Title: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea
Author: Bertrando Spaventa
Editor: Giovanni Gentile
Release date: July 21, 2019 [eBook #59958]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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BERTRANDO SPAVENTA
LA FILOSOFIA ITALIANA
NELLE SUE RELAZIONI
CON LA FILOSOFIA EUROPEA
NUOVA EDIZIONE
CON NOTE E APPENDICE DI DOCUMENTI
A CURA DI
GIOVANNI GENTILE
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1908
PROPRIETÀ LETTERARIA
A NORMA DELLE VIGENTI LEGGI
Stampato in Trani, coi tipi della Ditta Tipografica Editrice Vecchi e C.
[v]
Questo libro, che ora si ristampa con note e un'aggiunta di lettere dell'autore e di suo fratello Silvio, utili a illustrarne l'origine e gl'intenti, vide la luce in Napoli nel 1862 col titolo di «Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre — 23 dicembre 1861»[1]. Titolo troppo generico, almeno oggi, e però mutato nella presente edizione in quello suggerito dallo stesso soggetto del libro: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea. Nel '62, infatti, a Napoli, contro i filosofanti giobertiani e nazionalisti, avversarii dell'insegnamento hegeliano inaugurato quell'anno nell'Università, il titolo scelto dallo Spaventa aveva un evidente significato, che s'è andato poi via via oscurando sempre più, mentre quell'Università è diventata quel che è diventata; al punto che esso ora potrebbe forse suonare rimprovero o ironia.
[vi]
Pure, la situazione spirituale della cultura italiana, nella quale il libro sorse, non si può dire sostanzialmente diversa dalla presente. E però il libro, rispondendo al desiderio di molti, dopo circa mezzo secolo ritorna alla luce. I giobertiani sono tutti spariti; e non c'è più nessuno forse che abbia la fisima della filosofia nazionale. Ma tutti intanto tornano a guardare, — come mezzo secolo fa a Napoli, — con animo tra curioso e ansioso, ad Hegel; e molti, sgomenti delle difficoltà con cui questi si presenta sempre alle menti più solide e più vigorose, invocano uno Spaventa che mostri la via di pervenire all'intelligenza della parte vitale di quella dottrina, e di sperimentarne e gustarne la verità. Al luogo dei giobertiani ci saranno i positivisti, i prammatisti, i neo-spiritualisti e altri e altri sbandati della filosofia, dai quali questa deve ogni giorno difendersi, con la storia alla mano, dimostrando i proprii diritti acquisiti. In vece dei nazionalisti ci sono altri avversarii, che, come quelli pretendevano la marca nazionale, non s'acconciano a prendere sul serio e mettersi a studiare una filosofia se non ci vedono la marca scientifica: rappresentanti questi come quelli della pigrizia e dell'inerzia intellettuale e morale, di cui non v'ha ostacolo più grave a chi voglia rianimare con le intuizioni profonde e sincere della vita gli studi e lo spirito d'una nazione. E così, mutatis mutandis, la questione che importa, oggi come nello scorcio del 1861 quando lo Spaventa si riprometteva, iniziando [vii] il suo insegnamento a Napoli, di promuovere di là un profondo risveglio speculativo nel nostro paese, è la stessa: giustificare il punto di vista della filosofia come sapere assoluto. Oggi muterebbe il linguaggio dello Spaventa; ma egli potrebbe tornare a scrivere lo stesso libro, solo inserendovi in mezzo qualche capitolo relativo alle tendenze filosofiche apparse in Italia più tardi, e da lui criticate in altri scritti posteriori.
Giacchè il problema dottrinale preso a trattare in questo libro assume una forma storica, che può parere a molti il lato più importante di esso, poichè ne riesce disegnata in iscorcio una storia — l'unica storia che finora si abbia — della filosofia italiana ne' suoi momenti principali. E realmente l'interesse storico non è qui in seconda linea. Per lo Spaventa, infatti, tutta la storia della filosofia italiana, — da lui già abbozzata un anno innanzi in una prolusione letta a Bologna[2] — si raccoglie appunto nelle dieci lezioni d'Introduzione da lui fatte nel primo mese del suo insegnamento napoletano, condensandovi tutti i suoi studi precedenti su Bruno, Campanella, Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti. La Prolusione precedente è un'introduzione a questa storia. Lo Schizzo d'una storia della logica (da lui denominato nella prima edizione semplicemente: Appendice alla Introduzione) serve di [viii] schiarimento ai succosi cenni intorno alla filosofia tedesca più recente, che gli erano occorsi nella storia di quella italiana, rappresentata, com'era giusto, nel suo nesso storico con tutta la filosofia europea.
Se non che l'interesse storico, come lo sentiva lo Spaventa, non era diverso dallo stretto interesse scientifico. Il libro pare una polemica, ed è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè vera e propria filosofia. La polemica c'è; ma si riduce al colorito letterario del libro, per intendere il quale bisogna riferirsi alle condizioni della cultura italiana, e specialmente napoletana, dopo il rinnovamento di quella Università operato in quell'anno dal De Sanctis[3]. Ma, guardando alla sostanza delle cose esposte, è facile accorgersi, che quando l'autore cerca nel Risorgimento i primi germi della filosofia moderna, e ne studia i primi lineamenti nel soggettivismo di Campanella e nel naturalismo di Bruno, vedendo anticipati quasi, in Italia, Cartesio e Locke da una parte, e Spinoza dall'altra; e quando scruta in Vico gli oscuri accenni a una filosofia dello spirito, non semplicemente critica, come sarà in Kant, ma metafisica, quale sarà in Hegel, e così vede pronunziato in Italia tutto quasi il nuovo mondo del pensiero moderno, che, formatosi a sistema in Germania, è poi il mondo dei nostri Galluppi, Rosmini, Gioberti; è facile accorgersi che l'autore non pensa più che [ix] tanto ai piccoli avversarii tumultuanti nell'aula affollata delle sue lezioni, ma ha innanzi la storia del pensiero moderno europeo, che indaga con tutta serietà di spirito per ricostruirne, a sè prima che ad altri, il procedimento vero e necessario.
Il libro era sorto nella mente dell'autore prima ancora della speranza d'una cattedra lì a Napoli, dove nel 1847 gli era stato chiuso dal Governo uno studio privato; era sorto in un periodo di fervore spirituale in cui egli sentì il bisogno di fare i conti con la filosofia italiana recente, già per molti anni spregiata[4]. In una lettera del 13 maggio 1857, sollevando il fratello dalla noia mortale dell'ergastolo, dove Silvio divideva da otto anni col Settembrini la fiera compagnia degli assassini, gli annunziava[5]: «Mi apparecchio a scrivere qualche cosa di meglio, o di peggio, delle cose scritte sinora». Voleva scrivere un lavoro sulla Fenomenologia di Hegel, che leggeva e rileggeva, vedendoci sempre più addentro. «Una critica della filosofia italiana moderna non mi pare che possa essere veramente utile senza la soluzione, e se non nella soluzione, del problema della fenomenologia. Ciò che ti negano sempre, è il sapere assoluto. Bisogna dunque elevarsi a questo sapere, e mostrare, nel tempo stesso, che i principii delle loro filosofie sono inferiori — e perciò [x] gradi che debbono essere negati — a quello della filosofia hegeliana... Chi sa se potrò riuscire, almeno in parte!». E il 13 luglio dello stesso anno tornava a scrivergli, chiarendo meglio il concetto del suo nuovo lavoro: «Ti ho detto... che lavoravo intorno alla Fenomenologia, e che il difficile non era solamente il comprendere il concetto e il metodo di essa, ma anche il trovare una radice nella nostra filosofia, un punto d'appoggio per tutta la critica. Ora ho tra le mani questi filosofi, compreso il Galluppi, e credo d'aver trovato questo punto... Cos'è la coscienza in generale, che è l'oggetto della Fenomenologia? In Rosmini, Galluppi, ecc. dove posso trovare la coscienza sensibile, che è il punto da cui comincia la Fenomenologia? L'ammettono essi, come l'ammetteva Hegel? Se l'ammettono, a me non fa nulla che da questo punto vadano a risultati diversi; la battaglia e la critica sarà appunto intorno a ciò che bisogna farne di questo punto comune per la soluzione del problema, che più o meno è lo stesso per tutti: la verità del sapere». E si mostrava assai soddisfatto della scoperta fatta dell'identità della certezza sensibile hegeliana (unità di universale e di particolare: ist da) con la sensazione del Galluppi e con la percezione intellettiva del Rosmini. In una lettera successiva, dell'11 ottobre 1857, aggiungeva che la critica, che aveva in animo di scrivere dei filosofi italiani, doveva essere «un saggio da mettere nella introduzione» del suo lavoro sulla Fenomenologia: per «far vedere [xi] i vizii delle teoriche sulla conoscenza dei nostri filosofi; come non bastino a se stesse e vogliano un altro modo di soluzione ecc.; quindi la necessità... della fenomenologia».
Ma via via che ristudiava questi filosofi, trovava sempre altro. E il 25 gennaio del '58 tornava a scrivere: «Continuo a lavorare sui filosofi nostri, e vedo o credo di vedere tante cose che sarebbe lungo dirti». Finì per addentrarsi in una lunga critica del Gioberti. A un tratto aprì una parentesi «sul problema della cognizione, e in generale dello spirito, senza distinguere l'umano e il divino. Come è possibile lo spirito? Rispondono: è possibile perchè così l'ha fatto Dio. Come vedi, non è una risposta. Io domando da capo: come è possibile lo spirito (cioè Dio)? Questo è il problema nuovo della filosofia: il problema della filosofia tedesca. E mi pare che sinora la migliore soluzione è l'hegeliana... Non so se quello che ho scritto va bene interamente; in certi punti mi sono incontrato con Hegel; in certi altri non so bene ancora se sì o no» (lettera 8 marzo 1858). — Chiusa questa parentesi, che non fu mai pubblicata, ma di cui è facile rintracciare le idee nel presente volume, di nuovo a Gioberti. Ma le Postume di questo filosofo, da poco venute in luce (1856-57), e allora lette dallo Spaventa, giovarono a mutare la sua disposizione spirituale verso questo filosofo e il movimento speculativo, di cui esso era quasi la conclusione; e mutò quindi il suo apprezzamento e il suo concetto di questo movimento. L'8 febbraio [xii] 1858, rileggendo il vecchio Gioberti, diceva al fratello: «È inutile che ti ripeta che non mi piace affatto, anzi mi dispiace sempre più. Di filosofico non c'è nulla, meno un contenuto farraginoso, che al far de' conti si trova poi in ogni sistema, anche nella stessa rappresentazione religiosa. E infatti il suo sistema non è che una continua rappresentazione: è una filosofia rappresentativa». Il 2 settembre dello stesso anno, invece: «Mi sono un po' riconciliato con quest'uomo. Negli ultimi suoi scritti (postumi) si spoglia di molte imperfezioni, che trovavo nella prima forma del suo sistema; ed è curioso vedere questo sviluppo come una specie di critica che il suo pensiero fa di se stesso». E, a rifletterci bene, riconosceva che «già qualche germe del nuovo ci è nella prima forma, ma inviluppato e nascosto». Pure, nè anche la nuova forma del sistema del Gioberti poteva bastare. In lui manca sempre la scienza, ossia il vero e proprio sistema. Procede per aforismi. «Ma se ne può cavare gran bene, perchè il contenuto è profondamente speculativo. Bisogna esprimere il suo pensiero nella sua vera forma e mostrare che certe determinazioni estrinseche, che egli stesso ha abbandonato poi necessariamente in gran parte, sono in contradizione cogli stessi suoi principii speculativi».
Questa rivelazione delle Postume giobertiane venne così a modificare il disegno del lavoro, che il nostro filosofo aveva in mente. Lo studio di questo nuovo Gioberti assumeva tale proporzione [xiii] e importanza, che quella critica dei filosofi italiani la quale doveva essere solo una parte polemica dell'introduzione al suo lavoro, potè diventare atta per se stessa a servire di propedeutica alla scienza, e di propedeutica appropriata all'Italia, quale avrebbe dovuto essere il lavoro sulla Fenomenologia, che non fu più scritto. Poichè la nuova forma del sistema di Gioberti offriva il modo di dimostrare la necessità di tutto il processo fenomenologico, che conduce la coscienza al grado della scienza assoluta, ossia al punto di vista hegeliano, — che era il fine propostosi dallo Spaventa. E raccostati i nuovi studi sulla filosofia italiana del sec. XIX a quelli, che negli anni 1854 e 55 aveva pubblicati intorno al Bruno e al Campanella, egli potè scorgere quasi intera l'immagine del nostro pensiero intrecciato col moto generale della speculazione europea: donde quella formola della circolazione del pensiero italiano, che designa uno dei resultati maggiori e delle più incontestabili benemerenze degli studi di lui. Il quale pervenne, adunque, a questo concetto della filosofia italiana con indagini del tutto spregiudicate e scevre d'ogni preoccupazione polemica.
Tuttavia, tra le prime mosse del pensiero nel Risorgimento e l'ultima sua tappa nel sec. XIX, restava nella solitudine del decimosettimo e decimottavo secolo, — che allo Spaventa apparivano quasi il periodo dell'esilio del pensiero dal nostro paese, — restava, torreggiante, misteriosa, [xiv] la Scienza Nuova. Ma, quando per la prolusione di Bologna, egli volle rappresentare in un quadro completo il carattere e lo sviluppo della filosofia italiana dal Risorgimento in poi, e ristudiò con nuova intensità d'attenzione il suo Vico già lungamente meditato, questi gli parve irraggiare una gran luce in quel momento critico del pensiero europeo, in cui il vecchio dommatismo (l'antica metafisica dell'essere) privo com'era del concetto di sviluppo, fatte le ultime prove con la monadologia, stava per dissolversi esausto nello scetticismo di Hume, per cedere quindi il campo a quel criticismo, che doveva iniziare una metafisica, non più dell'essere che è immediatamente se stesso (natura), ma dello spirito che si fa gradualmente da sè e per se stesso. Fu allora che il Vico gli apparve il precursore di questo nuovo mondo col suo concetto dello spirito come sviluppo, insieme con quello dell'unità della Provvidenza divina e dell'umana, oscura affermazione dell'esigenza moderna d'una metafisica, per cui la natura, opera di Dio, non fosse altro dalla storia, opera della mente, e unico fosse perciò lo sviluppo, e la natura grado dello spirito. — La storia della filosofia italiana fu così per lo Spaventa conchiusa: ed era una storia che confortava, con la forza d'un procedimento razionale, ineluttabile, ad abbracciare il risultato principale della filosofia tedesca moderna, come l'effetto di un'opera a cui tutte le nazioni europee avevano collaborato.
Ma era questa una semplice conclusione storica? [xv] Posto che l'interpretazione che lo Spaventa faceva dei nostri filosofi fosse esatta, ne seguiva per ciò che l'ultima loro conclusione fosse vera? Può insomma la storia essere addotta ad argomento di verità d'una filosofia? O voleva la ricostruzione dello Spaventa riuscire una revisione di titoli per stabilire l'esatto albero genealogico della filosofia italiana? — Certo, la storia, come semplice fatto, non prova nulla. Ma è mai la storia un puro e semplice fatto? Ecco una vecchia questione, la quale è però tutt'altro che chiusa, e può, male intesa e mal risoluta, impedire l'esatta intelligenza dell'indole e del valore di questo libro. Intanto giova ricordare che lo Spaventa si trovava innanzi la Fenomenologia hegeliana, che è anche una storia della filosofia, anzi, nel suo complesso, una filosofia della storia, o dimostrazione della razionalità dell'intero processo storico dello spirito umano (Weltgeist): onde tutti i sistemi, come tutti i momenti della civiltà, son presentati quasi gradi necessarii, attraverso i quali lo spirito è passato (o meglio passa eternamente) per conquistare la piena coscienza della propria assoluta attività creativa. Ma, poichè non c'è storia della filosofia che possa assumere la forma d'un registro delle opinioni succedutesi nelle teste dei pensatori (anche nei cataloghi dei vecchi dossografi c'era un disegno e una critica); la stessa legge intrinseca della storia della filosofia doveva condurre lo Spaventa a concepire la sua costruzione storica come una dimostrazione scientifica di [xvi] quello che gli pareva il principio definitivo raggiunto dalla storia. La legge è che la filosofia e la storia della filosofia sono, astrazion fatta dalle accidentalità letterarie e dal peculiare interesse degli autori, la stessa cosa; così come il razionale è lo stesso reale, e viceversa. Attraverso la storia, e attraverso il divenire (la guisa del nascimento) non possiamo non veder sorgere ed affermarsi la natura dello stesso reale. E per quanta poca fede si abbia nella razionalità della storia, non si può a meno di rappresentarcela, questa storia, secondo quel tanto di razionalità che siamo disposti ad attribuirle, cioè appunto secondo la razionalità della nostra filosofia. Lo scettico, si sa, è dommatico a suo modo; e se fa la storia, ci mette dentro quel suo duro arido dommatismo, che è scetticismo, nè più nè meno del dommatico. In breve, a questa legge, poichè è una legge, nessuno può sottrarsi: e l'eccellenza dello storico, il suo vigore speculativo, la sua mente animatrice e ricostruttiva si scorgono dal grado in cui egli riesce a realizzare tal legge. Orbene: in questo libro dello Spaventa, se si cancellassero i nomi de' varii filosofi menzionati, e si considerassero le rispettive posizioni progressive come ipotetiche, si avrebbe, anche nella forma, un'opera filosofica libera d'ogni carattere storico. Soltanto del Bruno la commozione suscitata nell'animo dello scrittore dal destino dell'eroe del pensiero, dell'araldo e martire della nuova e libera filosofia, move la sua penna a sbozzarne con pochi tratti da maestro [xvii] il carattere morale. Pure anche quello, più che il ritratto di una persona realmente vissuta, lo diresti l'ipotiposi dell'ideale del filosofo vagheggiato da Bertrando Spaventa nella ricchezza della sua vita morale.
Si dirà perciò che questa storia, — succinta, quasi scheletrica, perchè rimasta nella forma primitiva di appunti per le lezioni; ma sicura, felice e definitiva nel disegno e nelle singole caratteristiche, — non sia propriamente una storia, anzi una costruzione ideale? — Qualche volta infatti questa storia è stata giudicata così: ma è un giudizio che si può ritenere a priori per falso, poichè muove, in fondo, dal disconoscimento della suddetta legge della storia della filosofia. Pure contiene anch'esso una parte di verità, di cui bisogna rendersi conto. Ed è questa: che di storie della filosofia ce ne ha, almeno, due: una che pare abbia ad oggetto, come questa dello Spaventa, soltanto le idee dei filosofi, anzi dello spirito filosofico, unico attraverso il tempo e lo spazio; l'altra che pare abbia ad oggetto anche i filosofi diversi con le loro rispettive biografie connesse con le cangianti condizioni della civiltà, in mezzo a cui essi si formarono. Ma ho detto «pare»; perchè nel primo caso le idee dei filosofi si sa bene che sono i filosofi, la cui vera individualità storica consiste appunto nel pensiero che son riusciti a pensare; e se la loro individualità già è connessa con tutta la civiltà concomitante, le loro idee sono in sostanza considerate quasi tutta la realtà [xviii] storica dell'epoca relativa, assommata e come fusa nel loro pensiero. Nel secondo caso poi le condizioni sociali e biografiche entrano nella considerazione dello storico in quanto presupposti della disposizione spirituale, in cui a volta a volta il problema filosofico sorge: e però non mirano a chiarire nient'altro che la successione, lo scoppiar dei problemi l'un dall'altro, e cioè la pura storia delle idee.
In altri termini, una storia delle idee comprende implicitamente una storia della civiltà in tutte le sue determinazioni, e si regge sul valore di questa storia che essa presuppone. Ora la storia dello Spaventa è mera storia d'idee, in cui non apparisce quasi mai quell'altra. Non già che egli avesse a sdegno l'altra; ma il suo interesse lo traeva alla prima; e, obbedendo al proprio interesse, egli esercitava un diritto proprio d'ogni storico, e inalienabile. La limitazione della sua ricerca diventerebbe illegittima se desse origine a una falsificazione delle dottrine, intese in corrispondenza a bisogni spirituali anacronistici o comunque inesistenti. Ma, se lo Spaventa non ebbe mai occasione o voglia di scrivere una storia circostanziata della filosofia, fu sempre guidato da una cognizione profonda delle condizioni spirituali de' varii periodi e da un acuto senso storico. Basti ricordare la sua critica del lavoro del D'Ancona sul Campanella.
In un solo punto forse, passando dalla esposizione della logica delle idee, quale si venne realizzando nella storia, alla considerazione delle [xix] attinenze che le sorti di questa logica ebbero con lo stato generale degli spiriti in Italia, non s'appone, secondo me, alla verità: dove ritiene che la ragione del «vuoto» rimasto nella filosofia italiana tra Campanella e Vico, e poi tra Vico e Galluppi, — vuoto da riempire con la storia della filosofia europea[6], — sia da cercare nella mancanza di libertà degl'italiani, oppressi dalla chiesa cattolica che avevano in casa. «Non ci hanno lasciato fare», egli dice. Ragione inesatta o, almeno, insufficiente; perchè la condanna di Galileo non impedì che questi si lasciasse dietro anche in Italia, nella scienza naturale, una scuola fiorente lungo il sec. XVII e il seguente. E la paura della chiesa, di cui si hanno indubbie prove, non impedì d'altra parte a Descartes di iniziare quell'intrepido naturalismo, che doveva produrre Spinoza; nè le preoccupazioni religiose, sincere e profonde, valsero ad arrestare il divino intelletto di Vico sulla via di quella ispirata speculazione, che con la quasi incoscienza e sicurezza dello spirito fanciullesco uccise — per dirla con lo Spaventa — in un sol colpo, il Dio del vecchio teismo, e il naturalismo, il materialismo e l'ateismo. E Rosmini, filosofo della restaurazione, che finisce nel kantismo, e nella Teosofia s'accosta all'Hegel abborrito? E Gioberti, il neoguelfo Gioberti, che comincia assoggettando la filosofia alla religione, e finisce anche lui nell'assoluto razionalismo? — La [xx] verità è che il movimento internazionale della cultura nei secoli XVII e XVIII deviò la maggior parte degli ingegni italiani dai problemi filosofici. Furono le scienze naturali, furono le matematiche, furono gli studi storici, che attrassero le maggiori intelligenze. Per la filosofia della cultura generale e dei professori e dei piccoli scrittori bastavano, ed eran d'avanzo, le celebrate novità oltremontane o le onorate tradizioni scolastiche non mai interrotte nelle nostre università lungo tutti interi quei secoli.
Questo però è un punto appena accennato nel nostro libro, che s'attiene d'ordinario al solo filo logico delle idee svolgentesi da un capo all'altro della storia della filosofia europea, pur mirando sempre in modo speciale all'Italia. E riesce, in conclusione, una storia della filosofia moderna e insieme una dimostrazione del principio della filosofia dello Spaventa, ossia della soluzione data da Hegel al problema fondamentale della sua logica: e in questo senso, un'introduzione allo studio della filosofia hegeliana.
Con quale spirito e con quale intendimento questa introduzione fosse scritta, non si potrebbe dir meglio dello stesso autore in una delle ultime pagine del libro[7] che giova anticipare qui come suggello a quanto s'è detto dell'indole del libro, e insieme ritratto vivo dell'atteggiamento del nostro filosofo rispetto a Hegel: «Prima di Hegel nessun filosofo ha spiegato il [xxi] conoscere, e così risoluto il problema della logica (il sistema delle categorie).
«Con ciò non voglio dire, che la logica di Hegel sia la logica perfetta, assoluta; che la sua filosofia sia l'ultima parola dello spirito speculativo; che dopo Hegel noi non dobbiamo far altro che ripetere o commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formole sacramentali.
«Può darsi, che ci sia chi pensi così. Per me, se ci è cosa che io abborro — mi pare di averlo detto già tante volte — è appunto la riproduzione meccanica delle altrui dottrine. Nei filosofi, ne' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita. Ripetere macchinalmente i filosofi, è soffocare questo germe, impedire che si sviluppi e diventi un nuovo e più perfetto sistema. Se Platone non avesse fatto altro che ripetere Socrate, non avremmo avuto il mondo delle idee. Se Aristotele avesse ripetuto Platone, non avremmo avuto il primo concetto della sostanza, della individualità. Se Spinoza non avesse fatto altro che ripetere Cartesio, non avremmo avuto il primo concetto di Dio come semplice causalità, come identità che è causa. Se Fichte avesse ripetuto Kant, non avremmo avuto il concetto dell'autocoscienza, della mentalità. Se Schelling avesse ripetuto Fichte, non avremmo avuto il concetto della identità [di essere e di pensiero], come mentalità, come ragione.
[xxii]
«Quel che io voglio dire, è questo: posto Fichte, — cioè che il conoscere sia impossibile senza l'autocoscienza; e posto Schelling, — cioè che il conoscere non sia reale senza la identità come autocoscienza o mentalità, — l'unica via di risolvere il problema del conoscere, il problema della logica, sia quello di provare la identità.
«Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo: provare la identità».
Giovanni Gentile.
[1]
In un breve programma, pubblicato or fa pochi mesi, io ho dichiarato così la intenzione del presente lavoro:
«La Prolusione tratta della Nazionalità nella filosofia. — Sono possibili, dopo il medio evo e ne' tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può dire, p. e., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia francese, inglese, tedesca, come si dice che ci è stata una filosofia greca essenzialmente diversa da una filosofia indiana? E in generale, il genio proprio originario d'una nazione, il quale si specchia e riconosce così nettamente nella lingua, nella letteratura e nell'arte in generale, e ne' costumi, deve e può discernersi anche — oggi giorno e in Europa — in quella forma e attività universale dello spirito, che si chiama filosofia? E discernersi in essa, non già come differenza e carattere naturale, letterario o artistico, ma come intuizione universale o pensiero della realtà delle cose: come problema, indirizzo, soluzione?
«L'autore, compendiando gli ultimi risultati della storia della filosofia, ed esponendo la differenza essenziale [2] della nazionalità moderna dall'antica, mostra che — se è vero che la filosofia indiana e la greca sono, più o meno, intimamente nazionali — comune, invece, ed unico è il carattere, lo sviluppo e l'indirizzo generale della filosofia ne' popoli moderni; che, se ci ha una differenza tra il genio filosofico italiano e quello delle altre nazioni, o in altre parole se esso ha o almeno ebbe un privilegio sopra gli altri popoli — questo fu solo l'aver precorso due volte i due principali periodi della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne' filosofi del Risorgimento e specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico; e val quanto dire il nuovo naturalismo e il nuovo spiritualismo; e che se noi vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito. Ma ciò a un patto; e questo è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d'Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi, e ritemperata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi non nel vuoto, ma colla piena coscienza delle nostre forze, del nostro cómpito, del cómpito comune.
«E posto anche che ci sia stata o ci sia una filosofia propria italiana, distinta essenzialmente o opposta a quelle delle altre nazioni, quale è e dove si trova ella mai? Si sa, che di libertà filosofica in Italia ce n'è stata sempre poca o niente, e chi se l'ha presa, gli è costato assai caro. Dov'è dunque la filosofia italiana, ne' libri delle vittime o in quelli de' persecutori? Il problema più difficile per noi — quello senza la cui soluzione noi non possiamo fare [3] e progredire davvero — è il riconoscere qual sia e dove sia il vero pensiero italiano. Finchè non si fa ciò — e il farlo non è cosa così agevole — il gridare nazionalità in ogni cosa servirà bene ad eccitare e intorbidare il sentimento e talvolta anche le passioni, ma non produrrà niente di serio nella scienza.
«La Introduzione è lo sviluppo e la dimostrazione della intenzione principale della Prolusione. L'autore espone il carattere e il progresso del pensiero italiano nei maggiori nostri filosofi dal secolo XVI sino al nostro tempo: Campanella, Bruno, Vico, Galluppi, Rosmini, Gioberti; e dimostra come questo pensiero non solo non si oppone al pensiero europeo, ma concorda schiettamente con esso; che Campanella e Bruno sono i precursori di Cartesio e Spinoza (e in parte di Locke e Leibniz); che Vico, esigendo una nuova metafisica e fondando la filosofia della storia, anticipa il nuovo antropologismo, quello che il Gioberti chiama trascendente e identico al vero ontologismo; che Galluppi, Rosmini e Gioberti rappresentano in Italia questo nuovo indirizzo; e che Gioberti specialmente non è, come si crede, l'antitesi di tutta la filosofia moderna, ma differisce dall'ultimo gran filosofo europeo in tutt'altro che nel vero principio, metodo e risultato della sua filosofia».
A questa dichiarazione mi rimane ad aggiungere poche parole.
Questo lavoro non avrà buona accoglienza da due specie di lettori; da coloro che hanno per un errore dello spirito umano o almeno per una cosa che non interessa noi altri italiani, tutto il movimento filosofico da Cartesio sino ad Hegel, e da coloro che credono che da due secoli e mezzo non si sia più pensato in Italia. Pe' primi Hegel, Schelling, Fichte [4] e lo stesso Kant non valgono niente, e già qualcuno di loro ha gravemente profetizzato, che da qui a un anno non se ne parlerà più; pe' secondi Galluppi, Rosmini e Gioberti sono ingegni mediocri, e lo stesso genio di Vico è una delle solite esagerazioni degli italiani.
Io ho considerato sempre queste opinioni estreme come misere gare di parte; o almeno come pregiudizi egualmente nocivi al progresso della coltura filosofica in Italia. Ciò che solo può convincere e rimettere sulla retta via gli uni e gli altri — parlo di coloro che sono di buona fede — è lo studio sincero de' filosofi nostri e stranieri. Questo scritto, sebbene principalmente indirizzato a combattere il primo di questi pregiudizi, pure, per la sua stessa natura, non ha minor valore contro l'altro.
Non essendomi io proposto qui di fare una storia della nostra filosofia, ma solo di determinare in modo generale e sommario il carattere e il progresso del pensiero filosofico italiano, non ho esposto in tutta la loro ampiezza i sistemi de' nostri filosofi, ma solo quanto bastava per far intendere la loro relazione ideale, cioè appunto quel carattere e quel progresso. Così di Campanella ho considerato soltanto la tendenza generale e il principio della sua filosofia; tanto più, che di questo filosofo io aveva già discorso largamente in un altro mio scritto. Di Bruno ho detto quanto era necessario per passare a Spinoza, e quindi a Vico, e di Vico quanto si richiedeva per passare a Galluppi, Rosmini e Gioberti. Del Lullismo di Bruno non ho detto niente, e niente del progresso del pensiero rosminiano dopo la polemica con Gioberti.
Alle lezioni ho aggiunto un'Appendice, le cui ragioni sono esposte in un'avvertenza particolare.
Napoli, ottobre 1862.
[5]
[7]
Signori,
Nella solenne inaugurazione del nuovo anno universitario fu udita una voce[8] far appello al sentimento nazionale. Plaudendo unanimemente, voi mostraste di voler tutti la stessa cosa: la manifestazione del genio italiano in tutte le forme della nostra vita. Quella voce si rivolse a tutte le Facoltà riunite, a' professori e a' giovani studenti. Agli uni suonò come un saluto amichevole, agli altri come un consiglio; quanto a me, uscita di bocca al mio predecessore su questa cattedra, ella parve un po' di tutto questo, e dirò anche di più, una benevola ammonizione.
Signori, all'udir pronunziare in questa Università i nomi di Telesio, di Campanella, di Vico, di Gioberti, e forse la prima volta dopo tanti anni il nome di Giordano Bruno, l'animo mio si aperse a una vivissima gioia. Anche io ho pensato sempre, che il [8] nostro genio nazionale deve specchiarsi nella nostra filosofia. L'ho pensato, e l'ho detto, in tutti i modi che ho potuto. Se la filosofia non è una vana esercitazione dell'intelletto, ma quella forma reale della vita umana, nella quale si compendiano e trovano il loro vero significato tutti i momenti anteriori dello spirito, è cosa naturale che un popolo libero si riconosca e abbia la vera coscienza di se stesso anche ne' suoi filosofi. Dove manca questo riconoscimento, la importazione forestiera non giova; giacchè la coscienza di sè non è una merce, che se non ci è, si acquista; ma è noi stessi, il vero noi.
Ma il difficile ora, o Signori, non è avere il sentimento nazionale e la convinzione, che il nostro genio deve riflettersi in tutte le forme della nostra vita, e per conseguenza anche nella filosofia: non è dire, che bisogna amare i nostri filosofi. Essere italiani vogliamo tutti; non è più quistione di ciò. Il punto sta — specialmente per noi altri professori e studenti — nel fare che questo amore diventi conoscenza; giacchè quando si tratta di filosofi, amarli è principalmente conoscerli. Il punto sta nel comprendere questo sentimento, perchè non degeneri in vuota boria; e sopratutto nel formarsi una chiara e netta notizia di questo genio, perchè sotto un tal sacro nome non passi ciò che non è nostro, e noi possiamo rigettarlo da noi come una falsa moneta, e d'altra parte non ci accada di ripudiare ciò che è veramente nostro per la falsa apparenza che non sia; e di gridare, insomma, come si doleva il Machiavelli, viva la nostra morte e muoia la nostra vita.
Io mi restringo a trattare il mio tema particolare. Per vedere in che possa stare la nazionalità della nostra filosofia, bisogna intendere il significato della [9] nazionalità nella vita della filosofia in generale. E a tal fine a me non basta il dire: la filosofia è l'ultima e più chiara espressione della vita di un popolo. Oltre questa determinazione astratta, io devo mostrare come tale espressione abbia avuto un'esistenza storica.
Oramai, siamo tutti, più o meno, della stessa opinione, quanto al concetto stesso della nazionalità. Questa non è più per noi, anzi non è stata mai, una semplice espressione geografica, come diceva il ministro d'Austria. È più che il semplice costume, la lingua stessa, l'arte e la letteratura, il sentimento e la intuizione. Questa nazionalità noi l'abbiamo da un pezzo: e non ce ne siamo contentati. Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perchè noi vogliamo questa unità come libero Stato? Perchè noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita; solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi. Questa è già una implicita confessione, che in sino ad ora noi non siamo stati in tutte le forme della nostra esistenza quel che avremmo potuto davvero essere.
La nazionalità non ha sempre nella storia dei popoli lo stesso significato; tra il mondo antico e il moderno vi ha una profonda differenza, e anche tra i popoli stessi dell'antico mondo. In generale nel mondo antico la vita delle nazioni si forma come in campo chiuso, e con poche modificazioni da fuori; e in quelle stesse, che, appartenendo originalmente alla medesima stirpe, portarono seco nella loro separazione un patrimonio spirituale comune, la cui scoverta è ora una delle più belle glorie della filologia comparata, in quelle stesse nazioni la nazionalità [10] ha un fondamento proprio, naturale, esclusivo, il quale è come principio che si esplica e riconosce nettamente in tutte le manifestazioni della vita; la loro comunità primitiva è come un tesoro nascosto, di cui esse non hanno coscienza, e che aspetta solo la maturità de' tempi per mostrarsi in tutta la sua luce. Ciò che si mostra e prevale è la loro differenza, l'effetto e insieme la causa della loro separazione originaria. Questa differenza, che è come il centro proprio di ciascuna nazionalità, ha per così dire una gradazione spirituale nelle diverse nazioni: più immediata e naturale nell'India, più libera e riflessa in Grecia, più astratta ed universale in Roma, dove si accosta e prelude all'umanità. E così accade poi che nel mondo moderno, all'opposto dell'antico, la vita di ciascuna nazione si muove come all'aperto insieme con quella delle altre; ciascuna è non solo se stessa, ma anche l'altra; anzi non è veramente se stessa, che in questa relazione e intima unità colle altre. Il fondamento naturale e proprio cede, senza però sparire, a un nuovo fondamento, comune ed universale; il quale non è più qualcosa d'immediato e primitivo, come la comunità originaria anteriore alla separazione, ma è il risultato di una lunga, paziente e dolorosa elaborazione comune, che apparisce come rimescolamento e lotta di popoli e di stirpi; è una nuova origine, una seconda nascita. Così la nazionalità non ha più lo stesso significato di prima. Non apparisce più come qualcosa che è dato naturalmente e immediatamente e dirò quasi ciecamente da un inesorabile destino; ma come un prodotto assolutamente spirituale, come il posto che ciascun popolo piglia da sè, per sua propria e conscia energia, nello splendido banchetto della nuova vita. D'ora innanzi nazionalità non significa più [11] esclusione o assorbimento delle altre nazioni, ma l'autonomia d'un popolo nella vita comune de' popoli; come la personalità dell'individuo consiste nel conservare la propria autonomia nella comunità dello Stato.
L'antichità ci presenta due grandi filosofie: l'indiana e la greca. In ambedue si riflette nettamente lo spirito nazionale.
È noto, che uno degli elementi più intimi e fondamentali della vita de' popoli, è la loro rappresentazione religiosa dell'universo. Naturalmente quale è l'idea di Dio, tale è l'idea dell'essenza dell'uomo e della comunità umana, e in generale di tutte le relazioni della vita. Se non che nei popoli antichi la religione è la nazionalità stessa: essi hanno, nel vero senso, religioni nazionali. Ne' popoli moderni all'opposto la relazione tra religione e nazionalità è più larga e indeterminata; l'intuizione religiosa è essenzialmente la stessa in tutti, non ostante le differenze nazionali, e spesso le specificazioni di questa identica essenza vivono insieme nella stessa nazione. Ora nell'India, non solo la religione è la nazionalità stessa, ma tutte le forme della vita, lo stesso pensiero speculativo, ha questo carattere religioso; la sua filosofia è immediatamente filosofia religiosa; e in generale la coscienza indiana non è giunta mai a sciogliersi da' legami della religione. Avvolta fin dal principio nella moltiplicità della rappresentazione naturale, ella non sa liberarsene che negando ad un tratto ogni esteriorità, ogni determinazione, ogni concretezza. Varuna, Indra, Agni, le antiche divinità de' Vedi, devono cedere il posto a Brama, che è il puro essere, vuoto, indeterminato; identità indifferente delle cose, il dio della riflessione teologica. Lo spirito indiano non ha la potenza [12] di trasformare, come fece il greco, quelle sue divinità impersonali, generali, vaghe, in un olimpo d'individualità determinate e viventi. Non sa trovare la vera vita che nella negazione della materia stessa della vita. Ma, non reggendosi in questa vuota altezza, ricade nella trivialità della rappresentazione naturale; Brama neutro diventa Brama mascolino: una bassa personificazione. Questa alternativa dalla realtà empirica all'unità assolutamente vuota e astratta, e da questa a quella, la coesistenza di questi due estremi nella stessa coscienza, senza che possano compenetrarsi l'un l'altro: tale è lo spirito indiano.
Sospeso così, quasi a mezz'aria, tra l'intelligibile senza determinazioni e il concreto senza l'intelligibile, egli non può fissare in volto la natura e intenderla, ma è come affascinato da essa: la sua esistenza è come un sogno, un mondo vago, senza limite e misura. Così egli non arriva mai ad una spiegazione sistematica de' fenomeni dalle loro cause naturali, nè alla libertà della vita civile e politica, nè alla civiltà umana propriamente detta. L'oggetto che egli contempla, non è il vero e reale, nel quale addentrandosi l'occhio dell'intelletto si levi poi gradatamente, come avvenne in Grecia, all'essenza intelligibile, ma è un oggetto mobile e fantastico, nel quale l'intelletto non trova il suo punto di appoggio. Così la filosofia non può aver mai una forma e un metodo rigorosamente scientifico; ma si arresta in parte a uno schematismo esterno logico e grammaticale, come nel medio evo; in parte a precetti ed osservazioni aforistiche, in parte a descrizioni fantastiche e poetiche. Con tutto ciò il gran valore dell'intelletto indiano è l'essersi elevato alla coscienza dell'altezza del pensiero: alla [13] separazione del soprasensibile dal sensibile, dell'universale dal moltiplice empirico, naturale ed umano: alla concentrazione dello spirito in se stesso, mediante la negazione di ogni esistenza finita e determinata. Questa potenza di astrazione e di negazione, questo puro concentrarsi in se stesso — questa soggettività assoluta — è come la forma universale dello spirito ariano. È la condizione assoluta d'ogni filosofia, proprietà, della stirpe comune e non della nazione.
Così l'India segna quasi lo schema di questo spirito: del nostro spirito. Ma tale potenza è nel fatto poi nell'India una vera impotenza; giacchè la negazione qui non consiste nel vincere e domare la realtà senza distruggerla, nel trasfigurarla spiritualmente, nel renderla intelligibile e ideale, nel conservarla insomma ed eternarla nella vita infinita dello spirito; ma sì nel metterla da parte, nello sbarazzarsene; e perciò invece della piena e assoluta personalità, si ha solo il vuoto essere, l'essere stesso di questa vuota astrazione. Questo concentrarsi che non piglia nulla, questa coscienza che non ha coscienza di nulla, questo puro se stesso senz'altro: tale è Brama. Brama è lo stesso spirito indiano. L'infinita distanza di questo vuoto essere dalla personalità piena ed assoluta, tale è l'abisso che separa questa coscienza dalla coscienza moderna.
Anche in Grecia, come nell'India, la religione è l'intima sostanza dello spirito nazionale. Anche qui tutti i lati del contenuto etico della vita comune, religione, morale, diritto, non sono ancora distinti e formano come una massa sola. Ma qui vediamo la prima volta nel mondo due fatti importanti: il contenuto etico della vita è libero da ogni oppressione esterna, da ogni dispotismo, e perciò si sviluppa [14] liberamente; e d'altra parte la filosofia non comincia che col fare astrazione da ogni intuizione religiosa, senza essere però astrazione assoluta come la coscienza indiana. Talete, il primo filosofo greco, introduce, come è stato detto, la prosa della schietta riflessione nell'olimpo poetico di Omero e di Esiodo: nel luogo di Giove padre degli uomini e degli Dei, egli pone l'acqua come principio universale delle cose. Così lo spirito greco ha quella potenza che non ha l'indiano; di trascendere cioè come speculazione il contenuto religioso. Il che non vuol dire che la filosofia greca non rappresenti più lo spirito nazionale: tutt'altro. Vuol dire solamente che la relazione tra nazionalità e filosofia è in Grecia ben diversa, un po' più larga, che nell'India; o, se mi permettete di dirlo, che la filosofia indiana è più nazionale che la greca, nel senso, beninteso, che questa si muove più liberamente nel grembo della vita schiettamente greca, si oppone a poco a poco a questa vita, va oltre di essa, ed è la leva più potente della sua distruzione. Ma d'altra parte la filosofia greca è profondamente nazionale, giacchè non è già un altro spirito, ma lo stesso spirito ellenico che consuma se stesso; si consuma come stato, come comunità, come popolo vivente, e da questa cenere sorge e s'impone, vera fenice del pensiero, alle età future. Anche in quanto trascende la vita nazionale e la distrugge, ella procede in modo veramente ellenico.
Così lo spirito greco spira da per tutto nella sua filosofia. Infatti, in Grecia lo spirito è di certo ancora limitato dalla natura, ma non soggetto ad essa, come nell'India; egli si distingue dalla natura, sebbene senza lotta ed opposizione. Egli se ne serve come fondamento e materia della sua vita, ne fa organo e [15] mezzo di sua manifestazione, come l'anima del corpo; di maniera che l'elemento spirituale non sopravanzi e quasi rompa la forma sensibile, ma si esprima in essa solo fin dove può esprimersi sensibilmente; e così questa risponda e si adegui a quello perfettamente. La vita greca non è altro che questa unità armonica di natura e spirito: tale è la individualità degli Dei, tale è lo Stato, e tale è anche la filosofia in generale, cioè libero abbandono e ingenua fede del pensiero nell'oggetto. L'oggetto da prima è l'oggetto puramente naturale (filosofia antesocratica); poi diventa oggetto ideale (filosofia socratica: Socrate, Platone, Aristotele); e quando il soggetto o lo spirito comincia a ritirarsi in se stesso dall'oggetto (nello stoicismo e nell'epicureismo) ed a dubitare dell'oggetto stesso (nello scetticismo), lo spirito greco conserva quella serena ingenuità sua propria; lo scettico si riposa nel suo scetticismo. Finalmente, allorchè disperando di trovare nell'oggetto e nella scienza (come contemplazione dell'oggetto) la verità, la cerca fuori della scienza, nelle antichissime tradizioni greche ed orientali, in rivelazioni straordinarie della divinità, anche qui egli conserva il suo carattere: muore, ma muore da greco; giacchè gli ideali neo-platonici, ne' quali finisce e si dissolve la filosofia ellenica, hanno sempre qualcosa di plastico, e sempre l'essere, l'oggetto, è il primo, da cui deriva come secondo il pensiero. Così tutta la filosofia greca è ontologismo: l'assoluto è sempre l'ente, non ancora lo spirito. Perciò i greci non intesero la creazione.
Quanto a Roma, sanno tutti che ella non ebbe una filosofia propria. Pe' romani la pura speculazione è già qualche cosa di indifferente, e la pigliano da' greci. Così la relazione tra nazionalità e filosofia diventa [16] ancora più larga, la stessa nazionalità romana non è così esclusiva come la greca; assorbe, non esclude; e così cessa di essere una determinazione puramente naturale: è già, come ho detto, qualcosa di umano. I romani aveano altro a fare nel mondo che teorizzare sull'universo; il loro interesse era il volere, l'attività pratica, la potenza: non contemplare l'universo naturale, ma fare l'universo umano. E ne fecero uno, ma a loro modo, cioè da un lato solo. Per fare l'universo veramente umano, ci voleva una nuova contemplazione, un nuovo oggetto, una nuova idea di Dio, una nuova religione, una nuova filosofia. Essi non compresero l'umanità che come diritto, come pura ed astratta manifestazione del volere. Il diritto romano trascende i limiti di una nazionalità determinata; come diritto privato esso è già diritto umano. Questa forza di astrazione, questo separare il diritto da tutta la sostanza etica della vita, dalla morale e dalla religione, questa potenza che non ebbero i greci, è il più gran pregio dello spirito romano. Il filosofo romano, Cicerone, era inferiore alla stessa realtà romana. La romana coscienza era arrivata a separare il diritto dalla morale: e Cicerone filosofando — cioè riflettendo sulla realtà (qui umana) — confondeva ancora, come i greci, diritto e morale.
Il germe della filosofia moderna bisogna cercarlo nelle rovine della filosofia greco-romana. Il processo della filosofia greca è evidente: — La verità per l'intelletto greco è l'oggetto, l'ente, qualcosa di esterno sempre; non è lo spirito, come per noi altri moderni. E l'oggetto è prima naturale, semplicemente esterno; poi ideale, cioè l'esterno divenuto interno senza cessare di essere esterno; finalmente la esteriorità, l'oggettività, sparisce, e la verità è la pura idealità, [17] il puro soggetto senza l'oggetto. Lo scetticismo conclude: dunque la verità non è nulla; giacchè per lo spirito greco la verità è l'oggetto, e ora l'oggetto è scomparso. E pure questo nulla non è lo stesso che zero: anzi è qualcosa di più dello stesso oggetto naturale e dello stesso oggetto ideale. È zero solo per la coscienza scettica, non già in se stesso. Se fosse zero in se stesso, la filosofia sarebbe finita collo scetticismo antico; noi non avremmo avuto più filosofia, o, che è lo stesso, la nostra filosofia sarebbe stata solo una ripetizione meccanica della filosofia greca. Questo nulla non è altro in sè che il negare l'oggetto, sia naturale sia ideale, come l'assoluto, e l'affermare come l'assoluto il puro e vuoto soggetto, la pura intimità. L'assoluto diventa sempre più intimo allo spirito: tale è il processo della filosofia greca da Talete allo scetticismo. Ora, questo nulla che è la soggettività vuota, diventa un esterno di nuovo, un nuovo oggetto, la nuova verità. Tale è il significato del neoplatonismo. Il neoplatonismo è l'ultimo sforzo dello spirito greco: scomparso l'oggetto, la soggettività vuota si espande e getta, direi quasi, se stessa al di fuori, a un tratto, e però si pone a sè dinnanzi come un altro esterno, un altro oggetto. È un altro esterno; perchè ha origine e radice nella intimità vuota del soggetto, e invece l'esterno di prima avea radice nell'oggetto naturale. Qui dunque abbiamo come una conversione dello spirito, una — per dirla coi matematici — mutazione di segno, un nuovo indirizzo, e piuttosto il principio di una novella êra, che la fine dell'antica. Ma nel fatto non è che la fine. E in vero l'intelletto greco si leva gradatamente, come ho già notato, dall'oggetto naturale al concreto intelligibile.
L'indiano, movendo dall'oggetto fantastico, erasi [18] levato immediatamente, per subitanea astrazione, al puro essere, al vuoto intelligibile; e così dovea procedere e a ciò riuscire, appunto perchè, l'oggetto essendo fantastico, l'intelletto non avea in esso nè misura nè contenuto. Lo stesso ora avviene, sebbene in senso inverso, all'intelletto neoplatonico: il soggetto, da cui esso muove, non è il soggetto concreto come soggetto, come soggetto umano, ma è il soggetto che era stato concreto come soggetto greco, non umano, e ora non è più greco, ma vuoto e non ancora umano. E però, mancando la concretezza, da una parte l'intelletto non è processo, ma intuizione immediata, come l'indiano era stato astrazione immediata; e d'altra parte l'oggetto di questa intuizione, il nuovo oggetto, non ha nessuna determinazione in quanto nuovo oggetto, cioè come soggetto, ma è assolutamente indeterminato, e quindi incomprensibile. Questa contradizione, in cui si vede da una parte il carattere ellenico, l'oggettività, e dall'altra la negazione di questo carattere, cioè un oggetto non intelligibile e quindi non più oggetto: tale è il neoplatonismo. Perciò è la fine, cioè la dissoluzione della filosofia greca.
Perchè dunque questa situazione dello spirito fosse il principio di una nuova filosofia, bisognava che il soggetto fosse concreto come soggetto, cioè umano, siccome l'oggetto dell'intelletto greco era già concreto come oggetto, cioè come natura. Questa concretezza, cioè la formazione pratica del soggetto, questa, se così posso dire, seconda natura, questa prima educazione dell'uomo come uomo, e non già solo come cittadino di una data nazione, è l'opera di più secoli, e presuppone l'apparecchio romano, l'avvenimento del cristianesimo, la caduta dell'impero, la mescolanza de' popoli, il medio evo. Solo [19] dopo quest'opera prodigiosa, dopo questo rinnovamento del cuore, era possibile il dire davvero, come fece Cartesio: Cogito ergo sum, Deus cogitatur ergo est: cioè una nuova filosofia, che ponesse per principio il soggetto e non l'oggetto, il pensiero e non l'ente, l'intelligente e non l'intelligibile, e che dalla coscienza di sè, dalla notizia intuitiva dell'essere contenuto nel pensiero, procedesse alla vera concezione della natura e di se stesso: — nella quale concezione la natura (l'essere) fosse non più l'assoluto (come nell'India) o un limite insuperabile dello spirito (come in Grecia), ma, come dice Bruno, l'infinita genitura dell'infinito generante: la creatura dello Spirito.
Così, epilogando il detto fin qui sulle due filosofie dell'antichità, si vede che il punto più alto a cui esse riescono, manifesta lo stesso schema, come ho già osservato, dello spirito ariano, e rappresenta come due grandi tentativi, ne' quali questo spirito intende a realizzare se stesso. Questo spirito è in sè il vero spirito, cioè intimità, relazione assoluta verso se stesso, e se posso dir così il Sè stesso. Ma la differenza tra India e Grecia è immensa, e si vede chiaro che il tentativo greco è più felice. L'India infatti riesce al Sè stesso come vuoto Essere, come l'indeterminato, come quello la cui determinazione consiste nell'astrarre da ogni determinazione; e, giacchè determinazione è intelligibilità, riesce al non intelligibile, al puro Nulla. — La Grecia invece riesce al Sè stesso, già assolutamente determinato come natura, come intelligibile, come ente, e però non assolutamente vuoto, ma vuoto soltanto come vero soggetto. Solo lo spirito moderno, lo dico anticipatamente, nel quale si raccolgono i popoli del gran ceppo ariano, — giacchè ora l'India stessa ci [20] è presente, se non come attrice, almeno come monumento, — solo questo spirito poteva concepire il vero Sè stesso, e dire: Egli non è l'Essere, non l'Ente, ma il Creatore.
Signori, il mio intento non era e non è di fare una storia della filosofia, ma solo di determinare la relazione tra la nazionalità e la filosofia, per conoscere qual significato e quindi quali limiti deve avere la esigenza, che la nostra filosofia abbia ad essere nazionale. Io mi sono dilungato nella caratteristica della filosofia antica, perchè da un lato, solo essa, l'indiana come la greca, si può dire nazionale nel vero significato della parola; e dall'altro lato, compresa la filosofia antica e quindi il suo difetto, noi abbiamo già compreso il problema e l'indirizzo principale della moderna, che nasce da quella, ed è appunto il suo compimento. Sarò, dunque, breve nel resto; e tanto più, che l'ho già esposto ampiamente in un'altra scrittura, pronunciata da un'altra cattedra, e che forma con questo discorso un sol tutto[9].
Il problema della filosofia moderna e il fondamento necessario alla sua instaurazione richiedono che essa non sia l'opera di una sola nazione, ma di tutte. Il problema è il concetto dello spirito nella pienezza della sua vita, nella sua umanità, e non già come spirito di questo o di quel popolo; il fondamento è la educazione comune già avvenuta. Laonde nel medio evo e nel nuovo tempo tutte le nazioni hanno i loro rappresentanti; ciascuna contribuisce la sua [21] vita alla vita comune del pensiero; ciascuna pone un elemento della soluzione del problema, e non già la intera soluzione. Specialmente dopo il Risorgimento, quelle che appariscono come filosofie nazionali, il cartesianismo in Francia, il lockismo in Inghilterra, e così via via, non sono che tante stazioni per le quali passa il pensiero nel suo corso immortale. La filosofia moderna non è dunque nè inglese, nè francese, nè italiana, nè alemanna solamente, ma europea. Un popolo che si arrestasse ad una di queste stazioni o le girasse intorno senza andare avanti, non avrebbe più vita filosofica, e gli si potrebbe applicare il detto di Cristo: «lasciate i morti seppellire i loro morti».
Di queste stazioni dirò solo le più cospicue. Nel medio evo, fatta già la prima educazione umana, quella che io direi umanità naturale, riapparisce l'oggetto neoplatonico, il trascendente, ma con altro carattere. Esso è già in sè spirito, soggetto e non oggetto; è immaginato come tale nella rappresentazione religiosa. Pure apparisce all'intelletto come oggetto, come un esterno, perchè quel concreto spirituale o umano, che mancava al neoplatonismo, e che noi abbiamo visto essere il presupposto necessario della nuova êra filosofica, appariva anch'esso alla coscienza come un'opera straordinaria ed esterna, non come l'opera della coscienza stessa. Questa contraddizione — cioè quest'intimo, che non è più vuoto, come il soggetto neoplatonico, ma già concreto in sè, e nondimeno apparisce come esterno; un esterno, che, appunto perchè già concreto in sè come soggetto, lascia, dirò così, trapelare e già quasi erompere la sua intimità, e quindi accenna a più di quel che esso apparisce, e nondimeno l'esprime solo nella propria insufficienza ad esprimerlo, [22] cioè negativamente — questa contraddizione è l'Incomprensibile degli scolastici. Non è l'assurdo, ma il Sovrintelligibile.
Così abbiamo due motivi nella Scolastica. — La esteriorità è il motivo del formalismo, nel quale il nuovo Assoluto è trattato come ente, come oggetto, colle stesse categorie dell'Assoluto antico, le quali non gli si attagliano; e ciò confessano gli stessi scolastici, dichiarandolo superiore ad ogni categoria. La interiorità è il motivo della prova a priori, o ontologica, che gli antichi non conoscevano nè, come ora è chiaro, potevano conoscere. La contradizione già notata, cioè l'intimo che apparisce come non intimo, si vede nella prima ed imperfetta forma di questa prova, in quella di Anselmo. Anselmo vuol dimostrare l'Assoluto, l'Essere, dal pensiero, dall'intelletto; e intanto non è l'Essere, che si dimostra da sè all'intelletto, ma è l'intelletto che dimostra estrinsecamente l'Essere, cioè solo se stesso come vuoto intelletto.
Riassumendo ora i tre grandi periodi già esposti, pare che, dove l'India riesce al Sè stesso come assolutamente vuoto, come puro essere, e la Grecia al Sè stesso concreto, ma solo come Ente (Natura) e vuoto come soggetto, il medio evo in verità non riesca ad un concetto nuovo e più profondo del Sè stesso, giacchè quella concretezza (l'umanità naturale) del soggetto, che la differenzia dal neoplatonismo, è un dato estrafilosofico; e quindi la posizione dell'intelletto rispetto alla Verità sia la stessa che nella filosofia neoplatonica. Pare insomma che il medio evo non sia altro che la contradizione stessa del neoplatonismo, posta in più chiara luce. E pure è altro di più; e perciò fu un vero periodo della storia della filosofia. Forse m'inganno, ma a me sembra [23] che lo spirito del medio evo sia rispetto alla nuova natura quel che è lo spirito indiano rispetto alla natura immediata e dirò pure naturale; l'oggetto è fantastico nell'India, fantastico nel medio evo; nell'una e nell'altro, è dato dalla rappresentazione religiosa, e inseparabile da essa; ci si vede lo stesso schematismo, lo stesso vuoto formalismo, la stessa congerie di determinazioni, che non arriva mai a determinare l'oggetto intellettivo, e finalmente la stessa confessione della insufficienza di tutte le categorie e il loro annichilamento nell'indeterminato Assoluto. L'India e il medio evo riescono dunque ambedue al Nulla; ma la differenza tra loro è tanto infinita, quanto la differenza delle due nature. L'India riesce a Brama; il medio evo, all'Actus purus[10].
La prova a priori ha in Cartesio un'altra forma: non è il pensiero che dimostra estrinsecamente l'essere e come dato fuori del pensiero: ma è l'essere che si dimostra da sè al pensiero, in quanto è contenuto originariamente e immediatamente in esso. Questa presenza immediata, questa evidenza, è la esistenza dell'essere. L'esistenza di Dio, dice Cartesio, è la stessa sua idea in noi, cioè nel pensiero; giacchè questa idea non me la fo io, non mi viene da fuori; essa è infinita; è dunque l'atto stesso di Dio in me. Così i due principii, Cogito ergo sum, Deus cogitatur ergo est, sono un sol principio; certezza e verità sono, la prima volta, una cosa sola. Questo è il gran pregio di Cartesio.
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Ora questa presenza immediata è una nuova natura, appunto perchè immediata; è una idea innata, cioè data in noi naturalmente. È natura nuova, perchè non è data solo estrinsecamente, come la greca, non nella intuizione religiosa e fantastica come l'indiana e quella del medio evo, ma è contenuta originariamente nel pensiero. È concreta, perchè in tutto il tempo del Risorgimento, caduta la teocrazia, fondata la monarchia, aperta la via dell'oceano, inventata la stampa, fatte tante altre scoperte, l'uomo avea incominciato a riaver fede in se stesso e nel suo valore, a non credersi più straniero in questo mondo, e a rivolgere gli occhi seriamente sopra di esso.
Da Cartesio a Spinoza non vi ha che un passo. Quella immediatezza dell'essere nel pensiero, questa nuova natura, è appunto la Sostanza. Deus = Substantia, sive natura. Ma appunto perchè uno immediatamente, l'essere ed il pensiero non sono veramente uno; sono paralleli tra loro, e non si risolvono l'uno nell'altro: sono, insomma, immediati, anche essi. Quindi si ha due indirizzi nel pensiero, in quanto contiene l'essere, cioè nella nuova natura; e questi sono il pensiero come semplice pensiero, cioè astratto, vuoto, e il pensiero come percezione sensibile, cioè cieco, direbbe Kant. In una parola, si ha l'intellettualismo da Cartesio sino a Volfio, e l'empirismo da Bacone e Locke sino ad Hume e al sensualismo francese. Quello riesce all'Essere Supremo, alla prima e suprema cosa; questo riesce alla Materia come Dio.
Ho paragonato innanzi l'intelletto scolastico coll'indiano, in quanto entrambi movevano dall'oggetto fantastico. Potrei nello stesso modo paragonare l'intelletto moderno all'intelletto greco, in quanto ambedue [25] procedono dall'oggetto tale quale è realmente. La nuova natura cartesiana è tutta prosaica: tutta meccanismo; e Dio è solo causa efficiente: gli spettri e le essenze occulte del medio evo sono scomparse al raggio del pensiero. Ma quando si dice p. es.: Cartesio è il Socrate moderno, e Socrate è il Cartesio antico; Locke non so chi altro antico risuscitato, e questo antico Locke anticipato di più secoli, e così di Hume e altri, come fanno i francesi abilissimi in questi paragoni, e tal volta per far credere che la filosofia non sia altro che una ripetizione continua della stessa cosa; quando si dice ciò, bisogna ben guardarsi dal confondere una cosa con un'altra. Bisogna considerare che la coscienza o soggettività socratica è ben diversa dalla cartesiana; che l'oggetto della percezione lockiana, non è quel medesimo della percezione antica; che lo scetticismo di Hume è altro da quello di Sesto; e tutto ciò per l'unica ragione che nell'intelletto antico l'essere determinava e fondava il pensiero, e nel moderno avviene l'opposto[11].
Il Dio sostanza non è il vero Dio. Dio è personalità assoluta, e perciò non è un immediato, ma mediazione o relazione assoluta verso se stesso. Questa è la vera confutazione dello spinosismo. Certamente Dio è immanente o intimo al pensiero; e in ciò Cartesio e Spinoza hanno ragione. Ma se Dio è la relazione assoluta, come dice il nostro Gioberti, deve essere immanente come relazione assoluta. Il che vuol dire che il pensiero o lo spirito deve essere [26] esso stesso questa mediazione. Non già che l'uomo sia o faccia Dio, come intendono alcuni; o che la mediazione umana sia una semplice ombra della mediazione divina, come intendono altri. In questo secondo caso, Dio sarebbe estrinseco a noi, e non si avrebbe il vero uomo; e nel primo non si avrebbe il vero Dio. La vera immanenza vuol dire, che la coscienza che noi abbiamo di Dio è la coscienza stessa che egli ha di sè in noi; di maniera che non siamo noi che facciamo Dio, ma è Dio che fa noi, e facendo noi fa se stesso in noi. Così egli è il Creatore assolutamente, cioè come dice Gioberti, di se stesso e di noi; è di noi, in quanto è di se stesso. In altri termini, se Dio non fosse uomo, l'uomo non conoscerebbe Dio, e non sarebbe uomo. Il che non vuol dire, certo, che l'uomo faccia Dio, ma piuttosto, mi pare, che Dio, in quanto uomo, fa l'uomo.
Negare l'immediatezza e avviare all'assoluta mediazione, è l'opera gigantesca della critica kantiana. Kant, eccitato dallo scetticismo di Hume, apparisce come negazione a un tempo del sensualismo e dell'intellettualismo, e insieme come la loro conciliazione; egli dice di non capir niente della sostanza di Spinoza. Ora questa sostanza, l'esser supremo dell'intellettualismo, e il Dio materia del sensualismo sono l'immediato, solo in apparenza. La sostanza è l'essere contenuto del pensiero, e però il vero immediato è il pensiero; l'essere supremo e la materia sono il risultato del ragionamento, che procede dal pensiero e dalla percezione sensibile, e però anche qui il vero immediato è il pensiero e la percezione. Sostanza, essere supremo, materia non sono dunque altro che il pensiero in quanto contiene immediatamente l'essere, cioè in quanto è notizia immediata di se stesso, del suo proprio essere, e delle [27] cose esteriori. Ora il pensiero come tale notizia non è altro che il conoscere. Adunque il vero immediato è il conoscere. Così il problema di Kant, il nuovo problema, è il problema del conoscere.
Ora il conoscere è, dirò così, una nuova natura. È un immediato; ma un immediato, che consta di due immediati, che sono il pensare ed il sentire, il concetto e l'intuizione, l'a priori e l'a posteriori. Nel conoscere, l'immediato non è il solo concetto, come voleva Cartesio, e nè anche la sola intuizione, come voleva Locke. Col solo concetto non si conosce nulla, e però è falsa l'idea immediata o innata cartesiana; e dall'altra parte, colla semplice intuizione nè meno si conosce niente, e però è falsa la percezione o l'idea lockiana. Adunque il conoscere è un immediato sui generis; un immediato, che è immediatamente due immediati, una mediazione immediata: non una unità, che risulti dagli elementi di cui consta come l'effetto dalla causa, e perciò sia posteriori ad essi; ma una unità originaria, cioè che pone sè stessa e perciò pone gli stessi elementi di cui consta, e quindi è essenzialmente triplicità. Così il conoscere è assolutamente e originariamente attività, produttività, atto; il suo essere è il suo prodursi. Esso è dunque una natura, che non è più natura. — Tale è il gran pregio di Kant: il significato del suo problema del giudizio sintetico a priori. — Il difetto di Kant è l'aver presupposto il conoscere, il non aver compreso come sia possibile l'atto, cioè quella unità originaria degli opposti scoperta da lui stesso, l'aver ridotto questa unità a una unità vuota ed astratta[12].
[28]
È noto il risultato della critica kantiana. Essa nega i tre grandi risultati della filosofia anteriore: la Sostanza, l'Essere supremo e la Materia. Non rimane adunque che il conoscere come vuoto, o meglio, puro conoscere, la nuova soggettività, il puro Io di Fichte. Quest'Io è puro, in quanto non è l'Io empirico di Cartesio o di Locke, ma quello per cui l'Io è Io, cioè posizione di se stesso e posizione del Non-io in quanto posizione di se stesso. Quest'Io assoluto, questa pura e assoluta posizione, è la Ragione di Schelling, come indifferenza assoluta del reale e dell'ideale. E la ragione come tale indifferenza è il pensiero puro di Hegel. Questo pensiero, il quale appunto perchè puro è dialettica, come assoluta e reale mediazione con se stesso, è lo Spirito assoluto o il Creatore. — Questo processo è la terza e vera forma della prova ontologica. Questa prova è tutta la scienza.
Tale, o Signori, è l'ultimo punto a cui è arrivata la speculazione moderna. Il pensiero è puro, non in quanto sia assolutamente vuoto, come Brama, ma in quanto è libero da tutte le opposizioni e imperfezioni de' precedenti principii, perchè gli ha già risoluti e compresi in se stesso; in quanto ha in sè trasfigurata tutta la realtà della coscienza umana, e perciò è perfettamente adequato alla realtà stessa. Questo pensiero, come posizione storica dell'intelletto rispetto alla verità, è il risultato di tutta la storia della filosofia, e quindi di tutta la storia in generale; come scienza, cioè come cognizione di tutto il processo inconsapevole della coscienza umana nella produzione di questo risultato storico, esso è una nuova critica del conoscere, e nello stesso tempo uno schema della filosofia della storia. Come assoluta indifferenza, e non altro che assoluta indifferenza, [29] esso è il vero immediato e originario: quello, che non presuppone nulla; e quindi è il vero cominciamento. Ma non altro che il cominciamento, non il vero e assoluto Principio, che è in sè anche Fine, e perciò Relazione assoluta. E non rimane semplice cominciamento, appunto perchè è puro; cioè trasparenza assoluta, vero pensiero, ossia vero Sè stesso. Come cominciamento è essere. Se esso non fosse altro che essere, non sarebbe Sè stesso. Deve dunque negarsi come semplice essere; deve dire: Io sono il non essere. Il che non vuol dire: Io sono il niente. Tutt'altro. Vuol dire: io sono più che il puro essere. Questa negazione, che scaturisce dalla pura affermazione, e che non è zero, ma più che la pura affermazione — è la scintilla eterna del pensiero, la dialettica. Essa è viva e palese, solo dove e quando il pensiero è puro, cioè vero pensiero; dove il pensiero ha, come ho già detto, trasfigurato in sè storicamente tutta la realtà, e perciò sa se stesso come sè stesso. L'indiano si arresta a Brama, perchè Brama non è pensiero puro, ma solo astratto. Noi moderni, all'opposto, non possiamo arrestarci al pensiero puro come assoluta indifferenza, ma dobbiamo — per la stessa sua forza, che è la dialettica — concepirlo e comprenderlo come reale mediazione verso se stesso, cioè come spirito.
Così tutta la storia della filosofia corre tra due estremi, i quali si riuniscono in un circolo, e sono il vuoto essere dell'astrazione indiana e lo spirito assoluto o il Creatore, della speculazione alemanna. Quello si riproduce come il cominciamento; questo come il risultato assoluto della scienza. Così la filosofia nella sua storia è, come la scienza stessa, un continuo progresso. Questo circolo è il vero Spirito, [30] il vero Sè stesso. Il quale, dunque, non è l'Essere, non l'Ente o l'Intelligibile, non il Sopra-ente, non l'Actus purus, non la Sostanza, non l'Essere supremo, non la Materia, e così via via; non è nessuno di questi predicati semplicemente, ma è quello in cui essi tutti si risolvono e che non si risolve in altro; e per ciò è tutto se stesso, non più predicato, ma unico soggetto, cioè l'Unico o il vero Dio.
Questi predicati, presi come soggetto, sono le principali stazioni della storia della filosofia. Noi abbiamo visitato queste stazioni, e visto quale di esse appartiene a ciascuna nazione. Così l'Essere astratto appartiene agl'Indiani, l'Intelligibile agli Elleni, il Sovrintelligibile agli Alessandrini, l'Actus purus agli Scolastici, che erano di tutte le nazioni, il Pensiero astratto e la Materia a' Francesi, la Sostanza a Spinoza che nacque in Olanda, la Percezione agli Inglesi, e tutto il resto all'Alemagna. Dove è dunque, direte voi, la filosofia italiana?
Signori, la filosofia italiana è da per tutto; è in sè tutta la filosofia moderna. Ella non è un particolare indirizzo del pensiero, ma, direi quasi, il pensiero nella sua pienezza, la totalità di tutti gli indirizzi. Io non parlo dell'Italia antica; la sua filosofia è parte della greca. Parlo dell'Italia moderna, di quella che deve essere, come ha detto una verace parola, l'Italia degli Italiani. Questa universalità, in cui si raccolgono tutti gli opposti, questa unità armonica in cui si riassumono tutti i lati dell'ingegno europeo, è appunto il nostro genio nazionale. Essa ci ricorda l'universalismo dell'antica Roma, meno la sua forma astratta. Questa natura potente, varia, complicata, esige per formarsi un lungo e difficile lavoro. Essa ha a lottare non solo con gli altri popoli, ma con se stessa. Per essere [31] davvero, essa deve superare se medesima. Così non è senza ragione, se l'Italia è venuta l'ultima ad assidersi nel convito delle nazioni, e se deve ancora lottare per essere signora di sè.
Questa spontaneità complicata e universale del genio italiano e insieme questa difficoltà nel formarsi si manifestano in tutta la storia del nostro intelletto. L'Italia apre le porte della civiltà moderna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi, Telesio, Bruno, Vanini, Campanella, Cesalpino, paiono figli di più nazioni. Essi preludono più o meno a tutti gli indirizzi posteriori, che costituiscono il periodo della filosofia da Cartesio a Kant. Così Bacone e Locke hanno i loro precursori in Telesio e Campanella, Cartesio nello stesso Campanella, Spinoza in Bruno, e nello stesso Bruno si trova un po' del monadismo di Leibniz, dell'avversario di Spinoza. Finalmente Vico scopre la nuova scienza; anticipa il problema del conoscere, esigendo una nuova metafisica che proceda sulle umane idee; pone il vero concetto della parola e del mito, e così fonda la filologia; intuisce l'idea dello spirito, e così crea la filosofia della storia. Vico è il vero precursore di tutta l'Alemagna. Ho detto il precursore, e avrei dovuto dire di più, giacchè Vico aspetta ancora chi lo scopra davvero.
Dopo Vico, la spontaneità dell'ingegno filosofico italiano pare smarrita. I nostri filosofi ricevono l'impulso dagli altri paesi. Solo Vico non ha origine che da se stesso. Galluppi, Rosmini e Mamiani pigliano da Kant il problema del conoscere; il loro difetto è di esaurirsi in esso. Non si avvedono che il significato vero di questo problema è la necessità di una nuova filosofia: della filosofia dello Spirito in luogo di quella dell'Ente. Solo Gioberti, nel quale si può [32] dire ritornata tutta la spontaneità dell'ingegno italiano, si accorge che la psicologia è mezzo e non fine, è mezzo di porre un nuovo principio e non già di consolidare l'antico. Questo nuovo principio è espresso,nella formola ideale, la quale non è altro, chi ben intende, che il nuovo concetto dello spirito, il concetto di Dio come il Creatore[13].
Così l'ultimo grado, a cui si è levata la speculazione italiana, coincide coll'ultimo risultato della speculazione alemanna. Questa coincidenza ci addita la via che dobbiamo tenere per progredire. Studiarne noi stessi, la storia del nostro pensiero, ma senza temere o spregiare il pensiero di un'altra nazione, in cui si raccoglie egualmente il patrimonio della speculazione europea. Studiando anche questo pensiero, noi studieremo meglio noi stessi; giacchè esso non è altro in sostanza che lo stesso nostro pensiero in altra forma. Così noi avremo come due coscienze in una, cioè una maggior coscienza. Noi abbiamo tanto più bisogno di specchiarci in questa seconda coscienza, in quanto che, per la malvagità degli uomini e della fortuna, la nostra non è stata sinora quel che avrebbe potuto essere. Dopo le lunghe torture di Campanella e il rogo di Bruno, si formarono in Italia come due correnti contrarie: quella de' nostri sommi pensatori e quella de' loro carnefici. Questi dicevano naturalmente, che la loro era la vera corrente della nostra vita, la vera filosofia italiana. Questa corrente non è ancora del tutto estinta; anche oggi dicono che l'Italia, che noi stiamo facendo, non è la vera, ma la vera è quella che abbiamo disfatta. [33] Tale contradizione nel seno stesso della vita nazionale impedì lo sviluppo della filosofia del Risorgimento, e fu cagione che Vico e Gioberti poco fossero compresi, anzi, dirò francamente, non comprendessero perfettamente se stessi. Così la mancanza di libertà ci fece per lungo tempo come stranieri a noi medesimi, e il nostro vero pensiero divenne quasi un segreto per noi, prosperando in altre contrade. È tempo di ripigliarlo, che è nostro, ora che siamo liberi.
[34]
Intorno alla filosofia indiana.
Il fine principale di questa mia Prolusione è stato di mostrare la insussistenza della opinione di coloro, che parlano oggigiorno di una filosofia nazionale, come gli ebrei, tanti secoli fa, parlavano del loro Dio. Perciò, se qualcuno mi rimproverasse che nelle brevi parole che ho detto sull'India, io abbia fatto d'ogni erba fascio, non distinguendo il bramanismo dal buddismo, e la filosofia del Vedanta da quella del Sankhya e dalla speculazione buddistica, e in generale i tempi più o meno naturali dell'India, direbbe Vico, da' tempi umani, io potrei rispondere: questo rimprovero dimostra più di quel che io voleva. Io voleva provare che l'umanità ci è o almeno ci ha da essere ne' tempi moderni, e il rimprovero dice che ci è stata, a suo modo, anche nei tempi antichi; cioè, che nell'India stessa la coscienza siasi elevata a tale altezza, da superare i limiti de' pregiudizii nazionali. Adunque, potrei dire: tanto meglio; e basterebbe. Contuttociò, giacchè la dimostrazione del mio tema si connette necessariamente colla caratteristica della filosofia e in generale dello spirito de' tre popoli ariani antichi (India, Grecia [35] e Roma), io devo provare che questa caratteristica non esclude, anzi contiene in sè, quel progresso dalla coscienza puramente naturale e nazionale all'umana.
E in vero, ei pare che io abbia fatto di ogni erba fascio, perchè ho detto: «lo spirito indiano non arriva mai alla coltura umana propriamente detta»; e: «Brama è lo stesso spirito indiano». E simili. Tutto ciò, si osserverà, stava bene venti o trenta anni fa; ma oggi, dopo le nuove ricerche sull'India e specialmente sul buddismo, è un errore, che non si può scusare. Chi non sa oggi che il buddismo è l'umanismo indiano, e tale umanismo che spesso, al paragone, noi altri popoli moderni d'Europa, che diciamo di rappresentare tutta l'umanità, abbiamo cagione di arrossire? Chi non sa oggi, insomma, che bramanismo e buddismo sono essenzialmente differenti, e che il bramanismo non è o almeno non è stato tutta l'India? — Io so bene che la ignoranza non è una scusa, nè anche quella così facile, e direi quasi così scusabile, delle cose indiane. Io non sono di quelli, che hanno l'India, anzi tutto l'Oriente in tasca, e di questo Oriente — veramente tascabile — parlano a ogni momento e occasione. Nè, d'altra parte, sono di que' pochissimi, che se cominciano a parlare dell'India tra noi, hanno il diritto di farlo, perchè o la studiano o l'hanno studiata davvero. Io non pretendo, insomma, di esser annoverato tra i dotti, ma nello stesso tempo rigetto ogni società o parentela coi ciarlatani. Quel che ho detto, l'ho detto perchè l'ho pensato, conoscendo — almeno in parte — le difficoltà che si sarebbero potute fare a questo modo di pensare. Queste difficoltà le ho meditate, e scrivo questa nota appunto per esporre brevemente le mie ragioni: il che non [36] avrei potuto fare nel testo senza spezzare il filo del discorso.
1. Ripetendo quel che è stato affermato da altri anche di recente[14], cioè che «lo spirito indiano non arriva mai alla coltura umana propriamente detta», io non ho avuto intenzione di confondere il buddismo col bramanismo, e negare all'India ogni senso di civiltà ed umanità, ma solo, invece, di distinguere la civiltà così detta classica e specialmente la moderna, e come esiste e come s'intende, da tutta la civiltà indiana. Conosco bene, che il bramanismo come sistema gerarchico e castale, che determina, abbraccia e incatena tutte le relazioni universali e particolari della vita e perfino le azioni più indifferenti, è tutt'altro che un'istituzione umana, e che al paragone, anzi senza paragone, il buddismo — almeno nella sua genuina originalità —, è l'umanità stessa. Sottoscrivo a tutti i paragoni, che sono stati fatti e si possono fare per rappresentare la radicale differenza tra la coscienza bramanica e la buddistica; quella sia la coscienza del fariseo o dell'uomo del medio evo, e questa la coscienza del cristiano o dell'uomo dopo la Riforma, ecc., ecc. Se l'India buddistica non avesse altro a mostrare al mondo, che la sua etica[15], ciò basterebbe a provare la gran potenza e originale profondità dello spirito indiano, e come l'umanità — il valore dell'uomo come uomo, senza differenza di nazioni, di nascita, di classi, di ricchezza e simili, ma come semplice effetto della sua propria libera attività teoretica e pratica, del vero sapere e del puro volere — sia qualcosa di assai più antico che [37] lo stesso cristianesimo. Io non so, se in alcuna religione — come spiegazione della vita — si trovi un concetto più serio e più profondamente umano di quello del Carma: un concetto, nel quale si veda espressa più energicamente la convinzione, che l'uomo sia il vero e unico artefice del suo proprio destino, e che lo spirito, come attività etica — come efficacia e processo continuo delle opere — come perennità morale — sia l'unica suprema potenza, che regge e ordina ogni cosa, la legge, a cui tutto è soggetto e da cui dipende il corso del mondo[16].
Contuttociò, vi ha umanità e umanità, e nelle parole: umanità propriamente detta, io ho voluto dinotare appunto questa differenza. L'umanità buddistica, per quanto sia il suo pregio, è, come è stato già osservato da uomini molto versati in tal materia, sempre negativa; è un'etica di pazienza e di annegazione, non di azione ed energia: una morale da cenobita, la quale, al far de' conti, stanca e dissolve ogni forza dell'animo. Invano tu cerchi in essa quel vigore efficace, quella operosità e accorgimento individuale, quella maschia virtù; che noi tanto ammiriamo nell'antichità classica. «A chi ti dà una guanciata, offri l'altra guancia». Politicamente, essa favorisce la servitù; giacchè, insegnando che si deve sopportare pazientemente ogni ingiuria e ingiustizia, e proibendo ogni resistenza contro l'usurpazione e la violenza, predica naturalmente l'ubbidienza cieca e passiva verso la potestà anche tirannica, [38] e perciò, nonostante il suo principio dell'eguaglianza di tutti gli uomini, è stata di aiuto al dispotismo, dovunque si è introdotta. Questo suo carattere negativo nasce dalla sua trascendenza, e specialmente dal concetto che il buddismo ha di quel che noi diciamo comunemente l'altro mondo, e in generale del principio e fine delle cose.
Per l'elleno il vero mondo è questo mondo, la terra con tutto quel che essa sostiene e alimenta; e perciò l'etica greca, sebbene apparisca da un lato meno umana, perchè più nazionale e più limitata della buddistica, pure dall'altro lato si accosta di più all'umanità concreta de' tempi moderni, perchè in questa stessa misura essa ha un contenuto positivo e determinato. Pel buddista al contrario i grandi interessi terreni e mondani non hanno nessun valore: la nazione, lo stato, la società civile — tutto quello appunto che noi diciamo vita umana — sono qualcosa d'indifferente, o valgono soltanto come mezzi per conseguire il supremo fine, che è al di là della vita. Questo fine è il Niente; il Niente, da cui deriva e a cui ritorna ogni cosa. Questo è l'ideale umano; io devo pensare, volere e operare, solo per estinguermi assolutamente come individualità che pensa, vuole e opera. E però, per quanto questo fine, come assoluto e universale, come la perfetta liberazione di tutti gli esseri viventi senza differenza di nazioni e di classi, come scopo a cui devono essere indirizzate e nel quale devono risolversi tutte le potenze dell'anima, possa essere causa e motivo di una gran virtù operativa, ciò nondimeno la sua stessa vacuità si riflette nell'attività individuale, e il cuore del buddista è al far de' conti vuoto come l'ideale a cui esso aspira. Quelli che si potrebbero chiamare risultati positivi [39] dell'etica buddistica, o sono una inconseguenza, una deviazione pratica dal suo stesso principio, ovvero di quegli effetti che sogliono essere prodotti anche da cause negative; giacchè operare, anche per un ultimo fine quale è quello del Niente, è sempre qualcosa di positivo. La negatività e quindi la vacuità buddistica non consiste tanto nella trascendenza, quanto nella natura del trascendente. Così l'ideale cristiano, specialmente come fu elaborato nel medio evo, è trascendente, ma non è il Niente. E sebbene il cristianesimo per lunga età, specialmente ne' primi tempi e anche dopo la Riforma, abbia avuto e conservato sempre o non mai smesso del tutto quella tendenza ascetica, che è inseparabile da ogni nuovo trascendente, e la umanità come si annunzia nel Vangelo sia principalmente astratta, indeterminata, negativa, e direi quasi livellatrice, come la buddistica; pure, appunto perchè il suo ideale non è il Niente, è avvenuto che la civiltà, come si dice cristiana o in altre parole la umanità moderna, avesse quel carattere di universalità e di concretezza insieme, di celeste e di mondano, di trascendenza e d'immanenza, che tanto la diversifica così dalla buddistica come dall'ellenica. So bene, che si attribuirà tutto questo a tante diverse cagioni, più che al principio cristiano: alla natura de' popoli che lo ricevettero, alla preesistenza e al rinascimento della civiltà classica, alle condizioni geografiche, ecc. Ma per quanta parte tutte queste cause abbiano potuto avere nella produzione della civiltà moderna, non si potrà mai negare, che se il principio cristiano non fosse stato quel che è stato, i popoli o non l'avrebbero ricevuto, o ricevendolo avrebbero tenuto un'altra via nello sviluppo della loro coltura. Per esprimere questa differenza dell'umanità negativa indiana [40] dalla umanità europea, io ho detto nella Prolusione: «l'infinita distanza di questo vuoto essere (Brama) dalla personalità piena e assoluta, tale è l'abisso che separa questa coscienza dalla coscienza moderna».
2. Brama è per me «la (vuota) concentrazione dello spirito in se stesso, mediante la negazione di ogni esistenza finita e determinata»; e perciò ho detto: « Brama è lo stesso spirito indiano». Il buddismo, infatti, — quest'ultimo grado dello sviluppo della coscienza indiana — per quanto differisca essenzialmente dal bramanismo, non si leva al di là di questa vuota concentrazione; di questo vuoto Essere, che è il puro Nulla. Inteso così il concetto di Brama, il buddismo apparisce come una conseguenza logica di questo concetto: più logica dello stesso bramanismo, come istituzione gerarchica e castale, e come sistema di riti, di cerimonie, di sacrifizi, di espiazione e in generale di mezzi esterni e meccanici per arrivare alla dissoluzione della personalità nel vuoto assoluto. Questa dissoluzione è lo scopo comune di tutti gl'indirizzi della coscienza indiana, religiosa e filosoflca: della pratica bramanica, della contemplazione vedantica, dell'etica buddistica, e della stessa speculazione eterodossa del Sankhya. Il Sankhya, infatti, sebbene opponga all'unità originaria dell'essere la dualità assoluta della natura e dell'anima individuale, e faccia consistere la liberazione nel conoscere se stesso e distinguersi dalla natura; pure ha per fine ultimo l'isolamento assoluto dell'anima, e quindi la estinzione della personalità e dell'Io. Il puro bramanismo, il Sankhya e il buddismo sono come i tre gradi principali, pe' quali passa la speculazione indiana, senza mai arrivare al vero concetto della personalità umana. Nel [41] bramanismo l'anima individuale è come niente: una pura modificazione apparente e illusoria di Brama, che è l'Essere indeterminato e indifferente. Il pregio del Sankhya è il valore originale dell'anima individuale; ma questa individualità è vuota, come Brama medesimo, e senza coscienza. Il buddismo compendia in sè il bramanismo e il Sankhya, giacchè per esso ogni anima è in se stessa quel che nel puro bramanismo è Brama come Tutto; e, giacchè Brama come vuoto Essere è il Nulla, la vera essenza dell'anima è appunto l'annichilamento assoluto.
3. Paragonando l'India, la Grecia, Roma e il mondo moderno, si può dire, che nell'India l'umanità apparisce la prima volta come religione (nel buddismo); nella Grecia come filosofia (nel principio socratico); e in Roma come diritto. Solo l'umanità moderna è davvero concreta e abbraccia ed esprime tutto l'uomo; e perciò essa sola è degna di questo nome.
[43]
[45]
SOMMARIO.
Motivo e soggetto della introduzione — Pregiudizio della nostra coscienza nazionale — Necessità d'una storia del pensiero italiano nella sua relazione col pensiero europeo.
«Sono alcuni, che, per qualche credula pazzia temendo che per vedere non se guastino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello che hanno una volta malamente appreso. Altri poi sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onorato studio è perso; temerariamente non giudicano, hanno libero l'intelletto, terso il vedere, e son prodotti dal cielo, si non inventori, degni però esaminatori, scrutatori, giodici e testimoni de la verità. Di questi ha guadagnato; guadagna e guadagnarà, l'assenso e l'amore il Nolano. — Quello, al che doviamo fissar l'occhio de la considerazione, è, si noi siamo nel giorno e la luce de la verità è sopra il nostro orizonte, o vero in quello degli avversarii nostri...; si siamo noi in tenebre, o ver essi; e in conclusione, si noi, che damo principio a rinovar l'antica filosofia, siamo nella mattina per dar fine alla notte, o pur nella sera per dar fine al giorno».
Bruno, Cena de le ceneri, 132, 134[17].
[46]
Signori,
La giustificazione della scienza — il vedere che ella è non solo la mattina, come dice Bruno nelle parole che ho lette, ma il pien meriggio, e che i suoi avversarii sono non solo nella sera, ma in piena notte —, questa giustificazione o piena testimonianza cha la scienza fa di sè, è la scienza stessa, tutta la scienza.
La scienza non si può dir davvero giustificata, se non quando è giunta al suo ultimo risultato, quando ha toccato la sua meta. Questa meta è la scienza stessa, la scienza come oggetto della scienza, la scienza che spiega se stessa.
Questa proprietà della scienza — di giustificare assolutamente se stessa — forma il suo privilegio e la sua difficoltà. Da un lato, essa non deve presupporre nulla che non sia la scienza, ed esiste solo a questa condizione. E dall'altro lato, ella deve spiegare non solo, come si dice, il reale, le esistenze, le cose del mondo, ma se stessa come suprema e assoluta realtà. La scienza non è, come si crede comunemente — come credono spesso gli stessi scienziati —, una semplice immagine o copia, più o meno fedele, del reale o delle cose: una fotografia, che riproduca più o meno felicemente un mondo, di cui il fotografo o la fotografia stessa non facciano parte. Il reale o il mondo senza la scienza — preso così per sè — non è il vero reale, il vero mondo. Questo è solo la scienza, giacchè scienza non vuol dir altro che la verità del mondo. Il reale senza la scienza è solo una parte del reale; la quale, presa pel tutto e riprodotta semplicemente dalla scienza, è falsa, perchè solo in quella unità, che è il Tutto, essa ha il suo vero significato.
[47]
Le scienze particolari, p. e., la matematica, la fisica, non hanno nè questo privilegio, nè questa difficoltà. Da una parte esse presuppongono i proprii principii, e dall'altra non giustificano se stesse come scienze. Così la materia della geometria sono le pure dimensioni dello spazio, e non già la stessa geometria; la materia della fisiologia è la vita, e non già la scienza stessa della vita. Solo la filosofia ha per ultimo oggetto se stessa; e può dir di aver spiegato il reale, solo quando ha spiegato se stessa.
Perciò la filosofia non è una scienza fra le scienze, ma la Scienza; non è solo, come si dice, la prima scienza, la scienza fondamentale, ma la scienza, dirò così, finale. Non è un punto, un luogo comune, da cui partono tutte le scienze particolari, e poi viaggiano e vanno, ciascuna per sè, non si sa dove; ma è anche l'indirizzo e la meta comune del loro viaggio. Non è, insomma, per le scienze particolari una semplice rimembranza, una formola imparata nella fanciullezza, un primo battesimo, le cui tracce si disperdono nella corrente della vita; ma è lo scopo dell'uomo maturo, l'avvenire, l'ultima consacrazione.
Chi dunque si fa a imparare la scienza deve avere, più che altri, una certa buona disposizione, una certa fede in chi la insegna, una certa dose di pazienza: deve aspettare, che la luce venga quando ha da venire. Tali sono i felici e ben nati ingegni, verso i quali nessuno onorato studio è perso. Di questi, se io non presumo troppo di me, io spero di guadagnare l'assenso e l'amore.
Ma pur troppo tali ingegni non sono molti! E fossero pur molti, vi ha sempre di coloro, che hanno qualche credula pazzia, che temono che per vedere non si guastino, che perseverano in quel che hanno una volta male appreso.
[48]
Dire a questi ultimi: «Aspettate, abbiate pazienza, la scienza si giustificherà pienamente alla fine», è tempo perso, fiato sprecato.
Voi gli invitate a entrare nel tempio della Scienza, a visitarne gli altari, a penetrare nel santuario; ed essi o s'arrestano innanzi alla porta, o vi voltano le spalle. Perchè? Perchè vedono in voi, in qualche vostra prima parola, qualcosa che offende la loro credula pazzia, il loro timore, quello che hanno malamente appreso.
Con costoro dunque il dire: la giustificazione verrà, non fa niente. Questa giustificazione fa per quelli, che sono già entrati. Come adoperare con quelli che non vogliono entrare?
Io vi vedo entrati già tutti in questa sala, e parlo a coloro che sono entrati. Ma io vorrei che la vostra presenza qui fosse una vera entrata: un'entrata spirituale. Su quella soglia bisogna deporre le credule pazzie, ogni vano timore, tutte le cose malamente apprese: insomma, ogni pregiudizio.
A me pare l'unica via sia questa: guardare in faccia questi pregiudizii; lottare, dirò così, con essi corpo a corpo, francamente, senza vani rispetti; far vedere, che la credula pazzia non è credula pazzia; il timore, timore; le cose mal apprese, cose mal apprese. Insomma, che il pregiudizio o la falsa coscienza, è pregiudizio o falsa coscienza.
Ora uno dei più funesti pregiudizii nostri è:
il falso concetto della nostra filosofia;
il falso concetto della storia della filosofia in generale;
il credere, insomma, che l'ultimo risultato a cui è giunta la speculazione moderna europea, sia in opposizione coll'ultimo risultato, a cui è giunta la nostra.
[49]
Lo scopo della mia Prolusione è stato di vincere l'uno e l'altro pregiudizio, che sono in sostanza uno solo; cioè esporre il vero concetto — quello che io credo vero — della filosofia nostra e della europea, e far vedere come coincidono e devono concidere.
E infatti lo spirito veramente filosofico è solo lo spirito ariano, il nostro spirito. A principio, noi altri popoli indogermanici, o se volete, indo-europei, eravamo una sola stirpe, una sola famiglia, una massa sola. Naturalmente, non ci era ancora filosofia; non c'erano ancora tante altre cose, che la filosofia presuppone. Poi, a poco a poco, l'uno dopo l'altro, ci separammo, forse senza dirci addio, e senza pensare che un giorno ci saremmo riveduti; chi andò di qua, chi di là, dispersi, come si è detto, sulla faccia della terra. Questa separazione fu un gran progresso: cominciammo a diventar nazioni, ad avere una vita propria, distinta, nazionale; a svolgere in tanti modi e forme diverse tutta la ricchezza della nostra originale natura. Qualcuno di noi giunse, prima degli altri, a tal grado di sviluppo, che potè esprimere la sua propria intuizione e celebrare il mistero della vita in quella chiara ed alta coscienza, che è solo la filosofia. Così la nostra antichità — devo dire tutta l'antichità — ebbe due grandi filosofie: l'indiana e la greca, nelle quali lo spirito ariano si specchia perfettamente come indiano e greco. Altri non si elevarono da sè a questa coscienza. Tali furono, checchè si dica in contrario, i latini. Di poi, dopo tanto tempo, tante vicende, tante lotte, dalle quali uscimmo, più o meno, con diverso volto e quasi con altra natura, noi cominciammo ad unirci di nuovo: a sentire e conoscere la nostra unità, la nostra comune natura, non solo tra noi, ma co' popoli di altre stirpi. L'espressione [50] più chiara e genuina di questa coscienza — della coscienza della nostra umanità — è la filosofia moderna. Togliete questa coscienza, e la filosofia moderna non ha più significato. Ho detto la filosofia moderna, e dovrei dire la filosofia antica: la greca, da Socrate in poi; giacchè il principio socratico — inteso in un modo più o meno ristretto, cioè come semplice oggettività ideale di Platone ed Aristotele — nella sua pura ed ampia virtualità è appunto l'antropologismo. Con Socrate la filosofia precorre, almeno — ripeto — virtualmente, i nuovi tempi: i tempi umani.
Questo ora vedono anche i ciechi; ma non i nostri nuovi bramani[18]. Costoro s'hanno foggiato una storia della filosofia a loro modo, e l'hanno gerarchicamente divisa in caste, come gli antichi divisero la società indiana. Ogni nazione, essi dicono, ha la sua propria e particolare filosofia, e ciascuna filosofia è una casta. Guai, se si confondono le caste! In Europa oggi si nasce ontologista o psicologista, puro o impuro, teista o panteista, come nella valle del Gange si nasceva e si nasce tuttavia Bramano, Kshatriya, Vaisja e Sudra. Naturalmente i bramani — la primogenitura di Brama — siamo noi italiani; e non ci è bisogno di dire chi siano i Sudri, anzi i Tschandali, gl'impuri, i reietti, gli eslegi. Se costoro avessero ragione, o tanto potere quant'hanno poca ragione, farebbero davvero dell'Italia una nuova India bramanica, e noi dormiremmo tranquilli i nostri sonni sulle rovine del nuovo buddismo!
[51]
Mostrare questa coincidenza dell'indirizzo della nostra filosofia colla filosofia europea, è opera della storia della filosofia.
Io non farò, nè posso fare qui questa storia come si deve. Solo mi propongo di fare una breve esposizione del nostro pensiero filosofico dal secolo XVI sino al Gioberti nella sua relazione col pensiero europeo.
Questa sarà la mia introduzione alle lezioni di filosofia: la mia propedeutica. So bene, che essa non è la vera propedeutica; giacchè io non considero qui il pregiudizio o la serie dei pregiudizii (tutto il falso sapere) della coscienza come tale, nè mediante la critica di questi pregiudizii la elevo all'orizzonte della scienza. Vi ha un pregiudizio più forte di quel generale della coscienza; e questo è appunto il pregiudizio nazionale, e proprio della nostra coscienza, del quale ho parlato. Questo particolare e tenace pregiudizio io devo superare.
Fermato così, che la verità, come risultato del processo storico, è sopra il nostro orizzonte; che noi siamo nella mattina per dar fine alla notte, e non nella sera per dar fine al giorno, solo allora noi potremo muoverci liberamente e sicuramente in questo orizzonte e costruire il sistema della scienza.
L'introduzione sarà breve; e per questa ragione — tra le altre — credo che non contenterà tutti, e in tutto. A questo difetto io cercherò di supplire con corsi speciali su' sistemi de' filosofi italiani[19].
[52]
SOMMARIO.
L'antica filosofia italiana. — L'antiquissima italorum sapientia di Vico. Critica di questa ipotesi.
Io devo esporre, come introduzione alla filosofia, come la via più sicura per vincere uno dei nostri più tenaci pregiudizii, i principali momenti della storia del nostro pensiero dal Risorgimento sino al nostro tempo; cioè, determinare il carattere e lo sviluppo della nostra filosofia.
Dico dal Risorgimento sino al nostro tempo, perchè ciò che si chiama filosofia italica nell'antichità (pitagorei, eleati) appartiene alla filosofia greca, e d'altra parte è appena un rudimento di questa. Rinnovare oggi il pitagorismo o l'eleatismo sarebbe lo stesso che ritornare alla infanzia della filosofia. Infatti la filosofia antesocratica o naturale, di cui sono parte quelle due filosofie, incomincia colla ricerca della essenza universale dell'esistenza naturale, del mondo fenomenale, e la ripone in un ente immediato, in una sostanza immobile: determinata progressivamente come materia (jonici), come numero (pitagorei), come puro essere (eleati). Ma queste tre soluzioni non spiegano il movimento e il divenire del mondo naturale: quindi fu necessario un nuovo sviluppo della speculazione (Eraclito, Atomisti ed Empedocle, Anassagora).
[53]
In secondo luogo, ciò che chiamasi filosofia romana — e si deve dire greco-romana — come romana è ben poca cosa; Cicerone è filosofo popolare, eclettico (vedi Prolusione, pag. 16); Marco Aurelio è anche popolare, e stoico, ecc. ecc.[20].
I nostri bramani, nella pia intenzione di rigettare come illegittimo e spurio tutto quel po' di progresso che ha fatto lo spirito umano e per conseguenza — disgraziatamente — anche noi altri italiani da più centinaia d'anni, non contenti dell'antichità storica de' pitagorei e degli eleati, sono ricorsi al mito d'un'antichissima filosofia italica; e vi ha di certo taluni, che s'immaginano un'accademia, un peripato, una stoa ne' tempi aurei di Saturno, quando l'acqua de' ruscelli, e credo anche la filosofia, era latte e mele.
A chi dubita di questa scoperta, costoro rispondono: «L'ha detto Giambattista Vico; leggete il libro: De antiquissima Italorum sapientia. Voi dunque ne sapete più di Vico?»
Anch'io ho letto un po' questo libro di Vico; e devo dirvi qui quel che ne penso, lasciando a chi si sia eguale libertà di dire ingenuamente, che io ne so più di Vico.
Vico dice: «Dum linguae latinae origines meditarer, multorum bene sane verborum tam doctas animadverti, ut non a vulgari populi usu, sed inferiori aliqua doctrina, profecta esse videantur»[21].
[54]
Ora questa interior doctrina, rintracciata da Vico e riveduta, corretta e migliorata ad usum puerorum dai nostri bramani, è appunto l'antichissima filosofia italiana!
La ricerca di Vico, intesa in un senso generale, e come è espressa nel luogo citato, equivarrebbe ad ammettere e contrapporre l'una all'altra due origini della lingua latina e, credo, d'ogni lingua originale come quella: cioè l'uso volgare del popolo e l'interna dottrina. Ora, che nella lingua ci sia una interna dottrina, — che ci sia più o meno in ogni lingua, — non si può negare. Ma il punto sta nel vedere, se questa interna dottrina sia ciò che si chiama propriamente dottrina, cioè un sapere o coscienza riflessa, colta, filosofica, come dice il luogo di Vico, ovvero solo una dottrina, dirò così, inconsapevole, spontanea, e propria dello spirito originario di ogni popolo che parla: quella dottrina che è contenuta necessariamente nell'uso volgare e senza la quale lo stesso parlare — l'uso volgare, popolare, nazionale della parola — non sarebbe possibile.
L'uomo parla, perchè è uomo, cioè pensiero, ragione, spirito. La parola non è una parte dello spirito, ma lo spirito, tutto lo spirito, come parola. L'uomo, la società, il popolo, lo spirito che parla, depone nella parola la sua rappresentazione o intuizione originaria delle cose e di se stesso, della sua esistenza, delle relazioni della sua vita; e in generale, del mondo, dell'universo. La parola è essa stessa un mondo; è l'universo in quanto rappresentato e immaginato originariamente dallo spirito. Questa immaginazione — questo mondo immaginato — è in sè pensiero, ragione, ma non sussiste ancora come pensiero, come ragione; è una interna dottrina, un organismo, un sistema, ma che non sussiste ancora come [55] riflessione, scienza, filosofia: come vera dottrina. Perchè questa immaginazione diventi nello sviluppo della vita di un popolo vera dottrina; perchè l'intuizione originaria diventi piena e riflessa coscienza, cioè scienza, si richiede un lungo lavoro della riflessione; la filosofia è l'ultimo grado della riflessione.
Tale è il concetto che Vico ha della lingua e anche della filosofia nella Scienza Nuova. L'origine della lingua è una; ed è lo spirito come rappresentazione o immaginazione dell'universo. Cito un solo luogo: «Gli universali fantastici furono dettati naturalmente da quella innata proprietà della mente umana di dilettarsi dell'uniforme; lo che non potendo fare coll'astrazione per generi, il fecero colla fantasia per ritratti; ai quali universali poetici riducevano tutte le particolari specie a ciascun genere appartenenti. I quali generi fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana ad astrarre le forme e le proprietà de' subbietti, passarono in generi intelligibili; onde provennero appresso i filosofi»[22]. L'universale o genere fantastico, poetico o mitico, di cui discorre Vico, è appunto la parola, cioè lo spirito o la mente come parola; è la mente, che non è più semplice senso (affezione sensibile; corpo, tempi muti), e non è ancora vera mente (ragione umana tutta spiegata, VERO delle idee), ma è solamente favella, CERTE idee, formole di parole[23]: universale, che non è il vero universale, e non il semplice particolare, [56] ma universale immaginato, non pensato. In questo luogo — in questo concetto dell'universale fantastico — è tutta la teorica della parola.
Ora cosa vuol dire che questo genere passa in genere intelligibile, e così provengono i filosofi? Vuol dire, che quelle parole che Vico nella Antiquissima Italorum sapientia dice originate da interna dottrina (da sapienza riposta, filosofica, non volgare), — tutte le determinazioni di cui consta la sua metafisica, verum, factum, genus, forma, species, individuum, caussa, ecc. — erano a principio, più o meno, generi fantastici, cioè sapienza volgare, e appresso passarono in intelligibili. Vico stesso nella Scienza Nuova deride e non crede alla sapienza riposta delle origini. Direi quasi che il passare di quelle determinazioni in nozioni intelligibili è il libro stesso di Vico; giacchè quella antichissima metafisica degli italiani non pare che abbia mai esistito. Vico determina così nella Scienza Nuova lo sviluppo dello spirito: dalla religione (favella, mito) alle repubbliche (Stato); da queste alle leggi, e dalle leggi alla filosofia. La filosofia è la corona dello sviluppo.
Contuttociò io non voglio negare, che la formazione di certi vocaboli, come quelli che Vico reca nel Proemio: ens, essentia, substantia, etc., presupponga di necessità una coltura filosofica. È un fatto che i latini, imparando la filosofia greca, li formarono per rendere nella loro favella ὄν, οὐσία etc.[24]. Ma non si deve confondere la natura di tali vocaboli, che sono molto astratti, con quella delle voci, da cui Vico vuoi dedurre l'antichissima sapienza degli [57] italiani. Ens, essentia, substantia, etc., presuppongono non solo un alto grado di riflessione, ma le voci primitive esse, sub, stare, etc.; come generalis presuppone la voce genus, possibilitas la voce posse, etc. Ma ciò non vuol dire, che queste voci, e in generale tutte quelle recate da Vico, presuppongano una dottrina filosofica. Chi può asserire, che per dire: esse, sub, stare, etc. bisognò prima esser filosofo?
Adunque, la ricerca di Vico nella sua generalità, se ha un senso, vuol dire: determinare la relazione tra la lingua e il pensiero d'una nazione; cioè, data la lingua, investigare quale possa essere, più o meno e sempre dentro certi limiti, il carattere generale della speculazione nel corso del tempo. Il risultato di questa ricerca è una specie di prognosi; la quale, se è presa per una realtà storica che preceda o accompagni la formazione e lo sviluppo primitivo della lingua, contradice alla natura dello spirito e — ciò che forse più importa a qualcuno — al concetto principale della Scienza Nuova. Questo sarebbe lo stesso che dire contro Vico: i generi intelligibili precedono o accompagnano i generi fantastici.
Ma, anche intesa così la cosa, perchè quella prognosi nella stessa sua generalità si avveri, si richiedono certe condizioni, che non sempre hanno luogo. E la principale è, che la nazione viva come in campo chiuso, tutta a sè, nella sua solitudine, e non accada niente — non si dia verun caso o necessità più universale sotto forma di caso — che ne modifichi o muti in qualche modo l'indirizzo. E in verità pare che a questo stato di patriarcale isolamento vogliano ridurci costoro, che si danno tanta briga di risuscitare un morto, che non è stato mai [58] vivo; o, se è stato mai vivo, il che non pare, è tutt'altra persona e di tutt'altra razza di quella che essi s'immaginano.
Infatti, cos'è al far de' conti questa antichissima filosofia degl'Itali? dov'è nata? chi n'è stato autore?
Il senso proprio e particolare della ricerca di Vico è il seguente.
Due fatti sono certi. Il primo è, che molte voci nella lingua latina originale, sono così dotte, che non possono essere provenute dall'uso del volgo, ma piuttosto da qualche dottrina intrinseca. Il secondo è, che gli antichi Romani, infino a' tempi di Pirro, furono affatto sforniti di ogni scienza e attesero solo alla agricoltura e alle cose di guerra. Da questi due fatti insieme si deve inferire, che i Romani non abbiano creato essi medesimi quelle voci, ma le abbiano invece ricevute da altre nazioni circonvicine, e usate così pregne come erano di filosofici sentimenti, senza intenderne la forza del significato; e tali sentimenti, proprii di queste nazioni, abbiano formato il tesoro antichissimo dell'italica sapienza.
Sul primo di questi fatti ho detto abbastanza, nel considerare il significato generale della ricerca. E pure, se questo fatto non è vero, la conclusione di Vico non è giusta. Se, dovunque vi ha vocaboli, che poi ci appariscono pregni d'una certa dottrina, o anche di un sentimento filosofico, si dovesse presupporre originalmente l'esistenza d'una filosofia, non saprei come si potrebbe principiare a filosofare, e nè anche a parlare. È dottrina o sapienza la intuizione o la rappresentazione contenuta nella parola e nel mito; e nondimeno la parola e il mito non sono ancora la filosofia. Vico risolve, quanto [59] a' Romani, la difficoltà della esistenza di que' vocaboli, supponendo che fossero stati creati da filosofi di altre nazioni; ma la difficoltà rinasce in tutta la sua forza rispetto a queste medesime nazioni. Come si formarono tali vocaboli nel seno di queste nazioni? Per una qualche interna dottrina, cioè per opera di filosofi. E come fu possibile tale filosofia, prima di que' vocaboli; cioè, come, p. e., si potè aver prima il concetto proprio e filosofico del genere, della specie, della causa, etc., senza i vocaboli genus, species, causa, etc., e creare tai vocaboli dopo aver pensato i concetti? Ammettere che ci sieno stati uomini nel seno di queste nazioni, i quali abbiano prima pensato i concetti e poi formato, anzi creato i vocaboli, equivale a separare assolutamente questi uomini — i filosofi (devo dire i primi filosofi) — dalla vita delle loro nazioni medesime, giacchè il primo legame comune è appunto la lingua. Una filosofia primitiva, che non presupponga la parola nazionale (cioè la parola), non è dottrina intrinseca, ma estrinseca alla nazione; e in quanto estrinseca, presuppone altre nazioni più antiche e altri filosofi, e così via via, finchè si arrivi ad un filosofo assolutamente primo, il quale abbia prima pensato senza parlare, e poi parlato dopo aver pensato. Questo primo filosofo non può essere altro che il primo uomo, anzi Dio stesso; e così la vera ed antichissima filosofia, non solo propria particolarmente di noi altri italiani, ma comune (contro la intenzione de' nostri separatisti) a tutti i popoli del mondo, sarebbe quella stessa dell'Eden: filosofia non italica, ma preadamitica. Questa ipotesi, che capovolge tutto il cammino naturale dello spirito umano, e a cui riesce necessariamente la prima asserzione di Vico, non spiega niente, nè [60] la parola nè la filosofia. Essa fa infondere nel cervello degli uomini e delle nazioni i concetti e le parole, come il primo cibo è messo dalle madri nella bocca de' bambini: l'uomo pensa e parla, non perchè tale è la sua intima natura, ma perchè altri da fuori operando lo fa pensare e parlare; potrebbe nè pensare nè parlare, e nondimeno essere ancora uomo. Così si può dire di tutti i popoli quel che Vico dice degli antichi romani: parlarono lingua di filosofi senza essere filosofi[25].
Credo che non ci possa essere una dottrina più falsa e più contraria, ripeto, a tutto lo spirito della Scienza Nuova. Un popolo che non capisce niente di filosofia e non sente affatto il bisogno di filosofare, piglia da un altro popolo dei vocaboli filosofici, se ne serve, gl'introduce nel tesoro della sua lingua, e intanto non intende quello che dice! Ma perchè li piglia, e se ne serve? I vocaboli si pigliano a prestito, e se ne fa uso, quando si sente un certo bisogno della cosa, che que' vocaboli esprimono; e coi vocaboli si piglia la cosa. Pigliare i vocaboli senza la cosa, non mi pare possibile. Perchè i Romani dalle voci esse, genus, substare, etc. formarono essentia, generalis, substantia, etc.? Perchè aveano già appreso i concetti e le voci corrispondenti da' greci; e intendevano più o meno tali concetti. Ora il caso, di cui parla Vico, è ben diverso: non si tratta di pigliare i concetti e poi formare, secondo l'indole della propria lingua e da voci della propria lingua, i vocaboli; ma si tratta di pigliare vocaboli originali forestieri, così, senza i concetti e senza il bisogno di tali concetti. E quali vocaboli! Genus, forma, anima, etc. Agli scrittori del Giornale de' letterati [61] d'Italia, i quali desideravano che egli avesse addotto luoghi dove la voce genus significasse forma, etc., Vico risponde: «in cotal guisa, nella quale voi richiedete da me le pruove delle origini, io avrei ritratto l'antica sapienza d'Italia da esse voci latine, non dalle origini loro, che è il mio argomento»[26]. Queste origini — almeno quelle da cui Vico ritrae l'antica sapienza nostra — non sono, dunque, per lui latine. E di qual nazione sono? Da chi le ricevettero gli antichi romani?
Vico nel proemio dice: da due nazioni, cioè dagli Jonii e dagli Etruschi. «Nationes autem doctas, a quibus eas locutiones accipere possent (Romani), duas invenio, Jones et Hetruscos... In Jonibus Italica philosophorum secta, et quidem doctissima praestantissimaque floruit. Hetruscos autem eruditissimam gentem..... Ab Jonibus bonam et magnam linguae partem ad Latinos importatam ethymologica testatum faciunt. Ab Hetruscis autem religiones Deorum, et cum iis locutiones etiam sacras, et pontificia verba Romanos accersisse, constat. Quamobrem certo conjicio ab ea utraque gente doctas verborum origines Latinorum provenisse; et ea de caussa animum adjci ad antiquissimam Italorum sapientiam ex ipsius latinae linguae originibus eruendam». Nella seconda risposta al Giornale dei Letterati Vico spiega meglio, anzi, dovrei dire, corregge questa sua congettura. «Ripeterla (l'antica nostra sapienza) fin dalla Jonia e dalla pitagorica scuola, egli non era investigare la filosofia antichissima dell'Italia, ma una più novella di Grecia... Io la ripeto sì da Pitagora, ma non la fo venire di Grecia, e la fo più antica di quella di Grecia..... Quando nell'Egitto fioriva [62] quel grandissimo imperio che si distendeva per quasi tutto l'Oriente e per l'Africa..... verisimile, anzi necessaria cosa egli è, che gli Egizii, signoreggiando tutto il mare interno, facilmente per le sue riviere avessero dedotto colonie, e così portato in Toscana la loro filosofia. E quivi essendo poi sorto un regno ben grande..., forza è che anche fossevi diffusa la lingua, e di questa ne avessero più preso i popoli più vicini del Lazio... Ora, per tutto il ragionato, ardisco asseverantemente dire, che Pitagora non avesse da Jonia portato in Italia la sua dottrina.....; ma, menato in Italia dal desiderio di acquistare nuove conoscenze, e qui avendo apparato l'italiana filosofia, e riuscitovi dottissimo, gli fosse piaciuto fermarsi nella Magna Grecia, in Crotone, ed ivi fondar la sua scuola....; talchè, se vi ha voce di sapiente significazione che abbia indi l'origine» (ab Jonibus bonam magnamque linguae partem ad Latinos portatam ethymologica testatum faciunt)[27], «ella s'abbia a stimare essere stata quella molto innanzi portata da Toscana in Magna Grecia, e prima che in Magna Grecia, nel Lazio»[28]. (Cioè: non più, come è detto nel Proemio, dalla Jonia, e quindi dalla Magna Grecia nel Lazio, ma piuttosto dal Lazio nella Magna Grecia, o almeno in tutti e due dall'Etruria successivamente o contemporaneamente senza che passasse dall'una all'altro)[29].
Adunque, secondo Vico, il pitagorismo — quella che tutti gli storici della filosofia riconoscono concordemente [63] come la più antica filosofia italiana (dell'Italia greca) — non solo non ha originalmente niente di greco, ma l'autore di esso non è nè meno Pitagora; non già nel senso, come vogliono taluni, che fosse nata dopo Pitagora da' pitagorei, ma invece nel senso, che esisteva già — chi sa quanto tempo! — prima dello stesso Pitagora. Pitagora, quando sbarcò in Italia, la trovò bella e fatta; l'aveano inventata gli etruschi, anzi portata per mare dall'Egitto, giacchè pare che l'opinione di Vico sugli etruschi sia, che fossero egizii; di maniera che quella che noi diciamo filosofia italiana, in origine è egiziana. E noi dobbiamo seguitare ad essere egiziani, se non vogliamo cessare di essere italiani. Ecco di che si tratta! — Cito lo stesso esempio di Vico. Anima e animus, dicono i Letterati d'Italia, non ci è bisogno di cercarli in Egitto; guardate la voce greca ἄνεμος, e vi persuaderete che i greci la portarono in Italia. — E Vico risponde: «dalle prove ivi fatte si può dedurre facilmente(!) che quegli Egizii antichissimi che mandarono in Italia cotal voce in cotal sentimento (di aria), l'avessero parimente mandata in Grecia; e così essersene tutte e due queste nazioni servite, senza averne alcun commercio tra esso loro»[30]. Se i medesimi letterati avessero detto: genus è lo stesso che γένος, Vico avrebbe similmente risposto: gli Egizii portarono la stessa voce in Grecia e in Italia.
Non è qui il luogo di far vedere quanto questa ipotesi di Vico sia contraria alla storia e alla filologia. Mi contento di fare qui solo poche osservazioni. 1.º Il pitagorismo — quale noi lo conosciamo dalla storia della filosofia, e non quale lo congettura [64] Vico — è una schietta creazione dello spirito greco, specialmente del dorico. 2.º Nei tempi, di cui parla Vico, gli egizii non viaggiavano ancora per mare, e perciò non potevano trasportare la loro filosofia in Toscana[31]. 3.º I primi etruschi in Italia avevano così poca coltura, che non si può ragionevolmente supporre, non dico che fossero già filosofi, ma nè pure che avessero potuto venire per mare[32]. 4.º Tutte le investigazioni fatte fin qui sulla loro lingua non sono ancora riuscite a classificarla; e perciò niente si può dire di certo sulla loro origine nazionale. 5.º È certo che gli etruschi pervennero a un alto grado di coltura; ma non è meno certo che questa coltura non ebbe su' costumi o almeno sulla lingua degli antichi romani quella essenziale influenza che si è voluto credere[33]. Che i romani avessero preso la religione, e perfino un'arte di schierar battaglia sola al mondo, etc., dagli etruschi; che, insomma, tutta la sapienza de' romani consistesse nel far buon uso de' frutti dell'altrui dottrina e mantenere l'ignoranza[34], tutto ciò è un'esagerazione, per non dir altro[35].
Quello che è degno di nota nella ricerca di Vico si è, che egli non si contenta delle origini greche. A' suoi tempi si credeva ancora, che la lingua latina derivasse dalla greca. Vico, invece, va cercando [65] un'origine più antica: un'origine comune a' latini e a' greci, e non sa trovarla altrove che in Egitto! Se Vico avesse saputo tutto quel che si sa ora di lingua, di filologia e di storia, e anche meno, non ci avrebbe parlato di Egitto, e nè meno della necessità d'una antichissima sapienza per la creazione di quei suoi vocaboli. Egli avrebbe visto — conformemente al vero concetto della lingua nella Scienza Nuova — che tutta la sapienza p. e. de' vocaboli genus e mens consiste nella intuizione primitiva, e comune a tutti i popoli della nostra stirpe, contenuta nelle radici gen (sanscrito: gan, greco: γιν), e men (sanscr. man, greco μνα), etc.
Che Vico, un secolo e mezzo fa, abbia sbagliato, s'intende da sè; ma che ora, dopo tanto tempo e tanti progressi in tutto, ci si venga a ripetere tali errori, questo è quello che io non so capire. O piuttosto lo capisco: si tratta di consacrare il sistema delle caste, e l'autorità di Vico deve servire a questo pio intendimento! Adunque noi, per far onore a Vico, dobbiamo essere etruschi, anzi egiziani in filosofia. Ma perchè non anche in religione? La filosofia egizia dovea avere un nesso intimo colla religione egizia; e non so perchè la religione deve essere qualcosa di più universale e di meno nazionale che la filosofia. Questo vorrei che mi spiegassero i nostri bramani.
Per me non ho bisogno di dire, che io rispetto Vico; ma credo nello stesso tempo, che il maggior onore che gli si possa fare da noi, sia quello di metter da parte i suoi errori e di svolgere e ampliare con tutti i sussidii delle nuove investigazioni ciò che vi ha di vero nella Scienza Nuova. Facendo altrimenti, noi facciamo ridere appunto i nostri nemici, gli stranieri; e spero che, quando tutti [66] questi pregiudizi! saranno passati — non rideranno meno i nostri nipoti.
Ora conchiudo questa lezione già troppo lunga, e dico che nella esposizione del pensiero italiano io non posso cominciare dall'antiquissima italorum sapientia, per la semplicissima ragione che essa non ha mai esistito. La sapienza contenuta nel libro, di cui ho discorso, sarà la metafisica di Vico; ma tanto manca che sia quella degli etruschi e degli egizii, che non è nè pure quella de' Pitagorei. E io non comincio da' Pitagorei, perchè la loro filosofia è parte della greca. Non comincio dalla Scolastica, perchè la Scolastica appartiene a tutte le nazioni europee. Non posso dunque cominciare che dalla filosofia del Risorgimento.
[67]
SOMMARIO.
Il Risorgimento: I. Sua differenza dalla Scolastica. — II. Determinazioni principali della nuova filosofia ne' filosofi del Risorgimento: — Il Cusano, Pletone, Valla, Agricola, Ficino, Pico, Zorzi, Reuchlin, Tomeo, Achillini, Pomponazzi, Vives, Nizolio, Melantone, Paracelso, Telesio, Patrizio, Cesalpino, Zabarella, Cremonini.
Io devo determinare il carattere e lo sviluppo della nostra filosofia.
Dico carattere e sviluppo; perchè il semplice carattere, senz'altro, è sempre qualcosa di astratto, e la sua attualità — direi quasi la sua vita — è appunto lo sviluppo. Così nella filosofia greca il carattere è l'oggettivismo, e lo sviluppo è l'interiorità sempre più profonda dell'oggetto, infino a che l'oggetto è negato come semplice oggetto[36].
Il carattere della nostra filosofia è quello stesso di tutta la filosofia moderna, essenzialmente diverso dal carattere dell'antica: cioè la ricerca del principio di ogni cosa non nella assoluta oggettività, materiale o ideale, ma nella mente assoluta.
Lo sviluppo è la esplicazione, la opposizione e finalmente la unità de' due momenti della mente assoluta, cioè la oggettività e la soggettività infinita: [68] la realtà vivente della natura e l'autonomia della coscienza umana[37].
Dicendo carattere e sviluppo, io non affermo che i nostri filosofi abbiano avuto chiara coscienza del processo del nostro pensiero, come è avvenuto ne' giorni nostri in Alemagna, e anche in parte in Grecia nel tempo antico. Dico solo, che quando si determina l'idea propria di ciascun sistema e la loro comune tendenza, ci si vede chiaro quel carattere e quello sviluppo. La chiara coscienza e quindi il vero, ampio e libero sviluppo è mancato in Italia, appunto perchè è mancata la libertà della vita.
La nostra filosofia comincia come critica o negazione (più o meno espressa e vivace) di quella del medio evo: della Scolastica.
Per intendere il valore di questa negazione, bisogna intendere ciò che essa negava, cioè avere il concetto della Scolastica.
Il Reale che era oggetto della Scolastica, era, in generale, un reale fantastico, dato dalla rappresentazione religiosa, dalla quale la filosofia del medio evo non seppe mai liberarsi interamente. La filosofia, è stato detto, era ancella della teologia.
Da questa posizione risultano le seguenti determinazioni:
pretensione di comprendere l'Assoluto mediante l'intelletto finito e formale; e così l'Assoluto diventa qualcosa di vuoto ed astratto: una creatura dello stesso intelletto. E nel medesimo tempo:
rappresentazione di Dio come fuori del mondo della natura e dello spirito, e quindi: [69] degradazione dell'uomo e della natura;
astrazione da ogni elemento concreto e reale della vita;
difetto di certezza nella conoscenza;
prevalenza della fede e intuizione mistica, in luogo della osservazione, della esperienza, del senso e della coscienza.
Queste determinazioni si riducono alle due seguenti:
negazione della natura: della realtà;
negazione della soggettività: della certezza.
La critica di questa posizione, cioè la filosofia del Risorgimento, dovea essere:
separazione della filosofia dalla teologia;
negazione del misticismo;
critica dell'intelletto finito, e dimostrazione della impossibilità di arrivare all'Assoluto mediante le categorie (isolate le une dalle altre, e sciolte dalla loro unità razionale, che è appunto il loro vero significato): — scetticismo, dotta ignoranza; la conoscenza non altro che semplice congettura;
naturalismo: cioè la necessità di conoscere e studiare la natura; perchè solo questa conoscenza è scala alla conoscenza di Dio, non essendo altro la natura che o la immagine e simiglianza di Dio, o Dio medesimo come essenza immanente nelle cose (Natura est Deus in rebus: Bruno);
il principio della dignità dell'uomo come pensiero e come volere, come intelletto teoretico e come intelletto pratico;
legittimità del piacere e dell'elemento mondano in generale come momento essenziale della virtù, e della vita dello spirito;
ricerca di un principio immediato della certezza e della prova scientifica, il quale non è altro che [70] l'Io, il pensiero (ego cogito): da prima come senso o esperienza in generale, di poi come coscienza o pensiero razionale.
Tutte queste determinazioni sono sparse, un po' confusamente, nelle opere de' filosofi nostri e stranieri di quel tempo. Sono semplici indizi, semi e germi, i quali si raccolgono più o meno e hanno maggior vita nella coscienza di Bruno e Campanella, e si riducono alle due seguenti:
Bruno e Campanella chiudono l'epoca del Risorgimento in Italia. Già sin d'allora è evidente la comunità d'indirizzo tra noi e gli altri popoli. Io mi sono proposto di considerare particolarmente questo nuovo indirizzo soltanto in Campanella e Bruno[38].
Intanto, perchè qualcuno non dica che queste determinazioni le abbia immaginate io stesso per insinuare negli animi ingenui il sentimento di quella comunità d'indirizzo, che secondo la sentenza de' nostri bramani non ci è nè ci può essere, e vituperare così la nazionalità propria della nostra filosofia; e che in ogni caso Campanella e Bruno non siano tutta la filosofia italiana del Risorgimento, e tanto più che quegli puzza di congiura e di carcere, e questi di eresia e di rogo, io sento l'obbligo di far precedere ancora alcune notizie all'esposizione particolare [71] del pensiero di questi due nostri filosofi. La dimostrazione di quella comunità d'indirizzo e della verità storica di quelle determinazioni è solo la storia della filosofia del Risorgimento: opera lunga, difficile e laboriosa, che è ancora un desiderio. Non potendo nè volendo io fare qui questa storia, mi contenterò di leggere, o testualmente o compendiati, e accompagnare di qualche comento alcuni luoghi de' filosofi di quel tempo, ne' quali il nuovo indirizzo e le nuove determinazioni a me paiono immediatamente evidenti. Del resto, questa lettura, che non merita nè anche il nome di semplice cronica, servirà in ogni caso, se non a formare, almeno a preparare nell'animo vostro quella convinzione, che è lo scopo di queste mie lezioni.
a) A un tale, che nella precedente lezione quasi mi accusava di voler distruggere la Scolastica (sic!), io risposi: — non sono io, ma la storia che si è incaricata da un pezzo di questa faccenda. — Ora potrei dire a colui: pigliatevela col cardinale di Cusa[39]; giacchè egli primo, il Cardinale, scosse quel giogo, che il mio accusatore si duole che voglia scuotere io. Si rassicuri pure il mio accusatore, e stia tranquillo; quel giogo è non solo scosso, ma infranto da più secoli, e, checchè si dica o faccia per rappezzarcelo sopra le spalle, non sarà altro che un innocente desiderio o piuttosto una pia commemorazione.
Dal Cusano a Bruno e Campanella corrono circa 200 anni. La prima cosa, il Cusano raccomanda la tolleranza religiosa, e con tale ardimento, che farebbe [72] paura anche in questo secolo. Non est nisi una religio in rituum varietate.... Una est igitur religio et cultus omnium intellectu vigentium. — Il fondamento filosofico di questa tolleranza è quella duplice tendenza, più o meno comune a tutti i filosofi del Risorgimento e opposta direttamente alla Scolastica, cioè: la convinzione, che la perfetta conoscenza della verità (di Dio) sia impossibile (scetticismo), e che la sola conoscenza possibile di Dio sia quella, che consiste nella contemplazione della natura (naturalismo). Noi non possiamo, dice il Cusano, conoscere i misteri impenetrabili di Dio; finiti e limitati come siamo, non ci è dato di saziare il nostro desiderio della verità. In questo senso siamo ignoranti. Pur dobbiamo, quanto è possibile, contemplare le cose dell'universo, per accostarci alla conoscenza della verità; giacchè le cose dell'universo contengono nella loro profondità una gran ricchezza, la ricchezza di Dio stesso, spiegata e sparsa per modo, che la loro considerazione può bastare ad alimentare continuamente il nostro spirito insaziabile. — Gli Scolastici, si sa, non vedevano nel mondo che povertà e miseria. — Così col Cusano comincia, o piuttosto ricomincia il problema della contemplazione della natura.
Le ragioni di questa duplice tendenza nel Cusano sono ne' seguenti concetti di Dio, delle potenze del conoscere, e del mondo:
1. Ragione dello scetticismo. Dio è la coincidenza de' contradittorii. Debet autem in his profundus omnis nostri humani ingenii conatus esse, ut ad illam se elevet simplicitatem, ubi contradictoria coincidunt[40]. Perciò Dio è la negazione — la pura negazione — del [73] finito: il Negativo infinito. Il mondo, al contrario, è il Privativo infinito. Vi ha, infatti, una connessione intima e universale di tutte le cose: il sistema delle cose, il Tutto. Ora, ogni cosa è il tutto, ma contratto. Se non fosse il Tutto contratto, sarebbe Dio. Dio solo è il Mondo stesso — il Tutto — senza contrazione: absoluta quidditas mundi.
Noi non possiamo conoscere questa connessione (complicatio) o quiddità assoluta, perchè tre sono le nostre potenze conoscitive: senso, ragione, intelletto. Il senso ci fa apprendere il particolare, senza nesso; la ragione, quel nesso, ubi contraria se compatiuntur ut oppositae differentiae in genere; l'intelletto, quel nesso, ubi contradictoria se compatiuntur. Sopra questo nesso vi ha quello — il divino —, ubi omnia absque differentia coincidunt. Questa coincidenza noi non possiamo apprendere. Essa è la summa praecisio intellectus, come l'intelletto è della ragione, e la ragione è del senso.
2. Ragione del naturalismo. L'universo è il Mezzo assoluto tra Dio e le cose. Deus est, mediante universo, in omnibus; et pluralitas rerum, mediante universo, in Deo. Così la mente di Dio si conosce dalle sue opere, cioè dalla sua relazione col mondo: mediante il verbo di Dio. I mistici al contrario si ritirano dal mondo nella oscura profondità dell'anima, sperando così di arrivare alla conoscenza di Dio.
b) Tra i greci venuti in Italia, Pletone[41] raccomanda di non dare nessuna importanza alle opinioni [74] ecclesiastiche nelle cose filosofiche. E sebbene dica, che la teologia è la scienza fondamentale, pure — quando si va a vedere — questa teologia non è cristiana, ma politeistica; i suoi iddii non sono altro che le forze della natura; promovendo la teologia, egli promuove la contemplazione fisica delle cose. — Pletone fu maestro del cardinale Bessarione[42].
c) Tra i filologi latini il Valla[43] — spirito irrequieto, malédico, nemico de' pregiudizii, avido di novità — nega la donazione di Costantino, mette in dubbio la tradizione sulla origine della confessione degli apostoli, mostra i difetti dell'antica traduzione della Bibbia; e — ciò che più importa qui — combatte la Scolastica, il linguaggio barbaro de' suoi dottori e le regole sillogistiche a nome della rettorica e della filologia, della natura e del senso comune. Valla considera il senso comune nell'uso della lingua. Biasima la pretensione de' filosofi che vogliono conoscer tutto, e dice che i misteri non si possono conoscere. Naturam... in omnibus esse ducem. — Idem est Natura quod Deus, aut fere Deus. — Vuole una morale più libera e meno astratta; il vero bene non sia la virtù, ma il piacere, cioè il fine della virtù. Ubi sunt, qui honestum propter se dicunt expetendum? Ne Deo quidem sine spe remunerationis servire fas est. — Qui si vede insieme scetticismo e naturalismo.
Anche Rodolfo Agricola[44], che visse nello stesso secolo di Valla, antepone la rettorica a ogni altra [75] disciplina e vuole in tutto la chiarezza. Nello stesso tempo afferma, che non si può saper tutto, e che alcuni enimmi non hanno ancora trovato il loro Edipo nè lo troveranno mai.
d) Tra i platonici e teosofi Marsilio Ficino raccomanda, come il Cusano, la tolleranza religiosa. L'unico mezzo di ricondurre alla fede i filosofi, che non credono, essere la buona filosofia, non le prediche. Esalta la dignità dell'uomo: onorando Dio noi onoriamo noi medesimi, perchè riconosciamo in noi la dignità divina. Noi conosciamo Dio mediante il divino che è in noi, e non altrimenti.
Giovanni Pico della Mirandola[45] non vede altra via di conoscere il mistero della natura che la rivelazione: alla quale nondimeno si deve aggiungere lo studio delle tradizioni pagane, che contengono una rivelazione antichissima. Esalta, anche più che il Ficino, la dignità dell'uomo. L'uomo non è limitato da una natura particolare, ma ha una natura universale. Definita caeteris natura, dice Dio all'uomo, inter praescriptas a nobis leges coërcetur. Tu nullis angustiis coërcitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te, posui, tibi illam, praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius, quidquid est in mundo. Nec te coelestem, neque terrenum, neque mortalem, neque immortalem fecimus, ut fui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas. Poteris in inferiora, quae sunt bruta, degenerare. Poteris in superiora, quae sunt divina, ex tui animi sententia regenerari. — Hominis substantia..... omnium in se [76] naturarum substantias et totius universitatis plenitudinem re ipsa complectitur..... Est autem haec diversitas inter Deum et hominem, quod Deus in se omnia continet uti omnium principium, homo autem in se omnia continet uti omnium medium (cioè, centro di ogni cosa.). — La conoscenza umana può abbracciar tutto; in certo modo il conoscente diventa ciò che egli conosce. L'essenza di ogni ente è nel suo interno; nella conoscenza l'uomo può appropriarsi questa essenza interna: siccome insegna anche Aristotele, che l'anima è tutto, perchè conosce tutto. Senonchè la conoscenza è solo un possesso parziale delle cose. L'uomo si appropria davvero tutte le cose solo coll'amore: colla volontà. — Doversi investigare la natura; questo essere il vero modo di vincere la superstizione. L'esistenza materiale essere la condizione necessaria della nostra vita mondana e il cominciamento d'ogni sviluppo.
Francesco Zorzi[46], veneziano (frate de' Minori), celebra l'armonia di ogni cosa con ogni cosa, e di tutte le cose coll'uomo (Harmonia mundi totius). Dio essere la suprema concordia di tutte le cose; e noi ci eleviamo alla conoscenza di Dio dalla investigazione della natura.
Giovanni Reuchlin[47] predica anche lui la tolleranza religiosa, e difende — come fa anche Cornelio Agrippa[48] — gl'israeliti contro i teologi di Colonia. — Dice, che il sillogismo, il ragionamento, il discorso non basta per conoscere le cose, ma si [77] richiede la fede. Ma la fede cristiana neanche basta: il Dio immanente si rivela al nostro spirito, e questa rivelazione è più profonda della cristiana. — Il ragionamento non può comprendere l'unità degli opposti. In mentis regione aliqua sunt necessaria, quae in ratione sunt impossibilia. In mente datur coincidere contraria et contradictoria, quae in ratione longissime separantur. Non bastare l'intuito interiore di Dio senza la contemplazione della natura (misticismo); ma dalla conoscenza del mondo si procede a quella di Dio. Omnes res inferiores sunt repraesentativae superiorum, et uti fit inferius, sic agitur superius. Per ben morire, per godere della beatitudine, si deve anche ben vivere e cercare di godere della felicità: si abbia cura del corpo, e non solo dell'anima. — La volontà è più potente della natura. La volontà di Dio si conosce dalle sue rivelazioni nell'universo.
Il platonismo non era, di certo, favorevole alla Scolastica, e se il mio oppositore fosse nato in que' tempi, non avrebbe mancato di accusarlo nelle debite forme. Questi filosofi scrivevano con una certa eleganza; allargavano i limiti della teologia, che sino allora era stata unicamente cristiana, senza veruna relazione colle altre religioni e colla natura in generale; e considerando gl'ideali platonici come tipi delle cose favorivano e promovevano lo studio della natura come rivelazione di Dio, e anche lo studio delle azioni umane. Queste novità non avrebbero potuto formare tanti capi di accusa?
e) Tra gli aristotelici — oltre Leonico Tomeo[49], il quale si sforza di conciliare la dottrina aristotelica [78] della tabula rasa colla platonica della reminiscenza delle idee —, Alessandro Achillini (professore a Bologna[50]) non vuol riconoscere altro universale, che quello che come essenza delle cose è nella Natura. Il vero Universale non è separato dal particolare, nè è prima del particolare; ma è come forma nella materia. Gli universali, come forme nella materia, servono a formare l'intelletto umano, e a fargli conoscere l'Eterno. Originariamente l'intelletto è solo possibile, non ha in sè verun pensiero universale innato, ma solo la potenza di conoscere. Comincia dal sensibile, e nel sensibile conosce le idee universali poste da Dio nella natura. L'universale, che è nella natura, ci riunisce a Dio. Quindi la necessità d'investigare i pensieri universali di Dio nella natura.
Uno studio più diligente di Aristotele, dice il Ritter, avea già fatto vedere che l'aristotelismo non era favorevole al nominalismo. Il nominalismo negando la realtà degli universali, era contrario alla investigazione di Dio nella natura, e favoriva la opposizione tra il soprannaturale e il naturale.
Pomponazzi (mantovano)[51] investiga i limiti dell'intelletto umano. La nostra conoscenza non apprende la verità per intuizione, ed è solamente ombra e vestigio d'intelletto. Verius et ratio quam intellectus appellari dicitur. Non enim, ut ita dixerim, intellectus est, sed vestigium et umbra intellectus[52]. L'unione dell'intelletto possibile coll'attivo non può essere lo scopo della attività umana; l'uomo [79] aliquid immaterialitatis odorat[53], e non altro; anzi sa poco della stessa natura. — Ha più autorità il senso che la ragione, più l'esperienza che i principii razionali. I primi principii non si possono provare, ma solamente credere. E se ciò avviene nella cognizione naturale, tanto più avrà luogo nella cognizione del soprannaturale. In questa è necessaria la fede. — Non solo l'attività speculativa, ma anche l'attività pratica dell'uomo è limitata, sebbene meno della prima. Praticamente l'uomo può arrivare a quella perfezione, a cui non può giungere speculativamente. — Doversi ammettere la contingenza della creazione, ma non potersi comprendere dalla nostra intelligenza. Nello stesso modo, la ragione naturale non può conciliare la libertà umana e la provvidenza divina; nè risolvere il problema dell'immortalità dell'anima. — Senza il corpo non è possibile nè l'intelletto teoretico, nè il pratico: quello non conosce l'universale che nel particolare, e per la rappresentazione del particolare ha bisogno del senso e della immaginazione; il senso senza il corpo, come oggetto della sua attività, non può far nulla; la volontà non opera senza strumenti corporei. Così la vita morale, nella quale consiste tutta la dignità dell'uomo, non è possibile senza il corpo. — Questa necessità del corpo, così per la speculazione come per la pratica, limita di tal maniera il nostro intelletto, che, posto anche che noi fossimo immortali, non potremmo mai conoscere davvero la verità. (Pomponazzi nega la visione intuitiva in Paradiso). In che dunque deve esercitarsi l'intelletto? Non nel cercare di conoscere degli oggetti trascendenti, ma nell'attendere a' bisogni pratici della vita.
[80]
Pomponazzi espone arditamente la opposizione tra l'autorità filosofica e la religiosa, tra la conoscenza naturale e la soprannaturale, e nega perfino che questa abbia un privilegio su quella; il soprannaturale non poter essere conosciuto nè meno dopo la morte. — Questo scetticismo di Pomponazzi è temperato dalla sua filosofia pratica; la vita pratica sia appunto la destinazione dell'uomo. — Nessuno de' suoi contemporanei, dice il Ritter, ha investigato meglio di lui la connessione della scienza colla vita reale. Questa gloria non gli si può negare.
f) Tra i nuovi filologi, Ludovico Vives[54] crede impossibile una dottrina della prova scientifica: la scienza umana essere limitata, e riuscire alla semplice verisimiglianza, non alla verità assoluta. L'elemento pratico sia da preferire allo speculativo.
Nizolio[55] nega la realtà delle idee universali: solo le cose materiali essere conoscibili, e il vero metodo essere l'induzione. Quindi impossibile la scienza, che è appunto la cognizione degli universali; la conoscenza non poter essere altro che opinione: conoscenza di sensibili e di particolari. — Questo indirizzo favoriva lo studio delle cose naturali. — Nizolio distingue, come anche Vives, l'elemento formale dall'elemento materiale della cognizione: quello costituisce la filologia, questo la filosofia; quello è l'anima, questo il corpo. — La stessa distinzione è fatta da Pietro de la Ramée (Ramus)[56], il quale preferisce anche il lato formale al materiale.
[81]
L'indirizzo de' filologi aveva questo significato: si stia alla natura, e si riconosca come legge ciò che essa c'insegna; il suo vero insegnamento è nel senso retto. — Il clero in quel tempo era separato scolasticamente dal popolo, e i filologi contribuirono a togliere questa divisione tra i letterati e il popolo, facendo valere il senso comune e la maniera ordinaria di pensare e parlare. I filologi dicevano: se gli scienziati possono formarsi delle parole tecniche, non devono però separarsi dalla vita comune del popolo, in mezzo al quale vivono.
g) Tra i riformatori, Melantone[57] dice, che la verità assoluta non si può conoscere, e bisogna contentarsi della esperienza; cominciare da' sensi per elevarsi alla conoscenza delle cose spirituali. Il mondo essere una rivelazione di Dio: e come tale, oggetto della filosofia. Teologia e filosofia devono essere separate; la filosofia deve essere popolare, e servire alla vita. Non si deve amare la sola virtù, ma anche la vita e i beni della vita: il matrimonio, la comunità politica, i piaceri ordinati e concessi da Dio.
Paracelso[58] espone la necessità, che l'uomo cerchi la verità non solo in se stesso, ma anche fuori di se stesso, e conosca il piccolo mondo, — il mondo interiore, — dal gran mondo, dall'esterno. L'arte umana consiste nel fare interno l'esterno, per modo che il gran mondo passi nel piccolo. Che altro è la natura, se non la filosofia? E che altro è la filosofia, se non la natura invisibile? Chi conosce, porta invisibilmente la cosa in se medesimo: è puro specchio [82] delle cose. — Il filosofo deve fare del cielo e della terra un microcosmo, e non trovare nel cielo e nella terra, se non ciò che trova nell'uomo. — Dio si conosce mediante la natura. — L'uomo contiene in sè tutti gli elementi del mondo, ed è nato a fare che la natura si manifesti, cioè si appalesi l'intima essenza, posta da Dio nelle cose. Così nell'uomo si compie la destinazione del mondo. Ma ciò essere impossibile senza la esperienza: senza il lavoro dell'uomo, il quale deve separare e unire le cose, e trasportare l'interno nell'esterno.
h) In Italia — mentre la gerarchla, specialmente per opera de' gesuiti, si sforzava di rinnovare la Scolastica — il naturalismo prendeva una forma più schietta e determinata. — Telesio[59] professa di voler seguire il senso e la natura. Qui ante nos mundi huius constructionem rerumque in eo contentarum naturam perscrutati sunt, diuturnis quidem vigiliis magnisque illam indagasse laboribus, at nequaquam inspexisse videntur. — Sensum videlicet nos et naturam, aliud praeterea nihil secuti sumus[60]. — In questo luogo è enunciato il nuovo principio delle scienze naturali: il metodo naturale è di osservazione. Telesio precorre Bacone e Galileo. Il solo senso, egli dice in un altro luogo, ci fa conoscere la natura; anzi la prova derivata dal senso è migliore della matematica. In eo certe naturales (conclusiones) praestare videntur, quod a propriis hae principiis et a propriis manant causis, at mathematicae [83] a signo omnes[61]. — Si sa dove si riuscì, ne' secoli posteriori, per questa unica via: al naturalismo e al materialismo. E infatti per Telesio, che vuole investigare ogni cosa col senso, tutti gli oggetti si trasformano in oggetti sensibili: le forze della natura non sono che forze sensibili. E, nell'etica stessa, ogni virtù si riduce all'istinto sensibile della conservazione di sè stesso; e ha un sol fondamento, cioè la riflessione ragionevole, che nasce dall'esperienza di quel che è utile o nocivo. L'interesse personale è in tutti i nostri appetiti ed affetti.
Telesio separa la fisica dalla teologia, dalla morale, dalla religione, e dalla stessa metafisica. Non nega queste scienze, anzi ammette una scienza superiore alla fisica, ma vuole che quelle non abbiano veruna influenza su questa.
i) Tra gli ultimi platonici, Patrizio[62] — amico a' gesuiti, ai quali raccomanda la sua filosofia, e denigratore arrabbiato di Aristotele — segue pure, più o meno, lo stesso indirizzo di Telesio. Nel suo sistema (Nova de universis philosophia) si propone principalmente di spiegare l'universo con ragioni fisiche, e di ricercare nella esperienza i punti di unione di tutte le scienze. Ammette la metafisica, e ne fa uso frequentemente, sebbene vagamente e senza esatte definizioni de' principii; ma, al far de' conti, questa scienza — come teorica del soprannaturale — non ha per lui, come per gli altri fisici della sua stessa pasta, altro ufficio, che quello di indicare i limiti della fisica: nel fatto essa non ha [84] più posto d'onore tra le scienze. Con tutto ciò egli non è sensualista come Telesio, e pone l'origine di ogni cognizione non solo nel senso, ma nella mente. De incognitis nulla nobis condetur philosophia. A cognitis ergo initium sumendum. Cognitio omnis a mente primam originem, a sensibus exordium habet primum. Ogni attività, ogni forza è sempre per Patrizio qualcosa d'incorporeo ed immateriale; il corpo, la materia, è per sè inerte; una forza puramente sensibile è una contraddizione. Omnis enim actio incorporei. Nullum enim corpus actionem sui natura habet ullam, et si quid corpora agere videantur, per incorporeum quid, quod in ipsis est, id operantur. — Passiones namque corporum sunt actiones. Nihil enim aliud agit corpus quam patitur. — Il merito di Patrizio sopra i suoi predecessori è di aver avuto un concetto più chiaro e rigoroso di questa dottrina.
k) Tra gli ultimi aristotelici, Cesalpino[63] — autore della prima botanica sistematica e della prima mineralogia, e scopritore della circolazione del sangue prima di Harvey — concepisce l'universo come un ente vivo, e tutte le cose come parti organiche di quest'ente. Le cose non hanno significato, che in quanto sono organi dell'universo ed hanno in sè la vita del tutto. L'essere di ogni sostanza non è altro che la sua stessa attività, e la connessione di tutte le attività è la vita universale del mondo. — Fondamento eterno e universale di tutte le cose è la materia, la quale come soggetto de' corpi è ingenita e incorruttibile, ed è la estensione pura (ingenita et incorruptibilis substantia). La materia è [85] l'essere intelligibile di Dio (pel cardinale di Cusa era la potenza); il quale, come intelligenza, non è che la forma universale del mondo. — L'essere delle cose intelligenti consiste nella conoscenza che hanno di se stesse. La moltiplicità delle intelligenze dipende dalla moltitudine delle forme materiali. Una è la intelligenza, la quale è in tutte le parti, per modo che un essere intelligente non è già un'intelligenza particolare, ma solo la intelligenza nel particolare. L'intelligenza è uno e molti, come la potenza sensitiva dell'anima nelle membra del corpo. Questa intelligenza è Dio. Esser vano domandare, se un essere intelligente abbia intelletto degli altri, giacchè in verità non sono altre intelligenze, ma una e medesima intelligenza. Essi sono diversi come il piede e la mano, l'occhio e l'orecchio. — Il divino è in ogni cosa, e ogni cosa è in certo modo uno; altrimenti non sarebbe possibile il passare da una cosa a un'altra. La scienza deve comprendere quest'Uno che è in tutte le cose, e anche in noi. Comprendendo noi stessi, noi comprendiamo Dio, del quale siamo una partecipazione; e questa eterna intellezione è la beatitudine. — Senza la materia, almeno come materia pura, non essere possibile l'intelligenza; non esser possibile la moltitudine delle intelligenze.
Zabarella[64] pone anche la materia eterna, e dice anche, che come soggetto del corpo è l'estensione pura. La fisica è superiore alla metafisica, anzi il fondamento di essa. Dalla conoscenza del mondo si procede a quella di Dio. Il principio pensante è inseparabile dal corpo: dalla materia.
[86]
Cremonini[65] (professore a Ferrara e a Padova) raccomanda l'induzione e l'esperienza come la vera via de' principii delle scienze. La fisica è la scienza per eccellenza: l'esistenza di Dio non si può provare che fisicamente. — L'essenza dello spirito è il pensiero: l'essere intelligente non conosce che se stesso. L'essenza della materia è l'estensione.
Da questa stessa scuola padovana provenne l'infelice Vanini[66]; del quale taccio, perchè le sue opere e la sua filosofia sono abbastanza note.
Da tutte queste citazioni, prese così qua e là e quasi alla rinfusa, si vede chiaro dove debba andare a finire questo gran movimento di quasi duecento anni, il quale si fece principalmente in Italia e si compì in Bruno e Campanella. Cartesio, Bacone, Spinoza, Locke non si faranno molto aspettare. Si dirà, che tutto questo periodo, a cui la storia ha dato giustamente il nome di Risorgimento, non significhi altro che l'aberrazione dello spirito italiano. Si dica pure. Ma ciò che non si può negare, è appunto questo: che tale aberrazione ha durato due secoli, e coincide colle più grandi scoperte dello spirito moderno: la stampa, la circumnavigazione, il nuovo mondo, il sistema copernicano, e quel solenne avvertimento, per non dir altro, che ebbe da un frate la gerarchla, e da cui essa trasse, al solito, quel profitto che tutti sanno![67]
[87]
SOMMARIO.
Concetto della Restaurazione cattolica. — Carattere generale della filosofia del Campanella.
Campanella è l'ultimo filosofo del Risorgimento. Il suo imprigionamento coincide quasi colla morte eroica di Bruno e colla nascita di Cartesio. Io non racconterò qui la sua vita; non indagherò se egli avesse davvero congiurato contro gli Spagnuoli. Il D'Ancona ed altri tentarono, di già sono parecchi anni, tutte le vie per dimostrare la falsità dell'accusa, quasi temendo che la sua verità storica fosse un'infamia pel frate di Stilo. Le ragioni del D'Ancona — allora giovanissimo, e pur colto e ingegnoso — furono da me sommariamente discusse nella introduzione a' miei studii sulla teorica della cognizione e sulla metafisica di Campanella[68]. Qui io devo considerar Campanella soltanto come filosofo.
Campanella è il filosofo della restaurazione cattolica. Si è dato questo nome a quel tentativo, più [88] o meno serio e sincero, di conciliazione, iniziato e promosso dal clero in generale dopo la Riforma, tra il medio evo e la tendenza del nuovo tempo, tra la Scolastica e il pensiero libero. Campanella è come due uomini e due coscienze in una: l'uomo del medio evo — il discepolo di S. Tommaso —, e l'uomo nuovo, con nuovi istinti e tendenze, il quale teme sempre di contraddire al primo e quasi diffida di se stesso. Perchè dunque sia ben compreso il significato di Campanella nella storia della nostra filosofia, io credo di dover esporre, quanto più brevemente potrò, il concetto di questa restaurazione. Si sa, che la filosofia non è mai qualcosa d'astratto e d'indifferente verso le altre forme reali della vita, ma nasce sempre o almeno viene determinata da una data posizione storica della vita stessa.
Ora la differenza tra il medio evo e il nuovo tempo, considerata in quelle forme principali della vita umana, che sono lo Stato, la religione e la filosofia, è la seguente:
1. Nel medio evo lo Stato dipende assolutamente dalla Chiesa, come si vede chiaro dalla teorica della relazione tra le due spade: la spirituale e la temporale. Lo Stato non ha altro valore che quello di piedistallo della statua di Dio, che è la Chiesa; non è in sè niente di divino (di legittimo e razionale), ma è sacro solo come piedistallo. Per Dante stesso — il quale noi sogliamo venerare come il primo autore del concetto del nostro Stato autonomo e nazionale —, lo Stato non è altro ancora che il Sacro romano imperio, e l'Italia soltanto la prima gemma dell'imperiale corona. Lo Stato è uno ed universale, come una ed universale è la Chiesa; e non solo lo Stato come tale è soggetto alla Chiesa, ma lo Stato nazionale è una cosa secondaria.
[89]
La religione è impacciata da forme esterne troppo materiali; le quali spengono, invece di manifestare, la vitalità dell'idea religiosa. Nella Chiesa, come governo di Dio su questa terra, come papato e gerarchla, si fa una mostruosa mescolanza dell'infinito e del finito, a' quali si attribuisce egual valore; un tempio, un convento, una pietra sono sacri come la stessa legge divina, e sempre superiori a tutte le leggi umane. Tale è l'origine delle immunità e d'ogni maniera di privilegi locali e personali.
La scienza (e specialmente la filosofia, come ho già detto nella lezione terza) dipendeva assolutamente dalla teologia.
2. Nel nuovo tempo, al contrario, lo Stato intende di separarsi dalla Chiesa, acquistare la propria autonomia, e dire: io sono, e sono qualcosa di divino e ho una missione divina sopra la terra. A questo indirizzo corrisponde la formazione delle nazionalità e della monarchia.
La religione intende di liberarsi dalle forme esterne troppo materiali e raccogliersi nella purezza ed interiorità del sentimento: e pregiare non le sole opere senza la fede (e neppure la sola fede senza le opere), ma le opere prodotte e vivificate dalla fede.
La scienza, finalmente, intende di emanciparsi dalla teologia; cerca nel pensiero (nella natura e nella coscienza) la base della certezza, e già dice: penso, dunque sono.
In generale: nel medio evo, il divino è solo l'elemento religioso, e l'uomo effettua il divino, solo nella religione. Nel nuovo tempo, invece, la religione è solo una delle forme del divino nell'uomo, e le altre sono appunto lo Stato, la scienza, l'arte; e l'uomo può elevarsi a Dio ed effettuare il divino anche nella pratica della vita civile, nell'arte, nel sapere.
[90]
Ora ecco come i restauratori cattolici si misero a conciliare questa opposizione.
Quanto allo Stato, fecero questa gran concessione: Chiesa e Stato stanno tra loro come anima e corpo (non più come statua e piedistallo); sono due sostanze, due nature (dottrina tomistica: San Tommaso trascende in parte il medio evo). Il corpo, come ente per sè, ha una certa indipendenza: vegeta, vive, mangia, digerisce, etc., etc. Ma nelle cose che interessano l'anima, o deve lasciar fare all'anima o deve dipendere dall'anima (nelle così dette funzioni miste). Egualmente lo Stato. Il quale apre strade, dissecca paludi, riscuote tasse, produce e consuma, etc., etc. Ma non può definire quel che è buono e giusto — non può far leggi veramente degne di questo nome —, senza consultare e obbedire l'oracolo supremo, che è la Chiesa. Non ci è bisogno di dire, che questa dipendenza dello Stato si estende anche alle azioni miste. — Questa relazione tra la Chiesa e lo Stato è da' moderni gesuiti rappresentata più grossolanamente così: la Chiesa è il medico che fa la ricetta, e lo Stato è lo speziale che la spedisce. Ovvero meglio: la Chiesa è l'architetto, e lo Stato è il muratore[69]. I primi gesuiti erano più larghi e liberali; e concependo le due potestà, la spirituale e la temporale, come immediate a Deo tutte e due, facevano conferire la prima a S. Pietro e successori, e la seconda al popolo solo, alla [91] moltitudine, alla massa; la quale poi la trasferisce sub conditione o per contratto nel Principe. Perciò la potestà del Principe non è di origine divina, come quella del Papa; il diritto divino è solo nella massa. Così i gesuiti d'allora per combattere la prima forma dell'autonomia dello Stato (la monarchia assoluta), mettevano innanzi la sovranità popolare e negavano il diritto divino de' principi; e i gesuiti d'oggi giorno, per combattere la vera forma dell'autonomia dello Stato, fondata nella volontà nazionale, mettono innanzi il vecchio diritto divino delle famiglie principesche. Il fine è lo stesso; solo i mezzi sono differenti.
Quanto alla religione in generale, la conciliazione fu l'opera, si sa, del Concilio tridentino.
Nella filosofia finalmente essa ebbe la sua forma più schietta, e direi quasi disinteressata, appunto nel sistema di Campanella.
In generale, questa restaurazione, come tutte le restaurazioni fatte da coloro che hanno perso e vogliono rifarsi, non fu una vera conciliazione. Pure fu in qualche modo un progresso. E il maggior bene fu questo: che si riconobbe che ci era qualcosa da fare e qualche opposizione da conciliare. Gli stessi restauratori ammettevano, almeno implicitamente, che il mondo non andava più come era andato nel medio evo. Questa convinzione era così profonda in Campanella, che tra lui e la schiera comune de' restauratori ci è da fare una gran differenza. Costoro, più che a fondare il nuovo, miravano a conservare o riedificare il vecchio mondo; Campanella al contrario si sentiva come tirato dal nuovo, e il vecchio faceva su lui, dirò così, l'effetto d'un contrappeso. Gli altri guardavano indietro, e avrebbero volentieri voltato per sempre le spalle a ogni [92] avvenire; Campanella guardava innanzi, e si volgeva indietro come il fanciullo verso la madre che l'ha allevato.
Infatti fin da giovinetto, come ho già notato in una mia scrittura[70], Campanella difende la fisica di Telesio, cioè la nuova scienza, la scienza della natura opposta alle credenze ecclesiastiche; ma nel tempo stesso con pietà religiosa indaga la relazione della vita naturale colla soprannaturale.
Vuol riformare la filosofia (cioè, non si contenta nè della Scolastica, nè davvero del medio evo) e la società (Città del sole); ma conservando, anzi promovendo sempre il rispetto della Chiesa cattolica.
Ammette il progresso; ma indirizzato ad una monarchia universale, capo il Papa, alla estirpazione dell'eresia, alla comunità de' beni e delle donne. Riconosce che lo Stato e le relazioni mondane non sono il puro nulla, sebbene non abbiano in sè il divino, ma lo ricevano solo per partecipazione, in quanto servono a' fini della Chiesa; il vero Stato è l'ecclesiastico-laicale. È divino solo l'elemento religioso.
Afferma il valore del senso e della esperienza: anzi nella esperienza fonda tutta la scienza delle cose umane e naturali, e pone come principio la coscienza di sè e l'attività spontanea dello spirito (precorre l'empirismo ed il razionalismo). Ma con tutto ciò la scienza naturale non è cosa divina, e ha radice principalmente nell'anima materiale, più che nella immateriale (che è l'organo della religione). — Dualismo tra il naturale e il soprannaturale, come tra le due anime.
[93]
Insiste sulla necessità di studiare la natura, gran libro o codice di Dio: questo studio è tutta la filosofia. Ma il mondo in generale è solo la statua di Dio, non un lato della vita di Dio. Dio nella sua verità è assolutamente fuori del mondo, e ce lo fa conoscere solo la religione, non la filosofia; la quale così è di certo regina delle scienze naturali, ma sempre ancella della teologia.
Ma se la filosofia e le scienze naturali non ci fanno conoscere la verità, che è Dio stesso, a che servono? Come giustificare la necessità della loro esistenza? In generale, perchè questa vita terrena, finita, mutabile? Non se ne sa niente; è pericoloso anche il congetturare su ciò, dice Campanella.
Campanella non comprende la necessità del finito in generale: la mondanità e umanità di Dio. Quindi i due caratteri della sua filosofia: teologismo e scetticismo. Questo è la convinzione che il sapere umano non basta a tutto, perchè sempre imperfetto; quello è la convinzione della necessità di sussidii straordinarii per soccorrere la ragione[71].
Il suo teologismo si fonda dunque nel suo scetticismo. All'opposto, il teologismo scolastico era puramente dommatico.
Questo scetticismo — diverso dall'antico, e prodotto dalla contemplazione della natura — è un elemento nuovo nella filosofia. (Anche oggi i naturalisti in generale non fanno consistere la scienza umana che nell'osservazione e nella esperienza; nel resto sono scettici, e, o ricorrono alla rivelazione, o non ci credono affatto. A certi problemi — i quali interessano, più che essi non credono, lo spirito umano, [94] perchè concernono l'uomo stesso, non come minerale, pianta o semplice animale, ma appunto come uomo — i naturalisti non sanno rispondere altrimenti che o negando i problemi medesimi o facendone una girata al curato e al confessore). — Abbiamo visto le diverse forme di questo scetticismo nel Risorgimento (Cusano, Valla, Pomponazzi, etc.). Adunque, epilogando, possiamo dire, che nella nostra filosofia Campanella ha questo significato: — è filosofo libero, che confida nel senso, nella esperienza e nella coscienza di se stesso; ma non è libero, non dico come Bruno, ma nè meno come Pomponazzi, Achillini, Cesalpino; non è scolastico, e più che Bruno, in quanto cerca di fondare la filosofia nella coscienza di sè; ma ne' risultati si accorda, più che non si potrebbe credere, colla dottrina gerarchica del medio evo. Rompe sì i ceppi alla scienza, ma sol perchè questa se li rifaccia da sè; e si sottometta liberamente, quasi per esperienza, alla fede.
È insomma, come ho già detto, il filosofo della restaurazione cattolica.
Il concetto della restaurazione si riassume nel seguente concetto della vita umana.
L'uomo, dice Campanella, è imperfetto; il suo stato non corrisponde alla sua natura; egli è in lotta con se stesso. Causa di ciò è il peccato. Quindi la necessità dell'aiuto divino. Giovano anche le leggi positive (quindi il valore dello Stato); ma non bastano. Ci bisogna altro: la rivelazione. A questa però si accompagna la religione interna, nella quale solamente noi partecipiamo alla vera libertà.
Qui ci è del vecchio e del nuovo, e tale è Campanella stesso: l'uomo restaurato. Il principio [95] nuovo che si associa all'antico, all'autorità e al sillogismo (che esplica e vuol comprendere i dati dell'autorità), è la religione interna; ciò, che egli chiama anche tactum intrinsecum. «A deo errantes per flagella reducti sumus ad viam salutis et cognitionem divinorum, non per syllogismum, qui est quasi sagitta, qua scopum attingimus a longe absque gusta, neque modo per auctoritatem, quod est tangere quasi per manum alienam, sed per tactum intrinsecum in magna suavitate». Cioè in magna libertate.
Il vero principio di questa ristaurazione non è nè l'autorità nè il sillogismo, ma il tactus intrinsecus. Cos'è questo tactus? In generale nient'altro che il sentire, la coscienza di sè, la presenza dello spirito a sè medesimo, l'Io, il pensare, la certezza.
E tale è il principio della filosofia di Campanella. Questo è l'elemento nuovo in lui[72].
[96]
SOMMARIO.
A) Carattere e destino di Bruno; — Differenza della sua filosofia da quella di Campanella. — B) Spinoza. — C) Bruno precursore di Spinoza: — Dio come Sostanza Causa.
A) Bruno è il vero eroe del pensiero: l'araldo e martire della nuova e libera filosofia. Se libertà non vuol dire un facile dimenarsi nel vuoto, ma il lottare contro gli enimmi dell'universo e contro i vecchi pregiudizi, i vecchi sistemi e tutta la potenza del vecchio mondo, non vi ha filosofo più libero di Bruno. Prometeo, rapitore della immortale scintilla, fu confitto alla rupe, ma non domo. Socrate, che portò la prima luce nella oscura intimità della coscienza, bevve tranquillo il veleno, che gli porsero i suoi concittadini. Bruno è degno di avere un posto accanto a Prometeo e Socrate. — Voi, diceva a suoi giudici l'annunziatore de' mondi innumerabili, dell'infinito universo e mondi, della vita infinita di Dio nell'universo e nell'animo umano[73], voi profferite questa sentenza contro di me con [97] maggior timore che io non la riceva. — La mitica leggenda ci racconta la liberazione di Prometeo. Gli ateniesi si pentirono di aver fatto morire Socrate. Bruno aspetta ancora in Italia chi onori la sua memoria, chi lo vendichi dall'anatema che pronunziarono contro di lui la superstizione e l'ignoranza. Uno storico d'Italia[74] lo chiama pazzo; questa parola è l'unica giustificazione. Invece del rogo, il manicomio.
Siamo sinceri. Bruno è stato vendicato da un pezzo; e quest'opera, non solo pietosa ma giusta, questa riparazione, che ha cancellato una vergogna nella storia umana, e però è stata una riparazione dell'umanità stessa, noi la dobbiamo agli stranieri, se vi ha stranieri nella patria del libero pensiero[75]. [98] Gli stranieri sono verso i nostri filosofi più giusti e generosi che noi non siamo verso i loro.
La libertà è il carattere stesso di Bruno; è tutto Bruno. «Qua molti, che per sua bontà e dottrina non possono vendersi per dotti e buoni, facilmente potranno farsi innanzi, mostrando quanto noi siamo ignoranti e viziosi. Ma sa Dio, conosce la verità infallibile, che, come tal sorte d'uomini son stolti, perversi e scellerati, così io in miei pensieri, parole e gesti non so, non ho, non pretendo altro, che sincerità, simplicità, verità. Talmente sarà giudicato, dove le opre ed effetti eroici non saran creduti frutti de nessun valore, e vani; dove non è giudicata somma sapienza il credere senza discrezione; dove si distinguono le imposture degli uomini dagli consegli divini; dove non è giudicato atto di religione e pietà sopraumana il pervertere la legge naturale; dove la studiosa contemplazione non è pazzia; dove nell'avara possessione non consiste l'onore, in atti di gola la splendidezza, nella moltitudine de' servi, qualunque sieno, la riputazione, nel meglio vestire la dignità, nel più avere la grandezza, nelle maraviglie la verità, nella malizia la [99] prudenza, nel tradimento l'accortezza, nel fengere il saper vivere, nel furore la fortezza, nella forza la legge, nella tirannia la giustizia, nella violenza il giudicio, e cossi si va discorrendo per tutto. Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch'ella mostra aperto; chiama il pane pane, il vino vino, il capo capo, il piede piede, ed altre parti di proprio nome; dice il mangiare mangiare, il dormire dormire, il bere bere, e così gli altri atti naturali significa con proprio titolo. Ha gli miracoli per miracoli, le prodezze e maraviglie per prodezze e maravigile, la verità per verità, la dottrina per dottrina, la bontà e virtù per bontà e virtù, le imposture per imposture, etc. Stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti, gli monachi per monachi —, le sanguisughe per sanguisughe, gli disutili, montaimbanco, ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, papagalli, per quel che si dicono, mostrano e sono, etc. Orsù, orsù, questo, come cittadino e domestico del mondo, figlio del padre Sole e de la Terra madre, perchè ama troppo il mondo veggiamo come debba essere odiato, biasimato, perseguitato e spinto[76] da quello»[77].
Domenicano, come Campanella, Bruno abbandona giovinetto il chiostro, getta gli abiti monacali, va vagando per tutta Europa; visita Francia, Inghilterra, Alemagna, predicando in ogni luogo le sue libere dottrine, cercando pace da per tutto, e non la trovando mai, scontento sempre di tutto e di tutti, fuorchè d'una cosa sola, la verità. E grida: «l'Universitade [100] che mi dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che non mi contenta, una che mi innammora; quella per cui sono libero in soggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade, e vivo ne la morte». Solo «per amore di essa io mi affatico, mi crucio, mi tormento»[78]. Finalmente, come spinto dal suo fato, ritorna in Italia; è imprigionato dalla inquisizione di Venezia, consegnato a quella di Roma, esaminato, torturato e arso. — Si suol dire che il maggior tormento e insieme la maggior consolazione de' filosofi sia la verità. Se ciò è vero, io credo che a nessun uomo la verità abbia fruttato più gran tormento e più grande consolazione che al povero Bruno[79].
E chi mi impenna e chi mi scalda il core?
Chi non mi fa temer fortuna o morte?
Chi le catene ruppe?. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Quindi l'ali sicure a l'aria porgo
Nè temo intoppo di cristallo o vetro,
Ma fendo i cieli e a l'infinito m'ergo.
E mentre dal mio globo agli altri sorgo,
E per l'eterio campo oltre penetro,
Quel che altri lungi vede, lascio al tergo.
Poi che spiegate ho l'ali al bel desio,
Quanto più sotto il piè l'aria mi scorgo,
Più le veloci penne al vento io porgo,
E spreggio il mondo, e verso il ciel m'invio.
Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo.
Ch'i' cadrò morto a terra, ben mi accorgo;
Ma qual vita pareggia al morir mio?
La voce del mio cor per l'aria sento:
— Ove mi porti, temerario? China,
Chè raro è senza duol troppo ardimento. —
[101]
Non temer, rispondo io, l'alta ruina.
Fendi sicur le nubi e muor contento,
Se il ciel sì illustre morte ne destina![80]
Bruno era presago del suo destino! Onde tanto entusiasmo, e quello spirito irrequieto che si mostra tranquillo e sereno solo innanzi alla morte? «In Bruno», scrive uno storico della filosofia[81], «vi ha l'esaltazione di una grande anima, che sente in se stessa la immanenza dello spirito, e sa che nella unità del suo essere e di tutti gli esseri consiste tutta la vita del pensiero. Nella profondità di questa coscienza vi ha qualche cosa che rassomiglia al sacro furore di una baccante; essa trabocca, per divenire oggetto a se stessa ed esprimere tanta ricchezza». È qui, ho detto io in una mia breve scrittura sulla filosofia italiana[82], tutta la differenza tra Bruno e Campanella. Per Campanella l'universo non è certo una cosa morta; tutte le cose vivono, anzi sentono, e l'anima universale le muove e alimenta. Ma questa vita è solo ombra della vita vera: la fonte di ogni vita è fuori di essa. A questa fonte non si perviene coll'intelletto, il quale è sempre condannato a cibarsi d'acqua e di fango: noi ne gustiamo appena qualche analogia mediante la fede. Anche Bruno lascia sussistere questo incomprensibile, o almeno non lo nega assolutamente; ma affermandolo lo riduce a un punto oscuro piccolissimo, il quale non reca alcun tormento all'animo umano, perchè tutti i tesori che esso può nascondere egli li contempla [102] vivi, reali ed esplicati nella natura, nell'universo, nel mondo, cioè, al dir di Bruno, in quella celeste Anfitrite che è la infinita genitura, perfetta somiglianza e imagine dell'infinito generante. Così l'universo per Bruno non è solo la statua di Dio, ma la sua infinita rivelazione; non la tomba della divinità morta, ma la sede della divinità vivente; anzi la vera e unica vita di Dio; perchè vivere è rivelarsi, e si rivela chi genera e si contempla e specchia nella sua genitura. Senza l'universo Dio sarebbe infinità astratta, non reale. Bruno concede la prima all'attività de' teologi, e la seconda assegna ai filosofi come il loro unico e vero Dio.
B) È stato detto che Bruno è il precursore di Spinoza, anzi lo Spinoza italiano. Ciò è in grandissima parte vero. Ma non sempre è stato inteso il vero concetto dello spinozismo, e però quel che si voleva significare con un tal paragone[83].
Spinoza, si è detto, è il filosofo della Sostanza; per lui Dio è la identità e la indifferenza assoluta del pensiero e dell'estensione, de' due universi, del corporeo e dello spirituale, e come tale indifferenza è un essere immobile e senza vita: il carattere della Sostanza è l'immobilità assoluta.
Or tale non è il Dio di Bruno. Il Dio di Bruno è la vita stessa, infinita attività, infinita rivelazione di se stesso. Come dunque si può dire, che Bruno precorra Spinoza?
[103]
È vero che il Dio di Spinoza è la Sostanza, cioè assoluta indifferenza; ma non è solo questo. Il pregio di Spinoza nella storia della filosofia non è solo di aver concepito Dio come Sostanza; o piuttosto, la Sostanza di Spinoza non è quella che comunemente s'intende sotto un tal nome.
Quella identità, che è la Sostanza, non è semplice Essere, pura immobilità, ma Causa sui. Causa sui, — questo concetto che il nostro Mamiani dice contradittorio, assurdo, perchè lo stesso ente non può essere a un tempo causa ed effetto di se medesimo, — questo è quello che ha di nuovo e di proprio la Sostanza di Spinoza. Essa è di certo assoluta indifferenza dei due opposti (pensiero ed estensione): ma, come tale indifferenza, è assoluta attività, causalità infinita. Essa non è semplice immanenza (Sostanza), ma attività immanente (Sostanza causa).
Il concetto di Dio come causalità immanente: tale è la novità dello spinozismo.
Come indifferenza assoluta degli opposti, Dio è la Sostanza; e
come assoluta attività, essenza, actuositas, è l'Attributo;
come infinito effetto, o esistenza, è il Modo infinito.
Sostanza, Attributo e Modo sono i tre concetti fondamentali dello spinozismo. Ora il modo come tale, la res particularis, non si può comprendere senza il Modo infinito. Modo infinito è il finito infinito, l'effetto infinito, l'universo come universo, come sistema o eterno ordine delle cose, come infinita genitura. Così Dio è causa sui; l'universo è Dio stesso come effetto di se stesso. In altri termini:
[104]
Dio è Natura:
come semplice Natura, è identità assoluta, Sostanza.
Come Natura naturante, è Causa;
come Natura naturata, è Effetto.
Qui il vero Dio è la causa sui; la Natura che natura se stessa. L'essenza di questo Dio è il naturare (causare)[84].
Quindi lo schema dello spinozismo è il seguente:
1. Substantia = Deus = Natura;
2. Natura naturans (attributi). Potentia infinita. a) Infinita cogitandi potentia. b) Infinita agendi potentia seu Quantitas infinita.
3. Natura naturata = Facies totius universi: quae, quamvis infinitis modis variet, manet tamen semper eadem: Modo infinito, a) Intellectus assolute infinitus. b) Motus et Quies.
4. Res particulares. a) Ideae. b) Corpora (res). Il modo, come puro modo, è la res così per sè; non è niente di reale, ma puro auxilium imaginationis.
Il pregio dello spinozismo è il concetto del Modo infinito: della Natura naturata (fatto ideale del Gioberti); cioè della differenza nella stessa indifferenza assoluta. Il difetto è aver concepito Dio, solo come Causa (efficiente).
[105]
In Bruno vi ha lo stesso schema: cioè Sostanza; Attributo (Sostanza come Causa); Modo infinito (Universo); Modi (cose dell'Universo)[85]. — La differenza tra Bruno e Spinoza è questa, che in Bruno vi ha una certa perplessità nel concetto di Dio: Dio ora è principio soprannaturale e soprasostanziale, ora è la stessa Natura e Sostanza. Quello è, come ho già detto, il Dio de' teologi, questo de' filosofi; — io lascio stare questa perplessità, e considero in Bruno solo l'elemento nuovo, che riceve la sua vera forma in Spinoza.
Se non che, a scansare ogni equivoco, devo notare che quando si parla del panteismo di Bruno — e in Italia già ricominciano le vecchie accuse — come di un fatto incontroverso, si offende un po' — almeno così pare a me — la verità storica. Appunto perchè in Bruno ci è questa perplessità, non credo si possa dire ch'ei sia quel panteista tutto di un pezzo, che si ammira o si teme nello Spinoza. In Bruno ci è ancora l'ente estramondano o soprannaturale del vecchio mondo, sebbene ridotto a minime proporzioni; e in Spinoza non ci è più[86]. — D'altra parte, si casca in un errore opposto e non meno grave, quando di questo caput mortuum della vecchia teologia, come è rimasto in Bruno, si vuol fare come un'anticipazione dello spirito assoluto della filosofia moderna, e così ammirare nel nostro filosofo anche il precursore di Hegel. In una storia della filosofia non vi ha cosa peggiore di questi guazzabugli.
[106]
C) Bruno è il precursore di Spinoza, ma come poteva essere prima di Cartesio.
1. Per Bruno l'Assoluto è l'identità o indifferenza assoluta del pensiero e dell'estensione (la Sostanza); ma concepita alla maniera aristotelica (alla maniera antica), come unità della forma e della materia (potenza attiva di tutto e potenza passiva di tutto; potestà di fare e potestà di esser fatto). Senonchè Bruno critica Aristotele di non aver posta davvero questa unità (e infatti è così; il Dio aristotelico è pura forma). «Aristotele non conobbe l'ente come uno. Fu molto poco avveduto nella verità, per non profondare alla cognizione di questa unità e indifferenza della costante natura ed essere». Questa indifferenza è la Sostanza. «Principio materiale costante ed eterno; Principio formale similmente costante ed eterno. I quali si riducono ad uno essere ed una radice.
«Questa unità e indifferenza è complicatamente e totalmente infinita; è in tutto il mondo e in ciascuna parte del mondo infinitamente e totalmente. (All'opposto l'universo è esplicatamente infinito e non totalmente; la sua infinità è totalmente in tutto e non nelle parti). Quella unità è uno individuo infinito semplicissimo. (All'opposto il mondo è uno amplissimo dimensionale infinito). Dio è l'infinito implicato nel semplicissimo primo principio (L'universo è l'infinito esplicato infinitamente)».
2. Dio (Unità, Indifferenza, Sostanza) è essenzialmente Causa: la sua essenza è causare. Ed è perciò causalità infinita.
«In Dio il potere e il fare è tutt'uno. — Egli non può essere altro che quello che è; non può essere tale, quale non è; non può potere altro che [107] quello che può; non può volere altro che quello che vuole; e necessariamente non può fare altro che quello che fa. — L'azione sua è necessaria, perchè procede da tale volontà, che è la stessa necessità. In lui libertà, volontà, necessità sono affatto medesima cosa, e il fare col potere, volere ed essere ».
Il gran pregio di Bruno è aver detto: Essere è fare; Essere è causare.
Non faccia scandalo quello che dico, cioè che Dio per Bruno è necessariamente causa. Come causa, esso è causa sui, e perciò è causa del mondo. Dio non causa il mondo, che in quanto causa se stesso.
Similmente Gioberti dice: Dio crea se stesso; l'essere è in lui il creare. E crea il mondo, in quanto crea se stesso. Il che non vuol dire, che Dio sia l'effetto del mondo, ma l'opposto.
Dove Gioberti dice crea, Bruno ha detto causa. Gioberti: Essere è creare; Bruno: Essere è causare.
Il difetto di Bruno è aver concepito il fare divino (l'Essere divino) come causare semplicemente.
3. L'universo — notate bene, non le cose dell'universo (e Bruno, come si vedrà, distingue quello da queste) — è Dio stesso come EFFETTO infinito di se stesso. Infinita genitura dell'infinito generante. — Potenza, operazione, effetto sono in Dio una medesima cosa. L'universo — l'operazione o effetto infinito, medesimo in Dio colla potenza — non è altro che le cose, in quanto sono in Dio (Natura naturata), non le cose per sè.
L'universo come effetto infinito è identico e differente da Dio.
È identico, in quanto infinito; differente, in quanto effetto; identico differente, perchè Infinito come [108] effetto. Non è il vero infinito, ma l'infinito, come effetto, fatto, causato.
Come identico differente, l'universo è una differenza o distinzione in Dio; in Dio, e non fuori, appunto perchè è infinito; se fosse finito, sarebbe semplice effetto, cioè fuori della sua causa.
Quest'idea dell'universo in Dio come una differenza in Dio, è tanto contrastata, perchè non si ha un concetto giusto di ciò che vuol dire Universo. Vuol dire sistema, ordine, nesso, relazione universale. E ciò non solo è in Dio, ma non può non essere in Dio; non può essere che in Dio.
Identico: «È uno, immobile; non si genera (perchè ha tutto l'essere); non si corrompe; non può nè sminuire nè crescere, perchè infinito; non è alterabile, non è mutabile, non è misurabile.....; è uno e medesimo; non è altro e altro; non ha essere e essere; non ha parte e parte.....; è il tutto indifferentemente, e perciò è uno; è tutto quello che può essere, e in lui non è differente l'atto dalla potenza».
Queste determinazioni sono le stesse determinazioni di Dio: Dio è per Bruno il tutto indifferentemente, e in lui non è differente l'atto dalla potenza.
Ma pure l'universo è
Differente: «Dico Dio termine interminato di cosa interminata, perchè così Dio come l'universo è tutto infinito; ma Dio complicatamente e totalmente, l'universo esplicatamente e non totalmente. L'universo è tutto infinito; perchè non ha margine, nè termine, nè superficie; non è totalmente infinito, perchè ciascuna parte, che in quello possiamo prendere, è finita, e de' mondi innumerabili [109] che contiene, ciascuno è finito. Dio è tutto infinito, perchè da sè esclude ogni termine, ed ogni suo attributo è uno ed infinito; è poi totalmente infinito, perchè tutto lui è in tutto il mondo e in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente, al contrario della infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti. E però Dio ha ragione di termine, l'altro di terminato, non per differenze di finito ed infinito, ma perchè l'uno è infinito, e l'altro infinito e finiente».
Adunque, ripeto, vi ha in Dio una differenza; e questa differenza — ciò è anche da notare — è essa stessa indifferenza: il tutto indifferentemente.
Dio, dunque, è indifferenza, che si differenzia indifferentemente.
Come causa è indifferenza;
come causato è indifferenza.
La differenza è dunque pura forma. Questo è il difetto di Bruno (e anche di Spinoza). Ma, anche come semplice forma, è già un gran passo innanzi.
Come Infinito finiente Dio è già più che Sostanza causa. Ma Bruno non sviluppa questo concetto del fine. Questo concetto si riproduce — con più chiara coscienza — nel Gioberti; secondo il quale la vera infinità di Dio è appunto la preoccupazione o presunzione infinita del mondo. In Bruno non ci è vero fine: non ci può essere, perchè Dio è semplice causa.
4. Distinzione delle cose dell'Universo dall'Universo: le cose sono semplici modi dell'una e assoluta Sostanza.
«L'universo comprende tutto l'essere e tutti i modi di essere; delle cose ciascuna ha tutto l'essere [110] (tutta la sostanza: identità), ma non tutti i modi di essere.... Uno è l'ente, la sostanza e la essenza.... In essa si trova la moltitudine, il numero, ma come modo e moltiformità dell'ente; laonde non è più che uno, ma moltimodo, moltiforme e moltifigurato.... Tutto ciò che fa differenza e numero è puro accidente, pura figura, pura complessione.... (La sostanza rimane sempre la stessa; è una, ente divino, immortale).... diverso volto di medesima sostanza; volto labile, mobile, corruttibile, d'un'immobile, perseverante ed eterno essere.... Ciò che fa la moltitudine non è l'ente, non è la cosa, ma quello che appare, che si rappresenta al senso ed è nella superficie della cosa»[87] (auxilium imaginationis, diceva Spinoza).
Da questa sommaria comparazione io credo di poter conchiudere, che lo schema metafisico di Bruno e Spinoza è lo stesso, o almeno, che l'uno è precursore dell'altro.
[111]
SOMMARIO.
A) Difetto della dottrina di Bruno — Passaggio da Bruno e Campanella a Vico. — B) Il nuovo concetto della unità dello Spirito — Di nuovo Bruno, Spinoza e Vico. — C) Il concetto dello Sviluppo — Schema logico: La Psiche individuale; la Psiche nazionale; l'umanità. — Pregio e difetto di Vico. — D) Oscurità di Vico.
A) Da Bruno e Campanella a Vico corre un periodo di circa cento anni. In tutto questo tempo non vi ha un filosofo veramente originale in Italia; all'Italia non appartiene nessuna idea nuova. Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz non sono italiani. O piuttosto, i nuovi germi, nati in Italia, si formarono liberamente a sistemi fuori del nostro paese. Bruno diventa Spinoza; Campanella, Cartesio e (in quanto telesiano) Locke; la monade di Bruno, trasfigurata nell'Esse cognoscere di Campanella, diventa la monade di Leibniz (rappresentazione assoluta del moltiplice nella unità del pensiero).
Da Bruno e Campanella a Vico vi ha dunque come un vuoto nella storia del nostro pensiero. Perchè Vico possa esser ben compreso, bisogna riempire questo vuoto colla storia della filosofia europea. Posti Bruno e Campanella, si vede, ora, la necessità di Vico; ma perchè Vico nascesse, la necessità della sua nascita dovea manifestarsi e divenire una realtà storica: un fatto nella vita [112] del pensiero umano. E ciò è dire, che doveano mostrarsi in tutta la loro realtà i difetti della posizione di Campanella e di Bruno; anzi dovea prima compiersi questa posizione.
La posizione era questa: Dio è solamente causa (causa efficiente), e perciò l'Universo è solamente effetto.
Questa posizione annulla ogni distinzione essenziale tra i due universi, il naturale e lo spirituale, e assegna loro un'identica legge: la causalità, o la semplice relazione causale.
Questa posizione è in generale il nuovo naturalismo — di cui abbiamo visto le prime tracce, dopo la Scolastica, nel Cusano — applicato indifferentemente alla considerazione della natura e dell'uomo; e la cui unica legge è la legge matematica o meccanica, e il metodo il processo dal principio alla conseguenza o dalla conseguenza al principio.
Ora l'uomo, il mondo umano, vuol dire libertà; e la libertà non è la semplice causalità.
Nella dottrina di Bruno non vi ha davvero libertà umana (nè divina). In altri termini (così in Bruno, come in Spinoza) è inesplicabile il concetto della Sostanza. Come il Modo può conoscere la Sostanza, la quale non conosce se stessa, e così essere superiore alla Sostanza stessa? Come l'uomo può elevarsi a Dio, se è semplice effetto? Come l'effetto ritorna alla causa? E pure Bruno e Spinoza finiscono egualmente con questa contradizione: — Bruno negli Eroici Furori, che sono appunto la liberazione dell'anima e la sua elevazione e unione con Dio; Spinoza nella parte quinta dell'Etica, che tratta della potentia intellectus, cioè de libertate humana, la quale per Spinoza è la stessa beatitudine (amor Dei intellectualis).
[113]
Una semplicemente non può essere la legge della natura e dell'uomo.
L'essere naturale è immediatamente quel che è e può essere; è posto come quel che deve essere, e tutto il suo mondo è la sua nascita, che non è opera sua. L'uomo, all'opposto, fa se stesso, il suo mondo; e questo suo mondo è lui stesso: Carne della sua carne, etc. Come uomo, come spirito, come mondo umano, egli è creatore di se stesso. — Con ciò non voglio dire, già s'intende, che egli crei se stesso come immediato uomo, come uomo animale o naturale.
In altri termini: è vero che tutte le cose sono in Dio. Sono in Dio, perchè hanno la loro entità in Dio. Così, Dio è sostanza prima (Gioberti); l'esser le cose in Dio è la loro entità vera. Ma la differenza tra l'entità delle cose naturali e l'entità umana è questa:
le cose sono in Dio immediatamente; sono poste come semplici enti, e non altro, in Dio;
l'uomo, invece, è in Dio, in quanto si eleva per se stesso e si unisce a Dio; in quanto si fa lui stesso, quanto può, Dio (quell'essere, che è Dio); di maniera, che il suo essere è la sua stessa libera attività: la libera produzione di se stesso. Se Dio è causa o attività assoluta, e perciò in lui essere e fare sono lo stesso; se insomma, essere davvero è farsi, egli è evidente, che essere davvero in Dio, non è semplicemente esser fatto, ma farsi Dio e in Dio. Ciò vuol dire: il vero uomo non è semplicemente effetto, ma causa. Ora l'effetto, che è causa, è appunto il fine.
Così Dio, come insieme causa o principio e fine o effetto assoluto è una duplice attività in una: creativa e ricreativa, direbbe Gioberti; e solo così, [114] come tale unica attività, è la vera attività, e quindi il vero Essere; lo Spirito o il Creatore. La prima attività è semplicemente divina (naturale); la seconda è divina e umana insieme (cioè veramente divina). — I due cicli di Gioberti, che sono un unico ciclo.
Ora Vico rappresenta appunto questa distinzione reale de' due universi; e quindi fonda il mondo umano, il mondo dello spirito. Rappresenta la differenza reale di quella assoluta indifferenza; e questa differenza è espressa nel concetto delle due Provvidenze. Il suo mondo naturale, fatto solo da Dio (come provvidenza naturale), e il suo mondo umano, fatto dall'uomo e da Dio insieme, consistono nelle due attività creative, che sono i due cicli di Gioberti.
In Vico il concetto della formola ideale è già dato: non della formola monca, l'Ente crea l'esistente, ma della vera formola, l'Ente crea l'esistente e l'esistente ritorna all'Ente[88].
[115]
Tale è, in brevi parole, il passaggio ideale e, direi quasi, logico da Bruno a Vico.
Perchè questo passaggio fosse storico, era necessario che il naturalismo (di Bruno) prendesse la sua forma schietta e rigorosa nello spinozismo (e Spinoza richiede Cartesio, precorso da Campanella); che il principio della semplice efficienza si mostrasse in tutta la sua luce, come cartesianismo e come lockismo; che Leibniz ponesse il concetto — sebbene imperfetto, cioè come identità immediata — dello spirito nella monade, e così protestasse contro il puro naturalismo (la monade in sè è più che causa efficiente); che, insomma, si vedessero e s'intendessero le conseguenze della prima posizione.
B) Ho detto che Vico pone la differenza, la differenza reale, nella assoluta indifferenza di Bruno e Spinoza; quella differenza, che nè questi nè gli altri filosofi posteriori aveano saputo porre. Ponendo la reale differenza, Vico pone la reale unità: cioè, non più la Sostanza causa, ma lo Spirito. Tale è lo Spirito: non vuota identità, ma reale differenza, e contuttociò, anzi appunto perciò, reale unità.
Ho esposto altrove[89] la intenzione di Vico, quasi colle stesse sue parole, così: «Finora i filosofi hanno contemplato Dio solo per l'ordine delle cose naturali; io, più su innalzandomi, contemplo in Dio il mondo delle menti umane, che è il mondo metafisico, [116] per dimostrare la Provvidenza nel mondo degli animi umani, che è il mondo civile, ossia il mondo delle nazioni. Contemplando Dio solo per l'ordine naturale, cioè in quanto ha dato naturalmente l'essere alle cose e agli uomini, e naturalmente lo conserva, i filosofi hanno dimostrato solo una parte o attributo della sua provvidenza; io lo contemplerò per la parte che è più propria degli uomini, la natura de' quali ha questa principale proprietà, di essere socievoli, cioè come provvedente nelle cose morali politiche, ossia ne' costumi civili, coi quali sono provenute al mondo e si conservano le nazioni. E questa nuova e più alta contemplazione è possibile, perchè questo mondo civile è certamente stato fatto dagli uomini; onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritrovare i principii dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. E dee recar meraviglia, come tutti i filosofi si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perchè Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza, e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, del quale, perchè l'aveano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Questo stravagante effetto è provenuto dalla miseria della mente umana; la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo, e dee usar troppo sforzo e fatica per intendere se medesima. E pure l'uomo in tanto si approssima a Dio, e questa scienza è d'una specie veramente divina, in quanto il mondo, che egli vuole con essa contemplare, lo ha fatto egli stesso; perchè in Dio il conoscere e il fare è una medesima cosa, e solo l'uomo partecipa di questa divina natura. La differenza [117] tra l'uomo e Dio è, che l'uomo ha fatto a principio questo suo proprio mondo senza sapere ciò che si faceva, anzi credendo di fare tutto il contrario. E questa è come una benevola astuzia della Provvidenza; la quale, senza forza di leggi, ma facendo uso degli stessi costumi degli uomini, — dei quali le costumanze sono tanto libere di ogni forza, quanto lo è agli uomini celebrare la loro natura, — come una mente diversa, alle volte contraria e sempre superiore a' fini particolari e ristretti che gli uomini si propongono, ne fa mezzi per servire a fini più ampii, e gli adopera sempre per conservare l'umana generazione. Così vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de' matrimonii, onde sorgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gli imperi paterni sopra i clienti, e surgono le città; vogliono i nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delle leggi, che fanno la libertà popolare; e simili. Questo, che fece tutto, fu pur Mente; perchè il fecero gli uomini con intelligenza; non fu Fato, perchè il fecero con elezione; non Caso, perchè con perpetuità, sempre così facendo, escono nelle medesime cose. Questa Mente o Provvidenza è l'unità dello spirito che informa e dà vita a questo mondo di nazioni».
Io devo considerare qui solamente questa unità dello spirito, la quale è il nuovo Dio della filosofia, che sbalza di soglio l'antico (il Dio semplicemente Causa), e la vera negazione e il vero compimento della unità di Bruno e Spinoza: questa unità, il cui concetto è la base e il principio, in cui consistono e a cui ritornano tutti i concetti nuovi della Scienza nuova, e che è solo la possibilità reale [118] di questa scienza, cioè della filosofia della storia: questa unità, che esige una nuova metafisica, la metafisica della mente umana, che proceda sulla storia delle umane idee: quella metafisica, di cui Cartesio pose la base, quando disse: Pensare è essere (il vero essere); ma poi non ne fe' niente, appunto perchè non si avvide di tutto il tesoro che avea in mano, concependo in modo ristretto il pensare e perciò stesso il vero essere: quella metafisica, che non è il puro ontologismo — la vecchia metafisica fondata sull'essere, — ma che appunto, perchè fondata nel pensare, è psicologismo, e appunto perchè fondata nel pensare vero, cioè puro e non empirico, è psicologismo trascendente, cioè il vero ontologismo: insomma, la metafisica della Mente, della Mente Umana, e non dell'Ente. Gioberti — che meglio intende e spiega se stesso — è in ciò di accordo con Vico[90].
Che cosa è dunque,questa nuova e vera unità, questa Unità dello Spirito?
Bisogna ripigliare, da questo punto di vista, la considerazione di Bruno e Spinoza.
[119]
«Chi vuol sapere i massimi secreti di natura, riguardi e contempli circa gli minimi e massimi degli contrarii ed oppositi. Profonda magia è trar il contrario, dopo aver trovato il punto dell'unione».
«A questo tendeva con il pensiero... Aristotele, ponendo la privazione, a cui è congionta, certa disposizione, come progenitrice, parente e madre della forma; ma non vi potè aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perchè, fermando il piè nel geno dell'opposizione, rimase inceppato di maniera, che, non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse nè fissò gli occhi al scopo: dal quale errò a tutta passata, dicendo, i contrarii non poter attualmente convenire in soggetto medesimo»[91].
Adunque, secondo Bruno, vi ha due cose a fare, che in verità sono una medesima: dati i contrarii, trovare il punto della unione; e trovato il punto della unione, trarre il contrario.
Sono una medesima cosa; giacchè il punto della unione, che si dice trovato, non è veramente trovato — non è veramente unità de' contrarii, — se da esso non si trae il contrario, cioè non si fa vedere che questo punto stesso si differenzia. Se non si trae da esso il contrario, ma si pone così estrinsecamente, questo punto non è il punto della unione.
Aristotele riceve i contrarii platonici: l'idea e il fenomeno (l'idea è fuori del fenomeno: dualismo), e fa di quella la forma, di questo la materia; [120] questa è complicatamente e possibilmente QUELLO STESSO, che quella è esplicatamente e attualmente; l'una è l'essere meramente possibile, l'altro l'essere attuale. Così la relazione tra i contrarii non è più negativa come in Platone, nel quale l'uno è l'essere, e l'altro il non essere. Ma è positiva: l'uno è l'essere attuale, l'altro l'essere possibile. Questa relazione positiva, questo uno essere, sotto i due aspetti della possibilità e dell'attualità, è il punto della unione aristotelico. Aristotele dunque, procedendo da' contrarii, trova il punto della unione.
Ma lo trova davvero?
Bruno ha detto già, che non lo ha trovato; che «non conosce l'Ente come Uno, per non aver profondato alla cognizione di questa» (la sua) «unità e indifferenza della costante natura ed essere».
Ora dice, che non ha saputo trarre il contrario; che, al più, si è arrestato al genere dell'opposizione, ma non è disceso sino alla specie della contrarietà.
La seconda critica è il compimento della prima. Aristotele non ha concepito l'Ente come Uno, perchè non l'ha concepita come assoluta indifferenza; e non l'ha concepito come assoluta indifferenza, perchè non l'ha concepito come coincidenza dei contrarii. Bruno, seguendo il Cusano, dice di concepirlo così: questo essere il suo vantaggio sopra Aristotele. In realtà, questa indifferenza non è che la conseguenza esplicita della posizione aristotelica; giacchè quella relazione positiva, quell'uno stesso essere sotto due aspetti, non è che l'essere indifferente. Ma non basta, — ecco la seconda critica, — dire: l'essere indifferente. Perchè questo sia un vero concetto, e non già un semplice [121] presupposto; perchè sia veramente l'essere indifferente, bisogna trarre da esso il contrario, non presupporlo; cioè, nel caso di Aristotele, non presupporre, ma derivare i due principii, forma e materia. Finchè non si fa questo, il dualismo dei principii non è superato; cioè, non si ha veramente l'uno essere, l'assoluta indifferenza. Ora Aristotele non deriva i due principii, ma li presuppone.
Bruno dice: assoluta indifferenza, e oltre a ciò esige la derivazione del contrario. Ciò è molto. Ma poi, non solo non trae il contrario, ma con tutto che dica indifferenza, non afferma quella posizione, che è la possibilità del punto della unione. Mi spiego: Aristotele dice: uno stesso essere sotto due aspetti. Ma, poi, pone come il vero essere l'uno di questi due aspetti, per sè, senza l'altro, e così distrugge da sè la posizione dell'uno stesso essere. Così l'altro rimane sempre qualcosa d'estrinseco al primo, e non è derivato dal primo; e sebbene non sia superiore al primo, pure è sempre un limite insuperabile del primo. E ciò val quanto dire: il primo — la forma, il pensiero — non è veramente il Primo; in realtà ci sono due Primi.
Bruno dice: Indifferenza, e sta fermo a questa posizione, in quanto la forma non è mai estrinseca alla materia e l'intelletto artefice muove e opera da dentro; il Dio aristotelico, pura forma, è scomparso. Ma, d'altra parte, quella indifferenza è un punto assolutamente oscuro, una base presupposta, non pensata affatto; i due contrarii sono in realtà ancora assolutamente irreducibili; la loro indifferenza o unità è piuttosto essere insieme, semplice coincidenza, non altro.
Spinoza, mediante Cartesio, fa chiaro quel punto oscuro; e questo punto chiaro — immediatamente [122] chiaro (evidenza, intuito cartesiano) — è il pensiero in quanto contiene il suo contrario, l'essere. Questa unità, che non è più semplice coincidenza, ma contenenza, insidenza, — unità che si differenzia immediatamente come indifferenza, — è la nuova indifferenza, la Sostanza di Spinoza.
Spinoza è la chiarezza di Bruno; quel che in Bruno è oscuro, in Spinoza è chiaro (sebbene non assolutamente chiaro, ma solo immediatamente). In Bruno è oscura la indifferenza, e in Spinoza si fa chiara, in quanto il punto della unione è il pensiero, e il pensiero non è tale che in quanto contiene o pone immediatamente o intuitivamente il suo contrario, l'essere. Il pensiero è quel punto (punctum mobile), che è insieme unire e trarre il contrario; il punto della unione è il punto stesso della differenza. Punto attivo, non morto; che unisce in quanto differenzia, e differenzia in quanto unisce. Similmente, l'indifferenza come causa è oscura in Bruno, e si fa chiara in Spinoza. La Sostanza è causa, attività, in quanto è il pensiero che contiene o pone immediatamente l'essere: l'essere è l'effetto del pensiero, e questo effetto è lo stesso essere del pensiero: il pensiero è causa sui. Infinità del pensiero, infinità dell'essere; causa infinita, effetto infinito; Dio infinito, universo infinito. E la Sostanza è semplice causa, cioè sostanza, non soggetto, appunto perchè è una posizione immediata dell'essere nel pensiero.
Adunque, quello che è come implicito in Bruno (Sostanza causa, cioè Indifferenza che si differenzia indifferentemente, ossia immediatamente), è chiaro in Spinoza. Questa chiarezza è il pensiero cartesiano.
Il pensiero, che contiene in sè e pone immediatamente l'essere, è la causa. Causare: tale è la prima [123] e la immediata risposta all'esigenza di Bruno: trarre il contrario. Causare è trarre il contrario, ma in una forma immediata. Causare è pensare, ma pensare immediatamente. Causare senza pensare è impossibile. L'effetto è contenuto nella causa; e questa contenenza, che è produzione in sè, non è altro che pensiero, non già semplice essere. (Così la Sostanza è il Pensiero come immediata unità di se stesso e dell'essere: è l'Idea, ma non l'Idea platonica).
Questa immediatezza è la Natura spinoziana, la nuova natura. Quindi il nuovo naturalismo.
Essere e pensare, immediatamente uno e immediatamente differenti: tale è il punto della unione e la derivazione spinoziana del contrario. Ora, appunto perchè immediatamente uno, essere e pensare non sono veramente uno; e appunto perchè immediatamente differenti, non sono veramente differenti. Nè la unità, nè la differenza è reale: nè il punto della unione, nè la derivazione del contrario. Quindi si ha insieme:
parallelismo, e, come unica legge de' due mondi, la relazione causale.
Queste due determinazioni, che sono la stessa determinazione, è il naturalismo. È la indifferenza differenziata indifferentemente: la causa come effetto, come semplice effetto.
Così non si ha il vero Universo; il vero Universo è fuori di questo Universo puramente formale.
Ma in Spinoza stesso ci è il principio della correzione di Spinoza: il principio del pensiero, il principio cartesiano: solo bisogna intenderlo meglio (psicologismo trascendente). I due mondi paralleli, e che hanno una medesima legge (la causalità) non sono in sè davvero paralleli; giacchè l'uno è [124] l'esse obiective e l'altro l'esse formaliter; quello è, dunque, più che questo e lo contiene. Il pensiero contiene in sè l'essere, è l'essere oggettivo, e perciò non può esser parallelo all'essere, non può avere la stessa legge dell'essere; l'essere non dev'essere eguale, ma sottoposto al pensiero, deve essere il fenomeno del pensiero.
Ecco Leibniz: la vera realtà è la monade, e l'estensione non è che il fenomeno delle monadi.
Ma la monade è anch'essa qualcosa d'immediato, e perciò di naturale.
Ora Vico vede la vera differenza: nega davvero il parallelismo, distinguendo le due provvidenze, i due attributi, di maniera che uno di essi sia scala all'altro, e concepisce il pensiero, il punto di unione e la derivazione del contrario, come sviluppo (spiegamento); la natura è il fenomeno e la base propria dello spirito, il presupposto che lo spirito fa a se stesso, per essere veramente spirito, vera unità.
La vera Unità, il vero Uno, l'Unico è sviluppo; sviluppo di se stesso: da se stesso, per se stesso, a se stesso: cioè veramente e totalmente Se stesso. Questo è il nuovo concetto, che, più o meno espressamente, consapevolmente e inconsapevolmente, è l'anima di tutta la Scienza nuova: è il gran valore di Vico.
C) Sviluppo non vuol dire emanazione, semplice venir fuori, semplice eduzione; e non vuol dire semplice causazione, semplice posizione di un effetto. Sviluppo è moto, ma moto che è insieme riposo; non è andare da uno a un altro, ma da sè a sè, andare che è riandare; è produzione, ma produzione [125] di se stesso; e non di se stesso come ens diminutum, come meno di sè, e però come non se stesso, come un altro (tale è l'effetto infinito della causalità infinita di Bruno e Spinoza: pura esplicazione di quel che è complicato), ma di sè come vero se stesso; è produzione, che è riduzione. Sviluppo è autogenesi.
Chi dice sviluppo, dice gradi, stazioni, funzioni, forme diverse di attività. Ora quel che si sviluppa è il principio stesso universale della esplicazione, de' varii gradi o funzioni. Questo principio — Psiche, Anima, Mente, Ragione, Pensiero, Spirito — dà a se stesso, appunto in queste funzioni o forme, una realtà determinata; e allora ha finito la sua esplicazione, quando è arrivato o meglio ritornato a se stesso, cioè quando si è attuato in una forma adeguata alla sua universalità o idealità. Così tutte le altre funzioni della psiche sono que' gradi di esplicazione della psiche stessa, nei quali la sua universalità o idealità, che è il vero principio, ha raggiunto solo una realtà particolare, non perfetta e universale. Perciò la psiche — il pensiero, la mente — ha colle sue altre funzioni la seguente doppia relazione: da un lato ella è il loro principio, e così esse sono i suoi gradi di esplicazione; e dall'altro lato ella è il supremo e assoluto grado di esplicazione, ed esse sono gradi solamente relativi (principio e fine).
Così, quando si dice: «lo Spirito è senso, rappresentazione (immaginazione), pensiero», ciascuna forma è tutto lo spirito (il pensiero) in un suo grado di esplicazione; e il pensiero è il supremo grado, il vero Spirito.
Questo schema dello sviluppo si può dire lo schema astratto della Scienza nuova: l'ultimo grado [126] è per Vico la Ragione umana tutta spiegata. Così tutta la vita dello Spirito non è che spiegamento di sè: quello che io dico sviluppo.
Ci è questo schema in Vico:
1. Come schema astrattissimo e, direi quasi, logico: Uno, Molti, Uno. È l'uno che si pone — si spiega — come Uno immediato, come Molti, e come Uno vero e concreto: Uno tutto spiegato. «Sopra quest'ordine di cose umane civili corpulento e composto vi conviene l'ordine de' numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall'Uno colle monarchie famigliari, indi passarono a' Pochi nelle aristocrazie eroiche; s'inoltrarono ai Molti e Tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all'Uno nelle monarchie civili. I pochi, molti e tutti ritengono ciascheduno nella sua specie la ragione dell'Uno. Così l'umanità si contiene tutta tra le monarchie famigliari» (l'Uno come principio), «e le civili» (l'Uno come fine)[92]. — È evidente, che questo movimento dell'Uno non è semplicemente deduzione, ma insieme riduzione (induzione); l'Uno, spiegandosi, non si disperde, ma cresce e insieme si raccoglie in se stesso: ἐπίδοσις ἐφ’ ἑαυτό, direbbe Aristotele.
2. Come schema dell'animo umano o psiche individuale: Corpo (senso), Favella (immaginazione, fantasia) e Mente. «Non essendo altro l'uomo propriamente che mente, corpo e favella; e la favella essendo come posta in mezzo alla mente e al corpo; il certo intorno al giusto cominciò ne' tempi muti dal corpo; di poi, ritrovate le favelle, che si dicono articolate, passò alle certe idee, ovvero formole [127] di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero delle idee d'intorno al giusto, determinate con la ragione dalle ultime circostanze de' fatti; che è una formola informe di ogni forma particolare; ecc.»[93]. — Al corpo (senso) corrispondono i tempi muti, perchè il senso è la percezione del semplice particolare, e finchè l'uomo sente solamente e percepisce sensibilmente, non parla; la parola presuppone una certa universalità della rappresentazione. Questo universale è quel che Vico chiama fantastico o poetico. Quindi formola di parole. Alla mente corrisponde il puro intelligibile. — Senso, favella e mente non sono tre essenze o sostanze separate, ma la stessa essenza o sostanza — la ragione umana — in tre forme.
3. Come schema della psiche concreta e vivente, della psiche de' popoli o nazioni. È questo il vero trovato di Vico. Senza questa psiche, specialmente come comunità morale e politica, come Stato, non ci è popolo davvero, e la stessa psiche individuale non è altro che una vuota astrazione. Essa è concreta e organica, perchè è l'unità di tutte le forme della vita popolare: religione, lingua, terra, nozze, nomi, case, armi, ecc. È psiche, perchè non è nè caso nè fato o pura necessità, ma attività libera, che realizza se stessa come vero Stato (vera repubblica), apparecchiandosi (presupponendosi) nelle forme anteriori imperfette della sua esistenza altrettante materie della sua vera forma. «Nè il caso li divertì, nè il fato gli strascinò (gli uomini) fuori di quest'ordine naturale [128] (del primo stato): nel punto, nel quale esse repubbliche (il vero Stato umano) doveano nascere, già si erano innanzi apparecchiate ed erano tutte preste le materie a ricever la forma; e ne uscì il formato delle repubbliche, composto di mente e di corpo. Le materie apparecchiate furono proprie religioni, proprie lingue, proprie terre, proprie nozze, proprii nomi ovvero genti o sieno case, proprie armi, e quindi proprii imperii, proprii maestrati, e per ultimo proprie leggi; e perchè PROPRII, perciò dell'intutto LIBERI, e perchè dell'intutto liberi, perciò costitutivi di vere repubbliche. — In cotal guisa il diritto natural delle genti, che ora tra i popoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle repubbliche nacque proprio delle civili sovrane Potestà; talchè popolo o nazione, che non ha dentro una Potestà sovrana civile fornita di tutte le anzidetto proprietà, egli propriamente popolo o nazione non è; nè può esercitar fuori contro altri popoli o nazioni il diritto natural delle genti; ma, come la ragione, così l'esercizio, ne avrà altro popolo o nazione superiore»[94].
Di questa psiche, che muove e dà vita a tutti gl'individui che compongono una nazione, e che come la ragione e la personalità della nazione medesima si attua e spiega nella comunità politica — gli individui non hanno coscienza che nel corso del tempo, e specialmente come filosofi; la coscienza procede insieme coll'attuazione. Essa è la stessa provvidenza, considerata per rispetto a un popolo particolare, e pur sempre per rispetto [129] al fine universale del mondo umano. Così lo spiegamento della ragione umana è lo spiegamento stesso della ragione eterna. Di questa ragione e del suo fine, gli uomini a principio non sanno nulla; credono di fare soltanto il lor proprio interesse particolare e immediato e conseguire solo i loro proprii fini, e non fanno che servire di mezzi, come ho già notato, a fini più alti ed eterni. La vita degli uomini, così considerata, sarebbe qualcosa di comico, se questa astuzia della provvidenza non fosse la umanità stessa che si fa strada e si produce mediante l'attività particolare degli individui e de' popoli. L'umanità è appunto questa eterna catena di cause ed effetti, che non è nella intenzione immediata del soggetto operante, e nondimeno è contenuta virtualmente nell'azione, e nasce da essa come quel che vi ha in essa di vero e sostanziale. L'azione, come tale virtualità infinita, sorpassa il fine e la stessa esistenza finita dell'operante. Intanto, l'uomo, che opera così, è libero, e perchè ha il suo proprio interesse immediato nell'azione, e perchè il grande effetto, che non era il fine proprio di quella, non realizza una natura estranea all'uomo, ma la stessa natura umana. «Jura a Diis posita sono state dette le ordinazioni del dritto natural delle genti. Ma, succeduto poi il diritto naturale delle genti umane......, sopra il quale i filosofi e i morali teologi si alzarono a intendere il dritto naturale della ragione eterna tutta spiegata: tal motto passò acconciamente a significare il diritto naturale delle genti ordinato dal vero Dio»[95] (Dio umano). — «Si rifletta... [130] alla semplicità e naturalezza, con che la Provvidenza ordinò queste cose degli uomini, che per falsi sensi gli uomini dicevano con verità che tutte facessero gli Dei»[96].
La vita della psiche nazionale ha tre gradi, o, come dice Vico, tre età; le quali, in generale, corrispondono al senso, alla rappresentazione e all'intelletto, che si potrebbero chiamare le tre età della psiche individuale. Quindi i tre costumi, i tre diritti naturali, i tre governi, le tre lingue, i tre caratteri, etc., etc.[97]. L'ultimo grado è sempre il più perfetto: quello, come ho già fatto osservare, della ragione umana tutta spiegata. Lo schema di questi tre gradi è il seguente:
L'uomo, la nazione, il genere umano è a principio unito immediatamente alla natura, al mondo esterno e visibile; è dominato e come affascinato da essa. Questo legame e dipendenza è la prima religione; ma religione sotto una forma falsa. La natura è Dio, e ogni cosa naturale è divina. L'uomo non ha ancora coscienza di sè come distinto e opposto alla natura; la natura è tutto, l'uomo è niente; tutto quel che fa l'uomo è opera della natura, e perciò divino. È un falso divino, appunto perchè è tutto naturale, e non umano.
Poi l'uomo comincia a distinguersi dalla natura, senza però romperla con essa. È una distinzione ancora naturale; la natura rimane come fondamento; l'uomo non è ancora davvero uomo. L'uomo si distingue dalla natura; ma questa distinzione è fatta nella natura stessa, e perciò nell'uomo. Prima il naturale era tutto divino; ora vi ha una doppia [131] natura, alta e bassa, divina e bestiale, e perciò una doppia classe di uomini: uomini affatto naturali, bestiali, e uomini mezzo divini, non naturali, ma figli della natura (buona, degli Dei). Il buono non è più un immediato, anzi l'immediato è il male: i cattivi sono gli uomini che non si sono ancora distinti dalla natura. Il buono, dunque, come qualcosa di derivato e mediato, è un'opera mezzo umana; e i buoni, gli ottimi, sono coloro che hanno fatta quella distinzione, senza però troncare ogni legame colla natura: la nobiltà naturale. La nobiltà è nella nascita; ma non ogni nascita fa nobile: ci vuole una certa nascita. E ciò vuol dire: non ogni natura è divina, ma solo una certa natura. Questo certo è un'opera umana: una distinzione fatta dall'uomo stesso, sebbene non in sè, nella sua umanità, ma nel seno stesso della natura. Così la divinità, che prima per l'uomo era solo la natura, comincia ad essere qualcosa d'umano, ma non è ancora davvero umana.
Finalmente l'uomo si pone come uomo; il divino è l'umanità stessa dell'uomo. Quindi non più distinzioni o classi naturali; ma tutti gli uomini hanno lo stesso diritto. La nascita non fa differenza. Rimangono le distinzioni; ma sono puramente spirituali, umane: opera dell'attività stessa dell'uomo libero.
Questo schema della psiche, che io ho detto nazionale, è la stessa psiche universale, e comune a tutte le nazioni. E qui si vede la imperfezione del gran concetto di Vico. Infatti, Vico conosce la umanità solo come nazione, e perciò non conosce davvero nè l'umanità concreta, nè la nazione o, meglio, le nazioni concrete. Il suo schema si applica a tutte le nazioni, e perciò è lo schema dell'umanità. [132] Ma, giacchè ei non ha uno schema proprio di ciascuna nazione, e in realtà lo schema vero e concreto dell'umanità ha per contenuto gli schemi proprii delle nazioni, così lo schema vichiano della umanità è ancora astratto. Vico non vede chiaro che non solo la nazione, ma la stessa umanità ha età diverse, e le ha appunto mediante le nazioni. Le nazioni sono le età dell'umanità. — Se non che in questo stesso errore di Vico ci è qualcosa di vero, che apparisce come una protesta anticipata contro la esagerazione di questo metodo della filosofia della storia. L'esagerazione consiste nel considerare le nazioni troppo letteralmente come età o gradi dello sviluppo della psiche universale. Si dice: «la psiche come psiche ha questi e questi gradi: senso, immaginazione, etc. Dunque questa nazione rappresenta questo grado, quest'altra quest'altro, etc. Il primo grado appartiene solo alla prima nazione, e l'ultimo solo all'ultima o alla comunità vivente delle nazioni». Vico, invece, vede tutti i gradi — tutto lo spirito — in ciascuna nazione. Egli non ammette una nazione solo senso, un'altra solo immaginazione, ecc; ma riconosce la pienezza de' tempi — i tempi umani — in ogni nazione; di maniera che da una parte lo sviluppo di ciascuna nazione ha come sua finale tendenza il trascendere i limiti della sua nazionalità naturale ed entrare appunto ne' tempi umani (che fanno tanta paura a' nostri bramani); e d'altra parte lo sviluppo dello spirito universale a traverso le nazioni non è solo correre, ma ricorrere, non è solo andare, ma riandare. Coloro che parlano con tanta leggerezza del ricorso vichiano, come di un'anticaglia, e si rappresentano il progresso umano come una linea retta indefinita, — senza capo nè coda, — dovrebbero [133] pensare almeno, che l'India ebbe i suoi tempi umani nella nuova religione (in Budda), la Grecia nella nuova filosofia (Socrate), e Roma nel nuovo diritto.
Pare, che Vico ammetta questa unità dello spirito — l'unità come sviluppo — solo nel mondo umano, e tra questo e il naturale (tra le due provvidenze) non veda altro che la differenza, e così non arrivi al nuovo concetto (alla nuova unità) del Tutto. Infatti, egli dice del mondo naturale: «perchè Dio egli il fece, esso solo ne ha la scienza». Chiosando questo luogo si potrebbe dire: «in Vico non solo è espressa una differenza essenziale tra i due mondi, ma manca quella unità universale, che Bruno e Spinoza concepirono, se non altro, come Sostanza; anzi, invece della nuova unità spirituale e del nuovo significato della natura come momento dello spirito, Vico afferma la superiorità di quella su questo, appunto perchè la provvidenza naturale è tutta divina e saputa solo da Dio, e la umana è divina e umana insieme, e saputa così dagli uomini come da Dio. In tal modo, la tanto vantata differenza posta da Vico tra' due mondi, non solo non è un passo innanzi, ma è davvero un passo indietro: perchè riduce a niente il gran pregio del Naturalismo, che era appunto la unità, sebbene in una forma falsa, dell'universo corporeo e dello spirituale». Certamente in Vico non è espresso il nuovo concetto come unità del Tutto; ma questa unità è implicita nel suo concetto dello spirito, ed è una conseguenza necessaria di tal concetto; appunto perchè l'unità dello spirito è sviluppo, tale deve essere anche l'unità del Tutto. Questa unità è la Provvidenza; e se la provvidenza umana è sviluppo, non si sa intendere perchè tale non debba [134] essere la provvidenza in sè stessa come unità delle due provvidenze. E già Vico, annunziando la sua nuova contemplazione e mettendola più su dell'antica (della naturale), considera la seconda provvidenza (Dio, in quanto mondo delle menti umane) come superiore alla prima (Dio, in quanto ordine delle cose naturali). E d'altra parte l'uomo è in sè le due provvidenze (la loro unità); e non già nel senso, che all'uomo come essere naturale si aggiunga esteriormente l'uomo come mente, ma nel senso, che la mente (la provvidenza umana) contenga in sè come momento e sorpassi l'essere naturale, e solo così sia quello che è. L'uomo a principio fa il suo proprio mondo, e non ne sa niente, o sa tutt'altro di quel che fa davvero; di maniera che anche di questo mondo si può dire quel che Vico dice del mondo naturale: Dio solo ne ha la scienza. Poi, l'uomo sa quello che fa; ed ha del suo mondo, come Dio, la sua scienza anche lui, e questa scienza è il vero mondo umano. Si vede, che quella unità che è l'uomo o il mondo umano, — e che pare l'unico scopo della contemplazione di Vico, — in sè o quanto alla sua essenza è quella stessa che è il Tutto, e Dio medesimo come punto d'unione de' due infiniti attributi.
Lo schema, dunque, di Vico è non solo lo schema del pensiero astratto e della psiche umana individuale, nazionale e universale, ma anche della totalità del reale e di Dio stesso. Vico rappresenta la prima negazione del parallelismo; la differenza reale de' due attributi; e in luogo della Sostanza, lo Spirito.
D) Tale è l'unità dello spirito di Vico. È un intuito profondo, una divinazione, una profezia, nata dalla seria e intima contemplazione del reale umano, [135] della realtà dello spirito. Vico è la realtà umana, il positivo umano, che parla a sè stesso: che s'intende. Prima di Vico non l'aveano inteso. Avevano considerato l'uomo come psiche astratta, non concreta. Vico è il primo autore d'una psicologia de' popoli. Aveano intesa la realtà umana, la vita dello spirito, naturalmente, non spiritualmente. Vico è una vera cometa tra i naturalisti e i matematici del secolo decimottavo.
Ma Vico è oscuro: oscuro come Bruno, assai più che Bruno. Bruno è la vita della natura che parla a se stessa: entusiasmo, fantasia, furore eroico. A. Vico manca il concetto espresso, speculativo, metafisico della nuova unità. Gli manca quel che mancava a Bruno. A Bruno mancava Cartesio, — la nuova metafisica, — per avere Spinoza. Oltre a ciò, al naturalismo di quel tempo mancava ancora l'inspicere, già richiesto da Telesio. A Vico manca, — oltre la grande esperienza de' proprii prodotti dello spirito, — il nuovo cogito ergo sum; il nuovo pensiero, che non è la posizione immediata, ma la mediazione assoluta, e perciò perfetta trasparenza dell'essere. Vico stesso confessa in certo modo il punto oscuro della Scienza nuova, esigendo una nuova metafisica: quella della Mente. L'ha fatta egli? No. Non si contenta di Cartesio, ed ha ragione; il dommatismo cartesiano non può comprendere il processo storico (critico) dello spirito. Ma ha egli compreso, metafisicamente, meglio il pensiero? Ha risposto alla sua stessa esigenza? Coloro che mettono innanzi l'Antiquissima italorum sapientia, e vedono in essa la chiave metafisica della Scienza nuova, rassomigliano un po' a que' letterati, che vogliono comprendere un dramma di Shakespeare coll'arte poetica di Orazio alla mano.
[136]
SOMMARIO.
A) Vico e Kant — Il problema del conoscere nella filosofia antekantiana — Il problema del conoscere in Kant. — B) Kantismo del Galluppi.
A) Da Vico a Galluppi, Rosmini e Gioberti corre quasi un secolo. E vi ha di mezzo, oltre i filosofi prima di Kant, Kant e quasi tutti i filosofi tedeschi. Quale è l'anello che congiunge Galluppi, Rosmini e Gioberti a Vico? Ripigliamo il filo della nostra esposizione.
La unità, il vero punto di unione, — quello che è insieme unire e trarre il contrario, — era per Bruno la Causa.
Ma questo punto era oscuro in Bruno, e si fa chiaro solo in Spinoza mediante Cartesio. Appariva come coincidenza, e non già come contenenza o insidenza.
Il pensiero cartesiano, che contiene in sè e pone immediatamente l'essere, è la chiarezza di Bruno. Questo pensiero è la Causa: la unità come Causa.
Per Vico il vero punto di unione, — che unisce e trae il contrario, — è Sviluppo.
Sviluppo è più che Causa. Non è procedere da sè a un altro, da sè a sè come diminutum, — e perciò non procedere; ma è da sè, per sè, a sè: al vero Sè.
[137]
In Vico manca la chiarezza dello Sviluppo. Questa chiarezza è il nuovo pensiero, il nuovo cogito ergo sum, il nuovo Cartesio, e quindi il nuovo Spinoza. È il conoscere di Kant, l'Io di Fichte, la Ragione di Schelling, lo Spirito assoluto di Hegel: la sensibilità di Galluppi, come percezione immediata del me e del fuor di me, la percezione intellettiva di Rosmini, la formola di Gioberti.
Vico esige una nuova metafisica, la metafisica della mente. E intanto la sua metafisica è la vecchia: quella dell'ente. Questa contradizione, — nuova unità e vecchia metafisica, — è la oscurità di Vico.
Questa esigenza d'una nuova metafisica è la esigenza stessa che fa la filosofia europea nel secolo di Vico. Questa esigenza, fatta dalla filosofia europea, vuol dire: dissoluzione della filosofia che ha il suo principio in Cartesio (e Locke), e necessità di una nuova filosofia.
Questa nuova esigenza è Kant.
Kant è la dissoluzione di tutta la filosofia europea dopo Cartesio, e la nascita della nuova filosofia.
Kant è filosofo europeo: risultato del movimento della filosofia europea: risultato chiaro, evidente, cosciente: una conseguenza logica, che si mostra conseguenza e realtà storica.
In Vico all'opposto questa stessa esigenza, nella sua relazione colla filosofia europea del suo tempo, è oscura: è una anticipazione, come è un'anticipazione il concetto dello Sviluppo. Ecco perchè è oscura. Vico concepisce lo Sviluppo ed esige la nuova metafisica, prima che la vecchia filosofia, — quella di Cartesio e Locke, — sia esaurita; prima che la corruzione sia venuta a tal punto che sia generazione; prima di Wolf e Hume.
[138]
In questo senso Vico è precursore dell'avvenire: cioè quegli che pone qualcosa che è vero e ha da essere, perchè è il risultato necessario di quel che è attualmente, — il nuovo mondo, contenuto nel vecchio, e di cui, come si dice, il vecchio è gravido; ma lo pone prima che sia venuta la pienezza dei tempi; quasi un parto precoce: un parto estemporaneo. Questo parto non è un falso parto. Quel che talvolta si dice parto, è semplice eduzione. Quel che si educe, è già formato, è già vivo, è già generato, già partorito. Allora il parto — il venir fuori — è, direi quasi, più una faccenda meccanica, che altro; il concepimento è tutto; questo è il difficile. Questo concepimento è Vico. È la nuova vita — l'infante — posta, intuita, prima che si stacchi da sè dalla vecchia vita, dalla vita della madre.
In questo senso, — quando si considera che Bruno è in sè Spinoza, e Campanella Cartesio, e Telesio Bacone e Locke — quando si considera quel che è Vico, — si può dire che l'ingegno italiano sia ingegno precursore. È stato tale: e questa è la sua eccellenza, e insieme la sua imperfezione.
Adunque la chiarezza della esigenza di Vico è la filosofia del suo tempo e dopo del suo tempo sino a Kant; è tutto il secolo decimottavo. La chiarezza dello Sviluppo è Kant e tutta la filosofia dopo Kant. In generale la chiarezza di Vico è il decimottavo e il decimonono secolo.
È noto come Kant risulta dalle due direzioni del pensiero moderno dopo Cartesio. Cartesio dice: Pensare è essere. Questa unità è immediata; e perciò pensare e essere non sono veramente uno. Quindi: il pensare come pensare, come astratto pensare, e il pensare come essere: cioè, il cartesianismo e il lockismo (percezione lockiana). Il primo riesce al [139] formalismo volfiano, alla pura cosa; il secondo alla materia: due metafisiche. Hume è la negazione del lockismo; Wolf la pietrificazione del cartesianismo (puro intellettualismo). Kant è la negazione vera di tutti e due, e perciò la nuova unità: il nuovo Cartesio.
Quella doppia direzione vuol dire: distinzione e opposizione de' due contrarii, posti come immediatamente uno da Cartesio. È la loro divergenza: l'apparizione della loro differenza. Ma nella loro divergenza, nella loro ultima divergenza, già manifestano la loro unità, la loro nuova unità: non più quella di prima, la cartesiana.
Nella loro ultima divergenza quelle due direzioni sono il Conoscere: il conoscere come concetto, come semplice intelletto, e il conoscere come percezione (intuizione), come semplice senso. La loro unità — la nuova unità — è dunque il conoscere, o meglio il puro conoscere.
Ho detto: il puro conoscere; puro, cioè non empirico, ma trascendentale. Quindi il psicologismo kantiano è in sè trascendentale. In questo concetto è il gran significato del kantismo.
Il conoscere — questa è la scoperta di Kant — è un immediato (un originario), che consta di due immediati (di due originarii; almeno appaiono così), che sono il pensare ed il sentire, il concetto e l'intuizione, l'universale ed il particolare, il così detto a priori e l'a posteriori. Nel conoscere, l'immediato non è il solo concetto, come voleva il Cartesianismo, nè la sola intuizione come voleva il Lockismo. Col solo concetto non si conosce nulla (il concetto è vuoto) e però è falsa l'idea immediata o innata cartesiana; e d'altra parte, colla semplice intuizione nè meno si conosce nulla (l'intuizione [140] è cieca), e però è falsa la percezione o l'idea lockiana. Adunque il conoscere è un immediato sui generis: un immediato che è immediatamente due immediati, una mediazione immediata (originaria); una unità, che non risulta dagli elementi di cui consta come l'effetto dalla causa, e perciò non è posteriore ad essi; e che nè meno produce essa i suoi elementi, come la causa produce l'effetto, e perciò non è anteriore ad essi. Posteriore: i due elementi, presi per sè, non sono niente senza la loro unità — il conoscere, e perciò non possono produrla. Anteriore: il conoscere non è niente senza i due elementi, e perciò non può produrli. Il conoscere, adunque, non può essere nè semplicemente effetto o risultato, nè semplicemente causa o principio. Da una parte, il conoscere non può essere senza i due elementi; dunque, il conoscere è risultato. E d'altra parte, gli elementi non possono essere senza il conoscere; dunque, il conoscere è principio. Adunque, il conoscere — non essendo nè semplice risultato nè semplice causa — è insieme risultato e causa. Ma di che? Di se stesso. Esso è il risultato dei suoi elementi; e gli elementi sono l'effetto del conoscere. Adunque, il conoscere è l'effetto del suo effetto, cioè la causa di se stesso: causa sui[98].
Eccoci, come pare, ritornati a Cartesio e Spinoza. E pure non è vero, Cartesio dice: Pensare è essere. Qui l'essere è contenuto nel pensare, è l'effetto del pensare; non è tutto il pensare, tutta la realtà del pensare, l'adequatezza del pensare, ma meno di quel che è il pensare; è, insomma, il pensare come ens diminutum. È un semplice giudizio, [141] un giudizio immediato. — Il pensiero è, dunque, qui causa di un altro, più che di se stesso, cioè di se stesso come altro, e non come se stesso. Kant, al contrario, vuol dire: Pensare (conoscere) è essere (senso, intuizione); essere è pensare (concetto); adunque, pensare è pensare.
Conoscere è conoscere. Qui non abbiamo più un giudizio, ma un sillogismo.
Questo è il nuovo Cogito ergo sum, la nuova unità. Non è una unità vuota, A = A, pensare è pensare, come pare considerando solo l'ultimo giudizio. È una unità piena, concreta, perchè è il risultato di due mediazioni; il pensare (il risultato) a cui si ritorna, è l'attualità assoluta del pensare da cui si comincia.
Questa unità non è, dunque, una semplice e monotona ripetizione di sè (A = A); non è l'Uno che produce l'Altro, e si degrada, si perde; ma è l'Unità che produce se stessa come Unità, come vera Unità. L'Unità qui è il prodursi come Unità; e perciò è produrre se stessa, producendo i suoi opposti elementi e unendoli.
Questo è il vero punto della unione: il vero unire e trarre il contrario INSIEME.
Produrre se stesso, producendo e riducendo i suoi proprii elementi opposti, è svilupparsi (spiegarsi). L'unità kantiana — il conoscere — il nuovo Cogito, è dunque l'unità dello spirito di Vico, l'unità come Sviluppo o Spiegamento: come Processo.
Questa unità è ciò che Kant chiama unità sintetica a priori, originaria, della coscienza. In [142] essa è la possibilità e il vero significato del giudizio sintetico a priori.
Kant vuol spiegare la conoscenza empirica, reale, concreta: la esperienza. Ora la spiegazione della conoscenza empirica non può essere la stessa conoscenza empirica; ciò non sarebbe una spiegazione. La spiegazione del conoscere empirico è il puro conoscere: il conoscere, come dice Kant, trascendentale.
Conoscere puro o trascendentale è il conoscere, che è la possibilità del conoscere; che è in fondo a ogni conoscere; il concetto del conoscere, senza il quale il conoscere non sarebbe tale. Il giudizio sintetico a priori è la possibilità di ogni giudizio, il giudizio come giudizio, il giudizio puro, trascendentale.
Il giudizio puro, sintetico a priori, non è un dato giudizio, un giudizio empirico. Esso si fonda nella unità sintetica originaria; è (nel vero senso) questa stessa Unità, e come questa non consta di elementi empirici.
Esso non è, come si crede, l'unità di due concetti, de' quali l'uno non è contenuto nell'altro. È l'unità della intuizione e del concetto, del senso e dell'intelletto. Ed è l'unità, non di una data intuizione e di un dato concetto, ma della intuizione come intuizione e del concetto come concetto. Se il conoscere è la unità — quella tale unità già spiegata innanzi — del senso e dell'intelletto, spiegare il conoscere è spiegare questa unità: è far vedere come senso e intelletto fanno uno, cioè il conoscere: il senso come senso, come puro senso, e l'intelletto come intelletto, come puro intelletto: cioè intuizione pura, concetto puro. (Prima di Kant non si pensava alla intuizione pura, e nè meno al concetto [143] puro nel vero senso. — Gran merito di Kant è la scoperta del puro, specialmente della intuizione pura[99]). Ora la intuizione pura è il tempo, e quindi lo spazio; il concetto puro è la categoria. Quindi Estetica e Logica trascendentali, pure. Adunque il problema è: Come è possibile l'unità del tempo e della categoria (della intuizione pura e del concetto puro)?
Tale è il significato della quistione: Come è possibile il giudizio sintetico a priori? È lo stesso che domandare: come è possibile il conoscere? Cioè: come è possibile quella unità sintetica originaria? L'Unità come Sviluppo?
Infatti, non è già che senso ed intelletto siano dati così come opposti, come l'uno la negazione dell'altro, e si tratti di unificarli; nè che sia data la Unità, e si tratti semplicemente di trarre gli opposti. Si tratta invece della Unità che pone se stessa, ponendo e unendo gli opposti: della Unità come Sviluppo.
Sviluppo; quindi in altri termini: come l'unità (il conoscere) si pone da prima come senso, per porsi poi come intelletto, cioè come vero conoscere?
Questo è il problema: come l'intelligibile si fa sensibile, e il sensibile intelligibile, e perciò l'intelligibile, vero intelligibile? — Come l'intelligente si fa senziente, e il senziente intelligente, e perciò l'intelligente vero intelligente? — Come la pura [144] idea si fa natura, e la natura spirito, e perciò lo spirito vero spirito? È il problema della creazione: il nuovo problema. È il problema dello spirito, che in Kant si presenta come problema del conoscere.
La Critica di Kant è dunque psicologismo; ma psicologismo trascendentale. Il suo difetto, come si vedrà poi[100], è di non essere veramente trascendentale, di essere poco trascendentale.
B) Il problema del conoscere è il problema de' due nostri filosofi Galluppi e Rosmini. Tutti e due pigliano questo problema da Kant; e senza saperlo, forse, essi rispondono alla esigenza di Vico.
Come rispondono?
Galluppi scrive una Critica della conoscenza[101], nella quale mostra grandissima erudizione e molto acume. Conosce assai bene la storia della filosofia da Cartesio a Kant: non così i greci e i tedeschi. Manca della conoscenza del fondamento e della corona dell'edifizio della storia della filosofia. Quindi non conosce bene quel che conosce.
Pare pretto empirista, un nuovo Locke, puro psicologista. Procede empiricamente, colla semplice osservazione; nega il giudizio sintetico a priori, e non intende il senso di questo problema, come l'ha bene inteso il Rosmini; pare insomma di tutt'altro infetto, che di kantismo.
E con tuttociò è kantista; è kantista quasi senza saperlo, quasi suo malgrado, per una forza superiore alla sua volontà[102].
[145]
Egli dice: sensibilità interna (la coscienza) e sensibilità esterna; e su questa doppia base che, come sensibilità, è una sola, edifica tutto l'edifizio del sapere, mediante l'intelletto vuoto, senza forma, e il volere. La sensibilità dà i materiali; l'intelletto e il volere fanno il resto. Così Galluppi dalla percezione sensibile si eleva gradatamente sino a Dio. E di Dio sa solo che è, ma non sa cos'è: l'Essere supremo. Così Galluppi pare lockiano: anche Locke comincia dal senso, che dà il materiale, lavora questo coll'intelletto e col volere, che sono vuoti, senza forma essenziale, e riesce all'astratto Essere supremo.
Ma già, in primo luogo, il volere di Galluppi non è perfettamente vuoto. Come volere etico, esso ha una forma, una originalità: quindi i così detti giudizii sintetici a priori pratici. Questi gli ammette. Essi scaturiscono dalla potenza produttiva della ragione; dall'unità sintetica dello spirito.
In secondo luogo, è vero che noi ci eleviamo dalla percezione a Dio. Ma noi non potremmo elevarci a Dio e nè meno al concetto dell'universo come tale, come cosmo, ordine, sistema, se lo spirito non creasse dal suo proprio fondo alcune idee, cioè non fosse una unità sintetica originaria. Così, oltre alcune idee semplici, identità, diversità, etc., la stessa idea di unità deriva, secondo Galluppi, dall'unità sintetica dello spirito.
In terzo luogo, egli chiama la coscienza in generale dell'Io e del Non-io (me e fuor di me), sensibilità; [146] la quale afferra la sostanzialità dell'Io e del Non-io immediatamente, direttamente; e perciò è senso, non giudizio (non intelletto); ricettività, non spontaneità. Galluppi non s'accorge che la sua sensibilità è tale solo di nome, e che quella sostanzialità dell'Io e del Non-io è tutt'altro che percezione sensibile, e non è altro che il contenuto necessario e originario della coscienza di sè (Kant e Fichte), cioè il puro conoscere: quel conoscere, che Galluppi vuol appunto combattere col suo realismo fondato nella percezione.
Infatti, Galluppi distingue tre cose: la sensazione, la percezione della sensazione o la coscienza, e l'oggetto della sensazione. Egli dice: «la coscienza di qualunque sensazione è inseparabile dalla coscienza del me». Ciò è vero, ma questa coscienza, e in generale la coscienza, non è senso interno, e Galluppi stesso la distingue dalla sensazione come tale: essa è intelletto, o senso divenuto intelletto. Come va, dunque, che Galluppi chiama la coscienza anche sensibilità interna? Ammesso che la coscienza della sensazione sia inseparabile dalla autocoscienza, ne segue forse che la stessa sensazione come tale sia quest'autocoscienza? La sensazione come tale non è coscienza; cioè la coscienza non è sensibilità. Qui dunque Galluppi sbaglia, e si contradice. Si contradice, perchè, se la coscienza è la stessa sensibilità interna, coscienza e sensazione devono essere la stessa cosa. Se la sensazione è distinta dalla coscienza della sensazione, e la coscienza è sensibilità, cioè sensazione, dobbiamo avere una sensazione della sensazione. Ma la così detta sensazione della sensazione non è sensazione (è intelletto), e Galluppi sbaglia tenendola per tale. Ciò vuol dire, che il puro senso, la pura [147] sensazione, non è l'Io; l'Io è essenzialmente un a priori; non è posto da altro, ma pone se stesso. Galluppi potrebbe derivare dalla sensazione come tale quello che egli chiama il sentimento della sensazione, cioè la coscienza?
Oltre a ciò, Galluppi dice: «la sensazione è di sua natura oggettiva; è la percezione immediata dell'oggetto, etc.». Ma quale sensazione? La sensazione come tale, ovvero la sensazione in quanto percepita, cioè la coscienza stessa della sensazione? Galluppi scambia la seconda colla prima e attribuisce alla prima ciò che è proprio solo della seconda, cioè non più della sensazione, ma della coscienza, dell'intelletto. Non è la sensazione come tale che percepisce l'oggetto (Rosmini ha ragione: la sensazione non ha oggetto, ma termine soltanto), ma sì la coscienza della sensazione: cioè la sensazione come oggetto della coscienza (Galluppi stesso dice: l'oggetto della coscienza è la sensazione) diventa essa stessa l'oggetto (l'oggetto reale). In altre parole, l'oggettività non appartiene alla sensazione, ma all'autocoscienza. Se Galluppi avesse ben posto mente alla sua distinzione di sensazione e coscienza della sensazione, sarebbe entrato nella buona via; avrebbe attribuito l'oggettività non alla sensazione come tale, ma alla sensazione in quanto intesa. E il fatto curioso è, che l'oggettività ch'egli vuol vendicare alla sensazione non è altro che l'oggettività in generale, quella appunto che consiste nell'autocoscienza; ciò ch'egli chiama il fuor di me non è altro che il Non-io in generale, non è l'esteso, non è il corpo, etc. Ma se si tratta di ciò, perchè combattere quelli che parlano di oggettività reale e la provano col ragionamento? Galluppi dicendo: la sensazione è la percezione immediata dell'oggetto, — ha [148] ragione se per sensazione si intende la coscienza, e per oggetto l'oggettività in generale, il Non-io come tale; giacchè nell'autocoscienza l'Io e il Non-io sono posti immediatamente; il ragionamento fondato nel principio di causa, di ragione sufficiente, etc., non ci entra. Quelli che Galluppi vuol confutare, perchè non attribuiscono alla sensazione l'oggettività, parlano di oggettività reale, ed hanno ragione; giacchè, se è vero, che senza la sensazione non si ha l'oggetto reale, senza l'intelletto non solo non si ha l'oggetto, ma senza l'intelletto stesso come ragionamento dalla causa, ecc., non si ha l'oggetto reale, un Non-io reale.
Gioberti critica così Galluppi: «Il concetto di corpo inchiude due elementi, la sostanza intima o forza, e le proprietà o modificazioni. La sensazione del Galluppi ci porge il secondo elemento, che consiste nei sensibili, ma non il primo, che è schiettamente intelligibile»[103]. Questa critica vale contro la sensazione in generale, ma non contro la sensazione del Galluppi; giacchè quella che il Galluppi chiama impropriamente sensazione ci porge il semplice fuor di me (il non-Io in generale), cioè un elemento intellettivo, e non già un elemento sensibile[104].
Adunque Galluppi pone, o meglio presuppone l'unità sintetica originaria, la nuova unità. Questa è il suo Deus ex machina, a cui egli ricorre ne' casi difficili. Ma non se ne avvede; non la comprende. [149] È kantista suo malgrado, ripeto, e quasi senza saperlo. Ei pone la unità nuova nella forma immediata, cioè come sensibilità. E non è Locke; non è l'antico empirista, ma il nuovo. Questo empirismo, che contiene in sè la nuova unità, è la negazione dell'empirismo astratto.
Rosmini è kantista con maggior coscienza. Anzi crede di esser più kantista di Kant. A udirlo, il giudizio sintetico a priori l'ha scoperto lui, non Kant; quel di Kant è un giudizio posticcio.
Ciò si vedrà nella lezione seguente.
[150]
SOMMARIO.
A) Difetto di Kant, e sviluppo del kantismo in Alemagna — B) Galluppi e Rosmini; L'Ente; il puro conoscere; unità sintetica originaria; passaggio a Gioberti.
Rosmini, e, come abbiamo visto, lo stesso Galluppi, non s'intende bene senza Kant. Kant compendia in sè tutto il pensiero europeo anteriore; il nuovo pensiero comincia da lui. Vediamo come questo pensiero si sia esplicato in Alemagna; poi come sia stato compreso in Italia. La prima posizione dà lume alla seconda.
A) Il nuovo problema della filosofia è il problema del conoscere.
Il conoscere nella sua realtà, il conoscere reale, è la notizia del mondo oggettivo; in generale, la esperienza. Quel problema è, dunque, lo stesso che questo: come è possibile l'esperienza?
La esperienza[105], il conoscere reale, è un fatto che consta di due elementi: l'intuizione e il concetto, il senso e l'intelletto. Essa non è nè il semplice senso senza l'intelletto, nè il semplice intelletto senza il senso. Semplice senso e semplice intelletto [151] non sono il fatto, il conoscere reale, ma due astratti: non il conoscere reale, ma le semplici potenze del conoscere.
Spiegare l'esperienza, il conoscere reale, è adunque spiegare la unità della intuizione e del concetto, del senso e dell'intelletto: la unità come fatto, il fatto della unità.
Questa spiegazione non può essere essa stessa un fatto, una esperienza, un conoscere reale, empirico: se fosse un fatto, una esperienza, avrebbe bisogno di essere spiegata, e perciò non sarebbe una spiegazione.
La spiegazione del conoscere, non potendo essere il fatto stesso del conoscere, deve essere l'idea (essenza, possibilità reale) del conoscere: il puro conoscere, il conoscere trascendentale.
Sino a Kant i filosofi non aveano compreso il problema del conoscere; non l'aveano posto, come dovea esser posto. Aveano preso per il conoscere un elemento del conoscere, non il fatto del conoscere; e questo elemento, preso per il fatto del conoscere, per tutto il conoscere, questo fatto falso, cioè monco, valeva per la stessa spiegazione del conoscere. L'intellettualismo piglia per conoscere il semplice pensare (il concetto), e questo fatto, questo dato immediato, è per esso la spiegazione del fatto. L'empirismo piglia per il conoscere il semplice percepire, e questo fatto è per esso la spiegazione del fatto.
Pensare, percepire, conoscere non sono la semplice realtà, ma la realtà cosciente, la realtà come psiche: la Psiche. Così tutta la filosofia moderna da Cartesio sino a Kant, in quanto le sue stazioni e quindi i suoi problemi sono il pensare, il percepire, il conoscere, — in quanto il suo universale [152] problema è la Psiche, — si può dire psicologismo. Ma l'intellettualismo e l'empirismo sono psicologismo immediato, imperfetto, falso; e ciò per due ragioni: 1.º perchè pigliano per la psiche (per la realtà cosciente) un fatto monco, e quindi falso; 2.º perchè pigliano questo fatto stesso come spiegazione del fatto, di tutto il fatto.
Kant, all'opposto, studia il fatto (la psiche) nella sua integrità, come conoscere; e cerca la spiegazione del fatto non in un fatto, ma in ciò che trascende il fatto, e che per ciò è la spiegazione del fatto. La spiegazione del conoscere è il puro conoscere. Con Kant comincia dunque il vero e nuovo psicologismo, il psicologismo trascendentale.
Confondere i due psicologismi, e chiamare Kant psicologista come i cartesiani e i wolfiani, è non conoscere la profonda differenza che corre tra quello e questi.
Il puro conoscere e quella nuova unità (il nuovo pensiero, il nuovo Cogito[106]) che è il puro conoscere, non è il conoscere e la unità come fatto, come esperienza, ma il conoscere e l'unità come fare, farsi, fare se stesso. Il fare o farsi trascende il fatto: è la ragione, l'idea, la spiegazione del fatto. Il fatto, preso così per sè, senza il fare, è come il corpo senz'anima.
Ora il conoscere (la realtà cosciente, la Psiche) è tal fatto, che il fare o farsi non può essere semplice fare o causare, ma fare che è Sviluppo. Aver visto ciò — sebbene non chiaramente, come mostrerò più innanzi —, tale è il gran merito di Kant. Cartesio e Locke non aveano ben compreso [153] il fare, che è la Psiche. Cartesio l'avea compreso come semplice causare, come attività immediata, come qualcosa d'innato (di naturale); Locke come il fare di altro, e perciò come semplice effetto (risultato della impressione degli oggetti). Kant, invece, concepisce la Psiche — il conoscere — nè come fare che è semplice causa, nè come fare che è fare di altro o semplice effetto: ma come causa e effetto insieme di altro, e perciò causa vera di se stessa: come Sviluppo. Cartesio avea detto semplicemente: pensare è essere; Locke: essere è pensare. Kant dice: Pensare (intuizione, immaginazione, concetto) è Pensare[107].
La Psiche, la realtà cosciente, il Cogito ergo sum, non più come giudizio, ma come sillogismo: tale è il significato dell'unità sintetica a priori; di quella unità che è il puro conoscere, e perciò la spiegazione del conoscere.
Questa unità sintetica originaria, che è in sè Sviluppo, è il fatto del conoscere come fare.
Ma Kant non comprese bene questo fare che è Sviluppo, cioè la sua stessa unità sintetica originaria, e perciò non comprese bene la Psiche, la realtà cosciente. La chiara intelligenza di questa Unità e perciò la soluzione del problema della Psiche, è il cómpito de' filosofi posteriori. Questi filosofi sono il vero Kant.
Kant comprese questa unità — che in sè non è nè semplice intelletto nè semplice senso, nè il loro semplice risultato, ma sempre tutta se stessa, cioè spirito, intelletto, pensiero, che si fa senso, e come senso si fa intelletto, e perciò vero e reale intelletto [154] (coscienza, cioè coscienza di sè, che si fa coscienza di altro, e come coscienza di altro si fa coscienza di sè, e perciò vera coscienza di sè); — Kant comprese questa Unità come uno de' suoi opposti, come semplice Io penso, come semplice intelletto, come semplice categoria; o, meglio, separò di nuovo l'intelletto e il senso, la categoria e l'intuizione, e fece consistere l'unità, il conoscere, nell'applicazione — direi quasi esterna — della categoria all'intuizione. Così comprese la unità — il conoscere — come semplice risultato: come risultato di questa applicazione. Ovvero, se la comprese come principio, la identificò come principio colla semplice categoria, quale attività unificatrice del vario della intuizione dato fuori della unità stessa e non prodotto da essa. L'unità kantiana non era, dunque, ciò che esigeva il suo stesso concetto, cioè assolutamente fare (Sviluppo); ma parzialmente fare, cioè ancora un fatto. Era fare, in quanto l'Io penso, la categoria, come attività unificatrice, movendo da sè, cioè spontaneamente, apprendeva il molteplice della intuizione e lo riduceva a se stesso: se lo assimilava, lo faceva suo, cioè uno, e così era movimento da sè a sè, relazione verso se stesso. Era fatto, in quanto l'Io penso, la categoria come attività unificatrice, non era la unità sintetica originaria che produce se stessa, ma solo un elemento di questa attività, come un dato, e quindi un presupposto; e il molteplice della intuizione similmente non era il prodotto della unità originaria sintetica, ma anche un dato, fuori dell'unità unificatrice, cioè dell'intelletto, e quindi anche un presupposto.
Così senso e intelletto, intuizione e concetto sono nel kantismo di nuovo separati, e accade qui quello [155] stesso che abbiamo osservato della Unità cartesiana: pensare è essere. Pensare ed essere, appunto perchè immediatamente uno, non erano veramente uno; si separavano, e si avea il pensare come pensare, e il pensare come essere (il concetto e la percezione). Ma la categoria e la intuizione kantiana non sono più il concetto e la percezione, quali risultano dal principio di Cartesio; sono altro di più, appunto perchè l'unità kantiana è altro, in sè, più che la cartesiana. Quel concetto e quella percezione conservavano in sè la loro unità originaria, cioè il pensare come unità immediata del pensare e dell'essere, e perciò si distinguevano dal concetto e dalla percezione antica; erano due modi del pensare come semplice immediatezza. All'opposto la categoria e la intuizione kantiana, appunto perchè conservano l'unità loro originaria, manifestano, così come possono nella loro separazione, questa unità: giacchè la categoria non è pura immediatezza, ma unità che funziona come unità, cioè unifica, e così è relazione verso se stessa; e la intuizione come tale, la pura intuizione, è anche a suo modo tale unità, cioè relazione, in quanto è tempo e spazio. Categoria e intuizione sono due attività sintetiche originarie a priori, come l'unità sintetica originaria, da cui devono rampollare.
Ora questo difetto di Kant è notato e posto in chiaro da Fichte. Kant avea detto: senza il puro conoscere, il conoscere è impossibile, e gli elementi del puro conoscere sono la categoria o il concetto puro e la pura intuizione; questi elementi formano ogni conoscenza. Fichte, rinnovando e comprendendo meglio il concetto della Unità sintetica originaria della coscienza, dice: «Senza questa unità come produzione di se stessa non si ha il conoscere, [156] e quindi nè meno gli elementi del conoscere. Questa unità, come posizione di se stessa, è l'Io, la coscienza di sè, l'autocoscienza. Adunque, così la categoria come la intuizione sono impossibili senza un'autocoscienza che le produca (producendo se stessa). Ora non è possibile un'autocoscienza — un'autocoscienza produttiva — siffattamente produttiva — se non è assoluta»[108].
Così per Fichte l'Autocoscienza è assolutamente fare (Thathandlung); la Psiche kantiana è semplice coscienza.
Ma, continua Schelling, questa assolutezza dell'autocoscienza è impossibile, se lo spirito e la natura non sono identici.
Questa identità — la Ragione — conclude finalmente Hegel, non può esser saputa, se l'universale e assoluto Principio non è la Ragione conscia di sè, cioè lo spirito.
Tale è il processo necessario del pensiero da Kant ad Hegel. L'Unità kantiana, — posta come semplice coscienza, poi come Autocoscienza, poi come Ragione, — diventa finalmente assoluto Sapere.
B) Questo processo, sebbene non nella sua integrità, ma con una certa fretta e a salti, si ripete nella filosofia italiana: almeno il risultato, se ben si considera, è, quanto all'essenza, lo stesso.
Abbiamo visto che Galluppi è kantista suo malgrado, e sino a qual punto. Egli nega il puro conoscere, il conoscere trascendentale, la categoria e la pura intuizione, il giudizio sintetico a priori: e nondimeno ammette una certa spontaneità dello spirito, [157] la sua unità sintetica, la quale produce per sè appunto le categorie. Pare che faccia consistere il conoscere, come notizia così dell'Io come del Non-io, come coscienza, come prima esperienza o primo sapere, in un lato solo del conoscere, nella sensibilità, senza l'intelletto; e che per lui questo sia una attività puramente analitica e combinatrice (analisi e sintesi del Galluppi: sintesi come ricomposizione di ciò che l'analisi ha separato, e non già come sintesi originaria). E pure la sua sensibilità nella duplice forma di interna ed esterna come coscienza della sensazione e come oggetto della sensazione, come percezione immediata del me e del fuor di me, non è altro che la forma stessa della coscienza: «l'Io si sa in quanto si distingue dal Non-io, e sa il Non-io in quanto lo distingue dall'Io ». Pura forma: puro Io, puro Non-io. Essa non è sensibilità come un lato del conoscere senza l'intelletto; ma è il conoscere come primo conoscere, come conoscere o certezza sensibile, come primo o immediato giudizio, come prima coscienza. Coscienza è essenzialmente giudizio. — Il difetto di Galluppi è di confondere la conoscenza sensibile colla semplice sensibilità; il non accorgersi che la sua sensibilità non è semplice sensibilità, ma coscienza (intelletto) sensibile. In Galluppi, dunque, vi ha un equivoco.
Questo equivoco cessa in Rosmini. Galluppi è Kant non inteso bene, inteso a metà; è, dirò così, Kant visto coll'occhio di Locke. Rosmini è, generalmente, Kant inteso bene: non il vero Kant, il Kant quale si compie ne' filosofi posteriori, ma il Kant come ha inteso o franteso se stesso. Dico generalmente: perchè, come si vedrà, vi ha qualcosa in Rosmini, che è da meno di Kant, dello stesso Kant imperfetto.
[158]
La percezione immediata, — la sensibilità del Galluppi, — si manifesta nel Rosmini quel che veramente è, cioè non sensibilità, semplice percezione sensibile o un lato solo del conoscere, ma percezione intellettiva, cioè giudizio.
Rosmini dice come Kant, e citando Kant: Pensare, intendere, conoscere, coscienza è giudicare; senza giudizio non si ha conoscenza. Spiegare il conoscere è dunque vedere come sia possibile il giudicare.
Ora la considerazione del giudizio ci presenta questa grave difficoltà: da una parte il giudicare è impossibile senza un concetto, un'idea generale (l'intelletto), e d'altra parte il concetto non è possibile senza il giudizio, giacchè non può essere in generale che il risultato del giudizio. Come si risolve questa difficoltà?
Non si può risolvere altrimenti che coll'ammettere un concetto, il primo concetto, che non sia il risultato di nessun giudizio, ma sia, invece, anteriore a ogni giudizio, e quindi la possibilità di ogni giudizio.
Questo concetto è l'Ente, l'idea dell'Ente, dell'Ente come semplice Ente, cioè come puramente possibile, comunissimo, indeterminato. Esso non è il risultato del giudizio, ma anteriore ad ogni giudizio, perchè ogni giudizio lo presuppone. Come anteriore ad ogni giudizio e perciò ad ogni conoscere, esso non è conoscere, non è fatto, non esperienza, ma qualche cosa che trascende il fatto, l'esperienza, il reale conoscere; cioè, come dice Rosmini, un'idea innata, l'unica idea innata. Così esso è la forma dell'intelletto, quel che fa Intelletto l'intelletto, la possibilità dell'intelletto e quindi del conoscere.
[159]
Si vede che Rosmini ammette come Kant il puro conoscere, il conoscere trascendentale; giacchè la sua idea dell'Ente, il suo oggetto ideale, il suo conoscere intuitivo così, senz'Io, senza coscienza, non è altro che il puro conoscere.
È noto, che con questa unica idea, che è tutto l'intelletto, e presupposto il senso come compagno indivisibile dell'intelletto, il Rosmini si fa a spiegare o a fabbricare la conoscenza.
Egli conserva la distinzione kantiana di forma e materia del conoscere, e ammette che il conoscere reale sia l'unità di questi due elementi. Ma, dove Kant distingue anche una pura materia del conoscere (tempo e spazio), la intuizione pura, e mostra che il puro conoscere, la possibilità del conoscere, è — e non può non essere — l'unità del puro concetto e della pura intuizione, della pura forma e della pura materia; il Rosmini, invece, fa consistere il puro conoscere unicamente nella sua unica forma intellettiva, nella pura idea dell'Ente, negando ogni intuizione pura, ogni forma nel senso. Così egli annulla — o almeno pare così a prima vista — quella unità del conoscere, che è unità sintetica originaria, e la riduce a una semplice unità analitica, a un semplice elemento del conoscere. E dove Kant, concependo l'unità del conoscere come unità sintetica originaria, considera i concetti o le categorie come diverse funzioni di questa Unità (e per essere conseguente, dovrebbe considerare come prodotti di questa stessa Unità così le categorie come anche le forme della pura intuizione: Fichte); il Rosmini, invece, ammettendo solo quella unica prima categoria dell'Ente, vuotando (almeno così pare) l'Unità sintetica originaria kantiana e riducendola a un quasi [160] nulla, trasporta nel senso tutta la ricchezza dello intelletto, tutte le categorie, e fa derivare questa ricchezza dalla combinazione di quella unica idea colla materia del senso stesso. Kant avrebbe dovuto derivare le categorie, e in generale la forma del conoscere, il puro conoscere, dalla unità sintetica originaria (dall'autocoscienza: Fichte); e invece falsa quella unità, la pone come unità analitica, come Io penso, e nel tempo stesso presuppone come sue funzioni, come suoi strumenti, le categorie. Rosmini comprende, come Fichte, la necessità di dedurre le categorie dalla Unità intellettiva; ma poi intende questo problema alla maniera di Locke, ricade nell'empirismo anteriore a Kant, piglia da una parte la sua vuota unità, l'intelletto, e dall'altra il senso; porta in giro quella — la sua unica forma — e l'applica a tutta la materia, a tutta la ricchezza che ha trasportato nell'affezione sensibile; e questa applicazione chiama origine delle idee, cioè delle categorie e delle stesse forme dell'intuizione. Non si avvede, che così facendo egli non deriva le categorie nè dalla sua unità vuota, nè dalla materia del senso, ma le trova in questa mediante quella, perchè ce le ha già presupposte.
Così il psicologismo del Rosmini, che è trascendentale in quanto ammette il puro conoscere come Ente possibile, come puro essere, torna ad essere psicologismo volgare, in quanto tutta la ricchezza del puro conoscere, tutte le categorie sono trasportate nel senso. Esso sarebbe psicologismo assolutamente e pienamente trascendentale, se avesse saputo derivare da quella idea del puro essere tutte le categorie. Ma Rosmini stesso dice, come ho già osservato in un mio scritto[109], e come si vedrà più chiaro [161] in un altro mio lavoro[110], che questa derivazione, possibile in sè, è impossibile rispetto a noi, intelligenze finite.
Quella applicazione dell'idea dell'Ente alla materia del senso è in generale il giudizio sintetico a priori rosminiano. Questo giudizio è l'unità del concetto originario, puro, e della intuizione sensibile. Il Rosmini critica Kant di aver fatto consistere un tal giudizio nella unità di due concetti: e non si avvede che egli dice quello stesso che dice Kant, cioè unità di concetto e intuizione, e che Kant avea detto molto tempo prima di lui.
Così Rosmini è kantista. Egli si crede più kantista di Kant, il vero Kant, perchè ha dinanzi agli occhi un falso Kant. Paragonando se stesso con questo sconcio simulacro, ha ragione di credersi la persona viva, Kant in persona.
E il Rosmini è Kant non solo ne' pregi, ma anche ne' difetti; ed ha più difetti di Kant.
Infatti quell'applicazione del concetto puro all'intuizione è nel Rosmini, come in Kant, una faccenda tutta meccanica: qua il senso o l'intuizione, là l'intelletto o la categoria: adatta questa a quella, ed ecco il giudizio sintetico a priori. Ora come va questa applicazione? Questo è il difficile. In Kant, se non altro, il concetto puro si applica alla intuizione, in quanto già predetermina la intuizione come pura intuizione. Nel Rosmini, all'opposto, tolta di mezzo la pura intuizione, ogni applicazione è impossibile: tra il concetto puro, e la intuizione sensibile manca, come si suol dire, il ponte di passo[111].
[162]
Questo ponte, il vero ponte, è la stessa unità sintetica originaria. Intesa bene, essa non è semplice passare dall'intelletto al senso, senso ed intelletto essendo già dati. Ma è l'Unità che pone gli opposti, e ponendo gli opposti gli unifica e così pone se stessa. È l'Uno che si dualizza, e dualizzandosi si unizza.
Kant chiama quel passare, quella predeterminazione del senso mediante l'intelletto, immaginazione trascendentale. Nel Rosmini vi è anche qualcosa di simile. «Nel nostro fondamental sentimento esistono tutte queste potenze avanti la loro espressione, cioè la sensitività e l'intelletto. Questo sentimento intimo e perfettamente uno unisce la sensitività e l'intelletto. Egli ha altresì un'attività, quasi direi una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto; questa attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva. Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dalla unità intima del sentimento fondamentale, in quanto cioè l'Io è atto a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione. E se la riguardiamo sotto il rispetto della unione che ella fa d'un predicato con un soggetto, ella prende il nome di facoltà di giudicare. La sintesi primitiva è quel giudizio col quale la ragione acquista la percezione intellettiva»[112].
La possibilità dell'applicazione dell'intelletto al senso è, dunque, questa unità sintetica originaria, fondamentale. Questa è la stessa unità sintetica originaria kantiana. Ma, come Kant non fa vero conto della sua unità e riduce il conoscere a una [163] semplice applicazione estrinseca d'una cosa a un'altra, così fa Rosmini della sua.
Insomma, così in Kant come nel Rosmini ci è il concetto della Unità dello spirito (Unità sintetica originaria, Sviluppo); ma questo concetto è ancora oscuro, incompreso.
La chiarezza del concetto di Kant è la filosofia alemanna posteriore a Kant; è una genesi chiara, graduale, conseguente.
La chiarezza, in Italia, del concetto rosminiano è, dirò così, un'apparizione subitanea, una esplosione. E perciò non è vera chiarezza.
Kant avea ridotto il puro conoscere all'Io penso, alla Unità come semplice unità analitica. Quindi il conoscere o il giudizio volea dire: semplice unione di due opposti, e non già unità che si giudica, cioè si pone come due opposti, si dualizza.
Rosmini riduce il puro conoscere, il conoscere intuitivo, la possibilità del conoscere, al puro concetto dell'Ente, all'Ente possibile, immobile, morto, indeterminato. E il conoscere è anche unione di due opposti già dati, e non la unità che si giudica da sè.
Gioberti dice: il puro conoscere, la possibilità del conoscere, il conoscere intuitivo, originario, l'intuito insomma, non è la pura categoria, il puro Ente possibile, indeterminato, la idea vuota, il minimum dell'idea; ma è la totalità perfetta ed unica di tutte quante le categorie, l'Ente reale e determinatissimo, l'idea nella sua assoluta pienezza, il maximum dell'Idea, cioè l'Idea come atto creativo.
Gioberti compie Rosmini, come Fichte, Schelling ed Hegel compiono Kant. L'oscurità di Gioberti, la meraviglia e lo stupore che destò la sua apparizione nel mondo del nostro pensiero, nasce da questo: [164] che egli è tutto insieme, — e perciò un po' confusamente, senza il processo graduale necessario, e, se devo dire quel che sento, con un po'di abborracciatura, — Fichte, Schelling ed Hegel. Quando egli dice mentalità, cioè coscienza di sè, egli è Fichte. Quando dice idea o ragione, egli è Schelling. Quando dice: idea o ragione conscia di se stessa come principio assoluto universale, egli è Hegel.
Gioberti rappresenta dunque la vera Unità dello spirito, il vero concetto dello Sviluppo, la vera ed assoluta Psiche: una attività che come due attività è una attività, un Ciclo che come due cicli è un unico ciclo. Tale è il vero ed assoluto Spirito: il Creatore.
Così, e solo così, il psicologismo di Gioberti è psicologismo assolutamente trascendentale, cioè il vero ontologismo[113], e, direi io, il vero spiritualismo.
La spiegazione della Psiche è la Psiche assoluta.
[165]
SOMMARIO.
Coincidenza di Hegel e Gioberti — Critica della filosofia di Gioberti. — Parte prima: Teorica del conoscere. — A) Elementi del conoscere. — B) Il conoscere assoluto. — Parte seconda: Il sistema.
La soluzione del problema del conoscere — della realtà cosciente, della Psiche — consiste nel puro conoscere.
La differenza tra il conoscere — il fatto del conoscere — e il puro conoscere è stata esposta nella lezione antecedente.
I momenti storici del puro conoscere sono in Alemagna la Coscienza, l'Autocoscienza, la Ragione e lo Spirito, cioè Kant, Fichte, Schelling ed Hegel[114].
In Italia sono la Sensibilità di Galluppi, l'Ente possibile di Rosmini, e l'Ente assolutamente reale o creatore di Gioberti.
Gioberti compendia in sè i momenti anteriori, cioè Galluppi e Rosmini, come Hegel compendia Kant, Fichte e Schelling; anzi — giacchè i momenti anteriori al puro conoscere, il cartesianismo e il lochismo, la chiarezza di Bruno, e ora posso dire di tutti i filosofi nostri del Risorgimento, di Campanella, [166] di Telesio, di Cesalpino, di Cremonini, di Zabarella, non si erano spiegati originalmente in Italia, — Gioberti li compendia o meglio riproduce, confusamente e spesso come soltanto coesistenti coi nuovi momenti, coi momenti del puro conoscere. Così l'intuito è in sè il puro conoscere, il conoscere assolutamente puro, la possibilità assoluta del conoscere; non è un fatto, ma fare assolutamente. E pure Gioberti (e più di lui i giobertiani) lo pigliano spesso per fatto, per il fatto stesso del conoscere, come una vera intuizione innata originaria dell'Ente creante, come una conoscenza immediata naturale, come idea innata; nello stesso modo che Cartesio pigliava il suo pensiero. Così Gioberti è cartesiano, vecchio cartesiano, quando meno sel crede. Quindi accade, che l'Ente, in quanto afferrato effettivamente dall'intuito immediato, è determinato a modo di Spinoza — e non può essere diversamente — come semplice Sostanza-causa; e quindi l'accusa di spinozismo contro Gioberti da coloro che non vedono che un lato solo del suo pensiero.
Si è paragonato Gioberti a Schelling. Il paragone è giusto, se l'intuito non si considera come innato, ma come una subitanea elevazione della coscienza volgare al cielo della scienza.
L'intuito o il conoscere puro giobertiano — come intuito dell'Ente creante — è in sè tutto il conoscibile; giacchè fuori dell'Ente creante non vi ha nulla, e l'Ente creante vuol dire tutto il conoscibile. Perciò l'intuito è in sè assoluto conoscere o sapere, cioè quel sapere in cui tutto è chiaro; in cui tutta la realtà è sapere, tutta sapere: trasparenza o specchialità assoluta, come dice lo stesso Gioberti.
[167]
Tali non sono i semplici momenti del puro conoscere. La sensibilità del Galluppi è il conoscere solo come esperienza, come semplice coscienza: l'universo, l'anima, Dio sono una regione perfettamente oscura. E semplice coscienza è il conoscere kantiano e rosminiano. Il conoscere fichtiano è semplice mentalità o soggettività; e la natura o il non-io è oscuro. Il conoscere schellinghiano è semplice ragione o idealità oggettiva, e non già idealità oggettiva come mente o coscienza di sè. Solo il conoscere hegeliano e giobertiano — come la ragione o la idealità oggettiva conscia di se stessa, come spirito — è trasparenza o chiarezza assoluta.
Il risultato di tutte queste lezioni — di questa breve storia del pensiero italiano e insieme del pensiero europeo — è, adunque, questo punto comune: il conoscere come assoluta chiarezza. Tale è il pensare puro di Hegel; tale è l'intuito di Gioberti.
Pensare puro e intuito vuol dire: la realtà assolutamente chiara, assolutamente trasparente; cioè assolutamente conosciuta.
Pensare puro e intuito è dunque l'orizzonte o il cielo della Verità: il vero cielo della Scienza.
A questo cielo noi ci siamo elevati mediante la storia; il puro conoscere non è altro qui per noi che il risultato del processo storico. E perciò, al far de' conti, non è un risultato scientifico, ma un semplice fatto, che nasce necessariamente da altri fatti; e il primo fatto è la posizione cartesiana. Si sa, che la coscienza storica in generale non è ancora la coscienza scientifica; il mondo de' semplici fatti non è il cielo della scienza, il cielo della verità. Perchè dunque il puro conoscere sia quel che ha da essere, cioè scienza e non semplice fatto, bisogna che apparisca come risultato del processo [168] della coscienza stessa e in se stessa, e non già del semplice processo storico. Il conoscere assolutamente puro deve essere dimostrato — nella coscienza stessa — come la possibilità assoluta della coscienza: come la stessa possibilità del conoscere.
Questa dimostrazione del conoscere è la vera Teorica del conoscere.
Ma questo puro conoscere, come risultato della teorica del conoscere, appunto perchè è semplice intuito o pura possibilità assoluta del conoscere, non è ancora attuale puro conoscere; è la potenzialità della scienza, e non già la scienza, ossia tutta la scienza: è intuito, non riflessione in se stesso: semplice orizzonte o prospetto, non ancora mondo o sistema della Verità. Esso è scienza solo come potenzialità del puro conoscere, come risultato del movimento dialettico della coscienza.
Il puro conoscere deve, dunque, diventare puro attuale conoscere: attuale, senza cessare di esser puro. Non deve ridiventare quella realtà del conoscere, che esso ha già superata; quel reale conoscere, dal quale la coscienza si è già elevata al puro conoscere; un qualche grado del conoscere come coscienza, o autocoscienza, o ragione, ma una nuova realtà del conoscere, la realtà vera del puro conoscere. In altri termini, il puro conoscere deve di nuovo diventare un fatto: non il fatto di prima, ma il fatto che è l'atto stesso cosciente del puro conoscere. Questo fatto, che è assolutamente atto cosciente puro, è la Scienza come Sistema.
Adunque, il punto, a cui siamo giunti, esige due cose:
Io considererò Gioberti da questi due lati.
[169]
I momenti di questa teorica del conoscere sono l'intuito, la riflessione (psicologica e ontologica), la parola, la sovrintelligenza.
L'intuito è l'apprensione immediata, originaria, immanente dell'Idea, e perciò il fondamento d'ogni sapere; senza di esso non sarebbe possibile la cognizione. Ma l'Idea è immensa, universale, infinita; non vi ha nessuna proporzione tra lo spirito finito e l'oggetto ideale. Quindi nell'intuito primo la conoscenza è vaga, indeterminata, confusa; lo spirito non può fermarla, appropriarsela veramente e averne distinta coscienza. La distinzione, e quindi la coscienza, così di se stesso, come dell'oggetto, comincia solo colla riflessione; la quale, se è semplice ripiegamento dello spirito sopra se stesso, è meramente psicologica; se è anche ripiegamento sopra l'oggetto, è ontologica. Alle due specie di riflessione corrispondono due metodi: il psicologismo e l'ontologismo. Solo quest'ultimo è il vero metodo filosofico, perchè riproduce nella sua integrità l'organismo ideale. Ma lo spirito, come riflessione ontologica, non può ripiegarsi sopra l'Idea, se questa non è espressa sensibilmente, cioè circoscritta, limitata, e accomodata alla capacità finita di esso spirito. Questa espressione sensibile dell'Idea è la parola. Senza la parola, lo spirito non sarebbe altro che intuire, cioè apprendere confusamente l'Idea; vedrebbe tutto e non vedrebbe niente, e al più potrebbe ripensare l'intuito stesso [170] come atto meramente soggettivo; ma non saprebbe veramente mai nulla nè di Dio, nè della sua propria essenza, nè di quella delle cose. Ora la essenza di Dio e delle cose, appresa immediatamente e perciò confusamente dall'intuito e conosciuta distintamente col sussidio della parola, e mediante il discorso della riflessione, non è la Verità assoluta, cioè la vera essenza.
L'Idea, che è l'oggetto immanente ed eterno della conoscenza, ha due lati; l'uno chiaro e l'altro oscuro. Diciamo due lati per rispetto all'intelletto umano, e non per rispetto all'Idea stessa, la quale come una e semplicissima è indivisibile, e non ammette distinzione d'intelligibile e di non intelligibile. Ella è l'intelligibilità stessa. La distinzione nasce dalla incapacità dell'intelletto umano di afferrare una parte dell'Idea, la parte più riposta ed intima; la quale si può chiamare essenza reale per non confonderla con quella che viene appresa dall'intelletto, e può avere il nome di razionale. Così abbiamo nella nostra facoltà di conoscere una doppia imperfezione: l'una intensiva e l'altra estensiva; la prima è come un panno sottilissimo che adombra tutta la pupilla, ma per la sua trasparenza non toglie interamente il beneficio della visione; la seconda è come una piccola maglia che vela solo una parte della pupilla, ma produce su tal punto un'oscurità assoluta; è un'ecclissi mentale, in cui il corpo frapposto tra l'occhio e il sole è nell'occhio stesso. Questa oscurità assoluta è il sovrintelligibile, e la facoltà che ce ne suggerisce l'esistenza è la sovrintelligenza. Ora la parola, che serve ad emendare la prima imperfezione, ci aiuta a scemare in certo modo anche la seconda. Con ciò non si vuol dire che essa possa esprimere [171] adequatamente il lato oscuro dell'Idea; ma può bene rappresentarcelo più o meno efficacemente mediante certe analogie. In generale, come espressione del lato intelligibile dell'Idea e come manifestazione del lato sovrintelligibile, la parola è la stessa rivelazione, sebbene per rivelazione s'intenda più propriamente la rappresentazione analogica delle verità sovrarazionali[115].
La determinazione di questi momenti in Gioberti non è sempre la stessa. Infatti:
1. l'intuito a) ora è semplice potenzialità del conoscere; ora è adoperato come organo attuale della scienza (cartesianismo, spinozismo). b) Ora è semplice apprensione dell'oggetto, e punto del soggetto, nè meno confusa, e perciò non è in niun modo riflessione; ora, in quanto visione dell'atto col quale l'infinito pone il finito e quindi anche il soggetto — è apprensione anche del soggetto, e perciò in sè riflessione. Anzi Gioberti giunge sino a dire, che l'intuito è essenzialmente compenetrazione di sè, e che lo spirito non apprenderebbe l'Ente nel pensiero immanente, se non apprendesse prima se stesso. Quindi ora accusa Rosmini di non aver escluso dall'intuito la coscienza di sè; ora di non averla inclusa in esso.
2. La riflessione ora è meno dell'intuito, ed attesta la imperfezione dello spirito; ora è più, ed attesta la infinità dello spirito. L'uomo solo riflette: la bestia no. E d'altra parte, la riflessione psicologica ora precede l'ontologica (come pura apprensione dell'oggetto), ora segue.
[172]
3. La riflessione ontologica ora è semplice intuito dell'Idea, circoscritta (rannicchiata) nella parola per opera della Idea stessa e in niun modo dello spirito; e perciò non è punto riflessione, ed esclude l'apprensione del soggetto. Ora è l'intuito dell'Ente intuíto, abbraccia insieme soggetto ed oggetto, e li apprende con un atto unico. Quindi ci ha un punto (di contatto) semplicissimo, in cui oggetto e soggetto, sostanzialmente distinti, si toccano e formano l'unità della sintesi conoscitiva. E perciò la riflessione ontologica non è nè semplice apprensione dell'oggetto (e tale era prima), nè semplice apprensione del soggetto. Questo punto di contatto è la relazione dei due termini. Ma la relazione non è più reale de' suoi termini, secondo lo stesso Gioberti?[116] Dunque, la riflessione ontologica è il vero intuito.
4. La parola ora è la veste arbitraria (dono esterno) dell'Idea: ora è produzione dell'intima attività dello spirito. Quindi ora la parola ci è, come la riflessione, perchè siamo imperfetti: ora ci è, perchè lo spirito è in sè la stessa perfezione; perchè l'Idea stessa (e quindi lo spirito) è in sè parola.
5. Il sovrintelligibile ora è un termine fisso, assolutamente insuperabile, dello spirito; ora no, ma diminuisce continuamente; e perciò in sè non è niente. E così il soprannaturale. E nello stesso modo la rivelazione ora pone qualcosa di esterno allo spirito, ora è l'intimità stessa dello spirito. Ora, insomma, l'intuito è potenzialità limitata, che non si attua mai perfettamente: quindi doppia imperfezione, di potenza e d'atto. Ora è potenzialità [173] infinita, e l'oscuro, il sovrintelligibile, non è altro che il conoscere non ancora attuato. Quindi in tutto due indirizzi: cioè, ora eteronomia assoluta dello spirito, ora autonomia assoluta[117].
Gioberti adunque, si dirà, si contradice? Così pare; ma in verità quel che apparisce come una contradizione è solo un concetto poco chiaro del proprio principio. Il principio è: l'Ente come attività creativa e ricreativa; questa duplice attività è un'attività una ed indivisibile. Quindi — come conseguenza necessaria — l'autonomia dello spirito; l'intuito (il puro conoscere) come compenetrazione di sè, come essenzialmente riflessione; la parola, il sovrannaturale, la rivelazione, come atto della intimità dello spirito; il sovrintelligibile, evanescente; e la palingenesia, come progresso eterno immanente.
Il principio, compreso poco chiaramente, vuol dire invece: intuito (cognizione) immediato, e solo dell'oggetto, senza il soggetto, senza la coscienza di sè. Quindi non libertà, non intimità, non autonomia dello spirito.
Ci è ora da maravigliarsi che Gioberti non sia stato bene inteso, se non sempre egli medesimo ha compreso nettamente se stesso? Taluni lo dissero un oscurantista, un retrivo, un semplice teologo (l'abbé Gioberti[118]); altri non videro in lui, che un pensatore senza religione, un panteista, e fors'anche un ateo. Vecchie accuse, fabbricate dagli astuti, e ripetute dagl'ignoranti.
[174]
I filosofi vogliono essere studiati non nelle semplici parole e frasi, ma nelle idee. Di frasi ce ne ha molte in Gioberti; ma ci ha anche le idee. E la idea essenziale e fondamentale è appunto il contenuto e il ritmo della formola. Nella formola è tutto il sistema. Il peggior male è, come spesso è accaduto, ridurre le idee a semplici frasi. Se il principio giobertiano non è una semplice frase, vuol dire: autonomia e libertà assoluta dello spirito. Così Gioberti dice enfaticamente nella Riforma Cattolica: «La libertà cattolica è somma, perchè è assoluta. Perchè tutta l'autorità ne dipende. La autorità cattolica si fonda tutta quanta nella libertà dell'individuo. L'atto libero concreativo dell'individuo fonda con un fiat la fede e con essa il suo oggetto. È un fichtismo applicato alla rivelazione. L'uomo a rigore crea a se stesso la sua Chiesa, il suo Dio, il suo culto, il suo dogma. E ciò fa in tutti i casi, anche quando si sforza di fare il contrario; perchè è metafisicamente impossibile che un atto di volontà non sia radicalmente autonomo. La mentalità è autonoma di sua natura; autonomia creata, che dipende solo dall'atto creativo[119] e copia, imitazione, partecipazione di tal atto.... La moralità stessa è libertà verso Dio: il che Moisè espresse mostrandoci Dio che fa e itera cogli uomini un vero contratto sociale. E la libertà è elezione di Dio; e quasi creazione di Dio, o dirò meglio concreazione di Dio; perchè, Dio creando sè stesso (mentalità assoluta, Trinità), in quanto l'uomo si accompagna all'atto creativo di Dio viene a creare esso Dio. Dunque, l'uomo in tutto rende a Dio la [175] pariglia: Dio crea l'uomo e l'uomo ricrea Dio; e in tal senso il fichtismo è vero... Io sono cattolico liberamente: credo al Papa, perchè ci voglio credere; e credendo al Papa, lo giudico, lo inauguro, lo installo; poichè dico liberamente: egli è il Papa. Se non volessi dirlo, tutte le forze del mondo non potrebbonmi costringere. Io sono libero come Dio stesso quando crea il mondo. La mentalità è un'autonomia e libertà suprema»[120].
Dirò or più particolarmente del sovrintelligibile, per mostrare in Gioberti il puro assoluto conoscere.
Il puro assoluto conoscere è la possibilità assoluta del conoscere: tale è per me la vera teorica del conoscere. Questa teorica deve dimostrare, che senza la potenza assoluta e infinita di conoscere sarebbe impossibile l'atto stesso del conoscere; che questo atto è tale di sua natura, da presupporre infinità di potenza; che niente si conoscerebbe, se la potenza di conoscere non fosse infinita.
Ciò vuol dire che, quanto alla potenza del conoscere, non vi ha sovrintelligibile; la potenza del conoscere è in sè tutto il conoscibile. Il conoscere o non è niente o è in sè trasparenza (specchialità) assoluta.
In generale, alla domanda: possiamo noi tutto conoscere (la potenza di conoscere è assoluta), ovvero [176] conosciamo noi solo qualcosa (la potenza di conoscere è finita)? — non si può rispondere, se non facendo vedere la relazione necessaria che corre tra l'atto del conoscere e la potenza del conoscere. Che noi conosciamo — conosciamo qualcosa — è un fatto; la stessa conoscenza di conoscere solo qualcosa o anche la conoscenza di non conoscer nulla, è una conoscenza; noi conosciamo, che il conoscere — la realtà cosciente — o è una realtà limitata, in quanto conosce solo qualcosa, o è niente, — come realtà cosciente, — in quanto non conosce niente. Il quale ultimo caso è aperta contradizione, perchè, negando, afferma il conoscere; dire, infatti, di non conoscere niente è già conoscere, cioè affermare la realtà cosciente, il conoscere. Adunque, il conoscere (conoscere semplicemente, conoscere di conoscere solo qualcosa, conoscere di non conoscer niente) è possibile, se la potenza del conoscere è finita? ovvero, bisogna che la potenza sia infinita?
Tale è la quistione: il conoscere in sè — la realtà cosciente — vuol dire infinito o finito? È possibile che realtà cosciente voglia dire finito?
Per risolvere la quistione, si deve dunque rifare e riandare il conoscere dalla sua propria potenza o possibilità. Questo ritorno, che è una critica del conoscere, è in generale la teorica del conoscere. Se la potenza si mostra limitata, il sovrintelligibile è certo; la realtà, la semplice realtà, è più della realtà cosciente, perchè vi ha una realtà che non si conosce. Se la potenza è infinita, la realtà è assolutamente conoscibile; e perciò la realtà cosciente è davvero più della semplice realtà. Dire che vi ha un reale che non si conosce, è dire che lo spirito è meno della natura; l'essere e sapere, meno dell'essere e non sapere.
[177]
Il risultato della breve storia che abbiamo fatta è questo: la possibilità del conoscere è la potenza assoluta di conoscere: la realtà assolutamente conoscibile, trasparente: cioè la Ragione (idealità oggettiva) conscia di sè. Questa storia è in sè il ritorno del conoscere (del fatto del conoscere) alla possibilità del conoscere: è, direi quasi, la teorica del conoscere, come storia delle teoriche del conoscere.
La teorica del conoscere è in sè d'accordo colla storia? Non è qui il luogo di risolvere questa quistione. Io ritorno a Gioberti.
Gioberti dicendo: «Senza l'intuito originario ogni conoscere (ogni atto conoscitivo) è impossibile; l'intuito è la potenza del conoscere, e il conoscibile, cioè l'oggetto in sè dell'intuito, è tutto il conoscibile, l'assolutamente conoscibile, l'Idea, l'Ente creante; cioè, la realtà assoluta, non come semplice realtà, ma come compenetrazione assoluta di se stessa, come realtà cosciente assoluta, come Spirito assoluto »; dicendo ciò, Gioberti viene a dire: la nostra potenza del conoscere è infinita; è in sè tutta la realtà come compenetrazione di se stessa, come perfetta trasparenza; e se la potenza non fosse infinita, l'atto — qualunque atto — del conoscere non sarebbe possibile.
Ciò vuol dire, che se noi non avessimo la potenza di conoscer tutto, non conosceremmo di fatto niente. In altri termini: senza la conoscenza di Dio, non si conosce niente. Il che significa che solo allora noi possiamo dire di conoscere davvero tutto quel che diciamo di conoscere, quando conosciamo Dio.
Gioberti, dunque, sin dal principio — perfino nella Introduzione, — dichiarando l'intuito come la potenzialità [178] del conoscere e l'Idea come il contenuto dell'intuito, — afferma implicitamente la infinità del conoscere: la infinità del conoscere come possibilità, del conoscere. Quando egli scrive più tardi, la prima volta, credo, ne' Prolegomeni[121] e poi ripete sempre nelle Postume: l'uomo è l'infinito in potenza, è un Dio incoato, non si contradice; giacchè questo stesso l'ha già detto, chi ben l'intende, nel capitolo terzo dell'Introduzione. La contradizione — se tale si può chiamare una poco chiara coscienza di se stesso, cioè del proprio principio — è già cominciata nella stessa pagina di questo stesso capitolo.
L'intuito, dice Gioberti, è semplice potenza del conoscere; e qui stesso egli comincia a confonderlo coll'atto del conoscere; lo piglia per una conoscenza diretta, immediata. Il contenuto assoluto dell'intuito — cioè tutto il conoscibile, l'assoluto intelligibile, la stessa potenza infinita del conoscere diventa un oggetto immediato dell'intuito stesso, come conoscenza anch'essa immediata. L'intuito, appunto perchè conoscenza immediata, vede il suo oggetto a principio confusamente; come quando, io mi fo alla finestra e guardo così a un tratto una prateria; vedo tutto e non discerno niente. E oltre a ciò esso vede dell'oggetto solo la superficie e il davanti, non già il didentro e il didietro; la superficie la vede confusa, e il didentro non lo vede affatto, cioè solo come oscurità perfetta. Questa è la duplice imperfezione dell'intuito come cognizione immediata dell'Idea. La prima si toglie colla riflessione; la seconda è insuperabile[122].
[179]
Ora, se s'intende da capo l'intuito — già preso così per cognizione immediata e qualificato nel modo che abbiamo visto — se s'intende come semplice potenza del conoscere, la conseguenza necessaria di tal baratto sarà la limitazione assoluta della potenza come potenza. Quindi il sovrintelligibile come un limite insuperabile, come un campo assolutamente chiuso.
E dove prima la possibilità del conoscere era la potenza infinita del conoscere, e perciò si ammetteva che niente poteva esser chiaro senza l'assoluta chiarezza; ora, all'opposto, la possibilità del conoscere è la finità stessa della potenza conoscitiva, e niente può esser chiaro senza l'assolutamente oscuro, senza il mistero. Prima la chiarezza assoluta era la condizione d'ogni chiarezza; ora l'oscurità assoluta.
Certo il mistero è la condizione del chiaro; è ciò che fa chiaro ogni cosa: ma non già più come mistero, ma come aperto e visto assolutamente.
Così vi ha in Gioberti come due dottrine opposte del conoscere: l'una suppone la infinità come possibilità del conoscere, l'altra la finità.
Il pregio di Gioberti è di aver pensato o al più tentato di fare questa teorica, come si deve fare, cioè esponendo la relazione dell'atto del conoscere colla potenza del conoscere. Ma l'ha semplicemente tentato. O piuttosto l'ha detto, e non l'ha nè meno tentato.
Egli vuol provare il sovrintelligibile come limite insuperabile, cioè la finità della potenza del conoscere; e osserva che non basta allegare in genere, come fanno i razionalisti, la ragione imperfetta e finita; ma verificare — al che, ei dice, nessuno si è applicato prima di lui — psicologicamente la nozione stessa di mistero (del sovrintelligibile).
[180]
Verificare psicologicamente vuol dire: provare la finità del conoscere e quindi il mistero, col ridurre l'atto del conoscere alla sua possibilità, alla potenza del conoscere.
A che riesce Gioberti in questa verificazione? O a niente, cioè a non verificare quel che vuole (e non può, anche per forza del suo stesso principio), o all'opposto, cioè alla infinità del conoscere.
Egli paragona — nella Teorica del Sovrannaturale — senso ed intelletto, dopo averli separati come due facoltà sostanzialmente ed essenzialmente differenti; e trova che si limitano reciprocamente, giacchè nè il sensibile può divenire intelligibile, nè questo quello. Quindi l'idea dell'incomprensibile (relativo); cioè, il sensibile non apprensibile intellettualmente, e viceversa.
Il difetto di questo modo di considerare, fu corretto poi dallo stesso Gioberti. Infatti nelle Postume — e, chi ben vede, nella stessa Introduzione — non parla più di questo limite reciproco; il senso, invece, si risolve nell'intelletto, il sensibile diventa intelligibile; il senso è l'intelletto implicato, e l'intelletto è lo stesso senso esplicato, ecc. ecc. E ciò vuol dire: in quanto intelletto, io so di essere limitato come senso, e supero questo limite; sapere il limite e superarlo, è una cosa medesima.
Nello stesso modo, l'intelletto dovrebbe risolversi nella sovrintelligenza; e anche qui sapere di essere limitato come intelletto e superare il limite, dovrebbe esser lo stesso.
Ma Gioberti non fa così. Pone immediate la sovrintelligenza, senza nessuna relazione colle altre facoltà: cioè come una facoltà speciale (e ciò sta bene contro i rosminiani), ma vuota, senza oggetto:sapere di esser limitato come intelletto, non è qui [181] superare il limite. Quindi non ci è quella verificazione psicologica che avea promessa. Dice solo, che ci ha da essere quella facoltà, perchè ci è il mistero; e ci è il mistero, perchè ci è quella facoltà[123].
Nella Introduzione altro concetto della sovrintelligenza. Noi, dice Gioberti, abbiamo il sentimento di tutta la potenza del conoscere; il sovrintelligibile corrisponde alla potenza non attuata. Qui la sovrintelligenza non è in sè facoltà vuota, senza oggetto; il conoscere è infinito; è in sè tutto il conoscibile.
Così l'intelligibile è l'esplicato, il sovrintelligibile è l'implicato; il quale, esplicato, diventa intelligibile. Questo concetto è un po' vago, e nel fatto annulla la differenza tra intelligibile e sovrintelligibile. E questa differenza ci è; e Gioberti stesso la pone.
Questa dottrina ha, nello stesso Gioberti, una relazione intima con quella delle due vite; la terrena e la beata. La dottrina ha diverso senso secondo il senso della vita beata (la palingenesia). Se per vita beata s'intende un semplice avvenire, un tempo dopo il tempo, la infinità consiste nella semplice esplicazione indefinita. Se s'intende anche coeva alla vita presente, la infinità è l'unità originaria che si esplica, di certo, ma si ripiglia e raccoglie sempre nella sua esplicazione. Questa è la vera infinità: quella esplicazione, che è Sviluppo[124].
Il primo senso prevale nella Introduzione, il secondo nelle Postume.
[182]
Il Sovrintelligibile (Essenza reale) è la unità delle determinazioni intelligibili. Questa unità nella sua assolutezza è la relazione o unità assoluta di tre relazioni o unità assolute: cioè, pura relazione verso sè, relazione verso l'altro, relazione verso sè mediante l'altro. Questa Relazione, Mediazione o Processo assoluto è Dio medesimo[125].
Secondo Gioberti, noi non possiamo conoscere questa Unità assoluta. Ma perchè? È ciò vero?
Se non la conosciamo, quel che conosciamo non è Dio, ma la creatura; giacchè Dio è appunto la Unità di quelle tre Unità (Logo, Natura, Spirito).
Da quel che ho detto fin qui si vede, che in Gioberti vi ha tre concetti del Sovrintelligibile, e perciò della potenza del conoscere (della essenza dello spirito).
1. Sovrintelligibile = limite insuperabile; finità assoluta dello spirito.
2. Sovrintelligibile = essenza implicata, che si esplica di continuo; lo spirito infinito, ma non actu infinito: solo esplicazione infinita, non vero sviluppo: solo essenza e fenomeno, forza e manifestazione; Sostanza, non Soggetto. Si annulla la differenza tra intelligibile e sovrintelligibile.
3. Sovrintelligibile = Unità delle determinazioni intelligibili; Unità come Processo o genesi di se stessa: non semplice esplicazione, ma eterno ritorno a se stessa: relazione assoluta verso se stessa.
Negando la cognizione di questa Unità, Gioberti si contradice: nega la vera infinità o unità dello Spirito, ammessa nella potenzialità dell'intuito.
[183]
Infatti, cos'è questa Unità? Come nè pura unità immobile, nè unità che si esplica semplicemente, ma come autogenesi, essa è la stessa attività creativa, presa assolutamente. Unità qui è Creare; è lo Spirito: Ciclo assoluto, non Essere. Ora l'intuito come intuito del Creare, del vero creare — (esplicazione e ritorno) — è in sè questa unità, la conoscenza di questa unità. In ciò consiste la sua infinità vera, come potenza del conoscere. E tale, — così infinito, cioè conoscenza di tale unità, — deve essere il conoscere, l'atto vero del conoscere, la Scienza.
Adunque, la conoscibilità dell'essenza reale, — di questa assoluta autogenesi, — è contenuta sin da principio nella dottrina giobertiana dell'intuito. O questa essenza è conoscibile, e non vi ha punto il sovrintelligibile come un limite insuperabile dello spirito; o l'intuito (dell'atto creativo) è una parola vuota di senso. E tale pare che diventi per la più parte dei giobertiani; i quali parlano con tanta enfasi della visione ideale, ne raccontano mirabilia, la spacciano come l'unica infallibile ricetta per guarire dal sensismo (sic) aristotelico, cartesiano, spinoziano, kantiano, hegeliano e che so io; e poi, interrogati da noi altri poveri ciechi: cosa vedete voi lassù? non sanno rispondere altro che: oscurità perfetta. E in verità quel che essi dicono di vedere, e a cui danno il nome di Ente creante e nell'atto di creare, non è Dio, non è il Sole, ma un pezzo di carta dipinto, cioè loro medesimi, in fondo al cannocchiale.
[184]
1. Il principio della filosofia di Gioberti è l'Idea; e la scienza è la riproduzione fedele dell'organismo ideale.
L'Idea è quel che vi ha d'immutabile, d'eterno, di vero nelle cose. In questo senso ogni filosofia ha per principio o oggetto l'Idea; e perciò è idealismo.
La differenza è in quel che s'intende per Idea. La storia della filosofia mostra che s'intende sempre diversamente in modo che questa storia sia come la posizione de' diversi momenti dell'Idea[126].
L'Idea giobertiana non è l'antica, la platonica, o altro, ma è tutta moderna; non è semplice oggettività ideale, ma idealità oggettiva o assoluta. E, come tale, è o la Sostanza assoluta, o la Mentalità assoluta, secondo che l'intuito è preso per una cognizione immediata, o per la semplice potenza del conoscere.
2. E, appunto perchè in Gioberti ci è tutti e due insieme questi modi d'intendere l'idealità oggettiva, il suo sistema ha un doppio contenuto e una doppia forma: un doppio principio, e un doppio metodo.
a) Il contenuto è l'Idea come Sostanza e Causa, e perciò la forma non ha niente di dialettico. Tutto quel, che si dice provato, è già presupposto; e la così detta prova (la Scienza) non è altro che la esplicazione formale di ciò che si è ammesso [185] già prima nell'intuito. Domandate a Gioberti, e specialmente a' giobertiani: perchè dopo questa determinazione ponete quest'altra? Perchè dopo l'Ente dite: l'Esistente? Perchè l'Ente è questa totalità di determinazioni? ecc., ecc. — L'unica risposta è questa: perchè vedo così. Anzi a chi fa istanza, che non basti dire: io vedo, ma si debba provare e far vedere anche agli altri — cioè a tutti coloro che pensano — quel che uno dice di vedere lui, si risponde: la prova è impossibile, perchè vuol dire necessità; e la necessità è la negazione della libertà dell'Idea. Adunque, il vero sapere è il sapere immediato, arbitrario, senza nesso, o senz'altro nesso che il semplice prima e dopo.
Questa strana combinazione di spinozismo e di profetico sentimentalismo, di necessità immediata e di libertà immediata, di necessità senza libertà e di libertà senza necessità, questo destino che è il caso: tale è la prima forma del sistema.
Questa stessa combinazione, — questo nesso delle determinazioni ideali, che è la negazione d'ogni nesso ideale; questa logica, che non è logica, ossia atto del pensiero, — è ciò che i giobertiani chiamano intelligibilità. Il vero nesso ci è, ma è come se non ci fosse per noi altri esseri pensanti: è il sovrintelligibile.
b) Il contenuto è l'Idea in quanto atto creativo: e non già come semplice efficienza o arbitraria posizione d'un altro, ma come atto intimo, libero e assoluto dell'Ente: l'Ente medesimo (lo Spirito) come posizione o produzione assoluta di se stesso. E perciò la forma è processo dialettico: non la semplice narrazione o immaginazione degli elementi sciolti e sconnessi dell'intelligibile, ma la riproduzione fedele del vivo organismo ideale: [186] riproduzione, che, come atto del pensiero o della stessa ragione, è originale produzione.
Di questi due modi il primo prevale nelle prime opere di Gioberti; il secondo è la tendenza delle Postume, ma non è mai un fatto compiuto.
In generale, l'Idea giobertiana manca della sua vera forma. Le sue parti o elementi sono disposti, se si vuole, organicamente o dialetticamente; ma quest'organismo è più esterno che interno, più apparente che reale. Il tutto rassomiglia più a un corpo morto di fresco, che a un corpo vivente. Tu vedi ancora in esso le vestigia della vita, ma non la vita. E la vita — l'atto vitale — del gran corpo della filosofia è quella piena unità del pensiero, che penetra e insieme abbraccia, e perciò anima, tutta la sua propria materia; che non s'interrompe, nè si perde mai, ma nel suo perpetuo discorso si ripiega sempre e concentra in se stessa. Questa unità concreta, che nel primo grado dell'organismo si dice comunemente anima, nella filosofia è ciò che si dice sistema.
Vi ha nella Protologia un luogo, che, contro la dottrina più volte ripetuta del privilegio dell'intuito sulla riflessione, dice così: «L'intuito apprende l'infinito, ma finitamente. Non è dialettico. La dialettica la crea la riflessione, in quanto si unisce coll'azione creatrice, principio del dialettismo reale. L'atto riflessivo è concreativo, e quindi dialettico. L'intuito vede l'atto creativo, e non vi partecipa»[127]. Il che vuol dire,che non lo vede, perchè se lo vedesse, vi parteciperebbe. Ora, quando si considera che per Gioberti atto creativo, dialettica, organismo ideale, scienza o sistema sono [187] una cosa medesima, si può epilogare il difetto della sua maniera di filosofare così: l'intelletto giobertiano è più intuito che riflessione, cioè: apprensione dell'Idea in una forma finita, meramente soggettiva, e quindi falsa. La vera oggettività o infinità dell'Idea è il processo dialettico della riflessione.
Questo luogo ed altri simili delle Postume contengono come il punto di conversione o una nuova piega della mente di Gioberti; sono un'ingenua confessione della insufficienza della sua prima maniera di filosofare, e una condanna perentoria di quel che il maestro con tanta enfasi e i discepoli con tanto fracasso hanno chiamato il puro ontologismo. Se Gioberti non fosse morto così presto, e avesse avuto il tempo e l'agio di raccogliersi in se stesso e ordinare in una forma scientifica tutto quel gran caos delle Postume, sarebbe stato uno spettacolo davvero curioso il vedere l'accoglienza, che tutta la gran folla raccolta sotto la bandiera dell'Ente avrebbe fatto al Sistema del psicologismo trascendente. Quante innocenti illusioni sarebbero cadute! Quanti castelli in aria, quante gran riputazioni non sarebbero ora altro che pulvis et umbra!
3. La scienza, in quanto ha per oggetto l'Idea, si dice ideale. Ora l'Idea ha due lati: l'intelligibile e il sovrintelligibile. Dunque la scienza ideale ha due parti: la filosofia e la teologia; l'una è la scienza dell'intelligibile, e l'altra del sovrintelligibile. E, giacchè il sovrintelligibile è superiore all'intelligibile, la teologia è superiore alla filosofia.
Questa superiorità consiste in ciò, che la rivelazione o la parola (quindi la teologia) è superiore [188] alla ragione (filosofia), e la ragione non è ragione, non è riflessione, senza la parola.
Questa relazione si converte poi in un'assoluta dipendenza della filosofia dall'autorità esteriore. Infatti, dice Gioberti, «la rivelazione è definita e determinata dalla Chiesa, e il capo visibile della Chiesa — il principio organico da cui dipende l'unità futura del mondo» (se non dell'Italia!) «è il Papa; tolto il magisterio autorevole e le formole ecclesiastiche, la filosofia non saprebbe dove pigliare gli elementi integrali dell'Idea». «Quindi il dovere di conservare questi elementi, quali le vengono suppeditati da quelle formole; perchè la scienza (cattolica; e si dee chiamare così, essendo vano il cercarla fuori della società divina, privilegiata di questo nome) vuol essere ordinata, e l'ordine importa regola ed autorità. La regola risulta dai principii e dal metodo; e la Chiesa» (e quindi il Papa) «mantiene i veri principii e il vero metodo, conservando inalterabile il deposito affidatole delle verità razionali, e mettendolo in sicuro co' suoi oracoli». Credo che nel medio evo non si sia parlato così chiaro ed aperto! Contuttociò, continua a dire Gioberti, non si deve giudicare, che la filosofia non sia libera, e che il vero razionale, che è il suo oggetto, dipenda dall'autorità. Imperocchè, in primo luogo, «senz'ordine non vi ha libertà verace. La libertà richiede che si lasci allo spirito umano l'esercizio legittimo delle sue potenze» (manco male!). «Quindi la scienza (cattolica) è anco libera, perchè il campo della speculazione è amplissimo fra tutti, e salvo i capi fermati dal magistero legittimo, l'ingegno umano può spaziarvi a piacimento: limitazione tanto propria alla libertà quanto avversa [189] alla licenza; giacchè la scienza non può esser libera, se non è ben sicura della propria esistenza, e se vien piantata in base incerta e vacillante. Oltre a ciò, l'uomo è destinato più ad operare che a speculare, e la speculazione vuol essere indirizzata all'azione. Ora, se la scienza avesse il diritto di porre in dubbio o rigettare la verità, in cui si fonda ogni vivere pubblico e privato, l'operare diverrebbe impossibile e crollerebbe tutto il mondo civile; ecc. ecc. In secondo luogo, la filosofia riceve sì la sua materia dalla parola; ma ricevutala, l'apprende immediatamente per la sua intrinseca luce; l'uomo ammette gl'intelligibili, non già solo in virtù di essa parola autorevole, ma per l'evidenza lor propria (nell'intuito), di cui la parola è l'occasione eccitatrice e non la cagione nè la dimostrazione. L'Idea è veduta immediatamente in se stessa. E in ciò consiste la differenza essenziale tra la filosofia e la teologia; giacchè le verità soprannaturali, che sono oggetto di quest'ultima, dipendono dalla parola rivelata; non la provano, ma ne vengono provate; non s'intuiscono, ma si credono».
Questo temperamento è una contradizione, e non mitiga punto l'orrore, che ogni libero filosofo deve avere per una simile dottrina. E difatti qui sono da notare due punti principali: l'evidenza intrinseca del vero razionale, e l'autorità estrinseca, alla quale spetta il principio e il metodo della filosofia. Come si accordano essi? In filosofia o tutto (e quindi anche, anzi specialmente, il principio e il metodo) deve essere intrinsecamente evidente, o la filosofia non è filosofia. Il principio e il metodo sono la filosofia stessa; e ammettere l'evidenza in tutt'altro, fuorchè nel principio e nel [190] metodo, equivale a non ammetterla di nessuna maniera. Questa dottrina — rigettata poi dallo stesso Gioberti[128], e contraria al vero concetto del conoscere[129] — è illogica, e pericolosa. Illogica: perchè la scienza per esser libera, deve provare da sè la propria base ed esistenza. Pericolosa: perchè si confonde l'attività scientifica colla politica. Io, di certo, non posso negare la legge mediante l'azione; ma posso indagare se essa sia razionalmente giusta. La filosofia è investigazione, non azione politica, e l'unica autorità che essa deve ammettere è quella, che è riconosciuta tale per intrinseca evidenza. E già a questo s'incammina anche lo Stato; e perciò legge autorevole è solo quella, che è consentita liberamente dal suffragio de' cittadini, che devono eseguirla.
È questo il vero Gioberti? Lo domando a voi. Lascio stare, che con questa dottrina dell'ordine applicata alla filosofia sarebbe giustificato perfino il rogo di Bruno in pieno secolo decimonono. Quel che voglio far osservare, si è che Gioberti qui sottomette la filosofia alla teologia positiva, come si suol dire: alla teologia del Padre Perrone[130], e simili organi del magistero autorevole e delle formole ecclesiastiche. [191] Ora nel vero Gioberti la teologia, la vera teologia, — non la volgare, come dice egli stesso, cioè appunto la positiva, — non è altro che filosofia: la filosofia della rivelazione. Certamente la filosofia, come l'ultima e suprema attività dello spirito, presuppone e quindi dipende da tutto: parola, società, Stato, religione, ecc.: ma contuttociò, anzi appunto perciò, trae la sua luce, la sua autorità, solo da se stessa, cioè, dal libero pensiero, dalla libera riflessione.
A coloro, i quali fanno consistere tutto il progresso nelle conversioni politiche, e che quasi in tutto il resto e principalmente nella filosofia non vanno al di qua nè al di là del medio evo, e in quest'opera, ch'essi chiamano di conciliazione, e che è una flagrante contradizione tra la teorica e la pratica, tra la scienza e la politica, si fanno scudo dell'autorità di Gioberti, vorrei raccomandar la lettura di tutti que' luoghi delle Postume, ne' quali il nostro filosofo discorre liberamente, senza diplomazia e quasi in veste da camera, della falsità della teologia positiva e della vera relazione tra la fede e la scienza, la religione e la filosofia. Io noto qui solamente, che quel che nel luogo sopra citato è detto domma, base certa e sicura, autorità, e simili, ne' nuovi luoghi apparisce appena come germe, potenza, o, in quanto determinazione o definizione (positiva), come semplice opinione. Quel che è germe o potenza non diventa base certa e sicura, se non è spiegato e determinato dal libero pensiero. La fede è quasi senso; la scienza intelletto. Etc., etc.[131] — Questo è il vero Gioberti.
[192]
4. La scienza ideale si divide nel modo seguente: La formola consta di tre elementi: soggetto, copula e predicato, cioè Ente, creazione ed esistenza. Nella scienza dell'intelligibile in generale (puro e misto, Ente ed esistente), cioè nella filosofia, 1. al soggetto corrisponde la filosofia pura (ontologia), la quale espone le determinazioni dell'Ente. 2. Alla copula, come processo discensivo dall'Ente all'esistente, corrisponde la filosofia della matematica, che ha per oggetto il tempo e lo spazio[132]; e come processo ascensivo dall'esistente all'Ente, la logica e la morale: delle quali l'una ha per oggetto la scienza o il vero, e l'altra la virtù o il bene. 3. Al predicato corrisponde la filosofia dell'esistente come tale in generale (della natura, dell'universo, del mondo sensato delle esistenze, de' sensibili, esterni o interni, materiali o spirituali), e si suddivide in psicologia, cosmologia, estetica (!) e politica; le quali hanno per oggetto l'animo umano come essere meramente individuale, la natura come tutto, il bello e lo stato. Tutta la filosofia, in quanto consta di queste tre parti, si può anche dire teologia razionale; giacchè, se la prima espone gli attributi più essenziali della Divinità (le determinazioni dell'Ente), e perciò è teologia razionale pura, le due altre sono una teologia razionale mista, in quanto distinguono e amplificano il concetto delle perfezioni divine, lo avvalorano ed accrescono di precisione e di luce; quella è la cognizione naturale della divinità in se stessa, e questa la cognizione naturale della divinità nelle sue opere. Similmente nella scienza del sovrintelligibile, cioè nella teologia rivelata. [193] Al soggetto corrisponde la teologia rivelata pura, che espone le determinazioni dell'Essenza; alla copula e al predicato la teologia rivelata mista, cioè a quella la logica della rivelazione (apologetica e critica cattolica) e la morale rivelata (virtù teologali), e a questo l'antropologia e la cosmologia rivelata. E giacchè la doppia teologia razionale (la filosofia) s'immedesima oggettivamente colla teologia rivelata (perchè ciò che si distingue come intelligibile e sovrintelligibile, a rispetto nostro, si compenetra nella unità della natura divina), e questa teologia abbraccia altresì i due ultimi membri della formola, da questa unione nasce una teologia universale, che è la scienza compita e perfetta della Divinità conosciuta naturalmente e sovrannaturalmente, così in se stessa, come nelle sue opere; alla qual teologia universale le altre specie menzionate si riferiscono, come le parti al tutto. La teologia universale è l'ultimo corollario e la somma, o vogliam dire la quintessenza dell'enciclopedia, come la teologia schiettamente razionale ne è il principio. Per tal modo, la notizia di Dio è la base e l'apice della piramide scientifica[133].
Lascio stare i difetti formali e materiali di questa divisione. Quel che vi ha in essa di profondamente vero, è questo: l'unità concreta della Scienza, non solo come unità organica delle diverse parti in cui si divide ciascuno de' due lati della scienza ideale (filosofia e teologia), ma come unità oggettiva di questi due lati: di filosofia e teologia: e non nel senso che la filosofia sia assorbita dalla teologia, ma nel senso che la teologia universale non è altro che la stessa filosofia.
[194]
Infatti, oggetto della filosofia è l'Idea, e l'Idea è una, è Dio stesso. Mondo, Esistenza, Finito, la filosofia li spoglia della loro finità e li considera nella loro infinità, come pensiero divino, come momento della infinità di Dio (sub specie aeternitatis). Quindi la filosofia è in ogni sua parte scienza della divinità, o teologia.
Ma come Dio non è il vero Dio, nè in quanto semplice Ente, nè in quanto semplice Esistenza (Natura), nè in quanto semplice Ritorno (Spirito), cioè dire, non in quanto una sola di queste tre Unità, di questi tre Assoluti, ma in quanto la loro unità assoluta ed unica; così la filosofia non è veramente teologia, se non come tutta la Scienza, come tutto il processo della Scienza. Ora Dio, come la unità di quelle tre unità, è l'atto assolutamente creativo, il Creatore, lo Spirito: Personalità assoluta.
Quindi la filosofia è teologia, cioè intendimento di Dio (del vero Dio, del Creatore), in quanto intende il Creare: quella unità delle tre unità.
Può intenderla?
Non sono due oggetti: l'uno della filosofia, l'altro della teologia. Il così detto oggetto della filosofia è il falso oggetto: oggetto sciolto e senza nesso, non quel che è in sè veramente. Ente: unità senza nesso, pura moltipltcità. Natura: pura moltiplicità. Spirito: pura moltiplicità. Il vero oggetto è quello così detto della Teologia: Nesso de' nessi, unità di unità; il Creare.
Può dunque la filosofia intender questo? il vero Dio?
Sì: e Gioberti stesso lo afferma, dicendo: l'intuito (visione dell'atto creativo) è la potenza del conoscere.
O il conoscere è niente, o è conoscenza dell'atto creativo.
[195]
Gioberti parla sempre di due filosofie: divina e umana; ma non sempre nello stesso modo. Ora la divina è «fuori e sopra l'atto creativo: quindi impossibile all'uomo». Ora la divina «è l'idea creatrice, e quindi atto puro; e la umana è riproduzione o copia della divina». Questo è il vero Gioberti; quello è il vecchio.
Quello che è «fuori e sopra l'atto creativo» è il Dio falso, astratto, indeterminato: il semplice Ente, quello che è, e non crea nulla. Secondo questo concetto, la vera filosofia è la scienza dell'Ente, l'ontologia; e la bandiera l'ontologismo. Nel nuovo Gioberti è tutt'altra cosa. La filosofia è la protologia, la scienza di quel che è l'assoluto Primo, il Primo che è anche l'Ultimo; e questo non è l'Ente ma il Creatore. «Il Primo filosofico, avea detto Gioberti nella Introduzione, è l'Ente». Si potrebbe, dunque, credere che la protologia fosse la scienza dell'Ente, cioè, la stessa ontologia. Ora Gioberti stesso dice espressamente: «la scienza prima o la protologia non è l'ontologia; l'idea sola dell'Ente non può costituire il principio protologico; questo è la formola ideale»; e perciò «la protologia è la scienza di Dio, considerato come Ente creante; la scienza dell'atto creativo». Ma quale formola? quale atto creativo? Quella formola che esprime, e quell'atto che è, tutta l'attività creativa, cioè insieme il creare e il ricreare, il Primo e l'Ultimo. E perciò «la protologia discende dall'Ente all'Esistente e risale dall'Esistente all'Ente»; e così è insieme protologia e teleologia: e val quanto dire tutta la filosofia, giacchè la filosofia non è altro che «la scienza di Dio e di tutte le cose in quanto a Dio si riferiscono e con lui si connettono». Dio così, come questa assoluta relazione [196] o connessione, è l'assoluta Psiche o la Mente assoluta. E perciò la protologia è detta anche «l'analisi del principio costitutivo dello spirito umano»[134]. Il problema della filosofia è il problema dello spirito, e la sua nuova bandiera il psicologismo trascendente.
[197]
Il soggetto della mia Introduzione era la esposizione de' principali momenti del pensiero italiano dal Risorgimento sino a Gioberti.
La mia intenzione era di vedere, se il progresso e il risultato del pensiero italiano s'accordano o no col progresso e il risultato del pensiero europeo.
Io volea vincere il pregiudizio, che il nostro pensiero e il pensiero europeo siano in opposizione tra loro.
Io credo aver dimostrato, che la nostra filosofia e la filosofia europea hanno avuto lo stesso progresso, più o meno, e lo stesso risultato.
Ho vinto così quel pregiudizio? Giudicate voi.
Io spero che sì. Io confido ne' liberi ingegni: in quegli ingegni che amano la scienza per se stessa, e non sono preoccupati da altro interesse che quello del Vero.
Ritorniamo rapidamente sulla via che abbiamo percorsa, e fermiamo bene il punto, al quale siamo arrivati; fermiamo bene lo stato della nostra coscienza dopo la Introduzione.
Io ho detto, che il carattere e lo sviluppo della nostra filosofia dopo il Risorgimento è quello stesso della filosofia europea:
[198]
Carattere = Ricerca del principio assoluto nella Mente assoluta.
Sviluppo = Esplicazione, opposizione e unità de' due momenti della Mente assoluta: oggettività e soggettività infinita.
I. La nostra filosofia è da prima filosofia del Risorgimento: critica e negazione della Scolastica.
La Scolastica è la negazione dell'oggettività (realtà della natura) e della soggettività (realtà dello spirito).
La filosofia del Risorgimento è l'affermazione dell'una e dell'altra.
Abbiamo visto le nuove determinazioni ne' filosofi del Risorgimento, italiani e stranieri: dal Cusano a Campanella e Bruno.
Queste determinazioni si riassumono in Campanella e Bruno.
Campanella = Principio della soggettività: il sentire.
Bruno = Infinità della Natura; Dio come Indifferenza e Coincidenza assoluta: Sostanza: Sostanza essenzialmente Causa: Causa infinita, effetto infinito; Infinito generante, infinita genitura.
II. Cartesio = il Pensare (Campanella: il Sentire).
Spinoza: è la chiarezza di Bruno.
Bruno: Coincidenza (Punto oscuro).
Spinoza: Insidenza, Contenenza (Punto chiaro: ma immediato; quindi, non veramente chiaro).
Pregio di Spinoza e Bruno: Dio = Identità assoluta: Natura. Infinità della Natura, dell'Universo.
Pregio riconosciuto da Gioberti stesso. [«La teologia volgare che dominò finora è finitesimale.... Così un mondo finito; un tempo mondiale finito etc. [199] Meschinissime idee!»[135] — «Tre teologie. 1. Prima e imperfetta: Iddio è l'Ente (l'ente si considera senza l'esistenze). Non dà tutti gli attributi di Dio; è la formola del vecchio testamento» (Puro monoteismo). 2. «Teologia cosmologica: Iddio è il tutto» (Bruno, Spinoza): 3. «la perfetta, fondata nella formola cristiana: l'uomo è in Dio». L'uomo è in Dio significa: «la libertà è concreazione di Dio; perchè Dio, creando se stesso (mentalità assoluta, Trinità), in quanto l'uomo si accompagna all'atto creativo di Dio, viene a creare esso Dio »][136].
Difetto di Bruno e Spinoza: Dio semplice Sostanza Causa; cioè, teologia semplicemente cosmologica. Naturalismo, meccanismo: non differenza de' due universi.
III. Vico pone la differenza reale: le due provvidenze: il mondo umano.
Unità non più come Sostanza-causa, ma come spirito (Unità dello Spirito): Sviluppo.
Vico esige una nuova metafisica, e non si appaga più di quella dell'Ente.
Esigenza fatta prima del tempo, cioè della dissoluzione della vecchia Metafisica.
Con questa esigenza finisce la filosofia da Cartesio a Kant, e comincia la nuova.
Questa esigenza storica è Kant. — Si dice: Vico non ha metafisica. Vero e non vero ciò. L'ha, ma incorporata colla Scienza Nuova. Voler comprendere Vico colla sua vecchia metafisica (Italorum sapientia) è non capirne niente. Quindi l'oscurità.
[200]
IV. La chiarezza di Vico è la filosofia dopo Kant. Problema del conoscere.
a) Kant studia tutto il fatto del conoscere e spiega il fatto non più col fatto, ma col fare (Potenza del conoscere). — Trascendentalismo: Puro conoscere. Pregio di Kant: Unità sintetica originaria. Difetto: Il suo puro conoscere non è assolutamente fare, ma fare parziale. Categoria: fare e fatto. Intuizione pura: fare e fatto.
b) Fichte: Puro conoscere — assoluto fare — mentalità o soggettività pura — autocoscienza come produttività delle categorie: assoluta.
c) Schelling: Se assoluta, richiede identità di natura e spirito assoluta: Ragione.
d) Hegel: Ragione conscia di sè o assoluto spirito come Principio assoluto.
Puro conoscere = Potenza infinita del conoscere. Niente si conosce, se tutto non si conosce.
a') Galluppi: Puro conoscere = Unità sintetica originaria dello spirito (fondo proprio dello spirito, da cui provengono le idee d'identità, diversità, etc., cioè le vere idee, le categorie, non le rappresentazioni); giudizii sintetici a priori pratici; idea dell'universo e di Dio; la sensibilità come pura cognizione (la forma della coscienza).
b') Rosmini: Puro conoscere — unità sintetica originaria (ragione, sentimento fondamentale). Poi: semplice Ente possibile, idea innata.
c') Gioberti: Puro conoscere o possibilità del conoscere = assoluto spirito (creare e ricreare = Creare assoluto). Potenzialità del conoscere = Potenzialità infinita.
Il Principio assoluto è l'assoluto Spirito o la Mente assoluta; i cui momenti sono l'oggettività (natura) e la soggettività (spirito) infinita: il creare e il ricreare: [201] i due cicli. La loro unità è l'Idea vera giobertiana.
La vera Idea giobertiana non è l'essere, ma il creare, non l'Ente, ma lo Spirito.
Atto creativo è dialettica, assoluta dialettica; e dialettica è l'organismo o vita ideale. La filosofia, come riproduzione fedele di tale organismo, è dunque essa stessa dialettica; è, a suo modo, creare.
Questo ripensare, che è creare, è il vero pensare: la scienza.
La scienza è la pienezza dell'atto creativo: la realtà assoluta dello spirito.
V. Tale è il grado, a cui è salito in Gioberti il pensiero italiano. È lo stesso grado del pensiero tedesco in Hegel. Ma tra i due gradi vi ha una profonda differenza, quando si considera non il nudo risultato, ma tutto il processo del pensiero. In Italia, checchè si voglia dire in contrario, manca il vero processo storico; da Bruno e Campanella a Vico vi ha, storicamente, quasi un salto; e similmente da Vico a Gioberti. I due indirizzi della speculazione dopo Cartesio si sviluppano originalmente fuori d'Italia, e il nuovo problema del conoscere è il campo chiuso della filosofia tedesca. Se da una parte lo stesso anacronismo di Vico dà maggior risalto alla sua originalità, non è meno vero d'altra parte, che Galluppi, Rosmini e Gioberti seguono una via già tenuta, per non dire aperta e spianata, da altri, e sono costretti dalla forza stessa delle cose ad essere imitatori e ripetitori, anche quando dicono di fare il contrario. So bene che questo discorso non piace, e si ha come un'offesa all'originalità dell'ingegno italiano. So questo e altro; ma io devo dire quel che penso. Questo ingegno italiano, tanto adulato e [202] imbalsamato, e spesso così mal servito dai suoi medesimi adulatori, non ha niente a temere in tutta questa faccenda; e non è screditare l'originalità di nessuno il dire che chi vien dopo è preceduto da chi è venuto prima. Siamo arrivati tardi, dopo essere stati i primi: ecco tutto. Ma di chi la colpa? Di coloro, che ci hanno legato i piedi e le braccia, e non ci hanno lasciato fare. La colpa, in parte, è degli stessi imbalsamatori. Non ci è peggio, che il falso concetto dell'originalità. Si crede, che essere originale vuol dire troncare ogni relazione colla realtà e col processo storico, e fare da sè solo senza tempo e spazio, e creare un nuovo mondo a piacere e a ogni momento. Di tali originali io ne conosco molti.
Il processo del pensiero tedesco, è naturale, libero, consapevole di sè: in una parola, critico. Quello del pensiero italiano è spezzato, impedito e dommatico. Questa è la gran differenza. Ora l'Alemagna è entrata in un nuovo periodo critico, più ampio e vigoroso del precedente, e al quale succederà una nuova costruzione del reale. E noi altri italiani, prima di rimetterci davvero in via, e dar corso a tutta l'originalità precoce, che non ci cape in seno, abbiamo l'obbligo di rientrare ancora in noi medesimi, di orizzontarci, di guardarci anco attorno, di vedere e conoscere ciò che gli altri hanno fatto da sessant'anni in qua, e specialmente ciò che stanno facendo. Solo così noi faremo nel mondo del pensiero, come abbiam quasi fatta nel mondo politico, un'Italia che duri, non un'Italia immaginaria, pelasgica[137], pitagorica, scolastica, e che so io, ma un'Italia [203] storica: un'Italia che abbia il suo degno posto nella vita comune delle moderne nazioni.
[205]
[207]
Nella Lezione nona ho detto: «I momenti storici del puro conoscere sono in Alemagna la Coscienza, l'Autocoscienza, la Ragione e lo Spirito; cioè Kant, Fichte, Schelling ed Hegel».
In una Introduzione come la mia, il cui tema principale era la esposizione del pensiero filosofico italiano, io non poteva trattare più ampiamente questa materia della filosofia tedesca. Dissi un po' di Kant; ma quasi niente di Fichte, Schelling ed Hegel. E pure chi non sa il significato di questi filosofi nella storia della filosofia moderna, non può farsi un concetto giusto e adeguato della filosofia italiana di questi tempi.
Nel mio Corso di Logica, che fece séguito immediatamente all'Introduzione, io dovei ritornare su questa materia, perchè, volendo giustificare il concetto che io m'era formato di questa scienza, stimai di non poter ciò fare altrimenti che coll'esporre in poche lezioni il suo sviluppo storico; e giacchè un tal concetto si fonda nel nuovo indirizzo della filosofia dopo Kant, questa parte storica dovea versare principalmente nella filosofia tedesca.
Io do qui questa esposizione come appendice all'Introduzione. Avrei potuto abbreviarla anche di più, togliendo quelle parti, che non hanno una relazione diretta col fine, per cui la inserisco in questo volume. Pure l'ho lasciata tal quale, perchè da un lato si veda chiaro tutto il mio pensiero, e dall'altro il lettore abbia come un saggio di questo [208] corso di logica, che forse — quando che sia — mi risolverò di pubblicare[138].
Questa esposizione è una brevissima storia della filosofia (occidentale), considerata da un certo punto di vista: dal punto di vista logico. Anche sotto questo aspetto esso può servire di chiarimento al soggetto principale della Prolusione e dell'Introduzione.
[209]
1. La logica è la scienza delle categorie. Scienza, vuol dire sistema. Il problema della logica è dunque il sistema delle categorie.
Ma cos'è, e come è possibile il sistema?
Per Aristotele sistema era apodittica (la necessità che dimostra se stessa: la necessità razionale). La sua logica (più esattamente: l'intento principale dei suoi scritti logici) era la esposizione dell'apodittica: una propedeutica scientifica, ovvero un esperimento che il pensiero umano deve fare, appunto nell'apodittica, dell'unità dell'universale e del particolare, la quale viene poi conosciuta ontologicamente come Principio (nella metafisica)[139].
Anche per noi la logica è la esposizione del sistema come tale (della sistematica): cioè teorica della scienza. Ma è anche altro; cioè metafisica.
Per Aristotele la logica, sebbene avesse in sè un fondamento nella metafisica (nella filosofia prima), pure era semplice avviamento a quella. Era dunque fuori della scienza (del sistema), cioè semplice analitica: una teorica dell'apodittica, senza apodittica.
[210]
Per noi la logica è la stessa filosofia prima, la stessa metafisica; non propedeutica, ma — come teorica della scienza o sistematica — la scienza fondamentale: non fuori del sistema, ma parte essenziale e principale del sistema.
Dire adunque scientificamente cosa sia scienza o sistema è, per noi, tutta la Logica. La logica finisce nel concetto di sistema; il Logo è il sistema come sistema.
2. Intanto io credo utile far intendere anticipatamente cosa sia sistema. E farò nel modo seguente.
Dimostrerò, che il sistema come tale — la sistematica, e quindi il sistema della logica (la soluzione del problema logico, cioè della unità organica delle categorie) — non è possibile, che secondo il nostro punto di vista; cioè secondo il nostro modo di intender l'essere, il vero essere, e quindi la stessa logica; e che tutti gli altri punti di vista rendono impossibile il sistema, e non risolvono il problema della logica. Io farò, brevemente, la critica di questi punti di vista, non per rigettarli assolutamente, ma piuttosto per far vedere che il nostro è il loro risultato necessario, e che esso solo può risolvere il problema; e come non è un punto opposto agli altri, ma contiene in sè gli altri.
Fare la critica di questi punti è fare la storia del problema del concetto e del metodo della logica, e in gran parte della stessa filosofia.
E avere così, mediante la critica, il concetto vero di sistema — il concetto vero della logica —, non è un modo assolutamente estrinseco di giustificare questo concetto. Sistema è in sè sviluppo, critica, storia. La logica, come sistema del semplice pensare, è la storia e direi quasi il dramma del semplice [211] pensare: quella che davvero merita il nome di storia pura ideale eterna. A questo modo noi avremo il concetto di sistema come sviluppo di se stesso; cioè in quanto si forma e si fa realmente o storicamente quello che è. La scienza, infatti, è essenzialmente storia, perchè è ragione, assoluta ragione; e la ragione è assoluta, in quanto è risultato necessario di se stessa. In questa natura della ragione si fonda la necessità della storia della scienza: la necessità della storia in generale. La storia, si dice, serve a far conoscere il presente mediante la conoscenza e la critica del passato. Perchè? Perchè il presente, il vero presente, è la verità del passato: è il passato, in quanto inverato. Il che vuol dire, che il presente senza il passato è qualcosa d'astratto, e perciò non è assoluta ragione. L'assoluta ragione è appunto questo continuo presente, che senza storia non è niente, e la cui concretezza è la storia stessa.
[212]
Filosofare è spiegare (conoscere) l'ordine, la connessione, la relazione delle cose.
a) La filosofia greca prima di Socrate considera solo l'ordine naturale delle cose, la natura, la natura delle cose, la realtà naturale: in generale, l'Essere, l'essere naturale.
L'Essere è
1. semplice essere naturale, essere e principio immutabile delle cose: cioè principio materiale (Ionici), numero (Pitagorei), puro essere (Eleati).
2. semplice divenire naturale: principio della mutazione delle cose: cioè semplice indeterminato divenire (Eraclito), divenire materiale (Empedocle, Atomisti), divenire sopramateriale o come intelligenza (Anassagora).
3. essere cosciente naturale. Il principio di Anassagora (il suo Noo), come intelligenza naturale, è il soggetto (la realtà cosciente) immediato, l'uomo come individuo: il principio della Sofistica.
Tutta questa filosofia è filosofia naturale:
1. perchè considera solo la realtà naturale. La realtà cosciente, infatti, è considerata come realtà [213] naturale (aequa, numero, ecc.); non è distinta chiaramente dalla naturale, e molto meno messa sopra la naturale. Così la giustizia pei Pitagorei è un numero, etc.
2. perchè conosce, ma senza riflettere sul conoscere, sul processo e autorità del conoscere, senza conoscere il conoscere; cioè senza conoscenza di sè.
Conoscere è realtà cosciente. Conoscere il conoscere è conoscere la realtà cosciente.
Tutta questa filosofia è dunque semplice conoscenza della realtà naturale: dell'ordine naturale delle cose. In essa non era possibile la logica; perchè la logica è conoscenza della conoscenza. La stessa Sofistica, avendo per principio il soggetto individuale, non universale, non poteva aver logica, ma solo rettorica. La quale pure è già qualcosa: è come il bozzolo della logica.
b) Socrate, il primo si eleva all'orizzonte della logica, elevandosi dal conoscere naturale al conoscere a concetti, dall'oggettività naturale alla oggettività ideale. Questa è insieme l'essenza delle cose e l'essenza del pensiero (è questa, in quanto quella). D'ora innanzi il problema principale della filosofia è la relazione ideale (logica) delle cose, non più la naturale.
Platone sostanzializza i concetti socratici: le idee. Ne fa un mondo, ordinandole mediante la dialettica; i cui momenti sono: scendere dalle superiori alle inferiori mediante la dieresi di quelle, e salire, al contrario, mediante la sinagoga[140] delle inferiori: dall'uno a' molti, e da' molti all'uno.
[214]
Socrate e Platone attendono più alla forma della universalità che al contenuto. Platone non distingue nettamente i concetti, il cui contenuto è universale e non intuitivo, da quelli il cui contenuto è particolare e intuitivo: i concetti puri dai rappresentativi.
Aristotele li distingue: categorie. Mediante le categorie si intende, si concepisce la rappresentazione empirica. Ma altro è quello, che fa concepire (la categoria); altro è l'atto del concepire, del pensare, del ragionare, del provare. Quindi materia e forma del pensare: materia e forma logica.
Quindi due parti o elementi della logica: cioè categorie, e forme del pensare (concetto, giudizio, sillogismo: prova). Quella è più metafisica; e val quanto dire si accosta e s'intreccia più colla metafisica aristotelica. Questa è più logica. Non dico già che Aristotele abbia fatto una logica così. Si sa che ciò che si è chiamato Organo non è altro che la raccolta de' suoi scritti logici. Ma quel che voglio dire è, che la distinzione tra materia e forma logica ci è in Aristotele, e che in Aristotele «logica» importa principalmente studio della forma logica.
Quel che manca in Aristotele, è la soluzione del problema della relazione tra la categoria, senza di cui niente s'intende, e l'atto o la forma del pensare: tra la materia e la forma logica: in altri termini, tra la metafisica e la logica.
La logica aristotelica non è formale, nel senso moderno di tal vocabolo; ma si presta a diventar formale. Non è formale, perchè non è opposta alla metafisica; si presta a diventar formale, perchè non determina la relazione tra la materia e la forma del pensare.
[215]
Che non si opponga alla metafisica, tutti l'ammettono ora; anzi taluno crede, che non solo non ci sia opposizione in Aristotele tra logica e metafisica, ma invece una unità fondamentale; giacchè il concetto della sostanza è insieme categoria ontologica suprema e l'essenza del sillogismo.
Ora è vero, che il concetto della sostanza ha un tal valore in Aristotele; ma da ciò non segue, che egli abbia determinato la relazione tra la materia e la forma del pensare; come dicendo in generale: lo stesso essere sotto due aspetti[141], non determina davvero la relazione tra questi due aspetti. Dice che sono uno; ma, non traendoli dall'uno, non li distingue, nè li fa uno davvero. Pare a me che il non determinare quella relazione sia appunto il difetto del sistema aristotelico; e che tal difetto sia quello stesso che si è chiamato dualismo di forma e materia (universale e particolare), la cui unità, — cioè il punto oscuro e non inteso, — è, come si sa, la sostanza.
Il concetto della sostanza è oscuro; non inteso, ma presupposto. Questa posizione corrisponde a quella della non unità e della non opposizione tra logica e metafisica. Non vi è unità, perchè la sostanza non s'intende; non vi è opposizione, perchè la sostanza è presupposta. Perciò, come ho già detto, questa logica non è formale, ma si presta a diventare formale.
Per la stessa ragione, questa logica non è metafisica, ma si presta ad essere metafisica.
Questa indifferenza ha la sua radice nel dualismo aristotelico di forma e materia.
[216]
La filosofia antica è essenzialmente considerazione dell'oggetto (della natura). Lo considera prima naturalmente; poi idealmente. Nella prima considerazione il naturale è principio del naturale, il fatto del fatto. Nella seconda il principio è l'oggettività ideale, che trascende la naturale; il fare che trascende il fatto.
Originariamente essa non è conoscenza della realtà cosciente, come la filosofia moderna. Questo problema nasce in essa per risolverne un altro, che è il principale. Perciò è inteso in altro modo che nella filosofia moderna; è piuttosto il problema della realtà saputa, che della realtà cosciente.
La filosofia moderna, al contrario, è essenzialmente considerazione del soggetto, della realtà cosciente, dello spirito. Si sa come per istinto (per tutta la esperienza da Talete a Cartesio), che, spiegato questo, tutto è spiegato.
Essa procede rispetto alla realtà cosciente, al nuovo oggetto, come l'antica procedeva rispetto all'oggetto antico, alla realtà naturale.
Da prima spiega il fatto col fatto; considera la realtà cosciente — la psiche, il conoscere — naturalmente, [217] come qualcosa d'immediato[142]. — Dommatismo.
Poi spiega il fatto col fare; studia il fatto intero e assegna come principio ciò che trascende il fatto; considera la realtà cosciente idealmente. — Criticismo. — Il fare qui è il puro conoscere trascendentale. — Kant.
Come il concetto socratico (oggettività ideale) trascende la realtà naturale, che si vuol spiegare, è la realtà pura, l'Idea; così il puro conoscere kantiano (categorie, intuizione pura, unità sintetica a priori) trascende il conoscere, la realtà cosciente come esperienza.
Socrate fonda il trascendentalismo antico; Kant il moderno.
Questa è la ragione, per cui Kant si chiama il Socrate moderno, e Socrate il Kant antico[143]. Ma tra l'antico e il moderno ci è infinita differenza; giacchè la filosofia antica è considerazione prima naturale e poi ideale della realtà naturale; la moderna è considerazione prima naturale e poi ideale della realtà cosciente. Perciò così il naturalismo come l'idealismo antico si diversifica dal naturalismo e dall'idealismo moderno. L'uno e l'altro nell'antichità sono oggettivismo; ne' tempi moderni, soggettivismo. E nello stesso modo il dommatismo antesocratico differisce dall'antekantiano, come il dialettismo socratico dal kantiano.
A) Vediamo ora cos'è la logica in questa nuova posizione.
[218]
Nell'antichità non poteva essere che quel che fu; giacchè, mancando la conoscenza diretta della realtà cosciente, non era possibile la soluzione del problema sulla relazione tra materia e forma.
Ora, come nell'antico naturalismo non fu possibile la logica, e cominciò solo con Socrate, così nel nuovo naturalismo (da Cartesio e Bacone a Kant) non fu possibile la nuova logica, la logica corrispondente alla nuova posizione (problema della realtà cosciente); si riprodusse solo e si continuò l'antica logica (modificata più o meno in bene o in male, ma, in sostanza, la stessa sempre).
Il nuovo naturalismo considera la realtà cosciente, il conoscere, come qualcosa di naturale, o un fatto; come essenza, sostanza, causa: come qualcosa d'immediato.
Quindi due tendenze:
Idea innata e Senso sono due immediati.
Quindi due metodi, due principii, due indirizzi:
Idealismo ed empirismo; processo a priori e processo a posteriori; assioma o immediato ideale, ed esperienza o immediato sensibile; deduzione (metodo matematico), e induzione; discorso dalla causa all'effetto, dal principio alla conseguenza, e dall'effetto alla causa, dalla conseguenza al principio.
La spiegazione è sempre la relazione causale: il pensare come causare[144]. Hume, infatti, nel quale questo naturalismo si dissolve, indirizza il suo scetticismo principalmente contro la relazione causale. Negata la causalità, è negata tutta questa filosofia naturale.
[219]
È spiegata così la realtà cosciente?
La coscienza non è un essere naturale, non un immediato semplicemente; non un semplice effetto; non risulta da quel che non è coscienza, da quel che è semplice realtà (il pensare non risulta dall'essere, il fare dal fatto); non risulta dall'idea innata; non risulta dall'impressione sensibile. Dunque, così non è spiegata.
Come l'antico naturalismo si dissolve nella sofistica, così il nuovo si dissolve nello scetticismo di Hume.
Il conoscere, la realtà cosciente, dice la Sofistica, non può essere spiegato dall'acqua, dall'aria, dal numero, dal puro essere, dal divenire, dallo stesso noo di Anassagora. Dunque, nego il conoscere, l'oggettività del conoscere; giacchè, se deve essere spiegato da que' principii, cioè naturalmente, non si può spiegare; e se uno di que' principii, cioè la natura, è il vero principio, il conoscere, non potendo essere spiegato da questo principio, non ci è. — Ora, negare il conoscere è già affermarlo; è dire: io conosco di non conoscere. La proposizione: non conosco, presa dommaticamente, è un giudizio categorico, e perciò conoscere. Questa proposizione, dunque, annulla se stessa, se si prende assolutamente. Questa contradizione è la Sofistica. Il conoscere sofistico è un conoscere che non è vero conoscere; è opinione, conoscere individuale, soggetto empirico. — Pure la Sofistica ha un lato vero. Quando essa dice: non ci è il conoscere, dice ciò nella sua posizione storica, cioè reale, vera; per intendere la Sofistica, non bisogna astrarla da questa posizione. Ora in questa [220] posizione essa, dicendo non conoscere, vuol dire non conoscere nel senso della filosofia naturale, e non già negazione assoluta del conoscere; e perciò è una negazione che non è annullamento: non è una negazione dommatica (come quando si dice: non ci è il conoscere, ut sic), ma in sè semplicemente critica; non è in sè dommatismo, ma, se posso anticipare la frase, criticismo: la critica della filosofia anteriore. Questo è il lato vero della Sofistica. Il falso è la negazione presa assolutamente, cioè come annullamento; la critica presa come dommatica, cioè come non più critica, il non essere preso come il niente, e non già come avviarsi al vero essere; come annullarsi e non già come inverarsi.
La critica, come inveramento e non già come annullamento (Sofistica), la critica, come vera critica, è Socrate. Socrate è la verità della Sofistica. Socrate nega la filosofia naturale, come la Sofistica; ma, negandola, pone il nuovo principio: il concetto. La negazione fissata, cioè presa assolutamente, è l'individuo sofistico; la negazione risoluta, cioè come inveramento, è la coscienza e il conoscere socratico: il conoscere a concetti.
Hume ha, rispetto alla filosofia anteriore da Cartesio e Bacone e rispetto a Kant, la stessa posizione che la Sofistica ha rispetto al naturalismo greco e a Socrate. Lo scetticismo di Hume come proposizione dommatica è la nuova Sofistica; come critica è inveramento, è Kant. In Hume la filosofia moderna nega se stessa come filosofia naturale; e in Kant afferma se stessa come filosofia del conoscere, come filosofia critica, cioè come filosofia della POSSIBILITÀ del conoscere.
Socrate, dunque, fonda la filosofia della POSSIBILITÀ [221] della realtà saputa, e quindi indirettamente della realtà cosciente: ontologismo trascendentale.
Kant fonda la filosofia della POSSIBILITÀ della realtà cosciente direttamente: psicologismo trascendentale.
Socrate dice: la possibilità della realtà saputa è il puro saputo, il puro conosciuto, il puro intelligibile, il concetto, l'universale, l'oggettività ideale. — Quindi l'Idea platonica (ὄντως ὄν). (quindi l'Idea aristotelica: la Sostanza (οὐσία): unità di materia e forma: non vera unità, appunto perchè Ente.
Kant dice: la possibilità della realtà cosciente è la pura coscienza, il puro conoscere, il puro sapere, il concetto, l'universale, l'idea, ma come sapere, come Io, Io penso, soggetto, e non già come saputo, non-io, oggetto.
Socrate pone il concetto, l'universale, il pensare come pensato, come essere.
Kant lo pone come pensare, come atto del pensare che è psiche, dell'Io penso, come forma dell'Io penso.
Concetto, universale, categoria (determinazione universale delle cose, determinazione ontologica, metafisica) = forma del pensare, dell'Io penso (forma logica); cioè materia logica = forma logica; metafisica = logica: tale è in sè il kantismo.
Ma solo in sè. È il nuovo orizzonte della filosofia. Ma Kant — il criticismo kantiano — è inferiore alla sua potenza; come il concetto socratico è in sè il platonismo e l'aristotelismo e altro, ma, come attività puramente socratica, è meno della sua potenza.
In Socrate il concetto è tutto nell'attività del soggetto filosofante, nell'attività induttiva; non è [222] ancora sistema delle idee, cioè dialettica platonica (dialettica dell'Ente stesso); non è ancora metafisica (Aristotele). Dialettica e metafisica sono come assorbite nell'attività socratica, soggettiva, dialogica.
In Kant, più che l'unità della metafisica e della logica, si ha l'assorbimento della metafisica nella logica, nella nuova logica: nella logica dell'Io penso come semplice Io, del soggetto come semplice soggetto (e perciò non vera logica, in quanto non è logica e metafisica). È nuova logica, perchè la categoria è forma (attività) dell'Io penso; non è vera logica (vera nuova metafisica), perchè la categoria così, come semplice forma dell'Io, del semplice soggetto, non è determinazione della cosa in sè (noumeno), ma solo della cosa rispetto a noi, o in quanto conosciuta da noi (fenomeno). La logica kantiana è, come è stato detto, metafisica del fenomeno, non dell'Ente.
Qui ci è del vero e del falso. Il vero (il nuovo) è aver posto la categoria come forma (attività) dell'Io. Il falso è aver preso il semplice Io, il semplice soggetto, e aver opposto ad esso la cosa in sè, distinguendola dalla cosa per noi, alla quale sola compete la categoria.
La cosa in sè; cioè considerare il puro conoscere come non assolutamente puro; il conoscere trascendentale come non assolutamente trascendentale; il fare, non come assoluto fare, ma come ancora fatto, e perciò non come assoluta trasparenza; l'Io o la Psiche, non come Io o Psiche assoluta, ma come Io o soggetto finito, semplice coscienza, tale è il difetto del kantismo, la sua contradizione: la contradizione colla sua stessa posizione fondamentale (unità sintetica originaria).
[223]
Unità sintetica originaria: questo è il fondamento e la possibilità della nuova logica, di quella che è logica e metafisica; della nuova metafisica (non più dell'Ente, nè del solo fenomeno, ma della Mente).
1. Vediamo lo sviluppo della nuova posizione: della posizione kantiana.
Unità sintetica originaria vuol dire: unità che produce e unisce gli opposti. È dunque unità come assoluto fare; e, come assoluto fare, è posizione di se stessa. È la vera apriorità, l'assolutamente Primo, appunto perchè è prima e dopo gli opposti. Come tale è in sè ciclo: sillogismo. L'apriori cartesiano è un falso apriori; è un dato naturale, un a posteriori. L'unità sintetica originaria è unità dell'apriori e dell'a posteriori (Cartesio e Bacone).
Ma Kant stesso non intende l'unità sintetica originaria come assoluta produzione, come produzione di sè: ciclo, sillogismo. La intende come semplice giudizio[145].
Giudizio (κρίσις) non è semplice unità, unità meramente immediata, ma unità che si distingue in se stessa, unità nella forma della distinzione. L'unità non è annullata, ma permane e si mostra come distinzione. Ma non è la vera unità, perchè non è integrazione della distinzione, e perciò rintegrazione di sè stessa. Tale è solo il sillogismo. Il giudizio non è assoluto fare, il vero pensare; ma è fare e fatto, pensare e essere. È pensare, in [224] quanto distinzione; è essere, in quanto unità. Distinzione come pensare (nella forma del pensare; distinzione pensata), e unità come essere (nella forma dell'essere): tale è il giudizio.
Il giudizio è, dunque, unità parziale tra intelletto e senso, soggetto e oggetto. Quindi il soggetto ha un limite nell'oggetto, l'Io nel non-io. Questo limite è la cosa in sè.
Quindi la realtà cosciente non è per se stessa, ma per qualcosa che non è essa stessa e che la limita: per qualcosa di naturale.
Ciò vuol dire, che essa non è realtà cosciente; che è fatto, non fare, non farsi.
Dunque, così, la realtà cosciente, il conoscere, non è spiegato. E perciò il problema della logica non è sciolto.
Ora Fichte dice: realtà cosciente, in quanto unità sintetica originaria, è assoluto fare: è autocoscienza, e come tale, produzione assoluta di sè.
Quindi non più cosa in sè. La cosa in sè, il non-io, il limite dell'Io, è posto dall'Io stesso; e perciò non è più limite. L'Io (tesi) pone in sè il non-io (antitesi), e, ponendolo in se stesso (pensandolo e superandolo), pone davvero se stesso (sintesi).
Questa produzione assoluta di sè — tesi, antitesi, sintesi — questa vera unità originaria è la produzione delle categorie.
L'Io, l'autocoscienza, che, in quanto produzione di sè, è produzione delle categorie: — tale è la logica di Fichte.
L'unità sintetica originaria è una posizione, che è triplice posizione:
Prima posizione: L'Io pone se stesso come semplice Io.
[225]
Seconda posizione: L'Io pone il non-io.
Terza posizione: l'Io, ponendo il non-io è nel non-io, in quel che ha posto; e perciò stesso il non-io è nell'Io (non è un di là, un limite insuperabile, cosa in sè). Ma l'Io pone se stesso, l'Io; e nell'Io è il non-io. Dunque, l'Io pone nell'Io il non-io. Dunque, è unità o sintesi dell'Io e del non Io.
Questo ritmo (tesi, antitesi, sintesi), è la vera forma logica: il metodo della logica (la vera forma del pensare).
Kant avea detto: categoria è Io, forma dell'Io, attività dell'Io. — Questo era un progresso.
Ma Kant non determinò la relazione tra l'Io e la categoria, tra l'Io e la sua funzione. L'Io è dato e la categoria è data. Sono due presupposti.
Questa relazione è determinata da Fichte. Per Fichte, «categoria è attività dell'Io» vuol dire: l'attività dell'Io è il suo prodursi per se stesso, e il suo prodursi è la produzione delle categorie. L'Io, producendo se stesso, categorizza (produce le categorie); categorizza sè; è Categorica; è attività categorizzante.
[226]
Adunque, Fichte è il vero Kant —: Fichte deduce; Kant descrive. In Kant non è cessato interamente il naturalismo.
2. Per Aristotele la vera categoria è la sostanza (οὐσία): l'unità dell'universale e del particolare: l'Individuo. La sostanza — questa categoria — è la essenza, la forma del concetto, del sillogismo aristotelico. In essa è la radice della unità tra la metafisica e la logica aristotelica.
Ma Aristotele non intese la unità dell'universale e del particolare. Questa unità (unità sintetica originaria) è mentalità (autocoscienza).
La mentalità è il pregio (la scoperta) di Fichte. La mentalità è la vera individualità. È l'unità, non più come giudizio (Kant), ma come sillogismo.
Spinoza concepiva la sostanza (l'individuo) come semplice causare (identità assoluta come causare). La sostanza spinoziana è la stessa sostanza cartesiana: cogitare ergo esse come attività immediata.
Fichte compie Aristotele (e Spinoza), ma solo formalmente. E in ciò è il difetto di Fichte.
Fichte, infatti, spiega solo la realtà cosciente in quanto cosciente: spiega la coscienza. La spiegazione è: coscienza è autocoscienza.
Conoscere, coscienza, nella sua realtà (come reale conoscere) vuol dire: Soggetto e oggetto, Io e non-io, realtà cosciente e realtà saputa, spirito e natura. Ma, da un lato, perchè il conoscere sia REALE conoscere (non sia semplice apparenza), è necessario che l'oggetto, il non-io, la realtà saputa, la natura, sia un reale; qualcosa, che sia fuori e senza il soggetto. E dall'altro lato, ciò nondimeno, perchè il conoscere sia VERACE conoscere, cioè non sia semplicemente posto, ma ponga se stesso, è necessario [227] che il soggetto, l'Io, il sapere, sia in se stesso — cioè appunto come soggetto o Io — sia, dico, Io e non-io, soggetto e oggetto, sapere e saputo, spirito e natura. La essenza del conoscere — il non esser semplice effetto, ma causa sui — esige questo lato. Questo ci vuole, perchè il conoscere sia conoscere, cioè non semplice realtà, realtà naturale, ma realtà cosciente, Io. L'altro lato ci vuole, perchè il conoscere sia reale, oggettivo: non sia la pura forma del conoscere, la sua semplice essenza come conoscere. L'uno senza l'altro non è il conoscere nella sua realtà, il vero conoscere. Ora il pregio di Fichte (e originalmente di Kant) è appunto questo: conoscere è conoscere se stesso, coscienza è autocoscienza. E ciò, non nel senso semplicemente: «Io non posso conoscer altro, se non conosco prima me stesso; io non posso dire non-io se non dico prima Io». Coscienza è autocoscienza vuol dire: l'Io non sarebbe coscienza, conoscere, se non fosse in sè (come Io, come Auto) Io e non-io; l'Io, l'Auto, è in sè Io e non-io, e perciò come coscienza, come conoscere, è autocoscienza, conoscenza di se stesso. Coscienza è Sè e Altro. Ora è autocoscienza, in quanto l'Auto, il Sè, è Sè e Altro; è, in sè, Sè e Altro.
Io come Io e non-io: tale è il pregio di Fichte.
Io come Io e non-io è l'unità sintetica originaria: quella unità (Io) che produce (pone) e unisce gli opposti (Io e non-io). Questa unità, che è produzione di se stessa, è l'autocoscienza. In quanto produzione di se stessa è ritmo, categoricità: produzione delle categorie.
Il fichtismo è vero, in quanto s'intende così: conoscere vuol dire soggetto e oggetto; io dunque non conosco, se non sono in me — come soggetto, [228] come conoscere — soggetto e oggetto. Se il conoscere non è in sè questa unità; se il soggetto non è in sè questa forma, il conoscere non è certezza, non è mio conoscere, non è Io; è semplice pictura in tabula, non realtà cosciente, e quindi non saputa; quella che si dice realtà saputa, è semplice impressione naturale in una realtà naturale; manca la coscienza, l'Io. La pittura è impressa nella tavola. Perchè la tavola non sa?
D'altra parte il fichtismo è falso, se s'intende così, che il non-io (il mondo, la natura, l'oggetto) che è nell'Io ed è posto dall'Io, sia il reale non-io; cioè dire, che l'Io crei davvero il mondo, il mondo reale. È falso, se s'intende che l'Io crei se stesso come Io reale. Io reale importa non-io reale; e, giacchè il non-io reale non è nell'Io, ma solo il semplice non-io, e il non-io reale non è posto dall'Io, così l'Io non è posizione di se stesso come Io reale, ma solo come semplice Io; come forma del conoscere, ma non come reale conoscere; come certezza, non come verità del conoscere.
L'Io è dunque qui assoluto e relativo, infinito e finito, fare e fatto, a priori e a posteriori, posizione di sè e posto. Questa è la contradizione del fichtismo: fissato come fichtismo.
È assoluto, in quanto è semplice forma del conoscere, Io come forma e essenza dell'Io, come mentalità (Ichheit). È relativo, in quanto è reale conoscere, cioè non semplice mentalità (forma della mente), ma mente, mente reale.
L'Io, dunque, come autocoscienza, come produttiva autocoscienza, come attività logica, non è veramente assoluto, appunto perchè è assoluto solo come forma. E perchè è assoluto solo come forma, anche come forma non è davvero assoluto. Questa [229] non assolutezza si mostra nella stessa autocoscienza come tale, come forma; giacchè il non-io, sebbene posto dall'Io, è pur sempre limite dell'Io; è limite posto dall'Io, ma sempre limite; deve essere eguale all'Io, ma, al far de' conti, gli rimane sempre opposto: altrimenti l'Io non sarebbe Io.
Così l'Io di Fichte, non essendo davvero assoluto, non risolve il problema della logica. Questa logica è sempre, come la kantiana, metafisica del fenomeno, non della mente assoluta.
Fichte, dunque, spiega solo l'esser cosciente, e questa spiegazione è l'autocoscienza. Ma non spiegando la realtà di cui si ha coscienza — la realtà saputa —, non spiega davvero nè anche l'esser cosciente. Anche qui la realtà cosciente è realtà cosciente, solo in quanto ci è la realtà naturale. Se Fichte la spiega come cosciente (e non la spiega davvero), non la spiega di certo come realtà, cioè come realtà cosciente. Fichte, dunque, non spiega il conoscere come reale conoscere.
1. Con tutto ciò la scoperta di Fichte — il conoscere è impossibile, se l'Io non è in sè Io e non-io — questa scoperta rimane, e diventa la base di una nuova costruzione. Ed ecco in che modo:
Come è vero che l'Io è in sè — in quanto Io — Io e non-io, giacchè altrimenti il conoscere non sarebbe possibile; così è vero che il non-io è in sè — in quanto non-io — non-io e Io, giacchè altrimenti il conoscere sarebbe impossibile. Appunto perchè è vera la prima proposizione, è vera la seconda. Se l'Io, infatti, in quanto Io, è Io e non-io, ciò vuol dire che il non-io è anche Io, cioè se stesso e l'Io. Solo l'Io, il semplice Io come Io e non-io (autocoscienza), [230] non è il reale conoscere, perchè il non-io non è reale. Il non-io solo, senza l'Io, senza in sè stesso l'Io, è la semplice realtà naturale, non la realtà saputa, non il reale conoscere; anzi non è realtà che si possa sapere, non è realtà conoscibile. La conoscibilità vuol dire dunque non solo il non-io nell'Io, cioè l'Io insieme Io e non-io (Fichte), ma anche il non-io insieme non-io e Io: vuol dire, insomma, identità d'Io e non-io.
Questa identità è Schelling. Lo spirito, dice Schelling, è in sè la natura; la natura è in sè lo spirito. Questa identità — identità assoluta — è la Ragione: la Ragione assoluta.
Questa identità non è quella di Bruno (semplice coincidenza), non quella di Spinoza (semplice insidenza). Il non-io, in quanto è in sè l'Io (la natura in quanto è in sè lo spirito), è Io come Io di Fichte, come autocoscienza, come mentalità. La identità dunque qui non è semplice causalità o assoluta indifferenza, ma è identità o indifferenza come mentalità: Ragione assoluta, e non semplice Causa-sostanza assoluta. Schelling così non è Spinoza, appunto perchè la sua identità è mentalità, non semplice causalità; appunto perchè Schelling è rispetto a Fichte quel che Spinoza è rispetto a Cartesio, e appunto perchè Cartesio differisce da Fichte come causare da creare, come causalità da mentalità[146].
Per intendere il significato di Schelling, consideriamo meglio questa sua posizione rispetto a Fichte.
2. Fichte dice: perchè il conoscere sia possibile (cioè idealità, conoscere, sapere, Io, Se stesso, [231] non pictura in tabula, non semplice impressione), il non-io deve essere nell'Io, cioè l'Io deve essere Io e non-io: l'Io come Se stesso deve essere se stesso e l'altro. Ciò è solo la mentalità (il creare).
Schelling dice: perchè il conoscere sia reale, l'Io deve essere nel non-io, cioè il non-io deve essere non-io e Io.
In altri termini, Fichte dice: conoscere è autocoscienza.
Schelling dice: perchè il conoscere sia reale, la realtà deve essere conoscibile. E perchè la realtà sia conoscibile, deve essere in sè il conoscere (Io).
Dunque, realtà cosciente è = conoscere, autocoscienza, mentalità. Realtà in generale è = conoscibilità, in sè conoscere, in sè mentalità.
Quindi identità come Io (Ragione, mentalità).
Pare, che la seconda proposizione di Schelling, da cui risulta la identità, sia una semplice esigenza per la realtà del conoscere, dicendo: perchè il conoscere sia reale, il reale deve essere conoscibile. Si può dire qui: «Chi ci assicura che il conoscere deve esser reale? Fichte ha ragione di dire che, se il conoscere non è quel che dice lui (autocoscienza), non è conoscere, ma pictura in tabula. Ma voi fate l'esigenza che il conoscere deve esser reale (che il non-io sia reale, e non solo nell'Io), per dire identità. Ora il conoscere non potrebbe essere semplice conoscere, cioè il non-io essere semplicemente nell'Io, e l'Io essere l'unico reale? Se il non-io è reale, segue certamente che per esser conoscibile, deve essere in sè Io: quindi la identità. Ma se non è reale? Adunque, la identità, — almeno così pare, — nasce dal supposto della realtà del non-io. Si esige questa realtà, e si conchiude quindi la identità».
[232]
Fichte prova la possibilità del conoscere, non la realtà. Gli antichi volevano dalla realtà (dall'oggetto) ricavare la possibilità. Non riuscirono. Il conoscere non si prova che da sè, non da quel che non è conoscere. Gli antichi supponevano la realtà; non ne dubitavano. E da questo dato, da questo reale, cercavano di spiegare il conoscere: il conoscere da quel che non è conoscere. Schelling, pare, rimetta in campo il reale, e dica: reale, reale conoscibile; dunque, identità.
Non si potrebbe dallo stesso principio di Fichte, dalla possibilità del conoscere (dall'autocoscienza), derivare il Reale, la realtà del conoscere? E quindi la identità?
Non si può. «Io nel non-io, e non-io nell'Io, e quindi identità d'Io e non-io (identità, che è l'Io, il vero Io)» , vuol dire solo identità d'Io e di non-io possibile, di non-io nell'Io, non già d'Io da una parte, e di non-io dall'altra fuori dell'Io, di non-io reale: vuol dire solamente: se il non-io è reale, per essere conoscibile deve avere questa natura, che in esso sia l'Io.
Adunque, l'identità che risulta da Fichte — identità, che è il principio stesso di Fichte, cioè la semplice mentalità: identità dell'Io con sè stesso, e non altro — questa identità come realtà, come identità reale, come identità reale d'Io e non-io, come identità d'Io e non-io reale, come identità fondamentale, come Natura: questa identità è un presupposto di Schelling (intuizione intellettuale).
Schelling dice bene con Fichte, spiegando Fichte: Se il non-io è reale conoscibile, deve essere Io. Quindi identità. Ma il se rimane sempre un se. Il se diventa è nell'intuizione intellettuale.
[233]
Certo è, ciò nondimeno, che posto l'Io, il non-io è posto come possibile; giacchè, se non fosse il non-io, non sarebbe l'Io. Mentalità è relazione necessaria tra Io e non-io. Se l'Io dunque è reale, il non-io è reale, è realmente. Ma è reale l'Io di Fichte? L'Io di Fichte è la semplice possibilità dell'Io (la semplice mentalità), non l'Io reale.
Non si potrebbe rovesciare il discorso, e come si dice: «perchè il conoscere sia possibile, bisogna che sia identità tra Io e non-io, e questa identità sia l'Io, la mentalità», dire invece: «bisogna che questa identità sia il non-io»? No. Questa identità = non-io è l'essere: e sarebbe lo stesso che derivare l'Io dall'essere, dal non-io. La storia della filosofia prima di Fichte ha mostrato, che ciò non si può fare. Il pregio di Fichte è questo appunto: aver provato, che l'Io (la mentalità; non l'Io reale: reale, in quanto Io) non può derivare che da se stesso; che, come mentalità, è assoluto; e che perciò, se quella identità è non-io, ossia essere, non ne può derivare l'Io (tale è lo spinozismo). Adunque, l'identità non può essere che Io, Ragione, Intelligenza.
Fichte ha dimostrato questo, lui primo.
Ma questa identità fichtiana è un se: una relazione necessaria, ma solo possibile. Schelling ha oggettivata questa relazione coll'intuito; ed ecco la Natura: il Reale.
3. Il pregio di Schelling è di aver detto: senza identità di natura e spirito, senza identità (notate bene) come mentalità, non ci è il conoscere, il reale conoscere. (E già il conoscere non è che tale: conoscere non reale non è conoscere).
Per Schelling conoscere la realtà è appunto conoscere questa identità, che è mentalità; come [234] per Spinoza conoscere la realtà è appunto conoscere quella identità, che è la Sostanza-causa.
Conoscere la realtà è afferrare la relazione: la relazione come identità.
Per Schelling, conoscere la realtà è afferrare la relazione come mentalità; per Spinoza, come causalità.
Per Spinoza l'Idea, la Relazione, è Causare: per Schelling è Mentalizzare (Creare. Creare è identità come mentalizzare).
Spiegare il conoscere (e quindi la realtà, tutta la realtà) è dunque — posto Schelling — spiegare la identità come mentalità (è spiegare il creare).
Schelling spiega la sua identità? Non la spiega, ma la presuppone; la pone immediate nella intuizione intellettuale.
Questo presupposto, cioè la identità come mentalità, posta immediatamente; questo presupposto è la Natura di Schelling.
Quindi nuovo naturalismo; nuovo dommatismo; nuovo spinozismo; nuovo parallelismo. Infatti la differenza che si fa comunemente tra Schelling ed Hegel è: in Schelling spirito e natura sono coordinati semplicemente, in Hegel la natura è subordinata allo spirito.
Per Schelling la identità, in quanto presupposta, in quanto intuita intellettualmente, cioè la Natura, è il Primo. «La Intelligenza» (la Ragione, la mentalità, la identità), dice Schelling[147], «è produttiva in duplice modo[148]: o ciecamente [235] e senza coscienza, o liberamente e con coscienza; senza coscienza è produttiva nella intuizione universale; con coscienza, è produttiva nella creazione del mondo ideale». L'intuizione universale è qui la Natura; il mondo ideale è lo Spirito (ordo rerum, ordo idearum). Ora per Schelling l'intuizione è il Primo: è il fondamento universale. Quindi prima, la incoscienza; poi, la coscienza; quella produce questa, la natura lo spirito; la natura si contrappone a se stessa come spirito. — Questa contrapposizione è il nuovo parallelismo.
Ora la Natura — la intuizione — non è il Primo; è Primo solo come un presupposto; e quindi un falso Primo.
Schelling dunque, presupponendo e non spiegando la identità, cioè ponendo come Primo la Natura, non spiega il conoscere, ma lo presuppone e quindi non spiega la realtà.
Schelling riduce tutto e ogni cosa a questa identità presupposta, a questo Primo; comprendere le cose è comprendere questa identità nelle cose. Come si comprende questa identità? Non col discorso, colla logica ordinaria, ma con un organo adequato alla identità stessa. Questa identità, che è intelligenza, appunto perchè immediata, è intelligenza-intuizione, intelligenza intuitiva (Natura). Adunque, non può essere appresa che colla intuizione intellettuale. Questa è l'unico vero organo della filosofia: questa è la logica di Schelling. È una logica, che è un solo atto, un atto immediato: una, come è stato benissimo detto, esplosione di pistola[149]. È una logica, che non è logica. Questa esplosione è la spiegazione del conoscere: è [236] spiegare e comprendere la realtà. — Non è una spiegazione.
Così, posto Schelling, come fare? Come andare avanti? Come spiegare il conoscere?
Ritornare semplicemente a Fichte, non si può: l'Io di Fichte non spiega il conoscere. A Kant, molto meno; e anche molto meno a Cartesio, ad Aristotele, a Platone.
Dunque, come fare?
Bisogna conservare tutto il progresso sino a Schelling, e vedere quel che manca.
Fichte pone la mentalità; senza la mentalità non è possibile punto il conoscere.
Schelling dice: senza identità reale, identità come mentalità, non ci è il conoscere.
Fichte e Schelling hanno ragione. Ma Schelling presuppone la identità, la identità come mentalità. Questo è il suo difetto.
Bisogna dunque provare la identità. Solo provando la identità, si spiega il conoscere; si risolve il problema della logica.
Questa prova è Hegel.
1. La Identità di Schelling è intelligenza, ragione, mentalità: è l'Io (l'autocoscienza) di Fichte, non come Io soggettivo, ma come identità di natura e spirito, come mentalità assoluta.
Come mentalità, essa non è un semplice immediato, ma mediazione o relazione assoluta verso se stessa (tesi, antitesi, sintesi). Perciò essa non può essere appresa immediatamente, intuitivamente; non può essere intuita, ma solo pensata.
Questa è la contradizione di Schelling. (È la stessa contradizione di Gioberti, tra il principio, che è [237] il creare, e il metodo del sistema, che è l'intuito come cognizione immediata). L'organo della sua filosofia non può essere che logica, pensare, mediazione del pensare con se stesso, perchè l'identità (che è il suo oggetto) è questa mediazione medesima, è Pensare. Intanto egli fa di quest'organo una intuizione, e così lo priva del suo vero carattere, che è di essere pensiero, logica. In altre parole, la intuizione di Schelling, come apprensione della mentalità assoluta, non è che mentalità assoluta; Schelling, ponendola o fissandola come intuizione, non la spiega; contradice a se stesso, alla esigenza del suo proprio principio.
Questa è la critica che Hegel fa di Schelling.
Hegel spiega la identità, che è mentalità, la mentalità assoluta, facendoci assistere, dirò così, alla sua generazione per se stessa. La spiega ricostruendola, riproducendola[150]; e questa riproduzione, questo ripensare, questo pensiero del pensiero come semplice pensiero, come semplice mentalità, come forma della mente, questo mentalizzare è la logica[151].
Come è possibile questa riproduzione, cioè come è possibile questa logica?
Mentalità è pensare, semplice pensare. Riprodurre la mentalità è dunque riprodurre il semplice pensare, cioè pensare il semplice pensare, e perciò pensare semplicemente. Riprodurre è qui produrre; il pensare, riproducendo, produce, pensa; riprodurre la mentalità è mentalità. Se mentalità è ritmo, dialettica, pensare, la sua riproduzione è questo stesso ritmo, questa dialettica, questo pensare: cioè il pensare, semplicemente pensare.
[238]
Semplicemente pensare: questa è la possibilità della logica.
Hegel, spiegando la identità che è mentalità, spiega il conoscere; e così risolve il problema della logica.
2. Prima di Hegel nessun filosofo ha spiegato il conoscere, e così risoluto il problema della logica (il sistema delle categorie).
Con ciò non voglio dire, che la logica di Hegel sia la logica perfetta, assoluta; che la sua filosofia sia l'ultima parola dello spirito speculativo; che dopo Hegel noi non dobbiamo far altro che ripetere o commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formole sacramentali.
Può darsi, che ci sia chi pensi così. Per me, se ci è cosa che io abborro — mi pare di averlo detto già tante volte — è appunto la riproduzione meccanica delle altrui dottrine. Nei filosofi, ne' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita. Ripetere macchinalmente i filosofi, è soffocare questo germe, impedire che si sviluppi e diventi un nuovo e più perfetto sistema. Se Platone non avesse fatto altro che ripetere Socrate, non avremmo avuto il mondo delle idee. Se Aristotele avesse ripetuto Platone, non avremmo avuto il primo concetto della sostanza, della individualità. Se Spinoza non avesse fatto altro che ripetere Cartesio, non avremmo avuto il primo concetto di Dio come semplice causalità, come identità che è causa. Se Fichte avesse ripetuto Kant, non avremmo avuto il concetto dell'autocoscienza, della mentalità. Se Schelling avesse ripetuto Fichte, non avremmo avuto il concetto della identità come mentalità, come ragione.
Quel che io voglio dire, è questo: posto Fichte, — cioè [239] che il conoscere sia impossibile senza l'autocoscienza, — e posto Schelling, — cioè che il conoscere non sia reale senza la identità come autocoscienza o mentalità, — l'unica via di risolvere il problema del conoscere, il problema della logica, sia quello di provare la identità.
Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo; provare la identità.
L'ha provata egli davvero?
Questa è un'altra quistione.
Ora, provare la identità è provare la creazione.
Non vi sbigottite di questa parola; e intendiamoci bene. Provare vuol dire comprendere, concepire davvero: quanto si può da noi. Io non voglio dire che la nostra sarà l'ultima prova.
Io dico: risolvere il problema del conoscere (della logica) è provare la identità come mentalità: provare la identità come mentalità è provare la creazione, giacchè la identità come mentalità è appunto l'attività creativa; dunque, risolvere il problema del conoscere è provare la creazione.
— Provare la creazione! Ma la creazione provata è creazione necessaria, cioè non più creazione; la creazione provata vuol dire il contingente, la creatura, non più contingente, ma necessaria. Gioberti dice così, e dice benissimo: la creazione è un fatto; s'intuisce, non si prova!!
Questo timore, questo orrore contro la prova della creazione non è che un equivoco. Provare la creazione non vuol dire provare il contingente come contingente, questo o quel contingente; p. e. che la tale o la tale pietra, la tale o la tal pianta, ecc. ci deve essere. Krug pretendeva a un di presso questo da Schelling. Schelling diceva: io devo costruire [240] a priori la Natura; e Krug: costruitemi la penna, questa penna colla quale io scrivo[152]. Schelling volea dire: la Natura, la vera Natura, la idea della natura (la natura, diremmo noi, quale è nella mente di Dio) è un a priori, e appunto perchè è a priori si può costruire a priori. Il che non vuol dire di certo, che si deve chiuder gli occhi e gli orecchi, e far tacere gli altri sensi, cioè far astrazione da ogni esperienza[153].
Provare la creazione vuol dire provare quel che vi ha d'ideale, di mentale, di vero, e perciò di necessario nella creazione. Questo è provabile, provabilissimo; è il provabile stesso. O forse l'ideale è il contrario della necessità razionale? E che altro vuol dire prova, se non necessità razionale?
Gioberti dice: creare è pensare.
Ebbene: provare è pensare, il vero pensare. Se non si prova il pensare, cioè se il pensare non può provare, cioè pensare sè stesso, non so davvero che cosa possa provare e pensare.
In questa esigenza: provare la creazione, checchè mostrino in contrario le apparenze, è tutto Gioberti. La sua Idea è il creare; lo spirito è in sè l'intuito del creare; questo intuito è la potenzialità infinita dello spirito; la sua riflessione ontologica — cioè la filosofia — è ripensare, pensare davvero, cioè provare il creare.
Ciò che differenzia Gioberti da Schelling è appunto questa esigenza: la riflessione ontologica. Que' giobertiani che pigliano l'intuito per una cognizione [241] immediata del creare, e non già per la semplice potenzialità del conoscere, contro la mente vera di Gioberti, rendono inutile la riflessione ontologica, e non si accorgono che così fanno di Gioberti una copia di Schelling, niente altro. Ho detto altra volta, che per Gioberti il creare non è l'Ente in quanto Ente, ma lo Spirito, cioè l'Ente come in sè due cicli in uno, e quindi non più semplice Ente. Ora Gioberti, dicendo: Ente semplicemente, esige una ontologia, una metafisica, una logica proprio nel nostro senso; giacchè il suo Ente non è altro che la identità fondamentale (della natura e dello spirito) come mentalità. In ciò differisce da Schelling, pel quale la Natura è il Primo, e tutta la logica si riduce all'intuizione intellettuale. Fate che l'intuito giobertiano sia cognizione immediata dell'Ente creante, e allora l'Ente creante, appunto perchè appreso immediatamente, non sarà altro, checchè ne dicano i giobertiani, che la stessa Natura di Schelling.
Si può dire: «Provare la creazione, anche in questo senso — nel nostro senso or ora spiegato — è fare necessario il contingente, creatore la creatura; lo spirito, in quanto prova la creazione, è lo stesso atto creativo». Ebbene, lo spirito è una creatura, è, se volete, un contingente; ma tal creatura, tal contingente, che si libera dal suo essere immediato, dalla sua contingenza, e diventa — come può — il necessario. Questa è la sua natura. Il nostro spirito crea, cioè prova, perchè è il ricreare. Questo è il senso delle parole di Gioberti: lo spirito è il contingente, fatto a immagine del necessario. Contingente è mimesi; contingente che si fa il necessario, è metessi, ritorno, ricreare.
Quando io dico: risolvere il problema del conoscere [242] (e della logica) è provare il creare (la identità come mentalità), non esco fuori delle tradizioni della filosofia italiana, non mi ribello a questa filosofia (anche politicamente, pochi anni fa, eravamo tutti ribelli); sono anzi in piena filosofia italiana; esprimo un'esigenza, che è l'ultima esigenza della filosofia italiana.
D'altra parte io so bene quel che si dice da alcuni[154]: «Che importa a noi di filosofia italiana e non italiana? Noi vogliamo la verità; e la verità non ha che fare colla nazionalità». Certamente, la verità trascende la nazionalità; ma senza nazionalità è un'astrazione. Trapiantate quanto volete la verità; se essa non ha veruna corrispondenza col nostro genio nazionale, sarà verità per sè, ma non per noi; per noi sarà sempre una cosa morta. Mostrare, dunque, che noi siamo vissuti nel grembo del pensiero europeo e abbiamo sempre promosso e partecipato a questo pensiero, che non siamo stati solamente noi e fuori della vita comune, non è un accorgimento, un procedere diplomatico, un rispetto umano, ma un nobile e rigoroso dovere per chi professa filosofia.
Così io ritorno, nel conchiudere questa breve istoria del problema della logica, alla intenzione principale della mia Introduzione. Per me non ci sono due filosofie moderne; due, tre, quattro correnti filosofiche perpetue, quante sono le nazioni presenti di [243] Europa: ma ci è una sola filosofia, essenzialmente una. Questa unità è lo sviluppo stesso della filosofia nelle diverse nazioni. E molto meno per me ci sono due filosofie italiane, due, dirò così, Italie filosofanti: l'una bianca e l'altra nera, quella innocente, e questa peccatrice, la filosofia di Gioberti e la filosofia di Bruno. Bruno filosofava come si poteva e doveva filosofare nel suo tempo; Gioberti come si poteva e doveva nel suo. Non sono due correnti, due vite contrarie: ma sono il correre della stessa corrente, il vivere della stessa vita. Vita è sviluppo; e Bruno e Gioberti sono due termini e stazioni di questo sviluppo, della nostra vita. Bruno concepiva la identità come causalità; Gioberti come mentalità. Per arrivare a Gioberti, bisognava passare per Bruno. Eliminate Bruno dalla storia della nostra filosofia, e voi non eliminate il peccato, non purificate l'Italia, ma la dimezzate, la guastate; voi non restituite, ma rompete l'aurea catena della tradizione nazionale; non avete l'Italia viva, ma una di quelle statue antiche, che si trovano negli scavi, senza braccia e spesso senza testa.
Vi è certo, o almeno ci è stata, — o se ci è ancora, corre sotterranea e non si mostra, — un'altra corrente in Italia, la quale non solo è contraria alla nostra vera tradizione filosofica, così a Bruno come a Gioberti e anco a Rosmini; ma, se potesse, ingoierebbe tutto quel che vi ha di filosofia in Europa. Ma se questa corrente meriti il nome di filosofia italiana o semplicemente di filosofia, io non lo voglio dire. —
Ritorniamo ad Hegel; e concludiamo.
Se l'identità si prova — quella che noi intendiamo per identità, cioè la mentalità (e già questa sola può essere provata, perchè quella di Spinoza non è [244] mentalità, e quindi non si può provare); se la nostra identità si prova, il problema della logica (e quindi del conoscere) è risoluto.
Qual è infatti il problema della logica?
Il sistema delle categorie.
Che vuol dire categorie?
Non solo forme del pensiero, atti o funzioni soggettive, ma predicati universali delle cose, leggi oggettive.
E cosa vuol dire scienza o sistema?
Vuoi dire mentalità; e cosa sia mentalità, e qual sia il suo ritmo, ce lo ha detto Fichte. Mentalità è tale, in quanto produce, crea se stessa. Categoria è atto originario di mentalità (atto mentale originario). Sistema delle categorie vuol dire, dunque, mentalità in quanto fa, produce, crea se stessa come mentalità: vuol dire produzione delle categorie.
Ora a questa doppia esigenza adempie appunto il nostro presupposto, cioè l'identità provata.
Dicendo identità, adempiamo alla prima.
Dicendo provata, adempiamo alla seconda.
Infatti, provare la identità vuol dire identità che prova o produce se stessa; giacchè provare è mentalizzare, e identità è mentalità. Identità provata, o meglio che si prova (l'atto della prova), vuol dire dunque categorica (sistema delle categorie, logica, metafisica), che si produce come insieme funzione soggettiva e legge oggettiva.
La soluzione del problema della logica non è dunque possibile che nella filosofia della identità, e della identità che si possa provare (mentalità), e che si provi.
Ora identità che si prova non è più Natura, ma Spirito. Quindi non più dommatismo, ma dialettismo.
[245]
Identità che si prova è identità, che è conscia di sè. Questa identità conscia di sè, cioè questa non più relativa (la fichtiana), ma assoluta autocoscienza, è appunto lo Spirito (il Creatore).
Lo Spirito è la vera identità: la identità che sussiste, è concreta come identità.
Infatti, vera identità non è la semplice identità senza la differenza, cioè solo quel che han di comune i due mondi, la natura e lo spirito, e che non è nè l'una nè l'altro, la pura loro indifferenza. Vera identità è quella che si realizza nella differenza, e dalla differenza ritorna identità.
Così abbiamo:
Così abbiamo, di nuovo, la divisione della filosofia, cioè:
La vera prova della identità è dunque tutta la filosofia. La logica è solo prova della identità pura, indifferente, fondamentale.
F) Conclusione; ed enunciazione delle difficoltà della scienza.
1. Qual è il risultato di questa breve storia? È quello, che ci eravamo proposto di conseguire?
Io ho detto a principio: «Dimostrerò, che il sistema come tale — la sistematica, e quindi il sistema della logica — non è possibile, che secondo il [246] nostro punto di vista; cioè secondo il nostro modo d'intender l'essere, il vero essere, e quindi la stessa logica; e che tutti gli altri punti di vista rendono impossibile il sistema, e non risolvono il problema della logica. Io farò la critica di questi punti di vista, non per rigettarli assolutamente, ma piuttosto per far vedere che il nostro è il loro risultato necessario, e che esso solo può risolvere il problema».
Ebbene: per noi il vero Essere era il Creare. Creare è identità come mentalità, cioè assoluta autocoscienza, Spirito. Ora noi abbiamo visto, che la logica, la scienza o il sistema della logica, è possibile solo in questa filosofia, nel nostro modo d'intendere il vero Essere, secondo il nostro punto di vista.
E questo punto di vista risulta da tutti gli altri, e li comprende: è la loro unità. Infatti, i momenti storici della logica sono:
Socrate, che forma i concetti;
Platone che li ordina in un mondo ideale;
Aristotele che ne scopre la forma (il sillogismo, la prova: la sostanza, l'individuo);
Kant che identifica la categoria colla funzione del pensare;
Fichte che concepisce la mentalità, e scopre il ritmo logico;
Schelling che concepisce la identità come mentalità o ragione.
La nostra logica, — in quanto l'Identità che prova se stessa, in quanto la Ragione conscia di sè, — abbraccia tutti questi momenti anteriori.
2. Perchè questo risultato di tutta la storia della logica porti i suoi frutti, bisogna intender bene la esigenza che esso esprime, cioè cosa vuol dire provare la identità.
[247]
Questa quistione si connette intimamente con quella delle principali difficoltà della scienza.
a) Sapere, certezza, scienza in generale è prova. Assoluta scienza, filosofia, è assoluta prova.
Assoluta prova vuol dire, che tutto è provato; che nella filosofia non ci sia niente, nessuna parte che non sia provata. (Così la matematica non è assoluta prova, non solo perchè la sua evidenza non è la vera, ma anche perchè essa prova tutto, fuorchè il suo proprio principio, la quantità).
Ora prova vuol dire: 1. pensare; 2. un processo, quale che sia, del pensare; 3. un primo nel pensare, cioè un pensare come primo pensare, una base, un principio, un cominciamento della prova, di quel processo che è la prova.
Così chi dice prova, dice sempre pensare: pensare come primo nel processo; pensare come processo.
Se la filosofia è assoluta prova, — cioè, se non deve presupporre niente che non sia provato, — deve, dunque, innanzi tutto provare il pensare, il primo nel pensare, il processo del pensare.
Questi momenti sono la prova stessa. Dunque, la filosofia deve provare la prova. E ciò pare impossibile.
Questa è una seria difficoltà, sin dal principio. Se non ne usciamo, non possiamo fare un passo. Per risolverla, bisogna intenderla. Che importa, dunque, provare il pensare? il processo del pensare? il Primo nel pensare?
b) Abbiamo visto che la Scienza (la filosofia) è la identità (mentalità) che si prova come concreta identità, come mente assoluta. Cioè:
Logo o pura mentalità, che si prova, si sviluppa come Logo;
[248]
Provato, sviluppato, come Logo, si sviluppa come Natura;
Provato, sviluppato, come Natura, si sviluppa come Spirito.
Questa prova, la scienza, è il pensare, che si sviluppa come pensare.
Ma questo sviluppo è sempre attività del pensare, del mio pensare, dell'Io: certo non di quello di Fichte, ma pur sempre dell'Io, del soggetto, del pensare soggettivo, come si dice. Chi mi assicura, che questo sviluppo sia anche sviluppo della cosa dell'oggetto, del reale? Chi mi assicura, che il pensare sia il Vero?
Questa è la prima difficoltà. Provare il pensare vuol dire: provare che il pensare sia il Vero; che pensando, puramente pensando, io sono nel regno della verità.
Provare il pensare pare un quesito impertinente. E pure, se s'intende bene cosa si vuol dire, non è. Infatti il pensare — il pensare filosofico, e la stessa riflessione colta — non è il pensare comune, la coscienza volgare. Come questa coscienza si eleva alla coscienza scientifica, alla scienza? A quella coscienza, in cui il pensare è la cosa stessa? Ora questo appunto è provare il pensare. È provare che il semplice pensare — questa funzione del soggetto pensante — è categoria, determinazione universale, essenza della cosa. — Ciò è stato sempre supposto, non provato mai.
La seconda difficoltà è il pensare che procede, si sviluppa, si dialettizza. Il pensare è egli dialettica? Ciò si può vedere solo col fatto, cioè pensando, e facendo la scienza. E, risoluto affermativamente il primo problema, cioè, se il pensare sia il Vero, si vede che, se il pensare è dialettica, dialettica ha da essere anche la cosa, l'oggetto, il reale.
[249]
La terza difficoltà è quella del Primo. — Primo nella scienza vuol dire Primo che sia provato; e intanto Primo vuol dire che non si può provare, perchè la prova presuppone già il Primo. Primo scientifico è dunque una contradictio in adiecto.
c) Le due prime difficoltà concernono direttamente la identità. Quel che importa qui è comprendere la loro differenza. La terza difficoltà concerne la identità indirettamente.
La identità che si sviluppa, già suppone la identità come prima identità: la identità come Primo, come cominciamento. Identità è pensare, mentalizzare. Prima identità è primo pensare. Questo, dunque, bisogna provare: identità è pensare. Se poi si prova che pensare è mentalità (dialettica), è provato già che identità è mentalità, sviluppo, dialettica.
Fichte dice: coscienza (conoscere) è impossibile, se non è autocoscienza.
Schelling dice: non è reale, senza la identità come mentalità (identità di natura e spirito).
Ora noi già sappiamo, che Schelling presuppone tale identità; e che questo presupposto è la intuizione intellettuale. Ma quel che non ancora abbiamo visto, è che la presuppone in due sensi. Infatti:
1. Presuppone la identità, — la pura e semplice intelligenza, — come già perfetta, come totalità o sistema in quanto semplice intelligenza: presuppone il Logo, tutto il Logo, il Logo come sistema completo.
Questo presupposto (intuito intellettuale) è il reale, la Natura. Perciò ho detto: tutta la logica di Schelling è un sol atto, un atto immediato; non è logica [250] davvero (sviluppo, dialettica, sistema organico del pensare), ma esplosione. Questa esplosione è la Natura. Schelling comincia dalla Natura, e si getta dietro le spalle il Logo.
Dalla Natura (intelligenza inconsapevolmente produttiva) passa allo Spirito (intelligenza consapevolmente produttiva: intelligenza intelligente), e così spiega il conoscere. Ma in realtà non lo spiega, perchè non spiega la natura; e non spiega la natura, perchè la presuppone; e la presuppone, perchè presuppone il Logo, la identità assoluta come indifferenza.
Per spiegare il conoscere, la realtà COSCIENTE, bisogna prima di tutto spiegare (comprendere) il Logo, la Indifferenza. Non dico che ciò basti. Ma senza ciò non si spiega la natura, e quindi non si spiega lo spirito (il conoscere).
Questo è il primo difetto di Schelling. — Schelling presuppone la identità come mentalità; presuppone la mentalità. La mentalità è il Logo. Schelling non prova il Logo. Egli dice: la Natura è intelligenza inconsapevole. Ma come sa che essa è intelligenza? Come sa che cosa è intelligenza? Comprende egli e prova la intelligenza? Intelligenza è sistema. Sa egli questo sistema? Egli dice: identità è intelligenza e non semplice causalità (Spinoza). Deve dunque provare la intelligenza: esporre il sistema della intelligenza.
Hegel fa questo sistema; prova e comprende la intelligenza (essere, essenza, concetto). Questo sistema è la Logica di Hegel.
Quel che dunque è qui dommatismo in Schelling, in Hegel è scienza, dialettica, intelligenza stessa. Hegel scopre, fa vedere, svela la intelligenza come semplice intelligenza: il regno della mentalità [251] pura. Questo regno è in Schelling occulto, sotterraneo; l'intuito intellettuale non arriva a scoprirlo; piglia la superficie, l'essere soltanto; e questo è la Natura. La mediazione, che come immediato è la Natura, gli sfugge; e si mostra solo l'immediato, la Natura.
2. Ma non basta provare la intelligenza; bisogna provare la identità. La identità, la vera identità, è intelligenza, non semplice causalità (il pensare cartesiano). Ma la intelligenza, che io provo e sviluppo qui come sistema della logica, è la intelligenza come mia intelligenza, il pensare come mio pensare: insomma, il pensare soggettivo: nello stesso modo che la causalità, che si sviluppava nello spinozismo, era la causalità come il pensiero di Spinoza, il pensiero come atto del soggetto pensante, come pensiero soggettivo.
Certamente nella logica stessa il pensare si mostra e prova come identità (identità di pensare ed essere), in quanto si prova appunto come tutto il sistema del Logo. Ma si può sempre dire: questa identità di pensare ed essere, cioè la identità, è solo identità del pensare col pensare: pensare = pensare: pensare come essere, e pensare come pensare; ma è pur sempre pensare, niente altro. E l'essere, il reale? Dov'è, dunque, la identità?
Ebbene, questa identità è il pensare, non altro che pensare. Ma questo bisogna provare: cioè, che il pensare non è semplicemente una funzione soggettiva, ma legge oggettiva, realtà, essere; che pensando io non sono fuori della realtà delle cose, ma sono la realtà stessa delle cose, appunto perchè la realtà, l'entità, la verità delle cose è il pensare: che, insomma, il pensare non è solo il mio pensare, ma la cosa stessa, la vera cosa.
[252]
Ora questo non fa Schelling. Questo non ha fatto Spinoza, nè altri prima.
Quindi in Schelling un altro dommatismo: un'altra esplosione, quella di cui parla propriamente Hegel nella prefazione alla Fenomenologia[155].
Schelling non prova che l'Identità è il Pensare. Questo fa Hegel nella Fenomenologia.
Quindi la differenza tra logica e fenomenologia è questa: la logica prova la intelligenza come intelligenza: il sistema della pura intelligenza;
La fenomenologia prova che la intelligenza, non già ancora come sistema, ma come semplice astratta intelligenza, come semplice atto d'intelligenza, come prim'atto, come prospetto e orizzonte d'intelligenza, è appunto identità.
Senza la logica non si può spiegare il conoscere, la realtà cosciente (e quindi nè anche la semplice realtà, la Natura).
Senza la fenomenologia la spiegazione, — che è tutta la filosofia e il cui fondamento, la spiegazione fondamentale, è la logica, — non ha un valore reale; è sempre un'ipotesi, non una realtà. Chi vi assicura, infatti, che questa spiegazione, che è pensare, dialettica del pensare, funzione del pensare, sia anche la realtà della cosa?
Nella spiegazione del conoscere — cioè nella filosofia — la logica e la fenomenologia stanno tra loro come Fichte e Schelling nel problema stesso del conoscere. Fichte dice: mentalità: possibilità del conoscere. Schelling dice: identità: realtà del conoscere. Ora la logica prova la mentalità; la fenomenologia prova la identità. E Fichte non prova [253] davvero quella; Schelling presuppone questa. Hegel poi compie l'uno e l'altro insieme. Compiendo Fichte, compie (nella logica) il primo difetto di Schelling. Nella fenomenologia compie il secondo difetto di Schelling; e compie Fichte, il cui difetto aveva avvertito Schelling, ma solo avvertito, non altro; giacchè la identità, che mancava anche a Fichte, Schelling la presuppone.
3. Di questi due difetti di Schelling — che sono suppliti da Hegel — uno solo ci è in Gioberti assolutamente, cioè il presupposto dell'identità. Gioberti non ha fenomenologia; e dice immediatamente: concetto = cosa; pensare = essere; quel che penso è vero, è reale; la dialettica del pensare è dialettica dell'essere. Domandate: perchè così? perchè quel che penso è vero? Perchè, risponde, l'Idea, il Vero, la vera realtà (il creare), è presente al mio intuito, al mio pensare; il pensare, il mio pensare è quel che lo fa l'Idea. Dunque, intuendo e ripensando, — nella riflessione ontologica, — io afferro il vero, il reale.
Questo è dommatismo. Gioberti non prova, che l'intuito (lo spirito) è la potenzialità infinita del conoscere.
L'altro difetto ci è in Gioberti, nel solo caso che per intuito s'intenda la conoscenza immediata dell'Ente creante; giacchè allora l'Ente creante è Natura, quella di Schelling, o di Spinoza, secondo che la mentalità ci è, o manca. Dicendo Ente semplicemente, Gioberti esige una logica; parla anzi di determinazioni dell'Ente come tale (concetti assoluti), sebbene questa logica ei non la faccia.
Anzi, se si pone mente alla sua distinzione di riflessione psicologica e ontologica, e come l'ultima consista nell'uscire che fa il soggetto da sè e cogliere [254] quel punto di contatto coll'oggetto, che è il Vero, si vede che in Gioberti ci è anche l'esigenza di una fenomenologia: cioè d'una dialettica della coscienza, che, superando tutti i gradi del falso sapere, arrivi al sapere assoluto.
4. Gioberti dice: essere è creare, pensare è creare, creare è pensare. — Questa identità bisogna provare.
Creare è l'Ente concreto; è fare, realizzare, individuare, sostanziare, entare, far esistere; è la realtà, l'assoluta realtà. È assoluta realtà, perchè, per Gioberti, Dio stesso è creare, creare se stesso. Togliete il creare, e avrete il niente. — E pure non si ha mai il niente; giacchè togliere qui è pensare; il pensare rimane, e ci è sempre. Ciò vuol dire: il creare, tolto, rimane; perchè il togliere stesso è creare, cioè come semplice togliere — negare — è momento del creare.
Ora come si prova la realtà, il creare?
Il Pensare è; non può non essere. Il Pensare prova se stesso; negare il Pensare è Pensare.
Il Pensare è Certo, assoluto Certo. Il Pensare è atto, dialettica, un mondo, totalità, sistema. Pensando, semplicemente pensando, io — come semplice pensare — fo, costruisco, creo questo mondo, questo mio mondo, che è lo stesso Pensare. Questo mondo, creato dal Pensare, è assolutamente certo come il Pensare; è lo stesso Pensare. (Il puro mondo del Pensare è appunto la logica).
Ebbene, che cosa manca a questo Certo?
Esso è certo, è, non solo come Pensare, ma come un mondo, un ordine, un sistema, una creazione, che è lo stesso Pensare.
Se creare è dunque realtà, mondo, ordine, sistema, è certo che il Pensare è Creare. In altri termini, [255] più semplicemente: è certo, che il Pensare è un Reale, Essere, È, appunto perchè non può non essere; dicendo non è, dico è. — Sia anche sogno il Pensare, e il suo mondo un mondo di sogni, è certo che questo mondo è.
Ma tutto ciò vuol dire anco che il Creare sia Pensare? Che il Reale sia Pensare? Vuol dire, insomma, identità di Pensare e Creare?
No, certo. Ma ci è presunzione che sì. E in vero, il Pensare è, è di certo; ed è, di certo, un mondo, cioè creare. Non è il Creare come tutto il Creare, come tutto l'Essere; ma è di certo creare, essere.
Il che vuol dire, che Creare, Essere, è almeno in parte, dirò così, Pensare; vi ha un creare, un'attività creativa, un essere, che è Pensare. Vi ha egli un altro creare, un altro essere, che non sia Pensare, non sia assolutamente e in niun modo Pensare, e sia l'opposto assoluto del Pensare?
Se così fosse, ci sarebbe un doppio Creare, un doppio Essere, due attività creative, senza punto unità, e sarebbe inesplicabile come il Pensare sia Creare, Essere.
Se non altro, queste due attività creative (questo doppio Essere), hanno comune il Creare, l'Essere: quel Creare, che è il Pensare.
Questo Comune — questa radice comune del Pensare e dell'Essere come opposti — questo Pensare, che è unità di se stesso e dell'Essere — è appunto la Identità.
Ora la fenomenologia prova la identità: Pensare è Essere, Essere è Pensare.
La logica prova il Pensare come mondo, come mentalità, sistema del pensare, pura creazione.
Dunque, Essere, Creare, è questo mondo, mentalità, sistema, sistema del pensare.
[256]
Dunque, il sistema del mondo io l'ho pensando, pensando il pensare, il sistema del pensare.
5. Quando dico, che la fenomenologia prova la identità, non bisogna intendere così: che sia da un lato il Pensare e dall'altro l'Essere, e che si provi che siano identici (sebbene distinti); ma invece così: che si provi l'Essere (si provi, che il Pensare sia oggettivo), e questa prova sia la prova della identità.
Infatti, io non posso dire: qua il Pensare, e là l'Essere, e proviamo l'Identità. Non posso dire: ci è l'Essere, l'Essere opposto al Pensare, e che non so se sia identico al Pensare. Non posso dir ciò, perchè presupporrei l'Essere. Io non posso dir altro — quando non voglio presupporre niente — che: Pensare; solo il Pensare, quell'Essere che è Pensare (Conoscere o semplice Pensare, secondo che io principio la fenomenologia o la logica), è assoluto Certo, Primo, non presupposto. L'Essere, dunque, io devo provarlo, cioè trarlo dal Pensare. Non ci è altra via.
Se io comincio dal Pensare come immediato semplice Pensare, e pensando fo il mondo del semplice pensare (la logica), io non traggo l'Essere dal Pensare, ma solo dal Pensare il Pensare, il mondo del pensare.
Se io comincio dal conoscere come immediato conoscere (certezza sensibile) e procedo dialetticamente (fenomenologia), che cosa ne traggo? Che cosa ne posso trarre? L'Essere? L'Essere come opposto al Pensare, al Conoscere? No: questo non posso trarlo. L'Essere, in quanto tratto dal Pensare, del Conoscere, non è più opposto al Conoscere: è Identico al Conoscere.
Ne traggo dunque solo l'oggettività del Conoscere. [257] Questa oggettività è quel conoscere, che è il semplice e puro Pensare.
Il risultato finale della fenomenologia è questo: lo spirito trova l'ultima sua soddisfazione nel semplice e puro Pensare; non va al di là; se va al di là, torna indietro.
Ciò vuol dire: se lo spirito crede, che al di là del semplice e puro Pensare, al di là del Pensare (logica, scienza della Natura e scienza dello Spirito) ci sia qualcosa, un inconoscibile, un sovrintelligibile, un al di là che sia puro al di là, e non già un di qua, già trasfigurato nella dialettica del conoscere e fatto trasparente, il sensibile, il percettibile, l'immaginabile, etc.; se crede ciò lo spirito, erra e s'illude. Questa illusione è un momento inferiore del conoscere.
Adunque, il semplice Pensare, il Pensare, è oggettivo, è il Vero.
d) La terza difficoltà è questa: di dove cominciare la scienza? — Si badi, che io dico Primo nella scienza, e non già assoluto Primo, assoluto Principio. Assoluto principio è Primo e Ultimo insieme, principio e fine, cioè tutta la scienza. Quando dico Primo nella scienza, dico invece semplice cominciamento, non già processo della scienza. — Quando dico germe, non dico albero, ma solo il Primo di quello sviluppo, che in quanto compiuto è l'albero.
Un tale mi domandava un giorno: Qual è il vostro punto di partenza (il vostro Primo)[156]? Questa domanda potrebbe far supporre, che ci potessero essere più Primi, il mio, il vostro, di ciascuno di [258] voi, il suo, e quello di altri, e nondimeno la scienza essere sempre scienza, qualunque fosse il Primo; come se io dicessi: tutti noi abbiamo diverse case, diversi luoghi di uscita e di ritorno, e nondimeno tutti abitiamo, siamo al coperto dalla pioggia, dall'intemperie, etc. Capisco che a diversi modi di filosofare possono corrispondere diversi Primi; ma quel che non capisco, è che la scienza possa avere questo o quel Primo ad arbitrio, a caso, ed essere scienza davvero. Ciò vuol dire, che il Primo deve essere provato; e se è provato davvero, non può essere che Uno, cioè quello che è.
Ma qui comincia la difficoltà. Provare è derivare una cosa da un'altra, un concetto da un altro; e perciò presuppone un Primo. Adunque, il Primo, in quanto provato, non è Primo, ma Secondo; il Primo è quello da cui esso si deriva. E da capo questo, che ora è il Primo, se è, come ha da essere, provato, non è più esso il Primo, ma quello da cui viene derivato. E così all'infinito.
Adunque: Primo provato è una contradizione; giacchè se è provato, non è Primo. Dunque, si conchiude, non può essere provato.
Ma d'altra parte, non può essere ammesso, così ad arbitrio, ammesso perchè ammesso, cioè deve essere provato; altrimenti sarebbe un Primo, ma non il Primo nella scienza.
Dicendo, dunque, Primo, io nego la prova (la necessità di provare); dicendo Primo nella scienza o Primo scientifico, affermo la prova. Ora il Primo che noi vogliamo non è un semplice Primo, ma appunto il Primo nella scienza. Adunque, il Primo nella scienza — quello che noi vogliamo — è una contradizione. In altri termini, provato vuol dire derivato, mediato; Primo vuol dire non derivato, [259] non mediato, cioè immediato. Adunque, Primo scientifico vuol dire immediato mediato. Questa è la contradizione.
Ma, se riflettiamo bene, ci avvediamo che la nostra difficoltà, la quale si mostra come una contradizione, dipende da un presupposto. Noi abbiamo detto di non dover presupporre niente, e pure abbiamo presupposto una cosa, cioè il concetto della prova o della mediazione, e quindi il concetto della relazione tra i due termini di essa, l'immediato e il mediato, il Primo e il Secondo. Ora il concetto d'una cosa in quanto presupposto non è un vero concetto (vero sapere, scienza), ma semplice rappresentazione, o opinione. Noi, infatti, abbiamo detto: provare è derivare, mediare: il Primo, dunque, non può essere provato, perchè se fosse provato, sarebbe mediato, e quindi non sarebbe Primo, cioè immediato; o l'uno o l'altro; mediato e immediato insieme non può essere. — Noi qui opponiamo assolutamente Immediato e Mediato (Primo e Secondo). Perchè? Perchè abbiamo, cioè presupponiamo, questo concetto della prova o mediazione: Provare, mediare, è fare, produrre un altro, uno che produce un altro; di maniera che il Primo, il producente, il mediatore, sia semplicemente Primo, producente, mediatore, e il Secondo, il prodotto, il mediato, sia semplicemente Secondo, prodotto, mediato. Qui mediare è causare, mediazione è relazione causale; la causa pone l'effetto, e perciò non è l'effetto; l'effetto è posto dalla causa, e perciò non è la causa. Quindi due specie in generale di prova: cioè, procedere dalla causa all'effetto, dal principio alla conseguenza, e procedere dall'effetto alla causa, dalla conseguenza al principio: deduzione e induzione.
[260]
Se provare non è altro che questo, bisogna confessare che il Primo non si può provare. Ma chi ci assicura, che non ci sia una terza specie di prova, che sia in sè l'una e l'altra, e quindi la verità di tutte e due; cioè non l'una dopo l'altra, ossia o l'una o l'altra, ma l'una in quanto l'altra, l'una e l'altra insieme?
Non ci sarà; ma noi non possiamo asserire così, che non ci sia.
Già la stessa esistenza delle due prime specie di prova è come un segno — più che un segno — della possibilità della terza. Infatti, posta la deduzione, la induzione è possibile, in quanto quel che è Primo in quella, diventa Secondo in questa; e posta la induzione, la deduzione è possibile, in quanto quel che è Primo in quella, diventa Secondo in questa. L'una è il rovescio e come la inversione dell'altra. Ora, come è possibile questa duplice, cioè reciproca inversione?
Non si potrebbe dire: è possibile, solo in quanto ci è una terza cosa, una terza prova, che è in sè appunto questa reciprocanza, questa conversione, cioè insieme deduzione e induzione, scendere e salire, e della quale la deduzione e la induzione non sono altro che i momenti, astratti e divisi dalla loro unità: frammenti della Prova, e non già la vera Prova? Infatti, la deduzione presuppone il suo Primo, la causa, come un immediato, e non può provarlo; la induzione presuppone il suo Primo, l'effetto, e non può provarlo; e oltre a ciò quella non arriva mai all'ultimo effetto, questa all'ultima causa. L'una e l'altra è per sè manchevole, e non si suppliscono usate l'una dopo l'altra; sono come due linee rette, che messe insieme formeranno sempre una linea retta senza principio e senza fine, non il circolo.
[261]
Concepiamo dunque la prova, la mediazione, non più come semplice deduzione, o semplice induzione, ma come insieme l'una e l'altra; e vediamo cosa diventa la relazione tra i due termini, il Primo e il Secondo, l'Immediato e il Mediato: cosa diventa essa stessa, la prova.
Ecco cosa avviene. Il Primo, che è tale in quanto la prova è deduzione, diventa Secondo in quanto la prova è insieme induzione, e il Secondo per la stessa ragione diventa Primo: la causa diventa effetto, e l'effetto causa; il principio conseguenza, e la conseguenza principio.
Ciò vuol dire, che la prova, la mediazione, non è più andare da sè a un altro (effetto o causa), ma da sè a sè: è andare che è riandare[157].
Brevemente: la mediazione qui non è più semplice causazione, ma unità, sintetica originaria, mentalità, la relazione di Gioberti, che ponendo e insieme unendo i suoi termini, pone se stessa: causa sui, il creare, la dialettica.
Questa relazione è quel che innanzi ci è parso una contradizione, cioè l'immediato-mediato, l'uno in quanto l'altro; cioè immediato, in quanto mediato per se stesso e non per un altro; mediato, in quanto la immediatezza ha in sè, qui, la mediatezza, non la esclude. Quindi immediato e mediato, in quanto opposti assolutamente l'uno all'altro, sono due astratti, non sono il Vero.
E tali sono anche il Primo e il Secondo. Il Primo, il semplice immediato, è un falso Primo, un falso immediato, perchè il vero Primo e immediato è l'Ultimo, o meglio l'unità del primo e dell'ultimo (unità sintetica originaria); e il Secondo, il mediato, [262] è un falso Secondo, un falso mediato, perchè il vero Secondo e mediato è il Primo, quello che è semplicemente Primo. Il semplice Primo è falso, perchè il vero Primo è posizione di se stesso, e perciò Primo e Ultimo. Pare che il semplice Primo abbia posto l'ultimo, e perciò si dice Primo; ma, in verità, quel che pare Ultimo, ha posto il Primo, e perciò è il vero Primo.
Tutto quel che ho detto fin qui di questa terza prova, non è che una semplice ipotesi. Ma poniamo che stia. Se sta, quel presupposto, da cui dipendeva la contradizione nella ricerca del Primo, non ha più valore, e perciò la contradizione deve sparire.
Infatti, se io cominciassi dal primo conoscere, dal primo sapere, dalla prima coscienza, dalla coscienza o certezza sensibile — da questo Primo e immediato, che pare veramente sia Primo e immediato, e mi riuscisse di elevarmi o meglio di elevarla (io e lei, spettatore e spettacolo, siamo in fondo la stessa cosa, cioè coscienza), se mi riuscisse, dico, mediante un certo processo insito nella coscienza stessa di elevarla all'assoluto conoscere; cioè di provare, che se la coscienza non fosse in sè assoluto conoscere, potenzialità infinita del conoscere, non sarebbe coscienza, conoscere, nè coscienza sensibile nè altro; se mi riuscisse di far ciò, cosa dovrei conchiudere? Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia davvero il Primo, e l'assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia davvero l'Ultimo; che quella abbia prodotto questo, e non al contrario? Così pare; ma in verità non è così. Io devo conchiudere, che l'assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibile, l'Ultimo il Primo, e che perciò quel che appariva Primo è un falso Primo. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di [263] un Secondo o Ultimo da un Primo, è il vero Primo come produzione di se stesso. Non è la certezza sensibile, che prova l'assoluto conoscere, ma questo che, provando se stesso, prova quella.
«Il pensiero immanente, dice Gioberti, si contempla per via del successivo. Ma ciò non cangia la natura di quello, non scema nè distrugge la sua intrinseca evidenza, e non fa sì che il suo valore dipenda da quello dello strumento per cui arriviamo ad esso. Il pensiero immanente non tira la sua credibilità dallo strumento con cui lo avvertiamo, ma si proclama vero per se stesso, anzi fa riverberare il suo proprio splendore sulla cognizione mediata, per cui ci leviamo insino ad esso»[158].
Qui il pensiero immanente (il pensiero oggettivo, l'assoluto conoscere, l'intuito d'una volta) non è più semplice Primo o Immediato, ma Secondo o Mediato: noi arriviamo, ci leviamo all'Idea, non nasciamo più intuendo (conoscendo) l'Idea; il Primo è il pensiero successivo. E intanto il Pensiero immanente in quanto Ultimo si mostra come Primo, come mediatore di sè (si proclama vero per se stesso), e il Primo (il successivo) come Secondo (luce riverberata).
«Mimeticamente, la sensibilità produce l'intelletto; metessicamente, questo produce, cioè crea quella»[159]. Ciò vuol dire: il Primo mimeticamente (in apparenza) è Ultimo metessicamente (in realtà), e viceversa.
E similmente, se io cominciando dal primo pensare (dall'assoluto conoscere come primo assoluto [264] conoscere) mi levassi, per un processo intimo allo stesso pensare, sino al pensare come assoluto Spirito, e così provassi che se il Pensare non fosse in sè assoluto Spirito, non sarebbe nè primo pensare nè altro grado del pensare; se facessi ciò, cosa dovrei conchiudere? Che l'Ultimo nella scienza, l'assoluto Spirito, è il vero Primo, e il Primo l'Ultimo; che l'Ultimo prova il Primo, e non il Primo l'Ultimo.
Ebbene, queste due nostre ipotesi — cioè il processo dalla certezza sensibile al pensare oggettivo, e il processo dal primo pensare all'assoluto Spirito — sono due parti essenzialmente distinte di tutta la filosofia, due filosofie, due scienze, e sono appunto la fenomenologia e l'intero sistema, l'introduzione alla scienza e la scienza. La prima finisce dove comincia la seconda; il Primo della seconda, cioè della scienza, il Primo che noi andiamo cercando, è il risultato della prima, cioè provato, e quindi mediato nella prima. Al contrario nella seconda, di cui è il Primo, esso è immediato, non provato come Primo, ma provato e mediato soltanto come Secondo. Adunque, esso è insieme, come Primo nella Scienza, mediato e immediato. E tale deve essere il Primo scientifico.
Adunque, posta la fenomenologia, il Primo scientifico non è una contradizione. Esso è provato, e pure è Primo. È provato in una scienza, che precede la scienza.
Ciò pare una nuova contradizione. Si può dire infatti: e qual è il Primo di questa scienza che precede la scienza? Ci vorrà da capo un'altra scienza per provarlo? e così all'infinito?
No di certo. Questa scienza, che precede la scienza, ha un'indole sua propria; comincia dal primo fenomeno, dal primo falso sapere, e risolve tutto [265] il falso sapere nel conoscere assoluto, nel pensare oggettivo. Ora il fenomeno, il primo fenomeno si ammette, non si prova. Questo fenomeno è la coscienza, che non è sapere, e che si va elevando al vero sapere. In quanto non sapere (semplice opinione), è fatto, non scienza. Perciò come Primo non si prova; non ci è bisogno di provarlo. Se si provasse, non sarebbe più opinione.
Questa propedeutica, che è scienza e prova il Primo della vera scienza, ci è solo in quanto ci siamo noi, coscienza o spirito finito; noi dobbiamo elevarci alla scienza, non siamo immediatamente scienza. La vera scienza, invece, ci è in sè assolutamente; è non solo umana, ma divina; quando l'altra è solo umana, non divina. È divina come momento della vera scienza, non come propedeutica. Dio non ha bisogno di propedeutica.
A queste due scienze allude Gioberti, quando dice: «Due verità, due filosofie, due scienze. La relativa (che è la fenomenologia de' tedeschi), e l'assoluta. Quella è un misto di subbiettivo e di obbiettivo; questa è oggettività pura, intelligibile schietto. Mimesi e metessi»[160].
Adunque — conchiudiamo di nuovo — il Primo scientifico non è una contradizione. La propedeutica che prova il Primo, è scienza prima rispetto a noi solamente (καθ̓ἡμᾶς πρῶτον), e quindi il Primo è Ultimo; ma in sè (κατὰ φύσιν) l'Ultimo è Primo.
Visto così che il Primo non è una contradizione, tolta la difficoltà che derivava dalla nozione del Primo, si domanda: quale è il Primo?
[266]
L'ho già detto: il risultato della propedeutica. Questo è l'assoluto conoscere, il pensare oggettivo. Ma si noti bene; è il pensare oggettivo, non come mondo o totalità assoluto del pensare, come questa o quella determinazione del pensare, ma come semplice grado in generale, orizzonte, prospetto del pensare, come pensare indeterminato, come semplice infinita potenzialità (possibilità) del pensare.
Ebbene, questo Pensare indeterminato, questa, dirò così, prima determinazione del Pensare, la quale è appunto l'indeterminatezza, questo infinito potenziale, questa potenzialità di tutte le determinazioni, ma che non è nessuna determinazione, questo pensare non è altro che l'Essere, semplicemente l'Essere, senz'altro, il Pensare come Essere.
L'Essere, dunque, il puro Essere è il Primo scientifico.
[267]
Ho detto[161], che Schelling è rispetto a Fichte quel che Spinoza è rispetto a Cartesio. Perchè sia chiaro tutto il mio pensiero, espongo qui questa seconda posizione, come io l'ho concepita.
Il pensiero — il cogito ergo sum (l'Io) — di Cartesio è immediatamente pensare ed essere, unità immediata di pensare ed essere (Io e non-io). Questa unità (identità) — l'ergo — non è il vero Pensare (il vero ergo); non è processo (relazione, unità sintetica originaria), ma semplice assioma, intuizione, evidenza, evidenza naturale.
Pensare ed Essere (Io e non-io), appunto perchè immediatamente uno (identici), non sono veramente uno. Di certo, Pensare ed Essere non sono semplicemente così: o come due sfere, l'una accanto all'altra indifferentemente, e che si toccano solo in un punto della loro superficie, o come due sfere eguali e che coincidono e si confondono perfettamente l'una nell'altra. Nel primo caso non ci sarebbe unità (identità) di sorta, o tanta che equivarrebbe a niente; ci sarebbe la semplice differenza. [268] Nel secondo caso nè pure ci sarebbe l'unità, ma solo l'Uno, una sola sfera; mancherebbe assolutamente la differenza. Ma, se Pensare ed Essere non sono così, pure non sono davvero Uno. L'Essere è insidente nel Pensare (è contenuto nel Pensare) immediatamente, come l'effetto nella causa, la conseguenza nel principio. Questa insidenza o contenenza è l'unità cartesiana. Questa unità non è l'Uno semplicemente; giacchè l'Essere non coincide assolutamente col Pensare, e si distingue da esso, come l'effetto dalla causa, la conseguenza dal principio. E similmente questa unità non è il semplice contatto; giacchè l'Essere non è soltanto distinto dal Pensare, ma è contenuto nel Pensare (dipende, è posto dal Pensare), come l'effetto nella causa, la conseguenza nel principio. È dunque unità, che è insieme distinzione. Ma è vera unità? È vera distinzione?
Quando Cartesio dice: «Pensare è Pensare e Essere (cogito ergo sum); Pensare è il Primo, Essere è il Secondo; Pensare è principio e causa, Essere è conseguenza ed effetto», vuol dire semplicemente: l'essere del pensare è conseguenza ed effetto del pensare; dire Pensare, è dire implicitamente Essere del Pensare; l'Essere del Pensare è implicito nel Pensare, come la conseguenza nel principio, l'effetto nella causa.
Questa relazione (identità, non vuota, ma che è in sè distinzione. Identità: l'Essere è implicito nel Pensare, il principio è in sè la conseguenza, Distinzione: l'Essere come tale è distinto dal Pensare, in quanto è posto dal pensare; la conseguenza come tale è distinta dal principio, non è il principio); questa relazione tra Pensare ed Essere è, dunque, per Cartesio semplice relazione tra il [269] Pensare e l'Essere del Pensare (non è relazione tra il Pensare e l'Essere che non è il Pensare, l'Essere semplicemente Essere, l'estensione, il corpo).
Ora l'Essere del Pensare non è tutto l'Essere; non è anche l'Essere semplicemente Essere, l'Essere semplicemente reale, la semplice realtà; ma solo l'Essere NEL Pensare (non è il non-io reale, ma solo il non-io nell'Io).
Questa relazione non si può, dunque, intendere come relazione tra il Pensare e l'Essere in quanto tutto l'Essere, come se io dicessi: il Pensare è causa della semplice realtà, della estensione, del corpo; ma si deve intendere solo come relazione tra il Pensare e l'Essere nel Pensare. E ciò vuol dire: niente, senza il Pensare, è nel Pensare, quel che è nel Pensare, e in quanto è nel Pensare, non è posto da altro che non sia il Pensare, ma solo dal Pensare; in quello che è in esso, il Pensare ha se stesso, il suo Essere, la sua conseguenza, il suo effetto, la sua genitura: riconosce in quello se stesso. Altrimenti, quel che si dice sia nel Pensare, non sarebbe nel Pensare.
Ora l'Essere nel Pensare vuol dire l'Essere in quanto conosciuto (l'essere in quanto oggetto, l'esse obiective); il conoscere.
Adunque, la possibilità del conoscere è questa relazione necessaria (identità, nesso causale) tra il Pensare e l'Essere. Togliete questa relazione, e non sarà possibile il conoscere. Questa relazione è lo stesso conoscere.
Questa relazione è il pregio di Cartesio (cogitare ergo esse. Pregio confessato dal Gioberti: inteso e migliorato da Fichte)[162].
[270]
Ma ciò non vuol dire, che il conoscere sia reale, che la realtà, la semplice realtà, sia conoscibile. Perchè la realtà sia conoscibile (perchè il conoscere sia reale), deve essere in sè questa relazione.
Ciò vuol dire, che non vi ha conoscere, conoscere reale, se così la realtà cosciente, come la semplice realtà (spirito e natura) non è in sè questa relazione; cioè, se questa relazione non è la loro identità.
Ecco Spinoza.
Spinoza pone immediatamente, cioè presuppone questa identità: la intuisce. Ed ecco la sostanza.
La sostanza è questa relazione, — cogitare ergo esse, — posta come la identità di spirito e natura, pensiero ed estensione, immediatamente. Per causam sui (sostanza) intelligo id, cuius essentia involvit existentiam, sive id, cuius natura non potest concipi nisi existens[163].
La sostanza è essenzialmente causa, causa sui, causa del suo essere: cogitare ergo esse.
Questa identità — la sostanza — non è un terzo, che non sia nè pensiero nè estensione assolutamente. Il pensiero è identità di pensiero ed estensione (la sostanza stessa), ma come pensiero; la estensione è la stessa identità, ma come estensione. Questa identità di sè stesso e dell'altro, la quale è ciascuno de' due, è dunque la loro identità.
Che è questa identità?
L'ho già detto: l'unità cartesiana di Pensare ed Essere, la relazione causale: il causare[164].
Quale è la loro differenza?
[271]
Quella, che, con tutta la loro identità, è tra i termini della relazione causale; cioè quella stessa che è tra i termini del principio cartesiano, Pensare ed Essere.
Questa mia ultima affermazione pare contraria a quel che è stato detto sempre sinora, cioè che pensiero ed estensione in Spinoza non abbiano tra loro nesso causale, ma siano perfettamente paralleli. Vediamo.
Il Trendelenburg dice[165]: «Appunto perchè sono una sostanza diversamente, i due attributi sono senza nesso causale». A me pare, invece, che appunto perchè hanno questo nesso, sono una sostanza diversamente. Causa ed effetto, principio e conseguenza sono appunto una sostanza differentemente. Ma Spinoza, si dice, non ammette finalità; non ammette che il pensiero determini l'estensione, nè l'estensione il pensiero. Ebbene, relazione causale non vuol dire finalità. Causa ed effetto, come due sostanze, non sono possibili che dove il causare è creare, cioè dove la causa non è semplice causa, ma mentalità. — Si è detto sempre, che la Sostanza spinoziana è immobilità o indifferenza assoluta[166]. Ora Spinoza stesso dice, che la sostanza è essenzialmente causa: la causalità è la sua stessa essenza. Ciò è stato notato da uno storico della filosofia[167], e anche da me in un altro mio scritto[168]. [272] Il parallelismo, come è stato inteso comunemente, cioè che escluda ogni relazione di causa ed effetto, di principio e conseguenza, si accorda benissimo colla immobilità assoluta della sostanza. Parallelismo, inteso così, vuol dire in verità che non ci è la sostanza come identità. Pensiero ed estensione sarebbero, in questo caso, una dualità, come due linee parallele nello stesso piano, la cui unità è solo il piano medesimo. Così non sarebbero la sostanza stessa come pensiero ed estensione, ma solo parte della sostanza, cioè quel che dice il Mamiani[169]; la sostanza sarebbe tutt'altro che la loro identità. Se, invece, la sostanza è la loro identità, ed essi con tutto ciò sono differenti (paralleli), questo solo già vuol dire che la sostanza non è immobilità assoluta.
Se è vero, com'è, che la sostanza è essenzialmente causa, anzi la causa stessa, come conciliare questa posizione col parallelismo degli attributi, intendendo per parallelismo la esclusione d'ogni relazione causale? Avremmo, dirò così, nella sostanza una duplice sostanza: l'una come sostanza-causa, e l'altra come sostanza-immobilità (indifferenza), alla quale ultima corrisponderebbe il parallelismo.
Ora io dico, che la Sostanza non è identità e causa, ma è identità, che è causa; la identità, la sostanza spinoziana, è la relazione causale.
Se la Sostanza è, in quanto sostanza, causa, bisogna dunque accordare con questa posizione la dualità, o, se si vuole, il parallelismo degli attributi; cioè il contenuto della sostanza colla sua [273] forma. Il contenuto è pensiero ed estensione; la forma è il causare, la relazione tra pensare ed essere, pensiero ed estensione. Senza questo accordo, la forma sarebbe estrinseca al contenuto; forma e contenuto farebbero due sostanze. Il parallelismo, insomma, deve aver radice nella natura della sostanza stessa, cioè nell'esser essa causa, se davvero è causa. Se non ha radice nell'esser causa, e la Sostanza è causa, bisogna dire che l'abbia in un'altra natura; e così la sostanza avrebbe due nature.
Ecco come, a mio credere, si accordano queste due posizioni, la sostanza-causa e il parallelismo, e quindi come si deve determinare il significato del parallelismo stesso; e vedere, se l'unità e la differenza siano vera unità e vera differenza.
Il parallelismo ha radice nella sostanza, in quanto la sostanza stessa è questo parallelismo. Sostanza è unità, identità, come causa, come relazione causale. Parallelismo qui (il parallelismo spinoziano) non è opposizione assoluta, e nè meno indifferenza assoluta, perchè non esclude l'unità. Ora la relazione causale, la relazione tra principio e conseguenza, è appunto questo parallelismo. Chi dice una relazione come quella che è il parallelismo spinoziano — che non è nè opposizione assoluta, nè indifferenza assoluta —, dice necessariamente quella relazione che Hegel chiama in generale, determinazione riflessa (essenza): come p. e. principio e conseguenza, forza ed estrinsecazione, interno ed esterno; delle quali relazioni la più concreta è appunto la relazione causale: causa ed effetto. Questa relazione è l'Ergo cartesiano. L'effetto è la ripetizione, la riproduzione, la riflessione, il riverbero della causa; ma ripetizione, dirò così, in un altro livello, in un altro piano, e nondimeno in [274] modo che corrisponde perfettamente alla causa: cioè, che quel che è in esso, sia nella causa, sebbene come causa nella causa e come effetto nell'effetto, e vale a dire diversamente, in due livelli. Questa perfetta corrispondenza in diversi livelli è il parallelismo spinoziano; è la relazione tra causa ed effetto; quella relazione che è tra il Pensare e l'Essere nel principio cartesiano.
La Sostanza — in sè identità cartesiana di Pensare ed Essere, cioè causalità — è la identità di pensiero ed estensione, de' due universi; ciascuno de' quali è questa identità (coll'altro), sebbene diversamente. Che vuol dir ciò?
I due universi hanno la stessa forma, e pure sono differenti. Infatti:
1. Universo spirituale: il Pensiero come attributo è causa (infinita cogitandi POTENTIA); il Pensiero come modo infinito (Universo) è effetto (intellectus absolute infinitus).
2. Universo corporeo: l'Estensione come attributo è causa (infinita, agendi POTENTIA, quantitas infinita); l'Estensione come modo infinito (Universo) è effetto (motus et quies).
Come la Sostanza in quanto Pensiero (infinita cogitandi potentia) è causa dell'Universo spirituale, così, e nello stesso modo, in quanto Estensione (infinita agendi potentia) è causa dell'Universo corporeo. È una medesima forma: il causare.
Questa medesima forma, questa identità ne' due mondi, è la Sostanza. La Sostanza non è come un soggetto, in cui siano inerenti i due attributi, come due proprietà, le quali, in quanto attive, siano cause de' due universi. La Sostanza non è il soggetto comune, fatta astrazione dalle proprietà, di modo che, poste sole le proprietà come attive (come causa) e [275] fatta astrazione dalle proprietà, la Sostanza, come tale, per sè, sia inattiva. La Sostanza, invece, non è Sostanza senza gli attributi; non si può fare astrazione dagli attributi, senza togliere la stessa Sostanza, la sostanza spinoziana; l'attributo, dice Spinoza medesimo, è la stessa Sostanza come causa[170].
La Sostanza — la identità — è dunque quella medesima forma. Comunemente s'intende Spinoza così. Si comincia col dire: Natura naturante, anzi una doppia natura naturante; e Natura naturata, anzi una doppia natura naturata (doppia causa, doppio effetto). Poi si fa astrazione dal naturare e dal naturato, dal doppio naturare e dal doppio naturato, e si ha la semplice Natura, e si dice: — Questa è la Sostanza; Substantia, sive Natura. — No, dico io, la Sostanza non è la semplice Natura, ut sic; non è questo astratto; ma è il Naturare e quindi il Naturato (causa, causa sui). I due mondi (e i due attributi) non sono identici, in quanto semplice Natura, in quanto semplice Essere, ma in quanto Nesso causale, in quanto Pensare (cartesiano); la Natura spinoziana non è semplice Essere, ma è il cogitare ergo esse di Cartesio, e perciò essenzialmente causa: naturare.
Ma come, avendo la medesima forma (che è la Sostanza), i due universi (e i due attributi) sono differenti?
La radice della loro differenza è la radice stessa della loro identità; cioè, la loro differenza è la loro identità stessa. Così la Sostanza non è identità come semplice forma, ma come contenuto. Forma e contenuto si corrispondono perfettamente nello spinozismo; non sono nè vera forma, nè vero contenuto; [276] ma, come imperfetti, si corrispondono pienamente.
Infatti, la Sostanza, cioè la identità come essenza, come determinazione riflessa (come principio e conseguenza, causa ed effetto, come causare) è parallela a sè stessa; questo è il difetto della Sostanza spinoziana, e quindi dello spinozismo. Perciò la Sostanza non è mentalità. Mentalità è la negazione del parallelismo cartesiano. La Sostanza, come semplicemente parallela a sè stessa, non è nè vera unità, nè vera differenza. Come parallela a sè stessa, essa è i due attributi, i due mondi; ma è tal parallelismo, che non è indifferenza assoluta, ma invece vuol dire: primo e secondo (Pensare ed Essere, Esse obiective ed Esse formaliter), sebbene quel che è nel primo sia nel secondo: l'unica differenza è che il primo è primo (Pensare), e il secondo è secondo (Essere). Ma il primo è tal Pensare che è Pensare ed Essere (identità); e il secondo è tal Essere che è Pensare ed Essere (identità), perchè è l'Essere del Pensare, nel Pensare. Il parallelismo, l'esser parallelo a sè stesso (il non esser davvero uno con sè stesso o mentalità) è il principio cartesiano: cogitare ergo esse. Cogitare ed Esse sono lo stesso, e nondimeno sono diversi; quel che è il Cogitare è l'Esse, perchè l'Esse è l'Essere del Cogitare, e pure sono lo stesso diversamente, perchè l'Esse non è il Cogitare. Tutto quel che si trova nel Cogitare si trova nell'Esse, ma in diverso livello, in diverso piano; e si trova nell'Esse in quanto si trova nel Cogitare; l'Esse (ordo rerum) è il contrapposto del Cogitare (ordo idearum).
Spinoza, dunque, oggettiva la identità cartesiana immediatamente (coll'intuito intellettuale. Per [277] substantiam INTELLIGO ecc.), come Schelling la identità fichtiana. La differenza delle due identità fa la differenza de' due intuiti.
La identità cartesiana è semplice parallelismo (tesi e antitesi): e perciò l'intuito è lo stesso intendimento immediato.
La identità fichtiana è mentalità (tesi, antitesi, sintesi); perciò l'intuito è intuito mentale, è mente intuitiva.
Perciò l'intuito spinoziano (naturalismo) non è un nuovo atto logico; e lo schellinghiano è un atto logico. (Il nuovo atto logico è la mentalità di questo intuito; mentalità, che è la nuova logica di Fichte).
Posso dunque conchiudere, che come Spinoza sta a Cartesio, così Schelling sta a Fichte.
[279]
[281]
Stimo opportuno ristampare qui alcune lettere, pubblicate già in uno scritto Per la storia aneddota della filosofia italiana nel sec. XIX (nella Raccolta di studi critici ded. ad A. D'Ancona, Firenze, Barbèra, 1901, pp. 335-58): lettere scambiate tra lo Spaventa e il fratello Silvio durante quello stesso anno 1861-62, che fu il primo dell'insegnamento del nostro filosofo nella Università di Napoli, e al quale appartengono le lezioni raccolte in questo volume. Queste lettere narrano col tono dell'intimità fraterna la storia appunto del libro, facendoci assistere alle battaglie, in mezzo alle quali esso si venne formando, e da cui, infine, sorse vittorioso.
Oggi una lotta come questa sostenuta dallo Spaventa all'inizio del suo pubblico insegnamento a Napoli riesce fin difficile a comprendersi. Ma bisogna riportarsi alle condizioni speciali dell'Università di Napoli subito dopo il 1860; per cui basta rileggere quello che ne scrisse nel 1862 Luigi Settembrini in un opuscolo, che fece scandalo allora fuori di Napoli (v. gli Scritti varii, racc. da F. Fiorentino, Napoli, A. Morano, 1879, I, 13-40). Bisogna sovrattutto ricordarsi dell'importanza che aveva avuto fin allora, in Napoli, l'insegnamento privato, al quale la nuova ricostituzione dell'Università diede un fierissimo colpo; e del quasi fanatico entusiasmo che dal '48, e anche prima, avevan suscitato nel campo sempre più chiuso della cultura napoletana le dottrine del Gioberti. Un professore all'Università, del valore dello Spaventa, simpatico ai giovani come fratello d'uno dei martiri più puri del liberalismo napoletano, e reduce egli stesso, proprio allora, da un esilio più che decenne, sofferto per quella fede politica, che ora trionfava, faceva naturalmente che gli studi privati di filosofia, una volta assai fiorenti, rimanessero tosto deserti. Onde quegli insegnanti abbandonati, difendendo, come potevano, Gioberti contro l'hegelismo dello Spaventa e contro quella sua critica, che faceva della stessa filosofia cattolica e nazionale del Gioberti un hegelismo appena abbozzato, difendevano insieme i loro interessi economici vitali; e però non potevano contentarsi di discutere.
Costoro poi avevan l'appoggio aperto o segreto di alcuni degli stessi insegnanti dell'Università, avversarii personali o scientifici dello Spaventa; [282] ai quali non sarebbe sembrato vero di veder costretto l'inviso filosofo ad allontanarsi, per tornare magari a quell'Università di Bologna donde era venuto. Dei più autorevoli tra essi era Luigi Palmieri, già professore di logica e metafisica nell'Università, da quando era morto il Galluppi: immediato predecessore dello Spaventa. Il quale, come s'è veduto (p. 7), a una allusione di lui, che era un'accusa coperta, dovette rispondere nella sua prolusione; e ritenne sempre, come vedremo, che a una sua denunzia si doveva se monsignor Mazzetti, presidente della P. I., aveva ordinato nel 1847 la chiusura della scuola di filosofia, che anch'egli, lo Spaventa, teneva allora privatamente in quello stesso Vico Bisi, reso celebre dalla scuola del De Sanctis.
E se numerosi e accaniti erano i nemici, non molti erano gli amici pronti a pigliare le parti dello Spaventa. Le sue idee filosofiche e religiose, la rigidezza del suo carattere, la severità de' suoi giudizi, l'abituale per quanto bonaria mordacità della sua parola facevano di lui un solitario, guardato con occhio tra pauroso e sospettoso, anche tra gli uomini della stessa parte politica. Anche a Torino, dove era stato, meditando e scrivendo, tra il 1850 e il '59, egli sapeva — e si vede da queste lettere — che molti c'erano, che avrebbero goduto della notizia di un suo insuccesso nell'insegnamento universitario nella sua Napoli.
Ma, oltre i nemici vicini e lontani, oltre gli amici tepidi e sospettosi, lo Spaventa guardava con fiducia ai giovani: «i quali, in generale, hanno un certo istinto per la verità, per la libera ricerca» (lett. V). I giovani accorsero in gran folla ad ascoltarlo; difesero la scuola dai tentativi di quelli che vi s'affollavano per suscitarvi disordini; vollero pubblicate quelle lezioni, che fecero intravvedere a loro un mondo nuovo. E i nemici, viste deluse le prime speranze, si fecero da parte.
Qualche altro tentativo bensì venne fatto anche l'anno dopo, 1862-63. Infatti, un giornale cittadino del tempo (Rivista napol. di polit., lett. e sc., a. I, n. 10, 1.º febbr. '63: diretta dall'hegeliano Stanislao Gatti), ci dà notizia di un «piccolo tafferuglio minacciato di fare» all'Università, sullo scorcio del gennaio 1863, contro «due professori [l'altro era forse il Vera] di filosofia, che non son voluti tenere in conto di santità». — «I nostri studenti, — scriveva quel giornale, — si son ribellati contro i loro sistemi, giudicandoli prima che quelli fiatassero, e domenica scorsa volevano fare una dimostrazione, che non sarebbe stata certo filosofica. È colpa loro? Non credo, giacchè io li tengo abbastanza saggi e prudenti per non dare in simili ciampanelle. Credo invece che siano sobillati da qualche altro professore, e questo è il caso di dire che il medico è nemico del medico, il ciabattino del ciabattino. Infatti corrono certe stampe, che non fanno troppo onore a chi ebbele vergate; con le quali si tende ad aizzare i giovani inesperti contro l'insegnamento universitario, accusandolo come pericoloso ed antinazionale. In una di queste stampe la dimostrazione della nazionalità della filosofia si riduce ad una sciarada sulla parola filosofia, la quale in greco vuol dire amore della sapienza. L'egregio professore ci dimostra, come due e due fanno quattro, che il primo è subbiettivo, il secondo obbiettivo: il tutto non lo dice, ma ve lo dico io: è pappolata». Lo spiritoso scrittore [283] conchiudeva pregando «questi filosofi novellini di voler contenere la critica in que' termini di decoro che prescrive la civiltà de' nostri tempi».
E ancora in una lettera del 14 marzo di quell'anno lo stesso Spaventa scriveva al fratello Silvio: «Mi dicono che il giorno 19 (te lo ricordi il 19 marzo 1849?) ci sarà gran dimostrazione, e che dopo aver gridato viva Garibaldi, si griderà: abbasso Spaventa (me, non te). Son capaci di farlo. Sono i soliti minchioni e birboni. Io non me ne curo. All'Università non vengono, perchè i miei scolari son risoluti di batterli». — Il 19 marzo 1849 era stato il giorno dell'arresto di Silvio, e il principio della sua decenne prigionia.
Le lettere qui pubblicate appartengono al carteggio ancora in gran parte inedito dello Spaventa[171], già posseduto dal suo degno nipote e mio amico carissimo B. Croce, e ora da lui depositato nella Biblioteca della Società storica per le provincie napoletane.
G. G.
[285]
Napoli, 27 novembre '61.
Mio caro Silvio,
Ho ricevuto la tua ultima lettera del 23. Mi dispiace che sei di cattivo umore. Ma spero che passerà, come il raffreddore che, credo, n'è la causa. A questo proposito, ricordati che Torino è Torino, e che ci vuole un po' di cautela. Guardati dal troppo calore delle stufe. È il mezzo più sicuro per evitare catarri. Fa anche i bagni, e moto. Sii di buon umore, e fa come fo io, che piglio tutte le cose in pace.
Tu non mi parli di politica, e io non ho che dirtene. Qui le cose vanno come andavano. Il napoletano è quello che era. Parlo in generale. Se pensa, non pensa che a Napoli. Gli stessi imbroglioni, gli stessi ciarlatani, gli stessi vigliacchi: non senso comune, non vera conoscenza delle cose del mondo, la stessa spensieratezza. Il brigantaggio è sempre lì. Già cominciano a borbottar contro le nuove imposte. Calicchio[172] minaccia in iscritto, — giacchè Calicchio è divenuto scrittore, — i deputati che non faranno il dover loro. La camorra séguita a esser da per tutto. Come al tempo de' Borboni vi erano più specie di polizia, così [286] ora vi sono più specie di camorra. Se Domeneddio si risolvesse ad essere napoletano, non potrebbe esser che camorrista. Altrimenti, gli suonerebbero la tofa. — Vedi che anch'io sono di cattivo umore, e vedo tutto in nero.
Ho letto la prolusione il giorno 23[173]. Ci era gran folla, e, se devo credere a quel che ho visto e ho inteso, ho fatto chiasso. Credevano che io fossi qualcosa, ma ora credono che sia qualcosa più. Ne avevo fatta una, che mi piaceva e non mi piaceva. Il giorno 16, dopo aver udita l'apertura dell'Università fatta da Palmieri[174], pensai a un altro argomento, e seppellii il primo scritto. Non avevo che sei giorni di tempo. Mi misi a lavorare giorno e notte, e finii la mattina stessa che dovevo leggere. Il sig. Palmieri avea tra tante altre cose parlato (lui già professore di filosofia prima di me) della necessità che la filosofia fosse nazionale, e non forestiera, e specialmente non introducesse tra noi, nella patria, diceva egli, di Campanella, di Bruno, di Vico, di Galluppi, Rosmini, Gioberti, le nebbie, i vapori, le streghe, ecc. della filosofia nordica. E io mi misi a scrivere Della nazionalità nella filosofia, rifacendo la storia della filosofia da questo punto di vista, dall'India sino a Hegel e Gioberti. Non ti dico che cosa ho scritto. Stamperò la prolusione e te la manderò. Tu capisci che cosa abbia potuto dire. — Lignana[175] proluse lo stesso giorno, e anche molto bene. Dicevano: questi sono discorsi, questi sono professori. Ma, ma.... sin da quel giorno cominciarono certe voci contro noi due: bestemmie, eresie, forestierume, ecc.; ma specialmente contro di me. Dicono — già s'intende — che io sono hegeliano, cioè partigiano del diavolo; che io voglio pervertire la gioventù; che io non conosco la filosofia italiana; che non conosco Campanella, Bruno, ecc. sino a Gioberti. E io fo, come introduzione, una breve storia del pensiero italiano [287] dal Risorgimento sino a Gioberti. E oltre le lezioni che sono obbligato a fare, fo una conferenza sopra uno de' nostri filosofi: ora, sopra Gioberti. Questo disegno l'avea fatto prima che parlassero. Ero stato profeta.
Intanto ieri ho fatta la prima lezione[176] dopo la prolusione. La scuola era pienissima; e applausi. Ma so che cercano di tentare i giovani. So anzi di certo, che Palmieri ha intenzione — e ha cominciato già a tastare il terreno — di far fare agli studenti una petizione al Ministro perchè sia allontanato dall'Università di Napoli un professore che non professa una filosofia italiana.... Nel 1847 mi fece chiuder la scuola con un ricorso a monsignor Mazzetti. Oggi crede che siamo al '47. Vorrei vedere anche questa. — Questa è una delle tante camorre di cui ti ho parlato. — Anche l'ex-professore di Bologna, il prof. Prodigio[177], va dicendo qualche cosa. Non dice che ho fatto fiasco; dice che la nostra filosofia è quell'armonia, la pitagorica, e non ha che fare con quella che professo io. Don Basilio si è fatto ora piccin piccino, e aspetta il caldo e la buona stagione per mostrarsi.
Ti ho detto queste chiacchiere per non tacerti nulla. Tu fanne quel conto che credi. Se credi di non parlarne per ora a nissuno e aspettare che io ti scriva altro e come andrà a finire la cosa, fa così. Se credi di parlarne, e prevenire qualcuno, fa pure così. Fa insomma come ti piace. Io crederei di aspettare ancora qualche giorno, e vedere che sarà, e che faranno co' giovani.
Rispondimi su questo.
Salutami Ciccone[178], e digli che gli scriverò tra giorni. Digli che io non l'ho potuto vedere il giorno che partì, [288] perchè stavo lavorando sulla Prolusione e non potevo uscir di casa.
Addio. Scrivi subito. Salutami, se credi, Farini[179], al quale — se credi — potrai raccontare il rogo che mi apparecchiano i briganti della filosofia.
Papà sta bene e ti saluta con Isabella e Millo. Saluto con loro anche Berenice[180], ecc. Scrivi.
Bertrando.
Torino, 7 dicembre[181] 1861.
Mio caro Bertrando,
Perdonami se non ho risposto subito alla tua lettera. Ti dissi come era infreddato, e questo raffreddore è andato sempre più crescendo e non vedo modo di disfarmene. Così mi dà una noia ed un malessere indicibile. Nulladimeno assisto ogni giorno alle discussioni ed agli Uffici della Camera. Non ho il coraggio di rimanere a letto, e questo mi fa forse più male. Bisogna che ricorra assolutamente a' bagni freddi, e non mi so ancora risolvere.
Dopo quello che tu mi avevi scritto de' maneggi che ti facevano contro, ciò che ho letto poi nei giornali che ti è avvenuto, avrebbe dovuto meravigliarmi meno. Ho atteso con grande ansietà che mi narrassi tu stesso quello che successe. Spero che non si sia più rinnovato. Io sono certo che tu ti guadagnerai l'amore e il rispetto de' giovani, e [289] che questi si premuniranno da sè contro simili scandali. Sono ancora certo che tu non ti sei sbigottito per ciò, e che hai continuato il tuo ufficio con perfetta calma e dignità.
Oggi ancora continua la discussione sulle cose di Napoli, e non so se finirà, benchè in molti vi è un vivo desiderio di mettervi un termine. Si spreca un tempo prezioso; e le assurdità e i paradossi che la Camera è costretta di udire, le fanno perdere l'autorità, di cui ora è più che mai necessario che il Parlamento sia investito. Il Ministero avrà, io credo, una maggiorità notabile. I napoletani, venuti qui gridando che volevano sprofondare mezzo mondo, finiranno la più parte per votare a favore. Il connubio col Rattazzi è divenuto più incerto. Intanto, come farà il Ministero a completarsi, e come si placherà, l'Imperatore, che non ne vuole molto di Ricasoli? Il Re lavora anch'egli per Rattazzi. Ci è imbroglio difficile a snodarsi. Addio.
Tuo Silvio.
P. S. Saluto caramente Papà e Millo e Isabella.
Napoli, 8 dicembre '61.
Mio caro Silvio,
Non ti ho scritto più, perchè non ho avuto tempo. Tu neppure mi hai scritto da un pezzo, nè so se il raffreddore e quindi il malumore ti sia passato. Aspettavo che mi dicessi qualcosa di politica. Io non ne so altro che quel che leggo ne' giornali.
Non avendo a dirti nulla di nuovo di qui, ti parlo di me e delle cose mie. Ti scrissi della petizione che si voleva fare contro di me. Dico meglio: non contro di me, contro la persona (questa distinzione l'ho saputa dopo), ma contro la dottrina. Una petizione contro una dottrina! Questa è strana davvero; e tanto più, che di dottrina io [290] non ho detto niente sinora. Non so se la cosa sia andata avanti. Sarebbe una ridicola bricconeria.
Ti scrissi che la prima lezione, dopo la Prolusione, andò benissimo. Ora devo dirti che le altre andaron anche meglio. La sala dove fo lezione, è la più ampia dell'Università, ed è sempre piena zeppa di uditori.
Credo di averti detto quel che sto facendo ora. È una introduzione sui generis alla filosofia. Io ho detto, ma in modo conveniente: Noi abbiamo un certo pregiudizio nella nostra coscienza nazionale (se si può dire nazionale), il quale è nato dalle stesse nostre condizioni da tanti e tanti anni in qua. Questo pregiudizio è il concetto un po' falso così della filosofia europea in generale, come del nostro stesso pensiero. La mancanza di libertà per tanto tempo ha fatto, che noi diventassimo come un segreto per noi stessi. Questo pregiudizio bisogna vincere, questa falsa coscienza bisogna far vedere che è falsa. A che è arrivato il pensiero europeo? A che il pensiero italiano? La verità — direbbe Bruno[182] — è sopra il nostro orizzonte? Questa è la mia fenomenologia — per questa volta, per quest'anno. Questo lo dico a te; non l'ho detto così a loro.
Dunque, io fo una breve storia del nostro pensiero dal Risorgimento sino al nostro tempo: le principali figure. So dove vado a finire, e lo sai anche tu. Ma ora lo so meglio e lo vedo meglio. P. e., su Bruno ho fatto altro di più. — Il sunto delle lezioni lo scrivo; e forse forse lo stamperò. Adunque, gran concorso. Ma non tutti coloro che vengono, vengono per amore e buona volontà. Di ciò mi accorsi sin da' primi giorni. So che i giobertiani, — non saprei come chiamarli, — i giobertiani fossili, cetacei, antidiluviani, asfissiati.... l'hanno con me tremendamente. M'asfissierebbero, se potessero. Hanno tutta la virtù de' settarii: l'intolleranza. Dicono che io guasto Gioberti. — E se lo guastassero loro? Può essere l'uno e l'altro caso. Dunque, si vegga. — No: chiudiamo gli occhi, e non ci si veda affatto. Vogliono ripetere la storia di Aristotile tanto [291] tempo fa. Ma Aristotile era Aristotile, e quel tempo era quel tempo. — Adunque, i giobertiani mandavano uno de' loro, un professore; il quale nella seconda lezione[183] m'interrogò su non so che cosa, che aveva a fare colla lezione come il coro col paternostro. — Qual è il vostro punto di partenza? — Lo saprà, quando deve saperlo. — Ma desidero di saperlo ora. — Ero per dirgli: Il mio punto di partenza è: «Porto di Napoli, 26 ottobre 1849»[184]. Gli dissi invece: Abbia pazienza. Ho aspettato io tanto tempo[185] (12 anni); può aspettar lei un paio di settimane (Applausi universali, direbbe Mancini[186]). — Così finì la cosa il primo giorno.
Nel secondo[187], lo stesso professore. Io avevo detto, che ne' filosofi del Risorgimento le nuove determinazioni, che negavano le determinazioni scolastiche, si vedevano sparse, confuse, — e parevano, per dirla così, tanti ceci che bollono in una caldaia[188]. Era un modo di dire. E il professore giobertiano: Voi avete detto, che gli Scolastici sono ceci. — No; se l'ho detto, l'ho detto de' filosofi del Risorgimento. — Ma no; gli Scolastici non sono ceci; piuttosto sono quelli del Risorgimento. — E sia: dunque avremo due caldaie di ceci. È contento? — Ma voi volete distruggere la Scolastica. — Io non distruggo niente; è la storia che si è incaricata da un pezzo di questa faccenda. Se la pigli con essa. Se lei vuole risuscitarla, la Scolastica, è padrone: ci si provi[189]. — Ma voi dite che la natura e lo spirito sono momenti di Dio, ecc. Dunque la natura è Dio, [292] lo spirito è Dio, e io sono Dio. — Mi dispiace di doverla togliere da questa beata illusione. Io dico momenti; e ciò significa, ecc.
Questo ci è stato, e niente altro. Qualcuno, del séguito del giobertiano, volle osservare che bisognava rispondere; ma non ebbe il tempo di finire, perchè i giovani, che ne sapevano più di me, — che s'erano accorti d'una specie di piccolo complotto per far chiasso in iscuola e perturbar l'ordine pubblico, — i giovani erano per dargli addosso. Capii che la cosa sarebbe finita male, e che quel qualcuno avrebbe forse conseguito il suo intento. Licenziai i giovani, giacchè avevo già finito la lezione. Li licenziai di nuovo alla porta dell'Università, perchè volevano accompagnarmi per la strada, temendo forse che non avessi a avere le bastonate dai filosofi camorristi; accesi il sigaro, e via solo.
Tu forse avrai letto nel Nazionale il fatto diversamente; che mi aveano detto (i giobertiani) ingiurie; essere stato io nominato per favore, ecc. Niente vero. Il fatto è nè più nè meno quel che ti ho detto. La cornice deve essere o di Quercia o di Gatti[190], o di qualche altro, che pettegoleggia anche involontariamente. Io non ho risposto per non dar alla cosa un'importanza che non aveva.
Quel professore non è comparso più. Quindi due giorni tranquilli. Ieri solo ci fu un nuovo incidente. Un prete anche professore volle dire non so che altro. E i giovani da capo a non volerlo far finire. Dovei difendere la libertà del prete: ma nel tempo stesso feci capire dolcemente, che la libertà filosofica non era quella che s'imaginava il prete, [293] e che io la voleva (e avea diritto di volerla) per tutti, per loro, per me, ecc. Non ci fu altro (Mancini: Applausi universali).
Come vedi, anch'io nella mia piccola sfera ho i miei camorristi e i miei briganti. Non me ne sgomento; fo quel che devo fare; e fo il mio dovere; lo fo con quella maggior coscienza che posso: tollero tutti, e voglio che tutti facciano lo stesso verso di me. Libertà per tutti, e per me. Se loro credono di avere in tasca la verità, anch'io potrei avere la stessa pretesa. Fuori dunque le monete: vediamo quale è buona e quale è cattiva. Se non vogliono vedere alla luce, com'essi credono che la loro moneta sia buona, così io posso dire che la mia è buona. — Già mi avvio per la predica. Finisco.
Scrivimi e dimmi qualcosa di positivo della situazione politica e degli uomini politici. Voglio dire: i grandi uomini politici.
Berenice come sta? Salutala colla famiglia per me. Papà sta bene. Isabella e Millo ti salutano.
Bertrando.
17 dicembre 1861.
Mio caro Silvio,
Ti ho scritto ieri e confortato a rispondere alla Patria. Ci ho poi ripensato. Non vorrei esserti cagione di nuovi disturbi[191]. Fa come credi. Se credi di poterne far senza, fa pure. Addio.
Scrivimi e ti scriverò a lungo, subito che ne avrò tempo. Ieri: ha proluso Vera. Io non l'ho sentito. Chi l'ha sentito [294] e inteso mi ha detto: volgarità senza pari[192]. Vera, io già lo sapeva, non intende che Hegel, e l'intende molto superficialmente. Questo sia detto a te, solo a te. Addio.
Bertrando.
Napoli, 28 dicembre '61.
Mio caro Silvio,
Ieri ho ricevuto la tua del 24, e non ho risposto subito, perchè era tardi, e la posta già partiva. Aveva preveduto la difficoltà, di cui tu mi parli, nata dall'incidente del giorno 8, e la giudico come la giudichi tu, cioè come un bene ora, piuttosto che come un male. Quel che bisogna scansare sempre, è il porgere la menoma occasione a quella gente, che non fa altro che andare in cerca d'occasioni. Da loro non mi aspettavo e non mi aspetto altro! Fanno il loro mestiere. Anche se tu avessi parlato più pacatamente di quel che hai fatto, essi avrebbero fatto lo stesso; più che contro il tuo discorso, l'avevano contro di te. Questo è chiaro. Pazienza, e tempo: e la luce si farà.
Di qui non ho a dirti niente. Le cose vanno sempre come andavano; forse meglio, giacchè, se non altro, si tira sempre innanzi, come Dio vuole. Il male è che le cose sono ancora, — e saranno per un pezzo, — in mano della canaglia: e chiamo così coloro che non hanno fede in niente, che non sono nè borbonici davvero, nè italiani, ma sono birbanti, intriganti, ladri, ciarlatani, bugiardi, adulatori; e [295] che per tutte queste qualità si trovano bene. È un male che ci vorrà ancora tempo a estirpare, se pure ci si pensa. Anzi! E anche qui ci vuol pazienza. Bisogna, quando si può, turarsi il naso, per non sentire il fetore; e quando non si può, abbandonarsi al destino, incrociare le braccia, e aspettare.
Passo a parlarti di me, giacchè non ho a dirti altro. Ho finito già la mia Introduzione, ed è molto probabile che la stampi. I giovani vogliono così. Le mie lezioni sono andate sempre bene, anzi di bene in meglio: sempre gran folla. Ora so quel si voleva fare contro di me. Si voleva far chiasso e tumulto nella scuola. Ma non ci sono riusciti. Io, credo, sono stato molto prudente. Non è stata astuzia, ma una certa confidenza in me stesso, un certo sentimento di dignità, una certa serenità d'animo, una certa noncuranza di certe miserie e pettegolezzi, un certo umore frizzante senza offesa, che, se non nascevano, erano certamente fatti più vivi dal paragone che io facevo tra me e loro. Era un piccolo complotto di professori di filosofia. La solita storia: guasta Gioberti. Ma in realtà il vero motivo era tutt'altro. È quel timore o odio involontario della luce che hanno le talpe. E la luce che io oppongo a loro, è appunto quella che non vogliono, la libera discussione. Credo che abbiano smesso il pensiero di far più nulla in iscuola; perchè si sono accorti che i giovani li accopperebbero. Già molti giovani, giobertiani a modo loro, si sono, dirò, convertiti. Ora ho saputo che vogliono fare una rivista giobertiana, e risuscitare una certa accademia dello stesso nome. Facciano pure.
Alla testa di questo movimento contro di me ci sono de' pezzi grossi, o almeno tenuti per tali qui. Ma io non mi sgomento. Altro è gridare abbasso a uno che amministra, e che non può dimostrare che amministra bene; altro è gridare contro un professore. Se essi credono dimostrare, anch'io dimostro. Io spero ne' giovani, i quali in generale hanno sempre un certo istinto per la verità, per la libera ricerca. Vedo che il breve corso, che ho fatto finora, ha fatto buona impressione. Un tale che mi era ostile, venendo [296] sempre a udirmi, ha finito col diventarmi favorevole, e dice che ora intende Gioberti. Anche altri, più o meno, così.
Spero dunque che la cosa andrà, anche senza il favore de' pezzi grossi, che, dopo aver empito la pancia sotto i Borboni, l'empiono meglio anche adesso. E io non gl'invidio. Mangino pure, ma lascino stare i minchioni. Spero, dico, che la cosa andrà. Del resto, io fo quel che credo di dover fare. Non fo che la lezione: non penso ad altro; non vedo nessuno, eccetto gli scolari; non fo male a nessuno; sono divenuto il più grande egoista, direbbe qualche gran filantropo. Dunque, accada quel che deve accadere. Spero, ripeto, che non accadrà niente.
Non ho più tempo di scriverti oggi. Tu intanto scrivimi a lungo. Papà e Isabella co' ragazzi stanno bene e ti salutano. Salutano con me anche Berenice con Raffaele e ragazzi. Mi dispiace che Berenice non sia ancora guarita. Ricordati di badare a' salassi, che a Torino fanno in gran copia. Falla curare da medici napoletani. E tu bada a' raffreddori. Scrivimi.
Bertrando.
P. S. Salutami Ciccone. E non dir niente a Massari di Gioberti e non Gioberti.
Napoli, 8 febbraio '62.
Mio caro Silvio,
Dal giorno 29 del mese passato non ti ho scritto più, e oggi ti scrivo in fretta per dirti quel che è accaduto ieri all'Università. Io non ci era; nè era giorno di lezione per me. Ieri sono stato tutto il giorno in casa a pensare a Brama e a Budda, e uscendo la sera ho saputo cosa c'era stato[193]. Un certo numero di giovani studenti, capitanati da [297] qualche non studente, solito a farsi vedere in tutte le dimostrazioni — e studenti non dell'Università, ma degli studi privati, che sono qui numerosi come le formiche e forse più degli studenti — prima di mezzogiorno si presentano all'Università, vanno alla Biblioteca, pigliano la bandiera (la piglia quel tal capitano), e giù per le scale, per la corte, a gridare e schiamazzare: abbasso il Rettore, abbasso Settembrini, abbasso i professori che non fanno lezione, viva Gioberti, abbasso Hegel, viva Rosmini e la filosofia italiana, abbasso la filosofia tedesca, viva Mandoi!!! (storico), abbasso il Papa-re, viva Garibaldi. Dopo aver gridato così più volte e stracciato dalle muraglie un ordine del giorno del Rettore[194], nel quale gli studenti venivano invitati a rallegrarsi delle parole che il Ministro della Pubblica Istruzione avea detto in elogio loro e della Università in una recente discussione, dopo avere stracciato altre carte, e mi si dice — ma non so se sia vero — cancellato certi nomi dall'Elenco de' professori; dopo queste ed altre amenità, uscirono, s'ingrossarono per la strada, e specialmente per Toledo, gridando: Abbasso il Papa-re. E così finì.
È stato uno di que' pasticci che si vedono solo qui. Tutti i malcontenti vi hanno soffiato e operato: tutti i nemici de' nemici si sono riuniti. Il complotto o i complotti si sapevano. Si sanno le case dove si organizzano; i professori privati e non professori che istigano; anche qualche vecchio valente professore universitario, conservato perchè valente — nel valer poco e chiacchierare da mattina a sera, ecc. ecc.
Non credo che la cosa finirà così, se il Governo non mostra energia contro una certa canaglia dell'insegnamento, che ne ha fatto un mestiere di polmoni e di.... Bisognerebbe pigliare misure giuste, ma pigliarle e farle eseguire. Qui sta il punto. Chi eseguisce a Napoli? — Ieri [298] sera intanto — non so se sia vero — il Nazionale, l'organo della verità ad usum Delphini, mi si dice raccontasse la cosa in modo, da far credere che si gridasse solo: abbasso certi professori INSEGNANTI. Non ho avuto il tempo di verificare il fatto. Credo utile farti questa prevenzione.
Ho ricevuto la tua. E resto inteso di quel che mi dici sulla denunzia. Ti scriverò su ciò subito che avrò tempo. È un nido di birbanti, che si dovrebbe mettere a dovere. Ma di ciò appresso. Addio per ora. Dimmi di Berenice. Papà ti saluta con Isabella e Millo.
Bertrando.
Napoli, 10 febbraio '62.
Mio caro Silvio,
Ti ho scritto l'altr'ieri in fretta, e fo lo stesso anche oggi. Ieri grande dimostrazione contro il Papa-re, e a favore del Papa non re. È stata fatta con ordine, con gran folla; e mi dicono che sia riuscita benissimo. Solo l'aveano, mi dicono sempre, con Lamarmora, che non si era affacciato, e non avea detto: — Bravi, così vi voglio. — Che giudizio! non arrivano mai a capire quel che capiscono anche le oche.
Ti scrissi così, come m'era stato anche detto, dell'altra dimostrazioncella all'Università. Mi aveano esagerato le grida contro la filosofia; di ciò poco o niente. Il rumor maggiore, anzi principale, è stato contro il Rettore, il Ministro e i professori che non fanno lezione, (Credo che non ce ne siano. La fanno tutti, credo). Cominciarono dallo stracciare quel tale ordine del giorno a' giovani, e dal cancellare certi nomi dall'Albo de' professori. Non erano studenti dell'Università, o pochissimi, ingannati o tratti a forza da certe birbe. Gli autori di più specie: istigatori senza parere, gesuiti perfetti; istigatori palesi, ma non esecutori, ecc. Coloro [299] che dicono più male dell'Università, del Rettore e del Ministro, sono naturalmente coloro che sono stati favoriti, ma non come desideravano. Sono bricconi matricolati. In verità, la politica ha i suoi principii, — che non sono principii, — i suoi famosi temperamenti; e gli uomini stessi cangiano di proposito, e per timore o altro sono capaci di abbracciare in pubblico anche i loro nemici. Questo è l'uso. Ma, per Dio, io non so capacitarmene. Quando vedo certi serpenti — e mi ricordo delle nostre galere — quando vedo certi serpenti antichi, noti e famosi come serpenti, alzare ancora la testa e vibrare la lingua, e noi poveri minchioni ridotti ancora a tirarci da canto e guardarcene e pensare a' casi nostri, e quasi quasi sgombrar loro tutta la via e lasciarli divertire come si sono sempre divertiti: quando vedo questo, non so che dire.
Dico: viva l'Italia! E così mi consolo. Questa è la mia dimostrazione.
Il giorno dopo andai a far lezione, al solito. Trovai gran folla di studenti dentro e fuori la sala. Ci siamo, dissi tra me. Mi accolsero con applausi strepitosissimi, infiniti, inenarrabili, direbbe Mancini. Era, direbbe lo stesso, una protesta contro quel che s'era fatto il giorno innanzi. — Ti racconto queste miserie perchè non ho che dirti, e per opporre miserie a miserie. Mi imagino, che forse si sarà detto costà: «E poi entrarono nella scuola di Spaventa, lo fischiarono, lo fecero uscire, fuggire, scappare, ecc. L'indignazione de' giovani era giusta, ecc. Si salvò per miracolo» — Per darti un saggio dell'onestà e della stupidaggine di que' che dicono male di me, senti questa che è storica: «Spaventa ha detto giorni fa in una lezione: Signori, in otto lezioni vi dimostrerò che Dio non esiste». Ho bisogno di dire a te: quando mai? Ci sono i gonzi che lo credono, ma ci sono i birbanti che non dovrebbero essere creduti da coloro che non sono gonzi e non sono birbanti. Addio per oggi. Papà e Isabella vi salutano. Scrivi.
Bertrando.
[300]
Napoli, 21 febbraio '62.
Mio caro Silvio,
È già un pezzo che non ricevo tue lettere. Ieri sera ho visto Ciccone, che mi ha dato notizie di te e di Berenice. Io avrei dovuto scriverti, per raccontarti, se non altro, quel che è avvenuto — la seconda volta — nell'Università; ma, sempre al solito, mi è mancato il tempo. Più o meno, già saprai tutto. Pure, sebbene tardi, voglio dirtene anch'io qualcosa.
Nella prima dimostrazione, di cui ti scrissi, i giovani o i così detti giovani — giacchè non tutti erano studenti, nè tutti gli studenti erano dell'Università — dopo aver lacerato un ordine del giorno del Rettore e cancellato dall'Elenco i nomi de' professori che non fanno, come dicevano loro, lezione, e aver gridato abbasso il Rettore, il Ministro De Sanctis, i Professori che non fanno lezione, ecc., e viva Tizio e Caio, ecc., dopo molto chiasso, presa la bandiera, escono e via per le strade gridando: Viva l'Italia ecc., abbasso il Papa-re, ecc. Si gridò anche: Abbasso la filosofia tedesca ecc.? Si gridò e non si gridò. Ci è di coloro che vogliono far credere che si gridò così, e quasi quasi che non si gridasse altro; che lo scopo principale della dimostrazione era appunto gridare così. Vogliono farlo credere; e capisci perchè[195]. Quel che so io, è questo. Tra i dimostratori [301] ci era di coloro che aveano interesse o erano mandati da chi avea interesse a gridar così; cercarono di gridare e far gridare: ma la cosa rimase lì, e il grido fu soffocato nel nascere da altri giovani. È certissimo il seguente fatto: quando andarono alla biblioteca a pigliar la bandiera, un prete, — che è lì a far il vicebibliotecario, credo, — non solo non si oppose, ma disse: «Tenete, e gridate, figliuoli, contro questi panteisti e questi atei che hanno messo all'Università». Questo fatto è notorio; e il buon prete è ancora lì, come ci sono e lì e altrove tanti altri, e ci saranno chi sa quanto tempo ancora. — Quel giorno, uscendo di casa tardi, seppi che c'era stata la dimostrazione. La sera vidi il Rettore, al Consiglio di Pubblica Istruzione. Finito il Consiglio, e andando via: ch'è stato? gli domandai. — Hanno gridato, e fatto chiasso; hanno gridato: Abbasso la filosofia tedesca, viva Gioberti, morte a Hegel. — In verità, non mi poteva dire che aveano gridato: abbasso lui. Pettegolezzi sempre. Nella seconda dimostrazione presero la bandiera — dopo avere stracciato e cassato come prima — e uscirono; ma nacque un po' di discordia tra i giovani, tra que' di fuori e que' di dentro, e tira e stira, e parla e rispondi, finalmente i buoni la vinsero e la bandiera [302] fu rimessa al suo posto. Questa seconda volta non so cosa avesse detto quel buon prete. I giovani dicevano di voler andare sotto le finestre del Console di Francia a protestare contro una sua lettera, in cui avea dichiarato di non aver udito altre grida in quella gran dimostrazione contro il Papa, che «Viva la Francia, Viva l'Imperatore». — In questa seconda dimostrazione non si gridò contro nessuna filosofia; e in quel giorno io neanche faceva lezione.
La causa di queste turbolenze non è una. Ci è di certo una causa politica. Gli studenti in Napoli sono, come sai, moltissimi: è una massa rispettabile, ardente, piena di vita. Dunque, può servire a qualcosa. Quindi i soliti agitatori, i soliti capi, i patrioti per eccellenza, i frementi. Questo è positivo. Bisognava comprometterli con quella dimostrazione contro la Francia, e poi la cosa sarebbe andata da sè. Mi pare che gli studenti sinora abbiano avuto più senno che non si sarebbe creduto.
Ma non tutti quelli che dimostrarono, aveano intenzioni politiche. E questo lo sapevano gli stessi agitatori. Quindi un'altra causa, che questi seppero benissimo exploiter: i professori che non fanno lezione. Questo era il motto d'ordine principale, e così si formava un nucleo abbastanza forte. In questo gli studenti non udivano consigli e parole di conciliazione. Rispondevano sempre: No, abbasso chi non fa lezione. — Cito questo fatto. S'era fatta girare una specie di protesta contro i disordini, nella quale gli studenti doveano dichiararsi soddisfatti de' professori ecc. Pochi firmarono. Non vogliamo firmare, rispondevano i più. Noi non vogliamo tumulti, siamo contenti di que' professori di cui siamo contenti; ma non vogliamo dire di essere contenti di questi, di cui non siamo contenti. — Non ci fu modo; non firmarono. — Altra causa: le gelosie de' professori privati, di aspiranti a cattedre rimasti delusi e di cattedratici, che hanno insegnato con lode sotto i Borboni. È positivo, che un professore dell'Università, celebre per le denunzie che ha fatte e che credo faccia ancora, ha avuta mano in questa faccenda. È positivo, che le dimostrazioni o parte di esse, sono state concertate in certi studii privati. [303] È positivo che un impiegato dell'Università — un cazzaccio, — il quale ha 4000 lire all'anno di soldo, nelle conversazioni private e in pubblico non fa altro che dolersi dell'ateismo de' nuovi professori. È una combriccola di birbanti, di galeotti, pagati e pasciuti dallo Stato.
Il Ministro domandò al Consiglio d'Istruzione Pubblica un rapporto su' fatti, sulle cause loro, e su' rimedii. Questo rapporto è andato; l'ho firmato anch'io. Ci è del vero, ma non tutto il vero; e ci è del falso, in quanto certe circostanze insignificanti sono state un po' accentuate, e certe significanti sono state appena toccate. È una specie di velo impenetrabile gittato lì per coprire quel che non dovrebbe essere coperto. Ma il falso nel senso di falso assoluto non ci è. Che dovea far io? Saremmo venuti alle mani. Il rapporto non parla certo de' veri istigatori, preti e vecchi professori dell'Università, ecc. Ha però il coraggio, se ben ricordo, di parlare contro i borbonici. Il nostro presidente, il comm. De Renzi, è un antiborbonico de' più accaniti, e non ha niente paura di dirlo in pubblico!
Il rapporto è dunque inutile, e servirà più come mezzo diplomatico, che come materia di studio per far il bene e migliorare le condizioni dell'insegnamento qui[196]. I poveri giovani non c'entrano. Come sono stati cretinizzati in questi dodici anni! E pure hanno voglia di fare e sapere. Ma il male è ne' ciarlatani. Paroloni, ecco tutto. Ma l'Università, se va e va bene, può fare gran bene. In generale, fuori dell'Università l'insegnamento è anarchico, confuso, superficiale, e anche retrogrado. La rigenerazione, la vera rigenerazione dell'ingegno, non può venire che da essa. È cosa orribile a pensare quanti pregiudizii ha in generale il giovine napoletano. Ammettono una dialettica nazionale; leggono Platone in Marsilio Ficino, la storia della filosofia in Gioberti, ecc. Credono che si nasca filosofo, o almeno basti avere una formola così per esserlo. Il male, che ha fatto qui il giobertismo, è incredibile. Ma finirà. Sono giovani [304] intelligenti, svelti; solo devono persuadersi che la scienza è cosa seria, e ci vuol pazienza assai.
Lascio di scrivere, perchè non ho più tempo. — Fa quel conto che credi di queste notizie che ti ho dato. Ad ogni modo non mostrare a nessuno queste mie lettere, e non mi compromettere co' pettegoli. Ti scrivo per dirti tutto. Hai capito? Regolati, e dimmi se seguitano a denunziarmi. Scrivi subito, e a lungo. Saluto Berenice e Raffaele, a cui risponderò. Papà sta bene e vi saluta con Isabella e ragazzi.
Bertrando.
Napoli, 22 febbraio '62.
Mio caro Silvio,
Ti ho scritto ieri, e ti scrivo anche oggi per raccontarti un fatto, un altro pettegolezzo. È bene che non l'ignori. — Esiste qui un'Associazione così detta degli studenti. Ha un presidente; non so se sia studente. Dicono, che abbia anche de' patroni. Sere fa, ci fu riunione; l'invito diceva: visto che nell'Università sono successi disordini, ecc., gli studenti e i facienti parte della Società sono pregati d'intervenire per provvedere. Ci furono discorsi, molti, e al solito. La conchiusione fu questa: la nomina di una Commissione, la quale ha avuto l'incarico: 1.º di invigilare sull'amministrazione dell'Università; 2.º di invigilare su' professori, e notare coloro che non fanno il proprio dovere, che non fanno lezione o la fanno e non la fanno; 3.º di esaminare, se tutti i professori dell'Università siano all'altezza de' tempi.
Chi giudicherà dell'altezza de' tempi? Mi dicono che gl'ispiratori siano stati De Boni, Verratti, Zuppetta[197]. Io [305] non lo so di certo. Dicono anche, che in mezzo a tali faccende ci siano delle persone venute da Roma. — Cito questi nomi a te. Non dirlo, per evitare i duelli!
Intanto ieri (me l'han detto certi professori; io non l'ho visto) fu affisso alle cantonate un placard: «La Commissione degli studenti nominata il giorno b è in permanenza sino al giorno c; chi ha notizie a dare relativamente all'oggetto, ecc., si rechi nel luogo d, ecc.».
È inutile ripetere che gli agitatori di diversi partiti si danno la mano qui. T'invio un Manifesto contro di noi altri..., non so come dire. Leggilo e vedi. È un appello alla insurrezione contro di noi. L'autore (Mengozzi) mi dicono che sia un pessimo soggetto: venuto qui quattro anni fa con raccomandazioni d'Antonelli, spia, ladro, ecc.
T'informo di tutto ciò per informarti. Lascia che faccia chi deve fare. Tu sii semplicemente informato. Hai capito? Addio. Scrivimi. Di fretta.
Bertrando.
P. S. — Ci è chi dice anche, che la filosofia che noi insegniamo mena al dispotismo; che il Governo ci ha nominati a posta. Anche un ex-colonnello borbonico ci accusava in un caffè di professare una filosofia retriva, ecc. Che caos! — Riapro la lettera per dirti che ora appunto ricevo la tua. Non posso dirti altro. So che il Rettore dell'Università, la sera innanzi alla seconda dimostrazione, che io l'andavo cercando, perchè avevo saputo che si sarebbe fatta, — era in casa di Nicotera[198]. Che pasticcio!
[306]
Torino, 3 marzo 1862.
Mio caro Bertrando,
Sono quasi otto giorni che ho avuto le due ultime tue lettere e non ti ho ancora risposto per le solite cagioni: noia, raffreddore e svogliatezza indicibile di scrivere.
Delle notizie che mi davi su' tumulti avvenuti nell'Università ho fatto l'uso più discreto, ma tanto che basta a darne un concetto giusto a chi ci ha interesse. Del resto, qui si sa da ognuno che tu sei molto voluto bene da' giovani, e che la tua cattedra è la più frequentata di tutte.
Saprai dall'altr'ieri la crisi ministeriale. Il barone Ricasoli diede le dimissioni[199] giovedì la sera, scrivendo al Re come le voci corse e ripetute di un dissidio profondo tra il Ministero e la Corona avevano cagionato un tale stato di cose, che era impossibile che egli rimanesse più al potere. Il Re adoperò l'autorità del principe di Carignano per dissuadere il Ricasoli a non dare una dimissione cosiffatta: ma il Ricasoli tenne fermo. Il Re quindi rispose che, se il Ministero intendeva ritirarsi, avesse atteso un voto della Camera: ma il Ricasoli duro. Finalmente le dimissioni furono accettate l'altra sera. Questa mattina il nuovo Ministero si dice composto, ma io non ci credo. Il Rattazzi ha picchiato a tutte la porte, ma inutilmente. Basti dire che si è rifiutato il Conforti! Si crede che ci entrerà il Mancini. Il telegrafo vi porterà i nomi prima che non ti giunga questa.
Eccoci dunque dentro una nuova fase. La situazione mi pare assai grave, e Dio sa che ne uscirà. Ciò che ha rovinato [307] il barone Ricasoli fu quel tale discorso su' Comitati de' provvedimenti, che scandalizzò ognuno. Pur nondimeno io sono certo che il Rattazzi non avrà la maggiorità della presente Camera. Avrà il coraggio di scioglierla? Ed allora dove si andrà? Il Ministero nuovo è una combinazione prettamente piemontese; gli altri delle altre provincie non ci sono che per mostra, il Mancini (se è vero), il Cordova e il Matteucci. Prevedo quindi una riazione violenta del sentimento municipale delle altre provincie. Oltracciò, se il Rattazzi non ci conduce a Roma subito, è impossibile che si possa reggere; perchè tutti diranno che, se non ci si va, è perchè i piemontesi non vogliono andarci. Ma forse l'imperatore, per accreditarlo un po' agli occhi degli italiani, farà qualche concessione apparente, di cui si possa attribuire il merito a Rattazzi, e così potrà andare innanzi qualche tempo. Vedremo. Salutami Papà, e digli che gli scriverò un altro giorno. Salutami Isabella e Millo.
Tuo Silvio.
Torino, 30 marzo 1862.
Mio caro Bertrando,
Ricevo in questo punto la tua lettera. Sapevo qualcosa del tumulto avvenuto nell'Università da' giornali e da lettere degli amici, ma ignoravo che tu ti ci fossi trovato in mezzo. L'hai passata brutta, e non so come ne sei uscito salvo! Pare incredibile che le cose si sieno costà lasciate andare a cotesti termini. Le riflessioni che tu fai, sono giuste. Il De L... è quel furfante che io l'ho tenuto sempre. Basti; io ti prometto che sarò riservato oltre ogni misura. Quanto a te, non ci è ragione di avere il menomo timore che ti facciano torto.
Avrai letto nei giornali i risultati della tornata del 17. Lo scandalo fu immenso. Il Rattazzi, gridando di voler [308] uscire dall'equivoco, ci si sommerse fino agli occhi. Il Farini e il Minghetti e molti che erano per noi, dissero il sì per non rendersi impossibili. Fecero ogni opera con me, perchè dicessi anch'io sì; ma fu inutile: io non posso tollerare ambiguità. Del resto sii sicuro che io mi comporto molto moderatamente, e contro di me non vi è alcuna animosità ne' nuovi ministeriali.
Si crede che il Farini entrerà nel Ministero degli Esteri. Nei nostri accordi stava però che non entrerebbe senza richiedere più profonde modificazioni nel Ministero. Questo era il senso della proposta da me fatta accettare a una gran parte dell'antica maggioranza. S'intende che io non mi conto oggi tra i ministri possibili.
Ti risponderò per l'Angiulli[200] tra breve: ne ho parlato direttamente al Brioschi[201], che mi ha promesso una risposta. Addio. Tanti saluti a Papà....
Silvio.
[309]
Napoli, 22 marzo '62.
Mio caro Silvio,
.... Ho letto i nomi de' votanti pel sì e pel no nella questione ministeriale[202]. È una maggioranza, che non ci è stata mai in Italia: Gustavo Cavour[203] e Brofferio insieme, ecc. Qui — i soliti — già cominciano a gridare che siete traditori della patria, perchè non avete votato pel Ministero. Insomma, traditori, quando appoggiavate un Ministero, ed essi gli facevano opposizione; traditori, ora che voi fate opposizione a un Ministero, ed essi l'appoggiano. Non mi meraviglierei, se domani uscisse la solita lista per Toledo: i traditori della patria.
Io sto come stava. Dopo il 15 niente di più. Ma chi ci assicura che non ci sarà più niente? Finchè si trattava di parlare e ribatter parole, di esser chiamato non so che cosa, di essere denunziato, ecc., meno male. Ma aver che fare co' revolvers, — ti dico chiaro che la cosa non può andare così. Capisco che la seconda posizione è una conseguenza della prima, qui; e per me i veri assassini sono quelli della prima posizione. Ma è inutile: l'Italia si fa così, e non ci è che dire. Se un tal di tale p. e. che ha fatto il borbonico e lo fa anche adesso in tutti i modi che può, calunniando e ammazzando chi non l'ha fatto mai, se questo tal di tale non fosse la pupilla degli occhi di qualcuno che è [310] su, di certo l'Italia non si farebbe. Dunque, per fare l'Italia, viva i borbonici e abbasso ecc.
Accada quel che ha ad accadere. Ma ti ripeto che sono già seccato e stomacato di questo porcile di vigliacchi assassini. — Ho saputo chi erano quelli che sparlavano di te.... — La strada del Sangro non l'ha fatta concedere Don Silvio, nemico capitale della patria, e che pel suo modo d'agire non dovrà mai essere rieletto, ecc. — Vorrei sapere se tu hai avuto parto o no in quella concessione e come è andata la cosa. — Bisogna pensare nel caso di scioglimento della Camera. Rispondimi su di ciò. Chi scrive da Bomba — un artigiano — vorrebbe che tu dessi qualche attestato di non so che agli Atessani, vani sempre. L'artigiano ne sa più di me e di te. In caso di rielezione gl'imbrogli de' patrioti sarebbero infiniti e la vigliaccheria anche infinita. Scrivo di fretta. Addio, e ti do i saluti di Papà, Isabella e Millo. Saluto Berenice, Raffaele ecc.
Bertrando.
P. S. Come va (cioè va) che Scialoja ha detto sì?
Napoli, 16 giugno '62.
Mio caro Silvio,
È un pezzo che non ti scrivo, e l'unica cagione è che non ho avuto tempo. Finalmente, altre tre o quattro lezioni, ed è finito — per quest'anno. Ti dico, che con tutto il piacere che naturalmente posso avere a far lezione, ora già non ne posso più.
Dunque, alla fine del mese, vacanze. È vero che abbiamo gli esami, che per me sono un vero martirio, tanta è la noia che mi cagionano. E sfido io a non annoiarsi a udire tanti spropositi da questi figliuoli di Vico, per non dir altro! Ma anche gli esami passeranno. E forse forse [311] sai che cosa? Forse alla fine di luglio verrò per una ventina di giorni a Torino. È più facile di sì che di no. In altra lettera ti dirò come e perchè.
Ti mandai subito per la posta quel libro sull'Amministrazione demaniale. Come vai con questo bell'incarico? Spero, che [non] ti seccheranno da qui i nostri bravi concittadini.
Credo che hai fatto bene a votare pel sì nel 6 giugno. È vero che io ne capisco poco o niente; ma mi sarebbe parso un quasi pettegolezzo votare pel no, e anche un po' contrario ai principii. Ma cos'ha prodotto questo voto? Andrà il governo? Andrà la maggioranza?
Qui dopo le 70,000 suppliche, il malcontento è moltiplicato all'infinito. Il Governo non si è accorto d'una cosa; ed è, che per contentare i napoletani ci vuol altro che misure d'interesse generale e pubblico; questo si conosce poco qui, e se ne ridono, se tu ne parli. Quel che ci vuole è tante misure, quanti sono i singoli individui; bisogna contentarli uno per uno: a ciascuno una pensione, o un impiego, o una Croce, o qualcos'altro.
Credo che lo stesso San Gennaro non sia contento del regalo di non so quante migliaia di franchi, una volta tantum, e gridi anche lui per una pensione. Perchè non impiegare San Gennaro?
Non ti dico niente del chiasso che fanno i paglietti per la legge del registro e bollo. L'idea di non poter litigare più come prima è un gran boccone amaro per loro. Il popolo — sovrano — non ne capisce niente; ma i borbonici da un lato e gli azionisti dall'altro soffiano e gonfiano tanto, che non ci è da scherzare; si finirà per crepare o in un modo o in un altro. Intanto il murattismo (capo del Comitato dicono sia il Bianchini) si affaccia di nuovo, e soffia e gonfia anch'esso. Anche le madonne — le centomila madonne de' contorni di Napoli — si sono scosse dal loro torpore, e cominciano a far miracoli: una ha impallidito, un'altra ha chiusi gli occhi, un'altra gli ha aperti, ecc. Si aspetta il gran miracolo di Santa Brigida. per la espulsione di cinque o sei frati da quel locale.
[312]
Come vedi, da due anni si è fatto un gran progresso in Napoli: la stampa è libera, le opinioni sono libere, e gli asini e i maiali sono più liberi di prima di passeggiare per Toledo comodamente. Avrei tante cose da dirti, ma sono sempre pettegolezzi, e ci è tempo. Aspetto sempre una lettera politica da te.
Berenice come sta? Salutamela co' suoi, anche da parte di Papà e Isabella, che stanno bene. Finisco qui, perchè devo andare agli esami. — Ho già pronte 900 lire, e tra giorni saranno 1000. Sono a tua disposizione. Ma, economia: non quella scritta sulla bandiera del Ministero. Scrivi. Saluto Ciccone.
Bertrando.
Napoli, 1.º Luglio '62.
Mio caro Silvio,
Ho ricevuto l'ultima tua lettera del 22 giugno. — Sono già due giorni che ho finito le lezioni, e ora sono un po' più libero; sebbene mi rimanga ancora la coda degli esami per tutto questo mese. Ho lavorato un po' quest'anno: ho fatto una larga introduzione alla filosofia, delle lezioni sopra il Gioberti, e tutta la Logica (o Metafisica). Qualche po' di bene credo di averlo fatto; e se a principio tutti gli uditori e studenti erano o avversi o diffidenti o indifferenti, ora ci sono molti che, avendo continuato sino alla fine, avendo avuto tanta pazienza, hanno mostrato con ciò solo una buona disposizione verso di me. E aggiungo (v. Mancini), che gli applausi che mi hanno fatto nell'ultima lezione, sono stati strepitosissimi. — Insomma, se non altro un certo dubbio è nato nell'animo loro, che quel formulario, che è stato loro insegnato negli ultimi tredici anni, non sia che un formulario.
È incredibile cosa hanno fatto di questi poveri giovani, e quanti pregiudizii hanno messo loro nel capo. A Napoli [313] si nasce filosofo, e la filosofia è la cosa più facile di questo mondo; basta risolversi, e dire: io sono filosofo. Qui il giobertismo è diventato una specie di bramanismo; e i nuovi bramani formano una casta non meno tenace e intrigante dell'antica. Degni loro avversarii sono i così detti hegeliani napoletani, bramani anche loro in un senso opposto. È impossibile misurare la profondità della loro ignoranza — degli uni e degli altri — della storia della filosofia; ne hanno una, tutta di loro invenzione, che rassomiglia alla vera, come la geografia dell'Ariosto alla vera geografia. A questa babilonia contribuiscono non poco, anche in questi tempi, non pochi insegnanti, ufficiali e non ufficiali: que' tali ciarlatani a sonagli, di cui tanto abbonda il nostro paese. Spaccano e tagliano, che è uno stupore a udirli. Un tale ha tutto l'Oriente in tasca, un altro tutto l'Occidente, un altro tutto un altro mondo; e appena appena poi, quel che hanno in tasca, non è che uno straccio di carta dell'opera di Cesare Cantù[204]. È verità quel che ti dico. E i poveri giovani stanno a bocca aperta. Noi quando eravamo giovani sapevamo Cesare Cantù. Oggi i giovani — meno pochissimi — non sanno niente, nè meno la storia romana e greca di Goldsmith e la geografia di De Luca. E continuerà così, se non ci si ripara. Io, che da un anno vado quasi ogni settimana a visitare quell'ospedale che si chiama sala degli esami, so quel che mi dico. È una malattia profonda e vecchia, e i protomedici eletti a regolare la cura, sono i primi malati. Siamo al cura te ipsum. — Se volessi continuare, non la finirei mai.
Ti ho scritto che forse sarei venuto a Torino alla fine di luglio. Ora ti dico lo stesso.... Non ho risoluto ancora. Ma se verrò, sarà per pochi giorni.
Sarete o non sarete sciolti? Credo che la cosa così non possa andare. È un po' di scandalo questo, che non si vedeva a' tempi di Cavonr. È certo che il cervello manca, e che ciò che non manca, sono le pretensioni infinite di aver [314] cervello. Come si risolverà questa faccenda? Il Governo si scredita, il Parlamento si scredita: tale è la conchiusione. Mi pare che tutto l'ingegno ora consista ne' piccoli mezzi: in quei tali espedienti da padre guardiano, che nel 1859 mi facevano tanto andare in collera sul viale del Re. — Qui sempre lo stesso: ora aspettano Garibaldi. I nostri concittadini aspettano sempre; sono avvezzi a cercare sempre fuori di loro quel che possono trovare solo in loro medesimi. Se poi non ce l'hanno, è inutile ogni fatica. E io credo inutile tutti questi rimedi esterni, queste mezze panacee degne solo de' tempi passati e del povero Don Liborio[205]. A proposito, Don Liborio è risorto ed è vivo, per l'unica ragione che era morto. Corse questa voce, or sono poche settimane; e un amico di casa andava a condolersi colla famiglia. E chi trova? Appunto Don Liborio, che, sdraiato sopra un seggiolone, leggeva in un giornaletto di Napoli la sua necrologia.
Ti mando una lettera di Tari, che avrei dovuto mandarti da un pezzo; ma non ho avuto tempo. Il povero Tari teme che o tolgano la cattedra o lo lascino continuare come professore straordinario. Egli vuole essere nominato ordinario. Si raccomanda a te. Ha scritto a Conforti, a De Sanctis, ecc. Nessuno gli ha risposto. Puoi tu far qualche cosa per lui? Tari lo merita[206].
Papà sta bene e ti saluta con Isabella e Millo. Dimmi qualche cosa di politica. Saluto Ciccone.
Bertrando.
[315]
Prefazione alla presente edizione pag. V
Prefazione dell'autore 1-4
I. Della nazionalità nella filosofia: Prolusione 5-33
Nota alla Prolusione: Intorno alla filosofia indiana 34-41
II. Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo xvi sino al nostro tempo — Lezioni.
Lezione prima: Motivo e soggetto della introduzione — Pregiudizio della nostra coscienza nazionale — Necessità d'una storia del pensiero italiano nella sua relazione col pensiero europeo 45-51
Lezione seconda: L'antica filosofia italiana — L'antiquissima Italorum sapientia di Vico. Critica di questa ipotesi 52-66
Lezione terza: Il Risorgimento: I. Sua differenza dalla Scolastica — II. Determinazioni principali della nuova filosofia ne' filosofi del Risorgimento: Il Cusano, Pletone, Valla, Agricola, Ficino, Fico, Zorzi, Reuchlin, Tomeo, Achillini, Pomponazzi, Vives, Nizolio, Melantone, Paracelso, Telesio, Patrizio, Cesalpino, Zabarella, Cremonini 67-86
[316]
Lezione quarta — Tommaso Campanella: Concetto della Restaurazione cattolica — Carattere generale della filosofia del Campanella 87-95
Lezione quinta — Giordano Bruno: A) Carattere e destino di Bruno; — Differenza della sua filosofia da quella di Campanella — B) Spinoza: — C) Bruno precursore di Spinoza — Dio come Sostanza-causa 96-110
Lezione sesta — Giambattista Vico: A)Difetto della dottrina di Bruno — Passaggio da Bruno e Campanella a Vico. — B) Il nuovo concetto della unità dello Spirito — Di nuovo Bruno, Spinoza e Vico. — C) Il concetto dello Sviluppo — Schema logico: La Psiche individuale; la Psiche nazionale; l'umanità. — Pregio e difetto di Vico. — D) Oscurità di Vico 111-135
Lezione settima — Pasquale Galluppi: A) Vico e Kant — Il problema del conoscere nella filosofia antekantiana — Il problema del conoscere in Kant. — B) Kantismo del Galluppi 136-149
Lezione ottava — Antonio Rosmini: A) Difetto di Kant, e sviluppo del kantismo in Alemagna — B) Galluppi e Rosmini; l'Ente; il puro conoscere; unità sintetica originaria; passaggio a Gioberti 150-164
Lezione nona — Vincenzo Gioberti: Coincidenza di Hegel e Gioberti — Critica della filosofia di Gioberti 165-168
Parte Prima: Teoria del conoscere:
A) Elementi del conoscere 169-175
B) Il conoscere assoluto 175-183
Parte seconda: Il sistema 184-196
Lezione decima: Epilogo e conclusione 197-203
III. Schizzo di una storia della logica — Appendice alle lezioni.
Avvertenza 207-208
Preliminari 209-211
[317]
I. Filosofia antica 212-215
II. Filosofia moderna 216-217
A) Prima di Kant 217-219
B) Kant 219-223
C) Fichte 223-229
D) Schelling 229-236
E) Hegel 236-245
F) Conclusione; ed enunciazione delle difficoltà della scienza 245-266
Nota: Spinoza e Cartesio 267-277
Appendice di documenti: Lettere di Bertrando e Silvio Spaventa 281-314
DELLO STESSO AUTORE.
1. La filosofia di Gioberti, Napoli, Vitale, 1863.
2. Principii di filosofia, Napoli, Ghio, 1867.
3. Saggi di critica filosofica, politica e religiosa, Napoli, Ghio, 1867.
4. Esperienza e metafisica — Dottrina della cognizione. Opera postuma pubblicata a cura di D. Jaja, Torino-Roma, Loescher, 1888.
5. Scritti filosofici raccolti e pubblicati con note e con un Discorso sulla vita e sulle opere dell'autore da G. Gentile, Napoli, Morano e F., 1900.
6. Una lezione di B. Spaventa (la prima dell'anno 1864-65) [Intorno al concetto della Filosofia]; pubblicata da S. Maturi, Napoli, De Bonis, 1901.
7. Principii di etica, ristampati con prefazione e note di G. Gentile, Napoli, Pierro, 1904.
8. Da Socrate a Hegel. Nuovi saggi di critica filosofica a cura di G. Gentile, Bari, Laterza e Figli, 1905.
Di prossima pubblicazione:
B. Spaventa, La politica dei Gesuiti nel sec. XVI e nel XIX, a cura di G. Gentile (nella Biblioteca storica del Risorgimento italiano, pubblicata da T. Casini e V. Fiorini).
G. Gentile, B. Spaventa e l'hegelismo in Italia nel sec. XIX (nella Coll. I grandi pensatori di R. Sandron).
1. Napoli, Stab. tip. di Federico Vitale, Largo Regina Coeli 2 e 4, 1862, pp. XII-214 in-8.º
2. Questa prolusione ha lo stesso titolo della parte II di questo libro: Caratt. e svil. della filos. ital. dal sec. XVI fino al nostro tempo. È rist. negli Scritti filosofici, ed. Gentile, Napoli, Morano, 1900, pp. 115-52.
3. Cfr. le osservazioni della mia Avvertenza a pag. 281 e sgg.
4. V. la prefazione ai Principii di filosofia, Napoli, Ghio, 1867.
5. Per questa e le altre lettere qui appresso citate v. B. Croce, S. Spaventa: Dal 1848 al 1861: lett., scritti, docc., Napoli, Morano, 1898, pp. 202 sgg.
6. Vedi in questo volume pp. 110, 136, 202.
7. Pag. 288.
8. Orazione inaugurale del prof. Palmieri, recitata il 16 novembre. [Nuovo indirizzo da dare alle università italiche: discorso accademico recitato dal prof. Luigi Palmieri nel dì 16 novembre 1861 in occasione della solenne inaugurazione degli studi nella R. Università di Napoli. Napoli, tip. Gargiulo, 1861. Per il luogo a cui si riferisce qui lo Spaventa v. il mio Discorso, premesso agli Scritti filosofici di B. Spaventa, pp. XCII e sg.].
9. Vedi la mia Prolusione alle lezioni di storia della filosofia nella Università di Bologna. (Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal sec. XVI al nostro tempo, Modena, 1860; rist. nel vol. degli Scritti filosofici, ed. Gentile, pp. 115 sgg.)
10. L'actus purus degli scolastici è Dio: e propriamente, in Averroè, l'atto conoscitivo di Dio. V. Eucken, Gesch. d. philos. Terminologie, Leipzig, 1879, p. 68.
11. [Intorno agli errori provenienti da questi paragoni tra filosofi diversi, perchè appartenenti a diversi periodi storici, per quanto possano rappresentarvi situazioni analoghe, è da vedere quello che lo Spaventa ne scrisse a proposito di Socrate, nel vol. Da Socrate a Hegel, pp. 3 sgg.].
12. Vedi il mio scritto: La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana. Torino, 1860 [rist. negli Scritti filosofici, pp. 1-80].
13. Vedi la mia Prolusione nella Università di Bologna: Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo [citata sopra, p. 20].
14. Zeller, Filosofia de' Greci [ted.], 2. ediz. Part. I.
15. V. Dhammapada, edit. Fausböll.
16. [Il Karma o Kamma è nel buddismo la retribuzione morale (propriamente l'azione), per cui l'essere di ciascuno è il frutto del suo operare, attraverso le cinque regioni delle trasmigrazioni delle anime. L'Oldenberg (Le Bouddha, sa vie, sa doctrine, sa communauté, trad. franc., Paris, Alcan, 1903, pp. 45 sgg. e 226 sg.) addita le prime tracce di questa dottrina nella speculazione vedica].
17. [L'A. cita l'ediz. Wagner. In questa ristampa si è però leggermente corretto il testo secondo l'ed. Gentile delle Opere italiane del Bruno, Bari, Laterza, 1907, I, 27, 30].
18. [I giobertiani, allora numerosi a Napoli, i quali combattevano, sulle orme del Gioberti, il psicologismo e il panteismo, come filosofie esotiche, in nome dell'ontologismo teistico, che il Gioberti dava per pura e schietta tradizione nazionale del pensiero italiano].
19. Nel corso speciale di quest'anno — cioè oltre il corso di logica e metafisica, che aveva l'obbligo di fare — ho esposto una buona parte della filosofia di Gioberti.
20. [Si avverta una volta per tutte, per quel che concerne queste forme abbreviative, che questo testo serviva all'autore come traccia da svolgere nelle sue lezioni].
21. [De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda, libri tres Ioh. Baptistae a Vico, r. Eloquentiae professoris, Neapoli, MDCCX, ex tip. F. Mosca; proemium].
22. [L'A. cita l'ediz. della Scienza Nuova per cura di Francesco Predari, Torino, tipogr. Economica, 1852, nella «Biblioteca dei Comuni Italiani». Il luogo qui riferito è a pp. 410-11].
23. Scienza Nuova, pp. 406-7.
24. Cfr. Prantl, Stor. della logica, tomo I, sez. VIII.
25. [Vico, Seconda risposta al Giornale dei lett. d'Italia, § I].
26. [Seconda risposta, § III].
27. [Parole, come s'è visto, del Vico nel proemio al De antiq.].
28. Pagg. 190, 192, ediz. Predari [Seconda risposta, § I].
29. Cfr. pag. 194, ecc.: «d'argomento che l'antica favella etrusca fosse sparsa fra tutti i popoli d'Italia ed anche nella Magna Grecia» [Sec. risp., ivi].
30. 201 [Sec. risp., § III].
31. V. Mommsen, Storia romana, I, 118.
32. Mommsen, ibid., 111.
33. Ibid., 115.
34. Risposta seconda.
35. Cfr. Mommsen, 115, 116; 164-5. Vico, dopo aver osservato nella Seconda risposta, che i Romani presero le leggi dagli Spartani e dagli Ateniesi, nella Scienza Nuova (Cfr. special. Scritti inediti di Vico, per Del Giudice, Napoli, 1862) difende l'opposta sentenza.
36. V. Prolusione [sopra pp. 16-8].
37. V. la mia Prolusione alle lezioni di Storia della Filosofia nella Università di Bologna [cfr. sopra pag. 20].
38. Sul carattere della Scolastica e della filosofia del Risorgimento vedi i miei articoli pubblicati nel Cimento di Torino: Principio della Riforma religiosa, politica e filosofica nel secolo XVI [1855; rist. nei Saggi di critica, Napoli, Ghio, 1867, pp. 269-328].
39. [Nicolò Chrypffs o Krebs, n. nel 1401 a Kues (Cusa) sulla Mosella, creato cardinale da Niccolò V nel 1448; m. a Todi nel 1464].
40. [ De docta ignorantia, peroratio].
41. [Giorgio Gemisto Pletone n. a Costantinopoli circa il 1355, m. nel Peloponneso nel 1450. Su di lui v. F. Schultze, Gesch. d. Philos. d. Renaiss., vol. I: Georgios Gemistos Pleton und seine reformatorischen Bestrebungen].
42. [Il Bessarione n. nel 1403, m. a Ravenna nel 1472].
43. [N. a Roma nel 1405, m. nel 1457].
44. [Rolef Huysmann n. a Baflo presso Groeningen nel 1443, m. nel 1485. Sua opera principale: De inventione dialectica, 1480].
45. [I passi citati dallo Spaventa sono tolti dal De hominis dignitate e dall'Heptaplus, c. 6; in Opera Omnia, Basilea, 1572, t. 1, p. 314, e 38-9].
46. [Latin. Fr. Georgius, Veneto, autore di uno scritto: De harmonia mundi totius cantica, Venetia, 1525].
47. [N. nel 1455, m. nel 1522. Sue opere filosofiche: De verbo mirifico (1494) e De arte cabbalistica (1517). Su lui: L. Geiger, J. R.: sein Leben n. seine Werken, Leipzig, 1871].
48. [Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, n. a Colonia nel 1486, m. a Grenoble nel 1535].
49. [Nic. Leonico Tomeo, 1456-1553].
50. [Dove morì il 2 agosto 1512. Cfr. Fiorentino, P. Pomponazzi, Firenze, Le Monnier, 1868, pag. 252].
51. [N. nel 1462, m. nel 1525. Su lui v. il lavoro cit. del Fiorentino].
52. [De immortalitate animae, Bologna, 1516, cap. 9].
53. [De immortalitate, cap. 9].
54. [Giov. Lud. Vives, spagnuolo, di Valenza, 1492-1540].
55. [Mario Nizolio, 1488-1566. Cfr. la mia nota in Opere italiane di G. Bruno, I, 161].
56. [N. nel 1515, m. nel 1572].
57. [N. il 16 febbraio 1497, m. il 19 aprile 1560].
58. [Teofrasto Bombaste von Hohenheim, 1493-1541].
59. [Bernardino Telesio, di Cosenza, 1509-1588. Della sua opera maggiore De natura rerum iuxta propria principia, in IX libri, i primi due vennero in luce a Roma nel 1565 (rist. nel 1570): tutti poi a Napoli nel 1587].
60. [De rer. natura, lib. I, c. 1].
61. [De rer. nat., lib. VIII, c. 5].
62. [Francesco Patrizzi, 1529-1597. L'op. cit. dall'A. Nova de universis philosophia fu pubbl. nel 1591].
63. [Andrea Cesalpino, 1519-1603: v. F. Fiorentino, Vita ed op. di A. C., in N. Antol., 15 ag. 1879].
64. [Giacomo Zabarella, prof. a Padova, 1532-1589].
65. [Cesare Cremonini, n. 1550, m. 1631. Scarso valore ha l'Étude historique sur la philos. de la renaiss. en Italie (C. Cremonini) par L. Mabilleau, Paris, Hachette, 1881].
66. [Giulio Cesare Vanini, n. 1585, a Taurisano, in Puglia, bruciato vivo nel 1619 a Tolosa].
67. Su tutto questo periodo, oltre molte pregevoli monografie, di cui dobbiamo essere grati a' dotti tedeschi, cfr. il 1.º vol. della Storia della fil. moderna (ted.) del Ritter, Amburgo, 1850. [Dal Ritter sono tolte le citazioni di testi che occorrono in questa lezione].
68. [Vedi i Saggi di critica, pp. 3-36. Sono notissimi gli studi posteriori di L. Amabile (Fra T. Campanella, la sua cong., i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Napoli, Morano, 1882; Fra T. Pignatelli, la sua cong. e la sua morte, ivi, 1887; Fra T. Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma e in Parigi, ivi, 1887); che illustrò con gran copia di nuovi documenti e con molto acume tutta la biografia del Campanella, mettendo bene in chiaro la storia della sua congiura].
69. Vedi il loro giornale la Civiltà Cattolica, passim. [Negli anni 1854-6 tra questo giornale e lo Spaventa si dibattè nna lunga polemica intorno alle dottrine politiche dei gesuiti del sec. XVI e quelle dei gesuiti del secolo XIX. Cfr. il Discorso premesso agli Scritti filosofici, § III. Quegli articoli dello Spaventa dovranno veder la luce, per mia cura, in un volume della Biblioteca storica del Risorgimento italiano, diretta da V. Fiorini e T. Casini].
70. Tommaso Campanella, nel Cimento di Torino [nei Saggi cit., p. 19, dove nota che l'osservazione era stata fatta dal Ritter, Storia cit., t. II, 5].
71. [Ritter, Storia, II, 15].
72. Nos esse, et posse, scire et velle certissimum principium primum — Cognoscere est esse — Notitia sui est esse suum [Metaph., VI, 8, articoli 1 e 4]. — Mens ab objectis non movetur, sed excitatur ad notionem; ipsa vere per se noscit. — Anima est infinita in potendo, intelligendo, appetendo [Philos. realis, parte I, q. LIV, art. 2]. Se novit nativo sensu, — arte propra innata [De sensu rer., II, 30]. — Animata et res cognoscentes notitia innata cognoscere se ipsas praesentialiter [Metaph., VI, 8, art. 1]. Così Campanella è precursore di Cartesio. — Sentire est sapere [Metaph., I, art. 1]. Notitia aliorum est esse aliorum [ibid., VI, 8, art. 4]. Così Campanella, seguendo Telesio, è precursore di Locke. — Vedi i miei scritti su Campanella pubblicati nel Cimento [e poi in Saggi di critica, pp. 33, 11].
73. «Così noi siamo promossi a scoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio dell'infinito vigore, e abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo a presso, anzi di dentro, più che noi medesimi non siamo dentro a noi». — Vedi la mia Filos. prat. di G. Bruno, in Saggi di filos. civ., Genova, 1852 [pp. 440-70] e Dell'amore dell'Eterno e del Divino di G. B., Riv. Ital., 1854, Torino [Entrambi questi scritti sono ristampati nei Saggi di critica, Napoli, Ghio, 1867; dove sono pure rist. una memoria sulla Dottrina della conoscenza in G. B. del 1865 e una nota sul Conc. dell'infinità in B., del 1866. Del B. lo Spaventa anche discorre nella prolusione Car. e sviluppo citata, e nell'art. sulla Vita del Berti, rist. nel vol. Da Socrate ad Hegel, N. Saggi di critica, Bari, Laterza, 1905, pp. 65-102].
74. [Allude probabilmente a C. Botta, il quale nella St. d'Italia contin. da quella del Guicciardini, lib. XV, t. III, p. 429 dell'ediz. Parigi, Baudry, 1832, dice: «Due frati domenicani furono mandati da Dio, o piuttosto dal suo avversario ad avvelenare queste sacre fonti, e spaventare il mondo di ciò, che più il doveva consolare. L'uno di questi fu Giordano Bruno da Nola, l'altro Tommaso Campanella da Stilo in Calabria. Costoro, usando, o per meglio dire, abusando della libertà nuova di speculare, trascorsero in opinioni empie e pericolose. Non fermerommi a parlare del primo, perciocchè avendo insegnato, che i soli Ebrei erano i discendenti di Adamo, che Mosè era un impostore ed un mago, che le sacre scritture sentivano del favoloso, ed altre bestemmie ancora peggiori di queste, fu arso a Roma al modo di Roma nel 1600, rimedio abbominevole contro opinioni pazze. Ma le opinioni pazze ed irreligiose di Giordano non ebbero sèguito...»].
75. Jacobi, Buhle, Schelling, Steffens, Hegel. — Wagner fa l'edizione delle opere italiane; Gfrörer di gran parte delle latine. [L'Jacobi si occupò del Bruno nella 2.ª ediz. della sua opera Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen (1789), dove inserì un estratto dei diall. De la causa, principio ed uno: cfr. la mia prefaz. all'ediz. delle Opere ital. del B., vol. I, pp. X-XI. Il Buhle nella Commentatio de ortu et progresso Pantheismi inde a Xenophane Colophonio primo ejus auctore usque ad Spinozam, Göttingen, 1790; e nella sua Gesch, d. neuern Philosophie, Göttingen, 1796-1804, II, 703 e sgg. — Lo Schelling nel dial. Bruno oder liber das natürliche n. götlliche Princip der Dinge, Berlin, 1802 (trad. in ital. dalla Florenzi-Waddington, Milano, 1844, e Firenze, 1859: per una più recente trad. it. v. La Critica, IV (1906), 461-66). — Lo Steffens ne' Nachgelassene Schriften (Berlin, 1846), §§ 43-70: Ueber das Leben des Jordanus Bruno. — Hegel nella Gesch. d. Philosophie2, III, 201-18. L'edizione del Wagner, delle opere italiane, uscì a Lipsia nel 1830 (e una volta lo Spaventa aveva fatto il disegno di riprodurla; cfr. la mia pref. cit. alle Opere ital., v. I, p. XIII); quella del Gfrörer, delle opere latine, uscì a Stuttgart nel 1834].
76. [Spinto = spento].
77. Bruno, Opp. it., II, 108-9 [ed. Gentile, II, 5].
78. [Opp. ital., ed. Gentile, I, 262].
79. [A questo punto, nell'originale che servì alla 1.ª ediz. (e che ora è presso di me), lo Spaventa soggiungeva: «Tale era l'uomo, che a Roma era condannato come ateo»].
80. Opp. ital., vol. II, p. 16; 336-7 [ed. Gent., I, 277-8, e II, 342-3. Il son. Poi che spiegate è riferito dal B. negli Eroici furori, ma è del Tansillo. V. l'ediz. citata, p. 843 n.].
81. [Hegel, Gesch. d. Philos.2, III, 203].
82. [Car. e sviluppo, ecc. in Scritti filosofici, pp. 133-4. Da questo scritto anche qui addietro l'A. riproduce testualmente alcuni brani].
83. [Di Spinoza lo Spaventa s'era occupato in un art. del 1856, Critica dell'infinità dell'attributo, rist. in Saggi di critica, pp. 867 ss. Ne discorse poi a lungo nel vol. su La filosofia di Gioberti, Napoli, 1868, nel libro III (tutto consacrato «allo spinozismo del Gioberti»); e nel 1867 nella memoria Il conc. dell'opposiz. e lo spinozismo, in Scritti filosofici, pp. 277 ss.].
84. «Per Naturam naturantem nobis intelligendum est id quod in se est et per se concipitur, sive talia substantiae attributa, quae aeternam et infinitam essentiam exprimunt, hoc est Deus, quatenus ut causa libera consideratur.
«Per Natura naturatam intelligo id omne, quod ex necessitate Dei naturae sive uniuscujusque Dei attributorum sequitur, hoc est, omnes Dei attributorum modos, quatenus considerantur ut res, quae in Deo sunt et quae sine Deo nec esse, nec concipi possunt». Eth., I, 29, Schol. [La terminologia natura naturans, natura naturata, naturari (= φύεσθαι) rimonta alla più alta Scolastica. In Eckheart si trova ungenaturte natur e genaturte natur. Vedi Eucken, op. cit., pp. 68, 122, 172. Intorno al rapporto della dottrina spinoziana con la scolastica, vedi lo scritto di J. Freudenthal, in Aufsätze E. Zeller zu s. 50 jähr. Doctorjub. gewidm, Lpz. 1887, pp. 83 ss.].
85. V. il paragrafo seg.
86. [Sopra questo punto tornò tre anni appresso lo Spaventa nella cit. memoria su la Dottrina della conoscenza in G. B., rist. nei Saggi di critica, pp. 196 ss.].
87. Bruno, De la causa, principio ed uno; e De l'infinito, universo e mondi.
88. So bene, che la formola giobertiana è fatta oggi un po' ridicola; e devo anche confessare, che quando l'odo profferire con tanta solennità da certuni, non posso fare a meno di ridere anch'io; e rido, non come avversario, ma perchè.... mi viene da ridere. In verità, tale è il destino di tutte le formole, quando sono ridotte a non aver altro valore, che quello di tre o quattro parole enfatiche messe insieme e sostenute dalla vaga rappresentazione, e capitano in mano de' soliti guastamestieri. Non ci è angolo, dirò così, dell'esistenza e della vita, in cui non l'abbiano portata e ficcata per forza, come un chiodo in un asse; e credono che basti avere in tasca questo chiodo, per poter superare ogni difficoltà. Se devono dire che piove, o che fa caldo, non sanno dirlo che cominciando dalla formola. — L'Ente crea l'esistente; dunque piove. L'Ente crea l'esistente; dunque fa caldo, etc. etc. — Tutto questo, dunque, io lo so, e per esperienza oramai un po' lunga. Ma il ridicolo finisce qui, e la cosa diventa seria, quando si considera il nesso delle ricerche di Gioberti, la sua relazione con Rosmini, l'origine, dirò così, storica della formola, e specialmente il significato di essa, come è espresso in tutti que' luoghi delle sue opere, specialmente delle postume, che non sono nè una parafrasi del catechismo, nè uno sfoggio rettorico. La cosa diventa seria, sebbene sia vero che la scienza non è una formola, e che il vizio di Gioberti — divenuto poi malattia cronica ne' giobertiani — era appunto quello di creder troppo all'efficacia delle formole.
89. [Carattere e sviluppo cit., in Scritti filosofici, pp. 139-41. Del Vico tornò lo Spaventa a parlare nella lettera Paolottismo, positivismo, razionalismo del 1868; rist. negli stessi Scritti, pp. 291 ss.].
90. Protologia [ed. Torino, Botta] II, 725-6: «La vita universale dell'esistenza è la evoluzione della mentalità, cioè la storia della coscienza da' suoi primi principii fino agli ultimi progressi. Ogni realtà è coscienza o iniziale o attuale. La realtà non è tale, se non possiede se stessa, se in sè non si riflette, se non è identica a se medesima. E questa riflessione, medesimezza è la coscienza. Fuor della coscienza non vi ha nulla, nè nulla può essere. Esistenza, pensiero, coscienza è tutt'uno. I varii gradi, stati, processi della realtà non sono altro che quelli della coscienza. Questo psicologismo trascendente è il vero ontologismo. L'intuito di questo vero è la parte pellegrina e profonda del sistema di Fichte. Il resto è antropomorfismo. Cartesio ci preluse senza addarsene, dicendo: Io penso, dunque sono. Ma non ebbe il menomo sentore de' tesori, che si acchiudono in questa sentenza, ecc.».
91. [Bruno, De la causa, principio e uno, ed. Gentile, I, 256-7. Questa critica di Aristotele era stata fatta dal Cusano nel De Berillo, 1454. Cfr. la mia nota ivi].
92. Sc. nuova, p. 458.
93. Op. cit., pp. 466-7.
94. Op. cit., pp. 284, 286.
95. Op. cit., p. 286.
96. Op. cit., p. 284.
97. Op. cit., p. 406 e segg.
98. V. Prolus., [qui sopra], pag. 27.
99. [Vedi dell'autore la Filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofa italiana (1866) in Scritti filosofici, ed. Gentile, p. 16; Kant e l'empirismo (1880), ivi, pp. 81-114, e l'opera postuma Esperienza e metafisica, Torino, Loescher, 1888].
100. V. la Lezione seguente.
101. [Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, 1819-1832, in 6 voll.].
102. [Cfr. i citati scritti La Filos. di Kant, Kant e l'empirismo, in Scritti filosofici, pp. 19-20, 96-100. Per le difficoltà che sono state opposte a questa interpretazione cho lo Spaventa diede della gnoseologia del Galluppi, v. Fiorentino, La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Morano, 1876. Vedi anche Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cap. VII].
103. Introd. allo studio della filos., vol. II, 192 (ediz. Losanna, Bonamici, 1846). [Cfr. Spaventa, La filos. di Gioberti, pp. 430-7].
104. [Questa critica sul Galluppi risale al 1857: cfr. la lettera di Bertrando a Silvio Spaventa del 18 luglio di quell'anno, in S. Spaventa, Dal 1848 al 1861; lett., scritti, docc. pubbl. da B. Croce, Napoli, Morano, 1898, pp. 203-5].
105. [Intorno al significato di esperienza v. Scritti filosofici, p. 88].
106. V. Lezione antecedente.
107. V. Lez. antecedente.
108. [Riassume dalla Wissenschaftslehre].
109. Kant e sua relazione, etc., già cit. [Scritti filosofici, pp. 48-9].
110. La filosofia di Gioberti [pp. 288-300].
111. [Vedi in proposito Gentile, Rosmini e Gioberti, Pisa, Nistri, 1898, pp. 190-1].
112. Nuovo saggio sull'origine delle idee, sez. V, part. VI, cap. I.
113. [Cfr. le parole del Gioberti ricordate più su, pag. 118].
114. V. lo Schizzo d'una storia logica [nella parte II di questo volume].
115. V. il mio articolo: Filosofia di Gioberti, nell'Enciclopedia popolare di Pomba, Torino. [Tutto questo capoverso «l'Intuito è l'apprensione...» è un brano del detto articolo].
116. Protologia; Filosofia d. Rivelazione, passim.
117. La esposizione completa di questi momenti e della loro contradizione, — la prova di quel che qui è detto solo in modo sommario e senza documenti, — si vedrà nell'opera: La Filosofia di Gioberti [di cui il vol. I e unico venne in luce l'anno appresso: Napoli, Vitale, 1863].
118. [Così lo chiamava V. Cousin].
119. Il testo dice creato. È evidente, che è uno sbaglio, credo, di stampa.
120. § CXXIV, 188-192. [Cfr. l'op. cit. La filos. di Gioberti, pag. 72, n. 2, dove l'A. cita lo stesso passo e soggiunge: «Ecco il vero Gioberti. Se vi ha qui un difetto, è solo l'apparenza che l'autonomia sia lo stesso arbitrio dell'individuo»].
121. [Prolegomeni del Primato morale civile degli Italiani scritti dall'autore, Brusselle, 1845 (1.ª ediz.), pp. 425-26 e 891-2].
122. [Ed. cit., II, 12-3].
123. V. questo circolo nella Teorica del Sovrannaturale, pag. 57 seg. Questo tema del sovrintelligibile sarà trattato ampiamente nella Filosofia di Gioberti [pp. 72-99].
124. V. Lez. VI.
125. Gioberti, Introd., II, pag. 448.
126. Vedi la Prolusione [parte I di q. vol.].
127. I, 156.
128. Cito un solo luogo: «Libertà della filosofia. Essa è Indipendente, e a ciò non osta l'autorità cattolica; perchè il cattolicismo e il cristianesimo essendo fondati sulla filosofia (RAGIONE), questa perciò viene ad essere indipendente e superiore. Vero è che in ordine ai misteri la filosofia dee famulari; MA, ubbidendo ad una potenza da sè costituita, ubbidisce in effetto a se stessa. A stabilire la maggioranza assoluta della religione vorrebbe abbracciarsi il sistema assurdo del Lamennais sull'autorità; il qual sistema si riduce a quello dell'ubbidienza cieca de' Gesuiti». Riforma Cattolica, § CLXXIV.
129. V. questa stessa Lezione, Parte prima.
130. [Il celebre teologo abruzzese Giovanni Pietro P. (1794-1878), le cui Praelectiones theologicae raggiunsero la 31.ª ed., 1866].
131. Riforma Cattolica, § CL.
132. [V. dello Spaventa la nota Spazio e tempo nella prima forma del sistema di G. (1864) In Scritti filos., pp. 153 ss.].
133. Gioberti, Introd., vol. III, pag. 5-17.
134. Prot., I, 34, 36, 38, 39, 40, 41; 192-3.
135. Prot., I, 148.
136. Rif. cattol., p. 188 già cit.
137. [Pelasgi diceva il Gioberti le popolazioni primitive, da cui sarebbero provenuti gli etruschi (e quindi tutti i popoli italici) da una parte e gli elleni dall'altra; e la cui sede originaria («prisca Pelasgia») sarebbero state probabilmente «le falde e le pendici apennine» (v. Primato, I.ª ed., II, 53-4). E la civiltà pelasgica (o italo-greca) sarebbe stata la matrice di tutta la moderna civiltà europea: passata una prima volta nell'antichità classica, dall'Italia in Grecia per ritornare quindi in Italia; e poi una seconda volta mossa col cristianesimo da Roma, a cui sarebbe dovuta tornare col nuovo risorgimento del primato italiano].
138. [Una parte di questo corso di logica lo Spaventa pubblicò infatti nei Principii di filosofia (Napoli, 1867) rimasti incompiuti].
139. Cfr. Zeller, Fil. d. Greci, 2.ª parte, 2.ª metà, pag. 130 seg.; e Prantl, Stor. d. Logica, sez. IV.
140. Più comune, in questo senso: sinagoge.
141. V. Introduz., Lez. VI [qui sopra pag. 111 e ss.].
142. Vedi l'Introduz., Lez. VIII [qui sopra pag. 150 e ss.].
143. [Per questo confronto v. pure Spaventa, Da Socrate a Hegel, pp. 89 e sgg.].
144. V. Introduz., lez. VIII.
145. V. il mio scritto: Kant e la sua relazione colla filosofia italiana [negli Scritti filos. cit.].
146. V. la Nota in fine [p. 267].
147. Einleitung zu seinem Entwurf eines Systems der Naturphil., pag. 1 [1799; rist. in Sämmtl. Werke, I Abth. 3 Bd.].
148. Produttivo = creativo. Produrre qui è mentalizzare, creare; chi produce e l'Intelligenza, l'Io di Fichte come identità.
149. [Hegel, Phänomenologie des Geistes, ed. Lasson, pag. 19].
150. Gioberti dice: «riproduzione fedele dell'organismo ideale».
151. Gioberti dice: «l'unità del logo è rifatta dalla logica».
152. V. l'Einleitung già cit., pag. 7 e segg. [V. tutta la pagina dello Schelling trad. dallo Spaventa nei Principii di Etica, Napoli, Pierro, 1904, pp. 41-3. Pel Krug e la sua pretesa cfr. Hegel, Encicl., § 250; trad. Croce, pp. 202-3].
153. v. nota prec.
154. [Allusione ad Augusto Vera (1813-1885), l'altro maggiore hegeliano dell'Università di Napoli, il quale era appunto di quest'avviso. Vedi R. Mariano, A. Vera, Saggio biograf., Napoli, Morano, 1887, pp. 60-61. E riflette appunto il pensiero del Vera il saggio dello stesso Mariano, La philos. contemp. en Italie, Paris, 1868 (scritto in opposizione a questo lavoro dello Spaventa). Vedi anche sul proposito, Fiorentino, La filos. contemp. in Italia, Napoli, 1876, pp. 34-5].
155. [Loc. cit.].
156. [Vedi la lettera dello Spaventa al fratello Silvio, in data 8 dic. 1861, nell'Appendice di questo volume.].
157. V. Introduz., Lez. VI.
158. Protologia, I, 37.
159. Prot., II, 8 segg.
160. Protologia, II, 7.
161. V. lo Schizzo precedente [pag. 230].
162. V. Introduz., Lez. VI, B), nota.
163. [Spinoza, Eth., I, Def. 1].
164. V. Introduz., Lez. V.
165. Sull'ultima differenza de' sistemi filosofici, Berlino, 1847.
166. V. Introduz., Lez. V.
167. K. Fischer [nel I vol. della sua Gesch. d. neuern Philos., la cui prima ed. è del 1854-77].
168. Dell'infinità dell'attributo, contro il Mamiani nella Rivista Il Cimento, Torino, 1855 [v. i Saggi critici, Napoli, 1867, pag. 368 e ss.; e leggi ivi la nota a pag. 373. Vedi anche la lett. dello Spaventa al fratello Silvio del 12 maggio, 1858, nel cit. vol. Croce, S. Spaventa, Dal 1848 al 1861 ecc., pp. 225 ss. e la soluzione originale della famosa controversia tra l'Erdmann e il Fischer intorno al valore dell'attributo spinoziano nella Filosofia di Giob., I, 348 ss.: nonchè negli Scritti filosofici, pp. 284 ss.].
169. Prefaz. al Bruno di Schelling [nella trad. della Florenzi Waddington, Milano, 1844, pag. 81].
170. V. Introduz., Lez. V.
171. Vedi le parti che ne abbiamo pubblicate B. Croce ed io nella Critica del 1906 (IV, 223, 397, 483): Documenti inediti sull'hegelismo napoletano.
172. Un tal Francesco Calicchio, sedicente democratico, che era stato fatto arrestare ai primi del 1861 da Silvio Spaventa, consigliere di luogotenenza e ministro di polizia, come pubblico perturbatore. Nel 1865 costui aggredì per via Toledo lo Spaventa; e fu processato e condannato. V. in difesa di lui l'opuscolo di Marziale Capo, Causa Calicchio-Spaventa, Napoli, Stamperia del Popolo d'Italia, 1865.
173. Vedi sopra pp. 5 e seg.
174. Cfr. nota a p. 7.
175. Su Giacomo Lignana (1829-1891) vedi la Commemorazione di B. Croce (Napoli, 1892) negli Atti dell'Accad. Pontaniana, vol. XXII, e la mia nota negli Scritti filosofici di B. Spaventa, pp. 279-80.
176. Vedi sopra pp. 45 e seg.
177. Si allude al prof. Enrico Pessina. Vedi il Discorso premesso agli Scritti filos., pp. XCVI e seg.
178. Antonio Ciccone, n. in Saviano (Terra di Lavoro) il 7 febbr. 1808, m. il 2 maggio 1894, fu uno dei più cari amici dello Spaventa, e suo compagno d'esilio. L'opera sua più notevole i Principj di Economia politica, in 3 voll. Napoli. Vedi su di lui G. Mirabelli, Della vita e delle opere di A. C., in Atti dell'Accad. delle scienze morali e politiche di Napoli, del 1897, vol. XXVIII, pp. 133-48.
179. Luigi Carlo Farini, che fu amico e grande estimatore dello Spaventa.
180. Isabella Scano († 18 dicembre 1901) e Millo (Camillo) Spaventa, tuttora vivente, furono moglie e figlio di Bertrando; Berenice una delle due sorelle, sposata al Sig. Raffaele Paolucci.
181. È scritto nell'originale «novembre»; ma, evidentemente, per errore, avendo Bertrando incominciato le sue lezioni, di cui si parla in questa lettera, solo il 28 novembre.
182. Cfr. sopra pag. 51.
183. Vedi sopra pp. 52-66.
184. Giorno in cui B. Spaventa partì in esilio.
185. Cioè: prima di tornare in patria, a Napoli.
186. Pasquale Stanislao Mancini, solito a siffatte iperboli. Per l'aneddoto qui accennato v. sopra p. 257.
187. Alla lezione corrispondente alle prime pagine (67-70) della lezione 3.ª
188. Cfr. sopra p. 70 «.... Tutte queste determinazioni sono sparse, un po' confusamente, nelle opere de' filosofi nostri e stranieri di quel tempo. Sono semplici indizii, semi e germi, i quali si raccolgono più o meno e hanno maggior vita nella coscienza di Bruno e di Campanella...».
189. Vedi pure sopra p. 71.
190. Federico Quercia (di Marcianise, prov. di Caserta), n. 23 febbr. 1826, scolaro del Puoti, e in filosofia del Palmieri, come in diritto del Savarese. Fu per molti anni provveditore agli studi. Morì nel 1899. Vedi su di lui l'art, di R. de Cesare, Fed. Quercia e la Napoli letteraria di 40 anni fa, nella rivista Flegrea di Napoli, II, 6. — Gatti (Stanislao) è il noto scrittore, critico e giornalista, di cui si hanno due volumi di Scritti varj di filosofia e letteratura, Napoli, 1861, Stamp. Nazionale, e parecchi articoli sparsi per le riviste. V. intorno a lui in F. de Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, Napoli, 1898, p. 206, una nota di B. Croce.
191. Procurati allo Spaventa dal discorso da lui pronunciato al Parlamento l'8 dicembre 1861; v. R. de Cesare, S. Spaventa e i suoi tempi, nella Nuova Antol. del 1.º luglio 1893, p. 50.
192. R. Mariano scrive invece che quella prolusione fu per molti giovani che erano ad ascoltarla «come una rivelazione», e per lui «proprio la voce dall'alto sulla via di Damasco». A. Vera, Saggio biografico, Napoli, Morano, 1887, pp. 37. Essa venne inserita nel Politecnico di Milano, fasc. di maggio 1862 (XIII, 199-222), ed è intitolata: Della storia della filosofia. Il Vera la ristampò quindi ne' Mélanges philosophiques, Paris, 1862
193. Scrivendo forse la Nota alla Prolusione, pp. 34-41.
194. Era rettore dell'Università Giuseppe de Luca, insegnante di geografia, e dal 1884 incaricato anche dell'insegnamento della statistica; autore di varii libri di geografia.
195. M. Monnier in un suo art. Le mouvement italien à Naples de 1830 à 1865, della Revue dea Deux Mondes (15 avril 1865, p. 1038), accenna a «deux petites émentes» che sarebbero state suscitate nel 1861 dai professori privati e qui, n'ayant pu fournir leurs titres, avaient perdu leur gagne-pain» — «La première fut un soulévement d'étudians qui sifflérent leurs maîtres en criant à la fois: À bas De Sanctis! à bas Hegel! à bas le Pape-roi! Le ministre et le philosophe étaient injuriés, comme on volt, en pieus compagnie». — E questa prima (nonostante la discrepanza delle date) deve corrispondere alla dimostrazione di cui parla lo Spaventa in questa e nella VI lettera. Dell'altra, dovuta a un cotal fanatico predicatore della chiesa del Salvatore (vicina all'Università), ricordata anch'essa, più avanti, in queste lettere dello Spaventa, così scrive il Monnier: «La seconde émeute fut plus grave, elle vint du dehors. Excitée par an prêtre, la populace, armée de pierres et de couteaux, même de pistolets, se rua sur l'université, dont elle envahit les salles. Il y ent des vitres cassés, du sang versé. La garde nationale dut intervenir. On était encore en révolution, et l'on so permettait quelques vivacités de polémique. Le prêtre fut mis en prison; on lui conseilla de ne plus faire de philosophie en chaire, et on l'acquitta». — Questo tumulto avvenne il 15 marzo '62 e vi s'accenna nella lettera di Silvio a Bertrando Spaventa, più sotto riportata, del 20 marzo 1862 (lett. XI), responsiva ad una lettera di Bertrando andata smarrita. Cfr. anche la lett. XII.
196. Al solito!
197. Un tal Silvio Verratti, anche lui democratico di professione e autore di libelli contro Silvio Spaventa. È morto or è qualche anno. «Zuppetta» è Luigi Zuppetta, repubblicano e professore pareggiato di diritto penale. «De Boni» sarà il noto Filippo de Boni, di Feltre (1820-1870).
198. Il Nicotera era tra i capi del partito democratico nell'Italia meridionale; e tra lui e lo Spaventa era odio fierissimo.
199. Sul motivo di queste dimissioni vedi ciò che lasciò scritto Giovanni Lanza, in Tavallini, La vita e i tempi di G. L., Torino, Roux e C., 1887, vol. I, pp. 275-6, e la lettera di C. Cadorna al Lanza, ivi, II, 278 e sgg.
200. Il prof. Andrea Angiulli di Castellana (prov. di Bari), n. il 12 febbraio 1837, m. a Roma il 2 gennaio 1890; il quale potè, mercè l'appoggio dello Spaventa, andare quell'anno a Berlino pel perfezionamento negli studi filosofici. Giacchè l'Angiulli allora era anche lui hegeliano; e da Berlino il 15 dicembre '62 scriveva allo Spaventa: «Qui in generale si avverte una certa reazione contro gli studi filosofici. La cattedra di Trendelemburg è la più numerosa, appunto perchè si crede di restare con lui nel concreto; ma io vedo però che dalla sua scuola escono giovani, i quali di filosofia non sanno che dilettarsi su quistioni di qualche categoria, e, campati in aria così come è campato il movimento del maestro, credono di dare fondo all'universo e di rovesciare il colossale monumento dell'idealismo assoluto. Ogni volta che m'incontra di osservare la leggerezza di qualcuno qui, mi nasce forte nell'animo la speranza, che noi forse potremo riprenderci un dì il primato della filosofia in Europa, presentandola in una forma più compiuta e più armonica. Il che avverrà per mezzo della libera speculazione, di cui siete così degno maestro costì. Chè oramai i vecchi cenci della filosofia pretesca possono spacciarsi coi ferravecchi». Questa lettera ora è stata pubblicata integralmente dal Croce nella Critica, IV (1906), 232. Sull'Angiulli vedi l'art. di G. A. Colozza nel Dizionario illustr. di pedagogia di Credaro e Martinazzoli: e l'opuscoletto di F. Orestano, Angiulli, Roma, 1907 (nella Bibl. Pedag. de «I diritti della scuola»).
201. Francesco Brioschi, allora segretario generale della Pubblica Istruzione.
202. Per il ministero Rattazzi-Sella-Depretis, costituitosi il 3 marzo 1862.
203. Gustavo Benso marchese di Cavour, fratello maggiore di Camillo, filosofo rosminiano, in politica moderatissimo. Di lui ci restano un volume di Fragmens de Philosophie (Torino, Fontana, 1841) e un Saggio sui principj della morale, nel Cimento del 1852, oltre alcuni altri articoli minori nella stessa Rivista e altrove. Per notizie su di lui vedi D. Berti, Cavour avanti il 1848, Roma, 1886, e il mio Rosmini e Gioberti, Pisa, Nistri, 1898, pp. 156-7.
204. La Storia Universale, di cui la prima edizione uscì a Torino, pei tipi del Pomba, negli anni 1838-46, in 35 volumi.
205. Liborio Romano (1794-1867), ultimo ministro degl'Interni dei Borboni di Napoli, che, dopo aver fatto partire Francesco II, invitò Garibaldi, e aiutò per qualche tempo il dittatore nel difficile governo di Napoli.
206. Sul Tari v. uno scritto di B. Croce nella rivista la Critica, V (1907), 365-6.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Trendelenburg/Trendelemburg e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.