Title: Uno dei Mille della spedizione garibaldina nel Mezzodì d'Italia
romanzo storico
Author: Vittore Ottolini
Release date: March 19, 2025 [eBook #75660]
Language: Italian
Original publication: Milano: Sanvito, 1861
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)
UNO DEI MILLE
DELLA
SPEDIZIONE GARIBALDINA
NEL MEZZODÌ D’ITALIA
ROMANZO STORICO
DI
VITTORE OTTOLINI
MILANO
PER FRANCESCO SANVITO
1861
Proprietà dell’Editore. — Tip. Guglielmini.
[5]
Maginaçao os olhos me adormece
Camoens, Sonetto LXXII.
Sull’insegna d’un’osteria posta all’estremità dell’unica strada che taglia in due il paesello d’Albese, c’è dipinto a mezza figura un san Carlo, tanto brutto che le contadine, pel bene della razza, passano di là senza guardarlo; un san Carlo vestito di rosso, colle mani giunte, in atto di chi prega..... i passeggieri ad entrare, come soleva dire l’oste profano.
Roberto però non aveva bisogno delle esortazioni del Borromeo: bastavano quelle del suo stomaco. Entrò dunque nez-au-vent, odorando gli effluvj che sfuggivano da un tegame, sola vivanda che riscalducciasse sul fornello. Liberò le spalle della valigia, e la buttò sulla tavola unitamente ad una scatola, nella quale erano rinchiusi i ferri del mestiere, cioè i colori, la tavolozza, i cartoncini e i pennelli.
[6]
L’oste accorse veloce — come un ragno al dibattersi d’un moscherino impigliato nella tela traditrice, — salutando il giovane col solito:
— Ben arrivato il signore!
— Addio! gli rispose Roberto, gettando via il suo cappello a larghe tese, e cacciando le dita nella capigliatura, che nerissima e folta gli scendeva oltre le orecchie. Senti il mio caro oste... ho fame ho sete.....
— Benissimo! allora le darò....
— Quello che vuoi.... Fa tu.... ma spicciati, se no mi vien male...
— La servo subito! rispose l’oste, e mandando un suo garzoncello pel vino, s’appressò al tegame, e scoperchiatolo esclamò: Che roba! voglio mo trattarla da par suo....
— Dio te ne renda merito, il mio oste! Vengo da Como; la è una bella tirata... Ma che strada amena! che vista! che aria pura!.... proseguiva a dire Roberto stracciando co’ denti un pane molliccio. Ma le sue esclamazioni cessarono d’un tratto allorchè l’oste gli ebbe posto dinanzi il piatto.
«Spento del cibo il natural desio,» il nostro pittore, acceso un sigaro, uscì all’aperto in un giardino, dall’alto del quale godevasi la vista di tutto il piano d’Erba, ingemmato dai laghetti d’Alserio, di Pusiano e d’Annone, e dal Lambro tortuoso e scintillante come un nastro d’argento; una delle più belle viste del mondo!
L’incomparabile panorama è incorniciato a sinistra, verso oriente, dal monte Barro, solitario, alto, scosceso, su cui, secondo il Corio, si ridusse Desiderio re de’ Longobardi sconfitto dalle armi pontificie [7] (in que’ tempi i soldati del papa sconfiggevano), fondandovi una ricca e forte città, come lo provano anche il Ripamonti e l’Allegranza, e meglio ancora e i ruderi improntati dallo scalpello lombardo, e varie lapidi e le antiche chiese de’ paeselli circostanti, che voglionsi erette da re Desiderio. Oltre il monte Barro, sorge Monterobbio, celebre perchè nido un tempo degli Orobj, e più ancora pel nettare celestiale che cola da’ suoi tralci. Di là si spiegano le verdi ed ineguali colline che inghirlandano il piano dell’antico Licinoforo (di cui scrissero Catone e l’inevitabile Plinio); ora rappresentato dall’umile Incino. Sulle colline sorgono centinaje di villaggi, ridenti tutti, tra i quali Alzate, Alzano, Buccinigo, Carcano, Orsenigo, Capiago; centinaja di ville arieggianti lo stile gotico, prediletto dalle piante rampicanti; di cascine porticate; di chiosche legate tra loro da festoni di viti. Più basso scorgi Parravicino colla sua torre pendente e più in là Monteacuto ove sorge il castello di Gian Giacomo Medici (Medeghino), il braccio destro di Francesco Sforza; e via via, l’occhio scorre il mirabile semicircolo, di colle in colle, di villaggio in villaggio e per ultimo s’arresta verso occidente sul solingo Montorfano.
Dall’alto di un firmamento di lapislazzuli, l’astro monarca spande la sua benedizione di luce su questa più ridente e popolosa parte di Lombardia.
Roberto gioiva con tutta l’anima di quello spettacolo. Beveva a larghi sorsi quell’aria pura, ossigenata, rispondeva al materno sorriso della natura con un sorriso di gratitudine; spaziava per l’immensa curva del cielo, lanciandosi col pensiero oltre quello; poi ridiscendeva alla terra, seguendo collo [8] sguardo il volo dell’allodola, che parea spiccarsi dalle nuvolette, erranti pel firmamento come candide vele; rivedeva le colline, i laghetti scintillanti, i paeselli, i boschetti. Allora la commozione gli traboccava dal cuore; allora rompeva il silenzio, e, come tutte le persone sincere e di buon cuore, sfogavasi colle esclamazioni, coi monologhi.
— Finalmente, diceva allargando le braccia come chi si trova di rimpetto ad un amico; finalmente ho anch’io diritto a qualche cosa al mondo... non foss’altro, all’aria, al sole!... Questo paradiso, m’è almen concesso di contemplarlo a mio bell’agio.... Oh! come questo verde mi compensa dell’eterno ed uggioso aspetto dei tetti e dei campanili di Milano... la sola vista che mi è permessa dalla finestra della mia stanza a quinto piano!... Come mi batte il cuore!... come mi sento snello, vivace, vigoroso... e buono per giunta!... sì buono! To’! se mi capitasse dinanzi un poverello (e girava lo sguardo), non lo rimanderei a mani vuote... Ah! la campagna è un secondo battesimo... fa bene al corpo... fa bene all’anima... Se fosse qui la mia Dalia! M’avesse dato ascolto... Ma no; lei l’ha coll’economia!... Se la fosse qui dico! Povera creatura!... Inchiodata tutto il dì al tavolino... Agucchiare, agucchiare... e poi?... Miseria, sempre miseria!... Viver di pane e latte, per avanzarsi tanto da vestir pulitina... Come la sarebbe contenta quella povera ragazza se adesso la fosse con me!... Matta com’è pei fiori (già la è nata in mezzo ai fiori... di seta), correrebbe a coglierli qua e là pel giardinetto; svolazzerebbe come una farfalla, altro fiore dell’aria.... Le fiorirebbe un po’ del color della salute su quel suo visino smorto smorto, tanto che par di [9] cera... Ma poverina!... Come si fa ad aver le rose in volto quando s’è costretti a vivere in una bottega, in fondo ad un cortile stretto stretto, incassato da quattro piani... Maledetti que’ cortili! par d’essere in un pozzo!... par d’essere in fondo d’una canna da schioppo!... Oh, il bel cielo d’Italia! esclamava di poi sorridendo ai baci della brezzolina d’aprile — Bello e libero!... Viva Italia!...» e batteva le palme l’una contro l’altra, sorridendo sempre, mentre negli occhi gli spuntavano lagrime di gioja.
Alle forti commozioni dei sensi succede di solito una calma ristoratrice. Le molecole costituenti l’organismo umano, sospinte e attratte violentemente, cessato lo stato d’orgasmo, si riordinano come prima e si acchetano. Questo tramestio è delicatamente voluttuoso per chi sa cogliere e godere anche le minime sensazioni gradevoli, le quali, al pari del sorriso, sono altrettanti fili aggiunti alla gran trama della vita.
Roberto, sfumato quel primo entusiasmo destatogli nell’animo dalla pomposa bellezza della natura, sedette sotto un secolare castagno, sulla cui ruvida scorza leggonsi tuttora varie iniziali, incise forse (chi sa da quanto tempo!) da qualche coppia d’amanti. Il castagno è ancor vivo, e vegeta rigoglioso, mentre quei Medori innamorati e le loro fedeli Angeliche sono polvere.
A poco a poco Roberto s’ingolfò ne’suoi pensieri. Avezzo alla vita contemplativa, dono che la Provvidenza, in mancanza d’altro più sostanzioso, largisce alla classe più intelligente e colta de’ poverelli, egli richiamò intorno a sè tutti i sogni di vita campestre, coi quali era solito a Milano di passare lunghe ore [10] vegliando sdrajato sul lettuccio nella sua cameretta a quinto piano.
Ma a Milano Roberto era sempre costretto a staccarsi bruscamente da’ suoi sogni prediletti, fugati dalla squallida realtà che d’improvviso dalla sottoposta tettoja gli si affacciava alla finestra. Ora, richiamati a sè que’ sogni, cercò coll’occhio fra le tante colline che gli stavano dinanzi, ove posarli e stabilirsi seco loro.
Un casolare contadinesco, ombreggiato in parte da due altissimi pioppi e da una minor famiglia d’alberi e macchioni, ed eretto su di un declivio che finisce nel laghetto d’Alserio, fermò l’attenzione di Roberto, il quale, dopo che l’ebbe esaminato per bene, lo trascelse, impadronendosene addirittura, ahi! coll’immaginazione.
Cominciò immediatamente ad esercitare i suoi diritti di proprietà coll’aggiungere al rusticale abituro, un’ala di fabbricato, erigendovi sei camere, tre al pian terreno e altre tre sopra queste, schierandole a preciso mezzodì. Aprì sei finestre, che munì tosto di griglie verdi (Roberto non poteva persuadersi che si potesse tener griglie d’altro colore); e ammantò tutto il fabbricato di viti selvatiche, di quelle cui l’autunno tinge le foglie in rosso. Poi d’un colpo recise due enormi robinie che intercettavano la vista; indi disegnò il giardino, che vide di subito verdeggiare smaltato dei più bei fiori; le dalie poi v’erano a centinaja. Scelse più in giù un pezzo di terra, e sbarbicato spietatamente tutto il grano turco che c’era, ne fece un’ortaglia, la quale tosto popolossi di peschi, di pruni, di albicocchi, di peri, di pomi, ecc. ecc. Fissò un altro brano di terreno per coltivarvi [11] gli aspàragi de’ quali era ghiottissimo; indi seminò qui erbaggi, là piantò agrumi, che tosto attecchirono meravigliosamente e crebbero lussureggianti a perfetta maturanza.
Roberto, disposto il giardino e l’orto, entrò nella sua nuova dimora. Scelse una camera, la più gaja, per lavorarvi; la mobiliò, la adornò a modo suo, appendendo alle pareti armature, quadri, pipe ed un coccodrillo imbalsamato. Dopo allestì la sala da pranzo; poi la cucina, nella quale aprì un ampio camino, ai cui lati, sotto una vastissima cappa, pose due comode panche.
— Qui sotto, diceva fra sè Roberto, passerò le ultime sere d’autunno, sedendo coi fidi amici intorno al fuoco. Chiacchierando e fumando arrostiremo marroni, che inaffieremo col vin bianco fatto da me... Diavolo! e la cantina? Eccola bell’e in ordine... A proposito! (continuava) sarà bene ch’io mi pigli anche quella collinetta là; vo’ coltivarla a vigneti.... Benissimo!... Ma non parlatemi di comprar altri terreni! Io non voglio impicci... Poi non avrei cuore di veder soffrire i contadini... finirei col farli star meglio di me... e allora mi rovinerei in poco tempo. No, no!.... mi basta il giardino, l’orto e quella collinetta là.... Ecco! è il tempo della vendemmia. Io sono là vestito così alla buona, con un gran cappellaccio di paglia in testa. Mentre sono in faccende intorno alle tinozze, arriva un legno... Oh gioja! sono gli amici!... c’è anche Dalia con loro... No, piano! Dalia è meglio che venga da sè.... anzi sarà già con me.... Gli amici, vedendomi con quell’ombrello in capo, colle vesti e la faccia dipinte di mosto, ridono...; io li abbraccio. Essi gridano, strepitano, [12] hanno fame, hanno sete. Presto, Dalia! presto, Caterina (Caterina sarà una buona massaja, incaricata de’ servizi grossolani e dell’educazione dei pollastri), torcete il collo ad una dozzina dei vostri bipedi allievi... Presto, presto!... Ecco si dà in tavola; si mangia, si beve allegramente, poi si va a dormire. Alla mattina, gita sul laghetto. Ora che ci penso! bisogna aprire un viale fino al lago... Eccolo fatto!... un bel viale incassato fra due siepi di gelsomini... Ora in barca... Ma gli amici preferiscono di andarsene a caccia; io mo resto, chè preferisco la pesca. Dicono che la lenza sia un ordigno, ad una estremità del quale è attaccato un pesce e all’altra un imbecille... Ebbene! io amo la pesca colla lenza, e non sono un imbecille!... Il divertimento del pescare sta negli accessorj... Io sono artista, e me la godo collo star seduto in riva al lago, sotto gli alberi, soletto ben inteso, chè solo non mi annojo mai... Ecco il mio divertimento! Se piglio un pesciolino, è un di più... Avrò poi con me un magnifico cane di Terranova, che non mi abbandonerà mai...»
Un malaugurato lenzuolo, che una contadina distese ad asciugare su d’una funicella tirata fra due pali proprio dinanzi a Roberto, togliendogli repentinamente la vista della sua nuova villeggiatura, lo scosse da quella dolce contemplazione, e fugò brutalmente i suoi sogni, che sparvero come uno stormo di passeri allo scoppio d’una schioppettata. Roberto si guardò intorno, riconobbe l’osteria; si rammentò dov’era. Accortosi poi che il sole era già alto, aggiustò i suoi conti coll’oste, e riprese il suo cammino verso Asso, ove doveva fermarsi un pajo di giorni presso un suo compagno. Quando fu all’aperto, trasse il borsellino, e vuotatolo su d’una palma, noverò i denari.
[13]
— Diavolo! sclamò fermandosi, si sono squagliati come la neve al sole. Mille franchi in quindici dì!... Ma già se non ci sono, è segno che li ho spesi... Tanto meglio!... Lavorerò e ne guadagnerò degli altri... Se in quest’anno ho venduto due quadri, nel venturo ne venderò quattro. Intanto non mi restano che poche lire pel ritorno... Ma! il conto è subito fatto... Cinquecento lire gettate via a pagare i debiti... poi il cappellino, lo sciallo e il vestito a Dalia... Essa non voleva accettarli ad ogni costo, ma quando li ebbe, com’era contenta!... Povera creatura!... E i colori che ho comperato, li conti per niente? e i pennelli, le tele, ecc. ecc. Poi, diciamolo qui fra me e te, Roberto, sono otto giorni che te ne vai gironzando e spendendo allegramente, invece di studiare dal vero come avevi fissato di fare.... Ebbe ragione Dalia di voler scommettere che non avrei nemmeno toccato un pennello... Che importa! se non ho lavorato, lavorerò... Evviva noi!» e canterellando continuò a camminare di buon passo.
[14]
Pappate, pappate... si scanna per voi...
Giusti.
Milano, il 18 febbrajo 1812, popolata com’era da tanta uffizialità, gavazzò più mattamente del solito. Appunto in quel dì tutte le trattorie e le bettole suburbane erano gremite di gaudenti. Numerose succedevansi le mascherate folleggianti; la plebe s’urtacchiava per le strade avvinazzata; chè allora il vino costava poco più della fatica di berlo; tutti poi mostravansi esaltati dalla speranza di una libertà promessa e non mai data.
Da porta Nuova moveva lunga una fila di carrozze signorili verso la Cascina de’ Pomi, in allora ritrovo del bel mondo. In una di queste sedeva una brigatella di uffiziali e di donne, le quali all’abito ed ai modi, parevano appartenere ad una classe sociale un pochino equivoca. In compenso erano belline, gaje oltremisura, e dispostissime a pigliar congedo filosoficamente, cioè [15] col bicchiere in mano, da’ loro amorosi, chiamati a partire il dì dopo per una misteriosa spedizione dalla dispotica voce di Napoleone I.
Capo della brigatella appariva un capitano dei Veliti; a lui specialmente erano rivolte le occhiate più provocanti, a lui i sorrisi più graziosi delle dame. Infatti il capitano Bernardo **** era l’anfitrione della festa, cioè quello che ne pagava le spese. La notte prima egli aveva vinto alla roletta una buona manata di zecchini. Era dunque giusto che ne spendesse almeno due terzi cogli amici e col gentil sesso, il quale, generalmente parlando, quanto si mostra restìo nel dividere co’ maschi le pene della vita, altrettanto è pronto nel reclamare la sua porzione di piaceri. Così dicono la pensassero le donne nel 1812.... ma adesso gli è un altro pajo di maniche.
Reduci dalla Cascina de’ Pomi, il capitano Bernardo e la compagnia, smontarono ad una osteria, la quale sussiste tuttora fuori di porta Garibaldi. Ufficiali e signorine salirono ad una sala al primo piano; Bernardo si fermò coll’oste ad ordinare il pranzo.
Approfitteremo di questo momento solenne, per dare a’ nostri lettori uno schizzo biografico del capitano.
Bernardo **** era nato all’ombra del nostro Duomo (e precisamente in una casipola situata fra le ortaglie, e confinante al nord colla chiesa di San Celso e al sud col bastione), l’anno 1782, da poveri ma onesti genitori. A vent’anni, nei bei tempi della repubblica Cisalpina, stufo di esercitare la paterna professione di giardiniere, gettata la zappa pel fucile, si era fatto soldato. Nella primavera del 1806 aveva seguito re Giuseppe nella spedizione del regno di [16] Napoli. Tornò glorioso coi galloni di sergente, ed una costola sfondata, la quale ad ogni capriccio atmosferico gli ricordava con gioja di Michele Pezza detto fra Diavolo, e de’ suoi seguaci.
Nel 1808 passò in Ispagna; perdette due dita della mancina all’assalto di Hostalvico, e n’ebbe in compenso dal generale Pino le spalline. Prese parte a tutta quella memorabile campagna, nella quale gli Italiani sprecarono tanto sangue; e promosso a capitano, ritornò in patria insieme agli avanzi dell’armata italiana del general Lechi. Erano entrati in Ispagna in numero di oltre trentamila, e ripatriavano in meno di novemila.
Arrivato a Milano, chiese conto della sua famiglia, ma non rinvenne che una sorella, Dorotea, minore di lui d’un dieci anni. I genitori dormivano da un pezzo nel Gentilino. Quanto a Dorotea, chiestone informazione, n’ebbe in risposta ch’era meglio perderla che trovarla. Bernardo si fece rosso in viso, scaraventò una bestemmia in francese, e non cercò più in là.
Ora torniamo al 18 febbrajo 1812, e alla nostra brigata, la quale desinò allegramente tra brindisi innumerevoli. Basti dire, che il capitano Bernardo, da quel buon Italiano che era, volle riparare in quel dì all’ingiustizia degli sciupacalamaj francesi verso i prodi nostri compaesani che tanto si distinsero nelle guerre di Spagna, con altrettanti brindisi in loro onore. Così vennero salutati Lahoz, Fantuzzi, Pino, Teullié, Balabio, Fontanella, Rossignoli, Porro, Pittoni, Palombini, Fontana, Mazzucchelli, Giflenga, Del Fante, Alari, Corner, Battaglia, Banco, Crovi, Geraldi, Pignatelli, Borelli, Rossetti, Giuliano, Rossi, Vacani, [17] Bertoletti, Severoli, Bianchetti, Santandrea, Ceroni, Coleoni, Peyri, Conca, ecc., ecc.
Il capitano Bernardo, accorgendosi che i suoi camerati andavano frugando nella mente in cerca di altri nomi per festeggiarli con nuovi brindisi, stimò prudente di scendere a pagar lo scotto, intanto che ci si vedeva, prima che l’oste, approfittandosi della nebbia che offuscava i commensali, avesse a scrivere i 6 colla coda ingiù, come diciamo noi Milanesi. Pagato, stava per risalire alla brigata, quand’ecco giungere a spron battuto un ussero, latore di un viglietto.
Bernardo legge il biglietto, ed esclama:
— Diavolo!... mi chiamano alla caserma... Vado a salutare gli amici... Ehi! oste!... fa portare una mezzetta di vino a quell’ussero...» Così dicendo salì le scale, ed entrò dagli amici.
Mi allontanerei di troppo dall’argomento se narrassi ora della famosa spedizione di Russia, descrivendo gli strazj che spensero tante migliaja di vite nella ritirata dopo l’incendio di Mosca[1]. I pochi scampati dal gelo, dal fuoco, dalla fame, dalle ance dei Cosacchi[2], si fecero quasi tutti ammazzare [18] di poi nelle battaglie di Lutzen, di Wurtchen, di Bautzen, nelle quali la vittoria parve perfidamente sorridere all’incorreggibile divoratore d’uomini, per poi stramazzarlo a Lipsia e a Waterloo.
Nel 1815 l’Austria, vista spazzata la strada, spedì Bellegarde a riprendere la Lombardia e la Venezia. Bellegarde entrò pacificamente tra le scappellate dei nostri babbi. L’esercito italiano, com’era naturale, venne sciolto. «Molti uffiziali cercarono fortuna altrove, come Ventura che andò a sistemare gli eserciti del re di Lahor, nelle Indie; Codazza, che nelle repubbliche dell’America meridionale fece da ingegnere e colonizzò l’alta regione della Cordiliera di Venezuela, e così altri.» Alcuni barattarono l’uniforme, indossando la bianca livrea de’ nuovi padroni; altri invece, fedeli ai loro principj, preferirono l’amarissimo pane della miseria alle lecornie della corte vice-reale austriaca. Fra questi ultimi va annoverato il capitano Bernardo.
Caduto prigioniero dei Russi nelle vicinanze di Smolensko e tradotto a Pietroburgo, ebbe gelata una gamba; amputato, guarì. In compenso il destino fe’ sì ch’ei desse nel genio d’un magnate di quella città, il quale trasse partito delle cognizioni orticole del povero prigioniero, mandandolo ad attendere a certi suoi poderi nella Volinia. Fra le tante e svariate speculazioni, la migliore è quella di conservarsi sempre galantuomo. Bernardo osservò scrupolosamente questo precetto, e migliorò d’assai la sua condizione. Dimorò in Russia per ben quindici anni e quando, [19] mortogli il padrone, fece ritorno in patria, e si trovò possessore di un po’ di ben di Dio (frutto delle sue fatiche e di una sottile economia), col quale sperava di camparla per benino gli ultimi anni della sua vita.
Il gennajo del 1827, Bernardo rivedeva la guglia del Duomo. Egli toccava allora i quarantacinque anni; ma le ferite, gli strapazzi, il clima inospitale, gli avevano affievolito il corpo, invecchiandolo anzi tempo.
Prima cura di Bernardo fu di chieder conto di sua sorella Dorotea, l’uggia per la quale gli era stata scemata dalla lontananza. La trovò vedova, con tre creature, miserabile e ubbriaca per giunta. Le carezze di que’ fantolini ebbero virtù di disarmare la collera dell’onesto soldato e di fermarlo sulla soglia, mentre stava per andarsene stomacato. Il dì appresso la trista femmina chiese perdono al fratello; giurò, spergiurò che per l’avvenire non avrebbe assaggiata una sol gocciola di vino, e tanto disse e promise che Bernardo alla fin fine consentì di convivere colla famigliuola. Per tal modo cresciute le spese, dovette pensare ad aumentare, lavorando, l’entrata. Prese a pigione un pezzo di terra oltre San Calocero, confinante col fossato che lambe il bastione tra la porta Ticinese e la Vercellina, ora Magenta; assoldò un contadino, il quale lavorò quel terreno, scompartendolo in tante ajuole; fece costrurre una piccola serra; la popolò di erbe odorose e di fiori, e in capo ad un mese potè far dipingere sulla porta della sua abitazione un enorme mazzo di rose, larghe come cavoli, sotto cui fe’ scrivere a caratteri cubitali: Qui si vende fiori anche in mazzo.
Unitamente ai fiori pensò a coltivare i suoi nipotini, [20] i quali all’infuori delle busse che loro prodigava la madre quand’era brilla, non conoscevano educazione di sorta. Bernardo cominciò col ribattezzarli, sostituendo ai nomi di Antonio, Giuseppa e Gaetana, quelli più poetici di Nasturzio, Ortensia e Dalia, incorporando di tal modo i nipotini nella gran famiglia delle piante e de’ fiori posti sotto la sua custodia.
Dorotea tenne la parola; solamente al vino sostituì l’aquavite. Bernardo gridò, bestemmiò, minacciò, ma inutilmente. Dorotea ogni mattina prometteva di metter giudizio, poi alla sera dondolava in cimberli. Che fare? Cacciarla, privare que’ bambini della loro madre? Cacciarla!... ma dove si sarebbe arrestata quella sciagurata, posseduta dal demonio dell’abitudine degenerata, incancrenita, in vizio, in bisogno, senza mezzi per procacciarsi di che soddisfarlo? Avrebbe finito col rubare... o peggio; e allora che sarebbe avvenuto dell’onor della famiglia? E Bernardo ci teneva all’onore, più che alla vita. Temendo di peggio, si rassegnò e la ritenne presso di sè. Volle però mutare il nome anche a lei (era la sua mania), e la chiamò Ruta.
Il dopodesinare d’una domenica, Bernardo condusse i suoi nipotini a passeggiare fuori di porta Comasina (Garibaldi adesso). Era la prima volta che visitava quella parte della città, dopo il suo ritorno dalla Russia. Rivedendo que’ siti, a poco a poco gli tornò alla memoria l’ultimo carnovale, la scarrozzata, gli amici, le facili damine, e finalmente il pranzo. Tosto gli nacque la voglia di rivedere anche l’osteria. Vi entrò infatti, preceduto dai fantolini che, vista l’insegna, saltellarono per la gioja.
[21]
Bernardo, entrato in cucina, trovò tutto a posto, come quindici anni prima. Nulla v’era di mutato tranne il cuoco, il caporale e i camerieri. L’oste, ritto dietro il banco, appariva un po’ invecchiato; però, a malgrado de’ capelli brizzolati di bianco, egli era tutt’ora rubizzo, calmo, come tutti coloro che non ebbero mai a che fare colle passioni che tribolano il più degli uomini. Salutò macchinalmente i sopragiunti levandosi il berretto, e pronunciando il solito: Servite il signore!...
Bernardo chiese una bottiglia di vin d’Asti, che gli venne tosto arrecata, unitamente ai navicellini. Mentre i ragazzi sbocconcellavano, Bernardo guardava fisso fisso l’oste, meravigliando di non esser riconosciuto, ciò che a lui, poveretto, pareva cosa naturalissima. Visto però che l’oste punto non gli abbadava, risolse di rompere lui il ghiaccio, e lo chiamò:
— Un’altra bottiglia? chiese l’oste, pronto come un baleno.
— No, grazie!... voleva... Dite un po’ (e sorrideva): non mi conoscete più?» L’oste accennò col capo di no.
— Diavolo!... pare impossibile, proseguì Bernardo umiliato; capisco che ne son passati degli anni... ma però... Non vi ricordate di un certo pranzo... ma! coi fiocchi... al tempo dei Francesi... un certo pranzo... qui sopra, nella sala verso strada.... C’erano degli uffiziali, delle donnette... Ma che pranzo!... lo so io cosa m’è costato!... Ma allora non si badava a spendere... Ehi!... parlo del 1812, nientemeno!
— Mi pare! sclamò l’oste raccapezzandosi, mi pare!
[22]
— Proprio il dì prima che si partisse per la spedizione di Russia... Era di carnevale...
— Ah! sì, sì... ora me ne ricordo... Ha pagato un capitano...
— Son io quello! disse trionfalmente Bernardo, e alzatosi porse il suo bicchiere all’oste.
— Oh!... troppa degnazione... Alla sua salute... Mi rallegro tanto di rivederlo sano e disposto... Dopo quel che è successo può chiamarsi fortunato...
— Oh sì!... rispose Bernardo, e cominciò a narrare le sue avventure ai circostanti, e all’oste che intanto era tornato a trincerarsi dietro il banco.
Finalmente Bernardo, stimolato dai suoi nipotini, i quali, non avendo più nulla da rodere, volevano uscir all’aperto, alzossi e accostatosi al banco ficcò l’indice e il pollice nel taschino del suo gilet, chiedendo a quanto ammontasse il suo debito.
— Trentotto soldi...
— Ma l’Asti non ne costa che trenta, mi pare...
— Sissignore... trenta soldi per l’Asti, e otto soldi per quella tal mezzetta che lei ha fatto portare all’ussero... Si ricorda?... proprio in quel dì del pranzo...» Così dicendo porse dinanzi a Bernardo un vecchio libraccio bisunto ov’erano annotati i crediti del 1812[3].
A tanto prodigio di memoria e di pidocchieria, io avrei gettate le braccia al collo al degno Svizzero, proclamandolo il re della specie, il genio del brugnonismo. Bernardo invece si sentì tanto umiliato, sconcertato da averne bagnate le pupille. Pagò, abbassò il capo, e pigliati per mano i bambini, uscì senza [23] tampoco rispondere all’oste, il quale con tutti i vezzeggiativi del mestiere, gli raccomandava di onorarlo spesso delle sue visite.
Col passar degli anni le faccende del povero Bernardo travolsero alla peggio. Nasturzio ed Ortensia ebbero la vita de’ fiori; morirono l’un dopo l’altra di quei sottili malori che avvelenano tanti bambini; malattie arcane, che procedono sicure in lor cammino, falciando esistenze a destra e a sinistra, perchè noncurate gran fatto dalla scienza, la quale pare abbia ceduto l’incarico di studiarle alle Compagnie d’assicurazione delle vite.
Cinque anni dopo la loro madre morì di delirium tremens, la fine dei bevitori di alcoolici; morì, dopo d’aver colla sua vita disordinata dilapidato il poco peculio raggranellato dal fratello coll’industre pazienza d’una formica.
Infine, al fianco del vecchio capitano, affranto dalle tribolazioni, dalle malattie e dagli anni, non era rimasta che Dalia, svelta e graziosa giovinetta di diciassette anni e che, fin da piccina, era stata allogata presso una modista. Dalia, durante il suo noviziato, aveva apprese molte cognizioni indispensabili per riuscire una perfetta madamina. Aveva imparato a vestir pulitina con poche aune di percallo; a desinare con polenta e latte, ma a non uscir di casa senza guanti, o mal calzata; a sentirne d’ogni risma in fatto di maldicenza, allorquando a scuola le madamine, diremo così, laureate, snudavano spietatamente i rigiri delle avventure; e, uscendo collo scatolone dietro la madamina, a fermarsi ad una rispettosa distanza, quando questa veniva incontrata da qualche vagheggino; e infine a seguire il codice del proletariato ed a pigliar la vita [24] com’ell’è, paga dell’oggi, senza infastidirsi gran che del domani, che l’avvenire è in man di Dio.
Così era cresciuta Dalia, senza che fin’allora alcuno avesse potuto affibbiarle la massimaccia di Larochefoucauld: Esservi poche donne oneste che non si stanchino del lor mestiere.
Bernardo da tempo languiva nel letto: i suoi giorni erano noverati. Dalia, tornando dalla scuola, saliva le scale col cuore serrato; apriva l’uscio della cameretta ove giaceva lo zio, e prima di inoltrarsi lo fissava in volto, trattenendo il respiro, spiando se fosse ancor vivo.
Una mattina, la giovinetta venne svegliata di soprassalto da un lungo gemito. Balzò tosto dal letto e indossata in fretta in fretta una gonna, corse dallo zio, che la guardò cogli occhi imbambolati e senza movere la testa.
— Oh, Signoriddio! gridò Dalia sciogliendosi in lagrime. Egli muore... e io son qui soletta... Come fare adesso!... come chieder ajuto!...» Così dicendo stringeva tra le sue braccia la testa del vecchio, baciandone e ribaciandone i bianchi capelli, e chiamandolo coi più dolci nomi. Quando Dio volle Bernardo diè segno di vita; girò intorno gli occhi; riconobbe la nipote, e sorrise.
— Coraggio, la mia tosa, coraggio!... mormorò di poi con voce tanto fioca che Dalia, per raccoglierla, dovette posare l’orecchio su quelle fredde labbra.
— Io me ne vo.... a trovare i miei compagni d’armi... che m’aspettano da un pezzo... Finisco di patire... Ho vissuto anche troppo... Ma tu, poverina, che farai sola al mondo?... Io non ti posso lasciar nulla... nulla affatto!... M’hanno consumato [25] tutto...» E ammutiva soverchiato dalla commozione.
Dalia, confortatolo come meglio seppe, volle profittare della calma che in quel momento appariva nella fisonomia del vegliardo, per uscire a chieder soccorso e assistenza a qualche vicino...
— Torno subito, zio. Qualcuno troverò.
Bernardo crollò il capo sorridendo mestamente alla giovinetta, come volesse dire: Chi vuoi che s’abbia ad incomodare per un vecchio che muore.... in miseria?
— No, no, zio; lasciami fare... Non c’è un momento da perdere... Chiamerò quel giovine che sta qui sopra noi... quel pittore... Pare un buon diavolo... È sempre nelle nuvole colla testa... ma deve aver buon cuore... Abbi pazienza, zio!... In due salti sono di ritorno...»
Così dicendo uscì dalla camera; veloce coma una rondine salì una scaletta, e giunta ad un uscio contornato di ritratti grotteschi schizzati col carbone, picchiò replicatamente.
— Chi è? chiese una voce.
— Favorisca ad aprire... ma subito subito per l’amor di Dio...
S’intese un tonfo, come d’uno che balzi dal letto; poi una pedata; il catenaccio rugghiò, e dall’uscio semischiuso fece capolino Roberto, il quale vista la giovinetta esclamò:
— Ah! è la bella biondina!...
— Scusi se la disturbo, rispose Dalia abbassando gli occhi ed arrossendo al vedere che al giovane mancavano molte parti del vestito e non le meno importanti. Il mio povero zio sta morendo... Io mi trovo sola in casa... Non ho nessuno che m’assista... Mi faccia lei questa carità...
[26]
— Subito subito... Diavolo! è un dovere... La vada pure da suo zio... Un minuto e sono da lei...
Roberto postosi indosso un vecchio cappotto militare che gli faceva le veci di veste da camera e di coperta, in un attimo fu al letto del moribondo, che lo ringraziò con un’occhiata.
Roberto e Dalia passarono tutto quel giorno e gran parte della notte accanto al lettuccio di Bernardo. Dalia, non trovandosi più sola, potè uscire in cerca di un medico e tornare con lui. Ma l’arte nulla poteva per il povero vecchio, e il medico nel congedarsi disse parole di conforto e di speranza alla piangente giovinetta, ma a Roberto che lo accompagnò sul pianerottolo, dichiarò senza reticenze che Bernardo non avrebbe veduto il dimane. Infatti al primo bagliore antelucano, il vecchio rendeva l’anima nelle braccia di Roberto e di Dalia. Le ultime parole del morente furono dirette al giovine, al quale strinse la mano raccomandando al suo buono cuore l’orfanella.
Da quel giorno i due giovani si rividero spesso. La schietta intimità che li univa, prese grado grado maggiore intensità e forza. Si amavano già senza che nessun di loro avesse parlato d’amore. Un giorno Roberto aprì sorridendo le braccia e la giovinetta vi si lasciò cadere, nascondendo sul petto del giovane il rossore che le infocava il viso.
Così il convolvolo debole ed errante fra gli sterpi e i roveti, s’attortiglia intorno all’albero protettore, inghirlandandolo colle variopinte sue corolle.
[27]
Siam stretti ad un patto.
Che i gendarmi della letteratura, vogliam dire i critici, ci perdonino se nel capitolo precedente ci dilungammo alquanto dal soggetto, risalendo fino al 1815 e più in su ancora. Abbiamo le nostre ragioni per giustificare questa scappatella; il seguito del racconto lo proverà. D’altronde è bene il richiamare alla memoria dei nostri giovani le guerre combattute dai padri nostri, o per sostenere l’insaziabile ambizione di un despota, o per soffogare nel sangue le diverse nazionalità che tentavano rizzarsi e riaversi al soffio dell’aura provocatrice di libertà che spirava nel principio di questo secolo. Confrontate quelle guerre con quelle che noi combattemmo in questi ultimi anni, e combatteremo fra poco, ci sentiamo animati da un giusto orgoglio che ci fa esclamare: Le nostre vittorie non costarono lagrime che ai nostri nemici.
[28]
I nostri fratelli che morirono sul campo col grido di viva l’Italia, ebbero onorate sepolture; il racconto delle madri, pie custodi delle tradizioni, e la stampa, più ancora del marmo e del bronzo, renderanno imperituri i loro nomi.
Questo è il premio serbato a chi muore pel bene del proprio paese. Che serbi il tempo a coloro che sparsero, benchè eroicamente ed in buona fede, il loro sangue obbedendo ai capricci del dispotismo, l’avete veduto nella morte del capitano Bernardo; l’oblio.
Ora che ci siamo giustificati, ripiglieremo il filo del racconto.
Roberto con passo spigliato e veloce proseguiva canterellando il suo cammino. Oltrepassato Bucinigo (Buco-iniquo, dicono i cronisti), ad uno svolto della strada, vide venirgli incontro, sullo stesso sentiero laterale oltre i paracarri della via maestra, un giovine contadino, il quale, benchè dimenasse un po’ troppo le braccia camminando, pure aveva l’aria e il portamento d’un soldato. A Roberto quella fisonomia, mano mano gli s’approssimava, non pareva nuova:
— Quella ciera là l’ho veduta altre volte di sicuro! diceva fra sè... Ma ora non mi raccapezzo... Al modo con cui va, colui dev’esser stato o bersagliere.... o garibaldino.... Non c’è a dubitarne...» e guardava fisso.
Il contadino intanto s’avanzava celeremente. Egli aveva una di quelle fisonomie aperte, sorridenti, simpatiche, che pajono dire al prossimo: Vogliami bene ch’io te ne vorrò... Portava dietro alle spalle un fagotto appeso ad un bastone che teneva impugnato come se fosse un fucile e, ad armacollo, [29] un cilindro di latta, di quelli usati dai soldati a custodia delle loro carte.
Anche al contadino la fisonomia di Roberto non era nuova.
— Chi sarà quel giovine? diceva tra sè; l’ho veduto di sicuro in qualche altro sito... dove poi, indovinalo grillo! Se ne son vedute tante l’anno passato delle faccie di giovani!...
Giunti che furono a pochi passi l’un dell’altro s’arrestarono, fissandosi senza dir parola. Il contadino sorrise e, trattosi il berretto, ruppe pel primo il silenzio.
— Mi pare... e non mi pare...
— Perdio! pare anche a me... ma non so... rispose Roberto sorridendo anche lui... Tu m’hai l’aria di un garibaldino...
— Lo sono stato difatti... E anche lei...
— Anch’io sì...
— Con Medici?
— No, io era con Bixio.
— Fa lo stesso... Ah! adesso mi ricordo!... lei è quel pittore che, intanto che bolliva il rancio, faceva i ritratti agli amici.
— Precisamente!...
— Vede lei se ho buona memoria!..
— Diavolo! è vero...
— E di me non si ricorda?... M’avrà veduto di sicuro... e chi sa quante volte...
— Sarà benissimo; ma che vuoi! fra tante fisonomie si perde la bussola...
— Mi dica un po’... Ha conosciuto lei l’anno scorso certo Federico ***?... Quello che stava sempre sempre [30] insieme al povero Giuliano ****, morto a Brescia, dopo l’affare di Treponti[4].
— Altro che conoscerlo!... Federico *** è mio amico...
— Ebbene, io era l’ordinanza del signor Federico... cioè intendiamoci! Quando aveva fatto il mio dovere come soldato, nè più nè meno degli altri, accudiva alle faccende del signor Federico, pulendo gli abiti, le armi...
— Oh! corpo d’un cannone! sclamò Roberto; ora mi ricordo...» Così dicendo afferrò la faccia del contadino, e fissatolo di bel nuovo esclamò: È proprio lui! To’! chi mi avrebbe detto che oggi doveva incontrare il nostro Valentino!
— Vede lei...
— Eh! al diavolo il lei! Siamo o non siamo...
— Sia pure... e viva l’Italia!...
— E si può sapere dove sei diretto?
— Al mio paese...
— Ma tu, Valentino, se ben mi ricordo, non sei di queste parti, ma del Lago Maggiore...
— Sì, son d’Angera... o almeno di lì presso...
— Come diavolo ti trovo qui nel cuor della Brianza?
— Mi ci ha mandato il signor Federico...
— A fare?
— A distribuir lettere.
— Che! fai il porta-lettere?
— Sicuro! Me ne ha date più di trenta; ed io le ho ricapitate tutte, in due giorni... Indovina un po’ — continuava ridendo Valentino — a chi erano dirette quelle lettere...
— Ma!
[31]
— Erano dirette a persone di tua conoscenza...
— Spiegati.
— Ai nostri compagni d’armi. Capisci ora?
— Diavolo, diavolo! L’affare si fa serio... Fammi un po’ il piacere di spiegarti meglio.
— Volentieri! Ma sediamci, chè questo star fermo su due piedi mi stanca più che il camminare...
I due giovani s’inoltrarono per un sentieruzzo che sboccava sulla strada maestra; poi, entrati in un campo, sedettero all’ombra d’un gruppo di salici.
— Ah! così si sta meglio!» sclamò Valentino levandosi dalle spalle il suo fardelletto e posandoselo a canto.
— Dì su dunque! gli disse Roberto. Di che si tratta?
— Si tratta di una nuova spedizione con Garibaldi...
— Con Garibaldi!... Infatti, mi ricordo che anche a Milano, tempo fa, si parlò di una misteriosa impresa... Ma io, in que’ dì, aveva molto a fare, sicchè non ci badai più che tanto... Poi la credeva una di quelle solite chiacchiere...
— Altro che chiacchiere! Devi sapere che il signor Federico venne appositamente da Brescia a Sesto Calende, e si fermò dal signor curato, un prete della legge, che è suo amico...
— Federico ha moglie, vero?
— Sì e la condusse con lui. La signora Giulia rimane a Sesto da don Luigi, intanto che suo marito va innanzi e indietro da Sesto a Genova...
— Ah! è andato a Genova?
— Sicuro! per intendersi con Garibaldi e coi capi...
— E dove è diretta la spedizione?
[32]
— Non se ne sa nulla; è un mistero. Ma che fa a noi il sito? Lo sa Garibaldi, tanto basta...
— D’accordo. Tu, Valentino, sei della partita?
— S’intende.
— E Federico?
— Il signor Federico partirà più tardi, con un’altra spedizione... Garibaldi vuol che si fermi a Genova a raccogliere uomini e denaro... Lui sulle prime non voleva saperne; ma infine ha dovuto acconsentire, tanto più che don Luigi lo ha persuaso di rimanere... La signora Giulia è incinta... è quasi a termine... e un giorno o l’altro..., capisci!... La poverina, quando ha saputo che suo marito voleva partire con Garibaldi, non ha detto parola, ma però... la botta l’ha sentita nel cuore... Fatto sta che per quanto la si forzasse di parere indifferente e di buon umore, si capiva che dentro soffriva soffriva... A desinare la mandava giù i bocconi per forza... ogni tratto scompariva e ritornava dopo qualche minuto colla faccia sorridente, ma cogli occhi rossi... Non la si sentiva bene... Insomma, così non la poteva andare, ecco! Tanto che io stando in quella casa quasi tutto il dì, e aveva sempre sott’occhi quella povera creatura...
— È buona proprio, eh?
— È un angelo! gridò Valentino con entusiasmo. Ti so dire che delle donne come lei non se ne trova una in mille... Io insomma aveva fissato di dir quello che stava bene al signor Federico... Finchè vado io a farmi ammazzare, è in regola; primo è mio dovere, poi tranne mio padre, non lascio nessuno a questo mondo... Fortunatamente un bel dì, eccoti il signor Federico di ritorno colla buona notizia che [33] non partiva così subito... Se tu avessi veduta sua moglie in quel momento!... ti avrebbe proprio fatto compassione... È diventata smorta smorta, poi rossa rossa... Ha fatto per parlare, ma non c’è stato verso... si è gettata nelle braccia di suo marito e si è messa a piangere per la consolazione... Cosa vuoi! io ho dovuto far fronte indietro e via adagio adagio per non farmi minchionare, chè, a dirtela, piangeva anch’io...
— Te lo credo...
— Dunque il signor Federico resterà a Genova... Da quel poco che ho potuto capire, partirà dopo con Medici...
— Allora resterai anche tu...
— No, no. Io partirò colla prima spedizione, con Garibaldi, Bixio, Sirtori, Türr, ecc. ecc. chè son tanti... L’ho già detto al signor Federico, il quale m’ha risposto che gli incresceva di non avermi con lui, ma che alla fin dei conti io era libero di far quello che credeva meglio pel bene del mio paese. Io sarò dei primi.
— Sarete in molti...
— Ma! chi lo sa! Ad ogni modo non oltrepasseremo di molto i mille...
— Pochi, perdio!
— Che fa il numero quando s’è col generale?
(Così per antonomasia vien chiamato Garibaldi dai suoi militi.)
— Il generale, vedi! proseguiva Valentino, ha caro che i suoi sieno in pochi (purchè buoni) per fare certi colpi di mano pei quali è nato vestito... Poi le sai anche tu queste cose!...
— Capisco capisco! Ma dì un po’, che c’entrano in questo affare le tante lettere che sei andato seminando per la Brianza...
[34]
— Quelle lettere me le ha date, come t’ho già detto, il signor Federico. Venerdì scorso, secondo il solito sono venuto a Sesto con mio padre a portarvi del pesce. Poi, sbrigate alcune faccende, andai su da don Luigi, che passeggiava in giardino col signor Federico. Questo, chiamatomi, mi disse: «Arrivi proprio in tempo, Valentino. Oggi vado a Genova, e sarò di ritorno tra quattro o cinque giorni. Prendi, Valentino, queste sono lettere dirette ad alcuni dei nostri compagni d’armi... È un invito a radunarsi a Genova... tu porterai queste lettere al loro destino... To’, questi sono denari pel viaggio. Quando le avrai ricapitate tutte, mi raggiungerai a Genova... così non ci sarà pericolo che tu abbia a restar indietro...» Eccoti spiegato il mistero di quelle lettere... Hai capito ora?
Valentino, così dicendo, si alzò da sedere, e postosi di bel nuovo il fagotto sulle spalle: Caro il mio Roberto, disse, io ti saluto... Ripiglio la mia strada; mi preme di arrivare a Como a tempo di partire colla diligenza, così sarò a Varese stassera, e domattina a Sesto.
Ma Roberto rimaneva a sedere, cogli occhi fissi a terra, assorto nei suoi pensieri. Valentino, vedendo l’amico rimanere immobile, fermò il passo, e scherzando gli diè sulla voce:
— Ohe! dormi, Roberto?
Il giovine pittore non rispose; si alzò, scosse la terra dalle gambe, e, postosi sottobraccio la sua scatola, seguì silenziosamente il compagno, che intanto era già uscito sulla strada maestra. Valentino, attesolo, gli fece un saluto di commiato; ma Roberto invece di contraccambiarlo con un altro, gli si pose al fianco dicendo: Andiamo...
[35]
— Come andiamo! chiese meravigliato il pescatore. Ma tu vai di là ed io di qua...
— Ho mutato parere, gli rispose Roberto, sempre cogli occhi bassi, come se non potesse staccarsi da un’idea fissa, e che da pochi istanti lo dominava.
— Hai mutato parere? chiedeva di nuovo Valentino, più ancora meravigliato.
— Ma sì... rispondeva Roberto un po’ stizzito per la lotta che in quel punto sosteneva nel suo interno. Che ci trovi mo di straordinario? Ho pensato che... Infine è affatto inutile che io prosegua per quella strada... Ho mutato pensiero.... Voglio tornare a Como... in tua compagnia...
— Dici davvero! Ma bene, benone! Così chiacchiereremo e la strada ci sembrerà più corta.... Marche!...
Strada facendo Valentino rammentò al camerata la campagna dell’anno antecedente, citando tutte le particolarità dei fatti di Malnate, di S. Fermo, di Treponti, ecc. ecc.; parlò con entusiasmo dell’imminente spedizione, della quale per verità nulla sapeva di positivo, ma che gli si affacciava come cosa affatto nuova e con proporzioni eccezionali, meravigliose. Questa volta, diceva egli, c’è di mezzo il mare; questo lo so di sicuro. E sai tu, Roberto, che negozio sia il mare? Dice chi l’ha veduto, che dei nostri laghi (compreso anche il Maggiore, che non è chiamato così per nulla) ce ne sta dentro più di cinquanta, più di cento... E i bastimenti a vapore? In loro confronto i nostri son gusci di nocciuola... Ah! che bella cosa dev’essere viaggiare sul mare!... Che te ne pare?
— E tu mi dicevi, usciva a dire Roberto, rispondendo [36] più a sè stesso che al commilitone, che la moglie di Federico non s’oppone alla partenza di suo marito...
— Sicuro!... s’accora per lui questo è vero ed è naturale... tanto più che gli vuole tutto il suo bene... Ma vuol bene anche all’Italia, quella brava signora!... Ella è solita a dire che la libertà non s’ottiene che a forza di sacrifizj. Gli uomini, dice lei, devono consacrare la vita alla libertà; noi, le affezioni del nostro cuore; ciò che alla fin de’ conti torna lo stesso, perchè per le donne le affezioni son la vita. Capisci! questo si chiama parlare!...
— E Dalia, pensava intanto tra sè Roberto, sarà d’una tempra eguale a quella di Giulia?
— A che tale confronto?
Roberto, fino dalle prime parole barattate con Valentino, come il cavallo di Giobbe al clangore delle trombe, s’era sentito rimescolare il sangue, e più ancora lo eccitavano i nomi di Garibaldi, di Bixio, di Medici, di Cosenz e di cento altri; nomi che esercitavano su lui, come su la gioventù tutta, un fascino irresistibile. All’interrogazione che gli veniva dalla coscienza: «E tu, giovinotto, perchè non sei della partita?» non aveva trovato, colto sul subito alla sprovvista, di che rispondere; aveva arrossito, sospirato.... Ma non bastava per acchetar la coscienza. E Dalia? che dirà la poverina? Quello che Giulia ha detto a suo marito? Roberto, che conosceva a fondo la sua amica, non lo sperava; egli ripeteva scoraggiato, tra sè, le parole di Valentino: «Delle donne come questa non se ne trova una in mille.»
— Supponiamo (diceva a sè stesso), supponiamo che io, tornato a Milano e, dica a Dalia: Mia [37] cara, io parto!... Dalia allora (mi par di vederla) mi fisserà attonita con que’ suoi occhioni e: Dove vai? mi dirà: Vado... con Garibaldi...; dove, non lo so... Benissimo, mi risponderà, vengo con te... Ci scommetto che la mi risponde così. E allora che si fa! Dirle: non voglio, sarebbe inutile, perchè già non mi darebbe ascolto. Eccomi in un bell’imbroglio!... Se chiedessi un parere a Valentino? Che sa egli di queste cose! Queste delicature del cuore non son per lui, tagliato com’è alla carlona... Pure... Di’, Valentino, chi sa a quanti garibaldini rincrescerà di lasciar l’amorosa, eh?
— Che fa a loro! Qualunque sarà il sito ove ci condurrà Garibaldi, ce ne saranno donne, sta tranquillo!...
— L’ho detto io!...» borbottò fra sè Roberto; poi sorridendo a Valentino:
— E tu l’hai l’amorosa?
— Sicuro che l’ho... e bella anche...
— E non ti rincresce a lasciarla?
— Non dico di no... Ma, alla fin dei conti, prima il mio paese e Garibaldi... dopo, lei.
— Questa la viene a te!...» disse in cuor suo Roberto arrossendo; poi ingolfatosi di bel nuovo nei suoi pensieri, non disse parola fino a che giunsero presso Como, rispondendo con monosillabi all’instancabile loquacità del buon Valentino.
Arrivati sul promontorio che piglia il nome dalla filanda Binda, e dal quale la strada maestra scende serpeggiando a Como, sostarono alquanto per pigliar lena, e per godere la vista della stupenda vallata che spiegavasi dinanzi a loro. Seguivano coll’occhio la graziosa curva delle Alpi che, piegando [38] a destra, si dilunga verso il nord a formare la sponda orientale del lago; videro, sul dorso boscoso di quelle, l’antico convento edificato su d’un’aerea balza, a mezzo il sentiero che sale a Brunate, e i casolari sparsi qua e là, biancheggianti tra gli ulivi e le querce secolari. Il loro sguardo, alla svolta delle Alpi, scendeva su Como, sulle sue torri, sul lago, sull’amenissimo Borgovico, e di là alzavasi sul vetusto Baradello.
— Guarda lassù! sclamava Roberto, accennando colla mano la strada che mette a S. Fermo di gloriosa memoria.... Ti ricordi quando scendemmo di corsa, là dal ponte Mulinello, addosso agli Austriaci di Urban accampati lì al basso nella piazza d’armi?
— Se mi ricordo! rispondeva Valentino, fissando quei luoghi con occhi scintillanti per l’entusiasmo. Ah! se avessi tempo!... Vorrei fare una scorserella lassù, fino a S. Fermo, a salutare i nostri compagni morti in quel giorno... Ma non posso...
— Salutiamli di qui... Addio De Cristoforis!... Addio Cairoli, addio Cartellieri, Pedotti, Battaglia.... Addio tutti....
E i due amici, levatisi da sedere, salutarono colle mani quei cari estinti; poi, lasciata la strada maestra, s’avviarono per un’altra più modesta, ma ancor più amena, la quale, scendendo a mancina giù per la valle, conduce alla Camerlata.
Roberto progrediva più veloce del suo compagno, il quale, benchè robusto e avvezzo a camminar celere, non potè a meno di dirgli sorridendo:
— Perdio! come corri!
— Che vuoi! Valentino...» rispose Roberto rallentando il passo, la vista di que’ luoghi (e additava i [39] monti dirimpetto) mi risveglia certe memorie che mi mettono in cuore una smania di correre, di saltare, di gridare, di menar le mani...
Valentino accolse queste parole con una risata.
— Ridi finchè vuoi, proseguiva Roberto, ma la è così... Mi sento un altr’uomo... Al diavolo i dubbj!... Valentino, vengo con te...
— Dove? chiese l’altro fermandosi meravigliato.
— Dove!... Prima a Sesto...
— Dici davvero?
— Voglio parlare con Federico, e sentire un po’ da lui come la va questa faccenda... Poi...
— Poi?
— Poi... dove ci manderà Garibaldi...
— Questo si chiama parlare!... Viva l’Italia!» sclamò Valentino afferrando la mano del pittore, e squassandogliela con forza — Poi, rimessisi a camminare:
— Lo avrei giurato che la finiva così! — proseguiva battendo colla palma sulla spalla dell’amico — Diavolo! pensava fra me. Possibile che uno della tua tempra, un vecchio soldato, un garibaldino puro sangue, abbia a restare a casa mentre i suoi compagni corrono a serrarsi intorno al generale!... Bravo Roberto!... Dà qui quella tua scatola... voglio portarla io fino alla Camerlata...» Così dicendo, tolse la scatola dal braccio di Roberto che tentò, ma invano, di opporsi, e se la strinse sotto l’ascella.
In breve sbucarono alla Camerlata. Pochi minuti dopo, i due compagni, seduti sul serpe della Diligenza s’avviavano verso Varese, onde trovarsi la sera, o il dì dopo, a Sesto Calende.
[40]
..... e se dev’essere per sempre,
per sempre addio!
Byron.
La mattina del giorno seguente, il capitano Federico *** passeggiava sotto gli alberi, che in doppia fila chiudono la piazza di Angera dal lato del lago, e specchiano in esso i loro rami, rivestiti in quei dì delle prime foglie primaverili. Tratto tratto fermavasi, e guardava il lago verso occidente; poi ripigliava il passeggiare impazientito:
— A che ora arriva il Vapore? chiese ad un barcajolo. La stessa interrogazione l’aveva già poco prima ripetuta ad altri.
— Alle dieci. Se intanto il signore vuol spassarsi sul lago, lì c’è la mia barca.
— No, grazie!...» rispose Federico e si tolse di là. Poi, cavato l’oriuolo, borbottava istizzito: Ancora un’ora... Che eternità!...
Federico (e il lettore l’avrà indovinato) aspettava Valentino, il suo messaggiero. Giunto la sera a [41] Sesto e reduce da Milano, si era portato ad Angera per incontrarlo e partir tosto seco lui per Arona e di là per Genova.
— Un’ora!... Ma che fare intanto?...» chiedeva a sè stesso Federico, e alzati gli occhi li fermò sulle vetuste mura della Rocca d’Angera, che dall’alto d’un ripido promontorio domina per largo tratto il lago Maggiore. La vista della Rocca, gli fece nascere desiderio di salirvi: Di lassù, diceva, vedrò meglio se viene questo sospirato battello a vapore.... Intanto avrò tempo di dare un’occhiatina a quell’anticaglia.
Così dicendo, lasciò la piazza, e trovatosi fuori del borgo, e ai piedi del promontorio, cominciò a salire, sostando tratto tratto a pigliar fiato, e a godere della bellissima vista, che aumentava d’amenità e di estensione mano mano s’approssimava alla Rocca. Giuntovi, sedette sopra uno dei tanti ruderi seminati per lo spianato; guardò il lago verso Laveno, ma non vedendo traccia alcuna di fumo, rivolse lo sguardo sulle amene colline dell’opposta riva, sul colossale San Carlo di bronzo che giganteggia dal monte a lui consacrato, e sulla piccola città di Arona che gli stava schierata di fronte.
— Vede lei! saltò su a dirgli una vecchia contadina, che custodiva un branco di capre brucanti l’erba tra le rovine. Una volta questo monte qui era unito con quello là in faccia, sull’altra riva del lago...
— Davvero! sclamò Federico ridendo. E, ditemi un po’, sposa[5], com’è successa questa separazione?
— Ma! chi lo sa? Dicono sia stato un terremoto... [42] Per me credo che ci sia entrato il diavolo in questa faccenda.
— Il diavolo?..
— Signor sì, il diavolo... Vede quel pozzo?... lì presso lei?» Federico, levatosi si avvicinò al pozzo.
— La provi a buttarvi dentro una pietra...
Federico, raccolto un ciottolo, lo lasciò cadere nel pozzo.
— Non si sente il tonfo!... esclamò stupito.
— Sicuro! non si sente il tonfo!...» riprese trionfalmente la vecchia.
Federico ripetè più volte l’esperimento, e sempre collo stesso esito.
— Ma dove va a finire questo pozzo?
— Dicono giù nel lago... Ma mia madre mi assicurava che quel pozzo va dritto...
— Dove?
— A casa del diavolo!...» conchiuse la vecchia con voce bassa, e facendo il segno della croce.
Federico proruppe in una sonora risata, e la vecchia brontolando e crollando il capo s’allontanò di là, scendendo la china, seguita dalle sue capre.
La vecchia non aveva fatto che ripetere una tradizione tuttora in voga da quelle parti.
Federico, data un’altra occhiatina al lago, entrò nella Rocca. Noi non ve lo seguiremo, perchè allora saremmo costretti a descriverla minutamente, ciò che di certo annojerebbe il lettore, e ci svierebbe oltre ogni discrezione dal nostro còmpito. Però dal dirne troppo al dirne nulla, ci corre.
Ci permettiamo di narrare a chi nol sapesse (intanto che arriva quel benedetto piroscafo con Valentino), che Angera (sempre secondo la tradizione) [43] venne fondata da un certo Anglo, compagno di Enea (nientemeno!), e scampato secolui dall’incendio di Troja. In seguito fu stazione romana, come lo fu il vicino Laveno. (Da Titus Labienus, uffiziale di Giulio Cesare; dicono, ve’!)
Ataulfo, nella sua qualità di re dei Goti, rovinò Angora nel V secolo; ma di poi i Longobardi la riedificarono aggiungendovi la Rocca. Nel medio-evo ebbe i suoi conti, il cui dominio estendevasi fino al San Gottardo, tanto che formava un piccolo regno.
L’Imperatore Ottone I diede questa contea in feudo agli arcivescovi di Milano. Ottone Visconti vi ristaurò il castello che, secondo i cronisti, era a que’ tempi magnifico e fortissimo edifizio, e di cui scorgonsi tuttavia gli avanzi. In una gran sala a pian terreno si vedono dei dipinti rappresentanti le gesta di Ottone Visconti e la battaglia di Desio (1277). Gian Galeazzo duca di Milano, decretò, che il titolo di duca d’Angera fosse per sempre portato dai primogeniti dei Visconti. Di poi Filippo Maria Visconti cedette Angera in feudo ai Borromei.
In Angera, e specialmente nella piazza parrocchiale trovansi avanzi di antichità. Quando nel secolo XI (è il Giulini che parla), i preti ammogliati s’accapigliarono coi preti celibatarj, Arialdo Alciati di Cucciago, partigiano de’ secondi, fuggendo l’ira di Guidone arcivescovo di Milano, e probabilmente anche dalle ugne delle inviperite donne milanesi, si rifugiò sul territorio di Angera. Arrestato di poi, venne condotto a Milano, ove la contessa Oliva, nipote dell’arcivescovo, (vedete se c’entrano le donne!) lo consegnò a certi satelliti, i quali lo trascinarono fino alla riva del lago Maggiore, ove lo fecero barbaramente [44] morire. Bell’argomento per un romanzo, se il pubblico, e quindi anche gli editori, oramai non avessero voltate le spalle ai romanzi che trattano di storia antica.
Roberto, uscito dalla Rocca, vide che il battello contrassegnato da una banderuola e destinato a recarsi a mezzo il lago onde ricevere dal piroscafo i passeggeri avviati ad Angera, era giunto al solito punto d’aspetto. Alzati gli occhi verso occidente, scorse il piroscafo che s’avanzava celeremente, lasciando dietro di sè una lunga e negra colonna di fumo:
— Finalmente! esclamò Federico, e a passo celere scese dal promontorio, dirigendosi verso la riva del lago.
Appena Federico si fu partito, s’aprì una macchia di castagni che sorgeva tra i ruderi della Rocca; apparvero due mani che scostarono i rami, e subito dopo s’affacciò il fresco e paffuto viso d’una villanella, che alla sua volta appuntò verso il piroscafo i suoi occhioni, azzurri come l’aqua del lago.
Il volto della giovinetta, fiorì d’un subito rossore e balenò d’un sorriso. L’amore ha la vista lunga, e Rosa aveva saputo discernere tra i diversi passeggeri, aggruppati sul ponte del piroscafo, un giovane di statura alta e spigliata, il quale portava su d’una spalla, appeso ad un bastone, un fardelletto a scacchi rossi e bianchi...
Come vedete Federico non era il solo che aspettasse Valentino.
Poco dopo Federico e Roberto, chiusi in una camera dell’albergo di San Carlo (non è nostra colpa se il Borromeo è trascelto di preferenza dagli osti [45] per figurare sulle insegne delle loro osterie), si riabbracciavano con maggior effusione, chè al primo incontro, erano stati trattenuti dall’importuna curiosità della folla, solita ad attendere sulla riva quelli che sbarcano dal piroscafo.
Mentre Federico e Roberto si intrattenevano interrogandosi a vicenda, Valentino cavava di tasca le risposte alle lettere che gli erano state affidate dal capitano.
Ordinatele come meglio seppe, le consegnò a Federico, il quale, mano mano le apriva, annotava su d’un libriccino i nomi con cui erano firmate. Finito che ebbe, esclamò:
— Ah! che brava gente!... Nessuno mi dice di no... tranne uno che è malato... Bene, benissimo!... E tu mi dicevi, o Roberto, che a Varese....
— A Varese, Cattaneo sta radunando una compagnia che condurrà egli stesso a Genova....
— E così fa Setti, e molti altri de’ nostri amici ufficiali.... Nobile terra che è la Lombardia!... E tu Roberto...
— Io?... Vorrei parlarti prima...
— Ora sono da te. Valentino?
— Son qua.
— Ti avverto che si parte per Genova dopo pranzo alle quattro...
— Per me sono pronto... Intanto, se lei non ha nulla in contrario, vado a salutar mio padre... e.... i parenti...
— È più che giusto, diavolo! Va pure... verrai qui a desinare n’è vero, Valentino?
— No, grazie! Voglio mangiare un boccone con mio padre... Può esser l’ultimo... Ella mi capisce.
[46]
— A rivederci dunque...
— A rivederci!... Addio Valentino...
Partito che fu, Federico si rivolse a Roberto dicendogli:
— Ora sono con te.
— Dimmi un po’, Federico, di che si tratta?... Questa nuova spedizione di Garibaldi, dov’è diretta?... Tu forse lo saprai...
— Ne so meno di te.
— Davvero?
— Sull’onor mio...» rispose Federico ponendosi una mano sul cuore. Garibaldi ripete le parole di Cristo: Chi ha fede mi segua... E noi lo seguiremo... Che ne dici eh!
— Dico... dico... che voglio partire anch’io!... Mi sono deciso adesso...
— Adesso?... Ma non sei venuto qui per questo?
— Sì, e no a dirtela schietta... Tentennava un pochino...
— Come, come? Un garibaldino di vecchia data ha da tentennare, quando il generale innalza il suo grido di guerra?
— Che vuoi!... Ho una relazione... un’amorosa... e... lasciarla... mi capisci! Non per me chè son uomo... ma lei... ne soffrirà e quanto!
— E io non ho forse più che un’amorosa, non ho una moglie?... Eppure partirò? E tanti altri nostri amici non fanno sacrificio delle loro affezioni?... Lui stesso il generale, non sagrificò alla causa italiana la diletta compagna de’ suoi giorni, non lascia ora di bel nuovo parte della sua famiglia per darsi tutto tutto all’Italia...
— Zitto, zitto per carità... — sclamò Roberto arrossendo — Non [47] parliamone più... Eccomi!... quando si parte?
— Vuoi esser de’ primi?
— S’intende.
— Allora partirai con me oggi alle quattro. Domattina saremo a Genova....
— E poi?
— E poi vi imbarcherete quando... lo dirà il generale... Egli può dar l’ordine anche domani... Chi lo sa? Quanto alla tua bella (chè alla fine son un uomo anch’io, e so cosa è voler bene a qualcuno) le potrai scrivere...
— Bellissima idea!... Scriverle... e dirle che al momento in cui ella leggerà la lettera, io sarò già in alto mare.... Se non le scrivo così la vien dritta dritta a Genova e allora... son fritto. Voglio scriverle subito...
— No, aspetta fino a domattina... Le scriverai da Genova, così la lettera porterà il timbro della posta di quella città... ed essa allora ti crederà già partito...
— Farò come tu dici. Le scriverò da Genova; rispose Roberto, a cui quel ripiego aveva levato un peso dal cuore.
Pochi minuti prima che scoccassero le quattro, una barca staccatasi dalla riva di Angera, spinta da quattro robuste braccia dirigevasi, attraversando il lago, verso Arona, che sorge dirimpetto sulla opposta sponda. A prora sedevano Federico e Roberto, che silenziosi salutavano collo sguardo la riva lombarda. Valentino e suo padre, in piedi a poppa, l’uno avanti l’altro, vogavano facendo un passo innanzi ogniqualvolta tuffavano i remi nel lago, e uno indietro quando li traevano fuori, secondo il costume de’ [48] barcajoli del lago Maggiore. Il vecchio, curvo sui remi, teneva fissi gli sguardi sul suolo della barca, assorto nel doloroso pensiero di doversi separare dal suo figliuolo, e forse per sempre. Valentino, tratto tratto guardava all’indietro, e fissava la Rocca, dal cui fondo bruniccio spiccava la forma di una villanella ritta su di un macigno.
La comitiva sbarcò ad Arona poco prima che il convoglio partisse per Genova. Valentino, prima di separarsi da suo padre, gli parlò sommessamente alzando gli occhi di quando in quando sulla Rocca. Poi, baciata la veneranda canizie del vecchio, con voce accorata gli disse:
— Addio... o meglio a rivederci presto.
— Che il Signore ti guardi, il mio Valentino!... e faccia ch’io ti abbia a vedere ancora una volta prima di morire. Li saluto, i miei signori! — proseguì volgendosi a Federico ed a Roberto — Raccomando a loro il mio figliuolo... che spero si farà onore come l’altra volta. Mi salutino Garibaldi...» proseguiva il buon uomo...
— Lo saluteremo, risposero sorridendo i due giovani.
— E gli dicano che io, pover uomo come sono, non ho nulla a offrirgli.... all’infuori del mio Valentino..., ma che questo glielo do di tutto cuore... Ancora una volta... li saluto... Dio vi protegga, tutti i miei cari giovani!..
Poco dopo la locomotiva, fischiando e sbuffando, partiva alla volta di Genova.
[49]
Ton sein, neige moulée en globe,
Avec tes camélias blancs
Et le blanc satin de ta robe
Soutient des combats insolents.
Dans ces grandes batailles blanches
Satin et fleurs ont le dessous,
Et sans demander leur revanches
Jaunissent comme de jaloux.
Théophile Gautier.
N’è vero che questa poesia è tanto barocca, che il secentista il più strampalato si svellerebbe la barba dal dispetto di non averla scritta lui? Eppure l’ho trascelta e appiccicata colassù a bello studio, perchè mi ajutasse ad imprimervi in mente l’idea che Dalia, satin a parte, era d’una bianchezza veramente straordinaria.
In lingua succede delle figure come delle monete; a forza d’esser usate sbiadiscono, sicchè a lungo andare un’iperbole, a mo’ d’esempio, che sulle prime avrebbe sbigottito un orientale, smussata dall’abitudine, sdrucciola via senza che uno se n’accorga. Se mi fossi limitato a dirvi:
[50]
Dalia era bianca come la neve appena appena fioccata, o come il latte, o come un giglio, voi lettori, voltata la pagina, l’avreste subito dimenticato; adesso mo’, coll’ajuto del poeta Gautier, l’idea è improntata e, volere o non volere, non è possibile dimenticarla per un pezzo.
Dalia era snella, e aggraziata della persona. Lungo i lati del viso della giovinetta, scendeva divisa sul fronte, una folta e soffice capigliatura del più bel castano dorato. Le sopraciglia, più oscure dei capelli, le ombravano gli occhi cilestri, grandi e d’una guardatura soave e gaja ad un tempo.
Era una domenica, giorno in cui Dalia, mattiniera per abitudine, era salita a pulire diligentemente il suo appartamento, come ella soleva dire scherzando, e che consisteva in una sola camera al quarto piano, inondata nei dì sereni da un torrente di luce, da mane a sera; aerata, monda, e spirante buon umore. Scarso, modestissimo era il mobigliare della camera, ma lucente, terso come un specchio. Le pareti erano tappezzate di tele e cartoncini, su cui il pennello di Roberto aveva sbozzate scene campestri, alberi, rupi, casolari. Queste tele non avevano l’onor della cornice, tranne quelle rappresentanti: Garibaldi, il re galantuomo, e il ritratto di Dalia, lavoro, come facilmente immaginerete, de l’amico, e che non era al certo un capo d’opera; ciò che Dalia diceva schiettamente a quanti volevano saperlo, e che veniva confermato anche dallo stesso autore, il quale confessava non essere il ritrattare farina del suo sacco.
La camera di Roberto era sullo stesso pianerottolo di quella della ragazza, sicchè i due usci distavano pochi passi. I nostri giovani, per isfuggire i pettegolezzi [51] del vicinato, avevano pattuito di viver separati: tuttavia certe pipe di gesso, qualche solino di camicia, un pajo di stivali, e qualche altra coserella che trovavasi qua e là sulla tavola e sulle sedie nella camera di Dalia, mostravano che i patti non venivano scrupolosamente mantenuti.
Ciò che veniva confermato dal vedere anche nella camera di Roberto un enorme pomo-d’oro di lana, lucente di capocchie di spille, una cuffietta da notte allacciata all’elsa di un fioretto appeso al muro, e qualche altro oggetto di solito appartenente alle figlie di Eva, cioè un agorajo ed un gomitolo di refe dimenticati sul lettuccio del giovane; su quel lettuccio ove, come dicemmo altre volte, Roberto passava di molte ore coricato, seguendo mestamente collo sguardo le nuvolette erranti pel firmamento[6].
Già da qualche dì Dalia aveva perduto il suo solito buon umore. Durante i primi giorni dell’assenza di Roberto (assenza ch’ella stessa aveva approvata), la giovinetta si era rassegnata, pensando al bene che quel breve pellegrinaggio artistico avrebbe recato al suo amico: Finchè Roberto sta a Milano (ripeteva a sè stessa nelle lunghe ore che passava curva sul lavoro), non fa niente di bene.... È un caro giovane, ha un cuore d’angelo, ma la testa.... Santo Iddio! non si sa mai dove l’abbia la testa.... Eccolo! mi par di vederlo (e alzava gli occhi come se Roberto fosse lì) sedere dinanzi ad una tela, scombiccherarla di carbone... poi alzarsi, gironzare per la stanza, zuffolare, accendere un mociccone di sigaro, [52] buttarlo via;... poi sedere di nuovo, cancellare tutto quanto ha fatto... tirar giù altri quattro scarabocchi.... alzarsi.... correre da me.... farmi un bacio (arrossiva sorridendo)... poi cantarellare... pigliare un pennello, buttarlo via... e non conchiudere mai un bel niente! E intanto miseria e sempre miseria!... Per me poco importa... ci sono avvezza; ma lui... sì giovane, buono tanto, vederlo lì a sprecare il tempo a quel modo, mentre potrebbe studiare, e farsi onore.... Lui ripete che non ci sono commissioni... È vero, ma non l’andrà poi sempre così... I tempi muteranno e allora... Ma, e intanto perchè non seguita a scrivermi ogni due giorni come mi aveva giurato e spergiurato prima di partire?...»
Non sappiamo perchè, ma è un fatto che le lettere arrivano di preferenza alla domenica. Dalia in quel giorno, mentre ripuliva i mobili, ripeteva il solito soliloquio, aggiungendovi parole di dispetto, di dolore e di amarezza, chè il continuo ed inesplicabile silenzio di Roberto le aveva fatto serpeggiare nella mente tristi pensieri e angosciose apprensioni ch’ella, come è solito stile degli innamorati, pareva si compiacesse di rendere ancora più tetri ed acri colla gelosia.
E se Roberto fosse malato? A questa domanda ella rispondeva con un sogghigno ironico: Lui malato?... Oh!... Lo fosse anche, sarebbe una ragion di più per scrivermi — Che abbia perdute le mani!...
Mentre Dalia andava rodendosi a questo modo, ode picchiar all’uscio; apertolo, si vide innanzi il portalettere...
— Finalmente! gridò Dalia, conosciuta che ebbe la scrittura, vediamo un po’ cosa scrive per giustificarsi il signorino!...
[53]
Spiegazzata la lettera, s’avvicinò, più per abitudine che per bisogno, alla finestra, e cominciò a decifrare la scrittura di Roberto, la quale era ben lungi dall’essere un modello di calligrafia. Lette le prime righe, Dalia dovette ricominciare da capo, perchè non aveva capito niente... Poi, con un gomito levata la polvere dalla lettera, rilesse per la terza volta le prime righe, ma invano.
— Stimo bravo chi lo capisce!» esclamò Dalia guardandosi intorno come parlasse a qualcuno. Poi, trascinata una scranna presso la finestra, sedette e incominciò per la quarta volta a leggere: Carissima... Questo lo capisco. Genova 14 aprile... Genova? Mi scrive da Genova? Chi mi spiega questo imbroglio? Roberto a Genova! Ma a che fare di grazia! Così improvisamente, senza prevenirmi.... Basta! tiriamo innanzi: Al ricevere di questa mia io sarò già in alto mare.... In mare... lui? Oh! Vergine santissima! Ma dov’è diretto?... perchè?... Dov’è questo mare?... e alla poverina si empirono gli occhi di lagrime.... e il foglio le tremava nelle mani.... Ricompostasi, continuò: Appena arrivato al mio destino ti scriverò lungamente.... Allora saprai tutto... ora non posso dirti altro, per la semplice ragione che anch’io non ne so nulla... Non accorarti per me... Io sto benone... Presto saremo novamente insieme per non separarci mai più. Addio, mia cara; pensa sempre a me, e sta allegra. Garibaldi è con noi, e tanto basta. Addio, di nuovo. Il tuo Roberto ***.
Dalia, lasciatasi cadere la lettera in grembo, stette alquanto cogli occhi fissi alla finestra, sentendosi incapace in quel momento di coordinare le idee che le ronzavano entro il cervello. «come uno sciame [54] di api intorno ad un paniere di fiori». Poi, sedatosi a poco a poco quel tumulto, ripigliò la lettera, e giunta coll’occhio là dove diceva: Garibaldi è con noi, sentissi sollevare un peso dal cuore, tanto è potente il fascino di quel nome, tanto è illimitata la confidenza che il popolo ha in lui, perchè sa che tutto ciò che emana da Garibaldi è grande, è buono, è generoso.
— Sia fatta la volontà di Dio! esclamò Dalia, levandosi composta a rassegnata mestizia; un’altra lettera mi spiegherà meglio di questa... Ma già, doveva immaginarmi che Roberto non sarebbe rimasto a casa colle mani in mano, mentre i suoi amici, i suoi compagni garibaldini... Almeno me lo restituissero il mio Roberto!... E se... Ah! mio Dio! che brutti pensieri mi vengono per la mente... Benedetto giovine!... Partire così d’improvviso... senza biancheria, senza... Ma forse è per il meglio... Se fosse venuto a salutarmi... avrei cercato di dissuaderlo, e di trattenerlo... E avrei fatto male. Per noi donne l’amore è tutto, ma per gli uomini... Ah! quando finiranno questi garbugli? Quando potremo vivere in pace... senza tremare dì e notte pei nostri cari?... Ma Garibaldi sa quello che fa... Dio lo assista!... Io intanto... aspetterò.» Un lungo sospiro pose fine alle parole di Dalia.
E la povera Rosa, la villanella d’Angera?
Rosa, dall’alto d’un rudero che giace (chi sa da quanti secoli!) sul promontorio della Rocca d’Angera, aveva seguita lungamente collo sguardo la barchetta, fino a che fu sparita tra i cupi muraglioni del porto d’Arona.
[55]
La giovinetta stavasene ritta, immobile, col capo leggermente inclinato su d’una spalla, colle mani penzoloni lungo il grembo, e chiuse una e nell’altra. La brezza vespertina le sollevava una ciocca di capelli sfuggita al pettine d’ottone che raccoglieva alla nuca le trecce voluminose, e le agitava, dietro gli omeri, le punte di un fazzoletto di seta amaranto, che spiccava incrocicchiato sul candido corsetto, il quale era sormontato a’ fianchi da una gonnella azzurra di cotone, cosparsa di minutissime stellette bianche.
Il lago rifletteva il burrone, che nereggiava in quello come un cono capovolto, sul cui apice, in fondo in fondo, oscillavano due punti, uno rosso, l’altro bianco.
Sparita la barca, la giovinetta si riscosse come se svegliata d’improvviso; guardò intorno, sul lago, pei monti; vide a destra lampeggiare fra i nuvoli immoti e rubicondi, i raggi del sole cadente; poi raccolse gli sguardi sui ruderi che la circondavano... Allora lasciò cadere la testa sul petto, e copertosi il viso colle palme, proruppe in lagrime dirotte.
Quando Valentino, camminando con Roberto, s’era lasciato uscir di bocca, che delle donne ne avrebbe trovato ovunque, in compenso dell’amorosa che lasciava, aveva ceduto ad un certo spirito di spavalderia, comune ai giovani, i quali, col farsi credere indifferenti alla passione d’amore, si lusingano di parere begli spiriti, e uomini di mondo rotti nelle avventure galanti. Il fatto è che Valentino, malgrado quella gradassata, amava passionatamente la sua Rosa, che lo contraccambiava colla tenerezza ardente ed ingenua d’un cuore che per la prima volta s’ammala d’amore.
[56]
Valentino (l’avete veduto), penava a staccarsi da lei; vogando, ad ogni tratto aveva rivolta la testa, fissando quel fazzoletto spiccante a mo’ di una croce rossa su d’un campo bianco; poi sospirando aveva ripigliato il remeggio. Ma quando, scesi a terra, Valentino dovette seguire Federico e Roberto che entravano in città, allora, rivolto un ultimo sguardo alla Rocca d’Angera e risalutata in suo cuore la Rosa, non aveva potuto trattenere due grosse lagrime che gli erano gocciate dagli occhi malgrado i suoi sforzi per ricacciarle indietro.
Rosa, sfogato colle lagrime quel primo impeto di dolore, e asciugatele con una manica, guardossi intorno; vistasi soletta, gettò colle mani un bacio d’addio al suo diletto, e si tolse di là.
Poche ore dopo la luna specchiavasi nelle aque tremule del lago. L’allèa della piazza d’Angera, era deserta; tutto era silenzio e quiete all’intorno. Solo un punto nero movevasi sul lago, facendosi sempre più distinto, mano mano s’avvicinava alla riva lombarda. Poi si udì il tonfo misurato di due remi. Era Martin-pescatore[7], il padre di Valentino, che ritornava da Arona dopo d’aver veduto i suoi giovani (così egli li chiamava) partire sulla ferrovia alla volta di Genova. La barca si fermò urtando nelle ghiaje della riva. Martino, recatisi i remi in ispalla, stava ponendo il piede fuor della barca, quando si vide innanzi una ragazza, la quale mestamente sorridendo, gli stese una mano.
— Oh! Rosa...» sclamò il vecchio, e posta una [57] mano sulla spalla della giovinetta, saltò sulla riva. Mi aspettavi eh... la mia Rosa?
Rosa accennò di sì col capo; poi fissò gli occhi in quelli del vecchio, il quale, intesa quella muta interrogazione, rispose:
— E così... i nostri giovani se ne sono andati... Dio li accompagni!
Rosa, giunte le mani, alzò gli occhi al cielo, sclamando:
— Che la Madonna li protegga!
— Sicuro che li proteggerà... Non vuoi? Poveri giovani! se non l’hanno loro la protezione della Madonna, chi l’ha da avere?..
— E... dite... non avete potuto sapere niente di nuovo?...
— Sì, vorranno giusto dirle a me queste cose!...
— Non dico questo... ma credeva che una volta ad Arona il signor Federico...
— Il signor Federico sa quello che fa. Se tace è segno che va fatto così... Non siamo al quarantotto vedi!... quando bastava che un generale movesse una gamba perchè tutti lo strombettassero, anche a chi non lo voleva sapere...; cominciando da que’ chiacchieroni che scrivono sui giornali... Saltavan su tutti in una volta in coro... To’! parevano le rane lì giù nel padule nel mese d’agosto... E intanto i Tedeschi a ridere... Ma adesso hanno imparato a far le cose a dovere... Ma, Rosa, tu piangi?
— Cosa volete!... è tutt’oggi che ho qui un gruppo...
— Animo, animo!... Che diavolo! Se Valentino lo sapesse, ti sgriderebbe...
— Vi ha detto qualche cosa per me...
[58]
— M’ha detto... m’ha detto... di tenerti allegra...: rispose Martino permettendosi una bugia a fin di bene.
— Oh! sì allegra... E, ditemi, quando avremo notizie di... di quei giovani?
— Presto, non ne dubitare... Ma va a casa chè è tardi... Addio: vienmi a trovare... discorreremo di lui...
— Ah! se verrò!...
Cosi dicendo si separarono.
[59]
Un monaco calò, siccome un corvo
A cui nel ciel per lungo tratto arrivi
Aura maligna d’insepolti morti.
Nicolini, Arnaldo da Brescia.
Era la notte del 3 aprile 1860. I cittadini di Palermo tornavano dal passeggio lungo la marina alle loro dimore; già chiuse erano le botteghe e le vie silenziose; altro non s’udiva che il fracasso delle onde che si spezzavano contro la spiaggia, sollevate da un vento gagliardo che aveva cacciate le nuvole dal firmamento scintillante di stelle.
Da una porticina incassata tra gli alti muraglioni su cui sorge il convento della Gangia, uscì pian piano un frate. Fatti alcuni passi si fermò, spingendo sospettosamente lo sguardo lungo la via, e negli angoli più bui; poi, assicuratosi che nessuno l’aveva veduto uscire, si tirò il cappuccio sul volto; indi cacciò la destra nella manica dell’altro braccio e impugnò, [60] senza trarlo fuori, uno stiletto che portava sempre con sè. Coll’altra mano si strinse il cappuccio intorno la faccia, e dato di nuovo uno sguardo in giro, scese con passo sicuro e veloce la china ciottolosa che dal convento guida alla sottoposta città.
Giuntovi, si cacciò per certe vie tortuose e oscure fino a che fu dinanzi ad una porticina che s’apriva dietro il palazzo della polizia. Per questa porticina entravano a tutte l’ore le spie del famigerato Maniscalco.
— C’è sua Sua Eccellenza il signor direttore? chiese con voce bassa il frate ad un birro seduto presso la porticina.
— C’è.
— Vorrei parlarle...
— Il vostro nome, padre?... rispose il birro, spingendo i suoi sguardi di lupo entro le oscure pieghe del cappuccio per iscoprire i lineamenti del frate.
— Ditegli che sono un frate della Gancia...
— Il nome, padre, il nome...; senza di esso Sua Eccellenza non riceve... a quest’ora... Avrete almeno qualche contrassegno?
— No...
— Allora...
— Allora ditegli che è qui fra Michele da Sant’Antonino.
— Benissimo, rispose il birro, ed entrato in palazzo, salì alle stanze superiori a far l’imbasciata. Il frate, entrato esso pure (chè non amava farsi scorgere in quella via), si fermò in un cortiletto ad aspettare il ritorno del birro.
Poco dopo un altro birro (pareva d’un grado superiore al primo) scese le scale, e avvicinatosi rispettosamente al frate, gli disse inchinandolo:
[61]
— Sua Eccellenza attende il padre...
— È solo il signor direttore?... chiese fra Michele, avviandosi col poliziotto.
— Non so» rispose il birro, e mosse innanzi il primo.
Mentre il frate e lo sgherro salgono le scale, noi sbozzeremo le biografie delle Loro Eccellenze il signor direttore di polizia Maniscalco, e del signor generale Salzano.
Oltre Fra diavolo, nell’estate del 1799, altri capiscuola del sanfedismo misero a ferro e a fuoco il reame di Napoli, formando allievi e proseliti tanto che, forniti i tafferugli, i Borboni di Napoli trovarono pronti ai loro cenni un vivajo di poliziotti.
I Borboni, in allora erano fuggiti per mera pusillanimità, benchè integri di forza e di tesoro, abbandonando moltissimi de’ loro fedeli, intorno ai quali mano mano aggrupparonsi i malcontenti. I baroni, fidando in una vicina riscossa, avversi ai Francesi e al nuovo Stato e non lo temendo, avevano radunati i loro vecchi armigeri e i soldati regj congedati, e alla spicciolata avevano combattuto, assassinato, e rinnovati fatti esecrandi.
Negli Abruzzi, Pronio e Rodio, davano la caccia ai Francesi; in Calabria uno Sciarpa, in Terra di Lavoro Fra Diavolo, altri altrove, si dilettavano di assassinj e fino di mangiar carne umana. Certo Mammone, mugnajo, ornava il suo desco con teste appena recise, beveva sangue, e il proprio, quando non ne aveva d’altrui, tanto lo gustava; di propria mano trucidò quattrocento individui (sempre nella speranza, comune de’ Sanfedisti, di avvicinarsi al paradiso) cavandoli anche di carcere.
[62]
(I Borboni e i clericali tentarono rinnovare in quest’anno gli istessi orrori. Ma fortunatamente vennero soffogati sul bel principio).
Di poi Nelson, affascinato dei vezzi procaci di Emma Leona Hamilton (degna allieva della regina Carolina)[8], cede alle di lei istigazioni, viola i patti poco prima stipulati coi patrioti di Napoli, e li consegna nelle unghie dei Borboni, impiccando alle infamate antenne britanniche il vecchio ammiraglio Caracciolo, il cui cadavere, buttato in mare, ricomparve qualche giorno dopo presso la spiaggia, ballonzolato dalle onde, quasi chiedesse più onorata sepoltura.
L’esempio incita a crudeltà[9] i mal repressi Sanfedisti; la plebe napolitana scanna, ruba, abbrustolisce, mangia, sì, mangia i patrioti; il coltello degli assassini gareggia colla mannaja. Il re giungeva in Sicilia come in paese conquistato, perdonava a’ lazzaroni saccheggiatori fin della reggia, aboliva i seggi e i privilegi della città, del regno, de’ nobili, e cominciava una proscrizione immensa, dichiarando ribellione ogni atto commesso durante la sua fuga.
Dicono che ventimila venissero imprigionati nella sola capitale per aver parlato, scritto, combattuto; per aver avuto un nemico che li denunziasse; e [63] spie, torture, persecuzioni erano le procedure della giunta. La quale mandò a morte i generali Manthonè, Massa, Vincenzo Russo, Nicola Fiano, Francesco Conforti che aveva sostenute le ragioni regie contro Roma e allevato i migliori giovani d’allora; Nicolò Fiorentino dotto matematico e giureconsulto, Marcello Scotti, Ruvo, il medico Cirillo, Mario Pagano ed Eleonora Pimentel, poetessa cara a Metastasio, e famosa parlatrice repubblicana.
Questi nomi immortalò il martirio, con quello del loro inquisitore Vincenzo Speciale che insultava le vittime e i loro congiunti, seduceva a confessare, alterava perfino i processi. Pasquale Balla ricusò dell’oppio, non credendo lecito il suicidio neppur negli estremi; era già condannato, e Speciale assicurava la moglie di lui non andrebbe che in esilio. Invece Valesco, all’intimazione dello Speciale che lo manderebbe a morte — Non tu» rispose, e precipitossi dal balcone. Cirillo interrogato da lui di che professione fosse sotto il re — Medico» rispose. E nella repubblica? — Rappresentante del governo.» Ed ora? — Ora in faccia a te sono un eroe,» e ricusò di chieder grazia dal re e a Nelson che aveva curati.
Vitaliani continuò a suonar la chitarra, e uscendo al patibolo diceva al carceriere:
— Ti siano raccomandati i miei compagni: son uomini, e tu pure un giorno potresti essere infelice.» Manthonè alle interrogazioni non dava altra risposta se non: — Ho capitolato.»
Furono da trecento gli uccisi, di nome, nobili, letterati, guerrieri, due vescovi, giovinetti di venti e di sedici anni; molti andarono sepolti nella fossa [64] della Favignana (Ægusa); infiniti a minori pene. Si omisero, come troppo frequenti, i rintocchi dell’agonia pei giustiziati; il boja fu pagato, non più a teste, ma a giornata, per economia dell’erario; visitatori scovavano per le provincie «i nemici del trono e dell’altare», e due di quelli bastavano per togliere la libertà, i beni, e la vita. Se si consideri che quelle vittime erano il fior della nazione, non si troverà esagerato chi scrisse aver ella di quel colpo retroceduto di due secoli. Domenico Cimarosa, cigno di musica, per aver puntato un inno repubblicano ebbe la casa devastata, e prigionia qual solevasi allora, e per quattro mesi l’aspettazion della morte, finchè i Russi, essendo arrivati a Napoli, e chiestone invano la liberazione, ruppero il carcere e lasciaronlo andare a Venezia a morire sbattuto e dimenticato.
Poi vennero le ricompense. Al cardinal Ruffo lautissime dal re, da Paolo di Russia decorazioni; titoli e ricchezze agli altri, fossero pure masnadieri e scampaforche; e più di tutti a Nelson e alla sua bagascia, e il titolo di duca di Bronte infamò il vincitor d’Abukir».
Ecco in quali tempi nacquero Maniscalco e Salzano! ecco chi furono i loro maestri!
Maniscalco è Palermitano. Nato da oscura e povera famiglia, entrò di buon’ora nella gendarmeria borbonica, per esser ammesso nella quale bisognava almen almeno aver tutti i caratteri, e i certificati di riuscire fior di birbante ad imitazione de’ superiori. Il marchese del Carretto, che per quel canagliume era tutto tenerezza, fermò con compiacenza gli sguardi sul Maniscalco, che subito giudicò degno di lui, tanto che, dopo qualche tempo di prove preparatorie e [65] scandagliatrici, lo elevò all’onorevole posto di suo segretario. Maniscalco ebbe tosto occasione di mostrare al marchese e ai Borboni la sua destrezza e sagacia in certi negozj che esigevano le due sunnominate qualità unite ad una coscienza sfidatrice del diavolo.
Allorquando il general Filangieri, ridonata la povera Palermo ai Borboni, nominò alcuni a direttori di polizia, non obliò il Maniscalco; creatolo direttore di polizia, gli affidò la stessa città nativa. L’allievo del marchese del Carretto non tardò ad ecclissare il maestro.
La politica del marchese ministro (dice l’autore della Storia dell’insurrezione siciliana) consisteva, nello spaventare i cittadini, nell’abbattere ogni resistenza, e nel respingere ogni opposizione; l’assolutismo brutale insomma. È, alla fine de’ conti, la politica di tutti coloro che servirono, servono, e serviranno tiranni. Mentre da un lato dava opera per assicurare il re della devozione de’ sudditi, dall’altra spiava tutte le occasioni per mostrarsi amabile e cortese, specialmente col bel sesso. Ma ad ogni tentativo d’insurrezione, il del Carretto incendiava, massacrava, torturava i sospetti, e se i colpevoli fuggivano, scatenavasi sui loro congiunti e parenti.
Maniscalco (continua l’autore dell’opera citata) seguì fedelmente le orme di del Carretto; nulla rispettò, di nulla si diede carico; potente e risoluto, abusò di tutto e tutti oppresse. Con queste arti aveva inalzata la polizia al di sopra di tutti i poteri dello Stato. In Sicilia egli fu re, dominando l’imbecille Francesco II coll’assicurargli l’obbedienza e la fedeltà de’ sudditi, e il popolo col terrore che ispirava.
[66]
I tiranni in generale, e i Borboni delle Due Sicilie in particolare furono alla lor volta tiranneggiati dalla paura. Essi non hanno fiducia che nella polizia; spesse volte i direttori, i commissarj furono i loro amici (modo di dire) ed i loro dominatori.
Ma torniamo al nostro eroe. Nel 1849 ebbe luogo una rissa tra alcuni cittadini di Palermo ed i soldati napoletani. Maniscalco finse credere ad una insurrezione. Il tafferuglio era già finito, spariti i contendenti, quando ecco giungere le pattuglie le quali, per ordine di Maniscalco, agguantano e imprigionano quanti incontrano. La dimane questi infelici vennero giudicati in pochi minuti, così per forma, da un consiglio di guerra, ed alle cinque pomeridiane, scortati da un reggimento, e condotti sulla pubblica piazza, ove secondo Maniscalco aveva avuto luogo l’ammutinamento, e là fucilati. Erano vittime innocenti; Palermo e la Sicilia rimasero attoniti a tanta efferatezza. Era quanto voleva il Maniscalco; regnare col terrore. Più tardi finse cortesia, la fece da liberale, ma nessuno gli prestò fede.
Odiato, temuto, sprezzato, e vilipeso in segreto, trovava rispetto in pubblico; ferito in chiesa da ignota mano, ma non spento, maggiormente incrudeliva. Faceva bastonare e torturare i prigionieri; inventava nuovi tormenti, tanto da eguagliare, se non vincere, un domenicano della santa inquisizione. Uomo di scarso ingegno, ardito, rapace, crudele, ebbe vizj moltissimi, virtù nessuna. Nato uomo e Siciliano, fece di tutto per mostrarsi belva, e il più infame traditore della sua patria.»
E uno; ora all’altro.
Giovanni Salzano, nel 1806, contava appena sedici [67] anni e era già arruolato nelle masnade di Fra Diavolo il quale, come ognun sa, fu prima monaco, poi luogotenente del cardinal Ruffo, infine svaligiatore, assassino e colonnello nel reale esercito di Ferdinando I. Le orde del Ruffo, nell’ultimo scontro colle truppe di Massena, furono presso che distrutte; il Salzano fu tra i prigionieri. Condotto a Castelnovo di Napoli, e giudicato da un consiglio di guerra, venne come fuorbandito ed omicida condannato a morte esemplare sulle forche. Messo in cappella immediatamente pei conforti della religione, sentì tale orrore della morte che le sue chiome incanutirono. Aveva allora 16 anni.
La madre sua, venusta e leggiadra, avendo credito ed amici a corte, e molto più presso il ministro di polizia Saliceti, rimosse cielo e terra, ed ottenne grazia pel figlio così giovine ancora e tanto pervertito.
La grazia arrivò al castello quando già il condannato ne usciva per andare al patibolo; pochi minuti di ritardo ed il mostro che ha insanguinato Palermo cessava di esistere.
La grazia era larghissima; Salzano libero, ma al patto di doversi arrolare nel nuovo esercito napoletano che andava organandosi: entrò egli soldato nel battaglione dei zappatori del genio, e nel 1815, per arditi fatti militari, era ufficiale in quel corpo e cavaliere dell’ordine di San Giorgio della riunione. Carbonaro zelantissimo nel 1820, fu inviato a Palermo con la divisione del generale Florestano Pepe per sottomettere i Siciliani che avevano gridato indipendenza e separazion da Napoli. Ivi il Salzano, più che a combattere, pensò a far bottino; il compagno [68] di Fra Diavolo ricordavasi l’antico mestiere! Promosso a capitano riedeva, in Napoli, e con cinica impudenza mostrava le ricche suppellettili ed i preziosi tessuti che avea predati in Sicilia.
Caduta la costituzione, e confuso con gli altri ufficiali dell’esercito messi in disponibilità per aver appartenuto alla setta dei carbonari, rimase il Salzano per più anni nell’oscurità e nel bisogno, ma quando del Carretto salì a potenza somma, questi, cui piaceva circondarsi di perversi satelliti, lo chiamò al servizio attivo, e lo fece nominare capitano di gendarmeria, e lo inviò nelle Puglie, ove doveva assumere la speciale missione di annientare un’orda di facinorosi, che scorrazzavano tra Sansevèro e Monte Santangelo, derubando i viandanti ed i comuni. Salzano non impiegò contro i masnadieri la forza, sibbene l’inganno e le frodi. Sedusse la sposa del capo dei ladri, ed essendo essa incinta le si profferse per compare, poi insinuandosi nell’animo della avvenente donna,[10] la consigliò di persuadere il marito, (il quale, già arricchito dai furti doveva bramare il riposo e gli agi della vita) a cedere e promise sulla fede di compadre (a cui si crede nel regno più che ai legami di parentela), che sarebbe andato immune da ogni pena, e tanto ingegnossi, e tanto persuase la [69] donna, che costei riuscì a decidere il marito, il quale si diede volontariamente nelle mani del capitano dei gendarmi, che per molti giorni lo tenne libero; poi, quando meno se lo pensava, fu tratto in prigione e dopo ventiquattr’ore fucilato per sentenza del consiglio di guerra. Salzano, encomiato e retribuito da del Carretto, passò nelle Calabrie, non potendo più rimanere nelle Puglie, ove lo segnavano a dito col titolo di capitano Giuda.
In Calabria strinse infami patti coi facinorosi della Sila, e tanto apertamente, che nella sua casa furono spesso visti gli oggetti preziosi rubati nelle ville, od ai viandanti.
Sostegno poi della reazione del 1848, ottenne rapidi avanzamenti, e noi lo troviamo generale e comandante di Palermo nel momento della rivoluzione. Di poca mente, di corto ingegno, di nessuna coltura, rapace, ingordo, può ben ripetersi che fosse il Salzano uno tra i più tristi strumenti del governo borbonico[11].
[70]
Il birro spalancò un uscio, e fra Michele da Sant’Antonino si trovò al cospetto del direttore di polizia e del comandante la piazza di Palermo.
[71]
Parecchi inchini vennero ricambiati tra questi degni personaggi; poi, seduti che furono, il Maniscalco chiese al francescano il motivo della sua visita in ora sì tarda.
[72]
— Eccellenza, rispose il frate abbassando gli occhi; pel servizio di S. M. tutte le ore sono buone.
A queste parole Maniscalco e Salzano, rizzarono le orecchie e fissarono attentamente il monaco.
— Pel servizio di S. M.? Spiegatevi, padre....» disse Maniscalco allungando il collo e piegando la persona verso fra Michele...
— Io venni qui guidato dalla mia coscienza... È il Signore che mi manda; il Signore che veglia in difesa dei legittimi sovrani protettori della religione... Eccellenza, una rivoluzione è imminente...
— Una rivoluzione? sclamarono Maniscalco e Salzano. Non è possibile — continuò il primo — la polizia sa tutto.
— Allora saprà che domani, giorno quattro, deve scoppiare la rivolta in Palermo...
I due ministri del Borbone si guardarono in faccia stupiti.
— I Bentivegna, e gli Interdonato hanno proseliti...
— Spiegatevi, padre; dite tutto quello che sapete...
[73]
— Mi promettano prima il segreto...
— Sul nostro onore!... sul nostro onore!... s’affrettarono a rispondere Maniscalco e Salzano, dimenticandosi (tanta era la smania dello scovare) che non ne avevano punto.
— Oltre al segreto, padre reverendo, vi prometto che S. M. saprà rimunerarvi in modo degno di lui e di voi... L’eminentissimo cardinale Antonelli non sa negare cosa alcuna al nostro sovrano. Dite, padre, dite...
— Ebbene!... sappiate, Eccellenza, continuò il frate guardandosi intorno e smorzando la voce; sappiate che nel convento della Gancia stanno ammucchiate armi e munizioni... Che lassù stanno radunati i congiurati, dipendenti da un comitato centrale istituito in Palermo...
— Maledizione! sclamò Maniscalco co’ denti stretti e serrando i pugni; credeva di averli schiacciati tutti... e rinascono.
— Conoscete i loro nomi?
— No, Eccellenza...
— Quelli almeno dei capi...
— No...
— Ditemi il nome di uno solo... di uno solo...
— Pur troppo non sono in grado di farlo... Per quanto sia stato in orecchi, non mi fu possibile di afferrare il nome d’un sol ribelle...
Maniscalco sospirò.
— Però conosco il loro piano...
— Ed è?...
— Il movimento insurrezionale si inizierà a Palermo, coll’assalto delle caserme, e delle case dei commissarj di polizia.
[74]
Salzano e Maniscalco si ricambiarono un’occhiata espressiva.
— Poi?
— Poi ad un segno convenuto, i contadini de’ villaggi vicini piglieranno le armi e si getteranno nella città...
— Miserabile canaglia! Vedremo... vedremo!... Reverendo, sapreste di grazia nominarceli questi villaggi?
— Ho inteso parlare di tutti... Però mi ricordo benissimo che si parlò di Ficarazzi, di Monreale, di Villabate, di Carini, di Bagheria...
— Benissimo! benissimo!... Daremo a questi villani tal lezione che se n’avranno a ricordare per un pezzo!... Continuate, padre reverendo, continuate....
— Palermo non dev’essere sola ad insorgere; le terranno subito dietro le altre città dell’isola, e tra queste... Posso assicurare le vostre Eccellenze, che i rivoltosi contano molto sui loro confratelli di Messina....
— Città che vorrei spianata!... Vero nido di vipere rivoluzionarie...
Il frate continuava: — di Catania e di Siracusa...
— E di quei del contado avete notizia?
— Certo; que’ del contado si raduneranno in bande e combatteranno alla spicciolata, come i... Non mi ricordo la parola...
— Come i guerrilleros?
— Precisamente così, Eccellenza!
— E voi dite che il convento della Gancia è pieno di questi briganti?
— Non solo, ma ribocca d’armi e di munizioni...
— E gli altri frati?
— Ahimè! Eccellenza... La carità cristiana mi vieta [75] di scusarli... Sono tutti traviati... Il demonio strisciò fra loro e li avvelenò col pestifero fiato di certe idee... Possa il Signore nell’infinita sua misericordia farli ravvedere!...» Così dicendo il dabben frate incrocicchiava le mani sul petto, e alzava sospirando gli occhi alla soffitta...
— Ma che! tutti dunque que’ frati tradiscono il loro re?... quel re che tanto protesse i loro interessi, quel re che nei momenti di devoto slancio, indossa la tonaca di frate per umiliarsi dinanzi a Dio...
— Pur troppo, eccellenza! Tutti i frati della Gancia cospirano... tutti!... professi e novizj... avrei voluto tacerlo... ma la carità è vinta dal dovere... Essi giurarono...
— E che giurarono? chiese sprezzantemente l’antico commilitone di Fra Diavolo.
— Di morire o di vincere per... quello che essi dicono la libertà della Sicilia...
Quella parola libertà, benchè buttata là timidamente, parve risonare stranamente tra quelle pareti poliziesche, ed i due ministri borbonici trasalirono come il diavolo al tocco dell’acqua santa.
— Io pure... io pure... ho dovuto giurare...
— Avete fatto benissimo, padre; diversamente non avreste potuto...
— Dio però, che scruta nel fondo dei cuori, e anzi tutto bada alle intenzioni, non ne avrà preso nota.
— Certamente, padre, certamente!... Il giorno fissato è domani dunque?
— Domani, giorno quattro...
— E perchè domani?
— Perchè si vuol ricordare al popolo la tradizione storica dei Vespri.
[76]
— Facciano pure! Così tramanderanno ai loro figliuoli un’altra tradizione d’un nuovo Vespro domestico... e, per santa Rosalia!... sarà più sanguinoso del primo! Non avete altro a confidarci, padre?
— Ho detto alle Eccellenze vostre quanto sapeva...» Maniscalco, assunta un’aria d’importanza, si avvicinò a fra Michele, e presagli una mano, gliela strinse vivamente fra le sue, dicendo:
— Padre!... Voi avete reso a S. M. (D. G.) un segnalato servizio; il nostro grazioso sovrano ne sarà tosto informato... e voi, padre, ne avrete splendido guiderdone... Ve ne do la mia parola!
— Ed io la mia» ripetè Salzano.
— Mi basta di aver fedelmente servito il trono e la Chiesa, la cui causa è comune... come lo fu sempre...» Poi, rialzato il cappuccio, s’inchinò in atto di pigliar congedo.
— Rimanete, padre, rimanete!... Sono lieto di potervi offrire una camera e un letto nel palazzo... Rientrando alla Gancia ad ora sì tarda potreste destar sospetti... se forse non ne ha già destati la vostra assenza.
— Nessuno mi vide uscire...
— Bene, bene! ad ogni modo è meglio restiate... Domani penseremo a mettervi in sicuro.
— Accetto le grazie dell’Eccellenza vostra!
Maniscalco, chiamato un servo, gli impose conducesse il frate nella camera destinatagli. Quando questo si fu partito, il direttore di polizia disse all’impaziente Salzano: «Un momento e sono da voi generale!» Poi chiamato un birro:
— Hai veduto quel frate? gli disse.
Il birro accennò che sì.
[77]
— Bene!... porrai una sentinella nel corritojo che mette nella camera ov’egli passerà la notte... Nessuno entri, nessuno esca. Hai capito?
— Perfettamente, Eccellenza!» rispose il sorcio, e strisciato un inchino, uscì.
— Caro Generale, ora siamo soli... Che ne dite di questa bella notizia?
— Dico che siamo stati presi alla sprovvista. Come mai, caro direttore, non ne sapevate nulla?
— Cioè... sospettava di qualche cosa... Però confesso che non credeva così imminente il pericolo... Ad ogni modo provvediamo, e subito... Ci va di mezzo l’onor nostro!...
— Per me sono pronto. Facciamo il nostro piano... in modo che non ce ne scappi un solo...
— Sono con voi, generale.
Breve fu il loro colloquio, e il piano prestamente combinato. Il generale Salzano recossi tosto al suo palazzo a dar gli ordini opportuni alle truppe. Maniscalco rimase nel suo circondato dai suoi cagnotti.
Lettori! ricordatevi del frate francescano Michele da Sant’Antonino.
[78]
Tra un popolo la sommossa e un tiranno, unico patto... il sepolcro.
(Risposta de’ Palermitani al proclama del general Lanza; 20 marzo 1860)
Il dì dopo (4 aprile), al primo apparire sul firmamento degli albòri antelucani, il frate portinajo del convento della Gancia (un bell’uomo, dalla barba nera e dall’occhio lampeggiante), il più mattiniero de’ suoi confratelli, appoggiato ad un parapetto che cingeva il cortile del convento, spaziava coll’occhio sulla sottoposta Palermo, ancor dormente e silenziosa, e lo spingeva oltre la città, sul mare solcato già da innumerevoli barche pescherecce, che lontano lontano, colle loro bianche vele latine, parevano alcioni sfioranti coll’ampie ali l’onda cerulea.
Di poi il frate, raccolto lo sguardo sulla strada che dalla città guida al convento, vide alcuni giovani salire per quella, cacciandosi innanzi una coppia [79] di muli, i quali portavano da ciascun lato appeso ai fianchi un bariletto.
A quella vista il frate portinajo sorrise; poi, lasciato il parapetto, scese ad una porta del convento, e apertala, uscì sulla strada ad attendervi la brigatella.
— Buon giorno, figliuoli!» sclamò quando quei giovani gli furono presso.
— Buon giorno,» ripeterono essi.
— A dispetto della crittogama, avete trovato vino in abbondanza eh?... soggiunse sorridendo il frate, e battendo colla nocca le doghe di quei botticelli che mandarono un suono muto.
— Perdio! padre.... vedrete come è potente questo vino... gli rispose un bel giovane, che sembrava il capo della brigata. È vin che brucia... Ci si sente il solfo lontano un miglio... È un vino che mette di buon umore... Io l’ho provato, e so quel che dico...
— È vero, Rosolino, è vero!... voi siete un prode giovane!... Se tutti i cuori degli Italiani assomigliassero al vostro, a quest’ora... Ma entriamo; venite, figliuoli!...» Il frate così dicendo afferrò un mulo per la cavezza ed entrò nel convento seguito dal resto della comitiva.
Nel cortile stavano già radunati alcuni frati, i quali si fecero incontro ai nuovi sopraggiunti, sorridendo e stringendo loro affettuosamente la mano. Tutti poi circondarono Rosolino, aspettando da lui consigli ed ordini sul da farsi.
Rosolino Pilo era di famiglia nobilissima, prestante della persona, gentile nei modi, colto, eloquente, prode e sempre pronto a dar vita e sostanze alla patria ch’egli amava svisceratamente. In causa di queste [80] rare doti egli sapeva ispirare fiducia e coraggio in tutti.
Soddisfatto ch’ebbe al desiderio de’ suoi amici raccolti lassù alla Gancia, narrando loro quanto sapeva delle notizie che correvano in que’ dì, chiese di vedere le armi che l’infaticabile Fabbrizj spediva da Malta un po’ per volta e che venivano nascoste dai congiurati nelle cantine del convento.
Poi, rivoltosi agli astanti, raccomandò loro di non perder tempo e di occuparsi a far cartucce e a fonder palle.
— Di queste difettiamo, o amici. Il giorno della riscossa è imminente; non lasciamoci cogliere sprovvisti, per l’amor di Dio!... Animo dunque!... Viva Italia... e a rivederci.
— Che! partite?... gli chiesero gli astanti.
— Sì, o amici; sono chiamato altrove... Ci rivedremo presto...» Così dicendo strinse le destre che gli venivano tese e uscì dal convento. Sceso alla marina, montò su d’un sottil legnetto con alcuni altri amici che lo attendevano alla spiaggia e spiegata la vela al vento, diresse la prora verso Messina.
Appena Rosolino si fu partito, i congiurati rimasti nel cortile s’avviarono tosto a liberare i muli dal peso ond’erano gravati.
— A te, Riso, che sei del mestiere... spilla questo bariletto...
Giovanni Riso, palermitano, di professione portator d’aqua (un bel vecchio di circa sessant’anni) dato mano ad un secchio di rame, si avvicinò ad un mulo, e posto il secchio sotto il bariletto, ne trasse la spina.
Ne uscì tosto una polvere nera, fina, lucente.
[81]
— Viva la vendemmia! gridò il giovine facchino Teresi da Falsomèle, e pigliato un altro secchio, s’accostò ad un barile. Gli astanti si diedero tosto ad imitare il Riso e il Teresi, sicchè in breve le botticelle vennero votate, e la polvere, diligentemente raccolta nei secchj, venne nascosta nelle cantine; delicata operazione che fu eseguita a dovere perchè diretta da Liborio Valdone da Alcamo, marinajo esperimentato.
Finito ch’ebbero di collocare le polveri, i congiurati si raccolsero in un vicino salotto e sedutisi in giro ad una tavola, si occuparono tosto a far cartucce.
Era appena trascorsa una mezz’ora, allorchè si intese bussare alla porta del convento con colpi forti e replicati.
I congiurati si guardarono in viso l’un l’altro.
— Chi diavolo può essere?..
— Che modo strano di bussare!
— Vo a vedere...» disse il frate portinajo e uscì...
Pochi minuti dopo egli precipitò nel salotto, pallido e colla fisonomia stravolta...
— Amici, gridò, siam traditi...
A queste parole tutti balzarono in piedi.
— Il convento è circondato dai birri e dalle truppe... Sentite!... stanno atterrando la porta...
— All’armi, all’armi! gridò Michele Fanaro da Roccadifalco, stampatore di professione e giovane d’un coraggio a tutta prova.
— All’armi!
— Presto, presto... Non c’è un minuto da perdere....
[82]
— Perdio! e le munizioni...
— Polvere ce n’è...
— Ma le cartucce...
— Caricheremo come potremo.
— Ma e le palle?
— Finite le poche che abbiamo, caricheremo co’ sassolini...
— Animo, animo!
In un batter d’occhi tutti i congiurati furono nel cortile che barricarono alla meglio, risoluti di vender cara la vita.
Sapevano che avevano a che fare cogli sgherri borbonici, e che quindi non c’era a sperare generosità.
Intanto al di fuori picchiavano, ma le porte erano salde, alte e solide le mura. I congiurati attendevano a piè fermo i borbonici; benchè (come avevan visto spiando dall’alto) fossero circondati da un nuvolo di carabinieri, e di birri, e dopo di essi da un battaglione di truppe.
Ma i regi, arrivate le artiglierie, le puntarono contro la porta, che tosto volò in ischegge. S’avventarono nel cortile i borbonici, ma accolti da una salva di fucilate che fece rotolar parecchi di essi sul selciato, rincularono. Approfittarono gli assediati del momento propizio, e strettisi insieme, precipitarono di corsa fuor del convento e apertisi un varco fra gli atterriti borbonici, corsero a raggiungere i contadini, i quali avvertiti dal tuonar de’ cannoni, erano accorsi al convento per dar mano ai congiurati.
I regj, riordinatisi, irruppero per la seconda volta nel convento, vuoto oramai di difensori; vi irruppero col grido di: viva Francesco II; trucidarono [83] i feriti, infilzarono sulle bajonette parecchi frati, ad altri, venerandi per la tarda età, e che chiedevano ginocchioni la vita, ruppero la testa col calcio dei fucili; saccheggiarono il convento e la chiesa, rubarono i vasi sacri e commisero ogni turpe ed efferata nefandezza.
Che facevano intanto il direttore di polizia Maniscalco e il generale Salzano?
Dal loro quartier generale ai Quattro venti, lontani dal luogo del combattimento, avevano sguinzagliate le loro mute sbirresche acciò, perlustrate le vie di Palermo da diversi punti, arrestassero.... non importa se innocenti o colpevoli, arrestassero però quanti sospetti incontrassero. Numerosissimi furono quindi gli arrestati, nelle cui case i birri si permisero tutti gli eccessi della più sfrenata licenza.
Vi ricorderete che tra i villaggi vicini a Palermo, denunziati dal ribaldo fra Michele come altrettanti focolaj di rivoluzione, c’era quello di Ficarazzi, i cui abitanti hanno fama di esser pronti ad arrischiate imprese e caldi amatori della libertà. Queste loro virtù sgraziatamente erano note anche a’ borbonici, che da tempo spiavano l’occasione propizia per punirlo. Infatti, in quell’istesso giorno, mentre le truppe assalivano il convento della Gancia, due fregate borboniche, uscite dal porto di Palermo, si fermarono dinanzi al villaggio di Ficarazzi, che in breve, fulminatolo colle bombe, colle palle e a scaglie, ridussero un mucchio di rovine. Preludio della rovina di Carini.
Preso il convento, i pochi frati risparmiati dalla strage con altri tredici cittadini (e tra questi, come vedremo in seguito, Riso, Teresi, Vallone e Fanaro) [84] colà fatti prigionieri, vennero legati a due a due con grosse funi, indi trascinati in mezzo alla sbirraglia ed ai soldati per la lunga via che mette alle prigioni. Quegli aguzzini si cacciavano innanzi i prigionieri percuotendoli co’ pugni, colle ceffate, coi calci dei fucili, ond’essi giunsero alle carceri laceri, sanguinosi, affranti, come uomini a due passi de’ quali sta allestita la forca.
Cogli stessi strapazzi venne trascinata in carcere la sessagenaria badessa del monastero di Santa Croce, rea d’aver dato asilo a due suoi concittadini.
Erano le ultime prodezze de’ sorci...
Il popolo palermitano in quel giorno rimase piuttosto attonito e spaventato, che deciso a mostrare il viso a’ suoi oppressori; ma la sera del 4 e del 5 d’aprile, gl’insorti scampati in modo tanto meraviglioso dalla Gancia, invece di nascondersi, o di abbandonar l’isola, benchè sapessero che i borbonici, razza semisacerdotale, non perdonavano mai, ritornarono coraggiosamente alla capitale, guidando torme di contadini armati. Gettatisi ne’ sobborghi, riattizzarono il battagliare; uccisero molti soldati regj, molti ne ferirono, sfidando il numero, l’arte militare e la mitraglia.
La Corte di Napoli, saputi i casi seguiti, inviò tosto nuove milizie in Sicilia, e in coda a queste il luogotenente generale dell’isola, principe di Castelcicala; indi impose alla gazzetta ufficiale di pubblicare che «l’ordine regnava a Palermo.»
Frase che puzza di sangue rappreso.
«Tranquillissima è l’isola (così finiva il giornale ufficiale del 6 aprile), come tranquillissima fu la stessa città di Palermo, durante il conflitto, e prima e [85] dopo.» Tanto importava ai borboni il diminuire l’importanza di quell’insurrezione in faccia all’Europa!
L’autore della Storia dell’insurrezione siciliana, dal quale togliamo questi particolari, chiama Francesco II «anima di frate in un fodero d’imbecille.» Noi abbiamo sott’occhio una fotografia rappresentante l’ex re e la sua famiglia; esaminando attentamente la testa di Francesco II, non si può a meno di convenire ch’essa starebbe molto a proposito tra le spalle d’un monaco, ma di quelli del Santo Uffizio; c’è nella ciera del giovine Borbone un misto di imbecillità, un non so che di fellonesco, di crudele, di superstizioso così marcato, da ringraziar Domineddio di avercene liberati.
Dopo i fatti d’aprile[12], a Napoli, nella reggia, si strinsero a consiglio, non già un re co’ suoi ministri, ma l’inetto Francesco II «che serba anima di un frate in un fodero d’imbecille,» la casta sua sposa, che pubblicamente tresca col proprio cognato il conte di Trani, e la matrigna di S. M., una Maria Teresa d’Austria, la vedova di Ferdinando II, che al viso arcigno, fiero e deforme, accoppia feroci istinti, libidine sfrenata di comando, desiderio di far regnare il proprio figlio conte di Trani invece di Francesco II, e che cova odio immenso contro i Napoletani. Questi erano gl’iddj del napoletano Olimpo, che sanno scagliare fulmini solamente contro un popolo avvilito e depresso; gl’iddj minori, come i conti d’Aquila, di Trani, di Noto ecc., furono chiamati al consiglio solo allorchè vi accorsero solleciti i genj, i messaggieri ed i più forti [86] sostenitori della gran macchina della celeste armonia reazionaria, un duca di San Cesario, tristo e ignorante, con altri nobilissimi: il principe di Castelcicala, luogotenente generale dell’isola, il nunzio del papa, il cardinal Riario Sforza arcivescovo di Napoli, due gesuiti, idoli del re; l’Ajossa, noto all’Europa per infamie efferate, e Carlo Filangeri, principe di Satriano e duca di Taormina per grazia di Ferdinando, della bombardata Messina, e della Sicilia insanguinata l’anno di grazia 1849.
Il re, le due principesse ed i principi, rappresentavano in quel convegno segreto il diritto divino che non transige mai, o se cede qualche volta all’impeto dei popoli, più terribile reagisce, più ferocemente opprime i dissennati che credono potersi conciliare la libertà con un diritto che emana dall’inferno e non da Dio.
San Cesario duca, ed i nobili ignoranti, vi figuravano come i simboli delle tenebre feudali, come i discendenti dei masnadieri armati che si dissero baroni o comites, i compagni dei re, gli associati dei divini ladroni.
Il nunzio, il cardinale, i gesuiti, nè Cristo avevano per maestro, nè il Vangelo per legge in quella congrega, ma il papa nemico degli uomini, e il codice della curia romana, bruttissimo impasto di venalità, d’imposture, di superstizioni e di sfrenati arbitrj; v’intervenivano come gli antichi protettori e socj in partecipazione delle grandi compagnie di baroni grassatori, e di coronati ladroni; erano infine i rappresentanti del medio evo, a cui vorrebbero di nuovo, se potessero, ricondurre i popoli per farli sprofondare novamente nella tenebria di atra notte, [87] ove obbligarli ad adorare il prete, il re padrone assoluto, ed i suoi comites.
Ajossa e Filangeri, come traditori della patria vi avevano posto, imperocchè l’uno servisse i Borboni per natura improba e crudele, l’altro si mostrasse devoto ad essi per brutta fame d’oro. Ajossa ricordava Caino, Filangeri Giuda; entrambi degni di sedere in quel congresso.
Parlò prima Maria Teresa, l’austriaca, e con modi concitati e sguardo altero, espose l’ingratitudine dei Siciliani che avevano osato di ribellarsi contro il più mite e paterno governo d’Europa (dopo quello dell’Austria s’intende); mostrò la necessità di reprimere con ogni mezzo la sedizione e conchiuse così:
— Se S. M. l’augusto padrone che tutti piangono, ed io più di tutti (ed asciugò una lagrima) fosse qui con noi, avrebbe già dato gli ordini perchè si impiccassero i prigionieri della Gancia, si arrestassero e torturassero i sospetti, ed al menomo moto si bombardasse ed incenerisse Palermo; ma il nostro re (e designò Francesco) è buono troppo; vorrà invece discendere a concessioni, accordare riforme, forse rimettere in vigore l’infernale statuto. Ma non vedrò di nuovo, come nel 1848, vilipeso il diritto che viene da Dio, avvilita la regal potestà, ed infangata la reggia con le orme che vi stampavano gl’insolenti borghesi divenuti ministri; no, io partirò per Vienna con mio figlio il conte di Trani».
— Verrò anch’io! gridò interrompendola la nuora.
— No, prese a dire con veemenza Francesco II, no, non partirà alcuno!.. Come avrebbe fatto quella sant’anima dell’augusto nostro genitore (e si segnò [88] e recitò un requiem), così faremo anche noi. Sì, bombe, forche, torture; ministro Ajossa, general Filangeri ajutateci; dappertutto ruine, sterminj, i ribelli ai re sono ribelli a Dio... Non è vero, miei carissimi padri, e rappresentanti del beatissimo padre e divino vicario di Gesù Cristo? (e si segnò di nuovo).
— Verissimo, verissimo! risposero in coro i preti; la forca qui, l’inferno colà; Iddio lo ha detto.
— Udite come noi pensiamo, ripigliava Francesco, e siamo fermi di non mutare. A nessun patto divideremo col popolo la potestà nostra, e preferiamo d’esser piuttosto caporale di nostro cugino l’imperatore d’Austria che re costituzionale.
— Bravo! gridarono insieme levandosi donne, principi, preti, duchi e ministri. Bravo, bene! Viva il diritto divino, e la Santa Chiesa.
Il baccano andava aumentando, allorchè il re, imposto il silenzio, riprese:
— Ordiniamo al ministro Ajossa di spedire le istruzioni al nostro caro Maniscalco, onde agisca come soleva comandare la sant’anima; torturi ed impicchi quanti crede, ed a suo piacimento. Al generale Filangeri ordiniamo di preparare un piano di attacco e di difesa per le truppe; egli che fece così bene nel 1849, saprà far meglio oggi. Così schiacceremo i ribelli come tante vipere. Noi frattanto correremo alla Darsena, al Molo, indi anche a Capua, onde incoraggiare i soldati, e dare ad essi le nostre istruzioni. Cardinale, benediteci! padri, pregate per la nostra causa!... e inginocchiatosi, ricevette la chiesta benedizione. Si rialzò, sciolse il consiglio, e si avviò alla volta di Capua per compiervi altre [89] scene stolide ed obbrobriose dinanzi alle truppe che dovevano imbarcarsi per la Sicilia.
A Capua imbandironsi mense per gli uffiziali e per i soldati, alle quali assistendo il re s’ingiunse ai capi ed ai soldati di non risparmiare i ribelli Siciliani, di esterminarli se si potesse dal primo fino all’ultimo; si raccomandò perchè nelle città e nei villaggi presi d’assalto, non si facesse distinzione di età, o di sesso, nè le case risparmiassero; fuoco, saccheggi, e morti precedessero e seguissero i loro passi nella scellerata Sicilia.
Il ministro Ajossa scriveva non solo al Maniscalco, ma diramava agli intendenti della terraferma una circolare, contro i sospetti, la quale terminava così: chiunque mostri simpatia pel moto siciliano dev’essere arrestato, e si dà facoltà di arrestare chiunque mostri curiosità, o parli di analoghe notizie. — Rigore, rigore, zelo, attività: il re nostro padrone (D. G.) così ordina, così vuole, così comanda.
Palermo, il 13 aprile, era in lutto; tredici infelici erano condotti al supplizio (Francesco II s’era fatto applaudire alla corte il giorno innanzi per certe sue lepidezze sul numero 13). Maniscalco, prima che si avviassero a morte, radunatili in un corritojo, trasse di tasca una lista, e chiamò per nome i condannati: Camorrone, Cucinotta, Vassallo, Fanaro, Cuffaro, Riso (padre), Ventimiglia, Barone, Vallone, Nicola, Calandri e Canceri. Indi il direttore, compostosi il volto a benevola sollecitudine, disse con melato accento alle tredici vittime:
— Ascoltate, o infelici, un consiglio d’amico. Voi siete a due passi dalla morte... da una morte dolorosa... attroce... voi ora sì pieni di vita... Rivelate [90] i capi del comitato rivoluzionario; vi prometto in cambio salva la vita... e un buon premio per giunta... Il re penserà a voi e alle famiglie vostre... Via, parlate... Ma, in nome di Dio, in chi e di che sperate?... Poveri illusi! mi fate compassione... I vostri compagni oramai sono tutti vinti, o dispersi...; tutti!... Ostinandovi a tacere, rovinate voi... e le vostre povere famiglie. Una morte infame... penosa per voi; la miseria per le famiglie. Via, parlate... decidetevi...» e giungeva le mani quasi supplichevole.
Ma il vecchio Giovanni Riso, consultati i compagni, rispose fieramente che essi non conoscevano comitati di sorta; ma anche li avessero conosciuti, avrebbero conservato il segreto; meglio la morte, che l’infamia.
L’incolto e bravo popolano ripeteva, senza saperlo, il famoso: potius mori quam fœdari.
Al Riso poco premeva la vita, chè sapeva trovarsi suo figlio Giovanni, giovane ardente di libertà, mortalmente ferito nelle unghie de’ regi.[13]
Maniscalco udita l’eroica risposta, gettò la maschera e mostrossi iniquo qual’era; ruggì tra i denti serrati pel furore:
— Sì, morirete tutti fra pochi istanti; morirete come cani... Vedremo se l’Italia, e il vostro Vittorio Emanuele verranno a salvarvi...
Mezz’ora dopo, i cadaveri dei tredici patrioti venivano trascinati su due carrette per le vie di Palermo, tra gli insulti della sbirraglia... e le lagrime dei cittadini che ne giurarono vendetta.
[91]
Il supplizio de’ tredici[14] provocò uno sdegno furioso tra le bande degli insorti, i quali a Carini, sorpreso un posto di ventisei soldati napolitani, li impiccarono tutti per la gola; così il furore del governo oppressore ridestava il furore e rappresaglie di sangue: così i figli della stessa madre, l’Italia, si sterminavano a vicenda come se fossero tra loro nemici e stranieri.
Pervenuta a Napoli la nuova dell’uccisione dei soldati di Carini, infuriava il re; la madrigna e la consorte lo eccitavano a incrudelire, sicchè Bombino, chiamati i ministri: «Ordinate, gridò loro, che s’incenerisca Carini, che il ferro ed il fuoco vendichi i miei soldati». Ad appagare la collera del re, fortissime colonne mobili uscirono da Palermo, e si avviarono verso la città condannata.
Giace Carini poche miglia da Palermo, ed era popolata da 7100 abitanti; antiche e solide mura la ricingono, e la circondano deliziose campagne. In Carini eransi fortificate alcune centinaja di insorti: vi arrivavano i soldati e si facevano attorno per espugnarla; i Siciliani combatterono gagliardamente nei giorni 19, 20, 21 aprile, ma sopraggiunti nuovi rinforzi ai regj, gli insorti dovettero allontanarsi, ricoverandosi nelle montagne. Perdettero questi 250 morti; ebbero i regi 320 soldati ed ufficiali uccisi. Entrarono le truppe di Francesco II in Carini e per rapacità di preda e per gli ordini ricevuti, nulla rispettarono in quella desolata città. E di nulla sentirono pietà; sgozzarono i fanciulli sul seno delle madri, e queste stuprate e poi trafitte, cadevano sui [92] loro cari estinti; non salvava l’età senile, non il tempio, chè sugli altari medesimi vennero trucidate donzelle e matrone, e gli stessi sacerdoti; d’ogni suppellettile fecero bottino, e quando i preziosi arredi erano predati, davano fuoco alle case ed ebbri tripudiavano intorno alle fiamme. Ardeva Carini, perivano centinaja di cittadini, e una nuova pagina storica accusava Francesco II, come distruttore delle città e de’ villaggi del suo reame, come assassino di innocenti, nell’istessa guisa ch’aveva accusato il suo avo Francesco I d’aver fatto distruggere, nel 1828, il villaggio di Bosco nel Cilento.
Gli orrori commessi a Carini, raccontati a Palermo ed a Napoli dalla principessa di Carini, che trovavasi sul luogo nel giorno del macello, destarono nell’una e nell’altra città sentimenti di raccapriccio e di vendetta, giurando l’uno e l’altro popolo di liberarsi a qualunque costo de’ Borboni, mentre re Francesco II, il re pietoso, andava ripetendo nella reggia: uccisero i miei soldati, ma l’hanno pagata cara!
Gli insorti rifugiatisi nei monti continuarono, guidati dall’intrepido Rosolino Pilo, la lotta contro i borbonici.
[93]
«Italia e Vittorio Emanuele! gridammo passando il Ticino. Italia e Vittorio Emanuele! rimbomberà negli antri infocati del Mongibello.»
Garibaldi.
La sera del 5 maggio 1860, la spiaggia del mare che si estende in semicerchio dinanzi a Quarto presso Genova, offriva un curioso spettacolo.
Alcune centinaja di soldati (chè n’avevano tutta l’aria), vestiti quali della rossa assisa, quali in semplice abito borghese, se ne stavano lungo la spiaggia aggruppati in capannelli. Quasi tutti poi portavano cappelli a larghe tese, e borse ad armacollo, come chi sta per intraprendere un viaggio. Marinaj e pescatori colle loro famiglie, si frammischiavano a questi belligeri pellegrini, rendendo così più pittoresca la scena.
Gli sguardi della folla erano rivolti ora su due piroscafi ancorati a poca distanza dal lido, e che, [94] colla colonna di fumo che sprigionavano, mostravano d’esser pronti a salpare; ora sulla strada che, costeggiando il mare, da Quarto conduce a Genova; questa strada era animata da numerosi viandanti che a due, a quattro, a sei per volta arrivavano a passo celere e si arrestavano sulla spiaggia dinanzi a Quarto, mischiandosi colla folla. Anche costoro ad ogni tratto si volgevano e guardavano cogli altri.
Tutti aspettavano il generale Garibaldi.
Roberto e Valentino se ne stavano seduti l’uno accanto l’altro, fumando le loro pipe di gesso. Valentino indossava la sua vecchia assisa di Cacciatore delle Alpi; un farsetto bruno di tela coi paramani color verde, un berretto di panno con sopravi cucita la cornetta, e calzoni bigi stretti alla caviglia entro uose di cuojo.
Roberto, tranne i calzoni che portava simili a quelli di Valentino, nulla aveva che lo indicasse soldato.
— Sicchè Valentino, si parte o no?
— Ah! questa volta si parte di sicuro.
— È un pezzo veh! che ci tengono sulle spine... Guarda quanto tempo siam restati a Genova colle mani in mano!
— Tanto tempo? Sei curioso davvero, Roberto! Tanto tempo! Ma credi tu che spedizioni di questa fatta siano cose facili come bere un ovo?
— Capisco! Ma la è una eternità...
— Per noi che bruciamo per la smania di andarcene, è naturale! Ma adesso è inutile pensare al passato; ora si parte... finalmente!
— Quanto tarda il generale!
— Come puoi dire che tarda?... Ha forse fissata l’ora precisa? Trovatevi a Quarto verso sera, ci ha mandato a dire, ma l’ora non l’ha fissata...
[95]
— Oh! quando sarò in alto mare! sclamò Roberto, emettendo un lungo sospiro.
— Capisco cosa vuol dire quel tuo sospiro! rispose Valentino, traendo dal petto un altro sospiro ancor più lungo. Ma non pensiamo a queste cose, Roberto... Fra mezz’ora tutt’al più saremo in mare... e allora... avremo altro a fare... Vedi!... i vapori fumano alla più bella... Vorrei sapere su qual dei due mi imbarcherò...
— E sull’uno, o sull’altro per me è tutt’uno.
— Anche per me...
— Quello là a destra è il Lombardo, vero?
— Sì, lo comanda Bixio, che è un marinajo consumato... Garibaldi comanderà quell’altro là, il Piemonte...
— E Federico non si vede ancora? chiedeva Roberto guardando verso Genova.
— Chi sa se verrà qui... Lui, lo sai, resta...
— Lo so, lo so,... partirà dopo con Medici. Però mi ha detto jeri che sarebbe venuto ad accompagnare il generale... A proposito! Mi diceva jeri Federico, che quel vapore là...
— Il Lombardo?
— Sì, il Lombardo, è quello stesso su cui nel quarantanove egli è tornato dopo la spedizione di Roma...
In quella si udì un hurra! prorompere dalle bocche di tutti, e una salva di battimani. Tutti gli astanti si volsero verso la strada, alzandosi sulle punte de’ piedi per veder meglio. Roberto e Valentino balzarono sul sasso su cui sedevano:
— È lui... è lui... Viva Garibaldi!
— Viva Garibaldi! gridò replicatamenle la folla.
[96]
Pochi minuti dopo il tratto di mare tra la spiaggia e i due piroscafi era solcato da innumerevoli barchette, gremite di volontarj garibaldini; fra queste distinguevasi una sdruscita barca peschereccia entro cui vedevansi ritti Türr e Sirtori, e in mezzo a loro Garibaldi, che salutava agitando il cappello la folla plaudente e i suoi amici accalcati sulla spiaggia.
Tutte quelle barchette circondarono i piroscafi; i garibaldini, arrampicandosi sulle corde, in un attimo furono a bordo. Valentino e Roberto salirono insieme sul Piemonte.
S’intesero due acutissimi fischj; poi il suono della campanella, e i vapori si mossero. La folla mandò un ultimo grido di addio; con altre grida risposero i garibaldini dai piroscafi, che in breve si perdettero tra le ombre che erano già calate sul mare.
Dio vi accompagni o giovani, onore d’Italia!
Ci siano intanto permesse due parole su Garibaldi dall’epoca di Villafranca in poi.
Garibaldi che, alla testa de’ suoi Cacciatori delle Alpi aveva esercitata un’influenza tanto decisiva sul modo con cui vennero aperte le operazioni nella campagna del cinquantanove, all’epoca della pace di Villafranca trovavasi presso i passi del Tirolo meridionale, ed aveva il suo quartier generale a Lovere, sul lago d’Isèo.
Garibaldi, dopo la conclusione della pace, essendosi manifestato ne’ suoi volontarj (com’era naturale) un vivo desiderio di far ritorno a’ loro domestici focolari, fino dal 19 luglio, gli aveva confortati a restare, per qualunque evenienza, sotto le armi.
[97]
Le sue idee erano[15]; che l’Italia non dovesse darsi in braccio alla diplomazia; che non dovesse accettare quella soluzione qualunque con cui la diplomazia europea volesse imbrigliarla; che dovesse agire di proprio impulso, senz’altro rispetto alla diplomazia, se non quello di attraversarle la strada, di modo che tutt’al più essa fosse tratta a rimorchio dai fatti compiuti.
Per l’Italia non esservi che una meta ed una via; meta, l’Italia una sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele; la via, avendo Napoleone colla pace di Villafranca separata la sua causa da quella d’Italia, essere altrettanto sicura quanto chiaramente disegnata. Gli Italiani, da sè, dovevano spingere la rivoluzione più a mezzogiorno; (a mezzogiorno, non ad occidente, onde non disturbare il Piemonte dal suo riposo necessario, e quindi non usare delle forze piemontesi per la rivoluzione italiana) colle truppe che l’Italia centrale avrebbe potuto organizzare. S’intende da sè che tali forze non risultavano semplicemente dall’Italia centrale, e molto meno potevano rimanere dell’Italia centrale, giacchè dopo la pace, come prima si rafforzarono coi volontarj d’ogni angolo d’Italia.
Senza aver la pretesa di dichiarare esser queste proprio le idee di Garibaldi, diremo che il Rüstow pare non si scosti gran fatto dalla realtà.
Ma la diplomazia, e Napoleone (il quale dopo la pace di Villafranca pare non abbia separato niente affatto la sua dalla nostra causa, come lo provano la partenza della flotta francese da Gaeta, e il successivo [98] riconoscimento del regno d’Italia) non ne vollero sapere di inforcare il focoso puledro della rivoluzione, chè alle volte.... Preferirono il tardo ma docile ronzino della diplomazia, e memori del proverbio: chi va piano va sano, procedettero trotterellando, invece di correre di buon galoppo.
Eppure Garibaldi diede splendide prove di equitazione, percorrendo di carriera le Due Sicilie in groppa a questo focoso puledro, senza inciampare, nè perder le staffe mai!
Garibaldi, il principio d’agosto, fu chiamato nell’Italia centrale, ove da principio doveva assumere il comando supremo di tutte le truppe colà scaglionate. Con ordine del giorno datato da Bergamo (11 agosto), il generale si congedò da’ Cacciatori delle Alpi; partì alla volta di Livorno, ove giunse il 15, e di là si recò a Firenze, poi a Modena, e quindi nelle Romagne.
In quel frattempo[16] (19 agosto) ebbe luogo una riunione di deputati delle quattro province, anche delle Romagne, nella quale si intavolarono i preliminari per la formazione di una lega militare; ai 3 di settembre questa lega venne ratificata per la Toscana, Modena e Parma, mentre per il momento la Romagna restava ancora esclusa.
Nella camera dei deputati a Modena era stato in pari tempo scelto il generale Fanti, e ad esso, non a Garibaldi, venne offerto il comando supremo dell’armata dell’Italia centrale; comando che egli tosto accettò, prendendone possesso con un ordine del giorno (24 settembre).
[99]
Garibaldi venne nominato generalissimo in secondo, e la cosa non si potè altrimenti comporre che coll’attribuire a Fanti in modo speciale la direzione del ministero della guerra, mentre Garibaldi sarebbe stato il vero comandante delle truppe nelle operazioni che, sia in senso difensivo, sia in senso offensivo, si dovessero intraprendere dall’Italia centrale verso il mezzodì. Ad onta di ciò era difficile che altri potesse illudersi circa il carattere della nomina di Fanti, contromina del partito diplomatico, al quale egli stesso apparteneva, e disposta all’effetto di paralizzare Garibaldi, e mantenere tranquilla l’Italia centrale, in attesa delle determinazioni della pace di Zurigo, e del congresso che, speravasi, le avrebbe tenuto dietro.
Garibaldi e Fanti, già divisi per ragione di partito, lo erano ancora più per le loro nature, e le loro viste militari; all’anima, al fuoco di Garibaldi, per il quale non v’ha rischio che appaja soverchio (senza ch’egli si stacchi un dito dalla più oculata prudenza, benchè in sulle prime non paja), contrapponevasi il freddo calcolo di Fanti; all’ardito condottiero de’ Corpi franchi, il soldato regolare, che tutto misura col compasso e colla squadra, e che alla sola vista delle camicie rosse sentesi il mal di mare.
Fanti poteva giovare assai all’idea che era destinato a rappresentare, e che infatti rappresentò, cioè, che l’Italia centrale aveva bisogno di quiete per un efficace e durevole organamento militare.
L’Italia centrale aveva al principio di settembre, circa 20,000 uomini sotto le armi, la maggior parte dei quali erano volontarj, senza una ferma determinata. Per tutte le vicende della guerra non poteva quest’armata misurarsi con una truppa regolare [100] bene organata; non era un’istituzione che fosse calcolata per durare. Fanti oltre a ciò trovava che l’armata dei volontarj difettava d’armi, d’attrezzi ecc.; e a ciò si doveva provedere. Finalmente anche l’effettivo non era soddisfacente, e per quanto potesse essere grande l’entusiasmo della gioventù dell’Italia settentrionale e centrale, è chiaro che su tali fondamenti non si poteva erigere un durevole edifizio, e che ad un vecchio soldato la coscrizione piemontese doveva sembrare un fondamento assai più sicuro[17].
Finalmente potevasi anche dire: mentre ogni tendenza del movimento dell’Italia centrale è verso l’annessione al Piemonte, non è opera assennata il sistemare sul modello piemontese le truppe ivi raccolte?
Garibaldi nulla aveva da opporre a tutto questo se non la fede nel successo, la fede della gran causa italiana, alla quale aveva consacrata tutta la vita: la fede nel coraggio e nell’amore de’ suoi volontarj, cose tutte che le nature fatte col regolo sono avvezze a chiamare illusioni...
Non è quindi meraviglia se questi due uomini, per le loro differenti attitudini, fino dal primo momento venissero reciprocamente a dissensi, che di giorno in giorno più inasprirono.
Garibaldi, il 28 ottobre, assunto il comando supremo dei volontarj raccolti nella Romagna (provincia insorta, non ancora unita alle altre tre cogli stessi legami, e quindi in diritto di trasportare l’insurrezione sull’attiguo territorio pontificio) credette giunto il momento di strappar di dosso al papa gli ultimi lembi del poter temporale.
La conclusione della pace di Zurigo, fu l’ostacolo [101] che la diplomazia gli gettò dinanzi, acciò non potesse progredire.
Napoleone acconsentì che anche Toscana si unisse al resto dell’Italia libera; ma chiese il sacrifizio di Garibaldi, il quale, amareggiato dalle continue lotte che doveva sostenere col partito della diplomazia, rinunziò al comando (14 novembre), e si ritirò nella solitaria sua Caprera. Ma il grand’uomo, prima di lasciar la terraferma, avvertì con un suo proclama gli Italiani che la politica la quale inceppava i passi di Vittorio Emanuele, doppiamente li obbligava a serrarsi intorno al re; egli stesso sarebbe senza indugio ritornato al suo posto, appena il re avesse chiamati i suoi soldati alla guerra di redenzione.
Molti de’ suoi fedeli compagni, imitarono l’esempio del loro generale, e abbandonarono l’armata dell’Italia centrale.
Sulla punta occidentale dell’isola di Sicilia, dietro il Lilibeo, sorge Marsala, coronata di bastioni, e specchiantesi nel porto; scalo frequentato dai navigli che percorrono il Mediterraneo da Oriente a Occidente, toccando Malta. Questo porto era anticamente molto più ampio e frequentato, ma venne in parte turato nel 1532, onde chiudervi l’accesso alle galee dei corsari turchi che infestavano quei mari.
Circa alle 9 antimeridiane dell’11 maggio 1860, due legni inglesi da guerra, l’Intrepido, (capitano Marryat) e l’Argo (capitano Ingram) provenienti da Palermo, giungevano dinanzi a Marsala. L’Intrepido gettò l’áncora a un miglio circa dal fanale ove termina il molo, e l’Argo (che doveva fermarsi a Marsala [102] tre o quattro giorni) due miglia più in là, ove il fondo offre più sicuro ancoraggio.
Per qual motivo que’ due navigli erano venuti a Marsala?
Eccolo. Il generale borbonico comandante quel distretto, aveva disarmate le popolazioni col pretesto che i dintorni erano infestati dai briganti (così, col linguaggio solito dei governi bene costituiti, venivano da quel generale chiamati gli insorti condotti da Rosolino Pilo e da altri patrioti). Alcuni Inglesi, negozianti di vino e residenti in Marsala, avevano dovuto essi pure consegnare le loro armi al generale borbonico, protestando però contro quella soperchieria: chè (dicevano essi con tutta ragione) se è vero che siamo minacciati dai briganti, è una ragione di più perchè ci siano lasciate le armi.
Fiato perduto! Le armi furono sequestrate.
Allora que’ sudditi inglesi, a mezzo del loro vice-console Cossins, chiesero protezione al capitano Cochrane che dimorava a Palermo; e costui spedì tostò a Marsala le due navi da guerra.
I capitani Marryat e Ingram, coi loro uffiziali, si recarono nelle loro lance a terra, indi, incontrato il vice-console Cossins, in sua compagnia si portarono dai loro connazionali negozianti di vino, onde trattare l’affare del disarmo.
Mentre discutevano, ecco sopragiungere un Inglese, il quale disse alla brigata che si avanzavano due vapori dal nord-est, inalberando bandiera sarda (allora dicevasi così). Tosto la comitiva salì sopra un’altura, e di là, con un telescopio, poterono distintamente vedere i due stheamers, il più piccolo dei quali rimorchiava un battello, il che ci fece credere [103] essere questo di un piloto tolto da terra, cammino facendo.
I due vapori[18] non mostravano la menoma esitazione nell’approdare; girarono intorno la prora dell’Intrepido, dirigendosi verso il molo, ove giunsero circa alle 2 pomeridiane.
Il primo entrò felicemente; era il Piemonte comandato da Garibaldi; l’altro il Lombardo diretto da Bixio, arenò a circa centocinquanta metri dalla spiaggia.
In quel punto comparvero tre legni napolitani, i quali incrociavano tra Marsala e Mezzara (piccola città verso il sud, lungi circa dodici miglia dalla prima): erano lo Stromboli ed il Capri, che rimorchiava una fregata a vela. Queste navi erano già a sole sei miglia dai Vapori sardi.
Intanto il Piemonte aveva già sbarcate le persone che aveva a bordo; erano uomini ben armati e disciplinati; appena toccata terra, tosto si ordinavano in compagnie e colle carabine in ispalla marciavano in perfetto ordine.
L’altro Vapore però che erasi arenato, dovendo sbarcare la sua gente col mezzo di barchette, non era ancor riuscito a metterne fuori più di un quarto; quando i legni napoletani vi furono sopra a tiro di cannone.
Io (scrive il capitano Marryat) aveva già consigliato i proprietarj di alcuni schooners inglesi a condurli fuori del porto, credendo corressero pericolo di trovarsi in mezzo al fuoco; ma non si potè seguire il mio consiglio perchè non fu possibile far [104] movere gli schooners, per l’assoluta mancanza del vento.
I legni napoletani non fecer fuoco; lo Stromboli calò in mare una lancia, e mandò un uffiziale verso i Vapori sardi; ma percorsa appena la metà della distanza che lo separava da quelli, la lancia retrocedette a tutta forza di remi. Eravamo in questo momento sicuri che il fuoco comincerebbe, ma con nostra sorpresa, ecco che lo Stromboli spinge la prora verso l’Intrepido, invece di avvicinarsi alla spiaggia ed impedire che continuasse lo sbarco.»
L’ufficiale che in assenza del capitano comandava in quel momento l’Intrepido, venne chiamato a parlamento dal capitano Caracciolo dello Stromboli, e richiesto se fra le truppe sbarcate ve n’erano di inglesi; l’uffiziale rispose che no; ma soggiunse che i due capitani dei due legni inglesi e alcuni dei loro uffiziali erano a terra.
In questo frattempo tutti i garibaldini erano sbarcati. Scoccavano le quattro.
I capitani Marryat e Ingram, ed il vice-console Cossins, si recarono tosto a bordo dello Stromboli, il cui capitano dichiarò loro che era obbligato a far fuoco sugli sbarcati, promettendo che avrebbe scrupolosamente rispettata la bandiera inglese ovunque la vedesse sventolare. E il fuoco cominciò.
Il capitano non mancò di scusarsi per la poca elevazione ch’ei dava a’ suoi projettili, dicendo che era suo desiderio risparmiare la città, e solo colpire gli insorti che marciavano dal molo verso quella.
La fregata napoletana, staccatasi dal Capri dal quale era tratta a rimorchio, trasse una bordata di projettili, ma inutilmente chè i garibaldini erano già al sicuro dietro le mura di Marsala.
[105]
Il capitano Marryat, ritornato a bordo dell’Intrepido, vi trovò un uffiziale dello Stromboli. Era venuto per chiedere all’Inglese di spedire di comune accordo una lancia verso i legni sardi per intimare loro di arrendersi. Era chiaro che l’uffiziale napolitano voleva, coperto dalla bandiera britannica, accertarsi se quelle navi erano vuote o no. Nel primo caso egli non avrebbe corso rischio alcuno, nel secondo avrebbe avuto il vantaggio di essere moralmente assistito nella resa che si voleva intimare. Il capitano Marryat vide il laccio, e seppe schivarlo rifiutandosi.
Allora i Napolitani spedirono alcuni battelli equipaggiati ed armati verso i navigli sardi; e riconosciutili abbandonati, se ne impossessarono, abbassando tosto la bandiera italiana. Erano le 6 pomeridiane.
Il capitano Marryat, levò l’àncora onde recarsi tosto a Malta e di là spedire la notizia dell’accaduto all’ammiragliato inglese. Però, prima che partisse, il capitano Ingram pigliò coll’Argo il posto lasciato dall’Intrepido, onde comunicare più facilmente colla città, ed essere in miglior posizione di proteggere gli interessi dei sudditi inglesi stabiliti a Marsala.
Garibaldi, disposto in fretta in fretta il suo piccolo esercito, e occupati gli avamposti dalla parte del mare, fece affiggere sulle mura della città due proclami, uno alle truppe napolitane, l’altro ai Siciliani. Quest’ultimo diceva:
Siciliani
«Vi ho condotto un pugno di bravi, accorsi al grido eroico della Sicilia, sopravissuti alle battaglie [106] lombarde. Eccoci presso di voi. Noi non domandiamo altro che l’affrancamento della patria. Siamo tutti uniti. Allora l’impresa sarà facile e breve. All’armi!
«Chiunque non afferra un arme, è un vile, un traditore della patria.
«Che la mancanza d’armi non sia un pretesto. Avremo dei fucili, ma in questo momento ogni arma è buona nelle mani d’un bravo. I municipj penseranno ai vecchi, alle donne, ai fanciulli abbandonati. All’armi dunque! La Sicilia insegnerà una volta di più al mondo come un paese si libera da’ suoi oppressori per la volontà di un popolo concorde.
G. Garibaldi.
Roberto e Valentino erano sbarcati tra i primi dal Piemonte. Il giovane pittore, pallido e sbattuto pel mal di mare che durante il viaggio non gli aveva dato un istante di tregua, appena ebbe posto piede a terra, si inginocchiò e la baciò; poi rizzatosi stirò le braccia e le gambe ingranchite:
— Ah! finalmente ho i piedi in terra!» sclamò mandando un lungo sospiro. Non dondolo più come un ubbriaco... Ora perdio! mi sento un altr’uomo...» Così dicendo impugnò con ambe le mani la carabina per la canna e la fece roteare intorno alla testa con rapidi giri di mulinello, per meglio snodare le braccia.
Valentino taceva; guardava trasognato la città, il mare, i vascelli, i compagni; gli pareva sognare. Ma a trarlo dalla sua estasi, gli si accostò il general Türr, seguito da un uffiziale:
— Animo giovinotti!... qui con noi...» Così detto, si incamminò celeramente verso la città. Valentino e Roberto, postesi in ispalla le carabine, seguirono tosto il generale ungherese e l’uffiziale.
[107]
Mentre salivano verso un’altura, Roberto guardò di traverso il taciturno amico, e al vedere quella ciera attonita, non potè a meno di ridere.
— Che diavolo hai, Valentino! gli disse. Sembri un uomo dell’altro mondo?... Si può sapere a cosa pensi...
— Penso, rispose l’altro con voce bassa, che tutto quello che è successo non è... non è cosa naturale... Prima di tutto ti dirò che Garibaldi non è un uomo... Non voglio bestemmiare dicendo che è un Dio!.... non istà bene... però... però... è un fatto che egli è qualche cosa di più degli altri uomini... Non è la prima volta che mi trovo con lui...; l’ho veduto far cose che... Ma questa qui le vince tutte.... Poi tutti i contratempi che sono successi in viaggio, invece di far danno hanno giovato... Insomma, povero pescatore come sono, io non credo un’acca a tutte le fandonie che certi preti, e certi bigotti ci vogliono dare a bere, però la mia religione, quella che fa del bene a noi e agli altri, quella di mio padre, l’ho qui nel cuore...
— E così?
— E così nessuno mi caverà dalla testa che questa spedizione è stata protetta dalla Providenza... Bisognerebbe esser cieco per negarlo... Punto primo, ad Orbitello, quando nessuno se lo immagina, Garibaldi manda giù a terra... (e segnava Türr col dito) a cercar munizioni... E lui (e replicava il gesto) torna indietro colle munizioni, e con quattro cannoni per giunta...
— Ma se ti ricordi, Garibaldi in quell’occasione si mostrò a bordo vestito da generale piemontese; volevi tu che il comandante d’Orbitello avesse a dir di no ad un generale del re?
[108]
— Lasciamo andare!... Poi, mentre si andava cheti come olio, ecco quel matto che si butta in mare... Il Piemonte si ferma; si lascia giù una lancia e si manda a pescare quel povero diavolo, e là si perde un’ora di tempo. Poi ci passa vicino quel brigantino a vela;... Te ne ricordi? Che fa Garibaldi? Chiama il capitano del brigantino e gli dice: Dove andate! — A Genova — Bene! direte ai nostri amici che Garibaldi è sbarcato felicemente» e gli butta un pane in cui c’era una lettera. Capisci? un uomo come un altro non le dice le cose con tanta sicurezza... Ma Garibaldi sapeva già come la doveva finire; forse lo sapeva fino da quando era a Genova; come sa di sicuro (ci giuoco la testa) quello che succederà domani, doman l’altro, tra una settimana tra un mese....
— Questo poi...
— La è così... te lo dico io! (rispose Valentino con tale accento che dinotava in lui una fede cieca, a tutta prova pel suo condottiero). Ma andiamo innanzi. Il matto, che voleva annegarsi ad ogni costo, torna a buttarsi in mare... Un altro avrebbe detto: se ha questo capriccio, se lo soddisfi... peggio per lui. Ma il generale, no, fa fermare una seconda volta il Vapore, e perde un’altra ora di un tempo preziosissimo per salvare quest’uomo.... Dopo siamo quasi in porto... crac! il Lombardo di Bixio si arena,... poi troviamo là gli Inglesi che non vogliono che si incominci il fuoco prima che tutti i loro uffiziali, ch’erano a terra, siano ritornati a bordo... Intanto sbarchiamo noi e la roba.... Finalmente ci fanno fuoco addosso, senza nemmeno toccarci un capello[19]. [109] Quando siamo arrivati a Marsala erano le due, è vero?.. Ebbene! poco prima di mezzogiorno c’erano in città circa ottocento soldati del re-bomba... Se strada facendo non si perdevano quelle due ore nel salvare il matto, chi sa come la sarebbe andata la faccenda.... No, no; credilo a me, Roberto... Garibaldi non è un uomo come gli altri...., o per lo meno è il Beniamino della Providenza.
Intanto erano giunti all’uffizio del telegrafo. L’impiegato, visto da un finestrino avvicinarsi le quattro camicie rosse, prese la fuga.
I nostri entrarono nell’uffizio. Il tenente che seguiva Türr era stato impiegato negli uffizj telegrafici di Genova; quindi, poste le mani sui dispacci, lesse questo, diretto al comandante militare di Trapani: «Due battelli a vapore, con bandiera sarda, sono testè entrati nel porto, e sbarcano gente» Mentre l’uffiziale leggeva a Türr il dispaccio, ecco arrivare la risposta: «Quanti sono? per qual fine sbarcano?» Allora l’uffiziale garibaldino fa lui la risposta: «Scusatemi, mi era ingannato. I due battelli a vapore sono bastimenti mercantili; vengono da Girgenti carichi di solfo.» Pochi minuti dopo, il telegrafo rispondeva [110] da Trapani «Siete un imbecille» e buona notte.
Spezzati i fili telegrafici, Türr e i tre garibaldini ridiscesero a Marsala.
Intanto gli altri uffiziali superiori, s’affrettavano ad ordinare i volontarj in diversi corpi. Tra questi uffiziali distinguevansi: La Masa, conosciuto per la parte brillante che ebbe nell’insurrezione avvenuta in Palermo nel gennajo del quarantotto, come anche per aver partecipato alla guerra d’indipendenza quale capo de’ volontarj siciliani. Egli contribuì egualmente alla difesa di Messina contro le truppe borboniche nel settembre del quarantotto. Durante il suo esiglio, pubblicò alcuni scritti politici e storici, fra i quali un racconto degli avvenimenti di cui fu teatro la Sicilia nel 1848 e 1849. Oltre a ciò, prevenendo col desiderio i presenti avvenimenti, fin dal cinquantanove tracciò il disegno dell’insurrezione italiana, prescrivendone le leggi e designando le milizie che dovevano soccorrerla e svilupparla. Questo lavoro fu giudicato ricco di ottime cognizioni pratiche; è l’abbozzo primitivo dell’organamento dei Cacciatori delle Alpi.
Carini, Siciliano anch’esso, improvisò a Palermo un reggimento di cavalleria, durante il periodo rivoluzionario del 1848 e 1849. Caduta la rivoluzione, cercò servir nell’esiglio, non solo la causa della Sicilia, ma quella di tutta l’Italia col suo Courrier franco-italien che pubblicavasi a Parigi.
Stocco, Calabrese, è assai noto e popolare in quella parte d’Italia. Nel quarantotto ei si mostrò uno dei più valorosi capi della insurrezione calabrese, e fece in special modo prova di coraggio e di abilità nel combattimento sostenuto ad Angitola; combattimento [111] che durò circa dodici ore, e in cui un pugno di Calabresi (circa quattrocento cinquanta) fu visto lottare vantaggiosamente contro le truppe comandate dal generale Nunziante, il quale sarebbe stato completamente disfatto, se Stocco fosse stato soccorso in tempo dagli altri capi calabresi.
Cairoli, il cui fratello morì combattendo a San Fermo. Non appena conobbe il progetto di Garibaldi, partì da Pavia, sua città natale, e la stessa sua madre, allora in gramaglie per la morte del primogenito, lo presentò al generale, mettendo a sua disposizione insieme al figlio la somma di 30,000 franchi. Nobile famiglia!
Bixio, nome oramai popolarissimo e caro a tutti. Ferito a Roma nel 1849 accanto al suo amico Goffredo Mameli (gentil poeta, quanto prode soldato, che morì sul Gianicolo per la gran causa italiana), fece parte nel cinquantanove della legione comandata da Garibaldi, e fu in allora uno dei più brillanti capi di battaglione. Marinajo espertissimo, al pari di Garibaldi, rese importantissimi servigi alla spedizione, assumendo il comando del Lombardo.
Orsini, già uffiziale d’artiglieria nell’armata napoletana, sostenne l’insurrezione siciliana del quarantotto e fu uno dei principali difensori di Messina nel settembre dello stesso anno. Nel successivo, difese il resto della Sicilia contro i borbonici comandati dal generale Filangeri. Obbligato a spatriare, prese servizio in Turchia in qualità di colonnello d’artiglieria, ma al primo grido della rivoluzione siciliana, accorse.
Anfossi, fratello di quell’Anfossi che perì gloriosamente ne’ cinque giorni di Milano. Nullo di Bergamo [112] che, lasciati gli agi e i lucri, seguì fedele il generale, rendendo segnalati servigi alla causa, come ne aveva già resi combattendo nel quarantanove a Roma, e dieci anni dopo nei Cacciatori delle Alpi. Missori, secondo. Manara, Majocchi, la cui devozione per la causa italiana può solo stare al pari colla sua modestia; infine Türr, Sirtori, l’eroico difensore di Venezia, Giorgio Manin, figlio del celebre dittatore veneziano, e altri di cui verremo parlando in seguito, mano mano si svolgeranno gli avvenimenti.
[113]
Terran Pugliesi; Calabri e Lucani
De’ gesti di costui lunga memoria
. . . . . . . . . . . .
E nome tra gl’invitti capitani
S’acquisterà con più d’una vittoria
. . . . . . . . . . . .
Ariosto — Orlando furioso, Canto III.
Intanto tutt’Italia aspettava ansiosamente l’esito dell’ardita spedizione. Sapevasi che Garibaldi era salpato da Genova, ma circa il cammino che egli avrebbe percorso, correvano le voci più strane e contraddittorie. A Milano, era un fermarsi per le vie ad ogni tratto per chiedersi l’un l’altro novelle di Garibaldi e de’ suoi mille; il popolo non parlava d’altro.
Finalmente giunse un telegramma che annunziava lo sbarco de’ garibaldini a Marsala, l’arenamento di uno dei due vapori, e qualche altra notizia accessoria, [114] incerta. Queste poche novelle convenivano però tutte in questo, che i nostri erano sbarcati felicemente, senza che vi fosse a deplorare una sol vittima.
Figuratevi quale doveva essere il chiacchierio nelle scuole delle modiste, le quali se, generalmente parlando, simpatizzano per l’uniforme militare in genere, andavano pazze per quelle de’ garibaldini, che non avevano viste mai (quelle rosse), e forse appunto per questo. Naturalmente quelle fra di esse crestaje che avevano un fratello, un parente, o un amico tra i volontarj di Garibaldi, in quei dì trionfavano invidiate dalle compagne, che non ne avevano; e queste ultime si vendicavano coi loro fratelli, o cogli amorosi, pungendoli perchè erano rimasti qui a passeggiar Milano, ed eccitandoli, col canzonarli, ad affrettarsi a partire almeno con Medici.
Dalia in quei giorni, nella scuola, era cresciuta in considerazione. Le di lei compagne, le quali (a malgrado del macchiavellismo femminile messo in opera da Dalia onde tener celato a tutti l’amor suo e chi ne era l’oggetto) subodorato l’arcano della giovinetta, non le avevano risparmiato i sarcasmi e le trafitture, avevano mutato vezzo, e sopportavano in buona pace le frequenti punture che Dalia alla sua volta rimandava loro, vendicandosi così dei dispetti divorati tante volte in silenzio.
Ma il dì 19 maggio, un sabato, Dalia crebbe a dismisura nell’opinione delle sue compagne. Mentre se ne stavano al solito chiacchierando in giro alla tavola da lavoro, ecco entrare il portalettere, il quale chiese alla maestra se certa Dalia *** era nel di lei negozio.
— Eccola lì, rispose questa levando gli occhi dallo scartafaccio dei conti, e indicando la ragazza colla penna.
[115]
Il portalettere porse sorridendo una letterona alla fanciulla, che la prese arrossendo. Tutti gli occhi delle astanti si appuntarono su quella carta.
— Com’è grossa! sclamò una di esse.
— Da dove viene? domandò Dalia al portalettere.
— Viene da... Aspetti...» e ripigliata la lettera dalle mani della giovinetta, esaminò il timbro postale sulla sopracarta, e compitando lettera per lettera, rispose: Calata... Calatasi... Diavolo d’un nome!... par turco! Poi per cavarsi d’impaccio senza dir bugie, visto un altro timbro soggiunse. Viene da Genova. Indi temendo gli rivolgessero altre domande indiscrete, per tagliar corto chiese l’importo della lettera; importo che parve enorme (infatti era doppio, perchè doppio era il volume della lettera), a Dalia in ispecie, la quale sarebbe stata imbarazzata a soddisfarlo, se la maestra non fosse venuta in di lei soccorso, sborsando del suo quel che mancava a raggiungere la cifra della tassa postale.
Tale generosità da parte della maestra non sembrerà soverchia, quando si consideri che quello era un giorno di paga, e che quindi l’anticipazione, non era che di qualche ora; in secondo luogo anche la maestra era donna, e forse meno forte delle sue scolare contro gli assalti della curiosità.
Dalia, aprendo la lettera, assunse (benchè il di lei viso imporporasse sempre più) una cert’aria d’importanza. Certo, avrebbe voluto riporre la lettera, per poi leggerla nel silenzio della solinga sua cameretta, lontano dalle compagne, le quali parevano suggere cogli occhi le notizie contenute in quei fogli.
Dalia, benchè affettasse disinvoltura, in realtà era impacciata, e non senza ragione. Non le conveniva [116] cedere al desiderio manifestatole in coro dalle sue compagne, di legger forte quella lettera, in primo luogo perchè non sapeva leggere correntemente, sicchè avrebbe dovuto fermarsi quasi ad ogni parola, ciò che ferendole l’amor proprio, le avrebbe nociuto nella considerazione, e amareggiate le dolcezze dell’orgoglio soddisfatto pienamente in quel dì, (tanto più che il darne la colpa alla scrittura ingarbugliata dello scrivente, era pretesto magro e insufficente). Oltrecciò temeva di ripetere inavvertitamente qualcheduna delle tante espressioni amorose (una sola avrebbe bastato per far ridere le maliziose compagne), colle quali Roberto soleva ingemmare con disordinata profusione il suo carteggio.
Quest’ultimo riflesso era stato sì potente sull’animo di Dalia, da farle respingere risolutamente tutti gli assalti che le davano le compagne, che offrivansi a far da lettrici, tanto da carpirgliela quella benedetta lettera... Ma a tutte quelle insidiatrici proposte, Dalia aveva resistito gagliardamente, rispondendo, che se non era franca nel leggere, non era però inferiore a nessuna di esse. Risposta che non risparmiò nemmeno alla maestra, la quale con istudiata bonarietà, si era offerta anch’essa a risparmiarle quella fatica.
La maestra, com’è naturale, offesa nell’amor proprio, e tanto più offesa perchè Dalia aveva colto nel segno, ripicchiò, sostenuta dalle allieve, le quali irritate dalla supremazia della compagna, l’assalirono, scoccandole contro un nuvolo di frecce avvelenate, alcune delle quali punsero Dalia sì al vivo, da farla prorompere per la stizza, e per la vergogna in uno scoppio di pianto, a cui fecero eco le risate delle astanti.
[117]
In questo entrò in bottega una vecchia signora, al cui aspetto tutte le bocche si chiusero. Era costei la contessa Emilia ***; abitava il primo piano di quella stessa casa, ove era amata e riverita da tutti i casigliani, e perchè ricca, e anche perchè d’un’ottima pasta. La maestra poi nutriva per lei una più sviscerata deferenza, chè la contessa Emilia, modello delle avventore, pagava senza dilazione e senza lesinare, com’è vezzo delle dame in generale.
La contessa, vedova già da un pezzo, con un nipote che aveva preso il posto di un unico figlio morto di coléra nel cinquantasei. Era solita passare la miglior parte dell’anno in una villa che unitamente ad un podere, possedeva nel piano d’Erba, riparando a Milano l’inverno. Ma in quell’anno aveva prolungata oltre il solito la sua dimora alla capitale, trattenutavi dal suo avvocato, il quale le aveva dichiarato essere la di lei presenza indispensabile per condurre a fine certi litigi, che di causa in causa, duravano già da quasi mezzo secolo.
Appunto in quel giorno l’avvocato le aveva concessa licenza (così le aveva detto sorridendo) di andarsene in campagna. Del che lietissima la contessa, prima di salire al suo appartamento onde disporre il tutto per la partenza, aveva voluto entrare dalla modista per lasciarle certe commissioni di non so quali cuffie che le si dovevano a suo tempo spedire alla campagna.
La maestra al comparire della contessa, si era tosto levata offrendole una sedia; le madamine avevano tutte simultaneamente chinate le teste, come spiche al buffo del vento.
La contessa Emilia, che prima di lasciar Milano [118] voleva approvigionarsi di notizie, date che ebbe le commissioni per le cuffie, e fissato colla maestra il modo più sicuro di inviargliele sane e salve, chiese che ci fosse di nuovo:
— Nulla, signora contessa, almeno ch’io sappia... le rispose con tutta dolcezza la maestra.
— E di Garibaldi?
È a notarsi che l’eccellente dama, per un fenomeno che di dì in dì si fa men raro, voleva tutto il suo bene a quel grand’uomo del generale.
— Ma!... esclamò la maestra fissando Dalia, la quale in pari tempo raccolse, senza alzar la testa dal lavoro, tutte le occhiate obblique delle compagne.
— A quest’ora, ripigliò la contessa immergendo le dita in una piccola tabacchiera d’argento, qualche cosa di nuovo in Milano si dovrebbe sapere. Si sa che sono sbarcati a Marsala; si sa che è partito.... per... Non mi ricordo più il nome di questo paese...
— Quella tosa là dovrebbe saperlo..., disse la maestra indicando Dalia.
La contessa Emilia si volse verso la giovinetta, sorridendole graziosamente al suo solito.
— Fammi il piacere, Dalia, proseguì la maestra con affettata dolcezza, dì quello che sai, qui alla signora contessa...
Vi lascio immaginare la confusione della povera ragazza, la quale se resisteva energicamente quando la trattavano colle brusche, ammolliva e cedeva subito presa colle buone. Cavatasi dal seno la lettera (che non aveva ancor letta per puntiglio, benchè si struggesse di farlo) si alzò e si avvicinò alla contessa.
— Che cara creatura!... come è bellina!... sclamò questa, contemplando la giovinetta e fermando gli [119] occhi su quelle magnifiche trecce. Guardate, guardate che stupenda capigliatura! Quel peso lì alla testa ti deve dar fastidio, eh! la mia tosa?
Dalia, sorridendo, accennò col capo di no.
La maestra guardò svogliatamente in istrada, battendo rapidamente pel dispetto il piede sullo sgabellino. Le altre ragazze si sarebbero volontieri scagliate sulla povera Dalia, e le avrebbero strappati tutti i capelli, tanto invelenivano.
— Sentiamo un po’ queste novità, la mia bella... Come ti chiami?
— Dalia.
— Dalia?... che nome curioso! E, dì un po’, chi è che te le manda queste novità?
Dalia abbassò il capo, e si fece di fuoco; avrebbe voluto scappare, ma le gambe le tremavano, senza aver forza di moversi. La maestra sorrise affettatamente mordendosi le labbra; le allieve finsero fare sforzi inauditi per trattenere le risa, ma a queste surrogarono certi sibili, certi frusci, simili a quelli che fa la birra quando gorgoglia e fischia intorno al turacciolo, tanto che la contessa Emilia, non potè a meno di capire il latino, come si suol dire, e, ignara della scena di prima, di sorridere anche lei, fiutando una presa di tabacco.
Dalia impallidì, girò un sguardo sì minaccioso sulla maestra e sulle compagne, che queste non seppero sostenerlo, e, fattesi serie, abbassarono gli occhi. La giovinetta, incontrata la dolce e compassionevole guardatura della contessa, sentissi scorrere nelle vene una tenerezza, confortatrice; all’ira tenne dietro un bisogno di sfogo, che anche questa volta si disciolse in uno scoppio di pianto.
[120]
— Oh! oh! che c’è?... che c’è?... Cosa ti è successo la mia tosa? le chiese la contessa intenerita.
— Solite smorfie... Non le badi... non le badi... disse sprezzantemente la maestra. Anzi... senti, la mia cara Dalia (e disse quel mia cara coi denti serrati), per evitare che queste scene abbiano a succedere un’altra volta è meglio che... che tu rimanga a casa tua. Qui si viene per lavorare, non per piangere...
Dalia, soffogata dall’umiliazione e dall’angoscia nulla rispose; ma levatasi, d’un balzo afferrò il suo sciallo e se lo gettò sulle spalle; indi, preso il cappellino, se lo acconciò alla bell’e meglio sulla testa, annodando con fretta convulsa i nastri sotto il mento. Ciò fatto, senza dire una sola parola, mosse difilata verso l’uscio... Ma la contessa Emilia, andatale incontro, la fermò, ponendole una mano sulla spalla:
— Fermati, la mia ragazza!... le disse con voce carezzevole, fermati... Non istà bene pigliar le cose con tanto fuoco... Non è vero, proseguì rivolgendosi alla maestra, che lei acconsente a tenerla qui ancora?..
— Veramente..., rispose la maestra facendo la preziosa, mentre in cuor suo, sbollita già la stizza, pentivasi d’aver licenziata Dalia, la più abile tra le madamine del suo negozio. Veramente... con quel carattere così superbo... Quando si è poveri come Giobbe, la superbia bisognerebbe lasciarla dietro l’uscio... Però... però... per riguardo a lei, signora contessa, che da tanti anni mi onora delle sue commissioni... Basta non se ne parli più... Dalia, torna pure al tuo posto.
Ma Dalia restava immobile, cogli occhi bassi e il labbro fremente. Un lampo iracondo balenò negli [121] occhi della maestra... Uh! se non c’era lì la contessa!... Ma questa, presa amorevolmente per un braccio la fiera fanciulla, pian piano la ricondusse al suo posto, dicendole con un garbo tutto materno:
— Andiamo, andiamo!... Si è già detto che quel che è stato è stato, dunque... Una bella ragazza come tu sei, deve mostrarsi docile bonina...
— Vieni qui, vieni qui, Dalia! le susurrarono in coro facendole posto le compagne, le quali, per uno di quei rapidi mutamenti tanto frequenti ne’ cervelli femminili, le avevano ridonata d’un tratto la loro simpatia.
Dalia, commossa, cedette, e levatosi lo scialle e il cappellino, sedette al suo posto, e riprese il lavoro.
— Così va bene! disse la contessa, soddisfattissima d’aver dispersa la bufera di cui essa, benchè involontariamente, era stata l’origine. Così va bene! brava tosa! Però, ripigliò sorridendo e accarezzando le bionde trecce della fanciulla, ti avverto che non ho rinunciato al desiderio di aver quelle tali notizie... Anzi, se lei lo permette (e si rivolse alla maestra) condurrò di sopra con me questa ragazza; così le darò quei tali fiori che le ho detto per le cuffie, e nello stesso tempo saprò quello che mi preme...
La contessa (avendo la maestra annuito con un inchino) pigliò Dalia per mano e seco lei salì al suo appartamento. Giunti nel gabinetto, disse alla fanciulla:
— Aspettami qui un istante, e torno subito... Vado a spogliarmi... Vuoi far colezione con me?
— Grazie, signora contessa, ma non ho fame.
— Bene, bene.... fa come vuoi... Un minuto e sono da te.
[122]
Infatti poco tempo dopo la contessa, in abito casalingo, entrava nel gabinetto, e sedeva presso la fanciulla:
— Ah! ora che siamo qui sole, spero che vorrai leggermela quella benedetta lettera!... Chi l’ha scritta?...
Dalia sorrise arrossendo.
— Ho capito, ho capito! Ebbene che c’è di male?... La è d’un garibaldino tuo amoroso?
La fanciulla, incoraggiata dal fare disinvolto della contessa, accennò col capo di sì.
— È il tuo promesso sposo dunque?... Di che professione è questo tuo giovine?
— È pittore.
— Pittore?... Ah! è di buona condizione dunque! tanto meglio, tanto meglio!... E, dì, i tuoi genitori vedono di buon occhio...
— I miei genitori sono morti.
— Avrai qualcuno che ne farà le veci...
— No, signora contessa, rispose sospirando la giovinetta, sono sola soletta al mondo.
— Oh poverina! sclamò la contessa pigliandola affettuosamente per mano. Sì giovane, sì bellina... e sola!
— Sola.
— E questo giovane... Come si chiama?
— Roberto.
— E questo tuo Roberto...
— È solo anche lui come me.
La contessa Emilia contemplò un istante la fanciulla, poi, quasi rispondesse a sè stessa, soggiunse:
— Ecco due poveri orfani... abbandonati da tutti... si incontrano... e si vogliono bene... Uno s’appoggia all’altro... Vi volete proprio bene davvero, eh?
[123]
— Oh! tanto... tanto!
— E siete poveri ambedue?
— Poverissimi. La s’immagini, signora contessa; io guadagno trenta soldi il giorno...
— E lui?
— Lui, poveretto, lavorava quando poteva....
— E ti ha lasciata qui sola?...
— Doveva far così... L’ha chiamato Garibaldi sicchè...» e non compì la frase che, anche piantata lì a mezzo, voleva dire: Quando è Garibaldi che chiama, non c’è ragione che tenga.
— E tuo padre chi era?
— Non lo so. M’ha allevata da piccina uno zio, che, poveretto è morto poco tempo fa nelle mie braccia... e in quelle di Roberto. Era un vecchio soldato di Napoleone I... Ha fatte tutte le campagne, era mutilato...
— Aveva qualche grado?
— Sicuro, rispose Dalia con un certo orgoglio, era capitano.
— Allora gli avranno data la pensione...
— Non ha voluto niente dai Tedeschi, il bravo uomo...
— Come si chiamava questo tuo zio?
— Il capitano Bernardo ***.
Questa volta toccò alla contessa di farsi rossa. Però, per nascondere quell’indiscreta vampa che la richiamava ai beati tempi della sua giovinezza, piegò il capo dalla parte opposta, col pretesto di saturarsi il naso con una grossa presa di tabacco.
Poi ricompostasi immediatamente (a settant’anni è l’affare d’un momento), ripigliò:
— Il capitano Bernardo ***! Ma io devo averlo conosciuto [124] questo tuo zio... Dì un po’, Dalia, era capitano dei Veliti, mi pare?
— Proprio dei Veliti...
— È lui, è lui senz’altro! seguitava la contessa fingendo di raccapezzarsi a poco a poco, mentre invece, al solo udire il nome del capitano, le era paruto vederselo dinanzi (come un certo dì, in una certa occasione), ginocchioni a suoi piedi, giovane robusto, innamorato, e nella sua splendida assisa.
— Raccontami, raccontami la sua storia. Tuo zio ve’! era... amico strettissimo di quella buon’anima di mio marito...
— Oh! guarda mo’ che combinazione! sclamò Dalia, e, eccitata dalla contessa, si fece a narrarle quanto sapeva della vita del capitano Bernardo.
La contessa Emilia (il lettore se ne sarà già accorto) era stata ai suoi tempi una donnetta galante; nè sarebbe giustizia il movergliene rimprovero chè, come dice Foscolo de’ letterati, anche le donne vanno giudicate a seconda de’ tempi in cui vissero. E appunto i tempi nei quali la contessa era in fiore, non erano gran che severi in fatto di costumi. Tutto era disordine allora, tutto era stato scomposto dalla rivoluzione, sicchè non è meraviglia se anche la morale ne andasse un pochino sconquassata.
La contessa era stata in grido di leggiadría, e molti vagheggini avevano farfalleggiato intorno al lume de’ suoi begli occhi, come dicevano gli Arcadi d’allora. Ma ciò che l’aveva resa di moda, tanto che per un mese in Milano non s’era parlato d’altro, fu una certa sua avventura, che noi pure racconteremo ai nostri lettori, anche per seguire un precetto raccomandato agli scarabocchiatori non so se da Longino, [125] o da Alberto Lollio, di intercalare cioè, al racconto, quando è lunghetto, qualche piacevole episodio.
Poche miglia fuor di Erba, a destra della strada che scende per risalir tosto verso Longone, sorgeva (e sorge tuttora) la villeggiatura di un ricco negoziante, il quale, rimasto vedovo, dato un calcio agli affari, soleva passare in campagna i più bei mesi dell’anno in compagnia della propria figlia.
Un giorno (un bel giorno d’ottobre) alcuni Milanesi villeggianti in quei dintorni, passando a caso di là, videro su di un terrazzo attiguo alla villa, e tutto ammantato di piante rampicanti, una leggiadra giovane, la quale stava leggendo il giornale ad un rubizzo vecchietto che sedevale al fianco.
— Che bella signorina! esclamò uno della comitiva.
— Graziosa davvero! soggiunse un altro.
— Che portamento disinvolto!
— Hai veduto che occhi lampeggianti?
— È un angelo! gridò il conte ***, giovane che godeva di molta celebrità nel bel mondo d’allora, per la pazza foga con cui correva dietro alle galanti avventure. Chi è quel vecchio?
— Dev’esser suo marito... gli rispose un tale che piccavasi di conoscer tutto. Anzi lo è di sicuro.
— Peccato! esclamò il conte sospirando; lei sì giovane, lui sì vecchio!... Così dicendo fermavasi fissando gli sguardi verso il terrazzo; poi raggiungeva i compagni, per fermarsi di bel nuovo, finchè, voltando la strada, l’ebbe perduta di vista.
Da quel momento il conte non ebbe pace; il suo pensiero era sempre là, fisso sul terrazzo. Lei sì giovane, lui sì vecchio! esclamava coricandosi; lei sì giovane, lui sì vecchio! andava ripetendo appena desto.
[126]
Passò, ripassò per quella strada, e non sempre invano, chè qualche volta gli venne fatto di rivedere la graziosa giovane, la quale, non ostante il sesto comandamento, finì co’ suoi begli occhi, coll’innamorarlo perdutamente.
Al solito, la passione del conte, crebbe cogli ostacoli, fra i quali primeggiava il marito, immancabile come l’ombra del corpo di sua moglie, innamovibile come il dio Termine.
Il conte usò tutti gli artifizj che la passione può suggerire per communicare col suo idolo o a voce, o in iscritto, ma sempre invanamente. Quell’originale di negoziante emerito viveva isolato come un selvaggio, senza fare nè ricever visite, tantochè nessuno sapeva dar contezza de’ fatti suoi. Che era riuscito a sapere il giovane innamorato? Che la giovane aveva nome Emilia; null’altro!
Il conte fu lì lì per impazzirne. Finalmente, volendo riuscire a qualunque costo, risolse di ricorrere ad uno stratagemma, disperato, se volete, pericoloso, ma decisivo.
Il dopopranzo di una bella giornata, il conte, sdrajatosi nel suo calesse, ordinò al cocchiere di portarsi su d’una collina, dalla cui cima scende la strada su cui, circa un miglio in giù, s’apre la casa di Emilia. Giunti sul colle, il conte disse al cocchiere di fermarsi, e alzatosi, fissò quella casa con un cannocchiale, spiando se mai comparisse la giovane o sulla porta, o alla finestra, o sul terrazzo.
Non andò guari che Emilia e il suo inseparabile compagno comparvero sul terrazzo.
— Animo! gridò il conte afferrando il cocchiere per un braccio; una frustata ai cavalli e giù di corsa...
[127]
— Giù di corsa? chiese attonito il cocchiere.
— Giù di corsa, sì... giù di corsa! strillò il conte, battendo i piedi in modo che parve volesse sfondare la carrozza.
Il cocchiere ubbidì, maledicendo in cuor suo le stramberie del padrone, e i cavalli partirono di galoppo.
— Giù, giù frustate... gridava il conte.
— Ma, signore, ci romperemo il collo... I cavalli mi piglieran la mano... Si va già sì forte che...
Ma il conte per tutta risposta, strappata di mano al cocchiere la frusta, la menò gridando come un invasato per dritto e per traverso sulla groppa dei cavalli, i quali spinti anche dal peso del legno, precipitarono di carriera, nonostante gli sforzi sovrumani del povero cocchiere il quale, pallido pel terrore, coi capelli ritti (il berretto, volatogli via di testa, rotolava anche lui giù perla china), puntando i piedi, tirava a più non posso le redini.
Quando la carrozza fu a pochi passi dalla porta della casa d’Emilia, il conte allungato il braccio, afferrò la redine del cavallo destro, tirandola con una strappata. Il cocchiere cacciò un urlo; il legno urtò violentemente contro uno degli stipiti della porta; un cavallo stramazzò per terra. Il conte balzato in aria, ricadde sul lastrico sotto la porta; e il povero cocchiere, balzato anche lui dal lato opposto, calò di piombo sul collo di una lavandaja che stavasene ginocchioni sul ciglio d’una roggia che fiancheggia l’altro lato della strada. Cocchiere e lavandaja precipitarono nell’aqua, framezzo ad uno stormo di anitre che scapparono schiamazzando e sbattendo l’ali.
[128]
Il vecchio negoziante, Emilia ed i domestici (alcuni dei quali corsero in soccorso del cocchiere e della lavandaja) furono tosto attorno al conte, che, fingendo d’esser svenuto, non capiva in sè per la gioja di aver ottenuto il suo intento. Era presso il suo idolo!
Trasportato in un salottino terreno, venne adagiato su di un sofà. Intanto che il fattore andava pel medico, Emilia, sorreggendo la testa del conte, gli poneva sotto le nari essenze odorose onde richiamarlo a sè. Finalmente aprì gli occhi, incontrandoli con quelli di Emilia, che li abbassò tosto arrossendo. Venuto il medico, che abitava a pochi passi di lì, visitò il conte e palpatolo ben bene, scoprì che una costola era rotta. A quell’annunzio il conte fu lì lì per gettare le braccia al collo al dottore e soffogarlo di baci, tanto era felice!.. Ma questo slancio di affetto si mutò repentinamente in odio feroce, quando il medico (a fin di bene) ebbe detto: Però il signore è trasportabile....
— Così presto? sclamò Emilia. No, no; non facciamo imprudenze...
— Certo, certo, soggiungeva il vecchio.
— Aspettiamo almeno qualche ora... proseguiva Emilia.
Il conte la ringraziò con una lunga occhiata. Partiti che si furono il medico ed il vecchio, Emilia sedette a fianco dell’innamorato giovine, il quale dopo poche parole dette con labbro tremante e con voce interrotta dalla passione, presale una mano e strettala tra le sue, coll’accento della più viva tenerezza le disse:
— Emilia!... cara Emilia!... io ti amo perdutamente....
[129]
La giovane non ebbe forza di ritirar la mano; investita, attratta dal fluido magnetico che emanava dagli occhi del giovane, posò il capo sulla di lui fronte infocata...
— Caro signor conte, si calmi... Adesso non è il momento... Guarisca e poi... e poi discorreremo.... Così entrò a dire il vecchio, che accompagnato il dottore, era rientrato, non visto, nel salottino.
A queste parole il conte restò come di sasso. Emilia si tolse lestamente di là.
— Il marito!... costui mi strozza al certo! disse fra sè il conte vedendosi solo col vecchio, il quale sedutoglisi al fianco sulla seggiola abbandonata da Emilia, proseguì con voce pacata.
— Da bravo, signor conte!... Ora procuri di guarire... dopo vedremo...; se ella vuol proprio bene alla mia Emilietta, per me fin d’ora non mi oppongo... non le dico di no...
Il conte stupefatto, puntando sulle gomita, voltossi verso il vecchio guardandolo fisso:
— Certo, certo, proseguiva quest’ultimo sorridendo; io non sono lontano dall’acconsentire... purchè le vogliate proprio bene...
— Scusate, signore, balbettava il conte, io non capisco... voglio dire che non so come voi...
— Io ho già prese le dovute informazioni sul conto vostro, o signore. Ma sì!... So che siete d’ottima famiglia, che siete benestante..., un po’ scappato... ma sono certo che in seguito non vorrete bene che ad Emilia, vero?
Il conte guardava in giro pel salottino per sapere se sognava o se era desto.
— Credete voi forse, continuava il vecchio sempre [130] sorridendo affabilmente, ch’io non mi fossi accorto che voi corteggiavate Emilia? Oh! lo sapeva, vedete, lo sapeva!..
— Lo sapevate?
— Certo.
— E....
— E aspettava da voi, come si usa tra gente onesta, una domanda in regola.
— Una domanda?
— Che voi, signor conte, (e il vecchio minacciava giocosamente coll’indice) avete creduto bene di fare direttamente alla figlia e non al padre.
Il conte all’udire che Emilia era la figliuola, non la moglie del vecchio, fu in procinto di gettarsi dal sofà e fuggir via a precipizio nonostante la costola sfondata. Però, da quel giovane ben educato che era, si trattenne, e compostosi il meglio che seppe, pregò il vecchio di lasciarlo solo per brev’ora chè aveva bisogno di riposo.
Il conte, sbollito quel primo corruccio del suo amor proprio che ricalcitrava trovandosi preso nel laccio teso da lui ad altri, richiamatisi in mente i begli occhi di Emilia, fatto riflesso che quella ragazza alla fin dei conti, oltre all’esser leggiadra, era onesta, d’ottima famiglia, e ricca per giunta, riconobbe che quella sua scappata poteva tornargli utile. Così pensando e ripensando, a poco a poco si addomesticò all’idea di un matrimonio, commendevole per tutti i rapporti. Sicchè alla fine, alzatosi a sedere sul sofà, esclamò: Giacchè siamo in ballo, balliamo... Già non c’è altro mezzo per cavarmela onorevolmente.
Tre mesi dopo Emilia sposava il conte.
[131]
La contessa ascoltò con vivo interesse il racconto che Dalia le fece delle avventure del capitano Bernardo, interrompendola nei passi più patetici con un sospiro, collo stringer le labbra, coll’esclamare: pover’uomo! pover’uomo!
— Ma, proseguiva quella buona signora, quelli erano tempi curiosi davvero! Quante vittime, quanto sangue... e perchè? per chi? Almeno adesso, se si fanno sagrifizj di vite e di denaro, sono a vantaggio del paese nostro... Se non li goderemo noi questi vantaggi (già bisogna lasciar tempo al tempo), saranno pei nostri figliuoli... Oh! a proposito... Spero che adesso non avrai più difficoltà, e che sapremo finalmente le novità che ti scrive il tuo pittore...
— La si figuri, signora contessa! s’affrettò a rispondere Dalia, e spiegazzata la lettera, cominciò a leggerla ad alta voce. Roberto, chiesto novamente perdono alla sua amica d’esser partito a di lei insaputa (non c’era più bisogno, chè era già bell’e perdonato), le narrava per filo e per segno tutto quello che era successo, incominciando dal suo imbarco a Quarto e via via fino all’approdo a Marsala.
— Questo la sapevamo già, disse la contessa. Va un po’ innanzi, la mia tosa... di su quello che avvenne di poi.
Dalia continuò a leggere:
«Il 12, noi garibaldini e circa un centinajo di Picciotti (li chiamano così i volontarj siciliani, perchè mo, non lo so) verso le quattro pomeridiane, lasciammo Marsala e ci incamminammo alla volta di un sito detto Salemi. A poche miglia di Salemi, il generale fece sonar l’alto. Era tempo!... non potevamo [132] quasi reggerci in piedi per la fame... Figurati, Dalia! dalla sera innanzi non aveva mangiato...»
— Povero giovane! sclamò la giovinetta.
— Povero giovane! ripetè la contessa. Robusti come si è a quell’età, figurarsi se l’hanno a sentire la fame!... E Roberto, m’immagino, sarà di buona bocca eh?
Dalia sorrise annuendo.
— Proprio come mio nipote Ernesto!... proprio come lui!... Si sa! sono giovani e... Ma va innanzi mia cara, va innanzi.
«Noi facemmo alto ai piedi d’una fattoria che sorge a sinistra della strada; la si chiama Rebingallo, e m’hanno detto che è proprietà di un certo barone Mistretta di Salemi. Un brav’uomo ve’! tanto è vero che, saputo che Garibaldi sarebbe passato da quelle parti, ci aveva spedito incontro un suo nipote, il quale disse al generale che la fattoria con tutto quanto conteneva era a nostra disposizione. Infatti in men che nol dico zio e nipote (Dio li benedica!)....»
— Oh sì proprio! sclamò la contessa sorridendo e salutando que’ due signori siciliani come se proprio fossero lì dinanzi a lei.
«... ci regalarono montoni, pollame, formaggio, pane, latte, farina, vino... e che vino, Dalia! che vino.... (La giovinetta rise). Questo Rebingallo è uno dei luoghi più pittoreschi ch’io mi conosca; ne ho fatto uno schizzo così alla buona, chè c’è giusto il tempo di dipingere!... Mentre dunque stavamo facendo onore a quel ben di Dio (il generale mangiò con noi al solito, e alla buona) eccoti arrivare un dei nostri, posto a sentinella sulla sommità della collina, colla notizia che un corpo di regj si avvicinava [133] al nostro bivacco. In un attimo fummo sotto le armi; ma poco dopo, gli esploratori mandati dal generale, tornarono a riferirgli che non si trattava di nemici, ma bensì di una banda di insorti siciliani comandati dai due fratelli Sant’Anna. Figuratevi se li ricevemmo a braccia aperte! Che begli uomini, Dalia! Bruni di carnagione (già qui il sole tinge come il carbone, e chi sa come concerebbe la tua pelle delicata e bianca come il fior della magnolia).»
— Matto! esclamò arrossendo la giovinetta, poi seguitò:
«... colle barbe nere, e gli occhi ancor più neri; alti di statura, forti, snelli... insomma bella e ardita gente. A proposito! intanto che mi ricordo, sappi che appunto in quel giorno abbiamo fatto acquisto di un cappellano. Ecco come fu la cosa. Poco prima che arrivassero i fratelli Sant’Anna coi volontarj siciliani, venne al nostro bivacco un frate francescano. Devi sapere, tra parentesi, che qui i frati non assomigliano affatto ai nostri, e sono, generalmente parlando, liberalissimi. Questo francescano (che è un bel giovane ricciuto e dallo sgardo vivace) chiese del generale, il quale stava appunto facendo bere il suo cavallo ad una fontana. Il frate va dritto a lui e gli si inginocchia dinanzi sclamando «Mio Dio! ti ringrazio d’avermi fatto vivere in un tempo, in cui doveva nascere il Messia della libertà. Da questo momento giuro morire, se bisogna, per voi, generale, e per la Sicilia[20]» Allora Türr gli disse: Volete venire con noi? — Eccomi! rispose il francescano levandosi — Venite; venite, [134] gli disse Garibaldi, voi sarete il nostro Ugo Bassi[21]; eccovi intanto un proclama che ho apparecchiato pei preti buoni; leggetelo e ditemi il parer vostro. — Il francescano, lettolo, esclamò: Per me, non ho bisogno d’eccitamenti... Sono già vostro...; lo serberò per quei preti, la cui fede nella santa causa, ha bisogno d’essere sostenuta[22]. Questo francescano ha nome padre Giovanni Pantaleo ed è del convento di Santa Maria degli Angeli di Salemi, ove insegnava filosofia.»
— Che avessero a diventar buoni cittadini anche i frati e i preti! sclamò Dalia.
— Eh! la mia ragazza... Io non spero tanto... Sono al mondo da un pezzo e so per prova che... Basta! in questi giorni ne vediamo di così strane!... Ma continua». Dalia obbedì:
«Intanto i fratelli Sant’Anna e gli altri capi che [135] erano con loro[23] diedero ragguagli al generale sullo stato in cui si trovava la rivoluzione nell’isola, chè, a dirla schietta, noi non ne sapevamo nulla. Per loro mezzo dunque si seppe che la rivoluzione in Sicilia si riduceva a poca cosa, cioè ad alcune bande armate, sfuggite ai combattimenti di Palermo, di Monreale e di Carini, le quali battevano la campagna, senza però che si sapesse con precisione ove fossero. Si seppe però che Rosolino Pilo e Corrao (due bravi ed intrepidi patrioti) erano alla lor testa e che la Sicilia era disposta a sollevarsi appena fosse giunto Garibaldi. Ora che sai com’erano le cose quando eravamo a Salemi, proseguirò più speditamente la mia narrazione.»
— Ma davvero, sclamò la contessa Emilia, questo tuo Roberto è un prodigio di precisione!
— Che vuol che le dica!... Resto anch’io meravigliata... Lui che era la confusione personificata! È un miracolo, un vero miracolo!
«Prima però è necessario che tu sappia che tutti d’accordo hanno convenuto in questo, che si doveva ubbidire ad un sol capo per schivare disordini. Naturalmente Garibaldi fu gridato da tutti capo ed egli assunse la dittatura in nome del re Vittorio Emanuele[24].»
Roberto nella sua lettera, dopo d’aver detto che la mattina del 15, il generale, avuto avviso che le truppe regie facevano un movimento sopra Calatafimi, aveva immediatamente dato ordine a tutti i [136] suoi di porsi in marcia verso il punto minacciato, si fa a descrivere la battaglia oramai celebre col nome del villaggio presso cui venne combattuta.
Questa battaglia, che decise dell’avvenire dei Borboni in Italia, merita d’esser conosciuta in tutti i suoi dettagli. Anteporremo quindi la descrizione che ne fa il Dumas[25] (che trovandosi lì presso ebbe comodo di raccogliere notizie fresche e veritiere), a quella troppo rapida e succinta data da Roberto nella sua lettera.
Il corpo dei volontarj di Garibaldi aveva subita una nuova modificazione: le sette compagnie erano state portate a nove; l’VIIIª e la IXª erano state affidate ai capitani Bassini e Grigiotti. Le nove compagnie, come quelle de’ bersaglieri piemontesi, erano state divise in due battaglioni, il primo comandato dal colonnello Bixio, il secondo dal colonnello Carini.
Ecco in qual’ordine si marciò incontro al nemico.
Il colonnello Sirtori, capo dello stato maggiore, in nome del general Garibaldi aveva fissato l’ordine della marcia in questo modo:
Le squadre Coppola e Sant’Anna, dovevano marciare sui fianchi della colonna.
La IXª compagnia (Grigiotti) d’avanguardia. Cento passi dietro, seguiva l’VIIIª comandata, come abbiam detto, dal capitano Bassini. La VIIª veniva appresso; sotto gli ordini di Cairoli; poi la VIª, comandata da Ciaccio, che era stato sostituito a Carini, poi la Vª comandata da Anfani. Queste cinque compagnie stavano sotto gli ordini di Carini.
Seguivano l’artiglieria ed il genio, comandati da Orsini e da Minutilla, come pure una compagnia di [137] volontarj formata dalle ciurme de’ due battelli, il comando delle quali era naturalmente toccato a Castiglia.
Alla testa del suo battaglione, subito dopo l’artiglieria, veniva Nino Bixio, e le quattro compagnie di carabinieri genovesi.
Le quattro compagnie erano comandate:
La IVª da Forni, invece di La Mara. La IIIª da Stocco. La IIª da Forni, invece d’Orsini, e la Iª da Bixio che avea posto in vece sua il proprio luogotenente. Infine i carabinieri genovesi erano sotto ordini di Mosto, ch’egli aveva formati a Genova.
La colonna aveva attraversato in questo ordine il villaggio di Vita, celebre per il suo brigantaggio, e che accolse, poche ore più tardi, i feriti di Calatafimi.
Il generale, col suo stato maggiore, era alla testa della colonna con Sirtori e Türr. Egli si era spinto fin sulla cima della collina per esaminare la posizione del nemico.
Un uffiziale d’ordinanza venne allora da parte sua a dar l’ordine ai volontarj di abbandonare la strada, e di portarsi sulla posizione alta, a destra, lasciando solamente sulla strada l’artiglieria con una compagnia per difenderla. Mentre l’esercito nazionale prendeva quella posizione, si cominciarono a vedere alcune compagnie di bersaglieri regj del IXº battaglione leggiero, che discendevano nella valle, e venivano incontro ai nostri. Per la prima volta regj e patrioti si trovavano in faccia gli uni dagli altri.
Il grosso dell’esercito regio era in Calatafimi, ed occupava la città posta sul pendio d’una montagna che s’innalza alla sua destra, e, per conseguenza, alla sinistra dei nostri. Gli avamposti regj stavano ad un miglio prima di Calatafimi.
[138]
Appena il general Landi seppe che i volontarj erano a Vita, ed appena potè vedere dall’alto della montagna un gruppo d’uffiziali che osservavano i suoi movimenti, diede ordine a’ suoi d’uscire dalla città, di fare una discesa nella valle, e salire dipoi le tre collinette a sinistra, ed una a destra, onde impadronirsi della strada.
Il general Garibaldi, che era l’anima di quel gruppo d’uffiziali veduto da Landi, e che aveva intorno a sè il colonnello Türr, il maggior Tuchery, il capitano Missori, ed alcuni altri uffiziali, mandò dall’alto della collina i seguenti ordini:
Türr coi carabinieri genovesi, esperti quanto intrepidi, si stenderà sopra una larghezza d’un mezzo miglio, e formerà un cordone di bersaglieri destinato ad incominciare il fuoco contro gli avamposti nemici. Dietro Türr, marcerà a destra la VIIª compagnia, a sinistra, l’VIIIª, come sostegno, e la VIª e la IXª. Queste quattro compagnie staranno sotto gli ordini del colonnello Carini.
La VIª portava la bandiera tricolore data a Garibaldi dalle signore di Montevideo.
Seguiranno i volontarj di Coppola e di Sant’Anna, quelli stessi che raggiunsero Garibaldi sulla strada di Salemi.
Questi picciotti formavano un totale di duecento cinquanta uomini circa.
Bixio, ed i suoi quattro compagni, come anche il capo di stato maggiore Sirtori, dovevano momentaneamente formare la riserva. I due cannoni che potevano servire (giacchè gli altri due mancavano d’affusti) dovevano restare sulla strada per respingere le cariche di cavalleria che i regj sembravano minacciare.
[139]
Con quest’ordine si doveva attendere il nemico, il quale cominciava le sue mosse coll’inviare alcune compagnie di cacciatori, che s’avanzarono gridando a gola aperta: viva il re!
Il generale, vedendo che passerebbe un buon quarto d’ora prima che il nemico fosse a tiro di fucile, scese dalla posizione elevata che occupava, e venne a porsi tra i carabinieri genovesi, e le due compagnie che li seguivano da vicino, ed ordinò che tutti sedessero lì al posto dicendo: «Riposatevi, figli miei!... avremo di che affaticarci...»
E dando, per il primo, l’esempio, sedette, e cavato un pezzo di pane, fece colazione.
Allorchè i regj giunsero a due tiri di fucile, il generale, chiamati intorno a sè i trombetti, ordinò loro di sonare tutti insieme la diana. I trombetti ubbidirono. I volontarj, saltarono in piedi, e presero le armi.
Nel medesimo istante i cacciatori regj si fermarono.
In quel momento, sulla cima d’un monticello (a destra de’ volontarj, ed a sinistra de’ regj) comparve una forte colonna di quest’ultimi, la quale mise in batteria due cannoni. I regj riprendono la loro marcia offensiva, interrotta per un istante dallo strepito delle trombe di Garibaldi. A tiro di fucile si comincia il fuoco da ambedue le parti, o, per parlare più esattamente, a causa della portata e della precisione delle armi, il fuoco comincia dalla parte de’ Napolitani, micidiale per i volontarj, mentre quello dei nostri era quasi inoffensivo.
Difatti i cacciatori regj erano armati di carabine rigate ed a palla conica, mentre i volontarj avevano semplici fucili di munizione.
[140]
I picciotti di Sant’Anna, e di Coppola, incaricati di girare la posizione a destra fecero, debolmente ed incompiutamente il movimento, poichè una sola parte di loro si spinse avanti con Sant’Anna.
In mezzo a’ picciotti si distinguevano un cappuccino ed un francescano, tutti e due armati di fucile, i quali marciavano alla testa delle file facendo fuoco come vecchi soldati.
Fin là il generale era restato in osservazione, tranquillo ed immobile al suo posto; ma, vedendo che dopo aver ceduto sul principio, i battaglioni de’ cacciatori regj s’erano riordinati, e che da tutte le file nemiche partivano scariche micidiali, ordinò l’attacco generale.
Appena dato l’ordine, si pose egli stesso alla testa delle prime compagnie, e prese il posto del colonnello Türr, che andò sulla fronte di battaglia a dar l’ordine dell’attacco.
Carini condusse le sue compagnie a destra. Bixio fece lo stesso movimento a sinistra; ma l’ordine d’un attacco generale era diventato quasi inutile, poichè il combattimento aveva cominciato spontaneamente da ambe le parti.
Le compagnie de’ cacciatori napolitani cominciarono allora a ritirarsi in disordine, avendo la bajonetta de’ volontarj sul petto, ma si riordinarono subito sulle loro colonne d’attacco.
Allora, in mezzo al combattimento generale, si fecero ammirabili cariche parziali; ogni uffiziale con cento uomini, con sessanta, con cinquanta, caricava alla loro testa. Queste cariche erano dirette dal generale stesso, da Türr, che era ritornato a prendere il suo posto, da Carini, che continuava a marciare [141] alla testa delle sue compagnie a dritta del generale, da Bixio che copriva la sinistra, da Stocco che dirigeva una compagnia di volontarj napolitani e calabresi, da Schiaffini, da Menotti, da Cairoli, da Bassini, da Gruggiotti, e da Ciaccio ecc. ecc.
Ad ogni carica i Napolitani stettero fermi, ricominciando il fuoco di fila, finchè si videro luciccare a dieci passi di distanza le bajonette de’ garibaldini, tanto più terribili perchè piantate su canne mute.
Allora si ritirarono, ma si riordinarono subito in una posizione migliore di quella che avevano lasciata, perchè tutti i vantaggi del terreno erano per loro; l’artiglieria ne proteggeva i movimenti, mentre la nostra, posta sulla strada, poco poteva contro di essi.
Nulla di più maraviglioso del generale in mezzo a quella mischia, sempre dove il fuoco era più micidiale, dando gli ordini con un sangue freddo ammirabile. Suo figlio, Menotti, che si trovava, per la prima volta al fuoco, (quello stesso che è nato a Rio Grande, e che suo padre, in una ritirata di otto giorni ha portato appeso al collo dentro un fazzoletto, e che ha riscaldato col suo fiato) corse a domandare alla VIª compagnia la bandiera, e avutala, si slanciò subito contro ai cacciatori col revolver in una mano, e la bandiera nell’altra, seguito da tre o quattro volontarj, e tra questi da Schiaffini. A venti passi di distanza dal nemico Menotti è colpito da una palla nella mano stessa che portava la bandiera.
La bandiera cadde, Schiaffini raccoltala continuò avanzarsi. Ma a dieci passi di distanza dalle file regie è ucciso; due de’ suoi compagni si precipitano sulla bandiera per afferrarla e cadono morti; [142] i Napolitani allora se ne impadronirono. Questa perdita recò un momento di gioja all’esercito nemico, ma raddoppiò anche l’ardore dei volontarj. Il combattimento durava già da circa due ore. Il caldo era estremo. I nostri, che avevano dovuto caricare sempre salendo, non ne potevano più; ma gli ultimi sforzi della VIIª compagnia composta in gran parte di studenti di Pavia, e che s’era impadronita d’uno de’ due pezzi d’artiglieria de’ regj[26], aveva compensata la perdita della bandiera.
[143]
La nostra artiglieria, che avea ricevuto l’ordine d’avanzarsi sulla strada per essere più a tiro, ma che non aveva potuto eseguire quest’ordine in causa delle fortificazioni posticce che aveva fatte [144] essa stessa per propria difesa, tirava di tanto in tanto qualche colpo che non faceva gran danno, ma che contribuiva molto a sostenere il morale de’ volontarj, spossati dalla fatica.
In questi primi attacchi erano caduti il tenente De Amicis, colpito in bocca da una palla, e Majocchi pure da una palla, che gli aveva spezzato un braccio, e da un’altra nel fianco.
Vedendolo cadere, Carini si slancia verso di lui e: Sta tranquillo, gli disse, non ti mancherà nessuna cura. — Non pensate a me, rispose Majocchi. Io sono un uomo morto, ma muojo contento, perchè voi andate avanti.
Affrettiamoci a dire che il maggiore Majocchi, in seguito ad una abile amputazione, e ad una lunga convalescenza, è ora perfettamente guarito.
Stocco, anch’egli, ricevette una palla nel braccio destro. Il projettile girò intorno all’osso senza romperlo. Sprovieri venne ferito accanto a lui. Missori ricevette una scheggia di mitraglia sotto un occhio. Rovesciato a terra per effetto del colpo, s’era rialzato credendo d’aver perduto l’occhio; guarì. Manin rimase ferito da una palla in una coscia. Sant’Anna da un’altra nel braccio.
Elia, Bandi, Martignoni, Perducca, Palizzolo, Nullo, e molti altri uffiziali, i cui nomi non ricordiamo, furono feriti più o meno gravemente.
[145]
Questa sanguinosa scena era dominata da Sirtori che, a cavallo, stavasene presso un albero, in mezzo ad un fuoco vivissimo. Egli aveva già ricevuta una palla che gli aveva lacerato l’abito, e ne aveva sfiorata la pelle, quando una seconda lo colpì alla gamba. Nè l’una nè l’altra di queste due ferite gli fece fare il minimo movimento. Soltanto si vedeva, sotto i suoi calzoni rialzati dalla staffa, scorrere il sangue.
Malgrado queste due ferite il colonnello Sirtori restò a cavallo sino alla fine del combattimento, e prima di permettere che lo medicassero, volle scrivere tutti gli ordini che aveva a dare.
Bixio fece, al solito, egregiamente il proprio dovere; n’uscì incolume per miracolo.
Il cavallo di Carini era stato ucciso da una scheggia di mitraglia: Carini combatteva con la sciabola in una mano, ed il revolver nell’altra.
A fianco di Garibaldi, egli, Türr, Cairoli e tutti i capi delle compagnie tuttora in piedi, fecero prodigi di valore.
Ma giunti a piè dell’ultimo monticello, ove i Napolitani s’erano trincerati, la stanchezza cominciò a paralizzare i nostri, e nello stato in cui erano l’ultimo sforzo, lo sforzo supremo pareva impossibile.
Garibaldi scriveva in quel momento in mezzo alle file abbattute. Egli solo sembrava aver fatta una passeggiata ginnastica, e, se non fosse stata la sua fronte corrugata, si sarebbe potuto credere che non prendeva nessuna parte a ciò che accadeva. Egli era pienamente tranquillo.
I nostri erano a sessanta passi dal nemico; una elevazione del terreno, permetteva un momento [146] di riposo. Abbassandosi, si evitavano le palle del nemico; ma appena una testa si alzava, essa serviva di mira. Un volontario siciliano, per nome Buscemi, provò ad alzarsi, e ricevette una palla in fronte.
— Riposatevi un momento, disse il generale, i nostri colpi vanno falliti. Ci bisogna adesso una buona carica alla bajonetta.» I volontarj si gettarono a terra cheti cheti.
In capo a dieci minuti il generale, che era rimasto solo in piedi, ordinò la carica, e si pose alla testa degli assalitori. Senza dubbio i regj l’aveano riconosciuto, perchè, nel medesimo tempo, il fuoco di tutte le file si concentrò su lui. Allora alcuni legionari lo circondarono, e vollero fargli riparo del loro corpo.
— Andiamo! disse il generale allontanandoli. Non troverò mai per morire un giorno più bello e in miglior compagnia di questa...
Sonò la diana che serviva per la carica, e i volontarj si precipitarono sul nemico, il quale aveva in linea tremila uomini.
I nostri volontarj erano poco numerosi; ma la presenza di Garibaldi produceva un effetto magico. Il grido dei Napolitani: Viva il re, fu soffogato da quello: Viva l’Italia. La vittoria è con Garibaldi. I soldati regj, vedendosi sul petto le bajonette, si ritirarono precipitosamente sopra Calatafimi, ed andarono a raggiungere il loro generale, che non aveva mai lasciato il suo prudente Osservatorio. Si è avuto ragione di paragonare, nelle debite proporzioni, la battaglia di Calatafimi a quella di S. Martino; essa non è stata (proporzionalmente, ripetiamo) meno sanguinosa, nè meno decisiva ne’ suoi risultamenti [147] poichè, fino al momento dell’ultimo attacco alla bajonetta, la resistenza del nemico fu accanita e quasi eroica.
Lasciamo del resto, costatare questa verità dallo stesso general Garibaldi, nel suo
Ordine del giorno.
Calatafimi, 16 maggio.
«Con compagni come voi posso tentar tutto, e ve l’ho provato jeri, conducendovi ad una intrapresa ben difficile, visto il numero dei nemici, e le loro formidabili posizioni. Io contava sulle vostre fatali bajonette, e voi vedete che non mi sono ingannato.
«Deplorando la dura necessità di dovere combattere soldati italiani, dobbiamo confessare che abbiam trovata una resistenza degna d’una miglior causa, e ciò prova di che sarem capaci quando tutta la famiglia italiana sarà riunita sotto la bandiera della redenzione.
«Domani tutto il continente italiano sarà in festa per la vittoria de’ suoi fratelli liberi, e de’ nostri bravi Siciliani. Le vostre madri, le vostre amanti, superbe di voi, usciranno nelle strade con la fronte alta e raggiante.
«Il combattimento ci costa la vita di fratelli diletti, morti nelle prime file. Questi martiri della santa causa d’Italia vivranno nei fasti della gloria italiana. Indicherò ai vostri paesi nativi, i nomi de’ prodi, che hanno sì valorosamente guidato al combattimento i soldati più giovani ed inesperimentati, e che condurranno domani alla vittoria, in un miglior campo di battaglia, i soldati [148] destinati a spezzare gli ultimi anelli delle catene, delle quali fu caricata la nostra Italia diletta.
«Italia e Vittorio Emanuele!
G. Garibaldi.»
La battaglia durò dalle dieci della mattina fino alle cinque della sera. La vittoria costò cara, ma l’effetto morale fu immenso, poichè molto più che della presa di Palermo, decideva della evacuazione della Sicilia.
Si passò la notte sul campo stesso di battaglia, nella posizione già occupata dai regj, fra i cadaveri dei nemici, e dei fratelli.
Non v’era una goccia d’aqua, nè un pezzo di pane, nè un mantello per coprirsi, e nessun mezzo per procurarsi nulla di tutto ciò; la notte era sì oscura che non si potevano fare dieci passi senza smarrirsi.
Le conseguenze della vittoria di Calatafimi furono incalcolabili; tutta Sicilia ne fu scossa. L’Italia comprese quale importanza avessero le imprese di Garibaldi in Sicilia, e quali influenze avrebbero esercitato su Napoli, su Roma e sulla Venezia; comprese che la Sicilia diveniva il principio di un nuovo movimento, per il quale l’Italia tutta poteva divenire una, e sottrarsi completamente allo straniero dominio per propria forza e per semplice movimento popolare e nazionale virtù. Quindi si moltiplicarono le offerte per la Sicilia; in breve tempo si giunse ai milioni, e tutta la gioventù delle libere provincie italiane, fortemente concitata, determinò d’accorrere sotto la bandiera di Garibaldi, d’ingrossarne le file, e dividerne le glorie ed i pericoli, e dare sangue e vita sull’altare della patria.
[149]
Un insolito movimento cominciò allora, e Genova divenne il punto ove affluiva tanta gioventù italiana, e donde imbarcavasi per recarsi in Sicilia. Nell’isola poi le conseguenze della battaglia di Calatafimi furono straordinarie, ma quali si dovevano aspettare in quei momenti di politiche turbolenze; le città principali crebbero di animo e di coraggio; i paesi dell’interno compirono la rivoluzione; dappertutto fu abbattuta la bandiera borbonica, stabiliti governi provisorj, disseppellite le armi, trovati modi di moltiplicare le munizioni di guerra; contadini, artigiani, nobili, ricchi, si armarono, e si posero sotto gli ordini del generale dittatore, e dei suoi uffiziali. Tal che può dirsi, la vittoria di Calatafimi aver deciso le sorti di Garibaldi, e la rovina irreparabile dei Borboni. Questi frattanto, continuando la vecchia politica della menzogna e dell’inganno, intendevano a scemare le popolari impressioni, e spacciavano che i soldati comandati dal generale Landi avevano fatto il loro dovere, cioè disfatto l’esercito garibaldino, ma che pure avevano dovuto ritirarsi in Palermo per le solite viste strategiche. Ridicole contraddizioni di governo cadente, il quale più non sapeva quello che si dicesse.
Intanto, ad arrestare la rivoluzione che, ingrossandosi, avanzava dietro i passi del vittorioso condottiero, re Francesco spedì in Sicilia il generale Lanza colle qualità di commissario straordinario, e le facoltà dell’alter ego.
Com’è naturale tutti questi dettagli mancavano nella lettera di Roberto, il quale, scrittala due giorni dopo la battaglia di Calatafimi, nulla poteva sapere di sicuro di quanto accadeva negli altri punti dell’isola. [150] Egli però finiva la sua lettera con una notizia, che fece ingrandire d’un pollice la giovinetta; con una notizia che le fece battere il cuore d’un giusto orgoglio. Ecco la fausta, la cara notizia «Il colonnello Sirtori, fattomi chiamare, mi disse battendomi una mano sulla spalla: Jeri vi ho tenuto d’occhio... Vi siete portato bene... Il generale vi nomina sottotenente! Eccovi una spada; fatene buon uso.» Così dicendo mi porse la spada di un uffiziale borbonico morto jer l’altro in battaglia.
— Ci ho gusto, ci ho gusto davvero!... sclamò la contessa Emilia. Ma sai la mia ragazza, che hai tutte le ragioni d’esser superba di quel tuo... giovine!
— Oh sì, poveretto! È tanto buono!...
— Cosa pagherei che anche mio nipote diventasse uffiziale!...
— Domani rispondendo a Roberto, gli raccomanderò questo suo nipote... Ernesto, n’è vero?...» Chiese Dalia, con una cert’aria di bontà protettrice, che faceva un curioso contrasto con quel suo visetto infantile.
— Ernesto, sì! si chiama Ernesto... Mi farai proprio un regalo, raccomandandolo... Tra loro giovani si fa presto amicizia, e in certi casi giova più l’ajuto di un bravo camerata, che tutte le commendatizie del mondo... Intanto, la mia Dalia, ho caro d’averti conosciuta... Vienmi a trovare ve’! quando sono a Milano. Intanto addio...
— Buona campagna, signora contessa!
Dalia scese in negozio, e sedette tra le sue compagne, alle quali la lunga assenza della giovinetta aveva centuplicata la curiosità.
— E così? le chiesero in coro.
[151]
— Si può sapere finalmente...
— Che nuove abbiamo?
— E così, rispose Dalia sorridendo, si sono battuti a Calatafimi... È un sito bellissimo, presso una fattoria, dove due bravi signori hanno fatto una festa ai garibaldini da non potersi immaginare... Che fame avevano que’ poveri giovani!... E hanno trovato pane, pollastri, formaggio, vino... Insomma tutto quello che volevano. Poi è venuto un frate, ma! di quelli della legge, e si è inginocchiato dinanzi a Garibaldi, dicendo che da quel dì, gli avrebbe sempre tenuto dietro... Dice in seguito che la battaglia è stata un affar serio, ma serio assai!... il sangue scorreva come l’aqua... Ma Garibaldi ha vinto... i soldati del Bombino scapparono da tutte le parti... e lui è stato fatto uffiziale...
— Chi, lui?
— Quello... che mi ha scritto, insomma... A voi altre poco deve importare che sia uno piuttosto che un altro!
— Uffiziale? chiese una ragazza facendo una smorfia dubitativa.
— Sissignora, uffiziale!... Il colonnello Sirtori lo ha fatto chiamare, gli ha dato una bellissima spada e gli ha detto: Garibaldi vi nomina uffiziale.» Siete contente adesso?... ne sapete abbastanza?
— Sì.
— Manco male!
[152]
Reding.
.... Ma, vedete! sul vortice de’ monti
Mentre qui ragioniamo arde la fiamma
Esploratrice del mattin. Si parta
Pria che sovra ci cada il pieno giorno.
Furst.
Non ci cadrà; la notte a poco a poco
Dalle valli si toglie.
(Tutti senza pensarvi si levano il cappello
e contemplano, con silenzioso
raccoglimento, il nascere dell’aurora).
Rosselman.
A questa luce
Che, fra tanti mortali ancor sepolti
Nell’aër greve di ristrette mura,
Noi primieri saluta, il nuovo patto
Si giuri — Esser vogliamo un indiviso
Popolo di fratelli, eternamente
Stretti nella sventura e nel periglio.
Tutti
(ripetono gli ultimi versi, alzando
tre dita).
Liberi come gli avi, e pria la morte
Che, vivendo, il servaggio...
(si abbracciano a vicenda).
Schiller. Guglielmo Tell.
Palermo sorge in una pianura detta la Conca d’oro, tanto è ridente e fertile. La Conca d’oro è lunga circa dodici miglia, e larga cinque; s’estende tra il solitario monte Pellegrino, e la catena di monti verso [153] la Favorita, dalla quale parte una strada che guida a Carini[27]; alla parte opposta, lungo il lido, un’altra strada conduce verso Messina, passando attraverso e presso le rovine dell’antica Solunto. Sono questi gli àditi più agevoli per giungere alla Conca d’oro. Vicino alla Favorita, una strada montana va in dritta linea da San Martino a Carini. A sinistra di essa si eleva una montagna rocciosa, forse un estinto vulcano, che si protende alquanto nella pianura formando uno sprone nella direzione stessa della catena principale. Questo sprone è Monreale, città di ventimila abitanti all’incirca, celebre per la sua magnifica cattedrale. Per questa città passa la strada di Trapani. Poco distante, la montagna forma una specie di anfiteatro, e dove questo termina e la montagna ricomincia a stendersi nella pianura, sorgono due villaggi, Parco e Madonna delle Grazie, presso i quali una strada conduce alla Piana dei Greci, e quindi a Corleone, antiche colonie albanesi emigrate dopo la morte di Scander-beg[28], e stabilitesi in questo ridente angolo dell’isola.
Lì presso apresi un altro anfiteatro ancora più pittoresco, signoreggiato dal monte Gebelrosso, e dal quale scende una stradetta verso Misilmeri, villaggio posto sulla via che da Palermo s’interna nell’isola. Monte Gebelrosso, al capo Zafferano, piega verso il mare, e alle sue radici è tracciata la strada che, [154] come abbiam detto, mette all’interno e corre parallela all’altra del lido, fino ad Abate, ove piega verso il sud.
I regj, padroni del mare e della città, avevano tutti i vantaggi di una posizione concentrica. Essi radunarono tutte le loro forze nella pianura e sull’altipiano di Monreale, dominando così le poche strade di quel punto dell’isola.
Nei due socj Salzano e Maniscalco, prima dello sbarco dei garibaldini, era cresciuta la ferocia in ragione dell’aumentare della paura. A que’ due s’era aggiunto il luogotenente alter ego di re Francesco, il principe di Castelcicala, il quale, memore delle raccomandazioni della corte, aveva sfoderate le arrugginite armi della tirannide poliziesca, onde atterrire, impastojare e tormentare i ribelli palermitani.
Per ordine del triumvirato borbonico non era lecito ai cittadini di passeggiare più di tre o quattro insieme, e molto meno di riunirsi nelle case; la sera, ciascuno doveva ritirarsi a casa sua per tempo e guaj a chi ne uscisse la notte senza motivi imperiosissimi!... Que’ pochi a cui era permesso l’uscir di nottetempo, dovevano portare un lampione, così le pattuglie, dal numero de’ lumi erranti, sapevano quante persone c’erano nelle vie. Poi... Ma a che tediarvi col noverare tutte le così dette disposizioni pel mantenimento dell’ordine? Chi non le conosce per prova noi Milanesi in ispecie? I codici birreschi non sono eguali in tutti i luoghi del mondo? Guardate Venezia, guardate Varsavia!
Abbiam veduto come, nel momento in cui Garibaldi poneva il piede nella parte occidentale della Sicilia, allo scopo di liberare gli isolani dalla tirannide che [155] li opprimeva, nella parte orientale il generale Lanza sbarcava (diceva lui nel suo programma) coll’istesso intento.
Ma so ben che mi burlate! (diceva il general Lanza ai Palermitani suoi concittadini, il 18 maggio). Rivoluzione! Voi?... Ma che diavolo vi è venuto in mente? Ma sapete cos’è una rivoluzione, ragazzi miei? Via, smettete, e considerate bene ciò che può aspettarvi all’avvenire. Quali destini vi offrono gli invidi della vostra prosperità ognor crescente? Quali guarentigie avete del bene di cui diconsi portatori?
«Prendete consiglio dall’esperienza. (Dalla sassata infuori, questo signor Lanza mi ha l’aria di quel capitano di giustizia, descrittoci da Manzoni ne’ Promessi sposi, e che, dall’alto della finestra del prestino, arringava i buoni figliuoli milanesi). Sollevatevi all’altezza della posizione attuale per salvar voi medesimi, ora che sonosi sbrigliate tutte le cupide passioni, e non sapete di quali di esse dovrete essere vittima. Nella tempestosa lotta alla quale vi spingono stranieri aggressori, può solo tenervi incolumi il vostro coraggio civile, sorretto dalle reali milizie.
«Nel nome augusto del re, ampio e generoso perdono accordo a tutti quei che or traviati faranno la loro sommessione alla legittima autorità.» Vedete com’è conciata la città nostra! E di chi la colpa?... E compiangeva Palermo, e piangeva sullo squallore dell’amata sua patria;... ciò che non gli impedì, pochi giorni dopo, di bombardarla.
Fatto sta che il Lanza tolse di mezzo tutte le misure di rigore poste in attività dal triumvirato. Si passeggiò anche in quattro e persino in cinque; si [156] andò a letto quando meglio piacque, e si spensero i lampioni. La fu una gradassata del general Lanza per mostrare che non aveva paura, ovvero fu per timore che la popolazione, stufa di tante tribolazioni, non irrompesse con un colpo disperato? Forse tutt’e due.
Intanto, in causa delle nuove larghezze del general Lanza, il comitato segreto di Palermo, respirò più liberamente e poté rianodare come prima le pratiche colla provincia, colle bande erranti de’ patrioti armati, e (ciò che premeva più) con Garibaldi.
La gran lotta tra il dispotismo borbonico e la libertà, l’avvenire della Sicilia e dell’Italia meridionale, dovevano decidersi a Palermo. Lo sapeva il general Lanza, che vi aveva concentrato venticinquemila soldati; lo sapeva Garibaldi, il quale, dopo la vittoria di Calatafimi, erasi avvicinato a Palermo per congiungersi colle bande armate che stavano sui monti attorno la città onde meglio conoscere le posizioni del nemico.
Il viaggio da Calatafimi a Misilmeri fu per Garibaldi un vero trionfo.
Il sergente Valentino, il quale alla testa della sua squadra marciava all’avanguardia, non capiva in sè per la meraviglia nel vedere la magnificenza di quella natura, nuova affatto per lui; nel contemplare quel cielo ora azzurro come il lapislazzuli, ora fiammeggiante d’oro e corruscante sulla marina sconfinata; gioiva udendo il canto degli uccelli svolazzanti tra gli arbusti e tra l’innumerevole e svariatissima famiglia di piante, di fiori, di erbe, ignoti alla nostra Lombardia. Ora erano boschetti di quegli stessi leandri che egli era solito vedere ne’ vasi; ora cedri e [157] aranci, che spiegavano liberamente i rami, impregnando l’aria di quegli effluvj, imprigionati, tra noi, nelle serre; ora siepi di fichi d’India, che cingono colle spinose braccia gli orti e i vigneti, come da noi, la robinia, il rovo e il biancospino.
Posava estatico gli sguardi sui casolari che spuntano sui poggi, sui veroni su cui la vite serpeggiante spandeva l’ombrìa de’ nascenti pampini. Valentino godeva trascegliendo in suo pensiero il più ameno di quegli abituri, il più aereo, per sè e per la sua Rosa; se pure, diceva fra sè sospirando, mi sarà dato ritornare a casa mia, e mantenere la promessa che, senza dircelo, ci siamo fatta coi nostri cuori di non separarci mai più!...
Anche Roberto deliziavasi contemplando quell’avvicendarsi di panorami, di macchiette, le une più belle delle altre. Avrebbe voluto fermarsi ogni tratto a sbozzar quelle scene, ma aveva ben altro a fare. Si consolava intanto ripetendo in cuor suo: «A cose finite, prima di ripatriare, voglio rifarla questa strada, e allora potrò copiare o studiare con tutto mio comodo.» Ma più ancora de’ pittoreschi casolari, del cielo, del mare, dei monti, lo ferivano i negri occhioni delle isolane... Quei lunghi cigli di seta, quelle guardature gli rimescolavano il sangue. Gli occhi cilestri, diceva, sono belli, non c’è che dire! Ma anche i neri...
Proprio in quell’istante Dalia, la glauca Dalia, leggeva la di lui lettera per la settima volta, e la baciava e ribaciava di nascosto... Oh! come i cuori degli amanti, anche da lontano, s’intendono e battono all’unissono!
Dai monti, dai villaggi, dagli sparsi casolari accorrevano [158] i pastori, i contadini siciliani, a frotte, a drappelletti, a coppie e si schieravano lungo la strada acclamando il generale che passava; poi, vinti dall’entusiasmo, dalla gratitudine, dalla gioja, si precipitavano intorno a Garibaldi baciandogli la mano gloriosa, gli abiti, le redini del cavallo. Vedevi i vecchi inginocchiarsi, curvare le venerabili canizie e pregare per lui; vedevi le fanciulle gettargli un nembo di fiori, e le spose sollevare a lui i loro bambini perchè li benedisse. Ed egli sorrideva commosso, salutava e stringeva le mani a lui tese, baciava, accarezzava i bambini; a tutti poi parlava della patria, scaldando i petti coll’amore della libertà, il più bello, e il più contrastato dei doni di Dio.
Intanto il comitato di Palermo, men sorvegliato dopo l’arrivo del general Lanza, aveva potuto mettersi in comunicazione con Garibaldi, il quale s’era arrestato presso Monreale, occupata, come dicemmo dai regj. Il generale mulinava sul modo di aprirsi una strada verso la capitale con uno di quei colpi di mano che gli sono famigliari, e che per lui tennero sempre il luogo delle artiglierie.
— Palermo insorgerà, gli mandava a dire il comitato, purchè voi, generale, vi presentiate alle porte della città.
— Accettato, rispose Garibaldi, e tosto si pose all’opera, onde mandare ad effetto il suo piano strategico.
I regj, accampati sull’altipiano di Monreale, tenevano d’occhio i Palermitani e i garibaldini, e intanto aspettavano il destro per piombare sui secondi e dopo sugli altri.
La notte del 21 maggio Garibaldi, seguito da alcuni dei suoi uffiziali, recavasi a visitare i posti. Tutto [159] era silenzio; solo si udiva il grido alternato delle sentinelle avanzate che si tramandavano l’all’erta; grido che, mano mano si allontanava, affievoliva, morendo poi lontano lontano. Limpidissima era la notte; la luna cheta cheta veleggiava pel firmamento scintillante di stelle. Sulle vette dei monti che incoronano la Conca d’oro, rosseggiavano intorno intorno i fuochi degli insorti; fuochi che incoravano i Palermitani, i quali li vedevano da lungi, e li salutavano come fari di libertà e di sicurezza.
Tratto tratto s’udiva una schioppettata, cui tenevano tosto dietro molte altre. Allora Garibaldi arrestava il cavallo, spingeva lo sguardo là dove partiva il rumore, e fiutava l’odore della battaglia come il destriero di Giobbe.
Erano le bande degli insorti siciliani che, la notte, perlustravano i contorni, radendo i posti avanzati dei nemici, appiattandosi nei macchioni per sorprendere le pattuglie borboniche.
In una di queste avvisaglie, alcune ore prima che calasse il sole, era rimasto ucciso l’intrepido Rosolino Pilo. Egli aveva promesso di tutto spendere per la patria, averi e vita, ed aveva tenuta la parola[29].
Garibaldi, reduce al bivacco, radunò il suo stato maggiore e i capi siciliani, e presi seco loro gli opportuni concerti, comandò che all’alba si levassero le tende (modo di dire, chè i garibaldini per tenda non ebbero che il firmamento).
Il colore bianchiccio della marina annunciava già l’alba novella, quando Garibaldi, (lasciati parte degli [160] insorti siciliani perchè la notte vegnente continuassero a mantenere accesi i fuochi sui monti, onde i regj lo credessero tuttora in quei dintorni) radunati i suoi si allontanò di là marciando... Ma che dico! inerpicando per burroni, sdrucciolando giù per le frane dei monti, pur traendo seco la sua poca artiglieria trascinata, portata, Dio sa con quali fatiche! dai suoi militi. Finalmente, dopo inauditi stenti, i garibaldini, il 23, giunsero a Parco sulla strada di Piana.
Roberto, com’era sua usanza, appena fu arrivato a Parco, cercò un ruscello, e cavatisi gli abiti, nudo com’era nato, vi si immerse, gustando deliziosamente quella frescura. Valentino, raggiuntolo, sedette anche lui sul margine del rivolo, e deterso il sudore e la polve, tolse dal suo sacco due camicie grossolane di canapa, ma bianche di bucato.
— To’ Roberto! disse all’amico porgendogli una camicia; una per me, una per te...
— Ah, ah! sclamò Roberto; due camicie! E dove le hai pigliate?
— Me le ha date un bravo Siciliano, il padrone di quel mulino a vento.... là, lo vedi?...
— Ma come hai fatto?
— Come ho fatto?... La mia camicia cadeva a brandelli... Sfido io!... col camminare che si fa, ce ne vogliono delle camicie, ce ne vogliono!... Ma perdio, che strade!... Saranno buone per le capre, ma per un cristiano!... Ma spiegami un po’, Roberto; perchè mo in Sicilia non ci sono strade come negli altri siti?
— Perchè i Borboni non vedevano di buon occhio che i Siciliani comunicassero liberamente fra loro... È una delle mille arti per tener disuniti e ignoranti i popoli...
[161]
— Che il diavolo si porti i Borboni e chi fa per loro!..
— Dunque, si può sapere come hai fatto ad aver queste camicie? chiese Roberto buttando via quella che aveva, sdruscita e bucherellata, e indossando quella nuova pòrtagli dall’amico.
— Che vuoi! povero figliuolo come sono, mi è sempre piaciuto aver roba netta almeno sulla pelle... Dunque, mentre stava pensando al modo per aver una camicia pulita, ecco farmisi incontro quel bravo mugnajo: — Ben arrivato! mi disse stringendomi cordialmente la mano; di che paese siete? — Sono Lombardo, gli rispondo. E lui: — Dio vi benedica, signor caporale... — Sergente... — Signor sergente!... Dio vi benedica, voi tutti e il vostro generale... Non so cosa pagherei se lo potessi vedere... L’ho cercato, ma inutilmente. — Se non volete altro, vi servo subito; venite con me.» Il brav’uomo non se lo fece dir due volte, e, pigliatomi a braccetto, mi seguì fino nella corte della casa dove alloggia il generale. Guarda la fortuna! Facciamo due passi... ed eccoti il generale, che sorridendo discorreva con Bixio. — Quello è Garibaldi! dissi all’orecchio del Siciliano — Qual’è dei due? — Quello a sinistra, colla barba bionda. — Ah! sclamò il mugnajo, e restò lì estatico con tanto di bocca aperta, colle mani in alto, e colle ginocchia piegate... Così, guarda! (e Valentino ne imitava l’atteggiamento). — Oh! se potessi baciargli la mano! borbottava il mugnajo gratandosi il capo — Perdio! gli dissi, ci vuol tanto! andate là... provatevi... Avete paura che vi mangi?» Allora l’amico si fa cuore, cava il cappello, e pian piano si avvicina al generale, sulla punta dei piedi, come camminasse sull’ova... Quando gli fu a due passi, non osò andar più in là: [162] anzi era lì lì per tornare indietro, quando il generale, scòrtolo, gli sorrise affabilmente e gli chiese che volesse. Se tu, Roberto, avessi veduto la faccia del Siciliano in quel punto! Divenne.... meno nera, poi pavonazza... E che bocca apriva!... gli si potevano vedere i polmoni. Il generale gli disse alcune parole, poi strettagli la mano, entrò in casa.
— Chi sa come sarà rimasto contento il Siciliano!
— Figurati! Tornò da me, raggiante in volto come se avesse vinto un terno al lotto e colla mano ancora tesa... — E così? gli chiesi — Avete veduto? il grand’uomo mi ha stretta la mano.... — E cosa vi ha detto? — Mi ha chiesto se era del paese, e se era contento che lui fosse venuto a liberarci dai Borboni... Figuratevi cosa gli ho risposto! Intanto, il mio bravo Lombardo, questa fortuna la devo a voi... Fatemi dunque il piacere, venite a casa mia... Così dicendo mi pigliò per un braccio e mi condusse difilato a casa sua, lassù al mulino. Mi ha fatto vedere sua moglie, una donna con una ciera tutta bonomia; poi chiamò: Rosalia! Rosalia! e subito dopo entrò la sua figliuola... Ah Roberto! che bel fusto di ragazza.... Tu che sei pittore devi copiarla.... Che abito curioso, che colori vivaci!...
— Copiarla!... come ho a fare?
— Ti aspettano lassù a desinare...
— Io?
— Sì, in mia compagnia...
— Ma come...
— Se mi lascerai finire saprai tutto! Quella buona gente, quando il mugnajo ebbe loro raccontato come per mio mezzo egli aveva potuto parlare con Garibaldi e stringergli la mano, mi fu intorno soffogandomi [163] di cortesie e di esibizioni. Io, in principio, ho fatto un po’ di complimenti, poi pensando alla camicia che aveva indosso, e parendomi che mi prudesse la pelle, domandai loro in favore, se per caso avessero una camicia. — Ma sì, subito, signor caporale! si posero a gridare in coro, e gesticolando babbo, mamma e tosa. (È però curioso come qui in Sicilia non si sappiano distinguere i galloni, e come si confondono i gradi!) Queste ultime due sparvero, ma subito dopo ritornarono. — Ecco una camicia di mio marito, nuova fiammante. — Ed eccone una delle mie, netta di bucato, disse la ragazza sorridendo; non è da uomo, ma può scusare...» Io la pigliai subito, e... Eccola, Roberto!» Così dicendo la sciorinò dinanzi agli occhi dell’amico che si mise a ridere.
— Ridi finchè vuoi, riprese Valentino; ma io non la darei per tutto l’oro del mondo...» Così dicendo indossò la camicia, la quale non aveva altro inconveniente che d’essergli soverchiamente larga sul petto, e di maniche brevi tanto, da non giungergli alla metà dell’omero.
— Ehi! Valentino!.... Ricordati però di non portarla con te quando tornerai a casa tua, o almeno di nasconderla ben bene.... Se la tua amorosa la vedesse....
— Che vuol che dica l’amorosa? Le dirò schietto come la fu la cosa... Ma questo è il meno; l’essenziale è di tornare a casa nostra; e se la va di questo passo, ho paura.... Basta quel che sarà sarà. Intanto che siamo al mondo pensiamo di passarcela il meglio che possiamo.
Vestiti che furono, Valentino, pigliato pel braccio l’amico suo, lo condusse seco al mulino, che in quel [164] punto soffiando un po’ di brezza, cominciava movere in giro le sue braccia gigantesche.
— E tu dici che il mugnajo aspetta anche me?
— Sicuro! Quand’ebbi le camicie, credendo che il mio conto con lui fosse saldato, salutatili tutti e ringraziatili, stava già per andarmene pei fatti miei, quando il mio bravo Siciliano, piantatosi colle gambe aperte sull’uscio, e incrociatesi le braccia sul petto: Di qui non si passa, mi disse, senza prima aver mangiato un boccone in compagnia, senza aver assaggiato un gocciolo del nostro vino, dorato come il solfo entro cui è nato.
— E tu allora?
— Che vuoi che facessi? Come rifiutare un’offerta fatta col cuore in mano?... Ho detto: Sentite, amici, io accetto... ma a patto che mi permettiate di condurre con me un mio camerata milanese... — Venga, venga nel nome di Dio!... È caporale anche lui? — Sergente, volete dire! No, è più di me, è uffiziale. — Uffiziale! gridarono in coro. Ma allora bisognerà... perchè.... noi siamo povera gente, e... — Eh via! bando alle cerimonie!... noi siamo tutti eguali (quando non siamo sotto l’armi, ben inteso!)... siamo tutti come fratelli;... dormiamo tutti sullo stesso letto...
— Infatti dormiamo tutti sulla terra! rispose Roberto ridendo.
— E mangiamo tutti allo stesso rancio...
— Quando c’è.
— Benissimo! Fatto sta che si lasciarono persuadere, e dato un calcio ai loro scrupoli rispettosi, ci attendono a braccia aperte.
Così dicendo i due amici erano arrivati a pochi passi [165] dal mulino, quando vennero incontrati dalla famigliuola, seguita da una mezza dozzina di majali, e da un lungo corteggio di galline e di anitre, animali che in Sicilia spingono la domesticità fino a dividere, se non a contendere, anche il desco e il letto coi padroni di casa. Mentre entravano, Roberto disse all’orecchio del suo amico:
— Perdio! hai ragione... che bel pezzo di ragazza! Anche Valentino, non sapeva distaccar gli occhi da Rosalia, non già che la guardasse sguajatamente, chè egli, oltre al non esser sfacciato per indole, conosceva abbastanza i doveri dell’ospitalità.
Naturalmente (tutto il mondo è paese) l’uffiziale fu il più accarezzato, e Valentino, non senza rodersi un pochetto, aveva osservato che Rosalia, lui partito, s’era affrettata ad attillarsi con maggior cura. Nei capelli della bruna Siciliana, apparivano i solchi recenti del pettine, e tra le nerissime trecce spiccava un mazzolino di fiori d’arancio, freschi, colti allor’allora.
— Ah donne, donne! borbottava tra sè il sergente: tutte eguali... tanto ad Angera che a Parco...
Poco dopo i due garibaldini sedevano a tavola unitamente al mugnajo; le donne andavano e venivano dal camino (sotto cui bolliva, friggeva, arrostiva il frugal desinare) alla tavola, alla quale, occupate com’erano, sedevano di rado. Rosalia poi, certamente per caso, occupava sempre la sedia vicina a quella del giovine pittore; ciò che sfuggiva a Valentino tanto occupato a masticare, che s’accorgeva nemmanco dei porci, i quali, festeggiando gli ospiti con festevoli grugniti, gli correvano tra le gambe.
— Miei bravi signori! disse il mugnajo, voglio [166] che si beva un bicchiere alla salute del dittatore e dell’attuale nostro re Vittorio Emanuele.
— Volontieri! risposero i due convitati: e alzati i bicchieri, entro cui scintillava il più puro Marsala, ripeterono il brindisi:
— Viva il generale Garibaldi!
— Viva il re galantuomo!
In questo odono la trombetta che chiama frettolosamente i garibaldini a raccolta.
— Che diavolo sarà? sclamò Valentino interrogando collo sguardo il suo amico.
— Va a vedere, Valentino!... Va... presto...» Valentino, vuotato d’un colpo il bicchiere, scappò via gridando:
— Torno subito...
— Che può essere, signor tenente? chiese timidamente la fanciulla a Roberto, mentre il mugnajo e sua moglie si affacciavano alla finestra.
— Qualche allarme, bella Rosalia...
— Non partirete, vero?
— Forse sì e forse no!... dipendiamo tutti dagli ordini del generale... Ad ogni modo, Rosalia, non dimenticherò mai la cordialità con cui ci trattaste...
— Mai? chiese la fanciulla con un mesto sorriso, e guardando Roberto fisso fisso, con certi occhioni...
— Mai, ve lo giuro! rispose Roberto vivamente commosso. Rosalia... datemi una vostra memoria... Quei fiori d’arancio...
Non aveva finito di parlare che già quei fiori stavano in sua mano...
— Corri, corri, Roberto! gridò Valentino entrando a precipizio... Son già tutti sotto le armi.
— Ma che c’è? chiese Roberto cingendosi in fretta la spada.
[167]
— Vengono i Napoletani...
— Ah Madonna santissima! gridarono le due donne.
— Vengano pure... li riceveremo come meritano, disse il mugnajo, e pigliato in un angolo il suo fucile, se lo pose soldatescamente in ispalla. Addio, donne, o meglio, a rivederci...
— Addio, addio! dissero alla loro volta i garibaldini, e strette affettuosamente le mani alle due donne, uscirono frettolosamente di là, insieme col mugnajo.
La massaja stette alla finestra fino a che furono in vista; ma Rosalia, rifugiatasi nell’orto, sedette, e celatosi il volto nelle palme, proruppe in un dirotto pianto.
Quanto aveva detto Valentino era vero. I regj, il dì dopo la partenza di Garibaldi dalle vicinanze di Monreale, accortisi dello stratagemma messo in opera dal generale per guadagnar tempo, spedirono contro di lui tutta la truppa che in fretta in fretta poterono raccogliere, senza però sguarnire le posizioni.
Garibaldi, portatosi incontro a quella mano di regj, dopo breve scaramuccia li fugò.
Il dì dopo i regj tornarono numerosi, e alla lor volta attaccarono i garibaldini. Ferveva da qualche tempo il combattimento, quando Garibaldi ordinò la ritirata, la quale ebbe luogo così precipitosamente, con tale disordine, che a ragione i regj gridarono vittoria. E per festeggiare degnamente e glorificare il loro sovrano, entrati nei villaggi di Madonna delle Grazie e di Parco, li misero a sacco; vuotatili, e uccisi i pacifici terrazzani, appiccarono il fuoco alle case. I condottieri dei regj, al bagliore di quell’incendio, scrissero un bullettino (che pubblicarono il [168] dì dopo) col quale annunziavano la disfatta delle squadre garibaldine.
Il mulino ove Roberto e Valentino avevano desinato, andò salvo per miracolo. Non fu tocco dalle fiamme, perchè posto fuor del villaggio. Anche la famigliuola potè riparare in tempo sui monti, ove venne raggiunta dal mugnajo. I regj sfogarono la loro rabbia sui pacifici majali e sugli innocenti pollastri, ond’era popolato il casolare.
Al sentire che la famigliuola era sfuggita di mano a’ borbonici, i due amici respirarono.
Garibaldi, come ognuno già se lo sarà immaginato, aveva simulato fuggire. Con questo nuovo stratagemma aveva raggiunto il suo scopo, imperocchè ritornato alla Piana, e mandatovi Orsini coll’artiglieria, mentre i regj ne seguivano ansiosamente le tracce, egli, co’ suoi Cacciatori delle Alpi e con bande scelte di picciotti, pigliava la via dei monti. Per viottoli appena, diremo così, sbozzati tra i burroni, dopo una marcia tanto faticosa da non aver riscontro negli annali de’ garibaldini, che con qualche altra eseguita nel quarantanove, nella celebre ritirata da Roma, e con quella di pochi giorni dopo, giungeva a Misilmeri, ove aveva dato convegno a tutti i capi, delle bande degli insorti.
A Misilmeri, Garibaldi assunse le più diligenti informazioni circa le ultime mosse dei regj, e potè convincersi che il nemico era caduto nel laccio, cioè che aveva preso sul serio la precipitosa sua ritirata e che attribuiva a scoraggiamento il rinvio de’ cannoni.
Esploratori[30] venuti dalla Piana annunziavano, [169] essersi quivi il nemico considerevolmente rinforzato; che Parco era interamente occupato dai regj, e che, sulla strada che conduce a Palermo e a Monreale, trovavansi pure poderosi corpi; la piana di Borazzo e quella di Santa Teresa essere i punti di concentramento per parte dei regj, e poco o nulla guardate le altre uscite. Da questi rapporti Garibaldi comprese essere giunto il momento favorevole di irrompere su Palermo.
Ideato il suo piano, convocò lo stato maggiore, e i capi delle squadre indigene, e loro espose il suo disegno, soggiungendo non essere suo costume di adunare consigli di guerra, ma per questa volta credere opportuno di consultarli, dipendendo da questa risoluzione le sorti della Sicilia, e forse di tutta l’Italia meridionale. Disse potersi mettere in esecuzione due piani: o tentare un colpo di mano e impadronirsi di Palermo, o ritirarsi nell’interno ad organarvi un esercito regolare, e conchiuse: «Io sto per il primo».
La maggior parte del consiglio fu compresa da stupore per l’arditezza di tanto progetto, e alcuni uffiziali fecero osservare al generale il difetto di munizioni. Al che Garibaldi rispose: Non essere il numero dei colpi quello che sgomenterà i regj, ma piuttosto un’irruzione improvisa; fidare moltissimo nel valore de’ suoi Cacciatori e nell’entusiasmo delle bande siciliane, ricordando per ultimo l’attacco alla bajonetta che aveva sgominati e fugati i regj a Calatafimi. Una salva d’applausi accolse queste parole. Garibaldi allora congedò il consiglio, raccomandando agli uffiziali di trovarsi pronti ad ogni evento.
Valentino, ricevuto anche lui dal suo comandante l’ordine di tenersi pronto, disse fra sè:
[170]
— Per me son qua! Ma, e Roberto?... Dov’è Roberto?... È da jeri che non lo vedo... Andiamo un po’ a vedere dove si è ficcato.
Così dicendo, mosse in traccia dell’amico. Arrivato dove bivaccava la di lui compagnia, domandò ad alcuni militi, che stavano ingojando in fretta in fretta un po’ di rancio, ove fosse.
— Qui non c’è! gli rispose un garibaldino.
— Non c’è?
— No.
— Dov’è dunque?
— Chi lo sa! È partito jeri di scorta all’artiglieria di Orsini...
— Non sapete dov’è andato Orsini?
— È andato alla Piana... Il sito preciso poi come si fa a saperlo... Ohe! si parte, eh?
— Si parte a momenti... Ho veduto poco fa il generale... Aveva il cappello abbassato sugli occhi...
— Affare grosso allora!... affare grosso!...
Valentino, salutati i camerati, tornò al suo posto borbottando tra sè: Mi rincresce proprio che Roberto non sia con me... Siamo sempre stati insieme!... Forse è meglio per lui, perchè, a quel che pare, c’è in aria qualche cosa di straordinario... C’è un va e vieni, una pressa negli uffiziali di stato maggiore... Povero Roberto!... Almeno ne uscisse netto, chè anche laggiù nella Piana sento che non c’è da star molto allegri... I borbonici fanno il diavolo da quelle parti... E se ci pigliassero alle spalle?... e se... Baggiano che sei! Non ha da saperlo il generale?... Lascia fare a lui...
Intanto il sole era giunto a mezzo il suo corso. Valentino guardava con tenerezza un soffice tappeto [171] d’erbe odorose, verdeggiante nel mezzo d’un boschetto e che, salendo un pochino, finiva circuendo un ciottolone, liscio alla superficie superiore, non troppo alto, un comodissimo origliere insomnia, che pareva sorgere da un paniere d’erbe e di fiori. Valentino sospirava guardando quel letto composto dalle mani stesse della Providenza:
— Che bella dormitona farei qui all’ombra! sclamava tendendo le mani verso quel profumato giaciglio.
E la Providenza non fu sorda verso chi dal fondo del cuore la ringraziava delle sue cure.
Secondo il piano di Garibaldi, la marcia dei volontari doveva aver luogo sullo stradale di Misilmeri; stradale largo abbastanza per permettere alle colonne di spiegarsi comodamente; ma i capi de’ Siciliani avevano invece suggerito di preferire il passo della Mezzagna, dal quale, per via più breve, dalle alture dietro il Gebelrosso, si scende nel piano di Palermo. Garibaldi accettò questo consiglio.
Valentino, quando il suo uffiziale gli ebbe detto che si partiva quella notte, si lasciò cadere sull’erba, stirando voluttuosamente le membra. Poi, disteso il suo fazzoletto sulla pietra che gli serviva di guanciale, vi adagiò il capo. Pochi minuti dopo egli russava tranquillamente.
[172]
L’undici maggio, a Marsala, sbarcano 800 uomini. Ventisette giorni dopo, il 7 giugno, a Palermo, 18,000 uomini sbaragliati s’imbarcano. Gli 800 sono il diritto, i 18,000, sono la forza.
V. Hugo.
(Discorso tenuto nel meeting di Yersey).
Tre giorni dopo Sua Eccellenza il generale Garibaldi, dittatore della Sicilia in nome di S. M. Vittorio Emmanuele, dall’alto del palazzo reale di Palermo, riceveva l’umile preghiera del generale Lanza, colla quale chiedeva l’onore di una conferenza a bordo dell’Hannibal, nave dell’ammiraglio inglese. Il filibustiere aveva mutato titolo.
Palermo presentava uno spettacolo lieto e luttuoso ad un tempo. Tripudiavano i cittadini per l’avuta libertà; ma tripudiavano tra le rovine della loro città bombardata[31]. Giammai il contrasto tra la letizia [173] e la desolazione fu sì vivo. Come la gioja ed il riso valseggianti del poeta alemanno, ti si presentava alternativamente, ora un volto roseo e gajo, ora un volto pallido e lagrimoso.
Dall’alto del castello grandinavano spesse le bombe; dal mare, i legni napoletani lanciavano continue bordate a mitraglia entro le principali vie di Palermo. Molte case della parte bassa della città caddero in rovina; rimasero uccisi o mutilati gran numero di donne e di bambini; molti perirono sepolti sotto i rottami; ovunque scoppiarono incendi, ovunque vi ebbero morti e feriti. Così il generale Lanza, palermitano, bombardava ferocemente la sua patria, e si preparava, tra le maledizioni di un popolo, un posto nella storia delle infamie umane, e l’odio di quello stesso governo a cui serviva[32].
I volontarj, festeggiati, ospitati, accarezzati, ricevevano dai redenti Palermitani il premio delle loro fatiche, de’ loro eroici sacrifizj. Garibaldi, circondato a tutte l’ore dalla folla, visitava i posti, passeggiava la città seguito solo da qualche uffiziale. Ovunque era acclamato, benedetto. Certamente quei giorni furono fra i più belli della sua vita avventurosa.
Calmato quel primo entusiasmo, cominciò in Palermo [174] la caccia dei Sorci (così il popolo palermitano chiama gli sgherri della polizia borbonica). Avvennero scene di sangue, orribili rappresaglie, condannabili al certo, ma che sono pur troppo la necessaria conseguenza di una non mai interrotta sequela di soprusi, di prepotenze, di torture efferrate, con cui i barboni di Napoli cruciarono i Siciliani, con una calcolata freddezza, con crudeltà sì fina, da pareggiare la santa Inquisizione; il che è tutto dire!
I Garibaldini, impiegarono tutta la loro influenza per reprimere quelle rappresaglie; e più d’una volta, gettatisi fra le coltella sguainate del popolo, che urlando precipitava su qualche sorcio scovato nei sotterranei (in cui celavansi i poliziotti lividi per la paura), strapparono di là a forza il malcapitato sgherro, salvando chi, se la sorte ci fosse stata avversa, avrebbe esperimentato sui nostri, caduti nelle sue mani, la cuffia del silenzio, o lo speculum ani.
Il mattino del 30 maggio, Valentino, attraversata Palermo, moveva di buon passo verso la strada che conduce alla Piana, allo scopo di incontrarvi Roberto, il quale doveva recarsi a Palermo in quel giorno, anzi in quella stessa mattina, latore di un dispaccio pel generale.
Valentino, in quei tre giorni, aveva impiegate le ore di libertà nel visitare la città. Ignorante com’era, sentiva però istintivamente il bello; certamente egli non si fermava a discutere sull’architettura moresca di qualche edifizio, nè sull’antichità di un altro; contemplava però a bocca aperta quanto gli si parava dinanzi di grandioso, di nuovo, di strano come diceva lui. Epperò aveva seguito, senza sbadigliare, un instancabile garibaldino, côlto e d’ottima famiglia [175] milanese, il quale andava pazzo per le anticaglie ed in ispecie pei monumenti architettonici che arieggiano lo stile arabico ed il normanno.
Poco importava a Valentino il sapere che Palermo anticamente chiamavasi Panormus, e che quel mare fosse il ceruleo Tirreno. Però godeva vedendo le vaste piazze della città le innumerevoli fontane, paragonando per ciò la capitale della Sicilia alla nostra Brescia (da lui visitata l’anno prima, appunto con Garibaldi); spaziava lo sguardo per le ampie vie del Cassaro, di Toledo, di Maqueda, che trovava molto superiori a quelle di Sesto Calende.
Ma il suo compagno garibaldino soleva invece arrestarsi ad ogni tratto, esaminando con scrupolosa attenzione ogni angolo della città, e tenendo nota di tutto in un suo albo, mischiando la politica, coll’architettura, col culto, coi costumi ecc. ecc. Così, per esempio, scrisse nel suo albo, che gli era piaciuta moltissimo la gran piazza ottagona, ornata di begli edifizj di stile dorico, jonico e corinzio, decorata di molte statue, barocche le più, e che ha nel mezzo una fontana, giustamente celebre per la sua grandezza e per gli ornamenti architettonici.
Quella piazza chiamavasi un tempo Piazza del sole, e adesso, de’ Quattro cantonieri, da che la città fu divisa in quattro quartieri, cioè delle sante, Cristina, Ninfa, Oliva ed Agata, giacchè in Sicilia i santi c’entrano dapertutto. Più ancora della piazza, gli piacque la Marina, che è il passeggio più frequentato (è un argine che costeggia la baja e che è largo 80 passi) e la Flora, delizioso giardino pubblico, ornato di statue, di fontane, di chioschi. È il luogo in cui, la sera, si riuniscono i Palermitani a godervi la frescura e [176] il profumo dei fiori, proveniente dal vicino orto botanico, il cui ingresso ha la forma di un aulico tempio. Il palazzo reale sorge in una bellissima situazione; è circondato da graziosi giardini. Vi rimarcò la famosa cappella di Ruggiero, curioso monumento, il cui interno produsse nel garibaldino antiquario un’impressione di stupore commista ad un non so che di misterioso. Non potè visitare tutte le chiese ed i conventi; ci voleva un anno, tanto sono numerosi; vi basti dire che quest’ultimi sono nientemeno che novanta, quaranta pei maschi, e cinquanta per le femmine! Quanto ai prodotti del suolo, dice che sono copiosissimi; seta, vino, olio, aranci, cedri, pistacchi, mandorle, frutta secche, tonno e altro, pesce moltissimo, poi cordami, ambra gialla, manna, coralli, sale, seme di lino, canape ecc. ecc.
La popolazione di Palermo è, a un dipresso, pari in numero a quella di Milano; ma al vedere il va e vieni continuo per le vie, l’ingombramento, l’incontrarsi delle carrozze da nolo (meschine assai), dei passeggeri d’ogni condizione, d’ogni età e sesso, si crede in sulle prime che la popolazione sia molto più numerosa, e l’industria, il commercio più considerevoli; ma poi si scorge che questa attività proviene in parte dall’ozio della maggioranza del popolo, e dalla necessità di andare a cercar mezzi di sussistenza nelle case di carità, e nei conventi, ove si fanno giornaliere distribuzioni; quindi, allato del lusso sfoggiato da pochi, si vedono migliaja di mendicanti, alcuni dei quali di schifoso aspetto. Nella state il calore vi è sì intenso, che si chiudono le case e le botteghe prima del mezzodì, per riaprirle verso le cinque della sera; in quest’intervallo tutto è silenzio e [177] quiete, e il viaggiatore che, sfidando il sollione, visitasse Palermo in quelle ore, crederebbe di camminare nelle spopolate vie di Ercolano o di Pompei. Ma al vespro, gli affari e i piaceri (che ne sono la causa) riprendono il loro corso e si prolungano fino a notte inoltrata[33].
Ma è tempo di ritornare a Valentino che, camminando veloce, era già un pajo di miglia fuori di Palermo. Dopo un altro tratto di strada, ad uno svolto, vide venirgli incontro una carrozza di una forma tanto antica che pareva un confessionale, tirata da uno slombato ronzino, che trottellerava però di buona voglia, sapendo di esser vicino alla città. Nella carrozza scorgevasi un uniforme rosso.
[178]
— Dovrebb’esser lui! sclamò Valentino, e sedendosi sul margine della strada attese la carrozza.
Infatti era Roberto.
— Ohe! gridò Valentino affacciandosi allo sportello.
— Oh! sei tu Valentino! sclamò Roberto, e tesa la destra all’amico che gli correva al fianco, tirò per l’abito il suo Automedonte, il quale piegando all’indietro tirò anche lui di conseguenza le redini e fermò il cavallo.
— Oh! quanto m’è caro di vederti!
— E io?... ti sono venuto incontro, tant’era la smania di sapere cos’era avvenuto di te.
— Mille grazie il mio buon Valentino!... Aspetta che scendo... Questa maledetta carrozza mi ha tutto sconquassato... Palermo è lontano?
— Due miglia, non più.
— Bene, facciamole a piedi insieme.
— Volontieri.
Roberto, pagò il vetturale, si cinse la spada, trasse dal legno la sua borsa da viaggio, e pigliato il braccio dell’amico s’avviò seco lui di buon passo alla volta della città.
— Dì, Garibaldi è a Palermo?
— Sì.
— Tanto meglio... ho una lettera per lui...
— Ti fermi a Palermo?
— Spero di sì... a meno che il generale non mi rimandi colla risposta.
— Ah! che ne dici della nostra entrata in Palermo? disse Valentino fermandosi, e ponendosi le mani dietro la schiena.
— Una meraviglia, mio caro, una meraviglia!... Non vedeva l’ora d’esser teco per sapere per filo e per segno come fu la cosa...
[179]
— Chi sa cos’avrete detto voi altri al sentire questa bella notizia...
— La fu una Providenza, mio caro! una vera Providenza!... Senza questa bella notizia che sospese le mosse dei borbonici che ci attorniavano, forse a quest’ora.... io non era qui a chiacchierare con te.
— Diavolo!
— Ma, certo! Che volevi che facessimo noi, un pugno di gente, contro di loro che erano a migliaja? Sì, ci siamo barricati bell’e bene... avremmo fatto un fuoco d’inferno, ci saremmo difesi fino all’estremo; ma poi, come continuare senza rinforzi, senza munizioni, e quel che è peggio, senza notizie di Garibaldi?... Intanto la è andata bene; i borbonici sono là sbalorditi, senza notizie, senza comunicazioni col loro generale in capo...
— Ora sono fritti, te lo dico io! A Palermo vedi... Ecco la città! guarda quanti campanili, guarda il castello... È in mano nostra, vedi!
— Raccontami, Valentino, raccontami come avete fatto ad entrare in Palermo. Brucio di voglia di saperlo.
— Ecco qua. La sera del 26, a Misilmeri, io dormiva pacificamente, quando mi sento tirare una gamba. Apro gli occhi, e vedo il mio capitano che con altri uffiziali e sott’uffiziali andavano svegliando senza far rumore i nostri sdrajati qua e là sulla collina. In un attimo fummo in piedi e in rango, sotto le armi. Mezz’ora dopo tutti, tutti ve’! marciavamo sui monti. Potevano essere le dieci di sera.
— Chi marciava innanzi gli altri?
— Ecco com’eravamo disposti; te lo posso dire di preciso, perchè mi sono passati sotto gli occhi tutti, prima ch’io potessi trovare la mia compagnia.
[180]
— Era notte fitta eh!
— C’era la luna... (Pare che in Sicilia non ci sia notte senza luna), ma capisci! non si può veder da lontano come di giorno...
— Dunque?
— Dunque, ecco con che ordine si marciava.
L’avanguardia era formata dalle Guide e da un corpo formato di militi levati dai Cacciatori delle Alpi, tre per compagnia, ed era comandata dal maggiore Tückeri, quell’uffiziale ungherese che sai[34].
— Vedo, vedo!... e poi?
— Poi veniva La Masa coi picciotti. Dopo i picciotti c’erano i bersaglieri genovesi; e finalmente due battaglioni di Cacciatori delle Alpi, ed io con loro.
— E avete camminato...
— Senti, Roberto! rispose Valentino ponendosi una mano sul petto; ne ho vedute, ne ho fatte delle strade in vita mia... Non è la prima volta che fo il soldato sotto Garibaldi...; ma ti assicuro che strade così scellerate... così inique... Ti ricordi quella strada che abbiam fatta assieme per arrivare a Parco?... Era cattiva vero?... Ebbene fa conto che la sia il Sempione in confronto di quella che ti dico...
— Capisco, capisco!...
— Ma no, chè se uno non le ha fatte quelle strade non può capire come le sieno! Perchè, vedi, io ho detto strade, tanto per spiegarmi; ma non le sono strade, ma piuttosto screpolature del monte, tracce di ruscelli passati per l’erba dopo un temporale... Insomma ad ogni tratto s’udiva una bestemmia, e uno [181] di noi, o scappucciava, o cadeva rotoloni, o picchiava della testa contro un masso; talvolta credevi di mettere il piede sul sodo e invece lo affondavi in un buco, a rischio di scavezzarti una gamba. Su, giù, poi ancora su, per discendere di bel nuovo; si voltava a destra, poi subito a sinistra; si attraversarono certi torrenti coll’aqua fino al ginocchio. Buon per me che so nuotare!.... diceva io; poi se sono passati gli altri prima di me, passerò anch’io;... e via!... C’era de’ momenti in cui credevamo di andar dritti dritti all’inferno... Oh che strade! Oh che notte! Oh che strapazzi!
— E poi? chiese Roberto ridendo delle smanie dell’amico.
— Finalmente, quando Dio volle, rotti per la fatica, con una spanna di lingua fuori, si arriva, che faceva già chiaro, alle prime case, a Porta Termini. Ci siamo! ho detto fra me. Avanti! e silenzio... silenzio! ci dicevano con voce bassa gli uffiziali. Ma i picciotti, avvezzi a far baccano, invece di starsene zitti, si mettono a saltare, e a gridare con quanto fiato hanno in corpo: Viva Garibaldi!... viva Garibaldi!
— Silenzio, perdiosanto! dicono i capi con voce strozzata; silenzio! Eh sì! I picciotti, ritoccano: Viva qua! viva là!
— Che fatalità!
— Che vuoi! adesso che la è finita, li compatisco; l’allegria uno la tiene in corpo, un altro no; è quistione di temperamento!... Quelle maledette grida diedero l’allarme ai Napoletani. Dàlli, dàlli! presto, presto! In un momento sono tutti in piedi,... arrivano di corsa, difendono porta Termini colle barricate... La nostra avanguardia, che senza quelle grida entrava in Palermo addiritura, senza trar colpo, visto [182] che era scoperta si fa innanzi...; ma è ricevuta a fucilate... I picciotti, non ancora avvezzi alle schioppettate, piegano un pochino... Allora ci avanziamo noi,... cioè si fa innanzi il primo battaglione de’ Cacciatori delle Alpi... Si fa fuoco, si cerca di correr dentro... ma non c’è verso... Arriva a passo di carica il secondo battaglione... Allora anche i picciotti piglian coraggio... Avanti, avanti!...
— E io non ci doveva essere! gridò Roberto tendendo i pugni.
— Tutto ad un tratto si sente il cannone... Corpo del diavolo! erano i Napoletani che ci tiravano cannonate a più non posso dalla Porta S. Antonino... Ci pigliavano di fianco!
— E allora?
— E allora, al solito: Alla baionetta! avanti! Il maggiore Tückery, e tre guide, scavalcarono pei primi la barricata... Tückery cade;... una palla lo aveva colpito nel ginocchio. Subito dopo stramazza Benedetto Cairoli, ferito anche lui in un ginocchio[35]. Avevamo dinanzi lo stradone che mette dritto nella città.... e non potevamo avanzare...
— Perchè?
— Per un maledetto cannone, piantato là in faccia a noi, e che tirava a mitraglia... Un colpo dopo l’altro, con una furia!... Quando... Indovina un po’ cosa succede?... Succede che uno dei volontarj genovesi, per far coraggio ai picciotti, visto che le parole servivano poco (forse non si capivano bene), decise di spingerli [183] avanti animandoli col suo esempio. Piglia quattro sassi, se li pone sulle braccia; poi dice ad un compagno: «Ficcami quella bandiera sotto un’ascella.» Detto fatto. Allora corre innanzi a testa bassa, infischiandosene della mitraglia; poi, arrivato ad un certo punto, si ferma in mezzo allo stradone; mette giù i suoi sassi e vi pianta in mezzo la bandiera...
— Pare impossibile!
— Poi le si pone a sedere vicino, tranquillamente, colle braccia incrocicchiate sul petto...
— Ma è proprio vero? sclamò Roberto fermandosi sui due piedi, e fissando l’amico.
— Se è vero? Ma l’ho veduto io con questi occhi!... E poi domanda ai nostri e vedrai!... Allora picciotti e garibaldini si precipitano avanti, oltrepassano il Genovese e la bandiera, e giungono fin presso la porta della città...
— Bravi, bravi, perdio!... E come si chiama questo intrepido Genovese?
— Non lo so!... mi rincresce, ma non lo so![36]
— Peccato!... E così?
— Siamo al punto decisivo. Noi, a dirtela in confidenza, non ne potevamo più; il nemico ci serrava addosso di fronte, ai fianchi... Io non sapeva in che mondo mi fossi! Quando ad un tratto sentiamo un baccano d’inferno dalla parte della città; erano grida confuse, era un fracasso come quando all’avvicinarsi d’un temporale, sbattono con violenza porte, griglie, usci;... oltre ciò un maledetto scampanare...
— Cos’era?
[184]
— Erano i Palermitani che si levavano in massa addosso ai Borboni...
— Che rimasero tra due fuochi?
— Tra due fuochi, proprio tra due fuochi! Allora dovettero battersela per salvar la pelle, e noi, dentro con Garibaldi, e innanzi innanzi fino alla piazza di Fiera vecchia, dove trovammo quei del comitato, il municipio e migliaja e migliaja di persone, che ringraziarono il generale, che ci abbracciarono levandoci di peso da terra. Vecchi, donne, fanciulli, preti, frati, monache... sì, Roberto, anche le monache... (e ve ne sono di belline ve’!); chi piangeva, chi rideva... Senti, Roberto!... ne ho ricevute delle dimostrazioni (e così dicendo s’arrotolava fra le dita le estremità dei baffi), a Varese, a Como, a Bergamo e Brescia, e poi anche qui a Salemi, a Misilmeri ecc. ecc. ma come quelle di Palermo...» e agitava le braccia come a dire: è impossibile vederne di più calorose, di più entusiastiche.
— Cos’avrei pagato per essere presente! disse Roberto sospirando.
— Te lo credo, Roberto, te lo credo! Vedi... al solo parlarne mi vengono le lagrime agli occhi,... ma le son lagrime che danno piacere... perchè rammentano una buona azione. A pensare al divertimento, al gusto che si piglia a far del bene, non so capire come ci sia a questo mondo della gente, la quale potrebbe farne tutti i giorni, e che invece arrabbia, soffre, si dispera, e crepa se occorre, e tutto questo per far del male...
— Seguita, seguita il tuo racconto.
— Quando entrammo in Palermo potevano essere le cinque e mezzo del mattino. Tanto noi che [185] i Palermitani ci ponemmo subito all’opera, barricando contrade, chè il già fatto era molto, ma c’era bene altro!... Intanto che si lavorava, che si correva di qua e là, che si stanano i regj, ecco che verso le dieci casca giù una bomba, poi due, dieci, cento, e via via, in men che nol dico, le venivan giù fitte che parevan gragnuole... E che bombe ve’!... ce n’eran di quelle che io arrivava appena appena a circondare colle braccia... E non solo bombe, ma palle arroventate, e certe altre... Non so come le chiamano!... ma dicono che, dove toccano, nasce subito un incendio.
— Chi sa quante vittime!
— Te lo lascio immaginare! Ma quasi non bastasse il bombardamento, ecco i legni napoletani che erano nel porto, schierarsi e cominciare il fuoco dall’altra parte.
— E il generale?
— Il generale stava sulla piattaforma nella piazza del Pretorio insieme ai capi dell’insurrezione ed ai suoi uffiziali di stato maggiore. Intanto s’era fatto notte e il bombardamento continuava, non colla furia di prima, ma continuava. Palermo era tutto illuminata e in festa...
— Sarà stato un curioso contrasto.
— Altro che!... La mattina del 28 si sentì un baccano indiavolato per le strade; erano i prigionieri politici liberati e condotti in trionfo;... scapparono però in quella confusione anche dei birbanti, che di politica non se ne impicciarono mai, e che avrebbero fatto meglio a restar dove erano. Intanto i regj seguitavano a ceder terreno, vuotando la Vicaria e le caserme e riparando nel castello...
[186]
— In quel giorno respirammo anche noi là a Parco. Mentre ci aspettavamo un assalto in tutte le regole, che è che non è, i regj se ne vanno via quatti quatti...
— Mi ricordo infatti che in quel giorno ci venne fatto di sapere che le truppe napoletane che erano a Monreale e a Parco, cercavano rifugiarsi a Palermo... Arrivarono nel porto due vapori carichi di soldati e che parevano volessero sbarcare... Ne avevano tutta la voglia, ma altro è volere altro è potere!... Di lì a poco corse voce di una sospensione d’armi. C’entrò di mezzo un ammiraglio inglese, ma a dirtela schietta non so bene come sia stato questo negozio...
Riempiremo la lacuna lasciata da Valentino.
Il castello continuava il bombardamento, infame ed inutile opera di distruzione. Intanto l’ammiraglio inglese Mundy faceva le sue pratiche presso Garibaldi, e questi dava il suo consentimento alla sospensione delle ostilità; ma non per tanto il bombardamento del castello continuava, e i regj, approfittando della rilasciatezza dei nostri nel guardare i posti, avevano preso possesso di alcune barricate presso alla piazza Reale, e incendiate alcune case. Il dittatore già si preparava a scrivere all’ammiraglio, e a lamentarsi della violazione dei patti, quando giunse a lui il luogotenente di vascello Wilmot, dicendo che non avendo il commodoro data risposta, il generale era libero di riprendere le ostilità. Così fu fatto, e poche bombe alla Orsini lanciate contro i regj, bastarono per metterli in fuga, e per riprendere le posizioni perdute.
Da queste velleità dei comandanti l’esercito napolitano, si vede chiaro come essi si trovassero da una [187] parte spaventati da Garibaldi e dalla rivoluzione, e dall’altra stimolati dall’amor proprio d’una rivincita, sembrando loro troppo disonorevole, che un esercito bene ordinato di venti e più mila uomini si ritirasse in faccia a gente senza disciplina e senza armi.
Nella notte dal 28 al 29 partivano nella direzione di Termini alcuni legni della flotta napoletana. Il bastione di Montalto, a sinistra del palazzo reale, veniva sgombrato dai Napoletani che vi lasciarono un cannone da trentadue. Il 29, il corpo dei regj che occupava il palazzo delle finanze, mandava un parlamentario per ottenere di ritirarsi; ciò non veniva concesso. Si veniva a conoscere che il castello, mancando di aqua e di viveri, non poteva a lungo sostenersi. Un caposquadra recava notizie sullo stato delle vicine campagne ingombre d’insorti; altri dispacci accennavano a forti guerriglie che molestavano i regj a San Martino, alla Favorita, a Monreale, a Parco; e che già gli insorti venivansi raccogliendo nelle piane del Borazzo, e di Santa Teresa.
— Verso le tre dopo mezzodì, (prese a dire Valentino continuando il suo racconto), la città fu tutta sossopra.
— Perchè?
— Ti dirò; due vapori che, come t’ho detto, erano nel porto, tentarono di sbarcare le truppe che avevano a bordo, presso la porta dei Greci; la popolazione di quelle vicinanze cominciò a fuggire in città, portandovi l’allarme e la confusione. Quasi nello stesso momento s’udirono cannonate e schioppettate sul bastione, tra il castello ed il palazzo reale. Erano alcuni cittadini coraggiosi, i quali avevano tentato [188] d’impadronirsi di un certo gruppo di case, per tagliar le comunicazioni tra i regj ch’erano sul bastione e quelli chiusi in castello.
— La era ben pensata!
— I Napoletani fecero un fuoco del diavolo; i Palermitani risposero; ma dopo un po’ di tempo s’accorsero che non avevano più munizioni; se ne accorsero anche i regj, e ne approfittarono, sbucando fuori e ricacciando i cittadini là dove erano venuti. Garibaldi se ne stava desinando, quando gli si presentò il capitano Piva narrandogli l’occorso. Il generale, udito che l’ebbe, si alzò dicendo: È meglio che vada io stesso.» Vi andò, e, al solito, colla sua presenza mutò la faccia delle cose, e i regj ebbero di grazia di potersi ritirare. Garibaldi, nonostante le preghiere di noi altri tutti, rimase durante il tafferuglio nel bel mezzo della strada parlando, e incoraggiando i combattenti. Un Siciliano, ferito nel capo, cadde dinanzi al generale, che lo sostenne tra le sue braccia; Türr, fu colto in una coscia da una palla di rimbalzo mentre stava allato del generale. Infine, vedendo che la cosa andava per le lunghe, Garibaldi rivoltosi ai nostri che gli stavano intorno, gridò: Andate un po’ là voi altri e finitela.» E noi, serratici insieme, via di corsa!... Ci trovammo tanto vicini ai borbonici, da poter gittare in mezzo a loro una bomba all’Orsini, che scoppiò, e buttò in terra sette soldati napoletani. Allora Garibaldi disse al trombettiere che aveva presso, di suonare la carica... e i regj scapparono. Questa mattina poi, quand’io, attraversava Palermo per venirti incontro, ho sentito dire che il general Lanza, a mezzo dell’ammiraglio inglese, aveva chiesto un abboccamento.
[189]
Intanto Valentino e Roberto erano arrivati a Palermo.
L’abboccamento chiesto dal general Lanza, e a cui Valentino fece allusione, è quell’istesso da noi accennato nel principio di questo capitolo.
Il dittatore aveva risposto, non avere alcuna obbiezione a fare, ed esser pronto a venire a conferenza col generale napoletano a bordo dell’Hannibal; manderebbe a’ suoi, ordine di cessar il fuoco: l’armistizio comincerebbe a mezzodì, e che ad un ora pomerediana il convegno avrebbe luogo sul legno ammiraglio. Il colonnello Türr, ispettore generale delle forze nazionali, mandò la risposta del dittatore al general Lanza, a mezzo del luogotenente di vascello Wilmot[37].
Perchè l’armistizio cominciasse a mezzodì, Garibaldi aveva mandato l’ordine di cessare il fuoco un’ora prima. Ma in quel momento una colonna napoletana, provista d’artiglieria presentavasi a porta Termini. Invano la bandiera bianca segnò l’armistizio; la colonna mosse all’assalto, ed il castello vi cooperò con le solite bombe. Parecchi uffiziali dei nostri montarono sulle barricate proclamando l’armistizio, ma la colonna non ne volle sentire, e fece fuoco. Garibaldi in quel punto cominciò a credere che l’armistizio non avesse più luogo, quando due parlamentarj regj vennero a lui chiedendogli scusa dell’occorso e dichiarando essere stato un malinteso. Intanto i Napoletani si avanzavano, e il luogotenente Wilmot, che veniva recando il consenso dell’ammiraglio, si trovò involto tra le schiere dei regj. Garibaldi, raccolte [190] allora le sue riserve, marciò innanzi. Una bomba lanciata dal castello, scoppiò vicino a lui; i borbonici abbassarono i fucili, vi fu un momento in cui la vita del dittatore si credette perduta. Finalmente il luogotenente Wilmot, persuadendo i regj del loro errore, riuscì a farli retrocedere.
All’ora determinata ebbe luogo l’abboccamento; da parte dei regj, v’era il generale Letizia, e il comandante la stazione navale; da parte nostra, lo stesso Garibaldi, accompagnato dal colonnello Türr.
L’ammiraglio inglese aveva frattanto invitato i comandanti della squadra francese ed americana perchè fossero presenti alla conferenza.
Il generale Letizia porse in iscritto i sei punti sui quali desiderava aprire la conferenza.
Queste proposte mostravano chiaramente in che stato si trovassero i Napoletani.
Erano le cinque quando la conferenza terminò. Il ritorno di Garibaldi e l’annunzio dell’armistizio di ventiquattro ore (benchè non si conoscesse ancora il risultato dell’abboccamento) infuse nuovo coraggio nei cittadini, che si apparecchiarono con maggiore alacrità alla difesa. Preti, uomini e donne, tutti lavoravano alle barricate; sui tetti si ammassavano pietre ed altri projettili da rovesciare sugli assalitori; ai Cacciatori delle Alpi ed ai picciotti, furono assegnati i posti da difendere; i più intelligenti e stimati tra i cittadini andavano rassicurando il popolo, e lo incoraggiavano a combattere per la libertà e per l’Italia.
Il popolo era ansioso di sapere il risultato della conferenza, e Garibaldi non lo fece lungamente aspettare. Apparve un suo proclama il quale diceva. — Il nemico mi ha proposto un armistizio. Io accettai quelle [191] condizioni che l’umanità dettava si accettassero; ma fra queste una ve ne era umiliante per la brava popolazione di Palermo, ed io la riggettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza di oggi fu dunque di ripigliare le ostilità dimani. Io ed i miei compagni siamo festanti di potere combattere accanto ai figli del Vespro, una battaglia che deve infrangere l’ultimo anello della catena con cui fu avvinta questa terra del genio e dell’eroismo.»
Garibaldi non aveva accettato dal generale Letizia la quinta proposta, cioè: che il municipio dovesse indirizzare un’umile petizione al re, esponendogli i bisogni della città. Noi non possiamo capire come si potessero fare ad un generale e ad un popolo vincitori, proposte di simile natura; ma è questo un segno della collera di Dio, di istupidire chi n’è colpito.
La mattina del 31, militi e popolo si preparavano a riprendere le ostilità, quando un parlamentario, inviato da Lanza al dittatore, gli domandava una scorta pel generale Letizia, che per le dieci antimeridiane desiderava un colloquio con lui; il dittatore accondiscese, e alle dieci in punto il generale borbonico entrava nel palazzo Pretorio ed esponeva al dittatore: Essere impossibile trasportare tutti i feriti prima del mezzodì in modo che, ove l’armistizio non venisse protratto, il suo scopo riuscirebbe vano. Domandò inoltre un armistizio indefinito, facendo sperare la probabilità di un accomodamento, onde schivare altro spargimento di sangue[38].
Il dittatore negò l’armistizio indefinito, ed offrì il [192] prolungamento di giorni tre, che venne accettato dal generale Letizia.
La città ricevette a malincuore l’annunzio del protratto armistizio; il fervore di combattere aveva invaso l’animo dei cittadini, i quali inoltre sospettavano che la tregua potesse riuscire di vantaggio al nemico, e di scapito per essi. Invece l’armistizio giovava alla causa della libertà; perciocchè, non solamente si guadagnava tempo onde costruire nuove barricate, e organare alla meglio le squadre dei volontarj, ma si dava agio ai Napoletani di disertare, come infatti accadde di molti ufficiali, che trascinati dalle idee liberali, abbandonarono la bandiera borbonica e si raccolsero sotto quella di Garibaldi. Di più, l’esercito napoletano a poco a poco stancavasi e demoralizzavasi, mentre all’annunzio della presa di Palermo, altri comuni dell’isola si ribellavano, e nuovi volontarj venivano ad ingrossare le nostre schiere.
Nel pomeriggio di quel giorno stesso il dittatore fece un giro d’ispezione per la città. Fu uno di quei trionfi già da noi descritti, e che forse sembreranno troppo grandi per un uomo; quell’idolo popolare vestito della sua casacca rossa, e con un fazzoletto colorato intorno al collo, camminava a passo lento in mezzo al popolo numeroso che delirante gridava, acclamava, si gittava ai suoi ginocchi, e come a liberatore gli baciava la mano, e toccava religiosamente i lembi delle sue vesti. E in mezzo a tanto fremito e delirio, Giuseppe Garibaldi era calmo, sereno e col sorriso sulle labbra. Egli fermavasi, ora a raccomandare la quiete, ora ad ascoltare i lamenti degli infelici che avevano avute le case arse e saccheggiate. [193] Quanto un popolo meridionale sa fare e dire in momenti di tanta esaltazione, tutto fu fatto e detto intorno al generale in quelle ore sublimi di morale trionfo.
Ritornato al palazzo Pretorio, fu come assalito dagli uffiziali inglesi ed americani, dal console degli Stati Uniti, e dal console svizzero, venuti a salutarlo, o a congratularsi con lui della sua vittoria.[39]
Poco dopo, dal palazzo delle finanze sventolava una bandiera parlamentare, e da quel momento furono aperti i negoziati perchè i regj sgombrassero quel palazzo, che poi fu ceduto il 2 giugno, nel quale giorno, perchè prossimo al termine dell’armistizio, i lavori delle barricate e i preparativi di guerra per parte dei nostri procedevano, e si recavano a compimento col concorso di tutte le classi di cittadini, e con tanto ardore che lo stesso Garibaldi meravigliato se ne congratulò in un suo proclama ai Palermitani.
Il general Lanza era intanto riuscito a far conoscere alla corte di Napoli che qualunque ulteriore resistenza in Palermo sarebbe tornata inutile, e che quindi bisognava sgombrare la città; e il governo fu costretto a cedere a quello stesso che egli aveva poc’anzi chiamato sprezzantemente un filibustiere. Al cospetto de’ suoi popoli, al cospetto di tutto il mondo, i Borboni di Napoli, dovettero volgersi supplichevoli al vittorioso popolano, se vollero salvare la truppa dal furore della rivoluzione.
Tanto dispetto veniva però raddolcito dalla speranza di una rivincita, perciocchè concentrando il nerbo [194] delle loro forze in Messina e possedendo ancora i forti di Siracusa e di Augusta a tempo ed a luogo lusingavansi di riconquistare la Sicilia, come nel 1849 aveva fatto Ferdinando II per mezzo del generale Filangeri. Non per tanto fu raccomandato al generale Lanza di capitolare non da vinto, ma da soldato forte ancora, e che cedeva unicamente per principj di umanità; l’onore delle armi in ispecial modo doveva essere salvato in faccia all’Europa.
Era nelle intenzioni di Garibaldi di non umiliare troppo l’esercito napoletano; chè anzi giovava cattivarsi l’animo di esso con atti generosi; perciò determinò di agire secondo la bontà dell’animo suo, e tanto più nobilmente, quanto più feroce, e inumano egli era stato dipinto dal governo di Napoli.
Oltracciò il castello, presidiato da molta truppa poteva ancora resistere, e, dove avesse continuato il bombardamento, la città sarebbe andata in rovina, e molta strage sarebbesi consumata, e danni incalcolabili ne sarebbero venuti. Sotto la pressione di questi riguardi, che per altro grandemente onorano la prudenza, la politica e i sensi umanitarj di lui, il dittatore acconsentiva alle molte richieste del nemico, e il 6 giugno stipulava una convenzione, la quale venne fedelmente mantenuta, e che pose fine alla ruina di Palermo.
[195]
Tutti i milioni di Rothschild non valgono a comperare mezz’ora.
Dr. Paolo Mantegazza. (Il bene ed il male).
Lettori, se non vi rincresce, torniamo in Lombardia; vi staremo per poco.
La mattina del 9 giugno 1860, due signore passeggiavano nel giardino che circonda una graziosa e solitaria villeggiatura posta a mezzo il colle detto Campo de’ fiori, che sorge tra i due monti Valgrande e Maria del monte, poco lungi dalla strada che da Gavirate conduce a Laveno, che è quanto dire, dal lago di Varese al Verbano.
La più giovane delle due (la padrona di casa), passeggiava pian piano, fiutando un garofano, con una cert’aria di abbandono e di languore, come di persona avvezza a volar via lontano lontano col pensiero... Dove poi si posassero i suoi pensieri, a noi poco importa il saperlo. Fatto sta ch’essa volgeva [196] gli occhi semichiusi a destra, a sinistra, innanzi a sè, senza badare più che tanto alla stupenda scena che offrivano quegli incantevoli dintorni, vivificati dai nascenti raggi del sole.
L’altra signora, molto più attempata, dava segno, camminando, della più viva impazienza. Affrettava il passo, indi retrocedeva per porsi a lato della sua amica; poi si fermava, e sospirando, e crollando il capo, guardava giù verso Lainate, e sulla strada che, radendo il lago di Varese, mette a Gavirate.
— Quanto tarda questo benedetto Amedeo, quanto tarda!...
— Sarà in ritardo la diligenza!
— Eppure è l’ora, rispose la contessa Emilia, consultando per la decima volta l’oriuolo che portava alla cintura. Ah! Irene, che martirio è l’aspettare!» e camminava innanzi battendo palma contro palma.
Irene a queste parole, si portò la mano alla bocca per soffogare una risata.
— Ah! esclamò la contessa fermandosi, sento rumore di carrozze... Guarda un po’ tu, Irene, che ci vedi meglio di me.
— È la diligenza!... Eccola...
La contessa Emilia, postosi il suo pince-nez, guardò giù sulla strada ripetendo: Eccola, eccola!... Ah finalmente! adesso Amedeo non può tardar molto... Vo a vedere!
Così dicendo la contessa entrò frettolosamente in casa.
Come si trova qui questa signora? — Amico lettore, te lo dico subito.
La contessa Emilia era già da qualche giorno nella [197] sua villa nel piano d’Erba, quando verso gli ultimi di maggio le giunse da Genova una lettera di suo nipote Ernesto, colla quale le annunciava ch’egli sarebbe partito il 10 giugno colla brigata Medici, alla volta di Palermo.
La zia gli rispose tosto che sarebbe venuta a Genova ad abbracciarlo, prima che partisse. Poi, tornata a Milano, s’era affacendata a prevedere tutto ciò che, secondo lei, suo nipote doveva portar con sè. La buona signora, nella foga del suo zelo materno, aveva messo a contribuzione non so quanti bottegaj, dal sarto al Rainoldi, accumulando fagotti, cassettine, involti ecc. ecc. tanto che, quando le parve di aver nulla dimenticato, quelle provigioni capivano a stento in un’enorme cassa di legno, solidamente accerchiata di ferro.
La contessa volle metter mano ella stessa, (ajutata però dalla cameriera) al collocamento di tutti questi oggetti. Dispose sul fondo della cassa due coperte di lana che, diceva, dovevano essere tanto zucchero pel nipote; vi sovrappose non so quante paja di camicie di tela, bianche e colorate, di mutande, di calze, di fazzoletti; un corredo da sposi insomma! Sulla biancheria distese tre o quattro gazzette, e su di esse, due abiti completi, l’uno dei quali da portarsi dal nipote in occasione di visite; frak, calzoni, gilet neri, e su questi, due candide cravatte già artisticamente annodate, e una dozzina di guanti color burro.
Savina, la cameriera, quando ebbe vedute le cravatte e i guanti, osò osservare alla padrona che, secondo lei, un garibaldino avrebbe forse potuto farne senza. Così non lo avesse detto! chè la contessa, [198] pigliò in mala parte quell’osservazione, attribuendola a poca affezione per quel suo povero figliuolo, com’ella pateticamente lo chiamava.
Sugli abiti (previo un altro strato di gazzette) la buona vecchia schierò (in modo da utilizzare ogni minimo spazio, ogni cantuccio) saponi odorosi, aqua di Colonia, cartocci di polvere di Cipro, di mandorle profumata coll’ireos, sigari di tutte le qualità, una posata e un bicchiere d’argento, tre libbre di cioccolata, una scatoletta di cristalli d’acido citrico per le limonate....
— La scusi, signora contessa, osservò l’incorreggibile Savina; io sono una povera ignorante, ma ho sentito dire che in Sicilia i limoni abbondano come da noi i sassi...
— Cosa sai tu di queste cose! Dammi mano a finire che sarà meglio...» le rispose la padrona.
Poi depose nella cassa due bottiglie di conserve, diligentemente incartocciate, due cassette di latta contenenti, l’una della gelatina, l’altra del brodo secco; non dimenticò la macchinetta pel caffè, un cartoccio di stoppini, una boccetta di spirito di vino, e, senza una nuova rimostranza di Savina, vi avrebbe ficcato anche un astuccio di solfanelli. Per ultimo, stese su tutta questa svariata mercanzia due dozzine di salviette. Mandato poi pel falegname, volle assistere all’inchiodamento del coperchio, e rabescare ella stessa su di esso, con un pennello, l’indirizzo, e due P giganteschi.
Finito ch’ebbe, stette contemplando a lungo l’opera sua e la cassa; poi si tolse di là, asciugandosi una lagrima, tanto ne fu commossa.
Sedata la commozione, messo il cuore in pace [199] circa al corredo del nipote, la contessa Emilia pensò a sè medesima. Benchè avesse già veduti molti carnovali, tuttavia, per una inveterata abitudine, ella soleva concedere un posto importantissimo all’acconciatura. Il pensiero di doversi tra pochi giorni recare a Genova (non v’era stata mai), gliene aveva fatto nascere subito un altro, corollario del primo:
— Ci vuole un cappellino nuovo! aveva detto meditando tra sè. Ci vuole un cappellino nuovo!... aveva, il dì dopo, ripetuto alla sua modista, la quale com’era naturale, s’era affrettata a rispondere:
— Ma sicuro!... le pare!... una dama come lei.... È la stagione dei bagni, e Genova è piena di forestieri... Vi troverà anche molti Milanesi...
— Basta così, basta così! La mi faccia subito un cappellino, ma!...
— Lasci fare a me, signora contessa...
— Me lo manderà a... Aspetti che ho qui l’indirizzo....» Così dicendo frugava nella borsa.
— Lo so, signora contessa; lo manderò a Erba per...
— No, no! rispose la contessa rimettendo, un viglietto alla modista. Il cappellino me lo manderà a Varese per Velate; dirigendolo a me presso, la signora Irene ****.
La modista prese il viglietto e lo ripose.
— Jeri ho trovato la mia amica Irene (continuò la contessa) la quale, sentito che io contava andare a Genova a salutare il mio Ernesto, mi disse: Vieni con me, Emilia, a Campo de’ fiori (è la sua villeggiatura); là siamo a poche miglia dal lago Maggiore; là presso passa due volte al giorno la diligenza che da Varese va a Laveno, in coincidenza coi Vapori [200] del lago e quindi colla strada ferrata che da Arona mette dritto a Genova...
— Quando parte la signora contessa? chiese la modista.
— Posdomani vo coll’Irene a Campo de’ fiori; poi, il 9 del mese venturo, parto per Genova. Medici coi suoi, s’imbarca il 10... Dunque mi raccomando...
— La si figuri! Entro la settimana ella avrà la cassetta col cappellino.
— Siamo intesi... Addio!... Oh! a proposito, Dalia, la mia tosa, vieni con me un momento.
— Sono qui! rispose Dalia, alzandosi e seguendo la contessa.
— Ascolta, la mia ragazza, le disse questa quando furono sulle scale; mi vuoi preparare la lettera di raccomandazione che mi hai promesso pel tuo... Come si chiama?
— Roberto.
— Pel tuo Roberto?
— Sono ai suoi ordini.
— Bene, vieni su con me.
L’alba del giorno 9 sorgeva raggiante a Campo de’ fiori, e la cassettina col cappellino non era ancor giunta. Aveva quindi ben ragione la contessa Emilia di dar nelle smanie, tanto più che, tardando ancora mezz’ora, non sarebbe giunta a Laveno in tempo di partire col piroscafo alla volta di Arona.
Mentre la contessa Emilia sfogava il suo dolore colla Savina, che stavasene presso la famosa cassa, e pronta a montare in legno al primo cenno della padrona, ecco entrare Amedeo.
[201]
— Finalmente! sclamò la cameriera alzando le braccia.
— Finalmente! strillò la contessa correndogli in contro.
— Ma che vuole!... Non è mia colpa se....
— E la cassettina? dov’è la cassettina?...
— La cassettina? ripetè Amedeo facendo gli occhiacci e spalancando la bocca ad uno sorriso sciocco. Non c’è....
— Non.... c’è?
— No, signora!
— La ci deve essere! gridò la contessa battendo i pugni sulla cassa.
— È quello che ho detto anch’io al conduttore della diligenza: La ci deve essere! Ma lui, dopo aver guardato da per tutto, rispose che non c’era...
— Oh! povera me! gridò la contessa, piagnucolando. Come fare adesso?
— Se ne fa senza, disse Irene, la quale, non vista, aveva assistito a quella scena.
— Farne senza? Nossignora! rispose mezzo in collera la vecchia volgendosi a lei. Vuoi che io mi faccia vedere per Genova con un cappello da viaggio?... con quello straccio là? (e lo indicava). Di queste figure, mia cara, non ne ho mai fatte!... Scellerata modista!... dopo tante promesse!.... Ma se aspetta che io le faccia guadagnare ancora un sol centesimo, sta fresca! oh sì! sta fresca...
— Cara Emilia, entrò a dire Irene, facendo forza a sè stessa per mantenersi seria, bisogna decidersi... Se tardi ancora, addio Vapore, addio strada ferrata, addio Genova....
La contessa si pose a passeggiare la camera pel [202] lungo e pel largo, gesticolando, e borbottando fra sè; poi fermandosi tutto d’un tratto, sclamò:
— Partiremo questo dopo pranzo; andremo ad Angera col tuo legno...
— È ai tuoi ordini...
— Poi, piglieremo una barca, e in un quarto d’ora siamo ad Arona e di là col convoglio della sera si va a Genova... Sì, sì partiremo dopo pranzo.
— Per me fa come vuoi, mia cara, rispose Irene con accento melato; più rimani, più ci guadagno... Oggi desineremo più presto del solito...
— Grazie, mia cara, grazie! Chi sa che intanto non càpiti il cappellino?
— Ma dì, Emilia, arriverai poi a tempo a salutare tuo nipote?
— Sì; arriviamo a Genova stanotte e domattina con tutto mio comodo troverò Ernesto...
— Fa come credi; per questa mattina già, anche che tu volessi partire, non sei più in tempo» rispose Irene, e ritornò in giardino a fantasticare co’ suoi pensieri.
Infatti quel dì si desinò prima del consueto. Alle frutta s’intese d’improviso uno strido, che eccheggiò per tutta la casa; ed ecco entrare nel salotto da pranzo, Savina, la quale, col volto raggiante di gioja, e recando trionfalmente tra mano la sospirata cassettina, gridava:
— Signora contessa, è qui!... è qui!
Irene ed Emilia d’un balzo furono in piedi.
— L’ha portata un contadino da parte di un vetturale che veniva da Varese....
— Bravo, bravissimo! sclamò la contessa gongolando di gioja; e cavata una moneta d’argento: To’, Savina, le disse, dàlla a quel contadino.
[203]
Recise le funicelle, scoperchiata la cassettina, levati via certi fogli di carta candida e sottile, finalmente apparve il cappellino. La contessa lo cavò fuori pian pianino, e mostratolo ad Irene, le disse sorridendo:
— Ah! che te ne pare?
— Bello!... Voglio provarmelo...» disse Irene e preso il cappellino dalle mani della contessa, si avvicinò ad uno specchio. Ma guarda un po’ cosa c’è dentro!... È un vigliettino appuntato nella fodera con uno spillo.
— Da un po’ qui» rispose la contessa, e pigliato il vigliettino e apertolo, lesse queste parole:
Signora Contessa.
Faccia buon viaggio, e dica al suo signor nipote di salutarmi tanto tanto il mio Roberto.
Dalia.
— Povera tosa! Sì che glielo dirò!» e riposto il vigliettino, si appressò ad Irene, la quale intanto, acconciatosi in testa il cappellino, stava contemplandosi nello specchio, dicendo tra sè dispettosamente:
— È molto più adattato per me che per lei... È un cappellino da vecchia codesto? Com’è ridicola!» Poi, levatoselo e postolo sulla testa di Emilia, soggiungeva ad alta voce: Ti sta d’angelo....
Due ore dopo, la carrozza d’Irene si arrestava nella piazza d’Angera. Sul serpe sedevano il cocchiere e Savina, e dentro Irene ed Emilia, le quali erano a mezzo celate dall’enorme cassa che occupava tutto il sedile davanti e s’elevava tanto da servir d’appoggio alla schiena del cocchiere; la cassettina del cappellino era custodita dalla sua proprietaria, la quale se lo teneva sulle ginocchia.
[204]
La carrozza venne tosto circondata dai curiosi che gironzavano sfaccendati per la piazza; tra questi si fece innanzi Martin-pescatore, il quale, sentito che si cercava una barca per Arona, trattosi rispettosamente il cappello, offrì alle signore la sua.
Egli in quel giorno era venuto ad Angera per certe sue faccende e dovendo tornare a Sesto, cercava di approfittare di quell’incontro per guadagnare qualche soldo, poco importandogli di protrarre di qualche ora il suo ritorno a casa.
— E perchè no, il mio uomo! disse la contessa scendendo dalla carrozza. Per me l’uno o l’altro fa lo stesso... Dov’è la tua barca?
— Eccola, rispose additandola Martin-pescatore.
— Bene! Mettici dentro quella cassa lì...
— Sissignora...
— Questa qui, più piccola, la porto io...
Martino, ajutato dal cocchiere e da Savina, portò, barcollando sotto il peso, la cassa nella barca, accompagnato dalla contessa che gli gridava: Piano, ve’! piano!
Poi rifece il viaggio, caricato, lui e una giovinotta che gli era si fatta presso, di non so quanti sacchi da notte, e borse d’ogni forma e grandezza.
Finalmente, quando tutto il bagaglio fu nella barca, la contessa prese congedo da Irene. Le due amiche si baciarono, si ribaciarono, facendosi mille proteste di amicizia. Irene montò in carrozza, e, felice di potersi distendere a tutto suo agio, fece ritorno a Campo de’ fiori. Emilia e Savina, entrarono nella barca, sorrette da Martino, e dalla contadinotta.
— È vostra figlia? chiese la contessa a Martino.
— Propriamente.... figlia... no; però è come lo fosse... N’è vero, Rosa?
[205]
La giovine sorrise arrossendo: poi, afferrata la prora e puntando co’ piedi contro la ghiaja, staccò la barca dal lido. Ciò fatto, inchinò col capo la contessa augurandole buon viaggio, salutò Martino con un sorriso, e cheta cheta si tolse di là.
Mentre la barca pigliava il largo, la contessa Emilia chiese al barcajolo, se sarebbe giunta ad Arona in tempo per partire per Genova col convoglio della sera.
— Conto di arrivare ad Arona una buon’ora prima, rispose Martino.
— Tanto meglio! così avrò tempo di consegnare la roba con tutto comodo.
— A quel che pare fanno un viaggio lungo, eh? le mie signore? chiese Martino accennando col capo al voluminoso bagaglio.
— Andiamo a Genova, il mio uomo, rispose colla solita compiacenza la contessa.
— Felice lei!... così potessi andarci anch’io a Genova.
— Davvero! e perchè?
— Per assistere all’imbarco dei garibaldini che vanno in Sicilia con Medici.
— Noi pure andiamo colà per questo motivo. Io ho un nipote che parte anche lui...
— Me ne congratulo di cuore con lei, la mia buona signora! esclamò Martino, e presi i due remi con una mano, coll’altra levossi il suo conico berretto di lana rossa, salutando la contessa. Io pure, continuò Martino, rimettendosi a remare, io pure ho un figlio...
— Che parte?
— Il mio Valentino è già là in Sicilia; è uno dei mille...» Così dicendo raddrizzava la persona.
[206]
— Dite davvero? chiese la contessa guardando il barcajolo attraverso i vetri del pince-nez.
— Sicuro! ripigliò sorridendo Martino; è partito colla prima spedizione.
— E avete sue nuove?... sta bene?
— Bene, grazie al Signore! Se l’è cavata senza una sol graffiatura e, quel che più importa, con onore. Lo hanno fatto sergente.... Il signor Roberto, un suo amico che è uffiziale, ha scritto ad un altro bravo giovane che parte domani, al capitano Federico, e nella lettera c’erano tante belle cose sul conto del mio Valentino... Un bravo figliuolo, veda!... non perchè sia mio, ma... (il buon uomo non potè proseguire tant’era commosso).
— Me ne congratulo con voi! È segno che voi lo avete allevato galantuomo...
— Oh questo sì! povero, ma galantuomo.
— Ma ditemi un po’! Mi pare che, parlando di quest’uffiziale amico del vostro figliuolo, abbiate detto che si chiama Roberto...
— Sissignora!
— È Milanese?
— Milanese.
— Pittore?
— Pittore, sì.
— Allora è lui! sclamò la contessa sorridendo, e volgendosi a Savina, che sorrise alla sua volta: È quel tal giovane,... l’amoroso di Dalia... Guardate che combinazione!
— Lo conosce lei?
— Cioè... sì e no; ho una lettera per lui nella quale gli si raccomanda mio nipote...
— È in buone mani! Il signor Roberto è un po’ [207] stravagante, come sono, dicono, tutti i pittori, ma è un giovane d’oro... Lui e il mio Valentino sono come due fratelli... Anzi (la scusi, veda! se un pover’uomo par mio le parla così) le dirò che se le occorre una raccomandazione di peso pel suo signor nipote, una raccomandazione che gli potrà essere di un gran utile in viaggio, arrivata a Genova, non ha che da chieder conto del signor capitano Federico ***.
— A nome di chi?
— A nome mio, signora!
— Oh! davvero! sclamò la contessa con un sorriso in cui trapelava una legger tinta d’ironia.
— Capisco che ciò le parrà strano!... Un povero diavolo come son io raccomandare uno di gran levatura come al certo sarà il di lei nipote;... ma che vuole?.... Adesso pare che il mondo vada a rovescio!... Siamo noi popolani che qualche volta raccomandiamo i signori... Almeno col generale la è così... Dunque, come le diceva, lei non ha che a cercar conto del capitano Federico *** e di dirgli: Le raccomando mio nipote, il tale dei tali, a nome del Martin-pescatore di Sesto. Vedrà che accoglienza!
— Va bene, va bene! me ne ricorderò, rispose la vecchia con aria distratta, e, tanto per cambiar discorso, si pose a chiacchierare con Savina.
Benchè d’ottima pasta, Emilia, non era stata contessa tanti anni impunemente; nell’offerta del pescatore, benchè fatta col cuore in mano, come si suol dire, essa aveva creduto vedere un certo non so che di protezione, di superiorità, che l’aveva punta un pochetto. Ben è vero che aveva accettata la commendatizia di Dalia senza guardar tanto pel sottile; ma [208] un’eccezione non fa regola. L’esibizione di Martino, che essa vedeva per la prima volta, gli era paruta tanto confidenziale da confinare coll’impertinenza.
Però, secondo il solito, la di lei buon’indole la vinse, sicchè durante il tragitto continuò a ciaramellare col barcajolo, curando però di non abbandonarsi troppo, onde non dar occasione al buon uomo di dir altre minchionerie; tanto più che Savina, la cameriera, le aveva già ripetuto per la terza volta, e con voce sommessa, che era bene l’esser affabile, ma che colla gente di bassa condizione non bisognava eccedere. Santodio! ne abusa sì facilmente!
Martin-pescatore mantenne la parola, e sbarcò le donne una buon’ora prima della partenze del convoglio; e fu provvidenza, chè non ci volle meno a consegnare alla stazione il bagaglio della contessa. Ma il barcajolo, vecchio com’era, quando ci si metteva faceva per due; laonde, quand’ebbe finito, la contessa lo rimunerò generosamente. Martino, ringraziatala della sua cortesia, prima di licenziarsi da lei, volle pregarla di un favore:
— La mi farebbe la grazia, le disse, di pregare il suo signor nipote a voler portare i miei saluti al mio figliuolo?
Il barcajolo chiedeva questo favore alla contessa, umilmente, colla berretta in mano; le parti erano adesso ben distribuite; la cosa era quindi naturale e in piena regola, senza stranezze disdicevoli e scandalose, per cui la contessa accolse affabilmente la domanda, e notò il nome di Valentino sulla sopracarta della lettera di Dalia.
Martino, rinnovati gli augurj e gli inchini, se ne tornò alla sua barca, e contento della giornata, si pose a vogare con lena verso Sesto Calende.
[209]
Il viaggio da Arona a Genova parve interminabile alla contessa, la quale, tranne qualche giterella da Milano a Monza, non aveva mai bazzicato con ferrovie. Chiusa nel vaggone con una famiglia inglese, non potè barattar parole che colla Savina, la quale dormicchiando le rispondeva con monosillabi.
Quando giunsero a Genova, mancavano pochi minuti alla mezzanotte. La contessa, già sbalordita dal continuo rumoreggiar delle ruote, dai sibili improvisi, indiscreti della locomotiva, dal sussulto ondulatorio del vagone, appena ebbe posto piede a terra, si trovò assediata, travolta, assordata da una folla di conduttori di omnibus, di servitori di locande, di facchini, che la tiravano ora qua ora là, afferrandole o la scattola del cappellino, o la borsa da viaggio. Savina dal canto suo strillava, si dibatteva, difendendo ad oltranza gli oggetti affidati alla di lei custodia. Malmenate, assediate dai facchini e da una turba di ragazzi, tanto la contessa che la cameriera, estenuate di forze, soprafatte dall’onda crescente della folla, atterrite dal trovarsi ogni tratto dinanzi alla faccia la fiamma rossastra delle torce a vento, finirono coll’arrendersi a discrezione, abbandonando corpo e averi nelle mani di un servitore di piazza, che le rimorchiò all’albergo Reale.
Consegnate le due viaggiatrici ai camerieri dell’albergo, il servitore, fattosi dare dalle medesime le polizze di riscontro, andò a levare il bagaglio.
La contessa, trovatasi finalmente sola e lontana da quel baccano infernale, si lasciò cadere su di un sofà:
— Ah! sia lodato Dio!.... Non ne poteva più! Oh che babilonia!...» e tergevasi il sudore che, di sotto la [210] parrucca, le scorreva sul fronte. Ma dì un po’, Savina, che si fa adesso?
— Si cena, poi si va a letto....
— Cenare? a quest’ora? Eppure qualche cosuccia bisognerà prendere;... mi sento debole... E se intanto cercassimo di Ernesto?
— Andarlo a pigliare a quest’ora il signor Ernesto!
— Capisco! è un po’ tardi... Ma almeno chiediamone conto al cameriere.
— Chi sa se lo conosce...
— Non importa! saprà però qualche cosa della spedizione Medici... Tutta Genova ne parlerà...
In quella entrò il cameriere a chiedere se le signore abbisognassero di qualche cosa.
La contessa rispose che sì, e disse quel che voleva.
Il cameriere inchinatosi, accennava già d’andarsene, quando la contessa lo fermò:
— Ehi! quel giovine!... Ditemi un po’: sapete voi quando partano, Medici e i suoi?
— Credo domani... cioè oggi;... soggiunse poi sorridendo e additando l’orologio che segnava le dodici e mezzo.
— Non lo sapete di sicuro dunque?
— Nossignora.
— Fatemi il favore d’informarvi, e di sapermi dire l’ora precisa della partenza.
— Ma per saperlo, o signora, bisognerebbe essere a Sestri.
— A?
— A Sestri.
— E perchè a Sestri?
— Perchè Medici coi garibaldini si trova colà da due giorni...
[211]
— Che dite mai! Non sono a Genova dunque? Oh! questo mi spiace davvero! Guardate un po’! come si fa adesso... Oh che imbroglio, che imbroglio!
— Vede! Se fossimo partiti questa mattina da Campo de’ fiori...» osservò Savina.
— Fammi un po’ il piacere di lasciarmi in pace! È mia la colpa se la cassettina è arrivata tardi?
— Avrebbe potuto benissimo far senza del cappellino, brontolò Savina. Fortunatamente la contessa, sbalordita com’era dai disagi del viaggio, dal fracasso, e da quella notizia non l’intese.
Il cameriere aveva approfittato di quel po’ di bisticciamento per scendere in cucina. In sua vece entrò un facchino con un baule.
— Ditemi un po’ il mio uomo! Noi vorremmo andar a Sestri domattina...» gli disse la contessa.
— C’è un vapore che va a Chiavari alle otto.
— Ma noi vogliamo andare a Sestri...
— Da Chiavari a Sestri è una passeggiata. Buona notte!» e se ne andò anche lui.
— Ci vuol pazienza! sclamò la contessa; se Ernesto non è a Genova, bisogna andarlo a trovare dov’è... Manco male che c’è un vapore che va a Chiavari, se no stavamo fresche... Rischiavamo di non poterlo salutare... Ho a dirtela, Savina? Io non sono mai stata sul mare, e una giterella di poche ore la fo volentieri.
— Non ci sono mai stata nemmen io... Dicono però che si soffre molto la prima volta che si viaggia sul mare...
— Sì, un po’ di giramento di testa, un po’ di nausea....
— Ma dicono che sia un male terribile.
[212]
— Esagerazioni, Savina, esagerazioni!... Oh, a proposito! Apri quella scatola e dà un’occhiata al cappellino per vedere se ha sofferto in viaggio... Domani la porteremo con noi quella scatola, così a Sestri, metterò il cappellino nuovo... per far onore al mio Ernesto... Sai, Savina, proseguì a voce bassa e sorridendo, ho qui in serbo per lui un pajo di dozzine di marenghi... Povero giovane! chi sa come sarà contento.
— Più che di vedere il cappellino nuovo, disse fra sè Savina, cavandolo dalla scatola e presentandolo alla padrona.
In questo entrò il cameriere colla zuppa, e le nostre viaggiatrici, rifocillatesi, si posero a letto; la contessa in una camera, Savina nell’altra, e ambedue, malgrado il fischiar del vento e il fracasso delle ondate che si spezzavano contro il molo, si addormentarono profondamente.
La mattina seguente, alle otto meno un quarto, la contessa Emilia e la cameriera salivano la scaletta di un piroscafo ancorato nel porto, seguite da quattro facchini col bagaglio, che essi deposero sul cassero in modo da farne una piramide abbastanza elevata, e avente per base il cassone contenente gli oggetti di Ernesto, e per apice la cassettina col cappellino.
Il cielo era sereno, ma soffiava un vento gagliardo che sollevava alte e spumanti le onde. Savina ne era atterrita, ma la contessa sorrideva di quella paura, dicendole:
— Su di un bastimento grande come questo, quelle onde, che ti pajono gran cosa, non si sentono nemmeno.
Ma quando il piroscafo, uscito dal porto, cominciò [213] la lotta colle onde, lotta vittoriosa sì, ma contrastata, allora anche la contessa mutò di parere, e Savina da consolata, divenne consolatrice.
Le poverette, non potendo reggersi in piedi sul ponte, sedettero sul loro bagaglio, cercando supplichevolmente intorno qualche viso amico che le confortasse; ma nessuno badava loro.
Mezz’ora dopo il mare chiese imperiosamente il solito tributo alle viaggiatrici che per la prima volta si affidavano al suo dorso. Le infelici in sulle prime fecero le sorde, fingendo di non capire; ma il mare insistette; chiesero soccorso, pietà, invano;... dovettero cedere e... væ victis!
Le nostre donne, trabalzate ora da una parte, ora dall’altra, si urtavano a vicenda, per rovesciarsi poi insieme sul bagaglio che loro serviva di sedile e di letto. Discinte, pallide in volto, cogli sguardi errabondi, semispenti, avrebbero fatto compassione a chicchessia, meno ai marinaj che andavano e venivano zufolando indifferenti.
— Oh! che gente!.... che gente senza cuore! mormorava timidamente Savina, porgendo la quinta tazza di tè alla padrona.
— Ah! io non ne posso più! sclamava gemendo la contessa e premendosi con una mano il moccichino alla fronte, e coll’altra il cuore, che pareva volesse balzarle dal petto. Fammi il piacere, Savina... Va là in fondo, e chiamami il capitano... Quello là colle spalline d’oro...
Savina ubbidì camminando a mala pena e appoggiandosi colle mani su tutti gli oggetti che trovava, tanto per reggersi in piedi; ma subito dopo retrocedette.
[214]
— E così? le chiese la padrona: cosa ti ha detto?
— Mi ha detto che ho buon tempo.
Qui un nuovo impeto di... tosse, impedì alla contessa di rispondere. Come succede di solito in questo caso, Savina imitandola, le tenne subito dietro.
La contessa appena potè tirare il fiato, appena potè reggersi sulle gambe, appoggiandosi al braccio di Savina (la quale alla sua volta tratto tratto si appoggiava alla padrona), si avvicinò al capitano, che guardò le due donne senza moversi dal suo posto;
— Signor capitano! gli disse con voce supplichevole la contessa.
— Che c’è?
— Io sono la contessa Emilia ***
Il capitano nulla rispose.
— Io sono disposta a qualunque spesa, proseguì la contessa traballando, ma voglio scendere a terra... subito... subito...
— Tra poco scenderà, rispose il capitano; così dicendo si allontanò di là, e, scesa la scaletta, si chiuse nella sua cameruccia.
— Oh che orso! che malcreato! gridò la contessa giungendo le mani. Piantarmi qui a questo modo! Ma non son chi sono se non domando soddisfazione... Oh! l’avrà a fare con me,... se camperò, perchè ho paura...
— Ah! che maniera di assassinare la gente! soggiungeva Savina.
Ma un più terribile colpo era riservato alla sventurata contessa. Erano giunti a poche miglia da Chiavari, e il piroscafo dondolava più fortemente di prima, urtato dalle onde ripercosse dalla spiaggia. Vi fu un istante in cui la nave si abbassò tanto da un lato, [215] che gli stessi marinaj dovettero abbrancarsi ai cordami per non rotolare in mare. La contessa e la sua cameriera, credendo giunto l’ultimo loro momento, caddero carponi, raccomandandosi l’anima a Dio. La cassettina del cappellino, la quale, come avvertimmo, stava sull’apice della piramide formata coi bagagli della contessa, al piegarsi del bastimento perdette l’equilibrio e balzò in mare.
Rialzatosi il piroscafo, si rialzarono tosto anche le due donne, e precipitarono al parapetto gridando: Ferma! ferma!
Accorsero i marinaj, e i passeggieri, e chiesero alle donne se qualcuno fosse caduto in mare.
— Eccola, eccola! gridava la contessa, additando la cassettina che ballonzolava allegramente sulle onde.
— Cos’è?
— È la mia cassettina.... col cappellino nuovo» rispose sempre strillando la contessa.
Uno scroscio di risa accolse queste parole.
— Ahimè! ahimè! la cassettina affonda... fermate il Vapore; presto... presto...
Gli astanti si sbellicavano dalle risa.
In questo s’udì un grido disperato... La contessa gettò un braccio al collo della cameriera onde sostenersi.
La cassetta, che si immergeva sempre più, mano mano che l’aqua vi penetrava, sparve infine per sempre negli abissi del mare.
Un’ora dopo la contessa boccheggiava (assistita dalla fida Savina) distesa su di un sofà, in un albergo di Chiavari. Riavutasi a poco a poco dallo stato di prostrazione in cui l’aveva gettata il mal [216] di mare, i suoi primi pensieri furono per il nipote.
— Senti, Savina, io non posso movermi; quel maledetto mare m’ha tutta sconquassata...
— E io, signora padrona! Mi sento tutta rotta la persona, come se m’avessero bastonata... E quel rustico d’un capitano? e quei marinaracci malcreati...
— Quel che è stato è stato! Che vuoi! son gente che non vive che sull’aqua... Per me ho già dimenticato tutto, e ho dimesso il pensiero di far rapporto sul conto loro. Ora quel che mi preme è di veder Ernesto. Io, come ti ho detto, non posso reggermi in piedi. Dunque manderemo ad avvertirlo che sono arrivata... Savina, chiamami qualcuno dell’albergo.
Savina, benchè di malavoglia, alzatasi da sedere, moveva già per uscir dalla camera, quando s’udì picchiare all’uscio:
— Avanti! gridarono le due donne.
Entrò un facchino, il quale, strisciata una riverenza, disse:
— È delle signore il cassone che c’è laggiù sotto il portico?
— È mio.
— Abbiam da portarlo su?
— No, no; anzi sarà bene che la trasportiate a bordo del Vapore...
— Di qual Vapore?
— Di quello su cui devono partire i garibaldini con Medici...
— Scusi, signora, ma non ho capito bene...
La contessa ripetè le stesse parole, traducendole però in italiano onde meglio farsi comprendere.
— I garibaldini?... Medici, ha detto?
[217]
— Ma sì! rispose la contessa impazientita.
— Ma se sono partiti jeri di notte, e non di qui...
— Chi? come?
— Medici coi garibaldini...
— Partiti... jeri notte... e non di qui?» balbettò la contessa, puntando colle gomita e levandosi a sedere.
— Sissignora! sono partiti jeri alle due in punto dopo mezzanotte da Sestri di ponente... Erano due Vapori....
— Ma voi siete ubbriaco! gridò fuori di sè la contessa.
Il facchino per tutta risposta, uscì dalla camera, per tornarvi subito dopo in compagnia d’un cameriere.
— Dite un po’ voi... qui a queste signore che a me non vogliono credere. Quand’è partito Medici coi suoi volontarj per la Sicilia?
— Questa notte da Sestri di ponente, rispose il cameriere[40].
— Ma... questo qui presso... non è Sestri?
— Questo è Sestri di levante.
[218]
— Oh! beatissima Vergine!
— Mentre quello da cui partirono Medici e i garibaldini è...
— È?
— Sestri di ponente, distante poche miglia da Genova.
— Ah! poveri noi cos’abbiamo mai fatto!... E, dite, sono partiti tutti, proprio tutti? chiese Savina trepidando.
— Tutti! risposero il facchino e il cameriere.
Questa volta la povera contessa Emilia svenne davvero.
[219]
«I manoscritti da me rimessi ad Elpis Melena sono scritti di mio pugno.
Garibaldi (Bologna, 26 settembre 1859)
— A tavola, signori! gridò un cameriere recando un’odorosa minestra di paste.
— A tavola, a tavola! ripeterono alcuni garibaldini, i quali radunati nelle sale di una trattoria di Palermo, stavano contemplando la marina dal balcone, aspettando l’ora del pranzo.
In un attimo furono tutti a posto. Il capitano Federico fece sedere presso di sè Ernesto; poi venivano Roberto, Valentino e cinque o sei altri, militi e graduati alla rinfusa.
Già tutti stendevano la mano ai piattelli, quando Roberto, alzatosi, gridò:
— Un momento! Ricordatevi, amici miei, che la gratitudine è tra i primi doveri dell’uomo; dunque nessuno ardisca mangiare prima di ringraziare con un brindisi l’ottima signora zia d’Ernesto...
[220]
— Benissimo! gridarono in coro i convitati impugnando i bicchieri.
— La quale ebbe la felice idea di inviare per la posta un grazioso rotoletto di marenghi a quel bravo giovane di suo nipote, al quale pure faremo un brindisi in compenso dell’averci invitati ad ajutarlo a degnamente spendere il regalo della zia.
La proposta di Roberto fu accolta con gioja da tutti gli astanti; si fece il brindisi in onore della contessa, la quale, se lo avesse inteso, avrebbe per quell’istante di dolcezza dimenticati i tanti guaj sofferti in causa del qui-pro-quo che vi abbiamo narrato, e che, tornata alla sua villeggiatura, soleva ripetere a quanti andavano a visitarla.
Il pranzo fu allegrissimo per la gioja schietta e confidente che animava i convitati.
Alle frutta, com’è il solito da Omero ai giorni nostri, cominciò il novellare. Si parlò, com’era naturale, di quanto in allora formava argomento di tutti i discorsi, cioè della guerra d’insurrezione, dei diversi fatti d’armi, e di quanto rimaneva a fare; si parlò del paese nativo, della famiglia e degli amici assenti, e, come si dice di tutte le strade che mettono a Roma, tutti quei discorsi si convergevano e finivano in un sol punto,... Garibaldi.
C’era tra i convitati un capitano, il quale sapeva appuntino le avventure del generale, che egli aveva conosciuto fin dal quarantasette in America. Pregato dai compagni a narrarle, non se lo fece dire due volte, e cominciò a raccontare per filo e per segno alcuni dei tanti episodj di cui è intessuta la vita avventurosa di quest’uomo straordinario.
Però per quanto il capitano ne sapesse, egli non [221] avrebbe al certo potuto competere colla Elpis Melena (pseudonimo d’una miss inglese, intrepida viaggiatrice); alla quale il generale Garibaldi affidò i proprj manoscritti, ch’ella tradusse non in inglese, ma in tedesco[41], allo scopo di diffondere per la Germania le virtù dell’eroe nizzardo, e, se è possibile, convertirla a nostro vantaggio.
Per questi motivi, e per i diritti del sesso, noi daremo la preferenza a miss Elpis Melena, radunando in un brevissimo sunto le Memorie di Garibaldi da lei tradotte, e che spargono molta luce su molti punti tuttora sconosciuti della di lui vita.
Garibaldi è nato a Nizza il 4 luglio del 1807. Suo padre, Domenico, nato a Chiavari, era figlio di un marinajo e, dall’infanzia, marinajo lui stesso. Egli desiderava che suo figlio Giuseppe abbracciasse una professione più tranquilla della sua; avrebbe voluto farne o un medico, o un avvocato, o un prete; ma Giuseppe era destinato ad una vita avventurosa, e il destino (fortunatamente per noi) la vinse.
Benchè ancora ragazzo, Garibaldi non sognava che viaggi; un bel dì fuggì di casa, e si diresse con un suo compagno a Genova, in un battello ch’egli governò alla meglio; ma, raggiunto a Monaco, fu ricondotto a casa.
Odessa fu lo scopo del suo primo viaggio; dopo, visitò Roma, Cagliari, Genova, Costantinopoli, ove una malattia lo ritenne alcuni mesi. Guarito, volle andarsene, [222] ma, scoppiata la guerra tra lo Tzar ed il Sultano, il porto venne bloccato e il giovane marinajo per campare, accettò l’ufficio di precettore presso una famiglia italiana. Quando Dio volle potè partire; avuto il comando di un brigantino, da Costantinopoli recossi a Gibilterra, retrocedendo di poi per la stessa via.
Fin d’allora, la libertà e l’indipendenza d’Italia erano i più ardenti tra i suoi desiderj; e vivissima fu la sua gioja quando, ne’ suoi viaggi, stretta relazione con un affigliato alla Giovine Italia, seppe che molte migliaja d’Italiani ardevano come lui di pari amore per la libertà della patria. Quella santa idea fu, da quel dì, lo scopo della vita di Garibaldi.
Nel 1833, mentre egli dimorava a Marsiglia, venne presentato a Mazzini come uomo fidato a tutta prova; il tribuno gli assegnò una parte nella cospirazione che andava ordendo. Mentre i Mazziniani, riuniti e irreggimentati in Isvizzera, dovevano sollevare il Piemonte, incominciando dalla Savoja, Garibaldi si arrolava nella marineria piemontese, e veniva accettato come marinajo di prima classe a bordo della fregata l’Euridice. Egli doveva affigliare l’equipaggio alla Giovine Italia, ed impadronirsi a tempo opportuno della fregata e tenerla a disposizione dei rivoltosi.
Un bel dì, mentre la fregata stava ancorata nel porto di Genova, si sparse la voce che era scoppiata la rivolta in città, e che la caserma della gendarmeria (posta nella piazza Sarzana) era già in potere degli insorti. Garibaldi, impaziente di verificare coi suoi occhi il fatto, si getta in un canotto, smonta alla Dogana, e corre in piazza Sarzana. Tutto era tranquillo. S’informa, e gli vien detto che il colpo [223] di mano era andato fallito, che la polizia aveva sventato il complotto, che erano stati fatti molti arresti, e che i Mazziniani si ponevano in salvo: Siccome (dic’egli ingenuamente) io m’era arrolato nella marineria piemontese per secondare l’insurrezione, così, fallito il tentativo, non credetti necessario di ritornare a bordo dell’Euridice.» All’imbrunire di quell’istesso giorno, Garibaldi, travestitosi da contadino, usciva di Genova.
Dopo d’aver camminato dieci notti sui monti, arrivò a Nizza, e riposò un giorno intero presso sua madre; ma, sicuro com’era che la polizia era sulle sue tracce, continuò a camminare, e, attraversato a nuoto il Varo (le cui aque eransi in que’ dì ingrossate) afferrò la riva francese. Arrestato, non avendo passaporto, disse chi era, raccontando con tutta ingenuità quanto era accaduto. La cosa parve molto sospetta alle guardie francesi, le quali credettero bene di condurre il fuggitivo a Grasse, presso Draghignano, e di chiuderlo provisoriamente, in un locale della caserma di gendarmeria. Garibaldi saltò dalla finestra, attraversò la città, guadagnò i monti, vicini e, arrivato a Marsiglia, non sapendo che fare, pigliò in prestito un altro nome, aspettando che la Providenza gli offrisse l’occasione di ripigliare la vita del marinajo.
Certo Francesco Gazan, capitano d’un piccolo bastimento mercantile, lo prese a bordo in qualità di luogotenente. Di poi fece un viaggio nel mar Nero; indi condusse a Tunisi una fregata da guerra che quel bey aveva fatto costruire a Marsiglia. Poco dopo venne spedito a Rio-Janeiro; ritornò di bel nuovo a Tunisi, e di là a Marsiglia, proprio in quella [224] che il coléra vi infieriva. Ivi si erano aperti nuovi ospitali provisorj, e tutti gli uomini di buona volontà vennero chiamati a soccorrere i malati. Figuratevi se uno della tempra di Garibaldi doveva rimaner sordo a quell’appello! Egli accorse, e per più settimane prestò l’opera sua come infermiere negli ospitali di Marsiglia, vegliando dì e notte presso i colerosi, coll’ardente carità d’una suora di San Vincenzo.
Pochi mesi dopo egli trovavasi di bel nuovo a Rio-Janeiro.
Allora cominciò la sua carriera militare.
«Sotto la bandiera dell’indipendenza (scrive Garibaldi nel VI capitolo delle sue Memorie), sul vasto e libero Oceano, seguito da sedici arditi compagni, io sfidai un impero, e, solo rappresentante della repubblica di Rio-Grande, ne feci sventolare la bandiera sugli alberi delle mia nave». Garibaldi qui intende parlare dell’impero del Brasile.
In quell’epoca conobbe e sposò Anita. Ell’era amazzone, come suo marito era soldato. Lo seguì ovunque, dividendo seco lui tutti i pericoli con una annegazione mirabile. Fra due battaglie diventa madre. Framezzo a questa guerra di sorprese, di colpi di mano, di imboscate, ella non sa il mattino ove poserà la sera col pargoletto. Pochi giorni dopo il parto è costretta di rimontare in sella, ed eccola che si slancia al galoppo col suo neonato tra le braccia. Vien presa; e giunge a fuggire; è ripresa; la si crede morta.... quand’eccola ricomparire d’improviso, sorridente e fiera col suo bambino.
Assestate le cose della repubblica di Rio-Grande e finita la guerra col Brasile, Garibaldi, stabilitosi a Montevideo, fu costretto a mutar professione tanto [225] da poterla campare lui e la famigliuola. Quand’ecco si accende la guerra tra Montevideo e Buenos-Ayres. Il generale Manuel Oribe, già presidente di Montevideo, venne esigliato da quella repubblica, e come Coroliano tra i Volsci (la comparazione è di Garibaldi) andò a chiedere soccorso e protezione al nemico della patria sua, a Rosas, dittatore di Buenos-Ayres. Oribe, sostenuto da Rosas, marciò su Montevideo. A Garibaldi venne dapprima affidato il comando d’una flottiglia sulla Plata, poi quello d’una legione italiana. Le sue spedizioni, le sue vittorie, la difesa di Montevideo, lo resero allora popolare non solo nell’America meridionale, ma anche in parte dell’Europa.
Garibaldi, dopo l’assedio di Montevideo, viveva come il più umile e il più povero tra i cittadini di quella città che egli aveva difesa sì valorosamente, allorchè, l’anno dopo (1847) la fama delle riforme liberali incominciate da Pio IX, giunse anche in America. Il cuore dell’esule allora palpitò di gioja! Garibaldi scrisse a Pio IX una lettera di ringraziamento, di ardenti felicitazioni, offrendogli il suo braccio; gliela spedì a mezzo del nunzio; questa lettera è in data del 20 ottobre 1847. Anzani, il suo più caro amico, firmò anche lui quella lettera. Pio IX ebbe il pudore di non rispondere.
Qualche mese dopo giunse a Montevideo la notizia della rivoluzione detta del quarant’otto. Garibaldi tosto decise di recarsi in Europa. Raccolto il denaro occorrente, frutto d’una soscrizione, il capo della legione italiana s’imbarcò con cinquantasei compagni, colla moglie, coi figli e col fido Aguyar, un negro della Plata che gli fu compagno in tutte le imprese, e che perì miseramente a Roma il 30 [226] giugno 1849, colpito in fronte da una scheggia di bomba.
Garibaldi e i suoi compagni approdarono il giugno (1848) a Nizza. Ivi morì Anzani, il fratello d’armi del generale, dicesi d’una congestione cerebrale, causata dalla violenza dell’emozione onde fu assalito alla vista della riva italiana. Garibaldi, resi gli estremi ufficj al diletto amico, lasciati a Nizza la moglie e i figli Menotti, Ricciotti e Teresita, partì tosto per Genova, ove giunse il 20. In quell’istesso giorno egli portossi al campo e offrì i suoi servigi a Carlo Alberto, che lo indirizzò al ministero della guerra. Garibaldi volò a Torino e si presentò a Ricci, allora ministro della guerra. Ma il condottiero di Rio-grande e della Plata, puzzava troppo di repubblicanismo, sicchè il ministro, ascoltata freddamente la domanda, lo consigliò di portarsi a Venezia, ove facilmente avrebbe potuto trovare il comando di qualche nave: «Ecco il posto, conchiuse il Ricci, che più d’ogni altro conviene all’eroe della Plata.»
Garibaldi, accortosi che era pazzia sperare appoggio dal governo, risolse di farne senza e di non contare che su sè stesso; raccolse in Lombardia i Corpi franchi, e cominciò a battere la campagna a suo modo, senza punto inquietarsi di quanto faceva l’armata piemontese. Era già successo il disastro di Novara, e Garibaldi, su quel di Varese, teneva ancora testa agli Austriaci, battendoli più volte; finalmente, vedendo che ogni resistenza era oramai inutile, licenziò i Corpi franchi, e riparò in Isvizzera.
A tutti sono note le sue imprese del quarantanove, la difesa di Roma, e la mirabile sua ritirata a San Marino, la quale gli costò la perdita della consorte, [227] l’eroina di Imbìtuba, di Lages, di Caquari, e di Morso da Barra, che mai non lo aveva abbandonato.[42]
«Tutti i miei consigli, tutte le mie preghiere (scrive Garibaldi nelle sue Memorie) furono inutili; invano la supplicai di riflettere allo stato in cui si trovava (Anita era incinta). — Tu non mi vuoi presso di te, rispondeva essa; tu cerchi dei pretesti per allontanarmi... Dubiteresti forse del mio coraggio? — Non ne aveva essa già date prove? Non amava forse la bella vita del soldato, la vita a cavallo? Forse che le battaglie non erano divertimenti per lei? Che importavano le privazioni e le fatiche, a lei, che associata alle mie imprese, viveva con tanta energia della vita del cuore?... A San Marino, durante la nostra ritirata, s’erano palesati in Anita alcuni sintomi di una malattia mortale; rinnovai le mie istanze perchè la si fermasse in quella città; invano. Quanto più crescevano i nostri pericoli, altrettanto la di lei risoluzione era incrollabile. A Cesenatico, un’intera notte fu spesa nel preparare alla partenza i battelli che dovevano condurci a Venezia. Anita, appoggiata ad un macigno, seguiva cogli occhi il nostro lavoro, con una simpatia dolorosa. Ci imbarchiamo; ahi! l’urto dei flutti aggravò lo stato della malata, e per tutto il tempo ch’ella rimase a bordo, i suoi patimenti non ebbero un istante di sosta. Quand’io sbarcai con essa sulle rive di Mesola, era mezzo-morta e incapace di reggersi in piedi. Ella sperava che il soggiornare a terra avesse a restituirle le forze... Ahimè! la terra altro non aveva a darle che una tomba!»
[228]
Garibaldi per trentacinque giorni errò alla ventura nella pineta di Ravenna, nascondendosi di macchia in macchia, di roccia in roccia, circondato dai Croati che sapendolo lì presso, gli davano la caccia. Ma il proscritto seppe coll’audacia del guerrigliero, coll’astuzia del selvaggio indiano, e (diciamolo a loro onore) coll’ajuto dei Romagnoli, sfuggire alle ricerche dei nemici. Finalmente, di pericolo in pericolo, di avventura in avventura, attraversata l’Italia, giunse al piccolo porto di Fullonica, ove s’imbarcò per l’isola d’Elba.
Ma giunto in quell’isola, dovette tosto pensare alla propria sicurezza, e ripartire al più presto col medesimo canotto in cui era arrivato, e che conduceva egli stesso remando. Nelle vicinanze di Livorno s’imbattè in un bastimento inglese, il cui capitano lo raccolse a bordo e lo sbarcò a Porto Venere. Di là Garibaldi, portatosi a Chiavari, venne arrestato e tradotto a Genova come prigioniero di Stato. Dopo d’aver passato qualche giorno chiuso nel palazzo del governatore, venne condotto dal generale La Marmora, il quale accoltolo con ogni riguardo, fattolo salire a bordo del Carlo Felice (fregata da guerra che trovavasi ancorata nella rada), gli disse di scegliere egli stesso il luogo del suo esiglio, chè la di lui presenza nel regno era divenuta incompatibile. Garibaldi chiese in via di grazia, che gli permettessero almeno di abbracciare i suoi figliuoli e di passare ventiquattro ore con essi a Nizza. Venne condotto a Nizza sul San Giorgio e, il dì dopo, ricondotto a Genova su questo stesso piroscafo. Garibaldi dovendo fare di necessità virtù, scelse Tunisi per sua dimora. Ma giunto a Tunisi, quel bey, non volendo aver garbugli colla [229] Francia, gli negò ospitalità, proibendogli fino di sbarcare. In allora il capitano del bastimento tornò indietro, e, in attesa di altri ordini, depose Garibaldi nell’isola della Maddalena.
Il futuro dittatore della Sicilia, già da un mese viveva tranquillo in quell’isola nella capanna d’un pescatore, certo Pietro Susini, quando il signor Falchi, governatore dell’isola, scrisse al governo piemontese che era pericoloso il lasciare un tal uomo tanto vicino alla Sardegna. Qualche giorno dopo un brik da guerra, il Colombo, giungeva alla Maddalena, e pigliato il generale, lo conduceva a Gibilterra.
Il governatore di Gibilterra permise a Garibaldi di sbarcare, ma appena ebbe toccato terra, gli ingiunse di abbandonare Gibilterra entro sei giorni. Garibaldi si tolse subito di là e se n’andò, soletto in una barca, a cercare sulle coste barbaresche l’ospitalità che gli veniva negata in Europa.
Giunto a Tangeri, si portò dal console sardo, e nominatosi, gli chiese asilo. Il console (il signor Carpaneto) lo accolse cortesemente, e il povero esigliato fu per sei mesi (cioè fino all’aprile del 1850) l’ospite ed il commensale del degno rappresentante la Sardegna.
Nei primi giorni di quella primavera, Garibaldi da Tangeri si portò a Liverpool, e nel giugno s’imbarcò per Nova-York, ove dimorò tutto un anno. Ivi per campare, si associò al suo amico e compatriota Meucci, fabbricatore di candele[43]. Poco dopo una società americana gli offrì il comando d’un bastimento mercantile, [230] e Garibaldi si chiamò felice di poter riprendere la vita del marinajo. Egli fece vela verso Nicaragua, verso la Nuova Granata e Panama; ma una ardente febbre, che lo spinse a fil di morte, lo obbligò a rinunciare a quel comando.
Guarito, verso la fine del 1851, si portò su di un piroscafo inglese a Lima. Nel gennajo del 1852 gli si presentò un’altra occasione d’imbarcarsi; un negoziante genovese, stabilito nel Perù, gli affidò un bastimento da trasporto, sul quale l’ardito marinajo andò dall’America in Australia, dall’Australia a Canton, tornando a Nova-York.
Nel principio del 1854, in causa di altri impegni contratti, Garibaldi si portò di bel nuovo in Inghilterra; soggiornò qualche tempo a New-castle e a Londra, poi viaggiando pel Mediterraneo, pervenne, il maggio, a Genova.
Questa volta il governo piemontese ebbe il buon senso di accordargli la libertà di vivere in patria. Garibaldi si condusse tosto a Nizza, e là visse tutto quell’anno affatto oscuro, e occupato esclusivamente de’ suoi figli. Per ultimo, cercando una solitudine ancor più profonda, comperò un pezzo di terra incolta nella quasi deserta isola di Caprera, e vi si stabilì l’anno dopo.
Caprera (i lettori lo sanno) non è che una roccia di granito, ricoperta da uno strato di terra fecondabile. L’isola è abbastanza vasta, estendendosi in circonferenza quindici miglia, e in larghezza, cinque. La popolazione dell’isola è formata dai suoi quattro proprietarj, cioè dal generale, da un Inglese e da due poveri pastori. Di case che meritino questo nome, non ce n’è che due, quella del generale e quella [231] (di stile moresco) dell’Inglese, posta sulla punta dell’isola verso la Maddalena; i due pastori, che dividono con Garibaldi e coll’Inglese la proprietà dell’isola, dimorano in certi antri aperti nelle rocce[44].
Garibaldi pose piede per la prima volta nell’isola [232] di Caprera nel maggio del 1855. Trovò quei massi di granito affatto deserti e ricoperti appen’appena da un sottil strato di terra, la quale in molti luoghi era tanto stracarica di ciottoli, che pochi e tristi arbusti vi potevano allignare, e tra questi l’erica [233] e qualche famiglia di erbe aromatiche. Al presente, dopo due anni e mezzo di fatiche, l’aspetto dell’isolotto è mutato. Vi si scorge una bella e comoda casa (Garibaldi a Caprera abitò, prima sotto una tenda, poi in una capanna di legno) circondata da un muricciuolo lungo circa due miglia, eretto pietra per pietra dalle mani del generale, nel recinto; crescono, prosperano legumi, mandorli, pomi, peri, castagni, le viti e fino la canna da zucchero. Il campo è solcato da copiosi ruscelletti distribuiti con arte. Vi sono inoltre dei forni con cui si fa carbone delle radici sbarbicate dal suolo.
Nel 1859, Garibaldi aveva divisato di intraprendere un viaggio nell’America co’ suoi figli e con Bixio, quando gli avvenimenti lo chiamarono di bel nuovo alle armi.
Gli astanti avevano ascoltato con sommo piacere il racconto del capitano garibaldino, il quale, solleticato dai segni di aggradimento coi quali venivano accolte le sue parole, disse:
— Adesso, amici miei, voglio raccontarvi un’altra storia...
— Del generale?
— Proprio del generale.
— Bravo! bene! dì su!» gridarono in coro gli astanti.
— Vi voglio raccontare una scena... C’era anch’io, e me lo ricordo come se la fosse successa jeri... Ma prima datemi da bere, che a forza di mandar fuori parole, mi si è seccata la gola come un pezzo d’esca.
Dato ch’ebbe un lungo bacio al bicchiere, il capitano continuò in tal modo la sua narrazione.
[234]
— Lo scorso autunno il generale si trovava a Ravenna; c’erano anche Menotti, sua sorella, e il servitor vostro. È una bella città Ravenna! Dopo Roma nessuna città ha tanti monumenti... Poi c’e il sepolcro di Dante... E la Pineta la contate per nulla?... Chi l’ha veduta di voi altri la Pineta?
Nessuno degli astanti rispose.
— Dunque nessuno l’ha vista!... Peggio per voi. La Pineta è un immenso bosco di pini, nel quale Garibaldi, dopo l’affare di Roma, stette nascosto più di un mese... Del resto chi ne vuol sapere di più non ha che andar a vederla... e se ne troverà contento[45].
Gli astanti risero; e il capitano continuò:
Era il mattino di una bellissima giornata, serena, sorridente come la ciera d’un galantuomo. Entrati nella Pineta, la nostra meraviglia cresceva ad ogni passo; là ci sono tutte le varietà di verde creato da Domeneddio, chè, oltre ai pini alti come giganti, il terreno è coperto da un’infinita varietà di arboscelli, di macchie, di arbusti selvaggi, frammisti a ciliegi, a peri, a pomi, inghirlandati dalle vite che va su e giù da un punto all’altro come un serpente. Il generale, in quel giorno[46], nonostante le violenti emozioni che doveva provare alla vista di quei luoghi testimonj della morte della sua povera moglie e dei patimenti che egli aveva dovuto soffrire per sottrarsi alla caccia dei Croati, il generale, dico, era di ottimo umore. [235] Parlò a lungo dell’ultima campagna (una magnifica campagna diceva lui), e notava con compiacenza che durante la guerra, non era stato costretto a punire alcuno de’ suoi soldati. Lodava poi moltissimo i Romagnoli, e diceva che tra tutte le città della Romagna, Ravenna si era sempre distinta per l’assenza completa delle rivalità di casta, e per la lealtà e la concordia de’ suoi abitanti. Mi ricordo anche del bene che disse di un tal Bonnet di Comacchio, che l’aveva salvato dalle unghie degli Austriaci, con grave pericolo della sua vita. Se Garibaldi si ricordava dei Romagnoli, anche questi non l’avevano al certo dimenticato, tanto che, quando seppero che egli era nella Pineta, accorsero da tutte le parti. Mano mano che noi ci addentravamo nel bosco, cresceva la folla, crescevano i viva. Avevamo già percorsi circa tredici miglia, quando la carrozza ove c’era Garibaldi e che precedeva le nostre, voltò a destra e noi, seguendolo, ci trovammo tutto ad un tratto innanzi ad una fattoria che, come abbiam saputo di poi, è proprietà del marchese Guìccioli. Smontati, entrammo in un modesto salotto... Era precisamente quello in cui spirò Anita Garibaldi, vittima del suo amor conjugale....
Qui vi furono alcuni istanti di silenzio; poi il garibaldino, continuò:
— Se avessi a raccontarvi per filo e per segno la festa che il fattore e la sua famiglia, fecero al generale (non lo vedevano da dieci anni!) non la finirei più! Vi dirò soltanto che in quella solitaria fattoria, chiusa in mezzo alla Pineta, trovammo una tavola allestita, ma! coi fiocchi... Altro che una collazione!... fu un vero pranzo da sposi, che i nostri ospiti [236] seppero rendere doppiamente saporito e allegro, tanto furono cortesi e compagnevoli. Eravamo diciotto a tavola, e ad ogni minuto entrava qualche Romagnolo nel salotto; tutti volevano berne un bicchiere col generale, tutti facevano a gara per parlargli, rammentandogli qualche avventura del quarantanove, qualche pericolo incontrato insieme a lui, tanto che in men di mezz’ora, la sala fu zeppa di gente, da non potersi movere. Al di là degli usci aperti, si vedeva una folla di teste...; ogni tratto si udivano grida di gioja: viva Garibaldi! viva l’Italia, ecc. ecc. Finita la colazione, e pigliato congedo da quella brava gente, risalimmo in carrozza... Indovinate un po’ da quanti legni siamo stati accompagnati al nostro ritorno dalla fattoria? Nientemeno che da cinquanta!
— Oh?
— Proprio da cinquanta! Vedete che n’era venuta della gente! Dopo un miglio, ci siam fermati davanti una cappelletta solitaria, sulla cui porta stava un prete che ci accennò di smontare e di seguirlo nella chiesuola; entrammo infatti. Presso l’altare c’era una tomba coperta da un strato nero, stracarica di ghirlande e di mazzi di fiori colti allor’allora. Era la tomba di Anita... Noi tutti ginocchioni pregammo per quella poveretta... Che momento solenne fu quello! c’era un silenzio.... un raccoglimento!... pareva che ognuno di noi pregasse per sua madre... Ah! non la dimenticherò più quella giornata! non lo dimenticherò più quel momento!...
[237]
Ho il presentimento, Vittore, di non tornar più! Ma ho promesso a Medici di esser sempre con lui, e manterrò la promessa[47].
Come avrete veduto nel principio dell’antecedente capitolo, Medici co’ suoi, giunto felicemente a Palermo con un grosso piroscafo (gli altri due legni l’Utile ed il clipper americano, erano stati catturati[48]) [238] si era acquartierato colla sua brigata nella capitale della Sicilia, a disposizione del generale.
Roberto e Valentino fecero, come si suol dire, gli onori di casa al capitano Federico arrivato con Medici, e tutti e tre di poi, al nipote della contessa Emilia, il quale, ricevuta a mezzo postale una lettera della zia e una per Roberto (quella di Dalia), aveva stretta relazione col pittore e quindi co’ suoi camerata.
La contessa nella sua lettera al nipote, gli aveva raccontate tutte le tribolazioni, i disastri (come essa scriveva) del suo viaggio a Chiavari, tutto insomma (dall’episodio del cappellino in fuori) quanto aveva sofferto per poterlo raggiungere ed abbracciare prima che salpasse per la Sicilia.
Ernesto, benchè grato a tante prove d’affetto, non aveva però potuto a meno di ridere dal qui-pro-quo preso dalla zia a proposito dei due Sestri. È bene inoltre avvertire, che il gruppetto ricevuto poco dopo la lettera, lo aveva meravigliosamente disposto alla gajezza.
E della famosa cassa, che era avvenuto?
La contessa Emilia non si era data per vinta, e con un proscritto in quell’istessa lettera, annunciava al nipote che, quando meno se l’aspettava, avrebbe ricevuto una cosa che gli avrebbe fatto tanto piacere; e finiva lì, pensando di fargli correre l’aquolina in bocca.
Anche Roberto fu lietissimo di ricevere nuove di Dalia. Ne disse qualche motto a Valentino, ma non [239] andò più in là. Ma la sera trovatosi soletto, prima di coricarsi, rilesse la lettera di Dalia, poi la baciò e ribaciò, e si addormentò pensando che gli occhi cilestri vincono d’assai i neri, fossero anche grandi, limpidi e lampeggianti come quelli di Rosalia.
La mattina dopo, Roberto rispose alla giovinetta con una lunga lettera nella quale fedele alla fattale promessa, proseguì il racconto delle sue avventure (tacendole però di Rosalia) e delle mirabili vittorie del generale, e scrivendo e scrivendo, tanto gli si scaldò il sangue, che fu lì in procinto di chiuder la lettera col promettere di sposarla finita la guerra... Fortunatamente per lui, Valentino entrò in quella a dirgli non so che cosa, ma che ebbe virtù di fargli finire, chiudere e suggellare in fretta quella lettera, senza toccare il tasto del matrimonio. Roberto, pigliato pel braccio l’amico, uscì pei fatti suoi.
Intanto le cose non andavan molto bene nell’isola, specialmente nella provincia di Messina, dove la cattiva scelta dei nuovi governatori, e la vicinanza del nemico tenevano inquieti gli animi. Il dittatore pensò quindi di spedire a quella volta il generale Medici per assestare le cose, e per osservare davvicino i movimenti del nemico.
La partenza di Medici da Palermo con un corpo di volontarj, fu salutata dagli applausi di quei cittadini, i quali, da quella spedizione si promettevano moltissimo. Medici, giunto a Termini l’ultimo di giugno, vi doveva riposare quarantotto ore; ma nello stesso giorno arrivarono a lui due corrieri; il primo gli portava un dispaccio della segreteria di Stato per la guerra e marina, con un ordine dittatoriale che lo nominava a comandante di tutta la provincia di [240] Messina con ampie facoltà militari e civili. Era detto in quell’ordine, che tutti gl’impiegati militari e finanziarj dovessero dipendere da lui, ch’egli avrebbe potuto sospenderli, proporne di nuovi, e prendere tutte quelle determinazioni che la eccezionalità dei tempi gli avesse indicato necessarie per il buon andamento delle cose. L’altro corriere, arrivato quasi contemporaneamente, veniva da Patti, e recava notizie che i regj avevano fatto qualche movimento in avanti. Correva inoltre voce (e pareva verace) che un corpo di truppe borboniche era uscito da Messina, che si inoltrava a marce forzate, anzi che l’avanguardia era già arrivata al castello di Spadafora, punto importante, perchè domina la strada che conduce a Barcellona.
I garibaldini, ai quali era stato concesso di riposare per ventiquattro ore, ebbero l’ordine di ripigliare la marcia, non solo, ma di affrettarla.
Prima però che partissero da Termini accadde un fatto che per la sua singolarità merita di essere raccontato, tanto più che non ha riscontro nelle storia.
Termini, al giungere dei volontarj di Medici, fu sossopra; quei cittadini accolsero i loro liberatori con entusiasmo, disputandosi il piacere, l’onore di averne qualcuno a loro ospite e di festeggiarlo il meglio che potevano. Ora avvenne che un giovinetto terminese, maneggiando imprudentemente un revolver d’un garibaldino, fece scattare la molla e ricevette una palla nel petto, sicchè restò ucciso sul colpo. Questo deplorabile accidente gettò la mestizia in mezzo alla gioja e alla festa. Medici non volle lasciar Termini prima di appurare l’accaduto; radunò quindi un Consiglio di guerra, innanzi a cui venne tradotto [241] il volontario; ma prima ch’egli pronunziasse una parola in sua difesa, una donna seguita da una ragazza, si aprì la via attraverso la folla e si presentò al cospetto dei giudici. Erano la madre e la sorella dell’ucciso.
Allora la povera donna disse piangendo, ma con voce sonora: Io era là; so com’è accaduta la disgrazia; quel garibaldino è innocente della morte del mio figliuolo, che io considero come morto sul campo di battaglia; ma essendo abituata ad avere presso di me un figlio, io vi prego, cedetemi questo (e così dicendo cinse con un braccio il collo del milite), io l’adotto.
Il volontario venne immediatamente rimesso in libertà. La nuova sua madre, impostogli il nome dell’ucciso, lo condusse trionfalmente a casa sua, ove passò alcuni giorni tra le più affettuose carezze.
Molti per questo fatto chiamarono quella donna un’eroina degna de’ migliori tempi di Sparta. Noi, che infatto di maternità abbiamo opinioni molte severe, non troviamo di che entusiasmarci nel vedere una madre consolarsi sì presto, e con tanta disinvoltura della perdita di un figlio, come se si trattasse di quella di un marito per andare a seconde nozze.
Ad ogni modo la condotta di quella madre non è al certo il più bell’elogio del defunto.
Medici col suo corpo camminò tutta la notte, e allo spuntar dell’aurora giungeva a Cefalù. Quivi volle che i suoi riposassero, tanto più che, dovendosi spingere sino a Barcellona, aveva a fare marce lunghe e faticosissime, tra monti e spiagge senza altre strade che stretti e difficili sentieri. A Cefalù le notizie continuavano a giungere poco rassicuranti; la provincia rimasta senza amministrazione, aveva [242] bisogno della presenza di un capo per impedire i disordini, e per ridonare agli abitanti fiducia e confidenza. Il nemico s’ingrossava a Messina, e specialmente al Gesso, posizione formidabile sopra Messina, e anello tra questa città e Milazzo, ove pure giungevano nuovi rinforzi[49].
Medici, impaziente di portarsi sul teatro ove era chiamato ad agire, per guadagnar tempo, lasciò il corpo da lui comandato a Cefalù; diede le disposizioni necessarie perchè si movesse in avanti con la maggiore possibile sollecitudine, e decise di recarsi egli stesso con alcuni uffiziali dello stato maggiore e poche guide a cavallo, a riconoscere le posizioni, e a studiarle più davvicino e nei più minuti particolari.
Così fu fatto; Medici viaggiando dì e notte, ora a piedi ed ora a cavallo, giunse finalmente la mattina del 5 a Barcellona. Quivi incominciarono gli atti di lui come capo della provincia.
Viaggiando da Cefalù a Barcellona, Medici sdrajatosi, riposava sulla spiaggia del mare insieme al suoi compagni, quando un vaghissimo augellino volò sull’arena, e vi si fermò; preso, divenne argomento di varie osservazioni; vi fu persino chi ne trasse felici augurj. Medici pigliatolo in mano, sorridendo disse: «Siamo venuti per la libertà, dunque libertà anche agli uccelli.» Non aveva ancora finito di parlare che già l’uccellino volava libero.
Medici, ricevuto a Barcellona con ogni manifestazione di simpatia e di gioja, e trovando gli animi atteggiati a nobili imprese, non tardò a far conoscere agli abitanti della provincia, e la sua carica e il suo [243] animo, e quanto sperava dal concorso dei buoni cittadini, a vantaggio della causa italiana, alla quale tutti dovevano con eguale animo e valore generosamente concorrere. Quindi, il 5, pubblicava un bellissimo proclama, nel quale sono specialmente ammirabili le parole con che spiega, con l’accento del soldato, com’egli sentisse la libertà.
Frattanto si mostravano continui i movimenti nelle regie truppe di Milazzo, rinforzate da nuovi corpi che sopraggiungevano da Messina, onde vedevasi chiaro che i regj volevano dare una battaglia nelle vicinanze di quella città, e, se fortuna arridesse, marciare prestamente sulle insorte provincie della Sicilia.[50] Medici, fatto accorto dei progetti del nemico, non essendo stato ancora raggiunto da tutto il suo corpo, cominciò a fare delle escursioni verso Milazzo, per istudiare le migliori posizioni, e supplire così, col vantaggio di esse, allo scarso numero delle sue forze. Il 6 luglio, il generale Medici, ed alcuni de’ suoi uffiziali, trasvestitisi, si recarono a Santa Lucia, alla destra di Barcellona, e dalla torre di un antico monastero guardando la sottoposta pianura di Milazzo, concepirono un piano di difesa, pensando specialmente di occupare Santa Lucia, posizione molto importante. Altri punti vennero visitati in quel giorno stesso; si accostarono a Gesso e di là, seguendo la catena dei monti verso sud, poterono scorgere Messina, dove speravano inalberare quanto prima la bandiera dell’unità italiana.
I volontarj lasciati dal generale Medici a Cefalù, marciavano verso Barcellona; e mangiando e alloggiando [244] malamente, tra fatiche inaudite, laceri e scalzi, la mattina del 10 giunsero a Barcellona. In quattro giorni tutto fu accomodato alla meglio; riposati i volontarj, racconciate le scarpe e le vesti, ordinate le armi e distribuite le munizioni, talchè il 14, il piccolo corpo di Medici accampò a Meri, ad un’ora da Barcellona, verso Messina.
Dalla parte dei regj si era cambiata la guarnigione di Milazzo; al comandante Torre Bruna, era stato sostituito il generale Bosco, Palermitano, fedelissimo al suo re, coraggioso, esperto nelle cose di guerra, ma vanitoso, millantatore, fanatico, e che agognava ad ogni costo al vanto di abbattere Garibaldi. Bosco aveva condotto seco da Messina meglio di 5000 uomini di truppe scelte, la più parte cacciatori: cavalleria, artiglieria, munizioni, nulla mancava ai regj, mentre i nostri, pochi di numero, n’erano scarsamente provisti.
I volontarj si stendevano a destra ed a sinistra del paese di Meri. La linea era molto estesa, ma era mestieri coprirla, per opporre resistenza su tutte le vie nelle quali il nemico poteva spingersi. Questa linea era segnata dal letto di un torrentello (il Mela), che dai monti, alla destra dei nostri, discende fino al mare. Limite della sinistra, era il mare istesso; alcune altre stradicciuole, tutte praticabili, serpeggiano da Barcellona a Milazzo; alla destra rimaneva il paese di Santa Lucia, con un seguito di colline descriventi una curva, che si serra alquanto sul centro; alcune di queste colline con facile declivio si prolungano verso S. Filippo.
Quasi tutto il letto del Mela è incassato tra due muricciuoli, che seguono gli accidenti del letto istesso; [245] e che, mediante alcuni lavori, si prestavano a tener fronte ad un attacco. La strada principale per Milazzo corre in mezzo alla pianura, e traversa il letto del torrente. Questo passaggio era guardato da due cannoncini, che i nostri avevano trovato a Barcellona, e che costituivano tutta la loro artiglieria. Il 15, una colonna di Napoletani uscì da Milazzo, ma ad un tratto si fermò e rientrò. Medici, a fronte di queste dimostrazioni, per poter movere i suoi pochi soldati, senza sguarnire di troppo le posizioni, aveva fatto convenire a Meri le guardie nazionali, ed alcune squadre dei paesi limitrofi.
Nella notte del 16, una pattuglia dei nostri, che guardava le posizioni di Santa Lucia, si spinse verso gli avamposti napoletani; si scambiarono le prime fucilate. La mattina seguente, una colonna di circa mille uomini, uscita da Milazzo, dirigevasi verso le nostre posizioni di destra. Il colonnello Simonetta con circa 300 uomini, ebbe ordine di osservarla; questi si spinse sulla strada maestra; inviò in ricognizione un’avanguardia, e fece avanzare a destra una compagnia, comandata dal capitano Cattaneo. L’avanguardia ebbe ad avanzarsi per poco, perocchè tosto incontratasi coi regj, s’impegnò un vivo combattimento. Il nemico lanciò la cavalleria, che caricò a tutta possa, ma i volontarj l’attesero col maggior sangue freddo e la carica fu respinta. Si combatteva a destra e a sinistra, ove i nostri erano accorsi per sostenere l’impeto che i nemici facevano anche da quella parte. Le forze erano disuguali, pure i regj ripiegarono; allora dai nostri si tentò una carica alla bajonetta; ma il terreno, troppo malagevole, non permise di condurla ad effetto. Alcuni, spintisi [246] troppo avanti, affaticati per le difficoltà del cammino, e che nel retrocedere non poterono superare con la facilità di prima, rimasero cattivi. I regj, fatti quindici prigionieri, dei quali cinque feriti (anche il Cattaneo venne fatto prigioniero), non pensarono che a ritirarsi, e per essere più sicuri rinnovarono una carica di cavalleria; era essa diretta specialmente contro coloro che si trovavano sulla strada maestra, e fu quivi appunto che i nostri uffiziali si scagliarono sopra i cavalieri nemici, uccidendone varj. Fatta quest’ultima prova, i Napoletani rientrarono in Milazzo. I nostri in quella fazione ebbero circa 40 uomini fuori di combattimento, il nemico ne perdette circa un egual numero.
Il generale Medici, vista impegnata la lotta, spinse nuove forze verso il luogo del combattimento; quindi i volontarj che avevano avuto parte all’azione, poterono ritirarsi, e i nuovi arrivati occuparono il caseggiato attiguo alla collina che mena sulla strada di Santa Lucia, prendendo anche posizione nelle prime case del villaggio di S. Filippo, ond’essere in grado di resistere ad un nuovo attacco. Il nemico infatti faceva continue evoluzioni verso la nostra destra; egli mirava a girare quella importante posizione, la quale, nel caso che i nostri avessero dovuto abbandonare la linea occupata, doveva servir loro di ritirata per la via dei monti. Quindi Medici ordinò che sulla strada maestra fosse eretta una barricata, allo scopo di difendere la linea interposta tra la strada istessa ed il sommo della prossima collina, ove la nostra destra rannodavasi, alla sinistra, colle squadre comandate del colonnello Interdonato.
[247]
Alle quattro dopo mezzo giorno, il nemico riapparve con forze doppie. Egli coronava le alture sopra Ceriolo, occupava il paesello di questo nome, scendeva per il letto di un torrente, e si avanzava. Allora il fuoco ricominciò: regj e garibaldini si trovarono faccia a faccia; il maggiore sforzo dei Borboniani era di spingersi dalla nostra sinistra alla destra. Conveniva perciò tener forte dalla parte ove egli irrompeva con maggior impeto, impedire, dalla barricata, il passaggio della strada e non lasciare effettuare il suo piano. Con questo intendimento Medici mandò ordini ad un battaglione, che stava in riserva fra il crocicchio della strada per Santa Lucia a destra e Milazzo a sinistra, di avanzarsi. Questo rinforzo giunse a passo di corsa, proprio nel momento decisivo, quando la lotta alla barricata era più accanita, e quando il nemico, fatto ardito dalla preponderanza delle sue forze, attaccava di fronte la nostra posizione, facendola bersagliare ai fianchi da una fucilata veramente energica. Il rinforzo rinvigorì l’ardire dei nostri, che riacquistato nuovo entusiasmo e coraggio, si slanciarono fuori della barricata al grido di: viva Italia; indi con una brillante carica alla bajonetta, respinsero il nemico dai vigneti, dai muricciuoli e dalle case occupate, costringendolo a ripassare in fretta il letto del torrente.
Ma sulle alture il fuoco continuava vivissimo. Il nemico, appostati due pezzi sulla strada che dal paese sbocca nel torrente, tirava spessi colpi, ma senza risultato. Un po’ più tardi lanciò razzi e granate, anch’esse senza effetto; indi, aumentato il cannoneggiare, dal punto ove erasi riordinato mosse ad un nuovo attacco. I nostri lo bersagliarono vigorosamente [248] dalle alture e quelli specialmente della barricata, animati dal primo successo, si lanciarono di nuovo sulla strada, e caricarono alla bajonetta. Per alcuni minuti fu uno spettacolo veramente straordinario; perciocchè i nostri correvano avanti, ed i Napoletani non meno arditi, correvano loro incontro: quando ad un tratto il nemico fermossi sulla riva del fiume, la sua colonna si schiuse smascherando l’artiglieria che aprì il fuoco. I nostri continuarono ad inoltrarsi sulla strada; già avevano occupato una casa, e si spingevano avanti quasi fin sopra i pezzi dell’artiglieria nemica, ma sopravvenuta la sera, furono richiamati.
In quella fazione i Napoletani si batterono valorosamente: i nostri ebbero pochi morti, molti feriti, e di bajonetta. Medici, aveva in parte raggiunto il suo scopo, perciocchè in quella giornata con energia straordinaria, con posizioni ben scelte, e con evidente esperienza di guerra, aveva respinto due volte il nemico, e più da vicino avevalo serrato dentro Milazzo.
Da Palermo intanto giungevano avvisi di prossimi rinforzi; il generale Cosenz stava per arrivare, e difatti, il 18, giunse coll’avanguardia al campo dei nostri, e visitati i posti, e verificate le posizioni, ne rimase grandemente soddisfatto. La mattina del 19 i nostri volontarj, che erano ancora sotto le armi, videro arrivare una carrozza; in un istante tutti i beretti si trovarono sulle bajonette; dal cuore e dalla bocca di quei bravi militi uscì un grido indescrivibile; essi avevano riconosciuto Garibaldi. Il legno che giungeva in quel momento conteneva il dittatore della Sicilia, in camicia rossa, e col solito cappello nero.
[249]
Garibaldi, dal primo ingrossarsi del nemico in Milazzo, aveva compreso che l’armata borbonica intendeva dare battaglia; e volendo trovarsi presente e comandare in persona i suoi volontarj, lasciato in Palermo qual prodittatore il generale Sirtori, affrettò la sua partenza, e raggiunse in tempo il campo di Medici. Il giorno stesso del suo arrivo si fece un nuovo esame a tutte le posizioni. Garibaldi chiede di tutto, interroga su tutto, osserva minutamente ogni cosa, approva con espansione d’animo l’operato di Medici, gli serra più volte la mano, e la sera, prima della cena, fumando il suo sigaro, scrive l’ordine del giorno, col quale promove a maggiori generali, Medici, Cosenz, Bixio e Carini; aggiunge, la brigata Medici avere ben meritato della patria; i suoi militi assaliti da forze superiori aver provato ancora una volta, ciò che valgano le bajonette dei figli della libertà.
La mattina del 20, Garibaldi, presi gli opportuni concerti col generale Medici, fece diramare i suoi ordini alle truppe. Alle 5 del mattino queste erano tutte sotto le armi e pronte a marciare; due colonne dovevano formarsi; una comandata dal colonnello Simonetta, l’altra dal colonnello Malenchini; queste colonne avevano ordine di recarsi da Meri a S. Pietro, ove giunte, avrebbero avute nuove istruzioni. La colonna Simonetta, era composta dei battaglioni non completi del I.º reggimento e d’una compagnia del III.º battaglione, con aggregati il battaglione bersaglieri, comandato dal maggiore Specchi e circa 20 uomini armati di carabina. La colonna Malenchini era composta dei tre battaglioni del II.º reggimento, più una compagnia di volontarj messinesi. [250] S’era ordinata una colonna di riserva, la quale si componeva del battaglione Dunn, già arrivato, del battaglione Corte, del battaglione Corrao e del battaglione Valchieri; le quali forze, essendo i battaglioni molto sottili, potevano ammontare a circa 3500 uomini.
La prima colonna ebbe l’ordine di percorrere lo stradale di Messina sopra S. Pietro a Milazzo, occupando le case ed i vigneti, in gran parte cinti di muri. La seconda colonna, descrivendo una diagonale, si recò ad occupare Barone, che è una frazione di S. Pietro. Erano queste le due colonne d’attacco, alle quali fu ingiunto di distendersi, onde collegarsi e formare una sola fronte di battaglia, la quale doveva inoltrarsi molto avanti, a destra, per osservare davvicino le mosse, e le posizioni del nemico. Simile incarico aveva avuto pure la sinistra, allo scopo di sorvegliare il nemico dalla parte della marina, d’onde poteva seriamente minacciare il fianco dei nostri.
I regj intanto erano usciti da Milazzo con forze poderose, e avevano avuto agio di far loro pro d’ogni cosa, d’ogni prominenza, dei muri e dei vigneti, per combattere coperti stando sulla difensiva, o per spingersi avanti contro i nostri. Ciò avevano ottenuto moltiplicando i corpi d’osservazione; nè i garibaldini potevano molestarli, sia perchè disponevano di forze inferiori, sia perchè non era loro intenzione di attaccare la fronte del nemico. Ne veniva per conseguenza lo spiegamento dei nostri, e tanto più perchè l’esercito Napoletano stendevasi molto a sinistra verso i mulini, ed a destra quasi fino alla marina. Il nemico non poteva temere di estendersi troppo, e perchè così facendo teneva in rispetto e sorvegliate le nostre [251] ali; e per ultimo perchè, qualora fosse stato costretto a ripiegarsi, sarebbesi concentrato con maggior potenza al centro, in guisa da poter operare in quel punto energicamente, nulla avendo a temere ai lati, garantito come era dal mare. Particolarmente alla sinistra, i Napolitani avevano ben munite con molta artiglieria le case dei mulini, e gli sbocchi principali delle strade.
I due eserciti stavano già in faccia l’uno dell’altro; erano le sette del mattino, quando il nemico mosse dalla sua destra verso la sinistra dei nostri e l’attaccò. Repentinamente il fuoco si aprì su tutta la linea. Il generale Medici ordinò alla colonna Simonetta di spingere una parte della sua gente verso Archi, onde rendersi padrone delle mosse nemiche a sinistra. Questo movimento eseguito dal maggiore Migliavacca, coadjuvato dal maggiore Croff, fece sloggiare i regj dalle posizioni che avevano occupate; dal lato sinistro i nostri si spingevano avanti, stendendosi verso la marina, movimento che si dovette appoggiare coi rinforzi del centro, il quale per portarsi all’altezza della sinistra, fu costretto ad inoltrarsi; imbattutosi col nemico, e impegnò un vivissimo combattimento. Così nel tempo stesso si pugnava al centro, alla sinistra ed alla destra. I Napoletani combattevano valorosamente, e tanto che, dopo lungo tempestare, alla sinistra cominciavano ad avere il sopravvento. L’artiglieria, che imboccava la strada, e che fulminava i nostri, rendeva i nemici superiori. Il fianco dei nostri era gravemente minacciato. Il generale Medici spediva immantinente a quella volta un uffiziale di stato maggiore colla metà del battaglione Dunn che era di riserva. Con questi rinforzi [252] e con l’energia del generale Cosenz che dirigeva quella parte del combattimento, i nostri riuscirono a ripigliare i posti perduti. Ma il nemico che a cagione del ripiegamento a sinistra aveva avuto campo di spingere nuove forze al centro, imperversava furiosamente da questo punto.
Garibaldi, dalla strada, colla parola, col gesto coll’esempio dirigeva l’attacco; già combattevasi un’altra volta su tutta la linea. Contro le forze del centro, fatte quasi irresistibili dalle circostanze naturali, gli sforzi dei nostri prodi non valevano. Molti di quei generosi caddero, e molti altri più animosi ancora, si avanzavano in mezzo a quell’eccidio. Ma il solo coraggio non bastava; le nostre perdite di momento in momento si facevano più sensibili; tutte le nostre truppe erano giunte, tutte erano al fuoco, anche le riserve; il momento era pur troppo decisivo.
Un movimento a destra fu quello che decise le sorti della giornata in favore di Garibaldi. Accennando energicamente dalla nostra estrema destra al fianco sinistro, ed al centro nemico, si cambiò la situazione, perciocchè, i regj improvvisamente incalzati dal nuovo movimento, cominciarono a ritirarsi, e il terreno da loro abbandonato veniva occupato dai nostri. Le truppe nemiche si ritiravano in Milazzo, si riordinavano, tentavano di scendere a nuova battaglia, ma alcuni colpi di cannone del piroscafo il Veloce, sopra cui in quel frattempo erasi imbarcato Garibaldi, li costrinse a continuare il movimento di ritirata.
Nella lotta del centro, un pezzo d’artiglieria dei regj rimaneva nelle mani ai nostri; un drappello di cavalleria fu lanciato a riconquistarlo, ma invano perciocchè [253] oltre al pezzo, perdettero anche i cavalli, e quasi tutti i cavalieri. Vi furono lotte corpo a corpo, colpi di revolver a bruciapelo, cavalli azzuffantisi insieme; dittatore, generali ed uffiziali dovettero giuocar di spada; tanti sforzi condussero i nostri sino al ponte di porta Milazzo. Contemporaneamente i nostri di sinistra giungevano alla lor volta, dopo d’aver superate le posizioni nemiche.
Ma la lotta non era ancora finita; il passaggio del ponte era difficilissimo; la moschetteria e la mitraglia grandinavano senza posa. I garibaldini fecero sosta ai Magazzeni, che erano alla loro sinistra; con molto ardimento riuscirono a trascinare sul ponte i due cannoncini che possedevano, i quali, se materialmente non potevano offendere gran che, moralmente imponevano al nemico, che credette i nostri essere possessori di un’artiglieria. I Napoletani avevano occupate tutte le case appena fuori della città, e dal molo, e di dietro le barche, tiravano con molto successo con le loro carabine; le artiglierie mandavano palle e mitraglia, e qualche bomba. A sloggiare i cacciatori, fu mestieri stabilire una linea d’attacco, che dal ponte, pei vigneti cinti di mura, andava sino alla marina, e conduceva molto vicino alla città, alle case ed alle posizioni occupate dal nemico. In questo incontro specialmente giovarono moltissimo i colpi dei nostri piccoli pezzi. Frattanto un battaglione fresco, che aveva avuto ordine di rimanere a Meri a guardare le posizioni sulla marina, e che, deciso il combattimento in favore dei nostri, s’era portato sul posto a passo di corsa per raccogliere definitivamente il frutto della giornata, fu spinto contro la città per entrarvi. D’allora in poi il nemico non oppose [254] seria resistenza, ma di posizione in posizione raccogliendosi, s’affrettò a ritirarsi nel forte. Vi fu un momento in cui si vide il generale Medici a cavallo, nella strada principale di Milazzo, in mezzo ad un nembo di fumo, ma fortunatamente ne uscì sano e salvo.
Il combattimento finì alle 5 pomeridiane; era quindi durato dieci ore. I nostri tra morti e feriti perdettero circa 800 uomini; il maggiore Migliavacca lasciava la vita sul campo. Il nemico ebbe gravi perdite, ma inferiori alle nostre.
Il romanziere Alessandro Dumas trovossi presente a questa battaglia. Egli prima della spedizione di Sicilia avveva avvicinato il generale Garibaldi a Milano ed a Genova per avere da lui schiarimenti sulla sua vita e sui suoi fasti, per pubblicarli in un giornale di Parigi e in un’ampia biografia. Quando seppe lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e la sua entrata in Palermo, si affrettò a raggiungerlo, e partitosi di Marsiglia giunse alla capitale dell’isola. Quivi conferì col dittatore, indi si diresse alla volta di Catania. Fu di là che intese vagamente come una colonna napoletana era partita da Messina per incontrare Medici. Spedito un messo al console francese di Messina, e da lui avuta risposta che la nuova era vera, senza perder tempo, levata l’àncora partì alla volta di Milazzo. Egli giungeva nel golfo orientale appunto quando il combattimento era incominciato. In alcune sue lettere dirette al brigadiere Giacinto Carini, ispettore generale di cavalleria, descrive minutamente le vicende ed i fatti di quella giornata. Noi riprodurremo un brano d’una sua lettera per mostrare in [255] qual pericolo si fosse trovato quel giorno il generale Garibaldi, e quali furono i supremi sforzi dei nostri.
«Il fuoco (scrive il Dumas) cominciò alla sinistra a mezza strada tra Meri e Milazzo. S’incontrarono gli avamposti napoletani nascosti tra i canneti. Dopo un quarto d’ora di moschetteria sulla sinistra, il centro alla sua volta si è trovato in faccia alla linea napoletana, e l’ha attaccata e sloggiata dalle prime posizioni.
«La dritta in questo frattempo scacciava i Napoletani dalle case che occupavano.
«Ma le difficoltà del terreno impedivano ai rinforzi di arrivare. Bosco spinse una massa di 6000 uomini contro 5 o 600 assalitori che l’avevano costretto a rinculare, e che, soprafatti dal numero, erano stati obbligati ad indietreggiare alla lor volta.
«Il generale spedì tosto a chieder dei rinforzi; arrivati che furono, attaccò di nuovo il nemico nascosto tra i canneti, e riparato dietro i fichi d’India. Ciò era un grande svantaggio per i volontarj, che non potevano caricare alla bajonetta.
«Medici, marciando alla testa dei suoi, aveva avuto il cavallo ucciso sotto di sè. Cosenz aveva ricevuto una palla morta nel collo ed era caduto a terra; lo si credeva ferito mortalmente, allorchè si rialzò gridando: Viva l’Italia! La sua ferita, fortunatamente, era leggiera.
«Garibaldi si pose allora alla testa dei carabinieri genovesi, con alcune guide per affrontare i Napoletani ed attaccarli di fianco, togliendo così la ritirata ad una parte di essi. Ma si imbattè in una batteria che fece ostacolo a siffatta manovra.
«Missori ed il capitano Statella, si spinsero allora avanti con una cinquantina d’uomini; il generale Garibaldi [256] era alla testa e dirigeva la carica; a venti passi il cannone fece fuoco a mitraglia.
«L’effetto fu terribile; cinque o sei uomini solamente rimasero in piedi; il generale Garibaldi ebbe la suola d’una scarpa, e la staffa portata via da una palla di cannone; il di lui cavallo ferito divenne indomabile, sicchè fu costretto ad abbandonarlo, lasciando nella sella il suo revolver. Il maggior Breda e il suo trombetto furono colpiti ai fianchi. Missori cadeva da cavallo, il quale era ferito a morte da una scheggia. Statella restava in piedi, fra un uragano di mitraglia; tutti gli altri, morti o feriti.
«Da tutti si combatteva, e valorosamente.
«Il generale, vedendo allora l’impossibilità di prendere il cannone che aveva fatto tutto questo danno di fronte, comanda al colonnello Dunn di scegliere qualche compagnia e di lanciarsi con essa attraverso i canneti, raccomandando a Missori e a Statella di saltare appena sormontati i canneti al di sopra del muro, e poscia di impadronirsi del cannone che doveva essere a poca distanza.
«La mossa fu eseguita da due uffiziali, e da una cinquantina d’uomini, ma allorchè arrivarono sulla strada la prima persona che vi trovarono fu il generale Garibaldi a piedi e colla sciabola in pugno.
«In questo momento il cannone fa fuoco, uccide alcuni dei nostri; gli altri si lanciano sul pezzo, se ne impadroniscono, e lo portano via.
«Allora la fanteria napoletana s’apre, e dà il passaggio ad una carica di cavalleria, che si avventa per riprendere il pezzo.
«I militi del colonnello Dunn, poco abituati al fuoco si dividono a due lati della strada in luogo di sostenere [257] la carica alla bajonetta, ma a sinistra sono trattenuti dai fichi d’india, a dritta da un muro. La cavalleria passa come un turbine: da due lati i Siciliani allora fanno fuoco; l’esitanza d’un momento svanita.
«Le schioppettate continuano a destra e a manca; l’uffiziale napoletano s’arresta e vuol tornare indietro, ma ecco in mezzo alla via serrargli il passo Garibaldi, Missori, Statella e cinque o sei altri. Il generale salta alla briglia del cavallo dell’uffiziale gridando: arrendetevi. L’uffiziale per tutta risposta gli tira un fendente, il generale lo para, e d’un colpo di rovescio gli spacca la gola. L’uffiziale vacilla, e stramazza; tre o quattro sciabole sono alzate sul generale, che ferisce uno degli assalitori con un colpo di punta. Missori ne uccide altri due e il cavallo d’un terzo con tre colpi di revolver. Statella mena le mani dalla sua parte, e ne uccide un altro. Un soldato smontato di sella si getta alla gola di Missori, che a bruciapelo gli fracassa la testa con un quarto colpo di revolver.
«Durante questa lotta di giganti, il generale Garibaldi ha rannodato gli uomini sgominati.
«Egli carica con loro, e mentre riesce a sterminare o a far prigioni i cinquanta cavalieri dal primo fino all’ultimo, incalza alla fine colle bajonette, secondato dal resto del centro; i Napoletani fuggono; i Bavaresi e gli Svizzeri tengono fermo un momento, ma alla fine fuggono essi pure.
«La giornata è decisa, la vittoria non è ancora, ma sarà, dell’eroe d’Italia.»
Milazzo, città costruita a cavaliere su d’una penisola, conta circa 14,000 abitanti; ma essi erano [258] tutti spariti; molti usciti di città e sparsi per le campagne, e molti ancora chiusi nelle proprie case, talchè quando i nostri vi entrarono, non rinvennero una città, ma un sepolcro. Un sol uomo fu visto; egli era un vecchio che usciva da una casa con lo spavento negli occhi e nella persona; era la sua testa canuta, e portava nella destra una daga sguainata: pareva che egli cercasse la vita, ma incontrò sventuratamente la morte; una cannonata a mitraglia lo gettava a terra orribilmente mutilato. Per alcune ore non fu vista anima viva; i cacciatori delle Alpi erravano per le città col fucile tra le mani, con la minaccia negli occhi. Medici, a cavallo, stava alla loro testa; i colpi a palla e a mitraglia continuavano spessi ed accompagnati da granate; ma i nostri seguitavano la loro marcia in avanti. La maggior parte di essi si riuniscono alla marina; alcune compagnie vanno ad occupare le posizioni elevate intorno al forte, e lo stringono da vicino; dal convento de’ Cappuccini mandano contro i regj pochi ma ben aggiustati colpi di carabina; così da altura in altura si portano nel punto più elevato dell’istmo, proprio ove sorge il mulino a vento d’onde, alla distanza di circa cinquecento metri, si domina buona parte dell’interno del forte. La fucilata durò viva sino alla sera; alla notte, i colpi si fecero radi, più come avvisi di allerta che per offendere. In quella notte il quartiere generale era alla marina, sul sagrato di una chiesa.
Era spettacolo singolare veder colà Garibaldi sdrajato per terra riposarsi delle durate fatiche, e circondato dal suo stato maggiore, dettare proclami, e annunciare all’Europa la presa di Milazzo, a molte madri la morte dei loro figli, e al governo di Napoli [259] la disfatta delle truppe comandate dal generale Bosco.
Il 21, il fuoco di moschetteria e di artiglieria continuava. Per precauzione i nostri avevano erette alcune barricate; erasi anche disposto per alcune opere di contro fortificazione, che dovevano servire al collocamento di alcuni pezzi, che dovevano battere il castello nel lato più debole, ma non poterono essere collocati, perchè mancavano i mezzi alle opere. Intanto cominciavano le trattative per la capitolazione; ma il generale Bosco pretendendo gli onori di guerra, e Garibaldi non volendoglieli accordare, quel giorno e il seguente passarono senza che nulla si fosse definito. Quando in sul vespro del 23, apparvero sette legni a vapore parte napoletani e parte francesi, ma al servizio di Napoli per capitolare col generale Garibaldi. Il 24 fu conclusa la capitolazione a queste condizioni:
«Che la guarnigione uscisse dal forte, e s’imbarcasse sui legni che erano in porto, con tutti gli onori di guerra:
«Che dovesse portar seco l’armamento ed il bagaglio:
«Che dovesse lasciare nel forte tutte le bocche da fuoco, tutti i cavalli, compresi quelli degli uffiziali e dello stesso comandante Bosco, e la metà dei muli.»
I nostri acquistarono in quella occasione trentasei cannoni, due in bronzo e trentaquattro in ferro, centotrentanove cavalli e ottantatre muli.
Noteremo essere stato stabilito che i pezzi d’artiglieria ceduti, non dovessero essere menomamente danneggiati, ma sedici di essi vennero slealmente inchiodati; furono fatte da parte di Garibaldi energiche [260] proteste; si era quasi al punto di rompere le trattative, ma l’ammiraglio Anzani, che trattava per la parte di Napoli, si mostrò così dispiacente dell’accaduto, parlò tanto caldamente della sua completa ignoranza di quel fatto, e riprovò così altamente la vergognosa violazione dei patti, che i nostri uffiziali non fecero più parola dei cannoni inchiodati. Il 24, a sera, le truppe borboniche avevano totalmente sgombrata Milazzo; il 25, Medici prendeva i necessarj concerti per la partenza; la notte del 26 il suo corpo bivaccava sulle alture di Messina, in cui la mattina del 27 doveva entrare in mezzo agli applausi della popolazione.
Così ebbe fine la battaglia di Milazzo, dalla quale il generale Bosco molto promettevasi; battaglia, che dai soldati napoletani fu valorosamente combattuta, e nella quale i volontari di Garibaldi colsero una imperitura corona di gloria. Dolorosa oltremodo riuscì al campo dei nostri la perdita del valoroso Migliavacca.
Come succede sempre dopo una battaglia, i volontarj erravano qua e là pel campo, incrociandosi, e chiedendosi a vicenda notizia degli amici più cari. Valentino, benchè stracco morto, gironzava già da un pezzo, senza che ancora avesse potuto venire a capo di raggranellare qualche notizia de’ suoi camerati.
Quando Dio volle, poco prima che calasse la notte (una notte siciliana, limpida, fresca, stellata, rischiarata dalla luna) incontrò il capitano Federico, il quale, accortosi che il suo povero cavallo era sfinito dalla fatica, scesone, camminava pedestre, tirandosi dietro colla briglia l’animale:
— Oh! capitano! quanto ho caro di vederla.... È un pezzo che la cerco...
[261]
— Addio, il mio Valentino! rispose Federico stringendogli affettuosamente la mano. Sano e salvo, eh?
— Come un pesce, grazie a Dio! Ma è però un miracolo se son qui, glielo dico io!..
— Ah, sì perdio! la fu una giornata calda.
— E dei nostri ha notizie, capitano?
— No, Valentino; anzi voleva chiederne a te.
— Io non ne so niente. Roberto...
— Era alla barricata sulla strada...
— Brutto sito!... E del signor Ernesto...
— Ernesto era con Roberto; gli ho veduti io assieme, quando quei di Medici si sono mischiati con quelli di Bixio là alla barricata.
Così dicendo erano giunti presso un bivacco, sotto un gruppo di alberi, e dal quale partirono tosto allegre voci che chiamavano: Federico!... Valentino!... qui, qui con noi....
I chiamati, appressatisi, conobbero tosto, al chiaro di luna, cinque o sei visi amici. Ricambiatesi le strette di mano, sedettero in giro intorno al fuoco su cui rosolavano alcune fette di carne porcina, infilzate sulle bacchette da fucile. Sull’erba stavano disposti alcuni fiaschi, e cacio e pane e frutti.
La conversazione ferveva animatissima, come succede di chi ha molte cose da raccontare, ma molte, in modo che tutti vogliono essere i primi a parlare per timore che la memoria non giunga a ritenere tutte le idee che ronzano nei cervelli. Erano argomento di tutti questi discorsi le diverse fasi della battaglia; i pericoli corsi individualmente e quelli affrontati in comune; l’accanimento con cui s’erano battuti i regj, degno d’una causa migliore; il combattimento a corpo a corpo sostenuto dal generale, [262] da Missori, e dagli altri pochi che aveva con sè; quanto accadde al Liparacchi comandante il Veloce[51]; poi vennero le lamentele per le morti, per le ferite dei compagni, e via via.
[263]
Tutti questi discorsi però, lieti o lugubri che fossero, non avevano possa di affievolire l’appetito in que’ giovanotti, i quali, digiuni fin dal mattino, appena la carne parve cotta, si accinsero a far onore al festino.
Staccate quelle fette di carne dalle bacchette ed equamente distribuite, i commensali cominciavano già a stracciarle co’ denti, quando s’udì gridare:
[264]
— Ohe! e io?... Ohe! piano piano;... voglio anch’io la mia parte...
Tutti gli sguardi si rivolsero verso un giovane uffiziale, il quale, odorata da lungi la cena, precipitava verso quella a passo di corsa.
Era Roberto.
L’appetito di Roberto era proverbiale tra i suoi commilitoni; tuttavia, benchè sapessero di avere in lui un formidabile concorrente, coll’accoglierlo festosamente, col fargli posto, col porgergli tosto una lauta porzione di carne, mostrarono quanto se lo tenessero caro.
Roberto sedutosi, mosse in giro lo sguardo sui suoi compagni, nominandoli ad alta voce, e con gioja mano mano li discerneva.
— Qui tutti! qui tutti sani e salvi!... Benone perdio! Ma che dico tutti!.... Pur troppo ne manca uno!... continuò di poi crollando il capo.
— Chi manca? gli chiesero i compagni guardandosi l’un l’altro.
— Manca Ernesto.
— Ah! è vero...
— Che n’è avvenuto? chiesero ad una voce Federico e Valentino.
— È morto, rispose mestamente il pittore.
— Morto?
— Sì, una palla lo colpì dritto nel cuore, poco prima che morisse Migliavacca.
— Oh, povero Ernesto! Un così buon giovane!...
— Spirò nelle mie braccia, là dietro quella maledetta barricata!... Perdio! i nostri cadevano come le mosche...
— E così?
[265]
— E così, intanto che io, raccolto uno schioppo da terra, mi divertiva per mio conto, chè già dietro la barricata non c’era da far nulla nè colla sciabola, nè col revolver, sento Ernesto che grida: Roberto! mi volto, e allungo il braccio appena a tempo per sostenerlo. Egli aveva già gli occhi semichiusi...; lo abbraccio, lo trasporto dietro un albero;... gli parlo, ma inutilmente; mormorò qualche parola che non ho potuto capire, e felice notte!... spirò.
— Povero Ernesto!... Pace alla sua anima! dissero in coro gli astanti, mandando l’ultimo saluto al prode giovinetto morto combattendo per la patria.
— Dopo la battaglia, continuò Roberto, ho fatto trasportare il cadavere all’ambulanza... Non che ci fosse a sperare,... ma a buon conto l’ho fatto visitare dal nostro dottore. Quando fu constatato che era proprio morto, gli abbiamo frugato nelle tasche per vedere se ci fosse qualche carta, qualche lettera, insomma qualche cosa che potesse interessare la di lui famiglia...
— Cos’avete trovato?
— Ecco qua! (così dicendo trasse di tasca due lettere) quest’è una lettera di sua zia.
— So cos’è, disse Federico; è la lettera che accompagnava certi marenghi...
— Proprio quella; e quest’altra è.... insomma è un affar di cuore. Poi gli togliemmo dal taschino l’orologio; eccolo qui! lo voglio consegnare io stesso a quella buona donna di sua zia... È una memoria.
— E i denari?
— Eccoli in questo portamonete; dodici marenghi, e delle monete d’argento e di rame. Cos’abbiamo a farne di questo denaro?
[266]
— Godiamceli allegramente, rispose un milite filosofo.
— No, bisogna mandarli a sua zia, disse un altro.
— Facciamogli fare una lapida?
— Io invece direi di darli all’asilo infantile che il generale ha fatto aprire a Palermo.
Quest’ultimo progetto fu accettato a pieni voti.
Finita la cena, que’ giovinetti, accesi i loro sigari si sdrajarono sull’erba. Pochi minuti dopo erano sepolti in un profondo sonno.
Il 28 luglio, in forza di una convenzione stipulatasi tra i generali Clary e Medici, i regj sgombrarono Messina, riducendosi nella cittadella.
[267]
Nux erat, et placidum carpebant fessa soporem
Corpora per terras, sylvæque et sæva quierunt
Æquora: cum medio volvuntur sidera lapsu:
Cum tacet omnis ager, pecudes, pictæque volucres,
Quæque lacus late liquidus, quæque aspera dumis
Rura tenent, somno positæ sub nocte silenti
Lenibant curas, et corda oblita laborum.
(Virgilio. Eneid. Lib. IV)
Medici, conchiusa la convenzione, partì alla volta di Gesso, ove aveva stabilito il suo quartier generale.
La fama della stipulata convenzione si sparse immantinente lungo la spiaggia, e tra le campagne circonvicine, sicchè i Messinesi, che prima s’erano sbandati temendo il bombardamento, a torme rientrarono in città. Dai balconi, dalle logge, dalle vie, si videro sventolare i tre colori nazionali e tutta la popolazione si abbandonò al tripudio per la libertà con tanta ansia desiderata. Poco prima del mezzogiorno, [268] la festa si animò di bel nuovo per l’arrivo di Medici che rientrava in città alla testa della sua divisione.
Due ore dopo si spargeva per Messina la notizia che arrivava il dittatore. Infatti egli era alle porte della città. Tosto i Messinesi accorrono, lo circondano, staccano i cavalli dalla sua carrozza e lo conducono in trionfo fino al palazzo ove alloggiava Medici. Quivi giunto, fu costretto ad affacciarsi replicatamente al balcone per mostrarsi al popolo, che lo acclamava liberatore dell’isola. La sera, la città comparve quasi per incanto illuminata tutta, e pavesata di un infinito numero di bandiere italiane. Quella notte stessa, verso le 11, da una mano di gente furono abbattute le due statue in marmo state erette in onore dei due sovrani borboni Ferdinando I e Francesco I. Il generale Medici ed il sindaco, informati di ciò, spedirono della forza imponente per evitare che si distruggessero le altre due, di Carlo III e Ferdinando II, capilavori d’arte, le quali in seguito vennero levate di là e custodite nel museo dell’università.
Giammai Messina era apparsa sì bella.
Messina, l’antica Zancle, detta di poi Messana (ricorriamo di bel nuovo all’albo dell’infaticabile garibaldino milanese, che a Milazzo fu a un pelo di perderlo in una colla vita), siede sullo stretto a cui diede il nome.
Ha la forma d’un paralellogrammo, e s’innalza a mo’ d’anfiteatro ai piedi dei Nettunj, sopra uno spazio di circa una lega. Vista dal mare, è vaga assai, specialmente per il contrasto tra la bianchezza de’ suoi edifizj e la tinta oscura delle foreste che popolano il dorso di que’ monti.
[269]
Messina è piazza di guerra di prima classe, il cui circuito con bastioni, è difeso dalla cittadella (nella quale s’era, come avvertimmo, rinchiuso co’ regj il generale Clary), dai forti Gonzaga e Castelluccio, e da molte batterie elevate sopra una penisoletta, che dal porto si estende in semicircolo verso l’est. Questo porto, forse il più bello del Mediterraneo, è anche profondissimo. L’ingresso però è stretto e difficile; ma i bastimenti, una volta ancorativi, sono al sicuro. Sulla penisoletta, presso la bocca del porto, si eleva il faro.
Dopo il terribile terremoto del 1783, le case di Messina vengono costruite meno alte, e le strade sono più larghe e meglio allineate. Tra le principali vie, pressochè tutte lastricate di lava, distinguonsi quella detta della Marina, divisa dal porto da una bella spiaggia, e quella di San Ferdinando, decorate ambedue da statue. Due rapide correnti, che attraversano la città per poi gettarsi nel porto, sono disciplinate in modo da prevenire le inondazioni. I migliori edifizj sono, la cattedrale, la cui architettura è di stile gotico, il palazzo reale, quello dell’arcivescovo e quello del senato.
Al solito, trovi chiese ogni dieci passi; in Messina ve ne sono oltre cinquanta, delle quali alcune bellissime e adorne di preziosi dipinti. Anche i conventi, focolaj dell’ozio e della superstizione, vi abbondano a dismisura.
Messina vanta un cospicuo numero di setificj, da cui escono rasi pregiati, damaschi, moerri ecc. Il commercio è tenuto vivo dal continuo transitarvi delle merci dal Levante alla penisola italiana, dall’esportazione dei prodotti del suolo naturali o manufatti, [270] come stoffe seriche, vini, olio, lana, lino, frutti freschi ed essiccati, agrumi, pece, catrame, terebentina, liquirizia, tartaro, soda, sale, coralli.
La popolazione di Messina, molto più numerosa un dì, ora è di settantatremila anime.
Il garibaldino, tenero com’era di tutto che ridondasse all’onore d’Italia, annotò con compiacenza sul suo albo i nomi dei più illustri messinesi, e, fra gli antichi, quelli di Simmaco, che riportò tante corone nei giuochi olimpici, di Ibico poeta, di Lico storico e del medico Policleto; fra i moderni Moletius, professore a Padova, Antonio da Messina pittore ecc.
Beati i popoli, la cui storia nulla offre di interessante! Ma così non si può dire di Messina, tante volte percossa dalla natura e dagli uomini.
Messina venne fondata da una colonia greca, 530 anni prima della distruzione di Troja, cioè 1814 anni prima di Cristo. I Messinesi scacciati dal monte Ida dai Lacedemoni, s’imbarcarono verso la Sicilia (circa 670 anni prima dell’era cristiana) e venuti ad abitare in questa città, le mutarono il nome di Zancle (cioè falce, dalla sua forma curva) in quello di Messana. I Mamertini poscia se ne resero padroni, ma assaliti alla lor volta da Jerone e dai Cartaginesi, chiesero soccorso ai Romani, che l’accordarono; di qui la prima guerra punica.
Messina fu di poi colonia romana. Fu presa dai Saraceni (1058); indi ebbe molto a soffrire al tempo dell’imperatore Federico II. Carlo d’Angiò, re delle Due Sicilie, volendo vendicare i Francesi trucidati nel famoso Vespro, assediò Messina, che si difese eroicamente. Soccorsa da don Pietro d’Aragona, Carlo dovette ritirarsi, perdendo buona parte delle sue navi.
[271]
Nel 1674 i Messinesi, stanchi delle continue vessazioni del governo spagnolo, e specialmente per le enormità commesse dal governatore don Luigi dell’Hojo, si ribellarono; già la flotta spagnola aveva bloccato il porto e minacciava lo sterminio della città, quand’ecco giungere le navi francesi commandate da Duquesne, che battè completamente gli assedianti. Dopo, la peste, il terremoto, e i Borboni congiurarono contro l’infelice città, gareggiando a chi le facesse più male.
Quando Dio volle, Garibaldi la redense.
Cadeva la sera del 13 agosto; una di quelle sere splendide e nello stesso tempo tranquille dell’Italia meridionale; sulla placida marina scherzava una auretta confortatrice. Innumerevoli canotti e barche pescherecce staccavansi dal porto di Palermo e pigliavano il largo; alcune di queste ballonzolavano dolcemente per pochi istanti sulle onde inalzate dalle ruote di un piroscafo che, uscito dal porto di Palermo, dirigevasi a tutto vapore verso Napoli; era il Veloce, ribattezzato col nome di Tukery, e comandato dal cavaliere Lercari. A bordo v’erano varj uffiziali, fra cui il segretario di stato per la marina, cavaliere Piola, e circa trecento uomini di equipaggio.
Roberto era della comitiva. Udito che si trattava di una spedizione sul mare di nottetempo, aveva chiesto ed ottenuto di prendervi parte, senza darsi fastidio di cercare più in là: «Una volta a bordo, aveva detto fra sè, domanderò schiarimenti; intanto l’essenziale è di passare una stupenda notte sul mare.»
Roberto, sdraiatosi comodamente a prora, entro un circolo di gomene, stava contemplando ora il cielo [272] limpidissimo, scintillante di stelle, ora la luna che tratto tratto scompariva dietro qualche errante nuvoletta; poi chinava lo sguardo sul mare fosforescente, sulla candida schiuma sollevata dall’agile chiglia, e dalle ruote. A poco a poco Roberto, rapito in estasi da quello spettacolo tanto sublime nella sua calma, sollevato sull’ali dell’immaginazione, più non si ricordava d’essere a questo mondo.
Il Tukery era già in alto mare; la Sicilia era sparita agli occhi di quegli audaci naviganti; altro non vedevasi che la curva del firmamento e il mare sconfinato. Alta era la notte; tutto era silenzio:
Nox erat . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . sub nocte silenti
Lenibant curas, et corda oblita laborum.
Ma a trarlo da quell’estasi ed a richiamarlo dalle nuvole, gli si avvicinò un uffiziale, il quale nojato di quel viaggio (pare che in costui il senso estetico fosse piuttosto ottuso), si chiamò felicissimo di barattar quattro chiacchiere col pittore, ch’egli aveva già conosciuto a Palermo.
— Ohe! gli disse, hai trovato un letto comodissimo a quanto pare?
— Eh! non c’è male, gli rispose Roberto, in modo che voleva dire: se aspetti che ti ceda il mio posto, stai fresco!....
— Avremo ancora tre ore di viaggio, continuò l’altro sgangherando la bocca ad uno sbadiglio.
— A proposito! sclamò Roberto levandosi a sedere sul suo letto di corde ed accendendo un sigaro, mi sapresti dire dove diavolo si va?
[273]
— Che! non lo sai?
— No.
— Davvero?
— Davvero... Che vuoi! Era un pezzo che desiderava di passare una notte sul mare...
— Ne avrai passate delle altre sul mare?
— Appunto per questo! Mi piaccion tanto queste belle notti, limpide, stellate...
— Matto! io preferisco un buon letto all’albergo.
— Ognuno ha i suoi gusti!... Io credo che non ci sia al mondo voluttà maggiore di quella di starsene comodamente sdrajati e (così dicendo si stendeva di bel nuovo nel suo giacilio) contemplando il cielo, il mare, e fumando un sigaro...
— Gran cervelli balzani che siete voi altri pittori! rispose l’altro frenando a stento colla mano un altro sbadiglio.
— Che c’entra la pittura! Fa egli mo’ bisogno d’esser pittore per godere di questo fresco venticello, dopo una giornata di fuoco?
— Io invece sono già stufo, e non vedo l’ora di arrivare a Castellammare...
— Ah! si va a Castellammare dunque?
— Sicuro; s’è saputo che in quella rada sta ancorato un magnifico vascello da guerra napoletano, il Monarca e allora s’è detto: andiamolo a pigliare!
— Benissimo! rispose Roberto, che trovava la cosa affatto naturale.
— Così s’è fatto; noi adesso siamo in viaggio per questo...
— Ora capisco! Se il colpo riesce, dev’essere per noi una gran bella cosa il ritornar domani a Palermo con quel bastimento. Che festa! che stizza pei borbonici!..
[274]
In quella s’udì la voce di varj ufficiali che chiamavano l’equipaggio a raccolta. Allora Roberto ebbe nozioni ed ordini più precisi sul da farsi, e quando, sciolti i ranghi, fece ritorno al suo letto di cordami, egli sapeva perfettamente quanto gli rimaneva a fare, arrivati che fossero nella rada di Castellammare.
Ecco in breve come l’audace impresa era stata disposta il dì prima a Palermo, dal comandante Casalta d’Arnami.
Il I picchetto, composto di 36 uomini, doveva rimanere sul Tukery onde rispondere al fuoco del forte; lo comandava il luogotenente Colombo Giuseppe; il II picchetto, di 24 uomini, doveva agire sulla coperta a poppa del Monarca per tagliare certi cordami ecc.; era sotto gli ordini del sottotenente Vecelio Osnaldo; III picchetto, 24 uomini, a poppa 1.ª batteria; comandanti i sottotenenti Girardi Emilio e Lignarolo; IV picchetto, 24 uomini, a poppa 2.ª batteria per guardare il corridojo; comandante Gentiluomo Enrico e sottotenente Stoppani Diodato, marina Canevaro; V picchetto, 24 uomini, a poppa in coperta di riserva; comandante Sgavallino Andrea; VI picchetto, 24 uomini, a prora in coperta; comandante Gallo Guglielmi; VII picchetto, 24 uomini, a prora, 1.ª batteria; comandante sottotenente Frediani Francesco e Vassalla; VIII picchetto, 24 uomini, a prora, 2.ª batteria; comandato dai sergenti Mertello e Palagi; IX picchetto, ed il rimanente della forza (fra cui Roberto), doveva agire sul centro del Monarca, come riserva, per recare soccorso ove più abbisognasse. Gli uffiziali coi loro pelottoni dovevano recarsi ai punti indicati in silenzio, velocemente, senza spari. Pena di morte a chi senza ordine cambiasse di posto.
[275]
L’impresa era più che ardita, temeraria; per cui Roberto, avvicinandosi il momento del pericolo, si sentì chiamato a pensieri più intimi ed affettuosi.
Dolevagli che Valentino non gli fosse presso; egli era partito con Bixio alla volta di Bronte, ove la plebe, sorta contro i signorotti che la tiranneggiavano, aveva commesso ogni sorta di eccessi, di inauditi eccessi, fra i quali (per citarne uno solo che tenga per tutti) quello di masticare pubblicamente le carni sanguinolenti svelte dai cadaveri[52].
Roberto avrebbe voluto anche in quella notte rinnovargli le estreme sue disposizioni... d’affetto ben inteso, ch’egli non aveva altri tesori a lasciare: Per me, diceva fra sè sospirando, poco m’importa il morire; ma la povera Dalia... Chi penserà a lei?... Eh perdio! continuava levandosi e passeggiando per distrarsi sul ponte, ci penserà la Providenza...
E riandava colla mente la lettera che da pochi giorni aveva scritta alla giovinetta; una lunga lettera, in cui le narrava tutti i dettagli della battaglia di Milazzo, e che finiva colla nuova della morte di Ernesto.
Al tocco della mezzanotte il Tukery, entrato cheto cheto nella rada di Castellammare, s’era accostato al Monarca; calate le lance, i nostri circondarono il vascello e già cominciavano a segare le catene di ferro che lo univa alle àncore, quando una sentinella di bordo, entrata in sospetto di qualche insidia, gridò all’armi. Allora i nostri, vistisi scoperti, [276] cominciarono un vivo fuoco di moschetteria, al quale risposero tosto i borbonici dal Monarca. I nostri sforzavansi intanto di avvicinarsi il più che potevano al vascello napoletano per pigliarlo all’arrembaggio, ma i soldati che guardavano il vicino forte di Castellammare, accorsi alle loro batterie, cominciarono a cannoneggiare il Tukery, che in allora dovette staccarsi dalla tanto agognata preda e girando dietro a due vascelli, uno dei quali era inglese, l’altro francese, riguadagnare il largo. La città di Castellammare si sbigottì a quei colpi di cannone; la guardia nazionale, con alcuni gendarmi, accorse ad acquietare gli animi, e dopo qualche ora tutto ritornava in calma.
Due giorni dopo, Garibaldi, reduce dal golfo degli Aranci (tra l’isola di Caprera e il capo Figari) ove erasi recato sul Washington ad acchetare gli animi insofferenti di indugio dei volontarj colà raccolti, seppe l’infelice esito della spedizione.
Quanto a Roberto, che anche questa volta era uscito illeso dal tafferuglio, si consolava della mala riuscita dell’impresa, dicendo agli amici che se ne rammaricavano: Già fa lo stesso; un dì o l’altro quel bastimento ha da esser nostro... Intanto quello che vi posso dire di sicuro, si è, che una notte come quella non la vedrò più se dovessi campare gli anni di Matusalemme.
[277]
.... parecchie galere ed altri legni di guerra, valendosi dell’opportunità di una notte propizia, salirono il fiume ed oltrepassate felicemente le batterie nemiche, si ripararono a salvamento alle parti superiori.
(Botta, Storia della guerra dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Libro VIII.)
La mattina del 28 luglio, il breve tratto di spiaggia che separa la torre del Faro dal mare, presentava un curioso spettacolo.
I garibaldini, che da un pezzo arrostivano (è la lor frase) su quelle arene infocate, contemplando l’opposta riva calabrese e il breve stretto che anelavano oltrepassare, in quel dì, come risorti a nuova vita, correvano gaj e snelli per la spiaggia, e si radunavano in folla intorno ad una straordinaria quantità [278] di barche che erano arrivate in quella da Milazzo, salutate con grida di giubilo dai volontarj, che avrebbero voluto buttarsi dentro addiritura e oltrepassare lo stretto, tanto erano nojati dall’aspettare sì lungo, tanto erano infastiditi dall’afa che loro toglieva il respiro, senza che loro fosse concesso almeno il refrigerio del nuotare, che presso quelle rive vagavano numerosi i pescicani, crudeli quanto i Borboni e molto più oculati di questi.
Valentino, alla vista di quelle barche, sentivasi tornare in petto l’amor della professione; saltava da una in altra, con tanta foga da compromettere un pochino la sua dignità di sergente. Acquetato quel primo tumulto, Valentino, lasciate le barche e sedutosi sulla riva, stava pensando tra sè come diavolo s’era potuto trovare, così improvvisamente, tante barche; da dove venivano? chi le conduceva? a che erano destinate? A passar lo stretto; va bene; ma quando?
In quella, ecco arrivare alcuni uffiziali (i più, dello stato maggiore), e fra questi anche Roberto, la cui bella condotta alla barricata durante la battaglia di Milazzo, gli aveva fruttato il grado di capitano.
Valentino, da quel giovine discreto che era, si avvicinò pian piano a quel gruppo di uffiziali che s’era arrestato dinanzi alle barche; poi appressatosi a Roberto, lo tirò per l’abito:
— Oh! sei tu, Valentino! esclamò il pittore volgendosi e stringendo affettuosamente la mano all’amico. Non ci siam veduti da un pezzo!
— Che vuoi! gli rispose Valentino; m’hanno inchiodato qui, in questo maledetto sito... Uf! non vedo l’ora d’andarmene!... Che vita che si fa quì! [279] Figurati! si sta quì tutto il giorno a cuocere a bagnomaria sulla sabbia, cercando un po’ d’ombra dietro i muri come le lucertole, tanto da metter al coperto la testa dal sole... La notte, tira una brezza che ti fa battere i denti... Nell’aqua non si può andare in causa di quei diavoli di pescicani... Ah Roberto! ne ho veduto uno jeri... Crederesti! benchè fosse morto e disteso sulla sabbia, mi faceva paura... Altro che i lucci del nostro lago! Misericordia! che bocca, che denti...; sei fila di denti!... Se ti acchiappa una gamba, te la spicca via netta... Al solo pensarvi mi vien la pelle d’oca!... Poi c’è un altro.... So io cos’è! lo dicono un pesce, ma, io che di pesci credo di intendermene, ti assicuro che non lo è affatto.... Figurati! è come un lenzuolo color rosa, sta nell’aqua, ha cento occhi, dicono, e cento bocche, ti si appiccica alla pelle come vischio, e ti tira giù giù fino in fondo... e buona notte!... Gli danno un nome a questo mostro... un nome che so io!... Aspetta... politico,... no!... polizia,... nemmeno!
— Polipo! disse Roberto ridendo.
— Giusto così! polipo... Ah tu ridi?... Va là che se ti sentissi tirar in fondo al mare da questo mostro, non rideresti, no! Ma lasciamo stare i pesci; di’ un po’ Roberto, da che sito vengono tutte queste barche?
— Dal porto di Milazzo.
— Passeremo di là dunque?
— Lo spero; le barche son qui per questo.
— Mi pajono poche.
— Poche? ma se sono centosettanta!
— Capisco! ma per trasportarci tutti, ci vuol altro!
[280]
— E tu credi dunque che si andrà di là tutti in una volta?
— E perchè no?
— Non ci mancherebbe altro! Un pajo di vapori napoletani che ci passasser sopra, siamo tutti in bocca ai pescicani.
— No, per l’amor di Dio! non dirlo nemmeno per ischerzo. E quei marinai là, chi sono?
— Sono i marinaj del Tukery.
— E cosa fanno qui?
— Hanno con loro i cannoni del Tukery, che ora sta disarmato nel porto di Milazzo; domani si pianterà là, sotto il Faro, presso la riva del mare, due batterie che ci proteggeranno, nel caso che venisse il ticchio a qualche vapore napoletano di dar la caccia alle nostre barche.
— Ho paura che con tutte quelle barche abbia a nascere confusione.
— Perchè? non sai che tutto è già disposto, ordinato dal generale?
— Ma che ha a che fare....
— Ti spiego subito come va la faccenda. Chi comanda tutte queste barche è Salvatore Castiglia...
— Ma se n’intende poi?
— Diavolo! vuoi tu che Garibaldi abbia ad affidare il comando della sua flottiglia...
— Flottiglia?....
— Sì, flottiglia; quando si tratta di tante piccole barche si dice così.
— Ho capito; va innanzi.
— Castiglia dunque, oltre all’essere buon patriota (era in esiglio fin dal quarantanove) è un eccellente marinajo. Egli, pratico com’è, ha divisa la flottiglia in [281] quattro divisioni, e io, che ho un gusto matto per le cose di mare, mi sono informato di tutto, e so già chi le comanda queste divisioni, e di che si compone la loro forza. La prima divisione è di cinquanta barche, le altre tre di quaranta; ogni divisione poi è suddivisa in cinque squadriglie, e ogni squadriglia è di cinque barche, in ognuna delle quali c’è un timoniere e sei marinaj. Vuoi sapere anche chi comanda le quattro divisioni?
— Dì su.
— Ecco; la prima è comandata dal capitano Rossi, la seconda da Sandri, la terza da Marini e l’ultima da un volontario francese, uomo di mare, certo La Flotte. Capo di stato maggiore poi è un tal Tilling.
— Ho capito, ho capito.... Guarda, se lo avessi saputo!... Di’, Roberto, non potresti tu farmi entrare nell’equipaggio della flottiglia? Per dio! sono nato in barca!
— Si tratta solo di un pajo d’ore, poi dovresti buttare il remo per pigliare di nuovo lo schioppo, dunque mi pare inutile...
— Hai ragione, Roberto; non ci aveva pensato... Ma tornando al discorso di prima, e se, come dicevi benissimo, i vapori napoletani ci vengono addosso a mezza strada?
— Si è pensato anche a questo; si sono armate cinque grosse barche, ciascuna delle quali è munita di un cannone da quattro; queste barche le comanda un vecchio lupo di mare; guardalo là!
— Chi? quel vecchio?
— Proprio lui, Bartolomeo Loreto.
Poco dopo i due amici si separarono; Roberto ritornò [282] a Messina, e Valentino alla torre del Faro. Là per ripararsi dal sole, si accoccolò di bel nuovo dietro un pezzo di muro in rovina, aspettando il tanto sospirato segnale della partenza, chè egli credeva di passar di là quel giorno istesso.
Ma invece i garibaldini, sempre cogli occhi fissi sul breve tratto di mare che li divideva dalla terraferma, passarono al Faro tutto il luglio, ed i primi d’agosto.
Quando Dio volle, il generale Garibaldi, chiamato a sè il Castiglia, gli impose stesse pronto la notte dell’8 agosto con una flottiglia di venticinque barche. In queste si imbarcarono trecento militi della brigata Sacchi, e comandati da Missori; seppero deludere la vigilanza degli incrociatori borbonici, sicchè prima che spuntasse l’alba, erano tutti sbarcati sulla spiaggia calabrese, in un luogo detto la Fiumaretta.
Missori si inerpicò tosto col suo drappello sul sentiero che conduce ad Aspromonte, luogo naturalmente forte e dove i volontarj calabresi dovevano congiungersi coi nostri.
Tre giorni dopo, Garibaldi ordinò un imbarco di altri seicento militi, parimenti della brigata Sacchi, ma non ebbe buon esito. I borbonici stavano all’erta in causa dell’antecedente sbarco, e tempestarono di palle la flottiglia, numerosa di cinquanta barche, sicchè Castiglia, fulminato anche dai cannoni del forte d’Alta Fiumara, dovette retrocedere.
Quando Garibaldi ebbe di questo modo richiamata tutta l’attenzione de’ regj su quel punto di litorale, partì per Taormina, ove bivaccava la divisione Bixio, e di là ordinò altre spedizioni più verso il sud della Calabria.
[283]
Noi, raggranellando le relazioni dei diversi imbarchi, relazioni che i nostri amici Roberto, Federico e Valentino si fecero da poi l’un l’altro, quando tutta l’armata garibaldina ebbe passato lo stretto, daremo un breve cenno di tutte.
La seconda spedizione salpava da Taormina il 18 agosto, circa alle dieci di sera. Il mare era tranquillo, nè si vedevano incrociatori. I garibaldini imbarcaronsi su due piroscafi il Franklin, e il Torino. Sul primo stava Garibaldi che aveva preso il comando della spedizione. Dopo d’aver navigato felicemente tutta la notte, all’alba giunsero al capo Pellaro, e subito dopo entravano nel porto di Melito. Su questa spiaggia, il Torino, spinto a tutto vapore, arenò con tanto impeto, che rimase mezzo incassato nella sabbia.
Garibaldi, quando tutti quelli che erano a bordo del Franklin furono sbarcati, scese anche lui a terra ed ordinò che il Franklin si portasse tosto ad ajutare il Torino, e a cavarlo d’impaccio. Per ben sei ore la ciurma del Franklin lavorò per disimpacciare il Torino, ma inutilmente: si dovette quindi abbandonarlo. Il Franklin tornò a Messina il giorno dopo; cammin facendo venne inseguito e raggiunto dal Fulminante e dall’Ettore Fieramosca, vapori regj, ma giunti all’altezza dello stretto, girarono di prora e sparirono.
Cosenz avuta notizia dello sbarco di Garibaldi a Melito, si accinse tosto a passare anche lui lo stretto colla sua divisione, in modo di costringere le truppe borboniche ad una diversione, sbarcando alla sinistra di Reggio; così i regj sarebbero rimasti chiusi tra lui e Garibaldi.
[284]
Nella notte del 20 al 21 agosto, Castiglia e Cosenz concertarono tutto, ed alle 2 del mattino, le cose vennero disposte in modo che l’operazione riuscisse non avvertita dai regj. Quindi, in ogni barca vennero imbarcati quattordici uomini delle truppe destinate a quella spedizione. Erano vari reggimenti della divisione Cosenz, i carabinieri genovesi e la compagnia degli esteri. Montati che furono nelle barche, alle 3 fu dato l’ordine di salpare. Per punto di riunione fu fissato la parte verso ovest di torre del Faro. Quivi vennero disposte le quattro divisioni, la prima in cinque linee, le altre in quattro ciascuna di due squadriglie; in testa della colonna stavano le cinque barche cannoniere.
Alle 4 e mezzo, le divisioni si trovavano pronte a salpare. Da un canotto fu fatto esplorare il canale, e riconosciutolo libero di legni nemici, fu dato il segno della partenza, ed ordinato alle tre ultime divisioni, essendo il mare in perfetta calma, di seguire co’ remi il movimento della prima, l’una dopo l’altra. La flottiglia dirigendosi verso Favazzina, avrebbe dovuto navigare verso il nord, ma il forte Scilla, posto all’imboccatura del Faro, l’avrebbe danneggiata, e quindi fu diretta per nord-ovest affinchè facendo un semicerchio, si trovasse sempre fuori di tiro. Il tutto riuscì felicemente; il forte Scilla tirò molte cannonate, ma la flottiglia, fuori di pericolo, potè continuare il suo cammino in buon ordine. Varcato il punto in cui si potevano temere le cannonate del forte, la flottiglia piegò a destra, e si diresse verso il nord. Giunta a mille metri circa dalla spiaggia di Favazzina, fatto allentare un poco il vogare, venne dato ordine alle cinque barche [285] cannoniere di avanzarsi, e di inclinare, tre di esse, a sinistra, e le altre due a destra lasciando in mezzo tanto spazio bastevole perchè la flottiglia potesse eseguire lo sbarco con tutta facilità, e nel caso, con l’incrociare i fuochi, spazzar via le truppe nemiche dal luogo fissato per lo sbarco.
All’allarme dato precedentemente dal forte Scilla, i regj che trovavansi in Bagnara, si erano avanzati verso Favazzina per la strada militare; allora le tre cannoniere di sinistra aprirono il fuoco sopra di essi, sicchè i regj furono costretti a retrocedere. Sicuro allora che la spiaggia era libera da nemici, il comandante Castiglia ordinò alla flottiglia di avanzarsi e poco dopo la prima divisione cominciò lo sbarco delle truppe.
Il primo a metter piede a terra fu Andrea Rossi comandante la prima divisione. Egli, ajutato da alcuni marinari, corse immediatamente a tagliare il filo elettrico. Dopo la compagnia degli stranieri, sbarcarono i carabinieri genovesi, sotto il comando del bravo Mosto; essi salendo sulle colline soprastanti alla strada militare, aprirono con le loro carabine di grande portata, il fuoco sulle truppe regie, e così le costrinsero sempre più a indietreggiare. Già le prime divisioni avevano sbarcate le loro truppe, e la quarta stava per mettere a terra le sue, quando s’incominciò a sentire tuonare i cannoni delle batterie di torre di Faro. Ciò diede indizio che i legni a vapore nemici, chiamati dal cannoneggiamento del forte Scilla, forzavano il passaggio del Faro per venire sopra la flottiglia. Ed in fatti, le quattro divisioni avevano già preso il largo, quando vennero vedute quattro fregate a vapore nemiche. Nulladimeno, [286] le cinque barche cannoniere continuavano senza interruzione il loro fuoco, per dare agio al generale Cosenz e alle sue truppe di allontanarsi da quella spiaggia. Il comandante Castiglia, dopo avere assistito allo sbarco dei volontarj, s’imbarcò insieme ai due uffiziali di marina Capezzi e Bottoni, ma la mancanza assoluta di vento, tale da non potersi adoperare le vele, faceva sì che la flottiglia venisse sopraggiunta nella sua ritirata dalle fregate nemiche, le quali, dopo avere tirato qualche colpo di cannone a mitraglia e di fucile sulle barche, ne prendevano circa trenta facendone prigionieri gli equipaggi insieme ad undici uffiziali, tra i quali Tilling, che in quel dì comandava la terza divisione.
Dopo qualche ora, i marinarj fatti prigionieri venivano dai nemici rinviati su tre sole delle nostre barche, colando a fondo le altre. Alcuni dei marinarj rilasciati erano stati feriti, un timoniere ucciso. Gli undici uffiziali e dieci soli marinarj ritenuti quali prigionieri di guerra, venivano trasportati dai regj nella cittadella di Messina.
Intanto le cinque barche cannoniere, cessato il fuoco, non potevano più pigliare il largo senza rischio d’essere anch’esse predate, quindi le due di destra venivano tirate a secco, e le tre di sinistra, costeggiando la sponda calabrese, riparavano verso Palmi. I cannoni delle prime e gli attrezzi furono sepolti nella spiaggia, e più tardi ricuperati; ma i loro scafi si perdettero, perchè una delle fregate nemiche, accostatasi al luogo ove era seguito lo sbarco, mandava le sue lancie armate a terra e faceva bruciare le barche.
Il comandante Castiglia riusciva a riparare a Raisicolmo, [287] ove riuniva molte barche della flottiglia già messe in pieno disordine per l’accaduto.
Lo sbarco della divisione Türr avvenne il 24 agosto. Riproduciamo un brano dell’opera di Massimo Du-Camp[53] nel quale appunto narra l’esito di quella spedizione.
«Un ordine di Garibaldi, ci ingiungeva di tenerci pronti a passare in Calabria. Io l’accolsi con gioja; perchè il soggiorno di Messina incominciava a nojarmi. Feci con tutta la possibile lestezza i miei apparecchi; cavalli e ordinanze mandai al Faro, onde si provedesse al sollecito loro imbarco; e fatta qualche visita di convenienza, stetti pronto ai cenni del generale.
La divisione del generale Türr aveva già varcato lo stretto, ad eccezione della brigata Eber, che col suo stato maggiore attendeva al Faro i battelli a vapore, onde guadagnare le rive calabresi. Due uffiziali dovevano partire soli col generale Türr, la cui affranta e debole salute, sì gravemente compromessa dalle prime fatiche della campagna, era per gli amici suoi argomento di serie inquietudini. Da tre giorni egli non aveva potuto abbandonare il letto; in preda ad una febbre ardentissima, affievolito e spossato da lievi sbocchi di sangue, che la scienza indarno tentava diminuire, Türr, sollevando il povero suo corpo infermo, dava ordini, vegliava su tutti i servizj, dettava lettere, e ricadeva vinto dalla fatica, per riaversi tosto; e quando noi con una insistenza a cui dà diritto l’amicizia, gli dicevamo: «Ma, generale! non partite sì tosto».
— «Noi ci imbarcheremo oggi a quattr’ore» rispondeva. Non mai più gagliarda energia di questa, [288] animò sì debole corpo, ed io m’ebbi campo a convincermi, vivendo con lui, che nessun dolore, nessun patimento può in quell’anima di bronzo.
Fin dal 1848, il generale Türr consacrò la sua vita ai combattimenti per la libertà delle nazioni. All’epoca della guerra di Crimea, era stato incaricato di non so qual missione sulle rive del Danubio per conto dell’Inghilterra, al servizio della quale era entrato in qualità di colonnello. È noto come l’Austria lo facesse arrestare, e porre in carcere, reclamandolo siccome antico uffiziale disertore dell’esercito imperiale. Ma l’Inghilterra su certe cose non ama scherzare, e fece sì che Türr fosse rilasciato. Dotato di una penetrazione di spirito a tutta prova, e sempre anelante alla liberazione del suo paese, egli non potevasi ingannare sugli indizj forieri della guerra del 1859.
Türr accorse in Italia, e fece con Garibaldi la campagna di Como e Varese. In un combattimento presso Brescia, cadde colpito da una palla austriaca. Una ferita al braccio sinistro lo tenne settimane e mesi immobile in un letto. Oggi l’inerte suo braccio pende senza forza lungo il corpo, e della mano affievolita a stento può servirsi. A Marsala, Türr sbarcò il primo; era a Calatafimi; era a Palermo ove fu ferito; sempre presso Garibaldi; con lui sempre vegliando quando gli altri dormivano, studiando le posizioni, preparando le prossime pugne; egli era a tutti d’esempio.
Dopo la capitolazione di Palermo, avviandosi nell’interno del paese, moveva verso Catania; ma la salute sua non poteva lottare contro l’ardente clima della Sicilia, letale nel luglio, e ad onta dei suoi [289] sforzi e della abituale sua energia, cadde gravemente ammalato. Garibaldi turbossene, e comprese che il giovane soldato, che offriva con tanta annegazione la sua vita, avrebbe avuto più tardi imperiosi doveri a compiere verso l’Ungheria; per cui lo costrinse a prendersi un mese di permesso, onde ristabilirsi e sotto clima più mite. Il generale Türr recossi alle aque d’Aix, in Savoja, da dove ai primi d’agosto riprendeva le mosse per la Sicilia, riassumendovi il comando della sua divisione.
Türr ordinò che si passasse lo stretto; ci mettemmo quindi in una lancia. Türr si stese su d’un materasso, nel fondo di essa, col tremito della febbre, e la debole sua mano tentava proteggere gli occhi dalla luce vivissima del sole siculo. Prendemmo posto sulle panchette, difese da una povera tenda, e dieci barcajoli diedero mano ai remi, mentre dalla riva altri ci mandavano il loro addio.
Arrivammo al Faro, ove Türr doveva sostare alcuni minuti onde dare, e rinnovare ordini. Il sole erasi già nascosto e il crepuscolo disegnavasi nel cielo allorchè vi giungemmo. La notte era vicina, e si accendevano i fuochi sulla riva fra tumulti, e clamori d’ogni sorta; le barche spinte dalla corrente sì urtavano; tre steamers sprigionavano il vapore, mandando sibili acuti; uffiziali e soldati movevano in cerca di qualche cantina, ove potessero bagnare le labbra con un bicchier d’aqua di sambuco. I cavalli, che eran tratti sulla sabbia onde imbarcarli, atterriti, nitrivano, si impennavano, mordevansi fra loro; i tamburi battevano l’appello, le trombe davano il segno della raccolta, i capitani gridavano a tutta gola cercando di raccogliere i loro militi; luogotenenti, [290] forieri, sergenti, caporali, facevano lo stesso; quelli che non parlavano, gridavano; quelli che non gridavano, cantavano; tutti bestemmiavano. Fatto il da farsi, ci allontanammo tosto da quella Babele, e movemmo verso la Calabria. I nostri rematori erano stanchi; il vento soffiava contro di noi, ed essi agitavano senza energia i pesanti loro remi. Talvolta il generale aveva per loro parole di incoraggiamento: «Animo, figliuoli, voghiamo!» E i marinaj a fargli eco e a farsi cuore fra loro col dare qualche vigoroso colpo di remo; ma tosto dopo ricadevano nella loro neghittosità.
Noi eravamo immobili e silenziosi, avvolti nei nostri mantelli, ed impazienti della lentezza dei marinaj, accorgendoci che l’uomo che accompagnavamo soffriva, e sospirava un letto coll’impazienza nervosa di chi è tormentato dal male. — D’un tratto l’uno di noi esclama: — Veh! veh! una fregata napoletana che ci dà la caccia.» Lo scherzo ebbe un successo prodigioso; i marinaj raddoppiarono i loro sforzi, e con degli han! profondi, spinsero i loro remi ben addentro i fiotti; curvi e anelanti, non osavan volgere lo sguardo indietro, ed imprimevano alla barca una velocità straordinaria. Un marinajo si fe’ coraggio, e chiese:
— Vedete voi ancora la fregata?
— Ella guadagna ancora su noi; animo! remate presto....
Ci avvicinammo finalmente alla riva, e l’afferrammo con tale impeto, che la barca, lanciandosi sulla sabbia, ebbe la parte anteriore quasi completamente fuori dell’aqua.
— Ma dov’è dunque la fregata?
[291]
— Ella avrà al certo avuto paura di voi, miei bravi, ed avrà preso il largo....
I marinaj compresero lo scherzo, che loro non garbò assai...; ma noi intanto eravamo giunti a riva.
Trenta case, una piccola chiesa ed alcuni giardini, formano il borgo di Canitello, situato tra la punta del Pizzo e Scilla. Alcuni uffiziali ci attendevano, e dietro la loro guida ci recammo al presbiterio, ove era stato preparato l’alloggio pel generale Türr, e per il suo stato maggiore.
Lo sgomento era in quella casa; sarebbesi detto che vi fosse arrivato il diavolo. Il curato, e un suo fratello, che era sindaco, tremavano, balbettavano, si inchinavano, e ci chiamavano tutti, da Türr all’ultimo palafreniere: «Sua eccellenza monsignor generale in capo». I poveretti facevan pietà; lividi per la paura, essi ci precedevano, e cogli abiti a lembi, volevano mostrarci come, ridotti ad estrema miseria, noi avremmo fatto un cattivo affare spogliandoli. Eravamo considerati quali banditi della peggior specie. Il curato, vecchio orribile, dal volto angoloso e a rughe, affettava un sorriso forzato, che ne scomponeva i lineamenti; egli aveva una voce stridula, che il terrore rendeva ancor più disgustosa; uno dei nostri uffiziali, udendone l’aspro suono, esclamò: «La è una voce più che di testa, di cappello!» Tutti ci mettemmo a ridere, il curato compreso; ma questo sforzo sorpassava il suo coraggio; cadde sulla sedia, e s’asciugò la fronte grondante di sudore.
Suo fratello il sindaco, uomo ben tarchiato e robusto, alzava le spalle, giungeva le mani, e a tutto quanto gli domandavamo, ripeteva: — «Che la [292] signoria vostra ci perdoni! ma noi siamo povera gente!...»
Il cuore ci veniva meno a quello spettacolo! Sotto quale terribile oppressione questa gente deve aver vissuto per essere ridotta a tale stato! Le persone di servizio, ritte, immobili, impastate quasi sul muro, facevano tanto d’occhi; quando si bussava alla porta, non osavano discendere per aprire, e noi eravamo obbligati ad accompagnarli, affine di rassicurarli. — Frattanto nelle altre case del villaggio, si cantava a piena gola, o si gridava: Viva Garibaldi!
I nostri cavalli erano giunti, e dai battelli a vapore partiti dal Faro, sbarcavano incessantemente nuove truppe; tutti gli uffiziali dello stato maggiore arrivarono. Ad ogni nuova figura che entrava nella casa, i nostri ospiti eran presi da spavento; e alla voce del curato montava di tre di quattro tuoni, e ancora più. Verso le undici della sera ci venne offerto da cena. Accettammo; e udimmo tosto il rantolo d’un gallo, che veniva sgozzato secondo le nostre intenzioni. Un’ora dopo eravamo serviti. Prendemmo posto in giro alla tavola, allestita con piatti di terra da pipa, per la maggior parte rotti, e con posate di ferro. Il curato ed il sindaco, simultaneamente ci spiegarono come avesser mandata la loro argenteria a Napoli, affinchè la si foggiasse secondo la moda. Per un caso che essi deploravano, non avevano a disposizione delle nostre signorie che indegni coperti, di cui però le nostre eccellenze avrebbero avuto la bontà di accontentarsi. Noi non rispondemmo, perchè poco ci importava che le posate fossero di questo o di quel metallo; ma uno dei nostri, traendosi di dosso, una cintura che [293] conteneva seimila franchi in oro, la consegnò al curato, dicendogli: — «Fatemi il favore di conservarmela sino a domattina, perchè ora la mi dà fastidio.» Il curato si fece rosso scarlatto; s’assise costernato, e comprendendo vagamente che gli veniva data una lezione, non sapeva più come contenersi.
Allora il colonnello Spangaro, adattando il discorso a cotesti cervellacci, spiegò loro lo scopo della nostra missione».
[294]
«... permettete che io, e questi egregi deputati della città, vi diamo un bacio sulla fronte;... questo è il bacio di cinquecentomila abitanti».
(Discorso di Mariano d’Ayala al gran Capitano italiano).
— Sarei proprio curioso di sapere dove diavolo sono io adesso!... Ah! ecco lo stretto...; là di fronte ci dovrebbe essere Taormina...; quel promontorio lì a sinistra è il capo Spartivento senz’altro...; a dritta, laggiù in fondo ci dev’essere Messina... ma non la posso vedere...» Così diceva il capitano Roberto, il quale pigliava lena seduto all’ombra di un bosco, che sorgeva a mezzo di un monte aspro e scosceso (Aspromonte), proprio dove la via si biforca, scendendo a sinistra nella vallea, e salendo più in su, a destra, tortuosamente per la foresta.
[295]
Tranne il frusciar delle foglie agitate dal vento, tutto era silenzio; nessuna voce umana giungeva fino lassù. Roberto, spingendo lo sguardo tra gli alberi, scorgeva al basso la marina scintillante, di fronte l’Etna, le coste della Sicilia, il firmamento sereno, sorridente.
— Oh che bel sito! continuava parlando a sè stesso. Se fossi qui per divertimento, quante belle cose copierei sul mio albo... ben inteso se lo avessi ancora l’albo; ma ora è in fondo al mare, ove desterà la meraviglia de’ pesci... Aveva ben altro pel capo che l’albo l’altra notte nel passar lo stretto! Intanto eccomi in Calabria, solo soletto, su per un monte a cercare Missori, che oggi, 20 agosto, deve trovarsi qui, proprio in questo sito. Se non lo trovate, tornate indietro, mi ha detto il generale. Va benissimo! io l’ho cercato, non l’ho trovato, dunque torno indietro; sono in perfetta regola. Ma dove diavolo saranno questi Calabresi! Vorrei chiederne conto; ma qui non c’è anima viva... Il meglio che mi rimane a fare è di scendere e raggiungere i miei compagni. Prima però voglio tirare una schioppettata in aria... Chi sa che non mi si risponda...» Così dicendo pigliò la sua carabina (nella sua qualità di esploratore se l’aveva presa con sè) e fece fuoco.
Nessuno rispose, tranne l’eco che, lontano lontano, mandò un brontolio che si spense tosto.
Allora Roberto, ricaricata la carabina, se la pose ad armacollo e cominciò la discesa, ora lentamente, ora a balzelloni, secondo lo richiedeva il sentiero, che qui era rapido e sdrucciolevole, là sassoso e smarrentesi pel bosco in oziosi serpeggiamenti.
Camminava già da mezz’ora, arrestandosi tratto [296] tratto ad origliare, quando ad uno svolto, vide, lontano un centinajo di passi, un Calabrese armato di tutto punto, e che, appoggiato col dorso ad un albero, pareva vi facesse sentinella.
— Che bell’uomo! disse fra sè Roberto; che bizzarro costume!... ma che faccia scura!..
Il Calabrese era infatti di bellissime forme, e aveva l’occhio, la barba, i capelli nerissimi. Portava un cappello acuminato, fregiato di fettucce di velluto; aveva le brache corte fino al ginocchio, e le gambe nude dal ginocchio in giù; invece di scarpe, calzava una semplice suola di cuoio stretta al collo del piede da alcune funicelle incrocicchiate. Appoggiava una mano sulla canna di un lungo moschetto, e l’altra teneva alla fascia che gli cingeva i fianchi, e dalla quale pendevano un lungo coltello ed una pistola a pietra.
All’apparir del garibaldino, il Calabrese non si mosse; solo lo guardò fisso. Roberto, che lo fissava del pari, quando gli fu presso, fermossi esclamando.
— Viva l’Italia!
Il Calabrese alzò un dito (il che vuol dire: viva l’Italia una), indi postasi la mano alla bocca, la ritirò subito dopo salutando.
— Siete solo? gli chiese Roberto stringendogli la mano.
Il Calabrese rispose di no colla testa.
— Dove sono i vostri compagni?
L’altro accennò colla testa i monti.
— Chi è il vostro capo?
— Il barone Stocco, rispose finalmente il Calabrese.
— Avete veduto i garibaldini?
— Sono con noi da jer l’altro.
— Missori?
[297]
Il Calabrese accennò affermativamente.
— Voi siete di sentinella, è vero?
L’istessa risposta.
— Aspettate Garibaldi?
Il Calabrese si permise un leggier sorriso, che durò un minuto secondo.
— Bene, sappiate che io sono stato mandato avanti appunto da Garibaldi in cerca di Missori e di voi altri bravi Calabresi... Adesso, non avendo trovato nessuno, torno indietro....
— Verranno... presto, rispose il Calabrese accennando di bel nuovo ai monti.
— Tanto meglio! Voi però dovreste andare a prevenire il vostro comandante che Garibaldi sale il monte co’ suoi, e che si porta al luogo del convegno fissato già con Missori fino da quando era a Messina. Avete capito?
Il Calabrese si affrettò a rispondere che sì, e rinnovata la stretta di mano, si pose il fucile in ispalla e sparve pel bosco.
— Che economia di fiato devono fare costoro in fin d’un anno! pensava fra sè Roberto ripigliando il suo cammino. Però preferisco uno che parla poco ad un chiacchierone... Intanto sono contento d’aver trovato quel Calabrese... Quel tornare al generale senza sapergli dir proprio nulla, mi sapeva male... Almeno adesso posso dargli la notizia che Missori c’è, e questo è il più; poi che i Calabresi insorti ci sono anch’essi.... Se gli altri somigliano a questo qui, devon essere la gran bella gente!
Roberto un’ora dopo raggiungeva il generale che si mostrò contento delle notizie recategli dal capitano. Garibaldi e i suoi continuarono a salire, dirigendosi [298] però verso Reggio. Giunto al luogo ove, come dicemmo, doveva incontrarsi con Missori, fu sorpreso di non trovarlo; dopo d’averlo aspettato una buona ora, prese la risoluzione di seguitare il suo cammino. Quand’ecco arrivare alcune guide annunziando l’arrivo di Missori a Garibaldi, che si fermò ad attenderlo. Arrivato finalmente, concertò seco lui il piano di difesa e di attacco.
Fu convenuto che il generale Bixio, il più audace generale dell’armata siciliana, attaccherebbe Reggio di fronte, intanto che Garibaldi, girando il forte, prenderebbe i regj tra due fuochi.
Le colonne si misero in marcia, e protette dal silenzio della notte, sorpresero le truppe regie, scaglionate alla rinfusa sulla gran strada di Reggio. Erano tre e un quarto del mattino, quando l’avanguardia di Bixio s’imbattè nelle vedette nemiche. Il fuoco cominciò subito, e l’azione divenne tosto generale. I comandanti delle forze napoletane, credendo di avere solamente a fare coi quattro battaglioni di Bixio, concentrarono le loro truppe all’estremità aperta di Reggio, e cominciarono un fuoco di battaglione così ben nudrito, che l’ala destra del bravo generale genovese per un momento vacillò; ma Bixio volle confermare quanto si disse di lui dopo le campagne di Lombardia, cioè che gli ostacoli non fanno che aumentare la sua audacia, e renderlo indomito. Egli, vedendo la sua destra minacciata, portò rapidamente due battaglioni sul punto del pericolo, e in poco tempo ristabilì l’ordine e riprese l’offensiva.
Dipoi Bixio, impaziente di indugio, alla testa della colonna, ordinò la carica alla bajonetta. La mischia fu terribile; la rotta dei nemici non si fece aspettare, [299] e i Napoletani si ripiegarono in massa sulla cittadella. Intanto Garibaldi e Missori erano arrivati a tiro di fucile dal forte, e i loro cacciatori cominciarono ad imberciare colle carabine inglesi le cannoniere della cittadella. Il loro tiro era così preciso che molti regj furono uccisi sui cannoni, molti altri dovettero ritirarsi. Garibaldi e Bixio intanto si avanzavano, quando quest’ultimo, avendo sloggiato una compagnia di borbonici dalle prigioni della città, trovò ventiquattro cavalli, dodici muli e due pezzi d’artiglieria. Fu questa una preziosa conquista, perchè Garibaldi non aveva cannoni con sè.
Con questi due cannoni ebbe principio l’attacco del forte. Le colonne di Bixio si avanzavano sempre, e quelle di Garibaldi minacciavano già la scalata. Erano circa le nove antimeridiane, quando il forte cessò il fuoco; le truppe reali, scoraggiate, poco dopo si arresero al vincitore. Quel combattimento costò poche perdite all’esercito dei volontarj e alle truppe borboniche.
Frattanto il generale Cosenz, dopo il suo sbarco in Calabria, si avanzava pure verso Reggio, prendeva il forte di Scilla, occupava altri punti importanti, ed attuava il congiungimento delle sue truppe con quelle di Bixio e di Garibaldi, mentre i borbonici, o ritiravansi, o cadevano prigionieri, o passavano al nemico. In questa guisa l’estrema Calabria cadeva in mano dei nostri, e Garibaldi si apriva la strada a nuove vittorie ed a nuovi trionfi.
Circa dodicimila erano i soldati regj, concentrati in quell’ultima parte della penisola, e che dovevano impedire lo sbarco dei volontarj, o sterminarli appena sbarcati. Non v’ha dubbio che, avuto riguardo [300] ai mezzi che stavano nelle mani dei borbonici, doveva riuscire facile il distruggere i garibaldini, che sbarcavano pochi per volta e che mancavano di artiglieria e di cavalli. Ma la truppa regia era demoralizzata, ed i comandanti non avevano nè forza d’animo, nè coraggio; oltreciò, dopo i fatti di Sicilia, il nome di Garibaldi e del suo esercito, erano divenuti più formidabili, e la pubblica opinione accennava già alla inevitabile rovina del trono di Francesco II. Tutte questo ragioni contribuivano a scemare il coraggio dei soldati regj, i quali si battevano mal volentieri, ed anzichè procacciarsi gloria, cercavano di salvare la vita. Si aggiunga che per tutte le Calabrie temevasi l’imminente irrompere della rivoluzione, già in alcuni punti scoppiata, e per la quale le truppe borboniche venivano a trovarsi serrate tra i volontarj di Garibaldi, e gli insorti. La situazione dei borbonici era per questo infelicissima, perciocchè, oltre agli esterni nemici, avevano a temere gli interni[54].
Gli animi dei Calabresi erano già concitati, la propaganda rivoluzionaria aveva prodotto i suoi effetti, talchè, non appena si seppe lo sbarco di Garibaldi e la presa di Reggio, tutto fu finito, e la rivoluzione levò la testa minacciosa e terribile. Le città principali della Calabria spezzarono gli stemmi borbonici, radunarono comitati, inaugurarono governi prodittatoriali, armarono nuovi volontarj, inviandoli ad ingrossare le file del generale, e a rompere le comunicazioni dello sperperato esercito di Bombicella. Però tutto questo accadeva col maggiore ordine possibile, e i comitati e i governi provisorj prendevano a governare [301] la cosa pubblica ed a reggere il proprio paese in nome di Vittorio Emanuele II, dell’Italia una, e del glorioso dittatore delle Due Sicilie.
Intanto la caduta di Reggio e la disfatta toccata alle truppe borboniche, posero Garibaldi nella felice condizione di continuare le sue marcie e di estendere la rivoluzione delle Calabrie. Con soli 800 uomini egli, privo d’artiglieria, ne aveva fatto capitolare quasi 2,000, e due ben munite fortezze. I generali napoletani Gallotti e Briganti, che comandavano nell’estrema Calabria, si trovarono nelle mani del vincitore, il quale, non lasciando pace al nemico, e partito alla volta di Accerello, guadagnò i monti che sovrastano ai forti di Pizzo, di Alta Fiumara e di Scilla; fece la sua congiunzione con Cosenz, arrivato il giorno prima a Salino, dove il bravo colonnello De Flotte, chiaro per la difesa da lui fatta nel giugno 1848, delle barricate nei sobborghi insorti contro l’assemblea costituente di Francia, perdeva la vita pel tradimento di un soldato napoletano. Garibaldi, appena operata la sua congiunzione col corpo di Cosenz, determinò lasciare gli accampamenti di Mittinetti e scendere verso Alta Fiumara, per circondare i forti e prendere in pari tempo una posizione contro la brigata del generale Melendez, che da Scilla moveva ad incontrarlo. Melendez aprì il fuoco contro la colonna dei nostri che scendeva dal monte, ma non gli fu dato arrestarla. Il movimento strategico di Garibaldi era pienamente riuscito[55]; Melendez aveva [302] perdute le sue comunicazioni coi forti; sicchè dovette capitolare; in tal modo Alta Fiumara, Torre Cavallo e Scilla caddero in potere di Garibaldi. Le guarnigioni di queste fortezze furono imbarcate senza armi, e spedite a Napoli; una parte disertò, un’altra parte si sparse per la campagna.
Il 30 agosto Garibaldi trovavasi a Mileto.
«Mileto (è ancora il Du Camp che scrive) mi parve bruttissima; ridotta a nuovo coi vecchi materiali, è composta di tre strade parallele, e larghe come una piazza. Quando noi v’arrivammo, vi si faceva tanto chiasso, e v’era tanto movimento, da farci girare il capo; Garibaldi vi aveva il suo quartier generale. Una tenda improvisata sotto un albero in un campo, era la sua abitazione; egli stava seduto in terra e teneva presso lui alcune carte spiegate; due preti, ritti in piedi, lo contemplavano con una specie di curiosità feroce, mentre egli ascoltava una deputazione degli abitanti di Monteleone, che lo pregavano d’accorrere al più presto, onde impedire alla guarnigione napoletana di commettere eccessi. I regj del resto s’apprestavano, a quanto dicevasi, alla ritirata anzichè a darci battaglia sui piani di Monteleone, come credevamo in sulle prime. Essi si ritiravano sotto gli ordini del generale Ghio, allo scopo di disputarci il passaggio a Cosenza. Si temeva però che prima di ritirarsi da Monteleone non la saccheggiassero.
— Ci vado subito, rispose Garibaldi a que’ di Monteleone, e saltò in carrozza. Tutti lo seguimmo, chi a piedi, chi a cavallo. Il generale Türr raggiunse tosto il dittatore.
«A Reggio, pescatori del pesce spada; a Catanzaro, [303] i tessuti di seta; a Mileto, briganti e preti». È un proverbio antico nelle Calabrie. Mileto è città nuova; il terremoto del 1783 l’ha interamente inghiottita; il suolo in allora si schiuse e poscia si rinchiuse, inghiottendo la città, per cui non si è ancor finito di ricostruirla; alcune capanne e tugurj, un vasto seminario, il palazzo del vescovo ed una porzione di chiesa...; ecco Mileto.
Una volta era la città prediletta e favorita dei principi normanni; ora è una miserabile borgata, d’aspetto sinistro, e che conta appena due mila anime. Dei suoi passati splendori non le rimane che un vescovato; ma il vescovo se l’era data a gambe al nostro avvicinarsi. Dei preti la percorrevano timidi e curiosi; ci rimiravano fissi fissi, quando credevano di non essere veduti, e meravigliavano di non vederci le corna alla fronte, come il diavolo, e ai piedi le unghie biforcate. Allorachè ci passavano vicino, ci salutavano con quell’aria umile e dimessa, che indica la paura pronta ad ogni concessione; non vi ha franchezza in quegli sguardi, non nel gesto, non nella voce.
Era il 27 agosto; due giorni prima in questa uggiosa città di Mileto, si compiva una terribile tragedia. Il XV reggimento di linea napoletano, venendo da Villa San Giovanni, accampava sulla piazza, e nelle vie; quelle soldatesche indisciplinate mormoravano, vedendo con terrore d’essere costrette a faticose tappe, di cui l’ultima doveva essere Napoli, e rifuggendo dal mestiere del soldato, domandavano d’essere rimandati liberi, con congedo illimitato. Gli uffiziali scoraggiati non rispondevano, costretti d’obbidire ad ordini superiori. Il generale Briganti giunse [304] frattanto a cavallo, seguito da un solo domestico. I soldati riconoscendolo, gridarono: A morte, a morte! Briganti passò oltre, senza arrestarsi a tali clamori. Aveva egli oltrepassato il villaggio, e trovavasi sulla strada di Monteleone, quando gli venne in mente di tornare indietro. Chi lo riconduceva sui suoi passi? Il fermo proposito di tener fronte al pericolo, e calmare una sedizione militare, che poteva, scoppiando, trascinar seco il sacco della città, o piuttosto quell’invisibile mano che spinge gli uomini verso il destino che devono compiere? Nol so; ma egli ritornò; allora sorsero nuove grida e minacce più violenti. Il generale si ferma e vuol parlare; due fucilate gli atterrano il cavallo.
Il domestico, spaventato, si dà alla fuga. Il generale si alza, e move verso gli ammutinati, con coraggio e serenità d’animo. Parla della sua età, ricorda le cure paterne che ebbe sempre per loro; invoca la disciplina, senza cui i soldati non sono che banditi armati. I rivoltosi esitavano, ed erano per cedere, quando un sotto-uffiziale, avvicinandosi al generale, esclama:
— Le mie scarpe sono rotte, ed io devo marciare a piedi nudi; tu hai degli stivali eccellenti — e gli tira un colpo di fucile. Più di cinquanta palle allora colpirono lo sfortunato Briganti. Il sotto-uffiziale gli levò gli stivali, e tutta la truppa, briaca di sangue, si gettò a colpi di bajonetta sul generale che venne fatto a brani. A gran pena si potè strappare dalle mani di quei selvaggi il corpo mutilato, per nasconderlo nella chiesa. Sfondarono allora quattro o cinque botteghe, ove si vendevano sigari, caffè e vino, e le saccheggiarono completamente. Ritornarono [305] quindi alla chiesa, ne atterrarono la porta, e tirando pei piedi il cadavere, gli fecero oltraggi senza nome, strappandogli i capegli e la barba, ficcandogli negli occhi delle capsule, alle quali davan fuoco, ed altre atrocità di questo genere. Quando furono sazj, si raccolsero di nuovo sulla piazza, e deposte le armi, si sbandarono, dirigendosi ognuno al suo paese. Interrogammo alcuni di quegli sciagurati, del perchè avessero così massacrato il loro generale.
— Perchè era un borbonico, dissero gli uni.
— Perchè era un liberale, dissero gli altri.
Un solo disse il vero: — Noi l’abbiamo ucciso perchè era il nostro generale.»
Intanto Garibaldi progrediva. I Borbonici appena lo seppero a Monteleone si sbandarono; parte, gettate le armi, s’incamminò a casa, parte passò tra le file degli insorti. Sora, Mobile, Avellino, Bari, Lecce, sollevavansi al grido di viva Garibaldi.
Il generale avanzava sempre, seguito dai suoi e dai bravi Calabresi, finchè, poco dopo, potè scrivere al prodittatore Mattini, che «coi Calabresi aveva fatto abbassare le armi a diecimila soldati, e che si era impadronito di altrettanti fucili, di dodici cannoni e di trecento cavalli».
Il 7 settembre, Garibaldi avvisò il comitato napoletano, che in quello stesso giorno egli sarebbe entrato nella capitale delle Due Sicilie.
Tutta Napoli, sparsasi la voce dell’imminente arrivo del dittatore, era in moto fin dal mattino; in tutte le strade, e segnatamente in quella principale di Toledo, sventolavano bandiere tricolori; la guardia [306] nazionale tutta era sotto le armi, un numero straordinario di carrozze erano state dalle più distinte famiglie napoletane inviate alla stazione; un immenso popolo stava accalcato ad attendere il gran capitano.
Alle 11 e mezza, il dittatore giungeva con un convoglio speciale. È indescrivibile l’entusiasmo del popolo, e le grida, che furono mille volte universalmente ripetuti di «viva Garibaldi dittatore! viva l’Italia! viva Vittorio Emanuele!» Tutta quella folla plaudente, frenetica, accresciuta ad ogni passo, frammezzata da migliaja di carrozze, in parte seguiva ed in parte precedeva quella del generale lungo la strada del Pigliero, ove da tutti i balconi, gremiti di signore, si gittavano fiori e si scambiavano grida di entusiasmo. Ad un’ora dopo mezzo giorno, Garibaldi giungeva al palazzo della Foresteria, ove fu ricevuto dai maggiori della guardia nazionale e da altri distinti personaggi.
Frattanto, dall’immenso largo di S. Francesco di Paola, stipato tutto intorno da gente accorsa dagli angoli più remoti della città, prorompevano tali fragorose voci, che Garibaldi più volte dovette affacciarsi al balcone a salutare, e a parlare al popolo. Fra le altre cose disse: «Bene a ragione avete dritto di esultare in questo giorno in cui cessa la tirannide che vi ha aggravati, e comincia un’era di libertà. E voi ne siete degni, voi figli della più splendida gemma d’Italia! Io vi ringrazio di questa accoglienza, non solo per me, ma in nome dell’Italia che voi costituite nell’unità sua mediante il vostro concorso; di che non solo l’Italia, ma tutta l’Europa vi debb’essere grata.»
Intanto Bombicella nicchiava a Capua, e livido per la paura, raccomandavasi alla sant’anima di suo padre e a San Gennaro.
[307]
Desta l’Aurora omai dal letto scappa
E cava fuor le pezze di bucato;
Poi batte il fuoco, e cuocer fa la pappa
Pel suo giorno bambin che allora è nato;
E Febo, che è il compar, già colla cappa
E con un bel vestito di broccato,
Che a nolo egli ha pigliato dall’Ebreo,
Tutto splendente viensene al corteo.
(L. Lippi, il Malmantile).
Il 15 ottobre 1860, uno splendido sole seguiva il corteggio dell’aurora, e rallegrava colla sua benedizione di luce l’impareggiabile piano d’Erba, che in quella stagione era animato da numerosi villeggianti.
Nel mezzo di un viale, ombreggiato da una doppia fila di plàtani che conduceva ad un palazzotto annerito dal tempo, e quasi per intero rivestito da piante rampicanti, passeggiavano a godervi il puro [308] aere mattutino, la contessa Emilia ed una bionda giovinetta, la quale, tuttochè camminasse, era intenta ad un lavoro domestico.
— Tarda Carlambrogio! disse la contessa fermandosi e guardando giù per lo stradone che, passando dinanzi al viale, mette ad Erba.
— Poveretto! è vecchio, rispose la giovinetta; poi da qui ad Erba la è una bella tirata.
— È una passeggiata, mia cara, una passeggiata! dì piuttosto che Carlambrogio avrà trovato per istrada qualche compare e se incomincia a chiacchierare, chi lo ferma?
Carlambrogio, quasi a smentire le poche caritatevoli parole della contessa, si affacciò in quella al viale.
— Eccolo, eccolo! gridò la giovinetta correndo incontro al vecchio contadino.
Raggiungerlo, strappargli di mano una lettera, e rivolare dalla contessa, fu per la giovinetta l’affar d’un istante.
— È di lui? chiese sorridendo la vecchia.
— Sì.
— Come ti sei fatta rossa!
— È la corsa...
— Già la corsa!... Ora via carina, calmati.... guarda come ti batte il cuore... Benedetta gioventù!... Vieni qui, Dalia, sediamo su questa panchetta all’ombra...
La giovinetta la seguì, e le si assise al fianco aprendo la lettera.
Come mai la povera orfanella si trovava in compagnia della contessa Emilia?
La c’era da parecchie settimane, ed ecco il come.
[309]
Dalia, incaricata da Roberto di annunziare alla contessa la morte del di lei nipote, aveva adempiuta l’incresciosa commissione con tanti riguardi, con una delicatezza tanto affettuosa, consolando la vecchia, piangendo, soffrendo con lei, che quest’ultima (la quale aveva sempre visto di buon occhio la giovinetta) l’aveva pregata di farle compagnia durante la villeggiatura.
Dalia in sulle prime aveva esitato, chè, fiera come era, temeva sempre di incontrare qualche dispiacere, qualcuna di quelle umiliazioni con che i signori, generalmente parlando, sogliono (lontani le mille miglia dal farlo per cattiveria) amareggiare e talvolta disgustare affatto chi (al di sotto di loro in fatto di denari e di posizione sociale) vogliono carezzare.
Ma la contessa aveva insistito con tanta buona grazia, dicendole che aveva bisogno di lei e delle sue consolazioni, e che non le sarebbe mancato lavoro, caso mai temesse di mangiare il pane a tradimento, che in fine Dalia aveva ceduto, e pigliata licenza dalla maestra, aveva seguita la contessa alla campagna.
Nelle città, nelle provincie d’Italia, o meglio, in tutto il mondo, in que’ dì non parlavasi che di Garibaldi e di Cialdini, dei due eserciti e delle loro gloriose gesta. Questi erano quindi i temi favoriti anche dei villeggianti in quella parte di Brianza, i quali ogni mattina portavansi ad Erba ad attendervi la posta ed i giornali. E questo era il compito giornaliero di Carlambrogio, il quale per altro non soleva interessarsi gran che per quelle notizie, ripetendo egli sempre questo prosaico ritornello: Vinca Erode, vinca Pilato, noi povera gente saremo sempre in miseria.
[310]
È però giustizia il dire che queste cose, il povero vecchio, le brontolava sottovoce.
L’ultima lettera ricevuta da Dalia portava la data di Messina; in essa Roberto le parlava del prossimo tragitto, dei pericoli che andavano ad incontrare, e dei pesci cani, del cui teschio aveva sbozzato il ritratto nel margine di quella lettera. Dalia ne fu tanto spaventata, da non poter chiuder occhio per tutta una notte.
D’allora in poi non aveva più avute notizie di Roberto. Aveva letto in compagnia della contessa i giornali; sapeva quindi dello sbarco, de’ continui trionfi di Garibaldi, del meraviglioso di lui ingresso in Napoli, e infine della sanguinosa battaglia del 1 ottobre; ma nulla di chi tanto le stava a cuore.
Ora immagini il lettore con che ansia, con che tremito, con che sussulto di cuore, Dalia aprì quella lettera.
— Da dove viene? chiese la contessa.
La giovinetta, letta la data, rispose: da Caserta.
— Ih! com’è lunga quella lettera!
— Uno, due, quattro fogli, disse Dalia sorridendo di compiacenza. To! c’è anche due pagine di stampato... È un proclama di Garibaldi.
— Ora mo, da brava! leggi... Comincia dalla lettera.
Onde non ripetere il già detto, noi riprodurremo la lettera del garibaldino, incominciando là dove egli racconta cose da noi non per anco toccate. Diremo solo che Dalia, lette poche righe, mandò un grido balzando in piedi si improvvisamente, con tal impeto, che la contessa sbigottita fu a un punto dal non cader riversa dall’altra parte della panchetta.
[311]
— È capitano! è capitano! gridava Dalia ebbra di gioja.
— Chi?
— Ma lui... Roberto..., l’hanno fatto capitano!»... e baciava la lettera, ripetendo colle lagrime agli occhi: Garibaldi è un angelo!
Calmata quell’ebbrezza, continuò la lettura. Il volto di Dalia prendeva un’espressione d’ambascia mano mano che progrediva, leggendo i pericoli, le fatiche, le privazioni sofferte da Roberto e da’ suoi compagni nelle lunghe marcie da Reggio a Napoli. «La sete ci tormentava più di tutto (scriveva Roberto); il sole ci bruciava la pelle, la polvere ci soffogava; c’era dei momenti in cui i nostri occhi vedeano tutti gli oggetti color violetto, alberi, strade, sassi, erba, cielo, tutto insomma. I nostri cavalli non potevano più reggersi in piedi. Ti basti sapere, per aver una idea di quanto soffrivamo in quei momenti noi e le bestie, che un mio amico, il maggiore Setti di Treviglio (uno dei migliori uffiziali della divisione Cosenz, e che ha fatta la campagna di Roma e quella dell’anno scorso), fece con un colpo di revolver saltare le cervella al suo cavallo, non reggendogli l’animo di vederlo soffrir tanto.»
— Poveri giovani! gridò la contessa; se il mio Ernesto si fosse trovato con loro, chi sa cos’avrebbe sofferto, lui sì delicato...
— Egli ora ha finito di soffrire, rispose Dalia, e per non lasciar tempo alla contessa di ricadere in quelle malinconie, continuò a leggere.
Roberto, quasi a mitigare la penosa impressione che il racconto dei sofferti patimenti doveva produrre sull’animo della sua amica, aveva mutato argomento [312] e stile. Parlava quindi della sua splendida dimora di Caserta, poi del miracolo di san Gennaro.
Anche il Du Camp nelle sue memorie parla sì di Caserta che del santo patrono di Napoli, e con tanto brio, da vincere quanto Roberto scrisse sullo stesso argomento; perciò daremo la preferenza al Du-Camp. Ecco ciò ch’egli scrive in proposito:
«Il palazzo di Caserta è uno dei più grandiosi concepimenti architettonici usciti da mente umana. Vanvitelli che lo ideò, ebbe la sorte di vegliare all’esecuzione sino al suo compimento, cioè fino all’anno 1752 e ciò per ordine di Carlo III. La facciata è imponente, benchè monotona; quattro corti quadrate dividono la costruzione interna; attraverso di esso sorge un porticato splendido, sorretto da sessantaquattro colonne di marmo; lo scalone è di una maestà imponente; è tutto in marmo, e sormontato da una cupola i cui dipinti, che rappresentano gli Dei che ammirano una Venere, le fattezze della quale non mi parvero senza seduzione. Il teatro del palazzo è graziosissimo; è sostenuto da sedici colonne tolte al tempio di Serapide, di cui le ruine veggonsi lambite dal mare sulla strada di Pozzuoli. L’appartamento di Ferdinando II ti inspira un’indifinibile tristezza: non un mobile vi è rimasto; dal muro vennero graffiate via le pitture; si abbruciarono le tappezzerie, le armi, gli intagli, tutto insomma. Vi sarebbe stata una specie di barbara grandezza nel seppellire un re coi suoi tesori, le sue donne, le sue guardie; ma è puerilità l’incendiare le camere di un re morto, a meno che ciò non sia imperiosamente imposto dall’igiene; e tale vuolsi sia stato il caso presente.
Infatti re Ferdinando, che era di una corpulenza [313] enorme, morì dopo una sì lenta e profonda decomposizione, che si può dire di lui, aver egli assistito, vivendo, alla propria putrefazione. Finì i suoi giorni implacabile nelle sue idee, e facendo giurare al figlio di non governare se non coi precetti dell’assolutismo[56]. Tali precetti dovevan finire col distruggere le forze della dinastia, tanto più che l’alleato più fedele di questa ben presto la tradiva; voglio parlare di san Gennaro.
La sua festa avvicinavasi. Napoli era in una commozione da non potersi dire. Per chi l’infallibile santo avrebbe preso partito? era desso italiano? borbonico? Grave quistione che si faceva ovunque, e che nessuno ardiva sciogliere anticipatamente. San Gennaro è l’idolo dei Napoletani, i quali sono fermamente persuasi che Dio non regna nei cieli che per concessione di quel santo. Una volta però, presi da collera improvvisa contro di lui, lo detronizzarono, e misero al suo posto sant’Antonio qual patrono di Napoli.
Era il 1799; S. Gennaro s’era fatto democratico; il suo sangue erasi liquefatto al grido di: Viva la [314] repubblica, e quando la reazione guidata dal cardinal Ruffo giunse a Napoli, abbandonandosi ad eccessi e a massacri di cui la memoria non è ancora cancellata, non si obbliarono le velleità democratiche del santo, e lo si destituì, come un semplice funzionario; si parlava anche di gettarlo in mare, e innanzi la sua statua si urlò: Abbasso il giacobino! Ma troppo forti ed intimi erano i vincoli che stringevano i Lazzaroni al loro patrono; cotal separazione era troppo penosa per essi. Gli uni si pentivano della lor violenza; l’altro promise di non essere per l’avvenire che un buon realista, e la pace fu segnata.
Si congedò S. Antonio, e si reintegrò san Gennaro nel possesso di tutti i suoi onori, titoli e privilegi.
Il suo sangue, raccolto dopo il martirio, si conserva in un’ampollina, e da secco che è, in certi giorni dell’anno si liquefa e bolle. Il santo fa attendere più o meno lungamente il prodigio, a seconda della maggiore o minore sua soddisfazione sulla politica, e sul governo del paese; ma non havvi esempio ch’ei siasi ribellato al miracolo, neppur dinanzi al generale Championnet, che non gli concedeva se non dieci minuti per compire il prodigio. A fronte dei gravi avvenimenti che avevano nell’estate del 1860 messo sossopra il regno delle Due Sicilie, come si sarebbe comportato san Gennaro?
Il dì della sua festa, verso le 10 del mattino, io mi recai in duomo: è una gran chiesa ristaurata sul gusto italiano della decadenza, epoca nella quale l’arte è assolutamente vinta dal valore o dalla rarità della materia prima. Tu vi trovi un reggimento di statue d’argento, il cui valore sta tutto nel peso. [315] Nella cappella di S. Gennaro, che è a dritta, la folla s’incalza, e si stringe; si soffoca pel caldo; presso la balaustrata che protegge l’altare, è un urtarsi, uno spingersi, d’averne rotte le ossa. I posti migliori son per chi ha forza maggiore nei gomiti. Le donne qui mi sembrano più numerose degli uomini: alcune recano i loro bimbi che strillano orribilmente. Si canta messa; ma chi l’ascolta? Nessuno. Tutti sono trepidanti, ansiosi; di tratto in tratto qualche voce acutissima sorge dalla folla, e si compone al canto; è la voce di una donna già inspirata, che spera così di affrettare l’arrivo del santo.
La porta della sagristia finalmente è dischiusa; un grido di gioja echeggia sotto le volte spaziose; colla massima pompa si reca l’immagine di S. Gennaro, coperta di un velo rosso ricamato in oro. Portato da un canonico, preceduto dalle guardie nazionali che fanno far largo alla folla, il santo si apre una via fra i suoi adoratori, che furtivamente cercano di toccare colle mani il velo che avvolge le sembianze del protettore, e avidamente poi baciano la parte avventurata che toccò il miracoloso tessuto. Il prezioso idolo è finalmente deposto sull’altare, tolto il velo, appare il busto d’argento. Ciò che allora io vidi può rendere modesti coloro che nella loro vita si sono creduti amati, perchè giammai essere umano non ispirò l’amore che si dimostra per questo immobile simulacro. Le donne gridavano: «O san Gennaro, o mio piccolo san Gennaro, san Gennarello del mio cuore, delle mie viscere, dell’anima mia!» A lui protendevano le braccia; le lagrime sgorgavano copiose dai loro occhi stravolti; le loro labbra tremanti mandavano suoni confusi, e baci; i muscoli del collo, [316] gonfi come grosse corde, s’agitavano sotto la precipitata pulsazione delle arterie; alcune più briache delle altre, strappatasi la pezzuola dal collo, si percuotevano il petto a colpi di pugno, sollevando lamentevoli lai. Frattanto si veste il santo; sulla fronte gli si compone una mitra ricca di pietre preziosissime; sulle spalle lo si adorna con pallio di porpora a ricami d’oro, e d’amatiste; nel dito gli si infila l’anello episcopale. Frattanto le grida raddoppiano: «Quanto è bello! È lui, proprio lui; o mio caro S. Gennaro!» e ricomincian così le genuflessioni, i baci, i nervosi tremiti. — Vicino a me stava una giovine che singhiozzava amaramente.
— Che avete per piangere così? le domando.
— Ah! signorino mio! il santo non mi guarda.
Infatti essa era collocata in modo da non potere vedere il busto. Una tempesta di clamori orribili, voci di gioja, di disperazione, di invocazione, cozzavano nell’aere, per ricadere su noi. Le guardie nazionali stanche e sfinite dal calore, non potevan mettere ordine in tanto trambusto:
In cotesta immonda commedia che trascinava tanto popolo sino all’estasi, chi fra noi era pazzo? Il popolo, od io? Giammai spettacolo di degradazione dell’anima umana aveami colpito sì profondamente; v’eran momenti in cui mi coglieva la smania di rovesciarmi a colpi di bastone su questa folla indemoniata, e spezzare l’idolo sull’altare, come ai tempi primi del cristianesimo, gli eroi di questo rovesciavano nel templi le statue degli dei.
Un canonico, curvo dagli anni, coperto di splendide vesti, toglie il velo all’ostensorio che raccoglie la preziosa reliquia. L’ostensorio è d’argento, e munito [317] di due cristalli, che facilitano la vista dell’ampolla ivi contenuta, ed ha la forma di una lanterna da cabriolet.
Offerto alla vista del pubblico, il canonico lo bacia e poi divotamente lo innalza tra le sue mani, ed esclama: Il sangue è duro; e quindi lo agita dall’alto al basso, tenendovi sopra fissi gli occhi, affine di determinare l’istante preciso in cui il sangue coagulato incomincia a sciogliersi. Dietro di lui un prete rischiara la reliquia con un cero, di modo che lo si possa veder per trasparenza. Durante cotal funzione, si cantano inni, si recitano delle speciali preci, delle quali il tumulto che regna nella cappella mi toglie di comprendere motto. Alcune donne del popolo, che passano per parenti di san Gennaro, come quelle che pretendono discendere dalla vecchia mendicante alla quale il Santo apparve dopo il suo martirio, onde indicare il luogo ove era stato deposto il suo corpo, sono schierate in luogo d’onore presso la balaustrata. Elleno interpellano famigliarmente il santo; le une gli parlano supplichevolmente, le altre gli fanno violenti ingiunzioni, che contrastano con tanta adorazione.
— Oh! san Gennaro del cuore, dicevan le une, non ci far languire, e dinne col miracolo che tu sei felice, che sei contento di noi, e che ci proteggerai sempre.
— Andiamo, canaglia, brigante! sclamavano le altre; e che! ci credi tu fatte per aspettarti? Affrettati a sciogliere il tuo sangue, vecchio sdentato; altrimenti andremo a cercar sant’Antonio, che ti metterà alla porta.
D’un tratto il canonico solleva l’ostensorio, pronunciando [318] parole che non compresi, e io vidi quel sangue bollire lentamente nell’ampolla. Tre minuti eran bastati al miracolo! Uno scoppio di urli fece quasi crollare il tempio; tutti si prostrano col volto a terra, singhiozzando, o gridando grazia! Torme d’uccelli svolazzano per la vôlta spaventati; gli organi mandan suoni giulivi, s’intuonano canti d’allegrezza, e son gettati a piene mani fiori sul busto; fumano gli incensi; e cent’uno colpi di cannone dai forti annunziano a Napoli che il suo patrono veglia sempre su di lei!»
Le nostre donne letta l’istoria di san Gennaro, quale la narrava Roberto, risero di cuore:
— Poveri Lazzaroni! disse la contessa, come sono ignoranti!
— E noi, objettò Dalia, coi nostri preti che salgono in una nuvola di carta a pigliare il santo chiodo il dì di Santa croce, in Duomo, ci mostriamo forse più innanzi di loro? Dunque!
— Non hai torto la mia tosa!... ma finisci la lettera.
Roberto narrava gli avvenimenti che precedettero di qualche giorno il 1 ottobre e la battaglia che ne seguì.
Garibaldi ci aveva spediti fino a S. Maria presso Capua, onde tenere in rispetto i trentamila borbonici che stavano con Francesco II nelle due fortezze di Gaeta e di Capua, e in un grande tratto di paese intorno ad esse. Fino alla metà del settembre nulla era accaduto di serio fra i due eserciti nemici, eccetto poche fucilate, che gli avamposti scambievolmente tiravansi, specialmente i picciotti, i cacciatori genovesi di Mosto e qualche altro corpo della brigata Eber; ma il 19 i nostri passarono il Volturno, nonostante [319] la presenza di dieci mila Napoletani che tratti in inganno da una dimostrazione mossa dai nostri contro Capua, si lasciarono sorprendere dal battaglione Catabene, il quale dopo lungo combattimento, occupò Cajazzo. Quella fazione, comandata dal brigadiere capo dello stato maggiore del generale Türr, costò ai nostri la perdita di centocinquanta uomini, ma fu eseguita con ardimento degno dei più valorosi veterani. Duemila Garibaldini, con soli due pezzi d’artiglieria, ebbero il coraggio di cozzare contro le muraglie di Capua, difese da molta truppa e dalle poderose artiglierie della fortezza. Capua posta sulla sinistra del fiume Volturno, le di cui aque la avvolgono intorno intorno per più di due terzi; fortificata dal francese Vauban, e resa ancor più forte dalle opere erettevi nel 1855 da un uffiziale russo del genio, mal si poteva espugnare senza batterie in breccia e bombardare. Ai nostri era quindi impossibile prenderla con sì poche forze, ma l’attacco operato dal brigadiere Rüstow, non tendeva che a trarre in inganno la guarnigione della piazza, per lasciar tempo a Türr e ad Eber di operare il movimento di fianco verso l’alto Volturno e guadarlo. Il movimento essendo pienamente riuscito, i nostri avendo occupato Cajazzo, divennero padroni della riva sinistra del fiume, e si misero a cavaliere della strada di Gaeta. La ricognizione durò sei ore, e in questo tempo noi stemmo impavidi sotto il fuoco formidabile dei nemici, e solo ci ritirammo quando si ebbe contezza che il generale Türr trionfava delle difficoltà che i regj gli avevano preparate sull’alto Volturno.
Vi furono, un colonnello, tre tenenti, ed un capitano [320] uccisi; quattro altri uffiziali feriti. La cavalleria napoletana, sebbene facesse le mostre di voler caricare, non lo osò, e la fanteria non ardì mai incontrare le baionette dei nostri. Molti Inglesi, fra i quali il terzo figlio del conte di Shaftesbury e lord Seymour, seguirono, con alcuni corrispondenti dei giornali inglesi, le operazioni della colonna Rüstow e il secondo nominato, combattè per ben due ore, recò ordini e diede disposizioni per i trasporti dei feriti. Poco prima di mezzodì la colonna Rüstow tornava a S. Maria, dove barricatasi, attese di piè fermo i Napoletani di Capua. Questi però non si mossero, sebbene potessero spingere contro i nostri una forza di dieci mila uomini, attaccare la città aperta, e prenderla con grande facilità.
Dopo quella vittoria le divisioni di Cosenz e Medici si misero in marcia per raggiungere quella di Türr appostata tra S. Maria, S. Angelo, Scafo Formicola, e Scafo Cajazzo. La divisione comandata dal colonnello Panciani le seguiva in riserva; così i nostri si avanzavano nelle vicinanze di Capua, in quasi ventiduemila uomini per assaltare la fortezza, prenderla, o costringerla a capitolare.
Il 19, accennando a piccoli fatti avvenuti nei giorni precedenti, il generale Türr emanava agli avamposti un bell’ordine del giorno, e alle 3 pomeridiane dello stesso dì scriveva al ministero della guerra in Napoli il seguente dispaccio, che ti trascrivo:
«Jeri inviai una colonna per attaccare questa mattina Cajazzo; ordinai una ricognizione forzata per questa mane di S. Maria e S. Prisco verso Capua, e mi portai pure questa mattina colla brigata Sacchi e due pezzi di cannone per fare una forte dimostrazione [321] verso lo Scafo di Formicola e Scafo di Cajazzo. I regi, i quali si trovavano da questa parte del Volturno, furono rigettati al di là del fiume. Abbiamo sostenuto quattro ore di fuoco. Ricevo in questo istante rapporto del comandante Catabene, che dice d’aver presa Cajazzo. Il generale Garibaldi venne a vedermi allo Scafo di Formicola, e di là passò alle colonne che si trovavano tra S. Maria e Capua».
Ora, mia cara, Dalia, dovrei descriverti la battaglia del 1 ottobre, presso Capua; ma ci vorrebbe un libro, non una lettera. A te basti quanto ne scrisse il generale Garibaldi nell’ordine del giorno che troverai qui unito.
Eccolo, disse Dalia spiegazzandolo, e lesse:
Ordine del giorno di Garibaldi.
«Il 1 ottobre, giorno fatale e fratricida ove Italiani combatterono sul Volturno contro Italiani con tutto l’accanimento che l’uomo può portare contro l’uomo. Le bajonette de’ miei compagni d’armi incontrarono anche questa volta la vittoria sui loro passi da giganti.
«Con egual valore si combattè e si vinse a Maddaloni, a S. Angelo, a S. Maria.
«Con egual valore i coraggiosi campioni dell’indipendenza italiana, portarono i loro prodi alla zuffa.
«A Castel Morene, Bronzetti, emulo degno del fratello[57] alla testa d’un pugno di cacciatori, ripeteva uno di quei fatti che la storia porrà certamente accanto ai combattimenti dei Leonida e dei Fabi.
«Pochi, ma splendidi dell’aureola del valore, gli Ungheresi, i Francesi, gli Inglesi che fregiavano le [322] file dell’esercito meridionale, sostennero degnamente la fama guerriera dei loro connazionali.
«Favorito dalla fortuna, io ebbi l’onore nei due mondi di combattere accanto ai primi soldati, ed ho potuto persuadermi, che la pianta uomo nasce in Italia — non seconda a nessuno, ho potuto persuadermi, che quegli stessi soldati che noi combattemmo nell’Italia meridionale, non indietreggeranno sotto il glorioso vessillo emancipatore.
«All’alba di quel giorno, io giungeva in S. Maria da Caserta, per la via ferrata. Al montar in carrozza per S. Angelo, il generale Milbitz mi disse: «Il nemico ha attaccato i miei avamposti di S. Tammaro».
«Subito fuori di S. Maria verso S. Angelo udivasi una viva fucilata, e giunto ai posti di sinistra della detta posizione, li trovai fortemente impegnati col nemico.
«Era bel vedere i veterani dell’Ungheria marciare al fuoco, colla tranquillità di un campo di manovra e collo stesso ordine. La loro impavida intrepidità contribuì non poco alla ritirata del nemico.
«Col movimento in avanti della mia colonna e sulla destra, io mi trovai bentosto a congiungermi colla sinistra della divisione Medici, che aveva valorosamente sostenuta una lotta ineguale tutta la giornata. I coraggiosi carabinieri genovesi che formavano la sinistra della divisione Medici, non aspettarono il mio comando per ricaricare il nemico. Essi, come sempre, fecero prodigi di valore.
«Il nemico, dopo aver combattuto ostinatamente, tutta la giornata, verso le 5 pomeridiane rientrò in disordine dentro Capua, protetto dal cannone della piazza.
[323]
2 ottobre.
«Reduce la sera del 1 in S. Angelo, io ebbi notizia che una colonna nemica da 4 a 5000 uomini trovavasi a Caserta vecchia; ordinai per le 2 della mattina ai carabinieri genovesi di trovarsi pronti con 350 uomini del corpo di Spangaro ed una sessantina di montanari del Vesuvio. Marciai a questa ora su Caserta per la strada della montagna e S. Leucio. Prima di giungere a Caserta il prode tenente colonnello Missori, ch’io aveva incaricato di scoprire il nemico con alcune delle valorose sue guide, mi avvertì che i regj trovavansi schierati sulle alture da Caserta vecchia a Caserta, ciò che potei verificare io stesso poco dopo.
«Mi recai a Caserta per concertarmi col generale Sirtori, e non credendo il nemico sì ardito da attaccare quella città, combinai collo stesso generale di riunire tutte le forze che si trovavano alla mano e di marciare al nemico pel suo banco destro, cioè attaccarlo per le alture del parco di Caserta, mettendolo così tra noi e la divisione Bixio, a cui aveva mandato l’ordine d’attaccare dalla sua parte.
«Il nemico teneva ancora le alture, ma scoprendo poca forza in Caserta aveva progettato di impadronirsene, ignorando senza dubbio il risultato della battaglia del giorno antecedente, e perciò lanciava circa la metà delle sue truppe.
«Un cocchiere ed un cavallo delle vetture del mio seguito furono ammazzati. Potei passare più liberamente grazie al valore della brigata Simonetta, divisione Medici, che occupava quel punto, e che respinse coraggiosamente il nemico.
[324]
«Giunsi così all’incrocicchio della strada di Capua e S. Maria, centro delle posizioni di S. Angelo, e vi trovai i generali Medici ed Avezzana, che col solito coraggio e sangue freddo, davano le loro disposizioni per respingere il nemico incalzante su tutta la linea.
«Dissi a Medici «Vado sull’alto ad osservare il campo di battaglia, tu ad ogni costo difendi la posizione». Procedeva appena verso le alture che ci stavano alle spalle, quando mi accorsi esserne il nemico padrone.
«Senza perder tempo raccolsi quanti soldati mi capitarono alla mano e ponendomi a sinistra del nemico ascendente, cercai di prevenirlo. Mandai nello stesso tempo una compagnia di bersaglieri genovesi verso il monte S. Nicola per impedire che il nemico se ne impadronisse. Quella compagnia e due compagnie della brigata Sacchi ch’io aveva chiesto e che comparivano opportunamente sulle alture, arrestarono il nemico.
«Movendomi io poi verso destra, sulla linea di ritirata, il nemico principiò a discendere ed a fuggire. Solamente dopo qualche tempo io venni a sapere che un corpo di cacciatori nemici, prima del loro attacco di fronte, erasi portato alle nostre spalle, per un sentiero coperto, senza che nessuno se ne accorgesse.
«Intanto la pugna ferveva nel piano di S. Angelo ora favorevole a noi, ed ora obbligati di ripiegarci davanti al nemico assai numeroso e tenace.
«Da vari giorni non equivoci indizi mi annunziavano un attacco, e perciò non m’era lasciato allettare dalle diverse dimostrazioni del nemico sulla [325] destra e sulla sinistra nostra: e ben ci valse, poichè i regj impiegarono contro di noi, nel primo ottobre, quante forze disponibili avevano, e ci attaccarono simultaneamente su tutte le posizioni.
«A Maddaloni dopo varia fortuna, il nemico era stato respinto. A S. Maria parimenti, ed in ambo i punti aveva lasciato prigionieri e cannoni. Lo stesso avveniva a S. Angelo dopo un combattimento di più di sei ore; ma essendo le forze nostre in quel punto inferiori d’assai al nemico, egli era rimasto con una forte colonna padrone delle comunicazioni tra S. Angelo e S. Maria; di modo che, per portarmi alle riserve, ch’io aveva chieste al generale Sirtori, da Caserta a S. Maria fui obbligato di passare a levante dello stradale che da S. Angelo conduce a quell’ultimo punto. Giunto in S. Maria verso le due pomeridiane, vi trovai i nostri comandati dal bravo generale Milbitz, che avevano valorosamente respinto il nemico su tutti i punti.
«Le riserve chieste da Caserta giungevano in quel momento. Le feci schierare in colonna d’attacco sullo stradale di S. Angelo. La brigata Milano in testa; seguiva la brigata Eber, ed ordinai in riserva parte della brigata Assanti. Spinsi pure all’attacco i bravi Calabresi di Pace che trovai nel bosco sulla mia destra, e che combatterono splendidamente.
«Appena uscita la testa della colonna dal bosco, verso le tre pomeridiane, fu scoperta dal nemico che cominciò a tirare delle granate, ciò che cagionò un po’ di confusione allo spiegamento dei giovani bersaglieri milanesi che marciavano avanti. Ma quei bravi militi, al suono di carica delle trombe si precipitarono [326] sul nemico che cominciò a piegare verso Capua.
«Le catene dei bersaglieri milanesi furono tosto seguite da un battaglione della stessa brigata, che caricò impavidamente il nemico senza fare un tiro.
«Lo stradale che da S. Maria va a S. Angelo forma, colla direzione di S. Maria a Capua, un angolo di circa quaranta gradi, in guisa che, procedendo la colonna sullo stradale, lo spiegamento di essa doveva essere sempre sulla sinistra ed alternato in avanti. Quindi impegnata che fu la brigata Milano ed i Calabresi, io spinsi al nemico la brigata Eber sulla destra della prima delle sue forze su quella città. Mentre adunque mi trovava marciando al coperto, sul fianco destro del nemico, questo attaccava di fronte Caserta, e se ne sarebbe forse reso padrone, se il generale Sirtori colla sua consueta bravura, ed una mano di prodi non lo avessero respinto.
«Coi Calabresi del generale Stocco, e quattro compagnie dell’esercito settentrionale, io procedevo intanto sul nemico che fu caricato; resistè poco e fu spinto quasi alla corsa sino a Caserta vecchia. Ivi un picciol numero di nemici si sostenne per un momento facendo fuoco dalle finestre e dalle macerie, ma presto fu circondato e fatto prigioniero. Quei che fuggirono in avanti, caddero nelle mani dei soldati di Bixio, il quale, dopo d’aver combattuto valorosamente il 1 a Maddaloni, giungeva come un lampo sul nuovo campo di battaglia. Quelli che restarono indietro capitolarono con Sacchi, a cui aveva dato ordine di seguire il movimento della mia colonna; dimodochè di tutto il corpo nemico, pochi furono quelli che poterono salvarsi.
[327]
«Questo corpo pare essere quello stesso che aveva attaccato Bronzetti a Castel Morone — e che l’eroica difesa di quel valoroso, col suo pugno di prodi, aveva trattenuto la maggior parte del giorno, ed impedito quindi che, nel giorno antecedente, ci giungesse alle spalle.
«Il corpo di Sacchi contribuì esso pure a trattenere quella colonna al di là del parco di Caserta, nella giornata del 1, respingendolo valorosamente[58].
Caserta, 3 ottobre 1860.
G. Garibaldi.»
[328]
Circa un mese dopo, due giovani arrivati da Genova ad Arona colla ferrovia, si avviavano verso il porto in cerca d’una barca per tragittare all’opposta riva del lago.
Era una di quelle giornate di novembre, foriere del verno; il cielo, d’un color bigiccio, uniforme, invitava gli animi al silenzio, e li avvolgeva lentamente in una dolce malinconia. I due giovani, prima di giungere al porto, si fermarono sotto il filare di robinie che ombreggia la sponda del lago, e stettero mutoli, lungamente contemplando la sponda lombarda, e i villaggi biancheggianti sulle colline specchiantisi nel lago. Uno di essi fissava lo sguardo su di Angera che gli stava schierata dinanzi; sospirava, guardava alla sfuggita il compagno, indi di nuovo il lago, le colline:
— Ah! non ne posso più, Roberto! non ne posso [329] più! ho un gruppo qui nella gola che mi soffoga... Guarda!... piango» così dicendo Valentino stendeva all’amico la mano bagnata di lagrime.
— Vuoi che te lo dica, Valentino? Fo anch’io una fatica del diavolo a mandare indietro le lagrime.... Perdio! la vista del sito dove si è nati fa un curioso effetto!.... Figurati quando vedrò da lontano la guglia del Duomo!... Al solo pensarvi mi si piegano le gambe...
— Come si piegano le mie al veder quella riva là.... A pensare che fra poco sarò presso a quel buon vecchio di mio padre...
— E a qualchedun altro!.... disse Roberto sorridendo.
— Sia pure!... Rosa la vedrò prima di mio padre... Povera Rosa! chi sa cos’ha sofferto...
— Oh! sai che c’è di nuovo? che è ora di finirla con queste malinconie! Tante smanie per arrivare, e adesso che siam qui... Davvero, sembriam due matti!
— Hai ragione, Roberto! rispose Valentino crollando tutta la persona come per gettarsi di dosso quella tristezza. Andiamo a pigliare una barca....
Così dicendo ripresero i loro fardelletti in cui tenevano custodite le loro gloriose uniformi rosse (modesti com’erano, se l’eran levata per non dar nell’occhio) e s’avviarono verso il porto.
I nostri due garibaldini avrebbero voluto volare come rondini sull’altra riva, ma Valentino, incontrato, riconosciuto da certi suoi conoscenti, dovette fermarsi parecchie volte a stringere la mano ad uno, a rispondere, il meglio che poteva, ad un diluvio di domande che un altro gli dirigeva, l’una dopo l’altra, quasi senza tirar fiato. Valentino mostrò la croce [330] dei mille a chi la volle vedere, e la mostrò con un giusto orgoglio, che la è la più gloriosa decorazione del mondo.
Poi vennero gli inviti a bere in onore di Garibaldi e de’ suoi mille; insomma Dio sa come la sarebbe finita, se Roberto, veduto che il compagno ammollivasi a tante cortesie e seduzioni che gli accarezzavano dolcemente l’amor proprio, non avesse frapposta la sua autorità, dinanzi alla quale, benchè fratelli in amicizia, Valentino non s’era mai impennato.
Trovata la barca, vi saltarono dentro. Valentino, dato di piglio ai remi, voltossi a salutare i conoscenti assiepati sulla riva unitamente alla folla dei curiosi; indi con quattro colpi vigorosi spinse la barca fuori del porto.
Mentre Valentino remava con lena, Roberto, seduto sulla prora, a poco a poco ingolfavasi ne’ suoi pensieri.
Il volto del giovane barcajolo mano mano si avvicinava alla riva, animavasi; i suoi occhi erano fissi sulla piazza d’Angera per vedere se mai... Ma aveva bel guardare, Rosa non c’era.
Finalmente toccarono terra.
— Va pure pei fatti tuoi, disse Roberto al compagno, quando furono sbarcati; io ti aspetterò là al caffè.
— Torno subito...
— Fa pure con tuo comodo.
Valentino, moderando a stento la smania di correre, lasciata la piazza, si internò nel borgo.
Intanto Roberto, sedutosi al caffè, mentre sorseggiava una tazza d’acqua inverdita dall’assenzio, pensava filosoficamente tra sè al modo con cui era finita la brillante spedizione garibaldina:
[331]
— Ecco come torniamo a casa nostra, dopo tanti disagi sofferti, dopo tanto sangue sparso! Chi lo avrebbe detto! In quanto a me poco m’importa; il soldato in tempo di pace, non lo farei per tutto l’oro del mondo... Ma quando penso al Generale, ai dispiaceri che ha dovuto inghiottire.... Pover’uomo! lui sì buono, sì eroico, sì disinteressato... Ma! per esser proprio grande non gli mancavano che le amarezze dell’ingratitudine... Ad ogni modo, io per adesso torno a scarabocchiare coi miei colori, ma quando sonerà l’ora della liberazione di Roma e di Venezia, quando il Generale dirà per la quarta volta: Ragazzi! qui con me; all’armi!»... io ripiglierò il mio fucile e tornerò garibaldino.
A toglierlo da’ suoi pensieri, giunse Valentino con una ciera lunga lunga.
— E così? gli chiese Roberto.
— E così, Rosa non c’è.
— Non c’è?
— No; è a Sesto da oltre una settimana...
— A far che?
— Ad assistere il mio povero padre che è ammalato... Quella tosa è un angelo!
— Oh! questo mi spiace, mi spiace davvero! Speriamo che la malattia non sia grave...
Valentino sospirò stringendosi nelle spalle.
— Quand’è così, partiamo subito per Sesto.
— Sì sì, partiamo subito». Così dicendo Valentino si affrettò verso la barca.
— Aspetta, Valentino! piglierò un barcajolo...
— Non serve.
— Tu ti affaticheresti troppo.
— No, no...
[332]
— Perdio! come sei testardo! gridò Roberto indispettito. Con soli due remi arriveremo a Sesto stassera. Lascia fare a me dunque!....
Valentino cedette al solito; Roberto trovò un barcajolo, e subito dopo pigliarono il largo.
Martino, pescatore, stavasene seduto nella camera terrena del suo tugurio, presso il camino, sotto cui fumicava, mandando uno scarso calore, un mucchio di carbon bianco.
Così i contadini lombardi chiamano i torselli delle pannocchie sgranate di maiz, i quali servono loro di combustibile.
Il vecchio era pallido, stremato, come chi entra nella convalescenza dopo una lunga malattia. La giubba e le brache di frustagno verde-cupo gli cadevano a larghe pieghe sul dorso curvo, e sulle gambe dimagrite; sulla testa portava la solita berretta conica di lana rossa. Pareva ch’egli si spassasse tracciando colla molle crocioni e ghirigori nella cenere, che poi cancellava per risolcarla con altri rabeschi, ma quello era un giuoco puramente meccanico della mano, il suo pensiero era lontano lontano, in un paese a lui sconosciuto, ma che da tempo gli era divenuto caro come il suo nativo.
Martino pensava al suo figliuolo, che forse non avrebbe più veduto, chè egli, benchè uscito allora allora di pericolo, presentiva vicino il suo fine.
Seduta sul predellino del focolare, stavasene Rosa, la pietosa infermiera del vegliardo. Anch’essa pareva assorta nell’agucchiare, mentre colla mente volava ben lungi in cerca del garibaldino caro al suo cuore.
Tanto il vecchio pescatore che Rosa erano da un [333] pezzo privi delle notizie di Valentino. L’ultima sua lettera era del 28 settembre.
Il buon vecchio, come se desto da un sogno, si scosse, guardò intorno per la stanza, vide Rosa e le sorrise; poi guardò il cane che stavasene accovacciato sul limitare della stanza (un cane da pagliajo, nero e brutto quanto intelligente). Il vecchio cavò dal taschino del giustacuore la sua tabacchiera di bosso, l’aprì, si saturò rumorosamente il naso di tabacco, sospirò e disse:
— Anche oggi senza lettere, Rosa!
— Non è ancor sera! rispose la giovane cercando di infondere nel vecchio una speranza ch’essa stessa era ben lungi dall’avere.
In questa il cane rizzò le orecchie; levatosi in piedi stette alquanto origliando immobile, poi via a furia.
— Cos’ha il Moretto? chiese Martino.
— È matto, rispose Rosa sorridendo.
— Ma senti come abbaja! replicava il vecchio tendendo l’orecchio.
Infatti s’udì dapprima un guaìto, poi un latrare concitato, a brevi intervalli, un latrare a festa.
Il vecchio e la fanciulla levatisi in piedi si guardarono in volto; erano pallidi entrambi.
In quella udirono una voce (una voce ben nota che li fe’ trasalire) gridare:
— Abbasso, Moretto, abbasso! Perdio! vuoi farmi cascare...
Rosa in un baleno fu fuori dell’uscio.
Il povero vecchio rimasto solo, fe’ per allontanarsi dal camino, ma le gambe gli traballarono sotto; ricadde quindi sul seggiolone e levando al cielo le mani scarne e tremolanti:
[334]
— Oh! grazie, grazie, il mio Signore! balbettò rigando le guance di lagrime. Indi puntando le mani sui braccioli, si rizzò di bel nuovo....
Valentino entrato nella camera d’un salto, lo raccolse nelle sue braccia.
* * *
Due giorni dopo, di buon mattino, Roberto attraversava pedestre il paesello d’Albese. Rivide l’insegna dell’osteria posta all’estremità del villaggio, e sulla quale c’era tuttora dipinto il San Carlo, a mezza figura vestito di rosso, colle mani giunte in orazione.
Entrò nell’osteria a rifocillarsi; rivide l’istesso oste all’istesso fornello, intento ad ammannire forse la medesima vivanda d’un anno prima.
Quante cose erano avvenute da un anno in poi!
I nostri lettori capiranno di leggieri il perchè Roberto si trovasse in quei luoghi. Separatosi a Sesto Calende da Valentino, il nostro pittore s’era portato dritto dritto a Milano. Giunto a casa sua, seppe da una vicina, la quale abitando una stanzuccia terrena faceva anche un pochino da portinaja, che Dalia era tuttora alla campagna.
— Diavolo! aveva borbottato fra sè Roberto; ancora in campagna! Che la ci fosse, lo sapeva, che me l’ha scritto; quello che è strano si è che la ci sia ancora... in novembre! Poveretta! la si troverà benone con quella brava signora! Si vede che tutto il bene che Dalia mi ha scritto di lei, è la pura verità. Basta! Posdomani volo a lei; non voglio prevenirla del mio arrivo; sarà un’improvvisata...
Infatti due giorni dopo Roberto, giunto a Como, rifece a piedi la strada tanto amena che conduce [335] ad Erba; in breve era giunto ad Albese, chè ad un garibaldino par suo, quelle sette miglia erano parute due passi.
Fatta colazione, Roberto proseguì il suo cammino, allegro, spigliato, col cuore in festa... Soleva dire di poi che quel giorno era stato uno dei più belli della sua vita.
Rivide il piano d’Erba, ingemmato dai laghetti d’Alserio, di Pusiano, d’Annone, e dal Lambro, scintillante tra il fogliame degli alberi e le praterie come un nastro d’argento; rivide l’incomparabile panorama (incomparabile sì, anche per lui che aveva ammirate le meraviglie della Sicilia, della Calabria, del napoletano) incorniciato dal solitario monte Barro, dal Monterobbio, dalle verdi ghirlande di colline, da cento villaggi.
— Chi sa, pensava tra sè il giovane, quanto quest’aria balsamica, questo cielo sì bello e puro, avranno fatto bene a Dalia! Oh! guarda!» e fermavasi sorridendo a contemplare un casolare contadinesco che stavagli dirimpetto a mezzo una collina, al piede della quale, preceduto da un viale di platani, sorgeva un vecchio palazzotto ammantato di piante rampicanti. «Oh! guarda! ecco la villeggiatura che mi sono scelta un anno fa, quando dall’alto del giardino dell’osteria di Albese, ho fabbricato tutti quei castelli in aria... Ecco là i due pioppi;... peccato che tutte le foglie sien già cadute; ecco là al basso il laghetto d’Alserio... Oh! la sarebbe bella davvero che la villa della contessa fosse lì presso! Vediamo un po’!» E scorto un contadino che radunava col rastrello le foglie ingiallite di cui era coperto il terreno, gli chiese ove fosse la villeggiatura della contessa Emilia ****.
[336]
— Eccola! rispose il contadino additando il palazzotto.
— Come? è quella là.... coi muri coperti di verde?
— Proprio quella... Se la ci vuol andare lesto, pigli questa scorciatoja tra i campi, e in meno d’un quarto d’ora la ci arriverà.
Roberto aggradì la proposta, e ringraziato il contadino, si cacciò per l’indicatogli sentieruzzo.
Arrivato nel viale dei platani, sostò, tanto gli batteva il cuore. Poi fattosi animo, volendo arrivare d’improviso, lasciò da una banda il viale, e si inoltrò nel giardino. Fatti alcuni passi si fermò, spiando per scegliere tra le tante stradicciuole intersecantisi, quella che metteva al palazzo. Quand’ecco nel girar gli occhi, vide sorgere in mezzo ad un cespuglio una figura di donna, che egli, benchè gli voltasse il tergo, riconobbe tosto per quella d’una giovinetta...
— È lei! disse tra sè Roberto ponendosi una mano al cuore per frenarne il battito; è Dalia!... Davvero che è ingrassata... Sempre bella però quella cara creatura, sempre graziosa ne’ suoi atteggiamenti!... Maledetto quel cappellaccio di paglia che mi impedisce di vedere il suo visino, e quella capigliatura d’oro... Oh! a me adesso!... E inoltrossi pian piano....
Fa lunghi i passi, e sempre in quel di dietro
Tutto si ferma, e l’altro par che mova
A guisa di chi dar teme nel vetro;
Non che il terren abbia a calcar ma l’ova,
E tien la mano innanzi simil metro.
È a quattro passi da lei, che non s’accorge di nulla e seguita a mondare colle forbici i fiori che tien fra mano; è a tre passi,.... a due...
[337]
Roberto le serrò improvvisamente le spalle tra le sue gomita, le chiuse gli occhi colle palme, e le coprì di baci il collo.
La donna a quell’assalto inaspettato, a quella stretta, a quei baci, lasciò cadere paniere, fiori e forbici, e proruppe in un acutissimo strido; poi, dibattendosi, volse indietro spaventata la faccia...
— Cristo! gridò Roberto, facendo un salto indietro; non è lei...» e restò immobile come il don Bartolo del Barbiere.
Savina (giacchè l’assalita era lei) si diede a scappare con quanta lena aveva, ed entrò in casa, appunto in quella che Emilia e Dalia, udito quello strido, ne uscivano per vedere che fosse.
— Sei matta, Savina? le disse Emilia.
— Come se sono matta! ho creduto di morire per lo spavento...
— Ma che è stato? le chiese Dalia.
— Un giovane... là... in fondo, rispose Savina ansando, mentre coglieva i fiori... mi ha.... abbracciata...
La contessa e la giovinetta guardarono tosto da quella parte...
D’un tratto Dalia mandò alla sua volta un grido non meno acuto di quello di Savina; poi via di corsa...
A questo secondo strido, la contessa, ancora allarmata dal primo, fu lì lì per ispiritare.
— Ma che! son tutti matti quest’oggi in questa casa?
— Signora contessa!... signora contessa! gridava intanto Dalia.
— Vengo, vengo!... Per l’amor di Dio cos’è successo?»... Così dicendo studiava il passo a quella volta. Ed ecco comparirle dinanzi Dalia, la quale rossa [338] come una ciliegia, ansante per la corsa e per la commozione si rimorchiava dietro il suo amoroso, tutto confuso per l’equivoco e per la presenza della contessa; trattosi il cappello, egli s’inchinò sorridendo.
— È il nostro garibaldino!... è il mio Roberto! continuava a gridare Dalia, presentando il giovane alla contessa, la quale postosi il pince nez, sorridendo graziosamente, lo squadrò dal capo ai piedi.
* * *
La scorsa primavera, il casolare contadinesco che Roberto, ne’ suoi castelli in aria, aveva scelto a sua residenza, era mutato affatto d’aspetto.
La contessa, la quale ricca e oramai sola al mondo, volle adottare que’ due poveri giovani, aveva ceduto quell’abituro allo sposo, che s’era affrettato a dar corpo a’ suoi disegni, e con una porzione della dote di Dalia (dono anche questo della buona contessa) aveva cominciato immediatamente ad esercitare i suoi diritti di proprietà coll’aggiungere al rusticale abituro, un’ala di fabbricato, erigendovi sei camere, tre al pian terreno e altre tre sopra queste, schierandole a preciso mezzodì. Aprì sei finestre, che munì tosto di griglie verdi, e ammantò tutto il fabbricato di viti selvatiche, di quelle cui l’autunno tinge le foglie in rosso. Poi d’un colpo recise due enormi robinie che intercettavano la vista; indi disegnò il giardino, che vide di subito verdeggiare smaltato de’ più bei fiori; le dalie poi v’erano piantate a centinaja. Scelse più in giù un pezzo di terra, e sbarbicato spietatamente tutto il grano turco che c’era, ne fece un’ortaglia, la quale tosto popolossi di peschi, di pruni, di albicocchi, di peri, di pomi, ecc. ecc. Fissò un [339] altro brano di terreno per coltivarvi gli asparagi de’ quali era ghiottissimo; indi seminò qui erbaggi, là piantò agrumi, che tosto attecchirono meravigliosamente e crebbero di poi lussureggianti a perfetta maturanza.
Roberto, disposto il giardino e l’orto, pensò alla sua nuova dimora, che esposta com’era all’aria e al sole, asciugò in breve tempo. Scelse una camera, la più gaja, per lavorarvi; la mobiliò, la adornò a modo suo, appendendo alle pareti, un bel ritratto di Garibaldi, un quadro con entro la gloriosa stella dei mille, armature, quadri, pipe ed un cocodrillo imbalsamato. Dopo allestì la sala da pranzo; poi la cucina, nella quale aprì un ampio camino, ai cui lati, sotto una vastissima cappa, pose due comode panche[59].
La pace più invidiabile e schietta regna in quella famigliuola, la quale, (se la taglia di Dalia non inganna) tra pochi mesi verrà aumentata. Effetto della buona nutrizione e dell’aria vitale!
Roberto riprese passionatamente a dipingere, nonostante che la buona contessa gli vada sempre ripetendo:
— Non affannarti tanto, il mio Roberto, chè quand’io sarò morta, i padroni del fatto mio sarete voi altri due.
* * *
Ecco come uno dei mille fu degnamente compensato.... dalla Provvidenza.
FINE
[340]
Capitolo | ||
I. | Roberto | pag. 5 |
II. | Un avanzo di Russia | 14 |
III. | L’incontro | 27 |
IV. | Addio! | 40 |
V. | Dalia e Rosa | 49 |
VI. | Una spia | 59 |
VII. | L’assalto | 78 |
VIII. | L’imbarco | 93 |
IX. | Calatafimi | 113 |
X. | Il consiglio di guerra | 152 |
XI. | Palermo | 172 |
XII. | Troppo tardi! | 195 |
XIII. | Le memorie di Elpis Melena | 219 |
XIV. | Milazzo | 257 |
XV. | Messina ed il Monarca | 234 |
XVI. | Lo sbarco | 277 |
XVII. | Il 7 settembre 1860 | 204 |
XVIII. | Da Caserta | 307 |
Conclusione | 328 |
1. Il conte Rastoptchine, l’incendiatore di Mosca, odiato da’ suoi compatriotti: scacciato dallo czar Alessandro, riparò a Parigi e visse gli ultimi suoi giorni fra quegli stessi Francesi ai quali aveva giurato odio implacabile. Rastoptchine fu continuamente lacerato dai rimorsi e la notte lo tormentavano visioni e allucinazioni spaventevoli.
L’incendio di Mosca costò alla Russia tremila uomini e tre miliardi di franchi.
2. In centosessantacinque giorni eransi perduti ventisettemila trecentonovantasette uomini, novemila cavalli, ottantotto cannoni, centonovantun cassoni, settecentodue carri di trasporto; e non per la salvezza del proprio paese, nè tampoco per la sua gloria.
Cantù. (Storia degli Italiani; campagna di Russia)
3. Storico.
4. Vedi l’antecedente mio romanzo i Cacciatori delle Alpi.
5. Nel contado milanese soglionsi chiamar spose anche le vecchie, senza che queste se n’abbiano a male e sospettino di canzonatura.
6. Les artistes ont des chagrins comme des maladies qui leur sont propres, et ces chagrins on ne peut ni les plaindre, ni les adoucir, car on ignore leur nature. De La Harpe.
7. Vedi l’antecedente mio romanzo i Cacciatori delle Alpi.
8. Napoleone I.º nel 1806, chiamava la regina Carolina «la moderna Atalia; una donna scellerata, che tante volte e con tanta sfacciataggine aveva violato quanto gli uomini hanno di più sacro; via costei dal regno, scriveva; vada a Londra a crescere il numero degli intriganti; non più perdono ad una Corte senza fede, senza onore, senza ragione; il più bel paese del mondo non porti oltre il giogo de’ più perfidi tra gli uomini.»
9. Scrive C. Cantù, (Storia degli Italiani Cap. CLXXVIII).
10. Il fingere amore per una donna onde poterle strappare qualche segreto, non è arte nuova negli annali de’ criminalisti.
Il Claro riferisce questa opinione di Paride dal Pozzo. «Paris dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, et eidem dicere quod vult eam habere in suam et fingere velle illam deosculari et ei pollicere liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad confidendum homicidium, quæ postea decapitata fuit.»
11. Notiamo alcune tra le atrocità commesse dal Salzano e dal Maniscalco, che potrebbero servire di tema ai bassorilievi di un monumento d’infamia da erigersi ai re Borboni Ferdinando I.º e Francesco II.º
Un Vaizo di Messina, giovine d’ingegno, fu imprigionato a Messina e condotto a Palermo, senza che la famiglia sentisse più a parlare di lui. Fu prima orribilmente bastonato in casa del commissario Carrega, poi legato pei piedi ad una colonna e per le mani ad un’altra, e sul suo corpo, sospeso a quel modo, un birro ballava ripetendo: su, canta! canta! che vuol dire confessa, confessa!... L’infelice è rimasto storpio per tutta la vita.
Un vecchio di onesta ed antica famiglia, per sospetto di corrispondenza coi proscritti, spirava sotto il bastone insieme alla figliuola incinta di cinque mesi.
Salvatore La Licata, intendente della marchesa di San Marco, perseguitato della polizia come inquisito di mene rivoluzionarie, ricoveravasi nel villaggio di Bagheria in una casa di provati amici. La polizia n’è istrutta, sorprende la casa, vi fruga, vi cerca, ma indarno; un birro, chiamato il Corso, antico sicario ed assassino, suggeriva un espediente al suo capo, il quale accoltolo con gioja, faceva condurre in istrada i due conjugi, e là alla presenza del marito, ordinava si spogliasse nuda la sposa, e restasse così esposta allo sguardo dei passeggeri; il pudore oltraggiato vinceva la fede ospitale, e La Licata era consegnato ai suoi persecutori.
In prigione l’infelice soffrì strazio così orrendo che la nuova della sua morte si sparse per la città; i parenti accorsero presso il procurator generale Pasciuta, e con caldissime istanze lo indussero a visitare la prigione. La prima volta gli ricusavano l’ingresso col pretesto che La Licata fosse prigioniero della polizia, e non della giustizia penale; finalmente le porte dell’antro si aprirono dinanzi al magistrato, ed egli trovò quasi un cadavere. La Licata gli mostra le piaghe di cui è coperto il suo corpo, gli racconta le torture sopportate, ed il procurator generale, vincendo ogni prudente riserva, redige processo verbale dei fatti, ma dalla polizia è costretto a lacerarlo, ed il codardo magistrato preferisce il conservar la carica al dovere ed all’umanità.
Un Giovanni Vienna da Messina nella metà di gennajo dello scorso anno recavasi a Palermo per affari di commercio; l’arrestavano come sospetto per ordine della polizia di Messina; frugato, gli trovarono una lettera in cifre, e senza indirizzo; interrogato non volle palesare a chi era diretta; la dimane il commissario di polizia Pontillo, l’inventore della cuffia del silenzio, lo faceva deporre in una barca con mani e piedi legati; indi ordinò ai birri vogassero verso il deserto capo Zafferano; quivi giunti rinchiudono il Vienna in un sacco, e lo tuffano nel mare, e ve lo tengono finchè non dà segno di vita. Lo ritirano allora, e con fregagioni ridestano in lui la vitalità, e lo esortano a parlare, e perchè l’intrepido uomo tace, lo rituffano in mare, indi lo ririportano a Palermo semimorto.
Vincenzo La Porta, fabbricante di paste, acciuffato per sospetti, è tanto tormentato, che perde l’uso delle braccia, essendosi rotte le articolazioni; il misero ora accatta il pane non potendo più lavorare.
In un villaggio presso Palermo un giovine, certo Scaduti, passando presso i birri è da costoro interpellato; se ne spaventa e fugge; un colpo di archibugio lo stende al suolo, e nessuno chiede conto dell’assassinio.
La polizia di Palermo cercava certo Casimiro Cusimano, e non riuscendo ad afferrarlo, imprigionò la di lui madre, la consorte ed i figliuoli, e tutti vennero torturati senza pietà pel sesso o per gli anni.
Alcuni proprietarj di giardini presso Palermo si nascondevano per non esser vittime della polizia; l’infernale genio di Maniscalco fece divergere l’aqua che irrigava i giardini, onde i miseri per salvare gli agrumi, loro unica ricchezza, si dessero in mano ai carnefici.
La tortura poi variava a norma dello spirito inventivo di ciascun commissario.
Pontillo faceva sedere il paziente nudo su d’un seggiolone a gratella, guarnito di lame di rasoj con al di sotto un braciere di carboni ardenti.
L’ispettore Luigi Maniscalco impiegava manopole di ferro con viti a pressione.
Il carceriere Bruno legava i prigionieri con la testa fra le gambe.
Altri servivansi di cordicine per stringere i cranj, finchè penetrassero fino alle ossa, stringendo quelle funicelle con un bastone.
Ve n’era per tutt’i gusti, per tutti gli appetiti.
Basterebbero questi strazj, uniti alla pessima amministrazione, per santificare la rivoluzione, ma altri ne racconteremo.
Furono arrestati e bastonati a Palermo moltissimi cittadini d’ogni classe, come impiegati di grado superiore, nobili, avvocati, negozianti, magistrati; nessuno poteva sottrarsi agli arbitrj ed alle feroci prepotenze del Maniscalco.
La polizia metteva inoltre le mani nei traffici, nella pubblica annona; un giorno, per mancati ricolti, i prezzi delle biade aumentarono; il feroce Carioca mise la mano sui sensali del grano, li accusò d’intendersela coi rivoluzionarj e li fece rinchiudere nelle segrete.
La città se ne commosse, i parenti implorarono da Maniscalco la libertà degl’innocenti sensali, e questi si lasciò commuovere ed ordinò che fossero fatti liberi; ma come i grani rincarivano sempre, nuove ingiunzioni della polizia imponevano loro di presentarsi dinanzi al noto Carrega; spaventati fuggirono, e allora la polizia riempì le loro case di birri che dovevano vivervi a discrezione, e nell’istesso tempo l’ispettore Maniscalco si faceva consegnare le chiavi dei magazzini dei più grossi negozianti di grani, e ne faceva vendere a prezzo infimo quella quantità che a lui piaceva, senza tener conto delle enormi perdite; si voleva contentare la plebe con la ruina di venti o trenta famiglie.
12. Vedi op. cit.
13. Giovanni Riso spirò pochi giorni dopo nel suo carcere.
14. Vedi op. cit.
15. Vedi Rüstow. La guerra italiana del 1860.
16. Vedi op. cit.
17. V. Rüstow op. cit.
18. Vedi la relazione fatta dal capitano Marryat al vice-ammiraglio Sir A. Fanshawe (A bordo dell’Intrepido, Malta il 14 maggio 1860) e inserita nel Daily-News.
19. Ecco come la gazzetta ufficiale (14 maggio) di Napoli raccontava il fatto:
«Jer l’altro, 11 corrente, all’ora una e mezza pomeridiane, due vapori di commercio genovesi, denominati il Piemonte e il Lombardo approdavano a Marsala ed ivi principiavano a disbarcare una mano di qualche centinaja di filibustieri. Non tardarono i due RR. piroscafi Capri e Stromboli, che trovavansi incrociando su quelle coste, a principiare i loro fuochi sui due legni che commettevano l’atto il più manifesto di pirateria, e dal fuoco dei due mentovati piroscafi napoletani risultò la morte di molti filibustieri, la calata a fondo del Lombardo, che era il più grande de’ due vapori genovesi e la cattura anche dell’altro vapore il Piemonte, ecc. ecc.
20. Vedi le note di A. Dumas nel giornale l’Indipendente.
21. Nell’antecedente mio romanzo i Cacciatori delle Alpi, ho data la biografia del martire Ugo Bassi, citando preziosi documenti circa la sua cattura, il miserevole suo fine, e l’iniquità de’ suoi carnefici, tra cui si distinse il turpe cardinal Bedini.
22. Ecco il proclama.
Ai preti buoni.
«Comunque sia, comunque vadano le sorti dell’Italia, il clero fa oggi causa comune coi nostri nemici, che compra soldati stranieri per combattere Italiani. Sarà maledetto da tutte le generazioni.
Ciò che consola però e che promette non perduta la vera religione di Cristo, si è di vedere in Sicilia i preti marciare alla testa del popolo per combattere gli oppressori.
Gli Ugo Bassi, i Verità, i Gusmaroli, i Bianchi non son tutti morti, e il dì che, seguito l’esempio di questi martiri, di questi campioni della causa nazionale, lo straniero avrà cessato di calpestare la nostra terra, avrà cessato di essere padrone dei nostri figli, delle nostre donne, del nostro patrimonio, e di noi.
G. Garibaldi.
23. E furono La Porta, Marinuzzi, Mocarda, Marcedo, Coppola, i fratelli Bruno ed altri.
24. Garibaldi pubblicò la sua dittatura in Sicilia con un proclama datato da Salemi (11 maggio 1860) e firmato (per copia conforme) dal suo ajutante generale Stefano Türr.
25. V. il citato giornale.
26. A meglio conoscere però lo scoraggiamento del generale Landi, dopo la rotta toccatagli a Calatafimi, trascriviamo un suo documento, il rapporto cioè che egli inviava al governo di Palermo dopo la sconfitta.
Calatafimi 15 maggio 1860.
Eccellentissimo,
«Ajuto, e pronto ajuto — la banda armata che lasciò Salemi, questa mattina ha circondato tutte le colline dal S. al S. 0. di Calatafimi. La metà della mia colonna avanzata è stata colta in tiro ed attaccò i ribelli che comparivano a mille da ogni dove. — Il fuoco fu ben sostenuto, ma le masse dei Siciliani unite colle truppe italiane erano d’immenso numero.
«I nostri hanno ucciso il gran comandante degli Italiani, e presa la loro bandiera che noi conserviamo — disgraziatamente un pezzo delle nostre artiglierie caduto dal mulo è rimasto nelle mani dei ribelli; questa perdita mi ha trafitto il cuore.
«La nostra colonna fu obbligata battere un fuoco di ritirata, e riprendere il suo passo per Calatafimi, dove mi trovo io adesso sulla difesa.
«Siccome i ribelli, in grandissimo numero, mostrano d’attaccarci, io dunque prego V. E. di mandare istantaneamente un forte rinforzo d’infanteria, ed almeno un’altra mezza batteria, essendo le masse enormi ed ostinatamente impegnate a pugnare. Io temo di essere assaltato nella posizione che occupo, io mi difenderò per quanto è possibile, ma se pronto soccorso non giunge, io mi protesto non sapendo come l’affare possa riuscire. La munizione dell’artiglieria è quasi finita, quella dell’infanteria considerevolmente diminuita, sicchè la nostra posizione è molto critica, ed il bisogno pei mezzi di difesa mi mette nella più grande costernazione.
«Io ho settantadue feriti, non posso darvi esatto conto dei morti scrivendovi immediatamente dopo la nostra ritirata. — Con altro rapporto darò a V. E. un preciso ragguaglio.
«Finalmente io sottometto all’E. V. che, se le circostanze mi costringono, io devo senza dubbio, per non compromettere l’intera colonna, ritirarmi, e, se lo posso, in alto.
«Io mi affretto di sottomettere tutto ciò a V. E. perchè sappia essere la mia colonna circondata di nemici, di numero infinito i quali hanno assalito i mulini e preso le farine preparate per le truppe.
«V. E. non resti in dubbio sulla perdita del cannone di cui ho discorso. Io sottometto all’E. V. che il pezzo fu posto a schiena di mulo, il quale fu ucciso al momento della nostra ritirata, perciò non fu possibile ricuperarlo. Io conchiudo che da tutta la colonna si combattè con fuoco vivo dalle 10 antimeridiane alle 5 pomerediane, quando io feci la nostra ritirata.
A. S. E.
Il P. Castelcicala.
Il generale Comandante M. Landi».
Questo rapporto del generale Landi cadde nelle mani dei nostri, e dall’ajutante Türr, vi furono aggiunte le seguenti osservazioni:
«Il cannone fu preso nell’atto di far fuoco, ed essendo sulle sue ruote è segno che il mulo non fu ucciso, ma piuttosto che i due muli appartenenti al cannone caddero nelle nostre mani.
«Il gran comandante non fu ucciso fortunatamente per l’Italia. Quanto alla bandiera, essa non era di battaglione, ma semplicemente delle tante che esistono a volontà, e che il bravo Schiaffini aveva seco portata al di là della colonna, ove morì colpito da due palle.
«Il general Landi può mostrare negli annali della guerra un portabandiera simile?
«Ma basta leggere il suo rapporto per conoscere come egli fu servito da una forza vestita da villani, e che combattè con tutta l’anima per la libertà della patria.
Stefano Türr ajut. gen.»
27. Vedi Storia dell’insurrezione siciliana.
28. Scander-beg (Giorgio Castrioto), figlio di Giovanni Castrioto, principe d’Epiro e d’Albania, è giustamente chiamato da Pouqueville l’ultimo eroe della Macedonia. Nato nel 1404, dopo di aver disfatti i Turchi in più battaglie, morì di malattia a Lissa nel 1467.
29. Rosolino Pilo della illustre famiglia dei conti Capaci, era nato nel 1820.
30. Vedi op. c.
31. In causa del bombardamento rovinarono, oltre molte case di privati, quindici conventi e diciotto chiese, ciò che prova come in quella città sia eccessivo il numero de’ tempj e dei chiostri.
32. Vedi la Storia dell’insurrezione siciliana.
Certo signor E. de Gumoëns, ex-uffiziale borbonico, in una sua relazione su La campagne de l’armée napolitaine du Volturne a Gaëte (relazione inserita nel fascicolo XLII — 20 giugno 1861 — della Bibliothèque universelle de Genève), dopo d’aver detto, tra le altre belle cose, che l’ex-re Francesco era rempli des meilleures intentions et doué d’un cœur excellent, lagnasi perchè i nemici del borboncino hanno osato lui reprocher les quelques bombes que le fort de Palerme avait lancées sur des rebelles!
33. L’albo del garibaldino milanese contiene anche un breve cenno storico della città di Palermo, cenni che noi riportiamo in una nota, onde non annojare il lettore che non amasse d’essere sviato di troppo con narrazioni di cose che egli forse sa già da un pezzo.
Secondo Tucidide e Polibio, questa città venne fondata da una colonia di Fenicj. I Cartaginesi, che se ne impadronirono di poi, ne fecero la capitale dei loro possedimenti nella Sicilia, ed il centro di un animato commercio. Cadde in potere dei Romani nel 255 prima di Cristo, dopo che Metello ebbe riportato, sotto le sue mura, una segnalata vittoria sui Cartaginesi. I Romani le concessero molti privilegi, e fu considerata come città libera ed alleata.
Più tardi i Saracini la scelsero anch’essi a capitale dei loro possedimenti nell’isola. Roberto e Ruggiero la presero nel 1077. Da quell’epoca in poi essa fu sempre considerata come la capitale della Sicilia, e soggiacque a tutte le vicende alle quali andò soggetta quest’isola. Nel 1282 fu teatro del famoso Vespro siciliano. Nel 1676, il duca di Vivone bruciò nel porto di Palermo una flotta olandese. I Borboni vi si rifuggirono nel 1806 e, due anni dopo, gli Inglesi, onde proteggerla, vi recarono forze considerevoli, e vi si stabilirono militarmente sino al 1814.
34. Il maggiore Tückeri si era già segnalato a Kars, sotto gli ordini del generale Kmely.
35. Cairoli venne raccolto su di una barella; mentre lo trasportano, una cannonata mette in fuga i portatori e il ferito è sconciamente rovesciato sul terreno.
Il bravo Cairoli soffre tutt’ora per la sua ferita.
36. Rincresce anche a noi di non poter dare il nome di questo giovane, modesto al certo quanto eroico.
37. Vedi, Storia dell’insurrezione siciliana.
38. Vedi, op. c.
39. Quest’ultimo forse rammaricavasi che tra i borbonici vi fossero tanti suoi connazionali prezzolati.
40. Pochi giorni dopo, io riceveva una lettera, scritta in lapis, da mio fratello Giulio. Eccola:
Caro fratello.
Sto bene e ti scrivo a bordo dell’Elvetie, ancorata dinanzi a Cagliari.
La mattina del 10, alle ore due, ci imbarcammo a Sestri di ponente in 1200 — Fra due giorni, credo, partiremo per la Sicilia. Magni e Picozzi sono con me.
Addio. I saluti ecc.
G. O.
Tuo fratello.
Cagliari, il 2 giugno 1860.
41. Garibaldi’s Denkwurdigkeiten nach handschriftlichen Aufzeldinungen desselben, und nach authentischen Quellen bearbeitet und herausgegeben von Elpis Melena; 2 Band, Hambourg, 1861.
42. V. i Cacciatori delle Alpi.
43. La sera, per riposare e ristorarsi di quello stupido lavoro, scriveva le sue Memorie, le stesse che Elpis Melena, come abbiam detto, pubblicò in tedesco, e da cui noi cavammo queste notizie.
44. L’isola della Maddalena alla punta della moneta è separata da quella di Caprera da un stretto canale.
Elpis Melena, visitandola, vi conobbe tre Inglesi che l’abitano da tempo; i conjugi C... bizzarri eremiti, nella cui vita, dicono, si asconde qualche dramma misterioso, e il vecchio capitano R.... uno tra i più distinti uffiziali della marina inglese e che, finiti i suoi anni di servizio, si divertì per qualche tempo correndo i mari sul suo yacht; infine, attirato dal dolce clima di quel piccolo arcipelago, sedotto dalla caccia e dalla pesca tanto copiose in quei paraggi, si stabilì definitivamente in quella solitudine, ove egli offre un modello perfetto dell’eccentricità britannica.
Il capitano R..., che fu l’amico di lord Byron e di Shelley, rivelò ad Elpis Melena alcune notizie sulla misteriosa morte di quest’ultimo, le quali sono di grande interesse nella storia della letteratura inglese del secolo XIX. Noi le riprodurremo, certi di far cosa grata ai nostri colti e gentili lettori.
È noto che Shelley, nel luglio del 1822, perì in un naufragio sulla costa d’Italia, e si aggiunse (la è ormai una credenza consacrata dalla tradizione) che l’audace autore della regina Mab, dei Cenci, e del Prometeo liberato, rimase vittima d’una tempesta da lui volontariamente sfidata. Ora, Elpis Melena, ebbe dalla bocca del capitano R.... questi ragguagli.
«La sera prima del fatale avvenimento (le disse il capitano R...) Shelley assistette meco ad una festa datasi in onor suo e di Byron, a bordo d’un bastimento da guerra inglese, ancorato davanti a Livorno. Shelley, dopo la festa, montò in un battello a vela, accompagnato solamente da un suo amico di nome Williams, e si diresse verso Lerisi, piccolo villaggio situato sulla costa orientale della baja della Spezia, e presso cui sorgeva la villa del poeta. Poco dopo ci giungeva la notizia che i nostri due compatriotti avevano naufragato.
Io mi portai immediatamente con alcuni amici a Viareggio, ove trovammo i cadaveri dello due vittime, che il mare aveva rigettato sulla spiaggia. Ci facemmo tosto un dovere di render loro gli estremi ufficj; ma i pregiudizj degli Italiani contro la religione protestante (pregiudizj ancora tenaci in quell’epoca) non ci permisero di dar sepoltura ai due naufragati, sicchè altro non potemmo fare che bruciarne i cadaveri.
Io non dimenticherò mai il sublime spettacolo di questa cerimonia! (soggiungeva commosso il capitano R....) Venne scelto pel rito funebre un punto della spiaggia su cui si elevava una gran croce. A noi dinanzi spiegavasi il mare colle sue belle isole e, di dietro, la catena degli Apennini chiudeva maestosamente l’orizzonte; a destra e a sinistra la vista si perdeva entro i cespugli, e gli alberi dal vento marino stranamente contorti.
Il Mediterraneo era in perfetta calma; le onde cerulee si spingevano mormorando sulla sabbia giallastra della spiaggia, e il contrasto di questa sabbia dorata coll’azzurro cupo del cielo, offriva un quadro d’una magnificenza di tinte affatto orientale. Noi demmo principio alla lugubre cerimonia. Le fiamme che consumavano le spoglie dei nostri due amici, raggiunsero ben tosto la croce, appiedi della quale era la catasta, di modo che il simbolo cristiano, avviluppato alla base dal fuoco, apparve per qualche tempo come staccato dalla terra e sospeso nel cielo. Dal cadavere del poeta togliemmo il cuore, prima che le fiamme lo incenerissero; più tardi il cuore di Shelley, unitamente alle ceneri dei nostri due amici, vennero sotterrati a Roma nel cimitero dei protestanti.
S’è detto e ripetuto che il mare in quella notte fatale del giugno 1822, fosse agitato dalla tempesta e che Shelley abbia voluto sfidare gli elementi; altri affermarono che il poeta s’era annegato di sua volontà. Io affermo che non è vero; non un soffio di vento quella notte agitava il mare. Piuttosto io credo ch’egli abbia urtato contro qualche scoglio, o, ciò che è ancor più verosimile, sia stato di nottetempo violentemente urtato e calato a fondo da qualche bastimento.»
45. La Pineta è la più antica, la più bella, la più interessante tra le foreste d’Italia. La celebrarono Boccaccio, Dante, Dryden e Byron ecc. Si estende lungo la spiaggia dell’Adriatico al nord di Ravenna, circa trentacinque miglia; la sua larghezza è da uno a tre miglia.
46. Vedi le citate Memorie.
47. Con queste parole il maggiore Filippo Migliavacca, pigliava congedo da me, e da alcuni altri amici, il giorno prima di partire da Milano per Genova, onde imbarcarsi per la Sicilia. Pur troppo quel presentimento fu veritiero.
48. «Da posteriori notizie ricevute jeri, mercoledì, risulterebbe che l’Utile ed il clipper americano (il Charles and Jane) da esso rimorchiato, non sarebbero stati catturati nelle acque di Gaeta, ma poco distante dal Capo Corso.
«Il capitano d’una fregata napolitana, vedendo l’Utile tanto vicino da farsi udire, lo salutò in francese, chiedendogli ove fosse diretto.
«Quelli dell’Utile, credendo che la fregata fosse francese, risposero con fragorose grida: Vive la France! Vive l’Italie! Vive la Sicile! A’ bas les Bourbons de Naples!
«A queste grida la fregata napolitana rispose con due cannonate e fece prigionieri l’Utile ed il clipper. (Vedi il giornale l’Opinione del 21 giugno 1860).
49. Vedi St. dell’ins. sic.
50. Vedi op. c.
51. Dopo la battaglia di Milazzo, cessato il fuoco d’ambo le parti, il comandante del Veloce ebbe ordine dal dittatore di portarsi nella rada di Milazzo, ancorando fuori del tiro del castello. Durante questo tragitto, un capitano mercantile del paese, arrivato a bordo del Veloce, fece scorgere al Liparacchi un brigantino carico di viveri pei Napoletani, e che attendeva occasione favorevole per disbarcarli. Il comandante del Veloce ebbe la tentazione di farne preda, ma non vi potè riuscire, perchè il brigantino, secondato dal vento e dalla notte, potè accostarsi agli altri legni Napoletani. Giunto alla meta ed ancorato al porto indicato da Garibaldi, un ajutante di questo salì a bordo e comunicò al comandante l’ordine di recarsi nel vicino porto di Milazzo. Egli ubbidì, e levò l’àncora; ma dato il comando, udì tre colpi insoliti nella macchina della fregata; il cilindro alla destra erasi rotto, quindi spargimento di vapore a segno che la macchina rendevasi momentaneamente inservibile. Ma avendo l’àncora levata, ed il vento venendo da terra, il bastimento s’accostò al forte, abbenchè subito si fosse dato ordine di far fondo. L’ajutante si incaricò di riportare l’accaduto al dittatore, e il Liparacchi, per ridursi col mezzo di rimorchj al porto fissato, lo incaricò, di mandargli quante barche poteva rinvenire. Molto tempo passò prima del ritorno dell’ajutante, e frattanto per sollecitare le manovra stabilita, la fregata erasi di nuovo messa in moto; ma il vento improvisamente aumentato, la fece ancora fermare. In questa situazione, nei piloti, ed in tutti gli ufficiali nacque la tema d’essere battuti dal cannone nemico, e dichiararono essere indispensabile uscire dal porto, e con le vele prendere la direzione di Palermo. Liparacchi si oppose a questo consiglio, mostrò quanto ciò fosse imprudente alla presenza d’un equipaggio formato di coscritti pescatori, e siccome voleva assolutamente dar corso agli ordini del generale, così fece ancorare di nuovo non curandosi della opposizione. Tornò l’ajutante senza i rimorchj, perchè disse non averne trovato, e siccome il generale dormiva, così era di avviso di ridursi in porto. L’operazione era difficile e lunga; l’alba spuntava, la fregata, ove fosse stata scoperta dal castello, sarebbe stata fulminata; non per tanto il Liparacchi e l’ajutante di Garibaldi insistevano perchè si andasse avanti, ma l’equipaggio, e gli ufficiali rinnovarono più fortemente le loro opposizioni.
Fu allora stabilito di riunire un consiglio di guerra a bordo, non per discutere sul comando del generale, ma piuttosto per decidere se il legno era tanto in pericolo da doversi allontanare dall’ancoraggio. Il comandante, primo ad esporre la sua opinione, disse essere suo precipuo dovere l’eseguire l’ordine avuto da Garibaldi; che non vedeva tanto pericolo per la vicinanza del castello, e che giudicava assai più pericolosa la partenza per Palermo, non potendo usare della macchina. Fra sette, cinque furono contrari all’opinione del Liparacchi; l’ajutante partì forse senza riflettere che in quel momento, rappresentando Garibaldi, poteva imporre l’assoluta sua volontà e non lasciare alla decisione del consiglio ciò che fosse da farsi. Ne nacque che il comandante dovette salpare, e con le vele ridursi a breve distanza dal forte, sempre con la ferma idea di ritornare in porto, anche affrontando la contrarietà degli uffiziali.
Due ore dopo, due ufficiali del dittatore vennero a bordo; uno di essi condusse a terra il comandante del Veloce, l’altro rimase sul bastimento. Il Liparacchi fu condotto alla presenza di Garibaldi; questi si mostrò molto malcontento dell’accaduto; ma il Liparacchi fece qualche osservazione, e chiese essere assoggettato ad un consiglio di guerra. Il suo voto fu esaudito, e dopo alquanti giorni, non solamente il consiglio di guerra lo dichiarava innocente, ma Garibaldi stesso, rallegrandosi di quella decisione, lo rimetteva al suo posto, nel quale continuò a prestar servigj alla patria. (St. dell’ins. sic.)
52. «Ho veduto io con questi occhi (mi diceva il tenente Malagrida che fece parte della spedizione di Bronte) un contadino lacerare coi denti una mammella recisa dal petto d’una fanciulla.
53. Expédition des Deux-Siciles. Paris, 1861.
54. V. St. dell’ins. sic.
55. Anche il maggiore Ferdinando Lecompte, in un suo libro stampato di recente (L’Italie en 1860, esquisse des événements militares el politiques. Paris, 1861), paga un tributo di ammirazione ai grandi talenti militari del generale Garibaldi. Manco male!
56. Così, ma ben mollemente, parla di quel tiranno il Monnier.
«De 1848, en quelques jours d’angoisse, le jeune roi s’était changé en vieillard. Ses cheveux blanchirent tout à coup. Il avait trente-huit ans. Et depuis lors il n’a plus vécu à Naples. Il a retirè à son peuple les fêtes et les joies qu’il lui donnait autrefois, jusqu’à la musique militaire qui égayait son jardin royal tous les dimanches. Il boude, il sent qu’on ne l’aime pas. Il est plus captif que ses prisonniers politiques, il est plus exilè que ses proscrits. Il rode tristement de château en château; il se cache à Castellammare, à Caserte; il s’enferme l’hiver dans sa forteresse de Gaëte. Il vit misérablement, sans bonheur et sans plaisir» (M. Monnier, Histoire de la conquête des Deux-Siciles. Paris, collection Hetzel; 1861).
57. Morto a Rezzato nel 1859.
58. La potenza di Garibaldi sugli animi è veramente grandiosa ed acquistata coi mezzi più semplici e più naturali. Garibaldi è l’uomo «senza educazione militare» il «fortunato avventuriere» per gli allievi delle accademie militari, dalle coste del Piemonte, fino alle coste della Russia. Ma non lo è per gli uomini che hanno cuore ed intelletto. Agli occhi d’ogni vero soldato, egli è un gran generale, e come egli sappia condurre rilevanti masse di truppe sopra un più vasto campo di battaglia, tuttochè egli adoperi altri mezzi che gli alunni delle scuole pedantesche, lo dimostrò nello stesso anno alla battaglia decisiva del Volturno, il 1 ottobre.
(Rüstow; La guerra italiana del 1860, pag. 163. Milano, 1861).
59. Vedi il capitolo 1 a pag. 10 di questo romanzo.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.