The Project Gutenberg eBook of Da Sassari a Cagliari e viceversa

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Da Sassari a Cagliari e viceversa

Author: Enrico Costa

Release date: March 3, 2025 [eBook #75510]

Language: Italian

Original publication: Cagliari: Giuseppe Dessì, 1902

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DA SASSARI A CAGLIARI E VICEVERSA ***

DA SASSARI A CAGLIARI E VICEVERSA


BIBLIOTECA SARDA

DIRETTORI

CAV. ENRICO COSTA. AVV. ANTONIO SCANO

Vol. X.


 
Enrico Costa

ENRICO COSTA

DA SASSARI A CAGLIARI
E VICEVERSA

GUIDA-RACCONTO

Terza edizione

coll’aggiunta del viaggio in omnibus
DA MACOMER A BOSA

SASSARI
GIUSEPPE DESSÌ
1902


PROPRIETÀ LETTERARIA DELL’AUTORE

Sassari, 1902 — Prem. Stab. Tip. Dessì



INDICE


[5]

Orario da Sassari a Cagliari
 
Dist. PREZZI STAZIONI PARTENZE
km. 1. cl. 2. cl. 3. cl.          
              
        Sassari 6 40 14 25
4 0 50 0 35 0 25 Caniga 6 50 14 34
8 0 95 0 65 0 40 Tissi Usini 7  1 14 43
14 1 60 1 15 0 65 Scala di Giocca 7 21 14 58
19 2 15 1 55 0 90 Campomela 7 32 15  8
28 3 20 2 25 1 30 Ploaghe 8 — 15 33
37 4 20 2 95 1 70 Ardara 8 21 15 52
47 5 35 3 75 2 15 Chilivani (a. 8 38 16  8
          (p. 8 55 16 30
55 6 25 4 40 2 50 Mores 9 12 16 47
68 7 70 5 40 3 10 Torralba 9 44 17 20
74 8 45 5 90 3 35 Giave 10  1 17 38
81 9 20 6 45 3 70 Bonorva 10 23 18  2
98 11 10 7 80 4 45 Campeda 11  6 18 48
107 12 10 8 50 4 85 Macomer (a. 11 25 19  8
          (p. 4 50 11 55
116 13 15 9 20 5 25 Birori 5 12 12 17
119 13 45 9 45 5 40 Borore 5 21 12 28
130 14 70 10 30 5 90 Abbasanta 5 47 12 50
137 15 50 10 85 6 20 Paulilatino 6  2 13  5
147 16 65 11 65 6 65 Bauladu 6 23 13 25
157 17 75 12 45 7 10 Solarussa 6 45 13 46
160 18 10 12 70 7 25 Simaxis 6 52 13 53
166 18 80 13 15 7 55 Oristano (a. 7  4 14  5
          (p. 7 19 14 15
184 20 80 14 60 8 35 Marrubiu 7 47 14 42
192 21 70 15 20 8 70 Uras 8  3 14 57
202 22 85 16 00 9 15 Pabillonis 8 22 15 15
210 23 75 16 65 9 50 San Gavino (a. 8 35 15 28
          (p. 8 45 5 35
216 24 45 17 10 9 80 Sanluri 8 56 15 46
223 25 20 17 65 10 10 Samazzi 9 11 16  3
229 25 90 18 15 10 40 Serramanna 9 24 16 15
235 26 60 18 60 10 65 Villasor 9 36 16 26
244 27 60 19 35 11 05 Decimomannu (a. 9 50 16 39
          (p. 9 57 16 48 7 49
247 27 95 19 55 11 20 Assemini 10  5 16 56 7 57
252 28 50 19 95 11 40 Elmas 10 15 17  5 8  7
260 29 40 20 60 11 80 Cagliari 10 30 17 20 8 22

[6]

Orario da Cagliari a Sassari
 
Dist. PREZZI STAZIONI PARTENZE
km. 1. cl. 2. cl. 3. cl.          
              
        Cagliari 6 — 7 — 16 —
9 1 05 0 75 0 45 Elmas 6 17 7 15 16 17
14 1 60 1 15 0 65 Assemini 6 26 7 24 16 26
17 1 95 1 35 0 80 Decimomannu (a. 6 33 7 31 16 33
          (p. 7 35 16 42
26 2 95 2 10 1 20 Villasor 7 51 16 58
32 3 65 2 55 1 45 Serramanna 8  2 17 10
38 4 30 3 05 1 75 Samassi 8 18 17 26
45 5 10 3 60 2 05 Sanluri 8 33 17 42
51 5 80 4 05 2 35 S. Gavino (a. 8 43 17 52
          (p. 8 48 17 57
59 6 70 4 70 2 70 Pabillonis 9  1 18 12
69 7 80 5 50 3 15 Uras 9 21 18 32
77 8 75 6 10 3 50 Marrubiu 9 36 18 48
95 10 75 7 55 4 30 Oristano (a. 10 — 19 13
          (p. 10 20 19 28
101 11 45 8 00 4 60 Simaxis 10 33 19 41
104 11 80 8 25 4 75 Solarussa 10 41 19 50
113 12 80 8 95 5 15 Bauladu 11  9 20 19
124 14 05 9 85 5 65 Paulilatino 11 37 20 47
131 14 85 10 40 5 95 Abbasanta 11 56 21  7
141 15 95 11 20 6 40 Borore 12 25 21 32
145 16 40 11 50 6 60 Birori 12 35 21 42
154 17 45 12 20 7 00 Macomer (a. 13  5 22 12
          (p. 6 — 13 35
168 18 45 12 90 7 40 Campeda 6 23 13 58
180 20 35 14 25 8 15 Bonorva 7  3 14 36
187 21 15 14 80 8 50 Giave 7 28 14 56
193 21 85 15 30 9 75 Torralba 7 37 15 10
206 23 30 16 30 9 35 Mores 8  4 15 37
214 24 20 16 95 9 70 Chilivani (a. 8 20 15 52
          (p. 8 45 16 18
224 25 35 17 75 10 15 Ardara 9  8 16 40
233 26 35 18 45 10 55 Ploaghe 9 25 17  5
242 27 35 19 15 10 95 Campomela 9 42 17 24
247 27 95 19 55 11 20 Scala di Giocca 9 55 17 36
253 28 60 20 05 11 45 Tissi Usini 10  7 17 49
257 29 05 20 35 11 65 Caniga 10 16 17 59
260 29 40 20 60 11 75 Sassari 10 25 18  9

[7]

AL LETTORE

«..... In questo libricino Enrico Costa ha immaginato una cosa nuova per l’Italia: una specie di Guida in forma di racconto. Giulio Verne ha fatto press’a poco il simile per la Scozia, col suo ultimo romanzo Il Raggio Verde. Se non che il Racconto-Guida del Costa è più pratico, e un viaggiatore vi troverà meglio il suo conto, poichè non vi mancano le notizie positive accanto alle storiche, consigli economici accanto alle descrizioni di costumi e di paesi. Il racconto fu scritto con stile semplice e piacevole, condito di saporite risate e di tenerezze gentili. È insomma un bel libricino, di cui raccomandiamo la lettura a quanti si avviano a visitare quella bella dimenticata che è la Sardegna.»

Questo, fra i molti, è il giudizio pronunciato dalla Rivista Minima di Milano (nel fascicolo di febbraio del 1883, anno XIII) quando per la prima volta apparve il libro di Enrico Costa, col titolo Da Sassari a Cagliari. Altro non aggiungiamo alle parole dell’autorevole periodico, diretto dai valenti letterati Antonio Ghislanzoni e Salvatore Farina.

[8]

Le continue ricerche di questa Guida-Racconto — di cui in breve tempo si fecero due edizioni, sebbene già pubblicata nelle appendici di due giornali quotidiani dell’isola — ci consigliarono a ripubblicarla per la terza volta.

Il viaggio Da Sassari a Cagliari fingesi avvenuto nel luglio del 1881 — l’anno susseguente a quello in cui furono inaugurate le Reali ferrovie sarde. L’orario d’allora non è più quello d’oggi; perocchè nei primi anni dell’esercizio il treno partiva da Sassari alle ore 10, anzichè alle 6,40 antimeridiane.

Perchè il lettore sia in grado di poter fare i raffronti dinanzi alle 34 stazioni che si trovano lungo la strada ferrata, abbiamo creduto utile di far precedere a questa prefazione il nuovo Orario delle ferrovie sarde per la linea Sassari-Cagliari e viceversa.

Nel darci l’autorizzazione per la terza ristampa del suo libro, l’Autore ci raccomanda di avvertire i lettori (specialmente i giovani) che molte cose sono cambiate da un ventennio a questa parte. Egli ci scrive:

«Oggi — per esempio — le Stazioni di Sassari e di Chilivani sono due edifizi comodi ed eleganti, mentre nel 1881 non erano che due baracche, o catapecchie, senza tettoie e senz’alcuna comodità; — oggi i passeggieri pranzano con tutto comodo a Macomer, mentre nell’anno suindicato pranzavano in fretta e in furia a Chilivani; — oggi il Nuovo Orario si ostina a chiamar tredici, diciotto, e ventiquattro, quelle ore che nel passato erano chiamate la una, le sei e la mezzanotte; — oggi, infine, la Direzione delle sarde Ferrovie ritiene le zanzare quali complici e sicarie della febbre malarica, mentre vent’anni or sono le considerava come insetti innocui, tutt’al più noiosi ed importuni.»

[9]

Se è vero però che sono cambiati i pranzi, gli orologi e le zanzare, è altresì vero che non sono cambiati gli uomini e la natura; epperciò questo libro può ancora correre il mondo sardo, a tutto vantaggio dei passeggieri che si annoiano, o non vogliono annoiare i loro compagni di viaggio.

Valgano le stesse considerazioni per l’altro viaggio umoristico Da Macomer a Bosa, scritto e pubblicato due anni dopo, e da noi riprodotto alla fine del presente volume.

Sassari, Settembre 1901.

L’Editore

[11]

I. Zia e cugina.

Se il Commercio avesse avuto una faccia — parola d’onore! — gli avrei dato un pugno sul muso. Figuratevi! partire nei primi di luglio da Cagliari per Sassari, dove mi fermai due giorni per sbrigare in fretta certe faccende commerciali; prendere a nolo una vettura da Zoppi; recarmi di buon mattino a Sorso per assaggiare certi vini vecchi da spedirsi in Francia; e ripartire poi in tempo per prendere il treno delle 10 antimeridiane, che doveva ricondurmi a Cagliari — erano tutte cose da far crepare un Ceccone, non che un Cecchino, come son io!

Perocchè voglio sappiate, che al fonte battesimale (per un certo riguardo a mio padrino, cavaliere) mi fu imposto il nome di Francesco — nome che conservai per pochi giorni, finchè piacque a mio padre di accorciarmelo con quello economico di Cecco, ed a mia zia di allungarmelo con quello vezzeggiativo di Cecchino.

[12]

Taccio delle peripezie del mio secondo stadio, quando cioè le nostre serve, in buona fede, mi storpiavano il nome; e la mia nutrice, baciandomi, esclamava con dolore:

— Povero cherubino! hai gli occhi così belli, e ti chiamano cieco!

Dirò solo: che oggi ho 26 anni e 29 denti — sono molto robusto e ben tarchiato, e nondimeno si continua a chiamarmi Cecchino, con mio sommo dolore, e con soddisfazione della vecchia zia, la quale si ostina a voler vedere in me il ricciutello e roseo nipotino di venti anni fa.

Potete immaginare la mia disperazione quando ogni primo d’anno vengono a visitarmi i teneri miei nipotini, i quali, per un caso singolare, hanno nomi colla desinenza in one.

Essi mi dicono con voce di zanzara:

— A molti anni, zio Cecchino!

Ed io rispondo con voce di toro:

— Grazie, Ottone! — Grazie, Gastone! — Grazie, Timoleone!

Ho tentato in famiglia di farmi chiamare col nome primitivo, ma non ci sono riuscito. E sì che Francesco è il nome di un celebre canonico innamorato!

E sono rimasto Cecchino — e Cecchino scenderò nella tomba, co’ miei cinquanta, settanta, o novant’anni.

È una vera umiliazione; ma che farvi? bisogna ch’io mi rassegni!

[13]

***

Prima di cacciarmi in ferrovia, ho bisogno di darvi un’idea del mio individuo — di ciò che fui, di ciò che sono, e di ciò che potrei essere.

Dovete dunque sapere, che io nacqui dai soliti poveri, ma onesti genitori. Non conobbi madre, perchè morì nel darmi alla luce; e contavo appena dodici anni quando perdetti mio padre.

Un buon zio, senza prole, volle educarmi e tenermi seco; una mia zia, pur sorella di mio padre, mi colmò d’attenzioni. Ella amava teneramente i suoi fratelli; e, quando mio padre morì, concentrò in me tutto il suo affetto, perchè rassomigliavo alla buon’anima — come diceva lei.

E per verità avrei desiderato d’esser meno amato da mia zia; perocchè il suo sviscerato amore fu appunto causa del mio odio implacabile per il matrimonio; e ve ne dirò la ragione.

Mia zia erasi maritata con un impiegato delle dogane — un cagliaritano — il quale aveva recato seco la moglie a Genova, dov’era stato traslocato per ragioni di servizio. Mia zia, dopo soli quattr’anni di matrimonio, era rimasta vedova, e pianse amaramente la perdita del suo adorato marito. Però, nella disgrazia, ebbe una fortuna. Un amico del compianto estinto seppe rasciugarle le lagrime, e riuscì co’ suoi leali consigli [14] a mitigare il dolore della vedovella; la quale in ricompensa di tante attenzioni, offrì la mano e passò a nuove nozze col pietoso genovese, che l’aveva consolata mentre era sola, in terra straniera, lontana dai parenti.

— Sarei rimasta eternamente vedova — diceva mia zia al secondo marito — ma, sposandomi all’unico amico della buon’anima, mi sembrerà di continuare le antiche nozze.

Non voglio qui discutere il filosofico ragionamento di mia zia; dirò solo a suo onore, che ella pensava sempre ai fratelli ed ai nipoti lasciati in Sardegna, i quali avevano lo stesso suo sangue — rosso, per lo meno.

Sterile col primo marito, mia zia ebbe un frutto col secondo: una femmina. Il commerciante attaccato alla sua Genova e a’ suoi interessi non si era mai lasciato persuadere ad abbandonare i suoi affari per venire in Sardegna a visitarvi i parenti della moglie.

Ammalatosi gravemente mio padre, e partecipata la infausta notizia alla sorella, costei venne subito a Sassari in compagnia della sua piccola Mariannina, che contava sette anni. Il marito non potè allora accompagnarle, ma promise formalmente che le avrebbe raggiunte a Sassari non appena sarebbe arrivato a Genova un certo barco di coloniali, che aspettava dalle Indie.

[15]

***

Morì intanto mio padre, raccomandandomi al fratello ed alla sorella; e l’uno e l’altra gli giurarono che si sarebbero occupati della mia educazione e del mio avvenire.

Mia zia colla piccola Mariannina si fermarono a Sassari cinque mesi, aspettando di giorno in giorno la venuta dello zio commerciante..... che non arrivava mai.

Non potrei descrivere l’affetto che nutriva per me la zia Antonica. Quando mi vedeva scherzare con la sua Mariannina, sentivasi ringiovanire di vent’anni. Ella sorrideva maliziosamente e diceva ai parenti:

— Sono destinati l’uno per l’altra. Cecchino sarà il marito di Mariannina — e Mariannina sarà la moglie di Cecchino.

La zia parlava sul serio; e sul serio i parenti prendevano le parole della zia, la quale voleva effettuare questo matrimonio per eternare la memoria dell’amato estinto. Destinavano noi bambini a far da lapidi commemorative.

Io contavo allora dodici anni e mia cugina otto.

A tavola ci facevano sedere vicini; quando si andava in campagna ci facevano camminare a braccetto, a capo della brigata; e noi sentivamo i parenti ridere e chiacchierare alle nostre spalle.

— È proprio una bella coppia! — essi dicevano. — Sembrano [16] creati apposta, l’uno per l’altra!

Vi era però un serio guaio. Io provava una profonda avversione per la piccola Mariannina — e Mariannina mi voleva bene come il fumo negli occhi.

Figuratevi! — una bambina permalosa, mal educata — una streghetta che si divertiva a tirarmi sul muso i noccioli delle ciriegie e le buccia dell’arancia.

Un giorno che io le tenevo dietro, pregandola che mi restituisse una carrozzina rubatami, mi lasciò cadere sul muso un ceffone che mi fece venir giù il sangue dal naso.

Un’altra volta che essa ruppe una gamba al più caro de’ miei burattini, le diedi un tal pizzicotto, che n’ebbe i segni sul braccio per una settimana.

Vedete bene di qual natura era l’amore che da bambini ci portavamo, e sul quale si fondavano tutti i sogni matrimoniali della zia e dei parenti.

Vi era però una cosa assai strana. Tanto l’uno quanto l’altra ci scambiavamo i dispetti alla chetichella, senza formulare alcun atto d’accusa. Comprendevamo, sebbene bambini, che il nostro buon accordo rendeva felici i nostri parenti in generale — e mia zia in particolare. Eravamo ancora in fasce, e già sentivamo l’utilità delle ipocrisie sociali.

[17]

Un giorno che Mariannina versò sul mio compito scolaresco l’inchiostro del suo calamaio, le diedi un leggero colpo sulla mano: ed ella, di rimando, un bel pugno sulla mia tempia destra. Un’ora dopo io aveva l’occhio gonfio e violaceo.

Spaventati i parenti accorsero a me:

— Che hai, Cecchino?

— Ho dato nello spigolo della credenza e... mi son fatto male.

— Egli correva, poverino! — aggiunse con tutta ipocrisia la cuginetta, lanciandomi una occhiata tenera, e quasi pregandomi di convalidare la bugia.

E accadde anche di peggio. Io aveva, come tutti i bambini, una smania per i fucili, i tamburi e le sciabole. Una sera che io aveva messo in fila le sedie del salotto, ed armato di due spalline di carta comandavo il mio reggimento di legno, non so perchè, la cuginetta mi disse pestando i piedi:

— Perchè parli colle sedie, e mi lasci in un canto come uno straccio?

— Perchè le sedie sono più disciplinate di te! — risposi coll’autorità di un generale ad un caporale di settimana.

Ma la mia cuginetta non teneva troppo alla disciplina militare. Furibonda mi strappò la sciabola di mano, e me la lasciò cadere sulla testa, producendomi una ferita non troppo leggera. Ai miei strilli accorse la zia; ma io non mi scomposi:

[18]

— Sono caduto sulla spada e... mi sono ferito.

— Non è sua colpa, poverino! — esclamò la ragazza con faccia tosta.

Tutto questo per provarvi come si andava d’accordo fra noi due, e qual dolce preludio si preparava per la nostra futura felicità coniugale, sognata, progettata, e stabilita dal nostro consiglio di famiglia.

Mariannina era brutta; aveva la fronte bassa e coperta per metà da una peluria che la faceva somigliare ad una grossa pesca; aveva il colorito bruno, tendente al verde, ed i capelli raccolti in ciuffo sulla nuca.

Mia cugina mi diceva sempre: — Tu sei magro come un zolfanello, o Cecchino; e con quel naso adunco sembri l’aquilotto che è dipinto sul mio libro di lettura.

— E tu, Mariannina — io le rispondeva — con quel ciuffo, sembri il giapponese che è dipinto sul ventaglio della mamma.

E mentre noi, raccolti in un canto della sala, ci scambiavamo questi complimenti, la madre di mia cugina diceva a mio zio:

— Osservali bene. Non ti sembrano veramente creati l’uno per l’altra? Dio li fa — e Dio li accoppia!

[19]

II. Cugina e zia.

Mia zia e mia cugina — venute a Sassari per una ventina di giorni — vi erano rimaste cinque mesi, sempre aspettando da Genova il benedetto commerciante; il quale, alla sua volta, aspettava sempre dalle Indie il suo carico di coloniali. — Stanca dal lungo aspettare, finalmente la zia si decise di far ritorno a Genova con la bambina.

Non sfumarono però, colla partenza de’ miei parenti, le idee sul nostro matrimonio. In ogni lettera della zia Antonica si accennava sempre a quell’avvenimento in erba; e lo zio non mancava mai di comunicarmelo vagamente, con tutta prudenza, per non mettere in malizia i miei tredici anni. Si voleva, dirò così, ungere la mia tenera memoria, per non farvi irrugginire i ricordi della cuginetta.

Partita la sorella, mio zio si ritirò meco a Cagliari, dove avevamo amici e parenti; e di più era stato colà invitato per concorrere ad un’impresa stradale, che poteva esser fonte di lucrosi benefizî — come la fu di fatto.

I guadagni che traeva dalle sue speculazioni, ed il clima di Cagliari che confaceva alla sua salute, invogliarono e sedussero mio zio a stabilire definitivamente il suo domicilio in quella [20] città. Sapendosi troppo solo, ed abbisognando di qualcuno che mi sorvegliasse, egli ritirò presso di sè una sorella di mia madre — una vecchia sulla cinquantina, la quale non aveva mai voluto sapere di mariti, forse perchè i mariti in erba non vollero mai saper di lei. — La mia zia materna aveva dello spirito ed una certa qual pratica degli affari — motivo per cui aiutava lo zio nella corrispondenza commerciale.

Io rimasi sempre con loro. Fatti gli studi liceali, mio zio mi consigliò di lasciar le scuole per dedicarmi addirittura al commercio; perocché — diceva lui — di medici e di avvocati ce ne sono troppi, e sorpassano di gran lunga il numero degli ammalati e dei delinquenti.

Io dunque aiutavo mio zio negli affari; e siccome avevamo a Sassari un corrispondente socio, così il mio còmpito era quello di andar su e giù per l’isola, come un commesso viaggiatore, per contrattazioni, imprese, aste, e che so io.

Vi dirò francamente che non mi sentivo la vocazione per il commercio — tutt’altro: — lo subivo, e nulla più. Di mente un po’ esaltata, tratto tratto mi divertivo a cacciarmi nelle nuvole, e là mi permettevo di sognare. Qualche occupazione, però, bisognava averla; ed io non volevo recar dispiaceri allo zio, il quale mi amava teneramente e pensava al mio avvenire.

Domanderà il lettore: — ma qual’era la tua vocazione? Non saprei per vero accertarla. Se [21] il dolce far niente fosse stato un mestiere, forse avrei scelto quello.

Pure, mi sentivo contento; non mi mancava nulla, ed ero soddisfatto in tutti i desideri. E sarei stato completamente felice, se la zia stabilita a Genova mi avesse lasciato in pace colle sue stranezze. Ella però, nelle lettere che scriveva al fratello, non mancava mai di mandarmi i saluti a nome della sua Mariannina, dicendo che quanto prima sarebbe venuta a Cagliari per combinare quel certo affare, il quale era sempre in cima a tutti i suoi pensieri. — Per fortuna, il caro zio genovese, colle sue Indie e co’ suoi coloniali, non si decideva ad abbandonar Genova, nè voleva affrontare una traversata di 34 ore di mare per venirci a trovare in Sardegna.

Queste lettere mi avevano perseguitato per ben dieci anni — ma poi erano diventate sempre più rare, o, per meglio dire, mi si leggevano a lunghissimi intervalli.

La zia non mancava mai di prendere informazioni sulla mia condotta, su’ miei costumi, su’ miei studi: e poi scriveva, che la Mariannina s’era fatta grande, belloccia, spiritosa, e che se io avessi fatto da bravo, ecc. ecc.; e qui il Gloria del solito salmo.

Lo ripeto: bastò siffatta insistenza, ed il continuo supplizio della zia, per farmi prendere avversione al matrimonio, che detestavo con tutta l’anima. Amavo la libertà; e quel legame a corso [22] forzoso, quella trista predestinazione, mi producevano uno strano malumore, che non riuscivo a vincere. Capivo il matrimonio come una disgrazia, come una tegola che ci caschi sulla testa, come la forza irresistibile di certi legali; ma non potevo capire il matrimonio premeditato, senza circostanze attenuanti. Mi facevo bensì un’idea del volontariato — non però della Leva matrimoniale.

L’uomo è creato per cader da sè nella pania; ma guai se egli si accorge che lo si vuole impaniare! Vantate la libertà ad uno scappolo — ed egli persisterà a voler diventar schiavo; condannatelo alla schiavitù — ed egli vorrà esser libero ad ogni costo.

E così fu di me. Mia zia scriveva che io facessi da bravo; ed io cercavo di fare il discolo, sperando di allontanare dal mio capo la tegola di mia cugina — di quella fanciulla dalla fronte bassa e pelosa, e dal colorito giallo-olivastro, la quale si era divertita a tirarmi sul muso i noccioli delle ciriegie e la buccia degli aranci.

Vi era un’altra ragione che mi rendeva odiosa mia cugina: il suo nome. Molte volte, mentre passeggiavo per Cagliari ripensando alla mia infanzia, sentivo cantare per le vie quella canzone triviale: Mariannina sta malata; e provavo una stretta al cuore.

Lo ricorderò sempre. La zia Efisia — sorella di mia madre — mi pregò un giorno di recarmi [23] al Mercato per far la spesa. Prendo meco un monello (piccioccu de crobi), e dopo un’ora torno a casa. Giunto sotto la statua di Carlo Felice, il monello comincia a intonare con voce acuta e stridula:

Mariannina sta malata,

L’è vinutu lu dolori.....

Mi rivolsi a quel mascalzone, e gli gridai inferocito:

— Finiscila, maldicente!! — E poi tra me: — fosse ammalata davvero, e crepasse!

Eppure, anche in mezzo a siffatti spasimi, fino all’età di vent’anni non ebbi l’ardire di oppormi al desiderio dello zio, che mi parlava della cuginetta con tanto trasporto.

Un bel giorno mi feci coraggio, e gli dissi risolutamente che non pensavo a prender moglie perchè non ne sentivo il bisogno; e se la cugina a Genova rifiutava i partiti per mio riguardo, faceva una grossa corbelleria; e se poi non trovava mariti lassù, che avesse pazienza, perchè io non doveva servire di para cugine.

Un altro giorno mi spiegai più chiaramente. Dissi allo zio che il matrimonio era un sacramento come l’estrema unzione, e l’amministrarmelo in quel modo significava che mi si credeva un giovine morto — ciò che non era vero, perchè avevo gli occhi aperti ed ero più vivo di quello che credessero i miei parenti.

[24]

Come crescevano gli anni, sentivo in me crescere l’avversione per la zia di Genova. Cominciavo a persuadermi che il suo affetto era interessato; che ella cercava di pescare un marito alla figlia — e che io doveva essere il pesce pescato.

Non so dirvi ciò che pensasse mio zio; so solamente che da quel giorno mi lasciò in pace; ed io non pensai che a divertirmi, facendo all’amore anche con tre donne alla volta.

Una domenica, a pranzo, lo zio mi annunziò che la madre di Mariannina m’invitava a Genova per passare un mesetto presso la sua famiglia. Io mi guardai bene dall’accettare, e pregai lo zio di rispondere che gli affari commerciali non permettevano la mia assenza dall’isola.

Un mese dopo ricevemmo la notizia che la zia Antonica aveva deciso di recarsi colla figlia a Cagliari. Un telegramma da Genova ci avrebbe indicato il giorno della partenza, e così noi potevamo assistere al loro arrivo sul molo.

Potete immaginare il mio rammarico! Ogni qual volta entrava un piroscafo nel porto, sentivo venirmi la pelle d’oca. In ogni donna che sbarcava io vedeva Mariannina o la zia Antonica.

Ero appunto in preda a quest’agitazione febbrile nei giorni che da Cagliari mi recai a Sassari ed a Sorso — e da Sorso di nuovo alla stazione di Sassari, per approfittare del treno delle 10, che doveva ricondurmi al centro dei nostri affari e d’ogni mia sventura.

[25]

Vedrete ora come vanno le cose del mondo; e come talvolta, fuggendo da una donna, si finisce per cadere in un’altra; — vedrete il mezzo escogitato per liberarmi dalla mia cuginetta, mandando in fumo i progetti della zia; — vedrete come basta talvolta una piccola scintilla per produrre gran fiamma — e come un malanno da noi prescelto si preferisca ad un malanno che ci viene imposto.

III. Dalla stazione di Sassari a quella di Tissi-Usini.

Era il 3 luglio del 1881, in domenica. Certe date non possono dimenticarsi!

Arrivai grondante di sudore alla stazione, appena in tempo per prendere allo sportellino l’ultimo biglietto di seconda classe, per Cagliari. Attraversai in tutta furia la sala d’aspetto — dopo aver sottoposto il mio bianco biglietto al taglio secco della guardia — ed uscii di nuovo all’aperto.

Non vi era alcun passeggiero — tutti erano già a posto. Una guardia mi vide, e, borbottando, riaprì uno sportello di seconda, che allor allora aveva chiuso.

— Faccia presto! — mi gridò con un certo [26] tono esprimente rimprovero, impazienza, e collera repressa.

Io sudava orribilmente sotto i raggi del sole di luglio e sotto il peso de’ miei bagagli.

Buttai in mezzo al vagone, alla rinfusa, la valigietta, poi la borsa da viaggio, il bastone, l’ombrello, un pacco consegnatomi a Sorso, e un cestino contenente un pollo freddo, pane, prosciutto, formaggio, e mezza dozzina d’aranci — tutte proviste da bocca, comprate in fretta e in furia per frenare in viaggio la rivoluzione dello stomaco, digiuno fin dalla sera precedente.

Già mi accingevo a spiccare il salto nel vagone, quando la mano invereconda della guardia mi diede una spinta, e chiuse lo sportello dietro di me.

Mi trovai inginocchiato su’ miei effetti di viaggio, che ingombravano lo scompartimento.

— Scusino, signori — dissi rivolto a’ miei compagni di viaggio, senza pur guardarne uno in faccia. E mi accinsi a distribuire ad uno ad uno tutti i miei oggetti sulla rete dei due portabagagli, approfittando dei vani lasciati liberi dai miei predecessori. Tutto ciò in un baleno, in meno che io lo dica.

Tuttavia il treno non si era mosso. Vi erano parole d’ordine da scambiarsi fra ingegneri e assistenti, fra capo stazione e capo movimento.

Cacciai la testa fuori del finestrino per salutare la mia Sassari, che da parecchi anni io non [27] rivedeva che a sbalzi, a lunghi intervalli, stante l’ufficio di commesso viaggiatore a cui m’avevano condannato. Fissai quella povera stazione, eterna nella sua provvisorietà, gettata in mezzo a quel campo roccioso, indecente, accidentato, pieno d’erbe, di carbone... e di altri commestibili. Oltrepassai, col pensiero, il tetto della stazione, e vidi al di là le torri smozzicate che domandano con insistenza il riposo della tomba; vidi quella fetta di melone sulla cui fronte hanno scritto Dazio Comunale; vidi le case rachitiche e lo steccato imponente che annunzia al forestiero l’ingresso solenne alla città; vidi il botteghino della stazione, attorno al quale ronzano quei volatili importuni che vivi si combattono e morti si temono; notai le guardie daziarie, armate d’un lungo spiedo, che vedono assessori dappertutto; — e feci caldi voti perchè Governo, Compagnia Reale e Municipio si mettano d’accordo una buona volta per l’erezione della stazione definitiva, a cui è affidato l’avvenire della Sassari settentrionale.

Ma la campana suona; si sente lo squillo del corno, un fischio acutissimo, ed una scossa che ci fa balzare sui sedili; e finalmente il treno, lento lento, si muove — mentre i molti passeggieri si fanno ai finestrini per salutare colla mano o coi fazzoletti i pochi amici ed i parenti, che son venuti fin là, per amore o per forza, sfidando la polvere ed anche l’insolazione.

[28]

Pare che tutto si muova intorno a noi: — a destra la chiesa di San Paolo, il Campo dei morti e lo stabilimento Princivalle — a sinistra il Gazogeno, la chiesa di Santa Maria e lo stabilimento delle Concie.

Si entra subito nei primi oliveti, i quali per un buon pezzo fanno ala alla ferrovia. Col verde grigio del fogliame e coi tronchi asciutti e angolosi spirano nell’anima una soave malinconia.

Ecco una pianura coltivata a cardi, e qua e là un po’ di frutteti. E dopo aver tagliato per due volte la strada nazionale di Alghero, il treno segue la valle, serpeggiando fra una doppia catena di piccole colline.

Siamo a Caniga, ma il treno non vi si ferma. La stazione è fatta per comodo dei proprietari e lavoratori delle campagne circonvicine.

Si attraversa una brevissima galleria, sulla cui roccia esterna si arrampica l’edera. Seguiamo sempre la strada fra le colline rivestite di frutteti; qua e là pioppi, o qualche casetta microscopica, isolata, la quale subito sparisce, quasi vergognandosi della sua dimessa toeletta.

Nei vagoni si balla, perocchè le irregolarità della linea ferrata ci regalano certe scosse brusche che ci fanno trasalire.

Ecco il fischio d’avviso; siamo alla stazione di Tissi-Usini, così battezzata per avvertirci che siamo ben lontani da Usini, e ben lontani da Tissi.

[29]

Prima, però, d’andare avanti colla ferrovia, sento il bisogno di tornare indietro colla narrazione. Voglio farvi fare la conoscenza de’ miei compagni di viaggio.

IV. I compagni di viaggio.

Uscito il treno dalla stazione di Sassari, e collocati a posto i miei bagagli, tolsi dalla mia borsa un berretto grigio da viaggio, che mi cacciai in testa; e mi diedi a gettare occhiate all’intorno, per far l’analisi de’ miei compagni d’infortunio.

Lo scompartimento di seconda classe, dove mi avevano cacciato quasi per forza, non conteneva che quattro individui, disposti ai quattro angoli del vagone.

Alla destra del convoglio (verso ponente) erano due vecchi di diverso sesso; alla sinistra una fanciulla ed un uomo sulla quarantina: due coppie che appoggiavano le teste agli angoli comodi e privilegiati, i quali spettano di diritto al primo occupante.

Io formava il N. 5, e mi ero seduto fra la vecchia e l’uomo sulla quarantina — vicino, però, a quest’ultimo; e, per conseguenza, quasi di fronte alla fanciulla. I quattro fortunati avevano a loro disposizione un finestrino per ciascuno; la mia [30] testa era invece condannata a dondolare come il pendolo d’un orologio.

Data la prima occhiata in giro, provai uno sconforto ed una speranza: lo sconforto di non poter fumare perchè vi erano delle signore — e la speranza che qualche mio compagno scendesse ad una stazione intermedia, per lasciarmi godere i comodi del viaggio. E questo desiderio non mi si ascriva a malignità. Dentro un vagone siamo tutti egoisti; e mentre per compiacenza sorridiamo al compagno, dandogli magari il ben trovato, in fondo all’anima desideriamo di rimaner soli, per star meglio. Siamo egoisti, e non se ne parli più!

Rassegnato, per il momento, al mio destino, cominciai l’esame de’ miei quattro testimoni, in compagnia de’ quali correvo il pericolo di rimanere per nove ore e quaranta minuti!

L’uomo sulla quarantina, che sedeva alla mia destra, aveva un largo cappello di paglia, un fazzoletto di seta al collo, una corta giacca di velluto verdone, ed una stupenda barba alla Cialdini. Dai molti pacchi e pacchettini che aveva vicino, e da un piccolo fagotto che teneva con delicatezza sulle ginocchia, rilevai che era un proprietario dei villaggi; forse un medico, un assessore, od anche un sindaco venuto a Sassari per questioni di carta bollata, e incaricato in pari tempo dalla famiglia dell’acquisto di oggetti cittadini. Di costui però non voglio occuparmi.

[31]

Sedute a destra — come dissi — erano due persone attempate: un signore ed una signora. Il vecchio, (come la fanciulla) dava le spalle alla vaporiera; la vecchia gli stava di fronte.

La signora, quantunque appassita, vestiva con una certa eleganza — e ci teneva! Veduta alle spalle si sarebbe scambiata per una fanciulla ventenne: veduta di faccia le si sarebbero dati sessantacinque anni; fatta la media non poteva vantare che un mezzo secolo. Il suo volto era tutto a grinze ed a rughe. Aveva occhi piccini, naso aquilino, sopracciglia folte, labbra sottilissime, e capelli grigi, ma pettinati all’ultima moda. Le sue mani erano secche, piccole, e con tre tendini in rilievo che ti facevano pensare alle corde d’un contrabasso. Aveva un’aria piuttosto distinta, ma la sua fisonomia era tutt’altro che simpatica. Vi era della strega in quello sguardo; vi era del maligno su quella labbra!

Fu questa l’impressione da me ricevuta; nè potei modificarla durante il viaggio, quantunque ben sapessi che una donna vecchia, la quale accompagna una giovane fanciulla, ci riesce d’ordinario pesante.

E che la vecchia fosse una madre, o una stretta parente della fanciulla, non tardai a indovinarlo dalle occhiate rapide, ma significanti, che le rivolgeva ogni momento, pur fingendo discorrere col vecchio marito, o di guardare fuori del finestrino.

[32]

L’uomo che le stava di fronte aveva invece una fisonomia simpatica; un viso grasso di un bel colorito, con una corta barba brizzolata; un sorriso di bonarietà sulle labbra; una dignità diplomatica nello sguardo. Vestiva con eleganza, e mostravasi quasi fiero della sua rispettabile pancia nascosta pudicamente sotto la candidezza di un corpetto a bottoni di madreperla, sul quale scintillava una grossa catena d’oro, con relativi ciondoli.

Il contegno di quell’uomo era tra l’indifferente e l’annoiato. Aveva con sè un fascio di giornali, che scorreva da capo a fondo cogli occhi semichiusi, armati d’occhialini montati in oro. Di tanto in tanto interrompeva la lettura per rispondere sorridendo alla vecchia; ma era un sorriso distratto, di pura compiacenza. Non posso dirvi quali erano le debolezze di quell’uomo — certo, fra queste, non contava la curiosità. Era un buon marito — ma rigido, metodico, ordinato. Dico marito, perchè una donna vecchia non può viaggiare che in compagnia del marito o del figlio.

Non mi resterebbe a parlarvi che del quarto personaggio — della fanciulla — ma la penna si rifiuta a descriverla. Era sui diciott’anni, svelta, dalle forme fidiache, le quali si rivelavano in pronunciati contorni, mercè le esigenze del figurino che imprigiona il corpo delle donne in vesti succinte, ma ricche di pieghe, di sbuffi, e di altri ammenicoli della specie.

[33]

Che dirvi? Immaginatela: capelli neri raccolti con artistica noncuranza sotto al cappellino, con certi riccioli che scendevano sul collo, sulle tempie e sugli occhi, senza essere importuni — anzi desiderati, perchè la mano, lungi dallo scacciarli, li carezzava ogni tanto invogliandoli a rimanere; un paio d’occhi neri, grossi, espressivi; un mento rotondo con tendenza a duplicarsi; labbra rosee con certi denti che approfittavano del più leggero sorriso per mostrare la loro candidezza; un paio di braccia grassotte, per metà nude, e terminanti in una mano piccina con dita affusolate; insomma, una di quelle creature in cui noi c’imbattiamo una volta nella vita, e che decidono talvolta del nostro avvenire.

Chi era dessa?... la fanciulla che sbucciava dalla bambina; la bambina spensierata che sorrideva all’abito lungo cui andava incontro, pur voltandosi con dolore a riguardare la bambola che si lasciava dietro. Aveva l’ingenuità della collegiale — la fiducia illimitata della giovinetta — il ritegno istintivo della donna. Ella per certo entrava in quella fase delicata in cui la mamma prescrive alla fanciulla certe regole di contegno, che la bambina non comprende; età molto critica per le cure materne. Come gli orologi usciti appena dalla fabbrica, queste fanciulle-bambine, o bambine-fanciulle, sono ben difficili a regolarsi. Non c’è caso — o anticipano... o ritardano troppo!

[34]

Una sola cosa non sapevo spiegarmi: Perchè quella profonda impressione al solo vederla? — Quali cause avevano provocato quella simpatia fulminante?

Le cause forse erano tre.

Prima causa: la convinzione di aver trovato nella cara fanciulla ciò che in altre non avevo ancora trovato: l’armonia cioè di quel complesso di qualità fisiche di cui si subisce il fascino senza aver tempo di discuterlo. Chi lo sa? forse era suonata la mia ora; la società reclamava l’opera mia di marito e di padre; la natura, inesorabile, mi aveva fatto sentire la sua voce prepotente nella velocità di un treno ferroviario.

Seconda causa: l’insistenza tiranna della zia Antonica, la quale voleva impormi il legame di una moglie antipatica; e per ciò il bisogno in me di trovare più amabili tutte le altre donne.

Terza ed ultima causa. Il trovarmi rinchiuso in un vagone di seconda classe, condannato a rimanervi per dieci ore di seguito, aveva in me destato il bisogno di amare qualche cosa. In quella solitudine, e con quel caldo soffocante, la bella fanciulla mi apparve come un’oasi nel deserto.

Oh, quanto avrei dato per sederle di fronte! Quanto avrei dato per poter buttar fuori dal finestrino quel sindaco, assessore, o medico importuno!

[35]

V. Da Tissi-Usini a Ploaghe.

Si continuò a correre fra le due catene di colline, seguendo sempre la valle serpeggiante. Dappertutto una gradevole e amena variazione di verdi — dal verde chiaro dei grani al verde cupo della meliga e dei ceci. Sparsi qua e là, sulla tenera erbetta, erano i panni del bucato, esposti al cocente sole di luglio, e sorvegliati da quattro o cinque lavandaie color di bronzo, intente a ripiegarli o a distenderli a terra. Pareva un immenso campo preparato per il pranzo di mille cacciatori; non mancavano che le posate, i bicchieri... e le vivande.

Il fiumicello che serpeggia per quella valle, delizia delle lavandaie, rifletteva il cupo verde delle colline rivestite d’oliveti, e l’alto fusto di qualche pioppo solitario.

Ecco a sinistra, ai piedi d’una collina, (per metà vestita e per metà nuda, come la figlia di Madama Angot) un bel molino idraulico, primitivo.

Il caldo era soffocante. Io applaudiva coll’anima innamorata quella natura rigogliosa; ma la vaporiera, quasi per farmi dispetto, fischiava, fischiava sempre. Essa era ne’ suoi diritti, perchè forse non era contenta dello spettacolo. Era un’abbonata — io invece avevo pagato il mio biglietto [36] alla stazione di Sassari: venti lire, e sessanta centesimi!

Più in là altro molino pittoresco, circondato da quattro o cinque salici piangenti; i quali salici non so perchè piangessero in mezzo alla festa della natura, mentre i pioppi presentavano al sole le tremule foglie dalle faccie a due colori, ed i canneti si dondolavano con vezzo, agitando in aria i loro ciuffi all’americana.

Ed eccoci arrivati alla stazione di Scala di Giocca — pittoresca scala a chiocciola che venne posta in oblìo dopo la costruzione delle ferrovie. Il treno vi arriva da Sassari in trenta minuti; cioè a dire, quasi nello stesso tempo che s’impiega recandovisi a piedi; e ciò per il giro vizioso della linea di ferro, che ha voluto evitare ponti e gallerie. La Scala di Giocca è alta più di 200 metri; «essa sarà sempre un piccolo Moncenisio, ed un monumento nell’arte moderna» — scrive Lamarmora, a cui lascio tutta la responsabilità della sua asserzione. Gli amanti delle emozioni possono vedere da questo punto la famosa rocca di Chichizzu, a cui la tradizione annette non so quanti suicidii, e che pur oggi dà origine ad una delle bestemmie del popolo sassarese.

La natura, in quel giorno, parlava un nuovo linguaggio. Io l’ammirava dai finestrini, i quali me la presentavano in una svariatissima collezione di paesaggi addirittura incorniciati. La presenza [37] della bella ragazza, nell’angusto ambiente del vagone, mi aveva reso poeta. Io dava nell’idillio — nell’arcadico!

Un solo dubbio mi torturava. Dove andava quella famiglia? Avrebbe essa continuato il viaggio fino a Cagliari — oppure sarebbe discesa in qualche vicina stazione? — Per certo si trattava di forestieri che venivano la prima volta in Sardegna; perocchè la curiosità colla quale la fanciulla guardava dal finestrino ben me lo diceva.

Ma chi erano costoro? — chi era quel signore dall’aria nobile e distinta? Non vi era dubbio — un alto personaggio traslocato, un impresario di strade, o un ingegnere di miniere venuto da Roma per qualche perizia. In questo caso non poteva essere diretto che a Cagliari, a Iglesias, o a San Gavino Monreale. Restava un dubbio: perchè in seconda classe? Capriccio forse — forse economia!

Si camminava già da mezz’ora, e nessuno di noi aveva aperto bocca. E accade sempre così. Si comincia con un silenzio, profondo; ognuno si chiude in sè stesso, ma allo stesso tempo non trascura di sbirciare i compagni di viaggio, per avere un’idea, all’ingrosso, del loro valore sociale. Ogni ritegno è però inutile — si ha bisogno di rompere un silenzio angoscioso, che rende più insopportabile la noia di una strada interminabile. Si transige allora colla propria severità — e si finisce per diventare affabili, compiacenti, [38] e cortesi, verso gli stessi compagni che si guardavano prima con diffidenza.

Io cercavo di attirarmi l’attenzione della vecchia con certe occhiate, nelle quali ponevo tutta la grazia e la bontà che mi riusciva raccogliere dal cuore e dal cervello. Mi accorsi però che la vecchia era una fortezza inespugnabile. Chiusa in sè stessa, non mi lasciava trasparire il minimo segno che mi autorizzasse alla confidenza. Essa teneva le labbra incollate, per non dar campo al sentimento di manifestarsi.

Del vecchio non mi curavo perchè leggiucchiava sempre — eppoi era miope: circostanza a mio favore. Dell’uomo dal cappellone di paglia non volevo occuparmi, perchè lo ritenevo assente... e ben lontano.

Non rimaneva dunque che la fanciulla, sulla quale era rivolta tutta la mia attenzione. Ogni qualvolta ella guardava verso la campagna, le piantavo gli occhi addosso. In quella mezz’ora di viaggio non avevo fatto che analizzarla dalla punta del cappellino alla punta degli stivaletti. Tutti i più piccoli particolari del suo abbigliamento, i disegni delle stoffe, i fiori della sua acconciatura, mi erano noti. La sapevo a memoria.

Per certo ella si era accorta delle mie occhiate insistenti, perchè di tanto in tanto aggiustava qualche nastro, o qualche sbuffo, che supponeva fuori di posto. Più volte i suoi occhi si erano incontrati ne’ miei; e allora, o si era messa bruscamente [39] a guardare la campagna, oppure ad accarezzare un braccialetto d’argento in forma di biscia, attortigliato al suo braccio destro, per metà nudo. Altro braccialetto d’oro portava al polso della mano sinistra, sul quale era incisa una parola: ricordo. Lo dirò io? quel motto mi spiacque. Quali ricordi poteva avere una fanciulla di diciott’anni? A quell’età non si hanno ricordi, si hanno speranze.

Arrivati alla Scala di Giocca era sfuggito al porta-bagagli un mio pacchettino, che era andato a cadere in grembo alla giovinetta. Lo presi delicatamente tra il pollice e l’indice, e dissi e lei rivolto:

— Scusi!

— Nulla! — rispose la fanciulla, e mi sorrise con bontà.

Ricambiai quel sorriso, e rimisi il pacchettino a suo posto.

Era questo tutto l’accaduto in 30 minuti di viaggio; eppure in quel momento non avrei rinunziato alla mia fortuna per cento Azioni della Banca Nazionale.

Dopo quel nulla — che per me era tutto — e dopo quei due sorrisi scivolati nell’ombra e perduti nel vuoto, rientrammo nel silenzio.

Oltrepassata la Scala di Giocca, la ferrovia rasenta l’antica strada nazionale ed entra in una galleria lunga un cento metri, per seguire poi il serpeggiamento della valle, facendo la scimia allo stradone... ed al fiume vicino.

[40]

Levai gli occhi all’alta roccia di Can’e Chervu, il cui battesimo è dovuto ad una tradizione. Volendo sfuggire ad un cane che lo inseguiva, un cervo si precipitò da quell’altura e morì sfracellato insieme al suo persecutore. La pietà del popolo ha voluto immortalare l’eroismo della vittima ed il coraggio del carnefice!

L’occhio non si riposa che sopra vasti campi e basse colline, seminati a grano; dove si vedono qua e là gruppi d’agricoltori messi in fila, e curvi sulla zappa. Qualche cavallino, ancora ingenuo, fugge all’avvicinarsi del treno e prende la campagna; mentre i vecchi buoi, diventati furbi per esperienza, si contentano di levare il muso dal pasto per dare un’occhiata sprezzante al convoglio che passa, grave, ringhioso, sbuffante.

Mi proposi di rompere ad ogni costo il silenzio che regnava dentro il nostro scompartimento.

Che cosa dire, però? Si era nei primi di luglio, il sole scottava, e l’argomento della conversazione era bell’e trovato. Mi feci coraggio, e, asciugando il sudore che mi grondava dalla fronte, esclamai:

— Che caldo, Dio mio!

Ed aspettai la risposta.

Nulla. Come se avessi parlato ai cuscini.

Non mi perdetti d’animo; e giacchè l’esclamativo non era riuscito, tentai l’interrogativo.

— Non è vero che si soffoca? — dissi cacciando [41] l’indice e il medio fra la mia gola e il colletto della camicia.

Peggio che mai. Nessuno fece eco alle mie parole. Invece di rispondere, i miei compagni pensavano a farsi vento: — il vecchio col giornale — la vecchia col fazzoletto — l’assessore col cappello di paglia, e la fanciulla col ventaglio.

Non vi era dubbio. Avevo fatto fiasco.

Dinanzi alla stazione di Campomela, come in quella di Caniga, il treno passò senza fermarsi. Il vecchio signore, che in quel momento guardava verso la stazione, indirizzò la parola all’uomo dal cappellone di paglia, che sedeva alla mia destra.

— Non si ferma il treno dinanzi al villaggio di Campomela?

— Campomela non è un villaggio — rispose l’interrogato — è un campo.

— E perchè si chiama Campomela...?

— Perchè non vi sono mele.

— Ho capito! — fece il vecchio, ridendo. — È la questione del Golfo degli Aranci, così chiamato, come scrisse il Fanfulla, perchè non vi sono aranci.

— Precisamente.

Tutti risero — meno io. Ero indispettito perchè il vecchio erasi rivolto all’uomo maturo, e non a me, per chiedere informazioni. Prudenza paterna!

Ad ogni modo, un po’ di voce umana si era fatta sentire.

[42]

Dinanzi ai finestrini, intanto, continuavano a sfilare i paesaggi. Di qua e di là monti calvi, o dai capelli rasi; a destra alcuni oliveti e frutteti — a sinistra brune roccie adorne di lentischi, d’edera, d’assenzio, di biancospino, e di qualche rara pianta di fichi d’India. — Svariata vegetazione all’intorno. A dritta, in alto, a breve distanza fra loro, i campanili e le casette di due villaggi, posti sul dorso di una collina, e sotto la sorveglianza di un monte dallo strano cocuzzolo. Quei due villaggi erano Florinas e Codrongianus, due fratelli pacifici che si guardavano con compiacenza, senza un’ombra d’invidia.

Sul dorso della montagna, sempre a destra, il gruppo di casette di altri due buoni vicini — Muros e Cargeghe — ferme lì come due greggie di pecorelle bianche.

Pochi minuti dopo si offrì ai nostri occhi una pianura stupenda, contornata capricciosamente da colli e poggi amenissimi. Nel centro di quel piano erano parecchie case addossate ad una chiesa e ad un campanile d’architettura pisana. All’intorno terre fertilissime, frazionate da muri a secco — armenti pascolanti sotto la custodia dei pastori — boschetti pittoreschi, e avvallamenti ondulati come il mare.

— Oh, l’originale chiesuola, là in mezzo! — esclamò il signore, indicandola col braccio teso; e guardava il cappellone di paglia, punto di ogni sua mira.

[43]

E il cappellone prese subito la parola:

— È l’antica chiesa di Nostra Signora di Saccargia, coll’annesso convento, oramai caduto in rovina. Quella chiesa fu fondata nel 1112, e si deve a un voto di Costantino di Torres. Il qual Costantino, portandosi alla sua reggia d’Ardara (in compagnia di sua moglie Marcuza), passò una notte nel villaggio di Saccargia... che oggi non c’è più. Appena condotta a termine, la chiesa venne consacrata solennemente coll’intervento di tre arcivescovi, otto vescovi, e non so quanti abati, priori, canonici, ed altre notabilità ecclesiastiche e civili. Accorsero da ogni parte migliaia di persone per assistere alla religiosa funzione. Quella chiesa campestre racchiude la tomba di un re: del suo fondatore Costantino di Torres, che vi fu seppellito.

Ben vedete che l’uomo dalla barba alla Cialdini sapeva a menadito la storia di Sardegna.

La vaporiera intanto, con un fischio prolungato, ci avvisò della vicinanza di Ploaghe: e il vecchio, in anticipazione, chiese a Cialdini notizie del paese.

— Ploaghe è ora un grosso villaggio, ma un tempo fu una rispettabile città. Come Napoleone I, essa cadde e risorse più volte. Venne al mondo col nome di Plubium, fondata, a quanto dicesi, dai Cartaginesi; cadde e rinacque col nome di Plovaca; per cadere di nuovo, e poi rinascere col battesimo di Ploaghe. Si dice che abbia un [44] interesse storico e geologico. Si è pur detto che avesse templi, statue, e persino un anfiteatro; ma questa notizia è messa in dubbio, ed io non ne rispondo. Fu sede arcivescovile nel medio evo, ed oggi vanta una collezione di quadri di qualche pregio. È la patria di un celebre archeologo sardo, Giovanni Spano, il quale volle studiarla accuratamente, e illustrarla.

— Il villaggio non si vede?

— La linea ferrata gli passa vicino, ma si guarda bene dal toccarlo, per non far dispetto alla maggior parte dei villaggi sardi, ai quali è toccata la medesima sorte.

Feci complimenti al mio compagno di viaggio per la sua erudizione storica.

— Sono ploaghese, caro signore; e la storia del mio villaggio e de’ suoi d’intorni la conosco abbastanza!

Non aveva ancor finito la frase, che il treno si fermò alla stazione di Ploaghe.

VI. Alla stazione di Ploaghe.

Fermi alla stazione, aspettando l’arrivo del treno, erano alcuni passeggieri coi rispettivi bagagli; e fra essi una donna, accompagnata da cinque o sei belle ploaghesi, dalla taglia elegante, dal vitino delicato, e dal pittoresco costume. E [45] in verità, quelle gonnelle nere dal lembo color celeste e dalle saccoccie di scarlatto — quei busti ricchi di galloni d’oro e d’argento — e le pezzuole dalla croce gialla in campo azzurro, acconciate con tanta grazia sulla testa — davano risalto alle snelle forme di quelle graziose creature dal roseo colorito, dagli occhi lampeggianti, e dal sorriso furbo e malizioso.

— Oh il bel costume! — esclamò con gioia infantile la mia gentile compagna di viaggio, alzandosi in piedi. E rivolgendosi direttamente a me:

— A qual paese appartengono?

— Sono le donne di Ploaghe — risposi subito, temendo che l’antipatico cappellone mi chiudesse la bocca con un’altra sfuriata storica.

— Belle davvero! — ripetè la fanciulla, cogli occhi sempre fissi sulle forosette; ed io allora, per aver motivo di farmi ascoltare, continuai:

— Se fosse stata qui l’anno scorso — e precisamente nei primi di luglio! Immagini una quarantina di queste donne, scelte fra le più belle, schierate lungo la stazione per salutare il treno inaugurale tra Sassari e Cagliari! In quel treno erano il ministro Baccarini e molti ospiti che vollero approfittare dell’occasione per visitare la Sardegna. Era un quadro stupendo che attirò l’attenzione generale. Fermatosi il treno, gli artisti scesero per riprodurre sui loro taccuini l’impressione ricevuta, o i ritratti di quelle paesane flessuose, vispe, biricchine; la maggior parte delle [46] quali avevano preso d’assalto i carrozzoni, non appena furano invitate a salire dalle signore e signorine che si trovavano negli scompartimenti. Fu una vera festa — una splendida festa sarda. Vi era qualche cosa d’ineffabile in quelle movenze graziose — qualche cosa d’ingenuamente malizioso nel lampo di quelli occhi neri! — Paolocci, il disegnatore dell’Illustrazione Italiana; Desanctis e Sciuti, i famosi pittori; Cossa, l’autore del Nerone; Marchetti, l’autore del Ruy Blas; D’Arcais, il valente critico musicale; i rappresentanti del Diritto, della Gazzetta Ufficiale, del Fanfulla, del Daily News, e molti altri valenti artisti e scrittori, assistevano a quella scena campestre, degna del pennello di Massimo D’Azeglio.

— È proprio un bel costume! — esclamò per la terza volta la bella viaggiatrice: e dopo avermi ringraziato con un leggero movimento di capo, e con un sorriso più affettuoso del solito, si rimise a sedere. Il ghiaccio era rotto, e pensai ad approfittare della circostanza. Mi feci coraggio, e le chiesi:

— È forse la prima volta che la signorina viaggia in Sardegna?

— La prima volta! — mi rispose ella, con altro sorriso, grazioso come il primo.

Io era contento della mia fortuna; ma doveva capitarmene una maggiore. Prima che il treno si fermasse, l’uomo dalla barba alla Cialdini si era alzato in piedi, intento a preparare i bagagli [47] ed a raccogliere qua e là i suoi pacchi e pacchettini.

Egli dunque era già arrivato a destinazione — ed a me spettava di prendere il suo posto... In faccia a lei!

E così avvenne.

Quando la vecchia madre vide il posto di Cialdini occupato da me, non potè celare un brusco movimento.

Le fortune, però, sono come le ciliegie e come le disgrazie — l’una tira l’altra. Era appena disceso Cialdini, che due altri passeggieri montarono sul vagone: un magro signore di piccola statura, il quale quasi scompariva sotto un antico cappello a cilindro, che aveva perduto il pelo, come la volpe, ma non l’importanza; — ed uno spigliato ozierese col corto cappotto di fino orbace, e col berretto ripiegato sulla testa. Il primo aveva la comunissima valigia di tela; il secondo l’inseparabile bisaccia, alla quale sono sempre rimasti fedeli i figli d’Ozieri, anche dopo che la ferrovia ha fugato gli omnibus ed i cavalli.

Ho sempre osservato una cosa curiosa. Quando viaggiamo sulla ferrovia, e si è già stabilita fra i passeggieri una certa qual famigliarità, il viaggiatore che sale nel nostro scompartimento, da una stazione intermedia, è sempre accolto come un intruso, come da importuno, come uno che non abbia pagato il suo biglietto. E il nuovo arrivato, a sua volta, prova una specie di soggezione [48] entrando nel vagone; egli è confuso, domanda scusa, cerca un buco per ficcarvi i suoi bagagli, e non osa collocarli comodamente, per paura di smuovere le valigie altrui. Saluta; non sa dove, e come sedere; teme di disturbare, e se ne sta lì rincantucciato, come uomo a cui si fa l’elemosina; fino a che, alla sua volta, non diventi tiranno coi nuovi passeggieri.

Non so che cosa pensassero gli altri; dal mio canto fui sul punto di gettarmi fra le braccia dei due arrivati, ai quali ero debitore della mia felicità.

L’ozierese si era cacciato alla mia sinistra, fra me e la vecchia; e l’uomo incilindrato alla sinistra del vecchio, fra padre e figlia. Erano stati due pianeti provvidenziali che avevano provocato due eclissi parziali, per me vantaggiosissime.

Non potrei dirvi l’impressione prodotta nella vecchia dalla nuova distribuzione dei posti, poichè non avevo il coraggio di guardarla in viso; anzi, cercavo sempre di tener la mia testa a livello del berretto dell’ozierese, perchè la vecchia non potesse vedermi il naso.

Vi fu un momento in cui la fanciulla sporse la testa dal finestrino per guardare non so che cosa. La vecchia allora le disse, con tono quasi minaccioso:

— Che fai, Annetta? Finirai per lasciar cadere il cappello sulle rotaie!

[49]

La fanciulla si ritirò mortificata, arrossì, e rispose a lei:

— Smetti, mamma, i rimproveri! Non sono mica una bambina!

Ero finalmente riuscito a sapere il nome di quella creatura; ero riuscito ad udire quella voce argentina dall’accento toscano, che pareva una musica; ero riuscito ad assicurarmi che la vecchia era propriamente la madre della bella viaggiatrice.

Presi ardire, e rivolto alla fanciulla:

— Scusi — le domandai — la signorina è toscana?

— Nacqui in Piemonte, ma fui educata a Firenze.

— Deve farle, allora, un po’ d’impressione la povertà delle nostre campagne!

— Al contrario; sono invece lietissima di essere in Sardegna.

— Ecco per esempio un’asserzione molto lusinghiera per noi sardi, i quali d’ordinario veniamo giudicati con soverchio rigore.

— Ed è un’ingiustizia. Per giudicare un paese bisogna prima conoscerne la storia, le tradizioni, i costumi. È arduo còmpito quello di emettere facili giudizi, quando non si è addentro nella vita intima di un popolo.

Erano parole saggie, assennate, che rivelavano un’intelligenza non comune ed un cuore ben fatto. Inutile dirvi che i nuovi pregi che io scuopriva [50] in Annetta non fecero che aggiungere nuov’esca alla cieca simpatia che provavo per la giovane viaggiatrice.

Da quel momento non pensai che ad alimentare la conversazione, perchè non languisse; cercavo tutte le occasioni per poter dire qualche cosa ad Annetta, e per sentirla parlare. Ed ella mi ascoltava con molta attenzione, e mi rispondeva con quella confidenza e bontà d’animo, proprie di una fanciulla ingenua, la quale non vede la necessità di una sciocca riservatezza o di una biasimevole finzione.

Di tanto in tanto rivolgevo la parola anche al papà, che rivoltava in tutti i sensi i giornali, trovando sempre di che leggere; — ed alla mamma che si faceva il vento, con sussiego. — Volevo dimostrare, che, se mi era cara la figlia, non dimenticavo i genitori.

L’accorta genitrice, però, mi rispondeva sempre con parole tronche, con piglio severo, e con fronte corrugata. La materna austerità tanto più aumentava, quanto più diminuiva l’austerità figliale. La vecchia voleva quasi farmi intendere, che le spiaceva quella mia troppa famigliarità coll’Annetta, così ingenua ed inesperta; come pure con certe occhiate significanti voleva far capire alla figliuola, che non era conveniente discorrere con tanta espansione e confidenza con un uomo che non conosceva, e che poteva anche essere un birbaccione.

[51]

Ma doveva io rinunziare ad una cara conversazione, per futili riguardi ai genitori della fanciulla? Io facevo il sordo ed il cieco; e, felice accanto a lei, dimenticavo tutte le convenienze di questo mondo.

Io ed Annetta ammiravamo l’azzurro del cielo o il verde dei campi, che sorridevano intorno a noi. La natura ha sempre un linguaggio eloquente quando la interroghiamo al fianco di una creatura amata. Si dice comunemente che un paesaggio è bello, e un altro è brutto; l’uno troppo caldo, l’altro troppo freddo. È un’idea falsissima. La natura non ha gradazioni di bellezze; essa è sempre armonica, sempre grandiosa nelle sue manifestazioni. Un arido campo sotto un cielo infuocato, e un monte gigantesco sotto un masso di ghiacci, non sono meno belli e seducenti d’un colle rivestito di pampini, o d’una valle seminata di boschetti. Lo scroscio di un torrente vale il canto dell’usignolo; una notte tempestosa d’inverno vale una splendida serata d’estate. — Sedete al fianco d’una bella fanciulla, e mi darete ragione.

Ad ogni modo io aveva raggiunto il mio scopo: potevo parlare ad Annetta con più libertà. Il signore cilindrato scambiava qualche parola col vecchio padre; — l’ozierese guardava in alto; — e la vecchia appoggiava la testa all’angolo del vagone, socchiudendo gli occhi. Il sole di luglio e l’ora meridiana dovevano pur fare un [52] certo effetto sulle palpebre de’ miei compagni di viaggio.

Il treno erasi allontanato da Ploaghe, seguito per un buon tratto — come sempre accade — dallo sguardo dei passeggieri ch’erano discesi alla stazione. Essi forse, riconoscenti, volevano dare un ultimo saluto ai mastodonte di ferro che li aveva portati, per un’ora, nel suo ventre!

VII. Da Ploaghe ad Ardara.

Si presentano altre collinette rivestite di verzura; qua e là qualche elce, o qualche quercia fan capolino — diventano più spessi — si moltiplicano. Attraversiamo una giovane foresta ricca di teneri arbusti, riuniti in gruppi di tre, di quattro, di cinque. Essi circondano un decrepito nuraghe. Diresti che salutino, riverenti, il vecchio venerando.

A destra abbiamo uno dei più caratteristici monti della Sardegna — il Monte Santo, dalle tinte azzurrugnole, tutto solo, imponente, e visibile per un immenso tratto del Capo settentrionale. Esso si disegna in contorni vaporosi sull’orizzonte, ora in forma di cono, ora di piramide tronca. La sua cima, piatta, è coronata di folta boscaglia, rifugio un giorno di malandrini e di banditi.

Gli elci e le quercie tornano a farsi rari sopra [53] un terreno incolto e sassoso. Dinanzi ai finestrini del convoglio passano rapidamente e colli, e campi, e arbusti, e quercie rachitiche; ma il Monte Santo, impassibile, è sempre là — non si muove.

Ed ecco lassù, a destra, sopra una delicata altura, dieci o dodici case di misera apparenza, sparse sull’altipiano. Sul davanti, in tinte brune, spicca una chiesa antica dai muri anneriti, ma superba nel suo abbandono e nella sua solitudine. Più in là della chiesa gli avanzi di antiche mura e di un’antica torre.

Non sfuggirono ad Annetta quelle brune case che si raccoglievano silenziose attorno a quei ruderi dimenticati; e mostrandomele col suo ditino color di rosa mi domandò:

— Come si chiama quel villaggio?

— È Ardara. Un povero paesuccio che oggi non conta 300 abitanti; che nulla possiede — neppure il suolo dov’è fabbricato, poichè gli ozieresi, che si spinsero fin là, divennero i principali proprietari delle sue terre.

«Eppure — continuai — quel villaggio — fiero nella sua povertà — sopporta, rassegnato, la sventura. Noncurante del presente e dell’avvenire, non vive che nei ricordi di un glorioso passato. Sdegnoso d’ogni progresso, gli basta la gloria degli avi.

— È un orgoglio non lodevole!

— Chi può dirlo? Forse no. Un giorno era grande — ed oggi, sapendo di non poter più conseguire [54] il suo antico splendore, si compiace dell’umile condizione in cui vive, noncurante di tutto — anche dell’altrui pietà. È il sentimento degli ambiziosi caduti: — preferiscono la squallida miseria ad una mediocrità che credono umiliante.

— Rispetto le sue convinzioni, ma non le divido. I sentimenti della sua Ardara non sono degni di lode.

Così mi rispose Annetta con un sorriso: e poi soggiunse con curiosità:

— E la ragione di questo orgoglio? Che fu Ardara nel passato?

— La reggia dei Giudici di Torres, quando abbandonarono quest’antica città per la crudezza del clima.

— Si gode di un’aria eccellente, ad Ardara?

— Oggi non certo — anticamente, sì!

Annetta mi guardava con meraviglia; ed io era ben lieto che la recente lettura della storia dei Re di Torres mi ponesse in condizioni di appagare il desiderio della bella viaggiatrice.

— Vede lei, lassù, quella chiesa? Ha circa otto secoli e mezzo di vita; fu inalzata da Georgia, sorella del Giudice Comita di Torres, nel 1050, se non erro. È una chiesa con due fila di colonne di differenti ordini d’architettura, e dicesi vi sia seppellito un Regolo.

«Vede quei ruderi? Erano fortificazioni che difesero Ardara, assediata nel 1326 dagli Aragonesi, e nel 1476 da Leonardo Alagon.

[55]

— Vede quell’avanzo di torre? — apparteneva alla sontuosa reggia dei Giudici Turritani — dove morì Costantino I nel 1127; dove si tenne un Concilio nazionale, presieduto dall’arcivescovo di Pisa, nel 1135; dove il Papa Gregorio IX, nel 1236, inviò un suo Legato che vi soggiornò oltre un anno; dove Federico II di Germania mandò suo figlio Enzo per sposarvi la vedova di Ubaldo Visconti; dove, infine, dicesi che finisse i suoi giorni, prigioniera, la sventurata Adelasia di Torres.

— E chi era codesta Adelasia?

— Una bella e giovane regina, che si rese celebre per le sue sventure.

— Ne conosce la storia?

— Gliela dirò brevemente, se le fa piacere. — Figlia di un Re di Torres, Adelasia diè la mano di sposa, nel 1219, a Ubaldo Visconti, che l’anno prima aveva invaso il Giudicato di Gallura. Ma non fu l’amore che guidò all’ara la bella giovinetta; le nozze le furono imposte dal padre per far cessare una guerra accanita già impegnata col suo futuro genero, a riguardo della Gallura. La bella principessa, che nell’entusiasmo de’ suoi diciotto anni sognava un amore appassionato ed eterno, non tardò a veder crollare tutte le sue illusioni. Ella sperava d’esser felice; ma quando non è il cuore che fa la scelta del compagno della vita; quando s’impone all’anima un affetto che non sente; quando un padre, od una madre tiranna, spezzano il cuore della propria figlia [56] pur di soddisfare una stolta ambizione, ben di rado, o signorina, si può raggiungere la felicità!

Io pronunciai queste parole con vivo trasporto; la fisonomia di Annetta si era d’improvviso turbata. Gli occhi della bella viaggiatrice si affissarono ne’ miei; e vidi le sue guancie impallidire, e le sue mani tremare.

Qual sentimento aveva turbato in quell’istante l’anima di Annetta? Avevo io, senza volerlo, ridestata una dolorosa memoria? Avevo riaperto una ferita? Violato un segreto? Non lo so. Tacqui, pentito della mia imprudenza; ma la fanciulla, con un fil di voce, mi disse:

— Continui pure — l’ascolto.

— Ubaldo — il marito di Adelasia — non era altro che un tristo, un ambizioso. Egli sposava la bella fanciulla solamente per assicurarsi la corona. Nel 1236 fu assassinato a Sassari il giovine Barisone re di Torres, fratello di Adelasia. Fra gli assassini era pure Ubaldo, perocchè costui ben sapeva che morendo quel giovine la corona sarebbe passata sul capo di Adelasia... che era sua moglie. Ignara forse di quest’infamia, la infelice regina si ritirò nel suo castello d’Ardara per piangere il suo giovine fratello, e si querelò col Papa Gregorio IX, il quale fulminò la scomunica contro gli autori del misfatto; altro non poteva fare! La Corte Romana, ingorda dei dominii di Adelasia, pensò di raggirare la bella principessa; e Gregorio inviò un suo Legato alla Corte di [57] Adelasia, nelle cui mani quella regina, col consenso del marito, prestò il giuramento di riconoscere dalla Corte di Roma il Regno di Torres, e di sottomettersi intieramente al dominio dei Papi, ai quali dovevano poi ritornare gli stati di Adelasia, se essa moriva senza discendenza. E tutto ciò — come dice l’atto stipulato in Ardara — per la salute della sua anima, e per il perdono dei peccati dei parenti. Il Legato allora rilevò dalla scomunica gli assassini, forse perchè non ignorava che fra essi era Ubaldo. Ma sapeva ciò Adelasia? La storia lo tace; io credo di si!

— Povera donna! — esclamò Annetta — e gettò uno sguardo ed un sospiro alle brune casette di Ardara che ci stavano sempre dinanzi.

Io continuai:

— Non finirono però qui le sventure di Adelasia. Morto Ubaldo, il Papa Gregorio mandò sollecitamente un altro messo in Ardara per proporre alla vedova un nuovo marito — un certo Guelfo dei Porcari, molto ligio ai papi. Un altro grande ambizioso, però, aveva adocchiato il Regno di Torres. Federico II, imperatore di Germania, nipote del famoso Barbarossa, aveva spedito messi alla bella Adelasia, proponendole le nozze con un suo figlio naturale: Enzo. O perchè stanca dei raggiri della Corte romana, o perchè lusingata dalla protezione di un Imperatore germanico, l’imprudente Regina accettò le nozze proposte; le quali furono celebrate con pompa nella reggia di Ardara.

[58]

— E fu felice col secondo marito?

— Tutt’altro. Peggiore assai d’Ubaldo, Enzo cominciò col togliere ad Adelasia il comando; la maltrattò, la torturò con modi iniqui e brutali, e finì per rinchiuderla nel solitario castello del Goceano, che trovasi quasi incastrato fra i tre villaggi di Burgos, Esporlatu e Bottida.

— E quell’infame?

— Enzo partì per la guerra d’Italia, e lasciò a rappresentarlo nel Regno quel certo Michele Zanche, che Dante mette all’inferno fra i barattieri. Il quale Zanche, saputo che Enzo era caduto prigioniero nelle mani del nemico, si appropriò addirittura il Regno, senza punto darsi pensiero dei due sovrani — marito e moglie — che un avverso destino aveva gettato nell’ombra e nell’oblio di due prigioni.

— E Adelasia?

— Sola, nell’abbandono, senza un amico, insidiata dai potenti, giacque in fondo al castello del Goceano a piangere le sue sventure. Tradita nel suo amore, delusa nelle sue speranze, si vide all’improvviso priva del trono, spogliata d’ogni prestigio, e sepolta viva in un castello solitario. Chi ha raccolto i sospiri e le lagrime di quella derelitta? — Chi ha contato i suoi spasimi e le sue imprecazioni? La storia non certo; forse i quattro muri di un carcere, che noi non possiamo interrogare perchè ne furono disperse le pietre. Chi lo sa? forse più che la perdita del trono, [59] ella sentì il dolore del suo amore tradito. Morì prigioniera, abbandonata da tutti; anche da coloro che aveva beneficato. Anche la storia la dimenticò, non registrando nè la data, nè il luogo della sua morte. Chi la dice morta nel Castello di Goceano, e chi nel castello d’Ardara, di cui vediamo, lassù, i ruderi.

Sugli occhi d’Annetta brillava una lagrima. La storia di Adelasia aveva commosso la gentile viaggiatrice.

Tacqui; nè Annetta, questa volta, si dolse del mio silenzio. I suoi occhi erano sempre fissi sui neri ruderi, sparsi sulla melanconica collina che ci stava dinanzi.

— La bella regina è sparita — continuai — ma la città d’Ardara, fatta villaggio, è sempre lassù. Vedova d’Adelasia, non ha ancora deposto il lutto; ed invano le sorride ai piedi la vegetazione; invano il Monte Santo, che le sta alle spalle, cerca di consolarla. Ardara era una gloria — oggi non è che un ricordo!

Annetta guardò un’ultima volta la vecchia chiesa, le povere case e le antiche rovine; e poi, a me rivolta, pronunciò lentamente queste parole:

— Lei ha ragione; ed io perdono ben volentieri l’orgoglio della sua Ardara!

Dopo alcuni minuti, il treno, che si era fermato ad Ardara, continuò la sua corsa.

[60]

VIII. Da Ardara a Chilivani.

Annetta era diventata riflessiva. Dopo che io le aveva parlato di Adelasia, il cui cuore era stato violentato dall’ambizione del padre, quella fanciulla non aveva più sorriso. Raggirava fra le mani il suo ventaglio chiuso, nè sentiva più il bisogno della conversazione.

Ero indispettito con me stesso per le parole pronunciate. Ma perchè quel turbamento? Ella forse amava altri; forse trovavasi nella stessa condizione di Adelasia. Senza saperlo, avevo in lei ridestata una memoria dolorosa.

La madre d’Annetta sonnecchiava placidamente. Forse si era convinta ch’era una follia preoccuparsi della sua figliuola che parlava con uno straniero. Infin dei conti Annetta era sotto i suoi occhi, e poteva sorvegliarla a suo bell’agio. Eppoi, che poteva esserci di male? Quelle nove ore di viaggio dovevano pur trascorrere; e Dio sa quando ci saremmo riveduti!

Il buon padre pareva avesse trovato il suo passatempo appiccando discorso coll’uomo dal cappello a cilindro.

Quanto all’ozierese, che mi era vicino, non aveva fiatato. Muto e prudente era stato lì, sempre immobile — barriera insormontabile fra me e la vecchia.

[61]

L’ozierese, in queste circostanze, è il più desiderabile compagno di viaggio. Fedele alle antiche tradizioni del suo paese, non bada ai fatti altrui. Siede con sussiego, nè cerca intromettersi in cose che non lo riguardano.

Temendo che a Chilivani fosse per svanire la mia felicità, pensai ad approfittare del tempo che per me fuggiva più veloce dal convoglio ferroviario. Preoccupato solo della fanciulla, dimenticai la presenza del mio vicino; il quale, cogli occhi rivolti al cielo, aveva preso una posa tra il sentimentale e il rassegnato. Ci voleva poco a capire che avea indovinato i miei entusiasmi, e la sua posizione critica. Quando io parlava ad Annetta (con voce abbastanza sommessa per sfuggire ai vecchi, ma abbastanza forte per arrivare all’orecchio della fanciulla e dell’ozierese) quest’ultimo fingeva fare il filosofo, e sfogava il suo malcontento col berretto, che ora gettava in avanti, ora all’indietro, ora sulla spalla destra, ed ora sulla sinistra.

Dalla stazione di Ardara a quella di Chilivani il paesaggio poco varia. Seguono i campi estesissimi, dove trova largo pascolo il bestiame della ricca Ozieri.

Qualche casetta solitaria, di modesto aspetto, si mostra di tanto in tanto. Ecco la cascina di Cosseddu; ecco l’altra palazzina di Mimmia Campus, vestita elegantemente e sormontata da un lungo terrazzo. È una giovine bianca dai capelli [62] rossi, la quale non si vergogna di far all’amore con parecchie quercie, vecchie di cent’anni.

Il Monte Santo ci segue sempre, ma ha cambiato aspetto; pare che abbia allungato il suo cocuzzolo, e ristretta la base.

Per quei campi immensi non appare che qualche quercia dai tronchi anneriti, volgendo in alto le sue nere e nude braccia — forse imprecando, o forse implorando misericordia dal cielo per il supplizio a cui fu condannata dagli uomini.

A sinistra, in lontananza, la maestosa catena dei monti di Limbara; sotto la quale spicca in nero il famoso Monteacuto, isolato, aguzzo, e portante sul dorso lo storico castello, già residenza del Giudici di Gallura e di Logudoro. Più in qua il Sassu ed il Sassitu — quasi cornice al fertile ed immenso campo ozierese.

Ad un tratto, una ricca e svariata vegetazione offresi al nostro sguardo. Sono superbe piantagioni che l’occhio a stento abbraccia. A destra e a sinistra viti, frutteti, acacie, eucaliptus e arbusti d’ogni specie, messi in riga, come soldati in una piazza d’armi.

È Chilivani che si è lavata la faccia ed ha messo l’abito nuovo. È la festa della natura educata: l’inno dell’agricoltura alla civiltà.

Ed è a Piercy, ingegnere capo delle Ferrovie Sarde, che si deve questa trasformazione. La sua bacchetta magica ha tramutato quella sterile [63] landa in un giardino. In quel lembo di terra, un dì colpito dalla malaria, sorgono oggi molti e bellissimi fabbricati.

Qual differenza fra l’Ardara dallo splendido passato, e il Chilivani dallo splendido avvenire! La prima, una superba baronessa decaduta che vive del suo polveroso blasone; il secondo un modesto industriale che ha cieca fede nel blasone della sua officina!

Quando io, da Sorso, mi ero diretto alla stazione di Sassari, non avevo dimenticato la piccola provvista da bocca per far tacere lo stomaco, nel caso che questo avesse reclamato i suoi diritti. Ma l’appetito non si era fatto sentire.

Lo sguardo d’Annetta, parlando all’anima mia, avea fatto tacere il mio corpo. D’altra parte, mi sembrava sconveniente togliere dall’involto il prosciutto, o squartare il pollo per mangiarlo dinanzi a lei — dinanzi ad Annetta che mi stava di fronte, vestita con tanta eleganza! — Era lo stesso che rinunziare per sempre alla mia speranza; lo stesso che compromettere la mia candidatura dinanzi al mio collegio elettorale.

Mentre facevo queste gravi considerazioni, il treno entrava trionfante in Chilivani.

Io, però, non pensavo certo alla trattoria ristorante. Un altro pensiero assorbiva la mia mente. Dopo la colazione, avrebbero i viaggiatori ripreso lo stesso posto nel vagone? Non avrebbe [64] la vecchia abusato del suo potere per farmi traslocare?

Turbato da questo pensiero mi feci animo, e rivolto alla fanciulla le chiesi:

— Signorina... scende forse a Chilivani?

— No — mi rispose — noi proseguiamo il viaggio fino a Cagliari.

Provai una gioia così viva, che tardai un bel pezzo a riprender fiato.

— Allora, signorina, l’avverto che abbiamo trenta minuti di fermata; ed è bene che deponga la sua borsetta nell’angolo del vagone, se non vuol correre il pericolo di vedere il suo posto occupato da altri.

Così dicendo mi alzai, e collocai al mio posto la mia borsa da viaggio.

Allo stesso tempo due voci si udirono ai due fianchi del treno. L’una diceva:

— Chilivani! — Per Ozieri e Terranova cambia treno! — trenta minuti di fermata!

E l’altra voce:

— Chi parte per Ozieri, c’è vettura da Fraigas!

L’ozierese si alzò, prese in tutta fretta la sua bisaccia, ed uscì bruscamente dal vagone, senza salutare nessuno, e cacciando dal corpo certi sbuffi che volevano dire: — accidenti agli amori ed alle ferrovie!

E avesse avuto, almeno, ragione di dirlo!

[65]

IX. A Chilivani.

Dopo aver salutato i miei compagni di viaggio, uscii per il primo dal carrozzone; e mi diressi al Restaurant, che consisteva in un lungo recinto, per metà costrutto in pietra e per metà in tavole.

La sala da pranzo era sotto un tetto a piano inclinato, rivestito di tela incalcinata. Conteneva tre tavole da pranzo — una lunga e due piccole. Sedetti alla prima, distratto, colla speranza che i miei compagni di viaggio capitassero là. Io, che montando sul vagone avevo fame, a Chilivani non sentivo neppure appetito. Pure, per far qualche cosa, presi in mano la carta che mi offrì il cameriere, e la guardai senza leggere — pensando ad altro.

Il cameriere, stanco d’aspettare, mi disse tra l’impaziente e il seccato:

— Ebbene... che cosa comanda?

— Pasta asciutta! — esclamai fissandolo in volto; ed egli se ne andò stringendosi nelle spalle, come per dire: ci voleva tanto!

In quel momento Annetta, seguita dai genitori, entrò nella stanza. Sedettero tutti attorno ad una delle piccole tavole. La bella viaggiatrice mi aveva veduto; ed ebbi la ventura di attirarmi quattro o cinque occhiate furtive, lusingato che [66] non erano strappate nè dalla curiosità, nè dalla distrazione.

Venne la pasta asciutta. Erano maccheroni candidi come la neve e nudi fino all’indecenza. Ne mossi lagnanza al cameriere, il quale, volendo persuadermi del contrario, sollevò da una parte il piatto per mostrarmi un po’ d’intingolo brodoso.

— Capisce?

— Sì, ho capito! — gli dissi a bassa voce — Susanna al bagno... ma sempre nuda!

Accostai appena alla bocca un po’ di pasta — e percossi il bicchiere col coltello.

— Vado! — gridò il cameriere, servendo gli altri passeggieri.

Aspettai alcuni minuti, e tornai a picchiare sul bicchiere.

— Vado! — ripetè il cameriere; e infatti se ne andò in cucina.

Quando egli rientrò lo chiamai colla mano...

— Vado! — mi gridò per la terza volta senza neppur guardarmi.

— Perbacco! — gli dissi indignato — per lo meno salva le apparenze, e dimmi: vengo!

— Che comanda?

— Portami una bistecca ai ferri.

Intanto Annetta e i due vecchi, dopo aver sorbito un po’ di brodo, erano andati via.

Dopo un bel pezzo venne la bistecca. Mi provai a tagliarla; ma non ne venni a capo.

— Cameriere!

[67]

— Vado!

— Che cosa è questo?

— Una bistecca ai ferri. Non si persuade?

— Oh altro!... — È proprio al ferro perchè non riesco a tagliarla!

A questo punto entrò una guardia della ferrovia:

— Partenza per Cagliari!!

Rimasi colla forchetta in aria, cogli occhi spalancati e senza poter proferire una parola, perchè un grosso pezzo di bistecca (ch’ero riuscito a tagliare) mi si era incastrato fra il palato e la mascella.

Mi alzai in piedi; cacciai in gola un bicchiere di vino, e gridai:

— Il conto!

— Vado!

E questa volta il cameriere venne. Egli, in tutta fretta, prese un pezzo di carta, e col lapis vi scrisse rapidamente alquante cifre di impossibile lettura, che ripetè a voce alta, senza tirar fiato:

— Dieci di pane, mezza di vino, mezza di pasta, mezza di carne — uno e settanta!

Poco male alterare il conto; ma sbagliare anche l’addizione è un’audacia imperdonabile.

Gli diedi un biglietto da due lire.

— Venti di resto!

— Ma che venti! me ne spettano trenta; e dieci di errore, sono quaranta — tienili per mancia.

[68]

E corsi in tutta furia alla stazione, in tempo appena per cacciarmi nel treno, che era sulle mosse per partire.

Ero stato fortunato. Noi quattro — personaggi principali del viaggio — avevamo ripreso i nostri posti. — Gli altri passeggieri — che io ritenevo come seconde parti, anzi comparse — avevano subìto un cambiamento.

L’uomo dal cappello a cilindro (che si era fermato nel vagone, preferendo far pranzo colle provviste che aveva seco) conservava il suo posto accanto al padre nobile.

Tra me e la madre nobile erano due nuovi passeggieri: — un accigliato inglese dalla barba rossa — e un grosso proprietario di Bosa, ex consigliere comunale, che io già conosceva di vista e di fama.

Inutile dirvi che il Primo Attore giovine e l’Amorosa erano sempre di prima scena.

Il suono della campana, lo squillo di corno, l’acuto fischio, e la parola partenza, fecero respirare più liberamente tutti i passeggieri, me eccettuato. Io non sapeva spiegarmi come mai si accusassero di lentezza le Ferrovie Sarde. A me invece pareva che corressero troppo.

[69]

X. Da Chilivani a Mores.

Il treno si mosse.

Si cominciò coll’indietreggiare come i gamberi; perocchè la strada ferrata descrive un gran > rovesciato, toccando Chilivani (punto di diramazione per Terranova) per riprendere la linea di Cagliari.

Continuano per un lungo tratto le piantagioni di Piercy: le viti, i frutteti, gli eucaliptus, ecc., sempre allineati con precisione matematica. — Poco dopo non s’incontrano che immense terre a pascolo, con qualche albero solitario.

Il Monte Santo è sempre dinanzi a noi, e ci seguirà ancora per un lungo tratto di strada. Esso ha cambiato nuovamente di forma; ci presenta ora la sua parte più larga; anzi ci mostra un monticello col quale è unito, — quasi fosse un figlio che gli tenga compagnia nell’isolamento a cui natura lo ha condannato.

Dopo dieci minuti di cammino, eccoci alla stazione di Mores. Il paese, lontano un mezzo chilometro, giace alle falde del Monte Lachesos. Questo villaggio è famoso per il suo stupendo campanile, ricco di fregi e di statue, fatto erigere or son pochi anni a spese del Comune, con non lievi sacrifizi. Gli abitanti di Mores sono i soli, in tutta l’isola, a cui si può permettere il soverchio amore di campanile!

[70]

Da Chilivani a Mores, tanto il vecchio, quanto la vecchia, avevano ricambiato qualche parola coi vicini: il primo coll’uomo dal cappello a cilindro — la seconda col consigliere di Bosa.

L’inglese non aveva aperto bocca. Egli si divertiva ad appuntare il suo grosso binocolo, ora verso i tre finestrini di destra, ore verso quelli di sinistra.

Dopo dieci minuti di strada, si sentì da tutti il bisogno di tacere per riposare alquanto.

L’ora caldissima, la stanchezza del viaggio, il po’ di pasto fatto a Chilivani, avevano prostrato i diversi passeggieri; i quali sembravano in preda ad un dolce sopore, o ai propri pensieri.

Benedissi dal profondo del cuore il cocente sole di luglio e il molle clima della nostra Sardegna, che tanto influivano sui nervi forestieri.

Noi due soli — io ed Annetta — vegliavamo. Noi due soli eravamo in preda a quella prostrazione che non è stanchezza; a quell’abbandono che non è noia. Era la spossatezza dell’anima sotto il brulichio dei pensieri che cozzavano a tumulto nel nostro cervello.

Non avrei saputo spiegare ciò che io provava. Quel silenzio intorno a noi, quella gente cogli occhi socchiusi e colla testa dondolante, mi davano ai nervi, pur sapendo che tutto ridondava a mio benefizio. Sentivo un vuoto nell’anima — un peso sul cuore. Provavo come un desiderio indefinito — uno sconforto vago. Perchè ciò? Effetti strani di cause perdute nell’ignoto.

[71]

Tutti riposavano: solo Annetta era desta. Essa aveva gli occhi fissi sul suo ventaglio, che raggirava fra le mani. La vita di quei due occhi, in mezzo al generale assopimento, mi faceva uno strano effetto. Avrei voluto che anche Annetta dormisse; così almeno avrei potuto guardarla con più coraggio. Dovrò confessarlo? Io non sapeva dove cacciar gli occhi: avevo le palpebre di piombo.

Alla mia gaiezza, all’abituale mia spensieratezza era sottentrata quasi una cupa melanconia. Avevo creduto delirio di un momento l’impressione ricevuta dal mio primo incontro con Annetta. Vedevo ora, con rincrescimento, che la mia simpatia prendeva un serio indirizzo.

Le mie idee erano confuse. Sapevo solo che camminavo, camminavo inesorabilmente alla disillusione. Ogni ora di ferrovia era un gran passo verso la triste realtà.

Eppure una speranza m’attraversava sempre lo spirito: che il mio sentimento fosse contraccambiato!

E da ciò la mia ambascia, il mio sconforto, la mia inquietudine.

Cercavo di guardare verso la campagna — ma non la vedevo. Tratto tratto gettavo un’occhiata, alla sfuggita, verso di lei. Annetta abbassava prestamente gli occhi; e, tutta distratta e insieme confusa, faceva girare colle dita quel serpente d’argento, o quella fascia d’oro che aveva al polso ed al braccio.

[72]

Ed io allora divoravo cogli occhi quella testina così ben modellata, quelle palpebre dalle lunghe ciglia, e quei riccioletti scherzosi che scendevano sul suo collo, invitandomi quasi ad ammirarne le delicate curve e l’affascinante bianchezza.

Erano succeduti lunghi silenzi. Non più Annetta mi aveva interrogato sui diversi paesaggi; non più in lei la curiosità di voler conoscere la storia di quei monti, di quei campi, di quei paesi che ci passavano dinanzi rapidissimamente.

Più volte, in quel comune raccoglimento, i nostri occhi si erano incontrati; e lo sguardo fisso che partiva da quelle pupille nere, piene di lampi, andava a ricercare le più intime fibre del mio cuore. Eravamo entrambi impacciati. Io tormentavo la catena del mio orologio — ella le spire del suo braccialetto d’argento.

Nessuno di noi aveva più coraggio di parlare; eppure il silenzio ci spaventava più della parola.

Cercai un motivo per riallacciare la conversazione interrotta. Strano! non ne trovavo alcuno.

Avevo paura di lei. Avrei voluto fuggirla; ma come si fa a fuggire quando si è in un convoglio che corre velocemente?

[73]

XI. Da Mores a Torralba.

Da 15 minuti si era lasciata la stazione di Mores, ed eravamo all’altezza di Bonnanaro, il quale si nasconde fra il Monte Arana e il Monte Manno.

Campi sassosi, nude colline, e qualche pioppo da una parte e dall’altra. A destra e a sinistra parecchi nuraghi — l’uno in basso del color della morte — l’altro per metà ricoperto d’ellera — un terzo vicino ad una capanna che pare gli chieda protezione. Fra essi serpeggia il binario, seguito per un lungo tratto dai pali del telegrafo. — L’elettrico e il vapore! I due supremi fautori della civiltà moderna, che irridono le rozze moli d’una generazione perduta nella notte dei tempi.

Mi provai a riattaccare la conversazione.

— Osservi, signorina, lungo i fili del telegrafo. Non vede? di tanto in tanto una compagnia di uccelletti, messi in fila, cinguettano allegramente. Non le pare di vedere delle note musicali, disposte nei cinque righi di un immenso foglio di musica? Eppure io credo, che non furono mai scritti dagli uomini canti migliori di questi! Gli uccelletti furono i primi inventori della musica: essi crearono le note, e Guido d’Arezzo non fece che dar loro il nome.

Annetta sorrise a fior di labbro, e si contentò [74] di dare un’occhiata ai fili telegrafici, senza rispondermi. Nullameno non mi diedi per vinto:

— Che squallore, che solitudine all’intorno! Non vede? Anche i nuraghi — questi eterni giganti senza storia — attraversano prestamente la campagna. Essi affrontarono i secoli, ed hanno paura del deserto; assistettero all’agonia di cento generazioni, e temono la vaporiera.

Tacqui. Annetta gettò uno sguardo fuori del finestrino, e continuò a tormentare il suo ventaglio.

— Eppure — continuai — questo silenzio e questa solitudine hanno anch’essi il loro linguaggio. La loro parola torna gradita all’anima, quando essa si culla tra i lieti ricordi e le care speranze!

Annetta levò gli occhi e mi guardò in volto, quasi cercando spiegazione alle ultime mie parole, che non poteva o non voleva comprendere.

Per tutta risposta la guardai negli occhi.

Questa volta ebbe paura del mio sguardo. Inesperta colomba, temeva per istinto le insidie dello sparviero. Turbata, ella si guardò attorno; il suo occhio smarrito andò subito a cercare la vecchia madre, che sonnecchiava in un canto. Forse sentiva bisogno di lei.

— Mamma..... dormi? — chiese con voce spenta.

— Non dormo: penso! — rispose la mamma, senza aprir palpebra, per farmi intendere che la sentinella era all’erta.

[75]

Vi furono alcuni minuti di silenzio; dopo i quali domandai addirittura ad Annetta:

— A che pensa, signorina?

— A nulla.

— La monotonia e la solitudine della campagna, l’annoiano forse?

— Non mi annoiano; provo solo una strana melanconia dinanzi ad esse. Parmi, però, che facciano uguale effetto su di lei. Non mi ha più fatto da cicerone.

— Non vorrei turbare i suoi pensieri... i suoi ricordi.

— E chi le ha detto che io carezzo dei ricordi?

— Colui che ha tentato Eva — il serpente.

E così dicendo accennai alla biscia d’argento, e al braccialetto d’oro su cui era incisa la parola Ricordo.

Annetta, turbata, si fe’ rossa, e abbassò gli occhi dicendomi:

— Scusi — la sua frase io non la intendo.

— Lo so — è una freddura.

— Non ho detto questo...

— Ma lo ha pensato.

— Conosce dunque anche i miei pensieri?

— Potessi conoscerli!

— Che ne otterrebbe?

— Il più crudele dei disinganni, lo so; ma è sempre meglio di un dubbio che tormenta... ed uccide!

Era una mezza dichiarazione a bruciapelo; [76] e questa volta Annetta fece un movimento di dispetto, e diede una brusca strappata alle stecche del ventaglio; tanto che la vecchia apri gli occhi:

— Cosa c’è?!

— Nulla... mi faccio vento.

Come vedete, se il treno camminava, camminavo anch’io — e in che modo! Quando avrò figlie insegnerò loro a non tollerar mai una mezza parola da un uomo; perchè l’uomo è incontentabile e un po’ sfacciato: — se gli concedete un dito, vi piglia addirittura la mano... per lo meno!

Vi dico queste cose oggi, a sangue freddo; ma credo inutile assicurarvi che allora non le pensai neppure. Mi credevo autorizzato dalla passione ad ogni sorta d’imprudenze. — Oh gioventù! gioventù! — esclama sempre mio zio; ma, con questa benedetta parola, ce ne perdonano troppe... delle scappate!

E postochè sono sulla via delle confidenze, sento il dovere di fare una dichiarazione. Costretto a raccontare la mia storia, e sapendo che non v’ha nulla al mondo di più noioso che lo intrattenere il pubblico sui fatti nostri, ho voluto far conoscere ai lettori le diverse località per cui passa la strada ferrata da Sassari a Cagliari. Essendomi ben nota questa linea per i frequenti viaggi intrapresi per conto di mio zio, ho voluto cogliere l’occasione per descriverla in alcuni punti: pur confessando che certe mie osservazioni rimontano ai viaggi precedenti; poichè il [77] tre di luglio del 1881, non sempre io mi trovavo in tale condizione di animo, da poter badare ai monti ed ai campi che attraversavo. Capirete bene che avevo ben altro da pensare!

Ed ora continuo.

Il fischio della vaporiera, e il treno che rallenta, ci rendono accorti che siamo arrivati alla stazione di Torralba — ben s’intende assai lontana dal villaggio, come molte altre sue sorelle... di latte.

Siamo sopra un terreno accidentato, fra una alterna successione di pianure e di colline. Vediamo a levante il Monte Austido, a ponente il Monte Manno e quello di Cheremule — tre vulcani spenti.

Maestoso sovra tutti, il Monte Santo è sempre là, nella sua massima larghezza. Da Campomela a Chilivani — da Chilivani a Mores — e da Mores a Torralba, per ben cinquanta e più chilometri, esso ci ha accompagnati nella nostra corsa ferroviaria.

A Torralba era montato nel nostro scompartimento un giovine snello, dal volto abbronzato, dalla barba incolta, e vestito di nero, ma con abiti logori dal grasso... e dal magro della quaresima. Non bisognava essere fisonomisti per giudicarlo: era un maestro di scuola. Il maestro di scuola italiano — in grazia del Governo — è un tipo unico che non ha bisogno di connotati nel passaporto, e potrebbe anche fare a meno delle presentazioni e del biglietto di visita.

[78]

Il nostro maestro contrapponeva alla povertà il buon umore. Era un ciarliero di prima forza. Appena entrato nel vagone, sedette con disinvoltura fra l’uomo del cappello a cilindro ed Annetta; e, colle ciarle, cominciò a destare tutti quelli che dormivano — o fingevano dormire per non essere importunati.

Fra gli altri avea preso di mira il proprietario di Bosa, col quale piantò subito un’animata discussione sul Governo e le scuole, e sulla lotta fra progressisti e moderati nelle ultime elezioni comunali.

Le ciarle del maestro non fecero che avvantaggiare la mia posizione. Io poteva parlare più liberamente con Annetta: poichè le mie parole, soffocate da quelle del maestro, non potevano arrivare all’orecchio dei due vecchi interessati.

Il mio vicino era un inglese che capiva poco l’italiano, e stava muto; il vicino d’Annetta era un sardo che sapeva troppo l’italiano, e parlava sempre; motivo per cui, come vedete, il caso non poteva meglio favorirmi.

— È un bel paese Torralba? — domandò il padre nobile al Bosano.

— Così, così! Un tempo vi si fermava la diligenza, perchè vi capitava all’ora di pranzo; oggi, invece, la ferrovia non lo vede neppure. È stato un paese disgraziato!

Il maestro di scuola, senz’essere interpellato, continuò con tono cattedratico la biografia di Torralba:

[79]

— È un villaggio fabbricato con pietre nere e rosse, ed ha un’aria di cupa tristezza, come giustamente osserva il caro Lamarmora. Di speciale non ha che due cose: È la patria delle anguille squisite, e del bravo poeta Sechi Dettori — un ex maestro di scuola, che negli alberghi domanda i maccheroni coi pomi d’argento, dicendo che non può permettersi il lusso del pomidoro.

In vicinanza alla stazione, rasente alla linea ferrata, si possono ammirare due bellissimi nuraghi.

Il maestro colse subito l’occasione per illustrarli.

— Osservi questi due nuraghi, costrutti entrambi colla lava porosa uscita dal cratere del monte di Cheremule. Quello là, a tre piani, è detto di Santu Antine, e fu visitato da Carlo Alberto; l’altro è quello detto de Boes, visitato l’anno scorso dal ministro Baccarini e da’ suoi illustri compagni di viaggio; i quali fecero voti che venisse dichiarato monumento nazionale, e conservato gelosamente. I voti, però, fatti al governo per il nuraghe, dovrebbero unirsi ai voti già fatti per migliorare la condizione dei maestri elementari. Ben diceva il nostro vecchio professore di morale: — sapete voi, figliuoli miei, che cosa sono i voti? — sono i vuoti dello stomaco!

[80]

XII. Da Torralba a Bonorva.

Oltrepassata la stazione di Torralba, vedesi a sinistra, lontano lontano, spuntare dai monti il campanile di Giave; e più sotto la famosa Pedra Meddarsa — un gran sasso isolato e di forma conica, sul quale il volgo superstizioso fabbrica non so quante storielle strane e paurose.

Quel campanile e quel sasso continuano a starci dinanzi, per ben quattro chilometri.

Ecco il famoso Campu Giavesu, coll’antica Cantoniera dove le messaggierie di Calvo solevano fare il cambio dei cavalli. Alla 1 e 22 minuti ci troviamo alla stazione di Giave — al cui fianco vediamo un povero omnibus rachitico, attaccato alle costole di due cavallini magri, che aspettano il dolce peso di qualche passeggiero.

Giave è lontano dalla linea forse un tre chilometri; trovasi ai due terzi del monte, sulla cui cima sono i pochi avanzi del castello di Roccaforte; il quale, eretto da Nicolò Doria nel 1336 per dominare la strada centrale dell’isola, fu distrutto più tardi dagli Aragonesi. Il villaggio di Giave vede a’ suoi piedi le ceneri della propria madre — i ruderi cioè dell’antica Hafa, menzionata nell’itinerario di Antonino.

Lasciata la stazione di Giave, vediamo all’intorno, tanto sulla collina quanto sulla pianura, [81] una svariatissima gradazione di verdi. Le spighe dei grani altissime, ingiallite dal sole, si piegano sotto le carezze del vento.

A destra, come adagiato in seno ai monti, ci si presenta un grosso paese. Annetta domanda senza voltarsi:

— Come si chiama quel villaggio?

— Bonorva — le rispondo; e null’altro.

Le pietre sparse nei dintorni, formanti i muri di cinta, hanno una specialità — sono di color verdastro, e sembrano di zolfo.

La vigna ogni tanto fa capolino; serpeggia nel piano, scende capricciosa nella valle, per poi risalire arrampicandosi sulle roccie fantastiche.

— E quell’altro villaggio che si scorge alla parte opposta, come si chiama? — tornò a chiedermi Annetta, ma con più dolcezza.

— È sempre Bonorva. Da destra è passato a sinistra.

— È strano!

— Strano? Ciò succede assai spesso anche ai nostri deputati nella Camera!

Annetta guardava il paesaggio, ed io continuai.:

— Vede quel paese? — è uno dei più importanti della Sardegna. Arcigno un tempo, assai superstizioso, e centro di fazioni che si dilaniavano a vicenda, oggi ha un aspetto spigliato e gioviale. — È come una fanciulla piena di vezzi; e il treno lo sa, perchè le fa la corte, girandole [82] intorno. Essa non vuol saperne, e si dilegua. L’amante, indispettito, sbuffa e fischia, fingendo allontanarsi; ma Bonorva allora gli si accosta sorridendo, per poi tornare indietro a voltargli la faccia, o le spalle.

— Bonorva teme dunque la strada?

— Tutt’altro. Un tempo, è vero, la temeva, perchè era gelosa delle sue vigne e delle sue foreste; e difatti nel 1840, se non erro, e nel 1854 fece disordini, e mostrò i denti agli ingegneri, perchè non voleva vie nazionali. Oggi è ben diverso il suo scopo: — Bonorva ed il treno sono due innamorati che s’inseguono ogni giorno, alla stess’ora, per non toccarsi mai. Di chi l’audacia? Non lo so. Talora pare Bonorva che corra incontro al treno — tal altra il treno che ronzi intorno a Bonorva. Per lo meno, sono matti tutti e due.

Il treno intanto si era fermato alla stazione di Bonorva, una delle più eleganti della linea. Alla sua sinistra è un giardinetto ricco di fiori, con una mezza dozzina di bellissimi eucaliptus e un delfino in sedicesimo che getta un filo d’acqua dentro una vaschetta di marmo.

Si continua la strada. Dopo aver attraversato altre vigne e nuovi frutteti; dopo aver corso fra roccie e strati curiosi, i quali somministrano le pietre bell’e squadrate a’ muri di cinta di quella regione, il treno si trova nuovamente di fronte al paese.

— E quel villaggio? — domandò Annetta.

[83]

— Sempre Bonorva. Non glie l’ho detto? Sono due innamorati che si cercano. Sanno di esser soli, e non badano a riguardi di sorta.

— E che significa tutto ciò?

— Potrebbe significare che la speranza ha forse misteriosi rapporti con questo fatto. Essa difatti, come il treno, segue l’obbietto dei nostri sogni per circondarlo di carezze; ma questo le sfugge e si dilegua. Nondimeno la speranza non si dà per vinta. Un raggio improvviso riaccende talora i palpiti del nostro cuore — e allora torniamo all’assalto, per ricadere, più spossati che mai, sotto il peso delle nostre illusioni svanite. Ma allora è lei — questa larva incantata e incantatrice — che, alla sua volta, ci circonda, ci seduce, ci abbaglia; ed a lei sola noi ci abbandoniamo, colla cieca fiducia degli illusi. Farfalle volubili e senza posa, corriamo intorno alla fiamma delle nostre illusioni, pur sapendo che finiremo per lasciarvi le ali, od incontrarvi la morte.

Non ero ancor giunto a metà di questa mia lunga tirata, che io già m’ero accorto d’aver preso un volo troppo lirico. Ma che fare? Una volta messo il piede in certi abissi, bisogna chiuder gli occhi e precipitare fino al fondo.

Annetta, cogli occhi bassi, scherzava sempre con quel braccialetto che mi era diventato uggioso. Appena ebbi finito, dissemi senza levar gli occhi:

— Troppa poesia!

[84]

Non potei contenermi, ed esclamai con amarezza:

— Troppa poesia? Lo so! — Ma qualche cosa bisogna pur dire per uccidere questo silenzio, che a lungo andare fa troppo male al cuore! — Come mai può tacer l’anima dinanzi allo spettacolo di questa natura, che manifesta il suo contento con tanta luce, con tanti colori, con tanta armonia? A lei, non dice nulla tutto questo?

Il volto di Annetta divenne di porpora; ed i suoi occhi, per la seconda volta, andarono a cercare la vecchia che dormiva.

Vi furono alcuni momenti di silenzio.

Quando vidi Annetta più tranquilla, le dissi con calma:

— Signorina; lei non crede a quanto le dico. Non è così?

— Dovrei crederlo!

— E perchè non lo può?

— Perchè ad un uomo non si deve mai credere!

Punto da queste parole, pronunciate con tanta ingenuità, non potei trattenere un movimento di dispetto, che non sfuggì all’amabile fanciulla. Volendo forse rimediare in parte alla crudezza della frase, ella mi disse con premura:

— Non ho voluto offenderla, sa?

— Risponda francamente — le chiesi, facendomi serio. — Ha la convinzione di ciò che ha detto?

— Ecco... veramente la convinzione c’è — ma non è la mia.

[85]

— Di chi dunque?

— Di suor Maria.

— Una monaca?

— La mia maestra di pianoforte in collegio; la quale, tra una scala e l’altra, mi dava qualche lezione di morale.

— Ah... fra una scala e l’altra le dava di queste lezioni?

— Sì.

— E le chiamava lezioni di morale?

— Precisamente.

Immaginate il mio dispetto! La cornetta di Suor Maria che si frapponeva tra me e la vezzosa viaggiatrice: — due ali inamidate che facevano ombra alle mie speranze!

— E lei, signorina, sente proprio di non credere alle mie parole?

— Oh no! — io anzi mi sento trascinata a credere ciecamente a quanto mi dice — e sa perchè? Perchè non arrivo a comprendere il motivo per cui un uomo non debba dire la verità ad una donna — ed una donna non debba credere a ciò che un uomo le dice.

— Dunque, crede in me?

— Ci credo; anzi, non so perchè, ci credo troppo; e sento di commettere un peccato, che Suor Maria e la mamma non mi perdoneranno mai!

Non vi era più dubbio; io aveva a me dinanzi un’ingenuissima creatura. Inutile dirvi che n’ero innamorato fino ai capelli.

[86]

***

Passano come freccie i casoni della ferrovia. Di tanto in tanto una vecchia, una giovinetta, una bella fanciulla compariscono colla bandiera arrotolata e col braccio teso, per avvertirci che la strada è sgombra, e che possiamo inoltrare.

D’improvviso la scena si cambia. Una stupenda valle, in tutta la sua magnificenza, offresi ai nostri occhi. È la valle di Consadu; la quale, dopo quella di Saccargia, è forse la più pittoresca che trovasi sulla linea ferrata Sassari-Macomer.

È tutta una distesa di colli dalle forme capricciose; pianure leggermente ondulate; roccie a frastagli; il tutto diviso, suddiviso da muricciuoli a secco, i quali (a cominciare dal binario, e a terminare sul cocuzzolo delle più alte colline) formano i regolari quadrati d’una scacchiera colossale. Quei quadrati sono a tre colori: o gialli, o verdi, o neri, a seconda i campi mietuti, da mietere, o seminati.

Entro quei quadrati non mancano gli scacchi — i Cavalli ci sono in carne ed ossa; qualche vecchio nuraghe fa da Torre; i pastori, gli armenti, e qualche albero secolare, rappresentano le altre pedine.

Il poeta Giuseppe Giacosa si sarebbe innamorato di quella sublime Partita a scacchi, giuocata [87] tra un vecchio padre ed una giovane figlia: — il Sole e la Terra!

Le trincee, le pendenze, le gallerie, e le opere d’arte esistenti in questo tronco di strada, sono un vero prodigio del lavoro umano; e furono paragonate a quelle della ferrovia Pistoia-Bologna.

L’incantevole valle è incorniciata a mezzogiorno da una catena di colline disposte a ferro di cavallo. La ferrovia doveva rasentare quell’ampia curva, attraversando tre diverse gallerie, che misurano in complesso un migliaio di metri.

XIII. Le tre gallerie di Bonorva.

Le ore volavano. Annetta era lì, immobile, preoccupata. A che indugiare? Avevo giurato a me stesso di svelarle ad ogni costo la mia passione. Come avrei potuto riacquistare il tempo ch’io perdeva?

I miei scrupoli erano ridicoli. Non era io forse un giovine onesto? Che dovevo temere? Non brutto, non vecchio, non povero, e forse non sciocco, potevo ben aspirare alla sua mano; perocchè le fanciulle, alla fin fine, sono fatte per diventar mogli, come i giovani son creati per diventar mariti.

Un tremito convulso s’impossessò della mia [88] persona; il cuore mi battea forte forte, e sentivo come un zufolìo all’orecchio.

Mi colse la vertigine, e non pensai più a nulla; non all’imprudenza che stavo per commettere in quel luogo; non all’intempestiva dichiarazione; non alle conseguenze della mia sciocchezza.

Chiusi gli occhi; e vidi guizzare mille fiamme in un fondo nero nero. Ebbi paura, e fu un bene. Alla paura attinsi il mio coraggio.

Il maestro di scuola continuava a chiacchierare — l’inglese, cogli occhi socchiusi, piegava la testa sul petto.

La vaporiera mandò un fischio prolungato, e d’improvviso ci trovammo nelle tenebre.

Eravamo entrati nella prima galleria di Bonorva, lunga circa 700 metri.

Non volli più oltre riflettere per paura del pentimento.

— Signorina! — mormorai prestamente e con voce concitata, chinandomi verso Annetta — a che serve il celarlo, quando lo ha diggià indovinato? Dacchè la vidi mi trovo in preda ad un turbamento, mai provato in mia vita. Non l’ascolto che da poche ore, eppure parmi di conoscerla già da molto tempo. Lei non ha più nulla da rivelarmi: io la conosco. La mia passione non è improvvisa, non è leggera, non è inconsiderata. Vi sono fanciulle che non si studiano in dieci anni; altre, cui basta un’ora per rivelare il tesoro d’affetto che racchiudono nell’anima. I suoi occhi, [89] i suoi sorrisi, le sue parole, i suoi silenzi, mi hanno già fatto conoscere la bontà del suo cuore, la squisitezza de’ suoi sentimenti, la soavità del suo animo leale, affettuoso, entusiasta. Non posso più celarglielo — io l’amo pazzamente!

Un gemito doloroso fece eco, in quelle fitte tenebre, alle mie parole. Ma io, cieco, inesorabile, fuori di me, continuai senza pietà:

— Sono un giovine educato; i miei sentimenti sono nobili, le mie intenzioni oneste. Non voglia giudicarmi sinistramente; è la prima volta che amo, e sono incapace di ingannare la buona fede e l’inesperienza d’una fanciulla. La prego, non abbia una cattiva opinione di me: s’ingannerebbe. Le giuro di non meritare i suoi rimproveri — me li risparmi!

Nessuna risposta.

Aspettai, inorridendo, la luce. Avrei voluto eterne le tenebre per poter celare il mio rossore!

Ma la luce venne.

Annetta aveva cacciato la faccia fra le mani; e tremava tutta. Io sentiva che i lobi delle mie orecchie scottavano.

La vecchia notò il turbamento della figlia.

— Che hai, Annetta?! — gridò con vivacità; e poi correggendosi: — Ho capito! hai temuto le tenebre. Bambina! non vedi che abbiamo attraversato una galleria?

— E con molto risparmio d’olio per la Compagnia delle ferrovie sarde! — aggiunse il maestro [90] di scuola, il quale coglieva ogni occasione per poter spezzare le sue lancie contro qualunque autorità costituita.

Quanto a me, è inutile dirvi che ero contento delle misure economiche della Compagnia reale, e sarei stato capace... di abbracciare Piercy.

Dopo un minuto il treno rientrò in una seconda galleria, lunga circa la metà della prima.

Ed io, di nuovo, a chinarmi verso Annetta, sicuro che le ciarle del maestro e il brontolio della macchina avrebbero soffocate le mie parole.

— Mi dica, per carità, che mi ha perdonato — esclamai come un pazzo — altrimenti io crederò di essere un vigliacco!

— Mi ha offeso... mi ha fatto male... ma io gli perdono la troppa vivacità, perchè credo non l’abbia abbastanza ponderata.

— Per amor di Dio! mi dica almeno che non mi crede un tristo!

— Non un tristo, ma un temerario! Mi faccia credere almeno, che con la mia condotta non ho autorizzato... una simile audacia.

— Oh no! lei è una santa creatura; e mi ha punito abbastanza con le sue parole... che io ho ben meritate!

E tornammo di nuovo alla luce.

Annetta era nella stessa posizione di prima; solamente appoggiava la guancia ad una mano, mentre abbandonava l’altra sulle ginocchia, in preda ad un tremito convulso.

[91]

Dopo un altro minuto di luce, il treno piombò nuovamente nelle tenebre.

Era la terza e l’ultima galleria, lunga quanto la seconda.

In preda ad un’agitazione febbrile, volli esaurire fino all’estremo la mia sfrontatezza. Il dado era tratto: sciocchezza più, sciocchezza meno, non aggiungeva ormai peso al mio reato.

— Addio, signorina! Si ricordi sempre di me! Pensi che io non dimenticherò giammai il giorno memorabile in cui ho gustata, e per sempre perduta, la sola e vera felicità riserbata in terra alla creatura umana!

E afferrando con ambe le mani la mano che quella fanciulla abbandonava sulle ginocchia, la trassi a me con forza, e posai per tre volte la mia bocca ardente sul braccio seminudo, che io vedeva, anche nell’ombra, attraverso la febbre che mi abbruciava il cervello.

Un altro gemito, più doloroso del primo, uscì dal petto della fanciulla. Allo stesso tempo sentii un alito tiepido sfiorarmi la guancia, ed una voce fievole e tremante susurrarmi all’orecchio:

— Ma non ha capito, che io sono d’altri?!

Un fulmine caduto a’ miei piedi mi avrebbe meno atterrito di quelle poche parole fredde, vibrate, che io ascoltava nelle viscere di una montagna, in seno alle più fitte tenebre e fra l’urlo e i fischi d’una vaporiera.

— Maritata! — gridai con raccapriccio — maritata!

[92]

E questa volta fui io che cacciai il volto fra le due mani.

Quando tolsi da’ miei occhi le dita, le tenebre si erano dileguate. Gettai uno sguardo ad Annetta ed alla vecchia.

La prima era pallida e tremava tutta; — la seconda mi fissava con certi occhioni spalancati e con un tale aggrottamento di sopracciglia, che ben dicevano che qualche cosa aveva capito; aveva capito, se non altro, che Annetta aveva troppa paura del buio, ed io troppa paura della luce!

La situazione però era critica; e la vecchia dovette ben comprendere, che il più piccolo suo atto avrebbe potuto creare un serio scandalo nel piccolo mondo del vagone di seconda classe.

Io non badai alla madre, nè alla figlia. Non facevo che ripetere a me stesso:

— Maritata!... maritata!

XIV. Da Bonorva a Macomer.

Dopo alcuni minuti si entrò nell’eterne foreste di Campeda. Sopra terreni incolti e di color rossiccio, tempestati di fiori campestri, erano migliaia di quercie secolari; tronchi distesi al suolo e per metà scorzati, come viandanti assassinati e spogliati sulla strada. Qua e là mandrie, e null’altro.

[93]

Quella pianura tutta alberata, monotona, triste, immensa, pareva fosse capitata là per condividere il mio malumore e per esortarmi alla penitenza del mio peccato.

Il maestro di scuola chiacchierava sempre a voce alta. Egli spiegava ai compagni come la ferrovia, là presso, seguiva quasi sempre l’antico stradone nazionale; diceva, che essendo Campeda molto lontana dai villaggi, era stata sempre un sicuro ricovero per i malviventi, i quali trovavano fra i vergini boschi un sicuro scampo; raccontava che verso il 1847 fu là derubato un incaricato del taglio delle foreste; che nel maggio del 1867, a metà della salita di San Simeone, là vicino, era stata assaltata la Diligenza da una banda di grassatori, i quali avevano ferito il conduttore ed ucciso un tenente dei bersaglieri; aggiungeva infine, che l’altipiano di Campeda, a 680 metri sul livello del mare, è il punto più culminante delle strade ferrate sarde, ed anche di quelle del continente.

Io ed Annetta eravamo diventati muti. Dopo usciti dalla galleria, non una parola, non una occhiata scambiata fra noi.

Ripensai alla mia avventura. Ero stato mortalmente ferito da quella fatale rivelazione.

— Maritata! — pensavo. — Ed io, bestia, che doveva accorgermene subito! Quei sospironi, quando le narravo la storia di Adelasia; quel rossore, quando accennai alla parola ricordo; [94] quelle carezze fatte al serpente d’argento, dono di lui, quasi volesse attingere a quel pegno la vacillante fedeltà coniugale; quello spavento e quei gemiti, quando le dissi che io l’amava, erano indizi certi di nozze effettuate!

Donna d’altri? Dunque, senza saperlo, io era in contravvenzione con uno dei dieci comandamenti di Dio! — Mi vergognai di me stesso, e ringraziai il cielo d’essermela cavata abbastanza bene.

Poco dopo facevo fare a’ miei pensieri un’altra evoluzione.

— Maritata, così giovine? Con quella sua ingenuità? Impossibile! E le lezioni di Suor Maria, fra una scala e l’altra? E la sua confessione di fidare in me? E quel guardarmi con tanta bontà?

Parliamo schietti, via! Annetta era un angelo; ma se per fanciulla era troppo semplice, per maritata era troppo leggera.

Che doveva io credere? Un lampo rischiarò la mia mente.

— Ecco — l’ho trovata! Annetta è una moglie infelice — una vittima sagrificata dai genitori, come lo fu Adelasia di Torres. Ma voglio venirne a capo!

***

Le quercie si facevano sempre più rare; fino a che passammo dinanzi alla stazione di Campeda, dove erano molte cataste di traversine, molta [95] legna da ardere, e molto carbone ammontichiato — tre testimoni d’accusa che provavano la distruzione dei nostri boschi e delle nostre foreste, alla quale la Sardegna deve le peggiorate condizioni del suo clima, e la scarsità delle acque per uomini, per bestie, e per vegetali.

Attraversammo altri campi svariati, ma calvi come la palma della mano. A sinistra un nuraghe vicino ad una casupola; gli avanzi d’altro nuraghe a destra. Qua vacche che pascolavano, sferzando colla coda i propri fianchi; là vitelli impauriti, che fuggivano all’avvicinarsi del treno.

Le alte trincee scavate nel calcareo e nel tufo (che noi attraversammo veloci) pareva minacciassero di seppellire il treno con tutti i passeggieri.

Ecco a sinistra — sopra una collina, quasi a picco — il famoso nuraghe di Santa Barbara, uno dei più belli, illustrato dal Lamarmora. Altro nuraghe voi avete a destra; ma non dovete farne le meraviglie, perchè siamo sui terreni dove abbondano questi monumenti preistorici, che ascendono in Sardegna a più di tremila.

Un gruppo di case basse, brune, sotto tetti brunissimi e sopra un bruno terreno, ci avvisano della presenza di Macomer — villaggio che trovasi ad un’altezza considerevole, epperciò esposto a tutti i trentadue venti segnati nella bussola.

— Dove siamo, ora? — domandò il padre nobile, con un grosso sbadiglio che cercò invano di strozzare.

[96]

— Alla stazione di Macomer; — rispose l’ex consigliere di Bosa.

— Macomer?

— Sì; un paese a cui non mancarono mai le occasioni di farsi strada, ma che non volle mai saperne. Sede di antiche società italiane di legnami e scorze; — centro di quasi tutte le comunicazioni dell’isola; — sbocco di Nuoro e di Bosa, Macomer poteva tirar partito dalla sua fortunata posizione; ma si contentò di mettere denari a parte, coll’intento di abbellirsi col tempo. Da pochi mesi vi fu costrutto un acquedotto; e l’inglese Piercy, che ne è alquanto innamorato, ha fatto già acquisto di molti terreni, ed ha già disposto per farvi sorgere alcuni ragguardevoli fabbricati. Macomer ha certo un bell’avvenire dinanzi a sè — ma il suo presente lascia qualche cosa a desiderare!

— Ebbe però un bel passato storico! — interruppe il maestro di scuola, che non stava muto neanco ad ammazzarlo, e che possedeva il bernoccolo della storia sarda.

— Del passato non mi preoccupo — fece il bosano, stringendosi nelle spalle. E il maestro continuò gravemente:

— Macomer è l’antica Macopsissa dei Romani; e dei tempi antichi non so altro. Nel medio evo, però, divenne celebre per alcuni fatti d’armi, di cui fu teatro. Là passò l’infelice Gerardo di Cervellon, quando nel 1347 conduceva un rinforzo [97] di truppe a suo padre, il quale si era mosso da Sassari per andargli incontro. Il poveretto morì due giorni dopo, nella famosa battaglia di Aidu de turdu, presso Torralba. — Nel 1478 Macomer fu occupata dal valoroso Leonardo Alagon, ultimo marchese di Oristano, alla vigilia della famosa battaglia contro gli Aragonesi; nella quale egli subì la tremenda disfatta che doveva annientarlo. Lo sfortunato marchese lasciò in questi campi il suo figlio Artaldo, che vi cadde trafitto, vittima del proprio valore...

E il maestro continuò di questo tono, dando i suoi pareri, raccontando episodii, e citando con gravità Manno, Martini, Tola, Spano e Lamarmora.

XV. Da Macomer a Bauladu.

Dalla stazione si fa un larghissimo giro per scendere nella vallata di Macomer. La strada ferrata, serpeggiando in tutti i sensi per l’aspro vallone, ottenne due scopi — fece risparmiare molte gallerie alla Società, e si procurò la soddisfazione di rivedere la sua corteggiata Macomer, che, questa volta, noi vediamo in alto, sul cocuzzolo della bruna montagna.

Le roccie ed i terreni di quei dintorni sono tutti di color grigio oscuro, come le pietre colle [98] quali sono costrutte le case di Macomer ed i muri di cinta dei campi e dei poderi.

Passiamo, senza fermarci, dinanzi alla stazione di Birori, — che non ha nulla di particolare, tranne parecchi nuraghi, qualche sepoltura di gigante, e molti telai.

Entriamo in altra immensa pianura incorniciata da monti. La strada serpeggia sempre fra roccie, trincee e muri a secco, che questa volta han cambiato colore: da grigi sono diventati giallognoli.

Guardo dal finestrino. Passano rapidamente, ad uno ad uno, i casotti della ferrovia. Vestiti di bianco, col berretto di rosse tegole, e segnati con un grosso numero alle spalle, essi sembrano galeotti evasi dal Bagno. La famigliuola del cantoniere si fa alla porta per guardare il treno che fugge. Il papà ha in braccio il lattante; la mamma stende al sole i panni del bucato; i bambini battono le mani alla vaporiera; e la figlia maggiore, reggendo con la mano destra la bandiera, reca colla sinistra un lembo del fazzoletto alla bocca, per nascondere il rossore, o per meglio fissarci con due occhi assassini.

Fatti soli tre chilometri di strada, ecco il villaggio di Borore con una chiesa mezzo diroccata, colle sue modeste case sparpagliate, e colla sua parrocchia che fa pompa di una cupola superba. Questo villaggio è la seconda patria di Piercy. Riconoscente all’ingegnere inglese, per [99] la vicinanza della ferrovia, gli ha offerto il decreto di cittadinanza. Borore ebbe fama per eccellenti cavalli — i migliori che figurarono nelle corse del Campidano. Ha parecchie paludi, circa ventidue nuraghi, e molte di quelle tombe dette sepolture di giganti.

Da Borore fin quasi ad Oristano, per una quarantina di chilometri, abbiamo sempre a destra la catena dei monti di S. Lussurgiu e di Seneghe, fra cui primeggiano le tre punte di monte Entu, monte Urticu e monte Pertusu.

Dopo aver attraversato altre terre dalle tinte grigie, troviamo due gruppi di casupole di qua e di là della ferrovia; — siamo alla stazione di Abbasanta, l’Ad Medias dei latini. Dicono che gli abitanti di Abbasanta siano tutti brava gente; forse perchè l’acqua santa fa fuggire i demoni... e quindi le tentazioni del peccato.

Il maestro di scuola esclamò rivolto all’ex consigliere di Bosa:

— Guardi laggiù la Tanca Regia, dove si allevavano i cavalli per conto del Governo. Di essa si fa menzione in un documento del 1481. Che splendore un tempo! Ed oggi che miseria! L’allevamento fu sospeso nel 1834, ristabilito nel 1851, e poi andato alla malora nel 1873 — anno in cui il ministro della Guerra finì per vendere la Tanca ad una società privata. Ministri cani! essi spogliano la Sardegna, e la vendono al primo venuto. Non è così?

[100]

— Proprio così! — rispose il consigliere con un profondo sbadiglio.

Il paesaggio ha sempre la stessa intonazione: terreni a pascolo sparsi di macchie di lentischio — campi seminati e da seminare — e pietre nere dappertutto.

E dopo sei chilometri si arriva a Paulilatino, la cui stazione possiede un piccolo giardinetto, dovuto alle cure degli impiegati ferroviari; i quali si dedicano tutti all’agricoltura, per ammazzare la noia di una solitudine sconfortante.

Il maestro di scuola tornò a dire all’ex consigliere:

— Si ricorda, eh, signor Giuseppe? quando esisteva la buon’anima della Messaggeria, le due diligenze facevano onore al proprio nome, trovandosi qui alla stess’ora.

— Quelli eran tempi! — si contentò di rispondere il bosano; e tornò a chiudere le palpebre. Ma il maestro continuò il suo discorso, ben sapendo che l’uomo, anche tenendo gli occhi chiusi, può benissimo aprire le orecchie.

— Paulilatino è il Pauleti menzionato dal Fara — ed anche il Padulis a latere: la palude che venne prosciugata da un parroco benemerito. Questo villaggio trovasi nel centro della Sardegna — voglio dire a uguale distanza da Cagliari e da Sassari, motivo per cui le due diligenze...

Il maestro interruppe la frase, perchè si accorse che il bosano russava — segno manifesto che aveva chiuso anche le orecchie.

[101]

E si continuò la corsa per una campagna che non presentava nulla di particolare — aveva sempre lo stesso tono, la stessa tinta, lo stesso carattere. Non vi si notava che un’abbondanza di lentischio, e qualche albero d’ulivo dalle spesse foglie e dal colore verde cupo, lasciato a sè stesso, con certi lunghi polloni al ceppo, che amava come figliuoli.

D’improvviso si assiste ad un cambiamento di scena. Dall’altura in cui ci troviamo, ci si presenta l’immensa distesa del Campidano oristanese. A destra, per un largo tratto, il versante di una bassa collina rivestita tutta di macchie di lentischio; in lontananza il mare; lo stagno di Cabras; il famoso bosco degli aranci di Milis, che si presenta come una lunga striscia verde, sotto una catena di piccoli monti. Qua e là il campanile di qualche villaggio, o la punta di qualche nuraghe; sotto al nostri occhi i rossi tetti di Bauladu, villaggio che non vuol far plauso alla bella natura che lo circonda, solo perchè gli uomini non lo hanno fabbricato in altura.

Il treno è passato fra due enormi massi di granito, che sfavillano al sole come se fossero tempestati di diamanti. Sono le stupende trincee di Bauladu, una delle opere più costose delle ferrovie sarde.

Usciti dalla trincea, il Campidano ci appare in tutta la sua magnificenza. Sono terreni immensi da cui spunta, di quando in quando, il ciuffo d’una [102] palma solitaria. Da nessun punto della Sardegna si abbraccia collo sguardo una maggior distesa di terre e di acque, di campi e di villaggi.

Quell’armonia di colori, quella gradazione di verdi a seconda la lontananza, quei fertili terreni che si perdevano nell’orizzonte, quelle palme, quei campanili e quelle cupole che in contorni vaporosi spiccavano da un cielo caldo e senza macchia, ti trasportavano col pensiero alle incantevoli regioni dell’Oriente. E per certo noi avevamo sott’occhi un vero paesaggio orientale!

XVI. Si dileguano le nubi.

Il nuovo e largo orizzonte, che si schiudeva a’ miei occhi, ebbe la facoltà di togliermi a quella specie di stordimento che aveva paralizzato i miei sensi, dopo la tremenda rivelazione d’Annetta nelle tre gallerie di Bonorva.

Avevamo percorso circa sessanta chilometri di strada, da Campeda a Bauladu, sempre col broncio. Due ore circa di raccoglimento!

Anche la fisonomia d’Annetta si era alquanto rischiarata. I lineamenti di quell’angelico viso avevano ripreso la consueta serenità. Mi parve vedere un raggio di sole fra le nubi tempestose.

Forse, colla lunga riflessione, Annetta si era persuasa che, in fondo in fondo, io non aveva [103] commesso un delitto così grave da non meritare perdono. Alla fin fine io era stato un amante troppo vivace — non però uno sfacciato volgare. Fors’anco, la mia mestizia e la mia compunzione, dopo l’accaduto, avevano destato in lei una gentile pietà — il rimorso, forse, di avermi mortificato. E voleva ripararvi, pentita del suo eccessivo rigore.

Più volte, nel tragitto da Campeda a Paulilatino, avevo tentato di esplorare l’animo suo nei lineamenti del suo volto; ma ogni qual volta i miei occhi si erano incontrati ne’ suoi, ella si era voltata bruscamente verso il finestrino.

Poco a poco, però, Annetta divenne più umana.

Quando il treno uscì dalla trincea, e ci trovammo dinanzi alle immense pianure di Oristano, non potei fare a meno di esclamare a voce alta:

— Che bel panorama!

Si turbò Annetta alle mie parole, ma si guardò dal rispondermi. Essa ben comprendeva, che una sua parola, in quel momento, avrebbe avuto il significato d’una formale dichiarazione di assoluto perdono; e a tanto non voleva arrivare!

Si contentò nondimeno di sporgere il capo fuori del finestrino, per guardare il panorama che io le aveva decantato.

Era per me una vittoria; ma doveva io gioirne? La mia posizione avea subìto un notevole cambiamento. Da Sassari a Bonorva io era stato un giovine entusiasta, preso d’amore per una fanciulla [104] da marito; da Bonorva in avanti non potevo essere che un volgare seduttore delle mogli altrui.

Avrei desiderato soddisfare una mia curiosità: domandare a lei informazioni di suo marito. Ma, me le avrebbe essa date? Smaniavo di averle — temevo di chiederle.

Cominciai col togliere dalla mia borsetta alcuni aranci di Milis, che offersi prima a’ miei compagni di viaggio, come voleva la buona creanza. Tranne il maestro di scuola, che ne accettò uno, gli altri mi risposero con un cortesissimo grazie. La madre nobile, sovra tutti, fece un brusco movimento, avendo notato che tra me e la sua figliuola vi era un certo qual broncio, che poteva aver rapporto collo spavento di Annetta nella galleria di Bonorva.

Senza preoccuparmi del rifiuto materno, mondai accuratamente un arancio, lo divisi in ispicchi e lo presentai ad Annetta.

— Posso offrire?

La bella fanciulla, presa così di soprassalto, si turbò, divenne rossa, e rimase alcuni minuti indecisa.

Col braccio sempre teso, io la guardava negli occhi, aspettando la sua decisione. Finalmente mi feci coraggio.

— Signora! — esclamai in modo che gli altri non potessero udire le mie parole — dicesi che un giorno, in un pranzo di nozze, un pomo abbia gettato la discordia tra Venere e Giunone. [105] Vuol’ella farmi sperare, che un arancio possa invece stabilire la pace fra una saggia fanciulla... ed un povero insensato?

Per tutta risposta Annetta allungò la mano; afferrò con due dita lo spicchio dell’arancio, e lo recò alle labbra, dopo avermi ringraziato con un leggero movimento di testa... ma senza un sorriso.

— È tanto dolce! — esclamai con espansione. Ma io non aveva giudicato l’arancio!

Ero contento del buon esito ottenuto: non dovevo però lasciar languire la conversazione.

Approfittando sempre delle chiacchiere dei miei compagni di viaggio, e specialmente del maestro di scuola, io dissi rivolto ad Annetta:

— Le chiedo le più umili scuse per l’accaduto. Dopo la sua rivelazione la mia colpa acquista un peso maggiore; io sento vergogna di me stesso.

Annetta ricominciò col torturare il suo povero ventaglio, come per lo passato; e, poi, volse prestamente la faccia verso il finestrino, per nascondermi i suoi occhi lagrimosi.

Non mi rispose, ed io continuai:

— Vorrà la signora separarsi da me, col rancore nell’anima?

A queste parole, Annetta, senza guardarmi, mi disse:

— Certo, non lo desidero. Ho bisogno di crederla incapace di commettere una brutta azione, indegna di un gentiluomo.

— Dunque, mi perdona?

[106]

— Forse: ma ad un patto.

— Quale?

— Che dimentichi per sempre ciò che è passato fra noi.

— Lo ricorderò; ma solo per rimproverarmelo. Sarà questa la mia punizione. Ed ora.... vorrei chiederle un’ultima grazia.

— Sentiamo.

— Vorrei che ella rispondesse ad alcune mie domande.

— Ancora?!

— Non riguardano me!

— Nè saranno indiscrete?

— Oso sperarlo.

— Domandi pure: l’ascolto.

Si era fatto un po’ di silenzio nel treno; ed io aspettai una favorevole occasione per domandare le informazioni che desideravo. Dopo tutto bisognava essere prudenti, e non abusare della bontà del destino.

XVII. Da Bauladu ad Oristano.

Oltrepassata di parecchi chilometri la stazione di Bauladu, scompariscono d’improvviso le roccie, i muri e le pietre di color grigio. La natura si trasforma completamente, come accade in un teatro ad un cenno del macchinista.

[107]

Ai muri di cinta color piombo, tristi, monotoni, succedono lunghissimi filari di fichi d’India. Da Bauladu fino a Cagliari la natura cambia tipo. Prima i terreni rocciosi, i massi granitici, le svariate colline dalle forme capricciose, le folte macchie di lentischio — ora invece le interminabili pianure, gli estesi campi di frumento, le case di fango, i fichi moreschi. Il paesaggio ha qualche cosa d’orientale — talora d’africano.

Dopo venti minuti di strada, ecco dinanzi a noi una ricca vegetazione.

Siamo a Solarussa, uno dei villaggi (nel suo genere) più pittoreschi della Sardegna. Ha le casette bianche, civettuole, alternate qua e là da qualche albero di mandorlo, d’acacia, o di melograno, che fanno maggiormente risaltare la candidezza di quelle abitazioni, eleganti nella loro modesta apparenza. Dal gruppo di quelle casette spuntano tre campanili, due dei quali (quelli della chiesa parrocchiale) fiancheggiano un’alta cupola che vorrebbe avere pretese metropolitane.

Questo paese è la patria della Vernaccia — vino tipo della Sardegna — il solo che possa aversi in grandissima quantità.

All’intorno dì Solarussa si ammirano i vigneti, stupendamente coltivati, colle viti spesse, allineate e sorrette da canne. Le siepi sono fatte a filari di fichi d’India, gradevoli all’occhio, perchè tutte frammiste a canneti, i quali agitano al vento i ciuffi dalle foglie larghissime e sempre verdi.

[108]

La natura in quei d’intorni è lussureggiante, e dà anima e vita a quel villaggio, che il viaggiatore guarda con compiacenza.

Anche Annetta pareva commossa dinanzi al nuovo spettacolo. I suoi occhi scintillavano di una gioia segreta, e sul suo labbro apparve un incantevole sorriso.

Il treno correva veloce; e gli altri miei compagni conversavano allegramente, in grazia del maestro di scuola, che non lasciava mancar esca alle chiacchiere.

Pensai che l’occasione era propizia per reclamare dalla mia bella viaggiatrice le risposte promesse.

— Posso io cominciare le domande?

— Si provi! — mi rispose Annetta con un benevole sorriso. — Già! bisogna aspettarsi qualche stranezza, perchè lei è un pochino..... originale.

Ed io seriamente mi accinsi all’interrogatorio, colla gravità di un vecchio magistrato.

— Da quanto tempo la signora ha cessato d’esser libera?

— Perdoni... La domanda parmi troppo indiscreta per un compagno di viaggio che si conosce da poche ore.

— Rammenti che prima del supplizio si accorda qualunque grazia ad un condannato a morte. Dunque non discuta — risponda.

— Orbene... io sono schiava... da un anno. — Così [109] rispose Annetta con un sospiro, dopo un momento d’esitazione.

Lo conobbe dunque in collegio?

Altra esitazione.

— Sì... in collegio; a Firenze.

— E fu Suor Maria che...

— La prego di rispettare la mia maestra di pianoforte. — Ha terminato le sue domande?

— Ancora due.

— La prima...?

— Mi dica: è egli un fiorentino?

— Sì... un fiorentino.

— Me lo aspettava. I toscani non perdono mai tempo!

— L’ultima domanda...?

— Eccola: — Da quanto tempo è maritata con lui?

Questa volta la risposta fu una schietta risata.

— Io?! — ma io non sono maritata, caro signore!

Dovetti certo spalancare gli occhi e la bocca in un modo singolare, perchè quella fanciulla esclamò con premura:

— Si sente forse male?

— Al contrario: comincio invece a sentirmi bene..... Ma, per carità, non m’inganni. È ella dunque semplicemente promessa?

— Sì; sono una promessa! — esclamò Annetta abbassando la testa. E poi soggiunse, arrossendo e a voce bassa: — e la promessa è un debito

[110]

— Lo so; ma i debiti oggigiorno non si pagano più. Eppoi... siamo noi tenuti a saldare... i debiti degli altri?

— Alla mia freddura (e più che freddura sconvenienza) Annetta non rispose.

Respirai più liberamente, nè più oltre la torturai. Capivo che la mia condizione era sempre seria, ma meno disperata di prima. Annetta era ancora libera!

Dopo quella risposta, la graziosa fanciulla era rientrata in un nuovo stadio di malinconia e di raccoglimento. Alla gaiezza era forse succeduto un po’ di rimorso; alla cieca confidenza era sottentrato il pentimento. Non volli turbare i suoi pensieri — e mi diedi distrattamente a guardar la campagna, non preoccupandomi di quanto accadeva nell’interno del vagone.

Qual mistero mi celava Annetta? Ero bensì riuscito ad accertarmi che essa non amava il suo fidanzato fiorentino; ma non sapevo spiegarmi come un amore nato in collegio, sotto la protezione di Suor Maria, potesse venir imposto dai genitori, ed essere respinto dalla fanciulla.

Spingere più oltre le mie indagini mi pareva sconveniente. Avevo a me dinanzi quasi due ore di strada; — e, in due ore, un giovine innamorato cammina più del treno!

[111]

***

Avevamo intanto attraversato il Tirso sul famoso ponte di ferro a tre luci, che è certo il più bello e grandioso dell’isola, e con ragione; perocchè il re dei fiumi non doveva essere cavalcato che dal re dei ponti.

Così pure non badammo alla stazione di Simaxis, povero villaggio che non offre nulla di particolare. Sono poche case di fango, modestissime, freddolose, che cercano addossarsi al proprio campanile per acquistare un po’ d’importanza. Ed importanza avrebbe il villaggio, se fosse vero quanto alcuni asseriscono: che sia la patria del papa San Simiaco!

Il treno intanto aveva attraversato i soliti campi arati, o seminati a grano. I fichi d’india, misti qualche volta ai canneti, si erano moltiplicati all’infinito.

Il paesaggio non aveva subìto alcuna variazione. Era così grande l’estensione di terreno da noi dominato, che pareva non si camminasse.

Ad un tratto cominciano a comparire, qua e là, piantagioni di ulivi dai tronchi neri e dalle foglie di un verde carico; bellissimi orti; qualche palazzina elegante, e qualche cancello di ferro.

Il fischio della vaporiera ci annunzia che siamo vicini alla stazione di Oristano, di cui da più di un’ora vedevamo le case, i campanili, e le torri.

[112]

XVIII. Da Oristano a Uras.

— Ecco Oristano! — aveva esclamato il maestro di scuola col suo solito buonumore; e si era messo a batter le mani.

E noi tutti a guardare dai finestrini quella città severa dalle vie silenziose, che ci mostrava le cinque cupole delle sue chiese, l’isolato campanile d’architettura moresca, e l’alta torre quadrata colla sovraposta torricella.

Quel gruppo di case grigie, sotto un cielo purissimo, spiccavano da un largo orizzonte, in cui si disegnavano, a contorni indecisi, lontane campagne, palme solitarie, diversi stagni, e l’ampia distesa del mare.

— I fabbricati che vedete — cominciò il maestro — appartengono ai sobborghi di Oristano; il centro della città è distante dalla stazione non meno di venticinque minuti. Non v’impressioni però la povertà di queste case. Noi abbiamo sott’occhi la capitale degli antichi Stati d’Arborea, e l’abituale residenza de’ suoi potenti Giudici. Se Oristano non avesse altre memorie, nè altre glorie da registrare, due sole basterebbero per illustrarla: — ha dato la culla alla famosa Eleonora di Arborea, la invitta guerriera, la donna dal carattere di ferro, la celebre legislatrice che pubblicò nel 1395 la famosa Carta de Logu; — ed [113] è stata la città che sostenne più a lungo l’indipendenza nazionale, anche dopo che le altre città sarde avevano piegato il capo sotto il dominio aragonese. Essa cedette alla sola forza nel 1478, dopo la tremenda caduta di Leonardo Alagon, sconfitto nelle vicinanze di Macomer.

— Ed al presente, com’è la città?

— Conta circa 7000 abitanti; ha fabbriche speciali di mattoni e di stoviglie, di cui provvede quasi tutta l’isola. Ha molti fichi d’India, e molte donne belle dalla carnagione color perla e dagli occhi neri tagliati a mandorla. È una città pulitissima, e così estesa che potrebbe contenere il triplo degli abitanti che oggi conta. Oristano ha tre cose ragguardevoli; Eleonora d’Arborea — La Carta de Logu — e la popolazione ospitale e gentile; — ha tre cose buone e speciali: la vernaccia, il pane, e gli amaretti: ha tre cose curiosissime: case fabbricate senza pietre, uomini sbarbati senza scarpe, e cornacchie innumerevoli senza creanza.

— Vanta qualche monumento?

— La statua in marmo di Eleonora, inaugurata lo scorso mese di maggio, con tre giorni di festa che non saranno dimenticati dalla storia.

— È ben originale quel campanile! — aveva esclamato il padre nobile, rivolto al maestro, il quale era raggiante di gioia quando gli si chiedevano spiegazioni.

— Anche quel campanile ha la sua storiella. [114] Nel tracciamento della strada nazionale, esso fu messo in relazione con quello di Uras; e i due punti servirono di guida; talchè quel tratto di stradone, per oltre 30 chilometri, può chiamarsi una perfettissima linea retta.

L’ex consigliere di Bosa notò con sussiego:

— La strada nazionale da Portotorres a Cagliari è un vero capo-lavoro dell’ingegnere Carbonazzi, che la tracciò, la diresse, e l’eseguì dal 1822 al 1829. Essa costò circa quattro milioni. La strada ferrata la rasenta in gran parte, poichè gli ingegneri inglesi non fecero che copiare lo studio dell’ingegnere piemontese.

A questo punto scattò il viaggiatore inglese, il quale disse, piccato:

— Voi non aver detto verità: Ingegneri inglesi fanno originali, non copie!

L’uomo dal cappello a cilindro, volendo riparare all’imprudenza del bosano, disse rivolto a costui:

— L’ingegnere Carbonazzi non fu un inventore. Egli non fece che seguire le traccia dell’antica strada romana, di cui si scorgono qua e là le vestigia. L’uno copiò dall’altro, se non vogliamo ammettere che tre ingegni possono incontrarsi senza copiarsi! Non è così?

Yes! Tite penissimo. Inglesi, piemontesi e romani sono tutti pravi ingegneri!

— E forse i romani copiarono dai cartaginesi o dai fenici — tornò a ripetere il bosano per non [115] darla vinta all’inglese — il vero merito del tracciamento spetta alla struttura geologica dell’isola!

Per troncare la spinosa questione, il maestro di scuola tornò a parlare della patria di Eleonora di Arborea. Egli disse gravemente:

— La città di Oristano venne al mondo in grazia delle rovine dell’antica Tharros, e giace nel sito dov’era l’antica Othoca. Si sa bene: mors tua, vita mea!

Il maestro di scuola avrebbe desiderato continuare la recita, anche con un pubblico annoiato; ma si accorse che gli spettatori disertavano il teatro.

L’inglese, l’ex consigliere di Bosa, e l’uomo dal cappello a cilindro avevano già ritirate le proprie valigie, ed erano discesi alla stazione di Oristano, dopo averci augurato il buon viaggio.

Il vecchio e la vecchia respirarono a pieni polmoni, come se finalmente fosse arrivata l’ora di star comodi. Ma la loro gioia durò un baleno.

Non si erano ancora allontanati di dieci passi quei tre signori, che altri tre passeggieri si presentarono allo sportello; e, dopo aver cacciata la testa dentro lo scompartimento, si decisero a salire.

Presento al lettore i tre nuovi inquilini.

Primo: un prete dell’apparente età di cinquant’anni, dall’aria burbera, con certi occhi che non guardavano in faccia nessuno, e con un certo broncio, sul quale era scolpito chiaramente il motto: nè cerco, nè voglio essere cercato!

[116]

Il secondo era un Rigattiere cagliaritano, col berretto smozzato, il corpetto rosso, il giacchettino nero a bottoni d’argento, i larghi calzoni di tela, e due grossi bottoni d’oro al colletto della camicia; il qual colletto, alto e duro, sarebbe forse salito fino agli occhi del proprietario, se non glie lo avessero impedito due grosse orecchie.

Il terzo personaggio era un tenente di fanteria, giovine spigliato, dalla fisonomia aperta, dagli occhi mobilissimi, i quali rivelavano un carattere vivace, nervoso, irritabile.

Alle ore cinque il treno si mosse da Oristano.

Per un po’ di tempo i passeggieri non fecero che squadrarsi a vicenda, per le ragioni da me già esposte in un precedente capitolo. Poco dopo la conversazione cominciò a stabilirsi, mercè le cure dell’instancabile maestro, al quale poco importava la qualità della gente; egli non voleva che la quantità, per poterla atteggiare a pubblico, e aver così un numeroso uditorio. E il pubblico questa volta era completo, poichè oltre il colto, vi era rappresentata l’inclita guarnigione. E siccome fra gli ascoltanti ci dev’essere una vittima, questa vittima fu il giovine tenente, al quale il maestro si attaccò colla tenacità di un’ostrica.

Il padre e la madre della fanciulla, storditi oramai da sette ore di viaggio, se ne stavano quieti; Annetta ed io, noncuranti di tutto e di tutti, formavano un mondo a parte; il rigattiere, con una gamba sull’altra e le mani in tasca, fissava [117] le valigie senza vederle; e il prete, dopo aver deposto il tricorno per cacciare in testa una papalina nera, incrociò le braccia sul petto, gettando lunghe occhiate e lunghi sospironi ai quattro angoli del vagone... che erano tutti occupati.

***

Da Solarussa a Oristano non avevo indirizzata una sola parola ad Annetta. Bisognava pure essere prudenti per non compromettere la nostra posizione in faccia ai due vecchi. La madre nobile, specialmente, spiava ogni nostro movimento, e pareva fosse sulle spine, perchè non riusciva ad afferrare i fili del nostro discorso. Ben è vero che io prendeva le debite precauzioni, e quando parlavo colla fanciulla lasciavo scappare a voce alta parole storiche, come per esempio: nuraghe — costumi spagnuoli — dominazione aragonese — Amsicora, Josto, Eleonora d’Arborea: — parole che facevano sapere ai nostri compagni di viaggio che noi due si era preoccupati seriamente della storia sarda.

Annetta era riflessiva. Tristi pensieri dovevano per certo torturare il suo cervello, poichè tratto tratto volgeva gli occhi intorno, fissandoli macchinalmente sopra oggetti che non potevano attirare la sua attenzione.

Dalla stazione di Oristano a quella di Marrubiu è il tratto più lungo di strada ferrata. [118] Questa linea, della lunghezza di 18 chilometri, si percorre in mezz’ora, ed è forse la più monotona di tutte, perchè non presenta alcuna varietà.

Sempre attraverso al fichi d’India, si passa vicino a Santa Giusta, villaggio posto a due chilometri da Oristano, vicino allo stagno, e abitato da poche famiglie di pescatori. È solamente menzionato per la sua superba chiesa medioevale, degna di essere visitata.

Di là il treno continua fino a Marrubiu, rasentando in tutta la loro lunghezza gli stagni di Santa Giusta e del Sassu, dopo aver lasciato a sinistra quello di Palmas.

Non potendo parlar di Marrubiu, il maestro di scuola parlò della sua plaga, vinifera per eccellenza; parlò di Terralba e del soppresso vescovado; parlò dello stagno di Marceddì e delle sue famose arselle. Nessuno però gli diede retta.

Il paesaggio è uniforme, monotono.

A destra: sempre quell’acqua morta che si trasforma in una lunga striscia d’argento sotto i raggi di sole che le piovono sopra; — a sinistra: campi aridi e calvi, arginati dalla lunga catena dei monti che da Villermosa si prolungano fin quasi ad Uras: fra i quali, sovrano, erge le sue creste il monte Arci, alto 830 metri. In mezzo ai campi aridi, come oasi nel deserto, fa capolino qualche vigneto dalle viti spesse e verdeggianti.

Quest’immensa distesa di terreni incolti, oggi chiamata Campo di Sant’Anna, era un tempo [119] coperta di boschi; ma i Vicerè (furbi!) li distrussero col fuoco, per disperdere i banditi e gli assassini che vi si annidavano. Tant’è, che la smania di atterrare le sarde foreste non è tutta moderna!

Nel tragitto da Oristano a Marrubiu, Annetta mi diresse alcune frasi, che ho sempre scolpite nel cuore, e non dimenticherò mai.

Una volta, mentre guardavamo tacitamente l’ampia distesa dello stagno, quella fanciulla d’improvviso si volse a me, dicendomi:

— Mi assicuri, signore, che io non ho commesso alcun’imprudenza, indegna d’una savia fanciulla. Sarei inconsolabile se avessi mancato, senza volerlo, a quelle convenienze... che non devono ignorarsi da una giovane bennata!

— E perchè questo linguaggio?

— Perchè so d’essere inesperta del mondo; e la coscienza mi rimprovera d’essermi lasciata trascinare a far rivelazioni... ch’io non doveva fare a chi non conosco.

— Dubiterebbe forse di me?

— Non ne dubito; ed è per non averne dubitato che io mi torturo in tal modo. Non se ne offenda, sa? Lei ha già avuto una prova della mia inesperienza; sa già che non so contenermi, e che dimentico facilmente di mettere in pratica gli avvertimenti della mamma e di Suor Maria. Non sono ancora tre mesi che ho lasciato il collegio, e temo di aver commesso molte sciocchezze!

Questo linguaggio mi fece una viva impressione. [120] Annetta era un’ingenua fanciulla che non consultava la ragione, ma lasciavasi guidare unicamente dal cuore. Ed io aveva tanto abusato di quella sua ingenuità.

— Non abbia rimorsi — le risposi — Se qualcuno ha commesso delle sciocchezze durante il viaggio, si persuada che non è lei — sono io.

— Grazie! — mi rispose con tutta serietà; come se fosse bastata la mia asserzione per mettere in pace il suo cuore.

Poco dopo, quasi destandosi di soprassalto da una profonda distrazione, si lasciò sfuggire queste altre parole:

— Senta: io la credo un giovine leale e generoso; voglio perciò sperare che non abuserà delle mie debolezze, nè vorrà far parola ad alcuno di quanto è avvenuto. Guai se il babbo e la mamma potessero sospettare...!

E mentr’io cercavo persuaderla de’ suoi vani scrupoli, ella m’interruppe:

— Un’altra preghiera. Non è vero, signore, che lei non ha una cattiva opinione di me? Non è vero che mi conserverà sempre un po’ di stima?

— Ella mi offende, facendomi tali discorsi. Le ripeto, che l’averla conosciuta formerà sempre l’unica mia gioia, e il più grande de’ miei dolori: — la gioia di averla trovata — il dolore di doverla perdere. Vuole che io ripeta che l’amo troppo, e che il suo amore sarà il sogno di tutta la mia vita?

[121]

— Queste cose non si dicono — mi disse Annetta abbassando gli occhi — e lei mi ha promesso di dimenticarle!

— Lei è un angelo; e dovrà perciò perdonare un insensato come sono io. Mi sopporti ancora per due ore: domani non si ricorderà più di me. Chi lo sa? forse non ci rivedremo mai più.

Annetta girò prestamente la testa verso il finestrino; e, accennando lontano lontano, mi disse:

— Guardi laggiù; — com’è bello l’orizzonte!

Ma io non guardavo l’orizzonte; — guardavo gli occhi della mia compagna, su cui vedevo brillare una grossa lagrima, la quale tradiva una pietà gentile.

— Sì, è bello! — risposi — L’azzurra volta par che si curvi per baciare il pallido stagno. Cielo e mare si uniscono — noi invece dobbiamo separarci!

Tacemmo entrambi.

Assorto in un’estasi deliziosa, ero passato dinanzi alla stazione di Marrubiu... ma senza vederla.

Neanco Annetta la vide. I suoi occhi erano sempre fissi lontano lontano — nella striscia vaporosa dove si univano il cielo e lo stagno.

Dopo aver percorso altri otto chilometri di strada, ricca di fichi d’India, il treno si era fermato alla stazione di Uras.

[122]

XIX. Da Uras a Pabilonis.

Le ultime parole di Annetta mi avevano alleggerito del peso de’ miei peccati. Il mio atto di contrizione mi fruttò addirittura il perdono di ogni colpa.

Il volto di Annetta aveva riacquistato l’abituale serenità. Ella sorrideva graziosamente, rinfrancata dalla mia dichiarazione. Ci eravamo perdonati a vicenda.

Notai in lei un repentino cambiamento; io era riuscito a persuaderla, che la sua soverchia bontà non era così grave come aveva immaginato.

Da quel momento Annetta depose ogni rigore, e mi ridonò l’antica confidenza. Era in lei ritornata la curiosità di voler conoscere le terre ed i paesaggi che passavano dinanzi ai finestrini.

Parlando di cose indifferenti, il nostro animo acquistava più franchezza; nè avevamo più ragione di cercar pretesti e sutterfugi, per nascondere all’occhio vigile e curioso dei compagni di viaggio l’argomento dei nostri discorsi.

Se però avevamo deluso la curiosità dei viaggiatori fino ad Oristano, da Oristano in avanti non ci era riuscito.

Il nostro maestro di scuola, colle sue chiacchiere, non si era mai preoccupato di quanto accadeva a lui d’intorno.

[123]

Non fu però così dell’ufficiale; il quale, fin da quando era entrato nel nostro scompartimento, aveva adocchiato Annetta.

Una bella fanciulla, che viaggia con noi, desta sempre un certo interesse, e ferma l’attenzione di un uomo in generale e di un giovine ufficiale in particolare. Senza che io me ne fossi accorto, il tenente aveva seguìto tutti i nostri movimenti; ed aveva facilmente indovinato, che nel mio conversare con Annetta erano quelle certe premure e quelle certe attenzioni che rivelano per lo meno un’intimità più intensa di quella che prescrive la convenienza fra due compagni di viaggio di sesso diverso.

Il treno aveva fretta... e camminava molto!

Dopo Uras, il paesaggio lascia il broncio per sorridere di tanto in tanto. La pianura infatti si riveste qua e là di verzura, e l’occhio trova più facilmente dove riposarsi.

Avevamo percorso circa otto chilometri, quando Annetta mi domandò:

— È un bel villaggio Uras?

— Così così! — Da Oristano fino a Cagliari i villaggi variano ben poco. Sono tutti in perfetta pianura, di color grigio perchè costrutti con laddiri, e non offrono nulla di particolare veduti in distanza. Meno Marrubiu e Pabilonis, li troveremo tutti schierati a sinistra. La ferrovia passa loro vicino, nè li sfugge come nel capo settentrionale.

— E le pioggie, e gli straripamenti dei fiumi, [124] non possono danneggiare le costruzioni di fango?

— Qualche volta, sì. — Il villaggio d’Uras, per esempio, che abbiamo or ora lasciato, fu quasi distrutto da un uragano nel 1827. Il Lamarmora, che fu testimonio oculare di questa catastrofe, scrive che ha veduto la maggior parte delle case sciogliersi come zucchero nell’acqua; credo però siavi dell’esagerato nella sua asserzione; poichè l’impasto di quei mattoni, fatto di fango misto a paglia, è molto consistente. Uras rammenta ai sardi una data storica. Fu là che s’impegnò la gran battaglia, nella quale Leonardo Alagon riportò una splendida vittoria sopra gli Aragonesi: — vittoria che quel valoroso dovette amaramente scontare otto anni dopo, colla tremenda disfatta di Macomer, che segnò la sua caduta.

Il maestro di scuola, che sentendo parlare di storia aveva teso le orecchie, soggiunse subito rivolto ad Annetta:

— La battaglia di Uras si combattè nel quattordici aprile del 1470; in essa fu ferito a morte, sul primo combattere, Antonio Dessena Visconte di Sanluri, comandante le armi regie.

***

Eravamo a due chilometri da Pabilonis, quando avvenne un incidente che avrebbe potuto avere serie conseguenze.

[125]

XX. Un incidente.

Cogliendo un momento in cui nel vagone si stava silenziosi, il padre di Annetta lasciò sfuggirsi, guardando fuori del finestrino:

— Queste campagne sono un po’ monotone!

Il giovine ufficiale prese allora la parola:

— Sì; non bisogna negare che quasi tutta la strada, da Sassari a Cagliari, presenta ben poca varietà all’occhio del viaggiatore. Nella Liguria, in Toscana, nella Lombardia, nel Piemonte, voi trovate ad ogni passo paesetti, palazzine, bei giardini, che rendono più ameni e meno penosi i viaggi. In Sardegna, all’incontro, si fanno dieci ed anche venti chilometri, attraversando terreni incolti e nude montagne, senza vedere un paesetto, una casetta, e quasi neppure un albero. Bisogna convenire che i viaggi nell’isola sono noiosi, monotoni, eterni!

Fin qui nulla di male, nè di esagerato. Ma il tenente continuò:

— Ai viaggiatori, che si accingono alla traversata dell’isola, non resta che chiudere gli occhi per conciliare il sonno. I soli fortunati, nei nostri viaggi, non sono che i fidanzati, o gli sposi, i quali se ne stanno in un canto, assorti nella luna di miele; non vedono altro che il loro affetto, dimenticando tutte le noie e tutti i paesaggi del mondo!

[126]

Pronunciando queste parole il giovine ufficiale si era rivolto a noi due, con un sorriso tra il benevolo e il malizioso, e ci additava a’ suoi compagni di viaggio con una certa compiacenza invidiosa.

Immaginate l’impressione prodotta dalle parole dell’ufficiale sull’animo mio, di Annetta e dei due vecchi!

Rimasi sbalordito, come fulminato; e gettando un’occhiata alla mia compagna, la vidi prima farsi di porpora, poscia impallidire.

Volli aprir bocca per avvertire i presenti dell’inganno, ma mi fu impossibile.

La sola vecchia potè prender la parola in quel silenzio glaciale. Le gettai una rapida occhiata: — era verde!

— Essi non sono sposi, nè fidanzati — disse seccamente rivolta all’ufficiale. — Una è mia figlia — l’altro un viaggiatore qualunque, come siete voi!

— E questi equivoci non accadrebbero mai — aggiunsi allora, non potendo più oltre contenermi — se certi imprudenti, prima di parlare, riflettessero un poco!

— Domando scusa a’ lor signori dell’errore — esclamò l’ufficiale mortificato e confuso; e rivolgendosi ai vecchi ed a me, fingendo non aver udito la mia tirata, soggiunse: — In ogni caso, il mio non sarà stato che un buon augurio per l’uno... e per l’altra.

[127]

La presenza di spirito dell’ufficiale non mi appagò. Avevo quasi bisogno d’una provocazione per celare il mio turbamento; perocchè per chi ha torto, uno dei mezzi più sicuri per ottener ragione è quello appunto di riscaldarsi e di inveire contro l’avversario. Io gli risposi con durezza:

— Quando si pronunciano parole che possono offendere l’altrui suscettibilità, il domandar perdono è un voler raddoppiare l’offesa. Ecco che cosa succede quando si vuol far dello spirito in mezzo a gente che non si conosce.

— È forse a me, che il signore vuol indirizzare i suoi sarcasmi?

— Io credo che ci voglia ben poco a indovinarlo! — continuai, sempre più stizzito.

— Signore, come parla?! — esclamò il tenente fulminandomi con un’occhiata. — Ho chiesto scusa di una innocente espressione che non poteva menomamente offendere chicchessia; se poi ella la prende calda, le dirò, senza tanti preamboli, che la sua coscienza non dev’esser troppo tranquilla... di fronte alla signorina!

Annetta allungò la mano, come per toccarmi il braccio, pregandomi di desistere; ma non si accorgeva che questo era appunto il mezzo per farmi andare più in furia. Volevo ad ogni costo trovare un’occasione per provare alla vecchia madre il mio irreprensibile contegno verso la figliuola. Potete immaginare qual fosse il mio sdegno, riconoscendo veritiere la ultime parole dell’ufficiale!

[128]

La discussione mi era impossibile. Si rendeva dunque necessaria un’insolenza; e la dissi:

— Quando si ha una spada al fianco, la provocazione diventa spesso necessità!

— Lei m’insulta! — gridò il tenente balzando in piedi, furioso. — Con chi crede di parlare?

— Con lei!! — gridai pure io, alzandomi di colpo.

A quel doppio grido, ed al rumore che fece la sciabola impigliandosi fra le gambe del militare, tanto il prete, quanto il rigattiere, si erano levati in piedi; ma il brusco movimento del treno che correva ci fece perdere l’equilibrio.

Il rigattiere, che si era rivolto a me per mettermi in pace, mi cadde fra le braccia; — il prete che si accingeva a calmare il mio avversario, cadde fra le braccia dell’ufficiale.

Il vecchio e il maestro di scuola non si erano turbati. Il primo raccolse pacatamente la papalina del prete, ed il secondo il berretto del rigattiere, ch’erano caduti ai nostri piedi.

Quando oggi, a sangue freddo, io penso a questa scena, sento il sangue affluirmi al volto. Abbiamo dovuto fare una bella figura, tutti e quattro abbracciati, dentro ad un treno che correva velocemente!

— Lasci andare, via! — mi diceva il rigattiere, in dialetto cagliaritano. — Sono cose da nulla; fu un equivoco innocente; una malintesa. Non è poi un insulto augurarle una sposina! Abbiano [129] almeno riguardo alle signore qui presenti, che sono ancora spaventate!

E il prete gridava, rivolto a me e all’ufficiale:

— Se vogliono sbudellarsi sono padroni di farlo, ma vadano in piazza! — Vergogna! — Abbiano almeno un po’ di educazione; e non disturbino nel loro viaggio chi ha pagato buoni quattrini per accudire comodamente alle proprie faccende!

E così dicendo il prete, tutto rosso, tornò a sedere, calcando con forza fino alle orecchie la papalina nera.

Le parole del reverendo fecero su di noi l’effetto di un secchio d’acqua fresca. E difatti furono una buona lavata di testa.

— Ci rivedremo! — mi disse l’ufficiale all’orecchio; e sedette.

— Quando vuole! — borbottai: e sedetti anch’io.

Nello stesso tempo, una voce sonora gridava:

— Pabilonis! — Pabilonis! — Chi scende a Pabilonis!

— Che vuol dire? — domandò il vecchio al maestro di scuola.

— Vuol dire che siamo arrivati alla stazione di Pabilonis — rispose il maestro.

— E cos’è questo Pabilonis?

E il maestro con tutta gravità:

— Il paese dei pentolini e delle pignatte!

[130]

XXI. Da Pabilonis a San Gavino.

Alla tempesta era succeduta di nuovo la calma — una calma apparente.

Il treno si era mosso dalla stazione, distante da Pabilonis circa tre chilometri.

Anche questo villaggio non ha nulla di notevole. Nel 1584 i barbareschi lo saccheggiarono, portando via le migliori cose del paese. Oggigiorno vive d’industria — e le sue stoviglie godono molta fama in tutto il capo meridionale.

La campagna è pittoresca. Vediamo a destra una lunga catena di montagne, dalla quale spiccano le punte d’Arquentu e di Montevecchio; — a sinistra altri monti più modesti, fra cui un vicino colle, isolato, il quale attira subito l’attenzione del viaggiatore, per la sua forma acuminata.

Sulla cresta di questa montagnola è un pittoresco castello — il castello di Monreale, famoso nella storia sarda. Nel 1324, il re Alfonso, dopo la presa di Cagliari, vi mandò la regina sua moglie con 150 uomini di scorta per respirarvi un po’ d’aria pura; nel 1409, dopo la sconfitta di Sanluri, vi si rifugiarono il visconte di Narbona e Brancaleone Doria; e un anno dopo, nel 1410, fu occupato dal Vicerè Torella colle sue truppe.

Codesto castello sopra un monte isolato, fra i villaggi di Sardara, Pabilonis e San Gavino, ci [131] segue per una ventina di chilometri, e ci si presenta sotto varietà di forme e di colori, a seconda dell’ora, della distanza, e dell’intensità della luce.

Alle ore 6 circa, dopo sette chilometri di strada, ci fermiamo alla stazione di San Gavino.

Il villaggio di questo nome, circondato da campi coltivati, sorride in mezzo al verde degli alberi e delle piante.

Due stazioni si trovano qui di fronte: quella modestissima delle ferrovie sarde, e quella della società delle miniere di Montevecchio, vestita di bianco e decorata con liste color di rosa, come una bella fidanzata nel giorno delle nozze.

Il prete, appena fermato il treno, era sceso alla stazione: forse per respirar meglio.

Il maestro di scuota cominciò col darci notizie del villaggio di San Gavino. Ci disse che era un paese umido; che aveva soltanto importanza per il vicino castello di Monreale; che trovandosi alle frontiere dell’antico Regno di Arborea fu teatro di diversi fatti d’armi fra gli arborensi e i cagliaritani; e che in antico venne invaso e devastato dai nemici barbareschi.

Si udirono intanto gli squilli della campana; e il prete non si vedeva.

— Manca un passeggiero! — gridò il maestro di scuola affacciandosi al finestrino; e poi facendo segni colla mano:

— Reverendo!... lei perde il treno! — faccia presto, reverendo!

[132]

E il reverendo venne a tutta corsa, mantenendosi le sottane, e borbottando fra i denti non so che cosa. Non ebbe che il tempo di salire; il treno partì subito.

— Sono infamie, le quali non si vedono che in Sardegna! — esclamò rivolto agli astanti. — Poco mancò ch’io non perdessi il treno! Non si è neppur padroni di fare il proprio comodo!

— Doveva immaginarselo! — disse pacatamente il maestro. — Non sa che siamo a San Gavino?

— E con ciò?

— Con ciò voglio dire, che questa stazione è sotto un malefico influsso, perchè fa perdere i treni e la pazienza ai viaggiatori. — Potrei citarle molti fatti, ma mi bastano due soli. — Il 1º luglio dello scorso anno (1880), quando il ministro Baccarini percorreva la linea fino a Cagliari per inaugurare le ferrovie sarde, il sindaco di Sassari scese qui, alla stazione, per un dispaccio... d’urgenza. Nessuno s’accorse della sua scomparsa; e il treno partì, lasciando quel pover’uomo con un palmo di naso, due palmi di cravatta bianca, e tre palmi di coda di rondine, a meditare sul castello di Monreale... Appena arrivati a Cagliari, il ministro fece staccare un treno speciale per andare a prendere il rappresentante di Sassari, il quale arrivò alla festa... dopo spenti i lumi.

— È un episodio che dovrebbe registrarsi fra gli atti delle nostre ferrovie!

[133]

— E la storia lo ha registrato. — Non basta. Il 26 dello scorso mese di aprile (1881) il valente romanziere Salvatore Farina (venuto nell’isola per rivedere la sua patria), dopo aver visitato le miniere di Montevecchio in compagnia della sua famigliuola e di alcuni parenti ed amici, faceva ritorno a San Gavino nel momento che il treno usciva dalla stazione diretto per Sassari. Avendo perduto la corsa, tutta la brigata, sotto una pioggia continua ed importuna, dovette aggirarsi per le vie fangose del paese, finchè fu ricoverata in una modesta casetta, dove si passò la notte alla bella meglio. All’autore dell’Amore bendato toccò per letto la tavola da pranzo — e fu fortuna!... Vede bene, reverendo, che questo paese vuole attirare a sè tutti i viaggiatori!

Il prete non aveva risposto al maestro di scuola, il quale nondimeno continuava a chiacchierare, sebbene nessuno gli desse retta. Dopo il malaugurato diverbio coll’ufficiale, la conversazione non si era più riaccesa. Ognuno ben comprendeva che non conveniva tirar fuori questioni di sorta.

Annetta, dopo la viva emozione cui era stata in preda, considerando forse, che per lei sola mi ero esposto, Dio sa a qual pericolo, mi trattava con maggiori riguardi. Inesperta del mondo, ella forse si credeva in dovere di essermi riconoscente; e, non badando all’effetto che le parole dell’ufficiale avevano fatto sull’animo dei due vecchi, mi ricompensava col mostrarsi meco più benigna.

[134]

E io — quel giorno — invece di arrossire della mia ridicola e intempestiva sfuriata, ero soddisfatto di me stesso. Cavaliere errante del medioevo, parevami di aver sfidato un gigante in un torneo; sentivo il trionfo della vittoria, e la coscienza di meritare il premio che mi offriva la mia dama.

Ben vedete quanto l’eroismo è talvolta vicino al ridicolo!

XXII. Da San Gavino a Sanluri.

Ma non erano ancor finite le torture del mio viaggio.

Si attraversava il campidano di San Gavino Monreale.

La vecchia madre si alzò dal suo posto, e venne dalla nostra parte, come per osservare dal finestrino qualche paese a lei carissimo. Ma che poteva guardare della parte opposta alle stazioni? Il paesaggio non presentava nulla di attraente e di nuovo. Erano sempre gli azzurri monti di Guspini e di Gonosfanadiga, schierati a noi di fronte: essi ci avevano fedelmente accompagnati per oltre venti chilometri.

La vecchia madre aveva appoggiato i gomiti al davanzale del finestrino, fingendosi assorta nello spettacolo della natura; ma era ben altro il suo [135] scopo. Di tanto in tanto girava la testa verso la figlia per scambiare con lei qualche parola; io però non potevo udire i loro discorsi, perchè parlavano piano; nè potevo vedere, perchè me lo impediva il retro di quella donna, ricco di sbuffi e di frastagli.

Aggiungete a ciò la mia posizione incomoda; poichè, per mettersi al finestrino, la vecchia dovette incastrarsi fra le mie ginocchia e quelle di Annetta.

Il non avermi detto uno scusi, nè un con permesso, era indizio certo di dichiarata ostilità. Ma io sopportava tutto con evangelica rassegnazione — tanto l’importuno ingombro della gonnella, quanto l’impressione dolorosa che produceva sulla mia gamba l’acuto ginocchio della vecchia.

Tollerai per un bel pezzo. Il treno si avvicinava a Sanluri, ma la madre non pensava a riprendere il suo posto. Cominciai a comprendere che mi si voleva mandar via.

Finalmente colsi a volo una frase che la vecchia pronunciò con voce più alta:

— Sì; ero stanca di star seduta in una stessa posizione!

Non vi era più scampo per me. Cercai di liberare la mia gamba dall’odioso ginocchio — ma mi fu impossibile: l’osso era feroce.

Che fare? Compresi che colla violenza mi si voleva strappare una gentilezza. D’altra parte considerai, che avevo già troppo abusato della mia [136] posizione, e che l’inasprire la madre non era il miglior mezzo per cattivarmi l’affetto della figlia.

— Signora! — esclamai, sforzandomi di mettere nella mia voce tutta la buona grazia possibile — vuole accomodarsi vicino alla figliuola? — io prenderò il suo posto.

La vecchia girò la testa dalla mia parte.

— Non vorrei recarle disturbo! — mi rispose con una cert’aria di maligno trionfo.

— Tutt’altro!.... Anzi, è per me un piacere poterle essere utile; spiacente che prima d’ora non mi abbia esternato questo desiderio.

Questa volta le sue labbra si atteggiarono ad un sogghigno; e con ragione, perchè avevo mentito.

Mi alzai subito, e andai a sedermi al posto lasciato dalla vecchia, in faccia al papà, dopo aver gettato un sospiro ed uno sguardo ad Annetta, nei cui occhi lessi il risentimento della separazione.

Durante questa scena, il padre conversava tranquillamente col maestro di scuola, nè si era quasi accorto che io faceva le veci della sua cara moglie.

Da San Gavino, avevamo percorso sei chilometri di strada; ed alle 6 e 18 minuti il nostro treno si fermava alla stazione di Sanluri.

— È ben un castello, quello là? — domandò il vecchio accennando colla mano il villaggio di Sanluri, distante dalla stazione circa quattro chilometri.

— Sì, è un castello — rispose il maestro.

[137]

— Aveva dunque una certa importanza quel paese?

— Sanluri? sfido io! — era la frontiera fra gli stati di Arborea e quelli di Cagliari. — Vede lei, in mezzo al paese, quel castello con quattro torricelle? Là dentro, nell’ottobre del 1358, fu trattata la pace tra gli aragonesi e il Giudice di Arborea. Quei campi, oggi così ricchi di grano, furono teatro delle glorie della più grande fra le donne sarde: di Eleonora d’Arborea. A capo delle sue schiere, e colla spada in pugno, la valorosa guerriera sconfisse la potente armata del re d’Aragona.

— Sanluri è una vera terra di battaglie! — soggiunse l’ufficiale, il quale sentiva anche lui il bisogno di prender parte alla conversazione, per dimenticare lo sgradevole alterco, di cui involontariamente era stato causa. E il maestro subito — come temendo gli volessero togliere il pane di bocca, — riprese la parola:

— E non basta! Un’altra sanguinosa battaglia si combattè in questi stessi campi, mezzo secolo dopo, e precisamente nel 1409. Questa volta, però, essa fu sfavorevole alle armi sarde. Il Visconte di Narbona e Brancaleone furono messi in rotta da Martino re di Sicilia, venuto per combattere in questo paese. Gli aragonesi passarono a fil di spada, non solo la guarnigione sarda, ma anche gli abitanti di Sanluri. Vedete bene che questo modesto paese, dal lato storico, è il più importante [138] di quanti se ne trovano lungo la linea da Cagliari a Sassari!

— E il re Martino tornò subito in Sicilia? — domandò il vecchio.

— Oh, no! — egli pagò assai caro il suo trionfo. Morì qui a Sanluri, pochi giorni dopo la sua vittoria.

— Fu ucciso?

— No — morì per le sue dissolutezze... per eccessi d’intemperanza.

— Il vino sardo, forse...? o le febbri malariche?

— Nè l’uno, nè le altre... cioè, sì... anzi, no... mi spiego...

Il maestro, tutto impacciato, si rivolse al vecchio, e fece un gesto, accennando cogli occhi verso Annetta, come per dire che dinanzi a lei non poteva chiaramente spiegarsi.

— Ecco... morì... perchè amò troppo — «La Bella di Sanluri — scrive il canonico Spano — seppe con altre armi prender vendetta delle sciagure de’ suoi patriotti.» — Questo re — conchiuse il maestro — è seppellito nella cattedrale di Cagliari, dove ammirasi un bel monumento.

— E di quali armi si valse questa Bella? — tornò a domandare il vecchio, che non sapeva spiegarsi il mistero.

— Delle armi dell’amore! — mormorò al suo orecchio il maestro — Avete capito, adesso?

Il vecchio disse col capo di sì, ma invece non aveva capito proprio niente.

[139]

XXIII. Da Sanluri a Villasor.

Colle braccia distese, e la mano destra sovrapposta alla sinistra, Annetta era seduta di fronte alla madre; e rispondeva a stento alle parole che di tanto in tanto costei le rivolgeva.

La campagna non aveva più attrattive per lei; essa la guardava di rado, e con occhio stanco. Pareva indifferente a quanto accadeva, o si diceva, intorno a lei.

Qual differenza fra l’Annetta graziosa, ridente ed espansiva, colla quale io aveva viaggiato da Ploaghe a Bauladu — e l’Annetta che mi stava dinanzi, pallida, silenziosa, melanconica!

La nostra commedia si avvicinava allo scioglimento: una speranza svanita, un doloroso ricordo... e null’altro!

E ugualmente penosi erano i pensieri che in quel momento attraversavano la mia mente. Il mio viaggio volgeva al suo termine. Ancora un’ora, e tutto sarebbe stato finito. All’indomani, l’obblìo avrebbe gettato il suo velo su quel viaggio — su quell’avventura! Poche ore ancora... e più non si sarebbe parlato del nostro incontro.

Ed io pensai a’ miei casi: — al mio ritorno a Cagliari; alle premure di mio zio che avrebbe continuato a parlarmi del prossimo arrivo di mia cugina; che mi avrebbe pregato di portarmi ogni [140] domenica alla darsena, per ricevere degnamente la mia fidanzata in erba.

Mia cugina?! — E per fuggire a questo brutto pensiero io teneva gli occhi fissi su lei — su Annetta, così bella, così ingenua, così melanconica: su Annetta che scherzava distratta col suo ventaglio, o col suo braccialetto, pensando forse a me — forse pensando a lui: al suo fiorentino!

E facevo i confronti:

— Qual differenza tra questa fanciulla tutt’affetto e tutta gentilezza, e mia cugina così sgarbata, così rozza, così velenosa! — Qual differenza tra il nome poetico d’Annetta, e quello prosaico di Mariannina, già pregiudicato da una canzonaccia volgare! — Annetta simpatica, coi capelli a riccioli cadenti sopra un collo ed una fronte di alabastro! — e Mariannina brutta, colla fronte bassa e pelosa, col collo nero e col colorito verdone! — Mio suocero, un grasso genovese, sbarbato come un galeotto e avaro come un Arpagone — e il padre d’Annetta, un buon piemontese, di modi distinti e di figura diplomatica! — Vedevo Mariannina, che faceva in casa i tagliarini alla genovese; e Annetta, tutta elegante, che ricamava al telaio le mie pantofole!

Erano confronti orribili. Più mi avvicinavo a Cagliari, e più mi allontanavo da’ miei cari sogni. Un perfido destino mi spingeva inesorabilmente verso la più crudele delle realtà!

[141]

***

In preda a queste riflessioni, non so quanto tempo io rimanessi. Ero desto — eppure sognavo. Mi sentivo cullato in seno alle più lusinghiere visioni. Parevami che mille fate, avvolte in una nube d’oro, mi danzassero intorno; vestivano tutte di smaglianti colori, ma avevano le stesse sembianze, le stesse movenze, lo stesso suono di voce — le sembianze e la voce di Annetta.

Ero in uno stato di dormiveglia: in preda a quella spossatezza fisica e morale, nata dallo sconforto, dopo una lotta disperata fra il cuore e la ragione, fra i sogni e la realtà. Sentivo — ma non intendevo. Mi arrivava all’orecchio come un mormorio indistinto: come il susurro del mare lontano: — era il brontolio della vaporiera, lo stridore del treno e le ciarle del maestro, fusi insieme.

D’improvviso sparvero le fate, cessò il rumore — e mi destai.

Il treno si era fermato; ed una guardia urlava con voce rauca:

— Villasor! — Villasor! — Chi scende a Villasor!

— Villasor?! — esclamai atterrito; e piansi quasi di rabbia, accusandomi come il carnefice della mia felicità. Io aveva rubato trenta minuti al tempo — già troppo breve.

[142]

Eravamo a Villasor. Io dunque, senza avvedermene, avevo oltrepassate le stazioni di Samassi e di Serramanna.

Samassi è distante dalla linea poco meno di due chilometri, e i suoi abitanti sono tessitori di tela, di stuoie e di canestri. Nella chiesa di S. Agostino è un antico mausoleo di mediocre scultura, il quale racchiude le ossa del marchese don Emanuele di Castelvy, morto nel 1555. Il villaggio è in fama per l’ottimo vino nasco, che vuolsi un affine dello xeres.

Serramanna è un pittoresco villaggio in mezzo al verde della campagna. Esso vanta le più grosse angurie e il più alto campanile della Sardegna. Le angurie le ho mangiate io, più volte — il campanile lo ha misurato l’archeologo Spano, che di esso volle scrivere.

L’orizzonte, durante l’ultimo tronco di strada percorsa, non ha variato.

A destra, fra Villacidro e Villermosa, abbiamo un assortimento di creste d’ogni forma e d’ogni colore, fra le quali si distinguono quelle del monte Margiani, di monte Linas, di monte Anzeddu, e del Cucurone, dominate sovranamente dai monti del Marganai.

A sinistra abbiamo altre montagne, ma di meno importanza; fra le quali il monte Mannu verso Serrenti, e il monte Oladini verso Monastir.

Da Bauladu fino a Cagliari, per la lunghezza di oltre cento chilometri, la strada è tutta piana; [143] può dirsi costrutta dalla natura. Pare che tutti i monti, per quell’immenso spazio, abbiano voluto dar luogo alla strada, schierandosi da una parte e dall’altra, — come volendo formare un argine alla serie di Campidani, che, da Milis a Decimo, si succedono senza interruzione.

Villasor (lontano pur esso dalla stazione un mezzo chilometro) è un grosso villaggio, che pare fosse abitato dagli antichi romani — a giudicare dai frammenti di colonne, capitelli e iscrizioni che vi si trovano. Il suo palazzo feudale fu un antico castello fondato nel 1415. Oggi Villasor è un luogo di villeggiatura per i cagliaritani, e dicesi venga scelto per quartiere generale nel tempo dell’elezioni politiche e amministrative.

Dopo una fermata di uno o due minuti, il nostro treno continuò la sua strada.

XXIV. Da Villasor a Decimo.

Si verifica nei viaggiatori, ciò che si verifica nel treno quando esce da una stazione per recarsi in un’altra.

Nel partire la macchina si muove lentamente, poi a mano a mano affretta, corre, vola — per poi frenarsi di nuovo, rallentare pian piano, e nuovamente fermarsi alla stazione di arrivo.

I viaggiatori, ancor essi, alla partenza non [144] fiatano; sono gravi, abbottonati, immobili, taciturni. Dopo un’ora si stabilisce la corrente elettrica; essi cominciano con qualche parola, poi conversano, ciarlano, e discutono vivamente; fino a che, mezz’ora prima di arrivare a destinazione, sentono la stanchezza del viaggio, sbadigliano, si annoiano, e finiscono quasi per non guardarsi in faccia.

E così accadde nel nostro scompartimento. Mentre un’ora prima le nostre grida avrebbero assordato un reggimento, nel tragitto di tredici minuti (da Villasor a Decimomannu) si sarebbe sentita volare una mosca.

Il vecchio, muto, leggiucchiava per la centesima volta un Capitan Fracassa che doveva saper a memoria; — il prete, col capo chino sul petto, quasi sonnacchioso; — l’ufficiale, colle due mani appoggiate all’elsa della sciabola, socchiudeva gli occhi; — il rigattiere, con una gamba sull’altra, passando in rassegna con aria distratta tutte le valigie che aveva di fronte; la vecchia, riflessiva, guardando sempre la figlia, che non distoglieva gli occhi dal suo ventaglio; e finalmente il maestro di scuola, l’eterno parlatore, che aveva chiuso le labbra ad un silenzio sepolcrale.

Maledissi mille volte quella madre spietata che era riuscita a strapparmi dalla cara fanciulla, la cui vicinanza mi era stata di conforto.

La noia che ciascuno risentiva era tradita [145] dagli orologi, i quali con frequenza uscivano dalle tasche del gilè per essere consultati. — Io solo avevo paura d’interrogare la mia macchinetta. A che pro? Mi trovavo in condizione eccezionale; mentre per gli altri il tempo era lento, per me invece fuggiva — fuggiva rapidamente! E avessi potuto prolungarlo! anche a costo di accrescere il martirio che io subiva da oltre sei ore!

***

Eravamo distanti parecchi chilometri da Decimo, quando nella lontana pianura, a destra, noi vedemmo un lungo e nero serpente avanzarsi silenzioso, ma con tutta fretta, verso il punto a cui eravamo diretti. Pareva volesse sopraffarci nella corsa; e con un sibilo prolungato, a cui rispose la nostra vaporiera, manifestò la rabbia d’una sconfitta. Era il treno d’Iglesias, che quel giorno arrivava in ritardo di dieci minuti.

Eravamo arrivati alla stazione di Decimomannu.

Approfittando del ritardo del convoglio di Iglesias, scesi dal treno e mi diressi all’ufficio per parlare col capo stazione, un mio amico, al quale dovevo dare diverse incombenze per il nostro agente commerciale di Decimo.

Non avevo fatto dieci passi, che vidi venirmi incontro l’agente in persona.

— Oh bravo! — mi disse — Hai voluto risparmiarmi [146] la fatica di passare in rivista tutti i vagoni, per trovarti.

— Che c’è di nuovo?

— C’è di nuovo, che tu devi ritirare le tue valigie dal treno per fermarti qui, uno o due giorni.

— Scherzi?! — esclamai un po' inquieto — Cos’è successo?

— All’indomani della fuga del signor Varetti sono sorte contestazioni a proposito dei magazzini del grano; motivo per cui si rendeva indispensabile la vostra presenza. Tuo zio giunse qui ieri, in tempo per salvare il vostro credito; dovette però ripartire stamane col treno delle 9,27; e mi ordinò di tenermi qui pronto al passaggio del convoglio, per raccomandarti di terminare le pratiche da lui iniziate.

Rimasi di sasso. Risparmio ai lettori la storiella del Varetti; sappiate solo che trattavasi di un fallimento, nel quale la nostra casa era esposta per 15.000 lire.

Il destino aveva proprio congiurato contro di me. Che fare? Non ebbi che il tempo di correre al treno per ritirare la valigietta e la borsa.

Inutile dirvi con qual cuore misi il piede là dentro!

— Come! non era diretto per Cagliari? — mi domandò il rigattiere.

— Sì; ma devo fermarmi a Decimo, per un giorno.

Guardai Annetta, la quale, a queste mie parole, [147] non potè celare il turbamento. I suoi occhi si fissarono ne’ miei con un’espressione di dolore; volendo quasi domandarmi perdono per avermi trattato così freddamente durante le ultime due ore.

La mia valigia e gli altri miei effetti da viaggio erano sul porta-bagagli, dalla parte di Annetta; e mi accinsi a toglierli, dando le spalle alla vecchia.

Mentre consegnavo ad uno ad uno i bagagli ad un giovanotto della ferrovia, colsi il momento in cui la madre parlava col rigattiere, per susurrare all’orecchio di Annetta:

— Si ricordi sempre di me!

— E lei preghi ch’io sia felice! — mormorò sommessamente quella cara fanciulla, con voce tremante per l’emozione.

Salutai intanto i miei compagni di viaggio; strinsi la mano al maestro di scuola; e passando, nell’uscire, dinanzi all’ufficiale, gli dissi piano e presto:

— Domani sera, alle ore 10, al caffè di Vincenziello, nel Corso Vittorio Emanuele.

— Ci sarò! — mi rispose il giovane tenente.

E saltai a terra, nel momento in cui la guardia gridava:

— Partenza per la linea di Cagliari!

***

Pochi minuti dopo il treno usciva dalla stazione di Decimo, lasciando dietro di sè una lunga striscia di fumo; — ed io rimasi là una mezz’ora, immobile, [148] colle lagrime agli occhi, accompagnandolo con lo sguardo.

Avevo come un nodo alla gola, e sentivo nel cuore come una stretta dolorosa. Parevami che quel treno mi portasse via qualche cosa troppo cara — una parte di me stesso.

E sarei rimasto là fermo, Dio sa per quanto tempo, se il nostro agente non mi avesse chiamato, battendomi sulla spalla.

Mi volsi a lui, e gli domandai:

— Mio zio, partì richiamato?

— Sì. Ha ricevuto un telegramma di urgenza.

— E venne spontaneamente qui?

— No. Ieri mattina mi recai a Cagliari col treno delle 6,20 per metterlo a parte degli affari; e venimmo insieme a Decimo.

— Sei stato in casa? hai veduto la zia Efisia?

— Sono stato soltanto nel negozio; ma ho veduta tua zia, quando attraversavo il Corso Vittorio Emanuele. Era al balcone insieme ad alcune visite.

— Visite?

— Credo, almeno. Era affacciata con due donne — una vecchia ed una signorina.

Provai come una vertigine.

— Dimmi... era bella quella signorina?

— Strana domanda!

— Rispondimi...

— Se devo dirla... era piuttosto bruttina. Aveva la carnigione un po’ bruna... troppo bruna, forse!

[149]

Un dubbio tremendo mi attraversò la mente; ma non volli sapere di più.

— Fammi il piacere — dissi all’Agente — accompagna a casa l’uomo che porta le mie valigie. Io rimango qui, al fresco. Ti raggiungerò.

Mentre il facchino s’incamminava, gli scivolò dalle mani uno degli involti. Il mio pollo freddo, nudo, stecchito, giaceva al suolo, immerso nella polvere.

L’agente lo prese per le due gambe e lo levò in alto.

— Che cos’è questo?

— Una gallina di Sorso...

— Ancora intatta?

— Non avevo appetito.

— Povera vergine! — esclamò l’agente — Sembra Frine dinanzi a’ suoi giudici!

L’agente e il facchino si diressero a Decimo. Poco dopo fui chiamato dal Capo Stazione.

— Un telegramma.

— Diggià?

Ne ruppi la busta con un tremito nervoso, e gettai un’occhiata alla firma: — era della zia Efisia. Ve lo trascrivo:

Cecchino Bianchi

Decimomannu (fermo stazione)

«Sbriga affare. Non prolungare assenza.

«Vieni domani. Sei aspettato.

Efisia

[150]

Aspettato?! — ripetei con un grido; e mi appoggiai ad una pianta, temendo di cadere. Chi poteva aspettarmi? Non vi era più dubbio — Mariannina era arrivata a Cagliari. Ma perchè non dirmelo chiaro? — Maledissi l’economia inesorabile della zia Efisia; la quale non volle mai fare un telegramma più lungo di 15 parole.

Tutte le disgrazie, tutte le combinazioni, in quella giornata, congiurarono contro di me. Non poteva essere un inganno. Era il 3 luglio, in domenica — giorno d’arrivo del piroscafo diretto da Genova a Cagliari. Mia cugina, dunque, era arrivata alle otto di mattina — e da undici ore mi aspettava!

In preda ad un’angoscia indicibile, guardai ancora lontano lontano, cercando avidamente quel treno che fuggiva, portando seco la mia Annetta. — Esso era sparito.

Rilessi ancora una volta il telegramma che mi parlava di Mariannina.

— Ecco la vita: chi arriva, e chi parte. L’una che va — l’altra che viene. Un malanno che nasce — una speranza che muore!

XXV. A Decimomannu.

Non posso descrivere le ore angosciose che passai a Decimo.

Stetti alla stazione, passeggiando da un capo all’altro, fino alle nove.

[151]

Decimomannu è uno dei più importanti paesi meridionali. È anch’esso in mezzo al verde d’una rigogliosa alberatura e attorniato da campi ameni e fertilissimi. Per le sue campagne sono sparsi gli ulivi, i mandorli, i melograni, ed alti pioppi che rompono di tanto in tanto un pittoresco orizzonte, arginato dalle severe montagne minerarie d’Iglesias.

Una delle cose speciali e notevoli di Decimo sono gli immensi filari di ulivi che cingono i verdi campi, facendo le veci delle chiusure di fichi d’India. Gli ulivi di Decimo hanno un tipo ben diverso degli ulivi del capo settentrionale. Questi sono più asciutti, coi grigi tronchi angolosi, colle foglie più rare e di un verde pallido; quelli di Decimo sono più frondosi, di un verde carico, e coi tronchi bruni e di forme più regolari.

Strano il lusso di quelle siepi! — più strana la storia della loro origine!

Sapete voi a chi si deve quel miracolo? Sapete voi chi piantò quegli ulivi così ordinati?

— Gli uccelli.

Dicesi che anticamente quei terreni fossero chiusi colle solite siepi di fichi d’India. I tordi ed i merli, che rubavano le ulive dai paesi lontani, si portavano a volo sulle siepi di Decimo, per mangiarle con comodo. I noccioli cadevano a terra, e germogliavano. Così sorsero i filari di olivastro; il quale si cambiò in buon olivo, quando più tardi gli agricoltori lo innestarono.

[152]

È questa la storiella che mi fu narrata in viaggio da persone autorevoli e degne di tutta fede; alle quali pertanto lascio tutta la responsabilità della leggenda. Certamente questi fatti saranno accaduti un mezzo secolo prima di Cristo; cioè, al tempo dei Cartaginesi. Ma se volete il mio parere, vi dirò: che è meglio dubitare dei merli di Decimo, che diventar merli col credere ad essi!

Decimo ha acquistato molta importanza colla ferrovia; poichè la sua stazione è quasi centro di tre linee: quella di Cagliari, d’Iglesias e di Sassari. Questo paese, fra gli altri pregi, ha quello di fabbricare e provvedere stoviglie per la festa del Carmine, che ha luogo in Cagliari; di più chiama i cagliaritani e gli abitanti dei paesi circonvicini alla festa di Santa Greca, che vi ricorre due volte l’anno.

***

Erano le otto di sera. Il sole era già calato dietro le montagne; e la campagna, muta e silenziosa, pareva già sentisse la stanchezza e il bisogno di riposarsi. Dovendo essa levarsi per tempo, era ben giusto che per tempo andasse a letto.

I monti lontani d’Iglesias diventavano sempre più cupi; le sue tinte rosee si eran fatte violacee, poi azzurre, poi color grigio ferro.

Le ombre della notte, che destano i più soavi [153] profumi dal calice dei fiori, destano pure le più care memorie nel nostro cuore.

Tutte le peripezie di quel viaggio avventuroso, tutte le parole d’Annetta, tornarono alla mia mente ad una ad una, per scendere a carezzarmi il cuore.

Ripensai a quell’affetto nato in poche ore, e diggià fatto così gigante; ripensai a quegli sguardi, a quei sorrisi fugaci, il cui effetto sentivo ancora nell’anima; e cogli occhi sempre rivolti all’orizzonte, per dove era sparito il treno, io domandava a me stesso se erano stati sogni o realtà gli avvenimenti di quella memorabile giornata.

— Preghi ch’io sia felice!

Erano queste le ultime sue parole; quelle che io ripeteva a me stesso con più frequenza — quelle che aprivano il mio cuore ad una speranza — e quelle che mi scoraggiavano maggiormente.

L’ora mesta — lo sconforto che io provava — la speranza che mi sfuggiva — la cugina che a me ritornava — quella sosta a Decimo, e il telegramma della zia, tutto ciò mi gettava in un abbattimento, che mi faceva dubitare della buona riuscita della pratica commerciale ch’io doveva condurre a termine.

A me dinanzi avevo una bella distesa di ulivi — più in là una lunga schiera di alberi d’alto fusto, formanti un boschetto isolato — più lontano le nere creste dei monti d’Iglesias, e a destra alcuni monticelli aguzzi, in forma di cono. Non [154] ebbi tempo nè agio di pensare al Conte Ugolino della Gherardesca, l’antico signore delle terre iglesiensi.

L’ora era tarda, e mi diressi verso il paese, alla casa dell’amico agente; dove ero solito prendere alloggio, quando i nostri affari richiedevano la mia presenza a Decimo.

Non mi riuscì di chiudere occhio in tutta la notte. Sotto il brulichìo dei pensieri che s’alternavano nel mio cervello, mi dibattevo sul letto, ora da un fianco, ora dall’altro.

Una mezza dozzina di zanzare intonavano al mio orecchio una acutissima fantasia per violino, la quale però non riusciva a soffocare le parole d’Annetta: « — preghi ch’io sia felice!»

Avrei riveduta, in Cagliari, la mia Annetta? Quanto tempo sarebbe rimasta in quella città? Il padre era un alto funzionario traslocato, od un ingegnere di passaggio?

Ecco ciò ch’io non sapeva ancora — ciò che non ebbi coraggio di domandare, e ciò di cui mi pentivo di non aver domandato.

E la fatalità dell’arrivo di Mariannina? — questo contrattempo contribuiva a rendermi inquieto, ma forse era il meno che mi preoccupava. Alla fin fine io non era vincolato ad alcuno; e, quando lo avessi voluto, non avevo che a pronunciare una sola parola per mandare a monte un matrimonio impossibile.

Una sola conseguenza io doveva affrontare — lo [155] sdegno dei parenti, a cui ero debitore della mia educazione, del benessere presente e di quello avvenire. — Ma dovevo io, per non essere un ingrato, sacrificare il mio cuore? Chi avrebbe maggiormente meritato il biasimo del mondo? Io che diventavo un ingrato, disubbidendo ai parenti — o i miei parenti che vendevano un benefizio a prezzo della mia infelicità?

— Mariannina è arrivata? tanto meglio!! — esclamai con risoluzione. — Bisogna che cessi da una buona volta questo stato di cose!

E credendo, con ciò, di aver chiusa ogni discussione con me medesimo, spensi il lume e procurai di conciliare un po’ di sonno.

***

Poco importerà al lettore di conoscere le pratiche fatte per ricuperare il nostro credito di lire 15.000. Dirò solo, che coll’aiuto dell’amico agente, a cui mi raccomandai caldamente, condussi le cose a buon fine; tanto che alle cinque di sera del giorno susseguente io mi trovava in piena libertà.

Alle sei ero già pronto alla stazione di Decimo, in attesa del treno proveniente da Sassari, che doveva ricondurmi a Cagliari.

[156]

XXVI. Da Decimo a Cagliari.

Alle ore sette e dieci minuti del giorno 4 di luglio, lunedì, 1881 — equilibrato dalla mia valigia e dalla mia borsetta — mi cacciai nel primo scompartimento di seconda classe che mi capitò sott’occhio; e, dopo pochi minuti, io era in viaggio per Cagliari.

***

Diedi un’occhiata in giro per vedere con chi mi trovavo.

Eravamo pigiati come sardelle; perocchè nella linea ferroviaria da Decimo a Cagliari notasi un maggior movimento che negli altri tronchi dell’isola. Oltre i molti passeggieri della linea d’Iglesias, che si uniscono naturalmente a quelli di Cagliari, esistono a Serramanna, a Decimo ed a Villasor molte campagne appartenenti a proprietari cagliaritani — i quali vi si recano per visitarle, o per passarvi una giornata allegramente.

In alto del vagone si leggevano, a lettere cubitali, le parole 10 ROSTI — parto infelice di qualche viaggiatore annoiato, che aveva creduto far dello spirito regalando alla lettera P una lunga coda. — I vetri de’ sei finestrini erano tempestati d’iniziali e di geroglifici — altro capriccio di vanitoso viaggiatore, il quale, forse, voleva far conoscere al [157] pubblico che non portava al dito scaglie di bicchieri.

Eravamo au grand complet. La Compagnia Reale delle Sarde Ferrovie doveva essere ben soddisfatta, poichè, invece di dieci, eravamo tredici Rosti. E ve li nomino.

Un uomo sui quaranta, il cui cilindro e l’abito nero rivelavano un Travet puro sangue; il quale sedeva fra due figli: un giovinotto di dieci, ed una bambina di sette anni;

La moglie di Travet: una donnetta sui trenta, belloccia, ma succhiata in viso dai patimenti fisici e morali; e quantunque avesse una pronunciata tendenza allo stato interessante, essa reggeva sul grembo un bambino di circa un anno, malaticcio, irrequieto, piagnucoloso.

Una balia, o governante, che vestiva il costume del Campidano, e che teneva a bada due altri marmocchi — uno di tre anni seduto in grembo, e l’altro di cinque che si appoggiava alle sue ginocchia.

Tutti questi individui componevano Una sola famiglia.

Gli altri personaggi erano:

Un allegro caporale furiere che andava in permesso; — Un capo minatore febbricitante che si recava a Cagliari per un consulto medico; — Una vecchia signora che tossiva ogni cinque minuti — e uno speziale di Villasor, con cappellone di feltro grigio, e un colossale ombrello che teneva fra le ginocchia.

[158]

Io completava quel mobilio animale. Entrato all’impazzata nello scompartimento, mi ero visto costretto a scivolare, non senza fatica, tra il figlio maggiore di Travet e la vecchia raffreddata.

Eravamo dunque otto adulti e cinque bambini — totale, tredici animi del purgatorio dentro l’inferno d’un guscio di noce.

Se io non mi fossi trovato con un sacco di pensieri, e in una condizione d’animo eccezionale, vi assicuro che ben volentieri avrei descritto tutte le peripezie accadute alla famiglia di quel Travet traslocato; il quale durante il trasporto della capitale da Sassari a Cagliari aveva sofferto tutti gli spasimi, le torture ed i supplizi, di cui è tassabile in terra la specie umana.

Nè crediate che ciò avrei fatto col malanimo di metterlo in ridicolo; oh no! — sarei stato mosso dal santo intendimento di costringere l’umanità a versare una lagrima sulle miserie burocratiche di terzo grado!

Fatto appena un mezzo chilometro di strada, il bambino che sedeva in grembo alla balia si mise a gridare:

— Mamma... pane!

Nessuno gli badò. I discorsi dei passeggieri soffocarono le grida del marmocchio.

— Pane!... voglio pane! — ripetè più forte il bambino.

La povera moglie, nello stato in cui era, e con un bimbo in grembo, non poteva muoversi. [159] La balia aveva le mani legate dagli altri due marmocchi. Non restava che il papà, il quale in quel momento spiegava al caporale furiere una recente Circolare ministeriale, non badando ad altro.

— Roberto!! — esclamò la moglie, dando un’occhiata significativa al marito. — Carluccio vuole pane.

Roberto — che così si chiamava l’impiegato — si liberò con uno sforzo dalle due tenaglie che aveva al fianco, si alzò in piedi, e dopo aver frugato fra una valigia e una mezza dozzina di cappelli di paglia, tolse un pezzo di pane, che diede a Carluccio.

Già si era rimesso a sedere tra i suoi figli, quando quattro vocine gridarono in coro:

— Pane!

— Pane anche a me!!

— Anche a me!!!

Pappa! — balbettò il piccino nel suo gergo speciale.

E il povero Travet tornò ad alzarsi per distribuire il pane a dritta e a mancina.

Si sa bene; chiesto pane da uno, tutti gli altri bambini si ricordano di aver fame. E qui i soliti malumori:

— Il mio è piccolo!

— Il suo è più grosso!

— Io ne voglio un altro pezzo!

La cosa parve alfine assestata, e Travet tornò [160] a sedere per riprendere la conversazione col caporale.

Non si era ancora arrivati alla stazione di Assemini, quando la bambina, che era al fianco del papà, disse rivolta alla mamma:

— Ho sete.

E tutti gli altri in coro:

— Acqua!

— Anche a me!!

Bumba! — disse il piccino col solito gergo, il quale non ha per interprete che la mamma.

Nessuno badò ai bambini; e la madre, colla sua voce lamentosa e stentata, disse rivolta al marito:

— Roberto!... hanno sete!

E Roberto di nuovo in piedi a prendere una bottiglia d’acqua, e a far girare il bicchiere da un figlio all’altro, dopo aver versato la metà del contenuto sui propri pantaloni.

Vennero in seguito le altre coserelle; voglio dire gli avvertimenti della moglie al marito, durante il viaggio:

— Roberto!... guarda quel naso di Adelaide.

E Roberto chiama tutti i nasini a raccolta per pulirli col fazzoletto.

— Roberto!... guarda quel legaccio di Paolino.

E Roberto a legare le scarpe al suo figlio maggiore.

Roberto!... fa il piacere: è caduto il pane a Giorgetta.

[161]

E Roberto, in ginocchio, a cacciar le mani tra le gambe dei passeggieri per cercare il pane alla sua figliuola.

***

Dopo dieci minuti il treno si era fermato alla stazione di Assemini; tutta circondata di eucaliptus, fedeli compagni, oggimai, di tutte le stazioni del mondo.

Il villaggio di Assemini si distingue per il suo campanile messo a nuovo, ricco di un orologio a quattro quadranti. Il paese è rinnomato dai ghiottoni per l’ottimo moscatello; e dagli archeologi per due iscrizioni greche che possiede: una nel giardino della parrocchia e l’altra nella chiesetta di San Giovanni Battista. Se il lettore è dilettante di greco, può fermarsi in Assemini per leggere le dette iscrizioni; protesto, però, che io non ho voglia di accompagnarlo.

A dritta e a sinistra abbiamo campi fertili e ben coltivati — in lontananza comincia ad apparire lo stagno di Cagliari.

Tiriamo oltre, senza inconvenienti di sorta. Il sordo rumore del treno che cammina non riesce a soffocare il cicaleggio dei bambini e la tosse importuna della vecchia, che caccia in bocca una giuggiola ogni cinque minuti.

Lasciato il villaggio di Assemini, la moglie rivolge la parola al marito:

[162]

— Roberto!... non vedi? Pietrino è di malumore, e mi tira dei calci pericolosi... capisci? Egli vuol venire a te!

— Vuol venire a me?! — rispose il povero Travet, tra il dubbioso ed il seccato. E tutto paziente e compunto, in grazia dello stato interessante, riceve in consegna dalla sua compagna il bambino mezzo sfasciato.

Continua però a parlare col caporale, facendo ballare sulle ginocchia il suo marmocchio perchè non strilli. E il marmocchio, tutto contento perchè trovasi in braccio al papà, si diverte a stappargli i peli dalla barba ed a cacciargli le dita entro le narici.

Non erano però terminate ancora le torture del povero impiegato.

A metà strada, fra Assemini ed Elmas — e propriamente nel punto dove la ferrovia comincia a rasentare lo stagno di Cagliari — il bambino di cinque anni, che era appoggiato alle ginocchia della balia, cominciò a chiamare a voce bassa:

— Papà...

E il papà a discorrere.

— Papà! — ripetè il bambino.

— E Travet a fare il sordo. Allora toccò alla moglie:

— Roberto!... non senti? Gino ti chiama.

— Che vuoi?! — esclamò con impazienza l’impiegato; e rivolto alla moglie rispose duramente:

[163]

— Vedi bene che ho il bambino in braccio!

— Io voglio... — continuò con voce sommessa il fanciullo.

— Vuoi la luna?

— Io voglio... — Ed esitava.

— Parla forte!!

— Voglio fare...

L’infinito del verbo fare, legato alla prima persona del verbo volere, atterrì il povero genitore. Era una tegola che gli cadeva sulla testa. Depose prestamente il bambino sul grembo della madre, e rivolto al supplicante gridò con disperazione:

— E se tu vuoi fare... come vuoi che io faccia? Trattieni un momento — saremo subito ad Elmas.

E il bambino, per fortuna, trattenne!

Alle 7 e 26 minuti il treno si fermava alla Stazione di Elmas, distante da Assemini cinque chilometri, e da Cagliari otto.

Elmas è un paese di villeggiature, e non offre nulla di notevole. Gli spagnuoli lo chiamavano El mas, i cagliaritani lo dicono Su Masu. È rinnomato per la festa di Santa Catterina che ha luogo nella vicina chiesa rurale.

Appena fermato il treno alla Stazione, il buon padre prese in braccio il bambino, chiamò una guardia che gli aprì lo sportello, e scese a terra.

Carico del dolce fardello, sotto i raggi del sole di luglio, Travet andò di corsa verso quel certo fabbricato a partita doppia, il quale non potrà mai diventare utile per i viaggiatori, finchè non [164] si metterà in istretto rapporto colle necessarie fermate volute dagli umani bisogni e violate dagli attuali orari delle ferrovie italiane!

***

Lasciamo in pace la famiglia del misero traslocato, e gettiamo uno sguardo fuori dei finestrini.

Da Elmas a Cagliari, anzi per ben dieci chilometri, il treno rasenta a destra tutto lo stagno, il quale vi si schiera davanti colle sue acque quiete, colle sue saline, colle sue isolette. — A sinistra un’immensa distesa di vigneti, quasi senza interruzione, colle viti allineate sopra una terra rossiccia, stupendamente coltivata.

Capricciose e strane quelle due distese di diversi colori che lambiscono quasi le rotaie della ferrovia! — Da un lato l’azzurro pallido delle acque morte — dall’altro il verde vivo dei pampini rigogliosi.

Alla nostra destra nessuna variazione: sempre acqua. Alla sinistra, qualche palma solitaria — qualche quadrato di fichi d’India — qualche giardino con l’elegante casetta a vari colori. Lassù, sopra un alto colle, il famoso castello di S. Michele, coll’adiacente boschetto di folti pini; — più innanzi, sulla costa d’altro colle, una dozzina di casette col tetto a capanna, unite fra loro, quasi tenendosi per mano.

Ecco Cagliari, co’ suoi capricciosi fabbricati [165] disposti sopra una collina piramidale; essi vanno sempre su — dal convento del Carmine fino alla torre di S. Pancrazio, al campanile della cattedrale ed al palazzo Boyl — per poi discendere al di là, a gradi a gradi, fino alla chiesa di S. Lucifero.

Il treno entra trionfante sotto la gran tettoia di cristalli della Stazione.

Prendo la mia valigia, e scendo; dò la mia tessera alla guardia, e mi accingo ad attraversare in fretta l’atrio per raggiungere la porta d’uscita. Ma non mi riesce.

Le guardie daziarie m’impediscono il passaggio, come sempre lo impediranno a tutti i miei lettori che si recheranno a Cagliari od a Sassari.

Che fare? Bisogna aprir le valigie e le borse per sottoporle all’occhio vigile dei sempre rozzi impiegati del Dazio; i quali, con mano vandalica, getteranno sempre il disordine nella linda biancheria, che vostre madre, vostra sorella, o vostra moglie, hanno messo a posto con tanta cura e precisione, alla vigilia della vostra partenza!

XXVII. A Cagliari.

Uscito dalla stazione mi diressi alla nostra casa.

Il cuore mi batteva forte; provavo come una inquietudine vaga. Pareami che tutte le forze raccolte lungo il viaggio mi venissero meno coll’avvicinarmi [166] alla famiglia. I miei propositi sfumavano.

La nostra casa d’abitazione era nel Corso Vittorio Emanuele, quasi all’imbocco della Via Sassari. Arrivato a metà strada gettai una rapida occhiata in avanti, sui nostri balconi. Una donna era alla finestra, guardando verso la mia direzione — la zia Efisia. Quando mi riconobbe, ella si ritirò prestamente.

Provai una viva emozione. La zia era forse corsa ad avvisare mia cugina.

Sudavo freddo.

Messo il piede sul primo gradino, e levati gli occhi in alto, vidi la zia ferma a metà della scala, sul pianerottolo, aspettando che io salissi. Era sola, seria, impaziente.

Che voleva dir ciò? che cosa era accaduto?

La nostra casa è a tre piani. Nel primo, destinato a deposito di mercanzie ed all’ufficio, era pure la mia cameretta da scapolo.

Mia zia, essa stessa, aprì la porta della mia stanza, che dava sulla scala,-e mi spinse dentro dolcemente.

— Fa presto! — disse; e mi venne dietro, dopo aver dato un giro di chiave alla serratura.

Io non avevo ancor fiatato. Non sapevo perchè tante precauzioni e tanto mistero.

— Non ho tempo da perdere — mi disse con voce concitata — taci, ed ascolta. Ella è qui!

— Lo avevo immaginato! — risposi.

[167]

— Or bene, ho bisogno della tua prudenza e del tuo precoce criterio.

— Grazie, zia!

— Ieri sono accadute scene spiacevoli in famiglia. La zia Antonica, entusiasta sempre di te, e attaccata più che mai ai ricordi della buon’anima di tuo padre, è sempre ferma nel proposito di tradurre in atto l’antico suo progetto. In fin di cena ella chiese di te, e mise in campo addirittura la questione. Avvenne allora una scena inaspettata, che gettò lo scompiglio in famiglia. La Mariannina ruppe in singhiozzi. Inutile ora dirti le smanie della madre, le meraviglie del papà e le inquietudini dello zio. Sappi solo, in conclusione, che la fanciulla ha protestato, dicendo che ti avrebbe sempre voluto bene come cugino, ma non mai come marito. Disse che non sentiva alcun affetto per te — e finì per inginocchiarsi, supplicando i genitori perchè non violentassero il suo cuore.

— Davvero?!

— Non interrompermi — ho bisogno di metterti a parte di tutto per regolarti; ed è perciò che ho spiato il tuo arrivo, per poterci parlare da solo a sola. Non puoi immaginare il tafferuglio accaduto! Fu sospesa la cena — il papà si alzò indispettito da tavola, e si ritirò; la madre chiamò ingrata la figlia — e tuo zio correva or dall’uno, or dall’altro, per calmare o consolare tutta quella gente. Non capisci? la sorella di tuo padre aveva avuto il grave torto di non preparare abbastanza [168] Mariannina a questo matrimonio. Essa fidava nella propria autorità e nel buon carattere della figliuola. Sai bene com’è stata sempre originale!

— E poi?

— La notte stessa chiamai a parte Mariannina, e cercai di persuaderla che aveva torto. Le dissi che la sua antipatia era infondata, poichè coll’avvicinarti si sarebbe convinta ch’eri un giovane simpatico, elegante e molto buono...

— Grazie, zia!

— La ragazza però smaniava, voleva dirmi qualche cosa, ma non osava. Finalmente, dopo le mie vive insistenze, ella mi confidò che amava un altro — un bel giovine che aveva conosciuto a Genova. Anzi, mi pregò caldamente d’interporre i miei uffici per aiutarla a convincere la madre perchè desistesse dall’insensato proposito.

Io credeva di sognare. Mentre la zia Efisia parlava, ero rimasto colla bocca e cogli occhi spalancati, cercando di raccapezzare le mie idee.

Appena mi accorsi che la zia aveva finito, non feci altro che gettarmele al collo, stringerla fra le braccia, e nascondere la mia faccia sulla sua spalla.

— Via... coraggio, nipote mio! — esclamò la zia con voce affannosa — sii uomo; frena il tuo dolore, e non abbandonarti così alla disperazione. Non mancano donne, assai migliori di quella smorfiosa!

Mi svincolai dall’amplesso, e dissi alla zia:

[169]

— Ma che dolore! che disperazione! Voi mi avete reso felice togliendomi dallo stomaco il peso di una moglie, che io sopporto da oltre venti anni!

Questa volta toccò alla zia lo aprir gli occhi e la bocca. La poveretta non capiva proprio nulla, o forse temeva che io fossi per dar di volta al cervello. E continuai:

— Ma no! ma no! rassicuratevi. Io non ho mai pensato a quell’antipaticona; anzi vorrei sapere, da una volta, perchè ci vogliano imporre la camicia di forza del matrimonio!

— Perchè la zia ha giurato sull’ombra di tuo padre di unirvi in matrimonio; anzi ha confermato il suo giuramento dinanzi alla Madonna di Montenero, dove è andata più volte in pellegrinaggio.

— Già... capisco: come nella Celeste di Leopoldo Marenco. Ma la zia, nel suo entusiasmo religioso, poteva ben limitarsi a votare la roba propria — la figlia — senza compromettere me per far piacere a Dio!

— Prudenza, o Cecchino, e lascia fare a me. Adesso va a fare un po’ di toeletta, poi vieni da me, perchè voglio presentarti io stessa a’ tuoi parenti. Bisogna fare in modo di non compromettere la pace e la tranquillità di tutta la famiglia. Per ora non dirò loro nulla della tua venuta; altrimenti la tua eccessiva freddezza darebbe campo a sospetti e a dicerie. Voglio presentarti io.

E la zia mi lasciò solo nella mia camera per salire in fretta al secondo piano.

[170]

XXVIII. Le due fidanzate.

Le parole di mia zia avevano destato una gioia improvvisa nel mio cuore. Ma questa gioia era proprio giustificata? — La mia condizione non aveva subìto cambiamento alcuno. Sciolto dal vincolo di un matrimonio abborrito, restavami di poterne contrarre un altro sì a lungo vagheggiato. Lo avrei potuto? In un momento d’allucinazione avevo sperato che colla rinunzia di Mariannina sarebbe stata appianata ogni difficoltà — ma m’ingannavo. E Annetta?

Ridivenni mesto, taciturno, sconfortato; e presi la ferma risoluzione d’incominciare dal domani le ricerche della mia adorabile fanciulla. Mi sarei presentato a’ suoi parenti; mi sarei fatto conoscere, e avrei mandato addirittura mio zio a chiedere la mano di Annetta.

Fatta un po’ di toeletta, mi accinsi a presentarmi a’ miei parenti, per dare loro il buon arrivo.

Il piano da me stabilito fu quello di presentarmi serio, accigliato, come uomo freddo ad ogni sorriso di donna. Il mio broncio sarebbe stato un buon preludio per la ragazza; — il mio contegno glaciale sarebbe stata una eloquente dichiarazione per i genitori di mia cugina.

Trovai la zia Efisia in anticamera. La famiglia di Mariannina era raccolta in quel momento nel [171] salotto. Per recarmi da loro io doveva attraversare una cameretta che un tempo mi serviva di studio e che era stata trasformata provvisoriamente nella camera da letto della antipatica cugina.

Mia zia camminava innanzi; io la seguiva, colle braccia penzoloni, riandando nella mente il discorso preparato per la circostanza, del quale non ricordavo più una parola.

Entrata nella camera, mia zia si fermò di colpo. Io levai gli occhi per conoscere la causa della sua immobilità. Una fanciulla era in un angolo di quella stanza.

Sentii tremare le mie gambe — il cuore mi batteva con violenza.

Mi avanzai verso di lei colla testa bassa e coi passi di un condannato a morte.

Mia cugina aveva indosso una vestaglia color d’albicocco, che le si attagliava a meraviglia.

Era in piedi, vicina ad un tavolo rotondo.

Al vedermi, chinò prestamente la testa sul petto, si cuoprì gli occhi con una mano, e appoggiò l’altra al tavolino

Rimanemmo alcuni minuti senza poter articolar sillaba. Mi voltai a guardare mia zia, come per domandarle consiglio; e mia zia, con un movimento di testa, mi eccitò a farmi coraggio.

Fui primo a prendere la parola:

— Vi dò la ben venuta. Vi rivedo con molto piacere!

La fanciulla, quasi scossa da una molla, tolse [172] la mano dal volto, e con voce tremante esclamò vivamente:

— Che venite a far qui? Allontanatevi, signore; non cimentate più oltre la mia costanza! Voi solo siete causa d’ogni mia sventura!

La zia afferrò la fanciulla per una mano, e le disse con acerbo rimprovero:

— Mi avevi pur promesso di tenere tutt’altro linguaggio con lui!

Ed io allora con vivacità:

— Signorina, voi qui? è il cielo che vi manda. Sappiate che vi amo sempre, e che farò di tutto per strapparvi ai vostri genitori ed all’uomo che dice di amarvi!

E la zia Efisia, a me rivolta, disse con amaro risentimento:

— Non era questo il discorso che avevi promesso di tenere con lei!... Mi dispiace il tuo linguaggio sarcastico!

Vi furono alcuni minuti di silenzio. La zia Efisia guardava or l’uno or l’altra, nè sapeva a che pensare. Alfine, cambiando tono, esclamò con dolcezza affettuosa:

— Ma via, Cecchino! — via, Mariannina! non fate scene. Fra cugini ciò sarebbe uno scandalo, una vergogna!

Ci guardammo l’un l’altra, come due forsennati.

— Tu... mia cugina?

— Tu... mio cugino?

[173]

Mandammo dal petto due gridi di gioia; e, senza badare a convenienze di sorta, gettai addirittura le braccia al collo di Annetta e scoccai due sonori baci sulla sua guancia, nel momento appunto che tutta la famiglia, spaventata da quelle grida, era accorsa in camera per conoscerne la causa.

Appena mi vide, la madre corse alla figlia, e la strappò a viva forza dal mio amplesso troppo drammatico.

— Infame! — esclamò a me rivolta — io lo prevedeva; ma non vi avrei creduto mai capace di tanta vigliaccheria!

— Sorella! — gridò allora mio zio, rivolto alla vecchia — voi trascendete; ed oramai devo dichiararvi che le vostre originalità cominciano ad essere intollerabili. Cecchino è incapace di un’azione disonesta!

— Come?... lui Cecchino?

— E chi altri dunque?

— Il nostro compagno di viaggio!?

— Precisamente — esclamai io.

— Proprio lui! — soggiunse Annetta...

— Ora capisco tutto! — disse il papà.

— Ed io invece non capisco niente! — conchiuse mio zio rivolgendosi alla zia Efisia, la quale alzò le spalle e allungò il labbro inferiore per dire che capiva meno di tutti.

Risparmio al lettore tutte le spiegazioni che vennero in seguito. Fu lo scioglimento di una [174] vera farsa. Io era fuori di me; e, per tutto quel giorno, mi credetti in preda ad una crudele allucinazione.

Io aveva ritrovato la mia adorata Annetta fra le braccia della mia antipatica Mariannina. Per una strana combinazione, la mia felicità era andata a nascondersi in seno ad una sventura.

***

Alle ore dieci di quella stessa sera, ebbro di gioia, m’incamminavo frettoloso verso la piazzetta San Carlo, e precisamente all’intermittente caffè di Vincenziello, per cercarvi una persona a cui avevo dato un appuntamento.

Come il lettore avrà immaginato, era costui il giovine tenente, mio compagno di viaggio da Oristano a Decimomannu.

— Signore — gli dissi — fedele alla mia promessa, eccomi a voi.

— Che volete da me?

— Vengo... a domandarvi scusa!

— Scusa?!

— Sì, o signore, scusa: poichè un gentiluomo non deve mai vergognarsi d’aver torto.

— Non v’intendo.

— Ieri non mi avete calunniato, ma diceste la pura verità. Vi partecipo che realmente io era il fidanzato di quella bella fanciulla che viaggiava con noi.

[175]

— E perchè non lo avete confessato ieri?

— Perchè non lo sapevo.

— Scherzate?

— Non scherzo; vi dirò tutto un’altra volta. E giacchè una soddisfazione è per voi necessaria, io v’invito ad un duello. Volete voi essere uno dei testimoni della mia felicità coniugale?

Il giovane tenente cominciò a comprendere; sorrise, mi stese la mano, e rispose:

— Accetto!...-e con piacere!

XXIX. Gli Sponsali.

— Come ti sei fatta bella, Mariannina!

— Come ti sei fatto gentile, Cecchino!

Così esclamavamo l’indomani, io e mia cugina, tutti e due soli, guardandoci negli occhi, e seduti sul divano del salotto.

— E dire — le dicevo — che io ti amavo alla follia perchè ti odiavo tanto!

— E dire — soggiungeva essa — che, corrispondendo al tuo amore, io non aveva altro scopo che quello di fuggirti.

E quante belle cose ricordammo quella sera, rifacendo col pensiero il viaggio da Sassari a Cagliari, ma senza ansie, senza scosse e senza i fischi della vaporiera!

Era una felicità insperata, alla quale non ci [176] eravamo ancora abituati — tanto ci pareva un sogno!

Non volli frapporre indugio alle nozze. Temevo che qualche nuovo incidente dovesse portarmi via il mio tesoretto.

I miei conti erano fatti a rigore. Quindici giorni erano sufficienti per sbrigare le pratiche necessarie, volute dai codici civile ed ecclesiastico. Io aveva deciso di sposare nello stesso mese di luglio; anche a costo di fare a meno di una pubblicazione, chiedendone il permesso al Procuratore del re.

— Nipote caro — mi diceva la zia suocera — perchè non aspettare al mese di agosto?

— Suocera mia, ho troppa fretta — io rispondeva — non voglio urtare col proverbio che dice:

Chi maritasi d’agosto

Molto fumo e poco arrosto.

Ero fuori di me dalla gioia; e pregai lo zio ad accordarmi un mese di licenza, perchè temevo di compromettere i nostri affari commerciali.

Spesse volte io mi credevo un pazzo, e dicevo: — e se quanto mi accade fosse parto di un’alienazione mentale?

E interrogai le zie, i parenti, gli amici, me stesso, sui particolari di quel curioso avvenimento; ed ebbi tante spiegazioni, che brevemente sottopongo alla curiosità de’ miei lettori per non tediarli più oltre. Ecco quanto appresi:

[177]

Che Annetta, per caso, era nata in Asti nella casa dei parenti del babbo, presso i quali la zia fu mandata per essere assistita nel parto;

Che dall’età di dodici anni Annetta era stata educata in un Collegio di Firenze, ove le compagne le avevano fatto cambiar nome. E siccome Mariannina è il diminutivo di Maria Anna, la zia Antonica accondiscese alla scelta del secondo nome, col solo patto di cambiarlo in Annetta;

Che siccome una bambina belloccia può diventar goffa e bruttina col crescere degli anni — così una bambina dai rozzi lineamenti può perfezionarsi nell’età dello sviluppo, e diventar simpatica;

Che il padre di Annetta aveva telegrafato da Genova dicendo che sarebbe arrivato a Cagliari col piroscafo; ma che poi, pauroso del mare, aveva voluto abbreviare il tragitto passando per Sassari, dove doveva pur recarsi per sistemare alcune pendenze con parecchi commercianti di coloniali;

Che Annetta, per paura di compromettersi, aveva detto due innocenti bugie: a me, che il suo amante era un fiorentino — alla zia che l’amante era un genovese. E con ciò volle risparmiare a me nuove imprudenze, e risparmiare a sè stessa la vergogna di confessare d’essersi innamorata d’uno sconosciuto.

Seppi inoltre: che il famoso braccialetto era un regalo fattole dallo zio di Cagliari, a mia insaputa; che il telegramma da me ricevuto a [178] Decimo non aveva nulla a che fare coll’arrivo di Mariannina; e che le due donne vedute dal mio amico in casa nostra non erano che due parenti della zia Efisia.

E seppi finalmente: che, per sfuggire alle nozze abborrite con mia cugina, non avevo trovato altro mezzo che quello di affrettare il matrimonio con lei!

Vede dunque il lettore, come per un uomo tormentato dalla passione i più piccoli avvenimenti possono talvolta prendere gigantesche apparenze, ed essere causa di molti malanni.

Bisogna però che io sia giusto con me stesso, e con gli altri.

Annetta era bella, istruita, simpatica e graziosa; ma pertanto, se me l’avessero subito presentata quale mia cugina, forse l’avrei trovata brutta, antipatica, ignorante e sgarbata. Non avrei esitato ad affermare, anche con giuramento, che i lineamenti di Annetta erano identici ai lineamenti di Mariannina settenne. Avrei anche sostenuto che aveva la fronte pelosa e il colorito verdone, come per lo passato.

E in questo fatto bisogna riconoscere: la volubilità dell’umana natura — il giusto valore della bellezza femminile, la quale non è che relativa — e la caparbietà vanitosa dell’uomo, il quale non tollera gli venga oggi imposto, ciò che domani pagherebbe a prezzo d’ogni sacrifizio.

Nè dobbiamo dare al figlio di Adamo tutti i [179] torti. Perocchè è ben giusto, che se un malanno si ha da avere, questo malanno ce lo dobbiamo sceglier noi, e non altri; ci sarà così meno duro e più sopportabile. L’uomo che ha finito per crearsi una sventura può recar vantaggio a sè ed agli altri. Sforzandosi di parer felice, egli può risparmiare al prossimo le inutili querimonie, ed a sè stesso gli altrui rimproveri o l’altrui compassione.

***

Spuntò finalmente il giorno da noi desiderato.

Il 25 luglio sposammo al municipio, alla presenza del sindaco; e il 26, alle ore 4 del mattino, diedi l’anello a mia cugina alla presenza del parroco; il quale non era altri che il prete brontolone, mio compagno di viaggio da Oristano a Decimo. Chi lo sa? forse nel darci la benedizione avrà pensato al mio alterco coll’ufficiale, ed allo spavento provato in quel giorno memorando!

Uno dei testimoni era l’ufficiale; l’altro fu quel maestro di scuola, il quale favorì, colla sua storia sarda, i miei amori con Annetta. Invitandolo alle mie nozze, credetti adempiere ad un dovere di riconoscenza. Vi confesso che in quel giorno ho desiderato intorno a me tutti i compagni di viaggio — non escluso il povero Travet colla nidiata de’ suoi bambini.

Alle ore 5 della stessa mattina noi eravamo [180] già alla stazione della ferrovia, accompagnati da tutti i nostri parenti ed amici.

Non posso tacervi un particolare. Io ed Annetta camminavamo in capo alla brigata; — i parenti ci venivano dietro.

Arrivati verso la metà della Via Sassari, mia suocera esclamò rivolta a mio zio:

— Guarda Cecchino e Mariannina! — non sembrano creati l’uno per l’altra?

— Dio li fa e Dio li accoppia! — rispose mio zio.

Erano le stesse parole pronunciate dalla zia vent’anni addietro, quando io dava degli scappellotti a Mariannina, e Mariannina mi rompeva la testa colle sedie. Tant’è, che l’augurio si era finalmente avverato. Dio ci aveva accoppiati come le tortore e come i colombi.

La mia sposa, che udì il complimento della zia, si volse verso i parenti, ed esclamò con affettuosa minaccia:

— Badate, veh? una volta per sempre: — non più Cecchino, nè più Mariannina. Chiamateci Anna e Francesco. Siamo rinati, e vogliamo essere ribattezzati!

***

Alle ore 5,30 il treno usciva dalla Stazione diretto per Sassari, luogo da noi prescelto per il viaggio di nozze, contemplato nel nostro programma.

[181]

XXX. Da Cagliari a Sassari.

Non abbiate timore, perchè non è mio intendimento costringere il lettore a salire con me sul treno per rifare il viaggio da Cagliari a Sassari.

Le ragioni sono facili a concepirsi. La prima: perchè nella mia qualità di sposo novello non avrei desiderato la compagnia dei lettori, per quanto cara a chi scrive; la seconda ed ultima, perchè, anche volendolo, non avrei potuto descrivere questo mio secondo viaggio. Tanto io, quanto Annetta, non guardammo che pochissime volte la campagna.

Eravamo proprio soli, in uno scompartimento di prima classe; e nessuno durante il viaggio venne a turbare il nostro raccoglimento.

Preoccupati unicamente della nostra felicità, non rivedemmo con piacere che i soli luoghi che ci destavano cari ricordi.

Attraversando, per esempio, le tre Gallerie di Bonorva, Annetta mi rammentò la mia audacia, e rise come una matta; rise tanto, che ne fui quasi mortificato.

Solamente ad Ardara il volto di Annetta si fece serio. Essa volle che io abbassassi i vetri del finestrino per guardare i poveri ruderi di quella chiesa, di quel castello e di quelle mura, che rammentavano l’infelice Adelasia di Torres.

[182]

Sentii tremare la sua nella mia mano — e vidi una lagrima scendere per le sue guancie.

— Bambina! — esclamai — A che piangi?

— Non so perchè, Francesco: quel villaggio, lassù in alto, mi fa uno strano effetto. La tua storia dolorosa mi sta sempre fissa nella mente, non l’ho dimenticata, e non la dimenticherò mai più! Quando tu mi narravi le sventure della povera Regina di Torres, io sentii il mio cuore disposto ad amarti. Ora posso ben dirtelo, chè sono tua: Se tu non mi avessi parlato d’Adelasia con tanto entusiasmo e con tanta pietà, forse non ti avrei amato... come t’amo.

***

Arrivammo a Sassari alle ore 3 e 15 minuti del pomeriggio.

All’indomani condussi Anna in giro per farle conoscere la città. Le feci visitare gli stupendi affreschi della Sala Provinciale — lo scalone del Palazzo Giordano — l’Acquedotto — l’Università — il Rosello e il Giardino pubblico. Pochi giorni dopo la condussi a visitare i dintorni, e sovratutto molte belle campagne.

La nostra luna di miele durò a Sassari oltre un mese — ed Anna era molto contenta di trovarsi nella mia patria.

Ella mi diceva:

— Sassari mi piace per tante belle cose — ma, più di tutto, perchè tu ci sei nato!

[183]

— Quando avremo soldi — le risposi — faremo un viaggio ad Asti; e così potrò visitare la chiesa dove fosti battezzata.

Verso la metà di settembre tornammo a Cagliari, in seno ai nostri parenti; e da quel giorno cominciai con più attività ad occuparmi degli affari del nostro commercio. La primavera della vita ci sorrideva; ma bisognava pur pensare alla stagione invernale. L’uomo saggio che prende moglie deve prepararsi a diventar formica!

***

Una seconda volta, insieme ad Annetta, feci il Viceversa del viaggio da Cagliari a Sassari — e fu negli ultimi giorni del passato agosto: tredici mesi dopo il nostro matrimonio.

Eravamo in quattro: — io, Anna, una balia ed una bambina di tre mesi: la nostra primogenita, a cui mia moglie volle imporre il nome di Adelasia, in memoria del nostro amore.

Di questo viaggio mi restarono impressi i seguenti ricordi.

Passando dinanzi al villaggio di San Gavino, pensai alla sposa di Salvatore Farina, che nell’aprile dello scorso anno era venuta a visitare la Sardegna. Perduto il treno, ella dovette passar la notte in quel paese, insieme al marito e ad una brigata di parenti e di amici.

— Povera Cristina! Dicono che quel giorno [184] fosse molto mesta. Forse presentiva che non avrebbe riveduto la patria del suo Salvatore. La poveretta non vide tornare la primavera; era venuta in Sardegna col mese dei fiori, e col mese dei fiori se n’era andata nel mondo degli spiriti.

Attraversando le tre famose Gallerie di Bonorva, la nostra bambina si mise a strillare per paura del buio; ed io dovetti consumare la mia scatola di cerini per farla tacere.

Inutile dirvi, che quel giorno mi scagliai contro la Società delle Ferrovie Sarde, perchè faceva troppa economia d’olio. Vedete bene come cambiano le nostre opinioni! Un anno prima avevo lodato la società — un anno dopo la biasimavo. L’amante applaudiva il buio — il marito desiderava la luce!

A Chilivani trovai una grata sorpresa: — la nuova stazione coll’elegante tettoia di ghisa — e il nuovo Ristorante con tutto il confortabile per i viaggiatori.

Sedemmo a tavola, e questa volta io mangiai con vero appetito.

Altro ricordo del mio secondo viaggio con Annetta fu quello della Stazione di Ploaghe.

Eravamo in seconda classe, in compagnia di altri quattro passeggieri.

Mentre io reggeva sulle ginocchia la piccola Adelasia, facendo notare ai compagni di viaggio la solita precocità del nostro primo frutto, non so perchè, la bambina dimenticò tutte le regole di [185] buona creanza; in modo che io, colla compunzione di un capocomico fischiato, dovetti chiedere scusa al colto pubblico per la sbadataggine commessa dalla prima attrice giovine della nostra compagnia.

***

Dopo essere rimasti a Sassari una diecina di giorni, ripartimmo per Cagliari; dove ora mi trovo, e dove scrivo questi miei ricordi per contentare un carissimo amico.

— Quando ritorneremo a Sassari? — mi domandò Anna in viaggio. — Io l’amo tanto la tua patria!

— Quando? — semprechè potremo ritornarvi con uno in più — le risposi, scherzando.

— Vuol dire ogni anno!! — esclamò Anna sbadatamente.

Non so perchè, ma in quel momento ripensai alla famiglia del povero Travet, col quale io aveva viaggiato da Decimomannu a Cagliari.

— Bada, veh? — risposi serio ad Anna — Voglio bene a Sassari perchè ci sono nato; ma in questo caso ti avverto, che desidero di andarvi il più tardi possibile!

— E perchè? — domandò ingenuamente Anna, senza capire.

— Perchè i viveri sono cari; e per ogni individuo che viaggia in seconda classe si paga venti lire e sessanta centesimi.

[186]

— Scusa. I bambini al disotto dei sett’anni non pagano mezzo biglietto?

Che doveva io rispondere?

— Taci! — le dissi — non dire sciocchezze!

E siccome Anna voleva di nuovo parlare, le chiusi la bocca con un bacio.

La balia voltò la faccia verso la campagna, e finse di non aver veduto.

FINE


[187]

ENRICO COSTA

DA MACOMER A BOSA

SECONDA EDIZIONE

[189]

— Vuoi tu accompagnarmi a Bosa? — dissi all’amico Giulio, ch’era stato mio compagno di viaggio da Nuoro a Macomer.

— A Bosa?! — esclamò Giulio vivamente, quasi con spavento — Andrei piuttosto all’inferno! Bisognerà che trascorrano parecchi anni prima ch’io mi decida a riveder quel paese.

— Che ti è accaduto? — dissi scherzando — Hai forse fatto qualche indigestione di fichi, o di carciofi?

— Taci, per pietà! — soggiunse l’amico — Senza volerlo tu metti il dito sulla mia piaga.

— Un’avventura...?

— Sì: proprio un’avventura piccante, per dirla con Don Sallustio nel Ruy Blas.

— Dilla meglio con me. Che ti è accaduto?

E Giulio mi narrò il seguente episodio, che io ripeterò al lettore colle stesse sue parole.

[190]

Non so veramente se ella avesse i diciott’anni; ma so, e posso giurare, che aveva due occhi assassini, capaci di assalirvi sulla pubblica strada.

E sulla pubblica strada la conobbi la prima volta, quando dentro l’omnibus dell’impresa Gilli e Spano io mi recai da Macomer a Bosa per fare un’inchiesta presso l’ufficio dell’Agenzia delle tasse, nella mia qualità d’ispettore girovago.

Era una bellissima creatura, capace di far sdrucciolare un eremita penitente. Piena di grazia nelle movenze, quantunque grassottina, aveva i soliti capelli corvini, le solite guancie di rosa, e i soliti denti di perle: qualificativi che si applicheranno sempre alle belle donne, finchè vi saranno corvi in aria, rose in terra, e perle in mare.

Viaggiava in compagnia di altra fanciulla dai quindici ai sedici anni — di certo sua sorella — e di un canonico che tutt’e due chiamavano lo zio.

Eravamo quattro soli passeggieri, tutti nell’angusto spazio della rotonda — battezzata saggiamente con tal nome appunto perchè è quadrata. Avevo alla sinistra la ragazza quindicenne, e di fronte la mia simpatica corvina, (per ora la chiamerò così), la quale sedeva vicino al canonico.

Non mi fermerò a descrivervi la sorella maggiore, [191] perchè non lo posso; nè ho intenzione di farvi il ritratto della minore, perchè non lo voglio. La prima mi aveva acciecato — la seconda mi era indifferente.

Farò soltanto un cenno dello zio canonico, poichè la sua fisonomia era caratteristica.

Di prete non aveva che il tricorno ed il collarino; nel rimanente vestiva come la maggior parte dei mortali — pantaloni neri, corpetto chiuso fino al mento, e giacca di velluto alla cacciatora con ampie saccoccie ai fianchi.

Appoggiava le due mani sul pomo d’avorio della sua cannadindia — e sulle mani appoggiava il mento, il quale aveva preso quella tinta azzurrognola che accusa il ritardo del barbiere nella raschiatura periodica.

Sulle labbra del canonico errava un sorriso benevolo, aperto — segno di affabilità di carattere e di schiettezza d’animo. Il suo volto era secco, asciutto, arsiccio — direi quasi affumicato.

Non faceva che guardar me e sorrider sempre; e quando rideva ammiccava i suoi occhietti furbi, espressivi, lampeggianti.

La cara fanciulla corvina rideva ancor essa con una facilità singolare. Io la guardava continuamente negli occhi — ed essa non faceva che sorridere spensierata, senza la minima ombra di malizia e di civetteria. Sorridevamo tutti, senza dirci una parola, come se fossimo stati stretti parenti, od amici di antica data.

[192]

Ho rinunziato a descrivervi la bianca corvina, poichè io la trovavo tutta bella, tutta buona, dalla punta dei capelli alla punta degli stivaletti, che si potevano chiudere in un pugno. Non posso però tacere di un segno particolare, che forse aveva contribuito a rendermi innamorato di quella creatura. Quando rideva le comparivano sulle guancie due fossette procaci che mi davano le vertigini: due graziose fossette che parevano fatte apposta per cacciarvi i miei due occhi imprudenti, come in un nido d’amore. E notate, che, siccome la mia corvina rideva facilmente, così quelle fossette erano sempre là in permanenza, in compagnia di due fila di dentini bianchi, dai quali mi sarei lasciato mordere con piacere.

Scena curiosa! — io fissava continuamente la fanciulla — e il canonico fissava me con un sorriso di bonarietà, di cui non sapevo darmi ragione. In ventisette anni di vita non mi era mai capitato d’imbattermi in uno zio così poco severo e così poco rigoroso al fianco di una bella e giovane nipote.

Che significava siffatta cieca fiducia? Mi si credeva forse un uomo innocuo, non pericoloso? oppure lo zio aveva in me subodorato un partito conveniente per la sua nipote?

Non sapevo spiegarmi lo strano fenomeno, per quanto mi lambiccassi il cervello; mi perdevo nel labirinto di quei sorrisi insistenti, problematici, che cominciavano a mortificarmi seriamente. Io ero solo — ed essi erano in tre!

[193]

Misi da banda tutte le considerazioni psicologiche, e cercai di approfittare di tutte le indulgenze plenarie del benefico zio, lanciando occhiate tutt’altro che furtive all’indirizzo della corvina nipote — la quale persisteva a mostrarmi le sue rosee fossette e i suoi dentini bianchi, nel fortunoso ambiente della rotonda quadrata.

Lo zio canonico prendeva tabacco con frequenza, e me ne offriva con tanta grazia e con tanta insistenza, che mi pareva ingratitudine e scortesia il rifiutare. Quella polvere stuzzicava in modo impertinente le mie narici; ond’io, per quanto cercassi di frenare le smorfie alla presenza dell’oggetto amato, non riuscivo ad impedire gli starnuti; il che faceva ridere di cuore le nipoti, rendendo soddisfatto lo zio che mi diceva ogni tanto:

— Felicità!

Ed era questo un augurio di cui non avevo bisogno, poichè mi sentivo troppo felice accanto alla bella nipote del canonico affumicato.

— Eravamo in viaggio da mezz’ora, e si sentiva da tutti il bisogno di chiacchierare. Mi accorsi subito che il canonico aveva una debolezza: l’agricoltura; aveva una passione prediletta: l’allevamento dei carciofi, di cui era caldo ammiratore, caldo cultore, e più caldo speculatore.

Dai discorsi fattimi, appresi che il canonico era un ricco proprietario di terreni. Ed allora mi balenò un sospettò: che il sorriso del prete non [194] avesse altra mira che quella di guadagnare la mia simpatia per mezzo della nipote, sperando che io — come ispettore delle tasse — avessi chiuso un occhio sulle sue rendite patrimoniali.

Ma... che importava alla nipote delle imposte dirette ed indirette? La continua apparizione delle due fossette e della dozzina di denti non poteva avere alcun rapporto con le tasse. A quella fanciulla non ero forse antipatico — e lo zio non poteva vedere di mal occhio la corte che le andavo facendo.

Perchè negarlo? mi lusingavo di aver fatto breccia nel cuore di una bella ragazza e di un brutto canonico; e ne esprimevo l’interna soddisfazione coll’attorcigliare la punta de’ miei baffi e coll’aggiustare il nodo della mia cravatta.

L’omnibus si fermò a Sindia — il paese che è in fama di produrre e di distruggere: — produrre cioè gli eccellenti formaggi, e distruggere la coda ai cavalli per tessere le corde di crine.

Pregai i miei compagni di viaggio perchè accettassero da me una bottiglia di gazosa — e tutti aggradirono l’offerta con una cortesia che lusingò il mio amor proprio.

Io era cotto: e mi pareva che il viaggio da Macomer a Bosa si facesse a volo d’uccello. Avrei desiderato maggior lentezza; e quando il carrozziere si rivolgeva a me per dirmi dal vetro rotto del coupé: «si cammina, è vero?» mi veniva l’impeto di buttarlo giù di cassetta.

[195]

Alle quattro e tre quarti eravamo a Suni — nel paese caro ai geologi, perchè loro presenta tutta la successione dei terreni: dalla roccia basaltica antica, alla recente lava basaltica nera. Ciò io dico per bocca del Lamarmora, confessandovi che sono indifferente a tutte le basaltiche del mondo, sì antiche che moderne.

Da Suni — per una ripida discesa — ci dirigemmo a Bosa, attraversando le colline ed i paesaggi più pittoreschi ch’io m’abbia veduto. I villaggi di Tinnura, Fluscio e Modolo — a breve distanza l’uno dall’altro — dominavano la vallata e le colline circostanti.

Scorgemmo finalmente la cittadina di Bosa, adagiata in basso, ma lontana ancora da noi. Le sue case erano tutte schierate in triplice fila lungo il fiume ed il colle che le spalleggia: esse ci apparivano come un reggimento di soldati che aspettano la rivista del generale.

Alle cinque precise l’omnibus erasi fermato all’imbocco del ponte, proprio in faccia all’Ufficio Daziario, dove una vigile guardia ci pregò di dichiarare tutti i generi consumabili che avevamo con noi.

Un signore sulla cinquantina ed una bambina sui dieci anni erano là fermi, in attesa dell’omnibus. Entrambi sorrisero al canonico ed alle sue compagne; i quali si affrettarono a smontare dal legno per andare loro incontro. Vi fu scambio di strette di mano e di qualche bacio, ed al mio [196] orecchio giunse parecchie volte la parola papà. Non vi era dubbio: trattavasi del babbo delle due ragazze: il fratello forse del canonico, colà venuto per dare il buon arrivo ai tre cari congiunti.

Si diressero tutti, a piedi, verso la città. Io rimasi solo, dentro la rotonda, fissando la mia adorata incognita che si allontanava.

La bella ragazza si era più volte girata verso di me per mostrarmi il suo sorriso, i suoi dentini e le due fossette color di rosa.

Il canonico fece di più. Prima di seguire la comitiva tornò a me, mi strinse la mano, e mi disse:

— Io vado con mio fratello e le mie nipoti. Spero di rivedervi. Verrete a visitare la mia cardiera?

— Oh, con piacere! Il vostro discorso sui carciofi mi ha addirittura entusiasmato!

— Ci rivedremo. Già, Bosa non è mica Parigi nè Londra. Ad ogni modo, ricordatevi che tutte le vie conducono alla Piazza maggiore!

E così dicendo mi offrì per l’ultima volta una presa di tabacco, che io ricambiai con un poderoso starnuto.

— Felicità! — conchiuse il canonico.

Oh! questa volta l’augurio del prete mi parve una crudele ironia; poichè in quel momento, separandomi dalla nipote, io era l’uomo più infelice della terra!

[197]

II.

Per tre giorni non rividi i miei compagni di viaggio — nè le due ragazze, nè il canonico. Ero occupato ed intento all’ispezione dei registri e dei bollettari nell’ufficio dell’Agenzia delle tasse.

La sera del quarto giorno fui invitato da un collega mio amico ad una passeggiata in barchetta lungo il fiume Temo, che scorre carezzevole appiedi del paese. Accettai con piacere.

Non è un’esagerazione: la città di Bosa è la più bella e la più pittoresca fra le città sarde. Posta sul versante di un colle rivestito di oliveti, e sormontata dall’antico castello dei Malaspina, essa si specchia sul terso cristallo del suo fiume; il quale ne riflette le linde casette, i poggi incantevoli e i rigogliosi oliveti, scorrendo docile e silenzioso fra due sponde fiorite, per poi gettarsi nel vicino mare. Le due acque — l’una dolce e l’altra amara — confondono insieme i loro palpiti dentro l’ampio bacino, formato dalle roccie frastagliate e dalle spiaggie arenose.

Montammo sul battello, a poca distanza dalle arcate del ponte; e guidati da un esperto barcaiuolo ci dirigemmo verso levante — laddove il fiume serpeggia fra una catena pittoresca di fantastiche colline, che ti trasportano col pensiero alle belle rive del lago di Como. Lungo quei colli, l’acqua prende un colore verdastro, prodotto [198] dalla rigogliosa vegetazione che riveste i due versanti, e che contrasta con la striscia azzurra di mare; la quale chiude a ponente il grandioso quadro creato dal sublime pennello della natura.

L’acqua del fiume pareva dormente, e capovolgeva le piante, le casette, e le colline che la sovrastano — quasi volesse raccoglierle nel suo seno per esortarle al riposo. Eppure avresti detto che da quelle sponde silenziose partissero voci indistinte che invitavano a pensare e ad amare! Era il linguaggio arcano del silenzio e della quiete, il quale commove le anime innamorate per trasportarle nel mondo dei fantasmi e degli spiriti, dove si ascolta ad orecchie chiuse, si sogna ad occhi aperti, e si parla col cuore e non col labbro.

Non si udiva che il tonfo dei due remi; un tonfo leggero, monotono, cadenzato.

Il sole volgeva all’orizzonte, e, lanciando i suoi raggi sul fiume, metteva in risalto le tre arcate del ponte, che si riflettevano nell’onda come cerchi luminosi tagliati da innumerevoli striscie infocate, tremule, scintillanti. E i ruderi del vecchio castello e delle annesse muraglie apparivano lassù, sopra uno sfondo color di rosa — quasi a ricordo dell’antica potenza dei Malaspina che inalzarono la rocca verso il 1112, per cederla due secoli dopo, insieme alla città, ai giudici di Arborea.

Avevamo lasciato a sinistra la chiesetta di [199] Santa Giusta e l’annesso giardinetto — trista brughiera un giorno, ed oggi un vero Eden di delizie, mercè la bacchetta magica di monsignor Eugenio Cano — un vescovo artista che all’ingegno eletto accoppia un cuore nobile e generoso. Volgemmo quindi a destra, passando sotto l’antica chiesetta di San Pietro ed al suo campanile in forma di torre quadrata, costrutta nel 1073: — unico ricordo che ancora rimane dell’antica Bosa cristiana, forse fabbricata sui ruderi della pagana Bosa Vetus. L’antica Calmedia, cambiando nome, è passata all’opposta sponda del Temo, lasciando sotto il Monte Nieddu quella torre e quella chiesa, le quali sembrano dolersi dell’ingrato oblio e della solitudine cui vennero condannati dagli uomini e dal destino.

Tanto io, quanto il mio amico, eravamo immersi nel silenzio e nel raccoglimento. Non so a che cosa pensasse lui; io pensavo alla bella incognita dell’omnibus, che volentieri avrei desiderato là, in seno a quelle acque così tranquille. Ed era forse lei che in quel momento mi versava nell’anima la strana melanconia, che pur vedevo quasi riflessa in quel cielo, in quel mare, in quei seni deliziosi.

La barchetta diresse la prora verso la sponda sinistra, e andò quasi ad incastrarsi fra le erbette ed i canneti che arginavano le numerose campagne coltivate.

Scendemmo di un salto a terra, e ci trovammo [200] in un ameno tenimento ricco di oliveti, di aranci, e di ortaglie d’ogni specie.

Dopo aver attraversato parecchi poderi, l’uno dentro l’altro, entrammo in una vasta cardiera, stupendamente coltivata.

Tutto solo in mezzo ad un viale, chino sulle piante e intento ad esaminare qua e là i superbi cardi, era un uomo decentemente vestito — per fermo il proprietario.

Ma, quale non fu la mia gradita sorpresa quando in lui ravvisai l’affumicato canonico, il mio compagno di viaggio, lo zio della bella ragazza che mi aveva ammaliato?

Mossi verso di lui, e gli strinsi la mano come ad un vecchio amico. Egli mi accolse con un grido di gioia, e mi offrì una buona presa di tabacco — di quel tabacco ch’io non poteva rifiutare, sebbene mi condannasse ad un augurio di felicità illusoria.

Il mio amico mi lasciò solo col canonico, e si diresse al tenimento vicino, dicendomi che non avrebbe tardato a raggiungermi.

Inutile dire che il canonico mi condusse seco a fare il giro del suo tenimento, per vantarmi i suoi carciofi e per intontirmi colla nomenclatura di tutte le specie squisite che possedeva. Ed io, naturalmente, non dimenticai che avevo l’obbligo di portare ai sette cieli le sue piante, fingendomi molto addentro nei misteri dell’agricoltura. Anzi, ricordando il mio primo libro di lettura, e le nozioni [201] apprese sui banchi delle scuole, parlai subito del pistillo e degli stami, indispensabili alla generazione dei frutti. Dissi, con gravità cattedratica, che il pistillo si divide in stigma, in stilo ed in ovario; e che lo stigma riceve il pòlline. Insomma, lo vuotai dall’A fino alla Z tutto il sacco della mia scienza agraria infantile, la quale non andava più in là del pòlline e dell’ovario.

Fu una vera rivelazione per l’agronomo prete.

— Voi dunque conoscete botanica e agricoltura?! — gridò il canonico, raggiante di contentezza. E piantandomi in faccia i suoi due occhietti lucicanti aspettava ansioso una risposta.

— Così... un poco! — risposi arrossendo.

— Bravo! ne sono proprio contento! Non potete immaginare il bene che mi avete fatto con simile confidenza; massime in questi tempi di scetticismo, in cui non si vuol confessare che la vera fonte della ricchezza è una sola: l’agricoltura, alla quale si piegano riverenti l’industria, il commercio, le scienze, le arti, ed i mestieri..... Credetelo, signore: se Bosa curasse meglio i prodotti delle sue terre, sarebbe la più ricca delle città sarde, nè avrebbe bisogno di sudar tanto per pagare i propri debiti. Essa, invece, non si è preoccupata che della ricerca di tesori nel Castello dei Malaspina — senza mai persuadersi che il vero tesoro ce l’ha in seno, e consiste nei germi misteriosi che giacciono nelle viscere della terra, i quali aspettano le braccia dell’uomo per venire [202] all’aria aperta. Altro che pensare al malaugurato porto ed alle ferrovie inutili!

Il buon canonico continuò su questo tono, e non la finiva mai. Egli era sublime ne’ suoi entusiasmi, e mi pregò di tenergli compagnia.

Mi portò da un cardo all’altro, esaltandomi ogni pianta, facendomi la rassegna apologetica delle sue cardiere, e dicendomi che i suoi carciofi non avevano rivali in tutto l’agro bosano. Ad un tratto si fermò di botto, e mi domandò a bruciapelo:

— Sapete a quale specie appartiene il cardo?

— Ai monopètali — risposi a caso, con la titubanza di colui che giuoca l’ultima carta che decide della sua fortuna.

— Bravo! — esclamò il canonico, battendomi sulla spalla.

Temendo che l’esame continuasse, tentai di far deviare il discorso dai cardi; e fissando il quadrato degli ulivi che chiudeva la cardiera, esclamai:

— Avete un buon raccolto d’olio, quest’anno!

Il canonico, inesorabile, mi guardò negli occhi:

— Sapete voi la differenza che passa fra il cardo e l’olivo?

Questa volta rimasi a bocca aperta, aspettando che la risposta mi venisse dal prete. Il mio primo libro di lettura non mi diede alcun aiuto.

Supponendo che il mio silenzio non fosse che ammirazione, il canonico soggiunse con sussiego:

[203]

— L’ulivo è un monopètalo che ha la corolla sotto l’ovario, come il tabacco e la patata; — il cardo, all’opposto, ha la corolla sopra l’ovario, come la lattuga e la camomilla. Non conoscete forse il metodo e la teoria di Jussien?

— No. Conosco bensì altri metodi — arrischiai timidamente.

— Ho capito — fece il prete con tono di compassione — appartenete dunque alla nuova scuola?

— Sissignore: alla scuola verista — risposi, non so perchè; forse per l’associazione d’idee fra cardi e Carducci.

E il buon canonico, tutto tronfio per la sua scienza, mi portò a passeggiare fra i suoi cardi parlandomi delle delicate cure che essi richiedevano nel rincalzamento e nelle legature; mi disse che si piantavano in maggio, che si mangiavano in febbraio, che reclamavano un terreno profondo, grasso, ben concimato, e che i suoi carciofi erano precoci quanto quelli di Napoli e della Sicilia.

— Vedete? — mi diceva ad ogni passo — questo è un carciofo comune, il verde: cynara scolymus virdis; quest’altro che dà al violetto è qualità rara: cynara scolymus violacea; questo che dà al rosso è chiamato dai botanici cynara scolymus rubra; e questo bianco è conosciuto sotto il nome di cynara scolymus albida...

E il canonico staccava con delicatezza i carciofi [204] dalle piante, e me li porgeva, pregandomi con insistenza di gustarli.

— Ebbene? — mi diceva — sentite che morbidezza!... che sapore!... che fragranza!... Osservate come la semplice pressione dei denti incisivi basta per spezzarne le foglie nettamente, senza filamenti di sorta! Non abbiate timore: morsicate pure vicino alla spina: troverete la foglia tutta tenera, pieghevole, pastosa... Vera cynara scolymus virdis di prima qualità!

Fu per me un vero supplizio. Avevo le labbra legate e nere come il carbone; la bocca pastosa ed amara; la lingua inchiodata al palato, in modo che mi riusciva difficile il parlare.

Il canonico, incoraggiato dalla mia innocente bugia, mi aveva assalito, perseguitato, annientato sotto un mondo di cynare di tutti i colori. E mentre il povero botanico, cieco di passione, contava quasi le foglie dei carciofi, io volgeva gli occhi all’intorno, in cerca degli occhi della cara nipote, i quali mi avevano punto più dei carciofi e dei cardi dello zio. Finalmente mi feci coraggio, e gli chiesi:

— Siete qui solo, in campagna?

— Quasi sempre — mi rispose. — La famiglia di mio fratello viene qualche volta a passarvi la sera. Oggi, per esempio, abbiamo fatto qui pranzo. Venite su, alla casetta; vi farò bere un buon bicchiere di malvagia, e coglierò l’occasione per presentarvi alla famiglia di Battista.

[205]

E ci dirigemmo insieme alla casetta di campagna, posta in altura. Il cuore mi batteva forte.

Durante il breve tragitto il prete trovò modo di farmi sorbire una dotta digressione sulla malvagia, che chiamò la regina dei vini sardi, moglie del vino nero di Oliena, e sorella della Vernaccia di Solarussa. Egli così conchiuse:

— La miglior malvasia è fornita da Tresnuraghes — e spetta a Tresnuraghes l’onore di averle dato la culla — come spetta a Bosa la gloria di poter gridare al quattro venti: io sono la patria dei migliori carciofi del mondo!

Sul piazzale della casetta, formanti diversi gruppi, erano una dozzina di donne, fra signore, signorine e persone di servizio. Fra esse notai le due graziose mie compagne di viaggio, colle quali ricambiai un cortese saluto.

La maggiore delle nipoti, al vedermi, sorrise ed arrossì leggermente; e così potei di nuovo ammirare le due fossette ch’erano venute al centro delle sue guancie, e gli otto dentini ch’erano apparsi sulla soglia della sua bocca.

Il mio collega d’ufficio era là, e discorreva tranquillamente con le signore e le ragazze; le quali, come più tardi appresi, appartenevano a tre distinte famiglie. Avrei anch’io desiderato di trattenermi in mezzo all’allegra brigata, ma il mio destino non lo volle.

Infervorato nel discorso dei cardi, ed ossequiente alla mia simulata scienza agraria, il canonico [206] mi presentò alle nipoti ed alle altre signore, declinando il mio nome e la mia qualità; mi fece tranguggiare in fretta e furia quattro bicchierini di malvagia, e poi esclamò rivoltò alla comitiva:

— Non vogliamo interrompere la vostra conversazione; io mi porto via il signor Giulio, un continentale studioso e appassionato di tutte le vegetazioni.

E senza lasciarmi tirar fiato mi prese a braccetto, e mi trascinò nel piccolo viale che conduceva alla cardiera, togliendomi bruscamente a quella conversazione, per ottener la quale avevo sagrificato la libertà, la pace, ed ogni divertimento.

Potete immaginare l’effetto in me prodotto dalle parole del prete; esse mi facevano comparire agli occhi delle signore come un misantropo, uno scortese, uno screanzato. Col sorriso sul labbro e la rabbia net cuore io fui costretto a seguire l’inesorabile canonico, il quale mi tenne un’altra ora in mezzo alla sua cardiera, spiegandomi gli amori, le nozze e la figliuolanza dei carciofi bianchi, rossi e verdi.

Fattogli i complimenti per la passione che nutriva verso i cardi, il canonico mi rispose:

— Come vedete, è tutta qui la mia occupazione, è tutto qui il mio pensiero. Tranne un po’ di messa la mattina, io non vivo che nei carciofi e per i carciofi. Non ho che uno scopo, [207] una sola ambizione: trovare un uomo che dopo la mia morte continui a coltivare con affetto i miei cardi. Ed è perciò che fin d’ora ho destinato questa campagna alla figlia maggiore di mio fratello: — sarà la sua dote. Io le ho detto: « — Bada Rosina, bisogna che tu scelga un marito che continui degnamente l’opera di tuo zio; da te sola dipenderà la mia fortuna; ubbidiscimi se vuoi che le mie ossa riposino in pace sotto la terra che mi ha veduto nascere!»

Rosina! — mi era finalmente noto il nome della mia graziosa viaggiatrice! — mi era nota, anche senza volerlo, la dote che lo zio prete assegnava alla sua nipote. Mi trovavo dunque sulla buona via, nè dovevo indietreggiare.

Null’altro io seppi quella sera. Lasciai la campagna di malumore, poichè non mi era riuscito di parlare con lei: con Rosina. Una sola cosa avevo ottenuto: il permesso di visitare con frequenza la cardiera dello zio canonico.

III.

La mia seconda visita alla cardiera non fu più fortunata della prima. Anche allora dovetti subire le noiose digressioni scientifiche attorno ai cardi ed ai carciofi.

Quella sera la famiglia non era in campagna; motivo per cui mi rassegnai alle prediche apologetiche del tenero zio, il quale mi credeva sul [208] serio un profondo e appassionato botanico. E non basta; feci la personale conoscenza del fratello del canonico — il fortunato padre della Rosina, per la quale avevo esposto il mio corpo e il mio spirito alle acute punture di tutta la cardiera del reverendo.

Il padre di Rosina — che non somigliava punto al Don Bartolo di Rossini — era della stessa pasta del fratello prete: un uomo alla buona, di poche parole, ma di molto cuore.

Non tardai però ad avvedermi che anche lui era affetto dalla malattia di famiglia: la smania morbosa per l’agricoltura e per la botanica. Era una pazzia ereditaria. La differenza non consisteva che nei gusti: il fratello prete portava alle stelle i carciofi — il fratello secolare esaltava i fichi secchi, altra produzione speciale di Bosa.

Informato anche lui della mia profonda dottrina in agricoltura, volle darmi un saggio del suo sapere col descrivermi tutti i pregi, i difetti, le malattie e le cure del fico.

Non voglio ripetere al lettore il mio secondo supplizio, — ero un vero martire. Il babbo di Rosina mi decantò la buona qualità del suo fico comune, chiamato dai botanici ficus carica; mi disse che la confezione dei fichi secchi non è cosa così facile come comunemente si crede; che la raccolta deve farsi in giorni sereni, dopo dissipata la rugiada; che i fichi vogliono essere compressi, esposti al sole sopra graticci, ritirati in [209] casa al tramonto, rivoltati con frequenza, e tramutati in luoghi asciutti ed ariosi. Il buon uomo, infine, mi parlò delle tre specie d’insetti dannosi al fico, conosciuti sotto i nomi di coccinella, chermes, e psyllium.

Faccio grazia a chi legge delle altre spiegazioni datemi, e della nomenclatura del fico, di cui non capivo proprio un fico! Dirò solo che fui esposto ad un secondo esame, che per fortuna ebbe un esito per me soddisfacente; esso si ridusse al seguente interrogatorio:

— Conoscete la famiglia dei fichi? — mi domandò seriamente il fratello del canonico.

— Sì, signore! — risposi senza esitare.

— Tutta? — replicò l’esaminatore.

— Tutta: fino ai fichi d’India, che io credo i parenti più lontani.

— Non vi pare che il fico meriti il primo posto fra gli alberi fruttiferi?

— Certamente.

— E perchè?

— Per i servigi resi ai nostri primi padri nel paradiso terrestre.

— Bravo! Vi faccio i miei complimenti. Debbo confessare che i continentali studiano l’agricoltura con più amore dei sardi. Nostra colpa se siamo miseri!

E qui ebbe termine l’inchiesta.

Dirò per abbreviare, che mi recai per altre due volte alla campagna del canonico, dove ebbi [210] agio di vedere e di salutare la bella Rosina, della quale ero perdutamente innamorato, e per la quale sopportavo con rassegnazione le apologie del ficus carica e della cynara scolymus virdis.

Un bel giorno — era la quinta volta che andavo a visitare la cardiera — mentre passeggiavo col canonico lungo i viali, determinai di aprirgli francamente l’animo mio.

Fermandomi di botto dinanzi al canonico, esclamai risoluto:

— Sentite, amico: io voglio essere con voi sincero, perchè sono un galantuomo. Oramai conoscete chi io mi sia, il mio impiego, la mia fortuna, i miei parenti. Potete rivolgervi al sindaco del mio paese per avere le necessarie informazioni sul mio individuo.

— E che importa tutto questo?

— Importa molto. Io sono pazzamente invaghito di vostra nipote Rosina, la quale mi ha ammaliato fin dal giorno che la ebbi compagna di viaggio nell’omnibus. Ditemi francamente: posso chiederla in sposa al suo babbo? Consigliatemi!

Il canonico, che in quel momento toglieva un bruco da un carciofo romano, si rizzò di scatto e mi fissò sorpreso:

— Parlate sul serio?

— Sul serio!

— Ebbene: vi dirò allora con la stessa franchezza, che anch’io ho vagheggiato questo matrimonio [211] fin da quando appresi la vostra onestà, la vostra coltura botanica, il vostro affetto per i miei carciofi. Ciò mi rende sicuro dell’amore che porterete ai figli vostri. Però...

— Però...?

— Però, io non sono il babbo di Rosina, ed ho bisogno di consultare chi può disporre di lei. Capirete bene che non voglio addossarmi alcuna risponsabilità. Conosco gli amori de’ miei cardi, non quelli di mia nipote. Spetta a mio fratello, e più di lui a Rosina, il darvi una risposta. Non so se il primo sarà contento, e se la seconda abbia il cuore libero. Posso solamente assicurarvi che avrete in me un valido protettore; perorerò la vostra causa, ma senza prendere alcun impegno sulla riuscita dell’affare.

— Mi rimetto interamente alla vostra amicizia.

— Mio fratello è assente. Trovasi da tre giorni in Sindia per contrattarvi una partita di fichi secchi. Appena sarà di ritorno, farò l’ambasciata in vostro favore.

Così dicendo il canonico si chinò di nuovo sui cardi, come se volesse dar loro l’annunzio di un fausto avvenimento.

IV.

All’indomani mi recai alla campagna del canonico col fermo proposito di parlare con Rosina, o di consegnarle un mio biglietto nel caso che [212] non mi fosse riuscito di abboccarmi con lei. Volevo approfittare dell’assenza del babbo, che trovavasi impegnato a Sindia co’ suoi fichi secchi.

Eccovi il contenuto del biglietto da me preparato:

«È ormai inutile celarlo. Dacchè vi ho veduta nell’omnibus mi sono innamorato di voi. Vi amo con tutta l’anima, alla follia; non vivo che per voi, e per voi solamente io frequento la campagna di vostro zio, dolente di non aver potuto rivolgervi una parola. Non so spiegarmi la freddezza e la ritrosia che mi dimostrate. Rispondetemi con due sole righe; altrimenti sarò capace di commettere qualche eccesso, di cui vi renderò risponsabile.»

Approfittando del momento in cui Rosina erasi allontanata dalle sorelle per cogliere alcuni fiorellini nel viale, io le tenni dietro.

Nel vedermi ella tentò di scappare, ma io le dissi piano, con voce concitata:

— Non mi fuggite, perchè vi amo. Leggete questo foglio, e rispondetemi oggi stesso... fra un’ora!

Rosina divenne pallida, poi rossa; mi guardò, balbettò alcune parole, ma mi stese la mano per prendere il foglio che le porgevo.

Allora io — temendo di venir sorpreso — gettai a’ suoi piedi la mia letterina, e mi allontanai prestamente, dopo averle detto:

— Il mio destino è nelle vostre mani!

[213]

Quando verso sera io presi commiato dalla famiglia, che trovavasi raccolta nel piazzale della casetta, Rosina trovò il modo di consegnarmi un bigliettino. La povera ragazza tremava come foglia, e rientrò subito in casa.

Nell’accompagnarmi fino al fiume lo zio prete mi susurrò all’orecchio:

— Mio fratello è arrivato. Domani sera vi aspetto in casa mia per darvi una risposta.

Appena la barca si scostò dalla sponda, gettai un’occhiata al bigliettino che tenevo chiuso nel pugno. Eccone il contenuto:

« — Io non posso amarvi. Voi dovete allontanarvi dalla nostra campagna e da Bosa, se è vero che siete un galantuomo. La vostra insistenza mi renderebbe infelice. Il mio cuore è d’altri. Dimenticate di avermi conosciuta!»

Queste poche righe mi serrarono il cuore. Credetti tutto comprendere, e mi diedi ragione delle parole misteriose del canonico: non so se abbia il cuore libero.

Io dunque avevo un rivale. Ma chi era costui? Maledissi i carciofi dello zio, che forse avevano contribuito alla mia rovina.

Passai una notte agitatissima. La mattina susseguente, verso le nove, mi incamminai alla casa del canonico, col fermo proposito di ritirare la mia domanda Per fatalità, vi trovai il padre di Rosina, il quale abitava nel piano superiore insieme alla famiglia.

[214]

Mi sentii impacciato, confuso. Il canonico, anch’esso, pareva sulle spine. Mi guardava fisso, come per dirmi che avevo anticipato l’ora dell’appuntamento.

Ero sul punto di aprir bocca, quando il canonico mi fe’ cenno di sedere e di non parlare.

— Battista — diss’egli rivolto al fratello — postocchè ci troviamo tutti e tre qui riuniti, mettiamo a parte i preamboli e le cerimonie. Il signore è venuto per aver la risposta sull’affare che or ora ti comunicai. Rispondigli tu stesso direttamente... Siamo fra gentiluomini!

— Signor Giulio — disse il papà della ragazza a me rivolto — noi ci sentiamo orgogliosi di accettarvi a far parte della famiglia. Bisognerà, però, che abbiate pazienza per qualche anno — la Rosina è troppo giovane, e...

— Scusi — interruppi — io veniva invece per...

— D’altronde — continuò il babbo, senza darmi ascolto — permettete ch’io vi dica che la vostra domanda fu alquanto inconsiderata... Non parlaste mai a Rosina... e Rosina è così timida che...

— Le parlai, — dissi, interrompendolo di nuovo — le parlai, ma mi accorsi che cercava di sfuggirmi.

— Vi sfuggiva per timidezza.

— Ma se...

— Perchè non le parlaste addirittura del vostro amore?

[215]

— Glie ne parlai, e glie lo scrissi.

— Voi?! ciò non è possibile! — replicò il buon uomo — Rosina me lo avrebbe confessato...

— Non ve lo ha confessato perchè ama un altro.

— Un altro?!

— Ella mi disse che...

Il brusco movimento del babbo mi fece subito accorto della mia imprudenza. Volli rimediarvi, ma era tardi.

— Scusate, signore — esclamò il papà alzandosi — ho bisogno di chiedere alcune spiegazioni in proposito... Certe cose non si debbono tollerare dalle figliuole. Bisogna ripararvi in tempo.

E s’incamminò verso l’uscio.

— Ascoltatemi prima — gridai.

— Scusate, ma io non lo posso. Non è per voi... non è per lei, non è per lui: è per me che io parlo. Torno qui subito: con permesso!

E Battista uscì dalla camera.

Rimasti soli, io e il canonico ci guardammo in silenzio, quasi chiedendoci spiegazione sulla condotta di quell’uomo che ci piantava bruscamente.

Fui il primo ad aprir bocca, e dissi risoluto:

— Sentite, reverendo: a voi posso tutto svelare. Sappiate che vostra nipote è innamorata d’altri, e che la mia presenza in Bosa la rende infelice. Cercate voi dunque, come zio e come [216] prete, di sorvegliare quella ragazza; non è giusto che si faccia violenza al suo cuore!

— Che mi andate dicendo?

— La verità.

— Chi vi ha detto simili fandonie?

— Ella stessa: Rosina.

— Le parlaste?

— Le parlai e le scrissi.

— Ed ella...?

— Mi ha gentilmente risposto con lettera.

— Rosina?!

— Proprio Rosina!

— E sembrava così ingenua!... Ah, donna fraschetta! — esclamò lo zio canonico, non potendo più oltre celare il dispetto e la collera. Ed io allora continuai:

— A voi che mi siete amico non posso nè voglio celar nulla. Ecco il suo foglio: leggete. Vostra nipote è innamorata d’altri, e mi raccomanda di allontanarmi da Bosa se desidero la sua pace.

— Non capisco più niente! — disse il canonico dondolando la testa; e aprendo lentamente il biglietto vi gettò un’occhiata.

Ad un tratto egli balzò in piedi, pallido, atterrito, come se quel foglio contenesse una vipera.

— Che fu? — gridai spaventato.

— La scrittura di mia cognata!! — gridò il canonico spalancando gli occhi.

— Chi?

[217]

— La moglie di mio fratello, che è pur mia nipote!

— Voi scherzate.

— Non scherzo — gridò il buon prete rimettendosi a sedere; e poi continuò squadrandomi con disprezzo:

— Voi avete approfittato della mia amicizia e de’ miei carciofi per sedurre mia cognata; e mi avete cacciato in un orribile ginepraio, chiamandomi complice nella vostra tresca infame!

— Voi mi offendete. La vostra collera, in questo momento, non vi fa riflettere sull’accaduto. Diamine! se avessi avuto intenzioni disoneste non sarei qui venuto a chiedervi la mano di Rosina!

— Rosina, era un pretesto; ma intanto voi tenevate corrispondenza con Carmela!

— Carmela?

— Già: Carmela, che da un anno è moglie di mio fratello Battista: vedovo, con tre figlie di primo letto.

— Diavolo! ed io ch’ero sul punto di rivolgermi direttamente a lui per implorare che me la concedesse!

— Concedervi sua moglie?! L’avreste fatta bella!

— Ma... chi è dunque Rosina?

— Rosina è mia nipote: la ragazza quindicenne che sedeva alla vostra sinistra in omnibus — la primogenita delle tre figlie di mio fratello; [218] il quale avrebbe fatto assai meglio a starsene vedovo in compagnia de’ suoi fichi secchi! — A cinquant’anni ha voluto sposare una nostra nipote, che non ha ancora raggiunto i diciotto. Delirio senile!

Così dicendo il canonico si diede un pugno sulla fronte.

— Ma, come fare adesso? Dio sa che pasticcio avrà fatto Battista in casa, e come avrà complicato le cose!

A questo punto si udì rumor di passi nella scala.

— Tacete! — disse il canonico — e lasciate fare a me; altrimenti l’affare potrebbe prendere una brutta piega, ed io farei una più brutta figura in faccia a mio fratello ed a mia cognata!

Il signor Battista comparve sulla soglia della porta d’entrata. La sua fisonomia mi sembrò abbastanza serena. Credetti, anzi, che fingesse.

Lo confesso: io non mi sentiva tranquillo, quantunque la mia coscienza nulla avesse a rimproverarmi. Mi ero prestato a fare l’attore brillante in una farsa di cattivo genere, e dovevo recitare la mia parte con simulata disinvoltura. Tutte le apparenze congiuravano a mio danno. Avevo corteggiato una moglie credendola fanciulla; ero stato un seduttore senza saperlo, ed un vigliacco senza volerlo; avevo tradito l’ospitalità, pur coll’animo di ricompensarla per mezzo di un matrimonio. Con tutt’altri avrei potuto mettere l’equivoco in chiaro, ma andate a parlare di [219] equivoci ad un marito di cinquant’anni che ha una moglie di diciotto!

Il canonico fu il primo che prese la parola. Il buon prete si rivolse al fratello, dicendogli solennemente:

— Battista, ormai so tutto. Non fu che un semplice equivoco, ed io ti spiegherò l’intreccio.

— Ma che equivoco! che intreccio! — esclamò Battista ironicamente — Che cosa potresti dirmi?

— Ecco... sappi che il signor Giulio ha preso un qui pro quo. Non è vero, signor Giulio, che voi non avete mai scritto a Rosina?

— Mai! — risposi balbettando.

Battista ci guardò un istante, e poi diede in uno scroscio di risa.

— Che cosa mi andate pasticciando, adesso? Non le ha scritto? Ma se la lettera è nelle mie mani?... Eccola qua!

E così dicendo mi porse il biglietto.

Il canonico era come fulminato. Io volli essere sincero, e gli dissi:

— Signor Battista; confesso l’errore; trattasi di una simpatia, scusabile perchè destata da intenzioni oneste. Ella è innocente; mi ha risposto in un momento d’inconsideratezza. Fui io che la costrinsi ad accettare...

— Siete in errore! — soggiunse il papà gravemente — Ella non ha nulla accettato, non ha nulla ricevuto, non ha nulla risposto. La colpevole è soltanto mia moglie!

[220]

— Per pietà, perdonatela. Vi giuro che...

— Ma che giuramenti! che perdono! Mia moglie ha fatto benissimo, e peggio per me che non sono buono che a sorvegliare il ficus carica!

Io ed il canonico guardammo il pacifico genitore, senza capirne una maledetta. Il suo buonumore ci faceva cader dalle nuvole.

— Ma... che avvenne? — fece il canonico rivolto al fratello, temendo di arruffare i fili della matassa.

— Che avvenne? — ripetei macchinalmente. E Battista si rivolse a me:

— Avvenne semplicemente che la vostra lettera diretta a Rosina venne intercettata da mia moglie; e mia moglie me l’ha consegnata per restituirvela. Mi ha pur dato l’incarico di dirvi, che avreste fatto assai meglio a rivolgervi direttamente alla madre, anzichè ad una ingenua figliuola che ancora non conosce il mondo; perocchè, se i mariti sono gli ultimi ad accorgersi delle faccende di casa, è pur vero che le mogli, le madri e le matrigne hanno gli occhi aperti e vegliano sempre!

Il canonico ritirò la lettera dalle mani del fratello, e me la consegnò con un’occhiata che voleva dire: — ringraziate la provvidenza, e regolatevi per l’avvenire!

— Ed ora — continuò il papà, cambiando tono — esaurito l’incidente, ho il piacere di annunziarvi che accetto ben volentieri la vostra [221] domanda di matrimonio, e vi accordo la mano di mia figlia Rosina.

Un fulmine caduto a’ miei piedi mi avrebbe meno impressionato. Non ebbi neppur la forza di rispondere, e con un’occhiata supplichevole invitai il canonico a togliermi d’imbarazzo.

Il povero prete capì la buona fede del fratello, la mia critica posizione, e la sua grave risponsabilità in affare sì delicato; e dopo avermi lanciato uno sguardo feroce, disse solennemente a me rivolto:

— Ed io, a nome della famiglia, vi rifiuto per ora la mano di Rosina. Mia nipote è troppo giovane: non ha ancora compiuto i quindici anni.

— Ma... — fece sorpreso Battista.

— Fratello — continuò il prete — abbi giudizio e pazienza. Ho promesso in dote la mia cardiera a tua figlia, purchè sposi un marito di mio piacimento... e un po’ di riguardo mi si deve usare. Ne riparleremo fra un anno, se il signor Giulio farà da bravo, mantenendosi fedele nei suoi affetti; per ora non deve pensare che agli studi delle tasse dirette ed indirette, che potranno avvantaggiarlo nella carriera da lui prescelta.

Che avreste fatto voi? Io mi rassegnai al mio destino; e quando dopo sette giorni mi disposi a lasciar Bosa, non mancai di recarmi a salutare il buon canonico; il quale mi offrì una presa di tabacco, dicendomi:

[222]

— Signor Giulio; pensate a’ casi vostri e mettete giudizio. Fra un anno spero di rivedervi per farvi ammirare una nuova qualità di carciofi, che io penso di presentare alla prossima Esposizione di Torino. Li ho ricevuti stamane da un mio amico, e appartengono al genere comune: cynara scolymus virdis.

— Vi ringrazio della buona intenzione — risposi — ma prevedo fin d’ora che preferirò sempre i così detti carciofi romani.

— E per qual ragione?

— Perchè non hanno spine.

— Siete in errore. I carciofi romani non sono buoni che per friggere.

— Tanto meglio: faranno proprio al caso mio!

Lasciai il canonico con una stretta di mano, lusingandomi che in migliore occasione avrebbe perorato la mia causa.

***

Trascorse intanto quell’anno, e venne il maggio del 1884. Ero sul punto di recarmi di nuovo a Bosa per iniziare le pratiche de’ miei sponsali con Rosina, quando ricevetti per la posta un elegante cartoncino Bristol, contenente sette righe di nitida scrittura inglese, litografata.

Era la partecipazione di matrimonio della Signorina Rosina A. col signor Roberto B. dottore in agronomia, ex professore della scuola agraria [223] di Portici, già coadiutore nello stabilimento Cirio per la confezione dei carciofi sott’olio, e finalmente incaricato dell’insegnamento della lingua latina nel Ginnasio di Bosa. Lo zio canonico non poteva desiderare di più!

Chinai la fronte mortificato, e dissi fra me stesso:

— Me la son meritata! La città di Bosa mi rammenterà sempre un disgraziato amore, nato, cresciuto, e morto fra i cardi ed i carciofi. E se di carciofi e di cardi il canonico non mi avesse parlato, certamente l’equivoco non sarebbe avvenuto, e mi sarei allontanato con prudenza da Carmela per sposare Rosina. Ma che fare? pazienza! Ricorderò in ogni tempo che le belle rose, come i buoni cardi, hanno sempre le spine!

FINE


INDICE

Al lettore Pag. 7
I. Zia e cugina 11
II. Cugina e zia 19
III. Dalla stazione di Sassari a quella di Tissi-Usini 25
IV. I compagni di viaggio 29
V. Da Tissi-Usini a Ploaghe 35
VI. Alla stazione di Ploaghe 44
VII. Da Ploaghe ad Ardara 52
VIII. Da Ardara a Chilivani 60
IX. A Chilivani 65
X. Da Chilivani a Mores 69
XI. Da Mores a Torralba 73
XII. Da Torralba a Bonorva 80
XIII. Le tre gallerie di Bonorva 87
XIV. Da Bonorva a Macomer 92
XV. Da Macomer a Bauladu 97
XVI. Si dileguano le nubi 102
XVII. Da Bauladu ad Oristano 106
XVIII. Da Oristano a Uras 112
XIX. Da Uras a Pabilonis 122
XX. Un incidente 125
XXI. Da Pabilonis a San Gavino 130
XXII. Da San Gavino a Sanluri 134
XXIII. Da Sanluri a Villasor 139
XXIV. Da Villasor a Decimo 143
XXV. A Decimomannu 150
XXVI. Da Decimo a Cagliari 156
XXVII. A Cagliari 165
XXVIII. Le due fidanzate 170
XXIX. Gli Sponsali 175
XXX. Da Cagliari a Sassari 181
Da Macomer a Bosa 187

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.