The Project Gutenberg eBook of La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume I

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Title: La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume I

Author: Jacob Burckhardt

Translator: Diego Valbusa

Release date: January 3, 2021 [eBook #64205]
Most recently updated: October 18, 2024

Language: Italian

Credits: Barbara Magni, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

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LA CIVILTÀ DEL SECOLO DEL RINASCIMENTO IN ITALIA

VOLUME I.


LA CIVILTÀ
DEL SECOLO
DEL RINASCIMENTO
IN ITALIA

SAGGIO
DI
JACOPO BURCKHARDT

TRADOTTO SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA
DAL PROFESSORE

D. VALBUSA
con aggiunte e correzioni inedite fornite dall'Autore

VOLUME I

IN FIRENZE
G. C. SANSONI, EDITORE
1876


In Firenze — Tip. e Lit. Carnesecchi, Piazza d'Arno.



INDICE


[v]

PREFAZIONE

Se nella storia del movimento intellettuale dell'Europa moderna v'è un'epoca, che a buon diritto reclami tutta l'attenzione dello storico e del filosofo, ella è certamente quella, di cui, sotto forma italiana, si presenta ora al pubblico una splendida e dotta illustrazione nell'opera del signor Burckhardt. È cosa omai consentita da tutti che il pensiero moderno, cui l'Europa va debitrice dell'attuale sua grandezza e potenza, non è che la maturazione di un pensiero che nacque presso di noi negli anni del Rinascimento, quando l'Italia, prima di scadere dal rango delle nazioni, dischiuse ancora una volta le fonti della civiltà e del sapere a tutto il mondo occidentale. Il Rinascimento inaugurò quella battaglia fra due opposti principj, fra la libertà e il despotismo, fra la ragione e il pregiudizio, che non è peranco finita e che forse non finirà così presto. Le città libere del medio-evo sono certamente degne di ammirazione e di lode; ma esse non fecero che i primi tentativi per giungere [vi] a quel fine, cui il Rinascimento ebbe la mira colla piena coscienza di ciò che chiedeva. Esse domandavano delle libertà e mossero guerra ad alcuni privilegi: gli uomini del Rinascimento vollero la libertà e si ribellarono contro ogni privilegio. La lotta, limitata sino a quest'epoca a singole corporazioni, divenne tutto ad un tratto generale, e dai diritti tradizionali si volse ai diritti originarj e universali dell'umanità. Non fu una semplice cultura quella che si ridestò, ma un mondo intero, la società tutta, che, anelando a rigenerarsi, agli ordini esistenti sostituì ordini nuovi, alla divisione per ischiatte contrappose il libero ed audace arbitrio dell'individuo, alla consuetudine che soggioga fe' subentrare la ragione che impera. Non a torto adunque fu detto che la storia del Rinascimento è il proemio di ogni rivoluzione moderna sì nel campo dell'azione, che in quello del pensiero, od anche, se si vuole, il primo atto di quel gran dramma, che si svolse successivamente nella Riforma tedesca, e nella Rivoluzione francese, e che partorì da ultimo la civiltà attuale.


Questa uscì dal concorso maraviglioso delle stirpi latine da un lato e delle germaniche dall'altro: le une vi contribuirono colla restaurazione del paganesimo classico, le altre col ritorno al Cristianesimo secondo i principj evangelici. Ridestando a nuova vita le scadute divinità, i sapienti e i poeti dell'antica Grecia e di Roma, i Latini rischiararono colla face dell'antico sapere le fitte tenebre, nel bujo delle [vii] quali aveano prevalso la scolastica, i delirj fantastici e la superstizione; abbellirono la vita col fascino irresistibile delle forme, e al tempo stesso ruppero le barriere dell'antico mondo, navigando arditi oltre le colonne d'Ercole, trovando una nuova via alle Indie e scoprendo un mondo intero al di là dell'Atlantico. I Germani, accettando dall'Italia i tesori dell'antica cultura, come già una volta il Cristianesimo, non solo se ne impadronirono con quella profondità e pienezza, che lasciavano fin d'allora presentire la loro futura superiorità nel campo della speculazione, ma trovarono essi stessi l'arte della stampa, che diede al pensiero ali per distendersi e per durare eternamente, e rovesciarono o riformarono col loro spirito filosofico due sistemi già vecchi, il tolomaico del mondo astronomico, e il gregoriano del despotismo papale. Al tempo stesso la caduta allora verificatasi del vecchio e crollante Impero d'oriente per opera dei Turchi, che minacciavano l'Europa di una nuova invasione asiatica, concorse mirabilmente a dare un indirizzo nuovo alla politica di tutti gli Stati. Di fronte all'impotenza dei Papi, che invano credettero di poter scongiurare il pericolo evocando le vecchie Crociate, più vivo si fece sentire in tutti il bisogno di unirsi in più stretti rapporti al di dentro e al di fuori, e al principio teocratico fu sostituita la politica degli Stati autonomi, creando unità nazionali o monarchie ereditarie e ponendo in luogo dei Concilj i congressi e l'equilibrio politico invece dell'autorità internazionale degli Imperatori e dei Papi.

[viii]

Tra le stirpi latine spetta in modo particolare agli Italiani la gloria di aver nella scienza e nell'arte dischiuso nuovi ed immensi orizzonti, ridonando all'Europa, dopo la lunga barbarie del medio-evo, tutti i tesori dell'antico sapere. Con questo fatto essi si riconobbero ancora una volta come i legittimi eredi della gloria e del nome latino in un momento, in cui il loro paese, francatosi dal giogo imperiale, non era ancora caduto nei fatali amplessi di Francia e di Spagna ed era il più florido di tutta Europa. Che se anche l'antica cultura non potè mai dirsi del tutto morta presso di loro, e se ne potrebbero additare le tracce attraverso i secoli sino al tempo in cui Carlomagno rinnovò l'Impero d'occidente ed anche più addietro, non fu tuttavia se non nel secolo XV che essa ruppe definitivamente le dighe, che ne arrestavano il corso, e si diffuse coll'impeto di una forza irresistibile per tutte le fibre del corpo sociale. Un fremito di vita nuova parve allora discorrere da un capo all'altro della penisola, e gl'Italiani, che stavano sul punto di perdere la propria patria, non sembrarono quasi rammaricarsene, felici di averne trovata un'altra da tanto tempo perduta. Il genio dell'antichità, troppo grande per perire del tutto nel Cristianesimo, riapparve quasi fenice dalle ceneri del passato: i poeti e i filosofi dell'antica Grecia e di Roma, scossa la polvere dei conventi, uscirono di nuovo ad insegnare l'emancipazione dello spirito umano, gli Dei del vecchio Olimpo risuscitarono il culto della forma e della bellezza, e [ix] gli eroi dei primi tempi si ripresentarono all'ammirazione del mondo come i tipi più perfetti e ideali dell'umanità. Un paganesimo neo-latino rifece e colorì la letteratura, le arti e perfino i costumi. Quella rinnegò la sua origine popolare e si avvolse nella toga maestosa della lingua e dello stile latino: sorsero accademie ad imitazione di quelle di Platone e di Cicerone; si apersero biblioteche come al tempo de' Tolomei; perfin l'educazione famigliare fu classica, e un alito dell'antica gentilezza corse in tutte le vene del corpo sociale, mentre al tempo stesso la scaduta moralità giunse a tal grado di corruzione da far ricordare i tempi dell'antica Roma imperiale. Questa grande risurrezione di morti è un fatto unico nella storia, nè si ripeterà forse mai più, attesa l'indole molto più larga e cosmopolitica della civiltà moderna. Ma, per quanto essa attesti splendidamente della grandezza immortale della civiltà antica, non sarebbe pur sempre in ultimo che una frivola mascherata, se in fondo ad essa non vi stesse un'altra missione provvidenziale. Il latinismo, che una volta avea conquistato il mondo per l'opera della Chiesa, dovea padroneggiarlo di nuovo come principio di cultura sociale. Quando l'Europa, dopo il Concilio di Costanza, sollevò un grido di protesta contro la Chiesa già corrotta e invecchiata, cominciò la grande opera nazionale degl'Italiani, vale a dire il compito di abbattere lo sterile sistema della cultura scolastica col sostituirvi lo spirito vivificatore dell'antichità, e di porre al posto del vuoto formalismo delle scuole [x] monastiche l'eterna sostanza del sapere antico. La libertà dello spirito e l'emancipazione della scienza dai ceppi del dogmatismo furono le preziose conquiste che ne derivarono: così l'uomo fu ridonato all'umanità e sorse una civiltà nuova, nel cui ambito ci moviamo ancora oggidì e di cui non possiamo ancora misurare lo svolgimento progressivo e la meta. A ragione adunque questo grande momento chiamasi quello dell'umanismo, poichè con esso comincia veramente l'umanità moderna.


L'opera del signor Burckhardt mira appunto a darci un quadro quanto più si possa completo delle condizioni del nostro paese in un'epoca così feconda di notevoli rivolgimenti. Essa non è tanto una storia della cultura nel vero senso di questa parola, quanto un Saggio, come all'Autore piacque modestamente d'intitolarla; ma, anche sotto un titolo così modesto, non si saprebbe dire se più si debba lodare in essa la copia stragrande della erudizione, o la maestria artistica con cui le parti bellamente son disposte tra loro. Egli vi si accinse colla piena coscienza della natura, dell'estensione e delle difficoltà proprie del carico assunto, e candidamente lo confessa sin dalle prime linee. «I contorni ideali del quadro di una data civiltà, egli scrive, presentano già di per sè un'importanza diversa ad ogni osservatore; e quando poi trattisi di una civiltà che, come madre immediata, continua ad influire sulla nostra, quasi impossibile riesce di evitare che ad ogni tratto non si ridesti il [xi] sentimento e il giudizio subbiettivo tanto di chi scrive, che di chi legge». Ma appunto per questo egli procede anche estremamente cauto nelle sue conclusioni, nelle quali anche la critica più minuziosa cercherebbe invano quel fare sentenzioso e assoluto, che è il solito indizio di una superficialità frivola ed ignorante. I caratteri distintivi della nazione sono messi in piena evidenza da un paragone continuo colle condizioni analoghe d'altri tempi e d'altri paesi, ma senza allusioni e circostanze attuali, atte più a rivelar le tendenze dell'autore che a mettere in rilievo la verità, scopo supremo, anzi unico della scienza. Dappertutto la stessa cura di evitare la vuota frase filosofica con quello stesso studio, che altri pongono a farne sfoggio in sostituzione alla frase rettorica oggimai fuor d'uso; dappertutto il fermo proposito di tenersi nel campo della più scrupolosa obbiettività, senza torturare i fatti per cavarne la confessione voluta; dappertutto chiamati a giudici supremi il retto sentimento di umanità e la ragione, giudici certo assai competenti in questioni di fatti umani; dappertutto una esposizione omogenea, eppur varia, limpida, vivace, senza affettazioni o contorsioni o mordacità; dappertutto infine quella serenità, quella calma, che carpiscono la fiducia, perchè soliti indizi di scrittore coscienzioso e profondo.

Fu scritto che tra quest'opera ed una storia propriamente detta corra quella medesima differenza, che si riscontra tra un quadro di figura ed un paesaggio, dove ciò che si guadagna rispetto allo splendor della [xii] scena, si perde poi rispetto agli eroi che vi agiscono e al movimento drammatico. La sentenza può accogliersi come giusta, se con essa s'intese soltanto di mettere in più viva luce la lodevole sobrietà dell'Autore, che in tanta ricchezza di materiali non ha voluto giovarsi se non di quelli, che più strettamente facevano al suo scopo, per non recare soverchio ingombro turbare l'armonia dell'insieme. Egli è un fatto che nel leggere il libro del signor Burckhardt ci par quasi di essere trasportati nel bel mezzo di una selva incantata, dove a nostro agio possiamo abbracciar con lo sguardo l'infinito serpeggiar de' viali, le vedute, i prospetti, e dove qua e là fra i boschetti vediamo, ad un suo cenno, spuntare ora la testa, ora il braccio marmoreo di una statua, or, mezzo nascoste tra il verde, le magnifiche forme di un gruppo, senza che per questo ne sia dato di maggiormente avvicinarci, o che i nostri sforzi per afferrarne più intrinsecamente le parti, restino compiutamente appagati. Ma l'apparente manchevolezza nei particolari, voluta dall'indole stessa sintetica del lavoro, non è difetto, e infondata affatto sarebbe l'accusa, se nella brevità impostasi dall'Autore altri volesse scorgere una lacuna effettiva, che, ove realmente esistesse, nessun titolo, per quanto modesto, avrebbe potuto giustificare. Altra cosa è il lavorar sulle fonti che si conoscono, lo studiarle e il confrontarle fra loro per accertar fatti, precisar date e arricchire di nuovo materiale utile la grande suppellettile storica; altro il mirare ad abbracciar in un tutto e [xiii] a mettere in più vera e piena luce i risultati acquistati alla spicciolata e ridurli in armonia con disegno artistico, per renderli più accetti all'universale e per distribuire i frutti del sapere anche a coloro, cui manca l'agio o la volontà di attingere alle fonti originali. Evidentemente il signor Burckhardt si attenne di preferenza al secondo di questi due metodi, come quello che meglio anche rispondeva al suo scopo, di darci un'idea chiara e compiuta del tempo preso a trattare, anzichè di rettificare o correggere questo o quel fatto particolare. L'opera sua non va dunque giudicata come una semplice opera di erudizione, benchè questa non vi faccia difetto in nessun punto dove è domandata, ma bensì come una di quelle che, mantenendosi in una sfera più elevata, mirano innanzi tutto a tener desto lo spirito della scienza e rammentano agli scopritori ed investigatori solitari, che l'indagine per sè sola non basta. Come tale essa porta realmente la vita, il movimento, il colore in un cumulo di materiali che, senza una parola vivificante, avrebbero chi sa per quanto ancora, continuato a rimaner lettera morta, e risponde pienamente alle esigenze della critica più severa, perchè nel fatto dà più di quanto in sul principio non sembri promettere, e perchè riempie al tempo stesso, e nel miglior modo che mai si potesse desiderare, una lacuna, che era pur sempre rimasta aperta rispetto ad uno dei periodi più luminosi della nostra storia.

[xiv]


Assumendo l'incarico di rendere accessibile all'universale dei nostri compatriotti un libro scritto con tanta serietà di propositi e con sì piena coscienza della dignità e dell'alta missione della storia, noi ci lusinghiamo di aver fatta opera, che non debba parere nè superflua ai bisogni del nostro paese, nè discara a quanti amano fra noi l'incremento de' buoni studi. Altri giudicherà come abbiamo soddisfatto agli obblighi nostri di fronte al Pubblico ed all'Autore. A noi non resta che d'invocare l'indulgenza di entrambi e di porgere a quest'ultimo il tributo della nostra più viva riconoscenza per la squisita cortesia, colla quale, autorizzando la nostra traduzione, volle arricchirla di numerose aggiunte e correzioni inedite, che danno un pregio tutto affatto speciale alla presente edizione e la pongono, per questo riguardo, al di sopra delle stesse edizioni finora comparse del testo tedesco.

Mantova, 1º Dicembre 1875.

Il Traduttore.

[1]

A

LUIGI PICCHIONI

VENERATO MAESTRO COLLEGA ED AMICO

L'AUTORE

[3]

PARTE PRIMA LO STATO COME OPERA D'ARTE

[5]

CAPITOLO I. Introduzione.

Condizioni politiche d'Italia nel sec. XIII. — La Monarchia normanna sotto Federico II. — Ezzelino da Romano.

Questo scritto porta il titolo di semplice Saggio nel senso più rigoroso della parola, perchè nessuno sa meglio dell'autore, ch'egli s'è posto ad una impresa di vasta mole con mezzi e forze di gran lunga sproporzionate. Ma, quand'anche egli potesse sino ad un certo grado dichiararsi soddisfatto del proprio lavoro, non oserebbe tuttavia lusingarsi di aver con ciò meritato la lode degl'intelligenti e dei maestri. Già forse di per sè i contorni ideali del quadro di una data civiltà presentano una importanza diversa ad ogni osservatore; e quando poi trattisi di una civiltà che, come madre immediata, continua ad influire sulla nostra, quasi impossibile riesce di evitare che ad ogni tratto non si ridesti il sentimento e il giudizio subbiettivo tanto di chi scrive, che di chi legge. Nell'ampio mare, nel quale ci avventuriamo, le vie e le direzioni possibili sono molte; e gli stessi studi intrapresi per questo lavoro assai facilmente potrebbero in mano ad altri non solo ricevere uno sviluppo ed una trattazione diversa, ma porgere occasione altresì a conclusioni del tutto contrarie. E per vero il soggetto ha in sè tanta importanza da far desiderare di vederlo studiato [6] sotto tutti gli aspetti e da punti di vista i più disparati. In mezzo a ciò noi saremo contenti, se la nostra parola non cadrà affatto inascoltata e se questo libro sarà giudicato nel suo insieme come un tutto organico, che può stare da sè. La più grave difficoltà in una storia della cultura sta appunto nel dover rompere la continuità del processo storico, scomponendolo in parti che spesso sembrano arbitrarie, per pur giungere a darne comecchessia un'immagine. — Alla maggior lacuna del libro pensavamo altra volta di poter supplire con un'altra opera, che avrebbe dovuto intitolarsi: l'Arte nel secolo del Rinascimento; ma questo proposito non ha potuto effettuarsi che in parte.[1]


La lotta fra i Papi e gli Hohenstauffen finì col lasciare l'Italia in uno stato politico essenzialmente diverso da quello degli altri paesi occidentali. Mentre in Francia, in Ispagna, in Inghilterra il sistema feudale era ordinato per modo che, dopo percorso lo stadio della sua vita, dovette cadere nelle braccia della monarchia unitaria; mentre in Germania contribuì a mantenere, almeno esteriormente, l'unità dell'Impero, in Italia invece s'era quasi interamente sottratto ad ogni specie di dipendenza. Gl'imperatori del secolo XIV, anche nei casi più favorevoli, non vi furono più accolti come supremi signori feudali, ma solamente come capi e sostegni possibili di potenze già costituite; e dal canto suo il Papato, ricco di aderenti e di appoggi, era forte abbastanza da impedire ogni futura unificazione del paese, ma non già da [7] poter fondarne una esso stesso.[2] Fra l'uno e l'altro di questi rivali eravi una moltitudine di aggregazioni politiche — repubbliche e principati — talune già preesistenti, altre surte da poco, la cui esistenza non era fondata che puramente sul fatto.[3] In esse lo spirito della moderna politica europea scorgesi per la prima volta abbandonarsi liberamente a' suoi propri istinti, trascorrendo assai di frequente agli eccessi del più sfrenato egoismo, conculcando ogni diritto e soffocando il germe di ogni più sana cultura; ma dove queste tendenze furono arrestate od almeno comecchessia controbilanciate, quivi si ha subito qualche cosa di nuovo e di vivo nella storia, si ha lo Stato nato dal calcolo e dalla riflessione, lo Stato come opera d'arte. Questa nuova vita si manifesta tanto nelle repubbliche che nei principati in mille modi diversi, e ne determina non solo la forma interna, ma altresì la politica estera. — Noi ne prenderemo in esame il tipo più completo ed esplicito negli Stati retti a forma principesca.


Gli Stati retti a forma principesca trovarono un modello illustre nel regno normanno dell'Italia meridionale e della Sicilia, dopo la trasformazione che esso aveva subìto per opera dell'imperatore Federico II.[4] Questi, cresciuto in mezzo ai pericoli e alle insidie e in prossimità ai Saraceni, si era abituato assai per tempo a giudicar delle cose e a trattarle da un punto di vista affatto obbiettivo, anticipando così il tipo dell'uomo moderno [8] sul trono. A queste sue qualità bisogna aggiungere altresì la profonda conoscenza ch'egli aveva delle condizioni interne degli Stati saraceni e della loro amministrazione, nonchè la guerra a morte sostenuta coi Papi, che obbligò entrambi i contendenti a mettere in campo tutte le forze ed i mezzi, di cui poteano disporre. Le ordinanze di Federico (specialmente dal 1231 in avanti) non mirano ad altro, fuorchè alla distruzione completa del sistema feudale e alla trasformazione del popolo in una moltitudine indifferente, inerme e solo in estremo grado tassabile. Egli centralizzò l'intera amministrazione giudiziaria e politica in un modo sino a quel tempo affatto sconosciuto in Occidente. Nessun ufficio poteva più essere conferito in virtù dell'elezione popolare, sotto pena di veder devastato il paese, dove ciò si osasse, e ridotti gli abitanti in condizione servile. Le imposte, basandosi sopra uno sconfinato catasto e sulle consuetudini maomettane, venivano percette con quei modi vessatorii e crudeli, senza dei quali, del resto, in Oriente è impossibile estorcere un quattrino ai contribuenti. Qui insomma non si ha più un popolo, ma una moltitudine di sudditi sottoposti a sì rigido sindacato, che non possono nemmeno, senza speciale permesso, nè prender moglie, nè studiare all'estero: — l'università di Napoli infatti fu la prima a metter leggi restrittive agli studi; — quando lo stesso Oriente, in simili materie almeno, lasciava la più ampia libertà. E dai despoti musulmani copiò altresì Federico il sistema di esercitare il commercio per conto proprio in tutto il mare Mediterraneo, riserbandosi, con molto scapito de' suoi sudditi, il monopolio di parecchi oggetti. — I califfi fatimiti colle loro tendenze eterodosse non ancor ben manifeste erano stati (almeno sul principio) abbastanza tolleranti colla religione dei loro sudditi: Federico [9] al contrario corona il suo sistema di governo con una persecuzione contro gli eretici, che sembrerà tanto più riprovevole, quando si ammetta, come par quasi certo, che egli in costoro abbia inteso di perseguitare i partigiani non tanto della libertà di coscienza, quanto del libero vivere civile. Finalmente egli si tiene sempre dappresso, quali agenti di polizia all'interno e come nucleo dell'armata contro i nemici esterni, quei Saraceni trapiantati dalla Sicilia a Lucera e a Nocera, che con uguale indifferenza sono sordi ai lamenti dei sudditi e alle scomuniche papali. — I sudditi, disavvezzi alle armi, lasciarono più tardi, con indolente apatìa, consumarsi la rovina di Manfredi e il trionfo dell'Angioino; ma questi alla sua volta fece suo quel sistema di governo, e se ne giovò a' suoi scopi ulteriori.


Accanto all'imperatore, che mirava a centralizzare ogni cosa, sorge un usurpatore di un genere tutto affatto particolare, Ezzelino da Romano, vicario e genero di lui. Egli non rappresenta propriamente nessun sistema di governo o di amministrazione, poichè tutta la sua attività fu sprecata in guerre continue per l'assoggettamento delle Provincie orientali dell'Italia superiore; ma, come tipo politico pei tempi posteriori, non è meno importante del suo imperiale protettore. Sino a questo tempo ogni conquista ed usurpazione del Medio-Evo erasi effettuata in vista di veri o pretesi diritti di eredità ed altro, o a danno degl'infedeli e degli scomunicati. Ora per la prima volta si tenta la fondazione di un trono sulla strage delle moltitudini e su altre infinite crudeltà, che è come dire, impiegando ogni sorta di mezzi, pur di riuscire allo scopo. Nessuno dei tiranni posteriori, non lo stesso Cesare Borgia, ha uguagliato Ezzelino nella immanità dei [10] delitti; ma l'esempio era dato, e la caduta di Ezzelino non ricondusse la giustizia fra i popoli, nè fu di alcun freno agli usurpatori venuti dopo.

Indarno S. Tommaso d'Aquino, nato suddito di Federico, pose innanzi la dottrina di una costituzione di governo, in cui il principe s'immagina assistito da una Camera alta da lui nominata e da una Rappresentanza eletta dal popolo. Simili teorie si perdevano senza eco nelle scuole, e Federico ed Ezzelino rimasero per l'Italia le due più grandi figure politiche del secolo XIII. La loro personalità, rappresentata sotto un aspetto per metà, leggendario, costituisce la parte più importante delle «Cento novelle antiche», la cui originaria redazione cade certamente in questo secolo.[5] In esse si parla di Ezzelino con quella specie di reverente paura, che sogliono inspirare le cose grandi, e in breve un'intera letteratura si forma intorno alla sua persona, dalla cronaca dei testimoni oculari alla tragedia, che ne fa quasi un mito.[6]

Subito dopo la caduta di entrambi pullulano numerosi, principalmente dalle lotte partigiane dei Guelfi e dei Ghibellini, i singoli tiranni, in generale quali capi dei Ghibellini, ma in occasioni e condizioni così diverse, che è impossibile non riconoscere in questo fatto una legge di suprema ed universale necessità. Quanto ai mezzi, di cui si servono, essi non hanno bisogno che di continuare sulla via adottata già dai partiti: l'espulsione o la distruzione degli avversari e delle loro case.

[11]

CAPITOLO II. La Tirannide nel secolo XIV.

Finanze e loro rapporti colla civiltà. — L'ideale di un principe assoluto. — Pericoli interni ed esterni. — Giudizio dei Fiorentini sui tiranni. — I Visconti sino al penultimo.

Le maggiori e minori tirannidi del secolo XIV sono una prova evidente del come esempi consimili non andarono punto perduti. Le loro immanità parlavano abbastanza altamente, e la storia le ha circostanziatamente descritte; ma, come Stati destinati a sostenersi da sè e a non contare che sopra le proprie forze, e organizzati in conformità a questo scopo, presentano pur sempre una particolare importanza.

Il calcolo freddo ed esatto di tutti i mezzi, di cui in allora nessun principe fuori d'Italia aveva nemmeno un'idea, congiunto con una potenza quasi assoluta dentro i limiti dello Stato, fece sorgere qui uomini e forme politiche affatto speciali.[7] Il segreto principale del regnare stava, pei tiranni più accorti, nel lasciare possibilmente le imposte quali ognuno di essi le aveva trovate o fissate al principio della sua signorìa. Tali erano: un'imposta [12] fondiaria basata sopra un catasto; determinati dazi di consumo, e gabelle pure determinate sopra l'importazione e l'esportazione: vi si aggiungevano poi le rendite dei dominii privati della casa regnante. Esse non oltrepassavano mai un certo limite, tranne il caso di un notevole aumento nella pubblica prosperità e nel commercio. Di prestiti, quali si vedevano effettuarsi nelle comunità repubblicane, qui non si parlava neppure; e più volentieri si ricorreva a qualche ardito colpo di mano, quando si poteva prevedere che non avrebbe prodotto veruna scossa, come, per esempio, la destituzione e la spogliazione, all'uso affatto orientale, dei supremi magistrati della finanza.[8]

Con queste rendite si cercava di provvedere a tutti i bisogni della piccola corte, alla guardia personale del principe, ai mercenari assoldati, alle pubbliche costruzioni, — nonchè ai buffoni ed agli uomini d'ingegno, che formavano il seguito del regnante. L'illegittimità, circondata da continui pericoli, isola il tiranno: l'alleanza più onorevole ch'egli possa stringere, è quella degli uomini superiori, senza riguardo alcuno alla loro origine. La liberalità dei principi del nord nel secolo XIII s'era ristretta ai cavalieri, vale a dire alla nobiltà che serviva e cantava. Non così il tiranno italiano: sitibondo di gloria e vago di trionfi e di monumenti, egli pregia l'ingegno come tale, e se ne giova. Col poeta e coll'erudito si sente sopra un terreno nuovo, e quasi in possesso di una nuova legittimità.


Universalmente noto sotto questo rapporto è il tiranno di Verona, Can Grande della Scala, il quale negl'illustri [13] esuli accoglieva alla sua corte i rappresentanti di tutta Italia. Gli scrittori se ne mostrarono riconoscenti: Petrarca, le cui visite a questa corte trovarono un biasimo così severo, ci dà il tipo ideale più completo di un principe del secolo XIV.[9] Dal suo mecenate — il signore di Padova — egli pretende molte e grandi cose, ma in modo tale da mostrare ch'egli ne lo crede anche capace. «Tu non devi essere il padrone, ma il padre de' tuoi sudditi e devi amarli come tuoi figli, anzi come membra del tuo stesso corpo. Armi, guardie e soldati puoi tu adoperare contro i nemici; — co' tuoi concittadini devi ottener tutto a forza di benevolenza. Bene inteso, io dico i soli cittadini che amano l'ordine; poichè chi ogni giorno va in cerca di mutamenti, è un ribelle, un nemico dello Stato, e contro simile genìa una severa giustizia deve aver sempre il suo corso».[10] Entrando poi ne' particolari, vi si scorge la finzione affatto moderna dell'onnipotenza dello Stato: il principe deve aver cura di tutto, restaurare e mantenere le chiese e i pubblici edifizi, sorvegliare la polizia delle strade, prosciugar le paludi, regolare la vendita del vino e dei grani, ripartire equamente le imposte, soccorrere i poveri e gl'infermi e accordar la sua protezione e la sua confidenza agli uomini illustri, perchè questi soli gli assicurano un posto glorioso presso la posterità.[11]

[14]

Ma, per quanti possano essere stati i lati luminosi e i meriti personali di taluni fra questi principi, tuttavia il secolo XIV riconosceva o almeno presentiva la breve durata e l'effimera sussistenza della maggior parte delle tirannidi. Siccome istituzioni politiche di questo genere per lor natura son destinate a mantenersi tanto più stabilmente, quanto maggiore è l'estensione del loro territorio, così era anche naturale che i principati più potenti fossero sempre proclivi ad ingoiare i più deboli. Quale ecatombe di piccoli signori non fu sacrificata in questo tempo ai soli Visconti! — A questi pericoli esterni poi corrispondeva quasi sempre un cupo fermento all'interno, e questo stato di cose non poteva certamente non esercitare una sinistra influenza sull'animo del principe. L'arbitrio male inteso e lo sfrenato egoismo da un lato, i nemici e i cospiratori dall'altro lo trasformavano quasi inevitabilmente in tiranno nel peggior senso della parola. Avesse egli almeno potuto fidarsi de' suoi più prossimi congiunti! Ma dove tutto era illegittimo, non poteva neanche parlarsi di un diritto stabile di eredità, sia riguardo alla successione al trono, come altresì riguardo alla ripartizione dei beni, e appunto nei momenti di maggior pericolo un risoluto cugino od uno zio si sostituivano, nell'interesse stesso dell'intera famiglia, al posto del legittimo erede minorenne od inetto. Anche l'esclusione o il riconoscimento dei figli illegittimi davano occasione a liti continue. E così accadde, che un numero ragguardevole di queste famiglie si trovò avere nel seno non pochi di tali congiunti malcontenti e sitibondi di vendetta; il che non di rado condusse poscia al tradimento [15] aperto e alle stragi domestiche. Altri, vivendo all'estero in qualità di fuggiaschi, si chiudono in paziente aspettativa, come ad esempio quel Visconti che, stando a pescare sul lago di Garda,[12] al messo del suo rivale, che lo avea richiesto quando pensasse di ritornare a Milano, seccamente rispose: «non prima che le scelleratezze del tuo padrone abbiano superato le mie». Talvolta sono altresì i congiunti del principe che lo sacrificano alla pubblica moralità troppo altamente offesa, per salvare così gl'interessi della dinastia.[13] Altrove la signoria è ancora proprietà dell'intera famiglia per modo che il capo di essa è obbligato di sentire il parere dei membri che la compongono, ed anche in questo caso la divisione del possesso e della potenza è causa frequente di acerbi rancori.


Tutti questi fatti eccitano assai per tempo il più profondo disprezzo negli scrittori fiorentini d'allora. Già il fasto stesso ed il lusso, col quale i principi cercavano forse non tanto di soddisfare alla propria vanità, quanto d'impressionare la fantasia del popolo, è fatto segno ai loro più amari sarcasmi. Guai se un signore sorto di fresco capita loro tra mano, come fu il caso appunto dell'intruso Doge Agnello da Pisa (1364), che usava uscire a cavallo con uno scettro d'oro in mano e, tornato a casa, mostravasi dalla finestra appoggiato a guanciali e a drappi pure tessuti in oro «a quel modo che soglionsi mostrar le reliquie de' Santi», facendosi servire in ginocchio, [16] quasi fosse un Papa od un Imperatore.[14] Ma più spesso ancora questi vecchi fiorentini assumono un tuono grave e serio. Dante intende e caratterizza egregiamente il lato ignobile e volgare della cupidigia e dell'ambizione dei nuovi principi. «Che cosa vogliono dire le vostre trombe, e i corni e i flauti e le tibie, se non: venite, venite, carnefici, venite, avoltoi?».[15] Il castello della tirannide non s'immagina che in sito eminente ed isolato, riboccante d'insidie e di carceri, vero ricettacolo di miseria e di ribalderìe.[16] Altri predicono sventure a chiunque s'accosti o serva il tiranno,[17] che da ultimo trovano degno esso stesso di compassione, costretto, com'è, ad odiare tutti i buoni e gli onesti, a non fidarsi di chicchessìa e a leggere ad ogni momento in viso a' suoi sudditi la speranza della sua caduta. «A quello stesso modo, scrive M. Villani, che le tirannidi nascono, crescono e si rassodano, così nasce e cresce con loro l'elemento segreto, che deve trarlo a rovina».[18] E tuttavia si tace di ciò che costituiva il più spiccato contrasto tra le città libere e i principati: Firenze infatti tendeva allora a promovere il maggiore sviluppo possibile della individualità, [17] mentre i tiranni non vogliono emergere che essi stessi, con gl'immediati loro aderenti. Il sindacato sulle persone si esercitava in modo rigorosissimo, come ne fanno prova gli uffici allora generalizzati dei passaporti.[19]

Lo spavento e la miseria di tali condizioni assumevano agli occhi dei contemporanei un aspetto ancor più speciale per le superstizioni astrologiche e per l'empietà di taluni fra quei tiranni. Quando l'ultimo dei Carrara non fu più in grado di agguerrire le mura e le porte di Padova spopolata dalla pestilenza e assediata dai Veneziani (1405), gli uomini della sua guardia lo udirono spesso nel silenzio della notte invocare il demonio, «perchè lo uccidesse!».


Il tipo più completo e più istruttivo di queste tirannidi del secolo XIV si ha indubbiamente nei Visconti di Milano, dalla morte dell'arcivescovo Giovanni (1354) in poi. In Bernabò pel primo riscontrasi una quasi somiglianza di famiglia coi più feroci imperatori romani:[20] l'affare di Stato più importante è la caccia dei cinghiali del principe: chi a questo riguardo si permette il più piccolo arbitrio, è messo a morte fra inauditi tormenti: il popolo tremante deve nutrirgli i suoi cinquemila e più cani da caccia, sotto la più stretta responsabilità per la loro salute. Le imposte vengono percette nei modi più odiosi, che si possano immaginare: sette figlie ricevono [18] una dote di 100,000 fiorini d'oro ciascuna, e, in onta a ciò, un enorme tesoro si trova accumulato nelle mani del principe. Alla morte di sua moglie (1384) una notificazione «ai sudditi» intima che, come altre volte essi parteciparono alle gioie del loro signore, così ora devono dividere con lui il dolore, e quindi portare il lutto per un intero anno. — Senza riscontro poi è il colpo di mano, con cui il nipote di lui Giangaleazzo giunse ad averlo nelle sue mani (1385), per mezzo di una di quelle trame ben riuscite, nel riferire le quali trema il cuore anche agli storici più lontani.[21] In Giangaleazzo si vede a gran tratti il tiranno, che aspira soltanto a cose colossali. Egli spese non meno di 300,000 fiorini d'oro in gigantesche opere d'arginatura, per poter divergere a suo talento il Mincio da Mantova e il Brenta da Padova, e togliere così ogni mezzo di difesa a queste due città,[22] e non par lungi dal vero ch'egli abbia pensato altresì ad un prosciugamento delle lagune di Venezia. Fondò la Certosa di Pavia, «il più maraviglioso di tutti i conventi»[23] e il Duomo di Milano, «che in grandezza e magnificenza supera tutte le chiese della cristianità»; e forse anche il palazzo di Pavia, cominciato da suo padre Galeazzo e da lui condotto a compimento, era in allora la più splendida residenza principesca, che vi fosse in Europa. In questo egli trasportò la sua celebre biblioteca e la grande collezione di reliquie sacre, nelle quali egli aveva una fede affatto particolare. Con tali idee sarebbe stato strano che in politica non avesse steso [19] la mano alle più alte corone. Il re Venceslao lo fece duca (1395); ma egli non pensava a meno che al regno di tutta Italia[24] o alla corona d'imperatore, quando invece si ammalò e morì (1402). Si vuole che tutti i suoi Stati presi insieme gli fruttassero in un anno la rendita ordinaria di un milione e dugento mila fiorini d'oro, oltre ad altri 800,000 di sussidi straordinari. Dopo la sua morte, il dominio, che egli con ogni sorta di violenze avea messo insieme, andò in brani, e appena poterono essere conservate le provincie più vecchie che lo componevano. Chi può dire che cosa sarebbero divenuti i suoi figli Giovanni Maria (morto nel 1412) e Filippo Maria (morto nel 1447), se fossero vissuti altrove e con altre tradizioni di famiglia? Ma, come eredi di questa casa, essi ereditarono anche l'enorme cumulo di scelleratezze e vigliaccherie, che vi si era venuto ingrossando di generazione in generazione.

Anche Giovanni Maria alla sua volta va celebre pe' suoi cani, ma non son più cani da caccia, bensì mastini ch'egli aveva addestrati a sbranar uomini vivi, e dei quali ci furono tramandati anche i nomi, come degli orsi dell'imperatore Valentiniano I.[25] Allorquando nel maggio dell'anno 1409, mentre durava ancora la guerra, il popolo [20] affamato gridava sul suo passaggio pace! pace!, egli scatenò su di esso le sue soldatesche, che scannarono duecento persone; e dopo ciò proibì, pena la forca, di pronunciar le parole pace e guerra, e prescrisse perfino agli ecclesiastici di dire nella Messa dona nobis tranquillitatem, in luogo di pacem. Da ultimo alcuni congiurati giovaronsi destramente del momento, in cui il gran condottiere del pazzo duca, Facino Cane, giaceva gravemente infermo a Pavia, e assassinarono Giovanni Maria presso la chiesa di S. Gottardo a Milano; ma il morente Facino fece giurare lo stesso giorno a' suoi ufficiali di sostenere l'erede Filippo Maria, ed egli stesso per di più propose che la moglie sua, Beatrice di Tenda, si sposasse, dopo la sua morte, a quest'ultimo,[26] ciò che si verificò anche ben presto.


Ed in tempi come questi Cola di Rienzo s'immaginava di poter fondare sull'entusiasmo cadente della borghesia già corrotta di Roma un nuovo Stato, che comprendesse tutta l'Italia! In verità che, accanto a tali principi, egli ha l'aria piuttosto di un povero illuso o di un folle.

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CAPITOLO III. La Tirannide nel secolo XV.

Interventi e viaggi degl'imperatori. — Loro pretensioni messe in disparte. — Mancanza di uno stabile diritto ereditario. Successioni illegittime. — I condottieri quali fondatori di stati. — Loro rapporti coi propri signori. — La famiglia Sforza. — Progetti del giovane Piccinino e sua caduta. — Posteriori tentativi dei condottieri.

Nel secolo XV la tirannide mostra già un carattere affatto diverso. Molti dei piccoli ed anche alcuni dei grandi tiranni del secolo precedente, come i Della Scala e i Carrara, erano già caduti in basso; i più potenti, arricchiti delle spoglie altrui, si sono riordinati all'interno in modo affatto speciale; Napoli riceve dalla nuova dinastia aragonese un impulso più energico e vigoroso. Ma del tutto caratteristico per questo secolo è lo sforzo dei condottieri per crearsi uno stato indipendente, od anche una corona, ciò che costituisce un passo ulteriore sulla via dei fatti compiuti, un premio elevato all'ingegno e all'audacia. I piccoli tiranni, per assicurarsi un rifugio, si mettono ora al servizio degli stati maggiori e si fanno lor condottieri, il che procaccia loro danaro e impunità per parecchi misfatti, e talvolta anche ingrandimento del loro territorio. Tutti poi, presi insieme, grandi e piccoli hanno bisogno di sforzi maggiori, debbono procedere più circospetti e guardinghi e astenersi [22] da crudeltà troppo immani. In generale non potevano osare che quel tanto di male, che fosse stato necessario per riuscire nei loro scopi; — e questo veniva lor perdonato, almeno da chi non ne restava offeso. Della pietà religiosa, che tornò pure di tanto vantaggio agli altri principi legittimi d'Occidente, qui non si ha traccia veruna; tutt'al più vi si riscontra una specie di popolarità, che però non esce dalle mura della città che serve di residenza: i principi italiani sentono che ciò che deve loro maggiormente giovare, è il freddo calcolo e l'ingegno. Un carattere come quello di Carlo il Temerario, che con impeto cieco tende a scopi destituiti affatto d'ogni pratica utilità, era un vero enigma per essi. «Gli Svizzeri non sono che poveri contadini e quand'anche si uccidessero tutti, sarebbe questa pur sempre una magra soddisfazione pei magnati di Borgogna, che per avventura perissero in tale lotta! Quand'anche il duca giungesse a posseder la Svizzera senza contrasto alcuno, le sue rendite annue non si aumenterebbero nemmeno di 5000 ducati» ecc.[27] Ciò che in Carlo vi era di medievale, le sue fantasie e idealità cavalleresche, non era cosa più comprensibile da lungo tempo in Italia. Quando poi si seppe che co' suoi ufficiali e comandanti usava unire ai rabbuffi gli schiaffi, e tuttavia li teneva al suo servizio, che maltrattava le proprie truppe, per punirle di una disfatta sofferta, e da ultimo, che in presenza di tutto l'esercito sparlava de' suoi consiglieri intimi, — allora tutti i diplomatici del mezzodì lo diedero per ispacciato.[28] Ma da un altro lato Luigi XI, che nella politica [23] superò gli stessi principi d'Italia, e che non cessava di manifestare la sua ammirazione per Francesco Sforza, rimase loro molto al di sotto, colpa la sua volgare natura, in fatto di civiltà e gentilezza.


Una strana mescolanza di bene e di male è il carattere prevalente di questi stati italiani del secolo XV. La personalità del principe è sì colta, ed egli si presenta sotto un aspetto talmente importante per la sua posizione e pel compito che si propone,[29] che un giudizio su lui dal punto di vista morale riesce oltremodo difficile.

La base fondamentale della signoria è e rimane illegittima, e vi pesa sopra come una maledizione, che non può cancellarsi. Le concessioni e le investiture imperiali non valgono a mutare un tale stato di cose, perchè il popolo non si cura di sapere, se i suoi padroni abbiano comperato un brano di pergamena in paese straniero o da uno straniero di passaggio per le loro terre.[30] Se gl'imperatori fossero stati utili a qualche cosa, non avrebbero dovuto lasciar sorgere i tiranni: quest'era il ragionamento delle moltitudini non istrutte. Sino dalla spedizione a Roma di Carlo IV gl'imperatori non hanno che sanzionato in Italia le tirannidi sorte senza di essi, ma non poterono guarentirle con altro che con semplici [24] documenti. La comparsa e la dimora di Carlo in Italia non è che una delle più vergognose mascherate politiche, che sieno state; ed ognuno può leggere in Matteo Villani[31] in qual modo i Visconti lo menarono attorno pel loro territorio e da ultimo lo scortarono a' confini, come egli corse da un luogo all'altro a guisa di mercatante girovago per iscambiar con danaro al più presto i suoi privilegi, con che meschino apparato fece il suo ingresso in Roma, e come infine, senza nemmeno avere sfoderato la spada, se ne tornò col sacco pieno al di là delle Alpi.[32] Almeno Sigismondo la prima volta venne con la buona idea (1414) d'indurre papa Giovanni XXIII a prender parte al Concilio, che egli aveva in animo di riunire; e fu appunto in quella circostanza che, trovandosi insieme il Papa e l'Imperatore sull'alto della torre [25] di Cremona per godervi il prospetto di gran parte della Lombardia, al loro ospite Gabrino Fondolo, tiranno della città, passò pel capo il pensiero di farli precipitare al basso ambedue. La seconda volta però anche Sigismondo comparve da vero avventuriere, indugiandosi ben più di mezzo anno a Siena, dove era ritenuto prigioniero qual debitore insolvente, e giungendo poscia a stento in Roma, per farvisi incoronare. Che dovremo dir poi di Federigo III? Le sue discese in Italia hanno l'aria di viaggi di vacanza o di ricreazione fatti a spese di coloro, che desideravano veder confermati con qualche brevetto imperiale i loro diritti, o di quelli che si sentivano solleticati nella loro ambizione di poter dare pomposa ospitalità ad un imperatore. Di quest'ultimi fu Alfonso di Napoli, al quale l'onore della visita imperiale non costò meno di 150,000 fiorini d'oro.[33] In Ferrara, al suo secondo ritorno da Roma (1469), Federico stette chiuso un dì intiero in una sala di udienza, occupato a conferir titoli e dignità (non meno di ottanta); e vi nominò cavalieri, dottori, notari, conti di diverso grado, vale a dir conti palatini, conti col diritto di nominar dottori (anche cinque per volta), di legittimar bastardi, di crear notari ecc.[34] Tutto ciò era gratuito, in apparenza; sennonchè al di lui cancelliere dovevasi un segno di riconoscenza per la redazione dei relativi documenti, riconoscenza che ai ferraresi parve un po' cara.[35] Che cosa pensasse il duca Borso nel vedere il suo imperiale protettore rilasciar tali diplomi e tutta la sua piccola corte fare incetta di titoli, la storia non lo dice. Ma gli umanisti, che allora avevano [26] l'ultima parola in tutto, erano divisi in due schiere, secondochè si trovavano, o no, cointeressati in quel traffico. Perciò, mentre gli uni[36] festeggiavano l'imperatore con quel giubilo convenzionale che era proprio dei poeti della Roma imperiale, il Poggio per contrario non sa più che cosa voglia propriamente significare l'incoronazione: avvegnachè gli antichi non coronassero che gl'imperatori vittoriosi e di niun'altra corona, fuorchè di alloro.[37]

Con Massimiliano I poi comincia, insieme all'intervento generale dei popoli stranieri, una nuova politica imperiale verso l'Italia. Il fatto con cui essa ebbe principio — l'investitura di Lodovico il Moro coll'esclusione dell'infelice suo nipote dal trono — non era di tal natura da poter promettere buona fortuna. Secondo la moderna teoria degli interventi, quando due prepotenti vogliono fare in brani un paese, anche un terzo può farsi innanzi e darvi mano; anche l'impero adunque poteva ora pretendere la sua parte. Ma in tal caso non era più da parlare di diritto, nè di giustizia. Quando Luigi XII era aspettato a Genova (1502) e dal vestibolo della sala maggiore nel palazzo dei Dogi fu tolta l'aquila imperiale per sostituirvi i gigli di Francia, lo storico Senarega[38] chiese dappertutto che cosa propriamente significasse quell'aquila rispettata in tante rivoluzioni, e quali diritti l'Impero avesse su Genova? Nessuno gli seppe rispondere altro, fuorchè l'antico ritornello, che Genova era una camera imperii. E infatti nessuno in generale in Italia avrebbe saputo dare allora una risposta decisiva su tali questioni. Soltanto quando Carlo V fu padrone ad un tempo e [27] dell'Impero e della Spagna, potè con le forze spagnuole far valere le pretese imperiali; ma in fondo ciò che egli per tal modo guadagnò, tornò a profitto, non già dell'Impero, ma bensì della monarchia di Spagna.


Dalla illegittimità politica delle dinastie del secolo XV derivò alla sua volta anche l'indifferenza rispetto alla nascita legittima che agli stranieri, specialmente al Comines, parve tanto maravigliosa. La si considerava quasi come una giunta sopra la derrata. Mentre nelle famiglie principesche del nord, in quella di Borgogna, per esempio, ai figli illegittimi non si assegnavano che determinati appannaggi, come vescovati e simili, e mentre in Portogallo una linea spuria non giungeva a sostenersi sul trono che mediante sforzi inauditi, in Italia invece non v'era casa principesca, che non avesse avuto e pazientemente tollerato nella stessa linea principale qualche rampollo illegittimo. Gli Aragonesi di Napoli erano la linea bastarda della casa, perchè l'Aragona propriamente detta toccò al fratello di Alfonso I. Il grande Federigo di Urbino con ogni probabilità non era un vero Montefeltro. Quando Pio II andò al congresso di Mantova (1459), mossero ad incontrarlo in Ferrara otto discendenti illegittimi della famiglia d'Este, fra i quali lo stesso regnante Borso e due figli illegittimi del suo fratello e predecessore Leonello, ugualmente illegittimo.[39] Inoltre quest'ultimo aveva avuto per legittima moglie una principessa, che propriamente non era che una figlia naturale di Alfonso I di Napoli, avuta da una africana.[40] [28] Gl'illegittimi erano anche di frequente ammessi alla successione, specialmente se i figli legittimi erano minorenni quando qualche pericolo stringeva assai da vicino; e così fu introdotta una specie di seniorato senza ulteriore riguardo alla legittimità o illegittimità della nascita. L'opportunità dell'individuo, il suo merito personale e la forza del suo talento furono qui sempre più forti della legge e delle consuetudini invalse in tutti gli altri paesi d'Occidente. Infatti erano i tempi, in cui si vedevano i figli stessi dei Papi crearsi dei principati! Nel secolo XVI, prevalendo l'influenza degli stranieri e della contro-riforma, che allora incominciava, la cosa destò qualche maggiore scrupolo, e già il Varchi trova che la successione dei figli legittimi «è comandata dalla ragione e sin dai più remoti tempi voluta dal cielo».[41] Il cardinale Ippolito d'Este fondava le sue pretese alla signoria di Firenze sul fatto, che egli probabilmente derivava da un matrimonio legittimo, o in ogni caso era figlio almeno di una madre uscita da nobile stirpe, mentre il duca Alessandro avea avuto per madre una fantesca.[42] Ora cominciano anche i matrimoni morganatici di affezione, che nel secolo XV, per motivi di moralità e di politica, non avrebbero avuto alcun senso.


Ma la più alta e più comunemente ammirata forma dell'illegittimità nel secolo XV è quella del condottiere, il quale — qualunque sia la sua origine — giunge a procacciarsi un principato. In sostanza anche l'occupazione dell'Italia meridionale operata nel secolo XI dai Normanni [29] non era stata altra cosa; ma ora diversi tentativi di questa specie cominciarono a tener la Penisola in perpetue agitazioni. L'insediamento di un condottiero a signore di un paese poteva accadere anche senza usurpazione, ogni qualvolta il principe che lo teneva al suo soldo, mancando di denaro, pattuiva con lui una mercede in uomini e terre,[43] le quali, senza di ciò, ed anche nel caso che licenziasse la maggior parte della sua gente, gli erano necessarie per porvi al sicuro i suoi quartieri d'inverno e le provvigioni più indispensabili. Il primo esempio di un capo di bande provveduto in tal guisa è Giovanni Hawkwood, che dal papa Gregorio XI ottenne Bagnacavallo e Cotignola. Ma quando con Alberigo da Barbiano cominciarono ad apparire sulla scena bande e condottieri italiani, parve anche più prossima l'occasione di procurarsi qualche principato, o, se il condottiere lo possedeva già, quella di allargarlo. Il primo grande trionfo di questa avidità soldatesca fu festeggiato a Milano dopo la morte di Giangaleazzo (1402): il governo de' suoi due figli (v. sopra pag. 19) fu volto principalmente alla distruzione di questi tiranni giunti al potere colla forza della propria spada, e dal maggiore di essi, Facino Cane, i Visconti ereditarono non solo la vedova di lui (Beatrice di Tenda), ma altresì un bel numero di città e 400,000 fiorini d'oro, senza contare gli uomini d'arme del primo marito che Beatrice condusse pure con sè.[44] Da questo tempo in poi prevalse in modo incredibile [30] quel rapporto affatto immorale tra i governi che stipendiavano e i condottieri che si vendevano, che è tanto caratteristico del secolo XV. Un vecchio aneddoto,[45] di quelli che sono veri e non veri in ogni tempo e dovunque, lo dipinge presso a poco così: una volta gli abitanti di una città (pare che s'intendesse Siena) avevano un capitano, che li aveva liberati dall'oppressione straniera: ogni giorno essi si consultavano sul modo migliore di ricompensarlo, e trovavano che nessuna ricompensa, che fosse compatibile colle loro forze, sarebbe stata adeguata, neanche se lo avessero creato signore della loro città. Allora uno di essi si alzò e disse: uccidiamolo e poi adoriamolo come nostro patrono. E così fu fatto, rinnovando il caso di Romolo ucciso dal Senato romano. E veramente da nessuno i condottieri avevano maggior bisogno di guardarsi, quanto dai principi o dai governi, pei quali combattevano; poichè, se vincitori, erano riguardati come pericolosi e fatti uccidere, come toccò a Roberto Malatesta subito dopo la vittoria riportata per Sisto IV (1482); se vinti, si vendicava in loro la sconfitta sofferta, come fecero i Veneziani col Carmagnola (1432).[46] Dal punto di vista morale è un fatto [31] degno di molta considerazione, che i condottieri assai di frequente erano obbligati di dare in ostaggio la propria moglie ed i figli, senza per questo giungere a procacciarsi maggior fiducia da parte degli altri, o sentir cresciuta la propria in questi. Avrebbero dovuto essere eroi d'abnegazione, caratteri della tempra di Belisario, per tenersi puri dall'odio, e solo una bontà interna a tutta prova avrebbe potuto salvarli dal diventare malfattori perfetti. Qual maraviglia adunque se noi li vediamo per la massima parte dispregiatori d'ogni cosa più sacra, pieni di crudeltà e di perfidia contro chiunque, e anche al limitare della morte indifferenti affatto alle scomuniche papali? Ma al tempo stesso in alcuni la personalità e il talento si svilupparono in sì alto grado da imporre a forza l'ammirazione e la riconoscenza dei loro soldati, offrendo così nella storia il primo esempio di eserciti, nei quali la forza impellente è senz'altro il credito personale del duce. Una splendida prova se ne ha nella vita di Francesco Sforza,[47] contro il quale nessun pregiudizio di classe fu mai tanto forte da impedirgli di acquistarsi presso tutti la più grande popolarità e di sapersene giovare a tempo opportuno: si sa infatti che più di una volta i nemici, al solo vederlo, deposero spontaneamente le armi e lo salutarono rispettosamente a capo scoperto, perchè ognuno riconosceva in lui «il padre comune di tutti gli uomini d'arme». Questa famiglia Sforza ha un altro lato interessante, ed è che di essa, più che di qualunque altra, si possono seguire passo passo tutti i tentativi fatti per giungere al principato.[48] [32] Il fondamento di questa fortuna fu la grande sua fecondità: Jacopo, il celebre padre di Francesco, non aveva meno di venti tra fratelli e sorelle, tutti rozzamente allevati in Cotignola, presso Faenza, al sentimento di una di quelle inestinguibili vendette, che sono così frequenti in Romagna, contro la famiglia dei Pasolini. Tutta la casa degli Sforza era trasformata in un arsenale e in un corpo di guardia: la stessa madre e le figlie non respiravano che sentimenti di vendetta e di sangue. Ancor tredicenne Jacopo si tolse di là segretamente per recarsi innanzi tutto a Panicale presso Boldrino, condottiere del Papa, quel medesimo, il quale anche morto continuava a guidar le sue schiere, dandosi la parola d'ordine da una tenda tutta circondata di bandiere, nella quale giaceva imbalsamato il suo corpo, — sino a tanto che si trovò un successore che fosse degno di lui. Jacopo, di mano in mano che co' suoi servigi cresceva in credito e potenza, tirò con sè anche i suoi congiunti e per mezzo di essi si procacciò quei vantaggi, che ad un principe procura sempre una numerosa dinastia. Furono infatti questi congiunti che tennero insieme la sua armata per tutto il tempo ch'egli languì prigioniero nel Castel dell'Uovo a Napoli; e fu sua sorella che fece prigionieri colle stesse sue mani i negoziatori di quella corte, e con questa rappresaglia lo salvò dalla morte. Altri indizii della larghezza delle sue viste si ebbero in questo, che Jacopo in affari pecuniari era scrupolosamente ligio alla parola data, e con ciò si mantenne in credito, anche dopo qualche rovescio, presso tutti i banchieri; che in qualsiasi occasione egli prese sempre le parti del popolo contro la licenza della soldatesca; che non trascorse mai a nessun atto di ferocia contro le città conquistate e, più ancora, che non esitò a dare in moglie ad un [33] altro la celebre sua concubina Lucia (la madre di Francesco), per serbarsi sempre libero di passare, data l'occasione, a nozze principesche. Ed in quest'ultimo riguardo egli andò più oltre, non volendo che neanche i suoi congiunti contraessero unioni non approvate da lui. Nel medesimo tempo egli si tenne sempre lontano dall'empietà e dalla vita perduta e rotta de' suoi compagni d'arme; e quando mandò pel mondo suo figlio Francesco, lo congedò con tre avvertimenti essenzialmente pratici: «non accostarti alla donna altrui; non battere alcuno de' tuoi e se l'hai battuto, allontanalo più che puoi; non cavalcare nessun cavallo di duro freno o che perda volentieri la ferratura». Ma prima d'ogni altra cosa egli era, se non un grande capitano, almeno un grande soldato, e poteva vantarsi di un corpo sano, robusto ed esperto in ogni genere di esercizi; si conciliava la popolarità co' suoi modi franchi e schietti, e possedeva una maravigliosa memoria, che gli faceva ricordare anche dopo molti anni tutti i suoi soldati, lo stato del loro servizio, i loro cavalli ecc. Colto non era che nella letteratura italiana; ma nelle ore d'ozio amava erudirsi nella storia, e fece tradurre dal latino e dal greco molti scrittori per suo uso particolare. Francesco suo figlio, ancor più celebre di lui, volse sin da principio chiaramente tutte le sue mire a crearsi una grande signoria, e con splendidi fatti d'armi e con un tradimento assai destramente mascherato giunse anche a farsi padrone della potente Milano (1447-1450).

Il suo esempio sedusse. Enea Silvio intorno a questo tempo scriveva:[49] «nella nostra Italia, tanto vaga di mutamenti, dove nulla ha stabilità e non sussiste omai [34] più nessuno dei vecchi governi, non è difficile che anche i servi possano divenir re». Uno specialmente che si diceva egli stesso «il figlio della fortuna», preoccupava in allora tutte le menti del paese: Giacomo Piccinino, figlio di Niccolò. Era una questione d'interesse vivissimo e generale quella di sapere, se anche egli riuscirebbe a fondare, o no, un principato. Gli Stati maggiori erano evidentemente interessati ad impedirglielo, ed anche Francesco Sforza trovava che sarebbe stato un vantaggio per tutti, se la serie dei condottieri divenuti sovrani si fosse terminata con lui. Ma le truppe e i capitani spediti contro il Piccinino, specialmente nell'occasione che egli voleva impadronirsi di Siena, trovavano invece che il loro tornaconto stava nel sostenerlo: «se la si fa finita con lui (dicevan essi ad una voce), noi possiam tornarcene a lavorare le nostre terre».[50] Perciò, nel tempo stesso che lo tenevano assediato in Orbetello, lo fornivano essi medesimi di viveri, tanto che egli potè da ultimo uscire da quel frangente a patti onorevolissimi. Ma nemmen per questo riuscì a sottrarsi eternamente al proprio destino. Tutta Italia presentiva già ciò che stava per accadere quand'egli, dopo una visita fatta allo Sforza in Milano (1465), si condusse a Napoli a visitare il re Ferrante. In onta a tutte le garanzie e ai rapporti ch'egli aveva nelle regioni più elevate, quest'ultimo lo fece uccidere nel Castel Nuovo.[51] [35] Anche i condottieri, che possedevano stati pervenuti loro per via di eredità, non furono mai pienamente sicuri: quando Roberto Malatesta e Federigo di Urbino morirono nel medesimo giorno, l'uno a Roma, l'altro a Bologna (1482), avvenne che ognuno di essi, morendo, raccomandava all'altro il suo stato.[52] Il fatto è che contro una classe di persone, che si permetteva tutti arbitrii, tutto sembrava permesso. Francesco Sforza ancor molto giovane s'era sposato ad una ricca ereditiera di Calabria, Polissena Ruffa, contessa di Montalto e n'aveva avuto anche una figlia: — una zia le avvelenò entrambe, per appropriarsi l'eredità.[53]


Dalla caduta del Piccinino in avanti, la formazione di nuovi stati creati da condottieri parve uno scandalo da non doversi assolutamente tollerar più, e i quattro stati maggiori, Napoli, Milano, la Chiesa e Venezia sii unirono in un sistema d'equilibrio, che doveva impedirne la rinnovazione. Nello stato della Chiesa, che formicolava di tirannelli, stati in parte già condottieri o che lo erano ancora, sino dal tempo di Sisto IV i soli nepoti del Papa s'attribuirono esclusivamente il privilegio di tentar simili imprese. Ma non appena nella politica si manifestava una oscillazione qualunque, ecco che i condottieri ricomparivano. Sotto il debole governo di Innocenzo VIII poco mancò che un capitano per nome Boccalino, stato già dapprima a servizio in Borgogna, non si desse insieme alla città di Osimo, di cui s'era fatto [36] padrone, in mano a' Turchi;[54] e si dovette andar più che contenti, quando egli, per la mediazione di Lorenzo il Magnifico, s'indusse ad accomodarsi con una somma di danaro e ad andarsene. Nell'anno 1495, quando tutto andò a scompiglio per la venuta di Carlo VIII, un Vidovero, condottiere da Brescia, volle fare esperimento delle sue forze:[55] egli aveva preso già dapprima la città di Cesena, uccidendo molti della nobiltà e della borghesia, ma il castello aveva resistito ed egli aveva dovuto ritirarsi: ora, accompagnato da alcune genti cedutegli da un altro ribaldo suo pari, Pandolfo Malatesta da Rimini, figlio del nominato Roberto e condottiero al soldo dei Veneziani, tolse all'arcivescovo di Ravenna la città di Castelnuovo. I veneziani, che temevano di peggio ed oltre a ciò erano pressati dal Papa, ingiunsero a Pandolfo «a fine di bene» di far prigioniero, datane l'occasione, il suo buon amico, ed egli vi si prestò, benchè «a malincuore»; poco dopo gli sopraggiunse il comando di farlo morir per le forche. Pandolfo non potè usargli altro riguardo, fuorchè quello di farlo strozzare dapprima nel carcere, e di mostrarlo morto al popolo. — L'ultimo notevole esempio di tali usurpatori è il celebre castellano di Musso, il quale, fra gli scompigli del milanese avvenuti in seguito alla battaglia di Pavia (1525), improvvisò la sua sovranità sul lago di Como.

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CAPITOLO IV. Le Tirannidi minori.

I Baglioni di Perugia. — Loro interne discordie e le nozze di sangue dell'anno 1500. — Fine di questa famiglia. — Le case dei Malatesta, dei Pico e dei Petrucci.

Delle tirannidi del secolo XV può dirsi in generale, che le maggiori scelleratezze s'accumularono nelle più piccole di esse. Frequentissime in famiglie, i cui membri volevano vivere tutti secondo il loro grado, erano le questioni per causa di eredità: Bernardo Varano da Camerino si sbarazzò coll'assassinio di due fratelli (1434), unicamente perchè i suoi figli ne agognavano le ricchezze.[56] Se in qualche città un tiranno si distingueva per un governo saggio, moderato, alieno dal sangue e per la protezione accordata alla cultura, questi era di regola un discendente di qualche grande famiglia, o almeno ne dipendeva per ragioni politiche. Di questa specie fu, per esempio, Alessandro Sforza principe di Pesaro,[57] fratello del grande Francesco e suocero di Federigo da Urbino (morto nel 1473). Saggio amministratore e giusto ed affabile regnante, costui, dopo una lunga carriera [38] guerresca, ebbe un regno tranquillo, durante il quale raccolse una splendida biblioteca e passò il suo tempo in pie ed erudite conversazioni. Anche Giovanni II dei Bentivogli di Bologna (1462-1506), la cui politica era modellata su quella degli Estensi e degli Sforza, potrebbe essere registrato nel numero di costoro. — Qual brutale ferocia invece non si riscontra nelle famiglie dei Varani di Camerino, dei Malatesta di Rimini, dei Manfredi di Faenza, e soprattutto dei Baglioni di Perugia! — Delle vicende di questi ultimi sul finire del secolo XV noi abbiamo ampie notizie da eccellenti fonti storiche — le cronache del Graziani e del Matarazzo.[58]


I Baglioni erano una di quelle famiglie, la cui signoria non si era mai trasformata in un vero principato, ma consisteva soltanto in una supremazia esercitata dentro la cerchia della città e basata sulle grandi ricchezze e sull'influenza effettiva nel conferimento delle pubbliche dignità. Nell'interno della famiglia uno solo era riguardato come il capo supremo di essa; ma un profondo e nascosto rancore regnava tra i membri de' suoi rami diversi. Di fronte ad essi mantenevasi un partito contrario, composto di nobili capitanati dagli Oddi. Intorno al 1487 tutti erano in armi e le case dei grandi erano piene di bravi: non passava giorno che non si commettesse qualche atto di violenza: nell'occasione che dovea portarsi a seppellire uno studente tedesco, stato quivi ucciso, due collegi si posero in armi l'un contro l'altro, e talvolta i bravi di diverse case venivano a battaglia tra loro sulla pubblica piazza. Indarno i commercianti e gli operai ne [39] movevano lamento: i governatori e i nipoti dei Papi tacevano o se ne andavano al più presto possibile. Da ultimo gli Oddi furono costretti ad abbandonare Perugia, e allora la città si convertì in una fortezza assediata sotto la piena signoria dei Baglioni, ai quali anche il duomo dovette servire di caserma. Le cospirazioni e le sorprese venivano represse con terribili vendette: nell'anno 1491, dopo avere scannato d'un tratto ben cento trenta congiurati introdottisi in città, e dopo averne appeso i corpi alle mura del palazzo del comune, furono alzati sulla pubblica piazza trentacinque altari e per tre giorni vi si fecero celebrar messe e far processioni, per purgare e riconsacrare quel luogo contaminato. Un nipote di Innocenzo VIII fu pugnalato di pieno giorno sulla pubblica via; un altro di Alessandro VI, che vi era stato spedito a metter la pace, dovette ritirarsi sotto il peso del pubblico disprezzo. Per converso, ambedue i capi della casa dominante, Guido e Rodolfo, ebbero frequenti colloqui colla santa e taumaturga monaca domenicana suor Colomba da Rieti, la quale, sotto la minaccia di grandi sventure avvenire, consigliava, ma infruttuosamente, la pace. — In mezzo a tutto ciò il cronista non tralascia anche in questa occasione di mettere in rilievo la devozione e la pietà dei migliori fra i perugini. — Mentre Carlo VIII si avvicinava (1494), i Baglioni e gli esigliati, accampatisi in Assisi e nei dintorni, condussero una guerra di tal natura, che nella pianura interposta tutti gli edifici furono atterrati, i campi rimasero incolti, i contadini si trasformarono in audaci masnadieri, e non solo i cervi, ma i lupi altresì corsero a loro agio quel terreno fatto deserto e vi trovarono gradito pascolo nei cadaveri dei caduti, o, come allora dicevasi, nella «carne cristiana». Quando Alessandro VI nel 1495 fuggì nell'Umbria dinanzi [40] a Carlo VIII, che ritornava da Napoli, trovandosi a Perugia, concepì l'idea di sbarazzarsi per sempre dei Baglioni, e propose a Guido una festa qualunque, un torneo o qualche cosa di simile, per averli tutti insieme nelle sue mani; ma Guido fu pronto a rispondere che «il più bello di tutti gli spettacoli sarebbe stato il vedere riuniti insieme tutti gli uomini d'arme di Perugia»; e allora il Papa rinunziò al suo progetto. Poco dopo gli espulsi tornarono a fare una nuova sorpresa, nella quale i Baglioni non ottennero la vittoria se non in virtù del loro eroismo personale. Fu in quella occasione che Simonetto Baglione, appena diciottenne, tenne fronte con pochi sulla pubblica piazza a parecchie centinaia di nemici e, caduto per più di venti ferite, si rialzò di nuovo a combattere, sino a che accorse in suo aiuto Astorre Baglione, il quale, alto sul suo cavallo e tutto armato di ferro dorato e con un gran falcone sull'elmo, «si slanciò nella mischia pari al Dio Marte nelle gesta e nell'aspetto».

Era quello il tempo, in cui Raffaello, fanciullo allor dodicenne, studiava alla scuola di Pietro Perugino. Forse le impressioni di quei giorni sono riprodotte e fatte eterne nelle sue prime figure in piccolo di S. Giorgio e di S. Michele: forse sopravvive ancora, per non morire mai più, una reminiscenza di esse nella figura dello stesso S. Michele fatta in grande posteriormente; e se Astorre Baglione ha per avventura avuto in qualche cosa la sua apoteosi, non potrebbesi cercarla altrove, fuorchè nella figura del celeste guerriero nel gran quadro di Eliodoro.

Gli avversari parte erano periti, parte per paura si erano allontanati, nè in seguito ebbero più la forza di tentar nuovi attacchi. Dopo qualche tempo seguì una [41] parziale riconciliazione e ad alcuni fu concesso il ritorno. Ma Perugia non ridivenne per questo nè più tranquilla nè più sicura: le discordie interne della famiglia dominante proruppero allora in fatti ancor più spaventevoli. Contro Guido, Rodolfo ed i loro figli Giampaolo, Simonetto, Astorre, Gismondo, Gentile, Marcantonio ed altri sorsero uniti due pronipoti, Grifone e Carlo Barciglia: quest'ultimo era al tempo stesso nipote del principe Varano di Camerino e cognato di uno degli anteriori banditi, Geronimo dalla Penna. Indarno Simonetto, che aveva sinistri presentimenti, scongiurò suo zio a permettergli di uccidere questo Penna: Guido glielo proibì. La cospirazione maturò improvvisamente nell'occasione delle nozze di Astorre con Lavinia Colonna, a mezzo l'estate dell'anno 1500. La festa cominciò e durò alcuni giorni tra sinistri indizi, il cui aumentarsi ci vien descritto egregiamente dal Matarazzo. Il Varano, che era presente, li ingannò tutti: a Grifone con arte diabolica fe' balenare agli occhi la possibilità di regnar solo e lasciò credere vera una supposta tresca di sua moglie con Giampaolo, e quando tutto fu ordito, ad ognuno dei congiurati fu assegnata una vittima da scannare. (I Baglioni aveano tutti abitazioni separate, la maggior parte nel luogo, dove è l'attuale castello). Dei bravi, che erano presenti, ognuno ebbe quindici uomini a' suoi ordini: gli altri furono posti in vedetta. Nella notte del 15 luglio le porte furono forzate e compiuti gli assassinii di Guido, di Astorre, di Simonetto e di Gismondo: gli altri poterono fuggire.

Mentre il cadavere di Astorre giaceva, con quello di Simonetto, sulla pubblica via, gli spettatori «e specialmente gli studenti stranieri» furono uditi paragonarlo con quello di qualche antico romano: tanto imponente [42] e grandioso n'era l'aspetto. In Simonetto essi trovavano l'espressione di un'audacia spinta all'estremo, come se la morte stessa non avesse potuto domarlo. I vincitori si recarono attorno dagli amici della famiglia, cercando di rendersi bene accetti, ma trovarono tutti in lagrime ed occupati a preparar la partenza per fuggire alla campagna. Frattanto quelli dei Baglioni che erano fuggiti, raccolsero genti al di fuori, e poi, con Giampaolo alla testa, penetrarono il giorno seguente nella città, dove altri aderenti, anch'essi minacciati di morte dal Barciglia, s'affrettarono ad unirsi con loro: presso S. Ercolano Grifone cadde nelle mani di Giampaolo, che lo abbandonò a' suoi, perchè lo scannassero; ma il Barciglia ed il Penna riuscirono a fuggire a Camerino presso il promotore principale di quella tragedia, e così in un momento, quasi senza perdita alcuna, Giampaolo si trovò padrone della città.

Atalanta, la bella e ancor giovane madre di Grifone, la quale il giorno innanzi, insieme alla di lui moglie Zenobia e a due figli di Giampaolo, si era ritirata in un podere e avea respinto da sè più volte, non senza lanciargli la sua maledizione materna, il figlio che s'affrettava a raggiungerla, accorse ora colla nuora e cercò del figlio stesso già moribondo. Tutti fecero largo alle due donne: nessuno voleva essere riconosciuto per l'uccisore di Grifone, per non tirarsi addosso gli sdegni della madre. Ma s'ingannavano: ella stessa scongiurò il figlio a perdonare a' suoi uccisori, ed egli morì ribenedetto da lei e riconciliato con tutti. Con reverenza mista di pietà tutti guardavano poscia alle due donne, quando con vesti ancora intrise di sangue attraversarono la piazza. Quest'è quella Atalanta, per la quale più tardi Raffaello dipinse la celebre sua Deposizione. [43] Con quel quadro ella depose il proprio dolore ai piedi della Regina di tutti gli addolorati.

Il Duomo, che avea visto la maggior parte di queste tragedie nelle sue vicinanze, fu lavato con vino e consacrato di nuovo. Ma rimase pur sempre in piedi l'arco trionfale eretto per le nozze con suvvi dipinte le gesta di Astorre e colle poesie laudative di colui, che ci narrò tutti questi avvenimenti, il buon Matarazzo.

In seguito si formò una storia affatto leggendaria de' tempi anteriori dei Baglioni, che non è se non un riflesso di queste atrocità. Secondo questa leggenda, tutti i discendenti di questa casa sarebbero morti da tempo immemorabile di morte violenta, una volta non meno di ventisette d'un tratto; le loro case sarebbero state già anteriormente atterrate, e coi materiali delle medesime sarebbero state selciate le vie ecc. Ma il fatto è, che la distruzione vera e reale dei loro palazzi non ebbe luogo che più tardi, sotto il governo di Paolo III.

In onta a tutto questo, e' pare che essi di quando in quando abbiano avuto anche de' buoni intendimenti, come è certo che misero un po' d'ordine nel loro partito e che protessero i pubblici ufficiali dagli arbitrii della nobiltà. Sennonchè la maledizione pareva inseguirli, e scoppiò di nuovo più tardi contro di essi, a guisa d'incendio solo apparentemente domato. Giampaolo fu con lusinghe attirato a Roma nel 1520 sotto Leone X e quivi decapitato: uno de' suoi figli, Orazio, che tenne Perugia solo per qualche tempo e in circostanze burrascosissime, specialmente perchè parteggiava pel duca di Urbino ugualmente minacciato dal Papa, inferocì ancora una volta in modo atrocissimo contro la propria famiglia, assassinando uno zio e tre cugini, tanto che il duca stesso [44] gli fe' dire che era tempo di farla finita.[59] Suo fratello, Malatesta Baglione, è il duce de' fiorentini, che nel 1530 si rese tristamente immortale col suo tradimento, e il figlio di questo, Ridolfo, è quell'ultimo della famiglia, che coll'uccisione del Legato papale e dei pubblici ufficiali conseguì nel 1534 una breve, ma spaventevole signoria.


Coi tiranni di Rimini avremo occasione d'incontrarci ancora qua e colà. — Audacia, empietà, talento guerresco e cultura assai raffinata raramente si riunirono in un uomo solo, come in Sigismondo Malatesta (morto nel 1467). Ma dove i misfatti sovrabbondano, come in questa casa, quivi finiscono anche col preponderare sopra qualsiasi altra qualità e col trascinare il tiranno nell'abisso. Il già menzionato Pandolfo, nipote di Sigismondo, non giunse a sostenersi se non perchè i Veneziani non volevano, ad onta di qualsiasi delitto, veder la caduta di nessuno dei loro condottieri; e quando i suoi sudditi, per motivi ragionevolissimi, lo bombardarono nella sua cittadella di Rimini (1497), e poi lo lasciarono fuggire,[60] un commissario veneziano lo ripose nella signoria, benchè macchiato di fratricidio e di ogni sorta di scelleratezze. In capo a tre decenni però i Malatesta trovaronsi ridotti alla condizione di poveri banditi. L'epoca del 1527 fu, come quella di Cesare Borgia, veramente fatale a queste piccole tirannidi, delle quali ben poche sopravvissero, ed anche queste con assai scarsa fortuna. — Alla Mirandola, dove regnavano i piccoli principi della famiglia Pico, dimorava nell'anno 1533 un povero letterato, [45] Lilio Gregorio Giraldi, che si era quivi rifugiato dal sacco di Roma al tetto ospitale del canuto Giovan Francesco Pico (nipote del celebre Giovanni). I dialoghi che egli ebbe col principe intorno al monumento sepolcrale, che questi voleva preparare a sè stesso, diedero origine ad uno scritto,[61] che nella dedica porta la data dell'aprile di quello stesso anno. Ma quanto è triste il poscritto! «Nell'ottobre dello stesso anno lo sventurato principe, assalito di notte tempo, perdette il trono e la vita per opera di un figlio di suo fratello, ed io stesso, gittato nella più profonda miseria, potei a stento salvare la vita fuggendo».

Una pseudo-tirannide affatto priva di carattere proprio, come fu quella, che Pandolfo Petrucci esercitò dal 1490 in poi nella città di Siena, lacerata allora dalle frazioni, è appena degna di essere ricordata. Incapace e crudele, egli regnò coll'aiuto di un professore di diritto e di un astrologo, e sparse qua e là qualche terrore con atti di violenza e di sangue. Suo passatempo prediletto in estate era di rotolar massi di pietra dal monte Amiata, senza pensare dove e su chi cadessero. A lui riuscì quello, a cui non avean potuto giungere nemmeno i più astuti, di sottrarsi cioè alle insidie di Cesare Borgia: tuttavia morì più tardi abbandonato e dispregiato da tutti. I suoi figli però si sostennero ancor lungamente in una specie di mezza signoria.

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CAPITOLO V. Le maggiori case principesche.

Gli Aragonesi di Napoli. — L'ultimo Visconti di Milano. — Francesco Sforza e la sua fortuna. — Galeazzo Maria e Lodovico il Moro. — I Gonzaga di Mantova. — Federigo da Montefeltro, duca di Urbino. — Ultimo splendore della corte urbinate. — Gli Estensi a Ferrara; tragedie domestiche e fiscalità. — Traffico dei pubblici uffici, polizia e lavori pubblici. — Merito personale. — Fedeltà della capitale. — Il direttore di polizia Zampante. — Partecipazione dei sudditi al lutto di corte. — Pompa della corte. — Protezione accordata alle lettere.

Fra le dinastie più importanti quella degli Aragonesi vuol essere considerata a parte. L'ordinamento feudale, che qui sin dal tempo dei Normanni si mantenne come una signoria inerente al possesso fondiario dei Baroni, vi dà già un'impronta speciale allo Stato, mentre nel resto d'Italia, eccettuata la parte meridionale del dominio della Chiesa e poche altre regioni, non sussiste omai più che il semplice possesso come tale, e lo Stato non permette più che diventi ereditario nessun ufficio. Inoltre Alfonso il Magnanimo (morto nel 1488), che sin dal 1435 divenne signore di Napoli, è di un'indole affatto diversa da quella de' suoi veri o pretesi discendenti. Splendido in tutto, dignitosamente affabile e quindi caro al popolo, non biasimato nemmeno, anzi ammirato, per la tarda sua passione per Lucrezia d'Alagna, egli [48] non aveva che un solo difetto, quello di una grande prodigalità,[62] ma con tutta la sequela delle inevitabili conseguenze, che sogliono derivarne. Infedeli amministratori delle finanze furono dapprima onnipotenti, e da ultimo vennero dal re, caduto in fallimento, spogliati dei loro averi; una crociata fu indetta, ma al solo scopo di poter taglieggiare anche il clero sotto questo pretesto: in occasione di un grande terremoto avvenuto nell'Abruzzo, i superstiti dovettero continuare a pagar l'imposta anche pei morti. In mezzo a tutto ciò Alfonso accolse ospiti eccelsi alla sua corte con una magnificenza sino allora inaudita, lieto di sprecare per chiunque, anche pe' suoi stessi nemici (v. sopra p. 25). Nel rimunerar poi i lavori letterari non conobbe misura; al Poggio regalò una volta d'un solo tratto cinquecento monete d'oro per la traduzione latina della Ciropedia di Senofonte.

Ferrante, che venne dopo di lui,[63] passava per suo figlio illegittimo avuto da una dama spagnuola, ma forse discendeva da qualche Moro bastardo di Valenza. Fosse il sangue o le congiure ordite contro la sua vita dai Baroni, che lo rendevano cupo e feroce, fatto è che tra i principi di quel tempo egli figura come il più terribile di tutti. Instancabilmente operoso, riconosciuto da tutti come una delle più forti menti politiche e alieno al tempo stesso da ogni sregolatezza, egli volge tutte le sue forze, tra le quali anche quella di un implacabile [49] odio e di una profonda dissimulazione, all'annientamento completo de' suoi nemici. Offeso in quanto può avere di più geloso un principe, mentre i capi dei Baroni erano da un lato congiunti a lui per parentela e dall'altro alleati di tutti i suoi nemici esterni, egli s'abituò alle imprese le più arrischiate, come a faccende, per così dir, quotidiane. Per procacciarsi i mezzi di sostener questa lotta al di dentro e le guerre al di fuori, egli procedette a un di presso con quei modi violenti, che erano stati tenuti già da Federico II. Infatti avocò a sè il traffico dei grani e degli olii, e al tempo stesso concentrò il commercio in generale nelle mani di un ricco negoziante, Francesco Coppola, il quale divideva con lui gli utili e teneva nella sua dipendenza tutti i noleggiatori: prestiti forzosi, esecuzioni e confische, aperte simonìe e gravose contribuzioni imposte alle corporazioni ecclesiastiche procacciavano il resto. I passatempi di Ferrante, oltre la caccia ch'egli esercitava senza rispettar legge alcuna, furono di due specie: di aver, cioè, presso di sè i suoi nemici o vivi in ben custodite prigioni o morti e imbalsamati nello stesso costume, che soleano portare da vivi.[64] Egli sogghignava ferocemente, quando parlava a' suoi più fidati dei prigionieri: e quanto alla sua collezione di mummie, non ne fece mai mistero alcuno. Le sue vittime erano quasi tutti uomini, dei quali egli s'era impadronito per tradimento, ordinariamente invitandoli al suo reale banchetto. Del tutto infernale poi fu il contegno usato col primo ministro Antonello Petrucci, che avea logorato la vita e la salute al suo servizio, e del cui spavento sempre crescente Ferrante [50] si valse per estorcerne doni, finchè da ultimo un'apparente complicità nell'ultima cospirazione dei Baroni gli fornì il pretesto di imprigionarlo e di farlo morire, insieme al Coppola. Il modo con cui tutto ciò è raccontato dal Caracciolo e dal Porzio fa ancor oggi rabbrividire. — Dei figli del re il maggiore, Alfonso duca di Calabria, ebbe negli ultimi tempi una specie di correggenza: dissipatore brutale e feroce, superava il padre in franchezza, e non si peritava minimamente di far palese anche il suo disprezzo per la religione e i suoi riti. Indarno si cercherebbero in questi principi almeno quei tratti di coraggio e di generosità che s'incontrano in altri tiranni d'allora; e se pur s'interessano talqualmente dell'arte e della cultura del loro tempo, non è che per solo lusso od apparenza. In generale gli spagnuoli venuti in Italia sono tutti più o meno profondamente corrotti: ma gli ultimi rampolli di questa dinastia di Mori bastardi (1494 e 1503) mostrano una perversità, che oggimai può dirsi un vizio organico di famiglia. Ferrante muore tra sospetti e rancori: Alfonso accusa di tradimento il proprio fratello Federigo, l'unico della casa che non fosse uno scellerato, e lo offende nel modo il più indegno: da ultimo, egli stesso, che pure fino a questo momento era stato riguardato come uno de' più valenti capitani d'Italia, fugge senza consiglio in Sicilia e abbandona in preda ai francesi e al tradimento di tutti il proprio figlio, il minore Ferrante. Una dinastia, che avesse regnato come questa, avrebbe dovuto almeno far pagar cara la sua rovina, se i suoi figli e nipoti dovevano sperare, quando che fosse, una restaurazione. Ma jamais homme cruel ne fut hardi, come disse in questa occasione assai giustamente, benchè da un solo punto di vista, Comines.

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Schiettamente italiano nel senso del secolo XV appare il principato nei duchi di Milano, la signoria dei quali da Gian Galeazzo in poi è stata una monarchia assoluta nel suo più completo sviluppo. Innanzi tutto l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria (1412-1447), è uno dei personaggi più notevoli del tempo, e fortunatamente ne possediamo una eccellente biografia.[65] In lui si vede con rigore pressochè matematico ciò che la paura può fare di un uomo dotato di attitudini non comuni e collocato in una posizione elevata. Tutta la sua politica non ha che uno scopo, la sicurezza della sua propria persona, con questo solo di buono, che il suo crudele egoismo non degenerò mai in furibonda sete di sangue. Nel castello di Milano, che allora era circondato da magnifici giardini, viali e steccati, egli se ne sta solitario, senza uscire nemmeno una volta in molti anni a visitar la città. Le sue escursioni si restringono a quelle città di provincia, dove egli ha grandiosi castelli: la flottiglia che, tirata da rapidi destrieri, lo porta qua e là pei canali da lui stesso costruiti, è disposta in modo da prestarsi agli usi della più perfetta etichetta. Chi oltrepassava la soglia del castello, doveva sottoporsi ad una visita rigorosissima: là dentro poi nessuno doveva affacciarsi a qualsiasi finestra, per timore che si facessero cenni con quei di fuori. Un sistema minuzioso di esami era prescritto per coloro, che erano destinati a formar parte del seguito personale del principe: indi venivano loro affidati i più alti uffici diplomatici e privati, perchè non si faceva differenza tra questi e quelli. — E, in mezzo a tutto ciò, quest'uomo condusse lunghe e difficili [52] guerre ed ebbe sempre tra mano affari politici della più alta importanza, il che lo obbligava a spedire continuamente qua e là uomini muniti di pieni poteri. Ma la sua sicurezza stava in ciò, che nessuno nella sua corte si fidava degli altri, che i condottieri erano sorvegliati da spie, e i plenipotenziari e gli ufficiali superiori erano tenuti divisi tra loro da un sistema di discordie artificialmente mantenute, specialmente coll'accoppiar sempre un uomo onesto con un ribaldo. Anche nell'interno della sua coscienza Filippo Maria si garantisce una perfetta tranquillità, adottando al tempo stesso una doppia linea di condotta; credendo cioè all'influsso dei pianeti e ad una cieca fatalità e inginocchiandosi tuttavia a tutti i santi del cielo,[66] studiando gli antichi scrittori, ma dilettandosi altresì dei romanzi francesi della cavalleria. Per ultimo egli, che non voleva mai sentir menzionare la morte e che faceva perfino trasportar fuori del castello, se moribondi, i suoi favoriti, perchè quell'asilo della felicità non fosse contaminato dalla presenza di un cadavere,[67] egli stesso affrettò volontariamente la propria fine, col farsi chiudere una ferita e col ricusare una cavata di sangue, ed è morto con dignitosa fermezza.


Il di lui genero e successore, il fortunato Francesco Sforza (1450-1466), era forse, fra gl'italiani d'allora, l'uomo più di qualunque altro fatto secondo l'indole del suo tempo. In nessun altro, quanto in lui, si parve la vittoria del genio e della forza individuale, e chi non [53] voleva credere alla superiorità de' suoi talenti, doveva almeno riconoscere in lui il prediletto della fortuna. I milanesi andavano orgogliosi di avere ora un signore di tanta fama; ed infatti nella circostanza del suo ingresso nella città la folla del popolo acclamante gli si fece talmente d'attorno, che lo portò a cavallo sin dentro al Duomo, senza che egli potesse smontare.[68] Udiamo ora che cosa scrive di lui il papa Pio II colla sua solita perspicacia: «nell'anno 1459, allorquando il duca intervenne al congresso dei principi in Mantova, toccava oggimai il suo sessantesimo anno (più precisamente il cinquantottesimo), ma stava a cavallo come un giovane, alto e imponentissimo della persona, con lineamenti serii, calmo ed affabile ne' discorsi, con contegno di vero principe, ed un complesso di doti corporali e mentali senza pari nel nostro secolo: — tale era l'uomo, che dalla più umile condizione seppe sollevarsi al possesso di un trono. La moglie di lui era bella e virtuosa, i figli graziosi come angioletti: raramente fu infermo; e in generale vide il compimento di tutti suoi desiderii. Ciò non ostante dovette egli subire altresì qualche contrarietà: la moglie gli uccise per gelosia la ganza; i suoi antichi compagni d'arme ed amici, Troilo e Brunoro, lo abbandonarono, disertando presso il re Alfonso: un altro, Ciarpollone, dovette egli far morire sulle forche per tradimento; da parte del fratello Alessandro gli toccò di vedersi sobbillati contro i francesi: uno de' suoi figli cospirò contro di lui e dovette essere imprigionato; la Marca di Ancona, da lui conquistata in una guerra, gli andò perduta in un'altra guerra. Nessuno gode mai una felicità tanto incontrastata, che non abbia comecchessia a lottare coll'avversità. [54] Felice colui che la incontra di rado!». Con questa definizione negativa della felicità il dotto Papa si congeda dal suo lettore. Se egli avesse potuto gettare uno sguardo nel futuro o soltanto voluto soffermarsi a considerare in generale le conseguenze di una forma di governo affatto assoluta, non gli sarebbe certamente sfuggita la causa vera di quella debolezza, che stava tutta nella mancanza di buone ed elevate tradizioni famigliari. Quei fanciulli, belli come angeli, ed oltre a ciò allevati con tante cure e istrutti in tante discipline, soggiacquero fatti adulti, a tutte le seduzioni del più sconfinato egoismo. Galeazzo Maria (1466-1476), vago soltanto delle esterne apparenze, andava superbo della sua bella mano, degli stipendi elevati che pagava, del credito finanziario che godeva, del suo tesoro di due milioni di fiorini d'oro, degli uomini illustri che lo circondavano, dell'armata e delle cacce che manteneva. Egli dava inoltre facili udienze, perchè aveva la parola facile, massimamente quando si trattava di ridurre al silenzio qualche ambasciatore veneziano.[69] Ma in mezzo a ciò sovrabbondavano i capricci, come quello, ad esempio, di far dipingere a figure una stanza in una sola notte; e quel che è peggio, spaventevoli atrocità contro coloro che più gli stavano da vicino, o insensate sregolatezze. Ma tale contegno parve tirannico ad alcuni esaltati: essi lo uccisero e diedero con ciò lo Stato nelle mani de' suoi fratelli, uno dei quali, Lodovico il Moro, pretermettendo in seguito l'incarcerato nipote, avocò a sè l'intera signorìa. A questa usurpazione si connettono l'intervento dei Francesi e le sventure di tutta Italia. Ma il Moro è la più perfetta figura principesca di questo tempo, e, come figlio dell'epoca [55] sua, bisogna accettarlo quale è. In onta alla più profonda immoralità dei mezzi, egli mostra un'ingenuità affatto caratteristica nell'uso che ne fa: probabilmente si sarebbe maravigliato, se qualcuno avesse voluto fargli comprendere, che vi è una responsabilità morale anche per questi, anzi con ogni verosimiglianza si sarebbe vantato, come di una virtù, dell'essersi con ogni possibilità astenuto da qualsiasi sentenza di morte. La venerazione quasi favolosa che gli Italiani mostravano per la sua abilità politica, egli l'accettava come un omaggio dovutogli:[70] e ancora nel 1496 si vantava che il papa Alessandro era il suo cappellano, l'imperatore Massimiliano il suo condottiere, Venezia il suo ciambellano, e il re di Francia il suo corriere, che doveva andare e venire, secondochè a lui talentava.[71] Perfino nel supremo pericolo egli fu visto calcolare con maravigliosa freddezza (1499) tutti i possibili espedienti e far assegnamento (il che gli torna ad onore) sulla bontà della natura umana: egli respinse le offerte di suo fratello, il cardinale Ascanio, che proponeva di tenersi fermo nel castello di Milano, perchè prima aveano avuto acerbe contese fra loro: «Monsignore, non abbiatelo a male, di voi non mi fido, quand'anche siate mio fratello»; e prepose al comando del castello stesso (che dovea essere «il pegno del suo ritorno») un uomo, che aveva sempre beneficato,[72] — e che però lo tradì alla sua volta. — All'interno il Moro pose ogni cura per amministrare bene e vantaggiosamente lo Stato, [56] per modo che anche nell'ultimo tempo egli contava, tanto a Milano, che a Como, sull'amore che gli si portava; ma è vero altresì, che verso la fine del suo dominio (dal 1496 in poi) egli aveva aggravato soverchiamente la mano sui contribuenti, usando talvolta mezzi crudeli, come fece, per esempio, a Cremona, dove per viste puramente precauzionali fece impiccare un ragguardevole cittadino, che osò alzar la voce contro le nuove gravezze; ed è vero eziandio che, da quel tempo in poi, egli nelle udienze usò tener lontani da sè i supplicanti mediante una sbarra,[73] in guisa che bisognava elevare il tono della voce per farsi intendere da lui. — Alla sua corte, la più splendida d'Europa, dopochè non esisteva più quella di Borgogna, l'immoralità trionfava nel modo il più scandaloso: il padre prostituiva la figlia, il marito la moglie, il fratello la sorella.[74] Ma il principe si mantenne almeno sempre attivo, e, come figlio delle proprie azioni, si trovò sempre nella schiera di coloro, che appunto dovevano la propria posizione alle loro qualità personali, i dotti, i poeti, e gli artisti in genere. L'accademia da lui fondata[75] dovea servire innanzi tutto all'uso suo particolare, anzichè al comodo di una scolaresca da istruire; nè in generale cullava tanto la fama degli uomini illustri che si tirava vicini, quando ne cercava la compagnia e i servigi. Si sa che Bramante in sul principio non ebbe che uno scarsissimo [57] emolumento;[76] Leonardo però sino al 1496 fu stipendiato assai lautamente; — del resto qual cosa avrebbe potuto trattenerlo a questa corte, se egli non vi fosse rimasto spontaneamente? Il mondo gli stava aperto dinanzi, quanto forse a nessun altro mortale di quel tempo, e se v'ha cosa che dimostri esservi stata pur qualche qualità superiore in Lodovico, essa è certamente questa prolungata dimora presso di lui di quel misterioso maestro. Ed anche più tardi, se Leonardo prestò i suoi servigi ad un Cesare Borgia e ad un Francesco I, non è improbabile che egli lo abbia fatto sol per aver trovato in ambedue qualche cosa di straordinario e di superiore al loro tempo.

Dei figli del Moro, che dopo la sua caduta furono malamente allevati da gente straniera, il maggiore, Massimiliano, non ha più alcuna rassomiglianza col padre; ma il minore, Francesco, non era almeno inaccessibile a qualche tratto di nobile entusiasmo. Milano, che in questi tempi mutò tanti padroni e con tanto suo danno, cercò almeno di guarentirsi dalle reazioni, e indusse i Francesi, che nel 1512 si ritiravano dinanzi alle armi della Lega Santa e a quelle di Massimiliano, a rilasciarle una dichiarazione, nella quale era detto che i Milanesi non ebbero veruna parte nella loro espulsione e potevano quindi, senza farsi rei di fellonìa, darsi in mano ad un nuovo conquistatore.[77] Anche sotto il rapporto politico è da notare che l'infelice città in simili momenti di transizione era solita, al pari di Napoli al momento della fuga degli Aragonesi, di sottostare ad un formale saccheggio esercitatovi da bande di malfattori (talvolta anche assai ragguardevoli).

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Due signorìe in modo speciale bene ordinate e rappresentate da principi abilissimi sono, nella seconda metà del secolo XV, quella dei Gonzaga in Mantova e quella dei Montefeltro in Urbino. I Gonzaga, quanto ai rapporti di famiglia, erano abbastanza concordi fra loro, ed era vôlto oggimai un bel tratto di tempo che presso di loro non si erano verificati assassinii segreti, ed essi potevano, quando qualcuno moriva, mostrarne pubblicamente il cadavere. Il marchese Francesco Gonzaga[78] e sua moglie Isabella d'Este, per quanto anche vi sia stato qualche dissapore tra loro, appaiono nella storia una coppia rispettabile e concorde, che educò figli illustri e fortunati in un tempo, in cui il loro piccolo, ma importantissimo Stato si trovò esposto a gravissimi pericoli. Che Francesco, come principe e condottiere, avesse dovuto seguire una politica leale ed onesta, non era cosa, alla quale in allora potessero pretendere nè l'imperatore, nè i re di Francia, nè Venezia; ma egli diè prova, almeno dopo la battaglia al Taro (1495) e per quanto riguardava l'onore delle armi, di sentimenti patriottici, e comunicò questi stessi sentimenti alla propria consorte. Ed infatti da quel tempo in poi ella non vede in qualsiasi manifestazione di leale eroismo, quale per esempio la difesa di Faenza contro Cesare Borgia, che un nobile sforzo diretto a salvare l'onore italiano. Per giudicare di lei noi non abbiamo bisogno di ricorrere a quanto ne dissero [59] gli artisti e gli scrittori, che largamente ricambiarono la bella principessa della protezione loro accordata; le sue stesse lettere ci mostrano abbastanza in lei la donna intrepidamente ferma, cautamente circospetta ed amabile al tempo stesso. Il Bembo, il Bandello, l'Ariosto e Bernardo Tasso mandavano i loro lavori a questa corte, benchè piccola e impotente e spesso anche scarsa a danari; ma, dopo lo scioglimento della vecchia corte di Urbino (1508), non vi fu più in nessun luogo un centro di maggiore cultura, ed anche la corte di Ferrara vi era in complesso superata, specialmente per la maggior libertà che vi si godeva. Isabella s'intese molto addentro nell'arte, e il catalogo della sua piccola, ma scelta pinacoteca non può esser letto senza ammirazione da alcun vero amico dell'arte.


Urbino possedeva nel grande Federigo (1444-1482), fosse egli un vero Montefeltro o no, uno dei più illustri rappresentanti del potere principesco. Come condottiere, egli aveva quella politica moralità, che era propria di questo genere di persone, e di cui essi non erano colpevoli che per metà: come principe del suo piccolo territorio, egli seguì la politica di consumare in esso il danaro guadagnato al di fuori e di opprimerlo il meno possibile di gravezze. Di lui e de' suoi due successori Guidobaldo e Francesco Maria fu scritto: «eressero edifici, promossero l'agricoltura, vissero sempre in patria e tennero al loro soldo buona quantità di armati: il popolo li ebbe cari».[79] Ma non solamente lo Stato, bensì anche la corte [60] era un organismo in ogni senso egregiamente architettato e condotto. Federigo intratteneva cinquecento persone: le cariche di corte vi erano complete quanto in qualsiasi delle corti dei maggiori monarchi; ma nulla vi si sprecava, tutto aveva uno scopo, e un severissimo sindacato vegliava su tutto. Qui non giuochi, non corruzioni, non dissipazioni, perchè la corte doveva essere al tempo stesso una scuola di educazione militare pei figli di altre grandi case, ai quali il duca si teneva altamente onorato di far impartire una soda istruzione. Il palazzo ch'egli si edificò, non era de' più splendidi, ma spirava un'aria di pieno classicismo per la felice sua disposizione: in esso egli raccolse il suo maggior tesoro, la celebre biblioteca. Siccome egli si sentiva perfettamente sicuro in un paese, dove ognuno godeva de' suoi beneficii e nessuno elemosinava, così egli usciva sempre disarmato e quasi senza seguito; e in ciò nessun principe avrebbe potuto certamente imitarlo, sia quando egli s'aggirava pe' suoi giardini aperti a chiunque, sia quando sedeva ad un banchetto molto frugale in una sala del tutto aperta, facendosi leggere qualche passo di Livio o libri ascetici in tempo di quaresima. Dopo il pranzo egli si recava ad udire una lezione di antichità, e di là passava al chiostro delle Clarisse, per intrattenersi al parlatorio coll'abbadessa di cose spirituali. La sera assisteva volentieri agli esercizii ginnastici della gioventù della sua corte nel prato di S. Francesco, dove si ha una così splendida prospettiva, e s'interessava grandemente perchè nelle sorprese e nelle corse essi apprendessero a muoversi con arte perfetta. La sua costante preoccupazione era quella di mostrarsi facile ed accessibile a tutti: visitava gli artefici, che lavoravano per lui, nelle officine, dava udienze e sbrigava le istanze dei singoli possibilmente [61] il giorno stesso che gli venivano presentate. Nessuna maraviglia quindi che la gente, quando egli passava per le vie, s'inginocchiasse dinanzi a lui e gli gridasse dietro: «Dio ti mantenga, signore!» Gli eruditi poi lo chiamavano senz'altro «luce d'Italia».[80] Suo figlio Guidobaldo, dotato di grandi qualità, ma vittima di perpetue infermità e disgrazie, potè finalmente nel 1508 affidare il suo Stato a mani sicure, vale a dire al nipote Francesco Maria, nipote al tempo stesso di papa Giulio II, e questi riuscì almeno a salvare il paese da una stabile dominazione straniera. Singolare è la sicurezza, con cui questi principi si rassegnano e fuggono, Guidobaldo dinanzi a Cesare Borgia, Francesco Maria dinanzi alle truppe di Leone X: essi sanno che il loro ritorno riescirà tanto più facile e desiderato, quanto meno i sudditi avranno sofferto da una inutile resistenza. Anche Lodovico il Moro faceva un calcolo somigliante, ma egli dimenticava i molti altri motivi d'odio che stavano contro di lui. — La corte di Guidobaldo, come scuola della più elevata cultura, è stata resa immortale da Baldassare Castiglione, il quale fece rappresentare la sua egloga, il Tirsi, dinanzi a quella società quasi per renderle omaggio (1506), e più tardi (1518) collocò i dialoghi del suo Cortegiano nel circolo della coltissima duchessa (Elisabetta Gonzaga).


La signoria degli Estensi a Ferrara, Modena e Reggio tiene in modo affatto speciale una via di mezzo tra l'assolutismo e la popolarità.[81] Nell'interno del palazzo [62] accadono fatti spaventevoli: una principessa è decapitata insieme ad un figliastro per supposto adulterio (1425): principi legittimi ed illegittimi fuggono dalla corte e sono minacciati anche all'estero da assassini inviati ad inseguirli, come accadde nel 1471: oltre a ciò, continue cospirazioni dal di fuori: il bastardo di un bastardo vuol rapire a forza la signoria al legittimo erede (Ercole I): più tardi (1493) si vuole che quest'ultimo abbia avvelenato la moglie per aver saputo che ella voleva avvelenar lui, e ciò per incarico avuto dal di lei fratello Ferrante di Napoli. L'atto finale di questa tragedia lo si ha nella congiura di due bastardi contro i loro fratelli, il reggente duca Alfonso e il cardinale Ippolito (1506); congiura che, scoperta a tempo, fu punita col carcere a vita. — Anche la fiscalità si esercita in modo amplissimo in questo Stato, e deve esercitarvisi, sia perchè esso è il più minacciato di tutti gli altri grandi e mediocri d'Italia, sia perchè ha bisogno in sommo grado di agguerrirsi e fortificarsi. Vero è, che colle crescenti gravezze avrebbe dovuto crescere in egual misura il materiale benessere del paese, ed infatti il marchese Niccolò (molato nel 1441) espresse più volte il desiderio che i suoi sudditi potessero dirsi più ricchi di quelli di qualunque altro Stato. Ora, se la popolazione rapidamente aumentata può far testimonianza di un benessere veramente raggiunto, egli è anche un fatto importante e degno di considerazione, che ancor nel 1497 in Ferrara (comecchè straordinariamente ampliata) non si trovavano più case da affittare.[82] Ferrara è la prima città moderna di Europa: qui, prima che altrove, sorsero per volere dei principi ampie e regolari contrade: qui, col concentramento [63] degli ufficii e coll'attirarvi l'industria, si formò una vera capitale: ricchi esuli da tutta l'Italia, e più specialmente da Firenze, trovarono qui allettative bastanti per fermarvi la loro dimora e costruirvi palazzi. Tuttavia le imposizioni indirette almeno debbono avervi raggiunto un grado di sviluppo assai elevato e appena sopportabile. Bensì il principe ebbe anche qui la stessa cura che ebbero altri altrove, per esempio Galeazzo Maria Sforza a Milano, di far cioè venire grano dall'estero in casi di grandi carestie[83] e di ripartirlo gratuitamente, a quanto sembra; ma in tempi ordinari egli si compensava con estesi monopolii, se non di grani, certo di molti articoli di sussistenza, quali le carni salate, i pesci, le frutta e le civaie, le quali ultime venivano con molta cura coltivate intorno e sulle mura di Ferrara. Tuttavia l'entrata più considerevole era pur sempre quella che proveniva dalla vendita dei pubblici ufficii, che si faceva annualmente, usanza che del resto era diffusa in tutta Italia, ma della quale non abbiamo precise informazioni se non in ciò che riguarda la città di Ferrara. In occasione del nuovo anno 1502, per esempio, si narra espressamente, che moltissimi comperarono i loro ufficii a prezzi salati, e si citano singolarmente nomi di amministratori di diversa specie, di esattori di gabelle, di massari, di notai, di podestà, di giudici e perfino di capitani, vale a dire degli ufficiali superiori del duca sparsi nella provincia. Fra questi «mangia-popoli», come allor si chiamavano, e che realmente erano odiati dal popolo «più che il demonio», trovasi nominato anche un Tito Strozza, che vorremmo credere non sia stato il celebre poeta latino. — Intorno alla medesima epoca usava ogni duca [64] di fare un giro in persona per Ferrara, che dicevasi andar per ventura, e di farsi regalare almeno dai più abbienti. I doni non consistevano in danaro, ma ordinariamente in prodotti naturali.

Ora l'orgoglio del duca[84] era questo che in tutta Italia si sapesse, che in Ferrara i soldati ricevevano esattamente il loro soldo e i professori dell'Università il loro stipendio nel giorno della scadenza, che le truppe non potevano in nessun caso mai aggravar la mano arbitrariamente sulle popolazioni della città e della campagna, che Ferrara era imprendibile e che nel castello vi era un ingente tesoro in danaro sonante. Di una separazione delle casse non si parlava nemmeno: il ministro di finanza era al tempo stesso ministro della casa ducale. Le costruzioni di Borso (1430 fino al 1471), di Ercole I (sino al 1505), e di Alfonso I (sino al 1534) furono assai numerose, ma per lo più di poco rilievo:[85] e in ciò si riconosce una casa principesca, che, in onta al suo amore per le pompe — (Borso non si mostrava mai in pubblico se non in abbigliamenti tessuti in oro e carico di gioielli), — non vuol però mai lasciarsi andare a veruna spesa inconsiderata. Si direbbe anzi che Alfonso presentisse già anticipatamente la triste sorte, a cui sarebbero soggiaciute le sue graziose, ma piccole ville, tanto quella di Belvedere co' suoi ombrosi giardini, quanto quella di Montana co' suoi begli affreschi e le sue fontane zampillanti.

Egli è innegabile che la stessa loro posizione perpetuamente minacciata suscitò in questi principi una grande [65] abilità personale: in una esistenza cotanto artificiale non poteva moversi con buon successo che un uomo di genio, che dovea provare col fatto di esser degno della signoria che teneva. I caratteri di ciascuno hanno in generale dei lati deboli assai pronunciati, ma pure in tutti vi era qualche cosa di ciò che allora costituiva il tipo ideale di un principe, quale se l'erano formato gl'Italiani. Qual regnante d'Europa, per esempio, può citarsi, che in quel tempo abbia fatto di più di Alfonso I per darsi una vera e soda cultura? Il suo viaggio in Francia, in Inghilterra e nei Paesi Bassi fu un vero viaggio di erudito, e gli procacciò effettivamente una conoscenza molto profonda del commercio e dell'industria di quei paesi.[86] Ella è cosa veramente stolta il rimproverargli, come altri fa, i lavori da tornitore, ai quali si dedicava nelle sue ore d'ozio, quando si sa che a questi andava congiunta un'abilità veramente magistrale nella fonderia dei cannoni e una liberalità superiore ad ogni pregiudizio nel saper attirare intorno a sè i maestri in ogni genere d'industria. — I principi d'Italia non si limitano, come i loro contemporanei del nord, a trattare esclusivamente con una nobiltà, la quale si crede l'unica classe degna di considerazione a questo mondo e trascina anche il principe in questo errore: in Italia il regnante può e deve conoscere ognuno, ed anche la nobiltà, sebbene ristretta in una data cerchia pel privilegio della nascita, nei rapporti sociali ha bisogno di un valore affatto personale e [66] non di casta, come più innanzi avremo occasione di dimostrare.


I sentimenti dei Ferraresi verso questa casa regnante sono il più strano miscuglio di una tacita venerazione, di una devozione ben calcolata e riflessa, di una fedeltà e sudditanza intese affatto nel senso moderno: si sente che all'ammirazione personale si sostituisce già un nuovo sentimento, quello del dovere. La città di Ferrara eresse nel 1451 al principe Niccolò (morto nel 1441) una statua equestre in bronzo sulla pubblica piazza: Borso non esitò punto (1454) a collocare vicino ad essa la propria, pure in bronzo, ma seduta, ed oltre a ciò la città gli decretò, ancor nei primordi del suo reggimento, una «colonna trionfale di marmo». Un ferrarese, che all'estero (in Venezia) avea sparlato pubblicamente di Borso, al suo ritorno, denunciato, fu punito dal tribunale col bando e colla confisca dei beni, e poco mancò che un cittadino zelante sino al fanatismo non lo uccidesse dinanzi ai giudici: egli dovette però colla corda al collo venire dinanzi al duca e implorarne il perdono. In generale questo principato è molto ben provveduto di spie, e il duca stesso esamina dì per dì la lista dei forestieri, che gli albergatori sono rigorosamente tenuti di presentare. Di Borso si pretende che egli la esigesse innanzi tutto per viste di ospitale liberalità,[87] non volendo lasciar partire da Ferrara nessun ragguardevole forestiero, senza avergli reso onoranza: ma è certo che Ercole I invece riguardava la cosa come una semplice misura di sicurezza.[88] Anche in Bologna, sotto Giovanni II Bentivoglio, [67] ogni forestiero che passasse di là, doveva, entrando in città, farsi rilasciare una cedola per poter poi uscirne.[89] — Grandissima popolarità si procaccia il principe quando improvvisamente priva d'ogni potere i pubblici funzionarii che ne abusano, quando, come fece Borso, arresta di propria mano anche i suoi più intimi consiglieri, quando destituisce vituperosamente, come fece Ercole I, un esattore, che per lunghi anni avea succhiato il sangue del popolo: egli è appunto allora che, in segno d'allegrezza, s'accendono fuochi e si suonano le campane. Ma con uno di costoro Ercole lasciò andar le cose troppo oltre, vogliamo dire col direttore di polizia o, come allora lo si chiamava, col capitaneo di giustizia, Gregorio Zampante di Lucca (perchè per ufficii di questo genere non sembrava adatto nessuno, che fosse nativo del luogo). Dinanzi a costui tremavano perfino i figli e i fratelli del duca: le ammende ch'egli infliggeva, ammontavano sempre a centinaia e a migliaia di ducati, e la tortura cominciava prima ancora del processo. Al tempo stesso però egli era tutt'altro che inaccessibile alla corruzione, e con menzogna sapeva procurare ai più grandi malfattori l'impunità e la grazia del duca. Non è a dire quanto caro i sudditi avrebbero pagato l'allontanamento di questo «nemico di Dio e degli uomini!». Ma Ercole invece l'aveva fatto suo compare e cavaliere, e il Zampante poneva in serbo ogni anno non meno di 2000 ducati, benchè in mezzo a questo egli continuasse a non cibarsi d'altro che di piccioni allevati in casa, nè si arrischiasse di uscire, se non accompagnato da un drappello di arcieri e di sgherri. Sarebbe invero stato tempo di sbarazzarsene; e poichè non lo faceva il duca, se ne incaricarono [68] due studenti ed un ebreo battezzato, ch'egli aveva mortalmente offeso, e questi lo scannarono nella stessa sua abitazione (1496), mentre faceva la siesta, indi su cavalli tenuti pronti percorsero tutta la città, gridando: «fuori fuori, abbiamo ucciso il Zampante!» La truppa spedita ad inseguirli non giunse che troppo tardi, quando essi erano già pervenuti in luogo sicuro oltre al confine. Naturalmente piovvero d'ogni parte gli scherzi e le satire, le une sotto forma di sonetti, le altre sotto quella di canzoni. Ma, prescindendo da questi casi speciali, egli è affatto conforme all'indole di questo principato, che il sovrano detti altresì a tutta la sua corte e alla popolazione le attestazioni di stima, ch'egli vuole accordate a coloro che lo servono utilmente. Allorchè nel 1469 morì il consigliere intimo di Borso, Lodovico Casella, nessun ufficio e nessuna bottega nella città, come anche nessuna scuola nell'Università, rimase aperta nel giorno che lo si portò a seppellire, e ognuno dovette accompagnarne la salma a S. Domenico, perchè si sapeva che vi sarebbe andato anche il duca. Ed infatti egli — primo di casa d'Este, che abbia seguito il cadavere di un suo suddito — se ne veniva piangendo e vestito a bruno subito dopo la bara, e dietro di lui seguivano immediatamente, accompagnati ciascuno con uno dei grandi della corte, due congiunti del trapassato: e, finita la ceremonia religiosa, alcuni nobili portarono il corpo del borghese fuori della chiesa nella crociera del sagrato, dove fu sepolto. In generale la partecipazione ufficiale alle gioie e ai dolori dei principi è usanza, che ha avuto il suo principio appunto in questi Stati italiani.[90] Il fondo di questa usanza può avere il suo lato bello in uno squisito [69] senso di umanità, ma la manifestazione di esso, specialmente nei poeti, è di regola molto ambigua. Una delle poesie giovanili di Ariosto,[91] scritta per la morte di Leonora d'Aragona, moglie di Ercole I, contiene, oltre gli inevitabili fiori mortuari che si spargono a piene mani in tutti i tempi, anche alcuni tratti che arieggiano lo stile moderno: «questa morte ha percosso Ferrara di tal colpo, che essa ne serberà la memoria per lunghi anni: la benefattrice è divenuta avvocata nel Cielo, perchè la terra non era più degna di possederla: l'angelo della morte non le si avvicinò colla falce insanguinata, come agli altri mortali, ma con aria onesta e in aspetto così benigno, che ella stessa non temette». Ma noi c'incontriamo altresì in altra e ben diversa comunanza di sentimenti, noi troviam novellieri, ai quali nulla doveva star tanto a cuore, quanto il favore delle case ove frequentavano (perchè di questo favore vivevano), che ci narrano le avventure galanti di principi ancora viventi[92] in guisa tale, che nei secoli posteriori avrebbe sembrato toccare il colmo dell'indiscrezione, e allora pareva un tratto ingenuo di schietta cortigianeria. Anche i poeti lirici cantavano le facili passioni dei loro eccelsi protettori talvolta anche legittimamente ammogliati: Angelo Poliziano, fra gli altri, quelle di Lorenzo il Magnifico, e con tuono ancor più accentato Gioviano Pontano quelle di Alfonso di Calabria. Le poesie in tale riguardo [70] scritte da quest'ultimo[93] rivelano, senza volerlo, l'animo abbietto dell'Aragonese, il quale anche nel campo amoroso vuol essere sempre il più fortunato, e guai a chi lo fosse più di lui! — S'intende poi da sè che i più grandi pittori, tra i quali lo stesso Leonardo, trovano naturalissimo di dover dipingere le belle dei loro padroni.


Ma i principi estensi non aspettarono la loro apoteosi dagli altri, e se la regalarono invece da sè medesimi. Borso si fece ritrarre nel suo palazzo di Schifanoia in una serie di quadri, che lo rappresentavano in diversi momenti del suo governo, ed Ercole festeggiò (la prima volta nel 1472) il giorno anniversario del suo avvenimento al trono con una processione, che non pare fosse in nulla inferiore a quella del Corpusdomini: tutte le botteghe erano chiuse come in giorno festivo: tutti i membri della casa, anche gli illegittimi, marciavano nel centro in ricchissimi abbigliamenti ricamati in oro. — Che ogni potere e dignità partisse dal principe e dovesse riguardarsi come una prova di particolare distinzione da parte sua, era cosa ormai universalmente ammessa a questa corte sino da quando vi era stato creato l'ordine dello Sprone d'oro, che non aveva nulla che fare colla Cavalleria del Medio-Evo.[94] Ercole I, oltre allo sprone, dava anche una spada, un mantello ricamato in oro ed una dotazione, per la quale senza dubbio si esigeva una servitù regolare. La protezione accordata alle lettere e alle arti, per la quale questa corte acquistò rinomanza mondiale, si [71] estendeva in parte all'Università, che era una delle più complete d'Italia, ma presupponeva in parte anche un servizio a corte e nello Stato, nè costò mai grandi sacrificii. Il Bojardo, quale ricco gentiluomo di provincia e pubblico funzionario, entrava senza dubbio in quest'ultima categoria: quando l'Ariosto cominciò ad essere qualche cosa, non vi erano omai più, almeno nel loro vero significato, nè la corte di Milano, nè quella di Firenze, e ben presto neanche quella di Urbino, per tacere di quella di Napoli, ed egli dovette accontentarsi di una posizione che lo metteva a fascio coi musicanti e coi buffoni del cardinale Ippolito, sino a che Alfonso lo assunse al proprio servizio. Diversamente andarono più tardi le cose con Torquato Tasso, del cui possesso la corte si mostrò veramente gelosa.

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CAPITOLO VI. Gli avversari della tirannide.

Gli ultimi Guelfi e Ghibellini. — I cospiratori. — Gli assassini nelle Chiese. — Influenza del tirannicidio antico. — I Catilinari. — Opinioni dei Fiorentini sul tirannicidio. — Il popolo ne' suoi rapporti coi cospiratori.

Di fronte a questa concentrata potenza principesca ogni opposizione dentro i limiti dello Stato era impossibile. Gli elementi necessari alla esistenza di una repubblica erano sciupati per sempre, tutto tendeva al potere assoluto e all'uso della violenza. La nobiltà, priva di diritti politici, anche dove aveva possessi feudali, poteva bensì continuare a ripartir sè e i suoi bravi in guelfi e ghibellini e ad assumere o far assumere i relativi emblemi, facendo portare in questo o in quel modo la piuma al berretto e i guancialini ai calzoni;[95] — ma tutti gli uomini più illuminati, quale ad esempio il Machiavelli,[96] erano pienamente convinti che tanto a Milano, come a Napoli vi era omai «troppa corruzione», per potervi rifare una repubblica. Abbastanza strani sono i giudizi che s'incontrano su questi due pretesi partiti, nei quali da lungo tempo omai non sopravvivevano che vecchie [74] inimicizie di famiglia tenute vive all'ombra della tirannide. Un principe italiano, al quale Agrippa di Nettesheim[97] consigliava di disfarsene, rispondeva ingenuamente: «le loro questioni mi rendono ogni anno sino a 12000 ducati in altrettante multe!» — E quando, per esempio, nell'anno 1500, durante il breve ritorno di Lodovico il Moro ne' suoi Stati, i guelfi di Tortona chiamarono nella loro città una parte del vicino esercito francese, affinchè gli aiutasse a schiacciare completamente i ghibellini, i francesi non mancarono innanzi tutto di dare il sacco alle case di questi ultimi, ma non risparmiarono poscia nemmeno quelle dei guelfi, per modo che la città tutta ne rimase completamente devastata.[98] — Anche in Romagna, dove le passioni e le vendette duravano eterne, ambedue quei nomi aveano da lungo perduto ogni significato politico. E non meno fatale al popolo fu il pregiudizio, pel quale i guelfi qua e colà si tenevano come obbligati a nutrir simpatie per la Francia e i ghibellini a parteggiar per la Spagna, benchè quelli stessi, che cercarono trar partito da quell'errore, non ne abbiano raccolto in ultimo vantaggio veruno. La Francia infatti, dopo tanti interventi, finì pur sempre col dover sgombrare d'Italia, ed ognuno può toccare con mano che cosa sia diventata la Spagna, dopo aver soffocato l'Italia.


Ma torniamo ai principi del Rinascimento. Un'anima pia e timorata avrebbe fors'anche allora concluso che, ogni potenza essendo da Dio, anche questi principi, purchè sostenuti con sincerità e buon volere, col tempo [75] avrebbero dovuto divenire migliori e dimenticar la violenta loro origine. Ma da fantasie riscaldate, da uomini appassionati ed ardenti come richieder tanto? Essi, al pari dei cattivi medici, stimavano guarita la malattia quando fossero giunti ad eliminarne i sintomi, e credevano che, uccisi i tiranni, la libertà sarebbe risorta da sè medesima. E se anche talvolta non spingevano tanto innanzi i loro pensieri, miravano ad ogni modo o a dare libero sfogo all'odio generale, o ad esercitare vendette private cagionate da rancori ed offese puramente personali.

Come la tirannide era incondizionata e sciolta da ogni freno legale, incondizionati erano pure i mezzi usati dai suoi avversari. Sin dal suo tempo il Boccaccio lo dice espressamente:[99] «debbo io chiamar re o principe un usurpatore e serbargli fede come a mio signore? No! perchè egli è nemico della cosa pubblica. Contro di lui sono bene usate le armi, le congiure, le spie, le insidie, le astuzie: sono anzi opera santa e necessaria. Non vi è sacrificio più accetto che il sangue di un tiranno!» Noi non possiamo addurre qui nessun fatto particolare: il Machiavelli, in un notissimo capitolo de' suoi Discorsi,[100] ha già trattato delle congiure antiche e moderne, cominciando [76] dall'epoca remota dei tiranni della Grecia, e le ha giudicate colla sua solita imparzialità secondo i diversi loro fini e il loro esito. Ci accontenteremo dunque di due sole osservazioni, l'una sugli assassinii eseguiti nelle chiese durante il servizio religioso, e l'altra sull'influenza esercitata dagli esempi antichi.


Egli era quasi impossibile il cogliere alla sprovvista il tiranno, sempre guardato a vista, altrove, fuorchè nelle chiese, e in queste soltanto poi potevasi sperare di sorprendere un'intera famiglia principesca riunita. Così quei di Fabriano[101] spensero nel 1435 la famiglia dei Chiavelli loro tiranni durante un servizio religioso e precisamente, secondo gli accordi presi, alle parole del Credo: et incarnatus est. A Milano il duca Giovanni Maria Visconti (1412) fu ucciso mentre entrava nella chiesa di S. Gottardo, e nel 1476 il duca Galeazzo Maria Sforza fu pugnalato nella chiesa di S. Stefano; Lodovico il Moro poi sfuggì una volta al pugnale dei partigiani della duchessa Bona rimasta vedova (1484) soltanto pel fatto, che entrò nella chiesa di S. Ambrogio per una porta diversa da quella, dove era aspettato. Nè pare che si credesse di commettere con simili assassinj veruna speciale empietà, poichè si sa che gli uccisori di Galeazzo non aveano mancato, prima del fatto, d'inginocchiarsi a pregare il santo titolare della chiesa e di ascoltarvi la prima messa. Tuttavia nella congiura de' Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de' Medici (1478) una delle cause, per cui l'impresa non riuscì che in parte, fu appunto questa, che il bandito Montesecco, impegnatosi dapprima in un convito di eseguire l'assassinio, vi si era poi rifiutato [77] nel Duomo di Firenze, e in luogo di lui vi si indussero poi alcuni ecclesiastici, «che erano più famigliari con quel sacro luogo e non ebbero quindi alcuna paura».[102]


Quanto all'antichità, la cui influenza sulle questioni morali e più particolarmente sulle politiche avremo occasione di rilevare frequentemente anche in seguito, i primi a dare l'esempio furono i tiranni stessi, che non di rado, tanto nel concetto che s'erano formati dello Stato, quanto nel loro modo di procedere, mostravano di non voler espressamente seguire altro modello, fuorchè l'antico impero romano. Ed altrettanto fecero alla loro volta i loro avversari studiandosi, sin da quando con fredda riflessione preparavansi all'impresa, d'imitare gli antichi nemici della tirannide. Non sarebbe facile il dimostrare che essi nell'idea principale, vale a dire nel risolversi al fatto, abbiano ricevuto il maggiore impulso da questi esempi, ma non è neanche vero per questo che le allusioni continue all'antichità fossero semplici frasi o mera faccenda di stile. Una prova notevolissima ne abbiamo negli uccisori di Galeazzo Sforza, il Lampugnani, l'Olgiati e il Visconti.[103] Tutti e tre avevano motivi affatto personali d'odio contro di lui, e tuttavia la risoluzione di ucciderlo parve essere derivata da una causa d'ordine più elevato. Un umanista e maestro di eloquenza, Cola de' Montani, aveva infuso in un drappello di giovani appartenenti alla nobiltà milanese [78] un vago desiderio di gloria e d'imprese magnanime in pro della patria, e s'era finalmente aperto col Lampugnani e l'Olgiati intorno all'idea di restituire la libertà a Milano. Non andò molto ch'egli cadde in sospetto, ed essendo espulso, dovette abbandonare quei giovani in preda al loro ardente entusiasmo. Circa dieci giorni prima del fatto convennero essi nel monastero di S. Ambrogio e giurarono solennemente di compierlo: «poi, dice l'Olgiati, ridottomi in un angolo remoto dinanzi all'immagine di S. Ambrogio, levai gli occhi ad esso ed invocai il suo aiuto per noi e per tutto il suo popolo». Il celeste patrono della città doveva dunque proteggere l'impresa, appunto come più tardi S. Stefano, nella cui chiesa essa ebbe il suo compimento. Dopo ciò, molti altri furono iniziati nella congiura e tennero notturni convegni nella casa del Lampugnani, dove si esercitavano nel ferire, adoperando le guaine dei pugnali. Il fatto riuscì, ma il Lampugnani fu immediatamente ucciso dai seguaci del duca e gli altri due furono presi. Il Visconti mostrò pentimento, ma l'Olgiati, in onta a tutte le torture, sostenne che quell'uccisione era stata gradita a Dio e diceva a sè stesso, anche quando il carnefice gli ruppe il petto: «coraggio, Girolamo! si penserà lungamente a te: la morte è amara, ma la gloria sarà eterna!»

E tuttavia, per quanto elevati possano apparire gli intendimenti e i propositi di costoro, dal modo stesso con cui la congiura fu condotta trapela evidente un tentativo d'imitazione del più scellerato di tutti i cospiratori, di colui che non pensò mai neanche alla libertà, vogliamo dire di Catilina. I Diarii sanesi dicono espressamente, che i congiurati avevano studiato Sallustio, e ciò appare anche indirettamente dalla confessione stessa [79] dell'Olgiati.[104] Quel terribile nome noi lo incontreremo anche altrove, ed è pur troppo vero, che per congiure volgari, e se si prescinda dallo scopo, non v'era un tipo più seducente di questo.


Presso i fiorentini, tutte le volte che essi effettivamente si sbarazzarono o almeno tentarono sbarazzarsi de' Medici, il tirannicidio era accolto come un'idea accetta universalmente. Dopo la fuga dei Medici nell'anno 1494 fu tratto fuori dal loro palazzo il gruppo in bronzo rappresentante Giuditta e il morto Oloferne, opera del Donatello,[105] e fu posto dinanzi al palazzo della Signoria, dove ora sta il Davide di Michelangelo, con questa iscrizione: exemplum salutis pubblicae cives posuere 1495. Ma più specialmente ora si usò di tirare in campo l'esempio di Bruto il minore, che Dante al suo tempo avea continuato a relegare con Cassio e Giuda Iscarioto[106] nel più profondo abisso dell'inferno, qual traditore dell'impero. Pietro Paolo Boscoli, la cui congiura contro Giuliano, Giovanni e Giulio de' Medici ebbe un esito così infelice (1513), era stato egli pure ardente entusiasta di Bruto e si sarebbe proposto di imitarlo, se avesse trovato un Cassio; e come tale si era poi unito a lui Agostino Capponi. I suoi ultimi discorsi tenuti nel carcere,[107] documento importantissimo per rilevare le credenze [80] religiose d'allora, fanno fede dello sforzo ch'egli dovette esercitare sopra sè stesso, per liberarsi da quelle fantasie e reminiscenze romane e morire cristianamente. Un amico e il confessore dovettero assicurarlo che S. Tommaso d'Aquino condanna le cospirazioni in generale, ma il confessore più tardi confessò a quello stesso amico, che S. Tommaso fa invece una distinzione e permette la congiura contro un tiranno, il quale si sia imposto al popolo suo malgrado. Allorquando Lorenzino de' Medici uccise nel 1537 il duca Alessandro e fuggì, comparve una apologia del fatto,[108] probabilmente autentica, o per lo meno scritta per suo incarico, nella quale egli si vanta dell'uccisione del tiranno come di opera sommamente meritoria, paragonandosi, nel caso che Alessandro fosse stato un Medici legittimo e quindi, benchè da lontano, suo congiunto, con Timoleone, il fratricida per patriottismo. Altri usarono anche in questo caso il paragone con Bruto, e sembrerebbe che Michelangelo stesso non sia stato del tutto alieno da questa idea, almeno se si vuol giudicare dal suo busto di Bruto esistente negli Uffizi. Egli lo lasciò incompiuto, come quasi tutte le sue opere, ma non certamente perchè l'uccisione di Cesare gli pesasse troppo sul cuore, come dice il distico scrittovi sotto.

Un radicalismo che muova dal popolo, quale si è venuto formando nei tempi moderni di fronte alla monarchia, indarno si cercherebbe negli Stati principeschi dell'epoca [81] del Rinascimento. Bensì ognuno protestava isolatamente nel suo interno contro il principato, ma cercava al tempo medesimo di farsi una posizione tollerabile o comoda sotto lo stesso, anzichè di assalirlo con forze riunite. Ci volevano eccessi quali si videro a Camerino, a Fabriano ed a Rimini (pag. 44), perchè una popolazione si decidesse a distruggere o a cacciare una casa regnante. Inoltre si sapeva anche troppo bene, che non si avrebbe fatto altro, fuorchè mutar padrone. La stella delle repubbliche era decisamente nel suo tramonto.

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CAPITOLO VII. Le Repubbliche.

Venezia nel secolo XV. — Gli abitanti. — Lo Stato e i suoi pericoli cagionati dalla povertà dell'aristocrazia. — Cause della sua stabilità. — Il Consiglio dei Dieci e i processi politici. — Rapporti verso i Condottieri. — Ottimismo della politica estera. — Venezia quale patria della Statistica. — Lento sviluppo della cultura. — Ascetismo ufficiale prolungato.

Altra volta le città italiane aveano spiegato in sommo grado quella energia, che vale a tramutare una città in uno Stato. Non sarebbe occorso che un passo ulteriore, vale a dire che queste città si fossero strette tra loro in una grande confederazione, concetto, che in Italia si vede ripullular di frequente, per quanto anche, rispetto ai particolari, appaia rivestito ora di una forma, ora di un'altra. Nelle lotte dei secoli XII e XIII formaronsi infatti grandi e potenti federazioni di città, e il Sismondi crede (II, 174), che il tempo degli ultimi armamenti della lega lombarda contro il Barbarossa (dal 1168 in poi) sarebbe stato il vero momento, in cui si sarebbe resa possibile una federazione italiana universale. Ma le più potenti fra le città aveano già palesato troppa fierezza e originalità di carattere, perchè la cosa potesse effettuarsi: facendosi reciproca concorrenza nel commercio, esse si permettevano mezzi violenti ed estremi l'una contro dell'altra, e tenevano le vicine città [84] minori in una ingiusta dipendenza; il che vuol dire, che da ultimo esse credevano di poter fare ciascuna da sè, senza aver bisogno delle altre, preparando per tal modo il terreno a qualunque altra violenza od usurpazione. Questa non tardò a sopraggiungere, allorquando le lotte intestine dei nobili fra di loro, e della borghesia colla nobiltà, fecero nascere il desiderio di un governo forte e sicuro, e le truppe assoldate già si mostravano pronte a sostener per danaro qualsiasi causa, dopochè i precedenti governi di parte s'erano da lungo tempo abituati a veder ineseguito il bando generale di guerra da loro intimato.[109] La tirannide inghiottì la libertà della maggior parte delle città; qua e colà si cercò di sbarazzarsene, ma solo a mezzo, e per breve tempo; essa tornò sempre, perchè le condizioni interne le erano favorevoli, e le forze che contro-operavano, si trovavano già esauste.

Fra le città che seppero conservare la loro indipendenza, due sono della massima importanza per la storia dell'umanità: Firenze, la città dei continui rimutamenti, che ci trasmise le manifestazioni di tutti i disegni e le aspirazioni della cittadinanza e degl'individui, che per tre secoli presero parte a quei mutamenti: Venezia, la città della calma apparente e del silenzio politico. Esse formano fra di loro la più forte antitesi, che si possa immaginare, ed ambedue alla loro volta sono tali, da non poter essere paragonate con verun'altro Stato del mondo.


Venezia si riconobbe essa stessa come una creazione affatto eccezionale e misteriosa, nella quale da tempo [85] remotissimo si sentiva l'azione di qualche altra cosa, che non era l'ingegno umano. Intorno alla solenne fondazione della città correva una leggenda evidentemente mitica: nel dì 25 di marzo dell'anno 413 a mezzogiorno i profughi di Padova gettarono la prima pietra a Rialto, per farne un asilo sacro e inaccessibile in mezzo all'Italia corsa e lacerata dai Barbari. Scrittori venuti più tardi attribuirono ai primi fondatori il presentimento di tutta la grandezza futura della città: Marco Antonio Sabellico, che cantò l'avvenimento in splendidi e facili esametri, mette in bocca al sacerdote che fa la consacrazione, questa preghiera a Dio: «se un giorno tenteremo qualche cosa di grande, accordaci il tuo favore! Ora noi ci inginocchiamo dinanzi ad un povero altare, ma se i nostri voti non andranno inesauditi, qui sorgeranno a te, o Dio, centinaia di templi ricchi di marmo e d'oro».[110] — La città delle isole, sul finire del secolo XV, riguardavasi ormai come il gioiello più prezioso del mondo d'allora. Lo stesso Sabellico la descrive come tale[111] colle sue cupole antichissime, colle sue torri acuminate, co' suoi palagi intonacati di marmo, e colla sua pomposa grettezza altresì, per la quale sotto tetti dorati si dava a pigione ogni più piccolo angolo della casa. Egli ci trasporta sull'affollatissima piazza di S. Giacometto a Rialto, dove un mondo di affari si tratta non tra grida e schiamazzi, ma appena tra un sommesso e svariato bisbiglio, dove siedono, lunghesso i portici [86] che la fiancheggiano e sotto quelli delle vie adiacenti,[112] banchieri ed orefici a centinaja, dove le botteghe e i magazzini sono in numero strabocchevole: oltrepassando poi il ponte, egli ci conduce al gran fondaco dei tedeschi, sotto il cui porticato stanno le loro merci e le abitazioni, e dinanzi al quale i vascelli si addossano gli uni agli altri nel canale: indi più innanzi ci mostra un'intera flotta carica di vini e di olio, e parallelle ad essa sulla riva, dove formicolano i portatori, le officine dei mercanti; e per ultimo da Rialto sino alla piazza di S. Marco i gabinetti de' profumieri e le trattorie. Per tal maniera egli guida il lettore di quartiere in quartiere sin fuori ai due lazzaretti, stabilimenti non solo utili, ma necessari, e in nessun altro luogo portati ad un sì alto grado di sviluppo, come qui. Una cura attenta e sollecita pel benessere personale dei sudditi era il distintivo del governo di Venezia non solo in pace, ma anche in guerra, dove l'assistenza che si prestava ai feriti, anche nemici, era oggetto di ammirazione per tutti.[113] In generale non v'era stabilimento di pubblica beneficenza, che non esistesse a Venezia e sotto la forma la più perfetta: anche il fondo delle pensioni vi era ordinato con regolarità sistematica, perfino in ciò che riguardava i superstiti. La ricchezza, la sicurezza politica, la pratica del mondo avevano per tempo vôlto il pensiero de' veneziani a queste cose. Quei cittadini svelti, biondi, dal passo leggero e circospetto e dal discorso [87] sensato,[114] non differivano quasi fra loro sia nelle fogge del vestire, sia nel contegno che tenevano in pubblico: di ornamenti (fra i quali primeggiavano le perle) non si curavano, se non per fregiarne il collo delle loro donne o fanciulle. In allora la prosperità generale era veramente grande, in onta ad alcune gravi perdite cagionate dai Turchi; ma l'energia di tutti e il pregiudizio generale d'Europa bastarono anche più tardi a far sopravvivere Venezia anche ai colpi più aspri della fortuna, quali la scoperta del Capo, la rovina del dominio dei Mammelucchi in Egitto e la guerra mossale dalla Lega di Cambray.


Il Sabellico, che era oriundo dei dintorni di Tivoli e abituato alla franca loquacità dei filologi d'allora, nota in un altro luogo[115] con qualche maraviglia, che i giovani nobili, i quali andavano ad udire le sue lezioni del mattino, non volevano a nessun patto entrare con lui in discorsi politici: «Se io chieggo loro che cosa si pensi, si dica e s'aspetti da questo o quel moto in Italia, tutti mi rispondono ad una voce di non saper nulla». Ciò non ostante, e in onta alla più severa inquisizione di Stato, più d'una cosa potè risapersi per opera di alcuni nobili corrotti, ma bisognò pagarla a ben caro prezzo. Nell'ultimo quarto del secolo XV s'incontrano dei traditori perfino tra i funzionari, che coprono le più alte dignità dello Stato;[116] i papi, i potentati italiani e [88] perfino alcuni condottieri in condizioni affatto mediocri e stipendiati dalla Repubblica, vi mantenevano al loro soldo speciali spioni; anzi le cose erano andate tanto oltre, che il Consiglio dei Dieci trovò opportuno di non comunicare al Consiglio dei Pregadi alcune importanti notizie politiche, e si accreditò universalmente l'opinione, che Lodovico il Moro in questo stesso Consiglio disponesse a suo talento di un certo numero di voti. Noi non siamo in grado di dir quanto abbiano contribuito a frenare quegli abusi le notturne esecuzioni di taluni colpevoli e l'alto premio concesso a chi li denunciasse (fino a sessanta ducati di pensione vitalizia); ma certo è che una delle cause principali, la povertà di molti nobili, non poteva esser tolta d'un tratto. Nell'anno 1492 due patrizi misero innanzi una proposta, che lo Stato dovesse sborsare annualmente 70,000 ducati a sollievo di quei nobili poveri, che non avessero alcun pubblico ufficio; la cosa era sul punto di essere portata dinanzi al gran Consiglio, dove non sarebbe stato difficile farle ottenere una maggioranza, — quando il Consiglio dei Dieci fu ancora in tempo di intervenire, e mandò ambedue i proponenti a confine per tutta la loro vita a Nicosia e a Cipro.[117] Intorno a questo stesso tempo un Soranzo fu fuori di Stato appeso alle forche come ladro sacrilego, ed un Contarini posto in catene per furto violento: un altro della stessa famiglia si presentò nel 1499 dinanzi alla Signoria, lamentando di essere da molti anni senza impiego alcuno, di aver soli sedici ducati di rendita e nove figli da mantenere, di trovarsi per di più impegnato in debiti per sessanta ducati, di non essere in [89] grado di esercitare verun mestiere e di essere stato ultimamente gettato sulla pubblica via. In presenza di tali fatti si comprende come alcuni nobili ricchi imprendono a edificar case, per collocarvi ad abitare gratuitamente i poveri; ed infatti tale opera figura in parecchi testamenti annoverata tra le opere di carità.[118]


Ma se i nemici di Venezia su mali di questa specie fondavano per avventura serie speranze, s'ingannavano grandemente. A prima vista si potrebbe credere che lo slancio stesso del commercio, che anche al più povero garantiva un ricco e sicuro guadagno sul proprio lavoro, nonchè le colonie sparse nella parte orientale del Mediterraneo, dovessero aver distrutto tutti gli elementi pericolosi nel campo politico. Ma Genova non ha forse avuto, ad onta di simili vantaggi, una storia politica delle più tempestose? Il fondamento della stabilità di Venezia sta piuttosto in un concorso di circostanze, che non si verificarono mai in nessun altro Stato. Inespugnabile come città, essa non si era da tempo remotissimo occupata de' suoi rapporti con gli Stati esteri se non dietro a' calcoli della più fredda riflessione, ignorando quasi i parteggiamenti del resto d'Italia, e non concludendo le sue alleanze se non per iscopi al tutto passeggeri ed al maggior prezzo possibile. Il fondo adunque del carattere veneziano era quello di un superbo e dispettoso isolamento, e conseguentemente di una più compatta solidarietà all'interno, e a ciò fu spinto anche dal rancore di tutti gli altri Stati d'Italia. Di più, nella città stessa tutti gli abitanti eran tenuti uniti da fortissimi interessi comuni di fronte alle colonie ed ai possessi [90] di terra-ferma, mentre la popolazione di quest'ultima (vale a dire delle città soggette sino a Bergamo) non poteva esercitare atti commerciali altrove, fuorchè a Venezia. Un vantaggio fondato su mezzi cotanto artificiali non poteva essere mantenuto che mediante una grande tranquillità e concordia interna; — questo lo sentiva certamente la grande maggioranza, e quindi il terreno quivi era assai disadatto per qualsiasi cospirazione. Che se pure vi erano taluni malcontenti, costoro furono tenuti talmente divisi tra loro per la separazione esistente tra la borghesia e la nobiltà, che ogni ravvicinamento diventava quasi impossibile. Ed anche nel seno della nobiltà a quelli, che per avventura fossero pericolosi, vale a dire ai ricchi, mancava affatto l'occasione principale di qualsiasi congiura, l'ozio, e ciò per la moltiplicità stessa dei loro affari commerciali, pei viaggi e per la parte continua che doveano prendere alle guerre coi Turchi, i quali incessantemente tornavano a farsi vedere. Vero è che i comandanti in queste li risparmiavano a tutto potere, e talvolta in modo ingiustificabile, il che fece predire ad un Catone veneziano la caduta della Repubblica, se avesse durato a spese della giustizia quella stolta paura dei nobili «di farsi del male l'un l'altro».[119] Tuttavia questo libero moto all'aria aperta diede alla nobiltà veneziana, presa nel suo complesso, un sano indirizzo. E se talvolta l'invidia e l'ambizione pretesero ad ogni costo una qualche soddisfazione, non mancavano mai le vittime ufficiali condannate dall'autorità e con mezzi legali. La lunga tortura morale, alla quale fu sottoposto sotto gli occhi di tutta Venezia il doge Francesco Foscari (morto nel 1457), è forse il [91] più terribile esempio di una tale vendetta, possibile soltanto dove prevalgono le aristocrazie. Il Consiglio dei Dieci, che aveva una mano in tutto e possedeva un illimitato diritto di vita e di morte, nonchè una sorveglianza sulle cose pubbliche e sul comando dell'armata, che comprendeva nel suo seno gl'Inquisitori e che rovesciò il Foscari come tanti altri potenti, veniva ogni anno rieletto dall'intera casta dominante, dal gran Consiglio, ed era per ciò stesso l'organo più immediato della stessa. Non pare che grandi intrighi avessero luogo in queste elezioni, perchè la breve durata e la posteriore responsabilità dell'ufficio non lo rendevano molto desiderato. Ma dinanzi a questa e ad altre autorità indigene, per quanto il loro modo di agire fosse tenebroso e violento, il vero veneziano non cercava già di nascondersi, ma bensì di mettersi in vista, non solamente perchè la Repubblica aveva le braccia lunghe e poteva, invece che su lui, vendicarsi sulla sua famiglia, ma perchè, nella maggior parte dei casi almeno, si procedeva secondo la norma di certi principii, piuttosto che per sete di sangue.[120] In generale nessuno Stato ha avuto più di questo una grandissima autorità morale sui propri sudditi, anche lontani. E se, per esempio, fra i Pregadi stessi poteva dirsi esservi dei traditori, non è meno vero da un altro lato che ogni veneziano, che si trovasse all'estero, si credeva obbligato a farsi referendario o spia del proprio governo. Dei cardinali veneziani domiciliati a Roma s'intendeva da sè, che riferivano tutto ciò che si trattava nei concistori segreti del Papa. Il cardinale Domenico [92] Grimani fece rapire non lungi da Roma (1500) i dispacci, che Ascanio Sforza inviava a suo fratello Lodovico il Moro, e li spedì tosto a Venezia: suo padre, che allora si trovava sotto il peso di una grave accusa, fece valere pubblicamente questo servizio del figlio dinanzi al gran Consiglio, che era come dire, dinanzi a tutto il mondo.[121]


Come Venezia si conducesse co' suoi condottieri, è stato già accennato di sopra (pag. 30). Che se essa avesse cercato una più solida garanzia della loro fedeltà, avrebbe potuto per avventura trovarla nel gran numero che ne contava, pel quale, come si rendeva più difficile il tradimento, ne diventava anche più facile la scoperta. Dando uno sguardo ai quadri dell'armata veneziana, sorge spontanea la domanda: come fosse possibile una azione comune con truppe messe insieme da elementi così disparati? In quello della guerra del 1495 figurano non meno di 15 mila cavalli, ma in tante piccole squadre:[122] il Gonzaga di Mantova n'aveva egli solo milleducento, e Gioseffo Borgia settecentoquaranta: a questi tenevano dietro sei condottieri con un contingente di sei a settecento, dieci con quattrocento, dodici con una forza di due a quattrocento, quattordici con cento in duecento, nove con ottanta, sei con cinquanta in sessanta ecc. Sono in parte vecchi corpi di truppe veneziane, in parte veterani condotti da nobili veneziani di città o di campagna, ma il maggior numero dei duci si [93] compone di principi italiani o capitani di città o dei loro congiunti. A questi sono da aggiungere 24,000 uomini di fanteria, sull'arrolamento e la condotta dei quali non abbiamo veruno schiarimento, oltre ad altri 3300 uomini, che probabilmente vi rappresentano le armi speciali. In tempo di pace le città di terra-ferma o erano prive affatto di guarnigione o ne aveano ben poca: Venezia non si basava tanto sull'affezione, quanto sulla prudenza de' suoi sudditi; nella guerra contro la Lega di Cambray (1509) è noto universalmente, che essa li sciolse da ogni obbligo di fedeltà e lasciò giungere le cose al punto, che essi avessero agio di paragonare le piacevolezze di una occupazione straniera col mite suo modo di governare; e siccome essi non ebbero bisogno di staccarsi da S. Marco ricorrendo al tradimento, e quindi non aveano in seguito da temere verun gastigo, così si verificò ciò ch'essa prevedeva, che cioè tutti tornarono con molta premura sotto il di lei dominio. Questa guerra era, lo diciam di passaggio, l'effetto di un secolare grido d'allarme surto contro la smania d'ingrandimento di Venezia. Talvolta quest'ultima commise l'errore delle persone troppo prudenti, quella cioè di non voler supporre nessun colpo di testa ne' suoi avversari, perchè, secondo la sua maniera di vedere, sarebbe stato troppo folle e sconsiderato.[123] In questo ottimismo, che forse è proprio in modo speciale delle aristocrazie, si aveva una volta ignorato completamente gli armamenti di Maometto II per la presa di Costantinopoli, e perfino i preparativi per la spedizione di Carlo VIII, finchè si avverò [94] ciò che meno si aspettava.[124] Ed altrettanto accadde ora colla Lega di Cambray, la quale effettivamente era contraria al vero interesse de' principali suoi fondatori, Luigi XII e Giulio II. Ma nel Papa c'era il vecchio odio di tutta Italia contro la Repubblica conquistatrice, in guisa che egli chiuse gli occhi sulla venuta degli stranieri; e per quanto riguardava la politica del cardinale d'Amboise e del suo re nei rapporti con tutta Italia, Venezia avrebbe dovuto già da lungo tempo accorgersi delle sinistre loro intenzioni e mettersi in guardia. I più fra gli altri presero parte alla Lega per quell'invidia, che è bensì un salutare ritegno posto alla potenza ed alla ricchezza, ma non cessa per questo di essere in sè una ben deplorabile debolezza. Venezia uscì con onore, ma non senza durevoli danni, da quella lotta.


Una potenza, le cui basi erano così complicate, la cui attività e i cui interessi abbracciavano un campo sì vasto, non si potrebbe immaginare senza una grandiosa sorveglianza su tutto l'insieme, senza un continuo bilancio delle forze e dei pesi, degli incrementi e delle perdite. Venezia potrebbe benissimo aspirare al vanto di essere la patria della moderna Statistica: tutt'al più Firenze potrebbe dirsi sua emula, ma in seconda linea, e più sotto ancora i principati italiani maggiormente sviluppati. Lo Stato feudale del medioevo non ha che prospetti generali dei diritti e dei possessi detti urbariali del principe: esso riguarda la produzione come qualche cosa di stazionario, ciò che essa effettivamente è anche, sino a che si tratti unicamente della proprietà fondiaria. Di fronte a ciò le Repubbliche, probabilmente da tempo [95] antichissimo, hanno riconosciuto la loro produzione, fondata specialmente sull'industria e sul commercio, come qualche cosa di estremamente mobile ed hanno agito conformemente a questo concetto, ma si arrestarono — perfino nei tempi più floridi della lega anseatica — ad un bilancio esclusivamente commerciale. Così le flotte, gli eserciti, e tutta la potenza ed influenza politica dello Stato non trovavano posto che tra il dare e l'avere di un libro mastro di commercio. Soltanto negli Stati italiani trovansi per la prima volta congiunti quelli che potrebbero dirsi effetti di una piena coscienza politica con le esperienze desunte dallo studio dell'amministrazione musulmana e da una pratica lunga ed attiva dell'industria agricola e commerciale, per creare una vera statistica.[125] La monarchia assoluta di Federico II nell'Italia meridionale (v. pag. 7) era surta unicamente sulla concentrazione del potere allo scopo di sostenere una lotta, in cui si trattava di essere o non essere. In Venezia per contrario gli scopi supremi sono il godimento [96] dei comodi della vita e dei vantaggi della potenza, l'aumento di ciò che si è ereditato dagli antenati, la riunione delle più lucrose industrie e l'aprimento di sempre nuovi sfoghi al commercio.

Gli scrittori si esprimono con molta schiettezza su tutte queste cose.[126] Da essi noi apprendiamo che la popolazione della città nell'anno 1422 ammontava a 190,000 anime. Forse questo modo di calcolare non più per focolari, nè per uomini atti a portar le armi o per tali che potessero reggersi sulle proprie gambe, e simili, ma per anime, è molto antico in Italia, e può meglio d'ogni altro offrire una base giusta e sicura di calcolo. Allorchè i fiorentini intorno al medesimo tempo insistevano per una lega con Venezia a danno di Filippo Maria Visconti, la Repubblica pel momento li rimandò, nella persuasione evidente, e del resto confermata anche da un esatto bilancio del commercio, che ogni guerra tra Milano e Venezia, vale a dire tra compratori e venditori, fosse una vera follìa. E già perfino quando il duca aumentava la sua armata, Venezia se ne accorava, perchè, dovendo egli con ciò aumentare le imposte, il ducato se ne risentiva e il consumo diminuiva. «Piuttosto si lascino soccombere i fiorentini, perchè in tal caso, avvezzi come sono alla vita delle città libere, essi emigreranno a Venezia e porteranno con sè le tessiture della lana e della seta, come fecero gli oppressi lucchesi». Ma ancor più notevole è il discorso del doge Mocenigo[127] [97] tenuto dal suo letto di morte ad alcuni senatori (1423) come quello che contiene gli elementi più importanti di una statistica dell'intera forza e dell'avere di Venezia. Io ignoro, se e dove esista una compiuta illustrazione di questo difficile documento; ma come una specialità mi sia lecito di riportarne qui alcuni dati. Dopo fatto il pagamento di quattro milioni di ducati per un prestito di guerra, il debito dello Stato (il monte) ammontava ancora a sei milioni di ducati. Il giro complessivo del commercio (come sembra) ascendeva a dieci milioni, i quali ne fruttavano quattro (così il testo). Su tremila navigli, trecento navi e quarantacinque galere stavano 17 mila e rispettivamente 8 ed 11 mila marinai (più di duecento per galera). A questi erano da aggiungere 16 mila costruttori nell'arsenale. Le case di Venezia avevano un valore di stima di sette milioni e fruttavano in affitti un mezzo milione.[128] Vi erano mille nobili, che avevano una rendita da settanta a quattromila ducati annui. — In un altro luogo la rendita ordinaria dello Stato in quello stesso anno è calcolata un milione e centomila ducati: intorno alla metà del secolo, per le perdite sofferte dal commercio in causa della guerra, essa era discesa ad ottocentomila ducati.[129]


Se, per questo spirito di calcolo e per la sua pratica applicazione, Venezia rappresentava completamente e [98] prima d'ogni altro Stato un lato importantissimo del moderno organismo politico, trovavasi per converso in certo modo alquanto al di sotto rispetto a quella cultura, che allora in Italia stava in cima d'ogni altra cosa. Quello che manca qui è l'attività letteraria in generale e specialmente quell'entusiasmo per la classica antichità, che prevaleva dovunque.[130] Bensì il Sabellico afferma che le attitudini alla filosofia ed all'eloquenza non erano punto minori di quelle che si scorgevano pel commercio e per la politica, ed è anche vero che nel 1459 Giorgio da Trebisonda fece omaggio al doge di una traduzione latina del libro di Platone sulle Leggi, e ne fu ricompensato con una cattedra di filologia e cencinquanta ducati annui, e più tardi dedicò alla Signoria il suo libro sulla Rettorica.[131] Ma se si dà un'occhiata alla storia della letteratura veneziana, che il Sansovino aggiunse al noto suo libro su Venezia,[132] non s'incontrano per tutto il secolo XIV che sole opere di teologia, di giurisprudenza e di medicina, ed anche nel XV l'umanismo non vi è, in paragone all'importanza della città, se non assai scarsamente rappresentato sino ad Ermolao Barbaro e ad Aldo Manuzio. Anche la biblioteca che il cardinal Bessarione lasciò alla Repubblica, a stento andò salva dalla dispersione. Per le quistioni di erudizione si aveva e doveva bastare l'università di Padova, dove realmente i medici e i giuristi, quali estensori di pareri politici, aveano stipendi lautissimi. Nè maggiore operosità [99] vi si scorge a questo tempo per ciò che riguarda le produzioni poetiche, che pur tanto abbondarono nei primordi del secolo XVI; e perfino lo spirito artistico dell'epoca del Rinascimento vi appare in sulle prime come importazione estera, e non comincia a dar frutti degni della sua grande potenza se non sul finire del secolo XV. Ma vi hanno indizi di tardità intellettuale ancor più caratteristici e strani. Quel medesimo Stato, che teneva in tanta soggezione il suo clero, che si riserbava il conferimento di tutte le dignità più importanti, e che quasi sempre si metteva in opposizione colla Curia romana, fu schiavo di un ascetismo ufficiale di genere tutto affatto particolare.[133] Corpi di santi ed altre reliquie importate dalla Grecia dopo la conquista turca pagavansi a prezzi elevatissimi e accoglievansi dal doge in solenne processione.[134] Pel sacro Pallio inconsutile nel 1455 s'era deciso di spendere sino a diecimila ducati, ma non si potè averlo. Questo fanatismo non era l'opera di un popolare entusiasmo, ma proveniva da una fredda deliberazione della più alta autorità dello Stato, che pure senza scandolo avrebbe potuto astenersene, come in eguali circostanze a Firenze la Signoria se ne sarebbe certamente astenuta. Non diremo nulla, dopo ciò, della devozione delle moltitudini e della cieca loro fede nelle indulgenze di un Alessandro VI. Ma lo Stato, che pure aveva assorbito la Chiesa più di qualunque altro, aveva qui realmente in sè una specie di [100] elemento ecclesiastico, e il suo simbolo vivente, il doge, in dodici solenni processioni (che si dicevano andate) procedeva con carattere e pompa semi-sacerdotali.[135] Erano feste fatte puramente in onore di avvenimenti politici, che coincidevano colle grandi feste ecclesiastiche: la più splendida di esse, il celebre sposalizio del mare, cadeva sempre nel giorno dell'Ascensione.

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CAPITOLO VIII. Ancora delle Repubbliche.

Firenze dal secolo XIV in avanti. — Obbiettività della coscienza politica. — Dante come politico. — Firenze qual patria della statistica; i Villani. — La statistica dei maggiori interessi. — Valori delle monete del secolo XV. — Le forme costituzionali e gli storici. — Vizio fondamentale dello Stato toscano. — Gli uomini politici. — Machiavelli e il suo progetto di costituzione. — Genova, Siena e Lucca.

La più elevata coscienza politica e la maggior varietà nello sviluppo delle forme di Stato trovavansi riunite nella storia di Firenze, la quale in questo rispetto merita la lode di primo fra gli Stati del mondo moderno. Qui è un popolo intero che s'occupa di ciò, che nei principati è nell'arbitrio di una sola famiglia. La mente maravigliosa del fiorentino, ragionatrice acuta e al tempo stesso creatrice in fatto d'arte, muta e rimuta incessantemente le sue condizioni politiche e sociali, e incessantemente pure le giudica e le descrive. Per tal modo Firenze divenne la patria delle dottrine e delle teoriche, degli esperimenti e dei subiti trapassi, ma anche insieme con Venezia la patria della statistica, e, sola e prima di ogni altro Stato al mondo, la patria della storia intesa nel senso moderno. Nè senza una potente influenza vi rimasero la vicinanza dell'antica Roma e la conoscenza de' suoi storici: infatti Giovanni Villani confessa apertamente, [102] che il primo impulso al suo grande lavoro gli venne dalla sua andata in quella città in occasione del Giubileo del 1300, e che vi pose mano subito dopo il suo ritorno in patria.[136] Ma quanti fra i 200,000 pellegrini di quell'anno avranno avuto uguali attitudini e inclinazioni, e tuttavia non scrissero la storia della loro città! E per vero non tutti potevano fiduciosamente soggiungere come lui: «la nostra città di Firenze è nel suo montare e a seguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare, e però mi parve convenevole di recare in un volume tutti i fatti e cominciamenti della città e seguire per innanzi stesamente infino che fia piacere di Dio». E con ciò Firenze ottenne da' suoi storici non solo una testimonianza autentica del modo con cui si svolse la sua vitalità, ma altresì una fama maggiore che qualunque altro Stato d'Italia.[137]


Ma non è del nostro assunto il far qui la storia di questo memorabile Stato, bensì soltanto di additare sommariamente la parte che questa storia ebbe nel risvegliare nei fiorentini tanto amore alla libertà e un senso pratico così profondo.

Intorno all'anno 1300 Dino Compagni descrisse le lotte cittadine del suo tempo. La condizione politica della città, i moventi più riposti dei partiti, il carattere dei capi, tutta insomma la tela delle cause e degli effetti prossimi e remoti vi è rappresentata in modo, che si tocca con mano la superiorità de' suoi giudizi e delle [103] sue narrazioni. E la vittima più illustre di queste crisi, Dante Alighieri, qual tipo d'uomo politico, maturato fra le contradizioni della patria e le torture dell'esiglio! Egli ha scolpito il suo disprezzo pei continui mutamenti e sperimenti di governo in terzine di bronzo,[138] che rimarranno proverbiali dovunque sarà per ripetersi qualche cosa di somigliante: egli ha indirizzato alla sua patria parole tanto orgogliose e appassionate ad un tempo, che il cuore dei fiorentini non potè certo non esserne scosso potentemente. Ma i suoi pensieri si allargano a tutta Italia, anzi a tutto il mondo, e quantunque il suo entusiasmo per l'Impero, come egli lo intendeva, non sia stato che un errore, si dovrà tuttavia confessare pur sempre, che le fantasie giovanili della speculazione politica, che allora era in sul nascere, hanno in lui una sublime grandezza poetica. Egli va superbo di essere stato il primo a mettersi per questa via,[139] guidato a mano senza dubbio da Aristotele, ma pure alla sua maniera padrone di sè e indipendente. Il suo imperatore ideale è un giudice supremo, giusto, benevolo e dipendente solo da Dio, l'erede della signoria mondiale di Roma, voluta dal diritto, dalla natura, dal senno eterno di Dio. La conquista del mondo infatti fu legittima, perchè fu il giudizio di Dio tra Roma e gli altri popoli, e Dio stesso ha riconosciuto il suo impero prendendo spoglie umane sotto di esso, sottomettendosi nella sua nascita al censo di Augusto e nella sua morte al giudizio di Ponzio Pilato; e così via. Che se anche noi non possiamo sempre seguire questo suo modo di argomentare, non manca però mai di commoverci la sua passione. Nelle sue [104] lettere[140] egli è uno dei più antichi nella serie dei pubblicisti, forse il primo fra i laici, che abbia divulgato per proprio conto scritti politici sotto la forma epistolare. A ciò egli pose mano assai presto: subito dopo la morte di Beatrice egli pubblicò un opuscolo sullo stato di Firenze, mandandolo «ai grandi della terra», ed anche le posteriori sue lettere patenti del tempo del suo esilio sono tutte dirette a imperatori, principi e cardinali. In queste lettere e nel libro Del volgare eloquio torna, sotto forme diverse, il sentimento espiato con tanti dolori, che l'esule anche fuori della propria città può trovare una nuova patria intellettuale nella lingua e nella cultura, che da nessuno gli ponno essere tolte; sul qual punto avremo occasione di tornar nuovamente.


Ai Villani, così a Giovanni che a Matteo, andiamo debitori non tanto di profonde considerazioni politiche, quanto di giudizi schietti e convalidati dall'esperienza, degli elementi primi della statistica fiorentina e di notizie importanti sopra altri Stati d'allora[141]. Il commercio e l'industria aveano anche qui dato occasione a studi di economia politica. Sulle condizioni pecuniarie in grande nessuno aveva altrove idee più precise, a cominciare dalla curia papale di Avignone, l'enorme ammontare della cui cassa (25 milioni di fiorini d'oro alla morte di [105] Giovanni XXII) non parrebbe credibile, se non fosse dato da fonti così autorevoli[142]. Qui soltanto, a Firenze, udiamo di prestiti colossali, per esempio di quello del re d'Inghilterra con le case fiorentine Bardi e Peruzzi, le quali ci perdettero un valore di 1,365,000 fiorini d'oro, (1338), danaro proprio e di soci, e tuttavia si riebbero[143]. — Ma la cosa più importante sono le notizie di quello stesso tempo che si riferiscono allo Stato[144], vale a dire: le rendite (oltre a 300,000 fiorini d'oro) e le spese; la popolazione della città (calcolata qui ancora molto imperfettamente, giusta il consumo del pane, in bocche, fatte ascendere a 90,000), e quella dello Stato; l'eccedenza dei nati maschi (da 300 a 500) su 5800 in 6000 battezzati annuali del Battistero[145]; la frequenza delle scuole, in sei delle quali da 8000 a 10,000 fanciulli imparavano a leggere, e da 1000 a 1200 a far conti; oltre a 600 scolari circa, che in quattro scuole venivano istruiti nella grammatica (latina) e nella logica. Segue la statistica dei conventi e delle chiese, degli spedali (con più di 1000 letti complessivamente); il lanificio, con notizie di sommo valore, la zecca, l'approvigionamento della città, i pubblici ufficiali[146] e così via. Altre cose si apprendono incidentalmente, per esempio come nell'erezione delle nuove rendite dello Stato (il monte), [106] i Francescani abbiano predicato dal pulpito in favore, gli Agostiniani e i Domenicani contro di esse[147]; e per ultimo le conseguenze economiche della peste nera (1348) nè furono, nè poterono essere osservate ed esposte in nessuna parte d'Europa, come avvenne in questa città[148]. Un fiorentino soltanto poteva lasciare scritto come tutti si aspettassero che, per la scarsezza degli abitanti, tutti i prezzi delle cose ribassassero, e come invece e viveri e mercedi abbiano incarito del doppio; come il popolo in sulle prime non volesse più lavorare, ma darsi buon tempo; come nella città non potessero più aversi nè servi, nè fantesche se non a prezzi elevatissimi; come i contadini non volessero più coltivare che i terreni migliori, lasciando incolti gli altri e come gli enormi legati lasciati a favore dei poveri apparissero dopo la peste inutili affatto, perchè i poveri o erano morti o poveri più non erano. Per ultimo si ha perfino il saggio di una ampia statistica dei mendicanti della città nell'occasione di un grande legato di sei danari a ciascuno di essi lasciato da un filantropo senza prole.[149]

Quest'arte di valutare statisticamente le cose fu in appresso condotta dai Fiorentini al massimo grado di perfezione, e piace ancor più il vedere come i loro computi lascino per lo più trasparire il loro legame e rapporto colla parte più sostanziale della storia, vale a dire colla cultura generale e coll'arte. Una indicazione dell'anno 1422[150] tocca col medesimo tratto di penna le settantadue [107] botteghe di cambio intorno al Mercato nuovo, l'ammontare del giro di danaro (2 milioni di fiorini d'oro), l'industria allora nuova dell'oro filato, le stoffe di seta, Filippo Brunellesco che disseppellisce l'architettura antica, e Leonardo Aretino, segretario della Repubblica, che risuscita l'antica letteratura ed eloquenza: finalmente la generale prosperità della città allora tranquilla e la buona fortuna d'Italia, che s'era francata dai mercenari stranieri. La statistica di Venezia da noi più sopra riportata (pag. 96), che si riferisce quasi al medesimo anno, parla, invero, di possessi, guadagni e provincie molto maggiori: Venezia da lungo tempo padroneggia il mare colle sue navi, quando Firenze spedisce la sua prima galera ad Alessandria (1422). Ma chi non trova le notizie fiorentine redatte con maggiore ampiezza di vedute? Questi e somiglianti documenti trovansi per Firenze ordinati di decennio in decennio in veri prospetti, mentre altrove nel miglior dei casi si ha qualche isolata indicazione. Da essi impariamo a conoscere approssimativamente gli averi e gli affari dei primi Medici, e vediamo, p. es., come essi dal 1434 al 1471 sborsarono in elemosine, costruzioni pubbliche ed imposte non meno di 663,755 fiorini d'oro, dei quali il solo Cosimo oltre 400,000[151], e come Lorenzo il Magnifico si rallegrasse che quel danaro fosse stato così bene impiegato. Dopo il 1478 si ha poi di nuovo un prospetto assai importante, e perfetto nel suo genere, del commercio e delle industrie della città[152], e in esso parecchi dati che per metà od interamente [108] versano sulla storia dell'arte, come, per esempio, sulle stoffe d'oro e d'argento e sui damaschi, sull'intaglio e l'intarsio, sulla scultura dei rabeschi in marmo e pietra calcare, sui ritratti in cera, sull'oreficeria e sulla gioielleria. E il genio innato de' Fiorentini per il computo di tutta la vita esterna si mostra perfino nei loro libri di amministrazione famigliare, commerciale ed agricola, che di gran lunga primeggiano su quelli di tutti gli altri europei del secolo XV. Al qual proposito non possiamo astenerci dal dire che felicissima fu l'idea di pubblicarne dei brani scelti[153], non ostante che molti studi saranno ancor necessari per desumerne risultati precisi e generali. In ogni caso, anche in questo si dà a conoscere la città, nella quale i padri morenti pregano per testamento la Signorìa d'imporre ai loro figli una multa di 1000 fiorini d'oro, se non eserciteranno veruna industria regolare.[154]

Per la prima metà del secolo XVI poi nessuna città forse al mondo possiede un documento simile alla splendida descrizione di Firenze lasciata dal Varchi.[155] Come in molti altri rapporti, anche nella statistica descrittiva qui ci viene presentato un'ultima volta un raro modello, prima che la libertà e la grandezza di questa città discendano nel sepolcro.[156]

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Ma accanto a questo computo dell'esistenza esterna procedeva di pari passo quella continua pittura della vita [110] politica, di cui più sopra s'è fatto cenno. Firenze non solo perdura in mezzo a forme e mutazioni di governo più frequenti che in qualsiasi altro Stato libero d'Italia e dell'intero occidente, ma ne rende conto altresì in modo incomparabilmente più esatto. Essa è lo specchio più fedele dei mutevoli rapporti dei singoli individui o di intere classi verso un tutto estremamente variabile. I quadri delle grandi demagogie cittadine in Francia e nelle Fiandre, quali ci vengono delineati da Froissart, i racconti delle cronache tedesche del secolo XIV hanno invero un'importanza universalmente riconosciuta, ma quanto alla pienezza degli argomenti e allo svolgimento [111] razionale del corso degli avvenimenti restano infinitamente al di sotto alle descrizioni dei Fiorentini. Aristocrazia, tirannide, lotta delle classi medie col proletariato, democrazia piena, mezza ed apparente, primato di una famiglia, teocrazia (con Savonarola), e così via, sino a quelle forme miste che prepararono l'usurpazione medicea, tutto è scritto in modo che i più riposti moventi degli attori vengono messi in piena luce.[157] Per ultimo il Machiavelli nelle Istorie fiorentine (sino al 1492) considera la sua città come un essere vivente, e come individuali e volute dalle stesse leggi di natura le vicende che accompagnarono il suo svolgimento; primo fra i moderni, che abbia saputo sollevarsi a tanto. Non è del nostro assunto il ricercare se ed in quali punti egli abbia fatto con ciò violenza alla storia, come gl'intervenne nella vita di Castruccio Castracane, tipo di tiranno da lui arbitrariamente ideato; ma se anche nelle Storie fiorentine vi fosse ad ogni linea qualche cosa da eccepire, non ne resterebbe per questo scemato il valore sommo, inestimabile, che hanno nel loro complesso. E i suoi contemporanei e continuatori, Jacopo Pitti, Guicciardini, Segni, Varchi, Vettori, quale corona di nomi gloriosi! E che storia è quella che è scritta da tali maestri! Niente meno che il gran dramma degli ultimi decenni della repubblica fiorentina! In questa immensa eredità di memorie sulla caduta della città più agitata e più [112] originale del mondo d'allora sia pure che altri non vegga se non una congerie d'interessanti curiosità, altri si compiaccia con gioja maligna di scorgere il naufragio di ogni idea nobile e grande, ed altri ancora non vi ripeschi che i materiali come di una gigantesca procedura giudiziaria; ad ogni modo essa non cesserà di rimanere l'oggetto delle più serie considerazioni sino alla consumazione dei secoli. Il tarlo che ad ogni istante rodeva ogni cosa, era la signorìa di Firenze su nemici soggiogati una volta potenti, come i Pisani, che di necessità manteneva uno stato di violenza perenne. L'unico rimedio, violento esso pure, che solo il Savonarola, ma non senza il soccorso di circostanze al tutto favorevoli, avrebbe potuto far accettare, sarebbe stato lo scioglimento, fatto a tempo, della Toscana in una federazione di città libere, pensiero che, come ritardato sogno febbrile, condusse poi al patibolo (1548) un patriotta lucchese.[158] Da questo malanno e dalla malaugurata simpatia guelfa de' Fiorentini per un principe forestiero, come altresì dalla conseguente abitudine agli interventi stranieri, provennero tutti gli altri infortuni. Ma chi, in onta a ciò, non vorrà ammirare questo popolo, che sotto la guida del santo suo monaco, sostenuto in un continuo entusiasmo, dà il primo esempio in Italia della pietà verso i vinti nemici, mentre tutte le memorie del tempo passato [113] non gli predicano che la vendetta e la distruzione? Bensì l'ardore che qui fonde insieme i sentimenti di patriottismo e di entusiasmo religioso e morale, guardato dopo alcuni secoli, sembra essersi spento assai prestamente; ma non è men vero per questo, che i suoi migliori effetti si videro nuovamente rifulgere nel memorabile assedio degli anni 1529-30. Furono «pazzi» senza dubbio, come il Guicciardini allora scriveva, coloro che attirarono sopra Firenze quella tempesta, ma egli stesso confessa che fecero cosa non creduta possibile; e se stima che i savi avrebbero evitata quella sciagura, ciò non significa altro se non che Firenze avrebbe dovuto ingloriosamente e senza una parola di protesta darsi in mano a' suoi nemici. Vero è che in tal caso essa avrebbe conservato i suoi magnifici sobborghi e i giardini e la vita e il benessere d'innumerevoli cittadini; ma le mancherebbe altresì una delle più grandi e più gloriose pagine della sua storia.


I Fiorentini sono in parecchi pregi il modello e la primissima espressione degl'Italiani e dei moderni europei, ma sono tali altresì, ed in più guise, quanto ai difetti. Quando Dante a' suoi tempi paragonava Firenze, che non cessa di correggere la propria costituzione, con quell'inferma che sempre muta lato per sottrarsi a' suoi dolori, egli esprimeva con questo paragone uno dei caratteri più stabili di questa città. Il grande errore moderno che una costituzione possa farsi e rifarsi mediante il calcolo delle forze e dei partiti esistenti,[159] a Firenze [114] si vede risorgere sempre in tempi di qualche commozione, e il Machiavelli stesso non ne andò immune. Egli è allora che si vedono farsi innanzi certi artefici di Stati, che con un artificioso spostamento e frastagliamento del potere, con sistemi elettorali lambiccatissimi, con magistrature di sola apparenza e simili, vogliono fondare uno stato di cose durevole, e accontentare o almeno illudere tutte le parti. Essi copiano in ciò con molta ingenuità i tempi antichi e finiscono perfino col prendere a prestito da quelli i nomi stessi delle fazioni, come per esempio, degli ottimati, dell'aristocrazia ecc.[160] D'allora in poi il mondo s'è abituato a queste denominazioni e ha dato ad esse un senso convenzionale europeo, mentre dapprima tutti i nomi dei partiti erano particolari e diversi secondo i diversi paesi, e o designavano direttamente la cosa, o nascevano dal capriccio del caso. Ma quanto il solo nome non dà o toglie di colorito alle cose!


Ma fra tutti coloro che s'immaginavano di poter costruire uno Stato,[161] il Machiavelli è senza paragone il più grande. Egli usa delle forze esistenti come di forze vive ed attive, le alternative che ci pone dinanzi sono giuste e grandiose, e non cerca mai d'illudere nè sè stesso, nè gli altri. In lui non vi è nemmen l'ombra della vanità e della millanteria, anzi egli non scrive nemmeno pel pubblico, ma soltanto per qualche autorità, o per principi [115] ed amici. Il suo pericolo non istà mai in una falsa genialità o in una falsa deduzione di idee, ma bensì in una gagliarda fantasia, ch'egli domina a stento. La sua obbiettività politica, non v'ha dubbio, è talvolta di una sincerità spaventosa, ma essa è sorta in tempi di estreme miserie e pericoli, nei quali senza di ciò gli uomini non potevano così di leggieri credere più nè al diritto, nè alla giustizia. Nè una virtuosa indignazione contro di essa può aspettarsi da noi, che siamo stati nel nostro secolo spettatori di quanto hanno fatto le Potenze in un senso e nell'altro. Il Machiavelli almeno era capace di dimenticare sè stesso per la cosa pubblica. In generale egli è un patriota nel più stretto senso della parola, quantunque i suoi scritti (poche parole eccettuate) sieno privi affatto di vero entusiasmo, e quantunque i fiorentini stessi lo abbiano da ultimo considerato come un ribaldo.[162] Ma per quanto egli ne' suoi costumi e nei discorsi, come allora la maggior parte, fosse corrivo e licenzioso, certo è che la salute della patria era sempre in cima de' suoi pensieri. Il suo più completo programma per l'ordinamento di un nuovo Stato a Firenze trovasi nel suo Memoriale da lui indirizzato a Leone X[163] e scritto dopo la morte di Lorenzo de' Medici il giovane, duca di Urbino (morto nel 1519), al quale egli aveva dedicato il suo libro del Principe. Le cose sono agli estremi e la corruzione prevale universalmente, quindi anche i rimedi proposti non hanno sempre un carattere di troppa moralità; ma in ogni caso riesce interessantissimo il vedere come egli speri di sostituire ai Medici, qual loro erede, [116] la repubblica, e precisamente una repubblica sorta tutta dalla borghesia. Non è possibile immaginare un edificio, come questo, più ricco di concessioni al Papa, a' suoi aderenti, e ai diversi interessi de' Fiorentini: si crederebbe quasi di guardar dentro al meccanismo di un orologio. Molti altri principii, osservazioni, confronti, viste politiche e simili per Firenze trovavansi nei Discorsi, nei quali tralucono qua e là lampi di maravigliosa bellezza. In un punto, ad esempio, egli ci dà la legge, secondo la quale progrediscono e si sviluppano, ma non senza urti violenti, le repubbliche, e vuole che lo Stato sia mobile e capace di cangiamenti, perchè con questo mezzo soltanto si evitano i precipitati giudizi di sangue e le condanne di esiglio. Per un identico motivo, vale a dire, per evitare le violenze private e gl'interventi stranieri («peste della libertà»), desidera di veder stabilita contro i cittadini più odiati una procedura giudiziaria (accusa), in luogo della quale Firenze da tempo remotissimo non aveva avuto che il tribunale della maldicenza. Da vero maestro egli caratterizza le risoluzioni forzate e tardive, che nei tempi agitati delle repubbliche ricorrono così frequentemente. In mezzo a tutto ciò la fantasia e la miseria de' tempi lo seducono di quando in quando a intonare apertamente le lodi del popolo, che ha maggior tatto di qualunque principe nella scelta degli uomini e che è più docile ai consigli, che lo salvano dalle vie dell'errore.[164] Quanto alla signoria su tutta la Toscana, egli non dubita nemmeno che essa spetti alla sua città, e riguarda quindi (in uno speciale discorso) il riassoggettamento di Pisa come una questione [117] di vita o di morte: egli deplora che, dopo la ribellione del 1502, si abbia lasciato sussistere Arezzo, e in generale si mostra persuaso, che le repubbliche italiane dovrebbero potersi muovere liberamente al di fuori e ingrandirsi, per non essere esse stesse assalite e per goder la pace all'interno; ma Firenze ha fatto le cose sempre a rovescio, e così da tempo antichissimo si è inimicata mortalmente con Pisa, Siena e Lucca, mentre Pistoia «trattata fraternamente» si è sottomessa di proprio impulso.[165]


Sarebbe ingiusto il voler anche solo porre a riscontro le poche altre repubbliche, che ancora esistevano nel secolo XV, con quest'unica di Firenze, che senza paragone fu la sede più importante del moderno spirito italiano, anzi europeo. Siena soffriva di vizi organici profondi, e la sua relativa prosperità nell'industria e nelle arti non deve a questo riguardo trarci in errore. Enea Silvio dalla sua città natale guarda con occhio appassionato[166] alle «fortunate» città tedesche dell'Impero, dove l'esistenza non è amareggiata da nessuna confisca degli averi e delle eredità, dove non esistono nè fazioni, nè arbitrii.[167] — Genova non entra quasi nella cerchia [118] delle nostre considerazioni, poichè prima dei tempi di Andrea Doria non ebbe pressochè parte veruna al Rinascimento, anzi gli abitanti della Riviera passavano in tutta Italia per nemici di qualsiasi cultura.[168] Le lotte dei partiti hanno in questa repubblica un carattere così selvaggio e sono accompagnate da scosse così violente, che quasi non si sa capire come, dopo tante rivoluzioni e occupazioni straniere, i genovesi abbiano pure trovato modo di acquetarsi in uno stato di cose almen tollerabile. Ma forse ciò dipendette dall'essere tutti quelli, che avevano parte alla cosa pubblica, quasi senza eccezione addetti al tempo stesso al commercio.[169] E Genova ci mostra in modo maraviglioso sino a qual grado d'incertezza il commercio esercitato in grande e la ricchezza possano perdurare e con quale stato interno di cose sia conciliabile il possesso di lontane colonie.

Lucca non ha molta importanza nel secolo XV. Dei primi decenni di esso, nei quali la città viveva sotto la pseudo-tirannide della famiglia Guinigi, ci è stato conservato un giudizio dello storico lucchese Giovanni di Ser Cambio, che può riguardarsi in generale come un documento parlante della condizione di tali famiglie [119] regnanti nelle repubbliche.[170] L'autore tratta del numero e della ripartizione delle truppe mercenarie nella città e nel territorio, non che del conferimento di tutti gli uffici a scelti aderenti della famiglia che padroneggia; designa tutte le armi che si trovano in possesso de' privati, e parla del disarmo delle persone sospette; in seguito passa a dire della sorveglianza esercitata sopra i banditi, i quali sono obbligati a rimanere nel luogo loro assegnato sotto pena di una totale confisca dei loro beni, degli atti segreti di violenza commessi per togliere di mezzo ribelli creduti pericolosi, dei modi con cui alcuni commercianti emigrati furono costretti a tornare. Segue una descrizione delle pratiche fatte per impedire possibilmente la riunione della maggiore assemblea dei cittadini (Consiglio generale), sostituendovi soltanto una Commissione composta di partigiani della casa regnante in numero di dodici o diciotto, e toccasi della restrizione di tutte le spese a favore dei mercenari, indispensabili per non vivere in continue paure e pericoli, e che bisognava tenere allegri (i soldati si faccino amici, confidenti e savî). Per ultimo si parla delle miserie del tempo, dello scadimento dell'arte della seta, nonchè di tutte le altre industrie, e della coltivazione dei vini, e si propone come rimedio un dazio elevato sui vini forastieri e l'obbligo assoluto, da imporsi al contado, di comperare ogni cosa in città, i soli mezzi di sussistenza eccettuati. — Questo notevolissimo documento avrebbe bisogno anche per noi di un commento circostanziato: qui lo citiamo soltanto come una delle molte prove di fatto, che in Italia la riflessione politica si svolge assai prima che in tutti i paesi del settentrione.

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CAPITOLO IX. Politica estera degli Stati italiani.

Invidia contro Venezia. — L'estero: simpatie per la Francia. — Tentativo per un equilibrio. — Intervento e conquista. — Alleanze coi Turchi. — Reazione spagnuola. — Trattazione obbiettiva della politica. — Arte diplomatica.

A quel modo che la maggior parte degli Stati italiani erano all'interno opere d'arte, vale a dire creazioni coscienti, emanate dalla riflessione e fondate su basi rigorosamente calcolate e visibili, artificiali dovevano essere anche i rapporti che correvano tra di loro e con gli Stati esteri. L'essere quasi tutti fondati sopra usurpazioni di data recente è cosa per essi sommamente pericolosa tanto nelle relazioni esterne, quanto nel normale andamento interno. Nessuno riconosce il suo vicino senza qualche riserva: lo stesso colpo di mano che ha servito a fondare e rafforzare l'una signoria, può aver servito anche per l'altra. Ma non sempre dipende dall'usurpatore che egli possa sedere tranquillo sul trono, o no: il bisogno d'ingrandirsi e in generale di muoversi suol essere proprio d'ogni signoria illegittima. Per tal modo l'Italia diventa la patria di una «politica estera», che poi a poco a poco anche in altri paesi prevale al diritto riconosciuto, e la trattazione degli affari internazionali, [122] completamente oggettiva e libera da pregiudizi e da ogni ritegno morale, vi raggiunge talvolta una perfezione, che le dà apparenza di decoro e di grandezza, mentre l'insieme ha l'impronta di un abisso senza fondo.

Questi intrighi, queste leghe, questi armamenti, queste corruzioni e questi tradimenti costituiscono in complesso la storia esterna dell'Italia d'allora. Da lungo tempo Venezia era specialmente l'oggetto delle accuse di tutti, come se essa volesse conquistar l'intera Penisola o a poco a poco indebolirla per modo, che uno Stato dopo l'altro cadesse spossato nelle sue braccia.[171] Ma, guardando la cosa un po' più addentro, si vede, che quel grido di dolore non si solleva dal popolo, ma dalle regioni più prossime ai principi ed ai governi, i quali quasi tutti sono gravemente odiati dai sudditi, mentre Venezia col suo reggimento abbastanza mite si concilia le simpatie universali.[172] Anche Firenze colle città soggette, che impazienti rodevano il freno, di fronte a Venezia trovavasi in una posizione assai falsa, quand'anche non si voglia tener conto della gelosia commerciale che le inimicava entrambe, nonchè degli avanzamenti, che Venezia veniva facendo in Romagna. Alla fine la lega di Cambray (v. pag. 94) portò effettivamente le cose ad un punto, che Venezia ne uscì con gloria, ma non [123] senza danno, mentre tutta Italia avrebbe dovuto invece concorrere a sostenerla.


Ma sentimenti non certo più miti nutrivano anche tutti gli altri fra loro, ond'è che noi li veggiamo pronti, come la mala coscienza suggerisce a ciascuno, ad ogni eccesso l'un contro l'altro. Lodovico il Moro, gli Aragonesi di Napoli, Sisto IV (per tacere dei minori) tengono l'Italia in uno stato di perenne agitazione, che le riesce pericolosissimo. E si fosse almeno limitato alla sola Italia questo perfido giuoco! Ma la natura delle cose portò con sè, che si cominciò a guardarsi attorno per qualche ajuto ed intervento, volgendo gli occhi specialmente ai Francesi ed ai Turchi.

Le simpatie per la Francia si manifestano primieramente da parte delle popolazioni. Con una ingenuità che fa rabbrividire, Firenze confessa le sue vecchie predilezioni guelfe per la dinastia francese.[173] E quando Carlo VIII effettivamente passò le Alpi, tutta Italia gli corse incontro con tal giubilo, che restarono maravigliati egli stesso e le sue genti.[174] Nella fantasia degli italiani (si rammenti per tutti il Savonarola) era pur sempre viva l'immagine ideale di un grande e giusto redentore del loro paese venuto dal di fuori, con questo soltanto che non doveva essere più l'imperatore invocato da Dante, ma uno dei Capetingi di Francia. Vero è che l'illusione doveva tosto [124] svanire colla di lui ritirata; ma pure quanto ci volle prima che si riconoscesse generalmente che tanto Carlo VIII, quanto Luigi XII e Francesco I non intesero la vera loro missione in Italia, e si lasciarono invece guidare da moventi al tutto meschini e contrari ai loro stessi interessi! — I principi dal canto loro cercarono di servirsi anch'essi della Francia, ma in modo affatto diverso. Allorchè furono finite le guerre anglo-francesi e Luigi XI stendeva d'ogni parte le sue reti, mentre Carlo di Borgogna si cullava in progetti da romanzo, i gabinetti italiani si fecero ad essi premurosamente incontro e l'intervento francese doveva necessariamente prima o dopo avverarsi, anche senza le pretensioni straniere su Napoli e su Milano, con altrettanta certezza, quanto era quella che, per esempio, a Genova ed in Piemonte esso aveva omai avuto luogo da tempo non breve. I veneziani l'aspettavano ancora fin dall'anno 1462.[175] Quali angosce mortali abbia provato il duca Galeazzo Maria di Milano durante la guerra di Borgogna, nella quale egli, alleato apparentemente tanto di Luigi XI che di Carlo, doveva ad ogni momento aspettarsi una sorpresa da parte di entrambi, lo si tocca con mano dalle sue stesse corrispondenze.[176] Il sistema di un equilibrio dei quattro Stati principali d'Italia, quale lo intendeva Lorenzo il Magnifico, non fu in ultimo che il postulato di una mente chiara, lucida, perseverante nel suo ottimismo, pel quale, sollevandosi al di sopra della scellerata politica [125] degli esperimenti, nonchè dei pregiudizi guelfi de' fiorentini, egli si ostinava sempre a sperare il meglio. E quando Luigi XI gli offerse un aiuto d'uomini nella guerra contro Ferrante di Napoli e Sisto IV, si sa ch'egli disse: «io non posso ancora anteporre il mio particolare vantaggio al pericolo di tutta Italia; volesse Iddio, che ai re di Francia non venisse mai in mente di sperimentare le loro forze in questo paese! Quando ciò accada, l'Italia sarà perduta».[177] Ma per altri principi invece il re di Francia è alternativamente un mezzo o una causa di terrore, ed essi minacciano di chiamarlo ogni volta che in qualsiasi imbarazzo non sanno trovare da sè un espediente. I Papi poi credevano addirittura di poter fare a fidanza con questa stessa Francia più di qualsiasi altro, ed Innocenzo VIII s'immaginava già di poter nel suo dispetto ritirarsi al di là delle Alpi, per tornar poscia in Italia in qualità di conquistatore alla testa di un'armata francese.[178]

Tutti gli uomini serii adunque previdero la conquista straniera ancor lungo tempo prima della discesa di Carlo VIII.[179] E quando questi, ritirandosi, ripassò le Alpi, apparve chiaro agli occhi di tutti, che da quel momento in avanti l'êra degl'interventi era omai cominciata. D'allora in poi una sventura tien dietro all'altra e troppo tardi si comprende, che la Francia e la Spagna, [126] i due principali invasori, sono divenute frattanto due grandi potenze moderne, che non possono omai più star contente a semplici omaggi di forma, ma hanno bisogno di lottar sino all'ultimo per assicurarsi un'influenza e un possesso in Italia. Esse hanno cominciato a somigliare agli Stati italiani centralizzati, anzi ad imitarli, ma in proporzioni ben più colossali. I progetti di rapine o di scambi di paesi si moltiplicano per un certo tempo all'infinito. Ma, come è noto, la prevalenza finale toccò alla Spagna, la quale, come spada e scudo della Controriforma, tenne anche il Papato in una lunga soggezione. Le tristi meditazioni dei filosofi d'allora in poi non ebbero altro tema, che la mala fine di tutti coloro, che aveano chiamati i barbari.


Ma nel secolo XV si entrò anche in lega aperta coi Turchi, nè ciò parve destare alcun ribrezzo, stimandosi questo un espediente politico, come qualunque altro. L'idea di una solidarietà degli stati cristiani d'occidente avea già sofferto qualche scossa ancora durante il periodo delle crociate, e Federico II parve poi averla abbandonata del tutto. Ma il nuovo avanzarsi dei Turchi da un lato, e la profonda miseria e lo scadimento dell'Impero greco dall'altro, avevano in seguito risvegliato quei vecchi sentimenti (se non anche l'antico entusiasmo religioso) in tutta l'Europa occidentale. L'Italia sola costituì anche in questo riguardo una singolare eccezione. Infatti, per quanto grande vi fosse lo spavento dei Turchi e per quanto serio il pericolo, non vi fu tuttavia quasi nessuno Stato di qualche importanza, che, almeno una qualche volta, non abbia slealmente cospirato con Maometto II e co' suoi successori a danno di altri Stati italiani. E dove ciò non seguì effettivamente, lo si sospettò [127] almeno sempre reciprocamente, nè in ciò v'era maggiore malignità di quando, per esempio, i Veneziani incolparono l'erede del trono di Napoli, Alfonso, di aver mandato appositi incaricati ad avvelenare le cisterne di Venezia[180]. Da un ribaldo, quale era Sigismondo Malatesta, non poteva aspettarsi nè si aspettava di meglio, se non che una volta o l'altra chiamasse in Italia i Turchi[181]. Ma anche gli Aragonesi di Napoli, ai quali Maometto — e, si pretende, ad istigazione di altri governi italiani[182] — tolse un giorno Otranto, aizzarono in seguito il sultano Bajazet II contro Venezia[183]. Della stessa colpa fu accusato anche Lodovico il Moro: «il sangue dei caduti e il grido de' vecchi prigionieri venuti in mano ai Turchi invocano da Dio su lui la vendetta», scrive l'annalista del suo Stato. In Venezia, dove si sapeva tutto, si sapeva anche che Giovanni Sforza, principe di Pesaro e cugino del Moro, aveva albergato in sua casa gli ambasciatori turchi, che passavano per di là diretti a Milano[184]. Dei Papi del secolo XV i due più rispettabili, [128] Nicolò V e Pio II, sono morti in profondo rammarico pei progressi dei Turchi, anzi l'ultimo in mezzo agli apprestamenti di una crociata, che egli stesso voleva guidare: i loro successori invece truffano il così detto obolo turco raccolto in tutta la cristianità e profanano l'indulgenza accordata, facendone una sordida speculazione pecunaria per sè.[185] Innocenzo VIII si presta a far da carceriere al fuggiasco principe Zizim verso un tributo annuo pagatogli dal di lui fratello Bajazet II, e Alessandro VI aiuta a Costantinopoli le pratiche fatte da Lodovico il Moro per provocare un attacco dei Turchi contro Venezia (1498), su di che questa lo minaccia della convocazione di un Concilio.[186] Da ciò può ben vedersi che la famosa alleanza di Francesco I con Solimano II non aveva in sè nulla di nuovo, nè di inaudito. Del resto non mancavano neanche talune popolazioni, alle quali la signoria dei Turchi non pareva omai più una cosa così spaventevole. E quand'anche esse non l'avessero fatta servire che come una minaccia contro governi eccessivamente tirannici all'interno, sarebbe pur sempre questo un indizio, che si era già cominciato a famigliarizzarsi con questa idea. Già ancora nel 1480 Battista Mantovano lascia chiaramente intendere, che la maggior parte degli abitanti della costa adriatica prevedevano qualche cosa di simile, ed Ancona anzi se ne [129] mostrava desiderosa.[187] Allorquando la Romagna sotto Leone X sentì più che mai il peso dell'oppressione, un inviato di Ravenna non esitò a dire apertamente al legato pontificio, il cardinale Giulio de' Medici: «Monsignore, la serenissima Repubblica di Venezia non ci vuole, per non entrare in contese colla Chiesa; ma se il Turco verrà a Ragusa, noi ci daremo a lui»[188].

Di fronte all'assoggettamento omai cominciato d'Italia per opera degli Spagnuoli è un conforto ben meschino, ma non del tutto irragionevole, il pensare, che almeno per questo assoggettamento l'Italia andò salva dalla barbarie, alla quale l'avrebbe ricondotta la signoria turca.[189] Da sè sola, divisa com'era, difficilmente avrebbe potuto sottrarsi a un tale destino.


Se, dopo tutto questo, qualche cosa di buono può dirsi della politica italiana d'allora, ciò non può riferirsi che al modo positivo, spregiudicato e pratico di trattar le questioni, che non erano intorbidate nè da paura, nè da passione, nè da male intenzioni. Qui non esiste più il sistema feudale nel senso inteso dai settentrionali, co' suoi diritti dedotti paradossalmente; ma la potenza di fatto che ognuno possiede, la possiede, di regola, per [130] intero. Qui al seguito del principe non si ha quella nobiltà riottosa, che altrove tien desto nell'animo del monarca un astratto punto d'onore e tutte le strane conseguenze che ne derivano, ma principi e consiglieri convengono in questo, che non si deve agire che conformemente allo stato delle cose e secondo gli scopi, che si vogliono conseguire. Contro gli uomini, dei quali si accettano i servigi, contro gli alleati, da qualsiasi parte essi vengano, non esiste nessun pregiudizio di casta, che possa per avventura tenerne lontano qualcuno, e una prova anche soverchia se ne ha nella posizione fatta ai Condottieri, dei quali riesce perfettamente indifferente l'origine. Per ultimo i governi, in mano di despoti illuminati, conoscono il proprio paese e quello dei lor vicini incomparabilmente più addentro, che i loro contemporanei d'oltr'alpe non conoscessero i loro, e calcolano la capacità di giovare o di nuocere di amici e nemici sin nei menomi particolari, tanto nel rispetto morale che economico: in una parola, appajono, ad onta dei più grossolani errori, nati fatti per la politica.


Con uomini di questa tempra si poteva trattare, si poteva tentare la persuasione e sperare anche di convincerli, quando si mettessero loro dinanzi buone ragioni di fatto. Quando Alfonso il Magnanimo di Napoli cadde prigioniero (1434) nelle mani di Filippo Maria Visconti, egli seppe persuadere quest'ultimo che il dominio della casa d'Angiò sopra Napoli, sostituito al suo, avrebbe reso i Francesi padroni di tutta Italia, e il duca mutò proposito, rilasciò Alfonso senza riscatto, e si strinse in alleanza con esso.[190] Difficilmente un principe settentrionale [131] avrebbe operato così, e certamente poi nessuno, che in fatto di moralità avesse avuto gli strani principj del Visconti. Una ferma fiducia nella potenza delle ragioni di fatto appare anche nella celebre visita, che Lorenzo il Magnifico fece, tra lo spavento generale dei Fiorentini, allo sleale Ferrante di Napoli, il quale certamente risentì la tentazione non troppo benevola di ritenerlo prigioniero.[191]

Ma l'imprigionare un gran principe e il lasciarlo poi vivo e libero, dopo strappatagli qualche concessione e inflittegli profonde umiliazioni, come fece Carlo il Temerario con Luigi XI a Péronne (1468), agli Italiani d'allora sarebbe sembrata una vera follia;[192] per ciò Lorenzo o non si aspettava più, o si aspettava colmo di gloria. — Del medesimo tempo è altresì un'arte di persuasione politica tutta propria degli ambasciatori veneziani, della quale oltre le Alpi non s'ebbe un'idea se non per mezzo degl'Italiani, e che non deve essere giudicata dai discorsi recitati nei ricevimenti ufficiali, perchè questi ultimi sono un prodotto rettorico delle scuole umanistiche, e nulla più. E non mancano nemmeno tratti violenti e ingenuità singolari,[193] a dispetto del ceremoniale, che rigorosamente è osservato. Ma anche in questo niuno appare tanto originale, quanto il Machiavelli nelle sue «Legazioni». Fornito di scarse istruzioni, malamente equipaggiato, trattato [132] sempre come un incaricato di secondo ordine, egli tuttavia non perde mai il suo spirito elevato di osservazione e di profonda indagine. — Da indi in poi l'Italia è e rimane di preferenza il paese delle «Istruzioni» e delle «Relazioni» politiche. Anche altri Stati certamente negoziano con somma abilità, ma l'Italia soltanto ce ne ha conservato in sì gran numero le prove documentate, che risalgono ad un tempo così lontano. Già il lungo dispaccio intorno agli ultimi momenti della vita del torbido Ferrante di Napoli (17 gennaio 1494), scritto di mano del Pontano e indirizzato al gabinetto di Alessandro VI, porge la più alta idea di questo genere di scritti politici, eppure non è stato citato che incidentalmente e come uno dei moltissimi da lui lasciati.[194] Ma quanti di non minore importanza e vivacità, inviati ad altri gabinetti sul finire del secolo XV e sul cominciare del XVI, non giaceranno inediti, per tacere anche dei posteriori! — Però dello studio dell'uomo nel rapporto sociale e privato, che va di pari passo con lo studio delle condizioni generali di questi italiani, ci occuperemo più innanzi in apposita trattazione.

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CAPITOLO X. La guerra come opera d'arte.

Le armi da fuoco. — Conoscitori e dilettanti. — Orrori guerreschi.

Giunti a questo punto, diremo ora in poche parole come a questo tempo anche la guerra abbia assunto il carattere e l'aspetto di una vera opera d'arte. Durante il medio-evo l'educazione guerresca in tutto l'occidente era perfetta dentro la cerchia del sistema prevalente di difesa e d'attacco; inoltre vi furono anche in ogni tempo ingegnosi inventori nell'arte delle fortificazioni e degli assedi; ma tanto la strategia, quanto la tattica trovarono non pochi ostacoli al pieno loro svolgimento nella natura stessa e nella durata del servizio militare, nonchè nelle ambizioni della nobiltà, la quale di fronte al nemico era capace di ostinarsi a questionare sulla preminenza del posto e di mandar a male in tal modo colla sua indisciplina le più importanti fazioni, come accadde in quelle di Crécy e di Maupertuis. Presso gl'Italiani invece prevalse assai per tempo il sistema delle truppe mercenarie affatto diversamente organizzate, ed anche la sollecita introduzione delle armi da fuoco contribuì dal canto suo non poco a demoralizzare in certo modo la guerra, non solamente perchè i castelli meglio agguerriti [134] tremavano all'urto delle bombarde, ma perchè l'abilità dell'ingegnere, del fonditore e dell'artigliere, sorti dalla borghesia, acquistava ogni dì più la prevalenza. Si vedeva infatti, e non senza rincrescimento, che il valore personale — che era tutto nelle piccole compagnie mercenarie egregiamente organizzate — veniva a scemare non poco di pregio dinanzi a quei potenti mezzi di distruzione che agivano sì da lontano, e non mancarono Condottieri, che, non potendo altro, si rifiutarono almeno di ammettere il fucile da poco inventato in Germania,[195] come fece Paolo Vitelli, il quale per di più faceva cavar gli occhi e tagliare le mani agli schioppettieri che gli capitavano tra mano[196], mentre poi accettava e adoperava i cannoni come armi legittime. Ma nella generalità si lasciarono prevalere le nuove invenzioni e si cercò di trarne il maggior profitto possibile, per modo che gl'Italiani tanto pei mezzi d'attacco, quanto per la costruzione delle fortezze divennero i maestri di tutta Europa. Principi quali un Federigo da Urbino e un Alfonso di Napoli, si procurarono tali cognizioni in questa materia da far parere quasi un principiante in loro confronto lo stesso imperatore Massimiliano I. In Italia, prima che altrove, si hanno una scienza ed un'arte della guerra trattate in modo affatto sistematico e razionale, e qui pure s'incontrano i primi esempi di guerre condotte con un intento puramente artistico, quale poteva conciliarsi benissimo coi frequenti mutamenti di parte o col modo di agire affatto spassionato e neutrale dei Condottieri. [135] Durante la guerra milanese-veneziana del 1451 e 52, combattuta tra Francesco Sforza e Jacopo Piccinino, seguiva il quartier generale di quest'ultimo il letterato Porcellio, incaricato dal re Alfonso di Napoli di stendere su di essa una Relazione.[197] Questa è scritta in un latino non troppo puro, ma facile, colle ampollosità umanistiche allora in uso, e nel complesso tende ad imitare i commentari di Giulio Cesare, con fioriture di concioni, prodigi e simili: e siccome da cento anni si disputava, se Scipione l'Africano il vecchio fosse stato più grande di Annibale o Annibale di Scipione,[198] così il Piccinino dovette rassegnarsi a fare in tutta l'opera le parti di Scipione, come lo Sforza faceva quelle di Annibale. Ma anche sulle truppe milanesi dovendo pur riferire qualche cosa di positivo, il sofista non esitò di presentarsi allo Sforza, il quale lo fe' condurre per tutte le file: egli lodò altamente ogni cosa e promise di eternare ne' suoi scritti quanto aveva veduto.[199] Del resto, la letteratura italiana d'allora è ricca di descrizioni guerresche e di aneddoti tanto per uso del dotto teorico, quanto delle persone colte in generale, e ciò forma un forte distacco dalle relazioni contemporanee redatte al nord, dove per esempio, quella di Diebold Schilling sulla guerra di Borgogna conserva ancora la nuda ed arida esattezza di una informe cronaca. Fu allora che il gran dilettante di cose guerresche,[200] il Machiavelli, scrisse la sua «Arte della guerra». [136] Ma lo sviluppo subbiettivo del guerriero preso individualmente trovò la sua più compiuta espressione in quelle lotte solenni di due o più parti, che già molto tempo prima della sfida di Barletta (1503) erano in uso.[201] In queste il vincitore era sicuro di un genere di apoteosi, che gli mancava al nord: quella che gli veniva dalla bocca dei poeti e degli umanisti. Nell'esito di queste lotte non si vede più il giudizio di Dio, ma una vittoria del valor personale, e — per gli spettatori — la decisione di una gara assai tesa, insieme ad una soddisfazione data alle velleità ambiziose di un esercito o della intera nazione.

S'intende da sè che tutti questi modi di trattar le cose di guerra da un punto di vista razionale e subbiettivo non mancavano, in date circostanze, di far luogo anche ad orribili crudeltà, senza che ci entrasse nemmeno l'odio politico, ma solo in vista di permettere un saccheggio, che per avventura fosse stato promesso. Dopo la spogliazione di Piacenza, che non durò meno di quaranta giorni e che lo Sforza avea dovuto concedere ai suoi soldati (1447), la città per buon tratto rimase vuota del tutto, e per ripopolarla nuovamente si dovette usar la violenza.[202] Ma tali fatti sono ancor poco in paragone [137] dei mali, che l'Italia ebbe a soffrire più tardi dalle truppe straniere, e specialmente poi da quegli Spagnuoli, nei quali forse una vena di sangue arabo e fors'anche l'abitudine alle atrocità della Inquisizione svegliarono il lato più perverso della natura umana. Chi impara a conoscerli nelle nefandità commesse a Prato, a Roma ed altrove, non sa poi qual concetto formarsi di Ferdinando il Cattolico e di Carlo V, che, pur conoscendo l'indole di tali mostri, non si peritarono tuttavia di lasciarli inferocire a loro talento. Il cumulo degli atti consumatisi nei loro gabinetti, e che mano mano vengono prodotti alla luce del giorno, potrà restare come una fonte storica della più alta importanza; — ma nessuno negli scritti di tali principi cercherà più un pensiero politico vivificatore.

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CAPITOLO XI. Il Papato e i suoi pericoli.

Posizione di fronte all'estero e all'Italia. — Torbidi a Roma da Nicolò V in poi. — Sisto IV signore di Roma. — Progetti del cardinale Pietro Riario. — Il nepotismo politico in Romagna. — Cardinali di case principesche. — Innocenzo VIII e suo figlio. — Alessandro VI come spagnuolo. — Relazioni coll'estero e simonia. — Cesare Borgia e suoi rapporti col padre. — Suoi ultimi progetti. — Minacciata secolarizzazione dello Stato pontificio. — I mezzi violenti. — Gli assassinii. — Gli ultimi anni. — Giulio II restauratore del Papato. — Elezione di Leone X. — Suoi progetti pericolosi in politica. — Pericoli esterni crescenti. — Adriano VI. — Clemente VII e il sacco di Roma. — Conseguenze di esso e reazione. — Riconciliazione di Carlo V col Papa. — Il Papato della Contro-riforma.

Del Papato e dello Stato pontificio, come creazioni affatto eccezionali, noi non ci siamo occupati fin qui se non incidentalmente affatto e solo per istabilire il carattere degli Stati italiani in generale.[203] Allo Stato pontificio mancava quasi affatto ciò che invece caratterizza in modo speciale gli altri Stati, vale a dire il ben calcolato aumento e la concentrazione dei mezzi della potenza, appunto perchè il potere spirituale aiutava dal [140] canto suo a coprire e a sostituire il difettoso svolgimento del temporale. Eppure per quali solenni prove non è esso passato nel secolo XIV e nei primi anni del XV! Quando il Papato fu trasportato nella cattività di Avignone, tutto andò in sulle prime a soqquadro, ma la corte avignonese aveva danari, truppe ed un grand'uomo di Stato, che al tempo stesso era un gran capitano, lo spagnuolo Albornoz, che sottomise e tornò all'obbedienza i ribelli. E di gran lunga ancora più grave fu il pericolo di un definitivo sfacelo, allorchè sopraggiunse lo scisma, e coll'andar del tempo nè il papa romano, nè quello di Avignone aveano forze e ricchezze bastanti per sottomettere nuovamente lo Stato perduto; ma, dopo restaurata l'unità della Chiesa, la cosa riuscì nuovamente sotto Martino V, e riuscì una seconda volta ancora, dopochè sotto Eugenio IV il pericolo s'era ancor rinnovato. Senonchè lo Stato della Chiesa era, e rimase per allora, una completa anomalia fra tutti gli altri Stati d'Italia: in Roma e nel suo territorio resistettero al potere dei Pontefici le grandi famiglie dei Colonna, dei Savelli, degli Orsini, degli Anguillara ed altre: nell'Umbria, nelle Marche, nelle Romagne, se non v'era più quasi nessuna di quelle repubbliche, alle quali il Papato s'era mostrato sì poco riconoscente pel loro attaccamento, vi era invece una moltitudine di grandi e piccole case principesche, l'ubbidienza e la fedeltà delle quali non volevano dire gran cosa. Come dinastie a sè e sussistenti per forza propria, hanno tuttavia anche esse la loro speciale importanza, e da questo punto di vista noi trovammo più sopra (v. pag. 37, 59) conveniente di toccare almeno di quelle che primeggiavano sulle altre. Ciò non ostante, non vogliamo dispensarci qui da alcune brevi considerazioni sullo Stato della Chiesa preso nel suo insieme. [141] Esso sin dalla metà del secolo XV trovasi esposto a nuove crisi e a nuovi pericoli, perchè lo spirito della politica italiana cerca da diverse parti d'invadere anche la Curia e di tirarla nelle sue vie. Ma i pericoli che vengono dal di fuori o dal popolo, sono sempre i minori; i maggiori hanno la loro origine nelle tendenze stesse dei Papi.

Innanzi tutto lasciamo da parte i paesi esteri di là dalle Alpi. Se in Italia il Papato trovavasi sotto la minaccia di pericoli gravissimi, non era certamente quello il momento, in cui avessero potuto o voluto prestargli un aiuto nè la Francia sotto la tirannia di Luigi XI, nè l'Inghilterra ai primordi della guerra delle due Rose, nè la Spagna in preda ai più grandi rivolgimenti, nè la Germania stessa tradita nel concilio di Basilea. Anche in Italia v'era bensì un certo numero di uomini colti ed idioti, che riguardavano come un vanto nazionale la presenza del Papa nel paese, ma i più per soli interessi privati, e moltissimi per una gran fede nel valore delle benedizioni papali,[204] tra i quali quello stesso Vitellozzo [142] Vitelli, che invocava l'assoluzione di Alessandro VI nel momento stesso, in cui il figlio del Papa lo faceva strozzare.[205] Ciò non ostante, tutte queste simpatie non sarebbero bastate a salvare il Papato di fronte ad avversari veramente risoluti, e che avessero saputo trar profitto dall'odio e dal rancore che esistevano contro di lui.

Ora egli fu appunto in un momento di così generale abbandono, che anche all'interno si manifestarono i più serii pericoli. Già pel fatto stesso del trovarsi la Chiesa imbevuta delle stesse massime che informavano la politica degli altri principati italiani, essa doveva sentirne le scosse più fiere: il suo proprio carattere v'arrecò poi urti affatto particolari.


Per quanto riguarda, prima d'ogni altra cosa, la città di Roma, era già da tempo invalsa la consuetudine di non dare importanza alcuna alle sue agitazioni interne, poichè tanti Papi cacciati da tumulti popolari erano sempre tornati, e i Romani stessi dovevano nel proprio interesse desiderare la presenza della Curia a Roma. Ma non è men vero per questo, che Roma di tempo in tempo non solo si mostrò proclive ad idee più o men radicali,[206] ma nelle cospirazioni che minacciavano la sicurezza [143] dei Pontefici, ubbidì a mani invisibili, che la guidavano dal di fuori. Così accadde, per esempio, nella congiura di Stefano Porcari contro quel Papa, che per l'appunto aveva procurato a Roma i maggiori vantaggi, Nicolò V (1453). Il Porcari mirava ad un rovesciamento della signoria dei Papi in generale, e in ciò avea grandi complici, i quali bensì non vengono nominati,[207] ma devono cercarsi fra i governi italiani d'allora. Sotto lo stesso pontificato Lorenzo Valla chiudeva la sua famosa invettiva contro la donazione di Costantino, augurando l'immediata secolarizzazione dello Stato pontificio.[208]

Anche la congrega di cospiratori, colla quale ebbe a lottare Pio II (1495), non nascondeva che il suo scopo era in generale la caduta del dominio dei preti, e il capo di essa, Tiburzio, ne riversava la colpa sui profeti, che gli avevano promesso l'adempimento di quel suo desiderio in quello stesso anno.[209] Parecchi grandi romani, il principe di Taranto e il condottiero Jacopo Piccinino n'erano complici e promotori. E se si ripensa al ricco [144] bottino, che ad ogni momento poteva riguardarsi come pronto nei palazzi dei maggiori prelati (i congiurati aveano messo gli occhi specialmente sui tesori del cardinale di Aquileja), sorprenderà piuttosto che in una città quasi sempre così priva di sorveglianza tali tentativi non fossero invece più frequenti e più fortunati. Non per nulla Pio II risiedeva più volentieri dovunque, anzichè a Roma, ed anche Paolo II ebbe a provare nel 1468 un forte spavento per una congiura, supposta o reale, di questa specie[210]. I Pontefici dovevano o quando che sia soggiacere a tali assalti, o domare colla forza le fazioni dei grandi, sotto la protezione dei quali simili rapaci tentativi venivano ogni dì più aumentando.


E questo fu appunto il compito che si propose il terribile Sisto IV. Egli fu il primo ad aver Roma e il suo territorio quasi compiutamente nelle sue mani, massimamente dopo la persecuzione inflitta ai Colonnesi, e per questo potè anche, sì negli affari della Chiesa, come in quelli della politica italiana, procedere con tanta franchezza di fronte alle lagnanze e perfino alle minaccie di convocare un Concilio, che venivano dall'occidente. I mezzi necessarii li forniva una simonia, che tutto ad un tratto cominciò ad eccedere ogni misura, e alla quale soggiacevano tanto le nomine dei cardinali, quanto quelle dei dignitari inferiori, nonchè le grazie o concessioni di qualsiasi specie[211]. Sisto stesso non avea potuto ottenere la dignità papale senza ricorrere ad un tal mezzo.

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Era naturale che una corruzione così universalmente estesa dovesse quando che sia tirare addosso alla sedia papale disastrosissime conseguenze; ma queste in allora sembravano ancora molto lontane. Diversamente invece andò la cosa rispetto al nepotismo, che minacciò perfino un momento di rovesciare dai cardini il Pontificato. Fra tutti i nipoti, il cardinale Pietro Riario fu quegli, che in sulle prime godeva il maggiore e quasi l'esclusivo favore di Sisto, nel tempo stesso che del suo nome riempiva tutta l'Italia, sia pel suo lusso smodato, sia per le voci che correvano sulla sua empietà e sulle sue mire politiche.[212] Egli s'accordò col duca Galeazzo Maria di Milano (1473), allo scopo che questi dovesse diventar re della Lombardia ed aiutar poi lui con danaro e con uomini a salire sul trono papale al suo ritorno in Roma: Sisto, a quanto sembra, glielo avrebbe ceduto spontaneamente.[213] Questo progetto, che sarebbe riuscito ad una secolarizzazione dello Stato pontificio mediante l'ereditarietà del trono, fallì poi per la morte subitanea di Pietro. Il secondo nipote, Girolamo Riario, non abbracciò lo stato ecclesiastico e non toccò quindi il Pontificato; ma dopo di lui i nipoti dei Papi tennero in continui scompigli l'Italia con gli sforzi che fecero per procacciarsi [146] un gran principato. Per lo innanzi alcuni Papi aveano tentato di far valere la loro supremazia feudale su Napoli a favore dei loro congiunti;[214] ma, dopochè ciò non era riuscito neanche a Calisto III, non era il caso di più pensarvi, e Girolamo Riario, deluso anche nel tentativo di assoggettar Firenze (e chi sa in quanti altri progetti), dovette accontentarsi di fondare una Signoria nello Stato stesso della Chiesa. Fino ad un certo punto la cosa poteva giustificarsi col dire che la Romagna, co' suoi principi e tiranni sparsi per le città, minacciava già di svincolarsi compiutamente dalla supremazia papale, che essa in breve avrebbe potuto divenir preda degli Sforza o dei Veneziani, se Roma non si appigliava a questo spediente. Ma chi, in tempi simili e in tali condizioni, si sarebbe fatto mallevadore di un'obbedienza durevole da parte di tali nipoti divenuti sovrani o dei loro discendenti verso Papi, coi quali non avessero più alcun vincolo di parentela? Perfino i Papi ancora viventi non erano sicuri dei propri figli o nipoti, perchè troppo prossima era la tentazione di cacciare il nipote di un predecessore per sostituirvi il proprio. Il contraccolpo di questo stato di cose sul Papato stesso costituiva un pericolo gravissimo: esso si trovava, cioè, costretto ad usar tutti i mezzi coercitivi, anche gli spirituali, per uno scopo dei più equivoci, al quale dovevano subordinarsi tutti gli altri della sedia papale; e se l'intento era raggiunto con tali mezzi e fra l'odio di tutti, si creava una dinastia, che avrebbe avuto il più grande interesse alla caduta del Papato.

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Quando Sisto morì, Girolamo non potè sostenersi nel principato usurpato (Imola e Forlì) se non a gran fatica e soltanto colla protezione e l'aiuto della famiglia Sforza, dalla quale usciva sua moglie. Ora nel Conclave successivo (1484), — nel quale fu eletto Innocenzo VIII, — si vide un fatto, che somigliava quasi ad una nuova garanzia esterna del Papato, vale a dire due cardinali di case regnanti, che per denaro e dignità si lasciarono vergognosamente corrompere: Giovanni d'Aragona, figlio del re Ferrante, ed Ascanio Sforza, fratello del Moro.[215] Così almeno le due case di Napoli e di Milano s'interessavano, per amor del bottino, al mantenimento della signoria papale. Anche nel Conclave seguente, nel quale tutti i cardinali simoneggiarono, ad eccezione di soli cinque, Ascanio si lasciò nuovamente corrompere con forti donativi, non senza riserbarsi però la speranza di divenir Papa egli stesso un'altra volta.[216]

Lorenzo il Magnifico dal canto suo desiderava altresì che la casa Medici non andasse colle mani vuote. Egli diè in moglie sua figlia Maddalena al figlio del nuovo Papa, Franceschetto Cybo, e s'attendeva non solo ogni specie di favori per suo figlio Giovanni (il futuro Leone X), ma anche un sollecito innalzamento del genero.[217] Però, quanto a quest'ultima speranza, egli pretendeva l'impossibile. Sotto Innocenzo VIII non era il caso di veder sorgere quell'audace nepotismo, che fondava Stati, appunto. [148] per questo che Franceschetto era uomo di scarso ingegno e, al pari del Papa suo padre, non era sollecito d'altro che di godere la potenza nel modo il più grossolano, specialmente accumulando enormi somme di danaro[218]. Tuttavia la maniera, colla quale il padre e il figlio condussero quell'affare, alla lunga non avrebbe mancato di riuscire ad una pericolosissima catastrofe, lo scioglimento dello Stato.

Se Sisto s'era arricchito colla vendita di ogni sorta di grazie e di dignità, Innocenzo e suo figlio eressero addirittura una banca di grazie temporali, nella quale, dietro il pagamento di tasse alquanto elevate, poteva ottenersi l'impunità per qualsiasi assassinio e delitto: di ogni ammenda cento cinquanta ducati ricadevano alla Camera papale, il di più a Franceschetto. E così Roma, come era naturale, negli ultimi anni specialmente di questo pontificato, formicolava d'ogni parte di assassini protetti e non protetti: le fazioni, la cui repressione era stata la prima opera di Sisto, rialzarono il capo in modo spaventoso: ma il Papa, chiuso e ben custodito nel Vaticano, non si preoccupava d'altro, che di porre qua e là qualche agguato, per farvi cader dentro malfattori, che avessero mezzi di ben pagare. Per Franceschetto la questione principale era di sapere come avesse potuto piantar tutti con quanti più tesori poteva, nel caso che il Papa venisse a morire. Egli si tradì una volta nell'occasione che di questa morte, omai aspettata, corse [149] una falsa notizia (1490); addirittura egli voleva portare con sè tutto il danaro esistente nelle casse, e quando quelli stessi che lo circondavano, glielo impedirono, volle almeno che lo seguisse il principe turco Zizim, che egli riguardava come un capitale vivente da potersi cedere per avventura a patti vantaggiosissimi a Ferrante di Napoli.[219] Egli è sempre malagevole il voler calcolare tutte le eventualità politiche di un'epoca omai remota: ma qui sorge da sè la domanda: come Roma sarebbe stata in grado di sostenersi con due o tre pontificati di questo genere? Di fronte poi all'Europa niuna maggiore imprudenza che lasciar andare le cose tant'oltre, che non soltanto i viaggiatori e i pellegrini, ma un'ambasceria intera spedita da Massimiliano, re dei Romani, fu in prossimità di Roma assalita e spogliata così completamente, che taluni degl'inviati tornarono addietro senza nemmeno aver toccato le porte della città!


Alessandro VI, uomo dotato di attitudini non comuni, salì al potere coll'idea di goderlo nel pieno significato della parola (1492-1503): e siccome con questa idea non poteva certamente conciliarsi uno stato di cose, quale lo abbiamo descritto, il primo suo atto fu l'immediato ristabilimento della pubblica sicurezza e il puntuale pagamento di tutti gli stipendi.

Rigorosamente parlando, noi potremmo qui pretermettere questo Pontificato, appunto perchè non parliamo che delle diverse forme che assunse la civiltà italiana, e i Borgia non erano italiani più di quello che lo fosse la casa allora regnante di Napoli. Alessandro, parlando [150] in pubblico con Cesare, si serviva sempre della lingua spagnuola: Lucrezia al suo ingresso in Ferrara (dove portò le mode spagnuole) fu festeggiata da buffoni pure spagnuoli: di spagnuoli si compose il servidorame più fidato della famiglia, nonchè le bande famigerate di Cesare nella guerra del 1500, e pare che lo stesso suo carnefice, don Micheletto, e il suo avvelenatore Sebastiano Pinzon sieno stati anch'essi spagnuoli. Finalmente anche Cesare, fra le altre sue gesta, si mostrò vero spagnuolo, quando atterrò, secondo tutte le regole dell'arte, sei tori selvaggi in campo chiuso. La corruzione soltanto, di cui questa famiglia sembra la personificazione vivente, non potrebbe dirsi portata a Roma da essa, quando già, come vedemmo, vi preesisteva e in sì larga misura.

Di questi Borgia e delle loro gesta molto e in più modi fu scritto. Il loro scopo immediato era l'assoggettamento completo dello Stato della Chiesa, e lo ottennero in fatto, schiacciando tutti i piccoli signori — più o meno impotenti vassalli della Chiesa — o annientandoli,[220] e togliendo di mezzo in Roma le due grandi fazioni che la padroneggiavano, gli Orsini che la pretendevano a Guelfi, i Colonnesi che avrebbero voluto passare per Ghibellini. Ma i mezzi, di cui si fece uso, furono così spaventevoli, che il Papato necessariamente avrebbe dovuto andare in rovina, se un avvenimento incidentale (l'avvelenamento contemporaneo del padre e figlio) non avesse improvvisamente mutato la faccia delle cose. — Vero è che all'indegnazione che sorgeva dalle [151] coscienze di tutto l'Occidente, Alessandro non avea bisogno di badare gran fatto: intorno a sè egli sapeva farsi temere e rispettare: i principi stranieri si lasciavano comperare e Luigi XII specialmente gli prestò ogni ajuto possibile; e quanto alle popolazioni, esse non avevano nemmeno un sentore di quanto accadeva nell'Italia di mezzo. L'unico momento veramente pericoloso, nell'approssimarsi di Carlo VIII, passò contro ogni aspettazione felicemente, e d'altronde anche allora non trattavasi del Papato come tale,[221] ma di una deposizione di Alessandro per far luogo ad un Papa migliore. Il massimo e durevole e sempre crescente pericolo pel Pontificato stava in Alessandro stesso e più ancora in suo figlio Cesare Borgia.

Nel padre l'ambizione, l'avidità e la depravazione erano congiunte con un'indole energica, e con tendenze assai splendide. Tutti i godimenti che può dar la potenza, egli volle goderli sino dal primo giorno e in ampia misura. Nella scelta dei mezzi che doveano condurlo al suo scopo, egli non si mostrò mai titubante: sin dalle [152] prime tutti seppero che egli non intendeva di rifarsi soltanto dei sacrificii fatti per ottenere il Papato[222], ma voleva senz'altro che la simonia dell'acquisto fosse ampiamente sorpassata dalla simonia delle vendite. S'aggiungeva poi che Alessandro, in virtù degli ufficii di vice-cancelliere ed altri da lui anteriormente coperti, conosceva meglio d'ogni curiale tutti i mezzi possibili di far danaro. Nè egli nominò mai nessun cardinale senza un deposito anticipato di somme considerevoli. — Del resto sin dal 1494 un carmelitano, Adamo da Genova, che a Roma aveva osato predicare contro la simonia, fu trovato morto nel suo letto con ben venti ferite.


Ma quando il Papa col tempo cadde sotto il dominio del proprio figlio, i mezzi violenti presero quel carattere veramente infernale, che necessariamente reagisce perfin sugli scopi. Ciò che si fece nelle lotte coi grandi di Roma e coi tiranni delle Romagne supera, in linea di crudeltà e di perfidia, quanto di peggio commisero gli Aragonesi di Napoli, con questo di più che le arti, con cui si tradiva, erano assai più raffinate. Affatto spaventevole è il modo, con cui Cesare giunse ad isolare il padre, togliendo di mezzo il fratello, il cognato ed altri congiunti e cortigiani, non appena il favore che essi godevano presso il Papa e la loro posizione suscitarono in lui qualche [153] ombra di gelosia, Alessandro fu spinto al punto di dare il suo consenso all'uccisione del figlio suo prediletto, il duca di Gandia,[223] perchè tremava per sè stesso dinanzi a Cesare.

Ora quali erano i segreti disegni di quest'ultimo? Ancora negli ultimi mesi della sua signoria, quando egli appunto aveva finito di sterminare i condottieri a Sinigaglia ed era di fatto divenuto padrone dello Stato della Chiesa (1503), ripetevasi abbastanza modestamente da chi lo avvicinava, che egli non voleva sottomettere se non le fazioni e i tiranni, e ciò solo a vantaggio della Chiesa, ritenendo per sè tutt'al più la Romagna, e che quindi non gli sarebbe mancata la riconoscenza anche di tutti i Papi futuri, ai quali rendeva il più grande servigio, abbattendo gli Orsini e i Colonna.[224] Ma chi potrebbe ammettere che questo realmente fosse l'ultimo suo pensiero? Un po' più apertamente una volta si espresse Papa Alessandro in una conversazione avuta coll'ambasciatore veneziano, mentre raccomandava suo figlio alla protezione della Repubblica: «io voglio fare in modo, diss'egli, che un giorno il Papato tocchi o a lui o alla [154] vostra Repubblica».[225] Veramente Cesare aggiunse, che non doveva divenir Papa, se non colui che avesse avuto l'assenso di Venezia, e che a tal uopo i cardinali veneziani non aveano bisogno che di star bene uniti e compatti. Nessuno è in grado di dire, se egli con tali parole intendesse alludere a sè medesimo; ma, in ogni caso, le espressioni del padre bastano bene a provare quali fossero le sue idee circa l'occupazione del trono papale. Qualche ulteriore indizio ci viene per via indiretta da Lucrezia Borgia, potendosi presumere che certi passi delle poesie d'Ercole Strozza non sieno che l'eco di espressioni, alle quali ella, come duchessa di Ferrara, può benissimo essersi lasciata andare. Anche qui innanzi tutto si parla dell'intendimento di Cesare di farsi Papa,[226] ma in mezzo a ciò traluce altresì qualche cosa che alluderebbe ad una sperata signoria su tutta l'Italia,[227] e sulla fine si accenna al fatto che Cesare, qual principe secolare, macchinava cose grandissime e per [155] questo anche avea deposto una volta il cappello cardinalizio.[228] Infatti non è a dubitare che Cesare, fosse eletto Papa o no dopo la morte di Alessandro, pensava a conservare per sè ad ogni costo lo Stato della Chiesa, e che egli, dopo tutte le scelleratezze commesse, più facilmente poteva sperare di sostenersi come principe, che come Papa. Nessuno più di lui sarebbe stato in grado di secolarizzare lo Stato,[229] e nessuno più di lui avrebbe dovuto farlo, se voleva continuare a tenerlo. Se noi non c'inganniamo affatto, questo sarebbe il motivo principale della segreta simpatia, che il Machiavelli manifesta per questo grande ribaldo: o Cesare, o nessuno sarebbe stato capace di «estrarre il ferro dalla ferita», vale a dire, di annientare il Papato, causa di tutti gl'interventi e fonte di tutte le divisioni d'Italia. — Gl'intriganti che credevano d'indovinare le mire di Cesare, quando gli facevano balenare agli occhi la possibilità di regnare sulla Toscana, furono respinti sdegnosamente, a quanto sembra, da lui medesimo.[230]

Ma forse tutte le logiche deduzioni che si tirano da tali promesse, riescono vane, — non tanto per una speciale genialità satanica, di cui altri lo volle fornito, ma che in lui non v'era, come non v'era, per esempio, [156] nel duca di Friedland; bensì, perchè i mezzi, di cui egli si servì, erano di quelli che in generale non si conciliano con nessuna maniera pienamente logica di agire in grande. E nessuno può dire se, quando l'eccesso dei mali avesse raggiunto l'ultimo limite, una prospettiva di salute non si sarebbe nuovamente dischiusa pel Papato anche senza quell'eventualità, che affatto casualmente pose fine alla sua signoria.

Quand'anche si voglia ammettere che la distruzione di tutti i piccoli signori sparsi qua e là nello Stato della Chiesa avesse procacciato a Cesare le simpatie universali, e quand'anche si volesse altresì far servire di prova ai suoi grandiosi disegni la scelta schiera di ufficiali e soldati (i migliori d'Italia, con Leonardo da Vinci alla testa del Genio), ch'egli nel 1503 riuscì a chiamare sotto le sue bandiere, — ci son tuttavia troppi altri fatti di brutale ferocia, che contrastano apertamente con tali supposizioni e che rendono incerto il nostro giudizio su lui, come fu quello dei contemporanei. Tali sono, per esempio, le devastazioni, alle quali egli lasciò in preda lo Stato da lui appena conquistato[231] e che pur pensava di conservare e di governare: tali sono altresì le condizioni, a cui furono ridotte Roma e la Curia negli ultimi anni di quel pontificato. Sia che padre e figlio avessero preparato una vera lista di proscrizione,[232] sia che le uccisioni sieno state comandate separatamente, certo è che [157] i Borgia agirono di conserva per togliere di mezzo segretamente tutti coloro, che comecchessia fossero loro d'inciampo o dei quali essi agognassero farsi eredi. In questi casi essi non si preoccupavano più che tanto dei capitali e dei beni mobili delle loro vittime, quanto, e assai più, delle loro rendite personali provenienti dagli ufficii coperti, che il Papa era sollecito di tener lungamente vacanti per goderne i proventi, e ch'egli poi rivendeva a nuovi aspiranti a prezzi assai elevati. L'ambasciatore veneziano Paolo Capello nell'anno 1500 riferiva al Senato:[233] «ogni notte si hanno a Roma quattro o cinque uccisioni di vescovi, prelati ed altri dignitari, tanto che tutta la città trema di essere a poco a poco uccisa dal duca (Cesare)». Questi s'aggirava notturno per le vie accompagnato da' suoi,[234] e non tanto, a quel che pare, per nascondere, come Tiberio, il viso divenuto deforme, quanto e assai più per soddisfare la sua pazza sete di sangue anche su persone del tutto a lui sconosciute. Ancor nell'anno 1499 la disperazione per tali fatti era divenuta sì grande ed universale, che il popolo, rotto ogni ritegno, assalì e scannò parecchi della guardia del Papa.[235] Ma chi andava salvo dal ferro dei Borgia, non riusciva poi a sottrarsi al loro veleno. In quei casi, nei quali sembrava necessaria una certa discrezione, usarono essi di quella polvere candida come neve e [158] piacevole al gusto,[236] che non uccideva istantaneamente, ma a poco a poco, e poteva inavvertitamente mescolarsi con ogni cibo e con ogni bevanda. Il principe Zizim n'avea già fatto il saggio prima di essere consegnato da Alessandro a Carlo VIII (1495), e sulla fine della loro carriera si avvelenarono con essa il padre e il figlio, avendo per isbaglio bevuto del vino destinato ad un ricco cardinale. Il compendiatore ufficiale della storia dei Papi, Onofrio Panvinio,[237] cita i nomi di tre cardinali, che Alessandro fece avvelenare (Orsini, Ferrerio e Michiel), e tocca altresì di un quarto, che Cesare s'era incaricato di spacciare per proprio conto (Giovanni Borgia); ma in generale può dirsi che quasi nessun prelato alquanto ricco non morì a Roma in quel tempo, senza che sulla sua morte non si elevassero sospetti di questo genere. L'implacabile veleno raggiunse perfino qualche pacifico scienziato, che avea creduto evitarlo ritirandosi in qualche oscura città di provincia.

Intanto intorno al Papa le cose cominciarono a non andar più così allegramente come prima: fulmini e tempeste, che fecero crollare pareti e stanze, lo avevano già visitato anteriormente e colmatolo di spavento: ed ora che questi fenomeni si rinnovavano (1500), tutti credettero che Satana stesso ci avesse parte, e la dicevano «cosa diabolica».[238] La voce di questi fatti sembra [159] abbia cominciato a diffondersi fra i popoli nell'occasione del Giubileo dell'anno 1500 che fu frequentatissimo;[239] e il traffico scandaloso che allora si fece delle indulgenze, fece il resto e richiamò l'attenzione di tutti sulle ignominie di Roma.[240] Oltre ai pellegrini che tornavano alle loro case, si vedevano passar le Alpi strani penitenti in lunghi abiti bianchi e tra essi alcuni incappucciati fuggiaschi dello Stato pontificio, i quali assai probabilmente non avranno taciuto. Ma chi potrebbe dire sino a qual punto avrebbe dovuto giungere lo scandalo e l'indignazione di mezza Europa, prima che per Alessandro ne sorgesse un immediato pericolo? «Egli avrebbe, dice Panvinio altrove,[241] avvelenato anche gli altri cardinali e prelati, ch'erano in voce di ricchi, per divenir loro erede, se, in mezzo ai grandi progetti che macchinava pel figlio, la morte non lo avesse sorpreso». E che cosa avrebbe fatto Cesare, se nel momento in cui morì suo padre, non si fosse egli pure trovato infermo sul letto di morte? Qual Conclave non sarebbe stato quello, dal quale egli, forte di tutti i mezzi, di cui poteva disporre, fosse uscito Papa per l'elezione di un collegio di cardinali convenientemente ridotto a furia di veleno, in un momento in cui non c'era neanche da temere la vicinanza delle armi francesi? La fantasia si perde in un abisso, qualora soltanto si provi a tener dietro ad una somigliante ipotesi.


Invece si ebbe il Conclave, dal quale uscì Pio III, e [160] quasi subito dopo, quello, in cui riuscì eletto Giulio II, due elezioni, che evidentemente accennano ad un principio di reazione, che manifestavasi d'ogni parte.

Per quanto anche una critica severa trovasse a ridire sui costumi privati di Giulio II, certo è nondimeno che nei punti più sostanziali egli fu l'uomo che salvò il Papato. Osservando attentamente l'andamento delle cose sotto i pontificati seguiti a quello di suo zio Sisto IV, egli aveva potuto accorgersi di quali basi e di quali appoggi avea bisogno la potenza papale per sostenersi, e, divenuto Papa, ordinò tosto il suo governo in piena conformità a tali viste, portando all'attuazione de' suoi progetti tutta quell'energia di carattere, che non si arresta dinanzi a verun ostacolo. Portato al potere in virtù di abili maneggi, ma senza simonia alcuna, e accolto con favore dall'opinione universale, egli fe' cessare, per prima cosa, lo scandaloso traffico delle dignità ecclesiastiche. Anche alla sua corte non mancarono i favoriti, e talvolta erano i meno degni, ma egli ebbe l'inestimabile fortuna di andare immune dalla pericolosa piaga del nepotismo. Suo fratello Giovanni della Rovere avea sposata l'erede di Urbino sorella di Guidobaldo, l'ultimo dei Montefeltro, e da questa unione era nato nel 1491 un figlio, Francesco Maria della Rovere, che al tempo stesso diventava possessore legittimo del ducato di Urbino e nipote del Papa. Ciò dispensava Giulio da qualunque obbligo di creare uno Stato alla sua famiglia, e per questo noi lo veggiamo, in tutti gli acquisti, che o coll'arti della diplomazia o con quelle della guerra venne facendo, non d'altro sollecito che dell'ingrandimento dello Stato della Chiesa, che nel fatto alla sua morte lasciò completamente ricostituito e per di più ingrandito di Parma e di Piacenza, mentre al suo avvenimento l'avea [161] trovato in piena dissoluzione. Nè dipendette nemmeno da lui che la Chiesa non abbia potuto avocare a se anche Ferrara. Si sa altresì che i 700,000 ducati, ch'egli sempre teneva in serbo in Castel S. Angelo, non dovevano essere in qualsiasi momento, per ordine suo, rimessi ad altri, fuorchè al suo successore. Al pari degli altri Papi, ereditò anch'egli dai cardinali, anzi da tutti i prelati che morivano a Roma, e talvolta anche con mezzi dispotici,[242] ma non per questo avvelenò, nè uccise nessuno. L'essere andato in persona al campo non gli giovò certamente, ma fu una necessità ineluttabile, che tanto più facilmente doveva essergli perdonata in Italia, in quanto che quello era il tempo, in cui bisognava battere o essere battuti e in cui il credito personale valeva più di qualsiasi diritto legittimamente acquistato. Che se poi, ad onta del suo celebre grido «fuori i barbari!», egli contribuì più di qualunque altro a far sì che gli Spagnuoli mettessero salde radici in Italia, sta di fatto altresì che ciò al Papato poteva sembrare una eventualità indifferente affatto, anzi perfino, sotto un certo aspetto, favorevole e vantaggiosa. E da chi altri, meglio che dalla Spagna, poteva la Chiesa attendersi una sincera e durevole devozione,[243] nel momento stesso in cui tutti i principi italiani non nutrivano che sentimenti ostili verso di lei? — Ma, comunque sia, l'uomo potente ed originale, che non poteva soffocare in sè veruno sdegno e neanche nascondere nessun vero affetto, preso [162] in tutto il suo insieme era l'uomo del tempo, il Pontefice terribile invocato da tutti. Egli ebbe quindi pienamente ragione di appellarsi con coscienza relativamente tranquilla al giudizio di un Concilio e di rispondere in tal modo vittoriosamente al grido de' suoi avversarii, che da tutte le parti d'Europa ne domandavano la convocazione. Un regnante di questa tempra aveva bisogno anche d'incarnare in qualche grandioso monumento la vastità de' suoi concepimenti: egli pensò alla ricostruzione e all'ampliamento della chiesa di S. Pietro, e le aggiunte che vi fece il Bramante sono forse l'espressione più sublime di una potenza, che è conscia di quanto può e deve a sè stessa. Ma anche nelle altre arti restano le tracce dell'alta protezione loro accordata da Giulio, nè è senza importanza il fatto che perfino la poesia latina di quei giorni, parlando di lui, appare infiammata di un estro, che non seppero mai ispirarle i di lui predecessori. L'ingresso a Bologna, che si trova descritto sulla fine dell'Iter Julii secundi del cardinale Adriano da Corneto, ha una grandiosità tutta affatto speciale, e Giovanni Antonio Flaminio in una delle sue più belle Elegie ha cantato nel Papa il redentore d'Italia[244].

Giulio aveva in una fulminea costituzione del Concilio lateranense[245] proibito la simonia nell'elezione del [163] Papa. Dopo la sua morte (1513) i cardinali, mossi da un sordido istinto di avarizia, volevano eludere quel divieto col proporre un patto generale, secondo il quale le prebende e gli ufficii di colui che sarebbe eletto, dovessero ripartirsi in proporzioni uguali fra loro, e si sa che il loro intendimento sarebbe stato di eleggere per l'appunto quegli che godeva le prebende più pingui, l'inetto Raffaello Riario.[246] Ma una riscossa, che partiva principalmente dai membri più giovani del sacro Collegio, mandò all'aria quel misero strattagemma e fu scelto Giovanni de' Medici, il celebre Leone X.


Noi avremo frequenti occasioni d'incontrarci in questo Papa, ogni volta che ci accadrà di discorrere dei momenti più splendidi dell'epoca del Rinascimento: qui adunque e pel nostro scopo ci basterà di accennare, come sotto di lui il Papato abbia corso nuovamente gravissimi pericoli tanto al di dentro, quanto al di fuori. Fra questi non contiamo la congiura dei cardinali Petrucci, Sauli, Riario e Corneto, perchè questa tutt'al più, riuscendo, avrebbe cagionato un mutamento di persone e non altro: e d'altronde a Leone fu facile sventarla colla creazione, inaudita per vero, di trent'un nuovi cardinali in una sola volta, la quale del resto non fece che produrre un'eccellente impressione, perchè, in parte almeno, premiava il vero merito.[247]

Sommamente pericolose invece furono certe vie, alle quali si lasciò tirare Leone nei due primi anni del suo [164] pontificato. Egli aveva infatti intavolato pratiche molto serie per procurare il regno di Napoli a suo fratello Giuliano e per creare a suo nipote Lorenzo un gran regno nell'Italia settentrionale, che abbracciasse Milano, la Toscana, Urbino, e Ferrara.[248] È evidente a chiunque che lo Stato della Chiesa, rinserrato per tal modo da tutte parti, avrebbe dovuto finire col diventare un appannaggio mediceo, senza che nemmeno s'avesse avuto bisogno di secolarizzarlo.

Il progetto trovò uno scoglio insuperabile nelle condizioni politiche generali d'allora. Giuliano morì a tempo; tuttavia, per provvedere a Lorenzo, Leone intraprese l'espulsione del duca Francesco Maria della Rovere da Urbino, e con ciò si tirò addosso l'odio universale, impoverì il tesoro, e finì poi, quando anche Lorenzo nel 1519 morì[249], col dover dare alla Chiesa ciò che con tanta fatica aveva per altri acquistato: così egli non ne raccolse nemmen quella gloria, che certamente non gli sarebbe mancata, se quella cessione fosse stata anteriore e spontanea. Anche ciò che tentò più tardi contro Alfonso di Ferrara, e che potè realmente condurre ad effetto contro un pajo di tiranni e Condottieri, non fu tal cosa, da cui potesse venirne incremento alla sua reputazione. E tutto questo accadeva nel momento stesso, in cui i monarchi d'Occidente d'anno in anno si andavano ognor più abituando ad un colossale giuoco di politica, ch'era fatto [165] alle spese di questo o di quel territorio d'Italia[250]. Chi avrebbe voluto farsi garante che essi, dopochè la loro potenza all'interno negli ultimi decenni era immensamente cresciuta, non fossero per allargare quando che sia le loro viste anche allo Stato della Chiesa? Leone visse abbastanza per essere testimone di un fatto, che era come il preludio di ciò che si verificò poi nel 1527: un pugno di fanti spagnuoli apparve nel 1520, — di proprio impulso, a quanto sembra, — ai confini dello Stato pontificio, unicamente allo scopo di taglieggiare il Papa[251], ma si lasciò respingere dalle truppe di quest'ultimo. Anche la pubblica opinione, di fronte alla corruzione della Curia e della corte romana, s'era negli ultimi anni svegliata più imperiosa che mai, ed uomini che vedevano nel futuro, come, per esempio, il giovane Pico della Mirandola[252], invocavano con forza pronte riforme. Infrattanto era comparso sulla scena Lutero.


Le riforme vennero sotto il pontificato di Adriano VI, (1521-1523), ma scarse e insufficienti e ritardate di troppo, di fronte alla foga invadente del grande movimento tedesco. Adriano non potè far altro, fuorchè manifestare l'orrore, di cui era compreso per tutte le piaghe che avean deturpato la Chiesa sino a quel tempo, vale [166] a dire la simonia, il nepotismo, la prodigalità, il malandrinaggio e la più profonda immoralità. Nè per allora il pericolo, che minacciava da parte del luteranismo, sembrava neanche il maggiore: un arguto osservatore veneziano, Girolamo Negro, presente vicinissima una spaventevole catastrofe per Roma stessa, e ne esprime il proprio dolore apertamente[253].


Sotto Clemente VII l'orizzonte di Roma si copre di gravidi vapori somiglianti a quel plumbeo velo di nebbia sciroccale, che talvolta vi rende così pericolosi gli ultimi mesi d'estate. Il Papa è inviso ai vicini e ai lontani: gli uomini più gravi crollano tristamente il capo[254], e infrattanto sulle pubbliche vie e sulle piazze s'affacciano eremiti a presagire la rovina d'Italia, anzi del mondo intero, e a stigmatizzare col nome di Anticristo il Papa medesimo[255]:la fazione colonnese solleva arditamente il capo in atto di sfida: l'indomabile cardinale Pompeo Colonna, la cui presenza soltanto è una minaccia permanente pel Papato[256], tenta una sorpresa su Roma (1526) nella speranza di poter, coll'aiuto di Carlo V, cingere [167] senz'altro la tiara, non appena Clemente fosse caduto vivo o morto nelle sue mani. Per Roma non fu di nessun vantaggio, che quest'ultimo abbia potuto trovare un rifugio in Castel S. Angelo; ma la sorte, alla quale egli stesso era serbato, poteva ben dirsi peggiore della morte, alla quale ora sfuggì.

Con una serie di quelle menzogne, che sono sempre permesse ai forti, ma che recano la rovina ai deboli, Clemente provocò la venuta delle truppe austro-spagnuole comandate dal Borbone e da Frundsberg (1527). Egli è fuor d'ogni dubbio che il gabinetto di Carlo V meditava di prendere del Papa una fiera vendetta[257], e che l'imperatore non poteva prevedere anticipatamente quanto oltre nel loro zelo sarebbero andate le orde che aveva assoldate, ma non pagava. L'arrolamento pressochè gratuito non avrebbe potuto effettuarsi in Germania, se non si avesse saputo che si doveva marciare contro Roma. Forse si ritroveranno quando che sia le istruzioni date in questa occasione al Borbone, e può darsi anche che esse suonino più miti di quanto ora si possa supporre; ma la storia non si lascerà travolgere per questo a men severi giudizii. Fu una fortuna pel cattolico re e imperatore che nè il Papa, nè alcuno dei cardinali sia stato ucciso dalle sue genti. Se ciò fosse accaduto, nessun sofisma al mondo avrebbe potuto salvarlo da una gravissima responsabilità. Ma l'uccisione di innumerevoli persone delle infime classi e la spogliazione delle altre ottenuta colla tortura o coll'infame mercato, che se ne fece, mostrano ad esuberanza fino a qual punto fu permesso di spingere le atrocità nel sacco di Roma.

Carlo V voleva, a quanto pare, far condurre il Papa, [168] che si era nuovamente rifugiato in Castel S. Angelo, a Napoli, dopo avergli estorto enormi somme, e se Clemente invece riuscì a fuggire ad Orvieto, non pare che ciò sia seguito per nessuna connivenza da parte degli Spagnuoli[258]. Se poi Carlo abbia, almeno per un momento, pensato alla secolarizzazione dello Stato della Chiesa (alla quale l'opinione pubblica[259] omai era preparata), e se nel fatto egli se ne sia poi lasciato distogliere dalle rimostranze di Enrico VIII, è un enigma, che non potrà mai essere messo in chiaro.

Ma se anche tali intendimenti erano in lui, non furono certo di lunga durata; e intanto dalla desolazione stessa della città sorge uno spirito di riforma, che promette una completa restaurazione della Chiesa e del principato. Il primo a presentirla fu il cardinal Sadoleto[260]: «Se col nostro dolore, egli scrive, noi diamo una dovuta soddisfazione allo sdegno e alla giustizia di Dio, se queste terribili punizioni ci aprono la via a migliorare le nostre leggi e i costumi, noi forse potremo dire che la nostra sventura non fu la maggiore, che ci potesse cogliere.... Di ciò che è di Dio, abbia cura Dio stesso; ma noi abbiamo dinanzi a noi una via di miglioramento, dalla quale nessuna violenza potrà farci deviare: volgiamo adunque i nostri pensieri e le nostre azioni all'unico fine di cercare il vero splendore del sacerdozio e la vera grandezza e potenza in Dio solo».

E nel fatto questo terribile anno 1527 fruttò almeno questo, che la voce degli uomini più gravi e assennati [169] non cadde inascoltata affatto, come tante altre volte. Roma avea troppo sofferto per poter pensare a tornar, nemmeno sotto il pontificato di un Paolo III, l'allegra e corrotta Roma di Leon X.

Tosto dopo manifestossi pel Papato, fatto segno di tante umiliazioni, una simpatia d'indole in parte politica e in parte religiosa. I monarchi non potevano permettere che un loro uguale si arrogasse l'ufficio di carceriere privilegiato del Papa, e nell'intento di ridonare a quest'ultimo la sua libertà conclusero per l'appunto il trattato di Amiens (18 agosto 1527). Con ciò essi ottennero almeno di far ricadere sull'imperatore tutta l'odiosità dei fatti testè commessi dalle truppe imperiali. Ma contemporaneamente all'imperatore creavansi serii imbarazzi anche in Ispagna, dove i prelati ed i grandi lo tempestavano di rimostranze, quante volte era lor dato di avvicinarlo. E quando si parlò di una dimostrazione generale del clero e della cittadinanza, che minacciavano di presentarsi a lui in forma solenne e in abito di gramaglia, egli se ne spaventò, temendo si rinnovassero le scene della insurrezione delle comunità poco prima domata, e volle che a qualunque costo fosse impedita.[261] Egli non poteva adunque, nemmen volendo, prolungare più oltre la persecuzione contro il Papato, anzi, prescindendo anche dalla politica estera, trovavasi imperiosamente costretto a riconciliarsi con esso al più presto possibile, molto più che non volle mai tener conto nè in questa, nè in altre occasioni, dello stato dell'opinione pubblica in Germania, che per vero gli avrebbe additato un'altra via da tenere. Finalmente non è neanche impossibile, [170] come opinava un veneziano,[262] che la ricordanza del sacco di Roma gli pesasse sull'anima come un rimorso, e che appunto per questo egli abbia sollecitato quell'ammenda, che doveva essere suggellata con lo stabile assoggettamento dei Fiorentini sotto la tirannide de' Medici. Quasi a conferma di ciò, una figlia naturale dell'imperatore fu data in moglie al nuovo duca Alessandro.

In seguito Carlo, coll'idea del Concilio, tenne sempre il Papato nella sua soggezione, e potè ad un tempo medesimo proteggerlo ed opprimerlo. Ma il maggior pericolo, la secolarizzazione, e propriamente quella che dovea partire dal di dentro, vale a dire dai Papi e dai loro nipoti, era eliminato per più secoli per opera della Riforma. Nella stessa maniera che essa sola rese possibile la spedizione contro Roma (1527), fu anche causa che il Papato sentisse il bisogno di essere l'espressione vivente di una potenza mondiale nel campo delle coscienze, obbligandolo a porsi alla testa di tutti i nemici di qualsiasi innovazione e a rialzarsi dalla sua gran caduta ad una vita di moto e d'azione. Ed invero, la gerarchia, che negli ultimi anni di Clemente VII e sotto i pontificati di Paolo III e di Paolo IV e dei loro successori a poco a poco e in mezzo alla defezione di mezza Europa si venne formando, fu una gerarchia affatto nuova e rigenerata, la quale innanzi tutto si affrettò a togliere i maggiori e più pericolosi scandali interni, e massimamente il nepotismo avido di ingrandimenti,[263] e poscia, sostenuta da tutti i principi della cattolicità e portata da un impulso religioso del tutto nuovo, fece ogni sforzo per [171] riacquistare quanto aveva perduto. Essa andò debitrice di tutta questa energia a quei medesimi che l'avevano abbandonata: in un certo senso si può dunque affermare con tutta verità, che il Papato sotto il punto di vista morale dovette la sua salvezza a' suoi stessi nemici. E con la spirituale si venne poi rassodando, benchè sotto l'assidua sorveglianza spagnuola, anche la potenza temporale, tanto da accampare in ultimo il privilegio della inviolabilità, e così le fu possibile, allo spegnersi de' suoi vassalli (le linee legittime degli Estensi e dei Della Rovere), costituirsi erede incontrastata dei due ducati di Ferrara e di Urbino. Per converso senza la Riforma — se si potesse astrarre da essa — tutto lo Stato della Chiesa sarebbe passato da lungo tempo in mani secolaresche.

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CAPITOLO XII. L'Italia dei patriotti.

Prima di chiudere, ci sia permesso un brevissimo sguardo al contraccolpo di questo stato di cose sullo spirito della nazione in generale.

Nessuno durerà fatica a persuadersi che la incertezza delle condizioni politiche, nelle quali si trovò l'Italia nel secolo XIV e nel XV, dovesse naturalmente destare sentimenti di patriottico sdegno e di aperta opposizione in tutti gli uomini privilegiati di attitudini superiori. Dante e il Petrarca ancora al loro tempo parlano di un'Italia unita,[264] alla quale devono tendere gli sforzi di tutti. Si oppone, è vero, da taluni che questo non fu che un entusiasmo di pochi spiriti colti, di cui la nazione intera non mostrò nemmeno di accorgersi; ma a costoro si potrebbe domandare se a quel tempo la nazione tedesca si sarebbe condotta diversamente, quantunque, di nome almeno, non le mancasse l'unità ed avesse un capo visibile e universalmente riconosciuto nell'imperatore? Le prime voci patriottiche della letteratura tedesca (se si [174] eccettuino pochi versi dei menestrelli) non si odono che in bocca agli umanisti del tempo di Massimiliano I,[265] e non sembrano che un'eco delle declamazioni degl'Italiani. Eppure la Germania aveva avuto una nazionalità, quale l'Italia non possedeva più sino dal tempo dei Romani. La Francia va debitrice della coscienza della sua unità nazionale principalmente alle lotte ch'ebbe a sostenere contro gl'Inglesi, e la Spagna per lungo tratto di tempo fu così sorda a questo sentimento, che non fu in grado nemmeno di aggregarsi il Portogallo, che pur le è tanto affine. Per l'Italia l'esistenza dello Stato della Chiesa e le condizioni, nelle quali soltanto esso poteva esistere, crearono un ostacolo permanente alla sua unificazione, ostacolo, la cui eliminazione non parve pressochè mai sperabile. Che se anche, in onta a ciò, qua e colà nelle corrispondenze politiche del secolo XV si parla con qualche enfasi della patria comune, ciò non accade, pur troppo, che per provocare il dispetto di qualche altro Stato pure italiano.[266] I richiami veramente serii e profondamente tristi al sentimento nazionale non si odono di nuovo che nel secolo XVI, quando era già troppo tardi, e Francesi e Spagnuoli avevano inondato il paese.

Quanto al patriottismo locale o di campanile, non potrebbe dirsi altro, se non che esso teneva il luogo di questo sentimento, ma non lo sostituiva.

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PARTE SECONDA LO SVOLGIMENTO DELL'INDIVIDUALITÀ

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CAPITOLO I. Lo Stato e l'individuo.

L'uomo del Medio-Evo. — Il risvegliarsi della personalità. — I tiranni e i loro sudditi — L'individualismo nelle Repubbliche. — L'esiglio e il cosmopolitismo.

Nell'indole delle repubbliche e dei principati, di cui fin qui s'è tenuto discorso, sta, se non l'unica, certo la più potente causa, per cui gl'Italiani, prima d'ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono di esser detti i figli primogeniti della presente Europa.

Nel Medio-Evo i due lati della coscienza — quello che riflette in sè il mondo esterno e quello che rende l'immagine della vita interna dell'uomo — se ne stavano come avvolti in un velo comune, sotto al quale o languivano in lento torpore o si movevano in un mondo di puri sogni. Il velo era tessuto di fede, d'ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l'uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di cui quasi interamente viveva la vita. L'Italia [178] è la prima a squarciar questo velo e a considerare lo Stato e tutte le cose terrene da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si risveglia potente nell'italiano il sentimento di sè e del suo valor personale o soggettivo: l'uomo si trasforma nell'individuo,[267] e come tale si afferma. Così una volta il greco si era emancipato di fronte ai Barbari, e così anche in altri tempi l'arabo si isolò dalle altre stirpi dell'Asia. Non sarà malagevole il dimostrare come tutto ciò non fosse che l'effetto delle condizioni politiche, in cui si trovava il paese.


Già anche in epoche di molto anteriori è facile notare quà e colà in Italia uno sviluppo della personalità indipendente, quando al tempo stesso nei paesi al di là delle Alpi non se ne ha ancora indizio veruno. Il celebre gruppo di ribaldi del secolo X che ci è dipinto da Luitprando, nonchè più tardi alcuni contemporanei di Gregorio VII e alcuni avversarii dei primi imperatori di Svevia, presentano tipi di questo genere. Ma col finire del secolo XIII l'Italia comincia addirittura a formicolare d'uomini indipendenti, d'individui che fanno parte per sè stessi; l'anatema, che prima avea pesato sull'individualità, è tolto per sempre, e a migliaja sorgono le personalità dotate d'un carattere affatto proprio. Il gran poema di Dante sarebbe stato impossibile in qualunque altro paese appunto per questo, che tutto il resto d'Europa sentiva ancora il peso di quell'anatema: per l'Italia adunque il divino poeta, portando al suo pieno sviluppo il sentimento dell'individualità, è diventato l'interprete [179] più fedele e nazionale del proprio tempo. Ma la caratteristica speciale delle singole attività nel campo della letteratura e dell'arte sarà più innanzi oggetto di apposita trattazione: qui ci basti di rilevar il fatto in sè stesso e come fenomeno psicologico in generale. Esso si mostra ora apertamente in tutta la sua pienezza: l'Italia del secolo XIV conobbe poco la falsa modestia e l'ipocrisia in generale, perchè nessun uomo fu schivo di emergere,[268] di essere e di apparire, quale era, diverso dagli altri.[269]


I primi a mettere in piena mostra una siffatta individualità, come vedemmo, sono i tiranni e i Condottieri,[270] e poi a poco a poco gli uomini d'ingegno da loro protetti, [180] ma anche in ogni occasione fatti strumento di governo, i cancellieri, i segretari, i poeti e gli uomini di corte. Tutti costoro imparano necessariamente a tener conto di tutte le risorse, stabili o momentanee, che ciascuno sa trovare in sè stesso; ed anche nel godimento della vita esteriore ricorrono a mezzi men grossolani e di un'indole più spirituale, per circondare del maggior prestigio possibile un periodo forse assai breve di potenza e d'influenza.

Ma anche i sudditi non andarono del tutto esenti dal risentire un impulso simile. Senza tener conto di quelli che consumarono la loro vita in congiure segrete e in tentativi di resistenza, menzioneremo coloro, che si rassegnarono a rimaner chiusi nella vita privata, forse come la maggior parte degli abitanti delle città nell'Impero bizantino o negli Stati maomettani. Certamente deve essere stato più volte assai difficile, per esempio, ai sudditi dei Visconti il mantenere la dignità della propria casa e della loro stessa persona, e innumerevoli sono coloro che hanno dovuto scontare con la schiavitù la fierezza di quello, che strettamente suol dirsi carattere morale di un uomo. Ma quanto al carattere individuale, ossia all'originalità e specialità delle tendenze di ognuno, la cosa andava diversamente, perchè in mezzo all'universale impotenza politica si spiegavano tanto più forti e molteplici le diverse direzioni della vita privata. Ricchezza e cultura, in quanto possano mostrarsi in piena luce e gareggiare fra loro, congiunte con una libertà municipale ancora abbastanza larga, e con una Chiesa, la quale non era, come a Costantinopoli e nel mondo islamitico, una cosa identica con lo Stato, — tutti questi elementi presi insieme favorivano senza dubbio la formazione di una opinione individuale, cui l'assenza [181] stessa delle lotte di partito forniva agio ed opportunità a svilupparsi. Non è dunque improbabile che l'uomo privato, indifferente alla politica e dedito tutto alle sue occupazioni in parte professionali e in parte affatto accessorie, si sia per la prima volta venuto formando sotto queste tirannidi del secolo XIV. Ma sarebbe follia il pretendere di trovarne testimonianze esplicite e documentate; i novellieri, dai quali potrebbe attendersi in proposito almeno qualche cenno, ci parlano bensì di uomini originali e bizzarri, ma sempre da un solo punto di vista e unicamente in relazione al racconto, che si accingono a dare: ed, oltre a ciò, il teatro dell'azione presso di loro è quasi sempre nelle Repubbliche.


Anche in queste ultime lo sviluppo del carattere individuale era promosso al pari che nei Principati, ma in guisa affatto diversa. Quanto più frequentemente i partiti si scambiavano fra loro la signoria, tanto più forte gli uomini che li componevano, sentivano la tentazione di sfruttare il potere e talvolta di abusarne. Egli è appunto per tal modo che nella storia fiorentina[271] gli uomini politici e i caporioni del popolo acquistano una personalità così spiccata, che altrove non si riscontra se non in via al tutto eccezionale in un uomo solo, in Jacopo d'Arteveldt.

[182]

Ma gli uomini dei partiti soccombenti venivano spesso a trovarsi in una condizione simile a quella dei sudditi dei tiranni, con questo di più che la libertà o la signoria già gustate, e forse anche la speranza di riacquistar l'una e l'altra, davano al loro individualismo uno slancio più ardito. Appunto fra questi uomini condannati ad un ozio involontario trovasi, per esempio, un Agnolo Pandolfini (morto nel 1446), il cui trattato «Del governo della famiglia»[272]è il primo programma di una vita privata portato al massimo suo sviluppo coll'aiuto della educazione. Il raffronto ch'egli fa tra i doveri di un privato e le incertezze e le molestie della vita pubblica,[273] merita di essere riguardato, nel suo genere, come un vero monumento del suo tempo.


Ma ciò che sopra ogni altra cosa ha la forza o di logorare un uomo o di portarlo al massimo grado del suo sviluppo, è l'esiglio. «In tutte le nostre città più popolate, scrive Gioviano Pontano,[274] noi vediamo una moltitudine di persone, le quali spontaneamente hanno abbandonato la loro patria; ma le virtù si ponno portare con sè dovunque». Ed era vero: quegli uomini non erano semplici fuggiaschi banditi dalla loro patria, ma l'avevano [183] abbandonata di proprio impulso, perchè le condizioni politiche ed economiche di essa erano divenute omai insopportabili. I Fiorentini emigrati a Ferrara e i Lucchesi rifugiatisi a Venezia costituivano delle vere colonie.

Il cosmopolitismo, che si manifesta negli esuli più colti, è l'individualismo portato al suo più alto grado. Dante, come abbiamo già accennato (pag. 103), trova una nuova patria nella lingua e nella cultura di tutta Italia, ed anzi va ancora più in là ed esclama: «la mia patria è il mondo intero!»[275] — E quando gli fu offerto di tornare a Firenze, ma a condizioni ignominiose, egli rispondeva: «non posso io contemplare la luce del sole e delle stelle dovunque? Non posso io meditare dovunque le più alte verità, senza perciò presentarmi oscuramente, anzi vituperosamente dinanzi al mio popolo ed alla mia città? Un pane non sarà per mancarmi in nessun luogo, nè mai».[276] Con fiero orgoglio alzano più tardi la voce anche gli artisti, affermando la propria libertà indipendentemente dal luogo ove si trovano. «Colui che è ricco di cognizioni, dice il Ghiberti,[277] non è, anche fuori di patria, straniero in nessuna parte del mondo: anche privo de' suoi beni e abbandonato dagli amici, egli è pur sempre cittadino in qualunque città, e può senza timore sprezzare la instabilità della fortuna». E in modo non molto diverso anche un umanista fuggiasco [184] scriveva: «dovunque un dotto fissa la sua dimora, quivi ei trova tosto una patria».[278]

[185]

CAPITOLO II. Perfezionamento dell'individualità.

Gli uomini multilateri. — Gli uomini universali. Leon Battista Alberti.

Uno sguardo molto acuto e profondamente versato nella storia della civiltà non durerebbe fatica a seguir passo passo nel secolo XV lo svolgersi successivo di individualità per ogni verso perfette. Vero è che nessuno potrebbe dir con certezza, se tali individualità sieno giunte a quell'armonico accordo del lato interno col lato esterno della loro vita in conseguenza di un solo atto fermo e deliberato della loro volontà, o non anche per un fortunato concorso di favorevoli circostanze: ma, ad ogni modo, è fuor d'ogni dubbio che molte vi giunsero, almeno per quanto ciò è conciliabile coll'imperfezione della natura umana. E se, per dare un esempio, è assolutamente impossibile il fare una distinzione esatta di ciò che Lorenzo il Magnifico dovette alla fortuna, da ciò che gli proveniva dalle proprie doti e dal proprio carattere, nell'Ariosto invece (e specialmente nelle Satire) si ha il caso contrario, il caso cioè di una potente individualità, nella quale cospirano mirabilmente la dignità [186] dell'uomo e l'orgoglio del poeta, l'ironia e la passione, il sarcasmo e la benevolenza.


Ora, quando questo prepotente impulso veniva a cadere in una natura straordinariamente gagliarda e versatile, tale da appropriarsi ad un tempo tutti gli elementi della cultura di quell'età, s'aveva allora l'uomo universale, che appartiene esclusivamente all'Italia. Uomini di sapere enciclopedico ve ne furono per tutto il Medio-Evo in più paesi, perchè il sapere era più ristretto e i rami dello scibile più affini tra loro: e per la stessa ragione sino al secolo XII s'incontrano artisti universali, perchè i problemi dell'architettura erano relativamente semplici ed uniformi, e nella scultura e nella pittura il concetto o la sostanza della cosa da rappresentarsi prevaleva sulla forma. Nell'Italia del Rinascimento invece noi ci scontriamo in singoli artisti, i quali in tutti i rami danno creazioni affatto nuove e perfette nel loro genere, e al tempo stesso emergono singolarmente anche come uomini. Altri sono universali e abbracciano, oltrechè la cerchia dell'arte, anche il campo incommensurabile della scienza con sintesi maravigliosa.

Dante, il quale ancor vivo dagli uni era qualificato come poeta, dagli altri come filosofo, e da altri ancora come teologo,[279] versa in tutti i suoi scritti tal piena di prepotente individualità, che il lettore se ne sente al tutto soggiogato, anche prescindendo dall'importanza degli argomenti ch'egli prende a svolgere. Qual forza di volontà non presuppone l'esecuzione così perfettamente equabile della Divina Commedia! Ma se si guarda al suo contenuto, non vi è forse in tutto il mondo fisico [187] e morale un solo punto di qualche importanza, che egli non abbia studiato ed investigato e intorno al quale la sua opinione — spesse volte condensata in poche parole — non sia la più autorevole di quel tempo. Anche nell'arte le sue teorie hanno la forza di principj, e ciò è ben più dei pochi versi, ch'egli ci lasciò sugli artisti d'allora; ma non andò molto, che egli divenne anche la fonte delle più alte ispirazioni.[280]

Il secolo XV è innanzi tutto e per eccellenza il secolo degli uomini dotati di una grande versatilità. Non v'è biografia di quel tempo, che, parlando di qualche uomo illustre, non metta in risalto, oltre alle qualità sue principali, altre qualità secondarie stimate necessario complemento di quelle. Il mercatante e l'uomo di Stato fiorentino sono spesso dotti filologi: i più celebri umanisti sono chiamati ad istruire i figli loro nella Politica e nell'Etica di Aristotile:[281] anche le figlie ricevono una cultura superiore, e in generale egli è in questi circoli che bisogna cercare gli inizi di una educazione privata, che esce dal comune. Dal canto suo l'umanista viene eccitato ad allargare quanto più può la sfera delle sue cognizioni, in quanto il suo sapere filologico non era semplicemente, come oggidì, la [188] conoscenza oggettiva della classica antichità, ma un'arte che trovava applicazione continua nella vita. Egli studia Plinio, a modo di esempio, e raccoglie un museo di storia naturale;[282] sulla geografia degli antichi diventa un cosmografo nel senso moderno; s'innamora degli storici antichi, e scrive secondo quei modelli la storia de' suoi tempi; traduce le commedie di Plauto, e ne dirige al tempo stesso la rappresentazione; imita quanto meglio può tutti i generi della letteratura antica sino al dialogo di Luciano, e in mezzo a tutto ciò serve lo Stato qual cancelliere o diplomatico, e non sempre con suo proprio vantaggio.


Ma sopra questi uomini dotati di attitudini così molteplici emergono alcuni veramente universali. Prima di farci a studiare partitamente le condizioni della vita sociale e della cultura d'allora, ci sia concesso di porre qui, sul limitare del secolo XV, l'immagine di uno di quegli uomini strapotenti: Leon Battista Alberti. La sua biografia — che non abbiamo se non a frammenti — parla assai poco di lui come artista e niente affatto come architetto.[283] Or si vedrà ciò che egli è stato, anche fatta astrazione da queste sue glorie speciali.

In tutte le discipline che rendono bella e lodata la [189] vita di un uomo, Leon Battista era il primo sino dalla sua fanciullezza. Della sua perizia in tutti gli esercizi ginnastici raccontansi cose incredibili, come egli, per esempio, saltando a piè pari scavalcasse le persone ritte in piedi, come una volta nel Duomo gettasse una moneta tanto alta, che la si sentì risonare toccando la vôlta sospesa sul suo capo, come non ci fosse cavallo indomito che sotto di lui non tremasse e ubbidisse, e simili; — ed infatti egli voleva apparire irreprensibile e perfetto in tre cose: nel camminare, nel cavalcare e nel parlare. Egli apprese la musica senza maestro, eppure le sue composizioni furono ammirate dai più competenti nell'arte. Stretto dal bisogno, studiò per lunghi anni ambo le leggi, sino a caderne ammalato per spossatezza: e quando a ventiquattro anni s'accorse di un indebolimento della sua memoria nel ritenere le parole, ma si sentì ancor vigoroso l'intelletto per penetrare nella sostanza delle cose, s'applicò alla fisica ed alla matematica, e al tempo stesso volle rendersi esperto in tutte le professioni possibili, interrogando artisti, eruditi, operai d'ogni specie sui segreti e sulla pratica di ogni mestiere. A tutto ciò aggiungeva egli una particolare perizia nel disegno e nel modellare specialmente ritratti somigliantissimi, di pura memoria. Particolar maraviglia destò il misterioso suo congegno a guisa di camera ottica,[284] nel quale faceva apparire ora le stelle e la luna a illuminare scoscese montagne, ora vasti paesaggi con ridenti colli e seni di mare in lontananze sconfinate, con flotte che s'avanzano, o rischiarate dallo splendore del sole e avvolte d'ombre e di vapori a guisa di nuvole.

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In mezzo a tutto ciò era egli di una modestia singolare, e con gioja accoglieva anche quanto gli altri facevano, appunto perchè in ogni produzione dell'ingegno umano, che si uniformasse alle leggi del bello, egli riconosceva come una emanazione della divinità stessa.[285] La sua attività letteraria comincia co' suoi scritti d'arte, che segnano un'importante evoluzione della stessa col risorgere della forma, specialmente nell'architettura, e si estende quindi a composizioni in prosa latina, a novelle e simili, delle quali talune furono credute opere di scrittori antichi, a brindisi, elegie ed egloghe, e per ultimo ad un trattato in quattro libri in lingua italiana «Sul governo della famiglia»,[286] e ad un elogio funebre del suo cane. I suoi motti, tanto serii che faceti, parvero abbastanza importanti da dover esser raccolti, e se ne ha un saggio in molte serie compilate in colonne, che possono vedersi nella biografia surriferita. Al pari di tutte le nature veramente grandi e generose, egli non faceva mistero a nessuno del suo sapere, come era largo con tutti de' suoi beni di fortuna e comunicava a chiunque, purchè se ne presentasse l'occasione, le sue più grandi invenzioni. — Che se si domandasse qual fu la fonte, da cui scaturì tanta pienezza di vita, di forza e di attività, la risposta sarebbe una sola: un senso profondo della natura, una facoltà pressochè unica di compenetrarsi e quasi di identificarsi con tutto ciò che egli vedeva e sentiva. All'aspetto di una grandiosa foresta o di campi ondeggianti di spighe egli si sentiva commosso [191] sino al pianto: dinanzi ad un vecchio dai bianchi capelli, dal passo grave e dall'aspetto dignitoso egli s'arrestava estatico, e non potea saziarsi di ammirare quel «prodigio della natura»: anche gli animali più perfetti erano per lui oggetto di studio e di ammirazione costante, e per ultimo più di una volta l'incanto di un bel paesaggio bastò, se infermo, a ridonargli la sanità.[287] Nessuna maraviglia adunque, se tutti coloro che lo videro stretto in un rapporto così misteriosamente intimo colla natura, gli attribuirono anche il dono della profezia. Si pretende infatti ch'egli abbia predetto molti anni innanzi e con esattezza maravigliosa una crisi sanguinosa avvenuta in casa d'Este, nonchè la sorte che era riserbata a Firenze ed ai Papi, e gli si attribuiva altresì una facoltà al tutto speciale di leggere sul viso degli uomini i loro più segreti pensieri. S'intende da sè che una forza di volontà straordinariamente intensa era la facoltà, che prevaleva in una personalità così perfetta e ne manteneva le forze in costante equilibrio. Infatti, come tutti i grandi uomini del Rinascimento, anch'egli poteva dire: «gli uomini, purchè vogliano, riescono a tutto».

E con tutto ciò l'Alberti, messo a riscontro con Leonardo da Vinci, non potrebbe dirsi che uno scolaro paragonato col suo maestro. Così avessimo l'opera del Vasari anche rispetto a lui completata da una biografia, come l'abbiamo per l'Alberti! Ma l'immensità dell'ingegno di Leonardo non si potrà mai che presentir da lontano.

[193]

CAPITOLO III. La gloria nel senso moderno.

Idee di Dante intorno alla gloria. — Celebrità degli Umanisti; il Petrarca. — Culto delle abitazioni. — Culto delle tombe. — Culto degli uomini celebri dell'antichità. — Letteratura della gloria locale; Padova. — Letteratura della gloria universale. — La gloria dipendente dagli scrittori. — L'amor della gloria come passione.

Allo sviluppo sin qui descritto dell'individuo corrisponde anche una nuova specie di valore estrinseco, la gloria nel senso moderno[288].

Fuori d'Italia le singole classi vivevano appartate fra loro e chiuse ciascuna nei loro diritti e privilegi portati dalle consuetudini del medio-evo. La gloria poetica dei trovatori e dei menestrelli, per esempio, non esisteva che per la classe dei cavalieri. In Italia per contrario si ha già l'uguaglianza delle classi come conseguenza della tirannide o della democrazia, e vi si scorge una società nuova in formazione, che deve il suo primo impulso all'influenza delle letterature italiana e latina, [194] come in seguito più ampiamente sarà dimostrato; nè certo ci voleva un terreno diverso per far vivere e fruttificare questo nuovo elemento. S'aggiunga a ciò che la lettura degli autori latini, che appunto allora si cominciarono a studiare con tanto ardore, era un eccitamento continuo agli Italiani non solo per l'insaziabile sete di gloria, onde quegli antichi appajono dominati, ma per l'oggetto stesso che è il tema costante dei loro scritti, il dominio universale di Roma su tutto il mondo. Egli è naturale adunque, che da quel tempo in poi in Italia ogni uomo di forte volontà ed operoso si trovi interamente sotto l'impulso di un nuovo movente morale, che è ancora ignoto a tutti gli altri popoli d'occidente.


Anche in ciò, come in ogni altra questione importante, il primo a manifestare il proprio sentimento fu Dante. L'alloro poetico è stata la prima e la più alta sua aspirazione[289]; ma, anche come pubblicista e letterato, egli non manca di notare che le sue produzioni sono del tutto nuove, e che nella via ch'egli s'è tracciata, non solo è il primo, ma vuole anche essere riconosciuto come tale[290]. Tuttavia egli accenna altresì nei suoi scritti in prosa agli incomodi e alle molestie, che sono inseparabili dall'acquisto di una gran fama: egli sa come taluni, imparando a conoscere personalmente un uomo celebre, [195] ne restano mal soddisfatti, e dimostra come di ciò sia da accagionare in parte l'infantile semplicità dei più, in parte l'invidia, e in parte anche le imperfezioni stesse dell'uomo ammirato[291]. E più apertamente ancora il suo poema ci attesta quanto egli fosse persuaso della nullità della gloria, benchè al tempo stesso sia facile a vedere che il suo cuore non se n'era ancora completamente staccato. Nel Paradiso la sfera di Mercurio è la dimora assegnata a quei beati[292], che sulla terra furono vaghi di gloria, e con ciò hanno offuscato in sè alquanto «i raggi del vero amore». Egli è altresì altamente caratteristico, che i miseri dannati nell'Inferno chieggono instantemente a Dante che voglia rinfrescare e tener viva sulla terra la loro memoria e la loro fama[293]; mentre gli spiriti del Purgatorio non domandano che preghiere espiatorie[294]; anzi in un passo celebre[295] l'amor della gloria — lo gran disio dell'eccellenza — è biasimato, appunto perchè la gloria che nasce dalle opere dell'ingegno, non è assoluta, ma sottoposta alle condizioni diverse dei tempi, e secondo le circostanze può venire oscurata da quella di chi sopraggiunge più tardi.


Dopo quel primo esempio, la schiera numerosa dei poeti filologi, che pullulano d'ogni parte, s'impadronisce [196] della gloria in doppio senso: per sè, in quanto essi divengono le più rinomate celebrità d'Italia; per gli altri, in quanto, come poeti e storici, si fanno dispensatori della fama altrui. Emblema esterno e materiale di questa specie di gloria è l'incoronazione de' poeti, della quale sarà parlato altrove.

Un contemporaneo di Dante, Albertino Musatto o Mussato, incoronato a Padova quale poeta dal Vescovo e dal Rettore dell'Università, godeva già d'onori tali, che confinavano, si può dire, con l'apoteosi: ogni anno il giorno di Natale venivano dottori e scolari di ambedue i collegi dell'università in pompa solenne con trombe e, pare anche, con fiaccole accese dinanzi alla sua abitazione, per fargli augurii e regali[296]. Questa onorificenza durò sino a che egli cadde in disgrazia del Carrara allora regnante (1318).

Anche il Petrarca assaporò a pieni tratti questa nuova glorificazione destinata dapprima soltanto agli eroi ed ai santi, benchè negli ultimi anni confessi egli stesso, che gli riesce inutile e perfino molesta. La sua «Lettera alla Posterità» è un conto, che un uomo celebre, divenuto vecchio, si crede in dovere di rendere intorno a sè stesso, per appagare la pubblica curiosità[297], e da essa [197] rilevasi, ch'egli ambiva assai la gloria postuma e volentieri avrebbe rinunciato a quella, che godeva fra i contemporanei.[298] Nei suoi «Dialoghi della felicità ed infelicità» egli fa prevalere con molti argomenti l'opinione di quello fra' suoi interlocutori, che sostiene la nullità della fama.[299] Ma dopo tutto ciò è anche vero, che egli si rallegra pur sempre che il suo nome sia noto, pe' suoi scritti, al grande autocrate di Bisanzio[300] non meno che all'imperatore Carlo IV di Germania. E per verità la sua fama, essendo egli ancor vivo, si estendeva già molto oltre i confini d'Italia. E quanto non dovette egli sentirsi commosso, quando in occasione di una sua gita ad Arezzo, sua patria, gli amici lo condussero nella casa dove era nato, e gli annunciarono che la città avea decretato non doversi in essa permettere un mutamento qualsiasi![301] Per lo innanzi si conservavano e si veneravano le sole abitazioni di qualche gran santo, come per esempio, la cella di S. Tommaso d'Aquino nel convento dei domenicani di Napoli, e la porziuncula di S. Francesco in prossimità di Assisi: o tutt'al più anche qualche singolo giurisperito godeva di quella celebrità mezzo mitica, che era come la scala ad un simile onore; così il popolo ancora sul finire del secolo XIV usava di designare un vecchio edifizio esistente in Bagnolo, non lungi da Firenze, come lo «studio» dell'Accorso (nato intorno [198] al 1150), sebbene non abbia poi fatto nulla per impedirne la distruzione.[302] Chi ne cercasse la ragione, probabilmente la troverebbe nelle enormi ricchezze e nella grande influenza politica procacciatasi da costoro coi lor pareri e consulti, ricchezze e influenza, che non potevano mancare di colpire per un tratto di tempo abbastanza lungo la fantasia popolare.


Al culto delle abitazioni si collega anche quello delle tombe d'illustri personaggi;[303] anzi, quanto al Petrarca, è oggetto di venerazione anche il luogo dov'egli morì, ed Arquà, appunto per la memoria che ivi si conserva di lui, diviene un soggiorno di predilezione pei Padovani, che vi innalzano eleganti edifizi[304] in un tempo, in cui nei paesi settentrionali non si parla d'altro che di pellegrinaggi devoti a qualche immagine o reliquia miracolosa. Le città si tengono onorate di possedere le ossa di qualche grand'uomo o loro propizio od anche straniero, e fa veramente meraviglia il vedere come — lungo tempo prima che sorgesse Santa Croce — i Fiorentini, ancora nel secolo XIV, si studiassero di convertire il loro Duomo in un Panteon. L'Accorso, Dante, Petrarca, Boccaccio e il giurista Zanobi della Strada dovevano, per volere della repubblica, avervi ciascuno uno splendido monumento.[305]

[199]

Verso la fine del secolo XV Lorenzo il Magnifico si adoperò personalmente presso gli Spoletini, affinchè volessero cedere pel Panteon suddetto il corpo di fra Filippo Lippi pittore, ma essi se ne scusarono allegando la propria povertà in fatto di monumenti e di uomini celebri, e i Fiorentini dovettero accontentarsi di porgli soltanto un cenotafio. Altrettanto accadde rispetto a Dante, il quale, in onta a tutte le pratiche, alle quali il Boccaccio con enfatica eloquenza eccitava la propria città,[306] continuò a rimanere nella sua tomba presso S. Francesco in Ravenna, «circondato da antichissimi sepolcri d'imperatori e di santi, in compagnia ben più onorevole di quella che tu, patria mia, potessi mai offrirgli». E la venerazione per lui in quel tempo era andata tanto oltre, che un bizzarro spirito potè una volta impunemente levare le fiaccole che ardevano dinanzi all'altare del Crocifisso, e portarle alla tomba del poeta, con queste parole: «accettale; tu ne sei più degno di Lui».[307]


Ma questo è il tempo in cui le città italiane onorano anche la memoria dei loro concittadini o fondatori della più remota antichità. Napoli non avea forse mai dimenticato la tomba ch'essa possiede di Virgilio, perchè intorno al nome di lui s'era diffusa omai l'aureola del mito e della leggenda. Padova era persuasa ancora nel secolo XVI di possedere non solo le vere ossa del troiano suo fondatore Antenore, ma altresì quelle di T. Livio.[308] [200] «Sulmona, dice il Boccaccio[309] si lagna che Ovidio abbia tomba inonorata e lontana nel luogo del suo esiglio; Parma invece si rallegra, che Cassio riposi fra le sue mura». I Mantovani coniarono nel secolo XIV una medaglia portante il busto di Virgilio, ed eressero una statua, che doveva rappresentarne l'effigie; per malinteso spirito di casta[310] il tutore del principe allora regnante, Carlo Malatesta, la fece atterrare nel 1392; ma poichè la fama del poeta era più forte di lui, fu costretto altresì a rialzarla ben tosto. Forse a quel tempo additavasi ancora la grotta a due miglia dalla città, dove pretendevasi che Virgilio usasse di recarsi a meditare,[311] presso a poco come a Napoli si mostrava la così detta scuola di Virgilio. Como si appropriò ambedue i Plinii[312] e li onorò verso la fine del secolo XV con due statue sedenti sotto due splendidi baldacchini sul lato anteriore della sua cattedrale.


Anche la storia propriamente detta e la topografia (nata appena) si propongono di non lasciar senza menzione veruna gloria indigena, mentre le cronache dei paesi settentrionali sol raramente qua e colà accennano all'esistenza di qualche grand'uomo in mezzo ai Papi ed imperatori, di cui sono piene, o fra le descrizioni di terremoti e la comparsa di qualche cometa, che non mancano mai di notare. Altrove sarà dimostrato in qual modo dalla [201] moderna idea della gloria abbia avuto origine l'uso delle biografie, delle quali talune riuscirono veramente eccellenti; qui ci basterà di mettere in evidenza il patriottismo locale del topografo, che enumera i fasti gloriosi della propria città.

Nel medio-evo le città erano andate orgogliose dei loro santi e dei corpi e delle reliquie, che se ne conservavano nelle chiese.[313] Anche il panegirista di Padova, Michele Savonarola, ne dà una lunga lista in capo al suo libro (intorno al 1450);[314] ma poi egli passa agli «uomini celebri, che non furono santi, e tuttavia per l'eccellenza dell'ingegno e l'energia del carattere (virtus) meritarono di essere annoverati (adnecti) in quella serie», precisamente come nell'antichità l'uomo celebre si tocca dappresso coll'eroe.[315] Questa seconda enumerazione è eminentemente caratteristica per quel tempo. Primi vengono Antenore, fratello di Priamo, che con una schiera di fuggiaschi troiani fondò Padova; il re Dardano, che vinse Attila sui colli Euganei, lo inseguì ulteriormente e a Rimini lo uccise con uno scacchiere; l'imperatore Enrico IV, che edificò il duomo; e un re Marco, il cui capo si conserva a Monselice; — poi seguono pochi cardinali e prelati, quali fondatori di prebende, collegi e chiese; il celebre teologo fra Alberto, agostiniano; una schiera di filosofi con Paolo Veneto e il celebre Pietro d'Abano alla testa; il giurista Paolo Padovano; poi Livio, [202] e i poeti Petrarca, Mussato e Lovato. Se si nota qualche difetto in fatto di celebrità guerresche, l'autore se ne consola coll'abbondanza che si riscontra nel campo scientifico e colla maggior durata della fama basata sulle opere dell'ingegno; mentre la gloria guerresca cessa assai spesso col cessar di chi l'ha conquistata, o, se dura più oltre, non lo deve che alla penna dei dotti. In ogni caso però è sempre onorifico per la città, che almeno celebri guerrieri d'altri paesi abbiano desiderato essi stessi di essere sepolti in Padova, quali, ad esempio, Pietro de' Rossi di Parma, Filippo Arcelli di Piacenza e specialmente poi Gattamelata di Narni (morto nel 1442), la cui statua equestre in bronzo, erettagli accanto alla chiesa del Santo, lo rappresenta nell'attitudine di «Cesare trionfante». Dopo ciò, l'autore passa in rassegna una moltitudine di giuristi, medici e nobili, che non solo, come tanti altri, «furono onorati del nome di cavalieri, ma seppero altresì meritarlo»; e per ultimo egli dà i nomi anche di celebri meccanici, pittori, e compositori di musica, e chiude la serie col citare un maestro di scherma, Michele Rosso, di cui in più luoghi vedevasi il ritratto, come dell'uomo il più rinomato nell'arte sua.


Accanto a queste locali gallerie della fama, a comporre le quali concorrono insieme il mito, la leggenda, la rinomanza letteraria e l'ammirazione popolare, i poeti-filologi lavorano a costruire un Panteon universale della fama mondiale, e allestiscono collezioni biografiche di uomini e di donne celebri, attenendosi per lo più al sistema seguito da Cornelio Nepote, dal pseudo Svetonio, da Valerio Massimo, da Plutarco (mulierum virtutes), da Geronimo (de viris illustribus), e da altri. Ovvero inventano trionfi immaginari ed assemblee olimpiche pure immaginarie, [203] come fecero specialmente il Petrarca nel suo Trionfo della fama e il Boccaccio nella sua Amorosa visione, con centinaia di nomi, dei quali per lo meno tre quarti appartengono all'antichità e gli altri al medioevo[316]. A poco a poco questa parte nuova e moderna vi prende un posto sempre maggiore: gli storici s'indugiano volentieri nelle loro opere a tratteggiare il carattere de' personaggi e ne escono collezioni biografiche di celebri contemporanei, come quelle di Filippo Villani, Vespasiano Fiorentino, Bartolommeo Facio[317], e, per ultimo, quelle altresì di Paolo Giovio.

Il nord intanto, e sino a che l'Italia non cominciò ad esercitare una certa influenza sui suoi scrittori (per esempio [204] sul Tritemio), non ebbe che storie di santi e isolate vite di principi e di ecclesiastici, che evidentemente si basano ancora sulla leggenda, anzichè sulla fama, vale a dire sulla celebrità guadagnata col merito personale. La gloria poetica è ancor chiusa esclusivamente in alcune classi determinate, ed anche il nome degli artisti non ci viene all'orecchio, se non in quanto essi emergono fra gli operai o i membri di qualche corporazione.


Ma il poeta-filologo in Italia, come notammo, ha l'intimo e pieno convincimento di essere egli solo l'arbitro della fama e dell'immortalità, che dispensa o ricusa a suo talento[318]. Ancora al suo tempo il Boccaccio si lagna di una bella da lui corteggiata, la quale non per altro gli si mostrò ritrosa che per continuare ad essere cantata da lui e quindi acquistar rinomanza, e la minaccia di voler in seguito tener una via del tutto opposta, quella del biasimo[319]. Sannazzaro in due magnifici sonetti minaccia una vituperosa oscurità ad Alfonso di Napoli, che vilmente fuggiva dinanzi a Carlo VIII[320]. Angelo Poliziano dà serii avvertimenti (1491) al re Giovanni di Portogallo riguardo alle recenti scoperte fatte sulle coste d'Africa[321], consigliandolo a pensare alla fama ed all'immortalità e a mandargli a tal uopo a Firenze tutti i materiali relativi, onde possano esservi ripuliti (operiosus excolenda); chè, in caso diverso, gli accadrebbe come a tutti coloro [205] le cui gesta, prive dello splendore che ricevono dalla penna dei dotti, «giacciono dimenticate nell'immensa congerie dei fasti della umana fragilità». E nel fatto il re (o il suo cancelliere proclive alle idee umanistiche) acconsentì alla domanda e promise che gli annali delle cose africane, già redatti in portoghese, sarebbero stati inviati tradotti in italiano a Firenze, per essere poi quivi rifatti in latino: ma non si sa se la promessa sia stata poscia mandata ad effetto. Simili pretensioni non sono in sostanza così prive di fondamento, come potrebbe sembrare a prima vista: la forma, nella quale si espongono le cose (anche le più importanti) al giudizio dei contemporanei e dei posteri, è tutt'altro che indifferente. Gli umanisti italiani, appunto per l'eccellenza della forma e l'eleganza del linguaggio, hanno esercitato un fascino abbastanza grande sul mondo dei lettori occidentali, e per la stessa ragione anche i poeti italiani sino al secolo passato hanno avuto una diffusione maggiore, che quelli di qualunque altra nazione. Il nome di battesimo del fiorentino Americo Vespucci divenne il nome della quarta parte del mondo solo in virtù della relazione ch'egli scrisse sul suo viaggio, e se Paolo Giovio, con tutta la sua superficialità ed elegante negligenza, si aspettava l'immortalità[322] da' suoi scritti, non s'ingannava poi del tutto.


Ma se, accanto a tutti questi sforzi fatti in palese per assicurarsi una fama, noi ci facciamo a studiarne più dappresso i moventi, non senza spavento ci accorgeremo, che questi non hanno altra radice, fuorchè una smisurata [206] colossale ambizione, un desiderio smodato di gloria, indipendente affatto dallo scopo e dai mezzi. Un esempio se ne ha nella prefazione del Macchiavelli alle sue Storie fiorentine, dov'egli riprende i suoi predecessori (Leonardo Aretino e il Poggio) di essersi serbati troppo timidamente silenziosi intorno ai varii partiti, che tennero agitata la città. «Essi s'ingannarono, scrive egli, e mostrarono di conoscere poco l'ambizione degli uomini e il desiderio, che egli hanno di perpetuare il nome dei loro antichi o di loro. Nè si ricordarono che molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opra lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla. Nè considerarono come le azioni che hanno in sè grandezza, come hanno quelle dei governi e degli Stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbiano, pare portino sempre agli uomini più onore, che biasimo»[323]. Anche in altri storici gravi e assennati vedesi dei fatti più strani e terribili assegnato il movente ad uno sfrenato desiderio di grandezza e di gloria senz'altro. Qui dunque non si ha soltanto una deplorevole esagerazione della comune vanità, ma qualche cosa di veramente spaventoso e diabolico, che non lascia più campo alla riflessione e fa dar di piglio ai mezzi più violenti, senza preoccuparsi della riuscita, buona o cattiva che sia. Questo è il modo, per dar qualche esempio, con cui Macchiavelli concepisce e ci presenta il carattere di Stefano Porcari (v. pag. 143)[324], ed altrettanto presso a poco ci dicono i [207] documenti intorno agli uccisori di Galeazzo Maria Sforza (pag. 77), e per ultimo anche l'assassinio del duca Alessandro de' Medici (1537) viene dal Varchi stesso (nel libro V) attribuito alla sete di gloria, ond'era tormentato Lorenzino (pag. 80). Intorno al quale ancor più esplicitamente si esprime Paolo Giovio[325], narrando che Lorenzino, messo alla gogna in Roma da un opuscolo del Molza per la mutilazione di alcune statue antiche, meditava un qualche gran fatto, la cui «novità» facesse dimenticare quell'onta, e si risolvette infine di uccidere il suo congiunto e sovrano. — Sono tratti eminentemente caratteristici di quest'epoca di forze e passioni vivamente eccitate, ma anche oggimai giunta al grado dell'ultima disperazione, nè più nè meno come fu quella di Filippo di Macedonia al tempo del famoso incendio del tempio di Efeso.

[209]

CAPITOLO IV. Il motto e l'arguzia nel senso moderno.

Loro attinenze coll'individualismo. — La beffa presso i Fiorentini, la novella. — I motteggiatori e i buffoni. — I passatempi di Leone X. — La parodia nella poesia. — Teoria dell'arguzia. — La maldicenza e Adriano VI sua vittima. — Pietro Aretino quale pubblicista. — Suoi rapporti coi principi e cogli uomini celebri. — Sua religione.

Freno non solamente a questo furore moderno di gloria, ma in generale all'individualismo soverchiamente sviluppato, fu lo scherno e il dileggio manifestantisi, quanto più si poteva, sotto la forma vittoriosa dell'arguzia del motto. Del medio-evo sappiamo che tanto fra gli eserciti che si osteggiavano, come fra i principi e i grandi che erano in lotta fra loro, il dileggio reciproco, che pure era vivissimo, rivestiva sempre una forma simbolica, e simbolica era pure l'onta suprema che s'infliggeva ai vinti. Ma, accanto a ciò, nelle questioni teologiche il motto cominciava qua e là, sotto l'influenza dell'antica rettorica e dell'epistolografia, a diventare un'arma, e la poesia provenzale sviluppò poscia una specie particolare di canti satirici e beffardi, dei quali, secondo le occasioni, vi ha un riverbero anche nei menestrelli settentrionali, come appare dalle loro poesie politiche[326].

[210]

Ma perchè il motto diventasse un elemento speciale della vita, gli occorreva una vittima da colpire, e questa non poteva essere che l'individuo nel suo pieno sviluppo e colla coscienza del suo valor personale. Allora esso non si limita più alle semplici parole e agli scritti, ma si traduce in atti, rappresenta farse e giuoca tiri, che sotto il nome di burle e di beffe offrono il tema a parecchie raccolte di novelle.


Nelle «Cento novelle antiche», che debbono essere state scritte ancora sulla fine del secolo XIII, non si incontra nè il motto, che nasce dal contrasto, nè la burla[327]; il loro scopo non è altro che di riferir savii detti e storie e favole piene di morale in un dettato semplice e schietto. Ma appunto questa assenza del motteggio è quella, che più d'ogni altra cosa attesta l'antichità di quella raccolta. Imperocchè subito dopo, col secolo XIV, troviamo Dante, che nell'espressione dello scherno si lascia addietro per gran tratto tutti i poeti del mondo, e che, ad esempio, meriterebbe d'esser detto il più gran maestro del genere comico solo pel quadro veramente sublime, in cui l'astuzia dei demoni resta vinta da quella de' barattieri[328]. Col Petrarca[329] cominciano le raccolte di [211] motti arguti alla maniera di Plutarco (apoftegmi ecc.). Le beffe poi, che durante quel secolo si vennero sempre più moltiplicando in Firenze, trovansi in ispecialità registrate nelle celebri Novelle di Franco Sacchetti. Per lo più non sono vere storie, ma risposte spiritose, che vengono date secondo le circostanze, e confessioni di una ingenuità che fa spavento, fatte da uomini semplici, da buffoni di corte, da furbi, da donne scostumate: il lato comico sta nel contrasto assai risentito tra quella ingenuità, vera e finta, con le condizioni reali e colla moralità allora in uso: e questo contrasto non potrebbe invero dirsi maggiore. Tutti i mezzi che l'arte può suggerire son buoni, non esclusa l'imitazione di speciali dialetti dell'Alta Italia. Spesso in luogo della facezia si ha la nuda e sfacciata insolenza, l'intrigo grossolano, la bestemmia, l'oscenità: taluni scherzi di Condottieri sono assolutamente quanto di più brutale e maligno fu mai registrato[330]. Qualche burla è veramente comica, ma in qualche altra non ci si vede che l'intenzione di sfoggiare in arguzie, per mettere in evidenza la propria superiorità sugli altri e nulla più. Quante volte la beffa sia stata reciprocamente scagliata, e quante altre le vittime abbiano cercato di guadagnarsi gli ascoltatori con una rivincita a tempo opportuno, noi non sappiamo: ma gli scherzi erano spesso maligni e crudeli, e la vita a Firenze deve essere stata assai fastidiosa a quel tempo[331]. Omai il burlone di professione è diventato un personaggio [212] inevitabile, e ce ne devono essere stati di classici e di gran lunga superiori ai semplici buffoni di corte; ma fuori di Firenze mancavano loro i rivali, il pubblico sempre nuovo e la pronta intelligenza degli ascoltatori. Per ciò alcuni fiorentini pensarono di prodursi, in qualità di ospiti, alle diverse corti dei tiranni di Lombardia e di Romagna[332] e vi trovarono il loro conto, mentre in patria, dove l'arguzia era in bocca di tutti, non facevano che magri guadagni. Il miglior tipo fra tutti costoro è l'uomo piacevole, il più abbietto è il buffone e il volgare scroccone, che assiste a tutti i matrimoni e a tutti i banchetti col solito ritornello: «se non sono stato invitato, non è colpa mia». Qua e colà essi ajutano a dissanguare e a spolpare qualche giovane dissipatore[333], ma nel complesso vengono trattati col dispregio in cui si hanno i parassiti, mentre altri motteggiatori più altamente locati si credono uguali ai principi e riguardano le proprie arguzie come qualche cosa di veramente superiore e sovrano. Dolcibene, che l'imperatore Carlo IV aveva qualificato come «il re dei buffoni in Italia», gli disse in Ferrara: «Voi vincerete il mondo, perocchè voi state bene e col Papa e con meco; voi con la spada, il Papa coi suggelli e io con le parole»[334]. Questo è più che uno scherzo: è un preludio di Pietro Aretino.

[213]

I due più celebri motteggiatori della metà del secolo XV erano un Piovano delle vicinanze di Firenze, Arlotto, per le arguzie più raffinate (facezie), e il Gonnella, buffone della corte di Ferrara, per le buffonerie. Sarebbe pericoloso il voler istituire un confronto tra le loro storie e quelle del parroco di Kalemberg e di Till Eulenspiegel: queste ultime ebbero origine affatto diversa ed hanno un carattere più generale e riescono intelligibili ad una sfera più larga di persone, mentre Arlotto e il Gonnella sono personaggi storici affatto locali. Ma, se il paragone una volta si accetti e si voglia estenderlo alle «facezie» in generale di tutti i popoli non italiani, nel complesso si troverà, che tanto presso i francesi coi loro fabliaux,[335] quanto presso i tedeschi, la burla, prima d'ogni altra cosa, ha in mira un vantaggio reale, mentre l'arguzia di Arlotto e gli scherzi del Gonnella non hanno altro scopo che la vittoria e il trionfo sugli avversari. (Oltre a ciò Till Eulenspiegel ha un carattere affatto proprio e speciale, vale a dire la personificazione, per lo più scipita, della celia contro classi o corporazioni particolari). Il buffone di casa d'Este più d'una volta con amari motteggi o con ingegnose vendette prese delle rivincite splendidissime.[336]


Le specie dell'uomo piacevole e del buffone sopravvissero lungamente alla libertà di Firenze. Sotto il duca Cosimo fiorì il Barlacchia, e al principio del secolo XVII [214] ebbero fama Francesco Ruspoli e Curzio Marignolli. È nota la predilezione affatto fiorentina di Leon X pei motteggiatori e i burloni. Cresciuto tra le raffinatezze di una società colta ed elegante e cultore appassionato di ogni liberale disciplina, questo Papa si compiace tuttavia di circondar la sua mensa di buffoni e scrocconi, tra cui due monaci e uno storpio,[337] ai quali egli nei giorni festivi fa sentire con superbo dispregio la sua padronanza, imbandendo loro scimmie e corvi a mangiare sotto l'apparenza di arrosti delicatissimi. In generale Leone non intende la burla se non a modo suo, e in quanto gli torni; ed è anche una specialità tutta sua quella di divertirsi a fare la parodia delle due arti, che amava sopra tutte le altre — la poesia e la musica, — provocandone egli stesso col suo segretario, il cardinal Bibbiena, le più goffe e strane caricature.[338] Infatti nè l'uno, nè l'altro non credettero di venir meno al proprio decoro nel prendersi giuoco di un vecchio segretario sino a fargli credere di essere un gran compositore di musica. Leone poi prodigò all'improvvisatore Baraballo, di Gaeta, tante e così smaccate adulazioni, che questi finalmente aspirò sul serio alla corona di poeta in Campidoglio. Nel giorno anniversario dei santi Cosma e Damiano, protettori di casa Medici, egli dovette, vestito di porpora e incoronato di alloro, rallegrar da prima la mensa del Papa con qualche improvvisazione, e poi, fra le risa universali, montare in groppa ad un elefante riccamente bardato in [215] oro, che Emmanuele il Grande di Portogallo aveva mandato in dono: il Papa intanto stava sull'alto di una loggia osservando attentamente col cannocchiale[339] ogni cosa. Ma la bestia adombrò per lo strepito delle trombe e dei timpani, e per le acclamazioni del popolo, nè fu possibile condurla al di là del ponte S. Angelo.


La parodia del grandioso e del sublime, che qui ci si fa incontro sotto la forma di una mascherata solenne, aveva in allora preso oggimai un posto assai importante nella poesia.[340] Bensì ella dovette cercarsi vittime ben diverse da quelle, che avea potuto colpire, ad esempio, Aristofane, quando mise sulla scena i grandi tragici greci. Ma quella stessa perfezione di cultura, che presso i Greci in un'epoca determinata produsse la parodia, la fece fiorire [216] anche qui. Già ancora sul finire del secolo XVI trovansi nel sonetto messe in caricatura le querele petrarchesche, esagerandone l'imitazione; anzi vi si mette in derisione la stessa solennità della forma rinchiusa in quattordici versi col farla servire a scipitaggini senza senso. Inoltre la Divina Commedia era un potente incentivo alla parodia, e infatti Lorenzo il Magnifico, imitando lo stile dell'Inferno, seppe cavarne un genere splendidamente comico (il Simposio e i Beoni). Luigi Pulci nel suo «Morgante» imita evidentemente gl'improvvisatori, ed oltre a ciò tanto il suo, come il poema del Bojardo, per questo stesso che sfiorano appena l'argomento, sono in più luoghi una parodia almeno per metà volontaria della poesia cavalleresca del medio-evo. Poi viene il grande parodiatore Teofilo Folengo (che fiorì nel 1520), il quale vi si getta con un ardimento tutto suo. Sotto il nome di Limerno Pitocco egli scrive l'Orlandino, dove la Cavalleria non figura che come una ridicola cornice barocca intorno ad un mondo di figure e d'immagini, che si risentono della vita moderna: sotto il nome di Merlin Coccai, egli descrive le gesta e le spedizioni del suo bizzarro cavaliere errante, con contorni non meno risentitamente maligni, in esametri mezzo-latini, e nella forma comicamente travestita dell'epopea classica del suo tempo (Opus Macaronicorum). D'allora in poi la parodia continuò a figurare nel Parnaso italiano, e talvolta sotto forme veramente splendide e piene di vita.


Nell'epoca in cui il Rinascimento si trova a mezzo della sua carriera, anche il motto viene studiato dal punto di vista teorico, e si stabilisce più precisamente l'uso che si può farne nelle società più elevate. Il primo ad [217] occuparsene fu Gioviano Pontano,[341] il quale nel suo scritto De Sermone, specialmente nel libro quarto, coll'analisi di molti singoli motti o facetiae cerca di riuscire ad un principio generale. Come l'arguzia sia da usare tra uomini di fina creanza lo insegna Baldassare Castiglione nel suo Cortegiano.[342] Naturalmente si suppone che non si tratti principalmente d'altro che di destare l'ilarità di terze persone col racconto di comici e graziosi motti o storielle: il frizzo diretto è da schivare, perchè offende gli infelici, fa troppo onore ai ribaldi, ed eccita alla vendetta i potenti od i loro favoriti, ed anche nel raccontare l'uomo di condizione deve serbare una giusta misura e non lasciarsi andare a troppo goffe contraffazioni. Poi segue, quasi schema pei futuri narratori e motteggiatori, una ricca collezione di scherzi e giuochi di parole, disposti metodicamente in varie classi, taluni dei quali veramente felici. Assai più severi e circospetti suonano, forse due decennj più tardi, i precetti di Giovanni Della Casa nel suo celebre Galateo;[343] dove, fra le altre cose, tenuto conto delle conseguenze che possono derivarne, si vuole bandita dai motti e dalle burle qualunque idea di superiorità o di trionfo sugli avversari. Si vede chiaro ch'egli è il precursore di una reazione, che doveva necessariamente sopravvenire.

[218]

Infatti l'Italia era divenuta tale scuola di maldicenza, che il mondo d'allora in poi non ne vide altro esempio, non eccettuata neanche la Francia del tempo di Voltaire. Non già che la tendenza a mordere e a satireggiare sia mancata a quest'ultimo od a' suoi contemporanei; ma dove sarebbersi potute trovare nel secolo scorso le vittime adatte, quella schiera innumerevole d'uomini singolari, quelle celebrità d'ogni specie, politici, ecclesiastici, scopritori, inventori, letterati, poeti ed artisti, che senz'altro lasciavano apparire a chiunque la propria originalità? Nei secoli XV o XVI questo esercito di grandi esisteva; ma l'altezza a cui era arrivata la cultura, aveva educato altresì, accanto ad essi, una spaventosa genìa di uomini di spirito sfaccendati, di criticastri e maldicenti nati, di calunniatori, l'invidia dei quali domandava la sua ecatombe. E a ciò s'aggiungano le rivalità dei grandi fra loro, come le lotte tra il Filelfo, il Poggio ed il Valla, mentre invece gli artisti di quello stesso tempo vivono insieme in emulazione quasi del tutto pacifica, del che per vero deve tenere il debito conto la storia dell'arte.


Il maggior mercato della gloria, Firenze, precorre, come dicemmo, in questo riguardo e per un certo tempo tutte le altre città. «Occhi acuti e male lingue» è la caratteristica, che si usa dare de' Fiorentini[344]. Un lieve sarcasmo su tutto e su tutti sembra essere stata l'intonazione [219] prevalente di ciascun giorno. Machiavelli, nell'importantissimo prologo della sua Mandragora, ascrive, a ragione o a torto, la visibile depravazione morale alla maldicenza universale, ma avverte al tempo stesso i suoi avversari che anche a lui stava bene la lingua in bocca. Poi viene la corte papale, da lungo tempo rifugio di tutte le lingue più mordaci e spiritose dell'epoca. Le facetiae del Poggio, dalla data, appajono tolte dal bugiale degli scrivani apostolici, e se si considera qual numero di aspiranti, di nemici e rivali dei favoriti, di oziosi intenti a trastullare gli scostumati prelati dovea quivi trovarsi, non sorprenderà certamente che Roma sia divenuta la vera patria tanto della plebea pasquinata, quanto della satira un po' più decente. Se poi vi si aggiunga il rancore generale contro il dominio dei preti e la miseria universalmente nota del popolo minuto, si comprenderà quanto facile fosse il trovar quivi materia per mettere in canzone i potenti e attribuir loro ogni nefandità[345]. Chi poteva, si schermiva, meglio che in qualsiasi modo, col disprezzo, tanto se le accuse si basavano sul vero, quanto se erano false, o col far pompa di un lusso, che pel suo stesso splendore abbagliava[346]. Ma le anime più sensibili e delicate erano condannate quasi alla disperazione, se la maldicenza riusciva ad avvolgerle nelle sue reti[347]. A [220] poco a poco le dicerie si facevano strada nella bocca di tutti, ed appunto la più schietta virtù era quella che si tirava addosso le insinuazioni le più maligne. Del grande oratore frate Egidio da Viterbo, che Leone pe' suoi meriti innalzò al cardinalato e che nell'eccidio del 1527 sposò risolutamente la causa del popolo[348], il Giovio dà ad intendere che si conservasse a bello studio il pallore ascetico del viso coll'aspirare il fumo della paglia bagnata, e simili. In generale il Giovio in queste occasioni scrive da vero curiale[349], vale a dire, narra dapprima le sue storielle, soggiunge tosto che non vi crede, ma con qualche leggera scoloritura lascia da ultimo trasparire, che pure qualche cosa di vero debbono contenere. — Ma la vera vittima dello scherno dei romani fu il buon papa Adriano VI, del quale parve anzi che non si sia voluto considerare altro che il lato ridicolo. Egli si guastò sin da principio con quella mala lingua che fu Francesco Berni, quando minacciò di far gettare nel Tevere — non già la statua di Pasquino, come si disse[350], — ma quelli [221] che la facevano parlare. La vendetta fu il famoso capitolo «contro Papa Adriano», dettato non tanto dall'odio, quanto da un profondo disprezzo pei barbari olandesi: le minaccie più fiere toccavano ai cardinali, che l'avevano eletto. Il Berni ed altri dipingono altresì[351] il seguito del Papa con quel colorito di piccante menzogna, con cui il moderno appendicista di qualche grande giornale sa far apparir bianco il nero e dar importanza alle più frivole inezie. La biografia che Paolo Giovio ne stese per incarico del cardinale di Tortosa, e che realmente doveva essere un elogio, è invece un cumulo di sarcasmi e di contumelie. In essa infatti si legge, in modo abbastanza comico, specialmente per l'Italia d'allora, come Adriano una volta avesse insistito vivamente presso il capitolo della cattedrale di Saragozza per avere una mandibola di S. Lamberto; come un'altra volta i devoti spagnuoli lo sopraccaricassero di ornamenti «per farne un Papa talquamente pulito ed elegante»; come egli abbia impreso la tempestosa e insensata sua spedizione da Ostia a Roma; come si sia consultato per far atterrare od ardere la statua di Pasquino; come solesse interrompere improvvisamente qualunque affare più importante quando gli si annunziava l'ora del pranzo; e, per ultimo, come, dopo un regno infelice, sia morto per aver ecceduto nell'uso della birra, e come la casa del suo medico da buontemponi notturni sia stata subito ornata di ghirlande, tra le quali leggevasi l'iscrizione Liberatori patriae S. P. Q. R. Vero è anche che il Giovio, nell'avocazione generale delle rendite ecclesiastiche, perdette la sua e in compenso non ricevette [222] che una semplice prebenda, perchè «non era poeta», vale a dire pagano. Ma era scritto che Adriano dovesse essere l'ultima grande vittima di questa specie. Dopo il sacco di Roma (1527), colla maggior corruzione della vita venne anche visibilmente mancando la maldicenza.


Ma quando essa era ancora in voga, era sorto, specialmente a Roma, il più grande maldicente del tempo moderno, Pietro Aretino. Uno sguardo a quest'uomo ci risparmierà di occuparci di altri minori della stessa risma.

Quella parte della sua vita che più particolarmente è conosciuta, sono i tre ultimi decenni (1527-1556) che egli passò a Venezia, unico asilo divenuto possibile per lui. Di là egli tenne tutte le celebrità d'Italia in una specie di stato d'assedio; e quivi anche affluivano i doni dei principi stranieri, che si servivano della sua penna o la temevano. Carlo V e Francesco I gli pagavano ambedue una pensione, perchè ognuno di essi sperava che l'Aretino avrebbe offeso le suscettibilità dell'altro: egli adulò entrambi, ma naturalmente si tenne più stretto a Carlo, perchè questi restò padrone d'Italia. Dopo la spedizione di Tunisi (1535) l'adulazione si mutò addirittura in una ridicola apoteosi, che si spiega colla speranza nudrita costantemente dall'Aretino di diventar cardinale coll'ajuto di Carlo. Non pare improbabile che egli godesse di una protezione speciale in qualità di agente segreto di Spagna, appunto perchè e le sue ciarle e il suo silenzio potevano esercitare una certa influenza sui principi minori d'Italia e sulla pubblica opinione. Quanto al Papato, egli si dava l'aria di disprezzarlo profondamente, sotto il pretesto di conoscerlo da vicino; ma il vero motivo era questo, che la Curia romana non poteva [223] e non voleva accordargli più alcun favore[352]. Di Venezia, che gli dava ospitalità, non parlò mai, da uomo prudente. Tutti gli altri suoi rapporti coi grandi non possono qualificarsi che come un accattonaggio volgare e impertinente.

Nell'Aretino si ha il primo grande esempio dell'abuso della pubblicità per iscopi vili e spregevoli. Gli scritti polemici, che cento anni prima s'erano scambiati tra loro il Poggio ed i suoi avversari, non sono certo più castigati nè quanto all'intenzione, nè quanto alla forma: ma non essendo destinati a diffondersi per la stampa, non mirano neanche ad avere una pubblicità troppo estesa e restano sempre chiusi in una sfera ristretta: l'Aretino invece si giova appositamente della stampa per fare il maggior chiasso possibile e per dare alle sue impertinenti contumelie la più ampia pubblicità: sotto un certo punto di vista lo si potrebbe quindi anche annoverare tra i precursori del giornalismo moderno. Infatti era suo uso di far stampare insieme periodicamente le sue lettere ed altri articoli, dopochè già prima erano corsi manoscritti in moltissimi circoli[353].

Paragonato colle penne mordaci del secolo XVIII, l'Aretino ha il vantaggio di non fare ostentazione di principj nè di razionalismo, nè di filantropia, nè di qualunque altra virtù, e nemmeno di qualsiasi scienza: [224] tutto il suo corredo sta nel motto conosciutissimo: Veritas odium parit. Per questa ragione egli non si trovò mai in posizioni false, come, per esempio, toccò più volte a Voltaire, il quale e dovette sconfessare il suo poema sulla Pulcella, e dovette tener nascosti per tutta la sua vita parecchi altri scritti: l'Aretino dava ad ogni cosa il suo nome, ed anche negli ultimi anni egli menava un gran vanto de' suoi Ragionamenti, che ebbero una sì scandalosa celebrità. Il suo talento letterario, la sua prosa netta e piccante, la sua fina osservazione degli uomini e delle cose lo renderebbero degno in ogni caso di qualche attenzione, quand'anche gli sia mancata del tutto l'attitudine a concepire un'opera d'arte propriamente detta, nè sia giunto a dare neanche mai un intreccio veramente drammatico di qualsiasi commedia. Inoltre egli possedette, accanto ad una malvagità la più grossolana e raffinata ad un tempo, una splendida disposizione al grottesco, che in più d'un caso lo farebbe degno di stare a fianco allo stesso Rabelais[354].

In simili circostanze e con tali mezzi e intendimenti egli si lancia talvolta sulla sua preda, talvolta le gira d'attorno. L'invito ch'egli fa a Clemente VII, perchè, invece di querelarsi, perdoni[355], mentre il grido doloroso di Roma straziata è tanto forte da dover essere udito anche in Castel S. Angelo, dove il Papa è rinchiuso, non è che un amaro dileggio, il sorriso infernale di satana o la smorfia brutale di una scimmia. Talvolta, quando perde affatto la speranza di un qualche dono, il suo furore [225] prorompe in un urlo selvaggio, come, per esempio, nel Capitolo al principe di Salerno, che per un certo tempo l'aveva stipendiato, e poscia voleva disfarsene. Per contrario sembra che il terribile Pier Luigi Farnese, duca di Parma, non si sia mai curato di lui. Siccome a questo principe tornava affatto indifferente che si dicesse bene o male de' fatti suoi, non era così facile il morderlo in guisa ch'egli se ne risentisse: l'Aretino vi si provò, qualificando il suo contegno come quello di uno sgherro, di un mugnajo e di un fornajo[356]. Comicamente buffo è l'Aretino ogni qualvolta assume il tuono del querulo accattonaggio, come, per esempio, nel capitolo a Francesco I; mentre invece parranno sempre ributtanti, ad onta di tutta la loro vena comica, le sue lettere, e le sue poesie, dove le minacce si alternano sempre colle più vili adulazioni. Una lettera come quella da lui diretta nel novembre del 1545 a Michelangelo[357] non ha forse l'eguale al mondo. In mezzo alle proteste della più grande ammirazione (pel Giudizio universale), egli esce contro di lui in invettive e minacce per la sua irreligione e scostumatezza, e lo accusa perfino di ladroneccio (a danno degli eredi di Giulio II), aggiungendo da ultimo in un poscritto: «vi ho voluto solamente mostrare che se voi siete di-vino (divino), anch'io non sono d'acqua». Infatti anche l'Aretino teneva molto — non si sa se per boriosa vanità o pel gusto di parodiare ogni cosa celebre — ad esser detto il divino, e realmente la personale sua celebrità crebbe a tal punto, che in Arezzo si additava la casa dov'egli era nato, [226] come una rarità degna d'essere veduta[358]. D'altra parte è vero altresì, che vi furono circostanze, nelle quali egli per mesi interi non osava varcare la soglia di casa sua in Venezia, per non cadere nelle mani di qualche fiorentino da lui offeso e specialmente in quelle del più giovane degli Strozzi; nè gli mancarono colpi di pugnale e di bastone, che a guisa di avvertimenti[359] doveano farlo stare in sull'avviso, sebbene non abbiano avuto quelle terribili conseguenze, che il Berni gli aveva predette in un famoso sonetto, essendo egli morto invece di apoplessia.

Nell'adulare egli non si contiene sempre ad un modo, ed anche ciò va notato. Con gli stranieri procede gonfio ed ampolloso[360], con gli italiani e specialmente col duca Cosimo di Firenze muta affatto registro. In quest'ultimo egli loda specialmente la bellezza della persona, che in fatto il principe, ancor giovane, possedeva, al pari d'Augusto, in grado eminente; loda il suo contegno, affatto morale, non senza però dare un tocco incidentalmente alle speculazioni pecuniarie della madre di Cosimo, Maria Salviati, e chiude al solito con un piagnucoloso fervorino, nel quale chiede soccorsi, attesa la carezza dei viveri, e simili. Ma se Cosimo gli accordò una pensione[361], ed anche abbastanza lauta in relazione alla consueta sua [227] parsimonia (negli ultimi anni ammontava a centosessanta ducati annui), ciò non accadde certamente che per uno speciale riguardo alla sua qualità di agente segreto di Spagna. Infatti per questa sua qualità l'Aretino avrebbe potuto, all'occorrenza, ridersi altamente del duca e al tempo stesso minacciare l'inviato fiorentino di provocare dal duca stesso l'immediato suo richiamo. E se anche il Medici da ultimo s'accorse di essere stato già indovinato da Carlo V, egli non poteva ad ogni modo essere contento che alla corte imperiale circolassero eventualmente gli scherni e i dileggi dell'Aretino contro di lui. Di buon genere altresì è l'adulazione da lui usata col tanto celebre marchese di Marignano, che «qual castellano di Musso» avea cercato di crearsi una signoria. Per ringraziarlo di cento scudi inviatigli, l'Aretino scrive: «tutte le qualità che un principe deve avere, si trovano in voi, e questo lo potrebbe facilmente vedere ognuno, se l'uso della violenza, che è necessaria in tutte le cose sul loro principiare, non vi facesse apparire ancora un po' aspro»[362].

Spesse volte fu messo in rilievo come una singolarità il fatto, che l'Aretino non disse male degli uomini soltanto, ma di Dio stesso. Qual genere di fede religiosa possa egli avere avuto, torna perfettamente inutile il ricercarlo di fronte alle sue azioni, che parlano già da sè, nè potrebbe dedursi nemmeno da' suoi scritti ascetici, ch'egli compose con viste tutt'altro che religiose[363]. Ma [228] del resto non si saprebbe davvero trovare una ragione, per cui egli avesse dovuto prendersela colla Divinità. Egli non fu mai un pensatore nel senso più rigoroso della parola, nè insegnò o professò veruna speciale dottrina filosofica: egli non poteva neanche nutrir la speranza di estorcere da Dio, o con le adulazioni o con le minacce, un soccorso qualsiasi in danaro; egli per ultimo non poteva nemmeno riguardarsi come offeso da un eventuale rifiuto. Come mai un uomo simile avrebbe sprecato le sue forze inutilmente e senza un immediato e pratico tornaconto?

Il migliore indizio dello spirito odierno degli Italiani è appunto questo, che un carattere come quello dell'Aretino ed un modo di agire pari al suo sarebbero oggidì in mille guise impossibili. Ma dal punto di vista storico quest'uomo conserverà sempre un'alta importanza.

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PARTE TERZA IL RISORGIMENTO DELL'ANTICHITÀ

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CAPITOLO I. Osservazioni preliminari.

Estensione dell'idea compresa nella parola Rinascimento. — L'Antichità nel Medio-Evo. — Suo precoce risveglio in Italia. — Poesia latina del secolo XII. — Spirito del secolo XIV.

Giunti a questo punto del nostro quadro storico della civiltà, ci tocca ora di mostrare qual parte vi ebbe l'Antichità, dal cui «Rinascimento» l'epoca intera, con denominazione invero parziale e ristretta, s'intitola. Le condizioni sociali fin qui descritte avrebbero, non v'ha dubbio, bastato da sè, anche senza l'Antichità, a scuotere la nazione e a portarla ad un certo grado di maturità, come è certo altresì, che la maggior parte delle novità veramente sostanziali che allora prevalsero nella vita pubblica, si sarebbero svolte anche senza questo, pur gravissimo, avvenimento; ma tuttavia non può negarsi, che e le une e le altre dall'influenza del mondo antico ricevettero un colorito speciale, che si manifestò nella forma, se non nella sostanza, delle cose, e la padroneggiò interamente. Il Rinascimento non sarebbe stato quella suprema necessità mondiale che fu, se così facilmente si potesse prescindere da esso. Ma ciò che noi dobbiamo stabilire fin d'ora, come un punto essenziale, si è questo, che non la risorta Antichità da sè sola, ma essa e il nuovo spirito italiano, compenetrati insieme, ebbero la forza di trascinare con sè tutto il mondo occidentale. Bensì questo spirito non sembra aver conservato sempre, [232] di fronte ad essa, lo stesso grado di autonomia; ma se, per esempio, nella letteratura neo-latina esso par minimo, grandissimo invece lo si riscontra nelle arti figurative e in parecchie altre sfere d'attività, e così questo nesso fra due civiltà di uno stesso popolo tanto remote fra loro, appunto perchè indipendente, appare anche naturale e fecondo. Le altre nazioni eran libere di respingere il grande impulso che veniva loro dall'Italia, o di appropriarselo in parte, od anche del tutto; ma dove quest'ultima condizione ebbe a verificarsi, dovrebbe cessare ogni lamento per la prematura decadenza delle forme della civiltà medievale. Se queste forme avessero avuto in sè la forza di reagire e di mantenersi, sussisterebbero ancora. E se quegli spiriti queruli, che le rimpiangono, potessero farle rivivere un'ora sola, se ne spaventerebbero essi medesimi e anelerebbero tosto all'aere più puro e spirabile della vita moderna. Che poi in tali processi di trasformazione qualche singolo e delicato fiore resti soffocato, senza poter vivere nemmeno nella tradizione o nella poesia, è cosa che s'intende da sè; ma si dovrebbe per questo desiderare che la trasformazione in sè stessa non fosse accaduta? Ed essa consiste precisamente in questo, che, accanto alla Chiesa, la quale fino a questo tempo (ma per poco ancora) tenne unito tutto l'occidente, sorge un nuovo elemento morale, che, diffondendosi dall'Italia, invade il resto d'Europa e diventa come l'ambiente ordinario di tutti gli uomini forniti di un certo grado di cultura. Il fatto per sè è impopolare, perchè conduce necessariamente ad una separazione completa tra le classi colte e non colte di tutta Europa; ma come rammaricarsene, quando noi stessi siamo costretti a confessare, che questa separazione, universalmente riconosciuta, sussiste ancora oggidì e non [233] può esser tolta? D'altra parte, in Italia essa è assai meno pronunciata che altrove: tanto è vero, che il poeta più ligio ai precetti dell'arte, il Tasso, è uno dei più popolari e corre per le mani di tutti.


L'Antichità greco-latina, che sino dal secolo XIV sì vivamente si compenetrò nella vita italiana come fonte della cultura, come scopo supremo dell'esistenza, e in parte anche come reazione pensata e voluta contro le tendenze precedenti, avea già da lungo esercitato qua e colà la sua influenza su tutto il medio-evo, anche fuori d'Italia. La cultura infatti, che al suo tempo promosse e favorì Carlomagno, era essenzialmente un Rinascimento di fronte alla barbarie dei secoli VII e VIII, e non poteva neanche essere altra cosa. Più tardi nell'architettura romana dei paesi settentrionali noi veggiamo adottarsi, oltre la tendenza generale, forme affatto speciali di carattere prettamente antico, e nei conventi farsi tesoro di molti materiali tolti di pianta da scrittori latini, e imitarsene anche lo stile, dietro l'esempio dato pel primo da Eginardo.


In Italia invece essa torna in vita in modo affatto diverso. Cessata la barbarie, s'annunzia tosto presso il popolo italiano, per metà ancora antico, la cognizione de' suoi tempi anteriori; esso li magnifica e desidera riprodurli. Fuori d'Italia trattasi di trar partito in via di erudizione e di riflessione da singoli elementi dell'Antichità: in Italia invece si ha un vero entusiasmo per tutto ciò che è antico, e non da parte dei dotti soltanto, ma del popolo intero, perchè vi si scorge la rimembranza dell'antica grandezza, e perchè si ha un allettamento a darvi opera nella facile intelligenza del [234] latino e nella copia di memorie e monumenti, che ancora esistono. Da questo impulso e dal contraccolpo, che partiva dallo spirito popolare già essenzialmente mutato, dalle istituzioni politiche germanico-longobarde, dalla Cavalleria diffusa già in tutta Europa, nonchè dagli altri elementi di civiltà portativi dai popoli settentrionali, dalla religione e dalla Chiesa, sorge e si sviluppa una creazione affatto nuova, lo spirito moderno italiano, destinato a dare l'impulso a tutto il mondo occidentale.


In qual modo nelle arti figurative risorga l'elemento antico, non appena cessa la barbarie, mostrasi chiaramente dalle costruzioni toscane del secolo XII e dalle sculture del XIII. Ma anche nella poesia non mancano i confronti, quando si ammetta che il maggior poeta latino del secolo XII, anzi colui, che diede in allora l'intonazione a tutto un genere di poesia latina, fu un italiano. Egli è appunto quel qualunque scrittore, al quale appartengono i brani migliori dei così detti Carmina Burana. Un grande attaccamento al mondo e a' suoi piaceri, come genii tutelari dei quali sono invocate le divinità pagane, prorompe con vena facile e abbondante da queste strofe rimate. Chi le legge d'un tratto, difficilmente potrà crederle opera d'altri, fuorchè d'un italiano e probabilmente d'un lombardo; ma vi sono anche ragioni speciali per accettare una tale ipotesi[364]. Che se [235] anche sino ad un certo punto queste poesie latine dei Clerici vagantes del secolo XII, con tutto il corredo delle frivolezze di cui riboccano, potrebbero dirsi piuttosto un patrimonio generale di tutta Europa, non si potrà però mai credere che tanto la canzone De Phyllide et Flora, quanto l'altra che comincia Aestuans interius, sieno opera di un settentrionale, o del molle e delicato sibarita che cantò: Dum Dianae vitrea sero lampas oritur. Qui c'è una riproduzione dell'antico modo di sentire e di poetare, che salta agli occhi tanto più facilmente accanto alla forma rimata, propria del medioevo. In più di un lavoro di questo e dei secoli vicini s'incontrano esametri e pentametri di una imitazione molto accurata e allusioni mitologiche e reminiscenze antiche d'ogni specie, e tuttavia l'impressione che se ne risente, è ben lungi dall'essere altrettanto viva e profonda. Le cronache in versi e le altre opere di Guglielmo Pugliese mostrano anch'esse uno studio diligente di Virgilio, di Ovidio, di Lucano, di Stazio e di Claudiano, ma la forma antica non vi figura che come tolta a prestito, [236] allo stesso modo che semplicemente copiati appajono i materiali antichi nei grandi raccoglitori del genere di Vincenzo di Beauvais o nei mitologi ed allegoristi della tempra di Alano dalle Isole. Ma il Rinascimento non è già una saltuaria imitazione o una compilazione fatta a frammenti, bensì una rinascita vera, e come tale non lo si trova realmente che nelle poesie sopra citate dell'ignoto scolaro vagante del secolo XII.


Tuttavia il vero ed universale entusiasmo degli Italiani per l'Antichità non comincia a manifestarsi che col secolo XIV. A ciò si richiedeva uno sviluppo della vita cittadina, quale in Italia soltanto e soltanto a questo tempo fu possibile, vale a dire, convivenza ed effettiva uguaglianza della nobiltà e della borghesia, e formazione di una grande società (v. pag. 193), che sentisse il bisogno di istruirsi e n'avesse il tempo e i mezzi. Ma la cultura, se voleva svincolarsi dal mondo fantastico del medio-evo, non poteva passare improvvisamente per mezzo del solo empirismo alla cognizione del mondo fisico e morale; essa avea bisogno di una guida, e come tale si offerse la classica Antichità colla sua ricchezza di verità obbiettive, evidenti in tutti i regni dello spirito. Da essa si tolsero con riconoscenza e ammirazione le forme e la materia, e se ne costituì per un certo tratto di tempo l'essenziale di ogni cultura[366]. Anche le condizioni generali d'Italia favorirono un tale indirizzo: l'impero dopo la caduta degli Hohenstaufen o aveva rinunciato all'Italia, o non aveva avuto la forza di mantenervisi: [237] il Papato aveva emigrato ad Avignone: la maggior parte delle potenze esistenti si reggevano sulla violenza e sulla illegittimità; ma lo spirito della nazione, ridestatosi alla coscienza di sè, era vôlto alla ricerca di un ideale nuovo e durevole, e così il sogno di un dominio d'Italia e di Roma sul mondo potè imporsi alle menti di tutti e tentare perfino una effettuazione pratica con Cola di Rienzo. Vero è che il modo con cui egli, specialmente nel suo primo tribunato, intese la sua missione, non doveva riuscire ad altro, fuorchè che ad una strana commedia; ma tuttavia pel sentimento nazionale la ricordanza dell'antica Roma era pur sempre un punto d'appoggio di gran valore. Tornati in possesso dell'antica loro cultura, gl'Italiani s'accorsero ben presto di essere la nazione più avanzata del mondo.

Il delineare questo moto degli spiriti non in tutta la sua pienezza, ma soltanto nei tratti suoi più salienti e visibili, e principalmente ne' suoi primordj, è ora l'assunto di questa parte del nostro lavoro[367].

[239]

CAPITOLO II. Roma, la città delle rovine.

Dante, Petrarca, Fazio degli Uberti. — Le rovine esistenti al tempo del Poggio. — Flavio Biondo, Nicolò V e Pio II. — L'Antichità fuori di Roma. — Città e famiglie di derivazione romana. — Sentimenti e pretese dei romani. — Il corpo di Giulia. — Scavi e restauri. — Roma sotto Leone X. — Le rovine come fonti di sentimentalismo.

Innanzi tutto Roma, la città delle rovine[368], gode anche presentemente una specie di venerazione che è ben diversa da quella del tempo in cui furono scritti i Mirabilia Romae e la storia di Guglielmo di Malmesbury. Se ora mancano i pellegrini che vadano a cercarvi tesori e miracoli[369], vi sono sempre gli storici e i patriotti, [240] che vanno ad attingervi le più alte ispirazioni. In questo senso vogliono essere intese anche le parole di Dante[370]: «le pietre che nelle mura sue stanno, sono degne di reverenzia, e 'l suolo dov'ella siede, è degno, oltre quello che per gli uomini è predicato e provato». La colossale frequenza a' giubilei non lascia quasi veruna devota ricordanza nella letteratura che ne discorre; e Giovanni Villani non esita a dire, che il maggior frutto ch'egli ritrasse dal giubileo dell'anno 1300, fu la sua risoluzione di scrivere la storia di Firenze, surta in lui dalla contemplazione delle rovine di Roma (v. pag. 102). Anche il Petrarca non sa ben dire se egli ammiri più gli avanzi di Roma pagana o quelli di Roma cristiana: e ci narra che di frequente salì con Giovanni Colonna sulle vôlte colossali delle terme di Diocleziano[371], e quivi nell'aria libera e dinanzi all'ampia prospettiva che si apriva d'intorno, immersi entrambi in profondi pensieri e l'occhio fisso sulle rovine, ragionavano insieme non già d'affari, o di cose domestiche o d'interessi politici, ma di storia, evocando l'uno l'antichità pagana, l'altro la cristiana, o s'intrattenevano di filosofia o dei primi inventori delle arti. Quante volte da quel tempo in poi sino a Gibbon e a Niebuhr quel mondo di macerie offerse argomento alle più gravi meditazioni!

La stessa oscillazione di sentimenti incontrasi nel «Dittamondo» di Fazio degli Uberti, che è la descrizione, fatta a guisa di visione (intorno al 1360), di un finto viaggio, nel quale il poeta è accompagnato dall'antico geografo Solino, come Dante da Virgilio. A quel modo [241] che essi visitano Bari per onorarvi S. Nicolò e il monte Gargano in omaggio all'arcangelo Michele, vengono anche a Roma per risuscitarvi la tradizione leggendaria di Araceli e di S. Maria in Trastevere; ma la magnificenza profana di Roma antica esercita su essi un fascino prevalente: una venerabile matrona in lacero abbigliamento — è Roma stessa — narra loro la gloriosa sua storia e descrive minutamente gli antichi trionfi[372]: poi li conduce attorno per la città, addita ad essi i sette colli ed un gran numero di rovine, dalle quali (egli le fa dire) comprender potrai, quanto fui bella!


Ma pur troppo questa Roma dei Papi avignonesi e scismatici non era più, rispetto alle memorie dell'antichità, ciò che era stata alcune generazioni prima. Una orribile devastazione, che ai più importanti edifici ancora esistenti deve aver tolto affatto il loro carattere speciale, fu quella che ebbe luogo nell'occasione dell'atterramento di centoquaranta solide abitazioni di grandi romani ordinato dal senatore Brancaleone intorno al 1258, essendo certo che la nobiltà cercava di trincerarsi nelle rovine maggiori e meglio conservate[373]. Ciò non ostante, [242] restò pur sempre infinitamente più che non rimanga oggidì, e in particolare molti avanzi devono a quel tempo aver avuto ancora il loro rivestimento marmoreo, le loro colonne all'ingresso degli edifici ed altri ornamenti, mentre ora di questi non sopravanza che il nudo scheletro in pietre cotte. Ora appunto a un tale stato di cose fanno capo i primi tentativi di una seria topografia dell'antica città. Nella «Descrizione di Roma» del Poggio[374] per la prima volta noi veggiamo congiunto intimamente lo studio delle rovine con quello degli antichi scrittori e delle iscrizioni (ch'egli andò a cercare in mezzo all'erba[375] cresciutavi sopra), dato il bando ai voli della fantasia e diligentemente sceverate queste memorie da quelle della Roma cristiana. Così fosse il di lui lavoro più esteso e corredato di disegni! Egli infatti trovò molte più cose conservate che non ottant'anni più tardi Raffaello: egli ha veduto la tomba di Cecilia Metella, nonchè il frontale a colonne di uno dei templi situati sul pendìo del Campidoglio, dapprima nella loro integrità e poi mezzo distrutti, perchè sfortunatamente il marmo era sembrato ancor buono ad essere fuso in calce: anche un imponente colonnato attiguo alla Minerva soggiacque a poco per volta alla stessa sorte. Un cronista dell'anno [243] 1443 afferma che queste fusioni continuavano e soggiunge indignato, che erano: «una vera ignominia, poichè le nuove costruzioni sono meschine e il bello di Roma sta tutto nelle rovine»[376]. I romani d'allora, nei loro mantelli da campagnuoli e nei loro stivali, sono dipinti dai forestieri come veri mandriani, ed infatti il bestiame pascolava sin dentro a' Banchi: riunioni sociali non si tenevano, se non in occasione delle visite alle chiese per lucrarvi speciali indulgenze: in tali circostanze soltanto erano visibili anche le belle donne.


Negli ultimi anni di Eugenio IV (morto nel 1447) Biondo da Forlì scrisse la sua Roma instaurata, servendosi omai di Frontino e degli antichi Libri regionali, come altresì (a quanto sembra) di Anastasio. Il suo scopo non è più la descrizione di ciò che sussiste ancora, ma piuttosto la ricordanza delle cose perite. Coerentemente alla dedica al Papa, il libro si consola dell'universale desolazione enumerando le molte reliquie sacre, che Roma ancor possedeva.

Con Niccolò V (1447-1455) sale sul trono dei Papi quel nuovo spirito monumentale, che è una delle caratteristiche dell'epoca del Rinascimento. Vero è che la smania ora sorta in tutti di abbellir la città di Roma, creò da un lato un nuovo pericolo per le rovine, ma dall'altro accrebbe anche il rispetto per esse, come titolo di gloria della città stessa. Pio II ha un vero entusiasmo per ogni cosa antica, e se nelle sue opere ci [244] parla poco delle antichità di Roma in particolare, s'interessa invece moltissimo per quelle di tutto il resto d'Italia, e, primo fra tutti, ci dà una descrizione esatta ed estesa degli avanzi trovati nei dintorni della grande metropoli[377]. Vero è che, nella sua doppia qualità di ecclesiastico e di cosmografo, lo veggiamo compreso di uguale ammirazione tanto dinanzi alle antichità di Roma pagana, quanto dinanzi a quelle di Roma cristiana, o anche di fronte a qualsiasi grandioso fenomeno naturale; ma chi crederà alla sincerità delle sue parole, quando egli, per esempio, afferma che Nola ha maggior gloria dalla memoria di S. Paolino, che non dal combattimento eroico di Marcello? Non già che si pretenda dubitare della sua fede nel valore delle reliquie cristiane; ma ognuno sa che le sue tendenze e i suoi studi lo portavano di necessità a prediligere l'investigazione della natura e dell'antichità e a interrogare la vita delle nazioni nei monumenti, che ne rimangono. Ancor negli ultimi suoi anni, e già divenuto Papa, benchè travagliato dalla podagra, egli si fa lietamente portare in lettiga via per monti e valli a Tusculo, ad Alba, a Tivoli, ad Ostia, a Falerio, ad Ocricolo, e descrive minutamente tutto ciò che ha veduto, segue le antiche strade e gli acquedotti romani, e cerca di determinare il territorio abitato dalle antiche popolazioni finitime a Roma. In una escursione a Tivoli, fatta col grande Federigo da Urbino, il tempo fugge ad entrambi in dialoghi animatissimi sull'antichità e sull'arte della guerra degli antichi e più particolarmente sull'impresa dei Greci contro [245] Troja; perfino nel suo viaggio al congresso di Mantova (1459) egli cerca, benchè indarno, il labirinto di Chiusi, menzionato da Plinio, e visita sul Mincio la così detta villa di Virgilio. Che un Papa simile esigesse anche dagli Abbreviatori della Curia un latino classico nella redazione degli atti, non farà meraviglia, quando, oltre a tutto questo, si sappia che una volta nella guerra contro il re di Napoli amnistiò gli Arpinati perchè compatriotti di M. T. Cicerone e di C. Mario, il nome dei quali ricorre quivi frequentissimo anche nei registri battesimali. A lui solo, come a vero conoscitore e sincero fautore, poteva il Biondo dedicare la sua Roma triumphans, che è il primo grande tentativo di una esposizione generale delle antichità romane.


Ma anche nel resto d'Italia a questo tempo lo studio delle antichità romane s'era fatto più vivo che mai. Già il Boccaccio[378], parlando delle rovine di Baja, le chiama «antiche macerie, ma pur sempre nuove per gli uomini moderni»: d'allora in poi esse furono riguardate come una delle più interessanti rarità dei dintorni di Napoli. Poco dopo sorsero collezioni di antichità di ogni specie. Ciriaco d'Ancona percorse non solo l'Italia, ma anche molti altri paesi dell'antico Orbis terrarum, e ne riportò in grande copia iscrizioni e disegni: interrogato perchè tanto s'adoperasse, rispondeva: per risuscitare i morti[379]. Le storie delle singole città da tempo [246] antichissimo avevano accennato a rapporti veri o supposti con Roma, credendole o direttamente fondate o almeno colonizzate da essa[380]; e da lungo tempo altresì compiacenti compilatori di genealogie avean derivato alcune famiglie dalle più celebri dell'antica Roma. Queste adulazioni tornavano così gradite, che non vi si rinunciò nemmeno nella luce della critica esordiente del secolo XV. Senza reticenza alcuna Pio II a Viterbo disse agli oratori romani, che lo pregavano di un sollecito ritorno[381]: «Roma è già mia patria al pari di Siena, perchè la famiglia dei Piccolomini è da tempo immemorabile trasmigrata da Roma a Siena, come lo prova l'uso dei nomi Enea e Silvio perpetuatosi in essa». Probabilmente non gli sarebbe rincresciuto affatto di esser creduto un discendente dei Giulii. Anche Paolo II — un Barbo da Venezia — trovò lusingata la sua vanità nel veder derivata la sua famiglia, ad onta di un'opinione contraria che la vorrebbe tedesca, dalla stirpe degli Enobarbi romani, che con una colonia sarebbero venuti a Parma e di là poi, in forza di lotte di partito, sarebbersi trasferiti a Venezia[382]. Dopo ciò, non farà meraviglia [247] che i Massimi pretendessero discendere da Fabio Massimo, i Cornaro dai Cornelj, e parrà invece strano che nel seguente secolo XVI il novelliere Bandello abbia cercato di far derivare la propria famiglia da alcuni illustri Ostrogoti (I. Nov. 23).


Torniamo a Roma. Gli abitanti, «che allora si gloriavano del titolo di romani», accolsero con compiacenza i sentimenti di omaggio, che tributava loro il resto d'Italia. Sotto Paolo II, Sisto IV ed Alessandro VI vedremo effettuarsi splendide feste carnevalesche, nelle quali si va a gara per rappresentare le immagini predilette del tempo, i trionfi degli antichi imperatori romani. L'antichità pervade tutti i sentimenti e somministra le forme, sotto le quali si manifestano. In mezzo a tali tendenze generali accadde, che il 18 aprile dell'anno 1485 si sparse la voce essersi trovato il corpo, maravigliosamente bello e ben conservato, di una giovane romana del tempo antico[383]. Alcuni muratori lombardi, i quali stavano lavorando per dissotterrare un antico monumento in un podere del convento di S. Maria nuova, presso la via Appia, fuori della cerchia del sepolcro di Cecilia Metella, trovarono un sarcofago di marmo, che si diceva portar l'iscrizione: Giulia, figlia di Claudio. Questo è [248] il fatto; ma non si tardò a lavorarvi sopra di fantasia, e si disse che i muratori erano immediatamente scomparsi coi tesori e colle pietre preziose poste nel sarcofago ad ornamento del cadavere; che questo era tutto rivestito di una essenza atta a conservarlo, ed avea tale freschezza e flessibilità, da sembrar quello di una giovane quindicenne appena morta; e più tardi si aggiunse, che conservava ancora i colori vitali e gli occhi e la bocca semiaperti. Fu portata al palazzo dei Conservatori in Campidoglio, dove accorse, per vederla, una folla infinita, e molti altresì per ritrarla, «imperocchè essa era bella oltre quanto si possa dire e scrivere, e se lo si dicesse o scrivesse, quelli che non la videro, no 'l crederebbero». Ma tosto dopo, per ordine di Innocenzo VIII, si dovette di notte tempo seppellirla in luogo segreto fuori di porta Pinciana, e nel vestibolo del cortile de' Conservatori non rimase che il vuoto sarcofago. Probabilmente sul viso del cadavere era stata tirata una maschera colorata in cera o qualche cosa di simile, che stesse in armonia con gli aurei capelli. Ciò che v'ha di singolare in tutto questo non è il fatto in sè stesso, ma il pregiudizio universalmente radicato che le forme corporee degli antichi, che qui finalmente si credeva di vedere nella loro realtà, fossero più belle di quelle dei moderni.


Frattanto la cognizione di fatto dell'antica Roma cresceva mediante gli scavi: già sotto Alessandro VI si impararono a conoscere le così dette grottesche, vale a dire le decorazioni delle pareti e delle vôlte degli antichi, e si trovò a Porto d'Anzio l'Apollo del Belvedere: sotto Giulio II seguirono le gloriose scoperte del Laocoonte, della Venere vaticana, del Torso, della Cleopatra [249] ed altre parecchie[384]; anche i palazzi dei grandi e dei cardinali cominciarono a riempirsi di statue e di frammenti antichi. Per Leone X Raffaello intraprese quella restaurazione ideale di tutta l'antica città, di cui parla la celebre sua lettera (o del Castiglione)[385]. In essa, dopo avere amaramente lamentato le devastazioni, che, specialmente sotto Giulio II, ancora duravano, egli supplica il Papa che voglia farsi protettore dei pochi avanzi rimasti a testificare la grandezza e la potenza di quei genii divini dell'antichità, alla cui memoria si accendono ancora coloro, che sono capaci di sentimenti elevati e sublimi. Poi, con senso quasi di divinazione, traccia le linee fondamentali di una storia comparata delle arti, e per ultimo accenna all'opportunità di quei «restauri», che poi furono nella mente di tutti, e a questo scopo esprime il desiderio che di ogni avanzo si cerchi di dare il piano, il contorno e lo spaccato. Come, da questo tempo in avanti, l'archeologia, tutta intesa ad illustrare la città eterna e la sua topografia, sia cresciuta in scienza speciale, e come l'Accademia vitruviana si sia sentita almeno da tanto di metter fuori un programma colossale[386], non può essere dimostrato nel presente lavoro, nel quale dobbiamo arrestarci a Leone X, sotto il cui governo il gusto per l'antichità si connette con tutte le altre tendenze di quel tempo e cospira a dare un'impronta affatto caratteristica alla vita romana d'allora. Il Vaticano echeggiava di canti e di suoni: questi suoni [250] si diffusero, quasi comando a godere la vita, oltre la cerchia di Roma, non ostante che Leone non sia riuscito con ciò nè a mettere in fuga le cure e i dolori, nè a prolungar l'esistenza[387], che gli fu tronca da una morte immatura. La splendida immagine della Roma di Leone, quale ci viene descritta da Paolo Giovio, resterà indimenticabile, per quanto anche se ne conoscano i vizi e le piaghe, quali, ad esempio, il servilismo di chi agognava a salire, la miseria segreta dei prelati che, in onta ai loro debiti, dovevano vivere sfarzosamente[388], la protezione male accordata a letterati mediocri, trascurando i sommi, e finalmente l'amministrazione affatto rovinosa delle finanze pubbliche[389]. Lo stesso Ariosto, che conosceva sì bene queste magagne e ne parlava con amarezza, non può a meno tuttavia nella Satira sesta di confessare quanto gradito gli sarebbe stato il soggiorno di Roma, dove non gli sarebbe mancata la compagnia di coltissimi letterati, che l'avrebbero accompagnato a vedere le rovine del tempo antico, e dove avrebbe trovato consigli autorevoli pel suo poema e mezzi di erudirsi, compulsando i preziosi tesori raccolti nella Biblioteca del Vaticano. Questi, egli soggiunge, sarebbero i veri allettamenti che mi attirerebbero a Roma, se dovessi risolvermi di andarvi quale inviato [251] della corte di Ferrara, non già la protezione medicea, alla quale da gran tempo ho rinunciato.


Ma, oltre all'interesse archeologico e a sentimenti di solenne patriottismo, le rovine ebbero anche la forza di sviluppare, in Roma e fuori, manifestazioni di entusiasmo affatto elegiaco e sentimentale. I primi sintomi trovansi, ancora al loro tempo, nel Petrarca e nel Boccaccio (v. pag. 240 e 245); il Poggio (l. c.) visita di frequente il tempio di Venere e di Roma, persuaso che sia quello di Castore e Polluce, dove una volta soleva radunarsi il Senato, e quivi si esalta alla memoria dei grandi oratori Crasso, Ortensio e Cicerone. In modo affatto sentimentale si esprime più tardi Pio II, specialmente nella descrizione di Tivoli[390], e poco dopo si ha la prima prospettiva di rovine accompagnata da una descrizione del Polifilo[391], dove figurano avanzi di grandiose vôlte e colonnati, circondati all'intorno da vecchi platani, allori e cipressi, tra' quali crescono sterpi ed erba selvatica. Nei racconti delle tradizioni religiose s'introduce l'uso, non si sa come, di trasportare la nascita di Cristo in mezzo alle rovine di uno splendido e grandioso palazzo[392]. Per ultimo scorgesi la manifestazione pratica di questo medesimo sentimento nella consuetudine invalsa di far entrare le rovine artificiali, come requisito indispensabile, in qualsiasi grandioso giardino.

[253]

CAPITOLO III. Autori antichi risuscitati.

Autori già noti fin dal secolo XIV. — Scoperte del secolo XV. — Biblioteche, copisti e scrivani. — La stampa. — Cenno sullo studio del greco. — Studi orientali. — Pico di fronte all'antichità.

Ma infinitamente più importanti che gli avanzi dell'architettura e dell'arte in generale, erano i monumenti della parola rimasti dell'antichità greca e romana. Ciò è tanto vero, che in allora furono addirittura riguardati come la fonte d'ogni sapere nel senso il più assoluto. Le condizioni librarie di quel tempo di grandi scoperte sono state più volte e variamente esposte: noi non possiamo aggiungere qui che alcuni particolari men conosciuti[393].

Per quanto grande sembri essere stata da lungo tempo, e più specialmente poi nel secolo XIV, l'influenza degli antichi scrittori in Italia, si potrebbe tuttavia dire che una tale influenza dipendeva piuttosto da una più larga diffusione delle opere già conosciute, che non da nuove scoperte, che in quel secolo fossero state fatte. I più comuni fra i poeti, gli storici, gli oratori e [254] gli epistolografi latini, insieme ad un certo numero di traduzioni latine di singole opere di Aristotele, di Plutarco e di pochi altri greci, costituivano in sostanza l'intero patrimonio, di cui andava ricca e deliziavasi la generazione del Boccaccio e del Petrarca. È noto a tutti che quest'ultimo possedeva e custodiva religiosamente un Omero greco, senza poterlo leggere. La prima traduzione latina dell'Iliade e dell'Odissea è dovuta al Boccaccio, che la mise insieme alla meglio coll'aiuto di un greco oriundo di Calabria. — Soltanto col secolo XV comincia la grande serie delle nuove scoperte, la fondazione sistematica delle biblioteche creata colla moltiplicazione delle copie e il lavoro zelante delle traduzioni dal greco.[394]


Senza l'entusiasmo di alcuni raccoglitori d'allora, che talvolta si videro per esso ridotti alle più dure strettezze, noi non ci troveremmo in possesso se non di una minima parte degli scrittori greci, che giunsero sino al nostro tempo. Papa Nicolò V s'aggravò, fin da quando era monaco, di molti debiti per comperare o far copiar codici, e fin d'allora egli si confessava vinto dalle due grandi passioni, che prevalsero nell'epoca del Rinascimento, i libri e le fabbriche.[395] Divenuto Papa, mantenne [255] la parola, stipendiando copisti per scrivere e mandando esploratori a cercare opere antiche per ogni dove. Perotto per la traduzione latina di Polibio ebbe cinquecento ducati, il Guarino per quella di Strabone mille fiorini d'oro e doveva averne altri cinquecento, se il Papa non fosse morto precocemente. Morendo, egli lasciò ricca di cinquemila, o, secondo un altro modo di calcolare, di novemila volumi[396] quella biblioteca, che propriamente era destinata in origine all'uso dei soli curiali, ma che divenne l'elemento principale della celebre Biblioteca del Vaticano: essa doveva essere collocata nello stesso palazzo papale come il suo più bell'ornamento, a quel modo che aveva ordinato Tolommeo Filadelfo in Alessandria. Quando il Papa, in occasione della peste, si ritirò con tutta la sua corte a Fabriano, vi condusse anche i suoi traduttori e compilatori, per essere sicuro che non gli morissero.

Il fiorentino Nicolò Niccoli,[397] uno degli eruditi che si raccoglievano intorno a Cosimo il vecchio, diè fondo a tutto il suo avere a furia di acquistar libri; ma quando egli non ebbe più nulla, i Medici gli tennero aperte le loro casse per qualunque somma egli richiedesse per tali scopi. A lui si deve il completamento di Ammiano Marcellino e del libro de Oratore di Cicerone, nonchè molte altre scoperte, ed egli indusse Cosimo a comperare altresì il bellissimo Plinio, che aveva già appartenuto ad un convento di Lubecca. Con una liberalità veramente [256] generosa egli dava a prestito i suoi libri, o forniva ogni possibile comodo in casa sua ai lettori, intrattenendosi con loro su quanto leggevano. La sua raccolta, che contava ottocento volumi stimati seimila fiorini d'oro, dopo la sua morte, e per l'interposizione di Cosimo, passò al convento di S. Marco, sotto condizione però che fosse accessibile al pubblico.

Dei due grandi scopritori di libri, il Guarino ed il Poggio, l'ultimo,[398] in parte anche quale incaricato del Niccoli, fece, come è noto, importanti scoperte nelle abbazie della Germania meridionale, ch'ebbe occasione di visitare quando si recò al Concilio di Costanza. Egli trovò quivi sei orazioni di Cicerone e il primo Quintiliano completo, quello di S. Gallo, ora esistente a Zurigo, che dicesi egli abbia copiato per intero e assai nitidamente in soli trentadue giorni. Trovò inoltre importanti frammenti, che ajutarono a completare Silio Italico, Manilio, Lucrezio, Valerio Flacco, Ascanio Pediano, Columella, Celso, Aullo Gellio, Stazio e molti altri; e per ultimo, insieme a Leonardo Aretino, fece conoscere le ultime dodici commedie di Plauto, nonchè le Verrine di Cicerone.

Il celebre cardinale Bessarione, venuto dalla Grecia, raccolse, con sentimento di lodevole patriottismo[399] e non senza enormi sacrifici, seicento codici, contenenti opere pagane e cristiane, e stava appunto cercando un luogo sicuro dove poterli depositare, affinchè l'infelice sua patria, se mai un giorno avesse riacquistato la sua libertà, sapesse dove ritrovare ancora la sua perduta letteratura. [257] La Signoria di Venezia (v. pag. 98) si dichiarò pronta a costruire un locale apposito, ed anche oggidì la Biblioteca di S. Marco conserva una parte di quei tesori.[400]

La formazione della celebre biblioteca medicea ha una storia affatto speciale, della quale noi non possiamo occuparci qui: il raccoglitore principale per Lorenzo il Magnifico, fu Giovanni Lascaris. Tutti sanno che questa raccolta, dopo il saccheggio del 1494, fu a poco per volta rifatta dalla liberalità del cardinale Giovanni de' Medici (Leone X).

La biblioteca di Urbino (ora in Vaticano) fu[401] in modo precipuo fondata dal grande Federigo di Montefeltro (v. pag. 60), che aveva già cominciato a raccogliere fin da fanciullo, e più tardi teneva costantemente a' suoi stipendj da trenta a quaranta scrivani, e che nel corso della sua vita si calcola non vi abbia speso meno di trenta mila ducati. Essa fu poi continuata sistematicamente e completata specialmente coll'ajuto di Vespasiano, e ciò che questi ne riferisce è degno di particolare attenzione, perchè ci dà l'idea più completa di una biblioteca d'allora. Ad Urbino, per esempio, si possedevano gl'inventari della biblioteca Vaticana, di quella di S. Marco di Firenze, della Viscontea di Pavia e perfino di quella di Oxford, e si trovava, con senso di vero orgoglio, che la biblioteca urbinate, per ricchezza di testi completi di ogni singolo autore, le superava tutte di gran lunga. Nell'insieme vi prevalevano forse ancora i libri del medio-evo e specialmente le opere di teologia, quali, ad esempio, quelle di S. Tommaso d'Aquino, di [258] Alberto Magno, di S. Bonaventura ecc.; ma la biblioteca comprendeva molti rami dello scibile, e, per citarne uno, vi si trovavano tutte le opere che mai fu possibile di raccogliere in fatto di medicina. Fra i moderni primeggiavano i grandi scrittori del secolo XIV, Dante e Boccaccio, ad esempio, con tutte le loro opere; poi seguivano venticinque scelti umanisti, sempre con tutte le loro opere latine ed italiane, come altresì colle loro traduzioni. Fra i codici greci prevalevano grandemente i Padri della Chiesa, ma non mancavano neanche i classici antichi, a proposito dei quali nel catalogo incontransi i nomi di Sofocle, Pindaro e Menandro con tutte le loro opere; — evidentemente però il codice di quest'ultimo deve essere assai presto scomparso da Urbino,[402] essendo fuor d'ogni dubbio che, in caso contrario, i filologi non avrebbero tardato a pubblicarlo.

Ma noi abbiamo anche altre informazioni sul modo, con cui si moltiplicarono in allora i manoscritti e si vennero formando le biblioteche. L'acquisto diretto di un manoscritto un po' antico, che contenesse un testo raro, o il solo completo, od anche unico, esistente, restava naturalmente un privilegio di pochi, e non entrava nei calcoli ordinari. Fra i copisti, quelli che intendevano il greco, tenevano il posto d'onore e si contraddistinguevano coll'appellativo speciale di «scrittori»: il loro numero [259] fu e rimase sempre scarso, ed erano retribuiti assai largamente.[403] Gli altri, detti semplicemente copisti, erano in parte scrivani, che vivevano unicamente del loro lavoro, in parte poveri eruditi, che avevano bisogno di qualche guadagno straordinario. Per una singolarità, i copisti di Roma al tempo di Nicolò V erano per la massima parte tedeschi e francesi,[404] individui probabilmente venuti a chiedere qualche grazia alla Curia e che, obbligati a trattenersi, cercavano di guadagnarsi in tal modo il proprio sostentamento. Ora allorquando Cosimo de' Medici volle in tutta fretta fondare una biblioteca per la sua prediletta abbazia al di sotto di Fiesole, chiamò a sè Vespasiano, e questi lo consigliò di abbandonare l'idea di comperar libri posti in commercio, perchè non avrebbe trovato ciò che desiderava, ma bensì di servirsi dell'opera dei copisti; dietro di che Cosimo s'accordò con lui di un pagamento a giornate, e Vespasiano stipendiò quarantacinque scrivani, che in ventidue mesi gli fornirono duecento volumi completi.[405] La lista delle opere da scegliere fu spedita a Cosimo da Nicolò V, [260] che la stese di propria mano.[406] (Naturalmente prevalevano su tutto il resto i libri ecclesiastici e il corredo necessario pel servizio del coro).

La forma della scrittura era quella nitida ed elegante introdottasi in Italia sin dal secolo precedente e che piace tanto ancora oggidì, vista nei libri di quel tempo. Papa Nicolò V, il Poggio, Giannozzo Mannetti, Niccolò Niccoli ed altri celebri eruditi erano essi medesimi eccellenti calligrafi, e non tolleravano se non le scritture veramente belle. Gli altri ornamenti, anche se non vi andava unita nessuna miniatura, portavano l'impronta del massimo buon gusto, come lo provano specialmente i codici della Laurenziana coi loro leggerissimi fregi lineari sul principio e alla fine. Il materiale su cui si scriveva, se per grandi signori, era sempre la pergamena, e le legature nella Vaticana e ad Urbino uniformemente in velluto cremisino con fermagli d'argento. Con tanta cura di mettere in evidenza la venerazione che si aveva pel contenuto dei libri mediante l'eleganza dei fregi esterni, non riescirà difficile a comprendere come ai libri stampati, che improvvisamente cominciavano ad apparir d'ogni parte, non si facesse in sulle prime troppo buon viso. Al qual proposito basta accennare quello che i biografi narrano di Federigo da Urbino, che cioè «si sarebbe vergognato» di possedere nella sua biblioteca un libro stampato![407]


Ma gli stanchi copiatori, — non quelli che esercitavano il mestiere, ma i molti che dovevano copiare un [261] libro per averlo, — giubilarono della invenzione tedesca.[408] Essa fu messa tosto a profitto in Italia per la moltiplicazione e diffusione dei classici latini e poscia anche dei greci, ma non con quella rapidità che avrebbe potuto aspettarsi dall'universale entusiasmo, che esisteva per questi scrittori. Qualche tempo dopo cominciò a designarsi più nettamente la posizione reciproca degli autori e degli stampatori,[409] e sotto Alessandro VI sorse la censura preventiva, perchè non era più tanto facilmente possibile di distruggere un libro, come Cosimo aveva poco prima potuto pattuire col Filelfo.[410]

Come da questo tempo in avanti, in connessione con lo studio progrediente delle lingue e dell'antichità, siasi venuta a poco a poco formando una critica dei testi, non è del nostro assunto il dimostrarlo, come non è nostro compito neanche di dare una storia dell'erudizione in generale in un libro, che non mira tanto a mettere in luce ciò che effettivamente si sapeva allora in Italia, quanto a mostrare ciò che dell'antichità si riprodusse nella vita e nella letteratura del secolo, di cui si parla. [262] Tuttavia ci sia permessa ancora una osservazione sugli studi considerati in sè stessi.


L'erudizione greca si concentra essenzialmente in Firenze e nel secolo XV, nonchè nei primordj del XVI. Ciò che il Petrarca e il Boccaccio aveano fatto al loro tempo[411] per promoverla non accenna che ad un entusiasmo da dilettanti; d'altra parte, colla colonia dei dotti venuti da Costantinopoli morì intorno al 1520 anche lo studio del greco,[412] e fu una vera fortuna che alcuni settentrionali (Erasmo, gli Stefani e Buddeo) se ne sieno frattanto impadroniti. Quella colonia avea cominciato con Emanuele Crisolora e il suo congiunto Giovanni, nonchè con Giorgio da Trebisonda: poi vennero, intorno all'epoca della presa di Costantinopoli e più tardi, Giovanni Argiropulo, Teodoro Gaza, Demetrio Calcondila (che allevò anche i propri figli Teofilo e Basilio a valenti grecisti), Andronico Callisto, Marco Musuros e la famiglia dei Lascaris, con molti altri. Tuttavia, dopochè l'assoggettamento della Grecia per opera dei Turchi fu completo, non vi fu più nessun dotto superstite, ad eccezione dei figli dei fuggiaschi e forse qualche condiotto o cipriotto. Ora il fatto che colla morte di Leone X coincide presso a poco anche il primo scadimento degli studi greci, si spiega bensì col mutamento sopravvenuto nelle tendenze [263] generali[413] e colla sazietà relativa, che avea cominciato a manifestarsi rispetto al contenuto sostanziale della letteratura classica, ma certamente non vi rimase estranea neanche la scomparsa di oramai tutti i dotti venuti dalla Grecia, già morti. Così resta che anche fra gl'Italiani gli anni, in cui lo studio del greco massimamente fiorì, furono quelli più prossimi al 1500, che potrebbe dirsi in questo riguardo l'anno normale; e fu appunto allora che appresero anche a parlarlo correttamente uomini, che un mezzo secolo più tardi non l'avevano ancora dimenticato, quali ad esempio i papi Paolo III e Paolo IV.[414] Ma un tale fervore non si spiega se non col presupporre rapporti con uomini veramente venuti dalla Grecia e greci di nascita.

Oltre Firenze, Roma e Padova ebbero quasi sempre, e Bologna, Ferrara, Venezia, Perugia, Pavia ed altre città di quando in quando, maestri stipendiati di greco.[415] Moltissimo poi deve questo studio al coraggio di Aldo Manuzio, il celebre editore veneziano, che per il primo stampò in greco i più importanti e voluminosi autori. Egli arrischiò in quell'impresa tutto il suo avere, e fu in generale tale tipografo, cui ben pochi anche più tardi possono essere paragonati.


Ma questa è l'epoca in cui, accanto ai classici, anche [264] gli studi orientali ebbero uno sviluppo abbastanza notevole, e noi dobbiamo qui farne menzione almeno con una parola. Lo studio dell'ebraico e di tutto il sapere israelitico si connette ad una polemica dogmatica, che ebbe a sostenere Giannozzo Mannetti,[416] grande erudito e politico fiorentino (morto nel 1459). Egli cominciò dall'educare suo figlio Agnolo allo studio non del latino e del greco soltanto, ma anche dell'ebraico. Più tardi ebbe l'incarico da papa Nicolò V di tradurre nuovamente tutta la Bibbia, perchè l'indirizzo filologico del tempo consigliava ad abbandonar la volgata.[417] Ma anche parecchi umanisti accolsero, molto tempo prima di Reuclino, nei loro studi anche l'ebraico, e Pico della Mirandola possedeva tutto il sapere talmudico e filosofico di un dotto rabbino. I primi a pensare allo studio dell'arabo furono i medici, che non si accontentavano più delle traduzioni latine alquanto invecchiate dei grandi maestri arabi: l'occasione forse fu data dai consoli veneziani stabiliti in oriente, che tenevano presso di sè medici italiani. Geronimo Ramusio, medico veneziano, fece alcune traduzioni dall'arabo e morì a Damasco. Andrea Mongajo da Belluno,[418] innamorato di Avicenna, dimorò lungamente a Damasco per apprendervi l'arabo e fece poi alcune correzioni al suo autore prediletto. Il governo di [265] Venezia istituì poscia appositamente per lui una cattedra d'arabo all'università di Padova.


Ma noi dobbiamo ancora una parola a Pico, prima di passare a dir degli effetti dell'umanismo in generale. Egli è l'unico che a voce alta e con vero coraggio difese i diritti della scienza e della verità in tutti i tempi, di fronte all'esclusiva preponderanza dell'antichità greco-romana.[419] Egli ricolloca nel posto loro dovuto non solo Averroè e gl'investigatori ebraici, ma anche gli Scolastici del medio-evo, dai quali si fa dire: «noi vivremo eternamente, non nelle scuole dei compilatori di sillabe, ma nella cerchia elevata dei dotti, che non discutono più sulla madre di Andromaca o sui figli di Niobe, ma sulle ragioni arcane e profonde di ogni cosa umana e divina: chi si avvicinerà un poco, vedrà che anche i Barbari avevano lo spirito (Mercurium) non sulla lingua, ma nel petto». Con uno stile vigoroso e non del tutto disadorno e con una esposizione nitida e serrata egli combatte il pedantesco purismo e l'esagerata venerazione per una forma non naturale, ma imitata, specialmente se è congiunta con un ingiusto esclusivismo e col sacrificio della verità sostanziale delle cose. In lui può vedersi quale elevato indirizzo avrebbe preso la filosofia in Italia, se la Contro-riforma non vi avesse soffocato ogni libero slancio del pensiero.

[267]

CAPITOLO IV. L'umanesimo nel secolo XIV.

Necessità del suo trionfo. — Parte presavi da Dante, Petrarca, e Boccaccio. — Il Boccaccio primo campione dell'antichità. — L'incoronazione dei poeti.

Ora chi furono coloro, che si fecero mediatori tra la venerata antichità ed il presente, e che volevano trasfondere in questo la vita e la cultura di quella?

Ella è una schiera di cento figure diverse, la quale assume oggi un aspetto, domani un altro, ma che in mezzo a ciò ha la coscienza di essere un elemento nuovo nella vita civile, e come tale è considerata anche dai contemporanei. Come loro precursori possono, prima di ogni altro, riguardarsi quei Clerici vagantes del secolo XII, della poesia dei quali s'è già parlato altrove (v. pag. 234): identica l'instabilità dell'esistenza, identico il modo di guardare, talvolta anche troppo liberamente, la vita, identica la tendenza a dare, almeno in sul principio, un'intonazione antica alla poesia. Ma ora, di fronte all'intera cultura del medio-evo pur sempre chiesastica, e coltivata di preferenza dal clero, sorge una nuova cultura, la quale precipuamente s'attiene a ciò che sta al di là del medio-evo, in un'epoca anteriore. [268] I rappresentanti più attivi di essa acquistano una grande importanza[420], perchè sanno ciò che seppero gli antichi, perchè cercano di scrivere come scrissero gli antichi, perchè cominciano a pensare e a sentire come pensarono e sentirono gli antichi. La tradizione, alla quale essi si volgono, in mille punti si viene trasformando in una vera riproduzione.

Taluni fra i moderni lamentarono più volte che i primordî di una cultura senza paragone più autonoma, e schiettamente italiana, quali si manifestarono intorno al 1300 in Firenze, sieno stati più tardi completamente soffocati dalla scuola degli umanisti[421]. Nel secolo XIV, a detta di costoro, tutti sapevano leggere in Firenze; perfin gli asinai cantavano per le vie i versi di Dante; i migliori manoscritti erano quelli posseduti e copiati da artefici fiorentini; e in allora fu anche possibile la formazione di una enciclopedia popolare, quale il «Tesoro» di Brunetto Latini. Tutto ciò non era dovuto certamente ad altro, fuorchè alla forte tempra di carattere che era in tutti, e questa alla sua volta s'era venuta formando e dalla lunga esperienza nelle cose di Stato, e dal movimento commerciale vivissimo, e dai viaggi assai frequenti, e in generale dall'abborrimento in cui vi si aveva la vita oziosa e indolente. Per queste doti il popolo fiorentino era salito in tal rinomanza presso tutte le nazioni, che papa Bonifacio VIII non esitò a chiamarlo il quinto elemento del mondo. Ora [269] l'umanismo, colla diffusione sempre maggiore che ebbe sino dal 1400 in Italia, arrestò d'un tratto tutto quel moto naturale e spontaneo, abituò a chiedere alla sola antichità la soluzione di qualunque problema, ridusse la letteratura ad un semplice sfoggio di citazioni, e contribuì perfino alla rovina definitiva della libertà, mentre tutta questa erudizione non si basava che in una servile soggezione all'autorità altrui e sacrificava ogni privilegio o prerogativa speciale all'universalità del diritto romano, cercando e ottenendo in tal modo il favore di tutti i tiranni.

Tutte queste accuse ci occuperanno altrove, quando sarà il caso di discuterne il vero valore e di bilanciare il pro' ed il contro della questione. Qui per ora ci preme soltanto di stabilire come cosa di fatto, che fu anzi la stessa cultura del vigoroso secolo XIV quella che preparò necessariamente la vittoria completa dell'umanismo, e che appunto i più grandi nel campo della letteratura italiana propriamente detta sono stati i primi ad aprire tutte le porte all'invasione dell'antichità nel secolo XV.


Prima d'ogni altro Dante. Se una serie di genii pari al suo avesse, dopo di lui, potuto condurre sempre più innanzi la letteratura italiana, essa, in onta a tutti gli elementi antichi che vi si introdussero, non avrebbe mai mancato di serbare un'impronta affatto nazionale e sua propria. Ma nè l'Italia, nè l'intero Occidente hanno più prodotto un secondo Dante, e così egli rimase pur sempre il primo, che condusse l'antichità al limitare della nuova cultura moderna. Però è vero che nella Divina Commedia egli non tratta in modo uguale il mondo antico e il mondo cristiano; ma pure li fa sempre correre parallelli fra loro, e come il medio-evo antecedente avea [270] messo insieme i tipi e i contro-tipi tolti dalle storie e dalle figure dell'antico e del nuovo Testamento, così egli appaja di regola un esempio cristiano con uno pagano del medesimo fatto[422]. Ora non si deve dimenticare che il mondo fantastico cristiano e la sua storia erano noti universalmente, mentre invece l'antichità pagana era relativamente assai poco conosciuta, possedeva quindi una maggiore attrattiva e doveva destare una più grande curiosità nell'universale, quando non ci fosse stato nessun Dante, che avesse potuto mantenere le cose in giusto equilibrio.

Il Petrarca nell'opinione dei più non vive oggidì che come un grande poeta: presso i suoi contemporanei invece la sua fama si basava assai più sulla sua erudizione, in quanto egli era quasi una personificazione dell'antichità, imitava tutti i generi della poesia latina e scriveva lettere, le quali, come trattati speciali su singoli punti dell'antichità, ebbero in quel tempo senza manuali un valore, che ognuno può facilmente comprendere.

Nè la cosa andava gran fatto diversamente quanto al Boccaccio. Egli era celebre in tutta Europa da ben duecento anni, prima che al di la delle Alpi si sapesse qualche cosa del suo Decamerone, soltanto per le sue opere mitografiche, geografiche e biografiche scritte in lingua latina. Una di esse, De Genealogia Deorum, contiene nei libri decimoquarto e decimoquinto una notevole appendice, nella quale egli discute la posizione del giovane umanismo di fronte al suo secolo. Il fatto che egli [271] limita sempre il suo discorso alla sola «poesia», non deve per avventura trarre altri in errore; guardando un po' più addentro alla sostanza di quel lavoro, si scorge tosto, che il suo pensiero abbraccia l'intero campo d'attività del poeta-filologo.[423] E sono i nemici di questa che egli combatte più vivamente: i frivoli ignoranti che non vivono che per la gozzoviglia e la crapula: gli schifiltosi teologi, che riguardano come semplici follie le allusioni al monte Elicona, alla fonte Castalia e al sacro bosco di Febo; gli avidi giuristi, che considerano come inutile la poesia, perchè, non dà alcun guadagno materiale: finalmente i monaci mendicanti (indicati con una perifrasi abbastanza chiara), che si lagnano dell'indirizzo pagano e immorale della società.[424] Dopo ciò segue la difesa esplicita, anzi l'elogio della poesia, e in modo speciale del senso recondito ed allegorico, che le si deve dare dovunque, e di quella oscurità, che le è necessaria per tener lontane da essa tutte le menti ottuse degli ignoranti. Da ultimo giustifica lo slancio che presero gli studi dell'antichità al tempo suo, con evidente allusione alla dotta sua opera.[425] In altri tempi, egli dice, questi [272] studi potevano essere pericolosi, perchè le condizioni sociali erano diverse dalle presenti, e la Chiesa primitiva avea bisogno di difendersi contro i pagani: oggidì — per la grazia di Gesù Cristo — la vera religione si è raffermata nelle sue basi, ogni traccia di paganesimo è scomparsa, e la Chiesa vittoriosa è padrona del campo: oggidì si può accostarsi all'antichità pressochè (fere) senza pericolo alcuno. È lo stesso argomento, che più tardi addussero in propria difesa gli uomini del Rinascimento.

S'era dunque manifestato un fatto nuovo nel mondo ed era sorta una nuova classe d'uomini a rappresentarlo. Egli è inutile il questionare se questo fatto avrebbe dovuto arrestarsi a mezzo il corso della sua carriera ascendente, per cedere la prevalenza all'elemento prettamente nazionale: l'opinione di tutti in questo riguardo era una sola, che cioè l'antichità costituiva una delle più splendide glorie della nazione italiana.


Essenzialmente propria a questa prima generazione di poeti-filologi è una ceremonia simbolica, che non cessò neanche nei secoli XV e XVI, sebbene vi abbia perduto tutto il lato sentimentale, vogliamo dire l'uso di incoronare i poeti con una corona d'alloro. Le origini di questa ceremonia si perdono nelle tenebre del medioevo, nè si sa che per essa abbia mai esistito un rito speciale: era una dimostrazione pubblica, una testimonianza onorifica resa al merito letterario,[426] e, appunto per questo, anche qualche cosa di essenzialmente variabile. [273] Dante, per esempio, sembra che la riguardasse come una specie di consacrazione religiosa: egli voleva porsi in capo da sè la corona nel battistero di S. Giovanni, dove egli stesso e centinaja di migliaia di fiorentini erano stati battezzati.[427] Egli avrebbe potuto, dice il suo biografo, in virtù della sua rinomanza ottenere l'alloro dovunque, ma non lo voleva che in patria, e perciò morì senza riceverlo. Da questo stesso biografo noi apprendiamo inoltre, che sino a questo tempo un tal uso non vi fu mai in Firenze, e passava comunemente come cosa ricevuta in eredità dai Greci e dai Romani. Le più vicine reminiscenze infatti si rannodavano al fatto delle gare capitoline, fondate sul modello di quelle di Grecia, tra suonatori di cetra, poeti ed altri artisti, che, da Domiziano in poi, si celebravano ogni cinque anni, e che sembrano essere sopravissute qualche tempo anche dopo la caduta dell'impero d'occidente. Ora, posto il caso che uno non osasse incoronarsi da sè, come avrebbe voluto far Dante, era naturale che si domandasse quale avrebbe dovuto essere l'autorità, cui un tale ufficio spettasse? Albertino Mussato (v. pag. 196) fu incoronato a Padova dal vescovo e dal rettore dell'università; per l'incoronazione del Petrarca erano in contesa fra loro (1341) l'università di Parigi, che appunto allora aveva a rettore un fiorentino, e l'autorità municipale di Roma; e dal canto suo anche l'esaminatore, che egli stesso si era scelto, il re Roberto d'Angiò, volentieri avrebbe compito la ceremonia di propria mano a Napoli, se il poeta, come è noto, non avesse preferito l'incoronazione in Campidoglio [274] di mano del senatore di Roma. Dopo un tale esempio, il Campidoglio rimase per qualche tempo la meta di tutte le ambizioni, e tra gli altri vi aspirò, per esempio, un Jacopo Pizinga, illustre magistrato siciliano.[428] Ma tosto dopo comparve in Italia Carlo IV, che si compiaceva moltissimo di appagare la vanità degli uomini ambiziosi e di imporre alle moltitudini spensierate con l'apparato di ceremonie grandiose e solenni. Partendo dalla supposizione, che l'incoronazione dei poeti fosse stata una volta un privilegio esclusivo degl'imperatori romani e che quindi allora spettasse a lui, egli incoronò a Pisa il dotto Zanobi della Strada,[429] a gran dispetto del Boccaccio, che a nessun patto volea riconoscere come legittima questa laurea pisana (l. c.). E per verità si poteva anche chiedere, come quello straniero mezzo slavo e mezzo tedesco fosse in diritto di sedere a giudice del vero merito dei poeti italiani. Ma, ciò non ostante, l'esempio incoraggiò, ed altri imperatori in viaggio coronarono or qua, or là qualche poeta, dietro di che alla lor volta nel secolo XV anche i Papi ed altri principi non vollero restarsi addietro, sino a che da ultimo non si badò più nè al luogo, nè ad altre circostanze. A Roma, al tempo di Sisto IV, l'accademia di Pomponio Leto distribuiva di propria autorità corone d'alloro.[430] I Fiorentini ebbero il tatto di coronare i loro umanisti solo dopo morti; e così furono coronati Carlo Aretino e Leonardo [275] Aretino, al primo dei quali Matteo Palmieri, e al secondo Giannozzo Mannetti recitarono l'elogio funebre in presenza di tutto il popolo e dei signori del Concilio. In tali circostanze era d'uso che l'oratore parlasse stando ad uno dei lati della bara, sulla quale giaceva il cadavere tutto vestito in seta.[431] Oltre a ciò, Carlo Aretino fu onorato di un monumento (in Santa Croce), che è uno dei più belli dell'epoca del Rinascimento.

[277]

CAPITOLO V. Le Università e le Scuole.

L'umanista professore nel secolo XV. — Scuole secondarie. — L'istruzione superiore privata; Vittorino. — Guarino in Ferrara. — Educazione dei principi.

L'influenza dell'antichità sulla cultura, della quale oggimai dobbiamo discorrere, presupponeva innanzi tutto che l'umanismo s'impadronisse delle Università. E ciò veramente accadde, ma non in quelle proporzioni e con quegli effetti, che altri a prima vista potrebbe credere. Le Università d'Italia[432] per la maggior parte hanno un vero splendore soltanto nel corso dei secoli XIII e XIV, [278] allorquando la crescente ricchezza domandava anche una cura maggiore della vita intellettuale della nazione. In origine esse non avevano per lo più che tre cattedre: una di gius canonico, una di gius civile e una di medicina: col tempo se ne aggiunsero altre tre, quella di rettorica, quella di filosofia e una terza di astronomia, che di regola, ma non sempre, era una cosa identica coll'astrologia. Gli stipendi dei professori variavano estremamente: talvolta consistevano perfino in un capitale dato per una volta tanto. Coll'allargarsi della cultura cominciarono le gare e le gelosie, per modo che l'una Università cercava di rubare all'altra i più celebri maestri, e per effetto di tali circostanze vuolsi che Bologna talvolta abbia speso per l'Università non meno della metà delle rendite dello Stato (20,000 ducati). Gli uffici si conferivano ordinariamente solo per un tempo determinato,[433] e perfino per singoli semestri, in guisa che i docenti menavano vita nomade, al pari dei comici; taluni però s'accordavano per tutta la durata della loro vita. Talvolta dovean promettere di non insegnare in nessun'altra Università ciò che aveano insegnato in una. Oltre a ciò v'erano anche dei docenti liberi, senza stipendio. Delle cattedre or ora menzionate naturalmente quella di rettorica era la più ambita dagli umanisti; ma non dipendeva che dalla quantità delle cognizioni che uno possedeva intorno all'antichità, ch'egli potesse aspirare anche a quelle di giurisprudenza, di medicina, di filosofia [279] o di astronomia. I rapporti intrinseci delle scienze erano ancora molto mobili, al pari delle condizioni estrinseche e materiali degli insegnanti. Oltre a ciò non deve tacersi, che alcuni giuristi e medici godevano i maggiori stipendi, i primi specialmente come grandi consultori dello Stato che li pagava, per la trattazione delle sue cause e de' suoi processi. In Padova nel secolo XV un professore di diritto fu pagato mille ducati annui[434] e ad un celebre medico se ne volevano dare duemila e il diritto di libera pratica, dopochè egli sino a quel momento a Pisa era stato stipendiato con settecento fiorini d'oro.[435] Quando il giureconsulto Bartolommeo Socini, professore a Pisa, accettò dal governo di Venezia una cattedra a Padova e voleva partire per quella città, la Signoria di Firenze lo fece arrestare e non volle lasciarlo libero che dietro una cauzione di 18,000 fiorini d'oro.[436] Egli è appunto in virtù dell'alto conto in cui si tenevano queste professioni speciali, che si arriva a comprendere come illustri filologi abbiano aspirato a cattedre di diritto e di medicina, mentre d'altra parte è anche vero che chi voleva in qualsiasi materia tener pubbliche lezioni, non poteva dispensarsi dal mescolarvi per entro una forte dose di tintura umanistica. Dell'attività degli umanisti in altri rami avremo occasione di parlare fra non molto.

Tuttavia le cattedre dei filologi, come tali, benchè in singoli casi provvedute di abbastanza lauti stipendi ed emolumenti accessori,[437] appartengono nel complesso [280] alla classe di quelle che erano mobili e transitorie, in guisa che lo stesso uomo poteva prestar l'opera sua ed essere remunerato al tempo stesso in più d'una Università. Evidentemente si amavano i mutamenti, sperandosi sempre di udir qualche cosa di nuovo da ogni nuovo arrivato, come d'altronde è facile a comprendere con una scienza ancora in istadio di formazione e quindi anche legata in gran parte al merito personale di chi la insegnava. Non è neppur sempre detto che colui che leggeva sugli autori antichi e li interpetrava, appartenesse effettivamente all'Università, potendo benissimo aver bastato un semplice invito privato, quando i mutamenti erano sì facili, e sì grande il numero dei locali disponibili (nei conventi ecc.). In quegli stessi primi decenni del secolo XV,[438] nei quali l'Università di Firenze toccò il colmo del suo splendore, e in cui i cortigiani di Eugenio IV e forse anche di Martino V si affollavano nelle aule per assistere alle gare di Carlo Aretino e del Filelfo, esisteva non solamente una seconda Università quasi completa presso gli Agostiniani di Santo Spirito, ma anche una considerevole riunione presso i Camaldolesi degli Angeli, e singoli gruppi di ragguardevoli privati, che si tassavano spontaneamente per farsi leggere questo o quel corso di filologia o di filosofia. Lo studio della filologia e dell'antiquaria in Roma non aveva quasi rapporto alcuno coll'Università (la Sapienza), e si basava quasi esclusivamente parte sopra una speciale protezione personale dei singoli Papi e prelati, parte sugli uffici accordati nella Cancelleria papale. Appena sotto Leone X fu posto mano ad una grandiosa riorganizzazione della [281] Sapienza, con ottant'otto insegnanti, tra i quali le più grandi celebrità d'Italia anche per le scienze archeologiche; ma quel nuovo splendore fu di assai breve durata. — Delle cattedre di greco in Italia abbiamo già brevemente toccato (v. pag. 262).

Insomma, per farsi un'idea generale dei modi con cui allora veniva impartita la scienza, si dovrà, quanto più è possibile, distogliere l'occhio da tutte le nostre attuali istituzioni accademiche. Le conversazioni e le dispute personali, l'uso costante del latino, e presso molti anche del greco, finalmente lo scambio frequente degli insegnanti e la rarità dei libri davano agli studi d'allora un aspetto, che noi non possiamo figurarci, se non astraendo in tutto dal presente.

Scuole di latino vi erano in ogni città alquanto considerevole, e non già soltanto come preparazione agli studi superiori, ma propriamente perchè la cognizione della lingua latina si reputava quivi necessaria al pari del leggere, dello scrivere e del far conti; dopo ciò seguiva immediatamente la logica. È cosa notevole che queste scuole non dipendevano dalla Chiesa, ma dall'autorità municipale; parecchie erano sorte anche per la sola iniziativa privata.

Tutto questo organismo scolastico sotto la direzione di valenti umanisti non solo si sollevò ad un alto grado di perfezione, ma divenne effettivamente una fonte di educazione superiore.


Ma all'educazione dei figli di due case principesche dell'Italia settentrionale andarono connesse altre istituzioni, che veramente potevano dirsi uniche nel loro genere.

Alla corte di Giovan Francesco Gonzaga in Mantova [282] (1407-1444) venne chiamato l'illustre Vittorino da Feltre,[439] uno di quegli uomini che consacrarono l'intera loro esistenza ad uno scopo, pel quale si sentivano di dentro una vocazione affatto speciale. Egli educò innanzi tutto i figli e le figlie del duca, ed una di queste fu da lui condotta tant'oltre, da farne una donna veramente dotta; ma quando la sua fama si sparse per tutta Italia e a lui affluivano da tutte le parti i figli delle più potenti e ricche famiglie, il Gonzaga non solo permise che Vittorino consacrasse le sue cure anche a questi, ma pare anzi che si tenesse altamente onorato, che Mantova fosse riguardata come la casa di educazione di tutto il mondo elegante. Qui, per la prima volta, all'istruzione scientifica si videro associati anche i più lodati fra gli esercizi ginnastici, come elemento indispensabile per una educazione completa. Ma a questi figli dell'aristocrazia non tardarono ad aggiungersi altri, nell'educazione dei quali Vittorino pare che riconoscesse lo scopo più alto della sua missione, ed erano i poveri dotati di singolari attitudini, che egli nutriva ed allevava in sua casa per l'amore di Dio, abituando così i privilegiati della fortuna a rispettare in questi il privilegio dell'ingegno. Il Gonzaga gli pagava annualmente trecento fiorini d'oro, ma coperse sempre del suo l'eccedente della spesa, che spesse volte importava altrettanto. Egli sapeva che Vittorino non faceva per sè il più piccolo risparmio, e senza dubbio capiva che l'educazione accordata ai giovani privi di mezzi era la tacita condizione, alla quale quell'uomo veramente maraviglioso si acconciava a servirlo. Il sistema [283] della casa era strettamente religioso, quanto in qualsiasi convento.

Un indirizzo più accentuatamente scientifico è quello che seguì Guarino da Verona,[440] il quale nel 1429 fu chiamato a Ferrara da Niccolò d'Este per l'educazione del proprio figlio Lionello, e poscia, dal 1436 in avanti, quando ormai il suo allievo era fatto uomo, vi rimase in qualità di professore di eloquenza e di ambedue le lingue classiche presso quell'Università. Anch'egli, fin da quando istruiva Lionello, aveva accolto in sua casa un drappello scelto di giovani poveri di diversi paesi, che manteneva in parte ed anche del tutto a sue spese: le ore della sera sino a notte avanzata erano quelle, che egli consacrava a questi ultimi, ripetendo le lezioni già date. Anche qui la religione e la morale erano rigorosamente osservate; nè certamente dipendette dal Guarino, o da Vittorino che la maggior parte degli umanisti del loro secolo non meritassero poi molta lode sotto questo doppio punto di vista. Egli è quasi incomprensibile, come il Guarino, con una attività quale era la sua, abbia tuttavia trovato il tempo necessario per condurre a termine tante traduzioni dal greco e tanti lavori originali, come fece.

Oltre a quelle due corti, anche nella maggior parte delle altre d'Italia l'educazione delle famiglie principesche venne, almeno in parte e per alcuni anni, in mano agli umanisti, i quali con ciò fecero un passo più addentro nella vita delle corti. Lo scriver trattati sull'educazione degli uomini destinati a regnare era stato fin qui il compito esclusivo dei teologi: ora fu tutto affare degli umanisti, ed Enea Silvio, per esempio, stese per [284] due giovani principi della casa d'Absburgo speciali trattati sulla loro educazione ulteriore,[441] nei quali naturalmente egli raccomanda il culto dell'umanismo nel senso, nel quale lo intendevano gl'Italiani. Pare ch'egli prevedesse già lo scarso frutto de' suoi precetti, poichè lo vediamo adoperarsi in ogni maniera perchè quegli scritti avessero grande diffusione anche altrove. Ma dei rapporti degli umanisti coi principi parleremo ora un po' più largamente.

[285]

CAPITOLO VI. I fautori dell'umanismo.

Cittadini fiorentini; il Niccoli. — Il Manetti, e i primi Medici. — Principi: i Papi da Nicolò V in avanti. — Alfonso di Napoli. — Federigo d'Urbino. — Gli Sforza e gli Estensi. — Sigismondo Malatesta.

Innanzi tutto degni di menzione sono, specialmente a Firenze, quei cittadini, che dello studio dell'antichità fecero lo scopo principale della loro vita, e in parte divennero essi stessi grandi eruditi, in parte grandi dilettanti, che aiutarono gli eruditi (cfr. a pag. 254 e segg). Pel periodo di transizione, che comincia al principio del secolo XV, essi hanno un'importanza grandissima, perchè pei primi tradussero praticamente nella vita l'umanismo, come un elemento affatto indispensabile. I principi e i Papi non se ne interessarono seriamente se non molto più tardi. Di Nicolò Niccoli e di Giannozzo Manetti s'è già parlato più volte e da molti. Nicolò ci vien dipinto da Vespasiano (pag. 625) come un uomo, il quale, anche in tutto ciò che al di fuori lo circondava, non tollerava nulla, che non avesse una certa impronta di antichità. Di bell'aspetto, avvolto in un lungo paludamento, affabile nei discorsi, circondato dai capolavori dell'arte antica, [286] lasciava di sè in tutti un'impressione singolare e maravigliosa; amantissimo della pulitezza in ogni cosa, egli la portava allo scrupolo nel servizio della tavola, sulla quale non figuravano che vasi e calici antichi e lini candidissimi.[442] Il modo con cui seppe guadagnarsi l'animo di un giovane fiorentino rotto ad ogni vizio, è troppo singolare per non dover esser qui raccontato[443] colle parole stesse del suo biografo:

«Messer Piero de' Pazzi, figliuolo di messer Andrea, sendo giovane di bellissimo aspetto e dato molto ai piaceri del mondo, alle lettere non pensava, perchè il padre era mercadante, e, come fanno quelli che non n'hanno notizia, non le stimava, nè pensava che il figliuolo vi desse opera... Sendo in Firenze Nicolao Niccoli, ch'era un altro Socrate e un altro Catone di continenza e di virtù, passando uno dì messer Piero, senza che mai gli avesse favellato, nel passare dal palazzo del Podestà[444] lo chiamò, vedendo uno giovane di sì bello aspetto. Sendo Nicolao uomo di grandissima riputazione, subito venne a lui. Venuto, come Nicolao lo vide, lo domandò di chi egli fosse figliuolo. Risposegli, di messer Andrea de' Pazzi, Domandollo, quale era il suo esercizio. Rispuose, come fanno i giovani: attendo a darmi buon tempo. Nicolao gli disse: sendo tu figliuolo di chi tu sei e di buono aspetto, egli è una vergogna che tu non ti dia a imparare le lettere latine, che ti sarebbero uno grande ornamento; [287] e se tu non le impari, tu non sarai stimato nulla: passato il fiore della tua gioventù, ti troverai senza virtù ignuna. Messer Piero, udito questo da Nicolao, subito gustò e conobbe ch'egli diceva il vero, e sì gli disse che volentieri vi darebbe opera, quando egli avesse uno precettore, che si lascierebbe consigliare a lui. Nicolao gli disse che del precettore e de' libri lasciasse pensare a lui, che lo provvederebbe d'ogni cosa. A messer Piero parve che gli fosse venuta una grande ventura. Dettegli Nicolao uno dottissimo uomo, che si chiamava il Pontano, peritissimo in greco ed in latino, e ricolselo messer Piero in casa, dove lo teneva onoratissimamente servito con uno famiglio e con salario di cento fiorini l'anno. Lasciò andare messer Piero infinite lascivie e voluttà, alle quali egli era volto, e dettesi in tutto alle lettere, che il dì e la notte non attendeva ad altro, in modo che non passò molto tempo che sendo messer Piero di prestantissimo ingegno, ed avendo uno dottissimo precettore, cominciò a avere buonissima notizia delle lettere latine, delle quali egli acquistò grandissimo onore e n'ebbe grande riputazione,..... Imparò l'Eneide di Virgilio a mente, e molte orazioni di Livio in soluta orazione, per spasso, andando a uno suo luogo che aveva, e che si chiamava il Trebbio».


In senso diverso e più elevato rappresenta l'antichità Giannozzo Manetti.[445] Mostrando ancor da fanciullo una maturità precoce, egli avea fatto il suo alunnato nel commercio e teneva i registri di un banchiere; ma dopo qualche tempo questo genere di vita gl'increbbe, come [288] vano ed effimero, ed aspirò alla scienza, per la quale soltanto l'uomo può assicurarsi l'immortalità. E allora, primo fra tutti i nobili fiorentini, si seppellì fra i libri e divenne, come già s'è notato, uno dei più grandi eruditi dell'epoca sua. Ma quando lo Stato lo adoperò al suo servizio, mandandolo a Pescia e a Pistoia in qualità di pubblico esattore e poi di Podestà, egli tenne questi uffici in modo da far palese a tutti l'alto concetto che egli aveva della propria missione, ispiratogli senza dubbio dalla vastità de' suoi studi e da un sentimento di pietà religiosa, che in lui era schietto e profondo. Egli curò la riscossione delle imposte le più odiose decretate dallo Stato, rinunciando ad ogni retribuzione per sè; quale preposto alla provincia, la provvide di vettovaglie, respinse qualsiasi dono, compose le liti e fece quanto era in poter suo per domare colla dolcezza la ferocia delle passioni. I Pistoiesi non furono mai in grado di dire a quale dei due partiti, in che era allora divisa la loro città, egli di preferenza inclinasse: e, quasi a prova ch'egli aveva ugualmente a cuore la sorte e il diritto di tutti, scrisse nelle ore d'ozio la storia di Pistoia, che poi legata in porpora fu custodita, come preziosa reliquia, nel palazzo del Comune. Alla sua partenza la città gli regalò una bandiera con suvvi il proprio stemma ed uno splendido elmo d'argento.

Per quanto riguarda gli altri dotti cittadini di Firenze di questo tempo, noi dobbiamo riportarci a ciò che ne dice Vespasiano (che li conosceva tutti), perchè l'ambiente nel quale egli scrive e le circostanze per le quali egli si trova a contatto con quei personaggi, sono spesso assai più importanti che le cose stesse, ch'egli ci narra. Parlandone di seconda mano e colla compendiosa brevità, alla quale qui siamo condannati, noi non faremmo [289] che sciupare questo, che è il pregio principale del suo libro. Non è un grande scrittore, ma conosce addentro tutto il moto del tempo e ne sente a fondo l'importanza morale.

Se poi si vuol conoscere le cause per cui i Medici del secolo XV, Cosimo il vecchio principalmente (morto nel 1464) e Lorenzo il Magnifico (morto nel 1492), esercitarono su Firenze in particolare e sui loro contemporanei in generale un prestigio così potente ed irresistibile, si troverà che esse non derivavano soltanto dalla loro superiorità politica, ma altresì, e molto più forse, dall'essersi essi posti alla testa di tutta la cultura, che allora sorgeva. Chi al posto di Cosimo, come mercadante e capo-parte in Firenze, ha eziandio con sè tutta la schiera degli uomini che pensano, studiano e scrivono; chi per casato è riguardato come il primo tra i Fiorentini, e per cultura il più grande fra gli Italiani, non può dirsi un privato: nel fatto egli è un vero principe. Cosimo ha poi la gloria speciale di aver riconosciuto nella filosofia platonica[446] il più bel frutto della filosofia antica, di aver infuso questa sua persuasione in quanti lo circondavano e così di aver promosso, dentro la cerchia stessa dell'umanismo, un secondo e più sublime risorgimento dell'antichità. Il fatto ci è narrato[447] assai esattamente: tutto [290] ebbe origine dalla chiamata del dotto Giovanni Argiropulo e dallo zelo personale di Cosimo negli ultimi suoi anni, in guisa che, per ciò che riguardava il platonismo, il grande Marsilio Ficino aveva ragione di dichiararsi il figlio spirituale di Cosimo. Sotto Piero de' Medici il Ficino si riguardava già come il capo di una scuola; alla quale passò, abbandonando i Peripatetici, anche il figlio di Piero e nipote di Cosimo, Lorenzo il Magnifico: tra i più illustri fra' suoi condiscepoli vengono menzionati Bartolommeo Valori, Donato Acciajuoli e Pier Filippo Pandolfini. L'ispirato maestro lasciò scritto in più luoghi delle sue opere, che Lorenzo s'era addentrato in tutte le dottrine più recondite del platonismo e s'era dichiarato convinto non potersi quasi, senza esso, essere nè buon cittadino, nè buon cristiano. Il celebre gruppo di dotti, che si raccoglieva intorno a Lorenzo, viveva tutto in questa atmosfera elevata di una filosofia idealistica ed emergeva di gran lunga sopra tutte le altre riunioni di questa specie. Questo solo era l'ambiente, nel quale potea trovarsi a suo agio un uomo come Pico della Mirandola. Ma ciò che ne accresce di gran lunga la lode si è che, accanto ad un culto così vivo per l'antichità, qui ebbe un sacro asilo anche la poesia italiana, e di ciò il merito principale era tutto di Lorenzo. Come uomo di Stato lo giudichi ognuno a sua posta (v. p. 111, 124): uno straniero non si arrogherà mai, se non vi è chiamato, di giudicare qual parte spetti agli uomini, quale alla fortuna nei destini, che ebbe a subire Firenze; ma [291] sarà sempre somma ingiustizia il voler accusare Lorenzo di non aver nel campo della cultura accordata la sua protezione che ad uomini mediocri, di aver fatto fuggire dalla propria patria Leonardo da Vinci e il matematico fra Luca Pacciolo, di non avere in nessun modo incoraggiato il Toscanelli, il Vespucci ed altri. Uomo universale invero egli non fu; ma fra tutti i grandi, che giammai cercarono di promuovere e favorire l'ingegno, fu certo uno dei più magnanimi e liberali e forse l'unico, che lo fece non per iscopi di vanità od ambizione, ma per obbedire ad un bisogno innato dell'animo suo.

Vero è che anche nel nostro secolo si suol proclamare altamente il pregio della cultura in generale e quello dell'antica in modo particolare. Ma una devozione al tutto entusiastica, una persuasione che questo bisogno sia il primo di tutti, non si troverà presso nessun popolo portato a quel grado, a cui la portarono quei Fiorentini del secolo XV e in parte anche del XVI. Le prove, benchè indirette, abbondano e sono tali da non lasciar dubbio alcuno in proposito: non si avrebbe si di frequente ammesso le figlie di famiglia a partecipare agli studi, se questi non fossero stati assolutamente considerati come il più prezioso ornamento della vita: non si sarebbe convertito l'esiglio in un soggiorno di pace e tranquillità, come fece Palla Strozzi; nè uomini, che del resto si permettevano ogni eccesso, avrebbero conservato tanta calma e forza di volontà da illustrare criticamente la storia naturale di Plinio, come fece Filippo Strozzi.[448] Alieni dalla lode e dal biasimo, noi rendiamo loro tanto più volentieri questa giustizia, in quanto l'assunto [292] nostro non è che di investigare e far conoscere lo spirito di un'epoca per ciò che esso è veramente e quale si mostrò nelle sue più splendide manifestazioni. Oltre Firenze, furonvi anche parecchie altre città in Italia, dove e singoli privati e intere associazioni misero in opera tutti i mezzi possibili per promuovere l'umanismo e per soccorrere i dotti che lo rappresentavano. Dalle corrispondenze epistolari di quel tempo si raccoglie una serie abbondantissima di notizie sulle persone che vi presero parte.[449] Le tendenze ufficiali dei meglio istrutti davano quasi sempre l'indirizzo, in un senso o nell'altro, all'entusiasmo di tutti.


Ma è tempo omai di considerar l'umanismo alle corti principesche. Degli intimi rapporti fra il tiranno e il filologo, condannati dal paro a non contare che sopra sè stessi e sul proprio ingegno, s'è già toccato altrove (v. p. 12,188); ma quest'ultimo, per sua stessa confessione, preferiva le corti alle città libere anche per un'altra ragione, vale a dire per le maggiori ricompense, che vi trovava. Al tempo, in cui sembrava che Alfonso il Magnanimo d'Aragona potesse farsi padrone di tutta Italia, Enea Silvio scriveva[450] ad un Sanese suo compatriota: «se sotto la sua signoria l'Italia potesse ricuperare la pace, io ne sarei più lieto che non se ciò accadesse per opera di un qualsiasi governo repubblicano, poichè un animo regale è sempre più proclive a premiare [293] il vero merito».[451] Anche in questo riguardo i moderni s'affrettarono un po' troppo a mettere in rilievo il lato debole di tali rapporti, cioè la smania di circondarsi di adulatori prezzolati, appunto come in altri tempi, invece, dalle lodi esagerate degli umanisti si era tratto argomento per portare di questi stessi principi un troppo favorevole giudizio. Fatta la somma del pro' e del contro, resta pur sempre una testimonianza decisiva in favor loro nel fatto, che essi credettero di dover collocarsi alla testa della cultura del proprio tempo e del proprio paese, per quanto pure essa fosse imperfetta e ristretta. In alcuni Papi poi par quasi favolosa la tranquillità, con la quale videro svolgersi sotto i loro occhi quel lento lavoro di trasformazione che si veniva compiendo.[452] Nicolò V non ci scorgeva nessun pericolo per la Chiesa, perchè migliaia di dotti le stavano a fianco, pronti a difenderla e ad aiutarla. Pio II non si mostra invero troppo largo verso la scienza, e i poeti che rallegrano la sua corte, sono in numero abbastanza ristretto; ma, in compenso, egli stesso personalmente sta a capo della repubblica letteraria e si compiace di questa gloria al tutto profana. Soltanto sotto Paolo II cominciarono i sospetti e le diffidenze contro la cultura umanistica dei secretari apostolici, e i suoi tre successori, Sisto, Innocenzo [294] ed Alessandro accettarono bensì qualche dedica e si lasciarono esaltare dai poeti senza misura (si parla persino di una Borgiade, scritta probabilmente in esametri),[453] ma ebbero in generale ben altre preoccupazioni e cercarono appoggi più solidi, che non fossero le servili adulazioni dei poeti-filologi. Anche Giulio II trovò i poeti che cantarono le sue gesta, e veramente queste erano tali da fornirne sufficiente argomento (v. p. 161 e seg.); ma non pare ch'egli vi abbia mai posto troppo seria attenzione. A lui successe Leone X: «dopo Romolo, Numa», dissero i poeti d'allora, che, dopo un Pontificato tutto dedito alle armi, videro sorgerne uno tutto sacro alle Muse. Il gusto per la bella prosa latina e pei versi ben risonanti era una delle caratteristiche di Leone, e sta di fatto che la sua protezione a questo riguardo portò le cose ad un punto, che i poeti latini che lo circondavano, non rifinirono di esaltare con elegie, odi, epigrammi e sermoni innumerevoli[454] la felicità di un'epoca, il cui carattere principale era quello di una spensierata allegria, sì ben dipinta dal Giovio nella vita di questo Papa. Forse nella storia occidentale non v'è un principe che sia stato tanto glorificato, con sì poche pagine nella sua vita veramente degne di lode. I poeti erano ammessi [295] alla sua presenza principalmente sull'ora del mezzogiorno, quando avean cessato di circondarlo i citaristi;[455] ma uno dei migliori di quella schiera[456] ci lascia intendere, che essi gli erano sempre al fianco tanto nei giardini, quanto nello stanze più segrete del suo palazzo, e chi avea la disgrazia di non poter giungere sino a lui, tentava di farsi vivo nella sua memoria mediante una supplica in forma di elegia, nella quale di solito si faceva intervenire tutto l'Olimpo.[457] Imperocchè Leone, generoso sino alla prodigalità e desideroso di veder sempre visi allegri, donava con tale larghezza, che nei gretti tempi che susseguirono parve incredibile e favolosa.[458] Della riorganizzazione da lui introdotta nel collegio della Sapienza, s'è già parlato (v. pag. 280). Per non valutare al di sotto del vero l'influenza esercitata da Leone sull'umanismo, bisogna tener l'occhio libero dalle molte ciurmerie, che vi andavano frammiste, nè si deve lasciarsi trarre in errore dall'ironia spesso troppo pronunciata (v. pag. 214), colla quale egli discorre di queste cose: il giudizio deve fondarsi sulle grandi eventualità morali, che possono essere la conseguenza di un «primo impulso dato» e che veramente sfuggono nell'insieme di una rappresentazione generale, ma si palesano poi in singoli casi presi isolatamente. Tutta l'influenza, che, forse [296] dal 1520 in poi, gli umanisti italiani esercitarono sul resto d'Europa, ha pur sempre in un modo o nell'altro la sua origine nella iniziativa, che partì da Leone. Egli è quel Papa che, concedendo il privilegio allo stampatore delle opere di Tacito recentemente scoperte,[459] potè dire che «i grandi autori sono una guida della vita, un conforto nelle sventure», e che il favorire i dotti e il fare incetta di buoni libri gli è parsa sempre opera lodevolissima, per cui anche allora ringraziava il cielo di poter contribuire al bene dell'umanità incoraggiando la pubblicazione di quel libro.

Il sacco di Roma dell'anno 1527, come disperse gli artisti, fece fuggire altresì in tutte le parti d'Italia i letterati e portò così la fama del grande mecenate fino alle più remote estremità della Penisola.


Fra i principi laici del secolo XV quello che mostrò maggiore entusiasmo per l'antichità, fu Alfonso il Magnanimo d'Aragona, re di Napoli (v. pag. 47). Sembra che questo entusiasmo in lui fosse veramente sincero, e che il mondo antico esistente nei monumenti e negli scritti abbia prodotto in lui, sino dal suo arrivo in Italia, una gagliarda impressione, che influì poi su tutto il resto della sua vita. Con singolare leggerezza egli cedette l'inquieto suo regno d'Aragona al fratello, per dedicarsi interamente a quello, che recentemente aveva acquistato. Tenne a' suoi stipendi ora successivamente, ora contemporaneamente,[460] Giorgio da Trebisonda, Crisolora il giovane, [297] Lorenzo Valla, Bartolommeo Facio e Antonio Panormita, facendoli suoi storiografi: quest'ultimo doveva ogni giorno spiegar qualche passo di Livio dinanzi al re e alla sua corte, anche duranti le spedizioni guerresche. Tutti costoro gli costavano annualmente oltre a ventimila fiorini d'oro; al Facio assegnò, per la sua Historia Alphonsi, una pensione annua di più che cinquecento ducati, ed oltre a ciò gli regalò mille cinquecento fiorini d'oro al termine dell'opera con queste parole: «non intendo con ciò di pagarvi, perchè il vostro lavoro non può esser pagato, nemmeno s'io vi regalasse una delle mie migliori città; ma col tempo saprò trovar modo di rendervi soddisfatto». Quando egli assunse Giannozzo Manotti a suo segretario, facendogli lautissime condizioni, gli disse: «occorrendo, dividerò con voi il mio ultimo pane». Egli aveva conosciuto Giannozzo, quando questi andò alla sua corte per incarico della Signoria di Firenze a congratularsi del matrimonio del principe Ferrante, e l'impressione che n'avea ricevuto era stata sì grande, che, udendolo parlare, era rimasto inchiodato sul trono «come una statua di bronzo», senza nemmeno muovere una mano «a cacciarsi gl'insetti». Il suo ritiro prediletto sembra essere stata la biblioteca del castello di Napoli, dove egli sedeva lunghe ore nel vano di una finestra, prospettando il mare e ascoltando i dotti discutere, per esempio, sulla Trinità. Infatti egli era profondamente religioso e, insieme a Livio e a Seneca, non mancava di farsi leggere anche la Bibbia, che sapeva quasi tutta a memoria. Chi potrebbe dire qual sorta di venerazione egli tributasse alle supposte ossa di Livio in Padova (v. p. 199)? Quand'egli, dopo molte preghiere, potè ottenere dai Veneziani un avambraccio del medesimo e lo accolse con pompa solenne a Napoli, chi sa [298] qual contrasto di sentimenti pagani e cristiani era nel suo petto! In una spedizione guerresca negli Abruzzi gli fu mostrata da lontano Sulmona, patria d'Ovidio, ed egli mandò un saluto a quella terra e ne ringraziò il genio tutelare: senza alcun dubbio egli si compiaceva dì veder confermata col fatto la profezia del grande poeta sulla sua fama avvenire.[461] Una volta gli piacque di mostrarsi egli stesso in pubblico vestito all'antica, e fu appunto nel suo celebre ingresso in Napoli dopo la conquista (1443): non lungi dal mercato fu aperta nelle mura una breccia della larghezza di quaranta braccia; per questa egli passò condotto in un cocchio dorato, alla guisa di un trionfatore romano.[462] Anche la ricordanza di questo fatto è stata eternata con uno splendido arco trionfale di marmo nel Castello nuovo. — I suoi successori sul trono di Napoli hanno ereditato ben poco, nulla affatto, di questo suo entusiasmo per l'antichità, come di tutte le altre sue buone qualità in generale.


Senza paragone più dotto di Alfonso era Federigo di Urbino,[463] che si tenne d'attorno minor numero di cortigiani, non dissipò mai nulla, e, come in tutte le cose, così anche nel far rivivere l'antichità procedette con un disegno prestabilito. Egli divide con Nicolò V il vanto di aver fatto eseguire la maggior parte delle traduzioni dal greco e un numero rilevante delle più importanti interpretazioni, illustrazioni e simili. Egli spese molto, ma con saggezza, nelle persone che adoperava. Poeti di [299] corte non ce ne furono mai ad Urbino; il principe stesso era il personaggio il più dotto. Veramente l'antichità non fu che una parte della sua cultura: volendo riuscire perfetto come uomo, come capitano e come principe, egli si studiò di possedere molta parte del sapere d'allora in generale, e, che è più, per iscopi pratici, mirando più alla sostanza che alla forma. Come teologo, per esempio, egli paragonava Tommaso d'Aquino con lo Scoto e conosceva anche gli antichi Padri della Chiesa d'oriente e d'occidente, i primi nelle traduzioni latine. Nella filosofia sembra che abbia lasciato interamente Platone alle predilezioni di Cosimo suo contemporaneo; ma di Aristotile conosceva non soltanto l'Etica e la Politica, ma anche la Fisica e molti altri scritti. Nelle altre sue letture pare che predilegesse in modo speciale gli antichi storici, che possedeva tutti: e questi, non i poeti, «tornava egli sempre a leggere e a farsi leggere».


Anche gli Sforza sono tutti più o meno uomini dotti[464] e proteggono gli studi, come abbiamo già avuto occasione di accennare (v. pag. 37, 53). Il duca Francesco, a quanto sembra, nell'educazione de' suoi figli riguardava la cultura umanistica come un ornamento indispensabile, e ciò anche per motivi politici, considerando come un vantaggio inestimabile, che il principe potesse trattare cogli uomini più colti da pari a pari. Lodovico il Moro, eccellente latinista egli stesso, mostrò più tardi un vivo [300] interessamento per ogni genere di cultura, senza limitarsi alla sola antichità (v. pag. 56).

Anche i principi minori cercarono procacciarsi un simil genere di gloria, e si fa loro un gran torto se si crede che non abbiano mantenuto i loro letterati di corte per altro fine, che per esserne celebrati e adulati. Di un principe quale fu Borso di Ferrara (v. pag. 46), non si può certo supporre, in onta anche alla sua vanità, che aspettasse l'immortalità dai poeti, per quanto anche questi abbiano voluto adularlo con una «Borseide», e simili; egli era troppo persuaso della sua potenza, per scendere a tanto; ma la compagnia dei dotti, il culto dell'antichità e una elegante epistolografia latina erano cose, di cui un principe d'allora non poteva far senza. Quante volte non ha deplorato il duca Alfonso, che pure aveva tanta cultura, (v. pag. 63), che la sua gracilità in gioventù lo abbia costretto a cercare distrazioni e salute unicamente nel lavoro manuale![465] Ma chi potrebbe dire quanto quei lamenti fossero sinceri, o se egli non li facesse, che al solo scopo di tenersi lontani tutti i letterati? In un'anima come la sua la simulazione era abituale, nè giunsero mai a leggervi nettamente per entro nemmeno i suoi contemporanei.

Perfino i più piccoli fra i tiranni della Romagna sentono il bisogno di avere uno o più umanisti alla loro corte: e in tal caso il maestro di casa o il segretario diventano per un tempo più o meno lungo il personaggio più importante fra tutti quelli che circondano il principe.[466] [301] Comunemente si passa oltre con troppo disprezzo e con troppa precipitazione su queste particolarità, che sembrano e non sono inezie, e si dimentica che nell'ordine morale i fatti più salienti sono appunto quelli, che non obbediscono a nessuna regola, o consuetudine.


Qualche cosa di singolarmente strano deve essere stata la corte di Rimini sotto l'audace masnadiere e condottiero Sigismondo Malatesta. Egli aveva intorno a sè un certo numero di filologi, taluni dei quali erano riccamente provvisti anche col possesso di qualche podere, altri avevano almeno tanto da poter vivere ricevendo lo stipendio di ufficiali e servendo anche in tale qualità.[467] Essi tenevano frequenti ed acri dispute nel castello di Sigismondo (arx sismundea), presente lo stesso «re», come essi lo chiamavano; naturalmente le loro poesie latine riboccano delle sue lodi e cantano i suoi amori con la bella Isotta, in onore della quale fu fatta la celebre ricostruzione della chiesa di S. Francesco in Rimini, per convertirla in monumento sepolcrale: Divae Isottae sacrum. E quando i filosofi muojono, son collocati nei sarcofaghi, di cui sono piene le nicchie delle pareti esterne della stessa chiesa: un'iscrizione indica il [302] tempo della morte di ciascuno e segna l'anno del regno di Sigismondo, figlio di Pandolfo.[468] Dire oggidì che un mostro simile amava la scultura e la compagnia dei dotti, parrebbe quasi un voler far credere l'incredibile; pure l'uomo stesso che lo scomunicò, lo combattè e lo fe' bruciare in effigie, Papa Pio II, scrisse di lui: «Sigismondo conosceva le storie ed era molto innanzi nella filosofia, e sembrava nato a tutto ciò che intraprendeva».[469]

[303]

CAPITOLO VII. Riproduzione dell'antichità. Epistolografia.

La Cancelleria papale. — Apprezzamento dello stile epistolare.

Ma due erano gli scopi principali, per cui tanto le Repubbliche, quanto i Principi e i Papi non credevano poter far senza degli umanisti: la redazione delle corrispondenze epistolari, e la preparazione dei discorsi da tenere in pubblico o nelle solenni circostanze.

Il segretario non solo deve, quanto allo stile, essere un buon latinista, ma anzi si crede che solo un umanista possegga le attitudini e la cultura necessarie per essere un buon segretario. Ammessa una tale supposizione, s'intende subito come sia avvenuto che i più illustri scienziati del secolo XV abbiano per la massima parte consacrato in tal modo una parte considerevole della loro vita al servizio dello Stato. Nella scelta non si aveva riguardo alcuno nè alla patria, nè all'origine del candidato; dei quattro grandi segretari, che servirono la Repubblica di Firenze dal 1429 al 1465,[470] tre [304] erano originari della soggetta città di Arezzo, vale a dire Leonardo (Bruni), Carlo (Marzuppini) e Benedetto Accolti: il Poggio scendeva da Terranuova, ugualmente nel territorio fiorentino. Ma già da lungo era una consuetudine invalsa quella di conferire ad estranei i maggiori uffici della città. Leonardo, il Poggio e Giannozzo Manetti furono anche ad intervalli cancellieri segreti dei Papi, e Carlo Aretino doveva egli pur divenirlo. Biondo di Forlì e, in onta a tutte le ripugnanze, da ultimo anche Lorenzo Valla tennero lo stesso ufficio. Da Nicolò V e Pio II in avanti[471] il palazzo papale attira le menti più poderose nella sua cancelleria, e ciò accade perfino sotto gli ultimi Papi del secolo XV, tutt'altro che devoti al culto della letteratura. Nella Storia dei Papi del Platina la vita di Paolo II non è che un atto di vendetta dell'umanista contro l'unico Papa, che non seppe trattare come meritavano i suoi cancellieri, quella splendida riunione di «poeti ed oratori, che impartiva alla Curia altrettanto lustro, quanto ne riceveva». Bisogna vederli, questi orgogliosi signori, alle prese fra loro, quando sorge una questione di preminenza, o quando, per esempio, gli avvocati concistoriali vogliono stare in pari rango con loro, o, peggio ancora, si arrogano di sorpassarli![472] Tutto ad un tratto le citazioni piovono d'ogni parte, e l'uno evoca la memoria di Giovanni evangelista, che ebbe il privilegio di vedere [305] anticipatamente gli arcani del cielo, l'altro cita lo scrivano di Porsenna, che da Muzio Scevola fu scambiato pel re stesso, un terzo nomina Mecenate, depositario dei segreti d'Augusto, un quarto dimostra come in Germania gli arcivescovi stessi si gloriano del titolo di cancellieri, e simili.[473] «Gli scrittori apostolici hanno nelle loro mani i più importanti affari del mondo; imperocchè chi, all'infuori di essi, determina i punti della fede cattolica, combatte l'eresia, ristabilisce la pace, compone le differenze tra i grandi monarchi? Chi, se non essi, redige e custodisce i prospetti statistici dell'intera Cristianità? Sono essi che destano la maraviglia nei re, nei principi e nei popoli con tutto ciò che viene emanato dai Papi; essi stendono gli ordini e le istruzioni pei legati; nè hanno altra dipendenza fuorchè dal Papa, ai servigi del quale sono sempre pronti ed attivi in qualsiasi ora del giorno e della notte». Con tutto ciò, i primi a toccare il colmo della gloria e della potenza, furono i due celebri segretari e stilisti di Leone X: Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto.


Non tutte le cancellerie hanno una dicitura elegante; anzi la maggior parte di esse usano uno stile assai grossolano in un latino, che non ha alcuna purezza. Nei documenti milanesi riportati dal Corio, accanto a forme di questo genere, emergono tanto più pel loro gusto veramente attico un paio di lettere, che debbono essere state scritte da membri della stessa famiglia regnante e in momenti di supremo pericolo.[474] Ciò mostra che l'eleganza [306] della dizione si reputava necessaria in ogni momento della vita, ed era diventata in quei personaggi omai una abitudine.

È facile immaginare con quanta sollecitudine venissero studiate a que' tempi le raccolte epistolari di Cicerone, di Plinio e d'altri. Ancora nel secolo XV comparve una serie di manuali e formularj di epistolari latini (come ramo accessorio dei grandi lavori grammaticali e lessicografici), la cui moltitudine desta anche oggidì la maraviglia nelle biblioteche. Ma quanto più gli inetti non esitavano a servirsi di tali aiuti, tanto più gli uomini veramente capaci sentirono il bisogno di tenersene lontani e di fare da sè, e le lettere del Poliziano, e un po' più tardi quelle di Pietro Bembo, furono riguardate come capilavori inarrivabili non solo di stile latino, ma di epistolografia in genere.

Accanto a ciò si produce anche nel secolo XVI uno stile epistolare classico italiano, nel quale di nuovo il Bembo porta il vanto su tutti. È un modo di scrivere affatto moderno e che si scosta in tutto dalla forma latina, ma tuttavia intrinsicamente e quanto alla sostanza si mostra affatto impregnato delle idee dell'antichità. Queste lettere sono scritte bensì in parte in via confidenziale, ma per lo più con la vista di una possibile pubblicazione, e sempre poi colla supposizione che potessero essere mostrate in causa della loro eleganza. Dal 1530 in poi cominciano anche le collezioni stampate, parte di [307] lettere diverse messe là alla rinfusa, parte di corrispondenze speciali di singoli autori, e lo stesso Bembo acquistò fama di eccellente epistolografo non solo nella lingua latina, ma anche nell'italiana.[475]

[309]

CAPITOLO VIII. L'eloquenza latina.

Indifferenza rispetto alla condizione dell'oratore. — Discorsi solenni di materia politica o in occasioni di ricevimento. — Orazioni funebri. — Discorsi accademici e allocuzioni militari. — Prediche latine. — Rinnovamento dell'antica rettorica. — Forma e contenuto; citazioni. — Concioni finte. — Scadimento dell'eloquenza.

Più splendida ancora, che quella dell'epistolografo, è la posizione dell'oratore[476] in un'epoca e presso un popolo, in cui l'ascoltare è un piacere assai ricercato e in cui inoltre le memorie del senato romano e de' suoi oratori signoreggiano tutte le menti. L'eloquenza appare ora completamente emancipata dalla Chiesa, dove nel medio-evo aveva trovato il suo rifugio: essa è oggimai un elemento necessario, ed un ornamento di ogni uomo posto in condizione alquanto elevata. Moltissimi momenti solenni della vita, che ora sono riempiti dalla musica, in allora erano consacrati a lunghe concioni latine o italiane. Noi lasciamo al lettore intera libertà di giudizio sulla maggiore opportunità dell'uno o dell'altro di tali trattenimenti.

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La condizione dell'oratore era perfettamente indifferente; ciò che innanzi tutto si ricercava in lui era un ingegno e una cultura umanistica superiori ad ogni critica. Alla corte di Borso in Ferrara il medico del duca, Girolamo da Castello, dovette far gli onori del ricevimento con un discorso tanto all'imperatore Federico III, che al papa Pio II.[477] Egli era d'uso altresì che laici, anche ammogliati, potessero salire il pergamo nelle chiese e parlare di là in ogni occasione solenne o funebre, e perfino nelle feste di alcuni santi. Ai Padri non italiani del Concilio di Basilea parve cosa un po' strana quando l'arcivescovo di Milano nel giorno di S. Ambrogio chiamò a tesserne le lodi Enea Silvio, che non aveva ancora ricevuto verun ordine sacro; ma in fine vi si adattarono e stettero ad udirlo con la più viva attenzione.[478]


Diamo ora uno sguardo generale alle occasioni più importanti e più frequenti delle pubbliche concioni. Non per nulla, innanzi tutto, si dicono oratori gli inviati da Stato a Stato: accanto alle negoziazioni segrete vi era sempre anche un inevitabile apparato esterno, un discorso pubblico, recitato con pompa più che si poteva solenne.[479] Ordinariamente uno del personale della ambasceria, spesso assai numerosa, prendeva la parola per tutti; ma una volta accadde a Pio II, dal quale, [311] come profondo conoscitore, ognuno ambiva di essere sentito, che dovette ascoltare, l'un dopo l'altro, tutti gl'inviati.[480] Poi parlavano volentieri anche i principi, per lo più dotti e ugualmente padroni delle eleganze latine e italiane. I figli della famiglia Sforza furono assai per tempo abituati a tali esercizi: Galeazzo Maria, ancor giovanissimo, recitò nel 1455 una lunga arringa dinanzi al Gran Consiglio di Venezia,[481] e sua sorella Ippolita salutò nel 1459 al Congresso di Mantova il papa Pio II con un forbito discorso.[482] Lo stesso Pio II s'è preparata da sè l'alta posizione cui giunse col fascino irresistibile della sua eloquenza, nè senza essa forse vi sarebbe mai giunto, in onta a tutta la sua abilità diplomatica e alla sua vasta dottrina. «Nulla infatti (dice un contemporaneo) rapiva, quanto l'impeto della sua parola».[483] Questa fu certo la causa principale, per cui moltissimi lo reputarono degno del Papato, ancora prima che fosse eletto.

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Oltre a ciò, l'uso era che in ogni solenne ricevimento si recitasse dinanzi ai principi una orazione, che di frequente durava una qualche ora. Naturalmente ciò non accadeva se non quando il principe era noto per particolare amore all'eloquenza, vero o finto che fosse,[484] e quando si aveva alle mani un abile oratore, ad esempio, un letterato di corte, un professore di università, un funzionario pubblico, un medico od un ecclesiastico.

Del resto si afferrava avidamente anche qualsiasi altra occasione politica, e, secondo la fama dell'oratore, era più o meno grande il concorso dei cultori dell'arte. Nelle nomine annuali dei pubblici ufficiali e nell'ingresso de' nuovi vescovi un qualsiasi umanista non dovea mancare di arringarli con un discorso o talvolta anche con odi saffiche e con esametri;[485] e alla sua volta nessun funzionario pubblico poteva assumere il suo ufficio senza tenere un indispensabile discorso di circostanza, per esempio, sulla giustizia, e simili: e fortunato colui, che meglio riusciva. In Firenze si costrinsero perfino i Condottieri, chiunque fossero, a seguir l'uso comune, facendoli arringare, nel momento di conferir loro il supremo comando, dal più dotto dei segretari dello Stato in presenza di tutto il popolo.[486] Sembra che nella Loggia dei [313] Lanzi, l'aula solenne dove il governo soleva presentarsi al pubblico, esistesse una tribuna apposita per gli oratori (rostro, ringhiera).


I giorni anniversari della morte di qualche principe venivano in modo speciale solennizzati con discorsi commemorativi. Anche l'orazione funebre propriamente detta era quasi sempre di spettanza particolare dell'umanista, il quale la recitava in chiesa, ma senza indossare altre vesti che le proprie, e non soltanto sulla bara dei principi, ma anche di pubblici funzionari o di qualsiasi personaggio ragguardevole.[487] Altrettanto accadeva dei discorsi in occasione di sponsali e di nozze, salvo che questi non si tenevano (a quanto sembra) nella chiesa, ma bensì nel palazzo del Comune; quello del Filelfo per gli sponsali di Anna Sforza con Alfonso d'Este fu tenuto nel castello di Milano. (Ma potrebbe anche essere stato pronunciato nella cappella del Palazzo). Anche illustri famiglie private si compiacevano di tali discorsi, come di un lusso, che ne appagava la vanità. In tali occasioni a Ferrara si usava, senz'altro, di pregare il Guarino[488] a voler mandare qualcuno de' suoi scolari. La Chiesa, come tale, non interveniva nè nelle nozze, nè nei funerali se non colle proprie ceremonie.

Dei discorsi accademici, quelli fatti in occasione dell'insediamento di nuovi professori, o tenuti dai professori [314] stessi nell'apertura dei corsi delle loro lezioni,[489] abbondavano per lo più di molte frondi rettoriche. L'ordinaria lezione dalla cattedra s'accostava anch'essa assai di frequente ad una orazione propriamente detta.[490]

Quanto alle arringhe degli avvocati, esse assumevano questa o quella forma secondo la qualità dell'uditorio, dinanzi al quale dovevano essere pronunciate; ma anch'esse talvolta s'infioravano di ornamenti raccolti nel campo della filosofia e dell'antiquaria.

Un genere affatto speciale di eloquenza era quello delle allocuzioni militari, che si tenevano sempre in lingua italiana prima o dopo la battaglia. In queste avea fama di eccellente Federigo da Urbino,[491] la cui parola infondeva un vero entusiasmo nelle schiere pronte per la battaglia. Taluna di queste allocuzioni riportate dagli scrittori di cose militari del secolo XV, per esempio dal Porcellio (v. pag. 135), può sembrar finta in parte, ma in parte si basa effettivamente su parole, che furono pronunciate. Qualche cosa di diverso erano invece le allocuzioni alla milizia fiorentina, organizzata sino dall'anno 1506 principalmente per impulso del Machiavelli,[492] in occasione delle riviste e, più tardi, nella ricorrenza di una speciale festività annua. Esse non miravano che a tener vivo il patriottismo in generale, ed erano pronunciate [315] nella chiesa di ogni quartiere, dinanzi alle milizie stesse quivi raccolte, da un cittadino armato di corazza e con una spada in mano.


Finalmente la predica propriamente detta talvolta non si differenzia nel secolo XV quasi in nulla dall'orazione, in quanto che molti ecclesiastici s'erano messi anch'essi allo studio dell'antichità e volevano esservi tenuti per qualche cosa. Vediamo infatti che un oratore affatto popolare, quale fu Bernardino da Siena, venerato come santo, si credette in dovere di non dispregiare i precetti rettorici del celebre Guarino, quantunque non si fosse proposto di predicare che in lingua italiana. Le esigenze, specialmente verso i predicatori della quaresima, non erano senza dubbio in allora minori, che in qualsiasi altro tempo; e qua e colà s'incontrava anche un uditorio, che era in grado di star ad udire questioni di filosofia trattate dal pergamo, e che anzi, a titolo di cultura, le pretendeva.[493] Ma qui noi parliamo specialmente dei più illustri predicatori latini di circostanza. Più di una volta, come s'è detto, l'occasione veniva loro rubata dai dotti laici, ai quali di regola lasciavansi tutte le orazioni panegiriche e funebri, i discorsi gratulatori o per nozze o per ingresso di vescovi o per celebrazione di prime Messe, come anche le orazioni solenni nelle feste commemorative di qualche ordine religioso.[494] Ma [316] alla corte papale, qualunque fosse la circostanza, i predicatori ordinariamente nel secolo XV non erano che monaci. Sotto il pontificato di Sisto IV Jacopo da Volterra nomina e critica severamente, dal punto di vista dell'arte, questi oratori.[495] Fedra Inghirami, celebre per tal genere di orazioni al tempo di Giulio II, aveva almeno ricevuto gli ordini sacri e godeva un canonicato in S. Giovanni Laterano; ed anche altrove contavasi già tra i prelati buon numero di latinisti eleganti. In generale col secolo XVI cominciano a scemare, tanto in questo come in altri riguardi, i privilegi dapprima eccessivi degli umanisti profani; ma di ciò avremo occasione di parlare più innanzi.


Ora quale era propriamente l'indole e la sostanza di questi discorsi presi nel loro insieme? Una naturale facilità a ben parlare non pare che sia mai mancata agli italiani neanche nel medio-evo, e da tempo antichissimo fra le sette arti liberali ce n'era anche una, che si diceva la rettorica; ma, se si restringe il discorso al risveglio dell'arte antica, questo merito, a quanto ne riferisce Filippo Villani, deve ascriversi tutto ad un Bruno Casini fiorentino,[496] che morì ancor giovane della pestilenza del 1348. Con intendimenti affatto pratici, vale a dire, per addestrare i fiorentini a parlare facilmente e con garbo nei Consigli e nelle pubbliche assemblee, egli dava precetti, sulla scorta degli antichi, intorno all'invenzione, [317] alla declamazione, al gesto e al modo di contenersi in generale. Ma anche senza di questa, non mancano altre testimonianze, le quali parlano di una educazione rettorica vôlta tutta alla pratica; nulla infatti nella vita d'allora sembrava tanto in pregio, quanto il poter con elegante improvvisazione latina suggerire in qualsiasi circostanza una deliberazione od un provvedimento pubblico. Lo studio sempre crescente delle orazioni di Cicerone e de' suoi scritti teorici, di Quintiliano e dei panegiristi imperiali, la comparsa di appositi manuali,[497] gli aiuti che si traevano dal progredire continuo della filologia in generale, e la grande abbondanza di materiali antichi, con cui si poteva e doveva infiorare i propri pensieri, furono circostanze che contribuirono non poco a dare un carattere affatto nuovo all'eloquenza.


Questo carattere, tuttavia, è assai differente secondo gl'individui. Alcuni discorsi hanno l'impronta della vera eloquenza, specialmente quelli, che non divagano dall'argomento, e tali sono, generalmente parlando, tutti i discorsi di Pio II, che sono pervenuti sino a noi. Dopo ciò, i prodigiosi effetti che ottenne Giannozzo Manetti,[498] lasciano presupporre anche in lui uno di quegli oratori, dei quali v'è scarsezza in ogni tempo. Le arringhe da lui tenute dinanzi a Nicolò V e ai Dogi e al Consiglio [318] di Venezia erano altrettanti avvenimenti, la cui memoria sopravvisse per lungo tempo. Per converso, molti oratori profittavano dell'occasione per stemperare il discorso in adulazioni verso illustri uditori e per affastellarvi alla rinfusa un ammasso enorme di erudizione. Come fosse possibile affaticar in tal modo l'attenzione altrui per due o tre ore di seguito, è cosa che non si spiega se non dal grande interessamento, che allora si nutriva per l'antichità, e dalla imperfezione e relativa rarità dei libri, prima della diffusione della stampa. Tali discorsi avevano però sempre quella specie di merito, che noi abbiamo cercato di rivendicare ad alcune lettere del Petrarca (v. pag. 270). Ma taluni andavano troppo oltre. La maggior parte delle orazioni del Filelfo sono un labirinto inestricabile di citazioni classiche e bibliche, innestate in una tessera generale di luoghi comuni: in mezzo a ciò la personalità dei grandi, che egli vuol celebrare, è giudicata sopra uno schema qualunque (per esempio, le virtù di un cardinale), e si dura una fatica enorme a cavarne i pochi dati preziosi per la storia, che vi stanno per entro. Il discorso di un professore e letterato di Piacenza, fatto pel ricevimento del duca Galeazzo Maria nell'anno 1467, comincia col parlare di C. Giulio Cesare, passa quindi a fare uno strano miscuglio di citazioni antiche e di allusioni ad un opera allegorica sua propria, e conclude con ammaestramenti buoni, ma in quel caso indiscreti, al principe stesso.[499] Per buona ventura di quest'ultimo, la sera era già di troppo inoltrata per poterlo recitare, e l'oratore dovette accontentarsi di presentarlo manoscritto. Anche il Filelfo [319] comincia un'orazione nuziale colle parole: Quel peripatetico Aristotile ecc. Altri esclamano sino dal bel principio: Pubblio Cornelio Scipione ecc., proprio come se essi e i loro uditori fossero impazienti di avere una citazione. Col finire del secolo XV il gusto si purifica tutto ad un tratto, specialmente per opera de' Fiorentini: d'allora in poi si procede con molto maggiore parsimonia nelle citazioni, anche perchè in quel frattempo s'era di molto accresciuto il numero delle opere da consultare, nelle quali del resto chiunque avrebbe potuto trovar pronti tutti quegli artifici, coi quali sino a questo tempo era stato possibile di destare l'ammirazione dei principi e lo stupore dei popoli.

Siccome i discorsi per la maggior parte venivano preparati al tavolo, così i manoscritti servirono immediatamente ad una ulteriore diffusione e pubblicazione dei medesimi. Per converso, ai grandi improvvisatori bisognava tener dietro facendo uso della stenografia.[500] — Inoltre non tutte le orazioni che possediamo, erano destinate alla recitazione; per esempio, il panegirico di Beroaldo il vecchio per Lodovico il Moro è un lavoro, che non fu se non inviato per iscritto.[501] E a quel modo che si scrivevano lettere con indirizzi immaginari per tutte le parti del mondo, come semplici esercitazioni e formulari, od anche come scritti d'occasione, così vi [320] erano anche discorsi per circostanze affatto inventate,[502] quasi altrettanti modelli per allocuzioni a grandi dignitari, principi, vescovi e simili.


Anche per l'eloquenza la morte di Leone X (1521) e il sacco di Roma (1527) segnano il termine della decadenza. Sfuggito a stento all'eccidio della città eterna, il Giovio accenna,[503] da un punto di vista troppo ristretto, ma tuttavia con molta verità, alle cause di quello scadimento con queste parole:

«Le rappresentazioni delle commedie di Plauto e di Terenzio, una volta scuola utilissima di eleganze latine per gli illustri romani, sono sbalzate di seggio dalle commedie italiane. Il forbito oratore non trova più nè ricompense, nè onori, come prima. Per ciò gli avvocati concistoriali, ad esempio, non lavorano che i proemi dei loro discorsi, e nel resto declamano scompostamente ed a sbalzi, secondo l'impressione del momento. Anche i discorsi di circostanza e le prediche sono in gran decadenza. Se si ha da fare un'orazione funebre per un cardinale o per qualsiasi altro grande personaggio, gli esecutori testamentarii non si rivolgono al migliore oratore della città, che dovrebbero retribuire con un centinaio di monete d'oro, ma prendono [321] a pigione per poco o per nulla il primo vanitoso pedante che capita loro tra le mani, il quale non aspira ad altro, fuorchè a correre per le bocche di tutti, sia pure per essere soltanto biasimato. Il morto, si dice, non ne sa nulla, quand'anche salisse in cattedra una scimmia vestita a lutto e vi intonasse un rauco piagnisteo, che finisse in un ululato sempre più forte. Anche le prediche solenni, che si tengono in occasione delle grandi ceremonie e feste papali, non danno più alcun vero lucro; monaci di tutti gli ordini ne hanno avocato a sè il monopolio e predicano nella maniera la più grossolana. Ancora pochi anni or sono una predica di questo genere, recitata alla presenza del Papa, poteva servire di scala ad un vescovato».

[323]

CAPITOLO IX. I trattatisti latini.

All'epistolografia e all'eloquenza degli umanisti aggiungeremo qui anche le altre loro produzioni, che al tempo stesso sono più o meno riproduzioni dell'antichità.

A queste appartiene innanzi tutto il trattato sotto forma propria o di dialogo,[504] la quale ultima è stata direttamente imitata da Cicerone. Per essere abbastanza giusti con questo genere di componimento e per non respingerlo anticipatamente come una vera sorgente di noja, si devono considerare due cose. Il secolo, che usciva dal medio-evo, avea bisogno in molte questioni d'indole morale e filosofica di un organo intermediario tra esso e l'antichità, e quest'ufficio se l'appropriarono ora gli scrittori di trattati e di dialoghi. Molte cose, che in questi ci sembra luoghi comuni, erano per essi e pei [324] loro contemporanei un modo nuovo di guardare certi argomenti, sui quali nessuno, dall'antichità in poi, s'era mai pronunciato, e a cui essi non erano pervenuti senza uno sforzo lungo e faticoso. Oltre a ciò, anche la lingua (tanto la latina, che l'italiana) maneggiata con più libertà e larghezza che non nei racconti storici o nelle orazioni o nelle lettere, acquistò nei trattati una maggiore padronanza di sè e attrasse in modo speciale; tanto è vero che anche oggidì taluno di essi, specialmente gli italiani, passano come modelli di prosa eccellente. Parecchi di questi lavori furono già da noi menzionati, o saranno, per l'indole delle cose che contengono; qui non dobbiamo accennare che al genere in sè medesimo. Dalle lettere e dai trattati del Petrarca in avanti, sin verso la fine del secolo XV, prevale nella maggior parte di essi la tendenza ad appropriarsi i materiali antichi, come nell'eloquenza; ma poi tutto il genere si delinea più nettamente, specialmente nei trattati scritti in lingua italiana, e con gli Asolani del Bembo e colla Vita sobria di Luigi Cornaro giunge ad una perfezione veramente classica. A ciò senza dubbio contribuì l'essersi frattanto tutti quei materiali antichi come depositati in grandi raccolte speciali, oggimai stampate, e l'essersi quindi potuti anche i trattatisti liberare una volta per sempre da quel faticoso ingombro.

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CAPITOLO X. La Storiografia.

Necessità relativa del latino. — Studi sul medio-evo; il Biondo. — Primordi della critica. — Rapporti colla storiografia italiana.

Anche la Storiografia alla sua volta era inevitabile che cadesse nelle mani degli umanisti. Questo fatto non può non essere deplorato altamente, non appena si istituisca un paragone, sia pur rapido e superficiale, tra le storie di questo tempo e le cronache anteriori e specialmente quelle dei Villani così splendide, così ricche di vita e di colorito. Chi potrebbe negare infatti che, accanto a queste, non sembri affatto sbiadito, convenzionale e artificioso tutto ciò che fu scritto dagli umanisti e in modo particolare dai loro immediati e più celebri successori nella storiografia di Firenze, il Poggio e Leonardo Aretino? E qual senso di doloroso rincrescimento non si prova, pensando che sotto alle frasi liviane e cesariane di un Facio, di un Sabellico, di un Foglietta, d'un Senarega, d'un Platina (storia di Mantova), di un Bembo (annali di Venezia) e perfino di un Giovio (storie) se ne va perduto ogni colorito locale e individuale e si distrugge affatto quell'interesse, che nasce soltanto da una esposizione nitida e chiara degli avvenimenti! La sfiducia [326] poi cresce, quando si scorge che si cercò di imitar Livio appunto in ciò, in cui era men degno di imitazione, vale a dire,[505] nell'aver voluto «rivestire di forme splendide e seducenti una nuda ed arida tradizione»; e per ultimo si resta compiutamente disillusi, quando s'incontra la strana confessione, che la storia debba per proprio istituto allettare, eccitare e scuotere il lettore mediante tutti i lenocinj dello stile, — nè più, nè meno, come se essa dovesse fungere gli uffici della poesia. In presenza di tali fatti non si ha forse il diritto di domandare se anche il disprezzo di ogni cosa moderna, che questi stessi umanisti talvolta apertamente professano,[506] non abbia per avventura esercitato una dannosa influenza sul loro modo di trattare la storia? Certo è che il lettore involontariamente presta maggiore attenzione e fiducia ai modesti annalisti latini e italiani, che si tennero fedeli all'antica maniera, quali sono, ad esempio, quelli di Bologna e di Ferrara, e più ancora ai migliori fra i cronisti propriamente detti che scrissero in italiano, quali un Marin Sanudo, un Corio, un Infessura, che prelusero a quella schiera gloriosa di grandi storici italiani, dai quali ebbe tanto lustro il paese nei primi anni del secolo XV.

E veramente la storia contemporanea acquistava senza contrasto un più libero movimento nella lingua del paese, di quello che se costretta nelle spire dell'artificioso periodare [327] latino. Se poi anche al racconto delle cose antiche, e alle questioni erudite convenisse meglio la lingua italiana, è una questione, che per quel tempo ammette più d'una risposta. Il latino in allora era la lingua usata dai dotti non solo in senso internazionale, vale a dire tra francesi, inglesi, italiani, ecc., ma anche più strettamente in senso interprovinciale, cioè tra lombardi, veneziani, napoletani ed altri, i quali, benché nel loro modo di scrivere italiano toscaneggiassero e non conservassero quasi più traccia alcuna del loro dialetto, non giunsero però mai a guadagnarsi il suffragio, in questo riguardo assai geloso, dei fiorentini. Ora, di questo si poteva facilmente far senza quando si trattava di scrivere una storia contemporanea locale, che trovava lettori bastanti nel luogo stesso dov'era scritta, ma non altrettanto facilmente in una storia dei tempi passati, per la quale si domandava un circolo molto più esteso di lettori. In questo caso bisognava assolutamente sacrificare l'interesse locale del popolo a quello più generale dei dotti. E infatti qual celebrità avrebbe acquistato il Biondo da Forlì, se avesse scritto le dotte sue opere in una lingua mezzo toscana e mezzo romagnola? Certamente queste sarebbero cadute in dimenticanza dinanzi al disprezzo de' fiorentini, mentre, scritte in latino, esercitarono una grandissima influenza su tutti i dotti dell'occidente. E ciò è così vero, che tra i fiorentini stessi nel secolo XV parecchi scrissero in latino, non tanto perchè imbevuti di umanismo, quanto perchè aspiravano ad una più facile diffusione delle loro opere.

Finalmente s'incontrano anche lavori latini di storia contemporanea, che non la cedono in nulla alle più eccellenti storie italiane. Non appena si abbandonò la esposizione oratoria degli avvenimenti fatta al modo di Livio, [328] vero letto di Procuste per tanti scrittori, questi appaiono come trasformati. Quel Platina stesso, quel Giovio, che nelle loro grandi opere storiche si dura tanta fatica a seguire, mostransi ad un tratto eccellenti nel trattar la forma biografica. Di Tristano Caracciolo, delle Biografie del Facio, della Topografia veneziana del Sabellico abbiamo già avuto occasione di parlare altrove; su altri torneremo più tardi.


Le narrazioni latine riguardanti i tempi passati riferivansi innanzi tutto e naturalmente all'antichità classica; ora, ciò che indarno si crederebbe trovare presso questi stessi umanisti, e che pur si trova, sono singoli lavori di una certa importanza intorno alla storia generale del medio-evo. La prima opera di qualche rilievo in questo riguardo è la cronaca di Matteo Palmieri, che comincia dove finisce quella di Prospero d'Aquitania. Chi poi a caso aprisse le Decadi di Biondo da Forlì, stupirebbe di trovarvi una storia universale ab inclinatione Romanorum imperii, come in Gibbon, piena di studi fatti sulle fonti degli autori di ogni secolo, e che nelle prime trecento pagine in folio abbraccia la prima metà del medio-evo sino alla morte di Federigo II. E tutto questo facevasi in Italia, mentre oltre l'Alpi si era ancora alle note Cronache papali e imperiali e al Fasciculus temporum. Qui non è del nostro assunto di mostrare criticamente di quali scritti il Biondo si sia giovato e dove li abbia trovati tutti riuniti; ma nella storia della moderna storiografia converrà pure che gli sia resa quando che sia piena giustizia. Già anche per questo libro soltanto si potrebbe dire a ragione, che lo studio dell'antichità fu quello, che rese possibile anche lo studio dei medio-evo, abituando per la prima volta le menti alla [329] considerazione obbiettiva della storia. Certamente s'aggiungeva anche il fatto che il medio-evo era veramente passato per l'Italia d'allora, e che tanto più facile era il riconoscerlo, in quanto si era omai fuori di esso. Veramente non si potrebbe dire con altrettanta verità, che esso sia stato giudicato con giustizia e molto meno con pietosa venerazione; poichè nelle arti si insinua un ostinato pregiudizio contro ciò che viene da esso e gli umanisti non riconoscono il principio di un'êra nuova, se non dal tempo in cui essi poterono esclusivamente prevalere.

«Io comincio, dice il Boccaccio,[507] a sperare ed a credere, che Dio abbia avuto pietà del nome italiano, dopochè veggo che la sua inesaurabile bontà mette nel petto degli Italiani anime, che somigliano a quelle degli antichi in quanto cercano la gloria per altre vie, che non sieno le rapine e le violenze, vale a dire sul sentiero della poesia, che rende immortali». Ma questo modo di vedere ristretto ed ingiusto non impediva agli uomini più altamente dotati di approfondire l'investigazione critica in un tempo, in cui nel resto d'Europa non se ne parlava nemmeno; e si formò pel medio-evo una critica storica appunto per questo, che la trattazione razionale di qualsiasi argomento doveva tornar buona agli umanisti anche per questa materia storica. Nel secolo XV essa penetra ormai in tutte le storie delle singole città per guisa tale, che le posteriori [330] leggende favolose della storia primitiva di Firenze, Venezia, Milano ecc. svaniscono, mentre le Cronache del nord ancora per lungo tempo sono costrette a trascinarsi innanzi colle loro narrazioni fantastiche inventate sino dal secolo XIII e prive per la maggior parte di qualsiasi valore.

Dell'intima attinenza della storia locale col sentimento di gloria, che era sì profondo nel secolo XV, abbiamo già toccato più sopra, parlando di Firenze (pag. 102 e segg.). Venezia non volle restare addietro, e, come già subito dopo un grande trionfo di un oratore fiorentino[508] un ambasciatore veneziano in tutta fretta eccitò il suo governo a spedire anch'esso un proprio oratore, così ora i veneziani sentirono il bisogno di una storia, che potesse reggere al paragone di quelle di Leonardo Aretino e del Poggio. E fu appunto da tal bisogno che nacquero nel secolo XV le Decadi del Sabellico, e nel XVI la Historia rerum venetarum di Pietro Bembo, opere che furono scritte ambedue per espresso incarico della Repubblica, l'ultima quale continuazione della prima.


Del resto s'intende da sè che i grandi storici fiorentini del principio del secolo XVI (v. pag. 111) sono uomini affatto diversi dai latinisti Giovio e Bembo. Essi scrivono in italiano, non solamente perchè non possono più gareggiare colla raffinata eleganza dei ciceroniani d'allora, ma anche perchè vogliono, come Machiavelli, [331] presentare sotto una forma viva ciò che essi hanno appreso da una osservazione immediata e personale,[509] e perchè hanno a cuore, come il Guicciardini, il Varchi e la maggior parte degli altri, che il loro modo di guardar le cose s'allarghi quanto più sia possibile. Perfino quando essi scrivono per un numero ristretto d'amici, come fece Francesco Vettori, sentono un bisogno irresistibile di dichiarare la parte che presero negli avvenimenti, e di giustificare così il loro interessamento per gli uomini e le cose, che vengono ricordando.

Tuttavia in mezzo a tutto questo, e in onta al carattere proprio e speciale della loro lingua e del loro stile, essi appaiono talmente compenetrati dello spirito dell'antichità, che senza di essa non si potrebbero neanche immaginare come vissuti. Non sono umanisti, ma passarono attraverso l'umanismo, e dell'antichità serbano un'impronta molto più spiccata, che non la maggior parte dei latinisti seguaci di Livio: son cittadini, che scrivono pei loro concittadini, a quel modo che facevano gli antichi.

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CAPITOLO XI. Il latinismo prevalente in ogni ramo della cultura.

Il latinismo nei nomi. — Il latinismo nelle cose. — Predominio assoluto del latino. — Cicerone e i ciceroniani. — Conversazione latina.

A noi non è permesso qui di seguir l'umanismo nelle altre scienze speciali; ognuna di esse ha la sua storia particolare, nella quale gli archeologi italiani di questo tempo, specialmente per la sostanzialità delle cose antiche da essi scoperte,[510] segnano un momento affatto nuovo e molto importante, da cui datano, più o meno spiccatamente, gli ulteriori progressi di ciascuna scienza nel tempo moderno. Anche per ciò che riguarda la filosofia, noi dobbiamo rinviare alla sua storia speciale. L'influenza degli antichi filosofi sulla cultura italiana appare talvolta immensa, talvolta assai limitata. Il primo caso ha luogo specialmente quando si consideri come le idee di Aristotele, [334] principalmente quelle contenute nell'Etica,[511] assai per tempo diffusa, e nella Politica, erano divenute un patrimonio comune di tutti i dotti d'Italia, e come tutta la speculazione filosofica fosse padroneggiata da lui.[512] Il secondo per contrario si verifica ogni volta che si voglia tener conto della scarsa influenza dogmatica degli antichi filosofi, e perfino degli stessi entusiasti platonici fiorentini, sullo spirito della nazione in generale. Ciò che si scambia comunemente per una tale influenza, non è, nel più dei casi, se non un effetto della cultura in generale, una conseguenza delle forme sociali di svolgimento dello spirito italiano. Parlando della religione, avremo occasione di soggiungere qualche altra osservazione su questo argomento. Ma nella massima parte dei casi non trattasi neppure della cultura in generale, bensì soltanto delle manifestazioni di singole persone o di dotte società, ed anche qui ad ogni momento si dovrebbe fare una distinzione tra una vera assimilazione delle antiche dottrine ed una semplice adozione portata dalla moda. Infatti per molti il culto e l'imitazione dell'antichità non era che una moda, perfino per taluni, che in essa avevano cognizioni molto serie e profonde.

Del resto non sarebbe logico il dire che tutto ciò, che ha un tal quale aspetto di affettazione nel nostro secolo, lo avesse realmente anche a quel tempo. L'uso di nomi greci e romani, per esempio, è pur sempre più bello e pregevole, che non quello dei nomi (specialmente [335] femminili) attinti ai romanzi. Dal momento che l'entusiasmo per gli eroi dell'antichità era maggiore che non pei santi del cristianesimo, non può parere strano, che le famiglie illustri preferissero di chiamare i loro figli Agamennone, Achille e Tideo,[513] e che il pittore imponesse il nome di Apelle a suo figlio e quello di Minerva a sua figlia.[514] Nè si troverà neanche fuor di ragione che, invece di un nome di casato, dal quale in generale non si voleva chiamarsi, si adottasse un nome antico ben risonante ed armonioso. Quanto poi ai nomi desunti dalla patria di taluno, e che disegnavano tutti gli abitanti di un dato luogo, senza essere ancora diventati nomi di famiglia, vi si rinunciava assai volentieri, specialmente ogni volta che il luogo si denominasse da un qualche santo; così Filippo da S. Gemignano si chiamava sempre Callimaco. Chi poi, respinto ed offeso dalla propria famiglia, seppe conquistarsi da sè una posizione al di fuori mediante la sua dottrina, avea ben diritto, fosse anche stato un Sanseverino, di ribattezzarsi orgogliosamente in Giunio Pomponio Leto. Anche la pura e semplice traduzione di un nome di lingua greca o latina (uso che fu poi adottato quasi esclusivamente in Germania) può ben essere perdonata ad una generazione, che parlava e scriveva in latino, e che tanto in prosa, quanto in verso [336] usava nomi non solo declinabili, ma di facile e dolce pronunciazione. Biasimevole invece e ridicolo fu l'uso, introdotto più tardi, di mutare un nome di persona o di casato solo per metà sino a dargli una cadenza classica od anche un nuovo senso, come quando di Giovanni si fece Gioviano o Giano; di Pietro, Pierio o Petreio; di Antonio, Aonio; di Sannazzaro, Sincero; di Luca Grasso, Lucio Crasso, e così via. L'Ariosto, che di queste debolezze ride così amaramente,[515] ebbe ancor tanto di vita da vedere imposti i nomi de' suoi eroi e delle sue eroine ad alcuni fanciulli.[516]


Anche l'uso di antiquare molti fatti della vita sociale, nomi di uffici, di istituzioni, di ceremonie e simili non deve giudicarsi con troppa severità. Sino a che si stava contenti ad un latino semplice e facile, come forse era il caso di tutti i latinisti, che vissero tra il tempo del Petrarca e quello di Enea Silvio, la cosa non fu tanto frequente, ma divenne poi inevitabile quando si cominciò a volere un latino assolutamente puro, ciceroniano. Allora le cose moderne non poterono più nella loro totalità essere espresse nello stile antico, se non ribattezzandole artificialmente. E allora i pedanti si compiacquero di chiamare i consiglieri municipali col nome patres conscripti, le monache con quello di virgines vestales, ogni santo con quello di divus o deus, mentre scrittori di gusto più raffinato, come Paolo Giovio, probabilmente [337] non ricorrevano a simili travestimenti se non quando era impossibile il fare diversamente. Ma appunto perchè il Giovio lo fa naturalmente e senza mettervi nessuna speciale importanza, in lui offende meno che in altri il sentir chiamare senatores i cardinali, princeps senatus il loro decano, Dirae la scomunica,[517] Lupercalia il carnevale, e così via. Egli è appunto da questo autore principalmente che può rilevarsi con quanta cautela si debba procedere nel voler da queste semplici forme stilistiche dedurre troppo precipitose conclusioni sull'indirizzo generale del pensiero d'allora.


Non è del nostro assunto qui il tener dietro alla storia dello stile latino considerato in sè stesso e nelle varie fasi del suo sviluppo. Basterà dunque che sia notato come gli umanisti, per due secoli di seguito, abbiano continuato a condursi in modo, come se la lingua latina in generale fosse e dovesse perpetuamente restare l'unica degna di essere scritta. Il Poggio deplora[518] che Dante abbia steso il suo grande poema in lingua italiana, e d'altra parte è noto universalmente che egli avea cominciato a stenderlo in latino, avendo dapprima [338] scritto in esametri i primi canti dell'Inferno. Tutto l'avvenire della poesia italiana dipendette dal fatto, che egli abbandonò poscia questo suo primo pensiero; ma anche il Petrarca s'aspettava assai maggior gloria dalle sue poesie latine, che da' suoi sonetti e dalle sue canzoni, e pare che la tentazione di poetare in latino fosse venuta in sulle prime altresì all'Ariosto. Insomma una tirannide maggiore di questa non s'è vista mai nel campo della letteratura;[519] ma, ciò non ostante, la poesia seppe in gran parte sottrarvisi, ed oggidì noi possiam dire, anche senza peccare di soverchio ottimismo, essere stato un bene, che la poesia italiana abbia avuto a sua disposizione due lingue, poichè in entrambe essa ha dato frutti diversi ed eccellenti, e precisamente tali dal mostrar chiaramente, perchè in un luogo si sia preferita la forma latina, in un altro la italiana. Forse può dirsi altrettanto anche della prosa: la posizione e la fama mondiale della cultura italiana era vincolata a questa condizione, che alcuni argomenti dovessero essere trattati nella lingua allora universale — urbi et orbi, —[520] mentre la prosa italiana ebbe i suoi migliori cultori appunto in coloro, i quali ebbero a lottare con sè medesimi per non scrivere in latino.

Lo scrittore, che sino dal secolo XIV passava senza contrasto come il modello più perfetto della prosa latina, era Cicerone. Ciò non era soltanto l'effetto di un'intima [339] persuasione che egli fosse unico nell'arte di scegliere le parole, di disporre i periodi e di ordinare le varie parti di una composizione, ma discendeva anche naturalmente dal fatto che in lui l'amabilità dell'epistolografo, la magniloquenza dell'oratore e la nitida perspicuità del filosofo mirabilmente si confacevano coll'indole dello spirito italiano. Già ancora al suo tempo il Petrarca aveva riconosciuto appieno il lato debole di Cicerone come uomo e come politico,[521] ma egli nutriva per esso troppa venerazione, per mostrarsi lieto di una tale scoperta; e dal suo tempo in poi, l'epistolografia in prima e in seguito tutti gli altri generi di composizione, eccettuato soltanto il narrativo, non avean preso altro modello, fuorchè Cicerone. Tuttavia il vero ciceronianismo, che non si permetteva nè una frase, nè una parola che non fosse nei libri del grande maestro, non comincia che verso la fine del secolo XV, dopochè gli scritti grammaticali di Lorenzo Valla aveano fatto il giro di tutta Italia, e dopochè si erano già vedute e raffrontate le testimonianze degli storici della letteratura latina.[522] Allora soltanto si cominciò ad esaminare colla più scrupolosa esattezza le diverse gradazioni dello stile nella prosa degli antichi, e si finì pur sempre colla beata persuasione che Cicerone solo fosse il modello perfetto, o, se si voleva abbracciare in uno tutti i generi, «che l'epoca soltanto di Cicerone meritasse il nome di immortale e quasi [340] celeste».[523] Fu allora che si videro un Pietro Bembo, un Pierio Valeriano e molti altri non preoccuparsi d'altro, fuorchè di imitare un sì grande esemplare: fu allora che s'inginocchiarono dinanzi a Cicerone anche taluni dei più restii, che si erano formati uno stile arcaico studiando gli autori più antichi;[524] fu allora che Longolio, dietro i consigli del Bembo, per cinque interi anni non lesse altro scrittore che Cicerone, e poscia fe' voto di non usare nessuna parola che non fosse stata usata da quel sommo; e questo entusiasmo fu appunto quello che poi diede origine alle grandi dispute letterarie, che arsero tra Erasmo e Scaligero il vecchio e i loro seguaci.

Imperocchè anche gli ammiratori di Cicerone non erano poi tutti così esclusivi da riguardarlo come l'unica fonte della lingua. Ancora nel secolo XV il Poliziano ed Ermolao Barbaro osarono di animo deliberato tentare una forma tutta loro propria e particolare,[525] naturalmente basandosi sopra una cognizione del latino «affatto eccezionale», e a questa stessa meta aspirò pure colui, che ci narrò i loro tentativi. Paolo Giovio. Egli ha pel primo e con uno sforzo indicibile espresso in lingua latina una quantità di pensieri moderni, specialmente in argomenti d'indole estetica, e, se non sempre vinse tutte le difficoltà, [341] gli si deve però assai di frequente la lode di una certa vigoria ed eleganza. I ritratti latini, che egli ci dà dei grandi pittori e scrittori di quel tempo,[526] contengono spesso tratti di una finitezza perfetta accanto ad altri informi e pessimamente riusciti. Anche Leone X, che riponeva tutta la sua gloria in questo, ut lingua latina nostro pontificatu dicatur facta auctior,[527] inchinò ad una forma di latinità abbastanza larga e niente affatto esclusiva, come era da aspettarsi dall'indirizzo piuttosto sensuale di tutta la sua vita; a lui bastava che tutto ciò, che dovea udire o leggere, avesse un colorito di schietta, vivace ed elegante latinità. Infine Cicerone non poteva servire di modello per la conversazione latina, e sotto questo riguardo bisognava pur scegliere, accanto a lui, altri idoli da adorare. Questa lacuna fu colmata dalle rappresentazioni abbastanza frequenti in Roma e fuori di Roma delle commedie di Plauto e di Terenzio, le quali agli attori offrivano un esercizio utilissimo nel latino, come lingua di società. Ancora sotto Paolo II il dotto cardinale di Teano (probabilmente Nicolò Fortiguerra da Pistoia) è lodato[528] per essersi accinto alla lettura dei lavori di Plauto allora molto imperfetti e mancanti perfino dell'elenco dei personaggi, e per aver [342] chiamato l'attenzione dei dotti sui tesori di lingua che vi stanno racchiusi; e può ben darsi che da lui sia partito il primo impulso alla rappresentazione di quelle commedie. Più tardi la cosa stessa trovò un caldissimo fautore in Pomponio Leto, che non disdegnò di far le parti di direttore della scena, quando negli atrii dei palazzi dei grandi prelati le stesse commedie venivano rappresentate.[529] L'essersi poi intorno al 1520 smesse tali rappresentazioni parve al Giovio, come vedemmo (p. 320), una della cause dello scadimento dell'eloquenza.

Concludendo diremo, che il ciceronianismo nella letteratura corse le stesse vicende che il vitruvianismo nel campo dell'arte. E in ambedue ì casi si manifesta quella legge generale dell'epoca del Rinascimento: che il moto nella cultura di regola precede il moto analogo nell'arte. La distanza del tempo tra l'un fatto e l'altro potrebbe per avventura calcolarsi di due decennii, non più, se si computa dal cardinale Adriano da Corneto (1505?) sino ai primi vitruviani assoluti.

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CAPITOLO XII. La nuova poesia latina.

L'epopea tratta dalla storia antica; l'Africa. — Poesia mitica. — Epopea cristiana: il Sannazzaro. — Introduzione di elementi mitologici. — Poesia storica contemporanea. — Poesia didattica; il Palingenio. — La lirica e i suoi limiti. — Odi per santi. — Elegie e simili. — L'epigramma. — La poesia maccaronica.

Finalmente il maggior vanto degli umanisti è la nuova poesia latina. Noi dobbiamo toccare anche di questa, almeno per quanto essa può esserci di aiuto a dare una caratteristica completa dell'umanismo.

Quanto favorevole le fosse l'opinione pubblica e quanto vicina fosse la sua definitiva vittoria, è stato già mostrato più sopra (v. pag. 237). Ora si può anche in anticipazione andar persuasi, che la nazione più colta e più civile del mondo d'allora non può certamente, per semplice capriccio e quasi senza coscienza di ciò che faceva, aver rinunciato ad una lingua quale era l'italiana. Se dunque vi rinunciò, deve esservi stata spinta da una causa ben più forte e potente.

Questa fu l'ammirazione per l'antichità. Come ogni schietta e sincera ammirazione, essa produsse necessariamente l'imitazione. Questa non manca, è vero, anche in altri tempi e presso altri popoli; ma in Italia soltanto [344] verificaronsi le due condizioni indispensabili per l'esistenza e per l'ulteriore sviluppo della nuova poesia latina; vale a dire, una favorevole disposizione di tutta la parte più colta della nazione, ed un parziale risveglio dell'antico genio italico nei poeti stessi, quasi eco prolungato di un'antica armonia. Ciò che di meglio nasce in tal modo, non è più imitazione, ma creazione vera e originale. Chi nelle arti non sa tollerare qualsiasi imitazione di forme, chi o non apprezza l'antichità in sè stessa o la ritiene assolutamente inarrivabile e inimitabile, chi finalmente non si sente disposto di usare nessuna indulgenza con poeti, che più d'una volta si trovarono costretti o a cercare da sè, o a indovinare una moltitudine di quantità sillabiche, non si metta allo studio di questo genere di letteratura. Anche le produzioni le più perfette non sono fatte per affrontare gli attacchi di una critica assoluta, ma solo per procurare un'ora di sollievo al poeta e a molte migliaia de' suoi contemporanei.[530]

Pochissima fortuna ebbe l'epopea desunta da tradizioni o leggende antiche. Le condizioni essenziali per una vera poesia epica non si riscontrano nemmeno, per consenso di tutti, negli antichi epici romani, anzi neppure nei greci, se si prescinda da Omero: come avrebbero esse potuto trovarsi nei latinisti del Rinascimento? Ciò non ostante, l'Africa del Petrarca sembra aver trovato lettori e ammiratori in tal numero, da lasciarsi addietro in questo riguardo qualsiasi epopea del tempo moderno. Per verità lo scopo e il movente del poema non potevano non destare il più vivo interesse. Il secolo XIV [345] riconobbe assai giustamente nella seconda guerra Punica il momento più splendido della grandezza e potenza romana, e questo appunto fu ciò che si propose di cantare il Petrarca. Se Silio Italico fosse stato scoperto a quel tempo, forse egli avrebbe scelto un altro soggetto; ma non conoscendosi ancora quell'antico, l'apoteosi di Scipione Africano il vecchio pareva sì bel tema agli uomini del secolo XIV, che già un altro poeta, Zanobi della Strada, s'era proposto di trattarlo e vi avea già posto mano, quando, udendo che se ne occupava il Petrarca, per sentimento di rispetto a questo grande se ne ritrasse.[531] Se il poema dell'Africa avesse avuto bisogno di una giustificazione, questa le si aveva nel fatto, che in quel tempo ed anche più tardi l'entusiasmo per Scipione era tale, che lo si collocava al di sopra di Alessandro, di Pompeo e di Cesare.[532] Quante fra le moderne epopee possono gloriarsi di un soggetto pel loro tempo così popolare, così nella sostanza storicamente vero e tuttavia rivestito di tanto prestigio mitico? Non v'ha dubbio, del resto, che oggidì il poema per sè stesso riesce illeggibile. Perciò che riguarda altri soggetti storici, noi dobbiamo rinviare i lettori alle storie letterarie propriamente dette.


Più largo campo si offriva a chi, poetando, prendeva a trattare qualche mito o leggenda antica, per riempire qualche lacuna lasciatavi da altri. A ciò si accinse assai [346] presto la poesia italiana e propriamente per la prima volta colla Teseide del Boccaccio, che è riguardata come il suo migliore lavoro poetico. Sotto Martino V Maffeo Vegio aggiunse un tredicesimo libro all'Eneide di Virgilio, e poscia si ha un buon numero di tentativi minori, ad imitazione specialmente di Claudiano, quali una Meleagriade, una Esperiade ecc. Ma in ispecial modo notevoli sono i miti nuovamente inventati, coi quali si popolarono le più belle regioni d'Italia di una moltitudine di divinità, di ninfe, di genii ed altresì di pastori, appunto perchè a quest'epoca era invalso di accompagnar sempre l'elemento epico col bucolico. Più tardi ci si offrirà occasione di notar nuovamente come, dal Petrarca in poi, nelle egloghe, tanto di forma narrativa, che dialogica, la vita pastorale sia rappresentata quasi sempre[533] in modo affatto convenzionale, e come espressione di sentimenti e fantasie di qualsiasi specie; qui non se ne tocca che in relazione ai nuovi miti, cui diede origine. E questi, meglio d'ogni altra cosa, ci rivelano il doppio significato che ebbero nell'epoca del Rinascimento le antiche divinità, le quali da un lato rappresentano le idee generali e rendono quindi inutili le figure allegoriche, dall'altro costituiscono un elemento affatto libero ed indipendente di poesia, un tipo di bellezza neutrale, che può essere innestato in ogni creazione poetica e passare per mille e sempre nuove combinazioni. Il primo a darne arditamente l'esempio fu il Boccaccio col suo mondo immaginario di Dei e di pastori dei dintorni di Firenze nel Ninfale d'Ameto e nel [347] Ninfale fiesolano, ch'egli cantò in poesia italiana. Ma il capolavoro in questo genere sembra essere stato il Sarca di Pietro Bembo,[534] nel quale si narrano gli amori del dio di quel fiume colla ninfa Garda, lo splendido convito nuziale, che ebbe luogo in una grotta del Monte Baldo, i vaticinii di Manto, figlia di Tiresia, sulla nascita di un figlio, il Mincio, sulla fondazione di Mantova e sulla fama avvenire di Virgilio, figlio del Mincio e della ninfa di Andes, Maia. A questi concetti, barocchi invero, ma propri dell'epoca, il Bembo diede una splendida cornice di versi, che si chiudono con un apostrofe a Virgilio, che ogni miglior poeta accetterebbe per sua. — Comunemente tutto ciò si riguarda come nulla più che vuota declamazione e ci si passa sopra con parole di scherno: noi non intendiamo d'intavolare polemiche a questo riguardo; diremo soltanto: è questione di gusto, e come tale è lecito ad ognuno avere su di essa un'opinione sua propria.


Accanto ai menzionati, non mancano neanche vasti poemi epici in esametri di argomento biblico e religioso. Non è da credere che con questi gli autori avessero sempre in mira di promovere l'incremento della Chiesa o di procacciarsi il favore dei Papi; ma sembra invece che tutti, grandi e piccoli, buoni e cattivi (tra questi ultimi va certamente annoverato Battista Mantovano, autore di un poema intitolato Parthenice), sieno stati animati [348] da un sentimento, lodevole invero, di servire colle dotte loro poesie latine alla religione, ciò che era veramente in piena armonia col modo quasi pagano, che allora prevaleva, di considerare il cattolicismo. Giraldo ne nomina un numero ragguardevole, ma tra essi emergono di gran lunga il Vida colla sua Cristiade e il Sannazzaro co' suoi tre libri De partu Virginis. Il Sannazzaro sorprende coll'onda equabile e maestosa del verso, nel quale egli intreccia un mondo di cose cristiane e pagane, col vigore plastico delle descrizioni, colla squisitezza perfetta del lavoro; nè certamente egli avea motivo di temere il paragone, quando nel canto dei pastori al presepio innestò alcuni versi della quarta egloga di Virgilio. Innalzandosi nelle regioni dell'ideale e nel mondo degli spiriti, egli ha qualche tratto che arieggia i sublimi ardimenti danteschi, quale è, per esempio, il canto e la profezia del re Davidde nel Limbo de' patriarchi, o la pittura dell'Eterno, che siede sul trono avvolto nel suo gran manto tempestato delle figure elementari di tutti gli esseri, in atto di parlare agli spiriti celesti. Altre volte egli non si perita di innestare al suo soggetto l'antica mitologia, senza per questo cader nel barocco, perchè le divinità pagane non sono per lui che come la cornice del quadro, nè egli assegna mai ad esse veruna parte principale nel suo poema. Chi desidera formarsi un concetto intero e adeguato di quanto abbia potuto l'arte a quel tempo, non deve trascurar di leggere un lavoro come questo. Il merito poi del Sannazzaro parrà tanto maggiore anche per questo, che d'ordinario la mescolanza di elementi pagani e cristiani stuona assai più facilmente nella poesia, che nelle arti figurative: queste ultime infatti ponno del continuo compensar l'occhio colla vista di qualche determinata e materiale bellezza, [349] e in generale non sono così schiave del contenuto sostanziale dei soggetti che trattano, come la poesia, mentre l'immaginazione in esse s'arresta piuttosto alla forma, nella poesia invece penetra direttamente nella sostanza. Il buon Battista Mantovano nel suo «Calendario festivo»[535] avea tentato un altro espediente; che era appunto quello di porre gli Dei e i Semidei del paganesimo in pieno contrasto colla storia sacra, come facevano i Padri della Chiesa, anzichè introdurli a far parte della medesima. Così mentre l'angelo Gabriele scende a Nazaret apportatore della grande novella alla Vergine, Mercurio si stacca dal Carmelo e lo insegue sino a spiarne il saluto sul limitare della cella benedetta; vola quindi ad informare gli Dei raccolti in solenne radunanza e li induce col suo racconto ai propositi più feroci. Ma anche con questo metodo egli si trova altre volte costretto[536] a far sì che Tetide, Cerere, Eolo ed altre divinità spontaneamente s'arrendano a riconoscere la superiorità della Vergine.

La fama del Sannazzaro, la moltitudine de' suoi imitatori, l'omaggio tributatogli dei più grandi dell'epoca sono circostanze, che mostrano ad evidenza quanto egli fosse caro e necessario al suo secolo. Anche in servigio della Chiesa egli sciolse vittoriosamente, proprio sul cominciare della Riforma, il problema: se fosse possibile poetare cristianamente e conservarsi ligi nel tempo stesso alle tradizioni classiche; e tanto Leone, quanto Clemente gliene attestarono altamente la loro riconoscenza.


Per ultimo fu cantata in esametri o in distici anche la storia contemporanea, ora sotto forma narrativa, ora [350] a guisa di panegirico, e d'ordinario sempre in lode di qualche principe o di qualche famiglia principesca. Così ebbero origine una Sforziade, una Borseide, una Borgiade, una Triulziade e simili, ma veramente nessuna raggiunse il suo scopo, poichè se alcuni dei lodati rimasero celebri ed immortali nella storia, non dovettero certo la loro celebrità a questa specie di poemi, contro i quali ci fu sempre un'invincibile ed universale avversione, anche se scritti da buoni poeti. Un effetto molto diverso produssero invece alcuni poemetti minori, stesi senza pretensione alcuna a guisa di episodi della vita di qualche uomo celebre, come per esempio la descrizione delle «Cacce di Leone X» presso Palo[537] e «il Viaggio di Giulio» di Adriano da Corneto (v. pag. 162). Splendide descrizioni di cacce di questa specie ci lasciò pure, tra molti altri, Ercole Strozza, ed è veramente deplorevole che i lettori moderni ricusino di gettarvi gli occhi, disgustati da quel fondo di adulazione che ci sta sotto e che traspare ad ogni tratto. Eppure la maestria del lavoro e la importanza storica, talvolta non piccola, di queste poesie assicurano ad esse una vita più lunga di quella, cui possono aspirare parecchie poesie del nostro tempo ora abbastanza in voga.

In generale queste composizioni sono di tanto migliori, quanto meno contengono di elementi patetici ed ideali. Vi sono taluni poemetti epici di celebri maestri, che, sotto un cumulo enorme di allusioni mitologiche, producono un effetto altamente ridicolo e comico, certamente [351] contro la intenzione dei loro autori. Tale, per esempio, è «l'Epicedio» di Ercole Strozza[538] per la morte di Cesare Borgia (v. pag. 154). In esso si ode il lamento di Roma, che aveva posto tutte le sue speranze nei papi spagnuoli Calisto III ed Alessandro VI e poi aveva riguardato Cesare come il promesso suo liberatore, e si leggono le gesta di quest'ultimo sino alla catastrofe dell'anno 1503. Poscia il poeta chiede alla sua Musa, quale in quel momento fosse stato l'alto consiglio dei Dei[539], ed Erato narra che nell'Olimpo Pallade si era dichiarata per gli spagnuoli, Venere per gli italiani; ambedue abbracciarono le ginocchia di Giove, ed egli, baciatele in viso, le pacificò e protestò che non potea nulla contro il destino ordito dalle Parche, ma che, ciò non ostante, le promesse degli Dei s'adempirebbero per opera del fanciullo nato dall'unione delle due case Borgia ed Este[540]; e, dopo aver narrato la storia antichissima e favolosa di ambedue le famiglie, confessa di non poter dare a Cesare il dono dell'immortalità, come non potè darlo una volta, in onta ad autorevoli preghiere, nè a Memnone, nè ad Achille; conclude però col dire, quasi a conforto del poeta, che Cesare prima di morire avrebbe fatto grande strage, guerreggiando, de' suoi nemici. Allora Marte scende a Napoli e prepara la guerra, ma Pallade s'affretta a Nepi e appare quivi all'infermo Cesare sotto [352] la forma di Alessandro VI, e, dopo averlo ammonito a rassegnarsi e a star contento alla gloria che già circonda il suo nome, la Dea travestita da Papa scompare «a guisa di uccello».

Ciò non ostante, si rinuncia senza necessità ad un piacere talvolta assai grande se si respinge a priori tutto ciò che, più meno a proposito, contiene qualche sprazzo di mitologia, poichè anche la poesia non poche volte ha saputo nobilitare questo elemento, al pari della pittura e della scultura. E pei dilettanti del genere non mancano neanche i primi saggi della parodia (v. pag. 216) tentati nella «Maccaroneide», alla quale poi nell'arte fa degno riscontro la «Festa degli Dei» di Giovanni Bellini.

Talune poesie narrative in esametri sono anche semplici esercitazioni o rifacimenti di relazioni in prosa, che il lettore probabilmente preferirà ogni qualvolta le trovi. E da ultimo si finì, come è noto, col mettere in versi ogni cosa, e ciò anche da parte degli umanisti tedeschi dell'epoca della Riforma.[541] Ma si andrebbe molto errati, se tutto questo si attribuisce soltanto ad abbondanza di ozi agiati ed a soverchia smania di poetare. Negli Italiani almeno c'è sempre troppa cura di ripulire e perfezionare la forma, della quale essi avevano un senso squisito e profondo, come lo prova la moltitudine enorme che si ha contemporaneamente di relazioni, di storie e di opuscoli in terzine. Appunto come Nicolò da Uzzano, per produrre maggiore effetto, fuse in questo metro non facile del verso italiano il suo manifesto per una nuova costituzione politica, e il Machiavelli il suo prospetto della storia contemporanea, e un terzo la vita del Savonarola, e un quarto l'assedio di Piombino per opera di Alfonso [353] il Magnanimo,[542] non deve far meraviglia che altri potessero aver bisogno dell'esametro, per incatenar meglio l'attenzione di un pubblico al tutto diverso.

Ciò che sotto questa forma si era disposti a tollerare o ad esigere, scorgesi con piena evidenza dalla poesia didattica. Questa nel secolo XVI ebbe uno sviluppo straordinario e maraviglioso, e cantò in esametri l'alchimia, il giuoco degli scacchi, l'arte della seta, l'astronomia, la lue venerea e mille altre cose, alle quali sono da aggiungere anche parecchi estesi poemi italiani. Oggidì è moda di condannar tali poemi senza neanche darsi la briga di leggerli, e per verità noi stessi non sapremmo dire sino a qual punto essi meritino effettivamente di esser letti.[543] Ad ogni modo però egli è certo, che epoche senza paragone superiori alla nostra per retto senso del bello, quali appunto furono la greca (dei tempi più tardi) e la romana, nonchè questa del Rinascimento, non credettero di poter far senza neanche di questa forma speciale di poesia. Ma si potrebbe anche rispondere, che non la mancanza dì gusto estetico, bensì una maggiore serietà nella trattazione delle materie scientifiche è quella che ne tien lontana oggidì la forma poetica; su di che non volendo ridire, noi crediamo miglior partito lasciare ad ognuno la propria opinione.

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Una di queste opere didattiche si vede ancora oggidì qua e colà ristampata, ed è lo Zodiaco della vita di Marcello Palingenio, segreto seguace delle dottrine protestanti in Ferrara. Alle più sublimi questioni intorno a Dio, alla virtù, all'immortalità, l'autore congiunge la trattazione di molti punti della vita pratica, ed è da questo lato un'autorità non dispregevole per la storia della morale. Nel complesso però il suo poema si distacca da tutti gli altri congeneri dell'epoca del Rinascimento, come anche, in ordine al suo scopo seriamente istruttivo, l'allegoria ne esclude quasi affatto la mitologia.


Ma il genere, nel quale i poeti filologi s'accostarono, più che in qualsiasi altro, all'antichità, è la lirica, e in modo speciale poi l'elegia, e, dopo questa, altresì l'epigramma.

Nel genere leggero Catullo esercitò un vero fascino sugli Italiani. Più di un elegante madrigale latino, e non poche brevi invettive o maliziosi biglietti potrebbero dirsi vere trascrizioni da lui senza quasi mutamenti di sorta, e la morte di qualche cagnolino o pappagallo è pianta colle stesse parole e con lo stesso ordine di pensieri, con cui egli pianse il passero di Lesbia. Ma vi sono anche altre brevi poesie, che, pur mantenendosi originali nel concetto, potrebbero trarre in inganno il più esperto conoscitore, quanto alla forma, e delle quali non si saprebbe precisar l'epoca, se il contenuto non le dimostrasse indubbiamente lavori dei secoli XV e XVI.

Per contrario nelle odi di metro saffico od alcaico ecc. non se ne troverebbe forse una sola, che in un modo o nell'altro non rivelasse come che sia la sua origine moderna. Ciò accade per lo più in causa di una certa [355] loquacità rettorica, che negli esemplari antichi non s'incontra se non per la prima volta in Stazio e per una mancanza assoluta di nerbo lirico, quale sarebbe domandato da questa specie di poesia. In una ode qualunque potranno, è vero, incontrarsi singoli tratti, talvolta anche due o tre strofe di seguito, di tal fattura da crederle frammenti di qualche antico, ma l'illusione non va più in la, e il colorito muta subito dopo. E se non muta, come per esempio nella bella ode a Venere di Andrea Navagero, vi si riconosce tosto una copia di qualche capolavoro antico.[544] Alcuni scrittori di odi prendono a soggetto il culto che si presta ai santi e modellano con molto gusto le loro invocazioni su quelle di Orazio e di Catullo di genere somigliante. Tale è il Navagero nell'ode all'arcangelo Gabriele, e tale in modo particolare il Sannazzaro, che nell'adottare i riti del culto pagano va più innanzi di ogni altro. Egli celebra sopra ogni altro il suo santo onomastico,[545] al quale aveva dedicato un tempietto nella sua splendida villa di Posilipo, «colà dove i fiotti del mare si confondono colle acque che sgorgano dalla rupe, e si frangono alle mura del piccolo santuario». Per lui non v'è gioja maggiore della festa annua di S. Nazzaro, e le frondi e i fiori, di cui in questo giorno, più che di consueto, s'adorna il piccolo tempio, figurano nella sua fantasia gli antichi sacrifici. Anche fuggiasco in compagnia dell'espulso Federigo d'Aragona, sulle rive dell'Atlantico e alle foci della Loira, egli non dimentica nel suo giorno onomastico di [356] appendere al suo santo, con l'angoscia nel cuore, ghirlande sempre verdi di bosso e di quercia, e rammentando con desiderio gli anni trascorsi, nei quali tutta la gioventù di Posilipo accorreva sulle sue navicelle a rallegrar quella festa, fa voti pel suo ritorno.[546]

Antiche al punto da produrre una perfetta illusione sono poi più specialmente alcune poesie di metro elegiaco, od anche in semplici esametri, ma che appartengono pel loro contenuto a questo genere, passando dall'elegia in giù per tutte le possibili gradazioni sino all'epigramma. Siccome gli umanisti si erano molto famigliarizzati colla lettura dei poeti elegiaci romani, così si sentirono anche incoraggiati ad imitarli preferibilmente ad ogni altro. L'elegia del Navagero «alla Notte» ribocca d'ogni parte di reminiscenze di quegli antichi esemplari, ma al tempo stesso ha nell'insieme un colorito che seduce ed affascina. In generale egli si mostra innanzi tutto molto accurato nella scelta di concetti veramente poetici,[547] e poi li traduce, non servilmente, ma con una certa disinvoltura e maestria, nello stile dell'Antologia, di Ovidio, di Catullo od anche delle Egloghe di Virgilio: della mitologia fa un uso moderato, spesse volte soltanto per ritrarre l'immagine della vita campestre in qualche preghiera a Cerere o ad altre divinità rustiche. Un saluto alla patria, ritornando dalla sua missione in Ispagna, non fu che cominciato; ma ne sarebbe uscita [357] una splendida composizione, se il resto avesse corrisposto a questo principio:

Salve, cura Deûm, mundi felicior ora,

Formosae Veneris dulces salvete recessus;

Ut vos post tantos animi mentisque labores

Aspicio lustroque libens, et munere vestro

Sollicitas toto depello e pectore curas!

La forma elegiaca o quella dell'esametro diventano le forme di ogni elevato sentimentalismo, e vi si adattano bellamente tanto il più nobile entusiasmo patriottico (v. pag. 162 elegia a Giulio II), quanto la pomposa apoteosi dei regnanti,[548] e quanto anche la tenera e delicata melanconia di Tibullo. Mario Molsa, che nelle sue adulazioni a Clemente VII ed ai Farnesi gareggia con Stazio e Marziale, in una elegia «ai Compagni», scritta dal letto de' suoi dolori, ha dei pensieri sulla morte che si crederebbero propri di un antico qualunque, e tuttavia non sono tolti a prestito da nessuno esemplare classico. Del resto, chi meglio d'ogni altro intese il vero spirito dell'elegia romana e seppe imitarla più perfettamente fu il Sannazzaro, il quale anche è il più copioso e svariato scrittore di questo genere di poesie. — Di altre elegie avremo occasione di parlare altrove, secondochè ci cadrà in acconcio pel contenuto sostanziale delle medesime.


Per ultimo l'epigramma latino in quei tempi ha un'importanza grandissima, avvegnachè un pajo di linee ben [358] fatte, scolpite sopra un monumento o portate di bocca in bocca a provocare un sorriso, potevano benissimo creare la riputazione di un letterato. Questa tendenza è vecchia in Italia. Quando si sparse la voce che Guido da Polenta voleva innalzare sulla tomba di Dante un monumento, affluirono da tutte le parti le iscrizioni,[549] inviate «da tali che o volevano mettersi in vista, od onorare la memoria del morto poeta o procacciarsi il favore del da Polenta». Sul mausoleo dell'arcivescovo Giovanni Visconti (morto nel 1354), che esiste ancora nel Duomo di Milano, sotto trentasei esametri leggesi: «il signor Gabrio de Zamorer di Parma, dottore in ambo le leggi, ha composto questi versi». A poco a poco, prendendo a modelli Marziale e Catullo, si venne formando anche una letteratura speciale dell'epigramma; e questo raggiunse il colmo della sua gloria, quando lo si potè credere antico o copiato da qualche antica lapide,[550] quando parve di tanto buon gusto, che tutta Italia lo sapesse a memoria, come accadde di alcuni del Bembo. Così quando il governo di Venezia, per l'elogio fattegli in tre distici dal Sannazzaro, premiò quest'ultimo con un regalo di seicento ducati, a nessuno parve questa una generosità troppo spinta, perchè tutti stimarono l'epigramma per quello che realmente era nell'opinione dei dotti di quel tempo, vale a dire, la formola più breve per esprimere la gloria. Nè in allora vi fu nessuno tanto potente, che sgradisse di vedersi onorato con tal genere di componimenti, ed anche i grandi cercavano con molta sollecitudine, per ogni iscrizione che ponevano, un qualche [359] dotto consiglio, perchè gli epitaffi ridicoli correvano anche il pericolo di essere registrati in raccolte speciali destinate a provocare l'ilarità del pubblico. L'epigrafia[551] e l'epigrammatica si tenevano strettamente por mano; la prima si basava sopra uno studio accuratissimo delle antiche iscrizioni lapidarie.

La città degli epigrammi e delle iscrizioni in modo affatto speciale fu e rimase Roma. Non esistendo nello Stato pontificio l'ereditarietà del trono, ognuno doveva pensare da sè al modo di perpetuare la propria memoria: al tempo stesso poi il motto beffardo espresso in poesia diventava un'arma potente contro i rivali. Ancora Pio II enumera con compiacenza i distici, che il suo maggior poeta, il Campano, compose per qualche fortunata circostanza del suo governo. Sotto i Papi seguenti fiorì poi l'epigramma satirico, e di fronte ad Alessandro VI ed a' suoi degenerò nella maldicenza la più scandalosa. Il Sannazzaro componeva i suoi in una posizione relativamente sicura, ma altri affatto in prossimità della corte ebbero ardimenti estremamente pericolosi (v. pag. 153). Per otto distici minacciosi, che erano stati affissi alla porta della biblioteca,[552] Alessandro fece una volta rinforzare la guardia di ben ottocento uomini; ognuno può immaginare come avrebbe trattato il poeta, se gli fosse riuscito di averlo. Sotto Leone X gli epigrammi latini erano il pane quotidiano: sia che si volesse adulare al Papa o sparlarne, sia che si mirasse a vendicarsi di [360] nemici noti ed ignoti o a colpir qualche vittima, e in generale ogni qualvolta sopra un argomento di fatto o immaginario si voleva scagliare un motto, o malignare, od esprimere un sentimento di pietà o d'ammirazione, la forma prescelta era sempre quella dell'epigramma. Così nell'occasione, in cui fu esposto il celebre gruppo della Vergine con S. Anna e il bambino, che Andrea Sansovino scolpì per la chiesa di s. Agostino, non meno di centoventi furono gli epigrammi latini, che piovvero per la circostanza, non tanto per sentimento di pietà religiosa, quanto por piacenteria verso il mecenate, che aveva commesso all'artista quell'opera.[553] Egli era quel Giovanni Goritz di Lussemburgo, referendario papale alle suppliche, il quale ogni anno per la festa di S. Anna non solo faceva celebrare un servizio divino, ma dava anche un grande banchetto a tutti i letterati di Roma ne' suoi giardini situati sul pendio del colle Capitolino. In allora parve anche che valesse la pena di passare in rassegna tutta la schiera de' poeti, che cercavano fortuna alla corte di Leone, come fece con un grande poema de poetis urbanis[554] Francesco Arsillo, uomo che non avea [361] bisogno di nessuna protezione da parte del Papa o di chicchessia, e che all'occorrenza sapeva parlar francamente anche contro i propri colleghi. — Dopo Paolo III l'epigramma decade e non sopravvive che in qualche saggio isolato, mentre invece l'epigrafia continua a fiorire sino al secolo XVII, in cui anch'essa muore por soverchia gonfiezza.

Anche in Venezia questa ha una storia sua propria, alla quale possiam tenere dietro mercè gli ajuti di Francesco Sansovino nel suo libro «sulla Topografia veneziana». Un argomento perenne lo si aveva nell'uso invalso di apporre un'epigrafe (Brieve) ad ogni ritratto di doge collocato nella gran sala del palazzo ducale, epigrafe che non oltrepassa mai quattro esametri, nei quali bisognava compendiare le gesta più importanti di ciascuno.[555] Oltre a ciò, le tombe dei dogi del secolo XIV portano laconiche iscrizioni in prosa, che accennano a qualche fatto più clamoroso, e accanto ad esse pochi sonori esametri o alcuni versi leonini. Nel secolo XV si comincia a curare di più lo stile, e nel secolo XVI questo tocca alla sua ultima perfezione, dopo la quale comincia la vana antitesi, la prosopopea, l'enfasi, il fare sentenzioso, in una parola il falso ed il gonfio. Non è raro neanche il caso, in cui si rasenti la satira e si cerchi di adombrare sotto la lode diretta di un morto il biasimo indiretto di un vivo. Molto più tardi torna a ricomparire nella primitiva sua semplicità qualche epitaffio, ma in via puramente eccezionale.

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Anche le opere architettoniche e monumentali eran sempre disposte in modo da poter far luogo ad iscrizioni, talvolta ripetute in più guise, e ciò è tanto più notevole in quanto si sa che gli edifici del nord a stento lasciano un posto conveniente per collocarvi qualche epigrafe, e nei monumenti sepolcrali, per esempio, quest'ultima è relegata nei punti più esposti ad essere guasti, nelle orlature.


Ora, col sin qui detto noi non crediamo niente affatto di avere persuaso il lettore del valore intrinseco di questo genere di poesia risorto presso gl'Italiani del Quattrocento. Ma non si tratta neanche di ciò, bastando al nostro scopo di aver designato la necessità della stessa e la posizione che le compete nella storia della cultura italiana. Del resto già sin d'allora se n'ebbe una caricatura nella così detta poesia maccaronica,[556] il cui capolavoro è l'Opus macaronicorum cantato da Merlin Coccai (Teofilo Folengo di Mantova). Del contenuto sostanziale di questo poema avremo occasione di parlare ancora qua e colà; quanto alla forma — esametri ed altri versi misti di latino e di vocaboli italiani con desinenze latine, — il lato comico di essa sta essenzialmente in questo, che simili mescolanze vi figurano per entro come tanti lapsus linguae e come espettorazioni di un improvvisatore latino, che si lascia trasportare dalla foga dell'estro. Delle imitazioni fatte in Germania, mescolando insieme il latino e il tedesco, nessuna ha neanche l'ombra della spontaneità, che è nel lavoro del poeta italiano.

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CAPITOLO XIII. Caduta degli umanisti nel secolo XVI.

Accuse contro gli umanisti e loro giusto valore. — Loro sventure. — Il contrapposto degli umanisti. — Pomponio Leto. — Le accademie.

Dopochè molte gloriose generazioni di poeti-filologi sino dal principio del secolo XIV ebbero diffuso in Italia e nell'Europa occidentale il culto dell'antichità, dando un indirizzo del tutto nuovo alla cultura, all'educazione e talvolta anche alla politica, e riproducendo, secondo le loro forze, l'antica letteratura, noi vediamo tutta questa classe d'uomini cadere in profondo discredito, ed essere disprezzata in un tempo, in cui non si credeva ancora di poter far senza delle loro dottrine e del loro sapere, vale a dire, nel secolo XVI. In questo secolo infatti si continuava a parlare, a scrivere e a poetare alla loro maniera, ma nessuno personalmente voleva esser creduto della loro schiera. L'opinione pubblica li accusava di due colpe principalmente: di una sconfinata superbia e di turpi dissolutezze; alle quali l'incipiente Contro-riforma ne aggiunse ben presto una terza, quella di un'empia incredulità.

Ora, innanzi tutto si domanda: vere o non vere, perchè tali accuse non si fecero sentir prima? E se anche [364] si fecero talqualmente sentire, perchè in generale rimasero prive di effetto? Evidentemente perchè la dipendenza dai letterati, rispetto alla cognizione dell'antichità, era ancor troppo grande, e perchè essi soli n'erano i possessori, i rappresentanti e i propagatori. Ma quando colla stampa i classici ebbero una maggiore diffusione,[557] e cominciarono a moltiplicarsi ricchi e copiosi manuali e repertorii ad uso di tutti, il popolo a poco a poco si venne notevolmente scostando dagli umanisti; e quando s'avvide che, anche soltanto in parte, poteva far senza di essi, volse loro decisamente le spalle. E quell'improvviso rivolgimento colpì senza distinzione alcuna i buoni e i cattivi.

Causa prima di tali accuse furono gli umanisti stessi. Fra quanti fondarono una società qualunque, nessuno si mostrò più alieno di essi da quel senso di concordia, che occorre a tenerla unita, e nessuno vi si ribellò mai più apertamente. Quando poi cominciarono a volersi sopraffare l'un l'altro, ogni mezzo parve loro lecito, pur di riuscire allo scopo. Con una rapidità portentosa passano essi dal campo della discussione scientifica a quello dell'invettiva e della maldicenza: non si accontentano di combattere il loro avversario, ma vogliono schiacciarlo completamente. Un po' di colpa di tali eccessi può ascriversi, se si vuole, a quelli stessi che li circondano e alla posizione, nella quale si trovano: vedemmo infatti con quanta violenza l'epoca, di cui essi sono i principali rappresentanti, oscillasse incerta tra due correnti contrarie, l'amor della gloria e la tendenza al dileggio. Oltre a ciò, anche la posizione loro nella vita di ogni dì era per [365] lo più tale, da metterli in grave pensiero per la loro stessa sussistenza. E con tali disposizioni d'animo dovevano scrivere, perorare e parlare l'uno dell'altro. Le sole opere del Poggio contengono tal cumulo di bassezze, da provocare senz'altro una decisa avversione per tutti; — e queste opere del Poggio sono appunto quelle che ebbero un maggior numero di edizioni, tanto al di qua che al di là delle Alpi. Nè si deve nemmeno con troppa facilità rallegrarsi, se per avventura qua e là s'incontra qualche onesta figura, che sembri esente da qualsiasi macchia; poichè, guardando un po' più addentro, si corre pericolo di trovarsi di fronte ad altre testimonianze, che, vere o false, sono più che sufficienti a intorbidare lo splendore di quell'immagine. Il resto lo fecero le sconce poesie latine del Pontano e più ancora il suo famoso dialogo Antonius, nel quale egli scherza oscenamente sulla sua stessa famiglia. Il secolo XVI conosceva tutte queste brutture ed era stanco, senz'altro, di tollerare una classe d'uomini simili. Per maggior loro sventura poi anche il più grande poeta dell'epoca non degnò ricordarli, se non per gettar su loro a piene mani il disprezzo.[558]

Ma le accuse, che si lanciarono contro essi, non erano in generale che troppo vere. E se anche qua e colà se ne incontra taluno, che mostra in modo positivo e innegabile di non essere sordo ai dettami della moralità e della religione, questa eccezione non inferma punto la regola, sussistendo di fatto che molti, e fra essi i più celebri, erano realmente colpevoli.

Tre cose spiegano e forse mitigano in parte la loro colpa: l'eccesso delle lodi lor tributate, quando sedevano [366] al colmo del carro della fortuna; l'incertezza e la precarietà della loro vita materiale, per cui dallo splendore piombavano ad un tratto nella miseria, secondo i capricci dei loro mecenati o la malignità dei loro avversari; infine la pervertitrice influenza dell'antichità. Questa corruppe la loro morale, senza comunicare ad essi la propria, e dal punto di vista religioso influì sinistramente, inoculando nelle loro menti idee di scetticismo e di sensualismo, poichè non poteva inocularvi la credenza positiva nell'antica mitologia. Ora il danno derivò appunto da questo, che essi intesero l'antichità in modo affatto dogmatico; vale a dire, videro in essa il prototipo di qualsiasi modo di pensare e di agire. Ma che vi sia stato un secolo, che in modo affatto esclusivo abbia divinizzato il mondo antico e quanto proveniva da esso, non è un fatto da doversi ascrivere in colpa a nessuno in particolare. Esso fu una necessità storica d'ordine superiore, e tutta la cultura dei tempi posteriori e futuri è la conseguenza immediata di esso e della maniera affatto esclusiva, con cui si verificò.

La carriera degli umanisti d'ordinario era tale, che solo le tempre più forti potevano correrla senza risentirne alcun danno. Il primo pericolo veniva talvolta dai genitori, che di un figlio di precoce sviluppo volevano fare un fanciullo miracoloso,[559] colla mira di farlo entrar [367] poscia in quella classe d'uomini, che allora erano tutto. Ma i fanciulli miracolosi non vanno generalmente oltre ad un dato punto, o, se vogliono progredire, no 'l possono che a furia di sforzi faticosissimi. Inoltre la gloria e la stima, di cui erano circondati gli umanisti, potevano diventare pei giovani stessi una tentazione molto pericolosa: essi correvano il rischio di immaginarsi, «per la superbia che è connaturale all'uomo, di non aver bisogno di badar più alle cose ordinarie e comuni della vita».[560] E allora si precipitavano ciecamente colà, dove la gloria sembrava chiamarli attraverso la vicenda dei più violenti contrasti: ora docenti pubblici o privati, ora segretari o consiglieri di principi; ora fatti segno all'entusiastica ammirazione di tutti, ora derisi e vituperati; qua negli agi e nell'abbondanza, là nelle privazioni e nella miseria, e sempre e dovunque esposti a pericoli, a inimicizie mortali, implacabili. Un sapere serio e profondo con tutta facilità poteva essere soppiantato da una tintura di dottrina frivola e superficiale. Il peggio poi si era che all'umanista era quasi affatto impossibile l'avere una patria qualunque stabile e certa, mentre la sua stessa condizione lo obbligava continuamente a mutar dimora o gl'impediva di trovarsi bene un po' a lungo in qualsiasi luogo. Infatti o egli stesso s'annojava degli altri, perchè circondato di inimicizie, o gli altri si annojavano di lui, perchè desiderosi di novità (v. p. 281). Che se anche un tale stato di cose ci fa, quasi senza volerlo, andar la mente ai sofisti greci del tempo imperiale, [368] quali furono descritti da Filostrato, non v'ha dubbio però che il paragone non regge, poichè la condizione di questi ultimi era senza contrasto migliore, provveduti com'erano di maggiori agi e ricchezze o più disposti a farne senza, e in generale men tormentati dalle esigenze di un pubblico, che vedeva in loro dei dilettanti dell'arte oratoria, non dei dotti di professione. L'umanista del Rinascimento invece deve essere un erudito di prima forza e, per di più, un uomo capace di sostenere le cariche e gli uffici più disparati. S'aggiunga a questo la vita sregolata ch'egli conduce e l'indifferenza per qualsiasi sentimento di moralità, a cui si viene abituando, dopochè si vede dall'opinione pubblica già condannato a priori: arroge da ultimo l'orgoglio, senza cui caratteri simili non possono esistere e che in essi è mantenuto dal bisogno, non fosse altro, di conservarsi al di sopra del livello comune, e dal sentimento della gloria, che si alterna continuamente con quello dell'odio e del disprezzo. Essi sono la personificazione vivente di un soggettivismo, che per eccesso di forze trabocca.

Le accuse e le allusioni satiriche cominciano, come è stato già notato, assai per tempo, appunto perchè per ogni individualità un po' spiccata, per ogni specie di celebrità s'avea sempre pronto, qual correttivo, un motto arguto, un sarcasmo. Oltre a ciò gli umanisti stessi fornivano un abbondantissimo tema, al quale non s'avea che la pena di attingere. Ancora nel secolo XV Battista Mantovano, facendo la rassegna dei sette peccati capitali,[561] schiera gli umanisti con molti altri sotto al primo, la superbia. Egli li descrive quali, nella loro boriosa vanità di pretesi alunni di Apollo, incedono con aria dispettosa [369] e con affettata gravità, simili a stuolo di gru che scendono al pascolo, e tanto pieni di sè medesimi, che s'arrestano perfino talvolta a contemplare estatici la propria ombra. Ma quello che fece loro un processo in tutte le forme, fu il secolo XVI. Oltre all'Ariosto, ne fa testimonianza principalmente il loro storico, Giraldo, il cui lavoro, già composto sotto Leone X, probabilmente fu ritoccato intorno al 1540.[562] In esso sono riportati in copia strabocchevole antichi e moderni esempi della depravazione morale e della misera vita dei letterati, e in mezzo a ciò suonano accuse gravi e generali contro essi. Si parla principalmente della loro irascibilità, vanità, caparbietà e presunzione; s'incolpano di sregolatezze, di dissipazione, di eresia e di empietà; e si fa loro rimprovero di parlar senza convinzioni, di consigliare senza coscienza, stigmatizzandoli come meschini compilatori di sillabe, come vilmente ingrati verso i loro maestri, come abbiettamente servili verso i principi, che solitamente mordono dapprima in mille guise i letterati e poi li lasciano morire di fame. Finalmente il libro si chiude con una allusione alla fortunata età, in cui sulla terra non v'era ancora scienza veruna. Di tutte queste accuse una divenne ben presto la più pericolosa, quella di eresia, e Giraldo stesso fu costretto più tardi, in occasione della ristampa di un suo scritto giovanile affatto innocuo,[563] di rifugiarsi sotto il manto protettore del duca Ercole II di Ferrara, perchè omai cominciavano a prevalere quegli uomini, ai quali pareva troppo male impiegato il tempo, [370] che altri dedicava alla studio della classica antichità. Ed egli, per giustificarsi, dovette fare ogni sforzo per dimostrare che, in tempi simili, questo studio era anzi l'unico veramente innocente, perchè vôlto ad argomenti d'indole affatto neutrale.


Ma, se è dovere dello storico il cercare, accanto alle accuse, anche quelle testimonianze, nelle quali invece prevale un sentimento di benevolenza verso l'umanità, nessuna fonte certo potrà sembrare paragonabile con lo scritto spesse volte citato di Pierio Valeriane «Della infelicità dei letterati».[564] Esso fu composto sotto la triste impressione del sacco di Roma, che, colle sventure che cagionò anche ai letterati, all'autore sembra come l'ultima vendetta dell'avverso destino, che da lungo tempo li perseguitava. Pierio obbedisce quì ad un sentimento affatto naturale e giusto ad un tempo; egli non tira in campo nessuna potenza spirituale, che abbia preso a perseguitare in modo speciale questi uomini per causa del loro genio, ma narra senz'altro ciò che è accaduto e che bene spesso fu opera soltanto del caso. Egli non ha in mira di scrivere una tragedia o di far discendere i fatti da un conflitto di cause superiori, e appunto per questo si restringe ad esporre le vicende ordinarie della vita quotidiana. Così dal suo libro noi impariamo a conoscere taluni, che in tempi molto agitati perdono dapprima le loro rendite, e poscia anche i loro uffici; altri che, aspirando nello stesso tempo a più impieghi, non ne ottengono alcuno; qua un avaro sordido ed egoista, che si porta cucito addosso il suo tesoro, e che poi, derubato, muore di rammarico; altrove un venale prebendato, che [371] si consuma lentamente nel desiderio della perduta libertà. In un punto egli rimpiange la morte di qualcuno rapito dalla febbre o dalla pestilenza, e deplora ad un tempo la perdita de' suoi scritti, che andarono arsi col suo letto e colle sue vesti: in un altro ci parla della vita infelice di chi si trascina innanzi sotto il peso dell'invidia e delle minaccie de' propri colleghi: qua è uno sventurato, che soccombe al pugnale assassino di un servo rapace; là è un fuggiasco in cerca di migliore fortuna, che, sorpreso dai masnadieri, è gettato a languire nel fondo di un carcere, perchè non può pagare il proprio riscatto. Taluno è portato precocemente alla tomba da un segreto dolore per un torto ricevuto o per una umiliazione subita: ad un veneziano si spezza il cuore per la morte di un figliuoletto; fanciullo miracoloso, al quale tengon dietro ben presto la madre e uno zio, quasi che egli dovesse trascinar con sè tutta la sua famiglia. E non mancano neanche, e in numero rilevante, i suicidi, per lo più fiorentini,[565] nonchè quelli che furono vittime della vendetta di qualche tiranno. Dove, in tanta miseria, trovare uno che sia felice? E come potrà esserlo? Forse col chiudere il cuore ad ogni senso di pietà portanti mali? Uno degl'interlocutori del dialogo s'incarica di rispondere a queste domande: egli è l'illustre Gaspero Contarini, e il nome basta per farci sperare che le risposte contengano quanto di più sensato e profondo si pensava in proposito a quell'età. L'uomo felice egli lo trova in frate Urbano Valeriano da Belluno, che per lunghi anni insegnò il greco a Venezia, poi visitò la Grecia e l'Oriente, ed anche vecchio peregrinò ora in questo, ora in quel paese, senza mai essere salito in [372] groppa a un cavallo, senza aver posseduto in sua vita un quattrino, rifiutando sempre qualsiasi avanzamento ed onore, e morendo nella grave età di ottantaquattro anni senza aver mai avuto un'ora di malattia, se si eccettui soltanto quell'unica cagionatagli da una caduta. E che cosa lo differenziava tanto dagli umanisti? Essi godettero una libertà d'azione mille volte maggiore, essi ebbero una volontà loro propria, che avrebbero anche dovuto usufruttare assai più utilmente, che non abbiano fatto: il povero monaco invece, allevato nel chiostro sin dalla sua fanciullezza, visse sempre a beneplacito altrui e s'abituò a non volere se non ciò, che gli altri volevano; ma questa abitudine fu appunto quella che in mezzo ai più grandi fastidi della vita gli mantenne quella equabilità e quella serenità di spirito, colla quale influiva assai più sui suoi discepoli, che non colle sue lezioni. Questi infatti si venivano ogni dì più persuadendo, che non dipende se non da noi il far sì, che anche nell'avversa fortuna possiam trovare qualche conforto, «In mezzo alle privazioni e ai disagi egli era felice e voleva esserlo, perchè non avea contratto male abitudini, perchè non era capriccioso, nè volubile, nè incontentabile, ma sempre si mostrava soddisfatto di poco, od anche di nulla». — A questa abnegazione, se crediamo al Contarini, non erano estranei i più serii e profondi sentimenti di pietà religiosa; ma, anche guardando in lui semplicemente il filosofo, egli non ci parrà meno degno di ammirazione. — Un carattere molto affine a questo, sebbene in condizioni affatto diverse, ci presenta quel Fabio Calvi,[566] che fece un commento ad Ippocrate.

[373]

In età già molto inoltrata egli viveva a Roma, cibandosi di sole erbe «come una volta i Pitagorici», ed abitando sotto una tettoia, che ben poco si differenziava dalla botte di Diogene. Della pensione che gli pagava papa Leone, egli non pretendeva che lo stretto necessario per sè e dava il resto agli altri. Non potè, come frà Urbano, rallegrarsi di una salute costantemente florida e vigorosa, e non avrà potuto neanche, come questi, sorridere sul suo letto di morte, poichè nel sacco di Roma gli toccò, vecchio quasi nonagenario, di seguire a forza gli Spagnuoli, che intendevano di farsene pagar caro il riscatto, e poco dopo morì di fame abbandonato da tutti in un ospedale. Ma il suo nome andò salvo dall'obblio, perchè Raffaello aveva amato e onorato quel vecchio come un padre e un maestro, e s'era giovato de' suoi consigli in ogni tempo. Forse questi consigli riferivansi in modo speciale a quella restaurazione archeologica dell'antica Roma, di cui già tenemmo parola altrove (v. pag. 249); ma fors'anche a cose d'ordine molto più elevato. Chi potrebbe dire qual parte abbia avuto Fabio al concetto della Scuola d'Atene e di altre importantissime composizioni di Raffaello?


Assai di buon grado porremmo fine a questa parte del nostro lavoro con qualche interessante biografia, per esempio con quella di Pomponio Leto, se possedessimo intorno a lui qualche cosa di più che una semplice lettera di un suo discepolo, il Sabellico,[567] nella quale Pomponio a bello studio è dipinto con colori di antichità un po' troppo [374] risentiti: tuttavia suppliremo a questa lacuna col riferirne almeno qualche tratto dei più salienti. Egli discendeva illegittimamente dalla famiglia napoletana dei Sanseverino, principi di Salerno (v. pag. 335), ma non volle mai riconoscerli, e all'invito fattogli di andare a vivere con essi, rispose col celebre biglietto: Pomponius Laetus cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis non potest. Valete. Meschinissimo nell'aspetto, con occhietti piccoli e vivaci, vestito sempre in fogge strane e bizzarre, insegnando negli ultimi anni del secolo XV all'Università di Roma, egli abitava alternativamente la sua modesta casetta sul colle Esquilino o la sua villetta sul Quirinale: quivi in mezzo alle sue anitre predilette e ad un gran numero d'altri volatili, dei quali pure grandemente si dilettava, attendeva alla coltivazione di un suo poderetto, seguendo rigorosamente i precetti che trovava in Catone, in Varrone ed in Columella, e nei giorni festivi cercava un po' di spasso nella caccia o nella pesca, od anche nello starsene lunghe ore sdraiato all'ombra presso una fonte e sulle rive del Tevere. Ricchezze ed agi non curò punto, nè poco. Alieno da ogni invidia e maldicenza, non le tollerava nemmeno in chi gli stava dappresso: ma per converso parlava con molta libertà contro la gerarchia allor prevalente, e in generale passava anche come libero pensatore in fatto di religione, eccettuati però gli ultimi suoi anni. Involto nella persecuzione che Paolo II iniziò contro gli umanisti, egli era stato dal governo di Venezia consegnato al Papa; ma non per questo si lasciò mai piegare ad ignobili confessioni: dopo d'allora Papi e prelati lo ebbero caro e lo sussidiarono; e quando, nei torbidi scoppiati sotto Sisto IV, gli fu saccheggiata la casa, i danni gli furono rifusi in sì larga misura, che [375] eccedettero le perdite da lui fatte. Come insegnante, era coscienzioso sino allo scrupolo: ancor prima dello spuntare del giorno lo vedevano scendere dall'Esquilino colla sua lanterna in mano e recarsi all'Università, dove la sua scuola riboccava sempre di ascoltatori; e siccome parlando in privato balbettava alquanto, così dalla cattedra declamava con lenta circospezione, ma non senza proprietà ed eleganza. Anche i pochi suoi scritti sono dettati con molta cura. Gli antichi testi non ebbero mai un interprete più accurato e più sobrio di lui: anche dinanzi agli altri venerabili avanzi dell'antichità egli si sentiva compreso di religioso rispetto sino al punto di rimanere estatico e come fuori di sè o di prorompere improvvisamente in un pianto dirotto. Siccome egli era sempre pronto a lasciar da parte i propri studi, quando si trattava di essere utile agli altri, così era anche molto amato ed aveva sempre un gran numero di amici, e quando morì, lo stesso Alessandro VI volle che i suoi cortigiani ne seguissero la bara, che fu portata dai più illustri tra' suoi uditori: alle sue esequie in Aracoeli assistettero quaranta vescovi e tutti gli ambasciatori esteri.


Pomponio aveva introdotto a Roma e diretto la rappresentazione di alcune commedie antiche, specialmente di quelle di Plauto (v. pag. 342). Oltre a ciò, egli era solito di festeggiare ogni anno il giorno della fondazione della città con una solenne adunanza, nella quale i suoi amici e discepoli recitavano discorsi e poesie. Da queste circostanze principalmente ebbe origine e si mantenne anche più tardi quella, che poi fu detta l'accademia romana. Essa non era realmente se non una libera associazione, non legata a nessun fermo statuto: oltre alle [376] due occasioni menzionate, si riuniva[568] ogni qualvolta un protettore ve la invitava o quando accadeva di dover celebrare le lodi di qualche suo membro venuto a morire (per es. il Platina). L'uso era questo, che al mattino un prelato a ciò destinato celebrava, prima d'ogni altra cosa, la Messa: poscia Pomponio ascendeva la tribuna a recitarvi il suo discorso, e dopo di lui un altro a declamarvi qualche distico. Il solito banchetto d'obbligo, accompagnato da dispute e declamazioni, chiudeva poi qualunque festività lieta o triste, ed anche in questo gli accademici, il Platina specialmente, s'erano creati una grande riputazione di buongustai.[569] Altre volte singoli ospiti rappresentavano farse sul gusto delle Atellane. Come libera associazione e senza un programma ben definito, questa accademia si mantenne nella sua forma primitiva sino al sacco di Roma e potè contare fra' suoi soci un Angelo Coloccio, un Giovanni Göritz (v. pag. 360), e molti altri. Quanto ella abbia contribuito a far progredire la vita intellettuale della nazione, non è cosa che si possa così facilmente stabilire, come d'ordinario non si può di nessuna associazione di questa specie; tuttavia sta di fatto, che anche il Sadoleto ne fa menzione, come di una delle più care e preziose ricordanze di sua gioventù.[570] — Un numero considerevole di altre accademie sorse e morì in diverse città, secondochè ciò era reso possibile dalla fama e dall'importanza degli umanisti, che vi risiedevano, e dal favore che i ricchi e i grandi vi impartivano. Una di queste fu l'accademia di Napoli, [377] che si venne formando intorno a Gioviano Fontano, e della quale poi una parte emigrò a Lecce,[571] un'altra fu quella di Pordenone, che costituiva la corte del gran condottiere Alviano, e così via. Di quella di Lodovico il Moro e della sua speciale importanza nella corte del principe s'è già parlato altrove (v. pag. 56).

Intorno alla metà del secolo XVI queste associazioni sembrano aver subito una completa e radicale trasformazione. Gli umanisti sbalzati, anche per altre ragioni, di seggio e divenuti sospetti alla incipiente Contro-riforma, perdono la direzione delle accademie, e la poesia italiana anche in queste comincia ad occupare il posto della latina. Ben presto ogni città di una tal quale importanza ha la sua accademia, coi nomi più strani e bizzarri,[572] e con fondi propri messi insieme mediante contributi dei soci e legati. Oltre alla recitazione di poesie, si adotta in esse, alla maniera delle precedenti associazioni latine, l'uso del periodico banchetto e della rappresentazione di drammi, parte col concorso degli stessi accademici, parte sotto la loro sorveglianza coll'opera di giovani dilettanti e ben presto anche di attori pagati. Le sorti del teatro italiano, e più tardi anche dell'Opera, rimasero per lungo tempo nelle mani di queste associazioni.

FINE DEL VOLUME PRIMO.

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INDICE E SOMMARIO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL VOLUME PRIMO

Prefazione del Traduttore Pag. v
Dedica dell'Autore 1
 
PARTE PRIMA.
Lo Stato come opera d'arte.
 
I. Introduzione.
Condizioni politiche d'Italia nel secolo XIII. — La Monarchia normanna sotto Federigo II. — Ezzelino da Romano
5
II. La Tirannide Nel Secolo XIV.
Finanze e loro rapporti colla civiltà. — L'ideale di un principe assoluto. — Pericoli interni ed esterni. — Giudizio dei Fiorentini sui tiranni. — I Visconti sino al penultimo
11
III. La Tirannide Nel Secolo XV.
Interventi e viaggi degl'Imperatori. — Loro pretensioni messe in disparte. — Mancanza di uno stabile diritto ereditario. Successioni illegittime. — I Condottieri quali fondatori di Stati. — Loro rapporti coi propri Signori. — La famiglia Sforza. — Progetti del giovane Piccinino e sua caduta. — Posteriori tentativi dei Condottieri
21
IV. Le Tirannidi Minori.
I Baglioni di Perugia. — Loro interne discordie e le nozze di sangue dell'anno 1500. — Fine di questa famiglia. — Le case dei Malatesta, dei Pico e dei Petrucci
37
[380] V. Le maggiori case principesche.
Gli Aragonesi di Napoli. — L'ultimo Visconti di Milano. — Francesco Sforza e la sua fortuna. — Galeazzo Maria e Lodovico il Moro. — I Gonzaga di Mantova. — Federigo da Montefeltro, duca di Urbino. — Ultimo splendore della Corte urbinate. — Gli Estensi di Ferrara; tragedie domestiche e fiscalità. — Traffico dei pubblici ufficj, polizia e lavori pubblici. — Merito personale. — Fedeltà della capitale. — Il direttore di polizia Zampante. — Partecipazione dei sudditi al lutto di corte. — Pompa della corte. — Protezione accordata alle lettere
47
VI. Gli avversari della tirannide.
Gli ultimi Guelfi e Ghibellini. — I cospiratori. — Gli assassinj nelle Chiese. — Influenza del tirannicidio antico. — I Catilinarj. — Opinione dei Fiorentini sul tirannicidio. — Il popolo ne' suoi rapporti coi cospiratori
73
VII. Le Repubbliche.
Venezia nel secolo XV. — Gli abitanti. — Lo Stato e i suoi pericoli cagionati dalla povertà dell'aristocrazia. — Cause della sua stabilità. — Il Consiglio dei Dieci e i processi politici. — Rapporti verso i Condottieri. — Ottimismo della politica estera. — Venezia quale patria della Statistica. — Lento sviluppo della cultura. — Ascetismo ufficiale prolungato
83
VIII. Ancora delle Repubbliche.
Firenze dal secolo XIV in avanti. — Obbiettività della coscienza politica. — Dante come politico. — Firenze qual patria della Statistica; i Villani. — La Statistica dei maggiori interessi. — Valori delle monete del secolo XV. — Le forme costituzionali e gli storici. — Vizio fondamentale dello Stato toscano. — Gli uomini politici. — Machiavelli e il suo progetto di costituzione. — Genova, Siena e Lucca
101
IX. Politica estera degli Stati Italiani.
Invidia contro Venezia. — L'estero: simpatie per la Francia. — Tentativo per un equilibrio. — Intervento e conquista. — Alleanza coi Turchi. — Reazione spagnuola. — Trattazione obbiettiva della politica. — Arte diplomatica
121
X. La guerra come opera d'arte.
Le armi da fuoco. — Conoscitori e dilettanti. — Orrori guerreschi
133
[381] XI. Il Papato e i suoi pericoli.
Posizione di fronte all'estero e all'Italia. — Torbidi a Roma da Nicolò V in poi. — Sisto IV signore di Roma. — Progetti del cardinale Pietro Riario. — Il nepotismo politico in Romagna. — Cardinali di case principesche. — Innocenzo VIII e suo figlio. — Alessandro VI come spagnuolo. — Relazioni coll'estero e simonia. — Cesare Borgia e suoi rapporti col padre. — Suoi ultimi progetti. — Minacciata secolarizzazione dello Stato pontificio. — I mezzi violenti. — Gli assassinj. — Gli ultimi anni. — Giulio II restauratore del Papato. — Elezione di Leone X. — Suoi progetti pericolosi in politica. — Pericoli esterni crescenti. — Adriano VI. — Clemente VII e il sacco di Roma. — Conseguenze di esso e reazione. — Riconciliazione di Carlo V col Papa. — Il Papato della Contro-riforma
139
XII. L'Italia de' patriotti 173
 
PARTE SECONDA.
Lo svolgimento dell'individualità.
 
I. Lo Stato e l'individuo.
L'uomo nel Medio-Evo. — Il risvegliarsi della personalità. — I tiranni e i loro sudditi. — L'individualismo nelle Repubbliche. — L'esiglio e il cosmopolitismo
177
II. Perfezionamento dell'individualità.
Gli uomini multilateri. — Gli uomini universali. Leon Battista Alberti
186
III. La Gloria nel senso moderno.
Idee di Dante intorno alla gloria. — Celebrità degli Umanisti; il Petrarca. — Culto delle abitazioni. — Culto delle tombe. — Culto degli uomini celebri dell'antichità. — Letteratura della gloria universale. — La gloria dipendente dagli scrittori. — L'amor della gloria come passione
193
IV. Il motto e l'arguzia nel senso moderno.
Loro attinenze coll'individualismo. — La beffa presso i Fiorentini, la novella. — I motteggiatori e i buffoni. — I passatempi di Leone X. — La parodia nella poesia. — Teoria dell'arguzia. — La maldicenza e Adriano VI sua vittima. — Pietro Aretino quale pubblicista. — Suoi rapporti coi principi e cogli uomini celebri. — Sua religione
209
 
[382]
PARTE TERZA.
Il Risorgimento dell'antichità.
 
I. Osservazioni preliminari.
Estensione dell'idea compresa nella parola Rinascimento. — L'Antichità nel Medio-Evo. — Suo precoce risveglio in Italia. — Poesia latina del secolo XII. — Spirito del secolo XIV
231
II. Roma, la città delle rovine.
Dante, Petrarca, Fazio degli Uberti. — Le rovine esistenti al tempo del Poggio. — Flavio Biondo, Nicolò V e Pio II. — L'Antichità fuori di Roma. — Città e famiglie di derivazione romana. — Sentimenti e pretese dei romani. — Il corpo di Giulia. Scavi e restauri. — Roma sotto Leone X. — Le rovine come fonti di sentimentalismo
239
III. Autori antichi resuscitati.
Autori già noti fin dal secolo XIV. — Scoperte del secolo XV. — Biblioteche, copisti e scrivani. — La stampa. — Cenno sullo studio del greco. — Studi orientali. — Pico di fronte all'antichità
253
IV. L'umanismo nel secolo XIV.
Necessità del suo trionfo. — Parte presavi da Dante, Petrarca e Boccaccio. — Il Boccaccio primo campione dell'antichità. — L'incoronazione dei poeti
267
V. Le Università e le Scuole.
L'umanista professore nel secolo XV. — Scuole secondarie. — L'istruzione superiore privata; Vittorino. — Guarino in Ferrara. — Educazione dei principi
277
VI. I fautori dell'umanismo.
Cittadini fiorentini; il Niccoli. — Il Manetti, e i primi Medici. — Principi: i Papi da Niccolò V in avanti. — Alfonso di Napoli. — Federigo d'Urbino. — Gli Sforza e gli Estensi. — Sigismondo Malatesta
285
VII. Riproduzione dell'antichità. Epistolografia.
La Cancelleria papale. — Apprezzamento dello stile epistolare
303
VIII. L'eloquenza latina.
Indifferenza rispetto alla condizione dell'oratore. — Discorsi solenni di materia politica o in occasioni di ricevimento. — Orazioni funebri. — Discorsi accademici e allocuzioni militari. — Prediche latine. — Rinnovamento dell'antica rettorica. — Forma e contenuto; citazioni. — Concioni finte. — Scadimento dell'eloquenza
309
[383] IX. I trattatisti latini 323
X. La Storiografia.
Necessità relativa del latino. — Studi sul Medio-Evo; il Biondo. — Primordi della critica. — Rapporti colla storiografia italiana
325
XI. Il latinismo prevalente in ogni ramo della cultura.
Il latinismo nei nomi. — Il latinismo nelle cose. — Predominio assoluto del latino. — Cicerone e i ciceroniani. — Conversazione latina
333
XII. La nuova poesia latina.
L'epopea tratta dalla storia antica; l'Africa. — Poesia mitica. — Epopea cristiana; il Sannazzaro. — Introduzione di elementi mitologici. — Poesia storica contemporanea. — Poesia didattica; il Palingenio. — La lirica e i suoi limiti. — Odi per santi. — Elegie e simili. — L'epigramma. — La poesia maccaronica
313
XIII. Caduta degli umanisti nel secolo XVI.
Accuse contro gli umanisti e loro giusto valore. — Loro sventure. — Il contrapposto degli umanisti. — Pomponio Leto. — Le accademie
363

NOTE:

1.  Storia dell'Architettura di Francesco Kugler. (La prima metà del volume IV, contenente l'Architettura e la Decorazione del Rinascimento italiano, è dell'Autore).

2.  Machiavelli, Discorsi, L. I, c. 12.

3.  I regnanti e la loro corte chiamansi insieme lo Stato, e questa parola sembra essere stata usata in seguito a significare l'esistenza di un intero territorio.

4.  Höfler, Kaiser Friedrich II, pag. 39 e segg.

5.  Cento Novelle antiche, Nov. 1, 6, 20, 21, 22, 23, 29, 30, 45, 56, 83, 88, 98.

6.  Scardeonius, De urbis Patav. antiq. nel Thesaurus del Grevio, VI, III, pag. 259.

7.  Sismondi, Hist. des Républ. italiennes, IV, pag. 420; VIII, pag. 1 e segg.

8.  Franco Sacchetti, Novelle, (61, 62).

9.  Petrarca, De Republ. optime administranda, ad Franc. Carraram (Opp. pag. 372 e segg.).

10.  Solo cento anni più tardi anche la principessa è detta madre de' sudditi. Cfr. l'orazione funebre di Girolamo Crivelli per Bianca Maria Visconti, presso Muratori, XXV, col. 429. Un traslato ironico di ciò si ha nell'appellativo di mater Ecclesiae dato alla sorella di papa Sisto IV da Jacopo da Volterra (Muratori, XXIII, col. 109).

11.  Esprimendo incidentalmente il desiderio che fosse impedita in Padova la circolazione degli animali suini, perchè disgustosa alla vista e pericolosa ai cavalli, che ne adombravano.

12.  Petrarca, Rerum memorandar., l. III, pag. 460. — Si allude a Matteo I Visconti e a Guido della Torre allora regnante a Milano.

13.  Matteo Villani, V, 81, dove parla della segreta uccisione di Matteo II Visconti operata da' suoi fratelli.

14.  Filippo Villani, Istorie, XI, 101. Anche Petrarca trova i tiranni lindi e puliti «come altari in giorno di festa». — Il trionfo all'uso antico di Castracane in Lucca trovasi minutamente descritto nella sua vita scritta da Tegrimo, presso Muratori, XI, col. 1340.

15.  De Vulgari Eloquio, I, c. 12... qui non heroico more, sed plebeo sequuntur superbiam ecc.

16.  Ciò non si trova invero che in alcuni scritti del secolo XV, ma certamente dietro fantasie anteriori: L. B. Alberti, De re aedific., V, 3. — Franc. di Giorgio, Trattato, presso Della Valle, Lettere senesi, III, 121.

17.  Franco Sacchetti, Nov., 61.

18.  Matteo Villani, VI, 1.

19.  L'ufficio de' passaporti in Padova intorno alla metà del secolo XIV, come anche quelli delle bullette, trovansi descritti da Franco Sacchetti, Nov. 117. Negli ultimi dieci anni di Federico II, quando prevaleva il più rigido controllo personale, l'istituzione de' passaporti doveva esistere nel suo pieno sviluppo.

20.  Corio, Storia di Milano, fol. 247 e segg.

21.  Anche, per esempio, a Paolo Giovio: v. Viri illustres, Jo. Galeatius.

22.  Corio, fol. 272, 285.

23.  Cagnola, nell'Archiv. Stor., III, p. 23.

24.  Così Corio, fol. 286, e Poggio, Hist. Florent., IV, presso Muratori, XX, col. 290. — Di aspirazioni all'impero parlano il Cagnola, l. c., e un sonetto presso il Trucchi, Poesie italiane inedite, II, p. 118:

Stan le città lombarde con le chiave

In man per darle a voi... ecc.

Roma vi chiama: Cesar mio novello,

Io sono ignuda et l'anima pur vive;

Or mi coprite col vostro mantello ecc.

25.  Corio, fol. 302 e segg. Cfr. Ammian. Marcellin. XXIX, 3.

26.  Così Paolo Giovio: Viri illustr., Jo. Galeatius, Philippus.

27.  De Gingins: Dépêches des ambassadeurs milanais, II, pag. 200 (N. 213). Cfr. II, 3 (N. 114) e II, 212 (N. 218).

28.  Paul. Jovius, Elogia.

29.  Questa riunione di forze e d'ingegno è quella che da Machiavelli vien detta virtù, e ch'egli trova compatibile anche con la scelleratezza, come per esempio nei Discorsi, I, 10, dove parla di Settimo Severo.

30.  Intorno a ciò veggasi Francesco Vettori, Arch. Stor. VI, pag. 293 e segg. L'investitura fatta da un uomo che dimora in Germania e che d'imperatore romano non ha che il nome, non ha la forza di trasformare un ribaldo in vero signore di una città.

31.  M. Villani, IV, 38, 39, 56, 77, 78, 92; V, 1, 2, 21, 36, 54.

32.  Fu un italiano, Fazio degli Uberti (Dittamondo L. VI, cap. 5, intorno all'anno 1360) che avrebbe preteso da Carlo IV un'altra crociata in Terra Santa. Il passo è uno dei più belli del poema ed anche sotto altri punti di vista notevole. Il poeta viene allontanato dal Santo Sepolcro da un burbanzoso turcomanno:

Coi passi lunghi e con la testa bassa

Oltrepassai e dissi: ecco vergogna

Del crïstian che 'l saracin qui lassa!

Poscia al pastor (il papa) mi volsi per rampogna:

E tu ti stai, che sei Vicar di Cristo,

Co' frati tuoi a ingrassar la carogna?

Similimente dissi a quel sofisto (Carlo IV),

Che sta in Buemme a piantar vigne e fichi,

E che non cura di sì caro acquisto:

Che fai? perchè non segui i primi antichi

Cesari de' Romani, e che non siegui,

Dico, gli Otti, i Corradi e i Federichi?

E che pur tieni questo imperio in triegui?

E se non hai lo cuor d'esser Augusto,

Che no 'l rifiuti? o che non ti dilegui? ecc.

33.  Più distesamente in Vespasiano fiorentino, pag. 54. Cfr. 150.

34.  Diario ferrarese, presso Muratori, XXIV, col. 213 e segg.

35.  Haveria voluto scortigare la brigata.

36.  Annales Estenses, presso Murat. XX, col. 41.

37.  Poggii, Hist. florent. pop. l. VII, presso Muratori, XX, col. 381.

38.  Senarega, De reb. Genuens., presso Murat. XXIV, col. 575.

39.  Sono numerati nel Diario ferrarese, presso Murat. XXVI, col 203. Cfr. Pii II Comment. II, pag. 102.

40.  Marin Sanudo, Vite de' Duchi di Venezia, presso Murat. XXII, col. 1113.

41.  Varchi, Stor. fiorent. I, p. 8.

42.  Soriano, Relaz. di Roma 1533, presso Tommaso Gar. Relazione, pag. 281.

43.  Per ciò che segue conf. Canestrini nella Introduzione al tom. XV dell'Arch. Stor.

44.  Cagnola, Arch. Stor. III. pag. 28: et (Filippo Maria) da lei (Beatr.) ebbe molto texoro e dinari, e tutte le giente d'arme del dicto Facino, che obedivano a lei.

45.  Infessura, presso Eccard, Scriptor. II, col. 1911. L'alternativa che Machiavelli pone al condottiero vittorioso, veggasi nei Discorsi. I, 30.

46.  Se essi abbiano avvelenato anche l'Alviano nel 1516 e se sieno giusti i motivi addotti per ciò, veggasi uno scritto di G. Prato inserito nell'Arch. Stor. III, pag. 348. — Dal Colleoni la Repubblica si fece nominare sua erede, e dopo la sua morte avvenuta nel 1475 ordinò una formale confisca di tutti i suoi beni. Cfr. Malipiero, Annali veneti nell'Arch. Stor. VII, I, p. 224. Essa si mostrava assai soddisfatta, quando i condottieri depositavano il loro danaro in Venezia. Ibid. pag. 351.

47.  Cagnola, nell'Arch. Stor. III, pag. 121 e segg.

48.  Almeno presso Paolo Giovio nella sua Vita magni Sfortiae (Viri illustres), una delle più interessanti fra le sue biografie.

49.  Aen. Sylvius: De dictis et factis Alphonsi, op. fol. 475.

50.  Pii II Comment. I. p. 46. Cfr. 69.

51.  Sismondi X, pag. 258. Corio, fol. 412, dove lo Sforza è detto complice, perchè dalla guerresca popolarità del Piccinino temeva pericoli pe' suoi propri figli. — Storia Bresciana presso Muratori XXI, col 902 — Come si tentò nel 1466 il gran condottiere veneziano Colleoni, ci è raccontato da Malipiero, Annali veneti, nell'Arch. Stor. VII, I, pag. 210.

52.  Allegretti, Diarii Sanesi, presso Murat. XXIII, pag. 811.

53.  Orationes Philelphi, fol. 9, nell'orazione funebre per Francesco.

54.  Marin Sanudo, Vite de' duchi di Venezia, presso Murat. XXII, col. 1241.

55.  Malipiero, Annali veneti, nell'Arch. Stor. VII, I, pag. 407.

56.  Chron. Eugubinum, presso Muratori XXI, col. 972.

57.  Vespasiano fiorent. pag. 148.

58.  Arch. Stor. XXI, parte I e II.

59.  Varchi, Storia fiorent. I. pag. 242 e segg.

60.  Malipiero, Annali veneti, Arch. Stor. VII, I. pag. 498.

61.  Lil. Greg. Gyraldus, De vario sepeliendi ritu. — Ancor nel 1470 era avvenuta in questa casa una catastrofe in piccolo. Cfr. Diario ferrarese, presso Murat. XXIV. col. 225.

62.  Jovian. Pontan. De liberalitate e de obedientia, l. 4. Cfr. Sismondi X. pag. 78 e segg.

63.  Tristano Caracciolo: De varietate fortunae, presso Murat. XXII. — Jovian. Pontan. De prudentia, l. IV, de magnanimitate, l. I, de liberalitate, de immanitate. — Camillo Porzio, Congiura de' Baroni, passim. — Comines, Charles VIII, chap. 17, colla caratteristica generale degli Aragonesi.

64.  Paul. Jov. Histor. I. p. 14, nel discorso di un inviato milanese. Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 294.

65.  Petri Candidi Decembrii Vita Phil. Mariae Vicecomitis, presso Murat. XX.

66.  Furono ordinate da lui le 14 statue marmoree di Santi nel castello di Milano? — Historia der Frundsberge, fol. 27.

67.  Ciò che lo angustiava era che aliquando «non esse» necesse esset.

68.  Corio, fol. 400; — Cagnola nell'Arch. stor. III. p. 125.

69.  Malipiero, Annali veneti, Arch. Stor. VII, I, p. 216, 221.

70.  Chron. venetum, presso Murat., XXIV, col. 65.

71.  Malipiero, Ann. veneti, (Arch. Stor., VII, I, p. 492). Cfr. 481, 561.

72.  Il suo ultimo colloquio con lo stesso, genuino e notevole, presso Senarega, Murat. XXIV, col. 567.

73.  Diario ferrarese, presso Murat., XXIV, col. 336, 367, 369. Il popolo credeva, che temesse pe' suoi tesori.

74.  Corio, fol. 448. Gli effetti di questo stato di cose possono vedersi nelle Novelle e Introduzioni del Bandello, che si riferiscono a Milano.

75.  Amoretti, Memorie storiche sulla vita ecc. di Lionardo da Vinci, pag. 35 e segg., 83 e segg.

76.  Vedi i di lui sonetti presso Trucchi, Poesie inedite.

77.  Prato, nell'Arch. Stor., III, p. 298. Cfr. 302.

78.  Nato nel 1466, fidanzato ad Isabella sedicenne nel 1480, successe nella signoria nel 1484, si sposò nel 1490, morì nel 1519. Isabella morì nel 1539. I loro figli erano Federigo (1519-1540), innalzato a duca nel 1530, e il celebre Ferrante Gonzaga. Ciò che segue è tolto dalla corrispondenza di Isabella, con appendici, Arch. Stor. Append., tom. II, comunicate dal D'Arco.

79.  Franc. Vettori, nell'Arch. Stor., Append., t. VI, p. 321. — Intorno a Federigo in particolare veggasi Vespasiano fiorent. p. 132 e segg.

80.  Castiglione, Cortegiano, L. I.

81.  Ciò che segue, specialmente dagli Annales Estenses presso Muratori, XX, e dal Diario ferrarese, presso Muratori XXIV.

82.  Diario ferrarese l. c, col. 347.

83.  Paul. Jovius: Vita Alphonsi ducis nei Viri illustres.

84.  Paul. Iovius, l. c.

85.  Borso edificò tuttavia, tra le altre costruzioni, la Certosa di Ferrara, la quale può sempre dirsi una delle più belle Certose dell'Italia d'allora.

86.  In questa occasione è da menzionare anche il viaggio di Leon X, quand'era cardinale. Cfr. Paul. Iovii Vita Leonis X, libr. I. L'intendimento era meno serio e il viaggio era diretto a procurargli una distrazione e una conoscenza generale del mondo, proprio nel senso moderno. Ma nessuno d'oltr'alpe viaggiava allora con tali scopi.

87.  Iovin. Pontan. De liberalitate.

88.  Giraldi, Hecatommithi, VI, nov. I.

89.  Vasari, XII, 166. Vita di Michelangelo.

90.  Un primo esempio se ne ha in Bernabò Visconti, pag. 18.

91.  V. Capitolo 19, e nelle Opere minori, ed. Le Monnier, volume I pag. 425, col titolo Elegia 17. Senza dubbio al poeta diciannovenne la causa di questa morte (v. pag. 62) era ignota.

92.  Negli Hecatommithi del Giraldi trattasi di Ercole I, Alfonso I, Ercole II nel l. I. Nov. 8 e nel VI, Nov. 1. 2. 3. 4 e 10, il tutto essendo ancor vivi i due ultimi. — Anche nel Bandello si hanno molte narrazioni riguardanti principi suoi contemporanei.

93.  Fra le altre nelle Deliciae poetar. italor.

94.  Già menzionato ancora nel 1367, parlando di Niccolò il Vecchio, nel Polistore, presso Murat. XXIV. col. 848.

95.  Burigozzo, nell'Arch. Stor. III. p. 432.

96.  Discorsi, I, 17.

97.  De incert. et vanitate scientiar. cap. 53.

98.  Prato, nell'Arch. Stor. III. p. 211.

99.  De casibus virorum illustrium. L. II. cap. 15.

100.  Discorsi, III, 6. — Cfr. Storie fiorent. L. VIII. — La descrizione delle congiure è un'occupazione prediletta degl'Italiani sin da tempo antichissimo. Già Luitprando ce ne dà alcune, che per lo meno sono più circostanziate di quelle di qualunque altro contemporaneo del secolo X; nel secolo XI la liberazione di Messina dai Saraceni, operata per mezzo del Normanno Ruggero quivi chiamato (presso Baluz. Miscell. I, p. 184), offre l'occasione ad un racconto abbastanza caratteristico di questo genere (1060); per tacere anche del colorito drammatico, che si diede ai racconti del Vespro siciliano. La medesima tendenza si scorge notoriamente negli storici greci.

101.  Corio, fol. 333. Ciò che segue, ibid. fol. 305, 422 e segg. 440.

102.  Così la citazione del Gallo, presso Sismondi XI, 93. — Il motivo sopra addotto per l'uccisione nelle chiese viene menzionato ancora all'epoca dei Merovingi, v. Gregor. Turon. IX, 3.

103.  Corio, fol. 422. — Allegretto, Diari sanesi, presso Muratori XXIII, col. 777. — Vedi sopra pag. 54.

104.  Si vegga nella relazione autentica dell'Olgiati, presso Corio, un periodo come il seguente: «quisque nostrum magis socios potissime et infinitos alios sollicitare, infestare, alter alteri benevolos se facere coepit. Aliquid aliquibus parum donare; simul magis noctu edere, vigilare, nostra omnia bona polliceri, etc.».

105.  Vasari, III, 251. Nota alla vita del Donatello.

106.  Inferno, XXXIV, 64.

107.  Scritti dal testimonio auricolare Luca della Robbia, Arch. Stor. I, p. 273. Cfr. Paul. Iov., Vita Leonis X, L. III, nei Viri illustres.

108.  Presso Roscoe, Vita di Lorenzo de' Medici, vol. IV, Appendice 12. — Cfr. anche la Relazione, Lettere di Principi (edizione Venez. 1577) III. fol. 162 e segg.

109.  Intorno all'ultimo punto veggasi Jac. Nardi, Vita di Ant. Giacomini, pag. 18.

110.  Genetliacon, ne' suoi Carmina. — Cfr. Sansovino, Venezia, fol. 203. — La più antica cronaca veneziana, presso Pertz, Monum. IX, p. 5, 6, pone l'occupazione delle isole al tempo dei Longobardi, e quella di Rialto espressamente più tardi.

111.  De situ venetae urbis.

112.  Tutta questa parte della città fu modificata poi per le nuove costruzioni dei primi anni del secolo XVI.

113.  Benedetto: Charolus VIII. presso Eccard. Scriptores, II, col. 1597, 1601, 1621. — Nel Chron. venetum, presso Murat. XXIV, col. 26, sono enumerate le virtù politiche dei veneziani: bontà, innocenza, zelo di carità, pietà, misericordia.

114.  Molti nobili usavano di portare i capelli corti, v. Erasmi Colloq. ed. Tigur, 1553, pag. 215, miles et carthusianus.

115.  Epistolae, lib. V, fol. 28.

116.  Malipieri, Annali veneti, nell'Arch. stor. VII, I, p. 377, 431, 481, 493, 530, II, p. 661, 668, 679. — Chron. venetum, presso Murat. XXIV, col. 57. — Diario ferrarese, ibid. col. 240.

117.  Malipiero, nell'Arch. Stor. VII, II, p. 691. — Cfr. 694, 713 e I, 535.

118.  Marin Sanudo, Vite de' Duchi, Murat. XXII, col. 1194.

119.  Chron. venetum, Murat. XXIV, col. 105.

120.  Chron. venetum, Murat. XXIV, col. 123 e segg., e Malipiero l. c. VII, I, p. 175 e segg. narrano il caso significantissimo dell'ammiraglio Antonio Grimani.

121.  Chron. venetum, l. c. col. 166.

122.  Malipiero, l. c. VII, I, p. 349; altri prospetti di questo genere in Marin Sanudo, Vite de' Duchi, Murat. XXII, col. 990 (dell'anno 1426), col. 1088 (dell'anno 1440), presso Corio, fol. 435-438 (del 1483), presso Guazzo, Historie, fol. 151 e segg.

123.  Guicciardini (Ricordi, n. 150) forse nota pel primo che il desiderio della vendetta può in politica soffocare il sentimento del proprio interesse.

124.  Malipiero, l. c. VII, I, p. 328.

125.  Ancora assai limitatamente abbozzato e tuttavia importantissimo è un prospetto statistico di Milano, che trovasi nel Manipulus florum (presso Murat. XI, 711 e segg.) dell'anno 1288. Esso enumera le porte delle case, la popolazione, gli uomini atti alle armi, le logge dei nobili, le fontane, i forni, le taverne, le botteghe de' macellai, i pescatori, il consumo del grano, i cani, gli uccelli da caccia, i prezzi delle legne, del fieno, del vino e del sale, — ed inoltre i notai, i medici, i maestri di scuola, i copisti, gli armaiuoli, i maniscalchi, gli spedali di corte, i conventi, le fondazioni pie e le corporazioni ecclesiastiche. — Un altro, forse più antico, può vedersi nel Liber de magnatibus Mediolani, presso Heinr. de Hervordia, ed. Potthast. p. 165. — Cfr. anche la statistica di Asti dell'anno 1280, presso Ogerius Alpherius (Alfieri), De gestis Astensium, Hist. patr. Monumenta, Scriptorum t. III, col. 684 e segg.

126.  Specialmente Marin Sanudo nelle Vite de Duchi di Venezia, Murat. XXII, passim.

127.  Presso Sanudo, l. c. col 958. Ciò che si riferisce al commercio è riportato da Scherer, Allgem. Geschs. des Welthandels, I, 326, in nota.

128.  Sotto questa indicazione comprendonsi tutte le case e non quelle soltanto, che appartengono al governo. Anche queste ultime però rendevano talvolta moltissimo. Cfr. Vasari XIII, 83, Vita di Jac. Sansovino.

129.  Ciò presso il Sanudo, col. 963. Un computo di Stato del 1490 si ha alla col. 1245.

130.  Anzi l'avversione parrebbe essersi tramutata nel veneziano Paolo II in vero odio, talmente che egli chiamava eretici tutti gli umanisti. Platina, Vita Pauli, p. 323.

131.  Sanudo, l. c. col. 1167.

132.  Sansovino, Venezia, l. XIII.

133.  Cfr. Heinr. de Hervordia ad a 1293 (pag, 213, ediz. Potthast).

134.  Sanudo l. c. col. 1158, 1171, 1177. Allorquando venne dalla Bosnia il corpo di S. Luca, vi fu questione coi benedettini di Santa Giustina di Padova, che credevano di possederlo, e l'autorità papale dovette decidere. Cfr. Guicciardini (Ricordi, n. 401).

135.  Sansovino, Venezia, lib. XII.

136.  Villani, VIII, 36. — L'anno 1300 è anche la data fissa per la Divina Commedia.

137.  Ciò fu già constatato da Vespasiano fiorent. intorno al 1470, v. pag. 554.

138.  Purgatorio, VI, sulla fine.

139.  De Monarchia, L. I.

140.  Dantis Alligherii epistolae, cum notis C. Witte. Come egli volesse assolutamente in Italia l'imperatore ed il papa, veggasi la lettera a pag. 35, durante il conclave di Carpentras del 1314.

141.  Al che la statistica di un anonimo dell'anno 1339, presso il Baluz. Miscell. IV, p. 117 e segg. offre un complemento desiderato. Anche qui la stessa attività generale: non est dives aut pauper in ea (civitate), qui de arte certa se nutrire non valeat et suos.

142.  Giov. Villani, XI, 20. — Cfr. Matteo Villani, IX, 93.

143.  Queste e simili notizie presso Giov. Villani, XI, 87, XII, 54.

144.  Giov. Villani, XI, 91 e segg. — Discostandosi da esso il Machiavelli, Stor. fiorent., lib. II.

145.  Il parroco riponeva una fava nera per ogni bambino, una bianca per ogni bambina: in ciò consisteva tutto l'artificio statistico.

146.  In Firenze, città fabbricata solidamente, esistevano già regolari guardiani per gl'incendi. Ibid. XII, 35.

147.  Matteo Villani, III, 103.

148.  Matteo Villani, I, 2-7. Cfr. 58. — Per lo stesso tempo della peste sta in prima linea la celebre descrizione del Boccaccio sul principio del Decamerone.

149.  Giov. Villani, X, 164.

150.  Ex annalibus Ceretani, presso Fabroni, Magni Cosmi Vita, ad not. 34.

151.  Ricordi di Lorenzo, presso Fabroni, Laur. Med. magnifici Vita, adnot. 2 e 25. — P. Jovius, Elog. Cosmus.

152.  Di Benedetto Dei, presso Fabroni, ibid. adnot. 200. L'indicazione del tempo è tolta dal Varchi, III, p. 107. — Il progetto finanziario di un certo Lodovico Ghetti, con dati importanti, può vedersi in Roscoe, Vita di Lor. de' Medici, vol. II, append. 1.

153.  Per es. nell'Arch. Stor., IV.

154.  Libri, Hist. de sciences mathématiques, II, 162 e segg.

155.  Varchi, Storie fiorentine, III, p. 56 e segg. sulla fine del lib. IX. Alcuni numeri evidentemente erronei possono benissimo essere derivati da sviste di copisti o tipografiche.

156.  Sui rapporti dei valori e della ricchezza in Italia in generale io non posso, in mancanza di altri sussidi, dar qui che alcuni dati sconnessi, quali li ho trovati a caso. Le evidenti esagerazioni si lasciano da parte. Le monete d'oro, di cui parlano maggiormente i documenti, sono: il ducato, lo zecchino, il fiorino d'oro, e lo scudo d'oro. Il loro valore approssimativamente è lo stesso, da undici a dodici franchi della nostra moneta.

In Venezia, per esempio, il doge Andrea Vendramin (1476) con 170,000 ducati passava per molto ricco (Malipiero, l. c., VII, II, p. 666).

Intorno al 1460 il patriarca d'Aquileia, Lodovico Patavino, con 200,000 ducati è riguardato come il più ricco fra gl'italiani (Gasp. veronens. Vita Pauli JI, presso Murat., III, II, col. 1027). Altrove si hanno dati favolosi.

Antonio Grimani (v. pag. 91-92) pagò 30,000 ducati l'esaltazione di suo figlio Domenico al cardinalato. In solo danaro contante gli si attribuiscono 100,000 ducati (Chron. venetum, Muratori, XXIV, col. 125).

Intorno al grano in commercio e sul mercato di Venezia veggasi specialmente Malipiero, l. c., VII, II, pag. 709 e segg., (Notizia del 1498).

Nel 1522 non più Venezia, ma Genova e Roma sono le città che passano per le più ricche d'Italia. (Cosa appena credibile, perchè attestata da un Franc. Vettori: veggasi la di lui Storia, nell'Arch. Stor., append. T. VI, p. 343). Bandello, parte II, nov. 34 e 42, fa menzione del più ricco mercante genovese del suo tempo, Ansaldo Grimaldi.

Tra il 1400 e il 1580 Francesco Sansovino calcola che il valore del danaro sia disceso alla metà (Venezia, fol. 151 bis).

In Lombardia si crede che il rapporto dei prezzi dei grani alla metà del secolo XV con quelli del nostro secolo fossero come di 3 ad 8 (Sacco di Piacenza, nell'Arch. Stor., append., tom. V; nota dell'editore Scarabelli).

In Ferrara, al tempo del duca Borso, vi erano ricchi che possedevano da 50 a 60,000 ducati. (Diario ferrarese, Murat., XXIV, col. 207, 214, 218. Si ha poi un dato favoloso alla col. 187).

Per Firenze si hanno dati affatto eccezionali, che non conducono se non a conclusioni approssimative. Di questo genere sono quei prestiti, che figurano fatti da una sola o da poche case, ma che in fatto procedevano da grandi compagnie, e tali sono altresì quelle enormi contribuzioni imposte ai partiti che soggiacevano, come, per esempio, quelle che dall'anno 1430 al 1453 furono pagate da settantasette famiglie per l'ammontare di 4,875,000 fiorini d'oro (Varchi, III. p. 115 e segg.).

L'intero avere di Giovanni de' Medici ammontava, alla di lui morte (1428), a 179,221 fiorini d'oro, ma de' suoi due figli Cosimo e Lorenzo l'ultimo ne lasciò egli solo, alla propria morte (1440), ben 235,137 (Fabroni, Laur. Medic., adnot. 2).

Dell'alta cifra, a cui salirono in generale i guadagni, fa testimonianza, per esempio, il fatto che ancor nel secolo XIV le quarantaquattro botteghe di orefici che erano sul Ponte Vecchio, rendevano allo Stato 800 fiorini d'oro (Vasari, II, 114. Vita di Taddeo Gaddi). — Il Diario di Buonaccorso Pitti (presso Delecluze, Florence et ses vicissitudes, vol. II) è pieno di dati, i quali però non provano se non in generale gli alti prezzi di tutte le cose e il meschino valore del danaro.

Per Roma naturalmente le rendite della Curia, che affluivano da tutta Europa, non sono un dato attendibile, e non si può fidarsi affatto nemmen di quelli che parlano dei tesori papali e degli averi dei cardinali. Il noto banchiere Agostino Chigi lasciò nel 1520 una sostanza complessiva del valore di 800,000 ducati (Lettere pittoriche, I, append. 48).

157.  Per ciò che riguarda Cosimo (1433-1465) e suo nipote Lorenzo il Magnifico (morto nel 1492), l'autore si astiene da ogni giudizio sulla loro politica interna. Veggasi un'accusa molto autorevole (di Gino Capponi) nell'Arch. Stor., I, p. 315 e segg. — Le lodi tributate a Lorenzo da Roscoe sembrano essere state quelle che principalmente provocarono una reazione (Sismondi, Histoire des républiques italiennes, fra molti altri).

158.  Francesco Burlamacchi, il padre del capo dei protestanti lucchesi, Michele Burlamacchi. Cfr. Arch. Stor., Append. tom. II, p. 176. — Come Milano colla sua durezza verso le città sorelle dal secolo XI al XIII facilitò la formazione di un grande Stato dispotico, è noto universalmente. Anche allo spegnersi della dinastia de' Visconti nel 1447, Milano nocque alla libertà dell'Italia superiore col rifiutare ricisamente una federazione di città con parità di diritti. Cfr. Corio, fol. 358 e segg.

159.  Nella terza domenica dell'Avvento del 1494 il Savonarola predicò sul modo di attuare una costituzione come segue: le sedici compagnie della città dovrebbero preparare un progetto, i gonfalonieri scegliere i quattro migliori, e da questi la Signoria l'ottimo! — Ma le cose poi andarono diversamente, e precisamente per l'influenza stessa del Frate.

160.  Quest'ultima denominazione per la prima volta nel 1527, dopo la cacciata de' Medici. Veggasi il Varchi, I, 121 ecc.

161.  Machiavelli, Storie fiorent., lib. III. «Un savio dator delle leggi» poteva salvar Firenze.

162.  Varchi, Storie fiorent., I, p. 210.

163.  Discorso sopra il riformar lo Stato di Firenze, nelle Opere minori, p. 207.

164.  La stessa opinione, senza dubbio tolta di qui, incontrasi in Montesquieu.

165.  Per un tempo un po' posteriore (1522?) si confronti il giudizio spaventevolmente sincero di Guicciardini sulla condizione e sull'inevitabile organizzazione del partito mediceo, Lettere di Principi, III, fol. 124 (ediz. Venez. 1577).

166.  Aen. Sylvii Apologia ad Martinum Mayer, p. 701. — In modo simile Machiavelli, Discorsi, I, 55 e l. c.

167.  Quanto una mezza cultura e una forza d'istruzione affatto moderna ponno influire sulla politica, appare dai parteggiamenti del 1535. V. Della Valle, Lettere Sanesi, III, p. 317. — Un certo numero di merciai, esaltati dalla lettura di Livio e dai Discorsi di Machiavelli, pretendono sul serio i tribuni del popolo ed altre magistrature romane contro il mal governo dei nobili e della burocrazia.

168.  Pierio Valeriano, De infelicit. literator., parlando di Bartolommeo Della Rovere.

169.  Senarega, De reb. genuens., presso Murat. XXIV, col. 548. Sulla poca sicurezza v. specialmente alle col. 519, 525, 528, ecc. V. il discorso molto esplicito dell'inviato all'occasione della cessione dello Stato a Francesco Sforza, presso Cagnola, Archivio Stor. III, p. 165 e segg. La figura dell'arcivescovo, doge, corsaro e (più tardi) cardinale Paolo Fregoso si distacca notevolmente dal quadro generale delle condizioni italiane.

170.  Baluz. Miscell., ediz. Mansi, t. IV, p. 81 e segg.

171.  Così, benchè tardi oggimai, il Varchi, Stor. fiorent. I, 57.

172.  Galeazzo Maria Sforza nel 1467 dice veramente all'inviato di Venezia il contrario, ma questa non è che una vanitosa millanteria. Cfr. Malipiero, Annali veneti, Arch. stor. VII, 1, p. 216 e segg. In ogni occasione città e villaggi si danno spontaneamente a Venezia, benchè sieno tali, che per lo più escono dalle mani di qualche tiranno, mentre Firenze è costretta a tener soggette colla forza le vicine repubbliche avvezze alla libertà, come osserva Guicciardini (Ricordi, n. 29).

173.  In modo affatto speciale in una Istruzione dell'anno 1452 agli inviati spediti a Carlo VII, presso Fabroni, Cosmus adnot. 107.

174.  Comines, Charles VIII, chap. 10: si riguardavano i francesi come Santi. — Cfr. chap. 17. — Chron. venetum, presso Murat. XXIV, col. 5, 10, 14, 15. — Matarazzo, Cron. di Perugia, Arch. stor. XVI, II, p. 23; per non dire di altre numerose testimonianze.

175.  Pii II Commentarii, X, p. 492.

176.  Gingins, Dépêches des ambassadeurs milanais etc. I, p. 26, 153, 279, 283, 285, 327, 331, 345, 359, II, p. 29, 37, 101, 217, 306. Carlo si espresse una volta di dare Milano al giovane duca di Orléans.

177.  Niccolò Valori, Vita di Lorenzo.

178.  Fabroni, Laurentius magnificus, adnot. 205 e segg. Perfino in uno de' suoi Brevi era detto letteralmente: flectere si nequeam Superos, Acheronta movebo, ma è sperabile che non intendesse alludere ai Turchi (Villari, Storia di Savonarola, II, p. 48 dei Documenti).

179.  Per es. Giov. Pontano nel suo Caronte. Sulla fine egli aspetta uno Stato unitario.

180.  Comines, Charles, VIII, chap. 7. — Come Alfonso cercasse in guerra di prendere il suo avversario mediante un abboccamento, ci è narrato da Nantiporto, presso Murat. III, II, col. 1073. — Egli è il vero predecessore di Cesare Borgia.

181.  Pii II Commentarii, X, p. 492. — V. una fiorita lettera di Malatesta, nella quale egli raccomanda a Maometto II un pittore ritrattista, Matteo Passo di Verona, e gli annuncia l'invio di un libro sull'arte della guerra, probabilmente dell'anno 1463, presso Baluz. Miscell. III, 113. — Ciò che Galeazzo Maria di Milano disse nel 1467 ad un incaricato di Venezia, non fu che per millanteria. Cfr. Malipiero, Ann. veneti. Arch. stor. VII, I, 222. — Intorno a Boccalino vedi sopra a pag. 35.

182.  Porzio, Congiura de' Baroni, l. I, p. 4. Che Lorenzo vi abbia avuto una mano è appena credibile.

183.  Chron. venetum, presso Murat. XXIV, col. 14 e 76.

184.  Malipiero, l. c. p. 565, 568.

185.  Trithem, Annales Hirsaug. ad an. 1490, tom. II, p. 535 e segg.

186.  Malipiero, l. c. p. 161. Cfr. p. 152. — Sulla consegna di Zizim a Carlo VIII veggasi a p. 145, dove appare chiaramente che esisteva una corrispondenza delle più vergognose tra Alessandro e Bajazet, anche se dovessero essere soppressi i documenti riportati da Burcardo.

187.  Bapt. Mantuanus, De calamitatibus temporum, sulla fine del secondo libro, nel canto della Nereide Dori alla flotta turca.

188.  Tommaso Gar, Relazioni della Corte di Roma, I, p. 55.

189.  Ranke, Geschichten der romanischen und germanirchen Völker. — L'opinione del Michelet (Réforme, p. 467), che i Turchi avrebbero finito per fondersi con gli occidentali, non mi persuade affatto. — Forse per la prima volta la missione riserbata alla Spagna trovasi indicata nel discorso solenne, che Fedra Inghirami nel 1510 tenne alla presenza di Giulio II, per festeggiare la presa di Bugia operata dalla flotta di Ferdinando il cattolico. Cfr. Anecdota litteraria, II, p. 149.

190.  Fra gli altri il Corio, fol. 333. Cfr. il contegno tenuto con lo Sforza, fol. 329.

191.  Nic. Valori. Vita di Lorenzo. — Paul. Jovius, Vita Leonis X, L. I: quest'ultimo certamente dietro fonti autorevoli, benchè non senza rettorica.

192.  Se il Comines in questa e in mille altre occasioni osserva e giudica non meno oggettivamente di qualsiasi italiano, bisogna anche tener conto dei rapporti ch'egli ebbe con gli Italiani, specialmente con Angelo Catto.

193.  Cfr. per es. Malipiero, l. c. p. 216, 221, 236, 237, 478 ec.

194.  Presso Villari, la Storia di G. Savonarola, vol. II, p. XLIII dei Documenti, tra i quali trovansi anche altre importanti lettere politiche. — Altri documenti della fine del secolo XV specialmente presso il Baluzio, Miscellanea, ed. Mansi, vol. I.

195.  Pii II Commentarii, L. IV, p. 190 ad a. 1459.

196.  Paul. Jovius, Elogia. Ciò fa ricordare Federigo di Urbino, che si sarebbe vergognato di tollerare nella sua biblioteca un libro stampato. Cfr. Vespas. fiorent.

197.  Porcellii Commentaria Jac. Piccinini presso Murat. XX. Una continuazione per la guerra del 1453 ibid. XXV.

198.  Per isbaglio il Porcellio dice Scipione Emiliano, mentre intende il vecchio Africano.

199.  Simonetta, Hist. Franc. Sfortiae, presso Murat. XXI, c. 630.

200.  Egli viene trattato anche come tale. Cfr. Bandello, parte I, nov. 40.

201.  Cfr. per es. De obsidione Tiphernatium nel 2.º volume dei Rer. ital. scriptores ex codd. florent., col. 690. Avvenimento molto caratteristico dell'anno 1474. — Il duello del maresciallo Boucicault con Galeazzo Gonzaga 1406, presso Cagnola, Arch. Stor. III, p. 25. — Come Sisto IV onorasse i duelli delle sue guardie, è raccontato dall'Infessura. I suoi successori emanarono Bolle contro il duello in generale. Sept. Decretal. V, tit. 17.

202.  I particolari nell'Arch. Stor. Append. T. V., ed in una lettera presso Baluz. Miscell. III, p. 158, nella quale le truppe dello Sforza sono rappresentate come una delle più terribili orde di mercenari, che sieno mai state.

203.  Una volta per sempre rimandiamo qui alla Storia dei Papi di Ranke (v. I), e a quella di Sugenheim Sull'origine e lo sviluppo dello Stato della Chiesa.

204.  Sull'impressione delle benedizioni di Eugenio IV in Firenze veggasi Vespas. fiorent. 18. — Sulla maestà delle funzioni ecclesiastiche di Niccolò V, v. Infessura (Eccard. II, col. 1883 e segg.) e J. Manetti Vita Nicolai V (Murat. III, II, col. 923). — Sugli omaggi resi a Pio II, v. Diario ferrarese (Murat XXI. col. 205), e Pii Comment. passim, specialmente IV, 201, 204, XI, 562. Anche assassini di professione non osano attentare alla vita del Papa. — Le grandi funzioni in chiesa furono trattate come cosa di molta importanza dal vanitoso Paolo II (Platina, l. c. 321) e da Sisto IV, che, ad onta della podagra, celebrò seduto la Messa pasquale (Jac. Volaterranus, Diarium, Murat. XXIII, col. 131). In modo abbastanza notevole il popolo fa distinzione tra la forza magica della benedizione e l'indegnità di chi benedice: quando il Papa nel 1481 non volle dar la benedizione nel dì dell'Ascensione, non gli mancarono maledizioni e imprecazioni (Ibid. col. 133).

205.  Machiavelli, Scritti minori, pag. 142, nel noto Discorso sulla catastrofe di Sinigaglia. — Vero è però che gli spagnuoli e i francesi si mostravano assai più zelanti dei soldati italiani. — Cfr. presso Paul. Jov., Vita Leonis X (L. II) la scena che precedette la battaglia di Ravenna, nella quale l'armata spagnuola, allo scopo di ottenere l'assoluzione, fece ressa intorno al Legato del Papa, che ne pianse di gioia. Veggasi inoltre (presso lo stesso) ciò che fecero i Francesi a Milano.

206.  Invece quegli eretici della Campagna, propriamente di Poli, i quali credevano che un Papa dovesse innanzi tutto avere a distintivo la povertà di Cristo, potrebbero tutt'al più sospettarsi infetti di dottrine simili a quelle dei Valdesi. Il modo, con cui vennero imprigionati sotto Paolo II, è narrato dall'Infessura (Eccard. II, col. 1893) e dal Platina, pag. 317 ec.

207.  L. B. Alberti: De Porcaria conjuratione, presso Murat. XXV, col. 309 e segg. — Il Porcari voleva: omnem pontificiam turbam funditus extinguere. L'autore conclude: video sane, quo stent loco res Italiae; intelligo, qui sint, quibus hic perturbata esse omnia conducat.... Egli li chiama extrinsecos impulsores, e crede che il Porcari avrebbe trovato più tardi degli imitatori. Infatti anche le idee del Porcari avevano una certa somiglianza con quelle di Cola di Rienzo.

208.  Ut Papa tantutm vicarius Christi sit et non etiam Caesaris.... Tunc Papa et dicetur et erit pater sanctus, pater omnium, pater ecclesiae etc.

209.  Pii II, Commentarii, IV, pag. 208 e segg.

210.  Platina, Vitae Paparum, p. 318.

211.  Battista Mantovano, De calamitatibus temporum, L. III. L'arabo vende l'incenso, il fenicio la porpora, l'indiano l'avorio: venalia nobis templa, sacerdotes, altaria, sacra, coronae, ignes, thura, preces, coelum est venale, Deusque.

212.  Si veggano, per es., gli Annales Placentini, presso Murat. XX, col. 943.

213.  Corio, Storia di Milano, fol. 416-420. Pietro aveva già aiutato a far cadere la elezione su Sisto V. Infessura, presso Eccard, Scriptores, II, col. 1895. È notevole che nel 1469 era stato profetizzato, che dentro tre anni da Savona (patria di Sisto, eletto nel 1471) sarebbe venuta la salute. V. la lettera colla sua data presso Baluz. Miscell. III, p. 181. — Secondo il Machiavelli. Stor. fiorent. L. VII i Veneziani avrebbero avvelenato il cardinale. Certo è che i motivi non sarebbero loro mancati.

214.  Ancora Onorio II voleva, dopo la morte di Guglielmo I (1127), incorporare l'Apulia come feudo devoluto a S. Pietro.

215.  Fabroni, Laurentius magnif. adnot. 130. Un referendario scriveva di ambedue: hanno in ogni elezione a mettere a sacco questa corte, e sono i maggiori ribaldi del mondo.

216.  Corio, fol. 450.

217.  Un monitorio molto caratteristico veggasi in Fabroni, Laurentius magnif. adnot. 217, e in estratto presso Ranke, Die römischen Päpste, I, p. 45.

218.  E fors'anche feudi napoletani, per cui Innocenzo chiamò nuovamente gli Angioini contro il re Ferrante, che a questo riguardo faceva il sordo. Il contegno del Papa in questo negozio, e la sua partecipazione alla seconda congiura dei Baroni rivelano inettitudine e disonestà ad un tempo. Del suo modo brutale di trattar colle potenze estere veggasi a pag. 125.

219.  Cfr. specialmente l'Infessura, presso Eccard, Scriptores, II, passim.

220.  Ad eccezione dei Bentivoglio di Bologna e della casa Estense di Ferrara. Quest'ultima fu costretta ad imparentarsi: Lucrezia Borgia fu data in moglie al principe Alfonso.

221.  Secondo il Corio (fol. 479), Carlo pensava ad un Concilio, alla deposizione del Papa e perfino alla sua deportazione in Francia, e precisamente all'epoca del suo ritorno da Napoli. Secondo Benedetto (Charolus VIII, presso Eccard script. II, col. 1584), Carlo, offeso che il Papa e i cardinali non avessero voluto riconoscerlo nel nuovo suo regno, avrebbe concepito ancora a Napoli l'idea de Italiae imperio deque pontificis statu mutando, ma subito dopo l'avrebbe abbandonata, accontentandosi di umiliare personalmente Alessandro. Il Papa però si sottrasse a tempo. — I particolari da questo tempo in avanti presso Pilorgerie, Campagne et bulletins de la grande armée d'Italie 1494-1495 (Paris, 1866 8.º), dove si discorre della gravità del pericolo, in cui si trovò più volte Alessandro (p. III, 117 ecc.). Perfino nel suo ritorno (p. 281 e segg.) Carlo non pensava a fargli alcun male.

222.  Corio, fol. 550. — Malipiero, Ann. veneti, Arch. stor. VII, I, p. 318. — Da quale spirito di rapacità fosse dominata la famiglia intera scorgesi, fra molti altri, dal Malipiero, l. c. p. 585. Un nipote viene accolto splendidamente a Venezia in qualità di legato pontificio e vi fa gran bottino di danaro vendendo dispense: le persone addette al suo servizio rubano, partendo, tutto ciò su cui possono mettere le mani, anche un arazzo tessuto in oro dell'altare maggiore di una chiesa di Murano.

223.  Ciò presso il Panvinio (Contin. Platinae, p. 359): insidiis Caesaris fratris interfectus.... connivente.... ad scelus patre. Testimonianza certo autentica, contro la quale hanno poco peso le asserzioni del Malipiero e del Matarazzo, che ne danno la colpa a Giovanni Sforza. — Anche la commozione profonda di Alessandro accennerebbe ad una complicità. Quando il cadavere fu estratto dal Tevere, il Sannazzaro scrisse:

Piscatorem hominum ne te non, Sexte, putemus,

Piscaris natum retibus, ecce, tuum.

224.  Machiavelli, Opere, ediz. Milan. vol. V, p. 387, 393, 395, nella Legazione al duca Valentino.

225.  Tommaso Gar, Relazioni della Corte di Roma, I, p. 12 nella Relaz. di P. Capello. Letteralmente è detto: il Papa rispetta Venezia quanto nessun altro potentato del mondo, e però desidera che ella (la signoria di Venezia) protegga il figliuolo e dice voler fare tale ordine, che il Papato o sia suo, ovvero della Signoria nostra. La parola suo non può riferirsi che a Cesare. Del resto delle incertezze cagionate dall'uso del pronome possessivo si ha un saggio nella questione oggidì ancor viva rispetto alle parole usate dal Vasari nella Vita di Raffaello: «a Bindo Altoviti fece il ritratto suo» ecc.

226.  Strottii poetae, p. 19, nel poema sulla Caccia di Ercole Strozza, cui triplicem fata invidere coronam. Poi anche nell'Elegia per la morte di Cesare, p. 31 e segg.: speraretque olim solii decora alta paterni.

227.  Ibid. Giove una volta avrebbe promesso: affore Alexandri sobolem, quae poneret olim Italiae leges, atque aurea saecla referret, ecc.

228.  Ibid: sacrumque decus majora parantem deposuisse.

229.  Come è noto, egli era congiunto in matrimonio con una principessa francese della casa di Albret, e n'ebbe una figlia: ma in qualche modo avrebbe pur cercato di fondare una dinastia. Non si sa s'egli abbia fatto passi per riprendere il cappello cardinalizio, quantunque (secondo il Machiavelli, l. c. 285) dovesse calcolare sopra una prossima morte del padre.

230.  Machiavelli, l. c. p. 334. Dei disegni su Siena, ed eventualmente su tutta la Toscana, esistevano, ma non erano ancora maturi: inoltre non si poteva prescindere dall'assenso della Francia.

231.  Machiavelli, l. c. p. 326, 351, 314. — Matarazzo, Cronaca di Perugia, Arch. stor. XVII. II, p. 137 e 221: egli voleva che i suoi soldati si acquartierassero a loro piacere, per guisa che in tempo di pace guadagnavano più ancora, che in tempo di guerra.

232.  Così Pierio Valeriano, De infelicitate literator., parlando di Giovanni Regio.

233.  Tommaso Gar, l. c. p. 11.

234.  Paulus Jovius, Elogia, Caesar Borgia. — Nei Commentarii urbani di Raffaello da Volterra il libro XXII contiene una caratteristica di Alessandro scritta al tempo di Giulio II, e tuttavia molto circospetta. Fra le altre cose vi si dice: Roma.... nobilis jam carnificina facta erat.

235.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 362.

236.  Paul. Jovius, Historiar. II, fol. 47.

237.  Panvinius, Epitome pontificum, p. 359. Il tentativo d'avvelenamento contro il posteriore Giulio II veggasi a p. 313. — Secondo Sismondi (XIII, 246) morì nella stessa maniera anche Lopez, cardinale di Capua, stato già lunghi anni il confidente di tutti i segreti: secondo Sanuto (presso Ranke, Röm. Päpste, I, p. 52, nota) anche il cardinale di Verona.

238.  Prato, Arch. stor. III. p. 254 — Cfr. Attilio Alessio, presso il Baluz. Miscell. IV, p. 518 e segg.

239.  Ed anche assai sfruttato dal Papa. — Cfr. Chron. venetum, presso Murat. XXIV, col. 133.

240.  Anshelm, Berner Chronik, III, pag. 146-156. — Trithem. Annales Hirsaug. II, 579, 584, 586.

241.  Panvin., Cont. Platinae, p. 341.

242.  Da ciò la pompa dei monumenti sepolcrali posti ai prelati ancor vivi, per togliere ai Papi almeno una parte del bottino.

243.  In onta all'asserzione del Giovio (Vita Alphonsi ducis), resta sempre incerto, se Giulio realmente abbia sperato di potere indurre Ferdinando il Cattolico a riporre sul trono di Napoli la dinastia aragonese, che n'era stata cacciata.

244.  Ambedue le poesie, per es., presso il Roscoe, Leone X ed. Bossi, IV, 257 e 297. — Ma è anche vero che, quando Giulio nel luglio del 1511 fu preso da un deliquio di molte ore e fu creduto morto, le menti più esaltate tra le più illustri famiglie — Pompeo Colonna ed Antonio Savelli — s'affrettarono tosto a chiamare al Campidoglio il popolo e ad esortarlo a torsi dal collo il giogo della tirannia papale, a vendicarsi in libertà.... a pubblica ribellione, come narra il Guicciardini nel L. X.

245.  Septimo decretal. l. I, t. 3, cap. 1-3.

246.  Franc. Vettori, nell'Arch. stor. VI, 297.

247.  Oltre a ciò si vuole (secondo Paul. Lang. Chronicon Citicense) che abbia fruttato non meno di 500,000 fiorini d'oro: l'ordine de' Francescani soltanto, il cui generale diventò cardinale esso pure, ne pagò 30,000.

248.  Franc. Vettori, l. c. p. 301.--Arch. stor. Appen. I, p. 293 e segg. — Roscoe, Leone X, ed. Bossi, VI, p. 232 e segg. — Tommaso Gar, l. c. p. 42.

249.  Ariosto, Satire, VI, vs. 106:

Tutti morrete ed è fatal che muoja

Leone appresso. . . . . . . .

250.  Una combinazione di questa specie può vedersi in un Dispaccio del card. Bibiena datato da Parigi, 1518, nelle Lettere de' principi I, 56.

251.  Franc. Vettori, l. c. p. 333.

252.  Presso Roscoe, Leone X, ed. Bessi, VIII. p. 105 e segg. trovasi una declamazione spedita nel 1517 da Pico al Pirkheimer. Egli teme che ancor sotto Leone il male prevalga sul bene, et in te bellum a nostrae religionis hostibus ante audias geri, quam parari.

253.  Lettere de' principi, I, Roma, 17 marzo 1523: questo Stato sta per molte cagioni sulla punta di un ago, e Dio voglia che noi non dobbiamo fuggir presto ad Avignone e agli ultimi confini dell'oceano. Io veggo prossima dinanzi a me la caduta di questa spirituale monarchia.... Se Dio non ci ajuta, noi siamo spacciati. — Se Adriano sia stato avvelenato o no, non si può ricavar con certezza da Blas Ortiz, Itinerar. Hadriani (Baluz, Miscell. ed. Mansi, I, p. 386 e segg.); tutto il male sta in questo che l'opinione pubblica lo supponeva.

254.  Negro, l. c. in data 24 settembre e 9 novembre 1526, 11 aprile 1527.

255.  Varchi, Stor. fiorent. I, 43, 46 e segg.

256.  Paul. Jovius: Vita Pomp. Columnae.

257.  Ranke: Deutsche Geschichte, II, 375 e segg.

258.  Varchi, Storie fiorent. II, 43 e segg.

259.  Ibid., e Ranke, Deutsche Geschichte II, p. 394, nota. Si credeva che Carlo volesse trasportare la sua residenza a Roma.

260.  V. la sua lettera al Papa, in data di Carpentras, 1.º settembre 1527, negli Anecd. litterar. IV, pag. 335.

261.  Lettere de' principi, I, 72. Il Castiglione al Papa, Burgos 10 dicembre 1527.

262.  Tommaso Gar, Relaz. della Corte di Roma, I, 1527.

263.  I Farnesi poterono tentare ancora qualche cosa di simile, ma i Caraffa non vi riuscirono.

264.  Petrarca, Epist. fam. I, 3, p. 574, dove egli ringrazia Iddio di esser italiano. Inoltre l'Apologia contra cujusdam anonymi Galli calumnias, dell'anno 1367, pag. 1068 e segg.

265.  Io intendo specialmente gli scritti di Wimpheling, Bebel ed altri nel I vol. degli Scriptores dello Scardio; ai quali sono da aggiungere per un tempo un po' anteriore un Felice Fabri (Hist. Svevorum), e per un tempo un po' posteriore un Francesco (Germaniae exegesis, 1518).

266.  Un esempio per molti: la risposta del Doge di Venezia ad un inviato fiorentino spedito per trattare degli affari di Pisa nel 1496, presso il Malipiero, Ann. veneti, Arch. stor. VII, I, p. 427.

267.  Si notino le espressioni uomo singolare, uomo unico per esprimere i due maggiori gradi dello sviluppo individuale.

268.  In Firenze intorno al 1390 non vi era più nessuna moda prevalente nei vestiti per uomo, perchè ognuno amava di vestirsi a modo proprio. Cfr. la canzone di Franco Sacchetti: contro alle nuove foggie, nelle Rime pubbl. dal Poggiali, p. 52.

269.  Sulla fine del secolo XVI Montaigne, fra molte altre osservazioni, fa il seguente confronto: «ils (les Italiens) ont plus communement des belles femmes, et moins des laides que nous; mais des rares et excellentes beautéz j'estime que nous allons à pair. Et (je) en juge autant des esprits: de ceux de la commune façon ils en ont beaucoup plus et evidemment: la brutalité y est sans comparaison plus rare: d'âmes singulières et du plus hault estage, nous ne leur en debvons rien». (Essais, L. III, chap. 5, vol. III, p. 367 dell'edizione di Parigi del 1816).

270.  Ma essi non mancano di mettere in mostra anche quella delle loro donne, come può notarsi rispetto agli Sforza e ad altre famiglie regnanti dell'Italia settentrionale. Si confrontino nelle Clarae mulieres di Jacopo Bergomense le biografie di Giovanna Malatesta, Paola Gonzaga, Orsina Torella, Bona Lombarda, Riccarda d'Este, e delle più importanti donne della famiglia Sforza. Fra esse c'è più d'una virago, cui non manca nemmeno l'ultimo perfezionamento della individualità, una elevata cultura umanistica.

271.  Franco Sacchetti nel suo Capitolo (Rime pubb. dal Poggiali) pag. 56, enumera intorno al 1390 più di cento nomi di uomini ragguardevoli dei partiti dominanti, che erano morti a sua memoria. Per quante mediocrità possano esservi state fra essi, tuttavia l'insieme è una testimonianza assai autorevole per comprovare il risveglio dell'individualità. — Quanto alle «Vite» di Filippo Villani veggasi più innanzi.

272.  Trattato del governo della famiglia. È stata messa innanzi una nuova ipotesi, secondo la quale questo scritto sarebbe opera dell'architetto Leon Battista Alberti. Cfr. Vasari, IV, 54, nota 5, ed. Lemonnier. — Sul Pandolfini cfr. Vespas. fiorent. p. 379.

273.  Trattato, p. 65 e seg.

274.  Jov. Pontanus, De fortitudine, L. II. Sessant'anni più tardi Cardano (De vita propria, cap. 32) poteva chiedere amaramente: quid est patria, nisi consensus tyrannorum minutorum ad opprimendos imbelles timidos, et qui plerumque sunt innoxii?

275.  De vulgari eloquio, L. I, cap. 6. — Sulla lingua italiana ideale, cap. 17. — Sulla unità spirituale dei dotti, cap. 18. — Ma anche il grido dell'esule nel celebre passo del Purg. VIII, 1 e segg. e Parad. XXV, 1.

276.  Dantis Alligherii Epistolae, ed. Carolus Witte, p. 65.

277.  Ghiberti, Secondo commentario, Cap. XV. (Vasari, ed. Lemonnier, I, p. XXIX).

278.  Codri Urcei vita, in principio delle sue opere. — Veramente ciò confina col detto: ubi bene, ibi patria. — Le compiacenze morali, indipendenti da ogni località e privilegio comune a tutti gli Italiani più colti, alleviavano loro i dolori dell'esiglio. Del resto il cosmopolitismo è un segno dell'epoca, nella quale si scoprono nuovi mondi e si anela ad uscire dal vecchio. Accadde altrettanto in Grecia dopo la guerra peloponnesiaca. Platone, a detta di Niebuhr, non era un buon cittadino, e Senofonte ancor meno: Diogene si compiaceva addirittura del suo cosmopolitismo e si diceva egli stesso ἄπολις, come si legge in Laerzio.

279.  Boccaccio, Vita di Dante, p. 16.

280.  Gli angeli, che egli nel giorno anniversario della morte di Beatrice disegnò sopra una tavoletta (Vita nuova, p. 61), potrebbero essere stati qualche cosa di più che un semplice lavoro da dilettante. Leonardo Aretino dice, che egli disegnava egregiamente e che amava grandemente la musica.

281.  Per queste notizie e le seguenti veggasi specialmente Vespasiano fiorentino, fonte importantissima per la storia della cultura fiorentina nel secolo XV. Cfr. p. 359, 379, 401 ecc. — Poi la bella e istruttiva Vita Jannottii Manetti (nato nel 1396) presso Murat. XX.

282.  Ciò che segue è tolto in via di esempio dalla caratteristica di Pandolfo Collenuccio del Perticari, presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi, III, p. 197 e segg. e nelle Opere del conte Perticari, Milano, 1823, v. II.

283.  Presso Muratori XXV, col. 295 e segg., e come complemento a ciò Vasari, IV, 52 e seg. — Universale dilettante almeno, e al tempo stesso maestro in molte specialità fu, per esempio, Mariano Socini, se si presta fede alla caratteristica che ne dà Enea Silvio (Opera, p. 622, Epist. 112).

284.  Cfr. Ibn Firnas. presso Hammer, Literaturgesch. der Araber, I, Introduz. p. 51.

285.  Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectuum elegantia, id prope divinum ducebat.

286.  Quest'opera perduta è quella che dai moderni è ritenuta sostanzialmente identica col Trattato del Pandolfini (v. sopra, p. 181 nota).

287.  Nella sua opera De re aedificatoria, L. VIII, cap. 1, si trova una definizione di ciò che potrebbe dirsi una bella via: si modo mare, modo montes, modo lacum fluentem fontesve, modo aridam rupem aut planitiem, modo nemus vallemque exhibebit.

288.  Un autore per molti, Flavio Biondo, Roma triumphans, L. V, p. 117 e seg., dove sono raccolte le definizioni della gloria date dagli antichi e dove si concede anche al cristiano di aspirarvi. — Lo scritto di Cicerone De gloria, che il Petrarca possedeva, è andato perduto, come è noto universalmente.

289.  Paradiso, XXV, sul principio: Se mai continga, ecc. Cfr. Boccaccio, Vita di Dante, p. 49. Vaghissimo fu d'onore e di pompa, e per avventura più che alla sua inclita virtù non si sarebbe richiesto.

290.  De vulgari eloquio, L. I, c. I. In modo specialissimo De Monarchia, L. I, c. I, dove egli vuole dar l'idea della monarchia, non solamente per essere utile al mondo, ma anche ut palmam tanti bravii primus in meam gloriam adipiscar.

291.  Convito, ed. Venezia 1529, fol. 5 e 6.

292.  Paradiso, VI, 112 e seg.

293.  Per esempio: Inferno, VI, 89, XIII, 53, XVI, 85, XXXI, 127.

294.  Purgatorio, V, 70, 37, 133, VI, 26, VIII, 71, XI, 31, XIII, 14.

295.  Purgatorio, XI, 79-117. Oltre la gloria, quivi si trovano confusamente grido, fama, rumore, nominanza, onore, tutti sinonimi della stessa cosa. — Boccaccio poetava, com'egli confessa nella Lettera di Giov. Pizinga (Opere volgari), vol. XVI, perpetuandi nominis desiderio.

296.  Scardeonius, de urb. Patav. antiq. (Graev, Thesaur. VI, III, col. 260). È incerto se si debba leggere cereis, muneribus, o per avventura certis muneribus. — L'individualità alquanto spiccata del Mussato può riscontrarsi dalla solennità, con cui è scritta la sua Storia di Enrico VII.

297.  Epistola de origine et vita ecc. al principio delle sue opere: Franc. Petrarca posteritati salutem. Certi critici moderni, che si scagliano contro la vanità del Petrarca, al suo posto avrebbero difficilmente saputo serbare tanta bontà e sincerità d'animo, come lui.

298.  Opera, p. 117: De celebritate nominis importuna.

299.  De remediis utriusque fortunae, passim.

300.  Epist. seniles, III, 5. Un'idea della celebrità del Petrarca ce la dà, per esempio, Biondo Flavio (Italia illustrata, p. 416) cento anni più tardi, quando ci assicura che anche un dotto non ne saprebbe di più intorno al re Roberto il buono, se il Petrarca non l'avesse così spesso e con tanto affetto ricordato.

301.  Epist. seniles, XIII, 3, p. 918.

302.  Filippo Villani, Vite, p. 19.

303.  L'una cosa e l'altra trovansi indicate nell'iscrizione sepolcrale del Boccaccio: Nacqui in Firenze al Pozzo Toscanelli: Di fuor sepolto a Certaldo giaccio ecc. — Cfr. Opere Volgari di Boccaccio, vol. XVI, p. 44.

304.  Mich. Savonarola, De laudibus Patavii, presso Murat. XXIV, col 1157.

305.  La deliberazione del Consiglio di Stato del 1396 coi motivi presso Gay, Carteggio, I, pag. 123.

306.  Boccaccio, Vita di Dante, p. 39.

307.  Franco Sacchetti, Nov. 121.

308.  La prima nel noto sarcofago presso S. Lorenzo, la seconda nel Palazzo della Ragione, sopra una porta. I particolari del ritrovamento nel 1411 v. Misson, Voyage en Italie, vol. I.

309.  Vita di Dante, l. c. Come mai dopo la battaglia di Filippi sarà stato trasportato a Parma il corpo di Cassio?

310.  Nobilitatis fastu, ed anzi sub obtentu religionis, dice Pio II (Comment. X, p. 473). Questa nuova specie di gloria doveva dispiacere a taluni, che erano avvezzi ad altra e di tutt'altra specie.

311.  Cfr. Keyssler, Neueste Reisen, p. 1016.

312.  Plinio il Vecchio, come è noto, è oriundo di Verona.

313.  Questo si riscontra anche nello scritto notevolissimo: De laudibus Papiae (Murat. X) del secolo XIV: molto orgoglio municipale, ma nessuna gloria speciale ancora.

314.  De laudibus Patavii, presso Murat. XXIV, col 1151 e segg.

315.  Nam et veteres nostri tales aut divos aut aeterna memoria dignos non immerito praedicabant. Quum virtus summa sanctitatis sit consocia et pari emantur praetio.

316.  Nei Casus virorum illustrium del Boccaccio solo il nono ed ultimo libro abbracciano un tempo, che non è antico. Ugualmente ancor più tardi nei Commentari urbani di Raffaele da Volterra il solo vigesimo primo, che è il nono dell'antropologia: il vigesimo secondo e il vigesimo terzo parlano specialmente di Papi e imperatori. — Nell'opera De claris mulieribus dell'agostiniano Jacopo Bergomense (intorno al 1500) prevale l'antichità e ancor più la leggenda, ma poi seguono alcune preziose biografie di donne italiane. Presso lo Scardeonio, (De urb. patav. antiq. Graev. Thesaur. VI, III, col. 405 e segg.) vengono nominate soltanto donne celebri padovane: prima una leggenda del tempo delle invasioni barbariche: poi alcune scene tragiche delle lotte dei partiti nei secoli XIII e XIV; poi alcune ardite eroine, fondatrici di conventi, politicanti, medichesse, una madre di molti ed illustri figli, una letterata, una contadinella, che muore per salvare la sua innocenza, e per ultimo la bella e colta donna del secolo XIV, per la quale ognuno scrive poesie, nonchè la poetessa e la novellatrice. Un secolo più tardi, a tutte queste celebrità padovane si avrebbe potuto aggiungere la professoressa. — Le celebri donne di casa d'Este, nell'Ariosto, Orl. fur. XIII.

317.  Viri illustres di B. Facio, pubbl. dal Mehus, una delle opere più importanti in questo genere, del secolo XV, che io disgraziatamente non potei consultare.

318.  Un poeta latino del secolo XII, che col suo canto cerca l'elemosina di un vestito, si esprime in questo senso. V. Carmina Burana, p. 76.

319.  Boccaccio, Opere volgari, vol. XVI, nel sonetto 13.º: Pallido, vinto ecc.

320.  Fra gli altri presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi, IV, p. 203.

321.  Angeli Politiani Epp. L. X.

322.  Paul. Jovius, De romanis piscibus, Praefatio (1525), dove dice che la prima Decade delle sue storie sarebbe tra breve pubblicata non sine aliqua spe immortalitatis.

323.  Cfr. a questo riguardo i Discorsi, I, 27. La tristizia può avere la sua grandezza ed essere in alcuna parte generosa: la grandezza può tener lontana da un fatto l'infamia: l'uomo può onorevolmente essere un tristo, in contrapposto ad uno perfettamente buono.

324.  Storie fiorent. l. VI.

325.  Paul. Jov. Elogia, parlando di Mario Molza.

326.  Il medio-evo è ricco di poesie così dette satiriche, ma la satira non è ancora individuale, bensì quasi affatto generale ed astratta, rivolta contro classi intere, corporazioni, popolazioni ecc., e quindi anche facilmente assume un colore e un andamento didascalico. Il tipo generale di questa tendenza si ha principalmente nella favola del Reineke Fuchs, sotto tutte le forme con cui fu redatta presso i diversi popoli d'occidente. Per la letteratura francese di questa parte speciale veggasi l'eccellente nuova opera di Lenient: La satire en France au moyen-âge.

327.  In via eccezionale vi si trova anche un'arguzia insolente, Nov. 37.

328.  Inferno, XXI e XXII. L'unico che potrebbe paragonarsi con Dante, è Aristofane.

329.  Un modesto principio nelle Opere, p. 421 e segg., e nel Rerum memorand. libri IV. Altro saggio si ha nelle Epp. Seniles, X, 2, p. 868. Il giuoco di parole si risente spesso del luogo dove si ricoverò nel medio-evo, il convento.

330.  Nov. 40, 41: il condottiere è Ridolfo da Camerino.

331.  La nota farsa di Brunellesco e del grasso legnajuolo, per quanto sia spiritosa, merita però sempre di esser detta crudele.

332.  Ibid, Nov. 49. E tuttavia, secondo la Nov. 67, si credeva che un romagnuolo qualunque superasse in malizia il più malizioso fiorentino.

333.  Agn. Pandolfini, Il governo della famiglia, p. 48.

334.  Franco Sacchetti, Nov. 156: Nov. 24. Le facetiae del Poggio, quanto alla sostanza, sono molto affini alle novelle del Sacchetti: burle, insolenze, equivoci di uomini semplici congiunte coll'oscenità più raffinata, poi parecchi giuochi di parole, che rivelano il filologo. — Su L. B. Alberti cfr. a pag. 188 e segg.

335.  Conseguentemente anche nelle novelle degli italiani, il cui contenuto è tolto di là.

336.  Secondo il Bandello, IV, Nov. 2, il Gonnella sapeva contraffare la fisonomia e i tratti di chicchessia, e imitare tutti i dialetti d'Italia.

337.  Paul. Jovius, Vita Leonis X.

338.  Erat enim Bibiena mirus artifex hominibus aetate vel professione gravibus ad insaniam impellendis. Ciò fa venire in mente lo scherzo che usò Cristina di Svezia co' suoi filologi.

339.  Il cannocchiale io non l'ho tolto soltanto dal ritratto di Raffaello, dove esso può essere interpretato piuttosto come una lente per osservare le miniature del libro delle preghiere, ma da una notizia del Pellicano, secondo la quale Leone osservava una processione di monaci mediante uno specillum (cfr. il Zuricher Taschenbuch del 1858, p. 177), e dal cristallo concavo menzionato dal Giovio, di cui Leone si serviva nelle cacce. — Secondo Attilio Alessio (Baluz. Miscell. IV, 518): oculari ex gemina (gemma?) utebatur, quam manu gestans, signando aliquid videndum esset, oculis admovebat.

340.  Essa non manca neanche nelle arti figurative, e basta ricordare a questo proposito la nota parodia, colla quale si mettono tre scimmie a rappresentare il celebre gruppo del Laocoonte. Soltanto simili fatti si limitarono d'ordinario a semplici disegni a mano, dei quali taluni andarono anche distrutti. La caricatura è poi qualche cosa di essenzialmente diverso: Leonardo ne' suoi grotteschi (Biblioteca Ambrosiana) rappresenta il brutto, in quanto abbia in sè del comico, ed innalza con ciò questo carattere comico a suo talento.

341.  Jovian. Pontan. De Sermone. Egli constata una speciale attitudine al motteggio, oltre che nei Fiorentini, anche nei Sanesi e nei Perugini, e per cortesia vi aggiunge poi anche la corte spagnuola.

342.  Il Cortigiano, L. II, fol. 74 e segg. — La derivazione del motto dal contrasto, benchè non ancora abbastanza chiaramente, nel fol. 76.

343.  Galateo del Casa, ed. Venez. 1789, p. 26 e segg. 48.

344.  Lettere pittoriche, I, 71, in una lettera di Vincenzo Borghini del 1577. — Machiavelli, Storie fior. l. VII dice dei giovani signori di Firenze dopo la metà del secolo XV: gli studi loro erano apparire col vestire splendidi, e col parlare sagaci ed astuti, e quello che più destramente mordeva gli altri, era più savio e da più stimato.

345.  Cfr. l'orazione funebre di Fedra Inghirami per Lodovico Podacataro (1505) negli Anecd. litt. I, 319. — Il raccoglitore di scandali Massaino è menzionato da Paul. Jov. Dialogus de viris litt. illustr. (Tiraboschi, T. VII, parte IV, p. 1631).

346.  Così la pensava in complesso Leone X e non a torto: per quanto i motteggiatori, dopo la sua morte, si sieno occupati di lui, non hanno potuto tuttavia traviare l'opinione pubblica già formatasi a suo riguardo.

347.  In questo caso si trovò il card. Ardicino della Porta, che nel 1491 voleva deporre la sua dignità e rifugiarsi in qualche lontano convento. Cfr. Infessura, presso Eccard, II, col. 2000.

348.  V. la sua orazione funebre negli Anecd. litter. IV, p. 315. Nella Marca di Ancona egli mise insieme una squadra di contadini, che fu impedita di agire soltanto dal tradimento del duca di Urbino. — I suoi bei madrigali amorosi, presso Trucchi, Poesie ined. III, p. 123.

349.  Com'egli adoprasse la lingua alla tavola di Clemente VII v. nel Giraldi, Hecatommithi, VII, Nov. 5.

350.  Tutti i pretesi consigli tenutisi per rovesciare la statua di Pasquino, presso P. Jov. Vita Hadriani, furono attribuiti ad Adriano e sono da riportare a Sisto IV. — Cfr. nelle Lettere de' principi I, la lettera del Negro in data 7 aprile 1523. Pasquino aveva nel giorno di S. Marco una festa speciale, che il Papa proibì.

351.  Per es. il Firenzuola, Opere, v. I, p. 126, nel Discorso degli animali.

352.  Al duca di Ferrara, 1 gennaio 1536: «Voi viaggerete ora da Roma a Napoli, ricreando la vista avvilita nel mirar le miserie pontificali con la contemplatione delle eccellenze imperiali»

353.  Come egli con ciò si fosse reso terribile specialmente agli artisti, non è qui il luogo di dimostrarlo. — Il mezzo di cui in Germania si servì la Riforma per dar pubblicità a singole questioni speciali, è l'opuscolo: l'Aretino invece è giornalista in questo senso, che cioè prova un bisogno continuo di pubblicare.

354.  Per esempio, nel Capitolo all'Albicante, cattivo poeta di quel tempo: ma sventuratamente non è possibile citare i passi relativi.

355.  Lettere, ediz. Venez. 1539, fol. 12, del 31 maggio 1527.

356.  Nel primo Capitolo a Cosimo.

357.  Gay, Carteggio, II, p. 332.

358.  V. L'imprudente lettera del 1536 nelle Lettere pittor. I, Append. 34. — Cfr. sopra pag. 198 intorno al culto reso alla casa dove nacque il Petrarca nella stessa Arezzo.

359.  

L'Aretin, per Dio grazia, è vivo e sano,

Ma il mostaccio ha fregiato nobilmente,

E più colpi ha, che dita in una mano.

(Mauro, Capitolo in lode delle bugie).

360.  Si vegga, per esempio, la lettera al cardinale di Lorena, Lettere, ediz. Venez. 1539, in data 21 novembre 1534, come anche le lettere a Carlo V.

361.  Perciò che segue veggasi Gay, Carteggio, II, p. 335, 337, 345.

362.  Lettere, ed. Venez. 1539, fol. 15, in data 16 giugno 1529.

363.  Forse era la speranza di ottenere il cappello cardinalizio e forse il timore dei processi dell'Inquisizione, che cominciavano e che egli ancora nel 1535 aveva osato biasimare (v. l. c. fol. 37), ma che dopo la riorganizzazione del Tribunale avvenuta nel 1542 improvvisamente tornarono in vita e ridussero ognuno al silenzio.

364.  Carmina Burana nella «Biblioteca della Società letteraria di Stuttgard», vol. XVI. — La dimora in Pavia (pag. 68, 69), le località italiane in generale, la scena colla pastorella sotto l'ulivo (pag. 145), la vista di un pino come albero di grande ombra in un prato (pag. 156), l'uso ripetuto della parola bravium (p. 137, 144), e più ancora la forma Madii per Maji (p. 141) sembrano appoggiare la nostra ipotesi.[365] — Il chiamarsi l'autore Gualtiero non giustifica le induzioni sulla sua origine. Comunemente si suole identificarlo con Gualtiero de Mapes, canonico di Salisbury e cappellano dei re d'Inghilterra verso la fine del secolo XII. Ultimamente si è creduto di riconoscerlo in un certo Gualtiero da Lilla o da Chatillon. Veggasi Giesebrecht, presso Wattenbach: Deutschlands Geschichtsquellem im Mittelalter, pag. 431 e segg.

365.  Veramente, studiando da capo a fondo questa Raccolta singolarissima di Canti goliardici, non si saprebbe al tutto consentire nell'opinione quì manifestata dall'illustre Autore. Il trovare in molti di essi inserite espressioni francesi, tedesche ed inglesi li farebbe credere piuttosto patrimonio di tutta Europa, come d'altra parte sarebbe anche espressamente indicato da ciò che vi si legge a pag. 252, che cioè l'ordine dei vaganti accoglie in sè uomini d'ogni nazione, teutoni e boemi, slavi e romani. Nota del Traduttore.

366.  Come l'antichità possa servir di guida e ammaestramento in tutte le condizioni più elevate della vita, ce lo mostra a grandi tratti Enea Silvio (Opp. p. 603 nella Epist. 105 all'arciduca Sigismondo).

367.  Pei particolari rimandiamo a Roscoe: Lorenzo il Magnifico e Leon X, nonchè a Voigt: Enea Silvio, e a Papencordt: Storia della città di Roma nel Medio-Evo. — Chi vuol farsi un'idea dell'estensione, che si dava agli studi degli uomini colti sul principio del secolo XVI, consulti, prima d'ogni altro libro, i Commentarii urbani di Raffaele da Volterra. Quivi si vedrà come l'Antichità costituiva la parte più sostanziale di ogni ramo dello scibile, dalla geografia e dalla storia locale sino alle biografie di tutti i potenti ed illustri personaggi, alla filosofia popolare, alla morale, alle singole scienze speciali e perfino all'analisi dell'intero sistema aristotelico, con cui l'opera si chiude. E per conoscere tutta l'importanza di quest'opera come fonte per la storia della cultura, bisognerebbe confrontarla con tutte le anteriori enciclopedie. Una trattazione circostanziata e completa di questo tema trovasi nell'eccellente opera di Voigt: Die Wiederbelebung des classischen Alterthums.

368.  L'argomento toccato qui solo di passaggio è stato in seguito svolto in grandi proporzioni nell'opera di Gregorovius «Storia della città di Roma nel Medio-Evo», alla quale rimandiamo una volta per sempre.

369.  Presso Gugl. Malmesb. Gesta regum Anglor. L. II, § 169, 170, 203, 206 (ed. Londini, 1840, vol. I, pag. 277 e segg. pag. 354 e segg.) sono ricordati molti sogni di cercatori di tesori, indi è fatta menzione di Venere apparsa sotto forma di amoroso fantasma, e finalmente si parla del ritrovamento del corpo di Pallante, figlio di Evandro, intorno alla metà del secolo XI. — Cfr. Iac. ab Aquis, Imago Mundi (Hist. patr. Monum. Script. T. III, col. 1603), sull'origine della casa Colonna con riferimento all'invenzione di tesori nascosti. — Oltre alle storie dei tesori disseppelliti, il Malmesbury riporta tuttavia anche l'elegia di Idelberto di Mans, vescovo di Tours, che è uno degli esempi più singolari di entusiasmo umanistico nella prima metà del secolo XII.

370.  Dante, Convito, Tratt. IV, cap. 5.

371.  Epp. familiares, VI, 2, (p. 657); altrove parla di Roma prima di averla veduta, (ibid. II, 9, p. 600); cfr. II, 14.

372.  Dittamondo, II, cap. 3. Il corteo fa risovvenire in parte le ingenue figure dei tre Re Magi e il loro seguito. — La descrizione della città, II, cap. 31, non è senza pregi dal lato archeologico. — Secondo il Polistore (Murat. XXIV, col. 845) nel 1366 Nicolò ed Ugo d'Este fecero un viaggio a Roma, per vedere quelle magnificenze antiche, che al presente si possono vedere in Roma.

373.  Citiamo di passaggio un fatto, che mostra come anche fuori d'Italia nel medio-evo si riguardasse Roma come una cava di marmi e di pietre: il celebre abate Suggero, che (intorno al 1140) cercava imponenti colonne per la sua fabbrica di S. Dionigi, pensò in sulle prime niente meno che ai monoliti di granito delle terme di Diocleziano, ma poi mutò consiglio: V. Sugerii libellus alter, presso Duchesne, Scriptores, IV, p. 352. — Senza dubbio Carlomagno non aveva avuto pretese così esorbitanti.

374.  Poggii Opera fol. 50 e segg. Ruinarum urbis Romae descriptio. Intorno al 1430, vale a dire poco prima della morte di Martino V. — Le terme di Caracalla e di Diocleziano avevano ancora il loro rivestimento e le loro colonne.

375.  Il Poggio, come uno dei primi raccoglitori di iscrizioni, appare da una lettera riportata nella Vita Pogii, presso Muratori, XX, col. 177, e come raccoglitore di busti col. 183.

376.  Fabroni, Cosmus, Adnot. 86. Da una lettera di Alberto degli Alberti a Giovanni Medici. — Sulle condizioni di Roma sotto Martino V veggasi il Platina, p. 277, e durante l'assenza di Eugenio IV si consulti Vespasiano Fiorent. p. 21.

377.  Ciò che segue, è tolto da Jo. Ant. Campanus, Vita Pii II, presso Murat. III, II, col. 980 e segg. — Pii II Commentarii p. 48, 72 e segg. 206, 248 e segg. 501 e altrove.

378.  Boccaccio, Fiammetta, cap. 5.

379.  Leandro Alberti, Descriz. di tutta l'Italia, fol. 285. — Secondo Leonardo Aretino (Baluz. Miscell. III, p. III) Ciriaco percorse l'Etolia, l'Acarnaia, la Beozia, il Peloponneso e vide Sparta, Argo ed Atene.

380.  Due esempi per molti: la favolosa storia primitiva di Milano nel Manipulus, (Murat. XI, col 552) e quella di Firenze, sul principio della Cronaca di Ricordano Malaspini e presso Giov. Villani, secondo il quale Firenze aveva ragione di osteggiar Fiesole anti-romana e ribelle, mentre essa nutriva sentimenti così schiettamente romani (I, 9, 38, 41, II, 2). — Dante, Inf. XV, 76.

381.  Commentarii, p. 206, nel libro IV.

382.  Mich. Cannesius, Vita Pauli II, presso Murat. III, II, col. 993. L'autore, per la pretesa parentela col Papa, non vuol essere scortese nemmeno con Nerone: egli dice soltanto: de quo rerum scriptores multa ac diversa commemorant. — Più singolare ancora parrà che la famiglia Plato di Milano si lusingasse di discendere dal grande Platone, e che Filelfo osasse dire ciò in un discorso per nozze e ripeterlo poscia in un elogio del giurista Teodoro Plato, come altresì che un Giovannantonio Plato al ritratto in rilievo del filosofo da lui scolpito (nel cortile del palazzo Magenta in Milano) non esitasse a porre un'iscrizione, nella quale si leggeva: Platonem suum, a quo originem et ingenium refert.

383.  Su ciò veggasi il Nantiporto, presso Murat. III, II, col. 1094; e l'Infessura, presso Eccard Scriptores, II, col. 1951. — Matarazzo, nell'Arch. stor. XVI, II, p. 180.

384.  Già sotto Giulio II si continuò a scavare nella persuasione di trovare altre statue. Vasari XI, p. 302, Vita di Giov. da Udine.

385.  Quatremère, Storia della vita etc. di Raffaello, ed. Longhena, p. 531.

386.  Lettere pittoriche, II, I. Il Tolomei al Landi, 14 nov. 1542.

387.  Egli voleva curis animique doloribus quacumque ratione aditum intercludere; le allegre riunioni e la musica lo attraevano moltissimo, e in tal modo sperava di prolungar la vita. Leonis X vita anonyma, presso Roscoe, ed. Bossi, XII, p. 169.

388.  Delle satire dell'Ariosto riferisconsi a questo argomento la I (Perch'ho molto ecc.) e la IV (Poichè, Annibale ecc.).

389.  Ranke, Die röm. Päpste, I, 408 e segg. — Lettere de' principi, I. Lettera del Negri, 1 settembre 1522.... tutti questi cortigiani esausti da Papa Leone e falliti.

390.  Pii II Commentarii, p. 251, nel libro V. — Cfr. anche l'elegia di Sannazzaro in ruinas Cumarum, nel libro II.

391.  Polifilo, Hypnerotomachia, senza numerazione di pagine. In estratto presso Temanza, p. 12.

392.  Mentre tutti i Padri della Chiesa e tutti i pellegrini non parlano che di una grotta. Anche i poeti fanno senza del palazzo. Cfr. Sannazzaro, De partu Virginis, L. II.

393.  Principalmente da Vespasiano Fiorentino, nel vol. X dello Spicileg. romanum del Mai. L'autore era un librajo fiorentino e spacciatore di copie, intorno alla metà del secolo XV e dopo.

394.  Come è noto, si spacciarono anche delle falsificazioni, per trarre in errore o mettere in derisione i dilettanti di antichità. Veggansi nelle opere bibliografiche, per molti altri, gli articoli concernenti Annio da Viterbo.

395.  Vespas. Fior. p. 31: Tommaso da Serezana usava dire, che dua cose farebbe, s'egli potesse mai spendere, ch'era in libri e murare. E l'una e l'altra fece nel suo pontificato. — Intorno a' suoi traduttori veggasi Aen. Sylv. De Europa, cap. 58, p. 459, e Papencordt, Gesch. der Stadt Rom, p. 502.

396.  Vespas. Fior. p. 48 e 658, 665. Cfr. J. Mannetti, Vita Nicolai V, presso Murat. III, II, col. 925 e segg. — Se e come Calisto III abbia in parte catalogato la raccolta, veggasi in Vespas. Fior. p. 284 e segg., coll'avvertenza del Mai.

397.  Vespas. Fior. p. 617 e segg.

398.  Vespas. Fior. p. 547 e segg.

399.  Vespas. Fior. p. 193. Cfr. Marin Sanudo, presso Murat. XXII, col. 1185 e segg.

400.  Come l'affare sia stato trattato, veggasi presso Malipiero, Ann. veneti, Arch. Stor. VII, II, p. 663, 655.

401.  Vespas. Fior. p. 124 e segg.

402.  Forse nella presa di Urbino effettuata dalle truppe di Cesare Borgia? — Si mette in dubbio l'esistenza del manoscritto, ma non posso indurmi a credere che Vespasiano abbia scambiato il semplice estratto delle sentenze di Menandro (forse un duecento versi) con tutte le opere del medesimo, specialmente in una serie di codici tanto completi (fossero pure il Sofocle e il Pindaro quali giunsero sino a noi). E non è neanche impossibile, che quel Menandro una volta o l'altra non torni a rivivere.

403.  Se Piero de' Medici, alla morte del re bibliofilo Mattia Corvino d'Ungheria, prevede che gli amanuensi dovranno ribassare il prezzo delle loro mercedi, poichè altrimenti non troveranno più da occuparsi presso nessuno (e voleva dire, fuorchè presso di noi), ciò non può intendersi che rispetto ai greci, poichè i calligrafi abbondavano ancor molto in Italia. — Fabroni, Laurent. Magn. Adnot. 156. Cfr. Adn. 154.

404.  Gaye, Carteggio, I, p. 164. Una lettera del 1455 sotto Calisto III. Anche la celebre Bibbia miniata di Urbino è scritta da un francese, al servizio di Vespasiano. Vegg. D'Agincourt, la Peinture tab. 78.

405.  Vespas. Fiorent. p. 335.

406.  Anche per le biblioteche di Urbino e di Pesaro (quella di Aless. Sforza, v. pag. 38) il Papa usò una simile cortesia.

407.  Vespas. Fiorent. pag. 129.

408.  Artes-Quis labor est fessis demptus ab articulis, in una poesia di Roberto Orso, intorno al 1470, Rerum ital. scriptor. ex codd. florent. T. II, col. 693. Egli si rallegra un po' prima della sollecita diffusione, che era a sperarsi, degli autori classici. Cfr. Libri, Hist. de sciences mathématiques, II, 278 e segg. — Sugli stampatori di Roma v. Gaspar. Veron. Vita Pauli II, presso Murat. III, II, col. 1046. Il primo privilegio in Venezia v. Marin Sanudo, presso Murat. XXII, col. 1189.

409.  Qualche cosa di simile c'era stato già al tempo dei copisti. V. Vespas. Fiorent. p. 656 e segg. a proposito della Cronaca del mondo di Zembino da Pistoja.

410.  Fabroni, Laurent. Magn. Adnot. 212. — Ciò accadde rispetto al libello De exilio.

411.  Cfr. Sismondi, VI, p. 149 e segg.

412.  La morte successiva di questi greci è constatata da Pierio Valeriano, De infelicitate literator. parlando dei Lascaris. E Paolo Giovio sulla fine de' suoi Elegia literaria dice dei tedeschi.... quum literae non latinae modo cum pudore nostro, sed graecae et hebraicae in eorum terras fatali commigratione transierint. (Intorno al 1540).

413.  Ranke die Päpste, I, 486. — Si confronti la fine di questa parte del nostro lavoro.

414.  Tommaso Gar, Relazioni della corte di Roma, I, p. 338, 379.

415.  Giorgio da Trebisonda assunto a Venezia nel 1459 con centocinquanta ducati a professore di rettorica, v. Malipiero, Arch. stor. VII, II, p. 653. — Sulla cattedra di greco in Perugia v. Arch. stor. XVI, II, p. 19 dell'Introduzione. — Per Rimini resta il dubbio se vi si insegnasse il greco; cfr. Anecd. litter. II, p. 300.

416.  Vespas. Fior. p. 48, 476, 578, 614. — Anche fra Ambrogio Camaldolese conosceva l'ebraico. Ibid. p. 320.

417.  Sisto IV, che alzò l'edifizio per la Vaticana e che l'accrebbe con molti acquisti, sciupò anche alcuni stipendi a pagare copisti dal latino, dal greco e dall'ebraico (librarios), v. Platina, Vita Sixti IV, p. 332.

418.  Pierius Valerian. De infelicit. literat. parlando del Mongajo. — Intorno al Ramusio cfr. Sansovino, Venezia, fol. 250.

419.  Specialmente nell'importante lettera dell'anno 1485 ad Ermolao Barbaro, presso Ang. Polit. epist. L. IX. — Cfr. Jo. Pici Oratio de hominis dignitate.

420.  Come essi medesimi si giudicassero, appare da un passo del Poggio (De Avaritia, fol. 2), ove è detto, che solo coloro possono dire di essere vissuti, che scrissero dotti ed eloquenti libri latini o ne tradussero qualcuno dal greco in latino.

421.  Libri, Histoire des sciences mathém. II, 159 e segg., 258 e seguenti.

422.  Purgatorio XVIII, dove se ne trovano esempi non dubbi: Maria s'affretta al monte, Cesare alla Spagna; Maria è povera e Fabrizio disinteressato: — In questa occasione è da far notare l'introduzione cronologica delle Sibille nell'antica storia profana, quale fu tentata nel 1360 dall'Uberti nel suo «Dittamondo».

423.  Poeta anche presso Dante (Vita nuova, p. 47) significa soltanto colui che scrive versi latini, mentre per chi scrive in italiano si usano le espressioni rimatore, dicitore per rima. Coll'andar del tempo però queste espressioni e queste idee finiscono col fondersi reciprocamente.

424.  Anche il Petrarca al colmo della sua gloria ha dei momenti melanconici e si lagna che la sua cattiva stella lo abbia condannato a vivere i suoi ultimi anni in mezzo a furfanti (extremi fures). Nella finta lettera a Livio, Opera, p. 704 e segg.

425.  Più strettamente si tiene il Boccaccio alla poesia propriamente detta nella sua lettera posteriore al Pizinga, nelle Opere volgari, vol. XVI. Ma anche qui egli non conosce altra poesia che quella dell'antichità, e ignora affatto i trovatori.

426.  Boccaccio, Vita di Dante, p. 50: la quale (laurea) non scienza accresce, ma è dell'acquistata certissimo testimonio e ornamento.

427.  Paradiso, XXV, 1 e segg. — Boccaccio, Vita di Dante, p. 50: sopra le fonti di S. Giovanni si era disposto di coronare. Cfr. Paradiso, I, 25.

428.  La lettera di Boccaccio allo stesso, nelle Opere volgari, vol. XVI: si praestet Deus, concedente senatu Romuleo...

429.  Matteo Villani V, 26. Vi fu una solenne cavalcata per la città, nella quale i seguaci dell'imperatore, i suoi baroni, accompagnarono il poeta. — Anche Fazio degli Uberti fu incoronato, ma non si sa dove, nè da chi.

430.  Jac. Volaterranus, presso Murat. XXIII, col. 185.

431.  Vespas. Fior. p. 575, 589. — Vita Jan. Manetti, presso Murat. XX, col. 543. — La celebrità di Leonardo Aretino, anche vivo, era tale che veniva gente d'ogni paese solo per vederlo, e uno spagnuolo si gettò in ginocchio dinanzi a lui. Vespas. p. 568. — Pel monumento di Guarino il magistrato di Ferrara decretò nel 1461 la somma, allora considerevole, di cento ducati.

432.  Cfr. Libri, Hist. des sciences mathémat. II, p. 92 e segg. — Bologna, come è noto, era più antica; Pisa per contrario fu una fondazione di Lorenzo il Magnifico ad solatium veteris amissae libertatis, come dice Giovio, Vita Leonis X, L. I. — L'università di Firenze (cfr. Gaye, Carteggio, I, p. 251 sino a 580 passim; Matteo Villani I, 8; VII, 90) già esistente nel 1321, con obbligatorietà di studi pei nativi della città, fu ripristinata dopo la pestilenza del 1348 e dotata di duemila e cinquecento fiorini d'oro annui, ma sonnecchiò di nuovo, e nel 1357 fu riformata una seconda volta. La cattedra per la spiegazione della Divina Commedia, fondata dietro domanda di molti cittadini nel 1373, fu in seguito unita per lo più a quella di filologia e di rettorica, anche quando la tenne il Filelfo.

433.  A questo si deve far attenzione nelle enumerazioni, come per es. nel prospetto di professori di Pavia intorno all'anno 1400 (Corio, Storia di Milano, fol. 290), dove, fra altri, figurano venti giuristi.

434.  Marin Sanudo, presso Murat. XXII, col. 290.

435.  Fabroni, Laurent. Magn. Adnot. 52, dell'anno 1491.

436.  Allegretto, Diari Sanesi, presso Murat. XXIII, col. 824.

437.  Filelfo chiamato all'Università di Pisa, recentemente fondata, pretese per lo meno 500 fiorini d'oro. Cfr. Fabroni, Laurent. Magn. Adnot. 41.

438.  Cfr. Vespas. Fior. p. 271, 572, 580, 625. — Vita Jan. Manetti, presso Murat. XX, col. 531 e segg.

439.  Vespas. Fior. p. 640. — Non mi fu mai dato di vedere le biografie di Guarino e di Vittorino del Rosmini.

440.  Vespas. Fiorent. p. 646.

441.  All'arciduca Sigismondo, Epist. 105, p. 600 e al re Ladislao Postumo, p. 605: quest'ultima lettera è in forma di trattato: De liberorum educatione.

442.  Ecco le parole di Vespasiano: a vederlo in tavola così antico com'era, era una gentilezza.

443.  Ibid. p. 485.

444.  Secondo Vespas. p. 271 qui v'era un convegno di dotti, dove anche si disputava.

445.  Veggasi la di lui vita in Murat. XX, col. 522 e segg.

446.  Ciò che di essa si sapeva prima, non può riguardarsi che come una cognizione puramente frammentaria. Una strana disputa ebbe luogo nel 1438 a Ferrara tra Ugo da Siena e i Greci venuti al Concilio intorno all'antagonismo che esiste fra Aristotele e Platone. Cfr. Enea Silvio, De Europa, cap. 52. (Opera, p. 450).

447.  Presso Nicolò Valori, nella Vita di Lorenzo il Magnifico. Cfr. Vespas. Fiorent. p. 426. — I primi protettori dell'Argiropulo furono gli Acciajuoli. Ibid. 292: Il cardinal Bessarione e i suoi paragoni tra Platone e Aristotele. Ibid. 223: Il Cusano come platonico. Ibid. 308: Narciso da Catalogna e le sue dispute coll'Argiropulo. Ibid. 571: Singoli dialoghi di Platone già tradotti da Leonardo Aretino. Ibid. 298: Primi sintomi d'influenza del neoplatonismo.

448.  Varchi, Storie fiorent. L. IV, p. 321, dove si ha un eccellente pittura del modo di vivere di Filippo.

449.  Le Biografie sopra menzionate del Rosmini (intorno a Vittorino e al Guarino), come anche la Vita del Poggio dello Shepherd, debbono contenere molte notizie su questo riguardo.

450.  Epist. 39, Opera, p. 526, a Mariano Socino.

451.  Non bisogna lasciarsi trarre in errore dal fatto che, accanto a queste lodi, sono frequenti i lamenti sulla grettezza dei Mecenati principeschi e sull'indifferenza di alcuni principi per gli uomini celebri. — Un esempio se ne ha in Battista Mantovano (Eclog. V) ancora nel secolo XV. Era impossibile piacere a tutti.

452.  Per ciò che riguarda la protezione accordata dai Papi alle scienze sin verso la fine del secolo XV, dobbiamo, per amore di brevità, rimandare alla conclusione della Storia della città di Roma nel medio-evo di Papencordt.

453.  Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis, parlando di Sferulo da Camerino. Il buon uomo non terminò il poema a tempo, e si trovò il lavoro sul tavolo ancora quarant'anni dopo. Sui magri emolumenti accordati da Sisto IV cfr. Pierio Valer. De infelicit. literator., parlando di Teodoro Gaza. — Sull'esclusione degli umanisti dal cardinalato sotto i predecessori di Leone, reggasi l'orazione funebre di Lorenzo Grana sul card. Egidio. Anecd. litterar. IV, p. 307.

454.  Il meglio nelle Deliciae poetarum italorum e nelle appendici alle diverse edizioni di Roscoe, Leone X.

455.  Pauli Jovii Elogia, parlando di Guido Postumo.

456.  Pierio Valeriane nella sua Simîa.

457.  V. L'elegia di Giovanni Aurelio Muzio, nelle Deliciae poetarum ital.

458.  La nota storia della borsa di velluto rosso con pacchetti d'oro di diversa grandezza, nella quale Leone metteva la mano alla cieca, veggasi presso Giraldi, Hecatommithi, VI, nov. 8. E per converso gl'improvvisatori latini di Leone venivano battuti a colpi di staffile, qualora avessero fatto versi non eleganti e di non giusta misura. Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis.

459.  Roscoe, Leone X, ed. Bossi, IV, 181.

460.  Vespas. Fior. pag. 69 e segg. Le traduzioni dal greco, che Alfonso fece fare, p. 93. — Vita Jan. Manetti, presso Murat. XX, col. 541 e segg. 550 e segg. 595. — Il Panormita: Dicta et facta Alphonsi, insieme alle Glosse di Enea Silvio.

461.  Ovid. Amores, III, 15, vs. II. — Jovian. Pontan. De principe.

462.  Giorn. Napolet. presso Murat. XXI, col. 1127.

463.  Vespas. Fior. 3, 119 e seg. — Volle avere piena notizia di ogni cosa, così sacra come gentile. — Cfr. sopra pag. 59 e segg.

464.  L'ultimo dei Visconti divideva la sua ammirazione tra Livio, i Romanzi della Cavalleria francese, Dante e il Petrarca. Gli umanisti, che gli si presentavano colla promessa di «dargli fama», di regola erano congedati da lui nel giro di pochi giorni. Cfr. il Decembrio, presso Murat. XX, col. 1014.

465.  Paul. Jov. Vita Alphonsi ducis.

466.  Sul Collenuccio alla corte di Giovanni Sforza di Pesaro (figlio di Alessandro, v. pag. 37), che poi lo ricompensò colla morte, veggasi a pag. 188 nota 1, 3. Presso l'ultimo degli Ordelaffi di Forlì il posto era preso da Codro Urceo. — Fra i tiranni colti va annoverato anche Galeotto Manfredi di Faenza, ucciso nel 1488 dalla propria moglie, ed ugualmente anche alcuni dei Bentivoglio di Bologna.

467.  Anecd. literar. II, p. 305 e segg. 405. Basinio di Parma si burla di Porcellio e di Tommaso Seneca; essi, come affamati parassiti, dovettero nella loro vecchiaia servire ancora in qualità di soldati, mentr'egli possedeva campi e ville. (Intorno al 1460: documento importante, dal quale emerge, che vi erano ancora degli umanisti, come i due ultimi nominati, i quali cercavano difendersi contro l'invasione sempre crescente della filologia greca).

468.  Maggiori particolari su queste tombe in Keyssler, Neueste Reisen, p. 924.

469.  Pii II Comment. L. II, p. 92. La parola historiae qui comprende l'intera antichità.

470.  Fabroni, Cosmus, adnot. 117. — Vespas. Fior. passim. — Un passo importante su ciò che i Fiorentini esigevano dai loro segretari, veggasi presso Enea Silvio, De Europa, cap. 54 (Opera pag. 454).

471.  Cfr. pag. 293 e Papencordt, Geschichte der Stadt Rom, p. 512, sul nuovo collegio degli abbreviatori fondato da Pio.

472.  Anecdota literar., I, p. 119 e segg. Arringa di Iacopo da Volterra in nome dei segretari, senza dubbio del tempo di Sisto IV. — Le pretese umanistiche degli avvocati concistoriali si basavano sulla loro eloquenza, come quelle dei segretari sulle loro lettere.

473.  Enea Silvio conobbe a fondo la vera Cancelleria imperiale sotto Federico III. Cfr. Epp. 23 e 105, Opera, p. 516 e 607.

474.  Corio, Storia di Milano, fol. 449, la lettera d'Isabella di Aragona a suo padre Alfonso di Napoli; fol. 451, 464 due lettere del Moro a Carlo VIII. — Con che è da confrontare la relazione, contenuta nelle Lettere pittoriche, III, 86 (Sebastiano del Piombo all'Aretino) del come Clemente VII, durante il sacco dì Roma, abbia chiamato a sè nel Castello i suoi dotti e ad ognuno abbia dato l'incarico separato di preparare una lettera per Carlo V.

475.  Sulla raccolta delle lettere dell'Aretino vegg. sopra pag. 223 e nota. — Collezioni di lettere latine erano state stampate ancora nel secolo XV.

476.  Si confrontino le Orazioni nelle opere di Filelfo, Sabellico, Beroaldo ed altri e gli scritti e le biografie di Giannozzo Manetti, Enea Silvio ecc.

477.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 198, 205.

478.  Pii II Comment. L. I, p. 10.

479.  Proporzionata alla gloria di chi riusciva era la vergogna di colui che dinanzi a sì numerose e illustri assemblee si confondeva e perdeva la parola. Esempi di questo genere di spavento trovansi citati in Pietro Crinito, De honesta disciplina, V, cap. 3. Cfr. Vespas. Fior. p. 319, 430.

480.  Pii II Comment., L. IV, p. 205. C'erano inoltre dei Romani, che lo aspettavano a Viterbo. Singuli per se verba facere, ne alius alio melior videretur, cum essent eloquentia ferme pares. — Il fatto che il vescovo d'Arezzo non abbia potuto prendere la parola per tutte le ambascerie mandate dagli Stati italiani al nuovo papa Alessandro VI, è annoverato dal Guicciardini (nel principio del I libro) fra le cause più serie, che contribuirono alle sventure d'Italia dell'anno 1494.

481.  Riportata da Marin Sanudo, presso Murat. XXIII, col. 1160.

482.  Pii II Comment., L. II, p. 107. Cfr. p. 87. — Anche un'altra principessa, Madonna Battista da Montefeltro, maritata in Malatesta, arringò in latino Sigismondo e Martino. Cfr. Archivio Storico IV, I, p. 452, nota.

483.  De expeditione in Turcas, presso Murat. XXIII, col 68. Nihil enim Pii concionantis maiestate sublimius. — Oltre la ingenua compiacenza con cui Pio stesso descrive i propri trionfi, veggasi il Campano, Vita Pii II, presso Murat. III, II, passim.

484.  Carlo V una volta, non potendo tener dietro in Genova alla fiorita dicitura latina di un oratore, uscì confidenzialmente col Giovio in questa esclamazione: «Ahimè, quanto aveva ragione una volta il mio maestro Adriano, quando mi prediceva, che sarei stato punito della mia poca diligenza nello studio del latino!» — Paul. Jov. Vita Hadriani VI.

485.  Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis, parlando del Collenuccio. — Filelfo, laico e ammogliato, tenne nel duomo di Como un discorso per l'ingresso del vescovo Scarampi nell'anno 1460.

486.  Fabroni, Cosmus, Adnot. 52.

487.  Il che però scandolezzò alquanto Jacopo da Volterra (Murat. XXIII, col. 171) udendo il discorso commemorativo in lode del Platina.

488.  Anecd. literar., I, p. 299, nell'orazione funebre di Fedra per Lodovico Podocataro, che il Guarino sceglieva di preferenza per tali uffici.

489.  Di simili Prolusioni molte sono conservate nelle opere del Sabellico, di Beroaldo il vecchio, di Codro Urceo ecc.

490.  La fama dell'eccellente modo di porgere del Pomponazzo è attestata da Paolo Giovio, Elogia.

491.  Vespas. Fior. p. 103. Cfr. il racconto (p. 598) del come Giannozzo Manetti venne a lui nell'accampamento.

492.  Arch. stor. XV, p. 113, 121, l'introduzione di Canestrini; p. 342 e segg. due allocuzioni militari stampate; la prima, di Alamanni, è veramente bella e degna della circostanza (1528).

493.  Su ciò Faustino Terdoceo, nella sua satira De triumpho stultitiae, lib. II.

494.  Due casi sorprendenti di questo genere in Sabellico (Opera, fol. 61-82), De origine et auctu religionis, discorso tenuto a Verona dinanzi al capitolo degli Scalzi: De sacerdotii laudibus, altro discorso tenuto a Venezia. — Cfr. pag. 312 nota 2.

495.  Jac. Volaterrani Diar. roman. presso Murat. XXIII. passim. — Alla col. 173 viene menzionata una notevolissima predica tenuta alla corte, in assenza di Sisto IV: il padre Paolo Toscanella tuonò contro il Papa, la di lui famiglia e i cardinali; Sisto quando lo seppe, ne rise.

496.  Filippo Villani, Vite, p. 33.

497.  Georg. Trapezunt. Rhetorica, il primo trattato completo. — Aen. Sylvius: Artis rhetoricae praecepta, nelle Opere, p. 992; non si occupa a bello studio che della testura dei periodi e del nesso delle parole; del resto è assai caratteristico per la perfetta cognizione delle pratiche in uso. Egli cita parecchi altri trattatisti.

498.  La di lui Vita, presso Murat. XX, è piena dei trionfi della sua eloquenza. — Cfr. Vespas. Fior. 592 e segg.

499.  Annales Placentini, presso Murat. XX, col. 918.

500.  Così si faceva col Savonarola, cfr. Perrens, Vie de Savonarole, I, p. 163. Ma gli stenografi non sempre erano in grado di tenergli dietro, come accadde anche con altri focosi improvvisatori.

501.  E non è neanche uno dei migliori. Il punto più notevole è il fervorino della conclusione: Esto tibi ipsi archetypon et exemplar, teipsum imitare ecc.

502.  Lettere e discorsi di questa specie scrisse Alberto da Ripalta: veggansi gli Annales Placentini scritti da lui, presso Murat. XX, col. 914 e segg., dove quel pedante descrive la propria carriera letteraria in modo molto istruttivo.

503.  Pauli Jovii Dialogus de viris litteris illustribus, presso Tiraboschi, tom. VII, parte IV. — Ma un decennio più tardi, sulla fine de' suoi Elogia literaria, egli scrive: Tenemus adhuc (dopochè il primato della filologia era passato alla Germania) sincerae et constantis eloquentiae munitam arcem etc.

504.  Un genere speciale costituiscono naturalmente i Dialoghi mezzo-satirici, che il Collenuccio e specialmente il Pontano imitarono da Luciano. Il loro esempio produsse più tardi quelli di Erasmo e di Hutten. — Pei trattati propriamente detti pare che in sul principio abbiano servito di modello alcuni brani delle opere morali di Plutarco.

505.  Benedictus: Charoli VIII histor., presso Eccard, Scriptor II, col. 1577.

506.  Pietro Crinito deplora questo disprezzo nel suo libro De honesta disciplina, L. XVIII, cap. 9. Gli umanisti in ciò somigliano agli autori della più tarda antichità, i quali ugualmente si discostavano dal loro tempo. — Cfr. Burckhardt, die Zeït Constantino des Grossen, pag. 285 e segg.

507.  Nella lettera al Pizinga (opere volgari, vol. XVI). — Ancora presso Raffaello da Volterra, L. XXI, il risveglio intellettuale comincia col secolo XIV. Egli è quel medesimo scrittore, i cui primi libri contengono tanti prospetti, eccellenti per quel tempo, della storia speciale di tutti i paesi.

508.  Come quelli, per esempio, che ottenne Giannozzo Manetti in presenza di Nicolò V, di tutta la Curia e di un gran numero di stranieri venuti da lontani paesi. Cfr. Vespas. Fior. p. 592, e la Vita Jann. Manetti, più volte citata.

509.  Ciò potrebbe affermarsi anche rispetto al passato, parlando del Machiavelli.

510.  Infatti fin d'allora si era trovato che in Omero, anche solo, si ha la somma di tutte le arti e le scienze antiche, e che esso è una vera enciclopedia. Cfr. Codri Urcei opera. Sermo XIII, la conclusione. — Vero è però che una simile opinione s'incontra anche in alcuni scrittori antichi.

511.  Un cardinale sotto Paolo II fece perfino insegnare l'Etica di Aristotele a' suoi cuochi. Cfr. Gasp. Veron. Vita Pauli II, presso Murat. III, II, col. 1034.

512.  Per lo studio di Aristotele in generale è particolarmente istruttivo un discorso di Ermolao Barbaro.

513.  Bursell. Annales Bonon., presso Murat. XXIII, col. 898.

514.  Vasari, XI, p. 189, 257, Vite di Sodoma e di Garofalo. — S'intende da sè che alcune donne scostumate di Roma s'impadronirono dei più armonici fra i nomi antichi, come Giulia, Lucrezia, Cassandra, Porzia, Virginia, Pentesilea ecc., coi quali noi le vediamo nominate dall'Aretino. — Gli ebrei adottarono forse fin d'allora i nomi dei grandi nemici di Roma di razza semitica, Amilcare, Annibale, Asdrubale ecc., che ancor oggi s'incontrano così frequenti presso di loro a Roma.

515.  

Quasi che 'l nome i buon giudici inganni,

E che quel meglio t'abbia a far poeta,

Che non farà lo studio di molt'anni!

così scrive beffardamente l'Ariosto, il quale del resto ebbe la fortuna di ricevere un nome armonioso (Sat. VII, vs. 64).

516.  O di quelli del Bojardo, che in parte sono anche i suoi.

517.  Così i soldati dell'esercito francese del 1512 vengono omnibus Diris ad inferos evocati. Del buon canonico Tizio, che prendeva la cosa sul serio e scagliava contro le truppe straniere un'imprecazione tolta a prestito da Macrobio, torneremo a far menzione più sotto.

518.  De infelicitate principum nelle Opere di Poggio, fol. 152: Cujus (Dantis) extat poema praeclarum, neque, si literis constaret, ulla ex parte poetis superioribus (agli antichi) postponendum. Secondo il Boccaccio (Vita di Dante, p. 74), ancora a quel tempo molti e saggi uomini agitarono la questione, perchè Dante non abbia poetato in latino?

519.  Chi vuol conoscere tutto il fanatismo che c'era in questo riguardo, vegga Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis qua e là.

520.  Veramente ci sono anche esercitazioni stilistiche confessate come tali, come per esempio nelle Orationes ecc. di Beroaldo il vecchio due novelle del Boccaccio tradotte in latino, ed una canzone del Petrarca.

521.  Cfr. le lettere del Petrarca dal mondo di quassù ad alcune illustri ombre. Opera, p. 704 e segg. Oltre a ciò, a pag. 372 nello scritto De republ. optime administranda egli dice: «sic esse doleo, sed sic est».

522.  Un'immagine buffa del purismo fanatico in Roma la dà Giov. Pontano nel suo Antonius.

523.  Hadriani (Cornetani) card. S. Chrysogoni de sermone latino liber. Principalmente la introduzione. — Egli trova in Cicerone e ne' suoi contemporanei la latinità, quale essa veramente è in sè stessa.

524.  Paul. Jov. Elogia parlando di Battista Pio.

525.  Paul. Jov. Elogia, parlando del Navagero. Il loro ideale sarebbe stato: aliquid in stylo proprium, quod peculiarem ex certa nota mentis effigiem referret, ex naturae genio effinxisse. — Il Poliziano s'inquietava già, quando avea fretta, di scrivere le sue lettere in latino. Cfr. Raph. Volat. Comment. urban. L. XXI.

526.  Paul. Jov. Dialogus de viris literis illustribus, presso Tiraboschi, ed. Ven. 1796, tom. VII, parte IV. Come è noto, il Giovio voleva per un certo tratto di tempo intraprendere lo stesso grande lavoro, che compì poi il Vasari. — In quel dialogo egli presente anche e deplora che l'uso dello scriver latino fosse assai prossimo a cessare del tutto.

527.  Nel Breve del 1517 a Franc. de' Rosi, concepito dal Sadoleto, presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi VI, p. 172.

528.  Gasp. Veronens., Vita Pauli II, presso Murat. III, II. col. 1031. Oltre a ciò furono rappresentate forse le tragedie di Seneca e alcune traduzioni latine di produzioni drammatiche greche.

529.  In Ferrara si rappresentava Plauto per lo più rifatto in veste italiana dal Collenuccio, da Guarino il giovane e da altri, per le cose che esso contiene. Ma Isabella Gonzaga si permetteva di trovarle molto noiose. — Intorno a Pomponio Leto cfr. il Sabellico, Opera, Epist. L. XI. fol. 56 e segg.

530.  Per ciò che segue veggansi le Deliciae poetar. italor.; — Paul. Jov. Elogia; — Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis; le Appendici al Roscoe, Leone X, ed. Bossi.

531.  Filippo Villani, Vite, pag. 5.

532.  Franc. Aleardi oratio in laudem Franc. Sfortiae, presso Murat. XXV, col. 384. — Nel parallello tra Scipione e Cesare il Guarino stava per quest'ultimo, il Poggio pel primo (Opera, epp. fol. 125, 134 e segg.). — Scipione e Annibale nelle miniature dell'Attavante, v, Vasari, IV. 41. Vita del Fiesole. — I nomi di entrambi adoperati a designare il Piccinino e lo Sforza, v. pag. 135.

533.  Le splendide eccezioni, in cui la vita campestre è trattata nella sua realtà effettiva, saranno anch'esse menzionate al luogo opportuno.

534.  Ristampato dal Mai, Spicilegium romanum, vol. VIII. (Circa 500 esametri). Pierio Valeriano continuò a cantare ulteriormente su questo mito: veggasi il suo Carpio nelle Deliciae poetar. italor. — Gli affreschi del Brusasorci nel palazzo Murari a Verona rappresentano la favola intera del Sarca.

535.  De sacris diebus.

536.  Per esempio, nell'Egloga ottava.

537.  Roscoe, Leone X, ed. Bossi VIII, 184: come anche una poesia di stile somigliante XII. 130. — E molta affinità si riscontra anche nella poesia di Angilberto della corte di Carlomagno. Cfr. Pertz, Monum. II.

538.  Strozii poetae, p. 31 e segg. Caesaris Borgiae ducis Epicedium.

539.  

Pontificem addiderat, flammis lustralibus omneis

Corporis ablutum labes, Diis Juppiter ipsis etc.

540.  È il posteriore Ercole II di Ferrara, nato il 4 aprile 1508, probabilmente poco prima o poco dopo la composizione di questa poesia. Nascere magne puer matri exspectate patrique, è detto verso la fine.

541.  Cfr. le collezioni degli Scriptores dello Scardio, del Freher ecc.

542.  Uzzano, v. Arch. stor. I, 296. — Machiavelli, I Decennali. — La storia di Savonarola sotto il titolo Cedrus Libani di fra Benedetto. — Assedio di Piombino, presso Murat. XXV. — Come riscontro a ciò, il Teuerdank ed altre opere rimate del nord a quel tempo.

543.  Della Coltivazione di L. Alamanni cantata in versi sciolti potrebbe affermarsi, che tutti i passi veramente poetici che s'incontrano in essa e che possono gustarsi anche oggidì, sono tolti direttamente o indirettamente dagli antichi.

544.  In questo caso dall'introduzione di Lucrezio e da Orazio, Od. IV, I.

545.  L'uso di invocare un santo protettore anche in un'impresa essenzialmente profana l'abbiamo già veduto (pag. 78) in una occasione molto più seria.

546.  

Si satis ventos tolerasse et imbres

Ac minas fatorum hominumque fraudes,

Da, Pater, tecto salientem avito

Cernere fumum!

547.  Andr. Naugerii orationes duae carminaque aliquot, Venet. 1530, in 4.º — I pochi Carmina trovansi anche per la maggior parte o completamente nelle Deliciae poetar. italor.

548.  Per dare un'idea di ciò che Leone X si lasciava dire, basta citar la preghiera di Guido Postumo Silvestri a Cristo, a Maria ed ai Santi, affinchè volessero conservare ancor lungamente al bene dell'umanità questo nume, poichè il cielo ne ha già abbastanza. Ristampata da Roscoe, Leone X, ed. Bossi, v. 237.

549.  Boccaccio, Vita di Dante, p. 36.

550.  Il Sannazzaro si burla di uno, che lo importunava con tali falsificazioni: sint vera haec aliis, mï nova semper erunt.

551.  Lettere de' principi, I, 88, 91.

552.  Malipiero, Annali veneti, Arch. stor. VII, I, p. 508. Sulla fine, riferendosi al toro, come stemma dei Borgia, è detto:

Merge, Tyber, vitulos animosas ultor in undas;

Bos cadat inferno victima magna Jovi!

553.  Intorno a questo affare veggasi Roscoe, Leone X, ediz. Bossi, VII, 211, VIII, 214 e segg. La collezione stampata, ora assai rara, di questi Goryciana dell'anno 1524 contiene soltanto le poesie latine. Vasari vide presso gli Agostiniani anche un libro speciale, dove si trovavano eziandio dei sonetti ecc. L'affiggere poesie era divenuta un'usanza così generale, che si dovette isolare il gruppo mediante un cancello, e perfino impedirne la vista. La trasformazione di Göritz in Corycius senex è tolta da un passo di Virgilio, Georg. IV, 127. La trista fine di quest'uomo, dopo il sacco di Roma, veggasi in Pierio Valeriano, De infelicitate literat.

554.  Ristampato nelle appendici al Roscoe, Leone X, e nelle Deliciae. Cfr. Paul. Jov. Elogia, parlando di Arsillo. Inoltre, pel gran numero degli scrittori di epigrammi veggasi Lil. Greg. Gyraldus, l. c. Una delle penne più mordaci fu Marcantonio Casanova. — Fra i meno conosciuti merita di esser notato Giov. Tommaso Mosconi (v. le Deliciae).

555.  Marin Sanudo, nelle Vite dei Duchi di Venezia (Murat. XXII), le riporta regolarmente.

556.  Scardeonius, De urb. Patav. antiq. (Graev. Thesaur, VI, III, col. 270) nomina, come vero inventore del genere, un certo Odaxio da Padova, intorno alla metà del secolo XV. Ma versi misti di latino e della lingua di qualche paese se ne hanno molti anche prima e dovunque.

557.  Non si dimentichi, che essi furono pubblicati assai per tempo corredati degli antichi scolii e di commenti nuovi.

558.  Ariosto, Satira VII dell'anno 1581,

559.  Di tali fanciulli se ne incontrano parecchi, ma io non posso fornire una prova di fatto di ciò che qui ho detto. Il fanciullo miracoloso Giulio Campagnola non è di quelli che furono portati in alto per viste ambiziose. Cfr. Scardeonius de Urb. Patav. antiq. presso Graev. Thesaur, VI, III, col. 276. — Il fanciullo miracoloso Cecchino Bracci, morto a quindici anni nel 1544, v. Trucchi, Poesie ital. ined. III, p. 229. — Come il padre del Cardano gli volesse memoriam artificialem instillare, e come lo istruisse, ancor fanciullo, nell'astrologia arabica, v. Cardanus, De vita propria, cap. 34.

560.  Espressione di Filippo Villani, Vite, p. 5, in circostanza analoga.

561.  Bapt. Mantuani, De calamitatibus temporum, L. I.

562.  Lil. Greg. Gyraldus, Progymnasma adversus literas et literatos.

563.  Lil. Greg. Gyraldus: Hercules. La dedica è una testimonianza parlante del primo insorgere minaccioso dell'Inquisizione.

564.  De infelicitate literatorum.

565.  In questo riguardo veggasi Dante, Inferno XIII.

566.  Coelii Calcagnini Opera, ed. Basil, 154, pag. 101, nel libro VII delle Epistole. Cfr. Pier. Valer. De infelic. literat.

567.  M. A. Sabellici Opera. Epist. L. XI, fol. 56, ed anche la relativa biografia negli Elogia di P. Giovio.

568.  Jac. Volaterranus, Diar. Roman., presso Murat. XXII, col. 161- 171-135. — Anecd. litter. II, p. 168 e segg.

569.  Paul. Jov. De romanis piscibus, cap. 17 e 34.

570.  Sadoleti Epist. 106, dell'anno 1529.

571.  Ant. Galatei Epist. 10 e 12, presso il Mai, Spicilegium roman. vol. VIII.

572.  Questo ancor prima della metà del secolo. Cfr. Lil. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis, II.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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