The Project Gutenberg eBook of La notte del Commendatore

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Title: La notte del Commendatore

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: March 1, 2004 [eBook #11644]
Most recently updated: December 26, 2020

Language: Italian

Credits: Produced by Distributed Proofreaders Europe, http://dp.rastko.net Project by Carlo Traverso and Claudio Paganelli. This is a common project with Progetto Manuzio, http://www.liberliber.it

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA NOTTE DEL COMMENDATORE ***

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Project by Carlo Traverso and Claudio Paganelli.
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LA NOTTE DEL COMMENDATORE

Racconto di

ANTON GIULIO BARRILI

CAPITOLO PRIMO.

Nel quale si vede che il diavolo non è brutto quanto si dipinge.

—Signora Zita!

—Signor padrone, comandi.

—Il mio tè.

—La servo subito.—

Questo era il breve dialogo che ricorreva ogni sera, intorno alle dieci, e da anni parecchi, tra il signor Commendatore e la sua governante; quegli dalla sua camera da letto, dove stava terminando di leggere i giornali, questa da una saletta vicina, dove stava aspettando i cenni del padrone.

Per solito, quando scoccavano le dieci al pendolo dell'anticamera, il signor Commendatore avea finito, o stava per finire, il suo pasto intellettuale; e in questo caso, studiava il passo, si fermava un po' meno in Russia, o in Baviera, o in Costantinopoli, o al Cairo, e volgeva a grandi giornate verso le beate regioni dove fiorisce spontanea la carota recentissima e dove s'adagia la firma del gerente all'ombra d'un telegramma apocrifo. Intanto, dimandava il suo tè, altro sonnifero schietto. La signora Zita si alzava allora dal suo seggiolone, su cui stava biascicando una terza parte di rosario, tanto per mettersi un po' di bene alla cassa di risparmio de' cieli; andava pel bricco dell'acqua calda in cucina; la versava nel vaso d'argento, su d'un pugnello di foglie della preziosa pianta cinese, e, portato il vassoio con tutti gli annessi e connessi, lo deponeva sul tavolino, mentre il padrone aveva già avuto il tempo di dare un'occhiata, ai miracoli della tintura americana, ed anche alla notizia del capitano Franklin, morto di fame coi suoi vent'otto compagni, vicino a molti sacchi di cioccolatta, certo per mancanza di frullo.

E lì, cascava un altro dialoghetto di questa conformità:

—Signor padrone, ecco il tè.

—Grazie; è fatto?

—Sì, se non lo vuol troppo carico. Sa che il medico ha detto…

—Sta bene, lo prendo subito.

—Comanda altro?

—No, grazie.

—Felice notte, signor padrone.

—Notte felice, signora Zita.—

Come vede il lettore, questi dialoghi non si distinguevano per troppa varietà. E da parecchi anni, l'ho detto, erano sempre gli stessi ogni sera, salvo quando il signor Commendatore era guasto e mandava pel medico. I suoi acciacchi li aveva e i suoi cinquantacinque non li aspettava già più.

Egli versava adunque il suo tè nella chicchera; vi faceva struggere per entro due pezzettini di zucchero; centellava la sua bevanda con religiosa cura; indi, tra sospirando e ansimando, si toglieva dal suo cantuccio presso il sofà, e andava a dar fondo in una poltrona ai piedi del letto, per ispogliarsi con suo comodo.

Il letto era a sopraccielo, colle cortine di un bel colore d'amaranto a fiorami, come i riquadri delle pareti e le coperte dei mobili, fatti all'antica, nella foggia del Cinquecento, ma imbottiti, se Dio vuole, alla moderna. Era un uomo di buon gusto, il signor Commendatore; in altri tempi quel suo nido aveva meritato invidiabili elogi. Ora, a dir vero, non era più del tutto quello di prima. Certi canapè colle spalliere imbottite e foderate di raso, certe scranne maritate a forma di èsse, ed altri elegantissimi nonnulla, su cui s'erano esercitati tanti aghi pazienti, avevano preso la loro giubilazione in un salotto deserto, insieme coi pastelli, le miniature, le mani, ritratte in marmo, e simili reliquie, già così care al padrone sotto i cessati governi. Perfino la vecchia poltrona, ai piedi del letto, si era vedovata di un leggiadro cuscino di seta ricamata in oro, per coronarsi di una prosaica ciambella enfiata, che all'ingrato gentiluomo doveva parere più soffice. E là si adagiava, lentamente spogliandosi, come un uomo che ha tempo e sa di non aver a trovar altro nelle molli piume, fuorchè due ore d'insonnia e quattro di dormiveglia.

Adesso che lo conosciamo quanto bisogna, pigliamolo caldo. La signora Zita aveva posato sul tavolino il vassoio del tè ed augurato una felicissima notte al padrone. Ma quella sera il signor Commendatore non sapeva spicciarsi dal suo giornale e il tè fumava indarno nel vaso. A giudicare dall'apparenza, il signor Commendatore doveva star bene, rincantucciato nel suo sofà. L'inverno regnava di fuori, e un vento implacabile faceva stridere ad ogni tratto le banderuole rugginose sui comignoli dei tetti. Ma nella camera si godeva un buon caldo; le finestre e gli usci erano chiusi; gli arazzi, i tappeti, tutto aiutava a mantenere quella tiepida temperatura, che veniva dagli spirali dei caloriferi, aperti lunghesso lo zoccolo delle pareti.

Le dieci erano battute e ribattute da un pezzo a tutti gli orologi della città, e il signor Commendatore leggeva ancora. Il giornale era quel dì più sugoso del solito, e il nostro gentiluomo, volendo smaltire dapprima tutta la parte politica, s'avea lasciato ultimo, come per rifarsi la bocca, il racconto di una festa da ballo, data due sere addietro dalla principessa di Trestelle, che ecclissava (la festa, s'intende; ma, se volete, anche la principessa) quanto di bello s'era veduto ancora in quella stagione. Il cronista, che per quella occasione era proprio quel delle feste, avea sfoderato tutto il meglio dell'arte sua, e le grazie dello stile e la vivezza delle immagini, per essere al paro di quelle magnificenze. In verità, io vi dico, non si era fatto tanto sfoggio, nell'anno primo della creazione, per alloggiar degnamente la bella genitrice degli uomini, quanto ne faceva il cronista, e di cristalli e di iridi, e di latanie e di muse paradisiache, e di colori e di fragranze, e di ori e di gemme, di trine e di merletti, di blonde e di velluti, di gelsomini e di pesche, di sostantivi e di epiteti, di luci e di ombre, d'iperboli e di reticenze, per mettere in mostra la bellezza diafana della marchesa di Cardona, e quella più salda della duchessa di Sant'Angelo; o le grazie ingenue della Borghini, vera Sacontala dagli occhi d'indaco; o i biondi capegli delle sorelle Woodville, due gigli su d'un cespo: o finalmente le storiche perle della contessa Morelli, che riuscivano a parere di piombo fuso (nientemeno!) intorno al suo collo di latte. E il furbo cronista, passati in rassegna almeno una cinquantina di bei nomi, bellamente portati, conchiudeva come un uomo che avrebbe ancor molto da dire, ripetendo il «j'en passe et des meilleurs» di Ruy Gomez de Silva, davanti ai ritratti degli avi.

Di quelle dame il signor Commendatore ne conosceva parecchie, incominciando dalla principessa di Trestelle, bellezza matura, od acerba, secondo il modo di vedere degli uni e degli altri, ma splendida agli occhi di tutti. E poichè il cuore, come dicono, è sempre giovine, anche il cuore del nostro gentiluomo grillettava allegramente a quel fuoco. Gli occhi della mente seguivano il cronista, e vedevano tutte quelle stupende creature sfilare in bell'ordine, man mano che ne era fatta menzione. Ed egli ammirava con memore sguardo le conosciute, o, da quei fuggevoli tocchi di penna, si raffigurava le ignote, e si sentiva in pelle in pelle quel tremito soave che fanno correre in noi tutte le cose leggiadre, non dissimilmente dall'acquolina che fanno correre alla bocca tutte le cose buone. Non dirò quale effetto facciano tutte le cose vere, perchè il vero si può sentirlo in due modi; uno dei quali non è punto piacevole.

Verbigrazia, al signor Commendatore non gli avrebbe fatto piacere di sentirsi a dire: «sei vecchio», quantunque non ci fosse cosa più vera di questa. Ma questa pur troppo, gliela veniva bisbigliando la coscienza, una nemica domestica che non può lasciare in pace nessuno.

Il giornale, a breve andare, gli era caduto di mano; ed egli, colle braccia prosciolte sulle ginocchia, e il capo appoggiato contro la spalliera del sofà, andava almanaccando dietro a quel filo che gli avea pôrto il cronista.

«Dio di misericordia! Quante belle cose ci sono ancora sulla buccia terrestre! Noi s'invecchia, non c'è che dire; ma il mondo, eterno adolescente, si rinnova di fronde e fiori ogni giorno. Fiori di prato, o di stufa, ogni stagione ci ha i suoi. La primavera, tornata fin qui tanti milioni di volte, ritornerà, Dio sa quanti milioni di volte ancora, sulla faccia della terra. E noi, quel po' di vita che ci è stato dato per la parte nostra, come agl'insetti effimeri, ce lo viviamo davvero? No, in fede mia; noi si passa sulla scena del mondo senza capire l'arcano. E quando finalmente lo si è trapelato, ci si trova al lumicino, e non c'è più caso di mettere un tallo sul vecchio.

«Pèntiti, Don Giovanni! Ma sì, come dargliela ad intendere, quando c'era la gioventù a frastonarlo? Se aspettavano a dirglielo intorno ai sessanta, manco male! È vero (e qui il signor Commendatore sorrise malinconicamente) che sui sessanta non ci sarebbe più stato bisogno di dirglielo. Insomma, così è; giovani, non intendiamo; vecchi, non siamo più in tempo a mutarci.

«E guardate un po' che disdetta! Mai dai miei giorni non ho veduto bello il mondo come ora, ora che la esperienza m'aiuta e m'insegnerebbe anco ad assaporare lentamente tutte le gioie della vita.

«Bei ritrovi, accortamente sfiorati, fino a tanto non ci si rinvenga ciò che il cuore desidera, o che la mente ha sognato! Liete corse all'aperto, dove i polmoni e lo spirito si pigliano la parte loro Mondo ampio da veder tutto, prima di morire, come si vede tutta una casa, prima di andarsene! Imperocchè, l'uomo non è mica fatto per vivere come la quercia o come l'ontàno, abbarbicato su di una balza, donde invano il desiderio cerchi di trascinarlo per la curva del muto orizzonte, o radicato in una forra, donde non veda e non isperi più nulla. Vivere bisogna, ed ogni creatura ha da vivere secondo l'indole sua. L'uomo è nato viatore, curioso, insaziabile; egli ha da muoversi, da respirare liberamente, da rinnovare ogni tanto la sua porzione d'aria, di felicità, di luce, di scienza e d'amore.

«Muoversi, sentire in noi vivi e gagliardi gli affetti, questi benefici flagelli del sangue, desiderare, sperare, anelare, raggiungere, ottenere: è questo il vivere; tutto il resto è apparenza di vita, sogno stracco, lenta agonia. E sono vecchio, ecco qua, confinato in questa camera da un malanno che sordamente mi rode. Perchè, non c'è mica da illudersi. La palla che deve uccidermi è fusa; io so di che male andrò al peggio».—

Il signor Commendatore, da quell'uomo savio che egli era, non ingannava il suo spirito colle lusinghe dei medici pietosi. Ci aveva poi una certa propensione alla malinconia, effetto del male e cagione a sua volta di abbattimento, che faceva il restante.

Amici, ne aveva sempre avuti pochi. Giovane, era venuto su con istinti da vecchio, e tra per la naturale ritrosia e per la diffidenza che ognuno impara a sue spese e in poche lezioni, non si era buttato a troppi. Dopo tutto, ama poco una metà del genere umano chi ama molto l'altra metà, e non accade dir altro. Per contro, i pochi amici che aveva avuti, li aveva anche molto amati. Ma pur troppo, i men buoni si erano col tempo allontanati da lui; i migliori, come al solito, ad un per uno se li aveva pigliati la morte. E il signor Commendatore non aveva pensato a rinnovar le provviste.

Un giorno, era stato parecchi anni addietro, anche una certa marchesa era morta. E il signor Commendatore non aveva più saputo dove e come passar la sera. Va detto anche ad onor suo che il rammarico era stato profondo, e lungo eziandio quel lutto che un uomo può fare dicevolmente ad una persona cara, ma non istretta a lui da vincoli di parentela. Avrebbe voluto viaggiare, correre il mondo per sollievo dello spirito; ma quello non poteva più essere per lui uno svago. Così rimase e si crogiolò nella sua noia ineffabile.

Aveva provato a cercar distrazioni nella musica, e preso a bella posta uno scanno a teatro; ma in quelle radunate di gente allegra, che va allo spettacolo per vedere e per essere veduta, ci si trovava come straniero. Da tanti anni aveva perso il filo di quella vita chiassosa, che ormai non ci si raccapezzava più. Tutti lo rispettavano, ma nessuno più si curava di lui. Almeno ci avesse avuto ancora il baco della politica! Ma le ambizioni lo avevano abbandonato e madonna politica non era più il suo debole. Già, a questa imperiosa signora o darglisi intieri, o nulla. E a darglisi intieri, che sugo?

Era stato bensì eletto deputato al Parlamento per tre legislature e avrebbe avuto qualche diritto ad uno stallo in Senato. Ma egli era altresì un galantuomo, e siccome la sua coscienza gli diceva d'aver fatto troppo spesso il deputato a ore rubate, che è quanto dire poco e male, ebbe vergogna e non accettò la profferta. Bene accettò un titolo vano un po' per non aver l'aria di ricusare ogni cosa, ed anche un po', come diceva qualche volta celiando, per far dispetto a qualcuno.

Da giovine, s'era addottorato in utroque ed aveva scritto la sua tragedia, come ogni buon cittadino italiano; poi aveva fatto come il ricco, che chiude il danaro nello scrigno e non lo cava più fuori, contentandosi di sapere che il gruzzolo c'è. Gran dottore, gran letterato, gran politico, tutto in erba, aveva sfiorato ogni cosa; in niente era andato al fondo, nemmeno nel piacere. A farla breve era mal vissuto, come tanti uomini gravi che conosco io.

Immaginate dunque come il signor Commendatore, con tutto quel passato sulle spalle, avesse lo spirito occupato. Gli passavano davanti agli occhi i bei giorni che aveva perduti, le belle città del mondo che non aveva visitate, e via via tutte le belle cose che non aveva possedute. Anche un po' di famiglia, che non s'era procacciato, veniva collo spettacolo delle sue gioie soavi a inacerbirgli i rimorsi; vedeva il pergolato domestico, il sorriso d'una mite compagna e i vezzi d'un angiolo ricciutello, che gli tendeva le rosse manine dalla sua picciola cuna. Qui, per altro, gli soccorrevano certi suoi vecchi dirizzoni, e, messa in disparte la poesia fugace della cuna, rammentava le noie, i grattacapi del matrimonio.

«Non ho la signora Zita per chiudermi gli occhi? È una brava donna e l'ho ricordata nel mio testamento, perchè non abbia a capitar peggio e a rompersi la testa negli ultimi giorni della sua vita. Il resto ai poveri, famiglia che, a dir la verità, non ho molto aiutata vivendo. Infatti, ho dato, quando i venti, quando i cinquanta, ma non per fare del bene al prossimo, sibbene perchè una bella signora mi pagava in amabili sorrisi il piacere che aveva di mettermi nella sua lista. Ha pagato cinquecento lire, per vanagloria, un guanto di dama, a cui non avrei fatto il sacrifizio di un'ora, per giungere alla felicità di baciarle una mano; mille lire una scatola di fiammiferi, per far dire ad una superba Giunone: peccato che il Commendatore Ariberti non sia nobile di sangue! Vanitas vanitatum et omnia vanitas! Ho fatto un monte di spese inutili, anche sapendo di farle. Al giuoco mi lasciavo guardar le carte da una sirena traditora, che profanava il pizzo di Fiandra, onore delle nostre bisavole. Nei salotti, per le vie, stringevo la mano a centinaia di sciocchi, o di tristi, e mi trattenevo su d'un angolo di strada a sentire i discorsi degli sconclusionati, per finire il giorno con loro, e come loro. Ah, il passato, il passato! Chi mi dà di cancellarlo? Chi mi dà da riviverlo altrimenti?….»

E cento svariate forme di persone e di cose gli scorrevano davanti agli occhi, luminose ad un tempo e fugaci come immagini di sogno; selve fragranti per mille aromi preziosi, città di marmo popolate da semidei, liete frescure, laghi azzurri tra i monti, nuvoli rosei, amori, glorie, olimpiche gare e corone d'alloro, tra migliaia d'uomini e di donne festanti; e così via via tutto ciò che ha fatto bello il mondo, tutto ciò che lo farà ancora alle generazioni venture, tutto ciò che era fuggito da lui senza rimedio.

Ah sì, senza rimedio, pur troppo! E il petto del povero Commendatore ansimava, gravido di sospiri. Quello scherno della fantasia era per lui la cosa più molesta del mondo. Certo, se non fosse stato un uomo per bene, sarebbe uscito in qualche grossa maledizione. Ma queste cosacce non erano il fatto suo; grazie al cielo, il signor Commendatore rispettava sè stesso, e se pure gli venne il momento che la rabbia traboccasse, il pensiero assunse tuttavia una veste conforme al decoro.

—In fede mia,—esclamò egli parlando a sè stesso, che, pur di —ricominciare la vita, farei un patto col diavolo. Sì,—soggiunse —poscia, ridendo con un tal po' d'amarezza,—se l'amico ci fosse! Ma —anche questo ci ha distrutto la scienza moderna, anche questo!

—Davvero? e chi glielo dice?—

—Queste parole, che fecero sobbalzare il signor Commendatore nella sua nicchia, gli parve che venissero a lui da un armadio di rimpetto, anzi proprio da un'ampia spera che vi stava incastrata, riflettendo la luce raccolta della sua lucerna, e, tra questa e la penombra in cui egli stava mezzo nascosto, i capricciosi giri del fumo che mandava fuori il vaso del tè. Sbarrati gli occhi, come per guardar meglio davanti a sè, vide dall'immagine riflessa di quelle mobili spire formarsi alcun che di nuovo, indi balzar fuori d'un colpo, a guisa di pantomimo da un quadro mobile, quel famoso personaggio dal viso sarcastico e dalla svelta persona, che si dipinge vestito di rosso dal capo alle piante e con una berretta sormontata da una penna di gallo; insomma «un giovine gentiluomo» come quello veduto dal dottor Fausto di Goethe, o «un bel cavaliero» come quello veduto dal suo omonimo di Gounod.

Qui sarebbe il caso di indagare, poichè siamo nel secolo della incredulità, se si trattasse pel signor Commendatore d'una visione drammatica o melodrammatica, letteraria o musicale. Ma siccome io credo al fatto che narro, non è mestieri di cedere a queste pretensioni degli uomini di poca fede. Dopo tutto, apparenza o realtà che fosse, fatto sta che parlarono a lungo. Ma, di grazia, rifacciamoci dalle mosse.

—E chi glielo dice?—gridò l'inatteso ospite del signor Commendatore, con una voce impressa di malizia e di buon umore.—Io son più vivo che mai. Sappia, signor Commendatore degnissimo, che non si uccidono così facilmente le vecchie forme del pensiero umano. La scienza ha un bel fare; ma, spinte o sponte, dovrà lasciarci la nostra parte di sole. Ella avrà scoperto il mito, non dico di no, e ci avrà tolto qualcosa; ma anche scemati un pochino del nostro avere, ricompariremo, torneremo a far casa. Non sa Lei quel che avviene delle vecchie lune? Le logorano i naviganti e gl'innamorati a guardarle, come i cani ad abbaiarvi dietro; senza contare che si logorano anche molto da sè, a vedere le debolezze degli uomini. Poi, quando son giunte all'ultimo quarto, buona notte, spariscono, vanno in zecca a farsi rifondere; e quindici giorni dopo, le ricompaiono più tonde di prima.—

A questa intemerata dello strano personaggio, il signor Commendatore non potè trattenersi dal ridere. Così il ghiaccio era rotto; e siccome il signor Commendatore era un uomo di garbo, si ricordò appunto allora che non aveva anche fatto i suoi convenevoli all'ospite.

—La prego,—diss'egli,—si accomodi e quantunque io non sappia con chi ho l'onore…. a che cosa io debba attribuire….

—O come?—interruppe l'altro ghignando.—Non mi conosce Ella? E non le pare di avermi veduto mai, neanco in qualche vignetta? Ah, vede?—soggiunse, come leggendo nell'animo del suo interlocutore.—Ella mi conosce benissimo, e non occorre che io le declini il mio riverito nome e cognome. Quanto all'attribuire, mi scusi; o non m'ha chiamato Lei? Non ha formato in cuor suo un certo desiderio?….

—E come sa?—chiese il vecchio gentiluomo, interdetto.

—So tutto; ed ella mi fa torto, signor Commendatore garbato, a dubitarne. Non debbo io sapere tutto ciò che avviene ogni giorno ed ogni ora nelle anime? È un ufficio noioso, spiacevole, e vorrei dire anche peggio, se me lo consentisse la buona creanza. Le basti di saper questo, e lo creda sull'onor mio, che spesso ci divento rosso dalla vergogna. E quando si pensa che il principale ha creato l'uomo coll'intenzione di fare una gran bella cosa, e quasi per castigare un ribelle par mio. Ma già, dice il proverbio che non tutte le ciambelle riescono col buco; e questa dell'uomo mi sembra una frittata. Dica, o non pare anche a Lei?

—Oh, non me ne parli, per carità! Se non fosse per la donna….

—Eh, eh!—soggiunse l'altro, con un suo risolino asciutto.—Non dico di no. C'è del buono. Ma bisogna distinguere… saper scegliere… Io me n'intendo un pochino.

—Sì, davvero, saper scegliere!—incalzò il signor Commendatore, che aveva inforcato il suo ippogrifo.—E quando si potesse, coll'esperienza che ci è venuta dagli anni…..

—Averci anche un miccino di gioventù; la capisco, non dubiti, la capisco. Ho inteso il suo desiderio poc'anzi. Stavo per l'appunto ascoltando le vibrazioni dei nervi del dodicesimo paio, al loro uscire dal foro condiloideo anteriore del suo cranio. Ella deve sapere che quando si pensa si formano parole, quantunque alla muta. Gli è come a dire che si lasciano dormire i nervi laringei, non mettendo in moto che gl'ipoglossi. Provi a pensare qualcosa; non ha Lei la coscienza di avere parole formate, quasi segni visibili delle idee? E senza questi segni che sarebbero le idee? Potenza amorfa; impotenza; un quissimile del nulla. Eccole una scoperta con cui potrà farsi onore, se pizzica di scienziato. Io gliela offro di buon grado.—

E il sarcastico personaggio, sporgendo il cavo della mano coll'indice e il mignolo stretto, fe' l'atto burlesco di offrirgli una presa.

—No, grazie non ne uso.

—Ah, tanto meglio! La scienza è un certo albero, che, suda suda, è un miracolo se ne cavi fuori le tavole d'una cassa da morto. Ma torniamo a noi. Vogliamo dunque levarcela, questa vecchia zimarra e questa barba di stoppa? Eh eh! Il concetto è antico, ma è bello. Il signor Volfango Goethe l'ha tirata fuori da una leggenda popolare del quattrocento; ma, di leggenda in leggenda, e d'un ringiovanito in un altro, si potrebbe risalire fino al decrepito Jolao, restituito, per le preghiere d'Ercole, alla prima giovinezza. Sarebbe un dotto lavoro; ma già, fatica erudita, fatica da cani; non mi dà l'animo di proporgliela. Finirebbe, io ne son certo, col trovare il prodigio operato già mill'anni addietro nella terra dei Vedi; e allora le toccherebbe andarsi a perdere tra gli Arii, ed altri siffatti lunarii.

—Che il… destino me ne scampi!—gridò il Commendatore, trattenendo per delicato riguardo al suo ospite, un cielo che già aveva sulla lingua.—Ma, quel che più importa, il prodigio è possibile?

—Possibilissimo; solo che Vossignoria dica appuntino quel che domanda.

—Rivivere, ricominciare, ecco tutto;—rispose il signor Commendatore, sospirando.—Ho fallito la strada; ho perso il mio tempo; ho studiato quando abbisognava amare; amato quando bisognava studiare; ceduto ai matti consigli dell'ambizione, quando si trattava, pel mio meglio, di rimanere a mezza via, all'insegna della felicità; creduto un gran bene di vincere il punto su Tizio e Caio, e rinunziato, per sciocchi trionfi di vanità, alle più care gioie della vita; fatte le volte del leone su pochi metri di terra, quando avevo davanti a me il mondo dischiuso; infine, che Le dirò? buttato via cinquant'anni, dei cinquantacinque che ho spesi. E vorrei tornare indietro, rimettermi a nuovo; sicuro, per mettere a frutto la mia esperienza, anche a patto di darle poi l'anima.

L'ospite, a quelle parole, diede una scrollatina di spalle.

—Eh via!—diss'egli,—per chi mi piglia? Il patto è largo; ma io non sono già uno strozzino. So bene che loro signori dànno l'anima al diavolo per molto meno. Anzi, a dirla schietta, l'offerta ha fatto calar la domanda. Io del resto non vo' farmi altro da quel che sono, e ammetto quel che si deve. Sì, certo, c'è delle anime che le vorrei, anche a doverle cambiare con tutte l'altre che ci ho, e farei patto di non tenermene pur una di mostra. Ah, quelle là, le so dir io che mi fanno gola; perchè quelle là consolerebbero le mie tenebre ed io potrei formare una brigata di persone a modo. Ella vede, signor Commendatore; io non sono poi brutto come mi dipingono e vado anzi girando maledettamente nel tenero. Una donna è andata lì lì che non m'indovinasse; ed è santa Teresa, la quale ha scritto di me: «un disgraziato, che non può amare». Ma già, si diventa vecchi, ed io non potrei giurarle che un giorno o l'altro non mi farò cappuccino. Via, lasciamola lì; che non vorrei sbottonarmi troppo. Queste anime che so io, vere anime pulite, dubitano spesso, perchè spesso hanno ragione di affliggersi; ma egli vien sempre un giorno che si fermano in qualche loro concetto, vi s'appigliano, come a sterpi o radici d'albero sull'orlo del precipizio, e non sono più mie, vanno lungi da me, dove vanno tutti coloro che hanno bene amato e bene creduto. A me restano gli altri, imbroglioni d'ogni risma, colpevoli d'aver fatto ritornare la maggior parte dei nati di Adamo nel limbo dei bambini. Scusi, sa; parlo per metafora; ma «se' savio e intendi me' ch'io non ragioni». Dunque, tornando al fatto nostro, non vo' contratti, io; le fo servizio e mi basta il piacere di farglielo. Quando sarà vecchio, via, mi darà un ricordo, la sua fotografia, con due righe di dedica. A questo non ci rinunzio, lo tenga a mente. Fo un albo di duecento ritratti, di persone rispettabili, da Noè fino a noi (fra ugioli e barugioli si può ancora metterle insieme) e godrò di avercela Lei, se prima di quel tempo non mi gira nel manico.

—Grazie infinite;—rispose il signor Commendatore inchinandosi; che non gli pareva di poter fare di meno, in risposta a tanta cortesia profumata.

—A noi, ora;—esclamò il gentiluomo della penna di gallo;—è in ordine?

—Sì; non ho neppur da far testamento. Da dieci anni è scritto e firmato su tutte le facce.

—Ottima precauzione! Ogn'uomo per bene dovrebbe fare il suo, appena giunto ai ventuno, anco a non averci che le sue carabattole di studente da lasciare agli amici. Così almeno s'imparerebbe ad essere uomini assegnati e si piglierebbe la consuetudine salutare di guardar bene addentro nel cuore della gente. Ogni anno, poi, se ne potrebbe fare un altro, e creda a me, si riderebbe molto a vedere le cantonate che si fossero prese l'anno addietro, nel giudicare di questo e di quello.—

Così dicendo, il sarcastico personaggio si accostò al tavolino, e, tolto dal vassoio il vaso del tè, ne versò quanto bisognava nella chicchera; indi vi dette un soffio, come per diradarne il fumo e presentò la tazza al signor Commendatore.

—Ed ora—soggiunse cantarellando,—ed or, signore, il cenno mio la invita… a libar questo nappo… ove fumando sta… non più il suo tè… la vita!—

Il signor Commendatore non potè in quel punto trattenersi dal ridere sotto i baffi, parendogli che nella cadenza il suo Mefistofele avesse una stecca falsa.

—C'è un po' di ruggine in gola; che vuole? non sto in esercizio;—ripigliò quell'altro, che notava ogni cosa.—Orsù, dunque, e beva caldo.—

Il nostro gentiluomo prese la chicchera dalle mani dell'ospite e la guardò, rimanendo un poco perplesso. Ed egli non aveva po' poi tutti i torti; che simili casi non occorrono due volte nella vita d'un uomo. Volse quindi un'occhiata in giro; vide là in fondo alla camera il suo letto a sopraccielo, che lo avrebbe aspettato invano colla rimboccatura tirata in giù sulla proda e colla camicia da notte spiegata; pensò alla signora Zita, che avrebbe fatto le meraviglie a non vederlo la mattina vegnente… Ma sì, che cosa avrebbe detto e pensato la signora Zita di lui? E come l'avrebbe rimbrodolata quell'altro? Come avrebbe combinato le cose presenti colle future, per modo…

Basta; o non era affar suo? e non doveva pensarci lui?

Così il buon Commendatore mise l'animo in pace, e alzata la chicchera, accostò l'orlo alle labbra, e bevve timidamente il primo sorso. Egli temeva diffatti che la bevanda dovesse scottare. Ma appena era tiepida; di guisa che egli in una seconda sorsata mandò giù il rimanente. Per altro, quella volta il suo tè gli seppe d'amaro. Sfido io; senza zucchero!

Fu quello, dopo tutto, un senso fugace del suo palato. Un gran mutamento si operava frattanto in tutto il suo essere. Il sangue scorreva gagliardo nelle arterie; la persona si ergeva snella sul fianco; il viso era fresco e lucente; gli occhi scintillavano; i muscoli tutti brillavano, come fossero molle di acciaio. Intanto, l'ospite suo, la camera, tutti i muti testimoni della sua triste vecchiaia, erano scomparsi. Aveva diciott'anni nè più nè meno. E, scambio della chicchera (dov'era andata la chicchera?), il signor Commendatore si trovò fra le mani un pezzo di carta, coi fregi sui margini e un bollo largo tanto, in cui si diceva che il signor Niccolò Ariberti aveva superato il giorno addietro con lode la prova d'ammissione agli studi legali nella università di Torino.

—To'!—diss'egli ammirato.—Nell'università di Torino, dove per l'appunto ho fatto i miei studi? Non mi dispiace.—

Fu questo l'ultimo anello che congiungesse il signor Commendatore alla sua morta vecchiezza. Da quel punto egli non ebbe più memoria di nulla; entrava a gonfie vele nel mare della sua gioventù. Diciott'anni! L'età dell'oro!

CAPITOLO II

Dove si sente la primavera ad autunno inoltrato.

Il sole, quantunque si fosse a mezzo novembre e sotto le Alpi, amiche degl'inverni precoci, non era mai parso così splendido come quel giorno al nostro adolescente. Egli era allegro, felice, beato, e per due buone ragioni.

Cominciamo dalla prima, e dalla più vicina eziandio. Egli non aveva più, per quell'anno, da pensare agli esami.

Intenda la sua beatitudine chiunque, tra' miei più giovani lettori, ne ha ancora parecchi da mandar giù e griderebbe volentieri: transeat a me calix iste, se nulla nulla sperasse di essere esaudito. In verità, gli è un grosso guaio cotesto, di dover rispondere sì o no intorno ad una materia che non si è studiata, e ad uomini che qualche volta ne sanno quanto noi, cioè a dire pochino, pochino. Aggiungete che qualche volta il sì ed il no, anco a indovinarla, non bastano. Ci sono dei professori assetati, i quali hanno fatto il conto colla statistica alla mano, e pensano che, a questi patti, stando neutrali il diavolo e i santi, il cinquanta per cento dei giovani vi rispondono in tono. Ora questo non va bene; pretendono che l'alunno risponda per filo e per segno; che sostenga il suo sì, o il suo no, corredandolo di documenti e di prove.

Questi, s'intende, sono i professori birboni, che si stimano poi, ed ai quali si manderanno volentieri i propri figli, se ne saranno capitati, e se i professori avranno avuta la pazienza di aspettarli; ma che pel momento si mandano a tutti i settecentomila settecento e settantasette diavoli, nel paternostro della bertuccia.

In simili casi, al povero studente (povero perchè della sua scienza non possedeva neanche gli spiccioli) gli bisognava destreggiarsi come un pilota in burrasca, e in mare seminato di scogli. La reticenza, così lodata una volta dal suo maestro fra tutte le figure retoriche, gli sarebbe rinfacciata come una colpa. Ad altro, ad altro gli conviene far capo; altri spedienti, altri artifizi gli occorrono. Figuratevi che egli ha da diventare anche fisonomista, e cogliere tra le grinze del volto, perfino nel modo di tenere gli occhiali, il segreto dei mutevoli umori del suo Radamanto.

Un mio amico andava più oltre. Corrompeva la serva del professore, ingenua creatura che credeva agli orecchini di princisbecco, per sapere se quella notte il bravo uomo aveva dormito tutte le sue ore, se i bimbi erano sani, se la signora non gli aveva fatto scene; e si regolava in conformità dell'avviso.

Dunque, tornando alla contentezza del signor Nicolino, la prima ragione era quella degli esami superati. E l'altra? L'altra era questa: che il signor Nicolino era a Torino, senza sopraccapi, e che non doveva tornar più per un pezzo a Dogliani. Non già che amasse poco la famiglia; ma quella vita campagnuola, Dio santo, e dopo quattro mesi di uggiose vacanze!…

Giudicatene voi. La mattina, tutti in casa si alzavano per tempo; la gente di servizio al canto del gallo, perchè il pane lo s'impastava in casa, perchè c'erano i pavimenti da scopare, le masserizie da ripulire, le stoviglie da rigovernare, e via discorrendo; il signor Amedeo, padre, una mezz'ora dopo, per uscire sui campi, a dar l'occhiata del padrone ai mezzadri; la signora Caterina, madre, subito dopo il marito, per sopraintendere alle faccende di casa, ma anzitutto per farlo star su, lui, il dormiglione, che tra una chiamata e l'altra di quella santa donna trovava ancora il modo di schiacciare il sonnellin dell'oro.

Si vestiva a malincuore; usciva a stiracchiarsi ed a sbadigliare nell'orto, per farsi cantare da una fante chiassosa il solito ritornello:—Chi sbadiglia non può mentire; o gli ha fame, o vuol dormire; o gli ha qualche mal passato; o gli è forte innamorato.—

—Tutte e quattro queste cose;—rispondeva egli, mezzo burbero e mezzo faceto;—ho sonno, ho fame, ho pensato che oggi sarà come ieri, e sono innamorato, ma non di te. Va, e mettimi un par d'uova nel tegamino.

—Eh, lo so che non è innamorato di me! Non ho già le mani nello zucchero, io!

—Che cosa intendi di dire, sciocca?

—Dico, signor padroncino, che dello zucchero si fanno i confetti, e che il droghiere….

—Piglia questo, di confetti!—gridò egli, facendosi rosso in volto come una ciliegia, e andandole contro per assestarle un mezzo scapaccione.

Ma quella linguacciuta non istette ad aspettarlo, e corse per l'ova del padroncino, contenta di aver mostrato colla sua stoccatina che la sapeva lunga sul conto suo.

Finita la colazione e data una scorsa in paese, tanto per digerire, o per giungere fin sui paraggi della drogheria, dove con aria di parere e non parere incominciava a molestarsi colle dita il solino, per aver modo di voltarsi e sbirciare in bottega, gli bisognava chiudersi nella sua camera, a smagrire sui libri.

La mamma, se a caso lo vedeva girandolar colle mani alla cintola, era sempre lì coll'antifona:

—Suvvia, Nicolino; non hai fatto ancor nulla quest'oggi. Vedi, tuo padre va in collera, e brontola sempre con me. Per amor mio, va a lavorare, che tu non perda il novembre quel che sapevi in agosto.

Nicolino andava storcendo un pochino le labbra, ma andava. Ridottosi nella sua camera, e piantati i gomiti sullo scrittoio, masticava, secondo il bisogno, un passo di Tito Livio, o un teorema di geometria; ma queste cose gli conciliavano maledettamente il sonno, e per cacciarlo via, Nicolino mutava registro, scombiccherava un acrostico, o tirava qui un tocco in penna, tutto facce e profili di parrochi.

Onde tanto accanimento contro questa degnissima sottospecie dell'ordine dei primati? Il nostro Nicolino non poteva patire il parroco di San Quirico che veniva ogni sera in casa a far la partita di tarocchi, e che ogni sera regolarmente, col pretesto di volergli un gran bene, gli faceva un interrogatorio di bassa latinità. Si noti, a scusa di Nicolino, che egli era già a Cicerone, e il buon prete s'era incocciato nell'Epitome. Sbadataggine? Impotenza? Arcano che Don Silvestre ha recato con sè sotto le umide volte del presbiterio.

Lo studio quotidiano finiva come doveva finire, con una brava dormita a gomitello. Dopo due ore di quella applicazione, il ragazzo sgattaiolava nella vigna, per far ora di pranzo. Usava per altro la precauzione di portarsi un libro sotto il braccio, per non lasciar credere che andasse a caccia di grilli, o, come più veramente era, in busca di fragole selvatiche. Qualche volta, allo sbocco d'una stradicciuola campestre, s'imbatteva nel babbo; ed ora il libro lo salvava, ora no, da una ramanzina coi fiocchi.

Gli voleva un gran bene, suo padre; ma era un bene di sostanza, non d'apparenza, e la prima pelle appariva un po' ruvida. A tavola, i principii erano sempre questi: Hai studiato quest'oggi?—Sì, babbo.—Che cosa?—Gli elementi di geometria.—Bene domattina mi copierai cinque teoremi, e me ne darai anche la spiegazione. Vo' vedere i progressi che fai.—

Non faccia meraviglia la cosa, perchè il signor Amedeo sapeva tutto, anche di matematiche. Uomo di pronto ingegno e di vasta coltura, argomento nella sua prima gioventù di alte speranze ai Doglianesi della vecchia generazione, il signor Amedeo si era poi affondato nei pantani della vita di provincia. Perchè? Anzitutto per ragioni domestiche; inoltre, e più ancora, per affezioni, che lo avevano condotto a formare una nuova famiglia all'ombra della vecchia. E prima per amore, e da ultimo per consuetudine, aveva ristretto il suo orizzonte per modo, che gli bastava di attendere ai suoi poderi, perchè dessero un anno per l'altro le loro diecimila lire di reddito, egli che avrebbe potuto guadagnare cinque volte tanto in una gran città, a far l'avvocato od il medico. A volte ci pensava, anzi se ne rodeva un pochino; e che fosse proprio così, lo provava il fatto del leggere continuo che faceva. Di solito, la vita di provincia abbatte, rappicciolisce lo spirito; non si studia, non si legge più, salvo il giornale, tanto per fare un po' di polemica stracca alla bottega da caffè. Ma il signor Amedeo più che una vita di provinciale, faceva una vita di campagnuolo, e studiava alle sue ore e si teneva al fatto delle cose del mondo. Perciò i rimorsi del non aver seguito la sua stella; e poichè gli era nato e venuto su l'erede, si riprometteva di emendare in lui la sua colpa, di sviarlo dalle secche su cui egli aveva incagliato.

—Quel che non ho potuto far io,—diceva il signor Amedeo,—farà lui; ingegno ne ha; non lascierò che si smarrisca per via.—

Le scuole erano buone a Dogliani. E non era un miracolo, perchè questa è soventi volte l'unica fortuna dei piccoli centri in Italia, e da loro per questo rispetto, un gran vantaggio sui grandi. Ma il signor Amedeo non se ne contentava; il primo, il vero maestro di suo figlio, era lui. Tornato indietro coll'ingegno fino ai primi elementi dello studio, d'anno in anno si alzava con lui, cavando tesori di sapere dai fondi della memoria, che ne erano forniti, come d'anfore e vasi i fondi della casa di Arrio Diomede a Pompei.

Nicolino sentiva di essere amato grandemente dal babbo. Ma qualche volta il suo spirito irrequieto si ribellava a quell'amore violento, che gli sapeva di tirannico.

—Mio padre—pensava egli—mi crede una cima; e non è vero, ecco, io non sono che un ciuco. Ho fatto male a strappare l'anno scorso il primo premio. Ora, li ho a pigliare tutti. Che noia!—

Tra i molti spedienti immaginati da suo padre per fargli mettere amore allo studio, c'era questo, che merita d'essere raccontato. Un giorno il ragazzo era entrato nella camera paterna. Il signor Amedeo, che stava riponendo alcuni volumi sugli scaffali di una piccola libreria, gli aveva parlato così:

—Vedi, figliuol mio: quando avrai venticinque anni potrai leggere anche tu questi libri. Adesso no; sei troppo giovine, e son libri che fanno girare il capo ai ragazzi.—

Tanto bastò perchè a lui gli girasse subito. Ad ogni ora ronzava nei pressi della camera: ora con un pretesto, or con un altro, c'entrava, sbirciando il frutto proibito attraverso la custodia del reticolato di filo di ottone. Ed oh meraviglia! Due giorni dopo quella tentazione, suo padre aveva dimenticato la chiave nella serratura degli sportelli.

Indovinate già quel che avvenne. Il signor Nicolino die un giro di chiave ed aprì. Ma poi, rimase lì perplesso tra il sì e il no, come quel personaggio dell'Ariosto.

Faccio o nol faccio? Alfin mi par che buono Sempre cercar quel che diletti sia.

S'intende che il ragazzo non pensò la cosa in versi, chè non aveva ancor letto l'Orlando furioso; ma la pensò in prosa, che torna lo stesso. E finì imitando il personaggio ariostesco; stese la mano e aggranfiò un volume, anzi due, anzi tre, avendo cura di pescare in tre scaffali diversi, e di allargare le file per modo, che la sua marachella non avesse a dare nell'occhio. Poi, come il micio che ha rubato un pesce, o una costoletta in cucina, e sa d'aver fatto una mala cosa, andò a rimpiattarsi in uno stambugio, dove di tre nascose due, portando uno in saccoccia, per leggere a suo bell'agio nelle ore più libere.

In questa guisa lesse, divorò tutti i libri che non avrebbe dovuto leggere prima di venticinque anni. Ne aveva dieci; ne guadagnava quindici. Si capisce, senza che io pure lo dica, che il signor Amedeo era diventato d'una smemorataggine senza pari, e dei due giorni l'uno lasciava la chiave nella toppa.

Non vorrei che i lettori mi pigliassero il signor Amedeo per un babbo imprudente. Quei libri proibiti erano l'Iliade e l'Odissea, i sepolcri di Ugo Foscolo e del Pindemonte, la Divina Commedia, la Gerusalemme liberata la Basvilliana, le tragedie d'Alfieri, ed altri di quella fatta. La storia poi abbondava; ed era tutta roba scelta e vagliata, non già dall'Indice, ma dal buon senso, quel caposcuola che tutti sappiamo. Il ragazzo non poteva avvedersene, ancora digiuno com'era; ma il fatto sta che diede nella pania come un lucherino, e a furia di leggere, molte volte senza capire, ma tratto al lecco della novità, si ritrovò ad essere sulla via degli studi molto più innanzi dei compagni e della classe che faceva. E già il nostro Nicolino tirava giù endecasillabi e ottonarii ad orecchio, mentre i suoi compagni imbastivano a stento la solita morte di Abele.

Ve la ricordate, o lettori, la morte di Abele? «Allora «lo snaturato fratello cavò di tasca una pistola…». Oppure: «Abele abborriva dall'uso delle armi e non «portava nemmeno un temperino per le penne…». Oppure… Ma a qual pro' dirle tutte? Chi più ne ha più ne metta.

Ora, tornando al fatto nostro, quel babbo che seguitava a non avvedersi dei continui trapassi dei suoi volumi dalla libreria allo stambugio, e dallo stambugio alla libreria, ci aveva gli occhi d'Argo per tutto ciò che il suo figliuolo scriveva. Ogni giorno gli era sopra; ogni giorno dava un'occhiata ai quaderni.

—Vediamo un po; che cosa hai fatto quest'oggi?

—Ecco, babbo;—diceva il ragazzo, mostrando tutto vergognoso l'opera sua.

Il babbo leggeva, leggeva tutto, senza perdonarla ad una virgola, storceva le labbra, crollava il capo e faceva la copiaccia in due pezzi.

—Non va bene; fàllo da capo.

E Nicolino tornava a scrivere; indi, altra lettura e soventi volte altra lacerazione del manoscritto.

—Ma dimmi, babbo, dov'è lo sbaglio?

—Da capo a fondo; non c'è niente di buono. Qualunque cosa tu abbia a fare, il primo punto è di pensarci su molto. Pensaci, torna a scrivere, e ti avverrà di fare meglio.—

In questa maniera, e senza pietose correzioni di penna, che sarebbero tornate a danno degli altri condiscepoli, era avvenuto al ragazzo ciò che egli nella sua testolina decenne pronosticava di sè. Aveva dovuto strappare ad uno ad uno tutti i primi premii, dalla grammatica inferiore alla seconda retorica.

Segno che non era un ciuco, il signor Nicolino, come egli si era battezzato da sè in un momento di stizza. Tutt'altro, anzi; ma il suo spirito vagabondo amava troppe più cose che non comportasse l'età. L'applicazione, forse, perchè comandata, lo uggiva; e troppo spesso egli stava come origliando dentro di sè, per sentire quelle voci interne che sogliono cantare più tardi nei chiusi recessi dell'anima. Ingegno precoce, egli non era più, non era mai, nel suo guscio. A dieci anni innamorato come Dante, aveva scombiccherato il suo sonetto a rime fallate, in lode di madonna, che era una fanciulla di nove. A quattordici anni lamentava già il triste vuoto della sua vita, ed aveva trovato che tutto nel mondo era fumo. È vero che, a rincalzo della sua tesi, fumava già come un turco.

Impetuoso per indole, o faceva, o tentava, o si struggeva d'ogni cosa che gli girasse nella fantasia. Era anche un tal poco manesco e prepotente, salvo colle bestie che aveva preso ad amare. Ed ecco in che modo. Una mattina, andando attorno con un suo compagno di scuola (ahimè, quel giorno la scuola e' l'avevano salata ambedue), si era arrampicato su d'un leccio, per pigliar un nido di passerotti. La madre, che era andata in busca di cibo, non tardò molto a giungere, e, scambio di strillare, come usano gli altri uccellini, si avventò al fanciullo, e lì, stando sull'ale, lo bezzicò animosa più volte sul capo.

L'atto gli fece senso, e gli diede anche la coscienza del male operato. Ritornò indietro con quella furia addosso, e pregando l'amico di girar largo, per non recarle spavento.—È una madre, ed ha ragione a fare quello che fa!—Così dicendo, si arrampicò da capo sull'albero, e ripigliato il nido dalle mani di quell'altro che gli teneva bordone, lo ripose al sicuro tra i due rami che lo reggevano prima.

Quella povera madre per certo indovinò l'animo suo, perchè lasciò tosto di perseguitarlo, e lui presente, andò a posarsi sopra i suoi nati, che pigolavano, domandandole il cibo. Il signor Nicolino si ricordò allora di averci in tasca un tozzo di pane; subito lo trasse fuori, ne sbriciolò la mollica sugli orli del nido e se n'andò via mogio mogio, mentre la passera vittoriosa imbeccava la ricuperata sua prole.

—Brava!—diss'egli, allontanandosi col suo scudiero dal teatro della sua confusione.—Ha coraggio!

E da quel giorno rispettò sempre tutte le bestie. E come fu più avanti cogli anni, rispettò anche gli uomini, sebbene questi non lo pagassero della stessa moneta.

Erano quelli i bei tempi. Ma intanto, cogli anni andavano crescendo di numero e di forza le distrazioni, i frastornamenti della vita. E il padre a raddoppiare la vigilanza, perchè il ragazzo non uscisse di riga. Al signor Nicolino gli accadeva come al ferro caldo, che non divien buono se non a furia di batterlo. Immaginate dunque, mettendovi nei panni del figlio, che giubilo fu il suo quando ebbe compiuti gli studi in provincia e fu il caso di andare a Torino per la filosofia e per le leggi, a cui lo destinava suo padre. Diede allora una rifiatata di contentezza e cantò dentro di sè il magnificat.

La revisione era abolita; la libertà conquistata.

Santa autorità paterna, non ti sentiamo buona, non ti conosciamo profittevole, se non quando ti abbiamo perduta! Badate a me, figliuoli; felice chi conserva suo padre; utile come guida e sostegno quando è giovane e forte; caro quando sgrida come quando sorride; divino esempio, idolo del focolare domestico, nella sua tarda vecchiezza.

Ma sì, darla ad intendere ai giovani, quando e' son sul provar l'ali! Ora dunque, il nostro giovane eroe, contento come una pasqua, se ne andò alla capitale, a studiarvi filosofia. La contentezza, a dir vero, non gli veniva dalla filosofia. Questa, che consola i vecchi (almeno, lo assicura Cicerone) riusciva al giovinetto la cosa più ostica e più seccagginosa del mondo. Ne masticò un poco lì per lì; poi fece a turarsi anche gli orecchi, per non guastarsi la testa; e per fargliela entrare in furia all'ultimo mese, ci volle l'immagine minacciosa del signor Amedeo e il ricordo di certe parole che non promettevano niente di buono.

—Bada;—gli aveva detto, in principio dell'anno, suo padre;—se non ti passano con tutti i voti all'esame torni a casa e non passi più il Tanaro fino a tanto ch'io viva. Ti metto a bottega da un calzolaio, o da un legnaiolo, e sarai bello davvero!—

Ora, il signor Nicolino sapeva che suo padre quel che prometteva lo dava, e a misura di carbone. Perciò, venuto al tandem, s'era chiuso in soffitta a studiare; e all'esame, non che tutti i punti, aveva anco strappata la lode; tanta era stata la battisoffia!

Figuratevi dunque la contentezza dello studente, che aveva superato pur mo' la sua prova d'ammissione al corso di legge e aveva davanti a sè uno spazio abbastanza lungo di libera vita!

I primi mesi dell'anno universitario sono senza fallo i più lieti. In primo luogo, ci si ritrova tutti compagni di altre scuole, con un mondo di cose nuove da dirsi e di vecchie da ricordare. Ci sono poi gli amici nuovi da vedere, tiranti dentro e posti liberamente in comune dai vecchi, come talvolta avviene dello scudo solitario, rimasto nella tasca di uno fra i più fortunati, verso la fine del mese. Ed è allora tra tutte quelle giovani vite un avvicinarsi, un incrociarsi, un confondersi allegro, come di cardellini, o di lodole, non turbato che dal rimanersi in disparte di certuni, o più contegnosi o più timidi, che sono battezzati lì per lì coi più ridicoli nomi.

Sul principio dell'anno le lezioni son frequentate che nulla più. I professori hanno il sorriso sulle labbra e gli studenti del pari. C'è in tutti una voglia di far bene; si portano in tasca i quaderni, si è tutt'orecchi, e si pigliano note a furia, e magari si avesse un barlume di stenografia! Poi, un bel giorno, vedete caso! il quaderno s'è dimenticato sul tavolino da notte, dove lo avevamo riposto per consolare una veglia studiosa. Pazienza; c'è un amico che l'ha portato; per quest'oggi scriverà lui; copieremo. E invece di stare attenti, di pendere dal dotto labbro, si porge orecchio a un raccontino bisbigliato di fianco, ad una celia, ad un frizzo che fa sommessamente il giro delle panche. Addio lezione; addio filo del ragionamento; il trattato avrà una lacuna. Che importa? Non c'è l'amico che scrive? Ma il male è contagioso; un altro giorno il provvido amico l'ha dimenticato lui, il quaderno; e tant'è; poichè il dado è tratto, anche lui dà ascolto alle chiacchiere e lascia che il professore si spolmoni a sua posta. Via, la cosa non è poi senza rimedio. Non c'è egli il compagno sgobbone, che lavora per tutti? Non gli si è mai detto crepa; lo si è sempre guardato con un senso di compassione; ma in fondo non deve aver fiele, ha da essere un buon figliuolo, e all'occorrenza impresterà la sua prosa. Questo è l'essenziale.

Pigliata in tal modo la piega, nuove consuetudini si vanno formando nell'anno. Si studiano molto, è vero, gli umori del corpo insegnante; si medita anche il problema del miglior modo di ottenere la firma del professore sul certificato bimestrale; ma fermi lì! Anche la gaia fratellanza di prima va a rotoli; succedono i piccoli crocchi, e, secondo i gusti, le combibbie, i cenacoli. E intanto, signori professori, sputate un'ala di polmone, se Dio vuole; lo studente è ancora qualche volta dinanzi a voi in carne ed ossa, ma lo spirito… lo spirito è via. Chi sa? forse in estasi, come

Il rapito di Patmo evangelista,

vede tutt'altro che donne sedute su bestie color scarlatto, con sette corna e dieci teste; le vede emergere, candide a guisa d'alabastro, dai palchetti del Regio, o passar veloci in calesse al Valentino, o commettere sotto i portici di Po un piedino snello; quel piedino tentatore, che non si dà e non si nega all'ammirazione dei pilastri del Fiorio..

Lettori umanissimi, ci siamo un po' indugiati per via; ma che farci?
Al passato bisognava pur dargli un'occhiata. Chi non ha un passato?
Anche al nostro eroe, che fa vita nuova, ritornando ai suoi
diciott'anni, occorreva fabbricargliene uno.

Era contento, il signorino. E forse avrebbe dovuto non esserlo tanto, poichè rimaneva a Dogliani la figlia del droghiere, una stupenda biondina, colla quale avea ballato tre volte, e alla quale, una sera, attraverso il cancello dell'orto, aveva giurato un amore immortale. Ma sappiate, o lettori, che il signor Nicolino ci aveva un gran cuore, e che i gran cuori, come tutti i gran vasi, non sono grandi per nulla. Ben altro ci aveva a far capire il signorino, nel suo. Anche alla capitale lo aspettava un amore. Credo che fosse già il terzo; ma badate, non potrei giurar nulla. So che era un amore a mezz'aria, imbastito a teatro, ancora senza certezza di ricambio, e già immortale, come tutti gli altri.

CAPITOLO III.

Nel quale si vede nascere un giornale e spuntare la coda d'un segreto

Nell'atrio dell'università, sotto i portici di Po, in piazza Castello, ad ogni tratto il giovane Ariberti s'imbatteva in qualche amico.

—Ah, sei tu, buona lana? E dove hai passate le vacanze?

—Io? Non me ne parlare. A Dogliani, nel «paterno ostello».—(e qui un sospiro lungo tanto rincalzava la frase).—Ma dimmi piuttosto; e tu dove sei stato?

—Ho fatto un viaggio;—rispondeva l'altro, con un'aria dimessa che volea parere modesta;—sono stato in Toscana.—

E lì il Ferrero, che così per l'appunto si chiamava l'amico, a tirar giù una filatessa di tutto quello che aveva veduto a Lucca, a Pisa, a Firenze. Senza andare di una parola più in là d'una guida, trovava il modo di ficcar dentro al discorso tutte le meraviglie dei luoghi veduti, e non la perdonava nemmanco a un muricciuolo; laonde, non è a dire se il povero confinato di Dogliani se ne sentisse venir l'acquolina in bocca. E poi l'amico Ferrero ci aveva le sue considerazioni, i suoi appunti particolari sugli usi, sui costumi e sulla lingua dei figli di Etruria; ricordava i modi, rifaceva la parlata con una grazia tutta sua. All'osteria aveva mangiato il lesso, che corrispondeva alla carne bollita, ahi troppo, della cucina domestica; aveva chiamato tavoleggiante il garzone di caffè; conosceva le uova al tegame, le uova a bere, le uova affogate, le sode e le bazzotte; insomma era diventato un'arca di scienza.

Al caffè dell'Aquila, dov'erano andati i due a sedersi, con tre o quattro amici combinati per via, un altro studente, che era conte e figlio d'un ministro, e che per solito tirava dritto salutando con molto sussiego i compagni, si era degnato di avvicinarsi a loro e di rallegrarli colla sua conversazione, per far sapere a tutti che tornava allora allora di Francia.

—E Lei, dove è stato?—domandava il signor conte, volgendo la parola al nostro Ariberti.

—A Dogliani;—rispondeva questi, avvilito.

—Dogliani! Dov'è?—chiedeva il conte, coll'aria di chi non si raccapezza.—Dalle parti di Mondovì?

—Sì, verso le inospiti Langhe;—soggiungeva un altro della brigata.

—E via, non disprezziamo tanto i nostri paesi;—interruppe il
Ferrero.—Ci sono certe ragazze avvistatette, che non fo per dire…
Il nostro Ariberti ha da aver fatto strage.

Il conte, strascicando l'erre con quel suo garbo nobilesco:—Quando si va in campagna, non c'è altro modo di vivere, che devastando il pollaio. Ma Parigi…. Parigi….. ecco la vita! Il palazzo Reale! il Rocher de Cancale! la Chaussée d'Antin colle sue donne adorabili! Parlez-moi de ça!

E con una leggiadra giravolta sui tacchi, il signor conte Candioli andò verso il banco, per farsi ammirare dalla padrona, pallida creatura, che aveva letto Ossian e si credeva una specie di Malvina, perchè aveva i capegli di canapa mal pettinata.

—Vedi che sciocco!—disse il Ferrero sottovoce all'Ariberti.—Perchè è stato a Parigi, insieme coi bauli del suo signor padre…

—Eh via, non sei tu forse stato a Firenze?

—In Italia, perdinci, e co' miei danari.

—Vorrai dire di tuo padre.

—S'intende; ma sono andato per mio diporto. Ma perchè non far lo stesso anche tu, scambio di chiuderti in quel tuo guscio di noce? Tuo padre non è ricco abbastanza per farti pigliare un po' d'aria di casa d'altri?

—Che vuoi? Gli sembro troppo giovane, per girare il mondo da solo. Poi, c'era l'esame di ammissione… Infine che ti dirò? Voi fortunati, che avete potuto passare il confine! Noi ce ne siamo rimasti all'ombra nelle nostre montagne, coi nostri cenci campagnuoli dattorno. Non è egli vero, Balestra?—

L'amico chiamato con questo nome rispose con un malinconico cenno del capo, che voleva dire: purtroppo.

—Benissimo; bisogna far strage!—ripigliò.

—Oh, a proposito di cenci,—ripigliò il Ferrero,—che cosa è avvenuto del tuo Bertone?

—Mio!—esclamò l'Ariberti.—Mio come tuo. Tu sai ch'egli è di Mondovì ed io per tutte le vacanze non mi sono mosso da casa. Del resto, che vuoi che abbia fatto? Sarà venuto anche lui.

—Si diceva,—notò il Balestra,—che non avrebbe più continuato gli studi, perchè la famiglia non poteva mantenerlo a Torino.

—Sfido io!—entrò a dire un altro della brigata.—Suo padre fa il maniscalco e una sua sorella va a mezzo servizio nelle case dei signori.

—Del resto,—aggiunse il Ferrero,—a Torino è venuto certamente. Almeno, io lo credo, perchè stamane, quando sono uscito di casa, i cenciaiuoli del ghetto gridavano più allegramente che mai il loro «niente da vendere?»

—Ah, ah! bella, questa!—proruppero in coro gli studenti.—Abbiamo dunque la prova provata.

—Via, non c'è umanità!—disse l'Ariberti, con aria che voleva parer rimprovero, ma che sapeva piuttosto di preghiera.—Che ci può far egli, se è povero?

—Sì, sì, hai ragione;—rispose ghignando il Ferrero;—ma che ci possiamo far noi, se è così sudicio? Spero almeno che quest'anno tu non ce lo vorrai tirare fra' piedi. Con quel coso lì in compagnia, si passerebbe tutti per altrettanti straccioni.—

L'Ariberti non ebbe animo di protestare contro questa nuova maniera d'ostracismo. E non era mica un giovine di cattivo cuore; anzi, bisogna dire che gli rincrescevan assai le parole del Ferrero. Ma in fondo in fondo, o come sarebbe egli stato possibile di sostener l'onore del giubbone color tabacco dell'amico Bertone? Segnatamente là, al caffè davanti al conte Candioli, a quel figurino di Parigi, vestito nientemeno che da Humann, cioè dal primo sartore di tutti i leoni di Lutezia, con giubba, o senza? Perciò l'Ariberti si tenne le sue ragioni in gola e il povero Bertone fu condannato senza forma di processo.

—E che faremo ora?—continuò il Ferrero.—L'anno scorso c'erano certe idee! Ma sì, ad anno così inoltrato, non bisognava pensarci. Ti ricordi, Ariberti, del nostro giornale letterario? Tu avevi già pensato alle module pei registri degli associati.

—Ah sì, sarebbe bene di mandarlo avanti;—disse il Balestra.—Io ci ho una canzone in pronto.

—Ed io,—soggiunse il Vigna, che era un altro della compagnia,—ci ho un capitolo sugli amori di Tibullo.

—Già tu l'hai sempre coi latini. Io ci ho invece uno studio sui
Nibelunghi.

—Che cosa sono? Roba da mangiare?

—Tira via, sciocco, e impara l'arte nuova; ne abbiamo piene le tasche dei classici.

—Amici,—interruppe il Ferrero,—noi ci stiamo bisticciando per la pelle dell'orso. Prima di tutto, vediamo se il giornale uscirà. Avremo noi il permesso del governo?

—Perchè no?—disse l'Ariberti, mandando una timida occhiata al ricapito del figurino di Parigi;—se il signor conte si degna di spendere una parolina per noi con Sua Eccellenza, voglio sperare….—

Il signor conte, che andava farfalleggiando continuamente dal banco di
Malvina al tavolino degli amici, gonfiò a quelle parole lusinghiere.

—Il signor conte—aggiunse il Ferrero,—potrebbe anche essere uno dei primi scrittori del giornale, ed anzi il più gradito alla miglior classe di lettori, che è senza dubbio quella delle lettrici.

—Io?—dimandò il contino, che non ci arrivava da sè.—E che cosa potrei scrivere io, palsambleu?

—Eh, per esempio, i ricordi del suo viaggio a Parigi. Mi sembra che l'argomento sia ghiotto; che ne dite voi altri? Ella ha certamente molto veduto e molto osservato;—soggiunse il Ferrero, dandogli accortamente la soia;—ricevimenti di corte, passatempi di strada, segreti di boudoir, occhiate tra le quinte del palcoscenico, chiacchiere di foyer, insomma, tutto ciò che forma la vita di quella capitale affascinante; ecco quello che potrebbe descrivere. Non c'è che lei, per farlo; e sarebbe la man di Dio pel nuovo giornale.—

Questa volta il pavone fece a dirittura la ruota.

—Sicuramente—rispose egli, mettendosi sul grave.—E sebbene io non abbia troppa domestichezza colla lingua…. Del resto, sentano, signori miei; bisogna confessarlo una volta; la lingua italiana è povera, assai povera.

—Che diavolo dice?—esclamò il classico Vigna. Con un vocabolario di —ottantaseimila parole!

—Sta zitto!—interruppe il Ferrero, che voleva ingrazionirsi col figlio del ministro.—Il signor Conte ha ragione, e tu gli scambi la tesi. Sicuro, c'è molta roba nel vocabolario; ma a che serve, se è lingua morta e ciarpame?

—Infatti, è proprio questo che volevo dir io;—ripigliò il signor Conte, inchinandosi.—Ed ecco un esempio che fa al caso nostro. Come tradurrebbero lor signori la parola francese regret?—

La domanda era vecchia, e certo il signor Conte l'aveva raccattata in qualche conversazione di gente sconclusionata, che non sa la sua lingua, e, quel che è peggio, non vuol confessarlo. Anche Ariberti, come il classico Vigna, si sentiva a rispondergli che c'erano in italiano almeno dieci vocaboli per esprimere tutte le gradazioni d'un sentimento, anzi meglio, i vari sentimenti che i francesi sono costretti ad esprimere con quel vocabolo solo; la qual cosa, a dir vero, non fa testimonianza di molta ricchezza nel tesoro filologico dei nostri vicini d'oltralpe. Voleva anco soggiungere, allargando la questione, che ogni lingua ha i suoi propri modi e partiti per dire il fatto suo, e che il non poter voltare col medesimo giro una frase forastiera non prova nulla a suo danno. Infine, voleva dargli pulitamente di sciocco; voleva…. Ma a qual pro? Anch'egli aveva capito che non bisognava urtare con quella ignoranza pomposa; e fu egli il primo a rispondere, con una mimica espressiva, al signor conte, che egli aveva ragione, e che quel maledetto regret era proprio intraducibile.

Il conte Candioli ricompensò l'Ariberti con un gesto di protezione.

—Se scrivessimo il giornale in francese,—soggiunse egli poscia, piantandosi la fida lente nella incavatura dell'occhio destro, come faceva sempre quando volea darsi aria d'uomo d'assai,—sarebbe forse meglio, e il giornale sarebbe più répandu.

—È verissimo;—rispose il Ferrero:—ma non tutti abbiamo famigliare la lingua francese come il conte Candioli. Via, facciamo un tanto per uno, scriviamo il giornale in due lingue.

Soit,—disse il contino;—chacun son goût.

—Pensiamo dunque al nome:—disse Balestra;—io propongo che si chiami L'Aurora.

—Io La Minerva;—gridò il classico Vigna.

—Il primo non dice niente, e l'altro vuol dir troppo; rispose il
—Ferrero.—Cerchiamo ancora.

—Cerchiamo;—ripetè l'Ariberti.—Io vorrei un titolo che dicesse anche il luogo donde il giornale uscirà.

Il Po;—soggiunse prontamente Balestra.

—Via;—saltò su il Vigna, dandogli sulla voce; lo si chiami almeno —L'Eridano.

—Sia pure L'Eridano e se ti piace, anche Il Bodinco, per andar cogli antichi.

Pardon!—interruppe il contino, stendendo la mano nel crocchio, come per annunziare l'arrivo d'una idea.—È già forse stabilito che il titolo debba essere in italiano?

—Ma…..—disse il Vigna sconcertato.

—Ma…—ripeterono gli altri, non sapendo che pesci pigliare.

—Il signor conte ha ragione;—aggiunse tosto il Ferrero, che era l'uomo dei ripieghi,—ci vuole un titolo che corrisponda alla cosa. Noi che facciamo? Un giornale in italiano e in francese. Ci vuol dunque un titolo bilingue.

—Sicuro, bilingue! Ah, ce diable de Ferrero! Il n'y a que lui pour avoir de ces idées là.

—Grazie, signor conte! Ed ora che ci penso, il titolo è bell'è trovato; un titolo che salva tutto; La Dora.

—Oh diavolo! la Dora!—esclamò il Vigna, che non si raccapezzava.—E non è forse un nome italiano?

—Bravo! E chi ti dice di no? E Dora non può essere femminile in francese, com'è in italiano?

C'est juste; puisque c'est une rivière…—aggiunse il conte Candioli con aria di trionfatore romano.

—Ah bene! benissimo!—gridarono tutti in coro. Une rivière! Diciamo —dunque: La Dora.

—E sarà settimanale?

—No, c'è troppo da fare, io sto per un fascicolo al mese.

—Sentite, amici miei; diamola nel mezzo e usciamo fuori per quindicine. Noi si ha tempo a scrivere e gli altri hanno tempo a leggere.—

Qui, gettate le fondamenta, cominciarono le osservazioni minute, intorno ai necessari congegni di ordinamento interno; alle spese, ai carichi di amministrazione e a tutti gli altri amminicoli, sui quali il signor Conte era invitato a dire il suo nobile e riverito parere.

Quanto alle materie, non c'era fortunatamente da stillarsi il cervello. Gli scrittori abbondavano, e tra cattivo e mediocre ognuno ci aveva un sacco e sette sporte da mettere in comune. Ariberti incominciava co' suoi versi d'amore, inspirati dalla figlia del droghiere di Dogliani, ma che, con qualche ritoccatina, potevano tirarsi dal biondo al bruno, passare per roba di più prossima e più aristocratica derivazione. Ferrero dava fuori il suo viaggio in Toscana, col titolo pomposo: Tre mesi sull'Arno. Veramente, non c'era stato che un mese, e nemmeno nella incomoda postura del colosso di Rodi; ma già lo ha detto Orazio: Pictoribus atque poëtis, quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. La qual cosa vuol dire che pittori e poeti ebbero sempre la licenza di uscire dal seminato, e che Orazio Flacco, buon'anima sua, era un confessore di manica larga. Il Vigna, poi, ci aveva il suo capitolo sugli amori di Tibullo, e poteva tirare innanzi sullo stesso metro, mettendo in prosa quei di Catullo e di Properzio. Balestra ci aveva la canzone in pronto; un altro lo studio sui Nibelunghi, quella roba da mangiare che sapete; finalmente il Contino si disponeva a ponzare le sue note parigine, che doveano riuscire la pièce de résistance di quella indigesta accozzaglia.

E il programma? oh non dubitate, pensarono anche al programma; anzi, fu stabilito di dettarlo in francese. Non era un omaggio alla patria; ma come fare, perdinci? Il signor conte Candioli, un figlio di ministro, che si degnava di praticare con loro, e senza del quale addio speranza di far uscire il giornale, aveva fissato l'animo nel suo francese e non c'era stato più caso di rimuoverlo.

—Ah, lo dicevo io!—gridò tutto ad un tratto il Ferrero, lasciando a mezzo una sua proposta che non lo finiva poi troppo.—Il Bertone è a Torino. Guardatelo, là, sotto i portici di rimpetto.

—Dove?

—Sotto l'arcata, davanti a quella mostra di libri vecchi. Vuol fare un bel guadagno il venditore, quest'oggi!—

Gli occhi dei giovani erano corsi laggiù, dove accennava il Ferrero. Proprio com'egli diceva, laggiù, davanti alle quattro assi che formavano la bottega del libraio da strapazzo, si era fermato da pochi minuti un giovane pallido, punto in carne e assai male in arnese, quantunque non lo si potesse dire uno sciatto. La camicia era bianca di bucato; ma pur troppo non lasciava vedere i solini al collo nè i polsini alle mani. Il giubbone di un vecchio panno color tabacco, aveva un bel mostrarsi spazzolato di fresco; oltre che in quella sua continua battaglia colla spazzola ci aveva perso i peli e guadagnato un lustro particolare, si vedeva dal taglio che doveva aver servito d'abito da nozze al nonno di chi lo indossava. Il resto del vestiario era in conformità del capo principale, e non occorre dirne altro.

Anche il contino Candioli volse un'occhiata a quel poveretto e arricciò il naso, come potete immaginare.

Comment?—esclamò egli.—Vous vous occupez de pareille engeance?

—Non faccia caso;—rispose il Ferrero.—È stato un nostro compagno in filosofia, un amico dell'Ariberti.

—Ve l'ho già detto una volta; mio come vostro!—gridò l'Ariberti seccato.

—Eh via, non andare in collera! Si dice questo perchè tu lo conoscevi prima di noi. Del resto, non c'è nessun male. Si può avere avuto a che fare con molta gente, a questo mondo; tutto sta a non strofinarcisi troppo.

—Per non appiccicarsi l'untume;—soggiunse Balestra, in mezzo alle risa degli altri.

Frattanto il giovane che era argomento di tante chiacchiere, dopo aver scartabellato parecchi volumi e comperatone uno con pochi soldi che cavò dal taschino della sottoveste, si mosse di sotto l'arcata per traversare la via, tenendo sotto il porticato di destra proprio a filo del caffè dove stavano seduti i suoi critici.

—Che voglia entrar qua?—domandò tra spaventato e scherzoso il
Ferrero.—Io prendo il portante.—

Ma il giovane non aveva di queste fantasie signorili. Entrato sotto i portici, piegò con passo frettoloso a mancina. Per altro, nel passare che fece davanti alla finestra, presso cui erano seduti costoro, dovette certamente vederli attraverso i cristalli; e bene lo dimostrò la timida occhiata che volse da quella banda, come il suo tirar lungo senza un sorriso, o un cenno del capo, indicò in pari tempo che egli sentiva la miseria sua, non meno che la loro grandezza. Il poveretto ha la vista acuta. Del resto, ci voleva poco a capire, anche senza l'ingegno di Filippo Bertone, che quelli là appartenevano alla schiera dei felici, entrati per la scala d'oro nel mondo, e che non voleva dir nulla, se il caso li aveva avvicinati a lui per qualche anno su d'una panca di scuola.

Gli allegri giovani, quasi tutti suoi compagni di studio, gli avevano dato una superba guardata, senza scomodarsi altrimenti a salutarlo. Anche l'Ariberti, che era il più esposto, perchè più vicino ai cristalli, era rimasto cogli occhi in aria, facendo le viste di badare a tutt'altro.

—Sempre i medesimi stracci!—disse il Ferrero, che era di tutti il più accanito contro il povero Bertone.—Che ve ne pare, amici? Facciamo una colletta per comperargli un soprabito?

—Ah, ah! T'intenerisci per lui?—gridò il Balestra. Amici, in verità
—io vi dico, o Ferrero vuol morire, o fa conto di domandare al
—Bertone che gli scriva per la Dora un capitolo sulla filosofia di
—Aristotile.

—Sciocchezze!—esclamò il Ferrero, crollando sdegnosamente le spalle.

Per altro, non dovevano essere sciocchezze del tutto, perchè, alle parole del Balestra, il sarcastico Ferrero si era fatto bianco in viso come un panno lavato.

Il contino gli die' una mano in buon punto, facendosi a sviare il discorso.

—E adesso,—chiese egli,—questo Bertone studierà legge anche lui?

—Non crederei;—rispose il Ferrero.—L'anno scorso raggranellò a stento i danari della minervale. Ma se ne vedono tante!…

—È fâcheux,—sentenziò il contino,—che questi villani vogliano tutti avviarsi agli studi delle classi alte in cambio di stare alla vanga. L'agricoltura ne porta le pene. È questa l'opinione di Sua Eccellenza mio padre, ed è anche la mia.—

Intorno al borioso figlio del suo signor padre, c'erano parecchi, anzi tutti, che avrebbero potuto risentirsi di quella uscita scortese. Tutti erano figli, o nepoti, di uomini venuti su dal nulla, e perciò veri stipiti della loro casata. Ma nessuno protestò. Si ama così poco voltarsi indietro a guardare le proprie origini! E il difenderle, poi, non è egli un riconoscerne la umiltà? Nè basta ancora; oltre la natural propensione a buttare sotto il banco tutto quello che non fa comodo, c'è l'altra di dar sempre ragione agli sciocchi, quando e' si trovano in alto. È il primo passo; e poi verrà l'altro, di mettersi alla pari coi tristi. Spesso accade che urli coi lupi, chi ha cominciato ad abbaiare coi botoli. I sapienti dicono esser questa la scienza della vita; grama vita e grama scienza!

Nicolino Ariberti. era rimasto sovra pensieri. Quella timida occhiata di Filippo Bertone gli stava sul cuore.—Perchè non l'ho io salutato?—andava dicendo tra sè.—Imparerò anch'io a giudicar gli uomini solamente dall'abito?

—Torniamo a noi;—gridava intanto il Ferrero.—-Si pensa sul serio a metterla in luce, la Dora?

—Ma si, certamente.

—Orbene, provvediamo subito all'essenziale. Il signor conte ci fa egli la grazia di toccarne a Sua Eccellenza? Un padre come quello non vorrà certamente ricusare cosa alcuna a suo figlio.

—«A tanto intercessor nulla si niega»—soggiunse Balestra.

—Sì, parlerò;—disse il contino, con quel suo caro sussiego;—parlerò fin da domani. Oggi ho da fare un mondo di cose. Prima di tutto, debbo passar da Barale, per vedere gli ultimi capi che gli son giunti da Parigi. È un buon sarto, il Barale, e imita abbastanza bene il taglio di Humann. Quelquefois, même, c'est a s'y méprendre. Poi, verso il tocco, vado dalla marchesa di San Ginesio, che ha ricevuto da Milano una stupenda pariglia di gris pommelés, per le sue uscite di mattina. A proposito, ecco un mantello che in italiano non si sa come esprimerlo.

—O come? Leardo pomato;—disse il Vigna timidamente.

Soit;—rispose il contino, un tal po' sconcertato; ma quando avrete detto leardo pomato, chi vi capirà? Tandis que, se voi dite gris pommelé, ecco, vi capiscono tutti.

—Eh, non dico di no;—balbettò il Vigna, confuso da quella sorte di logica.

—La marchesa di San Ginesio,—entrò a dire il Ferrero, è quella —bellissima signora, che ha il palchetto al teatro Regio, in seconda —fila, a sinistra?

—Si, proprio quella; une femme superbe.—

Ariberti, all'udire il nome della marchesa di San Ginesio, aveva teso l'orecchio, come un buon cane da fermo quando ha fiutato la starna; e intanto si era fatto vermiglio in volto, come una ciliegia, o, se vi garba, come un collegiale.

—Una vera Giunone!—esclamò il classico Vigna. Non è vero, Ariberti? —Ti ricordi che l'abbiamo veduta parecchie volte e lungamente —ammirata dal basso della platea, dove stiamo noi, miseri mortali, a —contemplare l'Olimpo?

—Si… mi pare…—farfugliò Ariberti impacciato.

—Come, mi pare? Se non potevi mai spiccar gli occhi dal suo palchetto! Povera a lei se, dove giungevano gli occhi, fossero arrivati i denti! Tu le avresti levato i pezzi a dirittura.

—Ah ah! bravo, Ariberti! Non saresti mica un cannibale?

—Non date retta; sono invenzioni di Vigna.—

E così dicendo, Nicolino Ariberti dava all'amico imprudente certe occhiate feroci, che mal per lui se avessero avuto la virtù di quelle di Medusa.

Eh bien, vous vous troublez, jeune homme?—entrò a dire il Candioli piantando la sua lente.—Ma foi, non avreste avuto torto; la marchesa è un morceau de roi.

—Sicuro; non l'ho detto io che è Giunone?—soggiunse il Vigna.—Con quelle sue braccia e quel collo d'alabastro, con quel naso d'imperatrice e quei grandi occhi bovini, non c'è altro paragone che tenga.

—E se la vedeste poi da vicino!—proseguì il contino, alzando la fronte, come se volesse far cadere da una maggiore altezza i tesori delle sue cognizioni.—C'est dans san boudoir qu'elle est reine.

—Fortunato Lei, signor conte,—disse il Vigna—che può godere di quella vicinanza e respirare l'ambrosia della dea.

—Ah, sì, l'ambrosia; rispose il giovine, col più vanaglorioso di tutti i sorrisi che fiorissero mai sulle labbra ad uno sciocco;—d'autant plus que la marquise vous a des négligés adorables. Dopo tutto—agiunse, a mo' di correttivo,—elle est froide, ainsi que le sont géneralement toutes les grasses.

E buttato là il suo aforismo, il contino Candidi, stette con molta gravità a vedere che impressione facesse la sua scienza sbardellata.

Parlez-moi de la baronne Vergnani,—proseguì egli, dopo che ebbe raccolto i segni della più rispettosa approvazione,—ou bien de la comtesse Del Pozzo. Quelles femmes ravissantes, vrai Dieu! Taille de guêpe et pied d'Andalouse, voilà comme je les aime. Ma lo capisco,—aggiunse in italiano degnandosi finalmente di scendere dal suo cavallo di battaglia.—Il signor Ariberti ama le grasse e tutti i gusti sono rispettabili.

—Che! Non creda alle fandonie del mio amico Vigna!—rispose l'Ariberti concitato.—Io non mi ricordo di aver guardato più quella che un'altra. Se ne ammirano tante a teatro, e la nobiltà torinese è così ricca di bellezze!

Ah, pour ça vous avez raison, è una vera corbeille di fiori; ce qui fait que je papillonne pas mal e finora non ho deliberato di posarmi su d'uno tra tanti. Ma non dubitate, Ariberti; rispetteremo la vostra Giunone. Ah, ah!

—Le giuro, signor conte…

—Non giurate; siete troppo rosso e lo diventate ancora di più. Du reste, mon ami—il signor conte Candioli disse proprio mon ami; la qual degnazione tutta particolare urtò i nervi al Ferrero,—ne vous fiez pas trop. La marquise a des principes. J'ai failli échouer. Sì —soggiunse poscia, notando un atto di sorpresa dei suoi compagni,—ciò mi sarebbe accaduto, se avessi risqué mon jeu; ma ve l'ho detto, taille de guêpe et pied d'Andalouse, voilà comme je les aime.—

Così parlava quel vanerello, che aveva ancora il latte sulle labbra, e s'impancava a far l'uomo.

CAPITOLO IV.

Sotto i tegoli.

Lo stesso giorno che quella ibrida conversazione si era tenuta al caffè dell'Aquila, il nostro Nicolino Ariberti andava in cerca di Filippo Bertone.

Il giovine studente sentiva rimorso di essersi vergognato del suo povero amico, in quella stessa guisa che mille ottocento anni addietro un pescatore di Galilea si era pentito d'aver rinnegato il maestro nell'anticamera del pretorio di Gerusalemme. Ed anche lui voleva fare una specie di ammenda, non già andando a confessare d'aver fatto le viste di non vedere l'amico e il suo giubbone color tabacco, che una tal confessione sarebbe stata superiore alle sue forze; ma andando almeno a casa sua, come per vedere se fosse arrivato da Mondovì, e per passare un'ora con lui. Sapienti rappezzi, immaginati da una società rimpiccinita, per rimediare senza troppa vergogna agli errori commessi, chi potrà mai lodarvi abbastanza?

Filippo Bertone abitava una meschina cameretta, anzi una stamberga, nelle soffitte d'una vecchia casa in via degli Argentieri, che era tra le più popolose, ma altresì tra le meno signorili dell'antica Torino. Un letticciuolo di contro alla parete, che faceva venir freddo solamente a vederlo, due sedie zoppe, un tavolino presso la finestra, che dava sui tegoli neri del tetto, un baule spelacchiato che doveva offrire ai visitatori un modus sedendi non guarentito loro dal picciol numero e dalla poca sicurezza delle sedie, un catino sul suo trespolo di legno, e finalmente una pila di libri su d'una stufa rotta erano tutti gli arredi della cameretta di Filippo Bertone. Non c'era armadio, nè portamantelli, per gli abiti dello studente; ma bisogna anche dire che Filippo Bertone non aveva abiti di ricambio; il suo giubbone di color tabacco lo portava con sè, e quando, per le ore di sonno, o dello studio in camera, dovea pur separarsene, un umile chiodo alla parete gli serviva d'appiccagnolo. I mattoni del pavimento, corrosi dal lungo uso di parecchie generazioni d'inquilini, smossi la più parte dai loro alveoli di calce, ballavano sotto i piedi, quasi a dimostrar loro la instabilità delle cose umane. Le imposte sgangherate dell'unica finestra insegnavano la medesima filosofia ed agguerrivano lo spirito alle burrasche della vita. Ed anche per esser la camera sotto i tegoli, in estate ci si schiattava dal caldo; per contro, nell'inverno ci si moriva dal freddo. Ma già, era opinione degli Spartani, che i giovani dovessero formarsi ad una simile scuola e prosperarvi per giunta. Il Bertone, a dir vero, non ci prosperava; ma bisogna soggiungere ad onor suo che ci si era avvezzato.

Nicolino Ariberti salì rapidamente le otto scale che mettevano a quel nido di rondini, senza aver chiesto nemmeno al portinaio se l'amico suo fosse in casa. Dimenticanza perdonabile invero, perchè quella casa non aveva, per custode all'ingresso, nemmanco il più umile tra i censori d'Apelle, che era, come sapranno i lettori, un maneggiatore di lesina. E giunto all'ultimo piano, tanta era in lui la pratica del luogo, sebbene si trovasse al buio, trovò l'uscio della stamberga, e stese la mano alla corda unta e bisunta del campanello, che rispose con un allegro tintinnio alle sue confidenti strappate.

Subito dopo, un passo frettoloso si udì mettere in iscompiglio i mattoni del pavimento, mobili sulla base e vocali quanto il sasso di Melinone. Ma quello non parve all'Ariberti il passo dell'amico Bertone, e il fruscio di una gonna che accompagnava quel passo e quella musica di mattoni, lo fece pensare piuttosto alla signora Paolina, megèra d'aspetto, e padrona di casa per condizione sociale, che forse era là, nell'assenza dell'amico, a rassettare la camera.

Ma anche qui s'ingannava. La voce che poco stante gli domandò chi cercasse, non era quella, punto armoniosa della signora Paolina.

—Amici!—rispose egli, mentre in cuor suo domandava a sua volta chi diamine poteva essere là dentro, e del sesso femminile, attirato dalle lusinghe di un giubbone di color tabacco, o dagli agi sibaritici di due sedie zoppe e d'un baule spelacchiato.

L'uscio si aperse, e Nicolino Ariberti si vide davanti una ragazza. Almeno, così gli parve nella mezza luce che disegnava i contorni flessuosi e snelli della persona di lei, senza lasciargli scorgere le fattezze del volto. La donna per fermo vide meglio lui, e non dovette sembrargli uomo da chiudergli l'uscio in faccia; chè anzi fu pronta a tirarsi da un lato per lasciarlo passare.

Ariberti rimase perplesso, senza profittare di quel tacito invito. Cercava l'amico Bertone e trovava in quella vece una donna sconosciuta. Chi era costei? Nel tirarsi da banda che ella avea fatto, la luce della finestra la coglieva di fronte ed egli potè rilevarne in di grosso i connotati. Era difatti una ragazza, che poteva avere dai diciotto ai vent'anni, piuttosto alta, abbastanza in carne e di buon colore, sebbene desse un tal po' nell'arsiccio, accusando l'origine campagnuola; gli occhi piccini e maliziosi, il naso tirato leggermente all'insù, la bocca piccola e sorridente, i capegli biondi e indocili al pettine; una figura chifonnée, avrebbe detto il Candioli; in complesso la bellezza del diavolo, che si compone per un terzo di carne, per un terzo di gioventù, e per un terzo d'irregolarità senza difetti fisici apparenti.

Tutte queste cose egli vide in un batter d'occhio. Ella in pari tempo ravvisò in lui un giovine di primo pelo, un po' timido, ma di bello aspetto e signorilmente vestito; perciò lo accolse senza paura, accennandogli che volesse entrare, mentre collo sguardo curioso parea dirgli: «a che debbo io l'onore d'una sua visita?» oppure, se la frase vi par troppo pettinata per una ragazza sua pari: «bel giovine, che cosa volete da me?»

—Scusi, signorina,—balbettò l'Ariberti, impacciato come un pulcino nella stoppia;—cercavo un amico che abita qui… il signor Filippo Bertone.

—Qui non abitano Bertoni;—diss'ella, ma senza aver l'aria di mandarlo via;—ci abito io, Giuseppina Giumella, fiorista presso madama Falcheri, in via Doragrossa, numero 15.—

Tutto quello sfoggio di indicazioni non commosse pure una fibra nel cuore di Nicolino Ariberti.

—Signorina, scusi,—ripetè egli colla medesima confusione di prima.—L'amico mio abitava qui l'anno scorso… È uno studente di filosofia… cioè lo era l'anno scorso… Credevo che ci fosse tornato…

—In filosofia?

—No, volevo dire ad abitare qui. Ma se non c'è più, mi ritiro. Le chiedo scusa… Buon giorno, signorina.—

Quando la signora Giuseppina Giumella si avvide che l'amico Bertone non era un pretesto e che quel timido giovinetto non cercava proprio di lei, uscì sul pianerottolo per fargli servizio e chiamare la padrona di casa.

—Aspetti,—disse ella,—adesso chiederemo alla signora Paolina, e chi sa ch'ella non sappia dove è andato a stare il suo amico Bertone, io non sono qui che da un mese. Signora Paolina!

—Chi è?—domandò da un uscio in fondo al pianerottolo una voce chioccia ben nota a Nicolino Ariberti.

—Son io, signora Paolina;—rispose egli, per mostrare alla ragazza che non era davvero uno sconosciuto lassù;—Sono Ariberti, l'amico di Filippo Bertone.—

In quel mentre l'uscio di fondo si aperse, e la megèra comparve sulla soglia.

—Ah, è lei, signor Ariberti? Cerca del signor Filippo?

—Sì; mi hanno detto che è giunto a Torino e venivo a salutarlo. Credevo che fosse tornato nella sua cameretta, che gli piaceva tanto…

—Oh, per questo ci aveva ragione;—soggiunse la vecchia.—Una camera come quella, non fo per dire, ma non si trova in tutta la via degli Argentieri. E difatti è venuto l'altro giorno da me per riaverla; ma che vuole? Io già l'avevo appigionata. Colpa sua, perchè, quando è partito l'estate scorsa, mi ha lasciato nel dubbio del suo ritorno a Torino. È un bravo giovane, quantunque stia male a contanti, e mi è rincresciuto di perderlo. Ma non potevo mica sacrificarmi… Capirà, signor Ariberti: dodici lire al mese sono poco e son molto, secondo i casi.

—Eh, capisco, dodici lire… già… sono una somma.

—Almeno per me;—proseguì la signora Paolina, Ah, se si fosse —trattato di Lei, signor Ariberti, che ci ha i denari a palate…

—Non tanto, signora Paolina, non tanto;—gridò Nicolino Ariberti ridendo.—Son figlio di famiglia, non lo dimentichi.

—Sicuro, e un bravo giovane, come ce n'è pochi. La non dubiti; il signor Filippo le rendeva giustizia. Egli mi diceva sempre: veda, signora Paolina; di tutti i miei compagni, il migliore, il più sincero, il più studioso, è l'Ariberti.

—Caro Filippo!—esclamò egli, mentre il rimorso, di cui sanno i lettori, gli dava un'altra e poderosa stretta.—E sa Lei almeno, dove sia andato a mettere il nido?

—Oh, La non dubiti; appena lo ha trovato è corso ad avvisarmene. Aspetti, ora mi raccapezzo. Santa Teresa… No, San Francesco di Paola… Nemmeno! Di San Francesco me ne ha parlato, ma là c'era un quartierino di tre camere, un po' caro per la sua borsa. Ecco, ora mi ricordo; è andato proprio a stare in via Santa Teresa, la seconda casa a sinistra; e mi pare che abbia detto il numero 4.

—Ultimo piano, m'immagino.

—Per l'appunto. Sui tetti c'è l'aria buona. Ma dopo tutto il signor Filippo non è parso molto contento del suo nuovo alloggio. La camera è brutta e piccola. Si figuri; un terzo della mia, e non ci ha neanche la stufa.

—Non è poi un gran male;—pensò l'Ariberti;—avercela guasta o non averne è tutt'uno.—

Il lettore discreto capirà che quel suo pensiero il nostro adolescente se lo tenne gelosamente per sè. La signora Paolina credeva nella bontà della sua stufa e a screditargliela le si sarebbe data una stilettata nel cuore.

—Grazie, signora Paolina;—diss'egli in quella vece.—Mi sa mill'anni di vedere Filippo. Corro in via Santa Teresa.

E fatte altre poche parole di commiato, il nostro Nicolino infilò le scale, dopo aver risposto con una scappellata al gentile saluto e al profondo inchino della signora Giuseppina Giumella, fiorista in Doragrossa, a cui certe parole della padrona di casa avevano dato un gran concetto delle ricchezze di quel timido visitatore.

Per altro, Nicolino Ariberti non la passò così liscia, come potrebbe argomentarsi da questo commiato. A mezzo le scale fu ancora trattenuto da una chiamata della signora Paolina, che aveva dell'altro ancora da dirgli. Laonde si fermò ossequente al suono delle venerande ciabatte, ed aspettò che avessero fornita tutta la distanza che già era tra lui e l'ultimo piano.

—Scusi, sa;—gli disse la megèra, abbassando la voce con aria di mistero, quando fu giunta sul pianerottolo dov'egli era rimasto inchiodato;—vorrei pregarla di un'imbasciata pel signor Filippo. La camera che gli piace tanto, un giorno o l'altro sarà libera. La ragazza che Lei ha veduto non vuol rimanerci più molto. Si figuri che siamo al venti, e non ha ancora pagato l'affitto di questo mese. Già, se non pensa a trovarsi un benefattore, poverina, come ha da fare, con quel gramo mestiere che ha per le mani?

—Un benefattore!—esclamò Ariberti, a cui l'età non dava di capire alle prime.—Se posso far io qualche cosa….—-

E metteva mano, così dicendo, alla borsa.

—Oh, non a me, non a me!—rispose frettolosa a quel gesto la signora Paolina, come se si fosse scandalezzata all'idea di dover intascare la somma di prima mano.—Se vuol fare una carità fiorita a quella povera ragazza, ci vada lei; quanto a me, Dio mi guardi; potrebbe parere che avessi cantato.—

Nicolino Ariberti nicchiava. Con che fronte si sarebb'egli presentato a quella Flora cittadina, che aveva veduta a mala pena sul suo uscio, e come avrebbe potuto dicevolmente consegnarle la tenue moneta di dodici lire?

—In verità, non ardisco;—diss'egli, dopo essere stato un poco perplesso.

E fu per rimettere la borsa in tasca. Ma qui la signora Paolina si avvide di aver fatto una papera.

—Già, capisco;—ripigliò prontamente.—Lei vuol fare il bene e non averne i ringraziamenti. Si vede proprio che ha buon cuore. Dia dunque il danaro a me; le dirò io donde viene.—

All'Ariberti non pareva vero di cavarsela in quel modo. E alleggerito di dodici lire, ma contento di avere aiutato quella povera figliuola, che non ci aveva lì per lì un benefattore a darle una mano, se ne andò in traccia di Filippo Bertone.

Per altro, egli non doveva sfuggire alla gratitudine della signora
Giuseppina Giumella. Il bene che si fa, non si perde. Anche il nostro
Nicolino Ariberti se lo avrà a ritrovare tra' piedi. Seguitiamolo
frattanto in via di Santa Teresa.

Filippo Bertone era andato ad abitare laggiù. La rondine, al suo ritorno da quelle parti, aveva trovato occupato il vecchio nido ed era andata più lungi a fabbricarsene un altro. L'altezza di questo era a un dipresso la medesima, cioè sotto le travi del tetto. E non è questa forse la postura più acconcia pei nidi? Dopo tutto, il primo nido di Filippo Bertone dava sopra una sequela, anzi una confusione, di tetti più bassi; laddove il secondo dava in una corte abbastanza spaziosa, dov'erano certe scuderie, e vedeva le spalle d'una gran casa, che poteva, dall'altra banda, pretendere al nome e alla dignità di palazzo.

A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come nell'altra in via degli Argentieri.

Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno. Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se n'andava in isbrendoli.

Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di conserva nei giovani.

Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata presenza d'una buona scuola di provincia.

Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere totus in illa, come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle distrazioni in iscuola.

Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci, i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio, ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne, chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città, dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile… e chi più n'ha ne metta.

Bisogna dire altresì che lo scolaro ha meno svaghi in provincia. La famiglia, se egli è nato colà, il convitto, se egli c'è giunto da fuori, hanno consuetudini patriarcali. Non feste, non teatri, non allegri ritrovi; qualche sagra tutt'al più; riposo, non turbamento dello spirito. Però la sua vita si raccoglie tutta in iscuola; anch'egli è totus in illa. In tal guisa s'incarna il concetto degli antichi spartani; che certo non volevano la vita chiusa del ginnasio, se non perchè l'adolescente vi si foggiasse il suo mondo. E là i fanciulli s'innamorano sul sodo di quello che studiano, dei greci, dei romani, dei cavalieri e dei bardi, tutta brava gente che, usciti di là, non troveranno più alla prima tappa, ma con cui fa bene aver vissuto un pochino e con una certa dimestichezza fraterna. Credete che tutte quelle larve del passato serviranno poco nel futuro? Sia pure; a noi basta che abbiano svegliato, aperto l'animo giovanile ai concetti del bello e del grande. E badate; se cova in quelle tenere menti una scintilla del fuoco sacro «che il figlio addusse di Giapeto in terra» quella salda, intensa ed amorosa preparazione della scuola di provincia, la nutrirà, la sprigionerà, la farà divampare in incendio.

A Mondovì il giovinetto Filippo Bertone era citato come un genio nascente. Suo padre, facendo sforzi inauditi per metter d'accordo volere e potere, lo avea mandato agli studi in Torino. E il nostro adolescente, che amava svisceratamente suo padre ed era al fatto dei sacrifizi della famiglia per lui, aveva vissuto otto mesi a Torino, cioè a dire tutto l'anno scolastico, senza oltrepassare le quattrocento lire di spesa, tra alloggio, vitto e quel po' di bucato. Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole di Filippo Bertone.

Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare. Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!

Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.

—Ci caveremo la fame coll'appetito;—aveva detto il vecchio con una fermezza da stoico;—ma tu diventerai un gran medico.—

Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico, essere il complemento del padre.

Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna. Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto. Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.

Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e, vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima. Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna, aveva cominciato così, e amava ricordarsene.

—Studiate;—gli disse, con un suo accento tra burbero ed amorevole;—i poveri debbono insegnare questa virtù ai ricchi. Alla vostra età io vivevo di pane e cacio, e il cacio me lo portavo da casa. Per poter studiare di sera, avevo preso a pigione un sottoscala da un ciabattino, e la lucerna posata sul suo bischetto mi dava modo di leggere. Avete libri? No, me lo imagino. Guardate nella mia libreria; se ci trovate il fatto vostro, servitevi pure.

Filippo Bertone, commosso da quella ruvida e schietta bontà, balbettava alcune parole di ringraziamento.

—No, lasciate andare;—ripigliò il vecchio professore.—Farete lo stesso voi, quando verrà la vostra volta coi giovani, e tutti pari. Un'altra cosa; son solo, e la domenica pranzo, anzi no, desino alle tre. Una minestra e due piatti caldi; il convento non passa che questo. Ma anche la scuola di Salerno raccomanda la temperanza, mio caro.

«Coena levis vel coena brevis, fit raro molesta; Magna nocet, medicina docet, res est manifesta».

Quelle paterne accoglienze avevano un po' consolato il giovinetto. E lo avevano anche ammaestrato a fare un risparmio più grande nelle spese dello stomaco. La domenica era l'unico giorno in cui egli mangiasse. Gli altri giorni, una coppia di pani, con due soldi di cacio, era tutto il suo scialo. Se il Ferrero lo avesse saputo, egli che toscaneggiava volentieri, avrebbe potuto dire che Filippo Bertone viveva di buio, come le piattole.

Ed ecco anche la ragione per cui Filippo Bertone era pallido e punto in carne. Figurarsi! Pane e cacio! E di quest'ultimo, a mala pena due soldi! È vero bensì che la non mai abbastanza lodata scuola di Salerno, tra tutte le altre belle sentenze, ha lasciato questa sul cacio:

«Caseus est sanus quem dat avara manus».

Ma è vero altresì che in nessun luogo del Regimen sanitatis si legge che non s'abbia a mangiare altro che cacio, per companatico; e ciò per sei giorni alla fila.

Per fortuna, il nostro Filippo non aveva spinto l'imitazione fino ad allogarsi in un sottoscala. Se lo avesse trovato lì per lì, forse! Ma non lo aveva trovato; e fu bene per lui. Il suo bugigattolo a tetto pigliava almeno un po' d'aria sana. La finestra vedeva, come ho già detto, in un ampio cortile, sul di dietro di un palazzo, che era ancora per lui senza nome. Ci aveva a stare della gente titolata, in quel luogo, o almeno dei pezzi grossi, perchè ogni mattina si vedevano alla ringhiera del ballatoio due o tre servitori, intenti a spolverare abiti, o a sciorinare tappeti. Filippo Bertone non aveva vedute mai cose più belle. È vero che non ne aveva veduto neppure di somiglianti, o giù di lì.

Poi, sulla gronda del tetto, a tocca e non tocca dal suo davanzale, crescevano tra le commettiture degli embrici, alcuni cespi di semprevivo e d'altre erbe di facile contentatura. Il botanico ci aveva la sua occupazione. E quella finestra gli piacque, e fece proponimento di passare le sue ore di svago piuttosto lassù, che per le vie di Torino. Già, con quel suo giubbone addosso, non c'era da godersela troppo in istrada. Così, salvo le ore di università e di biblioteca, che lo tenevano fuori di casa, il suo spasso era questo, di starsene qualche ora al balcone, a veder crescere le sue pianticelle, seminate dal caso, e a guardare i servitori del palazzo che davano le loro ripulite.

E non era soltanto la gente di servizio che si facesse vedere laggiù. La seconda mattina che Filippo Bertone s'era affacciato al suo abbaino (perchè così e non altrimenti bisogna chiamarlo), da una di quelle finestre dei palazzo, che in tutto il rimanente della giornata soleva esser chiusa, gli era apparsa una bella signora, alta della persona, dal volto sereno, e di regolari fattezze; bianca come un giglio, o, se vi torna meglio, come una gardenia, di cui la sua carnagione aveva infatti i soavi riflessi perlati. L'aspetto a tutta prima poteva dirsi altero; ma il cuore doveva esser buono, e l'animo gentile, poichè ella si era fermata un tratto a guardare con affettuosa cura alcune pianticelle fiorite che ornavano il suo davanzale, e venuta poi nel vano della porta finestra che metteva sul ballatoio, aveva parlato con garbo amorevole ai servi, che stavano ad udirla con rispettosa attenzione. La bontà e la gentilezza non si nascondono; spirano dal volto, trapelano da ogni atto più lieve, e non è mestieri che si manifestino colle parole.

La leggiadra apparizione era durata pochi minuti, troppo pochi pel giovane studente, che la contemplava ammirato, e con quella trepidanza inesplicabile, che cela qualche volta il presentimento.—Oh, se ella guardasse in alto!—pensava Filippo tra sè.—Darei non so che cosa, perchè ella guardasse in alto e mi lasciasse vedere i suoi occhi.

E tuttavia, poco stante, per una di quelle contraddizioni così frequenti nelle anime timide, egli avrebbe voluto essere lontano, molto lontano, dal suo modesto davanzale. La signora aveva alzato gli occhi a guardare il cielo. Niente di più naturale, ma nel guardare il cielo i suoi occhi s'erano incontrati nell'abbaino e s'erano posati un istante sulla pallida faccia di Filippo Bertone.

L'antichità, immaginosa e proclive a stampare in forme sensibili tutto ciò che le passava per la mente, ha significato in parecchi modi l'impressione fatta, anzi, per dire più veramente, il suggello lasciato sul volto da qualche aspetto gradito, o spiacevole, invocato o temuto. Questi a guardare una bella faccia, senz'altro difetto che i capegli un pochino arruffati (e azzuffati) sul fronte, ci rimaneva di sasso, laddove noi, gente più agguerrita, rimarremmo a mala pena di stucco; quegli, a vederne troppo da vicino un'altra, ne riportava per tutta la vita incomodi segni sul capo; un terzo ne usciva trasfigurato e faceva anco la sua volatina a mezz'aria.

Io non dico come uscisse Filippo Bertone da quello incontro dei più begli occhi che ancora gli fosse toccato di vedere in questa valle di lacrime. Certo, il suo abbaino gli dovette parere un po' stretto e un po' basso, per contenere tanta felicità. E notate, anche la trasfigurazione ci fu; quella del sullodato abbaino, che dopo quel giorno apparve agli abitanti in excelsis, incoronato di fiori. Filippo Bertone avrebbe voluto metter là tutto il meglio della flora a lui nota, come a dire argirèe, ipomèe, ed altri stupendi esemplari della famiglia delle convolvulacee; nè avrebbe indietreggiato davanti al sacrifizio di qualche lira di più, per adornare le imposte del suo finestrino coi tralci rampicanti d'una bignonia, che facesse ricadere leggiadramente a grappoli i suoi fiori d'un bel roseo di porpora. Ma il giovine botanico non istette molto a ricordarsi che si era in novembre, a Torino, e che il suo tetto non era una stufa; laonde, si contentò di alcune piante più umili e meno costose, che tuttavia riuscirono ad abbellire il suo nido.

—Quando ella tornerà alla sua finestra e guarderà in alto,—pensava lo studente,—non le dispiacerà questo poco di verde.—

Ma la signora, il giorno dopo, non era più comparsa a quella finestra del secondo piano, nè ad altra del palazzo senza nome. E nemmeno comparve i giorni seguenti, con grande rammarico di lui, che era rimasto più del solito in casa.

—Che cosa vorrà dire?—domandava egli a sè stesso.—Già, capisco, da questa parte son tutte camere di servizio, e non ci avrà occasione di venirci di sovente. Basta, aspetteremo. È comparsa di sabato, e quest'oggi è martedì; chi sa che sabato non torni?—

Egli dunque aveva ancora tre giorni buoni da aspettare, quando Nicolino Ariberti si inerpicò sulla vetta del piccolo Sinai. Filippo stava seduto presso la finestra, con un trattato d'osteologia tra le mani, per studiarvi la interna struttura di questo bel mobile che è l'uomo. Sul davanzale aveva un quaderno, nel quale veniva man mano facendo le sue annotazioni, compendio e ricordo di ciò che leggeva. Ho già detto che i libri non erano suoi. Del resto, quegli appunti quotidiani erano un ottimo espediente per fissar meglio in capo le cose lette, e all'uopo per rinfrescar la memoria.

Ariberti fece un'entrata chiassosa, anzi una vera irruzione, in quel nuovo domicilio dell'amico. Per fermo il nostro Nicolino mirava a far dimenticare il suo tradimento di quella mattina. Ma Filippo, o non ci aveva badato più che tanto, o era magnanimo d'indole e perdonava cosiffatte debolezze agli amici; fatto sta che accolse il nuovo venuto con un sorriso, quantunque gli capitasse ad un'ora un po' incomoda e lo distogliesse dal suo osservatorio.

—Ma sai che si sta bene qui?—gridò l'Ariberti, dopo aver abbracciato con uno sguardo la camera, dal pavimento al soffitto.

—Sì, ne sono abbastanza contento.

—E, come dunque hai potuto dire alla signora Paolina che rimpiangevi il tuo vecchio canile della via Argentieri? Già, capisco; lo avrai fatto per politica…. per complimento….

—No, ti giuro;—disse Filippo arrossendo;—sulle prime la mi piaceva poco.

—Ed ora….

—Ora mi ci sono avvezzato.

—Avvezzato? Oh, oh! Tu ne parli come faresti d'una prigione. Vediamo un po' la inferriata. Non ce n'è; tu sei libero, padrone padronissimo di allungare il collo fuori del tuo abbaino, a contemplare gli amori dei gatti. Ah, ecco un paese di cristiani! Una corte spaziosa, con scuderia! Ci abita della gente per la quale. Bene, bene, Tu mi diventi un aristocratico, Filippo.

—Vieni; ti fo vedere i miei libri;—entrò a dire quell'altro, cercando di tirarlo via dalla finestra.

—Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa del tuo orto botanico? La padrona o la serva?

—Io stesso,—rispose Filippo,—che era sulle spine.

—Come sai, studio medicina, e la botanica…

—Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?

—Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti, povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.

—Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.

—Non c'è bisogno;—soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.—Io non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione, è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.

—Oh, questo, poi….

—Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente, e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con te.

—Scusami;—disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia dell'amico, i più brutti versacci del mondo;—ma la tua retorica non mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo, bisogna parere.

—L'accidente prima della sostanza!—esclamò facetamente Filippo Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.—Io direi anzi il contrario.

—Sì, cambia pure a tuo modo,—rispose l'Ariberti, purchè in fondo io —abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo —dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla —mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose, —create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare —l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane —la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?

—Certo;—replicò Filippo Bertone—ma assicurata questa, non hai libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora di pace?

—E crepi l'avarizia; non è egli vero?—soggiunse ironicamente l'Ariberti.—Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!

—Io!… No, certo;—rispose Filippo, reprimendo un sospiro;—non ho ancora avuto tempo.

—Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una donna come l'ho incontrata io…

—Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber…

—Che! Ti parlo dell'ultima.

—Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?

—Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a teatro.—

Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.

—-Ma sai,—diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,—che tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo, giungerai presto alle mille e tre.

—No, questa è proprio l'ultima;—esclamò l'Ariberti con accento di convinzione profonda;—oramai lo sento, non amerò più altra donna. Figurati, amico mio, una vera Giunone.

—Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.—Conosci
Giove?—sei forse entrato nelle sue grazie?

—No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.

—Ho capito; l'Olimpo era a teatro;—notò Filippo, con quel suo fare malizioso ed ingenuo.—E poi, finita la stagione teatrale…

—Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per prepararmi all'esame; poi le vacanze… ed ora… ed ora capirai che mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.

—Per correre sotto le finestre della signora… Giunone.

—Non so dove abita.

—Bravo! Sei molto avanti.

—Ma che farci? La vedevo sempre al Regio e ci volle un secolo perchè sapessi il suo vero nome. Sulle prime non era dentro di me che un pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una bella donna», senza bisogno di andare più in là.

—Certamente;—balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro stagioni;—senza andare più in là.

—Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio, innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.

—E avrai più coraggio quest'anno?

—Oh sì! l'ho giurato;—rispose solennemente l'Ariberti.—Ho scritto nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?

—Anzi, mi farai un vero regalo.

—Te li dico… Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.

—Sì, sì;—disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di vedere la sua bella vicina.

E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva, dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per quel poco che valgono.

—E questi versi,—disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e lodati,—li farai giungere a lei?

—Spero;—rispose l'Ariberti;—chi sa che non le cadano sott'occhio? Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale letterario, artistico, e scientifico, e capirai…

—Ah, bene! E chi ci scrive?

—Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte Candioli.

—Candioli! Quello sciocco?—non potè trattenersi dallo esclamare
Filippo.—E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?

—Note di viaggi, ricordi parigini…

—Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?

—Hai ragione;—disse l'Ariberti ridendo;—ma il conte Candioli scriverà a dirittura in francese.

—Eh, in questo caso,—notò Filippo, chinando la testa—non dico più altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.

—Senti;—soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di tenerezza per Filippo Bertone;—vuoi scriverci anche tu?

—Io? Che cosa potrei scrivere io?

—Ma… quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico e tu saresti proprio la mano di Dio.—

Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.

Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.

—Mi passi i tuoi manoscritti,—soggiunse egli, a modo di conclusione,—ed io li consegno al direttore… che sarà probabilmente il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè, trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?

—No; non mi va;—rispose Filippo accigliato.

—Perchè?

—Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico, pronti a scoprirsi e gridare: ecce, ad sum qui feci, se il lavoro piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo, segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra. Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.

Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.

—Del resto, ti ringrazio della profferta;—ripigliò Filippo, con accento malinconico,—ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho, grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno. Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio, perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo, intendiamoci—soggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul palcoscenico della vita,—non torrà che io ti accolga volentieri quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo aereo nido.

—Grazie!—mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza. E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più glorioso di uno stinco di santo.

—E a proposito di nido,—continuò Filippo Bertone,—ti ricordi degli uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido, abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o sarà la mia tomba.—

Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano, questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè. Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le proprie ferite, come per quelle degli altri.

CAPITOLO V.

Della gloria di Ariberto Ariberti e di qualche sciocchezza ch'ei fece.

Un mese dopo questi discorsi e gli altri del caffè dell'Aquila, Torino aveva la sua meraviglia, come Rodi, come Efeso, come Tebe, e come altre città ugualmente fortunate nei tempi antichi. Era venuto alla luce il primo numero del giornale La Dora; il più bel saggio d'ibridismo che si vedesse mai nel regno animale. Ah no, scusate, volevo dire nella repubblica letteraria.

C'era in quel primo numero tutto il banno e l'eribanno della scolaresca del primo anno di legge, con qualche rappresentanza delle altre facoltà. Il programma, intitolato modestamente Nos intentions, era stato scritto dal Ferrero in italiano e voltato in francese dal conte Candioli, che gli aveva dato (giusta la confessione del suo autore) una tournure, una noblesse, un cachet, di cui difettava pur troppo il testo italiano. Il sullodato Candioli aveva poi cominciato la stampa del suo Voyage au pays des rêves, che era il racconto della sua gita a Parigi. Il sullodato Ferrero stampava il primo capitolo de' suoi Tre mesi sull'Arno, nel quale da autore che ama i suoi comodi, egli giungeva a mala pena a Viareggio. Del Balestra c'era una canzone; del Vigna una cicalata intorno agli amori di Tibullo, con citazioni analoghe. E non mancava neppure quello studio critico sui Nibelunghi, che il Vigna aveva tolto per roba da mangiare. L'Ariberti dava fuori una trilogia lirica; nientemeno! La prima parte s'intitolava: Sotto i salici, e cantava amori contadineschi; la seconda: Sotto i pioppi, e cantava amori in villeggiatura; la terza: Sotto i portici, e l'amore, come si vede, da questa terza categoria d'alberi, entrava a dirittura in città, facendo anche una scappatina nella seconda fila di palchi del teatro Regio, per ossequiare la bella marchesa di San Ginesio.

Venendo ora ai nomi, alcuni firmavano i loro scritti, altri no. Il Candioli, per esempio, si nascondeva dietro un Comte de***; ma trovava il modo di dire cinquanta volte in un giorno che le tre stelle della Dora non avevano altro scopo fuor quello di usar riguardo ad una famiglia qui ne s'était jamais encanaillée dans les lettres.

Quanto al poeta della trilogia, egli firmava per la prima volta in sua vita; Ariberto Ariberti.

Com'era andata la faccenda? Nicolino era stato persuaso a sbattezzarsi, da un discorso dell'amico Ferrero.

—Sentimi;—gli aveva detto costui;—vuoi salire in fama di poeta? Non basta esserlo, bisogna parerlo. Ora, quel tuo nome di Nicolino non è abbastanza poetico; ti dirò anzi schiettamente che non lo è punto. Un poeta ha da avere un bel nome, che i giovani e le donne possano ripetere volentieri. Vedi, per esempio, il Foscolo. Si chiamava Nicolò come te. Nicolò Foscolo! Ti pare che quel nome potesse andare, pel futuro cantor dei Sepolcri? A lui per il primo non parve affatto, poichè incominciò un giorno dal chiamarsi timidamente, e come per via d'esperimento, Nicolò Ugo Foscolo; indi, buttata la parte inutile, trovò la vera armonia del suo nome, «Ugo Foscolo», cinque sillabe che non morranno mai più.—

Quelle ragioni erano sembrate il nec plus ultra a Nicolino Ariberti, che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorrà biasimarlo del suo capriccio innocente, in un mondo che è così largo di perdono a tante altre cose, niente affatto innocenti? Dopo tutto questa di foggiare il nome a somiglianza del casato, è moda antica e prettamente italiana. Per non ricordare che un esempio illustre, citerò Galileo Galilei.

La comparsa della Dora aveva fatto chiasso. Si era riso un pochino intorno a quella novità di un giornale bilingue; e un certo Messaggiere, che non la perdonava a nessuno, e neanco ai figli de' ministri, aveva posto meritamente que' signorini in canzone. La celia era parsa così grave, che i collaboratori della Dora, raccolti in solenne adunanza al caffè dell'Aquila, avevano lungamente ed altamente disputato, per vedere se non fosse il caso di andare a chiederne ragione al beffardo collega. Fortunatamente per lui, prevalse l'idea di rispondere inchiostro per inchiostro, sebbene colla giunta del sale e del pepe, che doveva, nell'animo loro, esser peggio di un colpo di spada.

Del resto, a far rimanere questa nel fodero, aveva contribuito largamente la lode che, secondo il conte Candioli, era data nei salotti aristocratici al nuovo giornale. Il avait du premier coup conquis sa place; cosa di cui non era da dubitare anche prima della pubblicazione; ma che doveva sempre dar gusto e vendetta allegra di certi lazzi plebei.

Soltanto una cosa dava molestia ai collaboratori della Dora e ne amareggiava un pochino il trionfo. Quel francese del Candioli era maledettamente scorretto, ed essi da molte parti avevano udito farne l'appunto. Per contro, il signorino sosteneva che il giornale era tutto quanto scorretto; faute d'un bravo correttore che rivedesse le bozze di stampa. Ariberti gli teneva bordone; un correttore gli parea proprio necessario, attento, di buona volontà, e che si contentasse di poco, per non aggravare il bilancio della Dora. Questa fenice dei correttori il nostro Ariberti l'aveva già in pronto, e, sentendosi sostenuto dal Candioli, ne aveva anche detto il nome.

Tutti avevano fatto buon viso alla proposta, salvo il Ferrero, la cui gratitudine perseguitava Filippo Bertone fino al punto di non lasciargli guadagnare venti lire al mese. S'intende che Ferrero parlava in nome dell'economia. C'è sempre una ragione onesta, per commettere una bricconata. Che diamine! L'economia insegnava di andare cauti fino a tanto non ci fosse la vendita del giornale in rispondenza delle spese di stampa. Soltanto quando fosse raggiunto quel modestissimo scopo, si sarebbe potuto prendere il correttore, ed anche pagarlo un po' meglio; che quanto a lui lo avrebbe voluto coi fiocchi, dovesse anche costare un centinaio di lire. Frattanto, poichè non potevano spendersi neppure le venti, si lasciasse la proposta in sospeso e ognuno dei collaboratori pensasse a correggere con maggior diligenza le sue bozze, anche a tornarci su due o tre volte.

Per altro, il conte Candioli non era rimasto persuaso, et pour cause. Nel medesimo giorno egli aveva preso in disparte Nicolino… cioè, no, diciamo d'ora innanzi Ariberto Ariberti.

Est-ce que votre ami Berton connait le francais?

—Sicuramente; il povero giovane sa un po' di tutto, e quel poco lo sa bene, come tutti coloro che hanno dovuto imparare senza maestri.

Eh bien, fatelo venire domattina da me; c'intenderemo. Io non ho pazienza a rivedere le mie bozze di stampa. C'est une corvée, et mon état est de ne pas en faire.

Da questo discorso del Candidi coll'Ariberti ne avvenne che la prosa francese del contino nel secondo quaderno della Dora, uscisse stampata in forma cristiana. Ci si mostravano poi certe frasi, ci si rigiravano certe tournures, che il nobile autore non avea pur sognato di metterci. Ma egli si guardò bene dal protestare; che anzi!..

Ce pauvre Berton! mais savez-vouz qi'il a de l'intelligence?—aveva detto egli all'Ariberti in un impeto di entusiasmo.

In un altro di questi lucidi intervalli, il conte Candioli, che, per ragione della sua povera prosa, non isdegnava di salir qualche volta le scale d'un quinto piano in via Santa Teresa, aveva perfino tentato di far smettere a Filippo il suo venerando giubbone di color tabacco. Sventuratamente non l'aveva pigliata pel suo verso, e si era impuntato ad offrirgli i suoi spogli. Filippo Bertone non era orgoglioso più del bisogno, ma non vedeva ragione di romper fede al suo povero soprabito, per far sapere alla gente che indossava gli abiti smessi dal conte Candioli. Quanto poi a farsene fare di nuovi, come il suo mecenate gli propose da ultimo, profferendosi a pagarne la spesa, egli non ne vedeva ancora la necessità. In fondo in fondo, non voleva elemosina. Guadagnava venti lire al mese per mettere in buon francese il tunisino del signor conte, e per allora ne aveva di catti.

Tornando al giornale, se la prosa del Candioli cominciava, a passare, le liriche amatorie dell'Ariberti avevano dato a conoscere un poetino di garbo, una speranza nuova della patria, un astro nascente, e tutto quel che vorrete. Il nostro giovinetto entrava anche lui nell'orto della fama, così fieramente custodito dai draghi della critica, e vi gustava (dirò così per continuare la metafora seicentistica) i primi frutti della gloria, come sarebbe quello che Orazio ha espresso in un felicissimo verso, così recato in italiano da non so quale traduttore:

Ir mostro a dito e udirsi dire: è desso.

Una sera, per venire agli esempi, una sera egli era al teatro Regio, seduto nel suo scanno presso l'orchestra. Il nostro Ariberti non poteva già più contentarsi di rimanere in platea. La cosa era buona per un filosofo; ma per uno studente di legge, per un avvocato in erba, non poteva più andare. A fare questo gran cambiamento nelle sue consuetudini, mancavano, a dir vero, i quattrini; ma la necessità rende l'uomo ingegnoso. E per comodo dello studente in angustia, nacque lì per lì un avvocato che doveva partire da Torino, per andarsi ad allogare non so dove, e che non poteva portar seco tutta quanta la libreria. Gli autori utili, anzi necessari, che si potevano avere in quella occasione e a buon patto, erano molti, da Bortolo di Sassoferrato al Deluca, e da questo al Merlin, col Pardessus (avrebbe detto Candioli) par dessus le marché. In conseguenza di questa bella trovata erano venuti per la posta da Dogliani i denari dell'abbonamento alla sedia chiusa del Regio. E perciò avvenne che, quella sera di cui si parla, il sullodato astro nascente, in giubba a coda di rondine, petto di porcellana, e cappello a stiacciata, fosse visibile sull'orizzonte del Regio, dalle otto alle undici, in quella che un'altra e più vivida stella sfolgorava da un palchetto di seconda fila. Era essa, come il savio lettore avrà già indovinato, la bella marchesa di San Ginesio; la quale, pari a tutte le belle donne l'ultima volta che si sono vedute, era in quella sera più bella che mai.

Unico cavaliere (essendo lo spettacolo appena incominciato,) stava nel palchetto della marchesa di San Ginesio un signore di mezza età, che all'aria fredda e svogliata s'indovinava essere il marito. È notevole la cura che questi signori così largamente favoriti dal codice civile pongono a far conoscere i loro diritti ed in pari tempo la fiacchezza con cui sono disposti a difenderli. Pronti, ilari e pieni di smancerie, quando vanno in giro, aliando negli orti del prossimo, costoro vi appaiono stanchi, musoni, pieni di tedio, quando l'ufficio della accompagnatura li trattiene per poco a quattrocchi colle dolci metà. Quell'aria di olimpica noia par che dica alle genti: «Signori, se credono che io ci provi gusto a star qui, s'ingannano a partito; io mi divoro i miei proprii sbadigli, come Saturno i figliuoli. Vengano liberamente e vedranno come piglio il portante. Animo, dunque, en avant les cavaliers!»

Anche la signora moglie profitta di questo matrimoniale intermezzo, per cento atti e vezzi che non riguardano punto il suo annoiato compagno. Si prova due o tre volte sul cuscino; si rassetta la veste, perchè non istia troppo tirata, e perchè faccia agli occhi dei riguardanti un bel partito di pieghe; dà una guardata in giro alle prime file e una sbirciata alle ultime; sorride di compassione, al vedere qualche veste, o acconciatura, non più nuova fiammante; si morde il labbro dall'invidia, scorgendo una collana di diamanti o un paio di gocciole che sembrino deriderla coi mutevoli e sfolgoranti riflessi; solleva con grazia il binoccolo incrostato di madreperla e lo appunta su questo o su quel palchetto rivale, non senza lasciar cadere qualche occhiata in platea e nei posti distinti, dove il suo braccio mollemente appoggiato sul davanzale di velluto è fatto argomento di dotte considerazioni e di ascetiche contemplazioni da tutta una Tebaide di scapoli. Insomma, par che canti anche lei il suo verso: «Signori, non facciano caso, è mio marito; otto anni di matrimonio ci hanno ridotti così. Se il Codice non dicesse che la moglie deve seguire il marito, quando egli la accompagna a teatro, lor signori certamente non mi vedrebbero, vittima rassegnata, misurare i miei passi su quelli del mio sacrificatore. Animo, chi si fa innanzi a consolarci quest'ora di martirio?»

Qui per altro va fatta una restrizione. Se nel palchetto della marchesa di San Ginesio il signore di mezza età appariva alla sua aria svogliata il marito di quella Giunone, la signora dal canto suo non somigliava punto a quel tipo di moglie che ho tratteggiato pur dianzi. La marchesa di San Ginesio aveva dato a mala pena uno sguardo alla sala, nell'atto di sedersi al suo posto, ed essendo giunta in principio di spettacolo (cosa piuttosto rara, che molte altre dame non avrebbero ardito di fare) era rimasta intenta alla scena, e più ancora alla musica, senza pure voltarsi, o sogguardare colla coda dell'occhio, al ripetuto cigolare degli usci e al consecutivo fruscio delle sete e dei velluti, che esercitano durante il primo atto di una rappresentazione la pazienza del colto sì, ma pur qualche volta invelenito uditorio.

Alda di San Ginesio si curava poco del volgo profano che le stava dintorno e lo lasciava scorgere senza un ritegno al mondo. Tale per fermo dovette parere la regina di Cartagine a Jarba, quando costui, alla dimanda, del suo confidente: «Qual ti sembra, o signore?» rispose ammirato il suo metastasiano: «Superba e bella».

Difatti, ella era superba. Ma superba per vano orgoglio, o per gentile alterezza d'animo? Questo venìa domandando a sè stesso il giovine Ariberti, mentre, appuntando il binocolo a caso tre o quattro palchetti più indietro, stava di soppiatto ammirando le forme scultorie (è questa la frase moderna, e l'adopero anch'io senza scrupolo) della sua bella Giunone, che parte emergevano e parte trasparivano dai pizzi, dalle trine e da tutti gli altri intessuti nonnulla, di cui si copre la bellezza, ma senza troppo nascondersi.

Verso la fine del primo atto, l'uscio del palchetto che l'Ariberti non perdeva di vista si aperse, e il voltarsi leggermente che fecero le teste dei coniugi verso il fondo indicò l'arrivo di un visitatore. Le visite lassù erano la gran seccatura del nostro innamorato, che vedeva la marchesa costretta a rimaner lungamente colla faccia rivolta dall'altra banda, le spalle contro la parete, e la persona quasi nascosta a lui nella penombra del palchetto. Inoltre, chi erano essi e con quali intenzioni andavano, tutti quei bene inguantati Achei, a intrattenerla mezz'ora per ciascheduno di cento sciocchezze e a respirare la loro parte d'aria a due spanne dalla sua bocca? Fossero state dame, alla buon'ora; ma uomini!

Per questa volta, sebbene si trattasse di un uomo, l'Ariberti non uscì fuori dai gangheri. Era apparsa dal fondo e si illuminava beatamente in mezzo a quelle dei due coniugi la faccia gloriosa del contino Candioli; un paio di baffi biondi che andavano a smarrirsi nella cascata di due ventole bionde, uscenti senza soluzione di continuità da una bionda zazzera, spartita a mezzo il cranio e tagliata sui lati a punta di spazzola: poi, nei vani lasciati da questa ricca vegetazione di canapa, un fronte piccino e un paio d'occhietti grigi, un naso e un mento angolosetti anzi che no; a farla breve, un bel tipo di cagnolino inglese, che, coll'aiuto del parrucchiere e del sarto, ma più ancora per aver noi fatto l'occhio alla estetica nuova, può anche dirsi ai tempi nostri, un bel giovine.

E questo bel giovane, entrato pur dianzi nel palchetto della marchesa di San Ginesio, non aveva, siccome ho raccontato, fatto dar ne' lumi il nostro Ariberti. Egli ricordava tuttavia due sentenze ed una promessa del conte Candioli. Le sentenze dicevano: «froide, ainsi que le sont généralement toutes les grasses; taille de guêpe et pied d'Andalouse, voilà comme je les aime». La promessa poi era questa; «non dubitate, Ariberti, noi rispetteremo la vostra Giunone». Ora, se la promessa non lo raffidava poi troppo, ben gli parevano sufficiente malleveria le due sentenze del contino, per quanto, a suo giudizio, una fosse bugiarda e l'altra dinotasse un pessimo gusto, almeno nella sua prima metà. Chiedo scusa alla taille de guêpe; non son io che giudico in via sommaria; ho un personaggio alle mani, che pensa a suo modo, e gli fo il dragomanno.

Il cagnolino inglese fu accolto con affabilità dalla dama e con lieta dimestichezza dal marito. Nè poteva essere altrimenti, perchè il contino Candioli era uno dei loro, poi il figlio di un ministro, poi (che serve il tacerlo?) un primo Cireneo, che avrebbe aiutato il marchese a portare per quella sera la sua croce, e fors'anco a deporla un tratto, permettendogli di andare in un palco di bocca d'opera a studiare più da vicino il corpo di ballo. Il marchese di San Ginesio ci aveva due ragioni per coltivare gli studi coreografici; era marito e consiglier comunale. Ne trovi delle altre il lettore, se queste due non gli sembra che bastino.

Io dirò intanto che la presenza del nuovo venuto portò come un pizzico d'allegrezza in quella musoneria maritale. Il contino Candioli, del resto, recava nel terzetto la maggior quantità di parole. Il marchese ad ogni tanto entrava nella conversazione con una frase, per dare lo addentellato al suo interlocutore. La marchesa, colla testa leggermente china e col ventaglio ritto che le sfiorava il mento, pareva intenta al dialogo de' suoi cavalieri. Forse era svogliata e distratta; e quell'atteggiamento e un sorrisetto a fior di labbro erano pretta cortesia, non attenzione vera, alle inezie di cui certamente si componeva il discorso.

L'infranciosato patrizio doveva passare in rassegna le donne e i personaggi più notevoli dell'uditorio, poichè il marchese di San Ginesio a volte alzava il binoccolo per guardare qua e là, e la marchesa dal canto suo faceva in pari tempo un mezzo giro del capo, per dare uno sguardo fuggevole là dove egli sicuramente accennava. Poi venne la volta dei posti distinti, aia pulita e lucente su cui dimenavano gloriosamente il collo e facevano la ruota i signori del mondo elegante.

Pensando allora che l'attenzione dei tre nobili osservatori poteva da un momento all'altro rivolgersi sulla sua modesta persona, lo studente assunse un'aria sbadata. Era in piedi, e dava le spalle al palcoscenico; epperò fece le mostre di guardare qua e là senza fermarsi in nessun luogo, distratto, anzi svogliato, come è debito d'ogni gentiluomo che si rispetti un tantino. Per altro, s'intende che ad ogni tratto nel vagabondare a destra e a sinistra, gli occhi dell'innamorato ricorrevano al loro centro d'attrazione, e gli giravano intorno con una rapida volta, come farebbe una cometa col sole.

Per tal modo egli potè avvedersi in tempo di essere stato notato dal Candioli ed anche (oh Numi!) d'essere indicato da lui alla dama. Giunone volse allora lentamente la testa, abbassò le ciglia dal suo Olimpo, e il poeta dei salici, dei pioppi e dei portici, sentì che il suo cuore rispondeva con un palpito all'appressarsi di quella gran luce. Sbirciando colla coda si avvide di ben altro. La signora aveva stesa la mano alla mensoletta di velluto che reggeva il suo binocolo incrostato di madreperla, e rialzando leggiadramente sul gomito un braccio tornito dalle Grazie, si degnava di recare il bel trovato di Galileo all'altezza degli occhi. Oh miracolo inaudito! Oh fortuna insperata! Quelle due lenti, piene di arcani bagliori, erano appuntate su lui.

Qual fosti allora, per dirla con una frase prediletta di Giacomo Leopardi, qual fosti, o Ariberti? Aver meritato uno sguardo di quella donna, pensare che quella donna sapeva il suo nome, e che egli, umile e sconosciuto il giorno addietro, entrava di primo acchito nel settimo cielo de' suoi desiderii; o non era quello il caso di andare in visibilio?

Balenò un tratto, come se lo avesse colto una vertigine; indi, cercando di pigliare un contegno, fece per alzare il binoccolo a sua volta e guardare in qualche luogo. Ma nell'atto di alzare il gomito, gli parve quello un cattivo espediente. Diffatti, se la marchesa guardava lui, con che animo avrebbe egli fatto le viste di guardare un'altra? E così avvenne che, tra il sì e il no, rimanesse a mezz'aria. Avrebbe voluto mettersi due dita nel solino, per rassettarselo intorno al collo, ma si ricordò in tempo di Don Abbondio, e finì per lasciar ricadere il braccio disteso, lungo la costura dei calzoni, nella posizione del soldato senz'armi. Frattanto, al caldo che sentì salirsi alla faccia, gli parve di arrossire come un coscritto che si vede guardato la prima volta dal suo colonnello.

Sicuramente, lassù si parlava di lui. Nel volgersi che fece macchinalmente alcuni secondi dopo, si avvide che anche il marchese di San Ginesio aveva chinato gli occhi a guardarlo. Ariberti lo avrebbe liberato volentieri da quella molestia. A lui non premeva punto di destar l'attenzione del tiranno prima del tempo. Scellerato Candioli! Non poteva aspettare a metter fuori le sue indicazioni quando il tiranno sullodato fosse uscito di là?

Ma la tortura del nostro innamorato non era finita con quella guardata del marchese. Ariberti doveva bere fino all'ultima goccia il calice amaro della sua gloria. La conversazione intorno ai fatti suoi (che non poteva essere altrimenti con tutto quel lavoro di binocoli) era interrotta o conchiusa con una risata della signora. Il povero studente, impacciato come un pulcino nella stoppia n'ebbe una stretta dolorosissima al cuore. Come mai una dama di quella sorte, per solito così severa e contegnosa, dava in uno scoppio di risa? Imperocchè, non c'era da sofisticarci su, gli era stato uno scoppio; argentino, se vogliamo, ma l'epiteto non toglieva nulla al sostantivo. E proprio nel guardar lui; e proprio nel ragionare di lui!

Che diamine le aveva detto il cagnolino inglese? Forse si era fatto beffe de' suoi versi? O del nome di Nicolò mutato in Ariberto? O della sua qualità di provinciale? Comunque fosse, la sua vanità aveva toccato un colpo profondo; comunque fosse, poi, la bella e severa Giunone aveva dato in uno scoppio di risa, come avrebbe fatto la più umile, la più volgare tra tutte le donne di questo basso mondo, poniamo la signora Giuseppina Giumella, fiorista in via Doragrossa.

S'intende che tutti questi ragionamenti il nostro eroe non li faceva lì per lì dal suo sedile, ma per via, nel tornarsene a casa, torbido e sbuffante come una belva ferita che si ripara nel suo covo. Là, in teatro, fu solamente cruccioso e impacciato. Non volse più gli occhi al palchetto di seconda fila; anzi, rannicchiatosi nella poltrona, col collo tirato in dentro come le tartarughe e colle ginocchia alla sciamannata contro la spalliera della poltrona che aveva davanti a sè, rimase per tutto il rimanente dello spettacolo voltato dall'altra parte.

Giunone non si avvide di quel broncio terribile. Anche lei, come portavano le consuetudini della civil compagnia, dato al signorino quell'istante di attenzione che era consentito dal discorso, non aveva più posto gli occhi su lui.

La notte di Ariberti fu inquieta. Mulinò sul guanciale truci pensieri e propositi di arcane vendette. Voleva salire in fama, farsi amare da quella donna e poi disprezzarla, come aveva letto d'un eroe da romanzo; ma pensò con ragione che queste peripezie facili a svolgersi in una tela da romanzo, non lo erano del pari nella vita comune, dove le signore donne sogliono curarsi poco, assai poco, degli uomini illustri. Pei giovanotti, che si sono bene o male educati a questo culto, studiando il De Viris e la storia della letteratura, non c'è che dire, un grand'uomo è un grand'uomo; per le donne è tutt'altro; qualche volta, per esempio, è un noioso, e si sospetta generalmente che prenda tabacco.

Piuttosto, avrebbe dovuto darsi alla gaia vita, diventare uno zerbinotto, celebre per le sue avventure e per qualche elegante capestreria. Ma di questi Don Giovanni ce n'erano già tanti in ordine di marcia, che il nostro Ariberti correva il rischio di giunger l'ultimo, e quando non ci fosse stato più sugo a tentare l'impresa. Voleva una vendetta più spicciativa, lui; ma sì, pigliala! Tra l'altre belle invenzioni, pensò di non guardar più quella donna, di andare a farsi trappista, per raccontare la sua storia a qualche giramondo francese, il quale vi avrebbe tessuto un capitolo d'Impressioni; le quali sarebbero cadute sotto gli occhi di lei; la quale… Insomma, un monte di scioccherie, sulle quali si addormentò finalmente, ma per sognare di guardate superbe e beffardi scoppi di risa.

Il giorno dopo era venerdì, e quella sera il teatro Regio era chiuso. Giorno nefasto! Ariberti non si accostò nemmeno all'atrio dell'università; ingoiò dell'assenzio, bevanda de' forti, e scrisse a sfogo un centinaio di giambi. Venne il sabato e tutta la sua rabbia era smaltita; non gli era rimasto nel cuore che un dolor sordo, che io paragonerei volentieri a quello del mal di denti quando è per andarsene, se non temessi di farmi mettere al bando dalle anime innamorate. Quella sera il teatro era aperto, anzi v'era spettacolo nuovo, e il gran concorso degli spettatori, collo scintillìo di tutte le stelle di prima e di seconda grandezza sul meridiano del Regio, oscurò la luce tapina di quel povero satellite che si chiamava Ariberti. La metafora vuol dire che la marchesa di San Ginesio non mostrò di avvedersi che egli fosse al mondo. Rinunzio a descriver la notte; animus meminisse horret, luctuque refugit.

Venne la domenica. Ma le domeniche la marchesa non andava a teatro, salvo che in certi casi eccezionali. E quella sera il caso eccezionale mancava; nè l'Ariberti poteva gloriarsi di esserne lui uno. Gli bisognò dunque aspettare il lunedì sera. Ma ohimè! per quanto lo spettacolo non avesse più il pregio della novità e la sala non offrisse più le distrazioni dell'altra volta, madonna non pose mente a lui, nè si accorse de' suoi atti, o delle sue giaculatorie, rincalzate dal più operoso binocolo che uscisse mai dalle vetrine di Fries.

Come fare a destar l'attenzione di quella superba? L'Ariberti avrebbe rotto volentieri un bracciuolo della poltrona, o invitato ad alta voce il contrabasso a scorciare di due palmi il braccio del suo molesto istrumento. Fece in cambio la ragazzata di applaudire una seconda ballerina di contrattempo, e senza che un cane gli tenesse bordone.

Lo zittirono, com'era naturale, e tutti gli sguardi si volsero a lui, che si provò a star duro come un milorde inglese, quantunque si sentisse venir rosso fino alla radice dei capelli. Per altro, non andò guari che dovette allibire, avendo veduto con quella benedetta coda dell'occhio che la signora, seguendo il moto delle teste, aveva posto lo sguardo su lui e lo considerava coll'aria attonita di chi non capisce la ragione di un atto, o di una parola, che potrebbe anco esser l'atto, o la parola di un pazzo. Questo, nella sua foga giovanile, non aveva preveduto l'Ariberti; il quale giurò in cuor suo di non far più capo a così eroici spedienti.

Finito il ballo, che gli parve assai lungo, uscì dal teatro, senza volerne saper altro. Voleva in quella vece andare al caffè, e bere del pònce. Nel vestibolo incontrò il conte Candioli, che scendeva allora dalla scala dei palchetti.

Arrêtez donc? Où diable courez-vous si vite?—gli gridò il contino alle spalle.

Ariberti lo avrebbe mandato lui al diavolo; ma bisognava adattarsi alla necessità e far bocca da ridere.

—Vo a prender aria;—rispose egli, dopo aver stretta la mano che il signor conte si degnava di porgergli.

—Aspettate quella della prima donna, perbacco!—sclamò il Candioli, felice d'avere imbroccato un bisticcio.—Il terz'atto è il più bello dell'opera.

—Ma io, veramente….

—Sì, capisco—interruppe l'altro ridendo;—voi andate ad appostarvi sull'uscita del corpo di ballo. Avouez-le, heureux fripon; voi aspettate la piccola Diavolina.—

Diavolina era il nome che portava nel ballo la danzatrice «di rango italiano» applaudita pur dianzi dall'Ariberti.

—Io? Non la intendo;—diss'egli confuso.—Andavo a bere un pònce; ed anzi, se il signor conte vuole onorarmi…

—Grazie, non posso. Questa sera son di servizio; ho da accompagnare a casa la baronessa Vergnani, che ha il marito in missione a Monaco e che offre un tè ai suoi cavalieri di quest'inverno. Vous voyez ça d'ici; Penelope che convita i Proci! Ma a proposito della piccola Diavolina, che diamine v'è saltato in mente, mio caro, di applaudirla a quel modo? Siete il suo valet de coeur?

—Che! non la conosco neanche per prossimo.

—Ah, meglio così; perchè, a dirvela qui entre nous deux, quella piccina non val proprio nulla. E poi c'è il suo re di danari, il cavaliere di Grugliasco, che ve la contenderebbe à outrance. Intanto, vedete, voi ve ne siete fatto un nemico mortale, poichè con quell'applauso avete esposta la sua bella a pigliarsi dei fischi.

—Ah sì? Non me ne importa proprio un bel nulla.

Prenez garde! Il cavaliere passa per la prima lama di Torino.

—Le ripeto, signor conte, che ciò non mi fa caldo nè freddo. Col mal umore che ho in corpo, la romperei anche con il gran lama del Tibet.

Pas mal, pas mal!—disse Candioli, con un cenno del capo che indicava il buongustaio.—Mais quelle mouche vous a piqué? Sareste in collera con Giunone?—

Ariberti si rabbruscò a quel ricordo dei loro discorsi di caffè.

—Le ho già detto, signor conte, che in tutta quella chiacchiera del
Vigna non c'era una parola di vero.

—Eh via! Non sofistichiamo. Se non c'era allora, ci può essere adesso. L'altra sera vi ho colto in flagranti di contemplazione.

—Sì, non lo nego, l'ho guardata;—balbettò l'Ariberti, confuso;—ma come ne ho guardate tante altre, e non ci sono più tornato.

—Davvero?

—Glielo assicuro.

Tant mieux! Mi pare di avervelo già detto; è una donna troppa fredda. On ne lui connait pas la moindre aventure.

Quella frase, buttata là a caso dal contino, suonò dolcemente all'orecchio d'Ariberti. Egli, per vero, non avrebbe saputo dirne il perchè, quando pure si fosse fermato a pensarci; ma provava una certa consolazione a sentire che quella superba donna, la quale rideva di lui, facesse piangere gli altri; che certamente erano in molti a sospirare per lei.

E tuttavia, quella risata gli stava sempre sul cuore. Avrebbe voluto chiederne al conte, e saperne, come suol dirsi, l'intiero. Ma sì, per riuscire al suo fine, gli sarebbe bisognato scoprirsi troppo, confessare ch'era stato tutt'occhi per la marchesa, che si era avveduto dall'accenno a lui, e via via tutta una filatessa di cose da non dirsi al Candioli. E poi, anche disponendosi a ciò, il nostro provinciale non avrebbe saputo come prenderla.

Così avvenne che rimanesse colla voglia e colla stizza, non bene affogate più tardi nel pònce, che fu ad un pelo di scottargli il palato. Di tornare in teatro, dopo quella memoranda impresa dei battimani, non sentiva più il desiderio. Anche quella vergogna gli stava sul cuore, e in quel momento poi, anche la marchesa gli era venuta in uggia, per quella sua attonita e altezzosa guardata.

A farla breve, il nostro innamorato era in quella sera un tal misto di contradizioni, che io rinunzio a descriverlo, per non sembrarvi più matto di lui.

In casa, dove finalmente si ridusse colle sue stravaganze, lo aspettava una novità. Sul suo tavolino da notte, appoggiata al piattello del candeliere perchè avesse a dargli subito nell'occhio, stava una lettera per lui. La soprascritta, di mano evidentemente femminile, oltre la calligrafia poco sicura dimostrava un'ortografia male in gambe. E non era qui tutto, poichè l'Ariberti nel rivoltare la lettera, vide che era sigillata colla metà d'una volgarissima ostia.

—Chi diavolo ha potuto scrivermi?—domandò mentalmente a sè stesso.

Al nostro eroe era passato per la fantasia un nembo di lettere profumate in carta di seta, collo stemma impresso a colori sulla ripiegatura, e con una mano di scritto affilettata all'inglese; sogni tutti e desiderii della sua giovinezza precoce. Ed ecco, gli capitava in quella vece alle mani una letteraccia in carta comune, mal ripiegata, peggio sigillata, e probabilmente piena di scarabocchi, sul fare di quelli che la soprascritta portava ad insegna.

Basta, non è tutto oro nel mondo, e Ariberti doveva contentarsi per quella volta agli spiccioli di rame. Chi sa? poteva anche essere oro misto. Imperocchè dopo tutto ci son pure delle care e belle donnine, che hanno una brutta calligrafia e che suggellano le lettere coll'ostia.

Il giovine aperse tra rassegnato e curioso quella che gli mandava per allora il destino. Essa incominciava «illustrissimo signor Riberti» che gli fece di scoppio «rizzar le chiome sul crin», come cantò elegantemente un poeta di mia conoscenza.

Oramai, non c'era più da sperare. Ariberti corse cogli occhi in fondo alla lettera. E qui, s'egli avesse avuto la memoria più pronta, non ci sarebbe stato neanche da stupirsi. La firma era quella della «sua devotissima serva, Giuseppina Giumella» di quella fiorista in via Dora Grossa e pigionale della signora Paolina, in via degli Argentieri, che i lettori conoscono.

Il primo atto che fece egli al leggere quella firma, voleva dire: che nome prosaico! chi sarà mai questa devotissima serva? E stava rigirandosi il foglio tra le dita, ma senza cavarne un costrutto. Laonde, si appigliò allo spediente più ovvio, che era quello di leggere, o, per dire più veramente, di decifrare quei geroglifici.

La signora Giuseppina lo ringraziava del bene che aveva avuto da lui e giurava che gliene sarebbe stata riconoscentissima «fino all'estremo anelito»; la qual frase faceva testimonianza d'una certa coltura letteraria, raspata nei libretti d'opera. Finiva pregandolo caldamente a voler passare da lei, per una cosa di molta importanza che aveva a dirgli.

Ariberti si ricordò allora della pigione pagata, e gli tornò anche in mente, sebbene veduto alla sfuggita, il tipo della ragazza che aveva occupato l'antico domicilio di Filippo Bertone.

Ma che cosa voleva costei? La vanità nascente non permise al giovine di dare al fatto la spiegazione più naturale. Di certo, quella ragazza gli aveva a parlare per conto d'altrui, e molto probabilmente d'una donna. A quella supposizione che gli faceva intravedere un intrigo donnesco, si sentì battere il cuore. Infatti, e non poteva esser proprio così? Non faceva essa la fiorista in uno dei più riputati negozi di Torino, dove certamente praticavano le più eleganti signore della città?

Di questa guisa, tra l'immagine della marchesa e quella di Giuseppina Giumella, che la sua ferace fantasia accoppiò per alcuni momenti in un medesimo intrigo, tra gli zitti della vigilia e la visita del giorno imminente, il nostro eroe dormì poco e balzò dal letto più presto del solito.

Quella mattina si vestì con una ricercatezza che mai la maggiore, si profumò, si lisciò un'ora allo specchio, come se si fosse trattato di un ripesco amoroso. Si è detto che ogni donna, alle sue ore, è un pochino civetta; ma io vi so dire che l'uomo è un civettone senz'altro. Il mio eroe uscì di casa azzimato come un vero damerino e si avviò verso quella benedetta strada degli Argentieri, che gli pareva tutt'altra da quella di prima. Salì le note scale con un po' di rimescolo nel sangue; chè non si era mai trovato fino allora in un caso simile. Per altro, siccome non era un andare alla morte, si fece animo come potè, e ravviati colla mano i morbidi capegli sul fronte, e tirate due punte, o per dir meglio, due ombre di baffi, diede una scossa al campanello che sapete.

L'uscio si aperse prontamente, e la signora Giuseppina Giumella, fatto entrare il visitatore, fu pronta del pari a richiuderlo. Certo ella era stata in ascolto colla mano sul catenaccio, e avea fretta di chiuder quell'uscio, perchè quella curiosaccia della signora Paolina, facendo capolino dal suo, non vedesse lo studente. Anche lei era vestita con una certa attillatura, e i suoi capegli biondi, indocili al pettine, apparivano assettati con cura. Ed anche lei si vedeva confusa, e dopo avergli additato una scranna presso l'abbaino, stette lì cogli occhi bassi e in silenzio, quasi non sapesse neppur lei da che parte incominciare.

C'era, a diportarsi in tal modo, il suo bravo perchè. L'accorta ragazza voleva piantare un chiodo, e le premeva di non parergli sfacciata. Dai discorsi della padrona di casa, aveva fiutato subito la selvaggina e non voleva lasciarsela fuggire di mano. C'era di mezzo un certo giovinastro, studente di medicina, frequentatore di bische, il quale non le avrebbe anche levati quei pochi che ella guadagnava col suo lavoro di tutta la settimana. Ora, senza contare ch'ella era già stanca di quell'arnesaccio e lo avrebbe volentieri mandato a quel paese, la fiorista cercava un'anima gentile, un cuore ben fatto, che sapesse intendere il suo e le prestasse lì per lì una cinquantina di lire. Come si vede, era modesta ne' suoi desiderii, e una così piccola somma l'avrebbe trovata soltanto a scendere in istrada per chiederla al primo che fosse passato di là. Ma questo forse non faceva comodo alla signora Giuseppina. Ci aveva il ricordo fresco della cortesia d'Ariberti, cortesia fatta senza pur conoscere a chi la usasse. E questo era un precedente degno di nota.

Donde il proposito fatto di rivolgersi a lui e il bisogno, se voleva riuscire nell'intento, di mostrarglisi amabilmente confusa.

Ariberti fu quello che doveva essere in una simile occasione; cioè a dire un pretto collegiale. Le vide i lucciconi sugli occhi e non seppe resistere. Certo, egli cadeva un po' giù dalle sue prime illusioni. Ma la signora Giumella era tanto graziosa, a quel lume mattutino! E poi, non rideva di lui, come quell'altra! Infine, chi sapesse da quali piccole cause dipendono spesso gli atti più rilevanti di un' uomo!….

Fo punto, perchè credo che la cosa sia stata già detta e stampata da
Panfilo Castaldi in poi, almeno un migliaio di volte.

CAPITOLO VI.

Dove s'illustra il motto: "amici da starnuti" e si fanno anche due preziose conoscenze.

Una mattina di gennaio il contino Candioli se ne stava ritto e impettito davanti allo specchio, vestendosi comodamente alla vampa di un buon fuoco che scoppiettava allegro nel suo quartierino, posto ad un piano più su di quello che abitava S. E. il conte padre. Si vestiva di mezza parata, per andare all'università, ma la testa era già stata a lungo nelle mani del cameriere, il quale l'avea ridotta quel portento di bellezza che sapete.

Levatosi l'accappatoio, che lo rendeva abbastanza ridicolo, ma che gli era stato necessario poc'anzi per l'acconciatura del capo, il signorino indossava una sottoveste di stoffa inglese tutta bioccoli come il mantello d'un can barbone, e vi gittava leggiadramente su la catenella dell'orologio, allorquando rientrò il cameriere.

C'est toi, Lafleur?—diss'egli, vedendo riflettersi nella spera la faccia tonda e spelacchiata del servo che si lasciava chiamare con quel nome da commedia.—Che cosa vuoi?

—C'è in anticamera un signore che domanda di parlare al signor conte.

—Ha detto il suo nome?

—Sì, signor conte. È il signor Ariberti.

—-Que diable? a quest'ora!—esclamò il conte, facendo un gesto d'impazienza.—Ma tu gli avrai detto…

—Che il signor conte si sta vestendo per uscire. Ma egli mi ha risposto che è amicissimo del signor conte, che ha da parlargli di cosa urgente per lui, e che certamente, udito il suo nome, il signor conte lo farebbe entrare.

Mon Dieu, quel ennui! Ed io che prima di andare all'università volevo passare da piazza San Carlo, per chieder notizie della baronessa!…

—Se il signor conte lo comanda, gli dirò che è aspettato da sua
Eccellenza, prima di uscire, e che non ha un minuto da perdere.

—-No, no;—disse il giovane patrizio con aria di rassegnazione;—exécutons-nous puisqu'il est ici. Fallo entrare.—

Il cameriere uscì, dopo avere aiutato il suo padrone a infilare un soprabito turchino, mostreggiato di velluto.

Eh bien, arrivez donc, mon cher!…—gridò il contino, udendo il passo di Ariberti sulla soglia.

Quel bonheur de vous voir!… Ma che avete?—soggiunse tosto, mutando idioma ed accento.—Siete pallido come un moribondo.

—Signor conte,—disse Ariberti, con aria abbattuta,—c'è di peggio; sono un uomo morto.

Diable! E che cosa vi è intervenuto?

—Che sono stato insultato, provocato a duello ieri sera.—

Il conte Candioli si rizzò nobilmente sulla persona, inarcò le ciglia e stette nell'atteggiamento dell'Apollo di Belvedere, guardando il suo interlocutore.

Il faut se battre;—sentenziò egli poscia, con gran sicumèra.—È la mia opinione.

—Capisco;—rispose Ariberti;—e non è difatti per questo che io… Insomma, sono dispostissimo ad andare sul terreno, quantunque io non abbia mai tenuto arma in pugno….

—Male!—interruppe quell'altro.—Pigliate esempio da me, che mi esercito nel maneggio delle armi ogni giorno.

—Ella ha ragione;—disse Ariberti.—Comincio a capire che bisogna tenersi preparati sempre a respingere un insulto, o un atto di prepotenza del nostro simile. Ma, lo ripeto, non è per questo che io ero venuto da Lei; bensì per un'altra faccenda che mi mette in pensiero. Non ho ancora potuto trovare due padrini da poter mandare al mio avversario. Vigna e Balestra non se ne intendono affatto. Ferrero si schermisce, mettendo innanzi le sue grandi occupazioni. Sono andato a cercar d'altri, ma non li ho trovati in casa. Ed ecco perchè son venuto ad importunar Lei, signor conte, che mi ha sempre dimostrato tanta benevolenza. So bene che non dovrei incomodare un suo pari, ma pensi a mia scusa che non ricorro al più autorevole, se non quando i meno mi abbandonano.

—Ah sì…. grazie—balbettò il contino, impacciato.

—Ma vediamo prima…. consideriamo… Infine, di che cosa si tratta?

—Ecco qua. Devo premettere che ho conosciuto, or non è molto, una povera ragazza….

—Ci siamo; une amourette!

—No, non c'è nulla di questo;—disse Ariberti, facendosi rosso.—Quella poverina mi aveva toccato il cuore colle sue disgrazie, e mi accade di farle servizio una prima volta. L'avevo conosciuta per caso, e fu ella che domandò di rivedermi, per chiedermi dell'altro, che non mi diè l'animo di ricusare.

—Fin qui non vedo niente che meriti una riparazione d'onore;—notò il
Candioli, con un burlesco sussiego.—Allez toujours!

—Così ero entrato in relazione con quella giovane, che fa la fiorista in via Doragrossa, e, tra un servizio chiesto e un servizio reso, Ella mi intenderà, ho dovuto rispondere a qualche sua lettera.

—Le avete scritto?

—Sì, cinque o sei volte.

—Malissimo! Non scrivete mai lettere! Imitate Carlomagno, che non ne scrisse mai, et pour cause!

Ariberti, tutto pieno de' sopraccapi com'era, non ebbe agio di gustare l'arguzia.

—Ora,—ripigliò il nostro eroe,—egli sembra che la ragazza ci avesse un cugino, diventato tenero tutto ad un tratto della parentela, il quale ha trovato le lettere mie e gli hanno preso le furie.

—Un cugino!—esclamò il Candioli.—Fosse almeno un fratello! E come si chiama questo cugino? Donde viene? Che cosa fa?

—Che so io? È un certo Forniglia, o giù di lì; studente di medicina, a quanto dicono, ma che all'università non si è mai visto. Ferrero dice che è un giovinastro di bassa mano, frequentatore di bische; insomma un mascalzone. Contuttociò, egli ha trovato due persone pulite, almeno in apparenza, che son venute a propormi un certo dilemma….

—Sentiamo il dilemma.

—Eccolo qua. Pretendono che io abbia fatto perdere il suo buon nome alla ragazza. Una fiorista, noti, una fiorista che sta da sola in una camera d'affitto, in via degli Argentieri! E per questo mi mettono davanti l'aut aut; o sposare la cugina del signor Forniglia, o battermi con lui all'ultimo sangue. Di qui non si esce. E adesso Lei capirà, signor conte, che io non potevo esitare nella scelta. Lasciamo stare che son figliuol di famiglia e sottoposto alla patria potestà. Ma non si può ammettere nemmeno per celia che io sposi la signora Giuseppina Giumella, una ragazza che vive da sola in Torino, che tira stoccate alla mia borsa, e che tutto ad un tratto mi diventa una santa innocentina, con tanto di protettore da fianco.

—Sposarla! Mais pas le moins du monde, parbleu!

—Or dunque, venendo alla conclusione, i padrini di questo signor Forniglia mi hanno aspettato iersera sull'uscio di casa mia, dopo il teatro. Ed io ho dovuto prendere appuntamento per quest'oggi, sul mezzodì, al caffè dell'Aquila, dove si sarebbero abboccati coi miei padrini.

—Se riuscirete a trovarne!—disse gravemente il Candioli.

Ariberti lo guardò istupidito.

—Eh, difatti,—soggiunse egli dopo un momento di pausa,—finora non ne ho trovati; ma sperava che Lei…

—-Mon cher, che cosa domandate voi mai? Io non commetterò mai la sciocchezza di consigliarvi un duello, in queste condizioni.

—Ma poc'anzi….—entrò a dire peritoso l'Ariberti.

—Poc'anzi, era un altro paio di maniche. Qui c'è un cugino…. che non dev'essere un cugino. Ça sent le chantage, il ricatto. E volete che un gentiluomo… Mais pas le moins du monde, parbleu! Io non mi lorderò mai con tal sorte di gente.

—Lei, lo capisco, che è nobile, e può sostenere la sua dignità. Ma io, che non lo sono?…

—-C'est vrai;—disse il contino, facendo quella concessione all'amico.—Mais enfin, il ne faudrait pas que des fripons pussent…. Del resto; quanto a me,—soggiunse egli temperando il diniego con un mezzo sospiro,—voi mi capite, Ariberti; come non potrei incrociar mai la mia spada con gente troppo da meno di me, così non posso mettermi al caso di vedermi certi figuri tra' piedi e di doverci ricambiare una carta da visita.—

Ariberti rimase sconcertato, in atto di chi non trova più risposta alle argomentazioni del suo interlocutore.

—Sicchè,—diss'egli poscia, a mo' di conclusione, e alzandosi da sedere,—Ella non mi consiglia nulla.

Mon Dieu!—rispose quell'altro, stringendosi nelle spalle.—Non saprei….. Lasciate correre….

—O come? E se a mezzogiorno verranno i padrini?…

—Capisco… capisco… Ma qui su due piedi… Domandate parere al Ferrero;—conchiuse, come per liberarsi. È un giovinetto di ripieghi e saprà trovarvi il bandolo.

—Ma, come Le ho detto, signor conte, sono già stato da lui questa mane e mi ha ricusato il servizio.

—Come padrino, lo intendo; ma per darvi un consiglio…… Un consiglio non si nega mai ad un amico.—

Ariberti chinò la testa, e stretta la mano che il contino fu pronto a stendergli per accommiatarlo più presto, se ne andò via, maledicendo la sua stella, e quello sciocco vanaglorioso, che non voleva fargli servizio, nè mettersi un po' ne' suoi panni, per dargli un consiglio da amico.

Amico! Era un amico il contino? Sicuramente; uno di quegli amici da starnuti, che il più che se ne cava è un: Dio v'aiuti! E qui il nostro Ariberti incominciava dentro di sè un certo monologo sull'amicizia, che al petto suo quello famoso d'Amleto sull'essere e il non essere poteva andarsi a riporre.

Senonchè, tutti i monologhi del mondo avrebbero giovato poco nel caso di Ariberti. L'appuntamento era per le dodici; ed erano già scoccate le dieci.

Dal Ferrerò non voleva più andare. Anzi, a questo proposito, gli era venuto in mente di ritirarsi dalla collaborazione della Dora. Il sacrificio non era grande, per verità, perchè il giornale intisichiva a occhi veggenti e si potea prevedere che una settimana o l'altra avrebbe tirato il calcetto. Ma il colpo mulinato dall'Ariberti indicava il proposito di levarsi da quella compagnia di sciocchi invidiosi e pettegoli, che in un momento di bisogno lo lasciavano nelle peste.

Andare da Bertone? Ma a che farci? Quale utile consiglio avrebbe potuto dargli quel topo tettaiuolo? Ara diritto, non ti mettere negl'impicci, non andare a cercare il male come i medici, se vuoi viver tranquillo! Ma questo era il senno di poi, del quale son piene le fosse, come diceva il becchino, che era uomo da saperlo. Quanto a dargli una mano in quella sua necessità, Filippo non gli avrebbe servito a nulla.

Pensa e ripensa, cammin facendo, gli sovvenne d'un certo Tizio, capo scarico e accattabrighe per la pelle, col quale avea fatto conoscenza un mese addietro alla birreria di Valdocco. Il compare aveva preso una sbornia da non reggersi ritto; cionondimeno s'era attaccato con cinque o sei, che stavano seduti ad un tavolino lì presso, e che, lasciata la pazienza a Giobbe, s'erano messi a picchiarlo di santa ragione. Ariberti, che non lo conosceva punto, ma mosso da un sentimento di compassione, si era interposto, e usando le buone parole, aveva accomodato la cosa, portando via il furibondo, che voleva farli tutti a pezzi e bocconi. S'intende che i fumi della cervogia gli avevano dato al cervello. Difatti, come gli fu alquanto sbollita, conobbe il suo torto, ma più ancora il pericolo a cui s'era esposto, da solo contro un'intiera brigata, e giurò un'amicizia eterna al signor Ariberti, del cui nome, per altro, non poteva ancora pronunciare i due erre.

—Quello là (disse Ariberti tra sè, rammentando i saluti e gl'inchini che gli faceva il suo amico notturno ogni qual volta lo vedeva per via) quello là deve essere il mio uomo. Ma dove pescarlo, a quest'ora? Non so mica dove abita. Quella notte l'ho dovuto portare a casa mia, perchè della sua ci aveva smarrito il ricapito da un pezzo. Ma dopo tutto, non posso andare a chieder di lui nella birreria di Valdocco? Se è un avventore del negozio, come m'è parso, dovranno pure sapere dove ha il domicilio.

Gli parve quella una ispirazione del cielo, e se ne andò difilato alla birreria di Valdocco. Ma il padrone, che conosceva benissimo il signor Bonisconti (come si chiamava per l'appunto il compare), non ne conosceva del pari il ricapito. Per fortuna, all'udir la richiesta di Ariberti, saltò su una di quelle Erigoni, che nella birreria di Valdocco ministravano l'ambrosia di luppolo ai divoti. Costei sapeva tutto quanto mettesse conto al nostro eroe di sapere.

—Via di San Massimo;—diss'ella;—al numero 29, in fondo alla corte. Fatto il primo giro di scale, si prende per la scaletta a sinistra; secondo piano; non può sbagliare. C'è il campanello colla nappina rossa.—

Costei, come si vede, la sapeva lunga. E avrebbe potuto aggiunger dell'altro, se all'Ariberti fosse tornato utile di saperlo.

Ma l'Ariberti non avea più bisogno di nulla. Epperò, fatto un grazioso inchino al padrone e un altro alla ragazza, che glielo restituì con una occhiata assassina per la buona misura, se ne uscì dalla birreria, dopo aver bevuto pro forma una tazza di quel tristo succedaneo del vino.

Mezz'ora dopo, aveva trovato il Bonisconti, e, miracolo più strano a gran pezza, lo aveva fatto saltar giù dal letto, dove il suo conoscente pensava di schiacciare ancora un sonnellino di tre ore.

Il Bonisconti, per solito, si alzava all'alba dei mosconi; segno che andava a letto all'alba di tutti gli altri animali. Uscito di casa, e strofinatosi gli occhi un'ultima volta, si recava a bere il vermutte dal Cora; indi a meditar sotto i portici di piazza Castello e di Po, quando, s'intende, non ci fossero urgenti cagioni di alibì. Del resto, aveva buoni occhi, e i creditori li vedeva da lunge; anzi, pareva che li fiutasse, tanto era pronto a spulezzare alla prima cantonata. Pranzava, o, per dire più veramente, desinava alle cinque, lasciando che l'oste mettesse a libro, o tenesse in memoria. Fatto il suo chilo andava a teatro, dove, o per amicizia coll'impresario, o col primo attore, ci aveva sempre il passo libero, e pigliava le sue lezioni di storia, d'usi e costumi, dai maestri della ribalta, che egli pagava in fischi o in applausi, secondo l'umore. Dopo di che, sdrucciolava al caffè o alla birreria, dov'erano i suoi compagni d'oziosaggine. Si trincava, si cinguettava d'arte ed anche di filosofia trascendentale. Qualche volta, pensando ai debiti, si studiava sul sodo un disegno finanziario; e allora, veniva magari in campo l'idea d'una colonia italiana sul territorio dell'antica Cartagine. Ma i ricordi fenicii tiravano i cananei, e si finiva sempre a cercare qualche nuovo espediente per piantare un chiodo al popolo primogenito del Signore, dal cui seno uscivano i banchieri ordinarî della combriccola.

—Ella ha fatto bene, rivolgendosi a me;—disse il Bonisconti, poi ch'ebbe udito da capo a fondo la narrazione dello studente.—Non dubiti; ora andremo dal Priore e acconceremo quei signori pel dì delle feste. Ella non conosce il Priore? È un uomo che non vuol ciarle. Ha viaggiato sempre, conosce il globo terracqueo come la palma della sua mano e niente gli fa paura. Ha fatto il padrino in settantacinque duelli, due dei quali in America, da far rizzare i capegli, e i suoi propri non li conta nemmeno. È a Torino da un anno, con nostra soddisfazione grandissima, e lo sanno tutti una lama pericolosa; perciò nessuno ardisce toccarlo. Stia dunque di buon animo; il Priore ed io saremo i suoi padrini in questa faccenda, e i signori del matrimonio l'avranno a dire con noi.—

Ariberti respirò. Finalmente poteva farlo. Prima di allora, non aveva che ansimato.

Quando giunsero alla casa del Priore, questi era già uscito. Ma il Bonisconti era un buon cane da seguito e andava meravigliosamente sull'orma. Pochi minuti dopo, il Priore fu scovato, sull'uscio di una botteguccia da caffè; del quale uscio occupava tutto il vano coll'ampia travatura delle spalle.

—Eccolo là; vedete che pezzo d'uomo!—disse Bonisconti allo studente, con aria di compiacenza sublime.

Ariberti guardò, e vide un uomo sui quaranta, alto della persona e fieramente atteggiato. Portava la barba intiera, nerissima come i capegli, ma piuttosto rada sulle guance. Aveva occhi cilestri, che sarebbero stati belli, se non li avessero guastati certe palpebre vizze, rugose e livide, indizio certo di scioperate vigilie. Bello era il naso, diritto e sottile; ombreggiate da un paio di baffi morbidamente ricadenti sugli angoli, ma lì subito rialzati in due punte minacciose. Più notevole contrasto offriva la sua guardatura. Corrugava spesso le sopracciglia e rimaneva un tratto cogli occhi socchiusi; poi li riapriva d'un subito e il globo bianco perlato, sgusciandosi quasi dall'orbita, parea metter lampi.

La fronte del personaggio non si vedeva, coperta com'era dalla tesa di un cappellaccio alla brigantesca, orlato da un nastro di velluto nero. Il gran torace sporgeva in fuori, ma nascosto nelle vaste pieghe di una beduina, posta alla scapestrata sulle spalle, per modo che il cappuccio gli pendeva sull'omero destro e il lembo del mantello, rigirandosi intorno al collo, andava ad occuparne il posto sul tergo. Qual vestimento coprisse quella strana foggia di toga non era dato indovinare; bensì era lecito di argomentare un pomo rispettabile di bastone piombato, dalla punta di un nerbo di bove che appariva fuor dalle pieghe.

Il Priore era insomma un bel tipo, che a tutta prima attirava la curiosità, ma subito dopo comandava il rispetto alla maggior parte dei viandanti, gente che non voleva attaccar briga, e che doveva provare un certo rimescolo, vedendo lampeggiargli di sotto alle ciglia quei due occhi da spiritato.

Che cos'era il Priore? Un uomo di polso, o una caricatura? Un Don
Giovanni scaduto? Un Lara di bassa mano? Andiamo avanti e vedremo.

Costui all'appressarsi dei due giovani, trasse indietro la testa con un moto che doveva essergli famigliare e che lo faceva due cotanti più altero alla vista. Socchiuse gli occhi indi li spalancò, guardando l'Ariberti come se volesse passarlo fuor fuori; e frattanto, senza muoversi dalla sua superba postura, diede la mano al Bonisconti, borbottandogli un asciutto buon dì, coll'accento cupo di un primo attore, che si prepara a recitare l'Amleto, od altra parte di forza.

—Abbiamo del nuovo;—disse il Bonisconti, entrando subito in materia;—e si domanda il tuo valido appoggio. Prima di tutto, Tristano, lascia che io ti presenti Ariberto Ariberti, studente, poeta, spirito bollente ed avido di forti commozioni, che sarà quind'innanzi del refettorio. Non è vero?—

Ariberti non capiva molto; ma vedendo che la domanda era rivolta a lui, rispose subito con un cenno del capo. Con quella gente, e sotto il lampo di quelle olimpiche ciglia, come fare altrimenti?

—Di che si tratta?—domandò il Priore con voce studiatamente armonica e non senza un pochino di strascico, mentre stendeva la mano (dal disopra, s'intende, com'è usanza delle dame e degli alti personaggi) al giovine Ariberti, che fu sollecito a stringerla, con atto di riverenza divota.—-Ma intanto, beviamo qualche cosa. Posso offrirle un assenzio? O ama meglio una tazza di caffè?

—Grazie; prenderò l'assenzio;—rispose l'Ariberti, desideroso di mettersi subito all'altezza del personaggio.

—Ehi, bottega! Tre bicchieri all'assenzio!—ripigliò il Priore, volgendosi al tavoleggiante.—E adesso, la prego, si accomodi. Quanto a te, Bonisconti, non ti ho chiesto che cosa vuoi; ho indovinato i tuoi gusti.

—Non si può averli diversi da' tuoi, senza averli cattivi,—notò il
Bonisconti, da cortigiano finito.

Il Priore brontolò un paio di sillabe, che potevano essere un grazie, e andò a sedersi in un angolo, indicando cortesemente all'Ariberti di mettersi alla sua destra.

—E così? Veniamo al quia.

—Ecco;—entrò a dire il Bonisconti, mettendosi a cavalcioni su di una sedia rivoltata davanti a loro.—-Parlo io, per farla più breve.—

E raccontò in modo sbrigativo l'occorso, esponendo da ultimo il bisogno di ricordare che questi gli aveva fatto servizio una sera, alla birreria di Valdocco, difendendolo da una brigata di malintenzionati, mentre era in cimberli, e lì lì per soccombere.

—Veramente,—disse il Priore, mentre colla massima gravità facea sgocciolare dalla boccia di cristallo un fil d'acqua nella sua verde bevanda,—veramente, è sempre stato mio costume di non servir da padrino che agli amici intrinseci, o a coloro che fanno vita con me. Nelle quistioni io c'entro un pochino, come suol dirsi, cogli stivali, e non vo' uscirne senza una buona misura di sangue. Tanto peggio per chi ci si mette, senza esserci preparato. Donde la necessità che i miei clienti siano uomini provati ed amici. Ma Ella,—soggiunse con grazia,—se non è amico mio, può diventarlo. E quanto all'essere uomo provato, mi basta che abbia fatto servizio a Bonisconti… che è un buon saracino.—

Bonisconti s'inchinò, com'era debito suo. Sentirsi dare di buon saracino dal Priore era il massimo degli onori a cui potesse aspirare uno del refettorio.

—Or dunque,—ripigliò Tristano,—per che ora è l'appuntamento?

—Per le dodici.

—E che ore sono adesso?—

Bonisconti fece l'atto di guardare l'orologio; ma non lo aveva.

—Vedi che testa!—esclamò facendo bocca da ridere.—Nella furia del vestirmi l'ho dimenticato…

—Dove? al monte di Pietà?—chiese il Priore, ridendo per davvero.—Non ti vergognare, Bonisconti. È la fine di tutti gli orologi. Del resto, non son buoni ad altro. Si comprano per vezzo e si tengono come una valuta portatile, da cambiarsi alla prima necessità.—

L'amico scorbacchiato, quantunque di mala voglia, pure atteggiò le labbra ad un sorriso.

—-Sono le undici e un quarto;—diceva frattanto l'Ariberti, tutto confuso per aver dovuto cavar fuori il suo orologio.

La confusione veniva da questo, che lo studente avea un bell'orologio da tasca, raccomandato ad una lunga catena, un po' troppo vistosa, se vogliamo, e alquanto provincialesca, ma pur sempre d'oro massiccio; la qual cosa non dovrebbe guastar mai, ma che a lui, lì per lì, sembrava uno sfoggio asiatico e quasi insolente, al cospetto di quei due valentuomini che dovevano salvarlo da una brutta figura.

Per altro, s'ingannava a partito. Il Priore era un uomo che non faceva nulla a caso, e meditava sempre gli effetti che doveva ottenere.

—Vediamo se il suo va bene;—diss'egli.

E sollevato con un gesto regale il lembo del mantello, cavò dal taschino uno stupendo cronometro d'oro, di cui fece saltare il coperchio, per confrontare la sua mostra con quella d'Ariberti. Il quale, nell'atto di accostare il suo all'orologio del Priore, potè scorgere che il coperchio del cronometro era attorniato da un cerchietto di piccoli diamanti.

—Bello!—gridò egli, non potendo trattenere la sua ammirazione.

—Ah sì!—disse il Priore, accompagnando la frase con un sospiro.—È un ultimo ricordo di tempi felici. Ero infatti un uomo felice, quando militavo, sempre capitano di cavalleria, nell'esercito del raià di Lahore.

—E come hai potuto lasciare il servizio?—dimandò Bonisconti, che gli dava amichevolmente la battuta.

—Non ne parliamo! Anco i re sono uomini ed hanno diritto di esser gelosi;—sentenziò Tristano, rannuvolandosi.—Per altro, bisognerebbe che fossero uomini del tutto, e si potesse qualche volta giuocarsela anche con loro. Ma via, lasciamo questi discorsi, e andiamo piuttosto al ritrovo. Ella è pronta a scendere sul terreno?

—-Sicuramente! Posto tra le due corna del dilemma…

—-Preferisce il secondo corno. Ha ragione. E l'arma?

—Non so maneggiarne di nessuna specie.

—Bene!—esclamò il Priore colla medesima facilità con cui il contino
Candidi aveva detto: «male!»—Ella si batterà dunque alla pistola.

—Vada per la pistola!—rispose Ariberti, che ormai si vedeva in ballo.—Io sono nelle loro mani.

—Non dubiti; con noi farà sempre buona figura;—entrò a dire Bonisconti.—Andiamo dunque al caffè dell'Aquila, a sentire questi due messaggieri del signor Forniglia. Ella c'indicherà i loro rispettabili grugnì.

—Ci presenterà come suoi padrini,—soggiunse il Priore, per metter le cose nei giusti termini,—e ci lascierà subito. Verremo poi a cercarla sotto i portici di piazza Castello, per informarla dell'esito del nostro colloquio.—

Erano le dodici in punto, quando i tre compagni giunsero davanti al caffè dell'Aquila, dove era fissato il ritrovo. L'Ariberti entrò, diede un'occhiata nella sala, ma non vide i due che cercava.

—Sta a vedere che non si presenta nessuno!—disse il Bonisconti, veduto che i due compari non c'erano.

A quella supposizione del padrino, l'Ariberti si sentì allargare il cuore. Noto il fatto, anche a risico di abbassare un tantino il mio giovine eroe. Dopo tutto, un piccolo atto di debolezza non è così grave peccato da non meritare l'assoluzione. A quanti giovani soldati, il primo giorno di combattimento, non avvenne di salutare le palle con un moto involontario del capo? Sono piccolezze che non provano nulla. Quanto al mio Ariberti, debbo soggiungere che egli si pentì subito di quel suo moto d'allegrezza, e che ne fece buona testimonianza ai compagni.

—In verità, mi rincrescerebbe,—diss'egli, quantunque un po' tardi;—tanto più ora che ho incomodato due persone come loro.

—Che! Non vorrebbe dir nulla;—rispose il Priore

—Del resto, sono anch'io della sua opinione; queste faccende, una volta cominciate, mi piace finirle e scriverci sopra il motto di Mosca Lamberti.—

Mentre si facevano queste chiacchiere e il mezzogiorno era passato da un bel poco, Ariberti, che stava sempre alle vedette, si spiccò dai compagni e andò oltre due o tre passi sotto il porticato. Egli aveva veduto spuntare da lunge i due padrini del Forniglia.

Erano due così smilzi e male in arnese, che non mette conto descrivere. Il meno sciatto portava un cappello a tuba, inclinato sulle ventitrè ore. L'altro, più modesto, copriva la fronte con uno di quei cappellacci col cocuzzolo basso e tondo, che il volgo toscano chiama pioppini, per la somiglianzà che hanno coi funghi del medesimo nome.

—Eccoci qua;—disse quel della tuba, piantandosi davanti al nostro
Ariberti e facendo cipiglio;—che risposta intende Ella di darci?—

Lo studente sorrise con tutto quel garbo che seppe, e voltandosi sul fianco indicò i due compagni, che quell'altro non aveva a prima giunta veduti.

—Ecco gli amici miei;—soggiunse egli, arrossendo come una fanciulla, ma non senza un principio di dignità virile nell'accento;—vogliano intendersela con loro. Sono i miei padrini ed hanno pieni poteri.—

Quella risposta giunse inaspettata ai due nuovi venuti, che si volsero stupefatti a guardare i loro avversarii. Si argomentavano di poter sopraffare quel povero ragazzo, di metterlo, come suol dirsi, tra l'uscio e il muro; e in quella vece, si vedevano a fronte due uomini, uno dei quali, alla presenza poderosa e alla guardatura superba, pareva dovesse bastare per tutti.

—I signori…—balbettò confuso il primo che aveva parlato, recando macchinalmente la mano alla tuba.

—Tristano Falzoni;—entrò a dire gravemente il Priore, continuando la frase;—e questi è il mio collega, signor Giorgio Bonisconti; ambidue ai loro riveriti comandi.—

Quei due non ebbero nemmeno la presenza d'animo di mettere fuori i loro nomi. Stettero muti come due pesci, facendo istintivamente un inchino.

—Vogliano entrare!—disse Tristano, col piglio di un comandante in piazza d'armi.—Parleremo con più agio là dentro. Signor Ariberti, la ringraziamo da capo dell'onore che ci fa, mettendo l'onor suo nelle nostre mani. Ella sarà servita come desidera; si fidi di noi e si degni di aspettarci qualche minuto.—

Ariberti, tutto confuso da quella cerimoniosa solennità del Priore, strinse la mano a lui e al Bonisconti. Indi, salutati con un grazioso inchino i due padrini avversarii, si allontanò con passo leggiero dal caffè dell'Aquila.

Con passo leggiero, sì; ma dentro del cuore il nostro eroe sentiva qualche cosa che non era allegrezza. A dirvela chiaramente, ci aveva dentro di sè una sensazione di vuoto, che i medici avrebbero spiegato come la conseguenza di una soverchia tensione di nervi, i filosofi, come un torpore delle facoltà mentali, e i gastronomi come il bisogno di una costoletta e d'un bicchiere di vecchio Borgogna: ma che io, profano alle scienze, non mi attenterò di indagare, contentandomi di raccontarvi che questo indefinibile stato dell'animo suo non gli consentiva di pensare a nulla, di fermarsi su nulla. Era quello un momento d'incertezza per lui, come una lunga battuta d'aspetto nella sua vita. E invero, a che cosa avrebbe egli utilmente pensato, se quella impresa che si stava deliberando per lui tra i quattro padrini, poteva mandare a vuoto ogni proposito, ogni disegno suo, ed anco interrompere il filo della sua giovine vita?

Andava innanzi, muovendo le gambe e gli occhi a guisa d'automa, cansando i viandanti per virtù d'abitudine, vedendo intorno a sè, e non considerando ciò che vedeva. Gli passavano da fianco le contegnose dame e le frettolose pedine; ma egli non dava più loro quella rapida occhiata che conforta il senso estetico e ci fa dire tra noi: ecco una bella capigliatura, un bel piede, una graziosa curva di spalle. Fu un istante tra gli altri che il pensiero gli corse a Dogliani, a suo padre, a sua madre, alle sue tranquille gioie domestiche, e lo assalse un brivido e gli passò l'anima la punta acuta di un rimorso. Cercò allora di scuotersi, di scacciare da sè quel tenero e molesto pensiero, e si fermò davanti alla mostra di un libraio, per vedere alcune stampe che attiravano la curiosità dei viandanti. Ma aveva un bel guardare; non intendeva nulla di nulla.

Si mosse di nuovo, per andare verso piazza Castello. E appunto allora i suoi occhi caddero su d'una figura di donna, che scendeva verso la sua parte, con quel passo nè frettoloso nè tardo che distingue la gran dama, più ancora che non facciano lo sfarzo e l'eleganza degli abiti.

I contorni della persona, l'andatura, il portamento del capo, destarono l'attenzione del giovane e gli fecero battere il cuore. Forse lei? Sì, certo, ancora due passi e non v'era più dubbio per Ariberti; era lei, la marchesa di San Ginesio che veniva alla sua volta. Un velo di pizzo nero le scendeva sul viso, ma senza nasconderne la maravigliosa bellezza.

Tremò a quella vista, arrossì, e volle tornare indietro. Ma la dama si avvicinava sempre più e non gli venne fatto di uscirsene a quel modo; era affascinato, attratto verso di lei. Poco stante si sentì come travolto in quell'onda di arcani effluvi che emana da una donna amata, a cui ci troviamo per la prima volta vicini. La marchesa passava, leggiera e composta negli atti, daccanto al giovine innamorato, che in quel momento si sentì ribollire nel profondo tutti gli assopiti ardori, tutti i desideri di prima. E proprio in quel momento gli parve che gli occhi della marchesa fossero volti su lui. La cosa non aveva niente di strano. Neanche alla dama più contegnosa del mondo è dato di passare per via, senza che il suo sguardo s'incontri mai nello sguardo di qualcheduno tra i viandanti che l'ammirano. Ma dopo tutto, lo aveva essa guardato davvero? Pensandoci bene, Ariberti non avrebbe potuto giurarlo, perchè egli in quel punto medesimo aveva abbassato timidamente le ciglia.

Ben gli diè l'animo di voltarsi a guardarla, dopo pochi istanti che era passata; che anzi e' l'avrebbe volentieri pedinata un tratto, ad una rispettosa distanza, per non dar nell'occhio alla gente, e vedere intanto se gli riusciva di sapere ove ella abitasse. Ho già detto che Ariberti, riguardoso in ciò come tutti gli innamorati di primo pelo, non aveva ardito mai di domandarne ad alcuno. Nè poteva scoprirlo da sè, all'uscir di teatro, perchè la marchesa saliva in carrozza, e via; di guisa che a lui non restava altra speranza che quella di incontrar la signora in istrada e di seguirla da lunge.

Quello era dunque il buon punto. La marchesa era uscita di certo per fare qualcuna di quelle compere eleganti, che non si commettono a un servitore, o ad una cameriera. Poteva darsi che ci fosse la vettura ad aspettarla ad una svolta di strada, e poteva anche darsi che non ci fosse. In questo caso, egli avrebbe potuto sapere finalmente il fatto suo, tenendole dietro con molta circospezione ed altrettanta pazienza.

Ma in quella che il giovinetto era li per colorire il suo disegno, gli venne alla mente il ritrovo coi due padrini. Egli non era più libero; era in balìa di quei signori, che avevano stabilito la sua sorte e che forse allora si muovevano per andarlo a cercare sotto i portici di piazza Castello.

Vedete un po' che disdetta! Proprio in quel momento; proprio la prima volta che gli era dato di vedere la marchesa a piedi per le vie di Torino! E per chi, poi, quella noia? Per chi, quel duello imbastito? Per una femminuccia, pigliata in mal punto a proteggere. Ariberti si vergognò della sua debolezza; là, alla luce del giorno, in quel luogo per dove era passata pur dianzi la regina de' suoi pensieri, e dove gli sembrava di respirarne ancora le soavi fragranze, il ricordo di Giuseppina Giumella gli destava un senso di ribrezzo per tutte le fibre: sto per dire che gli muoveva lo stomaco.

Infastidito, pigliò l'abbrivo verso piazza Castello. Se in quel punto gli fosse venuto dinanzi quel figuro di Forniglia, gli si sarebbe avventato alla gola come un mastino rabbioso, tanta era la stizza che lo divorava. Figuratevi dunque con che grido di giubilo egli, poc'anzi così abbattuto, accogliesse le parole del Priore, venuto ad annunziargli che era deliberato lo scontro.

CAPITOLO VII.

Qui si contano alcune belle particolarità del Priore Tristano e de' suoi Cavalieri di Malta.

—Li abbiamo messi colle spalle al muro;—-disse Tristano.—Erano venuti per sonare e furono sonati. Lo scontro è stabilito per domattina alle otto; abbiamo scelto la pistola; dodici passi di distanza, che è il minimo della misura legale; tirare fino a tanto che uno rimanga ferito.

—Grazie!—rispose Ariberti convulso.—È quello che volevo.—

E strinse la mano ai due valentuomini, che gli avevano fatto quel grande servizio.

—Dove pranza oggi?—gli chiese poscia il Priore.

—Con loro, se accettano il mio povero invito.

—Grazie; sarà per un'altra volta. Quest'oggi è lei che dovrà accettare un pranzetto da noi. Non dimentichi che fino a domattina, e a guerra finita, Ella ci deve obbedienza cieca.

—Padroni, padroni!—sentenziò Bonisconti, con breviloquenza spartana.

Ariberti non seppe che cosa rispondere ad una argomentazione così perentoria e fece quel cenno del capo che comunemente vuol dire: son vinto.

Passeggiarono un'oretta, discorrendo di cento cose, sotto i portici di Po; ma senza che al povero Ariberti venisse fatto di rivedere la marchesa. Vide in quella vece il Ferrero, quella brutta copia di Pilato, e fece vendetta allegra del suo abbandono di quella mattina, gittandogli un saluto per carità, come si getta un soldo nella scodella d'un cieco.

—Guarda con che gente son io,—voleva dire quel saluto a fior di labbro,—e crepa dalla bile.—

Difatti, il Priore, a cui Ferrero diede una sbirciatina curiosa, era un uomo da tirare a sè gli occhi della gente. Chiunque egli fosse, il suo aspetto non era d'uomo volgare.

La sua conversazione, poi, era piacevolissima. Figuratevi un misto di letterario e di cavalieresco, di allegro e di drammatico, di marinaresco e d'erotico, di traffico e d'avventure, di reticenze e di amplificazioni; insomma, un vero caleidoscopio, che co' suoi rapidi e frequenti trapassi vi facea rimanere abbagliati. Parlava spesso d'Oriente, ma senza caricatura, citando a caso, e secondo portava il discorso, le sue memorie di viaggio. A vicenda soldato, cacciatore e mercante, aveva girato l'India, da Ceylan alle falde dell'Imalaia e gli era famigliare la caccia del tigre; anzi, a questo proposito avrebbe potuto mostrare una larga cicatrice sul fianco, dove gli avevano fatto uno strappo maledetto gli unghioni della belva, aggrappatasi d'un balzo all'arcione, mentr'egli si campava da una morte sicura, scaricandole la pistola a bruciapelo nella testa. Per altro, svolgendosi un tratto dal collo il lembo della sua beduina, potea far vedere uno di quegli unghioni, lucente trofeo incastonato in una spilla d'oro, che gli ornava il nodo della cravatta…..

Quasi sarebbe inutile il dire che conosceva le vie di Costantinopoli e del Cairo, come quelle di Torino, e che aveva pellegrinato, quantunque senza fede, alla Mecca. Noterò, pei dilettanti di cose strane, che aveva fumato nei loro luoghi naturali l'oppio e l'hatschisch, masticata la radice del betel nella patria di Antar, e profumata la barba colle soavi fragranze della schnuda di Tunisi. De' suoi viaggi in America ha già toccato brevemente l'amico suo Bonisconti. Aggiungerò che poteva parlare con piena cognizione di causa della vita randagia, che si fa nelle pampas di Cordova, e delle preziose pagliuole che si cercano avidamente tra le sabbie dell'Eldorado.

Tirato sul proposito di questi suoi viaggi arrangolati in tutte le parti del mondo, il Priore soleva dire scherzando:

—Di grazia, signori miei, che cosa fate voi altri quando vi recate ad abitare una casa nuova? E vi è mai accaduto di andarvene senza averne veduta ogni camera, ogni angolo ed ogni bugigattolo? Orbene, anche io ho deliberato di non intonare il Nunc dimittis senza aver dato prima una scorsa a tutto questo nostro domicilio sublunare.

Come poi questo bizzarro personaggio fosse venuto a dar fondo in Torino e ci vivesse da un anno, senza desiderio di mutar aria, quantunque non ci avesse occupazione di sorte, io veramente non saprei dire ai lettori. Forse è da rammentare, a questo proposito, che la vita ha i suoi punti di riposo, come l'Oceano ha i suoi mari di sargasso, dove le correnti non entrano e dove si resta così facilmente impigliati, a far vita coll'alghe e coi granchi.

Si diceva bensì da taluno che il Priore avesse tentato e non disperasse ancora di entrar nelle file dell'esercito, ma che nuocesse a questo disegno suo nei consigli del governo l'esser egli nativo di Malta e suddito inglese per conseguenza. Altri pensava che la difficoltà derivasse dal non aver egli brevetto di un governo conosciuto, poichè difatti il suo grado di capitano egli lo ripeteva da un principe indiano, poco o punto tributario della graziosa regina Vittoria.

Comunque fosse, il nostro Maltese, cittadino del mondo, tirava innanzi facendo una vita che poteva dirsi un quid medium tra quella del signore e quella del pezzente, spendendo largo quando ne aveva e vivacchiando il resto alla ventura. E qui bisogna soggiungere, che egli ne aveva quando gliene mandava la famiglia; perchè a Malta vivevano trafficando i fratelli ed un vecchio zio, creduto da molti la provvidenza di questo cavalier vagabondo.

Bonisconti, che era un pochino il suo profeta, commentando un certo discorso misterioso che veniva fuori di tanto in tanto, e a brandelli, diceva sottovoce ai più fidi che una principessa indiana (egli non sapeva poi se la principessa madre, o principessa consorte) si era invaghita anni addietro del vistoso capitano di cavalleria, e che era per l'appunto costei che a dati intervalli mandava i rinforzi al Priore, togliendogli dal suo bravo spillatico.

L'esser pagato Tristano presso un banchiere inglese, sopra rimesse di Malta, lasciava adito alla seconda supposizione come alla prima. Tutto sommato, oggi ricco e domani povero, spensierato sempre, era un misto di gran signore e di sciamannato, di cavaliere e di avventuriero, come quel famoso Trelawnay, amico di lord Byron, a cui simili tipi davano tanto nel genio.

Le cinque erano presso a suonare, quando i tre peripatetici si avviarono al refettorio. Il refettorio (rammenteranno i lettori che questo nome è già venuto in ballo una volta) non era in un luogo determinato, ma oggi qua, domani là, secondo i casi e gli umori. Per quei giorni esso era in una sala a pianterreno dell'osteria del Mago, nei pressi di Vanchiglia. Il Mago era il soprannome dell'oste, passato per estensione alla taverna, quantunque nell'insegna la si chiamasse della Fenice. Ma già, la Fenice!…. «Che vi sia, ciascun lo dice; dove sia nessun lo sa». E all'osteria del Mago non si trovava, di certo; neanche dipinta, poichè da un pezzo le intemperie avevano cancellato lo sgorbio.

Si radunavano in quel luogo altri tipi della medesima specie; uomini in cerca d'uno stato sociale, come il Gerolamo Paturot di Luigi Reybaud, giornalisti a spasso, capitani senza soldati, autori senza editore, studenti senza iscrizione, marchesi senza marchesato e conti senza contea, indebitati fino agli occhi, nemici della società in generale e della stirpe di Giacobbe in particolare; per altro, tutti persone a modo, intinti, inverniciati, infarinati di scienze, d'arte, di cavalleria e di tutto quel che volete. Amavano dirsi gentiluomini; avevano il punto d'onore sulle dita; nel loro seno si reclutavano i padrini di quasi tutti i duelli; anzi, non occorreva uno scontro sul terreno che essi non ci avessero mano, vuoi come primi, o come secondi, o come invitati a dare il loro riverito parere. Per questo rispetto s'erano buscati il nome di compagnia della buona morte; ma s'intende che nessuno si pigliava il fastidio di andarglielo a dire sulla faccia. Eglino, invece, dopo l'acquisto di Tristano, che era divenuto per tacito consenso il loro capo, si chiamavano per celia i cavalieri di Malta. Non si vedevano più insieme sugli spaldi a combattere il Turco infedele; si vedevano per altro in refettorio a distrugger bistecche, e il loro Gran Maestro si era perciò rassegnato al più modesto ufficio di priore.

Contuttociò, Tristano Falzoni regnava senza contrasto su tutti. Nessuna autorità al mondo fu più facilmente accettata, nè più divotamente obbedita della sua. Alla guisa di tutti gl'imperatori venuti su dal suffragio delle plebi, armate od inermi che fossero, egli ripeteva la sua potestà da quell'impasto fortunato di virtù, di vizi, d'audacia e di condiscendenza, che fa dire ai beatissimi sudditi: non è un uomo diverso da noi che ci comanda; siamo noi, compendiati, rappresentati in quell'uomo, fatto ad immagine nostra.

La sala era già piena quando il Priore comparve sulla soglia. Alla sua vista, i quindici o venti, che già sedevano a mensa, urlarono un triplice evviva, a cui egli rispose col più amabile de' suoi sorrisi e con un placido gesto che consigliava gli amici a star cheti. Il gesto e il sorriso, non accompagnati da alcuna di quelle frasi in cui si esprime così felicemente la chiassosa dimestichezza, quando ella si mette, sto per dire, in maniche di camicia, persuasero ai compagni che quello era giorno di alta diplomazia e che il Priore voleva stare in contegno.

Nè stettero molto ad intendere la ragione; che era, come i lettori avranno già indovinato, la presenza di Ariberti. Dietro al Priore e innanzi di Bonisconti videro diffatti inoltrarsi quel giovinetto, dal viso bianco e di gentili fattezze, snello, di capel nero, insomma un bel ragazzo, sebbene un po' stonato là dentro, colla sua aria da collegiale.

La gazzarra si chetò ad un tratto, e ripigliarono in quella vece i discorsi sommessi.

—Ecco un neofita!

—Chi sarà mai?

—To', un uccello che esce dal nido e vuole provarsi a volare.

—Purchè abbia penne!

—Che importa? Di questo si occuperà mastro Levi, figlio di Ruben, della tribù di Manasse. Io non gli domando che una cosa, d'essere un buon figliuolo e di bere volentieri.

—Son due, di cose.

—Tira via; non ne fanno che una.—

Intanto che si facevano queste chiacchiere, il Priore andava difilato ad una tavola meno occupata delle altre, che era in fondo alla sala. Il refettorio non era già messo in quell'ordine che usano i frati; non ci si vedeva la mensa a ferro di cavallo, nè la tavola bislunga della Cena Domini; bensì cinque o sei tavole di svariate dimensioni che si andavano occupando man mano, secondo la consuetudine o il capriccio degli avventori. I fortunati a cui Tristano si faceva commensale, gli strinsero la mano, si tirarono in dietro quanto bastava per lasciar libero il posto di tre, e n'ebbero in cambio la presentazione del signor Ariberto Ariberti, studente di legge, giovine di grande ingegno, del quale si sarebbe potuto «far molto».

—Corbezzole!—esclamò uno dei più lontani (anzi, a dir vero, non si espresse proprio in tal guisa; ma una esclamazione ci fu).—Se non è Dante, è Virgilio di certo.

—Sta zitto!—rispose un altro.—Quando Tristano parla così, ci ha sempre le sue buone ragioni.—

Dati i suoi ordini all'oste, ma non senza aver prima cercato di accordarli coi desiderii del suo convitato, Tristano presentò più intimamente il giovinetto al suo vicino di tavola.

—A voi, Luciano Valerga; vi presento nel signor Ariberti un collega, anzi un fratello in Apolline.

—Ariberti!….—ripetè quell'altro, alzando la fronte e socchiudendo gli occhi, in atto di cercar alcun chè nei ripostigli della memoria.—Aspettate, Tristano; rammento benissimo il nome del signore e mi sembra di aver letto già qualche cosa di suo… Ma sì, ma sì, sul giornale La Dora. Graziosissimi versi, e glie ne faccio i miei complimenti, quantunque io li abbia letti stampati su d'un giornale molto scipito. Scusi, sa; qui si dice pane al pane, e non la si perdona nemmeno tra fratelli.

—-Oh, dica pure liberamente;—rispose il giovinetto arrossendo.—Io già ho intenzione di ritirarmi da quel giornale… scritto in due lingue! È un giornale di due facce, come certi signori che ci hanno mano, e la cosa non mi va.

—Bravo! Me ne rallegro con Lei. Venga nella nostra compagnia; la scuola è più sana; accetta il pensiero da qualunque parte le venga, ma nella forma non ammette ibridismo.

—Scrivono un giornale?—chiese candidamente Ariberti.

—No, ce ne guardi il cielo.—Scrivere! che, le pare?

—C'è troppa fatica;—notò sorridendo Tristano.

—Sicuro; e perchè farla? Del resto, gl'insegnamenti più efficaci non sono mica gli scritti. Vedete Socrate; non ha mai messo in carta una riga di suo.

—Ma parlava,—soggiunse un altro;—ed io abolirei anche l'insegnamento parlato, che qualche volta fa ber troppo amaro.

—Non mi dispiace il concetto,—ripigliò Luciano Valerga.—Ammettiamo la chiacchiera, che è stata fin da principio, come dice l'evangelista, ma aboliamo il discorso. Che c'è di più bello in arte di ciò che si pensa a caso, e che si vede pigliar forma davanti agli occhi della fantasia? Le nostre membra in ogni esercizio si addestrano; anche la fantasia, se la farete lavorare, vi diverrà due tanti più agile. Qual dramma sarà mai più commovente, più profondo, più splendido, di quello che si agiterà nel vostro cervello? Qual poema riuscirà più grandioso e più vario di quello che si svolgerà dai globi di fumo mandati fuori dalla vostra pipa di spuma di mare? Il Bosforo a lume di luna, le odalische mollemente adagiate sui divani del Serraglio, il Canal grande e le sue gondole che guizzano chetamente nell'ombra, come belle peccatoci ravvolte nella nera mantiglia, le cattedrali coi loro marmi lavorati di traforo come tanti merletti, le pagode lucenti di porcellana, le piramidi immani, le sfingi, le chimere, il Lago d'asfalto, i sotterranei d'Ellora, il baratro d'una coscienza, eccovi un mondo di errori sublimi, che ognuno può evocare e godersi da sè.

—Ma tu che ammiri lord Byron,—replicò l'antagonista di Luciano Valerga,—come accordi la tua teorica col fatto suo? Il tuo poeta ha scritto i suoi poemi e i suoi drammi.

—L'obiezione non regge,—disse Luciano, in quella che stava cercando una gretola.—Lord Byron non ha mai scritto nulla, nel modo che intendi tu.

—Oh diamine! E le ghinee di Murray?

—Vedrete,—soggiunse un altro,—che Luciano vi nega anche l'esistenza delle ghinee.

—Difatti, trovatemene una, se vi riesce;—gridò con aria di trionfo il Valerga.

Ma esistono i poemi, esistono i drammi di Byron, e tu ne fai il tuo pasto quotidiano, s'intende, dopo le bistecche del Mago.

—Lasciatemi finire. Ho premesso che egli non ha mai scritto nulla nel modo che intendete voi altri lo scrivere. Ecco qua; io so il fatto da buona sorgente, dalla figlia della governante che ebbe il mio poeta a Venezia. Il padrone, come sapete, passava le intiere giornate nuotando, cavalcando, fantasticando, eccetera; anzi, mettete qui molti eccetera, quanti bastano per farlo giungere all'ora del sonno. Si svegliava la mattina assai tardi, com'è debito di ogni uomo che pensa; e quando si svegliava sapete voi cosa trovava sullo scrittoio? I suoi quaderni di carta scombiccherati da capo a fondo, con quelle centinaia di versi divini che Murray pagava una ghinea l'uno, o venticinque lire e qualche centesimo che non conosco esattamente il ragguaglio della moneta.

—Benissimo; e perchè allora non fai il sonnambulo anche tu e non scombiccheri i tuoi quaderni nell'ora del sonno?

—Sì, eh? Trovami un Pomba o un Fontana, che mi paghi il verso in ragione di venti lire (vedi che sono discreto) e dammi pure del furfante, se ogni mattina non trovi sullo scrittoio un centinaio di versi… ed anche degni di Dante.

Luciano Valerga poteva promettere, a quei patti, di superare anche
Omero.

—Mi faresti venire la voglia di essere un Rothschild, per tentare la prova;—entrò a dire Tristano, sorridendo di quell'olimpico sorriso che ben si addiceva alla sua sovranità.

—Ma non lo sei, e la voglia non ti verrà mai;—riprese il Valerga—e nemmeno io scriverò i miei poemi per questo popolo guitto di editori e di lettori. Del resto—proseguì con accento più grave,—ho detto Dante per modo di dire. Oramai, ci vorrebbe del nuovo. Dante lo fu pel suo tempo, e in guisa mirabile, stupenda; ma, per sostenersi a quel paragone, oggi bisogna far altro. Allora il poeta poteva rimanere nel vero, andando nell'inferno, nel purgatorio e nel paradiso, perchè la leggenda aveva corso in piazza; ai dì nostri il poeta ha da cercare il meraviglioso nella natura, ha da scoprire nella vita umana tutto il grande che i vecchi erano andati a limosinare di fuori. Byron, che fu un genio, ha intraveduto la fonte della nuova poesia nell'uomo interiore e negli aspetti varii del mondo, visitato, esplorato da lui con ansia febbrile. Ma l'ansia lo ha tradito; egli non ha veduto che poca parte, e solo la superficie del mondo; dell'uomo, poi, non ha indovinato che certe forme eccezionali, grandiose, perchè colorite dal suo ingegno possente, ma monche, senza i contorni del vero, perchè egli, le traeva dalla sua mente e l'uomo non era stato in azione davanti al pittore.—

Ariberti era tutt'orecchi a quella infilzata di giudizi arbitrarii, che gli parevano lì per lì le cose più vere e più profondamente pensate del mondo. Intanto il Valerga, che aveva preso l'aire, continuava, tra un boccone e l'altro, le sue dotte divagazioni.

—La natura è stata meglio veduta dal Goethe, che pure ha viaggiato meno del suo grand'emulo inglese. I suoi uomini, per altro, estrinsecamente più veri, sono più fiacchi, hanno meno passioni, meno contrasti. Ora la vita è nel contrasto, come il genio è nell'antitesi. Bisognerà fondere questi due poeti in un solo e avremo il poeta dell'avvenire, colui che potrà cantare la guerra e la vittoria dell'uomo colla natura, e la sua guerra e la sua sconfitta col nulla immenso. Son qui le antitesi; son qui le fonti della nuova poesia. Forse, chi sa? c'è ancora del sovrannaturale nel mondo; ma d'una forma diversa dall'antica. Ricordo a questo proposito che i giapponesi credono all'immortalità dell'anima; sissignori, ma in un modo diverso dai nostri vecchi barbogi.

—O come, in un modo diverso?—dimandò uno dei soliti contradditori.—O credono, o non credono, e non c'è divario che tenga.

—Adagio, Biagio! Ci credono, ma solamente per le anime perfezionate. E dopo tutto, non c'è niente di strano. Si nasce ignoranti e si muor dotti, non è egli vero? Dunque non c'è niente che cozzi colla nostra intelligenza nella ipotesi scientifica di un'anima perfettibile. Ora, i miei giapponesi, che hanno trovato già la perfezione nelle loro porcellane e nel modo di inverniciarle, credono che l'anima, quando abbia raggiunto quel grado di perfezione che ho detto, non sia più destinata a perire. Così stando le cose, l'immortalità non sarebbe più un premio dato a casaccio agli uomini grandi e ai poveri di spirito, ma la conseguenza logica di un raffinamento, recato alla sua ultima potenza. Il che, giusta le norme della giustizia distributiva, mi pare assai ragionevole, o per lo meno ben trovato e tale da onorare in faccia al mondo la filosofia del Giappone.

—Che pensi tu dell'anima di un creditore?

A questa domanda, uscita dal fondo della sala, scoppiò una risata universale.

Luciano Valerga aggrottò le ciglia, e con quell'aria di mistero che assumono i confidenti di tragedia quando vanno a dare un'occhiata dietro alle quinte, domandò:

—-C'è un creditore tra noi?

—Perchè?—gridarono molte voci in coro.

—Per pregarlo ad uscire;—-rispose gravemente Luciano.—È legge di cortesia rispettare i presenti.

—Tira, via, non c'è pericolo. Sei qui in mezzo a debitori morosi e della più bell'acqua del mondo.

—Or bene,—ripigliò allora il Valerga,—sappiatelo; i creditori…. non hanno anima.

—Bella scoperta! È vecchia più di Matusalem.

—Sì; ma c'è di peggio.

—Che cosa?

—Che questa…. Ma badate, rimanga un segreto tra noi!… che questa è l'unica differenza di rilievo tra i creditori e i bottoni.—

Le risate ripigliarono più mattamente di prima. Si era alle frutte, e l'allegria, insieme ai fumi del vino, vaporava dai cervelli al trono dell'Onnipotente, ma trovando per via i casigliani del pian di sopra ai quali non doveva tornar troppo piacevole quella posizione intermedia.

Era diffatti un chiasso indemoniato, se ne dicevano di tutti i colori; si confondevano le più astruse teoriche colle più libere celie, i più alti nomi coi più volgari pettegolezzi, e chi non ci era avvezzo, aveva a restarne intronato. Figuratevi Ariberti, il giovane studente, uccello a mala pena uscito dal nido, e cascato di botto in quella baraonda! Egli cadeva, come suol dirsi, dalle nuvole, non si raccapezzava più in quel mondo nuovo per lui, dove tutti i commensali, gente non mai veduta fino a quel giorno, gli parevano uomini più grandi del vero.

Girato il discorso sui debiti, si citarono i più colossali di cui si onorasse la brigata. Un Tizio, bel giovane, titolato, notevole per la gravità con cui diceva le cose più sgangherate, aveva già divorate due eredità a ventitrè anni, e sopportava ancora cento sessanta mila lire di debiti nuovi.

—Chi pagherà?—chiese Ariberti sbalordito al suo vicino di tavola.

Allah kerim!—rispose il Valerga.—Dio è grande. Dopo tutto, il marchesino ci ha in vista l'eredità di una vecchia zia, che non lo ha ancora maledetto.

—Sì, ma quando avrà pagato i suoi debiti, rimarrà di nuovo sul lastrico.

—Bravo! Ma avrà vissuto. Giovanotto, si vive una volta sola, quaggiù. La vita ha da essere come la voleva quell'ottima principessa francese, di cui non rammento più il nome, courte et bonne.

—Ma la noia dei creditori alle calcagna!… Perchè io mi penso che questi signori non staranno mica a contare i giorni dalla finestra….

—Miserie della vita! Ogni diritto ha il suo rovescio. Ci si fa il callo, non dubiti. Del resto, siamo in guerra, e bisogna destreggiarsi. Il mondo è pieno di creditori. Ma l'uomo animoso non teme le fiere. E poi, quando un clima non è più vitale, si parte. Cesare andò nelle Gallie; Tristano è andato in India, in California, da pertutto. Ha già fatto fortuna una mezza dozzina di volte: poteva essere un buon diavolo, far casa, aver figli, scrivere ogni giorno una pagina sul suo libro mastro, come usano tanti imbecilli; ma no, questa sorte di vita non era la sua. Tristano era un uomo; ha vissuto.

E via di questo passo, Luciano Valerga filosofava su tutto, innalzava ogni cosa a dignità di teorica. Ariberti non si arrischiava a rispondere; temeva di parere un collegiale; e, quel che è peggio, o forse la mala piega dell'esempio, o il calore del vino, la sua ragione affogava in quel mare magno di paradossi. A furia di sentirne, non gli sembravano più tali; certe marachelle, che in ogni altra occasione gli avrebbero urtato i nervi gli assumevano un tal colore di buona guerra, da parergli le cose più ragionevoli, se non per avventura le più liscie del mondo. Tutto ciò che fino a quel giorno gli era sembrato più saldo, gli tremava sotto ai piedi ad un tratto; affondava nella sabbia traditora, e tanta era la curiosità dell'ignoto e tanta la dimenticanza di sè medesimo, che egli non annaspava nemmeno, come fa il naufrago, tentando di aggrapparsi colle mani a qualcosa.

Compatitelo. La sua vita, dopo tutto, non pendeva essa da un filo? Anche lui, pel suo verso, si trovava fuori di squadra. A che lottare con un pericolo immaginario, quando ne incalzava un altro, e pur troppo reale? Che cosa sarebbe stato di lui il giorno seguente?

Quel molesto pensiero gli tornava di tanto in tanto allo spirito e gli dava una trafittura. Per altro, a mano a mano che le ore scorrevano e le ciarle si seguitavano, quel sopraccapo scemava, e Ariberti sentiva crescere dentro di sè quella felice spensieratezza, che entra per due terzi nella falsificazione del coraggio.

Tristano gli diede il tracollo, sollecitando il suo amor proprio, che è l'altro ingrediente della falsificazione di cui sopra.

—Abbiamo chiaccherato abbastanza;—diss'egli, alzandosi da tavola.

—Come? Te ne vai?

—Gli affari passano avanti a tutto. Abbiamo una faccenda a sbrigare con Bonisconti. Ma badate, stassera vogliamo stare allegri. Anzi, se volete, si balla in casa mia. Chi ha dame, le porti. Io metto mano al Buona Speranza, di cui mi rimangono ancora parecchie bottiglie, e alle cassette di Manilla; ultime tavole—aggiunse con un sospiro il Priore—del mio grande nauragio.

—Benissimo! Accettato! Tristano è un gran principe!

—E di grazia, che cosa si festeggia?—domandò uno della brigata.

—L'acquisto di un nuovo amico, o signori. Non vi ho presentato due ore fa il signor Ariberti? Anzi,—soggiunse il Priore, volgendosi con atto amorevole allo studente,—da questo momento aboliremo ogni titolo di cerimonia. Ariberti viene a noi passando per la porta di mezzo. Domattina, sull'alba, c'è un piccolo scherzo, in cui egli rappresenta una delle prime parti.—

L'annuncio del Priore fu accolto con un mormorio di approvazione. Ariberti cresceva incontanente di due o tre cubiti nella stima de' suoi nuovi compagni, e quantunque «umile in tanta gloria», non potè fare a meno di mettersi in contegno.

—Ah, ah! bene!—esclamò Luciano Valerga, quasi parlando per tutti.—E con chi, lo scontro?

—Ignoti! Gente nemica!

—Allora, non si dà quartiere?

—Lo spero bene!—rispose il Priore, arricciandosi i baffi.

Frattanto, tutti gli astanti si erano avvicinati al nuovo amico, chi per stringergli la mano, chi per dargli un consiglio, tutti per toccare il bicchiere con lui.

—Arma bianca o nera?—domandò uno di costoro.

—Nera;—rispose Ariberti, che si faceva rapidamente a quel gergo.

—Benissimo; è un'arma comoda. Già, con quel maledetto lavoro di lama, c'è da sudar troppo, mentre colla pistola non c'è altra fatica che di premere il grilletto.

—Ha già avuto altri duelli?—domandò un altro.

—No, sono al primo.

—Ottimamente; Lei piglia gli sproni di cavaliere. Vedrà, gli è come a bere un uovo fresco. A proposito, beviamo; il suo bicchiere è vuoto. Alla sua salute e alla sua vittoria! Miri basso se vuol cogliere. La pistola alza sempre un pochino.

—Può mirare senz'altro al ginocchio—soggiungeva un altro consigliere,—ma alquanto sulla sinistra fuori del suo bersaglio. Nel premere il grilletto si svia sempre la canna al di fuori, e bisogna correggere il difetto coll'arte.

—Del resto, è inutile rammentarle queste cose. Gliele dirà meglio
Tristano, che è un tiratore di prima forza.

—Ci ha un padrino coi fiocchi! Pel suo primo scontro, Lei ci ha fortuna davvero.—

Cosi dicevano i nuovi amici di Ariberti. Il nostro eroe ringraziava, ora colla voce, ora col gesto, e toccava il bicchiere, e beveva.

CAPITOLO VIII.

Come l'Ariberti stando nella neve ricevesse il suo battesimo di fuoco.

Era nevicato tutta notte e il mattino era freddo, il cielo coperto, l'alba grigia e stentata.

Una carrozza chiusa, che portava Ariberti, il Priore, Bonisconti e un quarto personaggio, che doveva essere il chirurgo, sboccava dal corso di Santa Barbara sul ponte delle Benne, che mette fuori città, cavalcando la Dora. I nostri viaggiatori mattutini erano tappati là dentro e per giunta inferraiolati fino agli occhi, non tanto pel freddo, che, durando il mal tempo, era abbastanza sopportabile; quanto perchè i signorini avevano passata la notte in piedi.

Il lettore ricorda che Tristano aveva invitato tutti i cavalieri di Malta ad una festa da ballo in casa sua, con quante dame avessero potuto raggranellare. E la festa s'era fatta; e le dame erano state parecchie; non certamente delle più nobili (che anzi!…), ma belle la più parte, giovani tutte, e punto schizzinose. Figuratevi; i cavalieri le invitavano a far due salti, senza bisogno di presentarsi; le impegnavano lì per lì, senza note sul taccuino; si andava, si veniva, si restava di qua o di là, senza tante cerimonie; e quando uno, per la scarsità delle sedie, non sapeva dove posarsi, adagiava il fianco sul pavimento, ai piedi della dama, nella graziosa postura di Amleto allo spettacolo di corte, o del fiume Po, nelle antiche carte bollate del Regno.

L'allegria era stata molta, anzi fin troppa; nè tutti avevano ancora finito coll'addormentarsi qua e là, negli angoli del quartierino, quando il padrone di casa usciva coi due compagni, lasciando i suoi convitati padroni del campo.

Prima di andar fuori, il giovane Ariberti si era risciacquato per bene il capo; a ciò consigliandolo il Priore, che vedeva in quella abluzione uno spediente infallibile per dissipare i vapori dell'orgia. Quindi, per rimettersi un po' di fiato in corpo, aveva bevuto un bicchiere di vin caldo, con molta cannella e molti chiodetti di garofano. Anche questo era un rimedio del Priore, che non si era certamente formato alla scuola di Salerno. Contuttociò, egli non aveva cansato i danni della veglia prolungata, si sentiva pesare la testa, aveva il cervello intronato e la bocca amara.

Ma che farci? Secondo il tempo, naviga; dice il proverbio. Un buon letto sarebbe stato a quell'ora la man di Dio; ma il letto e la pace son fatti per gli uomini di buona volontà; e questo, se non pel letto in particolare, certo per la pace, che comprende in sè tutte le forme della quiete, è stato detto e cantato in musica da un coro d'angioli, una notte che neppur essi avevano potuto dormire.

Erano passate di poco le sette, quando la carrozza, abbandonando la via battuta dal Parco, s'inoltrò per una stradicciuola che andava verso il fiume, alle spalle del Camposanto.

—Bel luogo!—disse Tristano, guardando attraverso i cristalli il muro di cinta della necropoli.—Chi muore da queste parti ha fortuna; non c'è caso di scomodare gli amici per l'accompagnamento funebre.—

A quella amara facezia un brivido corse per l'ossa al nostro giovane eroe. Si vide in una bara, portato da due becchini lunghesso un'aiuola del triste recinto, e pensò a Dogliani, a suo padre, a sua madre, che, poveretti, non sospettavano di nulla, e lo facevano forse già alzato da letto, ma per dare una scorsa ai suoi libri e prepararsi ad una lezione sul Jus quiritanum.

Il Priore, che non lo perdeva d'occhio, si avvide di quel moto, quantunque lievissimo, del suo primo.

—Sente freddo?—gli chiese

—Sì, un pochino;—rispose Ariberti, tornando prontamente in sè stesso;—è del resto la prima notte che perdo.

—E sarà anche il primo giorno che guadagna;—ripigliò Tristano, correggendo l'effetto della sua celia;—oggi infatti Ella prende il suo battesimo di gentiluomo. Animo; per combattere il freddo, basta una sorsata di questo.—

Così dicendo, cavava di sotto alla beduina una fiaschetta da viaggio, e la porgeva ad Ariberti.

Il giovine accostò la fiaschetta alle labbra e bevve un sorso di rumme, che gli bruciò il palato.

—Ne beva un altro poco;—soggiunse il Priore, notando la smorfia del bevitore novellino.—Similia similibus curantur; è medicina omiopatica. Vedrà che si scalda lo stomaco per benino.—

Ariberti obbedì, e strabuzzando gli occhi e torcendo le labbra, mandò giù una seconda sorsata.

—Eccoci, del resto, al luogo di ritrovo;—disse Tristano;—entreremo al coperto e ci sgranchiremo le membra aspettando.—

La carrozza giungeva in quel punto davanti ad una casetta di modesta apparenza, che poteva essere la dimora di un ortolano, d'un curandaio, o d'un oste. Il portone di costa all'edilizio si era spalancato pur dianzi, e il cocchiere piegati verso quell'apertura i cavalli, aveva infilato l'ingresso. I quattro personaggi smontarono poco dopo sotto una tettoia ed entrarono in una camera a pian terreno, in fondo a cui si vedeva un camino e si vedeva e si sentiva un buon fuoco. La prima cura dei nuovi venuti fu quella di andarsi a prendere una buona fiammata, senza pure sedersi sulle scranne che il padrone di casa si era affrettato a mettere in mezzo.

Quel bravo abitante del suburbio doveva, del resto, essere avvezzo a quelle visite, perchè, compiuto quell'atto di ospitalità, non si curò più altrimenti di loro.

—Non vorrei—disse Bonisconti, mentre si stropicciava le mani,—che quei signori si facessero aspettare troppo.

—Sono le sette e dieci minuti;—rispose il Priore, dopo aver dato un'occhiata al cronometro;—anche un quarto d'ora di tempo si può concedere al nemico.

—Non ce ne sarà bisogno;—entrò a dire il chirurgo; mi par di sentire —il rumore di una carrozza nella viottola.

Il Priore andò sulla soglia e tese l'orecchio in ascolto.

—Sicuro;—diss'egli poscia;—ci seguivano a poca distanza. Giovanni, avete fatto riaprire il portone?

—Sissignore; c'è mio figlio ad aspettare quegli altri.

«Quegli altri» voleva dire che il luogo dello scontro era stato scelto da Tristano e che il padrone di casa aspettava la mancia da lui.

All right! a noi, dunque!—esclamò il Priore.—Noi metteremo mano alle armi, e Lei, signor dottore, alla busta.

—Spero che non ce ne sarà bisogno;—rispose il dottore.

—Chi glielo dice? Gli avversari vengono senza chirurgo;—notò braveggiando il Priore.

—Quand'è così,—replicò il discepolo di Esculapio sorridendo,—metto mano alla busta.—

Poco stante, l'altra carrozza giungeva sotto la tettoia, e i nostri personaggi si mossero verso l'uscio; due di essi per fare i convenevoli alla parte contraria, gli altri due per dare una sbirciata a quelle faccie proibite.

Ariberti, se i lettori rammentano, ci aveva ancora da conoscere il suo avversario.

Lo vide allora, scender ultimo dal predellino, e batter de' piedi in terra, per iscuoter la neve, che appunto lì, a mezza, discesa, gli aveva fatto crosta alle suole. Era un coso alto e nero, con un volto tutto a spigoli, che apparivano più vivi per aver egli le guance rase, cogli occhi neri, affondati nelle orbite, appiattati sotto due ispide sopracciglia come il ragno nella sua buca; insomma, un tipo volgare che, fatta astrazione dall'abito mezzo signorile, si sarebbe potuto così a occhio e croce collocare in uno di quegl'infimi e necessari uffizi sociali, i cui nomi si ommettono per brevità.

Costui diede a sua volta un'occhiata in giro. Agli atti e alle parole ricambiate co' suoi amici, conobbe i due padrini dell'Ariberti. E allora, andando collo sguardo più oltre, vide un uomo già fatto che doveva essere il chirurgo, e quello sbarbatello, ch'era senz'altro il suo avversario, l'amante (ahimè) di Giuseppina Giumella.

Salutò abbastanza con garbo; ma era irrequieto, e, come disse Dante di Cerbero, «non aveva membro che tenesse fermo». Entrò in casa, seguendo i padrini, andò verso il camino per darsi una fiammata anche lui, ma subito si allontanò e si messe a far le volte del leone su e giù per la camera.

Tristano si avvide alle prime che l'amico pativa di convulsioni. Egli notava tutto per cavarne profitto, come del resto ha da fare in tempo di guerra ogni buon capitano.

Per altro, si tenne le sue osservazioni in petto.

C'era appunto allora da vedere e da misurare il terreno. Uscito insieme con uno dei padrini avversarii, rasentò il muro sotto la tettoia e svoltò alle spalle della casa, in un largo campo che si vedeva rinchiuso sui margini da tre file di salci spennacchiati. La neve ricopriva tutto il maggese, ma poco prima, obbedendo agli ordini di Tristano, i due contadini, padre e figlio, avevano lavorato col badile ad assottigliare quel bianco strato per una lista di forse quaranta passi, nel mezzo del campo, e in linea parallela al muro posteriore della casa. Quello spazio serbava ancora una parte della sua prima bianchezza; ma ci si poteva camminar su senza troppa fatica.

—-Le pare che vada bene così?—chiese Tristano, poi ch'ebbe fatto notare a quell'altro l'utilità del lavoro.

—Benissimo;—rispose il compagno che era quel della tuba sulle ventitrè ore;—del campo ne avranno quanto basta.

—Ne hanno sgomberato veramente un po' più del bisogno;—ripigliò
Tristano;—a noi bastano i dodici passi convenuti.

—Ma, non le pare,—si provò a dire quell'altro,—che a dodici passi… che, infine, la distanza sia troppo breve?

Il Priore lo guardò come sapeva guardar lui, tra curioso e beffardo; indi si strinse nelle spalle.

—Signor mio,—diss'egli, dopo un istante di silenzio,—la scelta delle armi stava a noi, ma le condizioni le han chieste loro; volevano anzi un duello a dieci passi ed io, quantunque la breve distanza potesse piacere al nostro primo, ho dovuto ricusare, perchè…

—Sì, me ne ricordo;—interruppe quel della tuba.

—Perchè,—continuò implacabilmente il Priore,—quella di dodici passi è la misura più stretta che sia consentita dai codici cavallereschi di tutto il mondo civile, affinchè il duello alla pistola sia un combattimento e non un assassinio da far torto ai padrini che lo avessero lasciato commettere. Se ne rammenta?

—Gliel'ho detto poc'anzi.

—Orbene, siamo rimasti d'accordo sui dodici passi; sparare fino a tanto che piacerà loro, nel limite di sei colpi, dopo i quali rimanesse in nostro arbitrio di concedere e di rifiutarne la continuazione; e noi non abbiamo a vederci più altro. Se vogliono una distanza più grande la domandino e vedremo di contentarli.—-

Quell'altro si accorse un po' tardi che col Priore non c'era da far nulla, e rimase lì grullo a guardarlo.

—Dicevo…—balbettò quindi, impacciato come un pulcino nella stoppa—dicevo così… per un senso di umanità… ma noi…

—Scusi se la fermo qui;—interruppe Tristano, mettendosi sul grave.—Nel caso nostro non c'è umanità che tenga. Son venuti a cercare? Sì. Hanno voluto la minima distanza? Sì. La colpa, se c'è colpa, non è nostra di certo. E adesso, mi faccia la grazia di rimettersi l'umanità in tasca, o scambio d'una giostra, se ne fanno due.—

Tristano, come si vede, era poco arrendevole, e nelle quistioni, per dirla con una frase volgare, ma calzante, anzi fin troppo calzante, c'entrava cogli stivali.

L'avversario vide la mala parata e prudentemente ritirò la sua umanità, «come face le corna la lumaccia».

—Va bene, va bene;—disse allora Tristano, rabbonendosi;—ora misuriamo il terreno. Ecco qua Bonisconti che l'aiuterà in questa faccenda; io e il suo amico andremo sotto la tettoia a caricare le armi.—

Con queste parole, il Priore si allontanò dal campo, ma non tanto rapidamente che non avesse tempo a bisbigliare una raccomandazione al collega.

—Hanno paura;—gli disse.—Vorrebbero guadagnare qualche passo nella misura del terreno. Se ci si provano, chiudi un occhio.

—Non dubitare, Tristano; magari tutt'e due.

—No, sarebbe troppo.

—Quand'è così, uno soltanto; sta tranquillo.—

Poco dopo quel dialoghetto, siccome nessuna delle due parti aveva portato la cordicella a nodi, utile arnese, ma poco usato, per simiglianti misure, Bonisconti e quel della tuba si pigliarono a braccetto come due sposi, e stabilito un punto di partenza andarono speditamente camminando lunghesso la lista di neve rassodata, e contando l'un dopo l'altro i dodici passi. Eran passi, non ci cascava dubbio; ma quel della tuba, che aveva cominciato col farne uno giusto di settantacinque centimetri, al secondo allungò le seste, facendo addirittura gli ottanta. E Bonisconti non ci abbadò. Quell'altro, inanimato dal buon esito, tentò cose maggiori, facendo il terzo passo di ottantacinque. E Bonisconti zitto. Infine, come furono ai dodici, il padrino del Forniglia disse ridendo: o senta, vogliam far tredici?

—Facciamo tredici per la buona misura;—rispose Bonisconti, mandando il piede di costa alle parole;—ma l'avverto che è un brutto numero.

—Allora, quattordici!

—Quattordici, e crepi l'avarizia!—

Così avvenne che, tra il guadagno apertamente fatto e i centimetri rubacchiati, i dodici passi diventarono diciotto o venti. A quel della tuba parevano ancora pochi, segnatamente per quel maledetto strato di neve che dava più spicco al bersaglio umano; ma le gretole eran tutte sfruttate, e il messere non ardì chiedere di più.

Ambedue piantarono i segnali, e, fornita quella loro bisogna, andarono incontro ai compagni.

Le pistole erano state caricate, ed erano appunto quelle che aveva portato Tristano. Le altre, portate dagli avversari erano state rifiutate, perchè mostravano di aver già servito molto, e uno stoppacciolo, mandato giù ad esperimento nelle canne, era tornato fuori assai nero. Il Priore era un uomo sofistico e la guardava nel sottile in ogni cosa; credeva tutti onesti, ma, viceversa poi, birbe matricolate.

—Signori,—aveva detto,—queste armi hanno patente lorda. Non domando a chi abbiano servito; mi restringo a scartarle. Ecco qua le nostre; escono dall'armaiuolo; un po' dure di scatto, se vogliamo, ma nuove e non c'è pericolo che usino parzialità a chi si sia.

Il Forniglia, che stava presso al camino, rimase brutto a quelle parole del Priore. Egli perdeva in tal guisa, l'unico punto di vantaggio che sperava di avere, perchè quelle pistole scartate da Tristano le aveva provate lui il giorno addietro una cinquantina di volte. Ma non c'era rimedio: per poterle sorteggiare, bisogna portarle ripulite a dovere. Ed erano invece ancor brutte di polvere; lo stoppacciolo parlava chiaro, quantunque annerito, e il padrino del Forniglia aveva dovuto arrendersi alla evidenza del fatto.

Tutto era in ordine e non c'era più altro che da recarsi sul luogo del combattimento. Il Priore tolse a braccetto Ariberti e andò innanzi, scostandosi ad un tratto dalla comitiva.

—A Lei, dunque, si faccia onore;—gli disse.—Il furfante era venuto per ricattarla e si trova acchiappato nella sua trappola. Miri giusto e dia un esempio. Da questo momento dipende tutta la sua fortuna. Si sente un pochino di rimescolìo in corpo? Non ci abbadi; è accaduto a tutti una volta. Faccia franca, sguardo ilare, ecco quanto ha da vedere la gente. Ieri, se lo lasci dire da uno che è vecchio, Lei era ancora un ragazzo; oggi diventa un uomo. Cominci bene; sia un uomo prode. In quanto all'esito, è certo; gli avversarii non si sentono in gambe.—

Ariberti era giovine e nuovo a quei cimenti, ma sentiva altamente di sè.

—Sono tranquillo;—rispose,—e sappia, signor Falzoni, che non tremerò davanti alla canna di una pistola. Nel mio piccolo, ogni qual volta mi s'è voluto far l'uomo addosso, ho fatto le mie scartate senza badarci più che tanto. Di questi avversari, poi, ne voglio cento.

Tristano sorrise, notando quei bollori ch'egli stesso aveva accortamente suscitati.

—Ben detto!—rispose, con accento affettuoso.—Ma siccome la pistola è un'arme pazza, e quella di un briccone o d'un vile può fare buon colpo come quella di un galantuomo o d'un prode, io le darò il modo di far riuscire a vuoto il colpo dell'avversario.—

Così dicendo, gli metteva in dito un anello. Ariberti chinò gli occhi a guardarlo. Era un cerchietto di argento grossamente lavorato, che portava nel castone una pietra nera e lucida, sulla quale erano incisi alcuni segni d'una lingua ignota per lui. Che cos'era? arabo? ebraico? copto o caldeo? Per Ariberti, nuovo alle scritture orientali, poteva anche esser sanscrito, o cinese.

—Non rida;—soggiunse gravemente il Priore;—il talismano perderebbe tosto ogni efficacia. L'ho avuto in dono da un savio imàno di Bagdad. Questi segni che vede incisi sulla pietra sono il suggello di Salomone, che fu un gran re ed anche un gran mago, poichè assoggettava ai suoi scongiuri e incatenava con una semplice parola gli spiriti buoni e malvagi. Mi ha detto l'imàno che qui dentro è imprigionato uno spirito buono, in espiazione di un antico suo fallo. Compiuto il castigo, la pietra si spezzerà da per sè e lo spirito potrà ritornare all'aria libera; intanto egli è utile a chi porta l'anello in dito, guardandolo contro il mal occhio e stornando ogni infortunio da lui. Le parrà strano, incredibile; nè io sto pagatore di tutto ciò che ha letto in queste cifre il vecchio di Bagdad; ma questo le posso dire, che io stesso ho sperimentato più volte la bontà del talismano e sono uscito incolume da molti pericoli.—

Credeva il Priore a quello che veniva snocciolando? Io penso di sì, ricordando esempi moltissimi di uomini così fatti; veri impasti di temerità e di debolezza, di spirito forte e di superstizione, assai più frequenti che non si creda in mezzo ad una gente usa a trattarsi lì per lì, senza guardare un tantino di là della buccia. Gli amuleti, poi, il mal occhio, ed altre consimili diavolerie, sono antichi come la paura, cioè a dire come le relazioni dell'uomo col mondo, e chi ha viaggiato molto, segnatamente presso i popoli meno inciviliti, o più vicini all'infanzia, che torna lo stesso, più facilmente se ne appiccica.

Del resto, credesse Tristano o no, a quel che diceva, si può ammettere che sapesse benissimo quel che faceva. Ariberti, infatti, fece tanto d'occhi al discorso del suo padrino e prese quei lustrini per oro di coppella.

Giunti all'aperto sulla neve, i due avversarî furono collocati l'uno di rimpetto all'altro, alla distanza di quei dodici passi che sapete. Il Priore, che mostrava di essere nella sua beva, fu nominato mastro di combattimento.

—Qui non è il caso di fare parzialità per alcuno;—-aveva detto egli con aria di bontà infinita.—Venute le cose a questo punto, cessiamo di essere i padrini di questo o di quello, per essere i giudici e gli amici di ambedue i combattenti. Signori,—proseguì, rivolgendo il discorso ai due avversarii,—si ricordino che combattono da gentiluomini, e che sarebbe notato di slealtà, chiunque di loro sparasse prima di avere udito il comando. Ed ora stiamo attenti; quando io dirò uno, alzeranno l'arme e metteranno il cane a tutto punto; al due, la spianeranno, per prender la mira; al tre, solamente al tre, toccheranno il grilletto. Hanno inteso?—

I due avversarî accennarono ad un tempo di sì, e Tristano si fece innanzi, presentando loro le pistole cariche. Forniglia, che fu servito pel primo, afferrò l'arme con un moto convulso; più tranquillo, anzi ilare all'aspetto, il nostro Ariberti, che aveva in mente le raccomandazioni del Priore.

—Miri al fianco destro del suo avversario,—gli susurrò Tristano, nell'atto di dargli la pistola,—e un po' fuori del corpo. Non si affretti a sgrillettare; prema lentamente col dito. Tenga il collo sodo, che non le avvenga di salutare la palla nemica. Acqua passata non macina.

—Farò come lei dice;—mormorò l'Ariberti.

E stette in attesa, fieramente piantato davanti al suo avversario, presentandogli la figura in tre quarti.

—Ariberto, ci siamo!—disse intanto tra sè, quasi volesse tastarsi.

Gli parve allora che un gran peso gli fosse tolto improvvisamente dallo stomaco e si sentì più leggiero. Tutti i negoziati del giorno addietro e gli apparecchi di quella mattina lo avevano sconcertato un pochino. Ma oramai il tempo, con quelle sue lentezze angosciose e que' suoi molesti esami di coscienza, era passato. Restava l'uomo contro il pericolo; e il pericolo, veduto di fronte, senza le alterazioni della lontananza, non gli pareva così grande come prima. Cinquanta probabilità su cento erano per lui, cinquanta contrarie, ecco tutto. E notate; egli non pensava nemmeno alla fortuna di colpire il suo avversano. Gli avevano pur detto come dovesse aggiustar la mira; ma egli era troppo novellino a quel giuoco, e non poteva ripromettersi di usare tutta quella diligenza che gli avevano raccomandata gli amici. Figurarsi! Con tante minuzie a cui doveva por mente, il collo da tener saldo, il fianco del nemico a cui mirare, ma tenendosi un po' fuori, l'arte di sgrillettare senza furia, l'attenzione di fare ogni cosa al comando, come poteva egli mettersi in capo di fare un buon colpo?

I padrini si allontanarono cinque o sei passi dalla linea del fuoco. Tristano solo, che dovea dare i comandi, rimase alquanto più innanzi degli altri.

—Attenti, signori;—diss'egli finalmente, dando il segnale all'orchestra.—Uno!—

I due avversari sollevarono le pistole dal fianco, chinarono gli occhi e posero il cane sulla tacca di scatto.

—Due!—gridò Tristano, poichè gli ebbe veduti rialzare la testa; segno che l'operazione era finita.

Gli avversarii allungarono il braccio e spianarono le armi. Per quattro o cinque secondi si videro balenare le canne, in atto di cercare la mira.

—E adesso, signori,—disse lentamente, soavemente il Priore, per non pigliarli alla sprovveduta e non cagionare sobbalzi,—possono far fuoco. E tre!—

Due lingue di fuoco, pari a due nappine di seta scarlatta, guizzarono dalle canne, e incontanente si udì lo stianto di due colpi.

Tristano guardò Ariberti. Era in piedi, duro stecchito ma col suo risolino sulle labbra.

Si volse allora con una rapida occhiata al Forniglia, e lo vide dare una mezza volta sulla persona, annaspando colle braccia in aria, mentre l'arme gli cadeva di pugno. Spiccò un salto e giunse in tempo a mettergli le mani sotto le ascelle, in quella che il disgraziato stava per dar del gomito nella neve.

Anche gli altri padrini ed il chirurgo, veduto il brutto giuoco, furono pronti ad accorrere intorno al ferito.

—Povero Nanni!—fatti animo!—-gli disse quel della tuba, aiutandolo a star sulle gambe.

—Che animo d'Egitto!—mugghiò il Forniglia, colla schiuma alla bocca.—Non è nulla! Un pugno tra capo e collo… e sono cascato per terra.—

Così tentava il ferito di definire la sensazione provata al colpo del suo avversario.

—Ma infine, vediamo dov'è la ferita;—entrò a dire il chirurgo;—sbottoniamo il soprabito.

—No, no, non occorre. Dev'esser qui, più alto, più alto ancora;—indicava il Forniglia, sforzandosi di voltare la faccia verso l'omero destro, poichè aveva le braccia trattenute dai padrini.—Mi lascino almeno strappar la camicia. Mi sega la gola, mi soffoca…—

Il discepolo d'Esculapio, che aveva finalmente veduto uno squarcio nel soprabito, all'altezza della clavicola, e indovinato la cagione di quel soffocamento, che accennava il Forniglia, gli tolse subito la cravatta e strappò il solino, che, pel subito inturgidire del collo, non gli venìa fatto di sbottonare.

Una rifiatata di quel poveraccio disse al chirurgo ed agli astanti che quel sollievo era capitato in buon punto.

—Bene! Non è nulla; sapete?—ripeteva il ferito ai suoi padrini, che erano sottentrati nel pietoso ufficio al Priore.—Non ho studiato medicina per niente. È una sciocchezza… una…

—Non si affatichi!—interruppe il dottore.—Sarà una cosa di poca importanza, se starà cheto. Ma prima di tutto, signori, trasportiamolo al coperto. Così; uno da piedi; non lo muovano troppo.—

E lì, con tutti i riguardi possibili, quella gente, poc'anzi intesa con ogni cura a far morire il suo simile, si adoperava a salvarlo. Già, non avviene egli il medesimo in guerra? E il duello non è forse una guerra ridotta ai minimi termini? Avanti dunque così, colla benedizione del cielo, e consoliamoci pensando che le norme della cavalleria e la convenzione di Ginevra abbiano trovato il modo di regolare un tratto la malvagità naturale dell'uomo.

Dietro al convoglio, come la morale dopo la favola, veniva Ariberti, tenendo ancora la sua pistola nel pugno.

Il nostro eroe andava innanzi macchinalmente, stordito da quella catastrofe e senza intendere come fosse avvenuta. Era sogno, o realtà? Ed era lui, tiratore mal destro, che non si ricordava d'avere mai colto neppure uno scricciolo nella siepe, era lui che, impugnando la prima volta una pistola, doveva colpire nel segno? Dieci tiratori, più esperti, più tranquilli e più assestati di lui, avrebbero dovuto fare a quel giuoco il secondo colpo ed il terzo. E lui, impacciato, confuso com'era, imbroccava alla prima. Stranezze del caso, amori ciechi della fortuna; con cui, del resto, non c'è da fare a fidanza, perchè se è vero ch'ella ami i giovani, può sempre darsi che trovi uno più giovane di noi.

—Orbene, che cosa fa Lei?—gli chiese ridendo il Priore, come furono sull'uscio della casa in cui si trasportava il ferito.—Deponga la sua pistola.

—Che? è finita?—balbettò l'Ariberti, che ancora non era rinvenuto dal suo stupore.

—Finita, sicuramente. Ma ora che ci penso, Lei ha ragione; non abbiamo mica detto la parola solenne. Signori,—proseguì allora Tristano, rivolgendosi ai padrini dell'avversario, che avevano deposto allora su di una scranna il loro primo,—favoriscano un po'. Occorre più altro?

—Per che cosa?—domandarono essi, in atto di cascar dalle nuvole:

—Ma, per la faccenda che ci ha condotti fin qua. Siccome sta a loro di dichiararsi soddisfatti…

—Mi pare,—disse quel della tuba, stringendosi nelle spalle,—che non ci sia proprio altro da chiedere. Povero Nanni! Ha avuto il fatto suo a misura di carbone.

—La sorte non lo ha favorito;—soggiunse l'altro padrino;—ci vuol pazienza.

—Dunque, signori,—disse il Priore, tirando la somma,—l'onore è soddisfatto e possiamo mettere in libertà il signor Ariberti.

—Certamente, e se il signore ci permette…—

Ariberti concedette la mano con molto decoro a quei due mascalzoni, che si affrettarono a ritornare dal loro povero Nanni.

—Potrà lavarsela, quando saremo tornati in città!—gli disse all'orecchio il Priore.

Frattanto il chirurgo aveva esplorato la ferita, non senza dolore pel suo legittimo proprietario. La palla aveva sfiorato l'omero, lacerando le carni, ed era andata a piantarsi nella muscolatura del collo; donde la enfiagione repentina che si era notata poc'anzi. L'estrazione non era da tentarsi lì per lì; occorreva prima di tutto trasportare il ferito a casa sua, debitamente fasciato, e là aspettare il momento opportuno. Lesione di organi essenziali non pareva che ce ne fosse; era dunque una quistione di tempo, e il discepolo di Esculapio prometteva di conservare alla società quella preziosa esistenza.

—Poveretto!—esclamò Ariberti, quando fu in carrozza co' suoi padrini per ritornare in città.—

—Dopo tutto mi rincresce…

—Di che?—interruppe Tristano.

—Di averlo ferito.

—Oh bravo, sentiamo quest'altra.

—Ma infine, è un uomo…

—Come Lei, non è vero? Stiamo a vedere che per carità cristiana si mette in paragone con lui.

—Signori,—disse timidamente il giovane Ariberti, mi abbiano per —iscusato. È la prima volta che mi trovo a questi cimenti, ed è anche —la prima volta che vedo scorrere sangue. Ora, anche lasciando da —parte le considerazioni morali, mi pare che il sangue del signor —Forniglia. non sia diverso dal mio.

—Qui la volevo;—replicò trionfante il Priore.—E scambio del sangue d'un Forniglia che abbiamo veduto scorrere, non poteva essere il suo? Pensi a ciò, mio bel signore, e si rallegri. Il rammarico, eccetto che non sia quello del coccodrillo, che a volte è permesso, come una volta all'anno son permesse le maschere, lo deve lasciare da banda. Ritenga che, se l'avesse buscata Lei, quella palla, i signori della parte contraria non avrebbero pianto. Già, gli uomini sono così contenti e pranzano di così buono appetito quando l'accoccano a, noi, che dobbiamo esser lieti di render loro la pariglia. Il mondo è una foresta. Homo homini lupus; l'han detto i latini. Perciò bisogna imparare a urlare. Badi a me, signor Ariberti; oggi gli è andata bene, e, non fo per dire, anche un pochino per questo; che ci aveva due padrini accorti.

—Lo so, signori, lo so: e la mia gratitudine…

—La sua gratitudine ce la dimostri seguendo un mio consiglio, che quasi potrei chiamare paterno. Da domani cangi vita e costumi. Studi un po' meno il cattivo latino delle Pandette e vada a far pratica in una sala d'arme. Io starei anzi per due lezioni al giorno. S'impadronisca della cavata e del filo diritto, della parata di picca, del copertino e della botta sul tempo. Vada anche al Valentino, a fare ogni giorno i suoi dieci o dodici colpi di pistola, tanto per tenere il pugno in linea. Nulla dies sine linea, lo raccomandava anche Apelle.—

Ariberti non potè trattenere un sorriso, vedendo Apelle chiamato a far testo in materia di pistola. Egli riconobbe per altro che il suo Mentore poteva averci ragione. Quando uno fa bene una cosa, non si dice egli che dipinge?

—I libri! bella cosa!—proseguiva intanto il Priore che era bene avviato.—Ma, domando io, a che servono tranne ad insegnare il passato? È il presente, quello che ci abbisogna; e l'avvenire, quello che deve esser nostro quantunque in grembo a Giove. Sia forte, e non si curi più d'altro. Il mondo, è vero, non si governa sempre colla prepotenza; ma il più delle volte, sì. Tutto il resto del tempo, lo si mena pel naso coll'ipocrisia, coll'astuzia. A me duole di guastarle il candore della sua gioventù; ma un maestro, oggi o domani, lo dobbiamo aver tutti; dunque, meglio oggi che domani. Veda; se a me queste cose me le avessero dette subito, come io le dico a Lei, mi avrebbero premunito in tempo, e non avrei fatto tante sciocchezze. Si fidi a me; e poichè oggi sono di buon umore per Lei e parlo latino, aggiungerò: experto crede Ruperto. Non c'è di efficace al mondo che la prepotenza e l'astuzia; ma ambedue hanno bisogno di una leva, l'associazione. Viribus unitis! Venga con noi; troverà nei cavalieri di Malta il fatto suo. Non siamo ipocriti, l'avverto…

—Prepotenti, dunque;—conchiuse Ariberti, temperando con un sorriso e con una soavissima inflessione di voce l'asprezza del vocabolo; il quale, del resto, veniva da sè.

—Sì perchè no?—disse di rimando il Priore.—Siamo in guerra col mondo. Le leggi, i costumi, tutti nuesti fili di seta con cui fu legato Gullivèro nell'isola di Lilliputti, sono in questa guerra quel che sarebbero nell'altre gli accidenti del terreno. Dobbiamo ammetterli, non potendo distruggerli. Or dunque, sul teatro in cui la fortuna ci ha posto, in mezzo a tutte quelle difficoltà che non è dato all'uomo di sopprimere, diamo le nostre battaglie, e allegri, ci guadagniamo la nostra parte di sole. Che gliene pare? non va fatto così?

—Lei mi ha suo discepolo ed apostolo!—rispose Ariberti infiammato.

—Bene! A proposito di apostoli, non dimentichiamo il cenacolo. Gli amici aspettano ansiosi. Sa lei, mio giovine eroe, che tra ieri e stanotte me li ha tutti conquistati? E non son mica ragazzi di prima impressione! Pure, tutti le vogliono bene come ad un vecchio compagno. Luciano Valerga dice che gli sembra di avere riveduto sè stesso, quando aveva diciott'anni. Per l'anima, forse; per la faccia, non credo;—soggiunse garbatamente il Priore.

Luciano Valerga non era là per offendersi. C'era in quella vece Ariberti per intendere il complimento, a farsi in volto del color delle fragole.

CAPITOLO IX.

Di molte sciocchezze che fece il mio eroe prima di diventar baccelliere.

La vittoria di Ariberti fu celebrata il giorno dopo con un pranzo magno, che toccò a lui di pagare. Una vecchia zia, della quale si era ricordato in buon punto, gli cambiò la sua buona memoria e le sue accorte bugie in moneta sonante, e mai danaro giunse più a buon punto per salvare un Anfitrione in sessantaquattresimo da una brutta figura. In verità, sarebbe stata una disdetta, come a dir il romper l'uova in sull'uscio, perchè il pranzo era riuscito stupendo, ricco di delicatezze luculliane, di allegria e di brindisi, e il nome di Ariberto Ariberti volava per tutte le bocche di quei cerberi, che erano i suoi nuovi amici, dispostissimi, se continuava di quel passo, a suonare per lui tutte le trombe della fama.

Da quel giorno, il nostro eroe cominciò a passeggiare pettoruto per le vie di Torino, assaporando la gloria di esser mostrato a dito dai venticinque o trenta sfaccendati, che hanno in prima mano e mettono in giro le notizie spicciole della cronaca cittadina. Intanto, dava occhiate assassine alle donne che gli passavano da presso, e si credeva sul serio un irresistibile Adone, non potendo supporre che tutte quelle creature fragili, ammiratrici della forza e del valore, non sapessero chi egli fosse e quali miracoli avesse operato.

Quasi non sarebbe mestieri di raccontare che il glorioso feritore di Giovanni Forniglia aveva mandato a quel paese la signora Giuseppina Giumella, non rispondendo neppure alle lettere pentite della fiorista, che si affannava a dirgli in pessimo italiano di abborrire quel mostro di suo cugino, il quale era stato ad un pelo di ucciderle il suo tesoro, il suo diletto «Aliberto». Quella disgraziata aveva avuto un bell'offendere la sintassi per lui, un bell'assassinare l'ortografia, un bel chiudere le sue lettere con un «io l'amo indissolubile». Il suo Ernani ci aveva altro pel capo. S'era proposto di non lasciarsi più cogliere a quelle panie volgari; non vedeva che marchesane e duchesse, non sognava che carrozze stemmate e foderate di raso, cavalli di puro sangue, lacchè gallonati allo sportello, cocchieri gallonati a cassetta. Il che torna a dire che, se era innamorato sempre della marchesa di San Ginesio, era anche pronto ad intenerirsi per tutte le bellezze titolate di Torino, dell'Italia e del mondo. Benedetta gioventù, quando ci si mette!

Ferrero, Candioli e gli altri amici del caffè dell'Aquila, che lo avevano abbandonato in quel suo bisogno, come seppero che n'era uscito ad onor suo, e buscandosi anche la nomèa di ammazzasette, ebbero a mordersi le dita dalla rabbia. Già, egli aveva tolto il saluto al Ferrero e agli altri minori della brigata. Quanto al Candioli, il signorino non si salvò per altro dal corruccio del nostro eroe, fuorchè per la sua corona di conte. Ma il saluto era così pieno di alterezza, ci si vedeva tanto la degnazione, che il figlio di Sua Eccellenza non ebbe certamente a tenersene.

Si capisce che l'Ariberti, volendo star sulla sua, si era anche ritirato dal giornale La Dora. E questo, a conti fatti, non sarebbe stato un gran male; che anzi! Ma il peggio si fu che il giovinotto, per romperla col passato, si allontanò anche dall'università, non andandoci che a lunghi intervalli e di mala voglia, quando gli bisognava la firma dei professori sul certificato scolastico. Ma da altra parte, non si può mica d'un tratto cantare e portar la croce, o sorbire nel medesimo tempo e soffiare. Se il novizio dei cavalieri di Malta faceva di notte giorno, era pur naturale che facesse di giorno notte.

Tra i nuovi amici che quella sua impresa guerresca gli aveva procacciati, gli andava maggiormente a' versi Luciano Valerga. Le teoriche strambe, i paradossi sgangherati di quel letterato in partibus, lo seducevano per modo, che gli sembrava di non avere inteso mai nulla, fino a quel giorno, nelle ragioni dell'arte. Poveri classici come apparivano piccini davanti alla critica trascendentale dell'amico Valerga! Come li sfatava, quel giudice inesorabile, mostrando la loro povertà di sostanza sotto a quella insaldata ricchezza di forma! Schiavi della parola, pedissequi della frase, quei disgraziati non avevano capito mai, nè saputo rendere nei loro scritti, la voce profonda delle cose. La lettera aveva ucciso lo spirito. Litera necat, soggiungeva con molta compiacenza il Valerga. Bisognava rifarsi da capo, dimenticare tutto ciò che era stato fatto, e lì, senza preoccupazioni di scuola, mettersi a faccia a faccia colla natura immortale. E copiare? No, che Iddio ce ne scampi; guardare, scaldarsi, e vedere che cosa fosse per nascere. La vera poesia, la vera arte, era là, in quel contatto immediato, senza apparecchi, senza precauzioni, tutta roba che il critico trascendentale battezzava con certi nomi, infamava con certe similitudini, da farne arrossire, nonchè l'Ariberti, un maresciallo dei reali carabinieri.

E a faccia a faccia colla natura immortale ci si provò a stare anche lui; l'Ariberti, s'intende. A dimenticare ciò che era stato fatto prima, non durò poi una gran fatica, perchè alla sua età non c'era pericolo che si fosse troppo guastato cogli esemplari. E il frutto di quella sua convivenza colla natura fu una tragedia romantica, molto romantica, cioè a dire piena zeppa di tutte le stravaganze, seminata di tutti i lustrini, aggravata di tutto il princisbecco che per lui si poteva; miscuglio indigesto di prosa pedestre e di scappate pindariche, senza la verità dei caratteri, il sentimento profondo della natura sullodata e quegli accenni di classicismo nostrano (sicuro, di classicismo nostrano) che contraddistinguono i capolavori forastieri e ne fanno condonare eziandio le stranezze.

La tragedia non era punto rappresentabile. Ci entravano quarantacinque interlocutori, tra i quali otto o dieci personaggi fantastici.—Bisogna stamparla,—disse Valerga,—affermare la scuola. Si poteva non farla, contentarsi d'immaginarla e di contemplarla nella propria mente, l'unico teatro in cui non ci siano spettatori viziati da un cattivo sistema, o ròsi dal canchero dell'invidia; ma adesso che è scritta, bisogna metterla fuori, gettarla come una palla rovente nel campo nemico. Non c'è tutto fior di farina; qua e là si vedono traccie del cattivo gusto. Già, non si è vissuto impunemente nella terra di Moab. Ma il sistema è buono; bisogna stampare.—

Ora, i consiglieri si trovano ad ogni uscio; gli editori no. E tra questi generosi aiutatori dell'ingegno nascente, non ce n'era uno in tutta Torino, uno solo, che vedesse la necessità di «affermare la scuola» a sue spese. Era un bel lavoro, non ci cascava dubbio, anzi un lavoro sublime. Ma l'autore poggiava troppo alto, e il pubblico era orbo. A questo pubblico bisbetico bisognava entrargli nelle grazie con opere più modeste. Cinque o sei novellucce, otto o dieci madrigali, una dozzina di epigrammi, tanto da mettere insieme un almanacco, perchè no? Si era ancora in aprile; ma per l'appunto avanzava il tempo da scrivere e dare alle stampe, per uscir fuori in settembre.

Lo spediente tornava ostico al giovine poeta, che si sentiva bollir dentro a rinfusa Shakespeare, Byron, Schiller, Göthe, e una dozzina di profeti minori per giunta. Ma l'editore, che pizzicava di letterato, fu pronto a ribattergli che l'almanacco per l'appunto era una forma di pubblicazione non disprezzata dai grandi. Gli stessi Göthe e Schiller non avevano fatto insieme un Almanacco delle Muse e mandato i loro versi immortali sotto la coperta dei dodici mesi dell'anno?

Ariberti fu scosso dalla efficacia dell'argomento. Per altro, innanzi di appigliarsi ad un partito, volle sentire il savio parere di Filippo Bertone. Filippo era un amico vecchio, che egli trascurava da un pezzo; ma, in una occasione come quella, non ci era che lui per dargli un consiglio. Aveva buon gusto; era sincero; se la tragedia piaceva a lui, doveva esser buona; e allora….. Ariberti veramente non sapeva che cosa avrebbe fatto allora: ma intanto, il giudizio di Filippo Bertone gli pareva più necessario che mai.

Egli adunque si avvio difilato a trovarlo in quella cameretta di via Santa Teresa, che al Bertone piaceva poco sul principio, ma a cui si era in breve cosiffattamente avvezzato, da non far più il menomo conto delle profferte della sua antica padrona di casa. Ariberti si aspettava lo squallore della prima volta che era stato lassù, ma s'ingannava a partito. La camera, strettina sempre (a farla più larga non sarebbe riuscito nemmanco il dio degli architetti), si vedeva arredata con una certa grazia, e quasi quasi con un'ombra di lusso. I mobili erano sempre quelli, ma lustrati con diligenza e rimessi a nuovo. La carta felpata che tappezzava le pareti, il copertoio del letto, operato dello stesso disegno e dello stesso colore della carta, una stoia d'erba sala intessuta a meandri sul pavimento, una stufina di terra cotta in un angolo, una gloriosa famiglia d'erbe in certi vasi verniciati sul davanzale, conferivano a quel nido di pàssero solitario un aspetto signorile, che non aveva nemmeno la camera dell'Ariberti, con tutto che fosse in piazza Vittorio Emanuele, al secondo piano, con un'ariona da salotto coi rispettivi seggioloni, cassettoni, fiestroni, padiglioni e coltroni di damasco.

Anche Filippo non pareva più quello d'una volta; era anzi mutato, trasfigurato in tal guisa, che il vecchio maniscalco di Mondovì, se quel giovinetto gli fosse capitato lì per lì davanti agli occhi, non avrebbe a tutta prima riconosciuto suo figlio, e riconosciutolo, avrebbe pianto dalla contentezza, parendogli d'essere diventato di punto in bianco il genitore d'un principe. Filippo Bertone era vestito con molta semplicità, ma altresì con molta lindura. Il suo abbigliamento, tutto d'un colore, e d'un colore severo, mostrava il taglio della stagione, senza dare nell'esagerato della moda. La camicia, mezzo nascosta dalle pieghe d'un'ampia cravatta nera, lasciava vedere i solini al collo, e i polsini alle mani. I capegli nerissimi, tagliati cristianamente e ravviati con garbo, facevano risaltare la purezza dei lineamenti e la soavità dello sguardo. Appariva insomma un bel giovane, pallido sempre nel viso e non molto in carne, ma appunto per ciò di più gradevole aspetto. La bellezza moderna, che è tutta espressione, non tiene per indispensabili le guance pienotte e gli accesi colori di un temperamento sanguigno.

Ariberti rimase attonito un pezzo a guardare quella metamorfosi, e durò fatica a mettere insieme cinque o sei frasi per rispondere alle amichevoli accoglienze del suo vecchio compagno. Sopra ogni cosa gli aveva fatto senso di non vedere indosso a Filippo quel famoso giubbone color di tabacco, che da due anni, se non più, era avvezzo a considerare come una parte integrale di lui.

Volgendo gli occhi intorno, lo vide finalmente, quel prezioso cimelio degli antichissimi tempi. Era appiccato ad una gruccia contro la parete, ma più in apparenza di sacra reliquia, che non d'arnese in attività di servizio. Infatti, ad una gruccia vicina era appeso un pastrano, la cui bella forma e la lucentezza del panno facevano un vivo contrasto coll'aria tapina di quello spelacchiato e stinto testimonio della passata miseria.

Donde quel cambiamento improvviso? Il suo amico Filippo aveva egli vinto per avventura una quaderna ai lotto? Ma perchè la cosa fosse andata a quel modo, sarebbe stato mestieri che Filippo avesse giocato; e la supposizione, per dirla col frasario dei filosofi, non faceva che allontanare la difficoltà. Infatti, o donde avrebbe Filippo cavati i danari della giocata, egli che campava con uno stecco unto trecento sessantacinque giorni all'anno, e trecento sessantasei quando l'anno era bisestile?

Non sapendo come rigirarla, Ariberto chiese all'amico se era sempre alla Dora per correggere le bozze di stampa.

—C'ero fino a otto giorni fa,—rispose Filippo,—ma devo essermi guadagnato l'antipatia di qualcheduno perchè hanno soppresso l'ufficio.

—Diamine!—esclamò Ariberto.—-Mi fa specie del conte Candioli, a cui facevi servizio quel poco.

—Caro mio, le son cose di tutti i giorni. Del resto, siamo giusti; il conte Candioli non aveva quel gran bisogno di me, che tu dici. L'ortografia non è mai stata il suo forte; ma in tutto l'altro non c'era male, ed io non ci avevo alcun merito.—

Bertone parlava così, da quel giovine discreto ch'egli era; ma noi sappiamo già come stavano le cose tra lui e il Candioli. Il quale, dopo tutto, o aveva trovato un altro aiuto, o ci aveva ragioni così forti da doversene passare, perchè era proprio lui che aveva fatto licenziare il Bertone dal suo modestissimo ufficio.

Ammirati i fiori sul davanzale, con manifesto rincrescimento del loro proprietario, che vedeva mal volentieri il suo amico accostarsi alla finestra, Ariberto venne alla scopo della sua visita. Filippo, veramente, avrebbe preferito di studiare anatomia, e mettere in carta le sue lezioni di quel giorno; ma come cavarcela onestamente da un amico che viene a posta da noi per leggerci una tragedia e domandarci il nostro riverito parere? Questo supplizio non è egli forse, e in prima riga, tra gli obblighi della vera amicizia? Filippo adunque si acconciò serenamente al suo fato, e senza muovere un lagno, senza aprire la fauci ad uno sbadiglio, stette due ore e mezzo all'eculeo.

—Ariberto,—gli disse gravemente, poi che questi fu all'ultima pagina del suo scartafaccio,—vuoi che ti dica il mio sentimento, da uomo ignorante, ma proprio come sta, e senza rigiri?

—Appunto per questo son venuto da te.

—Eccolo dunque; ci sono delle scene che mi piacciono; pensieri nobilissimi, e taluni anche nuovi; passi lirici stupendi. Ma non mi finisce la scuola, che ti conduce all'esagerato ed al falso. Dove sei tu, proprio tu, colla tua limpida vena e col tuo ardore giovanile, va bene; dov'è la scuola, colle sue ampolle, coi suoi ghirigori, colle sue nebbie, va male. Scusa, sai; ma tu mi domandi schiettezza, ed io ti servo a misura di carbone. Alle corte, se vuoi stampare, fàllo, ma per frammenti; e siano quelli soltanto dove sei tu, proprio tu, e dove non appare lo stento della imitazione forastiera. Ogni paese ha l'indole sua, che si manifesta in tutte le forme del suo pensiero, come in tutte le sue costumanze. La nostra ci è derivata dal nostro cielo, dal nostro sole, dall'aspetto della nostra natura; essa è tutta serenità, purezza di contorni, armonia di colori.

—Saggio di geografia letteraria!—notò Ariberti, sorridendo a fior di labbra.—Già voi altri materialisti della scienza…

—Indaghiamo i fenomeni, senza pretendere di assoggettarli ai capricci della nostra mente. Che farci, se la natura ha stabilite le differenze ella stessa? Siamo pure cosmopoliti nel desiderio di coglierla sul fatto e di esprimerla con verità; ma facciamo di esser noi in tutto il resto, nient'altro che noi. E tu, fa a modo mio, Ariberto; stampa i frammenti.—

Il povero poeta si trovava, come suol dirsi, tra l'incudine e il martello. Valerga perdonava a certe scappate liriche in grazia della scuola; Bertone condannava la scuola senza remissione.

Per altro, Filippo dava il consiglio più praticabile. La tragedia non trovava un cane che la volesse; i frammenti potevano sgattaiolare più facilmente nel campo della pubblicità.

Anche Valerga, chiesto del suo parere intorno alla stampa dei frammenti (il poeta si era astenuto dal dirgli donde venisse il consiglio), trovò alla perfine che così poteva andare.

—I frammenti invoglieranno dell'opera;—diss'egli a mo' di conclusione.

Ma c'era un altro guaio. I frammenti d'una tragedia in un almanacco! Non era possibile; e quand'anche lo fosse stato non avrebbe fatto buona figura, Ariberti si persuase facilmente di doverli stampare in un volumetto a sue spese, aggiungendoci i versi pubblicati a mano a mano sul giornale La Dora. Tanto, egli era in cammino, e un foglio più, un foglio meno, non avrebbe mutato gran cosa nelle sue condizioni.

È ben vero che a questi patti il signorino poteva stampare la sua tragedia da capo a fondo; ma qui bisogna notare che le critiche dell'amico Bertone gli avevano messa una spina nel cuore. Se Filippo avesse ragione!—diss'egli tra sè.—Stampiamo per ora i frammenti.—

Pubblicò dunque il volume con uno dei titoli consueti; Frondi sparse, Le prime foglie, Canti dell'alba, Fiori primaverili, ecc., ecc. Aveva fatto il suo contratto con un tipografo, proponendosi di pagare la stampa un mese dopo la pubblicazione, tanto per aver modo di saldare il suo debito col frutto della vendita. Ma potevano dar frutto quelle foglie? A buon conto, il tipografo, che aveva fiutato il ragazzo e che non era un'arpia, rimandò nel contratto la scadenza a tre mesi.

Il povero autorello si riprometteva un gran chiasso su pei giornali e una vendita miracolosa. Aveva mandato una copia del suo volume a tutti i diarii della città, e da quel giorno si diede a leggere tutti, parte comprandoli, parte cercandoli nei caffè, per vedere quel che avrebbero detto di lui. Vana speranza! non uno si degnò di annunziare alle genti l'apparizione del nuovo astro sul meridiano del Parnaso. M'inganno, una ci fu, un giornaletto teatrale, che gli scodellò alla lesta cinque o sei cucchiaiate di broda laudatoria, le quali fecero battere il suo cuore di gioia inaudita e passare misericordioso il suo spirito su cinque o sei spropositi da cavallo. Ma ohimè, era quella la gloria aspettata?

Quanto ai colleghi del giornale La Dora, zitti e buci che non parea il fatto loro. Ma qui bisogna dir tutto; Ariberto da principio non aveva mandato loro il volume. Si era pentito, ma tardi; il male era fatto. Intanto, ogni due giorni regolarmente andava a pigliar lingua dai signori librai, che gli davano regolarmente le più sconsolanti notizie.

S'intende che dei cavalieri di Malta nessuno aveva dovuto comprare le Frondi sparse. Il cavaliere novizio se l'avrebbe avuto a male; intanto, si era affrettato a regalar volumi a destra ed a sinistra, colla loro brava dedica sulla guardia. Ad onore di quei provetti schermitori, bisogna anche dire che nessuno tra loro avrebbe comprato per due lire l'obbligo di lodare il libro; tanto più che, per lodarlo, non c'era mestieri di leggerlo.

—Orbene, come si vende?—gli chiese un giorno Valerga.

—Sono passato ancora stamane da Maggi;—rispose Ariberto.—Egli non ne ha spacciato che quattro copie a tutt'oggi. Comincio a compiangere quei quattro infelici compratori;—soggiunse con accento d'amarezza il poeta;—certo essi scontano qualche grave peccato.

—No;—disse Valerga;—il numero loro è di buon augurio. Sono i quattro evangelisti della nuova fede. E che cosa ne pensa il libraio?

—Che per dare esito al libro è necessario far cantare i giornali.

—E non hai mandato una copia a tutte queste cicale?

—Se l'ho fatto! Ma pare che non avessero voglia di cantare.

—Capisco, capisco; a questi signori bisogna mandare il libro e l'articolo fatto. Allora, salvo il caso d'una ruggine coll'autore, dànno in composizione; e i più cortesi ci fanno due righe di cappello, o di coda.

—Così mi ha detto anche il libraio, che è un uomo cortese e dimostra di prender parte nel mio guaio.

—Ti farei un articolo io;—disse Luciano, dopo aver pensato un tratto;—ma a qual pro? Col mio modo di vedere in materia d'arte, ti farei più male che bene. Del resto, consolati; Omero diventò famoso nel mondo senza le trombe dei giornalisti.—.

La cosa era innegabile, ma non poteva consolar molto il nostro eroe, che in tutta questa faccenda ci guadagnò d'aver fatto un debito di quattrocento lire, o giù di lì, per la stampa del suo malaugurato volume. È da notarsi, per altro, che egli ricevette in quel torno una lettera del giornalista teatrale, che domandava a lui «poeta inarrivabile, speranza del Parnaso italiano» quattro versi, anche brevi, da stamparsi sotto il ritratto d'una ballerina, alla quale egli, il buon frate brodaio della gloria, doveva fare l'omaggio d'uso, in occasione della sua serata al Regio.

Il povero Ariberti era cosiffattamente avvilito, che dettò i versi «anche brevi» come gli venivano chiesti. E dopo la cortesia dei versi, venne un'altra domanda del giornalista, che lo pregava di dargli una mano alla sua Euterpe Taurina, offrendogli un magro compenso, come portavano le poco floride condizioni del giornale, intermittente più della febbre e costretto a regger l'anima coi denti nei mesi caldi, quando i teatri erano chiusi e i suoi sporadici abbonati in viaggio.

Questi erano gli obblighi suoi: mettere in prosa robusta, condita di superlativi senza risparmio, le lavature di ceci d'un protettore mal pratico; tessere, su quattro note d'un procolo, una biografia coi fiocchi, battendo molto sulla grazia, sulla bellezza e sugli studi indefessi dell'alunna di Tersicore, o del prediletto di Euterpe, e parlando sopratutto del fanatismo destato nei concerti di Boston, o al gran teatro di Tiflis; poi tradurre da certi ritagli di giornali forestieri, ma solo quel tanto che risguardava i trionfi dell'abbonato, e aggiustandovi un cappello, possibilmente il più fuori d'equilibrio; e finalmente, allungare alla misura convenevole, rimpinzare di frasi, lardellare d'aggettivi, il racconto d'una serata teatrale. E qui i giudizi d'arte dovevano esser brevissimi (perchè tanto agli artisti non importavano un frullo), salvo il caso di un'opera nuova, col maestro presente, per notare chi meglio ne avesse indovinati i concetti, e gl'inchini e le strette di mano dell'evocato agli inarrivabili interpreti della sua musica stupenda. L'essenziale era di noverar le chiamate agli onori del proscenio, in fine, e le interruzioni entusiastiche nel corso d'ogni atto; i bene, i bis, gli applausi fragorosi, gli astucci regalati dal solito «ammiratore del vero merito», i ritratti, i sonetti, e all'occorrenza anche il volo dei piccioni. E tutto ciò non dimenticando il baritono, che secondava egregiamente, la comprimaria che concorreva al buon esito, e il tenore (un cane, a dir poco) che si manteneva sempre all'altezza…. del prezzo di abbonamento al giornale.

Povero autore delle Frondi sparse, che tempo era il suo! Ma in fin dei conti, quel giornalista era stato l'unico che gli avesse dato una parola cortese; era stato l'unico che avesse fede ne' suoi versi.

Il ritratto della ballerina, quando fu portato in giro pei palchetti e per le sedie chiuse del teatro, fece dire agli Aristarchi da dozzina che i versi non erano dei soliti, e che il pensiero era nuovo abbastanza. Magro conforto al poeta! Ma quel ritratto era andato in mano alla marchesa di San Ginesio; gli occhi di Giunone si erano posati sui versi del suo negletto amatore.

E il suo libro? Era andato il suo libro nelle mani di lei? Per saperlo, il nostro Ariberti avrebbe dato non so che, perfino un occhio del capo, se non gli fosse stato necessario a fare il paio, per vedere quella bella sdegnosa. In cambio di perdere un occhio, pensò di lasciarci un tantino della sua dignità; fece la corte al Candioli.

Attillato com'era e cinto ancora da quell'aureola di gloria pel suo duello fortunato, Ariberti poteva fidarsi di tornare accetto al contino in un colloquio di pochi minuti. Combinatolo proprio in buon punto alla fine del ballo, gli si accostò con quel garbo che seppe maggiore, per fargli certe scuse, a cui mezz'ora prima non pensava nè punto nè poco.

—Signor conte, ho un debito con Lei….

Avec moi, mon cher? Comment donc?

—Sì, davvero. Ella è tanto cortese da non ricordarsene; ma io ce l'ho questo debito. Ho stampato un volumetto di cose mie, e ancora non glie l'ho fatto avere. Che vuole? Quel benedetto editore non mi ha mandato le mie copie che ieri….

Ah oui;—disse Candioli, non lasciandogli finire la sua bugiuzza;—un libro di versi! Ne ho sentito parlare nell'ufficio della Dora, dove non capisco come non vi siate lasciato più vedere, mon beau ténébreux.

—Che dirle, signor conte?… Occupatissimo sempre.

—Sì, sì, la notte en bombance e il giorno in sala di armi. Sommes-nous bien renseigné? Ma fate bene, parbleu, fate bene. Il faut savoir à l'occasion se tirer d'une affaire à son avantage. Anzi, sentite, Ariberti; quando sarete della nostra forza, faremo volentieri due colpi con voi.

—Grazie;—rispose Ariberti inchinandosi e lasciando correre quella vanagloriosa uscita del contino Candioli, la cui scherma si restringeva alle lezioni prese in collegio con una sciabola di legno;—questa promessa sua mi farà raddoppiare di buona volontà nell'esercizio delle armi. Domani, se permette, le manderò il mio povero libricciolo. Posso sperare che lo leggerà e lo farà leggere alle sue alte conoscenze? Il patrocinio d'un buongustaio e d'un gentiluomo come Lei, mi è più che mai necessario.—

Il nostro poeta snocciolò la sua perorazione tutto d'un fiato, per timore che quell'inciso «farà leggere» non gli restasse in gola dalla vergogna.

—Capisco, capisco;—replicò sorridendo il contino;—Dovrei anche farlo leggere a Giunone. Ne rougissez pas, que diable! Entre amis, la chose est faisable. Ma adesso, caro mio, vous avez des intelligences dans la place, e il conte Candioli non vi è più necessario.

—Che cosa dice?—domandò l'Ariberti confuso senza badar nemmeno a schermirsi, come avrebbe voluto in principio, da quella entrata sotto misura del conte.

—Dico, mio caro, che adesso ci avete un amico più vecchio per rendervi servizio, un amico che ha le sue coudées franches presso la vostra Giunone mentre io non sono che un visitatore dei giorni di ricevimento.—

Quelle parole furono tante stoccate per l'Ariberti che diventò bianco nel viso come un panno lavato.

—Quale amico?—diss'eglì.

—Che? non lo sapevate? Dans ce cas, je suis désolé d'en avoir trop dit….

—No, no, parli pure, mi dica tutto liberamente. Già, senta,—soggiunse l'Ariberti, sforzandosi di sorridere,—io non sono così innamorato della…. signora, da ingelosirmi di chi pratica in casa sua. Ne avrei forse il diritto, io che la conosco a mala pena di veduta? No, no, Ella s'inganna a credere che io…. Ma infine…

—È sempre bene saper tutto; non è così?

—Certo, è sempre bene. Semplice curiosità, signor conte! Sentiamo dunque; chi è questo amico…. questo fortunato mortale….

Là, là, du calme, mon bon!—disse il contino, che aveva condotto l'Ariberti dove voleva.—Mi promettete di non farmi autore di questa confidenza? di non mettere fuori il mio nome?

—Lo prometto.

Foi de gentilhomme?

—Sul mio onore.

Eh bien,—ripigliò il Candidi, mettendo amichevolmente il suo braccio sotto quello di Ariberti, e traendo l'amico in disparte,—nous allons satisfaire votre curiosité. Sappiate che in tutto questo non c'è nulla da temere. La marquise a des principes; e poi, ve l'ho detto altre volte, elle est froide comme un beau marbre. Seulement, il vostro amico Bertone…

—Ah! Bertone!—esclamò il giovine, dando un sobbalzo e strabuzzando gli occhi dallo stupore.—Come c'entra costui?

—Ecco, pigliate fuoco. Vraiment, je suis désolé….

—Signor conte,—interruppe l'Ariberti con piglio solenne,—Ella ha la mia parola d'onore, ed io non seno un bambino. La cosa mi è parsa strana, ecco tutto. Ma come mai Bertone, il mio amico Filippo Bertone, ha potuto avvicinare la marchesa?

Voilà ce que je me suis demandé, aussi bien que vous… Con quella redingote, poi!

—Oh per questa, non dubiti, l'ha smessa;—si affrettò a dirgli l'Ariberti sbuffando.

Je sais, je sais; il y déja loin de là. Ma il vostro amico non ha renouvelé sa garde-robe qu'après.

Après… che cosa?

Eh, mon Dieu, après la connaissance faite. Egli ha ora le sue grandes et petites entrées, nella sua qualità di maestro del marchesino.

—Maestro? E di che?

—Non saprei; probabilmente di leggere e scrivere. Il ragazzo non ha ancora sette anni.

—Strano!—borbottò l'Ariberti.—E Filippo che non mi ha detto nulla, l'ipocrita!

Mon cher, vous savez, on ne raconte pas ses bonnes fortunes, e qui, se non si tratta à la rigueur d'une bonne fortune, non era il caso di salire sui tetti per dar la notizia alla gente.

—Ma come può essere andata? Forse nel modo più naturale;—disse l'Ariberti, dimenticando che poc'anzi gli era parso strano.

Oh pour cela, rien de plus naturel, quando s'abita a quattro passi discosto, con un cortile soltanto per mezzo.

—Come? Il palazzo san Ginesio è in via…

—Santa Teresa, sicuro; e non lo sapevate?

—Ah!—gridò il nostro innamorato, senza rispondere alla domanda del suo biondo Mefistofele.

—Capisco ora perchè il signorino….

—Perchè… andate innanzi.

—Nulla, nulla, è un'idea che mi passa pel capo. Signor conte, la ringrazio.

—Ve ne andate? Spero bene che non mi farete una incartade.

—Le ho dato la mia parola; che cosa debbo dirle di più?

J'y compte donc. Au revoir! E badate, aspetto il vostro volume. Il ne sera jamais dit que j'aurai dû acheter le livre d'un ami tel que vous.

Ariberti gli rispose con un cenno del capo, con un sorriso sforzato e fuggì.

Enfin!—disse il contino tra sè, disponendosi a fare una visita alla baronessa Vergnani, taille de guêpe et pied d'Andalouse.—Faccia un po' quel che vuole; io me ne lavo le mani. Ah ah! la marchesa mi fa l'adirata mi sta rigida e fredda come una divinità sul piedestallo… E intanto quello straccione di filosofo da dozzina, qui n'est pas même des nôtres… Basta, ora hanno a vedersela tra loro, messieurs les manants. In verità, non m'aspettavo già più che quello sciocco d'Ariberti mi cascasse sotto la mano. Oggi ho avuto fortuna cogli uomini. Avec les femmes, ma foi, nous verrons tout-à l'heure.

E ravviati leggermente con tre dita i capegli e data una scrollatina all'abito nero, come per levarne le grinze, il figlio di Sua Eccellenza se ne andò verso il corridoio dei palchi di prima fila, per consolarsi presso la taille de guêpe dei superbi dispregi di madonna Giunone. La quale, per uno di quegli arcani psicologici che hanno fatto chiamare l'uomo un animale imitatore, era parsa bella e desiderabile al contino Candioli, dopo che l'avevano trovata bella e desiderabile gli altri. Ed Ariberti, dal canto suo, non si era innamorato per una ragione altrettanto frivola? Nel suo struggimento, più assai di testa che di cuore, non c'entrava egli per due terzi di vanità? Avrebbe egli dato nei gerundi a quel modo, se la marchesa di San Ginesio, scambio di una gran dama, fosse stata, con tutte le sue bellezze, una buona pacchierona di bottegaia, o d'ostessa?

Eppure, notate, per quel riscaldamento di testa non vedeva più lume. Date due o tre giravolte nell'atrio, era tornato al suo posto in teatro, come per sincerarsi se la marchesa fosse ancora quella di prima, o se gli occhi suoi l'avrebbero veduta tutt'altra, dopo le rivelazioni del contino Candioli. Era là, nel suo palchetto, tranquilla, impassibile, quella superba che non si degnava di guardarlo, e che pure aveva abbassato gli occhi benevoli su di un giubbone color di tabacco. Ma che gusti erano dunque i suoi? Candioli avrebbe esclamato: fi donc!

Il nostro Ariberti stabiliva a priori che una donna non può guardare che un bell'abito, e innamorarsi che per la trafila del figurino delle mode. Così la passione acceca! Se fosse stato un pezzente, avrebbe pensato tutto l'opposto, e stabilito che una donna a modo non dovesse guardare che i cenci.

—Eccola dunque là, col segreto de' suoi amori plebei, nascosta, sotto quella maschera di aristocratica noncuranza! Ed ecco là, accanto a lei, quell'uomo felice per legittimità di possesso, che non sa nulla di nulla e se la ride, scioccamente fiducioso, dei vani armeggiamenti di tanti vagheggini miei pari! Donne! Donne!—

Fo grazia al lettore degli «eterni Dei» e di tutto quell'altro che dovrebbe far seguito. Il monologo, del resto, è vecchio come i primi venti anni del primo innamorato che abbia esercitato la pazienza degli echi solitarii. Frughi ognuno nei suoi ricordi, e vedrà di averne fatto, non uno, ma parecchi e non solamente a vent'anni.

Mal potendo dissimulare la sua stizza, Ariberti uscì da teatro mezz'ora prima che finisse lo spettacolo, non badando al bisbiglio che suscitava la sua rumorosa partenza dal bel mezzo delle sedie chiuse, tra tutti quegli spettatori, a cui egli turbava insieme la visuale del palcoscenico e l'udita. E indovinate mo' dove andasse a far capo? Nella via di Santa Teresa, ad asolare davanti al palazzo San Ginesio, di cui le parole del maligno contino gli avevano indicata la situazione. Sicuro; egli non aveva mai pedinata la carrozza della marchesa, e costei abitava per l'appunto laggiù, a pochi passi discosto da Filippo Bertone. Dall'abbaino dell'amico aveva veduto la finestra della dama e il cuore non gli aveva detto nulla! E quell'ipocrita, nemmeno! Addosso all'ipocrita! Infatti, che cosa significava quel davanzale ornato di fiori fin dai primi giorni della sua dimora lassù? Mirava ad attirare gli sguardi della signora, il furfante. E poi, quell'essersi rimpannucciato d'improvviso! Era perfino diventato bello. Lui, Filippo Bertone! C'era da crepar dalla rabbia. Ed egli frattanto a perdersi in mille zacchere, colla Giumella, coi cavalieri di Malta, coi libri, colle tragedie, colla gloria. Imbecille! E giungeva tardi, per conseguenza; perdeva il vantaggio di essersi fatto innanzi pel primo; quel destro mariuolo, che non pareva lui, gli aveva vogato sul remo.

Il filo delle irose considerazioni gli fu poco stante interrotto dall'arrivo di una carrozza, che si fermò davanti al palazzo dei San Ginesio, per svoltare incontanente sotto l'androne. La signora tornava da teatro, e Ariberti nel passare davanti al portone, potè vederla ancora col piede sullo smontatoio.

—A quest'ora,—pensò egli con amarezza,—l'ipocrita è già in sentinella al suo finestrino. Chi sa? Forse tra pochi minuti, dal suo spogliatoio, madonna darà un'occhiata furtiva su in alto, a quel buco illuminato e adorno di piante rampichine, come una capannuccia di Natale.—

Ariberti se ne andò dalla via di Santa Teresa dicendo il paternostro della bertuccia. E quella notte, nell'osteria del Mago, prese una sbornia solenne, per affogare, da quell'eroe di Byron che si teneva di essere, la sua rabbia nel vino. Senonchè, tra un bicchiere e l'altro, aveva bisbigliato al Priore, con cui era entrato in molta dimestichezza dopo la faccenda del duello:

—Forse domani avrò bisogno di te.—

Che tiro mancino meditava l'Ariberti in quell'ora? Egli stesso non ne aveva un concetto ben chiaro. Metteva le mani innanzi, come per impegnarsi a fare qualcosa. Del resto, la notte (e per notte intendeva le poche ore mattutine destinate al sonno) avrebbe portato consiglio.

Così avvenne diffatti. Andato a letto assai tardi, e colla mente in iscompiglio, si alzò per tempo, con una pensata da gran diplomatico, e azzimatosi con molta cura e provato lungamente un sorriso allo specchio, si recò dal Bertone, prima che questi uscisse per andare all'Università.

—Amico,—gli disse, adoperando quel tal sorriso, che gli uscì per altro un pochino stentato,—sono venuto a chiederti un servizio.

—Dimmi; son cosa tua;—gli rispose candidamente Filippo.

—Ecco gua; ti chiedo la tua camera.—

Bertone lo guardò trasognato.

—Sì,—proseguì l'Ariberti,—non posso più rimanere nel mio quartierino in piazza Vittorio, e ti domando il tuo bugigattolo, come lo chiami. A te certo non importerà.

—Ma, scusami;—ripigliò Filippo Bertone, che ancora non sapeva capacitarsi perchè l'Ariberti gli facesse quella uscita bizzarra;—e dove vuoi che vada io?

—Eh, per esempio, in via degli Argentieri, nel tuo alloggio dell'anno scorso. La signora Paolina ci ha quella tua stamberga libera; l'ho ancora veduta ieri l'altro e mi ha pregato anzi di parlartene.—

Filippo rimase un tratto sovra pensiero, guardando ora la stuoia del pavimento, ora il suo amico Ariberti.

—E non potresti andarci tu, in via degli Argentieri? chiese egli —poscia all'amico.

—Non posso;—rispose l'Ariberti, rannuvolandosi; ci ho le mie buone ragioni per non andare a star là.

—Perdonami, sai;—replicò allora Filippo, che incominciava a sospettare qualcosa;—ma io ci ho le mie per rimaner dove sono.

—Credo d'indovinarle.

—Bella forza! Qui ci sto bene, oramai; ci ho fatto l'uso; ho speso qualche scudo per mettermi in sesto, e capirai…

—Sì, ho capito che non vuoi cedermi il tuo osservatorio.—

Per quella volta non c'era più dubbio; Ariberti voleva toccarlo nel vivo.

—Che cosa intendi di dire?—esclamò Filippo, arrossendo.

—Che tu l'ami; non è egli vero?

—E chi di grazia? io non riesco a capirti.

—Non mi fare il nuovo; la marchesa di San…

—Ti prego;—interruppe Filippo, fortemente turbato;—non far giudizi temerari, e sopratutto lascia in pace le signore.

—Ah sì, non la compromettiamo;—notò sarcasticamente l'Ariberti;—fra tutte le maschere dell'ipocrisia c'è anche la discretezza.

—Basta!—gridò Filippo, che già non vedeva più lume.—O dove ti duole stamane? Non è ipocrisia ricordarti che le donne vanno lasciate in pace, segnatamente quando non le si conoscono. Non mi dir altro!—proseguì Bertone, rimettendosi un tratto.—Ho inteso il tuo pensiero, e mi contento di risponderti che sei in errore.

—Cedimi la tua camera, e lo crederò;—riprese l'Ariberti implacato.

—No;—disse Filippo;—tu vuoi da me un atto di debolezza, ed io non sono disposto a commetterne.

—Bada; potresti pentirtene.—

Filippo Bertone si strinse nelle spalle e non rispose parola.

Ariberti se ne andò invelenito. Mezz'ora dopo, si metteva nelle mani del Priore, e lo pregava di andare e sfidargli il rivale.

—Sì, sì, come vorrai;—disse Tristano;—ma lascia fare a me. Questa è faccenda che bisogna trattare delicatamente. Andrò da solo a parlargli, e te lo ridurrò mansueto come un agnello.—

Filippo Bertone si aspettava quella visita. E come ebbe udito dal Priore, che egli, innanzi di presentarsi in veste da araldo, veniva a guisa di amico, per ragionare alla libera, anzi col cuore in mano, gli seppe grado dell'atto cortese e mostrò di volersi rimettere in lui.

—Ella intenderà,—gli aveva detto Tristano,—che qui si sta per fare un pasticcio, e non già di quei di Strasburgo, ma che poi non potremmo più accomodare, per quanta buona volontà ci mettessimo da ambe le parti. Il suo amico Ariberti è fuor dei gangheri e non c'è verso di fargli intender la ragione. Vediamo dunque di uscirne alla meglio e senza pubblicità.

—Capisco;—rispose Filippo;—quantunque da un amico d'infanzia io non dovessi aspettarmi una scartata simile, e senza un'ombra di ragione da parte sua. Ma come vuole che noi l'accomodiamo, se egli domanda una cosa ingiusta? Io, veda, non ho pratica di quistioni di onore e non so se sosterrei bene o male uno scontro. Bisognerebbe vedere. Ma qui, per intanto, le dirò schiettamente che, sfidato a duello da lui, e pel motivo che Ella mi dice, non andrei sul terreno. Egli dovrebbe tirarmici pei capegli, e con un altro pretesto. Ariberti è innamorato; e lo sia. Quanto a me, non involgerò mai nello scandalo, che egli vorrebbe, una famiglia rispettabile che mi ha accolto come maestro ad un suo fanciullo, per intercessione di un degno professore che mi vuol bene. Signor Falzoni, io parlo ad un uomo più vecchio e assai più sperimentato di me. Crede Lei che sia il caso di fare un duello, che metterebbe in piazza una riputatissima dama, superiore di tanto alle nostre bizze da scolaretti? Dovrei cavarmi d'impiccio dandogli la camera; lo so. Ma anche quei signori di laggiù sanno che io abito questa soffitta. Come potrei colorire lo sgombero? E noti, signor mio, che se l'Ariberti corteggia la dama, può anche darsi che ella se ne sia avveduta. Almeno, è da supporsi. In questo caso, di due l'una, o passerò agli occhi di quella signora per un pusillanime, o per un amico troppo compiacente. E nell'un caso e nell'altro, le apparirò consapevole di un segreto che la riguarda, e senza giovare a lui, ne avrò il danno e le beffe.—

Il ragionamento correva a filo di logica, e Tristano in cuor suo dovette convenirne. Tristano, da quel vecchio diavolo ch'egli era, intese benissimo anche un'altra cosa; intese che si trattava di persone ragguardevoli e potenti, che non c'era guadagno a toccarle, e che male sarebbe potuto incoglierne a lui, se avesse mai secondato l'Ariberti in quella picca e fatto nascere un guaio.

—È vero, ciò che Ella dice;—rispose adunque il Priore, offrendo a Filippo un'uscita onorevole:—e quando Ella mi assicura che non corteggia la signora… che non ha pensato mai a vogare sul remo dell'amico…

—Lasciamo stare l'amico, per carità!—interruppe Filippo, che aveva il cuor gonfio d'amarezza.—Ariberti non è amico mio, se ha potuto sospettarmi prima, e meditar poi una sfida. Questo io posso assicurare a Lei: che la signora in discorso è un angelo di bontà e che io non ardirei mai di alzare gli sguardi, non che le speranze, fino alla mia eccelsa benefattrice. Così infatti io debbo chiamarla; tale io debbo, e non altrimenti vederla. Il caso mi aveva condotto ad abitare quassù; i miei studi mi hanno posto in relazione col venerando uomo, che si è fatto di buon grado il mio protettore. Sappia, signor Falzoni, che io son debitore del mio umile uffizio di maestro presso il marchesino, alla bontà del mio professore di clinica, che è in pari tempo il medico e l'amico di quella famiglia. Questa è la pura storia, ed io l'ho raccontata a Lei, a Lei solo…

—È detta al confessore, non dubiti;—rispose Tristano.—Io la stimo, signor Bertone e non ho più altro da chiedere alla sua cortese schiettezza. Dirò ad Ariberti che non può, non deve aver rancore con Lei. Insomma,—conchiuse il Priore, scuotendo alteramente le spalle,—si tratta di una ragazzata e la farò finita senza tanti discorsi. Io frattanto sono lieto di queste sue spiegazioni, non solamente perchè mi daranno più ansa ad usare della mia autorità su lui, ma anche perchè mi hanno offerto occasione di conoscere un giovine discreto ed onesto come Lei. Signor Filippo Bertone, la mia amicizia; e se valgo in qualche cosa per Lei, mi spenda liberamente.—

Filippo Bertone restò confuso a tutte quelle gentilezze e non seppe che dire. Però strinse con effusione la mano che gli sporgeva il Priore, e, balbettando un complimento, lo accompagnò fino al pianerottolo della sua piccionaia.

—Quando si dice la riputazione!—pensava egli, tornando alla pace insidiata del suo modesto scrittoio.—Ecco un uomo che passa in tutta Torino per un accattabrighe, un rodomonte, un uomo senza cuore; ed è buono poi come il pane.—

Ben altra opinione aveva a farsene l'Ariberti, quando si sentì dire dal suo araldo di guerra che non bisognava far nulla. Si provò a sostenere il contrario, ma Tristano alzò le spalle e gli diede su per giù del ragazzo. Volle star sulla sua, e rispose che avrebbe cercato altri padrini; ma il Priore gli disse che si guardasse bene dal farlo, perchè, all'ultimo degli ultimi, egli, Tristano, avrebbe fatto il padrino a Filippo Bertone, e dato, non una, ma tre lezioni di cavalleria, ed anco di gratitudine a chi dell'una cosa e dell'altra, si mostrasse dimentico.

L'uomo era in tutta la pienezza della sua autorità, come il marito di Sefora, prima di ascendere il Sinai, o, se vi piace di più, come il vecchio della Montagna in mezzo ai suoi divoti seguaci. E Ariberti cedette. Tristano gliene seppe grado, e tornò umano, trattabile come prima. Ariberti in quella vece rimase grosso con lui, non già all'apparenza, ma nel fatto. Lo si vedeva inoliato di fuori, ma dentro ci aveva la ruggine. Per la prima volta, dopo tanta adorazione cieca, il Priore dei cavalieri di Malta gli apparve un egoista di tre cotte, un uomo leggiero, una carrucola, e tutto quel che peggio vorrete.

Ariberti era giovine, e in questo basso mondo aveva ancora a vederne di tutti i colori, e a pentirsi più d'una volta de' suoi primi giudizi. Prima frons decipit, lo hanno detto gli antichi.

Lascio intanto argomentare ai lettori come gli cuocesse di quella figuraccia; che tale gli pareva davvero, al cospetto di Filippo «l'ipocrita» e della sua marchesana. Primo primis si sbandeggiò dal teatro, che era del resto agli sgoccioli, e si diede tutto, anima e corpo alla vita scioperata. Amore e gloria lo disdegnavano; ed egli mandava al diavolo la gloria e l'amore.

Rimaneva per altro il suo debito di figlio. Proprio in quel torno capitò una lettera di sua madre. Quella santa donna gli scriveva, piena di sgomento, e in tutta segretezza. Il signor Amedeo stava muto come un pesce, ma dalla sua stessa taciturnità la moglie indovinava che egli non avesse troppo buone informazioni del figlio; epperciò nella sua lettera gli raccomandava di fuggire le male compagnie e di studiare a tutt'uomo per non essere cagione di lagrime in casa.

Quella lettera, accompagnata dai piccoli risparmi della signora Caterina, fu anzitutto un grande aiuto al bilancio del nostro eroe, quindi un raggio di luce nelle tenebre del suo spirito infermo. Un mese o poco più, gli rimaneva di buono per gli esami. Tornò quel giorno stesso all'Università. S'intese col Balestra, e andò con lui a ripassare ogni mattina le istituzioni del Diritto romano. Si affogò nel latino; meditò le dottrine del Savigny; raffrontandole con quelle del Vico; consumò le notti e le lucerne intorno a certe annotazioni che gli dovevano stampar meglio nella memoria il testo delle Pandette. Infine, che vi dirò? Verso i quindici di maggio, del mese in cui la natura risorge, e perfino gli asini cantano d'amore, il nostro studente scioperato faceva uno splendido esame, e usciva, se non m'inganno, baccelliere in giurisprudenza.

Baccelliere da baccello!

CAPITOLO X.

Dove i nodi vengono al pettine.

Era una splendida giornata della fine di maggio quando il giovane baccelliere fece ritorno a Dogliani; una giornata tutta tepori e fragranze, come avviene per solito nei trapassi dalla primavera all'estate. Ma il nostro eroe badava assai poco alla bella giornata; l'animo suo era sordo alle liete voci della natura; invano la gran madre, a dirvela con una frase audacissima, si era infronzolita per lui. Il signor baccelliere si mostrava pensieroso, anzi peggio, stizzoso, di mala voglia; insomma, per usare una parola moderna, che risponde ad una moderna infermità, maledettamente nervoso.

Con chi l'aveva? Con se stesso e cogli altri, col mondo interno e col mondo esteriore; due mondi che l'uomo incomincia ad avere in uggia, quando ha varcato la fatale trentina. Ma il nostro Ariberti, ragazzo precoce, faceva tutto in anticipazione.

Le accoglienze della signora Caterina furono materne, e con questo aggettivo mi pare di avervi detto ogni cosa. Quelle del signor Amedeo, per contro, furon fredde anzi che no. Le belle imprese dello studente, avevano avuto un'eco fino a Dogliani. E qui, facciamo ad intenderci. Al signor Amedeo non dispiaceva punto che il figliuol suo si facesse un uomo e si mostrasse tale anche prima della età voluta dalle statistiche. I babbi son tutti così; hanno fretta; non per niente son nati prima di noi. Perciò il duello del figlio, che, ancora in fieri, gli avrebbe dato sui nervi come una solenne ragazzata, degna di una tiratina d'orecchi, non doveva dispiacergli, a cose fatte, poi tanto. Anche i versi, pomposamente stampati, non gli parevano un delitto imperdonabile. Alla fin fine, erano belli; e se ne nascevano in casa Ariberti, c'era piuttosto da tenersene, che da fargliene una ramanzina. Neanco gli avrebbe dato ombra qualche ripesco amoroso. Suo figlio era un bel giovinetto; che diamine! e se piaceva alle donne, non c'era mica da condannare… le donne. Ecco qua per l'appunto il nodo della quistione. Rispetto agli altri, e considerate ad una ad una, quelle imprese gli parevano naturali e fino ad un certo segno condonabili; ma tutte insieme, e rispetto al figlio, gli apparivano malefatte, da non meritare indulgenza. E ciò segnatamente per gli studi, che ne avrebbero sofferto. Il ragazzo si svia, pensava egli, il ragazzo si svia, e bisognerà rimetterlo in carreggiata. Principiis obsta; sero medicina paratur.

Per altro, il signor Amedeo si rabbonì, quando vide il certificato degli esami, che portava segnati, a giustificazione del figlio, tutti i punti e la lode. La lode! che vi pare? Va bene che in legge, secondo i maligni, è abbastanza facile buscarla; ma per contro è altrettanto facile di non buscarla affatto; dunque… La conseguenza viene da sè. E il signor padre si rabbonì; non già ad occhi veggenti, perchè l'autorità sua ne avrebbe scapitato; ma bene lo intese la signora Caterina, che vide il marito star meno sostenuto con lei.

Del nostro baccelliere furono invece assai meno contente le sue vecchie conoscenze di Dogliani. Le ragazze lo trovarono più bello, più elegante di prima, e pensarono a lui per una settimana, con gran dispetto degli Adoni di mandamento; ma finirono col giudicarlo freddo, contegnoso, aristocratico. Si è sempre aristocratici per qualcheduno; e nel suo paesello natale, dov'era conosciuto lui, dove era conosciuta la famiglia, il giovane Ariberti doveva parere superbo senza ragione. Ci fu, tra l'altre, una figlia di droghiere che ebbe da lui un saluto di tanta degnazione, da piangerne per una notte intiera. Una conservatrice d'ipoteche, perduta la speranza di registrarlo fra i frequentatori delle sue veglie, lo definì, tra due giuochi innocenti, uno sciocco.

Il giovane dava appicco a tutti questi giudizi, a tutti questi malumori, fuggendo le conversazioni e le compagnie d'ogni sorta. Poverino! pensava ai suoi debiti, segnatamente a quello del tipografo, che presto gli aveva a cascare tra capo e collo, e almanaccava più di un ministro di finanze, quando cerca il pareggio tra la entrata e l'uscita.

La mattina, per almanaccare a suo agio, si alzava da letto per tempo e se n'andava lontano pei campi, ma senza dare l'occhiata del presidente ai coltivati, nè quella del poeta ai salvatici. Invano le colline s'indoravano per lui al primo raggio del sole; invano i rosolacci disposti a gruppi, a manipoli, a file serrate, agitavano i calici scarlatti sui ciglioni dei prati; invano le monacucce facevano pompa degli steli diritti e dei fiori incarnatini in mezzo alle spighe biondeggianti del grano. Il signor baccelliere andava diritto per la sua strada, senza pure avvedersi delle api, che gli gironzavano a sciami intorno alle ginocchia, andando in busca di cera e di miele nella varia fioritura dei pingui maggesi. La bella natura, le albe, i tramonti, i rivoli solitarii tra due file d'ontani o di frassini, i buoi aggiogati che trascinavano lentamente la loro gran mole di fieno odoroso sulla nota carraia, tutte queste cose sane, che intendiamo così bene quando ci manca il tempo a goderle, non avevano voce per lui.

Si guardava dentro, il poverino, e ci vedeva buio, gran buio. Per altro, a furia di guardare, ci trovò il soggetto e la materia d'un dramma. Era il secondo che perpetrava; ma stavolta il delitto era in prosa, e d'indole acconcia alla scena; si allontanava ad un tempo da quel vero che non ha fortuna in teatro e da quel falso che spesso è frutto di larghe vedute estetiche; ma seguitava la via di mezzo, che piace tanto alla comune degli uomini, poichè rappresenta in arte quell'aurea mediocrità che regna in tutte le cose della vita, e agli uni tempera i desiderii, agli altri smorza le invidie, a tutti conferisce come un'aria di famiglia e li consola d'esser figli d'Adamo.

Lo tirò giù venti giorni, che per un'opera simigliante erano forse già troppi, e gli parve che andasse bene. Spese altri cinque giorni per tirarlo a pulimento e per farne una copia presentabile; poi lo accartocciò, lo rinvolse in un bel foglio di carta turchina da bottegai, che suggellò bravamente sul margine, e si dispose a scrivere su l'indirizzo.

Ma a chi mandarlo? Questo era il busilli. Per fortuna l'Euterpe veniva ogni settimana a salutarlo in Dogliani, e sull'Euterpe c'erano indicazioni di compagnie drammatiche a bizzeffe. Trovò in questa guisa il capocomico di suo gusto, che recitava in quel torno a Genova, e gli spedì il manoscritto dicendogli nella lettera, che glielo avrebbe potuto dare per ottocento lire, nè più, nè meno; o prendere, o lasciare.

Così contava di pagare il tipografo e di avere per giunta un po' di danaro in serbo per altri debitucci che lo aspettavano a Torino. Per quattro o cinque giorni attese risposta, ma invano. Già, bisognava dare al capocomico il tempo di leggere; cosa difficile, come tutti sanno. All'ottavo giorno gli scappò la pazienza, e riscrisse, sollecitando quella benedetta risposta. Il suo uomo non si fece vivo. Allora ne pensò una da furbo di tre cotte; mandò all'amico dell'Euterpe una notarella agrodolce in cui si pregava il gran capocomico Tizio (è qui c'era il nome scritto a mezzo, colla, promessa del resto) a rispondere alle lettere, o rimandare i manoscritti che si sottoponevano al suo riputato giudizio. La noterella comparve stampata, e tre giorni dopo, il nostro Ariberti riceveva per la posta il suo scartafaccio.

Altro che ottocento lire! Il degno pronipote di Roscio, in una sua letterina mandata quel medesimo giorno, gli diceva d'aver letto attentamente il suo dramma. Belle scene; stile classico; passione…. oh, passione, poi, quanta ce ne poteva essere in un dramma di Shakespeare; ma il lavoro era troppo serio, oh sì, troppo serio, e il pubblico, per allora, domandava di ridere. Inoltre era un po' lungo. Va bene, che si sarebbe potuto scorciare, ma sarebbe stato un vero peccato. Tanti bei pensieri! Scene così belle! Infine era un lavoro da stampare; oh sì, da stamparsi senz'altro, e i lettori avrebbero reso giustizia, ecc. ecc., gustato, ammirato; e qui mettete a dirittura una dozzina di eccetera.

Che c'era di vero in tutte quelle considerazioni del pronipote di Roscio? Ariberti diede un'occhiata al suo povero manoscritto. Oh rabbia! Era rivolto ancora nella sua fascia turchina e coi medesimi suggelli di ceralacca che ci aveva messo lui a Dogliani.

Il signor capocomico aveva dimenticato di salvar le apparenze.

Oh capicomici! Il mio eroe vi mise tutti in un mazzo, v'involse tutti in una sola maledizione. E aveva il torto marcio, come lo si ha sempre, quando si giudica in modo assoluto. Almeno almeno, avrebbe dovuto fare una eccezione pel suo uomo, che gli diceva ben del suo dramma senza averlo letto, e non gli prometteva di pagargli tremila lire quando i suoi poveri cinque atti avessero ottenuto il trionfo di quattro repliche alla fila; trionfo per sè stesso impossibile ad un autore novellino, e che dopo tutto c'era sempre modo di mandare a vuoto, in ogni teatro d'Italia, dove gli abbonati comandano a bacchetta, e non ammettono repliche!

Intanto la fatale scadenza si avvicinava a grandi giornate. Ahimè! Il cielo aveva un bel mettersi a festa, coi drappelloni più azzurri; i grilli canterini avevano un bel trillare alla luna, e le lucciole un bel far la ridda notturna fra i pioppi regalandogli senza spesa la gran scena del monastero nel Roberto il Diavolo. Il signor baccelliere aveva la mente a tutt'altro. Provò a chiedere notizie della vendita ai librai di Torino, ma ebbe a rimetterci le spese di posta. Pur troppo, dopo quelle quattro copie che sapete non si era più spacciata una delle sue povere Foglie.

La notte che precedeva il gran termine, Ariberto Ariberti non potè chiuder occhio. Soltanto un condannato a morte mi servirebbe per far riscontro al suo caso. Ad ogni ora, ad ogni momento, il cuore gli dava un sobbalzo, chè gli pareva di veder comparire il cancelliere colla sentenza; intendi il postino con una lettera del tipografo. Passò la mattina, e passò anche il giorno, senza l'apparizione del molesto messaggio. Ed era naturale: il tipografo abitava a Torino, e non a Dogliani. Ma il giorno dopo?

Ed anche quell'altro giorno trascorse, e fu seguito da parecchi, tutti pieni di angosce ineffabili. Al settimo, incominciò a respirare. Che il suo creditore fosse ammalato? Dio di misericordia, fosse andato fra i più? Egli veramente non avrebbe desiderato tanto dalla infinita bontà; ma infine, se una disgrazia simile avesse proprio chiamato a sè quel degno collega dei Fontana, e dei Pomba, per chiedergli conto de' suoi errori di stampa, Ariberti non avrebbe dato altro conforto alle sue ceneri che quello di una lagrima, di una lagrima, sola.

Senonchè, muoiono forse i creditori, come tutti gli altri nati dalla creta? Muoiono essi davvero innanzi la scadenza dei crediti loro? A questo problema Ariberti non ci aveva pensato mai. E pensandoci allora gli parve impossibile che il destino rinunziasse in tal guisa ad uno de' suoi più sicuri strumenti di tortura. Epperò il suo cuore durava sempre in sospetto e in ansietà; quel silenzio non gli prometteva niente di buono.

Un giorno, mentre egli stava leggiucchiando a tavolino, aspettando l'ora del desinare, suo padre entrò nella camera. Il signor Amedeo non metteva mai piede colà, argomentate dunque lo stupore del figlio e il tremito che lo assalse quando lo vide avvicinarsi a lui e gittargli sullo scrittoio un foglio, che aveva cavato allora, e molto gravemente, di tasca.

Il povero baccelliere diede una sbirciata a quel foglio. Era una carta bollata. L'aperse colle mani tremanti e vide…. quel che doveva aspettarsi, il suo contratto col tipografo di Torino.

—È pagato;—disse allora il signor Amedeo.—Vedete, c'è la quietanza a piè di pagina. Ma d'ora innanzi, se studieremo la natura dei contratti, in cambio di sottoscriverne per conto nostro, faremo certamente assai meglio.

—Padre mio!—gridò lo studente, dando in uno scoppio di pianto.

—Orbene, che c'è?—gridò il signor Amedeo con un accento di burbero benefico.—I versi alla perfine non erano dei peggiori che si stampino in Italia. Ma non prendete impegni che non possiate poi soddisfare.—

Il giovane promise, come potete argomentare, che non ci sarebbe cascato mai più. Ma in vita sua doveva farne dell'altre; e questo si dovrà argomentare del pari.

Intanto, colla mente al suo libro invenduto, al suo dramma pulitamente rifiutato, alle contrarietà del presente e alle incertezze del futuro, il nostro Ariberti ci aveva da fare un processo in formis alla sorte tiranna. Egli pensava ciò che molti avevano pensato prima, e che molti dovevano pensare dopo di lui; esser difficile, lo entrare nel mondo, come in un teatro alla cui porta si faccia la coda. Ecco qua; dar di gomiti, guizzare a destra, esser respinto a mancina, dire una parolina a questo, dare un urtone a quell'altro, grazioso coi forti, inurbano coi deboli, e tutto ciò per guadagnare una spanna di terreno, per trovare, egoista tra tanti egoisti suoi pari, il filo della corrente che dovesse portarlo alla meta! Ariberti non doveva avvezzar l'animo ad un così miserabile uffizio; capacitarsi che la vita è una sconcia battaglia cogli uomini, con sè stesso, colla necessità, infine, con tutto; persuadersi che, per andare avanti da sè, bisognava non solo aver fortuna, ma costanza e pazienza, farsi piccini ad ogni buco, conquistare a forza le prime cinque lire, contarci su, menare una vita da formiche, non perdere un'ora nè un minuto, non dormire all'occorrenza e non mangiare, rispettar molto e disprezzare altrettanto, essere o parere non curanti d'ogni grandezza, come d'ogni disgrazia, far poco assegnamento sugli altri, e spenderli tutti quando ne venga il destro, andar oltre tenendosi al muro e saper poi girar largo ai canti, ottenere a stento la sua parte di strada e lì subito farsi d'ogni cosa schermo alla testa, sempre per paura di un embrice che caschi. Vergognosa esistenza! E quando non si è tristi del tutto, quando si ha un briciolo di cuore, una scintilla di poesia, di fede e di amore nell'anima, trovare anche il tempo di non odiare il nostro simile e di perdonargli il suo egoismo, sperando che egli lo perdoni a noi pure, secondo la massima del paternostro, vecchia preghiera, di cui tanti divoti pappagalli hanno smarrito il senso, a furia di recitarla in latino.

Eppure, tanta è nell'uomo la possanza del mal abito, così forte il gusto del pessimo (informino tutti i veleni e le pestifere sostanze, a cui il nostro palato si avvezza con mitridatica cura), che il signor baccelliere, dopo aver tanto meditato e tanto maledetto, non sentiva altro desiderio, altra impazienza, che di tornare alla sua vita di prima. E ci tornò col novembre, fornito la borsa dei materni risparmi e foderato il cervello di buone intenzioni. Gli uni e le altre quanto avevano a durare? Vedremo in processo di tempo. Frattanto, bisognerà dire che cominciò l'anno scolastico frequentando assiduamente l'Università e tenendosi lontano dai cavalieri di Malta. Ma dove e con chi aveva egli a passare le ore bruciate del giorno, se coi signori della Dora ci aveva l'astio e con Filippo Bertone era senz'altro alle rotte?

Fu un lungo battibecco tra il suo diavolo buono, e il cattivo; finalmente la diedero nel mezzo, e il nostro eroe si riaccostò più strettamente all'Euterpe, colla scusa che non ci aveva a rimettere, ed anzi ci guadagnava i danari delle male spese. Inoltre, e non ci aveva sempre il suo dramma da far recitare? E non era quella la strada per trovare un capocomico? Infine, che serve? c'è sempre nei ripostigli della coscienza una buona ragione, per indurci a fare quello che più ci talenta. E siccome poi in tutte le strade per cui un uomo si mette, egli ci na sempre a trovare qualcosa che dia nuovo indirizzo al suo vivere, sentite che nuovo caso intervenne al nostro signor baccelliere, ridiventato giornalista teatrale.

CAPITOLO XI.

Nel quale si fa conoscenza con una bella ungherese.

Era andato una sera a teatro, non so bene se al Rossini, o al D'Agnennes, o ad altro dei teatri di second'ordine della vecchia capitale del regno. Si cantava un'opera alla svelta, senza grandi apparecchi, senza sfarzi, come si usa in Italia colle opere dei nostri grandi maestri della prima metà del secolo, che debbono piacere per la loro musica, anche male eseguita, come certe ragazze, mandate attorno alla buona debbono piacere pei loro begli occhi. Mancando gli artisti di grido e lo sfoggio dell'allestimento scenico, lo spettacolo era poco attraente; ma il Regio era ancora chiuso, e, per un trattenimento di mezza stagione, ce n'era anche di avanzo. Così almeno pensava l'impresario e, colla loro facile contentatura, sembravano ammettere i frequentatori del teatro; i quali, del resto, erano pochi in platea, pochissimi nei palchi.

Che cos'era andato egli a fare là dentro? Ad ammazzare la noia, ed anche a sentire la prima donna, una diva di seconda categoria, che il direttore dell'Euterpe gli aveva raccomandata caldamente. Ora, siccome, per servire l'amico, non occorreva mettere tutta la sua attenzione alla scena, il nostro Ariberti era molto distratto; e poichè la noia non l'aveva ammazzata, stava là in piedi, vicino all'ingresso, per aspettare che la sua raccomandata finisse di cantar la romanza, e pigliare subito dopo il portante.

Ma appunto allora, un applauso sollecito che non aveva voluto attendere gli ultimi gorgheggi dell'aria, gli fece voltar gli occhi da un palco del primo ordine. Ci erano dentro due dame, una vecchia e una giovane, con un signore in mezzo a loro, ed in piedi, che applaudiva anche lui, ma soltanto per compiacenza, come dimostrava la lentezza dei movimenti e il lieve sfiorar delle palme. La vecchia era vecchia, e non fa mestieri dirne altro. La giovine era assai bella, di fattezze regolari e delicatissime, di pieni contorni e d'una bianchezza rara, che faceva contrasto cogli occhi neri e grandi, colla capigliatura corvina e abbondante, e colla veste di velluto nero, che la stringeva gelosamente fino alla radice del collo.

Era lei che aveva applaudito per la prima. Le sue belle mani, morbide e sottili, si agitavano ancora a mezz'aria. L'atto parve strano al giovine Ariberti, che non aveva mai veduto una signora usurpare in tal guisa i diritti del sesso più forte e più chiassone. Evidentemente costei era una forastiera; che, quanto a giudicarla una provinciale, si opponevano del pari una schietta eleganza e quella bellezza singolare, che conferisce di primo lancio ogni diritto di supremazia, non che di cittadinanza, alla donna.

Quella gentil figura colpì grandemente l'Ariberti, che dimenticò senz'altro il proposito fatto poc'anzi di andarsene. In un teatro mezzo vuoto, poche cose bastano qualche volta ad attirar l'attenzione di uno sfaccendato; figuriamoci poi quando si tratti di una bella donnina, miracolo che non è dato di vedere ogni giorno. E allora il teatro, anche tappezzato di facce proibite e imbottito di sbadigli, vi si tramuta di punto in bianco, vi diventa come un museo, dove una bella Venere vi trattiene lungamente estatico in una gran sala fredda e malinconica, popolata all'intorno di torsi, di fauni, di filosofi greci e d'imperatori romani.

Ariberti facendo le viste di guardare sbadatamente in giro, diede tre o quattro occhiate furtive alla sua statua, e potè sincerarsi che la ci aveva proprio nei contorni del viso un'aria di famiglia colla Venere Capitolina, come gliel'avevano fatta conoscere i modelli di gesso della benemerita arte lucchese. La sua Venere aveva sempre gli occhi rivolti alla scena, e i movimenti agili e graziosi della sua testolina, e il lampeggiare de' suoi occhi profondi, indicavano che essa pigliava gusto alla rappresentazione.

Il cavaliere era in piedi vicino a lei, e spesso si faceva innanzi, appoggiandosi colle mani sul davanzale del palco, o per vedere sui lati, o per far vedere ai popoli circostanti la sua intimità colla dama, a cui diceva sempre le più leggiadre cose del mondo. Ma ella non parea dargli retta; sorrideva, accennava del capo, prendeva il binocolo per guardare un tratto qua e là; ma subito lo deponeva sulla mensoletta di velluto, e tornava cogli occhi alla scena.

E tuttavia, con quella mobilità somma di sguardo che le donne hanno comune coi leporidi, la signora vedeva anche tutto ciò che si faceva in platea, e la terza occhiata di Ariberti ebbe un ricambio inaspettato, che al nostro osservatore fece l'effetto di una scintilla elettrica, a dir poco.

Si cominciava bene; e appunto perciò bisognava andar cauti, per non guastare le uova nel paniere. Di queste faccende il giovine Ariberti aveva l'istinto, non l'esperienza; e l'istinto, lo fece andare alcuni passi più indietro, ed appoggiarsi contro la curva parete della platea, per modo che, voltandosi a mezzo, potesse vedere lei, senza esser veduto dalla vecchia, se era una suocera, e dal cavaliere, se era un marito, o un aspirante. Così, senza parere, andava a suo bell'agio adocchiandola e sì veramente in lei compiacendosi… Ma qui mi accorgo di essere sull'orme di messer Giovanni Boccaccio, mio riverito maestro, e mi fermo, per non inciampare nello strascico del suo magnifico lucco fiorentino, allungato nobilmente a mo' di toga romana.

Dirò invece che il nostro Ariberti notò minutamente ogni bellezza della sua sconosciuta, e il bianco perlato della carnagione e le nere pupille sfavillanti da due globi del colore del cielo (vere folgori affogate in un mar di latte, direbbe la scuola moderna) e la soave rotondità del collo, e la curva armoniosa dell'òmero, e tante altre mirabili cose, che a notarle tutte in fila, ci vorrebbe la pazienza d'un notaio. Una, su tutte le altre, colpì il nostro osservatore, e fu quella purezza di lineamenti, unita ad una somma delicatezza, donde la bellissima testa assumeva i contorni, ricisi e morbidi ad un tempo, d'una statua greca. E invero, costei pareva opera di un nuovo Pigmalione, che avesse lavorato amorosamente di scalpello sulla grana gentile d'un marmo di Carrara, e poi ottenuto dalla compiacenza dei celesti di soffiarle un alito di vita nel petto.

Mentre il giovine Ariberti beveva a lunghi sorsi «lo suo dolce veneno», la sconosciuta aveva notato il suo cambiamento di posto, si era accorta che tutta quella conversione a destra e quell'appostamento a sottosquadro eran fatti per lei, e di tanto in tanto chinava gli occhi verso quel giovinottino elegante, bruno di capegli, pallido in viso, e di lineamenti aperti, che dardeggiava a lei così vivide occhiate. Quelle occhiate dicevano un subisso di cose; egli aveva nello sguardo tutte le precocità, tutti… Ma via, dopo aver risicato d'inciampare nel lucco fiorentino di messer Giovanni, darò vergognosamente nelle strampalerie della scuola moderna?

Torniamo ai fatti. Evidentemente, egli piaceva a lei, come ella a lui. Bel romanzo, che doveva restare lì in tronco, dopo una ventina di guardate sentimentali, appoggiate da una dimostrazione offensiva di binocoli! Ma quanti non sono nella vita i romanzetti che finiscono così! Quella donna aveva il tipo nordico; veniva dall'Inghilterra, o dalla Russia, dove le donne son così belle coi capelli biondi, e bellissime poi quando li han neri, come le nostre donne italiane. Quelle chiome corvine della zona temperata e quelle diafane perlagioni di carne delle regioni artiche, compongono una così strana forma di bellezza, da ricordare certe figure di keepsake, o di strenna, per dirla italianamente, le quali fanno guardare lungamente, poi che si è chiuso il volume.

Così pensando, o qualche cosa di simile, Ariberti argomentò che quella gentile apparizione e quella muta corrispondenza di sguardi, sarebbero state una memoria per lui, soave ma fuggevole del pari, bella ma senza profumi, come la viola del pensiero che si chiude a ricordo tra le pagine di un libro. E immaginando la fugacità del suo gaudio, volle assaporarlo tutto, ristringendo in un'ora di contemplazione quel romanzo geniale, che, come potete indovinare, egli avrebbe assai volentieri allungato di trecentosessantacinque dispense.

Questo pensiero, impadronitosi di lui, fece sì che il nostro eroe non si sentisse punto impacciato a sostenere lo sguardo della bella sconosciuta, e non provasse quel senso molesto di suggezione che è così naturale ai giovani in simili casi. Del resto, essa lo guardava con una certa curiosità grave, mista di umanità e di ritenutezza, che, sebbene gli riuscisse nuova, non lo sconcertava per nulla. Infine, o non poteva pensare anche lei ciò che a lui girava per la fantasia, intorno alla fugacità di quell'ora?

Mentre era lì ritto a piuoli, cogli occhi in aria e il pensiero alla dama, Ariberti fu accostato dal direttore dell'Euterpe. Lì per lì, il nostro innamorato lo mandò cordialmente a tutti i diavoli, perchè il nuovo venuto, oltre al disturbarlo che faceva nelle sue speculazioni, veniva a piantarglisi proprio da fianco, sulla sinistra, e ad interrompergli la visuale. Ciò per altro non tolse che gli stringesse amichevolmente la mano. Dopo tutto, poteva andar peggio. Se il direttore dell'Euterpe gli fosse passato da destra, non lo avrebbe distolto dalla mancina, e non si sarebbe anche molto facilmente avveduto di quella leggiadra persona che sporgeva dal suo palchetto, a così breve distanza da loro?

Fortunatamente per lui il bravo giornalista aveva quella sera da compiere il suo giro teatrale e non si tratteneva che pochi minuti. Scambiate alcune parole intorno allo spettacolo, si dispose a partire, invitando Ariberti ad andare con lui.—No;—gli rispose il giovane, che metteva in pratica tutta la sua diplomazia;—sono un cronista dilettante, ma coscienzioso; ho promesso di udire la vostra raccomandata e ci sto fino all'ultimo.

—Siete più forte di me;—disse il direttore dell'Euterpe, che non mancava di spirito.—Quasi quasi, se non avessi intascato io l'abbonamento, crederei che aspettate d'intascarlo voi.

—Ohibò!—disse di rimando Ariberti.—Io amo l'arte per l'arte. La vostra cantante mi piace e vedrete che nelle mie note di domani ve la innalzerò fino alle stelle con una dozzina di superlativi.

—Ne taglierò una metà… per regalarli ad un'altra;—ripigliò il vecchio giornalista ridendo.—Addio, dunque, e buona guardia!

—E a voi buona ronda!—-aggiunse Ariberti, stringendogli la mano in atto di commiato.

Il direttore l'Euterpe se ne andò com'era venuto, senza avvedersi di nulla. Ariberti diede una rifiatata di contentezza, parendogli, e con ragione, d'essersi levato un bruscolo da un occhio. E qui il savio lettore indovina che egli provò subito la bontà del suo occhio, sbirciando il noto palchetto.

La sconosciuta era sempre al suo posto. E sempre con quella sua curiosità grave, guardò il direttore dell'Euterpe mentre passava sotto il suo palco, lo seguì lentamente cogli occhi fino in mezzo ai due pomposi carabinieri che facevano da Telamoni all'ingresso, indi tornò a contemplare la scena, accostò il cannocchiale alle ciglia (non so poi se per guardar nelle lenti, o di sotto), rispose alcune frasi alla sua compagna, o al cavaliere, e da ultimo abbassò «le luci belle» sull'estatico Ariberti; e tutto ciò senza sforzo, colla massima disinvoltura.

Abbrevio per non cadere in ripetizioni. Finito lo spettacolo, il giovine andò a fermarsi nell'atrio, e stette, contro il suo costume, a far ala sul passaggio delle gonnelle. La sua sconosciuta discese poco stante, tra la vecchia e il cavaliere, più lezioso, più sbraciato che mai. Nel passare davanti ad Ariberti, essa gli lanciò una rapida occhiata, e andata più oltre, sotto colore di ravviarsi il cappuccio sulla testa, trovò ancora il modo di voltarsi un tratto e lasciargli vedere il suo stupendo profilo. Indi, leggiera come una gazzella, uscì sulla strada, salì in carrozza e via.

Buona notte, adunque! Il giovinetto se ne andò a casa in quello stato di piacevole turbamento che accompagna di solito il nascere d'una passioncella amorosa. E raccolto sotto le coltri nella fida compagnia di sè medesimo, sognò la gentile apparizione, in cui trovava per allora un conforto a quel disinganno che aveva sofferto colla marchesa di San Ginesio.

Il giorno seguente, pensò egli all'università, come io e voi a farci monache. Passeggiò invece lungamente sotto i Portici di Po, sperando sempre di imbattersi nella sua bella sconosciuta, ma invano. La sera, poi, non fu niente più fortunato in teatro. Evidentemente era una viaggiatrice, ed aveva lasciato, o stava per lasciare Torino. Pazienza! Il nostro Ariberti si rassegnava a vivere di ricordi, e a chiudere quella viola del pensiero che sapete tra le pagine del suo taccuino.

«Vedi giudizio uman come spess'erra!» Due giorni dopo, andando finalmente dal direttore dell'Euterpe a recargli quelle note teatrali che gli aveva promesso, n'ebbe un'uscita, a cui nè egli, nè altri nel caso suo, si sarebbe mai aspettato.

—Oh, eccovi qua, buona lana! Vi aspetto da ieri mattina, ed ero già per fare il miracolo di Maometto, venendo io a cercarvi.

—Che c'è?

—C'è, caro mio, che ho promesso di presentarvi quest'oggi ad una bella signora.

—Me?—dimandò il giovine, inarcando le ciglia.

—Voi, certamente; che ci trovate di strano?

—Nulla, e tutto. Chi è questa signora?

—Una ungherese, che canterà quest'inverno al Regio, nell'opera di ripiego, colla compagnia di supplemento, insomma. È una bella signora, o signorina che s'abbia a dire. Già, queste benedette prime donne non si sa mai come chiamarle. La nostra si è data al palcoscenico per disgrazie di famiglia; almeno, così mi scrivono da Milano. Come artista non so ancora che roba sia; ma capirete che bisognerà trattarla bene.

—È abbonata?—entrò a dire Ariberti.

—S'intende;—rispose quell'altro.

—Ma, dopo tutto,—ripigliò il giovane,—non capisco, ancora perchè abbiate questo bisogno di presentarmi a lei.

—Oh bella! Perchè me lo ha chiesto.

—Lei?

—Lei, proprio Lei.

—Ma come mi conosce, di grazia?

—Caro mio,—disse il giornalista, ridendo,—non mi sono mai fatti tanti se e tanti ma per essere presentato ad una bella signora. Del resto, eccomi qua a contentarvi. La signora in discorso era l'altra sera a teatro quando ci siamo incontrati, mi ha veduto stringervi la mano e mi ha chiesto chi eravate. Vi basta?

Il cuore di Ariberti avea dato un sobbalzo a quelle parole del giornalista. Benedetto cuore, sobbalzava sempre! Ma già i lettori hanno capito che il mio eroe ci aveva un cuore tenerissimo, delicato come le bilance dell'orafo.

—E voi,—chiese allora Ariberti,—gli avete detto…

—Tutto il bene che penso di voi, del vostro cuore, del vostro ingegno, dei vostri studii profondi…

—Ottimo amico!

—E gli ho anche detto che scrivete qualche volta per me sull'Euterpe. Fa bene al giornale che queste cose si sappiano. La penna di un valente letterato non guasta mai.

—Grazie infinite.

—E agli artisti,—proseguì il giornalista, che voleva dir tutto,—agli artisti piace che le loro stonature abbiano il suggello di una frase girata a modo.

—Sì, sì, ho capito. Io dunque dovrò…

—Venire oggi da lei. Aspettate; mancano venti minuti alle due. Potremmo andarci fin d'ora. Si passa alla tipografia per dare in composizione il vostro originale… Vedete, mi fido di voi, e lo consegno alla posterità senza pure guardarlo. Poi, si prosegue fino all'angolo di via d'Angennes, dove abita la signora, Szeleny. Ragazzo fortunato! Avete dato nell'occhio alla diva, certo l'avete ammaliata…

—Io? Fino a questo momento non sapevo neppure che fosse al mondo.

—Eh via! Le avete fatto l'occhiolino.

—Vi giuro…

—Non giurate, vi prego; piuttosto crederò tutto quello che vorrete. Del resto, non c'è niente di male, ed io sono lieto di farvi servizio. Se non fossi ammogliato e con prole, chi sa? forse mi verrebbe voglia di contendervi la preda. Ma con tutti questi amminicoli e con qualche pelo grigio nella barba, ragazzo mio, vi cedo il posto e mi contento del prezzo d'abbonamento al giornale.—

Tra queste chiacchiere, i due amici giungevano all'angolo della via d'Angennes, indicato poc'anzi dal direttore dell'Euterpe, e questi introduceva il suo Telemaco nel quartierino abitato dalla diva.

La signora Szeleny (o più vero nome, direbbe qui un cancelliere di tribunale) si fece cortesemente sulla soglia del suo salotto, per ricevere i due visitatori. Il vecchio giornalista schiccherò la sua presentazione, e Ariberti la appoggiò con un profondo inchino, mentre nel volto sbiancava, per un turbamento assai facile ad intendersi nel suo caso. La signora gli porse la mano, quella mano morbida, e sottile che egli aveva tanto ammirato, e guardandolo, come suol dirsi, nel bianco degli occhi, gli rivolse queste parole, notevoli nella loro schiettezza e nella semplicità con cui furono profferite: «noi ci conosciamo già; non è vero?»

Il giovane arrossì, come aveva sbiancato pur dianzi, prese divotamente la mano che ella gli offriva, e balbettò un sì, amabilissimo nella sua timidezza. Era tutto quello che si potea forse dire nel caso suo, senza aver aria di presuntuoso o di sciocco.

La conversazione, come potete argomentare, non fu incominciata da lui. Sarebbe stata incominciata da lei, se fossero stati in due soli. Ma c'era per buona sorte il vecchio giornalista e toccava a lui di dare l'impulso alle ruote. Il nostro Ariberti ebbe tempo a rimettersi in carreggiata, e fece il debito suo, animato come era da quella benevola attenzione che avrebbe cavate le parole di bocca ad un muto.

Quindici minuti dopo, non erano già più al solito frasario di tutti i primi colloquii. La patria della signora aveva inspirato lui, e il discorso entrava sotto il dominio della corona di Santo Stefano. Il direttore dell'Euterpe, tirato pei capegli (e ne avea pochi) in mezzo agli ispidi nomi dell'arte e della letteratura magiara, se la cavò con un negozio urgentissimo che lo chiamava altrove, Mentore da burla, egli si trovava a disagio tra Calipso e Telemaco.

—Cattivo!—gli disse la signora Szeleny.—Almeno non portate via il signor Ariberti.

—Signora,—rispose il giornalista, con una delle sue solite celie,—se anco volessi essere così crudele da farlo, non mi sentirei così forte del pari. Le lascio dunque il dottore, che dopo tutto non mi seguirebbe volentieri.—

Il direttore dell'Euterpe chiamava già Ariberti «il dottore» precorrendo di tre anni gli eventi. I giornalisti, si sa, camminano sempre alla vanguardia del secolo.

Ariberti, dunque, rimase, non senza aver ringraziato la dama dell'insigne favore che essa gli faceva trattenendolo. Si stava così bene vicino a lei! E lei dal canto suo, non doveva gradire ugualmente la compagnia di un così gentil cavaliere, obbligata com'era a parlar sempre con impresarii, agenti teatrali, e colleghi di palcoscenico, ed occuparsi sempre di scritture e di prove, o a ricever lettere e visite di vagheggini importuni? Oh, questi, poi, non li poteva patire. E raccontava, con quella sua schiettezza facile, poeticamente zingaresca, tutte le noie, tutte le molestie a cui va esposta una povera artista, quando sia nulla nulla piacente della persona, con tanti sciocchi zerbinotti d'ogni età e di ogni ceto.

Il giovane Ariberti avrebbe voluto domandarle se il cavaliere che aveva veduto con lei a teatro era uno di quelli; ma non gli parve d'essere ancora in tanta confidenza per farlo. Prese in quella vece un mazzolino di viole màmmole, che stava su d'un tavolincino di lacca cinese davanti al sofà, e stette a guardarlo con una certa attenzione.

—È il dono mattutino di una mia amica;—disse la signora Szeleny;—una giovinetta che si dedica al teatro anche lei. Ci siamo conosciute la settimana scorsa in questo medesimo quartierino, perchè essa è la nipote della padrona di casa. È figlia di un vecchio ufficiale di marina ed è stata educata a Londra. Essa dall'Inghilterra; io dall'Ungheria; guardate che incontri. Ve la presenterò, perchè deve capitare tra poco, e la vedrete; è bella come un sole.

—Signora,—notò con atto di galanteria l'Ariberti, badi che il —paragone del sole è già ipotecato.. con Lei.

Ella sorrise come donna avvezza a complimenti di tal sorta, ma negò, senza metterci affettazione, quel che affermava il dottore in erba. Sapeva pur troppo di non esser bella, perchè le belle, o non hanno mestieri di uscire da casa loro, o non ne hanno la libertà, perchè si trovano il più delle volte ipotecate (e qui ella adoperava scherzosamente il vocabolo forense del suo interlocutore) prima che conoscano i diritti e le ragioni del cuore.

Quella allusione di lei ad una vita anteriore e lontana toccò l'Ariberti sul vivo. Perchè? Non lo sapeva nemmeno lui, ma forse perchè tutti noi, quando amiamo una donna, vorremmo sempre esser giunti i primi, alle porte del suo cuore, o vorremmo giungere i primi, quando, per un nostro capriccio, ci mettiamo sulla galanteria, disposti sì e no ad imbarcarci nel tenerume.

S'intende che quel senso ingrato, che gli avean fatto le parole della diva, il giovine Ariberti se lo tenne per sè, provandosi invece a sciorinare tutti gli argomenti che si potevano addurre contro la sua tesi troppo ricisa e paradossale. Ma ella, col diritto che hanno le donne di rifiutarsi a tutte le sottigliezze della logica, gli diede sulla voce, ammettendo di poter riuscire simpatica a qualcheduno, e di esser buona per sè medesima. E questo doveva essere; almeno, lo dimostrava ampiamente quella sua schietta semplicità, se pure non era furberia di tre cotte. Del resto, era colta e di belle maniere, piena di grazia e ricca di quell'eleganza naturale che si manifesta in ogni atto della persona, anche il meno rilevante, e dà uno spicco particolare alle vesti neglette di casa come all'abbigliamento sfoggiato di una festa da ballo.

Mentre erano in quei discorsi, un uscio si aperse ed entrò nel salotto la vecchia signora che Ariberti aveva veduta colla diva in teatro. Era la madre, donna grave e di modesto aspetto, la quale salutò il giovane e scambiò colla figlia alcune parole in una lingua, che a lui parve turca, o giù di lì. La qual cosa non tolse che egli ascoltasse con piacere ineffabile, quasi fossero una musica celeste, le parole profferite in quella lingua dalla bella figliuola. Poco stante udiva il suo nome, gradevolmente strascicato in quell'idioma, e indovinando che la signora Szeleny lo presentava lui a sua madre, le fece un secondo inchino (il primo lo aveva fatto al primo apparire di lei) e sudò freddo per non essere venuto a capo di intendere la frase che ella gli disse in un francese da cani. Era il poco che la vecchia signora masticava; quanto all'altre lingue, all'italiana in ispecie, non ne sapeva una maledetta.

Per tal guisa, facilmente liberato dalla molestia d'una conversazione in tre, Ariberti si sentì solo colla sua dama, com'era prima, e continuò allegramente la guerricciuola delle frasi galanti. Seppe tra l'altre cose che la signora si chiamava Giselda e giurò di non aver mai sentito un nome più bello. Ed anche lui non aveva un bel nome, Ariberto? Madonna Giselda lo trovò dolce come una melodia italiana.

Ariberti nuotava in un mar di latte. Compatiamolo. Per la prima volta in sua vita egli si trovava involto in quel piccolo mondo di dolcezze, di fragranze e di tutto quel ben di Dio che vorrete, in cui vive e a cui dà vita una donna gentile. Va bene che quel salotto non era il pensatoio d'una gran dama, nè il quartierino un palazzo. Nemmeno la signora Giselda era una duchessa, od altro di somigliante; ma era bella, elegante e colta, e questi titoli parvero in ogni tempo più che bastanti ad innalzare una donna, ed anco a tramutarla in regina. Ciò posto, non occorreva notare (tanto, il nostro eroe novellino non era così esperto da badare a simili inezie) che il mògano usuale dei mobili non era legno di rosa, che la sargia colorata della tappezzeria non era damasco, e che quel grazioso tavolincino, su cui posavano le viole mammole, come un presente divoto sull'ara del nume, era di lacca bensì, ma moderna ed apocrifa.

Del resto, che cos'altro è il piacere nella vita dell'uomo, se non una apparenza, un profumo, una delibazione delle cose? E non è desso piuttosto in noi, che fuori di noi? Fantasia vagabonda, non sei tu che dài lume e colore a ciò che vedono gli occhi? Il cuore istesso, questo povero cuore, a cui si dà colpa d'ogni falso indirizzo e d'ogni male che c'incolga, è un docile strumento in tua mano; arpa di cui tu sfiori le corde, e ne traggi, ora i lieti, ora i flebili suoni.

La beatitudine del nostro Ariberti fu turbata una seconda volta dall'aprirsi di un uscio; ma questa volta dalla parte dell'anticamera. Due signore erano annunziate, e la prima di esse, che era eziandio la più giovane, irruppe, più che non entrasse, nel salotto della signora Szeleny. Giselda si era alzata dal sofà per muovere incontro all'amica; ma questa non le diè il tempo di spiccarsi dal suo posto; volò verso di lei, la strinse nelle sue braccia, le scoccò due baci rumorosi sulle guancie, si staccò un tratto per guardarla negli occhi, indi tornò a baciarla, ridendo come una pazza.

Giselda lasciava fare; si concedeva di buon grado a quegl'impeti di affetto, ma senza ardore di compiacenza, e ad uno spettatore anche meno imbevuto di classicismo che non fosse l'Ariberti, avrebbe fatto ricordare la statua d'una bella dea dei tempi pagani, che si lasciasse umanamente involgere in una nube d'incenso, ma senza smuoversi d'un punto dal suo piedistallo. Poi, come l'amica si fu chetata, Giselda si volse ammezzo e le additò il giovane che stava immobile a contemplarle.

—Il signor dottore Ariberto Ariberti;—disse ella in pari tempo, presentandole il suo visitatore.

La nuova venuta rispose con un mezzo inchino al saluto del giovine e gli diede un'occhiata inquisitoria, come se volesse squadrare e pesare il personaggio di un colpo.

Anche Ariberti la guardò attentamente, e, fosse perchè tutte quelle carezze lo avevano indispettito o perchè veramente la ci avesse qualcosa di ostico nella persona, fatto sta che non gli piacque punto. Era bella molto, ma d'una bellezza rigida; bianca, con occhi e capegli nerissimi, la fronte stretta, il naso diritto, la bocca ben fatta, ma di duri contorni. Perfino i colori del suo abbigliamento, che era grigio con mostreggiature di seta azzurra, aiutavano a darle quell'aspetto di freddezza, che svegliò nel cuore di Ariberti un senso di ripulsione indicibile.

Come poi tutta quella apparenza di rigidità si accordasse colle sue rumorose dimostrazioni di affetto, non saprei dire ai lettori. Forse, appunto perchè erano rumorose, non potevano aversi in conto di profonde e sincere. Forse, come Diana cacciatrice, a cui somigliava un tantino, la nuova venuta non amava gli uomini e doveva riuscir loro inamabile. Forse… Ma non poteva anche darsi che tutte quelle brutte cose le avesse vedute Ariberti cogli occhi della fantasia? Egli era diventato di pessimo umore, e il pessimo umore (chi nol sa?) fa veder buio a mezzogiorno.

Comunque fosse, rimasto ancora pochi minuti per le buone creanze e prestata una mezza attenzione al cicaleccio delle signore, dal quale potè cogliere appena che la nuova venuta si chiamava Mary, che era nata a Nizza, che doveva andare quel giorno a veder le bellezze e le rarità di Torino in compagnia di alcuni gentili cavalieri, e che invitava l'amica ad essere della brigata, Ariberti si alzò e prese commiato.

Giselda si era avveduta (e di che non si avvedono le donne?) che il giovinetto aveva il broncio con qualcheduno, e col pretesto di avergli a chiedere un servizio lo accompagnò fino all'anticamera, come avrebbe fatto per un'amica, o per qualche gran personaggio.

—Verrete domani?—gli chiese, prendendogli amorevolmente le mani tra le sue.

—Signora,—balbettò egli confuso,—non vorrei essere importuno…

Ella tenne fermo con ostinatezza infantile.

—Verrete domani?—replicò, alzando la voce di un tono.

—Verrò;—rispose il giovine, affascinato da quelle parole e dallo sguardo ond'erano accompagnate.

E resa la stretta, di mano, si avviò al pianerottolo. L'uscio si richiuse dietro a lui ed egli approfittò di quella solitudine per appoggiarsi alla ringhiera… Infatti, ce n'era bisogno; quel breve dialogo gli aveva dato al cervello, e il nostro innamorato nello scendere le scale barcollava come un… l'ho a dire? No, lettori umanissimi; immaginatelo voi.

CAPITOLO XII.

Dove si vede il mio eroe più innamorato che mai.

E poichè siete sull'immaginare, lettori umanissimi di cui sopra, immaginate ancora con che ansia, con che febbre, il nostro eroe aspettasse il domani e poi l'ora di tornare a quel benedetto angolo di via d'Angennes.

L'ora! qual'ora? La signora Szeleny non gliene aveva detto nessuna. Pensandoci bene, poteva esser quella del giorno addietro; ma il giorno addietro egli era andato per la sua presentazione alle due; ora, pensandoci bene, gli parve che alle due avrebbe fatto troppo tardi per una visita a cui era stato impegnato con tanta benevolenza. Credette perciò conveniente di anticipare un pocolino e la conseguenza di questa riflessione si fu, che alle undici del mattino il signor dottore, o baccelliere che vi piaccia chiamarlo, poneva il piede in quella stessa anticamera dove la bella ungherese gli aveva fatto il dolcissimo invito.

La donna di servizio lo introdusse nel salotto. Il tempio era deserto.

—È già uscita la signora?—domandò il giovinotto, fermandosi sulla soglia.

—Nossignore; è ancora allo specchio. Aspetti, ora vado ad avvertirla.

—Mi rincrescerebbe scomodarla. Non le dite nulla; tornerò più tardi.—

Quello scambio di parole tra lui e la donna di servizio fu udito dalla camera vicina, e il fruscio d'una veste e lo scricchiolio d'una sedia smossa avvertirono l'Ariberti che egli non aveva più il tempo di uscire dal salotto. Subito dopo, si aperse l'uscio e la signora Szeleny apparve dal vano colla sua bella testolina e mezzo il petto, chiuso in un accappatoio di cambrì; segno evidente che ella stava per l'appunto mettendosi in assetto di guerra, o di galanteria, che per una bella signora è tutt'uno.

—Aspettate, vengo subito;—diss'ella.—Abbiatevi intanto il buon giorno.

E scomparve, prima che Ariberti avesse avuto il tempo di ringraziarla.

Per altro, ebbe il tempo di fare molte altre cose, poichè la signora non venne subito, come aveva pur detto. Egli ebbe il tempo, verbigrazia, di dare una guardata a tutti i quadri e a tutte le stampe che decoravano le pareti; il tempo di esaminare, senza capirne nulla, una scenetta cinese che era tratteggiata in oro sulla lastra di quel tavolincino di lacca, che già i lettori conoscono; il tempo di sedersi tre volte e di alzarsi altrettante, infine, poichè bisogna dir tutto, il tempo di persuadersi che aveva fatto male ad ascoltare i consigli della sua impazienza, e di darsi dello stolido a tutto pasto.

Andando qua e là per la sala, gli venne finalmente veduto su d'uno scaffale, presso il pianoforte, un grosso volume dalle carte dorate, legato in pelle, con borchie e fermagli d'oro. Lo aperse e vide che era un albo, pieno zeppo di versi, la più parte ungheresi e tedeschi, poi francesi, inglesi, ed anche italiani. Ariberti non poteva leggere che questi e i francesi, che d'inglese ne masticava poco, e niente affatto di magiaro e tedesco. Egli dunque si fece a scorrere quello che intendeva, e non ebbe a lodarsene molto, perchè erano versi da dilettanti, o giù di lì.—Saranno migliori gli ungheresi e i tedeschi, di certo!—pensò egli tra sè. E torno indietro, facendo scorrere i fogli, fino alla prima pagina, per vedere chi avesse cominciato quella antologia di complimenti rimati.

—Ecco un poeta modesto!—notò l'Ariberti vedendo a pie' della pagina un nome solitario, cioè senza la compagnia del casato.—Generalmente, in questi campi chiusi della vanità ci si sottoscrive nome e cognome a tanto di lettere, sperando che la gloria si fermi e sorrida. Ma, lui, questo signor Paulus… che ragione avrà avuto, per non dir altro di sè?

Mentre il nostro giovine stava pensando al signor Paulus, capitò la signora Szeleny; ed egli fu sollecito a deporre il volume sullo scaffale.

—Vi ho fatto aspettare;—diss'ella con accento che esprimeva il suo rammarico e insieme una affettuosa sollecitudine pel giovinetto.

—Che! non mette conto parlarne;—rispose egli, stringendo la bella mano di Giselda e rammorbidendosi tutto a quel soave calore.

—Scusate, ve ne prego;—soggiunse la signora Szeleny, tenendo la sua mano in quella del giovine, ed aiutando anzi con essa la sua perorazione vittoriosa;—noi donne siamo fatte così; quando ci mettiamo allo specchio vi restiamo fino a tanto che il troppo sincero testimone, o per compiacenza, o per stanchezza, non diventi bugiardo.

—Il vostro, signora, vi avrà detto una cosa sola dal principio alla fine; siete così bella!—

Questo voleva dire Ariberti, ma non gli venne fatto di trovar subito la forma più bella in cui compendiare la sua ammirazione. E perciò si tenne il suo complimento inedito; ma il suo sguardo attonito parlava chiaramente per lui.

Ora questi eloquenti silenzi tornano in molti casi più graditi alle donne, che non le più levigate fioriture del discorso, indizio quasi sempre di padronanza d'animo e di lavoro a freddo.

Appena il nostro Ariberti potè raccapezzarsi un tantino, si scusò colla signora Szeleny di esser giunto troppo presto; cosa che ella doveva attribuire soltanto alla sua impazienza, che dava contro a tutte le norme dell'etichetta.

—No, no,—interruppe Giselda,—io sono nemica giurata delle cerimonie. Avete fatto bene a venir prima; venite sempre a quest'ora. Io sono quasi sempre sola; non ricevo altre visite che quelle di andare qualche volta a teatro, per udire gli artisti, i colleghi,—soggiunse ella sorridendo,—che non hanno più la molestia di dover pensare alla prima rappresentazione.

—Se potessi offrirmi per vostro cavaliere…—entrò a dire timidamente Ariberti.—Ma voi, signora, avete compagnia migliore della mia.

—Che dite mai? Migliore della vostra non ce ne può esser nessuna. Mi ha cortesemente accompagnato due volte il cavaliere Roberti;—proseguì ella con aria di naturalezza invidiabile;—un signore compitissimo, che si è fatto presentare dal mio impresario, ma che mi sembra un po' troppo… galante, mentre io sono d'indole più tranquilla e di gusti più semplici.

Ariberti non sapeva se dovesse rallegrarsi o dolersi di quei cenni, che la signora Szeleny gli aveva buttati là alla sfuggita.

—C'è poi un'amica…—-notò egli, per non aver aria di fermarsi troppo sugli uomini.

—Ah sì, e molto bella, come avete veduto. Ditemi francamente vi piace?

—No.

—È strano;—esclamò Giselda,—tutti e due!

—Anch'io ho fatto la medesima impressione su lei? Ci ho gusto, perbacco!

—Sì, mi ha detto iersera che non le piacevate affatto. Ma non badate a queste cose…

—Vi ho detto che ci ho gusto;—ribadì il giovane, innamorato della sua frase.

—Sappiate,—proseguiva intanto la signora Szeleny, che qui c'entra un —pochino di gelosia. Mary è gelosa; non vorrebbe veder nessuno —intorno a me.

—Ma voleva ieri condurvi fuori con alcuni cavalieri di sua conoscenza.

—Sì, ma appunto perchè erano di sua conoscenza, e non amici miei personali;—rispose prontamente Giselda.—Del resto, non sono andata, e credo di non averle fatto dispiacere.—

Ariberti respirò, all'udire quell'altro cenno, buttato là a caso come il primo.

—Il guaio, in tutto questo,—diss'egli,—sarà che la signora Mary mi farà contro presso di voi.

—-No, cambierà; le diverrete simpatico.

—Oh, questo poi non m'importa nè punto, nè poco. Si tenga neutrale, e mi basta.—

La signora Szeleny lasciò cadere il discorso, che del resto era un episodio di poco rilievo nella loro conversazione, e si parlò d'altro, delle prove che sarebbero cominciate tra pochi giorni per lei, del timore che aveva di non incontrare il favore del pubblico, di lui, de' suoi studi, delle sue speranze, e qua e là, negli intervalli, d'amore, ma con riguardo, velatamente, sui generali, in terza persona, siccome è l'uso, quando si comincia a parlarne.

Questa graziosa conversazione, la più cara ad un uomo colto e mezzo innamorato, perchè essa è fior di sentimento, tutto fragranze e promesse, fu interrotta dall'arrivo di due altri… visitatori, che eravamo lì lì, col nostro eroe, per chiamare noiosi.

Va detto per altro, in omaggio al vero, che Ariberti li consacrò ambedue di gran cuore alle Deità infernali. Chi sa se la maledizione del poeta innamorato avrà poi sortito l'effetto?

Il primo di essi era un giornalista politico; l'altro un professore d'orchestra, concertista di violino a ore perse. Il giornalista, uomo di mezza età, ma lisciato, azzimato e pieno di pretensioni, tirava, come suol dirsi, la gioventù coi denti. Per sua fortuna, questi indispensabili arnesi erano ancora in essere; donde la conseguenza naturalissima che il nostro Minosse della politica sorridesse benignamente, come potrebbe sorridere un uomo che non avesse respirati mai gli acri effluvii d'antimonio in una officina tipografica, o intinto inchiostro d'un ufficio di giornale, per schizzarlo qualche volta, alla guisa delle seppie, contro amici e nemici. Sorrideva dunque benignamente, il nostro Minosse; stava impettito come un idolo indiano, e quando accennava di voler fare qualche grazietta, o di voler rispondere ad una frase laudatoria, incominciava a piegar la persona dall'imbusto; atto leggiadro che nulla più. Parlava in punta di forchetta, lento e solenne e lasciava sgocciolar le parole come gli oracoli del suo articolo di fondo. Qua e là seminava un'arguzia, ma con parsimonia, come chi sa di non averne molti da spendere. Insomma, stava in contegno, si teneva in osservazione, voleva piacere al suo uditorio, custodire gelosamente la sua prosa dai granchi, dai refusi e da tutte le altre noie dell'arte nobilissima di Panfilo Castaldi. Si sa; un errore di stampa vi può sformare, da solo, tutto quanto un articolo.

Questo bel tipo della specie letterata riuscì sommamente antipatico ad Ariberti. E doveva riuscirgli antipatico del pari il signor professore d'orchestra, concertista di violino a ore perse, con tutta la bontà che spirava dal suo viso aperto e il suo discorso senza pretensioni, perchè fu lui il primo a proporre e il più pronto a combinare per quella sera, in casa della signora Giselda, un piccolo concerto di pianoforte, violino e canto, per cui bisognava invitare anche il tenore e il baritono della compagnia e Dio sa quali altri dilettanti e buongustai, gente fatta a posta per andare in visibilio.

Era quello il mondo della diva, che involgeva Ariberti, dando una pregustazione di tutte le amarezze che gli avrebbe fatto inghiottire. Ma in fondo in fondo, ogni donna non ci ha il suo e non bisogna rassegnarsi a goderselo?

Si racconta da certi viaggiatori, che nella Cina, in quella terra famosa per le sue minuterie di mano e di pensiero, ci siano delle prigioni così gentiline all'aspetto, che ad uno dei nostri Alcidi popolani parrebbe di doverne sfondar le pareti con un pugno, e di voler anche riuscir fuori dal muro di cinta con un semplice colpo di spalla. Eppure, no; le sono così ben congegnate in forma di labirinto, con anditi, viottole, andirivieni, usci, usciolini, toppe, catenacci ed altri simiglianti gingilli, che perfino l'Ercole Farnese perderebbe la pazienza nei primi, e nei secondi poi si sgretolerebbe le dita.

Finalmente i due visitatori partirono. Ariberti per quella volta aveva fatto il provinciale, tenendo fermo il suo posto; e il giornalista politico, duro e stecchito come un granatiere di Federico II, balbettava con garbo la chiusa del suo articolo di fondo, si accommiatò prima di lui. Anche il professore concertista, che aveva bisogno di otto righe di cronaca, gli tenne dietro ossequiente, come fa il chierichetto col prete, dopo la lettura dell'ultimo evangelio e l'inchino di prammatica all'altare.

Al nostro innamorato sembrò che la signora Szeleny avesse dato una piccola rifiatata di contentezza.

—Vi hanno recato un po' di noia?—si provò egli a domandare.

—No;—rispose Giselda.—Il professor Baldi è molto bravo ed è amicissimo col direttore d'orchestra. L'avvocato Germani, poi, è, a quanto dicono, il più influente dei giornalisti di qui. Del resto, è un charmant causeur;—soggiunse la diva, con quella benevolenza che abbiamo tutti per le persone utili a noi.—Una cosa sola mi annoia, ed è questo dover ricevere ogni giorno, quasi ogni ora, quando la mente avrebbe mestieri d'un po' di riposo.

—Signora, io me ne vado;—disse Ariberti, alzandosi dalla sua scranna.

—Perchè?—dimandò ella con aria attonita.

—Ma…: per lasciarvi riposare.

—Cattivo! Non ho parlato mica per voi.

—Grazie;—ripigliò Ariberti, imitando senza avvedersene l'inchino del giornalista;—ma ad ogni modo bisognerà darvi un po' di tregua. Ho voluto rimanere dopo di quei due… signori, per dirvi che siete adorabile e che farete furore nel vostro concertino di questa sera.

—Ci verrete, s'intende?

—No, grazie, signora;—rispose il giovane con una cera da funerale.

—E perchè… se è lecito saperlo?

—Perchè… soffrirei troppo.—

La reticenza non era meditata, come il lettore potrebbe immaginarsi. Ariberti non era per anco uomo da somiglianti partiti. Voleva schiccherarle la sua brava dichiarazione e non sapeva da qual parte incominciare; l'occasione gli si era profferta ed egli l'aveva afferrata. Senonchè, pervenuto al punto di voler metter fuori il suo perchè, gli era parso di aver preso il lancio troppo presto; ma oramai, che farci? si era spiccato dalla riva e non c'era più scampo; bisognava spingersi innanzi, o affogare nel ridicolo.

—È fatta!—pensò egli tra sè, com'ebbe gettato il suo dado.

Ma pareva che la sua sorte non avesse a decidersi lì su due piedi. La signora Szeleny lo guardò un tratto, con occhio incerto, senza appuntare altrimenti la frase; e Ariberti, novellino com'era, potè credere che Giselda non lo avesse capito.

—Amico mio,—diss'ella con molta tranquillità,—come fare? son queste le noie dei poveri artisti. Bisogna fare buon viso agli altri, perchè lo facciano a noi. Ditemi dunque; dove andrete stassera?

—Io?—domandò il giovane, cascando dalle nuvole.—Al teatro Gerbino. Si recita un dramma nuovo, di cui si fanno già grandi pronostici; andrò a sentire che cos'è.

—Oh, come v'invidio!—esclamò Giselda giungendo le palme, con atto di fanciullesco rammarico.—Amo tanto il dramma! Andate dunque per voi e per me, e venite domattina a trovarmi. Io dovrò lavorare intorno a certi fronzoli donneschi, e voi mi racconterete l'intreccio del dramma.

—Vi obbedirò, signora.—-

Così dicendo, il giovinetto stendeva malinconicamente la mano, per prender commiato da lei.

—Badate che ci conto;—soggiunse Giselda, accompagnandolo verso l'uscio del salotto.—Voglio vedere…

Questa sì era una reticenza meditata, un laccio teso ad Ariberti, che ci cascò bravamente.

—Che cosa?—dimandò egli, fermandosi.

—Se sarete stato attento alla scena;—rispose ella, col più zingarescamente malizioso dei suoi leggiadri sorrisi.

Il giovane notò l'allusione birichina fatta alla prima volta che si erano veduti, e gongolò.—Ella mi ha inteso poc'anzi,—pensava,—e questa allusione è la risposta. Oh donna adorabile!—

Fece intanto un inchino lì per lì, senza rispondere una parola, che invero non ne avrebbe trovato di acconce, e si ritirò, promettendo di tornare la mattina seguente.

Guardò l'orologio quando fu nelle scale. Erano le quattro. Egli era dunque stato cinque ore da lei. Sì, ma mezz'ora non contava, perchè l'aveva passata da solo, aspettando; poi, quegli altri due importuni avevano fatto una stazione di forse due ore. Vedete che gente ineducata. Come si può star due ore per fare una visita? Dunque, ricapitolando, cinque ore meno due e mezzo, fanno due e mezzo soltanto. Ma bene; e lui dunque non ci era stato più del bisogno? Sicuro; ma lui, in fin de' conti, lui… era lui.

Con questa conclusione mise in pace lo spirito. Dico male; lo chetò sul capitolo della discrezione, ma non sugli altri, che già facevano un bel numero. C'era, per esempio, quella faccenda del concerto!… Il signor giornalista politico sarebbe andato a pavoneggiarsi, a far la ruota nel salotto di Giselda, a sciorinare il suo articolo di fondo. Guardate un po'! lasciava perfino il dramma nuovo, di cui si parlava da giorni per tutta Torino! E già, si capisce, anche il cavaliere Roberti avrebbe fatto lo stesso; si sarebbe eclissato al Gerbino, per andare a bisbigliare le sue galanterie a quel terzo piano di via d'Angennes. E il tenore, e il baritono, non contenti di aversela a contendere più tardi sulla scena… Insomma, tutto dava noia, tutto insospettiva l'innamorato, e i moscerini sul naso, diventavano mosconi, cavalocchi, pipistrelli, e che so io.

Andò quella sera al Gerbino; ma era svogliato, stizzito, pieno di mal talento, e il dramma non gli piacque, quantunque fosse di uno dei primi ingegni della moderna scuola francese, e quantunque gli applausi, che fioccavano da ogni parte, mostrassero che l'uditorio si accordava a pensarla diversamente da lui: «Orazio sol contro Toscana tutta». Accusò, ci s'intende, la pessima traduzione, che doveva esser fatta dal suggeritore della compagnia, e conchiuse che il gusto de' suoi concittadini (concittadini per mo' di dire) doveva essere molto depravato, se essi tolleravano di simili offese alla lingua italiana. E pensava involontariamente al contino Candioli; e gli tornava davanti agli occhi l'immagine di Filippo Bertone, colla sua marchesana di San Ginesio, quella superba Giunone che non si era degnata di volger gli occhi su di lui, Ariberti, se non per mettersi a ridere.

Al diavolo le donne, alte e basse, dame e pedine! Quella sera il nostro baccelliere andò a finire dal Mago, non senza aver passato in via d'Angennes a digrignare i denti sotto quelle finestre, donde gli veniva tanta luce dei soliti doppieri e tanta onda delle sempre elette armonie.

La sua apparizione tra i cavalieri di Malta fu salutata da un poderissimo evviva e celebrata con parecchi bicchieri di Gattinara, accompagnati dai più matti brindisi del mondo.

CAPITOLO XIII.

La pecorella smarrita ritorna all'ovile.

—Alla salute dell'estinto! di Lazzaro… semestrale, che esce fuori dal monumento fet….

—Ohibò! Questi aggettivi a tavola?

—Ma se viene dalla tomba! Non si può dunque più dire che ha pigliato il selvatico?

—Ah, così traduci il faisandé, topo cruscaiuolo.

—È proprio un morto risuscitato. Vedete che cera!

—Ariberti, dove hai lasciato il lenzuolo?

—Non gli dite nulla, poverino! Avrà fiutato un creditore per via.

—Come? ardirebbero i vili avventurarsi a quest'ora nei nostri paraggi?

—Amici, io bevo al ritorno di Ariberti, e alla distruzione dell'empia sètta.

—Meglio ancora che bere, sarebbe ammazzare il vitello grasso.

—Perchè?

—Si fa celia? È venuto il figliuol prodigo.

—Benissimo; lasciate allora che lo ammazzi suo padre.

—Ammazzarlo suo padre! Tu proponi un parricidio.

—No, parlo del vitello, bestia!

—Bella scoperta! Signori, il vitello è una bestia.

—Spiritoso! Io volevo dire soltanto che il vitello… sei tu.

—Amici,—interruppe il Priore,—le celie e le metafore continuate non sono permesse dagli statuti dell'ordine. Viva Ariberti, che finalmente ci è reso. E quantunque meriterebbe una predica…

—Una predica? La faccio io.

—Chi parla, dietro a quel boccale?

—Luciano Valerga, dei minori osservanti.

—Il Segneri della brigata!

—La gloria dell'ordine!

—Parli Valerga! Parli!—

E lì un chiasso d'inferno, un nabisso, un diavoleto. Si intende che vociando e ridendo si seguitava a trincare. Già, diceva il filosofo, non c'è cosa che bagni l'ugola come il bere.

Luciano Valerga si alzò barcollando. Era una finzione, perchè il letterato della compagnia non si ubbriacava mai, e si diceva di lui che avrebbe potuto bere impunemente tutta l'acqua delle nozze di Cana, dopo fatto il miracolo. Ma tra i tre cavalieri di Malta era la moda di parer brilli al secondo bicchiere, forse per salvare le apparenze, coprendo la debolezza di quelli tra loro che pigliavano troppo facilmente la sbornia.

Valerga adunque si levò in piedi. Avrebbe voluto salire sulla tavola, ma c'erano i fiaschi di mezzo, e i gesti dell'oratore avrebbero potuto danneggiarli; perciò il nuovo Segneri fu contento a salir sulla panca, in mezzo a due accòliti, che, stando a sedere, la tenevano salda.

—Poco reverendo Priore, poco venerabili fratelli,—incominciò Valerga con voce piena d'unzione,—ecco qua la pecorella smarrita che ritorna all'ovile. E notate che il pastore non era andato a cercarla, sicuro com'era che gliel'avrebbe ricondotta un giorno o l'altro le vecchie simpatie, l'odore del chiuso, od altra qualsivoglia ragione, sempre che il lupo non se l'avesse mangiata. Nel qual caso noi tutti saremmo andati a rintracciare le ossa nel Ghetto e avremmo dato loro onorata sepoltura, metà presso un raffinatore di zuccheri, metà ad una fabbrica di animelle per le uose dei soldati, o per le mutande dei poveri diavoli, a cui la madreperla è contesa. Ma il Ghetto, direte voi, le avrebbe lasciate così inoperose? Io mi passo di rispondervi, perchè il lagrimevole caso fortunatamente non è avvenuto e la notizia è almeno prematura. La pecorella è tra noi viva e sana, e beve con avidità, sicut cervus ad fontes aquarum. Beve, e tra poco le verrà voglia di fumare la pipa. Ma la pipa non l'ha, e qualcheduno di voi, vergini prudenti, dovrà imprestare il suo tabacco e il suo rispettivo recipiente alla smemorata. Usciamo di metafora, o signori; tanti ci si vive a disagio. Il signorino s'è messo in eleganza, ha seguito le vie di Balial, è andato a corteggiare le donne di Moab, a far l'occhio lànguido su pei teatri e per le feste da ballo. Ma che dico io l'occhio languido? L'occhio, dovevo dire, del pesce fuor d'acqua. Infatti, tu, o giovine sconsigliato, sei rimasto per tutto questo intervallo fuori del tuo proprio elemento; hai risicato di perderti; chi sa? forse hai già il baco nell'anima. Peccato! Un giovane di così belle speranze! Ti sei dimenticato del precetto di Assur Adani Pal, vulgo Sardanapalo, che lasciò scritto sulla sua tomba: «mangia, bevi, il resto è nulla»; hai dimenticato che la vita è… A proposito, chi mi versa da bere?—

La domanda dell'oratore fu prontamente esaudita. Valerga tracannò il suo bicchiere tutto d'un fiato, si lisciò i baffi e proseguì l'omelia.

—…. Che la vita, dico io, è un sogno, una allucinazione, che tutto è apparenza quaggiù, tanto che Pirrone dubitava perfino di esistere e lo avrebbe fatto crepar dalle risa il signor Cartesio colla sua goffa trovata de! «Cogito ergo sum». Siamo noi dunque così sicuri di pensare? Io per me, o signori, e, m'immagino, anche voi, ne dubito forte. Donde io potrei per avventura, con un bravo sorite, di cui vi fo grazia, dimostrarvi che non sono. E vedete qua, il damerino; egli (lo dirò con un grande autore profano) «immagini di ben seguendo false» si mise sulla via di coloro «che trattan l'ombre come cosa salda», andando dietro alle chimere, alle gorgoni, alle prime donne, alle ceraste, alle anfesibene. Badi bene scusando la rima, che non gli avvenga di incontrarci nel basilisco, orrida bestia, se crediamo agli antichi!—

—Beviamo alla salute degli antichi!

—Che il Cielo li prosperi!

—E accordi loro anche cent'anni di vita!

—Siete un branco di sciocchi;—tuonò Luciano, vedendosi interrotto sul più bello dell'orazione.—E a proposito di sciocchi, ritorno a te, giovine fuorviato, Guerrin Meschino in traccia di un cuore. Va, cerca a tua posta, e troverai… Sai tu quello che troverai? Sepolcri imbiancati o cappe di camino da imbiancare, perchè la troppa fiammata le ha insudiciate di fuliggine. Fuggi le donne, ragazzo. Heu! fuge crudeles domnas, fuge litus avarum. Sant'Agostino ha detto… Che cosa ha più detto Sant'Agostino? A raccapezzarsi, in tutta la roba che ha scritto! Insomma, sappi che ne ha detto corna, e Tertulliano, ed Eusebio, e Prudenzio e Fidenziano del pari. Origène, che le conosceva a fondo, Origène, dico…

—Sì, raccontaci un po' la burletta!

—Nossignori, non la racconterò, poichè mi avete ancora interrotto. Lascio da banda altri dottori della Chiesa e Santi Padri, dei quali potrei farvene un mazzo, come di radici, e calo ai tempi moderni. Dove hai tu preso gli esempi? Forse tra noi? Parla; ci hai tu mai veduti fallire o semplicemente cadere in tentazione? mettere un paio di guanti? un cappello a staio? lasciare il cenacolo per l'essèdra, la cantina pel salotto? il giudeo pel banchiere? la selvaggia alterezza degli straccioni per gl'inchini d'anticamera e le mancie ai lacchè, noi che ci vergogneremmo di darne ad un garzone d'osteria? Se sì, accusaci al priore eminentissimo, che fuma come un Vesuvio in aspettativa; metti mano alle prove, nomina i testi; noi non attenderemo la sentenza, ci prostreremo a' tuoi piedi, gridando: «peccavi, Domine, peccavi et malum coram te feci». Se no, se tu non puoi dire tutto questo di noi, buttati in ginocchio, a marcia vergogna de' tuoi calzoni grigi chiari da cicisbeo; anzi no, poichè ti stanno così bene attillati alla gamba, fa quattro salti mortali, o paga la multa sussidiaria di una diecina di bottiglie. Infatti fàtti in qua, e prima di ricevere da me il bacio del perdono, versami un altra volta da bere.

—Tutti i salmi finiscono in gloria e tutti i discorsi di Valerga nel vino;—disse il Priore, in mezzo alle grida e agli applausi della brigata. Ariberti, che era giunto così rannuvolato all'osteria del Mago, si rasserenò prontamente in quella chiassosa combibbia. Strano impasto di contraddizioni è l'uomo, che quanto non può sulle fisime sue la ragione in un giorno di logica a tu per tu, lo può lo stravizio in un'ora. E pel nostro eroe non fu mestieri di andare tant'oltre. Mezz'ora dopo la sua entrata all'osteria, egli aveva già affogati i suoi sopraccapi, le sue gelosie, le sue bizze colle donne, e in pari tempo e i suoi propositi di non far più vita notturna coi cavalieri di Malta.

Il Priore, che gli aveva fatto quel tiro mancino nella sua sfida a Filippo Bertone, ridiventava il grande amico di prima. La ruggine era dimenticata a tal segno, che quella notte medesima (e potrei dire anche quella mattina, perchè le ore non erano già tanto piccole), andando attorno per le vie di Torino e indugiandosi nella occupazione gradita di accompagnarsi l'un l'altro, Ariberti gli raccontò tutto, dall'a alla zeta, quel suo nuovo intrigo amoroso.

Tristano lo stette a sentire con molta attenzione, quindi gli disse laconicamente:

—-Sapevamo tutto.

—O come, se tu sei il primo a cui ne faccio parola?

—Sì, sarà come tu dici;—rispose Tristano;—ma tu sai il proverbio: amore e tosse presto si conosce. Sei stato veduto, ed anche pedinato. Ragazzo mio, non si disertano impunemente gli amici. Del resto, a provarti che si sapeva ogni cosa, sta il discorso di Luciano Valerga, che ti ha toccato per l'appunto il tasto delle prime donne.

—Ma di grazia, che male c'è?—chiese Ariberti.—Io non vi piglierò mica sul serio, quando vi mostrate così ferocemente misogini!

—Misogini! Ecco una parola difficile, che mi farò spiegare dall'amico
Valerga.

—Non c'è bisogno; te la spiego io: odiatori delle donne.

—Qui poi t'inganni, pigli un granchio a secco—gridò il Priore.—Non c'è odio, nè altro: c'è solamente un più giusto concetto di quello che valgono. Le donne, mio caro, vanno trattate alla leggera, com'esse trattano noi. Un capriccio, una galanteria, una fermatina sull'uscio; non dico di no. Ma gli amici prima di tutto, e i giuramenti e i sacrifizi non s'hanno a fare che per essi, I loro diritti sono incontrastabili, perchè con essi c'è la sincerità e il disinteresse, mentre colle donne, a dir poco, c'è sempre una posta al giuoco, e l'uno vuol guadagnare, l'altro s'industria a non perdere, e tutt'e due fanno ad ingannarsi un pochino. Dopo tutto, corri la tua posta, Ariberto; ma bada a me, non fare il collegiale, se no, sei fritto. La signora è di palcoscenico; ti vedo già sulla strada delle compiacenze giornalistiche, dei sonetti, delle corone, dei mazzi con sei braccia di nastro. Tutte belle cose, per non venire a capo di nulla. Ascia in pugno, e all'arrembaggio! La tua bella, m'immagino, avrà cantato nel Pirata….

—Amico mio, tu non la conosci; essa è un angelo. Figurati, il cavalier Roberti, quell'elegante vagheggino, quell'ardito cacciatore che sai, essa non lo può patire, appunto perchè ha voluto farsi innanzi a quel modo.

—Bravo! Te lo ha detto a te. Ma poi, se davvero non lo può patire per questo, o perchè non lo ha messo pulitamente alla porta?—

L'osservazione parve giusta ad Ariberti, il quale non seppe lì per lì che rispondere all'amico, e, peggio ancora, a sè stesso. Infatti, perchè mo la signora Giselda non aveva mandato a spasso il cavaliere? Se quel perondino era audace, doveva anche essersi mostrato poco rispettoso. Il ragionamento non faceva una grinza.

Tristano frattanto incalzava.

—Or dunque, fa a modo mio; se no, la ti mena pel naso fino al dì del giudizio, o a quello della sua partenza, che torna lo stesso; e tu sei un uomo perduto. Del resto,—soggiunse il Priore con una volubilità di pensiero, che poteva anche indicare la sincerità del suo animo,—è una cosa dolce l'amare, qualunque cosa ci costi, ed anche sapendo che può andarci alla peggio. Quel consacrarsi tutto ad una bella creatura, farsi di quella fragile personcina una dea, vivere in una atmosfera tiepida di fragranze sue, in un mondo incantato di pensieri suoi, essere indifferente il sacerdote del suo tempio, o il cagnolino del suo salotto, star nel sacrario ed accogliere i responsi, o sul cuscino di seta a custodire le pantofole a ringhiare a chi le si accosta un po' troppo, è, in certi momenti della vita, una gran voluttà! Non pensare che a lei, o per lei, non vedere che lei, o cogli occhi di lei, è una fusione di esistenze, che può far sentire il piacere di vivere. Infine, che cosa è la vita, se essa non è l'amore? E che ci staremmo noi a fare quaggiù, in questa caverna di leoni, se un raggio d'amore non vi trapelasse ogni tanto?

—Come parli bene!—esclamò candidamente Ariberti.—Tu sei poeta,
Tristano!

—Alle mie ore. Già, ero nato poeta, e, per far torto al proverbio, non son diventato nemmeno oratore. Lascio questo contentino a Luciano Valerga. Caro mio, tu sai che viaggiando si vive di più. Ci ho i miei ricordi, amari e dolci, di quattro parti del mondo. E dopo tutto, che cosa mi resta? Fumo e cenere. Vedi la mia pipa? Così il mio cuore. Ma tu sei giovane e la fine del salmo non ti dà noia. Potrei mostrarti la cenere che scuoto dal bocciuolo della mia pipa e l'ultima boccata di fumo che si dilegua per aria; ma tu mi risponderesti: che importa? vo' fare anch'io la mia buona fumata.—

Lettrici (se tra coloro che mi leggono c'è una rappresentanza del sesso migliore) non badate ai paragoni, vi prego.

Pensate invece che il Priore, per solito accigliato e spaccone, non era stato mai così tenero. Egli si mostrava quella notte sotto un aspetto nuovo; Achille diventava Amadigi.

—Del resto,—proseguì Tristano, che sembrava aver preso a nolo quella comoda forma avverbiale,—forse non carico anch'io di bel nuovo la mia pipa di spuma di mare, come ho cambiato tante volte d'amore?

—Ah briccone… Tu devi averne avuto la parte tua, d'avventure galanti! E là in India…

—Che! quello è il meno. In Asia, caro mio, furono amori di principesse, che in Europa non vorrei avere per birraie; ho nutrito la fantasia, avida di novità e di stranezze. In Ispagna e nell'America meridionale, è stato lo stordimento dei sensi. Ma il cuore…. il cuore non l'ho impegnato che al settentrione, in Inghilterra, in Germania, dove dicono che sieno le donne più fredde del mondo. Errore massiccio, di chi non ha mai viaggiato! Gli è invece appunto lassù che si incontrano quei granelli di pepe, che non sai se siano donne o demonii.

—Dev'essere così;—aggiunse Ariberti colla sua infarinatura romantica;—l'ondina e la villi, sono forme nordiche.

—Ed hanno certi occhi strani,—ripigliò il Priore, in cui lampeggia —tanto fuoco di dannazione! Ah vivaddio, almeno c'è passione, c'è —lotta, novità, mistero! E intendo benissimo le tue smanie per questa —polacca…

—Ungherese.

—Polacca, ungherese, è tutt'uno. Non è dessa una zingara dell'arte? E forse, chi sa? potrebbe anche essere uno di quei demoni che hai detto tu, calato a Torino in forma di donna per suggerti l'anima.

—Ah, lo credo ancor io!

—Se ti lascierai tutto in sua balia, certamente, ed io non darei più un soldo de' fatti tuoi. Misura vuol essere. E prima di tutto, appoggiati agli amici, che ti vogliono bene. Vedi un po'; dove le avresti trovate, queste ore di sollievo? Tu ne andavi a casa colla rabbia, e a quest'ora non avresti ancora preso sonno. L'innamorato è un animale che non dorme. Dunque, dico io, tanto fa che passi la notte all'osteria, in mezzo agli amici fedeli. In questi contrasti è la vita. Cogli amici ti ritempri e ti avvezzi a veder chiaro.

—Infatti,—disse Ariberti,—mi par di veder già l'alba.

—Ed anche questo ha il suo pregio. Non vai tu ora a letto tranquillo? Credi a me, è la solitudine notturna che matura i tristi pensieri. L'uomo che può far mattino con una mezza dozzina di capi armonici, non morirà mai suicida. E tra poco dormirai il sonno del giusto; dormirai saporitamente finchè ne avrai voglia. Poi ti metterai tranquillamente in arnese, e, già si capisce, andrai difilato da lei.

—Ella mi aspetta.

—Va benissimo; ma io non te lo ripeterò mai abbastanza, fatti valere per quello che sei e comincia a farti desiderare. Non c'è cosa che abbatta di più un uomo nel concetto di una donna, dell'esserle continuamente tra i piedi, tenero e rispettoso come un Caloandro fedele. Tu non devi essere con lei, nè timido, nè languido oltremisura; credi alla mia vecchia esperienza. Anche un pochino di gelosia, fatta nascere a tempo, non guasta. Mi hai parlato di una inglese, o nizzarda….

—Un po' dell'uno e un po' dell'altro.

—Bene; fa la tua corte anche alla nizzarda, all'inglese, a quel diavolo che sarà. Un'occhiatina a tempo, una parola che possa interpretarsi in due modi, un atto di galanteria, di delicata attenzione, non costano nulla e non debbono farti mica più povero di quello che sei. Pensa che ogni lasciata è persa. Se la donna è civetta alle sue ore, perchè l'uomo non sarebbe a sua volta un civettone? Lord Byron, l'autore che ti piace tanto, faceva per l'appunto così; lasciava in ogni salotto la strofa della sua penna e una foglia del suo cuore. Benedetto carciofo! Qualche volta egli ne dava anche due foglie in un colpo. Infine, si è in guerra, o non si è, e nella guerra d'amore è necessario esser disposti a far fronte da tutti i lati. Bisogna dunque, intendimi bene, che ogni donna, la quale t'incontra sulla sua strada a caso, possa credere che tu c'eri per lei, o che potresti andarci anche per lei. L'altra, la prediletta del giorno, deve credere intanto che ci sarebbe anche il pericolo di perderti. Alle corte, si vale o non si vale qualche cosa; e se si vale, bisogna spendersi ognuno pel suo prezzo. Il tempo di spendersi per quello che fa la piazza, fortunatamente per te, è ancora là da venire.

—Che salto!—notò sorridendo Ariberti.—Poco fa eri tutto poesia; ora sei tutto prosa.

—Caro mio, è mestieri provarsi in tutti i generi. Qui, del resto, non si tratta di sognare, di andar sulle nuvole; si tratta di vincere. E per vincere, devi essere in armi darti moto; se no, te l'ho detto, sei bell'e ito, ci rimetterai la pace dello spirito, la salute del corpo e i denari della borsa, che, m'immagino, non saranno poi molti.—

A quella toccatina dei danari, Ariberti trasse un profondo sospiro.

—Or bene, che c'è?—chiese Tristano scuotendolo.

—Eh, che vuoi? C'è che tu mi hai fatto per l'appunto pensare….

—Che cosa? di' su!

—Che sono al verde, o quasi. Dante ha scritto il suo paragone per me:

Come procede innanzi dall'ardore Per lo papiro suso un color bruno, Che non è nero ancora e 'l bianco muore.

—Bravo! e perchè non dirlo prima?

—Ma… per dar noia agli amici…

—Caro mio, col denaro si fa la guerra. Si diceva una volta: pas d'argent, pas de suisses.

—Bella scoperta! Ma gli è proprio per questo che penso. E il pensare sarebbe il meno. Il guaio è questo, che penso… e non trovo.

—Nelle tue tasche, s'intende. Ma in quelle degli altri…

—Ah sì, parliamone, delle tasche degli altri. Tasche da studenti; i sarti hanno il maledetto vizio di farle sempre bucate.

—Chi ti parla degli studenti? Non c'è dunque più altro che studenti nel mondo? Capisco che fino ad un certo segno il nome può correre per tutti, perchè tutti si studia il miglior modo di arrivare alla fine del salmo. Ma anche per gli studenti c'è un Dio degli eserciti; anzi, dacchè egli non ha più Maccabei da proteggere, si può dire che ha preso in particolare considerazione i figli di famiglia del nuovo Testamento. Ridi eh? Ma di questo più tardi. Finora, ci son io e posso darti una mano, senza scomodare le dodici tribù. Vieni domattina da me; cioè, no, vieni stamane, perchè oramai siamo a domani, e soltanto il bisogno di dormire può confonderci un tratto il calendario. Vieni da me a quell'ora che ti fa comodo; ho da scrivere parecchie lettere e starò a casa fino a sera.

—Oh Tristano, amico mio!

—Con che tono lo dici! Alla larga! non son mica la signora Giselda.

—Giselda, ti prego… Ma gli è che tu mi sollevi da un peso… da un peso…

—La mia borsa non è quella di Rothschild,—interruppe Tristano, che forse voleva mettere, come suol dirsi, i punti sugli i;—ma infine che cosa ti occorre?

—Eh, non saprei. Già, se ripiglio la strada dell'università, non ho quasi bisogno di nulla, e alla peggio posso portare qualche debituccio fino al mese venturo. Dugento lire al mese me le passa mio padre; cinquanta me le manda mia madre di soppiatto… Capisci…

—Capisco; le mamme son tutte così.

—Poi,—continuò Ariberti,—una cinquantina di lire le strappo da un'altra parte, scribacchiando. Infine, che dirti? con queste trecento lire vivrei, ma raccozzando a mala pena l'oggi col domani. Figùrati, ci ho anche il sarto…

—Capisco anche questo. I sarti di provincia sono sempre in ritardo colla moda, e quelli della capitale corrono innanzi coi conti. Ma basta, non occorr'altro. Tu hai bisogno di fare la tua buona figura nel mondo aspettando tempi migliori.

—È così come tu dici.

—Bene; ed io che ti sono amico, io che son passato per la tua stessa trafila… A proposito, c'è un verso di Virgilio che dice a un dipresso la medesima cosa; ma io non ho più pratica col latino. Aiutami un po'; gli è un verso della regina Didone…

—Ah sì, non ignara mali, miseris succurrere disco. Tristano, tu hai proprio un cuor d'oro.

—Così avessi le tasche. Ma via, non ci lagniamo. Dunque, ecco l'uscio di casa mia; buona notte, e appena ti spunta l'alba, o più tardi, vieni da me; io vedrò di servirti. Sans adieu!

Ariberti strinse la mano al Priore e diede un'allegra volata sui tacchi per tornarsene a casa.

Che amico! che cuor di Cesare! andava egli intanto ripetendo tra sè. E potete anche immaginarvi come andasse leggero.

CAPITOLO XIV.

Che incomincia colle viole mammole e finisce coi chiodi.

Ristorato con sette ore di sonno e fatte sparire dal volto (cosa facile alla sua età) le traccie della notte vegliata, andato dall'amico Tristano e intascate cinquecento lire, che erano le prime da lui possedute in un gruzzolo, il nostro Ariberti, ilare e franco, a guisa d'uomo che non ha sopraccapi pel futuro, e, quanto al presente, domanderebbe volentieri se il mondo è da vendere, se ne andò difilato all'università d'amore.

Ci sono state le corti d'amore; perchè non ci sarebbero le università? Ne propongo l'impianto al ministero della pubblica istruzione, che può già fare assegnamento sul voto mio e su quello dell'onorevole Morelli. E come sarebbero frequentate! E come si pagherebbero volentieri le tasse d'entratura! E come si trarrebbe profitto dalle lezioni, con professori che non portassero occhiali e non pigliassero tabacco!

Il professore di Ariberti non era in casa. Stavo quasi per dire in iscuola. Lo studente abbandonato n'ebbe una stretta al cuore, e chiuse forte le labbra per non iscoppiare, mentre la donna di servizio gli stava dicendo che la signora Szeleny era uscita per far qualche compera, e che sarebbe tornata quanto prima.

—Aspetterò;—diss'egli, rabbonendosi un pochino a quelle ultime parole della fantesca.

Ed entrò in quel salotto che egli conosceva già a menadito, e che perciò non gli poteva più offrir nulla da ingannare il tempo. Era la seconda volta che stava là ad aspettare; ma questa seconda volta com'era più noiosa della prima! Allora almeno egli sapeva che Giselda stava poco lunge, nella camera attigua, facendosi bella nello specchio, e la cagione di tutto quel lavoro muliebre era lui, persona prima. Stavolta, invece, la signora non era più là; gli avea promesso di trovarsi in casa, e aveva creduto ben fatto di andarsene attorno. Chi sa, proprio in quell'ora, alcuno di tutti quei farfalloni che erano stati la sera addietro al concerto, le si accompagnava sotto i portici di Po, per farsi vedere al suo fianco da tutti gli scioperati del caffè Florio, e per recitarle un'altra serqua di svenevolezze. E forse, non era ella uscita appunto di casa per compiacere taluno di loro? Si sa, un'occasione è presto trovata; accompagnarla a cercar della musica; a, vedere l'armeria del palazzo reale, il santo sudario, il ponte sulla Dora… Infatti; da quanto tempo era uscita? Egli aveva dimenticato di chiederlo alla fantesca, e non poteva decentemente richiamarla per fare una simile domanda. Maledetta premura! maledetta sbadataggine! Già, a questo mondo, c'è sempre da imparare qualcosa.

E i minuti passavano, intanto; ed anche le decine di minuti. L'albo dei manoscritti non poteva aver più attrattive per lui. C'era là dentro il nome di quel Paolo, che gli dava molestia. Al diavolo l'albo! Il nostro eroe fece un pezzo le volte del leone in quella gabbia elegante; finalmente non potendone più, perchè oramai era trascorsa mezz'ora prese il cappello (nel senso proprio, s'intende, perchè nel senso figurato lo aveva già preso) e uscì nell'anticamera, dopo, aver lasciato sul tavolino della signora il suo mazzolino di viole mammole e la sua carta di visita.

—Avvertite la signora che sono stato….—diss'egli asciutto alla donna di servizio.

—Ma la signora non può tardar molto. Ha detto che torna subito.

—Sta bene, sta bene;—rispose l'Ariberti, che oramai non poteva più dare indietro,—ho qualche faccenda da sbrigare; passerò domani…. o più tardi,—soggiunse egli, a mo' di correttivo.

Scese le scale sbuffando, maledicendo le donne che non ci avevano colpa, e le prime donne, che non dovevano esser tenute pagatrici per una sola di loro. Era già nel portico, quando s'imbattè in lei, che tornava a casa in compagnia della madre.

—Cattivo! dove correte? e con quella cera, poi?

—Ma…. signora….—balbettò egli confuso e senza aver tempo di dare al suo volto un'espressione più serena.—Vi ho aspettata un po'… sarei tornato più tardi… avevo qualcosa da fare…

—Sì, sì, le grandi faccende che dovete aver voi!—interruppe ella ridendo.—Venite qua, uomo di poca pazienza, e di nessuna fede. Ho da parlarvi, a lungo;—aggiunse, stringendogli fortemente la mano.

A quella stretta sarebbe stato colto anche un orso. Ed Ariberti era un uomo. Dunque potete argomentare che l'ira gli sbollisse ad un tratto e che tornasse mansueto come un agnellino seguendo, anzi accompagnando la diva su per le scale, e temendo quanto più gli venne fatto quella leggiadra manina prigioniera. Chi poi fosse davvero il prigione ditelo voi.

—Purchè non capiti gente a far visita;—rispondeva egli frattanto, mettendo il piede sul primo gradino.

—Non ci sarò per nessuno; siete contento?

—Ah, voi siete un….

—Zitto! Non ho le ali. Se le avessi, sarei tornata prima d'ora. Figuratevi; ho dovuto andare fin quasi in fondo di via Doragrossa, per trovare una certa stoffa… A proposito, siete così buono da tenermi questo involtino?

—Oh povere mani!—esclamò egli sollevandola prontamente di quelle poche once che poteva pesare l'involto.—E così, rinunzierete per un'ora alle vostre visite? Ma potranno credere i Proci che Penelope non è in casa?

—Mi hanno veduto fuori, e lo crederanno;—diss'ella ridendo;—li ho incontrati quasi tutti, il vostro amico dell'Euterpe, l'avvocato Germani, il cavaliere Roberti e via discorrendo. Ma io volavo…..

—Ah vedete? Le avevate, le ali!

—-Voglio dire che correvo in fretta e che non sono stata ad accogliere i loro omaggi.

—Se sono discreti, si contenteranno di avervi veduta;—ripigliò Ariberti, che era in vena di galanteria.—Il sole non risplende mica tutti i giorni, a Torino!

—Pazzo!—esclamò Giselda.—Poc'anzi eravate così imbronciato, ed ora…

—Ed ora, di che vi meravigliate? Il sole, che rasserena il cielo, ha rasserenato il mio cuore.

—Questa è graziosa;—disse Giselda, arrossendo per modestia e insieme per contentezza;—e sebbene sia un complimento, lo accetto. Perchè infine, signor orso mio riverito, poc'anzi facevate muso, ed ora siete diventato galante come un cavaliere di Francia.—

La mamma seguitava su per le scale quella coppia di chiacchierini. Italiano, come ho detto, non ne masticava; però, ogni qual volta gli occhi dei due giovani s'incontravano ne' suoi, la vecchia signora si contentava di sorridere. Il sorriso, si sa, è la difesa degli ignoranti e dei sordi, che non vogliono parer tali. E qualche volta ne vengono a capo. Io conosco uno, della prima categoria accennata, che, sorridendo sempre, ha scroccato la sua riputazione di cervello sottile.

Con questi lieti discorsi giunsero in casa, e la signora Szeleny andò speditamente dal salotto alla sua camera, per deporre il cappellino e la mantiglia.

—Oh il soave profumo!—gridò ella passando.—Che cos'è? Mi avete portato dei fiori?—

E scomparve senza aspettar la risposta. Ma poco stante fu di ritorno, per levar di pena la madre, che teneva viva la conversazione con Ariberti continuando a sorridere, non senza una certa noia pei suoi muscoli facciali.

Il primo passo di Giselda fu pel suo tavolincino, dove stavano le viole mammole di Ariberti. Ma come fu giunta dinanzi all'ara delle offerte, vide la carta di visita, fu questa che ebbe da lei le primizie della attenzione.

—Bel nome!—diss'ella.—Come siete armoniosi, voi altri italiani! Ma cattivi;—soggiunse poscia, con piglio di fanciullesco dispetto.—Ecco qua una piegolina sull'angolo della carta, che vorrebbe dirmi «signora Giselda, sono venuto, non c'eravate, a rivederci un altro giorno, la mia visita è fatta, mi son levato un peso dal cuore».

—Quante cose in una piegolina!—notò sarcasticamente Ariberti.—Io non ce le ho messe davvero.

—Ma sì, ma sì, che ce le avete messe;—replicò essa battendo il piedino sul pavimento, con atto di amabile sdegno.—Perchè avete piegato quest'angolo?

—Perchè si usa, mi pare;—rispose egli timidamente.

—No che non si usa, almeno con me, quando si può aspettare un pochino, o quando si vuol dire: tornerò tra mezz'ora. Ecco qua, non meritereste nemmeno che io accettassi i vostri fiori.—

Così dicendo, accostava il mazzolino alla faccia, per respirarne le fragranze. Indi, spiccati alcuni fiori dal colmo, li riponeva diligentemente nella sparato della veste, sotto le crespe di una gala di trina; gentil custodia del seno, che avrebbe inspirato un sonetto al Petrarca, e un'ottava all'Ariosto.

Il giovine innamorato guardava e taceva, assaporando la sua gioia, come la madre di Diana, quando contemplava la sua bella figliuola.

Latonae tacitum pertentat gaudia pectus.

—Ne volete?—disse alla perfine Giselda, sollevando lo sguardo verso il taciturno gaudente.—Ve ne metto due all'occhiello.

—No grazie;—rispose egli tra umile e malcontento.—Ne vorrei una di quelle.—

E accennava le mammole che avevano già trovato il luogo migliore.

—Ah!—esclamò Giselda, alzando il dito in atto di difesa.—Queste poi no.

—E perchè, di grazia?

—Perchè queste son vostre, e le debbo tener io.

—Ma anche quest'altre son mie, mi sembra, o, per meglio dire, vi vengono da me.

—Sì, ma non posso già inalberare tutto il vostro mazzolino. Ne ho preso la mostra e la serberò gelosamente; mi avete capito? Or dunque, signor mio, queste violette che vedete sul tavolino, son mie, e ve ne offro; queste altre—e accennava così dicendo i fiori nascosti sotto la gala,—son vostre e me le tengo io. Vi piace così?

—È una cattiveria!—-rispose egli imbronciato.

—Ah sì, cominciamo da capo!—diss'ella, con piglio di padronanza.—Venite qua e lasciatemi fare.—

Ariberti dovette contentarsi di quella cortesia fatta a mezzo e fiutare le violette più fortunate da lunge. La signora Szeleny aggiustava ogni cosa a sua posta e passava alla svelta su tutto quello che non le andava a genio di fare e di dire.

—Ecco fatto;—ripigliò essa, com'ebbe raffermati i fiori all'occhiello del soprabito.—Ora, sedete un po' qua ed aiutatemi a dipanare questo matassino di seta. Vedete? Ho da disfare e ricucire una veste. Le vostre sarte torinesi non mi finiscono. Così; tenete a modo, colle mani più alte. E adesso?….

—Come siete bella, Giselda!

—Vi pare?

—Oh, se mi pare! Io credo anzi….

—Che arrufferemo la matassa, se mi lasciate cascare i giri a questo modo.

—Avete ragione; non mi accadrà più. Dunque, io dicevo….

—A proposito, dove siete stato iersera?

—A teatro, lo sapete. Dicevo che il vostro profilo…

—A teatro, sì, è vero, e mi dovete raccontare l'intreccio. Animo, dunque; atto primo, scena prima!

—Signora, a cominciare di qui, si andrebbe un po' troppo per le lunghe.

—Non sbadiglierò, ve lo assicuro. Amo le storie lunghe, io.

—Come intendete voi? Amereste le storie che non finiscono più?

—Ah, queste sarebbero eterne. E di eterno, pur troppo, non c'è nulla nel mondo.

—Errore, signora mia! Io so d'una cosa che potrebbe esserlo, purchè voi la vedeste di buon occhio.

—Sì, sì, vi capisco; voi continuate la vostra frase, interruppe ella —ridendo;—poc'anzi rasserenavo i cuori; adesso ci fo nascere la —sempreviva. È ancora l'ufficio del sole.

—Eh, perchè no? Ridete liberamente e schiudetemi i tesori dell'Eritreo; purchè ammettiate la possibilità della cosa.

—Ah, non ho detto questo; anzi, la nego. Nella mia qualità di sole, conosco gli uomini quanto bisogna, per non conceder loro una così grande virtù.—

Una stoccata al cuore non avrebbe, io credo, fatto più senso al nostro giovinotto, di quel che facesse quella semplicissima frase, quantunque, accartocciata in uno scherzo, potesse fino ad un certo segno interpretarsi anch'essa per uno scherzo e nulla più.

Ella conosceva gli uomini! Bella notizia! Poteva adunque parlarne ex professo? E il povero ragazzo se li vedeva sfilare davanti, processione noiosa tra tutte, cominciando da quel signor Paolo ungherese, che aveva vergato la prima pagina dell'albo, e venendo giù. giù, fino…. a proposito, fino a chi? Probabilmente a quel temerario d'un cavaliere Roberti, o ad un altro, conte o duca, conosciuto in Milano, dove la signora Szeleny aveva il suo domicilio artistico. Infine, che c'era egli di strano? Una donna giovane, bellissima, elegante, abbandonata (perchè l'artista è sempre una specie di Didone, senza l'amminicolo del rogo), che cos'altro ha da fare, se non lasciarsi corteggiare un tantino? Il mondo è una selva, e dietro ad ogni tronco d'albero, dietro ad ogni cespuglio, c'è un cacciatore appostato. Se ne cansa uno, se ne cansano due; il terzo vi crivella un'ala, o vi fracassa uno stinco.

E la processione s'inoltrava, cresceva, sfilava a dilungo; tutti quei cavalieri, vagheggini, damerini, cascamorti, zerbinotti, pezzi grossi, Alcibiadi antiquati e rimessi a nuovo, passavano daccanto a lei, le bisbigliavano una parolina all'orecchio; ed ella si faceva rossa in volto, ma sorrideva, sorrideva sempre e con tutti. Ahimè, così vuole la civiltà, ma così porta anche l'inverecondia.

E tutta questa visione per una frase? Sicuro; mi pare d'averlo già detto, e, se non l'ho detto, voi già ve ne siete accorti, o lettori; il mio Ariberti era un tipo di delicatezza che quasi potrebbe chiamarsi morbosa. Siffatti caratteri son più frequenti che non si creda nel tempo nostro, che è pure il tempo del mal di nervi. Saremo forse meno disgraziati di prima, può darsi, ma è un fatto che soffriamo di più; la raffinatezza del sentimento ci ha recato i suoi mali inseparabili, la diffidenza e lo struggicuore. Non siamo mai stati tanto sospettosi, tanto sottili, tanto tiranni per noi e per gli altri, come ora. È un bene? è un male? Potrei dirvelo, ragionandoci su; ma, figlio del mio tempo anzitutto, dubito anch'io e vi rispondo: non so.

Comunque, e lasciando le sottigliezze da banda, quella frase di Giselda potea dirsi un errore. Che bisogno c'era egli di dirla? Ma già, la signora Szeleny non era migliore nè peggiore di tante e tante altre. Era una bella zingara, piena d'ingegno ed anche di cuore; ma nella vita randagia dell'arte aveva forse perduto tutte quelle velature e delicatezze di sentire, che accrescono il pregio della bellezza e perfino della severità di costume.

Ricordate l'involucro velloso che rende più gradito nella sua medesima ruvidità il calice d'una rosa non ancora brancicata? Orbene, intenderete dunque che cosa mancasse alla signora Giselda, a questa leggiadra farfalla, che, aliando qua e là, aveva lasciato contro le siepi dell'orto, o sotto una scossa di pioggia primaverile, il suo polviscolo d'oro.

Ora la storia di quella graziosa farfalla, Ariberti doveva industriarsi a conoscerla, ed ella doveva sollevare un lembo della cortina che nascondeva il suo passato, senza pensar più che tanto alle nuove ferite che poteva arrecargli. Che egli l'amasse, Giselda doveva pure vederlo; ma probabilmente essa aveva quelle sue tenerezze in conto di una galanteria mascolina, o almeno di un impeto giovanile. E mostrava di corrispondergli, sì, certamente, perchè Ariberti non era e non poteva riuscirle antipatico. La donna apprezza sempre chi l'ama; al poi ci ha da pensare il destino. Non ce ne avvediamo, ma facciamo qualche volta lo stesso. Non siamo noi prepotenti la parte nostra? Non pretendiamo che le donne si mettano ad ogni risico per noi? Or bene, anche le donne hanno la loro ragione di operare, che non è punto la nostra, o non somiglia alla nostra; e quella fusione di pensieri e di gusti, che noi domandiamo, è una fisima del nostro cervello. Quando per avventura ella s'incarna, quando da una parte e dall'altra c'è quel delicato riguardo, quel desiderio di piacere, di interpretare, di indovinare scambievolmente i gusti e i pensieri, i filosofi dicono che da una delle due parti c'è sacrifizio manifesto; gli scettici del mondo elegante asseriscono che l'una e l'altra si smarriscono nelle sottigliezze e non intendono la vita.

Torniamo al fatto. La storia di Giselda era semplice e poteva compendiarsi in poche parole. Figlia ad un colonnello dell'esercito austriaco, non ricco, e morto da molti anni, la giovinetta era stata educata signorilmente. Era piaciuta ad un giovine di Pest, figlio del padrone della casa in cui la fanciulla e la madre abitavano. Quell'amore, cresciuto nella dimestichezza del vicinato, dispiacque ai parenti del giovane, e la ruggine che ne seguì tra le due famiglie portò per conseguenza uno sgombero, che era anche consigliato alla vecchia signora Szeleny da ragioni di economia domestica.

Intanto, il giovinetto era mandato a cambiar aria; quanto a lei, che sapeva abbastanza di musica e aveva una graziosa vocina di mezzo soprano, la madre pensò di condurla a Milano, terra del canto, e semenzaio di artisti.

La famiglia del giovane aveva aiutato a render possibile questo disegno delle signore Szeleny? Questo punto non fu mai potuto chiarire; rimanga adunque con altri punti oscuri, o controversi della storia, che sono del resto moltissimi, e uno di più non aggraverà sensibilmente il fardello della umana ignoranza. Piuttosto sarebbe da indagare come il signor Paolo (chiamiamolo così perchè a conti fatti dovrebbe esser lui lo scrittore della prima pagina d'albo) comportasse la sua disgrazia amorosa. Ma questo possiamo argomentarlo da noi, pensando che il signor Paolo aveva ventidue anni, età dei grandi dolori e delle grandi consolazioni. La qual cosa ci potrà far intendere altresì che l'innamorato, ardente da prima e disperato peggio di Werther, aveva dovuto consolarsi, e lasciar le pistole nella vetrina dell'armaiuolo. Che diamine! Vienna non era poi l'ultima Tule, e nemmanco Ovidio, quel gran maestro e schiavo d'amore che sappiamo, aveva creduto di uccidersi, nel suo confino del Ponto. Pensiamo dunque per la migliore che il signor Paolo non è stato guari senza trovare il suo Boezio nella cerchia della Ringstrasse, che ha vissuto lietamente da scapolo un paio di anni tanto per fare il lutto conveniente al suo amore infelice, che ha preso moglie, viaggiato l'Italia e fors'anco rasentato l'uscio di casa della cantante, a Milano, senza che il suo cuore dèsse una battuta più rapida delle altre. Hélas, ha detto la signora di Solms, tout passe, tout lasse, tout casse.

Quanto a Giselda, si può credere facilmente che ella avesse trovato nella dignità offesa un possente rimedio ai rammarichi della fanciulla abbandonata, perchè senza dote. E poichè il destino aveva voluto così, poichè i pretendenti accettabili si sarebbero presentati tutti, qual più, qual meno, nelle condizioni del signor Paolo, poichè infine la vita signorile a cui l'aveva assuefatta la sua educazione bisognava pure continuarla, avvenne che la signorina Giselda lasciasse l'Ungheria senza rimpianto e vedesse anche con una certa compiacenza l'occasione di andare in Italia per dare l'ultima pulitura alle sue corde vocali. L'ombra del Duomo di Milano coperse il segreto de' suoi sogni delusi.

Al tempo in cui la mia storia la incontra, tutti quei dolori erano passati, non lasciando altro che la traccia naturale dell'esperienza nel cuore di lei. È anche probabile che questa esperienza si fosse accresciuta, mercè nuovi studi dal vero. Gli uomini le erano sfilati dinanzi a diecine, con tutte le loro dorate prepotenze e le loro squattrinate follìe. Ed essa, perdendo la freschezza e il profumo delle illusioni, era tornata ilare e franca; ma venendo sul capitolo dei signori uomini, di cui pure gradiva gli omaggi nella sua duplice natura di donna e di artista, diceva che non avrebbe creduto mai alle loro proteste di amore e di fede.

E questo piaceva grandemente alla signora Mary (debbo dir signorina? no, ho detto signora, e forse è già troppo), alla signora Mary, inglese di Nizza, o nizzarda d'Inghilterra che dir si voglia, e amica sviscerata da venti giorni, della signora Giselda. Arcades ambo, cioè a dire, artiste tutt'e due, nubili tutt'e due, diseredate tutt'e due dalla sorte, e risolute, ognuna secondo il poter suo e le sue vie particolari, a conquistare un posto nelle prime file, dovevano fare insieme una lega, che sarebbe poi durata come tutte le leghe in generale, e come quella delle donne in particolare, quanto avrebbe potuto.

Una parte della storia di Giselda, e la men facile a raccontarsi in persona prima, l'aveva lasciata trapelare per l'appunto ad Ariberti la signora Maria, un giorno che egli, più cotto che mai, pieno di speranze, di dolori e di debiti, era andato nella casa di via d'Angennes, senza trovare Giselda, che era alle prove in teatro, e incontrandoci in quella vece la grande demoiselle (così aveva preso egli a chiamarla), che egli fece umanamente gli onori di casa. Mary custodiva l'amica, come il famoso drago dell'antichità vigilava l'albero dello melarance nell'orto delle Esperidi. Era burlona in apparenza e maligna dentro come una scimmia; però le sue celie sapevano sempre d'amaro. Son esprit a des griffes, avrebbe detto il Candioli. Punzecchiava sempre il povero Ariberti, lo canzonava intorno alle sue vane speranze e lavorava con un gusto matto a stringerlo tra l'uscio e il muro.

Un giorno, che erano andati tutti insieme a vedere il castello di Moncalieri, la signora Maria notò con piglio dispettoso la fanciullaggine di Ariberti che aveva fatto per Giselda una raccolta di fiori selvatici e pretendeva di farle portare tutto quel fascio di sterpi.

—-Non sapete regalare che del verde!—gli disse, con aria di superbo dispregio.

—Signorina,—rispose Ariberti, toccato sul vivo, nel verde c'entrano —anche gli smeraldi.

—Bene, offrite dunque smeraldi,—replicò la stizzosa osservatrice,—et que cela finisse.

Giselda fu pronta ad intromettersi; domandò a Maria, abbracciandola, che idea balzana le fosse girata pel capo; pregò Ariberti a non far caso di quello scherzo; aggiunse che portava volentieri quei fiori dei boschi, che le ricordavano i begli anni d'infanzia; insomma, tanto disse e fece che la nube fu dissipata e il temporale si chetò alle prime gocce di pioggia.

Ma il nostro innamorato aveva ricevuto la botta e non poteva dissimularla a sè stesso. Sicuro, i suoi erano doni da fanciullo; un diamante, bellamente incastonato, gli avrebbe fatto più onore.

E lui subito a cercarlo. Sarebbe andato di grand'animo a razzolare nelle miniere del Capo di Buona Speranza, se fossero state un po' più alla mano e non gli avessero fatto perdere cinque mesi di tempo, tra l'andata e il ritorno.

Peraltro le difficoltà che doveva superare per impadronirsi di un pezzettino di carbonio cristallizzato, non erano minori a Torino, sebbene quei graziosi nonnulla scintillassero a centinaia nelle vetrine de' gioiellieri. Ci erano infatti quelle maledette lastre di cristallo, che lasciavano vedere e non toccare, c'era per giunta la necessità preliminare di metter fuori quella merce di scambio che è l'oro, o l'argento, vecchio ingrediente di ogni contratto, che la civiltà, con tutti i suoi progressi non ha ancora inventato il modo di lasciare da banda.

Ora il nostro eroe, lì per lì, di quella merce preziosa non si trovava ad averne. Il Priore aveva già snocciolato un cinquecento di lire, e non poteva rendergli un nuovo servizio. Lo mandò per conseguenza da Bonisconti; ma Bonisconti ne aveva meno di lui, e lo mandò da Valerga.

Da Valerga, il poeta? Sissignori, e non era una celia. Valerga poteva aiutare in quel bisogno Ariberti. Apollo s'era messo nei panni di Mercurio: e voglio dire con questo che Luciano si mise l'ali ai piedi per correre in traccia dell'araba fenice dei banchieri e far trovare al suo giovine amico il denaro corrente, coll'interesse ragionevole del seicento per cento. Così almeno mi sembra che debba andare la proporzione, perchè Ariberti sottoscrisse per sei mila, non ricavando dalla merce acquistata che mille.

Il sacrifizio parrà troppo forte a chi va comodamente per la via piana; ma a ciò si risponde che il traffico bene inteso non deve, con un soverchio d'agevolezze nello sconto, lusingare le menti dei giovani e promuovere la manìa scialacquatrice dei figli di famiglia. Va bene che il nostro eroe non domandava la somma per scialarla in bagordi, bensì per fare un grazioso regalo alla sua diva; ma anche su questo capitolo il Ghetto era assai rigoroso, e alla fin fine non ci aveva nulla a vedere nelle ragioni degli innamorati.

—Volete danaro? Eccone; in mercatanzia, ci s'intende, per rivenderla e farne commercio, come dice la frase d'obbligo, e come consiglia il bisogno di non dare nell'occhio ai nemici dell'usura. La merce è danaro; pigliatela per quel che fa la piazza; un compare la ricomprerà, e, nel prezzo che farete, io non c'entro. Del resto, siamo filosofi; l'importanza del danaro va misurata al fine che l'uomo si propone di raggiungere. Si vuole una soddisfazione? Bisogna pagare anche quella. La domanda rincara la merce; è legge economica. E poi, con che diritto vi lagnate dell'usuraio? Voi giovani comperate con mille, mettendo di costa la gioventù e la fortuna, quello che altri non otterrebbe al prezzo di ventimila. Dunque, ecco subito diciannove mila di differenza, che io posso mettere in coscienza a mio profitto. Questa è giustizia distributiva e null'altro.—

Così doveva ragionare il vecchio Aronne (Arunel-Rascid, come lo chiamava Luciano Valerga) che imprestò ad Ariberti il danaro, o gli vendette la sua merce in guanti e calze di seta, che tornava lo stesso. La merce valeva poco in confronto della somma, direte; ma, e la firma dello studente valeva forse di più? L'onesto Aronne non doveva essere compensato in qualche modo del risico?

La ricerca del capitalista, i negoziati, la sottoscrizione delle cambiali, la consegna della merce, la commedia del sensale per far parer manna ad Ariberti le mille lire, in cambio di seimila che doveva valere tutta quella roba di scarto, tirarono maledettamente in lungo il negozio. I moccoli attaccati dallo studente non furono pochi, anche perchè sul più bello si venne a conoscere (e il sensale mostrava di non vederci più lume) che metà dei guanti venduti dal giudeo erano tutti della mano sinistra, e che probabilmente un così gran numero di monchi della mano destra non si sarebbe trovato a Torino. Finalmente, il nostro Ariberti, che già non sapeva più con chi farsela tra i santi del paradiso, avendoli invocati tutti a suo modo, intascò le mille lire e gli parve ancora una grazia particolare del cielo, che, per dire la verità, egli aveva assai poco meritata.

Intascò le mille lire, ho detto, ma gli si dimezzarono pochi minuti dopo nella borsa, per la compera di un elegantissimo medaglioncino, tempestato di brillanti e corredato del suo monile, affinchè Giselda potesse cingerne il collo.

La signora Szeleny vide il gioiello, ne rimase grandemente ammirata e lo fece anche vedere a Maria, che promise ad Ariberti di ritrattare la sua frase di Moncalieri, al secondo presente d'uguale valore che egli avrebbe fatto a Giselda. Ma questa le diede sulla voce, anzi non accettò il dono del giovane, e non ci fu verso di farglielo tenere.

—Alla mia serata,—gli disse da ultimo, temperando nelle preoccupazioni dell'artista gli scrupoli della donna,—alla mia serata, non dico di no; farà spicco, e qualche altra regina del palcoscenico, morrà per cagion vostra, dalla rabbia.—

Di fatti, la stagione teatrale al Regio era già abbastanza inoltrata e Giselda aveva cantato in due opere di ripiego, per dirla anche noi nel gergo di palcoscenico. Disgraziatamente la cantatrice non era piaciuta che per la sua bellezza, o piuttosto la sua bellezza aveva fatto passar sopra alla povertà della voce e dell'azione drammatica. Cantava bello, come suol dirsi con vecchia arguzia dagli Aristofani delle platee. Ora, perchè la bellezza frutti applausi da sola e faccia andare in visibilio i dolci di sale, è mestieri che questa bellezza si mostri umana, e lusinghi, coi sorrisi dalla ribalta e colle presentazioni in casa, l'amor proprio ai semidei del proscenio, e agli eroi delle sedie chiuse. E questo non era il caso della signora Giselda, che aveva fatto poche conoscenze tra gli onnipotenti del giorno, quantunque ad Ariberti paressero già troppe; e quelle poche, poi, non sapevano acconciarsi di buon grado alla eterna presenza di quello sbarbatello, geloso in vista e permaloso, secondo i casi, peggio di un antico cavaliere spagnuolo.

Dunque, visibilio no, e gli applausi erano pochi. La freddezza del pubblico recava per contraccolpo una nuova e più grande molestia allo studente, costretto a farsi in quattro, in otto, in dodici, per procacciare un'ombra di partito, che le dicesse brava nei punti topici e sostenesse i battimani, o per dettare su questo giornale e su quello articoli laudatorii, che dovevano andare, diligentemente ritagliati dalla pezza, a rimpinzar le colonne dei giornali teatrali delle altre città, come testimonianza credibile dei trionfi di Torino.

Giselda lo ringraziava, ma senza andare in visibilio neppur lei, come lo avrebbe ringraziato per un mazzolino di viole mammole, o per una scatola di confetti. Forse tutti quegli atti di servitù le parevano naturali, anzi obbligatorii in ognuno che l'avvicinasse: fors'anco vedeva di non avere incontrato il favore del pubblico e la sua dignità non le consentiva di riconoscerlo apertamente, con dimostrazioni di gratitudine a quel povero ragazzo. Certo, ella si dava molto pensiero del suo avviamento artistico, e per naturalissima conseguenza le si era infiltrato nell'amena un miccino di vanità, d'amor proprio, di gelosia, in faccia alle altre sue compagne di palcoscenico. Quello delle quinte è un altro mondo nel mondo; ha una lingua sua, passioni sue, allegrezze, dolori, trionfi e vergogne

Che intender non le può chi non ci vive.

Cittadina di questo piccolo mondo e partecipe a tutte le sue debolezze, la signora Szeleny ringraziava facilmente, ma leggermente altresì, il giovine innamorato dei suoi quotidiani servigi, e metteva in quella vece tutto l'ardore a desiderare, usava tutti i più sottili accorgimenti a procurarsi la parola amica di chi avesse taciuto fino a quel giorno, o il favore e l'applauso di chi, tra i semidei che ho detto più sopra, le si fosse mostrato restìo. Il sorriso confidenziale, o la protezione grossolana di un impresario, la mandava a casa più allegra di quel che facesse un di petto, venuto fuori senza stento soverchio; una risposta ritardata d'agente teatrale la faceva stare di cattivo umore per due giorni alla fila. S'intende che per ogni visitatore ella sapea ritrovare la sua giocondità di prima e sciorinare le sue grazie più elette. Erano conoscenti e sarebbero andati a teatro; bisognava dunque far loro buon viso. La vittima era sempre Ariberti, Ariberti che tutti credevano felice, o almeno molto innanzi nel favore della diva, ma che pur troppo avrebbe potuto cedere i suoi profitti al portinaio, senza dar nulla di sicuro, o giuocarseli col suggeritore, con cui erano pari quanto a sostanza di felicità, cioè a dire molto vicini per soliti, ma unicamente da' piedi.

Unico guadagno era per lui quella sapiente mistura di dolce e di amaro che Giselda sapeva ministrargli ogni giorno; verbigrazia, la stretta di mano serbata a lui ultimo nell'ora di commiato, l'occhiatina furtiva negl'intervalli d'una conversazione che lo avesse condotto ad un pelo di prendere il cappello e di andarsene, o un bacio lasciato deporre su quelle sue dita affusolate, in un momento d'oblìo, mentre il discorso era rivolto a tutt'altro. Così viveva il nostro povero eroe, cangiando d'umore più volte al giorno, che non faccia di colori il cielo in un tramonto d'autunno.

Ho detto degli articoli che scriveva egli solo su parecchi giornali, ma non ho detto quanto gli costassero, d'inchini, di sotterfugii e d'altro. Figuratevi che per ficcarne uno di poche linee nella cronaca d'un giornalone politico, aveva… Ma no, non lo dirò, perchè non mi si accusi di aver disvelato i misteri d'Eleusi ai profani.

CAPITOLO XV.

In cui è dimostrato, contrariamente al proverbio, che chi non cerca trova.

La serata a benefizio di Giselda Szeleny venne finalmente, per accrescer le cure e l'ansietà dell'innamorato che ormai si era fatto più molesto di un padre di ballerina, o d'un marito di prima donna poco assoluta. Già, di studii universitari non si parlava da un pezzo; anche il suo dramma, finito a Dogliani, che doveva essere posto in scena in quel medesimo inverno per grazia profumata di un capo-comico di terz'ordine, era lasciato affatto in balìa degli attori. Ariberti non vedeva più altro fuorchè le faccende di Giselda, non si curava più d'altro fuorchè delle sorti d'una serata, a cui mancava il più sicuro fondamento, cioè l'entusiasmo del pubblico. Non avrebbe fatto quel mestiere di galoppino per tutto l'oro del mondo; e lo faceva in cambio per nulla. Ma chi nol sa? L'amore come la fame, piega gli uomini ad ogni sorte d'uffizi.

Per far numero in teatro, aveva preso in affitto quella sera un palco di seconda fila, e si era invitata presso di lui la signora Maria, coll'amminicolo della zia e d'un vecchio parente, o amico di casa che fosse, della categoria dei personaggi che non parlano. Questo onore sulle prime non gli andava molto a' versi, ed era rimasto perplesso mettendo fuori il dubbio che probabilmente non avrebbe trovato un palco degno di ospitare la grande demoiselle; ma Giselda aveva mostrato piacere che la cosa andasse per l'appunto così, ed egli, che il palco se lo era già accaparrato, aveva finito col dirle: et cum spiritu tuo o qualche cosa di simile.

Eccolo dunque colla signorina Mary (ho detto signorina? orbene lasciamola andare), che faceva uno sfoggio meraviglioso di trine, di svolazzi, e d'altri fronzoli donneschi, nel suo palchetto di seconda fila. Era bella, più bella del solito in quella sera, l'inglesina di Nizza. Ho già detto che la sua era una bellezza un po' dura; ma debbo soggiungere che lo sfarzo delle vesti, la luce del teatro e la soddisfazione di stare là in vista come una regina seduta sul trono, l'avevano trasfigurata senz'altro.

Una cosa notò Ariberti, che doveva notarne tante in sua vita; vo' dire la disinvoltura con cui certe donne accolgono i servigi di un uomo, che pare gli facciano grazia, e lo contano nulla, lì per lì, o poco meno di nulla, salvo a contarlo assai da un momento all'altro, senza una ragione sufficiente di quel cambiamento d'umore. Infatti, per allora, il cavaliere della bella nizzarda non contava niente più del personaggio muto che aveva accompagnato la zia. In quel palchetto si pigiavano e si succedevano le visite, e lui, l'accompagnatore e l'ospite, doveva rimanere per necessità della carica, ma risospinto ad ogni nuovo arrivo e dimenticato a dirittura in un angolo.

Inoltre, tutti quei farfalloni facevano un chiasso del diavolo non permettendo nemmanco di mettere un po' d'attenzione allo spettacolo. Mary qualche volta si provava a dar loro sulla voce ma con un tono che dava ansa a far peggio.

—Signori, sentiamo la cavatina, vi prego; è così bella!

—Sì, se fosse bene cantata.

—Non ne sapete ancor nulla. Stiamo dunque un po' cheti.

E gli altri a sorridere maliziosamente, a far boccacce, fino a quel segno che consentivano le buone creanze, ed anche ad esprimere più apertamente i loro riveriti dubbi intorno al merito della cantante. Non avevano poi tutti i torti; ma infine, perchè scegliere appunto quel palco per loro tribunale? Ariberti, non potendo rimbeccarli senza mancar di rispetto alle dame, fremeva in silenzio e si mordeva le labbra. E vedete combinazione: anche Maria difendeva fiaccamente l'amica; anzi peggio, la difendeva in modo, da farlo schiattar lui dalla rabbia.

—Signori,—diceva l'inglesina, assumendo un'aria d'autorità, che rasentava la celia,—vi proibisco di trovar difetti nella signora Szeleny. È la mia migliore amica, ed io non posso ascoltarvi.—

Venne finalmente la grand'aria di Giselda, e qualche applauso della platea, aiutato coi gesti dal palco di Mary, che aveva voluto dai suoi visitatori quell'atto di compiacenza, permise ai servi di scena di farsi avanti coi mazzi di fiori e col vassoio d'argento, su cui era posato quel tale astuccio di gioielli che i lettori conoscono. I mazzi erano quattro, e tutti del povero Ariberti, che si era proprio spartito in quattro, per far comparita in quella solenne occasione.

—Quattro mazzi! Di chi saranno?—si domandava nel palco.

—Ecco,—rispose l'inglesina,—uno è mio.—

Non era vero, come Ariberti sapeva per prova; ma un'occhiata che gli diede, o per dir meglio, che gli gittò in fondo al palco la giovane, lo fece complice di quella audace bugia. Quell'occhiata pareva dirgli: vedete, dico così per non farvi sfigurare; ringraziatemi.

—Il secondo,—soggiunse Mary,—è del mio gentil cavaliere, che partecipa alla mia ammirazione pei meriti di Giselda. Il terzo dev'essere dell'avvocato Germani, compitissimo gentiluomo, come saprete…

—Non c'è che dire; ma il quarto?

—Il quarto… non saprei. Aspettate; potrebbe essere del cavaliere
Roberti.

Lo studente sorrise, nascosto nell'ombra, che sbattevano i festoni di seta sul fondo del palco.

—Con una piccola variante nel nome,—disse egli tra sè,—la notizia potrebbe esser vera.—

E pensò con piacere che il cavalier Roberti non aveva mandato nulla a Giselda; segno evidente che era messo fuori di speranza e avea preso il broncio con lei.

Intanto i curiosi continuavano ad almanaccare.

—E quell'astuccio di velluto, che cosa conterrà?

—Scommetto che è un finimento di filigrana genovese.

—No, è troppo piccolo; ci ha da essere un dono più prezioso.

—Diamanti?

—Eh! piccolini, s'intende.

—Chi lo avrà regalato?

—Altro mistero!

—Qualche volta sono astucci vuoti, per far restare di stucco i compagni del palcoscenico.

—Eh via! Come se i compagni di palcoscenico non domandassero di vederci dentro!

—È, vero; correggo la frase. Si tratta invece di un solo ed unico monile, che figura su tutte le piazze. È il dono di un primo protettore, e non fa che andare e tornare dalle valigie della signora alla ribalta, e dalla ribalta alle valigie.

—Che supposizione!—esclamò la signora Mary.—Non vi vergognate? Qui poi non è il caso.

—Signora, parlavo sui generali;—rispose il Don Marzio che aveva sofisticato a quel modo.—Del resto, l'astuccio regalato alla vostra amica non può venire che dal più ricco de' suoi conoscenti.

—Chi lo sa? che cosa intendete per ricco?

—Non già un milionario;—disse di rimando il maligno;—mi basta assai meno; supponiamo un cavaliere Roberti.

—V'ingannate; so io chi ha mandato l'astuccio, e non è il cavaliere Roberti;—replicò l'inglesina troncando il filo alle supposizioni dei suoi cavalieri.

Un'altra occhiata in fondo al palchetto diceva intanto ad Ariberti; vi servo bene? Non era molto, per verità, quel che aveva fatto la signora Mary; cionondimeno il giovinotto gliene fu grato.

Così la complicità era assicurata; una bugia da una parte, un servizio dall'altra, e Ariberti era in trappola. La signora Mary pose il colmo alla sua bontà, applaudendo nell'ultimo atto e facendo applaudire Giselda a tutta forza dai cavalieri che erano in visita presso di lei.

Ma ohimè, il teatro era vasto, e non c'erano in molti a sostener l'onore delle armi della signora Giselda. La platea si scaldava poco, e il chiasso degli assoldati, dei compiacenti e dei matti, le tre categorie di entusiasti a freddo nei teatri italiani, presentava molte lacune, lasciava sentire lo scalpiccìo, i colpi di mazza nelle panche, i boati; tutti rumori che aiutano in un pieno d'orchestra, ma che, uditi da soli, o quasi, vi danno il medesimo gusto d'un concerto di contrabbassi.

Come Dio volle, la tortura morale a cui era stato sottoposto per quasi tre ore il nostro eroe, giunse al suo termine. Giselda ebbe tre chiamate al proscenio; molto contrastate, è vero, ma le ebbe, e tutti giornalisti teatrali potevano oramai registrarle per sei nel libro della gloria, tenuto da essi accanto a quello degli abbonamenti. I visitatori ad un per uno se n'erano andati, rispettando i diritti dei cavalieri serventi, e dopo di loro uscivano Ariberti e il personaggio muto dando il braccio alle dame, o pedine che fossero; perchè io non ci ho predilezione per un vocabolo sopra l'altro, e lascio libera la scelta ai lettori.

Ariberti avrebbe desiderato di poter rimanere nell'atrio del teatro, per aspettare Giselda all'uscita. Ma come fare? Aveva ordinate signorilmente le cose, e una vettura di piazza, attendeva le dame, che per tal modo avrebbero potuto andare a casa da sole, o tutt'al più accompagnate dal personaggio di cui sopra. Ma ecco che all'ultimo momento, e proprio lì sul montatoio, un'idea stravagante saltò in testa all'inglesina.

—Andiamo a piedi?—chiese ella, ricusando l'aiuto che Ariberti le offriva per farla salire in carrozza.—il tempo è così bello!

—Ma freddo;—disse la zia, che già era comodamente seduta sul cuscino.

—Bene; allora va tu, cara zia; il signor Arnaudi avrà la bontà di tenerti compagnia. Noi proseguiremo a piedi. Io sento proprio il bisogno di fare due passi; l'école buissonière,—soggiunse ella in francese a bassa voce volgendosi ad Ariberti, che era rimasto lì impacciato come un pulcino nella stoppa.

La zia doveva esser avvezza a questi capricci della nipote, perchè non si provò nemmeno a far contro, con uno dei soliti ma delle zie.

Quanto al signor Arnaudi, egli non venne meno alla sua fama, e, muto come un pesce, salì in cocchio, felice in cuor suo di aver guadagnato il posto buono.

La carrozza si allontanò, e la signorina Mary chiudendosi nella sua mantellina, si strinse al fianco del suo cavaliere, prima ancora che egli avesse pensato ad offrirle il suo braccio.

Andarono un tratto, silenziosi; ella aspettando che Ariberti parlasse, egli non sapendo che dirle. Finalmente, veduto che egli non avrebbe aperto bocca, ella si pose a rompere il ghiaccio.

—Ho voluto tornare a piedi,—gli disse,—perchè ho da parlarvi.

—A me?—domandò egli, dando involontariamente un sobbalzo.

—-A voi, sì; e a chi altri, di grazia?—ripigliò essa con accento tra stizzoso ed ironico.

—Ma, scusate, volevo dire… di che?

—-Eccone un'altra che vale la prima! Avreste forse paura?

—Io… No, signora; e perchè dovrei aver paura, con voi?

—Ma! che ne so io? Voi altri uomini siete così originali, alle volte! Del resto, per farvi vedere che non c'è da tremare in compagnia della grande demoiselle,

—Come? sapete?….

—So il nome che mi avete dato parlando con Giselda, e mi piace. È il soprannome d'una principessa di Francia, ed io mi sento principessa la parte mia; anzi, starei per dire che lo sono tutta quanta. Ma torniamo al fatto; non dovete temere nulla da questo colloquio, perchè si parlerà di Giselda. Ella vi preme tanto, che io spero…—

La reticenza di Mary non fu colta a volo, e nemmeno a passo ordinario, dal giovine Ariberti, che stette muto a sentirla, come se non fosse affar suo. Era un principio di transazione della sua coscienza colla cortesia naturale in un cavalier servente? Se noi possiamo interpretare in questo modo il silenzio di Ariberti dovremo anche aggiungere che quella transazione doveva portarne dell'altre con sè. Queste cose son come le ciliege, che una tira l'altra, e a poco per volta vi corre anche l'albero.

—Non rispondete?—esclamò l'inglesina, scuotendogli dispettosamente il braccio.—Ma che razza di uomo siete voi mai?

—Io signorina?—chiese egli, coll'aria di un uomo che fosse cascato allora allora dalle nuvole.

—Voi, sì, voi. Ma sapete, signor mio, che c'è da disperarsi davvero per una donna che vi ha fatto l'onore di accettare la vostra compagnia?

—Oh signorina, non mi giudicate male, vi prego. Intendo l'onore che mi fate, e non dimenticherò mai la prova di fiducia che mi avete dato.

—Bene! che c'entra adesso la fiducia? Io non sono mica una donna fragile, che abbia bisogno di fare assegnamento sul rispetto di un uomo, e all'uopo saprei difendermi da per me contro un tentativo di rapimento. Non mi fate dunque un merito d'una debolezza che non ho. Nei casi dubbi,—soggiunse ella ridendo,—io non riporrei mai la mia fiducia fuori di me. Non sono già come voi, che vi buttate sempre là ad occhi chiusi…

—In che cosa? e come potete voi asserirlo?—chiese stupito Ariberti.

—Eh, per quel poco che vi conosco. Siete così giovane!

—Orbene, l'esser giovane è forse un difetto?

—In sè stesso, no; ma alla vostra età si hanno i difetti… dell'età. E bisogna trovare gli amici, che vi aiutino coi loro consigli a correggerli.

—Se potessi sperare di aver trovato quest'amico…

—Donna, non è vero?

—Ci s'intende. Da un labbro di donna, consiglio, o rimprovero, non torna mai dispiacevole.

—Bene, non siete permaloso. Io vedrò dunque di darvi il consiglio. Del resto, è appunto per ciò che ho voluto parlarvi a quattr'occhi…. Voi siete giovane, l'ho detto; avete ingegno; la vostra famiglia è ricca… Non molto ma infine, vi fa vivere nell'agiatezza e voi non avete a lagnarvi della sorte. Siete avviato ad una professione indipendente; non siete antipatico…

—Grazie!

—Oh, non lo dico perchè abbiate ad insuperbirne, o a pensare Dio sa cosa di me. Io, del resto, sono senza pericolo per voi, che siete innamorato…

—Signorina, e chi vi dice?…—

Per intendere questa domanda di Ariberti, bisognerà vedergli un po' dentro. Egli non aveva parlato con nessuno del suo amore per la signora Szeleny, e poteva, fin ad un certo punto doveva nasconderlo, o almeno incocciarsi a non ammetterlo per vero. Ma questo sarebbe stato naturale in lui se avesse avuto dieci anni di più, con tutta l'esperienza e la gravita che portano quei due lustri benedetti nella vita di un uomo. La sua domanda muoveva da un altro pensiero, indicava anch'essa una di quelle piccole transazioni che si fanno con una donna, per quanto poco c'importi di lei. È istintivo nell'uomo di non confessar mai ad una donna, l'amore che si porta ad un'altra. C'è egli in fondo del cuore un secondo fine, un «non si sa mai» appiattato? Ecco un'altra delle cento mila cose che non so. Ordinerei volentieri un plebiscito, per sapere a questo proposito l'opinione dei miei riveriti lettori.

E notate; se quel «non si sa mai», si appiattava in una piegolina del cuore di Ariberti, egli non ne sapeva un bel niente. La domanda gli era venuta spontanea, senza dirgli, o lasciargli intendere, qual sentimento gliel'avesse sospinta alle labbra.

—Signorina, e chi vi dice?…

—Ma tutto il vostro modo di procedere;—rispose la sdegnosa inglesina.—Del resto, si capisce; Giselda è bella, non è vero?

—Sì.

—Intelligente.

—Sicuro.

—Buona.

—Sì, buona davvero!

—-Eppure, vedete, quella donna non è fatta per voi, o, per esprimermi più veramente, non siete fatti l'uno per l'altro.

—E la ragione?—balbettò egli confuso.

—La ragione? Ce ne sono parecchie. Anzitutto, la disparità degli anni; poi quella delle condizioni. Parliamoci chiaro e non abbiamo paura delle frasi; voi non siete così ricco per lei, da poter essere un protettore, o un marito. Ne convenite?

—Sì;—mormorò il giovine chinando umilmente la fronte.

—E… per amante,—proseguì l'implacabile inglesina—per amante, poi, credo che le sareste più assai di impaccio che d'aiuto, nella carriera artistica ch'essa è costretta a percorrere.—

Ariberti rimase ad un tratto in silenzio. Indi alzando la faccia e volgendosi a lei come spinto da un pensiero improvviso le disse:

—Vi ha ella incaricato di parlarmi in tal guisa?

—Che dite voi ora? Io non porto imbasciate per conto di nessuno;—rispose ella con piglio severo, e scotendo la sua testolina per modo che il cappuccio della mantellina le si arrovesciò sulle spalle.

—Scusate, vi prego!—ripigliò Ariberti con aria contrita, mentre si faceva a ravviarle il cappuccio sulla testa, ma senza riuscire nella impresa, e brancicando involontariamente i classici avorii del collo.—Ho detto una sciocchezza e me ne pento. Ma perchè, diamine, la m'è venuta alle labbra? Amo io, dopo tutto, la signora Giselda? È bella, ne convengo, è cortese con me come lo è con tutti coloro che frequentano la sua casa; ed è per questo che si sta tanto volentieri presso di lei. Ma se io fossi innamorato, mi sembra che a quest'ora sarei felice, o sarei morto senz'altro. Sì, proprio deve essere così; aggiunge Ariberti riscaldandosi in quel pensiero che gli era venuto lì per lì nella mente; questo è il mio modo di sentire e non potrei mutarlo per nessuna donna del mondo, foss'anco cento volte più bella e più amabile di lei.

—Badate di non ingannarvi!—notò argutamente la inglesina.—L'ardore che mettete a negare una cosa, che non sarebbe poi nè un delitto nè una sciocchezza, potrebbe dimostrare che avete ancora bisogno di persuader voi medesimo, anche prima di farlo credere agli altri.

—No, no, sono intimamente persuaso di quello che affermo. Se fosse diverso, il cuore me ne avrebbe avvertito. Non vi pare?—chiese egli, appoggiando la sua interrogazione con una stretta al braccio di Mary.—Del resto, voi stessa, che in tutta questa vicenda sareste neutrale e per conseguenza imparziale, avete sentenziato giustamente sul caso nostro. Io, come amante, sarei per la signora Giselda un impaccio. Ora, io vi domando un po' di giustizia. Mi credete tal uomo da non intendere queste cose? Un impaccio! lo credo bene. Ma io ho cercato sempre di non esserlo per nessuno; figuriamoci poi per una donna, mentre appunto colle donne bisogna trattare da pari a pari e colla massima delicatezza. Io l'ho sempre intesa così e questo è il mio carattere. Aut Caesar, aut nihil.

—Il vostro carattere vi dà anche di parlar latino colle signore?—esclamò la bella inglesina, ridendo, e mostrandogli, al chiarore di un lampione, due file di candidissimi denti.—Badate; io sono vendicativa; vi parlerò a mia volta in inglese, e faremo a chi ne capisce meno dei due.

—Faccio le mie scuse umilissime; volevo dire: o tutto o niente. È questa la mia divisa.

—Essa è anche la mia;—ripigliò la signora Mary, tornando sul grave.—L'uomo che io amerò avrà forse da piangere meno di un altro, ma io non patirò mai nemmeno l'ombra, il sospetto di una rivale.

—E,—disse timidamente Ariberti,—quest'uomo non è forse già trovato?

—No;—rispose ella con accento sicuro.

—Come? con tanti cavalieri pronti a buttarvisi ai piedi?…

—Che volete? Non ho gittato ancora il mio fazzoletto a nessuno. Sono tutti vanagloriosi, e, con tutta la loro apparenza di serietà, discretamente ridicoli. L'uomo che io amerò dev'essere modesto quanto appassionato, prudente quanto fedele; insomma, un mondo di cose.

—Io non so se troverete tutte queste virtù riunite in uno solo;—disse Ariberti;—so bene che ogni uomo dovrà augurarsele; poichè sarà un uomo felice.—

Quella frase giulebbata era il meno che egli potesse dire ad una bella ragazza che gli faceva le sue confidenze. Il lettore adunque non ci veda, di grazia, un secondo fine. Ariberti aveva parlato per cortesia, o se volete, per quella natural simpatia che nasce tra un uomo e una donna, nella tranquilla libertà di un colloquio amichevole. Fa così bene esser gentili! E un complimento ne tira così facilmente un altro! Infine, che vi dirò? Il nostro eroe non mirava a far colpo; tirava in arcata, faceva gazzarra, era in ballo, e ballava.

Tanto è vero cotesto, che come furono nella strada in cui abitava la sua compagna, egli si dispose con molta disinvoltura al commiato.

—Eccovi a casa vostra;—le disse.—Mi toccherà augurarvi la buona notte, senza avere udito tutti i buoni consigli che vi eravate proposta di darmi.

—Vi premono davvero?—chiese ella fermandosi incontanente, e guardandolo in volto con occhio scrutatore.

—Se mi premono! Dovete esservene accorta.

—Bene!—ripigliò l'inglesina;—passeggiamo ancora.

—Ma con questo freddo? E vostra zia che dirà?—

Maria sorrise, probabilmente dal candore che traspariva da quelle parole del suo cavalier novellino.

—Non ho freddo;—rispose ella poscia.—Quanto a mia zia, non sa ella che sono con voi?

—Ah, ella si fida dunque di qualcheduno? Non è dunque come voi?

—No, non è come me;—diss'ella, con un accento da cui traspariva il dispetto d'essere colta in contraddizione;—del resto, volevo rispondervi che mia zia conosce me quanto occorre per vivere tranquilla; ma mi è parsa una risposta troppo superba, ed ho amato meglio dare un po' di merito a voi. Ho fatto male?

—No, vi ringrazio. Andiamo dunque. Ma dove?

—La vostra strada, per andare a casa, qual'è?

—Io abito in piazza Vittorio.

—Benissimo; andiamo dunque verso la piazza Vittorio. Mi farete vedere le vostre finestre, e poi torneremo a volo. Guardate un po' che degnazione è la mia.

—Ma sì, davvero;—disse Ariberti inchinandosi di molto e alzando in pari tempo il gomito, per modo che la mano della signora Mary si trovò quasi a tiro di un bacio;—-nessuna donna ha mai fatto tanto pel vostro umilissimo servo.

—S'ha a credere?

—Ve lo giuro.

—-Neanche Giselda?

—Neanche Giselda. Ma perchè lei più di un'altra? Io non l'ho mai avvicinata nel suo salotto.

—Strano!—mormorò ella tra i denti, quasi volesse parlare da sè.

—Strano, che cosa?—domandò il giovine, a cui quella parola schiudeva un mondo di vaghi sospetti.

—Nulla, nulla!—rispose ella schermendosi.—Ho io detto veramente strano?

—Sì, lo avete detto. E in che modo è da intendersi? Parlate, via, non mi tenete sulle spine.

—Ah, ah, la vi preme dunque un pochino, molto moltissimo.

—Aggiungete niente affatto, e il giuoco è finito. Io domandavo la spiegazione di una parola oscura; ecco tutto.

—Orbene, ecco qua il senso vero della parola, poichè non voglio lasciarvi colla impressione di aver tenuta a braccetto la Sibilla Cumana. Mi è parso strano che Giselda, a cui siete tanto divoto, Giselda che è così spesso in volta per le vie di Torino, non vi abbia mai dato questa prova di fiducia.

—Che volete? Sarà come voi.

—Mutiamo i termini;—soggiunse Mary, dando una scossa dispettosa al braccio di Ariberti;—dirò invece che non abbia fatto questa prova di confidenza nelle sue proprie forze.

—Ah, e voi vi sentireste di farla?

—Sicuro che mi sentirei… Che specie d'irresistibile vi argomentate voi di essere?

—Io, signorina? Io non mi argomento d'esser nulla. Si ciarla ed io fo la mia parte. Venite dunque ora, e date questa prova di fiducia a me, a voi, a chi volete insomma.

—-No, no, ho scherzato;—disse la bella inglesina, troncando il discorso;—contentatevi che io veda le vostre finestre, per sapere dove augurarvi la buona notte, quando mi avrete ricondotta all'uscio di casa mia.

—Come volete. Dicevamo dunque… Che cosa dicevamo?

—Che siete un capo ameno, e molto innanzi, troppo innanzi per la vostra età.

—Or ora dicevate il contrario.

—Eh, mi sarò ingannata. Poi, chi sa? gli uomini son così stravaganti!
Timidi con questa, audaci con quella: chi li capisce?—

Ariberti sentì, argomentando dal caso suo, che l'inglesina toccava giusto. Infatti, timido con Giselda, perchè innamorato, egli si sentiva più libero, più disinvolto con Mary, che pure incominciava maledettamente a piacergli, ma in un modo tutto diverso dall'altra. Sì, lettori umanissimi, debbo confessarvelo. E voi, del resto, lo avrete già capito a quella alzata di gomito, che fu come il batter d'ali dell'uccellino che si addestra al volo; il mio giovane eroe non sentiva impunemente la vicinanza di una bella ed elegante creatura, circondata di tutte le fragranze della gioventù e della profumeria. Alle corte, l'adoratore della altera marchesana di San Ginesio non avea bruciato i suoi incensi sull'ara domestica della signora Giuseppina Giumella? L'adoratore di Giselda faceva assai meno grave caduta, sdrucciolando ai piedi della signorina Mary.

Dopo tutto, non esageriamo. Ariberti era in una condizione nuova e difficile, come a dire sulla corda tesa, e non senza una certa voluttà mista di timore, perchè la fortuna era lì, scherzevole e lusinghiera, davanti a lui, ma c'era anche il pericolo di sentirsi mandare al diavolo nel qual caso tutto gli andava a rovescio, e la lusinghiera ingannatrice non avrebbe tralasciato di fare le sue confidenze a Giselda.

Tutte queste probabilità, più o meno lontane, più o meno paurose, passarono per la mente ad Ariberti in quella che si faceva a seguire il fuoco fatuo sull'orlo dei precipizio. E perchè egli non era ancora risoluto di andare innanzi o di tornare indietro, accettò senza sforzo il cambiamento di discorso che ella mostrava di volere.

—Audace!—ripigliò il giovane per conto suo.—Non lo sono. La vostra grazia m'incanta e meritate bene che anch'io vi faccia rispettosamente un pochino di corte. Dite sinceramente che cosa pensereste voi di un uomo il quale vi conducesse sospesa al suo braccio e non vi dimostrasse colle parole e cogli atti di far differenza tra voi e… la prima venuta?

—Ah, se fosse così!—esclamò la signora Mary sospirando.—Ma gli è che io temo per l'appunto di esser come la prima venuta ai vostri occhi. Chi sa, poi? Siamo quasi al buio, e potreste immaginarvi di essere accanto a Giselda.—

Questa volta fu Ariberti che non potè reprimere un movimento di stizza.

—E sempre Giselda!—gridò egli, alzando dispettosamente le spalle.—Che cosa c'entra Giselda?

—C'entra sicuro. Nessuno mi leverà dal capo che voi l'amate.

—Vi ho già detto due volte che non è vero.

—Lo diceste anche mille, quell'astuccio, da solo, basterebbe a provare il contrario.

—Quell'astuccio!… Ah sì, parliamone! Un dono che mi avete costretto a fare voi stessa!

—Io?

—Sì, col vostro discorso di Moncalieri.

—Davvero?—diss'ella, con accento impresso d'ironia,—Proprio vi siete deciso a far quella spesa per me?

—Certamente. Io non sono ricco… Lo avete detto voi. Mi contentavo di regalare dei fiori, come avrei fatto per ogni altra dama a cui fossi stato presentato e che avesse mostrato di gradirli. Ma voi, signorina, mi avete posto in canzone, vi siete beffata de' miei doni pastorali, mi avete messo al punto…

—Ah, gli è dunque per un semplice puntiglio che voi regalate gioielli alle dame?

—Ma sì, per un semplice puntiglio. Capirete che a nessuno piace di esser tenuto in quel conto che voi mostravate di tener me, quasi fossi un pezzente.

—Ammettiamo dunque che la colpa sia mia;—ripigliò l'inglesina, cedendo un po' di terreno al suo avversario.—Ma se si fosse trattato di un'altra donna che non fosse l'amica mia, avreste voi fatto lo stesso? Per esempio, avrei voluto vedere se lo avreste fatto per me.

—Anche per voi;—rispose Ariberti gittandosi a capo fitto nel ginepreto, da cui tanto e tanto non poteva più distrigarsi;—dirò meglio; a voi più che ad un'altra.

E il pensiero gli correva frattanto all'altra metà della somma ottenuta da Arun-el Rascid, che minacciava di non volergli rimanere in tasca più a lungo.

—Vi ringrazio;—disse la signora Mary, con voce così soave che più non sarebbe stata una carezza.—Badate che ho scherzato. Io non accetterò mai un dono simile se non dall'uomo che amerò.

—E dàlli, coll'uomo che amerà!—pensò Ariberti, stizzito contro questo personaggio mistico che incominciava a dargli noia prima di esistere.

Il giovinetto provava, rispetto a quel Tizio di là da venire, quel medesimo senso che molti provano in una sala pubblica, mirabilmente ornata di marmi e dorature, ma dove ci sia nella parete una nicchia vuota, che fa venire la voglia di gridare via, metteteci un grand'uomo, anche da dozzina, e facciamola finita una volta.

Così ragionando, e alternando i soliloqui col dialogo, Ariberti andava speditamente lunghesso i portici di Po, colla bella inglesina aggrappata al suo braccio. La gente che li vedeva passare così leggeri e contenti sotto le arcate, stretti l'uno contro l'altra come i due gemelli appiccicati di Siam, pensava: ecco due sposi novelli che han fretta di giungere a casa. E tutti, poichè a quell'ora non c'erano donne in volta, tutti invidiavano lo sposo, non lei.

Ma l'essere così vicini e il sostenere tutte quelle occhiate e giaculatorie dei viandanti, non li custodiva mica dal freddo. Certi buffi gelati scendevano tratto tratto dalla collina di Superga, che non erano punto piacevoli, e la bella inglesina incominciava a tremare.

—Avete freddo?—chiesele Ariberti.

—Un pochino.

—Torniamo indietro, se vi pare.

—No, no, ho promesso di venire a vedere le vostre finestre, e non sarà mai detto che un po' di freddo mi abbia fatto mancar di parola.—

Intanto affrettavano il passo.

—Ci siamo;—disse il giovine, come furono alla svolta di un angolo.—Se volete uscire di sotto ai portici, vedrete queste meravigliose finestre. Vi avverto che non sono di buon stile. Vedete, son quelle due là, nel mezzo.

—Ah, non è mica troppo alto.

—No; come vedete, è un secondo piano.

—Dovrete starci bene.

—Ma sì, abbastanza.

—C'è buio; non ci avete nessuno?

—Nessuno.

—Eh via! Volete darmela ad intendere.

—Nessuno, vi ripeto. Chi ci ha da essere? Del resto, venite su e potrete sincerarvene.

—No, grazie; andiamo fin là a vedere il fiume. Sarà gelato.

—Che dite? gelato il Po?

—Gelo ben io!—disse ella, ridendo e rabbrividendo ad un tempo.

—Ah, vedete? E perchè non confessarmelo subito?

—Perchè il freddo mi pareva più sopportabile. Il più forte mi ha preso or ora.

—-Venite, torniamo indietro.

—Si;—rispose ella con un filo di voce.

E voltarono indietro; ma il freddo pungente le dava assai noia, ed ella batteva i denti per tal modo che il suo cavaliere incominciò a temere non fosse per accaderle di peggio.

—Chiudete bene la vostra mantellina;—le disse;—intanto sarà meglio che entriamo sotto i portici. Ma che avete, Dio mio? Vi sentireste male?

—Qui, qui;—rispose ella stringendo la mano al petto e arrovesciando gli occhi con moto convulso:—mi manca quasi il respiro.—

Ariberti si spaventò davvero, come tutti coloro che si trovino in simili casi la prima volta, e via, mettiamo anche la seconda e la terza, poichè la vista di una donna che soffre, o mostra di soffrire, fa sempre pena ad un'anima bennata.

Per fortuna, la sua abitazione era lì a pochi passi, ed il nostro giovinetto potè condurre sollecitamente la sua donna al coperto. Ella si lasciò trascinare, portar quasi sulle braccia, e non aperse più bocca, direi quasi che non trasse più il respiro, fino a tanto non si trovò nei quartierino di Ariberti. Egli, lesto come uno scoiattolo, mise mano a quante carte inutili stavano nel canestro accanto al camino, e le ficcò sotto la stipa, che, sentito il fuoco, levò prontamente gran fiamma e scoppiettò allegramente, mandando per la camera sprazzi di luce rossastra e di caldo.

Fornita questa prima parte del debito suo, Ariberti accostò una portoncina al camino e vi fece adagiare la sua bella compagna, che seguitava di tratto in tratto a rabbrividire. Voleva anche coprirle la persona con un ampio coltrone, strappato dal letto; ma ella non lo accettò, amando meglio scaldarsi al fuoco che divampava nel camino e già incominciava a far sentire i suoi benefici effetti.

—Ecco una scappata che mi costa cara—diss'ella poscia, forse volendo alludere a quel gran freddo che la aveva colta.

Ariberti s'inchinò su di lei con atto amorevole.

—-Mi duole davvero,—diss'egli di rimando,—che per cagion mia… Ma in fine…—

Voleva soggiungere: infine lo avete voluto voi; ma si accorse che stava per dire una solenne bestialità, e si rattenne a tempo.

—Infine,—proseguì egli allora, mutando l'indirizzo della frase,—io ci ho guadagnato il piacere di darvi ospitalità. Questa cameretta quind'innanzi mi sarà sacra, per aver dato ricetto alla vostra bellezza.

—Purchè non vi salti in capo di murarvi una lapide commemorativa!—esclamò ella, coprendo con una allegra risata la scabrosità della situazione.

—Ah bene!—gridò egli, tutto racconsolato.—Voi ridete; siamo dunque fuor di pericolo.—

C'era ella stata davvero, in pericolo? Io non ardirei di affermarlo. E forse, pensandoci su a mente fredda, non lo avrebbe creduto neanche Ariberti. Ma là, a quel caldo, non bisognava guardarla tanto nel sottile. Ad altro pensava Ariberti; pensava a via d'Angennes e gli mordevano il cuore certi rimorsi! A quell'età, si capisce che ne avesse ancora. Non poteva Giselda risapere il giorno seguente quella sua scorribanda notturna? E con che coraggio si sarebbe presentato a lei? Imperocchè, delle due l'una, o l'inglesina era una donna a modo e avrebbe taciuto, ma lo avrebbe anche messo lui nel caso di dover rinunciare a Giselda; o non lo era, e per vanità, o per chiasso, avrebbe cantato senza fallo. Pregarla che stesse zitta; sicuro! La cosa sarebbe stata davvero di buon gusto, a quell'ora!

Intanto, la furba inglesina andava pigliandosi spasso de' fatti suoi.

—Dite, mio bel signorino, vi sono io sempre antipatica?

—Voi? a me?—chiese egli confuso.

—Sì, io. Non è questa l'impressione che io ho avuto la disgrazia di fare su voi?

—Ma chi ha potuto dirvi?…

—Eh, un testimonio credibile; la mia amica Giselda.—

Quel tradimento della signora Szeleny gli diede maledettamente sui nervi. Che bisogno c'era egli di andare a ripetere i suoi discorsi a Maria? Ariberti se n'ebbe a morder le labbra dalla stizza. Ma, intanto, bisognava rispondere, e la stizza contro l'una non era una risposta per l'altra.

—Sì,—disse allora, facendo di necessità virtù,—l'ho detto… per vendicarmi.

—Vendicarvi? Di che?

—-Correggo la frase; rendervi pan per focaccia. La signora Giselda mi ha raccontato che vi ero antipatico, ed io ho risposto: a buon rendere. Dite su, non le avete forse detto che io vi ero antipatico?

—Sì e no;—rispose Maria.

—Come sì e no? Questa è una sciarada. Non la capisco.

—Quando conoscerete un po' meglio le donne,—replicò l'inglesina,—capirete anche questa.—

Fu quella l'unica volta che il nome di Giselda venne fuori nella loro conversazione. Forse l'inglesina ne aveva troppo parlato in principio e non voleva tormentare più oltre il suo cavaliere. Fors'anche, e questo mi pare più probabile, ella non voleva spaventarlo di soverchio coll'ombra dell'amica lontana, e mirava a serbarsi il benefizio di parlar chiaro e di mettergli le sue condizioni più tardi. Gli faceva insomma la strada piana ed agevole ad entrar nella rete, salvo a fargli trovare gl'intoppi quando si trattasse di uscirne. È suppergiù l'artifizio delle nasse, in cui le aliguste entrano così facilmente a morder l'esca, e poi, con tutte quelle steccoline che chiudono la gola del ricettacolo, non trovano più il verso di liberarsi.

Per altro, se l'inglesina taceva, non taceva del pari la coscienza di Ariberti. L'immagine della signora Szeleny gli tornava ad ogni tratto davanti; ed egli era ancora troppo giovane per cavarsela da queste malinconie con una alzata di spalle, nè abbastanza padrone di sè (e questo lo abbiamo già visto) per rinunziare ad una fortuna così piena di rimorsi. Egli non era, per dirla con una frase volgare, nè carne nè pesce, e incominciava a portare la pena de' suoi tentennamenti.

Gli bisognava svagarsi, inebbriarsi, dimenticare. Questo era per un animo come il suo il consiglio migliore. Era giovine, e la cosa gli venne fatta più facilmente che non a me spiegarvela con queste mie ciance. Si lasciò andare agl'impeti della sua indole pronta ed esuberante; finse la più profonda passione che nascesse mai da un momento all'altro nel cuore di un uomo e credo che nella furia andasse perfino di là dal segno. Alla sua età, con quell'ardore nel sangue, il nostro eroe poteva illudere a quel giuoco, non che una donna, sè stesso.

Così riscaldato com'era, egli non si fermò neanche a considerare che il passo della signora Mary era ardito oltre ogni ritegno di condizione ed ogni misura di convenienza. Ma in questo errore sarebbe caduto anche un uomo più maturo di lui. Tutto ciò che le signore donne fanno per noi è ben fatto; nelle loro debolezze non vediamo che la nostra potenza, e questa poi, siamo sempre disposti a condonarcela. Se si trattasse della fortuna di un altro, oh allora, giù senza misericordia sulle donne che cascano. Ma si tratta di noi…. È forse colpa di quelle poverine, se noi siamo nati irresistibili? E il giorno che si è fatta quella scoperta, come si desina di buon appetito! come ci si stropiccia allegramente le mani!

Lettori, io mi perdo in chiacchiere, e sono già le tre del mattino. Anche i miei due personaggi se ne sono accorti, per l'indiscrezione di non so quale orologio del vicinato.

—Mio Dio!—esclamò Ariberti, col suo solito candore.—Che dirà ora la zia?—

In questo caso, come in tanti altri che ha registrati la storia, da
Eva in giù, la donna si mostrò più forte dell'uomo.

—Che importa?—diss'ella.—Alla fin fine non sono più una bambina. Sappiate, signor mio, che tra due mesi anch'io calcherò le scene e dovrò pure uscir di tutela.

—Ma intanto…

—Ma intanto non vi date pensiero di ciò che diranno le zie. E questo
sia detto sui generali, per tutto ciò che può occorrervi nella vita.
Nel caso nostro poi, non c'è da pensar molto per trovare un pretesto.
Avevo freddo; sentivo lo stomaco vuoto e siamo andati da Biffo…

—A prendere un brodo; benissimo. Ci si potrebbe andar ora, per non dire una bugia tutta intera.

—No, no!—interruppe l'inglesina.—Potrebbero vederci, e ciò non mi garba… colla vostra aria da trionfatore romano.

—Cattiva! Dite piuttosto che temete d'incontrarvi in qualcheduno dei vostri eterni adoratori.

—Voi vedete a quest'ora come io mi prenda pensiero di loro.

—Venite, dunque.

—No;—replicò la signora Mary, che aveva buon senso per due;—a quest'ora da Biffo ci si può essere ancora, ma lo andarci a quest'ora…

—Ho capito;—gridò Ariberti;—ed io sono una bestia.

—Ah, manco male!—

E quel battibecco d'innamorati finì in una sonora risata.

La conseguenza del ragionamento si fu che Ariberti accompagnò a casa, senz'altre fermate, la signora Mary, giurandole sull'uscio un amore infinito e promettendo alle sue cinquecento lire che, se nessuno gliele rubava al ritorno per via, sarebbero andate il giorno vegnente dal gioielliere a ricongiungersi con certe altre, da cui erano state barbaramente divelte.

CAPITOLO XVI.

Che chiude l'êra delle pazzie giovanili.

Erano questi gli studi d'Ariberto Ariberti; così viveva egli, ciondolandosi, coll'isocronismo comune ai pendoli e agli animi deboli, dalle marchese di San Ginesio alle Giuseppine Giumelle, dalle Giselde alle Marie, dalle Dore alle Euterpi, dai Bertoni ai Ferreri e dai Candioli ai Priori.

Fatto il male, si pentiva; l'indole sua generosa portava così. Egli adunque si pentì eziandio di quel tradimento che gli pareva d'aver fatto a Giselda, e, dovendo comparirle davanti, si tenne per un uomo spacciato. Ma Giselda non gli disse nulla, non mostrò nemmeno di avvedersi del suo turbamento; la qual cosa gli fece credere che l'inglesina avesse taciuto. E infine, perchè avrebbe parlato? Non ci aveva anche lei il suo tornaconto a star zitta? Così, tra speranza e sospetto, col cuore lungamente in angoscia, tirò innanzi più giorni, proseguendo fiaccamente a farle la corte. Egli era impacciato, Giselda era tiepida; il loro affetto accennava a voler morire d'anemia. Avrebbe anche l'amore il suo periodo matrimoniale?

La signora Szeleny doveva per altro aver saputo, o indovinato qualche cosa. Ma in verità il signor Ariberti dovea premerle ben poco, perchè ella non fece gran caso di quel suo tradimento. Solo un quindici o venti giorni più tardi trovandosi ella nel suo salotto con Ariberti e con qualche altro, per modo che non c'era adito a nessuna peripezia drammatica, di punto in bianco gli chiese:

—Vi è più antipatica la mia amica Maria?—

Quella domanda improvvisa, accompagnata da uno sguardo che parve voler dire assai più dischiuse il solito abisso davanti agli occhi del giovane; il solito mondo di pensieri gli si affacciò alla mente turbata, e lì sui due piedi, come portava il bisogno, la solita deliberazione fu presa.

—No;—le rispose egli, dopo i tre minuti secondi necessarii a tutto quel lavoro mentale che ho detto.

E la conversazione non ebbe altro seguito.

Rammento ancora il brutto senso che fece in me, scolaretto di grammatica, e con tutta la maggior venerazione per l'ingegno di Vincenzo Monti, la chiusa dell'Aristodemo, con quel suo endecasillabo così povero di concetto e finito così malamente in tronco:

«Qual morte! Egli spirò».

Scommetto che ai miei lettori non riuscirò meno molesto io, quando avrò detto che con quel no, tronco, o monosillabico che dir si voglia, ma sempre maledettamente asciutto, ebbe fine il romanzo tra lui e la bella Giselda. Con quei cominciamenti maravigliosi! Sicuro; anche l'Aristodemo incomincia maestoso e fiorito:

«Sì, Palamede, alla regal Messene «Di pace apportator Sparta m'invia. «Sparta…»

con quel che segue e che ogni buon dilettante ricorda, senza bisogno di suggeritore alla buca.

Del resto, chi sa? Era logico che quell'amore, nato così facilmente, come i funghi tra uno scroscio di pioggia ed un raggio di sole, si disfacesse chetamente da sè, con altrettanta ragione di morte quanta era stata la sua ragione di vita.

Di Ariberti e delle sue incertezze vi ho detto, e si capisce perchè avesse lasciata intisichire la sua passione a quel modo. Ma che pensare della signora Giselda? Ecco qua una faccia del poliedro (poichè la geometria è di moda in letteratura) una faccia da poliedro teatrale. La donna, creatura debole, ha sempre mestieri di appoggio; la prima donna, che è donna alla seconda potenza (vedete? dalla geometria si passa nell'algebra), ha mestieri di appoggi. L'uomo, anzi, gli uomini, non sono un fine per lei, ma strumenti ordinati ad un fine, collocati sulla sua strada perchè essa li usi a quel fine. Perciò, amori pochi, e tutta galanteria; galanteria molta o poca, schietta od impura come le varie qualità di petrolio che sono in commercio (ahimè, qui si casca dall'algebra nell'industria!), ma sempre subordinata alla carriera.

La carriera, capite? Imperocchè, salvo i casi di fare fortuna con qualche ricco sfondolato che offra il suo cuore per la trafila del notaio e del prete (adesso bisognerà aggiungere il sindaco), il sopraccapo della carriera artistica va innanzi perfino alla cura del vile guadagno. il tornaconto è una cosa; la carriera è tutto. C'è dentro la soddisfazione dell'animo, la vanità consolata, le rivalità debellate, la notorietà, l'apparenza, insomma tutti i benefizi dell'essere in mostra. Anche il giornalista, per quanto dicono i suoi critici, è fatto un pochino così. Semel abbas semper abbas; cioè a dire che quando abbia una volta assaporate le pericolose gioie dell'essere in vista, alla ribalta del suo teatro politico, non sa più rassegnarsi a tornare fra le quinte. Come? potrebbe egli venire il giorno per lui che Minghetti, o chi per esso, non tremasse nello strappare la fascia del suo riverito giornale? che nessuno dei mendicanti di fama credesse più necessario di fargli la sua scappellata per via? Si grida contro le seccature del mestiere; ma che serve? il palcoscenico attira. Avanti dunque gl'istrioni! Anche a Nerone, buon'anima sua, dispiaceva di andarsene dalla scena del mondo, e soltanto perchè non avrebbe potuto più sostenervi la sua parte. «Qualis artifex pereo!»

Eppure la felicità è una cosa modesta nelle sue apparenze, dirò meglio, una cosa oscura, che si compiace nel silenzio e sa farsi, con pochi ma saldi affetti e con umili ma care consuetudini, il suo recesso ignorato anche in mezzo alla folla. Solo il piccolo mondo che ci siamo foggiati, per così dire, nei ritagli del grande, ha veri conforti per noi, o tanto più efficaci in quanto che sono più concentrati. Ma sì, andate a dirlo agli istrioni! Neppure Giselda era fatta per accettare di buon animo la sua parte di felicità con Ariberti, quantunque giovane, bello, e innamorato per giunta. Se egli avesse posseduto almeno cinquanta mila lire d'entrata, chi sa?…. Forse allora la bella diva avrebbe potuto rinunziare al suo piedistallo sul palcoscenico, ma per formarsene un altro nella società elegante e per avere il diritto di lagnarsi poi, di rimpiangere costantemente due volte al giorno il sacrificio fatto di tanti omaggi d'adoratori a cui era avvezzata, dei fiori, degli applausi e del nome in mostra sui cartelloni.

Quanto ad accettarlo come un amante, a dargli e ad accoglierne un tributo d'affetto immenso e fugace, la cosa sarebbe stata più facile, perchè Ariberti le era simpatico. Rammentate il modo in cui si erano conosciuti. Ma il piacere agli occhi di una donna non basta ancora; e spesso, in una società che fa tutto a mezzo e non ha gagliardia d'impulsi per la virtù nè pel vizio, val più una occasione colta a volo, che non la costanza e l'ossequio da un lato, e la passione, o la misericordia, dall'altro. Poi, il nostro innamorato non era stato abbastanza audace, o la signora Szeleny non aveva avuto bisogno abbastanza di lui. Siate audaci; un granellino d'audacia dà risalto all'amore. Rendetevi necessari, e sarete anche cercati. È il segreto di molti con molte, e se non temessi di farmi cavar gli occhi da qualche decima Musa sdegnata, vorrei dire con tutte.

Così adunque ebbe fine quell'altra passione di Ariberto Ariberti. Venne un mattino uggioso e freddo, sebbene fosse già di primavera inoltrata, che la signora Giselda Szeleny se ne andò via da Torino. Era stata cinque mesi sulle rive del Po, e mietuti quei pochi allori, pigliati a stento quei magri quartali che l'impresario giurava non aver essa guadagnati, se ne tornava alla sua residenza artistica in riva all'Olona. Spariva, insomma, portando via ad Ariberti un pezzettino di cuore e lasciandogli in ricambio qualche frase magiara pei suoi studi di lingue comparate, un guanto per la sua collezione di roba scompagnata e qualche ciocca di viole appassite, malinconici trofei d'un amore, che si era fermato alle prime avvisaglie. Ma no, dico male; gli lasciava anche la promessa di scrivergli spesso e lungamente, tanto per avere una scusa a non dirgli altro a parole e per dare una forma meno recisa e fredda all'addio.

Frattanto quel suo ripesco amoroso colla bella inglesina andava innanzi col solito metro. E i debiti pur troppo del pari, di guisa che Arun-el-Rascid già incominciava a star sul tirato e il nostro eroe si vedeva in un ronco, senza speranza di uscirne.

Il suo dramma era stato recitato ed era anche piaciuto discretamente ai popoli. Ma egli aveva lavorato per la gloria, la qual cosa vuol dire che non aveva buscato un soldo. E per giunta alla derrata, quel po' di gloria gli fruttò noie e grattacapi a bizzeffe. La Dora aveva detto corna del lavoro, e con parole di superbo dispregio, che a lui parve eccedessero i termini assegnati alla critica onesta. Si capisce che mandò subito i suoi padrini ai compilatori dell'ibrido giornale. Andarono questi e trovarono Ferrero, che rifiutò di battersi per un giudizio letterario. Povero a lui, diceva, se avesse dovuto dare soddisfazione sul terreno a tutti gli autori fischiati, o degni di esserlo! In quell'idea s'incocciò, nè ci fu verso di smuoverlo, neanche con qualche frase un po' dura. Quanto al contino Candioli, egli non poteva battersi che coi pari suoi, e Ariberto Ariberti era un plebeo. La teorica parve più codarda che superba al Priore, che, trovandosi in ballo, commise l'imprudenza di dare il suo conto giusto a quello sciocco vanaglorioso. Non lo avesse mai fatto! La sera di quel medesimo giorno, era chiamato ad audiendum verbum alla polizia, e lì, sui due piedi, mandato via da Torino. Straniero, con qualche marachella sulla coscienza, ce n'era d'avanzo per dargli lo sfratto.

Ariberti capì l'antifona. Era in un paese di prepotenti, e qualcosa poteva toccare anche a lui. Però stette zitto e divorò la sua rabbia. Intanto, la cacciata del Priore gli faceva perdere eziandio la speranza di qualche aiuto ne' suoi bisogni più urgenti. Perchè, come sapete, il Priore era generoso a' suoi giorni. Lui partito da Torino e senza timore che potesse tornare, incominciarono le chiacchiere sul conto suo e si venne a risapere che teneva il sacco ai banchieri del Ghetto e tirava in trappola i figli di famiglia; ma, dopo tutto, Tristano Falzoni non era un usuraio egli stesso, e se guadagnava male il denaro, sapeva poi spenderlo bene, rendendo anche qualche servizio ai merli spennacchiati per opera sua. C'era in lui, come si vede, il sentimento della restituzione; non lo si poteva dire in tutto, nè del tutto un malvagio… In altri tempi, e con più nobili occasioni, avrebbe potuto essere un eroe. Il tempo suo, la vita randagia, l'oziosità, l'amor dello spendere, il bisogno, ne avevano fatto un cavaliere d'industria.

L'accorta inglesina non ebbe a far molto, per avvedersi che il suo amante navigava in cattive acque. In verità, bisogna dire che ci sia proprio qualche cosa, intorno a noi e parte imponderabile di noi, la quale non si vede, come l'aureola dei santi nei quadri della vecchia scuola, ma si sente tuttavia e fa intendere l'animo nostro, indovinare gli arcani della nostra vita a cui meno vorremmo. Essa è qualche volta l'aureola della felicità e della gloria, qualche altra della miseria e dell'abbattimento. Si ha un bel nascondere questi segreti e custodirsi il volto con una maschera di bronzo; essi, quando non traspariscono, traspirano da noi. Inoltre ci sono nella vita di un uomo giorni di fortuna e giorni di disdetta; negli uni va tutto bene, anche il mal fatto; negli altri va tutto male, anche il più sapientemente architettato a fin di bene.

Ariberti era in uno di questi periodi; non gliene andava più una diritta. Però aveva perduto la serenità spensierata dell'animo; rideva ancora qualche volta, ma, in mezzo alle matte allegrezze, il suo spirito si arrestava in soprassalto, come se una voce interna lo richiamasse alle angustie, alle malinconie della sua condizione. Si aggiunga che la sua eleganza era sparita, o per meglio dire, aveva perduto ogni freschezza, ed egli faceva lo zerbinotto sugli avanzi del passato splendore; campava sui rilievi della sua propria mensa. Aveva incominciato a mettere un cordoncino di seta in luogo della catenella vistosa che gli ornava la sottoveste, venduto a mano a mano i ciondoli, le spille, i bottoni ed altri simiglianti gingilli. Un bel giorno anche l'orologio se ne andò al monte; segno (avrebbe detto qualche capo armonico dei cavalieri di Malta) che era annoiato di rimanere in pianura.

E proprio allora quell'inglesina del malanno incominciava ad aver mestieri ogni tanto di saper l'ora giusta. Per qualche giorno la tenne a bada con certe sue invenzioni; un po' era uscito senza orologio; un altro po' lo aveva dato ad aggiustare, e l'orologiaio, secondo il solito, non si faceva premura di renderlo, infine, menava il can per l'aia, o fingeva di non avere udito.

Intanto, i calabroni erano ricomparsi e le ronzavano a sciami d'attorno. Questa frequenza non si era più vista dopo la passeggiata notturna che ho raccontato più sopra; segno che l'inglesina tutta intenta ad irretire il giovinetto, aveva tenuti quei molesti invasori lontani dall'alveare. Come diamine si erano essi fidati di ritornare? Fiutavano anch'essi la chiusa del romanzetto, o rispondevano ad una chiamata? Ariberti non ne sapeva nulla, ma si adombrava di tutto. Il cattivo umore lo rendeva ancor più geloso che per sua natura non fosse.

E incominciarono i lagni, i battibbecchi, temperati in principio dalla passione, resi ancora sopportabili da un certo qual garbo capriccioso, come le gelosie dei personaggi goldoniani, ma in processo di tempo più acerbi, via via meno facili a chetarsi, e conchiusi da ultimo in una scenata coi fiocchi.

Erano volati da una parte e dall'altra i paroloni; ma quelli di Ariberti non dimostravano altro che il suo dolore; quelli di Mary andavano a ferire il punto più sensibile del cuore umano, la vanità. Una rottura era dunque inevitabile. E si piantarono scambievolmente; quella medesima facilità che aveva accese le faci d'amore, fu pronta del pari ad estinguerle.

A distogliere l'animo di Ariberti dal pensiero niente piacevole di quella catastrofe amorosa, ne sopravvenne un altro egualmente molesto, quello degli esami, che quasi gli erano usciti di mente. Ma già, questa è la storia degli esami, che hanno il torto di capitar sempre a contrattempo. Studiò in fretta, e male, o per dire più veramente, diede una scorsa di gran carriera ai trattati per vedere se gli riuscisse di ritenere almeno i titoli delle materie. La prova gli andò, com'era naturale che andasse, con quella tintura superficiale e con quella confusione di Digesto e d'indigesto in corpo.

Per giunta, il professore di diritto romano gli fece un tiro mancino, che segnò irremissibilmente la sua caduta.

Ad una risposta spropositata che n'ebbe intorno alla classificazione delle azioni giuridiche, quel burlone di professore, trasse al povero Ariberti questa sanguinosa bottata: «già capisco, signor mio, ch'Ella conoscerà solamente l'azione… teatrale».

—Non capisco;—balbettò lo studente.

—Già, l'azione del poeta comico contro il corago, o direttore di compagnia drammatica presso i Romani, per chiedere il pagamento di una favola in cinque atti.

E così, passin passino, trastullandosi con lui come il micio col topolino, il degno sacerdote di Astrea condusse lo studente attraverso tutti gli andirivieni, le viottole e i chiassi delle antiche consuetudini teatrali. Ariberti perdette a dirittura la bussola.

—Capisco,—disse allora il giureconsulto con un suo risolino sardonico;—Ella è più forte in diritto teatrale moderno. Ma questo non è affar mio; favorisca passare al collega.—

Ora, siccome il collega non ebbe più fortuna di lui nelle interrogazioni che fece al nostro povero eroe, ne avvenne che questi fu rimandato senza misericordia agli esami di novembre. Cosa strana, inaudita, quasi, nella facoltà dell'utroque jure; eppure doveva toccare al signor Ariberto Ariberti.

Voleva piangere, e già stavano per apparire i lucciconi tra ciglio e ciglio; ma si trattenne, per non dare argomento di riso ai suoi compagni di corso, gente ignota, o giù di lì, che lo stavano guatando curiosamente ammucchiati sull'uscio della sala tremenda, che risuonava ancora del doloroso giudizio.

—Andate là, signor Ariberto Ariberti,—parevano dirgli quelle occhiate curiose,—per un drammaturgo della vostra forza, per un raccoglitore di Frondi sparse come voi siete, una figuraccia simile è troppo. Che non aveste a diventare un Bartolo da Sassoferrato, lo si capiva, giudicandovi ad occhio; ma s'intende acqua e non tempesta, e voi siete andato a dirittura a sedervi sulla panca dell'asino.—

Così, divorando le sue lagrime col metodo dei camini fumivori, uscì dall'Università con un muso lungo un braccio; che poteva esser broncio e tracotanza ad un tempo. Ma l'uno e l'altro sparirono per dar luogo alla confusione più profonda, quando, sotto i portici di Po, s'imbattè d'improvviso in una certa figura, che gli gelò il sangue nelle vene più prontamente che non avrebbe fatto la testa di Medusa, buon'anima sua. Ha indovinato il lettore? La figura che faceva di simili effetti sul sangue di Ariberti era quella del signor Amedeo, di suo padre.

Si ricambiarono poche parole. Ariberti si avvide al solo atteggiamento del volto paterno, che non era il caso di chiedere un abbraccio, e avvilito e confuso come un cane bastonato, accompagnò il muto genitore al suo quartierino di piazza Vittorio.

Il signor Amedeo ascese le scale con passo grave e misurato, come il famoso commendatore di pietra. Don Giovanni Tenorio già prevedeva la sua sorte, e frattanto quel passo gli rimbombava spaventosamente all'orecchio.

Come furono dentro, il vecchio accigliato diede una spinta all'uscio, che si richiuse da sè. Ci siamo, disse in cuor suo il giovinotto, che avrebbe voluto in quell'ora sprofondarsi due metri sotterra, anche a rischio di dover fare una visita inaspettata ai casigliani del primo piano.

Finalmente, nello studio del figlio, e davanti a quello scrittoio che faceva ancora testimonianza delle recenti ed inutili sue meditazioni sul Digesto, il signor Amedeo si fermò su due piedi a guardare il figliuolo.

—È inutile; non mi fate commedie;—disse il signor Amedeo, troncando le parole in bocca a suo figlio, che, armatosi di coraggio, balbettava alcune parole di pentimento,—so tutto, e le vostre bugie non servirebbero più.—

Ariberto si gettò singhiozzando ai piedi di suo padre.

—Vostra madre è inferma;—proseguì quegli implacabile.—Sapete il perchè?—

Il giovine aveva dato un sobbalzo. Ma prima che potesse profferire parola, suo padre gli gettava sdegnosamente davanti una lettera, con un «leggete!» così imperioso, che egli non ebbe più il coraggio di chiedere altro.

Prese in quella vece la lettera e l'aperse. Era sottoscritta «un amico»; la solita firma degli anonimi. Questo amico mandava da Torino al signor Amedeo le più brutte nuove del figlio, della sua scioperataggine, dei suoi debiti e via discorrendo. Un cenno intorno al probabilissimo esito degli esami, disse abbastanza chiaramente ad Ariberti che l'anonimo era un compagno di Università, e il nome di Ferrero gli corse tosto alla mente. Codardo e briccone! Così si vendicava il compilatore della Dora dell'invio dei padrini.

Ariberti aveva a mala pena finito di leggere, che il signor Amedeo gli buttò a' piedi una seconda lettera. Questa era di Aronne, il buon servitore del Dio degli eserciti; e informava il padre degli imprestiti fatti al figliuolo, domandandogli se egli, Aronne, poteva all'occorrenza fargliene di nuovi. Generoso Aronne! Anima candida come le sue unghie, o poco meno!

Il signor Amedeo sapeva proprio tutto, siccome aveva detto pur dianzi. Che cosa soggiungergli allora? E prima d'ogni altra cosa, come guardarlo in faccia? Il nostro eroe non sapeva davvero in qual modo uscire dal ronco. Frattanto rimaneva lì grullo, cogli occhi bassi e le braccia penzoloni davanti al suo giudice, aspettando un'altra frase che lo facesse cadere da capo sulle ginocchia.

Dopo alcuni istanti di silenzio, che al nostro eroe parvero un secolo, e che gli diedero una pregustazione dell'inferno, come l'hanno immaginato e perfezionato i teologi, il signor Amedeo domandò asciuttamente a qual somma ascendessero i debiti del signorino.

La somma, per uno studente, era enorme, ed Ariberti non sapeva risolversi a dirla. Balbettò alcune frasi inintelligibili, arrossì, impallidì, sudò freddo, e finalmente non trovò altra via per uscire d'impaccio fuorchè dare in un nuovo scoppio di pianto.

—Finiamola!—ripigliò severamente il signor Amedeo.—Il buon nome della mia casa io non lo salverò mica colle vostre lagrime di coccodrillo. Parlate, e sia per vostra punizione; a qual somma ascendono i vostri debiti?

—Padre mio… non saprei…

—Come?—tuonò il signor Amedeo.—Non sapete.

—Cioè… volevo dire… non mi bastava l'animo…

—Vi è pure bastato per farli! Suvvia, meno chiacchiere; di che si tratta? di sei mila lire?

—Di più;—mormorò tra i singhiozzi Ariberti.

—Dieci?

—Di più. Ah, padre mio, ve ne supplico; uccidetemi colle vostre mani, ma non mi fate morir di vergogna.

—È bene che la conosciate ancora;—notò il signor Amedeo.—E poi, dove sarebbe la moralità, se non aveste a sentire tutto il peso delle vostre opere malvagie?

—Oh, se lo sento, padre mio, se lo sento! Vorrei esser morto appena nato, pur di non esser costato tanti dolori alla mia famiglia.

—Ma insomma, disgraziato,—gridò il signor Amedeo, muovendogli incontro con piglio sdegnoso,—si si può sapere senza tante frasi drammatiche, tutto il male che avete fatto fin qui? Avreste per avventura creduto di restar orfano a breve scadenza, tanto da impegnarmi cogli usurai tutto quello che i vostri vecchi hanno accumulato colle loro fatiche?

—No, vi assicuro… credo che fra tutto… quindici, o venti… sì, debbono essere ventimila..

—In un anno? Ma bene, per Dio! Tirate innanzi così. Alla mia morte, che spero non sarà lontana….

—Padre mio!

—Non m'interrompete! Alla mia morte non vi resterà più altro che darvi alla strada, come un volgare assassino. È la sorte che vi aspetta; una caduta ne chiama un'altra. Nemico della vostra famiglia fin d'ora, lo diverrete della società; dissipatore della vostra sostanza, diverrete ladro dell'altrui.

—Padre mio! padre mio!—gridò forsennato Ariberti.—Uccidetemi, ve l'ho detto, uccidetemi, ma per quanto avete di più sacro, per la mia santa madre, non mi parlate così!

—Vostra madre! La ricordate in buon punto. Vostra madre è in letto da due giorni, e per voi, pel dolore, e per la vergogna delle vostre azioni da galera.—

Ariberti non s'inalberò, non udì nemmeno la frase esorbitante che la collera strappava alle labbra di suo padre. L'immagine della sua buona genitrice inferma per cagion sua gli aveva messo in corpo la febbre e lo faceva dare in urla così disperate, che perfino il signor Amedeo ne ebbe pietà.

—Andate a Dogliani;—gli disse allora,—-vostra madre vi aspetta. Qui intanto non avete a fare più nulla, ch'io mi sappia.

—Oh no, purtroppo;—rispose il giovane—ma voi, padre mio?

—Non vi date oggi più pensiero di me che non abbiate fatto in quest'anno di scapestrataggine;—rispose il signor Amedeo, tornando alla sua parte di burbero.—Io, poi, ci ho il mio resto di contentezze a Torino. Non mi avete voi nominato il vostro banchiere, il vostro maggiordomo, il vostro elemosiniere? Andate, e fatemi la grazia di non voltarvi più indietro.—

Il giovine si avvide che non c'era più verso di cavar altro dalla giusta severità di suo padre, ed uscì colla mente in iscompiglio. Soltanto per istrada e molto lontano da casa si ricordò che non aveva danari in tasca per fare il viaggio. Ma, se ne fosse pur ricordato qualche minuto prima, o nelle scale, o in casa, avrebbe egli forse avuto il coraggio di chiederne a suo padre?

In quelle distrette, il caso o una segreta ispirazione del cuore, lo condusse difilato in piazza San Carlo, e proprio alla svolta della via di Santa Teresa. Lasciamo star dunque il caso e l'ispirazione, e diciamo i suoi santi protettori. I quali, dopo aver fatto tanto, compirono l'opera, spingendolo oltre, fino all'uscio di quella casa in cui abitava Filippo Bertone.

Dice un proverbio che gli amici si conoscono alla prova. Aggiungerò coll'esempio di Ariberti che al momento della prova s'indovinano. Egli non era mica andato a cercare i cavalieri di Malta, i suoi compagni di scioperatezza, coi quali aveva passato ancora la sera antecedente, per far la vigilia del suo esame infelice. Andava in quella vece da Filippo Bertone, dal suo fortunato rivale, in cui la sera antecedente egli vedeva ancora un nemico.

Filippo gli aperse le braccia e se lo strinse al petto con tenerezza fraterna. Voleva sorridergli; ma lo vide così stralunato, che il sorriso gli si gelò sulle labbra.

—Mio Dio!—esclamò egli impallidendo.—Che ti è accaduto, Ariberto?

—Rovinato, Filippo, rovinato!—rispose il giovane mentre si lasciava cadere come corpo morto su di una scranna.—Rimandato all'esame; rimandato, capisci? Mio padre è qui. Egli sa tutto, le mie pazzie, le mie colpe. Ne ho molte… ne ho troppe… ed anche con te, Filippo…

—Oh, non parlar di me, te ne prego. Vedi, ti ho sempre aspettato. L'avevo qui nel cuore: egli è buono e tornerà. Sarei venuto io per il primo, se non avessi temuto di farti dispiacere; sarei corso, se ti avessi saputo infelice.

—Lo sono, Filippo mio, lo sono, e più che tu forse non credi. Ho perduto l'affetto di quell'uomo onesto e leale che è mio padre; la mia santa mamma è inferma dal rammarico che io le ho cagionato; insomma, io sono un disgraziato, e mi fo orrore, capisci? mi fo orrore!

Qui, d'una in altra parola, Ariberti scese a raccontar ogni cosa a Filippo; della sua vita sregolata, degli amori, dei debiti, degli esami falliti, e via discorrendo.

—Povero amico, fatti animo—-gli disse Bertone. Un padre come il tuo ama sempre il suo sangue, qualunque cosa egli faccia; fuori, s'intende, il bruttarsi con azioni malvagie od infami. Tu ti sei indebitato fino agli occhi e non hai studiato come dovevi. È male, lo capisco, ma non è fortunatamente un delitto di lesa famiglia, come lo sarebbe stato per me. Non ti disperare, Ariberto; parlerò io a tuo padre. Tu frattanto va subito a Dogliani per consolare la tua povera mamma. Chi sa che il vederti non le ridoni la salute, meglio di tutte le ordinazioni del medico! So ancor poco di medicina,—soggiunse Filippo sorridendo,—ma già abbastanza per conoscere il pregio delle medicine morali. Va dunque, e subito. Se ti occorre danaro, eccone.

—Che fai?—balbettò Ariberti confuso.—Tu ti privi per me…

—Non temere; ne ho più del bisogno. Son ricco, sai? Guadagno un dugento lire al mese e fo ancora qualche sparagno.

—E come?—chiese Ariberti, meravigliato più dei guadagni che non dei risparmi del suo amico Filippo.

—Ho già parecchie lezioni,—-rispose questi candidamente,—ed anche qualche ripetizione di anatomia. Che vuoi? Insegno quel che non so;—aggiunse Filippo, accompagnando le parole con uno dei suoi malinconici sorrisi;—ma studio la mattina e insegno più tardi quello che ho imparato io medesimo un'ora prima. In tal guisa non inganno nessuno. Mi stanco un pochino, è vero; ma tu lo sai, sono un montanaro e ci ho uno stomaco di ferro.

—Mio buon Filippo! Tu meriti davvero di essere amato;—esclamò
Ariberti, gittandogli le braccia al collo.

E il pensiero gli correva in quel mentre, ma senza gelosia, alla bella marchesa di San Ginesio. Quella severa Giunone amava il suo Filippo; su questo non ci cascava dubbio. Ma questa, per chi conosceva lui e lei, doveva essere la cosa più naturale del mondo. Ariberti si sarebbe meravigliato fortemente, avrebbe creduto meno alla virtù e all'influenza della virtù, se la cosa fosse andata altrimenti.

—Grazie di questo e dell'altro;—ripigliò Ariberti, dopo aver ceduto a quell'impulso di affetto e di ammirazione.—Tu dunque parlerai a mio padre? otterrai il suo perdono per me?

—Sì, non dubitare, parlerò per te, gli spiegherò…. Veramente, non so che cosa potrò spiegargli, io che vivo fuori di questi viluppi… Ma infine gli dirò il buon cuore che hai, ed egli mi crederà. È tuo padre, l'ho detto, e non potrà vederla diversamente. Quanto a me, io spero che l'amicizia mi renderà facondo come Ortensio, caldo come Demostene.

E Filippo Bertone mantenne la promessa. Vide il signor Amedeo quel medesimo giorno, ma non entrò in argomento, perchè il babbo di Ariberti era troppo adirato col figlio. Scambio di affrontarlo, col pericolo di farsi mandare a tutti i diavoli, lo circuì bel bello, gli si fece compagno nelle sue gite per Torino, mettendo fuori ora una parolina, ora un'altra, e aspettando pazientemente le occasioni più favorevoli. E siccome il signor Amedeo tra carezze e minacce, era riuscito ad ottenere da quel briccone di Arun el Rascid un grosso taglio sul preteso suo credito, e con dodicimila lire date lì per lì riusciva ad estinguere tutti i debiti del suo signor figlio, il nostro Bertone giunse ad averlo più maneggevole, e la perorazione fece un effetto che Demostene ed Ortensio redivivi non si sarebbero ripromessi di certo, se si fossero trovati nei panni di Filippo Bertone.

Sì, veramente, Ariberto si era diportato da matto. Ma era giovine, faceva i primi passi nel mondo, e i primi passi son sempre difficili. Lo sapeva Filippo Bertone, che veramente non era cascato, ma soltanto perchè stretto dal bisogno, senza la croce d'un quattrino e l'ombra d'una speranza negli aiuti della famiglia. Filippo si buttava giù, si calunniava, ma lo faceva a buon fine. Per contro si esaltava, si nobilitava a dipingere il cuore dell'amico, a dimostrare come fosse amaramente pentito de' suoi trascorsi, quanto avesse pianto tra le sue braccia, come egli avesse durato gran fatica a chetarlo, quali promesse e giuramenti avesse religiosamente accolto da lui. Insomma, tanto disse e fece il bravo Filippo, che il signor Amedeo si lasciò intenerire e quando tornò a Dogliani, fra la moglie trepidante e il figlio confuso, gli vennero meno le forze a star grosso.

E qui bisognerà dire che Ariberto non mentì alle promesse che Filippo aveva fatte in suo nome. Fu quello l'ultimo dolore che egli cagionasse ai suoi parenti. La lezione era stata dura e gli aveva lasciato una traccia profonda nell'anima.

Ogni suo pensiero, ogni studio, ogni cura, fu in lui di riacquistare il tempo perduto. Alla seconda prova d'esame era armato di tutto punto e non fu il caso di voltargli le sue risposte in burletta, bensì di dargli i pieni voti e la lode. Riconquistato in tal forma il suo onore, non volle rimanere a Torino; se ne andò a Pisa, a far vita nuova; e là, non so dirvi come annaspasse, fatto sta che, senza guardar l'Ussero con occhio torvo, senza disdegnare la baraonda «tanto gioconda» del Giusti, guadagnò un anno di corso, e in otto mesi prendeva il berretto, l'anello e tutte l'altre insegne di Bartolo e di Cujacio.

CAPITOLO XVII.

"Poëta nascitur, orator fit".

Si era innamorato dello studio, come già di tante altre cose. E tra tutte le nobili discipline (notate, lettori umanissimi, come anche lo scrittore si metta sul grave e adoperi parole convenienti al soggetto) tra tutte le nobili discipline, io dico, il nostro eroe preferiva le più ostiche, come a dire l'economia politica, il diritto amministrativo, la procedura civile. Chi l'avesse mai detto, qualche anno prima all'autore delle Frondi sparse, si sarebbe fatto ridere sul muso. Ma già, lo ha scritto un autore di vaglia: «mutano i saggi», ed io potrei aggiungere, coll'esempio di Ariberti, anche coloro che non lo sono.

Quando egli si addottorò in leggi, che fu due anni dopo la sua partenza da Torino, gli aveva preso la mania del grave, come aveva avuto prima la manìa dello scapestrato. Per altro, non era tutto capriccio in lui, o amore di novità. Gli stavano sempre davanti le tristi scene in cui si era chiusa la sua vita di buontempone, e lo umor suo ne risentiva le angoscie. Dottor Fausto in sessantaquattresimo, Ariberti non volle e non ebbe più una ora di svago. Aggiungo, che provava una certa voluttà tutta sua particolare a stillarsi il cervello in quel modo, tra un codice e un repertorio di giurisprudenza, tra una allegazione e una causa ingarbugliata, di quelle che ai curiali paiono solamente «complesse» e piene di bei «rapporti giuridici».

Esagerazione di propositi, comune a tutti i nuovi convertiti! Pel nostro neofito si aggiunse la morte della madre, vittima della rottura di un aneurisma, secondo che sentenziarono i medici, ma che alla sua pietà filiale doveva parere colpita di ben altro male, e accrescergli in cuore i rimorsi. La santa donna si era spenta benedicendo a suo figlio, e facendo voti perchè si conservasse così assegnato e studioso come si dimostrava da due anni. E questo aiutò a renderlo più triste, più chiuso, più intento al lavoro, che non fosse dapprima, e per conseguenza più dimentico delle allegrezze mondane, dei sollazzi e delle espansioni della sua medesima età.

Poi, non c'è cosa che invecchi un uomo anzi tempo, come la pratica forense. Alla mattina, anche prima di asciolvere, e sto per dire di essersi levato il sonno dagli occhi, ci sono le conclusioni da finire pel causidico, i punti controversi da chiarire, la «concione» da meditare per l'udienza vicina. Il tribunale vi ruba le due o tre ore, spesso colla noia di attendere che sia chiamata la vostra causa. Tornate a casa, seguito dalle benedizioni o dai moccoli del cliente, e vi assediano da capo i procuratori con altre conclusioni da preparare, clienti che non pagano e vi chiedono un consulto, società, istituti, che vi domandano un congresso, o vi appioppano la cura di mettere le loro trappolerie in riga col codice.

E in queste occupazioni vi capita addosso l'ora del pranzo, o desinare che sia. Avvertito dal servitore, ordinate che si dia in tavola, e frattanto andate a caccia di articoli per un'altra mezz'ora. Così avviene che, quando finalmente potete sedervi a tavola per mangiare un boccone in furia, la minestra è rifredda, l'intingolo non ha più gusto, il pasticcio sente il bruciato, e l'appetito non vi tien più compagnia. E la sera, poi? La sera bisogna tornar nello studio; il teatro, i salotti, i geniali ritrovi sono proibiti come le pistole corte; è l'ora dei clienti; l'avvocato ha da aspettare i clienti, anche quando c'è da scommettere cento contro uno che i clienti non si lasceranno vedere.

Imperocchè l'avvocato è nel suo studio quello che un ragno nella sua buca. Il povero insetto solitario se ne sta in attesa per giorni e per settimane, regge l'anima coi denti, invocando una mosca, disposto a contentarsi d'un moscherino purchessia. E per giorni che passino, per settimane che si seguano e si rassomiglino, il povero solitario non può muoversi dal suo bugigattolo. Se per caso un moscerino avesse a passare da quelle parti e non trovasse l'avvocato! Scusate, volevo dire il ragno; ma già, poichè ho detto l'avvocato, lo lascio stare; mettete voi il cliente in luogo del moscerino, e tutti pari!

La vita materiale dell'avvocatino Ariberti, fra il tribunale e lo studio, condannato per anni ed anni a non avere che moscerini, clientucoli al civile e ladruncoli al criminale, s'intenderà facilmente; nè io farò fatica di descriverla, nè voi, lettori umanissimi, farete quella di starla a leggere. Vorrei parlarvi in quella vece della sua vita intellettuale; vorrei dirvi del suo cuore, che diavolo facesse in quella galera. Ma già, mente e cuore, se non erano atrofizzati, sonnecchiavano, come si sonnecchia in diligenza, o in ferrovia, tra un paese che si è lasciato e un altro a cui non si è ancora arrivati.

Diffatti, Ariberto Ariberti, era proprio in quella età che un uomo incomincia a sentir le sue forze e vuole giungere con esse a qualcosa, a scalzare una montagna, o a cavare un ragno da un buco. Si è invasi da una febbre di operare, sollecitati da un desiderio di andare, non importa dove, rosi da una maledetta ambizione che si cruccia da sè, per mancanza di un fine stabilito, e mentre vi fa anelare ad una carica di ministro, o ad altra di quelle altezze intorno alle quali c'è il vuoto, vi fa durare una fatica da cani per afferrare un seggio di consigliere comunale, una croce di cavaliere, una presidenza di comizio agrario, od altra simile tra le umane grandezze, in cui s'assottiglia l'ingegno, e per cui soventi si perdono i sonni, pur di far crepare d'invidia un centinaio di sciocchi della vostra medesima forza.

A quei lumi di luna, l'amore, il povero amore, non è più, o non è ancora tornato, il gran negozio della vita. Imperocchè, non vanno neppure contati i ripeschi da dozzina, i capricci, le effimere ebbrezze che gli uomini seri ammettono a guisa di svago dalle cure più gravi, o di abitudine senza conseguenza, e che meritano il nome di amore come la stretta di mano e il darsi del tu meritano il nome di amicizia, in questo commercio quotidiano di graziose menzogne, che è la nostra vita cittadina.

Trista cosa, non è egli vero? E diffatti io ve ne parlo di volo, e solamente perchè non posso a dirittura passarmene, essendo che questa è la storia del mio eroe, ed io, fermandomi con una certa compiacenza ai punti principali, debbo pure accennare il rimanente, e colmar gl'intervalli. Del resto, il mio eroe non è veramente un eroe; è semplicemente un uomo, con tutte le sue debolezze. E se gli pare che sia una bella cosa esser fatto consigliere comunale o provinciale, che ci ho da far io? Gli è parso dapprincipio che ciò dovesse aiutarlo nella sua professione d'avvocato, e può anche darsi che avesse ragione; ma badate, io non metterei una mano sul fuoco per guarentirvelo, e non farei due passi sopra un mattone (vedete quanto sarebbe lieve il fastidio!) per andare a sincerarmi del fatto.

Comunque sia, eccolo con un monte di faccende sulle spalle. È consigliere di tutto un po' ed ha mano e voce in una dozzina di commissioni, l'una più utile dell'altra al buon andamento della cosa pubblica, il cui intento, chi nol sapesse, è di andare alla peggio. L'avvocato consigliere è proprio nella sua beva, e, non c'è che dire, trova tempo a far tutto, a pensare, a ricordarsi di tutto. S'intende che non ne ha per leggere un bel libro, e meno ancora per dettarne de' suoi. Dio buono, e come avrebbe a fare, con tanta roba alle mani? Già da un pezzo non scrive che conclusioni, allegazioni, relazioni, esposizioni, ed altre consimili negazioni d'ogni arte e di ogni bellezza. È un uomo serio, che ci s'ha a dire? Certo, non l'ho fatto io quel che è; e poichè siamo sull'argomento, e perchè non abbiate a darmene carico più tardi, vi giuro fin d'ora, e per tutto quello che io mi ho di più sacro, incominciando dai vostri occhi che mi leggono, vi giuro, io dico, che non gli ho dato il mio voto quando uscì eletto deputato al Parlamento da uno di quei collegi delle sue Langhe, tanto care al mio cuore.

Eppure, non posso e non voglio negare che i suoi elettori mandassero alla Camera un fior di galantuomo. Debbo anche aggiungere, per debito d'imparzialità (non giornalistica, intendiamoci che è imparzialità a denti stretti), come il candidato non brigasse poi troppo per farsi eleggere. Il caso lo aveva aiutato in tutti i modi, prima colla morte del titolare, poi colla pronta convocazione del collegio, da ultimo con la mancanza di competitori temibili. Era giovane, e qualche giornale torinese disse ridendo di lui, come di Pier Carlo Boggio, ch'egli era il deputato trentenne. Ma lo avere trenta anni non era mica una disgrazia. Intanto, gli aveva giovato molto il non essere troppo in vista a Torino, dove le invidie e i rancori non avrebbero tralasciato di perseguitarlo, incarnati nei Ferrero, nei Vigna, nei Balestra, nei Candioli, e via discorrendo. E più ancora gli era tornato utile lo aver vinto una causa di qualche rilievo per un suo conterraneo, intendente e factotum di un Creso delle Langhe, i cui fittaiuoli ed aderenti votavano con una disciplina esemplare.

In tal guisa favorito dalla fortuna, il nostro Ariberti potè credere, per un giorno almeno, che tutto fosse oro di coppella a questo mondo, poichè nessuno, durante il periodo elettorale, gli aveva dato del venduto, o del ladro. Un diario della capitale, che propugnava una delle solite candidature universali, non potendogli ancora dir altro, perchè non lo conosceva e non ci aveva ai fianchi un Ferrero, si contentò di dargli dell'asino. Ma Ariberti si era tastato le spalle, e, non avendo sentito il basto, si era contentato di sorridere. Se non ci hanno altri moccoli, aveva detto tra sè, possono andarsene a letto al buio.

Salutiamo dunque il signor deputato, e rallegriamoci col signor Amedeo, il quale da tanti anni vedeva il suo figliuolo arare diritto e finalmente raccogliere i frutti di quello che aveva seminato.

Il signor Amedeo in quella faccenda non ci vedeva troppo giusto; bisogna confessarlo a suo marcio dispetto. Ma i babbi son tutti tagliati ad una guisa; amano di vedere i loro figliuoli che tirano al sodo; e, quando ciò sia, non la guardano poi tanto nel sottile; anzi, voi li fareste maravigliare non poco, se vi metteste alla prova di persuader loro che ci possono essere altre fantasie, altre passioni, più pericolose delle scappatelle di gioventù, degli amori, dei debiti, e via dicendo; se faceste trapelare al loro miope affetto quali sopraccapi, ambizioni, e struggimenti, lavorino sotto l'intonaco di una vita assegnata, e che razza di granchi vivano e si moltiplichino, nelle acque in apparenza più chete.

Ma siamo giusti, i poveri babbi hanno proprio a sapere e prevedere ogni cosa? Lasciamo, vivaddio, che si consolino di vedere i loro figliuoli arar diritto e non mettiamo pulci negli orecchi a nessuno.

Ora, il nostro Ariberti arava diritto, non c'è che dire. Avvocato di qualche grido, consigliere, cavaliere, deputato, era un uomo oramai che andava innanzi da sè e non gli bisognava l'aiuto delle falde. Il signor Amedeo poteva dunque intuonare il Nunc dimittis e chiuder gli occhi in pace, senza timore che il suo Ariberto gli sgarrasse quind'innanzi una spanna. Suo figlio, a farla breve, era un uomo sodo, e andava per la maggiore.

Ahimè, povera vita! Noi ne spendiamo mezza a sospirare il futuro, e l'altra mezza a rimpiangere il passato. La nostra gravità è tutta qui, come in estratto, e non se ne cava neppur tanto da farcene un brodo per l'ultimo giorno di malattia, quando si legge la moralità della favola.

Per altro, non corriamo così a fiaccacollo colle deduzioni. I primi tempi di quella vita nuova di Ariberti non furono, o non gli parvero brutti. Le consuetudini parlamentari gli schiudevano come un altro orizzonte agli occhi dello spirito. Il viavai, l'affaccendarsi di tanti colleghi, il meccanismo dei partiti, le amicizie facili, le speranze comuni, gli davano una sembianza di allegra operosità, che doveva a tutta prima lusingarlo, tanto più quando gli veniva alla mente che tutti quei manipoli d'intelligenze, erano il meglio dello Stato, fior di roba, cervelli sopraffini. L'onorevole Ariberti non li aveva ancora esaminati per bene, non aveva ancora rivolto a sè stesso il «quot libras in duce summo?» di quella lingua tabana che fu pe' tempi suoi Giovenale. E poi, e poi, che serve tacerlo? Egli ci aveva nel cuore un sentimento grave e poetico ad un tempo, che gli scaldava tutte le fibre e lo faceva guardare con fiducia, davanti a sè: giovare alla patria, meritare la gratitudine de' suoi concittadini, ottenere un buon punto nella lotteria della storia.

Illusioni che avevano a svanire assai presto! Appunto allora che l'onorevole Ariberti poteva giovare col senno e colla parola alla patria, appunto allora incominciarono a pungerlo gli strali della critica, che non si fermavano soltanto all'epidermide. Avvocato, poteva ancora essere tollerato; il numero dei rivali era ristretto; e poi, Dio buono, si trattava di rivali; laddove, nel campo della politica, non erano soli i rivali a fargli il viso dell'armi, ma si addensavano intorno a lui gl'invidiosi, gli odiatori di professione, i cani ringhiosi per natura, e a farla breve, tutto il banno e l'eribanno dei cattivi, degl'impotenti, dei malsani, degli spostati, degli sciocchi, e chi più ne ha ne metta. Tutti erano contro di lui, tutti prendevano a sfrombolarlo da lungi, quale colla matita del caricaturista, quale coi periodi asmatici d'una lettera politica, quale coi perfidi accenni di una notizia recentissima; che in queste e in altre forme, che troppo mi condurrebbe in lungo il descrivere, le serpi potevano schizzare il loro veleno, o la bava.

Così, guerreggiato da varie parti, il nostro povero eroe capì finalmente la esistenza di certe alleanze sotterranee, che a prima giunta, e ragionando onestamente, parrebbero impossibili, e che molti galantuomini s'impuntano tuttavia a negare.

Ahimè, bisogna esserci dentro, colle mani e coi piedi nella maledetta politica, per aversi a convincere che lo strano è il naturale, l'assurdo il necessario, l'improbabile il vero.

S'intende e va da sè che su quel palcoscenico, anzi tra le quinte, i tenori, i baritoni, le prime donne, gli facevano i più leggiadri sorrisi del mondo. Il suo primo discorso, o, come direbbesi in gergo teatrale, la sua aria d'uscita, ebbe applausi e complimenti d'ogni parte. Ma appunto da quell'ora incominciarono gli assalti della bieca combriccola, che mentisce il nome e la dignità di opinione pubblica, e che ha l'arte di parer tale a tutti, per la semplicissima ragione che tutti, un brutto giorno o una cattiva ora della loro vita, vanno a deporvi la quintessenza del loro umor nero, delle loro bizze subitanee, dei loro meditati rancori.

Ariberti militava nelle file d'opposizione, ma non voleva meritarsi la nomèa di oppositore sistematico. Non voleva trovar male ogni cosa. Pensava inoltre alla sua patria e si formava un giusto concetto delle sue necessità. Donde le frequenti occasioni di scontentar Tizio e Caio, perchè mirava anzi tutto a contentare la sua propria coscienza.

Ora ognuno che non abbia di questi giudici importuni nel foro interno dell'anima, non crede o, a dirla più giusta non vuole ammettere che altri ce n'abbia e li ascolti. Immaginate dunque se gli Aristofani da dozzina non gli rivedevano il pelo! Qualche volta, vedendosi così frainteso dai popoli, dava in certe furie, che fortunatamente per la sua fama, restavano chiuse a forza nel petto, e si tradivano solamente in bizze e malinconie pe' suoi familiari, o in versamenti di bile pel medico. Avrebbe pianto volentieri, se non avesse reputato più conveniente di serbare quelle perle dell'anima (l'Achillini può andarsi a riporre) per farne un monile, e metterlo, insieme col suo cuor, ai piedi di una donna.

Ah, ah! esclameranno i lettori; ecco la donna che torna in scena. Amici lettori, voi lo sapete meglio di me, senza un raggio di sole il giorno è uggioso; ma senza un sorriso di donna è noioso a dirittura. E tuttavia, vedete, ancora per un tratto dobbiamo far senza di questo delizioso ingrediente. La donna nuova, la donna che doveva far battere il cuore di Ariberti uomo, come tante altre avevano fatto battere il cuore di Ariberti giovane, era ancora in nube, a mezz'aria. Il nostro eroe la sognava, non avendo anche avuto il tempo di andarla a cercare. Chi sa? forse quella donna gli passava daccanto, bella e composta negli atti come una madonna del Sanzio, mentre egli se n'andava frettoloso alla Camera meditando uno squarcio d'eloquenza intorno ad una quistione di tariffe doganali: o la vedeva trascorrere in calesse alla volta dei Giardini pubblici, mentre egli usciva da sollecitare una pratica in qualche ministero. Di certo essa gli appariva, divisa in cento forme, l'una più incantevole dell'altra, nei giri vorticosi d'un ballo di Corte. Se egli avesse potuto essere per un giorno per un'ora almeno, uno di que' spensierati aiutanti che sgallettavano intorno alle dame, come le avrebbe osservate tutte, studiate tutte intus et in cute, per riuscire a trovar quella che gli destinavano i Numi! E n'aveva spesso certi bagliori, e certi giramenti di capo, che non vo' dirvene altro, per non ficcarmi in un ginepreto, donde non uscirei forse più con onore. Per altro, si faceva forza; svoltava l'angolo della strada, usciva dal ballo, entrava nel palazzo Carignano, e le pericolose immagini svanivano tosto, lasciando l'onorevole Ariberti a tu per tu col suo genio parlamentare, che è, in mancanza di meglio, il genio tutelare dei deputati.

La durò un pezzo così, adattandosi colla torpida virtù della consuetudine alla sua vita di uomo politico, e affondandosi lentamente in quel pantano di mezze ambizioni, di mezze aspirazioni, di mezza indipendenza. Dico di mezza indipendenza, perchè col suo carattere e con quel suo gener di vita, egli non poteva che essere schiavo di mille circostanze, dubbi, riguardi, convenienze sociali, ragioni d'opportunità e via discorrendo. Pur troppo, il mondo, il mondo è quello che vuol essere, e a mutarlo ci vorrebbe altra barba che quella d'un uomo. Mai, come allora che fu in alto, tra coloro che più sanno e possono, il nostro, Ariberti si avvide che questo mondo non si è padroni di nulla, nemmeno di sè medesimi, che è tutto dire!

E tutto ciò senza mettere in conto gli elettori, questi padroni incontentabili, pei quali il deputato è uno schiavo negro, a cui si domanda il massimo lavoro, ma a cui per compenso non si risparmiano le frustate. Gli elettori di Ariberti non erano da annoverarsi tra i peggiori della specie, ma anche così com'erano, gli riuscivano maledettamente fastidiosi, colle loro raccomandazioni e coi loro incarichi particolari, che al povero negro non lasciavano un minuto di pace. Ora per una deliberazione del consiglio comunale che aspettava l'approvazione del governo ora per uno spaccio di sali e tabacchi che andava di diritto ad una vedova, cognata del farmacista elettore, oggi per un posto, nel collegio delle provincie, domani per una commissione da introdurre presso il ministro, e magari anche per un consiglio gentilmente chiesto dalla moglie del sindaco intorno ad un caso di etichetta, o all'ultima moda del cappellino e della mantiglia, l'onorevole Ariberti ci aveva sempre i suoi elettori davanti agli occhi, e non c'era verso di liberarsene. Lo spettro di Banquo non fu certamente così molesto per Macbeth.

Eppure, ci sono dei deputati a cui tutte queste noie, tutti questi grattacapi, non che riuscire fastidiosi, piacciono grandemente, come quelli che danno loro il modo di provare la propria operosità e la singolare autorità agli occhi del volgo elettore. Ma appunto per questo, Ariberti si persuase che l'ufficio di deputato era mirabilmente adatto a certe capacità mezzane, e che, salvo il caso di conquistare un altissimo grado, e neppur questo al riparo da certe pretensioni e da certe dimostrazioni della volubilità di fortuna, un uomo di vaglia doveva starci sempre a disagio.

—Diventerei forse anch'io un vanerello,—chiedeva egli qualche volta a sè stesso,—contento di farmi ciondolare contro i bottoni della sottoveste un pezzo da venti lire, coniato a bella posta per qualche centinaio di pari miei?—

E allora si riscaldava, e per non sembrare a sè stesso un gaudente, parlava più spesso alla Camera, dimenticando le ragioni di partito, levandosi a certe altezze vertiginose che piacevano a pochi.

Non già che non istessero volentieri a sentirlo; chè, anzi, la forma sobria ed eletta del dire, i concetti nuovi, o nuovamente espressi, gli avevano foggiata una eloquenza tutta sua, e punto parlamentare, se per questo vocabolo s'intende l'eloquenza parolaia, diffusa, slombata che va innanzi al piccolo trotto, e magari accompagnata per continuar la metafora, con qualche sproposito da cavallo. Voglio dire invece che, non la forma, la sostanza dispiaceva soventi volte; agli avversarii naturalmente, perchè faceva contro a loro; agli amici, perchè non si aiutava abbastanza, e non pigliava la battuta da tutti i loro dirizzoni. In politica, si sa, bisogna mandarne giù di tutti i colori, e un programma (che così chiamano quattro idee magre, imbottite di stoppa), vuol essere pigliato intiero, o lasciato.

Ora a questo non si acconciava l'umore del nostro deputato. Spesso, anzichè contro, o in favore, parlava in merito, e qualche volta non conchiudeva, abbastanza contento di aver detto una cosa nuova, o assennata, e di aver dato occasione ad un utile schiarimento, che tirasse la quistione in carreggiata, laddove i suoi colleghi d'ogni parte della Camera lavoravano a gara per farnela andare lontana.

Questo suo metodo strano pareva fatto a bella posta per mettere i suoi amici politici nei più brutti impicci del mondo. Una volta, per esempio, un suo discorso fece andare a male un partito, che essi tenevano già per vinto.

—Di grazia, si potrebbe sapere per chi lavori?—gli chiese con tono agrodolce uno dei capofila di sinistra, nello scendere le scale del palazzo Carignano.

—Perchè?—domandò a sua volta Ariberti.

—Perchè ci hai mandato a monte ogni cosa, mentre eravamo sicuri di vincere.

—Ho detto quel che pensavo e credevo essere il vero; rispose —Ariberti, facendo la cera brusca.—Del resto, se quattro ciance mie —son bastate a farvi fuggire la vittoria di mano, gli è segno che non —era quello il tempo e il modo di vincere.

—Sarà vero—disse quell'altro, fra due battute di labbra,—ma non è niente affatto politico.

—Non dico di no;—-disse di rimando Ariberti, stringendosi nelle spalle, col piglio di un uomo che vuol farla finita senz'altro.

La conversazione restò lì; ma il giorno dopo incominciarono gli attacchi e i morsi di tutta la canatteria d'ogni tinta e d'ogni misura. Del suo pelo ne volevano tutti e qualcheduno levava i pezzi a dirittura, accennando così di straforo a certe meditate transazioni col potere, ed anche a certi sorrisi onnipotenti dalla tribuna delle signore.

Le transazioni lo avevano fatto ridere, ma quell'accenno alla tribuna delle signore lo aveva seccato, dirò meglio, lo aveva ferito.

Incontanente, mandò i suoi padrini al giornalista. E vedete caso, il giornalista era Ferrero, l'antico compagno d'università, Ferrero, l'impotenza, Ferrero, l'invidia, Ferrero, il livore, e tutte le bieche passioni personificate in un nome e accoppiate sventuratamente ad una certa dose d'ingegno.

Imperocchè, non è mica vera quella consolante e larga dottrina, che fa dell'ingegno e del cuore due compagni inseparabili. C'è pur troppo anche l'ingegno associato alla malignità, forma civilizzata del male.

Il signor Ferrero, come già avrete argomentato da per voi, si chiuse, come in una botte di ferro, nei sacri diritti della critica, e rifiutò di scendere sul terreno, pour blanchir un nègre, come avrebbe detto, nel caso suo, il contino Candioli. Andò anzi più oltre; dopo aver rifiutato lo scontro, bandì un giudizio solenne, invocò il ragionato parere di tutta la stampa «schiettamente liberale», e tutti i confratelli, da Susa alla Lanterna, che erano i confini allora, gli diedero ampiamente ragione, lodando il coraggio civile con cui aveva tutelato i diritti della stampa.

Disgraziatamente, l'onorevole Ariberti non la pensava così. Non potendo metter la mano sul suo uomo, se la pigliò con un altro de' suoi giudici improvvisati, che aveva spinto il suo biasimo più oltre di tutti i colleghi. E questi, che era un gentiluomo, accettò la sfida, mettendosi in contraddizione colle proprie dottrine, ma d'accordo col suo animo generoso.

A confusione del signor Ferrero, che seguitava a sbraitare in nome dei sacrosanti diritti della stampa, il duello avvenne senz'altri indugi. Ariberti, nel corso della sua gioventù burrascosa, aveva dato e ricevuto più volte; e in quell'ultima le buscò lui, come volle la cieca fortuna, o come portava la giustizia, secondo i vari modi di vedere. Non gliene dolse, perchè così la pensava egli: fare il debito suo e non curarsi del resto.

Per altro, siccome coll'avversario regalatogli dal dio Caso non c'era nessuna ragione di rancore, Ariberti, dopo il duello, vide ed ebbe in lui un amico. Il quale, andato a fargli la sua visita di condoglianza, con quella dimestica schiettezza che deriva da un incontro d'armi nobilmente sostenuto, gli disse:

—Ariberti mio, ella non è stoffa da uomo politico.

—E perchè di grazia?—chiese Ariberti sorridendo.

—Perchè,—rispose il giornalista,—Ella ha troppo amore pel bello e pel vero, e non può trovare per conseguenza altrettanto gusto a diguazzare in questa bolgia infernale; perchè ci viene col suo entusiasmo di artista e non sa temperarlo colla freddezza del filosofo. Non vede? Ella si stizzisce per una celia, e poniamo anche per una offesa, a cui la stessa consuetudine, la sua stessa frequenza nel giornalismo, ha già tolto i due terzi della sua gravità. Giudicando dal caso nostro, io non vedo in Lei quel grado di tolleranza e di pacatezza, necessario in ogni uomo che abbia la nobile ambizione di governare il suo paese. A questo ufficio, per dirgliela proprio come sta, o come la penso io, ci vogliono uomini più pacifici, e non occorre che siano cime; anco i mediocri possono servire al bisogno. Alla fin fine, il tempo presente se ne contenta, e i posteri, che applicano cecamente il post hoc ergo propter hoc, veduto che coi mediocri s'è andati avanti come coi sommi, e qualche volta anche meglio, dànno liberalmente una vernice di grand'uomini a tutti.

—Quando non li dimenticano affatto;—soggiunse maliziosamente Ariberti.—Di grazia, saprebbe Ella dirmi, senza andarlo a cercare, quanti ministri abbia avuto Napoleone I? o, per non rifarsi così da lontano, e per non citare l'esempio di uomini soverchianti, la cui altezza getti troppa ombra intorno a sè, quanti ne ha avuti Luigi Filippo?

—Ha ragione—esclamò il giornalista, dopo alcuni istanti di pausa e ridendo della sua confusione;—correggo la frase, sopprimendo il giudizio dei posteri. Ma creda a me, il mondo non domanda cervelli sopraffini, a governarlo, e tutti gl'ignoti ministri di Luigi Filippo, a mazzo coi pochi che possiamo ricordare, confortano la mia tesi. Gente pacata vuol essere, e, se lo Stato è un carro, ringraziamo il cielo che ha fatto nascere i buoi.

—Veramente….—interruppe Ariberti.

—Ah sì, capisco;—disse l'altro sollecito;—il paragone non regge. Non si nasce buoi, ma è vero altresì che non si nasce uomini politici. Bisogna, diventarlo. Ed è ella disposto a diventar uomo politico? Con questi esempi, a me pare di no. Scusi, sa; le parlo così alla libera, perchè le voglio bene e la rispetto moltissimo. È questa la franchezza che tengo in serbo per le occasioni solenni.

—E per un giornalista son così poche!—notò Ariberti, proseguendo la celia.

—Questo è un epigramma salato;—replicò il giornalista;—lo accetto di buon animo. Non siamo forse noi che ridiamo pei primi d'una impertinenza che ci è detta da un avversario, purchè ci sia detta bene? E veda, signor mio, questa è virtù che a lei manca, poichè non ama lasciarsi discutere. Dio buono, siamo a tempi in cui si discutono liberamente i ministri, in cui si riesce, con un po' di garbo, a fare un buco nella legge e a discutere il re, e, come se ciò non bastasse, si va ancora più su, molto più su senza bisogno di mongolfiera, e si discute… dell'altro. Ora è Lei, soltanto Lei, che non vuole adattarsi all'usanza.

—Converrà,—disse di rimando Ariberti,—che c'è modus in rebus, e che l'impertinenza…

—Non va tollerata. È questo che Ella vuol dire? Nella conversazione, a voce viva, ne convengo; ma nella stampa e in materia politica, la cosa cambia aspetto. Non diamo noi di briccone, o giù di lì, a certa gente cui facciamo poi tanto di cappello per via?

—Ammiro la sua schiettezza;—ripigliò Ariberti.—E forse Ella ha ragione a dire che, per questo lato, io non sono un uomo politico, o lo sono soltanto per metà, che torna lo stesso. Ma Lei che vede così giusto e sa riconoscere gli errori della professione, perchè si mette a mazzo cogli altri?—

Il giornalista stette un poco sovra pensiero.

—Ah, non risponde?

—Che vuole? Ho fiutato il complimento e la modestia mi ha fatto arrossire. Quanto alla risposta, essa è facile: disciplina di partito.

—Eh via! C'è egli forse chi comanda a loro? a loro che da mattina a sera, e spesso tra lo afferrar la penna e il tuffarla nel calamaio, sogliono prendere le più gravi deliberazioni del mondo? La disciplina suppone un comando intelligente e cortese quanto Lei vuole, ma pur sempre comando. Ora io non so acconciarmi a credere che qualcuno abbia potuto, con dolce violenza, costringere anche Lei a darmi quella tal ripassata che sa.

—È vero; lasciamo dunque la disciplina e diciamo invece la libera scelta; anzi no, la cattiva compagnia, il mal esempio. Anche questa, alle sue ore, è disciplina di partito;—aggiunse il giornalista con fine sorriso.—-I soldati non si dispongono forse in linea come possono meglio e aiutandosi colla coda dell'occhio? Ognuno dà una sbirciata al suo vicino di sinistra, vede quel ch'egli fa de' suoi piedi, e tira indietro, o mette avanti i suoi, non perdendo neppur d'occhio il suo vicino di destra. Anche noi, per tenerci in riga, vediamo quello che gli altri fanno, e c'industriamo di far meglio, o peggio, secondo i casi e gli umori… Insomma, signor Ariberti, io non la seguirò più oltre su questo terreno che scotta. Ella ha voluto rendermi in epigrammi la sciabolata che il caso mi ha consentito di darle. Ora, io sento, ai bruciori della pelle, che ci ho avuto il mio conto giusto, e se permette, piglio commiato.

—A rivederci, dunque,—disse l'onorevole Ariberti, stendendogli la mano.—Le do la sinistra; è quella del cuore.

—Adesso poi mi confonde;—replicò il giornalista, che sentiva davvero un po' di rimorso.—Al secondo gentiluomo che avrò la disgrazia di offendere, sappia, signor Ariberti, che io pagherò tutti i miei debiti in una volta.

—E mantenne la parola, o fu il caso che gliela fece mantenere, perchè un anno più tardi, trovatosi a un altro di que' frangenti, ne toccò lui una coi fiocchi, che gli rovinò a dirittura una mano.

—Già,—dissero i maligni, che le serbavano gelosamente ambedue, e la pancia pe' fichi,—tanto va la gatta al lardo, che ci lascia una zampa.—

Comunque fosse, caso pensato o no, il poveraccio passò nel numero degli invalidi. Brutta cosa per un giornalista, imperocchè, a sollievo di questi soldati del pensiero, non c'è pur troppo una Casa Real d'Asti.

Il duello dell'onorevole Ariberti aveva fatto tutto quel chiasso che era naturale facesse, trattandosi d'un deputato. Ne parlarono tutti i giornali, ognuno a modo suo, ci s'intende e la casa del ferito eroe fu assediata da visitatori, tempestata di lettere e carte da visita.

Una di queste gli diede molto da pensare, e aggiungerò che gli fece battere il cuore. Il nome appariva diligentemente raschiato col temperino; ma sopra quei segni parlanti della modestia, o del timore, si vedeva ancor una corona rialzata di tre fioroni in vista e di due punte sormontate da perle; corona di marchese, come vedete, anzi di marchesa, come bisognerebbe dire nel caso particolare. Infatti, quella cartellina doveva venirgli da una donna; lo diceva la necessità, o l'artifizio, di tenere il nome celato; lo diceva una fragranza di violette che spirava dalla sopraccarta; lo dicevano le poche parole vergate sul cartoncino di Bristol, con una mano di scritto, sottile, elegantissima, che non era sicuramente d'un uomo.

«Guarite presto;—diceva la cartellina misteriosa;—c'è chi lo desidera ardentemente e vuol rivedervi».

Rivederlo, dove? Probabilmente alla Camera.

E il pensiero di Ariberti corse ad una certa tribuna, dove, nelle occasioni solenni, si vedevano parecchie dame; e tutte, in apparenza, di alto bordo. Certo, la scrittrice del misterioso viglietto era una di quelle, e una voce arcana gli venìa bisbigliando che fosse per l'appunto una bellissima fra tutte, che egli aveva già veduta parecchie volte colà, e per la quale egli aveva sfoderata tutta la sua eloquenza, in quella medesima guisa che un attore sul palcoscenico sceglie tra tutte le gentili che lo ascoltano e lo ammirano, una dama, una sola, e per lei s'infiamma, per lei si commuove, per lei trova l'accento della verità, della passione, senza che ella lo sappia, o lo sospetti neppure.

Il lettore discreto ha già capito perchè l'onorevole Ariberti avesse perduto la pazienza all'attacco del giornalista e alle sue velate allusioni. E il lettore sullodato capirà eziandio che, lette a mala pena quelle poche parole nel viglietto profumato, il nostro Ariberti, sempre giovane, quantunque già da parecchio tempo trentenne, non vedesse l'ora e il minuto di abbandonare quel suo riposo forzato per recarsi alla Camera.

Si guarisce presto quando non si ha gran male, ed anche più presto quando si ha fretta di guarire. Anche i medici dell'antica scuola dànno una grande importanza alle buone disposizioni dell'animo nella cura delle malattie. La ferita del nostro onorevole non era anco cicatrizzata, che egli col suo braccio al collo, se ne andava alla Camera. La scusa ce l'aveva bell'e pronta. Si trattava appunto allora di un grave negozio, e il bene del paese doveva passare avanti ad ogni considerazione di salute. Non si era egli dato il caso di deputati che erano andati in portantina all'assemblea, per dare il loro voto in una quistione di rilievo? E perchè l'onorevole Ariberti avrebbe negato a quella discussione i fiume della sua eloquenza, colla magra scusa di una sciabolata, che gli aveva reciso un ramo d'arteria e un piccolo fascio di muscoli?

Quel giorno l'onorevole Ariberti improvvisò il più felice de' suoi discorsi. La sconosciuta ispiratrice della sua eloquenza assisteva alla seduta, e l'oratore ebbe lampi di vera grandezza oratoria. Non si poteva più argomentare perfidamente che egli avesse fatto una transazione col potere, perchè gliene disse di tutti i colori; e con ragione, essendo che il potere, nella quistione di cui si trattava, e in altre parecchie, aveva fatto spropositi da pigliar colle molle. Chi fa falla, si poteva rispondergli; ma egli avrebbe potuto replicare: chi non fa sfarfalla. Ora, che necessità c'era egli pel paese, che seguitasse a fallare la destra?

—Farete meglio voi!—gridò ironicamente una voce dalle file ministeriali, ad un certo punto del discorso di Ariberti.

Povera voce, capitata in mal punto! L'oratore afferrò l'interruzione in aria, e, come fa il giocatore che coglie il pallone di posta e ti fa una volata, schiccherò senz'ombra di sforzo un vero e compiuto programma di governo, che fece rompere in un plauso unanime e prolungato le tribune, con gran rabbia del presidente, che si affrettò ad ammonirle e a minacciare lo sgombero. Anche i colleghi applaudirono e gridarono bravo più volte; e non solamente colleghi di sinistra, ma (horresco referens) qualcheduno dell'estrema destra e del centro. Arcana potenza del vero, quando è detto bene! L'arca santa del governo se ne andava miseramente a rifascio.

Il ministero fu pronto alle difese; fu anzi troppo pronto. Meglio avrebbe fatto ad aspettare un giorno, per lasciare che sbollissero gli entusiasmi, e per aver tempo a raggranellare argomenti, o pretesti. Così di lancio, la risposta parve troppo infelice, e mostrò anche i lati deboli. Un fatto personale, a cui molto imprudentemente fu aizzato l'Ariberti, diede occasione a quest'ultimo di tornare all'assalto e di menare un colpo decisivo al nemico.

Fu una, giornata campale; per la sinistra, che riposò, come suol dirsi, sul campo di battaglia; per l'oratore, che di tanto in tanto aveva potuto dare una sbirciata alla tribuna diplomatica e veder la sua bella sconosciuta, che non perdeva una sillaba delle parole di lui.

L'onorevole Ariberti aveva ricevuto le congratulazioni e le strette di mano di tutti i suoi amici politici. Uno dei più caporioni, proprio quel tale che gli aveva dette le parole agrodolci riferite più sopra, gli si accostò nello scendere le scale del palazzo Carignano, e, ficcando con atto di gran degnazione il suo braccio sotto quello che il nostre Aratore aveva libero e sano, gli bisbigliò all'orecchio:

—Egregiamente! Il ministero è sconfitto. Ma tu avevi bisogno davvero d'esser toccato un pochino.

—Che cosa intendi di dire?—chiese Ariberti, voltandosi a mezzo e corrugando le ciglia.

—Ma sì! ma sì!—rispose quell'altro scuotendogli il braccio amichevolmente, per temperare l'effetto della osservazione;—come un cavallo generoso, a cui basta di sentire a mala pena lo sprone.—

Ariberti crollò sdegnosamente le spalle. E fu, come potete immaginarvi, un delitto di lesa maestà partigiana.

I fatti non tardarono a dimostrarglielo. Il ministero era caduto, sotto il peso d'una votazione solenne, provocata dal discorso di Ariberti e da un ordine del giorno dei soliti deputati che hanno la privativa di queste manifatture. Era dunque naturale che i capi del partito, invitati dal Re ad imbastire un nuovo ministero, dovessero far capo anche a lui e offrirgli un portafoglio, d'importanza non superiore alla sua gioventù, ma pur sempre dovuto a' suoi meriti ed al servizio reso in quella occasione. Così portava la consuetudine, così voleva la decenza. E difatti l'onorevole Ariberti fu cercato e pregato, ma fiaccamente, a fior di labbra, dai capiparte sullodati. Ci si vedeva chiaro che, se avessero potuto sgabellarsene, gli sarebbe parsa la man di Dio, a quei valentuomini.

Le pratiche durarono parecchi giorni, senza venire a conclusione. Questi voleva troppo, quegli niente; uno nicchiava, e l'altro pigliava tempo a pensarci; intanto i giornali del partito avversario dicevano roba da chiodi, accusavano la sinistra di aver fatto nascere una crisi senza aver senno e virtù di scongiurarla. I caporioni se ne mostravano dolentissimi; ma come fare? I portafogli più ragguardevoli potevano già considerarsi come accettati, ma a patto che il ministero riuscisse veramente omogeneo; il che voleva dire che i portafogli meno importanti fossero dati ad amici intimi di coloro che accettavano i principali. A lui, Ariberti, si sarebbe pure voluto dare il portafogli della pubblica istruzione: ma non lo si poteva, senza scontentare il ministro delle finanze, che si voleva a quel posto un amicissimo suo. C'era il portafoglio dell'agricoltura e del commercio, colla giunta della relativa industria; ma per quell'ufficio appariva già destinato un pezzo grosso, a cui non si poteva in coscienza dare altro ufficio, e che neppure si poteva lasciar fuori. Era una zucca al vento, ma aveva i quattrini a palate; e poi, in gioventù aveva stampato una monografia sui cocomeri e coltivato nei suoi poderi la canna di zucchero; laddove lui, Ariberti, non aveva piantato che qualche carota nel campo fertilissimo della stampa.

Infine non c'era verso di accozzare otto uomini di buona volontà, quantunque fosse da credere che tutti dovessero averne un desiderio stragrande. Allora il nostro Ariberti incominciò a mangiare la foglia e ad intendere che i suoi amici erano di gran fintacci. E perchè dal canto suo non aveva quella voglia spasimata di diventar un'eccellenza, che anzi il pensiero di un nuovo ed altissimo ufficio gli aveva già fatto venire la stanghetta al capo, si provò a supplicare i suoi nobili amici, che volessero lasciarlo in disparte. Essi per contro non si provarono nemmeno a sconsigliarlo per debito di cortesia, e colsero la sua rinunzia a volo. E allora il nuovo ministero, così difficile a farsi, uscì come per incanto dal limbo; il giorno dopo era annunziato sulla Gazzetta Ufficiale.

Il ministro fallito ebbe campo di meditare a sua posta sulla ingratitudine degli uomini in generale, e degli amici politici in particolare. Povera sua eloquenza, come l'avrebbe spesa male, se l'avesse spesa tutta pei loro begli occhi! Fortunatamente, come sappiamo, non era così; ma in fin dei conti, quei signori non ne sapevano nulla delle sue sorgenti d'ispirazione e dei suoi intenti romanzeschi, nè era lecito a loro di trattarlo in quel modo.

A fargli sentire maggiormente la botta, aiutava qualche noterella di giornale, in questa forma agrodolce:

«Alcuni giornali, per la smania di precorrere gli eventi e per dare il ministero composto, hanno raccolto la voce che un portafoglio fosse stato offerto a qualcheduno dei più giovani deputati dell'opposizione. Certo, se qualche discorso bastasse a meritare l'altissimo ufficio di governare il paese, i nostri confratelli avrebbero avuto ragione a presentare come una notizia certa le voci senza fondamento a cui alludiamo. Ma egli non è per fermo da questi lievi titoli che si desumono le ragioni della scelta di un ministro, bensì dai lunghi servizi resi alla causa della libertà e dalla autorità con essi acquistata nel paese. La composizione del nuovo gabinetto, che fu appunto difficile pel cozzo di tante voci premature, dimostra che noi eravamo ispirati ad un giusto sentimento delle necessità odierne, quando mettevamo in sull'avviso i lettori, contro queste voci di piazza, che si ripetono ad ogni crisi e fanno perdere un tempo prezioso, con grande soddisfazione dei nostri avversarii. Ma perdoniamo a questi ultimi; poverini! è l'unica che loro rimanga».

Oppure un'altra noterella, così concepita:

«Gli organi del ministero caduto fanno le meraviglie che non sia stato offerto un portafoglio all'on. nostro amico Ariberti. Questi giornali giudicano del partito nostro dalla pochezza d'uomini del loro. L'opposizione, sel sappiano, è forte, e ricca di preziosi elementi. Ma i portafogli non sono che nove, ed essa non ha potuto dare ai suoi avversarii la consolazione di vederli accrescere, per contentare ambizioni e vanità, che dopo tutto non allignano nel suo seno. E restringendoci a parlare dei nove eletti dalla fiducia sovrana, chi può dire non essere eglino per l'appunto coloro che avevano maggiori titoli all'alto incarico, come li hanno indubitabilmente alla gratitudine del paese?».

Il secondo articolo era meno scortese del primo, ma l'uno commentava l'altro, e venivano dalla medesima fonte ambedue.

Ariberti perdette la pazienza e commise l'errore di lagnarsi co' suoi nobili amici di questa scortesia che gli usavano i loro portavoce. Ma i nobili amici stettero alti con lui e se la cavarono con poche parole, donde traspariva il desiderio di non essere seccati per così piccola cosa. I nuovi ministri già avevano sentita la carica.

Allora il nostro deputato capì che non c'era a sperar nulla da loro, e, non potendo pigliarsela coi giornali, per non aguzzarsi il palo sulle ginocchia, si tirò in disparte, ad aspettare gli eventi. Del resto, non era lui che si ritirava, era il ministro che lo respingeva, e quella posizione lontana a cui dovette ridursi Ariberti può considerarsi come un effetto della spinta ricevuta. Il ministero, dal canto suo, liberatosi dal debito di gratitudine che aveva con lui, lo dimenticò facilmente. Ben altro aveva da fare in que' giorni. C'erano, verbigrazia, tanti nemici da accarezzare, che doveva parer naturale, se il nuovo gabinetto non trovava il tempo e il modo di indorare la pillola a qualche amico scontento.

Il lettore si annoierà a leggere queste cose, come io mi annoio a raccontarle. Ma egli ed io dobbiamo pure mandarle giù in santa pace. Questa è la storia; ed è storia altresì che il nuovo ministero durò a mala pena tre mesi. Composto di vanità, nato per dispetto, senza amici divoti, senza oratori di polso, senza nuovi concetti, non poteva certamente durare di più, e doveva far gioco ai suoi avversari, quantunque per tanti rispetti meno accettabili di lui.

Ariberti non lo sostenne, e fu peggio. È vero che lo avevano quasi respinto dal grembo della nuova chiesa, lasciandogli intendere che non era necessario. Ma in politica le vie di mezzo non servono; o stare ad ogni sbaraglio, e aver le pedate in conto di gentilezze, o romperla apertamente dicendo le sue brave ragioni. Ora egli non aveva saputo fare una cosa, nè l'altra. La indipendenza sua lo condusse due volte a votare insieme col partito sconfitto, e i caporioni di questo gli fecero qualche invito, a cui egli non rispose nè sì, nè no, restando «tra color che son sospesi». E quando i vecchi ministeriali tornarono al governo, rammentarono facilmente per colpa di chi erano caduti. Nè egli era uomo da offrire guarentigie di mutati propositi, nè essi eran uomini da domandargliene.

Così stette colle mani alla cintola, vegetando nel suo scanno «senza infamia e senza lodo». E poichè cito Dante per la seconda volta, ricorderò il caso di lui, che dovendo spartire tra inferno, purgatorio e paradiso, un certo numero di suoi conoscenti, si trovò poi con cinque o sei personaggi di minor conto, che non sapeva dove mettere, e te li lascio bravamente nel vestibolo, non senza averli bollati con due o tre versi roventi, che fanno ancora frizzar loro le carni.

Per Ariberti non era il caso; ma è certo cionondimeno che egli non apparteneva nè all'inferno, nè al paradiso, nè al purgatorio parlamentare, cioè a dire alla sinistra, alla destra ed al centro. Andava diventando un deputato sui generis e non al tutto per colpa sua.

—Che volete?—si diceva di lui.—È un originale, un cervello bislacco. Ingegno, sì, e molto; ma una superbia… una superbia!—

E, con queste caritatevoli invenzioni, gli facevano il vuoto dintorno. A furia di sentirselo a dire, finì col credersi anche lui un superbioso di tre cotte. Di tanto in tanto faceva un discorso, ma concludeva poco, perchè non serviva a nessuno. E lo aveva preso un tedio invincibile della vita parlamentare, come già di tante altre bellissime cose.

Tedio, moralità di tutte le favole umane!

CAPITOLO XVIII.

Nel quale si narra di un ballo a Corte e di quello che ne seguì.

Quando il tedio s'impadronisce di noi, il miglior rimedio è quello di portarcelo insieme a viaggiare, e quanto più lontano si può, colla speranza che svapori per istrada, o un doganiere ce lo sequestri al confine. E dico colla speranza, perchè veramente il miglior rimedio non è sempre il più sicuro, e in molti casi non giova. Il più sicuro, che poi a sua volta non può dirsi il migliore, è quello d'innamorarsi. È infatti opinione dei più reputati filosofi, che di tutte le cose di questo mondo, usando ed abusando, può l'uomo a lungo andare noiarsi; della donna mai.

Anch'io, senza esser filosofo, quando avrò passato i settanta, o giù di lì, vi darò il frutto delle mie osservazioni in proposito. Ma già, lo prevedo, quand'anche la triste vecchiaia abbia a guastarmi il palato, ci sarà sempre qualche nepote birichina, che mi farà vedere l'ultima delle opere di Domineddio, sotto un aspetto nuovo e caro; mi scompiglierà la parrucca, mi metterà gli occhiali sul naso alla rovescia, mi porterà dei fiori e dei baci per l'ultimo mio compleanno, e mi farà ripetere per la centomillesima volta: ottima cosa è la donna!

La verità è questa, che quando non viviamo più per le nostre passioni, viviamo per quelle degli altri. Si soffia sulla cenere, e ci si trova ancora qualche po' di cinigia. Agnosco veteris vestigia flammae. Il figlio, l'amante, il marito d'una volta, è diventato il babbo, il nonno, lo zio. Si è sempre gli antenati di qualcheduno; posteri passati, come diceva Arlecchino.

Ora, se permettete, do un'occhiata all'onorevole Ariberti, che non vorrei avesse a farmene qualcuna delle sue. Non già ammazzarsi a cagione dell'umor nero, che diamine! Il nostro eroe non era un inglese, e la malattia gli girava per un altro verso. Anzi, vi dirò che in quel tedio profondo incominciava a muoversi qualche cosa d'insolito e di mal noto, come l'embrione del pulcino nel tuorlo d'uovo, sui primi giorni di covatura. L'immagine non è bella; ma ringraziatemi, poteva essere peggiore. Ariberti era in un periodo strano, d'incertezza, di malavoglia e di curiosità ad un tempo; sentiva che a quel modo non la poteva durare; avrebbe voluto esserne fuori, ma non riusciva ad intendere come ne sarebbe venuto a capo.

Se fosse stato di primavera, il nostro Ariberti avrebbe strappato un congedo e sarebbe andato a veder sbocciare le pratelline sui colli delle sue Langhe; unico spettacolo che potesse consolare il suo spirito infermo e riconciliarlo col mondo. Ma era d'inverno, e non seppe far altro che mettere la sua noia in abito nero e cravatta bianca, per portarla ad un ballo di Corte.

Ci andava per la prima volta. Deputato d'opposizione e poco amante delle cerimonie, aveva sempre sentito per simili feste una ripugnanza, di cui non si era fermato mai ad indagar le ragioni. C'entrava forse in quel sentimento un pochino di salvatichezza naturale; e questa, che vuol sempre trovar le sue scuse, gli bisbigliava nel tempo passato di non imitar la farfalla, di non aliar troppo intorno al lume.

Eppure, eccolo là, anche lui, al ballo di Corte! Quantum mutatus ab illo! Come diverso da quell'Ariberti ritroso a cui tutte quelle umane vanità mettevano i brividi addosso! Ed anche allora, notate, anche allora gli parevano vanità; senonchè, gli pareva anche più vano il dar loro l'importanza di un caso di coscienza.

D'altra parte, in che operava egli diverso da tutti i suoi colleghi? E non era egli poi nella condizione più libera tra tutte, cioè quella del deputato senza vincoli, o, se meglio vi garba, del partigiano in congedo illimitato?

Queste ragioni, dopo tutto, valgono poco o nulla a fronte di quell'altra che muoveva Ariberti, il desiderio, la malacìa dell'ignoto e del nuovo. A fatti psicologici, ragioni psicologiche. Una voce interna gli diceva di andare; una forza arcana lo sospingeva. E a cui paressero sottigliezze, indegne d'un animale ragionevole, risponderemo coi fatti. Non è egli vero che dallo andare più da una parte che da un'altra dipende il più delle volte la nostra giornata, e che una giornata può chiamare l'altra? È opera del caso, si dirà. Or bene, il caso tirava Ariberti laggiù. Il nuovo Saulo andava a caso, ma a caso pensato, sulla strada di Damasco.

Seguitiamo adunque la noia, in abito nero e in cravatta bianca, dell'onorevole Ariberti. Colà dove egli è andato, ne troveremo altre in buon dato, che, sommate insieme, potrebbero dare un bel peso. Ma queste, faremo di cansarle, quantunque in una festa ufficiale si corra il pericolo di farci a gomitate.

Anche il nostro eroe la pensava come noi, perchè si strofinò poco ai crocchi parlamentari, ai gran cordoni, ai gran collari, ecc., ecc. Amava meglio osservare il bel sesso, con cui da gran tempo viveva, dirò così, in rottura diplomatica, e notò con piacere, misto ad una certa malinconia, che la nuova generazione delle figlie d'Eva, anche a Torino sosteneva degnamente la fama di bellezza e di grazia austera, che è inseparabile dal nome della donna italiana. Io metto pegno che l'onorevole Ariberti, abbacinato da tutto quello splendore di sete e di trine, da tutto quello scintillìo di diamanti, da tutta quella perlagione di carni, s'augurò per un istante di esser Paride e d'avere un pomo tra mani. Ma ohimè! se le dee moderne apparivano così poco vestite come le antiche, per contro i pastori moderni non avevano alla mano que' mezzi semplici e sicuri di acquistarsi la loro benevolenza, che aveva avuti l'antico pastore di Frigia.

Ariberti aveva riconosciuto tra quelle gentildonne che gli passavano davanti, al braccio dei cavalieri, qualcuna delle sue e nostre conoscenze antiche; come ad esempio la baronessa Vergnani, che aveva ancora il pied d'Andalouse, ma non più la taille de guêpe, che faceva andare in visibilio il conte Candioli; e la marchesa di San Ginesio, sempre bella, a malgrado degli anni, sempre ammirabile pel suo aspetto di Giunone. Il nostro amico notò con piacere che poteva guardarla senza desiderio, come senza rancore, segno che non era più innamorato, nè impermalito con lei. E questo s'intenderà di leggieri per Ariberti, che non era un cattivo ragazzo e non seguiva l'uso di tanti suoi simili e nostri, i quali sono sempre ammalati d'egoismo e di livore, e non possono perdonare ad una donna il grave torto che ella ha avuto, amando un altro in cambio di loro.

È vero che anche lui, vedendosi lasciato da banda, l'aveva odiata un pochino; ma perchè il suo animo era generoso, quell'odio era svaporato, senza lasciarvi traccia di sè. E la marchesa di San Ginesio gli tornava simpatica, come doveva esserlo per ogni cuore ben fatto. E più simpatico ancora gli era Filippo Bertone, quel buon Filippo che aveva con tanta amorevolezza, chetati gli sdegni di suo padre, quel nobile Filippo che con tanta cura fraterna lo aveva stimolato, aiutato a rimettersi sulla buona strada.

Filippo Bertone era in pochi anni grandemente cresciuto nella stima dell'universale, e si era fatto un nome glorioso, restando l'uomo più modesto del mondo. Onori, grandezze, e simili altre piccolezze, non lo avevano tentato; la sua unica ambizione era quella di non essere nulla in questa «fiera di vanità» che è l'umano consorzio. Cionondimeno, e proprio a suo marcio dispetto, aveva dovuto accettare una cattedra all'Università. Era la cattedra lasciata vacante dalla morte del suo vecchio benefattore. Molti ambivano quel posto, ma nessuno ne parve più degno di lui, che non lo ambiva affatto e che neppure aveva pensato di poterlo occupare. Il voto della scolaresca, il consenso unanime dei professori, additavano il Bertone; e il nostro Filippo dovette inchinarsi e accettare l'ufficio. Nessuno ci trovò a ridire, neppure i concorrenti, che avevano dovuto appendere la voglia all'arpione.

A trentacinque anni, Filippo Bertone era già salutato il primo fra i seguaci d'Ippocrate che vantasse la capitale. E quantunque le sue predilezioni fossero tutte per la storia naturale, in cui aveva fatto felicissime indagini, scrivendo un libro che rimarrà meritamente celebre, pure, tanta era la fiducia de' suoi concittadini, così numerosa la sua clientela, tale il concorso dei poveri, che egli non aveva avuto il coraggio di abbandonare la pratica per la teorica, e si era pazientemente rassegnato a studiar meno pei posteri, faticando di più pei presenti.

Al tempo in cui lo rivediamo, il nostro famoso professore appariva ancor giovane, e più assai del suo coetaneo Ariberti, che già incominciava a dissimulare cogli artifizi della moda i danni irreparabili del tempo. La bontà del precetto latino «mens sana in corpore sano» traspariva da quella sua aperta figura, improntata di maschia bellezza. Semplice di modi, non umile, indossava l'abito nero, e stava a Corte con quella serena dignità con cui aveva indossato, in altri tempi, il suo famoso soprabito color di tabacco e abitata la sua modesta soffitta.

A proposito della soffitta, ecco un particolare da non doversi passare sotto silenzio. Filippo Bertone aveva il suo quartierino nella medesima casa che sapete; era sceso di due piani, ma aveva serbato fede al suo nido, e quella soffitta non l'aveva ceduta a nessuno, e andava a chiudersi lassù quando voleva e poteva attendere a' suoi studi prediletti. Quella piccionaia sotto i tegoli era stata la sua prima dimora; colà aveva albergato i suoi libri, i suoi fiori, le sue speranze, i suoi sogni; di là aveva veduta la donna che doveva essere tanta parte e la più cara della sua vita, la prima e l'unica che doveva far palpitare il suo cuore. Filippo Bertone, per dirla con una frase abusata, ma adatta, aveva un'anima d'angiolo; nè affetti volgari, nè altre debolezze, che ogni uomo perdona, o vuol farsi perdonare, avevano mai profanato il suo culto per quella sembianza di divinità che egli si era foggiata sulla terra. E la soave marchesa di San Ginesio, nobilissima figura e saldo carattere di un tempo così vano e corrotto come il nostro, era ben degna di un amore così esclusivo, di una fedeltà così antica.

Ora, dovunque fosse la marchesa di San Ginesio, si poteva star certi di trovare Filippo. La qual cosa va intesa con discrezione, di teatri, balli, conversazioni, ed altri simiglianti ritrovi della civil compagnia; chè non vorrei lo aveste in conto d'un paggio del medio Evo, o di un moderno King Charles.

Diffatti, poco lunge dal salone da ballo, Ariberti si incontrò coll'amico Filippo, e fu una ventura per ambedue, che si vedevano tanto di rado.

—Eccoci qui,—disse ridendo Ariberti,—come due cavalieri del Gobelins, spiccati da un arazzo, ma per far sempre tappezzeria. Tu non balli; io neppure…

—Eh, quanto a me, si capisce;—interruppe Filippo;—la gravità di
Galeno ne soffrirebbe; ma tu…

—E dove lasci quella di Temi?—domandò Ariberti.—Un legislatore in ballo, che ti pare?

—-Legislatore sì, ma uomo politico, e gli uomini politici ballano.
Vedi i ministri; sono in quadriglia anche loro.

—Sì, ballano sopra un vulcano!—ripigliò Ariberti, adoperando per celia una frase del dizionario giornalistico.—Quanto a me, da un pezzo io vivo lontano dal mondo e dalle sue pompe, e non ho più entratura colle dame. A proposito, ne ho visto una, poc'anzi; sempre bella tra tutte le belle, sempre Giunone all'aspetto e al portamento.

—Ah, capisco;—disse Filippo, che sulle prime non aveva inteso a chi volesse alludere Ariberti.

—Vieni, ti presento a lei.

—No, grazie.

—Perchè?

Domine, non sum dignus.

—Eh via; non siamo mica più i ragazzi di una volta.

—Pur troppo, e per una buona ragione;—notò Ariberti, con accento tra malinconico e burlesco.

—Ma io ci ho di peggio; sono un profano mortale, e voi… siete angioli.—

Queste ultime parole erano state susurrate all'orecchio di Filippo; il quale si fece rosso in volto come una fragola al sole di primavera.

—Gentile amico!—rispose egli poscia, stringendo affettuosamente il braccio di Ariberti.—Se ti sentisse uno dei ministri caduti, non gli sembreresti più quello.

—Perchè, di grazia?

—Perchè tu, mio bell'oratore, non li hai certamente avvezzati a così dolci parole.

—Non le meritavano;—disse Ariberti.—Io, del resto, fo la mia corte ad un ministro vincitore, e gli rendo giustizia.

Filippo intese pel suo verso la gentile allusione, ma credette opportuno di lasciarla cadere.

—Vieni,—diss'egli,—giacchè non balliamo, daremo un giro per le sale, ed io ti farò da cicerone. Una metà della dame sono clienti del tuo umilissimo servo.

—E le conservi sane, a quel che pare.

—Ma sì, ma sì; sono un medico che lascia operare la gioventù e la salute. Il mio segreto è tutto qui.

—Sentimi;—disse Ariberti;—tu dovresti avere nel numero delle tue clienti quella che più mi premerebbe di conoscere.

—Ah, ah! Una fiamma amorosa? Antica, o moderna?

—Nè l'una cosa, nè l'altra. Una figura che mi piace, ecco tutto.

—Per ora;—conchiuse Filippo;—e va benissimo; vediamo dunque dov'è, e, se sarà una mia cliente, ti dirò anche il suo nome. Ma bada, tu dovrai farne buon uso.

—Che intendi tu per buon uso? Saprò che nome porta una bella signora che mi ha colpito, come si ama sapere il titolo di una bella incisione, ammirata avanti lettera; non ti sembra abbastanza platonico?

—Quand'è così, non ho niente a ridire. Avresti tu cangiato il vizio, per avventura?

—E, potrebbe darsi; una cosa è certa, che sto cangiando il pelo. Depongo nel sacrario della tua amicizia,—e, per dir questo, Ariberti abbassò la voce di due toni,—che ho già trovato nella mia povera chioma diciotto fila d'argento.

—Le hai contate?

—E strappate. Non vo' argento, io; sono incorruttibile.

—Ma, e quando i bianchi saranno in maggioranza?

—Mi darò alla pittura, Filippo mio; studierò l'arte del Tintoretto.—

Così chiacchieravano, allegri come due passeri su di un pergolato d'uva matura, mentre andavano di sala in sala, alla ricerca della bella sconosciuta, che premeva tanto ad Ariberti.

—Ah, eccola!—esclamò egli, stringendo il braccio all'amico.—Vedila, là in fondo, seduta su quel sofà. È quella che parla col cavaliere di Cocconato, il gran cacciatore del re.

—Quella? Ariberto mio, mi duole di avertelo a confessare; non è una mia cliente.

—Vedi che disdetta! Appunto quella che m'importava conoscere.

—Mio Dio, se vai proprio a cercarle col campanello! Ora io potrei cavarmela da principe, dicendoti che ella si chiama Venere, e lasciando a te la cura di rintracciare se sia la Capitolina, quella dei Medici, o quell'altra di Milo.

—Insomma, non sai chi ella sia.

—Ti ho detto che non è mia cliente. Ma se tu mi prometti la sua prima infreddatura, il suo primo mal di nervi…

—Filippo mio, tu te la godi come uno scolaro in vacanze.

—Sicuro; ti ho stretta la mano e sono di buon umore; anzi, torno ragazzo. Anche il grave Cicerone amava tornarlo di tanto in tanto, e lo scrisse appunto nel suo libro De Senectute, te ne rammenti? «Ut aliquando repuerascam». Almeno, mi pare che dica così. Ma lasciamo le ciance, e contentiamo l'amico. Quella signora leggiù, se non m'inganno, è una marchesa di Rocca Vignale, cioè Marchesa vedova di Rocca Vignale. Non so veramente come nasca; cioè, mi spiego, la scienza mi insegna come tutti nasciamo, e come sarà nata anche lei; intendo parlare di genealogia e di araldica. È nobile di nascita? È italiana? Haud mihi compertum est; non saprei dirtelo.

—Eh, per non essere il suo medico, ne sai già quanto basta.

—Girando s'impara;—disse Filippo.—Del resto, non sono io che so molto; sei tu che ti contenti di poco. Ma questo è buon segno; non sei innamorato. Se tu lo fosti, vorresti già sapere da me il suo nome di battesimo, il nome di pratica in casa sua, le primavere che canta… A proposito di primavere, so anche questa. La marchesa di Rocca Vignale è rimasta vedova a venticinque anni, ed ora ne ha trenta suonati.

—Non parrebbe, a vederla!

—Ed hai ragione; ella ne dimostra tre o quattro di meno, e probabilmente ne avrà tre o quattro di più del numero che ti ho detto.

—È bella assai!—esclamò Ariberti, che tirava a suo modo la somma.—Andiamo via; se no, le casco ai piedi.—

Questo era detto burlescamente, si capisce; ma anche parlando per celia, l'onorevole Ariberti accusava i primi sintomi di una malattia acuta. Per fortuna, le malattie di questa sorte, quando nascono, non fanno dolore, che anzi le s'annunziano con una insolita pienezza di vita, volto sereno, occhio ilare, piede leggiero, e una nidata di grilli nel capo.

Il nostro eroe non doveva essere malcontento della sua gita al ballo di Corte. Per giunta alla derrata, ebbe parole amorevoli del padrone di casa (il re, se vi piace), che s'intrattenne a lungo con lui, a discorrere sui partiti e sulla necessità di dar sesto al bilancio. Fu un colloquio che fece tremare sul loro trono di cartone i ministri, uno dei quali guardò due volte l'orologio e contò che la grazia reale era durata sette minuti e qualche secondo. Nè fu minore l'attenzione di una ventina di damerini, e cortigiani di primo pelo, che, bazzicando poco o punto alla Camera e non conoscendone molto gli oratori, si domandavano curiosamente l'un l'altro, chi fosse quel giovanotto, che aveva tanta entratura col re.

Si seppe allora, dopo aver preso lingua dai pratici, che era il deputato Ariberti, quel desso che con un discorso aveva fatto cascare il gabinetto anteriore, e non dal sonno, pur troppo, come avrebbero certamente preferito i vecchi ministri. E pochi minuti dopo, trattandosi d'una notizia di quella importanza, il colloquio dell'onorevole Ariberti col re era stato strombazzato per tutte le sale; figuratevi che n'erano state perfino informate le dame che di queste cose per solito non si dànno pensiero, e fanno bene, a mio credere.

Questo epifonema dell'umile narratore non mira ad offendere una bellissima gentildonna, che si trovava per l'appunto al ballo di Corte, e a cui premeva molto di conoscere da vicino il nostro onorevole. Forse la politica c'entrava pochino in quella sua curiosità femminile, e molto invece la vanità. Comunque fosse, io non ho da vederci nulla; debbo dire soltanto, per la necessità del racconto, che quando uno dei suoi cavalieri, servo divoto di tutte le dame, diede a lei la notizia dell'importante colloquio, ella, che pur conosceva Ariberti, per averlo veduto ed udito più volte alla Camera dalla tribuna diplomatica (una bella signora ci ha sempre ai suoi ordini un plenipotenziario purchessia), dimandò con aria di candore al suo elegante galoppino:

—Lo conoscete voi, questo terribile rovesciatore di ministeri?

—Se lo conosco! Siamo anzi amicissimi.

—Ah, bene! Dovreste presentarmelo.

—Io, marchesa?

—Sì, voi; se è vostro amico, anzi amicissimo, come dite…

—Certo; ma qui, su due piedi…

—Stiamo a vedere che vorreste presentarmelo su quattro! Da bravo, cavaliere; fateci questo servizio e contate sulla nostra gratitudine.

—Vi preme molto, marchesa?—domandò il povero cavaliere, che non conosceva Ariberti, e non sapeva che pesci pigliare.—Quand'è così…

—Quand'è così, non mi presentate nulla. Si può far senza del vostro amicissimo e vivere.—

Il cavaliere capì che aveva scontentato la marchesa, e che la sua vantata intrinsichezza coll'Ariberti non era tenuta in conto d'evangelio. Perciò, fatte alcune parole senza costrutto, e solamente per pigliar tempo, andò a cercare il modo di accomodare il pasticcio e di contentare la dama.

Ariberti non era lontano. Il cavalier servente, dopo essergli girato intorno parecchie volte, aspettando di trovar uno che lo presentasse, o un'idea che lo avvicinasse al suo uomo, finì con una alzata d'ingegno, della quale in ogni altra occasione non si sarebbe creduto capace; si accostò all'onorevole Ariberti ed appiccicò audacemente il discorso.

—Bella festa, commendatore, non è vero?

—Sì, bella;—rispose Ariberti;—bella,—ripetè dopo una breve pausa e riprendendo argutamente il suo vicino,—quantunque io non ci abbia il grado a cui le piace elevarmi.

—Come?—disse l'altro, cadendo dalle nuvole.—Scusi, sa? Veramente, credevo… Già, non si sa mai… E infine, se non è commendatore Lei, chi ha da esserlo?

Ariberti era uomo, e l'incenso non gli dispiaceva, anche a costo di sentirsi rompere l'incensiere sul naso.

—Con chi ho l'onore di parlare?—dimandò egli allora, atteggiando le labbra ad uno dei suoi più dolci sorrisi.

—Il cavaliere Carletti di Montalero; non si ricorda? Ho avuto il bene d'intrattenermi con Lei nell'atrio del palazzo Carignano, insieme col mio amico…—

E qui il bravo cavaliere sciorinò un nome illustre, senz'altro. Già, le bugie sono come le ciliegie, e tutto sta nel cominciare.

—Ah sì,—disse Ariberti, che non si ricordava affatto.—Ora mi sovviene… Scusi sa! Si ha occasione di parlare con tante egregie persone, che in capo al giorno, uno non si raccapezza più, per quanti sforzi faccia. È male, lo capisco, ma infine, non tutti hanno la memoria di Napoleone il Grande.

—Scusi, cavaliere;—ripigliò il Carletti, che non era un grullo e voleva con qualche arguzia temperare la difficoltà del colloquio;—crede lei che Napoleone ci avesse proprio quella memoria portentosa? Si racconta in casa mia che uno ci si sbattezzò di buona voglia, per non dar torto al grand'uomo, che lo aveva chiamato con un nome non suo. Del resto, si capisce; le cure di Stato son fatte per confondere la testa meglio ordinata. Ed anche il Parlamento ne vuole la sua parte, specialmente quando si fa il deputato come Lei.—

Ariberti s'inchinò, ringraziando; ma dentro di sè, incominciava a sentire un pochino di noia, parendogli che il suo interlocutore appartenesse alla classe dei gasteropodi, ordine dei ciclobranchi, famiglia degli univalvi, lepade in greco, e in italiano patella.

—Veda di non logorarsi troppo;—continuò intanto il buon cavaliere Carletti di Montalero,—gli uomini come Lei sono preziosi; se lo lasci dire, preziosi. Un po' di svago ci vuole. E dica, di grazia, non balla?

—Nossignore;—rispose Ariberti, che era già ad un pelo di mandarlo a tutti i diavoli.

—Come? Con tante dame gentili? C'è qui raccolto il fiore della bellezza e della grazia di tutto il Piemonte.

—Non dico di no; ma conosco poca gente…

—Se io potessi mettermi agli ordini suoi…

—Oh, grazie infinite, ma io…

—Se mi permette,—interruppe il cavaliere, mettendo, come suol dirsi, le mani avanti,—incominciamo fin d'ora. Io la presento a qualcuna delle nostre eleganti. Non sono un uomo politico, e pur troppo il mio poco ingegno non mi dà di aspirare a diventarlo; mi contento adunque di passar la mia vita il meno male che si può, e sacrifico modestamente alle Grazie.

—Le faccio i miei complimenti;—disse Ariberti, che non sapeva se avesse a fare con un impertinente, o con uno sciocco.—Si tenga lontano dalla politica, e non abbandoni le dame; il meglio della vita è qui.

—Gliel'ho detto;—incalzò il cavaliere di buona volontà;—son tutto a sua disposizione. Mi terrei veramente onorato di presentarla…

—Grazie!—gli rispose Ariberti, scuotendo la testa in atto di rifiuto.—Io sono un orso, e gli orsi ballano male.

—Ah, ah! questa è arguta davvero!—esclamò il cavaliere, accompagnando la sua osservazione con tutte le smorfie più adatte, secondo lui, a disarmare la diffidenza del suo interlocutore.—Ma non sempre le cose più argute son vere.—

E cominciava a sudar freddo, il povero cavaliere Carletti di Montalero; e malediceva in cuor suo la smania di darsi per amico di tutti i valentuomini, che l'aveva messo in quel brutto impiccio.

—Dunque, dicevamo,—proseguì infilzando parole alla disperata,—bisogna esordire. Io la presento subito alla più elegante e alla più bella di tutte. Vede, onorevole amico; è un sacrifizio che faccio… Ma intendiamoci, lo faccio volentieri; ho tanta stima e riverenza per Lei!—

Ariberti aveva già perduta la pazienza, e una frase poco parlamentare stava già per venirgli alle labbra. Ma quell'accenno del cavaliere alle qualità della dama, lo trattenne in buon punto. Il cuore, quel benedetto viscere, che entrava per tanta parte in tutte le cose sue, gli aveva dato un sobbalzo nella classica chiostra del petto.

—La più bella!—esclamò egli, sorridendo.—Diamine! Non foss'altro che per conoscere il suo riverito parere in materia di bellezza, io ardirei chiedere il nome della signora.

—A patto di presentazione?—dimandò il cavaliere, cogliendo la palla al balzo.

Ariberti stette in forse un istante. Ma un'idea gli era passata pel capo; che si trattasse di una scommessa, d'un punto da vincere, o altro di somigliante. La ruvidezza in questo caso gli avrebbe fatto un cattivo servizio; la urbanità sola lo avrebbe salvato. Inoltre, il cavaliere Carletti non aveva l'aria di un burlone; e in fin dei conti, ci sarebbe stato sempre tempo a punirlo. Così pensando, l'onorevole Ariberti si commise allegramente all'ignoto.

—A patto di presentazione;—rispose.

—Benissimo;—gridò il cavaliere Carletti;—ed io son certo che Ella non si pentirà di averlo accettato. La più elegante e la più bella non pare anche a Lei che sia la marchesa… di Rocca Vignale?—

Apritevi, spalancatevi, o porte del cielo empireo, e scendano gli angioli a cori, colle cetre, i timpani, e tutti gli altri istrumenti di paradiso, per fare un degno accompagnamento all'inno che si sprigionò dal cuore di Ariberti in quell'ora. Tutti i falchi della bella imagine di Giosuè Carducci, levati al volo in un punto, non basterebbero a dare un'idea lontana di quella gloria di pensieri, di giaculatorie, d'interiezioni alate, che gli balzarono fuori del cervello, all'udire quel nome.

In gran confusione, per altro; che il colpo era stato troppo repentino, e una mente anche più ordinata della sua non avrebbe resistito. Come? Da un'ora egli almanaccava per sapere il nome di quella diplomatica in Parlamento «quasi raggio di stella in ciel turbato». Saputo quel nome per grazia, profumata del caso, che gli aveva mandato tra' piedi Filippo Bertone, gli mancava ancora l'essenziale, cioè l'occasione e il modo di avvicinarsi a quella donna. E la fortuna veniva a lui, sotto le spoglie del cavaliere Carletti di Montalero; ed egli, lo sconoscente, l'ingrato, lo stolido, era stato lì lì per mandarla a tutti i diavoli!

Al pensare che avrebbe potuto commettere uno sproposito di quella sorte, fremette dal capo alle piante. E se i capelli non gli si rizzarono sul capo, credete pure che fu per rispetto al luogo in cui era, e per la mancanza d'un parrucchiere lì pronto a ravviarli.

La prima cosa che egli fece, dopo inarcate le ciglia e represso il moto involontario della sua molla interiore, fu di accostarsi al cavaliere Carletti e d'infilzargli dimesticamente il braccio sotto l'ascella. Ma subito si avvide che correva un po' troppo e che la foga lo avrebbe tradito; perciò si trattenne a mezza strada, e cercò di condire quell'impeto di allegrezza niente affatto diplomatica, con qualche frase argutamente festevole.

—Orbene,—diss'egli,—quantunque io non conosca la dama, eccomi pronto a pagare la scommessa. Son proprio curioso di vedere se Ella è di buon gusto.—

Frattanto lavorava a tirare il braccio indietro. Ma quell'altro aveva già piegato il gomito, e l'onorevole Ariberti si trovò preso come un lupo alla tagliuola. Immaginate la gloria del cavaliere Carletti di Montalero, che indi a poco si sarebbe presentato alla marchesa di Rocca Vignale, colla sua preda sotto il braccio.

Povero cavaliere! Egli non era mica uno sciocco; anzi alle sue ore poteva anche passare per un uomo di spirito. Ma colle donne non c'è spirito che tenga, e il più accorto ci casca. Nell'impresa a lui commessa dalla bella marchesa di Rocca Vignale, il Carletti non ci vedeva niente di strano, e, così com'era stato condotto il discorso, doveva credere che alla signora gli fosse saltato il ticchio di conoscere il primo oratore della Camera, come in ogni altra occasione le sarebbe saltato quello di farsi presentare il tenore che filava così bene lo «Spirto gentil» al teatro Regio, o un autore applaudito, un saltimbanco celebre, un poeta estemporaneo, un famoso scapestrato, un ambasciatore, un direttore di cotillon, od altro dei beniamini della gloria d'un giorno.

In fin dei conti, che cosa ne sappiamo noi? Non poteva essere anche tale il disegno, o il ghiribizzo, della signora marchesa?

Una cosa sappiamo, che Ariberti aveva desiderato ardentemente di avvicinarla, che il caso lo aveva servito largamente e che egli doveva vedere in questo fatto l'opera del caso, un atto intelligente e meditato di quella divina provvidenza, che è, se permettete, un capriccio di donna.

Si avvicinò, tenuto a braccetto dal cavaliere Carletti, che mostrava un'aria da conquistatore nell'atto di domandare il trionfo. La marchesa aveva accanto un pezzo grosso, di quei che non ballano, e che si possono piantar lì quando faccia comodo. Anche questa era intelligenza sopraffina, di mostrarsi stanca del ballo e di mettere gli importuni in dirotta.

Per farvela breve, l'onorevole Ariberti fu presentato ed accolto con quella elegante e cerimoniosa freddezza che era del caso; ma gli occhi e la stretta di mano dissero, o lasciarono intender cose, che dovevano sfuggire alla attenzione di tutti i cavalieri Carletti del mondo. L'onorevole Ariberti chiese ed ottenne l'altissimo onore di una quadriglia, o contraddanza che si voglia dire, come se fosse un ufficiale d'ordinanza, un addetto d'ambasciata, od altro degli elegantissimi giovinetti che davano vita alla festa.

CAPITOLO XIX.

Rinaldo nei giardini d'Armida.

Chi non ricorda, tra le noie della sua prima giovinezza, il famoso teorema dell'ipotenusa, più conosciuto nel gergo scolastico sotto il nome di ponte dell'asino, perchè era in geometria il punto difficile, di là dal quale potevano andar ritti e sicuri i matematici in erba, laddove, in esso scappucciavano maledettamente i più corti d'intelligenza, quantunque fossero i più lunghi d'orecchie? Dimostrare tre migliaia d'anni dopo Pitagora, autore della bella scoperta, che il quadro eretto sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati eretti sui due cateti, era appunto il difficile dell'impresa.

Non è animo mio di ripetere qui la dimostrazione ai lettori, per farmi vedere ferrato a ghiaccio nella scienza d'Euclide. Ho solamente ricordato il teorema pitagorico, per giungere a dirvi (guardate mo dove va a ficcarsi la boria dottorale!) che la bellezza della marchesa Clementina di Rocca Vignale era la somma delle bellezze di Giselda Szeleny e della marchesa di San Ginesio. Splendida come questa, attraente come quella, raccoglieva in sè stessa e mostrava armonicamente confusi i due generi, le due forme di bellezza che mi sono ingegnato di rappresentarvi a suo luogo.

E adesso, lasciando in disparte la geometria piana, che non è certo la più acconcia a descrivere le grazie di una donna, dovrei schiccherarvi qui in quattro tocchi di penna i pregi fisici di questa Armida rediviva. E qui proprio mi trovo più impacciato che non fossi a quattordici anni, coll'ipotenusa e i cateti. Se almeno potessi darvi questa bellezza in dramme e scrupoli, come fa il medico le sue ricette, lasciando a voi la cura del «misce et remisce»!

Un grande scrittore, che in gioventù non aveva avuto a lodarsi troppo delle signore donne, e che perciò non usava trattarle co' guanti, mi diceva: «Quando ho da dipingere una donna, piglio due soldi di biacca, uno di cinabro, uno di giallo di cromes, un pizzico di terra d'ombra, un altro di nerofumo, e non ci fo mica altra spesa; cinque o sei pennellate, e mi sbrigo». Lo diceva, s'intende; ma poi non lo faceva. Ed anche di lui, quantunque amasse poco il bel sesso, resteranno figure ammirabili, come una Jole, una Fides, tra l'altre, ed una Fulvia Piccolomini, per cui, se tornasse al mondo tal quale si potrebbe anche fare allegramente, il viaggio di Siena.

Come tipo di bellezza ammirabile, la marchesa di Rocca Vignale avrebbe fatto onore, anche dopo il ritratto della Paolina Adorno dei Brignole, al pennello sicuro ed elegante di Antonio van Dyck, o al mollemente arguto di Tommaso Lawrence, per cui non ebbero segreti le morbidezze, i tondeggiamenti e le lisciature della forma moderna.

Di statura piuttosto alta, e snella, ma tutta a curve, che il garbo delle vesti faceva spiccare accarezzandole, la marchesa Clementina poteva mostrare un piede, anzi due, della più delicata picciolezza, e tali da far credere ai veristi che la natura si fosse guastata anco lei, bazzicando cogli accademici. Ora, per una donna come la marchesa, poter mostrare un bel piede era una tentazione irresistibile, ed io non debbo tacere questa debolezza della mia nuova eroina. Già, chi lo ignora? tutti abbiamo le nostre, e v'hanno sempre certi punti in cui, o per cui, la più gran dama del mondo non è niente più d'una semplice crestaia. Anche il colosso di Nabucco aveva il piede di creta. Dunque, ammettiamo, il pie' di creta della marchesa Clementina, non senza soggiungere che mai la creta d'un piede apparve più leggiadramente modellata, neanco tra le mani di Fidia.

Lettori umanissimi, io comincio dove s'avrebbe a finire. Ma che volete? Il diavolo m'ha sempre pigliato da' piedi, e oramai ci ho fatto il verso.

Per altro, ora che mi sono sbrigato da questo particolare, vi fo grazia delle vesti, la cui eleganza provava il buon gusto e quella cura minuziosa di sè, che amiamo tanto di trovare nella donna; e vengo difilato alla testa; una testa, se mi consentite il paragone, graziosa come quella di un serpe. A voi parrà strano, e fors'anco esorbitante; a me invece pare di aver trovata l'immagine più felice e più acconcia. Superate di grazia quel senso di ribrezzo che ispirano i rettili pel loro corpo smisuratamente lungo e per le velenose qualità di taluni tra essi; non guardate che quella testolina eretta, che a prima giunta apparisce così rigidamente stagliata, ma che vi riesce poi così delicata nei suoi contorni, così leggiadra ne' suoi atteggiamenti, così incantevole nelle sue movenze, e converrete con me che la testa di una bella donna, o di qualche bella donna, se vi piace meglio, può essere non indegnamente paragonata a quella di un ofidio.

La marchesa Clementina aveva i capelli castagni finissimi, ondati, lucenti e abbondantissimi per giunta. A volta amava stringerli in treccie lunghe e piene come Margherita, a volta gli scioglieva sulle spalle come Giulietta, e li adornava di fiori come Matelda ed Ofelia. Godeva de' suoi capegli come la tipica madre delle donne create, là nelle selve primitive dell'Eden, quando si specchiava allegra nelle acque correnti del ruscello e sorrideva del medesimo riso all'uomo, ed al serpente astuto, che già si disponeva a scaltrirla.

Io vi amo, o bei capegli, stillanti ambrosia dal capo delle dee d'Omero, e ancora ai tempi nostri cagione di soavissimi fremiti a chiunque accarezzi le vostre morbide ciocche. Sansone ebbe nei capegli la forza; ma ogni donna è più forte di lui, perchè ne ha nei capegli la grazia e il fascino delle dolci lusinghe. Oh perchè la moda, la maledetta moda, li ha raccolti e stipati in così fitto manipolo sul capo della donna amata, in sembianza di torre, irta di guerrieri, sul dorso dell'elefante? Quei mazzocchi a cupola, a campanile, a battifredo, mi fanno paura; io li abbomino, perchè tolgono alla chioma i suoi pregi più cari, la morbidezza e l'ondeggiamento. La donna mi si fa davanti armata in guerra, minacciosa e superba, con quell'elmo, che la rende un terzo più grande del vero. Io non sento nessuna ripugnanza per Minerva, e giuro che, nel caso di Paride, farei del mio pomo tre fette, ed anco disuguali, per dare la più vistosa a lei, che ha il vanto degli occhi verdi; ma vorrei che si levasse quella sua minacciosa cervelliera dal capo.

La marchesa Clementina era dunque una Minerva senza elmo; anzi io potrei paragonarla più facilmente a Venere, che è rappresentata in alcune statue coll'elmo sotto i piedi, e questo mi gioverebbe per farvi vedere ancora una volta il piedino della marchesa, quel piedino adorabile che sapete. I suoi capegli scendevano per solito ripiegati in due lucide staffe a carezzare le guance rosee, vellutate, come le pesche duracine, e lumeggiate d'aurei riflessi. Non aveva spaziosa la fronte; ma questo, che è pregio dei pensatori e dei calvi, non fa buon giuoco alle donne. Sia breve la fronte e piana, anzi un tal poco leonina, profilato il naso, breve lo spazio che intercede da questo alla bocca, rotondo il mento, e possa la dea sorridere spesso, per mostrare la sua fresca conchiglia di perle, o atteggiarsi a tristezza, perchè abbiano risalto le ciglia lunghe, morbidamente ricadenti sulle pupille del colore dell'indaco; è questo l'essenziale, e il miracolo della bellezza è compiuto.

Gli occhi della marchesa vorrebbero essi soli una pagina di descrizione; ma quando io vi avessi affastellati sulla carta tutti i soavi baleni d'un cielo d'estate, tutte le mezze tinte e sfumature dell'iride, tutti i profondi scintillamenti dello zaffiro, tutti i lattei riflessi dell'opale e tutti i vivi bagliori del diamante, non vi avrei detto ancor nulla di efficace. Si sono scritti parecchi trattati sulla luce, e parecchi sull'anima; ora, quanti non se ne potrebbero scrivere di più sopra un bel paio d'occhi, che sono la luce dell'anima e soli danno anima per noi alla luce? Vi dirò dunque, nella forma più breve, che quegli occhi iridati, umidi e sfavillanti, avrebbero potuto far dare nei gerundii tutti gli angioli del cielo, se mai fossero tornati sulla terra a chieder notizia dei loro fratelli, compianti e celebrati da Tommaso Moore, nel suo leggiadro poema.

Stupendo era il collo, sebbene per avventura un tal poco più lungo del giusto. La natura aveva forse voluto fare un complimento a Raffaello Sanzio, che in questa parte ebbe talvolta a correggerla. E mai collo di donna fece pensare più di questo ai flessuosi candori e alle armoniche movenze del cigno. Il seno poi, era fior di latte rappreso, e i teneri contorni dell'òmero avevano la soave fermezza e i miti splendori del marmo di Carrara. Infine, era una bellissima donna, un mirabile saggio della più bella creazione di Dio, il quale ci ebbe le sue grandi ragioni a serbarsela per l'ultima, nelle sue sette giornate di lavoro. Egli che, sia detto senza intenzione d'offenderlo, tagliò l'uomo coll'accetta, pose ogni diligenza in quella ultima fatica, che è riuscita un vero capo d'opera. Giù il cappello, signori atei, o qui si viene alle brutte.

E difetti non ne aveva, la marchesa Clementina? Ve li ho detti, indicandoli, secondo il gusto mio, come pregi; collo leggermente più lungo, e fronte un pochino più stretta della giusta misura. Ma già lo sanno anche i grilli; è della bellezza moderna, fondata nell'espressione anzichè nelle linee, il vantaggiarsi di certi piccoli nei. Non siamo noi forse, noi inciviliti fino al midollo, che vediamo altrettante virtù in certe imperfezioni del l'anima?

La marchesa di Rocca Vignale, per esempio, ci aveva l'intelligenza alquanto ristretta della sua fronte, la volubilità serpentina del suo collo e la piccineria minuziosa de' suoi lineamenti. Ora chi non vedrà esser questa piccineria delicatezza, questa volubilità leggiadria, questa ristrettezza di mente giusta misura d'idee, per chi non è nato alle uggiose cure del filosofo e dell'uomo di Stato? Date alla donna i vasti concetti dell'uomo, e avrete la dottoressa; datele i contorni più austeri, e: avrete la dea sul plinto di marmo; non più la donna che vi farà dimenticare il mondo a' suoi piedi, che vi costringerà ad amarla o a maledirla, con perfetta vicenda, dodici volte in un giorno.

Amarla e maledirla; questa doveva essere la sorte del mio e vostro Ariberti. La marchesa di Rocca Vignale amò in lui due pregi secondarii, l'eleganza e la fama; del suo cuore non indovinò gli spasimi, bastandole la servitù quotidiana; del suo ingegno non si avvide, fuorchè per la lode a lui data dagli altri, ma non volle o non seppe studiarlo a fondo, per farsene la custode e l'ispiratrice. La politica era di moda; epperciò la signora marchesa era andata varie volte al Parlamento, lieta di farsi veder in un delizioso abito mattutino nella tribuna diplomatica e di cagionare un subisso di distrazioni in un centinaio di teste calve, o mal pettinate, nelle quali si racchiudeva il senno della nazione. Per qualche giorno l'onorevole Ariberti era stato il beniamino della pubblica opinione, e, miracolo inaudito, quel facondo oratore non era calvo, nè mal pettinato; appariva anzi un bel giovane, non senza alcun che di femmineo negli occhi, nelle labbra e nel portamento. Era ascoltato con attenzione dai ministri; andava vestito come uno zerbinotto; i segretari di legazione dimenticavano i cavalli, le prime donne e le prime ballerine, per occuparsi di lui; e lui, questo zerbinotto, questo Demostene, quest'uomo di Stato in erba, dimenticava il banco dei ministri, trascurava le cifre del bilancio, per mandare di tanto in tanto un'occhiata assassina a lei; che ci voleva di più per colpire l'animo della marchesa Clementina?

Per qualche giorno la bella signora si crogiolò in una dolce malinconia, che era indizio in lei d'una passioncella nascente, e che le dava occasione di mostrarsi vezzosa in un altro modo, calando sugli occhi d'indaco le lunghe e morbide ciglia. Era nata nel suo cuore una certa curiosità profonda e tranquilla, che non somigliava punto a tutte le altre, mutevoli, impetuose e fugaci, di cui son seminati i giorni e rotti gli ozi d'una gran dama. Che cosa pensava di fare quell'uomo? Come avrebbe adoperato per avvicinarla, quel giovine uomo di Stato, che non era certamente un viaggiatore di salotto da potersi far presentare lì per lì, senza una ragione al mondo, ed anche dal primo che gli fosse capitato tra' piedi? Il vedere quel giovinetto, in certo qual modo già celebre, occuparsi tanto di lei, misuratamente e con discretezza alla Camera, liberamente e con assiduità di sguardo a teatro, non le dispiaceva mica, alla bella marchesa, annoiata da tante facili e quotidiane dichiarazioni a bruciapelo di vanagloriosi farfalloni; come non le era discaro di durarla un tratto colle lontananze, vo' dire con quel lavoro d'occhi e da lunge; fosse perchè cotesto la rifaceva di molti anni più giovane, fors'anco perchè le procacciava nuove occasioni a meditare per un'ora o due qual veste avrebbe indossata quella mattina al passeggio, o qual colore di stoffa le sarebbe tornato meglio quella sera a teatro.

Ma è detto che ogni bel giuoco dura poco; e la marchesa Clementina di Rocca Vignale, tanto assiduamente guardata, esplorata e contemplata dall'onorevole astronomo, incominciava a seccarsi del suo ufficio di stella. Perchè non si fa avanti? Sarebbe timido, per avventura? Poverino forse non sa a chi rivolgersi. Se potessi aiutarlo! Ma già, questi cavalieri che ci vengono intorno, son buoni a tutto, sempre disposti a servirci in tutto, fuorchè dove e quando ci preme.

Insomma, voi lo vedete, o lettori, colpita sulle prime da quella attenzione, poi diventata curiosa, la marchesa Clementina si era a poco a poco innamorata da senno, e quando si fu avveduta dello sdrucio che quel giovinetto di là dai trentacinque le aveva fatto nel cuore, lo confessò ella stessa, in un momento di necessaria espansione, ad una amica intima, confidente delle sue pene, la quale andò subito a rifischiarlo in una dozzina di salotti. Ariberti non le aveva ancora parlato, e quell'amore nascente, che poteva anche spegnersi in fasce, era già per le bocche di tutti. Della qual cosa po' poi non le importava un bel niente. Libera e padrona di sè, si godeva la superba gioia d'ignorare quello che altri dicesse alle sue spalle. C'era in lei un pochino della noncuranza di quelle matrone della Roma imperiale, tanto maltrattate da Svetonio, da Giovenale, da Persio Fiacco e da altri libellisti di quel tempo, le quali non sapevano, o non volevano sapere, che diavol fosse la pubblica opinione, e andavano per la loro strada, o viottola che fosse, sempre avanti, secondo i gusti e gli umori.

Spensierato del pari fu il nostro Ariberti con lei. Certe forme d'amore sono, per così dire, contagiose, e v'hanno donne le quali si amano ad un modo, come altre ad un altro, senza che la coscienza c'entri per nulla, e quasi per un tacito accordo tra il nostro cuore e l'istinto. Colto all'esca di tanta bellezza, la quale non chiedeva altro che di concedersi a lui, fu al solito, e pel solito spazio di tempo, l'uomo più felice della terra. Non vide che lei, non visse da quel giorno che in lei e per lei, amò a furia, si divorò avidamente la fama dei quattro o cinque discorsi che aveva recitati alla Camera, come un figlio di famiglia si sciala in brev'ora le dugentomila lire della eredità paterna; con isfarzo, con gusto, ed anco se volete, con un zinzino di filosofia pratica, ma poi?…

Ma poi, egli avvenne che il nostro innamorato si svegliò da quell'estasi al settimo cielo, e si trovò arnese logoro e quasi dimenticato, come il tizzo spento in fondo al camino d'un salotto, in cui si davano la muta ogni giorno quindici o venti scioperati suoi pari. Il risveglio fu lento e con parecchi tentativi di ritorno al sogno; cosa che a molti sarà accaduta, e riposando ed amando. Ma in fine, bisogna svegliarsi, tanta è la luce che penetra dalle imposte e tanto acute le voci con cui d'ogni parte vi chiamano le necessità della vita. Peccato! si sognava così bene. Eppure, è mestieri balzare dal letto, ficcare prosaicamente i piedi in un paio di pantofole e disporsi a fare tutto ciò che gli altri uomini fanno, vestirsi, radersi, asciolvere, annoiarsi, arrabbiarsi, stomacarsi, e va dicendo, proprio come il giorno antecedente, e come l'altro che verrà dopo, fino alla consumazione di quei pochi.

Una cosa, poi ch'ebbe riaperto gli occhi, una cosa non poteva mandar giù l'Ariberti. Come aveva egli potuto passar tanto tempo in mezzo agli sciocchi, e compiacersi di tante chiacchiere vuote di senso? In verità, più ci pensava, e meno gli veniva fatto di capacitarsene. Eppure, per tutto quei tempo egli non era mica stato colla benda sugli occhi e le orecchie turate! Ma già, tutte quelle stonature s'erano confuse per lui nella grande armonia dell'amore, come gli atomi danzanti nell'aria si confondono nella luce del sole.

Ma il sole ci ha i suoi riposi, pur troppo, ed anche l'amore ha i suoi opachi intervalli, come il palpito fosforescente delle lucciole. E le ombre vennero dopo quella gran luce; calavano lente, e gli occhi di Ariberti ebbero il triste benefizio d'un crepuscolo, che gli consentì di vedere come tutto gli si facesse squallido intorno, e come quella donna non fosse così sua, tutta sua, quale ei l'aveva veduta, o sognata.

La marchesa era sempre circondata da uno sciame di cavalieri, che sulle prime non davano troppa molestia ad Ariberti. Li considerava farvalle e calabroni, alianti e ronzanti intorno alla rosa, con insistenza bensì, ma senza pericolo, ma pronti a sparpagliarsi qua e là, ogni qual volta egli, ape privilegiata, s'accostasse al calice odoroso del fiore. Per dirla meno poeticamente, ma con più verità, gli parevano sciocchi, senza importanza veruna, e fino ad un certo segno gli tornava caro il vederseli dattorno e il dissimularsi in mezzo a costoro. Per altro, taluno di essi avevano troppa dimestichezza colla marchesa Clementina. Cortesi, amabili sempre con lei, lo erano tuttavia in una certa forma e con una galante disinvoltura, che non hanno sempre i signori aspiranti. Che fossero giubilati? Il dubbio attraversò una volta lo spirito di Ariberti, e da quel giorno non ebbe più pace. Perchè non se li leva da' piedi?—pensava egli tra sè.—E perchè ci stanno essi, con tanta amabile filosofia, senza impeti e senza rancori, fuochi che non divampano mai e che pure non accennano a spegnersi? Essi sono qui, in apparenza come ci sono io, a corteggiare la marchesa. Ma io, ardo, essi no; io sono un vulcano, ed essi… sarebbero vulcani in riposo?

Ariberti, come mi sembra di aver già detto, e come, del resto, lo avrete già riscontrato ne' fatti, non conosceva misura, e dopo aver tormentato a lungo sè stesso con quel suo dubbio increscioso, doveva anche tormentare un pochino la dama. S'intende che diede alle sue domande, la forma meno ruvida; ma infine, certe domande, temperate o no nella forma, sono sempre impertinenti nella sostanza. Ed egli, appena il dado fu gittato, ben se ne avvide alla cèra con cui furono accolti i suoi dubbi dalla marchesa Clementina.

—Di che vi lagnate?—diss'ella.—Conservo i miei amici. È questo infine un obbligo di buona compagnia, ed è anche una fortuna, per chi non vuol rimanere nella solitudine.—

E punto fermo; il nostro geloso non potè cavarne più altro. Ma pur troppo gli si radicò nella mente il sospetto che tutti quei Proci, meglio educati degli antichi, ma fastidiosi ad un modo, fossero gli antecessori suoi, che andavano e venivano, bevevano il tè, recavano le notizie, le voci e i pettegolezzi della giornata, parlucchiavano d'arte e di scienza, scoccavano un frizzo, dicevano una galanteria, profferivano il loro ossequio, e, qualunque cosa facessero o dicessero, profanavano l'amore che non sentivano più, e la dignità che non avevano avuta mai. Ed egli, incatenato dagli usi del mondo, aveva a recarsela in pace, e guardare tutte quelle facce sospette colla tranquilla compiacenza, con cui si guardavano, appiccati al muro, i vecchi ritratti di famiglia!

Per fortuna, il prescelto, l'ultimo, il regnante, era lui. Ma frattanto egli si sentiva crollare il trono sotto i piedi. Non era già un indizio gravissimo della sua decadenza l'essersi svegliato dall'estasi e l'essersi avveduto di quella Camera dei Pari che lo circondava? E un indizio ne tirava un altro; evidentemente il povero Ariberti perdeva terreno.

Si trattava di andare da lei al mattino, per barattare quattro parole senza ascoltatori importuni? La marchesa aveva l'emicrania. Un altro giorno ci aveva le sue visite. E quando non ci aveva le visite, o l'emicrania, c'era la modista da consultare.

—E sempre la modista!—-gridò egli un giorno, che non poteva più contenersi dalla stizza.

—Sicuro, la modista;—rispose la marchesa, con una tranquillità imperatoria che non ammetteva repliche.—Fareste anzi opera gentil di cavaliere ad accompagnarmi.—

Ariberti era rimasto un pochino titubante, non parendogli troppo dicevole di accettare un invito, che forse gli era stato fatto per mettere fine alla sua insistenza.

—Ah, ecco,—esclamò la marchesa, con accento d'ironia,—voi altri uomini gravi non vi degnate di entrare nelle nostre faccende, che chiamate superbamente frascherie femminili. Eppure, gli è proprio per queste frascherie che v'infiammate voi altri e scegliete le vostre regine.

—Signora,—disse Ariberti,—voi non avete mestieri di questi…. ammenicoli.

—Sicuro! potrei lasciarli da banda, e vestirmi dei vostri complimenti. Ma pur troppo, e per quanto io li accetti di buon cuore,—soggiunse la marchesa Clementina,—i complimenti non bastano. Sarei bella davvero, cogli abiti di un mese fa; senza contare che non avendo avuto bisogno, neanche un mese fa, di questi… amminicoli, e tornando indietro di questo passo, potrei contentarmi del mio vestitino d'educanda.

—Avete ragione,—rispose Ariberti, chinando la testa umilmente, e noi altri uomini gravi siamo pure i gran sciocchi. Se permettete, vi accompagnerò dalla modista, e vedrò d'imparare anch'io qualche cosa.—

Quella mattina la signora marchesa fece assistere il nostro onorevole ad una conferenza molto sugosa e istruttiva di trine, svolazzi, passamani, stoffe, guarnizioni, e va dicendo. Peccato che il Parlamento non avesse allora per le mani nessuna legge suntuaria intorno agli abbigliamenti donneschi, perchè l'onorevole Ariberti avrebbe potuto esserne relatore, e scrivere una ventina di pagine da far trasecolare la direttrice d'un giornale di mode.

Ma di ben altro si occupava il Parlamento, e l'onorevole Ariberti ne trascurava i lavori da un pezzo. Quel giorno, per l'appunto, egli avrebbe dovuto essere negli uffizi, per una discussione di qualche importanza, ed era invece a far l'uditore di una mercantessa di mode. Un altro giorno avrebbe dovuto studiare e prepararsi per un discorso di gran lena, perchè l'eloquenza non è mica un dono spontaneo della natura, come, forse, è la chiacchiera, ma si nutre di argomentazioni stringenti, si rimpolpa di esempi, si adorna di tutte le grazie dello stile, e vive anzitutto di quella scelta giudiziosa, che è figlia della meditazione, accoppiata al buon gusto…

In quella vece, gli bisognava predicare a braccia, come tanti cicaloni presuntuosi, e la sua fama ne scapitava assaissimo. Un po' di vecchia pratica, qualche ricordo classico e qualche scappata facile, lo salvavano ancora da tutti quei segni minacciosi in cui si manifesta la disattenzione dell'uditorio, ma non lo alzavano d'un punto nella stima de' suoi degni colleghi. Un suo antagonista (perchè Demostene non poteva già stare senza il suo Eschine) ebbe ad esclamare una volta: «fuoco di paglia!» e a commentare la frase, stropicciandosi allegramente le mani.

Egli sentiva, così in confuso, dentro di sè che la sua riputazione d'uomo politico ne andava di mezzo. Tuttavia come rimediarvi? Quella donna lo aveva ammaliato, ed egli non aveva la forza, nè il desiderio, di ripigliar la sua via. Così dicono che avvenga ai viaggiatori colti dal gelo sulle terre polari, che si sentono venir meno ed amano abbandonarsi al destino, senza far nulla per richiamare nelle membra torpide il calore e la vita. La marchesa Clementina, troppo amante di sè, avvezza agli omaggi degli uomini, come una dea pagana agli incensi, non avea tempo a pensare che tanta divozione doveva essere ricambiata con un po' di cura del buon nome di lui. Ed egli, poi, non sapeva staccarsi un giorno, un'ora, da quella inconsapevole maliarda; era geloso, pativa tormenti ineffabili, e facea sforzi inauditi per dissimulare la negra cura sotto l'apparenza di una cortese assiduità.

A questo proposito, il nostro innamorato aveva fatto un'osservazione importante, che egli tornava più accetto alla marchesa, quando era, o si mostrava, meno acceso per lei. Epperò, facendo forza alla sua indole vulcanica, si studiò di apparirle più misurato e più calmo.

Da principio lo studio gli riusciva difficile. Senonchè, bisognava fare di necessità virtù, ed egli ci si venne a mano a mano avvezzando, come il re Mitridate al veleno. Ci si rodeva un pochino di dentro, ma questi danni dovevano aver conseguenze lontane, ed Ariberti non badava che ai benefizi del presente. E così avvenne che, fortificato abbastanza nella sua rigidità diplomatica, quel Werther sulla quarantina incominciasse a vedere in nube il momento avventuroso in cui egli sarebbe stato tranquillo e disinvolto, come lo erano tutti i suoi degnissimi antecessori.

La marchesa, secondo si è detto, riceveva moltissima gente, tra cui forastieri in buon dato e gran personaggi della capitale. C'era inoltre per quattro o cinque sere della settimana il passatempo del teatro, e ad ogni tanto, venivano le solenni comparse dei balli. L'onorevole Ariberti era sempre in faccende, e un po' da per tutto, e spesso alla Camera… nella nota degli assenti.

Un bel giorno la Camera fu sciolta, e il paese ebbe la gioia delle elezioni generali. Era il redde redde rationem per l'onorevole Ariberti, che dovette andare, immaginate con che gusto, nel suo collegio, per farsi vivo cogli elettori. La marchesa aveva promesso di scrivergli, se non ogni giorno, almeno tre volte la settimana. Ma furono invece tre lettere in un mese. E mentre egli, tappato non senza fatica in una camera d'albergo, rubava due ore d'ogni giorno alle cure elettorali, pel suo epistolario colla marchesa, trascurando per lei la moglie del sindaco e del ricevitore delle dogane, leggeva la marchesa Clementina le quattro pagine fitte che la posta mandava ogni giorno sul suo tavolincino elegantemente incrostato di madreperla?

Io per me, conoscendo un pochino i suoi gusti superficiali, credo che si contentasse di leggere la sopraccarta.

CAPITOLO XX.

Dove il mio eroe incomincia a dar giù.

Il collegio elettorale dell'onorevole Ariberti non era molto disposto a confermargli il mandato. Il nostro eroe se ne avvide alla prima, e dovette conferire più volte co' suoi pochi ma fedeli partigiani, per ordinare le acconcie difese intorno alla posizione minacciata. Egli era nato bensì nel paese ma non ci abitava da un pezzo, e troppo di rado si lasciava vedere da' suoi bravi elettori. Era un facondo oratore; lo dicevano i giornali, ma la sua eloquenza non aveva mai voluto adattarsi a far l'ufficio delle frutte al pranzo magno di un sindaco, o a molcer l'orecchio d'un segretario comunale. E questi erano gravi peccati. Sta bene che se n'era pentito, e che aveva risoluto di parlare un po' da per tutto, perfino ai monelli di piazza, da una finestra di locanda; ma queste tarde rappezzature sarebbero giovate? Qui stava il busilli; e gli amici dell'onorevole Ariberti ne erano impensieriti non poco. Neanche il ministero lo sosteneva come avrebbe potuto e dovuto. Erano al potere gli amici suoi, amici che lo vedevano volentieri come il fumo negli occhi, e che si fecero un merito di moralità politica, lasciando l'amico in balìa del suo fato. «Non più candidature ufficiali» era il precetto del ministero, che lo messe fedelmente in pratica, nel collegio di Ariberto Ariberti.

Per fortuna del candidato pericolante, vegliava e lavorava Filippo Bertone. Qualche anno addietro aveva comperato un vasto podere di là da Mondovì la marchesa di San Ginesio, e ci andava a passare l'estate, facendo maternamente le vacanze col secondo dei suoi figli, che era nel collegio di Carcare, riputatissimo e degno della sua fama, com'erano in Piemonte, per bontà di studi e per larghezza d'opinioni, tutti i collegi tenuti dai padri Scolopii. Frati, sicuramente, frati, ed oggi è di moda bastonarli senza misericordia, come senza distinzione. Io pago un debito, dicendo de' miei maestri tutto il bene che so; anzi, mi affretto a correggere la frase impropria, perchè, volendo esser giusto, io non mi sdebiterò mai con quella brava gente, che m'hanno forse lasciato ignorante (e questo per colpa della mia cocciutaggine) ma che non si sono attentati mai di violare la coscienza adolescente del mio signor me, e non ne hanno poi fatto un codino. Il che avrebbero facilmente potuto, penserà qualche maligno, perchè la stoffa c'era. Donde, ribatto io, maggior lode a' quei poveri vecchi che io non involgerò mai nell'ostracismo comune. E chiudo la parentesi.

Grazie agli aiuti di quell'amico sincero e di chi gli voleva bene, la candidatura, che già pericolava, si raddrizzò. Filippo Bertone diceva a tutti: è un galantuomo, che non v'ha ingannati mai; eleggetelo. E l'autorità di Filippo era tale che vinse i più riottosi, cominciando dal medico condotto, che pizzicava di volteriano, e avrebbe voluto un uomo da mandar tutto a rotoli in quattro e quattr'otto, per giungere fino al farmacista, che voleva aboliti tutti i privilegi, tutti i monopolî, salvo, s'intende, quello di esser solo in paese a spacciar le sue droghe.

—È un uomo d'ingegno, ne convengo;—diceva il medico condotto;—ma al Parlamento, con tutta la sua eloquenza, che cosa ha fatto fin qui nella quistione religiosa?

—Niente, pur troppo; ma di grazia, ascoltate; era forse lui che dovesse metterla all'ordine del giorno? Dipenderà forse da lui che non ci siano più vescovi nelle città, nè parroci nelle campagne? Quando un imperatore romano ebbe abolito per decreto il gentilesimo, sapete voi dove andò a rifugio il dio Pane, e quanti secoli vi durò ancora il suo regno?—

Il medico battè le labbra, crollò le spalle, e non rispose parola.

Filippo Bertone diceva poi al farmacista:

—Togliamo i privilegi d'ogni genere; sta bene. Ma incominciamo a toglierli dal nostro paesello. Perchè non si abolisce il titolo e la umilissima riverenza al signor conte di Montiglio? È candidato alla deputazione, mi direte, e un titolo e una riverenza non guastano. Ma il suo programma politico, lo conoscete voi? Ci si legge egli proprio il paragrafo che il signor conte parlerà e voterà contro tutti i privilegi, da quello di re a quello di farmacista patentato?—

La lotta veniva diritta, ma era così amichevolmente data, e poi Filippo Bertone era un uomo di tal levatura (privilegio naturale, pur troppo, e a cui nessuna legge potrà mai dare lo sfratto) che il signor farmacista si messe a ridere. Cionondimeno, quell'ostinato non volea darsi per vinto.

—Capisco;—diss'egli;—capisco tutto… Ma una lezioncina al cavaliere Ariberti, a questo liberale che fa l'aristocratico…

—Eh via! signor Prospero; queste… cose lasciamole dire ad altri, o sciocchi, o cattivi, o l'una cosa e l'altra appaiate. Ariberti non è un aristocratico; o piuttosto lo è, sì, ma come voi e me, che non andiamo dal Pinta, a trincare e bestemmiare col primo che capita, ma ce ne stiamo in casa nostra a studiare, per tenerci al fatto di tutto ciò che esce di nuovo, per me in materia di fisiologia e di patologia, per voi in materia di chimica farmaceutica.—

Il signor Prospero non si dolse del paragone e non isgradì quello studio di chimica farmaceutica, che per lui si ristringeva a qualche partita a tarocchi, nella parte più riposta della sua dotta bottega.

Perciò si rimise in tasca la lezioncina che avrebbe voluto dare all'onorevole Ariberti, non senza ridere ancora una volta d'un grazioso paragone del signor Filippo, al quale il voler cambiare da Ariberti a Montiglio, per vendicarsi del primo di loro, o per dargli una toccatina, facea ricordare la bella impresa di quel brav'uomo che s'impiccò per far dispetto a sua moglie.

Venuto il giorno della prova solenne, Ariberto Ariberti uscì eletto al primo scrutinio, senz'altro aiuto fuor quello delle buone ragioni. Per molti elettori, poichè si ha a dir tutto sinceramente, le buone ragioni erano il meno, e la condiscendenza al desiderio di casa San Ginesio era il più; ma siccome da quella casa non erano usciti ordini, nè raccomandazioni che arieggiassero il comando, può ammettersi il ragionevole ossequio degli elettori campagnoli tra le cose lecite ed oneste, e gabellare la rielezione dell'onorevole Ariberti tra le più nette di quella nuova legislatura.

Proclamato vincitore, il nostro Ariberti avrebbe dovuto, secondo ogni norma di convenienza, recarsi a visitare la marchesa di San Ginesio e ringraziarla in pari tempo dell'aiuto liberalmente dato alla sua candidatura. Ma quantunque ci pensasse due o tre giorni su, e fosse convinto che tale era l'obbligo suo, pure non gli diè l'animo di farlo.

—Scusami, e trova il modo di scusarmi presso la signora marchesa;—disse Ariberti a Filippo Bertone;—io l'ho troppo amata in illo tempore e mi sentirei oggi troppo ridicolo, presentandomi a lei. Già, con te, vecchio amico, si può parlare alla libera e col cuore in mano…

—Ma sì, certamente.

—Or bene, dunque, Filippo mio, lasciatelo dire; io t'invidio.—

Filippo Bertone, a quelle parole del suo amico d'adolescenza, si fece in volto del colore che sapete. E non volendo ammettere, e non sapendo negare, tentò di sviare il discorso.

—Uomo debole!—diss'egli, mettendo amorevolmente le mani sulle spalle di Ariberti.—Non hai la tua stella polare a Torino?

—Sì, è vero;—rispose Ariberti con impeto, ma reprimendo in pari tempo un sospiro.

Il suo pensiero, infatti, ricorrendo a Clementina, tornava altresì alle lettere che aveva aspettato e che non aveva ricevuto. Che cosa importava di lui alla bella marchesa di Rocca Vignale? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore; il proverbio aveva proprio ragione. Inoltre, Clementina avrebbe potuto avvicinarsi anche lei, in quella occasione, al teatro della lotta elettorale, poichè possedeva per l'appunto un castello nelle Langhe, dov'egli avrebbe anche potuto dare una scappata, senza allontanarsi troppo dal suo collegio. Ma la signora marchesa, mentendo al suo casato, amava assai poco la campagna. Il suo castello era una bicocca, diceva lei: senza nessuna comodità per andarci e nessuna per abitarci; poi, quella gente zotica sempre dattorno; i dialoghi obbligati col castaldo e col parroco; la civiltà rappresentata solamente da un brigadiere dei reali carabinieri… no, no, la marchesa di Rocca Vignale amava meglio restarsene a Torino, a cantare nella vuota città i treni di Geremia, e ad aspettarvi l'occasione di qualche gita a Parigi, o ad una delle tante città di bagni (e di seccature) che sono le oasi estive dei viaggiatori, nel gran deserto d'Europa.

S'intende che, per questo capriccio della marchesa, anco Ariberti aveva rinunziato alla vita dei campi, che amava pur tanto e che gli sarebbe tornata così utile, per ristorarlo dalle fatiche e dalle molestie di tutto l'anno. Quid foemina possit! Già, per una donna amata si fa volentieri ogni sorta di sacrifici; ma il nostro Ariberti non potea rattenersi dal pensare talvolta, che qualche sacrificio scambievole non avrebbe mica guastato.

Quella considerazione, inedita sempre, unita ai dubbi, alle gelosie che ho già detto, era un assiduo rammarico, un cruccio implacabile, che bastava ad avvelenare tutte le gioie del nostro innamorato. Il quale, riconfermato onorevole, tornò finalmente a Torino, augurandosi una lieta accoglienza, a conforto di tante noiose giornate. E l'ebbe, infatti, più lieta e più affettuosa che egli non ardisse sperare, per modo che fu ad un pelo di caderle a' piedi e domandarle perdono di tutti i suoi vani timori, di tutti i suoi ingiuriosi sospetti.

Quanto al carteggio, che era stato così poco vivo da parte sua, la marchesa ci aveva un sacco di ragioni e sette sporte. «Del resto (conchiudeva, dopo averle sciorinate tutte), che cosa volete farvi de' miei scarabocchi? Non sapete voi l'essenziale?»

«E vada per l'essenziale!» pensò Ariberti che non l'aveva mai veduta così tenera, neanche nei primi giorni dell'amor suo.

Il lettore vecchio e scaltrito fiuta già un piccolo tradimento in queste tenerezze della marchesa. Ma io debbo affrettarmi a disingannarlo. Qualcosa veramente c'era, e questo qualcosa assediava la piazza coll'ardore dei venticinque anni e col luccichio d'un paio di spalline d'oro. Ma la piazza, quantunque avesse a che fare coll'artiglieria, non aveva capitolato; la dama si era contentata di lasciar dire, di stare a sentire, e ci si era divertita un mondo. Piacere d'odalisca, o di monaca, che dalle grate del suo serraglio sogna i romanzetti di fuori via, senza mettersi alla prova di tesserli!

Una cosa, per altro, è da ammettersi: che ad Ariberti un pochino d'assenza giova molto, nell'animo della marchesa. Egli veramente credeva l'opposto; ma non era così, e le tenere accoglienze di Clementina glielo avevano dimostrato. Chiederete come andasse la cosa; ma il dirvela come la sento mi condurrebbe troppo in lungo, e con danno della mia riputazione, perchè anzitutto dovrei esporvi la teorica della giusta misura dei cibi che vengono a noia, anche quando siano pernici, e dei necessarii riposi che dobbiamo, concedere al cuore come al palato; tutta roba da tirarmi addosso le maledizioni delle anime sensitive, le quali non vogliono vedere nell'amore un fatto fisiologico, soggetto alle medesime leggi che governano tutte le manifestazioni della vita in questo povero mondo.

Dirò invece, andando per la più spiccia, che il mio Ariberti era opprimente in amore, e che la donna amata da lui poteva di tanto in tanto sentire il bisogno di rifiatare. La società non vuol più saperne dei Werther; anzi soggiungo, pensando alla signorina Carlotta, che la società non li ha amati mai, e c'è voluto tutto l'ingegno di qualche scrittore coi fiocchi per farli piacere dopo morti. Ragazzi, badate a me, non vi gettate alle esagerazioni; siate misurati nelle cose del cuore e padroni di voi medesimi: cansate le dimostrazioni d'un amore eccessivo, come il diavolo, secondo si narra, suol cansare l'acqua santa.

So bene che il mio consiglio piacerà poco, anzi non piacerà affatto a nessuno, e segnatamente alle donne. Sono esse difatti che interrogate lì per lì, vi diranno di voler tutto, o nulla. Ma queste son chiacchiere, e se volete, anco galanterie; ma guai a pigliarle in parola; si ama con furia, come il cuore vorrebbe, e si diventa stucchevoli. Misura, dunque; calor di parole, non dico di no; anzi, chi più ne ha ne metta, perchè fa in amore l'ufficio medesimo delle carote tostate nel brodo, che gli danno buon colore, e non gli mutano il gusto. Essendo, com'io v'auguro, più padroni di voi medesimi, non commetterete tante di quelle corbellerie che vi fanno diventar noiosi, o ridicoli, e non vi guasterete coi bollori quella cara vernice di gentilezza, che entra per due terzi nel pregio della maiolica umana. Son chinesaggini, lo so; anche a me parvero brutte, quando avevo vent'anni; ma ora ho capito che tutto è fragile quaggiù, e che il «posa piano» di rigore potrebbe scriversi a lettere di scatola su tutta la crosta del globo.

Se mi sente Filippo Bertone sono un uomo spacciato. Ma Filippo fa eccezione, perchè… volete saperlo? perchè ha trovato un'altra eccezione. S'incontrano di questi uomini e di quelle donne pel mondo, come trifogli di quattro foglioline pei prati. Ma dite, non le vi paiono stranezze? I Greci, quando s'abbattevano in alcuna di tali figure, la mettevano subito nel Pantheon e le rendevano onori divini, ma dopo averle assottigliate ben bene le estremità; perchè, secondo loro, gli Dei radevano qualche volta il suolo co' piedi, non lo premevano mai.

Lasciamo dunque Filippo Bertone e la marchesa di San Ginesio nel loro
Olimpo, e parliamo di cose terrene.

Il nuovo Parlamento era fatto. Ma le elezioni erano tornate fatali al ministero riparatore, un po' perchè non aveva riparato a niente, e molto perchè gli avversarii suoi avevano dalla loro quasi tutte le autorità provinciali, sempre più tenere del vecchio che del nuovo gabinetto, il quale era venuto su d'improvviso e non affidava nessuno della propria stabilità. L'onorevole Ariberti veniva per tal modo a trovarsi in un bivio curioso, tra un ministero pencolante di amici suoi, che non lo potevano patire, e che lo avevano in più modi offeso, ed una numerosa schiera di vecchi avversarii, che, disponendosi a rovesciare il ministero, incominciavano a lisciar lui, per farsene un alleato.

C'era, come i lettori ben vedono, da aver occhio alla penna. Ma il nostro Ariberti non doveva impensierirsene troppo, perchè, una settimana dopo il suo ritorno in Torino, già aveva altro per il capo. Ad una delle prime veglie della marchesa di Rocca Vignale, si era veduto tra i piedi un nemico, quel tale ufficialino che sapete, e che pareva esser là in casa sua. Forse era effetto di giovanile jattanza, fors'anco la gelosia faceva travedere Ariberti; ma così parve al nostro onorevole, e la sua pace andò in fumo.

L'ufficialino era biondo, bello, e tutto l'altro come il re Manfredi, salvo la cicatrice sulla fronte. Non era un'aquila, ma aveva ingegno quanto basta per vivere nel bel mondo e di quella tal qualità che piace meglio alla gente. Era di belle maniere e tratto tratto sapeva anche dire una cosa spiritosa, o sua o d'altri, spiegare una sciarada, suonare una polka sul cembalo, e dirigere una contraddanza.

All'occorrenza, cantava anche, con una vocina da tenore e con garbo veramente singolare. Per giunta, lo dicevano un prode soldato, e il generale comandante dell'arma ne teneva di conto.

O perchè non se ne stava egli tra i suoi? La signora generala non aveva dunque più occhi, da lasciarlo andare randagio a quel modo, come il leone in busca? Sicut leo rugiens quaerens quem devoret, dice la Scrittura. Imperocchè, così doveva essere, non altrimenti. Quel biondo e bello artigliere «che pareva Gabriel che dicesse: ave» scorreva la campagna per provare i tiri di rimbalzo, radenti e ficcanti, del suo repertorio.

Immaginate che rabbia fosse quella di Ariberti, quando si vide quel giovinetto per la seconda volta tra' piedi; rabbia tanto più concentrata, in quanto che il nostro innamorato doveva, come suol dirsi, inghiottire amaro e sputare dolce. Difatti l'esperienza gli aveva insegnato, sebbene un po' tardi, a dissimulare la gelosia, brutto male, peggio dell'itterizia, la quale vi tinge il volto di giallo, mentre la gelosia, ve lo tinge di scimunito. E doveva starsene lì fermo impassibile, sereno, e sapere anche all'occorrenza negare l'interno struggimento come il fanciullo spartano, a cui la volpe rubata stracciava le carni coi morsi. Un brutto impiccio, non è egli vero? Ma già, con quel maledetto viscere tra le due ali del polmone, che non vuol mai obbedire al cervello, come si fa? Bisogna recarsi in santa pace i tormenti ed augurarsi che non diventino insopportabili addirittura. E frattanto, addio severa allegrezza delle opere forti; addio estasi dei concepimenti sublimi; si va a far le pazzie del cuore, si torna ragazzi, ma pur troppo senza averci più le inconsapevoli attrattive e le facili risorse dell'età giovanile.

Or dunque l'onorevole Ariberti era costretto a godersi quella cara compagnia, o concorrenza, come la chiamerebbe un mercante, o ridosso, come la direbbe un bottegaio. E il gentile alunno di Marte appariva così tenero, cascante e vezzoso, che la stessa marchesa di Rocca Vignale, assuefatta a simili svenevolezze, e donna da non disdegnarle, ne era impacciata non poco. Ella non riusciva ad intendere se Ariberti si fosse avveduto e ingelosito di quelle adorazioni; lo sospettava, vedendolo così rattenuto, ilare in vista e cortese, ma sempre in guardia contro sè stesso; ed era naturale che volesse sincerarsene, temendo che da un momento all'altro gli morisse sulle labbra quel sorriso sforzato e che egli ne facesse qualcuna delle sue.

Per altro, non c'era pericolo che il nostro eroe uscisse per allora dai gangheri. Certo con vent'anni di meno, avrebbe dato nei lumi, tirato verbigrazia in disparte il suo uomo per dirgli chiaro e tondo: Signore, qui non c'è posto per due: vogliamo giuocarcelo? Ma a quarant'anni, e con tutta l'esperienza di questa rispettabile età, gli era un altro paio di maniche. Il sangue ribolliva nella caldaia, ma la ragione invigilava al coperchio, ricordandogli ad ogni istante com'egli non dovesse, con imprudenti sfuriate, far torto al buon nome della marchesa, nè alla sua propria dignità, e come egli fosse invece il caso di stare in cervello, di avere un occhio al cane e l'altro alla macchia.

E studiava, il pover uomo; oh, se studiava! sulla leggerezza delle donne e sulla melensaggine degli uomini. Nè io starò a ripetervi tutti i pensieri che si succedettero nella sua mente, perchè voi già li indovinate, e perchè essi non sono necessarii allo svolgimento della mia storia. Tutti questi monologhi si rassomigliano in cotesto, che non concludono mai e non cavano un ragno da un buco.

Ora siccome la tranquillità dello spirito non si può fingere a lungo, e spesso avviene che la maschera pesi sul volto, l'onorevole Ariberti incominciò ad amare la solitudine, e trovava sempre qualche pretesto per vedovare della sua presenza le conversazioni della marchesa. Per contro, nessun mutamento essenziale nelle consuetudini di lei, che era sempre quella di prima, un po' vana, ma contenta, di possedere il suo schiavo e di vedere come l'impero della propria bellezza su lui non fosse scemato. E in quelle ore di cielo, in mezzo a quelle estasi che egli avrebbe voluto eterne, il povero schiavo si sentiva qualche volta arcanamente turbato; e la guardava fisso negli occhi, come per rintracciarvi un'immagine diversa dalla sua; e lo assaliva un fiero desiderio di stringerla, di soffocarla quasi, perchè avesse a confessare… Che cosa? Non era egli per avventura un po' matto?

CAPITOLO XXI.

In cui si sciorina la teorica delle lune.

Così voleva e disvoleva, dubitava, credeva e tornava a dubitare, amando quella donna con una veemenza che sentiva del feroce. Gli amori in cui entrano i sensi per la massima parte, son tutti così. Lo spirito ci avverte di stare in guardia, e si affanna a trovar sempre nuove cagioni di sospetto, che disgraziatamente nessuna logica è più buona a distruggere; ma la bellezza ci attrae, c'involge, ci penetra fino al midollo, nè troviamo più modo di riaverci, di esser padroni di noi. Ed era così bella costei, con quella testolina briosa, quel collo di cigno, e quelle forme flessuose! La serpe lo aveva chiuso nelle sue spire ed egli ne sentiva il fascino; si dibatteva impaurito, e non avrebbe osato spiccarsene. Pure, non era mica la donna sognata da lui a mente libera, la donna amante ed austera, nella cui dignità potesse giurare e nel cui affetto fidarsi come in cosa di cielo. Dio immortale! Ma perchè si era egli abbattuto in costei? E innamorato pazzamente, sdegnoso e raumiliato ad un tempo, fremeva dentro di sè, non volendo confessare la sua debolezza, che pure gli traspariva dagli occhi.

Povero martire di sè medesimo! Io che non gli voglio un bene sviscerato e non lo adulo punto, come avete veduto, ma che mi curo di lui come il medico dell'ammalato, a cagione della malattia, lo compiango sinceramente e dal profondo dell'anima.

La tortura andava per verità un po' troppo in lungo. Il rivale gli era sempre tra' piedi. Inoltre, un nuovo dubbio si aggiungeva, per dar noia ad Ariberti. Giudicatene voi. Che il biondino si trovasse in tutte le feste a cui andava la marchesa Clementina, si capiva, perchè non erano molte e il bel mondo torinese non era così ricco di numero, da potersi rinnovare ogni volta, come l'uditorio di un teatro di Parigi o di Londra. E a proposito di teatri, era anche naturale che l'ufficialino si trovasse al Regio, in quelle sere che la marchesa di Rocca Vignale soleva essere nel suo palchetto. La cosa poteva piacer poco ad Ariberti, che doveva vederselo ogni volta da fianco, visitatore importuno, ma in quel fatto non c'era niente d'insolito, e il nostro geloso doveva portarselo in pazienza. Ma qualche volta la marchesa Clementina andava al D'Angennes, al Gerbino, o ad altro teatro di prosa, non pigliando norma che da un capriccio passeggero, o da un invito di Ariberti, che aveva l'arte di non farne mai un giorno prima. E andava col cuor contento, il nostro eroe, in quei teatri di second'ordine, perchè là, grazie al cielo, non li avrebbe seguiti quell'altro. Ma no; finiva il second'atto, e una mano traditora apriva discretamente l'usciolino del palco. Chi era? Lo indovinate alla prima; il biondino, sorridente, amabile, e carico per soprappiù di notizie del mondo elegante, che piacevano tanto alla marchesa Clementina; mentre lui, Ariberti, non ci aveva che i ragguagli della Camera, e la marchesa da qualche tempo non s'occupava più di politica.

Una, due, e andiamo là, fino a tre volte, pensò che quelle apparizioni fossero opera del caso. Per altre due o tre, immaginò che il giovinotto, non vedendo la marchesa al Regio, facesse la ronda in tutti gli altri teatri. Da ultimo sospettò che ci fosse un'intesa tra i due. Il proverbio gli diceva che a pensare il peggio ci s'indovina di sicuro. E allora soggiungeva tra sè: la donna è fatta così; di due uomini ne inganna sempre uno. Io sono il primo per ordine di tempo; di certo inganna me. Saranno scherzi, ammettiamolo; ma sono scherzi pericolosi. Ah, qui ci vuole un rimedio, e bisognerà giocare d'astuzia.

Ne aveva pensata una da maestro; ma era un poco grossa, e il nostro Ariberti, che amava il giuoco onesto, non poteva risolversi a mandarla ad effetto. Intanto, alla Camera si preparava una battaglia campale, ed egli ci si buttò a capo fitto, sperando di trovarci qualche giorno di oblio.

Il Ministero non si reggeva; troppi erano e compatti gli avversari; gli amici, parte disanimati, parte titubanti e si temeva che avessero a girare nel manico. Ariberti ebbe pietà degl'ingrati, e, colta l'occasione a volo, improvvisò un discorso, in cui versò a piene mani la passione, l'ironia, il sarcasmo, la veemenza, il calore ond'era tutto compreso. Rianimò i timidi, fulminò i traditori e gli ambigui, rinfacciò agli avversarî la loro politica fiacca e la loro amministrazione partigiana, opponendovi quella del ministero liberale, che non aveva dato un passo sulla via dell'arbitrio, che non aveva rimosso un pubblico ufficiale, anche sapendolo ligio ai suoi nemici e loro fido strumento nelle elezioni generali, bastandogli il conforto della sua coscienza, unico usbergo contro le male arti avversarie ed unica sicurtà che amasse dare delle sue intenzioni al paese. Efficacissimo nel dipingere i mali che l'amministrazione cessata aveva cagionati, fu semplice e schietto nello esporre quel po' di bene che il ministero s'era ingegnato di fare; virile nelle accuse, e femmineo nel movimento degli affetti, ebbe lampi di meravigliosa eloquenza nella sua perorazione, scosse l'assemblea, infiammò le tribune, e la maggioranza dei voti suggellò il suo trionfo nella vittoria del ministero, che ancora il giorno avanti si riteneva spacciato da tutti.

Per qualche giorno l'onorevole Ariberti tornò ad esser l'eroe del campo parlamentare. I ministri, che egli aveva così efficacemente sostenuti, sentirono l'obbligo di mostrarsi cortesi verso colui che poteva ben dirsi il loro salvatore. La gratitudine, si sa, non è la prima, nè la più coltivata, tra le virtù degli uomini, e segnatamente degli uomini politici. Ariberti non lo ignorava, egli che in un punto notevole del suo discorso si era anzi affrettato a chiarire la sua posizione di aiutatore spontaneo e senza secondi fini. «Io non sono (aveva detto) l'amico dei ministri; odio gli ingrati, odio gli immemori dei servigi che questi uomini hanno reso, in tempi difficili come i nostri, alla patria. Se fossero forti e sicuri del vostro voto, come lo sono della bontà della causa loro, tacerei, lasciando agli amici della ventura il gradevole ufficio di appoggiarli senza fatica; ma li vedo assaliti da una parte, mal difesi dall'altra, e sento rivoltarsi qua dentro la mia coscienza di uomo e di cittadino».

Queste parole, che avevano sapore «di forte agrume» e per gli avversari dichiarati e per gli amici tiepidi del ministero, non dovevano nemmeno riuscire troppo dolci per quest'ultimo. Sopratutto la frase «odio gli ingrati» era un'arma a due tagli, da cui i vecchi amici di Ariberti toccarono anch'essi la loro brava scalfittura. Donde la necessità riconosciuta di fargli carezze allora, e non solamente per lo aiuto inatteso che egli aveva recato, ma eziandio per quello che se ne potevano ancora ripromettere. E tutto questo egli faceva per bontà d'animo insigne, senza chieder nulla in compenso. Nessuna preghiera gli era stata fatta, nessun concerto era stato preso, nessun portafoglio offerto in extremis. Per dire la verità, non avrebbero neanche potuto farlo, senza aver l'aria di offrire a lui ciò che eglino stessi erano già in procinto di perdere.

—Ecco una buona pasta d'uomo;—dissero i ministri tra loro;—anzi una stupenda macchina da parole. Ci serve egregiamente per fulminare i nostri avversarii, e non ci domanda nulla per sè. Il meno che possiamo fare è di dargli un po' d'unto.

Perciò gli furono attorno a ringraziarlo, a fargli un subisso di proteste amorevoli; lo avevano sempre stimato un grande oratore; riconoscevano ora in lui un amico sincero; dicesse quel che voleva, consigliasse quel che credeva più acconcio; essi niente desideravano di più, che di seguire i suoi consigli, di fare il piacer suo in ogni cosa.

Ariberti parò modestamente quella raffica di complimenti, assaporò dietro di sè la sua gloria, ringraziò, promise che avrebbe fatto altrettanto alla prima occasione, e se ne andò, disprezzando un pochino di più i suoi vecchi amici in particolare e gli uomini in generale, ma con quel filosofico disprezzo, scevro d'ogni amarezza, che si concilia così bene colla soddisfazione interna dell'uomo ossequiato.

Quel giorno ed altri parecchi, il trionfo oratorio di Ariberti e la vittoria del ministero furono il tema di tutti i discorsi. Nel salotto della marchesa Clementina si andava a gara per inchinare il Demostene, il Marco Tullio redivivo. La signora evidentemente godeva di quelle incensate che si davano al suo onorevole amico, e per tutta una sera non ammise che si parlasse d'altro fuorchè di politica.

Così voleva la moda. Anche il cembalo tacque, e l'alunno di Marte dovette rassegnarsi a far la figura di un satellite di Giove.

Il trionfo di Ariberti era pieno; dopo gli evviva delle moltitudini, ci aveva ancora il sacrifizio in Campidoglio, e la vittima.

Quando la marchesa Clementina ebbe modo di trovarsi a quattr'occhi con lui, gli disse:

—Cattivo! Non dovrei volervi più bene. Come va che non mi avete avvertita che facevate un discorso?

—Vi giuro, Clementina,—rispose egli prontamente,—che non sapevo di dover parlare. Il desiderio ci era da qualche giorno, e le idee mi brulicavano in mente, non lo nego; ma quanto a risoluzioni, non ne avevo fatto nessuna, e preparativi anche meno.

—Sì, sì!—ripiglio la marchesa;—crediamolo Ora capisco perchè da un mese in qua eravate sempre così concentrato e senza parole.—

Questa osservazione della marchesa innocente per sè stessa, e tale in ogni altra occasione da non essere avvertita quasi, fu un colpo crudele pel cuore di Ariberti. Come? pensò egli: e può ancora ingannarsi in tal modo? non avere intese le ragioni che mi facevano soffrire? E da questo po' di fumo, che qualcheduno mi invidia di certo, io ci avrò dunque guadagnato ch'ella non penserà mai a levarsi quel noioso aspirante d'attorno?

L'aspirante, dopo quella sera, in cui era rimasto ecclissato, non si lasciò vedere per due o tre giorni. Ma ricomparve pur troppo, e fu festeggiato, e se non gli si domandò il perchè di quella lunga assenza, Ariberti potè argomentare che non occorresse davvero; essendo come sottinteso in quelle graziose accoglienze.

La marchesa fu per tutta la sera amabilissima coll'ufficiale; se per umanità verso un frequentatore della sua casa, che era stato assente più del consueto, o per capriccio donnesco, non importa cercare. Del resto, il giovinetto portava un rotolo di musica, fatta venire a bella posta da Vienna.

Cosa innocente, lo so. Inoltre, alla marchesa premeva molto, ed anche questo va da sè. Ma il nostro Ariberti in quella materia era stato licenziato dottore, ed intendeva benissimo e ricordava per propria esperienza che cosiffatti servizioli fanno parte di quella servitù galante, che, una volta accettata, porta obbligo di ricompensa. O perchè quella musica, di cui Clementina aveva tanto bisogno, non era stata chiesta a lui, o direttamente commessa al venditore? Innocente finchè si vuole; ma intanto, una cosa era certa, che quel servizio musicale non sarebbe stato profferto da una parte ed accettato dall'altra, quando Ariberti e la marchesa erano nella luna di miele. Imperocchè, bisogna riconoscerlo, anche l'amore ci ha le sue lune.

Queste malinconie gli stettero chiuse in petto per due o tre giorni; finalmente vennero fuori. Ed ebbe il torto a lasciarsele sfuggire, perchè la marchesa Clementina ne fece le più matte risa del mondo.—Oh bella! gli disse: v'intendete anche di musica! E quando mai mi avete portate le novità degli editori di Milano, di Parigi o di Vienna, perchè io potessi sapere che anche questo era affar vostro? Amico mio, non facciamo bambinerie; la cura di portarmi un quaderno di musica, o un giornale di mode, va lasciata a questi cavalierini senza importanza, che dopo tutto non saprebbero far altro. Voi, curate la vostra dignità d'uomo politico, e pensate a far dei discorsi alla Camera.—

Queste ragioni non persuadevano molto Ariberti, il quale, incocciato nella sua tesi, le sciorinò la teorica delle lune. Ed ella, non sapendo più che cosa rispondere, s'appigliò al comodo espediente di andare in collera. Per la prima volta furono dette da una parte e dall'altra delle parole pungenti; a lei venne il mal di capo; egli prese il cappello e la seduta fu sciolta senz'altro.

La sera, l'ufficialino doveva andare dalla marchesa per provare la musica. È naturale, quando la musica c'è, bisogna provarla. Ma quella sera la marchesa Clementina ci aveva i nervi e la musica dormì sul cembalo. La conversazione languiva, e il giovinotto, che era un compito cavaliere, dopo una mezz'ora di chiacchiere, in cui non aveva lasciato trapelare il menomo malumore, si accomiatò. Ariberti, che era presente, fu grato a lui della partenza, a lei del mal di nervi, che gli era parso simulato; per altro, quando vide che la signora stava grossa con lui, tornò a fare quello che aveva fatto nel giorno, ripigliò il cappello, e via, un'ora prima del solito.

—Evidentemente il torto è mio;—-pensava egli, scendendo le scale.—Il giovinotto è più gentile e più tranquillo di me, e Clementina non tralascerà di farne il raffronto a mio danno. A mio danno, capite? perchè io non ci ho il cuore in pace, come quell'altro. Non c'è che dire; le donne non amano gli innamorati per davvero. Li vogliono amanti, sì, ma riveduti, corretti e passati allo staccio della galanteria.—

E si adirava, così pensando, ma senza un costrutto al mondo. Romperla non voleva, piegarsi non sapeva; e frattanto si beccava il cervello. Ma da quel giorno incominciò a non veder più così brutti i consigli del tentatore, e ciò che prima gli sarebbe parso una viltà, venne a parergli uno stratagemma, degno di Annibale o di Giulio Cesare.

Il ministero ebbe il suo oratore per niente o quasi meno di niente. Figuratevi che a fare dell'onorevole Ariberti un ministeriale fradicio, bastò… mi vergogno a dirlo… bastò… insomma, poichè la debolezza è sua e la verità non si deve tacere, dirò chiaramente che bastò un cambiamento di guarnigione.

Infine, o che male c'era? Il leggiadro alunno di Marte non insidiava forse la sua pace? E non aveva forse veduto che il posto era preso? L'andava dunque da galeotto a marinaro. Quegli aveva scavato la mina, ed egli la contromina. Non si trattava adunque d'altro, che d'una astuzia di guerra. Almeno, il nostro eroe la gabellava per tale, forse per soffocare il rimorso.

Del resto, se è vero che è bene quel che riesce bene, nessuna cosa potrebbe dirsi migliore di quella perchè fu fatta con una prontezza singolare e non diede argomento a sospetti. E tuttavia Ariberti non aveva la coscienza tranquilla; di guisa che volle sentire l'opinione del suo amico Filippo, la cui rettitudine andava di pari passo colla umanità, nel senso antico, e dirò così, terenziano del vocabolo.

—-Male,—gli disse Filippo, appena ebbe udito il bel colpo del suo vecchio compagno;—tu hai commesso… scusami, sai?…

—-Oh, dillo pure liberamente, una viltà. Me lo aveva già detto la mia coscienza.

—Vedi? E il peggio si è, che ne commetterai delle altre.

—Oh, questo, poi…

—Sì, pur troppo, senza avvedertene e per avertene a pentire dopo il fatto. Perchè il male, amico mio, sta in questo, che ella non era donna per te, come tu forse non eri uomo per lei. Vi siete veduti e amati a occhio, senza conoscervi addentro l'un l'altro. Ora io penso che a questo modo possano incontrarsi benissimo le comete, ognuna delle quali ha poi da seguitare la sua strada, non due creature umane, che hanno da vivere insieme la bellezza di tante giornate, e, se Dio vuole, anche di tante olimpiadi. Siete troppo diversi d'indole e di consuetudini; io lo aveva già indovinato. Tu hai forse ragione a lagnarti di lei, che non si mostra austera come tu la vorresti; ma volta la carta, come dice il giuoco de' bambini, e vedrai che ella non ha tutti i torti, se pensa che tu non ti pieghi alle sue consuetudini e non ti fai abbastanza giovane per lei.

—Pur troppo non lo sono più!—disse Ariberti sospirando.

—Non è in questo senso, che io adoperavo il vocabolo. Dicevo che tu non hai voluto, o saputo, inchinarti alla sua misura, acconciarti alle sue abitudini. Amico mio, la donna e l'uomo non sono già due mulini che possano macinar sempre amore, per tutte le ventiquattro ore del giorno. I cuori, più particolarmente incaricati di questo gratissimo ufficio, hanno mestieri delle loro fermate; e i loro padroni, oltre il nutrirsi e il dormire, fanno altre cose parecchie nel mondo. Tu, per esempio, fai il deputato, ed essa fa la gran dama; tu hai l'ambizione, che è la vanità delle cose reputate grandi; essa la vanità, che è l'ambizione delle cose credute piccole. Dimmi su; oggi, dopo qualche anno di incontrastato possesso, sei tu forse quello dei primi giorni? Vivi al suo fianco, ti sente ella vicino a sè, dovunque ella vada e qualunque cosa ella faccia? Capisco che quello era un gittar via il tempo alla grande; ma infine, tu non lo perdi più, come prima.

—Sicuro!—notò con amarezza Ariberti.—C'è un altro che lo può perdere… se pure è vero che lo perda.

—Ma! che debbo dirtene io? Pur troppo la va così. La dama vorrà bene mettere a frutto le sue ore bruciate. E quando tu non fossi più… quel che sei, e fosse un altro, un successore, in tua vece, credi pure che gli accadrebbe lo stesso; e così via via ad altri parecchi, fino all'ultimo della discendenza, sotto il cui regno stracco se ne partano i grilli dal capo, e sottentrino altre cure, od altre debolezze.—

Al nostro geloso quella diagnosi amatoria piaceva poco, quantunque la sentisse in cuor suo profondamente vera. Tutta quella fila di successori gli dava maledettamente sui nervi, come a Macbeth la discendenza di Banquo, veduta attraverso lo specchio magico, nella caverna delle streghe.

—Parli per tua esperienza?—chiese egli, con accento da cui traspariva l'umor piccoso della bestia.

Filippo lo guardò un tratto nel mezzo degli occhi, come per sincerarsi se era lui che parlava, e se parlava da senno.

—Ecco una cattiveria;—diss'egli finalmente;—una delle male pieghe del tuo spirito.

—Eh via! L'hai presa sul serio? Ritiro la frase.

—Sta bene; ma sappi, a tua confusione, che le malattie morali, come le fisiche, io le studio sugli altri.—

Filippo aveva ragione. Il suo amico Ariberti, commessa quella prima viltà, ne fece altre ed altre in buon dato. Oramai sullo sdrucciolo c'era. Da principio gli parve di aver sospettato a torto, perchè la marchesa non si era punto turbata per quel fulmine a ciel sereno della partenza dell'artigliere. Ed anche questi era tranquillo, sereno, ilare, quasi; scherzava intorno al suo allontanamento da Torino, come avrebbe scherzato su d'una perdita al giuoco, che può dare un pochino di noia, ma che non deve offuscare lo spirito d'un gentiluomo. Gli rincresceva sicuramente della buona società a cui gli era mestieri di rinunziare; ma anche questo rammarico lo si vedeva cincischiato, lì, a fior di labbra, un po' per complimento, un po' per abitudine d'infilzar parole e tener vivo il discorso.

Così tranquillo, lui, quel vagheggino tutto vezzi, occhiate e sospiri! Ariberti non sapeva che pensare di tutta quella serenità; e ci fu un momento che gli passarono per la fantasia certi dubbi, di commedia, di tradimento, e che so io, donde la figura della marchesa Clementina gli usciva appannata non poco. Se non che, la simulazione si tradisce qualche volta, e l'umore dell'ufficialino, nei quindici giorni che rimase ancora a Torino, vedendo la marchesa coll'usata frequenza, non lasciò trasparire nessun mutamento. E allora i sospetti si dileguarono; Ariberti si persuase davvero di aver preso una cantonata.

Ma ohimè, come potete argomentare, i suoi mali non erano finiti; anzi, se debbo dirvela schietta, erano a mala pena incominciati. Rimosso il primo pericolo, ne sopravvenne un secondo. È nell'indole del secondo di venir sempre dopo il primo, come è in quella del primo di presupporre mai sempre un secondo. Ora, il secondo pericolo di Ariberti fu un celebre tenore, che faceva andare in visibilio la gente e stemperarsi per dolcezza infinita il sesso più debole. Non bastò che il tenore mandasse Clementina in broda di giuggiole col suo «A te, o cara, amor talora» dai lumi della ribalta; fu mestieri che, grazie all'esempio dato dalle più audaci regine dalla moda, il gentil Puritano andasse a ripetere i suoi prodigi un po' più da vicino, e proprio nel salotto della signora marchesa.

Come seppe di quell'invito, l'onorevole Ariberti perdette il lume degli occhi e fece uno sproposito. Vo' dire che le rimproverò l'ammissione del cantante in sua casa; e, poichè era avviato, non tacque il dispiacere che gli cagionavano tutti i farfalloni che ella riceveva di continuo, tutti gli adoratori che ella degnava di uno sguardo e via discorrendo, come coi chicchi del rosario. E avendo ella risposto tra l'altre cose che il bello è il bello e deve piacere a tutti, al nostro geloso gli venne sulle labbra il nome di certa imperatrice romana, che doveva aver detto, o pensato, qualcosa di simigliante.

Maledetta erudizione! Non hanno mica torto le donne a non volersi impacciare coi dotti.

La marchesa Clementina, che ci era cascata, rizzò a quelle parole la sua testolina di serpe, e con voce sibilante dallo sdegno, saettò sull'impertinente una frase, che sapeva un po' di francese, ma più ancora di pepe.

—Siete un miserabile.—

CAPITOLO XXII.

Nel quale è dimostrato che a quarant'anni non se ne hanno più venti.

Era questa la risposta che egli si meritava? Alcuni diranno di sì, altri di no; il narratore non ardisce dare un giudizio. In dubiis abstine.

Certo, era questa una brutta chiusa all'amor suo. Ariberti non aveva, come suol dirsi, un'anima di ferro; appariva anzi uno spirito debole, sempre dubbioso tra due partiti, sempre vagabondo tra mille pensieri; e questo assai più per esuberanza di fantasia, che non per vera fiacchezza d'indole. Or dunque, i suoi momenti di dignità li aveva anco lui; un po' teatrali, se volete, ma appunto per ciò maggiormente notevoli.

Si alzò, comprimendosi il petto che pareva volesse scoppiargli dalla rabbia improvvisa, e muto, guardando la marchesa con occhio in cui si dipingeva tutta la nobile tristezza di un cuore offeso che non usa vendicarsi contro una donna, fece un profondo inchino e si allontanò.

Sperava fino all'uscio, che una voce lo richiamasse; poi sperò fino all'anticamera; ma invano; Clementina lo lasciava partire, e, a giudicarne dalle parole corse tra loro, forse per sempre. Ma anche la marchesa era accasciata sotto il peso delle parole che aveva profferite in quell'impeto subitaneo di sdegno. Epperò non fece, non tentò nulla per richiamarlo; non pensò neppure, io credo, che la cosa fosse da farsi e che il non farla potesse aver conseguenze così gravi. Ed egli uscì non trattenuto, scese le scale, varcò la soglia del portone e si trovò, quasi senza saper come, in istrada.

Andava oltre, davanti a sè, ignaro di ciò che faceva, come di ciò che aveva dintorno. L'anima nostra ha qualche volta di tali offuscamenti, per cui non è più presente a sè stessa. Così giunse passo passo fino al ponte sul Po, dove il rumoreggiar dell'acqua contro le pile valse a destarlo da quel suo stordimento.

Tutto era dunque finito? Clementina aveva dunque dimenticato ogni cosa, per cogliere un pretesto, il primo che le era capitato, e liberarsi da lui? Imperocchè quello era stato un pretesto e nulla più; la donna che ama davvero, sa anche soffrire una acerba parola, e aspettare che le si renda giustizia. Egli era geloso, ma sincero amatore. Il difetto non faceva egli testimonianza della qualità? Amava molto, sentiva profondamente; questo era il suo male. Epperò, mentre a tutt'altri quell'avventura sarebbe parsa alla più trista una chiusa di capitolo di romanzo della vita, a lui pareva a dirittura la fine.

Ora, come sarebbe egli quind'innanzi vissuto? In verità, non ne sapeva nulla; ci vedeva buio, e non ardiva fermarcisi su. Andò in quella vece a piangere dall'amico, non già per consolazioni che ne aspettasse, ma per necessità d'uno sfogo.

—Tu hai parlato troppo liberamente;—gli disse Filippo, dopo che ebbe udito ogni cosa.—Per altro se hai avuto torto nella forma, hai ragione nella sostanza. Non so veramente a che ti possano servire queste mie distinzioni; ma sento il bisogno di farle. Sii uomo, alla perfine, e cerca di distrarti. Che ti pare d'un viaggetto fuori dello Stato? Se hai la forza di sottrarti all'influsso di quest'aria e di queste consuetudini, sei salvo; se no, con quella tua sensibilità soverchia, mi caschi ammalato da senno.

—Sì, dici bene; vedrò;—rispose Ariberti.

Ma non ebbe la forza di seguire il consiglio. Per due giorni intieri aspettò una lettera che non veniva mai, quantunque ad ogni tratto interrogasse ansiosamente il suo portinaio, che ebbe a pigliarlo per matto. Al terzo giorno incominciò a passeggiare nei pressi della casa di Clementina. Al quinto, salì vilmente le scale e suonò il campanello.

La marchesa non era a Torino.

—E dove?—chiese Ariberti al servitore, che gli aveva data quella strana notizia.

—A Rocca Vignale; è partita ier l'altro.—

A Rocca Vignale, e in principio di primavera, lei, che ricusava di andarci nella calda stagione! Dopo tutto,—pensò Ariberti, che aveva sempre davanti agli occhi la cagione dell'alterco,—il mio tenore è servito a dovere.

—E dimmi,—-proseguì ad alta voce,—rimarrà molto laggiù?

—Non ha detto nulla; ma credo che rimarrà pochi giorni, perchè ha preso con sè solamente la Luisa e l'Aristide.—

La Luisa, come avete già indovinato, era la cameriera; quanto al secondo, che rispondeva al glorioso nome di Aristide, non era altri che lo staffiere, ed io ho il rammarico di non sapervi dire se fosse incorruttibile come il suo omonimo ateniese.

Ariberti aveva potuto ottenere quei ragguagli per la grande entratura sua in quella casa e per l'antico ossequio ond'era circondato da tutti i servitori della marchesa. Ma anche con tutti quei ragguagli, il nostro eroe non ne capiva un'acca. Gli passò per la mente il disegno di andare a Rocca Vignale; ma con qual pretesto, e con qual fronte, si sarebbe presentato laggiù? Mulinò, almanaccò tutto quel giorno, ma senza trovarci il verso, e quella sera stessa aveva la febbre, una febbre violenta che lo ridusse a letto e diede uno spavento indicibile alla sua donna di governo, che mandò tosto pel medico.

Non vi racconterò la malattia, che fu lunga, ed ebbe il suo periodo acuto, durante il quale Filippo Bertone non si tenne niente sicuro di vincerla. Ma potè finalmente la natura, poterono le cure amorevoli, potè la presenza di una fata gentile, che vegliava lunghe ore del giorno al capezzale dell'infermo.

Egli la vedeva ad intervalli, e figgeva in quel volto soave i suoi occhi smarriti, senza intendere come mai ella si trovasse là, accanto al suo letto, e credendola a volte una visione della sua giovinezza. Ma non era quella una vana apparenza, una forma fantastica richiamata dal suo cervello indebolito; era lei, proprio lei, la marchesa di San Gi… cioè, no, dico male, la contessa Bertone, poichè, nella congiuntura delle sue nozze recenti, Filippo, il gran medico, il professore insigne, era stato fatto conte, e mai titolo di nobiltà doveva essere meglio portato, in una società che crede ancora, e crederà per un pezzo, a queste anticaglie.

Le quali, del resto, non fanno male a nessuno, e accortamente svecchiate secondo il merito degli uomini, non già secondo la somma di danaro che possono spendere, potrebbero anche aiutar meglio ad uguagliare gli uomini, innalzandoli, che non abbiano fatto finora tante belle teoriche, rimaste in sospeso e soggette a revisione.

Assistito dagli angioli dell'amicizia, Ariberti risanò. La vicinanza di quella donna, che egli aveva amata tanto e odiata a' suoi tempi, per venerarla più tardi come l'esemplare delle gentildonne, bella ancora a malgrado degli anni in tanta copia cresciuti, amorevole con lui come coll'amico e fratello dell'uomo prescelto da lei, quella vicinanza, io dico, rialzò lo spirito abbattuto di Ariberti, consolò di qualche più lieta immagine i suoi giorni di convalescenza e gli riaperse il cuore alla speranza, a questo fiore gentile, ospite assiduo della casa nostra, così restìo sempre a morire sotto il rovaio e le brine, così facile a rinascere col primo raggio di sole.

Per altro, se gli tornò il sentimento della vita, gli tornarono anche le malinconie, i desiderii e gli spasimi, che fanno corteggio alla esistenza. La vista di quella coppia affettuosa gli era cara ad un tempo e molesta. Erano due felici, quelli che stavano con tanto amore al suo fianco. Non lo mostravano; anzi, in presenza di lui, si parlavano a mala pena, e quel poco era tutto rivolto all'amico sofferente. Ma il trovarsi ambedue là, quel grand'uomo e quella gran dama, intesi ad un'opera di schietta carità fraterna, non chiariva egli abbastanza la piena concordanza delle loro anime elette?

Gran forza, nel mondo, il vincolo di due cuori innamorati! E lui, solo, pur troppo, disperatamente solo! Imperocchè, oramai, la sua vita era spezzata. All'età sua non si ricominciava da capo. Clementina! Clementina! E quel nome e quella immagine gli stavano sempre dinanzi.

Nessuno l'aveva nominata. Filippo faceva ogni poter suo per non richiamarla, anche di straforo, alla mente del suo povero Ariberti. Ma nessuna cura di prudente amico bastava a dissipare quell'altra, assidua e dolorosa, che gli stava nell'anima. Avrebbe voluto chiedere di quella donna, ma la fermezza di carattere del suo amico Filippo lo metteva in suggezione. Non era egli forse un atto di debolezza il pensare a quella donna che lo aveva trattato con tanta noncuranza?

E tuttavia gira e rigira, quando finalmente il suo medico gli consigliò di mutar aria per assicurare la sua convalescenza, Ariberti sentì che non avrebbe potuto partire senza vederla. Era una viltà la sua; ma infine, chi non è stato vile almeno una volta in amore?

Gli angioli dell'amicizia non erano ad assisterlo. Egli afferrò la penna, e, pieno di speranza e di timore, di desiderio e di vergogna, scrisse un viglietto alla marchesa di Rocca Vignale

«Clementina,

«Sono stato molto male, e ancora non ho potuto uscire di casa. Che fate voi? Mi avete perdonato? Io vi ho veduta tante volte, benigna e sorridente apparizione, attraverso i vaneggiamenti della febbre, che spero di sì. Il cuore non inganna; e il mio è tutto pieno di voi.

«ARIBERTO»

Dopo che ebbe scritto e suggellato il foglio, chiamò il servitore.

—Questa lettera alla marchesa di Rocca Vignale. Se la marchesa è in città, bene; se no riporta la lettera, che la manderò per la posta.—

Il dado era tratto. In quell'ora si decideva della sua sorte. Che cosa avrebbe pensato Clementina, ricevendo il viglietto? Gli avrebbe risposto? Lo avrebbe incoraggiato a tornare da lei? Come gli parve lungo il tempo, che dovea mettere il servo ad andare e tornare! Finalmente egli giunse. Non era stato più di mezz'ora, e ad Ariberti era parso già un secolo.

—Orbene? Era a Torino?

—Sì signore; ho consegnato la lettera all'Aristide, e m'ha detto che la rimetteva subito nelle mani della signora marchesa, che ancora non era uscita di casa.—

Le ansie d'Ariberti cominciavano allora. La marchesa aveva letto il foglio e ci pensava su, se forse, in un momento di collera, non lo aveva fatto a pezzi e gittato sul fuoco del suo caminetto. Ed egli andava cercando di ricomporne le frasi nella sua mente, ed ora si pentiva di non averle scritto più umilmente appassionato, ora di non avere usato uno stile più cerimonioso e tranquillo. E frattanto, nessuna risposta. Due ore, tre ore, passarono in quella aspettazione angosciosa. Forse era giorno di visite? No, era un martedì, e la marchesa non riceveva che le mattine del giovedì. Ma forse doveva andar lei in qualche luogo, per qualche obbligo da cui non avesse potuto liberarsi. Certo, era così, non poteva essere altrimenti; ma in fine, due righe erano presto mandate, e non ci voleva una gran fatica a scriverle. Insomma, il nostro convalescente era inquieto, e quando Filippo tornò da lui, lo trovò colla febbre.

—Mi rincresce,—gli disse Bertone, dopo avergli tastato il polso,—perchè volevo darti una notizia…

—Quale? che cos'è!—saltò su gridando Ariberti. Te ne prego, non mi —tener sulla corda.

—Che furia! Aspetta un pochino, e preparati a stare allegro. Ho incontrato poc'anzi una signora…

—Lei!

—Sì, lei; ma chetati! Non si piglia mica la felicità d'assalto, come un ridotto nemico. Disponiamoci all'evento, mentre io ti racconto ogni cosa in ordine. Ho veduto la sua carrozza qui sotto. Ella scendeva, mentre io stavo per infilare il portone. Mi ha chiamato, ha voluto saper tutto, ed io le ho raccontato ogni cosa appuntino. Insomma, son diventato un confidente in piena forma, e voglio mettere sull'uscio di casa mia un cartello, che dica così: «Il conte Bertone, amico patentato, dà consigli gratuiti e fa le paci tra gli innamorati alle rotte».—

Ariberti sapeva benissimo che cosa pensare dei meriti di Filippo in questa pace. La marchesa non aveva detto all'amico di aver ricevuto il viglietto, e questo gli risparmiava un po' di vergogna. Clementina aveva in quella vece raccontato che, tornata il giorno innanzi dalle Langhe, aspettava la visita del suo onorevole amico, e soltanto da un giornale aveva ricevuto la notizia della convalescenza, prima di sapere che ci fosse stata la malattia. Perciò era corsa subito, non badando neppure a quello che avrebbero potuto pensare i torinesi, vedendo la sua nota livrea all'uscio di strada dell'onorevole Ariberti.

—Donna divina!—pensò il nostro eroe, con quella medesima facilità impetuosa con cui qualche settimana prima aveva pensato e detto ben altro.

—E adesso,—ripigliò Filippo Bertone,—appòggiati al mio braccio e andiamo nel salotto, dove ella ti attende. Non ho voluto farla entrar qui, per non farti, cadere in deliquio.

—Amico mio, non mi sono mai sentito così forte come oggi.

—Ah sì? e frattanto ti tremano le gambe. Tienti al mio braccio, ti dico.—

Ariberti obbedì, perchè infatti la commozione non gli consentiva di far la strada da sè.

—Andiamo dunque;—pensava in quel mentre Filippo;—così l'aveva a finire. Il mio amico non è nato della schiatta dei forti. Al dolore non sa resistere, la gioia lo abbatte, i saldi propositi lo spaventano; segue il filo della vita come vuole la fortuna, vede il meglio e lo approva, per attenersi al peggiore partito. Conduciamolo dunque dalla marchesa Clementina, poichè non c'è altro a farne di lui, «e naufragar gli è dolce in questo mare».—

La marchesa era seduta su d'un canapè, colla testa appoggiata contro la spalliera e le braccia abbandonate sulle ginocchia, in atto di persona stanca. Al rumore dei passi di Ariberti e del suo amico Filippo, si scosse e tentò di alzarsi per muovergli incontro; ma Ariberti non le diè tempo a farlo, perchè spiccatosi dal braccio di Filippo, corse barcollando verso di lei e si lasciò cader ginocchioni a' suoi piedi, dando, com'era richiesto dalla circostanza, in uno scoppio di pianto.

—Ah, vedi? io te l'avevo pur detto, che non ti puoi reggere ancora da solo;—gridò Filippo, per attenuare le difficoltà di quella critica scena.—Signora marchesa, il mio amico ha molto sofferto; ma speriamo che andrà da oggi in poi ricuperando le forze. La bellezza e la grazia hanno più potere in cotesto, di tutti i medici dei due emisferi.—

La marchesa Clementina si fece rossa in volto come una fragola, e chinò la fronte con atto leggiadro, che poteva interpretarsi per un ringraziamento e per un moto di verecondia.

—Signor conte,—diss'ella poscia, cercando di ricondurre il discorso al convalescente;—non le parrebbe che un po' d'aria dei nostri monti…

—Ottimo pensiero!—rispose prontamente Filippo, che si era inchinato a sua volta per quella delicatissima allusione alla recente contèa.

—Gli avevo per l'appunto consigliato un viaggio; ma il buon Ariberto non si mostrava molto propenso ad obbedirmi.

—Obbedirà, non dubiti, obbedirà;—ripigliò la marchesa, colla asseveranza di una donna che sa il poter suo;—l'amicizia ha diritti incontrastabili. Dico bene, signor legislatore?—

Ariberti sorrise ed assentì con un cenno del capo.

—Benissimo;—continuò la marchesa;—sappia dunque, signor Ariberti, che tutto rifiorisce a Rocca Vignale, dove ho passato due settimane, per mettere quella bicocca in assetto. Dio mio, ce n'è voluto; ma infine, credo di averla resa abitabile, e la castellana potrà esercitarvi non indegnamente gli uffici della ospitalità verso un pellegrino come Lei. Voglio credere almeno che non mi farà il torto di posporre Rocca Vignale a Dogliani.—

L'invito non poteva non essere accettato. Non era forse Clementina la signora del suo cuore? Del resto, niente lo chiamava più alla sua casa di Dogliani. Da qualche anno il signor Amedeo aveva pagato il suo tributo alla terra e riposava accanto alla diletta compagna della sua giovinezza. Perciò Ariberti, che già aveva accettato col gesto, stava per aggiungere alcune parole di ringraziamento, molto compassate ed analoghe alla circostanza. Ma Filippo non era più là, per servirgli da uditorio, ed Ariberti lasciò la retorica e l'etichetta da banda, per afferrare la mano della marchesa e imprimervi il più ardente dei baci.

—Siete sempre un fanciullo; il mio bel fanciullo;—soggiunse Clementina, senza ritrarre la mano, ma cercando di rimetterlo a posto sul canapè, dond'egli si era mosso per cadere di bel nuovo ai suoi piedi.—Adesso, amico mio, pensate a risanare; lo voglio. E badate, vo' che risani anche lo spirito, perchè, qualche volta mi esce di riga.

—Oh, perdono… perdono…—mormorò egli, nascondendo la fronte nelle pieghe della veste di lei.

—Animo, via,—interruppe Clementina;—non parliamo più del passato. Voglio vedervi d'ora in poi ragionevole; a questi patti io sarò sempre quella di prima.—

Così, com'io ve l'ho raccontato minutamente, l'onorevole Ariberti, bambino quadragenario, rientrò nelle grazie della marchesa, e ridivenne il suo umilissimo servitore, anzi il suo schiavo negro, se mi consentite la frase. Visse a Rocca Vignale una trentina di giorni, ma senza curarsi gran fatto della bellezza dei campi e del cielo. Ogni bellezza era in lei. E laggiù, in quella solitudine, gli era sembrato di star bene, perchè quella donna doveva essere più sua che non altrove; ma, ben presto quei luoghi gli vennero in uggia, vedendo tutti gli uffici di castellana a cui la marchesa adempiva, e dovendo mandar dal profondo dell'anima a tutti i diavoli il sindaco, il parroco, il medico condotto e gli altri notabili della terra, che troppo spesso gli rubavano la sperata dolcezza degli amorosi colloqui.

Poi, si tornò alla capitale, e l'onorevole Ariberti si sorbì un altro poco di vita parlamentare. Si era per fortuna agli sgoccioli, e, poco dopo, la sessione fu chiusa. Cominciate le vacanze, nè la marchesa parlò di andare da capo nelle Langhe, nè egli si pigliò la briga di accennarvi, nemmeno alla lontana. Andarono in quella vece a certi bagni riputati di Francia, e il nostro eroe passò l'estate seguitando la signora su tutte le strade maestre di quel vicino paese, e dalla Svizzera per giunta, reggendo sul braccio uno scialle, e facendo il viso umano a tutti i segretari di legazione e addetti militari d'ambasciata, che per sua dannazione giravan in lungo ed in largo l'Europa. C'erano giorni che il poverino si credeva un marito e andava chiedendo tra sè in qual chiesa lo avessero gabellato per tale.

—Amico mio, siate ragionevole;—gli bisbigliava qualche volta Clementina, mentre si tornava in otto o in dieci da una di quelle corse, che egli avrebbe fatte assai più volentieri in due.

E bisognava esserlo; se no… Il mio onorevole eroe ci aveva ancora davanti agli occhi l'esempio salutare dei corrucci di madonna. Pensando al suo stato di cattività, qualche volta si compativa da sè; ma in di grosso, poi, si era avvezzato alla catena, e sgranocchiava i suoi giorni con quella apatica immobilità con cui un fachiro indiano avrebbe snocciolato i chicchi della sua coroncina di preghiere.

Così passarono gli anni. Come uomo, non era più giovane, ed aveva lasciato trascorrere la bella età in cui l'ingegno può dare i suoi frutti migliori. Rispetto alla politica, poi, si era contentato a rimanere in seconda linea, e tutto lasciava credere che si sarebbe poi rassegnato a passare in serrafila, anzi nella retroguardia, colle bagaglie. Qualunque cosa si faccia, bisogna amarla molto e non vedere che quella, per farla bene e derivarne un po' di gloria al suo nome. Ora il nostro eroe, che aveva cominciato coll'amar tante cose e col volerne abbracciare tante altre, non doveva riuscire eccellente in nessuna. Il cavaliere servente della marchesa di Rocca Vignale, studiava poco, e a sbalzi, che è la peggior forma di studio; accompagnava la signora a teatro, per rimanerci due o tre ore confinato in fondo al palchetto, mentre i galanti farfalloni aliavano intorno alla sua dama e si succedevano senza tregua nei posti migliori; viaggiava regolarmente quattro mesi all'anno, per vedere i soliti alberghi e le solite cravatte bianche, e far capo ai soliti magazzini di mode. Per farvela breve, la sua vita si ridusse ad essere la ombra di quella donna, non cattiva, ma vana; ambedue esemplari degnissimi di una generazione, che non ha fatto grandi cose e che non lascierà traccia di sè nella storia.

Talvolta si vergognava di quella sua vita disutile e sciocca, e borbottava una mezza protesta.—Amico mio,—gli diceva allora spietatamente la dama,—lasciate certi bollori alla gioventù; ricordatevi che avete già molti capegli bianchi.—

Ah sì, pur troppo, il guaio era quello; molti capegli bianchi. E come era egli giunto alla imbelle vecchiaia? Come aveva egli speso il suo tempo? Chiuso in un guscio, come la testuggine, foggiandosi attorno un mondo di piccole cose e di piccole consuetudini, vagando dall'una all'altra senza disegno, errando e pentendosi, vedendo il meglio ed appigliandosi al peggio, schiavo della fantasia che non aveva saputo sfruttare, indirizzandola ad una meta gloriosa e lontana, vittima del suo cuore, di cui aveva secondato la sensibilità morbosa senza saperla rinvigorire colla dignità del carattere, ricco d'ingegno e inoperoso, superbo e svogliato, uno dei centomila che partono pieni di baldanza dalla prima stazione e poi, per non aver misurate le forze, si stancano a mezza via e giacciono anelanti qua e là, su tutti i margini della strada. Insomma, non aveva saputo vivere come Filippo, che nell'amore e nello studio si era prefisso una meta e avrebbe potuto togliere ad impresa una bussola, col motto: aspicit unam; nè saputo imitare il filosofo giramondo, che sa il pregio mediocre della vita e la spende con giusta misura, viaggiando la buccia di melarancia su cui lo ha messo a vivere il fato, e rimpizzando il suo cervello di cognizioni, il suo cuore di sensazioni, il suo taccuino di note.

Vecchio! E non poter ritornare indietro! O non era dunque meglio finirla d'un tratto con una maturità disutile, e diventare decrepito a dirittura? Che cos'erano vent'anni di più, per un uomo giunto di là dai quaranta, e senza aver trovato la sua via? Il meglio lo aveva vissuto, non gli restava che il peggio.

CAPITOLO XXIII.

Buon giorno ai lettori.

Il sole era già alto sull'orizzonte… Anzi, io posso dirvi, senza tanti preamboli, che erano le otto suonate, quando la signora Zita entrò nella camera da letto del signor commendatore.

Ordinariamente, soleva chiamarla egli stesso con una tiratina al campanello, la cui nappa pendeva di contro al muro, accanto al suo capezzale. La chiamata era di solito alle sette, fosse inverno od estate, perchè egli non misurava più il sonno secondo le stagioni, e ne schiacciava poco, in tutte le trecentosessantacinque notti dell'anno.

Quella mattina, per contro, il signor commendatore non aveva dato segno di vita; e la sua donna di governo, dopo essere stata un pezzo in orecchio, si era pur risoluta ad usare il suo diritto di vecchia granata di casa, andando a vedere co' suoi occhi che diavol fosse che aveva sconvolto l'ordine di natura, e fatto dormire il signor commendatore mezz'oretta di più.

Ora non fu poca la meraviglia, anzi lo stupore della signora Zita degnissima, quando vide il letto deserto e non ancora toccato. La povera donna strabiliò addirittura, allorquando, nel voltarsi a caso verso la finestra, gli venne veduto il padrone, ancora imbacuccato nella sua veste da camera, colle braccia abbandonate sulle ginocchia, il capo appoggiato contro la spalliera del sofà, le labbra e gli occhi semichiusi, tra il sonno e la veglia.

La chicchera del tè stava ancora sul tavolino, e il liquido che ci si vedeva ancora per entro, fin quasi all'orlo del vaso, mostrava chiaramente che il signor commendatore si era assopito dopo la prima sorsata.

—Gesummaria!—sclamò la signora Zita, giungendo le palme e levando gli occhi al soffitto, di là dal quale, dopo tutto, avrebbe trovato i casigliani del terzo piano.—Che sarà mai accaduto al padrone? Ah voglia il cielo che… Ma no,—proseguì dando una rifiatata di contentezza;—egli respira. Si sarà addormentato leggendo; di certo è così. Benedetti giornali! E adesso, che cosa si fa? L'ho a svegliare?—

Il signor commendatore non dormiva; vegliava, ma colla mente assonnata e senza aver coscienza di ciò che gli stava dintorno. Il fruscìo delle vesti di monna Zita e l'immagine di lei, che venne d'improvviso a pararglisi davanti, gli fecero spalancar gli occhi e tornare lo spirito alle cure del presente.

—Che è?—domando egli, scuotendosi.—Signora Zita, è proprio lei?

—Son io, signor padrone, son io. Ma come va? Non è andato a letto?

—Io? a letto? È vero; son qui sul sofà. Ma dica, siamo qui veramente?
Io non mi ci raccapezzo, in verità.

—Ella è qui nella sua camera; non vede? Il letto è laggiù, non ancora toccato.

—È proprio vero. Che diamine sarà egli accaduto? Ed ho un freddo nell'ossa… un freddo!…

—Eh, si capisce; i caloriferi hanno lavorato fino a tanto che hanno potuto, e poi, buona notte. Ma cosa è stato, mi dica? Se mi avesse chiamato, Dio benedetto!

—Brava! Se ci avessi pensato, sarei anche andato a letto. Ma non ci ho pensato; ero in viaggio.

—In viaggio!—ripetè la signora Zita, inarcando le ciglia.

—Sicuro, in viaggio; ma non si spaventi, la prego. Non ero già a cavalcioni su d'un manico di scopa. Ero partito sull'ippogrifo della fantasia.

—L'ippogrifo! Che diavolo è?

—Ah, non lo conosce? È un quissimile del cavallo pegasèo. Ha capito?
No? Metta allora che io abbia sognato ad occhi aperti.

—Manco male che si sveglia di buon umore!

—Sì, perchè no?—rispose il signor commendatore, che andava infilzando parole per mo' d'esperimento, quasi volesse sincerarsi che era ben lui che parlava.—Il guaio si è che non capisco nulla di ciò che mi è intervenuto stanotte…—

E pensava, frattanto, e cercava di cogliere il punto critico, la peripezia che c'era stata tra la sera e la notte, tra la sua vecchiaia e la sua giovinezza. In quel mezzo gli venne veduta la chicchera del tè, col liquido nereggiante per entro.

—Ecco il nappo della vita!—diss'egli.

E ricordando il sapore che vi aveva sentito la sera addietro, volle assaggiare il suo tè.

—Diamine! È amaro sempre.

—Ci ha messo lo zucchero?—entrò a domandare monna Zita, che non capiva una maledetta di quegli esperimenti.

—E chi ne sa niente? Può darsi benissimo che io lo abbia dimenticato.

—Non ce l'ha messo, difatti. Veda, la zuccheriera è colma.

—Ella ha ragione, signora Zita, ed io ho perduta la testa. Ma già—proseguì il signor commendatore, borbottandosela tra' denti,—se c'era lo zucchero, il nappo della vita mi pareva dolce, e il sortilegio correva ugualmente. Piuttosto, quella stecca falsa non era da diavolo autentico; ed io avrei ben dovuto avvedermene!—

La signora Zita, vedendolo almanaccare a quel modo, come un uomo che fa conti a mezza voce, pensò che gli avesse dato volta il cervello.

—Signor padrone, se provasse ad andarsene a letto….

—Sì, non dici male; mi leverò almeno il freddo dall'ossa. Su, vecchio arnese, compagno mio da tanti anni, che m'era parso di aver lasciato per istrada, come il serpente la scorza! Sono stato un ingrato, non c'è che dire, e tu se' capace di avertelo avuto a male. Non è vero, grinzoso compare? Ahimè, non torna giovine chi vuole, e il meglio è ancora di tenersi caro il suo asino, con tutti i suoi guidaleschi. Signora Zita, le pantofole! Bene, grazie; buon giorno a lei, e buona notte a me.

—Il padrone scherza coll'amaro in bocca;—disse la signora Zita tra sè, mentre usciva dalla camera per dargli tempo a spogliarsi.—Bisognerà mandare pel medico, che venga con un pretesto a vederlo.—

Intanto il signor commendatore si era posto a letto, e rannicchiato sotto le coltri cercava di scaldarsi le membra intirizzite. Quando il medico giunse nella sua camera, egli non aveva anche potuto pigliar sonno.

Era un medico coi fiocchi, un medico da principi, quello del commendatore Ariberti. Ma non dubitate, quantunque conte, rettore dell'università e professore di fama europea, egli non andava che al letto dei poveri e di un piccolo stuolo di amici, che si veniva assottigliando d'anno in anno.

—Tra i poveri son nato e non debbo dimenticarli; diceva egli.—Cogli —amici ho vissuto negli anni della florida salute, e mi piace non —perderli d'occhio, ora che incominciano ad aver bisogno di me.—

Da questo cenno il lettore ha già conosciuto Filippo Bertone.

—Or bene, che significa ciò? Vengo per invitarti a pranzo, e sento dalla signora Zita degnissima, che sei tornato poc'anzi di viaggio e che non hai dormito stanotte. Belle imprese, signorino! Come se aveste vent'anni!

—Li ho avuti per l'appunto stanotte;—rispose il commendatore Ariberti, sorridendo malinconicamente e stringendo la mano all'amico, mentre questi correva coll'altra a tastargli il polso.

—Ah, ah! siamo dunque stati nel paese dei sogni? Male, male;—notò il conte Filippo;—lo dice anche la chiesa:

    Et mala mentis somnia
    Et noctium phantasmata

Et noctium phantasmata!—ripetè, assentendo del capo, il signor commendatore.—Infatti, non ero mica addormentato, quando ho veduto…

—Che cosa? Raccontami.

—Sciocchezze, Filippo mio, visioni d'inferno.

—Appunto per questo hai da dirmi ogni cosa. Anche i sogni sono sintomatici in patologia.—

Ariberti si fece allora a raccontare per filo e per segno tutto quello che gli era occorso in quella notte memorabile, dall'apparizione del personaggio, invocato in un momento di sdegno, fino ai pentimenti della sua scontenta vecchiaia. Il conte Filippo, che era così spesso in ballo e si rivedeva come in uno specchio nelle memorie dell'amico, stette ad udirlo con molta attenzione, dimenticando a volte la sua condizione di medico, per seguire il racconto colla benevola curiosità dell'uditore commosso.

—Tu ci hai avuto una allucinazione in piena forma;—diss'egli ad Ariberti, poichè questi ebbe finito.—Il tuo sistema nervoso è fortemente irritato, e bisognerà rimediarci.

—Venga il rimedio, se il mio povero sistema ne franca la spesa;—rispose Ariberti, sorridendo malinconicamente.—Ma una cosa mi sa di strano, e ancora non riesco ad intenderla; come in nove, o dieci ore…

—Ti sia passata tanto roba per le mani, vuoi dire? Ma bada, Ariberto, non è mica necessario che tu abbia rifatto in questo piccolo spazio di tempo tutto il cammino fornito in quarantanni di vita operosa. I casi trascorsi ti sono passati per la fantasia, come fanno le immagini sui vetri d'una lanterna magica. Del resto, i più recenti studi dell'Accademia di Francia, hanno posto in sodo che i sogni, anco i più lunghi, avvengono nell'ultimo periodo del sonno, cioè a dire quando il sangue incomincia a rifluire verso il cervello, per rinnovare tutti i fenomeni della vita sensitiva. Ai nostri tempi il sonno era creduto una forma di congestione cerebrale: ed è invece tutto all'opposto. Non ti faccia dunque meraviglia se queste immagini del passato, così lunghe a ricordarsi, per l'uomo desto, nella loro progressione ordinata, siano invece così veloci e mutevoli per l'uomo dormente, o allucinato. Non impacciati dai necessarii ritardi dalla parola e del moto, i tuoi nervi hanno adempiuto in breve al loro duplice uffizio, attivo e passivo, e tu hai potuto vedere ed operare, senza durar la fatica inerente a questi due atti. Vedi, ti spiego alla buona gli arcani della scienza; lascio da banda tutte le parole barbare, che te la renderebbero più autorevole nella sua oscurità.

—Tu sei il Boccadoro;—disse di rimando Ariberti. A me rincresce —soltanto d'una cosa…

—E quale?

—Che il diavolo m'abbia giuntato. Scambio di farmi vivere una vita nuova; m'ha fatto perdere il tempo a riviver la vecchia.

—Mio buon amico, che farci? Alla tua età, come alla mia, il diavolo non suol più venire, per rimetterci un po' di zolfo nelle vene. Del resto, io non mi lagnerei del tiro; il mio passato lo rivivrei tanto volentieri!

—Beato te, Filippo, che hai preso di primo acchito la, strada buona! Hai lavorato indefessamente e sei diventato un uomo di vaglia; hai amato un donna che è stata il tuo angelo custode; non ti sei indugiato di qua e di là; mentre io…

—Mentre tu hai troppo fantasticato e meno operato. È poi un gran male quando i risultati hanno ad essere gli stessi? Te lo ha cantato Orazio, che la sapeva lunga: Omnes eodem cogimur; andiamo tutti ad una meta.

—Tu vuoi consolarmi,—notò Ariberti,—e dici quel che non pensi.

—Non guardar troppo nel sottile;—replicò Filippo, che si sentiva stretto tra l'uscio e il muro.—Dopo tutto, rispondi a me; riuscendo tutti ad un fine, non ci parrà forse a tutti di aver perduto una parte del nostro tempo in opere vane, e non ci dorrà a tutti di aver tralasciato di far la tal cosa e la tal'altra? Segno che questo granellino di sabbia lanciato nello spazio era ancora troppo grande per noi. E nota che lo va diventando sempre più a mano a mano che l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo ci svelano nuove parti di sè, e i materiali della storia, dell'osservazione e dello studio, si accrescono. Dunque siamo intesi, oggi tu sei a pranzo da noi?

—Ma… e non scrivi nessuna ricetta? La signora Zita ti piglierà per un medico da dozzina.

—Lascia fare. Ai rimedi penseremo più tardi. Del resto, ti tratteremo da ammalato. Il mio cuoco ci ha in testa tutto il ricettario di Galeno.

—Mio buon Filippo,—sclamò Ariberti, stringendo la mano del medico tra le sue,—almeno se la gioventù e gli amori sono volati via, l'amicizia rimane.

—Ma sì, per bacco! E poi rimane ancora dell'altro; per esempio, la coscienza;

    La buona compagnia che l'uom francheggia
    Sotto l'usbergo del sentirsi pura.

Vedi dunque di dormire un paio d'ore, e che non venga più il maligno a darti noia. Anzi, prima di andarmene, ti fo un bel crocione sull'uscio. Vade retro, Satana; qui si vorrebbe schiacciare una dormita.—

Il conte Filippo Bertone uscì, e il signor commendatore, dopo essersi voltato sul fianco buono, si pigliò un sonno che aveva pur meritato.

Lettori, svegliatevi voi.

FINE.