Title: La Vita Italiana nel Settecento: Conferenze tenute a Firenze nel 1895
Author: Various
Release date: September 6, 2019 [eBook #60249]
Language: Italian
Credits: Produced by Barbara Magni and the Online Distributed
Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was
produced from images made available by the HathiTrust
Digital Library)
LA
VITA ITALIANA
NEL
SETTECENTO
Conferenze tenute a Firenze nel 1895
DA
Romualdo Bonfadini, Isidoro Del Lungo, Ernesto Masi, Vittorio Pica, Guido Mazzoni, Ferdinando Martini, Matilde Serao, Enrico Panzacchi, Giovanni Bovio, Alberto Eccher, Antonio Fradeletto.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
Quinto migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Tip. Fratelli Treves. — 1908.
[1]
CONFERENZA
DI
Romualdo Bonfadini.
[3]
Uno dei fenomeni che colpiscono maggiormente i lettori di storia — quando riflettono — sta nella costante accelerazione degli svolgimenti sintetici d'ogni natura, a misura che ci allontaniamo dalle epoche primigenie; sta nella sempre maggior brevità di quei periodi ricostruttori o elaboratori di cose nuove, che un tempo duravano più secoli e suggerivano al poeta latino il pensoso: mortalis ævi spatium....
Chiamatelo, secondo le leggi morali, progresso; chiamatelo, secondo le leggi statiche, moto uniformemente accelerato; certo è che quelle mutazioni generali di pensieri, di abitudini, di legislazioni, di vita civile, a cui nell'evo antico appena bastavano dieci generazioni d'uomini, si sono compiute più tardi nello spazio di un secolo, e, venendo più presso a noi, in cinquant'anni od in trenta.
[4]
Uomini ed eventi esercitavano, nelle prime epoche dell'umanità, un'azione così passeggiera e così lenta che quasi non s'avvertiva. Le grandi monarchie orientali impiegarono più di un millennio e mezzo a sorgere, a brillare, a distruggersi, senza che il mondo antico apparisse, dopo così grandi catastrofi, notevolmente mutato. Roma era vecchia di oltre cinque secoli, quando cominciò a far avvertire la sua presenza fuori de' suoi confini. Sesostri, Ciro, Cambise, Alessandro il Macedone, malgrado il loro genio e le loro conquiste, non lasciarono negli ordinamenti del mondo maggior traccia di quella che lascia una frana di monte, rotolatasi nell'Oceano. L'umanità doveva giungere fino al Pescatore di Galilea, per sentirsi tratta a mutare in sè e di sè tanta parte di pensieri e di scopi. Eppure ci vollero quasi mille anni perchè il Cristianesimo vincesse, soltanto in Europa, tutti gli antichi Iddii. E i quattrocento anni dell'Impero romano occidentale dimostrano che, dopo la scossa data alle vecchie compagini sociali da Cesare e da Augusto, il mondo s'era ricantucciato nella schiavitù nuova e non accennava a riscuotersi più.
Colla discesa dei barbari nell'Europa, divenuta ormai l'unico fattore di trasformazioni sociali, la storia comincia a pigliare avviamenti più rapidi. Attila rinnova il mondo colla forza, [5] Giustiniano col diritto. Nel medio evo, i periodi elaboratori diventano anche più frequenti e più intensi. Carlo Magno, gli Ottoni, la casa di Svevia danno gli ultimi colpi alla marmorea e millennaria tradizione romana. Da un secolo all'altro, le condizioni della società umana cominciano ad assumere aspetti diversi; ora sotto l'influenza delle Crociate, ora sotto quella del risveglio artistico e letterario, ora sotto gli influssi economici allargatisi per la scoperta d'America. Le plebi cominciano a rialzarsi; l'aristocrazia da feudale diventa cittadina; le necessità dei commerci danno varietà alle legislazioni civili; gli Stati si costituiscono; sorgono le questioni nuove dell'equilibrio politico.
È così che, avvicinandosi ai tempi nostri, la mutazione organica delle cose appare più evidente e quasi continua; sicchè, mentre nel tempo antico un uomo di pensiero doveva spingere lo sguardo a due o tre secoli addietro per cogliere i sintomi di un movimento nella compagine umana, potè più tardi limitarsi ad esaminare il corso della propria vita, per trovarvi elementi di novità intellettuali, politiche, sociali, talvolta tanto più meravigliose nell'ultimo effetto loro quanto meno s'era avvertito il loro sorgere e il loro concatenarsi.
[6]
*
Uno di questi periodi storici, a rapide evoluzioni e a multiformi sorprese, ci presenta la seconda metà del secolo decimottavo, al quale finalmente sono giunte queste conferenze sulla vita italiana, dopo avere cominciato a frugare per entro i secoli oscuri e dopo avere illustrato i secoli gloriosi.
Uscivamo da un lunghissimo periodo di decadenza intellettuale e morale. Da dugent'anni avevamo perduto ogni elaterio di vita pubblica, ogni diritto ed ogni virtù d'iniziativa paesana. In un secolo e mezzo, soltanto il Galileo ci aveva dato l'orgoglio dell'antica grandezza intellettuale italiana. Ma, letterariamente, eravamo passati dall'Ariosto e dal Machiavelli a Gregorio Leti e al cavalier Marino; artisticamente, imbrattavamo di calce gli affreschi dei quattrocentisti, per ridipingere su quelle preziose pareti le fiamme dei dannati o le colossali effigie di San Cristoforo; giuridicamente, eravamo ritornati alle più fitte ignoranze del medio evo, mediante i grotteschi processi contro le streghe e contro gli untori. Politicamente poi, nulla era più tristo e più umiliante dei vari regimi italici; ballottato tra Francesi, Spagnoli, Tedeschi, l'elemento indigeno s'era piegato a tutte le tirannie, [7] a tutte le pompe di quei governi violenti o ridicoli. I pochi principi di famiglie nazionali, come i Medici e i Gonzaga, s'affondavano nel lezzo dei cattivi costumi. Nessuna resistenza di moltitudini, nessuna protesta di pensatori fermava i governanti sullo sdrucciolo delle prepotenze e delle pazzie. Nobili e popolani s'erano acconciati a servitù, e l'uniforme gallonato d'un cortigiano spagnolo o francese trovava curve le schiene e verbosa l'ammirazione degli eredi di Piero Capponi e di Gerolamo Morone.
Questo insieme di ordinamenti politici e di fenomeni sociali sembrava assodato e ribadito nel 1748 dalla pace di Acquisgrana; che, sostituendo l'Austria alla Spagna nella preponderanza sull'Alta Italia, ed aggiungendo al Borbone di Napoli un Borbone di Parma, otteneva l'intento di stringere il nostro paese fra le due famiglie dinastiche ritenute più ostili ad ogni allargarsi di attività nazionali.
Or bene, un uomo che fosse nato, per esempio nel 1730 e si fosse spento, dopo settant'anni, nel 1800, sarebbe invece passato per tali e tante vicende, da non poter più riconoscere nella sua vecchiaia il mondo che gli era stato famigliare nella giovinezza; avrebbe assistito a così larghi mutamenti, a così profonde evoluzioni di costumi, di discipline, di pensieri, di ordinamenti politici, [8] da dover dubitare se veramente non fosse stato almeno doppio il tempo della sua esistenza.
Quest'uomo, per esempio, avrebbe visto, con Giuseppe Parini, sostituirsi all'Arcadia la letteratura civile; avrebbe visto distruggersi la scolastica, spuntare con G. B. Vico la filosofia; avrebbe visto sparire i cronisti e sorgere, col Muratori, la critica storica; avrebbe visto rinnovarsi ab ovo la giurisprudenza, col Filangieri e col Beccaria; avrebbe visto le scienze fisiche far passi da gigante col Volta, col Piazzi, collo Spallanzani; avrebbe visto sgominati i cortigiani politici e risorti gli uomini di Stato, col Tanucci, col Verri, col Bogino, col Fossombroni. Avrebbe visto di più; avrebbe visto una triade d'innovatori fondare un teatro drammatico italiano, col Metastasio, col Goldoni e coll'Alfieri; avrebbe visto uscire dai deliri del barocco due ingegni severi, che riconducevano l'arte al culto delle linee e del pensiero, Appiani e Canova.
Poi, rivolgendo lo sguardo alle abitudini della vita, quell'uomo si sarebbe accorto di altri fenomeni; avrebbe veduto illuminarsi e lastricarsi le vie cittadine, rimaste per tanti secoli in balìa del fango e dei ladri; avrebbe veduto nella locomozione elegante sostituirsi le carrozze alle lettighe, nell'alimentazione delle infime classi sostituirsi la salubre patata ai grani infraciditi. [9] Avrebbe poi visto una rivoluzione nella salute pubblica, mediante l'innesto del vaiuolo; una rivoluzione nella pubblica educazione, mediante l'espulsione dei gesuiti da tutto il territorio italiano; una rivoluzione nei contatti sociali, mediante la fondazione dei giornali e lo spesseggiare dei ritrovi nelle botteghe da caffè.
Finalmente, quell'uomo avrebbe visto, nei costumi italiani, un rivolgimento inatteso e anche più consolante; avrebbe riudito un linguaggio, a cui da due secoli l'Italia s'era disusata: il linguaggio dell'uomo libero dinanzi al potente, si chiamasse principe o plebe.
Così avrebbe udito, per esempio, Carlo Emanuele III chiedere al Muratori in qual modo pensava di trattarlo ne' suoi Annali, e il Muratori rispondere: “come Vostra Maestà tratterà la mia patria„. Avrebbe udito un Commissario francese invitare Ennio Quirino Visconti a pubblicare un editto ingiurioso per l'onor cittadino, e il Visconti rispondere: “che cercasse altrove i carnefici del suo paese„. Avrebbe udito la bordaglia milanese chiedere al Parini che gridasse “morte agli aristocratici„ e il Parini rispondere: “viva la repubblica, morte a nessuno„. E finalmente avrebbe veduto, nell'ultimo anno della sua vita, una pleiade di alti ingegni e di robusti caratteri sfidare impavida i carnefici del re di [10] Napoli e salire serenamente il patibolo, preparato loro da una regina corrotta e da un ammiraglio fedifrago.
Questi fenomeni di risveglio intellettuale e morale dominano tutto il periodo che va dalla pace d'Acquisgrana alla fine del secolo; e bastano a segnare i caratteri generali di un'epoca ricostruttrice e innovatrice; come sogliono bastare a chiarire le epoche di decadenza quei tristi fenomeni che si riassumono nelle opinioni fiacche, nella paura dei molti, nella frenesia del mutare, nella voluttà del servire.
D'onde poi sia uscito, come sia stato preparato questo rapido rivolgimento nella coltura pubblica e nel carattere nazionale degli Italiani, non par facile congetturare.
Certo, non dovette essere piccola sui nostri settecentisti l'influenza del seicentismo francese, altrettanto glorioso quanto era stato ignobile il nostro. Non si può negare l'analogia che v'è tra il Metastasio e il Racine, tra l'Alfieri e il Corneille, tra il Goldoni e Molière. Nè può credersi rimasta inefficace sullo spirito del Filangeri la grande opera giuridica del Montesquieu. Nè, sugli scritti di Mario Pagano e di Melchiorre Gioja, minore azione esercitarono gli enciclopedisti francesi. Pure, originale è certamente nel Vico il metodo nuovo d'intendere la storia e la [11] filosofia. Non imitò, ma precorse Francesi e Tedeschi col suo classico libriccino, Cesare Beccaria. La profonda concezione istorica da cui nacque la pubblicazione dei Rerum Italicarum scriptores precedette, nel pensiero e nel tempo, le consimili pubblicazioni dei Benedettini francesi e del Pertz. E tutto indigeno fu quel moto di rinnovazione poetica, che, impernandosi sul culto dell'Alighieri, partì da Alfonso Varano per giungere al Cesarotti, al Foscolo, al Monti. E non s'inspirò a nessun modello forestiero, se non forse all'italico Orazio, quella novità di una satira civile e didascalica che, partendo da Gaspare Gozzi, arrivò presto alla sublime ironia del Parini.
Forse, anche la mutazione avvenuta nei regimi politici della penisola potè aiutare il benefico movimento. Le dinastie secolari, quando cessano di rinnovarsi nelle abitudini e nelle idee al contatto dei nuovi indirizzi assunti dallo spirito umano, determinano intorno a sè cristallizzazioni di forme, attraverso le quali è difficile che il pensiero possa trovare la forza di penetrare. Questo era avvenuto alle vecchie famiglie medievali dei Farnesi, dei Medici, dei Gonzaga, rese inette dall'abitudine del fasto e dei godimenti a comprendere le necessità di governo secondo i concetti più austeri che cominciavano [12] a farsi largo. Questo era avvenuto anche più alla boriosa dinastia spagnola, coll'aggravante che, non potendo neanche governare direttamente i suoi dominî italiani di Milano e di Napoli, aveva dovuto lasciare quelle popolazioni sotto l'arbitrio di governatori, più nobili che intelligenti, e sopratutto più intesi a far denari che a promovere giustizia e civiltà.
I mutamenti dinastici avvenuti in Italia dopo la guerra per la successione di Spagna, e ratificati nel trattato di Acquisgrana, rompono in parte, e un po' dappertutto, meno a Venezia, queste cristallizzazioni. La casa d'Austria, insediatasi in Lombardia, vi porta uno spirito più moderno, v'incoraggia un maggiore studio delle questioni amministrative, abitudini più laboriose, più virili, più parsimoniose. I Borboni, installati a Napoli e a Parma, sentono il bisogno di iniziare il loro regime con qualche innovazione che procuri loro il favore dei governati, e secondano le savie riforme di Bernardo Tanucci e del marchese Du Tillot. La Toscana, passata dai Medici ai Lorena, trova nei principi di quella casa uomini d'indole mite, volonterosi di bene, purchè largito a piccole dosi e non disciplinato da logica di principî; insomma il vero tipo di quel dispotismo intelligente, che appariva allora un progresso, dopo tanti despotismi ignobili e crudeli, [13] ma che costituisce oggidì il maggiore pericolo delle società liberali e la più fatale illusione degli spiriti fiacchi e spensierati.
Non è dunque fuor di proposito il supporre che anche da siffatti avvenimenti politici sia venuta, diretta o involontaria, una spinta a quella ricostituzione intellettuale e morale, a cui evidentemente gli spiriti italiani s'erano lentamente preparati nel tempo, e che aspettava soltanto un'occasione per uscire dai sotterranei alla luce.
E, del resto, toccherebbe a troppo alti orgogli l'ingegno umano, se potesse afferrare, anche soltanto nel passato, una sicura sintesi delle cagioni. Quegli stessi ostacoli, o somiglianti, che fermano al problema delle origini le più audaci indagini dello scienziato, trattengono intorno al problema delle leggi evolutive il moralista o il filosofo della storia. Quegli intervalli, quelle soste, quei salti che turbano, senza impedirlo, il lento avanzarsi delle razze umane verso il miglioramento indefinito dell'avvenire, possono bensì precisarsi nei fatti, ma non si riesce a sottoporli a discipline di pensiero; come si constata, ma non si spiega, se non con altre ipotesi, l'alternarsi degli strati nella storia geologica.
Iddio determina, nel corso secolare dell'esistenza, i periodi demolitori e i periodi ricostruttori, le epoche, in cui l'uomo precipita verso gli [14] abissi e quelle in cui si slancia verso l'Empireo. Supporre che nell'avvenire queste alternative debbano cessare e i periodi storici non segnino più che nobili gare verso sempre maggiori svolgimenti di bene, può essere una speranza, non è una legge che abbia stabilito i suoi termini. Il che non impedisce che nell'uomo rimangano però immutabili i termini del dovere morale, che consiste nell'opporre ogni resistenza alle ragioni del male, anche quando un concorso di forze irresponsabili sembri impedire o allontanare il trionfo del bene.
*
Ma tornando all'argomento storico, dopo questa scappata, forse inopportuna, nelle regioni dell'etica, è bene avvertire come, anche in questo mezzo secolo fervido di tante mutazioni, le forze innovatrici siano state di due sorta, ed assai diverse così nella rapidità come nella intensità degli effetti raggiunti. Dal 1748 al 1795 è un cammino calmo, costante, non audace, pacifico; dal 1795 alla fine del secolo, è un correre vertiginoso, spensierato, fatale, una distruzione implacabile, una ricostruzione tumultuosa. Nel primo periodo di 47 anni, l'impulso è dato da elementi nazionali, da pensatori, da principi o da ministri [15] di principi; nel secondo periodo di soli cinque anni, è dato da invasioni straniere, da prepotenza d'armi, da subitaneità d'interessi, da esigenze di turbe, chiamate in ventiquattr'ore a dominio irresponsabile dopo secoli di servitù. Il primo periodo si suole chiamare delle riforme, il secondo, della rivoluzione.
Ora, s'è molto disputato fra gli studiosi di storia patria, se il moto rivoluzionario esotico abbia affrettato o ritardato, ne' suoi ultimi effetti di civiltà e di progresso, il moto riformatore indigeno. Forse anzi è questa la tesi storica del secolo decimottavo, intorno a cui si siano più affatioate le menti e le ipotesi dei polemisti. È inutile aggiungere che, dopo questi sforzi d'ingegno, la situazione è rimasta quella di prima. Nè gli adoratori della Rivoluzione francese riescono a persuadere i liberali riformatori della bontà intrinseca del metodo giacobino; nè questi possono presumere di vaticinare che cosa sarebbe stato il mondo senza il lavacro uscito dagli ardori del 1789. Certo, i progressi economici e civili raggiunti in Toscana sotto l'amministrazione leopoldina non furono superati da quelli a cui posero mano i commissari francesi o la principessa Elisa Bonaparte. E quando, nel 1790, il conte Pietro Verri propose ai notabili milanesi, contro l'opinione del Visconti e del Botta, di [16] chiedere all'imperatore Leopoldo una Costituzione, l'opinione pubblica lombarda doveva già trovarsi, su per giù, nello stato in cui trovossi, cinquantasette anni dopo, l'opinione pubblica piemontese, quando il conte di Cavour propose ai notabili torinesi, contro l'opinione del Sineo e del Valerio, di chiedere a Carlo Alberto la pubblicazione dello Statuto.
Del resto — ripeto — siffatta disputa non può servire oggimai a nessuno scopo scientifico, quando non sia quello d'un'acuta ginnastica intellettuale. Potrebbe chiudersi tutt'al più con quella vigorosa frase sintetica, colla quale a Sant'Elena l'imperatore Napoleone chiuse una polemica quasi simile intorno a Gian Giacomo Rousseau: “forse il mondo sarebbe stato più felice se io e lui non fossimo nati.„
Il periodo rivoluzionario colpiva impreparate le masse, ma era stato preveduto, in parte favorito dagli uomini di pensiero.
Già fin dal 1784 l'uragano incipiente non era sfuggito alla sagacia del ministro piemontese, conte Bogino, il quale, guardando alla Francia, era morto esclamando: “povera Italia! povera Europa!„ Viaggiando in Francia, al seguito di una dama lombarda, illustre per bellezza e per intelletto, la marchesa Paola Castiglioni, Alessandro Verri, Francesco Melzi, Cesare Beccaria [17] s'erano mescolati a tutti i gruppi novatori della società parigina e riportavano in patria l'impressione che il periodo delle riforme stava per chiudersi. Un abate napoletano, pozzo di spirito e di scienza, Ferdinando Galiani, era entrato in grande dimestichezza con Diderot e d'Holbach, e scriveva da Parigi ai suoi compatrioti, informandoli di tutte le agitazioni e le preparazioni che bollivano nella pericolosa città. E più dei pensatori s'affaccendavano gli avventurieri, razza che non manca mai di entrare in iscena alla vigilia delle grosse crisi, e a cui di solito vien meno la moralità, non mai l'ingegno o l'audacia.
Un veneziano, Giacomo Casanova, fuggito con mirabile ardire dalla prigione dei Piombi, aveva percorso l'Europa, rompendo tutte le discipline sociali; imponendosi con astuzie di finanza al conte di Choiseul, a Federico II, a Caterina II, a Maria Teresa; bisticciandosi col conte di San Germano e con Voltaire; scandalizzando tutti i paesi per le pubblicità della sua vita, pel lusso, pei giuochi, pei duelli, per gli amori, pei debiti.
Un siciliano, Giuseppe Balsamo, era penetrato più addentro negli organismi delle vecchie sette europee; le aveva dominate coi misteri nuovi del mesmerismo; e imbrancandosi col finto nome di Cagliostro nell'aristocrazia europea, corrompeva principi, aizzava plebi, abbarbagliava ignoranti, [18] spargeva dappertutto i semi della miscredenza e della rivolta.
Un milanese, il conte Giuseppe Gorani, innamoratosi delle più spinte dottrine demagogiche, s'era volontariamente sbandito dalla patria ai primi sintomi della commozione francese; s'era fatto intimo dei più scamiciati giacobini dell'epoca; aveva accettato missioni segrete di agitatore in Isvizzera ed in Italia; sicchè, per decreto dell'arciduca Ferdinando, era stato radiato dall'albo della nobiltà milanese e, coi procedimenti giudiziari ancora in uso, gli erano state confiscate le proprietà.
Era sotto queste impressioni e sotto queste influenze, dirette o indirette, che cominciava a suscitarsi un'opinione pubblica, favorevole alle dottrine umaniste, quantunque risolutamente contraria alle applicazioni inumane dei rivoluzionari francesi.
Frutto di questo duplice indirizzo degli spiriti, sopratutto nella regione lombarda, la più indicata a ricevere il primo urto delle idee e dei fatti della Rivoluzione, era stata una dimostrazione ostile, fatta, sin dal 1789, nel teatro della Scala al conte d'Artois, e nel tempo stesso l'avversione acuta, universale ond'erano circondati i violenti energumeni che del Comitato di Salute Pubblica parigino s'erano fatti fra noi apologisti [19] e plagiari, come il prete Lattuada, Gio. Antonio Ranza e Carlo Salvador.
Nondimeno, come avviene sotto il sole, sempre e senza rimedio, gli esagerati si organizzavano e i moderati si rassegnavano; sicchè i primi e non i secondi si trovarono pronti a cogliere i vantaggi ed esercitare le influenze che la procella politica stava per sostituire ai vecchi ordinamenti sociali.
Questi resistettero, come meglio seppero, in Piemonte e in Lombardia, finchè le minaccie partirono soltanto da elementi indigeni e da cospirazioni paesane; si frantumarono, come statue di gesso, a cui venisse tolto il sostegno, appena furono visti dalle Alpi scender armati, e, come ai tempi del Filicaja,
Bever l'onda del Po gallici armenti.
Per dire il vero, quegli armati non scendevano “a torrenti„ come il Filicaja narra del tempo suo. Erano anzi pochi, mal vestiti e peggio nutriti; ma li guidava un'idea fatale e un giovane anche più fatale dell'idea.
Era un generale in capo di ventisette anni, non alto di statura, gracile di complessione, pallido di colorito, coi capelli spioventi sulla fronte e sulla nuca, dalla fisonomia pensosa, dallo sguardo d'aquila, dal parlar breve, rotto, energico, [20] implacabile. Il suo paese lo aveva veduto sedare in dodici ore una formidabile insurrezione per le vie di Parigi, rioccupare Tolone a colpi di cannone, e strisciare come un sollecitatore nelle anticamere del disonesto Barras, dispensatore di titoli e di gradi. Il nostro paese era destinato a vederlo fulmineo vincitor di battaglie, distruttore di regni e di repubbliche, improvvisatore di governi e di costituzioni politiche, saccheggiatore di codici e di opere d'arte, nemico formidabile di despotismi e di libertà, detronizzatore di principi e di pontefici, restauratore di ordine, di studî e di religione, imperioso con generali, con popoli, con regnanti, schiavo umile e innamorato di una sposa bella, frivola e traditrice.
L'ora che corre segna in tutta Europa una specie di ripresa della leggenda napoleonica. Non si sa se sia ammirazione della fortuna, delle virtù o dei delitti che a quella leggenda appartengono. Non si sa se il mondo discopra quel tumulo per cercarvi una volontà potente, una direzione sicura, un ingegno a nessuna esigenza inferiore, o se frughi fra quelle ossa per trovarvi i residui del dispotismo illimitato e spensierato, a cui anelino di prostrarsi società frolle e scettiche, stanche di pensare e di combattere por idealità da cui non aspettano nessun vantaggio.
[21]
Ad ogni modo, nessuna preoccupazione di questa natura agitava i contemporanei, quando il generale Bonaparte, con una rapidità di mosse a cui non erano preparati i suoi avversarî, gira e supera nel tempo stesso la catena dell'Appennino ligure, si ficca come un cuneo fra le colonne austriache e le piemontesi, batte le prime a Montenotte e a Dego, le seconde a Millesimo, forza ad un armistizio il governo sardo, scende difilato lungo la corrente del Po, lo varca a Piacenza mentre Beaulieu lo aspettava a Valenza, si getta su Lodi, vi sbaraglia l'esercito austriaco ed occupa Milano, entrandovi dal lato orientale, mentre tutte le difese gli si erano opposte dal lato occidentale.
Qui comincia quell'ultimo e breve periodo rivoluzionario che ci conduce sino alla fine del secolo ed è per l'Italia così fertile di sorprese, di mutamenti, di lutti. Periodo fra i più lamentosi di tutta la nostra storia, nel quale le campagne furono tormentate dalla guerra, le città dalle rivoluzioni e dalle reazioni, gli ordini di governo dall'anarchia. Preoccupato dalle cure militari, che non gli lasciavano tregua, il generale Bonaparte era impotente a reprimere le tirannie dei demagoghi, o scesi dalle Alpi con lui, o innalzatisi, sotto il suo patrocinio, dagli ambienti locali più volgari e più avidi. Per più [22] di tre anni, un popolo avvezzo ai Verri, ai Tanucci, ai Bogino, a Pietro Leopoldo, a Clemente XIV, si vide dominato o da commissarî francesi inetti ad ogni opera che non fosse di spogliazione, o da istrioni politici, cresciuti fra la taverna e il tumulto, che quando non riuscivano a governare, impedivano ogni governo di altri. Questa era stata la conseguenza del dilagarsi delle truppe repubblicane per tutto il territorio italiano; le quali, abbattendo per necessità di difesa i governi indigeni, dovevano compensare la scarsezza del loro numero coi metodi del terrore e coll'appoggio dato alle classi più indisciplinate della popolazione. Senonchè questi metodi preparavano, come sempre, reazioni egualmente torbide.
E lo si vide, allorchè, pochi mesi dopo, uscito Bonaparte dall'Europa, e rifattasi la coalizione contro la Francia, gli anarchici neri susseguirono agli anarchici rossi. Allora si predicò l'ordine collo stesso furore con cui s'era prima predicata la democrazia. Il cardinal Ruffo e Fra Diavolo saccheggiarono in nome del Re di Napoli, il maresciallo Suwaroff saccheggiò in nome degli Imperatori, il generale Lahoz saccheggiò in nome del Papa, Branda Lucioni saccheggiò in nome del Re di Sardegna; e la Toscana fu saccheggiata dalle bande che gridavano: viva Maria; a [23] capo delle quali entrò in Firenze, precorritrice storica di Luisa Michel, una virago a cavallo, Alessandrina Mari di Montevarchi.
Prima che il secolo decimottavo seguisse i suoi predecessori nel vortice della storia, anche queste anarchie potevano dirsi in gran parte cessate. Ma se, fra tante procelle, s'erano, a intervalli, mantenute nei loro dominî le dinastie del centro e del mezzogiorno d'Italia, più profondi e durevoli mutamenti di Stato avevano avuto luogo nella regione settentrionale, dove due fra i più antichi e gloriosi governi della penisola erano stati violentemente soppressi, per tradimento, o, se la parola pare eccessiva, per insidia delle nuove diplomazie.
È inutile dire che alludo alla monarchia di Savoja e alla repubblica di Venezia. Delle ipocrisie che hanno avviluppato la prima fu sopratutti responsabile il Direttorio francese; di quelle a cui soccombette la seconda, spetta al generale Bonaparte l'iniziativa e la responsabilità.
*
Dopo le prime battaglie di Montenotte e di Millesimo, il governo sardo, vistosi impotente a continuare le ostilità, s'era piegato ai consigli pacifici del cardinale Costa, arcivescovo di Torino, stipulando a Cherasco un armistizio, che [24] fu poi convertito a Parigi in un formale trattato di pace.
Pareva che di quegli accordi il Direttorio dovesse essere soddisfatto, poichè a nessuna condizione onerosa il Piemonte s'era negato. Concedeva libero il passo agli eserciti francesi, cedeva la Savoia e Nizza, lasciava occupare le fortezze di Ceva, Cuneo, Tortona e Alessandria, distruggeva i forti alpini di Exilles, di Brunetta e di Susa, chiudeva i suoi porti alle navi delle potenze ostili alla Francia, riduceva l'esercito al piede di pace.
Malgrado ciò, non cessavano le pretese. Tardava alla Francia l'assorbimento del regno. Sicchè, dai confini della Lombardia, divenuta Repubblica Cisalpina, entravano spesso elementi di rivolta, che si aggiungevano alle cospirazioni paesane. Viceversa, quando il governo sardo reprimeva o puniva, era sempre dall'ambasciatore francese che partiva la domanda o l'ingiunzione di grazia. Così riusciva difficile il governare. Meno di due anni dopo il trattato di Parigi, il Direttorio volle un nuovo trattato, che chiamò d'alleanza, e pel quale — s'intende — il Piemonte doveva fornire uomini ed armi contro i nemici della Francia, quali si fossero. Neanche questo bastò. Verso la primavera del 1798 divenne evidente che il Direttorio francese accampava [25] contro il Piemonte le stesse ragioni che, nella favola famosa, il lupo accampava contro l'agnello.
Due letterati di primo ordine si fecero complici in questa turpe commedia: il Ginguené, ambasciatore della Repubblica francese, e Leopoldo Cicognara, inviato della Repubblica cisalpina. Non vi fu sopruso, non vi fu inganno che fosse risparmiato da questi due rappresentanti d'una sleale politica. Carlo Emanuele IV cercava invano, abbondando nelle concessioni, di stornare dal suo capo una sorte immutabilmente decisa. I due ambasciatori chiesero dapprima la consegna della cittadella e l'ottennero; poi domandarono si congedassero i ministri, e il Re non volle; poi esigettero che si armassero dieci mila uomini per combattere il re di Napoli, e furono accordati; finalmente intimarono di consegnar l'arsenale; e a sostegno di questa domanda le truppe della Repubblica Ligure invadevano il territorio dall'Apennino, mentre il generale Joubert lo invadeva dal Ticino, e dalle alture di Superga minacciava Torino.
Carlo Emanuele IV non seppe rassegnarsi a maggiori umiliazioni e con un manifesto del 9 dicembre 1798 abdicava nelle mani del generale, futuro maresciallo, Clauzel. A questa risoluzione, per la dignità del trono, lo aveva consigliato [26] anche il suo ambasciatore a Parigi, Prospero Balbo; il quale, conscio che una delle condizioni dell'abdicazione doveva essere la sua prigionia, andò spontaneamente a costituirsi nelle mani delle autorità parigine. Le dinastie che hanno secoli di fiera esistenza trovano qualche volta, piuttosto nei periodi della sventura che in quelli della fortuna, consiglieri di così alta devozione e di così antica virtù.
*
Mentre queste cose accadevano intorno alle alture dove comincia il Po, altre non meno dolorose avevano luogo intorno alle lagune, dove finisce.
La Repubblica di Venezia era certamente quello fra gli Stati italiani dove s'erano meno pronunciate le alternative dello spirito pubblico. Quasi democratiche fino al 1297, le istituzioni del governo veneto erano divenute interamente aristocratiche dopo la famosa riforma elettorale del doge Gradenigo. La durata secolare di questo regime aveva probabilmente sottratta la Repubblica all'influenza di quelle cause che determinavano, nel resto d'Italia, la decadenza intellettuale e politica; ma le aveva anche impedito quel ritorno di energie che in ogni regione del pensiero aveva segnalato il settecento italiano. Un [27] po' spossata dalle guerre del cinquecento e dalla politica spendereccia e megalomane del doge Francesco Foscari, Venezia s'era rannicchiata ne' suoi commerci, limitandosi ad accentuare, ogni secolo, le proprie tradizioni, mediante le imprese marittime di Francesco Morosini o di Angelo Emo. Nel complesso, l'antico suo genio si veniva estinguendo, e l'immobilità sua non le permetteva più di mantenere influenza su popoli e su regimi, tutti affaccendati a muoversi, a mutarsi, a perfezionarsi. Il patriziato aveva conservato una certa attitudine ai grandi affari politici; ma per reprimere novità ostili al suo prestigio, non aveva cercato mai di educare il popolo a vigorosi sentimenti, accontentandosi di lasciargli ogni libertà nelle feste. Venezia era diventata una grande oasi di gioia, a cui tutti potevano accorrere e attingere. Però, su ogni cosa che riguardasse affari e politica, posava la diffidenza e il sospetto. Non se ne occupavano — e in segreto — che i patrizi del Maggior Consiglio, ai quali pareva che gli interessi conservatori stessero unicamente nel chiudere sempre le loro fila e i loro ordinamenti ad ogni alito di migliorìe. Tanto che, nel 1780, avevano mandato a domicilio coatto Giorgio Pisani, perchè fattosi iniziatore di riforme nelle leggi costituzionali della Repubblica.
[28]
Era in questa situazione morale e politica che Venezia vedeva avvicinarsi alle sue contrade la bufera rivoluzionaria scatenatasi dalla Francia.
La questione non tardò ad imporsi alle deliberazioni del Senato, nel quale, al principio del 1793, ventilaronsi due partiti. Francesco Pesaro, procuratore di San Marco, sostenne vigorosamente la necessità di armarsi, pur proclamando la neutralità. “Se Venezia non s'arma„ esclamò egli con vivo presentimento dell'avvenire “Venezia è perduta.... credete voi di poter evitare la guerra, perchè ne avrete trascurati i preparativi?... la perfidia non ha mai cercato invano dei pretesti.... circondati d'armi da tutte le parti, la spada sola può tracciarsi un cammino verso la pace.„ Gli rispose un membro del Consiglio dei Savj, Zaccaria Vallaresso, e il suo discorso persuase fatalmente i patrizi ad accogliere la politica della neutralità disarmata.
Quel discorso era un tessuto di ipotesi, cucito con abili frasi. La Francia aveva appena invaso il territorio di Nizza e della Savoja. Si sarebbe trovata di fronte a due potenze militari, il Piemonte e l'Austria, che le avrebbero certamente impedito di avanzarsi. D'altronde, lo stato interno della Francia era troppo violento perchè potesse durare; una reazione in senso monarchico era imminente. Una volta armata, Venezia [29] avrebbe reso più intensi gli sforzi delle potenze belligeranti, per avvincerla a sè; non avrebbe potuto sottrarsi alla seduzione di stare cogli uni o cogli altri; sarebbe troppo deplorabile la condizione umana se, quando la guerra scoppia sopra un punto del globo, il mondo intero dovesse correre alle armi.... si deve qualche cosa all'umanità, all'innocenza, alla giustizia.... e via dicendo.
Sofismi; ma sofismi atti a far breccia in animi fiacchi; ed era fiacca pur troppo l'assemblea innanzi a cui venivano pronunciati; era fiacco l'ambiente in mezzo a cui quell'assemblea deliberava; era fiacco il principe, a cui dovevano metter capo quelle responsabilità, l'ultimo Doge eletto nel 1789, Lodovico Manin.
Così s'erano disegnati in Venezia i tre capi delle frazioni politiche, destinate a seppellire, colle loro discordie, la secolare Repubblica: Giorgio Pisani, vessillifero delle idee popolari e riformatrici; Francesco Pesaro, interprete dell'antica energia conservatrice e previdente; Zaccaria Vallaresso, oratore dei retori, dei gaudenti, degli spensierati.
Era appena presa questa infausta decisione che i sintomi del pericolo romoreggiavano sul capo della Repubblica.
Il Querini da Parigi e il Grimani da Vienna avvertivano delle proposte già fatte dal Direttorio [30] francese al governo austriaco, per la cessione a quest'ultimo di alcune provincie venete di terra ferma. L'agnello offriva il suo collo; diventava facile sgozzarlo, o almeno tosarlo. Cominciata la campagna del 1796, il Senato veneto lasciò sfuggirsi un'altra occasione di riparare alla sua colpevole imprevidenza. E l'occasione — singolare presagio dei tempi — gli veniva proprio da quella potenza che, settant'anni dopo, vincendo a Sadowa, avrebbe rotto per Venezia il fatale destino di Campoformio. Il barone di Hardenberg, primo ministro del re di Prussia, faceva dire all'ambasciatore veneziano in Parigi che se Venezia avesse voluto allearsi colla Prussia, colla quale nessun conflitto d'interessi era possibile, “la Prussia si sarebbe opposta con efficacia agli ambiziosi disegni dell'Austria ed avrebbe garantita l'integrità del territorio veneto.„
La fatalità trascinava il Governo repubblicano, ostinato a cercare la salute in quell'isolamento che non era indipendenza.
E intanto erano avvenute le prime battaglie del 1796, e la guerra s'avvicinava, indietreggiando, alle provincie di terra ferma. Il generale Bonaparte, più esigente del suo Direttorio, credette scorgere nel contegno della Repubblica una diffidenza verso il genio della vittoria ch'egli [31] personificava, e fermò nella profonda mente il disegno di sopprimerne la secolare esistenza. Non lo nascose uno de' suoi intimi, il colonnello Beaupoil, il quale diceva, fin da Verona, che “quatorze siècles d'existence devaient suffire à la république„.
I pretesti cominciarono per la presenza sul territorio veneto del conte di Lilla, chè tal nome aveva preso nell'emigrazione il pretendente al trono di Francia, il futuro Luigi XVIII. In onta alle sue antiche tradizioni d'asilo, Venezia dovette sacrificare l'esule ai reclami del Direttorio e alle intimazioni del suo generale.
Poi, sopravvennero subito le difficoltà pratiche della neutralità disarmata. Impotente a respingere così i vinti come i vincitori, la Repubblica non potè negare il passaggio alle truppe austriache, nella loro ritirata verso il Tirolo. Bonaparte, irritato, fece subito occupare Brescia, poi Bergamo; il generale austriaco, per rappresaglia, pose guarnigione a Peschiera; Bonaparte rispose, impadronendosi di Verona. Il Senato veneto strepitava, il Querini reclamava a Parigi, il provveditor Foscarini si presentava al quartier generale dell'esercito francese. Ma ormai tutta la guerra si faceva sul territorio veneto, ne ed era possibile deviarla; Bonaparte rispondeva al Foscarini in tono altezzoso e coll'offerta ironica di [32] mandare le sue truppe a difendere la libertà di Venezia; il Direttorio faceva offrire al Doge un trattato d'alleanza che, in tali condizioni, assumeva l'aspetto d'un trattato di servitù; e negli intimi colloqui il patrizio Querini si sentiva proporre dagli affaristi del Direttorio, che con cinque milioni dati per le spese di guerra e settecento mila lire sborsate al direttore Barras, si sarebbero potuti ottenere dal governo francese dei dispacci che fermassero il generale Bonaparte ne' suoi disegni di distruzione.
Le tratte per settecento mila lire furono effettivamente consegnate; e il Barras non ebbe pudore a presentarle per lo sconto al banco Pallavicini di Genova. Ma il generale Bonaparte s'era già posto colle sue vittorie in una situazione personale, che gli permetteva di non ricevere ordini da nessuno. Il suo proposito circa Venezia era implacabile; egli voleva finire una guerra, dalla quale ormai aveva tratto tutta la gloria che gli occorreva; coi territori di quella Repubblica avrebbe ammansato l'Austria, non mai esausta di forze e di eserciti. Per giungere allo scopo suo, non esitò ad entrare per le vie sdrucciole dell'insidia e della ipocrisia. I suoi emissari politici fecero lega coi più torbidi elementi del partito popolare, che in Venezia metteva capo al Pisani, in Brescia ai fratelli Lechi. [33] Ben presto una sorda agitazione invade le popolazioni delle città e delle campagne appartenenti alla Repubblica. Brescia, Bergamo, Crema insorgono contro il dominio veneto e sono manifestamente appoggiate dai comandanti francesi. Questo primo successo incoraggia a proseguire nella via, e tutti gli sforzi s'acuiscono intorno a Verona, la città principale dei dominii di terraferma.
Qui tutto diventa odioso, sleale e tragico. Era capo dell'ufficio militare francese d'informazioni un Landrieux, colonnello degli ussari. Uomo senza scrupoli e deciso a servire occultamente tutti i partiti dell'epoca, uno dopo l'altro e gli uni contro gli altri, s'accontò con un vecchio stromento della demagogia parigina, Carlo Salvador, milanese rinnegato e disonorato, di cui Bonaparte si serviva per ogni mandato. Insieme complottarono un documento falso, e fu un proclama del provveditore Battaglia, nel quale, annunciandosi immaginarie sconfitte dei Francesi nel Friuli e nel Tirolo, s'eccitavano i fedeli sudditi della Repubblica, e sopratutto le classi rurali, a reprimere l'insolenza dei rivoltosi, scacciandoli da Bergamo e da Brescia, dove s'erano annidati.
Fu questa, in mezzo alla tensione naturale degli animi, la causa prima delle famose Pasque [34] veronesi, e poco mancò non tornasse a danno irreparabile dei provocatori. Invano protestò il Battaglia contro l'apocrifa pubblicazione e protestarono i governanti veneti, presso il Direttorio e presso il Quartier generale. L'impulsione era data; le smentite sono in ogni tempo meno autorevoli delle calunnie; la provocazione alla guerra civile ottenne l'effetto suo.
Il 17 aprile 1797 Verona fu piena d'armi, d'odii e di stragi. Ad una rissa fra militari veneziani e militari francesi, il generale Balland credette opportuno por fine, cannoneggiando dai forti. La popolazione si credette assalita e reagì. Dove si trovò in minor numero, fu sopraffatta dalle milizie; dove prevalse, non risparmiò nè vivi, nè ammalati, nè donne. Non bastava la morte, vi si aggiunsero i tormenti. Per cinque giorni durarono le stragi per parte dei popolani e dei contadini, le bombe e l'incendio per parte dei francesi, agglomerati nei forti. Al sesto, venuta meno quasi la materia prima ai furori, poterono pronunciarsi parole di pace. Parecchi patrizi veronesi, il conte Nogarola fra gli altri, avevano raccolto e nascosto in casa loro cittadini ed ufficiali francesi, cercati a morte. I provveditori veneti, Giustiniani, Erizzo e Giovanelli, che da un pezzo avevano richiamata l'attenzione sullo stato degli animi e sulle mene dei cospiratori [35] franco-italiani, si raccolsero a consiglio coi generali francesi; ma ebbero presto ad accorgersi che in questi nessuna idea di temperanza poteva penetrare. Il linguaggio era brutale, le esigenze innumerevoli, evidente il desiderio di trarre dal dramma veronese pretesto a maggiori complicazioni. Verona dovette arrendersi a discrezione, e i provveditori furono rimandati a Venezia.
Ma su Venezia intanto scoppiava l'ira del Giove tonante.
Le sorti della guerra avevano portato il generale Bonaparte sulle alture del Semmering, d'onde l'istinto audace gli faceva già intravedere l'occupazione di Vienna.
Però tra l'audacia e il successo, nel cervello del futuro Cesare v'era ancor posto pel ragionamento. Anzi, pei ragionamenti; poichè, nel momento attuale, erano due e combaciavano fra loro. Vincere un'altra battaglia pareva ancora possibile, forse era facile; ma non era esclusa la possibilità di perderla, e la perdita, in quelle condizioni, bastava ad annullare tutta la gloria e tutti i vantaggi ottenuti. A misura che si allungava su Vienna, l'esercito francese, così lontano dalle sue basi, naturalmente s'indeboliva; mentre intorno alla gran capitale, l'arciduca Carlo avrebbe trovato forze e mezzi di resistenza e di attacco sempre maggiori. Non si poteva [36] giurare che una sola vittoria avrebbe ancora stesa l'Austria ai piedi del vincitore; si poteva giurare che una sola sconfitta avrebbe costretto il generale Bonaparte a rifare in fuga precipitosa quel cammino fino allora seminato di così rapide audacie.
D'altra parte, obbligando l'arciduca Carlo, non timido avversario, a concentrare tutte le forze militari del suo paese per difendere da un colpo di mano la capitale della monarchia, Bonaparte avrebbe resa più facile una ripresa offensiva dell'esercito del Reno, che il generale Moreau guidava con minore impeto, ma con eguale tenacia, contro i nemici della Francia repubblicana. V'era a prevedere il caso che i due eserciti entrassero contemporaneamente in Vienna e che i due generali ne avessero eguale onore. Ora, ciò non secondava i disegni del generale Bonaparte, che già si sentiva il primo nel suo paese e non avrebbe voluto dividere con nessuno, meno che mai — e lo provarono gli eventi successivi — col generale Moreau, la dittatura che già volgeva nell'animo.
Sicchè la pace — una pace gloriosa, dopo una guerra che non l'era meno — avrebbe posto fine alle due preoccupazioni che lo agitavano, e avrebbe mantenuta intorno al solo suo capo la doppia aureola del vincitore e del pacificatore dell'Europa.
[37]
Fu per queste considerazioni, tradite già dai documenti dell'epoca, e ormai riconosciute da tutti gli storici, che il generale Bonaparte si decise a scrivere all'arciduca Carlo una lettera famosa per la sua moderazione pacifica e a trattare nel tempo stesso Venezia con modi altrettanto famosi per la loro esagerata violenza. Dopo i fatti di Bergamo, di Brescia e di Salò, aveva mandato a Venezia il generale Junot, minacciando il Doge e gli ottimati di aperta guerra; dopo i fatti di Verona, accolse burbero gli inviati del Senato, e scrisse a Pesaro: “io sarò un Attila per Venezia.„
E Attila fu; non nel senso della devastazione materiale, ma nel senso della distruzione politica.
Invano riceveva istruzioni dal Direttorio, e dal suo ministro degli Affari Esteri, Talleyrand, di non permettere dominio austriaco sopra nessuna parte di territorio italiano. Egli era già abbastanza forte da fare una politica che non fosse quella del suo governo, e voleva stupire il mondo col suo amor della pace, dopo averlo meravigliato colla sua rapidità nella guerra.
Così si venne ai preliminari di Leoben, che cominciavano a sbranare la Repubblica di Venezia, dando all'Austria tre quarti delle sue provincie di terraferma. Era però serbata ad un piccolo villaggio posto fra Udine e Passeriano, [38] questa gloria d'Erostrato, di consumare il sacrificio del più antico Stato indipendente che esistesse in Europa. Da Leoben a Campoformio le trattative furono ancora molte, ma l'implacabile disegno di Bonaparte trionfò d'ogni esitazione; e poichè i plenipotenziarii austriaci stavano sul tirato, egli ruppe loro sul viso un candelabro, per dimostrare la superiorità della sua diplomazia.
Convinti da questo argomento, i plenipotenziari firmarono il trattato di Campoformio, mediante il quale l'Austria acconsentiva a lasciare estendersi la Cisalpina fino alla riva dell'Adige, e otteneva in cambio il cadavere vivo della Repubblica di Venezia.
È doloroso dover dire che nessuna grande inspirazione di virtù o di valore eruppe allora dagli ultimi consigli della morente Repubblica. Il Vallaresso e i suoi colleghi si ostinarono fino all'ultimo giorno nella loro politica di rassegnazione agli eventi; il generale Condulmer affermava l'impossibilità di difendere la laguna; Lodovico Manin si rammaricava di non poter neanche dormire la notte nel proprio letto. Tanto era diverso da un successivo Manin l'animo e l'ingegno dell'ultimo Doge della Repubblica!
Il 16 maggio 1797 il Senato faceva annunciare che il Governo cedeva i suoi poteri al Municipio. [39] E il giorno dopo, il generale Baraguay-d'Hilliers occupava con quattromila francesi la piazza di San Marco. Erano i primi soldati stranieri che da quattordici secoli Venezia avesse veduti!
Questa fu l'opera del generale Bonaparte; che iniziava così quella politica di disprezzo delle nazioni e di mercato di popoli, a cui ubbidì in tutto il corso della sua meravigliosa dominazione.
So che la leggenda napoleonica trova degli evocatori anche in Italia, e degli evocatori dominati da simpatia. A questi io non posso unirmi. Ammiro il genio dell'uomo, come si ammira un vulcano in eruzione. Ma non posso avere nessuna simpatia pel despota, che, avendo nelle sue mani l'Italia, ha venduto la Repubblica di Venezia e ha fatto di Roma un dipartimento francese.
Non sempre dalle pagine storiche si possono trarre delle formole educative. Questa volta, penso, si può.
Il secolo nostro vedeva, al suo cominciare, radiati dalla carta politica dell'Italia due Stati, una repubblica e un principato. Settant'anni dopo, quella repubblica appariva, negli animi, più morta che mai; quel principato era divenuto, per affetto di popoli e per virtù di casi, il regno d'Italia.
[40]
Vuol dire, se non erro, che dalle catastrofi difficilmente risorgono i governi, quando ubbidiscono soltanto ad un programma cieco ed egoista di conservazione, come quello che prevaleva negli ultimi tempi della Repubblica di Venezia. Vuol dire che, malgrado le catastrofi, hanno avvenire splendido e sicuro quegli Stati, quei governi, quelle dinastie, che fondano il loro diritto di conservazione sopra un ideale, sia di completamenti nazionali, sia di progressi morali.
[41]
CONFERENZA
DI
Isidoro Del Lungo.
[43]
Il pugnale di Lorenzino de' Medici, il cui sinistro bagliore rompeva la penombra lusingatrice all'ultima fra le turpi notti del ducale cugino Alessandro, non poteva rendere la libertà a Firenze. Quel giovinastro malinconico e motteggiatore sognava, così almeno lasciò scritto in pagine di frase eloquente, e come del resto gli altri regicidi di quella età paganeggiante, sognava Bruto e l'opera sua: ma la voce di Bruto è ascoltata ed efficace, quando si leva presso al cadavere d'una sposa intemerata, non voluta sopravvivere a sè medesima, frementi attorno cittadini che nella violazione del sacrario domestico sentono offesa la santità della convivenza civile; si disperde e muore sulla pianura scellerata di Filippi, quando, divenuta nome vano la [44] virtù, il grido di libertà non è più l'eco della coscienza cittadina, e l'amor della patria non arma che il braccio d'un gruppo di congiurati. E poi, Lorenzino non era un Bruto autentico. Rampollato da uno de' minori rami Medicei, del quale accoglieva in sè l'ultimo fiato e le mancate ambizioni, aveva rimuginati nell'animo culto e pervertito quei medesimi elementi del classico Rinascimento, in mezzo alla cui acre fermentazione si era trasformata la Firenze repubblicana; e come pel ramo dominante, si venne in Cosimo vecchio, nel magnifico Lorenzo, in Lorenzo duca d'Urbino, elaborando il Cesare liberticida, così in questo diseredato, alle fattezze sue vere, che erano di un Medici inviso a Medici e invidente, si era sovrapposta la larva, non altro che la larva, di Bruto. Quando poi, spinta da cotesto uomo, giunse l'ora, Firenze, che non aveva più popolo dal giorno in cui l'Impero e la Chiesa le ebber dato un Senato, Firenze, da quei senatori — uno de' quali si chiamava pur troppo Francesco Guicciardini, il Tacito mancato alla storia della destinata servitù — avea docilmente ricevuto in un giovinetto di diciotto anni il suo Cesare.
Cesare, il duca Cosimo, per modo di dire; ma veramente, un proconsolo del vero Cesare ispano-austriaco, alle cui mani diventava cosa [45] l'utopia romana medievale del Santo Impero. All'ombra di questo, i Signori insediatisi per vario modo sulle rovine del Comune, esercitavano, vicarî coronati, un principato, che, illegittimo d'origine, perchè nato di violenza o di frode contro le libertà popolari, riceveva degna sanzione nella investitura segnata dalla mano di un monarca, che di romano e d'italico non aveva se non il nome, poichè nel fatto era il continuatore della oppressione barbarica sul gentil sangue latino.
Se non che i principati paesani, qualunque essi si fossero, ebbero questo di buono: che salvarono le rispettive regioni italiche dal giogo obbrobrioso dei Vicerè, sotto il quale Milano e Napoli, Sicilia e Sardegna, patirono sulla viva carne il solco profondo e sanguinoso della servitù straniera. Chiamiamoli pure proconsolati; ma codesta loro condizione ne assicurava l'esistenza, ai termini di quel diritto pubblico imperiale, che, dalla Dieta di Roncaglia per la bolla d'oro di Carlo IV sino alla prammatica sanzione di Carlo VI, sovrastò, senza del resto poterlo dominare, allo svolgimento politico di quasi sei secoli della vita civile italiana; mentre nell'esercizio effettivo della sovranità, nelle relazioni coi cittadini divenuti suo popolo, il principe poteva, se volesse, e tanto quanto volesse, rimanere cittadino. [46] Il che ai Medici era fatto poi quasi naturale dalle tradizioni del tutto cittadinesche della loro ambizione e grandezza: originata dal lavoro dei commerci fortunati; e solidatasi genialmente col favore e la cooperazione alle manifestazioni dell'ingegno; sempre, dunque, in termini di civile convivenza, o, come con bella parola nel Quattro e Cinquecento dicevasi, di civiltà; che la fortuna del triregno (con Leone e Clemente) aveva non altro che amplificati. Ben diversi dai Gonzaga o dagli Este, venuti su di sangue feudale, e mediante l'abuso violento, mercanteggiato con l'Impero, dei magistrati municipali; ben diversi dai Farnesi, creature papali avventizie; i Medici, se la usurpazione, sia violenta, sia artificiosa, della comune libertà, potesse essere legittimata mai, avrebbero avuto al principato titoli legittimi; ne avevano certamente di gloriosi.
[47]
Tale eredità raccoglieva Cosimo duca: bensì non come successione pacifica; non come il magnifico Lorenzo potè sognare, se la vita gli fosse bastata, di trasmettere quella sua indefinita, non però meno effettiva, autorità ai suoi discendenti; invece, una successione viziata di tante eccezioni, quante venivano ad essere inchiuse in quest'ordine di fatti: la cacciata del 1494 e successivi diciotto anni di governo popolare, la restaurazione del 1512 violenta, la cacciata ultima del 27, l'assedio, la permanente ribellione dei fuorusciti, fra' quali ora riparava festeggiato l'uccisore del tiranno. Ma questo Cosimo giovinetto aveva avuto per padre Giovanni, il prode capitano delle Bande Nere, che la milizia italiana rimpiangeva tuttora; e per madre ed educatrice quella valente Maria Salviati, che accoglieva nell'animo, congiunti in salda tempera, gli spiriti di una popolana baldanzosa e d'una imperiosa matrona; degna e caratteristica madre di quello fra i Medici, sul capo del quale la popolare supremazia della predestinata famiglia doveva divenire principato e fregiarsi della corona granducale.
[48]
I sette coronati che per due secoli appunto, dal 1537 al 1737, ressero la signoria di Firenze e del dominio; — presto, alle mani del duca Cosimo, accresciutosi di Siena ultima ròcca di libertà popolare; — formano, nella storia dei principati italiani, un gruppo che ha suoi peculiari caratteri e degni di nota. Non è una dinastia, che impostasi o imposta a un paese, lo governa o sgoverna, lo prospera o lo sfrutta, rimanendo essa una cosa (buona che si voglia chiamare o cattiva), e quel paese, pel quale essa passa, essendone un'altra. E nemmeno si può poi dire, che a fare essere i Fiorentini e i Toscani ciò che in codesti due secoli furono, quei sette granduchi operassero neanche la metà di quello che a dirizzare pel loro proprio verso la Firenze del secolo XV operarono il vecchio Cosimo ed il magnifico Lorenzo. No; la dinastia granducale Medicea è una cooperatrice familiare e compagnevole della cittadinanza fiorentina e toscana, ormai tranquillata e ferma nella servitù; signoria assoluta, dispotica anzi, ma non propriamente tirannica, la quale, senza nè spingere nè trattenere, procede di conserva con la società nuova che si è formata intorno a lei, e che tanto è diversa da quella che fu popolo, quanto cotesti granduchi dai loro avi, che in quel popolo furono tutto fuori che principi. Solamente può [49] dirsi, e si deve, che la signoria assoluta nella quale si è trasformata la supremazia medicea, come impedisce le feconde iniziative fuori del chiuso campo nel quale uno solo è il padrone, come soffoca le reazioni generose contro l'arbitrio di lui, come ammortisce l'espansione dei sentimenti e delle volontà, che opererebbero chi sa su quale altra linea, verso quali altri obietti; come aduggia delle ombre sue, siano pur protettrici, la pianta della scienza sperimentale, che, maturata dai tempi, fiorisce ormai e vigoreggia sul buon terreno fiorentino; così con più maligna efficacia, che non potesse mai sugli animi de' liberi cittadini la politica liberticida de' Medici avanti il principato, influisce nel carattere dei sudditi i vizi o le deficienze che accompagnano e affrettano il logoramento fatale di quella stirpe. In tal modo il secolo XVIII riceverà, per le nuove sorti che la politica europea ha ordito alle regioni italiche, una Firenze e una Toscana, sulle quali alita sì la grande tradizione del pensiero e dell'arte da Dante al Machiavelli, da Michelangelo a Galileo; e sorvola alle effimere corruzioni, spirito immortale e verbo di nazione, la lingua; ma nel carattere e nel sentimento, nell'abito del vivere e nelle istituzioni, han filtrato e si son diffuse, la debolezza o l'insufficienza di Cosimo II e di Ferdinando II, la bigotteria testarda [50] di Cosimo III, la scettica dissolutezza di Gian Gastone. L'età virile del granducato Mediceo, durata settantadue anni in Cosimo I e nei suoi due figliuoli, Francesco erede dei vizi paterni e Ferdinando I delle virtù; età, nel cui corso alcun che della Firenze repubblicana sopravviveva se non altro nella memoria di chi ci aveva vissuto; quella età è ormai consumata ne' suoi effetti, e moralmente quasi prescritta, lungo i centoventott'anni degli altri quattro principati.
Cosimo I assume giovinetto il potere, calcando le superstiti resistenze repubblicane, e l'ambizione, a quelle alleata, della ultima famiglia di emuli contro la supremazia medicea, gli Strozzi. Legato di necessità alla fortuna di Spagna, vuole e sa avere, pur sotto quegli auspicî, una politica propria, che gli consente i vantaggi della protezione imperiale, riserbandogli sufficiente libertà di atti, rispetto agli altri Stati d'Italia, alla Francia, alla Chiesa. Vendicata in Lorenzino la strage del duca Alessandro, e in Filippo Strozzi [51] (comunque e' finisse) la resistenza armata al proprio insediamento, volge attorno, con sicurezza di vecchio signore, di sovrano nato, lo sguardo: e mentre prosegue (con tutti i mezzi, nessuno eccettuato, leggi, forca, pugnale) la depressione e la dispersione de' ribelli, che, sotto quel flagello incessante, non si raccozzeranno mai più; mentre difende la novella sua porpora ducale dalle gelosie delle antiche prosapie principesche d'Italia, e contro l'ardito generoso tentativo dell'ultimo, nell'Italia medievale, idealista di libertà Francesco Burlamacchi; Cosimo ha, fin da principio, chiaro dinanzi a sè il suo intento, e verso quello mira con perseverante sagacia, risolutezza e, quand'occorra, violenza: e l'intento suo è la formazione d'uno stato che abbracci tutta intera la Toscana. Da Montemurlo a Scannagallo, questa tenace sua volontà trionfa col soggiogamento della vigorosa Repubblica sopravvissuta alla fiorentina, pel quale gli è consentito di scrivere sul granito della colonna di Santa Trinita “Cosimo de' Medici duca di Firenze e di Siena„: la volontà di Cosimo, prima e dopo di quella vittoria, si afferma, a benefizio del paese e afforzamento del principato, mediante i provvedimenti agrari migliorativi specialmente del Valdarno pisano e della Valdichiana; si afferma con la difesa del litorale infestato dai Barbareschi, [52] contro i quali la istituzione della milizia di Santo Stefano durerà non senza gloria della nazione; con gli stessi forzati pazientamenti, si afferma, verso la Spagna. Lo stato spagnuolo dei Presidî, nella Maremma senese, è limitato, per ventura d'Italia, dall'assodata potenza (che la Corsica, destinata a disitalianarsi per colpa d'una italiana repubblica, invoca quasi presaga) dalla potenza di questo duca italiano. Non molto dissimile che con l'Impero, fu l'atteggiamento suo con la Chiesa: della quale secondava le gagliarde resistenze alla libertà religiosa, accettando in Firenze i Gesuiti; favorendovi l'Inquisizione, e vilmente gratificandola del capo di Piero Carnesecchi; sovvenendo le sanguinarie guerre di religione in Francia, anche per destreggiarsi con Caterina che sul trono cristianissimo aveva portato i rancori suoi di Medici, ultima del maggior ramo, contro lui Cosimo sopravvenuto e sormontato del ramo cadetto: — ma tuttociò, senza ch'egli disertasse la difesa delle civili giurisdizioni contro le usurpatrici improntitudini del fòro ecclesiastico, e conservando quella indipendenza statuale ch'era stata pe' secoli tradizione della guelfa repubblica. Fu vittoria di questa sua politica, audace a un tempo e prudente, il serto di granduca di Toscana che a cinquantun anno, soli quattro prima che morisse, [53] coronò per mano del Papa, con mala contentezza dell'Impero e dei principi italiani, le ambizioni di questo che solo fra essi tutti, in quanto fondatori di nuovo stato, poteva vantarsi di aver saputo applicare, sebbene per fini del tutto personali e dinastici, le sinistre teorie, a ben più alta meta rivolte, di Niccolò Machiavelli.
Coerentemente a questa sua azione verso il di fuori, l'amministrazione dello Stato fece egli servire al concetto di afforzarlo anche internamente e guarentirlo da pericoli di turbamento. Perciò represse i maleficî con fiere leggi; aiutò i commerci nei quali egli stesso continuò, da buon Medici, a trafficare con somme ingenti; ordinò, quanto meglio consentivano i tempi, l'economia pubblica, non senza aiutarne i provvedimenti con le ispirazioni della carità. Nel favorire gli studî, non pure rinnovò l'antica liberalità medicea, ma consentì libertà di pensieri e di giudizi maggiore assai che non avrebbe tollerata nei fatti. L'Accademia Fiorentina, che, quasi rinfocolando i platonici entusiasmi del Rinascimento, denominò sacra; l'Accademia del Disegno, il cui sorgere s'irradiò degli splendori del divino Michelangelo; la biblioteca Medicea Laurenziana; lo Studio di Pisa; sentirono il benefizio dell'opera sua. Palazzi, ville, loggie, colonne, statue, il fabbricato degli Ufizi superbo [54] di greca toscanità, furono sotto gli occhi del popolo il duraturo ricordo e l'auspicio della signoria novella. Ma di questa signoria il monumento più solenne, e pieno di ammonitrice severità e di epica grandezza, addivenne il palagio che d'allora in poi, cessatagli la perpetua giovinezza della libertà, s'incominciò a chiamare il Palazzo Vecchio; il palagio, che da sede del magistrato popolare artigiano, diventava il Palazzo del Duca, e i suoi veroni giardino pensile della duchessa spagnuola, e calate dalla torre le campane che avevano per secoli risonata la voce del popolo, e le pareti del salone memore di fra Girolamo istoriate delle guerre asservitrici di Pisa e di Siena, e ai lati della porta fiammeggiante nel nome di Cristo re profanate le virili idealità del David michelangiolesco con l'appaiarle all'eroismo brutale del grosso iddio Ercole. Poco appresso, sulla verde pendice che sovrasta all'oltrarno, sorgeva, vagheggiata dalla duchessa, sorgeva nel palagio di altri emuli vinti già da tempo, e si distendeva pei viali ariosteschi di Boboli, la vera e propria reggia fiorentina, che Cosimo mediante l'aereo corridoio da Pitti agli Ufizi congiungeva col Palazzo del Duca; nel modo stesso che altrove un despota feudale avrebbe, con qualche via sotterranea irta di orridi agguati, comunicato il proprio covo con la [55] ròcca delle sue masnade: ma in Firenze quel corridoio valicante l'Arno, finiva, in volger breve di tempo e per quando duchi e granduchi sarebber trapassati alla storia, con l'aver congiunte due reggie dell'arte, e fatto un solo tesoro della più splendida galleria che vanti il mondo civile.
Nella vita privata e domestica, unì Cosimo quella che ormai pel secolo cortigiano era repubblicana rozzezza, con le qualità buone o tristi di principe assoluto. Armatore e carezzatore di sicarî, non si tenne dal farsi omicida egli stesso. E invero, la vita degli uomini, o strumenti o vittime ch'e' se li assegnasse, fu a lui meno che nulla: nel che pur troppo quella rozzezza di medio evo agevolmente si conciliava con la ferocia, più o meno dissimulata, che l'istinto della conservazione e i clericali sofismi del diritto divino connaturavano alle tirannidi dinastiche. Dalla Eleonora di Toledo che, data a lui dalla Spagna, molto conferì a improntare di spagnuolo la novella corte, ebbe figliolanza, salvo uno, Ferdinando granduca, tutti, quanti essi furono, di tragiche sorti: Maria, morta giovinetta non si sa se d'amore o di veleno; Isabella Orsini e Lucrezia d'Este, la prima certamente uccisa dal marito; Garzia e Giovanni, mancati di precipitosa morte insieme con essa la madre; Pietro, perdutissimo uomo, più scherano che principe, [56] assassino dell'altra Eleonora di Toledo che fu moglie sua sciagurata; Francesco successore, mal vissuto e finito in turpe abbandono di sè a grossolani abusi: per non dire degli altri due figliuoli che Cosimo ebbe, Giovanni (uomo di venturosa vita) da una Albizzi, e Virginia (che andò sposa, e vittima a un altro Estense) dal secondo senile matrimonio con una Martelli.
La figura di Cosimo esce da que' suoi trentasette anni di regno, luminosa di carattere, di genio politico, d'una forte, profonda, imperturbata coscienza di quanto egli principe doveva a sè e al paese ch'egli in sè impersonava: tenebrosa di propositi inflessibili, di bieche violente passioni, il cui impeto pure gli concedeva una feroce apatia al bene ed al male. Uomo terribile al fare; e a ciò che di fare si prefiggeva, e quasi si decretava, subordinatore di tutti i sentimenti, di tutti i principî, di tutti i doveri. “Ho fiducia (diceva) in Dio e nelle mie mani„: nella quale specie di complicità fra coteste mani ducali e quelle sante di Domeneddio si potrebbe, anche essendo teologi molto indulgenti, osservare qualche cosa. Forse ne' tempi da lui vissuti, per riuscire a quel ch'egli riuscì, non si poteva essere diversi da quel ch'egli fu.
[57]
Se diremo, che pel capo di Francesco la corona della Toscana trapassò da Cosimo al successore suo vero Ferdinando, avremo giudicato, in confronto del padre e del fratello, quel secondo granduca, degno allievo di corte iberica, duro ad ogni buona cosa, ad ogni cattiva mollissimo, il dammeno di tutto il principato mediceo, e che quasi in tutti gli atti della sua vita si mostrò men che principe e men che uomo: cosicchè ne' suoi tredici anni di regno, dal 1574 all'87, anche quello di buono, a che pose mano, gli si sviava nel male. Il che addimostrò egli nel resistere, ma con effetti disordinati e manchevoli, alle pretese giurisdizionali della Curia di Roma; e nel curare la prosperità economica dello Stato, ma con leggi proibitive, tanto più condannabili in quanto poi vantaggiavano nel suo privato i commerci da lui esercitati con avidità più che di mercatante; e nel favorire le arti, che si adornarono delle opere del Buontalenti, dell'Ammannato, di Gianbologna, del Bronzino, del Poccetti, spesso però con intenti subordinati al vacuo [58] fasto cortigianesco; e nel mostrarsi non alieno dalle lettere, ma alla protezione verso la Crusca frammettendo il favore per le censure o piuttosto fiorentine vendette del cavaliere Salviati in odio a Torquato Tasso; e appassionandosi per le scienze naturali, ma col perdersi dietro alle vanità, e alle stolte cupidigie dell'alchimia. L'atto suo più efficacemente regio fu forse l'aver proseguito, come poi anche il successore Ferdinando, l'incremento del porto e città di Livorno: e l'atto più sciagurato, la tresca, mescolata a bestiali stravizî e saldata dall'assassinio del marito, la tresca con Bianca Cappello; per la quale fu intronato il malcostume e lo scandalo che serpeggiavano per entro tutta la famiglia, e quasi, a maniera mussulmana, convertita la reggia in alcova, finchè nel simultaneo disfarsi d'ambedue i turpi coniugi si adempiè, a distanza di poche ore dell'uno dall'altro, la giustizia vendicatrice dello strazio indegno sofferto dalla granduchessa legittima la virtuosa Giovanna d'Austria. Si può dubitare se sia giusto il paragone che si fa di Cosimo con Tiberio, e vedere invece maggior convenienza a lui nelle virtù e nei vizi d'Augusto: ma egli è poi certo che in Francesco ebbe Firenze il suo Claudio.
Ed altresì certo, che Ferdinando I possa, fatta ragione dei termini di così diseguali proporzioni, [59] essere avvicinato fra quei romani Cesari ai più equabilmente temperati. Se, a dinastia finita, Firenze avesse dovuto decretare pubblica onoranza monumentale ai veramente insigni fra i granduchi medicei, sarebbero egualmente le statue di soli due, Cosimo I sulla piazza della Signoria e Ferdinando I su quella dell'Annunziata, che ci sorgerebbero oggi, come ci stanno infatti e in Firenze e in Pisa, dinanzi: nè dello avere Ferdinando “coi metalli rapiti al fero Trace„, com'egli scrisse in quel bronzo, monumentato non tanto, del resto, sè stesso, quanto le sue vittorie sui barbareschi, gli faremo noi carico, se pensiamo che decretate più tardi, quelle due statue le avremmo avute da ben altre mani che da quelle di Gianbologna.
Salito al trono in veste tuttora da Cardinale, Ferdinando portò con sè come un'aura di pacifica dignità, che rompendo le atroci tradizioni domestiche, molto valse a ricomporre e ricondurre verso il Principe gli animi dal duro imperio di Cosimo sbigottiti, dalle brutalità di Francesco nauseati. La politica indipendente con la quale si svincolò dalla soggezione spagnuola, ebbe, fra il 1589 e il 1600, suggello in due matrimonî francesi: il suo proprio, conciliato dalla vecchia regina Caterina, con Cristina di Lorena, che gli fu degna compagna di vita e di governo, [60] e quello, non altrettanto felice, di Maria, nipote di lui col re Enrico IV, riamicato ch'e' l'ebbe alla Chiesa. Nè per questo potè dirsi aver egli non altro che mutata servitù: perchè e verso la Francia e verso la Spagna mantenne il proprio diritto, e l'amicizia sua fece desiderabile e ricercata all'una e all'altra delle due potenze che si maneggiavan l'Italia; e fra l'una e l'altra seppe esercitare autorità non infruttuosa pel trattato di Vervins che lo pacificò: — e la sua bandiera sul castello d'Iff nel mar di Marsiglia; e le pratiche per l'acquisto del marchesato di Saluzzo a bilanciare le ambizioni italiche di Carlo Emanuele nostro; e la partecipazione alle guerre imperiali contro il Turco; e le fortunate imprese delle sue galere Stefaniane contro i pirati africani; furono altrettanti atti del governo sagace, vigoroso e prudente, per i quali la Toscana, nella malcongegnata macchina di quella Italia del secolo XVII, si acquistò e conservò un'autorità, che la postura sua al centro della penisola rendeva doppiamente salutare e onorevole, non pure all'interesse dinastico del granducato, ma altresì al nome, fosse pure mero nome, d'Italia.
Mite, ma non dimesso d'animo; accorto, preveggente, operoso; dalle relazioni col padre e con Francesco e con l'altro fratello Pietro, aspre e difficili, ammaestrato per tempo a far suo pro [61] de' loro trascorsi e a curare negli altri ed in sè le magagne della propria stirpe; e nella vita cardinalizia romana dirottosi a prendere pel loro verso uomini e cose; egli portò nel suo governo tutto il beneficio di quelle qualità sue morali, e di questa non lieta e paziente esperienza. Splendidamente riassunse, sì da cardinale e sì da granduca, la tradizione domestica di mecenate. Dei tesori d'antica arte che da Roma più tardi immigrarono in Firenze, molto (e basti ricordare la Venere, la Niobe, i Lottatori, l'Arrotino) si deve a lui, che ne avea adornato da Cardinale villa Medici. Splendido fregio d'arte nuova alle pompe cortigiane, in cui si adagiavano ormai domi cuori ed ingegni, furono il melodramma nascente, il commesso in pietre dure, l'ambizione del principe d'aver cortigiani che si chiamavano Chiabrera o Guarini; e il Chiabrera ne ispirava quella sua ingegnosa poesia di riflesso, a favoleggiare epicamente sulla Firenze de' tempi barbarici, o a pindareggiare sulle palestre della Firenze granducale, o sulle imprese cristiane del naviglio toscano. E ben potevano coteste avventure marittime atteggiarsi a piccole crociate, se è vero che e Ferdinando e poi il figliuolo Cosimo II, ambedue eroi del poeta savonese, vagheggiassero l'idea cavalleresca d'una rivendicazione, anzi trafugamento, del Santo Sepolcro; e che a ciò fosse [62] destinata la nuova cappella Laurenziana, lussureggiante di marmi, che fu invece e rimase la Cappella dei Principi e loro sepolcreto. Da cosiffatti pensieri, i quali forse in animo di principe italico erano l'estremo guizzo del sentimento cristiano che pure in quel secolo produsse alla civiltà Lepanto e la Gerusalemme, non diremo alieno l'adoperarsi di Ferdinando per una stamperia orientale, fruttuosa agli studi fin ne' giorni nostri medesimi. Nè ciò gl'impedì le cure dei traffici (e fu lui l'ultimo mercatante mediceo) alimentatori d'una ricchezza più che regia, e per i quali il vincitor de' pirati dicesi non isdegnasse, talvolta anche a loro cooperazione, l'industria dei contrabbandi marittimi; ma del cui frutto, a ogni modo, si vantaggiavano i bonificamenti aretini e di altre parti del dominio, che dalla mano di Ferdinando ricevè insomma quella coesione economica e politica di granducato toscano, la quale perdurò fin che una Toscana politica ha conservata ragione di essere.
[63]
I due successivi granducati, che occupano dal 1609 al 1670 la maggior parte del secolo; con la breve signoria di Cosimo II fino al 1621, con la reggenza della madre sua Cristina e della moglie Maria Maddalena d'Austria, e con la signoria, dal 27 in poi, lunga d'oltre quarant'anni, di Ferdinando II; segnano sollecitamente l'indebolirsi, se non ancora della dinastia, ma certo del governo così negli ordini amministrativi come nei politici. Nell'interno, dove l'opera de' ministri prevale troppo spesso a quella del Principe, languiscono lentamente i commerci e le industrie, deperisce l'agricoltura, i vincoli giurisdizionali sopraffanno l'economia pubblica e domestica, si snerva la famiglia e si gonfia il convento, l'antico vigore del braccio e dell'animo si strania in servigio d'altri paesi; scarsa e mal nutrita è la fioritura delle lettere e delle arti, faticosa e contrastata quella della scienza che per virtù e martirio di pochi si afferma. Dal Cinque al Seicento, in Toscana, non è solamente cambiata la forma del reggimento civile; [64] si è mutata la razza. Nelle relazioni esteriori, solidata ormai, per necessità di cose e per salutare effetto delle altrui gelosie reciproche, la esistenza del granducato, non però è altrettanto scevra d'impedimenti la morale indipendenza del Principe: la tradizione politica di Ferdinando I, tenuta in piedi alla meglio fra l'imperversare delle ambizioni e delle guerre dinastiche, non vale ad assicurare a' suoi successori la libertà delle loro amicizie o alleanze. E quando, cessati all'Impero i pericoli sovrastanti da Enrico IV, s'imbastiscono, con quelle del doppio ducato di Monferrato e Mantova, le prime guerre di successione; e Carlo Emanuele I sospinge animosamente i destini di Casa Savoia; e la guerra dei Trent'anni sconvolge o sospende tutta l'Europa; la politica medicea è, senz'arbitrio di scelta, vincolata più o meno strettamente a Spagna e Austria, e due fratelli di Ferdinando combattono in quella guerra ed uno vi muore. Il che non guadagnò del resto a Ferdinando II il ricambio dell'alleanza, allorchè egli ebbe a contrastare anche con le armi, e non senza onore, alle oltracotanze nepotistiche di papa Barberini; riserbandosi egli bensì, a sua volta, di starsene a suo agio, quando Spagna e Francia si accapigliarono sulla costa maremmana per la vecchia questione dello Stato dei Presidii. Tutto [65] insieme, non mancarono a Ferdinando II qualità di governo; ma inadeguate alla straordinaria e troppo vasta complicanza dei fatti contemporanei. Ed è altresì vero che alcune deficienze, delle quali in quel periodo casa Medici peccò verso sè stessa, non sono imputabili nè a lui nè al padre suo, ma alle Reggenti; come fu del non aver fatto a tempo valere il conchiuso matrimonio di lui con Vittoria, ultima Della Rovere, per attirare alla corona granducale il ducato d'Urbino; che sarebbe stato più vantaggioso, e troppo più bello, acquisto che non gli altri, i quali Ferdinando non trascurò, di Pontremoli e di Santa Fiora.
La bontà, accompagnata in Cosimo da umore anche troppo proclive ai sollazzi e alle scurrilità delle corti d'allora, fu in ambedue questi principi naturata conformemente: e Ferdinando ebbe nella orribile pestilenza del 1630 occasione di esercitarla con provvedimenti ed atti, piuttosto di padre che di sovrano. E come a Cosimo questa bontà ingenita addolcì l'austerità, del resto affettuosa, della madre e della moglie, e lo fece rassegnato nelle infermità della vita breve; così a Ferdinando dette la virtù di sopportare quella tribolazione lunga, che gli furono in casa le donne. Il carattere della moglie, altero, ombroso e dispettoso, si atteggiò fin da [66] principio ad aperto contrasto con quello di lui effusivo, benevolo e gaio: donde avvenne, che e' trascorresse, sebbene senza rumore di scandali (che fra i potenti del secolo finivano spesso, e per lo più impunemente, nel tragico), a cercarsi allegria dove non avrebbe dovuto; ed altre conseguenze derivarono, fatali alla dinastia, delle quali assai dice la distanza di anni diciotto fra il primo figliuolo, che fu, a tutta imagine materna, quel bel fiore di Cosimo III, e il secondo, prima cardinale sguaiato, e poi, per comodo, marito sconcio e inutile d'una Gonzaga. Eppure la Vittoria Della Rovere dovette a quel pover'uomo parere un angiolo, appetto a quel vero demonio di nuora, la bella Luisa d'Orléans, ch'egli andò a scovare sino in Francia pel suo figliuolo e successore. E con cotesti matrimonii a cattiva luna, l'urbinate, l'orleanese, il mantovano, e poi i due tedeschi de' figliuoli di Cosimo III, si svolse rapidamente la distruzione della famiglia, il disfarsi, potremmo dire con Dante, ma questa volta non men precipitoso che irreparabile, il “disfarsi della schiatta„.
Che poi a que' due granducati di Cosimo II e di Ferdinando II, e a quella femminile reggenza, si congiunga con vicende così dolorose la storia del pensiero e dell'opera magnanima di Galileo; e che il nome di Cosimo a' satelliti [67] di Giove, e quello di Cristina in fronte alla lettera per la libertà dell'indagine scientifica, non facciano se non aggravare la colpa dell'acquiescenza di Ferdinando al martirio e alla curiale persecuzione, fin oltre tomba, del divino filosofo; in ciò è forse la più grave condanna di tutto quel periodo mediceo: perchè, dinanzi alle tarde ma immanchevoli giustizie della umana coscienza, i meriti maggiori o i demeriti dei sovrani della terra, sono quelli che essi si abbiano acquistati verso i sovrani del pensiero. Avrebbe forse ammendate le vergogne di quella colpa la instaurazione, che, sotto i granducali auspicii fraterni, il dotto e buon principe Leopoldo sì validamente imprese, dell'Accademia del Cimento: e i nove anni, fino al 1667, che ella così onoratamente visse e operò, quasi raccogliendo sotto le sue insegne la combattuta scuola galileiana, riconducono invero sulla casa Medicea un raggio di quella gloria d'umani studi che Cosimo il vecchio, il magnifico Lorenzo e Leone pontefice avevano trasmesso in splendido legato ai loro discendenti; e in quel novennio, del secolo che la trionfale cultura francese segna del nome di Luigi XIV, si accoglie senza dubbio l'ultima collettiva energia intellettuale che da questo nostro angolo privilegiato di patria manda, a benefizio della civiltà, il genio d'Italia. Ma quando, [68] mentre d'ogni intorno garrule e vaniloquenti sbucan fuori e prosperano Accademie d'ogni sorta e figura; e di lì a soli vent'anni, per frondeggiare su tutta la penisola, si matura l'Arcadia; quando invece vediamo il Cimento, questa sola Accademia scientifica, eletto e numerato drappello di non pregiudicati ricercatori del vero, inciampare sui primi passi; — e quel buon principe Leopoldo, col diventare il Cardinale necessario in famiglia, lo vediamo ritrarre la mano, come da alcun che di non più addicevole, da quella pur nobilissima opera sua, e col ritrarsi di quella mano l'Accademia del Cimento finire; finire, con pia sodisfazione del nipote Cosimo, che sta per essere granduca, e della nera congrega che lo circonda; — ci si addimostra ben chiaro, come anche di questa cosa buona il granducato mediceo non ebbe la forza, e che sulle pagine della sua storia, con la lode di quel che s'accinse a fare, rimane l'accusa e il biasimo di quel che avrebbe dovuto e potuto perseverare a fare, e non fece.
[69]
Ma e da quel che fece e da quel che non fece, pesa egual carico di biasimo sul penultimo dei sette granduchi, Cosimo III, che nella più lunga pur troppo di quelle signorie, lunga di oltre mezzo secolo dal 1670 al 1723, accompagnò e di propria mano sospinse il discendere in basso di tutto e di tutti; — politicamente, rinchiudendosi, dinanzi alle guerre prima di Austria e Luigi XIV, poi per la successione spagnuola, in una neutralità passiva e non patteggiata, che esponeva lui al discredito, e la misera sua Toscana a pagare le spese di quel rincantucciamento fuor dell'orbita degli interessi europei; — amministrativamente e moralmente, con l'avere eretto in sistema di governo il più goffo e irragionevole pietismo che mai abbia adulterate e disonestate le alte e feconde ispirazioni del principio religioso, e riducendo così tutta la vita civile ad una mostruosa parodia di convivenza monastica, sbanditone ogni libertà non che d'azione, non che di pensiero (pena, dal detto al fatto, la frusta, la berlina, la forca), ma pur di [70] sentimenti e d'affetti e d'abitudini; sino al regolare, a norma d'editti e con pratiche inquisitorie, sanzionate spesso da violenze crudeli, non solamente la dieta ecclesiastica del magro e del grasso, ma le conversazioni, i matrimoni, l'uso della parrucca, il servizio dei domestici, il fare all'amore: nobilissime cure di governo, ch'egli alternava con la propaganda religiosa a quattrini contanti, pagando conversioni e battezzamenti, che, con meritata profanazione, erano spesso presi in burla da venturieri di questa novissima industria santimoniale messa al mondo da lui. Dai viaggi per molte regioni d'Europa, sebbene fatti in compagnia di valentuomini come Filippo Corsini o Lorenzo Magalotti, poco più altro ritrasse che il venirgli a noia la scienza, e il contrarne la fastosa burbanza di gran monarca; alla cui maestà l'aver potuto aggiungere, a competenza di Casa Savoia, il titolo d'Altezza Reale, fu una delle sue più segnalate imprese, insieme con l'altra di esser tornato dall'anno santo di Roma con la dignità di Canonico di San Pietro. Di quel non molto in che favorì alcune parti dell'umano sapere e i loro cultori, mal ci apporremmo a derivare la ispirazione da liberale moto d'animo culto, anzichè rintracciarne i motivi in considerazioni di personale interesse o sodisfazione; come nella familiarità col Magliabechi, [71] che al servizio del principe metteva non la maravigliosa dottrina soltanto, ma la coscienza altresì; o col padre Segneri, del quale non so quanto, senza la tonaca del gesuita, avrebbe pregiato il signorile possesso dell'artificio oratorio e dell'idioma italiano; o col Redi, che gli tutelava lo stomaco e glielo afforzava per la vecchiaia; o col Micheli, la cui sapienza botanica impreziosiva i granducali giardini e gli arrubinava i fiaschi degli squisiti doni di Bacco che il medico poeta cantava; i fiaschi di buon Chianti, che esso Cosimo mandava a regalare ai coronati d'Europa, in una stessa spedizione col vocabolario della Crusca, per la terza volta rinnovato da una delle più valenti generazioni di quelli accademici. La qual paesana mescolanza di vino e di lingua, sangue l'uno e l'altro de' rispettivi organismi, il corpo e la nazione, sarebbe stata di buon augurio, se le vigne granducali non avesser prosperato, com'una cultura di stufa, in mezzo a regione squallida e depauperata; e se alla lingua di Dante e del popolo non fosse stato il nostro Vocabolario, per tutto un secolo dipoi, piuttosto deposito e tomba che riproduttivo vivaio; se la parola, più che lucida forma di pensiero e virtù alata d'affetto, non avesse finito quasi interamente con l'essere inerte materia frammentaria al congegno meccanico della frase; [72] cosicchè quando dalle labbra d'uno di quei cruscanti cortigiani, che la natura avea fatto poeta, balza quasi inconsapevolmente il santo nome d'Italia, e da quel cuore buono scoppia il rimpiante della “funesta bellezza„ di lei, e delle cupidigie ladre straniere, e del fato indegno che la condanna “a servir sempre o vincitrice o vinta„, noi restiamo incerti se quella voce di Vincenzo Filicaia è l'eco di tempi anteriori, o il grido fatidico d'un lontano avvenire.
Dal matrimonio che dette alla Toscana l'ultimo granduca, ho accennato quali consolazioni avesse Cosimo: consolazioni le quali, anche dopo la o espulsione, che s'abbia a dire, o fuga, della moglie, gli continuarono nelle affannose sollecitudini dell'assicurare la successione con l'ammogliare il fratello e i due figliuoli (nè a lui affezionati nè egli a loro, perchè ambedue, come la madre, alieni dall'umor tenebroso paterno), e col maritare, sola a lui ben accetta, la figlia. E tutti e quattro senza buon resultato: a vuoto il fratello, scardinalatosi, Francesco Maria con la Gonzaga; — a vuoto, e premorto al padre, lo scapestrato e vizioso Ferdinando con la buona e infelice Violante di Baviera; — e pur finiti senza prole, dalla sua brutta e salvatica moglie di seconde nozze boema il successore Giangastone, e l'Anna che vedova dell'Elettor Palatino tornò [73] poi a veder qui consumarsi ed esser trasferito nei Lorenesi il granducato mediceo: — in quei Lorenesi, del cui ducato, invece, se non era la pusillanimità di Cosimo III (che il Magalotti suo diplomatico sdegnosamente proverbiava), i patti di Nimega avrebber potuto incoronare un Medici; uno de' figliuoli datigli così di mala voglia da quella Orleanese, la cui madre era de' Lorena, e il cui primo amore, ossia il solo, era stato con un Lorena. Chi volesse in una rappresentazione scespiriana, intinta di tragico e di comico, drammatizzare la catastrofe di casa Medici, ne avrebbe, dalla venuta, regalmente festeggiata in Firenze, di Luisa d'Orléans fiorente di gioventù, di bellezza, di gaiezza francese, al suo ritorno in Parigi per esser rinchiusa nel convento di Montmartre moglie furibonda d'odio e di disprezzo, ne avrebbe il primo atto del dramma; — nel cui atto ultimo, il figliuolo di lei Giangastone si vedrebbe per le sale di palazzo Pitti, circondato da cortigiani innominabili; fra le brigate, salariate per l'orgia a un ruspo la settimana, de' suoi Ruspanti; in vedovanza volontaria, anzi entusiastica, della sua grossa castalda di Reichstat; trascinare incurante l'agonia del gran nome che pesa su quel corpo disfatto, su quell'anima, del resto non volgare, come brillante e acuto l'ingegno, alla quale mancò fino dai primi anni [74] l'alito salubre della virtù domestica. Ma incurante, non è giusta parola. Un pensiero, un alto pensiero, ebbe Giangastone; lo ebbe lo stesso Cosimo III: e fu, lo credereste? la libertà fiorentina. Il pensiero che angustiava il lutto paterno del vecchio Cosimo pater patriæ, quando aggirandosi per le sale deserte del superbo suo palagio cittadino di via Larga, esclamava: “Questa è troppo gran casa a sì poca famiglia„; quel pensiero, ne' cuori, tanto l'un dall'altro diversi, de' due ultimi granduchi, si atteggiò al rammarico, forse al rimorso, che questa cittadinanza, ormai da tre secoli addivenuta d'una in altra forma l'appannaggio domestico d'un Medici, fosse destinata irreparabilmente a passare ad altre mani, chi sa quali! E allorchè i tentativi di rifar razza si videro l'uno dietro l'altro soggiacere alla sentenza inesorabile di tale destino; e che i vigilanti speculatori del mercato europeo dei popoli furono pronti ad evocare sul capo della nobile vittima di papa Clemente e di Carlo V la trista parola “feudo dell'Impero„; i diritti, dinanzi a Dio non prescritti, della libertà fiorentina, ebbero difensori, per vie diplomatiche e giuridiche, i due ultimi granduchi medicei. In quel dramma, che dicevo possibile, degli ultimi Medici, la scena di queste proteste non mancherebbe di tragica dignità: ma il cosiddetto Senato [75] fiorentino che lamentosamente le accompagna, intonando la propria alla voce senile del principato morituro, farebbe le parti d'un coro piuttosto di Aristofane che d'Eschilo.
Del resto, la gaia reazione che i quattordici anni di regno di Giangastone, dal 1723 suo cinquantaduesimo, portarono nella vita fiorentina, fu, più che altro (salvo qualche utile rivendicamento della potestà civile), una mutazione di scena. Dall'acre bigotteria di Cosimo III al dissoluto cinismo del figliuolo, Firenze compì tranquillamente in sè stessa la distruzione d'ogni morale energia, preparando docile materia alle riforme legislative che poi formarono il vanto de' primi sovrani lorenesi. Dal 1718 al 1735, pe' trattati di Londra, di Cambray, di Siviglia, dell'Aia, la Toscana di Cosimo e di Giangastone fu maneggiata e rimaneggiata secondo gl'interessi di Spagna, d'Austria, di Francia; passò in anticipazione dalle mani dell'infante Carlo a quelle di Francesco duca di Lorena; ricevè guarnigioni spagnuole, per cambiarle poi con tedesche; e nelle mani di questi, alla morte di Giangastone il 9 luglio 1737, rimase. Ombra medicea accanto al nuovo trono lorenese, restò ancora per sei anni la figliuola di Cosimo, la vedova Elettrice Palatina. E poi tutta la prima dinastia de' Granduchi di Toscana fu adagiata nei sotterranei di San Lorenzo.
[76]
Nel settembre del 1857, Sua Altezza Imperiale e Reale Leopoldo II, Principe imperiale d'Austria, Principe reale d'Ungheria e di Boemia, Arciduca d'Austria, e, per grazia di Dio e volontà d'Italia, ultimo granduca di Toscana, passava in rassegna quei serenissimi morti. Non era al certo un presentimento che quel dabben principe avesse dello sfratto imminente, che gli consigliava una cosiffatta funziono funerea; perchè, a differenza del mediceo, il principato lorenese si disfece, e ci lavorò anche di propria mano, con la più evangelica osservanza del non pensare al dimani. Ma alle benigne ironie della storia è invero arguto soggetto questo granduca che, poco prima d'andarsene egli e i suoi, verifica le mummie della dinastia precedente, e le rimette al posto. Le aveva levate di posto, insieme con tante altre cose di vivi e di morti, la procellosa fin di secolo, che dal 1789 al 1815 aggirò nei suoi vortici popoli e troni. Nel 1791, regnando Ferdinando III, si erano rimossi dalla vecchia e dalla nuova sagrestia i depositi che in muratura ed in legno, circondati [77] da cancellatine di ferro, facevano ingombro non bello; e raccolti nel sotterraneo della Cappella dei Principi, erano stati affidati in temporanea custodia al reverendo Capitolo della Imperiale e Reale Basilica. La custodia fu tanto temporanea, che durò sessantasei anni, scordatisi di quei poveri morti tutti i governi che s'incalzarono durante la bufera, e poi lo stesso reduce Ferdinando; e fu tanto scrupolosa, che quasi la metà di quelle casse si trovarono violate e derubate degli oggetti preziosi. Era pertanto umano e degno pensiero quello di assegnare a cotesti depositi una stabile e decorosa tumulazione; prima di procedere alla quale, volle il Sovrano che di ciascun d'essi, cassa per cassa, fosse fatta dinanzi ad ufficiali dello Stato e a persone competenti, con l'assistenza d'un notaio, regolare recognizione. E questa ebbe effetto nei giorni dal 18 al 25 settembre dell'anno che ho detto.
S'incominciò dai genitori di Cosimo I: ed ecco ricomparire Giovanni delle Bande Nere (trasportato da Mantova in Firenze a' tempi di Cosimo III), con la gamba tagliata, le altre ossa scompaginate, l'armatura in pezzi, salvo l'elmo dentro il quale è intatto il capo; mancante la spada; ed ecco la sua valente donna, Maria Salviati, assai ben conservata, vestita monacalmente. Cosimo e l'Eleonora di Toledo, co' figliuoli giovinetti, sfoggiano [78] lugubremente gli avanzi de' loro vestimenti spagnuoli; i capelli della duchessa sono biondicci e attorti da una cordicella d'oro, come nel ritratto fattole dal Bronzino. Francesco e Giovanna d'Austria sono tuttavia in assai buon arnese di corpo e d'abiti; ricchissimi quelli della povera Austriaca, dalle cui orecchie brillano sinistramente fra quel putridume due bottoncini d'oro. Presso ai genitori l'unico figlio Filippo, che fu creduto vittima di veleno della druda Cappello; e poi il supposto rampollo maschile di questa, don Antonio: ma il corpo della sciagurata figlia di San Marco, gettato, com'è noto, nel carnaio o sepoltura popolare, è meritamente disperso. Ferdinando I giace ravvolto nella sua cappa magna di gran maestro dell'Ordine di Santo Stefano: e il simbolico re delle api, col motto “pur con la maestà„, lo ha dalla base della statua equestre seguitato fin colaggiù, sopr'una delle medaglie che gli posano sul petto. La moglie Cristina di Lorena ha essa pure sul petto una medaglia col ritratto di lui: e coi genitori sono adagiate Eleonora, morta a ventisei anni in accorata aspettativa di regie desiderate nozze con Filippo III di Spagna; e Maria Maddalena, essa pure mancata giovane, a trentatrè anni, monaca fra le domenicane della Crocetta. D'un altro loro figliuolo, il principe Lorenzo, la memoria latina, [79] scolpitagli in una lamina di piombo, piamente epigrammeggia: “O tu che di qui a molti anni leggerai, difficile che tu sia quel che costui già fu; quel che è ora, facilissimo.„ Ma più austero ammonimento dà quest'altro piombo, sepolto con un di quei molti figliuoli naturali di principi della casa, Pietro del tristo Don Pietro di Cosimo: “Chiunque apra questa tomba, legga: ci guadagnerà. Nato in Spagna, accolto amorevolmente in Firenze da Ferdinando I, da Cosimo II, da Ferdinando II, cavaliere di Malta, soldato in Germania, governatore di Livorno: da vecchio, cieco e sfinito. Tutto tempo perduto. Ecco, a te che leggi, il guadagno che ti ho promesso„. E un altro morto, della medesima categoria di figliuoli, figliuolo di Don Antonio e dell'Artemisia Tozzi, ossia un nipote della Cappello: “Senti, o leggitore di qui a molti secoli, ciò che le ossa mie dicono.„ (E qui egli racconta la vita sua militare). “T'ho detto chi fui: chi sii tu, non lo so; che cosa sarai, l'ho per esperienza, polvere e ombra. Ti pagherò l'indugio. Sprezza l'oro e gli onori, fuggi i piaceri, sementa di travagli, d'affanni e di pentimento. Paolo de' Medici.„ E un altro bastardo fratello di lui (singolari, sia permesso il notarlo, queste allocuzioni morali di sotto terra, per l'appunto dai generati in quella maniera), [80] Antonfrancesco Maria, vestitosi in morte da cappuccino: “Udite la voce che grida nel deserto di questo feretro: meglio un sol giorno con questo cilizio fra i poverelli di Dio, che lungamente nella reggia fra l'oro e le gemme.„ Cosimo II, morto appena a trent'anni, ha presso di sè, trasferita da Padova, dove mancò in viaggio, la sua vedova Maria Maddalena: le rispettive medaglie dicono, quella di lui: “Premio di virtù„; di lei, “Al cielo„. Ferdinando II, nella solita cappa stefaniana e con le sue medaglie, è iperboleggiato così: “Tu che fra questi avanzi mortali vedi il principe che fu, ripensa l'eroe: piangi? stupisci?„ Di che cosa? — verrebbe voglia di domandare — e dove l'eroe? Ma la sua Vittoria della Rovere mostra ancora le trine bianche e nere dell'abito; e nel rovescio della sua medaglia, Galatea solleva dalle acque la perla simboleggiante il candore della virtù. Seguono il principe soldato Mattias, e cardinali della casa, Carlo, Giancarlo (poco o male memorabili), e ben diverso il buon Leopoldo in vesti pontificali, sul petto degnamente la croce, intatti i lunghi capelli: la iscrizione plumbea ricorda il suo amore per le scienze; ma dovrebbe, espressamente, il Cimento. Ultimi Cosimo III e Giangastone, sicuri qui finalmente dalle rispettive consorti; e la Elettrice Palatina; in lenzuoli [81] di seta nera, con grandi medaglie, e lunghe diciture epigrafiche.
Ma storia pietosa (la tomba, che tante ne raccoglie e conchiude, ne ha qui svolta una essa stessa) storia pietosa è quella di due fra questi depositi: commovente epilogo d'uno di quei malaccoppiamenti, lungo i quali la razza granducale medicea si logorò e si spense. Ferdinando che avrebbe dovuto essere terzo mediceo, e granduca invece del minor fratello Giangastone, ha, depositatogli a' piedi, in un vasetto di maiolica coperto d'un drappo nero, il cuore della principessa datagli in moglie Violante Beatrice di Baviera, morta, diciassett'anni dopo lui, nel 1731: virtuosa moglie, affettuosa, non bella, di marito libertino che mai non l'amò, mentr'essa (lo dice l'iscrizione, questa volta verace pur troppo) essa “coniuge amantissima, impose per testamento, che il cuor suo, donatogli nelle nozze, gli fosse ricongiunto in morte e collocato nel sepolcro stesso di lui„: con lui il cuore; e il corpo, così pure ella ingiungeva, riposasse nella chiesa delle monache di Santa Teresa in Borgo la Croce. E vi riposò fino al 1810, quando, dissacrata la chiesa, il Governo francese curò il trasporto di quelle ossa travagliate alla basilica Laurenziana. Restituita, in quella recognizione del 1857, al luogo da lei decretatosi, e che era ritornato ad [82] essere sacro, colà rimane tuttora; non senza però aver corso pericolo, dopo la soppressione ultima e l'adattamento dell'antico monastero a penitenziario, di trovarsi novamente in terreno dissacrato, e a dover tornare per la seconda volta ai sepolcri di quella famiglia nella cui reggia non le fu felice l'ingresso. La chiesa di Santa Teresa è divenuta oratorio delle prigioni: e il corpo di “Violante Beatrice Gran Principessa di Toscana„ (come dice il titolo sovrapposto) rimane tuttavia all'ombra del santuario: ma senza le preci, rimane, là in quell'angolo lasciato a Dio nella trista casa del male, senza le preci delle sorelle in Cristo, che la povera bavarese volle e sperò risonassero perpetue sul suo capo infelice; mentre nel sotterraneo mediceo finirà di disfarsi quel ch'ella in vita ebbe dato a un Medici con auspicî sì tristi: il suo cuore buono di donna!
[83]
Ed ora torniamo, Signore gentili, fuori del buio dei sepolcri, alla luce e alla vita.
Dal Comune artigiano alla supremazia medicea, dai Medici cittadini ai Medici granduchi, da questi ai Lorenesi, Firenze nostra, la Firenze del sentimento e del pensiero, della scienza e dell'arte, tenne quasi in grembo una non piccola porzione delle sorti d'Italia; come nel tesoro della lingua ella custodiva il suggello del nostro esser nazione. Que' due principati, fatta pur ragione dei meriti o demeriti rispettivi di quelli undici granduchi, furono nella storia della nostra regione fenomeno passeggero: non era in essi Firenze, non la Toscana. E quando sulla torre di Palazzo Vecchio si spiegò al sole dei nuovi tempi, fra i tre sospirati colori, la Croce della sola monarchia nostra naturale e legittima, non fu soltanto l'unità d'Italia che si affermava su quella bandiera, ma anche il diritto rivendicato della nostra gloriosa Repubblica. E rivendicato il diritto, Firenze ha saputo nobilmente adempire il dovere.
[85]
CONFERENZA
DI
Ernesto Masi.
[87]
A forza di sentirmelo dire io m'ero persuaso d'avere oggi alle mani con questi Avventurieri italiani del secolo XVIII il più bel tema possibile di conferenza, caratteristico cioè di quel secolo in sommo grado, e per sè stesso romanzesco, agitato, riboccante di tipi bizzarri, di singolari accidenti, di aneddoti piccanti, di scenette ora allegre (anche troppo), ora sentimentali, ora fantastiche, ora anche tragiche, se volete, su uno sfondo di paesaggio continuamente cangiante, il paesaggio di chi non si ferma mai in alcun luogo, e quindi non solo uno spettacolo sempre diverso di città, nazioni, pianure, monti, mari, foreste, deserti; ma, poichè trattasi di personaggi che, vivendo a casaccio e trasfigurandosi sotto mille aspetti, si ficcano dappertutto e coll'audacia, o coll'inganno, o colla violenza, o coll'ingegno sfruttano [88] in mille modi la società del loro tempo, uno spettacolo più limitato bensì e in pari tempo più vario, pel quale si passa anche più rapidamente dal tugurio al palazzo, dalla bisca al palcoscenico, da una prigione a una sala di ballo, da una reggia a una soffitta, da un accampamento a un monastero, da un'accademia a una loggia massonica, e ci s'imbatte in tutti i tipi storici contemporanei più notevoli: papi, enciclopedisti, dame galanti, mesmeristi, illuministi, framassoni, gesuiti veri, ex-gesuiti volterriani, giramondo diplomatici e letterari, monache ribellate, abati erotici, poetesse estemporanee, altre estemporanee senz'essere poetesse, eroine di teatro, monarchi filosofi, arcadi, filantropi, cicisbei e via dicendo.
Guardando all'ingrosso e, per così dire, in astratto, che cosa si può immaginare di più seducente e di più promettente d'un tema simile? Perocchè io non lo esagero punto per arte rettorica d'accaparrarmi la vostra attenzione e di solleticare la vostra curiosità. Il tema è così; il tema, dico meglio, sarebbe proprio così, chi [89] sapesse e potesse acciuffarlo per il suo verso ed esporlo nel suo complesso, non sbriciolandolo cioè in minuzie biografiche, spesso oziose, perchè troppo spesso somigliantissime le une alle altre, ma cogliendolo in pieno, nel suo insieme di grande quadro di costume della società del secolo XVIII, a penetrare nell'intimo della quale nulla val meglio (in apparenza almeno) del porsi dietro alle traccie di questi cosiddetti avventurieri, personaggi in accordo e in pari tempo in lotta con tale società, derivazione naturale di essa e in pari tempo incarnazione demoniaca di tutti i principii dissolventi, che la faranno terminare in un'immensa catastrofe.
Questa società, si direbbe, non può aver segreti per loro, deliberati come sono, d'approfittare di tutte le sue debolezze e falsità, di tutti i suoi errori, di tutte le sue colpe, di tutti i suoi deliri; deliberati, come sono, di farla in barba a tutti i suoi sussieghi e a tutti i suoi formalismi, di romperla con tutte le sue convenienze e con tutti i suoi divieti tirannici.
Per celare la sua leggerezza essa ha un bel rialzare le teste colle parrucche; per nascondere le sue magagne ha un bel ricoprirsi di fronzoli, di gale, faldiglie, giubboni a fiorami, andriennes svolazzanti, guardinfanti solenni; per occultare il vuoto de' suoi sentimenti e il disordine de' suoi [90] pensieri ha un bell'inferraiuolarsi in una letteratura, la quale pare che dica molto e non dice niente e, salvo le opere di pochi sommi, svapora quasi tutta nella menzogna stereotipa dell'Elogio, nella vacuità della chiacchierata accademica, nelle ritmiche cadenze d'una poesia ricantante a sazietà spettacoli campestri, che nessuno ha mai visti, spasimi d'amori, che nessuno ha mai provati, resistenze inespugnabili di ninfe, che da ninfe incivilite non se le sono mai sognate neppure.
Ma a che pro tanta artificiosità, tante lustre, tanta prudenza di ciarle vuote, come crisalidi di cicale scoppiate, se, sbucando di sotterra, la masnada degli avventurieri, non astretta a nessun obbligo, a nessun dovere, a nessuna decenza, scompiglierà, ridendo sgangheratamente, tutta quella compassata galanteria, svelerà tutto senza ritegno, dirà senza regola e senza pudore tutto quello che si voleva tacere?
Sono essi dunque, che più degli autori comici, i quali debbono fare i conti col pubblico e non disgustarselo, più dei satirici, i quali alla realtà contrappongono sempre idealità soggettive, più degli stessi epistolari settecentisti, còmpito di scuola, palleggio per lo più di frasi e di complimenti insignificanti, sono essi dunque, gli avventurieri, che coi documenti della loro vita e colle Autobiografie, lasciateci dai principali di loro, ci [91] daranno la chiave di quell'enorme cabala, che fu il gran secolo dei lumi, il secolo XVIII; ci spiegheranno veramente il perchè i quarant'anni di pace dal 1749 al 1789, consolati da tanta giocondità di vita, illuminati da tante speranze di riforme e di progressi, cullati da tante rosee promesse d'una filosofia così arguta, così orgogliosa delle sue conquiste, e in pari tempo così facile, così accomodante, così penetrante in tutti i meandri sociali, finiscono in un'orgia satanica d'incendii, di vendette e di sangue; ci spiegheranno perchè, mentre i Giacobini di Francia hanno inalzato altari alla Dea Ragione, mentre il Condorcet s'è avvelenato per sfuggire alla ghigliottina, ma pur credendo sempre nella sua teoria della perfettibilità umana e del progresso indefinito, la plebe italiana insorge invece negli ultimi del secolo coi preti alla testa e il grido di Viva Maria; ci spiegheranno perchè tanti di coloro appunto, che con più fede s'erano abbandonati al dolce sogno d'una rigenerazione universale, si mostrano all'ultimo i più disillusi e i più disperati, perchè Vittorio Alfieri indietreggia spaventato e sdegnoso, perchè Federico Schiller grida: “il secolo è morto fra le tempeste e il nuovo s'apre cogli eccidi; la libertà è un sogno; non v'ha posto nel mondo neppur per dieci felici;„ perchè Saverio Bettinelli chiama infausto il secolo [92] XVIII che muore, lo condanna all'obblio e profetizza il finimondo; perchè Carlo Roncalli finalmente fa dire al secolo stesso:
Io che più per godere
Che per pensar fui fatto,
Volli troppo pensare e muoio matto.
Sì, lo credo, ci spiegheranno, ci dovrebbero spiegare tutto questo, ma bisogna saperli interrogare e soprattutto bisogna potersi fidare delle loro risposte. Visto all'ingrosso e a distanza, il tema è in realtà quale ho cercato a larghi tratti di delinearvelo, ma avvicinandosi ad esso, spuntano le dubbiezze, le difficoltà, le incertezze. Meno male che forse esse pure servono ad illustrarlo.
E in primo luogo chi sono questi avventurieri? quali sono? hanno caratteri proprii da non poterli confondere con altri, o basta qualche singolarità di vita e di vicende per gratificare di questo titolo un qualunque personaggio, come oggi si direbbe, un po' eccentrico? come si distingue l'avventuriere da quello che si suole chiamare uno strambo, un cervello balzano, un originale? e cotesti avventurieri appartengono in [93] proprio al Settecento, o possono appartenere a qualunque tempo? hanno sempre la stessa indole e la stessa apparenza esteriore, o modificano questa e quella e l'adattano a tempi diversi?
A me pare che non si possa andar oltre, senza cercare di rispondere, se non a tutte, a qualcuna almeno di tali domande. Diciamo quindi subito quali sono i tipi, che nell'Italia del Settecento mostrano carattere d'avventuriere così spiccato e lineamenti e contorni così precisi da non poter cader dubbio che sono ben dessi e non altri. Alcuni dei loro nomi rivengono immediatamente alla memoria di tutti, Giacomo Casanova di Seingalt, Giuseppe Balsamo, o, com'egli si faceva chiamare, il Conte di Cagliostro, ed altri men noti sono il Da Ponte, il Gorani, il Piattoli, il Mazzei, fra i quali nomi però abbiamo già (notate bene) molte varietà della specie e non più soltanto il tipo così schietto, com'è nel Casanova e nel Cagliostro.
Le varietà poi si moltiplicano, se consideriamo che nel Settecento un qualche sprazzo dell'indole di costoro si avverte in moltissimi uomini d'ingegno alle prese colla fortuna, o vagheggiatori di novità, o per un caso, per una vicenda qualunque sbalzati fuori d'improvviso dall'umile e consueto solco, pel quale forse senza quel caso o quella vicenda si sarebbero rassegnati a mettere [94] con tutta regolarità un piede dopo l'altro, durante l'intiera lor vita, senza mai affrettarsi, o prendere una scorciatoia di traverso, o provarsi di rovesciare quelli che erano davanti a loro.
A tale stregua, e fatta una prima distinzione importantissima fra l'avventuriere canaglia, l'avventuriere galantuomo e quello così così, si possono classificare fra gli avventurieri anche il Goldoni, per esempio (il quale del resto s'è titolato da per sè l'Avventuriere Onorato), il Baretti, l'Algarotti, il Galiani, il Gamerra, il Calsabigi, il Lalli, il Coltellini, il Cicognara e tanti altri, che sarebbe lungo ed inutile di nominare, ma che ci forniscono l'opportunità di fare una seconda distinzione fra l'avventuriere letterato e il letterato avventuriere ed enciclopedista alla francese, tipi non nuovissimi neppur essi, perchè nulla è mai nuovo del tutto sotto il sole, ma che il Settecento ha certamente perfezionati o per lo meno foggiati ad immagine e similitudine sua.
V'ha dunque, sì, fra tutte queste gradazioni d'avventurieri, che son venuto ricordando, molti lineamenti comuni e prettamente Settecentisti, e tali lineamenti li troveremmo non negli Italiani soltanto, ma nei numerosi avventurieri d'ogni nazione, che nel Settecento erravano in lungo e in largo per l'Europa coi pochi mezzi di locomozione [95] allora conosciuti e spesso spesso colle proprie gambe, perchè quella specie di continua irrequietezza e di continua ribellione individuale, che essi rappresentano, scorre come un fluido magnetico per tutt'Europa ed eccita ovunque vibrazioni isolate, finchè condensandosi a un tratto determinerà poi lo scoppio finale.
In Italia l'avventuriere del secolo XVIII ha precedenti storici non pochi. Vanno a finire in lui gli Umanisti del secolo XV, che la rinnovata coltura del Rinascimento avea messi in gran voga, che erano cercati dappertutto come arbitri, dispensatori di fama e di celebrità, e riempivano corti, palazzi, università, finchè l'Umanismo tramontò, e la più parte di essi, resi turpi e insolenti dalla troppo facile fortuna, scomparve nel disprezzo e nell'abbandono. Vanno a finire in lui i politici cortigiani, che nei secoli XVI e XVII si addestrano ai segreti della politica stretta, violenta, proditoria di tutti i piccoli tirannelli italiani, e talvolta, quasi a vendicare l'Italia dell'oppressione straniera, sotto la quale è schiacciata dalla fine del secolo XV in poi, salgono altrove ai primi onori, come l'Alberoni [96] in Spagna, il Mazzarino in Francia, nei quali la porpora cardinalizia mal nasconde lo sdruscito farsetto dell'avventuriere. Vanno a finire in lui gli artisti girovaghi, i grandi comici dell'arte, alcuni dei quali, il Costantini, il Fiorilli, sotto le maschere di Mezzettino e Scaramuccia, hanno vite tali da disgradarne i più bei romanzi d'avventure, ed il più celebre degli avventurieri del secolo XVIII, Giacomo Casanova, è figlio di due comici. Vanno a finire nell'avventuriere del secolo XVIII gli astrologi, gli indovini, i distillatori di profumi o di miscele mortifere o miracolose, per lo più Italiani, dei secoli anteriori; vanno a finire in lui i soldati vagabondi, ed anzi più svanisce ogni vecchio ideale cavalleresco, più si diffondono, come una moda, il razionalismo e la miscredenza, mercè i progressi delle scienze fisiche e le demolizioni della filosofia enciclopedista, e più diviene frequente questo tipo caratteristico dell'avventuriere, enciclopedista esso pure nelle sue mille attività e trasformazioni, uom di moda e di progresso, cavaliere non di virtù e cortesia, ma d'industria, come lo definisce il Goldoni in quei versi d'un suo melodramma:
Eh, figlia mia, di cavalieri erranti
Anche a' dì d'oggi ve ne son, ma questi
Si rendono famosi
Più per l'industria lor, che pel valore.
[97]
La derivazione storica dell'avventuriere del secolo XVIII, per quanto frammentaria, mostra dunque che esso pure è evoluzione e selezione (adoperiamo anche noi le grandi parole scientifiche) di tipi varii, e insieme congeneri per qualche lato, e mostra di più colla sua tenace vitalità che questa interessante famiglia d'animali è destinata a perpetuarsi anche al di là del secolo XVIII, tant'è vero che dopo un'interruzione, cagionata forse da un'età organica di rivoluzioni politiche, nella quale il tipo si confonde e si nobilita nell'esule, nel cospiratore patriotta, nel guerrigliero, nel dilettante diplomatico, questa nostra fine di secolo lo vede ricomparire fresco come una rosa nel politicante e può offrirne esemplari bellissimi, i quali, inalberando la vecchia divisa del Casanova e del Cagliostro: mundus vult decipi (la gente vuol essere canzonata), sbucano come quelli dai sotterranei massonici, o tentano le vie nuove del giornalismo irresponsabile, della banca senza scrupoli e persino (chi lo crederebbe?) della burocrazia intraprendente, ed hanno dinanzi a loro tanto più facile e spianata la via, in quanto non si tratta più, come per quei poveri diavoli del Casanova e del Cagliostro, d'aver a canzonare il mondo intiero, ma basta saper canzonare quattro imbecilli d'elettori, perchè non ci sia più concupiscenza o ambizione, [98] che non si possa soddisfare, o alla mèta, a cui non si possa arrampicare.
Sempre diverso adunque, eppure perpetuo e trasformantesi e adattantesi ai tempi è il tipo dell'avventuriere, nè l'avventuriere del secolo XVIII sì sottrae a questa legge. Se non che esso si adatta al tempo, perchè mira a sfruttarlo, e per la stessa ragione lo contrasta e gli si ribella, perchè questo suo proposito di sfruttarlo essendo fondamentalmente illegittimo, l'avventuriere deve calpestare tutte le regole e rompere tutti i freni, che nessuna società, per quanto leggera e corretta, ha mai soppressi del tutto.
Ciò posto, ecco i tratti anche più caratteristici dell'avventuriere del secolo XVIII quali possiamo studiarli, in Giacomo Casanova di Seingalt e nel conte di Cagliostro, che sono certamente fra gli avventurieri italiani del secolo XVIII i maggiori di tutti.
[99]
In primo luogo l'avventuriere è solo. Non ha tradizione di famiglia, nè vincoli di attinenze sociali, anche se si conosce il nome de' suoi genitori e il luogo dov'è nato. È solo, non ha nulla, e vuol tutto. Questo è il punto di partenza, e movendo di qui esso è sempre l'autore unico della propria fortuna o della propria disgrazia. L'uomo, che piega o no al proprio destino, che si rassegna o lotta vigorosamente, ma che insomma è preda o giuoco d'alcunchè d'estraneo a lui e alla sua volontà, può bensì incontrare avventure d'ogni fatta, ma non è l'avventuriere. L'uomo, che ama l'ignoto e vi si arrischia, che si compiace del pericolo e lo sfida, che vagheggia un alto ideale e vi si sacrifica, il viaggiatore, il soldato, il missionario, può bensì incontrare avventure d'ogni fatta, ma non è l'avventuriere. Avete in quelli la forza del carattere, la fede in Dio, l'amore della scienza e della verità, il bisogno d'azione, l'impulso potente della fantasia e del coraggio.
Nell'avventuriere invece avete la mancanza d'ogni base e d'ogni ideale inspiratore, ed un'unica [100] convinzione, quella cioè che la maggioranza del genere umano è di sciocchi, dei quali l'uomo di spirito deve sapersi approfittare. Sono le testuali parole del Casanova, al quale si vuol tener conto almeno della sincerità.
Tant'è che quasi tutti questi avventurieri del secolo XVIII, poichè quella società leggiera ed elegante, nello scadimento dell'antica fede religiosa e nel fanatismo nuovo pei grandi progressi delle scienze fisiche e naturali, inclina, come sempre accade, alla parte fantastica e superstiziosa delle scienze medesime, nè contenta alle vere scoperte, vuole addirittura il miracolo, quasi tutti, dico, questi avventurieri del secolo XVIII, e in prima linea il Casanova e il Cagliostro, tornano ai misteriosi deliri delle arti occulte, della necromanzia e della magia; intingono negli arcani dell'illuminismo germanico, della Massoneria e del mesmerismo, sempre collo specioso pretesto del progresso indefinito della libertà umana e della scienza. Vi ricorderete come il Monti nel 1784 inneggiava alle continue conquiste della scienza:
Che più ti resta? Infrangere
Anche alla morte il telo
E della vita il nettare
Libar con Giove in cielo!
Ebbene, ciò che nel Monti è uno dei soliti suoi [101] felici impeti lirici, nel Casanova e nel Cagliostro è il gran segreto, che promettono agli imbecilli contemporanei di rivelare.
In Venezia il Casanova vive e sciala per lungo tempo alle spalle di tre onorati e creduli gentiluomini, Bragadin, Dandolo e Barbaro, i quali sono persuasi ch'egli sia in possesso d'una cabala profetica e in comunicazione con spiriti celesti, che, oltre a far conoscere il futuro, devono apprender loro anche l'arte di non morire. In Parigi, con maggior apparato di prestigi negromantici, spilla tesori ad una vecchia pazza, madama d'Urfé, cui ha promesse le gioie del ringiovinire, le rinnovantesi estasi dell'amore e l'immortalità.
Con eguale impudenza il Cagliostro sfrutta coi credenzoni di mezz'Europa i fenomeni del magnetismo animale e del sonno catalettico per rievocare i trapassati, leggere negli arcani dell'avvenire; e in Roma, nella primavera del 1789, la fila dei cocchi, che recano alle sue conferenze di Villa Malta presso Porta Pinciana la più alta società indigena e forestiera, è ben più fitta, che non sia ora in Firenze quella delle più frequentate conferenze del palazzo Ginori. Se non che là si trattava di risvegliare i morti; qui, tutt'al più, d'addormentare i vivi, ed il proposito più innocente giustifica la minore curiosità.
[102]
Negromante, cabalista, mesmerico, spiritista, l'avventuriere ha su altri gran dottori di scienze occulte la superiorità d'essere sempre in perfetta malafede. Ciò può tenersi per indubitato del Casanova, Veneziano, e che del Veneziano ha tutta l'arguzia e la lucidità della mente; meno certo del Cagliostro, che ha la cupezza fanatica, gli sbalzi selvaggi del plebeo Siciliano, e in cui talvolta par di discernere quel fervore e quell'accecamento di spirito, pei quali, colla lunga abitudine del darla ad intendere, del vantarsi e dell'attribuirsi poteri straordinari, un uomo finisce in parte a credere a ciò che fa e a ciò che dice. Ad ogni modo anche nel Cagliostro il ciarlatano prevale.
Troveremo noi maggiore sincerità negli amori dell'avventuriere? Neppure in questi, quantunque, sino a che la gioventù gli dura, le donne siano il fondamento principale e l'istrumento maggiore della sua fortuna. Se non che nel Cagliostro questo argomento non ha nè grande importanza, nè alcuna estetica vaghezza. Il suo matrimonio con la bella Lorenza Feliciani, figlia [103] di un tintore romano, è la più turpe di tutte le sue speculazioni, e gli altri amori sono episodi senza alcun intimo legame col misterioso laberinto della sua esistenza. Nel Casanova invece gli amori sono il pernio centrale della sua vita e di fronte ad essi è episodico tutto il resto. I suoi amori riempiono quasi gli otto volumi delle sue Memorie e si può credere s'egli ha avuto e s'è dato agio di variare questa dolce musica su tutti i toni possibili, dal più carnalmente e giovenilmente boccaccesco fino ad un sentimento così passionato e così raffinato della pura bellezza plastica, che il Sainte-Beuve, buon giudice, scambia addirittura il Casanova per un artista greco, e che un raggio di estetica idealità scende, si voglia o no, da qualche angolo di cielo pagano e traversa ed illumina tutta questa, starei per dire, nuda oscenità di racconti.
Non per questo si può affermare che passione vera s'incontri mai nelle sue infinite variazioni dell'eterno tema dell'amore, e sarebbe del resto assai strano incontrarla in un uomo, pel quale l'amore non è altro, com'esso dice, che “una curiosità più o meno viva, dominata dalla gran legge di natura, che assicura la perpetuità della specie.„
Il Casanova non prova quindi la passione, nè la inspira. Fra le tante donne amate da lui o che [104] lo hanno amato, per lo più donne libere e ragazze (notevole singolarità nell'età dei Cavalieri Serventi) egli non s'imbatte mai in quelle amanti indiavolate, che l'infedeltà o l'abbandono mutano in Menadi scapigliate e furibonde, o in vittime deboli e desolate, che si struggono in lagrime e, per colmo d'imbarazzo, sono anche capaci d'ammalarsi e morire. No. Le donne del Casanova, queste gioconde e sorridenti figurine del secolo XVIII, nè minacciano, nè s'ammalano, nè muoiono. Non dimenticano bensì, nè si consolano subito, che sarebbe troppo, ma al momento del distacco promettono di vivere ancora e di cercare nel mondo qualche altra consolazione. Così l'amore non procura mai a questo gaudente girovago nè uggie, nè soste, nè rimorsi; l'amore per lui è mezzo, non fine, e quindi egli sta in guardia contro sè stesso per non abbandonarsi mai del tutto a nessuna ebbrezza d'amore che gli tolga la libertà delle sue determinazioni e dei suoi movimenti. Direi ch'egli tratta l'amore, come il vino. Quando s'accorge, che gliene salgono i fumi al cervello, egli lo anacqua o cessa di bere, nè fra i tanti eccessi di questa vera rincarnazione Settecentista del vecchio mito di Don Giovanni Tenorio vi avverrà mai di vederlo ubbriaco, cioè senza più coscienza esatta di sè e in balia degli altri.
Tuttavia una presa di matto c'è nel Casanova [105] ed è ciò che qualche volta lo può rendere anche simpatico e gli ha fatto trovare più difensori che non merita; ma siamo savi noi, e non ci lasciamo ingarbugliare.
Anche quando giuoca tutto il suo denaro o giuoca la vita con tanta spensieratezza, in fondo in fondo il calcolo c'è sempre. Quanto al danaro, più la fortuna lo abbandona oggi e più lo compenserà domani; non lo compensasse, ed egli, messo alle strette, non esiterebbe a correggerla.
Questa suprema necessità è anzi sempre la difesa, ch'egli invoca, ogniqualvolta le sue azioni non stanno entro il circolo chiuso della morale, e neppure nei dintorni della morale.
Quanto a giuocar la vita, ammetto ch'egli è coraggioso, anzi audace, ma consideratelo, ad esempio, nel famoso duello col conte Braniki a Varsavia e v'accorgerete che il battersi a morte con un grande del regno e favorito del Re Stanislao Augusto Poniatowski, a proposito d'una qualunque ballerina Veneziana, di cui al Casanova non importa nulla, è per lui un'occasione di mantenersi prestigio e posizione, anche cavallerescamente onorata, in una corte e in una società, che è tutta d'avventurieri, a cominciare dal re, e non se la lascia scappare. Se n'esce bene, il Casanova ne approfitterà, ed in che modo! Se gli va male?... Ma a questo il Casanova [106] non pensa neppure. Ed ecco anzi il vero punto psicologico dell'avventuriere. Se ci pensasse, sarebbe un altr'uomo!!
A una cosa sola pensa l'avventuriere, di cui stiamo studiando il tipo nel Casanova, pensa a riuscire e a godere. Far fortuna è tutta la sua moralità. Per questo la politica dei giorni nostri, aperta a tutti, è diventata così grande sbocco di questa merce. Nel Settecento invece la politica era alcunchè d'inaccessibile; l'avventuriere, se mai, non vi giungeva che di straforo, per caso e di passaggio (come il Casanova in quella dell'abate di Bernis e della Pompadour) e spesso spesso v'incappava nello sfratto o nella prigione.
La vita sociale, con classi così profondamente divise, era chiusa da tutte le parti; i più s'adattavano a vivacchiare pacifici in queste acque morte; ma certe individualità, che da natura aveano sortita l'indisciplinatezza, l'audacia, la febbre della cupidigia e dell'ambizione, sentivano invece la necessità d'uscirne, di vivere d'un'altra vita, respirare un'altr'aria, muoversi, agitarsi, farsi valere ad ogni costo, anche a costo di rischiare a tal giuoco vita ed onore.
[107]
È per questo che il perfetto avventuriere è una figura rara bensì (quelli che ne hanno solo qualche tratto o incompiuto o transitorio sono invece ben più numerosi) è una figura rara bensì, ma che si stacca con tanta originalità e così caratteristica sul fondo storico della società del secolo scorso; è per questo che la più colossale e complicata figura d'avventuriere, cioè il Casanova, spunta a Venezia, dove un carnevale perpetuo, che attrae i gaudenti di mezz'Europa, eccita tutti gli istinti viziosi, e dove in pari tempo un'oligarchia aristocratica, che ha tradizioni di giustizia e di rettitudine, ma tradizioni altresì di governo chiuso ed inesorabile, comprime tutto inesorabilmente e non lascia altra libertà che di far all'amore in bautta o alla scoperta, giuocarsi i patrimoni al Ridotto e parteggiare per le commedie del Chiari o del Goldoni.
Queste poche licenze non bastano ad un temperamento come quello del Casanova. Il giuoco e le cabale sono la sua base finanziaria. Gli amori sono il suo spasso prediletto e già essi soli lo introducono in molte intimità sociali, alle quali per altre vie non perverrebbe. Ma ha bisogno di qualche cosa di più e si caccia nei segretumi delle Loggie Massoniche, incominciate a diffondersi anche in Venezia, e allora la invisibile mano degli Inquisitori di Stato gli si posa misteriosamente [108] sopra una spalla e dopo averlo, a modo di correzione, tappato una prima volta nel forte di Sant'Andrea, lo tappa di nuovo ai Piombi e questa volta con cinque annetti di condanna. Il Casanova riesce a fuggire, e la sua fuga, prodigiosa d'astuzia e d'audacia, la sua fuga, ammirata, derisa, non creduta, negata per impossibile fino ai giorni nostri, ed oggimai, dopo lo studio del D'Ancona, indiscutibile, la sua fuga diviene una delle fughe celebri del secolo ed egli sfrutterà a lungo tale celebrità. Ma eccolo ribelle e fuoruscito per forza e continuando sempre e dovunque lo stesso tenore di vita, ecco aprirglisi dinanzi non più Venezia e l'Italia soltanto, ma l'Europa intiera, sicchè la scena delle sue Memorie, dopo di aver rappresentata la vita Veneziana e Italiana contemporanea, in alto, in basso, ma sempre nella sua parte più torbida, si slarga ora e si estende via via all'Europa intiera e le sue Memorie divengono così un caleidoscopio immenso, dove sorpreso in mille atteggiamenti e nei più intimi, nei più riposti, nei più inaspettati, s'agita e si divincola tutto un mondo di gente, da quella che è posta in cima della scala sociale allo snob più basso, più vile e strisciante nei più infimi strati, donde s'arrampica a pigliar d'assalto il tremendo problema della vita con gli spedienti più loschi e le professioni più innominabili.
[109]
Parvero così straordinarî i racconti delle Memorie del Casanova, che s'incominciò dal dubitare dell'esistenza di lui, poi dell'autenticità delle sue Memorie (che Paolo Lacroix pretese addirittura scritte dallo Stendhal) e ne uscì fuori una questione critica grossissima, ch'io mi guarderò bene dall'esporvi, tanto più che non è chiusa ancora, ma le cui conclusioni più sicure infino ad ora son queste. Non parlo dell'esistenza del Casanova. Troppe testimonianze contemporanee la provano da poterne sul serio dubitare. Ancora è provata l'autenticità delle sue Memorie. Sappiamo però con altrettanta certezza che il testo da noi posseduto non è in tutto il testo vero, quantunque sembri che i ritocchi e le mutilazioni praticatevi dal signor Lafargue non siano state poi così grandi, come sembrarono al nostro bravo Ademollo, che in parecchie occasioni se ne mostrò affannatissimo, o per lo meno non alterarono gran che l'impronta personale d'uno scrittore, che sarebbe molto difficile di contraffare, senza rifondere compiutamente il suo libro. Resta la veridicità dei fatti. Di molti i riscontri sicuri si [110] sono trovati; di altri è forse impossibile trovarli; ma i già trovati son tali da testimoniare in favore del rimanente, e gli errori di memoria o gli abbellimenti di fantasia non tolgono alla realità totale del quadro, quantunque, come scrittore, il Casanova sia nelle sue Memorie artista potente, e veramente creatore, oltre ad essere pensatore e osservatore attento e coltissimo. Altri suoi scritti pure lo dimostrano tale, l'Isocaméron, ad esempio, libro meraviglioso e di cui i romanzi recenti di Giulio Verne parvero un plagio.
L'uomo, lo scrittore sono dunque nel Casanova una realtà. La sua vita pare un romanzo, ma è un romanzo che fu vissuto; l'uomo somiglia a Gil Blas, ma a un Gil Blas in carne ed ossa, e non a un'invenzione d'un qualunque ignoto Le Sage. Questo tristo rappresentatore, questo impudente rivelatore della più segreta storia del secolo XVIII ci ha lasciato dunque documenti di sè e del suo tempo, che vanno bensì accolti con riserva e adoperati con prudenza, ma che pur sono incontrastabilmente documenti d'una parte almeno della vita sociale del Settecento nella Venezia degli ultimi Dogi, nella Roma di papa Lambertini e di papa Rezzonico, nella Napoli del Tanucci, e principalmente nella Francia di Madama di Pompadour, nella Spagna dell'Aranda, nel Portogallo del Pombal, nell'Inghilterra dei tre [111] ultimi Giorgi, nella Russia di Caterina II, nella Prussia di Federigo il Grande, nella Polonia del bel Stanislao dalle chiome corvine. Una parte almeno, ripeto, di tutta questa immensa prospettiva Europea, quella in ispecie che meno salta agli occhi nelle storie, è nelle Memorie del Casanova sorpresa in atto, colta sul vivo, e descritta da grande artista.
Anche questo tanto di realtà, che troviamo nel Casanova, ci sfugge invece nel Cagliostro. Costui, se qualche volta s'è pur tanto infervorato nella commedia che recitava da scambiarla colla realtà, costui è veramente la menzogna in persona. Quando crediamo d'averlo afferrato e di poterlo costringere a dirci finalmente chi è e che cos'è, egli ci è già sguizzato via, come un anguilla, e ci troviamo a mani vuote. Il Casanova lo ha incontrato più volte ne' suoi viaggi, la prima volta ad Aix, ed il Cagliostro e la moglie, in abito di romei, tornavano allora stanchi, estenuati e senza un soldo dall'aver visitato a piedi Sant'Jacopo di Compostella e Nostra Donna del Pilar; un'ultima volta a Venezia, sotto il nome [112] di marchese Pellegrini, e allora il Casanova riconoscendolo per un fieffè fripon gli profetizzò che sarebbe finito in galera, una delle profezie, delle quali il Casanova può più giustamente vantarsi.
Questa strana figura del Cagliostro, che spunta originariamente dalla Mafia Siciliana, eccitò potentemente col suo continuo nascondersi e trasmutarsi le fantasie dei contemporanei e dei posteri, ma molte parti di essa restano anche oggi un mistero. Dal Goethe e dallo Schiller ad Alessandro Dumas ed al Carlyle, artisti sommi, senza contare i critici, gli storici, i psichiatri, i medici, i moralisti, hanno sentito il bisogno d'affrontarsi con questa sfinge; pel Goethe e per lo Schiller era divenuta una specie di fissazione, da cui non poterono liberarsi, che dandole sfogo, lo Schiller in un romanzo, il Goethe in una commedia, l'uno e l'altra però parto di fantasia, non rivelazione del mistero, alla cui provocante tentazione i due grandi poeti non avevano potuto resistere.
Eppure il Goethe non s'era contentato di fantasticare sul Cagliostro come sulla leggenda del dottor Faust, ma durante il suo viaggio in Sicilia avea voluto assicurarsi se un filo qualunque ricongiungeva alla realtà della vita quel fantastico essere, che da anni correva l'Europa riempiendola della sua fama ed avendo sempre alle calcagna un esercito di fanatici e di persecutori, [113] di birri che lo vogliono carcerare, e di discepoli che vogliono metterlo sugli altari. Chi ha ragione, chi ha torto, i birri o i discepoli? E fa meraviglia vedere con che timida curiosità il gran poeta Tedesco entra in quella povera casuccia di popolani Siciliani e interroga quella vecchia madre, quei nipoti, quei compagni d'infanzia del Cagliostro, e che turbamento gli arreca quell'interno così squallido, così onesto, così triste, paragonato alla rumorosa fama od infamia del gran negromante, di cui tutta Europa si occupa. Uscendone, il Goethe ne sa più e ne sa meno di prima. Sa, per esempio, che il nome di Cagliostro, in cui s'era trasmutato Giuseppe Balsamo, non è tutta un'usurpazione, bensì un nome di famiglia anch'esso, finito già in una donna, e ch'egli avea assunto, aggiungendovi di suo la contea e cambiando il nome di battesimo di Giuseppe in Alessandro. Certo, come minuzia biografica, questa notizia ha la sua importanza. Ma che lume dà a tutto il resto? Anche il Casanova affibbia al suo nome di famiglia un di Seingalt di sua invenzione. Ma, più franco almeno, al Borgomastro di Norimberga, che gli domanda: “donde traete voi il diritto di portare questo secondo nome?„ il Casanova risponde: “dall'alfabeto, che è di tutti e di nessuno!„ E sui titoli d'accatto, quando l'imperatore Giuseppe II [114] gli dice: “è ridicolo chi compra un titolo di nobiltà„ il Casanova risponde: “sì, Maestà, ma non più di chi lo vende!„
Anche fra queste lustre ciarlatanesche siamo dunque sempre col Casanova nella realtà comica d'uno sfruttatore spiritoso della scioccheria umana. Ma col Cagliostro è altra cosa. Tutto è falso o dubbio in lui, lo spirito, l'ingegno, la scienza, l'audacia, la nobiltà, la ricchezza, il nome, l'età, il presente, il passato. Pare a momenti, direbbe il Carlyle, che di vero e di reale non ci sia se non quel carrozzone pitturato e coll'imperiale rigonfia di bagagli, che tirato da quattro cavalli passa di galoppo fra un nembo di polvere e un rumore assordante di fruste e di sonagliere a traverso l'Europa, preceduto e seguito da sei poderosi lacchè, che cavalcando lo annunziano e lo scortano onorevolmente. Entro quella spettacolosa e pesante macchina siede un uomo tarchiato, di aspetto volgare e zotico, ed al suo fianco una donnetta di trista fama, chiamata, secondo i casi, Lorenza o Serafina. Ora come va, si domanda il Carlyle, che dopo brevi riposi quel carrozzone può sempre ripigliare il suo cammino e non gli accade mai di arrestarsi di botto, come una locomotiva senza vapore, o di sfracellarsi silenzioso in fondo a un fossato? Quell'uomo tarchiato, che siede nel [115] carrozzone pitturato, è un truffatore e falsario, scappato da Palermo, di vent'anni circa più giovine del Casanova.
E da quella prima sua fuga piglia le mosse anche la sua grande leggenda, incominciata con una scomparsa totale, che dura qualche anno; e fin qui il perchè si capisce. Ma dov'è stato in questo tempo? Nessuno lo sa; egli non lo dice, nè lo dirà mai, o, meglio, a chi gliene chiede risponde con tante diverse versioni, che la nuvola tenebrosa, in cui ad arte si ravvolge, a nessuno riescirà mai più di squarciare del tutto, nè ai truffati, che si risentono, nè agli illusi, che gli credono, nè agli Inquisitori di Stato di Venezia, nè ai tribunali di Francia, di Spagna, di Portogallo e d'Inghilterra e neppure al Sant'Uffizio di Roma, il quale senza approfondire più che tanto, n'esce per un rotto di cuffia, che appartiene in proprio al Sant'Uffizio soltanto, e il 7 aprile 1791, quando già da quindici anni in America e nell'anno stesso in Francia erano stati proclamati i Diritti dell'uomo, lo condanna per eretico, mago e framassone, certo le [116] sue pecche minori, e per le quali una condanna capitale, commutata in galera a vita al forte di San Leo, dove il Cagliostro morì, non può non parere oggi pena eccessiva. Donde consegue che anche fra i più recenti scrittori, che hanno parlato del Cagliostro, ad alcuni il Cagliostro sembra un problema psicologico d'incerta soluzione ed altri non esitano a darlo per un vero precursore ed un vero martire di libertà. Dove s'è vista mai, signore mie, una canzonatura d'avventuriere meglio riescita di questa? una canzonatura, i cui effetti durano quasi cent'anni, dopo la morte del canzonatore? Di questa morte il primo centenario ricorre anzi appunto in quest'anno. Che vi stupireste di molto a veder comparire uno di questi giorni un proclama, in cui si dicesse che, anche il Cagliostro ha fatto l'Italia? Già, a molti segni, ci sarebbe quasi da crederlo!! Ma non si tratta ora di ciò. Quello che mi preme di dire è che il mistero del Cagliostro non istà tanto nell'esser riescito, quanto nell'assurdità, nella volgarità dei mezzi, mercè i quali è riescito. Ma che si burla? Il Cagliostro una volta si dà per figlio dello Sceriffo della Mecca, un'altra per discendente dell'ultimo principe di Trebisonda, una terza (e questa l'ha sentita il Grimm in casa della contessa di Brienne) per nato non si sa da chi su una nave, che traversava il Mar Rosso, [117] deposto fra le rovine d'una piramide Egiziana, ed ivi trovato da un vecchio sapiente di nome Althotas, che gli rivela tutti i segreti della natura e della vita; una quarta si contenta di dire come Cristo: ego sum qui sum e di delineare a vista un serpente trapassato da una freccia e con un pomo in bocca; una quinta millanta la sua discendenza da Carlo Martello, quel figliuolo di Carlo il Zoppo, re di Puglia, che fu amico di Dante; una sesta finalmente si dà per Apollonio Tianéo in persona, rigenerato dalla metempsicosi.
E questo è niente. Quanti anni ha? Lui stesso, o dice di non saperlo, o lascia vagamente credere d'esser più che centenario. A Parigi però dinanzi a un quadro della Deposizione di Croce comincia a piangere dirottamente e interrogato che cos'ha:
— Ahimè! — risponde, — piango la morte di quel grand'uomo, tanto buono e affettuoso ed a cui debbo tanti dolci momenti! Abbiamo pranzato insieme alle nozze di Canaan e in casa di Ponzio Pilato!
— Ma di chi parlate di grazia?... — lo interruppe il signor di Richelieu stupefatto.
— Eh per bacco! Di Gesù Cristo! Oh l'ho conosciuto moltissimo!...
Nei suoi viaggi in Oriente col savio Althotas ha visto cose meravigliose: in Asia il paradiso terrestre, l'albero secco del bene e del male, gli [118] avanzi dell'arca di Noè, quelli della torre di Babele, un lago, che passa pel centro della terra e a traverso il quale, guardando come dentro a un canocchiale, si toccano quasi cogli occhi la luna e le stelle, che splendono sugli antipodi; in Africa, le quarantamila mummie persiane dell'esercito di Cambise, e in cima a una piramide ha avuta la visione d'una donna bellissima, quella stessa Lorenza Feliciani, che poi a Roma sposerà. Più meravigliose cose ha fatte o gli hanno insegnate: è stato zitto per dieci anni a studiare in un collegio fondato dalla regina Saba, il qual collegio era diretto dal Gran Cofto d'Oriente, che l'ha iniziato ai misteri del rito egiziano e l'ha consacrato suo vicario in Occidente; ha imparato l'arte di spiegare i sogni sul libro dei Sette Dormienti e su un altro di Giuseppe Ebreo; ha imparato a mutar la canapa in seta, ogni materia più vile in oro, a ingrossare i diamanti, a fare il lapis philosophorum, l'elixir della vita, il magnetismo prima di Mesmer, a far apparire un mondo in un bicchier d'acqua e mercè il sonno ipnotico d'un ragazzo a leggere nel futuro e scoprire e guarir tutti i mali.
Ora per quanto voi vogliate immaginarvi nevrotica, visionaria, delirante, epilettica e già in preda insomma alle allucinazioni degli agonizzanti la società del secolo XVIII; com'è possibile [119] ch'essa abbia accettato e creduta una simile olla potrida di goffaggini e di ciurmerie? Eppure il Cagliostro ha percorso in lungo e in largo l'Europa, sciorinando ovunque le medesime goffaggini e le medesime ciurmerie; e se non le avesse intramezzate di furfanterie anche peggiori, probabilmente sarebbe riescito a trarsi sempre d'imbroglio. Ma finchè il Cagliostro non trovò altra fonte di lucro, le sue ricchezze provenivano da fonti assai torbide, come lo dimostra il fatto del trovarsi esso mescolato in Francia al famoso processo del collier de la reine nel 1786, che gli fece assaggiare nove mesi di Bastiglia e donde uscì per quella stessa invereconda indulgenza, per cui fu assolto il turpe cardinale di Rohan, unicamente a fine di far onta a Maria Antonietta.
Dopo questo fatto il Cagliostro scampò a Londra, ove la Massoneria lo accolse e glorificò come una vittima, ingenuità, di cui essa ebbe a pentirsi, quando il furbo mariuolo, divenuto strumento dei Rosa-Croce e degli Illuministi tedeschi del Weishaupt, i quali professavano un misto di deliri mistici e di odierno anarchismo e volevano, mercè il Cagliostro, accaparrarsi la già enorme espansione e potenza delle Logge Massoniche, si fece capo d'una riforma massonica, che intitolò Egiziana, e d'allora in poi visse e scialò da nababbo alle spalle de' suoi nuovi padroni, forse [120] canzonandoli ancor essi. È la fase magnifica del Cagliostro, in cui s'atteggia a taumaturgo umanitario e solleva gli entusiasmi popolari di Lione, di Varsavia, di Strasburgo e di Roma, finchè dà dentro nelle reti del Sant'Uffizio e vi rimane accalappiato. È la fase più positiva altresì di questa strana esistenza, ma neppur essa lo spiega compiutamente. Da un lato si può conceder molto alle condizioni intellettuali del tempo, dall'altro alla potenza individuale di questo enorme imbroglione, ma alcunchè di misterioso rimane e l'unica conclusione possibile è quella a cui s'attiene in questi casi la fantasia popolare, è contentarsi di credere che questi fenomeni mostruosi, sì nell'ordine fisico, come nell'ordine morale, preludono a cataclismi imminenti.
Si obbietterà: “Ma in sostanza il Casanova e il Cagliostro sono due eccezioni e l'eccezione in casi simili che cosa vale? Il primo è l'espressione d'un libertinaggio sfrenato, il secondo di una congenita ribalderia, la quale finisce come ha cominciato, e due tipi come questi ogni tempo può darli.„
L'argomento prova troppo, dunque non prova niente, come diceva un mio vecchio professore di filosofia. Di fatto, non ogni tempo vi darà il pubblico immenso, che il Casanova ed il Cagliostro hanno sfruttato; non ogni tempo vi offrirà [121] al pari della seconda metà del secolo XVIII una folla di tipi, i quali senza assorgere alle gigantesche proporzioni di quei due, abbiano con essi comuni tante disposizioni psicologiche e tante forme di vita. Muovere non si sa donde, indirizzarsi non si sa dove, tentare mille espedienti, mille professioni, correre mille avventure, sempre in balìa del caso, pur di non rassegnarsi alla realtà che vi circonda, tutto ciò è talmente, direi, nell'aria respirabile della seconda metà del Settecento, che la letteratura stessa, se nei romanzi deve immaginare un protagonista (si chiami esso Tom Jones, Faublas, Figaro, Gil Blas, Lovelace o De Grieux) non se lo sa immaginare che così.
E vedete quanti, non nel romanzo, ma nella realtà, cominciano, se non altro, come avventurieri, dato anche che poi non finiscano come tali. Potrei dimostrarlo a lungo, ma me ne manca il tempo e mi contento di finire, ricordando alcuni dei nomi, che ho accennati in principio. Non è una vita d'avventuriere quella del Da Ponte, che da romanzetti erotici di gondola e di [122] Ridotto in Venezia passa a sfoggiare teorie alla Rousseau in un seminario di Treviso, scrive versi incendiari, è bandito, capita a Vienna alla morte del Metastasio, rivaleggia col Casti, scrive il bellissimo melodramma del Don Giovanni pel Mozart, cade in disgrazia per amore d'una cantante, erra per un pezzo fra l'Olanda, il Belgio, la Francia e l'Inghilterra, fallisce come impresario di teatro a Londra, si mette a fare il libraio, e finalmente va a cercar fortuna in America cogli abiti che ha indosso e possedendo per tutto viatico una cassetta di corde da violino? Non sono vite d'avventurieri quelle del Piattoli e del Mazzei, semiaffaristi, semipoliticanti e appartenenti entrambi a quel gruppetto di piccoli e grossi avventurieri italiani, che si stringe intorno a Stanislao Augusto re di Polonia, salito anch'esso dall'alcova di Caterina di Russia al trono dei Batory e dei Wasa? Il Piattoli è fiorentino, e della sua vita finora poco si sa. Ma certo è che di abate e maestro un po' enciclopedico a Modena, lo si trova poi a Varsavia mescolato ai grandi imbrogli diplomatici pei successivi sbrani della Polonia, pare l'autore della costituzione Polacca del 1791; ed il Thiers, che nella sua storia lo indica per uno di quegli ingegnosi avventurieri recanti nel Nord l'esprit et le savoir du Midi, pretende che entrato poi nelle grazie di Alessandro I abbia occultamente [123] suggerite non poche delle idee, che prevalsero nei trattati di Vienna del 1815. Una Krüdener uomo!!
Fiorentino è pure il Mazzei, che di apprendista nello spedale di Santa Maria Nova va chirurgo a Costantinopoli e a Smirne, commerciante di vino e di letteratura toscana a Londra, colonizzatore nel Kentuky in America, dove porta contadini Lucchesi, contrae amicizia e coopera cogli uomini più eminenti dell'indipendenza Americana, torna loro agente segreto in Europa, e quindi entrato così nella diplomazia, diviene agente segreto del re di Polonia, e in tale qualità assiste alle prime grandi scene della rivoluzione francese, fonda con altri in opposizione al club dei forsennati Giacobini un club di moderati, che naturalmente non fece nè caldo nè freddo, dopo di che ritornato in Toscana a vita privata, scrive senz'arte alcuna, ma con una certa ingenuità non ispiacevole i ricordi delle sue peregrinazioni.
Non è una vita d'avventuriere quella del Gorani, Milanese, il quale dopo aver militato in Germania aspira al trono di Corsica, senza scoraggiarsi della trista fine di quell'altro grande avventuriere tedesco, che era stato Teodoro di Neuhof, gira mezzo mondo in cerca d'aderenti al suo progetto, non li trova, si contenta d'essere dal Pombal nominato generale in Portogallo [124] e guastatosi con lui corre sotto la bandiera dei filosofi enciclopedisti a Parigi, scrive di tutto, si getta nella rivoluzione, se ne disgusta e finisce a Ginevra, scrivendo i ricordi d'una vita, a cui non erano mancati i prestigi alla Cagliostro e gli amori alla Casanova?
Non è una vita d'avventuriere quella del Goldoni, fino a che nel 1762 si posa finalmente a Parigi e vi dimora fino alla morte, accaduta, chi sa tra che squallore e che angosce, durante l'interregno del Terrore.
Tutti hanno primordi e vicende pressochè eguali anche gli altri che ho nominati e che formano il gruppo dei letterati avventurieri (siccome avventurieri letterati sono il Casanova e il Gorani) vale a dire: il Baretti, che coll'Alfieri divide la gloria d'essere uno dei primi introduttori del Piemonte nella vita letteraria italiana, e acerrimo nemico d'Arcadia e degli arcadeggianti si tira addosso persecuzioni così straordinarie per parte degli Inquisitori di Stato di Venezia e dei preti di Roma da far parere la sua non una ribellione [125] letteraria ma una ribellione politica, sicchè, dopo aver errato per mezz'Europa, non trova riparo se non all'ombra delle libertà inglesi, in questo, e forse per altre parti ancora, precursore del Foscolo e del Mazzini; l'Algarotti, che, scrittore enciclopedico, viaggiatore perpetuo, amico intimo di tutte le celebrità, a cominciare dal Voltaire e da Federico il Grande, divulgatore galante di scienza ad uso delle dame, gran dilettante di cose d'arte, raggiunge al suo tempo una notorietà e una gloria, di cui ai giorni nostri ci rendono più ragione le testimonianze dei contemporanei ed il suo epistolario, che non le sue opere, scritte bensì con disinvoltura d'uomo mondano, ma in quel gergo gallicizzante, allora di moda, ed oggi più che stucchevole; il Galiani, che, Napoletano, ed uomo e scrittore di vario e molto ingegno (tanto da poter passare agevolmente dalla collaborazione ad un libretto d'opera buffa a trattati d'economia politica) tiene a Parigi nelle riunioni più battagliere della filosofia demolitrice lo scettro dello spirito, si fa intitolare dall'amabilità francese: anima di Platone e Machiavelli nel corpo d'Arlecchino, e tutti lo festeggiano a gara e le dame se lo strappano, ed i filosofi dittatori si lasciano dire da lui, mentre egli incrocia le gambe su una poltrona e giuoca a palla colla propria parrucca: “voi sragionate per lo meno quanto i teologi;„ [126] il Gamerra, che di abate livornese si trasforma in ufficiale austriaco, in poeta lirico, epico, drammatico, si posa a Vienna continuatore del Metastasio e rivale del Casti, precorre in Italia col dramma lagrimoso gli eccessi del romanticismo più scapigliato, scrive un poema di novantatrè mila dugento trentadue versi sulle infedeltà coniugali (il tema è vasto, ma anche i versi son molti), dissotterra nottetempo il cadavere dell'amante e se lo tiene per anni imbalsamato nello scrittoio; il Calsabigi, che, letterato, viaggiatore, affarista, uomo di Stato, autore d'un Alceste, in cui entrano Morte, Inferno, Paradiso, “tutti i novissimi, come diceva il Metastasio, tranne il Giudizio„ introduce in Francia (di balla col Casanova) il giuoco del lotto; il Coltellini, che, figlio d'un bargello, e prima tipografo a Livorno, poi anch'esso poeta melodrammatico a Vienna, gran protetto del principe di Kaunitz, cacciato da Vienna per aver osato scrivere una satira contro Maria Teresa, si rifugia a Pietroburgo e, non rinsavito per la trista esperienza, è ivi autore d'un'altra satira contro Caterina II, di cui, secondo alcuni, avrebbe pagato il fio colla vita, dopo però d'aver procreato, oltre ai melodrammi e alle satire, una dinastia di commedianti, che, per via di donna, finirà nient'altro che in Carlotta Marchionni: e come questi, ai quali ho in breve accennato, [127] così tanti e tanti altri letterati avventurieri e tipi complicati e originali, dei quali sarebbe lungo profilare anche solo con pochi tratti la fisonomia e le strane vicende.
V'ha diversità grandi fra tutti questi uomini, ma tutti più o meno appartengono alla stessa famiglia. Non v'è fra i tanti nomi, che ho ricordati, se non un solo nome veramente grande, il Goldoni. Ma negli altri l'instabilità della mente, la precarietà dell'esistenza, la variabilità dei gusti, e insieme l'eccitabilità, la febbre, la sensibilità indisciplinata del temperamento sciupano, consumano la miglior parte della loro energia intellettuale e morale, ed essi non danno forse tutto quello che avrebbero potuto. Ciò non ostante, se voi considerate solo quel tanto che gli avventurieri o semi avventurieri italiani del secolo XVIII fanno o tentano, per esempio, nei maneggi politici o negli spettacoli teatrali di tutte le capitali d'Europa, vedrete che essi riassumono tutto quel po' d'influenza, sia pur umile e indiretta, che l'ingegno italiano potè ancora esercitare fuori d'Italia, in un tempo che l'interna vita della nazione era quasi spenta del tutto. Poco o molto che sia, di alcuni almeno questo di bene si può dire. Gli altri, anzichè ammirazione e simpatia, destano piuttosto pietà. Cronologicamente (se avete osservato) sono quasi tutti a cavaliere dei due secoli, [128] fra la fine della frolla e tarlata società del secolo XVIII e la Rivoluzione Francese, da cui bene o male uscirà la società odierna, e sono perciò tipi storici, rappresentativi d'una transizione violenta e dolorosa; sono insomma le povere foglie secche, agitate, sbalestrate già qua e là dal vento impetuoso, che annunzia l'uragano vicino a scoppiare.
[129]
CONFERENZA
DI
Vittorio Pica.
[131]
Nei parecchi volumi della corrispondenza di Federico-Melchiorre Grimm e di quella di Dionigi Diderot con madamigella Voland, nei quali così bene rispecchiasi la fisonomia originalissima di quella società parigina della fine del Settecento, in seno a cui andavasi maturando uno dei maggiori rivolgimenti della storia dell'umanità, il nome di un Italiano viene assai di sovente ripetuto ed esso è sempre accompagnato dalle più lusinghiere espressioni di simpatia e dalle più enfatiche frasi laudative; e questo nome lo si ritrova non meno magnificato in alcune lettere di Caterina di Russia ed in varie pagine di Voltaire, di Marmontel, dell'abate Morellet e di altri illustri scrittori della medesima epoca.
Chi era mai quest'uomo eccezionale per aver saputo accaparrarsi tante autorevoli simpatie in un centro così altamente intellettuale quale ci appare, nel secolo scorso, Parigi, verso cui rivolgevansi le menti dell'Europa intera; chi mai era quest'uomo, che, nei salotti parigini, i quali con le brillanti ed insieme profonde conversazioni sur [132] ogni argomento politico, letterario, morale, contribuivano forse molto più di ogni libro al grande movimento filosofico e sociale, era riuscito ad occupare uno dei posti più importanti, tanto che, siccome afferma il Marmontel, tutti tacevano per starlo ad ascoltare durante ore intere; chi era mai quest'uomo, che con gli acuti ed originali suoi apprezzamenti sulle più svariate questioni sapeva tenere sempre desta la perspicace attenzione degli Enciclopedisti e, nell'istesso tempo, sapeva, con le inesauribili sue barzellette, coi suoi amenissimi aneddoti, con la sua esilarante mimica meridionale, affascinare le dame, e che, nella capitale dello spirito, faceva sfoggio di tanta arguzia, e di tale instancabile brio da fare esclamare alla leggiadra ed intelligente Duchessa de Choiseul: “In Francia lo spirito trovasi in moneta spicciola, in Italia in verghe d'oro„?
Egli era un abate napoletano, poco più che trentenne, ed aveva nome Ferdinando Galiani. A Parigi l'aveva mandato, nell'anno 1759, quel sapiente conoscitore d'uomini che fu il celebre ministro Bernardo Tanucci, come segretario d'ambasciata presso il conte de Cantillana, un gentiluomo spagnuolo borioso e d'intelligenza meno che mediocre, a cui era affidato l'incarico di rappresentare il Re di Napoli presso la Corte di Francia.
La prima impressione prodotta dal Galiani a [133] Parigi era stata affatto grottesca: egli era alto poco più d'un metro, sicchè, quando il conte de Cantillana lo presentò, nella grande sala delle udienze di Versailles, a Luigi XV, i cortigiani, al veder la sua personcina di pigmeo vestita da abate, non potettero trattenersi dal ridere ed il monarca istesso non seppe nascondere un sorriso; ma l'abatino napoletano, senza punto turbarsi e con la maggiore serietà, fatto il profondo inchino di rito, disse: “Sire, vous ne voyez à present que l'échantillon du sécretaire, le sécretaire vient après.„ Tale arguta prontezza sorprese e piacque immensamente e può dirsi che fin da quel momento il Galiani conquistasse quella preziosa riputazione di persona di spirito, che doveva raffermarsi ed accrescersi sempre più durante i dieci anni di sua dimora a Parigi.
La suscettibilità del suo amor proprio era però fin d'allora eccessiva e quasi morbosa, sicchè egli, per quell'incidente, da cui pure era uscito vittorioso, prese in odio la Francia e mandò lettere su lettere al Tanucci, supplicandolo di richiamarlo a Napoli. “Io mi sono disingannato„ — egli gli scriveva — “e riconosco di non essere punto fatto per Parigi. Il mio abito, la mia figura, il mio modo di pensare e tutti i miei difetti naturali mi renderanno qui insopportabile sempre ai Francesi ed a me stesso.„
[134]
Il Tanucci, a cui premeva molto di avere un fido amico ed un intelligente collaboratore della sua opera politica a Parigi, non gli dette ascolto e, ben presto, l'abate napoletano, stretta amicizia col Grimm e col barone Gleichen e presentato da costoro nei salotti della signora Geoffrin, della duchessa de Choiseul, della signora d'Épinay, del barone d'Holbach, cangiò in tal modo d'opinione che il dover lasciare Parigi, di lì a parecchi anni, fu forse il maggior dolore della sua vita.
Per potersi spiegare la primitiva impressione ostile così acutamente risentita in Francia dal troppo suscettibile abate, non bisogna dimenticare che egli, trovatosi d'un tratto balzato in mezzo ad una società, per cui non era che uno sconosciuto dall'apparenza abbastanza comica, godeva invece, malgrado l'ancora giovanile età, non soltanto a Napoli, ma in tutta l'Italia, di una non comune celebrità e come erudito, e come economista, e come letterato.
Nato a Chieti nel decembre 1728 da un magistrato e gentiluomo foggiano, Ferdinando Galiani erasi recato, ancor fanciullo, a Napoli e vi era stato educato ed istruito, insieme col fratello maggiore Bernardo, da un savio e colto prelato, lo zio suo Celestino Galiani, che, per varii anni, coprì l'onorifica carica di Prefetto dell'Università degli Studii.
Fin da ragazzo, il Galiani fece mostra d'ingegno [135] pronto e vivacissimo, che andò sempre più ringagliardendosi nella compagnia degli illustri uomini, quali G. B. Vico, Jacopo Martorelli, Cerillo, Intieri e Rinuccini, che frequentavano la casa del Prefetto dell'Università e che, interessati dalla precoce intelligenza dei due suoi nipoti, assai volentieri intrattenevansi a conversare ed a discutere con loro. Spinto verso le discipline economiche dalla particolare benevolenza addimostratagli dai dotti toscani marchese Rinuccini e Bartolommeo Intieri, il giovane Ferdinando aveva già tradotto dall'inglese due trattati del Locke ed aveva intrapresa un'opera sull'antichissima storia delle navigazioni nel Mediterraneo, allorchè un curioso episodio lo persuase a scrivere un opuscolo satirico, che doveva richiamare su lui l'attenzione del pubblico napoletano.
Da una delle tante accademie, che in quel tempo gareggiavano in Napoli di enfasi retorica e di vaniloquenza, era stato dato incarico a Bernardo Galiani di comporre un'orazione in lode dell'Immacolata; ma, essendosi egli dovuto recare, per affari di famiglia, a Chieti, commise di scrivere e di recitare l'orazione al fratello Ferdinando, il quale, avendo accettato molto volentieri, vi lavorò attorno con grande amore alcuni giorni ed alcune notti e, la mattina fissata, si recò all'accademia, col suo scartafaccio [136] in tasca. Ma quando egli, fra orgoglioso e trepidante, presentossi al presidente, certo avvocato Giannantonio Sergio, costui veggendolo così mingherlino, così sbarbatello e di così minuscola persona, burbanzosamente si rifiutò, pel decoro dell'accademia, di fargli leggere l'elaborata orazione ed invece lesse egli medesimo un pomposo discorso, che teneva già pronto.
Indicibili furono la mortificazione e la rabbia del Galiani per un simile affronto, ed egli, nel segreto dell'anima, decise di farne aspra vendetta. E l'occasione di burlarsi dei componenti dell'Accademia presieduta dall'abborrito Sergio gliela porse di lì a poco l'improvvisa morte del boia della città. Costumanza assai frequente delle accademie, che allora infierivano in tutta l'Italia, era di pubblicare raccolte di scritti in morte di personaggi più o meno illustri; or bene il nostro Ferdinando compose, in collaborazione col suo intimo amico Pasquale Carcani, tutta una serie di poesie e di prose secondo lo stile gonfio ed artefatto dei varii accademici e li raccolse in un volumino che portava il titolo di “Componimenti varj — per la morte di Domenico Jannacone — carnefice della G. C. della Vicaria — Raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio — avvocato napoletano„ e che era preceduto da una dedica di un Pastore Arcade al Tirapiede, aiutante del defunto Boia.
[137]
La parodia — la quale doveva venir imitata, dieci anni dopo, da Federigo il Grande col suo panegirico di un calzolaio, che fingevasi scritto da un diacono della cattedrale, — anche oggi, a distanza di un secolo e mezzo, appare assai graziosa.
Del resto a darvene un'idea approssimativa varrà la seguente nota apposta a piè di un sonetto: “Della giustezza di questi versi nessuno può dubitare essendo tutti misurati collo spago„, e quest'altro sonetto, in cui un arcade, che aveva incominciata una sua lirica sulla Concezione così:
Se mai non fosse Iddio Santo in Natura,
E sia per mera ipotesi ciò detto, ecc....
viene messo argutamente in burletta:
S'io fossi mai un asino in Natura
(E sia per mera ipotesi ciò detto),
Quantunque irrazionale creatura
Ragghiando loderei quest'uom perfetto.
Anzi, se tutto il mondo per ventura
Di trovar dato avesse un vero e schietto
Ministro di Giustizia a me la cura,
L'avrei per Boia universale eletto.
Poichè con arte tal, con tal destrezza
Domenico il suo officio far sapea
Che il morir per sua mano era dolcezza.
Onde talor tra me dicea: se il fato
Mi riducesse a dover questa rea
Morte soffrire, io morirei beato.
Il volumetto satirico ebbe un successo clamoroso [138] e per varie settimane in tutti i salotti, in tutti i caffè di Napoli e per fino a Corte si rise sulle spalle del povero avvocato Giannantonio Sergio e dei suoi accademici, tanto che costoro, adiratissimi, ricorsero al Re. Allora il Galiani ed il Carcani, temendo di venire scoverti, nulla trovarono di meglio da fare che di presentarsi al Tanucci e di confessarglisi autori del libriccino incriminato, ed il buon ministro, che aveva anche lui riso alla lettura della gustosa parodia e che di lì a qualche anno dei due mordaci giovanotti doveva fare due dei più fidi coadiutori della sua politica, si accontentò di imporre loro, per tutta punizione, dieci giorni di esercizii spirituali, da farsi in non so più quale monastero.
Compiuta questa vendettuccia letteraria, il Galiani ritornò subito agli studi serii e l'anno seguente pubblicava, senza nome di autore, un trattato in cinque libri “Della moneta„, il quale levò a rumore il mondo dei dotti e degli statisti e per la novità e per l'importanza e, sopratutto, per l'attualità del tema prescelto. In quel tempo, difatti, la straordinaria affluenza dei forestieri in Napoli ed il denaro in oro ed in argento mandatovi in gran copia dalla Spagna avevano prodotto eccesso e deprezzamento del numerario ed in conseguenza carezza delle derrate, del che il Governo impensierito aveva proposto varii rimedi [139] l'uno più inefficace dell'altro. Quest'opera del Galiani, composta con mirabile lucidità d'idee, con superiore larghezza e novità di criterii e con prezioso senso pratico, è diventata classica nell'economia politica e varie delle sue definizioni hanno avuto l'onore di venire accolte perfino da Carlo Marx, il poderoso apostolo del moderno socialismo. Ed è davvero da stupire che sia stata concepita e scritta da un giovane poco più che ventenne, anche ammettendo ch'egli si sia giovato non poco delle conversazioni avute sull'argomento con l'Intieri, con Antonio Genovesi e con gli altri valorosi economisti che frequentavano la casa di suo zio.
Il trattato della moneta levò dunque rumore grandissimo e venne entusiasticamente encomiato non soltanto a Napoli, ma eziandio nel resto d'Italia; vivo era quindi in tutti il desiderio di sapere chi ne fosse l'autore, giacchè il Galiani non si svelò che quando fu ben sicuro dello schietto successo dell'opera sua. Anzi, a tal proposito, il diligente suo biografo, Luigi Diodati, racconta che avendo Ferdinando dovuto farne lettura a monsignore Galiani, come soleva degli altri libri nuovi nelle ore di riposo, costui ogni tanto, preso da ammirazione, lo rimproverava dolcemente: “Ecco ciò che significa lavorare con serietà; ecco l'esempio da seguire, invece di sprecare il [140] tempo scribacchiando satire e poesiole!„ Lascio immaginare a voi la gioia provata dal buon vecchio quando seppe che l'autore del tanto ammirato e lodato volume era proprio il nipote.
Da quel momento Ferdinando Galiani, tenuto in alta stima da tutti gli studiosi d'Italia, acquistò tale celebrità che, allorquando l'anno seguente, lo zio lo indusse a fare un viaggio attraverso la nostra penisola, egli fu dovunque festeggiatissimo e colmato d'onori. A Roma, Papa Lambertini lo riceve e gli parla con la maggiore benevolenza e simpatia, mostrando di aver letto così il suo opuscoletto satirico come il suo trattato economico; a Firenze vien nominato socio dell'Accademia della Crusca; a Padova è accolto a braccia aperte dal Morgagni; a Torino, Carlo Emanuele III e suo figlio Vittorio Amedeo intrattengonsi a lungo con lui a discutere sulla questione della moneta.
Di ritorno a Napoli, il Galiani scrisse alcuni altri opuscoli, quali serii, quali giocosi, ma su di essi credo invero superfluo soffermarmi, accontentandomi di osservare che essi contribuirono a confermare sempre più la sua fama di uomo dotto e di persona di spirito ed a procurargli la protezione ed i preziosi favori di principi e ministri dentro e fuori del regno di Napoli.
Voglio soltanto ricordare che avendo egli, pel primo, raccolto 141 differenti specie di pietre [141] vesuviane, le spedì, accompagnate da una elegante dissertazione, a Benedetto XIV, in sei cassette, sulla prima delle quali scrisse a grossi caratteri le seguenti parole del Vangelo: “Beatissime Pater, fac ut lapides isti panes fiant.„ Il Pontefice ammirò molto la collezione, di cui fece dono al Museo di Bologna, e, per mostrare di aver compreso il suggestivo latino galianesco, conferì al giovine ed accorto abatino napoletano il beneficio della Canonica di Amalfi, che dava la rendita di 400 ducati all'anno, favore di cui tre anni dopo il Galiani disobbligavasi scrivendo per la morte del suo protettore un'eloquente ed affettuosa orazione funebre.
Dopo tali soddisfazioni di amor proprio, dopo tali trionfi di scrittore, dopo tali lusinghiere acclamazioni al precoce suo ingegno, comprendesi di leggieri che il Galiani dovesse sentirsi a disagio in un paese nuovo, dove la sua fama non era ancor giunta e dove sembravagli sempre di scorgere un sorrisetto scherzoso sulle labbra di tutti coloro che, per la prima volta, contemplavano la sua persona ridicolmente piccina ed alquanto deforme; ma, appena il suo spirito brillante, la colorita sua loquela, le sue riflessioni impreviste, profonde e paradossali gli ebbero procurato nei salotti parigini tutta una fitta schiera di ammiratori e di ammiratrici, egli comprese che la sua [142] vera patria intellettuale era Parigi. La sua intelligenza, al contatto con quelle di Grimm, di Marmontel, dell'abate Raynal, di Diderot, del barone d'Holbach, di D'Alembert, di Helvetius e degli altri Enciclopedisti, si ampliava e si rinvigoriva sempre più, senza nulla perdere della propria originalità, e, d'altra parte, il suo spirito, in mezzo alle quotidiane giostre di frizzi con tante gentili ed argute dame, spogliavasi delle primitive scorie grossolane e diventava sempre più acuto, più vario, più squisito, pur nulla perdendo della sua spontaneità e della sua arditezza.
Rileggendo ciò che di lui scrivevano gli ammaliati suoi contemporanei, tutta una scena si ricostruisce nella nostra mente, e ci par di vedere entrare il lillipuziano abate napoletano, ce charmant abbé, siccome carezzosamente solevano chiamarlo le numerose sue amiche francesi, nell'immensa sala bianco ed oro, illuminata da non meno di 72 candele, in cui il duca e la duchessa de Choiseul ricevevano, in cinque sui sette giorni della settimana, uno scelto stuolo d'invitati; ci pare di vederlo avanzare a piccoli passi, col nero tricorno sotto il braccio, fra i tavolini di giuoco, dispensando a destra ed a sinistra sorrisi ed inchini, salutare la padrona di casa, che lo accoglie sorridendo, e poi, circondato da una briosa schiera di dame e di damigelle, addossarsi ad uno dei [143] maestosi camini marmorei, che dispensavano il calore alla sala, accettar subito il soggetto che gli viene proposto e ricamarvi attorno una di quelle maravigliose improvvisazioni, che tenevano tutti sospesi alle sue labbra e durante le quali, con l'esilarante mimica del suo volto mobilissimo e dell'intera personcina, entusiasmava il suo pubblico, e, dopo averlo fatto ridere sino alle lagrime con prodigiose lepidezze, lo faceva lungamente meditare, perchè, quasi sempre, sotto la frase giocosa e dietro l'aneddoto comico, ascondevasi un pensiero profondo ed ardito.
Altre volte è invece nel salotto della casa di campagna al Grand-Val del barone d'Holbach od in quello, in cui la società era anche più intima e cordialmente simpatica, del villino alla Chevrette della signora d'Épinay che ci pare di rivedere il Galiani: il sole tramonta e le ombre della sera già invadono la camera; gl'invitati, poichè la melanconia dell'ora fa languire ogni conversazione, si raccolgono intorno all'abate, che, seduto sur una poltrona, con le gambe incrocicchiate alla turca, secondo la sua abitudine, e con la parrucca di traverso, racconta loro, senza farsi molto pregare, mille follie, accende uno di quei fuochi di fila di lazzi, di bizzarrie, di novellucce gioconde, a cui nessuna tristezza resiste.
“L'abate Galiani entrò„ — scrive Diderot in [144] una sua lettera — “e col gentile abate entrarono la gaiezza, l'immaginazione, lo spirito, la follia, lo scherzo, tutto ciò che fa dimenticare i fastidii della vita.„ E subito dopo aggiunge: “L'abate è inesauribile in fatto di motti di spirito, di frasi argute; è un vero tesoro nelle giornate piovose: se si fabbricassero degli abati Galiani presso gli ebanisti, tutti ne vorrebbero possedere uno in villeggiatura.„ E Marmontel dice: “L'abate Galiani era come fattezze il più grazioso piccolo Arlecchino che abbia prodotto l'Italia, ma sulle spalle di quest'Arlecchino vi era la testa di Machiavelli. Epicureo nella sua filosofia, era, pur possedendo un'anima melanconica, abituato a contemplar tutto dal lato ridicolo. Non v'era nulla, nè in politica, nè in morale, a proposito di cui non avesse qualche piacevole racconto da narrare, e questi racconti avevano sempre il senso giusto dell'opportunità ed il sale d'un'allusione imprevista ed ingegnosa.„ Infine il Grimm scriveva: “Questo piccolo essere, nato alle falde del Vesuvio, è un vero fenomeno. Egli unisce ad un colpo d'occhio lucido e profondo una vasta e solida erudizione, alla chiaroveggenza d'un uomo di genio la piacevolezza ed il brio d'un uomo che altro non cerca che divertire e piacere. Egli è Platone con la vivacità ed i gesti d'Arlecchino.„
[145]
Il piccolo e spiritoso abate Galiani era, come evidentemente appare da queste e da varie altre simili autorevoli testimonianze, il ricercato beniamino della società parigina: i suoi aneddoti, le sue risposte maliziose, le sue riflessioni originali, i suoi sarcastici motti di spirito, appena pronunciati, facevano il giro della città, passando di bocca in bocca, e poi, mercè i carteggi dei letterati, giungevano ai più importanti centri intellettuali d'Europa.
Di questi fortunati motti galianeschi, parecchi sono giunti fino a noi.
Un giorno, una scimmia, che il Galiani aveva portato con sè e che amava moltissimo, essendosi sospesa alla catena di ferro che reggeva la lampada destinata ad illuminare lo scalone del palazzo dell'ambasciata, la fece dondolare così a lungo ed in siffatto modo che tutto l'olio ne cadde sull'abito di gala del conte di Cantillana, mentre costui preparavasi ad uscire per recarsi ad un pranzo a cui era stato invitato. L'ambasciatore furibondo ordinò che la bestia venisse subito uccisa. “Guardatevene bene, Eccellenza, — esclamò freddo freddo l'abate, — l'anima di Leibnitz alberga nel suo corpo ed essa cerca risolvere il problema dell'oscillazione del pendolo.„
Un altro giorno, ad un pranzo, un ufficiale, indispettito da un frizzo del Galiani gli disse, [146] facendo la voce grossa: “Signor abate, voi siete un insolente; e se vi fossi vicino vi darei uno schiaffo, anzi potete far conto di averlo già ricevuto.„ Ed il Galiani di rimando: “Se io vi fossi vicino, poichè il mio stato non mi permette di cingere spada, caverei fuori quella di chi mi siede a lato e vi trapasserei da parte a parte; anzi fate conto di aver già ricevuto il colpo e consideratevi come morto.„ Tutti risero e l'ufficiale rimase assai male.
Un'altra volta, egli si era recato da un ministro di Stato, famoso per la sua pigrizia e da cui si aspettava già da tempo non so quale atto che non riusciva mai a venire alla luce; il ministro, accortosi che l'abate portava sotto il braccio un cappello abbastanza vecchio, pensò di punzecchiarlo dicendogli: “Parmi che sia tempo di riformare il vostro cappello.„ Ed egli di botto: “Aspetto il disegno di Sua Eccellenza.„
Appassionato per la musica di Pergolese e di Paisiello, il nostro abate giudicava troppo fragorosa quella francese, sicchè, avendo qualcuno osservato dinanzi a lui che la nuova sala delle Tuileries, nella quale era stato trasportato il teatro di musica, in seguito all'incendio del Palazzo Reale, era sorda, egli esclamò con un sospiro: “Felice lei!„
Non bisogna però credere che, durante i dieci anni circa che il Galiani rimase in Francia, ad altro [147] egli non pensasse che a menare vita brillante e che sperperasse il ricco capitale della sua intelligenza spendendolo tutto nella picciola moneta della conversazione. No, egli, oltre ad avere incominciato un originale commento delle Odi di Orazio, di cui alcuni brani assai caratteristici furono pubblicati dall'abate Arnaud sulla sua Gazette littéraire d'Europe, ed aver scritto un libro di economia politica, che suscitò furiose polemiche e di cui vi parlerò di qui a poco, si mostrò abile diplomatico e fedele rappresentante dell'accorta e patriottica politica del marchese Tanucci.
Il carteggio, pubblicato alcuni anni fa dall'Archivio Storico per le provincie Napoletane, dimostra l'alta stima che l'illustre ministro di Ferdinando I nutriva pel Galiani, a cui scriveva settimanalmente di affari di stato, a cui a volta chiedeva anche consiglio e che considerava come il suo uomo di fiducia a Parigi; e ciò è tanto vero che, non soltanto gli affidò varie delicate missioni, ma, allorquando nel 1760 l'ambasciatore De Cantillana prese una licenza dì sei mesi, lo nominò incaricato d'affari con la paga mensile di 300 ducati.
Però Ferdinando Galiani dovette alla sua lingua, a cui pure è da attribuirsi lo straordinario suo successo parigino, quell'inatteso richiamo dalla Francia, che così profondamente lo addolorò.
[148]
L'Inghilterra, in quell'epoca, impensierita dal famoso patto di famiglia tra la Francia e la Spagna, erasi alleata con la Russia e con la Danimarca, e quindi una lotta diplomatica s'ingaggiò fra i due gruppi di alleati, una lotta, che prendeva le mosse dalle contese dei due partiti svedesi soprannominati dei Cappelli e dei Berretti, dei quali l'uno era fautore delle regie prerogative e dell'alleanza francese e l'altro del governo oligarchico e degli Anglo-Russi. Avendo i Cappelli alla perfine ottenuta la prevalenza, l'Inghilterra riuscì a persuadere la Danimarca ad armare una flotta in favore dei Berretti; ma, saputolo il ministro francese Choiseul, costui protestò con grande energia contro tale armamento, e poco mancò che non iscoppiasse una guerra, la quale, secondo le parole dell'ambasciatore di Napoli in Ispagna, “si poteva sapere dove cominciava, ma non prevedere dove andrebbe a finire.„
Ora, mentre maggiormente ferveva il lavorìo diplomatico, il nostro abate commise la leggerezza di rivelare al barone Gleichen, ministro di Danimarca a Parigi, il secreto pensiero del Tanucci, il quale, non soltanto non approvava il patto di famiglia, ma, pur non negando l'utilità di un accordo fra la Spagna e Napoli, non credeva si dovessero accomunare in tutto e per tutto gl'interessi dei due paesi. L'imprudente discorso [149] venne riferito al duca di Choiseul, che già da qualche tempo non vedeva di buon occhio il troppo linguacciuto segretario d'ambasciata napoletano, e, in seguito ad un carteggio fra la Corte di Francia e quella di Spagna e di Napoli, il Tanucci, convintosi di non poter salvare il suo favorito, scrisse la seguente laconica missiva, che piombò sul povero abate come un fulmine a ciel sereno: “È volontà del Re che V. S. Illustrissima fra quattro giorni da questo dispaccio esca da Parigi per ritornare in Napoli al suo destino di Consigliere del Magistrato di Commercio. Glielo prevengo nel Real nome perchè così eseguisca.„
Prima di partire, il Galiani lasciò al Diderot il manoscritto di un libro intorno a cui già da qualche tempo lavorava e di cui il suo fido amico curò la stampa, facendolo pubblicare, l'anno seguente alla partenza di lui, con la data di Londra, senza nome di autore e col titolo di “Dialogues sur le commerce des bleds.„ Questo lavoro del Galiani, che suscitò uno straordinario brusìo nel campo degli Economisti, che vi erano vivacissimamente attaccati e che della loro difesa e della confutazione incaricarono l'abate Morellet, discuteva, in forma dialogica e con un brio affatto insolito in tali trattazioni, di una delle più importanti questioni del momento.
In seguito ad una carestia che aveva generati [150] gravi tumulti popolari, Luigi XV, persuaso di giovare all'agricoltura, aveva nel 1764 emanato un editto, col quale permettevasi a tutte le province del regno la libera esportazione dei grani. Sopravvenne un'annata sterile, ed i mali ai quali erasi coll'editto inteso di porre rimedio, nonchè cessare, si aggravarono sempre più. Il Galiani prese da ciò occasione per combattere l'opportunità della libera esportazione, intendendo dimostrare che in fatto di commercio di grani ogni sistema assoluto riesce nocivo e che variando le circostanze degli Stati conviene variare eziandio le norme di tale commercio. A provare il suo assunto egli immaginò una serie di conversazioni prima e dopo il pranzo fra un motteggiatore cavalier Zanobi, in cui incarnò sè stesso, ed un marchese di Roquemaure, che sostiene la tesi opposta, ma che si lascia trascinare a tali concessioni ed a tali confessioni su materie che, in apparenza, non hanno coi grani alcun rapporto, da rimanere poi stupefatto di aver dato egli medesimo, con le sue parole, le armi all'avversario per incalzarlo e debellarlo.
Questi dialoghi erano così brillanti e così ameni che vennero letti con vivo piacere perfino dal pubblico femminile e che il Voltaire ne scriveva con enfatico entusiasmo al Diderot. “Sembra che Platone e Molière si siano uniti insieme per [151] comporre tale opera„ e nel suo dizionario enciclopedico, alla parola blé, ne dava il seguente lusinghiero giudizio: “Il signor abate Galiani, napoletano, rallegrò la nazione francese sulla questione dell'esportazione; giacchè egli trovò il segreto di fare, anche in lingua francese, dei dialoghi divertenti quanto i migliori nostri romanzi, ed istruttivi quanto i migliori nostri libri serii. Se quest'opera non fece diminuire il prezzo del pane, procurò molto diletto alla nazione, ciò che per essa vale assai meglio.„
Ho detto che questo volume venne pubblicato senza nome di autore e l'istesso ho detto antecedentemente del trattato della moneta e si potrebbe dire della maggior parte delle opere del Galiani. Ora l'abate napoletano non faceva certo ciò per modestia, perchè la modestia non fu mai tra le sue virtù; quale dunque ne era il motivo? Ecco la graziosa ragione che egli medesimo ne dà in uno degli ultimi suoi opuscoli: “Un abbominevole abuso invalso fa che tutti vogliono avere i libri in dono dal loro autore. Chi dona un libro lo perde, chi lo nega perde un amico, quindi per salvare i libri e gli amici li stampavo senza il mio nome. Così potevo anche dallo spaccio inferire in qualche modo il merito del libro, essendo certissimo che quell'edizione che si sarà tutta venduta si avrebbe potuto tutta [152] donarla, mentre non è sicuro del pari che quella che si è donata si avrebbe potuto venderla tutta.„ Il vero motivo però era che il Galiani sapeva di possedere, così in Italia come in Francia, molti amici, ma anche molti nemici, e che, soltanto col celare il proprio nome egli sperava di poter ottenere il suo intento. E non ingannavasi, giacchè, siccome afferma uno scrittore del principio del secolo, l'Ugoni, fintanto che le opere di lui furono giudicate secondo il valore intrinseco la fama ne fu grande, ma non appena fu squarciato il velo dell'anonimo cominciò la fama ad intorbidarsene: non potendosi negare il merito dell'opera, si negò che fosse o che ne fosse egli solo l'autore, diceria del resto non risparmiata nè a Beccaria, nè a Filangieri.
Fu proprio col cuore trafitto che l'abate Galiani abbandonò quella Parigi, in cui egli menava una così gioconda esistenza e dove aveva tanti cari amici e tante soavi amiche; quella Parigi, in cui aveva ritrovato l'ambiente elevatamente spirituale adatto alla sua intelligenza; quella Parigi che lo aveva così bene apprezzato e che egli con immagine felice, aveva definita le café de l'Europe.
A dimostrarlo, più di ogni mia parola, varrà il biglietto sconsolato, che egli scrisse al D'Alembert nel momento della partenza: “Vi fo, mio caro D'Alembert, [153] i miei addii; non ho il coraggio di congedarmi da voi, sono questi istanti terribili per un cuore sensibile, quando ci si deve separare per sempre dagli amici e dalle persone che si amano e si stimano e si onorano e che hanno formato la felicità della mia vita durante la mia dimora in questo paese. Addio, mio caro amico, io vi scriverò, e spero che voi mi darete qualche volta notizie della vostra salute, e così potrò credere ancora di non essere uscito dal mondo.„
Dopo aver lasciato Parigi, egli si fermò alcuni mesi a Genova, sperando forse che il suo richiamo non fosse definitivo, ma dovette pure decidersi alla fine a ritornare a Napoli, dove dalla benevolenza del Tanucci, nonchè da quella dei Sovrani, gli furono attribuiti i più onorifici e lucrosi incarichi, senza però che egli mai si consolasse e senza che mai nel suo cuore si cicatrizzasse la nostalgica ferita per l'obbligatorio abbandono di Parigi, dove, malgrado l'ardente suo desiderio, non doveva mai più ritornare.
Nelle lettere da lui scritte dopo il non desiderato ritorno in patria, si trovano di continuo rimpianti per la dolce terra di Francia e, al contrario, disdegni e sarcasmi contro la città di provincia, in cui era costretto a vivere. Alla signora Necker egli scrive: “Ma è proprio vero che io sia partito? È possibile che io abbia potuto [154] uscire da Parigi? Per dove, come, per quale barriera, in qual modo è accaduto? Io non ci capisco nulla. No, non è possibile.„ Ed alla signora d'Épinay: “Parigi è la mia patria; per quanto si faccia per esiliarmi da essa io vi ricadrò.„ E poi: “Vedete come sono allegro: non ne credete niente. Io sono triste ed infelice e mi rincresce molto di farvelo sapere. Cerco di distrarmi e cado in eccessi di pazza allegria. Qui diverto tutti, fuorchè me medesimo. Se ritorno un momento sull'idea di Parigi e dei miei amici, eccomi perduto. Io non ci sono e voi ci siete, ecco i due punti della mia melanconica e desolante meditazione.„ Ed ancora: “Sapete che oggi è l'anniversario del giorno della mia partenza da Parigi? Posso essere allegro con siffatto ricordo?„ Ed infine alla signora Geoffrin scrive: “Eccolo dunque, come sempre, l'abate, il vostro piccolo abate, votre petite chose. Io sono seduto sur una soffice poltrona, ed agito piedi e mani come un energumeno, colla parrucca di traverso, parlando molto e dicendo cose che erano giudicate sublimi e che mi venivano attribuite. Ah! signora quale errore! non ero io che dicevo di così belle cose. Le vostre poltrone sono tripodi apollinei ed io era la Sibilla. Siate pur sicura che, sulle seggiole di paglia napoletane, non dico che sciocchezze.„
[155]
Napoli, al povero abate così festeggiato nei brillanti salotti parigini, non appare semplicemente come una città di provincia, poco colta e molto pettegola, ma quale un crudele esilio, in cui non trova chi sappia comprenderlo ed apprezzarlo come a Parigi. E le lamentanze ed i rimpianti riempiono le sue lettere e si esprimono nelle forme più colorite, più liriche e più graziosamente satiriche. “Qui non ho nulla che mi tormenti, tranne che non ho nè divertimenti, nè piaceri, nè amici, nè discepoli, nè pranzi, nè cene, nè denaro, nè salute, nè allegria, nè affari giocondi, nè amore; ma, viceversa ho l'amicizia del ministro, la rabbia degli invidiosi, il pericolo delle calunnie, seccatori a non finire, i processi, il Tribunale, la Corte, le zampogne per le vie ed i calli ai piedi.„ — “In quanto a me mi annoio mortalmente qui; non veggo nessun'altro che due o tre francesi che sono qui. Parmi d'essere Gulliver, ritornato dal paese degli Huyhuhums, il quale non ricerca altra società che quella dei due suoi cavalli. Vado a fare visite di dovere alle mogli dei due ministri di Stato e delle Finanze e poi dormo o sogno. Quale vita! nulla qui mi diverte. La vita vi è di un'uniformità mortale. Non vi si disputa di niente, neppure di religione. Ah, mia cara Parigi, quanto ti rimpiango!„ Ed allorquando, per [156] una salute deteriorata anzitempo, perde gran parte dei denti, egli prima se ne lamenta; “Se non avessi perduto che il piacere di mangiare, non lo rimpiangerei troppo; ma è assai peggio. Io non parlo più; ecco ciò che è spaventevole. Balbetto nel voler parlare, sovra tutto in italiano: tra i miei denti formasi una specie di zufolio molto sgradevole e di cui mi accorgo io stesso e subito taccio per tema di annoiare gli altri. Ora immaginate cosa sia l'abate Galiani muto. No, non vi ha nulla di più crudele e di più lamentevole; credete pure che non esagero„; e poi trova una consolazione assai più triste del male: “I miei denti mi hanno lasciato; ma non ho più bisogno di parlare; qui nessuno m'intende e nessuno ha la tentazione di ascoltarmi.„
Ma quasi a vendicarsi dei suoi concittadini, la sua vena satirica si risveglia ed egli scrive tutta una serie di opuscoli epigrammatici, che poi pubblica sotto il nome di don Onofrio Galeota, un bizzarro tipo di grafomane e di bohèmien, che viveva in Napoli ai suoi tempi e vi era popolarissimo. Fra questi opuscoli giocosi, in cui il Galiani piacevolmente imita lo stile pomposo, spropositato e tutto intessuto di grossolani napoletanismi di don Onofrio, il più caratteristico è, senza dubbio alcuno, quello pubblicato in occasione di un'eruzione del Vesuvio e che porta per titolo: [157] “Spaventosissima descrizione — dello spaventoso spavento — che ci spaventò tutti coll'eruzione del Vesuvio la sera degli otto d'agosto 1779, ma (per grazia di Dio) durò poco — di D. Onofrio Galeota — poeta e filosofo all'impronta.„ A dare un'idea di questa parodia piena di spirito basterà che io ve ne legga una mezza pagina; udite: “La prima meraviglia fu vedere quella gran colonna di lava infocata, che usciva dalla bocca e andava tanto alta. Veramente alzava assai; ma non tanto poi quanto hanno detto. Mi è stato avvisato che, quando fu l'eruzione del 1631, li libri d'allora, stampati tutti con licenza dei superiori, hanno detto che la colonna di fuoco s'alzò diciassette miglia. Ora, io dico, una delle due, o l'eruzioni che si facevano in quelli tempi erano più grandi di quelle che si fanno adesso, o li spropositi, che si dicevano allora, erano più grandi di quelli che si dicono adesso. Veramente diciassette miglia sono miglia. Adesso hanno detto che s'alzò tre miglia, e io manco lo credo, e dico che fu meno assai, e forse non fu nemmeno mezzo miglio; però mi rimetto a chi l'ha misurata, perchè io non ci voglio rimettere di coscienza, e queste cose di pesi e misure sono materie delicate, e per la mezza canna, o quanti vanno all'inferno, che il Signore ce ne liberi!„
[158]
Qualche anno prima della pubblicazione di questo opuscolo era stato rappresentato il famoso “Socrate immaginario„, ad ascoltare il quale, a quanto almeno afferma il Ranieri, tanto dilettavasi Giacomo Leopardi e di cui lo Scherillo ha potuto dire, non interamente a torto, che esso onora la letteratura drammatica italiana quanto la migliore delle commedie di Goldoni.
Molto si è disputato per sapere chi fosse il vero autore di questo capolavoro del teatro napoletano, ma ora sembra assodato che l'idea prima l'abbia avuta il Galiani, che egli n'abbia dato il canovaccio a G. B. Lorenzi, noto autore di molti libretti di opere buffe napoletane, e che inoltre, dopo che costui l'ebbe verseggiato, vi abbia aggiunto parecchi sali, e qualche scena più delle altre originale. La musica poi ne fu scritta dal Paisiello. Eccone l'argomento, secondo vien raccontato dal Galiani medesimo in una delle sue lettere: “È un'imitazione del Don Chisciotte. S'immagina un buon borghese di provincia, che si è fitto in capo di ristabilire l'antica filosofia, l'antica musica, la ginnastica, ecc. Egli si crede Socrate. Ha preso il suo barbiere e ne ha fatto Platone (è il Sancio-Panza). Sua moglie è bisbetica, e continuamente lo bastona: così è una Santippe. Va nel suo giardino a consultare il suo demone, alla fine gli si fa bere [159] un sonnifero dandogli a credere che sia la cicuta, e, mercè l'oppio, allorquando risvegliasi, si trova guarito della sua follia„.
Rappresentata nell'ottobre del 1775, la giocondissima commedia del Galiani e del Lorenzi ottenne uno strepitoso successo d'ilarità, ma, essendosi scoverto che sotto i panni del protagonista si nascondeva una caricatura di don Saverio Mattei, professore di lingue orientali nell'Università di Napoli, poeta metastasiano, cultore fervente di musica, appassionato della letteratura e della filosofia greca e pazientissimo nel sopportare gli scoppii di gelosia e l'umore irascibile della sua consorte, donna Giulia Capece-Piscicelli, si ricorse dagli interessati al Re, che, ad evitare un più lungo scandalo, proibì ogni ulteriore rappresentazione del “Socrate immaginario„, veto che non doveva venir tolto che cinque anni dopo.
Ma diciamolo pure, il buon don Saverio, non aveva avuto tutti i torti di adirarsi, giacchè la satira era davvero spietata.
Alla moglie che gli chiede:
Ma dimmi, arcipazzissimo,
Tu come insegni ad altri
Filosofia, se appena sai di leggere?
don Tammaro, il protagonista della commedia galianesca, risponde:
[160]
Appunto perchè sono
Una bestia solenne, io son filosofo.
Chi fu Socrate? un asino
E te lo proverò. Mai non parlava
Costui da sè, ma domandava sempre,
Chiaro segno evidente
Ch'era una bestia e non sapeva niente....
Ed io maggior mi stimo
Filosofo di lui, per la ragione
Che, ogni qual volta vogliolo imitare,
Nemmeno so che cosa domandare!
Ed ecco come egli narra la trasformazione fatta subire al suo barbiere:
Sta sottoterra ascoso
Il tartufo odoroso: il porco immondo
Lo scava col suo grugno, e quello poi
Si fa cibo di dame e di alti eroi.
Stava così sepolto
Mastro Antonio Tartufo:
Il porco io fui, che lo scavai. Lo tenni
Alla mia scuola, e in men di sette giorni
Filosofo divenne Mastro Antonio;
Gittò ranno e sapone,
Vestì la toga e diventò Platone.
Ed infine don Tammaro riassume il programma della sua nuova esistenza così:
In casa mia
Voglio che tutto sia grecismo e voglio
che sin' il can, che ho meco,
Dimeni la sua coda all'uso greco.
Il nostro abate non impiegava però tutte le ore di libertà che gli lasciava l'importante sua [161] carica ad architettare tali lepidi componimenti, giacchè egli, ritornato a Napoli, compose eziandio varie opere affatto serie e di molta dottrina. Basterà che io rammenti l'importante memoria: “Dei doveri de' Principi neutrali verso i Principi guerreggianti, e di questi verso i neutrali„, in cui, con grande efficacia, sostenne una tesi, che, dopo circa mezzo secolo, doveva venire accolta, in seguito a lunga discussione, dalla Camera legislativa francese; basterà che rammenti la monografia sul “Dialetto napoletano„, che suscitò assai vivaci polemiche, e quella “Vita di Orazio cavata dalle sue poesie„ e quel volume “Degl'istinti e delle abitudini dell'uomo, o sia Principii del diritto di Natura e delle genti, tratti da Orazio„, che sono rimasti sempre inediti, perchè rinchiusi, insieme a varii altri manoscritti galianeschi ed a parecchi carteggi coi più illustri uomini d'Italia e di Francia, nei dieci cassoni, lasciati dall'abate napoletano al suo amico e parente don Francesco Azzariti e da costui alla famiglia Niccolini e poi alla famiglia Santamaria, senza che a nessuno mai venisse concesso di gettarvi uno sguardo, a gran dispetto del povero Ademollo, uno dei più pazienti e scrupolosi studiosi dell'opera galianesca, che non riusciva a darsene pace.
Io, per conto mio, vi confesso, che me ne consolo, leggendo e rileggendo quell'epistolario del [162] Galiani, da cui la figura dell'arguto abate balza fuori così completa e seducente.
A me pare di vederlo il minuscolo abate nel momento che si prepara a scrivere una di quelle sue brillanti lettere alla signora d'Épinay che, appena giunta a Parigi, verrà da lei letta ai suoi fidi, per passare dopo da salotto a salotto e per finire qualche volta in mano di un principe straniero od anche di un nunzio del papa.
Il vasto appartamento, presso la chiesa di Sant'Anna di Palazzo, dove Ferdinando Galiani abitava, è immerso nel notturno silenzio, giacchè da più ore le tre nipoti, rinchiuse nelle loro camere e coricate nei loro letti, sognano dei fidanzati che il buon zio ha saputo procurar loro, e dormono o sonosi ritirati nelle loro case il maggiordomo e gli altri otto domestici; l'abate, che è ritornato or ora dal teatro, dove ha assistito ad un'opera nuova dell'adorato Piccinni, entra nella sua stanza da studio, accarezza la bambagiosa gatta d'Angora, sua diletta compagna da che un amico gliel'ha mandata da Marsiglia e la cui morte improvvisa di lì a qualche giorno lo costernerà così profondamente, posa sur un polveroso fascio di processi, che domattina dovrà compulsare prima di recarsi al Tribunale di Commercio, la parrucca, che tanto pesa all'irrequieta sua testina, ed incomincia a scrivere sul largo foglio bianco.
[163]
La penna dapprima corre sulla carta rapida e nervosa, poi si arresta, perchè l'abate deve consultare una lettera della d'Épinay o gettare uno sguardo fugace alla pallida miniatura, che, nella sua cornice dorata, gli ricorda la graziosa ed elegante sembianza dell'amica lontana. La penna ricomincia a correre, ma d'un tratto una sonora risata risveglia gli echi della stanza e fa balzare in piedi la gatta i cui rotondi occhi fosforescenti rilucono attoniti nella penombra: è l'abate che, con la penna d'oca poggiata sull'orecchio, ride di cuore di una sua facezia scritta or ora e che poi la rilegge compiaciuto ad alta voce, accompagnandola con le più grottesche boccaccie e con la più vivace mimica di tutta la persona, quasi che intorno a lui si affollassero gli amici dei quali, di lì a venti o trenta giorni, la sua lettera susciterà certo la più schietta ilarità. Il fatto è che, mentre scrive, al buon abate sembra proprio di trovarsi tuttora a Parigi nel salotto della signora d'Épinay od in quello del barone d'Holbach e di discorrervi coi suoi amici; ed è proprio ciò che dà alle sue lettere un incomparabile fascino, il fascino della conversazione, il fascino della parola parlata.
Nelle sue lettere, il Galiani tratta saltuariamente i più svariati soggetti, dai più umili e familiari ai più dotti ed elevati. Ora parla di intricate questioni economiche ed un po' dopo si [164] lagna che il suo editore si faccia troppo pregare per dargli quel che gli deve o che glielo dia a piccole somme staccate, ciò che prova che gli editori sono sempre gli stessi in tutti i tempi ed in tutti i paesi; ora fa profezie sull'avvenire politico dell'Europa per chiedere, un momento dopo, che gli si mandino alcune boccette d'inchiostro perchè quello che vendesi a Napoli è pessimo; ora fa acute osservazioni critiche sul teatro per poi lagnarsi che certa tela per camicie speditagli da Parigi non sia di buona qualità.
Di tanto in tanto poi, egli comunica alla sua amica il titolo e l'argomento di un libro, che ha ideato forse nell'istante stesso che verga la lettera. Un giorno è un trattato d'educazione, in cui intende provare che questa è la medesima sia per gli uomini sia per le bestie e che essa si riduce tutta ai due seguenti punti: Apprendere a sopportare l'ingiustizia, apprendere a soffrire la noia. Un altro giorno, immagina un romanzo epistolare fondato sull'amicizia d'infanzia del celebre arlecchino Carlin con Papa Ganganelli, un romanzo che verrà scritto, più di mezzo secolo dopo, dal letterato francese Henry de Latouche. Un altro giorno concepisce un “Sistema sull'origine delle montagne„ in cui trovasi in germe la moderna teoria dell'evoluzione. Un altro giorno infine progetta un libriccino umoristico [165] di cui il curioso titolo dovrebbe essere: “Instructions morales et politiques d'une chatte à ses petits, traduit du chat en français, par M. d'Egratigny, interprète de la langue chatte à la Bibliothèque du Roi„ e di cui ecco il gustosissimo canevaccio: “La gatta inculca dapprima ai suoi piccini il timore del Dio-uomo. In seguito spiega loro la teologia ed i due principii, il Dio-uomo buono ed il Demonio-cane cattivo; poi detta loro la morale, la guerra cioè ai topi, ai passerotti, ecc.; infine parla loro della vita futura e della Rattopoli celeste, che è una città dalle mura di parmigiano, dai pavimenti di polmone, dalle colonne di anguille, ecc., e che è piena di topi destinati a loro divertimento. Essa ispira loro il rispetto pei gatti castrati, che sono chiamati a tale stato dal Dio-uomo, per essere felici in questo e nell'altro mondo, come lo attesta la loro pinguedine, ed è perciò che essi sono dispensati dal pigliare i topi. Finalmente raccomanda loro la più perfetta rassegnazione, nel caso che il Dio-uomo li chiami a questo stato di perfezione, ecc., ecc.„
Nessuno di questi volumi fu scritto dal Galiani ed essi andarono a raggiungere nel limbo letterario l'infinita legione dei libri progettati e non eseguiti, incominciati e non terminati, la cui istoria oltremodo curiosa ed interessante rimane ancora [166] da farsi in un volume, che porti per epigrafe le rivelatrici parole dei Goncourt: “On ne fait pas les livres qu'on veut.„ Che importa? Sono proprio questi i libri ai quali gli scrittori serbano la maggiore tenerezza ed ai quali ripensano sempre con simpatia, simili un po' a quelle vezzose eroine degli amoretti giovanili appena abbozzati e dovuti lasciare a metà, le cui vaghe fattezze vengono evocate con soave mestizia nelle ore angosciose di scoraggiamento sentimentale, in cui l'anima è annebbiata di tristezza ed il cuore sanguina sotto gli artigli della delusione.
Gli autori amano queste loro opere embrionali perchè esse non hanno dato loro nessun dispiacere e perchè appaiono loro sempre illuminate dalla fiamma purissima e lieta della prima concezione. Ahimè! dopo quella prima ora di sublime gioia cerebrale, incominciano le terribili battaglie di tavolino per fermare sulla carta quella fulgida visione del libro futuro, che nell'attuazione si sforma, si contorce, svaporasi.
Oh! gli spasmodici gridi di sofferenza che trovansi nelle lettere di Flaubert alla Sand, in chi di noi, per quanto modestissimo maneggiatore di penna, non ha trovato un'eco di dolore? Chi di noi potrà mai dimenticare la triste e rassegnata esclamazione di lui: “Ah! je les aurai connues les affres du style?„
[167]
Sì, una grande gioia è anche quella di poter mettere la sospirata parola “Fine„ ad un volume, ma in tale gioia v'è anche un po' del grossolano sollievo per una fatica terminata; ma, dopo quel momento supremo, l'opera quasi più non ci appartiene e ad essa non è già più l'anima dell'artista o del pensatore che s'interessa, ma è la vanità dell'uomo, che sogna un entusiastico coro di lodi.
Ecco perchè io stimo che la gioia più pura, più alta, più serena è quella che ci procura la ideazione di un nuovo libro, il quale, nel fremito giocondo di quel primo istante, ci appare bello e completo come giammai sarà, come giammai potrà essere; ed è naturale per conseguenza che il libro, che è rimasto sempre in tale primo stadio senza mai concretarsi, sia pure il figlio prediletto della nostra anima.
Un biografo diligente e scrupoloso osservatore della verità storica vi direbbe che ritornato dalla Francia, il Galiani, eccetto un breve viaggio fino a Venezia, visse sempre in Napoli; ebbene io invece sostengo che egli continuò a vivere per molti anni ancora a Parigi, finchè la morte della sua diletta amica Luisa d'Épinay non venne a troncare il suo bel sogno cerebrale. Oh sì, o signori, ciò che sopra tutto vale è la vita dello spirito ed ognuno di noi può eleggersi una patria [168] ideale, e, mentre qui appare sotto il consuetudinario aspetto di professore, d'impiegato, di medico, può con lo spirito viaggiare pel mondo, può con lo spirito vivere in Francia, in America o nell'Estremo Oriente.
Ma io voglio pur fare qualche concessione alla gente positiva, che di queste nostre metafisiche da esteti compassionevolmente sorride, e mi accontenterò di affermare soltanto che nell'abate napoletano vi erano due uomini, come del resto egli stesso scriveva: “Ma ecco come sono, due uomini diversi impastati insieme, e che pure non riescono ad occupare intero il posto di un solo.„ Ebbene sì, vi era un Galiani severo e dotto magistrato, zio tanto premuroso che riuscì a maritare perfino una nipote brutta e gobba, collezionista appassionato di monete e di medaglie, scrittore di opuscoli eruditi o satirici, che viveva a Napoli, e che dal Tribunale di Commercio passava a Corte e dai salotti dei diplomatici esteri passava al teatro, dove eseguivansi le opere giocose dei musicisti napoletani o dove recitava qualche compagnia francese; ma v'era poi un altro Galiani, e quello continuava a vivere a Parigi ed a farvi la corte alle sue eleganti amiche, a lanciarvi epigrammi ed improperii contro gli Economisti, a discutervi calorosamente sui più varii soggetti cogli Enciclopedisti, a far ridere ed [169] a far meditare coi suoi apologhi, coi suoi frizzi, con le sue capricciose fantasie, con le sue originali riflessioni, con le sue ardite massime, tutto un fedele pubblico di ammiratori: e non è forse questo il Galiani affascinante e geniale, non è forse questo il Galiani davvero degno di interessare noi altri posteri?
Venne però un triste giorno del giugno 1783, ed in esso gli giunse la crudele notizia della morte della sua amica: in quel giorno il suo cuore si spezzò. Alla signora du Bocage, che si era offerta a continuare il carteggio, durato per quattordici anni con la d'Épinay egli scrisse: “La signora d'Épinay non è più! io ho dunque cessato di esistere! Voi m'avevate proposto, nell'ultima vostra, di continuare con voi la corrispondenza che io ebbi l'onore d'intrattenere così a lungo con lei; io intendo tutto il valore del sacrificio che voi vi degnate imporvi; ma come potrei io corrispondervi? Il mio cuore non è più tra i vivi, esso è tutto in una tomba. Perdonatemi, signora, se vi scrivo con tanta franchezza, se vi mostro tanta ingratitudine.... In questa età, in cui l'amicizia diviene più necessaria, ho perduto tutti i miei amici! io ho perduto tutto! non si sopravvive ai proprii amici!„
E può ben dirsi che in quel melanconico giorno [170] il Galiani parigino morisse. In quanto al Galiani napoletano, egli gli sopravvisse ancora quattro anni e qualche mese; coprì nuove e sempre più importanti cariche, in modo da raggiungere in emolumenti la rispettabile somma annua di 27 000 lire; ottenne altri onori; entrò sempre più nelle grazie dei Sovrani; si occupò sopra tutto della riedificazione dell'antico porto di Baja e della bonifica del lago Fusaro; e cessò di vivere, coi conforti religiosi, il 30 ottobre 1787 all'età di 58 anni.
Alcuni giorni prima che egli morisse, la regina Maria Carolina scrissegli una lunga lettera per esortarlo, in vista di una prossima ed inevitabile fine, a fare ammenda dei suoi errori e ad implorare dalla misericordia divina il perdono dei suoi molti peccati. A tale esortazione, per lo meno strana sotto la penna di quel modello d'ogni virtù che fu Maria Carolina, il Galiani rispose con una lettera piena di rispettosa gratitudine, ma piena eziandio di nobile dignità, di cui ecco la chiusa caratteristica: “Non vorrei stancare la pazienza di Vostra Maestà sopra tutto con un movimento che potrebbesi tacciare d'orgoglio, ma mi è impossibile non dire che se ho da rimproverarmi numerosi peccati come uomo e come cristiano, non me ne posso rimproverare uno solo nè come magistrato, nè come suddito....„
Chi ha scritto queste parole e quelle più su [171] riferite in occasione della morte della signora d'Épinay non può certo venir giudicato un cinico egoista, siccome lo hanno proclamato molti, che hanno preso troppo alla lettera alcune frasi del suo epistolario. Disgustato dall'umanitarismo enfatico e dal falso e lezioso sentimentalismo, pei quali, sotto l'ispirazione di quel Gian Giacomo Rousseau, che imprecava contro le madri che non allattano esse stesse i loro bambini, ma che poi mandava i suoi figliuoli alla ruota dei trovatelli, sdilinguivasi quella corrottissima aristocrazia francese, la quale, secondo una frase divenuta celebre, danzava sur un vulcano, l'abate Galiani, che teneva molto, ed aveva ragione, all'originalità del proprio cervello, amava invece di posare, anche un po' forse per spirito di contraddizione, a scettico e gridava che egli non credeva nulla, in nulla, su nulla, di nulla, e si scalmanava a persuadere tutti che egli in politica non ammetteva che il Machiavellismo puro, senza miscele, crudo, acerbo, in tutta la sua forza ed in tutta la sua asprezza.
Ebbene se si esamina coscienziosamente l'esistenza oltremodo laboriosa di questo scettico per progetto, si scorge che egli fu buon patriotta, magistrato integerrimo, suddito fedele, che si mostrò amico tenero e premuroso, che, dopo la morte del fratello, tenne luogo di padre alle figlie di lui.
[172]
Difetti certo n'ebbe e parecchi e gravi, ma ebbe pur la schiettezza di non nasconderli mai come ipocritamente fecero tanti altri grandi uomini: pochi, ad esempio, furono più di lui sensibili al successo delle proprie opere, ma nessuno ha più candidamente di lui confessato che non v'è alcuna vanità la cui ebbrezza sia più violenta della vanità letteraria.
Infine quest'uomo, che sotto la fosforescenza dello spirito nascondeva uno straordinario acume ed un profondo e sano buon senso; quest'uomo che è stato non soltanto un brillante e mordace scrittore, ma anche un vero ed ardimentoso novatore in economia politica ed in diritto pubblico; quest'uomo, i cui paradossi, sparsi con opulenta prodigalità nelle sue stupende lettere, fanno ripensare alla definizione di un illustre odierno scrittore, pel quale il paradosso dell'oggi è la verità del dimani; quest'uomo di cui Edmondo de Goncourt, tempo fa, non peritavasi di proclamare che possedesse “une cervelle autrement philosophique que la cervelle à la mince ironie de monsieur de Voltaire„ rimane, checchè ne dica certa maniaca critica iconoclasta, una delle più gloriose personalità, che abbiano, nel secolo scorso, onorata l'Italia Meridionale.
[173]
CONFERENZA
DI
Guido Mazzoni
[175]
Signore e Signori,
Chi volesse immaginarsi due scrittori in contrasto tra loro, quanto più sia possibile, e d'aspetto e d'indole e di facoltà artistiche, non avrebbe a durar fatica: gli basterebbe ripensare, l'un dopo l'altro, Pietro Metastasio e Vittorio Alfieri.
Ecco subito, a udire il nome dell'abate Metastasio, ecco subito risorgere in voi l'immagine di quel volto paffuto sotto i riccioloni della bianca parrucca: il mento doppio s'incurva dolcemente sotto le labbra carnose e la fronte si dilata senza rughe, con un'altra curva armoniosa, sopra gli occhi sereni: volto un po' troppo pieno, ma non senza grazia; al primo guardarlo, volto di un cuor contento; ma non senza finezza, a riguardarlo meglio. Tale i ritratti ci han fitto nella memoria la sembianza del poeta cesareo, [176] che, piegatosi innanzi, quasi a salutare l'amico lettore, e le lettrici, sorride dal limitare delle opere sue. Oh, il conte Alfieri non ci accoglie così! Egli figge gli occhi acuti nell'avvenire, di là da' lettori presenti (alle lettrici non pensa neppure); nell'avvenire li figge, dove ben altri lettori si augura e spera, tra il nuovo popolo d'Italia ch'egli ha voluto suscitare a nuovi destini. I capelli rossi fan come da cornice a quel volto angoloso che s'erge sul collo nudo fieramente; le labbra s'increspano quasi a disdegno; la fronte è segnata di linee che l'attraversano quanto è ampia, e altre rughe scendono per le guance, secondo le contrazioni che il pensiero, nello sforzo del cercar l'espressione, impone alla carne ribelle. Quegli, il Metastasio, a chi abbia pratica de' versi suoi, potrà sembrare che si volga ancora a' soavi melodrammi e mormori, invidiandoli perchè vanno a Nice:
Quanto ingiusto, o miei fogli, è il ciel con noi!
Dolce è la vostra, è la mia sorte amara:
Sol tocca a me tutto il sudore, e poi
Tocca a voi soli ogni mercè più chiara.
Questi, l'Alfieri, si direbbe che abbia gettata via dispettoso la penna, esclamando:
L'arte ch'io scelsi è un bel mestier, per dio!
[177]
e così placatosi torni ancora a meditare aspre tragedie.
Il contrasto che è ne' ritratti de' due volti non fu minore nell'indole de' due uomini e nella vita loro: e li ebbe una stessa nazione, nello stesso secolo, contemporanei; li ebbe poeti drammatici entrambi. La storia letteraria nostra, che ha tante meraviglie, non ne ha forse una che sia curiosa come questa, e così importante a studiarla.
Pietro Trapassi, nato nel 1698 a Roma, quando fu giunto a maturità parve unire in sè quella che il Boccaccio chiamò la gran dolcezza del sangue bolognese, che gli veniva dalla madre, con la bonaria compostezza romana che gli veniva dal padre: ma innanzi fu un gaio e spensierato ragazzo che, sebbene adottato dal Gravina per le grazie dell'ingegno manifestate nell'improvvisare, e già erudito da lui su' Greci e su' Latini negli studii severi, si affrettò a sparnazzarne la conspicua eredità godendosi a Napoli la vita. Una cantante, la Marianna Bulgarelli, la Romanina, che lo conosce per gli Orti Esperidi, [178] lo fa suo e lo protegge, quando egli, ridotto in miseria, studiava l'avvocatura; un'altra Marianna, la Pignattelli D'Althann, che è vedova a Vienna, e può vantarsi amata da Carlo VI, lo fa chiamare là, e anch'ella lo fa suo e lo protegge. A questo modo il figliuolo del droghiere, l'abatino galante, l'avvocatino napoletano, ebbe a presentarsi nel 1730, per la sua qualità di nuovo poeta cesareo, innanzi alla Maestà dell'Imperatore del Sacro Romano Impero, “il più gran personaggio della terra!„ Tre reverenze, una sull'uscio, una a mezzo la sala, una davanti alla persona imperiale; e quest'ultima fu genuflessione: il Metastasio (così il Gravina l'aveva ribattezzato grecamente) restò lì ginocchioni finchè Carlo VI gli disse: — Alzatevi! alzatevi! — Ma allora, ohimè, conveniva aprir bocca, parlare: che dir mai? Era quello, disse, il momento che aveva sospirato fin da' primi anni della vita; e ora che si trovava lì, in faccia all'imperatore, “col glorioso carattere di suo attual servitore,„ avrebbe voluto divenire un Omero, dovesse costargli tutto il sangue delle vene! cercherebbe almeno di fare quel più che potesse, e il titolo di poeta cesareo gli darebbe quella virtù che non gli dava l'ingegno. Piacquero le parole bene artificiate e dette bene; e l'imperatore degnò sorridere, e gli offerse la mano a baciare: “Onde io (narrava il [179] Metastasio) consolato di questa dimostrazione d'amore, strinsi con un trasporto di contento la mano cesarea in entrambe le mie, e le diedi un bacio così sonoro che potè il clementissimo padrone assai bene avvedersi che veniva dal cuore.„
A corte, sulle prime, non si curavano di lui; ma egli vi s'insinuò e vi si abbarbicò presto tenacemente con la garbatezza de' modi, con la simpatia della persona, con l'accortezza mascherata di bonomia onde si regolò sempre, entro i limiti dell'onesto, a vantaggio proprio. E la Marianna lasciata a Napoli, la dolce Romanina? Didone è stata abbandonata da Enea, e Enea non vuole ch'ella lo raggiunga.... a Vienna! E per impedirle il viaggio intrapreso, la ferma, o fa fermare, a Venezia: onde la leggenda, che sarà poi registrata dal Lessing, ch'ella tentò uccidersi con un temperino; nel fatto, pur dolorando, si contentò di promesse e si rassegnò. Anzi, scrisse a un abate, che s'era intromesso tra lei e l'amico, raccomandandogli prendesse cura del marito, che aveva proseguito per conto suo fino a Vienna, e lo consigliasse “a non disgustare il signor Metastasio con qualche sua strana risoluzione; ma lo faccia (aggiungeva) con la sua buona grazia, che non paia mia premura.„ Sta a vedere che il marito correva le poste per costringere l'abate a [180] tornare indietro, o almeno per rimbrottarlo dell'abbandono crudele!
Difficile, perchè già tenuto da Apostolo Zeno, l'ufficio di poeta cesareo: lo Zeno aveva data nobiltà quasi di tragedia al melodramma, col divergerlo dagli enormi spettacoli eroicomici e volgerlo all'efficacia dell'azione dialogata con eletta serietà; e pur conveniva al Metastasio lavorare indefessamente per produrre quelle tante opere all'anno e a tempi determinati, e procurare insieme gli oratorii, le serenate, i complimenti, le canzonette, per uso e consumo della Corte, quanti ne occorressero. Uomo metodico trova le ore e le ispirazioni per tutto e per tutti: sta a tavolino ogni giorno a ora fissa, e si commuove scrivendo o rompe la commozione a volontà, pe' suoi melodrammi; gli c'entra continuare il greco e il latino, quasi per diporto, a ora fissa; serve, come dicevano, le padrone a ora fissa; e la savia regolarità della vita gli permette perfino di far la corte alla D'Althann, a ora fissa; amarla, esserne riamato, sposarla, a quel che pare, segretamente. Poeta, uomo di società, dotto, amico, sa compiere tutti i doveri, sa darsi tutti i pensieri, con facilità graziosa, con ingegno e destrezza impareggiabili.
Muore la Romanina, e memore fin all'ultimo lascia erede lui, usufruttuario il marito: il Metastasio, [181] ch'è galantuomo, rinunzia l'eredità, ma il Metastasio, che è un uomo che bada a' fatti suoi, nello scrivere al marito le condoglianze per la perdita comune, gli chiede che in compenso all'eredità rinunziata si occupi d'amministrargli le rendite in Italia e di provvedere alla famiglia, che è a Roma, come per tanti anni avea fatto la povera morta. Ben provveduto di stipendii, tenuto in onore e amore da Maria Teresa come già da Carlo VI, e più assai, mette da parte: la vita agiata, ma senza passioni, non gli costa quasi nulla: cinquantadue anni di séguito, vale a dire fino alla morte, rimane nella casa stessa dov'era sceso arrivando a Vienna; casa di napoletani che gli risparmiarono perfin la noia d'imparare il tedesco, casa di amici onde ebbe in una terza Marianna una figlia adottiva che lo consolò della morte della D'Althann dopo un legame di cinque lustri. Così la donna, che fu per lui rosa senza spine, gli profumò tutta quanta la vita. Morì nel 1782.
Uomo di buon senso, presente a sè, in ogni momento, in ogni cosa; uomo perfettamente equilibrato, sebbene si affermasse isterico; chè quel suo isterismo, come non gli tolse di campare fino a ottantaquattro anni, e lo lasciò morire d'un raffreddore, così fu sempre domato dalla ragione, subito che questa mostrò al paziente [182] il probabile danno della malattia. Non già ch'ei non sentisse; sentiva, anzi, vivacemente, volta per volta, minuto per minuto, sotto il colpo o la pressione degli affetti; ma poteva, quando gli sembrasse troppo, smettere di sentire nè voleva sentire più di quel tanto. Lavagna dove era agevole scrivere col gesso; donde era del pari agevole cancellare lo scritto con la cimosa. La fantasia vivace, eccitabile; l'animo calmo sempre; come nel mare, dove le onde si agitano soltanto sulla superficie sconvolta. Perciò il Metastasio non vide nella vita universale che l'uomo, e tutto riferì all'uomo, cioè, per l'uomo, a sè stesso.
Nulla gli dicevano i luoghi: gli scenarii de' suoi melodrammi gli bastavano. Era nato a Roma, era stato a Napoli, avea vista la Calabria; della campagna deserta e de' ruderi gloriosi, delle candide ville e de' vigneti sul golfo sotto il Vesuvio che fuma, delle coste infiorate d'aranci e guardate dalle vette del selvoso Appennino, nulla rammentò, nulla fe' passare ne' versi suoi. E a Vienna e in Moravia ciò ch'egli osserva è quanto sia d'agio o disagio, ciò ch'è da desiderare, ciò ch'è da fuggire a chi ama il comodo vivere. Gran bella nevicata, per esempio, quella del 1749 sui boschi moravi della D'Althann! Son tutti coperti di neve; alberi e capanne, perduti i colori, conservano ingrossato il disegno e si profilano [183] candidi nel cielo d'un grigio diffuso: udiamo il poeta: “Considero con sentimento di gratitudine, che quell'amico bosco, che mi difendeva poco anzi coll'ombra da' fervidi raggi del sole, or mi somministra materia onde premunirmi contro l'indiscretezza della fredda stagione. Insulto con diletto all'inverno, ch'io veggo ma non provo nella costante primavera del nostro tepido albergo.„ Non c'è dubbio: “al pari delle altre stagioni ha l'inverno ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi„ per chi se ne sta innanzi ai caminetto, dimentico così della natura candidamente bella per la nevicata, come degli altri uomini che soffrono il gelo per la nevicata.
Nella soffitta della casa sua sta per più anni il Haydn; ed egli, che scrive pel teatro e s'intende di musica, sa che virtù abbia quel violinista in miseria; ma nulla fa mai per lui. Un vecchio compatriotta, un vecchio amico, il Porpora, cade malato, ha bisogno: è da pensarci, è da provvedere: ecco fatto, ecco mandata una lettera al cantante Farinello, al gemello impareggiabile, favorito del re di Spagna: “Vi sarò personalmente obbligato se mi vorrete evitare il dolore di vedere il naufragio d'un uomo pel quale abbiamo sentito rispetto fin dalla prima gioventù.„ Non si tratta, dunque, tanto di far [184] piacere al compatriotta e all'amico, quanto di schivare una dolorosa commozione e i possibili rimorsi. Dopo scrittone a Madrid, non c'era più ragione di stare in pensiero a Vienna. Al bene, certo, era naturalmente proclive; del male non ne fece mai; ma scomoda tanto fare il bene! Se ci ha da essere scomodo non mette conto, neppure per sè, di muoversi; se ci ha da essere danno, allora sì che è prudente badare solo a' fatti suoi! E rinunziava alla Romanina, rinunziava a rivedere padre, madre, fratelli, rinunziava all'Italia, soffocando le rapide fiammelle della fantasia e del sentimento. Oh Napoli, oh le Calabrie, oh Roma e il palio de' barberi! Ma, per tornare, bisognava buttar all'aria, preparar tutto, bisognava mettersi in via; e laggiù chi sa poi quante chiacchiere uggiose; e lì presso c'era la D'Althann che alla tale ora lo aspettava, o gli amici per la solita lettura d'Orazio. Il Metastasio non rivide mai nè l'Italia nè i suoi.
[185]
Vittorio Alfieri, nato nel 1749, quando il Metastasio era negli onori massimi e già sullo sfiorire, ebbe dal forte Piemonte adusta la tempra del corpo e ben salde le fibre dell'animo. Il conte astigiano, militarmente educato a Torino, nel collegio dove gl'insegnarono più francese che italiano, altiero, ribelle per indole alla volontà altrui, si vendicò subito che potè di quella disciplina correndo l'Italia e l'Europa a rompicollo. Francia, Inghilterra, Olanda, Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Russia; e poi, in un'altra corsa, Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo, dal '67 al '72 lo vedono passare e ripassare giovane ardente, fantastico, turbolento, che ama e disama, che spende e spande, che ha tragiche e comiche avventure di passioni, di duelli, di processi; tradito, vilipeso, pregiato, onorato; sempre desideroso del meglio, sempre scontento del presente, sempre scontento di sè. Passa e ripassa con frotte di cavalli generosi: di lì a poco preferirà i libri.
Guarito da un amore in Olanda, incappa nel '71 nella Penelope Pitt, che a sedici anni è divenuta [186] la viscontessa Ligonier; e per lei si batte col marito, per lei è tratto insieme con un palafreniere in un processo di divorzio. Un altro amore a Torino, l'anno dopo, indirettamente l'avvia a comporre tragedie. Poi nel '77 a Firenze “degno amore lo allaccia finalmente per sempre„: ama la moglie di Carlo Odoardo Stuart, la contessa d'Albany; e si studia di sottrarla a quello sbevazzatore che, dimentico della sua dignità e delle prove da lui fatte non senza gloria come pretendente alla corona d'Inghilterra, le è un “irragionevole ed ubbriaco padrone„; ordisce sottilmente la trama della liberazione, la compie quasi per rapimento, si assume intiera la responsabilità del fatto, con la donna amata convive pubblicamente, in faccia all'attonita aristocrazia, rivale felice d'un marito di casa reale.
Intanto, ne' viaggi e nelle passioni e nelle amicizie varie, gli si era allargato il sentimento e la coltura: l'Inghilterra e la Francia gli avean mostrato assodate o in via d'esperimento le leggi della libertà: tutta l'Europa aveva corso, o da tutta l'Europa raccolto in sè l'odio contro il feudalismo antiquato e la bramosia delle riforme civili. A Ginevra s'era già comprati l'Helvetius, il Rousseau, il Montesquieu; poi lesse Plutarco e se n'infiammò; quattro e cinque volte di seguito lo lesse “con tale trasporto di grida disperate [187] e di furori per anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzito„. Con lacrime di dolore e di rabbia raffrontava Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, a' piccoli reggitori del Piemonte: un giorno intiero, meditando l'Italia presente, pianse sulla tomba di Dante a Ravenna. Si rodeva, e pur seguitava a menar la vita dello scioperato e dello scapestrato; ma il suo era come il ribollimento della terra che abbia sentita la prima pioggia primaverile.
Presentato nel '69 al re di Prussia, non ebbe altro lievito che d'indignazione e di rabbia: poche parole gli disse il re; egli l'osservò profondamente ficcandogli gli occhi negli occhi, e ringraziò Dio che non lo aveva fatto nascere schiavo di Federigo II. Anche dal re di Piemonte si volle libero; e, fatta donazione di tutto il suo, andò a tôrre licenza: quel re, che era il buon Vittorio Amedeo II, non gli parlò punto della cosa, e lo accolse affabile e cortese come era sempre. Onde poi il conte nella Vita: “Ancorchè io non ami punto i re in genere, e meno i più arbitrari, debbo pur dire ingenuamente che la razza di questi nostri principi è ottima sul totale, e massime paragonandola a quasi tutte l'altre presenti d'Europa. Ed io mi sentiva nell'intimo del cuore piuttosto affetto per essi, che non avversione; [188] stante che sì questo re che il di lui predecessore sono di ottime intenzioni, di buona e costumata ed esemplarissima indole, e fanno al paese loro più bene che male. Con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere pendono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire.„ Oh il bacio, il bacio sonoro del Metastasio sulla mano dell'augusto padrone!
Dopo che l'Alfieri ebbe baciate, in cambio di una mano imperiale, le rovine della Bastiglia, avidamente raccolte a memoria del fatto, gli toccò sentire la libertà impiccante e spogliante, come la chiamava pronunziando gli epigrammi feroci che, deluso nelle alte speranze, scagliò, fin che gli resse la vita, contro la Francia. E dalle Fiandre e dalla Germania, venne a Firenze, dove Ugo Foscolo lo vide passeggiar solo dove Arno è più deserto. Qui scrisse le commedie, volto ormai col pensiero all'esempio degli Inglesi, che soli gli avevan dato libertà e pace, e soli sembravan godere patria e libertà, e per ciò partigiano ormai degli ordini costituzionali ove si contemperano le signorie dell'Uno, de' Troppi, de' Pochi, tre veleni che commisti fanno l'antidoto. Qui allo Strocchi giovane che andò a visitarlo gridò rimbrottandolo che parteggiasse pe' Francesi: “Que' scellerati Francesi hanno ammazzato [189] il loro re: i re vanno ammazzati, ma sul trono, non balzarneli con inganno e, appena caduti, vilmente trucidarli!„ Qui, disperato del tempo e degli uomini presenti, affisse sulla porta di casa quel biglietto che si era stampato con le proprie mani: “Vittorio Alfieri, non essendo persona pubblica, e supponendosi di poter essere almeno padrone di sè in casa sua, fa noto a chiunque cercasse di lui, ch'egli non riceve mai nè le persone nè ambasciate nè involti nè lettere di quelli che non conosce e da cui non dipende.„ E qui morì nel 1803, atteggiandosi a misantropo sdegnoso. Ma come caldo d'amore nel suo pensiero per gli uomini tutti! come ardente per gli uomini d'Italia, quali degni di lei nascerebbero un tempo! Quando scrisse la dedica del Bruto II, volgendosi al popolo italiano futuro, si direbbe che il conte Alfieri, dotato di profetici spiriti, si vedesse innanzi i martiri, i soldati, i diplomatici del '21, del '48, del '59: quando scrisse i versi sulle battaglie future tra Italia e Francia, fu profeta, almeno in parte, davvero. A Roma, nel '49, più d'uno de' volontarii (perchè non il Mameli?) avrà susurrato:
... O Vate nostro, in pravi
Secoli nato, eppur creato hai queste
Sublimi età che profetando andavi!
[190]
Ora, il conte astigiano che, posando a Marsiglia, con le spalle addossate a uno scoglio, dinanzi alle due immensità del cielo e del mare abbellite dai raggi del sole cadente, passava ore di delizia fantasticando; o viaggiando nel Settentrione dalle selve, dai laghi, dai dirupi, si sentiva sorgere entro l'animo ruvidamente scolpite le immagini che poi ritrovò nell'Ossian; o cavalcando per le pianure deserte dell'Aragona piangeva dirottamente, senza sapere di che, per la poesia che terribile e lieta e mesta e pazza gli si affacciava alla mente in immagini mal distinte; questo poeta grande, questo cittadino grande, quest'anima, insomma, questa vita, nel 1769 toccarono per un momento o furono per toccare l'anima e la vita dell'abate Pietro Trapassi, del poeta cesareo Metastasio.
Era a Vienna l'Alfieri, e il ministro sardo gli aveva proposto di condurlo dal Metastasio, quando un giorno nei giardini imperiali di Schoenbrunn lo incontrò. Da lontano lo vide “fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria„ che più non volle saper di conoscerlo. “Non avrei consentito mai di contrarre nè amicizia nè familiarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità dispotica da me sì caldamente abborrita.„
Il Metastasio morì senza aver saputo di tale [191] incontro: se l'avesse saputo, l'Alfieri gli sarebbe sembrato un matto, un bel matto da legare. E del matto si diede, raccontando da vecchio l'orrore suo pel Metastasio, l'Alfieri: ma in quella mattia era l'entusiasmo che solo può risuscitare la vita e la coscienza d'un popolo.
Da un lato, dunque, l'alta società viennese. “Qui gli odii e gli amori (scriveva il Metastasio al Farinello nel '47) non tolgono mai il sonno: qui l'anima s'impaccia pochissimo degli affari del corpo: la sera siete il favorito, la mattina l'incognito. Le premure, le agitazioni, le sollecitudini, le picciole guerre, le frequenti paci, le gratitudini, le vendette, il parlar degli occhi, l'eloquenza del silenzio, insomma tutto ciò che può dar di piacevole o di tormentoso il commercio delicato delle anime, è paese non conosciuto, se non che come ridicolo ornamento de' romanzi. È cosa incredibile a qual segno arrivi l'indolenza di queste placidissime ninfe. Io dispererei di trovarvi una sola capace di trascurare un giuoco di piquet per la perdita o per la morte d'un carissimo [192] amante; ve ne troverei ben quante mai ne volessi di quelle che non interromperanno l'insipido lavoro de' lor nodetti fra gli eccessi dell'estro più misterioso. E voi temete per me? Tranquillatevi pure. Non si corre questo rischio.„ E in quella società che nella sua aristocratica superiorità al volgo degli uomini rinunziava alle passioni degli uomini, l'abate Metastasio cantò le passioni non vere degli eroi melodrammatici e di sè. Sottile analizzatore degli affetti si dilettava incidere, come Properzia de' Rossi fece della Passione di Cristo, tutta quanta la storia d'una passione sopra un nocciolo di pesca; ma erano affetti immaginarii. Perfino Nice, la Nice che gl'inspirò così leggiadre canzonette, visse soltanto nella mente del poeta, che si raccomandava agli amici non restassero ingannati dai teneri versi; non gli facessero il torto di crederlo innamorato, non esser egli capace di tali debolezze! Invece, se correvan chiacchiere di certe sue avventure con una ballerina, raccomandava le lasciassero correre “perchè alla fine, quando ci andiamo avvicinando ad una certa età non ci dispiacciono tanto queste imposture che accreditano il nostro vigor giovanile.„ Chiuso sempre in quei salotti di dame e di attrici, non desideroso d'altro che dell'agiato vivere, lontano dalla patria e da' parenti, il Metastasio fermò sè, la [193] sua vita, la lingua e l'arte sua, in una beata ed elegante placidità: non si curò di sapere, ignorò che facesse, che pensasse il popolo italiano: invecchiò supremo rappresentante d'un'età e d'una letteratura ormai trapassate.
Dall'altro lato, tutta l'Europa che segreta fermenta. E l'Alfieri vi si aggira irrequieto, smanioso; suggendo dalla natura viva, e dai libri vivi, e dagli uomini e dalle donne vive, gli elementi delle passioni che l'agitano diversamente finchè non ama la D'Albany, le lettere classiche, l'Italia futura. Diceva che, nato libero, avrebbe amato la patria su tutto; nato schiavo, nulla amava più che la sua donna: amò invece la sua donna e la patria, come nessuno de' nostri poeti dalla prima metà del Cinquecento aveva più saputo amarle:
Or duro, acerbo; ora pieghevol, mite:
Irato sempre; e non maligno mai:
La mente e il cor meco in perpetua lite.
Per ciò egli è un'anima moderna; e, pur nelle forme in che la costrinse quasi a dispetto, l'arte sua, nell'intendimento e ne' concetti, è tutta moderna. Perchè gettò via lo Shakespeare, subito che si accorse che gli andava troppo a sangue? Mala paura lo colse d'essere indotto a imitarlo, e non volle. Tardi tornò a lui, e tardi lo imitò; [194] quando le forze non erano più adeguate all'impresa. Perchè lo spirito suo non s'infuse piuttosto in liberi drammi all'inglese che nelle anguste tragedie alla francese? La potenza dell'Alfieri, se è lecito rimpiangere che chi tanto diede non abbia dato anche più, fu, a parer mio, anche maggiore dell'opera sua. Poeta più che artista: più artista che poeta, di contro a lui, il Metastasio.
Dall'uno all'altro, rammentata pure la tanta disparità delle indoli, e i casi diversi delle vite, non intenderebbe il passaggio chi non ripensasse cause più generali e profonde: la critica trionfatrice, le riforme civili ed estetiche che ne mossero, l'esaurimento del melodramma, la maturità della tragedia.
Al Metastasio, non si crederebbe!, fu fatto invito di collaborare all'Enciclopedia, proprio a quella del Diderot, di cui l'ultimo volume uscì nel 1772. Avrebbe potuto mandarle, come non disformi dagli intendimenti dell'impresa, certe Osservazioni sul teatro greco dove, prendendo a una a una in esame le tragedie d'Eschilo, Sofocle, Euripide, e le commedie d'Aristofane, le giudicò tutte secondo i gusti e le idee del Settecento, nè risparmiò sali mordaci a quella “aurea semplicità greca„ che mal pareva anche a lui sciocchezza. Tanto aveva potuto il secolo perfino sullo scolaro di Gianvincenzo Gravina, sul Trapassi [195] che il Gravina aveva, per amor de' Greci, metastasiato. Dimostrato falso dal Galilei il principio dell'autorità nelle scienze, rimesso in onore da lui il pensiero vivo, la ragione abusava ormai delle forze sue, credendo poter costituire sè medesima giudice di tutto, del presente, del passato, dell'avvenire, non secondo le necessità della storia, ma secondo leggi ch'ella medesima si foggiava idealmente. E perchè ella era quale i tempi recavano che fosse, diversa da quale in altri tempi era stata, derideva nel passato tutto quello che non l'appagava più, voleva ridurre nel presente ogni cosa a suo modo, studiava di preparar l'avvenire, su norme teoriche, tale da imporgli poi come Faust al minuto sfuggente: “Férmati, tu se' bello!„
Non prevedendo bene gli effetti, a mezzo il secolo scorso lavoravano tutti, l'aristocrazia e l'alto clero non meno de' borghesi, a tale opera di revisione, di riforma, di preparazione. Onde la critica sagace delle autorità mal consacrate, e insieme l'irreverenza contro i grandi de' tempi che furono, Omero, Dante, Shakespeare; onde utili mutazioni di leggi e di costumanze, e insieme abbozzi utopistici di legislazioni e di costituzioni per la piena, universale, sempiterna felicità del genere umano. Il male era pertanto misto al bene in sì fatto fervore di pensieri e di coscienze; [196] ma io non sono di quelli che affermano essere stato il male più assai che il bene. Concordano tutti che le riforme, delle quali si giovò allora e pe' corpi e per le anime tanta parte d'Europa, furon giuste e proficue. Ma que' sogni per l'avvenire non apparecchiarono di là dagli orrori della Rivoluzione, altre riforme, giuste e proficue del pari? Così lento è il Bene nel suo secolare viaggio verso la meta cui gli è lecito avvicinarsi sempre più, sempre più, ma non raggiungerla mai, che ad affrettarlo tanto giova la Fantasia quanto forse la stessa Ragione. Troppo cauta è questa nel guidarlo. La Fantasia, ignorante degli ostacoli, fa cuore al Bene e gli dà così forze novelle per proseguire ancora nell'arduo, nell'infinito cammino.
Ed ebbe alcun che di utile, sebbene ridicola spesso, e turpe qualche volta, la irreverenza verso il passato, il disprezzo della storia: perchè soltanto per quell'eccesso si compensò l'eccesso opposto, della cieca devozione, della superstizione pedantesca, onde in nome de' morti si vituperavano i vivi. Non loderemo davvero nè il Cesarotti contaminatore d'Omero, nè il Bettinelli spunzecchiatore di Dante, nè il Voltaire calunniatore dello Shakespeare; ma se de' grandi non fu inteso il valore, che la storia meglio studiata ci mostra oggi intiero, ebbe del buono quell'affermazione [197] dover l'arte viva d'ogni età rispondere alla coscienza dell'età propria, sia pure prevenendola d'alquanto; nè ricalco sull'antico nè moda audace e rapidamente caduca; sì espressione estetica della civiltà sociale e della coltura intellettuale onde è prodotta.
Tra il Metastasio e l'Alfieri passò dunque di mezzo quasi una gran folata di vento, che spazzò via molta polvere e molti germi sparpagliò da per tutto; una gran folata di vento, come d'improvviso ne dà l'estate, ad annunziare un temporale che avanza. Verranno la pioggia e la grandine e i fulmini e i tuoni: ma intanto l'afa è cessata, e si respira meglio.
Giuseppe Baretti e Giuseppe Parini attestano come fu rapido quel trapasso, e come efficace.
Nato a Torino nel 1719, il Baretti è, per qualche rispetto, un Alfieri in piccolo: anche lui, irrequieto; anche lui, scabro e impetuoso; anche lui, veridico sempre; anche lui, innamorato dell'Italia. Viaggia molto anche lui, e trova in Inghilterra la giustizia e la libertà negategli in [198] patria. Se da giovane aveva tradotto il più robusto de' tragici francesi, il Corneille, sente poi la potenza dello Shakespeare, e ne prende a viso aperto le difese contro il Voltaire. Frusta a sangue gli Arcadi: è uomo, sdegna gli eunuchi, vuole che gl'Italiani tutti sien uomini. Per ciò non più cortigianerie, non più ciance:
Son franco nel parlare,
La verità la dico molto forte:
Pensa come starei in una Corte!
La vuol far finita con le raccolte di rime in nascita, in vestizione, in morte, dove l'argomento suggerisce subito agli inetti, per lunga consuetudine e tradizione, le immaginette e le cadenze:
Muore un papa, e gli occhi molli
Per lo pianto ha già la Fede;
Anglia ride perchè vede
Di lui privi i Sette Colli.
Sen fa un altro: e l'irta chioma
Di bei fior si cinge il Tebro,
E di gioia pazzo ed ebro
Lo rimira tutta Roma....
Nasce a Praga un marchesino,
E più l'Asia alzar non osa
Gli occhi, e trista e sospirosa
Già bestemmia il suo destino.
E sì pien di tema ha il petto
Solimano un dì sì audace,
Che a colei che più gli piace
Più non gitta il fazzoletto....
[199]
Ben altrimenti gli sembrava che fosse da cantare. Ma l'arte italiana non era per lui l'arte tutta; e il Baretti ebbe l'occhio ai grandi d'ogni luogo, d'ogni tempo. Vi piace la bellezza greca? ammiratela: la francese? ammiratela. Se non che, Grecia e Francia son due terre sole; altre terre ha il mondo, e gli uomini vi son di così maschia barba come i Greci e i Francesi: il Metastasio è d'italiana bellezza, e il De Vega e il Calderon han bellezze spagnole; lo Shakespeare ha le inglesi. E chi sa che al Cairo, ad Hispahan, a Pechino, non sieno bellezze d'arte ignote a noi? Vediamo, sentiamo almeno quelle de' vicini, quanto più si può. Basterebbe questa pagina a far del Baretti un critico, pe' tempi suoi, meraviglioso. Sia pure che lo avessero preceduto il Gravina, il Conti, il Martelli, egli fu il primo critico delle lettere nostre moderne, e rimane insigne anche oggi per molte, se non per tutte, delle sue ammonizioni.
E a lui l'onore di volgere il Piemonte restío verso l'italianità nell'arte; a lui l'onore di aver voluto un'arte italiana, degna della Italia nuova. Piemontese, sì; da lagnarsi che, come si dice Guercino da Cento, Antonio da Correggio, Leonardo Aretino, Castruccio da Lucca, neppure un piemontese fosse detto da Torino o da Asti (provvide, di lì a non molto, l'Alfieri); ma italiano [200] anche più. Odiava i Gesuiti, per ragioni molte; principalissima questa, che insegnavano con metodo sì sciocco da far costare ai ragazzi sei o sette anni il solo apprendere la grammatica latina! Lamento onde si conferma la modernità di quella mente. Li odiava, ma quando Clemente XIV li soppresse, egli se ne adirò: “Il Papa è un principe italiano; e che un principe italiano sia violentato a far a modo delle Potenze oltremontane è un boccone che non lo potrò mai digerire. Se la Francia e la Spagna non dipendono da noi, perchè abbiam noi a dipendere da esse? che diritto hanno mai di farci fare a modo loro?„ Italiano, voleva che la lingua comune a tutta la penisola fosse detta, quale è nel fatto, toscana no, italiana; e italiano voleva lo stile, e si avrà solo, diceva, se si segua la natura, esprimendosi con schiettezza e semplicità. Ma stile buono non può essere dove non siano pensieri: l'intrinseco è quello che conta. Conviene smettere il vanto del primato, e imparare da chi sa più di noi: dire “noi fummo!„ non giova, quando gli altri rispondono “e noi siamo!„
Educate, ammoniva, educate con diligenza, con amore; fate corpi vigorosi, animi vigorosi, senza tante smorfie e dolcezze e fisime. “Quel tuo point d'honneur (scrisse a un fratello, parlandogli d'un nipote), che già scorgi germogliare [201] in esso, io non so cosa sia. È un termine francese che non so bene come sia definito dai signori Galli. Il mio point d'honneur consiste nel distinguermi dal volgo a forza di superiore notizia di cose, e a farmi giustamente reputare un uomo incapace di vizio per quanto porta la fragilità umana: consiste nel seguire tutto quello che credo mio o altrui bene, ed evitare tutto quello che credo mio o altrui male; consiste nel mostrar prudenza scompagnata da viltà, e fortezza d'animo disgiunta da un orgoglio mal inteso.... Giovanni mi fa ridere con quella sua promessa di rompere la testa ai figli suoi, se riusciranno ignoranti. Quando i figli riescono tali, è la testa del padre che anderebbe rotta, almeno novantanove volte su cento.„
Il Baretti, caldo encomiatore del Giorno, porge anche qui la mano al Parini educatore. Pensionato dal re d'Inghilterra, morì a Londra nell'89.
Il Parini è tal figura che richiederebbe un quadro a sè; non mi proverò nemmeno a disegnarlo. Egli è un plebeo che, più dignitosamente del Metastasio, si frammette all'aristocrazia; non la sfrutta, la studia, la rappresenta, la flagella; è un prete cristiano che della critica degli Enciclopedisti accetta quanto concorda col Vangelo; è un galantuomo che anche dell'arte si vale a far del bene; è un grande artista che, facendo [202] del bene, riesce a fare capolavori. Il sacerdote lombardo, messo di contro all'abate romano, potrebbe dirgli in faccia:
Me non nato a percuotere
Le dure illustri porte,
Nudo accorrà, ma libero,
Il regno della Morte.
Il pedagogo nelle case de' nobili, che ha offerto al giovinetto Imbonati l'ode sull'Educazione, potrebbe, sorridendo sarcastico, canticchiare al poeta cesareo:
Vero forse non è, ma un giorno, è fama
Che fûr gli uomini eguali, e ignoti nomi
Fûr Plebe e Nobiltade!
Onde i disdegni de' nobili che a lui Parini diedero perfino della canaglia letterata: ma si disdissero poi, quando nel Municipio di Milano conculcata da' Francesi lo videro talora insorgere pel buon dritto, e tal'altra, non valendo a rimediare, piangere.
Come il Baretti aveva salutato il Parini, così il Parini salutò Vittorio Alfieri sorgente. Essi due principalmente apprestarono il dono che l'aristocrazia piemontese ne faceva all'Italia; primo dono de' molti nobilissimi che le fe' poi e d'intelletti e di spade. Il Baretti aveva con la critica [203] sua aiutato a sgombrar via l'Arcadia e a trarre il Piemonte nella coltura italiana; il Parini aveva educata l'arte italiana a strumento di civiltà e di redenzione morale.
Non resta se non vedere brevemente perché l'arte civile del Parini divenendo arte politica con l'Alfieri tenne il modulo della tragedia quale l'avevano fermato i Francesi.
Quando l'Alfieri cominciò a tentare le scene, il melodramma si era aperto oltre la massima fioritura, e, come accade anche ne' generi letterarii, decadeva. “L'opera è una bella cosa (aveva scritto il Voltaire al Paradisi): ella è figlia della tragedia; ma la figlia ha svenata la madre.„ E veramente, per lo Zeno e pel Metastasio, già lo spettacolo musicato del Seicento aveva cedute le scene a drammi di ordinata e simmetrica compagine, di eletta verseggiatura, dove la musica e la parola e la pittura e la danza concordi gareggiavano a un unico intento estetico. Ma presto il modello di sì fatta fusione si era, da prepotente, imposto al musicista, ai cantanti, ai ballerini, e, più che agli altri tutti, al poeta. Tre atti, ne' quali si svolgesse un'azione di lieto [204] fine; ogni scena doveva terminare in un'aria, detta sempre da un personaggio diverso, e sempre diversa d'intonazione sì che le liete si alternassero con le meste; sulla fine del primo e del secondo atto, le grandi arie d'impegno; nel secondo e terzo, un recitativo romoroso e un duetto o terzetto tra eroi ed eroine. Eppure il Metastasio, seguace sempre dello Zeno, ma seguace incomparabilmente più elegante, facile, corretto, aveva fatto, anche in quelle strettoie, miracoli di equilibrio, di virtuosità, d'arte, e perchè no? di poesia! Quasi maggiore di sè, a forza di sentimentalità fantastica, si era talvolta levato fino a scene d'un alto sentimento eroico, come nel dialogo tra Temistocle e Serse, e nell'addio di Regolo ai Romani. Nulla più, nell'antico melodramma, restava da fare dopo lui: conveniva ora, finchè non venisse il romanticismo innovatore, che si movesse innanzi e si facesse perfetto il melodramma giocoso.
La tragedia, invece, la figlia svenata dalla madre, aspettava intanto chi la rinsanguasse. Nella forma neoclassica de' Francesi l'aveva tradotta fra noi Pier Jacopo Martelli anche nel metro; ai Greci l'aveva indotta Scipione Maffei, consacrandole l'endecasillabo sciolto. Fece tragedie romane, con quel tantino d'anima shakesperiana che era assimilabile allora traverso gli [205] imitatori, Antonio Conti. Romani e Giudei rappresentò nell'orrendo assedio di Gerusalemme, pel suo Giovanni di Giscala, tragedia forte, Alfonso Varano. Quindi, i tragici Gesuiti pe' teatrini de' collegi loro, e i tragici che direi officiali ne' concorsi pubblici di Parma, avevano consolidato lo stampo della tragedia; sì che a romperlo occorreva ormai braccio di ferro. Tale la natura lo diede all'Alfieri; ma troppo tardi ei si pose a studiare. L'ignoranza sua, l'ignoranza di quando cominciò a scrivere tragedie, lo costrinse subito a quel tipo che solo conosceva pei teatri francesi e nostri; l'amore pe' classici glielo fe' poi rispettare. Lo sforzò e piegò, ma non volle infrangerlo.... e gettò da parte lo Shakespeare. Per l'arte fu un danno; per gli effetti immediati sul pubblico, forse no: delle novità il pubblico avrebbe diffidato; la forma consueta gli lasciava invece piena agevolezza di succhiarne gli spiriti nuovi che vi erano infusi. Fin dalla prima Cleopatra, che è del '74, l'Alfieri imprecava ai tiranni:
Tu se' la prima fra li re superbi
Che pieghi alla ragion l'altera fronte,
Alla ragione, ai vostri pari ignota,
O non ben dalla forza ancor distinta.
La tragedia, ch'era stata fin a lui un sollazzo aristocratico, divenne, per lui aristocratico, educazione [206] del popolo a liberi sensi. Lo dissero duro, oscuro, stentato; ma riusciva a far pensare, nè altro egli voleva.
“Son duro, lo so, son duro, ma parlo a gente che ha l'anima così molle e flaccida che è cosa da stupirne.... Tutti imparano il Metastasio a mente, e se ne foderano le orecchie, il cuore, gli occhi; gli eroi li vogliono vedere, ma castrati; il tragico lo vogliono, ma impotente.„ A questo modo, nel suo aspro piemontese. Sono io di ferro, chiedeva, o gl'Italiani son di melma? E più amaramente nella palinodia sè riconosceva di ferro dolce, gl'Italiani di melma rappresa. Torino, che intitolò del suo nome una strada nel 1797, e lo tolse via nel 1815, ve lo restituì quando i tempi furon maturi, quando sentì i fati novelli, che la traevano ad essere guida di tutta l'Italia. Oggi l'Italia tutta sento quanto debba a quel grande.
Grande; e sebbene l'arte sua sia meno spontanea, meno elegante, meno ingegnosa anche, se si vuole, di quella del Metastasio, assai più grande del Metastasio. Perchè l'anima del conte astigiano fu assai più grande di quella dell'abate romano; e le opere dell'arte, come gli organismi tutti, non vivono tanto per la loro esterna bellezza quanto per la potenza della vita che le empie di sè; la potenza della vita che, correndovi per entro a onde piene, le agita e muove. Che [207] più, se l'opera d'arte, non solo viva per sè, ma si faccia suscitatrice di bene, e infonda altrui l'anima sua generosa, e imponga agli inerti: Surge et ambula?
Tale fu, o signori, tanto ottenne, la tragedia dell'Alfieri; opera grande, perchè fu opera d'una grande coscienza.
[209]
CONFERENZA
DI
Ferdinando Martini
[211]
Del secolo nel quale visse il Goldoni parecchi hanno discorso qui e troppo meglio che io non saprei; i propri casi egli raccontò nelle Memorie che non possono compendiarsi, senza toglier loro quanto hanno di arguta gaiezza e di bonaria semplicità; a esaminare particolarmente l'opera sua o, peggio, a toccare, soltanto a toccare, argomenti de' quali alcuni non abbastanza, altri non furono fino ad oggi per nulla studiati, la breve ora di una conferenza non basterebbe: a ricercare, per esempio, le fonti popolari o letterarie di qualche sua commedia: a esaminare l'opera de' numerosi e pedissequi imitatori ch'egli ebbe in Francia verso la fine del secolo scorso,[1] [212] quando appunto sulle nostre scene non rimaneva più se non l'eco, di rado destata, de' suoi lontani trionfi: e quei Medebac ch'egli aveva già nutriti col proprio lavoro, illuminati co' riflessi della propria gloria, ora, pezzenti impersuasi o dimentichi, in Pisa dove il Goldoni parlò la prima volta col Darbes; in Livorno ove col Medebac sottoscrisse il primo contratto, riaprivano il teatro agli sconci personaggi del vecchio repertorio, alle Gertrudi martiri, ai Re d'Aragona, agli Eroi di Belgrado.
Se questo avesse ad essere il quadro, converrebbe, e di molto, allargare la cornice: io me ne starò dunque a raffigurare, se sia possibile, la immagine intellettuale e morale del Goldoni che si rispecchia in tutta l'opera sua; a ricercare frettolosamente i pregi intrinseci di quest'opera, le ragioni per le quali essa è giunta sino a noi, per le quali essa dura fresca, rigogliosa, immortale.
[213]
La primavera del 1721 un barcone veleggiava fra Rimini e Chioggia. Dentro, “dodici fra attori ed attrici, un suggeritore, un macchinista, un guardaroba, otto servitori, quattro cameriere, due balie, ragazzi d'ogni età, cani, gatti, scimmie, pappagalli, piccioni, persino un agnello: pareva Parca di Noè.„[2] Giuochi, canti, suoni e fra tutti i suoni prediletto quello d'una campanella che chiamava frequente a refettorio i giovanili appetiti insaziabili. Fra quell'allegra baraonda un ragazzo di quattordici anni, scappato convalescente, col solo bagaglio di due camice e un berretto da notte, alle lezioni di filosofia di un frate illustre e noioso. A Chioggia, dove la madre dimora, lo aspettano forse i rimproveri e le sgridate di lei. Non ci pensiamo. Ci sarà tempo a pensarci, quando la servetta avrà finito di cantare, quando l'amorosa avrà smesso di far ridere, gemendo sulla morte immatura del gatto suo trastullo e delizia, precipitato dall'albero maestro nei gorghi adriatici. E poi.... e poi non ci saranno nè rimproveri, nè sgridate. Alla madre, prima, si presenterà il capo-comico.
[214]
— Vengo da Rimini e le porto notizie del suo figliuolo.
— Oh! grazie, grazie. E come sta?
— Di salute, benone.
— Non è contento?
— Così così.... Soffre.
— Oh! poverino! perchè?
— Perchè è lontano da sua madre.
— Oh! caro!
— Eh! io gli avevo proposto di condurlo con me.
— E perchè non lo ha condotto?
— Ma.... e lei che cos'avrebbe detto?
— Che aveva fatto benissimo.
— Ma e gli studi?
— Gli studi.... capisco.... ma non poteva tornare a Rimini? E non ci son maestri dappertutto?
— Sicchè lei lo rivedrebbe volentieri?
— Eh! si figuri!
— E allora.... eccolo.
La porta s'apre, il ragazzo entra, s'inginocchia. Piange la mamma, piange il figliuolo, lacrime alternate di abbracci, di sorrisi, di baci. Arriva una zia, altri pianti, altri baci, altri sorrisi, altri abbracci. Che giova a quattordici anni prevedere e paventare guai che forse non accadranno? Tutto va bene quanto finisce bene.
Nel 1787 a Parigi un vecchio più che ottantenne [215] e già celebre stava scrivendo l'ultimo capitolo delle proprie memorie. Da quand'egli si accingeva a ordinarle ed a compierle, eventi gravissimi s'erano succeduti, lui spettatore. Fallito per la caduta del Turgot il tentativo di mutare la costituzione amministrativa della Francia, pur serbando intatto il suo organamento politico; inappagato, per la caduta del Necker, il più modesto desiderio di un assetto della finanza, i ministri cadevano l'un dopo l'altro, l'uno sull'altro: il Jouy de Fleury sul D'Ormesson, il D'Ormesson sul Calonne. La miseria, ottenuto qualche sollievo dai portentosi raccolti dell'ottantacinque e e dell'ottantasei, si faceva ora più aspra: e le plebi prima accasciate in lamentose rassegnazioni, si drizzavano col pallore delle collere risolute, aiutate dai parlamenti che si negavano ad approvare i nuovi balzelli. Quel di Besançon portava a Versailles insieme co' propri registri un pezzo di pane di avena, documento dell'inopia a cui era ridotto il popolo delle campagne. La monarchia spendereccia tornava agli errori d'un tempo; chiuso da una parte l'adito agli zeffiri delle riforme, mugghiava dall'altra il libeccio della sedizione. Il dramma rivoluzionario stava oramai per incominciare: il Calonne, convocando in quell'anno l'assemblea de' notabili, non vi aggiunse che un prologo breve.
[216]
Nessuno s'illudeva più oramai; nè i ministri giubilati di Luigi XV come il Maupeou, nè i nuovi cortigiani di Maria Antonietta come il Besenval, nè gli apostoli della rivoluzione come il Mirabeau, il quale scriveva da Berlino: i notabili son la vanguardia dell'Assemblea nazionale. L'ilare vecchio invece intitolando al Re la propria autobiografia: “in mezzo ai notabili, diceva, e in faccia all'universo, Vostra Maestà ha manifestato propositi che guarentiscono il bene dello Stato e il sollievo del popolo. Oh! quanti salutari provvedimenti! Oh! quanti presagi di felice avvenire!„
E diceva così, non perchè adulatore d'altrui ma perchè lusingator di sè stesso: non corto di vista, volontariamente bendato. Che giova a ottanta anni prevedere e paventare sciagure che forse accadranno? A fasciarsi la testa c'è sempre tempo, quand'uno se la è rotta davvero.
Tale il Goldoni a quattordici anni, tale ad ottanta. In lui una intima, continua letizia, una naturale proclività, aiutata dalla educazione e dall'indole de' suoi di famiglia, a scorgere della vita gli aspetti ridenti soltanto; ad aspettarsi il bene, e a sopportare il male, quando giungesse, con pacata filosofia.
Ancor giovinotto, bisognoso di pane e perciò [217] di lavoro, s'accomoda con insperata fortuna, segretario del Residente di Venezia in Milano: un bel giorno per certa scappata costui, credendola peggiore, lo redarguisce aspro; poi ricredutosi e dolente dell'aver trasmodato, lo richiama, si scusa. Niente. Non volevo, dice il Goldoni, aver più di questi disturbi. Pianta l'impiego, e parte per Modena. A Parma s'impiglia in un movimento degli eserciti tedesco e francese; vede la battaglia assai da vicino, e il giorno dopo le migliaia di cadaveri rimasti sul campo. “Dappertutto, scrive, gambe, braccia, crani, sangue. Che eccidio!„ Orribili cose: ma che ci poteva egli fare? — E per passare il tempo legge il suo Belisario a un abate. Le strade rifatte libere, noleggia un calesse e parte con l'abate per Brescia: a un tratto, quattro malfattori mascherati assalgono il calesse, intimano ai viaggiatori che scendano, a lui tolgono la borsa, l'oriolo, la tabacchiera. Il calesse fugge al galoppo, il compagno si smarrisce, e lui.... Lasciamo che racconti da sè.
“Trovai un viale di alberi e mi riposai tranquillamente presso un ruscello; col concavo della mano ne attinsi un po' d'acqua che mi parve deliziosa.... Più innanzi sulla via, alcuni contadini mi offrirono i resti della loro merenda, che nonostante il guaio toccatomi, mangiai con eccellente appetito. Il capo della famiglia mi avvertì [218] che in casa loro non c'era da offrirmi per letto che un po' di fieno: meglio per me andare a Casalpusterlengo dove il curato, uomo garbatissimo, si sarebbe fatto un piacere di darmi ospitalità. Tutti gli altri approvarono: un ragazzo ebbe la compiacenza di farmi strada; ed io lo seguii benedicendo il cielo che se tollera da una parte i malvagi, anima dall'altra i cuori sensibili e virtuosi.„[3]
O io m'inganno, o per questi e altri aneddoti ch'ei racconta a diecine, ma non importa io ripeta, spicca l'indole sua; e tale l'indole dell'uomo, tale l'opera dell'artista: e dico artista, sebbene vi sia chi non voglia adoperato questo nome in proposito del Goldoni; ma di ciò più tardi. Egli non sfiorò, fu scritto di lui, se non la superfice della vita: ed è giusto; di qui, le sue commedie stupende ma tenui, alle quali non è da chiedere una troppo acuta analisi dei sentimenti, nè una profonda occhiata dentro alle latebre del cuore umano. Di qui, i suoi personaggi viziosi talora [219] non malvagi mai, e l'indulgenza ond'egli pare mirarli e cuoprirli. Quel Brighella rubicchia (non dico ruba, perchè la parola troppo cruda spiacerebbe al Goldoni) rubicchia spesso: quella Colombina accetta e qualche volta chiede la mancia per portare le ambasciate a Rosaura; il Goldoni ha l'aria guardandoli di susurrare tra sè e sè: debolezze umane e solo Dio senza difetti. Quell'istesso Don Marzio che comincia col calunniare e finisce col far la spia non può dirsi malvagio; è spensieratamente linguacciuto, è, sì, proclive, all'opposto del Goldoni, a vedere il male dappertutto, per viziata consuetudine dello spirito; ma non sparla, non calunnia, non denunzia per desiderio di nuocere; fa il male ma senza proporselo: tanto è vero che dei molti ravvedimenti finali, con cui il Goldoni si sbriga spesso dello scioglimento, il suo è de' meno inverosimili; tanto è vero che quando il Voltaire, il quale scrivendo La Scozzese ricordò indubbiamente la Bottega del Caffè, come avvertiva già il Lessing,[4] se volle sfogare il livore antico contro il giornalista dell'Année littéraire e far sì che non reggesse ad ascoltare tutta intera la commedia in platea, dovè per mutare Don Marzio in Frélon dare agli atti di lui la maligna ponderazione dell'animo reo.
[220]
Sgorga finalmente dalla gioconda natura del Goldoni, la perenne giocondità di cui sono impregnate le sue commedie; anche le più deboli, quelle la cui tela è più e troppo sottile, o nelle quali i caratteri sono appena sbozzati; anche le poche che il pubblico volle, nate appena, sepolte. Anche l'Amante militare, il Poeta fanatico, la stessa Erede fortunata han scene rallegrate da quella spontanea comicità, con la quale altre più felici commedie di lui, cencinquant'anni dopo che furono scritte, vincono la ostentata musoneria di questa fine di secolo.
E questo è uno de' pregi precipui di gran parte del teatro goldoniano, di quella, cioè, che ancor sopravvive: in questo il Goldoni sovrasta a quanti furono autori comici da Aristofane in poi; nessuno dalla scena fece più ridere, e garbatamente ridere, con spedienti così semplici ed usuali.
Vi fa ridere, sicuro, anche il Regnard che ha i pregi suoi ma che i Francesi adulano troppo, salutandolo superiore a quanti furono al mondo scrittori di commedie, dopo il Molière: il Voltaire, anzi, dice non esser degno di ammirare il Molière [221] chi non si piace in compagnia del Regnard.[5] Senza osservare qui che la comicità ha anch'essa le sue gradazioni e maggior pregio quando proviene da' caratteri che quando nasce dalla situazione, come vi fa egli ridere il Regnard? Prendo la scena famosa del Légataire universel una tra le sue più lodate commedie. Il vecchio e infermiccio Geronte accoglie in casa sua di mattina la giovinetta Isabella, ch'egli vuol sposare e la madre di lei; alla sposa futura discorre così:
Oui madame c'est vous (pour le moins je m'en flatte)
Qui guérirez mes maux mieux qu'un autre Hippocrate,
Vous êtes pour mon cœur come un julep futur,
Qui doit le nettoyer de ce qu'il a d'impur:
Mon hymen avec vous est un sûr émétique
Et je vous prends enfin pur mon dernier topique.
E così buffonescamente continua per un bel pezzo, finchè.... Io non so neanche di che parole servirmi.... Proviamoci. Aspettando il giulebbe d'Isabella e l'emetico d'Imene, Geronte ha dovuto, intanto, ingurgitare altri rimedi. Ora vorrebbe rimanere vicino alla fidanzata.... ma.... No, no, lasciamolo andare e non parliamo più nè del Regnard nè di lui.
E vi fan ridere anche i Francesi modernissimi del Palais Royal e delle Varietés; ma, al solito, come? Introducendo sulla scena i personaggi più [222] strambi, accatastando accidenti sopra accidenti, equivoci sopra equivoci, episodi sopra episodi, l'uno più inverosimile dell'altro; inzeppando il dialogo di facezie argute qualche volta, scempiate non di rado, e di quei doppi sensi che sono, secondo il Vauvenargues, l'esprit de ceux qui n'en ont pas. Nulla di ciò nel Goldoni che vi mostra invece il naturale contegno di personaggi umani, che rappresenta fatti non pur verosimili ma quotidiani, che di rado s'industria a smovere il riso con arguzie artificiosamente incastrate nel dialogo.
Per la fecondità de' motivi comici, ripeto, il Goldoni è grandissimo: perchè a far piangere dalla scena anche scrittori mediocri talora riescono; certi fatti pietosi che narrati, per esempio, da un giornale non commovono nessuno, portati sul palco scenico provocano nella platea e ne' palchi lacrime schiette e tossi dissimulatrici. Gente che ha letto cento volte a occhi asciutti la storia della rivoluzione, piange al veder sulla scena il Santerre rapire il Delfino a Maria Antonietta. Di donne, di bambini lasciati in squallido abbandono da' mariti e da' padri incalliti nella crapula, si [223] sente parlare ogni giorno; ma nessuno, pur commiserandoli, tira fuori il fazzoletto di tasca. Ma chi sa dirmi quante migliaia di fazzoletti si bagnarono per i simili casi di Maria Giovanna, la protagonista di un dramma, quanto all'arte mediocrissimo, del Dennery?
Altro è quando si tratta di comico: il perchè si pianga s'intende; non sempre invece il perchè si rida. Che cos'è questo riso?, domandava Cicerone a sè stesso. In qual modo si provoca? Qual'è la natura sua? Perchè scoppia a un tratto senza che a noi sia possibile il trattenerlo? E conchiudeva così, come si può conchiudere anche oggi dopo che tanti — e ieri stesso il Melinand nella Revue des deux mondes, — si affaticarono a rispondergli: “Io non mi vergogno di non lo sapere, nè lo sanno coloro che si arrogano di spiegarmelo: ne ipsi sciunt qui pollicentur.„[6]
Voi vi impietosite e a ragione dei casi di Giulietta e Romeo; vi intenerite per la narrazione o il ricordo dell'affetto loro e della tragica sorte. Or bene: se all'immaginazione vostra balenino un Romeo lungo, allampanato, con le braccia scendenti fino a' ginocchi, una Giulietta bassotta, pingue, pletorica, voi riderete. Perchè dunque si mutano nella mente vostra i lor connotati, [224] scema forse l'ardore di quell'affetto, e quella morte è men miserevole? E se vi muovono alle risa gli amanti fisicamente imperfetti, perchè vi fa fremere ma non ridere l'amore di Quasimodo, oscenamente deforme, per Esmeralda? Perchè vi fan ridere allo stesso modo Falstaff con le sue sozzure e Don Chisciotte con le sue idealità? Ma parliamo più particolarmente del teatro. Perchè fa ridere lo scemo, il Jocrisse, che è pure un essere manchevole, un disgraziato il cui mancamento nella vita reale ci parrebbe crudeltà prendere a dileggio? Perchè, mentre a nessuno è mai passato per il capo di incitare al riso esponendo sul teatro uno storpio od un monco, il sordo, con infermità peggiore, ha servito per secoli a spassar le platee? Carlo Collé pose sulla scena una donna incinta; egli racconta che quel personaggio, rappresentato da un uomo, provocò risa omeriche; quando da una donna, nausea invece e disgusto. Perchè? Perchè fa ridere il marito ingannato, quando, ben inteso, non vendica l'oltraggio? Perchè fa ridere Ludro quando froda con raggiri e con cabale i men scaltri di lui? E son fenomeni questi soltanto estetici: chi ride, sebben rida, è pronto a condannare il raggiratore e la donna infedele. E perchè, da che teatro è teatro, si ride del marito tradito dalla moglie, e della moglie tradita dal marito non s'è [225] mai riso ch'io sappia nè riderebbe, credo, nessuno? Misteri. Io penso che uno scrittore di commedie, se anche non de' primi, purchè ingegnoso ed esperto, possa talora sicuramente dire a sè stesso: con questa parlata mi farò batter le mani, a questo punto, se anche non ci saranno lacrime, commozione nel pubblico ci sarà: non credo invece che alcuno, il quale sdegni di dar nel grottesco, possa con pari sicurtà, e quando non si tratti di barzellette, promettersi: io qui farò ridere. Il Goldoni unico, non sgarra mai e ci riesce ogni volta che vuole.
Unico; in ciò lo stesso Molière è a lui inferiore e di molto. Già, tra il Molière e il Goldoni, diciamolo subito e in fretta, non c'è mai per nessuna ragione raffronto possibile, se non a certificare in che l'uno differisca dall'altro. Il Goldoni vede tutto roseo e il Molière tutto nero; ma anche a prescindere dalla diversa indole e dai troppo diversi casi della vita, il Molière è un pensatore profondo e il Goldoni non è; e chi per smania di perifrasi chiama il Goldoni il Molière italiano cade in un errore de' più solenni, come se dicesse [226] che il Racine è l'Alfieri francese. A dimostrare quale abisso per certe qualità della mente interceda fra loro basta un frammento delle Memorie.
Discorrendo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina il Goldoni scrive: “Tutti conoscono quel cattivo dramma spagnuolo che gl'Italiani intitolano Il Convitato di Pietra e i Francesi Le Festin de Pierre. A me ha sempre fatto orrore e non ho mai capito come una tale farsaccia potesse alla lunga reggersi sul teatro, e piacere a persone civili. I comici italiani erano di ciò maravigliati anche loro; ma o per burla o per ignoranza dicevano che l'autore del Convitato di Pietra s'era con un patto legato col diavolo affinchè questi glielo facesse applaudire. Non mi sarebbe mai venuto in mente di lavorare intorno a tale argomento; ma poichè il Molière e Tommaso Corneille lo trattarono, presi a regalare alla mia patria un dramma simile, per porre il diavolo in grado di mantenere la promessa con un po' più di decenza.„[7]
Il Don Giovanni del Molière in un mazzo con quello di Tommaso Corneille, e niente più. Il buon Goldoni è passato accanto alla più scespiariana delle commedie molieresche, a uno dei capolavori dello spirito umano e non se ne è neanche [227] accorto. Intento, diciamolo con parola d'oggi, in quel suo realismo, in quella minuta osservazione del vero ch'era già il suo metodo e fu poi la sua gloria, ciò che dalla leggenda era passato sulla scena di fantastico e d'extra-naturale gli parve così insulsa scempiaggine, da allogare quell'argomento fra i buoni, tutt'al più, per una commedia a soggetto. Giudicò co' criteri, diciam così, teatrali: e tenne perciò, ragionevolmente, inferiore il Don Giovanni al Misantropo ed al Tartuffo: non soltanto; forse anche non degno figliuolo di chi aveva messo al mondo il Tartuffo e il Misantropo. Lesse sbadatamente forse, come una qualunque battuta de' suoi comici, le parole che Sganarello profferisce nella prima scena: “Quale flagello un gran signore malvagio!„ parole a cui la commedia tutta è poi conferma e commento. Così egli non seppe addentrarsi nel pensiero onde è animata quella maravigliosa commedia, nè scorgere perciò quanto fosse di ardimento e di saggezza in quel pensiero medesimo; nè finalmente pregiare la profondità di una osservazione diversa dalla sua, in quanto era anche visione.
Dopo aver nel Tartuffo mostrata trionfante l'ipocrisia, ora nel Don Giovanni il Molière, com'altri disse, mostrava l'ateismo trionfante; l'una innanzi agli occhi della Francia a' suoi tempi, l'altro, natural conseguenza, spettacolo alla Francia [228] avvenire. Dopo il padre Tellier, il Reggente: fino a che negli alti ceti disonorato il bene, il male cinicamente ostentato, il popolo, che il Molière simboleggia nell'onesto mendico, piglierà il sopravvento, egli tuttavia custode della fede e della virtù.
E il Goldoni letta la commedia del Molière, per arricchire la patria di qualche cosa di simile, scrive, ahimè! il Don Giovanni Tenorio.
Ma sospirato questo “ahimè!„ manteniamo al Goldoni il suo posto: e ripetiamo che nella vis comica il Molière non lo eguaglia; anzi egli non è, se m'è lecita la frase, giocondamente comico mai: o vela di sorrisi la melanconia, o casca nel grottesco, come nel Pourceuagnac e nel Malade imaginaire.
E poichè parlo del Molière tocchiamo di un altro requisito che nel nostro è, secondo me, maggiore che in lui: la prontezza. Non dico già la prontezza nel concepire, pur nel Goldoni mirabile; gli basta un nonnulla, un aneddoto, una passeggiata, uno sguardo insomma intorno a sè, per comporre tutto quanto l'intreccio di una commedia; [229] e comporlo, badiamo, non di eventi straordinari, ma di fatti consueti: chè s'io non vo errato ci vuol molta più fantasia a immaginare il Ventaglio (stupenda, inimitabile commedia!) che un di que' drammoni miracolosi i quali portano sulla scena, per dirla con un improvvisatore fiorentino,
Tornei, voli, cariaggi,
Cinquantotto personaggi,
Trentasei divinità.
Non di questa prontezza intendo: chè si potrebbe obiettarmi dover essere nel Molière, come la fecondità, di tanto minore di quanto erano più alti e gravi i concepimenti di lui; intendo della prontezza nel distendere le fila da intrecciare poi, e — ciò che è meraviglioso ancor più — nell'impostare i caratteri. Il Molière quasi sempre, in sul principio, procede a passi stenti ed incerti: e basti citare, che è vecchia osservazione, i due primi atti del Tartuffo. Vedete invece il Goldoni: leggete il primo atto della Famiglia dell'antiquario e poi ditemi se protasi fu mai più sollecita, più svelta, più completa; e perchè qui le mie parole non servono, e il primo atto della Famiglia dell'antiquario è troppo lungo, pigliamo la prima brevissima scena della Locandiera, prova anche più valida, e consentitemi ch'io ve la rilegga:
[230]
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Il Marchese di Forlimpopoli e il Conte d'Albafiorita.
Mar. Fra voi e me vi è qualche differenza.
Conte. Sulla locanda tanto vale il vostro denaro quanto vale il mio.
Mar. Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
Conte. Per qual ragione?
Mar. Io sono il Marchese di Forlimpopoli.
Conte. E io sono il Conte di Albafiorita.
Mar. Sì, conte. Contea comprata.
Conte. Io ho comprata la Contea quando voi avete venduto il Marchesato.
Mar. Oh! basta: son chi sono: e mi si deve portar rispetto.
Conte. Chi ve lo perde il rispetto? Siete voi che parlando con troppa libertà....
Mar. Io sono in questa locanda, perchè amo la locandiera. Tutti lo sanno e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.
Conte. Oh! questa è bella. Voi mi vorreste impedire che io amassi Mirandolina? O perchè credete ch'io sia in Firenze? Perchè credete ch'io sia in questa locanda?
Mar. Bene, bene.... non ne farete niente.
Conte. Ah! io no e voi sì eh?
Mar. Io sì e voi no. Son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
Conte. Mirandolina ha bisogno di danari e non di protezione.
Mar. Danari? Eh.... non ne mancano.
Conte. Io spendo un zecchino il giorno, signor Marchese, e le fo continuamente regali.
[231]
Mar. Ed io quello che fo non lo dico.
Conte. Voi non lo dite, ma già si sa.
Mar. Non si sa tutto.
Conte. Sì, caro signor Marchese.... si sa.... I camerieri parlano. Tre paoletti al giorno.
Mar. A proposito di camerieri, vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio: mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
Conte. Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che le è morto il padre. Una giovane sola alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me se si marita le ho promesso trecento scudi.
Mar. Se si mariterà, io sono il suo protettore e farò io.... E so io quello che farò.
Conte. Venite qui finiamola, facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
Mar. Quel ch'io faccio lo faccio segretamente e non me ne vanto. Sono chi sono. Chi è di là?
Conte. (Spiantato e superbo!).
Con questa scena che non dura più di tre minuti il Goldoni porta di lancio il pubblico in medias res. I due gentiluomini sono innamorati della locandiera e se la contendono non a buon fine, perocchè loro non spiaccia ch'ella si mariti: anzi il matrimonio aiuteranno quegli spendendo e spandendo, questi, con signorile ma parsimoniosa alterezza, ricoverando i coniugi sotto le ali della sua protezione; e dietro a loro spunta quel Fabrizio che già s'immagina entri anch'egli in lizza a contendere, se non palesemente accetto, certo non disprezzato. Ancora una scena breve [232] altrettanto col cavaliere di Ripafratta, e il Goldoni avrà già steso le fila che poi aggomitolerà e scioglierà con disinvolta maestria.
E ciò, che è pur tanto, è ancor poco. In quella scena brevissima egli ha disegnato e colorito due figure, così vive e vere che non vi usciran più dalla mente, come non usciranno per un secolo dal teatro:
Il nobile guitto
Che senza un quattrino
Ostenta il diritto
D'andare al Casino
e l'arricchito che tuttavia acerbo alle alterigie blasoniche paga a furia di scudi la sodisfazione di altre albagie. — E poi vengano a dirci che il Goldoni non è un artista; se non è arte questa, io non so più arte che sia.
E tra figure e profili, il teatro goldoniano ne contiene più che centocinquanta. Spiego una mia parola: profili. In Italia si va generalmente alla lesta nel parlar di caratteri; il ciarlone, per esempio, un carattere, il pedante un altro carattere. Adagio. Il burbero benefico, Sior Todaro brontolon, La donna capricciosa, La putta onorata, [233] Il maldicente, Mirandolina, Il bugiardo, e via dicendo, io li veggo interi in piedi innanzi a me, conosco tutte le loro consuetudini morali e dovunque io li conduca, qualunque sia la condizione nella quale si trovano, indovino ciò che faranno e diranno. Ma il ciarlone, il pedante io non li veggo che da un lato; nè so di loro più di quanto essi stessi mi dicono. Così il ciarlone può essere un eccellente padre di famiglia e può essere un libertino: il pedante un galantuomo specchiatissimo e un furfante di tre cotte. Il loro difetto non è di quelli ne' quali tutta l'indole si foggia o che tutta foggiano l'indole d'un uomo. Il Goldoni li traccia maestrevolmente questi profili, ma essi non basterebbero soli a tener vive nè la sua fama nè le sue commedie.
Ben altra cosa i caratteri; alcuni de' quali rivelano nel Goldoni non soltanto l'osservatore felice ma l'artista paziente. Perchè s'è troppo detto e creduto che le commedie gli fluissero sotto la penna.... Sì, cominciò una volta con lo scrivere “atto primo scena prima„ senza sapere dove andrebbe a finire; ma fu una volta sola.... e fece l'Incognita. Sì, scrisse sedici commedie in un anno, fecondità portentosa: ma tra le sedici ci sono anche Il giuocatore, L'erede fortunata, L'adulatore, Il cavalier di buon gusto. Chi ha in pratica il suo teatro, a quel modo che s'avvede [234] della facilità sua nell'immaginare le favole, le quali nulla hanno mai di artificioso o di stentato, anche s'avvede della cura ch'ei pone nel tratteggiare i caratteri; ed è mirabile l'acutezza con cui egli scorge e tratteggia le gradazioni di una stessa passione, di un vizio medesimo: testimoni i Rusteghi, testimoni gli avari de' quali egli ha raffigurati parecchi e sempre con lineamenti diversi; mirabile l'acutezza con cui egli scuopre e palesa le affinità di due vizi e le sfumature onde sono e separati e congiunti, e i fatali pendii per i quali l'uno degrada nell'altro. Così, per non addurre che pochi fra i moltissimi esempi, l'adulazione diviene abito di menzogna, la maldicenza tocca da un lato lo spirito di contradizione, la calunnia dall'altro, l'avarizia diviene cupidigia e la cupidigia conduce all'usura ed al furto.
Ma io parlo di vizi; quante oneste figure di uomini, quante leggiadre figure di donna! Il Guerzoni scrisse che nessuna delle donne del Goldoni è artistica e tutte quante si posson distinguere in due categorie; le casareccie e le ghiribizzose col capo cioè agli spassi e a' pettegolezzi.[8] Anche lasciando stare la curiosa singolarità de' loro nomi, queste categorie non mi persuadono; in quale collocheremo Mirandolina che fa la ghiribizzosa [235] per divenir casareccia, in quale la Giannina del Curioso accidente che casareccia non è perchè scappa di casa, e ghiribizzosa non può essere perchè è innamorata. E in quale Zelinda? E in quale quella putta onorata, Bettina, che è de' più alti e forti caratteri femminili di tutti i tempi e di tutti i paesi?
Ma nè la comicità nè la umanità de' caratteri avrebbero bastato, io credo, a serbar sulla scena tante fra le commedie goldoniane (del Molière non se ne recitano più che due o tre) se non era il dialogo efficace, rapido, gaio, court, vif et précis secondo lo giudicarono in Francia sin da oltre un secolo.[9] Non parlo, s'intende, delle commedie in dialetto; delle quali poche oggi rimangono sul teatro e troppe meno di quelle che lo meriterebbero. Lasciate pur che il Baretti si sfoghi a chiamarlo barbaro; indaghi o ricordi egli a che ne fosse il dialogo comico italiano quando il Goldoni incominciò a scrivere e quali ei potesse averne buoni modelli sott'occhio. Le [236] commedie di Jacopo Nelli senese chi le conosceva? Pochi in Toscana, fuor di Toscana pochissimi; il Goldoni no, ma il Baretti neanche. La Mandragora, lo so: ma eran passati due secoli, mutate certe forme del dire, certi atteggiamenti alla nuova e più varia commedia non convenivano; ne' ghiacciati serbatoi di riboboli, custoditi da altri cinquecentisti, il Goldoni non frugò e fece bene: e sgonfiate da sè le vesciche del Cicognini sui cui volumi aveva palpitato da ragazzo, aspettò di fabbricarsi più tardi, e sempre da sè, lo strumento eccellente che gli servì così bene ogni volta che ne usò libero, non impastoiato cioè dalla rima o dal metro. Strumento il quale pare egli morendo spezzasse: chè dialogo comico, efficace, rapido, gaio come quello, non se n'è più scritto, ch'io sappia, in Italia. E forse una delle ragioni per le quali, dopo il Goldoni, l'Italia non ebbe e non ha teatro da rivaleggiare col francese è questa: che gl'italiani colti non son punto tra di loro in accordo su ciò che abbia ad essere il dialogo comico. S'è durato mezzo secolo a levare a cielo il dialogo del Nota freddo, artificiato, l'opposto insomma della spontaneità e della disinvoltura, intanto ch'era moda lamentare il Goldoni non avesse scritto un po' meglio; e i lamenti non cessano e alcuno rammaricava ieri che il Goldoni non possedesse la fiorentina spontaneità di Giovan [237] Battista Fagiuoli. A' tempi del Goldoni le citazioni de' libri non letti non dovevano essere in uso; gli avrebbero fornite nuove fonti di comicità; usano bensì oggi, e coloro che del dialogo del Fagiuoli lodano la spontaneità, le commedie di lui non le hanno lette di certo; di ciò non gli accuso: minor fatica il tirare l'alzaia, ma la citazione è un di più.
Spontaneo il dialogo del Fagiuoli sì, quando parlano in vernacolo i popolani: or ecco come parlano gli altri; e poco importa sapere di che si tratti:
“La bontà che per me avete vi fa così favellare; e godo in estremo che Leonora che in vostra casa supposi all'improvviso eternamente defunta, nella mia consolata e lieta sen viva, da mentito funerale sia passata a vero sposalizio e che quelle faci che non ardì di accendere che per finzione la morte, fedele e sincero le abbia accese Imeneo.„[10]
Qui, come ognun vede, non v'è di spontaneo altro che le metafore.
[238]
Conchiudiamo.
Nel comico impareggiato, fecondo come pochi, se pur è vero ciò che si narra del De Vega e del Calderon; de' più felici osservatori, de' più sagaci imitatori della natura, salutatelo con simpatia reverente il Goldoni e passate. Non gli chiedete la dipintura di affetti forti e profondi, non li provò nè seppe descrivere; fin gli onesti spasimi di Pamela lo turbano; quando la passione, rarissimamente, sbotta in alcuno de' suoi personaggi egli crede darle linguaggio adeguato, scontorcendo il periodo e mettendoci il verbo in fondo. Non gli chiedete che s'avventi contro al corrotto costume col flagello della satira: a tentare le fustigazioni pariniane nè l'animo suo fu inclinato, nè la cura del queto vivere gliele avrebbe, se mai, consentite. Tutti i personaggi della satira pariniana sfilano e più volte nelle sue commedie, ma indistinti, lievi come ombre. Non gli chiedete neanche la compiuta cronaca morale della sua Venezia: non vi trovereste tutto quanto ne videro il De Brosses, il Casanova, il Rousseau; se alle molte lodi che desiderò e [239] meritò, una vi piaccia aggiungerne ch'e' non curò meritare, dite ch'ei creò nel tempo della cipria e de' guardinfanti una commedia democratica, e ai miseri splendori delle ultime baldorie del patriziato contrappose sulla scena la vita lietamente povera de' navalestri ruvidi e de' pescatori, delle loro donne festose ma pudiche, modeste ma altere. Alla casa ov'ei nacque, là tra il ponte di Nomboli e il ponte di Donna Onesta, sull'angolo di via Cà Cent'anni (fatidico nome), se vi piaccia appendere ghirlande, inframmischiate al lauro le rose; e il simbolo della sua gloria si congiunga col simbolo della non mai turbata serenità dell'animo suo, onde parte di quella gloria gli venne.
Non corone di quercia. Questa smania innovatrice che ci travaglia e onde si sfigurano oggi le più limpide fisonomie, non oltre ci tenti a far del Goldoni un educatore morale o civile. Egli non sognò neppure le presunzioni didattiche della commedia; credè che all'arte bastasse il proporsi di ritrar la natura, come credè l'istesso Molière, non ostante le turpitudini del suo tempo gli strappassero dal labbro gli amari giudizî, e l'occhio suo divinatore scrutasse ne' decadimenti morali e politici dell'avvenire.
“Arcadia„ dicono. O beata colonia, dove il grande arcade Polisseno Flegeio siede tra le commosse [240] creature della sua fantasia. Là ancora Zelinda, più che centenaria oramai e tuttavia giovine della giovinezza perpetua degli Dei e de' capolavori, acuisce con affettuose malizie la gelosia di Lindoro: là ancora Lelio s'impiglia nelle proprie spiritose invenzioni: là il marchese di Forlimpopoli si conforta delle cresciute strettezze, pensando che un altro secolo crebbe la muffa agli orli degli aviti diplomi: là il Goldoni, fra quelle personificazioni delle immortali debolezze dello spirito umano, le contempla e sorride d'un sorriso immortale.
[241]
CONFERENZA
DI
Matilde Serao
[243]
Il nobile e appassionato eroe, la dolce e amorosa eroina teneramente conversano d'amore, Truffaldino e Brighella scambiano i soliti lazzi sul loro famoso appetito e sulla loro famosa poltronaggine, quando un tremuoto scuote la scena, tuona, lampeggia e innanzi agli occhi stupefatti della coppia sentimentale, innanzi alle due maschere popolari appare un negromante, o una fata, o un genio, o una statua che con tono fatidico pronuncia una sentenza crudele contro la felicità degli innamorati, sacrandoli a un imminente avvenire di lacrime e di disperazione. La radice di questa sentenza è in qualche antico delitto commesso dal padre o dal fratello dell'eroe e che costui deve amaramente scontare; è in [244] qualche misteriosa secolare pena che uno spirito superiore va espiando e per la cui fine è necessario il sacrificio e, talvolta, la morte dell'eroina; è in una contingenza bizzarra di fati avversi per cui, quasi senza ragione, i due fedeli debbono vedere ferocemente contrastato e forse ucciso il loro amore. Le anime dell'eroe e della eroina cercano ribellarsi subito al dolore, alla divisione, alla miseria: ma è una ribellione debole e breve: l'uomo, la donna, chinano il capo e si apprestano alla gran pruova, anzi alle grandi pruove, giacchè il destino, per bocca di una di queste statue, di queste maghe, di questi genii, chiede loro cose complicate, lunghe, terribili, che confinano con l'impossibile, che, spesso, sono impossibili. Chinano il capo: e le maschere, loro servi, loro confidenti, loro ministri, si abbandonano alle più meste facezie, alle burlette più funebri, seguendo anche essi la sorte atroce dell'eroe e dell'eroina.
E qui il meraviglioso, cominciato con l'apparizione sorprendente di quel cancelliere degli spiriti, lettore di stranissime sentenze, che è uno stregone o una fata, questo meraviglioso si esplica, ampiamente, turbando la mente e la esistenza dei personaggi gozziani. Oramai tutte le leggi comuni della natura sono sciolte: il tempo, lo spazio non esistono più: i tre mondi [245] si confondono: le belve parlano, l'acqua canta e suona, i morti leggono dei libri, le donne diventano uomini e gli uomini si mutano in istatue. Così, anche nel mondo morale degli affetti, tutto si sconvolge, gli amanti più folli vilipendono le amate, le mogli scacciano i mariti che adorano, le madri gittano nelle fornaci i figli. Tutto accade: tutto, cioè quello che è strano, ma anche quello che è impossibile, viaggi di migliaia di miglia in poche ore, risurrezione di morti, ringiovanimento di vegliardi, palazzi sorti in una notte e crollati in un minuto, battaglie combattute in un attimo e in meno di un attimo perdute o vinte. A traverso questi paesaggi stupefacenti, questi mondi disorganizzati e folli, questi prodigi impensati e inauditi, questi sentimenti escogitati e contradittorii, gli eroi e le eroine di Carlo Gozzi seguitano la loro terribile vita di tormenti, affrontando tutti gli ostacoli e sopportando tutte le pene, agonizzando di dolore o di stanchezza, invocando il cielo, imprecando al cielo, passando per tutti gli stadii più alti della disperazione: la loro esistenza non somiglia più a quella di nessuna creatura umana, ed essi vanno, vanno, dominati dal Fato, in lotta con esso, impari lotta con un potere così forte e così segreto.
Ma non è mica il Fato greco, quello che combatte [246] i principi persiani e le principesse chinesi di Carlo Gozzi: è in fondo un Fato molto mal ridotto. Giacchè le sue sentenzie, apparentemente atroci e inflessibili, contengono sempre una scappatoia, per cui questi valorosi e impetuosi signori, queste instancabili ed entusiaste donne possono sfuggire alla disgrazia estrema. Vi è sempre una speranza, nei rescritti dei maghi e delle streghe gozziane! Altrimenti la tragedia fiabesca si chiuderebbe alla terza o quarta scena e buona notte. Un piccolo lumicino brilla sempre in fondo alla foresta, come nella gentil fiaba puerile del Petit Poucet, come in tutte le istorie meravigliose. Questo fioco lume, vedete, è la tenue, quasi disperata speranza, diciamo così, che è alla fine di tutte le torture estraumane dei personaggi di Carlo Gozzi, è il filo intorno al quale si tesse tutta la trama della fiaba; e man mano, come l'intreccio si annoda e s'infoltisce e si distende, la poca speranza cresce, il picciolo lume si fa più vicino, più vicino, è un ricovero, è una casa, è la salvazione, l'uomo ha vinto tutte le pruove, la donna ha superato tutti gli ostacoli, i regni della natura rientrano nel loro ordine e l'amore uscito più terso e più compatto da quel crogiuolo incandescente, trionfa.
Voi, tutto questo lo sapete, non è vero? Lo sapete anche se non avete letto le fiabe del [247] drammaturgo veneziano; giacchè tutto il contenuto della sua opera è preso dalle tradizioni fiabesche di tutti i paesi, giacchè egli ha rivestito di scenario e di dialogo tutti i racconti che le balie, le vecchie zie, le nonne narrano ancora ai bimbi che non vogliono dormire. L'amore delle tre melarance e l'Augellin belverde, il Corvo e la Donna serpente, la Zobeide e il Re Cervo e infine quanto costituisce il teatro delle fiabe gozziane, risveglia le memorie delle stanze domestiche, dei focolari confortevoli, delle antiche voci un po' tremolanti che il nostro cuore non sa dimenticare, delle ore estatiche trascorse a udire le istorie singolari, mentre già il sonno appesantiva le palpebre e il racconto diventava qual era, sogno. Io ritengo che questo sia uno dei grandi segreti del successo di queste fiabe, allora: e come esse potessero tener testa e persino, ahimè, soverchiare la novella arte goldoniana, presa alle sorgenti istesse della vita quotidiana e schietta. Il più austero uomo è stato un fanciullo e la più frivola e più spensierata donna è stata una bimba: i ricordi risalgono, evocati, al fior dell'anima, e un senso di diletto, non scevro di una velata malinconia viene a molcere l'austerità e a fissare la spensieratezza, mentre il medesimo uomo austero troverà sconveniente la rappresentazione dell'ordinaria [248] esistenza e la medesima donnetta frivola s'irriterà di vedere dipinta così veracemente la sua leggerezza e la sua instabilità: e ambedue, è naturale, preferiranno Carlo Gozzi a Carlo Goldoni. Ognuno ha il suo tempo di fiaba nell'anima, tempo di semplicità, d'innocenza, di credulità e di sorriso che si può rievocare, più tardi, in modo fittizio e fugace, è vero, ma sempre efficacemente!
Accennare, qui, tutte le origini delle fiabe di Carlo Gozzi, sarebbe un po' lungo e un po' minuto; pure, probabilmente, abusando della vostra pazienza, lo farei: me ne trattiene il simpatico ingegno così intuitivo, la coltura, la ricerca felice ed esauriente che ha fatto, su Carlo Gozzi e sul suo teatro, Ernesto Masi, per cui tutti quelli che si affaticano nell'arte e nelle lettere umilmente come me, o altamente come altri, gli debbono una vivida ammirazione. Lo Cunto de li Cunte del nostro novellatore napoletano Busile, la Posilipeata di Masiello Reppone sotto cui si nasconde l'altro napoletano Pompeo Sarnelli, Le mille e una notte, i Mille e un giorni, il Gabinetto delle Fate, tutte le antichissime leggende orientali hanno dato il loro contingente al fiabista veneziano: persuaso che come tout le monde aveva più spirito del signor di Voltaire, anche tout le monde avesse più fantasia [249] del conte Carlo Gozzi, egli ha interrogato tutte le fonti popolari. Vi è, persino, nel Sinadabbo della Zobeide il tipo di Barba Blù, il mangiatore di mogli: Sinadabbo se ne stanca dopo cinquanta giorni, come Hassan, l'eroe della Namouna di Alfredo de Musset se ne stanca dopo una settimana: vi è, persino, nel Re Cervo, una delle più forti, delle più vivaci fiabe del Gozzi, un caso di avatar, di scambio d'anime, leggenda orientale indiana che, più tardi, Thèophile Gautier doveva narrare curiosamente nel suo lungo racconto Avatar. È quasi un repertorio, il contenuto delle tragedie fiabesche del conte veneziano: un repertorio che egli ha mescolato un po' confusamente, ma che ha tutto espletato.
E allora, qual è l'elemento personale che il Gozzi ha dato a queste fiabe? Ma, una cosa importantissima: la rappresentazione per mezzo di un intreccio di dramma, per mezzo di personaggi, di dialoghi, di scene: tutto un mondo vivo creato sui vecchi elementi, tutta una serie di opere teatrali che hanno un valore indiscusso per il loro tempo. Drammaturgo, il conte Carlo Gozzi era: e aveva la passione pel teatro penetrata sino alle sue midolla di uomo e di letterato: tutta la vita, malgrado i suoi sonetti, a centinaia, per nozze e per monache, malgrado le sue dissertazioni, egli non è mai stato nè [250] poeta nè critico, ma autore drammatico, niente altro. Il materiale, dunque, fiabesco e la volontà di favorire la truppa Sacchi che egli proteggeva e dove, persino, aveva collocato i suoi amori, oltre che le sue simpatie e la sue amicizie, risvegliarono in lui le più belle qualità di autor comico e drammatico, dettero l'impulso a un ingegno che nel teatro trovava il migliore suo campo. Teatralmente parlando, queste fiabe sono, massime alcune di esse, scritte con vigore, con misura, con evidenza: in due o tre di esse, come la Turandot, come il Corvo, come l'Amore delle tre melarancie, vi è, persino, nella espressione dei caratteri, della psicologia. — Io vi prego di non sorridere! — Noi moderni ci vantiamo assai di essere psicologi, tutti, anche quelli che non sanno di lettere e di arti, anche i semplici scienziati, anche i medici, anche gli avvocati, anche tutti gli umani. Ma fra cento anni, quanto e come l'umanità sarà più psicologa di noi, mentre quelli che vissero cento anni prima di noi eran psicologi senza saperlo e senza pretendervi! Il caro conte Gozzi potea esser presuntuoso ed era, in ben altre cose: ma nel rendere un carattere femminile, nel fare emergere le espressioni di un momento drammatico, servendosi, pur troppo, della rettorica di cento anni fa, egli è efficacissimo e inconsciente [251] della sua forza e della sua efficacia. Le fiabe, infine, sono dei veri drammi nel loro inizio e nel compimento: sono l'agitazione di un mondo di personaggi e di passioni che l'autore ci mostra, cogliendone il lato più significativo, dando di essi e di esse la figura più rassomigliante e il senso più vero.
Vedete, infatti, se nella Turandot che non è punto una fiaba, ma una bella e vera commedia a base drammatica, in questa Turandot dove non sono nè apparizioni, nè negromanti, nè uomini che si cangiano in belve, nè melarancie che contengono una fanciulla, in questa Turandot che è la commedia di una giovanetta fiera e saputella, — una seccatrice, diremmo noi — che non vuole sposarsi perchè odia gli uomini, vedete se l'autor drammatico rifulge! La vecchia istoria dei tre enigmi che il divino Shakespeare ha reso così magnificamente, con tanta onda di poesia, di tenerezza, di passione, nel suo Mercante di Venezia, quei tre enigmi che il presunto sposo della piccola e leggiadra Portia deve risolvere, è servita al Gozzi, per questa Turandot, come servì, più tardi, saran venti anni, a Giuseppe Giacosa per il suo Trionfo d'amore: vecchissima istoria che rimonta, nientemeno, alle Gesta romanorum. Il Gozzi raggiunge, in questa Turandot, il massimo delle [252] sue qualità di autore drammatico, tanto il movimento vi è simpatico, umano, nobile, tanto il fatale dissidio dello spirito della protagonista, vinta nella pruova, che non vuole darsi per vinta e intanto già ama, ha una evidenza che colpisce e trascina il lettore. Per cui questa Turandot piacque tanto allo Schiller che di drammi, se non isbaglio, se ne intendeva: tanto gli piacque da volerne fare una riduzione in tedesco. E dalla medesima Turandot viene tutto il coro di ammirazione che il teatro gozziano ha trovato nella Germania dalla fine del secolo, e nomino nel coro il Lessing, i due Schlegel, il Tieck, tanti altri illustri. Ai tedeschi di allora, non potevano le fiabe di Gozzi non piacere enormemente, tanto corrispondevano, stranamente, al loro nordico gusto: ma è, consentitelo a una adoratrice della verità, nella vita e nell'arte, è un dramma di verità e di passione quello che rivelò ed affermò il talento di Carlo Gozzi.
Ancora un elemento, curioso, portò il Gozzi in questa congerie di bizzarrie novelle che è il mondo fiabesco: ed è, accanto alle figure drammatiche le figure buffe, accanto ai cuori sentimentali, gli stomachi capaci, accanto ai martiri dell'amore le spalle fatte per le bastonate, accanto ai principi e alle principesse le maschere italiane, Brighella, Truffaldino, Pantalone, Tartaglia. [253] Costantemente queste quattro maschere a cui si unisce, talvolta, Smeraldina, una maschera femminile, penetrano in tutti gli intrecci drammatici di Gozzi, appariscono nel fondo di ogni scena, si mescolano a ogni scena, e spesso non all'ultimo posto, visto che, nel Re Cervo, Tartaglia, la maschera napoletana, è quasi il protagonista. Talvolta, il dialogo di queste maschere è scritto per esteso, giacchè è troppo necessario al senso della commedia: talvolta è accennato solo, come trama, lasciando che le maschere v'innestino quel che vogliono, pur non disubbidendo alla traccia. E così, questa Commedia dell'arte onore e gloria comica italiana, diletto di gentiluomini e di popolani, origine di tutto quello che vi è di spontaneo e di vivo nel teatro popolare, si mischia indissolubilmente alla tragedia fiabesca, con tutti i suoi contrasti e i suoi anacronismi. Eppure! Tempo fa, sino a che un ordine molto civile ma poco rispettoso del pittoresco e della leggenda non lo proibisse nei piccoli teatri di Napoli, in due o tre di essi, verso la seconda quindicina di dicembre si inauguravano le rappresentazioni di un mistero religioso che portava per titolo: La nascita del Verbo umanato o il Vero lume fra le ombre. Vi prendevano parte Maria, Giuseppe, gli Angeli, Belfegorre, dei pastori, un grosso dragone [254] spirante fuoco e vi accadevano tutte le scene della Natività, descritte in versi assai strani. Fra i personaggi, vi era un napoletano: non il Pulcinella, giacchè l'autore non aveva osato di spingere l'anacronismo sino al delirio, ma un napoletano Razzullo, che parlava il dialetto, che esclamava, che metteva il suo buon senso pazzo e la sua loquacità meridionale fra le preziosità mistiche di quel misterio. Ebbene, quel Razzullo lì, offendeva la logica, è vero: ma neanche il mistero pretendeva di esser logico, ma al pubblico che si estasiava misticamente innanzi alla umiltà della Madonna, al paziente coraggio di Giuseppe, che s'irritava contro i truci progetti di Belfegorre, quella nota singolare di napoletanesimo piaceva, ed essi ridevano, gli spettatori, dopo essersi commossi! Così, certo al pubblico che si affollava nel piccolo teatro veneziano dove recitava la truppa Sacchi, l'apparizione di Truffaldino in Persia, di Pantalone in Cina e di Smeraldina in Tartaria, doveva parere molto bizzarra, ma non poteva che piacere, come chi rivede, fra gente ignota, un viso noto e, spesso, amato. D'altronde, quei comici che rappresentavano le maschere italiane, erano dei migliori, nelle loro parti: avevano per essi la tradizione e la lunga esperienza, avevano l'affetto degli spettatori. Anacronismo, sì, ma le [255] fiabe erano anche così sorprendenti, per la mancanza di ogni norma umana: anacronismo, ma il meraviglioso regnando in tutto l'intreccio, non era neppur troppo curioso che un bergamasco come Brighella, un veneziano come Pantalone, un napoletano come Tartaglia si trovassero sbalzati ai confini del mondo, in drammi dove il mondo non aveva più confini! Dico ciò per difendere il Gozzi dalle accuse di testa folle, di commediografo squilibrato, di autor drammatico capace di guastare una pura opera d'arte, per compiacere quattro comici. Ritengo che quelle intromissioni così ripugnanti a chi ha l'ossequio della verità, così balzane e quindi antipatiche ai ragionatori posati e tranquilli, non dovessero urtare i nervi di nessuno: salvo di coloro che la gran voce umana di Carlo Goldoni, la voce di uno spirito nobile e di un cuore caldo aveva suggestionati! E, anche, il Gozzi, con sapienza di contrasti, ha mescolato e alternato l'espressione comica, usandone con moderazione, al senso drammatico: egli ha bene inteso che uno spettatore non ama di fremere sempre, dal principio alla fine di un dramma, che la emozione di dolore si stanca e che il soffio di una risata riposa chi ascolta. Le scene delle maschere non sono mai lunghe: esse non sono mai troppo volgari, giacchè il Gozzi schivava la volgarità e [256] addebitava le Baruffe chiozzotte come una laidezza, al Goldoni: esse hanno sempre, queste scene di maschere, uno scopo, una necessità. Data la sua abilità teatrale, Carlo Gozzi ha potuto tentare questa risurrezione o continuazione dell'antica Commedia dell'arte, senza far inorridire, senza seccare, divertendo. Quest'audacia conservativa equivale all'audacia progressiva di Carlo Goldoni!
Certo, trasportando la questione in una sfera d'idee più ampia, la risurrezione della Commedia dell'arte, anche menomata, anche ridotta a brevissime manifestazioni, anche messa lì solo per bisogno scenico e per contrasto morale, non può non essere giudicato un atto di annichilimento letterario, da parte di un autore. La Commedia dell'arte è la improvvisazione capricciosa di cervelli comici che non vogliono chinarsi a seguire il pensiero dell'altro, dell'autore: è il libito di chi appare sulle scene e sovra una vecchia trama sbiadita cerca mettere i colori di una recitazione naturale: è la sostituzione della coscienza personale dell'attore a quella certamente più elevata e più nobile dell'autore. Non un passo indietro, nella via dell'arte, ma cento, ma mille passi indietro! D'altronde, anche questa Commedia dell'arte, la quale poteva attirare per la sua libertà, por il suo impensato, per l'inatteso [257] personale, finiva per avere le sue formole, le sue stereotipie: anche le scene di amor comico, di ghiottoneria, di spavento, avevano il loro alfabeto e il loro sillabario: e tutto s'immobilizzava in queste formole e la improvvisazione non era che apparente. Ora che un uomo come Carlo Gozzi, vissuto in Venezia, che fu patria, asilo, tradizione della più fulgida arte italiana, cresciuto in un ambiente eminentemente letterario, appartenente a una famiglia dove tutti facevano dei versi, dalla madre agli amici di casa, dalla cognata alla cameriera, abbia potuto così negare il proprio ingegno e l'arte, credendo che un comico qualunque potesse mettere la sua prosetta comune e trita accanto ai versi solenni o teneri gozziani, permettendo che le viete barzellette e i lazzi di Truffaldino, sempre gli stessi, si alternassero liberamente ai lamenti e alle fiere proteste dei suoi protagonisti, non si comprende! Un eterno dissidio regnerà sempre fra il comico e l'autore: quando, ogni tanto, un autore ha la fortuna di essere inteso e reso da un comico, bisogna dire che due fortunate e lontane constellazioni si siano incontrate nel cielo! E viceversa il signor conte Carlo Gozzi, per eccezione, amava troppo i comici: li amava tanto, da cedere loro innanzi, come autore. La Commedia dell'arte riapparsa sulle scene, donde [258] il grande e misconosciuto Carlo Goldoni aveva, con tanta coscienza d'artista, cercato di cacciarla, non solo significava il trionfo di un passato morto e cavato fuori dalla tomba e galvanizzato alla meglio, ma significava la negazione di sè stesso come scrittore e come drammaturgo, significava il proprio avvilimento come un uomo che pensa, che sa, che scrive. Ora se l'egoismo confina con la ferocia, l'altruismo confina con la codardia!
Fu, dunque, il Gozzi molto letto e molto ammirato in Germania: in un altro paese del nord, in Inghilterra, destarono curiosità, interesse, diletto le sue opere. Si dice: fu il restauratore del fantastico nell'arte teatrale, doveva piacere a coloro che amano il fantastico, che si pascono di leggende, come i popoli delle regioni fredde. Il fantastico? È proprio la parola esatta? È, veramente, il Gozzi, un uomo d'immaginazione? Badiamo che fantasia è una grande parola ed è una grande cosa. Non sarebbe meglio dire che il Gozzi fu il restauratore del meraviglioso, al teatro? Meraviglioso: è una parola più semplice e più modesta. Il fantastico è così diverso! Chi [259] si sorprende, inarca le ciglia e ha l'aria di uno sciocco: costui è lo spettatore delle cose meravigliose perchè strampalate, meravigliose perchè senza nesso o con un nesso così lieve che un nulla lo spezza, meravigliose perchè assolutamente contrarie a tutto ciò che è ordinario. Tutt'altro, tutt'altro il fantastico! Esso, credete, corrisponde alla vita e certe volte vi corrisponde con misura matematica: esso ha delle regole intime, profonde, per cui può apparire quel che è, fantastico, sì, ma logico: esso è dominato da una ragione segreta che lo nutrisce e gli dà sostanzia e colore: esso può essere alto, grande e puro, come la verità. Il fantastico non è il contrario della vita, ma è l'esaltazione della vita: è la linea in fuori, è l'aureola, è l'alone, ma la linea suppone la misura, ma l'aureola suppone la testa, ma l'alone suppone la luna! Il fantastico non capovolge le leggi dell'esistenza, ma le intravvede moltiplicate, più ricche, più tristi, più tetre, più grottesche: ma le considera nelle loro glorie e nelle loro miserie, ma le sospinge alla loro nota più vibrante e più acuta! Il fantastico anche descrive dei paesaggi che esistono, ma vi aggiunge quella soffusione di poesia lieta o lugubre che le cose hanno sempre e che solo gli occhi freddi ed aridi non sanno vedere: il fantastico anche narra delle cose accadute, ma vi [260] scorge tutto un lato nascosto, qualche cosa che sfugge all'analisi del critico e che non sfugge alla visione del poeta. Gli è per questo che gli scrittori d'immaginazione scarseggiano assai, mentre gli scrittori di verità si chiamano oramai legione; la fantasia non comporta mediocrità, non comporta volgarità, non ammette mancamenti o debolezze. È fantastico il grande Hoffmann, di cui non una delle novelle che non parta da un assioma indiscutibile, di cui il fantastico ha le grazie e le seduzioni della vita: siete fantastico voi, voi solo, o grande Edgardo Poe, non abbastanza ammirato, non abbastanza amato, infelice nella morte come nella vita! Rammentiamo le Novelle straordinarie: non una di esse che non possa, in tutte le sue parti, corrispondere a un'assoluta verità! Ma quegli uomini sentono in una forma complessa, esagerata e febbrile: ma quelle donne dai capelli biondi, dagli occhi glauchi, dalle forme tenui, dalle mani ceree sulle nere vesti, sulle bianche vesti, hanno in loro un fuoco che le consuma: ma quei paesaggi hanno una vita interiore che li trasforma e li fa tragici: ma quelle scene hanno una intensità crescente che afferra ai capelli il lettore, e li imperla di un sudore di paura! Tutto è vero, tutto può esser vero, nel grido che sale nel Cuore rivelatore, tutto è vero, tutto può esser vero nei terribili [261] rumori della Casa Usher. Il fantastico del rimorso, il fantastico del terrore non vengono da spettri, non vengono da vani fantasmi, ma l'uomo li porta in sè, ma sono gli abitatori del suo spirito, i tetri e fieri abitatori! Egli non diventa marmo, come il povero Zennaro, del Corvo di Carlo Gozzi, nè marmo come la dolce e tenera Hermione nel Racconto di una notte d'inverno di Guglielmo Shakespeare: non si muta in una serpe, come la dolce Cheustanì, la Donna Serpente di cui Riccardo Wagner volle rendere l'amore, il dolore, la devozione coniugale nella sua opera di gioventù (Le Fate); ma quest'uomo di Poe ha le belve che gli dilaniano il cuore, porta una serpe nelle sue viscere e meglio sarebbe per lui se s'impietrisse! Questo è, il fantastico: la vita nelle sue più cocenti passioni, l'odio, l'amore, il delitto elevato all'ennesima potenza, la vita slanciata alle altissime temperature, — dove tutto vibra e tutto finisce per infrangersi!
E chiamiamolo addirittura il meraviglioso, il portato di Carlo Gozzi nel teatro italiano, poichè additeremo così questo bizzarro, sì, ma mite e innocente materiale di arte: il meraviglioso che sconquassa, ma porge la speranza e porge il rimedio, che infligge le torture, ma ha con sè il balsamo della consolazione. Senza di esso, i protagonisti [262] di Carlo Gozzi sarebbero delle creature semplici e amorose, e la loro istoria non potrebbe interessare gli umani: un elemento estraneo entra in loro e li rende vittime ed eroi, insieme, ma vittime temporanee ed eroi di cinque, di dieci anni: l'elemento sparisce ed essi rientrano nel giro normale dell'esistenza, freschi, sani e felici. Questo meraviglioso ha l'aspetto truce e la sostanza tenera, ha l'apparenza della fatalità e non è la fatalità: è lo slanciarsi, per breve ora, fuori dei limiti del possibile, ma è il rientrarvi subito, quietamente. La fantasia, nella sua essenza, nella sua possanza, dà ben altri crucci, e il fantastico, talvolta, uccide. Fra coloro che mi ascoltano, io credo, che tutti preferirebbero di essere un personaggio di Carlo Gozzi che un personaggio di Edgardo Poe, e tutti, infine, preferiscono di essere i lettori dell'una e dell'altra opera. Infine, il Gozzi non era realmente un uomo d'immaginazione: quello che egli ha fatto, non lo ha fatto per una passione salda letteraria per il sorprendente nell'arte, ma lo ha fatto per una passione di uomo, molto più forte, molto più acerba, per il suo odio contro Carlo Goldoni.
Ah parliamone un poco, di questo odio per cui il cuore del conte veneziano si è infiammato molto più che per qualunque amore di donna: parliamone, giacchè esso è l'avvenimento più [263] importante della vita di Carlo Gozzi, giacchè oh ironia, giusta e ingiusta insieme, del destino, adesso il drammaturgo di Turandot è rammentato solo perchè fu nemico acerrimo di Goldoni! Ebbene, sì, egli lo ha odiato molto e lo ha, sovra tutto, disprezzato, come si conviene a un uomo che sa odiare: chi riconosce qualche cosa di buono e di serio, nel suo avversario, già non odia più! Carlo Gozzi lo disprezzava palesemente e intimamente: il Goldoni gli pareva il più volgare, il più triviale, il più balordo e il più noioso fra gli scrittori teatrali. Egli lo ha tante volte dichiarato ed era in perfetta buona fede. Tutto ciò che formava la bontà e la beltà delle creazioni goldoniane gli faceva ribrezzo: e le parole più basse per esprimere la più bassa cosa non gli sembravano sufficienti. Le sue polemiche impetuose e ardenti, la sua lotta teatrale, tutta una città posta a soqquadro, indicano come tutto il calore dell'anima di Gozzi si era riversato contro questo dispregevole avversario. Questa battaglia è durata molto tempo ed è stata combattuta su tutti i campi: è stata folgorante d'ingiurie e di vituperii: è stata fornita a colpi di penna e a colpi di voci calunniose: ha avuto sussidii e contrasti nell'amore e nella politica. Il Goldoni è stato insidiato nella reputazione e nella fortuna: è stato minacciato nella felicità e nella vita ed [264] ha dovuto, infine, lasciare il suo paese, esiliarsi, non vinto, forse, nell'anima, ma vinto nei fatti, non sconfitto nella sua arte, ma sconfitto come uomo e come cittadino. Più tardi, certo, anche la fittizia fortuna delle fiabe decadde e lo stesso Carlo Gozzi non volle farne più nessuna: ma più tardi, ma troppo tardi, quando niente e nessuno poteva più medicare le ferite dell'animo di Carlo Goldoni, quando tutte le amarezze avevano per sempre avvelenato il fondo del cuore del buon commediografo di Venezia.
Ebbene, io dico che quest'odio, che questo disprezzo erano sentimenti naturali e giustificati in Carlo Gozzi: dico che egli non poteva fare diversamente che detestare Goldoni e che egli ha obbedito a una ispirazione alta e dolorosa, combattendo quella battaglia. Ricordiamoci chi era e che rappresentava Goldoni, a Venezia. Egli, modesto e tranquillo scrittore, era stato tocco da quel colpo di fulmine intellettuale che non ammazza, ma sconvolge, che non atterra, ma trasforma violentemente, egli aveva avuto un'idea: egli aveva compreso che la vita nelle sue forme veraci e umili ha una potenza di fascino che sorpassa tutte le meraviglie: aveva visto che l'amore qual è, il dolore qual è, il ridicolo qual è, e non già come la falsità leggiadra o pomposa di tutto il Settecento voleva rendere, possedessero [265] maggior attrazione che qualunque declamazione rettorica o leziosa: aveva sentito quest'uomo piccolo destinato ad albergare quella grande cosa che è un'idea, aveva sentito l'irrompere della vita nella sua lealtà comica o drammatica. La gran voce delle persone e delle cose intorno, era giunta sino al suo spirito e lo aveva commosso: non la voce dei fantocci pronunzianti vuote frasi o inchinantisi ai vezzi frivoli di un amore che non può meritare questo nome. L'uomo nella sua carne e nel suo sangue, con le sue costumanze bislacche o patriarcali, con i suoi difetti curiosi e le sue qualità ammirabili, con i trasporti delle sue passioni e col giuoco delle sue astuzie, l'uomo vero, l'uomo uomo, era apparso a Carlo Goldoni: e costui aveva reso la verità, a teatro. La verità, nientemeno! La verità in quei tempi quando i più terribili soffii venivano dalla Francia, quando un timore generale faceva impallidire le vecchie dinastie, quando i filosofi e i carnefici si alternavano, causa ed effetto, nel centro dell'Europa! La verità, cioè il popolo ritratto, il popolo elevato da spettatore a protagonista, il popolo carezzato nelle sue buone tendenze, e spesso, il nobile vilipeso, come bugiardo, come poltrone, come giuocatore! La verità; cioè, gli antichi usi e le mode moderne dipinte magistralmente: cioè, i vizii di certe condizioni e di [266] certe età, resi con indulgenza, è vero, ma non tanto da non vederne l'esatta riproduzione: cioè, le qualità più nobili ricercate anche in persone non preclare, e i sentimenti più alti del patriottismo, dell'onore, della dignità ritrovati nel mondo piccolo, borghese e popolare. La verità, in questa vecchia Venezia già decaduta, già sfinita, smarrite le sue ricchezze, il suo potere, la sua forza, e che assisteva sgomenta a queste nuove cose che sorgevano, a queste idee, a queste forme, a questi fatti che disperdevano le ultime sue parvenze di grandezza!
E come poteva permettere ciò il conte Carlo Gozzi, il patrizio di antica stirpe dalmata, il patrizio che s'inchinava reverente a Venezia e alla Serenissima? Carlo Gozzi non solo era un signore, di nascita, ma teneva moltissimo al suo nome e alla sua razza: non solo era un conservatore in arte, ma era tale anche in politica: non solo era un patriotta, ma era un patriotta accanito e focoso. Il tremuoto che squassava tutte le vecchie cose lo stupiva e lo sgomentava: ma lo sgomento massimo era per il suo paese, per questa adorata Venezia che portava nel sangue e nelle ossa, come la più grande delle passioni. Codino, sì, venti volte codino, ma non codino di chiacchiere vacue, non codino di poco temibili proteste, non codino silenzioso e pauroso, ma codino [267] arrabbiato e focoso, codino pugnace e implacabile. Carlo Goldoni non parve solamente a Carlo Gozzi un novatore del teatro: ma gli parve un novatore ribelle, un commediografo che volesse continuare sul teatro la esecranda opera della Enciclopedia e della rivoluzione francese. Autore drammatico egli stesso, comprendeva bene quale costante e invincibile propaganda potessero fare certe teorie propalate dal palcoscenico: e il non essere il Goldoni un teorico della verità, ma un dipintore esatto e geniale, il dare con forme semplici tutto un nuovo contingente di protagonisti presi dal popolo, il rendere con l'azione i vizii e la debolezza estrema della nobiltà veneziana lo rendeva anche più pericoloso. Carlo Gozzi odiò Goldoni come un nemico della patria, e l'opporsi a lui gli parve un atto di buon cittadino, di fedele suddito della Repubblica morente. Una rabbia profonda sorse dalle viscere dell'uomo contro l'uomo e il letterato tentò una difesa disperata!
Disperata! Vandeano di Venezia, il conte Carlo Gozzi combatteva come i fedeli brettoni per Dio e per il Re: il suo Dio e il suo Re erano Venezia. Di fronte alla novità rigogliosa e avvincente delle commedie di Carlo Goldoni, portanti nel seno il germe della libertà dello spirito, egli volle far tornare all'antico il pubblico, e più che all'antico, al bambinesco. Mentre tutti tentavano di [268] pensare, mentre tutti sentivano il fremito possente che sollevava la terra infeconda e le preparava una magnifica fioritura dove il sangue non mancava per la coltura, mentre tutti avevan l'anima attenta a ogni nuova manifestazione del pensiero e dell'opera umana, il conte Carlo Gozzi tentò di calmare questa inquietudine coi racconti delle fate e volle addormentare i cuori turbati e le menti palpitanti, come si cerca di far addormire un bimbo nervoso, che ha paura. Egli cullò i terrori segreti, egli cantò la ninnananna a coloro che vedevano crollare il mondo in cui avevano creduto: e al fragore delle voci e delle armi, egli disse, come una buona balia: vi era una volta...... Oh come si rivela bene, la disperazione interna, non del letterato che era troppo superbo e alla sua maniera, anche un po' indifferente, ma la disperazione del conservatore che chiude gli occhi per non vedere, che si tappa le orecchie per non udire, e che, come le vergini di Francia danzavano con un filo rosso al collo, per simbolo della probabile prossima ghigliottina, in abito da victimée, tenta di raccontare delle storielle vane per togliere il pubblico alla propaganda e alle paure! In pochi anni egli scrive fiabe sopra fiabe con una rapidità, con una facilità grande, mentre polemizza nelle fiabe e fuori, mentre continua la sua guerra [269] nelle accademie, nei saloni e nei caffè: egli non ha posa, egli non soffre indugio: egli, con la sua ferocia spinge il Goldoni a scrivere anche più, a scrivere sempre: egli non solo oppone una resistenza instancabile, egli attacca atrocemente, egli appartiene alla schiera, come ho detto, dei codini belligeri, che sono rari, ma che sono terribili, visto che la violenza pare sia un appannaggio della gente nuova e ribelle. Che importa a lui, specialmente, la fiaba e donde essa viene, visto che egli non è un uomo di fantasia, ma un autore drammatico puro e semplice, che importa se il materiale sia il meraviglioso e sia preso dapertutto, quando egli non ha di mira che distrarre il pubblico dalla commedia dell'iniquo, dello scellerato Goldoni, figliuolo primogenito delle nuove esecrabili teorie? Siano i racconti delle fate, se essi servono allo scopo ambito! Che importa se la intromissione delle maschere, se il riportare sulla scena la Commedia dell'arte è un colpo duro a sè stesso e alla propria dignità di autore? Purchè sia ferito l'avversario, non importano le proprie ferite. E così tutta la ragion letteraria del Gozzi si chiarisce e si giustifica nelle sue debolezze: e tutta la sua vita, anche, si riabilita nelle sue stranezze e nelle sue acredini. Si riabilita con quest'odio! Un odio mortale sorto da un sentimento alto e incrollabile, [270] dalla devozione alle antiche cose, dall'ossequio alle vecchie idee, dalla reverenza profonda verso Venezia: un odio che ha un'essenza d'amore, come tutti gli odii. Impossibile giudicare Carlo Gozzi isolatamente: significherebbe menomare e travisare il suo valore e dare di lui un giudicio falso. Egli fu uomo del suo tempo: anzi, dirò meglio, fu uomo anteriore al suo tempo. Non fu uno di quei letterati solitarii che, con inclinazione laudabile o no, non lo so, si chiudono nel loro lavoro e dediti alla loro arte, servi, schiavi di essa, si dimenticano di vivere: e rovini tutto l'edificio sociale intorno ad essi, non se ne accorgono, perduti in una divina allucinazione. Carlo Gozzi non fece una vita di sogno, come a tanti artisti è concessa: ma fece una vita di realtà, una vita di uomo vivente, dirò! Impossibile, anche, giudicare il Gozzi, senza considerarlo nel grande torneamento della sua violenza, torneamento scortese e cruento, contro Carlo Goldoni. Questo odio è la lettera iniziale della sua vita, è la sua cifra fatale!
E permettete a chi ammira tutte le battaglie fatte in un nome sacro, fatte anche in nome dell'ombra e della immobilità, fatte anche in nome del silenzio e del gelo, permettete che io esprima qui un senso di malinconica ammirazione per quel soldato del regresso che fu Carlo Gozzi e [271] che lo ammiri nel suo odio, origine della sua arte e della sua vita. Questo odio, è vero, dette molti dolori a Carlo Goldoni: ma le avversità sono sempre un buono stimolo dell'ingegno che vi si tempera e vi si affina: ma ciò che si scrive sotto la sferza delle passioni, degli ostacoli, delle contrarietà vale, spesso, più dell'opera compita nella oscurità senza contrasto, tanto che vi è chi preferisce il mordace e dolente Arrigo Heine all'olimpico e maestoso Wolfango Goethe! Lo ammirerete anche voi, io spero, quando penserete che se la sua guerra ebbe effetti immediati, essi furono fallaci: quando ricorderete che egli vide perire prima di sè la sua effimera gloria, e fu postumo di sè stesso: quando noterete che il suo nome, oramai, non è rammentato che dirimpetto a Carlo Goldoni. Che dirimpetto? Ho detto male. Di lato: molto di lato: ombra, nella luce di Goldoni. Ancora palpita il mondo alle scene degli Innamorati e ancora ride alle sue Baruffe chiozzotte: ancora la Locandiera incanta gli spettatori affascinati! Gli spiriti che sparvero da questo nostro mondo, vivono di là: ma noi non sappiamo bene, come. Speriamo che essi non sappiano nulla del mondo che lasciarono: altrimenti, neppure la pace delle sfere celestiali, sarebbe una pace, pel conte Carlo Gozzi!
[273]
CONFERENZA
DI
Guido Mazzoni.
[275]
Signore e Signori,
Tocca a me l'onore pericoloso d'iniziare quest'anno le Letture fiorentine nella sala che Luca Giordano adornò tutta di fiori e che ora adornate voi, o signore; nella sala che udì già un tempo i discorsi degli accademici della Crusca e accolse poi un congresso di scienziati, e dove ora state ad ascoltarmi voi, o signori, che avete fama ben meritata di essere per un conferenziere l'uditorio ch'ei possa più desiderare o più temere. Ciò farebbe maggiore in me la trepidazione se non avessi ormai quattro volte sperimentato negli anni scorsi la vostra benevolenza, la vostra indulgenza. E quest'ultima chiedo ancora una volta per me; la benevolenza chiedo, a nome de' signori del Comitato, per l'istituzione loro, che, proponendosi così nobile intento, ha già raccolto tanto favore.
[276]
Giuseppe Parini aveva nove anni quando il padre suo, umile negoziante di sete, volendolo tirar su per gli studii, lo recò a Milano e lo allogò in casa d'una zia. “Addio, monti sorgenti dalle acque!„ avrebbe certo sospirato allora quel ragazzo d'ingegno così promettente, se Alessandro Manzoni, che fu poi il massimo discepolo del Parini, già avesse consacrato all'arte, con l'eloquenza dell'addio di Lucia, monti ed acque ben poco distanti dalle colline di Bosisio e dal lago di Pusiano. Il ragazzo, cui aveva insegnato a leggere e scrivere il prete del borgo nativo, è probabile non ripensasse allora, partendo, il tenue passato, ma che vedesse con gli occhi della fantasia le vantate meraviglie della sterminata ed opulenta Milano.
Erano gli ultimi del 1738, e Milano, sgombrata da Carlo Emanuele di Savoia “quel brutale d'Italia„, venuta in signoria di quel placido Carlo VI che doveva morire d'indigestione, si preparava ad accoglierne la figlia, Maria Teresa, sposa novella di Francesco di Lorena. E proprio quando il Parini arrivava, nel fervore de' preparativi, nello studio dell'etichetta, si facevano questioni grandi: chi doveva andare fin a Mantova a ossequiare i principi? chi si doveva invitare alle feste? le dame dovevano presentarsi a Corte con l'adrienne o col mantò? Le due prime questioni [277] furono risolute presto; a Mantova andò il Vicario di provvisione e sei patrizi; sei altri, col titolo onorifico di Bastoni, ebbero a compilare l'elenco degli invitati: quanto all'adrienne e al mantò, bisognò indagare cautamente l'animo della maggiordoma maggiore dell'Arciduchessa, che indagò l'animo dell'Arciduchessa; e, a dispetto degli avari mariti, a gioia delle splendide dame, venne la risposta: il mantò!
Quel povero ragazzo di campagna che cominciava a frequentare, vestito da abatino, le scuole de' Barnabiti, non seppe o non si curò di sì fatte controversie; ma era certo per le strade, in vacanza, quando il 2 maggio '39 i principi, sorridendo al popolo dal grande carrozzone dorato, entrarono pomposamente in Milano; e potè forse avvicinarsi al corteggio e ammirarlo da presso e guardare la futura padrona, la fiorente Maria Teresa, perchè le milizie schierate per contenere la folla e presentare l'arme, sorprese da un acquazzone, si erano sbandate! La sera, grande illuminazione di tutta la città; e chi sa non fosse anche lui tra i monelli che (come narra la Gazzetta d'allora) “girando all'intorno con semplici rime, dettate dal naturale genio e piacere, come dall'affezione succhiata col latte verso la cesarea stirpe, invitavano i meno pronti ad esporre i lumi con abbondanza„. Furono le prime feste, le prime [278] dame, che vide co' suoi grandi e vivacissimi occhi neri quel lungo, gracile, irrequieto abatino; e cominciò ad assorbire inconsapevole l'amore del lusso, delle eleganze, della bellezza.
Mentre egli cresceva, e proseguiva a studiare, e cominciava a dar lezioni, i tempi si facevan più quieti; il governo imperiale, interrotto per pochi mesi dai Gallo-Ispani, si assodava in Lombardia entro quella pace di quarantotto anni che ci diè tempo d'incipriarci e d'imbellettarci, ma anche di guardare noi stessi allo specchio, vergognare di noi stessi, iniziare la conversione dell'animo nostro e la coscienza nazionale, che i Francesi del '96 ci aiutarono, sia pur brutalmente, a recuperare intiera. Milano si faceva a mano a mano più grande, più bella, più polita, negli agi e ne' diletti crescenti della civiltà; e, come accade, ogni moto di quel risveglio affrettava altri moti. Passava su tutti un'aria tiepida, quasi autunnale, che affrettava la piena fioritura, lo spampanamento de' vizii, e spargeva intanto i semi della primavera ventura. Quel che fino allora non era sembrato di ribrezzo o di schifo o di danno, lamentavano molti, e chiedevano fosse tolto via dalle leggi e dalle costumanze. La critica esercitava timida l'officio suo buono, affilava le armi per l'officio cattivo; e il governo le porgeva orecchio, l'aiutava, spesso incitava per preparare alle [279] riforme l'animo neghittoso o restìo della moltitudine. I libri, le fogge, che cominciavano a venir da Parigi, anzi che da Madrid, vivaci, eleganti, trasformavano rapidamente le idee e le sembianze di quella parte della società che era allora la sola che importasse, la sola che si pavoneggiasse, l'aristocrazia, distinta dagli altri ordini anche per le vesti.
E il Parini giovinetto strabilia al passare rovinoso delle carrozze dalle alte ruote con dinanzi i candidi lacchè impennacchiati che sgombrano con la mazza la via o agitano fiaccole ardenti; ammira le seriche e ingemmate e incipriate dame quando ne balzano giù snelle rifiutando la mano che offre loro il cavaliere servente; invidia forse, per un momento, costretto come è a faticare su' libri de' classici, quel giovin signore nel cui palazzo gli accade veder entrare ogni mattina i maestri di violino, di canto, di ballo, o ch'egli a caso ha ascoltato tanto facile e colto parlatore sopra ogni scienza ed ogni arte. Gli additano i teatri, gliene descrivono la magnificenza quando son tutti pieni di gentiluomini e gentildonne, e l'orchestra vi dà con le melodie espressione nuova alle ariette del Metastasio, e lo spettacolo degli scenarii, dei cori, delle comparse, fa più grandi e fantastiche le peripezie di que' drammi. Gl'insegnano il Ridotto, che è tutto strepito e luce. [280] davanti ha carrozze e staffieri affaccendati, e invita per l'ampio e ornato scalone a salire: lassù, dicono, sopra i verdi tappeti scorre a fiotti l'oro. Certo va qualche volta al Corso; guarda pariglie e livree, gareggianti di lusso; chiede chi sia quella o questa leggiadrissima dama, chi sia quell'elegante signore; e ode illustri casati, che gli risvegliano memorie gloriose di avi, o forti o sapienti, di cui legge nelle storie le imprese e i meriti.
È giovine, ha l'animo ardente, pronta la fantasia: oh quella società come deve sembrargli felice; come lontane da lui, e per ciò più desiderabili, quelle fanciulle! Rientra nella povera cameretta, avvilito, scorato; prende di malavoglia un libro di scuola, lo scorre distratto. Orazio e Virgilio, che guidarono pietosi la sua mano e gli si offersero consolatori, l'han presto liberato dalle vane e pericolose visioni; lo accendono di sè, lo inspirano: ed eccolo irrequieto andar su e giù per la cameretta, non più povera agli occhi suoi, ma raggiante: e il cuore, mentre egli tenta i primi versi, gli batte forte per una confusa, incerta, misteriosa idealità ch'egli vorrebbe determinare, esprimere, e ancora non può, ma che sente tumultuare entro sè, e del sentirla gioisce. Sarà poeta.
[281]
Sì, ma intanto bisogna studiare per farsi prete. La zia non gli ha lasciato, morendo, che una materassa a sua scelta: avrà una rendita annua per una messa quotidiana, se continuerà da chierico gli studii e diverrà sacerdote.
Si può esser certi che vocazione non ci fu: troppo il Parini carezzò poi sempre nel pensiero le pure gioie della famiglia; troppo, quasi a compensarsi di tanta mancanza, indulse a sè stesso per l'ammirazione della bellezza e per l'amore. Ne' suoi versi è quasi continuo il rimpianto, sia pure che la volontà lo freni dallo svelarsi direttamente, e la grazia delle immagini e dello stile faccia apparire sorriso quel che fu sospiro. Prete per vocazione chi canta i “baldanzosi fianchi — delle ardite villane — e il bel volto giocondo — fra il bruno e il rubicondo?„ Chi lo svegliarsi degli sposi la mattina dopo le nozze, narra con tanta dolcezza? “Quando sorge la mattina a destar l'aura amorosa — il bel volto della sposa — si comincia a vagheggiar. — Bel vederla in su le piume — riposarsi al nostro fianco, — l'un de' bracci nudo e bianco — distendendo sul [282] guancial; — e il bel crine oltra il costume — scorrer libero e negletto, — e velarle il giovin petto — che va e viene all'onda egual.„ Prete per vocazione chi, da vecchio, per timore che gli altri non lo beffeggino, confessa ironico contro sè stesso il suo male, e se ne vanta insieme; mal d'amore per le braccia rotonde e rosee, e non per le braccia sole, della Cecilia Tron? o per le labbra tumide e le delicate forme “che mal può la dovizia — dell'ondeggiante al piè veste coprir„ della contessina di Castelbarco? Del resto, degli amori suoi abbiamo testimonianze più precise, perfino da lettere dove il cuore gli sanguinò in penosi contrasti e in sospetti gelosi. Ma subito aggiungo che nella corruzione de' tempi egli parve, anche a quelli che lo sapevano fragile, non macchiato da turpitudini; che dell'arte si valse, quando confessò gli amori senili, non a lenocinio, sì a diletto e conforto. Marito e padre sarebbe stato, non è dubbio, più puro; scandalo non diede mai neppur quando mal seppe resistere all'indole amorosa.
Come un tempo aveva sognate le nozze!
Era gioconda immagine
Di nostra mente un dì fresca donzella
Allor che, con la tenera
Madre abbracciata o la minor sorella,
Sopra la soglia de' paterni tetti,
Divideva gli affetti;
[283]
E rigando di lagrime
Le gote che al color giugnean natio
Bel color di modestia,
Novo di sè facea nascer desio
Nel troppo già per lei fervido petto
Del caro giovinetto,
Che con frequente tremito
De la sua mano a lei la man premendo
La guardava sollecito,
Sin che poi vinta lo venia seguendo,
Ben che volgesse ancor gli occhi dolenti
A gli amati parenti.
E qui l'ode, avviata dal Parini cinquantenne, rimase in tronco: quel giovine marito non era lui, quale tanti anni innanzi s'era forse veduto per un istante con la fantasia accesa da un primo amore? Fantasia che, destinato prete, cacciò, invocando l'aiuto divino per vincere il doloroso contrasto, le tentazioni pericolose.
Fu ordinato prete nel '54; e, quando si condonino ai tempi licenziosi e all'indole di lui, nato piuttosto per la famiglia che per la chiesa, gli amori sentiti nell'animo o cantati nel verso più spesso che esercitati nella vita, fu prete buono. E cristiano fu sempre dal profondo dell'animo nell'alta, serena, cosciente, coraggiosa [284] sua fede. Da vecchio, se è vera la fama, non vedendo più il crocifisso nella sala delle adunanze municipali, esclamò: — Dove non entra Cristo, non entra il cittadino Parini! — e contro la prepotenza, l'ingiustizia, il mal costume, si era levato sempre con ardore evangelico. Ad ogni modo, se fu bene o male per lui il farsi prete, nessuno oggi può dire; ma nessuno può dubitare non fosse ciò un bene grande all'arte ed anche alla morale: perchè il Parini laico non avrebbe veduto quanto vide, non avrebbe rappresentato quello che così vivacemente rappresentò, con effetti non vani su' costumi, durevoli sulla poesia, gloriosi a lui ed all'Italia. Quel po' di stima che tra i letterati milanesi gli aveva procacciato due anni innanzi il libretto delle poesie di Ripano Eupilino, nome arcadico allusivo al suo lago, non gli avrebbe infatti schiuso le porte di casa Serbelloni, se egli non fosse stato sacerdote, e per ciò insieme abate di casa e precettore ai duchini; nè dai Serbelloni sarebbe passato educatore in altre case patrizie; nè senza gli agi della vita che gli permisero lo studio e l'esercizio dell'arte, senza l'agevolezza dell'osservare i costumi signorili da presso e smascherati, avrebbe potuto pensare ed eseguire l'elegante e tremenda satira del Giorno.
Il palazzo de' Serbelloni e la vivace e colta [285] duchessa Vittoria Maria, che iniziò il giovine prete alla conoscenza della vita aristocratica, erano tali da mantenerlo per alcun poco nella buona stima che di quella vita egli si fosse fatta giudicandone da lontano per le esterne apparenze. I vizii del secolo e de' signori non gli erano ormai ignoti, non foss'altro per le chiacchiere, i pettegolezzi, le rime de' letterati borghesi amici suoi, per le poesie di canzonatura o d'improperio in che la Musa meneghina si sfogava, per gli ammonimenti che l'eloquenza verbosa e fiorita de' predicatori non si stancava di far rimbombare nelle chiese stuccate e indorate. Ma altro è udire, altro è vedere. Colta, letterata, scrittrice anche per le stampe la duchessa, e alla mano col medico e col precettore; i due cognati Serbelloni erano ufficiali valorosi nelle milizie imperiali; grande la casata, ricca, illustre. Ma il duca marito, da un lato, la duchessa moglie, dall'altro: onde il Parini non seppe mordersi la lingua prima che scossasse per quel contrasto, di cui si occupavano perfino alla corte di Vienna, un pungente epigramma. Valorosi i cognati, ma ozioso e prepotente il duca, che non si voleva veder tra i piedi quel pretonzolo di Bosisio cui Maria Vittoria dava troppa confidenza. Alla mano la duchessa, ma anche manesca. Una volta che, in villa, diede due schiaffi alla figliuola d'un maestro [286] di cappella ch'era là ospite sua, soltanto perchè voleva tornare a Milano, il Parini non ci resse; prese la ragazza e l'accompagnò dove essa voleva. Onde la padrona si disfece di lui. Ed eccolo a Milano, con la vecchia madre vedova, incerto dell'avvenire, così povero nel presente da dover chiedere in rima e in prosa a un amico il prestito di pochi zecchini:
Limosina di messe, Dio sa quando
Io ne potrò toccare, e non c'è un cane
Che mi tolga al mio stato miserando.
La mia povera madre non ha pane
Se non da me, ed io non ho danaro
Da mantenerla almeno per domane.
Miseria e, quel che è più crudele, miseria che doveva celarsi.
Entro ad un libro voi li riponete
Perchè nessuno se n'avvegga, e quello
In una carta poi lo ravvolgete;
Anzi lo assicurate col suggello
O pur con uno spago, e dite poi
Che consegnino a me questo fardello.
Col poscritto in prosa: “Sono senza un quattrino.... Non mostrate a nessuno la mia miseria descritta in questo foglio.„ L'uomo e per ciò il poeta erano ormai compiuti: il dolore matura la coscienza e l'arte.
[287]
Il Parini conosceva allora, conobbe da allora in poi sempre più, frequentando come maestro e come letterato le case patrizie, quali erano le occupazioni e gli affetti, e quali i cuori e le menti, di quella gente che aveva un tempo ammirata. La critica cresceva animosa, audace, e batteva in breccia ogni specie d'autorità; la borghesia studiava, lavorava, si arricchiva; e costoro che mai facevano? Studiavano? no; lavoravano? no; si arricchivano almeno col frutto delle ricchezze avite? anzi le sparnazzavano. Che facevano, dunque? Ah, godevano forse quanto il danaro può dar di piacere, tracannando la vita d'orgia in orgia, tumultuosi, ardenti, per iscagliar poi via brutalmente la coppa vuota? o industri, sapienti nelle raffinatezze del vizio, la centellinavano fin all'ultimo sorso, e se la lasciavano esausti cader di mano con l'ultime rose dalla pallida fronte? No. Chi li chiamò Sardanapali fece loro troppo di onore: quel re, in faccia all'invadente nemico, arse in un rogo enorme le sue donne, le sue ricchezze, sè stesso; e fu eroica follia. Nemmeno si può pensare a' Romani [288] dell'Impero decrepito. Que' titolati lombardi altro non erano che le reliquie d'una razza sfibrata, dissanguata, incapace così dell'azione virtuosa come della passione viziosa, mediocri in tutto; vili insomma, e per ciò incapaci di redenzione.
Ai tempi di Renzo e Lucia, v'era ancora qualche gran signore feudale, come l'Innominato, di passioni ardenti; prima quasi un demonio, poi quasi un santo, per la medesima energia volta dal male al bene: e vi erano molti signorotti cortigiani, molti Don Rodrighi e Don Attilii, che per cavarsi un gusto, per sodisfare un puntiglio, non badavano a far vituperii e violenze, sebbene si appiattassero dietro la forza dell'Innominato o l'autorità del Conte zio. Un secolo e mezzo dopo, la Lombardia non aveva più nessun Innominato, aveva molti nipoti dei Don Rodrighi e Don Attilii; quei tirannucoli, nipotini in parrucca e con lo spadino, buoni soltanto a menar amori illeciti, tacitamente consenzienti i mariti.
E il Parini che prima ne ha sorpreso a caso qualche smorfia mendace, qualche sorriso verace, li sorveglia ora con occhio acuto, da moralista e da satirico, ne coglie le fattezze tipiche, penetra fino all'intimo la loro ignavia e stoltezza. L'han fatto aspettare più volte nelle anticamere, e dopo il lungo indugio finchè il giovin signore non si [289] svegliasse, si è visto passare innanzi il maestro di ballo, di canto, di violino: da loro ha saputo che le lezioni saran brevi, perchè van là soltanto a ragguagliare su' discorsi che corrono ne' palcoscenici. È stato ammesso, e ha trovato il contino o il duchino davanti allo specchio, col parrucchiere affaccendato su lui alla più grande opera di tutta la giornata, la pettinatura; e lo ha visto mordersi i labbri impaziente, o furibondo talora rovesciar tutto e dire improperii e minacciar del bastone il lento o mal destro artista del pettine. Finalmente ha potuto parlargli, e ha misurata la profondità della sua saccente ignoranza. Oppure gli ha dovuto far tanto di cappello mentre passava leggiadretto e superbo per recarsi dalla dama altrui che si onorava di servire.
Il Parini inchinato dalla natura alle dolcezze della famiglia, il Parini prete cristiano, il Parini artista arguto, quanto dovè pensare e sorridere e indignarsi, fatto spettatore di quelle strane regole di civiltà onde parean quasi ridicoli il marito e la moglie che fossero stretti di convivenza affettuosa! Durante la mattina, la moglie era delle cameriere, poi de' corteggiatori intorno alla toilette, poi del cavalier servente: la mensa, che nella vita sana di chi lavora ed ama è ritrovo, è riposo, è agio concesso allo scambio [290] delle idee, sì che insieme con le membra l'anima vi si ciba e vi si afforza al bene, la mensa allontanava anche più l'un dall'altra il marito e la moglie.
......... Se a un marito alcuna
D'anima generosa ombra rimane,
Ad altra mensa il piè rivolga, e d'altra
Dama al fianco si assida, il cui marito
Pranzi altrove lontan, d'un'altra al fianco
Che lungi abbia lo sposo; e così nuove
Anella intrecci a la catena immensa
Onde, alternando, Amor l'anime avvince.
Durante il pranzo, l'arguto abate studiava ancora gli amori, le gelosie, le sfacciataggini, le ipocrisie, le stranezze degli ospiti e de' compagni: ascoltava il racconto che la signora faceva, con le lacrime agli occhi, della pedata onde il piè villano d'un servitore remunerò il carezzevole morso della sua Cuccia, e della giusta vendetta ch'ella ne prese cacciandolo; sorrideva all'ostentata scienza di quello, agli spropositi madornali di questo; ammirava la cecità de' mariti, la vanità de' cavalieri serventi, la petulanza de' parassiti, la sciocca corruttela di tutti costoro. E quando ora tornava al Corso, e guardava nelle trionfali carrozze i gentiluomini e gli arricchiti di fresco che tentavano immischiarsi tra loro, ben poteva esclamare in cuor suo: Maschere, vi conosco!
[291]
Conosceva le maschere, sapeva il loro secreto. Della superbia prepotente, del lusso stolto e ingiusto, del mal costume, dell'ozio, della mollezza, onde i fortunati e gl'illustri erano guasti, e guastavano per gli esempii loro il popolo, la mala radice stava nella “nemica — d'ogni atto egregio vanità del core.„ Quella gente vecchia, e la nuova che le s'imbrancava, non aveva virtù di sentimento per cosa alcuna; vivacchiava di giorno in giorno, paga di sè mollemente, morbidamente, e perdeva le ragioni della vita per l'aborrimento d'ogni sforzo, d'ogni disagio, che la vita impone a chi quelle ragioni cerca, e le trova, nell'amore e nell'opera.
Non operavano, non amavano, e per ciò avvilivano e la fede e il lavoro. La scienza? qualche parola da farne sfoggio; l'arte? qualche diletto futile o qualche incitamento sensuale; la patria? qualche onore da vantarsene; la religione? qualche bell'apparato, qualche orazione fiorita, qualche comodità a ricambiare occhiate. I confessori nel dar la penitenza a que' peccatori eleganti offrivano confetti; in chiesa il cicisbeo non aveva maggior pensiero che di ben servire, con tanti occhi addosso, la dama, precedendola, sollevando [292] la portiera, porgendole le dita bagnate dell'acqua santa. E i predicatori di que' penitenti e di que' devoti è naturale che cominciassero a lodar Maria Vergine a questo modo: “Alla terra che mi sostiene, all'aria che mi circonda, al cielo che mi sovrasta, protesto, nè me ne dolgo, protesto, e me ne vanto, protesto al cielo, all'aria, alla terra, ch'io sono innamorato. S'io dico la verità, lo sapete voi, voi stessa il sapete, Vergine amabile ed amante, la quale m'innamoraste. Voi mi vedete il cuore, e vedete eziandio la piaga amorosa di che me lo avete graziosamente ferito. Lo ferirono quelle vostre guance più vermiglie della melagrana, quel vostro crine più lucente dell'oro, quelle vostre labbra più dolci del miele, quel vostro collo più bianco dell'avorio, etc., etc.„. L'eloquenza sacra non fu mai più profana d'allora. Ed è naturale che i poeti di quella gente fossero quali erano, ampollosamente retorici, arcadicamente grulli, sempre pronti a inneggiare per nascite, per monacazioni, per nozze, a lacrimare per morti illustri.
Udite il Parini, quando accenna al primogenito della dama cui serve il suo giovin signore:
Nè le muse devote, onde gran plauso
Venne l'altr'anno a gl'imenei felici,
Già si tacquero al parto. Anzi, qual suole
Là su la notte dell'ardente agosto
[293]
Turba di grilli, e più lontano ancora
Innumerabil popolo di rane
Sparger d'alto frastuono i prati e i laghi
Mentre cadon su lor fendendo il buio
Lucide strisce e le paludi accende
Fiamma improvvisa che lambisce e vola,
Tal sursero i cantori a schiera a schiera;
E tal piovve su lor foco febeo
Che di motti ventosi alta compagine
Fe' dividere in righe, o in simil suono
Uscir pomposamente. Altri scoperse
In que' vagiti Alcide, altri a Bizanzio
Minacciò lo sterminio. A tal clamore
Non ardì la mia musa unir sue voci:
Ma del parto divino al molle orecchio
Appressò non veduta; e molto in poco
Strinse dicendo: Tu sarai simìle
Al tuo gran genitore!..........
No; il Parini non poteva essere, se non a questo modo beffardo, il poeta di costoro, indegni della sua lirica ch'egli serbava a spronare i reggitori al risanamento della città; serbava a lodare chi o si facesse propagatore fra noi di utili rimedî o amministrasse la giustizia con indulgenza sapiente; a dare eletti consigli; a manifestare l'ammirazione per la bellezza; a darsi il nobile vanto d'una vita e d'un'arte incontaminate. Ma la sua satira non è veleno che voglia uccidere; è caustico che vuol bruciare le pustole e salvare le membra. Quell'aristocrazia, ch'egli vede putrefatta, non fu sempre così, non v'ha ragione perchè sia sempre così; dà invece [294] alcun segno di risanamento. Ecco eruditi ed economisti rompere ormai l'ozio, accordarsi tra loro in società proficue a tutta la cittadinanza, pronunziare, preparare essi medesimi tempi migliori. E il governo di Maria Teresa vede di buon occhio quel moto, lo incoraggia, lo affretta, lo seconda. Quello era il tempo di batter forte e sicuro. La satira, che fa sempre l'ufficio di piccone a rovinare le mura crollanti, fin che sia tolto di mezzo l'ingombro e il pericolo, venne dunque anche quella volta opportuna, sebbene alcuno di que' valenti cui dava mano gagliarda non si accorgesse lì per lì dell'aiuto e capisse male l'animo e l'intenzione del picconiere.
Era di moda il poema didattico. Alla scioperataggine artistica sembrava gran che saper descrivere tutto, insegnare tutto, in una serie di sillabe numerate e regolate da accenti. La versione del poema di Lucrezio, condotta con tanta eleganza dal Marchetti, aveva dato a quel genere fallace un impulso nuovo; e di tutto lo scibile ecco fatti maestri i verseggiatori, dalle leggi che regolano il moto dei pianeti all'accortezza con la quale giova inzuccherarsi le fragole. Le dame e [295] i cavalieri si erudivano così, durante la pettinatura, su libri che avevano le apparenze dell'arte. Già nel 1719 un patrizio pisano aveva messo in versi tutto quanto il Cuoco in villa; dove potreste imparare a far minestra di triglie, o burro di mandorle, o salsa di gelsomini sopra il pesce fritto, da ricette di endecasillabi che hanno talvolta, per curioso incontro del serio con l'ironico, intonazione pariniana:
Or queste son le file onde si ordisce
De' pasticcini tuoi la tela industre.
Il Parini, che vuole ammaestrare, lascerà ad altri poi la cura di sdottoreggiare a quel modo in poemi didattici sull'educazione: egli fingerà, soltanto, di accettare dalla moda le forme; dentro esse forme infonderà lo spirito sarcastico che ha visto far mirabile prova nelle satire latine del Sergardi, del Lucchesini, del Cordara. Piace, per esempio, la Coltivazione del riso in endecasillabi sciolti, leggiadra opera del marchese Spolverini? Vi do, par ch'egli dica, vi do anch'io un poema didattico, L'educazione del gentiluomo; e sarò anch'io un versiscioltaio come vuole la moda. Ma quel ch'egli dice veramente è questo:
Spesso gli uomini scuote un acre riso,
Ed io con ciò tentai frenar gli errori
De' fortunati e de gl'illustri, fonte
Onde nel popol poi discorre il vizio.
[296]
Notate qui due cose, la distinzione tra i fortunati e gl'illustri, e l'intendimento di frenarne gli errori. Tale distinzione è in riscontro a quella sul principio del poema, là dove si fa la supposizione doppia, che il giovin signore discenda o da antica famiglia o da un padre arricchito in pochi anni a furia di far lo strozzino. Gl'illustri saran dunque i nobili, i fortunati quelli che per censo s'imbrancano tra loro: con cinquecento fiorini si diventava un don, con duemila cinquecento si diventava marchese. Agli uni e agli altri, non a' nobili soli di data antica, si volge dunque la satira del Parini. Ed anche a' ricchi borghesi. Tanto è vero, che nel descrivere il Corso non ommetterà le figurine comiche delle Naiadi e delle Napèe, ninfe silvestri, che vorrebbero farsi credere delle Dee maggiori. Hanno un bel pompeggiare costoro, dopo aver fatto indossare le livree di cocchiere e di staffiere al cuoco e al ragazzo di stalla, e aver forse chiuso a chiave, solo in casa, il vecchio padre! Anche queste maschere ei conosce; e di quei nobili, e de' borghesi che ostentano i vizii de' nobili, vuole il poeta frenare gli errori: correggerli, cioè, e tentare che volgano al bene il tempo, il danaro, le forze sprecate sì malamente.
Non si correggono gli adulti; si educa meglio o peggio il fanciullo. Il Parini educatore disse [297] chiare le idee sue nell'ode per la guarigione dell'Imbonati, nè mi è necessario rammentarle a voi, che tutti avete in mente i precetti di Chirone ad Achille ne' versi gloriosi. Nobiltà vera non è quella che si eredita dagli avi; è quella che ci acquistiamo noi stessi col merito delle opere nostre. A divenir nobili occorre quindi l'esercizio di tutte le facoltà migliori delle membra e dell'animo; anche delle membra, perchè senza il vigor loro non si ha virtù attiva ed efficace. Membra sane non valgono al bene se non son rette e mosse da un'idealità morale; e di tutte le idealità la più alta è la fede, purchè non sia nè ipocrita nè intollerante. Nobile vero e compiuto è quegli solo che adopera corpo ed anima, con sacrificio di sè, pel vantaggio degli altri.
Se il giovin signore ammaestrato nel Giorno è proprio il rovescio dell'Achille dell'ode, il precettore che nel Giorno lo ammaestra non è il rovescio di Chirone, nè poteva essere. Il giovin signore (che che altri allora ne malignasse e qualche critico abbia poi cercato dimostrare) non è una data persona; è un tipo imaginario, composto di chi sa quante persone, atteggiato in [298] chi sa quanti modi, che il poeta aveva osservati e colti nel fatto. Potè per ciò riuscirgli quale lo voleva; perfettamente vuoto, insulso, indegno, così da non poter essere neppure un tipo drammatico. Ma il precettore che parla per tutto il poema è, in fondo, il Parini medesimo che si vale dell'ironia. Per maneggiarla a dovere egli usa ogni accortezza; per non romperla si frena quanto può: se non che, mentre scrive, due ordini di reminiscenze lo distraggono di continuo, tentano sviarlo: le campagne della sua Brianza, e gli effetti sinistri dell'egoismo di quel fantoccio cui si volge. Campagne lontane; effetti troppo spesso presenti.
Addio, monti sorgenti dell'acque! Quanto era meglio (par che dica il poeta) restare tra voi, e uscir la mattina all'alba lungo le siepi fiorite, e scuoterne passando la rugiada che rifrange quasi gemme i raggi del sole nascente! vedere il contadino avviarsi al campo spingendosi innanzi i buoi, udir da lontano i colpi del fabbro nella sonante officina! Quanto era meglio ammirare d'estate il crescere della bufera col tuono sempre più rimbombante di monte in monte su la valle e su la foresta,
Finchè poi scroscia la feconda pioggia
Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe
Ravviva, riconforta, allegra e abbella!
[299]
Quanto era meglio veder la luce del tramonto indugiarsi rosea su le cime de' colli; meditare la rotazione incessante della Terra intorno all'astro, scendere col pensiero, mentre l'astro pareva calasse laggiù dietro l'orizzonte, scendere all'altro emisfero che si affrettava a goderne!
Già sotto il guardo de la immensa luce
Sfugge l'un mondo; e a berne i vivi raggi
Cuba s'affretta e il Messico e l'altrice
Di molte perle California estrema;
E da' maggiori colli e dall'eccelse
Rôcche il sol manda gli ultimi saluti
All'Italia fuggente..............
Oppure uscire, di notte, fantasticando; vedere come crescono giganti le ombre nelle torri antiche, solcano il cielo le stelle cadenti; ascoltare, come farà poi il Leopardi, la turba infinita de' grilli sotto il gran silenzio del cielo, e la rana remota alla campagna. Que' pochi anni vissuti a Bosisio risorgono distinti, particolareggiati, in mente al Parini, mentre il precettore insegna al giovin signore, che gli altri tutti han da lavorare per lui, egli solo godersi il lavoro di tutti: i mietori sudare ne' campi, i soldati vegliar per le mura, i muratori arrischiarsi su' palchi, gli artigiani oprare nelle botteghe, i remiganti stancar le braccia pe' laghi; tutti per lui solo. Il sentimento della natura che sgorga e si effonde così schietto e vivace, subito che gli si porga un'occasione, [300] fuori dell'insegnamento ironico, non è, certo, del finto precettore; è del poeta vero.
E dal Parini, non dal finto precettore, rompono i gridi della coscienza offesa, che non sa più velarsi con l'artificio d'una figura retorica, quando le cose dal poeta evocate le si presentano nella cruda realtà. Coscienza di filantropo e di prete buono, in cui vennero a fondersi le dottrine degli Enciclopedisti francesi e il Vangelo di Cristo. Presa dalle sue proprie finzioni, la fantasia inorridisce allora nel rispecchiarsi entro il verso. Pranza il giovin signore? pranzi, s'impingui, dimentico perfino della carità tradizionale. E voi
............ Egri mortali
Cui la miseria e la fidanza un giorno
Sul meriggio guidaro a queste porte;
Tumultuosa, ignuda, atroce folla
Di tronche membra, e di squallide facce,
E di bare e di grucce, or via da lungo
Vi confortate; e per le aperte nari
Del divin pranzo il nèttare beete
Che favorevol aura a voi conduce:
Ma non osate i limitari illustri
Assedïar, fastidïoso orrendo
Spettacolo di mali a chi ci regna!
Del pari, nella descrizione della furia con la quale passavano per le vie le carrozze signorili, senza punto curarsi de' passeggeri, a onta dei bandi ripetuti, sì che alla fine il Governo dovè [301] comandare ai birri di ficcar delle stanghe tra le rote volanti, e spezzarle, e fermarle così per forza, le rote, o vulgo,
Che già più volte le tue membra in giro
Avvolser seco, e del tuo impuro sangue
Corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
Spettacol miserabile, segnaro.
Queste voci sincere del poeta, verso la natura amata, verso i fratelli oppressi, possono sembrare errate soltanto a chi pregia più la retorica che la poesia: son esse, anzi che un errore, il pregio migliore del poema, perchè lasciano scorgere di tanto in tanto l'anima di chi lo scrisse, e, riposando dalla lunga ironia, ne rilevano l'intendimento.
Il Giorno, di cui pubblicò nel 1763 la prima parte (Il Mattino), e nel 1765 la seconda (Il Meriggio), non le odi che non raccolse mai, fecero celebrato il Parini da vivo; e certo nel poema, così nobile di pensiero, così leggiadro d'invenzioni, così elegante di stile, così magistralmente variato nelle intonazioni e nell'accento de' versi, nel poema più che nelle odi sta la ragione della sua [302] grandezza. Incontentabile come era, lo lasciò incompiuto; e più copie lasciò corrette e ricorrette, delle parti che ne aveva date alle stampe. Anche per l'intenzione formale dell'arte e pel modo di lavorare il Parini è il maestro diretto del Foscolo, che, tutto industriandosi nella rappresentazione precisa e insieme estetica delle cose, amò procedere di quadretto in quadretto, e incontentabile anche lui non riuscì a finire le Grazie. Ma dall'altro lato il Parini, nel poema e nelle odi, è padre della scuola che si onorò di Alessandro Manzoni.
Il poeta che si propose congiungere l'utile al vanto di lusinghevol canto, e che richiamò la poesia da' giuochi della mente ai moti dei cuori, inspiratrice di virtù, l'artista che fe' getto delle ciance arcadiche e lavorò un poema moderno, contemporaneo, senz'altra mitologia se non quella che l'argomento recava con sè per l'ingegnosa imitazione e parodia della moda tutta amorini, fu ben a ragione vantato come maestro primo de' Lombardi che dopo il 1816 affermarono nobilmente la nuova scuola. Fin dal 1806 tale derivazione era stata sentita dal giovane Manzoni, quando nei versi in morte dell'Imbonati, scolaro del Parini, si faceva ripetere da lui gli ammonimenti famosi: sentire e meditare, non tradire la verità, non contaminarsi mai, volgere l'arte a [303] incremento di virtù. E scolaro vero e proprio del Parini fu Giovanni Torti; e antesignano de' romantici lui riconobbero anche gli avversarii.
Ben a ragione, anche per certe qualità dell'ingegno fantastico. Chi si aspetterebbe da un poeta a mezzo il Settecento questo accenno alle Fate?
Fama è così che il dì quinto le Fate
Loro salma immortal vedean coprirsi
Già d'orribili scaglie e, in feda serpe
Vôlte, strisciar sul suolo, a sè facendo
De le inarcate spire impeto e forza;
Ma il primo Sol le rivedea più belle
Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi
Mescere a voglia lor la terra e il mare.
E originalissimo allora l'accenno a' signorotti e a' bravi del secolo XVII, e più la descrizione della gelosia medievale, quando i mariti, fatto preparare un funebre catafalco, offrivano alle mogli infedeli la scelta tra il veleno e lo stile; e quella della notte quale un tempo appariva su le torri “di teschi antiqui seminate al piede,„ con upupe e gufi svolazzanti, e fuochi fatui, e urla di fantasime, cui per entro al vasto buio “i cani rispondevano ululando.„ Una poesia, scritta a cinquant'anni sonati e rimasta a mezzo, mostra forse le origini di tanta romanticheria, e così efficace, del Parini. Non era uscito dalle fasce e già le sdentate donnicciuole del vicinato gli avevano empita la mente di novelle: le streghe [304] attorno al noce di Benevento, i folletti maliziosi, gli spettri paurosi:
Con la bocca aperta e gli occhi
E gli orecchi intento io stava;
Mi tremavano i ginocchi;
Dentro il cor mi palpitava.
Al venir de le tenèbre
M'ascondea fra le lenzuola:
Indi un sogno atro e funèbre
Mi troncava la parola.
Non di meno al novo giorno
Obliavo i pomi e il pane;
A le vecchie io fea ritorno
E chiedea nuove panzane.
Sembra, anche pel metro, una romanza di Arrigo Heine.
Ma questo padre di romantici, questo romantico in potenza, come ha dallo studio de' classici tanto derivato di virtù e d'eleganza all'eloquio e al verso, che è tutto classico, e avrà discepolo il classico Foscolo, così ha audacie di realismo sano che tra i romantici nostri nessuno poi vorrà e saprà osare. In più luoghi del Giorno le potrei additare: evidenti sono nelle odi. Se non avessimo innanzi ciò che il poeta seppe fare, e [305] che è spesso un capolavoro, si direbbe che egli volesse vincere bizzarre scommesse: prese i metri della canzonetta anacreontica o dell'ode oraziana, quali gli Arcadi le avevano foggiate, e vi trattò delle fogne, e peggio, che impestavano Milano; trattò dell'innesto del vaiolo, dell'evirazione, della chinachina. Perchè, con le odi innanzi, non pensiamo più, neppur da lontano, alla singolarità di tali argomenti? Ciò accade perchè il poeta non li ha cercati e scelti a prova di virtuosità tecnica e d'ingegno sottile, ma essi son venuti spontanei a lui filantropo che pensava il pubblico bene, a lui artista che dentro ogni aspetto della vita, per umile che fosse, sentiva la vita inesausta, grande, immortale, che empie ed anima tutte quante le cose.
Nè meno arrischiate le espressioni; e pur quanto appropriate, vive, efficaci! Le vaganti latrine con spalancate gole che ammorbano la città, il ladro per fame che mangia i rapiti pani con sanguinose mani, il cappello insudiciato di fango e il vano bastone che raccoglie dalla via e restituisce al vecchio poeta quel pietoso cittadino, sono immagini e frasi delle quali la poesia europea, non che l'italiana, non aveva da un pezzo le eguali per energia ed efficacia. Roberto Burns, lo schietto contadino scozzese, non nacque che nel 1759.
[306]
Ogni vita bene spesa ha il suo premio. Al Parini non furono premii i misurati stipendii nè le lodi officiali; ma la stima di tutta la patria, l'ammirazione strappata quasi a forza a chi un tempo aveva diffidato di lui. Si trovò insieme con Pietro Verri nella municipalità che i Francesi istituirono a Milano nel '96. Era naturale che, partiti gli Austriaci, si pensasse per gli offici pubblici a lui che, non mai giacobino ma filosofo filantropo e prete cristiano, aveva tanto cooperato alla diffusione delle nuove idee, per quel ch'era in loro di giustizia civile. Il buon vecchio, ormai paralitico, si faceva portare sulle braccia a compiere il dover suo; e a compierlo ci voleva, spesso, contro le prepotenze e le angarie, non poco coraggio. Quando il coraggio fu inutile, allora soltanto pianse. E il Verri che a mano a mano in quella convivenza sempre meglio lo conosceva, ne scriveva al fratello. Prima così: “Parini il poeta è municipalista mio collega. È un uomo un po' pedante, ma illuminato sui principii della scienza sociale, e di molta probità.„ Poi, un mese e mezzo dopo, così: “Figuratevi [307] che stato è quello di un uomo probo in tale società! Parini, il fermo ed energico Parini, talvolta piange. Io non piango, ma fremo, e lo amo come uomo di somma virtù.„ Per ultimo: “La superiorità francese ha congedati sette municipalisti, tre dei quali erano veramente capaci; gli altri sono dimessi per partito, e tra questi il nostro Parini, uomo deciso per la giustizia e fermo contro chi vorrebbe imporci cose ingiuste, civium ardor prava jubentium. Mi duole, e mi rallegro con lui.„
Venuti gli Austriaci, la mattina stessa del giorno in cui morì, che fu il 15 agosto '99, scrisse un sonetto, che non li esaltava liberatori, ma li ammoniva non ricadessero negli errori d'un tempo. L'ultimo suo pensiero, gli ultimi versi suoi, furono per la patria. Oh anima grande, oh anima che nella gentilezza e nella fierezza, nell'amore e nell'indignazione, quanto un'anima italiana del secolo scorso può paragonarsi ad un'anima del secolo decimoquarto, somiglia all'anima unica di Dante Alighieri.
[309]
CONFERENZA
DI
Enrico Panzacchi
[311]
Vittorio Alfiori è troppo gran tema per un breve discorso; ond'è naturale (a tacere anche degli altri motivi) che io sia tutt'altro che fiducioso di me stesso intraprendendo dinanzi a voi l'odierna conferenza. Ma nello stesso tempo io vi dico, o signore, che il parlare d'Alfieri a Firenze è cosa che mi attrae e, in qualche modo, mi affida.
Qui la figura del grande astigiano non ci appare subito funestata dal terribile pugnale “onde Melpomene Lui tra gl'itali vati unico armò„ come lo dipinse Parini e come egli amava talvolta di rappresentare sè stesso. Qui la sua accigliata figura si spiana alquanto e quasi ci sorride con domestica benevolenza. E voi sapete il perchè, o signore. Firenze, fra tutte le città del mondo, fu quella ove Vittorio Alfieri amò meglio di vivere [312] e ove fu contento di morire. Questo amore al bel paese e alla bella città si manifestò molto per tempo nella sua vita. Circa a ventisette anni egli intraprese il suo primo viaggio in Italia. Era irrequieto, scontento, malinconico. Si sentiva ignorantissimo e nell'animo suo si alternavano ora un desiderio disperato di sapere, ora un insuperabile disprezzo di ciò che non sapeva; e andava e passava, tra curioso e sdegnoso, per le varie città d'Italia. Milano, paragonata alla sua Torino, gli parve addirittura spiacevole. Quando gli presentarono nella biblioteca Ambrosiana alcuni codici preziosi, torse il viso sprezzante e disse che preferiva assai la vista d'un bel cavallo. Passò da Parma, Piacenza, Modena, quasi appena degnandosi di guardare dagli sportelli della vettura. Bologna coi suoi quadri non l'interessò; con le sue strade tortuose e co' suoi portici pieni di frati e di preti lo riempì di malumore. Ma giunge a Firenze e, a un tratto, ecco che tutto cangia! Firenze conquista l'Alfieri come una bella donna; e comincia allora in lui ad agitarsi il proposito di rifare la sua vita, di ricostituire la sua educazione; e determinando poi meglio il suo obiettivo, egli non fa che ripetere ne' suoi discorsi e nelle sue lettere: vivere, pensare, sognare anche, in toscano! Aggiungete che questa città, in mezzo alle tante traversie [313] della vita burrascosa, diventò il porto tranquillo, al quale sempre agognava. Nel 1792 ebbe a passare in Francia gravissime molestie. Egli e la sua donna per poco non furono soprafatti ed uccisi dalla plebaglia dei sanculotti, mentre uscivano di Parigi, essendo presi per dei nobili francesi emigranti. Aggiungete la perdita di denari, la perdita di libri; e immaginate voi quale dovette essere l'umore di quell'uomo tanto facilmente irritabile. Il furore “misogallico„ che già gli bolliva dentro da un pezzo, scoppiò addirittura. Ma appena giunge in Toscana, appena vede le cupole e le torri di Firenze, l'animo suo mirabilmente si rischiara e si rasserena, e va ripetendo un suo verso composto fino dal 1783: “Deh che non è tutto Toscana il mondo!„ Narra egli inoltre nella sua vita “che l'aver ritrovato questo vivo tesoro della favella nella voce del popolo fiorentino lo compensò nell'animo suo di tutto ciò che aveva perduto; i suoi libri, i suoi manoscritti, i suoi stessi denari confiscatigli e rubatigli dai rivoluzionari francesi.„ Ricordate infine che Vittorio Alfieri condusse qui gli ultimi anni della sua vita abbastanza tranquillo; qui, accanto a Galileo e a Michelangelo, ebbe degno sepolcro erettogli dalla pietà della sua donna e col consenso della cittadinanza. Intorno a quel sepolcro veglia la pietà riverente del popolo fiorentino.
[314]
Per comprendere il grande significato che ha nella letteratura e nella storia d'Italia Vittorio Alfieri bisogna, si capisce, riportarsi ai tempi.
In quel periodo di lunghissima pace che ebbe l'Italia dal 1749 (l'anno appunto in cui l'Alfieri è nato) al 1796, sarebbe grave ingiustizia il dire che tutto fu ignavia, inedia e peggioramento nella penisola.
I costumi seguitarono ad ammollirsi, ma bisogna pur anche riconoscere che l'orizzonte delle idee cominciò ad allargarsi e rischiararsi. Persino in quei vecchi e logori organismi dei governi d'allora si fa sentire una certa inquietudine di nuovo, una certa velleità di riforme. Nel pensiero poi il risveglio è evidentissimo. Giovan Battista Vico e Giannone sono morti, ma intanto l'Italia meridionale vanta il marchese Filangeri, Melchiorre Delfico, Mario Pagano e l'abate Galliani, il quale, recatosi a Parigi, prese, a confessione degli stessi francesi, lo scettro dell'arguzia pronta e dello spirito scintillante, caduto per morte dalle mani del signor di Voltaire. Nell'Italia superiore abbiamo i due Verri, il Beccaria, il [315] Palmieri, il Ricci, l'Ortis, il Genovesi. Però, v'ho detto che il Vico e il Giannone erano morti. La pura tradizione del pensiero italico pare, in qualche guisa, interrotta; ma non è senza un grande compenso; poichè è grande e benefico il movimento delle idee che vengono d'oltremonte. In sostanza, o signore, non dobbiamo dolercene poichè l'Italia non poteva isolarsi e sequestrarsi da quella impetuosa corrente di rigenerazione intellettuale che agitava le più civili nazioni d'Europa. Possiamo anche aggiungere, a nostro conforto, che se la tradizione scientifica della nazione in qualche guisa declinò, la virtù del genio paesano ebbe campo di vigorosamente esprimersi e affermarsi nel campo letterario. Gli influssi francesi anche qui non mancano, e così quelli inglesi; nel teatro e nel romanzo siamo, si può dire, soffocati dalle sovrabbondanti imitazioni che vengono dalla Francia e dall'Inghilterra; ma intanto il Baretti rialza il tono della critica e fa conoscere Guglielmo Shakespeare; il Cesarotti scrive libri sopra la filosofia delle lingue e traduce l'Ossian; mentre da ogni parte, anche quegli scrittori che paiono più ligi alle tradizioni arcadiche e frugoniane di tanto in tanto sono rialzati e rianimati da un soffio di vita nuova. Fatto è che tutto questo apparecchio e tutto questo movimento noi vediamo metter capo a tre scrittori, che sono tre [316] artisti di primo ordine: il Goldoni, il Parini e l'Alfieri. Il Goldoni con intuito meraviglioso riconduce l'arte alle fonti del naturale; Giuseppe Parini le ricompone la dignità morale e riprende la sua missione civile; in quest'arringo entra tempestando Vittorio Alfieri e vi porta un fuoco di combattimento e una forza di sdegni di cui non avevamo idea, forse, in Italia dopo che Dante Alighieri era disceso nel sepolcro. E non è uno sfolgorio di forze sregolate e inconsapevoli; si tratta invece di una vera e ordinata potenza d'apostolato civile e politico che domina lo spirito di Vittorio Alfieri; e per trovare qualche cosa di simile dobbiamo risalire a Nicolò Macchiavelli.
Però io mi affretto ad affermare, o signore, che la grande potenza di Vittorio Alfieri è espressa nelle sue 19 tragedie. Le Rime, le Commedie, le Satire, gli Epigrammi, l'Etruria liberata, il Misogallo, il volume Della Tirannide, e la stessa sua Vita, quantunque sia un documento preziosissimo di sincerità umana e d'un animo cavalleresco, generoso e sotto la scorza un po' ruvida, inclinato ai sentimenti più gentili, tutte quest'opere, io dico, non avrebbero avuto grande presa sullo spirito del pubblico italiano, se dietro la figura del fiero conte astigiano la fantasia del pubblico non avesse visto grandeggiare la Musa della tragedia alfieriana, che ha agitato dintorno a noi [317] tante ombre insanguinate e dolenti. Alla vena satirica dell'Alfieri mancano doni troppo necessari; manca quella bonaria semplicità e quella arguta spontaneità che sono gran parte della forza del poeta satirico. E quantunque alcuni suoi epigrammi abbiano continuato a circolare per tutte le classi del popolo italiano, e uno di essi sia rimasto come uno schema programmatico della nostra rivoluzione civile e politica per oltre mezzo secolo (Vescovi e preti — Sien pochi e queti, etc.) io non credo di essere irriverente verso la sua memoria affermando che, se altro l'Alfieri non avesse composto che le opere minori, poco si parlerebbe oggi di lui.
E non dubito parimenti di affermare che anche sul suo teatro tragico il tempo ha esercitato l'opera sua di distruzione. Ma questo è un fatto d'un ordine molto differente. Sì, è vero: il teatro di Vittorio Alfieri non ha più da lunga pezza la notorietà e la popolarità che ebbe un tempo. Se non è il caso che qualche attore meraviglioso evochi le figure di Saul o di Filippo, esse non compaiono più sulle nostre scene. Anche il buon popolo, questo strato profondo nel quale pareva così durevolmente penetrato lo spirito tragico di Vittorio Alfieri, anche questo ultimo suo cliente domenicale dei teatri diurni, a poco a poco lo ha abbandonato. Oggi il popolino [318] nostro preferisce di commuoversi alle peripezie di Nanà e di piangere tutte le sue lagrime ai dolori della Signora dalle Camelie! Ma questo, o signore, è fato comune. L'opera teatrale ha in sè stessa uno spirito d'arte che può renderla eterna; ma ha nello stesso tempo una ragione di caducità, che, dopo un breve periodo, la toglie irremissibilmente alle pubbliche scene. Chi pensa oggi a rappresentare i capolavori di Eschilo, di Sofocle e di Euripide? E del grande teatro francese non è avvenuto lo stesso? Se non ci fosse a Parigi un'istituzione fondata apposta per tener vive le rappresentazioni di certi capolavori, quante volte credete voi che a Parigi si rappresenterebbero il Cid, la Fedra, il Misantropo? Rimane, meravigliosa eccezione, il teatro di Guglielmo Shakespeare. Ma anche sul conto del sommo tragico inglese ho un'idea che voglio manifestarvi. Suol dirsi che lo Shakespeare non passa sulla scena perchè solo ne' suoi personaggi è espresso l'uomo eterno. Esagerazione! L'uomo eterno è anche in Filottete, in Rodrigo, in Alceste. Io credo che il tragico inglese stia ora beneficiando il lungo e immeritatissimo oblio nel quale l'Europa l'ha tenuto per più di due secoli. Ma venendo al fatto, quanti drammi di Shakespeare tengono ancora la scena, fra i tanti che ne compose? Cinque o sei a dir molto; e per giunta ridotti; ed è tutt'altro [319] che improbabile che anche questi pochi col tempo vengano messi in disparte. Questo non toglierà naturalmente nè al Re Lear, nè all'Amleto, nè al Macbeth di essere dei meravigliosi capolavori e di venire per tali ammirati da quanti con animo capace li leggeranno.
Ma venendo un poco più presso al nostro argomento, io mi son domandato più volte: Le critiche fatte al teatro di Vittorio Alfieri in quale categoria dobbiamo noi collocarle? Hanno ragione per esempio i due Schlegel e Madama di Staël che lo considerano come un autore tragico convenzionale, freddo, fuori della vita? Ebbe ragione il Lamartine quando con quella sua consueta superficialità di critica lo chiamò “un Seneca senza Roma?„
Per essere almeno fortemente dubitosi che questi signori avessero ragione, bisognerebbe che fossimo certi che, leggendo l'Alfieri, essi lo hanno ben capito. Ora, essendochè anche per noi italiani l'Alfieri è circondato di molta oscurità ed è anzi a ragione censurato di questo; e considerando che, se vi è autore drammatico che sfugga gli apparati esteriori e che tutto il valor suo concentri nell'intima significazione del soggetto per virtù dello stile è appunto l'Alfieri, e che quindi per arrivare fino a lui fa d'uopo possedere tutte le più sincere e più complete ragioni [320] della critica, permettetemi, o signore, di non credermi irriverente se dubito che i due Schlegel e madame di Staël e il Lamartine conoscessero abbastanza l'Alfieri per poterlo sicuramente giudicare.
Noi, per giudicare bene l'Alfieri tragico, dobbiamo anzitutto ricercare quale idea egli si fosse formata della tragedia prima di accingersi a comporne; e da quali concetti e sentimenti egli fosse accompagnato nello svolgere la serie delle sue composizioni tragiche. Per intendere questo fa d'uopo tornare alla sua vita.
Abbiamo accennato come egli venne su e quanto poco studiasse nell'infanzia e nella adolescenza. Confessa egli stesso che “sdegnò ogni studio.„ Ma ferveva in lui il bisogno del sapere. Di tanto in tanto gli balenava il fantasma luminoso e attraente della gloria; talvolta anche era preso da un'indicibile vergogna della propria ignoranza; e allora pareva che due uomini lottassero aspramente dentro di lui. In sostanza la sua è una educazione letteraria che comincia tardi e procede malissimo; cioè confusa, interrotta, a sbalzi, per [321] colpi di sorpresa e per impeti di entusiasmi subitanei e fortuiti. Per esempio: oggi gli capita in mano Plutarco, ed ecco che lo investe il desiderio di celebrare gli uomini meravigliosi dei quali ammira le gesta; domani legge la canzone Alla Fortuna di Alessandro Guidi, s'esalta, s'infiamma, si dibatte sul proprio divano, tanto che è costretto ad interrompere la lettura; e giura che ode suonare dentro di sè una voce che gl'impone d'esser poeta.
Così di mano in mano la sua vita passa sempre fra queste scoperte, fra questi subiti entusiasmi. Oggi è Sallustio che lo attrae, domani sarà Tito Livio, che un impiegato gl'impresta nel viaggio interrotto da Sarzana a Firenze; più tardi, a Siena, sarà Macchiavelli quando l'amico Gori gli metterà per la prima volta nelle mani un esemplare delle opere del segretario fiorentino.
Ed ogni volta che fa di queste scoperte, ecco che si rinnovano questi abbandoni completi del suo animo ad un'ammirazione sconfinata, assoluta e del tutto libera da ogni temperamento e da ogni governo della critica. Così sull'ultimo limite della sua vita, a cinquant'anni, quando nessuno di noi oserebbe pensarci, si mette a studiare il greco, ed essendo riuscito colla ferrea forza del volere a superare anche questa volta ogni ostacolo, ne diventa tanto glorioso che fonda [322] l'ordine del divino Omero e crea sè stesso primo cavaliere di quell'ordine.
Insomma, se devo tutto rendere con un immagine, a me Vittorio Alfieri dà l'idea d'un eterno studente di rettorica. Per aver cominciato ad esserlo tardi, egli è costretto ad esserlo per tutta la vita.
Questo singolare e forse unico procedimento educativo doveva avere ed ebbe delle conseguenze gravissime. Vittorio Alfieri — l'eterno studente — della tradizione e della autorità classica non dubita mai. Sotto questo aspetto chi guarda nell'animo suo trova una grande somiglianza con quei primi umanisti del nostro Rinascimento i quali accoglievano con una venerazione incondizionata tutto quello che veniva dalla sacra antichità. Infatti in Alfieri ciò che sorprende anzitutto è la sua assoluta mancanza di ogni senso critico tutte le volte che egli si trova di fronte a un classico. Questo tanto più ci meraviglia se pensiamo ch'egli visse in mezzo a tanta espansione e libertà di critica. In quell'epoca la Francia aveva il suo Diderot, la Germania il suo Lessing, e l'Italia il suo Baretti per tacere di tanti altri. In mezzo a tutti questi uomini che esaminano liberamente l'antichità, la discutono, la negano anche, Vittorio Alfieri non sa che adorare. Egli, così libero in tutto il resto, [323] qui è sempre entusiasticamente devoto e sottomesso; e fa soprattutto meraviglia vedere come a lui manchi quel senso e quel criterio di graduazione, senza del quale è impossibile la verità dei giudizi. Egli dice indifferentemente “il divino Sallustio, il divino Tacito„ come dice “il divino Omero, il divino Dante.„ Quest'ammirazione che io direi monometrica dell'Alfieri ebbe certo una grande influenza sul modo che egli adoperò nel concepire la tragedia. Ricordiamo ancora che Vittorio Alfieri fu un conte democratico, odiatore di tiranni se mai ce ne furono. Ma come fu un patrizio democratico, così io direi che tenne molto ad essere un poeta patrizio. Tutto quello ch'egli aveva conceduto di buon grado, spinto dall'animo suo generoso e filantropico, nel campo dell'araldica, lo voleva riconquistare nel campo delle lettere; e fu, in sostanza, il poeta più rigidamente aristocratico che potesse immaginarsi.
Da questa educazione e da questa indole l'Alfieri fu mosso a cercare la via che ad esse meglio si confaceva per riuscire originale; e vi riuscì spingendo all'ultimo limite, cioè alla sua più rigida espressione, il tipo della tragedia pseudo classica.
Egli avrebbe voluto riuscire poeta più rigidamente classico dei classici stessi. E notate altro contrasto. Mentre nel campo della politica gettava [324] via tutti i vecchi vincoli e saltava tutti i vecchi confini, nel campo delle lettere egli amava studiosamente tutto ciò che vi era di autoritario e di coercitivo. Come certi poeti lirici amano di moltiplicare le difficoltà del ritmo e della rima perchè il cesello dell'opera loro risulti più evidente e più prezioso, Vittorio Alfieri immaginò una tragedia ridotta alla sua più rapida e secca espressione, dove ciò che si intendeva per tradizione classica non era solamente osservato con riverenza ma anche oltrepassato con una specie di zelo feroce. Così, l'orgoglioso poeta, volle circoscrivere il proprio agone e farlo angusto e difficile per meglio mostrarsi in esso gloriosamente; a somiglianza di quell'atleta che volontariamente si carichi di pesi o si leghi un braccio nella lotta perchè meglio appaiano la sua agilità e la sua forza.
Vedete fatto strano! Vittorio Alfieri non discute mai l'autorità degli antichi. Eppure quella autorità è ormai discussa da tutti. Perfino Pietro Metastasio, quel mansueto e mite abate che assai volentieri si genufletteva dinanzi a Maria Teresa, suscitando gli sdegni dell'astigiano, perfino il buon Metastasio paragonato a Vittorio Alfieri nelle concezioni letterarie diventa uno spirito indipendente, quasi un rivoltoso. Infatti egli, commentando la poetica d'Orazio, esprime idee e intendimenti [325] evidentemente più larghi, più sciolti — direi con moderno vocabolo — più liberali di quelli che esprime l'Alfieri. Del Baretti, del Conti, del Gozzi è inutile ch'io parli. L'Alfieri invece mette tutta la sua compiacenza e il suo orgoglio nel restringere sempre più i vincoli che regolano il componimento tragico, e non gli garba e allontana da sè tutto quello che può avere l'aria di una concessione e d'un lenimento, tutto quello che può essere inteso come una facilitazione a conseguire l'effetto. Egli vuole essere solo colle proprie forze e privo d'ogni aiuto; solo a proseguire uno schema di tragedia nuda, inamabile, talvolta persino mostruosa e feroce. Raccolto e fisso in questa idea, vede quanto partito sapessero i tragici cavare dai cori; e bandisce i cori. — Legge i tragici francesi, vede quanti argomenti di facilitazione alle scene e di preparazione alle catastrofi essi traggono dall'intervento delle nutrici e dei confidenti; ed egli bandisce le nutrici e i confidenti. — Legge nella poetica d'Orazio che il quarto personaggio dell'azione non deve incaricarsi di parlare troppo; ed egli prende alla lettera il consiglio, lo muta in precetto, lo esagera e restringe l'azione delle sue tragedie quasi sempre a tre soli personaggi. — L'amore egli sa, egli sente, qual dilettoso e magico coefficente sia per tenere i cuori della folla, per [326] esaltarli, per commuoverli; ebbene, egli bandisce dalle sue tragedie anche l'amore! — Le donne amanti d'Alfieri sono per lo più delle figure secondarie; amano sciaguratamente, e sono sempre vittime d'una potenza superiore che loro toglie perfino la possibilità del contrasto. Una fatalità ineluttabile, una politica feroce invade l'ambiente, ed esse, le povere e deboli vittime, o la subiscono inconscie o sono spazzate via come fiori dal turbine. Una sola volta l'Alfieri si mette di proposito a comporre una tragedia che ha per base un vero amore femminile. Ebbene, anche questa volta egli è sedotto dal suo demone; e in tanta abbondanza di soggetti va proprio a cavar fuori Mirra, documento mirabile del suo ingegno, una delle prove più vittoriose delle sua facoltà tragiche; ma voi ben sapete quanto poco lo aiutasse la scelta dell'argomento. E non basta. Nessuno ignora quale efficacia e quanta facilitazione all'effetto teatrale abbiano derivato gli altri poeti tragici dalla effusione lirica abilmente innestata all'azione e al dialogo serrato delle tragedie. Non la sdegnarono certo i greci, e basterebbe ricordare sopra tutti Euripide. Dei moderni è inutile parlare. Quanta parte, per esempio, non verrebbe diminuita del teatro tedesco e spagnuolo se si volesse sopprimere la lirica? Ebbene: anche di questo elemento il nostro Alfieri si mostra sdegnoso. Egli getta [327] da sè, dal suo bagaglio poetico tutto quello che non è nuda e rigida e laconica espressione dello schema drammatico. Non si ferma mai a cogliere un fiore lungo i margini della sua strada; e corre austero e rapidissimo verso la propria meta.
Tale si formò nella mente di Vittorio Alfieri l'ideale della tragedia e tale volle esprimerlo. Egli lo definì in un passo della sua lettera in risposta a quella di Ranieri Calsabigi, il quale gli aveva scritto una lunghissima tiritera infarcita di erudizione indigesta, sopracarica di lodi e mescolata anche di qualche critica non sempre infondata. Il fiero conte che non rispondeva quasi mai alle critiche, che gli giungevano da ogni parte d'Italia o in senso laudativo o in senso di biasimo, al Calsabigi rispose: “Vorrei la tragedia di cinque atti, piena, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto: dialogizzata dal solo personaggio, attore, non consultore, o spettatore: la tragedia di una sola tela, ordita, per quanto si può, servendo alle passioni: semplice per quanto l'uso d'arte il comporti: tetra e feroce per quanto la natura lo soffra: calda quanto era in me. Ecco la tragedia che io ho concepito. Per questa volli, sempre volli, fortissimamente volli.„
[328]
Gli effetti di tanta rigidezza schematica inducente a tanta servitù volontaria, voglio anzitutto considerare nel loro lato negativo.
È certo, per esempio, che nelle tragedie di Vittorio Alfieri voi sentite sempre e solo le voci degli uomini, quelle delle cose e dell'ambiente quasi mai. Nei teatri degli altri poeti noi non possiamo disgiungere questi due elementi, i quali potranno essere distribuiti in diversa misura, ma stanno pure fra loro in una certa utile proporzione. Se noi, caso per caso, tragedia per tragedia, raccogliamo dentro il nostro spirito l'azione complessa e concorde di questi due diversi coefficienti, i grandi effetti saltano agli occhi. Basterà ricordare l'esempio di alcune tragedie di Shakespeare ove è manifesto che gli animi degli spettatori rimangono sempre divisi tra l'azione dei singoli personaggi e quella dell'ambiente. Come, ad esempio, potreste spartire nella vostra mente gli effetti che vi produce l'Amleto, senza distinguere la parte dovuta a ciò che vi ha di fantasticamente [329] suggestivo nella rappresentazione dei luoghi, dalla azione pura e semplice dei personaggi? Come non tenerne conto nella scena della piattaforma di Elsinora in quell'alto silenzio della notte, colla voce delle guardie che si rispondono, prima che appaia lo spettro di Amleto? Poi la vita interiore di quella corte danese, con quel teatro dov'è combinata dallo spirito vendicativo del giovane principe la scena che farà confessare al delinquente il suo delitto; e poi il cimitero dove echeggiano le lepidezze dei becchini; poi, mentre suona la voce malinconica di Amleto, i suoni della lugubre sinfonia che accompagna al sepolcro il corpo della povera Ofelia.... Tutta questa eloquenza de' luoghi e delle circostanze concorre moltissimo all'effetto dell'azione; toglietela e molta parte del sentimento tragico sfumerà.
Invece l'Alfieri dal suo alto coturno rinunzia con gesto sprezzante a tutto ciò. Egli vi pianta i suoi personaggi dinanzi ad un freddo colonnato dorico; e lì, nello spazio di poche ore, debbono vivere, soffrire, morire. Egli arriva a sottilizzare, a spiritualizzare talmente i suoi caratteri che talora egli è costretto a disumanizzarli. Io non so trovare altra parola per esprimere il mio concetto. E come si compiace egli di tutto questo sfrondare, condensare, scheletrizzare! Si direbbe che se anche di quel piccolo apparato esteriore egli [330] potesse far getto, lo farebbe tanto volentieri onde così richiamare e concentrare tutto lo spirito e tutta l'azione tragica nel mero e invisibile teatro dell'umana fantasia.
Ma quando colla vigoria scultoria del verso, colla veemenza delle passioni, nel dialogo serrato, nella successione delle scene correnti verso la catastrofe, egli arriva a rapirci e a portarci in quel mero e invisibile teatro della umana fantasia, o signore, allora come ci avvediamo che Alfieri è davvero grande! E ci vengono spontanei alla memoria i versi che a lui volgeva il Parini:
Come dal cupo, ove gli affetti han regno,
Trai del vero e del grande accesi lampi,
E le poste a' tuoi strali anime segno
Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi!
Giorgio Hegel, investigando la essenza del componimento tragico, dice che bisogna istituire una certa equazione estetica fra la tragedia e la statuaria. Leggendo questo passo del filosofo tedesco, la mente corre subito all'Alfieri, e la comparazione assume un carattere tanto individuale che pare fatta pensando a lui. Quel marmo nudo, quelle linee austere e semplici, senza vaghezza di fondo, senza ambiente, senza policromia, mute, fredde; ecco veramente la tragedia d'Alfieri! Questa somiglianza colla scultura non ha solo, o signore, un carattere figurativo e superficiale ma [331] qualche cosa di intimo e di profondo. Dinanzi alle più perfette tragedie dell'Alfieri si prova un sentimento assai somigliante a quello che ci fanno provare alcune delle opere più celebrate della statuaria antica.
Di lui si potrebbe dire quello che il Wielland disse di Cristoforo Glück, il fondatore del melodramma moderno. Anche Vittorio Alfieri “preferì le Muse alle Sirene.„ Peccato che più d'una volta egli siasi dimenticato che le Muse pretendono d'avere una voce non meno melodiosa e non meno piacevole di quella delle Sirene!
I critici restringono i difetti dell'Alfieri principalmente alla durezza e all'oscurità. E notate che l'autore stesso non osava molto difendersi; dirò anzi che alcune volte accoglieva con compiacenza queste censure. Non si ricordò egli dell'aurea sentenza di Quintiliano, che la brevità non consiste nel dire poco, ma nel dire nè più nè meno di quanto occorra perchè le forme del nostro pensiero e i moti dell'anima siano resi evidenti e forti in chi ci legge e in chi ci ascolta. Vittorio Alfieri invece fece della brevità una cosa sola colla sostanza e col contenuto delle sue concezioni tragiche. È così invasato (questa parola s'incontra spessissimo nella Vita e nelle lettere) è così invasato dal furore che lo incalza verso la catastrofe, che accoglie con trasporto [332] tutto quello che accorcia in qualunque modo la strada che ha dinanzi. E questo lo persuade a riprender sempre la sua materia letteraria fra le mani inquiete, e a tormentarla in tutti i sensi, pur di spremere sempre qualche sacrifizio di possibile superfluità, pur di aggiungere sempre qualche spizzico di laconismo. Di ciò arriva egli a compiacersi quasi puerilmente; e allora allinea le cifre dei versi di cui si compongono le sue tragedie, dimostrando con orgoglio che, per esempio, nella elaborazione di quella tale sua tragedia i versi erano da prima 1400, ma nella seconda prova diventarono 1350, nella terza scesero fino a 1320. E mostra di non dubitare un momento che questi 50, questi 80 versi strappati alla prima fattura siano sempre una legittima conquista dell'arte, un passo di più verso la perfezione!
[333]
Ora, dovrei discorrervi delle diciannove tragedie di Alfieri; ma l'argomento chiederebbe per sè solo una serie di conferenze. Mi contenterò dunque di accennare a due sole: il Filippo e il Saul.
La prima fu composta dall'Alfieri quando il suo spirito giovanile non era ancora stato così rigidamente disciplinato dal rigore delle sue teorie e potè abbandonarsi con una certa spontaneità ai liberi impulsi dell'animo. Nel Saul, che fu invece una delle ultime, sentiamo uno spirito ed un soffio nuovo circolare per le scene e animare i personaggi. È lo spirito della Bibbia, dei Salmi, dei Profeti.
Quanto al Filippo, è certo che con poche altre tragedie l'Alfieri è riuscito ad espugnare più fortemente l'animo dei suoi spettatori. L'orditura dell'azione e la successione abilissima delle scene, dove l'interesse delle passioni è sempre più vivo e l'aspettazione è sempre più intensa, rendono questa tragedia tipica e indimenticabile. E il Filippo tenne per lungo tempo le scene italiane [334] gustato e ammirato senza contrasti. Ma quando Andrea Maffei, elegantissimo verseggiatore se non traduttore sincerissimo, intorno al 1840 ebbe voltato in italiano il Don Carlos di Schiller, parve che sul Filippo alfieriano si scatenasse una tempesta dalla quale non si sarebbe più rialzato. Quella tela più ampia e più varia, quella corrente di lirismo delizioso e geniale che il poeta tedesco gitta attraverso a tutta l'azione pietosa e terribile del dramma spagnuolo, doveva avere ed ebbe una presa fortissima nell'animo del pubblico italiano. Al primo confronto l'opera del nostro tragico parve spacciata. Ma al secondo esame, sbollito quel primo fervore, si cominciò a capire che la macchina della tragedia alfieriana aveva in sè tale una forza e tale una consistenza da sostenere senza tema il paragone col lavoro tedesco.
E non dubito che voi stesse, o signore, eliminando, per quanto è possibile, certe impressioni estranee e quasi profane al puro elemento tragico, emancipandovi dalla facile sensibilità eccitata da certe digressioni e da certe declamazioni, muterete il vostro primo giudizio. Dov'è infatti che vedrete più resa e scolpita quella Spagna del secolo XVI, inquisitoriale, sospettosa e dispotica? E dov'è che sentirete meglio inteso il carattere tiberiano di quel re spagnolo, che passò tutta la [335] sua vita in una cupa adorazione della sua regia maestà? E dov'è che trovate colorito più fortemente, più splendidamente il carattere cavalleresco ed amoroso del favoleggiato figlio di Filippo II?
Anzitutto Federico Schiller, che pure aveva tanto studiato la storia di Spagna, si mostra meno fedele allo spirito di essa che non l'Alfieri, il quale non pretese che di fare opera di poeta. Io perdono volentieri allo Schiller parecchie infedeltà storiche; quella, per esempio, d'aver messo il duca d'Alba alla corte di Madrid, mentre è ben noto che in quell'epoca stava nelle Fiandre a domare i ribelli; ma quel Marchese di Posa messo lì, in pieno secolo XVI, in piena inquisizione di Spagna, ad esprimere le idee di Gian Giacomo Rousseau mitigate dall'ottimismo del Condorcet, quel Marchese di Posa, o signore, come difenderlo dalla taccia di artificioso, di rettorico, di falso?
Quanto è più vero l'Alfieri, quanto non rispecchia più fedelmente l'ambiente storico con quelle sue linee semplici, austere, con quella sua azione dominante, incalzata da una cupa fatalità! L'amore di Don Carlos com'è più delicatamente e cavallerescamente reso dal poeta italiano! Il poeta tedesco, per esempio, non esita a rendere confidenti dell'amore di Don Carlos degli esseri spregevoli [336] come Fra Domenico; e poi, quando il principe ha ben discusso e dissertato di altissimi ideali umani con l'amico Marchese, non dubita di convertirlo in un messaggero d'amore, e di quale amore! Il Don Carlos di Alfieri invece conserva come una religione nel profondo dell'animo il segreto del grande e infelice amor suo. L'amico suo Perez — tanto più vero anche in questo di quel filantropo spostato del Marchese — l'amico suo Perez, è egualmente devoto all'Infante e all'uomo, è pronto sempre a morire per lui; ma non osa mai di esprimere nemmeno un motto per cui mostri di sospettare anche lontanamente nel figlio del re di Spagna l'amante della matrigna.
E Filippo? Più la storia si studia più si rimane convinti che il Filippo d'Alfieri è assai più vicino al vero Filippo della storia. È un uomo che più che colle parole parla coi cenni, colle occhiate, col silenzio. Al suo confidente Gomez impone di stare ben attento; nè una parola, nè un sguardo, nè un tremito, nulla deve sfuggirgli. E dopo la scena rivelatrice dell'Infante e della Regina, egli si limita a domandare: vedesti? udisti?... E subito tronca il dialogo con un gesto minaccioso. Mentre il sipario cala sul palcoscenico, l'animo nostro rimane perplesso e triste fantasticando le tristi cose che sapranno fucinare insieme quei due tetri personaggi.
[337]
Il Filippo di Schiller al paragone è appena una figura da melodramma. Alla prima, egli sembra l'uomo più cupo, più chiuso, più impenetrabile; ma intanto tutti conoscono i suoi segreti! Arriva fino, in piena notte, mentre è assalito da delle inquietudini molto naturali in lui — che il poeta si arbitra d'invecchiare di quasi trent'anni — egli arriva, dico, a chiamare un suo servo, il fedele Lerna, e a manifestargli lo stato doloroso dell'animo suo. Poi gli domanda come mai egli possa vivere tranquillo lontano dalla sua casa coniugale! E vorrebbe che il suo geloso furore passasse dall'animo suo in quello del confidente. A questo modo la sventura, vera o supposta, di Filippo II per la corte e per la città è omai diventata il segreto di Pulcinella.
Scusate se ho insistito su questo punto. Dopo che vennero di moda il teatro di Schiller e di Victor Hugo, se n'è detto tante del povero Alfieri, che credei mio dovere cogliere questa circostanza per dimostrare, con un esempio, come per confronti spassionati certe sue sconfitte potrebbero facilmente convertirsi in palme di vittoria. E, credete a me, questi luoghi nel teatro alfieriano sono assai più numerosi di quello che non si creda comunemente.
Dell'Alfieri tragico si mettono sempre avanti la durezza e l'aridità; ma anche su questa durezza [338] e su questa aridità io avrei delle grandi riserve a fare.
È vero; tutto preoccupato del suo ideale poetico e tutto invasato dal suo furore politico, l'Alfieri faceva volontieri sacrificio, come dicemmo, delle cose tenere e piacevoli. Ma dalla profonda essenza del suo animo buono non di rado egli seppe far anche scaturire dei getti di passione calda, intensa, gentile che sono veramente irresistibili. E dacchè ho nominato il Filippo lasciatemi ricordare quella prima bellissima scena del primo atto fra Don Carlos e Isabella. La delicatezza squisita, toccante, ineffabile, con cui il giovane principe prende argomento dai proprii dolori, dalla propria disgraziata condizione di figlio per aprire l'animo suo di amante alla matrigna, la ricordate voi, o signore? Se una sola volta l'avete o letta o udita in teatro, non credo che abbiate potuto dimenticarla.
......... Ei d'esser padre
Se pure il sa, si adira. Io d'esser figlio
Già non oblio per ciò; ma se obliarlo
Un dì potessi ed allentare il freno
Ai recessi lamenti, ei non mi udrebbe
Doler, no, mai, nè de' rapiti onori,
Nè dell'offesa fama, e non del suo
Snaturato, inaudito odio paterno;
D'altro maggior mio danno io mi dorrei....
Tutto ei m'ha tolto il dì che te mi tolse!
[339]
Percorrete i teatri di tutti i paesi e difficilmente troverete una scena d'amore ove la confessione dell'affetto prorompa in una forma più veemente insieme e più nobile, più delicata. Di questi passi il teatro d'Alfieri ne ha non pochi; e basterebbe cercarli con qualche sollecitudine per trovarli. Ne trovereste nella Virginia, nell'Oreste, nella Merope, nel Timoleone, nel Saul. Nel Saul specialmente. Ricordatevi, all'ultima scena, quando il re vinto, disperato, si accomiata da tutti i suoi e vuol rimanere solo, nella triste solitudine di Gelboè ad attendere la vendetta di Ieova. Pensate al modo con cui si congeda da Micol, l'amatissima figliuola, affidandola ad Abner. “Va' salvala!... Ma se mai cadesse nelle mani dei crudeli nemici, non dire che essa è figliuola di Saul. Di' ad essi invece che è moglie di David; e questo basterà perchè la rispettino!„ È del patetico insieme e del sublime, o signore. Questo re orgoglioso e magnanimo, che nella vita sua non ha avuto che un torto micidiale: la sua gelosa rivalità per David; ora, arrivato al tramonto tragico della sua esistenza, si rassegna all'idea che la cara figliuola celi il suo nome, nasconda d'esser nata da lui; si rassegna all'idea che essa meglio sarà rispettata e salva invocando il nome glorioso di David!...
Quanto a me, vi confesso che ogni volta ch'io [340] m'imbatto in uno di questi tratti di tenerezza alfieriana, esso esercita sopra di me una potenza di commozione indicibile. È come quando ci troviamo di fronte a due temperamenti. Se voi sapete che un uomo è proclive alla sentimentalità, che ha sempre sul ciglio la lacrimetta furtiva, anche se lo vedete intenerirsi e piangere, poco vi commovete. Ma se invece v'imbattete in un uomo fiero, abitualmente chiuso e burbero, e sentite nella sua voce il tremito momentaneo del singhiozzo, quel tremito passa come un guizzo elettrico per tutte le fibre del vostro cuore, perchè vi rappresenta il cozzo vittorioso della tenerezza umana sopra tutte le difese e tutti i pudori del temperamento. E allora voi vi commovete e piangete con lui.
[341]
E, da ultimo, non dimentichiamo mai, o signore, che Vittorio Alfieri non considerò la potenza del suo teatro tragico e in genere la potenza dell'arte sua che come un mezzo per raggiungere una nobilissima meta: il rinnovamento del carattere degli italiani, il riscatto civile e politico d'Italia.
Nel preambolo del suo Misogallo, egli vi dice che vivendo, palpitando, fantasticando, scrivendo, ebbe sempre davanti a sè tre Italie: quella che fu, grande e gloriosa; quella che era al suo tempo, abbietta e divisa; quella che sarà un giorno, indubbiamente grande e gloriosa come l'antica. E da queste tre Italie egli attinse tutte le sue ispirazioni; e al culto di queste tre Italie egli dedicò e consacrò tutte le forze del suo ingegno fino al sacrifizio di ogni altro dilettevole fine.
Io so che questa missione civile e politica farebbe ridere certi nuovissimi poeti, i quali dicono che l'artista, se vuol essere davvero rispettabile, si deve chiudere dentro una “torre d'avorio,„ e là dentro vivere tutto nell'adorazione egoistica di sè e dell'arte sua, dimenticando che fuori di [342] quella benedetta torre vi è pur sempre il consorzio umano col suo patrimonio di dolori grandi e di gioie scarse, assetato di spirituali emozioni, affamato di verità e di giustizia. Però, a quel tempo, non soltanto l'Alfieri ma tutti la sentivano in modo diverso; e nel confronto non credo che noi abbiamo molto da vantarci, guardando anche solo alla eccellenza artistica delle opere compiute.
Quanto all'Alfieri, anche se il suo sacrificio fu grande, la ricompensa fu certo invidiabile. Ne' suoi ultimi tempi, in mezzo alla tristezza della vita che tramontava, in mezzo ai disinganni d'ogni genere, in mezzo ai crucci e agli sdegni che suscitavano in lui le condizioni miserrime d'Italia e la insolenza forestiera, giunto presso al momento d'entrare nella storia, il nostro poeta, come si legge dei guerrieri delle leggende, fu consolato da un superbo sogno, che potè esprimere in bellissimi versi. — Egli vide nel futuro gl'italiani redivivi e in armi contro la prepotenza straniera; e li vide (o gioia!) eccitati alle virtù militari e civili da due potenti stimoli: il ricordo delle virtù degli avi, e i versi di Vittorio Alfieri. Poi sentiva dalla Posterità venirgli una voce di plauso che diceva:
... O vate nostro, in pravi
Secoli nato, eppur create hai queste
Sublimi età che profetando andavi!
[343]
Così egli raggiunse la meta più bella che un poeta, un artista possa mai domandare. Vide l'opera sua non limitata al puro campo delle lettere; vide dalla sua poesia scaturire una nobilissima corrente di forze redentrici in pro del suo paese; e la sua figura di poeta grande completarsi nella figura di grande cittadino.
Con l'Alfieri, infatti, l'Italia finalmente si ricorda che le lettere possono e debbono avere un nobile ufficio. L'Arcadia muore davvero con lui; ed egli diventa come il primo aureo anello di una nobilissima catena della quale fanno parte tutti i più insigni e forti e generosi spiriti ne' quali siasi poi compiacciuta e glorificata l'Italia.
Per questo il nome dell'Alfieri fu sempre invocato come un eccitamento e come un auspicio. Per questo i suoi versi, mentre arroventavano sotto il sole le plebi d'Italia, serpeggiavano nell'ombra delle congiure ed erano adoperati come un vino generoso a fortificare i combattenti nelle agonie delle prove supreme. Per questo Giuseppe Mazzini chiamò Vittorio Alfieri il primo italiano moderno; e Vincenzo Gioberti attestò che, solamente risorti a libertà e fatti virtuosi, gl'italiani sarebbero stati degni di sdebitarsi con la memoria di Lui.
[345]
CONFERENZA
DI
Giovanni Bovio
[347]
Sapete le cagioni dell'indugio a venire e non occorre scusarmene. Ogni uomo che studia e ricorda parla volentieri a Firenze, specialmente se il discorso lo allontana dalle cose presenti e lo chiama a cose migliori.
Non sono divagazioni letterarie. L'uomo che aborre dalle memorie è straniero anche al suo tempo; si crede un novatore ed è un illuso; e i disinganni lo traggono ad una specie di pessimismo incosciente.
Vico fu per Napoli quel che Dante per Firenze.
Non è senza ragion l'andare al cupo,
disse Dante; e Vico vi si profondò. Due grandi infelici, l'uno descrivendo le leggi dell'eternità, l'altro, del tempo. E l'uno nell'eternità descrisse i tempi; l'altro nel tempo le leggi eterne. L'uno e l'altro più che ai contemporanei parlarono a [348] quelli che il loro tempo avrebbero chiamato antico.
Dante finì col farsi parte per sè solo, Vico fu solo sempre, e la solitudine che all'uno parve elezione, all'altro necessità, fu destino per entrambi, che non maledissero mai alla Fortuna, considerandola nel fatale andare. L'epigrafe di Dante a sè è mesta, come l'autobiografia di Vico; ma il dolore del genio non si estende sul destino della specie.
I padri vostri condannarono Dante, quando non era Dante ancora; Vico, vivente, non fu mai Vico per Napoli, per la città de' miracoli del genio e dell'ignoranza. Le CXIV degnità innanzi alla Scienza Nuova sono come le terzine di Dante al sommo di una porta: parole di colore oscuro. Perciò Vico non esiste nè anche oggi per molti, come non esisteva Dante per Voltaire e Lamartine.
I cerchi di Dante e di Vico sembrano limitati e si dilatano sempre, e ti ritrovi dentro quando credi esserne uscito a riveder le stelle. Così ai tempi nostri, in tanta luce di civiltà, ci sentiamo come attraverso una selva, sotto l'imminenza di un altro giudizio niente allegro per i potenti e pe' fiacchi che vedono anch'oggi la lupa ammogliarsi a molti animali. E vediamo anch'oggi Vico a un certo punto spezzare il circolo e ripetere: Mundus adhuc juvenescit.
[349]
Ma noi, in tema di scienza, non dobbiamo lasciarci sopraffare dalla fantasia. Dobbiamo rassegnatamente contenerci nel tema, e neppure in tutto, bensì in quella parte che può capire nel discorso.
Il punto più oscuro per me nella storia del pensiero è stato sempre questo: come fu, come è possibile che Vico non esiste ne' tempi suoi? Io — dal Fedone platonico sino alle più recenti biografie su Bruno — non conosco e non so immaginare una tragedia del pensiero più fosca di quella di Vico; e m'induco a sospettare non sia stata piuttosto una leggenda che una tragedia.
In fatti, è assai doloroso vedere ad un pensatore, ad un artista, ad un benemerito della civiltà destinato il carcere invece del Pritaneo, il patibolo invece de' primi onori. Pur si spiega. Ma vedere sotto il silenzio passare un uomo che reca in mano la Scienza Nuova, vederlo passare per la più bella e popolosa città d'Italia come in mezzo ad una selva ne' tempi muti, è un fenomeno non pur desolante ma inesplicabile. E sarebbe incredibile, se i documenti non resistessero al dubbio.
Che fu dunque? Fu oscuro? Ma non più di Dante, sotto il velame de' versi strani, nè più di Bruno e di Spinosa, che pur meritarono l'onore di qualche ammaccatura. Parve stranezza più [350] che originalità ridurre a scienza la storia de' fatti umani? E non parve stranezza minore ai contemporanei di Copernico e di Galileo far girare la terra sotto ai nostri piedi, e pur que' due ebbero gloria e protettori. E poi la stranezza che rasenta o simula l'originalità è tante volte argomento di fama, se non di gloria. Un uomo affatto non inteso dall'età sua è un anacronismo, il quale è grottesco se non è follia. Può essere un solitario sino a quando la sua teoria non si faccia luce nuova e diffusa, ma il lampo se ne vede sempre.
E qui fermiamoci. Lasciamo stare gli anacronismi, i miracoli del genio, e le supposizioni metafisiche che si sono fatte a spiegare l'oscurità di Vico tra' contemporanei. Quelle illustrazioni accrescono l'oscurità. Vico fu un solitario.
Chiariamo.
Ogni teoria, ogni autore d'una teoria vengono in proprio tempo e luogo. A questa storia del pensiero non poteva sottrarsi Vico che la costruì. Gli anacronismi non sono dunque nella storia del pensiero ma delle infermità umane.
“Dunque Vico fu inteso ed ebbe, nel suo tempo, seguaci i Vichisti.„ Così disse Poli e negò il fatto.
“Vico non fu inteso, perchè la sua storia delle idee umane presupponeva una metafisica della mente umana, che venne di poi.„ Così disse Spaventa e negò la teoria.
[351]
I vichisti contemporanei di Vico sono una favola; ed è un errore affermare che un sistema possa derivare da una dottrina che nascerà dopo. Le antecedenze di Vico non si troveranno in Germania presso Kant, ma si trovarono in Italia e nel terzo periodo del Rinascimento. Anche ad ammettere che sia venuto dopo chi lo abbia chiarito ed integrato, ci aveva ad essere prima chi gli aprì la via e gl'indicò la traccia. La famosa proles sine matre nata possiamo lasciarla all'enigma del Macduffo shekspeariano.
Insomma, raccogliendo il mio pensiero in forma chiara, vo' dire che Vico fu piuttosto non approvato che non inteso, perchè non la teorica mancò a lui ma la prova di fatto, quella appunto che più gli bisognava; non fu giudicato oscuro ma incerto; e non fu, quindi, un anacronismo, ma un solitario.
E i solitarii non sono eccezioni, sono pensatori che entrano nella categoria di coloro che hanno larghe visioni e piccola prova. Vico, in fatti, fece correre la storia ideale eterna sopra un piano angusto — sul vecchio mondo greco-latino — e con poche fonti, fra le omeriche e le dodici tavole. Intuizione immensa e prova scarsa.
La grandezza e novità dell'intuizione fu intesa da tutti; la povertà della prova consigliava riserbo ed aspettazione di altri fatti. [352] Aspettiamo la prova: ecco la solitudine intorno a Vico.
Aspettiamo la prova: non si poteva dire così a Copernico e a Galileo, nè a Cartesio ed a Spinoza. In Vico è immediatamente visibile la sproporzione tra l'immensità dell'intuizione e la portata de' fatti.
Se non dunque da' fatti, donde ei trasse l'intuizione che è il titolo unico della sua gloria?
Non da Cartesio che aveva respinto — vano ingombro alla memoria — la storia e le lingue; nè dal primo sè stesso, che nell'Antichissima Sapienza aveva attribuito parlari filosofici alle origini umane. Nella Scienza Nuova dimostra invece che il cammino dell'uman genere non comincia da concetti filosofici, ma da grossolane immagini. Dal senso si comincia, si sale alla fantasia, si arriva alla ragione; ed a questi tre gradi della mente rispondono tre età, che egli chiama tempi divini, tempi eroici, tempi umani.
Fermiamoci ancora. Abbiamo una successione di tempi secondo una graduale evoluzione psichica, la quale comincia dal senso e perviene alla ragione.
È dunque una filosofia della storia a base di una psicologia naturalistica, che prende le mosse dall'evoluzione del senso. Egli dirà di avere avuto presente il Verulamio e di averlo voluto integrare; [353] ma egli deriva dal Naturalismo italiano, che, da Telesio a Campanella, aveva dato quell'indirizzo alla psiche.
E non è tutto. Quando le leggi della natura erano state determinate da Leonardo a Galileo e le leggi del pensiero da Pomponazzi a Bruno, la conseguenza inevitabile era determinare le leggi della storia. Vico doveva essere la suprema parola della rinascenza italiana.
Così intesi — e lo proverò meglio in altra mia opera — l'evoluzione dell'essere: Natura, pensiero, storia. La natura, organandosi, si fa pensiero; il pensiero, consociandosi, si fa storia. Il fatto naturale diventa pensiero; il pensiero diventa fatto storico. Quindi la natura è inscienza; il pensiero è scienza; la storia è coscienza.
Ne' tre periodi del Rinascimento noi troviamo intera questa evoluzione dell'essere, che si compie in Vico. Dopo, il nostro sapere è importazione.
Del significato e del valore di questa importazione tratterò in altro discorso, nel quale dimostrerò come la scolastica sia stata europea; italiano il Rinascimento; e come dalle nuove correnti del pensiero europeo sia stato perfezionato. Ora è chiaro come Vico sia stato non un ignoto ma un solitario; e come abbia trovato nel Risorgimento italico le antecedenze.
[354]
Una obiezione, prima di esaminare da un punto pratico il sistema di Vico: — Come può allignarsi sul tronco del Risorgimento egli che in ogni parte dell'opera sua introduce la provvidenza?
Si guardi bene: quella provvidenza non è influsso esteriore, è insita nel senso comune umano, che si move usu exigenti, ut que humanis necessitatibus expostulantibus.
Ed ora esaminiamo il significato storico della degnità.
[355]
Signori, un secolo e settant'anni sono passati dalla prima pubblicazione della Scienza Nuova, e gli uomini politici brancolano ancora tra gli espedienti e la casistica come se fossero ancora ne' Consigli di Giovanni Bottero o nella Corte di Baldassare Castiglione. Che sarà domani? Chi, quale partito vincerà alle urne? Il papa consentirà o no aiuto al Governo? Qual'è l'avvenire dell'Italia in Africa? L'invocazione ufficiale di Dio porta vittoria? Il programma vero, concreto, vittorioso, come dev'esser fatto, da chi, dove, a Palermo o a Roma? E quali i contraccolpi che gli potranno venire da Parigi, da Berlino, da Londra? I repubblicani, i socialisti, gli anarchici, tutte le utopie non si affacciano in nome di una felicità di cui i filosofi indicano la porta, e i sacerdoti custodiscono la chiave? Nessuno risponde: voi restate come le mummie di Ruisch dopo l'ora dell'anno secolare, e il libro degli eventi resta innanzi a voi suggellato come prima. Voi non sapete se gli accorgimenti del più astuto saranno meno fortunati della pietra del primo monello. [356] Che fosse una povera illusione la filosofia della storia? e perciò avviene che chi più la studia si trova meno veggente del primo avvocato che afferra il timone dello Stato?
La leggenda del genio incompreso è finita per sempre; ma potrebbe esser finita la credibilità della filosofia della storia. E questo non è vero: centosettant'anni sono appena l'infanzia di qualunque scienza; e pure il moto della filosofia della storia è stato sì rapido che da essa è già nata la Sociologia. Con questo nuovo nome voi potete — se mai — travestirla, non già negarla; e Comte nascerà dopo Vico, come Vico dopo tutto il moto del rinascimento.
Se il domani vi sfugge, non per questo negherete la logica de' fatti umani. Di molte scienze, sulle quali sono corsi due millenarii, le applicazioni sono tuttora difficili; e se il cervello dello scienziato oscilla innanzi ai profili incerti di molti fatti, quelle scienze sopravvivono alle oscillazioni ed agli errori. Se voi sapeste i coefficienti e gli esponenti certi di molti fatti umani; se la critica storica — nata anch'essa dopo la filosofia della storia — potesse sorprendere vivi certi segreti di gabinetto, certi arcani di Corte e di Curia, certi motori invisibili; voi vedreste il domani come gli astronomi. Ed occorre altresì la qualità della mente osservatrice: innanzi al fatto si vuole [357] occhio d'aquila per vedere prima e dopo: mentre il pedante ripete i luoghi comuni della metafisica e del positivismo e sdottoreggia in astratto, il fatto gli passa innanzi irridendolo. Il grande osservatore è sempre qualcuno che sta fuori della scuola, e sdegna le categorie. Come il vero pensatore non è mai tutto uomo di parte, così l'acuto osservatore non è uomo d'una scuola. Allora si pensa, allora si osserva, allora un fatto che fugge inosservato innanzi a cento si ferma innanzi a lui. Allora nascono quelle previsioni che prima fanno ridere il volgo de' dottorelli e poi fanno ridere del riso.
Questa scienza esiste, e la logica de' fatti umani non è meno inesorabile della logica de' fatti naturali e della logica delle idee. Sono una logica sola. Voi potete negare a Vico tutti i ricorsi, negare che i vescovi siano aruspici, che il diritto feudale sia il diritto quiritario, che Calcante rinasca in Gregorio VII; negare questa e quella parte della sua teoria filologica e metafisica, le sue rivelazioni su Omero, sulle XII tavole, su' re di Roma e sugli eroi di Grecia; voi non negherete la logica de' fatti e Vico resta, come resta la legge di gravitazione, anche se sia sbagliato il calcolo delle masse e delle distanze.
E non parlo a caso, perchè come il calcolo si è già impadronito della logica delle idee, così si [358] farà padrone della logica de' fatti. A questo solo patto il naturalismo si farà scientifico. Vico sdegna il processo geometrico, se è formale ed esteriore come quello di Spinoza — more geometrico — non è reale ed intimo come quello delle cose: l'ordine delle idee dee procedere secondo l'ordine delle cose.
Questa unità dell'ordine è il presupposto di tutte le degnità vichiane. È un presupposto rispetto alla Scienza Nuova ma è un corollario del Rinascimento sino a Bruno. Che sono le Degnità?
[359]
Sono assiomi filosofici e filologici, onde muove la Scienza Nuova, entro la quale scorrono, dice Vico, come nel corpo animato il sangue.
Filologici e filosofici sono, ma portano sempre contemperati questi due termini — il Vero e il Certo — dovendo i filosofi accertare e i filologi avverare.
Ciò che nell'ordine speculativo è integrare il Vero nel Certo (accertare, sperimentare), nell'ordine pratico è integrare la sentenza, nel responso (avverare, indurre).
Il responso è l'espressione assoluta del diritto universale; la sentenza è l'espressione relativa dell'utile momentaneo; l'uno è dato dal giureconsulto, l'altro dal politico.
La dignità che contempera il Vero col Certo, il responso con la sentenza, è data dal giureconsulto politico, che è filosofo della storia nato.
La suprema espansione del responso fu data dal giureconsulto romano: Libertas summis infimisque acquanda. La suprema espressione della sentenza fu data dal politico per eccellenza, da [360] Machiavelli: Ei convien bene che accusandolo il fatto, l'effetto lo scusi. La suprema espressione della dignità è la comunione di tutte le civili utilità conformi alla natura degli uomini governati.
Queste tre nature di uomini pratici sorgono tipiche in Italia, il giureconsulto quando lo Stato è forte, il politico quando lo Stato è caduto, il giureconsulto politico quando lo Stato risorge. Ed esprimono il genio del tempo e de' luoghi: il giureconsulto è romano; il politico è fiorentino; il giureconsulto politico è napolitano. Tenete occhio ai tempi ed ai luoghi e vi spiegherete questi tre tipi etici.
Signori, io vedo che dopo Vico il circolo de' ricorsi si apre nella retta di Herder, indicante la continuità del progresso, e poi nella spira di Hegel, che sale per volute sempre più larghe, a ciascuna delle quali Ferrari tenta sovrapporre il numero. Il medio evo mal noto a Vico e il mondo moderno, quasi negletto, si vendicano. Pur egli resta un titano in mezzo ai contemporanei, anche quando bacia i santissimi piedi a Clemente XII, mentre il Comazzi, il Radicati, il Giannone protestano contro le usurpazioni pontificie.
Ma questi altri erano consiglieri e Vico fondava la Filosofia della storia, innanzi alla quale l'età de' consiglieri politici finisce.
[361]
Che vuole Comazzi? — Flagella la divisione de' poteri, e torna, ridendo, a Machiavelli e a Campanella. Il Radicati vuole armato il potere civile contro le usurpazioni pontificie, delle quali Giannone dimostra le frodi. Illustrare la lupa dantesca era inutile, quando il tempo chiedeva sapere ciò che le leggi della storia potevano permettere sotto il destino delle date e lo svolgersi fatale delle necessità umane.
Questo fece Vico a cui potete perdonare le convulsioni del genio contro la continua ribellione de' fatti mal noti a lui; perdonare, ammirando un uomo tanto modesto e tanto audace che, postosi contro le tradizioni contemporanee, osa ricomporre i fatti contro le date naturali, o decapitare gli eroi della storia, se contrastano al suo pensiero.
Continuando l'indagine sulle leggi storiche, possiamo trarne alimento al carattere e alla fede civile. Molte cose ci sanno di reazione, ma nessuna può accennare alla possibilità di un ricorso. Alcuni possono tentare patti segreti o palesi con la Chiesa; ma nessuno può ritrarci all'età dei vescovi. Si moltiplichino pure quanti ordini cavallereschi possono confortare la vanità borghese, ma nessuno può ripetere la storia de' feudi. Potete invocare ora Dio ora la Dea Ragione, ma non farete nè una crociata nè una rivoluzione [362] francese. Ripetete pure una Sainte-Barthèlemy, una dragonnade contro i socialisti, non sopprimerete la quistione sociale, come i socialisti non sopprimeranno le necessità politiche. La Filosofia della storia indica la successione degl'ideali, integra l'antecedente nel susseguente, destina il proprio posto a ciascun istituto, a ciascuna forma, e non consiglia ma traccia il cammino ai partiti, ai Governi, ai popoli, aprendo le storie particolari verso la storia universale.
E questo destino delle cose ci compensa de' disastri momentanei che avviliscono gli animi deboli o sorpassati da' fatti. Perciò Oantù rovesciò il cono e fece più strette le volute come più la storia si accostava ai tempi nostri, sostituendo l'elegia al carme secolare.
No: io posso esser vinto oggi; ma se sotto la mia fronte si agita un'idea, le coalizioni avverse non sono più forti di me, e gli eventi non sono chiamati a sconfessarmi. Quest'idea mi salva dalle diverse congiure e malizie e mi mette sulla via per la quale dovranno passare i più fortunati di noi.
La forza di quell'uomo non deriva dal numero o dalle clientele, e neppure da' partiti; ma dal posto e dal grado che la sua idea occupa nell'ordine delle cose. Se le ripulse esteriori respingono Vico dentro sè stesso, ei diverrà il [363] Cristoforo Colombo della sua coscienza e scoprirà il mondo delle nazioni. Voi credete di averlo superato, e ne' progressi vostri ei diviene il maggiore de' vostri contemporanei.
In nome delle leggi scoperte ammonisce i banditori di programmi che non promettano da deputati ciò che da ministri non manterranno, perchè l'età nostra non tollera una politica d'inganni. Agli altri dice che chi violento contrasta al cammino delle cose, lo affretta, e chi troppo lo incalza, lo stanca o devia. Il moto delle cose uniformemente accelerato sconcerta i circoli di Vico, l'isocronismo di Ferrari e la boria nazionale di Hegel; ma illustra più rapidamente le idee e, attraverso le gelosie degli Stati, conserta le mani delle nazioni.
Con tutte queste diversioni io sono pur rimasto sul campo generale delle idee. Desiderate una qualche applicazione viva e pratica ai casi presenti, alla storia dell'ultimo triennio, al Governo, al capitale, alla religione, alle arti? Bisognerà più coraggio a voi a chiamarmi che a me a parlare.
Se in questa città Machiavelli potè scrivere le più terribili sentenze della politica, è segno che qui si possono dire le più ardite espressioni della libertà.
[365]
CONFERENZA
DI
Alberto Eccher.
[367]
Giammai pensiero salì più accetto nelle sfere dell'infinito di quello di Galileo nel tempio di Pisa, quando il lento oscillare della lampada, pur mostratosi le migliaia di volte a tanti distratti fedeli, fu per lui il baleno di luce con cui “l'infinita sapienza, il sommo amore„ lo trasse alle meravigliose scoperte, che resero attonito il mondo intero, e furono base incrollabile d'ogni umano progresso.
E giammai il genio fu maggiormente torturato di quanto non lo fosse in Galileo stesso; costretto dalla perfidia degli uomini, dalle vessazioni dei Gesuiti, dal risentimento di un Papa a ritrattare verità, che luminose gli irradiavano nella mente, e svelavano agli uomini il mirabile assetto dei mondi, le cause ed il succedersi dei fenomeni.
Il forte pennello del Barabino, troppo presto all'arte rapito, che fa rabbrividire con papa Bonifazio VIII e fremere col Cristoforo Colombo al consiglio di Salamanca, fa pensare davanti al Galileo in Arcetri. — Tu vedi il nobile vegliardo, quasi a sedere sul letto, spento lo sguardo indagator [368] dei cieli, rassegnato, e tutto intento a dettare ai suoi discepoli una dimostrazione, che colla posa stessa delle mani ti rende evidente.... E quanto sieno interessanti le cose che espone, lo desumi dall'atteggiamento dei discepoli che, protesi verso di lui, pendono dal suo labbro. Nè l'età, nè le sofferenze, nè le persecuzioni hanno fiaccato quell'indomita energia.... Ma la terra, liberata ormai dall'immobilità cui la dannava la Bibbia, roteando negli spazi infiniti, invita lo spirito del Galileo a bearsi nelle superne sfere.... e ne reclama la spoglia.... e papa Urbano VIII s'affretta a mandare al sommo filosofo l'apostolica benedizione.
La vita, il pensiero, il martirio del sublime maestro furono con robusta eleganza di forma, con profondo sentimento filosofico, tratteggiati l'anno scorso, in questa sala ospitale, dal chiarissimo professore Del Lungo, ed io sciuperei opera così armonica qualunque cosa aggiungessi; ma non potevo non prender le mosse dall'instauratore della scienza nuova, per ragionare dei progressi della fisica dopo la di lui morte.
Vasto è l'argomento per poter essere condensato nel breve volger di un'ora; quantunque non intenda farvi una dissertazione sull'eccellenza del metodo sperimentale, e come esso abbia [369] riformato dalle fondamenta e studio e costumi e vita.
Lo che mi parrebbe altrettanto utile fatica, quanto il pretender d'aggiungere maestà alla splendida Cupola del Brunellesco, incastrandovi una modesta pietruzza. La bontà del metodo è provata dai progressi della scienza, che poggia, cupola meravigliosa, sul tempio eterno del vero; di quei progressi, che sono nel sentimento di tutti noi, e che ci permettono di vivere di vita intensiva, accelerata, direi quasi lo spazio di un secolo nel breve giro di pochi anni.
Come all'affaticato spirito riesce gradito il ricordo dei primi anni, il rammentare le cose allora imparate, le impressioni ricevute; ed anzi il passato, sotto la nuova luce di lunga esperienza ricomparendo, torna fonte di nuove impressioni e di più larghe vedute; così a Voi, gentili, di cui la presenza è prova del culto che portate alla scienza, non riuscirà discaro ch'io rammenti i primi passi, le prime scoperte della fisica, fattasi ora matrona. Giacchè non va dimenticato, che solo con Galileo incomincia il metodo sperimentale, e che di quanto ci fu tramandato dagli antichi nel campo della fisica, ben poche cose rimangono, e si riducono a semplici osservazioni di fatti. Nessuna teoria che possa reggere all'analisi moderna, se ne togli il concetto [370] atomistico de' Greci; e delle leggi dedotte da speculazioni dello spirito, ben poche ressero alla prova dei fatti. E d'altra parte, mai la più piccola esperienza torna invano, ogni più minuto fatto acquisito alla scienza, quando non sia causa diretta, come spesso avviene, di grandi scoperte, è un elemento importante che attende con molti altri la mente superiore che sappia coordinarli, e trarne qualche nuova teoria, ricca di deduzioni ed applicazioni.
Concedete quindi, che passi in rapida rassegna le conquiste più salienti della scienza in Italia nell'avventurato secolo XVII, e fin verso l'ultimo terzo del secolo XVIII, sì scarso di risultati di fronte al primo.
Sparito il divino maestro, i prediletti discepoli, custodi del suo pensiero, sorgono banditori del nuovo evangelio.
Benedetto Castelli, nobile Bresciano, in Roma stessa, lui, frate di Montecassino, difende apertamente le dottrine astronomiche del Galileo. Ancora nel 1615 era sceso in campo contro il Della Comba ed il Di Grazia per sostenere le vedute del Maestro sull'idrostatica, e pubblicava nel 1628 la sua opera “Dimostrazioni geometriche della misura delle acque correnti„ nella quale per il primo espone chiaramente i principii del moto [371] delle acque nei canali e nei fiumi; opera che lo rese tanto celebre da valergli da Urbano VIII la cattedra di matematiche in Roma e la direzione di importanti lavori idraulici, condotti a termine con esito felicissimo. — E come aveva aiutato Galileo nelle osservazioni astronomiche, in cui era espertissimo, ideò il metodo della proiezione per render visibili le macchie solari, senza offesa della vista, ed introdusse, per avere maggior chiarezza, i diaframmi nei cannocchiali.
Preludio alle ricerche che resero celebre nel nostro secolo il modenese Melloni, sperimentò pel primo sul calorico raggiante, avvertendo come i corpi in maggiore o minor grado si riscaldino a seconda dello stato di lor superficie e colore. Nè va taciuta l'idea di raccogliere quello, che fu poi detto lo spettro magnetico, dato dal disporsi su d'un diaframma della limatura di ferro attirata da poli di sottoposta calamita; metodo al quale tutt'oggi si ricorre per mostrare le linee di forza, nello studio delle macchine dinamo elettriche.
Fu il Castelli che spinse Bonaventura Cavalieri Bolognese, dell'Ordine dei Gesuati, da tempo soppresso, a dedicarsi alle matematiche, ed a frequentare in Pisa le lezioni del Galileo, per passar poi ad insegnare nell'Università stessa della sua patria.
Nell'opera del Cavalieri “Geometria indivisibilibus [372] continuorum nova quâdam ratione promota„ trovansi gettate le basi del calcolo infinitesimale, intraveduto già, per testimonianza dello stesso autore, dal Galileo. Mentre nei libri “De speculo ustorio„ ed “Exercitationes Geometricæ„ il Cavalieri ci dà mirabile saggio delle sue nozioni nel campo della fisica, trattando, come nessuno prima di lui, il problema della ricerca delle distanze focali nelle lenti concave e convesse.
Soli due anni dalla morte del gran Maestro veniva a mancare, in età non grave, il coraggioso Castelli; e tre anni appresso, a soli 49 anni, anche il Cavalieri.
Nè meno inesorabile scese la morte a colpire il più caro fra i discepoli del Galileo, Evangelista Torricelli, faentino, mancato esso pure nel 1647 nella verde età di 39 anni.
Seguiva il Torricelli in Roma le lezioni dell'abate Castelli, quando nel 1638 venne alla luce il trattato del Galileo “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze„ sul qual trattato compose un'opera che presentava, sotto rinnovellata forma, le teorie sul moto dei gravi. Sottoposto il manoscritto dal Castelli al Galileo; già cieco ed aggravato dagli anni, e più dalle infermità, il nobile vegliardo espresse il vivo desiderio di conoscerne l'autore, per affidargli il cómpito di ultimare i due ultimi dialoghi [373] del suo trattato; e nell'ottobre del 1641 il Torricelli venne ospite del Galileo in Arcetri, e più che ospite gli fu discepolo, collaboratore, e consolatore carissimo. Troppo breve tempo fu dato al giovane Torricelli di abbeverarsi a quella fonte inesauribile d'ogni umano sapere; ma i tre mesi che passò presso il Maestro lasciarono profonda impronta nell'amato discepolo.
Morto il Galileo, per le premure del Granduca, accettò di trattenersi in Firenze in qualità di matematico della Corte, succedendogli nella cattedra.
Fu ancora nel 1643 che ideò lo strumento pel quale, più che per tutte le altre opere, il nome suo passò glorioso alla posterità: il Barometro. È nota la leggenda del pozzo a Boboli, nel quale l'acqua aspirata per tromba non arrivava che a sole 18 braccia di altezza, e la risposta del Galileo al Granduca che l'aveva interpellato: che se nei libri di Aristotile era scritto che la natura aveva orrore del vuoto, e se il fatto mostrava che l'acqua non saliva più su, voleva dire che quest'orrore aveva per limite per l'appunto le 18 braccia date dall'esperienza. Certo che se Galileo dette tale risposta lo fece per evitare contestazioni, e possibili noje a sè stesso, prigioniero dell'Inquisizione, col contradire all'autorità di Aristotile. Ma l'aver conosciuto l'equilibrio [374] dei liquidi in vasi comunicanti, e l'aver dimostrato che l'aria pesa, prova chiaramente che aveva pensato alla risoluzione del problema, non accontentandosi di quanto ne aveva scritto ne' dialoghi, ne' quali parlando della resistenza della colonna liquida al rompersi, ammette che, analogamente ad un filo metallico che tirato in alto, giunto ad una certa lunghezza pel proprio peso si strappa, altrettanto avvenga della colonna d'acqua al limite di braccia 18. — La tromba era già un barometro ad acqua; non per questo fu meno felice l'idea del Torricelli di sostituirvi il mercurio riducendo così lo strumento a comode proporzioni; idea che, svelata all'amico Viviani, fu da questi subito tradotta in atto, ottenendo per l'appunto quanto l'acuto ingegno del Torricelli aveva divinato.
Lo stesso Torricelli, sperimentando col suo strumento, pose in chiaro il variare dell'altezza della colonna barometrica col mutare del tempo, se pur non anche lo scendere della colonna col crescere dell'altitudine, benchè di tale esperienza generalmente si riconosca illustratore il Pascal.
È questa del Barometro tale una felice intuizione, sì ricca di utili applicazioni, che basta da sola alla gloria di un uomo, benchè certo al Torricelli avran costato assai più fatica e studio le altre opere sue “le Lezioni accademiche„ ed [375] il “Trattato del moto dei gravi„ nel quale prende a studiare l'efflusso dei liquidi, determinandone con raro acume le leggi, che ancor oggi portano il di lui nome. E nel campo sperimentale s'occupò assai della costruzione dei cannocchiali, nell'eseguire i quali fu reputato eccellente, e del perfezionamento del microscopio semplice, valendosi come lente di palline di vetro soffiato alla lampada. Quale Accademico della Crusca lesse a quel nobile consesso un suo lavoro sul tema “La gloria dopo la morte è un nulla e non vale la pena che ci diamo per raggiungerla. Dopo la morte tutti gli uomini sono egualmente celebri.„
Strano argomento per un Torricelli, di cui il nome resterà eterno nella storia dell'umano progresso.
Ultimo dei discepoli che maggiormente il Galileo aveva prediletto, di tutti il più giovane, il Viviani non contava alla morte del sommo maestro che soli 20 anni. Mente acuta, animo aureo, applicatosi con ardore allo studio della geometria, comprese come solo Galileo fosse in grado d'avviarlo a forti studi e procurò di farne la conoscenza. Galileo, già cieco, l'accolse coll'usata benevolenza, e l'ebbe caro come un figlio; e Viviani non solo trasse sommo profitto dal tempo passato nella famigliarità del maestro, ma conservò [376] per lui immensa gratitudine ed affetto, ascrivendo a suo special vanto potersi chiamare “l'ultimo dei discepoli del Galileo.„
Morto il maestro ne trovò un secondo nel Torricelli, e più che maestro un amico, al quale prestò valido aiuto nell'eseguire le esperienze, compresa quella del Barometro da esso, secondo il concetto del Torricelli, condotta.
Nel 1659 pubblicò la divinazione dei sette primi libri del celeberrimo Apollonio Pergeo sulle sezioni coniche, ritenuti perduti. Per somma fortuna il Borelli riuscì a rintracciare nella biblioteca di Firenze un manoscritto arabo, portato dall'Oriente dal gesuita Golius, contenente appunto i sette primi libri di Apollonio. Tradotti in latino comparvero nel 1661, e si trovò che il Viviani, non solo aveva indovinato il pensiero di Apollonio, ma aveva anzi trattato l'argomento in modo più generale del famoso geometra greco. Successo nel 1666 al posto da tempo vacante per la morte del Torricelli, fu eletto membro della Società Reale di Londra, fondata nel 1660, e dell'Accademia di Parigi costituitasi nel 1666. Anzi Luigi XIV gli accordò una pensione, che Viviani impiegò nell'ornare la casa sua, posta in via dell'Amorino, con iscrizioni, basso rilievi, ed un busto in onore del sommo maestro. Dobbiamo al Viviani una “Vita del Galileo„; una [377] relazione speciale sull'applicazione del pendolo agli orologi, e tanti altri scritti: e fu membro attivissimo dell'Accademia del Cimento.
Morì nel 1703 amato, stimato, venerato da tutti, e fu sepolto in Santa Croce; lasciando per testamento alla famiglia Nelli, erede per maggiorasco, l'obbligo di erigere un suntuoso monumento al suo divino Maestro. Ad onta di una sorda opposizione da parte dei Monaci, nel 1737 fu inaugurato in Santa Croce il monumento, e con solennità vi furono composte le ossa del Maestro, e del riconoscente discepolo.
Un senso di melanconica pietà, oltre i quattro principali discepoli del Galileo, i quattro evangelisti della scienza, mi porta a ricordare anche il figlio di lui Vincenzo. L'importanza d'un regolatore del tempo per lo studio de' fenomeni astronomici e terrestri e per la determinazione sopra tutto delle longitudini, era talmente compresa dal Galileo, che l'aveva portato ad adattare al pendolo dei leggerissimi congegni di ruote dentate per segnare il numero delle oscillazioni. Il moto alle ruote venendo impresso dal pendolo stesso, dopo un certo tempo questo doveva fermarsi. L'ideale era dunque che il pendolo non dovesse servire che a regolare il tempo, e che la forza motrice del congegno fosse da esso indipendente. Si trattava di applicare [378] il pendolo all'orologio già esistente, anzi tanto perfezionato
Che l'una parte l'altra tira ed urge
Tin tin sonando con sì dolce nota
Che 'l ben disposto spirto d'amor turge;
E negli ultimi anni di sua vita Galileo, già cieco, col Viviani, e sopra tutto col figlio Vincenzo ragionando, era venuto a stabilire il come di tale applicazione, quale risulta anche dal disegno fattone da Vincenzo, il quale, come colui che assai esperto era nelle arti meccaniche, volle da sè costruire il congegno; per lo che richiedendosi assai più tempo che se ricorso fosse ad artefici, disgrazia lo incolse colla morte del padre prima che a termine l'avesse portato. Solo nell'aprile 1649 riprese Vincenzo la costruzione dell'Oriuolo, avendosi fatto da meccanico apprestare il materiale occorrente, e lavorando di propria mano ad intagliare le ruote e lo scappamento. Messo assieme funzionava, e fattolo vedere al Viviani con esso convenne di alcuni perfezionamenti da apportarvi. Ma pur volendo ultimare in ogni sua parte l'orologio già lavorato, vi si diede d'attorno con raddoppiata lena in tal modo, che colto da violentissima febbre il 16 maggio stesso anno moriva. Disgrazia e fatalità, che privò l'Italia nostra del vanto d'aver prima applicato il pendolo agli orologi, in quanto generalmente [379] ne vien data lode all'Huyghens, certo preclarissimo ingegno, che costruì, sia pure più perfezionato, il suo orologio solo nel 1657. Non è qui il caso di recare argomenti, e molti ne esisterebbero, in favor nostro, ma è a deplorarsi, che non ci sia stata resa giustizia, e riconosciuta come nostra anche l'applicazione del pendolo agli orologi.
Il fascino del metodo galileano, che sull'evidenza de' fatti innalza l'uomo alle più alte speculazioni, aveva tratto a sè le menti più elette di quell'epoca gloriosa e doveva avere solenne manifestazione nella “Accademia del Cimento„. Unire le forze e “Provando e Riprovando„ leggere finalmente nel libro della natura le mirabili pagine che ci tien spiegate davanti.
Prima fra le Accademie scientifiche, surse nel 1657, sotto la presidenza del Principe Leopoldo. La componevano: Giovanni Alfonso Borelli, Candido Del Buono, Paolo Del Buono, Lorenzo Magalotti, Alessandro Marsili, Antonio Oliva, Francesco Redi, Carlo Renaldini, Vincenzo Viviani.
E, cosa mirabile, e non mai più ripetutasi presso altre accademie, tanto era l'ardore delle ricerche sperimentali, e tale la persuasione, che solo dall'attenta osservazione dei fenomeni scaturir potessero le leggi che li governano, che [380] tutti gli accademici lavoravano di comune accordo, costituendo quasi un'unica personalità, quella dell'Accademia, sicuri così che ben difficilmente sarebbe sfuggita all'attenzione di molti qualche circostanza importante e capace di modificare i risultati dell'esperienza. Così è che nell'aureo libro “Saggi di naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimento„ (Firenze 1667), e compilato dal Magalotti, si descrivono magistralmente le singole esperienze, senza mai accennare chi ne abbia avuta la prima idea, come se fossero state da tutti, in comune, pensate. E degno di osservazione si è pure che nello stesso libro dei “Saggi„ è detto: non entrare nelle abitudini dell'Accademia il discutere sulle cause dei fenomeni. Fosse il dubbio di incorrere nella disapprovazione eventuale di Roma, o la coscienza che delle teoriche ne erano state escogitate anche troppe, e ciò che mancava era una raccolta di fatti inconcussi, certo è che gli accademici s'attennero fedelmente al loro motto “Provando e Riprovando„. A più di due secoli di distanza è sempre con un senso di ammirazione che si leggono quelle pagine dei “Saggi„, cardini della nuova scienza, e vi si impara ancor oggi a condurre con acume e diligenza somma le esperienze.
Non riuscirà discaro che per sommi capi rammenti [381] i principali risultati cui è giunta quell'accolta di preclari ingegni.
Incominciano i saggi colla descrizione degli strumenti di misura, e loro uso. Termometro, Igrometro, Pendolo, Barometro.
Il primo, inventato ancora nel 1597 dal Galileo, che pensò subito d'applicarlo alla medicina, per riconoscere il grado di febbre degli ammalati; da termoscopio che era, fu trasformato in vero termometro, prima riempito con acqua, poi con alcool. Portava i gradi marcati con piccole perline di vetro sulla canna stessa, come i migliori nostri termometri, invece che su tavoletta a parte, ed era con tanta arte costruito che, sebbene i punti di graduazione della scala fossero mal definiti col massimo freddo e massimo caldo di Firenze, tuttavia i diversi termometri, specialmente cinquantigradi, riuscivano perfettamente paragonabili fra loro. Nel 1830 si potè, confrontandoli col termometro Reaumur, ricavare dalle osservazioni meteorologiche di quell'epoca, come il clima della Toscana non sia venuto mutando. La fissazione dei punti estremi della scala coll'immergere il termometro nel ghiaccio che fonde, o tenerlo nel vapore che si svolge dall'acqua bollente, sotto pressione di una atmosfera, è posteriore all'Accademia, dovuta però ad uno dei suoi membri, il Rinaldini.
[382]
Quanto all'Igrometro, è noto il fatto dell'architetto Fontana, che nel 1586 riuscì a metter ritto l'Obelisco sulla Piazza San Pietro in Roma bagnando le corde; e sulla contrazione appunto delle corde, però di minugia, inumidite, fondò Santorio il suo primo Igroscopio. Quello dell'Accademia del Cimento invece, chiamato Mostra umidaria, è un vero igrometro a condensazione, dove, invece di cogliere il punto d'appannamento, come negli strumenti recenti, si misura la quantità d'acqua condensatasi in un dato tempo sopra un cono vuoto di metallo, riempito con un miscuglio frigorifero.
Segue la descrizione del Pendolo, e di un orologio a pendolo, “su l'andar di quello che prima d'ogni altro immaginò il Galileo, e che dell'anno 1649 messe in pratica Vincenzo Galilei suo figliuolo„; prova maggiore che realmente l'applicazione de' pendoli agli orologi è invenzione italiana.
Quanto al Barometro esso servì loro, non solo per misurare le variazioni di pressione nell'aria; ma ben anche come apparecchio per eseguire un vuoto assai migliore di quello ottenibile colle macchine pneumatiche di quel tempo. E nel vuoto Torricelliano sperimentarono: se il suono si propaga; se la calamita attira; se l'ambra strofinata si elettrizza; come vi muoiano gli animali; se l'alzarsi dei liquidi nei tubi capillari è [383] influenzato dalla presenza dell'aria, e molte altre. E dopo 200 anni noi siamo ritornati alla macchina pneumatica a mercurio, la più perfetta di tutte, che permette delle rarefazioni così forti da dar luogo ad una serie di nuovi fenomeni illustrati dal Crookes.
Il servizio meteorologico si considera generalmente come un'istituzione moderna; esso, per merito sopra tutto dell'Inghilterra, fu sistemato ed allargato così, che i servigi che presta, anche nel campo pratico, sono immensi. Centinaia di bastimenti ogni anno vengono risparmiati dal bullettino che, volando sul filo elettrico, precede la bufera. Ma nel campo scientifico il poter tutti i giorni, ad ora fissa, tracciare la carta delle condizioni meteorologiche di gran parte del mondo, chi sa a quali risultati potrà portare. Frattanto non dimentichiamo, che le osservazioni meteorologiche sono gloria italiana. Fin dal 1654 furono colla massima regolarità eseguite nel Convento degli Angeli a Firenze; a Vallombrosa, a Cutigliano, a Bologna, a Parma, a Milano, a Varsavia, ad Innsbruck sotto la direzione generale del padre Luigi Antinori teologo del Gran Duca. Esiste fra gli altri un registro che contiene cinque osservazioni al giorno per lo spazio di oltre sedici anni.
Sono poi descritti nei Saggi diversi areometri; [384] la palla d'oncia, ecc., ecc., strumenti che ancor oggi potrebbero prestare utili servigi alla scienza.
Interessantissime sono le esperienze sul congelamento dell'acqua nelle quali pei primi gli accademici fecero uso di miscugli frigoriferi, quali neve con sale, o sal nitro, o spirito di vino; oppure neve e sale ammoniaco, ottenendo con tale combinazione il massimo freddo. Fecero scoppiare sfere di materie differenti riempite d'acqua facendola ghiacciare, e mostrarono come questa, prima di solidificarsi si dilati. Esperimentando col ghiaccio, ne collocarono un grosso pezzo avanti uno specchio ustorio, nel foco del quale un termometro segnava un abbassamento di temperatura; prova che il freddo, come il caldo, si riflettono colla ben nota legge.
Per confutare la teoria dell'antiperistasi, della reazione cioè sviluppata da un corpo, che al primo riscaldarlo dovrebbe raffreddarsi, e viceversa, eseguirono le ben note esperienze immergendo un grosso termometro nell'acqua calda, e mostrando che al primo istante l'alcool realmente discende, ma non perchè si sia raffreddato, sibbene perchè maggiore è la dilatazione del recipiente, e l'opposto avvenire immergendo il termometro nell'acqua fredda. In questa occasione, volendo meglio mostrare come tutti i corpi si dilatino pel calore, idearono l'esperienza, più [385] generalmente nota sotto il nome di anello di S' Gravesande, che dall'Accademia invece dovrebbe prendere il nome. Anzi, usando coni di diverse materie, che portati alla stessa temperatura, entravano più o meno in un anello misurato, determinarono il coefficiente di dilatazione dei corpi.
Nè riuscendo a comprimere l'acqua nelle sfere metalliche assoggettate alla pressione del torchio, conclusero per l'incomprensibilità, come generalmente si crede; sibbene che a loro non era riuscito di comprimere l'acqua, che preferiva trasudare dalle pareti del recipiente; mettendo così in evidenza la porosità dei metalli. Anche l'errore della leggerezza positiva confutarono; facendo vedere che un pezzo di sughero, immerso nell'acqua, non sale quando gli si tolga la pressione del liquido dal disotto; mentre avrebbe pur dovuto salire se si fosse trattato di una leggerezza positiva.
Nei “Saggi„ sono riportate anche le esperienze sulla velocità di propagazione del suono eseguite ancora nel 1656 da Viviani e Borelli. Non così felicemente riuscirono gli Accademici nel tentativo di misurare la velocità di propagazione della luce, la quale si mostrò poi così enorme da raggiungere 300,000 chilometri al 1". Ma è degno di nota che l'abbian tentato.
[386]
In altro capitolo gli Accademici si occupano del cambiamento di colore dei liquidi, specialmente della tintura di torna-sole, che con un acido, succo di limone, aceto, acido solforico, arrossa, e riprende il colore primitivo se trattata con una base, usando essi l'oleum-tartari, soluzione di potassa.
Rimarchevoli sono pure i fatti citati dall'Accademia in sostegno dell'idea emessa ancora da Galileo sulla resistenza dell'aria; che cioè un proiettile sparato da maggiore altezza produca minore effetto che da altezza minore; e ciò per il maggiore tragitto attraverso l'aria, come in fatti trovarono; e l'altro che nello stesso intervallo di tempo cadono a terra una palla sparata orizzontalmente da una certa altezza ed un'altra che nello stesso istante dello sparo sia lasciata libera a sè stessa.
Per convalidare il principio di inerzia, che un corpo persevera nello stato di quiete o di moto in cui si trova, finchè una forza non ve lo tolga, adattarono sopra un carro tirato da sei cavalli un saltamartino con palla da una libbra, disposto verticalmente, e sopra strada piana e diritta facendolo velocemente correre, e sparando, trovarono che la palla veniva a cadere poco dietro il carro, benchè questo avesse percorso dallo sparo alla caduta, oltre le 70 braccia; però tanto più [387] addietro rimaneva quanto maggiore era il tempo passato fra lo sparo ed il ricadere della medesima; e ciò per la maggior resistenza opposta dall'aria in più lungo tragitto.
Va pure notato come gli Accademici avessero una giusta idea di quella che loro stessi chiamarono “capacità calorifica„. Presero due termometri di dimensioni perfettamente eguali e li riempirono, cosa da notarsi, uno di mercurio l'altro d'acqua. Immergendoli simultaneamente in molta acqua calda, osservarono che il termometro a mercurio era il primo a raggiungere l'equilibrio di temperatura, segno che richiedeva minor quantità di calore dell'acqua. È strano che, avendo già usato il mercurio in questa esperienza, non l'adottassero per costruire i termometri. Forse furono trattenuti dall'aver visto che si dilata meno dell'alcool. A conferma della prima esperienza sulla capacità calorifica, ne eseguirono una seconda. Versarono pesi eguali di diversi liquidi, portati alla stessa temperatura, sopra quantità eguali di ghiaccio, e trovarono che se ne fonde più o meno col variare del liquido. Come si vede si trovarono gli Accademici di fronte alle calorie di fusione, al così detto calorico latente; ed è maggiormente a deplorarsi l'Accademia abbia finito sì presto, perchè questo, come altri argomenti, sarebbero stati in [388] modo esauriente studiati, ed avrebbero assicurato a noi il vanto di altre scoperte.
Degli Accademici individualmente troppo lunge sarei tratto a ragionare. Tuttavia non posso passare sotto silenzio il napoletano Borelli, altrettanto profondo erudito, quanto appassionato e forse impetuoso carattere, finito nell'indigenza in Roma; lui, già discepolo di Castelli, professore a Messina, professore a Pisa, membro attivissimo dell'Accademia del Cimento, matematico, fisiologo, fisico, astronomo, filosofo ed autore di oltre 13 opere, di cui, per non citare che le culminanti, “Dei moti naturali dipendenti dalla gravità„ — “Del moto degli animali„ opera da consultarsi tutto dì sull'argomento, e “Teoria delle stelle Medicee, dedotta da cause fisiche.„
In quest'opera emette per primo l'idea che i satelliti di Giove s'aggirino intorno al pianeta in causa di una mutua attrazione; ma sgraziatamente non generalizza la sua ipotesi, nè ricerca le leggi di questa attrazione. — E così la legge di Gravitazione, che regola il moto de' corpi celesti, dopo aver arriso all'Italia, si posa, aureola invidiata, per mano del Newton sul capo dell'Inghilterra.
Degno di menzione è pure il Magalotti, gesuita, già discepolo del Viviani, autore delle lettere scientifiche ed erudito, conoscitore di molte [389] lingue, parlatore e scrittore chiarissimo, e segretario dell'Accademia. I “Saggi di naturali esperienze„, bastano da soli a testimoniare della di lui valentìa.
Nè va taciuto del Redi, forse più noto pel famoso ditirambo, che per le esperienze fisiche da esso eseguite, per quanto fosse assiduo e diligente accademico, medico rinomatissimo, naturalista, fisiologo.
Quanto progresso di lavoro sperimentale, e quale promessa di larga messe per l'avvenire! Era quella del Cimento tale accademia, che si sarebbe detto sfidare l'avversità de' tempi; ed invece, dopo soli nove anni di vita, d'un tratto fu spenta. Sagrificata dal suo presidente alla paura ed alla prepotenza di Roma. Ahimè! Quam parva sapientia regitur mundus. Pensare che un'accademia di nove scienziati, che non fanno che interrogare scrupolosamente la natura e registrarne i responsi, dà tanta ombra da far paventare ne rimanga scossa la fede, ne soffra la Religione! E d'altra parte non erano i Medici da tanto di resistere alle pressioni di Roma; essi che tenevano il potere da Clemente VII soffocatore delle libertà fiorentine, e già macchiati dell'ignominia d'aver consegnato Galileo all'Inquisizione. Il principe Leopoldo s'ebbe il cappello da Cardinale e l'Accademia fu sciolta.
[390]
Ma è con sentimento di profonda ammirazione e rispetto, e con orgoglio di italiani che noi entriamo a visitare la Tribuna di Galileo, che racchiude, oltre i ricordi del sommo filosofo, ampia raccolta degli strumenti creati ed usati dall'Accademia del Cimento. Vero santuario, dove il pensiero liberamente spaziando, s'ispira ai più alti ideali della scienza rigeneratrice.
Dell'Accademia stessa facevano parte, come membri corrispondenti, Ricci, Cassini, Montanari, Rossetti, Falconieri, e fra gli stranieri Stenone, Thèvenot, Fabbri. Non trovandosi i loro lavori inseriti nel libro dei “Saggi„ che non riporta che le esperienze eseguite in comune dagli Accademici “Operatori„ darò qui un breve cenno dell'opera dei due principali, Cassini e Stenone; chè diversamente non avrei occasione di rammentarli nel seguito di questa rassegna, ristretta alla sola fisica.
Gian Domenico Cassini nacque nel 1625 in Perinaldo, contea di Nizza, da antica famiglia del patriziato senese. A soli 25 anni succede al Cavalieri nella cattedra di matematiche in Bologna e nel 1653 pubblica le osservazioni fatte assieme al marchese Malvasia, sulle comete, ritenendole o come stelle, o come pianeti in formazione. Due anni appresso rettifica la meridiana segnata [391] nel 1575 da Ignazio Dante in San Petronio. In seguito papa Alessandro VII lo sceglie arbitro nelle controversie fra Ferrara e Bologna, causate dalle inondazioni del Po, e più tardi sostiene contro il Viviani, che era per Firenze, gli interessi del Papa a proposito delle inondazioni della Chiana. In tale occasione assiste in Firenze alle tornate dell'Accademia. Nel 1665 nelle “Lettere astronomiche„ dirette al Falconieri “Sopra la varietà delle macchie osservate in Giove, e loro diurne rivoluzioni„, spiega il variare di dette macchie ammettendo che Giove roti sul proprio asse in ore 9,56'. Nel febbraio 1666 fa la stessa osservazione per Marte, e calcola la rotazione avvenga in 24 ore 48', e nell'ottobre trova che ciò si avvera anche per Venere. In questo frattempo pubblica pure le osservazioni e le tavole dei satelliti di Giove. Quest'ultime fecero tale impressione su Picurd, che stimò fortuna per la Francia poter avere così insigne astronomo; e tanto insistè presso il ministro Colbert, da indurlo ad offrire al Cassini il posto di astronomo reale, e direttore dell'erigendo Osservatorio astronomico, nominandolo nello stesso tempo membro dell'Accademia. Declinò da prima il Cassini l'onorifica offerta; ma alla fine, pensando forse che il favore che godeva presso il papa Alessandro VII anche Galileo l'aveva goduto [392] presso Urbano VIII, il che non aveva impedito, che fosse consegnato all'Inquisizione e condannato, a gran malincuore si decise ad accettare, per poter con maggior tranquillità e sicurezza continuare i suoi studi prediletti. Nel 1669 si portò a Parigi, dove pubblicò non meno di 165 memorie di astronomia, 11 di fisica, sei opere, lasciandone altre tre incomplete; fra l'altre una cosmografia in versi italiani. Come Galileo, verso la fine della sua laboriosa carriera, perdè il bene supremo della vista, e placidamente ad 87 anni si spense.
Nella direzione dell'Osservatorio gli succede, da prima il figlio minore Giacomo, poi il nipote Cesare Francesco, da ultimo il pronipote Giacomo Domenico, che lascia nel 1793 l'Osservatorio, e muore a 97 anni nel 1845. E così l'Italia, oltre ad altri scienziati, dà alla Francia quattro generazioni di astronomi, e contribuisce in tal modo a propagarvi il culto delle scienze che ebbe culla da noi. La Francia a sua volta diffonde nel '700 l'amore alle scienze in Germania, e nel secolo nostro la Germania evangelizza alla scienza la Russia.
Dello Stenone, benchè di origine danese, dirò pure brevemente; non tanto perchè fu membro corrispondente dell'Accademia del Cimento, quanto per l'importanza degli argomenti da esso [393] trattati, ai quali fornì materia la Toscana stessa, che lo accolse cittadino.
Anatomo e fisiologo distinto, nel 1666 lascia Parigi, e latore di lettere di raccomandazione di Thèvenot per Borelli, si fissa in Firenze, dove s'accaparra subito, per le eminenti sue qualità, la stima e l'affetto di tutti gli scienziati. Da Luterano passa alla religione cattolica, e Ferdinando II lo prende al suo servizio e gli permette di continuare le ricerche anatomiche e fisiologiche nell'arcispedale di Santa Maria Nuova. Pubblica gli elementi di miologia, ne' quali spiega la natura, la struttura, l'azione dei muscoli. Come molti dei convertiti, diventa cattolico ardente, scrive dotte dissertazioni su quistioni di fede, e viene in conseguenza nominato Vescovo in partibus, e più tardi Vicario Apostolico del Nord. Lascia quindi lo studio dell'anatomia e della fisiologia, per dedicarsi interamente alla mineralogia ed alla geologia, scienze da lui, si può dire, fondate, e dà alle stampe l'opera sua più importante “De solido intra solidum naturaliter contento„. In essa rammenta le doppie piramidi del quarzo, i cubi della pirite, gli ottaedri del diamante, le tavolette esagonali del ferro oligisto..... e fa specialmente osservare che, se fra cristallo e cristallo della stessa materia possono apparire delle differenze, sopra tutto nella grandezza [394] delle facce, resta però costante l'angolo che esse fanno fra di loro; gettando così le basi della cristallografia.
E studiando la crosta terrestre trova che è costituita da strati paralleli sovrapposti, depositati certo dalle acque, contenendo essi quantità di resti organici e specialmente di conchiglie marittime, fossilizzati; per cui in origine detti strati dovevano essere orizzontali. Ma mostrandosi ora ondulati, inclinati, mischiati, devono aver agito potenti cause, quali eruzioni vulcaniche, avvallamenti, terremoti, per produrre tanto sconvolgimento. A periodi di maggiore attività vulcanica seguirono periodi di calma, ed il mare ricoprendo ogni cosa, depositò nuovi strati, che anch'essi sconvolti hanno dato luogo al sollevamento ed all'inabissarsi di altre montagne. Nella Toscana distingue non meno di sei periodi.
Come fervente cattolico si sforza di mostrare che le deduzioni cui è giunto non sono contrarie a quanto narra la Bibbia; ma evidentemente non dà alle sue proposizioni lo svolgimento intravvisto dall'acuta sua mente. Nei limiti impostisi, sia per convinzione personale, sia per forza di circostanze, nessuno però ha considerata la geologia da un punto di vista più largo, nè ha emesso tante nuove idee, confermate in seguito dai fatti.
[395]
Eppure l'opera sua rimase presso che ignorata, e solo nel 1831 il celebre geologo Elie de Beaumont, dandone un ampio estratto in una memoria inserita negli Annali delle scienze naturali, la rivendica ai dovuti onori. Più fortunato di Galileo, Stenone potè morire in pace, senza vedere i suoi scritti posti all'indice; chè l'opposizione di Roma alle vedute della geologia, e più dell'antropologia, è nota. Il che non arresterà il cammino della scienza, che per essere verità è religione.
Negli ottant'anni del periodo galileano e dell'Accademia del Cimento l'Italia brilla di vivissimo splendore, e sorge maestra a tutto il mondo. Disciolta l'Accademia segue un'epoca di continuo decadimento.
Le esperienze però descritte nei “Saggi„ è naturale che non rappresentino tutto quanto in quell'epoca fortunata fu acquisito alla scienza. Ma, se era doveroso rispetto rammentare i lavori dell'Accademia nell'ordine stesso nel quale furono eseguiti, riescirà forse più chiaro raggruppare le ricerche che ebbero luogo in seguito a seconda del tema trattato.
Dell'esperienza sui tubi capillari eseguita dall'Accademia del Cimento per provare se la pressione atmosferica influisca sul fenomeno, ho già [396] detto; giova notare che i fenomeni di capillarità furono per primo osservati dal sommo Leonardo da Vinci, e direi quasi riscoperti e studiati con amore dall'Aggiunti, che spiegò con essi l'ascendere dei liquidi nei vasi dell'organismo, il nutrirsi delle piante, il conservarsi dei fiori in molle, il cibarsi delle variopinte farfalle a mezzo della proboscide.... Fu l'Aggiunti caro oltremodo al Galileo. Chiamato dalla Veneta Repubblica a coprire la cattedra del gran filosofo in Padova, preferì restarsene professore a Pisa dove, rapito alla scienza, morì nel 1630 giovanissimo, correndo la sua età col secolo. Le osservazioni però meglio approfondite sui fenomeni capillari, e sulle attrazioni e ripulsioni fra corpi galleggianti, a seconda della forma dei menischi, sono dovute al Borelli, che le eseguì e pubblicò all'infuori dei lavori fatti in comune nell'Accademia del Cimento.
Son note le lagrime Bataviche, goccioloni di vetro rapidamente raffreddato che vanno in briciole quando si rompa l'estremità della loro codetta; nè si conosce chi primo le abbia prodotte. Dall'Olanda entrarono nel mondo scientifico, e di lì il loro nome. Dobbiamo a Gemignano Montanari, nato in Modena nel 1633, uno studio su dette lagrime “Speculazioni fisiche sopra gli effetti dei vetri temperati„ nel quale per primo dà come causa del fenomeno la forte tensione [397] superficiale del vetro. Le così dette Bocce di Bologna, che si rompono lasciandovi cadere un pezzettino di pietra focaja, sono assai posteriori, e furono illustrate dal Balbi, professore di fisica a Bologna nel 1740.
Una delle curiosità scientifiche del seicento, ed intorno alla quale tutti più o meno si affaticarono, si fu la fosforescenza. Ancora Aristotile e Plinio conoscevano la luce fosforescente emessa da certi insetti, da materie in putrefazione, dal mare. Plinio parla di pietre luminose “carbunculus, selenites„ delle quali non conosciamo la natura; ed Alberto il Grande sapeva come il diamante, moderatamente riscaldato, emetta luce all'oscuro. Era pure noto che lo zucchero, il quarzo e qualche altra materia, sfregati fra loro, o pestati, danno una leggera fosforescenza.
Nel 1604 Vincenzo Cascariolo, calzolaio bolognese, occupandosi a tempo perso di alchimia, calcina, fra i carboni, della pietra tolta alle falde di monte Paterno, e s'accorge che, esposta preventivamente ai raggi del sole, e ritirata in luogo oscuro, si mostra luminosa. È il così detto fosforo di Bologna, un solfuro di Bario ottenuto dalla riduzione a mezzo del carbone dello spato pesante.
Non è a dirsi quanto rapidamente si propagasse la scoperta, che offerse tema di studio allo stesso [398] Galileo e a tant'altri suscitando una gara per trovare nuove materie fosforescenti. In tal modo se ne avvantaggiò la chimica colla conoscenza di altri corpi, quali il fosforo di Baudoin, il fosforo di Homberg, il vero fosforo ottenuto nel 1669 da Brand, il fosforo di Canton....
E già che siamo a ragionare di ricerche che sì strettamente si collegano colla chimica, mi sia concesso, ad onore di un nome caro a noi tutti e alla scienza, degno pronipote di illustri antenati segnalatisi nello studio della natura, di rammentare le esperienze, eseguite verso il 1694, da Targioni ed Averani sulla combustione del diamante. Fra i molti, un bel diamante di 8 grani, esposto ai raggi del sole concentrati colla grossa lente da Benedetto Bregans donata nel 1690 al Gran Duca Cosimo, e tutt'ora esistente nella Tribuna del Galileo, dopo 28 1⁄2 minuti completamente bruciò, mostrandosi così, nulla più nulla meno di un pezzetto di puro carbone, ma cristallizzato. Anche Francesco di Lorena Granduca di Toscana all'estinzione della casa Medici, e che fu poi Francesco I di Alemagna, fece trattar col fuoco per oltre a 6000 fiorini di diamanti, nella speranza di fonderne diversi piccoli in uno grosso, e trovar modo così di rifornire l'esausta sua cassa. Ma i diamanti andarono in fumo, o per [399] essere più precisi, combinandosi coll'ossigeno, svanirono nell'aria, sotto forma di anidride carbonica.
Nell'agosto 1609 Galileo presenta il primo cannocchiale al Senato di Venezia. Nel 1617 immagina il suo “Celatone„, due cannocchiali fissati ad una specie di morione, per poter con questo binocolo osservare da una nave i satelliti di Giove allo scopo di determinare le longitudini. E già che siamo in pieno seicento, mi sia concesso aggiungere: e dopo aver spaziato per le vie del cielo, il binocolo ci serve ora ad ammirare le stelle della terra.
A quello del Galileo subentra ben presto il cannocchiale astronomico, ideato dal Keplero.
Oltre Galileo, e come abbiamo veduto il Torricelli, riuscì pure eccellente costruttore di cannocchiali Eustachio Divini di San Severino, al quale si deve anche un importante perfezionamento del microscopio, che rese più chiaro e di maggiore ingrandimento col comporre di due lenti ciascuno, tanto l'obbiettivo che l'oculare.
A lui rivale nella costruzione de' cannocchiali era Giuseppe Campani, romano, che portò la distanza focale degli obbiettivi fino a 136 piedi, e fornì a Luigi XIV lo strumento, con cui il celebre Cassini scoprì i satelliti di Saturno. Anzi, ad una speciale disposizione delle lenti dell'oculare, [400] che s'usa tutt'ora, è rimasto il nome di “Oculare Campani„.
Nè va dimenticato come il primo a sostituire alla lente obbiettivo uno specchio concavo fosse Niccola Zucchi di Parma, che costruì il primo telescopio riflettore nel 1616.
Tuttavia, mentre l'Italia fornisce per lungo tempo i migliori cannocchiali, e l'Accademia del Cimento splende di viva per quanto breve luce, le osservazioni astronomiche, somma gloria del Galileo, colla partenza del Cassini, giacciono pressochè trascurate.
Fatale influenza di Roma che schiaccia nell'Italia asservita ogni aspirazione alla ricerca del vero. In Francia invece sorge il grande Osservatorio di Parigi ultimato nel 1672; in Inghilterra quello famoso di Greenwich inaugurato nel 1675; in Germania quello di Berlino fondato nel 1700.
L'invenzione del cannocchiale e del microscopio a prima vista sembra culminante, e tale da aver fatto fare alla scienza dell'ottica un passo gigantesco. Se noi giudichiamo dai vantaggi recatici dai due importantissimi strumenti, certo dobbiamo collocarli al primo posto.
Col cannocchiale spazia lo sguardo nell'immensità de' cieli. Dal caos della Bibbia, dove la materia allo stato aeriforme riempie l'infinito, si [401] vien formando nella fuga dei secoli il cielo stellato, ed ogni stella fissa avrà i suoi pianeti, composti di egual materia, per quanto vari in grandezza, temperatura, condizioni di moto. E a tutta l'infinita varietà de' corpi celesti presiederanno le leggi immutabili dell'indistruttibilità della materia, della conservazione dell'energia, dell'attrazione. Perchè in natura non esiste ripulsione; tutto è infinita sapienza, sommo amore.
Attraverso l'immensità dell'etere giunge a noi, sotto forma di raggio luminoso, il fremito del più remoto astro; quel raggio è il saluto del lontano fratello alla sorella la terra. Quel raggio, rifratto da un prisma nel cannocchiale, è il messaggero che narra la storia del cielo.
Mirabilissima potenza dell'ingegno umano! Il quale, armato del microscopio scende nelle infinite latebre di una goccia d'acqua, e vi discerne miriadi di esseri organici, come le stelle nel firmamento, e li distingue, li classifica, e trae argomento a combatterli, per risparmiare lutti e sventure. E con attento occhio osservando, spia la costituzione della materia cerebrale, e se gli venga fatto di scoprire il mistero del pensiero, di quest'atto fisico, che fa turbinare in sì piccolo spazio l'immensità del creato.
Eppure, per l'invenzione dei due importantissimi strumenti, nota già essendo la rifrazione, [402] la teoria dell'ottica non si è avvicinata di un passo alla spiegazione dei fenomeni luminosi; non ha che messo a disposizione delle scienze nuovi e potenti mezzi di ricerca.
Trovare la causa del perchè un bastone tenuto obliquo nell'acqua sembri spezzato, lo spato islandico faccia vedere doppi gli oggetti, o le piume del collo d'un piccione compariscano iridescenti: ecco un problema assai più interessante per la teoria dell'ottica di tutti i microscopi e cannocchiali.
E per fortuna, l'onore d'averlo risolto spetta ad un nostro italiano che per primo gettò le basi della teoria delle ondulazioni luminose.
Francesco Maria Grimaldi, nacque nel 1618, morì nel 1663 in Bologna sua patria. Apparteneva all'ordine dei Gesuiti, e l'importantissima sua opera “Phisico-Mathesis de lumine, coloribus et iride aliisque adnexis, libri duo„ non comparve in Bologna che due anni dopo la di lui morte. Contenendo essa nuove teorie avrà forse dubitato dell'accoglienza che avrebbe potuto trovare presso i suoi superiori, e temuto non avesse a suscitargli contro delle persecuzioni. Contemporaneo del Cavalieri, entrambi coltivarono di preferenza l'ottica, il primo, trattandola dal lato matematico, Grimaldi da quello sperimentale.
Facciamo entrare in una stanza oscura, attraverso [403] un foro praticato nelle imposte, un fascio di raggi solari, ed interponendo una sottile asticina opaca raccogliamo la luce su d'uno scremaglio. Dovressimo osservare un'ombra contornata dalla sua penombra; invece si trova che l'ombra fisica è più larga di quella geometrica, e contornata da frange colorate e da frange oscure. Quest'è la prima esperienza del Grimaldi. La seconda che si potrebbe enunciare “luce aggiunta a luce dà tenebre„ è la seguente: pratichiamo nell'imposta due forellini vicini uno all'altro, e raccogliamo la luce a tale distanza, che i due fasci si sovrappongano in parte. Ciascuno dei forellini da solo darebbe un disco luminoso più chiaro nel mezzo che ai bordi; agendo insieme invece, dovrebbero dare due dischi luminosi, colla parte sovrapposta più chiara. In realtà la parte centrale è più chiara, ma comparisce limitata da bordi oscuri che vengono così a cadere in parti dove ogni disco per sè avrebbe dovuto essere luminoso.
Su queste due esperienze, in apparenza così poco concludenti, si esercita l'ingegno del Grimaldi per trarre i fondamenti della teoria delle ondulazioni. Infatti solo due movimenti di ordine inverso, condensazione e rarefazione, fase positiva e fase negativa, possono elidersi, e dare mancanza di luce o bordi oscuri, e nella prima esperienza [404] frange oscure. Se ciò che entra dai fori non fosse un movimento, ma qualche cosa di materiale, là dove cade in maggior copia, si dovrebbe aver sempre più luce.
Grimaldi paragona il modo di propagarsi della luce a quello delle onde generate da un sasso sulla superficie dell'acqua, e suppone un fluido leggerissimo, che urtato dal corpo luminoso, trasmetta vibrando la luce. Anzi intravede, facendo un paragone col suono, che, come in acustica al maggior numero di vibrazioni corrisponde un suono più acuto, in ottica alle vibrazioni più o meno rapide del corpo luminoso corrisponda luce diversamente colorata.
In altro capitolo, a maggiore conferma del suo modo di vedere, analizza il caso di luce bianca, che per effetto di semplice riflessione può comparire colorata, ciò che realizza facendo riflettere un fascio di luce da una lamina di metallo finemente striata, ottenendo così l'iride, o lo spettro, da lui stesso chiamato di diffrazione.
Ed è a questo medesimo sistema che, usando gli splendidi reticoli del Roland, noi ricorriamo presentemente per avere lo spettro normale del sole; spettro nel quale leggiamo a chiare note la costituzione e natura del sole stesso. L'iridescenza del collo del piccione non è che un fenomeno dello stesso ordine, e la luce si riflette [405] su d'una superficie, per la conformazione delle piume, finemente striata.
Mirabilissima deduzione questa del Grimaldi, che in altra epoca avrebbe sollevato il plauso universale, e rimase invece affatto dimenticata, finchè d'oltre monte non fu rimessa in onore, ampliata, perfezionata.
Degne di speciale menzione sono pure le esperienze del Grimaldi sul fenomeno così detto della dispersione della luce; sull'iride cioè che si ottiene facendo rifrangere la luce del sole in un prisma. Fu esso che pel primo mostrò come il fascio di raggi luminosi, attraversando il prisma, s'allarghi, e che considerò i colori come dipendenti dalla luce che illumina i corpi; che ammise una diversa velocità di propagazione del moto vibratorio in rapporto al numero delle vibrazioni, e che previde la luce propagarsi con minore velocità nei corpi più rifrangenti.
Pochi anni dopo Grimaldi, il Newton illustrò ampiamente il fenomeno della colorazione della luce nei prismi, ed emise per ispiegare i fenomeni ottici la famosa teoria delle emanazioni, considerando la luce come qualche cosa di materiale che, al pari dell'odore, esali dai corpi.
Nessuna meraviglia quindi che l'opera del Grimaldi, che riteneva la luce una forma di moto vibratorio, rimanesse affatto negletta di fronte [406] all'immensa autorità di cui godeva il Newton. Il Göthe, nella sua teoria dei colori, chiama il Grimaldi versato in tutte le sottigliezze della dialettica, e giudica poco serio il di lui lavoro.
Del resto quanto possa l'autorità di un uomo per ribadire degli errori ed arrestare per un certo tempo il progresso, se anche non ne avessimo avuto un grande esempio in Aristotile, ne avressimo uno nel Newton.
Nel 1690 Huyghens dà alle stampe il suo “Trattato sulla luce„. In esso, per ispiegare il fenomeno della doppia rifrazione ricorre alla teoria delle ondulazioni, e tanto, e sì profondamente la svolge da poter render ragione colla stessa di tutti i fenomeni ottici allora conosciuti. Ebbene, il lavoro dell'Huyghens, per quanto profondo e persuasivo, rimase affatto dimenticato. Nè valse a tirarlo dall'oblio l'autorità dell'Euler che dal 1746-1752 prese a difendere la teoria delle ondulazioni. — Nel 1801, Young, facendo meglio risaltare il principio delle interferenze luminose, la sviluppa ancora più ampiamente. Ma perfino il suo lavoro rimase non curato. Solo nel 1815 riuscì a Fresnel, sostenuto da Arago, contro Biot e Poisson, partigiani del Newton, di rivendicare la teoria delle ondulazioni; illustrandola colla famosa esperienza degli specchi, che portano il di lui nome, e sviluppandola al punto [407] che, infine, fu da tutti accettata. — Quasi duecento anni occorsero, perchè la più bella teoria della fisica potesse trionfare, e con essa fosse reso il dovuto onore al Grimaldi suo divinatore. Anzi, se si tien conto che la teoria delle ondulazioni ha bandito finalmente dalla fisica i fluidi imponderabili, creati per mascherare la nostra ignoranza; che magnetismo, elettricità, calore, luce, azione attinica, non sono in grazia alla medesima che fenomeni della stessa natura, diversi solo per numero di vibrazioni; che tutto dunque giudicato alla stregua di sì splendida teoria, si unifica; trovo la concezione del Grimaldi altrettanto fondamentale per la fisica, quanto il principio di inerzia del Galileo per la meccanica, la legge di gravitazione del Newton per l'astronomia, la teoria atomica del Dalton per la chimica. — Materia e moto, indistruttibilità di quella, conservazione e trasformazione di questo. Unità nell'infinita varietà.
Fra i molti problemi intorno ai quali si esercitarono maggiormente i fisici del 600, abbiamo visto figurare la pressione dell'aria, la sua dilatazione pel calore, l'ebullizione dei liquidi, la forza elastica del vapore. — Ed ecco come da un complesso di nozioni pian piano acquisite alla scienza sorge poi tale un'invenzione, che ha [408] sconvolti gli usi della vita, rotte le barriere fra le nazioni, rialzato l'operaio dalla materialità del facchino a dignità d'uomo pensante, rinnovellate le industrie; — intendo parlare della macchina a vapore.
Naturalmente essa non poteva uscire completa dalla mente di un solo, e tutte le nazioni fanno a gara per attribuirsi la lor parte di merito.
Da noi non mancò qualche tentativo per adoperare il vapore come forza motrice. Ragionando sull'eolipila di Erone Alessandrino, il Porta, ancora nel 1601, si domanda in quante parti d'aria, come allora chiamavasi il vapore, si trasformi un dato volume d'acqua, e riesce con un semplicissimo apparecchio a sollevar l'acqua, per sola pressione di vapore. Nel 1629 Giovanni Branca, architetto della chiesa di Nostra Donna di Loreto, pubblica un trattato “Delle macchine artificiose, tanto spirituali che animali di molto artificio per produrre effetti meravigliosi„ nel quale propone che una grossa eolipila getti il vapore contro una ruota a palette, destinata a far muovere un piccolo mulino. Ma qui finiscono i titoli nostri per l'applicazione diretta del vapore quale forza motrice. Non va dimenticato però, che le esperienze e le leggi su cui la portentosa macchina posa, quasi tutte in Italia per primo furono eseguite o dedotte.
[409]
Era in Inghilterra, dove l'attività industriale è più fiorente, che maggiormente si sentiva il bisogno di utilizzare le forze della natura. Nel 1655 il marchese di Worcester pubblica le sue cento invenzioni, ed ottiene un brevetto per una macchina a vapore atta a sollevar l'acqua.
Nel 1681 e seguenti, l'infelice Papin, dopo aver soggiornato qualche tempo in Inghilterra, comprende il vero spirito delle macchine a vapore, inventa la pentola che porta il di lui nome, la valvola di sicurezza, e giunge persino a mandare un battello sul Weser, per morir povero e dimenticato in una soffitta, fra i rottami delle sue macchine. — Segue Savary nel 1698. Con Newcomen e Cowley nel 1705 ci troviamo di fronte a una vera macchina a vapore che aspetta il suo perfezionamento da Watt, per correre con Stewenson e Fulton da un capo all'altro del mondo.
Vediamo ora l'Italia, che ha dato per prima il melodramma, costruito il pianoforte, perfezionato tant'altri strumenti; “la terra dei fiori, dei suoni, dei carmi,„ quanto abbia prodotto nel campo dell'acustica.
Ancora nel XI secolo Guido d'Arezzo inventa le note, e le nomina colle prime sillabe d'ogni versetto dell'Inno di San Giovanni. — Giuseppe Zerlino, nato a Chioggia nel 1540, e Vincenzo, [410] padre del Galileo, scrivono di musica teorica; ma la parte fisica dell'acustica incomincia solo con Galileo Galilei. Fu esso a dimostrare che per corde eguali ed egualmente tese, la durata di oscillazione è proporzionale alla loro lunghezza. Provò pure che l'acutezza del suono sale o scende col crescere o diminuire delle vibrazioni. Avvertì, che strisciando dolcemente con un dito bagnato il bordo d'un bicchiere, contenente dell'acqua, si ottiene un suono, e fin che esso dura la superficie dell'acqua si increspa, producendo una specie di stella. E si domanda: se non sarebbe possibile fissare queste figure acustiche per poterle con più agio studiare. Rammenta allora l'esperienza occorsagli con una lastra di ottone, che messa in vibrazione e cospersa di rena, questa si disponeva in una serie di linee distribuite con simmetria. Sono le belle figure illustrate poi dal Cladni, e note sotto il di lui nome; ma prima d'ogni altro ottenute dal Galileo.
Ho già detto delle esperienze eseguite in Firenze dal Borelli e dal Viviani, e riportate nei “Saggi„ sulla velocità di propagazione del suono, che dettero per risultato un valore di ben poco differente da quello ammesso presentemente. Nè so comprendere come di queste nostre esperienze non si faccia mai cenno nei libri di fisica italiani, ne' quali si riportano regolarmente quelle [411] eseguite in Francia. — Va pure notato che il primo a mostrare come la velocità di propagazione del suono aumenti col crescere della temperatura fu il medico Bianconi.
I risultati delle esperienze da esso eseguite a Bologna a temperature di -2 a +28° R. sono riportati in un opuscolo “Della diversa velocità del suono„. (Venezia, 1746).
Newton, che introdusse pel primo l'analisi matematica nelle quistioni acustiche, calcolò teoricamente la velocità di propagazione del suono; ma trovò che risultava solo 5⁄6 di quella data dalle esperienze. Per metter d'accordo i due risultati furono escogitate numerose ipotesi; ma il primo che accennò alla vera causa fu il nostro Lagrange, senza però svolgere completamente l'idea balenatagli. Sicchè durante tutto il settecento la quistione interessò in sommo grado tutti i cultori delle scienze, e solo nel 1816 La Place mostrò che realmente bisognava recare la correzione ideata dal Lagrange; perchè, mentre la temperatura dell'ambiente non varia col propagarsi delle onde sonore, compensandosi il freddo prodotto dalla rarefazione col maggior calore prodotto dalla compressione, questa variazione di temperatura nelle parti dell'onda modifica però l'elasticità dell'aria, e con ciò la velocità di propagazione del suono.
[412]
Un altro problema della più alta importanza, che si proposero, non solo i cultori della fisica, ma ben anco i maestri di musica, i matematici, i filosofi, fu quello di trovare la ragione, perchè due suoni armonizzino quando fra i numeri delle loro vibrazioni esista un rapporto semplice, mentre in caso diverso, o se il rapporto semplice è appena alterato, riescono dissonanti.
Fortunatamente alla risoluzione del problema contribuirono in larga parte due italiani.
Verso la metà del seicento Marigni inventa la sua “Trombetta Marina„, che viceversa non era poi una trombetta, e nemmeno un istrumento a fiato, bensì una specie di grosso sonometro. Su d'una cassa di risonanza di forma piramidata era tesa una corda, che dava una nota stridula, somigliante a quella di una trombetta, in causa del tremito della staffa cui era raccomandata la corda contro la cassa stessa sulla quale posava leggermente.
A mezzo del suo strumento mostrò, non solo che si può ottenere dalla corda un seguito di note i cui numeri di vibrazione crescono come la serie dei numeri interi; ma ben anco che queste medesime note accompagnano la fondamentale, e si possono percepire separatamente, toccando leggermente la corda in vibrazione alla sua metà, terzo, quarto, ecc. Sono questi i toni [413] armonici, o meglio superiori, dai quali appunto, oltre il timbro musicale, dipende anche la consonanza. E coi medesimi, a definire l'armonia concorrono, o li suppliscono se mancanti, i suoni detti di Tartini.
Nacque Tartini nel 1692 a Pirano d'Istria, e fu destinato al sacerdozio. Ma lasciò ben presto la teologia per la legge, anzi, per essere più precisi per la scherma, sua passione favorita. Ammogliatosi segretamente, appena s'accorge d'essere incorso nella collera dello zio, il cardinale Cornaro, abbandona la moglie, e si ritira nel convento di Assisi. La calma del chiostro e sopratutto la compagnia d'un bravo monaco, esperto in musica, risvegliano in lui una latente passione per quest'arte geniale, così che in due anni diventa famoso nel suonare il violino. Calmatosi lo sdegno dello zio, lascia il convento, e in un concerto a Padova rapisce talmente gli uditori, che la sua fama corre da un capo all'altro d'Italia.
Nel 1714 avverte che quando si suonino ad un tempo due note, se ne percepisce una terza più bassa; per esempio: con un DO₃ ed un LA₃ si sente un FA₂.
Chiamò questo nuovo tono, dato dalla combinazione degli altri due “il suo terzo suono„; e fu poi detto di Tartini.
Ora questi terzi toni, quando il rapporto fra [414] le due note che li generano non sia preciso, possono dar luogo ai battimenti, segnano quindi la disarmonia e suppliscono là dove mancano i toni superiori. Interessante si è il sapere che Tartini nel suo “Trattato di musica secondo la vera scienza dell'armonia„ (Padova 1754) e nella “Dissertazione dei principi dell'armonia musicale contenuta nel diatonico genere„ (Padova 1767), non solo parla del suo terzo suono, ma espone l'idea che desso concorra nel definire l'Armonia.
Ed appunto sui toni armonici messi per primo in evidenza dal Marigni, sui battimenti illustrati dal Saveur, e sui toni di Tartini, detti poi di “sottrazione„ fonda Helmholtz la mirabile, e semplice sua teoria della consonanza.
Nel campo del magnetismo e dell'elettricità, all'infuori delle poche cose tentate dall'Accademia del Cimento, scendiamo fino a Beccaria prima di trovare qualche lavoro d'una certa importanza. Nel 1753 pubblica un'opera “Dell'elettricismo naturale ed artificiale„ e nel 1775 una seconda “Sull'elettricità atmosferica a cielo sereno„; preludio agli importanti lavori eseguiti poco appresso in Italia. È poi noto come una delle esperienze per mostrare la sede dell'elettricità sui buoni conduttori si faccia ancor oggi a mezzo d'un apparecchio chiamato “Pozzo di Beccaria„. [415] Anche Tiberio Cavallo napoletano, eseguì, sopratutto in Inghilterra, molte osservazioni sull'elettricità atmosferica, che assaggiava a mezzo di un suo elettrometro.
I progressi della fisica e dell'elettricità in ispecie nell'ultimo quarto del 700 si collegano troppo strettamente colle prime scoperte del 1800, per poter essere qui con utilità, sia pur di volo accennati.
Quanto cammino lo svolgersi dell'umano pensiero!
Alle incerte notizie d'una civiltà orientale, a quelle più sicure dei Caldei e degli Egiziani ecco sovrapporsi la splendida civiltà greca, speculativa ed artistica per eccellenza, che ci tramanderà con Aristotile il vangelo scientifico su cui giureranno per lunghi secoli le generazioni future, e con Anassagora e poi Epicuro l'idea Atomistica, che rifatta sulle basi dell'esperienza, sarà leva potentissima allo sviluppo delle scienze e della Chimica in modo particolare.
Coll'invasione degli Arabi vediamo dispersa la famosa scuola Alessandrina, e tesori di sapere, sopratutto nel campo filosofico e matematico perduti. E mentre la più fitta tenebra della barbarie pare voglia stendersi per ogni dove, ecco gli Arabi stessi, che si fanno cultori [416] delle scienze, danno novello impulso agli studi astronomici e chimici, e risvegliano, co' profughi greci, il culto alle scienze anche in Occidente. Ma breve è il periodo, e strana cosa, un popolo giunto rapidamente ad un elevato grado di civiltà, torna pressochè nomade alle sue terre.
Per lunghi secoli nelle Università che s'erano venute formando per prime in Italia, dove maggiore era il bisogno d'emanciparsi dai ceppi d'un'istruzione, diretta solo da ecclesiastici, non si insegna che ciò che dagli antichi ci pervenne, non si riconosce che Aristotile. Epoca ingloriosa, appena marcata di quando in quando da qualche accenno a novità, subito represso.
Ma l'aurora dell'Umanesimo spunta appena in Italia, che già le arti e la letteratura, con gigantesco progresso illuminano della luce più viva i secoli XIV, XV, XVI; nè la scienza può rimanere estranea a questo ridestarsi di ogni attività, e con Galileo getta le basi di quella filosofia positiva, che, caratterizzata dal motto della Accademia del Cimento Provando e riprovando sarà base incrollabile allo svolgersi ulteriore dell'umano pensiero. Splendida epoca, orgoglio nostro, ed in modo particolare di questa terra toscana, sorriso d'Italia.
[417]
Che vale l'opporsi dell'oscurantismo prepotente? Avrà i suoi martiri anche la scienza, e saran seme di novello progresso.
E se le persecuzioni diraderanno le file dei cultori delle scienze in Italia, sorgeranno i Newton, gli Huyghens e tant'altri, a strappar nuovi segreti alla natura, chè la scienza è universale.
Certo l'amore del natìo loco fa rimpiangere che al periodo glorioso di Galileo e dell'Accademia del Cimento, abbia fatto seguito un lungo volger di anni scarso, in confronto alle altre nazioni, di messe, benchè non privo di nobili ingegni che a quando a quando gettarono sprazzi di luce foriera di nuovi veri.
E la sua parte nel decadimento scientifico d'Italia, specialmente nella prima metà del 700, va data alle condizioni politiche della penisola.
La parte meridionale oppressa da un governo superstizioso e sleale, che si regge sull'ignoranza de' popoli, a grande stento, e scarsamente diradata dalle sapienti divinazioni del Vico, e dalle animose riforme del Tanucci.
La media Italia in balìa di una corte pontificia, dove anche la geniale od austera personalità di pontefici come i XIV Benedetto e Clemente, s'infrange contro l'assolutismo del dogma e la tirannìa degli ordini religiosi.
In Toscana fiacco il costume, fiacco lo studio, [418] sonnolenta l'intera esistenza per colpa di un governo, tanto più biasimevole quanto più illuminato.
I Ducati covo di tiranelli altrettanto impotenti quanto prepotenti.
L'Austria che spadroneggia nel milanese, ed agogna ad assoggettarsi l'Italia intera, non mai sazia di asservire al suo ibrido governo quante più nazionalità le venga fatto.
A Venezia una Repubblica oligarchica, intente le menti più elette a conservare un potere che si veniva fiaccando.
E nel piccolo Piemonte, la futura speranza d'Italia.
Non dissimile l'Italia dalla Germania, colla differenza che i molti stati che componevano quest'ultima, erano almeno retti da Principi tedeschi, e che la riforma di Lutero vi aveva spirato un soffio di vita nuova, mentre l'Italia era alla mercede dell'Austria e della potenza papale nemica del progresso.
E così è che la Germania come l'Italia ben poco producono nel campo scientifico durante la prima metà del settecento; e di pari passo colla scienza decadono l'arte, la letteratura, la filosofia.
Epoca di reazione e rilasciatezza ben triste, e tale da far dubitare se il nuovo metodo di indagine sperimentale potesse riuscire ad emancipare [419] il pensiero, e guidar l'uomo sulla feconda via del progresso.
Ma la forza del progresso è inesorabile, e come fiumana trattenuta da improvvisi scoscendimenti per poco ristagna, per irrompere con maggior impeto e più veloce alla meta; così l'umano pensiero, che attraverso a mille ostacoli, sulla base del positivo rifà la strada de' secoli passati, e dalle leggi della natura assurge alle cause supreme, non torturando coi dogmi; ma persuadendo coi fatti; non seminando livore, odio, vendette; ma brillando iride di pace a tutti i popoli.
E già sorgono, precursori di nazionale risveglio, i grandi poeti, e nuovi veri, destinati a portare una profonda rivoluzione nella vita delle nazioni ed a dare al secolo nostro un'impronta per la quale andrà famoso ai futuri, spuntano all'orizzonte.
Il lento oscillare della lampada nella cattedrale di Pisa fu poca favilla che gran fiamma seconda e con Galileo illuminò il mondo intero.
L'inconsciente contrarsi della rana nel gabinetto del Galvani è scintilla che sprigiona dall'acuta mente del Volta la portentosa pila.
Signore e Signori,
Un filo elettrico attraversa la sala. Milioni di vibrazioni ogni secondo lo agitano. Trasmetteranno [420] esse a dinamo potenti, dalle quali alla lor volta furono suscitate, un raggio moderno di sole, rapitogli dall'acqua, che nell'amplesso dell'Oceano evapora e si solleva, per ricadere pioggia benefica su monti, dai quali rivo, torrente, fiume, precipitando, confida a congegni meccanici la sua preda? Oppure un raggio di sole antico, che per potenza di piccolo seme immagazzinò nelle vetuste piante, ora fossilizzate, l'energia di tempi remoti, quando l'uomo non ancora calcava la terra di cui scruta ora i segreti?
E quel raggio di sole trascinerà esso per erta pendice il fardello dell'uomo nel suo incessante affaticarsi? aiuterà, apprestandogli i mezzi, il lavoratore nella lotta per la vita? fornirà a popoli oppressi l'arma della difesa, o servirà a ribadire tormento di guerra, le loro catene? Per quel filo passerà la voce armoniosa dell'amicizia o quella stridula dell'interesse? la dolce voce del conforto, o quella rauca della calunnia? Detterà quel filo le burrascose vicende della politica, o le pacifiche conquiste della scienza?!
Io vorrei che quel filo trasmettesse in questo momento a ciascuno di voi i miei più vivi ringraziamenti per la benevola attenzione prestatami, e riportasse a me l'eco del vostro gentile compatimento.
[421]
CONFERENZA
DI
Antonio Fradeletto
[423]
Signore e signori,
Se il principio o il termine d'un'età può mai datare dall'apparizione o dalla scomparsa d'un uomo, la morte di Luigi decimoquarto segna certo il confine morale che divide il Seicento dal Settecento. Con lui, infatti, col monarca superbo che si piacque di vedersi effigiato in clamide e parrucca, sembra adagiarsi nella tomba tutto un secolo impettito, prosuntuoso, prepotente, intollerante, un secolo nel quale l'accademismo classico non disdegnava d'accoppiarsi in fastoso connubio con l'enfasi barocca. Gli Stati europei, liberi finalmente dall'incubo d'un'ambizione che aveva pesato per tanti anni sul loro destino, mandano un respiro di sollievo. La Francia stira le membra raggranchite nel gelo delle forzate devozioni e agogna a rifarsi con la sfrenata [424] libertà del costume e del pensiero. Si seguono allora due generazioni così spregiudicate, così epicuree, come l'ultimo periodo della vita del Gran Re era stato noiosamente bigotto. Godere, goder presto e in tutti i modi, è l'ideale cui mirano, sia inconsapevolezza che nasconda ai loro occhi l'abisso verso il quale sono trascinate, sia sprone di inconfessati presagi che le spinga ad esaurire ogni ebbrezza prima dell'imminente catastrofe. L'età anteriore s'era segnalata per una tensione suprema d'energia: energia caparbia, rovinosa, folle, ma, insomma, strenuamente pugnace. Essa veniva al despota — che la impose alla nazione — dalla coscienza, non mai scossa per accumularsi di sciagure, dell'alto ufficio al quale egli teneva preordinata la monarchia per diritto divino, incarnantesi nella sua persona. Ora, noi assistiamo ad una di quelle subitanee reazioni che seguono sempre gli sforzi soverchiamente protratti. Le antiche energie si allentano, le antiche convinzioni vaniscono in un sorriso. Etichetta, pompe, cerimonie, consuetudini officiali restano bensì immutate; ma lo spirito che un giorno le animava s'invola; ma le idee, i sentimenti, le fedi tradizionali ad ogni ora si sgretolano. L'edifizio costruito dai secoli si direbbe, a primo sguardo, incolume, quando invece nulla d'incolume n'è rimasto, fuorchè la decorazione [425] esteriore: una decorazione magnifica, amplificata da mille illusioni prospettiche, ma assisa ormai su fondamenta così logore che noi la vedremo oscillare e crollare al primo urto di mano plebea.
E come lo stato politico e sociale non era altrove molto dissimile, come l'esempio della Francia serviva di scuola all'Europa, l'aristocrazia ci porge quasi da per tutto (salvo le nobili eccezioni che non occorre rammentarvi) un'immagine conforme di vita. Veramente quest'aristocrazia non è che un'esigua minoranza; ma essa costituisce la classe dominante e tipica; essa detta la moda e crea il gusto; essa invade il dinanzi della scena e respinge ancora nell'ombra tutto il resto della nazione; essa dà pertanto alla società europea, fino allo scoppiare del movimento filosofico e borghese, e anche più oltre, un'apparenza comune di festività, di spensieratezza, di tolleranza amabilmente scettica, o, in breve, di estenuazione morale.
Fra noi l'estenuazione aveva cause più profonde e più remote. Già l'Italia era uscita dalla gloriosa indisciplina del Rinascimento barcollante e spossata, come chi ha troppo osato, troppo creato, troppo compreso e troppo goduto. Poi, centocinquant'anni di blandizie gesuitica e di oppressione spagnuola avevano plasmato a servilità [426] la mattiniera ribelle. Ingegno, cultura, spirito d'osservazione, fantasia, erano sempre vivi; viva era la pertinacia intellettuale del pensatore, dell'erudito, dell'artefice; ma era venuta meno nei più quella deliberata vigoria di iniziative e di resistenze che è il fiore dell'essere morale. E le riforme stesse che segnalarono la seconda metà del Settecento non ebbero tutta l'efficacia che proviene dai robusti consensi; esse furono reclamate da poche menti superiori e largite dall'alto, piuttostochè scaturire da una coscienza sociale largamente e virilmente operosa.
I forti aspirano a conquistare il dominio della propria anima; essi amano appartarsi e raccogliersi, perchè trovano in sè di che popolare ogni solitudine. Ma agli spiriti deboli e frivoli che resta da fare, se non allearsi ad altre debolezze e ad altre frivolezze? Così questa nobiltà esausta e peritura si conforta con la vita in comune, con le conversazioni, coi festini, coi teatri, col giuoco, con la galanteria, con l'osservanza rituale dei precetti della moda, innalzati perfino a quistione di Stato o a controversia diplomatica. L'impero d'una simile società non può spettare che alla donna, e la donna viene eletta concordemente ad esercitarlo. Ormai ella sembra creata soltanto per entrare con grazia in un salotto a braccio del cicisbeo, per porgere [427] la mano al bacio dei corteggiatori, per sedere ammirata in un palco, per danzare languidamente il minuetto, per dominare il volgo dall'alto d'una carrozza scintillante d'oro e di cristalli, per accennare a un desiderio ed essere a gara obbedita, per divenire maestra di piaceri e parteciparvi fino all'ultimo, come quella dama che ammalata di malattia inesorabile, si fa abbigliare sfarzosamente, colorire di rossetto le terree cavità delle guance, condurre in portantina a teatro, e che, al ritorno, muore.
Vi sono, Signori, rappresentazioni d'arte, le quali valgono storicamente più degli stessi documenti storici, perchè ci tramandano non tanto gli sparsi pensieri del passato, quanto l'intima essenza di tutto il suo pensiero. Tale “L'imbarco per l'isola di Citera„ di Antonio Watteau. Ben prima che Carlo Innocenzo Frugoni cantasse fra noi:
La bella nave è pronta:
Ecco la sponda e il lido
Dove nocchier Cupido,
Belle, v'invita al mar,
ben prima e con ben altra vena, il Watteau aveva dipinto la dilettosa allegoria, che esprime il sogno di due generazioni. Sul lido, sotto i grandi alberi, sorge, infiorata dai devoti, l'erma della Dea; l'onda purissima è in calma e i salici v'immergono le capigliature fluenti; uomini [428] e donne, tenendosi a braccio, traggono alla galèa che sta per salpare, sotto la guida degli Amori, verso l'isola incantata. L'aspetto di quelle coppie è giocondo, le mosse graziose, ma pure noi ci sentiamo vinti da un'ineffabile malinconia. Sono forse i vapori autunnali e vespertini in cui l'artista ha avvolto la scena? O è quel presagio amaro di delusioni che si mesce per noi a tutte le immagini del piacere? O è il lampo d'una comparazione fra i giorni che furono e i giorni che noi viviamo?.... Ignoro; ma certo dinanzi a quello spettacolo di agognate e credute felicità, l'anima è mossa a un sentimento triste, che potrebbe tradursi nelle parole: per l'ultima volta!
*
In quelle creature voi non cercherete dunque passioni, bensì capricci ed emozioni mutabili: l'emozione sentimentale, l'emozione voluttuosa, l'emozione gioconda, l'emozione patetica, l'emozione idillica. Vedete il sentimento tipico: l'amore. “On se plaît, on se prend; s'ennuie-t-on l'un avec l'autre, on se quitte avec aussi peu de peine qu'on s'est pris. Revient-on à se plaire, on se reprend avec autant de vivacité que si c'était la première fois qu'on s'engageât ensemble„ scrive in Francia Crébillon figlio. E in Italia l'abate [429] Chiari: “Dove troverete adesso quelle passioni violente e così memorabili che inspiravano un tempo le donne vedute soltanto attraverso un fosco velo e vagheggiate una volta al mese dall'altezza di una finestra?„ E invero l'amore è ormai divenuto un misto di volubilità sensuale e di consuetudine tra amichevole e cerimoniosa, che tollera filosoficamente le divagazioni e le compartecipazioni:
Qual torto far potrebbonsi,
Colpevoli del pari?
Perchè perdon si nieghino
Troppo ambedue son cari.
Di quando in quando ha anch'esso, l'amore, le sue burrasche, o, come dicevano, le sue smanie; ma sono burrasche a fior d'acqua, subito placate da un abbraccio o da un giuramento in ginocchio. La separazione non lascia dietro a sè che un'ombra di mestizia. Nel ripercorrere i luoghi dov'egli visse beato con la sua donna — forse irreparabilmente perduta — l'amante non medita e non impreca; basta a lui effondersi in questo lieve sospiro:
Dite almeno, amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò;
Ah! che l'eco mi risponde
E mi par che dica no.
E come l'amore, così sottoponete all'analisi [430] tutti gli altri sentimenti — il dolore, la fede, la tenerezza, la pietà, la generosità — quali vi si mostrano negli scritti letterari ed intimi del tempo. Potrete scomporli in una serie di stati di coscienza ora languidi ora concitati, ma quasi sempre mobili, ondeggianti, effusivi, e, per significar tutto con una parola, melodici. Ecco perchè senza la melodìa poetica e senza la melodìa musicale non si comprende il Settecento; ecco perchè le canzonette del Rolli, i drammi del Metastasio, le limpide arie del Pergolesi e dello Jomelli suonano a noi come la voce superstite dell'anima sua!
Ma una parte almeno dell'anima del Settecento si è pure espressa con un linguaggio visibile di forme e di colori. E questo linguaggio è il nuovo stile rococò in cui viene a rammorbidirsi quello più gonfio e pesante del periodo di Luigi XIV. I contorni sinuosi, i cimieri asimmetrici, i festoncini, i ciuffi, le frondeggiature arricciate, vi annunziano chiaramente la capricciosa mobilità degli spiriti. Quelle colorazioni tenui — cilestrine, rosee, verdicce, lilla, giunchiglia pallido, tortora, foglia morta — vi sussurrano all'orecchio le repugnanze sottili dell'epicureismo per ogni sensazione troppo vivace. Quei letti dalle incurvature di bomboniera, dai guanciali digradanti, dalle alcove rallegrate di nudità mitologiche, vi [431] confidano i sonni voluttuosi prolungati fin presso al meriggio. Quei canapè dalle braccia accoglienti vi evocano l'intimità dei lunghi colloqui, alternati di carezze e di consapevoli silenzi....
Vogliamo entrare nel vestibolo di quel grande palazzo, architettura immaginosa del Fuga o di uno dei Bibbiena, dello Juvara o del Vanvitelli? L'ampia scalea balaustrata ci conduce negli appartamenti gentilizi, scintillanti di lumiere. Sulle mensole, sulle cantoniere, spiccano le tazze di Meissen o di Sèvres, le statuine galanti e campestri in biscuit, le piccole miniature in avorio; sul caminetto, il bronzo dorato del pomposo orologio a pendolo e dei candelabri dagli steli attorti. La suppellettile, lucente di lacca, è dipinta a figurine e fiorami; qua e là qualche mobiletto di legno esotico, qualche stipo a tarsie di tartaruga e metallo, qualche gruppo scolpito a putti ed allegorìe, che sorregge un vaso del Giappone o della Cina. — Siamo nel salone, un sontuoso salone tutto fregiato di stucchi, dal soffitto recente di affreschi, dalle pareti chiare — bianco e oro, rosa e oro, pistacchio e oro — che si schiudono ad assidui intervalli nelle chimeriche profondità degli specchi. Le dame dalle acconciature bizzarre, dall'ampio giro della veste di raso ornata di trine e di falbalas, siedono conversando e agitando in ritmo i ventagli; i cavalieri [432] con la giubba e la sottoveste ricamate e i polpacci stretti nelle calze di seta, passano dall'una all'altra, tintinnando di ciondoli e sbattendo lo spadino incruento; qualche abatino novizio fa la sua corte discreta, appoggiato ad una spalliera o protetto dall'ala d'un parafuoco. Ma ecco un accordarsi sommesso di violini, un porgere ossequioso di mani, un fruscio di vesti, un disporsi lieve di coppie; il minuetto sospira i suoi inviti alla letizia; i guardinfanti si piegano come per un accenno di genuflessione; le giubbe ricamate s'inchinano; la danza comincia, molle, aggraziata, pacata, luminosamente proseguita entro le chimeriche profondità degli specchi.
Gli specchi! non è questo, Signori, uno fra gli ornamenti più cari al secolo, e fra quelli che meglio ce ne raccontano la socievolezza leggiera, l'appariscenza, la vanità, la fragilità? Profusi per ogni dove, gli specchi paiono eletti all'ufficio di adulare la realtà, di suscitarle intorno un corteo di seguaci illusioni. Nei festosi ritrovi, essi inducono l'uomo alla ricerca dell'atteggiamento e del gesto, ma insieme coi vigilanti richiami lo frenano; nei convegni libertini sferzano i suoi sensi con le complici denudazioni del pudore; nell'odiosa solitudine lo confortano, porgendogli almeno la visibile compagnia di sè stesso!
Perchè ciò che il Settecento aborre di più, [433] ciò che gli pesa intollerabilmente, è la solitudine. Prima che Giangiacomo Rousseau imprenda il suo apostolato, nessuno sa concepire le gioie austere dell'anima sognante in faccia alla natura. La vita in campagna non è dunque — mutato scenario — dissimile da quella di città: ricevimenti, rinfreschi, fuochi di gioia, tavola sempre imbandita, giuochi, concerti, commedie da camera. E già gli stessi giardini, coi lunghi viali regolari, e la fiorita simmetria delle aiuole che somigliano tappeti a rabesco, e le siepi di bosso tosato, e gli alberi rifondati o squadrati a piramide e a dado, e gli emicicli a gradinate coperte d'erbetta rasa, che altro sono se non una specie di duplicato dei teatri e dei saloni? Saloni all'aria aperta, dove la gente passeggia con lentezza pigra, si scambia nell'incontrarsi complimenti e celie, riposa sui sedili rustici col garbo contegnoso con cui s'adagia sui canapè, si raccoglie in comitive conversanti, si disperde a coppie sotto le vôlte fronzute, tra il sussurrìo delle fontane e l'occhieggiare delle ninfe marmoree dalle pieghe svolazzanti.
In molte fra le dimore ove passò sì lietamente la vita, si stende oggi lo squallore dell'incuria o dell'abbandono. Gli svelti ghirigori di stucco vanno sgretolandosi, o ingoffiscono sotto lo strato denso degli intonachi; la suppellettile impressa [434] di calde abitudini umane non è più; dalle pareti quadri e stoffe damascate scomparvero; gli specchi hanno la faccia livida dell'acqua palustre e non ripetono più luminosamente l'immagine umana, ma la offuscano e la incadaveriscono. Dal cancello rugginoso, fregiato di nastri e di stemmi a cartoccio, intravvediamo i viali del giardino, un giorno così corretti nel loro tappeto di fine ghiaia e nella duplice spalliera pettinata, invasi dal folle scompiglio dell'erbe; la conca marmorea della fontana muta di voci scroscianti; i gradini che mettevano alla veranda, i gradini sui quali passarono, sfiorandoli appena, tanti piccoli piedi, sconnessi e screpolati; e qua e là, di sui piedestalli ingialliti dai licheni, qualche ninfa dal naso mozzo e dalla mano mutilata, che si sforza ancora di sorridere con la triste civetteria delle vecchiaie che non si rassegnano.
Dinanzi a questi fantasmi deformati del mondo distrutto dalla catastrofe dell'ottantanove, sorge nella nostra mente una visione: un abisso nero, in fondo al quale gorgogliano torrenti di sangue, e sulle opposte sue sponde l'antitesi di due scene: di là tenui ombre graziose, aggirantisi, nella luce blanda del pomeriggio, per un Eliso campestre; di qua l'incalzare d'una gran folla irrequieta, in un'atmosfera fumosa e sonante di opere. — I nostri nonni e noi!
[435]
*
Consultiamo i ritratti, paragonandoli a quelli delle due età precedenti.
Nei ritratti del Cinquecento ferve tutta la vita poderosa d'un secolo in cui l'uomo, affidandosi senza freno a' suoi istinti, mostrò di quanta genialità e di quanta perversità egli sia organicamente capace. Direste che gli originali non siano venuti a posare davanti agli artefici, ma che piuttosto gli artefici, con qualche secreto sortilegio, li abbiano imprigionati palpitanti entro la cornice. Sotto la corazza o la porpora, sotto il giustacuore o la toga, con le labbra schiuse al comando o serrate in uno sforzo di proponimento, con la pupilla fiera di risoluzione o lampeggiante di cupidità, con la mano che stringe un decreto, o si posa sull'elsa della spada, o si pianta saldamente sull'anca, o s'abbandona sur un bracciuolo nell'assorta fissità del pensiero, essi ci narrano la storia di quella fatale generazione che splendette e si estinse in una vampata prodigiosa d'energie e di passioni.
Nel Seicento tonalità ed espressioni s'infoscano. Vi sono molte tele, dove, a primo sguardo, non riuscite a discernere nel campo buio che l'incerto biancore d'una gorgiera o di due lattughe. [436] Solo più tardi spuntano dalle tenebre due occhi cavi in un viso smorto. E di quelle immagini, alcune, accigliatamente torbide, vi lasciano intravvedere, o fantasticare, un viluppo di tetre cose interiori: qualche duro costringimento patito, qualche vocazione violata, qualche tedio insanabile, qualche mistero doloroso od atroce mal sepolto nel fondo dell'anima. Altre, invece, sembrano degnarsi di concedervi udienza con quell'aria di arcigno sussiego a cui la faccia umana era forzatamente composta dalle quotidiane tirannie del cerimoniale. Ogni spontaneità è soffocata. Educato alla scuola della paura e dell'ipocrisia, l'uomo non si espande più; si comprime o s'atteggia.
Con l'età nuova i tôni rischiarano e la tristezza dilegua. Diremo che sia egualmente scomparsa la pretensiosità? Tutt'altro. Voi le rivedete, mentre io parlo, certe patrizie del secolo che fu, rigide nell'abito insaldato, certi cavalieri e virtuosi pettoruti, certi senatori e procuratori dalle parrucche colossali e dai faccioni sbarbati, cui la cornice fastosa glorifica come una smaccata iperbole adulatoria. Ma pure l'uomo e la donna sono spesso rappresentati in attitudini più intime: la donna sopra tutto, mentre vezzeggia una cagnolina (quanta parte non ha la “vergine cuccia„ nei ritratti del Settecento!) o siede allo [437] specchio, o tiene in mano il bossolo dei nèi, o coglie un fiore, o accosta alle labbra la tazza invidiata dal poeta:
Cinese tazza eserciti
Beato il suo costume
E il roseo labbro oscurino
Le americane spume.
E in armonia con le attitudini, muta di necessità l'espressione. Alla gonfiezza, al compassato ritegno, subentrano le arie frivole o ingenue, ghiribizzose o sentimentali.
Una donna è appunto il ritrattista più celebre della prima metà del Settecento: Rosalba Carriera. Ella sparge de' suoi lavori l'Europa, ma la prodigiosa fecondità è ancora tarda alle richieste. Dinanzi a lei posano a gara la corte dissipata di Filippo d'Orléans, la corte casalinga di Rinaldo d'Este, la corte pomposa di Carlo VI. Dalle piccole mani, occupate in un'incessante fatica, escono le pagine più varie dell'iconografia contemporanea: la signora di Parabère, Law, Watteau, il piccolo Luigi XV, l'imperatrice Elisabetta, l'imperatrice Amelia, la duchessa di Holstein, la principessa di Teschen, il cardinale di York, Faustina Hasse, Pietro Metastasio. E da per tutto ella è ricercata e festeggiata; da per tutto le risuona intorno un coro d'ammirazione che osa pareggiarla perfino al Correggio, [438] e in cui si perde, senza ottenere ascolto, ogni censura più discreta.
Oggi, noi riconosciamo che il disegno di Rosalba è fiacco, ch'è assai dubbia (almeno in parecchi casi nei quali siamo in grado di giudicarne) la rassomiglianza de' suoi ritratti; — e tuttavia non ci par difficile comprendere le ragioni di quell'entusiasmo.
Certo vi conferì la sua tecnica. Rosalba trattava anche la miniatura e la pittura ad olio, ma il genere da lei prediletto restò sempre il pastello. Ora, l'uso delle matite colorate era in gran voga nel secolo scorso. Vi si addestravano così le educande ne' monasteri come le belle mondane nei loro piccoli appartamenti. Federico di Prussia, quest'uomo che alle doti sovrane della volontà e del genio pareva congiungere tutte le piccole manie del dilettantismo, non ingannava altrimenti gli ozi del carcere a cui l'aveva condannato la caparbia brutalità del padre. E già — come notò il Sensier — con quella pittura secca, ma limpida e facile al ritocco, con quella gamma preparata di toni e semitoni leggerissimi, si credeva di aver reso la mano più franca e più spedito lo studio della natura. Rosalba dovette dunque apparire come una geniale personificazione di questa tecnica, tutt'altro che nuova, è vero, ma che allora trovava nel gusto del pubblico elegante le condizioni [439] più propizie per espandersi, e che poco appresso sarebbe stata illustrata dalle grazie del Liotard e dal vigore di Maurizio La Tour.
Ma l'altra, la maggior ragione di quel fervore d'entusiasmo, fu l'alito di poesia, fra ingenua e melodrammatica, che Rosalba spirava ne' suoi ritratti. Se pur questi erano poco fedeli, i contemporanei dovevano ravvisarvi un fedele riflesso dei sogni loro abituali. Come il pittore dell'Imbarco per Citera idealizzava il costume e il poeta dell'Olimpiade il sentimento, ella mirò, in diversa misura, a idealizzare le fisonomie, e vi riuscì particolarmente nelle immagini femminili, perchè qui i suoi avvedimenti tecnici, i suoi difetti medesimi, come la mollezza del tocco, s'accordavano con la natura del soggetto. Da ciò, forse, la singolare malìa che esercitano le donne dipinte da Rosalba. Quei capelli, sparsi d'una brinata impalpabile di cipria, si sollevano dinanzi a noi come per un esile soffio; le carni di latte e rosa, delicatamente venate d'azzurro, si muovono a un blando ritmo di vita, tra il vaporoso biancheggiar dei veli e il gaio colore delle vesti; gli occhi stanno assorti in una dolcezza di godimenti rammemorati o sperati; la persona sembra circonfondersi della sua essenza spirituale, come il fiore si circonfonde del suo profumo.... Nulla, insomma, meglio della sorridente [440] levità dell'arte di Rosalba poteva tramandare fino a noi l'effimera apparizione di quegli esseri di capriccio e di piacere, ignari della tempesta che li avrebbe indi a poco travolti!
*
Ogni età ebbe un suo proprio ideale di bellezza e amò incarnarlo nella Donna. Il medio evo la figura come un giglio mistico sorgente nei campi paradisiaci della visione; il quattrocento le dà la freschezza umana e le grazie contenute dell'adolescenza; ai giorni lieti del cinquecento noi vediamo il suo bel corpo espandersi in una luminosa palpitazione di vita; col seicento ella si fa agitata e triste e leva al cielo le pupille irrorate di pianto.
Ora un ideale nuovo viene modellandosi sulle nuove consuetudini, e il suo tratto caratteristico è l'eleganza mondana. Alla fantasia dell'artista l'immagine della Donna non si presenta spontaneamente nella sua luce morale, non nella prestanza nativa delle sue forme, non nell'esaltazione dello spirito, ma in tutti i vezzi raffinati del suo abbigliamento. La pittura non si compiacque mai tanto di ritrarre la toilette d'una dama o d'una dea; nè mai la poesia indulse così largamente alla descrizione delle acconciature e delle vesti:
[441]
Col terso pettine tutta inanella
La lunga chioma, e bianca polvere,
Qual neve in albero, spargi su quella.
Pon su 'l bell'ordine de' vaghi crini
I ricchi nastri, le gemme tremule
E i sottilissimi stranieri lini.
Le orecchie adornati con fila d'oro,
Onde, com'astri, brillin purissimi
Diamanti penduli in bel lavoro.
Di perle candide doppio monile
Al collo cingi, e i polsi avvolgine
Pur della morbida mano gentile....
Dov'è la nobile pomposa vesta,
Cui frange d'oro d'intorno ondeggiano,
Tutta pur d'auree fila contesta?
Attorno ai busti che serrano le vitine — agli alti busti coperti di raso o di broccato, sui quali s'indugia con voluttuosa carezza il pennello — vola la strofe laudatrice del poeta:
Ristretto in circolo di spazio angusto,
Affusolato su snelli ed agili
Fianchi sollevasi tuo vago imbusto;
nè la mano par mai così bella come quando tratta civettolamente il ventaglio:
Risvegliator di zefiri
Ventaglio avea la manca,
Onde solea percuotere
Lieve la gota bianca.
Ne' moti or lenti or rapidi
Arte apparìa maestra.....
[442]
Quando l'occhio e l'immaginazione sono così imbevuti d'elementi artificiali, mal si vede la pura bellezza corporea. E, infatti, l'arte del tempo non riesce a rendervi sanamente ed efficacemente il nudo. Nella massima parte di quei dipinti il nudo o è insignificante o è libertino. Ora v'imbattete in forme sommarie, in carni floscie, alle quali fu sempre ignoto il bacio avvivatore dell'aria e del sole; ora avete dinanzi a voi qualche creatura meno nuda che spoglia, sulla cui faccia vi par quasi di ritrovare i nèi ed il rossetto, e di cui il vostro occhio corre istintivamente a cercare le gonne in un angolo del quadro.
Poco atta a cogliere la pura bellezza fisica, l'arte non si mostra meno impotente a farsi interprete della pura spiritualità. Nulla è ormai così raro nelle opere di soggetto sacro come un accento sincero d'unzione; e chi seppe, sia pure inconsciamente, trovarlo, merita per ciò solo un posto a parte nella storia del secolo. Prendete, ad esempio, il tipo della Madonna. In due modi lo avevano reso i grandi artisti: o, come Giotto e frate Angelico, sublimandolo nell'estasi, o, come Giambellino e Raffaello, trasfondendo in esso tanta e così soave placidità da suggerire naturalmente l'idea d'una condizione senza misura superiore all'umana. Nel Settecento, per contro, il tipo della Madonna quando non è volgare, [443] è manierato; quando non riproduce materialmente un modello purchessia, piglia un'aria affettata di mondanità. C'è nella chiesa degli Scalzi, a Venezia, una Santa Famiglia dello scultore Torretti, in cui la Vergine, dalle guance paffutelle, dalle membra affusolate e polite al tornio, ha l'aspetto vezzoso d'una damina, tanto che il Gautier dinanzi a quella morbida pietra figurante la madre del Signore non poteva interdirsi di ricordare, con sacrilego pensiero, la marchesa di Pompadour.
E, del resto, guardatevi d'attorno in queste chiese del Gesù e del Sacro Cuore, erette bensì nel Seicento, ma nel Settecento compiute e adornate. Da ogni cosa che vi circonda, non esce forse una suggestione profana? Pareti incrostate di marmi preziosi che simulano tappezzerie e cortinaggi, glorie di cherubini grassocci, cappelle cariche d'ori e di stucchi che paiono alcove, colonne che s'attorcono, quasi partecipando allo spasimo delle sante e dei santi trafitti dagli strali dell'amor divino. Non sono tempî cristiani codesti, sono santuari ambigui, dove il buon Dio scenderà tutt'al più come un visitatore vergognoso e furtivo, per arrendersi alla preghiera di qualche semplice di cuore!
E se le idee e i sentimenti cristiani sono così adulterati, non può farvi stupore la metamorfosi [444] che subisce il mondo mitologico. Mentre l'arte classica nobilitava plasticamente il Nume pur rappresentandone le passioni, l'arte del Settecento inclina a rimpicciolirlo coi segni esteriori d'una sensibilità effervescente e fugace. Marte, Apollo, Vulcano, Nettuno smaniano e declamano; vi sono Veneri e Diane e Minerve, che, in proporzioni colossali di viragini, mostrano un'anima di donnette svenevoli o bizzose. E già l'Olimpo eroico di Omero e di Virgilio cede all'Olimpo amoroso di Ovidio; Giove è spodestato da Cupido. Coi modelli ammirati dell'Albano sotto gli occhi, con le strofe d'Arcadia negli orecchi, la pittura moltiplica prodigiosamente l'alata famiglia, la annida fra l'erbe ed i fiori, la corica sugli aerei guanciali delle nuvole, la raccoglie in sciami tripudianti, la disperde in fughe maliziose, ne intreccia le infantili sembianze a tutti i momenti della vita. Vuole l'artista significarvi le brame e i sogni della giovinezza? Ecco due Amorini che mostrano gioielli e stoffe preziose ad una fanciulla addormentata, mentre un altro Amore, seduto sulla sponda del letto, prova col dito la punta de' suoi dardi. Vuole esprimervi qualche innocente dolore? Ecco, in un angolo, il piccolo iddio col capo basso e con gli occhi inumiditi di lagrime. — Più spesso, però, le immaginazioni mitiche, [445] anzichè tradursi in allegorie morali, non fanno che fornire dei partiti decorativi, di cui l'artista usa ed abusa nelle macchinose composizioni, come ne usavano ed abusavano gli apparatori scenici, gli autori di balletti e di cantate. Leggiamo: “Ridente e luminosa reggia d'Imeneo... Si veggono Giunone, Pallade, Venere, Imeneo, Mercurio, con folta schiera di genî.... tutti sopra bassi gruppi di nuvole diversamente situati.„ E anche: “Sopra varî gruppi di nuvole.... si veggono molto innanzi Venere con Mercurio da un lato, Marte con Apollo dall'altro, accompagnati da numerosa schiera di genî loro seguaci.„ Sono le didascalie di due azioni teatrali del Metastasio e potrebbero essere le esatte descrizioni di due affreschi contemporanei!
Gli è che ormai il teatro domina anche le arti del disegno; e le domina non solo per l'intima ragione, accennata dal Taine, ch'esso era il genere più appropriato all'indole di quel momento storico, ma altresì pel fatto materiale che molti artisti, e fra i migliori, lavoravano per il palcoscenico. Questa concezione teatrale della vita vi è rivelata dalle impostature, dalle movenze, dalle arie patetiche, dalle fogge capricciose e pompose; e quante volte, a certe uscite dei melodrammi contemporanei, la memoria non vi ripresenta da sè certi gesti imploranti o deprecanti [446] che avevate notato nei quadri di Sebastiano Ricci, dell'Amigoni, o del Cignaroli!
Nè in modo diverso dalla vita è rappresentata la morte. — Nel mausoleo Valier, della chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo, voi vedete un padiglione di marmo giallo cosparso di fiori dorati e sostenuto da angioletti nudi, scendere fra quattro grandi colonne di marmo nero, e, sul fondo di questo sontuoso sipario, allinearsi, come cantanti in un terzetto, le statue dei due dogi e della dogaressa, tutti in gran gala, lei con la capigliatura arricciata, con una mano che sporge stringendo i guanti e l'altra che tiene sollevata leggermente la veste. Il doge Silvestro Valier e sua moglie furono benefici e pii; ma gli artisti che innalzarono il monumento, come espressero l'anima cristiana di quei defunti? Col gruppo d'una prima donna in veste guerriera intitolata Virtù, che incorona un vecchio padre nobile battezzato pel Merito, e più sotto, nei bassorilievi, con una serie di figure manierate e levigate, che vorrebbero simboleggiare la Mansuetudine, la Carità, la Costanza, la Pace. Enfatica e terrifica nel seicento, la tomba si fa ora allettatrice e maestra di sceniche vanità!
Teatrale e mondano l'uomo, teatrale e mondana l'immagine della natura. Non che manchi affatto ne' quadri di paese del Settecento la nota del [447] vero. Affermandolo, mostrerei di dimenticare per lo meno Marco Ricci e il Vernet, un francese che possiamo dire quasi nostro; — ma questa nota è un'eccezione di fronte a due caratteri che generalmente vi prevalgono. Il primo è, intanto, l'abuso degli effetti pittoreschi conseguiti per via di antitesi scenografiche, come sarebbero (vi ricordo le più usuali) una statua dai contorni convulsi sorgente a fianco d'un vecchio olmo pacifico; una fontana che versa i suoi zampilli dalle fauci dei tritoni o dall'urne delle naiadi, vicino a un ponticello costruito di tronchi rozzamente connessi; un frontone classico, una torre diroccata, un'“antica, inselvatichita rovina„, che si delinea tra le piante sagacemente diradate. L'altro carattere è la convenzione arcadica, che trasforma la campagna in un asilo di felicità, popolato da gente per la quale il lavoro non è più una fatica, ma un placido svago. Il nostro Zuccarelli dovette la sua gran fama a questo raggentilimento della vita campestre, da lui significato non pure con gli atti graziosi delle sue contadinelle, che guidano le armente, o ne spremono il latte, o passano a guado un ruscello, o attingono l'acqua alla fonte, o si bagnano celate dall'ombra d'un boschetto, ma con la dolcezza e la leggiadrìa consentanea delle cose: un velo di luce aurea che [448] avvolge chetamente tutto il paesaggio, giallori e vapori miti d'autunno, frastaglio delicato di fronde, soffici ravvolgimenti di nuvole nella blanda azzurrità del cielo. E ancora lo Zuccarelli è un realista severo a paragone della scuola francese, e massime delle famose pastorali di Francesco Boucher! Qui, sì, scomparisce addirittura ogni freno di verosimiglianza; qui non sappiamo se sia la campagna che penetri timidamente nel teatro e nel boudoir, ovvero il boudoir e il teatro che facciano irruzione nella campagna. Le Clori, le Filli, le Ninette, le Lisette, le Eurille tengono circolo sull'erba, si fanno dondolare sulle altalene dai Tirsi e dagli Eulibi, ne ascoltano i madrigali e le serenate, si abbandonano alle strette di qualche braccio avventuroso, mentre là, a pochi passi, le pecore e gli agnellini dalla morbida veste ricciuta fingono discretamente di pascolare. Carnevalata bucolica di marchesi e conti e abatini e cantanti e danzatrici, degna d'un tempo in cui l'idillio dava braccio alla galanteria e il Pastor fido era tra i libri cari alla regal cortigiana che imponeva il gusto all'Europa.
[449]
*
È questo, Signori, il secolo di Giovanni Battista Tiepolo.
Nato a Venezia nel 1696, morto a Madrid nel 1770, egli compie una mole sterminata di lavoro. Pur facendo la debita parte alla collaborazione del figliuolo Domenico, possiamo dire che l'opera sua basterebbe a colmare dieci vite d'artisti moderni. In Italia, in Germania, nella Spagna, egli viene suscitando su tele e pareti e vôlte una moltitudine senza fine di figure. Cattolicismo e mito, storia antica e medievale, poesia epica e romanzesca, muovono egualmente la sua vena tumultuaria di creazione, che trabocca nella pennellata larga, veloce, risolutiva.
Leviamo un po' lo sguardo a' suoi prodigiosi soffitti.
Gli angeli e i geni si disperdono nell'ampiezza soleggiata e solcata di nubi; le Fame alate si precipitano a capo fitto, dando fiato alle trombe; le divinità mitiche trascorrono sui cocchi trascinati da cavalli scalpitanti e sbuffanti; le madonne si librano a volo, recandosi tra le braccia il pargolo celeste; i santi e le sante si protendono in uno slancio d'implorazione; alle balaustre pensili s'affollano, riguardando e gesticolando, [450] assemblee di spettatori; le figure violano gli scompartimenti e scavalcano i cornicioni; braccia e gambe si sprofondano, con temerità di scorti, entro la vôlta o penzolano sul nostro capo; gli edifizi pigliano un aspetto di sospensione oscillante che sembra la minaccia continua d'un crollo; i campi dello spazio sono corsi da un vento impetuoso che sferza l'azione, esalta il gesto, solleva e sbatte i panneggiamenti, contorce e lacera le nuvole in cielo.
L'impressione che questo pittore desta immediatamente in noi è enorme. Ci chiediamo stupiti: è costui un solitario? un sopravvissuto? una sovrana smentita alla teoria delle affinità necessarie tra il genio individuale e quello collettivo?
Poi intervengono la riflessione e l'analisi. — Noi riconosciamo che l'indole agitata dell'arte tiepolesca, tutt'altro che costituire una singolarità senza esempio, è anzi una nuova riconferma di quest'antitesi ripetutamente avvertita: che quando, cioè, la società è nel vigore irrequieto della giovinezza, la tecnica bambina crea un mondo immobile o esitante; quando, per contro, la società viene adagiandosi nei torpori senili, la tecnica ormai scaltrita si avventura a tutte le audacie del movimento. — E anche in quella fecondità irruenta, in quella prontezza estemporanea [451] di esecuzione, non tardiamo a ravvisare una caratteristica propria di tutti i pittori decoratori del Sei e Settecento, da Pietro di Cortona a Luca Giordano, al Solimene, al Giaquinto, infaticabili “fa presto„, cui bastavano pochi giorni a riempire immense pareti. — Considerando a parte a parte gli elementi da cui scaturisce l'efficacia degli affreschi del Tiepolo, come il deliberato scompiglio della composizione, il modo di aggrupparsi e di sperdersi delle figure, l'arditezza degli scorci dal sotto in su, le illusioni prospettiche, l'estro pittorico che viola con bizzarre licenze la regolarità dei contorni architettonici, ci tornano alla memoria nomi di artefici oggi men conosciuti, cui il veneziano è manifestamente debitore, e prima di tutti quel padre Andrea Pozzo, sul quale il Burckhardt richiamava, con la sua consueta sagacia, l'attenzione degli studiosi. — Ma davanti a certe immaginazioni leggiadre, a certe nozze di colori, a certe arie di visi, a certa poesia magniloquente e sfarzosa, un altro nome ci corre spontaneo alle labbra: Paolo Veronese! — il che non toglie che accanto alle reminiscenze paolesche, qualche figura accessoria non ci ricordi Giambattista Piazzetta. — Osservando ancora, ci si fa qui pure evidentissima l'azione del teatro, e se par troppo che certe Dee e certe Virtù caccianti [452] le gambe all'aria siano state gratificate col titolo di sgualdrine, ci sentiamo però in diritto di chiamarle, con benignità di eufemismo, virtuose.... di palcoscenico. — Procedendo in questa analisi, non ci pare che l'energia espressa dal Tiepolo sia proprio energia di muscoli; non sempre attraverso all'epidermide delle sue figure ci si rivela l'onda viva del sangue; sotto l'ampiezza dei torsi noi scopriamo, con Camillo Boito, uno strato non esiguo d'adipe; nella colorazione delle carni ritroviamo talora la mollezza sbiancata delle dame del secolo, che abusavano della cipria, e prolungavano le veglie fino all'alba per rifarsi col sonno fino al mezzodì. — E infine ci è forza confessare che neppur egli, il Tiepolo, si è sottratto all'impotenza de' suoi confratelli: l'impotenza a rendere la pura bellezza fisica. Nelle sue teste virili balena, infatti, il tipo caprino; nei corpi femminili le giunture sono poco delicate, i colli poco svelti, le gambe e le braccia hanno rotondità goffe, il seno è privo di pulsante freschezza....
Eppure, nonostante le derivazioni e le assimilazioni, le intemperanze e le lacune denunciate dall'analisi, il primo sentimento d'altissima ammirazione non viene distrutto. Giambattista Tiepolo rimane non solo l'artista più originale e più vigoroso del secolo, ma una delle tempre [453] più felici di pittore che abbiano mai esistito. Tutto ciò ch'egli potè attingere da altri, si fonde nell'attività sfavillante del suo genio, come i metalli diversi si compongono in lega alla vampa della fornace. E il suo genio, che oserei chiamare di natura fiabesca, è fatto essenzialmente di luce. Con l'elemento incoercibile e imponderabile il mago si trastulla, per evocare le mutabili scene del suo mondo incantato. Nessuno allora, come ben giudicò Anton Maria Zanetti, seppe vedere con miglior occhio “gli accidenti più opportuni delle ombre e dei lumi„; nè usare con maggior maestria “l'arte dei contrapposti„; nè, aggiungiamo noi, più sicuramente intuire le suggestioni di opulenza, di letizia, di drammaticità, di pompa rituale, che emanano spontaneamente da certi connubi di tinte. E se egli ha i suoi predecessori, quanti a loro volta non muovono da lui! Francesco Boucher, ad esempio, non è, come decoratore, che un riflesso femminilmente e procacemente illanguidito del Tiepolo. Quel senso decorativo che era una qualità organica del tempo, che rispondeva all'apparenza e alla struttura dello stesso edificio sociale, ma che in tanti altri trascorse o nel farraginoso o nel frivolo, toccò altezze insuperate nell'opera del pittore veneziano. Il quale rappresenta dunque la sua generazione ; ma la [454] rappresenta dominandola di tanto, da non far meraviglia se, a primo sguardo, egli può sembrare un superstite di età più fortunate.
E davvero c'è in lui qualche cosa di atavico. S'egli s'inspira a Paolo Veronese, non lo fa, credetelo, per vezzo d'imitazione, bensì per istinto di postuma fraternità. Come la natura si piace talvolta di ricreare sembianze corporee spente da secoli e tramandate fino a noi dalle opere d'arte, così ella può anche risuscitare, in condizioni diverse, qualche forma di spirito che fu. Tale il caso del Caliari e del Tiepolo. L'anima gaudiosa di Paolo, che s'era scaldata al sole fulgente della repubblica, parve reincarnarsi nell'artefice che illustrava di glorie supreme il suo vespero!
Ma, com'è proprio dei grandi ingegni, il Tiepolo, oltrechè riaccendere fantasie e splendori del passato, ha pure, senza volerlo, senza saperlo, qualche accento vivo di precursore. La sua inconsapevolezza — quella magnifica inconsapevolezza che fu tanta parte della sua forza — gli trae dal pennello motivi inediti, che i posteri s'affretteranno a raccogliere. Nel San Rocco e San Sebastiano del Duomo di Noventa vicentina, la supplice donna che ci si presenta di schiena, assisa sul suo carretto d'inferma, con le grucce accanto, può essere un modello di evidenza realistica, congiunta a una discreta intimità d'emozione. [455] Nella Santa Tecla del Duomo d'Este vi hanno tratti, come la cassa mortuaria sul dinanzi del quadro e l'episodio del bambino stringentesi al petto della madre esanime, che Arnoldo Böcklin forse non disdegnerebbe. Nella Santa Rosa da Lima della chiesa dei Gesuati, a Venezia, il candore della veste armonizzante con la tenerezza candida dell'espressione pronunzia lontanamente le dolci Madonne ravvolte in bianca tunica di lana di Gabriel Max e del Dagnan-Bouveret.
Ma l'opera che più di tutte fa del Tiepolo un artista unico è l'Ulisse nell'isola di Ogigia. In uno dei superbi affreschi della Villa Valmarana, fuori Vicenza, l'eroe sta appoggiato ad una colonna, in atteggiamento di negligenza sdegnosa, immerso in cupa meditazione, davanti alla distesa del mare. Trattenuto su quella sponda solitaria, renitente all'amore di Calipso, ripensa egli la patria lontana e si strugge nel desiderio accorato del ritorno, quando, ad annunciargli l'imminente liberazione, muovono verso di lui, rompendo a nuoto i flutti spumosi, due ninfe, Calipso forse, seguita da un'ancella.... Chi altri mai, in quell'età dai facili oblii, espresse così nobilmente le desolazioni nostalgiche? Chi giunse a intuire con eguale intensità, sia pure per un istante solo, la poesia d'Omero?
[456]
Divine fortune dell'inconscio! Per l'artista tu sei come il pozzo buio e inesplorato delle leggende popolari, alla cui sponda s'affacciano repentinamente le apparizioni luminose delle fate.
*
Senonchè, o Signori, i temi tradizionali, religiosi, mitici, eroici, bucolici, non bastano al Settecento. Altri soggetti reclama il secolo, volubile, curioso, irrequieto, innamorato di pittoresche novità.
E l'arte è sollecita ad appagarne le richieste.
Essa gli evoca, intanto, una regione fino allora ignota alla tavolozza europea, una strana regione illeggiadrita dal prestigio della lontananza: la Cina! Su pareti, porte, armarî, paraventi, parafuochi, ventagli, compariscono le case dai tetti a campanella, le piccole torri di porcellana, le figurine coi capelli annodati a coda e gli occhietti a fior di testa, i parasoli, i palanchini, le giunche. E non pure troviamo in Francia i pittori esclusivi di “chinoiseries„ e fra noi i “depentori alla Chinese„, ma gli artisti più celebri, il Watteau, il Boucher, il Tiepolo stesso, cercano ispirazione all'Estremo Oriente. Le ragioni della moda? Il Molmenti la attribuisce al largo incremento preso allora dall'industria della [457] porcellana. Sì, ma non credo che basti. Non dimentichiamo l'interesse vivace che destavano già da tempo le lettere e i racconti dei missionari e dei viaggiatori, massime le descrizioni minuziose e fiorite dei padri della Compagnia di Gesù. Non dimentichiamo neppure quel vezzo, fra arcadico e satirico, onde il secolo scorso si compiacque di contrapporre alla civiltà europea i costumi d'altri popoli remoti, mediante una specie d'apologhi sociali dov'era introdotto come protagonista un Persiano pieno d'acume, un Urone ingenuo, un savio bonzo giunto dall'India o dalla Cina. Da tutte queste fonti derivò, pare, la gran voga delle scene cinesi: voga non dissimile da quella che era riserbata più tardi alle scene pompeiane. Solo che in queste, opera d'artefici più o meno eruditi, la cornice ornamentale vuole armonizzare stilisticamente col soggetto, mentre quelle, dipinte in un periodo di produzione spontanea, sono spesso contornate e tramezzate da ricci e cartelli e conchiglie e svolazzi: prepotente riaffermazione dei diritti sovrani del rococò anche sui territorî dell'impero celeste!
Con nuove fantasie ancora risponde l'arte alle raffinate esigenze del capriccio e del lusso, e le trae da un altro mondo, che sembra, come quello della Cina, pendere incerto tra il vero e [458] la fola: il mondo della commedia e delle maschere.
La commedia a soggetto con la sua scapigliata indipendenza da ogni disciplina di logica, co' suoi personaggi un po' attori e un po' mimi, con le sue lepide allegorie delle condizioni e dei caratteri umani; le mascherate coi loro giocondi scompigli, con la provocante libertà e ambiguità dell'incognito, offrivano al pittore una duplice vena di motivi. Di qui i “pulcinelli„, composizioni bizzarre, di piccola o mediana misura, ricavate appunto o da episodi carnevaleschi o dal teatro estemporaneo. Primi, o fra i primissimi, a porsi su questa via, erano stati il Callot, Stefano dalla Bella e, più tardi, Claudio Gillot; poi venne il Watteau; poi il Tiepolo — ancora e sempre il Tiepolo! — di cui il contino Algarotti poteva vantarsi di possedere “i più belli pulcinelli„. Come rivive nell'opera di Antonio Watteau la fantastica famiglia delle Colombine, delle Cassandre, dei Tartaglia, dei Dottori, dei Pantaloni, degli Scaramuccia, degli Arlecchini, dei Pulcinella, dei Mezzetini! Con che finezza d'accento il pittore sa raccontarcene le feste, gli amori, le gelosie, le avventure! Come sa esprimere quel non so che di enigmatico, che dal loro destino contradditorio di esseri acclamati sul palcoscenico e spregiati per la via dalla loro [459] esistenza vagabonda, sopra tutto dalla permanente identificazione con un simbolo, doveva discendere nei fondi delle loro anime:
Jouant du luth, et chantant, et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques!
Questo non chiederemo al Tiepolo, poichè l'arte sua par che ignori le sfumature sottili; ma resteremo ammaliati dall'estro signorilmente brioso con cui egli dipinge, a fresco, le sue mascherate; e davanti a quella tela deliziosa di casa Papadopoli dove Pantalone dei Bisognosi danza il minuetto, ripenseremo con desiderio a tante altre gemme d'umorismo e di fantasia, che furono profanamente disperse.
Proteo inesauribile! Dopo aver corso i fulgidi Olimpi, egli scendeva pianamente a terra, e s'aggirava per queste viottole ombrose, fiancheggiate di siepi dalle strane fragranze ed echeggianti per letizia irrompente di trilli, che si stendevano a segnare un incerto confine tra il paese della Chimera, e quello della Realtà.
[460]
*
E alla Realtà eccoci, finalmente, coi pittori di genere e coi vedutisti.
Fra i due secoli sporge la faccia arguta Giuseppe Maria Crespi, bolognese, il quale, dopo aver alternato e anche liberamente mescolato a soggetti religiosi e storici soggetti di genere, nell'ultimo periodo della sua vita si diede esclusivamente a questi e vi si segnalò per naturalezza e per brio. Il Burckhardt, giudizioso sempre, ne loda il sano realismo, e il Morelli, in una lettera pubblicata da Ernesto Masi, scriveva, a proposito di certi quadri di lui, come la Scuola di fanciulle del Louvre, che sono piccoli capolavori.
Si ricollegano al Crespi due pittori veneziani di gran lunga più noti: Giambattista Piazzetta e Pietro Longhi.
Il primo, autore di studi cui l'incisione diede addirittura popolarità, illustratore anche della Gerusalemme Liberata, aveva sortito un grande acume di osservazione e insieme una lentezza scrupolosa di mano rarissima a quel tempo. Ma, con tutti i loro pregi, le sue teste hanno un che di eccessivo e di forzato. È lecito attribuire anche questa viziatura alle tendenze teatraleggianti [461] del secolo? O non deriverebbe essa, logicamente, da un naturalismo che volendo dare il massimo rilievo ai tratti più emergenti del vero, doveva finire un po' coll'alterarlo? Fatto è che il Piazzetta inclina a contraffare la fisonomia umana nelle smorfie della maschera o nei lineamenti troppo risentiti della truccatura. Un giorno l'Algarotti gli mostrò un quadro di Hans Holbein, e allora l'artista ebbe, come in un lampo, la visione del suo irrimediabile difetto. “Questi xe visi! — egli esclamò accorato — nu depenzemo dele mascare!„
Il Piazzetta deve al Crespi alcune qualità tecniche, come la macchia forte e risoluta. Pietro Longhi gli deve probabilmente qualche cosa di più: la coscienza della natura e dei limiti del proprio ingegno.
“Comprendendo la difficoltà di distinguersi nello Storico, posesi a dipingere, in certe piccole misure, civili trattenimenti, cioè conversazioni, riduzzioni,[11] con ischerzi d'amori e di gelosie, i quali tratti esattamente dal naturale fecero colpo.„ Così il figliuolo Alessandro. Il Longhi è dunque, come fu detto tante volte, il pittore della vita mondana di Venezia nel secolo scorso; egli ci fa assistere alla mattinata delle [462] gentildonne, alla loro toilette, alla lezione di ballo, alle visite, al corteggiamento dei cicisbei, ai veri o finti deliqui; ci conduce nel Ridotto affollato di giuocatori e di maschere, nel parlatorio del convento frequentato da patrizi e dame, col castelletto dei burattini nel mezzo, e le monache, insieme con le educande, raccolte dietro le grate. Una leggiera vena canzonatoria non è talora estranea all'inspirazione del Longhi; ma più spesso egli consente ai soggetti frivoli che ritrae, o almeno li ritrae con allegra indifferenza, e resta così — sono ancora parole del figlio — l'artista “amato da tutta la veneta nobiltà„. Disgraziatamente la sua pittura è povera, dura, cincischiata, levigata; molti di quei visetti hanno l'aria attonita e melensa; molte figure sembrano fantoccini di legno, rimbelliti a furia di stoffe, di nastri, di nappine, di merletti. Fanno, è vero, singolare eccezione il Ridotto e il Parlatorio del Convento, conservati nel Museo Civico di Venezia; ma quelle tele appartengono proprio al Longhi, o non piuttosto a Francesco Guardi? Il dubbio non è illegittimo, ed io l'ho sentito accennare anche da tale che dell'arte del Settecento s'era intimamente imbevuto, dal compianto Giacomo Favretto. Ben altro (nè è questo l'unico caso di tal genere) ben altro si mostra il Longhi ne' suoi schizzi a penna e a matita. Qui tutto è agilità [463] e brio. Stentato nell'uso del pennello, l'artista maneggia con disinvolta padronanza un più lieve stromento; egli coglie sul vivo e ti fissa con pochi segni i tratti fuggevoli del moto, una maniera di presentarsi, un girar di persona, un'andatura, una sosta, un'attesa. Per tutto ciò, quegli abbozzi sono una specie di istantanee del secolo scomparso.
L'importanza maggiore, o la maggior voga, che la piccola pittura di genere viene così acquistando, è uno fra i caratteri che distinguono più palesemente il gusto del Settecento da quello del Seicento. La pittura di prospettive invece — cui si diedero, per non ricordare che i principali, Giovan Paolo Pannini, romano d'elezione se non di nascita, Antonio Canal e Bernardo Bellotto, veneziani, — potrebbe riconnettersi assai meglio al periodo anteriore, sia perchè i secentisti trattarono con somma perizia la prospettiva e seppero ricavarne i partiti più efficaci, sia perchè un vedutista di molto valore, un olandese fatto italiano, Gaspare Vanvitelli, viene a congiungere le due età, sia, infine, perchè il nuovo gruppo non isdegna di piegarsi al gusto decorativo, o ricercando gli effetti pittoreschi delle rovine, o rappresentando costruzioni immaginarie, o, più spesso, accostando immaginosamente edifizi reali. Senonchè, due doti staccano gli artisti dei quali [464] parliamo dai loro predecessori e li avvicinano a noi: il senso più schietto dell'ambiente e, almeno nei veneziani, la luminosità.
Antonio Canal, chiamato il Canaletto, subì forse l'azione del Pannini, da lui conosciuto a Roma, ma la sua fisonomia di pittore rimane essenzialmente locale. Come l'opera del Longhi è una specie di monografia della vita galante di Venezia, così le tele e le incisioni del Canaletto sono una monografia del suo aspetto esteriore, calli, canali, campi, palazzi, chiese, feste civili e sacre. Talvolta egli è un po' angoloso, un po' geometrico; ma più spesso riesce a darci la fresca sensazione del paesaggio pur non dipingendo che marmi lambiti dall'acqua, e vi riesce col solcare quell'acqua d'un tremolìo di innumerevoli crespe, coi volubili aggruppamenti delle nuvole disperse ne' suoi cieli, sopra tutto con la chiarità e trasparenza dell'aria. Suo nipote, Bernardo Bellotto, che lavorò a Monaco, a Dresda, a Varsavia, ha un senso così fine della luce solare da essere considerato come un precursore delle scuole artistiche più recenti. Ma chi riesce su ogni altro geniale è Francesco Guardi. Egli è insieme vedutista e pittore di genere; egli intercede fra il Longhi e il Canaletto, suo maestro, perchè non disgiunge quasi mai dalla rappresentazione dell'ambiente naturale e architettonico [465] quella della persona umana. Il suo tocco caldo, gustoso, pieno di prestigio avvivatore, risuscita le processioni, le incoronazioni dogali, il Bucintoro seguito dal suo corteo acquatile, le gaie comitive che scorrono la laguna sulle barche fantasticamente pavesate, le piramidi umane che sorgono in Piazzetta il giovedì grasso, il variopinto brulichio della folla tra le linee superbe dei monumenti. Francesco Guardi è meno esatto ma più spirituale, meno prospettista ma più poeta del Canaletto, tanto da far dire a un critico straniero, forse non senza un po' d'esagerazione, che il maestro riproduce la Venezia reale, mentre il discepolo evoca quella dei nostri sogni.
Agli artisti che vi ho ricordato, il secolo dà un carattere comune: la frequente letizia dei soggetti. Quante volte non la ritroviamo nelle loro tele la società godereccia che li circondava! Il Pannini è il pittore delle feste ch'egli medesimo allestisce, come quelle magnifiche ordinate dal cardinale di Polignac, ambasciatore francese a Roma, per la nascita del figlio di Luigi XV; agli spettacoli pubblici s'inspirano il Canaletto e il Guardi; il Longhi è tutto giocondità e comicità di scene private. E chi è, in fondo, il protagonista dei quadretti veneziani? È ancora la maschera, la bautta, che proteggeva la licenza per sei mesi dell'anno e che i magistrati smettevano [466] nell'anticamera delle aule destinate alle udienze e alle assemblee; nè mai ho sentito così vivamente il carnevalesco tramonto di quella grande repubblica come dinanzi al quadro di Francesco Guardi, in cui si vede, nella Sala del Collegio, il doge assiso sul trono, fra i suoi consiglieri, e tutt'intorno una folla festante di maschere!
*
Ma sotto alla classe dominatrice, di cui l'arte rallegra così gli ultimi giorni, sta una borghesia laboriosa, seria, frugale, onesta, ben diversa da quei fastosi risaliti che maneggiano ormai il danaro dello Stato, che si strofinano ai nobili contraendone la corruttela senza acquistarne la grazia, o che tra poco s'affretteranno a comperare con un titolo l'oblìo delle origini invise. E se noi, Signori, dal fulgido ozio dei grandi e di chi li lusinga o li sfrutta, volgiamo lo sguardo alla vita di quella piccola gente, tocchiamo con mano l'antitesi forse più spiccata che ci offra il costume del secolo. Altre fogge; non più, per le vesti virili, le stoffe delicate, le tinte languide o vistose che annunciano di lontano la mollezza e la gaiezza spensierata dell'animo, ma tessuti schietti, dai colori scuri, i [467] colori della riflessione e del lavoro. L'apparenza delle botteghe si mantiene dimessa; in casa gli agi sono scarsi; la masserizie conserva le vecchie forme solide e grevi; è già molto se la curva garbata d'un cassettone o d'uno stipo recente, dono strappato alla parsimonia maritale e paterna dalle istanze ripetute della padrona e delle padroncine, reca un leggiero indizio di consenso alla moda. E tutto quanto ne circonda, la semplicità delle linee, la sobrietà delle tinte, la nudità delle pareti, le stampe appese all'ingiro, la ruvidezza arcigna delle seggiole che paiono interdire i lunghi riposi, tutto porge una comune testimonianza di quella vita: vita semplice e proba, le cui giornate si succedono con vicenda uniforme, non interrotta che da qualche vampata di festa nei mesi del carnevale.
In Francia, questa borghesia ha fino dalla prima metà del Settecento il suo pittore: ed è Giambattista Simeone Chardin. Tempra robusta e schietta di popolano, egli la ritrae non pure con efficacia di artista, ma con affetto di consanguineo, e ne ottiene un ricambio d'ingenua simpatia. Coloro tra le cui file egli sceglie argomenti e tipi, vengono a contemplarsi ne' suoi quadri con un sentimento misto di riconoscenza e d'orgoglio. “Non c'è donna del terzo stato (dice un opuscolo del 1741, citato dai fratelli Goncourt [468] nei loro mirabili studî sull'arte del secolo XVIII) che non creda di scoprire in quelle tele un'immagine di sè, che non vi scorga l'andamento della sua casa, le sue maniere, le sue occupazioni quotidiane, la sua morale, l'umore de' suoi ragazzi, la sua mobilia, la sua guardaroba„. Per quanto, però, lo Chardin ami i soggetti da lui presi esclusivamente a trattare, egli si mantiene un puro artista. Intendimenti filosofici, precetti, moniti, tesi, sono del tutto alieni dall'opera sua.
Senonchè in Francia i tempi ingrossano. La piccola borghesia guarda in su, confronta, medita, conclude; essa legge gli scrittori usciti dal proprio seno; ne ritiene le parole argute o concitate, che cominciano a tradurre in formule i suoi istinti vaghi di rivendicazione. Tutto un moto di polemiche e di propaganda si manifesta ormai a favor suo, e vi partecipano assiduamente gentiluomini e dame, chi per sincerità di convincimento, chi per vezzo di cose nuove, chi per quello spirito di dilettantismo suicida che ostentano talvolta gli ordini privilegiati alla vigilia d'una rivoluzione. Quanto più il secolo procede, tanto più ci par di vedere avanzarsi la gran folla, per tanto tempo negletta o spregiata, come un coro che si inoltri via via dal fondo della scena fino a raggiungere gli attori principali. Direste anzi che questi attori ambiscano a confondersi col coro; [469] direste che la piramide consacrata dai secoli sia già idealmente sovvertita, perchè l'interesse che destavano fin qui i soli potenti, si volge di preferenza verso gli oscuri. Fu Giangiacomo Rousseau l'artefice primo di codesto rivolgimento; ma a lui tornò facile promuoverlo, perchè seppe giovarsi d'una fra le idee più diffuse, più radicate nelle viscere del tempo, più care a quelli medesimi ch'egli imprendeva a combattere: l'idea arcadica. E in verità, che altro fece l'apostolo ginevrino, colorendo con la sua poderosa retorica quella gran bugia che l'uomo è per natura buono e felice e che la società soltanto lo rende malvagio e infelice, se non erigere l'Arcadia a dogma filosofico e sociale? Di qui, Signori, l'effusione idillica che distingue quel movimento e che viene rispecchiandosi perfino nelle frivolezze della moda. Nei salotti non si parla ormai d'altro che di virtù, di sensibilità, di filantropia, di stato di natura. Le dame portano le acconciature au sentiment, dove son messi in mostra ritratti e capelli di parenti ed amici. Alla compassata simmetria dei giardini francesi si preferisce l'irregolarità dei giardini inglesi, “il disegno dei quali è stato tracciato non da un'arte sapiente, ma da un cuore sensibile„. A breve distanza dai viali pomposi di Versailles, sta per sorgere il villaggetto dove la regina di Francia, la regina graziosa [470] e infelice che lascierà sul patibolo la testa, verrà, intanto, in abito di percalle bianco, a pescare e a veder mungere il latte.[12]
Comparisce allora l'estetica moraleggiante del Diderot. Dinanzi ai quadri di Francesco Boucher, tutti galanteria e sensibilità, l'appassionato scrittore si sdegna. Egli vitupera insieme l'artefice e l'uomo: “Che volete che questo pittore getti sulla tela? ciò che ha nell'immaginazione; e che può avere nell'immaginazione costui, che passa la vita con le prostitute d'infimo grado?„ Anche l'arte deve avere “des moeurs„, deve insegnare, deve correggere, deve rendere la virtù amabile, il vizio odioso, il ridicolo evidente. E all'estetica del Diderot corrisponde la pittura di Giambattista Greuze, un Hogarth alla francese, voglio dire amabile, mondanetto, spoglio d'ogni ruvidezza e d'ogni brutalità, il quale celebra gli affetti famigliari, premia il virtuoso, denuncia il tristo, non dimentica, naturalmente, le conseguenze ben diverse d'una buona e d'una cattiva educazione; è, insomma, il pittore un po' melodrammatico della borghesia che si afferma e si atteggia, come lo Chardin era stato il pittore sincero della borghesia che s'annunciava.
E l'Italia? L'Italia non ha chi contrapporre [471] nè all'uno nè all'altro. Tipi di borghesi e di popolani — più assai di questi che di quelli — ritroviamo nel Crespi (che illustrò con una serie d'acqueforti le avventure di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno), nel Piazzetta, nel Longhi, nell'Olivieri, nel Tiepolo stesso, in tanti altri ancora; vi ritroviamo sopra tutto quelle figure che hanno, per ragion di professione, una tal quale fisonomia comica o pittoresca, quasi di maschera, come il barbiere, il sarto, lo speziale, il suonatore mendico, il merciaiuolo ambulante, il cerusico, il cavadenti, il saltimbanco; ma rappresentazione costante e consapevole, o almeno particolarmente preferita, delle classi subordinate, non v'ha. Nel Longhi, ad esempio, borghesia e popolino compaiono di sbieco, come personaggi accessori o di contorno; essi stanno — avverte giustamente Ernesto Masi — “in attitudine di servilità verso i patrizî, in attitudine di mercanti e di bottegai, o in quella più frequente di pubblico che fa numero e che s'affolla intorno al trespolo del ciarlatano e del cantastorie o alla baracca del domatore di bestie feroci„. Solo frequentando le botteghe degli antiquarî, o qualcuna di quelle famiglie, così rare ormai, dove si conserva la religione delle vecchie cose, possiamo essere più fortunati. In certe collezioni di stampe dozzinali, commentate a piè di margine da distici [472] goffi, noi c'imbattiamo in una bolla d'episodî e scenette e caricature e satire e drammi della vita dei nostri umili avi; siamo introdotti nella loro giornaliera consuetudine; entriamo nel tepore della cucina e del tinello, nella povertà della soffitta, nell'osteria, nella chiesa, nella scuola; e un sentimento di umana commozione ci assale davanti a quelle pagine ingiallite e macchiate dall'umidità, — povere foglie divelto da un albero morto e galleggianti sui naufragi del tempo! — dove un'anonima mano inesperta tentò di raccontare le gioie e le sofferenze, i passatempi e i ridicoli di tante creature che passarono ignorate.
Quest'assenza d'uno Chardin e d'un Greuze dalla storia dell'arte italiana ha, del resto, le sue intime ragioni. Perchè il pittore o lo scultore s'impadronisca d'un elemento sociale e gli dia valore estetico, è necessario che questo elemento abbia, a' suoi occhi, uno spiccato risalto. Scovare ciò che nell'ordine dei fatti è ancora nascosto o dissimulato, svolgere ciò che è iniziale, compiere ciò che è frammentario, integrare ciò che è disperso, non s'appartiene, o assai poco, alle arti figurative. Ora in Italia, l'elemento borghese, disgregato, docile, remissivo, sano ma tutt'altro che vigoroso, aveva, nella prima metà del Settecento, assai minore evidenza e consistenza sociale che non in Francia, [473] dove costituiva in fine uno degli ordini officialmente riconosciuti della nazione, dove si trovava raccolto in uno di quei vasti focolari d'attività e di pensiero in cui le classi soggette acquistano più facilmente la consapevolezza del proprio destino, e dove non erano del tutto spente le vestigia dell'antica tradizione ugonotta, tradizione di austerità democratica e di virile fermezza. E quanto al movimento della seconda metà del secolo, esso, se non mancò nel paese nostro, se anzi vi fu per parecchi riguardi più serio e più praticamente efficace, non ebbe però quell'espansione, quella vivacità, quello slancio, quel clamore di pubblici consensi, che sono atti a sollecitare la fantasia dell'artista. Ecco perchè, a differenza dei nostri vicini, noi non abbiamo un pittore della borghesia e del popolo.
*
Così nell'arte del Settecento abbiamo finora ravvisato due tendenze: l'una che continuava a sospingerla verso le licenze decorative e il lavorar di pratica; l'altra che la richiamava allo studio del vero. Oggi ci è facile riconoscere quanti tesori d'ingegno brillassero nella prima e quanto avvenire fosse riserbato alla seconda; ma non sarebbe equo pretendere che i nostri [474] nonni avessero pensato come noi, i quali giudichiamo con l'immenso beneficio della lontananza e dell'aver assistito allo svolgimento posteriore dei fatti. Era naturale, invece, ch'essi finissero col sentirsi sazî di sbrigliate fantasie, senza per ciò appagarsi di realismo semplice, tanto più che quelle davano ormai segno d'esaurimento, e questo si esercitava ancora in una cerchia troppo angusta di soggetti. Era naturale che, reagendo, essi vagheggiassero un'arte più decorosa, più alta, più classicamente castigata, cioè voluta e creduta tale. Del resto, fin dallo scorcio del secolo decimosettimo, la pittura del Maratta a Roma e quella del Lazzarini a Venezia avevano in certo modo tentato d'informarsi a questo concetto. Nell'architettura poi, non solo non ci avviene più d'imbatterci in quei deliranti ammassi di pietre ch'erano usciti dalla stramba immaginativa d'un Maderna o d'un Tremignan, ma, coll'avanzare del Settecento, vediamo le linee classiche aprirsi la strada e prevalere a poco a poco fra le persistenti bizzarrie dell'ornamentazione, come propositi di semplicità in un'anima che abbia troppo abusato di sentimenti artificiali e che peni ancora a spogliarsene. E avrebbe potuto la reazione contro il barocco essere concepita in una forma diversa, quando la tradizione, la cultura letteraria, le accademie si univano per dare all'artefice [475] un eguale consiglio? Quando, come guida suprema, come freno a tutte le intemperanze, come correttivo a tutti gli errori, come unica via che gli promettesse una gloria non mentita, esse gli additavano concordemente la disciplina del pensiero antico?
Ad affrettare codesto ritorno verso un ideale consacrato dall'ammirazione dei secoli, verso un ideale che rispunta sempre dopo i periodi di licenza artistica, come una dittatura dopo l'anarchia politica, concorsero le scoperte ercolanensi, gli scavi moltiplicati, le gallerie e i musei illustrati dall'incisione, e una serie di grandi opere archeologiche, fra le quali primeggiò quella del Winckelmann. Lavoratore erculeo, impasto singolare d'entusiasmo e di pedanteria, di minuziosità analitiche e di comprensione sintetica, di dottrina e di esclusivismo, di pertinacia tedesca e di genialità latina, il Winckelmann imprese a ricomporre, frammento per frammento, la religione dispersa dell'antica Bellezza; egli innalzò un inno a quei sublimi artefici che avevano (ripeto quasi le sue parole) concepito le loro creature come essenze eteree, generanti, per virtù connaturata, l'impeccabile venustà delle proprie forme; egli si prosternò a' piedi di quei simulacri superstiti di pario e di pentelico, come dinanzi all'incarnazione eternamente giovine dell'ideale. [476] Il movimento (lo avvertì già il Carducci), era cominciato in Italia, dove l'infaticabile erudito trovò una schiera di collaboratori, noti ed ignoti; ma nella sua Storia dell'arte nell'antichità egli mise di indiscutibilmente proprio quella vasta facoltà di coordinazione, quella fiamma di apostolato, quel dogmatismo solenne, quella nobiltà un po' astratta e metafisica di linguaggio che allora conquistarono di colpo l'Europa, e che anche oggi trascinano il lettore, nonostante tutte le riserve del gusto e tutti i dissensi dell'indagine progredita.
L'altro stromento di reazione contro l'arte che aveva fin qui prevalso, fu l'eclettismo pittorico, propugnato da un fervido amico e seguace del Winckelmann, da Antonio Raffaele Mengs. Insegnava il Mengs doversi dare la palma a Raffaello pel disegno e per l'espressione; al Correggio per la grazia e pel chiaroscuro; al Tiziano pel colorito; soggiungeva potersi cogliere il fiore di tutti e tre, ma Raffaello sembrargli su ogni altro degno di studio, come colui che s'era meglio accostato alla serena perfezione degli antichi. — Nulla di più convenzionale, nulla di più contrario ad ogni concetto organico della produzione artistica, sentiamo dire. — D'accordo; ma anche questo principio dell'eclettismo aveva dietro a sè una lunga e non mai spenta tradizione; era [477] stato patrocinato dai Carracci, come antidoto sicuro contro il manierismo; avevano talora mostrato di seguirlo, a saggio di abilità tecnica, gli stessi barocchi; e infine, di fronte alle esagerazioni unilaterali della linea e del colore, dell'espressione e del movimento, esso pareva promettere alla ragione un più costante equilibrio fra gli elementi essenziali dell'arte.
Veramente tra i primi a suscitare il nuovo indirizzo era stato il lucchese Pompeo Girolamo Batoni, il quale, giunto giovanissimo a Roma e condotto dal Conca e dal Masucci, affinchè si scegliesse l'uno o l'altro per maestro, aveva voltato le spalle a tutti e due, per darsi allo studio della pittura raffaellesca e dei marmi antichi. Senonchè il Batoni, ingegno vivace ma poco colto, staccatosi soltanto a mezzo dal gusto contemporaneo ed esclusivamente pittore, non pensava a far propaganda; mentre l'azione esercitata dal Mengs si dovette non solo alla sua laboriosità ammirabile di artista, ma alla sua grande cultura, alla sua parola viva, alle sue lettere, agli scritti pubblicati dopo la sua morte, al suo spirito dottrinario, che rispondeva appieno all'indole dei nuovi tempi, in cui la logica alzava il capo orgogliosa e stava per cimentarsi alla titanica prova di ricostruire schematicamente tutta la società!
[478]
E un po' discosto da lui collocheremo Angelica Kauffmann, cui l'ingegno, la bontà e una romanzesca vicenda valsero fama non inferiore a quella di Rosalba Carriera; quasi fosse destino che in questo secolo di dominazione muliebre, anche i due diversi atteggiamenti dell'arte s'incarnassero in due amabili figure di donna. Ho detto un po' discosto, perchè mentre il Mengs dal delizioso pastellista che s'ammira anche oggi nel Museo di Dresda s'era venuto trasformando nel dotto frescante del Parnaso di Villa Albani, il temperamento femminile preservò la Kauffmann dalle severe costrizioni del neofitismo e lasciò persistere nell'opera sua — massime nei ritratti, per quanto avvolti nei veli dell'allegoria — un'impronta nativa di grazia seducente e di molle abbandono.
Del resto, ove si eccettui qualche resistenza felice dell'istinto, la nuova produzione artistica assumeva caratteri direttamente opposti a quella che l'aveva preceduta. L'arte barocca era stata il frutto di facoltà indisciplinate; questa, invece, vuole obbedire alla riflessione, onde il Mengs viene lodato principalmente per essere un filosofo che parla ai filosofi. La prima non s'era affatto curata della verosimiglianza storica e locale, tanto che il Tiepolo aveva potuto piantare gli abeti in Egitto, cacciare la pipa fra le labbra d'un console romano, e vestire su per giù allo [479] stesso modo Cleopatra e Beatrice di Borgogna; la seconda s'imbeve d'erudizione e non si stanca di consultare minuziosamente gli storici e i poeti. L'una amava abbandonarsi a tutte le audacie del movimento, e l'altra, per contro, invoca la calma, e proclama gli scorci dal sotto in su uno stravagante capriccio. Quella mescolava con libertà senza misura il nobile e il plebeo, il triviale e il manierato; questa adotta una norma adequatrice di tutti i caratteri e di tutte le espressioni, a cui dà nome di “stile eroico„ o di “stile sublime„.
Non equivale tutto ciò a concludere che l'arte nuova, per quanto le origini e le ragioni sue ci appaiano storicamente legittime, doveva scontare la troppa dottrina con la freddezza, e le aspirazioni al sublime con una mortifera uniformità?
Codesto moto s'era compiuto in Roma, in quell'aria satura di atomi vaganti di classicità, su quel suolo fecondo di memorie, dinanzi ai ruderi superbi della civiltà cesarea e ai fantasmi radiosi del Cinquecento, fra quei rosei monsignori e porporati che smettevano le gioconde indifferenze del nil admirari, per accendersi in dispute di erudizione e di antiquaria. Fu la città cosmopolita, dove convenivano d'ogni parte pittori, scultori, incisori, architetti, poeti, dove ritroviamo Gavin Hamilton, il Piranesi, il Volpato, il Milizia, il Monti, l'Alfieri, il Tischbein, i due Visconti, il [480] Fea, il Canova, il David, il Prudhon, quella che diede un impulso europeo alla corrente suscitata, o meglio accelerata, dall'archeologo brandeburghese e dal pittore boemo.
Ma questa corrente doveva prendere una via nuova, doveva corrispondere ad uno stato effettivo degli animi, mercè un avvenimento così universale per la sua fulminea efficacia, come Roma pel fascino delle sue memorie: la rivoluzione francese!
Gli uomini che fecero la rivoluzione, vi si erano preparati non soltanto sulle pagine degli enciclopedisti, ma su quelle dei classici. Leggendo Plutarco, Livio, Tacito, avevano imparato ad aborrire i tiranni, ad esaltarsi nell'apologia dell'austerità repubblicana e del delitto patriottico; sicchè, quando scoppiò la procella, nomi, linguaggio, consuetudini, sentimenti, tutto arieggiò all'antico, e il classicismo, dalla pace dei musei e dal silenzio polveroso degli in-folio, fu trabalzato fra il tumulto dei comizi e i dibattiti delle assemblee. Ora, come avrebbero potuto questi uomini assentire alle fantasie adescatrici del rococò? Nella loro catonica intolleranza, essi le odiavano dell'odio medesimo che gli animava contro il regime aristocratico; essi vedevano nell'autore gentile delle Feste galanti e nell'autore procace delle Pastorali due esseri poco meno spregevoli [481] delle cortigiane che avevano allietato gli ozi del Reggente e di Luigi decimoquinto. No; fra un popolo di liberi, l'arte non poteva avere che un ufficio solo: inspirarsi agli esempi della Grecia e di Roma, per temprare gli animi a civili virtù.
Singolare coincidenza! Fu proprio un parente di Francesco Boucher, del pittore protetto dalla signora di Pompadour, colui che si fece l'araldo di questo classicismo militante. Quando Giacomo Luigi David espose nel 1784 il Giuramento degli Orazi e nel 1789 il Bruto, l'entusiasmo non ebbe confine. Tutta una generazione acclamò il suo interprete, e, con una di quelle esplosioni della moda ch'erano allora tra le maniere più eloquenti di manifestarsi del sentimento pubblico, modellò sui quadri di lui il proprio gusto. Per vero, lo stile intitolato da Luigi decimosesto incoronava già delle sue curve più sobrie gli emblemi decorativi tratti dalla vita e dal costume antico; ma ora questi trionfano tra le linee che si vanno facendo sempre più rigide; ora s'incontrano da per tutto le pettinature e le fogge alla greca e alla latina, le fibule, le armilie, le patere, i tripodi. Sul palcoscenico gli eroi romani non osano più comparire con la parrucca e le mani inguantate e gli stivaletti dai tacchi rossi, da che un grande attore ha vestito per la prima volta la toga e calzato il coturno.
[482]
Io spero di avere anche qui, o Signori, insistito abbastanza sulla necessità storica di un tale avviamento dell'arte. Ma che poi l'originalità, la verità, la schiettezza, l'umanità della concezione dovessero scapitarne, è troppo chiaro. Vedete lo stesso David. Egli possedeva doti eccezionali di visione e di tavolozza, che furono rimesse pienamente in luce dai ritratti e dai quadri commemorativi esposti a Parigi nella Mostra centenaria del 1889. Ma che importa, se il preconcetto dello stile eroico gli inspirava pure il Ratto delle Sabine, la Morte di Socrate, il Leonida, il Belisario, tutte quelle tele dure, asciutte, convenzionali, destinate a formare una scuola pittorica che alle creature vive sostituì i simulacri di gesso?
E una discordia non dissimile di creazioni si avverte in Andrea Appiani e in Antonio Canova, i due più nobili rappresentanti di questo periodo in Italia, per quanto l'arte loro sia lontana dalla rigidezza del David e faccia piuttosto ripensare alle grazie del Prudhon. Nell'Appiani, a fianco alle figure dove lo studio della purezza cospira col senso del vero a produrre una impressione di placida ma vivente armonia, sono troppi i profili che ricalcano con fredda, letterale insistenza, gli antichi cammei. E quanto alla plastica canoviana, lo squilibrio è ancora più manifesto. Chiunque di voi, o Signori, sia [483] entrato nella Gypsotheca di Possagno, dove stanno raccolti tutti i modelli dell'insigne scultore, ne sarà rimasto profondamente colpito. Qua e là il vero, modellato da una mano creatrice; tutt'attorno le mascherature greco-romane. Il gruppo di Icaro e Dedalo, composto in gioventù, è un miracolo di ingenua freschezza, degno, oserei dirlo, della primavera del Rinascimento. Nell'effigie di Clemente XIII, genuflessa sotto la maestà delle vesti pontificali, con la bonaria testa senile devotamente reclinata e le mani giunte e a' suoi piedi il triregno, voi sentite tutta la poesia evangelica delle grandezze umane umiliate nella preghiera. Ma insieme vi si affaccia una famiglia di figure, nelle quali ogni carattere, ogni espressione, ogni vita, ogni movimento individuale si sono perduti entro lo stampo archeologico; vi si affacciano le deità dell'Olimpo, che uscite raggianti e palpitanti dalla fantasia dell'Ellade, intirizziscono qui nel gelo dell'imitazione accademica.
Così l'arte, dopo aver folleggiato con la cadente società aristocratica, si asserviva al pensiero medesimo che aveva inspirato le effimere democrazie, al pensiero che avrebbe legittimato tra poco la dittatura guerriera.
Consultiamo per l'ultima volta i ritratti.
Eccoli gli uomini nuovi, con la fronte largamente [484] scoperta sotto i capelli brevi, gli occhi intenti, le fedine ispide, alcuni nella negletta intimità della casa, altri nell'atteggiamento declamatorio di chi medita un'apostrofe o nell'accigliata concentrazione di chi sta per decidersi a un partito supremo; ecco l'implacabile tribuno, giacente nella vasca di pietra, col viso contratto dagli spasimi dell'agonia, con la mano che stringe convulsa un editto, forse una lista di proscrizione; ecco i commissari e i generali della repubblica, pallidi, gravi, con le divise dagli urtanti colori plebei; ecco la faccia fatale, livida e ossuta, incorniciata dai neri capelli spioventi e illuminata dal saettare delle pupille, che sta, come un'erma viva, alla frontiera tra i due mondi; ecco — dopo la sfrontata iconografia del Direttorio, questa Reggenza plebea della rivoluzione — le donne dal profilo marmoreo, dalle tuniche a larghe pieghe, dalle chiome raccolte alla greca, che riposano compostamente sur un letto o sedile di forma antica, sporgendo i piedi nudi come quelli d'una statua.
Dove sono le testine imparruccate e incipriate, i tipi virili infemminiti dalle gale della moda, le pupille ammiccanti, le bocche tumidette, i nasini a gloria? Dove la sentimentalità, il languore, la gioia frivola, le arie sventate e trasognate del gaio tempo vano?...
[485]
*
Ma prima, Signori, di staccarci da questo secolo così ricco di vicende e di antitesi, che esordisce col minuetto e si chiude con la carmagnola, permettetemi di cogliere qualche estremo tratto della sua fisonomia artistica, di notare qualche attività ch'esso portò con sè nella tomba e qualche tendenza che gli è sopravvissuta.
Si manifesta allora per l'ultima volta quella comunione fra l'arte pura e le arti decorative che aveva durato per così lungo volgere di tempi, generatrice di forme fraterne di bellezza, e che era destinata a dissolversi nel nostro. Per l'ultima volta l'Arte, qual ch'ella sia, apparisce come cosa organica, come pianta corsa da una sola linfa in ogni suo ramo e in ogni suo stelo; e il soffio medesimo che spira dalle tele e dalle statue si sente pur alitare dalla sagoma d'uno stipo e d'una seggiola, dai fregi d'un parafuoco e d'un cembalo, dalla cornice d'uno specchio, dall'inquadratura d'un uscio, dal contorno d'un orologio a pendolo e dalle rabescature d'un broccato.
Certo, pe' suoi stili ornamentali, come per le sue mode e le sue fogge, il Settecento è francese anche in Italia, come il Cinquecento era stato [486] italiano anche in Francia. Pure non ci mancarono impronte e iniziative originali. Andrea Brustolon, vissuto tra i due secoli, tratta la scultura in legno con robusta floridezza di vena; Carlo Briati risolleva a Venezia l'arte vetraria; gli arazzi di Firenze, di Torino, di Napoli, di Roma non sono in tutto eclissati dallo splendore dei gobelins; la ceramica s'allieta di leggiadrie nuove nell'Abruzzo, nella Liguria, nella Toscana, nel Veneto; fiorisce la tarsia nella Lombardia.
E v'ha un'arte che meriterebbe da sola lungo studio, come quella che partecipa con alacrità di consenso a tutta la vita spirituale del tempo: l'incisione sul rame. Essa presta alle fantasie esuberanti un linguaggio suggestivamente sommario e sciolto da ogni rispetto alla realtà; popolarizza aristocraticamente la coltura estetica; introduce un'immagine d'arte fra le cure della famiglia; asseconda il ritorno all'antico, illustrando i monumenti classici e i capolavori paesani. E ognuno di codesti incisori trasfonde la personalità propria nella lastra metallica, lestamente investita dal Canaletto, imbevuta di luce solare nel Tiepolo, carica di chiaroscuri nel Piranesi, morbidamente accarezzata dal Bartolozzi, segnata con dotta evidenza dalla mano del Volpato e del Morghen.
Ma uno dei caratteri che più distinguono l'operosità [487] intellettuale del Settecento è la passione, talora si dovrebbe dire la follia, delle raccolte. Siamo nell'età degli amatori, i quali vengono radunando d'ogni parte, senza badare a dispendio, bronzi, marmi, terracotte, medaglie, monete, tele, disegni; l'età in cui un principe, pur amante della guerra, cede un reggimento di dragoni per alcuni vasi di porcellana, come più tardi suo figlio, durante una ritirata, penserà a mettere in salvo quadri e gioielli, dimenticando gli archivi. E non soltanto nei centri maggiori, dove se ne porge più facilmente l'opportunità, vengono formandosi codeste collezioni. Talora in qualche sonnolenta cittaduzza di provincia, quasi tagliata fuori del mondo, il forestiero colto scende dalla berlina per visitare il museo, il medagliere, la quadreria, messi insieme dal discendente di un sinistro gufo feudale raggentilito in cavaliere di buon gusto. Ora, come mai queste assidue occasioni di raffronti, questo riaccostamento di forme e inspirazioni diverse, non avrebbero contribuito a fecondare, ad allargare le intelligenze?
A ciò conferisce pure l'insolita frequenza dei viaggi, che annuncia un bisogno irrequieto di espansione, di nuovi orizzonti, di nuove idee, di nuove forze. L'arte si fa anch'essa venturiera. L'Amigoni si educa nelle Fiandre; lo Zuccarelli e il Bartolozzi sono tra i soci fondatori dell'Accademia [488] di Londra; il Rotari è chiamato da Caterina di Russia; Giambattista Tiepolo muore a Madrid; Bernardo Bellotto a Varsavia. Nè alcuni fra i letterati e i pensatori nostri sono meno nomadi degli artisti; essi vanno in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Polonia, persino oltre l'Atlantico, vengono ricercati e accarezzati dai principi, brillano nei salotti, penetrano in qualche gabinetto diplomatico. Dopo la lunga solitudine, l'Italia comincia a rientrare nelle correnti vive del pensiero europeo, e vi rientra se non più come guida, non sempre e non in tutto seguace.
Quante volte non fu detto che l'uomo del passato posto dinanzi all'Iliade, alla Commedia, all'Amleto, a un tempio greco, a una cattedrale archiacuta, a un edificio del Rinascimento, avrebbe ripudiato qualcuna di codeste creazioni, mentre noi, moderni, le abbracciamo e onoriamo tutte, come portati egualmente legittimi di peculiari condizioni e attitudini dello spirito! Ebbene, il Settecento segna quasi il punto di trapasso dall'una all'altra età. I più non comprendono, è vero, o, peggio, disprezzano lo stile ogivale, la pittura primitiva, la visione dantesca, il dramma shakespeariano, ma v'è già chi si leva a rivendicare la nativa virtù di quelle forme; v'è già chi proclama la relatività del gusto e dei canoni estetici. [489] E con qual sentimento di cara sorpresa, e quasi d'ammenda a sconoscenti durezze di giudizio, non sorprendiamo noi nelle pagine accademicamente grevi o gallicamente trasandate dei nostri vecchi, impressioni e osservazioni che saranno le nostre! Certo, le intolleranze del risveglio classico interruppero il più illuminato avviamento che veniva qua e là annunciandosi, sicchè, anche in questo campo, pare che una voragine divida i due secoli; ma tuttavia, chi ben guardi, non tarderà a riconoscere che nel Settecento spuntarono i germi della presente larghezza dell'intendimento estetico, a quel modo che l'erudizione aperse allora la via agli odierni trionfi del senso storico.
E un altro senso, di cui andiamo a buon diritto orgogliosi, si desta allora; quello che dicono dell'ambiente. Non che si concepisca, netta, l'idea delle analogie recondite che esistono fra l'uomo e gli aspetti circostanti della natura, ma certo si comincia ad intuirla, poichè questi aspetti vengono considerati con occhio più attento e perspicace. Ne fa fede non pur la pittura ma la letteratura; non il Canaletto e il Guardi soltanto, ma il Goldoni e il Baretti. Vi sono, ad esempio, certe commedie goldoniane, che vi ritraggono al vivo la fisonomia di Venezia, le sue calli anguste, i ponti, i rii, i campieli dove le popolane seggono lavorando e ciarlando sulla soglia delle case, le [490] altane di legno su cui le famiglie salgono a cercare un filo d'aria negli afosi pomeriggi d'estate. E leggendo le Baruffe Chiozzotte, ci par proprio, come ha notato acutamente il Masi, di aspirare le acri esalazioni della marina, di vedere dinanzi a noi la flottiglia delle tartane e dei bragozzi cullata dall'onde.
E già, Signori, quell'armonia che esisteva allora tra le forme varie delle arti figurative, si palesa, con evidenza eguale, fra l'arte e le lettere. Forse, parlandovi di quadri, mi sarà accaduto troppo spesso di ricorrere a citazioni di poeti; ma come evitarle, quando ci si presentano spontanee? quando incontriamo di qua e di là gli stessi tipi, gli stessi soggetti, gli stessi sfondi di paese, le stesse trovate di composizione, le stesse allegorie? Tutta quanta l'evoluzione artistica del Settecento ha pieno riscontro nella sua evoluzione letteraria. Così le due tendenze che si esplicano da una parte nella pittura drammaticamente immaginosa del Tiepolo, dall'altra nella pittura realistica e comica del Longhi, sono, in fondo, le medesime che inspirano il teatro del Metastasio e quello del Goldoni. Pietro Metastasio è il poeta decoratore, che colorisce liberamente la storia ed il mito, che li converte in un ludo scenico di passioni effusive e canore, destinato ad esaltare la sentimentalità fantastica; Carlo Goldoni è il poeta osservatore, [491] che stando, sorridente ma vigile, in mezzo alla vita, ne raccoglie le immagini nel giro tranquillo dello sguardo. Anche le date tornano, perchè il Tiepolo nasce nel 1696 e il Metastasio nel 1698, il Longhi nel 1702 e il Goldoni nel 1707; solo le doti individuali sembrano in certa maniera scambiarsi, in quanto il mondo della fantasia ha nell'artista un evocatore più possente e più vario del poeta, e quello della realtà ha nel poeta un rappresentatore più largo e più efficace dell'artista. Il secolo declina e il movimento che avvia l'arte all'Appiani e al Canova, conduce la letteratura, attraverso il Parini e l'Alfieri, al Monti ed al Foscolo. E anche qui esso non procede senza abusi e senza sopraffazioni; tutt'insieme, peraltro, riesce più benefico, perchè il suo carattere era essenzialmente idealista, e delle idee lo strumento naturale non è già il colore o la linea, è la parola. Mentre, infatti, pittura e scultura rimangono troppo spesso agghiacciate, dalla quotidiana consuetudine con l'antichità, la poesia ne ritrae quel vigore di linguaggio e quel calore di pensiero, che dovevano accendere e rinnovare le coscienze. Nel Parini il classicismo, tutt'altro che adulterare la rappresentazione del vero, la condensa in forme sintetiche, restituisce i nervi allo stile, dà alla voce del poeta, ch'essa derida o ammaestri, un accento di energia deliberatamente [492] pacata; nell'Alfieri esso esprime la tensione dell'anima, che svincolandosi dalla società decrepita, tutta languori e inchini e cerimonie e accondiscendenze e remissività, si aderge in uno sforzo di opposti proponimenti. La morte era venuta dalla spensierata fiacchezza; la vita doveva scaturire dalla riflessione e dalla volontà.
[493]
Pag. | ||
Romualdo Bonfadini | Da Acquisgrana a Campoformio | 1 |
Isidoro Del Lungo | I Medici granduchi | 41 |
Ernesto Masi | Gli avventurieri | 85 |
Vittorio Pica | L'Abate Galiani | 129 |
Guido Mazzoni | Dal Metastasio a Vittorio Alfieri | 173 |
Ferdinando Martini | Carlo Goldoni | 209 |
Matilde Serao | Carlo Gozzi e la fiaba | 241 |
Guido Mazzoni | Giuseppe Parini | 273 |
Enrico Panzacchi | Vittorio Alfieri | 309 |
Giovanni Bovio | Giovanni Battista Vico | 345 |
Alberto Eccher | La fisica sperimentale dopo Galileo | 365 |
Antonio Fradeletto | L'arte nel Settecento | 421 |
1. Tralasciando il Diderot e l'antica questione del Fils Naturel, cito il Mercier, il Roger, il Saint-Just, il Desriaux, il Pelletier, il Neufchateau, il Cubrères, il Cailhava, il Carbon-Flins, il Paillardelle, il Davrigny, la Riccoboni, la Benoist, e forse ne dimentico qualcheduno.
2. Goldoni. Mem.: Parte I, cap. V.
3. Goldoni. Op. cit. Parte I, cap. XXXI e XXXII.
4. Drammaturgia, N. XII.
5. Oeuvres. Paris Garnier 1879. Vol. XXII, pag. 444.
6. De Oratore. Lib. II.
7. Memorie. Parte I, cap. XXXIX.
8. V. Il Teatro italiano nel secolo decimottavo, passim.
9. Collé, Journal III. 66, anno 1765.
10. Gl'Inganni lodevoli. Atto III, scena IX.
11. Ridotti, convegni.
12. Cfr. H. Taine, L'Ancien régime, pag. 208 e seguenti.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.