The Project Gutenberg eBook of La Campagna del 1796 nel Veneto

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Title: La Campagna del 1796 nel Veneto

Author: Eugenio Barbarich

Release date: February 1, 2004 [eBook #11305]
Most recently updated: December 25, 2020

Language: Italian

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Di prossima pubblicazione:[1]

La Campagna del 1796 nel Veneto.

PARTE II.—Dal ponte di Lodi alla manovra di Lonato e Castiglione.

EUGENIO BARBARICH

Capitano di stato maggiore

——

LA CAMPAGNA DEL 1796
NEL VENETO

——

PARTE PRIMA
LA DECADENZA MILITARE DELLA SERENISSIMA
UOMINI ED ARMI
ROMA ENRICO VOGHERA, EDITORE

——

1910

Roma, 1909.—Tip. E. Voghera

INDICE

   I.—Le fonti della milizia veneta
  II.—L'amministrazione centrale della guerra.
       Savio di terraferma alla scrittura e le magistrature
       militari
III.—Ufficiali grandi e piccini
  IV.—Le truppe assoldate
   V.—Le milizie paesane
  VI.—L'artiglieria veneziana
VII.—Il corpo degli ingegneri militari
VIII.—La cavalleria veneta. Le armi nel loro complesso, il governo ed
       il riparto difensivo e territoriale. I veterani
  IX.—L'addestramento della truppa veneta
   X.—Dei bilanci militari
  XI.—Conclusione

IN MEMORIA
DI
FRANCESCO PESARO
TENACE PROPUGNATORE NEL VENETO SENATO D'UNA VENEZIA FORTE.

PREMESSA

Ayez les choses de première main; puisez à la source!….

(LA BRUYÈRE.—Maximes)

Il presente studio non vuol essere che una prefazione intesa a far conoscere l'ambiente militare ed i personaggi che accompagnarono la Serenissima al sepolcro. Perchè, se esiste qualche opera di indubbio valore intorno all'armata della Veneta Repubblica, poco o nulla di edito si trova relativamente al suo esercito, quasi che fosse argomento trascurabile nella vasta trama delle politiche vicende dello Stato nato sul mare e per il mare.

Ora questa presunzione non è equa. Qualunque ramo dell'attività pubblica merita riguardo e considerazione, e soltanto il giudizio particolare sopra ciascun ramo dell'attività medesima può mettere capo ad una sintesi illuminata e completa.

Al caso concreto poi dell'attività militare veneta, cimentata nei tempi dello splendore alle tenaci e vittoriose lotte contro i Turchi in difesa della Cristianità, dei commerci e dell'incivilimento contro la barbarie, sembra argomento cospicuo di studio l'esame dell'evoluzione di questa attività giunta al termine del suo ciclo ed il coglierla quando sta per accasciarsi sopra sè stessa come una persona fatta decrepita, pavida ed intransigente.

Questo dal lato puramente soggettivo della speculazione storica. Ma v'ha ancora un altro argomento di peculiare interesse che può spingere all'indagine intorno alla decadenza militare della Veneta Repubblica.

L'ambiente della storia presenta ricorsi di singolare rilievo, suggestioni forti e spontanee sulle quali, a determinati periodi di tempo, non sembra nè vano nè inutile riportare il contributo positivo degli studi e della meditazione, affinchè traccino a loro volta norma ad un nuovo ricorso di fatti.

E Venezia, con gli svariati suoi atteggiamenti della politica, dei commerci, dell'arte, dell'incremento economico e marinaro, è soggetto che volentieri s'impone oggigiorno allo spirito ed alla fantasia e li occupa con l'inesauribile fascino di una figura dalle perfezioni classiche. L'opera del Molmenti sulla storia di Venezia nella vita privata simboleggia l'espressione più bella ed alta di questi sensi.

Per le cose della decadenza e della rovina militare della Serenissima i documenti non scarseggiano. V'ha anzi plètora, come per solito accade dei periodi storici e sociali di debolezza e di dissolvimento, i quali sono pur sempre anche i più loquaci e papirofili, perchè appunto sono i meno attivi e materiati di fatti.

E questi documenti assai numerosi e del tutto inesplorati nelle grosse filze del Senato militar e dei provveditori Foscarini e Battagia all'Archivio di Stato dei Frari in Venezia, oltre che illustrare il periodo storico singolarmente considerato, gittano per riverbero nuova luce sulle operazioni dell'esercito francese e del generale Buonaparte, da Lodi a Leoben.

Sicchè studiando questo brano di storia militare inedita nel campo pratico delle vicende storiche e militari nostrane, si stende la mano a quella meravigliosa messe di studi e di documentazione delle guerre napoleoniche che ci viene d'oltre Alpe, e che con i volumi del capitano Fabry spinge innanzi la bella marcia delle indagini fin sulla soglia degli Stati Veneti, all'Adda ed all'Oglio nella primavera dell'anno 1796[2].

Roma, dicembre 1909.

E.B.
NOTA BIBLIOGRAFICA

Non può essere copiosa, una nota bibliografica quando gli argomenti dell'indagine si riferiscono pressocchè esclusivamente all'inedito. Nondimeno occorre citare a questo punto qualche opera di interesse generale utile per inquadrare la materia particolare dello studio presente.

La documentazione inedita, riferita più specialmente alla raccolta «Deliberazioni Senato Militar» e «Deliberazioni Senato Militar in Terraferma», si trova singolarmente descritta per ogni argomento di trattazione.

L. CELLI.—Le ordinanze militari della Repubblica Veneta nel secolo XVI.—Nuova Antologia—Vol. LIII—Serie III—Fascicoli del 1 settembre e 1 ottobre 1894.

F. NANI MOCENICO—Giacomo Nani—Memorie e documenti—Venezia, Tip. dell'Ancora, 1893:

V. MARCHESI.—Tunisi e la Repubblica di Venezia.—Torino, Roux edit.

A. MENEGHELLI.—Vita di Angelo Emo.—Padova, 1836.

M. FERRO.—Dizionario del Diritto comune e Veneto.—Venezia, Santini
Edit. 1845.

S. ROMANIN.—Storia documentata di Venezia—Vol. IX, Venezia, 1850.

8. ROMANIN.—Lezioni di storia veneta.—Firenze, Le Monnier, 1876.

P. MOLMENTI.—Storia di Venezia nella vita privata—Parte Terza—Il decadimento.—Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1908,

CASONI.—Forze militari (in Venezia e le sue lagune, Vol I).

A. RIGHI.—Il conte di Lilla e l'emigrazione francese a Verona. (1794-1796)—Perugia, Bertelli edit., 1909.

E. PESENTI.—Angelo Emo e la Marina Veneta del suo tempo.—Venezia.
Naratovich, 1899.

LA CAMPAGNA DEL 1796 NEL VENETO
PARTE PRIMA

LA DECADENZA MILITARE DELLA SERENISSIMA [Blank page]

CAPO I.

Le fonti della milizia veneta.

La sera del 2 giugno 1796 deve essere stata assai tragica per i senatori veneziani convenuti al casino del procuratore Pesaro, alla Canonica[3], per deliberare intorno a gravi oggetti concernenti la Repubblica. Il provveditore generale in Terra Ferma, Nicolò Foscarini, aveva avuto il dì avanti, sotto Peschiera, un colloquio burrascoso con il generale Buonaparte, nè gli era riuscito a rabbonirlo che a prezzo di dolorose abdicazioni per la dignità della vetusta Serenissima. E l'uomo nuovo, con la visione dinanzi agli occhi di sconfinati orizzonti di gloria, si era trovato di fronte all'uomo del passato, che vedeva chiudersi per la sua patria quegli orizzonti medesimi sotto il velo grigio e melanconico del tramonto.

Il generale Buonaparte aveva accusato il Senato Veneto di tradimento per avere permesso giorni avanti agli Austriaci di occupare Peschiera, di slealtà per avere dato asilo in Verona al conte di Lilla, di parzialità colpevole—come egli diceva—per male corrispondere alle pressanti esigenze di vettovaglie e di carriaggi da parte dell'esercito francese, di neutralità violata infine in vantaggio dei nemici suoi, gli Austriaci.

Ora, di tutto questo, Buonaparte aveva dichiarato al vecchio Foscarini di doverne trarre aspra vendetta per ordine del Direttorio, incendiando Verona e marciando contro Venezia. Il rappresentante Veneto, atterrito, era riuscito alla fine a indurre il focoso generale a più umani consigli ed a salvare Verona, ma più con l'aspetto della sua desolata canizie che con la virtù della parola, a condizione però «che le truppe «del generale Massona fossero ammesse in città, occupassero «i tre ponti sull'Adige, avvertendo che le minime rimostranze «che si imaginassero di fare i veneti riuscirebbero il segnale «dell'attacco[4]».

Tra l'incendio e l'occupazione militare non era dubbia la scelta, ed al Foscarini fu giocoforza di cedere. Duramente Buonaparte aveva rifiutato al vecchio provveditore perfino il tempo necessario, per prendere gli ordini dal Senato e lo aveva accomiatato «con i modi che il vincitore detta leggi al vinto[5]».

Era il principio della fine della Serenissima. All'udire i dolenti messaggi del Foscarini, l'accolta dei senatori veneti alla Canonica, pavida, discorde, sfiaccolata, non trovò altro rimedio al male che spacciare due Savi del Collegio a Verona per assistere il provveditore in altri colloqui con il generale Buonaparte, quasi che il loro mandato fosse quello di sorreggere con le dande gli estremi passi del valetudinario diplomatico e della agonizzante Repubblica.

La fiducia nelle arti della parola e del protocollo rappresentava ancora, agli occhi dei contemporanei, l'ultima àncora di salvezza, perchè i tempi di Sebastiano Verniero e di Francesco Morosini erano trascorsi da un pezzo. Ed i due nuovi eletti in quella tumultuaria adunanza notturna per implorare mercè al vincitore di Dego, di Millesimo e del ponte di Lodi, furono Francesco Battagia e Nicolò Erizzo I. Essi partirono sùbito alla volta del campo francese sotto Verona, recando seco «40 risme di carta di buona qualità, 12 risme di carta piccola da lettere lattesina, 2000 penne, 3000 bolini grandi ed altrettanti piccioli, 36 libbre di cera Spagna, un barilotto di inchiostro, 6000 fogli di carta imperiale, registri, spaghi e spaghetti in grande quantità».[6] La burocrazia aulica della Serenissima, in difetto di soldati e di armi, così provvedeva alla difesa delle sue città murate e del suo territorio.

A quel tempo, l'esercito veneto si era oramai consunto per vecchiezza. I lunghi e sfibranti periodi di pace e di neutralità in cui l'inazione suonava colpa e l'assenteismo politico della Repubblica, prolungata offesa alla dignità del vecchio e glorioso Stato italico, l'abbandono, lo scadimento d'ogni istituto, lo scetticismo e l'indifferenza, avevano siffattamente prostrata la milizia veneziana da imprimere sul suo volto, un tempo già gagliardo e raggiante per le vittorie d'Italia e d'Oriente, le rughe più squallide della decrepitezza ed il marchio più profondo della dissoluzione.

La bella e radiosa visione del monumento a Bartolomeo Colleoni, fiera ed energica come il suggello di una volontà prepotente, stupenda come l'annunzio di una vittoria pressochè astratta dall'ordine dei tempi, grado a grado si era dileguata nell'esercito della Serenissima, come svanisce un sogno carezzato alla luce di una triste realtà. * * *

Il nerbo degli armati della Serenissima traeva origine da due provenienze distinte: i mercenari e le cerne. E queste e quelli, per la comunanza del servizio sul mare, ritraevano un tal carattere anfibio che imprimeva alla milizia veneta fisionomia ed atteggiamenti del tutto diversi dalle altre milizie contemporanee.

Queste due fonti si erano nel passato così bene intrecciate assieme, da dar vita ad un fiume ricco d'acque e poderoso nel quale, in determinati e non infrequenti periodi della storia, si erano come trasfuse tutte le tradizioni militari dei Comuni e degli Stati dell'Italia.

Il mercenarismo rampollava dalle antiche compagnie di ventura e ne aveva dapprincipio tutto il sapore e tutto lo spirito, considerate le forme repubblicane della Serenissima e le tendenze della sua società aristocratica e marinara. Questo spirito, a grado a grado, si era modificato e quasi plasmato sotto il ferreo stampo fortemente unitario degli istituti veneziani del Rinascimento; sicchè il mercenarismo, tratto fuori dal martellare delle passioni partigiane e dall'angusta cerchia delle passioni cittadine, aveva alla fine assunto in Venezia una individualità più piena, lineamenti più decisi e sicuri da organismo di Stato.

Infine la medesima stabilità ed unità degli ordini oligarchici veneti, l'èsca dei largheggiati premi, il miraggio delle accumulate ricchezze, il cemento glorioso del sangue prodigato per un vincolo mistico e positivo insieme—quello della fede e della pubblica economia rivendicate sotto i fieri colpi del Turco—avevano contribuito ad imprimere a quel vecchio istituto militare del Trecento una fisionomia veneta. schiettamente originale, che sembrava quasi fusa dentro l'orma formidabile del leone di San Marco.

Nel frattempo il periodo eroico della guerra di Cambrai, delle lotte di Candia e delle campagne del Morosini erano volti al tramonto.[7] La Serenissima divenuta più sollecita di conservare che di conquistare, aveva stimato savio consiglio quello di fare più largamente partecipi de' suoi beni i propri soldati, specie i mercenari dalmati, allo scopo di meglio stringerseli dattorno con i vincoli della gratitudine e dell'interesse, con quei legami di amorevolezza che suscitano il reggimento paterno e la coscienza della solidarietà delle fonti del comune benessere.

Questo cammino, che sapeva del romano antico, pareva bello e fiorito ma celava non pochi rovi e non poche spine. La Serenissima, fatta vegliarda, largheggiò per troppa debolezza in autonomie, in franchigie e donativi a benefizio de' suoi soldati di mestiere, ed apparecchiò fatalmente a sè medesima ed alle istituzioni militari quella rovina che, in altri tempi, aveva annientato il vigore delle colonie legionarie di Roma. Anzitutto, quella continua e gagliarda corrente di forze fresche e nuove che, dal littorale dalmata, rifluiva ai dominî di Terraferma e di Levante per rinsanguare le schiere dei così detti reggimenti di Oltremarini—levati in origine per servire sulle navi—cominciò ad inaridire pel tralignare degli ordini feudali in Dalmazia e pel diffondersi del benessere nelle repubbliche marinare e nei municipi liberi. Infine, il difetto di stimolo alle audaci imprese—primo incentivo allo spirito di ventura—e le lunghe paci, lo asfissiarono e l'uccisero come sotto le distrette di una enorme camicia da Nesso. Le angustie finanziarie compirono l'opera.

Così le truppe levate per ingaggio tanto Oltremare che in Italia principiarono a morire a sè medesime. Francesco Morosini già da tempo aveva avvisata questa lenta ruina, quando per mantenere a numero il suo esercito del Peloponneso aveva dovuto ricorrere ai rifiuti di pressocchè tutti i mercati d'uomini d'armi d'Europa ed incettare, coi Toscani e Lombardi, anche gli Svizzeri, gli Olandesi, i Luneburghesi ed i Francesi; di guisa che con cosiffatta genia—come egli disse—corse rischio non già di dettare legge al nemico bensì di riceverla dai suoi soldati medesimi[8].

Nel 1781, come risulta dai piedilista, ruoli organici e stanza dei corpi insieme delle milizie venete redatti dall'inquisitore ai pubblici rolli, mancavano 654 oltremarini nei presidi di Levante, 353 in quelli di Dalmazia, 263 in quelli del Golfo e 42 infine in quelli d'Italia. In totale 1312 soldati oltremarini mancanti, su 3449 che dovevano essere presenti alle armi in quell'anno, suddivisi in 99 compagnie ed 11 reggimenti.[9]

In questo intervallo i nobili dalmati—feudatari un tempo, poi condottieri eroici e devoti delle milizie venete di ventura, modificate e migliorate nel senso di cui sopra è cenno—si erano venuti imborghesendo grado a grado [10]. L'antico privilegio loro di levare e di vestire i propri fanti con le vistose casacche cremisine e di donarli poscia, come in simbolo di fede ardente e di accesa devozione alla Serenissima, era degenerato col tempo e diventato un mercimonio tra le mani venali degli ingaggiatori, dei capi-leva e degli ingordi racoleurs.

La Serenissima tentò dapprima di ravvivare i sopiti spiriti bellicosi di quella nobiltà, un po' distratta dalle fortune commerciali della Repubblica ragusèa, dalle libertà comunali di Spàlato e di Zara e dalle autonomie di Poglizza, col largire nuovi privilegi, decime, concessioni e bacili di formento. Ma la prodigalità attizzò alla fine l'avarizia e non accese i desiderati spiriti di patriottismo, talchè i deputati et aggionti alla provvigion del dinaro nell'agosto del 1745 si videro obbligati a porre un freno alla disastrosa ed infruttuosa corrività della Repubblica verso la nobiltà dalmata; corrività che minacciava, di rovinare le «camere (tesorerie) di quelle province, costringendo per questo oggetto a farsi più abbondanti et frequenti le missioni di pubblico danaro per le esigenze di quelle parti» [11].

Nè più valeva a risollevare l'intisichito spirito di ventura tra i Dalmati—i mercenari per eccellenza—l'imagine della forza e della potenza guerriera della Serenissima. Le parvenze esterne dell'imperio, alle quali si affidava buona parte del suo prestigio presso le popolazioni soggette, erano precipitate a quel tempo in uno stato di abbandono colpevole. «Le fortificazioni di Levante, della Dalmazia e dell'Albania—scriveva nel 1782 il brigadiere degli ingegneri Moser de Filseck al Doge—sono in uno stato di desolazione tale da commuovere a riguardarle… A Zara, ogni parte delle opere componenti i recinti e le fortificazioni è in rovina… Spàlato è in decadimento, ed un nemico può eseguirvi un colpo di mano, a suo talento… Lo stato infine del forte S. Francesco a Cerigo fa rabbrividire pel decoro del Principato»[12].

Le armi vecchie e rugginose avevano dunque disamorato i venturieri a detergerle in Italia, ed Oltremare. Restava soltanto qua e là per la Dalmazia ed in Levante qualche guizzo del fulgore antico, raccomandato ad un sentimento di gratitudine giammai sopito nel cuore delle genti d'altra riva dell'Adriatico verso la Veneta Repubblica, che le aveva raccolte sotto le proprie ali nei tempi più travagliati della Cristianità e difesi contro il Turco. Ed a questi sentimenti, le ultime compagnie di ventura italiane avevano raccomandato i loro estremi giorni di vita a Venezia.

* * *

L'altra fonte delle milizie venete era rappresentata dalle cerne , che fornivano soldati dei luoghi ordinati con previdenze territoriali, specie di Landwehr che si levava in tempo di guerra o di neutralità a rincalzo dei mercenari, cioè dei provvisionati. Le cerne venete, o soldati d'ordinanza, emanavano adunque direttamente dal pensiero politico e militare di Nicolò Macchiavelli, che volle l'istituto delle milizie nazionali tratto dal popolo pedestremente armato[13].

Costituiva il nerbo delle cerne l'elemento rurale dei domini di Terraferma e d'Oltremare, cui la Serenissima aveva fatto larghe concessioni per rinfrancarlo nel suo innato spirito conservatore ed adescarlo a servire, lietamente ed in buon numero, nella milizia regionale. Di queste prime pratiche conservò memoria il Bembo.

«Deliberò il Senato—egli scrisse—che, nel Veronese, l'anno 1507, un certo numero di contadini che potessero armi portare, si scegliesse e descrivesse; i quali all'arte militare si avvezzassero, e costoro liberi da tutte gravezze fossero, acciò più pronti alle cose della guerra essere potessero, e chiamati alle loro insegne incontanente v'andassero. Il qual raccoglimento di soldati di contado agli altri fini della Repubblica (come suole l'uso essere di tutte le cose maestro) in breve passò e si diffuse. Il perchè ora le ville ed i ragunamenti degli uomini del contado di ogni città, parte de' suoi hanno che a questa cosa intendono, di essere armati ed apparecchiati di maniera che, senza spazio, alla guerra subitamente gire e trovarsi e servire alla Repubblica e per lei adoperare si possono. E queste genti tutte soldati di ordinanza, o cernite, si chiamarono»[14].

La guerra della lega di Cambrai, combattuta per l'integrità dei domini della Signoria, consolidò questa milizia paesana e la fece popolare, ad onta dei tentativi fatti per denigrarla—più che tutto dopo lo sbaraglio di Vailate—per opera dei troppo interessati fautori delle milizie assoldate, gli industriali della guerra d'allora. In sostanza, si voleva rovesciare sopra i soldati di ordinanza un po' di quel discredito e di quella noncuranza di cui gli eserciti regolari furono sempre prodighi verso le «guardie nazionali».

Il grande vantaggio delle cerne consisteva, anzitutto, nel loro costo sensibilmente minore in confronto del necessario per mantenere un eguale numero di soldati di mestiere. Toccava infatti al comune di descriverle, di armarle e d'inquadrarle in centurie; laddove questo còmpito, per i soldati di mestiere, toccava ai capi-leva che ne ritraevano un utile per sè e per la compagnia. Anche i gradi delle cerne, fino a quello dei capi di cento incluso, si attribuivano di massima per elezione nei villaggi che contavano il maggior numero di descritti.

Gli obblighi di questi ultimi erano limitati a cinque mostre o rassegne annuali (mostrini), oltre a talune riviste straordinarie (generali) in luoghi designati, con il comune consenso dei soldati medesimi, escluse però le fortezze, le terre murate, i castelli ed i grossi villaggi. Epperciò le rassegne si compievano d'ordinario in rasa campagna.

Le cerne dovevano presentarsi alle rassegne con le armi che avevano personalmente in consegna dai comuni, come si pratica per lunga tradizione nella Svizzera: le assenze erano punite con la descrizione a galeotto, oppure con la multa di 5 ducati[15]. In queste rassegne le cerne ricevevano la polvere da moschetto, il piombo e la corda occorrenti per confezionare li scartocci, i quali erano poi verificati dai capitani alla presenza dei capi di cento.

Con queste munizioni i soldati si esercitavano al palio, vale a dire al tiro a segno nei campi appositamente stabiliti.

Dal lato economico adunque le cerne rappresentavano un notevole vantaggio per le finanze della Signoria, una vàlvola di sicurezza all'aprirsi delle guerre, perchè esse esimevano lo Stato dal ricorrere—sotto la pressione del bisogno e sotto il giogo della domanda—al mercato sempre sostenuto dei soldati di mestiere.

* * *

Ma il vantaggio delle milizie paesane non era solo d'indole economica—cosa per certo non disprezzabile tenuto conto delle angustie finanziarie in cui versava la Serenissima verso la sua fine—ma anche di natura morale. Lo schietto spirito di regionalità di cui erano come impregnate le cerne, il quale traeva origine dai sani e vigorosi succhi della terra, conferiva loro molto prestigio e dava affidamento di moralità grande, laddove i soldati di mestiere, rifiuto della società del tempo, erano rappresentati dal generale veneto Salimbeni come «sentina d'ogni vizio».

Dalle cerne infatti erano esenti i capi di famiglia, per un patriarcale riguardo riferito alle cose della guerra e nelle famiglie stesse non si descriveva più di un soldato per ognuna, tenendo fermo il concetto di non ammettere in questa milizia che sudditi genuini della Repubblica. Dalle cerne erano inoltre esclusi i servitori, i girovaghi, i condannati ed i galeotti, sicchè l'elemento di esse era incomparabilmente migliore di quello dei soldati di mestiere, tra i quali si accoglievano «tutti gli oziosi ed i vagabondi che dalla Terraferma si spediscono in castigo nelle province di Oltremare, per cui cresce la massa dei vizi e delle corruttele nella truppa, e sono cagione della poca disciplina e del fisico deperimento di essa»[16].

Passate quindi le guerre unicamente ispirate al concetto della difesa dei dominî italici, prese il sopravvento la presunzione dei riguardi dovuti in uno Stato marinaresco e repubblicano alla libertà individuale dei propri sudditi, che si voleva completamente arbitra di esplicarsi, senza restrizione alcuna, secondo il miglior rendimento delle energie di ciascuno di essi. La tolleranza dei pubblici uffizi, il benessere diffuso, il vezzo delle neutralità ripetute invariabilmente allo aprirsi di ciascuna campagna, a partire dalla sciagurata pace di Bologna (1530), invogliarono le genti già disamorate delle armi a colorire codeste teorie di liberismo militare con le tinte più accese dell'arte tizianesca. E la presunzione, oppure la consuetudine, per l'ignavia degli uomini e per la debolezza dei tempi acquistò alla fine vigore di legge. La Repubblica, ricca ed imbelle, poteva ben concedersi anche il lusso di comperare i soldati di cui abbisognava per la difesa de' propri domini.

Principiò così a diffondersi la costumanza delle tasse militari, o tanse, cioè del prezzo di riscatto dal servizio dovuto nelle cerne, con il cui prodotto componevasi un fondo destinato ad assoldare altrettanti mercenari. Gli artieri ne approfittarono subito, poi i barcaiuoli veneziani e gli ascritti alle scuole di Santa Barbara, da cui levavansi i cannonieri dell'esercito della Serenissima. E le tanse acquistarono fin d'allora la denominazione di insensibili, perchè essendo ripartite per arte su tutte le persona che le componevano, ne venivano a risultare delle quote d'affrancazione individuale dal servizio molto tenui; vale a dire quasi insensibili.

Cresciuto il favore delle tanse, crebbe in parallelo la corrività delle cassazioni, cioè delle esonerazioni tra le cerne, e divenne facile l'esimersi dal servizio facendosi sostituire per denaro da un altro soldato tratto dalla medesima milizia. Le rassegne caddero col tempo in dissuetudine, si trascurò la vigilanza da parte dei comuni, e questo primo e magnifico esempio di landwehr veneta principiò a languire ed a morire[17].

Nella Dalmazia le cerne furono introdotte da Valerio Chierigato intorno all'anno 1570, e si denominarono craine o craicinich. Ma per gli stessi motivi dianzi esposti, esse erano scadute sul finire della Repubblica anche da quelle parti e le loro sorti si erano già accomunate con quelle dei soldati oltremarini o di mestiere.

Così delle due fonti essenziali della milizia veneta—eredità dell'arte italica del Cinquecento—i soldati prezzolati e le cerne, gli uni sopravvivevano ancora alle ingiurie dei tempi ma tutti squassati e ridotti come una larva di sè medesimi, le altre erano pressochè scomparse dalla scena della vita militare veneziana, o si consideravano tutto al più come un rudere di un vetusto edifizio abbandonato da gran tempo. In questa guisa delle due grandi correnti che alimentavano le vecchie armi della Serenissima e formavano, insieme commiste, un fiume regale gonfio d'acque e fecondo d'energie, non era rimasto che l'ampio alveo, tutto pantani ed acquitrini dai quali emanavano miasmi e malaria.

CAPO II.

L'amministrazione centrale della guerra. Il Savio di terraferma alla scrittura e le magistrature militari.

Come il rendimento di una macchina ottimamente costituita si commisura dalla somma di attriti che riesce a vincere, sicchè il suo lavoro procede rapido, silenzioso e produttivo, così l'opera proficua di uno Stato si arguisce dall'armonia degli sforzi de' suoi organi direttivi e dal loro coordinamento, in modo che tutte le energie abbiano impiego e non si smarriscano in sterili conati, o per superfluità di uffizi o per contraddizione di còmpiti.

Ora la macchina statale veneta della decadenza era complicata e rugginosa, epperciò assai pigra e poco produttiva. Aveva addentellati con molteplici sopravvivenze feudali, intrecci con privilegi oligarchici, vincoli con un proteiforme organismo amministrativo burocratico e cancelleresco onusto d'impiegati; sì che tutto impaludava nello apparecchio e nelle forme e poco o nulla rendeva nella sostanza[18]. L'amministrazione della guerra poi—che per il suo istituto più risentiva delle sopravvivenze del passato—era così multiforme e farraginosa da incontrare attriti ed intoppi ad ogni passo.

Le cose della guerra mettevano capo al Collegio, ossia al Consiglio dei ministri della Repubblica, composto di 16 membri, o Savi[19].Di questo Collegio facevano parte il Savio di terraferma alla scrittura ed il Savio di terraferma alle ordinanze; i due centri esecutivi dell'amministrazione delle milizie di mestiere e delle milizie paesane, cioè delle cerne.

Il Savio alla scrittura era preposto, oltre che all'ordinamento delle milizie stanziali, anche a quello delle fortificazioni, delle artiglierie e delle scuole militari, e traeva il nome dall'antico suo ufficio di tenere cioè al corrente i ruoli dei soldati ingaggiati. Era, in sostanza, il ministro della guerra della Serenissima.

Il Savio alle ordinanze sopravvegliava invece al governo delle cerne e corrispondeva ad un vero e proprio ministro alle Landwehr, cioè ad un centro organatore della difesa territoriale.

Queste supreme magistrature militari, come le altre del Collegio, erano elettive. Più antica—per ragione di precedenza storica delle milizie prezzolate sulle paesane—era la carica di Savio di terraferma alla scrittura, il cui istituto venne riordinato al principio del XVI secolo, quando cioè le armi della Serenissima più sfolgoravano per i domini d'Italia ed oltremare[20]. Più recente era invece il saviato alle ordinanze, largamente citato nella riforma di quelle milizie dettata da Giovanni Battista Del Monte (1592).

Il Savio alla scrittura (come gli altri membri del Collegio) durava in carica un semestre, ma poteva essere rieletto quando fosse spirato un intervallo di sei mesi almeno dal decadimento dell'ultimo mandato. Ne derivava perciò una specie di oligarchia politico-amministrativa, vincolata o ad una determinata consorteria oppure ad un monopolio nei pubblici affari. La molteplicità degli uffici burocratici accentuando i danni di tale esclusivismo rendeva la macchina statale rigida, lenta ed improduttiva.

Per le cose della milizia questo monopolio politico ed amministrativo doveva essere temperato, in origine, dalla carica del generale in capo. Straniero, di regola, esso era destinato ad impiegare le truppe in guerra—sotto la responsabilità dei provveditori del Senato incaricati di sorvegliarlo a mo' dei commissari della Repubblica di Francia—ed in pace a suffragare della sua autorevole esperienza l'apparecchio delle armi e degli armati.[21] Il generale in capo doveva essere infatti una specie di responsabile tecnico, mentre il Savio alla scrittura non era altro che un semplice amministratore dei fondi destinati dalla Serenissima al mantenimento ed all'armamento dei propri soldati. Ed essendo la carica di generale in capo vitalizia, non pareva gran male che gli uffizi amministrativi si alternassero attorno ad essa, con vicenda più o meno frequente, emanando da una ristretta base nella scelta delle persone a ciò deputate.

Ma poichè si resero sempre più rare le guerre ed il vezzo delle neutralità le confinarono alla fine tra i ferrivecchi, la benefica influenza moderatrice del generale in capo sulle magistrature militari, politiche e burocratiche, cominciò a scadere, fintantochè scomparve del tutto. Rimasero i danni ed i pericoli delle consorterie, senza argine e senza riparo.

Dopo lo Schoulemburg, distinto generale sàssone cui la Signoria aveva conferito il titolo di maresciallo e l'incarico della difesa di Corfù, nel 1716; dopo i generali Greem e Witzbourg—tutti stranieri ed eletti generali in capo delle forze venete—per amore di economia[22] o per mal concepite diffidenze verso una carica che sembrava oramai destituita di ogni significato pratico, essa passò in dissuetudine con il tacito consenso del Collegio, del Senato e del Doge. Da quel punto, il Savio alla scrittura si rinchiuse senza controllo nelle sue funzioni burocratiche e cancelleresche e diventò, alternatamente, o una carica monopolizzata dalle medesime persone—-salvo l'intervallo legale nella rielezione—quando si trovavano coloro che volentieri la disimpegnassero; oppure un caleidoscopio di persone diverse prive di competenza e di pratica[23]—

Sulla cooperazione del collega alle ordinanze non v'era oramai più da contare alla fine della Serenissima, perchè questa magistratura si era completamente atrofizzata. Per formarsi un'idea circa l'attività e l'importanza di quel Savio, basta citare alcune cifre relative al maneggio che esso faceva del pubblico denaro per l'amministrazione dipendente. Nel bilancio pel militar dell'anno 1737, solo 9511 ducati e grossi 21 erano assegnati al Savio alle ordinanze per le cerne, e ducati 309 e grossi 17 per le loro mostre e mostrini; e ciò sopra una spesa totale di 2,060,965 ducati e grossi 11 effettivamente fatta in quell'anno dalla Signoria per le cose della milizia [24].

I migliori Savi avvicendatisi nell'amministrazione veneta della guerra, non mancarono di levare la loro voce contro la soppressione della carica di comandante in capo; mancanza che abbandonava quei magistrati a sè medesimi senza l'appoggio di spiccate capacità militari che rappresentassero la continuità nello apparecchio degli uomini e delle armi; e più che tutti, Francesco Vendramin, il miglior Savio alla scrittura della decadenza della Repubblica. Questi nel 1785 dichiarava infatti al Doge che il malessere dell'esercito dipendeva dalla rinunzia, fatta da tempo, «di eleggersi un commandante supremo, dalla cui sapienza e virtù si possano ritrarre quei lumi e direzioni che valghino a sistemare in buon modo le truppe» [25].

Ma, ad onta di queste franche parole—come sempre le usava il Savio Vendramin—il generalissimo tanto invocato non venne a rialzare i depressi spiriti militari dei Veneti, e rimase la burocrazia che non passa [26]. Questa intensificò anzi l'opera sua, così da avvolgere il Savio alla scrittura in una rete inestricabile di intralci e di formalità innumerevoli.

Esaminiamo in particolare codesto viluppo, congegnato a bella posta per troncare i nervi ad ogni energia. Il Savio alla scrittura nell'esercizio delle sue funzioni aveva rapporti con tutte le magistrature politiche, marinare e civili d'Italia e d'oltremare. Quanto al reclutamento ed agli assegni in ordine alla forza bilanciata, egli aveva relazioni con l'Inquisitore ai rolli, con il Savio Cassier e con i magistrati sopra camere, o tesorerie provinciali: quanto al reclutamento ed all'ordinamento delle cerne, egli doveva accordarsi con il collega deputato ad esse. Per le cose attinenti il servizio anfibio dell'esercito sulle navi armate, egli doveva intendersi con i Savi agli ordini per le milizie, con i Provveditori generali da Mar, con quelli in Dalmazia ed Albania, con i Provveditori att'Arsenale ed, infine, con il Capitanio del Golfo (contado delle Bocche di Cattaro).

Per il riparto ed il servizio territoriale delle truppe, il Savio alla scrittura doveva prendere accordi con i capitani e podestà delle province, con il magistrato e con il sopraintendente all'artiglieria, con il provveditore alla cavalleria, con il sopraintendente del genio e con i provveditori alle fortezze.

Lo. sfruttamento dell'industria privata—usato sempre in buona misura dalla Serenissima per le cose della guerra—obbligava inoltre il Savio competente ad una continua vigilanza sui deputati alle miniere, per quanto si riferiva l'industria metallurgica della Bresciana e del Bergamasco, e sui capi delle maestranze per le industrie estrattive dell'alto Cadore.[27]

Oltre a ciò, per quanto riguardava il servizio sanitario, l'amministrazione della guerra era in rapporti continui con i provveditori agli ospedali e con i capi religiosi di talune confraternite incaricate dell'assistenza degli infermi[28]; per quanto concerneva il servizio di commissariato, con i magistrati sopra biade e frumento, con i Savi alla mercanzia e con i provveditori all'agricoltura; per quanto rifletteva infine l'amministrazione della giustizia, con il missier grande, o capo della polizia esecutiva, e con i governatori alle galere dei condannati.

Nè si arrestava a questo il frantumamento delle autorità militari venete, spesso discoste l'un l'altra ed animate da interessi contradditori, e l'intralcio con le magistrature civili. Nei rapporti aulici e cancellereschi, era deputato ogni settimana un Savio designato a turno nel Collegio—epperciò detto Savio di settimana—per esporre al Senato le proposizioni ed i decreti deliberati dal Consiglio. Tale costumanza, per certo assai comoda, non era però in pratica molto giovevole per la trattazione degli affari—specie dei militari—rimettendo il patrocinio di essi a mani del tutto inesperte o ignare.

* * *

Consideriamo ora un poco questa mastodontica macchina burocratica in azione. Nel 1784, solo per riformare alcune parti del vestiario e dell'equipaggiamento della fanteria veneta, riputate o troppo incomode o troppo costose, convennero assieme in più conferenze il Savio alla scrittura attuale ed uscito [29], i Savi alla mercanzia in numero di cinque ed il magistrato sopra camere. Ciò nondimeno, dodici anni dopo, la riforma non era ancora del tutto attuata tra le file dell'esercito veneto.

Fino dal 1775 il Savio alla scrittura e l'Inquisitore ai rolli, concordi, deploravano in Collegio e presso il Principe le tristissime condizioni in cui versavano le artiglierie e le armi portatili, alle cui deficienze non era più in grado di porre rimedio il vetusto Arsenale di Venezia. Soltanto sette anni dopo il grido d'allarme venne raccolto da Francesco Vendramin, in una delle sue riconferme al Saviato alla scrittura, e la questione venne finalmente da lui posta dinanzi al Doge con criteri da industria di Stato meglio che moderni.

L'industria militare privata aveva tenaci e floridissime radici a Venezia, e le armi bianche venete, assai pregiate nella tempra e nel lavoro del cesello, [30] avevano una fama incomparabile. Cresciuto poi il favore delle armi da fuoco, degli archibugi e delle artiglierie navali e terrestri, le fucine della Bresciana vennero procacciandosi nell'industria manifatturiera quel nome che si è tramandato fino ai giorni nostri.

La trasformazione decisa e cosciente dell'industria militare privata in industria di Stato, avrebbe quindi corrisposto in modo mirabile alle esigenze economiche e tecniche della Serenissima, poichè avrebbe consentito di ridurre con immenso vantaggio economico l'improduttivo organismo dell'Arsenale e di sostituire al suo lavoro, o lento o negativo, quello più proficuo delle maestranze dei metallurgi e degli artieri, organizzati e disciplinati in forme corporative tradizionali, vigilate per di più di continuo dalle magistrature apposite.

Così fu concluso, nel 1782, un contratto con la Società mercantile di Girolamo Spazziani, mediante il quale essa si assumeva l'obbligo—usufruendo delle due migliori fonderie e miniere dal Bergamasco—[31] di fornire alla Serenissima entro 14 anni, in lotti proporzionali, le artiglierie di cui abbisognava; e cioè 35 cannoni da 30 libbre,[32] 52 da 14, 24 da 12, oltre le munizioni, gli attrezzi e gli armamenti necessari. Lo Stato si sarebbe garantito della buona qualità delle forniture, obbligando la ditta Spazziani ad uniformarsi strettamente nella fondita dei pezzi alle regole all'uopo prescritte dal maresciallo Schoulemburg, e con l'assoggettare le bocche da fuoco a speciali prove forzate da compiersi al Lido, a spese esclusive della società assuntrice ed alla presenza del magistrato all'artiglieria.

Queste prove dovevano essere da due a quattro per ogni pezzo da collaudarsi, ed i pezzi rifiutati si dovevano restituire alla ditta per essere rifusi e nuovamente esperimentati. Nel contratto infine erano comminate penalità e multe alla ditta Spazziani, al caso di inosservanza di impegni da parte della medesima.[33]

L'artiglieria veneta, con il concorso dell'industria privata, poteva e doveva quindi rinnovarsi tra il 1782 ed il 1796. In questo periodi di tempo dovevano inoltre rifondersi o ristaurarsi le bocche da fuoco dichiarate inservibili, e non erano poche in quel tempo: 82 cannoni di diverso calibro, 85 colubrine, 63 sacri e passavolanti, 180 petrieri, 5 mortai, 9 trabucchi ed 1 bastardo.[34]

Se così fosse stato, la Serenissima all'aprirsi della campagna del 1796 avrebbe avuto 536 bocche da fuoco disponibili, nuove del tutto o riparate; e non si sarebbero visti sui rampari di Verona «i pezzi così malandati, i letti (affusti) così rôsi dal tempo… che se fosse occorso di maneggiarne taluno non si saprebbe come eseguire l'ordine».[35]

* * *

Ma per assicurare tali vantaggi all'esercito sarebbero occorsi continuità di vedute nell'amministrazione della guerra, preparazione, vigore di energie da parte delle persone elevate all'ufficio di Savio alla scrittura, accordo infine deciso e cosciente di tutti nell'attuare una riforma finanziaria ed industriale che avrebbe legato il nome della Serenissima ad un grande e razionale progresso nella pubblica economia.

Ora la vecchia e già tanto sapiente Repubblica, ridotta a lottare indarno contro la morte vicina, non poteva più trovare nel consunto organismo lo rinnovate energie capaci di redimerla dalla triste eredità del passato. Fino al 1786, cioè durante il periodi delle riconferme al Saviato di Francesco Vendramin—il ministro riformatore della decadenza militare veneta—le consegne della ditta Spazziani procedettero con ordine e regolarità, ma da quell'anno in avanti gli impegni cominciarono ad allentarsi finchè non ne rimase più traccia. Ai lagni in materia delle pubbliche cariche militari si rispondeva invariabilmente con delle buone promesse, con caute direzioni, con voti e parole, mentre i mali reclamavano urgentemente fatti, mentre gli ufficiali attestavano «che in Dalmazia ed in Levante vi sono ancora compagnie di fanti armate ancora dei fucili dell'ultima campagna[36]… si che il solo smontarli e rimontarli, ogni volta che pulir si debbono, basta a renderne un gran numero fuori di servizio».[37]

Vero è che per i fatti, oltre che alla ferma e cosciente volontà dei deputati a compierli, occorre anche il danaro; e questo, come succede del sangue in ogni organismo indebolito, è il primo a scarseggiare nei governi travagliati dalla decadenza. Alla fine della seconda neutralità d'Italia—cioè subito dopo la guerra per la successione di Polonia—lo sbilanzo, o deficit delle finanze veneziane, era infatti salito a 770-784 ducati all'anno, ed all'amministrazione della guerra toccò di scontare queste falle con sacrifizi e con lesinerie le quali finirono per annientare del tutto la compagine materiale e morale dell'esercito.

«Con queste riduzioni—diceva un rapporto al Principe—il corpo delle truppe non può oramai più supplire con la propria forza agli essenziali bisogni dello Stato… e quindi occorre sia tolto da quel languore e miseria in cui presentemente esso si trova, somministrandogli i mezzi di cui ha bisogno»[38].

Ma anche sa questo punto la voce del Savio Vendramin predicò invano, ed i denari non vennero—ironia del caso—se non quando si trattò non già di apparecchiare armi ed armati in difesa della Repubblica, ma di mantenere lautamente due eserciti sul suo suolo, nemici l'uno dell'altro, della Serenissima, ed entrambi emuli nell'opera triste di taglieggiarla e di calpestarla.

Ma ritorniamo al Savio alla scrittura ed alla sua fisionomia burocratica.

Quale magistrato supremo alla milizia esso, di regola, non abbandonava la Dominante—cioè Venezia—se non per compiere l'annuale visita al Collegio militare di Verona, in Castelvecchio, dal quale uscivano i giovani ufficiali di artiglieria e genio della Repubblica. Era questa una comparsa periodica all'epoca degli esami finali, che circondavasi a bella posta di solennità, sia nell'intento di lasciar traccia nell'animo dei futuri ufficiali delle milizie venete, sia in quello di ravvivare, a scadenza fissa, il prestigio ed il nome del Savio alla scrittura nella principale fortezza dei domini d'Italia. Ma le apparizioni erano troppo rapide e, sovratutto, affogate sotto il cumulo delle formalità proprie del manierismo incipriato del tempo.

Di una di queste visite si conserva traccia nel diario del Collegio militare di Verona. «Il Savio Alvise Quirini—dice il diario—partì da Venezia un mercoledì dopo pranzo del luglio 1787, alle ore 20, per Mestre. Aveva seco due staffieri ed un furier. Il legno era pronto a Marghera, con quattro cavalli ed il furier davanti, pure a cavallo. Al Dolo si cambiarono i cavalli: a Padova il Savio pernottò nel palazzo Quirini ed il provveditor straordinario di colà, Zorzi Contarini, gli diede scorta di due soldati a cavallo. Il giorno appresso (giovedì), alle ore 22 suonate, il Savio arrivò a Verona»[39].

In quella città un ufficiale della guarnigione venne subito comandato a disimpegnare la carica di aiutante presso il Savio Alvise Quirini, ed un'ora dopo l'arrivo di questi il tenente Zulatti, ufficiale di guardia alla piazza, venne a felicitarsi seco lui per l'ottimo viaggio compiuto e ad esibirsi, cioè a profferire servigi. Ma il Savio alla scrittura, congedati bellamente gli ufficiali venuti per fargli onore, andò ad alloggiare in casa del cugino Marin Zorzi, e la «tavola fu servita per quella sera dal locandier alle Due Torri[40], essendo stato convenuto il prezzo di tutto dal brigadier Mario Lorgna, governatore militare del Collegio. La sera stessa venne il brigadiere Lorgna a fare ossequio al Savio alla scrittura, e si combinò subito per verificare la scuola ed incominciare gli esami lo stesso giorno seguente. La sera poi il Savio andò alla comedia al Nobile Teatro ed il vescovo mandò il suo nome a casa Zorzi».[41]

CAPO III.

Ufficiali grandi e piccini.

Perduto è quell'organismo il cui cuore si attarda di spingere il sangue nelle vene. Ed il cuore ed il cervello si erano da tempo intorpiditi nell'esercito della Serenissima nelle persone de' suoi generali.

Quando il brigadiere Fiorella[42] nella notte dell'8 agosto 1796, all'avanguardia della divisione Serurier, reduce dalla vittoria di Castiglione si riaffacciava a Verona abbandonata giusto una settimana innanzi per rioccuparla d'ordine di Buonaparte, il generale Salimbeni comandante di quella piazza indugiò alquanto nel riaprire ai Francesi la porta di San Zeno. Il brigadiere Fiorella l'abbattè allora con alcune volate di mitraglia, e si trovò comoda scusa per il ritardo dei Veneti di rovesciare la colpa sulla tarda vecchiaia del Salimbeni.

Questo generale—si disse—oramai ottuagenario, incapace di montare a cavallo, costretto a servirsi di un carrozzino[43], non poteva trovarsi ovunque in quel trambusto della notte dell'8 agosto. E Buonaparte lieto delle riportate vittorie e del riacquisto di Verona, non fece gran caso di questi fiacche scuse dei Veneti, ondeggianti tra gli Austriaci padroni dell'interno della città ed i Francesi padroni delle campagne, oscitanti tra i vincitori ed i vinti.

La vecchiaia dei generali veneti esisteva nondimeno, e grave. Il Savio alla scrittura Francesco Vendramin l'aveva denunciata al Principe come il male precipuo che rodeva l'esercito, e scongiurava di provvedervi in tempo:

«Di eguale impedimento—egli così scriveva nel 1785—alle buone disposizioni della milizia in genere si è pure l'impotenza di non pochi ufficiali, specie delle cariche generalizie, che giunti alla più fredda vecchiaia, ritenuti dalle viste del proprio vantaggio, vogliono ancora continuare nel servizio sino alla fine della vita…..Sicchè, malgrado quella riverenza che si conviene alle pubbliche deliberazioni, mi è forza dire che, spesse volte, questo Augusto Governo è più commosso dalla pietà che dal proprio interesse, cui talvolta antepone le convenienze particolari di coloro che godono la distinta fortuna di essergli soggetti» [44].

Non si pensò però con questo a svecchiare gli alti gradi dell'esercito
Veneto.

Fino dal 1786, allo scopo di ripartire in modo equo e vantaggioso per il servizio i beni ed i mali delle diverse guarnigioni d'Italia e d'oltremare, il Senato aveva stabilito un turno di generali; ossia un determinato ordine di successione dei generali medesimi al comando dei quattro grandi riparti militari in cui si suddivideva il territorio della Repubblica[45].

Fu assegnato allora in Levante il sergente-generale Maroti, con i sergenti maggiori di battaglia Bubich e Craina; in Dalmazia il sergente generale Salimbeni—ricordato più sopra—con i sergenti maggiori di battaglia Nonveller ed Arnerich; in Italia il tenente generale Pasquali, con i sergenti maggiori di battaglia Stràtico e Bado. Dopo quattro anni questi generali dovevano mutare residenza, ma nel 1790—cioè allo spirare del primo quadriennio dacchè la determinazione fu presa—il sergente maggiore di battaglia Arnerich faceva sapere al Savio alla scrittura che egli non era più in grado di muoversi dalla Dalmazia, perchè diventato più che nonagenario.

E non soltanto i generali erano incapaci di viaggiare dall'Italia, oltremare e viceversa. Nello stesso anno 1790 anche i colonnelli brigadieri Macedonia e Gazo si dovettero lasciare alle rispettive guarnigioni, stante la loro tarda vecchiezza.

La gerarchia generalizia era poi troppo ristretta in confronto degli aspiranti. La piramide gerarchica nell'esercito Veneto si restringeva talmente verso il vertice da rendere necessaria una longevità pressochè biblica per raggiungerla. Nel 1781 i quadri dello stato generale erano: 1 tenente generale, 2 sergenti generali, 6 sergenti maggiori di battaglia, oltre ai sopraintendenti del genio e della cavalleria con il grado di colonnelli brigadieri. Il tenente generale era Alvise Fracchia-Magagnini di 85 anni, di cui 68 di continuato servizio; i sergenti generali erano Pasquali e Rade-Maina, vecchi colonnelli dei fanti oltramarini; i sergenti maggiori di battaglia Arnerich, Salimbeni, Maroli, Nonveller, Rado e Stràtico.

Non pochi di questi occupavano ancora le cariche generalizie nel 1796,
vale a dire che erano infeudati nell'ufficio da oltre tre lustri.
     *
    * *

Teoricamente i metodi per la elevazione degli ufficiali agli alti gradi dell'esercito dovevano essere di garanzia sicura per la bontà dei quadri. La procedura per la nomina delle cariche generalizie—esclusivamente devolute alla scelta—era infatti assai minuta, abbenchè non scevra di sospetti di favoritismo. A tenore della così detta legge di Ottazione, cioè di avanzamento [46], le vacanze nei gradi dovevano ripianarsi entro tre mesi dacchè avvenivano; tempo più che necessario per una scrupolosa valutazione dei titoli dei concorrenti, ma anche più che sufficiente per dar modo alle consorterie di raggiungere i propri fini.

I titoli presentati dai candidati formavano, nel loro assieme, i così detti piani di prova. Vi figuravano i lunghi e buoni servigi prestati sotto la vermiglia bandiera della Repubblica, le ferite, le malattie sofferte a motivo del contagio, le azioni di merito e—ove ne era il caso—anche le prigionie passate sotto i Turchi, i naufragi patiti e la perdita degli averi. Gli ultimi tempi imbelli della Serenissima avevano naturalmente assottigliato di molto il bagaglio eroico di codesti titoli, surrogandoli con i più modesti e comuni dell'anzianità e della età dei candidati, e su questi titoli si esercitava la retorica degli ufficiali concorrenti.

Il sergente maggiore di battaglia Antonio Maroli così faceva, ad esempio, nel 1782 l'apologia di sè medesimo, aspirando al grado del valetudinario Rade-Maina collocato finalmente a riposo:

«Fino dai primi anni Antonio Maroli si incamminò alla professione delle armi. Passato per la trafila dei vari gradi, con l'assiduità del servizio e con la provata sua abilità giunse, nell'anno 1768, ad occupare il grado di colonnello. Le attestazioni delle primarie cariche da Mar e degli ufficiali dello Stato generale e di molti altri graduati, rilevano di avere egli utilmente servito nel laborioso carico di sergente maggiore nella importante piazza di Corfù, impiegandosi pure, per varî anni, nella istruzione del reggimento, negli esercizi e nella militare disciplina anche in pubblici bastimenti in mar.

«Imbarcato sopra la nave San Carlo che tradusse a Tenedo il fu Ecc.mo Kav. Correr, bailo[47], si fermò sulla medesima in attenzione dell'arrivo dell'altro Ecc.mo bailo Francesco Foscari, ed in questo frattempo attaccatasi grave epidemia nell'equipaggio di detta nave si maneggiò egli presso i comandanti turchi per avere ricovero in terra… Nel sostenere i governi delle armi (comandi di presidio) di alcune città e fortezze nei differenti riparti di terra e di mar, eguale fu la di lui attenzione ed attività, che gli conciliò approvazione. Molto fu poi riconosciuta la di lui direzione nel seguito ammutinamento di prigionieri di Brescia per metterli a dover, nel quale malagevole incontro per 18 ore sostenne con coraggio il fuoco degli ammutinati, e gli toccò vedere ai suoi piedi ucciso un caporale e ferito un soldato»[48].

Le apologie più salienti dei piani di prova erano pubblicate per le stampe dai candidati più audaci o facoltosi, e diffuse per la Dominante ad apparecchiare terreno per le deliberazioni finali del Savio alla scrittura e del Senato. Era una specie di gara a foglietti, dai tipi vistosi e dalla studiata mostra delle benemerenze personali; una vera rassegna pubblica alla quale dovevano interessarsi non poco gli spettatori dell'epoca ciarliera e spensierata dei casini, dei caffè e delle gazzette.

Per troncare gli effetti della mala pianta il Senato, nel 1783, volle abolite codeste costumanze alquanto teatrali. Vietò ai candidati di rimanere a Venezia durante le elezioni delle cariche generalizie, e nel periodo di tempo immediatamente anteriore, ed in luogo dei piani di prova commise al Savio alla scrittura di compilare delle apposite note personali, da produrre alla Consulta al caso di ciascuna vacanza. La Consulta poi, avuto l'elenco dei migliori candidati, votava o ballottava su ciascuno di essi, in Pien Collegio, con quattro quinti dei voti e l'elezione si confermava da ultimo in Senato.

Eletto il nuovo generale, con le ducali di nomina se ne fissava anche lo stipendio.

* * *

Scendiamo ora dal vertice della piramide gerarchica verso la grande e massiccia sua base. Gli ufficiali veneti erano troppi per i soldati che avevano da comandare e per le attribuzioni che dovevano compiere.

Nel 1776 si trovavano nei reggimenti attivi 33 colonnelli, altrettanti tenenti colonnelli, 30 sergenti maggiori, 203 capitani, 31 capitani-tenenti, 184 tenenti, 237 alfieri o cornette per la cavalleria e 163 cadetti. In totale, 964 officiali sull'effettivo di 10,605 fazionieri o comuni che contava l'esercito veneto di quel tempo; e ciò senza tener conto degli ufficiali in servizio sedentario, alle fortezze, al corpo del genio, all'Arsenale, ai governatorati delle armi, alle scuole e di quelli infine con riserva di anzianità.

In sostanza, i quadri degli officiali della Serenissima avevano tutta l'aria di un grande stato-maggiore a spasso.

Il grosso di questo stato-maggiore proveniva dalla trafila della troppa, come ne fa fede lo scarso numero dei cadetti presenti alle armi nel 1776. Delle scuole militari esistenti a quell'epoca, il collegio di Verona provvedeva al reclutamento dei corpi di artiglieria e genio: quello di Zara, per la fanteria oltremarina, era ancora allo stato rudimentale.

Riformatisi in appresso questi due istituti, quello di Verona nel 1764 e quello di Zara nel 1784, una nuova ondata, di formidabili competitori venne ad affiancarsi alla vecchia corrente dei provenienti dalla troppa nello aspirare ai gradi, di ufficiale[49].

Dal Militar Collegio di Verona—come è noto—uscivano gli alfieri dell'artiglieria e del genio ed, accessoriamente, anche quelli di fanteria e di cavalleria. In queste ultime armi si transitavano però quegli allievi che, al termine dei corsi, riportavano una classificazione inferiore alla minima ritenuta necessaria per servire nelle armi dotte, o coloro infine che—per mancanza di posti—non trovavano più luogo nelle armi medesime. In questo caso i diseredati dalla sorte potevano aspirare a far ritorno alle armi cui aspiravano, concorrendo in turno ogni anno con i nuovi licenziati dall'istituto veronese.

Dal collegio militare di Zara uscivano gli alfieri dei reggimenti oltremarini e le cornette dei reggimenti di cavalleria. L'istituto esisteva fin dal 1740, ma per difetto di concorrenti aveva vissuto una vita stentata ed anemica fino al 1784, perchè la massa dei Dalmati aspiranti ai gradi dell'esercito preferiva la via più lunga ma più avventurosa del servizio anfibio sui pubblici legni e verso i confini turcheschi, a quella più tediosa e nuova degli studî e dei riparti d'istruzione.

Ma poiché—sotto l'impulso di Angelo Emo e del Savio Francesco Vendramin—l'amministrazione veneta della guerra accennò a battere nuove vie, ed il reclutamento degli ufficiali usciti dalle scuole parve destinato a soppiantare ogni altra provenienza, il conflitto tra il vecchio ed il nuovo, tra la pratica e la teoria, scoppiò clamoroso ed inevitabile. Si accese allora la guerra tra i fautori del tirocinio, dell'esperienza e dei titoli acquisiti, e quelli delle accademie delle prove e degli esami. I tempi grigi e fiacchi non offrendo verun'altra distrazione, fecero sì che gli ufficiali dell'epoca si ingolfassero in queste lotte sterili ed acerbe con l'ardore che proviene dall'ozio.

Mèta del tirocinio nei gradi di truppa era l'alfierato. Ad esso si perveniva pel tramite dei cadetti, da parte dei giovani provenienti dalle scuole, o per quello dei sergenti per parte dei borghesi e dei gregari di truppa. Gli aspiranti alla carriera delle armi usciti dalle buone famiglie veneziane, per essere ammessi nelle file dell'esercito quale cadetti dovevano contare almeno 14 anni di età. Per raggiungere lo stesso grado nella truppa occorrevano invece dai sei agli otto anni.

Dopo tre anni di buon servizio come cadetto, questi era promosso alfiere, se di fanteria e cornetta se di cavalleria; e con l'alfiere, detto per antonomasia il primo grado di goletta, cominciava il lungo e faticoso calvario dell'ascesa ai gradi di ufficiale[50].

Questi si conferivano nell'interno del reggimento fino al grado di sergente-maggiore. Ed i gradi erano quelli di tenente, di capitano-tenente, o comandante della compagnia del colonnello, di capitano, di sergente-maggiore, o comandante di battaglione: i gradi di tenente colonnello e di colonnello si conferivano a ruolo unico sulla totalità della rispettiva arma o riparto[51].

Per progredire nella carriera si doveva tenere conto delle prove comparative, dell'abilità, del merito e della anzianità dei singoli concorrenti [52]; requisiti tutti codesti domandati sia dalle anteriori leggi di ottazione, compilate da Francesco Morosini, sia da quelle redatte dal generale Molin (1695).

Nella pratica delle cose però l'anzianità ed il merito avevano la preminenza, comprendendosi sotto questo ultimo titolo le campagne di guerra, le ferite e le «occasioni vive», come dicevasi a quel tempo con vocabolo comprensivo per dinotare tutte le benemerenze dei candidati dovute comunque al rischio personale.

Ma cresciuto il favore delle scuole professionali, il merito e l'anzianità dovettero cedere di fronte all'abilità comprovata dagli esami, e con questi e per questi il Savio si proponeva di svecchiare i quadri dell'esercito.

L'alfiere doveva dar saggio di comandare in modo inappuntabile tutti gli esercizi della compagnia, in presenza del sergente maggiore, del colonnello e del tenente colonnello del reggimento. Egli doveva inoltre rispondere a tutte le interrogazioni che i detti ufficiali avessero creduto di rivolgergli sul Libretto Militar, ossia catechismo degli esercizi, e sul servizio in campagna compilato dal maresciallo Schoulemburg. Infine doveva rivelarsi provetto nel maneggio delle armi, della picca e della sargentina, conoscere la suddivisione del reggimento in plotoni, divisioni, ali, centro, dare ragione di tutti i tocchi di tamburo e superare alcune prove sulle matematiche elementari e sul disegno. Il tenente—oltre che dimostrarsi come l'alfiere idoneo nel maneggio del fucile e della picca—doveva saper compilare polizze di scansi, ossia liste di deconto individuale, redigere quietanze dei depositi di danaro che, eventualmente, i soldati gli avessero confidato, tenere al corrente la vacchetta, o giornale di presenza della compagnia, infine comprovare un'abilità professionale pari alla richiesta nelle prove degli alfieri.

In questi semplici esperimenti s'accanì quindi la lotta tra conservatori e novatori in materia di avanzamento, quando i programmi furono rimaneggiati con criteri restrittivi, specie per i gradi superiori. Nel giugno 1785, rendendosi vacante il posto di sergente-maggiore nel reggimento di fanti italiani Marin Conti, aspirarono ad esso tre capitani del corpo medesimo. Il verbale giurato di idoneità a sostenere le prove di uno dei candidati così si esprimeva:

«Facciamo fede, con nostro giuramento et vincolo di onore, noi qui sottoscritti graduati nel reggimento colonnello Marin Conti, dei fanti italiani, come il capitanio Michiel Antonio Gosetti ha sempre adempiuto alle parti tutte del suo dovere, con puntualità ed abilità in tutto quello che appartiene al pubblico servizio. Come anche nella subordinazione et obbedienza con i suoi superiori e con nostra intera soddisfazione egli non è mai incorso in verun militar castigo, nè si abusò di licenze per stare lontano dal proprio reggimento, adornato essendo di onorati costumi, degno adunque delle nostre veridiche attestazioni, per cui gli rilasciamo la presente perchè possa valersene»[53].

* * *

Gli esami da capitano a sergente-maggiore erano insieme pratici e teorici. Nei primi il candidato doveva sottoporsi alle prove seguenti:

«1°) Riconoscerà il battaglione in tutte le sue parti e lo ripartirà con i bassi uffiziali—2°) Farà la disposizione degli uffiziali e li manderà in parata—3°) Farà passare ufficiali e sottufficiali in coda per il maneggio delle armi—4°) Ordinerà e comanderà il maneggio delle armi, con li necessari avvertimenti—5°) Ordinerà due raddoppi di file, uno sulla sinistra in avanti, per mezzo-battaglione, l'altro che le divisioni delle ali raddoppino quelle del centro—6°) Si ridurrà in istato di battaglia—7°) Farà fuoco con quattro plotoni, principiando dalli quattro plotoni del centro—8°) Farà fuoco con due mezze divisioni dalle ali al centro—9°) Staccherà la marcia per mezze-divisioni in fianco, e si ridurrà in divisioni con passo francese (accelerato)—10°) Formerà il quadrato in marcia—11°) Farà una scarica generale—12°) Disfarà il quadrato e ridurrà il battaglione in istato di parata»[54].

Gli esami teorici comprendevano i doveri degli ufficiali di ogni grado, cominciando da quelli dell'alfiere e terminando con quelli del sergente maggiore, tanto nel reggimento che nella brigata. Le tesi trattavano del giornaliero servizio di piazza, del modo di accampare ed acquartierare il reggimento, di marciare con il reggimento da un luogo ad un altro, di imbarcarlo e di sbarcarlo in buon ordine, della maniera di tenere disciplinati gli ufficiali, i sottufficiali e la truppa, dei sistemi di redigere piedilista, dettagli, di passar rassegne, di distribuire infine i riparti nei quartieri e di raccoglierli nelle piazze d'armi[55].

Più caratteristiche erano le prove per l'arma di cavalleria, in quanto quest'arma poteva considerarsi esotica in un esercito a base marinaresca come era quello della Serenissima, anche nei tempi dello splendore. Così, nel marzo del 1795, rendendosi vacante in Verona il posto di sergente-maggiore[56] nel reggimento dei dragoni Colonnello Giovanni Antonio Soffietti, si presentarono candidati alle prescritte prove sei degli otto capitani comandanti di compagnia, e ad essi furono proposti i seguenti quesiti, da estrarsi a sorte in numero di quattro per ogni esaminando:

«1°) Data una distanza di 100 miglia, data la premura del comandante che il nostro squadrone arrivi quanto più presto possibile ad unirsi ad un'altra cavalleria colà esistente, e data infine la qualità del cammino, si ricerca in quanti giorni, senza troppo disagio, sarà compiuta la marcia e di quali avvertenze abbia a far uso durante il viaggio—2°) Acquartierata la cavalleria in una grossa terra in prossimità del nemico, quali saranno le precauzioni contro le sorprese—3°) Con quali avvertenze si custodiscono i prigionieri di guerra mentre si conducono al luogo loro assegnato—4°) In qual modo si scorta un convoglio di vittuarie passando per i luoghi sospetti—5°) Come si marcia alla sordina—6°) Contromarce per righe—7°) Come si mettono in contribuzione i villaggi nemici, vigente sempre il timore che il nemico ci sia alle spalle—8°) Se lo squadrone arrivasse ad un fiume inguadabile, che ripieghi si farebbero—9°) Lo squadrone, in colonna di divisioni, si trova su di una strada dove i cavalli non possono che marciare di passo: esso è forzato a ritirarsi facendo fuoco. Si effettui la relativa ritirata—10°) Modo di caricare contemporaneamente il nemico sulla fronte e sulle ali: la parte più forte sulla fronte, due parti minori sulle ali—11°) Attacco di cavalleria in un bosco—12°) Come si fa a foraggiare—13°) Cammin facendo, se si trovasse uno staccamento (distaccamento) nemico trincerato che ci impedisse di marciare, quale sia il partito migliore»[57].

Esaminiamo da ultimo le prove prescritte per l'artiglieria, allo scopo di formarci un giudizio esatto sull'entità degli esperimenti e sul grado, di istruzione degli ufficiali Veneti del tempo. Nel 1782, per gli aspiranti al posto vacante di capitano-tenente nel Reggimento Artiglieria si richiedevano le prove seguenti:

«1°) Le quattro prime operazioni aritmetiche, frazioni, radici quadrate e cubiche, regola del tre diretta ed inversa—2°) Sui primi sei libri della geometria—3°) Sulla trigonometria piana—4°) Sull'uso delle tavole balistiche per i tiri orizzontali ed obliqui—5°) Sopra la proprietà della parabola relativamente ai tiri di bomba—6°) Sull'uso della tavoletta pretoriana—7°) Sopra i vari generi di calibri dell'artiglieria—8°) Come si prendono le misure di un pezzo di artiglieria per farvi un letto (affusto)—9°) Quali sono gli apprestamenti usati nell'artiglieria veneta per il servizio delle artiglierie navali, murali e campali—10°) Quale è il modo di numerare le palle, bombe, granate, unite in piramide o in altra figura—11°) Come disporre le cose spettanti all'artiglieria sopra i legni armati al caso di combattere—12°) Come si forniscono le racchette ad uso di segnali e le candele ardenti ad uso delle minute artiglierie, le spolette e le bombe ad uso dei cannoni, mortai ed obusieri—13°) Come si misura il tempo in cui una bomba percorre un dato spazio—14°) Esercizi campali ed evoluzioni del Reggimento Artiglieria, giusta le istruzioni del brigadiere conte Stràtico» [58].

Per gli aspiranti al grado di sergente-maggiore nell'arma[59] alle menzionate prove si aggiungevano esami di meccanica, di stàtica, di resistenza delle bocche da fuoco, di potenza degli esplosivi, oltre ad esperimenti sulle manopere di forza e relativi comandi, sulle opere difensive e di fortificazione.[60]

* * *

Si spiega adunque come col crescere di tale florilegio scientifico, sbocciato come un'oasi nel campo uniforme degli umili fiori campestri dell'anzianità e delle occasioni vive, i giovani ufficiali usciti dalle scuole venete del tempo si trovassero in condizioni spiccatamente favorevoli in paragone dei canuti colleghi passati per i gradi inferiori di truppa. Molti di questi erano invecchiati nelle scolte sui diruti rampari della Repubblica, a Corfù, a Parga, a Zante ed a Cefalonia, si erano temprati ai miasmi mortiferi dì Prevesa, di Vonizza e di Butrinto, avevano scritto infine l'ultimo capitolo—per quanto assai mutato nel decoro guerresco—dell'epica lotta accesasi tra la Cristianità ed il Turco, dalle crociate a Lepanto e da Candia in Morea, vigilando come sentinelle perdute verso i confini musulmani sui lontani castelli di Dernis, di Clissa e di Knin.

Ed il bilancio del servizio di queste scolte fedeli—quasi fatte simbolo di una potenza della quale più non rimaneva che il nome—era solenne come un piccolo monumento di storia individuale. Storia dei tempi, fatta non già di novità sibbene di lunga e paziente attesa.

Sfogliamo un poco tra le pagine di codesti titoli vetusti. Dagli stati di servizio prodotti dai capitani Zorzi Rizzardi e Donà Dobrilovich al Senato per ottenere la loro giubilazione, risulta che il primo di questi era soldato dal 1734, cadetto nel 1740, alfiere nel 1753, tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1778, capitano nell'anno medesimo; vale a dire che aveva impiegato ben 51 anni di servizio per ottenere quest'ultimo grado, dei 68 di età che contava il postulante. Il collega Dobrilovich era soldato dal 1733, caporale nel 1739, sergente nel 1742, alfiere nel 1745, tenente nel 1766, capitano-tenente nel 1773 e capitano pure nello stesso anno: gli erano quindi occorsi 51 anni per raggiungere la desiderata mèta di comandante di compagnia, accumulando per via il fardello di ben 68 anni di età.

Nè gli accademici, per dir così, erano i soli a far concorrenza ai vecchi soldati della Repubblica. Oltre ad essi si dovevano contare gli ufficiali sopranumerari, cioè quelli il cui rollo di anzianità era per un motivo qualsivoglia sospeso, i provenienti dai nobili e dai figli degli ufficiali, ed infine i titolati, cioè coloro che in virtù di una grazia sovrana, per benemerenze personali o di famiglia, ricevevano un grado ed i relativi emolumenti senza però disimpegnarne gli uffici.

Ingrossata così la schiera dei competitori—talchè i cadetti nel 1781 erano cresciuti a 605, laddove nel 1776 toccavano il centinaio e mezzo appena—il malcontento dei vecchi ufficiali non ebbe più ritegno.

«Quando—dice un'istanza avanzata al Senato dal tenente Teodoro Psalidi, del Reggimento di Artiglieria—dovetti fare le prove anche nelle scienze matematiche, volendo aspirare al grado di capitano-tenente, e mi venne imposto di prestarmi in tali studi che non mi erano mai stati prescritti, mai insegnati dai miei superiori, cui infine non ebbi mai il tempo di applicarmi, mi cadde l'animo. Pensi dunque l'E. V. quanto inaspettato mi giungesse il nuovo precetto, grave e difficile, di immergermi in quei ardui studi nel periodo ristretto di 18 mesi, termine alle prove assegnato, e quanto fosse il mio svantaggio rimpetto ai giovani tenenti di me meno anziani, che tratti recentemente dal Militar Collegio di Verona avevano avuta la fortuna di essere da valenti maestri istrutti con ottima disciplina in quelle scienze»[61].

Nelle armi di linea, si impugnava in luogo delle tesi scientifiche il valore delle prescritte prove, per quanto si riferivano alla parte teorica del regolamento di esercizi e di quello sul servizio delle truppe in campagna. Il Senato ed il Savio, imbarazzati di fronte a questa selva di proteste che rimpinzavano di suppliche e di lagni le voluminose filze del carteggio, ordinarono infine alle commissioni reggimentali di rassegnare i titoli dei candidati e le prove di esame al Savio stesso, acciocchè questi potesse giudicare con uniformità, di criteri, come in ultimo appello. Ma non per questo i lagni cessarono: occorreva un rinnovamento profondo di uomini e di principi per porre rimedio al male, e questo rimedio non poteva essere nelle mani della vetusta Serenissima.

Era l'estate del 1796, quando il Savio alla Scrittura Leonardo Zustinian—già denominato in alcuni reclami con il vocabolo giacobino di cittadino—si risolse di proporre al Senato uno schema di svecchiamento dell'esercito, mercè una larga applicazione del sistema dei limiti di età, visto che quello degli esami aveva ormai dichiarato la sua bancarotta.

«Occorre—diceva il Savio Zustinian al Principe—purgare una buona volta la milizia dagli ufficiali inetti, di età troppo avanzata, ovvero affetti da mali incurabili… prescrivendo la giubilazione di questi con intera paga del rispettivo grado, a moneta di ogni riparto. E le norme che sembrano da stabilirsi, sono quelle di 70 anni di età per i graduati (ufficiali superiori), di 60 anni per i capitani, capitani-tenenti ed alfieri»[62].

Ma era troppo tardi. L'esercito Veneto cadeva giusto allora sotto la rovina della Repubblica, ed i provvedimenti escogitati dal Savio alla Scrittura Leonardo Zustinian non servirono ad altro che a formare argomento di curiosità nella storia della vecchia organica militare dei Veneziani, ed a fornire oltre a ciò un buon esempio atto a comprovare come talvolta ad eguali difficoltà, o molto simili, ad onta dei mutati tempi, si procura di far fronte con espedienti assai affini.

* * *

Sparpagliati nei diversi presidi d'Italia e d'oltremare, gli ufficiali della Serenissima non erano tra loro in eguali condizioni d'istruzione e di addestramento professionale. Quelli poi che soggiornavano nella Dominante, per le loro occupazioni da guardia oligarchica e per i loro contatti con le primarie cariche dello Stato, godevano di un prestigio che non aveva riscontro con gli altri colleghi dell'esercito.

Lo stesso carattere della milizia veneta—prevalentemente levata per ingaggio—contribuiva oltre a ciò a creare attorno agli ufficiali stessi un ambiente molto affine a quello in cui trascorrono oggigiorno la loro esistenza gli ufficiali di taluni eserciti delle libere repubbliche d'America.

Nullameno, ad onta di queste circostanze poco favorevoli dell'ambiente—cristallizzato nelle vecchie pratiche e nei vetusti pregiudizi, sopravvissuti ancora dal tempo delle compagnie di ventura e del Quattrocento—la decadenza militare della Serenissima brilla ancora per il nome di qualche ufficiale, salito in fama unicamente per virtù propria; ciò che è garanzia del suo merito indiscusso. E sono nomi cari non soltanto nel ristretto cerchio della Repubblica oramai moritura, ma eziandio in quello più vasto e luminoso della storia militare italiana.

Tra essi primeggia il brigadiere del genio militare Anton Mario Lorgna, da Cerea, fondatore di quel corpo; architetto, idraulico, topografo e matematico di gran fama, il cui nome va indivisibilmente congiunto alla riputazione del Collegio Militare di Verona, già grande prima della caduta di Venezia, talchè non pochi eserciti stranieri facevano a gara nel richiederne gli allievi al Senato[63] ed egregia anche dopo la caduta, talchè non sdegnò di occuparsene il Foscolo. Meritevoli di nota in questo periodo di tempo sono pure i nomi del maggiore di artiglieria Domenico Gasparoni, veneziano, ordinatore del Museo dell'Arsenale ed autore di una pregevole opera sull'artiglieria veneta dedicata al doge Paolo Senior[64]; del sergente maggiore di battaglia Stràtico, introduttore di considerevoli riforme nei regolamenti militari Veneti, ed infine di Giacomo Nani, per quanto quest'ultimo appartenga per provenienza alla marina, ma per anima e per circostanze della gloriosa sua camera delle armi all'esercito, intorno al quale scrisse il volume inedito dal titolo Della Milizia Veneta[65] e l'opera perduta relativa alla difesa di Venezia[66].

Gli stimoli per suscitare una nobile gara di emulazione e di benemerenze tra gli ufficiali Veneti erano ben pochi. Le stesse ristrettezze del bilancio impedivano perfino di assolvere il sacrosanto obbligo contratto dalla Serenissima verso i prodi combattenti sotto le bandiere di Angelo Emo, assegnando loro quel grado e quello stipendio che erano stati decretati dal Senato per merito di guerra[67]. Per questo titolo—abbenchè con molta minor frequenza—si assegnavano agli ufficiali anche delle medaglie d'oro, con l'impronta del leone di San Marco, del valore medio di 30 zecchini[68].

Ma per l'assenza di clamorose imprese, verso la fine della Repubblica anche questa costumanza, derivata dai tempi eroici, cadde in disuso, sicchè se ne ricorda a mala pena qualche raro caso. Tale è quello del capitano Gregorio Franinovich, del Reggimento Cernizza, decorato per speciali benemerenze ed atti di valore compiuti dal detto ufficiale in Levante[69].

E passiamo al rovescio della medaglia. Le punizioni degli ufficiali Veneti avevano, in prevalenza, il carattere di coercizione morale. Così l'ammonizione, l'arresto semplice, l'arresto più lungo, la sospensione dal grado, la notazione speciale sul libro-registro del servizio—della quale si teneva conto a suo tempo per la compilazione dei titoli di esame—infine l'esclusione o la sospensione temporanea dalle adunanze, o circoli di persone per grado e per nobiltà distinte[70].

* * *

L'antica foggia di vestire degli ufficiali era stata riformata nel 1789 sull'esempio degli Austriaci e dei Prussiani. In seguito a questa riforma introdotta dallo Stràtico, che compilò la relativa «Ordinanza contenente la prammatica e la disciplina relativa all'uniforme della fanteria italiana», tutti gli ufficiali veneti, dall'alfiere al colonnello, dovevano indossare la nuova divisa, non soltanto in servizio ma anche nelle presentazioni, negli spettacoli e nelle pubbliche solennità. Erano comminate punizioni a chi non ottemperasse a questi precetti o alterasse la foggia del vestire. E che tali mancanze non fossero rare, lo attestano le minuziose cure con cui l'Ordinanza sopra citata prevedeva i relativi casi.

«Tutti—soggiungeva l'Ordinanza—dentro un triennio dovranno avere la nuova uniforme, pena la sospensione dal servizio e la sottomissione a ritenute, finchè la nuova uniforme non sia fatta, oltre le notazioni da farsi sul Libro Registro, a pregiudizio dello avanzamento».

La pettinatura degli ufficiali veneti era liscia, con due bucali (riccioli), uno per parte delle tempia, sostenuti dalle forchette che giungevano fino a mezza orecchia: i capelli dovevano essere bene incipriati (polverizzati) e la chioma raccolta in una rete (fodero) di pelle nera.

Il principale capo di vestiario della fanteria italiana era la velada, o abito a coda di rondine di panno blò, foderato di roè bianco,[71] guarnito di un collarino e di balzanelle, o manopole, pure di panno bianco, adorno di grossi bottoni di metallo dorato con impresso, in cifre romane, il numero del corpo cui gli ufficiali appartenevano[72]. Gli ufficiali dei fanti oltramarini avevano l'abito di panno cremisi, come i soldati, e quelli di artiglieria di panno gris di ferro.

Nella stagione fredda si indossava da tutti un cappotto di panno bianco, della stoffa di quello usato per il bavero della velada, guernito di bottoni pure di metallo dorato e foderato assai spesso di una buona pelliccia. I calzoni d'inverno erano di panno blò e nella stagione calda di rigadino bianco forte.

L'abbigliamento degli ufficiali veneti era completato dal colletto di pelle nera lucida, dai manichini di buona tela batista, dai guanti di pelle gialla lavabile, dagli stivali di bulgaro cerato, dagli stivaletti di pelle nera da usarsi in estate, allacciati dalle cordelle, e dal cappello a tricorno.

I distintivi di grado si portavano sul cappello. L'alfiere non recava sopra di esso alcuna distinzione, i tenenti ed i capitani-tenenti si riconoscevano invece per una rosetta, o coccarda, mista d'oro e di seta azzurra, assicurata sull'ala sinistra del tricorno mediante un bottone ed un'asola (laccio) di seta nera. I capitani si distinguevano per due rosette simili alle anzi descritte, assicurate sopra ciascun'ala del copricapo: i sergenti maggiori, i tenenti colonnelli ed i colonnelli infine recavano tutti, senza distinzione alcuna, due rosette come i capitani, intessute però per intero di solo filo d'oro. Oltre a ciò il bavero degli abiti degli ufficiali superiori era ornato di un largo gallone d'oro mentre quello degli ufficiali inferiori ne era sprovvisto.

Anche i fiocchi delle spade e dei bastoni erano differenti per ogni grado. I bastoni dei subalterni erano guerniti di un pomo d'avorio, quelli dei capitani di un pomo di metallo liscio dorato: i bastoni degli ufficiali superiori non avevano altro distintivo che un risalto anulare disposto verso l'attacco del pomo alla canna. Le cinture ed i pendoni (tracolle) delle spade erano di pelle bianca lucida, con scudetti di metallo recanti in rilievo l'emblema del leone di San Marco: gli scudetti degli ufficiali subalterni erano semplicemente inargentati, quelli dei capitani inquartati dentro un ribordo dorato, quelli degli ufficiali superiori infine erano tutti dorati [73].

Quanto alle armi, abolita definitivamente la picca nel 1790, le lame delle spade, le fasce ed i puntali dei foderi dovettero, in tutto e per tutto, uniformarsi al modello prescritto dall'Ordinanza dello Stràtico.

* * *

Prima di lasciare l'argomento degli ufficiali veneti, occorre aggiungere ancora qualche cenno che valga a lumeggiare la loro posizione interiormente ed esteriormente all'ambiente militare del tempo.

I sistemi di ingaggio delle truppe—sopravvissuti a Venezia per lunga tradizione fino dall'epoca delle compagnie di ventura—riflettevano di necessità sugli ufficiali la fisionomia particolare di comandanti non tanto d'uomini, quanto di custodi di merce acquistata a suon di quattrini dalla Serenissima sul mercato dei soldati di mestiere.

Si spiega quindi come, dato tale ambiente, le occupazioni dell'ufficiale fossero in prevalenza amministrative, anzichè tecniche, educative e morali. Le tradizioni del reggimento, i ricordi dei principali fatti di guerra—che solevano tramandarsi egregiamente in Piemonte tra le milizie paesane—non avevano quindi un equivalente riscontro morale tra i Veneti, neppure tra le cerne dei migliori tempi della Serenissima. I soldati di mestiere avevano anzi smarrite tutte queste tradizioni, a motivo dell'avvicendarsi dei nuovi ingaggiati nei corpi, del frantumarsi dei riparti nelle varie guarnigioni e degli atteggiamenti diversi assunti dalle milizie venete della decadenza, divise di continuo tra il servizio di sentinella, quello ai daziere, di guardia confinaria e campestre, oppure di rincalzo ai satelliti degli Inquisitori di Stato.

Epperciò, all'infuori del comandante di compagnia, il cui compito era quello di amministrare il mezzo centinaio di uomini che la Repubblica gli confidava, per essere equipaggiato, armato e nutrito, nessun altro ufficiale aveva attributi speciali nell'ordine dell'educazione e dello apparecchio morale dei propri dipendenti. Neppure il colonnello aveva sotto questo riguardo particolari incarichi; che anzi, per l'uniforme costume di ridurre tutto quanto aveva attinenza al soldato al denominatore comune dell'amministrazione, seguendo la moda del tempo anche nell'esercito veneto sopravviveva la compagnia colonnella, alle cui funzioni contabilesche non potendo accudire di persona il capo del reggimento venivano da lui delegate ad un tenente anziano, detto perciò capitano-tenente. In analogia si regolava il tenente colonnello ed il sergente maggiore, che avevano pure essi la rispettiva compagnia, confidata figuratamente al governo di un capitano che ne faceva in realtà le veci amministrative in tutto e per tutto.

Dal capitano, comechè si trattasse di un vero e proprio possesso individuale, prendevano poi nome le altre compagnie, la cui anzianità e disposizione nelle manovra era fissata dall'anzianità del rispettivo comandante, dopo la compagnia del colonnello e degli altri ufficiali superiori del reggimento.

Il prevalente carattere mercenario delle milizie venete aveva inoltre, da tempo, avvezzi i governanti a considerarle quale strumento ligio all'oligarchia che le manteneva in vita; e tale modo di essere—contrario ad ogni libero svolgersi delle attività morali—si rifletteva necessariamente anche sul carattere degli ufficiali. Valgano a questo proposito due ordini di concetti: quello di servirsi degli ufficiali nelle operazioni poliziesche di maggior rilievo,—quale l'arresto fatto dal colonnello Craina, dei fanti oltremarini, del noto patrizio liberale Zorzi Pisani—e della fiscalità continua esercitata sopra di essi—specie sui comandanti di compagnia—in tutte le manifestazioni amministrative; ciò che contribuiva a far ritenere gli ufficiali medesimi come asserviti di continuo ad una specie di stato di tutela da parte delle maggiori autorità e magistrature competenti.

Ma, ad onore degli ufficiali Veneti, conviene pure soggiungere a questo punto che mai, nelle voluminose filze del carteggio militare della decadenza, si trova citato un caso che giustifichi codesta diffidenza fiscale, la quale d'altronde era connaturata nei tempi ed in molti eserciti d'allora, e che si è tramandata per qualche traccia perfino a giorni non lontani dai nostri [74].

* * *

Se la grande massa degli ufficiali adunque—quelli di Linea— trascorreva l'esistenza morale ed intellettuale in tale angusto cerchio di attribuzioni e di consuetudini, fatto ancora più uniforme dal grigio dell'inoperosità della decadenza repubblicana, ciò non toglie che qualche altro corpo di ufficiali stessi—a base più ristretta ed a reclutamento più omogeneo,—non intravedesse degli spiragli verso orizzonti più audaci o verso aspirazioni che precorrevano il futuro.

Il Collegio Militare di Verona, per le sue relazioni scientifiche con l'Università di Padova, per l'indole e la nazionalità di taluni suoi insegnanti, si prestava anzitutto da buon crogiuolo delle nuove idee ed a propalarle nell'esercito. Fino dal 1764 si lamentava infatti dal Savio alla Scrittura, che tra i giovani dell'istituto serpeggiassero «dei mali principi, pregiudicievoli alla buona morale, molto più ancora contaminata dalle massime di libertà che vien fatto di credere che si siano nel Collegio disseminate».

Tale sospetto motivò un'inchiesta, eseguita dal Savio alla Scrittura Marco Antonio Priuli, la quale accertò che tre ufficiali capisquadra del Collegio, «consumavano il loro tempo con la lettura di romanzi e di libri oltramontani, dei quali contribuiscono pure i giovani, avendosi giurata deposizione che si fossero vedute nelle mani di qualche alunno le opere di Volter (sic), e venendo perfino introdotto il sospetto che si leggessero quelle ancora di Niccolò Macchiavello».[75]

Gli ufficiali modernisti vennero sfrattati dal Collegio di Verona, e la mala pianta delle idee novatrici pareva del tutto spenta quando, nella primavera del 1785, vi si scoperse una loggia di Liberi Muratori, fondata da Giovambattista Joure, maestro di lingua francese nell'istituto, allo scopo di diffondere tra i futuri ufficiali veneti i principi delle nuove dottrine liberali, e «di restituire alfine l'uomo alla prisca libertà naturale, da cui la teocrazia ed il principato lo avevano allontanato».[76] A questa loggia «muratoria» militare deve avere partecipato molto probabilmente anche il colonnello Lorgna—poichè le adunanze degli affigliati si tenevano in certe camere dal medesimo occupate in Castel Vecchio—e, certamente, non pochi ufficiali della guarnigione di Verona appartenenti al corpo di artiglieria, come risulta dagli interrogatori del processo, nei quali sono spesso citati il maggiore alle fortezze Solidi e l'alfiere conte Rambaldo, da Legnago.[77]

Scoperta l'associazione, gli Inquisitori[78] sfrattarono subito il maestro Joure dagli Stati Veneti e sbandarono gli ufficiali ascritti alla loggia di Verona in diverse guarnigioni di terraferma ed oltremare. Nullameno, i germi diffusi dal Joure nel maggior istituto militare della Repubblica lasciarono traccia oltre al rogo dei libri e dei registri della loggia ordinato dagli Inquisitorì, ed essa traspare nel continuo fermento cui andò soggetto il collegio, da quell'epoca fino alla violenta sua soppressione accaduta per opera del generale Rampon, a metà luglio del 1796. Il desiderio di riforme era dunque la spinta principale di quei moti, intesi «a sovvertire l'attuale spirito di concordia, di pace e le leggi della sottomissione e del buon ordine che furono naturalmente stabilite» e di realizzare infine «delle novità nei metodi nello insegnare… non volendo ufficiali ed alunni più vivere soggetti».[79]

Pure anche questi germogli di giacobinismo, cresciuti come pianta sporadica all'ombra delle torri merlate del castello Scaligero di Verona, dovevano un giorno tornare utili alla Repubblica[80]. E ciò avvenne quando si trattò di spedire i primi messaggeri di pace al generale Buonaparte, sotto Brescia; messaggeri che il Senato volle servilmente prescelti fra gli antichi allievi del Collegio Militare veronese, nella speranza che il ricordo delle relazioni «muratorie», perseguitate un tempo e ritornate in onore per la circostanza, valesse a propiziare loro ed alla Repubblica l'animo del conquistatore.[81] E questi ufficiali furono il colonnello Giovanni Francesco Avesani ed il capitano Leonardo Salimbeni, inviati il 27 maggio 1796 a Brescia con il mandato di implorare grazia da Buonaparte per l'avvenuta occupazione di Peschiera, fatta pochi giorni avanti di sorpresa dagli Austriaci.

Di ufficiali inferiori dell'esercito infine, coimplicati in movimenti politici, non si trova traccia nel carteggio della decadenza militare veneta. E questo serve da conferma, tanto del carattere di guardia oligarchica—conservato dall'esercito stesso fino alla rovina del governo della Serenissima—quanto della infondatezza del timore da alcuni nutrito che esso avesse potuto tralignare in mano di audaci e di novatori.

L'espressione di questo sospetto di tradimento—naturale d'altronde in ogni organismo inesorabilmente votato alla rovina—si trova in talune «polizze» anonime trovate nei bossoli del Maggior Consiglio e del Senato durante l'anno 1796[82]. Queste «polizze» insinuavano di diffidare dell'ottuagenario tenente generale Salimbeni, comandante in capo delle milizie venete raccolte sotto la piazza di Verona e dei suoi figliuoli, tra i quali era il capitano Leonardo citato più sopra.

Uno di questi foglietti così diceva:

«Non prestar fede al generale Salimbeni».

Un altro ancora proclamava:

«Governo, nò ve fidè del generale Salimbeni, Recordève del
Carmagnola».

Un terzo riproduceva il rozzo disegno di una forca, con la scritta:

«Per il general Salimbeni».

Un ultimo infine insinuava:

«_Il tenente generale Salimbeni è giacobino coi figli ed adora solo l'oro,

Governo, guardatevi che non vi tradisca essendo più francese che suddito_».

CAPO IV.

Le truppe assoldate.

Tra il principio dell'assedio di Mantova e le giornate di Lonato e Castiglione i fanti oltremarini, per comando espresso dal generale Buonaparte, furono clamorosamente allontanati da Verona. Questi soldati—denominati volgarmente Schiavoni—raccolti in buon numero in quella città[83] andavano di certo a contraggenio al giovane generale francese. Forse egli li riteneva una specie di guardia pretoriana, ed imbevuto di studi e di prevenzioni sul governo dispotico degli antichi Stati d'Italia, ne deve avere desiderato lo scioglimento come un impegno civico commesso alla sua opera ed a quella del Direttorio di Francia. Rispondendo ad analogo concetto il generale Schèrer, sul finire del 1795, aveva imposto lo scioglimento dei corpi còrsi alla Repubblica di Genova[84].

L'indisciplina degli Schiavoni era d'altronde grande, documentata perfino dalle attestazioni del generale Salimbeni. Essa poteva prorompere ogni momento ad eccessi e costituire il focolare dei mal repressi spiriti di malcontento che serpeggiavano tra le popolazioni veronesi, taglieggiate, angariate, violentate nelle persone e negli averi. Certo, sotto questi riflessi, Buonaparte divinava in qualche misura l'esplosione cittadina delle Pasque Veronesi.

Anche le esigenze militari imponevano urgentemente ai Francesi di premunirsi da tale minaccia. La fortezza di Verona era diventata, ai primi di luglio del 1796, la loro principale base d'operazione contro l'esercito mobile degli Austriaci e contro la piazza di Mantova, il punto d'appoggio contro gli sbocchi dal Tirolo e dalla Val Sugana, la tappa intermedia dal Milanese e dal Bresciano nella vagheggiata marcia dei Francesi alla volta di Venezia, del Friuli e dei confini occidentali dell'Impero[85].

Occorreva perciò rompere subito gli indugi ed in quest'arte Buonaparte era maestro insuperabile. Il caso di un ufficiale francese ucciso per le campagne di Villafranca, qualche borseggio, qualche rissa accaduta fra gli oltremarini mal compresi dai soldati di Francia non famigliari con l'idioma illirico, porsero l'occasione propizia per imporre al Senato di sfrattare da Verona le casacche cremisine dei fidi dalmati.

Al generale Massena toccò di apparecchiare l'animo dei Veneti alla grave rinunzia. «Il est temps enfin, monsieur le provvediteur»—così scriveva quel generale a Nicolò Foscarini, il 4 luglio 1796—que les assassinats que vos soldats ne cessent de commettre envers les miens, finissent. Le général Rampon, commandant à Veronne, m'a dejà rendu compte que plusieurs de nos volontaires avoient été assassinés a coups de stilet, ou de sabre, par vos Esclavons»[86]. Tre giorni dopo Massena ribadiva ancora la sua tesi con cresciuta insistenza e protervia: «Par les piéces ci jontes Vous verrez que les assassinats continuent, et que les ordres que je presume que Vous avez donné pour les reprimer ne sont nullement suivis. Je Vous previens que si ces horreurs ne finissent pas, je ne pourrai plus Vous répondre des suites funestes q'elles causeront infalliblement»[86].

Infine, dopo il cupo rombo della tempesta lontana, venne il guizzo della folgore.

L'8 di luglio Buonaparte indirizzava al provveditore Foscarini la lettera che segue: «Il y a entre la troupe française et les Esclavons une animosité que des malveillaux, sans doute, se plaisent à cimenter. Il est indispensable, Monsieur, pour eviter des plus grands malheurs, ainsi facheux que contraires aux intéréts des deux Republiques, que Vous fassiez sortir demain de Veronne, sous les pretexes les plus specieux, les bataillons d'Esclavons que Vous avez dans la ville de Veronne»[87].

L'espressione della volontà del vincitore era chiara e precisa e non ammetteva replica. Essa si fondava per di più sulla presunzione che il contingente illirico stanziato a Verona fosse di molto superiore al mezzo migliaio di dalmati che vi teneva effettivamente guarnigione sui primi di luglio. Epperciò ogni tentativo per far recedere Buonaparte dalla determinazione presa riuscì vano, ad onta che il provveditore Foscarini, col collega Battagia, si fossero adoperati coi modi più soavi ed insinuanti a produrre l'effetto bramato. «Ciò però non servì ad altro—aggiungevano i provveditori—che a far prendere a Buonaparte un tuono ancora più deciso, sicchè abbandonando quelle maniere piacevoli colle quali ci aveva in prima accolti, disse che era tempo oramai che cessassero tutti gli scandali, e che fosse tolta radicalmente l'occasione a querele… e che senza dilazione di sorta gli Schiavoni si rimpiazzassero con Italiani, in quel numero che fosse piaciuto. Che egli poi (Buonaparte) non si curava di esaminare chi tra gli Schiavoni o Francesi avesse ragione o torto, che non dovevamo però ignorare che scambievole era tra queste due nazioni il livore e lo spirito di vendetta. E facendoci intendere che era necessitato di occuparsi di altri affari, ci obbligò subito a congedarci»[88].

Ai due rappresentanti di un potere oramai morituro messi così duramente alla porta, tra la vergogna del sottomettersi e l'incertezza dell'esito in una reazione improvvisata senza la ferma volontà di rinsanguarla con il braccio e con la fede, il primo partito parve più prudente e conforme alle necessità dell'ora. E gli Schiavoni, all'alba del 9 di luglio—come Buonaparte aveva voluto—uscirono da Verona di soppiatto, come fuggiaschi di fronte alla fatalità di un destino che incombeva sul loro capo come su quello dei governanti della Serenissima. Le casacche cremisi, che mai avevano indietreggiato per lungo volgere di anni di fronte alla furia turchesca, cedevano ora misteriosamente terreno come pressati dall'avvento delle nuove età. Sotto questa oscura minaccia il passato, quasi fatto persona in quegli ultimi soldati fedeli della Signoria, pareva ripiegarsi su sè medesimo, come dentro le pieghe della vermiglia bandiera della Repubblica.

Tre compagnie del reggimento oltremarino Medin si trasferirono a Vicenza e quattro a Padova, «attendendo in quelle città gli ultimi ordini dell'Ecc.mo Senato». Lo stesso giorno 9 di luglio 1796, le artiglierie del generale francese Rampon salivano indisturbate sui rampari della fortezza di Verona e, con gesto violento, si surrogavano alle armi paesane che vergognosamente si erano date alla latitanza.

Così uscirono gli Schiavoni da Verona. Vi dovevano però ritornare quasi un anno appresso, nel crepuscolo sanguinoso delle Pasque Veronesi, per tingere di rosso quella scena drammatica con cui la Serenissima doveva chiudere il suo lungo e glorioso dominio in terraferma [89].

* * *

Gli oltremarini costituivano le milizie assoldate per eccellenza della Repubblica. Corrispondevano un poco agli Svizzeri, con i quali quei soldati di mestiere avevano comuni lo spirito di ventura, la tenacia delle tradizioni militari e la religione della fede giurata; sentimenti tutti che, saldamente ed atavisticamente, si trasmettevano tra le milizie dalmate come un vero e proprio culto per la Signoria. E la Signoria—quella dello splendore del Cinquecento—ben sicura di questo lealismo e di questa fede, il cui eco non è ancora del tutto spento sull'altra riva dell'Adriatico, aveva confidato agli oltremarini la custodia e la difesa delle fonti della sua ricchezza e della sua gloria: il presidio de' propri navigli quale fanteria di marina, la guardia delle stazioni commerciali più esposte alle incursioni musulmane, la difesa delle teste di tappa sulle strade commerciali più sensibili e rimunerative per i traffici veneziani, infine il servizio da scolta più disagioso e pericoloso sui castelli sperduti in mezzo all'aridità delle Alpi Dinariche.

Gli oltremarini si distinguevano tra la milizia veneta per il loro armamento pesante da arrembaggio, costituito da una grave e lunga spada detta palosso—corruzione della pallasch degli Imperiali—munita di un'impugnatura a più else, e per la loro vistosa assisa di panno cremisino, ornamento delle navi parate a festa nelle solennità del Bucintoro e segno da raccolta nelle mischie navali più aspre e serrate. Si ingaggiavano, come tutti i soldati mercenari della Repubblica, esclusivamente nei domini di oltremare, d'onde traevano il loro nome da battaglia: illirico era il loro linguaggio ed i comandi militari.

I capi-leva si occupavano del loro reclutamento—edizione senza confronto migliore e corretta dei racoleurs dell'antico regime—anzitutto perchè questo ufficio era disimpegnato da ufficiali, in secondo luogo perchè era espressamente vietato nello ingaggiare le reclute di usare lusinghe per indurle più facilmente ad imprendere il pubblico servizio.

«Tutte le reclute—dicevano infatti le capitolazioni dei capi-leva—dovranno essere volontarie e non ingaggiate con frode o con ubbriacarle, sotto pena a chi avesse ingaggiato con frode alcuna recluta, di essere casso immediatamente dal rollo della compagnia (di leva) e spedito in Levanto per anni sei in figura di soldato; ed essendo incapace del servizio, di essere condannato in prigione ad arbitrio di S. E. il Savio alla Scrittura, dovendo i soldati rimettersi ad incontrare il pubblico servizio di buon genio e di tutta loro buona volontà»[90].

D'altronde le tradizioni militari dei Dalmati ed il prestigio che aveva presso di loro il veneto governo, disimpegnavano ampiamente gli ingaggiatori dal ricorrere a queste arti subdole. Tra i capi leva in Dalmazia godeva anzi di bella fama, ai tempi di Angelo Emo, il tenente colonnello Carlo Marchiondi[91].

I capi-leva si aggiravano per le borgate e le campagne di oltremare a far l'incetta d'uomini, coadiuvati da provetti subalterni esperti nella lingua illirica, e l'attività loro si esplicava rispetto allo Stato pressochè nell'orbita di un vero e proprio appalto da privative[92].

La levata regolavasi mediante apposite capitolazioni accettate dalle due parti contraenti, l'ingaggiatore a nome del governo e l'ingaggiato. Le reclute dovevano contare «almeno 4 piedi ed 8 oncie di statura, (metri 1,622216)[93] avere un'età compresa tra i 16 ed i 40 anni, essere sani, senza alcuna imperfezione di corpo, parlare l'illirico, non essere disertori dalle pubbliche insegne, non avere infine esercitato mai alcun mestiere infame[94]».

All'atto dell'ingaggio e dopo la visita «di un chirurgo stipendiato dal pubblico o dalla comunità, il quale era tenuto inoltre a risarcire in ogni caso la Signoria col suo stipendio di qualunque frode», la recluta contraeva la. ferma di sei anni di servizio continuo sotto le bandiere.

Ammassati—come si diceva allora—i nuovi oltremarini, si suddividevano nei diversi riparti territoriali della Serenissima. Quelli destinati alla Dalmazia erano nuovamente visitati dal provveditore della provincia residente a Zara, quelli assegnati a prestare servizio sulla squadra dal Capitanio del golfo, quelli infine destinati alla Terraferma dal Savio alla Scrittura, al Lido di Venezia. Non appena le anzidette autorità avevano riconosciuta la piena attitudine al servizio de' nuovi inscritti, questi si descrivevano sui pubblici rolli, d'accordo con gli inquisitori competenti, e da quel punto cominciavano a decorrere gli assegni in conto della forza bilanciata della Repubblica. Con queste pratiche di accentramento amministrativo e di controllo, l'esercito veneto andava sicuramente esente dalla piaga dei passavolanti.

Gli assegni dei nuovi soldati erano di doppio ordine, verso i medesimi e verso i loro impresari. Ogni ufficiale ingaggiatore riceveva infatti per ciascuna recluta riconosciuta idonea 22 ducati, se destinata alla Terraferma e 20 ducati se assegnata alla Dalmazia o al Golfo.

Su questo premio poi si dovevano prelevare 12 ducati per l'uniforme ordinaria la quale, in omaggio alla vecchia tradizione feudale dalmata—che ancora sussisteva tra le sopravvivenze formali—doveva essere fornita insieme al nuovo soldato dall'ufficiale capo-leva, laddove l'uniforme cremisi di parata era somministrata dal rispettivo comandante di compagnia.

Rimanevano così in attivo ai capo-leva dagli 8 ai 10 ducati di guadagno per ciascuna recluta, vale a dire dalle 32 alle 40 lire, a secondo del corso della moneta; ciò che costituiva il lucro di tali operazioni.

* * *

Seguiamo ora la nuova recluta oltremarina nelle sue peregrinazioni e tra le strettoie della fiscalità amministrativa del tempo. I trasporti a Venezia si eseguivano con le cosidette manzere, barche onerarie della specie dei trabaccoli e generalmente usate dai beccaj di Venezia per trasportare colà i buoi da macello (manzi) dalle province d'oltremare. Ordinariamente i trasporti si effettuavano dagli scali di Spalato, di Traù, di Sebenico e di Zara.

Sul littorale del Lido—vera e propria caserma di passaggio dei soldati della Serenissima [95]—i nuovi Schiavoni ricevevano, nell'attesa di essere sbandati o assegnati ai corpi, un'istruzione sommaria. Poi, per via d'acqua, si trasferivano a Fusina e Padova, d'onde si iniziava il loro faticoso pellegrinaggio per raggiungere i corpi cui erano stati destinati, nel Veronese, nel Bresciano e sui lontani confini del Bergamasco.

La paga mensile era di 31 lire venete [96]—oltre il biscotto per uso di barca che gli Schiavoni ricevevano sempre in omaggio alle loro tradizioni originali di servizio sulle pubbliche navi—laddove i fanti italiani, ossia gli ingaggiati nei paesi di Terraferma, avevano il pane. Con questa somma, pari a circa 16 lire odierne, [97] lo Schiavone doveva soddisfare le voraci brame del fisco, del proprio comandante di compagnia, e provvedere infine al proprio vitto durante il mese. Egli doveva cioè lasciare 8 lire venete per la massa vestiario, 2 e mezza al comandante di compagnia che lo riforniva dell'abito cremisi di parata, sborsare oltre a ciò l'importo dell'olio per l'illuminazione delle camerate, della terrabianca (bianchetto) per tenere monde e pulite le buffetterie e le parti bianche dell'uniforme, comperare il grasso, il lucido per le scarpe e perfino i piccoli oggetti di pulizia personale. Restavano così allo Schiavone poco più di 15 lire venete al mese per sfamarsi, eguali a 7 e mezzo delle attuali.

I compensi dei soldati veneziani non erano quindi molto lauti. Invano i Savi alla Scrittura avevano rappresentato al Senato la necessità di aumentare l'assegno della truppa, ma le strettezze finanziarie lo avevano vietato sempre.

Ed i comandanti di compagnia—tra l'incudine delle masse vestiario oberate ed il martello delle cariche superiori che esigevano negli Schiavoni «velade» sempre fiammanti—picchiavano sul grigio del ferro che tenevano tra le mani, cioè sulle masse dei loro dipendenti, il cui peculio castrense di 7 lire e mezzo si assottigliava allora ancora di più. Il Senato in molte di queste circostanze soleva venire in soccorso, ma a beneficio dei comandanti di compagnia piuttosto che dei soldati, specie al caso di mostre straordinarie, di passaggi di principi e di visite. Così essendo di passaggio per Udine nel gennaio del 1782 i principi imperiali di Russia, sotto il nome di principi del Nord, e volendosi in quella circostanza che la compagnia del capitano Borissevich, dei fanti oltremarini Cernizza, destinata loro per scorta d'onore si presentasse nella maggiore militare decenza, il Senato trovò giusto di compensare quel capitano delle maggiori spese incontrate nella circostanza per il corredo della truppa con 120 ducati di valuta corrente[98].

In queste strettezze, diventate sempre più acute verso la caduta della Repubblica per l'abbandono deplorevole delle cose della guerra, la merce uomo scadeva quindi sempre più sul mercato dei soldati di mestiere. Così convenne transigere con le prescrizioni delle capitolazioni ed ammettere nella truppa schiavona «li vagabondi e li malviventi, nonchè i banditi che disturbano ed infestano la Dalmazia, provvedimento suggerito dell'attual Provveditore Generale con plausibili argomenti di carità verso i sudditi e di sicurezza di transito sulle pubbliche strade di quella provincia, ed in vista di rendere utile in qualche modo allo Stato tale sorta di gente scorretta ed indisciplinata»[99].

Il corpo dei Travagliatori—o compagnie di disciplina istituite nel 1785 per sfollare i riparti dai più torbidi elementi raccolti dai capi-leva—alleviò alcun poco l'esercito della Serenissima da questo còmpito d'istituto di correzione[100]

Ma il male aveva troppo salde e profonde radici perchè questo provvedimento, escogitato dal Savio alla Scrittura Francesco Vendramin, potesse sortire a buon esito. Anzitutto il male travagliava le milizie prezzolate con il tarlo roditore delle diserzioni. Dal 1° settembre 1780 al 1° febbraio 1784, abbandonarono le insegne nei reggimenti oltremarini ben 662 soldati: dal 1° marzo 1785 al 1° settembre 1789 ne disertarono altri 1129; e ciò sopra una media di 3500 uomini presenti in quel torno di tempo nei reggimenti oltremarini[101].

Con queste cifre significative alla mano, si spiega il grido d'allarme gittato non molto prima dell'arrivo dei Francesi nel Veneto dal generale Salimbeni; grido che se parve a taluno troppo pessimista a tal'altro sembrò perfino sospetto di fellonia. Ed i bossoli del Maggior Consiglio e del Senato, come si è detto più sopra, ne sanno qualche cosa.

«I nostri vecchi soldati—scriveva il Salimbeni al Savio alla Scrittura Iseppo Priuli—sono oramai diventati sentina d'ogni vizio. Bisogna separarli nelle fazioni della piazza (di Verona) dalle cernide, ma non è possibile di separarli anche nei quartieri dove hanno alloggio in comune»[102]. Ed il Salimbeni proponeva sommessamente al Savio di allontanare gli Schiavoni più facinorosi da Verona, e più specialmente le compagnie dei capitani Missevich e Valerio, «le quali venute dalla Dalmazia sono da sostituirsi con altre… per preservare le cernide dal contagio dei vizi».

Il Savio Iseppo Priuli non ascoltò la proposta ed il destino serbava a
Buonaparte di farla accogliere con la forza.

   *
  * *

Gli Oltremarini erano ordinati in 11 reggimenti contrassegnati dal nome del rispettivo comandante oppure da quello del circolo di reclutamento più cospicuo. Nel piedilista del 1° settembre 1776 quei corpi erano descritti come segue: [103]

Reggimento Bubich, Selich, Scutari, Sinj, Matutinovich, Craina, Minotto, Rado, Macedonia, Dandria e Bua. Ciascun reggimento contava di regola 9 compagnie, o raccolte per intero in uno dei grandi riparti territoriali della Serenissima, o suddivise tra i riparti medesimi e le navi armate. Faceva però eccezione da questa regola il reggimento degli oltremarini del circondario di Sinj, il quale contava 11 compagnie ripartite nelle province d'Italia e di Dalmazia. La maggior forza di questo corpo era dovuta all'importanza militare del territorio nel quale esso si levava, ed al valore e numero dei castelli di frontiera che in esso esistevano (Spalato, Salona, Clissa, Sinj ecc.).

Secondo le tabelle organiche di formazione, approvate dal Senato, il reggimento di oltremarini non doveva superare la forza di 432 uomini, ciò che stabiliva l'effettivo delle compagnie in una media di 54 presenti ognuna. Tale forza non era però mai effettiva, neppure nei periodi di neutralità o durante i mesi del completo armamento delle due squadre, grossa e sottile, quando trattavasi cioè di spedizioni marittime o di crociere di maggiore rilievo. Così nel 1787, al tempo delle imprese di Angelo Emo, presero imbarco il 1° marzo del detto anno sulle navi armate in guerra ben 19 compagnie di fanti oltremarini, ma essendo tale contingente troppo scarso nella sua forza complessiva di un migliaio di uomini appena, convenne ricorrere al complemento dei reggimenti italiani, i quali fornirono altre 12 compagnie alla squadra, oltre alle 19 fornite dagli Schiavoni.

Alla vigilia dell'arrivo dei Francesi nel Veneto gli oltremarini avevano 24 delle loro compagnie dislocate in Terraferma, con una forza complessiva di 1648 uomini compresi i rinforzi dovuti alle craine [104].

Tutte queste compagnie erano ripartite come segue: A Verona, Legnago e
Peschiera 9, a Brescia con il castello di Orzinovi 4 1/2, [105] a
Bergamo e contado 3, a Crema mezza compagnia, al Lido, con Chioggia e
Capo d'Istria 7 compagnie.

* * *

I soldati del tempo oziavano molto, e nell'ozio sfibrante e prolungato che li logorava gli elementi più torbidi degli ingaggiati avevano modo di compiere un vero e proprio corso di perfezionamento. L'azione degli ufficiali non rappresentava di certo alcun freno in questi moti, perchè essa si limitava al controllo delle cifre sui registri, alla sorveglianza del maneggio d'armi nei cortili delle caserme e dei castelli, e si arrestava alla soglia delle camerate che perciò restavano abbandonate a sè medesime ed ai propri inquilini in un vero stato di abbiezione morale e di miseria materiale.

Al tocco del tamburo, che batteva la diana ogni mattina all'alba, cominciava il giornaliero servizio sulle navi armate e nelle caserme. I soldati si levavano dai loro giacigli, composti di regola della semplice schiavina, o rozza, coperta da letto gittata semplicemente sulle nude tavole, o più spesso sul terreno sul quale essi dormivano quasi sempre vestiti.

I paglioni, o pagliericci, vennero a mitigare la durezza di queste vita dei soldati della Serenissima soltanto verso la sua fine, e più precisamente a principiare dall'anno 1781; e furono limitati dapprima ai presidi delle più notevoli fortezze ed in particolari circostanze di servizio[106].

Le guardie rappresentavano il pensiero dominante della vita di guarnigione, epperciò il soldato semplice era anche denominato con l'appellativo di fazioniere, come che quello fosse il suo ufficio esclusivo. Nel servizio territoriale era impiegato ordinariamente un terzo della forza, del qual costume è rimasta traccia fino ai giorni nostri nella norma regolamentare la quale prescrive che il soldato debba avere almeno due notti libere per una passata in sentinella. Le esigenze della società del tempo, il grande numero delle magistrature militari e la frequenza delle risse tra i soldati moltiplicavano a dismisura i posti di guardia. Così vi erano gran-guardie nelle principali piazze delle città fortificate, guardie d'onore alle primarie cariche militari del luogo, agli ufficiali superiori del reggimento, e così via. Valga ad esempio il seguente specchio delle guardie della città di Verona, nell'anno 1794 [107]:

  MUTE GUARDIE E PORTE
           Capitani
       Subalterni
            Sergenti
           Caporali
        Tamburi e pifferi
            Fazionieri
          Totale

  Artiglieri
    Guardia di S. E.
    il capitano e podestà [108] — 2 1 2 2 37 44
  Croati
    Guardia detta di
    cavalieri
    al medesimo. — — — 1 — 11 12
  Italiani
    Guardia di S. E.
    il tenente generale
    comandante [109] 1 2 1 1 2 24 31
    Guardia alle bandiere
    dei reggimenti — — — 7 — 35 42
    Picchetti dei reggimenti — 5 — 6 — 36 47
    Gran Guardia 1 1 1 2 2 24 32
    Porta Nuova — 1 1 1 1 20 24
    Porta San Zeno — 1 1 1 1 20 24
    Porta Vescovo — 1 1 1 1 20 24
  Oltramarini
    Porta San Giorgio — 1 1 1 1 16 20
    N. 2 pattuglie — — 2 2 2 16 22
    Castello San Felice — — 1 1 — 8 10
      Id. San Pietro — — — 1 — 6 7
    Ospedale delle Milizie — — — 2 — 8 10
    Guardia in Ghetto — — — 1 — 5 6
         ________________________________
           2 14 10 30 12 279 355

Nè è forse fuori luogo ricordare a questo punto anche il servizio di guardia che le truppe prestavano nelle isole e nell'estuario di Venezia, nel 1792 [110].

Guardia al Lido, 44 uomini; appostamenti e feluche di sanità al Lido, 24; feluca S. Erasmo, 8; feluca Tre Porti, 8; Falconera, 8; Carvale, 8; Porto Quieto, 8; sciabecco del canale dei Marani, 12; feluca del canale dei Marani, 12; due feluche a Poveglia, 16; feluca S. Pietro in Volta, 8; feluca di Fisolo, 8; feluca delle urgenze 8; fusta, 24; sciabecco Po di Goro, 48; feluca Po di Goro, 8; feluca Malamocco, 8; seconda feluca di Malamocco, 8; servizi vari di guardia alle reclute, alle caserme ecc., 60. Totale, 308 uomini comandati a Venezia e nell'estuario in giornaliero servizio da «fazionieri».

* * *

Al distacco della guardia, fatto con solennità intorno al mezzodì, tutta la truppa prendeva le armi. Si faceva l'appello per segnalare i disertori, si leggevano gli ordini, si dava una sommaria occhiata alle armi ed agli abiti, dopo la quale funzione la vita militare formale cessava di regola per riprendersi l'indomani alla medesima ora.

Restava la grigia monotonia della vita di caserma. Con quei pochi soldi che rimanevano ancora nelle mani dell'oltremarino, dopo il passaggio sotto le forche caudine del fisco e del comandante di compagnia, egli doveva rifocillarsi. E disinteressandosi ancora lo Stato dal fornire il vitto ai propri soldati—all'infuori del biscotto agli oltremarini e del pane agli altri—v'era taluno che lo surrogava in quest'opera con ingordigia ed esosità, di guisa che il misero peculio castrense dei soldati di mestiere veniva ad assoggettarsi per questo ad una nuova ed estrema decimazione.

Esistevano all'uopo sulle navi armate e nelle caserme i così detti bettolini, specie di vivanderie esercitate assai spesso da loschi personaggi, nelle quali i soldati si provvedevano dei generi di prima necessità ed anche delle vivande confezionate. A coloro poi cui le strettezze non consentivano di procurarsi le vivande confezionate, i bettolieri fornivano gli arnesi di cucina per apparecchiare di solito la classica polenta ed un misero intingolo per companatico, e ciò previo un piccolo compenso che lo scarso nucleo degli utenti corrispondeva a titolo di noleggio degli arnesi stessi all'esercente del bettolino.

Delle norme—ossia terminazioni—regolavano il servizio di queste vivanderie, specie sulle pubbliche navi, ma l'ingordigia dei bettolieri era assai spesso più forte anche delle terminazioni. Lo sconcio era anzi giunto a tal segno, poco avanti alla caduta della Repubblica, da indurre il generale Salimbeni a proporre al Savio alla Scrittura dei provvedimenti radicali in materia:

«Bisognerebbe—egli diceva—assegnare ad ogni camerata di 10 soldati almeno una caldaia da polenta, una secchia di larice cerchiata ed una tavola per rovesciarvi di sopra la polenta stessa… Sarebbe inoltre desiderabile, per liberare il soldato dall'obbligo che ora ha di spendere la mòdica sua paga in una bettola, o bettolino, con grave danno della disciplina e peso della sua sussistenza, di fornire anche la legna necessaria per cucinare il cibo. Con questi mezzi si potrebbero tener uniti i soldati, lontani dalle osterie, dove è forza che dimentichino la loro nativa semplicità e contraggano il mal costume»[111].

Il governo disciplinare risentiva fortemente degli effetti di questo colpevole regime di abbandono e di trascuranza, acuito dalla fiacchezza dei tempi. Abolita virtualmente la bastonatura sull'ultimo quarto del secolo XVIII, restava la prigionia e la condanna al remo, la punizione classica delle milizie della Repubblica marinara la quale ne usava sempre con molta larghezza. La pena della galera o del remo era solitamente inflitta ai disertori, ma anch'essa aveva perduto sulla fine della Repubblica molta parte del suo prestigio, per essersi assottigliato il numero delle navi armate e ridotta a poca cosa la loro navigazione. La punizione alla galera era così diventata un succedaneo della prigione ordinaria.

Circa questa bancarotta del governo disciplinare e dei suoi freni, basti dire che molti disertori preferivano la condanna al remo al servizio militare, triste preferenza che illumina l'ambiente dell'epoca. «Considerano infatti i soldati—dice un documento—una breve condanna al remo assai meno pesante della vita militare, stentata, faticosa e prolungata per un più lungo periodo di tempo»[112].

La disinvoltura, con cui affrontavasi questa pena appare infine nei trucchi che solevano usarsi, alla caduta della Repubblica, per gabellare al Savio alla Scrittura i premi promessi a colui che restituisse alle insegne un disertore. Si accordavano per questo in un medesimo corpo due soldati, l'uno s'infingeva di abbandonare le bandiere, l'altro di scoprirlo in un rifugio convenuto in precedenza; «sicchè colludendo notoriamente assieme captori e fuggiaschi tra loro si dividevano il premio assegnatosi ai primi… Onde sarebbe utile, in luogo di dare il premio a questi captori, di servirsi al caso dei metodi usati dagli esteri eserciti, cioè di obbligare le terre, ville e paesi, ad arrestare i fuggiaschi e condurli senza mercede alcuna alle pubbliche forze, con la cominativa che venendo scoverto in qualsivoglia tempo e modo negletto il fermo di qualche disertore, sarebbe obbligato il villaggio o terra a supplire alle spese incontrate dalle pubbliche casse per il mantenimento e vestiario di un altro soldato»[113].

Quanto si disse fino ad ora trattando più particolarmente degli Oltremarini può riferirsi anche all'altra specie di milizia pedestre ingaggiata, cioè agli Italiani. Questi si levavano nei domini della Serenissima in Italia e nell'Istria Veneta e si raccoglievano al Lido d'onde, accertata la loro idoneità alle armi, «in tempo di pace, in tempo di guerra, che Iddio non voglia, o di neutralità» erano «sbandati» nelle diverse guarnigioni di terraferma.

Gli itinerari delle nuove reclute erano minutamente stabiliti nei capitolati dei capi-leva e circondati da cautele, tutte intese a far giungere sicuramente a destinazione la preziosa merce dei soldati di mestiere, incerti in questi primi passi tra la rude alternativa di seguire una strada intrapresa di mala voglia, oppure di abbandonarla al suo inizio medesimo. Drappelli di croati o di dragoni, oltre la scorta dei soldati delle compagnie di leva, accompagnavano in queste marce le giovani reclute che, così guardate, potevano rassomigliarsi in tutto e per tutto ad un triste convoglio di prigionieri di guerra. Partiti dal littorale del Lido, cioè dal deposito di reclutamento, i nuovi fanti italiani facevano una prima tappa al Castello di Padova che, in molti rispetti, funzionava da deposito succursale del Lido. Dopo una breve sosta in quell'antico maniero, le reclute destinate a proseguire il loro èsodo continuavano nel cammino fino agli estremi presidi della Serenissima, cioè fin sulle rive dell'Adda e dell'Oglio. Talvolta queste tappe erano abbreviate da qualche trasporto per via d'acqua dal Lido a Chioggia, e di qui con i barconi (burchi) a ritroso dell'Adige fino a Verona. Ma erano casi poco frequenti e subordinati in ogni modo alla occasione di qualche grande trasporto militare da Venezia alla grande piazza di terraferma.[114]

* * *

La fanteria italiana surrogò nel 1775 il tricorno, che aveva portato in giro con qualche gloria nelle campagne di Morea sotto il Morosini, con un caschetto di pelle di vitello adorno di una «placca de otton.» In quella circostanza le compagnie di granatieri degli stessi fanti—create assai tempo prima—ebbero dei berrettoni di pelle d'orso sul modello francese, guarniti di fiocchi azzurri e della «placca» con l'impronta del leone di San Marco.

Pure in quel torno di tempo il colore bianco degli abiti della fanteria italiana—che ne era stato a lungo il distintivo caratteristico, come il cremisi lo era stato per gli oltremarini ed il grigio ferro per gli artiglieri—venne sostituito dal panno azzurro. Così le vecchie velade e bragoni di panno bianco cedettero il campo ad abiti di colore e di taglia alquanto più succinta, chiusi sul davanti da bottoni metallici fin sotto alla cravatta; e ciò per ovviare all'incomodo svolazzamento delle falde e per meglio riparare il soldato nella cattiva stagione. Tale riforma aveva anche una portata economica, perchè il nuovo abito meglio serrato alla vita del fante rendeva possibile l'abolizione delle così dette camiciole, o corsetti di colore che si usavano sotto la «velada.»

Il soldato portava una cravatta di pelle nera, due incrociature, o bandoliere di bulgaro, una per sorreggere il tasco o bisaccia, l'altra per sostenere la baionetta. Le cartucce—venti di regola—costituenti il munizionamento del fante italiano erano riposte nel tasco.

Il governo amministrativo della fanteria italiana si differenziava in qualche parte da quello dell'oltremarina. Un sostanziale divario concerneva anzitutto il vestiario, che nell'italiana era fornito dallo Stato e mantenuto dai comandanti di compagnia, laddove per gli oltremarini—come è detto più sopra—era fornito dai capitani.

Al ramo delicato ed importante dell'amministrazione sopravvegliavano i magistrati sopra camere, cioè i funzionari delle tesorerie locali, impegnando a tal'uopo le somme che ciascuna di esse aveva disponibili per le cose della milizia (Casse al Quartieron).

Le stoffe per le uniformi militari provenivano dall'industria privata, ed erano fornite dalle fabbriche e lanifici di Schio, Castelfranco[115] ed Alzano nel Bergamasco[116]. Anche Venezia si distingueva in quest'arte con due stabilimenti di molta fama, specie nella confezione dei panni colorati di scarlatto, di cremisi e di azzurro, che si esportavano pure largamente in Dalmazia e nelle contigue terre balcaniche.

Le merci che l'industria privata così offriva alla Repubblica erano collaudate di regola presso i depositi al Quartieron, o magazzini di equipaggiamento e di vestiario della truppa. I lanifici e le fabbriche di cui sopra, erano oltre a ciò ispezionate ogni bimestre da due dei cinque Savi alla mercanzia, i quali dovevano vegliare sulla qualità e sulla quantità delle lane da incettarsi per confezionare i panni per uso militar. Queste lane dovevano essere tassativamente della specie nominata sacco, scopia o Puglia[117].

Le medesime cautele vigevano per la fornitura delle buffetterie e dei cuoî necessari per esse: incrociature, taschi, pendoni, o centurini da sciabole, baionette, palossi e palossetti, che erano pure somministrati dall'industria privata e più precisamente dai fratelli Zaghis di Treviso.

I reggimenti di fanteria italiana alla caduta della Serenissima erano in numero di 18. Per decreto del Senato, nel maggio 1790 i reggimenti di cui sopra assunsero un numero progressivo fisso, oltre al nome variabile derivato dal rispettivo colonnello comandante. E questi numeri erano:

Reggimento Veneto Real n. I del colonnello Alberti—reggimento n. II
del colonnello Mario Alberti—reggimento n. III del colonnello Marin
Conti—reggimento n. IV del colonnello Francesco Guidi—reggimento n.
V del colonnello Teodoro Volo—reggimento n. VI del colonnello
Giambattista Galli—reggimento n. VII del colonnello Lòdoli—
reggimento n. VIII del colonnello Pacmor—reggimento n. IX del
colonnello Marco Conti—reggimento n. X del colonnello Francesco
Covi—reggimento n. XI del colonnello Andrea Toffoletti—reggimento n.
XII del colonnello Marino Stamula—reggimento n. XIII del colonnello
Giacomo Sarotti—reggimento n. XIV del colonnello Francesco
Galli—reggimento n. XV di Rovigo—reggimento n. XVI di
Treviso—reggimento n. XVII di Padova—reggimento n. XVIII di
Verona[118].

Il numero di questi reggimenti era marchiato a caratteri romani sui grossi bottoni di metallo dorato di cui erano adorni gli abiti dei fanti italiani. Come gli oltramarini, anche reggimenti di italiani si suddividevano in 9 compagnie ciascuno.[119] La loro forza complessiva oscillava nel 1790 intorno ai 6276 uomini, ripartiti in 162 compagnie organiche. Di queste, 43 con 2712 uomini erano nelle guarnigioni di terraferma, raccolte in massima parte nei presidi di Verona, Legnago e Peschiera, quando a quelle terre venne ad affacciarsi Napoleone Buonaparte.

CAPO V.

Le milizie paesane.

L'esercito assoldato del vecchio regime agonizzava adunque a Venezia sotto il peso degli anni, degli errori e dell'universale indifferenza. Indebolito nel principio di autorità, roso dal tarlo profondo dell'indisciplina, conscio di essere diventato da ultimo uno strumento inutile a sè medesimo, maleviso ai novatori come un'arma da tirannide decrepita, trascurato dai medesimi governanti che ne sapevano tutta l'intima debolezza organica e morale, l'esercito assoldato veneto più non rappresentava alla caduta della Repubblica se non l'ombra di sè medesimo, una sopravvivenza intristita che il primo soffio di fronda sarebbe stato sufficiente a rovesciare nella polvere.

Causa dunque la pertinace riluttanza della Serenissima nel concedere all'organismo nato ai bei tempi dei condottieri del Trecento le riforme e l'evoluzione che esso richiedeva, l'organismo medesimo stava per giungere all'ultima mèta del suo travagliato ciclo nella città delle lagune.

Si spiega così come nello spirito dei migliori—per quanto pochi—si rappresentasse la necessità di surrogare alla imminente rovina delle armi regolate venete qualche altro istituto che valesse a raffermare nelle medesime quella fiducia che sembrava oramai spenta nei cuori. Ed il rimedio meglio adatto alle esigenze pressanti dell'ora sembrava consistere in una risurrezione delle vecchie cernide veneziane, in un adattamento cioè degli ordini di queste—nate in tempi non meno travagliati per la Repubblica—alle condizioni militari, economiche e sociali delle nuove età. Nella fede ancora superstite in questi illusi, la maschia e vigorosa fondazione di Bartolomeo d'Alviano pareva ancora sorridere, piena di promesse e di lusinghe, come dopo la Ghiara d'Adda e la perdita dei domini Veneti di terraferma, nel 1794, come al tempo della Lega di Cambrai. Alla perfine non si erano perduti dai Veneti nè terreni, nè battaglie ordinate, e l'uniforme tranquillità dell'epoca pareva propizia, purchè si volesse, a restaurare la milizia secondo forme meno viete e più progredite.

Si trattava in sostanza di fare ritorno alla semplicità ed alla spontaneità delle funzioni dell'istituto militare, reso pesante dagli attriti, rugginoso dalla lunga e sfibrante inazione, improduttivo per essersi ridotto—causa la sfiaccolata bontà dei governanti—a disimpegnare insieme i còmpiti di istituto di beneficenza e di vasta casa di correzione. Le cerne, vera e prima milizia territoriale ed archetipo della Landwehr di Stato, dovevano perciò evoluzionare nelle forme e nella sostanza. Di conseguenza, al concetto della prestazione personale dei componenti di tale milizia derivato dalle antiche compagnie del popolo, durante una campagna di guerra o un determinato periodo di neutralità armata, doveva sostituirsi quello di un servizio temporaneo sotto le bandiere, anche all'infuori delle dette eventualità; un criterio da coscrizione progressiva, una specie di prefazione insomma al servizio personale individuale ed obbligatorio. La riforma era dunque ardita perchè i tempi della decadenza veneta repubblicana potessero accoglierla, comprenderla ed attuarla.

Nondimeno, per qualche sintomo, essa poteva sembrare ancora possibile a coloro che la vagheggiavano. Anzitutto il buon volere con cui, dopo tanti anni di dissuetudine, le cerne erano accorse alle armi nella primavera del 1794 per rimpolpare le scheletrite compagnie dei soldati di mestiere, ed in secondo luogo l'arrendevolezza con cui le cerne medesime si erano sottomesse agli sbandi resi necessari per colmare in modo uniforme le deficienze dei diversi presidi militari di terraferma. In linea di diritto e di organica militare adunque l'evoluzione aveva compiuto indubbiamente un grande passo.

L'elemento campagnuolo delle cerne rassicurava oltre a ciò i più retrivi e timorosi del governo della Serenissima, coloro cioè che a tutto si sarebbero rassegnati pur di non toccare di un punto il vetusto e tradizionale edificio degli ordini repubblicani.

Il rinvigorimento delle cerne infatti, mentre poteva rafforzare i ben noti spiriti conservatori della popolazione delle campagne, affezionate all'antico ordine delle cose, ligie ai patrizi ed al clero, poteva nel contempo costituire nelle mani di questi ultimi un sicurissimo presidio da contrapporre a qualunque novità avesse potuto arrecare l'avvenire.

I documenti di tali sensi di ossequio, come pure la presunzione che essi avrebbero corrisposto al caso di una reazione improvvisata non facevano difetto nelle masse rurali nelle quali le cerne si reclutavano. Nella primavera del 1796 i contadini del Bergamasco, sorpresi dalla mareggiata giacobina nelle loro campagne in fiore, affluivano a torme al capoluogo della terra, si accalcavano allo sbocco delle vallate, si armavano ed eccitavano il loro podestà Ottolini ad organizzarli in vasta e tenace guerriglia e capitanarli nel nome della patria in pericolo.

«Non sarà però molesto a V. E.—scriveva l'Ottolini al Doge, il 2 giugno 1796—se, con la mia solita ingenuità. confermo esser sempre vivi i miei timori sulle direzioni della popolazione all'arrivo dei Francesi. Ravviso anzi in generale una tale e tanta animosità contro di essi, che attribuirò sempre ad un tratto di fortuna se non succede inconveniente, sebbene dal canto mio faccia tutto il possibile per evitarlo. Ho rinnovato quindi le commissioni di fare stare tutti tranquilli ai capi dei comuni ed ai parroci della città e provincia, ed impegnai i sacerdoti a secondarmi con tutto il fervore possibile»[120].

Non molto tempo dopo, accompagnando lo stesso Ottolini una proposta fatta dai campagnuoli bergamaschi al Doge, di levarsi cioè a massa, quel magistrato soggiungeva:

«In relazione a quanto ebbi a rassegnare alla E. V. intorno alle spiegate generose impazienze di numerose popolazioni delle vallate di questo territorio, di esporre tutte volontarie le vite proprie per la difesa e la gloria del Principato, precise come sono e confermate in reale proposizione accolta dall'universale uniforme voto dei rispettivi consigli, mi formo dovere di assoggettarla devotamente a cognizione di V. E. raccolta nell'unita parte (deliberazione) del General Consiglio… con cui si offrono a pubblica disposizione 10,000 uomini riuniti delle loro armi, tutta gente scelta, capace e ben diretta, che può prestare un ottimo servizio… desiderosa infine di sacrificarsi per la perpetua e felice costituzione loro sotto il Veneto dolcissimo impero» [121].

* * *

Adunque, se a questo slancio delle popolazioni rurali soggette a Venezia avesse corrisposto l'opera prudente e cosciente del governo della Repubblica, si sarebbe per certo acceso sui fianchi e sul tergo degli eserciti di Napoleone Buonaparte nella loro marcia dall'Adda all'Isonzo un terribile incendio reazionario da Vandea[122].

In realtà, al tempo di cui si parla, la Serenissima aveva preso oramai il suo partito riguardo alle milizie paesane ed alle cerne, il partito grigio delle mezze misure, dei compromessi e dei destreggiamenti, tutto proprio delle individualità e delle collettività fiacche e malate. Alle prime novelle della rivoluzione di Francia, il Senato aveva deciso di risciorinare la vecchia e comoda divisa della neutralità armata, quella medesima che aveva servito così bene a nascondere le magagne della Serenissima, nel 1701, nel 1735 e nel 1743.

Ma, dileguatasi alquanto l'impressione del primo momento, si vide che quella vecchia e sdrucita zimarra della neutralità in armi si rivestiva in circostanze ben diverse da quelle degli anni precedenti. La Serenissima era minacciata questa volta da un lato dalla nuova Francia nelle basi del suo reggimento politico e fors'anco nei suoi domini, e dall'altro dall'Impero che, per ragioni di frontiere e di militari interessi, poteva violare la proclamata neutralità ad ogni occasione propizia. La Serenissima doveva quindi essere pronta a tutelare un bene senza disporre della necessaria forza per allontanare il male.

In questi frangenti l'unica forza e speranza erano le cerne. Per rimetterle in valore si presentavano due partiti: l'uno derivato dalla consorteria conservatrice militare veneta, l'altro dal piccolo nucleo dei riformatori. Il primo caldeggiava un largo e fecondo innesto delle cerne nelle truppe prezzolate, per scansarle dalla prossima morte mediante una trasfusione di sangue rigoglioso in un corpo infermo, e proponeva quindi un amalgama; il secondo partito mirava invece decisamente a soppiantare i regolati ed a surrogarli senza compromessi di sorta con le milizie paesane.

Vinse il partito dell'amalgama, dopo molte discussioni accademiche sui pregi di un metodo e sugli svantaggi dell'altro, mentre il vento di fronda che veniva dalla Francia si era oramai tramutato in procella.

Fino dalla primavera del 1791, il Savio aveva esortato le primarie cariche militari a riunirsi per concretare i provvedimenti più adatti a riordinare le cerne.

Per questi studi mancavano però i dati di fatto, poichè la costumanza delle mostre generali e dei mostrini era passata in dissuetudine come un'anticaglia, sicchè convenne attendere ancora un'altra primavera per riordinare i ruoli e raggranellare gli inscritti, «essendo questi quasi tutti ammogliati, laonde si credono dispensati, quantunque non cassi, oltrechè non sono poche le emigrazioni nel territorio e le morti avvenute da tempo»[123].

Finalmente, nella primavera del 1794, le cerne riapparvero alla luce in uno degli ultimi tramonti della Serenissima. La fusione di esse con i regolati era allora al sommo dei pensieri del Senato, «che si proponeva, non già di ripetere da questo corpo una truppa agguerrita, capace di marciar subito tutta unita e direttamente contro il nemico, ma bensì un corpo da potersi, tutto o in porzione, prontamente unire alle altre truppe… disposto ad essere in assai più breve tempo delle reclute comuni istruito nelle militari evoluzioni, reso capace a presidî, difese e battaglie. Tale essendo il servizio che da esso corpo si propone di ritrarre il Senato, basterà disporre quello che può essere atto a preparare ed ottenere dalle cerne subito l'occorrente da poter divenire, con poche istruzioni, un ottimo soldato»[124].

Ma per questo amalgama—compiuto per di più in evidente condizione di inferiorità delle cerne rispetto ai regolati—occorreva una certa misura tra gli elementi da fondersi, affinchè riuscisse una forte e vigorosa combinazione non già un miscuglio instabile. Si addivenne così al partito del sorteggio, ossia all'estrazione tra le cerne, ed all'adozione di una ferma biennale da attribuirsi a quei descritti cui sarebbe toccato in sorte di amalgamarsi con i regolati.

La costumanza d'altronde aveva qualche precedente nei periodi delle neutralità anteriori, specie nel 1703 e nel 1709[125], sicchè fu accolta dalle masse campagnuole con uno spirito di rassegnazione che parve superare le aspettative. L'esempio del piccolo ma forte Piemonte—rievocato a proposito dal Fontana ambasciatore Veneto a Torino—aveva persuaso alla fine anche i più scettici in materia di cerne[126]. Quivi i reggimenti stanziali erano assai di frequente rincalzati con uomini tratti dai reggimenti provinciali, cioè dalle milizie paesane piemontesi, e mercè tale incorporamento periodico, replicato a più riprese e quindi numeroso di elementi scelti del paese obbligati temporariamente alle armi, ben sicuri di far ritorno alle case al termine della ferma, il sistema di reclutamento dell'esercito subalpino aveva fatto un grande passo verso i metodi in fiore ai nostri giorni[127].

In queste buone predisposizioni ed in queste analogie organiche, i novatori di cui sopra scorgevano da ultimo un indizio benaugurante per la propria tesi.

* * *

Adunque, nel maggio dell'anno 1794, dietro istanza del brigadiere Stràtico—il miglior campione del partito conservatore militare veneto del tempo—il Savio di Terraferma alla Scrittura Antonio Zen emanò un decreto con il quale si prescriveva, «di effettuare l'estrazione tra le cerne dell'Istria e la _coscrizione tra le craine della Dalmazia, di un competente numero di individui per essere imbarcati ed inoltrati al Lido per rinforzo occorrente ai soldati di Terraferma»[128].

L'obbligo alle armi dei sorteggiati doveva essere di un biennio, i compensi di 2 ducati a titolo di donativo da corrispondersi all'atto del loro innesto nella milizia regolata, la paga eguale in tutto e per tutto a quella dei soldati di mestiere, cioè a 31 lire venete nominali.

In questo modo, nel maggio dell'anno sopra ricordato, si ingaggiarono sull'altra sponda dell'Adriatico 500 reclute, e cioè 125 nell'Istria Veneta e 375 nella Dalmazia, sorteggiate rispettivamente e proporzionatamente sopra un contingente di 525 uomini atti alle armi della prima provincia e 1375 nella seconda. Il mese successivo si levarono altre 450 reclute tra le cerne di Terraferma e nell'agosto altrettante in Dalmazia: in complesso 1400 uomini in 4 mesi. Erano esenti da questa prestazione i comuni della Bresciana, per l'antico privilegio loro di servire con la gente solo nell'interno della terra, sicchè quelle cerne si incorporarono nei presidi della provincia e più precisamente nelle due compagnie dei fanti italiani di presidio in Orzinovi.

Ma, più che altrove, questi primi saggi di coscrizione avevano incontrato grande favore sull'altra riva dell'Adriatico. «L'estensione della Dalmazia—diceva la relazione di un piedilista dall'epoca—la sua aperta e moltiplicata confinazione esigendo talora per l'indole dei finitimi uno straordinario aggregato di individui, anche per una sola occasione al servizio, così si arrolano ivi le colletizie, le quali sono più adatte di ogni altro per la loro nascita ed educazione a difendere i focolari ed il pubblico suolo. Armigeri per istituto, essi non hanno bisogno di annui esercizî che li addestrino come i sudditi della Terraferma e dell'Istria, ma cadono ben volentieri in stipendio per il solo tempo del servizio che fanno nel corpo delle colletizie sotto i loro ufficiali che, stipendiati con costanti tenuissime paghe, tengono una certa sopravveglianza sull'andamento dei sudditi della Sardarìa (o rispettivo contado), sono come accreditati e riveriti dalla popolazione e preposti al caso a dirigerla con paghe in tal caso corrispondenti al grado che dalla pratica è loro accordato per rientrare, tosto che cada la ragion dell'armo, nel consueto metodico loro piede»[129].

In quell'anno 1794 si ristabilirono pure le mostre generali, si completarono i ruoli sotto la responsabilità dei singoli rappresentanti e capi di provincia nonchè di 2 colonnelli delle cernide oltre Mincio ed in Terraferma e di 4 ufficiali dello Stato Generale all'uopo prescelti dal Savio alle Ordinanze, pure due per di qua e due per di là del Mincio; infine si ristamparono le norme della «Elementar istruzione ad uso delle cernide» edite nel 1763[130].

Sempre però ligio al concetto fondamentale dell'amalgama—da attuarsi cautamente e circospettamente—il Senato aveva prescritto di escludere al possibile i volontari dalle nuove coscrizioni, sia perchè il vocabolo aveva troppo sapore di giacobinismo, sia perchè ammettendo i volontari medesimi quella suprema magistratura temeva che l'istituto tradizionale delle cerne tralignasse con troppo rapida vicenda nel campo dei fautori delle nuove milizie.

Intanto su questo terreno delle mezze misure il tempo passava veloce. Scoccati due anni dalla coscrizione delle prime cerne con ferma biennale, nella primavera del 1796 convenne provvedere ad altre levate in Terraferma ed Oltremare[131]. I ruoli ben preparati dai merighi, o capi plotoni delle cerne, dovevano rimanere esposti nelle chiese per 8 giorni almeno prima della rassegna e del sorteggio, onde aprire l'adito ad ognuno di produrre i propri gravami, o titoli di esenzione. Per coloro che comunque avessero beneficiato di questi ultimi, il Savio aveva in animo di adottare una speciale tansa, o tassa militare alle ordinanze, sicchè riducendo i gravami personali allo stretto indispensabile, o magari sopprimendoli, il passo verso una coscrizione regolare e perfino verso una leva in massa sarebbe riuscito semplice ed agevole[132]. Ma il tempo per attuare tali riforme mancò.

Per questa seconda grande levata delle cerne il Savio alla Scrittura aveva promulgato non poche norme, da osservarsi scrupolosamente da tutte le cariche cioè autorità militari competenti. I drappelli dei congedandi della levata del 1794 dovevano essere riaccompagnati alle rispettive case da ufficiali: tutti i mezzi di trasporto oltremare dovevano sfruttarsi all'uopo, come tutte le lusinghe dovevano pure adoperarsi nell'intento d'indurre le cerne più volonterose ad assoggettarsi ad una riafferma con premio[133].

E ciò urgeva oltremodo. La proporzione delle cerne ai «regolati», causa l'inaridirsi delle fonti di reclutamento di questi ultimi, minacciava di far traboccare il piatto della bilancia a favore delle milizie paesane, ciò che se poteva sorridere ai novatori non poteva talentare per certo ai conservatori. Sicchè le riafferme mantenendo alle armi un certo numero di cerne che, sotto molti rispetti, potevano considerarsi come «regolati», dovevano funzionare quasi da vàlvola di sicurezza del sistema dell'amalgama.

* * *

Le unità dei soldati permanenti, intristite dall'indisciplina, scheletrite dalle diserzioni, si fondevano infatti come neve al sole.

«Devo infatti far presente alla E. V.—scriveva il 16 febbraio 1796 il Savio alla Scrittura Priuli al Doge,—che presidiate essendo le presenti piazze e fortezze d'Oltre-Mincio compresa Verona da fanteria italiana, con teste 2712, artiglieri 173 e 1223 nazionali (Oltramarini), eseguito lo sbando tra giugno e novembre degli Istriani, delle Craine e delle Cernide Italiane levate nell'anno 1794, il totale delle pubbliche forze della Repubblica in Italia verrà a ridursi a 4 compagnie di invalidi—in tutto teste 327—che formano il presidio delle città di Palma, Udine, Treviso, Padova, Rovigo e Vicenza, a 7 compagnie di cavalleria ed a 325 invalidi Oltremarini disposti tra gli appostamenti del Lido, Istria e Padova, e finalmente a 24 compagnie di Nazionali formanti teste 789, tra il Lido e la Terraferma, oltre a 4 compagnie di cannonieri, con teste 141 ed Italiani attive compagnie 13, con teste 325. In tutti, teste 2187, che occorrer dovranno alle molteplici esigenze della sanità, biave, oltre le guardie, i dazi etc.»[134]

A questi estremi si era oramai ridotto l'esercito della Serenissima. Epperciò parlare ancora di amàlgama in tali frangenti come nella primavera del 1794 sarebbe stato follia, dal momento che l'esercito dei «regolati», il quale doveva funzionare da crogiuolo della fòndita, più non esisteva se non di nome: ostinarsi a mantenere un sistema di reclutamento che i tempi e le circostanze unanimi designavano per anacronismo, sarebbe stato lo stesso che chiudere le caserme per sciopero di soldati. Tutto questo avrebbe oltre a ciò contrariate le viste politiche della neutralità armata, «non sospetta, ma necessariamente richiesta dall'onore e dalla salute della Repubblica,», come aveva pubblicamente dichiarato in Senato Francesco Pesaro in una concione diventata poi memoranda[135].

Il partito militare novatore della Serenissima, il fautore cioè delle milizie paesane in tutto e per tutto, aveva così vinta la propria tesi mentre la Repubblica moriva. Le novelle di Francia, i metodi rapidi e decisi delle guerre della Rivoluzione, i sistemi di leva in massa avevano spinta la loro eco fino alla città delle lagune. L'ultimo Savio di Terraferma alla Scrittura se ne era fatto persino il portavoce, unitamente al Savio uscito Bernardino Renier, a Francesco Gritti Savio alle Ordinanze in carica ed a Domenico Almorò Tiepolo Savio alle Ordinanze uscito, al tenente generale Salimbeni, e, tutti insieme—come si costumava per le deliberazioni di maggior rilievo—avevano proposto al Senato di adottare anche per l'esercito Veneto un sistema di reclutamento per coscrizione, con ferma triennale[136].

Un premio di due ducati doveva essere corrisposto subito agli estratti nelle rassegne delle cerne, il doppio a coloro che si offrissero spontaneamente alle bandiere. Ai nuovi soldati si prometteva oltre a ciò una licenza di almeno un mese all'anno, da fruirsi alle proprie case durante il periodo invernale, e più precisamente dal 1° novembre al 31 marzo. Al termine della ferma triennale gli inscritti dovevano ricevere un donativo di 18 ducati ognuno.

Questa fu l'ultima evoluzione delle vecchie cernide venete, conforme al concetto che presiede al reclutamento degli eserciti odierni. Per essa l'antico preludeva il nuovo, ed il passato di Vailate e di Rusecco avrebbe schiuso la strada ad una nuova serie di memorande imprese, se la Repubblica avesse avuto occhi per vedere e cuore per intendere. E Giacomo Nani, l'ordinatore delle nuove milizie paesane in battaglioni regolari vestiti ancora della fiammante divisa degli Oltremarini,[137] avrebbe eguagliato per certo la fama di Bartolomeo d'Alviano, se il popolo veneto che vide cadere la Repubblica come un lògoro e vecchio castello di carte da giuoco davanti alla furia di Napoleone Buonaparte, fosse stato pari in vigore e tenacia al popolo della Lega di Cambrai.

* * *

Ma i tempi, i condottieri e le buone milizie non si improvvisano, perchè sono frutto dell'evoluzione lenta dei principi e, sopratutto, della rude esperienza individuale e collettiva. Epperciò la vecchia Repubblica doveva prima, perire e poscia rinnovarsi nell'anima del suo popolo.

In queste condizioni di fatto, il fermento delle nuove età ed i sintomi precisi e sicuri di un rinnovamento prossimo non potevano manifestarsi—anche agli occhi dei più apparecchiati a comprenderli—se non con contorni indecisi e mal definiti, come una linea di orizzonte ampia e nubilosa alla luce dalla prima aurora. Di tali sentimenti fanno fede alcune scritture dell'epoca, e specialmente è suggestiva una dovuta alla meditazione, più che alla penna, di un antico allievo del Militar Collegio di Verona discepolo del maestro Giambattista Joure, cioè il capitano del genio Leonardo Salimbeni, figlio del tenente generale comandante delle milizie venete concentrate a Verona:

«Mi sono fatto incontro al generale Buonaparte—dice quella scrittura—verso la città di Brescia. Tutte le terre ed i villaggi dello Stato Veneto per dove i Francesi si incamminano si mostrano pieni di spavento e di terrore. Gli abitanti si ritirano con i loro effetti nei paesi più lontani e lasciano deserte le case e le campagne. Ho sentito qualche soldato francese lamentarsi di questo (così lo chiamano) difetto di fidanza, epperciò io ho cercato di far cuore agli abitanti delle terre per le quali sono passato… I soldati francesi sono tutti giovani e volonterosi….. in una colonna forte di 20.000 uomini almeno non ne ho veduto alcuno che giungesse all'età di 40 anni. Erano molto allegri, cantavano di continuo canzoni repubblicane, e mi si mostrarono persuasi della capacità e del coraggio dei loro condottieri, lodando sopra tutto e levando al cielo il merito di Buonaparte. Fui assicurato da molti che quei soldati non disertano mai, da quelli infuori che temono imminente un qualche severo castigo. Infatti le loro marce senza le solite cautele per impedire la diserzione mi hanno persuaso che ciò sia proprio vero; ma non sarebbe forse così al caso che fossero battuti.

«Il vestiario di questi giovani soldati di fanteria consiste in un paio di calzoni lunghi di panno bianco, o di tela, in un farsetto di roba simile ed in una velada turchina, del taglio ordinario, fornita di mostre e di paramani bianchi. Hanno cappello in testa, buone scarpe, camicie proprie e grosse cravatte al collo. Gli artiglieri differiscono nel colore delle mostre e dei paramani, che sono di rosso. La cavalleria è meglio vestita, ma in varie maniere. Non si vede però alcuna eleganza di vestiario in nessun corpo di questa armata, nè l'uniformità e la proprietà osservata dalle truppe tedesche, sicchè si riscontrano molti soldati aventi i loro vestiti affatto lògori e coi gomiti fuori.

«La fanteria è armata di fucile leggero con una lunga baionetta e di una sciabla al fianco. La cavalleria al solito, ma con carabine più corte, ed è fornita di cavalli eccellenti. Gli artiglieri sono tutti a cavallo in vicinanza dei loro pezzi, il che rende quanto mai spedito il loro manneggio durante l'azione, sì volendo avanzare che in ritirata. Nella colonna che ho incontrata non eravi che artiglieria leggiera. Abbondano di pezzi da 8 del calibro francese e di obusieri da 8 pollici, sicchè hanno per questo conto un vantaggio grande sopra gli Austriaci i cui pezzi sono per la maggior parte di calibro minore.

«Un capitano mi ha permesso di esaminare i suoi pezzi e mi spiegò tutte le innovazioni delle nuove artiglierie di Francia.

«Si ottiene tutto da essi con la civiltà e con la franchezza. La disciplina di questa armata è tutta di una nuova natura, e non è veramente in vigore se non quando i soldati si mettono sotto le armi. Dormono sempre allo scoperto e senza tende, passano i fiumi di poca larghezza sempre a nuoto ed i loro ufficiali di fanteria, fino al capitano incluso, marciano a piedi alla testa dei loro uomini. Ufficiali e soldati tutti portano delle bisacce sul dorso, essendo assai piccolo il numero dei domestici permessi dalle loro ordinanze militari….

«Bisogna ora fare un succinto ritratto del generale Buonaparte. La sua statura è al disotto della mediocre, viso scarno e pallido, occhio vivace, corpo esile. È assai composto di sua persona e molto riflessivo. Egli dà ordini così chiari e precisi ai generali subalterni, che ad essi poco o nulla rimane da aggiungere. Conosce siffattamente la forza delle sue armate, anche nelle più diverse posizioni di manovra, che a memoria ed in un istante egli ne ordina i movimenti senza per ciò ricorrere ad altri aiuti.

«Buonaparte è fertile in progetti che sa condurre a fine sempre per li modi i più semplici. È risoluto nell'operare ed ama in sommo grado la gloria, e la lode.

«Così lo ho veduto e così me lo hanno dipinto i suoi ufficiali ed i suoi soldati»[138].

Con questa confusa visione di un esercito dell'avvenire levato dalla nazione e per la nazione, pulsante della vita, della volontà e della forza cosciente di quest'ultima di cui rappresentava il fiore; con l'imagine davanti agli occhi di un esercito condotto da un generale come Napoleone Buonaparte, amante al sommo della gloria e della lode, cadeva l'esercito veneto dei soldati di mestiere per lasciare il posto al nuovo, sull'esempio di quelli che dalla Francia venivano allora ad affacciarsi alle lagune di Venezia.

CAPO VI.

L'artiglieria veneziana.

La veneta repubblica, romanamente e saviamente, ha sempre prediletta la massima in pedite robur. Sui 18 reggimenti di fanti italiani e sugli 11 di oltramarini essa non contava infatti, alla caduta, che 4 reggimenti di cavalleria, 1 di artiglieria ed 1 di operai (il così detto reggimento Arsenal), proporzione per certo assai favorevole all'arma del popolo, qualora si consideri il fondamento oligarchico ed aristocratico dello Stato e la necessità di ben presidiare i numerosi castelli e fortezze che esso aveva sparsi, dall'Adda e dall'Oglio, giù per il littorale dalmata, fino allo scoglio di Cerigotto. A cifre tonde, a 262 compagnie di fanteria non facevano quindi riscontro che 43 compagnie, tra dragoni, corazzieri, croati e cannonieri.

La prevalente soverchianza numerica della fanteria sulle altre armi non fece però dimenticar mai alla Serenissima la cavalleria e l'artiglieria, e quest'ultima in particolar modo. Quale ramo progredito dell'arte, l'artiglieristica vantava anzi a Venezia belle tradizioni dottrinali e bibliografiche: basta sfogliare la cospicua e diligente raccolta del Cicogna per convincersene[139].

Figurano in essa, tra le opere più conosciute, il Breve esame da sotto-bombardiere, capo e scolaro, redatto sotto forma di dialogo, l'Esercizio dell'artiglieria veneta e maneggio del fucil, oltre all'opera classica del maggiore Domenico Gasperoni, ricordata più sopra e dedicata al doge Paolo Renier.

Però, fino all'anno 1757, l'esercito veneto non ebbe un corpo di artiglieria a sè, a somiglianza dei reggimenti delle altre armi. Nè la specializzazione tattica dei cannonieri era giunta ancora a tal segno da richiedere particolari provvedimenti a loro riguardo, sicchè la Serenissima si compiaceva di conservare loro, al possibile, quella tal veste di maestranza, rimasuglio di vecchi statuti e consorterie, dalla quale il corpo medesimo, con poca spesa, ritraeva grande prestigio e saldo vincolo organico. Al servizio ordinario nei castelli, nelle fortezze e sui pubblici legni armati, provvedevano i così detti artiglieri urbani, bombardieri o bombisti; propaggine delle cerne e particolare aspetto delle Landwehr venete che, in origine, erano così ricche di multiformi e fecondi atteggiamenti da milizia popolare.

Ai bombardieri appartenevano infatti per obbligo gli affigliati alle maestranze ed alle scuole devote al culto di Santa Barbara, il quale rifletteva sulla consorteria uno spiccato carattere religioso militante. Dopo il 1570 la confraternita si ridusse in fraglia, cioè scuola o associazione laica, sotto la protezione della medesima santa, con capitolari che prescrivevano ai componenti dell'arte alquanti esercizi personali obbligatoli da compiersi al Lido. Il Consiglio dei Dieci ed i Provveditori del Comun[140] dovevano scrupolosamente vegliare all'assetto di questa scuola ed all'osservanza dei doveri degli affigliati, d'accordo con il magistrato alle artiglierie[141] e con «quello alle fortezze».

Ogni città fortificata o castello disponeva di un nucleo organizzato di codesti bombardieri, istruito, disciplinato e condotto da ufficiali medesimamente prescelti tra le maestranze. I bombardieri di Venezia, dell'estuario e dei riparti Oltremare, con le rispettive scuole, dovevano provvedere al servizio delle artiglierie sui pubblici legni, oppure assoggettarsi al pagamento della relativa tansa, o tassa di esonerazione come si è detto più sopra.

I bombardieri—secondo i capitolari dell'arte—dovevano presentarsi a raccolta ad ogni tocco di generala, o assemblea, sottomettersi alla estrazion del bossolo, cioè a dire al sorteggio, come praticavasi con le cerne ove occorresse designare gli artigiani necessari per servire le artiglierie sulle navi, formare pattuglie notturne nelle città murate, montare dì guardia alle porte, scortare convogli di polveri e di munizioni da guerra ed estinguere incendi nelle province di terraferma. I bombardieri di Venezia infine, dovevano esercitarsi nei pubblici bersagli di S. Alvise e del Lido, «onde ammaestrarsi nel maneggio di tutte le armi che usar debbono in guerra, con cannoni ad uso di mar e di terra, moschettoni a cavalletto, fucili e carabine, lancio delle bombe e maneggio della spada».

Oltre a questo tirocinio, i bombardieri veneziani dovevano far mostra di sè nelle pubbliche solennità, in quella dello Sposalizio del mare, nelle feste dell'incoronamento del Doge ed all'atto dell'ingresso dei patriarchi, procuratori e cavalieri della Stola d'oro.Tutti questi servizi erano gratuiti—compreso quello di pompiere cui erano astretti i bombardieri di Terraferma—salvo una bonifica di 8 ducati, corrisposta annualmente dallo Stato per ogni componente dell'arte a pro' della confraternita ed a titolo di maestranza perduta[142].

* * *

Col tempo queste costumanze derivate dalle età eroiche, da una condizione semplicista ed arretrata dell'evoluzione industriale e della compagine operaia, cominciarono prima a scadere e dopo a degenerare. Molti bombardieri si svincolarono dal giogo del servizio personale obbligatorio pagando le tanse, individuali dapprima, collettive di poi—vale a dire le insensibili—quando cioè, con l'insofferenza del servizio, crebbero l'avarizia ed il disamore alle armi, ed il mestierantismo militare attecchì su questo terreno brullo ed infecondo come una fioritura di erbàcce selvatiche.

Sulla seconda metà del secolo XVIII quasi tutte le compagnie venete dei bombardieri si erano assottigliate in modo straordinario, e con esse—ridotte in totale a poche centinaia di uomini—si doveva provvedere al servizio dei 5338 [143] pezzi esistenti a quell'epoca sui rampari e sui navigli della Repubblica. Quale truppa infine, i seguaci di Santa Barbara si erano ridotti—come scriveva il maggiore Domenico Gasperoni—nè più nè meno che un branco di individui, la cui uniforme e le stesse baionette erano quasi sempre impegnate o in vendita ai cenciauoli.

Urgeva quindi porre riparo a tanta rovina, resa ancor più grave dal progresso cospicuo che altrove aveva realizzato l'arma d'artiglierìa nella tecnica e nella tattica, mercè l'addestramento continuo ed intenso dei cannonieri; laddove i bombardieri veneti dedicavano all'arte di Santa Barbara soltanto il limitato tempo che le giornaliere occupazioni loro concedevano, ed anche questo di malavoglia o facendosi surrogare dai peggiori rifiuti della società.

Ebbe così vita, nel 1757, il primo nucleo del Reggimento veneto all'artiglieria, reclutato con i soliti metodi delle milizie di mestiere, mercè le cure del sopraintendente dell'arma di allora, che era il brigadiere Tartagna, venuto al servizio della Repubblica dall'Austria. Successivamente il brigadiere Saint-March ed il sergente generale Patisson[144]) proseguirono l'opera del Tartagna, specie il secondo che può considerarsi il vero e proprio riformatore dell'artiglieria veneta della decadenza.

Tra il 1770 ed il 1778 il reggimento crebbe di forza e migliorò d'assetto. L'istituzione del Collegio militare di Verona—avvenuta pressochè al tempo della creazione del primo nucleo stanziale dell'arma—doveva inoltre assicurare alla medesima una corrente continua di ufficiali, tratti dal miglior ceto della società veneta, convenientemente addestrati ed istruiti; uno stato maggiore insomma degno dei migliori eserciti e dei più bei tempi della Serenissima.

In sei anni di corso si studiava infatti nel Collegio la grammatica usando i libri di Fedro, i Commentari di Giulio Cesare e le Vite degli uomini illustri di Plutarco, il latino, il francese, le matematiche pure, tanto teoricamente che in pratica ed infine le matematiche miste, «quali sono adatte al matematico ed al fisico, abbracciando perciò la meccanica, la balistica, l'idrostatica, l'idraulica, l'ottica, la perspettiva, l'astronomia, l'architettura civile e militare, la nautica e la geografia»[145].

E poichè era «scopo principale dell'istituto di rendere i giovani, al possibile, perfetti nell'ufficio di artiglieri, di ingegneri e di battaglisti», così si doveva, oltre alle materie teoriche di cui sopra, «insegnare loro il modo di guerreggiare degli antichi, l'uso di accamparsi, la condotta delle mine, l'arte teorica e pratica dell'artiglieria ed il modo di guerreggiare presentemente in rapporto con gli antichi».

Nel piedilista del 1781 adunque il reggimento di artiglieria appare di già adulto. Esso contava 681 cannonieri suddivisi in 12 compagnie, quattro delle quali erano dislocate nei presidi di Levante, tre in quelli di Dalmazia e le rimanenti cinque in Italia. Dai diversi presidi poi si prelevavano in proporzione i contingenti necessari per il servizio delle navi armate in guerra. Alla disciplina, all'istruzione ed all'impiego dei cannonieri imbarcati sopravvegliavano a turno, due degli otto capitani del reggimento residenti a Venezia, l'uno a bordo della nave capitana, l'altro a bordo della galera provveditrice dell'armata, e ciò durante il tempo in cui la squadra teneva il mare, vale a dire ordinariamente dal giugno all'ottobre di ogni anno.

Il numero dei cannonieri imbarcati sulle navi era, di regola, di una ventina per ogni fregata e di una dozzina per ogni sciabecco. L'impiego delle batterie galleggianti verificatosi in quei tempi gloriosi per le imprese coloniali dell'Emo, richiedeva oltre a ciò uno speciale contingente anche per tali navigli, pari in forza a quello che si usava sulle fregate.

All'infuori di questi còmpiti essenziali del reggimento, di servire cioè sui pubblici navigli, esso funzionava da centro d'istruzione e da istituto di collaudo dei materiali dell'arma. Queste pratiche si eseguivano al tiro al bersaglio del Lido—l'antico palio dello splendore veneziano—dove si trovavano raccolti i falconetti ed i cannoni, in prevalenza del calibro da 12 e da 16, necessari per eseguire i tiri di prova, il saggio delle polveri e dei proiettili e per verificare la resistenza dei materiali. Pure al poligono del Lido si esperimentavano i prodotti della Casa all'Arsenal, l'officina classica delle armi, degli arredi e degli strumenti guerreschi veneziani, i letti o affusti da cannone, gli attrezzi e gli armamenti, e si collaudavano pure i lavori che l'industria privata somministrava alla Repubblica, specie i cannoni forniti dalla ditta Spazziani.

Le artiglierie e le munizioni—regolarmente apprestate per qualche tempo dalla detta casa mercantile—erano assoggettate al Lido ai prescritti tiri forzati, e così anche le canne dei fucili di nuovo modello, tipo Tartagna, fucinate a Gardone in Valtrompia, le armi bianche e da fuoco somministrate dagli stabilimenti metallurgici della Bresciana.

Infine, al Lido ed a Mestre, i cannonieri del reggimento si esercitavano nelle prove di traino con buoi e cavalli, e d'inverno si adoperavano per riconoscere lo spessore dei ghiacci al margine della laguna e nei canali navigabili, per determinare la capacità di transito dei veicoli sopra le superficî congelate.

* * *

Ma tutte le previdenze del sergente generale inglese Patisson e poscia dello Stràtico, nominato sovraintendente delle cose tutte all'artiglieria nel 1786,[146] coadiuvato dal capitano Buttafogo elevato alla carica di ispettore—non sarebbero state sufficienti per assicurare al corpo degli artiglieri veneti quel prestigio che essi toccarono alla caduta della Repubblica, senza l'opera del grande contemporaneo Angelo Emo.

Occorre perciò menzionare a questo punto i progressi della tecnica artiglieristica, realizzati per opera ed impulso dell'ultimo ammiraglio veneto.

Prima di lui la decadenza batteva il suo pieno nell'Arsenale e sulle navi armate. «Le sale di quel vecchio e grande edifizio—scriveva Giovanni Andrea Spada—erano adorne a pompa, non a difesa, nè v'era in esso quanto bastasse a l'armamento completo di tre reggimenti. I cannoni quasi tutti di ferro e non adatti agli usi della nuova arte della guerra, le palle in relazione…, le maestranze erano poi così svogliate, ignoranti e corrotte, che un operaio lavorava alle volte un solo giorno al mese».

Rimediò per primo a questa rovina il Patisson, spalleggiato dall'Emo, grande e geniale ammiratore dell'arte e della disciplina marinara e militare inglese, ch'egli vagheggiava introdotte a Venezie. «Le polveri nostre sono umide—dichiarava il Patisson al Savio alla Scrittura—e non si provvede a sostituirle che con altre ugualmente cattive… Le artiglierie impongono urgenti provvedimenti per rendere utili i pezzi che sono nelle cinque principali piazze di Oltremare, cioè Corfù, Cattaro, Zara, Knin e Clissa, e validi i pezzi destinati all'armo dei pubblici legni, nonchè all'attual sottile armata di 18 navi, 6 fregate, 5 sciabecchi, fissato con decreto del 1° agosto 1780… alla difesa dei forti della Dominante, per il treno di campagna e per le altre eventualità»[147].

Il noto contratto con la ditta Spazziani doveva ovviare alla gravissima crisi, unitamente ai provvedimenti organici adottati per l'arma di artiglieria, alla abolizione delle mezze paghe ai cannonieri meno abili ed al trasferimento degli inabili nel corpo dei veterani. Fu così possibile armare nell'estate del 1784 la squadra veneziana destinata all'impresa di Tunisi[148]; sforzo assai modesto se si riguarda il passato, ma tuttavia soddisfacente e lusinghiero se si considerano le critiche contingenze del tempo, le trascuranze e gli abbandoni degli istituti militari e marinari.

Nel seguente anno 1785 i cannonieri del reggimento artiglieria si distinguevano nel violento bombardamento della cittadella di Sfax. La bombarda Distruzione, nel combattimento del 30 luglio colpiva 31 volte il segno su 32 tiri, il 31 luglio 23 volte su 47, il 1° agosto infine 39 volte su 47. La bombarda Polonia il 1° agosto stesso colpiva 55 volte il nemico su 61 colpi lanciati. Il porto di Trapani—prescelto dall'Emo con sagace intuito militare e navale—per servire da base eventuale di rifornimento della propria squadra e delle artiglierie venete, ferveva allora di apparecchi guerreschi. Quivi si apportavano gli ultimi ritocchi alle batterie galleggianti protette, ideate ed allestite dal grande ammiraglio.

«La poca influenza delle navi—così egli lasciò scritto—sopra le batterie rasenti del molo, suggerì alla mia imaginazione un espediente alla prima apparentemente ridicolo… di formare cioè, con artificiosa connessione, clausura e rivestimento della unita superficie di due masse di venti botti, due zattere o galleggianti munite di un grosso cannone da 40 ciascuno… protetto da parapetti formati da una doppia riga di mucchi di sabbia… bagnata e rinchiusa da sacchi»[149].

Il 5 ottobre 1785 l'Emo, coadiuvato dai suoi cannonieri, impiegava per la prima volta due di tali batterie blindate galleggianti nel bombardamento della Goletta, «ed era molto cosa piacevole—scriveva un testimonio oculare—nel veder da tutti i lati cadere fulminanti le nostre bombe sopra la rinomata Goletta che, tutta fumante, mi sembrava un Vesuvio»[150].

Queste batterie galleggianti—migliorate in seguito ed accresciute di numero—ricevettero due cannoni ognuna, tra cui un obice, e quindi appresso anche un mortaio da 200. Al comando dell'artiglieria di ciascuna zattera blindata furono destinati due ufficiali del reggimento, e le zattere stesse si denominarono obusiere, bombardiere o cannoniere, a seconda del tipo dei pezzi che recavano a bordo.

Ma le imprese dell'Emo rappresentarono il canto del cigno della morente grandezza militare e navale dei Veneziani. Morto questi, il 1° marzo 1792, l'artiglieria veneta ripiombò nella sua rovina.

* * *

Quale servizio prettamente tecnico, l'artiglieria faceva capo al Reggimento così detto all'Arsenal ed all'Arsenale medesimo; talchè le due branche dell'attività artiglieristica—il tattico ed il tecnico—trovavano nella pratica due enti destinati a rappresentarle, cioè il reggimento suddetto e quello all'artiglieria.

Dopo i grandiosi ampliamenti introdotti nell'Arsenale ai tempi dello splendore[151], l'aggiunta del braccio nuovissimo, del riparto delle galeazze e della casa del canevo, ossia la corderia (denominata comunemente la tana), la meravigliosa fabbrica dei veneziani era caduta prima in abbandono e poscia in completa rovina.

La stupenda officina delle armi e dei navigli veneti, verso la caduta della Serenissima si era quindi ridotta un'ombra di sè medesima, una bellezza stanca e disfatta dall'opera demolitrice degli anni, la cui fama richiamava ancora le genti a visitarla, ma più come un monumento delle passate età che come cosa viva. Così la visitò Giuseppe II nell'estate dell'anno 1769.

L'Arsenale conservava ancora a quel tempo oltre tre miglia di circuito, e tutto intero il giro delle sue muraglie guarnite di bertesche sulle quali, di continuo, vigilavano le sentinelle per preservare il cantiere da ogni funesto accidente, specie dal fuoco. Queste sentinelle erano in corrispondenza con una guardia centrale posta in mezzo all'Arsenale, con cui, ad ora ad ora, esse scambiavano alla voce il grido di all'erta per sapere se vegliassero.

Dalla sera all'alba un drappello di soldati—Oltremarini in massima parte—girava tutt'attorno al grande cantiere veneziano, ed anche questi solevano chiamare dal di fuori l'attenzione di quelli che vigilavano sull'alto delle mura, di guisa che l'incrocio delle voci delle scolte era continuo e persistente. Dei due maggiori ingressi dell'edifizio, quello detto da mare, d'onde entravano ed uscivano le navi, era guardato sempre da un buon nerbo di truppa disposto presso al ponte di legno. L'ingresso detto da terra, che si apriva sul Campo dell'Arsenal, era invece custodito da un altro manipolo di cannonieri e di schiavoni, i quali facevano la scolta sotto la grande porta del leone alato, sopra alla quale troneggia la statua di Santa Giustina.

Vicino alla porta da mare—segno manifesto della corruzione e della decadenza dei tempi—sorgeva una cantina o vascone che, «da tre bocche versava vino in gran copia per dissetare a pubbliche spese tutto quel popolo di operai[152], cresciuto tra l'ignavia universale e fatto baldanzoso dalle debolezze dei governanti. E gli arsenalotti, intorno all'anno 1775, ascendevano ancora a più di duemila, suddivisi in squadre comandate da appositi capi detti proti, sotto-proti o capi d'opera, tutti vestiti con abiti talari [153].

Al riparto delle fonderie e dei metallurgi sopravegliava ancora a quei tempi la dinastia degli Alberghetti, «membri della famiglia benemerita di antico servigio la quale aveva mai sempre prodotto uomini valenti nelle meccaniche ed inventori di nuove artiglierie»[154]. E tra questi operai tutti si reclutava il grosso del Reggimento Arsenal, più corporazione e confraternita del tipo degli antichi bombisti, che corpo regolarmente ordinato. A tale arte facevano pure capo i lavori di ristauro più delicati delle armi portatili, quali il rinnovo degli azzalini (acciarini), il calibramento delle canne e la trasformazione dei fucili dall'antico modello (1715) al nuovo, del campione Tartagna.

Al lavoro delle vele ed alla fattura dei cordami sottili attendevano le donne «le quali, a togliere ogni sorta di scandalo, albergavano in un luogo disgiunto affatto dagli uomini, custodite da altre donne attempate e di buona fama, e con la sopraintendenza di un ministro di età matura»[155].

Altri operai—pure ascritti al Reggimento Arsenal—si occupavano di «filar canape e formarne gomene, alla qual cosa era destinato un luogo che è bensì dentro il circuito dell'Arsenal, ma separato da esso in modo che con quello non abbia comunicazione veruna»[156]. Questa era la Tana sopranominata, laboratorio, deposito di cànapi e magazzino di legname da lavoro e di altri attrezzi marinareschi, governato dagli appositi visdomini, o sottointendenti.

Era questa Tana un vasto locale lungo 400 pertiche, governato di un magistrato apposito, e non lungi da esso si ergeva il real naviglio del Bucintoro, che una volta all'anno, la vigilia dell'Ascensione, usciva fuori dell'Arsenale per far di sè bella mostra il dì seguente, «nel più bello di tutti gli spettacoli che si possano mai vedere in qualunque parte del mondo»[157].

* * *

Il magistrato all'artiglieria aveva giurisdizione sull'Arsenale insieme agli altri colleghi[158], ma l'opera sua si esplicava più particolarmente rispetto al reggimento all'Arsenal, mentre quella del sopraintendente, o del brigadiere dell'arma, si riferiva in modo speciale al reggimento artiglieria.

Quel magistrato teneva infatti i ruoli dei «fonditori, carreri, fabbri, tornitori ed altri uffiziali unicamente dipendenti da esso», aveva in consegna i parchi dei cannoni di bronzo e di ferro, le munizioni, le bombe, gli apprestamenti d'ogni genere ed i salnitri. Funzionava adunque, sotto questo punto di vista, da ufficio burocratico ed amministrativo; còmpito non lieve nè facile quando si pensi allo svariatissimo numero di bocche da fuoco che la Repubblica manteneva ancora in servizio alla sua caduta, claudicanti sui letti che invano attendevano l'opera riparatrice e rinnovatrice della ditta mercantile Spazziani. Erano 24 modelli diversi di cannoni, tra bronzo e ferro, 5 di falconetti, 6 di colubrine, 4 di petrieri, 13 di mortaj, 3 di obusieri, 3 di obizzi; senza contare le artiglierie di minor calibro e le speciali, come gli aspidi, i passavolanti, i saltamartini, i trabucchi, le spingarde, gli organetti ed i mortaretti per la prova delle polveri[159].

Ma il peggior lavoro da Sisifo in questa decadenza delle armi veneziane si era per certo quello di resistere alle continue insidie che si tendevano al Deposito intangibile, di cui il magistrato all'artiglieria era responsabile coma prima autorità tecnica del reggimento all'Arsenale. Questo deposito era costituito da una cospicua raccolta d'armi d'ogni fatta, composte in alquante sale dell'Arsenale medesimo, «le cui pareti erano tutte maestrevolmente guernite, dall'alto al basso, di loriche, di elmi, di spade, di archibugi e di altri militari strumenti. Alcuni di questi saloni forniti erano di armi per 25,000 soldati, tali altri per 30,000, tali altri ancora ne somministravano fino a 40,000: e ve ne erano ancora altri per 25,000 o 30,000 galeotti. Le dette sale si vedevano ancora adorne con le imagini di molti ed illustri capitani»[160].

Il deposito intangibile, ampliato e riordinato nella parte moderna dal sopraintendente Patisson e nell'antica del maggiore Gasperoni[161], era così detto perchè ad esso non si doveva ricorrere salvo che al caso di estrema urgenza ed immediato pericolo di guerra, dappoichè agli usi correnti dell'armo o della neutralità dovevano sopperire altri depositi detti di consumo, pure stabiliti dentro la cinta dell'Arsenale con annesse riserve di cannoni e di munizioni.

Ora un organismo come il veneto della decadenza, il quale consumava senza produrre, doveva necessariamente intaccare il patrimonio del passato senza reintegrarlo in alcuna guisa, e mordere dentro l'eredità del deposito intangibile senza ricostituirla. Ed al magistrato all'artiglieria toccò di assistere a questa lenta morìa delle armi veneziane, registrandone a mano a mano i battiti decrescenti del polso, assistendo inoperoso ed inutile a questo sfasciarsi, grado a grado, di una potenza militare accumulata da secoli, la quale andava sgretolandosi come sotto le percosse monotone ed uniformi di un mare ondoso e profondo.

I registri del magistrato all'artiglieria rilevano tutto questo con impassibilità e precisione. Il deposito intangibile faceva così bancarotta, ed ogni fucile ed ogni spada che si toglieva da esso e non si rinnovava, sembrava una nuova e fiera rampogna all'ignavia della Serenissima.

Nel 1794 i presidi di Brescia, di Bergamo e di Verona, erano sprovvisti di schioppi per armare le cerne pur allora arruolate, le quali abbisognavano di 2300 fucili e di 66 moschetti da cavalletto. Il Reggimento all'Arsenal non potendo fare fronte alle richieste con le armi del deposito di consumo fu autorizzato, «a fare le relative pratiche», cioè «a far passare dal deposito intangibile a quello di consumo il numero dei fucili occorrenti, guarniti di bajonetta»[162].

Da quel punto la rovina non ebbe più ritegno. Nel 1796 il deposito di consumo—secondo scrisse il colonnello Molari del Reggimento Arsenale—si era ridotto a soli 360 fucili con bajonetta, a 199 senza, a 200 tromboni per uso delle navi, a 639 palossi di bordo ed a 359 palossetti; vale a dire a nulla o pressoché[163].

Il deposito intangibile era pure disceso a quel tempo a 24,084 fucili completi, a 7750 pistole poco atte al servizio e difettose di azzalini, a 1558 palossi e ad 89 moschettoni [164]. È bensì vero che si trovavano oltre a ciò sparse alla rinfusa nelle sale 20.966 canne da rimontarsi in fucili, 7455 lame da palosso, 2624 azzalini, 11,862 guardie da palosso, 3366 lame da palossetto e 2500 guardie corrispondenti; ma per adattare tutte quelle parti d'arme occorrevano tempo, fede e lavoro, e così come si trovavano potevano rassomigliarsi ai frantumi di una grande e meravigliosa nave sfasciata dalla tempesta.

Pure, in mezzo a tanta dissoluzione, si rileva dai documenti la nota semplice ed ingenua, cioè l'offerta fatta da taluni abitanti dell'estuario veneziano di crescere, comunque, con le loro vecchie e logore armi il deposito dell'Arsenale. Erano i cittadini di Burano che in tali frangenti facevano omaggio al Principe di 20 schiopponi e di 25 schioppi da brazzo, «(braccio) serventi alla cazza (caccia) dei volatili»[165].

La piccola e modesta profferta se lumeggia il patriottismo dei bravi Buranesi, rivela nondimeno la fatalità e la grandezza della rovina militare della Repubblica, e riflette ancora molta luce sul modo di intendere e di comprendere la guerra in quei tempi.

CAPO VII.

Il corpo degli ingegneri militari.

Quando nacque il corpo degli ingegneri militari veneti, esso legava il suo nome ad un'opera che può sembrare benaugurante anche oggigiorno. Nella primavera dell'anno 1771 il Capitanio del Golfo segnalava al Senato la necessità di ridurre in quarto il grande disegno topografico dell'Albania, e ciò per gli usi correnti e per conservarne copia nella Fiscal Camera delle Bocche di Cattato.

Il lavoro fu commesso dal Savio alla Scrittura al tenente colonnello Lorgna, e questi l'affidò a sua volta ai migliori allievi del Collegio Militare di Verona destinati ad uscire in quell'anno alfieri nel nuovissimo corpo degli ingegneri militari; così quei giovani uscirono dall'ombra delle scure torri scaligere al sole di una vagheggiata vita di operosità e di studi guerreschi, con la visione davanti agli occhi di quella grande provincia sulla quale, in altri tempi, si era largamente e fortemente diffuso il nome e la gloria di Venezia.

La decisione di istituire un corpo di ingegneri militari giungeva infatti in buon punto. Si poteva beneficiare delle tradizioni e della pratica compiuta altrove, specie in Francia, dai corpi analoghi; costituire un prezioso ausilio per l'esercito veneto, oltre che quale organo tecnico anche come istituto direttivo, uniformandosi ai còmpiti che gli altri corpi del genio militare esercitavano altrove disimpegnando gli affici inerenti al servizio di stato maggiore [166].

Ma non basta. Il novello corpo del genio militare veneto avrebbe potuto rendere grandi servigi anche nelle relazioni civili. Infatti le condizioni speciali del suolo della Repubblica, il regime delle sue acque costiere e rivierasche, la lotta continua e tenace sempre impegnata con queste affine di conservare igienico e fruttifero il suolo, portuosi gli scali, facili e spedite le vie fluviali di transito ed i canali navigabili, avrebbero offerto una inesauribile materia di attività e di lavoro fecondo agli ingegneri militari veneti, una auspicata occasione insomma per bene meritare del pubblico benessere.

Ma l'occasione desiderata di creare un cosiffatto strumento, utile insieme all'esercito e dallo Stato, mancò per l'ignavia degli uomini e per l'indifferenza dei tempi. Rimase solamente traccia del buon proposito, della sua pratica assai tardiva, e, come simbolo, il prestigio del nome di un illustre ufficiale degli ingegneri militari veneti che, da solo, bastò alla deficienza di tutti gli altri. Tale fu il brigadiere Giovanni Mario Lorgna [167]—più volte ricordato—la cui sfera d'attività va indivisibilmente congiunta a quella di Bernardino Zendrini [168], il celebre matematico della Repubblica che studiò e costrusse Murazzi, ed a quella degli ingegneri idraulici che sistemarono l'alveo del Brenta ed il suo Taglio Nuovissimo.[169]

Ma la fama militare del brigadiere degli ingegneri Lorgna va sopratutto collegata alla pratica degli insegnamenti da lui professati per sette lustri nella scuola d'applicazione di artiglieria e genio della Serenissima in Verona, agli studi sull'impiego delle mine, sul miglior rendimento degli esplosivi e sul tracciamento delle gallerie, a qualche restauro ed ampliamento nelle fortezze di Mantova, di Legnago e di Peschiera, ai rilievi topografici da lui intrapresi nel territorio irriguo del Polesine, con il concorso dei suoi allievi, con la cooperazione di Giacomo Nani e con l'aiuto delle tavolette pretoriane commissionate, per iniziativa del Lorgna medesimo, in Inghilterra[170].

Frutto di questi ultimi lavori fu la grande carta corografica della regione del basso Adige, pubblicata però dalla Serenissima tanto tardi che essa servì prima ai suoi nemici—Austriaci e Francesi—che ai Veneti. Risultavano in questa carta chiaramente tracciati il corso dei fiumi, dei canali, l'andamento degli scoli, degli argini e delle strade rispetto alle province finitime, nonchè la postura delle chiuse e delle conche. La scala era circa del 50.000.

Anche lo stato delle fortificazioni e dei castelli di Venezia e d'Oltremare—dei quali si parlerà più avanti—ovunque in rovina, richiedeva urgentemente l'opera riparatrice degli ingegneri militari. A questo compito avevano atteso fino allora—però in modo insufficiente ed inadeguato—il personale dei provveditori alle fortezze, i quartiermastri alle fortificazioni e perfino gli ingegneri ai confini, corpo di professionisti di Stato dipendenti dalle Camere ai confini, incaricati in special modo del tracciamento e della manutenzione della viabilità sulle frontiere della Repubblica[171].

Con questi auspizî adunque, nel 1770, venne creato con apposito senato-consulto il Corpo degli Ingegneri militari, unitamente al Reggimento di Artiglieria[172]. Il grande favore, tutto proprio del tempo, verso quanto di tecnica militare e navale proveniva dall'Inghilterra, indusse il Savio alla Scrittura a ricercare da quella parte anche il primo sovraintendente nel corpo novello—come si era fatto per l'artiglieria—; e questi fu il colonnello Dixon, scozzese di origine.

Gli organici degli ingegneri militari furono stabiliti come appresso: 1 colonnello, 1 tenente colonnello, 2 sergenti maggiori, 8 capitani, 8 tenenti ed altrettanti alfieri, da trarsi questi ultimi annualmente dal Collegio Militare di Verona. In totale il corpo doveva contare sul primo piede 28 ufficiali senza alcun riparto di truppa.

L'uniforme era «di scarlatto, con fodera, giustacuore e calzoni bianchi, con paramenti e mostre fino alla metà del vestito di velluto nero, dragona d'oro alla spala, e spada con fioco uniforme»[173].

Adunque la buona volontà di costituire il corpo degli ingegneri militari veneti non mancava, almeno alle apparenze. Ma, tra il detto ed il fatto, le correlazioni non erano nè semplici nè rapide sotto la decadenza del governo della Serenissima.

Il Piano regolatore del corpo, studiato dal colonnello Dixon, prescriveva che, «esaminato fosse il merito non solo degli ufficiali già titolati come ingegneri e destinati a comporlo, ma degli altri ancora da inserirsi nel medesimo». E poichè si constatò, con opportune prove ed esami, che nessuno dei candidati possedeva i necessari requisiti di idoneità—all'infuori di uno—[174] il Senato deliberò subito di rimandare a miglior epoca la definitiva costituzione del corpo medesimo.

Trascorso un biennio, lo scozzese Dixon, contrariato dalle lungaggini e dalle oscitanze verso quel corpo degli ingegneri che egli non aveva fino allora comandato che sui lindi specchi dei Piedilista, nella primavera del 1772 chiese ed ottenne di essere esonerato dallo sterile servizio, e gli successe il colonnello Moser de Filseck, tirolese di origine e proveniente dall'esercito austriaco. Pure tra il vecchio ed il nuovo, tra lo scozzese che abbandonava la città delle lagune ed il tirolese che gli subentrava, il Senato continuò a nicchiare, ad onta che le istanze e le circostanze incalzassero per indurlo una buona volta a dare corpo e vita al Piano regolatore decretato fino dal 1770.

«È oramai tempo di decidersi—lasciò scritto il Savio nel 1779—e con ciò noi non facciamo che rappresentare non già sciogliere i dubbi che si affacciano su quest'argomento degli ingegneri militari, ma giudicheremo tuttavia colpa tacere e ritenere alcune riflessioni in merito e che lo zelo ci indica… La disciplina è l'anima dei militari, e la differenza nei gradi rende più sicura la dipendenza ed il buon ordine. Un sopraintendente degli ingegneri adunque, occupato nelle generali riviste per tutto lo Stato, il colonnello ispettore, costante e necessario al Collegio militare di Verona, esercitato per di più ben di frequente in molteplici e varie commissioni… il corpo senza ufficiali… tutto ciò insomma non giova a conservare l'armonia nel medesimo. Bisogna decidersi!…»[175]

Finalmente, nel 1782, il corpo degli ingegneri militari cominciò a contare qualche ufficiale ritenuto capace di disimpegnarne gli uffici. Ma siccome quel numero era pur sempre esiguo e di gran lunga inferiore all'organico, così si adottò un servizio promiscuo tra gli ingegneri militari ed i colleghi ingegneri ai confini, una specie di compromesso tra i due corpi tecnici veneti. Sulla fine di quell'anno si trova infatti che i tenenti ingegneri Carlo Canòva e Francesco Medin, unitamente al tenente colonnello Milanovich, prestavano la loro opera nell'arginatura dell'Adige, alle dipendenze del magistrato al detto fiume ed in collaborazione a taluni ingegneri civili[176].

Indi appresso, rendendosi sempre più frequenti i casi di questo servizio cumulativo, particolarmente nelle province d'Oltremare, le meno desiderate e le più trascurate, «per lo stato di desolazione di tutte le caserme, opere interne ed esterne di fortificazione, ospitali, magazzini, depositi, cisterne ed altro»[177], il Savio alla Scrittura deliberò di meglio precisare i limiti della prestazione comune dei due corpi, e stabilì «che l'aiuto dovesse essere per l'avvenire reciproco, ma libero da ogni vincolo l'un l'altro»[178].

Il senso della disposizione non era molto chiaro. Rimase però inteso, in tanta indeterminatezza di forme, che gli ingegneri ai confini dovessero occuparsi più specialmente dei lavori stradali in genere, ed in ispecie delle vie del Canale del Ferro, di Venzone, di Gemona, di San Daniele, del Taglio Nuovo di Palma, della prosecuzione dei lavori in corso sull'Isonzo, a Porto Buso, nell'Istria, alli scogli di Tessaròlo, lungo la strada di Campara in Val Lagarina, nel territorio di Cremona e verso gli Stati del Pontefice; e che gli ingegneri militari dovessero dedicare di preferenza la loro attività ai lavori di carattere militare, cioè alle opere di fortificazione, ai castelli ed alle caserme[179].

Cosicchè, soltanto nel 1785, vale a dire dopo circa quindici anni dalla fondazione teorica del corpo degli ingegneri militari veneti, questo principiava ad avere un inizio di vita, assicuratagli da nuove cure e previdenze del brigadiere Lorgna, concretate nella riforma delle «Leggi, regole e scuole del Militar Collegio di Verona».

* * *

Era però troppo tardi. Rimediare al passato non era più possibile, tanto era grande ed irreparabile la rovina del presente. Tra il 1782 ed il 1783 il brigadiere degli ingegneri Moser de Filseck, reduce da un lungo e fortunoso viaggio d'ispezione nei domini Veneti di Oltremare, così dipingeva al Principe il triste stato delle fortificazioni della Repubblica:

«Prima di ogni altra cosa—così scriveva il Moser—voglia V. E. consentirmi che, con il cuore veramente dolente, io mi lagni del deperimento nel quale attrovai quasi ogni parte delle opere componenti i recinti e le fortificazioni dei domini d'Oltremare… specie della piazza di Zara, il più forte propugnàcolo della provincia di Dalmazia, e delle riflessibili mancanze e bisogni riconosciuti nelle sue interne militari fabbriche. Non mi sorprende però, Eccellentissimo Signore, le grandiosi somme che occorrerebbero per un general restauro di esse opere, bensì il riconoscere una grande parte dei danni medesimi portati dalla malizia degli uomini e per difetto di convenienti diligenze, che profittando delli primi intacchi in un'opera la riducono in consunzione in breve spazio di tempo, senza alcun riguardo nè timore. Tanto maggiore fu la mia sorpresa quando vidi considerabili mancanze in situazioni che sono alla vista delle sentinelle e degli stessi corpi di guardia. Il quartiermastro dovrebbe essere uomo di fermissima attenzione ed attivo, avere registri esatti ed accompagnare gli ingegneri nelle visite che essi dovrebbero fare…. ma invece nulla avviene di tutto questo. Manca il ponte che traversa il fosso capitale della piazza di Zara alla porta di Terraferma, unica comunicazione con il continente, e per conseguenza la sola parte per la quale si può entrare in Zara da tutta la estesa provincia, per la via di terra; è rovesciato il molo dalla parte di mare. Vi si rimediò con un ponte provvisionale, ma è bisognevole di restauro, ed il molo è sfasciato dalla violenza delle onde»[180].

Nè in migliori condizioni di Zara—la Venezia della Dalmazia—erano le altre piazze e castelli del littorale e dell'interno: «Spalato—soggiungeva l'ora detta relazione—ha una situazione stupenda per sè. L'imperatore Diocleziano vi eresse il suo palagio ed ha per appoggi il castello di Clissa per proteggerne il commercio verso l'interno e quello di Sign[181]. Ma Spalato è ora in decadimento ed un nemico può eseguirvi un colpo di mano. Vale perciò meglio per lo Stato di stabilire colà i soli depositi generali di munizioni da bocca e da guerra, e fidarsi meglio degli appoggi di Clissa e Sign, però bene appropriati.

«Per Sign, fu il veltz-maresciallo Schoulemburg che dimostrò la necessità di fortificarla fino dal 1718. Ma il piano non ebbe seguito, e la Repubblica parve allora contentarsi di fortificare, Clissa e Dernis ed il passo di Roncislap, sulla Kerka[182]. Infine, nel 1752, furono fatti pochi lavori a Sign… ed a Spalato non furono toccate che poche rovine del vecchio forte e nulla più. Eppure Sign è luogo di confine, vi si fermano le carovane dei Turchi prima di scendere a Spalato e vi è una caserma confinaria.

«Clissa è disposta sull'erto di un greppo che domina il solo passo per il quale, da Sign, si può entrare nel contado di Spalato. I recinti della fortezza sono in buono stato e, con piccole aggiunte alle opere attuali, si potrebbe ridurre quel posto molto forte. Clissa è provvista di conservatorî da acqua (serbatoj), requisito assai necessario per una piazza di guerra in queste regioni. Qualche ristauro vi è però necessario, acciocchè possano contenere quest'ultimo elemento nella qualità e nella quantità indispensabili… Occorrono però ristauri anche sulla strada di Sign, per Clissa, fino a Spalato[183]. In questa strada, a quattro miglia circa da Spalato (dove sono ancora alcuni residui della città di Salona) è fissato un appostamento per una compagnia di Dalmatini (Oltramarini), il cui quartiere è però così miserabile che opprime lo spirito entrando nel medesimo».

Proseguendo nel triste pellegrinaggio, dalla Dalmazia alle terre Levantine, le tinte del rapporto Moser si fanno ancora più fosche, come che la vita pubblica veneta scemasse di vigore e di calore a misura che si allontanava dalla Dominante e dalle province a questa più vicine. «A Corfù—continua la ricordata relazione—le opere sono tutte ingombre, i parapetti rovesciati, disfatte le embrasure (feritoie) … sicchè confesso che grande fu la mia sorpresa nell'attraversare tanta rovina. A Cerigo ed Asso, la medesima desolazione. Quivi i N.N. H.H.[184] rappresentanti, nelle loro abitazioni, sono appena riparati dai raggi solari ed il vento e la pioggia entra per ogni parte. Gli ufficiali di Cerigo pagano alloggio di casa, essendo atterrate quelle che loro servivano da ricovero; i soldati sono pessimamente posti nei corpi di guardia. Ad Asso infine tutte le fabbriche militari sono in rovina. Le condizioni del forte di San Francesco di Cerigo… mi hanno poi fatto rabbrividire, ed invoco provvedimenti per il decoro del Principato. Li otto pezzi che quivi sono nella casa di San Nicolò, 3 da 30 e 5 da 20, sarebbe più decoroso che fossero interamente a terra, piuttostochè vederli appoggiati sui fracidissimi rottami dei loro letti (affusti).

«A Cefalonia le due fortezze sono ora interamente disabitate…
Prèvesa acquistata nell'ultima guerra contro il Turco, nel golfo di
Arta, insieme a Voniza[185] esposta alle incursioni nemiche, è
fortezza solo di nome ma in realtà è un mal conservato trinceramento».

Ed il sopraintendente Moser dopo questa fiera requisitoria così concludeva: «Si faccia presto a provvedere. Siano fornite le milizie di quartieri e di ospitali che loro sono urgentemente necessari, capitali i più preziosi per le convenienze del Principato. Se no, a nulla servono le bene intese e solide fortificazioni, gli utensili, gli attrezzi da guerra, armi di buona tempera e ben conservate, se non vengono difese le une e maneggiate le altre da destro e robusto braccio».

* * *

Il triste spettacolo delle province d'oltremare in rovina, senza difesa, senza cannoni, senza milizie, l'imagine delle residenze dei rappresentanti della Repubblica sul punto di crollare; dei picchetti di Oltremarini usciti fuori delle caserme per cercare miglior sicurezza e riparo sotto le tende, presso le rive di quel mare che fu già pieno del nome e della gloria di Venezia, quasi attendessero di momento in momento di mutare dimora, deve avere per certo commosso lo spirito del Senato Veneto. Ma poichè l'azione era a quel tempo assai più ardua della commiserazione ed i mezzucci assai più facili delle decisioni pronte e virili, si ricorse anche questa volta ai timidi tentativi, tanto per ingannare il pericolo dell'ora.

Così avvenne che in risposta al disperato appello del Moser, la Serenissima si contentò di istituire il corpo dei Travagliatori del genio.

Taluni storici della Repubblica—ed il Romanin tra gli altri[186]—vollero attribuire a quel corpo un significato moderno, qualificandolo per precursore dell'odierna arma del genio. Ma il paragone a tutto rigore di critica non regge. Al massimo i travagliatori veneti potevano rassomigliarsi alle compagnie di ouvriers, che esistevano nell'esercito francese prima dell'anno 1776; compagnie che vennero poi surrogate dai soldati pionniers con precisi attributi di arma tecnica, ciò che significa che i predecessori degli ouvriers non possedevano i requisiti dei pionieri o, quanto meno, in modo assai incompleto.

Ma anche facendo astrazione da questi còmpiti e da questi paralleli, occorre mettere in rilievo qualche altro aspetto che meglio serva a chiarire il valore militare e morale del nuovo corpo dei travagliatori, e le differenze sostanziali con il corpo dei soldati pionniers di Francia, cui si vorrebbe troppo corrivamente ricollegare le tradizioni organiche dei travagliatori veneti.

Il Moser adunque, esponendo l'urgenza di far argine al decadere delle fortificazioni veneziane, proponeva d'impiegare nei ristauri un personale militare ordinato in compagnie, con reclutamento, còmpiti e trattamento assai analoghi a quelli delle odierne compagnie di disciplina. Era quindi una specie di stabilimento di correzione militare che si trattava di istituire, realizzando con esso due vantaggi precipui: quello cioè di purgare i corpi dai soggetti più pericolosi e di impiegare la loro mano d'opera nei restauri delle fortificazioni e delle caserme a prezzo più conveniente della mano d'opera borghese.

Quest'opera di risanamento dal lato morale militare—particolarmente caldeggiata dal Savio di Terraferma alla Scrittura in carica Niccolò Foscarini—piacque al Senato che l'approvò anzitutto per tali viste. «Per togliere i perniciosi effetti—come diceva la relazione premessa dal detto Savio al decreto che ordinava la costituzione del corpo dei travagliatori—derivati dalla introduzione nella truppa dì quelle figure che, quantunque ree di non gravi delitti, chiamano tuttavia la pubblica vigilanza ad impedire loro maggiori trapassi,… e nell'intento precipuo di tenere aperta una via per allontanare dalla Terraferma e dalla Dominante gli individui infesti alla comune quiete, si assoggetta l'ora intesa scrittura.

«Ed essa si dirige a stabilire l'istituzione di due Corpi di Travagliatori[187] che raccoglier abbiano le sopra indicate figure ed inoltre quei soldati che, per indisciplina e scostumatezza, venissero giudicati dalle pubbliche cariche d'Oltremare e Savio alla Scrittura degni di tale correzione, per essere impiegati nelle fabbriche ed in ogni altro pubblico lavoro d'Oltremare. Ed il Senato, che adatto ciò riconosce alle viste del suo servizio ed alla tranquillità dei suoi sudditi, avvalora il provvedimento con la sua approvazione.

«I soldati travagliatori avranno la paga di soldato di fanteria italiana, più una diaria di cinque gazzette[188] nei giorni di continuato lavoro, onde possano procurarsi una nutrizione adatta alle fatiche: ai capi-squadra saranno corrisposte dieci gazzette. Il vestiario dei travagliatori deve esser fatto dal Magistrato sopra Camere[189] e di due in due anni loro somministrato, giusta il modello che l'esattezza della conferenza assoggetta, e che si rileva corrispondere in un sessennio al valore di quello usato dalla truppa italiana»[190]

Tale fu l'ordinamento del corpo di travagliatori Veneti suddiviso in due compagnie: una destinata ai lavori di Levante, l'altra a quelli della Dalmazia[191]. È chiaro adunque che l'idea di istituire un corpo del genio militare era ben lungi ancora dalla mente dei governanti veneti nel 1785. E come non bastassero ad attestarlo le espressioni del senatoconsulto ora citato, v'ha ancora il libro dei Doveri del Corpo dei Travagliatori, pronto a ribadire tale concetto. A custodia delle principali residenze delle due compagnie—cioè la Cittadella di Corfù ed il Forte di Zara—erano stabiliti dei grossi picchetti di guardia, ciò che dinota la condizione molto simile a quella dei forzati in cui erano tenuti i componenti del corpo.

L'anzidetto libro dei Doveri[192] specifica ancora meglio tale condizione pressochè ergastolana dei travagliatori quando prescrive che, «a far parte di diritto dei detti corpi sono chiamati quegli individui che, dai varî tribunali, uffizi, magistrati e reggimenti, vengono condannati a servire nella truppa. Non possono però introdurvisi gli individui rei di gravi delitti ed infamanti, nè incapaci al lavoro… Dietro parere delle primarie cariche delle province di Oltremare e del Savio di Terraferma alla Scrittura, si possono altresì condannare a servire nei corpi dei travagliatori quei soldati che si mostrassero di mal costume, o indisciplinati, o che meritassero almeno due anni di correzione. Spirati questi due anni e non dando i soldati segni di ravvedimento termineranno quivi l'ingaggio. I ravveduti termineranno invece lo ingaggio nella truppa dove saranno nuovamente trasferiti».

I travagliatori non erano adunque che tristi soggetti allontanati dall'esercito, e la cura di liberarnelo al possibile primeggiava sopra ogni altra, ad onta della rovina delle fortificazioni veneziane e della fosca dipintura del sopraintendente Moser. Fu soltanto pochi mesi prima della caduta della Serenissima che il generale Stràtico richiese effettivamente al Savio alla Scrittura di istituire un corpo del genio militare, con attributi e còmpiti da arma nel senso moderno; «formando finalmente un corpo di guastatori, istrutto nella costruzione dei trinceramenti ed opere campali sotto la direzione degli ufficiali ingegneri e nella gittata dei ponti per il passaggio dei fiumi. Così ad ogni comando nulla verrebbe a mancare, tanto per muovere la truppa contro l'oste nemica che per assicurarle una forza superiore alla medesima».

Ma lo Stràtico scriveva così soltanto il 20 luglio 1796[193].

CAPO VIII.

La cavalleria veneta. Le armi nel loro complesso, il governo ed il riparto difensivo e territoriale. I veterani.

Le glorie della cavalleria leggera stradiotta erano sfiorite da gran tempo. I fieri cavalieri albanesi—o cappelletti—al soldo della Repubblica, vestiti di abiti succinti, armati di piccolo scudo, di lancia e di spada, che avevano empito delle loro fulminee gesta i campi d'Italia nel Cinquecento, si erano a grado a grado ammansiti. Avevano dapprima smussate le unghie, poscia ripiegate le zanne e si erano da ultimo confusi e perduti in un largo innesto nei più miti cavalleggeri Dalmati e Croati. L'essenza dell'arte del combattere leggero alla stradiotta, fatto di balenare d'incursioni, di tagli ratti e violenti inferti sul corpo greve dell'avversario, di solchi sanguigni e profondi vibrati sulle terre devastate dalla loro rapacità, era esulata altrove sotto forme più disciplinate e conformi al diritto delle genti, specie in Francia, dove si era raccolta e tramandata, con qualche sapore di venezianità, sotto le insegne del reggimento cavalleggeri Royal Cravates[194].

A Venezia rimase, come di tutto il bello ed il buono del passato, soltanto l'eredità delle memorie. Trascorso il periodo delle grandi guerre e delle lotte di conquista, nelle quali la cavalleria stradiotta con il suo rapido dilagare parve quasi il simbolo e l'arma per eccellenza; ripiegatasi la Serenissima in sè medesima, la cavalleria divenne nell'esercito veneto un'arma esotica. Si restrinse cioè al modesto compito di milizia addetta alla custodia dei confini, alla scorta dei convogli di privative dello Stato[195] e delle reclute, alla guardia d'onore delle missioni e delle alte cariche governative; dedicò infine il proprio servizio al mestiere di staffetta lungo le principali rotabili, per trasmettere con qualche celerità lungo di esse le ducali e gli ordini più urgenti del Savio alla Scrittura.

Sotto questo riguardo adunque la cavalleria veneziana prese la veste di un pubblico servizio e si spogliò delle caratteristiche di arma combattente.

Le esenzioni e le difficoltà dei pascoli, mentre tendevano a raccoglierla in determinati centri meglio provvisti di foraggio, obbligavano per contro a frazionarla in piccoli posti là dove questo scarseggiava. E ciò anche per meglio soddisfare alle esigenze del servizio di scorta e di staffetta. La campagna bresciana e la veronese primeggiavano per floridezza dei pascoli e quivi i riparti di cavalleria potevano stare più raccolti: la provincia del Friuli, specie il circondario di Pordenone[196], pur essendo assai più ricca di foraggi era nondimeno esente da ogni servitù, e ciò per antico privilegio.

Nei dintorni del Chievo (Clevo) stava quindi alloggiato un buon terzo della cavalleria veneta al tempo della decadenza, ed a Verona risiedeva il suo sopraintendente. I possessori di quelle praterie acclive e dei pingui pascoli sotto quella fortezza erano obbligati—per vecchi statuti—a somministrare le decime dei loro fieni alla cavalleria[197].

Ma quel vincolo—fatto di antiche schiavitù terriere—era diventato insopportabile ai terrazzani veronesi della decadenza della Repubblica, che ripetutamente ed acerbamente se ne dolevano, offrendosi perfino di pagare la prescrìtta decima in denaro sonante. Con ciò quei terrazzani intendevano piuttosto a liberarsi delle guarnigioni che dell'onere che loro derivava per la presenza della cavalleria nelle loro terre.

Ma il Senato, nel 1782, riconfermò nel modo più esplicito il pieno vigore delle antiche servitù, «essendochè la fornitura delle decime alla pubblica cavalleria è destinata alla comune salvezza di tutti, per il mantien di quell'arma»[198].

A squadriglie, a drappelli, il rimanente della cavalleria era suddiviso in parte nelle città e nel contado della Bresciana e del Bergamasco, ed in parte tra i centri di Padova, Rovigo, Treviso, Udine e Palmanova. Delle province di Oltremare, la sola Dalmazia aveva cavalleria preferibilmente croata, oppure di corazze; e poichè a questa specialità da tempo era affidato il servizio di vigilanza verso le frontiere turchesche e nell'interno, i nomi di corazze e di croati suonavano nei luoghi come sinonimi di gendarmi ed anche di sgherri[199].

Inauguratosi poi, nel 1783, il sistema dei cambi di guarnigione o dei turni—come si disse più avanti—-fra i grandi riparti territoriali della Serenissima, questa tradizione poliziesca andò a grado a grado affievolendosi, ed il servizio di ordine pubblico fu indi appresso egualmente ripartito tra le diverse specialità dell'arma che si avvicendavano nei presidi d'Oltremare.

* * *

I còmpiti della cavalleria veneta si esplicavano anzitutto nei servizi mobili, cioè nella perlustrazione delle strade di maggior transito insidiate dai malviventi, nella sorveglianza delle linee di confine, nella protezione dei convogli di biave (frumento) che dovevano servire alla panificazione per la truppa[200] e nei servizi fissi di guardia e di vigilanza locale; cioè nei così detti appostamenti dell'arma stabiliti ai nodi stradali di maggior rilievo, nelle vicinanze delle fortezze e dei castelli più importanti. Sotto quest'ultimo aspetto, la cavalleria veneta si prestava all'occorrenza anche al disimpegno del servizio di staffetta e di corriere, come si è ricordato più sopra.

Il senso di cosiffatto servizio spigliato, disimpegnato a piccoli nuclei, contribuiva nondimeno a rendere l'arma maneggevole, usa alle fatiche e bene allenata. I frequenti contatti tra l'una e l'altra riva dell'Adriatico avevano fatto inoltre acquistare alla medesima buona pratica degli imbarchi, degli sbarchi e dimesticità nelle traversate oltremare, abbenchè nessuna prescrizione regolamentare si occupasse della materia e se ne lamentasse oltremodo il difetto[201]. I trasporti si eseguivano di solito tra il Lido e Zara usando le manzere, o barche per il trasporto dei bovini, ed in genere «approfittando di tutti i legni in partenza, sia per armo che per scorta delle reclute»[202].

Quanto al frazionamento della cavalleria esso era per certo molto considerevole. Nel 1794, le quattro compagnie di croati del Reggimento Colonnello Avesani e le quattro compagnie di dragoni del Reggimento Colonnello Soffietti, che avevano stanza attorno al Chievo, fornivano appostamenti a Mozzecane, Valeggio (Valeso), Sorgà, Villanova, Castelnuovo, San Pietro in Valle, Caldiero, Cà de' Capri, Sega, ed eventualmente anche posti di vigilanza attorno alle fortezze di Legnago e di Peschiera[203]. Le rimanenti quattro compagnie di ciascuno dei reggimenti sopra ricordati, che tenevano guarnigione nella Bresciana, provvedevano a loro volta agli appostamenti di Palazzolo, Ospedaletto, Ponte San Marco, Orzinovi, Àsola, Pontevico, Salò e Crema. Infine, due compagnie del reggimento croati del Colonnello Emo distaccate nel Bergamasco, somministravano gli appostamenti di Cavernago, di Vercurago, Lavalto, Sorta, Villadoda, Cividale, Barican, Sola, Brambat, Lurano, San Gervasio, Romano e Pontida[203].

E le compagnie della cavalleria veneta a quel tempo, «detratti gli ufficiali, bassi-ufficiali, camerata (attendenti e piantoni di scuderia) selleri, forier e marescalco, che non fanno servizio…» si erano ridotte a soli 27 cavalieri ognuna[204],

Intorno a questo medesimo tempo l'arma si suddivideva in due reggimenti di croati, in uno di cavalleria dragona ed uno di cavalleria corazziera. I reggimenti di croati e di dragoni avevano la forza di otto compagnie ciascuno, quello di corazzieri ne contava solamente sei.

Le compagnie di dragoni, croati e corazzieri, accoppiate due a due, formavano uno squadrone agli ordini di un sergente maggiore.

I corazzieri, per vecchia tradizione nobilesca, costituivano anche nella cavalleria veneta la milizia a cavallo più pregiata e ragguardevole, e la legge di Ottazione assicurava ai loro graduati alcuni privilegi in confronto agli altri graduati della Serenissima[205]. I dragoni erano destinati a combattere occorrendo anche a piedi ed erano perciò armati di moschettoni[206]; i croati infine formavano la cavalleria leggera.

Sulla fine della Repubblica era sopraintendente dell'arma il già colonnello delle corazze conte Giulio Santonini. Quando questi fa elevato alla suprema carica della cavalleria veneta (1788) con l'anzidetto titolo di sopraintendente e con il grado di sergente maggiore di battaglia, il Santonini contava 52 anni di servizio e 67 di età, dedicati in massima parte al pubblico servizio nelle guarnigioni di Dalmazia e di Levante[207].

* * *

Il grande frazionamento delle truppe venete, le loro unità stremate di gregari e decrepite nei quadri, il servizio anfibio che esse prestavano tra terra e mare, tra le frontiere turchesche e le isole sperdute dell'arcipelago ionico, rendevano assai rare le occasioni utili per stabilire contatti reciproci di cameratismo, per affinare il senso dell'arte, per esercitare insomma le truppe medesime in nuclei di qualche rilievo, conforme a quanto si usava a quell'epoca nei campi di manovra di Francia e dell'Impero. Richiamate poi a nuova vita le cerne nel 1794, con il loro innesto nei riparti di soldati del vecchio piede le unità si rinsanguarono alcun poco, sicchè le compagnie anemiche dei fanti italiani ed oltremarini, da una trentina di soldati appena salirono in media a circa il doppio.

Si presentava allora propizia l'occasione per addestrare le truppe venete in qualche simulacro di campo o di manovra, ed il tenente generale Salimbeni—il tacciato di giacobinismo nei bossoli del Maggior Consiglio e del Senato—la colse ben volentieri a Verona, là dove, sulla fine del detto anno, si trovavano raccolti ben 2507 tra fanti e cannonieri, con 326 tra dragoni e croati[208].

«Il capitanio di Verona (Alvise Mocenigo) come pure il tenente generale Salimbeni—così diceva una relazione del Savio al Doge—si mostrano molto soddisfatti dei progressi della guarnigione nei campali esercizî, ad onta del tempo non lungo scorso dalla prima raccolta delle cernide e di qualche rèmora nelle successive. Nè per essere di già terminata la stagione delle campali evoluzioni[209] si introdusse l'inazione nella piazza. Mentre quel comandante delle armi profitta di questa stessa circostanza per stabilirvi il giornaliero servizio, senza tenere di soverchio occupata la truppa che gode di altrettanto riposo e coglie sempre le buone giornate per esercitarle anche riunite in corpo, il medesimo si propone alla ventura primavera di eseguire anche col presidio qualche evoluzione di tattica»[210].

Le buone intenzioni avevano adunque fruttato qualche cosa. Più tardi, nel luglio del 1796, il sergente generale conte Stràtico—il fautore di una artiglieria veneta da battaglia leggera e manovriera ed il riformatore del regolamento di esercizi per le fanterie italiana ed oltremarina—riaffermava ancora la necessità di queste manovre d'assieme, nella premessa al ricordato regolamento e nel carteggio che esso diede luogo tra lo stesso Stràtico ed il Savio di Terraferma alla Scrittura in carica.

Con la visione oramai netta e precisa della patria violentata sul margine delle lagune—come al tempo della guerra di Cambrai—quel generale vagheggiava la costituzione di alcuni campi stabili sotto ai forti di San Pietro in Volta e di Malamocco, presso i trinceramenti della Motta detta di Sant'Antonio e presso il Lido, allo scopo di formarne una scuola d'armi e d'armati sempre pronta ad ogni evenienza, sempre desta ad ogni minaccia; di apparecchiare insomma un buon istrumento di difesa per Venezia e per l'estuario. Giacomo Nani, con il prestigio del suo nome, con la profondità delle sue dottrine, con il suo patriottismo illuminato, aggiungeva a questi disegni forza e decoro.

«È bene—scriveva lo Stràtico—che si radunino al più presto assieme queste truppe e siano messe sotto le tende, come nella ultima neutralità[211] al tempo del maresciallo Schoulemburg. Tale metodo è poi molto utile nel formarsi in battaglia, nel marciare fuori dei campi per qualche lungo tratto interrotto da fossi, da siepi e da altri impedimenti, e finalmente per eseguire le grandi manovre. Da questo primo passo dello attendamento è facile condursi poi a quegli altri che formano la catena continua delle militari istruzioni; vale a dire nel rendere in pari tempo ed in unione con la fanteria esercitati gli artiglieri nella disposizione e nello esercizio dell'artiglieria di corpo e del treno da campagna, di cui dovrebbero essere forniti i progettati accampamenti, come anche la cavalleria che vi si volesse assegnare sia nei finti assalti che in foraggiare, scortare convogli e bagagli… Quanto poi riflette questa ultima arma, il maresciallo Schoulemburg era del parere doversi armare i lidi di Venezia,[212] specie i dipartimenti di Pellestrina e di Chioggia, con buoni corpi di cavalleria per impedire gli sbarchi ed appoggiare occorrendo quelle milizie che, da Venezia, fossero spedite in Terraferma. Converrebbe quindi chiamare a questa parte almeno quattro compagnie di croati, aumentando però la loro forza attuale fino a cento teste, formare con esse tre buoni squadroni (di due compagnie ognuno) ed aggiungervene un quarto di cavalleggeri». Così, mentre la Serenissima stava agonizzando, si istituirono in tumulto gli ultimi campi di manovra dell'esercito Veneto, sicchè essi uscirono alla luce del sole come nati-morti.

* * *

Il riparto militare della Repubblica comprendeva i quattro dipartimenti territoriali d'Italia, di Dalmazia, del Golfo e del Levante. I tre ultimi, per essere d'oltremare, avevano stretta correlazione con la suprema magistratura politica, civile e marinara di ciascuna provincia (i provveditori generali). Il primo dipartimento invece, quello d'Italia, non avendo normalmente tale analogia di forme e di reggimenti—a meno che speciali circostanze politiche non consigliassero di nominare anche colà un provveditore—esercitava la propria giurisdizione per mezzo dei capitani e dei podestà.

Nel riparto di Levante[213] primeggiava l'isola di Corfù, per la sua posizione geografica e per il ricordo degli ultimi fasti di guerra della Serenissima (1716) indivisibilmente congiunti alla strenua difesa del maresciallo Schoulemburg. E la fortezza corfiotta nel 1796 contava ancora sui rovinati rampari ben 512 bocche da fuoco di varia specie e calibro. Dopo Corfù, in ordine d'importanza, si contava Santa Maura (Levkàs) cui pendevano di continuo sul capo come scimitarra gli orrori delle incursioni turchesche; Zante (Zakynthos) la boscosa e feconda per i pingui pascoli, assai mal guardata dai suoi 21 cannoni barcollanti sugli affusti tarlati; Prevesa la cittadella perduta in fondo al promontorio aziaco, ricca di gloria romana ed anche un poco orgogliosa per la recente fortuna dei Veneti[214], guardata da un pugno di soldati macilenti per i miasmi dell'acquitrino ambracico. Venivano ultime Vonizza, l'isola di Cefalonia con il presidio di Asso, e li scogli perduti di Cerigo e Cerigotto.

Nel contado delle Bocche, cioè in parte della giurisdizione del Golfo, aveva il primo posto la fortezza di Cattaro con 153 cannoni, compreso l'armamento del Forte Spagnuolo di Castelnuovo[215], quello del castello di Budua e degli appostamenti di Zupa e del contado dei Pastrovicchi. Frequenti erano le relazioni politiche e commerciali dei governatori delle armi di queste due ultime fortezze con l'attiguo territorio dei Montenegrini e dei pascià dell'Erzegovina[216].

Il riparto di Dalmazia aveva per capoluogo Zara. Non minore importanza
dopo questa città avevano i castelli di Knin, di Sign, di Spalato, di
Traù, le opere di Sebenico, quelle di Almissa e di Imoschi.
Nell'Istria Veneta primeggiava infine Capodistria armata con 12 pezzi.

Tra le piazze forti d'Italia aveva grande fama Palma, o Palmanova, retta da uno speciale magistrato militare.

Il numero dei castelli e delle fortificazioni di Venezia e dell'estuario era assai grande, e tale si trasmise pressochè in integro, attraverso le dominazioni francese ed austriaca, fino al 1848. Tra le opere più notevoli si contavano, al tempo della caduta della Repubblica, quelle del Lido, di Campalto, della Certosa, di San Giorgio Maggiore, della Motta di Sant'Antonio, del Maltempo, di San Pietro in Volta, degli Alberoni, di Chioggia, di Bròndolo, del Castello di Sant'Andrea, di San Giovanni della Polvere, di San Giorgio in Alga; oltre una folla di opere minori, batterie, trinceramenti, ottagoni, palizzate ed appostamenti[217].

Sugli spalti di queste opere di Venezia e dell'estuario risultavano collocate in complesso 2471 bocche da fuoco, comprese le disponibili nell'Arsenale.

Caposaldo della difesa di Terraferma era la fortezza di Verona. In essa si notavano il castello di San Pietro e quello di San Felice,[218] entrambi ricchi di solide muraglie, di torricelle, di opere a corno e di terrapieni d'ogni maniera, demoliti in buona parte in forza del trattato di Luneville nel marzo 1801; Castel Vecchio di remota costruzione Scaligera[219] con grossi parapetti, feritoie sui piloni del classico ponte e merlature, opere deturpate anch'esse in virtù del detto trattato; e la cinta murata con le numerose porte, cortine e bastioni illustrati dall'arte del Sammichieli. Minore importanza avevano infine la piazze di Legnago e di Peschiera—recentemente sistemate nei fossi acquei e nelle mure dal colonnello Lorgna—il castello di Brescia, le opere di Orzinovi (Orzi-Novi), di Crema, di Àsola, di Pontevico e di Bergamo.

* * *

L'alta giurisdizione territoriale militare sui riparti di Levante, Dalmazia, Golfo ed Italia, era esercitata dai rispettivi sergenti maggiori di battaglia, secondo i turni dei quali si disse più sopra. Il comando effettivo delle fortezze competeva invece ai singoli governatori delle armi, suddivisi in alquante categorie a seconda dell'importanza delle fortezze medesime.

Ai governatori delle armi spettava un certo numero di lance spezzate costituenti una piccola guardia del corpo. Successivamente però questo diritto andò modificandosi e si trasformò, sul finire della Repubblica, in una specie di indennità di carica da corrispondersi in contanti.

A questi governatori delle armi nelle fortezze d'Oltre mare incombeva un còmpito assai spesso difficile e pericoloso. Quello cioè di servire da ago della bilancia in mezzo alla violenza delle passioni politiche delle genti contermini, e da scudo contro le incursioni e le depredazioni delle vicine tribù turchesche. E l'uno e l'altro ufficio essi dovevano assolvere con dignità e con fermezza, quasi sempre con scarsissimi presidi, con armi spuntate e rugginose.

In quest'opera giovava ancora alcun poco il bagaglio delle antiche memorie e del vecchio prestigio repubblicano rinverdito dopo le campagne del 1716-17, ma più che tutto valeva l'intreccio dei vincoli politici, sociali e feudali, solidamente ribadito dalla Repubblica nei domini d'Oltremare tra i suoi stessi rappresentanti ed i maggiorenti delle terre. Così, con fine accorgimento, la Serenissima soleva scegliere non pochi dei governatori delle armi delle principali fortezze di Dalmazia e di Levante tra gli ufficiali superiori degli Oltremarini, vale a dire tra i conterranei medesimi; sicchè, per tale riguardo, le genti entravano di leggeri in una tal specie di convinzione di godere una autonomia propria, convinzione che gli istituti repubblicani rafforzavano e corroboravano. Il crogiuolo delle milizie regionali oltremarine serviva così da elemento unificatore, da valido intermediario tra le libertà cantonali d'Oltremare ed il potere centrale repubblicano, da scuola d'armi insieme e di pubblici poteri dalla quale il dominio veneto usciva rafforzato e popolarizzato. Le migliori famiglie dalmate quivi dovevano acquistare i titoli per l'esercizio del governo sui conterranei, in nome della stessa Serenissima, e questo automatico ricambio di uomini e di reggitori raddolciva le suscettività individuali e collettive delle municipalità dalmate e le cointeressava agli accorti fini politici della Repubblica.

Nelle principali fortezze i governatori delle armi erano inoltre coadiuvati dai così detti maggiori alle fortezze, tratti in buona parte dal corpo degli artiglieri, con incarichi esclusivamente sedentari. Non mancavano però degli strappi a tale consuetudine circa il reclutamento di questi ufficiali, e tra gli altri merita particolare rilievo quello che si verificò nel 1794 quando—nell'assoluta impossibilità di trovare un posto agli ufficiali promossi per merito di guerra da Angelo Emo—convenne trasferirli appunto nel personale delle fortezze, senza riguardo di sorta all'ufficio ed all'arma di provenienza.

I còmpiti di questi ufficiali alle fortezze erano assai simili a quelli che, sotto la Francia del vecchio regime, erano attribuiti ai majors ed agli aides majors généreaux des logis[220].

Poche parole rimangono da dire intorno alla dislocazione effettiva delle truppe venete. I documenti più autorevoli in materia sono per certo i «Piedilista generali di tutte le pubbliche forze» compilati all'Inquisitorato sull'amministrazione dei pubblici ruoli. Codesti specchi, che servivano di base ai càlcoli relativi alla forza bilanciata dell'esercito della Repubblica, comprendevano gli effettivi sotto le armi, gli aumenti e le diminuzioni dei fazioneri in confronto del periodo di tempo immediatamente precedente, gli amassi o risultati delle nuove leve, i cassi o congedati per compimento d'ingaggio o per inabilità fisica, i fuggiti o disertori, i morti, i passati di riparto o trasferiti ad altra sede, ed infine i realditi, o condannati la cui pena era sospesa momentaneamente per revisione di processo[221].

Le modalità di tali piedilista erano tassativamente fissate dalle Terminazioni degli Ill.mi ed Ecc.mi Signori Inquisitori sopra l'amministrazione dei pubblici rolli[222], e ad esse si dovevano uniformare tutti i comandanti di truppa nello intento di evitare brogli, peculati e tentativi di frode per via dei passavolanti[223]. Epperciò ogni ufficiale, sulla propria fede di uomo d'onore, doveva redigere la copia del rispettivo rollo, o riparto, da trasmettersi quindi agli inquisitori competenti, vidimata dalle autorità superiori. Analoghe pratiche si osservavano per le truppe imbarcate sui pubblici legni, disposte a guardia di lontani presidi e negli appostamenti. I sergenti maggiori di battaglia, i capi dei riparti territoriali, gli aiutanti di reggimento e di battaglione, dovevano sorvegliare con somma cura la compilazione scrupolosa dei piedilista, che si trasmettevano all'Inquisitorato semestralmente prima dell'anno 1790, ed annualmente dopo di quell'anno[224].

* * *

Dai piedilista adunque—orgoglio e tormento della burocrazia militare veneta dell'epoca—si rileva che la forza bilanciata sullo scorcio di vita della Repubblica oscillava intorno alla dozzina di migliaia di soldati, e che pochi anni prima della caduta questa forza era timidamente salita sopra alle quindici migliaia di uomini[225].

Tale contingente di truppe era suddiviso pressochè in parti proporzionali tra i quattro dipartimenti militari. Così nel 1780, sopra un totale di 313 compagnie e 12,406 teste a ruolo, compresi gli invalidi, gli addetti all'Arsenale, alle scuole militari ed alle compagnie di leva, spettavano a ciascuno dei grandi riparti gli effettivi seguenti:

Riparto di Levante.—Presidi, numero 24[226]. A terra, uomini 3326. Sulle navi, nomini 1683[227].

Riparto di Dalmazia.—Presidi, numero 49[228]. A terra, uomini 2761. Sulle navi, uomini 255.

Riparto d'Italia.—Presidi, numero 43[229]. A terra, uomini 2141. Sulle navi, uomini 453. Riparto del Golfo.—Presidi, numero 2[230]. A terra, uomini 197. Sulle navi, uomini 460.

Nell'interno dei corpi le guarnigioni di solito erano distribuite in giusta misura, con senso di equità e di equilibrio tra i buoni ed i cattivi distaccamenti, e con riguardo ai turni destinati a ristabilire l'equilibrio in questa necessaria altalena di «bona mixta malis» delle guarnigioni degli eserciti a base nazionale. Pochi erano invece i corpi che avevano tutte le compagnie raccolte in una medesima sede, o riparto territoriale, e ciò dipendeva ordinariamente tanto da necessità di transito da un riparto all'altro (Lido-Padova-Zara), quanto da convenienze particolari d'arma (corazzieri, croati, travagliatori, invalidi etc.).

Nel piedilista del V settembre 1776[231]—uno dei più accurati della specie—risulta infatti che, dei 18 reggimenti di Fanteria Italiana, 14 avevano le proprie compagnie tutte riunite nell'interno di uno stesso riparto, che i rimanenti reggimenti le avevano frazionate, e che tutti i corpi di Fanti Oltramarini all'infuori di due[232] si trovavano con le proprie unità sparpagliate tra la Dalmazia, il Levante, l'Italia ed il Golfo.

Della cavalleria veneta, il Reggimento di Corazze aveva le sue sei compagnie tutte in Dalmazia, quello di Dragoni era per intero dislocato in Italia. Il reggimento Croati del Colonnello Begna presidiava la Dalmazia senza distaccamenti in altri riparti, quello del Colonnello Gregorina era tutto raccolto in Italia. Il Reggimento artiglieria infine era suddiviso con sei compagnie in Levante, tre nella Dalmazia ed altrettante in Italia.

Questa dislocazione delle truppe venete si mantenne presso a poco immutata fino alla caduta della Repubblica. Subì soltanto qualche alterazione nel 1796 quando, a cominciare dai primi di giugno, dalle province d'Oltremare furono chiamate alla Dominante truppe per la difesa delle lagune minacciate dagli eserciti di Francia. Allora, per la seconda volta dopo la guerra di Cambrai, si videro raccolte milizie in buon numero dentro l'abitato cittadino di Venezia, violando la tradizionale consuetudine che ne le escludeva in via normale in omaggio alle libertà repubblicane.

All'infuori di codesti casi eccezionalissimi, unici rappresentanti della legge e della forza armata veneta dentro alla città delle lagune erano i birri ed i fanti, ministri questi ultimi al servizio del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato[233].

* * *

Poichè l'esercito veneto della rovina repubblicana accentuò il proprio carattere di istituto di beneficenza, pullularono come una fungaia i corpi degli invalidi, o dei benemeriti, senza contare i nuclei di militari fisicamente inadatti al servizio, non inquadrati in unità sedentarie ma semplicemente mantenuti a ruolo e stipendio con il benefizio delle così dette mezze paghe.

Di queste ultime si avvantaggiavano in particolar modo i cannonieri, intendendo con ciò la Serenissima di conservarsi sotto mano—prima della fondazione del Reggimento Artiglieria e subito dopo di essa—una certa riserva di militari pratici delle artiglierie per far fronte alle eventuali esigenze.

Ma poichè lo scandaloso costume delle mezze-paghe, che manteneva a spese del pubblico erario una falange di fannulloni e di disadatti fu abolita nell'anno 1777, un'ondata di postulanti e di malcontenti venne a rifluire alle unità organizzate degli invalidi. Se ne rammaricava inutilmente il Senato, rilevando il grave danno pecuniario che causava tale corrività, eccitando il Savio alla Scrittura a provvedere: «perchè questa caritatevole disposizione (dei benemeriti) non vada a danno del dinaro pubblico, nè trovi il privato interesse una fonte di illeciti vantaggi»[234]. La piaga però aveva troppo salde e profonde radici, d'altronde le strettezze dell'erario non permettevano di concedere giubilazioni che ai militari fatti decrepiti sotto l'assisa repubblicana; e ciò non poteva accadere di solito che verso i 60 o 70 anni di età.

Nel 1790 esistevano nell'esercito veneto 7 compagnie o distaccamenti di benemeriti. Una compagnia di essi era dislocata al Lido e nelle opere contermini, una a Palmanova ed una nel Castello di Brescia. Un distaccamento assai numeroso di quei vecchi soldati guardava il forte di San Pietro dei Nembi sotto Zara, un altro quello del Maltempo presso Venezia, i due ultimi infine erano dislocati a Zara e nel Collegio Militare di Verona.

Principale còmpito di questi benemeriti era il servizio di guardia agli istituti ed edifizi militari affidati alla loro custodia, «senza mai staccarsi dal posto sotto qualunque pretesto, per ubbidire ai comandi che loro venissero impartiti e vietando l'asporto di pubblica o di privata roba»[235].

CAPO IX.

L'addestramento della truppa veneta.

Cadeva la Repubblica quando, dopo una serie di reiterate istanze intese a porre in rilievo la vetustà dei regolamenti tattici compilati dal maresciallo Schoulemburg al principio del secolo XVIII—sui quali era passato indarno tutto lo splendore dell'arte federiciana—il Senato si induceva finalmente a nominare una commissione con l'incarico di redigerne dei nuovi. Si trattava anzitutto di rendere più agili e manovriere le forme tattiche della fanteria, anchilosate ancora nella vecchia suddivisione di ali, di divisioni e di plotoni, di imprimere maggiore impulso al fuoco, scioltezza agli ordinamenti e vigoria alle azioni da combattimento.

La circostanza che un buon nucleo di truppe venete si trovava raccolto sotto Verona, e che il generale Salimbeni ed il governatore delle armi di quella città avevano cominciato ad esercitarle in simulacri di esercitazioni e di manovre, si presentava assai propizia per compiere le necessarie esperienze della riforma dei regolamenti.

Nella primavera del 1795 una commissione composta dal detto generale Salimbeni, dal sergente generale Stràtico e da altri ufficiali inferiori, compiva infatti la prima metà dell'opera, cioè quella della revisione della parte formale dei regolamenti tattici dal titolo «Esercizi personali per gli Uffiziali, bassi-uffiziali e soldati della truppa veneta», e la presentava al Savio di Terraferma alla Scrittura Iseppo Priuli con una dotta relazione a corredo, acciocchè questo magistrato la rassegnasse a sua volta al Doge.

La relazione faceva riserva, «che i detti benemeriti ufficiali Salimbeni e Stràtico avrebbero fatta successivamente completa produzione anche della seconda parte dell'opera… la quale abbracciar deve i movimenti dei corpi, così avendo essi creduto di dividerla per maggiore facilità e chiarezza»[236].

Questa prima parte del regolamento che vedeva allora la luce comprendeva adunque il maneggio del fucile del modello Tartagna, i movimenti con la bandiera per gli alfieri, con la spada per gli ufficiali e le varianti ed aggiunte per la fanteria oltramarina. Nel proemio si esprimeva il voto, «che il libro venisse stampato in entrambe le lingue italiana ed illirica, due essendo le nazioni con differente linguaggio che hanno l'onore di servire Vostra Serenità», e prometteva di estendere gli studi e le esperienze anche alla cavalleria, «la quale ha eguale e forse anche maggiore bisogno della infanteria di regolazioni nello esercizio non solo, ma anche nella tattica, usando ancora quelle che furono estese fino dal secolo passato dal generale Stenau».

Ispirandosi a modernità di concetti, «come si deve» ed alle «nuove pratiche introdotte ed usitate dalle nazioni più agguerrite», i compilatori del nuovo regolamento esprimevano da ultimo la fiducia che la «nazionalità veneta potrà, con esso, diventare mirabilmente istrutta».

Le nuove ordinanze conservavano la formazione della fanteria su tre righe, ponevano in rilievo la sempre crescente potenza del fuoco e procuravano di disciplinare l'urto. Semplificavano oltre a ciò—nei limiti del possibile—il maneggio dell'armi ed assottigliavano d'alcun poco il pesante bagaglio delle evoluzioni, delle marce, delle contromarce e delle colonne d'attacco.

* * *

Per eseguire i movimenti con la spada, oramai definitivamente sostituita alla picca fino dall'anno 1790[237], gli ufficiali dovevano prendere la posizione di attenti, epperciò essi dovevano: «impiantarsi con la vita dritta, petto in fuori, capo alto, tacchi tra loro distanti di due dita, punte dei piedi in fuori, ginocchia tese, braccia pendenti al naturale in giù, cappello che riposi sopra le ciglia ma voltato un poco verso sinistra»[238].

I movimenti con la spada erano 17 e cioè: spada alla mano o in parata, primo saluto, spada in parata, secondo saluto, spada in battaglia, spada in parata, spada all'orazion, spada in parata, spada a funeral, spada in parata, spada in riposo, spada in parata, spada in battaglia, spada in riposo, spada in battaglia, spada in parata, spada nel fodero.

Il saluto con la spada si rendeva dagli ufficiali veneti presso a poco come si pratica oggigiorno e così si salutavano:

«L'Ecc.mo Savio di Terraferma alla Scrittura, i Provveditori Generali da Mar, della Dalmazia e gli Ecc.mi Capi di Provincia in Terraferma». Per rendere onore alle altre autorità militari il saluto con la spada si arrestava al primo tempo dell'odierno saluto, e cioè «con la coccia della spada dirimpetto al mento, alla distanza di un palmo, guardamano voltato verso il lato sinistro e lama verticale e di piatto».

Questi modi di salutare le autorità militari superiori ed inferiori surrogarono rispettivamente la battuta della picca ed il levarsi del cappello, quando la picca stessa costituiva l'ordinario armamento dell'ufficiale.

Altre regole disciplinavano il modo di portare la spada all'orazion, che stendevasi a quell'atto davanti al corpo con il braccio disteso e la punta fin presso terra, mentre l'ufficiale ripiegava il ginocchio destro sotto il sinistro, si toglieva di capo il cappello e lo raccomandava alla mano sinistra; a funeral, nella quale positura la spada si portava serrata contro il petto lungo il lato sinistro, assicurata sotto l'avambraccio piegato all'altezza della mammella; in battaglia infine cioè con la spada stesa lungo il fianco destro, «appoggiandola verticalmente nel vuoto della spalla, col filo in fuori»[239].

Gli alfieri portavano normalmente la bandiera «sul fianco destro, l'asta alquanto inclinata verso dritta e pendente in avanti, la lancia (freccia) voltata in piano ed il calcio a terra». Nei tempi sereni e senza vento la bandiera si lasciava «a drappo volante», nei piovosi invece o con vento si prendeva «il canto (lembo) pendente del drappo e con la mano destra si serrava all'asta». Nelle parate—senza eccezione di tempo—la bandiera doveva essere sempre spiegata.

L'alfiere abbassava la bandiera davanti a quelle medesime supreme cariche militari cui si rendeva dagli ufficiali il completo saluto con la spada, «compiendo un ottavo di giro a dritta, poi con la mano dritta abbassando l'asta della bandiera verso la parte sinistra, finchè il piatto della lancia sia ad un palmo distante da terra… nell'atto stesso si raccoglieva con la mano sinistra il drappo e si impugnava per di fuori dell'asta». Per salutare tutti gli altri superiori l'alfiere toglieva semplicemente di capo il cappello[240].

E passiamo agli esercizi con il fucile[241]. Poche premesse poste innanzi alla descrizione dei relativi movimenti richiamavano l'attenzione sul fatto, «che il maneggio del fucile deve compiersi dai soldati con desterità e scioltezza… epperciò essi dovranno stare con l'orecchio attento al comando, muovere le mani sempre in vicinanza del corpo, eseguire con vigore ogni tempo di una mozione restando poi immobili da uno all'altro tempo». Per facilitare poi la simultaneità e l'esatta esecuzione degli esercizi, si prescriveva che «essendo i soldati in rango e fila, quelli di prima riga abbiano a guardare attentamente il campione (istruttore) e quelli delle due ultime file quelli della prima, onde muoversi tutti contemporaneamente».

Tra il comando di ciascun movimento e l'esecuzione del primo tempo di esso, il campione doveva lasciar correre un intervallo bastevole per contare a cadenza i primi tre numeri. Tra i tempi successivi questo intervallo doveva essere prolungato di alquanto e diventare eguale all'intervallo di tempo che è necessario per contare i primi sei numeri. Si eccettuavano da questa regola mnemonica i comandi per i fuochi e per ritirare le armi, i quali dovevano eseguirsi non appena ordinati.

La posizione di base per eseguire il maneggio dell'armi era quella del fucile collocato sulla spalla sinistra, con la canna in fuori, sostenendo il calcio con la palma della mano sinistra appoggiata al fianco, «sicchè il pollice premeva il calcio e le altre dita lo stringevano per di sotto: il braccio sinistro non doveva essere nè troppo teso nè troppo inarcato, col gomito daccosto alla vita in modo tale che la mammella cadesse tra le due viti della piastrina»[242].

Il rigido formalismo dominante non si arrestava però a tali prescrizioni e rilevando, «che vi sono uomini che hanno più anca che spalla e di quelli che sono al contrario», presumeva di correggere anche le differenze fisiologiche dei diversi attori con compensi e temperamenti, in modo da ottenere che tutti i fusti dei fucili si adagiassero in un medesimo piano inclinato, perfettamente uniforme.

«Se il soldato—-diceva dunque il regolamento—ha più anca che spalla, esso dovrà sostenere il fucile sulla spalla volgendo il pugno un poco in dentro perchè la canna più si scosti dalla testa; e se al contrario avesse più spalla che anca, allora volgerà il pugno un poco più in fuori appoggiando maggiormente il calcio alla coscia per avvicinare di più la canna alla testa. Con tale avvertenza si riuscirà a mettere nello stesso piano tutti i fucili di una riga di soldati».

E sulla pratica di questi ripieghi i campioni fondavano il supremo segreto dell'arte, la ricetta che assicurava fortuna alla complicata coreografia del maneggio dell'armi. I principali movimenti con il fucile erano 34. La loro progressione cominciava col presentar l'arme, la quale si sosteneva verticalmente davanti al corpo «in candela, proprio dirimpetto al mezzo del capo, col vidone (vitone) del cane contro il centurino… ed il piede destro tre dita dietro il piede sinistro, in modo che il calcagno di questo guardi il mezzo dell'altro piede, e ciò senza cangiare di fronte»[243].

Sull'esecuzione dei fuochi il regolamento richiamava «tutta l'attenzione dei soldati… avezzandoli a mirare con franchezza, a non torcere in verun modo la testa, a non muovere nè il corpo nè il fucile, perchè ogni piccolo moto può alterare la direzione del colpo. Allorchè poi questo vada a maggior distanza, si insegnerà ai soldati a premere bene col calcio la spalla nell'atto di far fuoco»[244].

Gli esercizi del fuoco erano preceduti dal movimento di base del preparatevi. A tale comando il fucile si portava presso a poco nella positura di «presentat-arm» e da questa si armava il cane, premendo con il pollice della mano destra sul vitone del cane medesimo. Ciò fatto si passava al secondo movimento, cioè all'impostatevi, portando il piede destro un palmo dietro al sinistro e volgendo il corpo verso destra, in guisa da «metterlo a mezzo profilo». Così si spianava l'arma «appoggiando la guancia destra sul calcio, chiudendo l'occhio sinistro per potere aggiustatamente mirare col destro lungo la canna l'oggetto che si vuole colpire…. Quando non sia determinato questo oggetto da prendere di mira, il soldato farà cadere la bocca del fucile al livello circa degli occhi».

I tempi della carica erano laboriosissimi. Al comando di pigliate la carica il soldato estraeva dal tasco (cartucciera) una carica, bene avvertendo «di aprirlo in mezzo e non da fianco per ritrovarla più facilmente»; quindi portava la detta carica alla bocca, ne strappava la carta con i denti sino a scoprire la polvere aiutandosi per ciò con uno «sforzo della mano verso la sinistra». Ciò fatto si poneva mano al focone chinando la testa per poterlo bene innescare, quindi si chiudeva la batteria e si impugnava con la destra il fucile verso la bocca, «in modo che il calcio poggi a terra accosto al piede sinistro, la cartella sia in fuori, il fucil tocchi la coscia sinistra e la bocca resti dirimpetto alla spalla destra, impugnato con la detta mano destra».

Da questa posizione, «dopo di aver soffregata con le due dita pollice ed indice la sommità della carica per bene aprirla del tutto, si versava la polvere in canna mandandole dietro la carta, e si intasava da ultimo con la bacchetta stendendo naturalmente il braccio e spingendola con forza dentro la canna stessa». Tutto ciò esigeva una quarantina di tempi.

Non minor cura esigevano l'armare le baionette,[245] il disarmarle, il sostenere l'urto[246] e portare il fucile alla pioggia, assicurato con il calcio sotto l'ascella sinistra «la bocca in basso e la bacchetta in sù»; il recare l'arma alle bandiere cioè a fianc-arm; a funeral, sotto l'ascella sinistra con il calcio all'insù e davanti, la canna inclinata indietro tenendo il fucile con la sinistra all'impugnatura e la destra dietro la schiena al mezzo di essa; infine all'orazion, verticalmente davanti la spalla destra mentre il soldato stava nella posizione di in ginocchio con la mano sinistra in atto di saluto sul frontone del caschetto.

Un'appendice agli Esercizi personali regolava i movimenti speciali della fanteria oltremarina per quanto riguardava il maneggio del palosso e recava, a mò di chiusa, un capitolo relativo alla visita delle armi e delle monizioni.

* * *

Tale fu la riforma dei regolamenti per la fanteria veneta. Con essa si dovevano abbandonare d'un tratto i vincoli che collegavano i regolamenti stessi all'arte del Principe Eugenio di Savoia, per ravvicinarli decisamente alle tradizioni più recenti della scuola francese e federiciana. Forse tali progressi sarebbero stati assai più sensibili nella seconda parte che si attendeva, quella cioè, relativa all'impiego tattico delle truppe, ma il tempo tolse non solo la facoltà di pubblicare quest'ultima, ma ben anco il destro di diffondere più largamente la prima oltre il ristretto cerchio delle milizie che componevano il campo veneziano sotto Verona. La parte formale degli Esercizi personali non vide infatti neppure l'onore delle stampe. Essa rimase allo stato di manoscritto tra le mani gli ufficiali veneti che la sperimentarono, e così si tramandò pure ai posteri confinata tra le polverose carte del Savio alla Scrittura[247].

Restò così ancora in vigore, fino alla caduta della Serenissima, il libretto del maresciallo Schoulemburg, l'ultimo capitano della Repubblica.

Gli uomini delle tre righe erano disposti l'uno dietro all'altro alla distanza di un passo. Gli esercizi erano comandati alla voce o con il tocco del tamburo, e si dovevano eseguire all'ultima parola del comando che il campione doveva pronunciare breve e forte, oppure al termine del tocco seguendo l'esempio dei sottufficiali o dei campioni medesimi. Gli esercizi del reggimento erano preceduti dal riconoscimento, o formazione delle unità di manovra. Si pareggiavano allora le file, si eguagliava la forza delle compagnie, si suddividevano tra i riparti secondo l'ordine di precedenza gli ufficiali ed i sottufficiali i quali, fuori delle righe, attendevano in questo frattempo di prendere posto. La compagnia inquadrata perdeva da quel momento ogni personalità e tutta la truppa si ripartiva in tre divisioni, cioè il centro e le due ali. Tale formazione era pure la normale per il combattimento[248].

Ogni divisione era comandata da un capitano o da un sergente maggiore: si suddivideva in mezze divisioni, e queste ancora in plotoni di manovra.

Le evoluzioni principali consistevano nel raddoppiare le file e le righe, nel serrarle, nelle conversioni, nello spezzare la fronte, nel formare le colonne ed i quadrati, nelle contromarce e nei fuochi.

Per raddoppiare le file i soldati di ciascuna fila si spostavano lateralmente ed entravano nella distanza di circa un passo che intercedeva di solito tra uomo ed uomo. Quando il movimento doveva eseguirsi sulla destra si spostavano le file pari, se a sinistra si spostavano invece le disparì.

Le conversioni si effettuavano a perno fisso e per ottenere il necessario contatto facevasi assai spesso porre ai soldati le mani sui fianchi, alla costumanza tedesca. Le contromarce facevansi per righe e per file.

Per eseguire i fuochi si serravano le righe da petto a schiena, cioè si annullava l'ordinaria distanza di circa un passo che esisteva tra le righe medesime. V'erano fuochi così detti di riga, di mezze divisioni, di plotoni, da fermo e marciando, cioè alternandosi le righe nello sparare usufruendo all'uopo degli intervalli interposti. Contro la cavalleria si formava il quadrato, sia da fermo che in marcia, armando le baionette e sostenendo l'urto.

Il libro del maresciallo Schoulemburg trattava oltre a ciò del servizio territoriale, o di piazza, del modo di accampare e di accantonare un reggimento e le unità inferiori ad esso, di porlo in marcia con le misure di sicurezza e di scortare un convoglio. Però, stante l'esiguità delle forze disponibili e l'abbandono degli esercizi nei campi di manovra, queste pratiche non erano che semplici attestazioni teoriche. Invece—come si disse altrove—era assai deplorato il difetto di norme regolamentari circa l'imbarco e lo sbarco di truppe a piedi o a cavallo sui pubblici legni; operazioni di qualche frequenza nell'esercito della Repubblica specie dopo l'adozione dei turni di guarnigione[249].

Le evoluzioni della cavalleria erano più antiquate di quelle della fanteria e risalivano alla fine del XVII secolo, cioè a dire alla pratica del generale Stenau, altro capitano della Veneta Repubblica. Anche la cavalleria—come la fanteria—si ordinava su tre righe e la distanza tra queste era normalmente di cinque passi. Gli intervalli tra fila e fila erano tali che i cavalieri potevano introdursi liberamente in questi spazi senza toccarsi l'un l'altro.

Le evoluzioni consistevano nello sdoppiare e nel raddoppiare le file e le righe, con procedimenti analoghi a quelli risati dalle armi a piedi. Le conversioni—di 180 gradi—si eseguivano tanto a righe aperte che serrate: si adoperavano per cambiare diametralmente direzione di marcia e si compievano per divisioni, mozze divisioni, per file ed anche individualmente per ogni singolo cavaliere.

L'esercizio con le armi consisteva, per le corazze ed i croati, nel maneggio della spada, della sciabola e dei pistoloni da arcione; per i dragoni inoltre nell'uso del moschetto armato di baionetta. Le tendenze difensive diffuse nell'arma di cavalleria—a motivo della importanza crescente del combattimento a fuoco—avevano accentuato nella pratica degli esercizi l'impiego delle colonne vuote di dentro e dei quadrati. La prima di queste formazioni si assumeva dagli squadroni in colonna di divisione, «facendo che la testa stia ferma e che conversino le mezze divisioni delle altre, dimodochè rivolgano la fronte alla campagna», cioè verso il nemico[250]

I quadrati si ottenevano invece dalla linea spiegata, ripiegando le ali all'indentro e ripiegandosi ancora ciascuna metà di queste ultime in sè medesime dopo effettuata la conversione verso l'interno, in guisa da costituire nell'insieme il quarto lato della figura. Ciò fatto tutti eseguivano una conversione individuale «verso la campagna».

Le cariche si effettuavano di regola in modo avvolgente. In quest'arte—tramandatasi tradizionalmente nella cavalleria veneta dagli stradiotti e dai cappelletti—si distinguevano ancora, sul cadere della Repubblica, i Croati. Questi medesimi recavano ancora la palma nel foraggiare, nel portare gli attacchi in terreni intricati e scuri, nel passaggio dei corsi d'acqua ed infine nei combattimenti temporeggianti e nelle ritirate. Le corazze distinguevansi a loro volta nelle salve con i pistolonì, ed i dragoni nei fuochi con i moschetti e nei combattimenti pedestri.

Gli esercizi campali e le evoluzione del Reggimento artiglierìa erano infine regolate, sul tipo di quelle della fanteria, da un libretto appositamente redatto dal brigadiere Stràtico.

La carica dei pezzi si eseguiva con la cucchiaia o con i cartocci. Con il calcatoio si spingeva la polvere nella camera della bocca da fuoco e vi si intasava, adoperando all'uopo un poco di strame palustre, delle alghe di mare oppure della paglia aggrovigliata, fintantochè la polvere stessa affiorava nello intorno del focone. Indi appresso si introduceva nell'anima del pezzo la palla elevandone alquanto la volata. Eseguito questo primo tempo della carica, con un fiaschetto si colmava di polvere da innesco il focone, se ne spargeva un poco anche nella parte posteriore di esso, ed il cannone era allora pronto per la punteria e lo sparo.

CAPO X.

Dei bilanci militari.

Anche l'energia motrice di ogni organismo sociale, il denaro, difettava grandemente al tempo della decadenza repubblicana. È perciò necessario di toccare anche questa materia nelle sue relazioni con i bilanci della guerra, per conoscere quanta parte della rovina nelle armi venete tocchi ai fattori morali e quanta, non meno notevole, sia da attribuirsi invece ai fattori materiali, al governo della lésina, al metodico rifiuto dei mezzi necessari per mantenere in vita il prezioso strumento della difesa della patria, all'ostinatezza infine di negare ad esso le necessario riforme.

Importa dunque sfogliare anche il carteggio dei Savi cassieri—o ministri veneziani delle finanze—quello dei Magistrati sopra Camere, o sopraintendenti delle tesorerie provinciali, esaminare le pòlizze dei preposti al Quartieron, o cassa militare destinata a sopperire ai bisogni della milizia stanziata nel territorio dipendente da ciascuna Camera.. E da questa indagine emergerà una verità di molto rilievo. Che cioè i primi allarmi nelle angustie finanziarie si sogliono, con improvvido consiglio, far scontare alle milizie—come che queste possano in ogni evenienza privarsi di tutto quasi arnesi inutili e parassitari—e che questa decimazione mal frutta allo Stato che la pratica nel momento del pericolo, quando cioè esso si accorge troppo tardi di essersi apparecchiato lentamente e di proposito alla rovina, all'umiliazione ed al servaggio.

Al caso concreto, Venezia negò ai propri soldati e marinai il necessario per affilare le armi, tenere asciutte le polveri e validi i propri navigli, ed il mal fatto risparmio andò profuso e sperduto nel mantenere sul proprio suolo due eserciti, nemici tra di loro e pronti a sovvertirla.

Ora vediamo un poco addentro a queste cifre. Alla fine della Seconda Neutralità d'Italia (1737) la Serenissima aveva accumulato un sensibile deficit, o sbilanzo—come si diceva nel linguaggio d'allora—epperciò si escogitarono riduzioni, falcidie ed economie, atte possibilmente a colmarlo.

A quell'epoca le entrate annue della Repubblica erano valutate in ducati 5,114,915, cioè a dire in lire 21,426,378 circa: le spese complessive ammontavano a ducati 5,810,037, talchè lo sbilanzo si aggirava annualmente intorno a 705,722 ducati, cioè a 2,960,161 lire.

Da questo complessivo gèttito di pubblico danaro, le spese militari (Esercito e Marina) prelevavano ogni anno due milioni e mezzo di ducati, all'incirca[251].

Tali spese nell'anno 1737 erano ripartite come segue; Arsenale e Tana, ducati 218,037 e grossi 6[252]; Spese per l'armar, comprese le navi e le galere, ducati 46,836 e grossi 3; Fortezze, ducati 32,776 e grossi 12; Artiglierie, ducati 25,841 e grossi 15; per formento ad uso di lavoro dei forni, ducati 109,264 e grossi 19. Simile, per formento bonificato alle decime, ducati 215,165 e grossi 6; per le milizie del Lido, ducati 215,107 e grossi 3; per il loro vestiario, ducati 56,594 e grossi 22. Per capitoli varii, quali spazzi (viaggi) dei capi da Mar, sopracomiti etc., ducati 28,512 o grossi 17. Paghe e paghette alle predette autorità e serventi, ducati 28,348 e grossi 17. Per gli stipendi, compreso quello del veltz-maresciallo Schoulemburg[253], ducati 31,296 e grossi 12. Totale per l'ordine militar nella Dominante, ducati 1,008,511 e grossi 23.

Il rimanente del bilancio era assorbito dalle truppe dislocate negli altri riparti della Serenissima, distinto in analoghi capitoli di spesa, e questa fu precisamente di ducati 2,060,965 e grossi 11[254].

Sempre nell'anzidetto anno, con questo bilancio la Serenissima manteneva nelle armi 19,385 uomini.

Ma premendo ovunque le proteste e gli incitamenti ad assottigliare gli apparecchi militari ed a porli in armonia con la politica di rinuncia e di stretta neutralità dichiarate dalla Repubblica dopo la pace di Passarowitz, il Senato nell'inverno del 1738 convocò, «una conferenza per meditare e far suggerire quei sollievi e risparmi che conciliar si possano tra i riguardi della pubblica economia e quelli della necessaria custodia degli Stati». Quali fossero i termini di questa equazione vaghissima, a più incognite, solita a rinverdire ad ogni crisi delle finanze e molto più ad ogni depressione di spirito ed infrollimento della volontà collettiva delle nazioni, non è detto. Certo si voleva che l'Esercito e la marineria veneta facessero le spese dello sbilanzo e lo risarcissero.

La navigazione più non allettava, il commercio veneziano era allora arenato, l'impero coloniale scomparso miseramente: di questo ormai non rimanevano superstiti che i pochi brandelli delle isole Ionie, del Cerigo e di Cerigotto. I porti franchi di Trieste, di Livorno, di Ancona e di Sinigaglia avevano soppiantato i traffici della Repubblica, che si era ormai ridotta a dimenticare affogando le memorie del passato nella vita spensierata, spendereccia e voluttuaria del presente. Ed in quei frangenti di allegro consumo senza un'equivalente produzione riparatrice, lo sbilanzo cresceva.

Nondimeno il credito della Repubblica era ancora considerevole—una bella facciata architettonica che imponeva pur sempre per quanta rovina nascondesse nell'interno—ed il fratto degli antecedenti risparmi poteva consentire di far ancora fronte alla situazione, purchè si ponessero un poco all'incanto le armi e meglio si colorisse con quest'atto la divisa assunta dallo Stato godereccio, scettico ed imbelle.

Frutto adunque della conferenza indetta dal Senato Veneto si fu una prima riduzione della forza bilanciata la quale, da circa 20,000 nomini, discese a meno di 16,000. Si sospesero inoltre le reclutazioni e le giubilazioni e si incitò la conferenza anzidetta a proseguire nelle riforme e nelle falcidie per realizzare nuovi e più copiscui risparmi.

Nel 1738 il bilancio militare veneto si ridusse infatti ad 1,886,322 ducati; quello del 1739 discese ancora a 1,670,333 ducati; quello del 1740 infine precipitò a 1,592,784 ducati.

L'esercito o la marineria veneziani si erano adunque sacrificati alla generale assenza d'ogni spirito di sacrifizio individuale e collettivo, ed in questa bancarotta di sentimenti e di mezzi essi avevano riportati dei colpi così fieri da non riaversi mai più.

Così la Repubblica cominciò a morire da quando decretò la liquidazione dei propri armamenti. «Va ben—aveva esclamato il penultimo doge Paolo Renier—No gavemo più forze, non terrestri, non marittime, non alleanze,.. Vivaremo dunque a sorte e per accidente!…».

* * *

Vennero ben presto nuove angustie derivate dal contegno che doveva serbare la Repubblica all'aprirsi della guerra per la Successione Austriaca. Il docile strumento dei bilanci guerreschi che sembrava adattarsi all'infinito all'umile compito di dare senza nulla mai chiedere, di risarcire il patrimonio pubblico perchè altri spensieratamente lo godesse senza ombra di preoccupazioni o di affanni per l'avvenire, di servire da vàlvola di sicurezza dell'erario che si avviava al fallimento, cominciò a farsi meno duttile e più prezioso.

Le diffidenze verso la Francia e verso la Spagna, l'aperto viso dell'armi assunto dall'Austria, avevano richiamato alla realtà delle cose con quella pavidità pronta ad ogni dedizione, con quella premura decisa a troncare ogni imbarazzo e che potevano eguagliare la spensieratezza imbelle con cui si era posto mano a disfare gli armamenti. Pure conveniva apparecchiare qualche cosa, se non altro per semplice mostra.

La Repubblica aprì allora docilmente la strada di Campara (Val Lagarina) agli Austriaci—i nemici più vicini—per ingraziarseli; suonò a raccolta per le cerne e racimolò qualche migliaio di vagabondi tratti dai riparti d'Italia e d'Oltremare per innestarli nell'esercito. Alle potenze più lontane offrì in pegno la dichiarazione della sua terza neutralità a mò di una presuntuosa etichetta fatta per coprire una merce avariata. Ed il costrutto positivo di tutte queste pratiche si fu quello di riallentare i cordoni della borsa.

Nel 1741 i bilanci militari veneti risalirono ad 1,818,147 ducati, nell'anno appresso—con la leva di due migliaia di cerne—crebbero ancora sino a 2,845,481 ducati e si mantennero a questo livello per tutto il rimanente periodo della terza neutralità d'Italia. Ma dopo la pace di Acquisgrana il governo della lèsina riprese di bel nuovo il sopravvento ed accompagnò senza interruzione le vicende militari della Repubblica fino alla sua caduta.

L'esercito si ridusse daccapo prima alla forza bilanciata di circa una quindicina di migliaia di uomini, poi ad una dozzina di migliaia, compresi i non valori. Le compagnie di fanteria precipitarono alla forza di una trentina di individui, quelle di cavalleria ad una ventina, i bilanci militari al milione e mezzo di ducati ed anche meno.

La bancarotta non poteva essere più completa. L'Arsenale ridusse pressochè a nulla il proprio lavoro, le milizie incanutirono sugli artificiosi piedilista, gli ufficiali furono obbligati a morire ancora in servizio nella più tarda vecchiaia per mancanza di danari necessari a giubilarli. Nondimeno la vetusta macchina della Repubblica continuava a reclamare tutta la sua parte di dissipazione dell'erario, senza che il più timido tentativo di riforma valesse ad alleviarne l'insopportabile peso. La macchina lavorava unicamente a vuoto e peggio.

A comprovare questo spèrpero di energie basta l'esame dei bilanci dell'Arsenale veneziano, considerato come pietra angolare del vetusto edifizio guerresco della Repubblica. Esso richiedeva in media per il suo mantenimento—affatto parassitario—218,837 ducati all'anno, 46,836 ducati per l'anno dei pubblici navigli, 25,841 ducati per il rabberciamento delle artiglierìe più sganghenate, 30,000 ducati per il Reggimento Arsenal. In totale il maggior stabilimento marinaro dei Veneti pesava adunque sulla pubblica finanza per 324,504 ducati all'anno—cioè a dire per 1,356,426 lire odierne—senza contare le giubilazioni, le spese ordinarie per i trasporti Oltremare, per le esperienze ed altro.

E tutto ciò per lasciar marcire sugli squeri (cantieri) navi più che quarantenarie ed una perfino—la Fedeltà—impostata nel 1718 e varata nel 1770; per lanciare in mare tra il 1717 ed il 1780 soltanto 28 legni, che venivano così a costare all'erario pressochè tre milioni e mezzo ognuno, ammesso che questo prodotto di lavoro possa ritenersi il solo veramente sensibile dello stabilimento durante il menzionato periodo di oltre sessant'anni.

Il costo di produzione soverchiava adunque in modo inaudito il valore del prodotto, nè v'erano fede ed energia capaci di metterli in correlazione, amputando con sicurezza un organismo mastodontico di consorterie, lento e parassitario. Occorreva perciò romperla con le tradizioni corporative di una industria di Stato divenuta oramai un anacronismo economico, sociale e politico; stendere la mano franca e sicura all'industria privata che nella produzione delle armi aveva pur fatto passi lusinghieri e decisi.

Ora i buoni propositi di giovare in questo senso l'amministrazione della guerra attingendo alle floride officine della Bresciana, del Bergamasco, del Salodiano, mettendo a contributo i servizi della compagnia mercantil dello Spazziani, le ferriere di Agordo, i lanifici della Trevigiana e del Vicentino, tramontarono non appena si dileguò al Saviato alla Scrittura il benefico influsso dell'opera riformatrice di Francesco Vendramin[255].

* * *

Rimase adunque nella sua integrità opprimente il bagaglio delle spese e, per fronteggiarle, dopo di avere liquidato l'esercito e la flotta convenne ricorrere alla rovinosa china del credito.

Subito dopo la pace di Acquisgrana venne aperto un deposito o prestito di quattro milioni di ducati, valuta corrente, di soldo vivo al tasso del 3,50 per cento. Il prestito doveva essere affrancabile, cioè rimborsabile entro 40 anni mediante estrazioni (premi e rimborsi) da effettuarsi per maggiore garanzia in pien Collegio, e per la somma di centomila ducati ogni anno. Il pagamento dei pro, cioè degli interessi, doveva compiersi semestralmente.

Questi nuovi aggravi esaurirono i bilanci militari e diedero il tracollo alla moribonda milizia veneta. Il bilancio annuo della guerra si restrinse allora sul milione di ducati, nè si provvide per questo a sfrondare le spese inutili, allo scopo di rendere più efficaci e produttive le scarse risorse superstiti. In tali angustie finanziarie, in tanto disordine amministrativo, in tale ostinatezza nel persistere negli antichi errori, nella primavera del 1794 vennero chiamate alle armi le cerne. Indarno i deputati ed aggionti sopra la provvision del pubblico danaro ed il Savio Cassier moltiplicarono le interviste, per far fronte alle nuove e più gravi esigenze e sollecitarono l'opera degli scansadori[256].

Ad onta di tutto ciò si resero necessari altri centomila ducati per la prima levata delle cerne, poi altri duecentomila e più, ed alla fine di quell'anno il consuntivo delle spese maggiori per gli armamenti della Repubblica era salito a 238,584 ducati e grossi 12, compresa la cavalleria e qualche lavoro più urgente da praticarsi nelle fortezze[257].

Fu perciò aperto un nuovo credito, il nuovissimo, e si convenne di porre mano anche alla Cassa del deposito intangibile, così come si porrà mano più tardi a quella del Bagatin e si inaspriranno le decime, come infine, per sopperire ai bisogni delle armi, si era deciso di svaligiare senza remissione i magazzini dell'Arsenale[258].

L'anno terribile stava per scoccare. La commedia della finanza allegra si avviava a diventare dramma e tragedia, ma prima dell'epilogo essa doveva passare ancora sotto le forche caudine dei Commissari del Direttorio, piegarsi davanti alla voracità insaziabile dei cassieri dell'esercito francese incaricati di dimostrare alla Francia che la Serenissima poteva pur dare ancora, e che la guerra si doveva alimentare con la stessa guerra a qualunque costo, a spese degli ignavi e degli imbelli.

Questa fanfara era già stata audacemente lanciata all'aria dallo stesso generale Napoleone Buonaparte: «Io—aveva dichiarato al colonnello Veneto Fratacchio, a Castiglione, il 12 Luglio 1706—batterò gli Austriaci e farò che i Veneziani paghino tutte le spesa di guerra!»[259] Un mese dopo Bonaparte imponeva una contribuzioue di tre milioni di franchi alla città di Brescia e trattava col Battagia un prestito da imporsi alla Repubblica[260].

CAPO XI.

Conclusione.

La «Serenissima» si apparecchiava adunque a scomparire sotto una marèa montante di contraddizioni tristi ed anche ridicole. Essa voleva sinceramente la pace con tutti e si sforzava di preparare delle armi lògore e spuntate; fidava palesemente nelle dichiarazioni di neutralità e, privatamente, non si dissimulava le difficoltà di mantenere il rispetto ai trattati in un periodo di violenze e di usurpazioni in cui unico diritto sovrano era la forza; aveva dichiarato la bancarotta nelle finanze insufficienti a mantenere in vita persino il proprio esercito anemico e la propria flotta tarlata, ed i Francesi e gli Austriaci ben rovistando con sfrontatezza e rapacità nelle casse dello Stato e nelle tasche dei privati, si apparecchiavano a trarne il necessario per mantenere e nutrire non solo un esercito, ma ben anco tre, lautamente ed allegramente.

Triste stato dei deboli codesto, fatto di speranza e di timore, di alternative di fiducia e di sconforto. La Repubblica, ridotta a palleggiarsi delle responsabilità non sue, a stendere la mano capitale al nemico ammesso a forza dentro il cerchio delle mura cittadine doveva, da Verona, strizzare l'occhio all'altro nemico che stava ancora fuori e voleva penetrarvi.

Obbligata a piatire in note diplomatiche, in richiami, in proteste, le spinosità di una situazione politica, sociale e morale insostenibile, poteva rassomigliarsi ad una dannazione di Procuste fatta persona.

Passava da Verona il 20 maggio 1796 il maresciallo Colli per ritrarsi nel Tirolo, col livido in volto per le recenti sconfitte patite nella Liguria e nel Milanese, e prometteva al provveditore generale Foscarini: «pieno riguardo alle autorità venete, disciplina nelle truppe, pagamento delle somministrazioni in contanti». E tutto ciò mentre giungevano alte proteste dalle comunità venete, «per i violenti modi con i quali si trattano i villici nel trasporto dei bagagli austriaci per le vie di Campata, obbligati essendo a forza di oltrepassare con i loro carriaggi i confini convenzionati… asportandone gli Austriaci poscia perfino i bovi»[261].

Ed il Foscarini: «convinto essendo che tutto ciò sia contrario alle intenzioni della Corte Cesarea ed agli ordini dei di Lei generali» comandava «ai commissari ai Campara di rimostrare ai generali austriaci le cose accennate, di interessarsi a rilasciare ordini precisi onde tutto proceder avesse secondo le regole e le discipline convenzionate per i passaggi a Campara medesima»[262].

I Francesi erano ancora lontani e la fiducia nell'equilibrismo era ancora fresca e promettente. «I Francesi scriveva il 22 maggio Foscarini al Doge, di cui ancora non conosco le forze sono—per quanto la diligenza dell'eccellentissimo rappresentante di Brescia mi scrive con sua lettera di ieri—a Robecco, da dove, staccato un uffiziale con cinque soldati per passare il ponte sull'Olio entrarono nella terra di Ponte Vico, ricercando se vi fossero altri ponti vicini o altri porti, e quanto fondo il fiume avesse. Quindi, fatta ricerca a chi appartenesse quella terra e conosciuta essere soggetta al dominio Veneto, sono al momento retrocessi a Robecco»[263].

Buoni adunque parevano i principii della nuova avventura con i Francesi, e tutta l'arte e tutte le speranze sembravano rivolte allo scopo di propiziarsi gli Austriaci, quando il menzognero zeffiro che veniva di Lombardia crebbe d'un colpo d'audacia e di violenza.

«I mali asprissimi—scriveva il 26 maggio Foscarini al Doge—che l'attual guerra fa provare all'Italia cominciano a produrre non lievi conseguenze. Già ho rassegnato i disordini occorsi a Crema per parte delle truppe francesi… ma la vivacità di questa nazione ed il genio intraprendente dei suoi generali lasciano oramai delusa ogni speranza. In queste circostanze, ben volentieri avrei desiderato accorrere io pure a confortar personalmente i sudditi di V. E. a quel paese… ma coperte essendo le strade di armati delle belligeranti potenze, il riguardo di non compromettere il decoro della pubblica rappresentanza ha fatto sopprimere per ora in me stesso tale vivo desiderio».

* * *

Fu l'avventura di Peschiera che scatenò l'uragano, occupata di sorpresa dagli Austriaci di Beaulieu il 26 maggio come res nullius, tanto che il Beaulieu stesso agli ufficiali veneti inviati a protestare per questa rapina non si faceva scrupolo di dire: «che lorquando le ragioni di guerra fanno credere necessaria una cosa a chi la tratta… _non valgono le deboli ragioni del diritto e vengono sforzati a tacere tutti i riguardi»[264].

Al danno si aggiungevano dunque l'ironia e le beffe.

Nella notte del 27 alla rapina di Peschiera seguì la violenza della Chiusa d'Adige. Prima dell'alba del detto giorno si era presentato davanti a quella fortezza un gruppo di ufficiali austriaci accompagnato da una colonna di fanti, per imporre al governatore veneto Bajo di aprire le porte. Questi rispose dal chiavesin [265] che quello «non era il luogo di passaggio e retrocedessero perciò a Loman, ma gli ufficiali austriaci insistettero dicendo di aver lettere di somma premura da consegnare alla posta di Volargne, dirette a Verona». Sorpreso nella buona fede l'ingenuo Bajo introdusse allora gli ufficiali austriaci dentro la Chiesa ma, «nell'aprire le bianchette erano appiattati i soldati, che sforzarono il chiaverino e si introdussero in più di duecento in fortezza, senza il minimo sconcerto» (sic).

Così cominciò per la Serenissima il tristissimo calvario dei disinganni, delle estorsioni e delle usurpazioni, senza forza di ribellarsi al tormento del martirologio, senza fede per trovare in sè medesima un'ultima stilla di energia capace di abbreviarlo con una scossa suprema. Era il destino che fatalmente ed implacabilmente si compieva sopra un organismo fiaccato dagli anni e rassegnato a morire.

L'occupazione di Peschiera da parte degli Austriaci fornì a Buonaparte buon argomento per esigere un vistoso compenso nell'occupazione di Verona—necessaria alla sua manovra con la linea dell'Adige e Legnago—non appena i Francesi ebbero forzata la linea del Mincio (30 maggio).

In questo intento Buonaparte apparecchiò una di quelle rappresentazioni a tesi delle quali egli era maestro. Atterrì il Foscarini minacciando d'incendiare Verona, poi sembrò placarsi, «purchè vi entrassero le sue truppe, occupassero i tre ponti sull'Adige traversando la città e lasciando guarnigioni sugli stessi, fino a che le ragioni della guerra lo esigessero». Il 1° giugno infatti una colonna di 20,000 Francesi capitanata dal generale Massena si affacciò alla Porta di San Zeno e penetrò in città minacciando l'uso della forza in caso di resistenza[266].

Così cominciò la spoliazione della Repubblica che doveva avere il suo classico epilogo ai preliminari di Leoben. Ma siccome per il momento conveniva osservare ancora qualche parvenza di riguardo verso la Serenissima—che pur non era ancora radiata dal novero degli Stati—così, di buon accordo, si decise di continuare nella serie delle reticenze parziali, delle contraddizioni, delle umiliazioni e delle figure artificiose, come per ingannare l'estrema ora che stava maturando. La speranza, dopo tutto, è sempre l'ultima dea a sgombrare dall'orizzonte.

I Francesi pretesero un rifornimento giornaliero di 12,000 razioni. Per salvare le apparenze della neutralità, la ditta mercantile Vivante si prestò alla bisogna, figurando di dare con una mano agli ospiti incomodi e di riceverne con l'altra il valsente; ma in realtà la ditta non era pagata che dalla Serenissima la quale, per evitare maggiori guai, si era docilmente adattata a mantenere il protervo nemico sullo stesso suolo della patria che conculcava[267].

La commedia piacque e si diffuse largamente, come un allegro diversivo in mezzo al trambusto della guerra ed alla concitazione bellicosa. «Cinquantamila razioni di pane da 24 oncie l'una chiedono giornalmente i Francesi sotto Peschiera—scriveva il 6 giugno il Foscarini—più 60 grossi bovi, 150 carra di fieno, prodigiosa quantità di vino, legna ed altro»[268]. E la Repubblica compiacente faceva per questo scivolare nelle tasche della ditta Vivante—che moltiplicava le sue filiali—danaro sopra danaro, come una buona nonna passa di soppiatto al nepotino capriccioso un balocco rifiutatogli dalla mamma severa.

Dopo le razioni, il pane ed i buoi, venne la richiesta delle armi, cioè 2000 fucili per armare parte delle reclute del corpo di Massena[269]. E poichè le rappresentazioni della compagnia mercantile Vivante riscuotevano il plauso generale, si pensò bene di aggiungere alla piacente commedia qualche nuova scena ad effetto.

«Si sono concertati finalmente—scriveva il Foscarini al Principe[270]—i modi più adatti per la consegna dei fucili. Abbiamo perciò creduto opportuno di richiamare il munizioniere del territorio ed il Vela, l'agente noto della ditta Vìvante, ed imposto ad essi il più scrupoloso segreto con la minaccia di incorrere nella pubblica disgrazia, prescrissimo[271] al primo di avere sul fatto a cancellare dalli ricercati fucili le marche in essi impresse del territorio e riponendoli in casse, con le loro baionette, di trasportarli questa sera in modo inosservato nel luogo dove il Vela forma i magazzini per i suoi generi. Al Vela poi abbiamo ingionto che, lorquando avrà a presentarglisi un commissario francese per parte del generale Massena, abbia a dirgli che essendo stato da noi incaricato di procurare da mano privata la prestanza di duemila fucili, era a lui riuscito di averne mille subito e gli altri sarebbero somministrati nei seguenti giorni, a diverse partite. E questa dilazione abbiamo combinata perchè la ristrettezza del tempo conceder non poteva di verificar tutto il travaglio di togliere dai fucili l'impronta del territorio ed accomodare quelli che in qualche misura ne abbisognano».

* * *

Lunga sarebbe la serie di queste umiliazioni e di queste mistificazioni, patite con eguale improntitudine dalla Serenissima per opera dei Francesi come degli Austriaci. Ma importa ora di conchiudere.

La ragione ultima di ogni debolezza, di ogni contraddizione, di ogni transazione vergognosa, stava nel miserando stato di esaurimento militare in cui versava la Repubblica. Questa, fiduciosa nei trattati e nelle dichiarazioni di neutralità, nella politica di equilibrismo e di opportunità spinta oltre ai limiti del ragionevole, spensierata, allegra, disamorata della milizia, aveva creduto di trovare nei trattati medesimi un'arma sempre valida e rispettata, una specie di talismano, dimentica che la guerra li rompe e li calpesta quando così piaccia al più forte.

In tale sfera di cieche confidenze, di ostentate omissioni, di trascuranze ignobili, la milizia veneta si era appartata dal grande organismo dello Stato, come vergognosa di essere, come desiderosa di vivere semplicemente tollerata. E decadde ed intisichì in questo abbandono come una pianta selvatica e parassitaria.

Quando la vecchia Repubblica fu destata dal lungo sonno dal rumore delle armi nemiche sopra il suo suolo abbandonato alla mercè dello straniero, essa cercò invano le armi proprie, ma non le trovò più, perchè ben diceva Giacomo Nani che: «_non vi può essere piano militare che sia acconcio a combattere una malattia puramente di ordine morale e politico»[272].

Così la Serenissima, ostinata nel negare al proprio esercito quelle riforme che l'avrebbero potuto salvare dalla rovina, lo aveva reso organicamente un anacronismo, economicamente uno strumento di dissipazione del pubblico danaro, militarmente un istituto incapace di esplicare una forza qualunque. Esso poteva perciò rassomigliarsi ad una personificazione grandiosa della statua di Laocoonte, paralizzata dai molteplici intralci e viluppi dell'amministrazione faragginosa dello Stato, sfibrata dalla specializzazione delle autorità, dai controlli e dalle consorterie, schiacciata dalla sovrapposizione delle autorità, dal bagaglio opprimente di un immenso macchinario di pubblici poteri.

In questi intralci delle energie e delle volontà, in questa atrofìa degli organi motori dell'amministrazione di Stato, il mercenarismo potè sviluppare l'intera gamma delle proprie caratteristiche, fino alle conseguenze estreme. Indifferenza cioè al contenuto morale della patria, separatismo nella società, venalità, protervia nel chiedere, pari alla debolezza nel cedere o nel promettere da parte dell'organismo dello Stato che alimentava il mercenarismo medesimo.

Cosicchè mentre altrove—specie in Piemonte—l'evoluzione degli ordini ed il largo appello alle milizie paesane permettevano di compiere riforme decise nel tralignato organismo degli eserciti mercenari, apparecchiando il trapasso verso gli odierni sistemi di reclutamento, Venezia, cieca nella fede giurata alle sue costituzioni vetuste, dimentica dell'eredità legatale dall'Alviano—che nelle cerne aveva additata la fortuna militare della Repubblica—si ostinava pur sempre a mantenere nelle caserme una larva di esercito che si dissolveva come neve al sole.

Così fu possibile, anzi necessaria, la viltà suprema della Veneta
Repubblica nel 1796.

Nondimeno, tra il vecchio che cadeva a brandelli in rovina ed il nuovo che maturava, ad onta delle volontà dei governanti e dei governati e della pertinace immutabilità degli istituti, si apparecchiavano gli eserciti odierni fatti con la nazione e per la nazione. Riguardare quindi le vie del passato, riandare il cammino percorso per toccare lo sviluppo d'oggi, non può qualificarsi opera vana, purchè si mediti sulle circostanze che hanno accompagnata la grande evoluzione e sulle contingenze particolari che l'hanno affrettata. Perché—ad onta di ogni sapienza postuma di storia e di esperienza umana più generalmente note—v'ha sempre qualche spunto a suggestioni molto proficue da raccogliere, dimenticato lungo la grande ed ampia via maestra, come assai spesso si notano sovra a' suoi cigli dei modestissimi fiori che sfuggono alla vista dei più.