradurre in una realtà. I patriotti sono impazienti, e non sanno spiegarsi gl’indugi. Perché Murat non libera al vento il vessillo dell’indipendenza e dell’unità? I generali e i soldati dell’esercito di Eugenio non aspettano che quel segno per correre a lui, e parecchi battaglioni di volontarii son pronti a Bologna!... Il napoletano Amleto esita ancora. L’eroico gregario attende dal generale un cenno, per gettarsi nell’azione: non gioverebbe forse anche all’imperatore d’avere alle spalle e di lato un’Italia sgombera del secolare nemico? d’avere qui, dietro le Alpi, non più «volghi spregiati» ma un popolo «d’un sol voler, saldo, gittate in uno Siccome il ferro del suo brando», e tenerlo «in pugno come il brando»?...
Il momento propizio trascorre. Quando il Re si decide a varcare il Taro, il suo Rubicone, e ad assalire l’esercito d’Eugenio, è troppo tardi: tre giorni dopo, cessano le ostilità. E mentre il vinto imperatore è imbarcato per l’Elba, per quest’isola che egli, il generale Murat, aveva conquistata alla Repubblica Francese all’alba del 1º maggio 1801; il re Amleto rientra, il 2 maggio del 1814, nella capitale del suo piccolo Stato, scontento di tutti, e più ancora di sè stesso.
L’Italia tornava più serva e più derisa a gemere sotto l’orrida verga. Eppure, il glorioso fianco di tal madre non languiva infecondo; nè essa aveva le vene scarse del latte[cix] antico; nè nutriva figli a cui fosse grave per essa il sangue donar! Gli è che
Quell’uomo volle esser Murat. Evaso dall’Elba il 26 febbraio del 1815, Napoleone era sbarcato tre giorni dopo, coi suoi Mille, sul suolo francese; e il 10 marzo, entrava in Lione. Il 15, Murat s’affrettava a dichiarare, per conto suo, guerra all’Austria; e il 17, mosse, alla testa di quaranta mila uomini, alla volta di Roma. Luigi XVIII e Pio VII si salvaron con la fuga. Mentre l’imperial cognato veniva accolto trionfalmente a Parigi, Murat invadeva le Marche; e il 30 marzo, da Rimini, dalle falde di quel monte Titano ch’è quasi simbolico baluardo di libertà e d’indipendenza, diffuse il magnifico proclama agl’Italiani, scritto forse da Pellegrino Rossi. Esordiva:
«Italiani! L’ora è venuta che debbono compirsi gli alti destini d’Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza d’Italia!».
Gli stranieri han preteso di togliervela questa indipendenza, continuava; ma «a qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade?... Invano adunque levò per voi Natura le barriere dell’Alpi? Vi cinse invano di barriere, più insormontabili ancora, la differenza de’ linguaggi e de’ costumi, l’invincibile antipatia de’ caratteri?».
«No, no; sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi.... Ogni nazione dee contenersi ne’ limiti che le diè Natura. Mari e monti inaccessibili: ecco i limiti vostri.... Trattasi di decidere se l’Italia potrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio. La lotta sia decisiva, e vedremo assicurata lungamente la prosperità d’una patria sì bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere....».
E lasciando intendere che i governi liberali d’Europa, soprattutto l’Inghilterra, avrebbero applaudito alla nobile intrapresa, Gioacchino concludeva giustificando le sue esitazioni dell’anno avanti.
«Italiani! Voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci in vano; voi ci tacciaste forse ancora d’inazione, allorchè i vostri voti ci sonavano d’ogn’intorno. Ma il tempo opportuno non era peranco venuto; non peranco avea io fatto pruova della perfidia de’ vostri nemici, e fu d’uopo che l’esperienza smentisse le bugiarde promesse, di cui ne erano sì prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire tra voi. Sperienza pronta e fatale!.... Italiani! Riparo a tanti mali; stringetevi in salda unione; ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tosto che il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza. Io chiamo d’intorno a me tutt’i bravi per combattere. Io chiamo del pari quanti hanno profondamente meditato sugl’interessi della loro patria, a fine di preparare e disporre la costituzione e le leggi che reggono oggimai la felice Italia, la indipendente Italia».
La tanto attesa parola era dunque stata finalmente proferita! Le terre d’Italia risonaron di carmi: nella Romagna e nelle Marche, le canzoni di Giulio Perticari, di Dionigi Strocchi, di Francesco Cassi[84]; nella Toscana e nel Lazio, di Francesco Benedetti e di Luigi Biondi; nel Napoletano, di Francesco Salfi, del colonnello Gabriele Pepe, di Gabriele Rossetti. Il quale, novello Tirteo, seguiva l’esercito:
Ai primi d’aprile, l’avanguardia napoletana sloggia gli Austriaci da Cesena, inseguendoli per Imola fino a Bologna, dove entra e aspetta il grosso della spedizione. Il 4, li ricaccia dietro la Samoggia e il Panaro, e occupa Modena; intanto che altre legioni prendon Ferrara, Cento, San Giovanni. Un passo ancora, ed invade Reggio e Carpi, e si spinge fino alla Secchia. Sospinto dalla sua «indole impetuosa» e dalla necessità di ottenere «sollecite vittorie», il re investe furiosamente il ponte d’Occhiobello sul Po; ma non riesce a passarlo. Quest’episodio sfortunato viene ad arte strombazzato come l’inizio della catastrofe. Tornato a Bologna, Murat vi apprende che la divisione mandata a sollevar la Toscana ha commesso irreparabili errori, e che gl’Inglesi minacciano Napoli. Di più, «le speranze ne’ rivolgimenti d’Italia erano anch’esse svanite, perocchè», narra il Colletta, «gli editti e i discorsi del re non altro avean prodotto che voti, applausi, rime pubblicate, orazioni al popolo, ma non armi e non opere: si aprì registro di volontari, e restò quasi vuoto; i tenuti in prigione dai Tedeschi per colpe o sospetti di Stato, fatti liberi da noi, tornarono queti alle case, ammaestrati non irritati dal carcere». Al re comincia a mancar la lena; e il nemico ne profitta per assalire e riprender Carpi, e ricacciare i Napoletani di là dal Panaro. Il 15, sorprende e riguadagna Spilimbergo; e Gioacchino si ritrae dietro al Reno, dove ottiene ancora una vittoria. Ma oramai egli non pensa che a ritirarsi. Discende indisturbato a Imola, a Faenza, a Forlì, a Cesena; infligge una nuova sconfitta agli Austriaci sul Ronco; ma discende tuttavia a Rimini, a Pesaro,[cxii] a Fano, a Sinigaglia, e il 29 giunge ad Ancona. Gli eserciti son quasi al contatto, e nei primi di maggio, tra Macerata e Tolentino, avviene l’urto, che fu terribile e sanguinoso. Il re fece prodigi di valore, e si moltiplicò in quelle giornate decisive; ma fu sopraffatto. E lasciando al Colletta e al Carascosa la cura di trattare col generale nemico (ahimè! era un italiano anche lui, il Bianchi d’Adda!), egli quasi solo, e da privato, rientrò in Napoli, sull’imbrunire del 18 maggio. Fu però «dal popolo scoperto e salutato come re e come ancora felice». Andò alla reggia, negli appartamenti della regina, «e giunto a lei, l’abbracciò, e con voce ferma disse: La fortuna ci ha tradito, tutto è perduto!». Prepararono insieme la partenza, e si congedarono dai più fidi e più cari. Poi, «provvide co’ ministri a molte cose di regno, ultime, benefiche, ricordevoli; fu sereno, discreto, confortatore della mestizia de’ circostanti; ed a’ Francesi che partivano ed ai servi che lasciava, liberale così come principe che ascende al trono».
Al Manzoni le notizie del rovescio giunsero mentr’egli intonava la quinta strofa della sua petrarchesca canzone. Invocato quel Dio che trascelse Mosè tra’ giovinetti ebrei e lo fece duce e salvatore del suo popolo; che «all’uom che pugna per le sue contrade L’ira e la gioia de’ perigli infonde»; il poeta, fiducioso, incuorava il baldo capitano:
Ma la parola gli fu stroncata sulle labbra. Pure, egli che condannò senza rimpianto tutta la sua opera poetica giovanile, non facendo grazia nemmeno al Carme per l’Imbonati lodatogli dal Foscolo e all’Urania invidiatagli dal Monti, volle conservato quel frammento; e non appena gli fu possibile, all’aurora delle belle «giornate del nostro riscatto», nel 1848, lo pubblicò insieme con l’ode Marzo 1821, e poi, nel 1860, lo aggiunse alle tragedie e agl’Inni sacri, nel volume già fin dal 1845 stampato delle sue Opere varie[86].[cxiii] Gli è che l’impresa tentata dall’infelice principe era, fra quante a lui parevan suscettibili di poema, quella che più faceva palpitare il suo cuore d’uomo, di cristiano, d’italiano, di poeta. Gioacchino, de’ signori cui la sorte commise il freno delle belle contrade, fu il primo, e rimase lungamente il solo, che avesse coscienza dei doveri del principe e dei diritti del popolo italiano; fu il primo che rivolgesse l’animo a
e consacrò col martirio il tentativo generoso. Fu una dannosa ubbia quella che consigliò tanti patriotti a non assecondarne lo sforzo. Se verso Napoleone ei poteva parer macchiato d’ingratitudine, toccava forse a noi, raggirati e disingannati dal geniale megalomane, di fargliene carico? Anche Manfredi svevo era accusato d’orribili peccati; ma così avesse vinto lui a Benevento, invece del nasuto paladino delle sacrileghe ambizioni teocratiche! Il Manzoni, checchè una critica partigiana sia venuta arzigogolando, riprese la grande tradizione poetica e religiosa di Dante; e non si peritò mai di manifestar tutta la sua più cordiale simpatia a principi che, per amore dell’unità politica, ritolsero a Pietro quel che è, e dev’esser, di Cesare. E la musa schifiltosa e sagace, la quale aveva assistito in silenzio al tripudio che accompagnò il singolare capitano sino ai fastigi d’ogni mondano potere, sciolse subito un cantico d’incitamento e d’encomio al baldo gregario che, pur contro il volere dell’arbitro supremo, s’accinse alla santa opera di ridarci una patria:
E quel suo cantico, pur così monco, il poeta non permise che morisse.
[83] Il Fabris, Memorie Manzoniane, pag. 98-99, riferisce che il poeta solesse dire scherzosamente d’aver fatto «per l’Italia il più gran sacrificio che possa fare un poeta, quello di far per essa un brutto verso»: ch’è questo, di suono e di vigore alfieriano. Il Manzoni soggiungeva: «Già, se l’Italia è risorta, essa lo deve a’ suoi poeti, che di secolo in secolo hanno sempre avuto dei versi per lei».
[84] Il diciassettenne Leopardi preferì invece di esercitarsi in quella innocua Orazione agl’Italiani, in cui è un ibrido connubio dello spirito misogallico del conte Alfieri con quello misoitalico del conte Monaldo. Essa fu pubblicata dal Mestica tra gli Scritti letterarii di G. L., Firenze, Le Monnier, 1899, vol. II, p. 357 ss.
[85] Cfr. Scherillo, Gabriele Pepe e Gabriele Rossetti, nella «Lettura» del luglio 1905: D’Ancona. Il concetto dell’unità politica nei poeti italiani, in «Studi di critica e storia letteraria», Bologna 1880, e Unità e federazione, nelle «Varietà storiche e letterarie». Milano 1885, vol. II.
[86] Vedi in questo volume la nota bibliografica a pag. 492.
«È un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati», osserva il Manzoni nel Romanzo (c. 28), a proposito dell’Achillini, il quale con un celebrato sonetto aveva esortato il re di[cxiv] Francia «a portarsi subito alla liberazione di Terra Santa»; e soggiunge: «se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima». Forse l’umorista pensava un po’ anche a ciò ch’era accaduto a lui; ma fu un bene che non si stancasse di dar suggerimenti. L’impresa del Re di Napoli era finita male soprattutto perchè la grande maggioranza degli Italiani non ne aveva compreso il valore: la missione del poeta doveva dunque essere di diffondere l’idea unitaria, d’inculcarla con opere che parlassero al cuore e alla fantasia[87]. Un insigne maestro di poesia e di libertà, il vate nostro, aveva, con «memorando ardimento»[88], tolto di mano a Melpomene «l’odiator dei tiranni pugnale», e s’era avventato, sulla scena, contr’ogni tirannia. Lo aveva, con scarsa fortuna, seguito il Foscolo; con insperato successo, un novizio, Silvio Pellico.
Qualcosa circa la nuova tragedia che la Carlotta Marchionni avrebbe recitata per la sua beneficiata al teatro Re, era di certo trapelata; e l’aspettativa era grande. Quella sera, il 18 agosto 1815—proprio quando più l’Italia sembrava umiliata dalla reazione straniera,—un «uditorio formidabilissimo» s’assiepava per ascoltare la Francesca da Rimini dell’ignoto e innominato poeta (un’altra ne aveva perpetrata, nel 1801, un Edoardo Fabbri). Era forse l’abate Caluso? Forse il Di Breme? Il Pellico se ne stava mezzo nascosto nel palchetto di questo suo amico, «tacito, pieno di speranza, e pur alquanto palpitante». Si tira sù la tela. L’attore che fa da[cxv] Lanciotto, «atterrito da quell’udienza, stroppia tutti i versi della prima scena». Ma la Marchionni riesce a tenere a sè avvinta l’attenzione. Ed ecco Paolo che, dopo il lungo e doloroso esilio, rimette il piede nella casa paterna. Non vi ritrova più il padre; e si getta nelle braccia del fratello, esclamando:
Io non so se quella sera il Manzoni fosse in teatro; ma mi pare di scorgere una somiglianza tra questa scena e l’altra, tanto più commovente e appropriata e tanto più finamente cesellata, della ripudiata Ermengarda che torna alla casa paterna, dove più non ritrova la madre. «Nelle braccia del fratel suo», quella gentile sospirerà:
E storicamente ciò non rispondeva al vero. Nelle Notizie storiche premesse al’Adelchi (pag. 12), è avvertito che questa è l’una delle «due sole alterazioni essenziali» fatte dal poeta «agli avvenimenti materiali e certi della storia»! Non soltanto Ansa non era «morta prima del momento in cui comincia l’azione», ma «in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì».
La tenera scena fra i due fratelli, nella Francesca, conquistò meglio i cuori; ma l’entusiasmo proruppe al voto di Paolo che, stanco di spargere il suo sangue «debellando città che non odiava», usciva nella celebre tirata, la quale anticipò di tre anni il serventese del Simonide recanatese:
«L’entusiasmo che questa parlata mosse è indicibile», narra il Pellico; «... il carattere generoso di Paolo, e le sue poche righe sull’Italia, m’hanno resa benevola molta gioventù: egli piace per lo meno quanto Francesca; e tal era il mio intento»[89]. Sicuro; dacchè il suo intento era di servirsi del palcoscenico come di tribuna politica, e di lanciar da esso parole che fossero scintille, atte a riaccendere o a tener desto nell’animo degli oppressi il sentimento dell’indipendenza e della riscossa. La Censura milanese, non ancora ammaliziata, aveva lasciato correre quel brano lirico, solo pretendendo «una leggiera correzione», forse di pura forma; ma il Pellico avrebbe a suo tempo scontata la patriottica imprudenza, e nemmen l’Eufemio di Messina, nonostante le sue proteste, gli sarebbe stato concesso di veder recitato[90].
Da un pezzo Silvio rimuginava soggetti tragediabili, per[cxvii] così dire, a doppio fondo. Aveva pensato a un Turno; e l’abbozzo porta la data del 16 aprile 1814. Vi si parla a tutto andare di patria e di stranieri; e dalla regina dei Latini si fa proclamare:
Poi, sempre meglio convinto che la poesia drammatica «debba servire a celebrare gli eroi della patria», aveva ideato un Dante, «tragedia di genere nuovo». Poi, sospinto forse dal desiderio d’emulare il Tiberio di Giuseppe Chénier, immaginò un Nerone: poi, forse per emulare il Saul, un Davide, tragedia, quest’ultima, «non politica e recitabile»; poi, a mezza strada, s’era lasciato sedurre da «un argomento trovato nel Sismondi, tutto italiano». Ne buttò giù alla lesta due atti; ma il 18 luglio del 1815 annunzia d’averlo piantato lì, perchè «questo nuovo argomento era politico, e di più, un maligno lo ha creduto allusivo all’impresa del Re di Napoli». Per la quale e pel quale, egli, stordito dai paroloni e ammirato degli atteggiamenti ribelli dell’amico Foscolo, non sentiva se non disdegno e dispetto. Il 25 aprile, aveva scritto al fratello:
«Io ti diceva che Foscolo era sparito da Milano per non dare il giuramento, ed alcuni aggiungono perchè credeva che sarebbe arrestato. È andato in Svizzera. Ha fatto bene di non andare da Murat, in cui ha sempre avuto poca fiducia, e con ragione, a quanto pare. Il fiasco che ha fatto questo Re ha calmato la testa dei Milanesi. Ora si vede che Murat senza l’aiuto dei Francesi non può far nulla, e pare che questi ultimi faranno la guerra difensiva nel loro paese, invece di attaccare. Che guerra terribile sarà questa!».
E il 5 maggio, sospettando che una lettera del fratello fosse stata intercettata, soggiungeva:
«Vi può infatti essere stato un momento di rigore, quando i Napoletani ci minacciavano. Ora essi hanno provato che a loro non è destinato il mutar forma all’Italia, e che l’Italia tutta non è suscettibile di fanatismo nazionale. Se l’Italia può essere considerata come una nazione, non può aver altro legame che il federativo».
Dannose ubbie, in ispecie se predicate da un animo profondamente ingenuo e ardente d’amor patrio. Ma il buon Pellico aveva, in politica, «la veduta corta d’una spanna»; e fu un bene che, per un pezzo, frenasse la mania di scriver tragedie tribunizie. Ma il fortunato successo della Francesca lo trasse dal suo riserbo. Nuovi soggetti gli s’affollarono alla mente: una Beatrice d’Este, una Pia dei Tolomei, e da ultimo una Contessa Matilde. Questo soggetto lo affascina e l’entusiasma. Ricerca «quei brutti noiosi del Villani, del Varchi e del Guicciardini», rilegge il diletto Sismondi, e si mostra molto lieto d’essersi «fatto un bel caratterone» di quel nuovo Costantino in gonnella».[91] Scrive nel settembre del 1816:
«La mia Matilde è sempre più grande ai miei occhi». E, dopo di aver accennato alla leggendaria narrazione delle origini di lei, fatta dal Villani, ripiglia con ingenua compiacenza di romanziere e di romantico: «Da questa unione romanzesca, ma storica,... nacque, com’era ben naturale, una creatura tutta amore, tutta fantasia e tutta spirito cavalleresco. Questa è Matilde.... Quell’anima ardentissima era troppo elevata al di sopra del suo secolo per contentarsi d’avere un nome fra i piccoli regnanti d’Italia, o per porre il suo cuore in uno di loro. Dio e la gloria divennero la sua passione. Nella mano destra una spada e nella sinistra una croce, inebbriò d’entusiasmo e d’amore tutta la valorosa gioventù italiana, e proclamò come voluta dal cielo l’indipendenza dei popoli italiani, i quali allora venivano assaliti da Arrigo IV, re di Germania». Papa Ildebrando aveva proclamato: «Dio non ha posta nessuna nazione sotto il giogo d’un’altra, bensì tutte devono piegare la fronte dinanzi al trono di Cristo, ch’è in Roma». Onde Matilde, «fatta primo campione d’un Pontefice perseguitato e nello stesso tempo d’una nazione oppressa, è un carattere singolarmente luminoso... Dio e l’Italia erano la passione eroica di Matilde; ma un’eroina è anche donna, e la donna ha un cuore proclivo alla pietà e all’amore. Intrepida in mezzo ai pericoli della morte, ella pur tremava nascostamente al cospetto del suo giovine prigioniero [il principe Corrado, figlio dell’imperatore Arrigo!].... Immutabile ne’ suoi proponimenti, ella ha giurato la perdita de’ Tedeschi e la liberazione dell’Italia».... Le vicende della guerra son tali, che l’imperatore giunge a dichiararle: «Io son pronto a rinunziare al miei diritti all’Impero di Roma; purchè questo titolo sia d’ora innanzi abolito; dell’Italia si faccia un regno; si distruggano i tanti disprezzevoli scettri che la governano; e Corrado sia teco incoronato Re indipendente di tutta la penisola».
È agevole comprendere come non fosse possibile che uno spirito quale il Manzoni si lasciasse trascinare a simili anacronismi e delirii romantici. Se la causa d’Italia era santa, non doveva esser permesso di tradire la storia per giovarle! Silvio mostra un debole proprio per quelle utopie che più infastidivano Alessandro. All’uno par bella l’idea della confederazione italiana; all’altro parve sempre brutta, anche quando vide farsene apostolo il suo Rosmini. All’uno sorrise quell’ibrido ideale neoguelfo, ch’ebbe poi un così eloquente patrocinatore nel Gioberti; all’altro ripugnò sempre che fosse «giunta la spada col pastorale». L’uno ragionava così: Matilde «era una calda difenditrice della Chiesa, il che io posso interpretare difenditrice dell’Italia»; l’altro: «Non so se il Rosmini sia della mia opinione, ma avrebbero, pare a me, fatto assai bene i Papi a rimanere in Avignone: l’Italia deve loro la condizione in cui è»[92].
È vero che qualche critico partigiano non si peritò di dire che nell’Adelchi il poeta imprecasse contro la «rea progenie» dei Longobardi in grazia di Carlomagno e de’ Franchi, paladini della Chiesa e delle sue ambizioni temporalesche. Ma basta legger quella tragedia, per accorgersi che, caso mai, il poeta è stato parziale per quello dei due popoli, a cui appartennero Ermengarda, Adelchi e il prode e leale Anfrido[93]. Di Carlomagno invece, a dispetto della tradizione chiesastica cui anche Dante s’inchinò e della poetica che assomma nell’Ariosto,[cxx] egli ha fatto il tipo d’un fortunato ipocrita. Il Fauriel ne ritrae così il carattere:
«Il est religieux, mais non autant qu’il faudrait, ni surtout comme il faudrait l’être pour avoir quelques scrupules sur la justice ou la sainteté des moyens de satisfaire son ambition; les coups de sa bonne fortune sont, a ses yeux, les marques les plus certaines de la faveur du ciel. Magnanime toutes les fois qu’il peut l’être sans compromettre son pouvoir, généreux quand il n’y a pas d’imprudence à la générosité, il est toujours également prêt à encourager par des récompenses ou des promesses la bassesse qui se vend à ce prix, et à flatter l’orgueil désintéressé de la loyauté et de la bravoure».
Comparisce sulla scena, dopo che v’è passata la gentile vittima della sua brutale lussuria e della sua ambizione. Egli è sgomento della resistenza del «fiero Adelchi», di codesto prode il cui nome i suoi non proferiscon che con terrore: «ardito Come un leon presso la tana, ei piomba, Percote, e fugge»; una vera «scola di terror» per i Franchi. Carlo è deciso a tornare indietro, a più facili imprese. Il legato papale adopera tutta la sua arte oratoria, tutte le blandizie, perchè l’invitto non rimetta nella guaina il brando che il Signore aveva suscitato in pro del Pastor santo. Ma le belle parole non sarebbero valse a nulla, se non fosse arrivato in buon punto il diacono Martino. Solo allora, l’«eletto a strugger gli empi» riprende coraggio, riparla con ostentata affezione del «santo avel di Piero» e del «desiato amplesso del gran padre Adrian», e ai due prelati intima:
Pure, ei non riesce a intimar silenzio alla sua coscienza; e rimasto senza testimoni, si abbandona a considerazioni e a scuse che mettono a nudo tutta la sua profonda abbiettezza. Ancora una volta su quel regale sepolcro imbiancato proietta la sua candida e rivelatrice luce lunare la casta figura dell’innocente reietta. Essa s’affaccia come un fantasma:
Tragico commediante, a codesto Carlo manca, nella sua perversità, quel non so che di leonino che rende terribili ma non disgustose le colossali figure di Macbeth e di Saul; anzi di lui, come del dantesco Guido Montefeltrano, potrebbe ripetersi che le opere «non furon leonine, ma di volpe». Ha, egli pure, del «cordigliero» e dell’«uom d’arme» insieme. Vuol persuadere a sè stesso che il rimorso che lo assilla («e perchè dunque / Ostinata così mi stavi innanzi....?») sia «un fantasma d’error», che sia bugiarda la voce che gli grida in cuore: «No mai, no, rege esser non puoi nel suolo Ove nacque Ermengarda!». Volgare e sacrilego sofista, egli denunzia complice delle sue infamie, anzi mandatario, Dio stesso («Dio riprovata ha la tua casa; ed io / Starle unito dovea?»)[94]: quel «Dio de’ santi», al quale la vittima s’appresta ad ascendere «santa del suo patir». Davvero nel perverso suo cuore di re «loco a gentile, Ad innocente opra non v’è»; e il suo nome il novissimo poeta ha voluto trasmetterlo a noi accompagnato dall’«imprecar de’ tribolati».[95]
Dicono che in Carlomagno il Manzoni abbia inteso ritrarre il despota che all’alta ragion di regno aveva pur allora sacrificata Giuseppina Beauharnais[96]. Potrebbe essere; e certo converrebbero perfettamente a Napoleone pur quelle parole che con sì cruda verità ritraggono un cuore dove il vento[cxxii] secco della più inesorabile ambizione ha spazzato fin le ultime reliquie della gentilezza e della pietà umana:
[87] A un certo passo dello Schlegel, il Manzoni postillò: «Un poeta drammatico deve, al pari d’ogni altro, desiderare tutto ciò che tende al perfezionamento della società, qualora egli riguardi, com’è giusto, l’arte sua come un mezzo e non come un fine....». Cfr. Bonghi, Opere inedite o rare di A. Manzoni, II, 441.
[88] Non so che altri abbia avvertito che codesta espressione il Leopardi desunse da un passo (III, 1) del Principe e le lettere. Dov’è detto: «Voi dunque, o Socrati, Platoni, Omeri, Demosteni, Ciceroni, Sofocli, Euripidi, Pindari, Alcei, e tanti altri incontaminati e liberi scrittori, ispiratemi or voi non meno che salde ragioni, virile e memorando ardimento». Il ricordo letterario mi pare che accresca vigore alla parentesi leopardiana.
[89] Desumo i particolari della prima rappresentazione della Francesca dalle lettere stesse del Pellico, recentemente pubblicate (ohimè, in che malo modo!) dal p. Ilario Rinieri, nel vol. I Della vita e delle opere di S. P., Torino, 1898. Ho però tenute sott’occhi le diligenti note che il prof. Egidio Bellorini è venuto facendo a quella trascuratissima pubblicazione. Cfr. Intorno ad alcune lettere di S. P., Cuneo, 1902.
[90] Cfr. Bellorini, Intorno ad alcune lettere ecc., pag. 12-16.—Del Bellorini mi giunge in buon punto, perchè io possa qui registrarlo, anche lo scritto intorno alle Idee letterarie di S. Pellico (dal «Giornale Storico d. Lett. Ital.», 1906, vol. XLVII).
[91] La chiama così il D’Ovidio, Studii sulla Divina Commedia, Palermo, 1901, pag. 374.
[92] Nei Pensieri inediti del Bonghi, pag. 88.
[93] Curioso da notare: già l’Alfieri, nell’unica sua tragedia tratta dai «secoli bassi», la Rosmunda, s’era abbandonato alla creazione d’un tipo di guerriero ideale, scegliendolo tra i Longobardi! Adelchi ha un precursore in Ildovaldo! Questi, postilla l’Altieri (nel Parere dell’autore ecc.), «è un perfetto amatore e un sublime guerriero. Le tinte del suo carattere hanno però un non so che di ondeggiante fra i costumi barbari dei suoi tempi, e il giusto illuminato pensare dei posteriori, per cui egli forse non viene ad avere una faccia interamente longobarda. Ma in ogni secolo ci può nascere degli uomini che non siano dei loro tempi, e massimamente nei barbari e oscuri. A me pare, che questo picciolo grado d’inverosimiglianza, allorchè non eccede, possa prestare infinite bellezze; ma che non si possa pure scusare dell’esser difetto». Si rilegga quel che di simile il Manzoni scrisse del suo Adelchi, a p. 12.
[94] Adelchi gli manda a dire, con un accento che fa ripensare a padre Cristoforo (I, 5; p. 33): «E digli ancora, / Che il Dio di tutti, il Dio che i giuri ascolta / Che al debole son fatti, e ne malleva / L’adempimento o la vendetta, il Dio, / Di cui talvolta più si vanta amico / Chi più gli è in ira, in cor del reo sovente / Mette una smania, che alla pena incontro / Correr lo fa».
[95] Comunicando al Fauriel un’aggiunta fatta al testo, il Manzoni scriveva (12 sett. 1822) con una cert’aria canzonatoria: «Ainsi vers la fin du discours de son Eximiété Charles roi des Francs, ou de France, homme illustre,....j’ai ajouté....». C’era dunque un’intesa, fra i due insigni studiosi della storia medioevale, contro il povero re Carlone!
[96] Cfr. V. Waille, Le romantisme de Manzoni, Alger, 1890, p. 125: «Dans Adelchi il trace un portrait de Charlemagne, satire transparente de Napoléon, faisant ressortir l’homme sans entrailles, le comédien».
Perchè potessimo formarci un concetto esatto dei fini letterarii, morali e politici a cui il Manzoni diresse la sua opera poetica, occorrerebbe che ci rendessimo conto delle titubanze, delle contradizioni, delle audacie e dei pentimenti di quei primi nostri romantici, tanto minori di lui. Egli è un atleta, che dissimula gli sforzi e i tentennamenti; i quali, in lui, furon anche di corta durata. Gli altri invece, il Pellico in ispecie, finirono con lo smarrirsi tra le mille incertezze, prima di toccar la meta, anzi prima ancora d’aver trovata la via che potesse condurvi.
Ricordo un magnifico spettacolo, al quale mi fu dato assistere in una indimenticabile giornata d’autunno. Eravamo a Capri, su quel rialzo a guisa di sella, dove s’annida la bianca borgata, tra le altezze superbe del monte Solare, su cui s’inerpica Anacapri, e del Salto di Tiberio. Un forte vento di tramontana aveva spazzata via la nuvolaglia e i vapori nebbiosi dei giorni scorsi; e il cielo era tutto una volta di lapislazzuli, e i monti della penisola sorrentina e del golfo di Salerno, il promontorio di Miseno, le isole d’Ischia e di Procida si disegnavan nitidamente all’orizzonte. L’immenso anfiteatro di Napoli, da Baia a Castellammare e a Sorrento, con in fondo il Vesuvio che allungava verso di noi il pennacchio superbo, si dispiegava luminoso ai nostri sguardi. Pure, sull’ampio specchio delle acque del Golfo, d’un turchino intenso, spuntavano e trepidavano innumerevoli e grossi batuffoli come di candida bambagia: quasi un immane gregge di giganteschi[cxxiii] ermellini, gettati a nuoto; e sulla costa, dov’è l’approdo e dov’è scavata la Grotta Azzurra, s’avventavano, con terribile impeto e fracasso, inseguendosi, mostruosi cavalloni, che pareva volessero scovare e rapire dai loro ripari le barche impaurite. Ebbene, rivolgendo gli occhi indietro, la scena mutava. Il mare si stendeva ampio e tranquillo, liscio, senza una ruga, fin laggiù laggiù dove si confondeva col cielo. Sotto l’Arco naturale, ai piedi dei ciclopici Faraglioni, tra gli scogli della Marina piccola, all’imboccatura della Grotta Verde, l’onda, qui come di zaffiro liquefatto, più là come di topazio o di smeraldo «allora che si fiacca», susurrava carezzosa, quasi mormorasse una inarticolata ecloga piscatoria. Le barchette s’accostavan sicure al piroscafo, ch’era venuto a gettar l’ancora qui; e pareva che nessuno ricordasse più la tramontana che rendeva inospitale l’altra riva.
L’arte manzoniana, che dissimula, sotto la superficie levigata e iridescente, le agitazioni della tempesta, l’assomiglierei all’alto mare; al Golfo che, fra tanta festa di colori, ancor risente l’impeto del vento di nord, l’arte dei romantici minori. Per convenirne, basta ascoltare il Pellico, in una lettera al fratello Luigi, da Milano l’11 dicembre 1815.
«Ti ricordi l’effetto che produsse in noi la lettura di Shakespeare e di Schiller; come l’orizzonte si facea più vasto davanti a noi? La fredda riflessione, il rimbombo della voce de’ pedanti, mi ha spesso fatto dire: questo mio fervore sarà egli un delirio d’inesperta gioventù? verrà il tempo in cui arrossirò delle mie sfrenate teorie, e discernerò quanto inerente al vero bello sia la saviezza delle regole così dette aristoteliche? La coscienza risponde di no.—Quando lessi la Letteratura del Mezzogiorno di Sismondi e il Corso drammatico di Schlegel, mi riaccesi dello stesso foco che Shakespeare e Schiller m’avevano messo nel cuore. Lessi tutte le critiche francesi contro Schlegel e Sismondi, e ne scopersi con isdegno i sofismi. Giorni sono, Breme comprò una raccolta di opere drammatiche tedesche tradotte in francese: l’Emilia Galotti di Lessing, Goetz di Berlichingen di Goethe sono cose che sforzano l’ammirazione».
Ammiratore dell’Alfieri, del Monti, del Foscolo, vorrebbe rimaner fedele anche ai pregiudizii critici di costoro; ma quella ventata del nord, ch’egli ha lasciato entrare dalla finestra aperta, lo trasporta verso l’eterodossia. Spera in un[cxxiv] ravvedimento; ma intanto medita un tranello. Nel luglio di quel medesimo anno aveva scritto:
«Converrà esser noto per tre o quattro produzioni ortodosse, prima d’aver suffragi abbastanza per osar di tentare innovazioni, violazioni di regole, ecc. Tanto quelle foggiate alla Schiller, come le essenzialmente politiche, devono essere modeste, e lasciare la primogenitura alle altre».
Shakespeare, Goethe, Lessing, anche Kotzebue (ne cita Misantropia e pentimento, e attesta che l’Andromaca di Racine «non farà mai spargere tante lagrime», nonostante che sia «enorme la differenza di merito»), lo entusiasmano, e, appena può, egli cerca d’imitarli (la Francesca da Rimini risente del Romeo e Giulietta, l’Ester d’Engaddi dell’Otello, il Tommaso Moro del Giulio Cesare); ma il poeta che più lo commuove e lo affascina è lo Schiller, il tenero e appassionato creatore di quelle delicate creature che si chiamano Amalia, Tecla, Luisa Miller. «Oh divino Schiller!», esclama in una lettera del 20 gennaio 1820; «Don Carlos e Fiesco sono due tragedie inimitabilmente belle. V’è una forza d’immaginazione che spaventa. Perchè mai Schiller non è riconosciuto per uno dei più grandi ingegni che la repubblica letteraria abbia avuto?». Verso quel nuovo dramma così schiettamente romantico, egli è sospinto dalla sua indole generosa e fantasiosa e dal suo carbonarismo bianco. Nelle sue tragedie è facile sorprenderne l’influsso un po’ da per tutto: nell’Eufemio di Messina e nell’Iginia d’Asti, nella Francesca da Rimini e nella Gismonda da Mendrisio. E insomma la sua Matilde di Canossa, senza che forse egli ne avesse precisa coscienza, non tendeva a conformarsi sempre meglio alla Vergine d’Orléans?[97]
Un tempo, anche il Manzoni aveva partecipato a siffatti entusiasmi, e collocato Schiller tra Shakespeare e Goethe. Discorrendo di quel genere di tragedie che a parer suo era[cxxv] «superiore ad ogni altro»; il quale, «partendo dall’interesse che i fatti grandi della storia eccitano in noi, e dal desiderio che ci lasciano di conoscere o d’immaginare i sentimenti reconditi, i discorsi ecc., che questi fatti hanno fatto nascere e coi quali si sono sviluppati (desiderio che la storia non può nè vuole accontentare), inventa appunto questi sentimenti nel modo il più verosimile, commovente e istruttivo»; il Manzoni, in certi suoi appunti di critica, saltava sù a dire: «La pratica di quest’ideale drammatico si vede portata al più alto grado in molte tragedie di Shakespeare; ed esempj notabilissimi ne sono pure le tragedie di Schiller, del signor Goethe, per non parlare che di quelle ch’io conosco». Anzi, subito dopo, alla Rodogune e all’Héraclius di Corneille e al Bajazet di Racine, egli preferiva contrapporre appunto la Maria Stuarda[98]: quella cioè che, a giudizio della Staël, è «de toutes les tragédies allemandes la plus pathétique et la mieux conçue»[99].
Quanto alla moralità di quelle tragedie, gli rimaneva, sì, qualche dubbio; e ad ogni modo, non gli pareva che, per tal riguardo, ci fosse miglioramento o progresso sul teatro classico. «Noi», egli osserva, «abbiamo una inclinazione a seguire più il nostro giudizio che le leggi divine ed umane»; e «i poeti drammatici hanno assecondata questa inclinazione, rappresentando casi in cui mille inconvenienti si trovino nella esecuzione della legge, e mille vantaggi e mille sentimenti virtuosi nella trasgressione. Esempj: Héraclius, Tell». E un po’ più giù, adduce ed esamina la prima scena dell’atto IV del Guglielmo Tell appunto, quella del pescatore che «osserva con un suo figliuoletto la barca dov’è Gessler con Tell, agitata dai venti», come un cospicuo «esempio del pericolo di far partecipare lo spettatore alla passione del personaggio». Riferite le parole del pescatore:
e la risposta del fanciullo:
egli ripiglia:
«Questo sentimento orribile è espresso senza disapprovazione; nè io voglio credere che uscisse dal cuore di Schiller, ma egli avrà voluto rappresentare al vivo l’abbominio di quegli uomini per Gessler. Ma egli ha errato, mettendosi a rischio di far sentire lo spettatore come il suo personaggio. Del resto, mi sembra che, poichè egli ha immaginato di far pregare il fanciullo, ha perduto l’occasione di una scena bellissima. Se il padre invece (il che è nella natura d’un uomo pio e retto) dicesse al figlio di pregare anche per Gessler, che commozione non ecciterebbe! Quanti sentimenti non risveglierebbe di quella Religione che insegna a chi l’ascolta di pregare per Gessler e per Tell, per l’oppresso e per l’oppressore; a riguardare gli uomini i più scellerati come creati anch’essi per la virtù, come capaci di emendarsi e di seguirla, e sè stesso come capace dei più grandi errori, qualora Dio lo abbandoni; che insegna a riguardar tutti gli uomini come fratelli, e se gl’iniqui vogliono rompere questo santo vincolo, c’impone di tenerci stretti a loro, con quella carità che ha per fondamento non il merito loro, ma i precetti e gli esempj di Gesù Cristo!—Quanto più Gessler è stato dipinto scellerato, più pericoloso è questo sentimento, perchè lo spettatore è disposto a riceverlo. Certo, v’è una simpatia in ciò; ma dev’egli, il poeta, secondare questa inclinazione nostra? No, certamente; e se il diletto è il fine della poesia, io m’immagino che dall’aver vinto questo impeto d’odio, e dall’avere accolti in sè i sentimenti sublimi che ho accennato poco sopra, ne debba nascere un vivo, soave ed alto piacere, e questo deve il poeta trasfondere nello spettatore. Questi può avere piaceri viziosi e piaceri virtuosi: i secondi sono i più poetici».[100]
Ancora nella Lettre à m. C***, ch’è dell’inverno 1819-20, il Manzoni ricordava, nel manoscritto, «les pièces historiques» di Schiller insieme con quelle di Shakespeare e di Goethe. Sennonchè il 29 maggio del 1822, tornando sul suo giovanile entusiasmo, pregava l’amico Fauriel di cancellare il nome del poeta würtemberghese, dacché ei v’era citato «d’une manière qui fait supposer une idée beaucoup plus haute que je ne l’ai réellement de l’importance de cet[cxxvii] écrivain au point de vue dramatique»; e soggiungeva: «Vous vous souviendrez peut-être des discours que nous avons tenus sur ce sujet; vos idées ont donné aux miennes là-dessus plus d’étendue et de courage; en rélisant les tragédies de Schiller, je me suis confirmé dans ces idées; enfin, je ne mérite ni n’ose le nommer»[101].
Tuttavia non era ugualmente agevole di fare sparire ogni traccia dell’antica ammirazione nella prima delle sue due tragedie, concepite mentr’essa era fervida. E s’intende: il soggetto medesimo del Conte di Carmagnola avea dovuto richiamare ogni tanto il pensiero del poeta novello a quella trilogia del Wallenstein che fece credere ai Tedeschi di possedere anch’essi uno Shakespeare. La Staël ne aveva discorso con molta lode; e Beniamino Constant l’aveva costretta e disciplinata in un unico dramma di fattura classica, tra le più vive censure dei romantici[102]. In fondo, anche il Manzoni aveva fatto qualcosa di simile: l’atto secondo del Carmagnola, di cui la prima parte si svolge nel Campo ducale e la seconda nel Campo veneziano, è quasi una minuscola riproduzione del Wallensteins Lager, donde sia stato potato tutto ciò che a un poeta educato alla scuola di Virgilio e di Vittorio Alfieri doveva parer superfluo. L’ispirazione schilleriana era, e si capisce, ancor meglio evidente nel primo getto di quell’atto [103]. Il Manzoni v’introduceva francamente il popolo, nei cui discorsi la bella figura del Condottiero e i pericoli che l’attorniavano venivano lumeggiati più al vivo. E alle altre che son rimaste, faceva precedere una notevole scena tra due minori capitani di ventura, i fratelli Micheletto e Lorenzo di Cotignola, e una scenetta fra costoro e il Carmagnola, dov’eran[cxxviii] chiarite ottimamente e le condizioni degli eserciti a fronte, e il fascino che su quegli uomini rotti alla guerra esercitava il protagonista, colla sua valentìa sicura e con le sue schiette ed affabili maniere, e le noiose difficoltà tra cui questi era costretto a muoversi, per ogni passo dovendo prima consultarsi coi Provveditori della Repubblica[104].
Veramente, se codeste scene furon poi messe in disparte, ciò non avvenne per paura che il poeta avesse di passare per imitatore dello Schiller: anzi, gli esempi dello Shakespeare, e i goethiani dell’Egmont e del Goetz von Berlichingen, avrebbero dovuto dargli animo a rimanere nella via per cui s’era, con tanta fortunata baldanza, incamminato. Il novizio fu invece colto, in mal punto, dallo scrupolo della verosimiglianza storica. E allo Chauvet, che, pur dal suo punto di vista classico, gli fece un carico della completa assenza del popolo nella tragedia, egli ebbe a replicare che dall’opinione pubblica non s’era creduto lecito trarre alcun partito, pel fatto che nella Venezia del quattrocento un’opinione pubblica non esisteva. Anche il Byron, nella seconda delle sue tragedie veneziane, I due Foscari, che scrisse a Ravenna tra il giugno e il luglio del 1821 e che pubblicò nel dicembre dello stesso anno, faceva replicare dal Doge a chi ipocritamente gli parlava ancora d’un’autorità popolare:
Ma fu, nell’interesse dell’arte, un eccesso di rigore; e forse il poeta spinse il suo scrupolo storico anche di là dal limite che la storia medesima gli avrebbe consentito. Nelle notizie premesse al dramma, è pur additata «qualche traccia di una opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere», circa il preteso tradimento. E non si sarebbero potute mettere in bocca a qualcuno del popolo quelle voci che ci sono state tramandate dai cronisti? Un bolognese, per esempio, riferisce e la diceria che il Senato condannasse lealmente il Conte «perchè egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano», e l’altra, che quella ragione di tradimento fosse escogitata per disfarsi d’un pericoloso e potente capitano che oramai aveva nelle sue mani lo Stato. Una differente versione fu raccolta dal Poggio, che di quella morte fosse cagione la superbia del Carmagnola, «insultante verso i cittadini veneti e odiosa a tutti»; e un’altra diversa dal Corio, che alla Signoria facesse gola «il valsente di più di trecento migliaia di ducati», che, in grazia della non serena condanna, passò dalle casse del Condottiero a rinsanguare l’erario della Serenissima[106].
E ancora una scena, di schietta ispirazione schilleriana, il Manzoni sacrificò alla verità storica: quella d’un povero mandriano, venuto apposta a Venezia per parlare, nel giorno della partenza solenne, al Carmagnola, e che si rivelava pel padre di lui. Egli s’imbatte in alcuni cittadini che attendono il corteo, e chiede loro:
In verità, non mi sembra possibile non ammettere che qui il Manzoni intendesse far qualcosa di simile a quelle scene del IV atto della Jungfrau von Orleans, dove al trionfo di Giovanna vengono ad assistere il padre, le sorelle e gli amici[cxxxii] contadini. Beninteso che l’effetto ch’ei se ne riprometteva era diverso, anzi opposto. L’incontro del festeggiato signore col suo umilissimo padre avrebbe dovuto dare ancor più risalto alla nobiltà d’animo del protagonista, e ancor meglio dissipare le accuse di superbia ond’era fatto segno. Sennonchè una tale scena gli era poi consentita dalla storia? E quell’episodio era verosimile nell’aristocratica Repubblica? Un poeta più lesto, come Shakespeare, anzi pur come Goethe o Schiller, non avrebbe esitato un momento a cavarne partito. E che importava che i cronisti più fededegni non se ne mostrassero informati? Nel cinquecento, all’incontro del Carmagnola col padre si prestava fede; e un umanista, ch’era anche un uomo di chiesa, il canonico veronese Adam Fumano, raccolse quella tradizione dalla bocca del popolo, e la espose, con una certa pompa, in un epigramma,[108] ch’ebbe la ventura d’esser riferito e illustrato dal Giovio, e la disgrazia d’esser rattrappito e mutilato in un sonetto, un vero letto di Procuste,[cxxxiii] da Lodovico Domenichi[109]. Or, di fronte a una tradizione siffatta, abbastanza antica se pur non autentica, ma così feconda di effetti poetici, doveva un poeta credersi in obbligo di far tanto lo schizzinoso?
[97] Il Bellorini (Spigolature Pellichiane, Saluzzo, 1903, p. 25-8) ebbe già a notare che la cantica Tancreda ha molte somiglianze con codesto dramma dello Schiller.—Ognuno ricorda come il Pellico noti che avesse il medesimo nome del «grand’uomo» l’umile e bonario carceriere dello Spielberg. Cfr. Mie Prigioni, cap. 58.
[98] Vedi nei Materiali estetici, a pag. 389 di questo volume.
[99] De l’Allemagne, II pt., ch. 18.
[100] Vedi, in questo volume, il saggio Della moralità delle opere tragiche, alle pagine 433-36.
[101] Vedi, in questo volume, a pag. 302-03 e 336.
[102] Cfr. M. De Staël, De l’Allemagne, II pt., ch. 18; e B. Constant, Mélanges de littérature et de politique, Bruxelles, 1838, p. 216 ss.
[103] L’episodio gentile e commovente del giovinetto Pergola (sc. 3ª, p. 221-22), che a quel ch’io so non ha fondamento nella storia, è bensì d’ispirazione omerica, ma la maniera ond’è ricolorito si direbbe modellata su Schiller. Come pure, il senatore Marco rassomiglia, nell’eccessiva perfezione morale, specialmente al Marchese di Posa; nonostante che di quei caratteri un po’ rigidi sia altresì popolato il teatro del nostro Alfieri.
[104] Vedi in questo volume, a pag. 281 ss.
[105] «Il popolo!... Qui non c’è popolo, voi lo sapete bene; altrimenti voi non osereste trattarci così, lui e me! Qui c’è una plebe, forse, i cui sguardi vi farebbero vergognare; ma essi non ardiranno nè gemere nè maledirvi, salvo che col loro cuore e con gli occhi». (Atto V).—Conobbe il Byron la tragedia manzoniana, pubblicata l’anno avanti? Non lo credo impossibile, in ispecie se si tien conto degli accenni al processo del Carmagnola, la cui innocenza qui è data per sicura, verso la fine dell’atto IV. Il senatore Barbarigo dice del doge Francesco Foscari, che fu quegli che lo condannò: «Eppure egli sembra un uomo così aperto!...». E il patrizio Loredano: «Così anche sembrava, poco tempo fa, al Carmagnola!—L’accusato e straniero traditore?—Proprio così!.... E il valoroso Carmagnola è morto!...—Carmagnola era vostro amico? —Egli era la difesa della città. Nella sua giovinezza, era stato suo nemico; ma nella sua virilità, prima il suo salvatore e poi la sua vittima.—Ah questa pare sia la pena che tocca a chi salva le città!».
[106] Anche altre voci si potrebbero raccogliere. Un ser Gherardini de Fulgineo per esempio, citato dal Battistella (Il Conte di Carmagnola, studio storico con documenti inediti, Genova, 1889, p. 394), scriveva da Firenze al Marchese d’Este, il 15 maggio 1432: «....Et la prexa et la morte del Carmagnola è ogni dì più vituperata et biasemata qui. Et dicese largo che questo acto, oltra la vergogna, è la desfactione de la liga».—Il Giovio attesta ch’ei fu giustiziato «ea fama, ut nonnulli eum indignissime damnatum dicerent, quod avaritia praecipitique malignitate maturatum ei exitium arbitrarentur. Nam ex damnati opibus supra ducenta milia aureorum nummum ad Fiscum redibant.... Auxit autem invidiam atrocis inexpectatique supplicii spectaculum interdiu populo editum, quum indigne tantus imperator ad Columnas rubras ubi noxii plecti solent, inserto in os ligneo lupato ne vociferari posset, traheretur; multis aut insontis calamitatem, aut aequo severius ingrati Senatus decretum detestantibus; quum egregie fortiterque rerum bello gestarum recens memoria spectantium animos, excitis fere lachrymis, ad misericordiam permoveret».—Per quel ch’è poi della vera o presunta reità del Carmagnola, a me pare, pur dopo il tanto arrabattarsi degli apologisti del Senato Veneto, che rimanga inesorabilmente giusto il giudizio del Machiavelli, nel Principe (cap. XII, § 7, ediz. Lisio), al quale il Manzoni sembra essersi ispirato: che cioè i Veneziani, veduto «el Carmignola.... virtuosissimo, battuto che ebbono sotto il suo governo el Duca di Milano, e conoscendo da altra parte come elli era raffreddo nella guerra, iudicorono con lui non potere più vincere, perchè non voleva, nè potere licenziarlo per non riperdere ciò che aveano acquistato; onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo».
[107] Vedi, in questo volume, a pag. 282 ss.—Il Conte, nel primo getto (pag. 280), accennava anch’egli amorevolmente a suo padre; quando al fido Marco esponeva quel che avrebbe fatto dopo la vittoria:
Il Fumano fu eletto canonico di Verona nel 1544, e morì in «felice vecchiaia» nel 1587.—Il Manzoni chiamò Bartolomeo il padre del Carmagnola, seguendo la tradizione; ma da qualche documento milanese risulterebbe chiamarsi egli Giacomo. In un istrumento degli 8 dicembre 1415, è scritto: «....Virum magnanimum et strenuae probitatis fama decoratum Franciscum de Buxonibus dictum Carmagnolam, filium condam spectabilis vivi domini Jacobi....».
[109] Nella sua traduzione degli Elogi del Giovio: Vinegia, De’ Rossi, 1557, pag. 115. Il sonetto è questo:
Non posso indugiarmi qui a rilevare quant’altro il Manzoni, nelle sue tragedie, può aver derivato dallo Schiller, e in che modo e in quali limiti ha seguito gli esempii del Goethe e i modelli di quello Shakespeare, che ai suoi occhi diveniva via via sempre più immenso[110]. Tramontarono, nella sua ammirazione, e Monti, e Alfieri, e Schiller; ma l’altissimo tragediografo ascendeva sempre. E di lui egli avrebbe[cxxxiv] potuto ripetere quel che il curato amico di Don Chisciotte disse dell’Ariosto: «lo pondré sobre mi cabeza!».[111]
Questo ed altro spero di fare la prossima volta. Per ora, poichè «piene son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda», soggiungerò alcune poche note, a compimento delle iniziate o accennate dianzi.
Negli appunti di critica, il Manzoni asseriva che la teoria del nuovo genere drammatico, pur da lui preferito, era «negli scritti del signor Schlegel, di mad.ᵉ di Stäel, del signor Sismondi, nel Discours des préfaces premesso alla traduzione di Shakespeare»: sono i libri medesimi che mettevan tanto scompiglio nella fantasia del povero Pellico. E continuava: «dei tratti nuovi e luminosi se ne trovano pure in varj recentissimi scritti di nostri Italiani, principalmente negli estratti ragionati di opere drammatiche che stanno nel Conciliatore». Codesti estratti, o ristretti con osservazioni critiche, eran dovuti in parte a Ermes Visconti, al De Cristoforis, a Giuseppe Niccolini, al Berchet; ma soprattutto al Pellico. Il quale nel «foglio azzurro» del settembre 1818 aveva dissertato, con larghezza d’idee nuova tra noi, dell’Alfieri e del Corneille, del Voltaire e del Racine, del Cervantes e dello Shakespeare; e nei numeri del febbraio e dell’aprile del 1819, del Philippe II di Giuseppe Chénier, comparandolo al Don Carlos di Schiller e al Filippo di Alfieri, dell’Henri VIII e del Charles IX del medesimo poeta, e della Maria Stuarda di Schiller, toccando dei Masnadieri, della Vergine d’Orléans, del Wallenstein. Il critico vi proclamava con giovanile baldanza:
«Le sane regole in ogni arte vanno sentite e trovate da per sè colla potenza dell’intelletto, e non ricevute ciecamente per tradizione. Tale era l’opinione di Schiller, e quindi risultò che in ciascuno de’ suoi poemi egli sempre calcasse una nuova strada. Non solo non è vero che per giungere al bello si debba porre servilmente il piede sovra orme[cxxxv] già segnate; ma è anzi irrefragabile che ogni soggetto che un poeta assume a trattare deve essere condotto con leggi particolarmente proprie; perchè se l’ingegno umano, simile alla natura, nulla crea mai d’identico ad alcuna opera già esistente, identiche non potranno mai essere le regole da seguirsi nelle diverse creazioni».[112]
Giustissimo; ma non è da tutti lo scoprire e il calcare nuove vie, nè basta a ciò la sola buona volontà. E quando il Pellico riuscì con uno sforzo a staccarsi dalla via consolare, andò subito a cascare in altre, aperte e inaugurate più di recente. Insieme con lo Schiller e con lo Shakespeare, uno dei suoi modelli preferiti fu Giuseppe Maria Chénier. Il quale, come si sa, aveva voluto essere, sul teatro tragico, l’epigono di Voltaire: la rivoluzione e l’epurazione che questi aveva compiuta nel campo morale e religioso, egli intese ad attuarla nel campo politico. Così che in una Epître aux manes de Voltaire si vantò:
E l’Epistola, che l’enfatico poeta aveva pubblicata nel 1790 in fine della sua prima ed anche più famosa tragedia, Charles IX ou l’école des rois, era andata molto ai versi del Pellico; che nel Conciliatore del 7 febbraio 1819 scriveva:
«La sua Epistola a Voltaire è uno dei poemi che, dal 1800[?] in poi, sono stati accolti in Francia con maggiore applauso: essa fruttò all’autore un decreto di destituzione, e un’infinità di mercenarie invettive in tutti i fogli periodici; ma queste, come sempre avviene delle persecuzioni, non diedero fuorchè un più vivo risalto al perseguitato».
Il futuro narratore delle Mie Prigioni sentiva ribollirsi in petto quei medesimi spiriti impazienti di libertà; e non lesina[cxxxvi] davvero la lode al poeta che Beniamino Constant giudicava «le plus beau talent de son époque, comme auteur dramatique»[113]. Si esalta quando, nel Charles IX, l’ode, con accento alfieriano, inveire contro i tiranni di diritto divino, e, nel Caio Gracco, levare il grido, contro la non meno abbominevole tirannia della plebe ubriaca, Des lois et non du sang!; quando, nel Timoleone (1794), ne ascolta l’alfieriana protesta contro i nuovi decemviri del Terrore, e, nel Tiberio (1810), lo vede disegnare «coi tratti più veri l’uomo, di cui tutti guardavano l’immagine venerandola o tremando». Eppure, un così ardente rivoluzionario nelle idee politiche era perseverantemente stato, com’ebbe a notare il Constant, «le partisan le plus zélé de toutes les entraves léguées par Aristote et consacrées par Boileau». Ma non fu tale anche il liberissimo Alfieri? Anzi, non anche il Foscolo, pur sospettato di aver voluto coll’Ajace alludere, nel carattere del protagonista «all’esilio del generale Moreau, e nella spregiata santità di Calcante alle sciagure di Pio VII, e nell’ambizione d’Agamennone alla fraudolenta onnipotenza di Napoleone»?[114] E forse appunto lo Chénier fornì al Pellico l’esempio di quell’improvvisa tirata lirica di Paolo, nella Francesca, ch’è un anacronismo storico e una stonatura artistica.
Nella 1ª scena dell’atto III del Charles IX, a un certo momento, Le Chancelier de l’Hôpital esce in queste profetiche esclamazioni:
Non è chi non veda come qui sia chiaramente vaticinata la distruzione della Bastiglia,... ch’era già avvenuta[115]: e l’avevano, con ingenuo entusiasmo, di cui più tardi ebbero a pentirsi o ad arrossire, celebrata Andrea Chénier e il suo amico Vittorio Alfieri[116]. Codesti versi rappresentano appunto la coccarda patriottica, che il più giovane ma non meno audace fratello di Andrea aveva attaccata, nei primi giorni della libertà, in fronte alla vecchia Melpomene. «Non pas en composant la[cxxxviii] tragédie de Charles IX, qui était faite depuis long-temps», dichiara egli stesso in una nota, «mais en ajoutant au rôle du Chancelier de l’Hôpital seize vers où il prédit la révolution».
Ora, anche il Manzoni aveva molta stima pel teatro nazionale dello Chénier; benchè non mancasse di fare le sue solite acute riserve circa una pretesa moralità, peculiare alle opere tragiche. Osservava a proposito della frase, sovente ripetuta, «Entrambi hanno fatto il loro dovere», che essa muove dall’assurda supposizione che, in molti casi, a due persone possano incombere doveri contrarii su uno stesso soggetto.
«Si osservino tutti questi casi, e si vedrà che i due doveri supposti sono fondati su opinioni speciali e temporanee, su istituzioni ecc., e che si dimentica sempre il fine che si deve cercare nella determinazione da prendersi dalle due persone. Ora, il fine giusto non può essere che uno. Esempio: la scena, per tanti rapporti bellissima, del Tiberio di Chénier, nella quale Cneo implora Agrippina perchè desista dall’accusare Pisone padre di Cneo. Agrippina risponde che il dovere suo è di accusarlo e di perderlo, e il dovere di Cneo di far tutto per salvarlo. Questo sentimento è falso, perchè due tendenze opposte non ponno essere egualmente buone o giuste. Ora, donde viene il falso in questo caso? Dall’essersi il poeta applicato puramente ai rapporti personali delle due parti, alla sorte di Pisone e alla vendetta di Germanico, e dall’aver dimenticato la verità e la giustizia, e il fine per cui sono istituite le accuse, le difese, i tribunali e i giudici: il qual fine è tutt’altro che di dare occasione ai parenti d’un morto di vendicarlo, e di mostrarsi sensibili alla sua perdita, e di dare occasione ad un figlio di salvare suo padre».[117]
S’intende, siffatte osservazioni e obiezioni particolari non menomavano, nel concetto del Manzoni, il merito singolare dello Chénier; ch’era d’aver cercato i soggetti delle sue tragedie nella storia nazionale del suo paese, e d’aver affidata al teatro una missione politica. Risonava ancora nel mondo latino l’esclamazione sospirosa (unica ciambella gustosa dell’infornata poetica d’un Clément avversario di Voltaire!):
che pare il grido di sommossa provocatore del romanticismo, a cui un Berchoux, detto le gastronomique, aveva accodato:
E un Du Belloy, mezzo fallito imitatore del Metastasio, aveva avuto fortuna con drammi sgangherati, quali Le siége de Calais (1765), Gaston et Bayard (1771), Gabrielle de Vergy (1777)[118]; ma Pierre le Cruel aveva finito col togliergli credito, così per l’atrocità macabra e nauseante dell’azione, come perchè la povera storia vi era più che mai bistrattata e vilipesa. Tuttavia l’incanto mitologico o semileggendario era rotto; e il pubblico francese aveva chiaramente dimostrato la sua propensione per i soggetti nazionali. Giuseppe Chénier trasse profitto da queste buone disposizioni. I tempi eran mutati, ed ora era permesso ciò che non sarebbe stato nè a Corneille nè a Voltaire. «Les malheurs de la France», scrive lo Chénier nel Discours préliminaire al Charles IX, del 22 agosto 1788, «occasionnés presque toujours par la faiblesse des rois, par le dispotisme des ministres et l’esprit fanatique[cxl] du clergé, auraient nécessairement rempli de véritables pièces nationales. Le gouvernement n’était point assez raisonnable pour les permettre, et les Français n’étaient pas encore capables de les sentir». E poichè «les hommes supérieurs font marcher l’esprit humain: sans eux, il resterait immobile»; lo Chénier si propose di fare o di compiere quanto Corneille e Voltaire avevano lasciato o intentato o a mezzo.
L’attingere alla storia nazionale era, in fondo, un tornare alla grande e genuina tradizione greca: i modelli rimanevano ancora Eschilo e Sofocle. «Souvent, en faisant parler les fameux personnages des tems passés, le poète insérait dans sa pièce des détails relatifs aux tems présens. L’Oedipe à Colonne, entre autres, est plein d’allusions à la guerre du Péloponèse». Da ciò i versi profetici del Charles IX, e, più tardi, dietro quell’esempio, l’uscita lirica e carbonaresca della Francesca da Rimini.
Da ciò pure, ma non solamente da ciò, l’idea del Manzoni di mettere in tragedia un episodio della nostra storia, durante il brutto tempo in cui l’antico valore italico era malamente sprecato in guerre fratricide; e l’altra, di lumeggiare, nei suoi aspetti più reconditi e commoventi, una delle più interessanti fra quelle lotte d’invasori donde derivò tanto danno e tanta vergogna al bel paese. Non era possibile, nè l’avrebbe voluto il poeta, che la storia contemporanea non facesse capolino di tra la rappresentazione de’ fatti più antichi. Questi il poeta li sceglieva lui: e non è un caso se, per esempio, nella discesa di Carlomagno in Italia, egli riproducesse quella più recente di Napoleone; e nella morte dell’innocente Carmagnola quella, così drammatica, di Gioacchino Murat; e le generose idee di questo principe egli prestasse un momento al suo diletto Adelchi. È vero che, andando avanti nella composizione dei suoi drammi, il Manzoni cercò di rimanere sempre più fedele al vero storico, così da immaginare i Cori, soltanto «destinati alla lettura», per riserbarsi «un cantuccio» dove «parlare in persona propria». Ma neanche allora riuscì del tutto a vincere «la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti», a evitare insomma un «difetto», ch’è «dei più notati[cxli] negli scrittori drammatici».[119] Gli è che i suoi drammi erano stati concepiti con un intendimento alquanto diverso; e questo, nel primo getto, vien fuori con balda schiettezza.
Adelchi, in quegli abbozzi, è Murat: o meglio, è il principe ideale, che vagheggia la redenzione e l’unità d’Italia. Egli parla come soltanto Murat aveva osato, fino allora, parlare. Al fedele Anfrido diceva (III, I; pag. 132):
E già prima (I, 2; pag. 123-25) aveva ammonito il padre (il quale rimane inesorabilmente sordo: proprio com’era stato Napoleone!) che
e ventilato il disegno di proclamar liberi i Romani, raggruppando tutta l’Italia in un unico regno.
Là dove, nella tragedia a stampa, è rimasto sol questo cenno fugace (I, 2; pag. 25):
era, nell’abbozzo, esposto un magnifico programma di libertà, che s’appuntava in queste fatidiche parole (p. 123-25):
C’è bisogno di ancor richiamare i versi, con cui termina il frammento sul Proclama di Rimini: «...dell’Itala fortuna Le sparse verghe raccorrai da terra, E un fascio ne farai nella tua mano....»? Dei quali è solo rimasta un’eco nell’ultima stesura della tragedia, nelle angosciose esclamazioni di Adelchi (III, 1; p. 55):
E questi versi eran, con poco divario, pur nel primo getto (pag. 126-27):
Dove però l’accoramento del protagonista era meglio compreso e diviso dal lettore, che ne conosceva i magnanimi disegni.
E quando, nel Carmagnola (V, 4; pag. 256), il Manzoni fa prorompere l’imprigionato capitano nel solenne e malinconico addio alla vita, la quale portava via con sè le illusioni più dolci e i più inebrianti entusiasmi che gliela rendevano cara:
noi possiamo bensì osservare che il poeta si è in buon punto ricordato (e come sottrarsi al fascino fatale?) del consimile addio di Otello (III, 3; v. 347 ss.):
e fors’anche dell’altro che il Goethe, variando qua e là questo di Otello, aveva messo in bocca a Egmont, pur lui languente in attesa del supplizio (V, 2)[121]; ma non dobbiamo trascurar[cxliv] di riflettere altresì che quei tristi pensieri e quelle sospirose parole, o «di tal genere, se non tali appunto»[122], il poeta contemporaneo di Napoleone deve aver facilmente immaginato che saranno passati per la mente o fiorite sul labbro dell’eccelso coatto di Sant’Elena. E che è insomma, nel Cinque maggio, quella magnifica e icastica rievocazione del grande, che
sta pensoso sulla «breve sponda», come un naufrago sbattuto e quasi sopraffatto dal flutto incessante e sempre più minaccioso delle memorie dei giorni irrevocati, se non una stupenda variazione lirica di quel medesimo motivo spuntato nei soliloqui di Otello, di Egmont, del Carmagnola?[123] Gli è che anche la poesia altrui, perchè un altro grande poeta possa degnamente imitarla e rinnovarla, occorre ch’ei la risenta in sè medesimo o nel personaggio che intende ritrarre. E del resto, pur senza pretendere a poeti, quando in certe occasioni ci corrono spontanei sul labbro certi versi di grandi poeti, non è forse perchè essi ci paiono davvero la voce commossa e ispirata di quei momenti e di quelle situazioni? Sunt lacrymae rerum!
Così pure, è naturale che le scene, in cui il Manzoni ci fa assistere ai crudeli momenti che precedettero la morte del generoso e gentile Condottiero, ci facciano ripensare, chi le abbia familiari, a quelle, più ampie e fino un po’ spettacolose, che il Goethe immaginò e descrisse per Egmont; ma[cxlv] non sarà senza interesse avvertire che, nel distenderle, al poeta può essersi affacciata, come accennavo dianzi, la cara e dolorosa figura del principe da lui celebrato nella canzone del 1815, così miseramente spento al Pizzo. Quella tenerezza d’affetti domestici la quale, nell’ultimo atto della tragedia, rigurgita dal cuore del Carmagnola, che si sarebbe potuto sospettare indurito al sole dei campi, il poeta non potè desumerla dalla storia. La quale è restia a commuoversi per siffatti sentimenti, e a registrare cotali particolari.[124] Invece, quella intima affettuosità era una delle caratteristiche, e forse la più simpatica, di Murat; che nel fondo dell’animo, di sotto all’immane congerie delle ambizioni napoleoniche, era sempre rimasto il buon contadino del Quercy. Fin nelle lettere semiufficiali che, nelle varie sue missioni, veniva scrivendo all’imperiale cognato, egli trovava modo, dopo le gravi informazioni politiche e i rapporti militari, d’aggiungere, per esempio, un poscritto sulla felice dentizione del suo primogenito. Nel maggio 1801, scrive da Firenze: «Achille est charmant; il a déjà deux dents»[125]. E quando, fallitagli l’avventura unitaria, fu costretto a errare come un bandito, povero re Lear!, per il littorale e le campagne che si stendono tra Cannes e Tolosa, egli, più che di altro, si mostra travagliato dal sospetto che la moglie possa averlo abbandonato e tradito. Al generale Manhès, suo amico superstite, scrive:
«J’avais tout souffert: la perte de ma fortune, la perte de mon royaume, et quel royaume! Mais me voir trahi, abandonné par la mère de mes enfants, qui préfère se livrer à mes ennemis plutôt que de se réunir a moi,...non..., je ne résisterai pas à un pareil coup. Quelle infortune que la mienne! je ne reverrai plus ma femme, je ne reverrai plus mes enfants!».[126]
Si buccinò che Murat s’avventurasse alla temeraria impresa dello sbarco in Calabria coi pochissimi fidi, perchè ingannato dalla polizia borbonica. Gli si tese un tranello, ed egli, sempre avventato, vi si gettò dentro. Forse si esagerava; ma anche codesta voce, che il guerriero magnanimo si lasciasse abbindolare dalle subdole arti d’un governo vile e tirannico, potrebbe esser valsa a far ravvicinare i casi del prode figliuolo del mandriano piemontese a quelli del non men prode figliuolo dell’agricoltore dell’alto Quercy. E comunque, il Murat, appunto come il Carmagnola, cadde o s’andò a porre nelle mani dei suoi nemici, incapaci d’un sentimento generoso, per un’eccessiva fiducia in sè stesso e nella fedeltà altrui. Ma accerchiato e rinchiuso nel castello ducale del Pizzo, non un sol momento di debolezza o di pusillanimità l’eroico principe ebbe di fronte ai suoi carnefici. Ei volle e seppe morire da prode e da re. Si rifiutò di rispondere al generale Nunziante comandante delle Calabrie, e di comparire innanzi alla improvvisata Commissione militare: quei giudici non eran suoi pari! E poi, a che sarebbe valso? L’atteggiamento suo, coll’inevitabile divario nei particolari, fu quello del Carmagnola davanti al Consiglio dei Dieci (V, 1ª). Non pare di sentir lui, quando, al Doge che vuol rimandarlo al Consiglio Segreto, il Conte risponde:
O quando gli ribatte:
Al re condannato non osò di rimaner fedele, e di professarglisi grato per un dono altra volta fatto alla sua chiesa, se non il canonico Masdea, un vecchio sui settant’anni, che lo assistette in quegli estremi momenti. All’ufficiale, che doveva comandare l’esecuzione, e che interruppe il dialogo suo col prigioniero facendogli notare che cinque minuti erano già trascorsi, il buon prete osservò che il quarto d’ora regolamentare non poteva cominciare se non dopo l’assoluzione; la quale nessuna potenza umana avrebbe potuto impedire a lui di dare. E rivolto al re: «Io sono qui per voi; non temete di nulla!». Il quarto d’ora trascorse. «Andiamo a compiere la volontà di Dio», disse il re, levandosi da sedere, e seguendo l’ufficiale. Nella tragedia manzoniana manca il prete forte ed austero; non però l’amico fedele, il Gonzaga, che assiste il Conte fino alla tragica catastrofe.
Al capitano Stratti, che gli faceva da carceriere, Gioacchino rimise questa lettera, scritta poco prima che giungesse il Masdea, nella quale rinchiuse una ciocca de’ suoi capelli.
«Ma chère Caroline,
«Ma dernière heure est arrivée; dans quelques instants j’aurai cessé de vivre; dans quelques instants tu n’auras plus d’époux. Ne m’oublie jamais; ma vie ne fut entachée d’aucune injustice. Adieu, mon Achille; adieu, ma Laetitia; adieu, mon Lucien; adieu, ma Louise; montrez-vous au monde dignes de moi. Je vous laisse sans royaume et sans biens au milieu de mes nombreux ennemis; montrez-vous supérieurs à l’infortune, pensez à ce que vous êtes et ce que vous avez été, et Dieu vous bénira. Ne maudissez pas ma mémoire. Je déclare que ma plus grande peine dans les derniers moments de ma vie est de mourir loin de mes enfants».[127]
Una tal lettera, in un così tragico momento, potrebbe averla scritta il Carmagnola! E a buon conto, la mirabile[cxlviii] scena che il poeta immaginò tra il povero prigioniero, la moglie e la figliuola (V, 5ª), pochi istanti prima ch’ei fosse tratto al supplizio, che cosa è mai se non l’espressione drammatica dei sentimenti stessi che Murat aveva espressi nel solo modo che gli era consentito? Perfino le parole, qua e colà, corrispondono[128].
Sennonchè, è poi presumibile che già prima del 1820 il Manzoni sapesse a un puntino tutta la cronaca dolorosa ed eroica della fine di re Gioacchino? Non oserei senza prove affermarlo, ma nemmeno credo che si possa, senza prove, negarlo. Abbiam da fare con un poeta che fu un curioso e sagace indagatore di fatti storici, anche contemporanei, e con un uomo ch’era in rapporti amichevoli coi personaggi più eminenti di qua e di là dalle Alpi. Certo, non tutto quello che a noi han rivelato gli archivi egli seppe; ma chi sa quanto da relazioni scritte o da informazioni orali egli apprese, che a noi non è dato sapere, e che forse non sapremo più mai! E del resto, anche noi quante cose non sappiamo degli avvenimenti compiutisi sotto gli occhi nostri, che i nostri nipoti non sapranno, o impareranno monche e travisate?
[110] Pel Goethe, rimando al Saggio dello Zumbini, L’Egmont del Goethe e il Conte di Carmagnola del Manzoni, negli Studi di letterature straniere, Firenze, Le Monnier, 1893. Per lo Shakespeare, mi si consenta ricordare i miei Saggi: Ammiratori e imitatori dello Shakespeare prima del Manzoni (nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1892). L’Arminio del Pindemonte e la poesia bardita (ibidem, 16 aprile 1892). La prima tragedia del Manzoni (nell’«Annuario della R. Accademia Scientifico-Letteraria, Milano, 1894-95).
[111] Il pio Silvio, in una lettera del 1833 al conte Pietro di Santa Rosa (Curiosità e ricerche di storia subalpina, v. I, pag. 384-86), parlando di Dio, uscì in questa espressione veramente singolare: «è vario perchè è infinito, e perchè sa (come quel Shakespeare de’ Shakespeare ch’egli è) adoperare da maestro la varietà per produrre una sapiente unità». Cfr. Bellorini, Spigolature Pellichiane, p. 45.
[112] Nell’articolo sulla Maria Stuarda. Vedi Prose di Silvio Pellico, Firenze, Le Monnier, 1856, pag. 404-05.
[113] Mélanges de littérature ecc., pag. 250.
[114] Cfr. la lettera del Foscolo al conte Verri, del 21 maggio 1814 (Prose; Firenze, Le Monnier, 1850, pag. 81), e la Lettera Apologetica (ibid., pag. 502).—In una lettera del Mustoxidi al Fauriel, da Milano, 20 dicembre 1811 (in De Gubernatis, Il Manzoni e il Fauriel, p. 82), dove si tocca anche di Alessandro, è detto: «Foscolo ne ha dato una tragedia intitolata l’Aiace, ma portò seco, per dirla con Sofocle, la sventura coll’Ai Ai del suo nome; il pubblico non ha trovato una sola parte degna di lode, e mi pare che il pubblico non si è ingannato».
[115] Degno di nota è tuttavia che in un alessandrino di questa tragedia, recitata la prima volta, sul Teatro della Nazione a Parigi, il 4 novembre 1789, già rugge la Marsigliese: quel Chant de l’armée du Rhin che Claudio Giuseppe Rouget de Lisle (n. 1760, m. 1836) compose a Strasbourg nell’aprile del 1792. Poco prima dei versi riferiti, L’Hôpital esclamava:
[116] Il povero Andrea, nelle ardenti strofe, pubblicate un po’ più tardi, nel 1791, che hanno per titolo Le jeu de paume, aveva esclamato:
L’Alfieri, testimone di quella prima sommossa popolare, aveva scritto il poemetto lirico, che nel Misogallo poi ripudiò, Parigi sbastigliato.
[117] Cfr. p. 410 di questo volume. Il Tiberio fu concepito in un’esaltazione tirannicida, destata nel poeta da una concitata lettura di Tacito; e, come si vede, esso non dispiaceva al poeta del Cinque maggio! Il quale poi, riferisce il Bonghi (Pensieri inediti, pag. 62), «raccontava assai spesso che non so chi domandasse a un redattore dei Débats perchè il giornale continuasse a dire che il fratello di Andrea Chénier gli avesse fatto la spia, e cagionato così la di lui morte, pur sapendo che ciò era falso; e il redattore rispondesse: Parce qu’il le faut! Così, stupiva di questa persuasione della necessità e dell’utilità della bugia, e gli pareva segno di una corruttela estrema».—Ai nostri giorni abbiamo sentito affermare qualcosa di simile a proposito del Dreyfus; e ci siamo, ancora una volta, accorati «pour cette France illustrée par tant de génie et par tant de vertus», come la chiamava lo stesso Manzoni (cfr. più avanti, p. 384).
[118] Non mi so astenere dal riferire questo brano d’una lettera del Ducis, 23 luglio 1777, a una signora molto scettica circa il valore di codesto dramma: «Je vous dirai que, malgré vos craintes, la Gabrielle de Vergy, de mon ami Du Belloy, a le plus grand succès. Je compte qu’elle passera vingt représentations. Les femmes ont d’abord beaucoup crié contre; elles y tombaient mourantes les unes sur les autres: c’était une chose épouvantable. Aujourd’hui on ne voit qu’elles aux loges, a l’orchestre, a l’amphithéâtre». Il terrore femminile si spiega, quando si pensi che nel dramma è introdotto il signor di Favel, il quale porta e dà da mangiare alla sua donna il cuore del rivale!
[119] Ho poco più sù accennato come il Marco del Carmagnola ricordi, per la rigidità schematica del carattere, il Marchese di Posa del Don Carlos. Si può soggiungere che dietro di esso sia pur facile scorgere e riconoscere il poeta medesimo, il quale suggerisce a quel fantoccio i discorsi ch’egli avrebbe fatti in un caso simile. Del Posa il Carlyle (The life of F. Schiller, Leipzig, Tauchitz, 1869, pag. 94) ebbe già a osservare che «is the representative of Schiller himself».
[120] «Ed ora per sempre addio mente tranquilla! addio contentezza! addio drappelli piumati, e le grandi guerre che fanno dell’ambizione una virtù! Oh addio! Addio nitrente destriero, e la stridula tromba, e il tamburo che esalta gli spiriti, e il piffero che ferisce l’orecchio, la regale bandiera, e ogni altro particolare, orgoglio, pompa e incidenti della guerra gloriosa!...».
[121] Ricordo che son proprio le parole di Ferdinando a Egmont, nella prigione (sc. 4ª), quelle che il Manzoni trascrisse testualmente sull’esemplare dell’Adelchi che mandò al Goethe. Esse dicono: «Tu non sei per me uno straniero. Il tuo nome nella mia prima giovinezza mi splendeva alla vista come una stella del cielo. Oh quante volte ho ascoltato attentamente quando si parlava di te! Quante volte ho domandato di te!». Cfr. Zumbini, Studi di letterature straniere; Firenze, 1893, p. 155.
[122] Promessi Sposi, cap. VIII, in fine.
[123] Non mi pare sia stato ancora messo in rilievo che perfino lo spunto iniziale del Cinque maggio potrebbe additarsi nelle parole di Antonio ai Romani, nel Giulio Cesare di Shakespeare (III, 2, vv. 123 ss.):
(«Solo ieri la parola di Cesare avrebbe potuto tener testa al mondo, ora egli giace là, e nessuno è così in basso da dovergli prestare omaggio!»).
[124] La storia non ha nemmen registrato il nome della figlia del Conte! Così che lo scrupoloso poeta si sente il dovere di dichiarare, nell’annoverarla tra’ personaggi storici del dramma (p. 178): «Una loro figlia», del Carmagnola e di Antonietta Visconti, «a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde».
[125] Cfr. Chavanon et Saint-Yves, Joachim Murat; Paris, Hachette. 1905; pag. 87.
[126] Chavanon et Saint-Yves, J. Murat, p. 293.—Il povero Gioacchino supponeva che Carolina, camuffata da Metternich in una tragicomica Contessa di Lipona (Napoli), non lo avesse voluto raggiungere in Francia: anzi si fosse di suo pieno gradimento imbarcata a Napoli sulla nave inglese da guerra, la Tremendous, coi ministri Macdonald, Zurlo e Mosbourg, e si fosse lasciata condurre a Trieste, per mettersi sotto la protezione dell’Austria! La verità era ch’essa vi fu costretta!
[127] Chavanon et Saint-Yves, J. Murat, p. 300.
[128] Per ciò che nella scena del Carmagnola rimane di sapore alfieriano, cfr. il mio discorso sulla Prima Tragedia del Manzoni, 12-13.
Alla vecchia massima del Voltaire, che tutti i generi son buoni tranne il noioso, il Manzoni contrappose l’altra, che un genere soltanto non può avere speranza d’un duraturo successo, ed è il falso. Ei proclamò «non solo sensata ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello»[129]. Ed era dunque naturale ch’ei si rivolgesse, per ispirazioni, alla storia. Egli considerò che l’essenza della vera poesia non consiste punto nella materiale invenzione dei fatti o delle circostanze che li determinano. I grandi monumenti della poesia hanno tutti per base avvenimenti forniti dalla storia, o, che vale[cxlix] lo stesso, da ciò che un tempo è stato considerato come storia. E solo ad azioni che sono o son credute storiche, gli uomini prestano attenzione: il bambino non si commuoverà più alle fiabe, se dubiterà che quei fatti non siano accaduti.
Sennonché accordare la poesia con la storia è un arduo cimento; chè questa ha pretese che la leggenda non conosce. La leggenda è quasi un’amabile fanciulla, docile e riconoscente al poeta che la raccoglie e l’adorna, potenzialmente dotata d’ogni pregio, la quale un marito contadino può rendere una contadina eccellente e un marito gentiluomo una gentildonna modello; e per contrario la storia è la superba ereditiera, austera, sdegnosa, intrattabile, specialmente con chi più le si dimostra affezionato e devoto. Masuccio Salernitano e Luigi da Porto caveranno dalla leggenda di Romeo e Giulietta due ingenue e pur commoventi novellette; e quella stessa leggenda sarà capace di diventare il dramma di Guglielmo Shakespeare. Guai però a trattare come leggenda la storia o a lasciarsene sopraffare! Ei si risica o di cadere nel falso, o in quelle insopportabili tiritere alla maniera del Trissino e del Gravina.
L’Alfieri non s’era piegato ai capricci dell’ereditiera. Non le avea richiesto se non i nomi dei personaggi e il piccolo intreccio d’un’azione già precipitante alla catastrofe; il resto aveva cavato dal proprio cuore e dal proprio cervello. Non colorito locale, non accessorii storici o domestici; del carattere dei personaggi non colto che un lato solo, e senza gradazioni e varietà; e i personaggi stessi foggiati tutti a un modo, e isolati, come direbbe il De Sanctis, dal loro mondo: al poeta quel tanto di storia non serviva che di pretesto per metter sulla scena un’altra delle memorande passioni umane portata al parossismo. Ma tutto ciò tornava a discàpito dell’opera d’arte; poiché l’azione tragica, così distaccata e allontanata dalla storica, finiva col rendere la tragedia meno poetica della storia. Per volere più violentemente e direttamente colpire il cuore degli spettatori, il poeta negava a sè stesso il modo di spiegare sulla scena quella trama di fatti umani sulla quale il carattere dei personaggi può disegnarsi, di sviluppare le gradazioni e le varietà infinite delle[cl] passioni, e le loro anomalie e le loro singolari combinazioni, che costituiscono appunto le varietà e le singolarità dei caratteri; e si vedeva costretto a ricorrere a convenzionali esagerazioni, e creava caratteri spesso uniformi.
Il gentiluomo lombardo volle esser gentiluomo anche con la storia; e vagheggiò un dramma in cui questa e il proprio genio potessero viver d’accordo, senza troppi sacrifizi dall’una parte o dall’altra. L’azione drammatica deve consistere in una serie di avvenimenti che nascono successivamente, nello stesso o in luoghi diversi, gli uni dagli altri; e al poeta non può esser permesso di alterarne l’ordine con arbitrarie anticipazioni o raggruppamenti. Il poeta non ha facoltà d’inventare i fatti o le circostanze di essi; ma di scegliere nella storia quel gruppo di avvenimenti che gli paiono tenuti insieme da ragioni intrinseche e facilmente percepibili, che si compiono in un ragionevole periodo di tempo, e tra cui uno assorge quasi meta indicata o intravista di lontano. Questa, che i tragediografi classicheggianti scambiaron per tutta l’azione, non è se non la catastrofe. E i personaggi devono comparire o sparire secondo che lo svolgimento dei fatti richieda, non già, come il capriccio dei critici pretendeva, tutti mostrarsi al primo atto, e accompagnar l’azione fino al quinto. Tuttavia, non è da pensare che il còmpito del poeta sia suppergiù quello dello storico; poichè se questi non tien conto se non di ciò solo che gli uomini hanno operato, il poeta deve scendere nell’animo loro e indovinare quel che han pensato: i sentimenti che accompagnarono le loro decisioni e i loro disegni, le loro cadute e i loro trionfi; i discorsi con cui fecero o tentarono di far prevalere le loro passioni o i loro voleri, espressero la loro collera e la loro tristezza, manifestarono insomma il proprio carattere. La vera creazione del poeta drammatico consiste appunto in codesto scovare e rinvenire in una serie di fatti storici quel che ne costituisce un’azione tragica, nel cogliere i caratteri dei personaggi, nel dare a quest’azione e a questi caratteri uno sviluppo armonico, nel completare la storia restituendole la parte perduta[130].
Attuazione di siffatti nuovi ideali artistici era appunto il Conte di Carmagnola[131].
Al tentativo fecero subito il viso dell’armi e chi della tragedia s’era formato un certo tipo convenzionale a cui questa del Manzoni non somigliava, e chi dal poeta dell’Urania s’aspettava qualcosa di più vicino all’Aristodemo. Ma lo accolsero come un ardimento felice coloro, che, sgombra delle viete ubbie la mente, seppero scorgervi e una vena potente di poesia e una preoccupazione critica ch’era promessa sicura di avvenire più sereno. Furon dei primi lo Chauvet e il Foscolo; dei secondi, il Pellico,[132] il Fauriel, il Mazzini e il Goethe.
Ho detto tentativo, e non vorrei sembrasse irriverente o avventata questa parola. Benchè del capolavoro abbia molti numeri, quel primo dramma non riuscì un capolavoro.[133] Nocque al poeta, com’ebbe già a notare lo Zumbini, «quella eccessiva consapevolezza di fini e di mezzi» onde condusse l’opera sua, «consapevolezza che talvolta costrinse l’arte a ubbidire con proprio danno a certi nuovi criteri non abbastanza sicuri e provati»; e gli nocque, mi si consenta soggiungere, quella naturale titubanza ad allontanarsi troppo dal tipo tragico che s’era venuto costituendo in Francia e in Italia. Scosso vigorosamente il pregiudizio delle due unità che, rimesso a nuovo dal Voltaire, era divenuto come l’ultima cittadella[cliii] dei difensori del teatro classico; rinnovata la maniera di sceneggiare la storia e d’introdurre il Coro; rammorbidito il verso tragico: si capisce come al Manzoni venisse poi meno il coraggio di romperla con ogni tradizione drammatica delle nazioni latine. Così, la sua tragedia serba ancora un certo fare compassato e dignitoso, che a volte produce una non so quale monotonia; è intessuta di lunghi monologhi e di non meno lunghi discorsi, e manca, soprattutto in principio, di quella vivacità e di quel movimento che conquista e trascina subito l’attenzione. Si pensi: il primo atto si apre con un’allocuzione del Doge, di ben quarantatrè endecasillabi, al Senato silenzioso, detta tutta d’un fiato; nella quale ci si mette al fatto della guerra tra il Duca di Milano e Firenze, dell’invito di questa a costituire una lega contro quello, d’un’insidia tramata dal Duca stesso al Carmagnola. Il quale è chiamato finalmente in Senato per dare il suo avviso.—Siamo, a buon conto, nè più nè meno che a una di quelle esposizioni contro di cui il poeta medesimo ebbe a inveire; spesso fredde, inerti, complicate, alle quali il tragediografo classicheggiante si sentiva costretto in grazia delle famose unità.—Si ricordino invece le prime scene dell’Otello. L’azione è quasi la stessa: il Moro è chiamato in Senato per aver affidata l’impresa di Cipro. Ma qui non da lunghi e togati discorsi lo spettatore apprende i precedenti del dramma; bensì della guerra, del valore di Otello, del suo amore, delle insidie di Jago, ei sente discorrere da Jago stesso, da Rodrigo, da Brabanzio, e le ultime notizie di Cipro le impara da quei messaggi medesimi che pervengono al Senato. Per tal modo, quando il Moro apparisce sulla scena, vi è atteso come il prode in cui la Repubblica ripone le sue speranze; e anche noi, come Desdemona, sentiamo già di amarlo pei suoi corsi perigli, e temiamo per lui così ingenuo, circondato da tanta perfidia.
Strano davvero che, con un così insigne modello sotto gli occhi, il Manzoni preferisse ancora quella gelida forma espositiva; ma più strano ancora ch’ei la preferisse dopo che, nel primo disegno della tragedia, l’aveva abilmente schivata, premettendo a quella, che ora è la prima scena, altre due, tra[cliv] i Senatori che via via giungevan nella sala del Consiglio. Un senatore Stefano, che poi fu soppresso, diceva al suo collega Marino come oramai il Doge fosse infatuato per la guerra; come gli Oratori, mandati dal Duca di Milano per consigliar la pace, non facessero invece che vieppiù accender gli animi; e soggiungeva (p. 266):
Marino, che non voleva «a invitar molte parole», manifestava subito il suo maltalento contro il Condottiero, rincarando (p. 267):
E Stefano ripigliava (p. 268):
Non si tenga conto della forma: è il primo getto, e lascia ingenuamente trasparire le intenzioni, quasi profetiche, del poeta che ha l’occhio fisso alla sua meta. Si consideri invece con quanta maggior larghezza fosse da prima iniziata l’azione, e quanto maggiore interesse avvincesse subito al dramma.
A quei due Senatori viene ad aggiungersene un terzo, Marco; il quale è tutto sossopra per la notizia recente dell’attentato, osato nei dominii della Serenissima, alla vita del Carmagnola. Egli narra (p. 270):
C’è forse in codesto racconto un po’ di sovrabbondanza, che però alla recitazione avrebbe giovato anzichè nuocere; ma ad ogni modo, nella forma definitiva data dal Manzoni alla sua tragedia, esso è ridotto a un troppo magro cenno, a cui scema ancora rilievo l’esser posto in bocca al Doge, subito dopo le primissime parole, e solo in forma di argomento (I, 1ª; p. 179).
Né si apprende se quest’accenno scuota punto il Senato, che se ne rimane, a quanto pare, imperterrito e muto. Mentre invece, nell’abbozzo, il racconto offriva nuova occasione ai tre Senatori di meglio manifestare i loro animi, e di rivelarci così le impressioni che sui malevoli e sui fautori del Conte quel misfatto dovè naturalmente produrre.
E si potrebbe fors’anche sospettare che dal soggetto il Manzoni non traesse tutto quel partito che avrebbe potuto, se lo avesse affrontato con baldanza maggiore. Certo, il dramma, in ispecie nel primo atto, ne apparisce un po’ scarno d’azione; eppure di azione son ricche le notizie storiche che il poeta medesimo (egli era troppo dotto per accontentarsi di rimanere nella via regia percorsa dallo Shakespeare; e qui l’esempio dello Schiller forse prevalse!) si vide costretto a premettergli. Ivi, per esempio, si narra che gl’invidiosi del Carmagnola calunniosamente gli alienarono l’animo del Duca; il quale perciò, desiderando di toglier di mano a lui le armi, lo mandò governatore a Genova, ingiungendogli per lettera di rinunziare pur alla scorta dei trecento cavalieri condotti con sè. Il temuto Condottiero gli rispose «pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi»; e, «non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla[clvii] domanda espressa d’essere licenziato dal servizio,... si risolvette di recarsi in persona a parlare col Principe», che allora dimorava nel castello di Abbiategrasso. La scena che ne seguì è narrata drammaticamente dal Manzoni storico.
«Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi aununziare al Duca, ebbe in risposta ch’era impedito, e che parlasse con Riccio [uno de’ suoi nemici]. Insistette, dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso: e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sè, inseguito invano da Oldrado [un altro dei suoi nemici], il quale.... credette meglio di non arrivarlo».[134]
Or di tutto ciò nella tragedia non son rimasti che due fugacissimi cenni, dei quali non è presumibile che un lettore, nonchè una platea, faccia caso. Tra altre cose, il Conte, fin dal suo primo apparire, narra al Senato (I, 2ª; p. 183):
E più tardi, il Conte stesso, rimasto solo, rimugina (II, 5ª; p. 206):
Bei versi senza dubbio, tocchi di pennello maestro, ma il quadro manca. Eppure la rappresentazione di quegli avvenimenti sarebbe altresì giovata a metterci meglio in grado di comprenderne i tempi e lo stato d’animo e il carattere del protagonista; di valutare più pienamente i motivi del suo disgusto con l’antico signore e l’impossibilità che si raccostasse a lui; e avremmo potuto veder sulla scena pur quel duca Filippo, che ha tanta parte nei destini del Condottiero. Oltrechè l’interesse drammatico sarebbe stato, tra quegli avvenimenti, tenuto molto più desto, che non si riesca a fare con que’ semplici sommarii.
[129] Del Romanzo storico ecc., pt. I; in Opere varie, ediz. 1845, pag. 483.
[130] Si veda per tutto ciò la Lettre à m. C***, pp. 311 ss. di questo volume.
[131] Il 25 marzo 1816, da Milano, il Manzoni scriveva al Fauriel: «J’ai presque honte de vous parler de projets littéraires après en avoir tant conçu et exécuté si peu; mais cette fois j’espère terminer une tragédie que j’ai commencée avec beaucoup d’ardeur et l’espoir de faire au moins une chose neuve chez nous. J’ai mon plan, j’ai partagé mon action, j’ai versifié quelques scènes, et j’ai même préparé dans ma tête une dédicace à mon meilleur ami; croyez-vous qu’il l’acceptera? Le sujet c’est la mort de François Carmagnola. Si vous voulez vous rappeler son histoire avec détail, voyez-la à la fin du huitiême volume des Républiques Italiennes de Sismondi.... Après avoir bien lu Shakespeare, et quelque chose de ce qu’on a écrit dans ces derniers temps sur le Théâtre, et après y avoir songé, mes idées se sont bien changées sur certaines réputations» [Alfieri? Voltaire? Schiller?] «Je n’ose pas en dire davantage, car je veux tout de bon faire une tragédie: et il n’y a rien de si ridicule que de médire de ceux qui en ont fait, et qui passent pour des maîtres de l’art».
[132] Il buon Silvio scriveva al fratello Luigi da Milano, l’8 gennaio 1820: «Ti spedisco.... la bellissima tragedia di Manzoni, il Carmagnola. A me pare una cosa divina. Qui è generalmente lodata, e Monti stesso non trova a dire che sullo stile, che a lui sembra trascurato e prosaico. Ma Manzoni non ha preso inavvertentemente quello stile; egli lo ha scelto come il più proprio a un argomento non antico, e nel quale il discorso deve scostarsi di poco dal discorso comune di oggidì. Il vantaggio di siffatto stile, schivo dei modi e dei vocaboli non simili alla prosa, si è di renderne cara la lettura anche a coloro che non sono educati al linguaggio poetico. La più parte delle donne, per esempio, fanno fatica a leggere la poesia italiana (meno il Metastasio); e perchè? Perchè la poesia italiana ha una lingua ch’esse non hanno. Datele una lingua già nota, e acquisterà molte lettrici e molto più lettori». Più tardi poi, il 15 gennaio, riscriveva, con intiepidito entusiasmo: «Che ti è sembrato del Carmagnola? Il Coro è stupendo. Vorrei piuttosto aver fatto il Coro che la tragedia, quantunque questa anche abbia molte bellezze. Lo stile di essa è molto criticato». Più tardi ancora, lodando assai l’articolo che sulla tragedia il fratello aveva inserito nella Gazzetta di Genova, soggiungeva: «Il crocchio Visconti e Berchet, che è tutto Manzoni, ha fatto girare in ogni casa di Milano il foglio di Genova.... Il tuo giudizio intimo sul Carmagnola, qual poi me lo esprimi nella tua lettera, s’accorda affatto col mio. Non è lettura che strascini, perchè gli eroi son lasciati troppo simili al vero. La poesia è un mondo più bello del reale; bisogna che gli abitanti di quel mondo sieno a un grado più sù di noi, nell’amore, nell’ira, nelle virtù politiche ecc. Ma tienti occulto questo mio parere, perchè nulla mi dorrebbe quanto l’essere creduto da alcuni invidioso del merito del Manzoni. E questo è il motivo per cui non mi permetto una critica su quella tragedia».—Colgo l’occasione di rilevare una curiosità. Nel 1818 (se anche questa volta la data del Rinieri non è errata!) pare si sia sparsa la voce che il Manzoni attendesse a un’Ifigenia. Il Pellico ne scriveva il 1º aprile al fratello: «Cercherò dell’Ifigenia di Manzoni; non so niente, ma son certo che egli non può aver fatto cosa mediocre».
[133] Conversando col Cousin, nell’aprile del 1825, il Goethe ebbe a dirgli (la conversazione fu riferita dallo stesso Cousin nel Globe, V, n.º 26): «Io pregio moltissimo il Carmagnola, lo pregio moltissimo. L’Adelchi è più grande per l’argomento, ma il Carmagnola è molto profondo. (Adelchi est un plus grand sujet, mais Le Comte de Carmagnola a bien de la profondeur). La parte lirica poi è così bella, che il critico maligno [della Quarterly Review, dicembre 1820] l’ha lodata e tradotta».—Codesto saccente sgarbato, mentre giudicava il dramma «mancante di poesia» e consigliava il Manzoni «a gratificare in avvenire il pubblico con splendide odi, piuttosto che disgustarlo con deboli tragedie», ne riproduceva, tradotto in inglese, il Coro, reputandolo «la più nobile lirica che la moderna poesia italiana abbia prodotta». Trovava anche, bontà sua, «molto affettuosa» la scena del Conte con la sua famiglia.
[134] Notizie storiche, pag. 167 di questo volume.—Non è qui il caso di discutere se questi fatti siano storicamente certi. Chi voglia, cfr. Battistella, Il Conte di Carmagnola, p. 72 e 80 ss.
Del Manzoni si potrebbe ripetere quel ch’egli stesso ebbe a dire del Goethe, cioè ch’entrasse «nella strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio..., come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d’imitare»[135]. E non è casuale il confronto; giacchè al grande poeta di Weimar il nostro guardò «com’al maestro fa il discente».
Ebbe comune con lui la tranquilla, spregiudicata, acuta contemplazione dei fenomeni storici e letterarii, e la cognizione di essi vasta e profonda; sentì come lui il necessario rinnovamento dell’arte: e se l’uno lo anticipò con la varia e molteplice opera sua, l’altro lo proseguì con consapevolezza ed efficacia di mezzi forse maggiore. Non fu proprio un capriccio della fortuna, come malignamente asserì l’ingelosito ed invido Foscolo, che il vecchio ed olimpico poeta accogliesse con sì fervido entusiasmo il tentativo del modesto giovane[clix] straniero[136], terminandone la lunga analisi col dichiarare che «l’impressione sintetica di quel dramma era un’impressione seria e vera come quella che lasciano sempre i grandi quadri della natura umana». Nè d’altra parte fu un semplice complimento quel che il Manzoni gli espresse, trascrivendo, in fronte all’esemplare dell’Adelchi a lui destinato, le parole di riverente ammirazione che il poeta medesimo aveva fatte dire da un magnanimo giovinetto ad Egmont.
La riforma drammatica del Manzoni mette capo direttamente al Goetz von Berlichingen e all’Egmont; anzi a codesti due drammi mette capo tutto quel nuovo movimento letterario che considerò la storia quale l’unica o la più cospicua fonte d’ispirazione poetica. Si ricordi che Walter Scott («l’Omero del romanzo storico», come lo proclamò l’autore dei Promessi Sposi) fu spinto sulla via, ove incontrò la gloria e la fortuna, dalla traduzione, ch’ei fece in gioventù, del Goetz. E se questo dramma segna di quel movimento il principio, la fine n’è segnata da un monumento non meno solenne, I Promessi Sposi. I confronti, sempre odiosi, sarebbero sott’ogni rispetto odiosissimi in questo caso; e la nostra ammirazione pel sommo musagete della Germania è anche più piena e devota, dacchè egli non si peritò d’asserire che, nel Romanzo, il Manzoni «si leva tant’alto, che difficilmente si può trovare autore che gli stia a paro». O non ci fa ripensare, codesta «cortese opinione» dell’autore del Wilhelm Meister, al caro episodio dantesco del Guinizelli?
Il poeta lombardo fece in letteratura quel che ai nostri tempi è stato fatto in politica: ruppe l’ormai sterile alleanza con la sorella latina, e strinse la mano a quella giovane e balda nazione che di là dal Reno avea levato il vessillo d’un’arte novella. Nobile, commovente e quasi filiale è il saluto alla Francia in fin della lettera allo Chauvet: a quella Francia «che non si può vedere senza provare un sentimento che somiglia all’amor della patria, e non si può lasciare senza che al ricordo d’avervi dimorato non si mescoli qualcosa di malinconico e di profondo, che rassomiglia alle impressioni dell’esilio». Ma fu un saluto di addio!
Il Conte di Carmagnola annunziò all’Europa che il nuovo poeta d’Italia era nato. Chi fin dai primi passi dava così cospicua prova di «larga, libera e incondizionata maniera d’interpretare le nuove idee e i maggiori esempi del teatro romantico e storico», i quali egli mostrava «d’intendere come pochi in tutta Europa e forse come nessun altro in Italia», non poteva fallire a glorioso porto. Di lì a poco venne l’Adelchi, che parve sciogliesse in gran parte quella promessa; e vennero poi i Promessi Sposi, che avanzarono i desiderii.
Attratti dalle opere maggiori, sogliamo metter da parte le altre. E chi legga solo per gustare il godimento estetico immediato, ha ragione di far così; ma chi voglia davvero assaporare il frutto maturo, deve, per dirla col Bonghi, «ricercare come a mano a mano si sia educata la pianta che ha dato quel frutto, quali influssi l’abbiano aiutata a germogliare e a crescere, e come si sia formata quell’attitudine che ha poi raggiunto in fine un così notevole grado di perfezione». A noi studiosi delle opere d’arte letteraria non importa soltanto d’ammirare l’estrema meta, che il poeta si è sforzato di raggiungere e che segna l’apice della sua gloria; ma altresì di ricercare e perlustrare la via ch’egli ha percorsa per giungervi. E questa desideriamo indicare agli altri; e in siffatta ricerca appagare insieme quell’innato bisogno della nostra mente «di penetrare nel lavorio interno dello spirito umano, e soprattutto di uno spirito eletto». I primi tentativi lasciano meglio scoprire i segreti di quell’arte che[clxi] tutto fa, e trasparire gl’intenti e i procedimenti dell’artista non ancora provetto. Attraverso gli strappi lasciativi dalle necessarie incertezze e titubanze, ci avviene di sorprendere un’ansia e una lotta che il poeta vittorioso ci avrebbe gelosamente nascosta; e quelle trepidazioni fanno più compiutamente gustare il definitivo trionfo.
Fine dell’ Introduzione.
[135] Del Romanzo storico ecc., parte II, verso la fine.—Il Goethe medesimo (quell’«altro tale, chiamato Goethe») ebbe a dir del Manzoni, che, «emancipatosi dalle vecchie regole, ei procede per la nuova via con passi così fermi e tranquilli, che si potrebbero trarre nuove regole dalla sua opera».
[136] «Il Carmagnola è il primo saggio del suo autore, e tante lodi non ottenute da verun poeta, da Omero inclusivamente sino a’ dì nostri, essendo esaltate dalla celebrità e dal genio del panegirista, sembrano più che troppe, non diremo a rendere il furore del poeta più che poetico, ma ad avvezzar lui stesso ad elogj, che rarissimi, se non forse gli amici suoi, saranno in buona coscienza disposti a prodigargli; ed egli, accettandoli in buona fede, finirebbe col farsi ridicolo al mondo... La visione potrebbe essere volontariamente procurata dal critico tedesco in grazia di un sistema letterario; ed infatti questa è la ragione ostensibile, esposta da lui nel principio del suo articolo». Foscolo, Della nuova scuola drammatica (Opere, IV, 304-5).
Questo volume contiene, e, quando è stato possibile, nell’ordine che volle l’autore:
a) tutti quei componimenti in versi, che furono dal Manzoni stesso ristampati tra le sue Opere varie, nel 1845 (le due Tragedie, gl’Inni sacri e le Strofe per una prima comunione, il Cinque maggio), e quegli altri due (l’ode Marzo 1821 e il frammento di canzone sul Proclama di Rimini) ch’ei pubblicò a parte nel 1848, e aggiunse poi, nel 1860, all’antico volume delle Opere varie;
b) quelli che furono già da lui o da altri pubblicati, ma ch’egli non più accolse tra le sue poesie (il carme In morte dell’Imbonati, l’Urania, l’Ira d’Apollo, gli sciolti A Parteneide, il sonetto al Lomonaco, il frammento dell’inno Ai Santi, l’epigramma pel ritratto del Monti);
c) due delle sue poesiole giovanili, che hanno, più che altro, valore di documento biografico (il sonetto ove il poetino traccia il suo ritratto, e l’idillio Adda);
d) i pochi versi latini composti da vecchio (l’epigramma Volucres e i distici al Ferrucci).
Un posticino a parte è toccato all’abbozzo di canzone Aprile 1814, che ho creduto meglio inserire nel mio discorso intorno al Decennio dell’operosità poetica del Manzoni (qui avanti, pag. LXXVIII ss.).
Le altre poesie giovanili (i Sermoni, le Odicine erotiche e pariniane, il Trionfo della Libertà ecc.), delle quali ebbi già occasione di toccare nell’altro mio scritto su Gli anni di noviziato poetico del Manzoni (pag. XIV ss., XXV ss.), premesso[clxvi] al volume I di queste Opere, saranno raccolte in un volume posteriore.
Non ho mancato, s’intende, di riprodurre, a illustrazione dei diversi componimenti, pur quelle Prefazioni o Note, Lettere critiche o Notizie storiche, onde il Manzoni, o fin dalla prima edizione o nelle successive ristampe, li volle accompagnati. Ho invece tenute in serbo per un altro volume le più ampie dissertazioni di critica, o storica (il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) o letteraria (il Discorso sul Romanzo storico e la Lettera sul Romanticismo) o filosofica (il Dialogo dell’Invenzione), le quali stanno da sè, e possono meglio aggrupparsi con la Storia della Colonna Infame e con gli scritti sulla Lingua italiana.
Sennonché—e questa è forse la principale tra le singolarità che distinguon la nostra da tutte le precedenti edizioni —al testo definitivo dei diversi componimenti, quale lo divulgò il poeta, noi abbiam fatto seguire, in appendice, anche gli abbozzi rinvenuti tra le sue carte. Essi son documenti di straordinaria importanza, che ci permettono di penetrare più a dentro nel pensiero, sempre profondissimo, del Manzoni. Si tratta non di semplici brutte copie o di scarabocchi informi, bensì di frammenti spesso molto estesi e lavorati con cura, dove il più delle volte il poeta si rivela più schiettamente e risolutamente ribelle. Perchè poi li mettesse da parte o li lasciasse incompiuti (non li distrusse però; e questo noto contro quei critici troppo pudichi, che si scandalizzano di codeste pubblicazioni postume, a parer loro per lo meno indiscrete e dannose!), sarà istruttivo e gradevole indagare.[137]
In un mio discorso del 1894, per inaugurare il nuovo anno scolastico della R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, ebbi già a dare un modesto saggio del grande vantaggio che dall’esame di quelle pagine si possa cavare per intendere a pieno la riforma drammatica tentata dal Manzoni. Il quale, a buon conto, se è il maggiore, o l’uno dei due maggiori nostri prosatori, è anche, insieme con l’Alfieri, uno dei due nostri tragediografi più insigni. E mi sia lecito ricordare che di quelle mie osservazioni si dichiarò assai compiaciuto, in uno degli arguti suoi articoletti della Coltura, il primo, per tempo e per merito, dei manzoniani d’Italia, il Bonghi; e la sola volta che a me toccò la fortuna d’intrattenermi con lui di letteratura—eravamo andati, col D’Ovidio, a visitarlo nella tranquilla villetta di Torre del Greco, dove di lì a qualche mese quella magnifica fiamma d’intelligenza si spense—, ei mi riparlò ancora dei mirabili abbozzi del Manzoni, su’ quali egli aveva invano richiamata l’attenzione degli studiosi.[138] Questi avevan trovato più comodo continuare a far, come si dice, dell’accademia pur intorno al poeta ch’ebbe più in uggia l’accademia; e gli ortodossi stracchi non riuscivano meno stucchevoli, con le loro rifritture, dei pappagalli eterodossi.
Un’altra singolarità della nostra edizione riguarda il testo. Dei componimenti ripubblicati dall’autore abbiamo, s’intende, ridato scrupolosamente il testo da lui fissato nel 1845, e in[clxviii] qualche minimo particolare ricorretto nel 1870; ma, a piè di pagina, ho altresì segnate le varianti delle prime edizioni.[139] Chi vorrà gettarvi un’occhiata, troverà che metteva ben conto di rifare per le opere poetiche quel lavoro di confronto che già altri ha compiuto pel Romanzo. Le osservazioni sarebbero molte e curiose, e qualcuna n’ho ben accennata qua e là nelle note; ma qui preferisco, per discrezione di editore, lo spigolare al mietere.
Per la più parte, i mutamenti dell’autore riguardano l’ortografia. Anche alle opere poetiche egli avrebbe voluto infliggere una buona risciacquatura in Arno; ma il Conte di Carmagnola e il Re Adelchi non gli si mostraron così docili come i due sposi del contado di Lecco. Il linguaggio della poesia—soprattutto poi in Italia, dov’è ancor vegeta una tradizione poetica nobilissima e ininterrotta—ha pretese che quello della prosa o conosce poco o non conosce affatto. [140] E lo stesso inesorabile scrittore che, in grazia dell’uso toscano vivente, rinunzia, nel capolavoro prosastico, al benefizio della varietà e della convenienza armonica, e muta, per esempio, in tra quanti mai fra o in fra gli erano altra volta caduti dalla penna, [141] può trovarsi costretto a lasciar correre, nelle tragedie,[clxix] un «fra tante ambasce» (pag. 114), un «ella è, fra tante,... una fallita impresa» (233), un «in fra i perigli» (240 e 249). Vero è che, quando è preso dal dèmone della pedanteria, anche qui ei si sente il coraggio di far esclamare al povero Conte: «Non troverò tra tanti prenci... un sol» (189); ma si direbbe che codesto sforzo faccia sì che altrove ei poi dormicchi, come pur avveniva a «quel sommo d’occhi cieco... Che per la Grecia mendicò cantando». E allora riescono a sgattaiolare qualche «fra di noi» (30) o «fra noi» (41, 203, 234) o «fra loro» (180), che senza scandalo sarebbero potuto diventare altrettanti tra. E può esser curioso notare come nel verso (41):
ei s’affretti bensì a cancellare l’in, ma non trasformi in tra il fra; come pur fece, ad esempio, nell’altro verso (45), dove prima aveva scritto: «in fra costor chiarito...».
Insomma, nel Romanzo, lo scrittore poteva sbizzarrirsi più a suo agio; e perfino, com’ebbe già ad accorgersi il D’Ovidio,[142] sacrificare l’aritmetica alla sua norma linguistica e all’armonia dello stile, sostituendo al primitivo «fra tre o quattro confidenti» un «tra quattro o cinque confidenti» (Pr. Sposi, cap. IX, pag. 137 della nostra edizione).[143] Ma in poesia, specialmente in una poesia già divenuta celebre e già sulle bocche di tutti, non era ugualmente agevole abbandonarsi a simili bizzarrie; e manomettere a cuor leggiero, poniamo, i due versi dei due Cori dell’Adelchi (75 e 89):
A ogni modo, dovunque può lo zelante apostolo della fiorentinità della lingua porta, in questi lavori giovanili d’avanti[clxx] la sua conversione filologica, il ferro e il fuoco purificatore. Fa ogni sforzo per iscrostare la pàtina arcaica, o magari lavare la muffa dell’ortografia stantìa. Così, tutte le noje proprj principj, i piccioli picciola, gli eguali eguaglianza, i verisimili e verisimiglianza, le obbiezioni, le contraddizioni, le quistioni, le voci del verbo obbedire, le forme verbali debba e debbono, chieggio e veggio, cangio e sieno, i vi era, e i si è, i quei, i dei dai nei, sui o su di un, fra i ecc., son diventate noie, propri, principi, piccolo e piccola (una «picciola appendice» è rimasta, p. 154), uguale e uguaglianza, verosimile e verosimiglianza, obiezione, contradizione (nel Romanzo tornò a «contraddizione» e a «contraddire»!), questione, ubbidire (nella prima stampa si oscillava tra le due forme, cfr. p. 227 e 237), deva e devono, chiedo e vedo, cambio e siano, ci era e il semplice è (cfr. p. 156), que’, de’ da’ ne’, su’ o su un, tra’. Non si riesce a capire se, costretto com’era dalle esigenze metriche a mantenere intatti gli havvi e gli hàvvene, ei preferisse scriver quelle voci con l’h iniziale, o senza. Nell’Adelchi rimase «havvi altra via» (25), ma altrove il primitivo «via non havvi» (46) vi divenne «via non avvi»; e «avvi» rimase immutato nel Carmagnola (191): «avvi una via». Qui stesso però mutò in «havvene» due «avvene» successivi (243), e un altro in «haccene» (225). Che forse, con quell’h onoraria, volle distinguer la voce sdrucciola del verbo «avere» dalla piana, e petrarchesca («Se da le proprie mani Questo n’avven....»), del verbo «avvenire»?
Un tempo, era piaciuto anche a lui (come pur ora forma la delizia degli scrittori novellini, e qualche volta altresì di quelli che non son più, come Dante direbbe, «novi augelletti»!) disarticolare certi nessi che l’uso fiorentino impone; e scrisse «su l’affannoso», «su la pupilla», «su le sciolte redini» (86, 87), «su le fronde» (77), «su la tua fortuna» (98;, «su la tua fede» (104), «su le chiome» (110), «su l’armi» (184), e fino in una didascalìa «su le mura» (89). Poi reputò meglio non separare, neanche in versi, quod Deus coniunxit, e ripristinò: sulla, sulle ecc., e nella ristampa del 1870 anche «sull’armi». Dove prima aveva scritto «in[clxxi] su l’altar» (41), «in sul mattin» (46)..., dopo scrisse «su l’altar» e «sul mattin»; dov’era «in su lo scudo» (91), mise «in sullo scudo»; lasciò intatto «spargendo in sulla via» (256); e non osò toccare, pur nel Coro per Ermengarda dove tanti su la divennero sulla, il verso «Calata in su la gelida». Invece, coi composti di con usò il procedimento inverso; e dove era scritto: «colla spada» (200), «coll’occhio» (201 e 242), «cogli amici» (218), «cogli altri» (221), più tardi sostituì: «con la spada», «con l’occhio», «con gli amici». Vero è che anche prima non s’era peritato, in un certo luogo (200), di disgiungere: «con gli eserciti».
Circa al povero dittongo uo, il D’Ovidio s’era già accorto delle fortunate contradizioni in cui il Manzoni era caduto ritoccando le tragedie. All’imprigionato Carmagnola egli non risparmia la pena di correggersi: «Ah! tu vedrai Come si mor!» (251), «Oh perchè almeno Lunge da lor non moio!... Che val di novo Affacciarsi alla vita...?» (256), o peggio ancora, con ridicolo equivoco, «Allor che Dio sui boni Fa cader la sventura...» (257). Nè alla infelicissima moglie di lui risparmia la stonata affettazione: «io moio di dolor!» (258). Tuttavia lasciò indisturbata la sentenza: «i buoni mai Non fur senza nemici» (192). Gli è che, purtroppo, codesti rari atti d’indulgenza appaion quasi sempre un semplice effetto di distrazione: giacchè, non paia soverchio l’insistervi, anche un così oculato e attento scrittore dà non scarse prove di saper distrarsi. E allora gli sfuggono, oltre le forme dianzi rilevate, un «ajuto» (232), qualche «contra» (176, 192), degli «anco» (216, 258), dei «sovra» (106, 247 e cfr. 209)...
Del terribile egli non sempre qui gli riesce di far lo scempio che nel Romanzo. E se, per esempio, ottiene che un senatore veneziano dica (237): «Giustizia troverà... Ma se ricusa, se sta in forse» invece di «Giustizia ei troverà... Ma se ricusa, s’egli indugia», non può togliergli di bocca, iniziando il discorso: «Ov’egli Pronto ubbidisca». E ancora, se nella Prefazione al Carmagnola (155) riesce a fare a meno dell’inviso pronome, sostituendo «quando è» a «quando egli è»; nella tragedia si vede costretto, se vuol cancellare un incomodo «dunque», ad accettar il soccorso[clxxii] che gli offre proprio quel pronome. Dove prima faceva dire dal Conte (214):
dopo, ha modificato:
Anche quanto agli arcaismi il poeta si sente le mani legate. A volte, la correzione è agevole; come quando muta «e tostamente un guardo» in «e subito uno sguardo» (184), ovvero quando trasforma le frasi, che per di più si seguivano a breve distanza (91): «E guata al lume della luna», «Perchè così mi guati Attonito?...», nelle altre: «E osserva al lume della luna», «Perchè così mi guardi Attonito?...». Ma nel primo Coro dell’Adelchi (75) gli era convenuto meglio non toccare il verso:
Come pure non toccò «le gioie dei prandi festosi», contento ad accorciar gl’j di «gioje» e di «prandj»; «t’aiti Quel tuo figliuol» (41), «nosco trarrem Gerberga» (72), «se quandunque mentirò» (90), «le grazie a lui rendute» (49), «ricòrdivi di me» (260), «del solio indegna» (65; mentre altrove: «Quand’egli osò di contrastarmi il soglio?», p. 21, e «Quei che il crollante Soglio reggere han fermo», p. 96); e tante altre forme e frasi di uso o di sapore più o men vieto,[145] fino a quell’ammuffito e curioso «E comple?» (69),[clxxiii] che un critico maligno ebbe subito a rimproverargli, senza che un giudice ben altrimenti equo e gentile, «per ammenda tarda, ma dolce ancor», ne lo redarguisse.[146]
Rari sono i ritocchi un po’ più essenziali. Dal diacono Martino, nell’Adelchi (II, 3; p. 45), aveva fatto narrare, equivocando sulla topografia:
Il marchese Cesare d’Azeglio lo avvertì dello svarione, ed egli corresse: «alla manca piegai». L’equivoco, dichiarò nella famosa lettera del 22 settembre 1823, «è nato dall’aver io... dimenticato affatto che in quel momento io rappresentava il viaggiatore tornato indietro dalle Chiuse verso l’Italia. Non badai a quella sua situazione accidentale, e lo immaginai rivolto con la persona verso il campo di Carlomagno, dove, per dir così, guardavano i suoi disegni».
Qualche verso aggiunse, per giovare alla chiarezza o all’armonia (cfr. p. 52, 103, 251); qualche altro cancellò, che reputò forse ozioso (cfr. p. 65); ne modificò felicemente altri (cfr. p. 96, 111). Notevole, per chi ricordi quale largo uso della parola orma, rimastagli forse nelle orecchie dalle letture del Parini e del Monti, il Manzoni abbia fatto, la correzione della strana frase cadutagli dalla penna (91): «se un’orma, se un respiro intendi», che richiama il melodrammatico «sento l’orma dei passi spietati». Sostituì garbatamente: «se un passo, se un respiro ascolti».
A ciascun componimento, o gruppo di componimenti, ho premesso una noticina bibliografica; la quale, davanti alla Lettre à m. C***, ha assunte le proporzioni d’una vera e propria prefazione. Ed ivi, come nel discorso che precede, mi son largamente giovato delle interessantissime lettere scritte dal Manzoni al Fauriel, e pubblicate dal De Gubernatis.[clxxiv] Non so se le mende innumerevoli del testo francese siano da attribuire a chi ebbe a ricopiarle o alla tipografia fiorentina; ma a buon conto mi son creduto lecito, e vorrei quasi dire in dovere, di ripubblicarne i brani, che mi veniva fatto di riferire, secondo la corretta ortografia della mirabile Lettera (mirabile anche per la squisita forma francese) Sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia.
Torriggia, 24 settembre 1906
Michele Scherillo.
[137] Nella lettera al Fauriel del 12 settembre 1822, il Manzoni ancora discorreva di modificazioni apportate all’Adelchi, in corso di stampa. «J’ai fait une addition», scriveva, «de quelques vers à la dernière scène de l’acte 2ᵉ, sur l’avis de Visconti, qui a observé que ce qui a dû se passer dans l’intervallo du 2ᵉ au 3ᵉ acte n’est pas assez clairement, ou au moins pas assez tôt, expliqué, au commencement de celui-ci. Il a prétendu, je crois avec raison, qu’en annonçant d’avance cet effet d’une marche qui a l’air d’une retraite, on préparerait mieux le lecteur à le comprendre sans fatigue dès l’ouverture, du 3ᵐᵉ acte». E mandò il brano da «Intento, Dalle vedette sue....» fino a «Risvegliator non aspettato» (p. 52). Soggiungeva: «Enfin, dans la scène 7ᵉ du 3ᵉ acte, cette description du petit combat d’Anfrido m’a paru par trop embrouillée, et j’ai tâché de la rendre un peu plus claire en changeant depuis Confusi vers 3ᵐᵉ jusqu’à Arrenditi, ainsi que vous trouverez ci-contre». E trascrisse l’altro brano (p. 66), da «Gran parte Gettan d’arme....» fino ad «Arrenditi, Gli gridiamo....».
[138] Quegli abbozzi, quali il Bonghi li pubblicò, formicolano, è vero, di errori e di sviste d’ogni genere; ma non sarebbe stato arduo coreggerli o scansarli. Comunque, la colpa del Bonghi sta principalmente nell’essersi egli troppo fidato nelle copie e nelle collazioni, eseguite da chi non aveva nè l’occhio nè la mano nè la preparazione per lavori di tal genere. Come spiegare altrimenti (basta un esempio per tutti!) ch’ei stampi, nel primo getto della Pentecoste, «Oh scendi, autor di Vergini.....», senza accorgersi che ivi debba dire «altor di Vergini»? (Cfr. pag. 482).
[139] Do anche le varianti della Prefazione e delle Notizie storiche che illustrano Il Conte di Carmagnola; non così quelle delle Notizie storiche premesse all’Adelchi, perchè da principio m’era parso che non ne francasse la spesa.
[140] Preziosa è la dichiarazione che il poeta si vede costretto a fare in una nota alle Notizie storiche premesse al Carmagnola, a proposito di Nicolò Piccinino. Dice (pag. 177): «Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio....». Dunque il verso ha «una dignità» che la prosa non conosce, e che va rispettata! Nel primo getto il Manzoni non s’era fatto riguardo d’infilzare in un verso (pag. 287): «Il Pergola, il Torello, il Piccinino». Che gli abbia poi incusso paura il ricordo dei «Salamini» dell’Ajace foscoliano?
[141] Il cangiamento precisamente opposto venne compiendo il Parini nel ritoccare i suoi poemetti: dove prima aveva scritto tra, venne sostituendo fra. E s’intende: agl’intenti del poeta popolano rispondeva meglio render sempre più ricercata e preziosa la forma del Giorno; come ai propositi del poeta di sangue gentile si confaceva lo sfrondare il suo stile d’ogni futile pompa.
[142] Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua; 4ª ed.. Napoli, Pierro, 1895, pag. 102.
[143] Poco avanti, a pag. 138, non dubitò tuttavia di correggere: «tra loro tre».
[144] Anche nel Romanzo (cap. II, pag. 26) fa dir da Perpetua: «Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?». Ma in tutto il libro non ce n’è che un altro solo di codesti egli pleonastici, nel cap. XXIII, pag. 327: «E questa consolazione.... vi par egli ch’io dovessi provarla...?».
[145] Nel Coro dell’atto III dell’Adelchi, in luogo di «valli petrose» (75), il Manzoni aveva, nel primo getto, scritto (144) «valli rigose», che vuol dire «valli nel cui fondo scorre un rivo», ovvero «irrigue». Il Bonghi, non so perchè, v’appose un segno d’interrogazione (?).
[146] Cfr. D’Ovidio, Le correzioni ecc., p. 210 ss.
L’autore non avrebbe certamente pensato da sè a raccogliere in un volume questi scritti, già quasi tutti da lui pubblicati separatamente, in diversi tempi. Chè, mentre le prime edizioni giacevano in gran parte, e alcune da qualche anno, sparse e dimenticate presso i librai, o ammontate in casa sua, gli sarebbe parso un pensiero troppo strano quello d’offrire al pubblico tutt’in una volta, tanti lavori che, a uno a uno, il pubblico non aveva voluti. Ma vedendo che ai contraffattori, gente, per dir la verità, più abile e più fortunata, la cosa era riuscita, ha creduto che non sarebbe temerità il tentar se potesse riuscire anche a un’edizione riconosciuta da lui. Non avrebbe però avuto, come loro, il coraggio di riprodurre questi lavori tal e quali gli erano sfuggiti dalle mani la prima volta; e ha quindi dovuto ritoccarli, non già con la pretensione stravagante di metterli in una buona forma; ma per levarne almeno quelle deformità che, rivedendoli dopo tanto tempo, gli davan più nell’occhio, e alle quali, insieme, gli pareva di poter con facilità e con certezza sostituir qualcosa di meno male. Vuol dire che non s’è potuto ritoccar quasi altro che le prose; giacchè i versi, se è più facile farli male, è anche più difficile raccomodarli. Ha poi ridotti i lavori suddetti a quelli che avrebbe voluti ristampare,[2] come meno indegni di morire a poco a poco, se il pensiero di ristamparli fosse potuto nascere a lui. Dimanierachè questa raccolta, col romanzo intitolato I Promessi Sposi, dell’edizione riveduta da lui, e con l’opuscolo aggiuntovi (Storia della Colonna Infame), comprende tutti gli scritti che riconosce per suoi, e nella forma che li riconosce. Finalmente ha creduto di poter profittare di questa occasione per arrischiare qualche scritto inedito, che, uscendo solo, avrebbe, di certo, avuta la sorte degli altri, cioè di morir nascendo; e, questa volta, senza la probabilità d’esser resuscitato da’ contraffattori; perchè l’autore, dovesse anche passar per ingrato e per malavveduto, intende di valersi oramai dell’aiuto delle leggi e delle convenzioni, per preservarsi dal loro.
Milano, maggio 1845.
[147] Prefazione al volume: «Opere varie | di | Alessandro Manzoni. || Edizione riveduta dall’autore. || Milano | Dalla tipografia di Giuseppe Redaelli. | 1845.».
NOTA.—La prima edizione è del 1822, Milano, per Vincenzo Ferrario. Ristampata varie volte da altri, in Italia e all’estero (è quasi doveroso segnalare l’accuratissima edizione: Opere poetiche | di | Alessandro Manzoni | con | prefazione | di | Goethe. || Jena | per Federico Frommann | 1827.), il Manzoni la ristampò per suo conto, con qualche ritocco, nel 1845, nel volume delle Opere varie; e da ultimo, nel 1870. Seguiamo queste due ristampe autentiche, segnando a pie’ di pagina le varianti della prima edizione. I ritocchi, anche minimi, d’un così diligente e minuzioso stilista, non ci paiono privi d’interesse. Tuttavia, questa è la prima volta, crediamo, ch’essi siano tutti rilevati e inventariati. Ricordiamo però che delle incoerenze fra la posteriore teoria sulla lingua professata e propugnata dal Manzoni, e la lingua da lui adoperata nei componimenti poetici, ebbe già a discorrere, succintamente ma con l’usato acume e la singolare dottrina, il D’Ovidio (Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua; 4ª ediz.; Napoli, Pierro, 1895; pag. 208-10)
Scherillo.
ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI
CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA
POTÈ SERBARE UN ANIMO VERGINALE
CONSACRA QUESTO ADELCHI
L’AUTORE
DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO
E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO
RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA
MEMORIA DI TANTE VIRTÙ.
Nell’anno 568, la nazione longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì dalla Pannonia, che abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila Sassoni e d’uomini d’altre nazioni nordiche, scese in Italia, la quale allora era soggetta agl’imperatori greci; ne occupò una parte, e le diede il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la residenza reale.(1) Con l’andar del tempo, i Longobardi dilatarono in più riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del regno, o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà dell’ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l’esarcato di Ravenna tenuto ancora dall’Impero, come pure alcune città marittime della Magna Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli imperatori; ma la loro autorità vi si andava restringendo e indebolendo di giorno in giorno, e vi cresceva quella de’ pontefici.(2) I Longobardi fecero, in diversi tempi, delle scorrerie su queste terre; e tentarono anche d’impossessarsene stabilmente.
754.—Astolfo, re de’ Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il rimanente. Il papa Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a Pipino, che unge in re de’ Franchi. Pipino scende in Italia; caccia Astolfo in Pavia, dove lo assedia, e, per intercessione del papa, gli accorda un trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città occupate.
755.—Ripartiti i Franchi, Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia Roma, e ne devasta i contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino: questo scende di nuovo: Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell’Alpi: Pipino le supera, e spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si presentarono a Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a pregarlo, con promesse di gran doni, che rimettesse all’Impero le città dell’esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose che non aveva combattuto per servire nè per piacere agli uomini, ma per divozione a san Pietro, e per la remissione de’ suoi peccati; e che, per tutto l’oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a san Pietro ciò che una volta gli aveva dato.(3) Così fu troncata brevemente nel fatto quella curiosa questione, sul diritto della quale s’è disputato fino ai nostri giorni inclusivamente: tanto l’ingegno umano si ferma con piacere in una questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a patti, e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia, e mandò al papa la donazione in iscritto.
756.—Muore Astolfo: Desiderio, nobile di Broscia,(4) duca longobardo, aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana, dove si trovava, speditovi da Astolfo,(5) e viene da essi eletto re. Ratchis, quel fratello d’Astolfo, ch’era stato re prima di lui, e s’era fatto monaco, ambisce di nuovo il regno; esce dal chiostro, fa raccolta d’uomini, e va contro Desiderio. Questo ricorre al papa; il quale, fattogli promettere che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non ancora rilasciate,(6) consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce; e Desiderio rimane re de’ Longobardi.
Non si sa precisamente in qual anno, ma certo in uno de’ primi del suo regno, Desiderio fondò, insieme con Ansa sua moglie, il monastero di san Salvatore, che fu poi detto di santa Giulia, in Brescia: Ansberga, o Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima badessa.(7)
758.—Alboino, duca di Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si ribellano a Desiderio, mettendosi sotto la protezione di Pipino. Desiderio gli attacca, gli sconfigge, fa[9] prigioniero Alboino, e mette in fuga Liutprando.(8) In quest’anno, o nel seguente, fu associato al regno il figliuolo di Desiderio, nelle lettere de’ papi e nelle cronache chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici, Adelchis.
Nell’anno 768 morì Pipino: il regno de’ Franchi fu diviso tra Carlo e Carlomanno suoi figli. Le lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III, successori di Stefano II, sono piene di lamenti e di richiami contro Desiderio, il quale non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove occupazioni.
770.—Bertrada, vedova di Pipino, desiderosa di stringer legami d’amicizia tra la sua casa e quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due matrimoni: di Desiderata o Ermengarda,(9) figlia di Desiderio, con uno de’ suoi figli, e di Gisla sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive ai re Franchi la celebre lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal contrarre un tal parentado.(10) Ciononostante, Bertrada condusse seco in Francia Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò.(11) Il matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.
771.—Carlo, non si sa bene per qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa Ildegarde, di nazione Sveva.(12) La madre di Carlo, Bertrada, biasimò il divorzio; e questo fu cagione del solo dissapore che sia mai nato tra loro.(13) Muore Carlomanno: Carlo accorre a Carbonac nella Selva Ardenna, al confine de’ due regni: ottiene i voti degli elettori: è nominato re in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi alla morte di Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co’ suoi due figli, e con alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio. Carlo ne fu punto sul vivo.(14)
772.—A Stefano III succede Adriano. Desiderio gli spedisce un’ambasciata per chiedergli la sua amicizia: il nuovo papa risponde che desidera di stare in pace con quel re, come con tutti i cristiani; ma che non vede come possa fidarsi d’un uomo il quale non ha mai voluto adempir la promessa, fatta con giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le appartiene. Desiderio invade altre terre della Donazione.(15)
772-774.—Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ai quali prese Eresburgo (secondo alcuni,(16) Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per vendicarsi di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d’indur questo a incoronar re de’ Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi barbari, il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò, come doveva, alienissimo dal secondare un tal disegno; del resto, disse d’esser pronto ad abboccarsi col re, dove a questo fosse piaciuto, quando però fossero state restituite alla Chiesa le terre occupate.(17) Desiderio ne invase delle altre, e le mise a ferro e a fuoco.(18) In tali angustie, e dopo avere invano spedita un’ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano mandò un legato a chieder soccorso a Carlo.(19) Poco dopo, arrivarono a Roma tre inviati di questo, Albino suo confidente,(20) Giorgio vescovo, e Wulfardo abate, per accertarsi se le città della Chiesa erano state sgomberate, come Desiderio voleva far credere in Francia. Il papa, quando partirono, mandò in loro compagnia una nuova ambasciata, per fare un ultimo tentativo con Desiderio; il quale, non potendo più ingannar nessuno, disse che non voleva render nulla.(21) Con questa risposta i Franchi se ne tornarono a Carlo, il quale svernava in Thionville, dove gli si presentò pure Pietro, il legato di Adriano.(22)
Circa quel tempo, dovette il re de’ Franchi ricevere una men nobile ambasciata, inviatagli segretamente da alcuni tra’ principali longobardi, per invitarlo a scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno, promettendogli di dargli in mano Desiderio e le sue ricchezze.(23)
Carlo radunò il campo di maggio, o, come lo chiamano alcuni annalisti, il sinodo, in Ginevra; e la guerra vi fu decisa.(24) S’avviò quindi con l’esercito alle Chiuse d’Italia. Erano queste una linea di mura, di bastite e di torri, verso lo sbocco di Val di Susa, al luogo che serba ancora il nome[11] di Chiusa. Desiderio le aveva ristaurate e accresciute;(25) e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di Carlo vi trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino.(26) Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che Adelchi, robusto, come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia una mazza di ferro, gli appostava dalle Chiuse, e piombando loro addosso all’improvviso, co’ suoi, percoteva a destra e a sinistra, e ne faceva gran macello.(27) Carlo, disperando di superare le Chiuse, nè sospettando che ci fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già stabilito di ritornarsene,(28) quando arrivò al campo de’ Franchi un diacono, chiamato Martino, spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo un passo per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de’ successori di Leone su quella sede.(29)
Mandò Carlo per luoghi scoscesi una parte scelta dell’esercito, la quale riuscì alle spalle de’ Longobardi, e gli assalì: questi, sorpresi dalla parte dove non avevano pensato a guardarsi, e essendoci tra loro de’ traditori, si dispersero. Carlo entrò allora col resto de’ suoi nelle Chiuse abbandonate.(30) Desiderio, con parte di quelli che gli eran rimasti fedeli, corse a chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona, dove condusse Gerberga co’ figliuoli.(31) Molti degli altri Longobardi sbandati ritornarono alle loro città: di queste alcune s’arresero a Carlo, altre si chiusero e si misero in difesa. Tra quest’ultime fu Brescia, di cui era duca il nipote di Desiderio, Poto, che, con inflessione leggiera, e conforme alle variazioni usate nello scrivere i nomi germanici, è in questa tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo suo fratello, vescovo della stessa città, si mise alla testa di molti nobili, e resistette a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare quella città. Più tardi, il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo esercitava contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i due fratelli ad arrendersi.(32)
Carlo mise l’assedio a Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie, Ildegarde; e vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto, andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i limini apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio liberatore.(33) L’assedio di[12] Pavia durò parte dell’anno 773 e del seguente: non credo che si possa fissar più precisamente il tempo, senza incontrar contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al caso nostro, e forse insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto Pavia, i Longobardi, stanchi dall’assedio, gli apriron le porte.(34) Desiderio, consegnato da’ suoi Fedeli al nemico,(35) fu condotto prigioniero in Francia, e confinato nel monastero di Corbie, dove visse santamente il resto de’ suoi giorni.(36) I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi,(37) e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando si presentasse sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerberga gli andò incontro co’ figli, e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò Verona, che s’arrese; e di là si rifugiò a Costantinopoli, dove, accolto onorevolmente, si fermò: dopo vari anni, ottenne il comando d’alcune truppe greche, sbarcò con esse in Italia,(38) diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso.(39)
Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì da Verona. Questo anacronismo, e l’altro d’aver supposta Ansa già morta prima del momento in cui comincia l’azione (mentre in realtà quella regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e certi della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s’è cercato d’accomodare i discorsi de’ personaggi all’azioni loro conosciute, e alle circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d’un personaggio, quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i disegni d’Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri storici, con un’infelicità, che dal più dificile e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall’autore.
Atto I, scena II, verso 149.—Il segno dell’elezione de’ re longobardi era di mettere loro in mano un’asta.(40)
Scena III, verso 212.—Alle giovani longobarde si tagliavano i capelli, quando andavano a marito: le nubili sono dette nelle leggi: figlie in capelli.(41) Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch’erano anche chiamate intonse; e vuole che di qui sia venuta la voce tosa, che vive ancora in qualche dialetto di Lombardia.(42)
Scena V, verso 335.—Tutti i Longobardi in caso di portar l’armi, e che possedevano un cavallo, eran tenuti a marciare: il Giudice poteva dispensarne un piccolissimo numero.(43)
Atto III, scena I, verso 78.—Ne’costumi germanici, il dipendere personalmente da’ principali era, già ai tempi di Tacito, una distinzione ambita.(44) Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il servizio domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza onorevole, e di devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa condizione erano da’ Longobardi chiamati Gasindi: ne’ secoli posteriori invalse il titolo domicellus; e di qui il donzello, che è rimasto nella parte storica della lingua. Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova ugualmente ne’ secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze che hanno que’ tempi con quelli che Vico chiamò della barbarie seconda. Patroclo, ancor giovinetto, dopo avere ucciso, in una rissa, il figlio d’Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in casa del cavalier Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al servizio d’Achille, suo figlio.(45)
Scena IV, verso 212.—L’omaggio si prestava dai Franchi in ginocchio, e mettendo le mani in quelle del nuovo signore.(46)
Atto IV, scena II, verso 221.—Una delle formalità del giuramento presso i Longobardi, era di metter le mani su dell’armi, benedette prima da un sacerdote.(47)
Coro nell’atto IV, st. 7.—Carlo, come i suoi nazionali, era portato per la caccia.(48) Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di Virgilio, come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una caccia di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando da un’altura.(49)
Coro suddetto, st. 10.—Si dilettava anche molto dei bagni d’acque termali; e perciò fece fabbricare il palazzo d’Aquisgrana.(50)
Il vocabolo Fedele, che torna spesso in questa tragedia, c’è sempre adoprato nel senso che aveva ne’ secoli barbari, cioè come un titolo di vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per evitar l’equivoco che farebbe col senso attuale, non s’è potuto far altro che distinguerlo con l’iniziale grande. Drudo, che aveva la stessa significazione, ed è d’evidente origine germanica,(51) riuscirebbe più strano, essendo serbato a un senso ancor più esclusivo. Nella lingua francese, il fidelis barbarico s’è trasformato in féal, e c’è rimasto; e le cagioni della differente fortuna di questo vocabolo nelle due lingue, si trovano nella storia de’ due popoli. Ma c’è pur troppo, tra quelle così differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi hanno conservata nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di sangue; e a forza di lacrime e di sangue, è stata cancellata dal nostro.
(1) Paul Diac., De gestis Langob., lib. 2.
(2) Una descrizione più circostanziata delle divisioni dell’Italia in quel tempo ci condurrebbe a questioni intricate e inopportune. V. Murat., Antich. Ital., dissert. seconda.
(3) Affirmans etiam sub juramento, quod per nullius hominis favorem sese certamini sæpius dedisset, nisi pro amore Beati Petri, et venia delictorum; asserens et hoc, quod nulla eum thesauri copia suadere raleret, ut quod semel Beato Petro obtulit, auferret. Anastas. Biblioth.; Rer. It., t. III, p. 171.
(4) Cujus (Brixiæ) ipse Desiderius nobilis erat. Ridolf. Notar., Hist. ap. Biemmi, Ist. di Brescia (Del secolo XI).—Sicardi Episc.; Rer. It., t. VII, p. 577, e altri.
(5) Anast., 172.
(6) Sub jurejurando pollicitus est restituendum Beato Petro civitates reliquas, Faventiam, Imolam, Ferrariam, cum eorum finibus, etc. Steph., Ep. ad Pipin.; Cod. Car. 8.
(7) Anselperga sacrata Deo Abbatissa Monasterii Domini Salvatoris, quod fundatum est in civitate Brixia, quam Dominus Desiderius excellentissimus rex, et Ansam precellentissimam reginam, genitores ejus, ab fundamentis edificaverunt.... Dipl. an. 761; apud Murat., Antiquit. Italic., dissert. 66, t. V, p. 499.
(8) Paul., Ep. ad Pip.; Cod. Car. 15.
(9) Le cronache di que’ tempi variano perfino ne’ nomi, quando però li danno.
(10) Cod. Carol., Epist. 45.
(11) Berta duxit filiam Desiderii regis Langobardorum in Franciam. Annal. Nazar. ad h. an.; Rer. Fr., t, V, p. 11.
(12) Cum, matris hortatu, filiam Desiderii regis Langobardorum duxisset uxorem, incertum qua de causa, post annum repudiavit, et Hildegardem de gente Suavorum præcipuæ nobilitatis feminam in matrimonium accepit.—Karol, M, Vita per Eginhardum, 18. (Scrittore contemporaneo).
(13) Ita ut nulla invicem sit exorta discordia, præter in divortio filiæ Regis Desiderii, quam, illa suadente, acceperat. Eginh., in Vita Kar., ibid.
(14) Rex autem hanc eorum profectionem, quasi supervacuam, impatienter tulit. Eginh., Annal. ad h. annum.
(15) Anast., 180.
(16) Hegevisch, Hist. de Charlem., trad. de l’allem., p. 116.
(17) Anast., 181.
(18) Id., 182.
(19) Id., 183.
(20) Albinus deliciosus ipsius regis. Anast., 184. V. Mur., Ant. It., diss. 4.
(21) Asserens se minime quidquam redditurum. Anast., ibid.
(22) Annal. Tiliani, Loiseliani, Cronac. Moissiacense, ed altri, nel t. V Rer. Franc. In generale, gli annalisti di que’ secoli che noi chiamiamo barbari, sanno, nelle cose di poca importanza, copiarsi l’uno con l’altro, al pari di qualunque letterato moderno: s’accordano poi a maraviglia nel passar sotto silenzio ciò che più si vorrebbe sapere.
(23) Sed dum iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam ex proceribus Langobardis talem legationem mittunt Carolo Francorum regi, quatenus veniret cum valido exercitu, et regnum Italiæ sub sua ditione obtineret, asserentes quia istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus traderent vinctum, et opes multas, etc.... Quod ille prædictus rex Carolus cognoscens, cum.....ingenti multitudine Italiam properavit. Anonim. Salernit., Chron., c. 9; R. It., t. II, part. II, p. 180.—Scrisse nel secolo X.
(24) V. gli annalisti citati sopra, e Eginh., Annal. ad an. 773.
(25) Anast., p. 184.—Chron. Novaliciense, 1. 3, c. 9; R. It., t. II, part. II, p. 717.—Il monaco, anonimo autore di questa cronaca, visse, secondo le congetture del Muratori, verso la metà del secolo XI.
(26) Firmis qui (Desiderius) fabricis præcludens limina regni, Arcebat Francos aditu.—Ex Frodoardo, de Pontif. Rom.; R. Fr., t. V, p. 463. Frodoardo, canonico di Rheims, visse nel X secolo.
(27) Erat enim Desiderio filius nomine Algisus, a juventute sua fortis viribus. Hic baculum ferreum equitando solitus erat ferre tempore hostili.... Cum autem hic juvenis dies et noctes observaret, et Francos quiescere cerneret, subito super ipsos irruens, percutiebat cum suis a dextris et a sinistris, et maxima cæde eos prosternebat. Chron. Nov., 1. 3, c. 10.
(28) .....Claustrisque repulsi, In sua præcipitem meditantur regna regressum. Una moram reditus tantum nox forte ferebat. Frodoard., ib. Dum vellent Franci alio die ad propria reverti. Anast., p. 184.
(29) Hic (Leo) primus Francis Italiæ iter ostendit per Martinum diaconum suum, qui post eum quartus Ecclesiæ regimen tenuit, et ab eo Karolus rex invitatus Italiam venit. Agnel., Raven. Pontif.; R. It., t. II, p. 177.— Scrisse Agnello nella prima metà del secolo IX, e conobbe Martino, di cui descrive l’alta statura e le forme atletiche. Ibid., p. 182.
(30) Misit autem (Karolus) per difficilem ascensum montis legionem ex probatissimis pugnatoribus, qui, transcenso monte, Langobardos cum Desiderio rege eorum... in fugam converterunt. Karolus vero rex, cum exercitu suo, per apertas Clusas intravit. Chron. Moissiac.; Rer. Fr., t. V, p. 69.—Questa cronaca d’incerto autore termina all’anno 818.
(31) Anast., 184.
(32) Ridolfi Notarii Histor., apud Biemmi, Istoria di Brescia, t. II, (Del secolo XI).
(33) Anast., 185 e seg.
(34) Langobardi obsidione pertæsi civitate cum Desiderio rege egrediuntur ad regem. Annal. Lambech; R. Fr., V, 64.
(35) Desiderius a suis quippe, ut diximus, Fidelibus callide est ei traditus. Anon. Salern., 179.
(36) Rer. Fr., t, V, p. 385.
(37) Ibique venientes undique Langobardi de singulis civitatibus Italiæ, subdiderunt se dominio et regimini gloriosi regis Karoli. Chron. Moissiac.; Rer. Fr., V. 70.
(38) Hadriani Epist. ad Karolum., Cod. Carol., 90 e 88.
(39) Ex Sigiberti Chron.; Rer. Fr., V, 377.
(40) Cui (Hildeprando) dum contum, uti moris est, traderent. Paul. Diac., 1. 6, c. 55.
(41) Si quis Langobardus, se vivente, suas filias nuptui tradiderit, et alias filias in capillo in casa reliquerit.... Liutprandi Leg., l. 1, 2.
(42) V. la nota al passo citato, Rer. It., t. I, part. II. p. 51.
(43) De omnibus Judicibus, quomodo in exercitu ambulandi causa necessitas fuerit, non mittant alios homines, nisi tantummodo qui unum caballum habeant, idest homines quinque, etc. Liutpr. Leg., 1. 6, 29.
(44) Insignis nobilitas, aut magna patrum merita principis dignationem etiam adolescentulis assignant; cæteris robustioribus, ac jampridem probatis aggregantur: nec rubor inter comites aspici. Tacit., German., 13.
(45) Homer., Il., lib. 23, v. 90.
(46) Tassilo dux Bajoariorum.... more francico, in manus regis, in vassaticum, manibus suis, semetipsum commendavit. Eginh., Annal.; Rer. Fr., t. V, p. 198.
(47) Juret ad arma sacrata. Rotharis Leg., 364. V. Murat., Ant. It., dissert. 38.
(48) Assidue exercebatur equitando ac venando, quod illi gentilitium erat. Eginh., Vit. Kar., 22.
(49) Rer. Fr., t. V, p. 388.
(50) Delectabatur etiam vaporibus aquarum naturaliter calentium.... Ob hoc etiam Aquisgrani Regiam extruxit. Eginh., Vit. Kar., 22.
(51) Treu, fedele.
LONGOBARDI
FRANCHI
LATINI
Duchi, Scudieri, Soldati Longobardi: Donzelle, Suore nel monastero di San Salvatore.—Conti e Vescovi Franchi; un Araldo.
Palazzo reale in Pavia.
DESIDERIO, ADELCHI, VERMONDO.
DESIDERIO, ADELCHI.
[153] contra
[154] contra
[155] Sacrificio
[156] le insegne
[157] alpe
[158] inteso
[159] Veggio
[160] surse
[161] gioja
[162] giudicio
[163] veggio
[164] al fine
VERMONDO che precede ERMENGARDA, e DETTI. DONZELLE che l’accompagnano.
[165] ricambii
[166] riveggio
[167] cui
[168] gioja
[169] rejetta
[170] Agli infelici
[171] nol
[172] gioja
[173] chieggio
[174] dei
[175] gioja
ANFRIDO, e DETTI.
DESIDERIO, ADELCHI, ALBINO, FEDELI LONGOBARDI.
DUCHI rimasti.
Casa di SVARTO.
SVARTO, ILDECHI; poi altri che sopraggiungono.
Fine dell’atto primo.
[182] sui
[183] Dei
[184] svanisce
[185] La sua via frugherà fin che la trovi:
[186] s’avveggia
[187] Che d’un vepre scemato alla boscaglia.
Campo de’ Franchi in Val di Susa.
CARLO, PIETRO.
[188] dei
[189] arme
[190] in su
[191] in contro
[192] falla
[193] in fra
[194] veggio
[195] volentier
[196] debbe
ARVINO, e DETTI.
[197] giunse
MARTINO introdotto da ARVINO, e DETTI. (ARVINO si ritira).
[198] dei
[199] periglj
[200] empj
[201] Dei
[202] gioja
[203] Dei
[204] in fra
[205] alla destra
[206] una angusta
[207] spazïosa
[208] Greggie
[209] tugurj
[210] havvi
[211] quei
[212] in sul
[213] nei
[214] romor
[215] romor
[216] dei
[217] (ARVINO parte)
[218] ed a
[219] Levate
[220] sien
CARLO, CONTI e VESCOVI.
Fine dell’atto secondo.
[223] (ai Conti)
[224] obbediste
[225] dei
[226] Dai
[227] allor
[228] sien
[229] nei
[230] tempj
[231] atrj
[232] Pastor leva
[233] picciola
[234] sacerdoti
Campo de’ Longobardi.—Piazza dinanzi alla tenda di Adelchi.
ADELCHI, ANFRIDO.
[236] Un lungo tratto
[237] agguata
[238] io non
[239] fra
[241] gioja
[242] la spoglia
[243] nei
[244] tugurj
[245] fra
[246] dei
[247] Fedel
[248] Dei
ADELCHI, DESIDERIO.
(ANFRIDO si ritira)
[249] gioja
[250] dubbj
[251] Obbediente
[252] obbedienza
[253] Obbediresti
[254] Obbedirei
[255] nei
Uno SCUDIERO frettoloso e[256] atterrito, e DETTI.
[256] ed
[257] È penetrato
[258] donde
[259] la scena
[260] dei
[261] ragunati
[262] quei
[263] raguna
[264] Fra
[265] picciol
Parte del campo abbandonato da’[266] Longobardi, sotto alle Chiuse.
CARLO circondato da CONTI FRANCHI, SVARTO.
RUTLANDO, e DETTI.
ILDECHI, ed altri DUCHI, GIUDICI, SOLDATI longobardi, e DETTI.
[274] O Svarto!
[275] pone
[276] fra
[277] dei
[278] Dei
[279] di Susa!
[281] cangiato
[282] dei
ANFRIDO ferito, portato da due FRANCHI, e DETTI.
Bosco solitario.
DESIDERIO, VERMONDO, altri LONGOBARDI fuggiaschi in disordine.
ADELCHI, e DETTI.
Fine dell’atto terzo.
[302] atrj
[303] dei
[304] Nei
[305] nei
[306] Dei
[307] gioje
[308] prandj
[309] dei
[310] colloquj
Giardino nel monastero di San Salvatore in Brescia.
ERMENGARDA, sostenuta da due DONZELLE, ANSBERGA.
[311] Su le
[312] chieggo
[313] dei
[314] ragunati
[315] Caggia
[316] veggia
[317] Gioja
[318] rejetta
[319] chiegga
[320] Le estreme
[321] dei
[322] dei
[323] Caccialo
[324] su gli
[325] Cacciate
[326] rispingi
[327] veggio
[328] ebrezza
[329] muojo
[330] sì stanca io sono!
[331] Inebriata
[332] gioja
[333] gioja
[334] donna
[335] letticciuol
[336] ch’io
[337] Su l’
[338] Guardo
[339] Fronte una
[340] Su la
[341] dei
[342] Fra
[343] Gli irrevocati
[344] Ebra
[345] fra
[346] su le
[347] Dei
[348] Torcea
[349] svolve
Notte.—Interno d’un battifredo sulle[350] mura di Pavia. Un’armatura nel mezzo.
GUNTIGI, AMRI.
[350] su le
[351] Obbedienza
[352] ei fia
[353] Obbedisco
[354] guata
[355] guati
[356] Egli
[357] fra
[358] su lo
[359] un’orma
[360] intendi
[361] Fedeltà!
[362] rispinta
[363] Ai
[364] quei
[365] Le offerte
[366] caggio
[367] fra
[368] veglio
GUNTIGI, SVARTO,[369] AMRI.
[369] condotto da
GUNTIGI, SVARTO.
Fine dell’atto quarto.
[370] ch’ogni
[371] Ei domandò
[372] ufficio
[373] Caggion
[374] obbedir
[375] chiegga
[376] Vecchio poter salvare han fermo, o seco
[377] Su la
Palazzo Reale in Verona.
ADELCHI, GISELBERTO DUCA DI VERONA.
[381] pei
[382] dei
[383] un solo
[384] fra
[385] anco
[386] dei
[387] ruina
[388] qua giù
ADELCHI, TEUDI.
Tenda nel campo di Carlo sotto Verona.
CARLO, un ARALDO, ARVINO, CONTI.
CARLO, DESIDERIO.
[395] fra
[396] gioja
[397] qua giù
[398] gioja
[399] inebriarmi
[400] mi chiedi
[401] anco
[402] desiderj
[403] Debbe
[404] v’è
[405] jeri
[406] facil’ora
[407] Dei
[408] incontra
[409] su le
[410] dei
[411] contra
[412] spini
[413] Vuotatelo
CARLO, DESIDERIO, ARVINO.
[414] ascoltar!
[415] Nè alcun vi manca?
[417] anco
[418] alla mia
[419] nimici
CARLO, DESIDERIO.
CARLO, DESIDERIO, ADELCHI ferito e portato.
[423] riveggio
[424] O
[425] qua giù
[426] me ’l
[427] dei
[428] Questi
[429] chieggo
[430] veggio
[431] incontra
[432] debbe
ARVINO, CARLO, DESIDERIO, ADELCHI.
[433] chieggon
DESIDERIO, ADELCHI.
Fine della tragedia.
Tra i manoscritti del Manzoni, l’Adelchi rimane in tre forme: le prime due di carattere del poeta, e l’una è copia ricorretta dell’altra. La terza, di altra mano, è quella preparata per la stampa. Porta, sotto il titolo, il visto della Censura, «Milano, il 2 maggio 1882».
La prima forma ha segnate via via le date della composizione: sul primo foglio, 9 settembre 1820; dopo la scena 5ª dell’atto I, 4 gennaio; in testa dell’atto III, 2 giugno; dell’atto IV, 3 luglio, e in fine di esso, 17 luglio; in principio dell’atto V, 2 agosto, da ultimo, 21 settembre 1821. Contiene il primissimo getto; e mette conto riferirne i brani più notevoli.[120] Seguiremo, fin dove sarà possibile, il Bonghi (Opere inedite o rare di A. M.; vol. I, 1883), correggendone le sviste, nè poche nè di poco momento.
Sch.
Questa seconda scena era resa assai più lunga che non è ora, anche pel fatto che Adelchi ragionava a lungo la proposta di acquistare amici, liberando i Romani; la qual proposta ora è in breve accennata in fine.
E dopo molti versi, ridondanti di varianti e di cancellature, nei quali Adelchi continua a manifestare il suo animo e l’ardore della sua convinzione, seguono questi:
[436] Qui vi sono parole cancellate, impossibili a leggere. (Bonghi).
[437] Questi versi hanno tutti molte varianti; ma io li trascrivo di solito nella prima lor forma. (Bonghi).
[438] Il brano che segue è stato trasferito qui da uno dei precedenti discorsi di Desiderio. V. pag. 121-22. (Sch.)
[439] Rimette qui questo verso e mezzo, nell’intenzione, certo, di cancellarlo sopra.—La sentenza: “tutto è leale al forte„ ricorre poi anche più tardi, sulla bocca di Adelchi, nella soppressa scena 1ª dell’atto V (pag. 137). (Sch.)
In un altro abbozzo, codesta scena era tutt’altro.—Essa «è nella tenda d’Arderigo, un Longobardo, e vi hanno parte lui, Faraldo, Guntigi, Ildechi, Leuteri ed altri Duchi, sgomenti della partenza di Carlo con cui s’erano accordati. Ma la lor conversazione va poco oltre: il Manzoni la interrompe e la cancella, e ricomincia la scena, secondo è rimasta. In questa, non appare già in tutto sicura la partenza dei Franchi; ma preparasi; e se parecchie parti del primo getto son ritenute, Adelchi vi appare non diverso, ma più concreto». (Bonghi).
[440] Il Manzoni postilla: «Si dica più chiaro che i Franchi si sono ritirati per timore d’Adelchi».
[441] Tornano nuovamente questi versi, che prima erano, sempre in bocca ad Adelchi, nella sc. 2ª dell’atto I (pag. 126-7). Ora son rimasti a metà della sc. 1ª dell’atto III, ch’è stata di molto accorciata. (Sch.)
[442] Il Bonghi ripubblicò, con qualche diversità di varianti, questa 1ª scena dell’atto III, nelle sue Horae subsecivae; Napoli, Morano, 1838; p. 259-268. (Sch.)
La scena è la sala del Palazzo Reale in Pavia; e le persone: Desiderio, Adelchi, Guntigi.—Il Manzoni cancellò poi tutto, e scrisse in calce all’ultima pagina: «Scartar tutto, e rifar l’atto in modo più conforme alla storia».
Questi versi, ritentati nel manoscritto più volte, si leggono ancora così:
La tragedia terminava:
colla variante scritta sotto:
e poi: «Si abbandona presso il corpo del figlio agonizzante; CARLO parte; cade il sipario.
21 settembre 1821.»
V’è segnata, in principio, la data «13 dicembre 1821»; in fine, 11 gennaio 1822».
«V’appare», scrive il Bonghi, «in due strofe un processo di creazione poetica, che in Manzoni non è frequente: quello di formare in prosa il pensiero che vuol verseggiare e che alla prima i versi non gli rendono; p. es., la terza strofa è venuta da prima scritta così:
«Il concetto, quantunque l’espressione ne sia tuttora imperfetta, non è men bello di quello che la quarta strofa esprime ora; ma questo è così accennato in margine:—“Il tuo destino quaggiù non era d’ottenere l’obblìo, ma di chiederlo„;—e sotto, qualcuno dei versi che sono rimasti:
«Del pari, la strofa 18ª: Te collocò....., ha ai lati espresso così in parte il concetto che vi è verseggiato, ma pure non intero:—“La sventura ti ripone fra gli oppressi, ti fa concittadina dei vinti. Trapassa in pace. Nessuna imprecazione suonerà sul tuo sepolcro„.
«Le tre bellissime strofe 8, 9, 10 paiono uscite quasi di getto, soprattutto l’ultima; ma è a notare come, nell’ottava, il terzo e il quarto verso si leggono nel manoscritto così:
Vuol dire ch’egli ha compiuto il terzo più tardi nel modo che si legge ora: E lo sbandarsi e il rapido, e l’ha tenuto in mente, sino alla seconda copia. Così è accaduto di alcuni altri in questo Coro».
V’è segnata, in principio, la data «15 gennaio 1822»: in fine, «19 gennaio 1822».—Le varianti son notate, di solito, sopra o sotto del verso stesso.
[443] volgo
[444] l’oltraggio
[445] Col misero orgoglio d’un tempo che fu.—
Variante cancellata:
[447] adocchia
[448] dall’aste
[449] già senza ruggito
[450] insolenti
[451] dispersi
[452] ritta
[453] blandi
[454] pesti
[455] Trascorsero il ponte
[456] torme
[457] il nido relitto
[458] rigose
[459] Accanto agli scudi
[460] Udiron le frecce passando fischiar.
[461] pungea simil
[462] apparecchio
[463] Inerme, pedestre,
[464] dei forti
[465] Che [E] il labbro dei forti proferto non ha [l’ha].
[466] All’opere imbelli
[467] fra
[468] Che il popolo e il regno, che il nome restò.
Nella copia preparata per la stampa, e vista dalla Censura, appaiono cancellati alcuni versi, che si leggevano pur nella seconda, che mancano tuttora nello stampato. Essi sono i seguenti:
Nel discorso d’Adelchi a Desiderio, dove ora si legge:
il Manzoni aveva scritto da prima:
Nel discorso d’Adelchi a Carlo, dove ora si legge:
il Manzoni aveva scritto:
NOTA.—La prima edizione è del 1820, Milano, dalla Tipografia di Vincenzo Ferrario. Ristampata anch’essa varie volte, da varii, in Italia e fuori, questa tragedia fu poi, nel 1845 e nel 1870, ristampata, con parecchi ritocchi, dall’autore. Seguiamo pur qui le due ristampe autentiche, rilevando a piè di pagina le varianti della prima stampa.—Abbiamo altresì notate, questa volta, le molte e considerevoli differenze che corrono fra le tre stampe curate dall’autore, della Prefazione e delle Notizie storiche. Nel tener dietro a una così incontentabile ricerca e a una così instancabile elaborazione e correzione della forma, si prova, oltre il resto, un vero diletto; e il confrontare i tre diversi testi, può riuscire, a chi lo faccia con amorosa diligenza, istruttivo, più e meglio di una qualunque lezione di rettorica o di stilistica, se campata in aria e librata sulle fragili ali delle teorie e delle astrattezze.
Scherillo.
AL SIGNOR
CARLO CLAUDIO FAURIEL
IN ATTESTATO
DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA
L’AUTORE.
Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare[469] il lettore con una lunga esposizione de’ princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d’un dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltredichè,[470] ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l’universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de’ più piccoli[471] mali che possano accadere in questo mondo.
Tra i vari espedienti[472] che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de’ più ingegnosi[473] è quello d’avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute[154] ugualmente[474] come infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccoli[475] interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile l’arte più di quello che è già, levano[476] anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.
Ma poichè la quistione delle due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente qualsisia[477] tragedia; e poichè queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi tenute[478] per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne[479] brevemente l’esame. Mi studierò[480] per altro di fare piuttosto una picciola[481] appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.
I. L’unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell’arte, nè connaturali all’indole[482] del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L’unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L’unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotelea), il quale, come benissimo osserva il signor Schlegelb), non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele[483] avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.
Quando poi vennero quelli che[484], non badando all’autorità,[155] domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d’un’azione, diventa per lui inverosimile che le diverse parti di questa[485] avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui[486] sa di non essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un[487] falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è[488], per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza[489] non deve nascere in lui dalle relazioni[490] dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle[491] che le varie parti dell’azione hanno tra[492] di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.
II. Queste regole non sono in analogia con gli[493] altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s’ammettono nella tragedia come verosimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse s’applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que’ fatti soli[494] che s’accordano con la presenza dello spettatore, dimanierachè[495] possano parergli[496] fatti reali. Se uno[497] dicesse, per esempio: que’ due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero[498] d’esser soli, distruggono ogni illusione, perchè io sento d’esser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine; gli[499] farebbe precisamente la stessa obiezione[500] che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due unità. A quest’uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia imposto all’arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe[156] altro, se non che per questi casi non ci era[501] un periodo d’Aristotele.
III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza[502], la gran prova che non sono necessarie alla illusione è[503], che il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno[504] e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poichè non conoscendo esso la distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.
Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso[505] si sia fatto[506] di queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni[507], troviamo che nel greco non sono mai state stabilite[508] per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli[509] più celebri, quelli che[510] sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu messa[511] in pratica da Mairet[512] con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità tragica deva[513] sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza esame.
IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perchè, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l’unità di tempo non è osservata nè pretesa nel suo stretto senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano[514] questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heuresc). Con una tale[515] transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l’irragionevolezza[516] della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera[517]. Giacchè si potrà ben discutere con chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual[518] ragione pretenderà che uno si tenga[519] in un limite fissato così[520] arbitrariamente? Cosa[521] si può mai dire a un critico, il quale crede[522] che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere[523] il molto che il poco. Ci sono ragioni[524] più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire[525]. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est être ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que de leur imposer des lois qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est l’extension[158] feinte et supposée du temps réel de l’action théâtraled). Ma le [526] licenze felici sono parole senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano un’idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente rinchiudono una contradizione.[527] Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso licenze felici, perchè tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura delle cose richieda.[528] Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perchè le regole[529] grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’ critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice.[530] — Ma perchè queste riflessioni su due parole? Perché nelle[531] due parole appunto sta l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perchè la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro[532] l’erroneità della opinione, bisogna[533] indicare dove sia[534] l’equivoco.
V. Finalmente queste regole impediscono molte bellezze, e producono molti inconvenienti.
Non discenderò a dimostrare[535] con esempi la prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più d’una volta. E la cosa resulta[536] tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d’alcune tragedie inglesi e tedesche, che i sostenitori[537] stessi delle regole sono costretti a riconoscerla[538]. Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti[159] varia e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacchè per ottenerle bisogna cadere nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire[539] che alla rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare[540] la tragedia, quando non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno d’ogni altro quei critici i quali sono sempre[541] di parere che le tragedie greche non siano[542] mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla[543] lettura. Non ho inteso con ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita; ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
Gl’inconvenienti che nascono[544] dall’astringersi alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono ugualmente[545] confessati dai critici. Anzi non par credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Émilie, et qu’Auguste vienne dans ce même cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est peu naturel. La sconvenienza[546] è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faute).
Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una questione[547] già così bene sciolta, e che a molti può parer[548] troppo frivola. Rammenterò[549] a questi ciò che disse molto sensatamente in un[160] caso consimile un noto scrittore[550]: Il n’y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s’y point tromper, s’il est possiblef). E del rimanente, credo che[551] una tale questione abbia il suo lato importante. L’errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L’arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa[552] indifferente. Ed è[553] certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.
Quest’ultime riflessioni conducono a una[554] questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò[555], dacchè il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste[556] di Nicole, di Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di cui[557] nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno[558] che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l’altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l’arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perchè essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che[559] ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale.[560] Mi pare[561][161] che siano stati tratti in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che [562] quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d’interesse e immune [563] dagl’inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall’essergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico, m’ero proposto [564] d’unire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito d’annunziarlo; perchè mi pare [565] cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria [566] all’opinione ragionata d’uomini di prim’ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza prometterle almenog).
Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano [567], può parere [568] un capriccio, o un enimma [569]. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro.... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi [570] il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente [571] e dolorose d’un’azione qualche volta [572] troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazioneh). Ora m’è parso [573] che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea [574] di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una [575] gran parte dell’effetto[162] che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli[576] stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perchè il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.
Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti che sono l’argomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un componimento misto d’invenzione e di verità storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.
[469] Nella prima edizione scrive sempre: annojare, nojoso, principj, necessarj, varj, proprj, arbitrarj, esempj, vizj....
[470] Oltre di che
[471] lievi
[472] spedienti
[473] trovato per impacciarsi l’un l’altro, ingegnosissimo
[474] Nella prima edizione sempre: egualmente, eguale, eguaglianza.
[475] Sempre: piccioli, picciola....
[476] più ch’ella non è, tolgono
[477] qualsiasi
[478] ritenute
[479] ripigliarne
[480] Studierò
[481] Questo picciola s’è salvato!
[482] risultanti dall’indole
[483] Sempre: Aristotile
[484] coloro i quali
[485] questa azione
[486] egli
[487] Sempre: su di un
[488] egli è
[489] Sempre: verisimiglianza e inverisimiglianza, verisimile e inverisimile (sost. e agg.)...
[490] dai rapporti
[491] dai rapporti
[492] Sempre: fra
[493] Sempre: cogli, colla, coll’...
[494] soltanto
[495] in modo che a lui
[496] parer
[497] altri
[498] assicurandosi
[499] egli
[500] Sempre: obbiezione
[501] Sempre: v’era
[502] si considerano dal lato dell’esperienza
[503] Sempre: si è
[504] tutto dì
[505] conto
[506] tenuto
[507] d’ogni nazione, noi
[508] poste
[509] spagnuoli
[510] i quali
[511] posta
[512] In molte delle antiche edizioni (potrei dire in tutte), anteriori al 1845, si strascinò l’errore: Nairet; anche in quella di Jena 1827, e in quella un po’ pretensiosa di Firenze 1827.
[513] Sempre: debba, debbono....
[514] adempiano
[515] Con tale
[516] la dannosità
[517] in alcun modo
[518] che
[519] altri si contenga
[520] ch’egli ha posto
[521] Che
[522] stima
[523] domandare
[524] Si hanno argomenti
[525] eseguire.
[526] Salvo il rispetto a Marmontel e all’opera piena di merito nella quale leggesi questo passo, osservo che le
[527] Sempre: contraddizione.
[528] felici, perchè seguite da un buon successo.
[529] molte regole
[530] e non si può quindi trasgredirle senza fallare lo scopo dell’arte.
[531] Nelle
[532] a voler mostrare
[533] basta
[534] sta
[535] provare
[536] risulta
[537] molti dei sostentori
[538] hanno dovuto convenirne
[539] non sarebbe sensibile
[540] giungere
[541] tuttavia
[542] Sempre: sieno
[543] poetico, tragedie non conosciute che per la
[544] risultano
[545] sono essi pure
[546] L’inconvenienza
[547] Sempre: quistione
[548] sembrare
[549] Ricorderò
[550] a questi le parole usate in un caso consimile da un eccellente scrittore:
[551] Nondimeno io stimo che
[552] come cosa
[553] Egli è
[554] Quasi sempre: ad una
[555] sopra di ciò alcun dubbio
[556] appellazioni
[557] il cui
[558] l’uno
[559] che essi
[560] a disfavore di tutta in genere la poesia drammatica.
[561] Parmi
[562] fuori di
[563] ed esente
[564] io aveva in animo
[565] mi sembra
[566] opposta
[567] compongono
[568] sembrare
[569] enigma
[570] poscia
[571] violenti
[572] talvolta
[573] sembrato
[574] nella idea
[575] toglie loro una
[576] farveli
a) «Sono differenti in questo (l’Epopea e la Tragedia), che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa, e formata di lunghezza; e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l’Epopea è smoderata per tempo, ed in ciò è differente dalla Tragedia». Traduzione del Castelvetro.
b) Corso di Letteratura drammatica, Lezione X.
c) Batteux, Principes de la littérature, Traité V, chap. 4.
d) Marmontel, Éléments de littérature, art. Unité.
e) Batteux, l. c.
f) Fleury, Mœurs des Israélites, X.
g) Altre circostanze non hanno permesso all’autore di mantenere questa promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito. Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à M.r Ch..... sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta l’argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso. Supposizione venuta dall’aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò ch’era un fatto speciale de’ drammi esaminati da loro, e della quale la più parte de’ drammi immortali de Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica.—[Questa nota, s’intende, è stata aggiunta nell’edizione del 1845. Ma vedi più avanti i Materiali estetici, dov’è pur pubblicato quanto altro il Manzoni aveva buttato giù intorno alla questione della moralità nelle opere tragiche.—Sch.].
h) Corso di Letteratura drammatica, Lezione III.
Francesco di Bartolommeo[577] Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli[578], che ne scrisse la storia[579] nella Biografia Piemontese, crede che sia stato[580] verso il 1390. Mentre ancor giovinetto[581] pascolava delle pecore[582], l’aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui[583] alla guerra. Egli lo seguì volentieri,[584] e si mise[585] con esso al soldo[586] di Facino Cane, celebre condottiero.
Qui la storia del Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa se non[587] i fatti principali, e particolarmente quelli[588] che sono accennati o rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati[589] così diversamente dagli storici, che è impossibile[590] formarsene e darne una opinione, certa ed unica: tra le relazioni[591] spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse[592] più verosimili, o sulle quali gli scrittori vanno più d’accordo.[593]
Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca di Milano (1412), il di lui fratello[594] Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito[166] dal loro padre[595] Giovanni Galeazzo, s’era[596] sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo.[597] Molte città s’erano[598] ribellate, alcune erano tornate in potere de’ loro antichi[599] signori, d’altre s’erano fatti padroni i condottieri[600] stessi delle truppe ducali. Facino Cane, uno di questi[601], il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s’era[602] formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che[603] Giovanni Maria fu ucciso da’ congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute[604] da lui, e de’ suoi militi.
Era tra essi il Carmagnola, e ci[605] aveva già un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò[606] il figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n’era impadronito, e[607] lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase ucciso. Il Carmagnola si segnalò tanto in quest’impresa, che fu nominato condottiero dal Duca[608].
Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in poco[609] tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo[610], che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate», per servirmi delle parole di Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessaa), e colla fede e col valore del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnuovo; sposò Antonietta Visconti parente di esso[611], non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo chiamato ancora[612] del Broletto.
L’alta fama dell’esimio condottiero[613], l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de’ suoi servizi[614], gli alienarono l’animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e l’avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e levato[615] così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi: e ben s’accorse, dice il Biglib), che questo era un consiglio[616] de’ suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta nè alle lagnanze, nè alla domanda espressa d’essere licenziato dal servizio[617], il Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare col Principe. Questo[618] dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì[619] con sorpresa dire[620] che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca, ebbe in risposta ch’era[621] impedito, e che[622] parlasse con Riccio. Insistette[623], dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera[624], gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto[625] si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta[626] al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti[627] con sè, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non arrivarlo[628].
Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanesec).
Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno 23 di febbraio[168] del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio[629] della Repubblica con 300 lanced).
I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro[630] il Duca Filippo, chiedevano[631] l’alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perchè volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d’ammazzare il[632] Carmagnola, purchè gli fosse concesso di ritornare a casa[633]. La trama fu sventata, e levò[634] ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo[635] consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati d’Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno[636] 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di[637] terra della Repubblica; e il 15[638] gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all’altare di san Marco.
Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali[639] alla tragedia.
«Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile»e). Papa Martino V s’intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa[640] la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise[641] per la prima volta in uso un suo ritrovato[642] di fortificare il campo[169] con un doppio recinto[643] di carri, sopra ognuno de’ quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa d’alcune terre, s’accampò[644] sotto il castello di Maclodio, ch’era difeso[645] da una guarnigione duchesca.
Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccininof). Essendo nata[646] discordia tra di loro[647], il giovine[648] Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l’ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando dato[649] al Malatesti non bastò a levar di mezzo[650] la rivalità de’ condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d’ubbidire[651] al Carmagnola, benchè avesse sotto di sè[652] condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne[653] profitto. Attaccò Maclodio, in[654] vicinanza del quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata, a guisa d’argine: e tra le paludi s’alzavano qua e là delle macchie poste su un[655] terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati[656], e si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco[657] meno. Ma l’opinione che pare più comune[658], è che il Pergola e il Torello, sospettando d’agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo[659]. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto. Appena[660] il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra[661] dall’imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche[170] lui[662]; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell’altra[663], si sottrassero.
Un figlio[664] del Pergola si trovò tra i prigionieri.
La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano l’esercito[665], ne fecero delle lagnanze col[666] Conte; il quale domandò a qualcheduno de’ suoi cosa fosse avvenuto de’ prigionieri[667]; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi[668] in libertà, meno un[669] quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati[670], secondo l’usog).
Uno storico che non solo scriveva in que’ tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest’uso militare d’allora. Egli l’attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi[671] gridare dai popoli: alla zappa i soldatih).
I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione[672]. Infatti, prendendo[673] al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che[674] farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non[675] potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno d’opporsi a un’usanza[676] così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d’ogni appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui[677] la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s’accorda solamente[678] a una causa che s’abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che dopo le prime osservazioni de’ commissari, la Signoria[679] abbia fatte[680] col Carmagnola altre lagnanze su[681] questo fatto: non si parla anzi che d’onori e di ricompense.
Nell’aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un’altra di quelle solite paci.
La guerra risorta[682] nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il[683] Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola. Questo ci[684] andò con una parte dell’esercito[685], e cadde[686] in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento[687] cavalli e molti fanti, salvandosi lui[688] a stento.
Pochi giorni dopo, Nicola[689] Trevisani, capitano dell’armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca[690]. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare[691] il Carmagnola, lo rattennero[692] dal venire in aiuto[693] all’armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di[694] terra sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola s’avvide dell’inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino all’altra[695] riva. L’armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in una barchetta.
Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento.[696] Gli storici che non hanno preso[697] il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che[698] d’essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio[699], e irresoluta nella battagliai). Fu[700] bandito, e gli furono confiscati i[701] beni; «e al capitano generale (Carmagnola)[702], per imputazione di non aver dato favore all’armata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensionej)».
Il giorno 18 d’ottobre[703], il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de’ suoi condottieri, di sorprender Cremona. Questo riuscì a occuparne una[704] parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette[705] abbandonare l’impresa, e ritornare al campo.
Il Carmagnola non credette a proposito d’andar[706] col grosso dell’esercito a sostenere quest’impresa; e mi par[707] cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria[708]. La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perchè il generale[709] non si sia ostinato a combattere una città che[710] sperava d’occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacchè non si sa vedere perchè il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu d’alcun vantaggio per il nemico.[711]
Ma la Signoria, risoluta, secondo l’espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse[712] averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta[713] nè più sicura, che[714] d’invitarlo a Venezia col[715] pretesto di consultarlo sulla pace. Ci[716] andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui e al Gonzaga che l’accompagnava.[717] Tutti gli storici, anche veneziani[718], sono d’accordo in questo[719]; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato[720] a Venezia, «gli furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch’egli smontasse a casa sua, che l’accompagnarono a San Marcok)». Entrato che fu[721] nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo e condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il[722] giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e[723] decapitato. La moglie e una figlia[724] del Conte (o due figlie[725], secondo alcuni) si trovavano allora in Venezia.
Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani[726], che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole[727]. Essi esprimono quest’opinione[728] come una cosa di fatto[729], e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adottato[730] è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla.
Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la[731] reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere[732] improbabile. Nè i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; nè d’altra parte s’è saputo mai nulla d’un tale trattato. Quest’accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi[733] inoltre all’essere il Conte andato[734] a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni; si badi all’aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la[735] taccia d’ingratitudine e d’ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi[736] alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto s’adoprava[737] con uno che non era veneziano, e[738] non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente[739] al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l’uno e l’altro ripugnano alla supposizione d’un trattato di questa sorte tra di loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e[174] che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di[740] lasciarsi battere, non s’accordano con l’animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva meglio d’ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente[741] a quell’uomo che aveva esperimentate[742] le retribuzioni di Filippo beneficato.
Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d’un’opinione[743] pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta[744] ha voluto far prevalere[745]; ed ecco ciò che n’ho[746] potuto raccogliere[747].
Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine de Carmagnola, soggiunge: «Dissesi che questo hanno fatto perchè egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s’intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano d’un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perchè par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milanol)».
E il Poggio: «Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna[748]; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tuttim)».
Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così[749]: «Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro».
Senza dar molto peso a quest’ultima congettura, mi pare[750][175] che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato.[751]
Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch’io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito[752] da una giusta sentenza. Questo[753] è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser[754] convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui[755] voluto informarsi esattamente de’ fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue parole: «O foss’egli allontanato, per una ripugnanza dell’animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss’egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427.... Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poichè trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia.... come reo di alto tradimento». Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d’un uomo un giudizio segreto di que’ tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l’iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a’ suoi lettori. In quanto[756] al fatto[176] de’ prigionieri[757], ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti[758] i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perchè di questi non fu[759] preso che il Malatesti, e fu[760] ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perchè si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un’usanza comune[761].
La sorte del Carmagnola fece un gran rumore[762] in tutta l’Italia; e pare[763] che in particolare i Piemontesi la sentissero più[764] acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.[765]
Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d’un loro agente in Milano, il quale era venuto a sapere[766] «che un Carlo Giuffredo, piemontese, che si trovava fra i Segretari di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotton)».
Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di[767] questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d’Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s’è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l’aver supposto accaduto in Venezia l’attentato contra[768] la vita del Carmagnola, quando in vece accadde[769] in Treviso.
[577] Bartolomeo
[578] L’anno della sua nascita non è noto: il signor Tenivelli
[579] vita
[580] la pone
[581] giovanetto
[582] gli armenti
[583] seco lui
[584] volontieri
[585] pose
[586] agli stipendj
[587] che
[588] quelli singolarmente
[589] narrati
[590] Così nell’ediz. del 1820, come nell’altra del 1845, qui era inserito l’inciso: , a chi li [o la] raccoglie dai loro scritti,
[591] lezioni
[592] sembrate
[593] o le più universalmente seguite.
[594] il fratello di lui
[595] padre loro
[596] erasi
[597] nella minorità pessimamente tutelata, e nel debole e crudele governo di Giovanni.
[598] eransi
[599] alcune tornate in potere di antichi
[600] generali
[601] essi
[602] avevasi
[603] nel giorno stesso, in cui
[604] e si trovò signore delle città tenute
[605] vi
[606] espulse
[607] Manca l’e.
[608] dal Duca nominato generale.
[609] Nell’ediz. del ’20 e del ’45: breve
[610] questi
[611] di Filippo
[612] tuttavia
[613] Generale
[614] servigi
[615] tolto
[616] era questo consiglio
[617] servigio
[618] Questi
[619] udì
[620] dirsi
[621] che questi era
[622] ch’egli
[623] Insi tette egli
[624] che egli vedeva dalle balestriere
[625] bentosto ei
[626] diè di volta
[627] condotto
[628] stimò bene di non raggiungerlo.
[629] servigio
[630] contra
[631] sollecitavano
[632] l’uccisione del
[633] il ritorno in patria.
[634] tolse
[635] questi
[636] Agli
[637] da (ma cfr. pag. 186)
[638] ed ai 15
[639] servito di argomento
[640] chiusa
[641] pose
[642] trovato
[643] cinto
[644] venne egli a campo
[645], tenuto
[646] venuta la
[647] fra di essi
[648] giovane
[649] accordato
[650] a togliere
[651] ripugnava l’obbedire
[652] benchè sotto di lui comandassero
[653] trarne
[654] nella cui
[655] di un
[656] pose agguati in queste
[657] non lo sono
[658] sembra avere più sostenitori
[659] ad ogni modo.
[660] Come appena
[661] da ambo i lati
[662] anch’egli
[663] chi in un modo, chi nell’altro
[664] figliuolo
[665] L’inciso mancava nell’ediz. del 1820.
[666] lagnanza al
[667] egli richiese che fosse avvenuto dei prigioni
[668] posti
[669] fuorchè
[670] questi pure si rilasciassero
[671] udirsi
[672] nel che mi pare avessero il torto.
[673] Perchè, pigliando
[674] ch’egli
[675] nè
[676] che egli si attentasse di riformare un uso
[677] da esso
[678] soltanto
[679] il Governo Veneto
[680] mosse
[681] lamentanze per
[682] Nell’ediz. del 1820: rotta di nuovo; corresse nell’ediz. del 1845: ricominciata.
[683] teneva Soncino pel
[684] Questi vi
[685] di truppa
[686] diede
[687] seicento
[688] egli
[689] Nicolò
[690] Duca di Milano.
[691] con finte disposizioni d’attaccare
[692] Ediz. 1820: ritennero; 1845: trattennero
[693] soccorso dell’
[694] da
[695] Ediz. ’20 e ’45: presso l’altra
[696]Ediz. ’20 e ’45: di aver patteggiato col nemico, ch’egli non verrebbe in soccorso delle [che non avrebbe soccorse le] navi.
[697] pigliato
[698] gli uccisori di lui, sembrano piuttosto dargli taccia
[699] dapprima
[700] Egli fu
[701], furono confiscati i suoi
[702] La parentesi manca nell’ediz. del 1820.
[703] Nel giorno 18 ottobre
[704] Questi se ne impadronì d’una
[705] egli dovette
[706] Ediz. 1820 e 1845: l’andar
[707] sembra
[708] dal Governo veneto.
[709] egli
[710] che egli
[711] spedizione: e questa, se fu inutile ai Veneziani, non fu loro d’alcun danno, essendo ritornato al campo il drappello che l’aveva invano tentata.
[712] pensò al modo di
[713] uno migliore
[714] che quello
[715] sotto
[716] Egli vi
[717] sì a lui, che a Giovanni Francesco Gonzaga ch’egli si aveva tolto per compagno.
[718] veneti
[719] in ciò d’accordo
[720] Giunto
[721] Quando egli fu introdotto
[722] nel
[723] ed ivi
[724] figliuola
[725] figliuole
[726] veneti
[727] avrebbero affermata la seconda opinione.
[728] Essi la esprimono
[729] una certezza
[730] adoperato
[731] dieno prove della,
[732] apparire
[733] ponga mente
[734] all’andata del Conte
[735] si ponga mente al mistero tenuto sempre dal Governo veneto a malgrado della
[736] ponga mente
[737] si usava
[738] un militare non veneziano che
[739] si ponga mente per ultimo
[740] un patto di agir lentamente, di
[741] in capo
[742] provate
[743] di opinione
[744] il Governo veneto
[745] voluto stabilire
[746] ho
[747] raccoglierne
[748] di sorta:
[749] così dice:
[750] mi sembra
[751] apposto.
[752] percosso
[753] Questi
[754] Nell’ediz. 1820: essere tosto; 1845: esser subito.
[755] egli
[756] Quanto
[757] prigioni
[758] tutti i generali e
[759] non ne fu
[760] e questi fu
[761] quando esiste il fatto che essa fu dettata da una costumanza di guerra.
[762] grande strepito
[763] sembra
[764] assai
[765] Nell’ediz. del 1820 era qui il segno della nota.
[766] aveva inteso
[767] ma per mostrare quale era l’importanza che si dava a
[768] Questo contra si è salvato!
[769] ebbe luogo
a) Filippo la fece decapitare come rea d’adulterio con Michele Orombelli. Il più degli storici la credono innocente.[770]
b) Hist., lib. 4; Rer. Ital. script., t. XIX, col. 72.
c) Tutto questo racconto è cavato[771] dal Bigli.
d) Sanuto, Vite dei duchi di Venezia; Rer. Ital., XXII, 978.
e) Machiavelli, Ist. Fior., lib. 4.
f) Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio. La storia stessa ha suggerito questo cambiamento[772]; giacchè[773] il Piccinino era nipote di Braccio Fortebracci, e dopo la morte dello zio fu capo de’ soldati della fazione Braccesca.
g) Istos quoque jubeo solita lege dimitti. Bigli, lib. 6.
h) Ad ligonem stipendiarii. Chron. Tarv.; Rer. Ital., XIX, 864.
i) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò Trevisano, che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato, gli Avvogadori di Comune andarono al consiglio de’ Pregadi, e messero di procedere contro di lui, per essere stato rotto in Po da’ galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato, in vitupero del Dominio, e per non aver fatto il suo dovere, immo vilissime essersi portato; immo perchè andò pregando gli altri che fuggissero via.—Sanuto, Rer. Ital., XXII, 1017.
j) Navagero, Stor. Ven.; Rer. Ital., XXIII, 1096.
k) Sanuto, Rer. Ital., XXII, 1028.
l) Cronica di Bologna; Rer. Ital., XVIII, 645.
m) Poggii, Hist., lib. 6.
n) Rivoluzioni d’Italia, lib. 20, cap. I.
[770] Il più degli Storici crede che questa colpa le fosse apposta calunniosamente.
[771] estratto
[772] suggerita questa mutazione
[773] dacchè
[774] Prigioni
Sala del Senato, in Venezia.
IL DOGE e SENATORI seduti.
[775] Nobil’Uomini
[776] Ormai non verrò più notando i fra, dei, colla, premj, principj, erarj, sajo, gioja, ecc., cui sono stati costantemente (ma qui sopra è sfuggito un fra loro, e a pag. 203 un fra noi!) sostituiti: tra, de’, con la, premi (sic), princìpi, erari, saio, gioia, ecc.
[777] e quel che monta Forse ancor più
[778] questi
[779] fia
IL CONTE, e DETTI.
[780] chiegga
[781] picciol
[782] cuore
[783] cuor
[784] scelsi
[785] quei
[786] ch’io
[787] Sapiente giudicio
[788] Dei beneficj
[789] Fin ch’io
[790] cacciò del
[791] vuoti
[792] Ediz. 1820 e ’45: su l’armi
[793] e tostamente un guardo
[794] nuove
IL DOGE, e SENATORI.
[795] Così era anche nelle “Notizie storiche„; ma corresse di terra; cfr. pag. 168 e 171.
[796] chieggio
[797] lagno?
[798] risentirsi?
[799] veggio
[800] gittò
[801] chieggio
Casa del Conte.
MARCO, e il CONTE.
Fine dell’atto primo.
[802] che nunzio
[803] sieno
[804] Nuocer
[805] non curanza,
[806] Anco
[807] scuola
[808] disbrigarli
[809] Anche questo contra è rimasto! Cfr. pag. 176.
[810] risuoni?
Parte dal campo ducale con tende.
MALATESTI e PERGOLA.
SFORZA, FORTEBRACCIO, e DETTI.
TORELLO, e DETTI.
[822] nuovo
[823] Qui Colla: più giù con gli.
[824] Dirovvel’io.
[825] Ripigliar
[826] coll’occhio
[827] sovra
[828] Ufficio
[829] il
[830] Nell’ediz. 1820 e ’45: Donde
[831] accaggia
[832] deggio
[833] veggia
[834] Piglia
[835] quei
[836] v’acconsento
Campo veneziano. Tenda del Conte.
IL CONTE, un SOLDATO.[837]
[837] poi un Soldato che sopraggiunge.
IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO, altri CONDOTTIERI.
Fine dell’atto secondo.
[844] Qui era una nota: Vedasi la Prefazione, a pagina [161].
[845] qual’è?
[846] Sovra. Altrove lascia sovra; cfr. pag. 247.
[847] Scalpitare
[848] Rendon
[849] muor.
[850] romor.
[851] risuona
[852] cuori
[853] giuochi
[854] Ove
[855] giudicio
[856] qual’ora
[857] lo infrange
Tenda del Conte.
IL CONTE e il PRIMO COMMISSARIO.