The Project Gutenberg eBook of Amedeide: Poema eroico

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Title: Amedeide: Poema eroico

Author: Gabriello Chiabrera

Release date: February 22, 2005 [eBook #15136]
Most recently updated: December 14, 2020

Language: Italian

Credits: Carlo Traverso, Claudio Paganelli and Distributed Proofreaders

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK AMEDEIDE: POEMA EROICO ***

Carlo Traverso, Claudio Paganelli and Distributed Proofreaders

AMEDEIDE

POEMA EROICO

DI
GABRIELLO CHIABRERA.

NUOVA EDIZIONE

Dedicata

A S. S. R. M.
IL RE
CARLO ALBERTO
GENOVA
TIPOGRAFIA DE' FRATELLI PAGANO

Canneto il lungo, Palazzo Raggio, n.º 800.

***

1836.

Presso l'Editore VINCENZO CANEPA
Sotto i Portici dell'Accademia Ligustica.

SACRA REALE MAESTÀ

L'Augusta Casa de' Sovrani Sabaudi, S.R. Maestà, diede sempre colla grandezza di azioni magnanime nobilissimo argomento all'ingegno de' Cantori d'Italia.

Gabriele Chiabrera, sommo ornamento delle lettere ne' Vostri Reali Dominj, confortato dal favore del Duca Carlo Emanuele, prese a celebrare con eroico poema quell'Amedeo che liberò col senno e colle armi l'Isola di Rodi. Questo poema era ben degno di ricomparire, dopo due secoli, sotto gli auspicj della Reale Maestà Vostra, che tutti consacra i suoi pensieri alla felicità de' sudditi ed alla gloria del regno; e che si è degnata di permettere, che fregiato dell'Augusto nome di Lei, venga nella luce del pubblico. Io lo depongo appiè del Trono Reale insieme agli umilissimi sensi del mio sommo rispetto

Di V. S. R. M.

Ubbidientissimo Servitore e fedelissimo Suddito VINCENZO CANEPA Editore.

AI LETTORI GENTILI

VINCENZO CANEPA

Essendomi proposto di mettere nuovamente in luce l'Amedeide di Gabriello Chiabrera, pregai il Cav. Don Gio. Batta Spotorno, che tante altre premure si era dato per onorare la memoria di quel sommo Poeta, scrivendone copiosamente la vita e pubblicandone molte prose inedite, a volermi favorire per sua cortesia di preparare, dirigere, ed illustrare questa edizione. Ed egli compiacendomi, vuole ch'io dichiari, qui sul principio, che ad assumere tal fatica non tanto il muove la grandezza del Poeta; ma sì e principalmente, il desiderio ossequioso, trattandosi d'un libro onorato del nome dell'Augusto Monarca il Re CARLO ALBERTO, di potere in qualche guisa, quanto ad uomo oscuro è conceduto, dimostrare la somma sua devozione all'ottimo Principe che si degnò confortare con segno onorevolissimo del suo Real Patrocinio i piccioli studj di esso P. Spotorno.

Gli argomenti all'Amedeide, che leggerete in questa edizione, sono fatica del sig. avvocato G.B. Belloro, savonese, che me gli offerì gentilmente; nè io volli ricusare il dono della sua cortesia; troppo essendo convenevole che in qualche modo concorra ad una edizione del Chiabrera uno almeno degli arcadi savonesi.

VITA DI GABRIELLO CHIABRERA

SCRITTA DAL CAV. P. GIO. BATTA SPOTORNO.

Se la nostra Liguria occidentale non avesse di che pregiarsi se non se di GABRIELLO CHIABRERA, ragion vorrebbe ch'ella se ne tenesse onorata e superba. Perciocchè fu questi il primo che mostrò agl'italiani esservi pure un'altra scuola, fuori della provenzale, in cui mirando studiosamente si potea venire in fama di poeta meraviglioso; e il mostrò con esempj felicissimi sì nel genere grande, sì nel gentile; spirando, se così m'è lecito parlare, ne' petti degl'italiani un nobile ardimento; e la nostra favella, di timida e rispettosa ch'ella era in mezzo alla copia delle voci e de' modi, facendo animosa ed altera senza macchiarne l'urbanità e la grazia che le viene dal puro e sonante dialetto dell'Arno. Ma questo Poeta non ebbe mai scrittore della sua vita; ed egli di se medesimo parlò brevemente, più tosto per dire gli onori avuti da Principi grandi e da Sommi Pontefici, che per altra cagione. E però non a torto faceva querele il Tiraboschi di tanta negligenza. Ond'è che nella Storia Letteraria della Liguria io m'ingegnai di stendere minutamente la vita di questo sommo poeta; ed ora ne do quasi un compendio, ma corredato di molte notizie, che per quegli anni non erano conosciute; cosicchè Egli più non abbia a dirsi inonorato in Italia.

GABRIELLO CHIABRERA nacque in Savona il 18 giugno del 1552; e nacque quindici giorni ed alcune ore dopo la morte di Gabriello suo padre. La famiglia de' Chiabrera, che veramente chiamavasi de' Zabrera, e latinamente de Zabreriis, sembra d'origine spagnuola; e il primo a piantarla tra noi fu probabilmente uno di que' militi spagnuoli che vennero in Italia nel 1271 con Guglielmo marchese di Monferrato, il quale aveva tolto in isposa Beatrice figliuola di Alfonso Re di Castiglia. E oggidì sono tuttavia parecchi altri cognomi nel Monferrato e nel Piemonte che si palesano d'origine spagnuola. Ma qual che fosse l'antica stirpe de' Zabrera, questo è certo che un Gabriele, de Zabreriis fece un sepolcro a se ed a' suoi l'anno 1493 nella chiesa di S. Giacomo vicin di Savona, e ne ornò la cappella con una tavola di pittore in quell'età molto prezzato. Da questo Gabriele I. venne un Corrado, che di Mariola Fea gentildonna savonese generò Gabriele II.; e questi ebbe da Geronima Murasana, pur savonese, e figlia del dotto giureconsulto Pier Agostino, Massimo, uomo di buone lettere ed amico in Roma di Paolo Manuzio; Gabriele III., ossia il nostro poeta, e Laura, data in moglie ad Aurelio Bosco Savonese.

La madre del Poeta, rimasa vedova in fresca età, passò ad altre nozze con Paolo Gavotti nobile savonese, e di GABRIELLO si tolse la cura Margherita sorella del padre di lui, la quale di Ottavio Pavese suo marito non aveva prole veruna; ma la tutela del pupillo tenevala Giovanni pure fratello del padre, ed esso ancora senza figliuoli. Giunto GABRIELLO all'età d'anni nove, fu condotto in Roma, ove Giovanni suo zio faceva dimora[1], ed ivi fu nodrito con maestro in casa da cui apparò la lingua latina. In quegli anni lo prese una febbre, e dopo due anni lo percosse un'altra, che sette mesi lo tenne senza sanità e l'inviava a morire etico; onde Giovanni suo zio, per farlo giocondo con la compagnia d'altri giovinetti lo mandava alle scuole de' PP. Gesuiti; ed ivi prese vigore e fecesi robusto, ed udì le lezioni di filosofia, anzi più per trattenimento che per apprendere; e così visse fino all'età di venti anni. Ma nel 1572, essendo mancato di vita in Roma lo zio Giovanni, esso GABRIELLO andò a Savona a vedere e farsi rivedere da' suoi; e fra pochi mesi tornossene a Roma.

Quivi avuta occasione di vendere un giardino, che sembra eredità dello zio, al Cardinale Luigi Cornaro Camerlengo di S. Chiesa, colse l'opportunità di entrare in corte di quel Porporato, e vi stette tre anni. In questo, avvenne, che senza sua colpa fu oltraggiato da un gentiluomo romano, ed egli vendicossi; nè potendo meno, gli convenne di abbandonar Roma, e ridursi alla patria. Del qual avvenimento non abbiamo altra notizia, salvo se quella lasciataci dal Poeta, e che si è riferita colle sue parole medesime.

In Savona stette molti anni, dividendo il suo tempo tra lo studio delle buone lettere, la compagnia di giovani suoi pari, ed eziandio, nel vagheggiare una beltà savonese, ch'egli chiama poeticamente la Galatea de' savonesi mari. Sopra questo innamoramento abbiamo l'incomparabile canzone Per duri monti alpestri. E ne parla slmilmente nel canto VII. dell'Italia liberata, dicendo:

    Appena nato, a' duri miei tormenti
    Sorte volle adoprar la sua fierezza;
    Mi negò le lusinghe dei parenti,
    Mi pose in risse, m'involò ricchezza:
    Amore alfin con le sue fiamme ardenti
    Servo mi fe' d'una crudel bellezza.

Sono pur da leggere queste parole della canzone XXIX. tra le morali scritta ad Jacopo Doria:

    Forza d'alta beltà, ch'empie gli amanti
    Di caro duol, tiranneggiò mia cetra:
    Oggi che imbianco……..
    …….. altrove ergo i pensieri.

E tuttavia nel CHIABRERA l'amore vestiva un abito gentile, alla platonica; e in tutte le sue poesie non è parola che ricordi, non dirò le sozzure di certi poeti de' tempi a noi vicini, ma nè anco la licenza dell'Aminta e della Gerusalemme.

L'anno del 1584 rallegrò la solitudine del CHIABRERA con l'arrivo in Savona della famosa Isabella Andreini, venutavi colla sua compagnia comica a farsi udire sulle scene. Il poeta onorò con parecchie composizioni il valore dell'attrice, ed essa, che non era donna volgare, rispose con rime pregevolissime che abbiamo alle stampe. Ma v'ebbero sdegni e combattimenti tra' gentiluomini di Savona. Stavano per una parte Ottaviano e Luigi Multedo; per l'altra Benedetto Corsi, Giulio e Cesare Pavesi, Ambrogio Salinero e il nostro Poeta; che brevemente, al solito, così accenna quella tenzone: «in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase leggermente ferito su la mano: fece sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando: quietassi poi ogni nimistà, ed egli si godette lungo riposo.» Si compose la discordia con un atto di pace rogato in Mulazzano addì 16 aprile 1585, ed accettato in Savona dai Multedo il dì 24: il che ne fa conoscere che la fazione del CHIABRERA ebbe a ricoverarsi negli antichi dominj della R. Casa di Savoja.

Tornato alla quiete della patria, cominciò col fratello Massimo a pensare alla propagazione della stirpe; e non avendo quegli voluto sottomettersi al legame del matrimonio, fu deliberato che GABRIELLO s'eleggesse una sposa. Qui porrò un fatto che parrà novella, e non è; vo' dire che il Poeta si teneva per affatturato da qualche maliarda o stregone, cosicchè stimavasi non atto al debito coniugale; e ne scrisse lunga e mesta lettera a Bernardo Castello pittore, suo grande amico, scongiurandolo a veder pure di trovare in Genova cerretano o donnicciuola, che valesse a rompere la malìa. Qual fosse la risposta del Castello, nol sappiamo. Nè di cotal immaginazione del Poeta è da far commedia; chè fin nel secolo XVIII. molti libri si scrissero da gravi uomini, e non idioti, a mostrare la potenza e le arti meravigliose delle streghe[2]. Finalmente piacque al CHIABRERA d'unirsi con una giovinetta d'anni 16, nominata Lelia, figliuola di Giulio Pavese gentiluomo di Savona, e della signora Marzia di Niccolò Spinola patrizio genovese. Ed ottenuta la dispensa dall'impedimento di consanguinità, si celebrò il matrimonio nella chiesa de' PP. Cappuccini fuor di Savona il dì 29 luglio del 1602. GABRIELLO non n'ebbe. prole, ma gliene vennero disturbi ed impicci nojosi. Perciocchè Lelia, essendo mancato di vita Giangiacomo Pavese fratello di lei, lasciando pupillo un figlio di nome Giulio, ne assunse col marito la tutela: di qui molestie di conti; pensieri d'educazione; possesso di eredità e nella Liguria, e per procuratore in Napoli, dove i Pavesi possedevano beni assai; di qui tutte quelle altre noje che sono compagne degli affari economici. Ma Lelia, veggendosi senza prole, aveva posto in Giulio un affetto sviscerato; e se GABRIELLO non era sollecito a tutto, che potesse giovare al nipote, gridava ch'egli era un assassinare il pupillo. Questa tutela tornò poscia in danno de' Chiabrera; stantechè avendo GABRIELLO donato ogni suo avere alla moglie, Giulio venne ad unire in se l'eredità de' Chiabrera e de' Pavesi. Abbiamo una lettera del Poeta, scritta nel 1634, ringraziando il Cavaliere Cassiano dal Pozzo «per le cortesie compartite a Giulio Pavese mio nipote.»

Il piacere delle nozze fu turbato per una sentenza de' tribunali di Roma, che GABRIELLO accenna oscuramente; e che noi possiamo con maggior chiarezza descrivere. Il Poeta aveva un fratello naturale di nome Augusto, che stavasi in Roma, e maneggiava la dote di Lelia, con procura in forma legale: ora costui per avere scritto delle pasquinate, o come allora dicevano, de' pasquini, fu condannato, non sappiamo a qual pena, e i beni dati al fisco; compresavi la dote di Lelia. Per che GABRIELLO corse a Roma, e con mostrare le sue ragioni, e col favore del Cardinale Cinzio Aldobrandini, protettore de' letterati, ricoverò con fatiche e spese la dote della moglie. Augusto aveva potuto scampare la tempesta fuggendo nell'Abruzzo; e di colà scrisse a GABRIELLO nel 1607 chiedendo danari; ed è questa l'unica notizia che ho trovato di costui; e poco monta il saperne più oltre; ch'egli non recò a' suoi utilità nè decoro.

Dopo lo sconcio qui rammentato non ebbevi fatto alcuno nella vita del CHIABRERA, come uomo privato, che meriti d'avere speciale ricordo: visse in patria con riposo, sano in modo che non mai stette in letto, salvo due volte per due febbri terzanelle, nè ciascuna di loro passò sette parosismi. In questo egli fu assai avventuroso: ma non già nell'avere (sono parole di lui), perchè nato ricco, anzi che no, disperdendosi la roba per molte disavventure, egli visse, non già bisognoso, ma nè tampoco abbondantissimo. Certo è che s'egli non fu ricco signore, ebbe quanto s'addice a vivere onorevolmente da gentiluomo di provincia. In città s'era comperata, metà dai Ferrero, e metà dai Carretto, una casa (1603-1605), ornata di marmi; ed è quella che si vede nel vicolo di S. Andrea, ed ha sopra la porta in un cartello di marmo queste parole d'Orazio: nichil est ab omni parte beatum; forse per accennare all'umile contrada in cui era fabbricata. Di un suo giardino parla più volte nelle lettere a Bernardo Castello. E rifabbricandosi nel 1616 la piccola chiesa di S. Lucia, e rimanendovi un poco di scoglio scoperto, il CHIABRERA, ottenutolo, lo ricinse di muraglie, e fecevi un piccolo giardino, e una loggetta, nella quale fra il giorno si riduceva a far versi, e a cianciare con cittadini ed uomini di villa, che di colà per loro faccende passano continuo; godendovi pure l'aspetto di Genova, che vi si mostra manifestissimo. E perciocchè era vicina alla chiesa di S. Lucia, martire siracusana, della quale si professava devotissimo per la debolezza della sua vista, cosicchè non poteva scrivere al lume, chiamavala piccola Siracusa; come puossi vedere nella data di molte lettere al Giustiniani. Negli ultimi anni (1632) edificò una casa di campagna in Legine, dove possedeva una vigna assai vasta; e nella iscrizione, che tuttora vi si legge sulla porta, dichiara averla fabbricata musarum opibus; cioè con denari ritratti dalle sue poesie[3]. Perciocchè il CHIABRERA che aveva cominciato a poetare per ozio, e poscia per onore, volle alfine che i suoi versi gli fruttassero meglio che sterili applausi; non che domandasse contanti; ma piacevagli per un sonetto, o un altro componimento, vedersi ricambiato con qualche gentilezza; e tale che all'uopo egli potesse permutarla in moneta; come più volte scriveva al pittore Castello. E fu talora, che volendo intraprendere un viaggio, e stando male a quattrini, nè volendo far debiti in Savona, per certa alterezza, volgevasi in Genova alle persone da lui celebrate: siccome al P. Abate D. Angelo Grillo, patrizio Gianvincenzo Imperiale; e quando i creditori ridomandavano la somma cortesemente prestata, il Poeta che non sempre aveva alla mano la moneta, forte si doleva, e ricordava l'amicizia, e i versi scritti in encomio del creditore. Ma l'Imperiale, uomo vano anzichè gentile, non volle appagarsi di lodi; e convenne al CHIABRERA pagarlo con una tavola del Tiziano. Il pittore Bernardo Castello, che non dipingeva senz'averne l'indirizzo dall'amico Poeta per la composizione, o storia, doveva sempre ricambiarne i consigli con qualche disegno di pittore insigne, o con un suo lavoro suggerito dal CHIABRERA. Le quali cose si volevano accennare, acciocchè si conosca che GABRIELLO aveva di che vivere in aurea mediocrità; e infatti, senza le pensioni che gli pagavano il Granduca di Toscana e il Duca di Mantova, egli stava nel catasto delle taglie per dieci mila scudi; somma rilevante a quel tempo in un gentiluomo privato; e veggiamo che la moglie teneva almeno due servigiali; e non mancava un servitore al marito.

Ma di un sommo poeta non si deggiono così ricercare le notizie della vita domestica, come quelle degli studj e degli onori per essi ottenuti. GABRIELLO CHIABRERA, uscito dagli anni della prima gioventù, e dalle istituzioni puerili, cominciò a praticare in Roma con Paolo Manuzio amico di Massimo suo fratello, e ascoltavalo ragionare: poi recandosi alla Sapienza, udiva leggere Marcantonio Mureto, ed ebbe con lui familiarità: avvenne poi che Sperone Speroni fece stanza in Roma, e con lui domesticamente trattò molti anni; e da questi uomini chiarissimi raccoglieva ammaestramenti. Que' sommi latinisti, Manuzio e Mureto, gli fecero nascere desiderio di poetare nell'antica lingua de' Romani; ma non istette molto ad avvedersi che i primi seggi erano già tenuti da uomini famosi; e si volse alla lingua italiana; confortatovi eziandio (come si vuol credere) da Sperone Speroni. Diedesi dunque a studiare ne' primi fondatori dell'idioma toscano, e specialmente in Dante, nel Petrarca, e nel Boccaccio: tra' meno antichi pregiò sopra tutti l'Ariosto. Con presidj sì fatti, e coll'aggirarsi per la Toscana, venne a tanto di perfezione che sì nella poesia, come nella prosa, egli è scrittore pieno di urbanità, di grazia non affettata, e così puro che l'Antologia di Firenze, disse del suo scrivere quelle parole dell'Alighieri:

«…….. ma Fiorentino Mi sembri veramente quand'io t'odo.»

Allo studio della italiana congiunse quello della lingua greca; e tanto s'invaghì della perfezione de' greci poeti, che volendo lodare alcuna cosa, come perfetta, era solito dire: è poesia greca. Omero metteva innanzi a tutti; ed essendovi già fino da que' tempi alcuni detrattori dell'altissimo poeta, egli affermava odorare di sciocchezza chi non intendeva le bellezze omeriche. Di Pindaro prendeva singolar maraviglia. Quanto fosse studioso di Anacreonte, chiaramente appare dall'averlo imitato felicemente. In Virgilio lodava il verseggiare nobilissimo e il parlar figurato. A Dante dava gran vanto per la forza del rappresentare e particoleggiar le cose, le quali egli scrisse; ed a Lodovico Ariosto similmente; cui era solito dare il titolo di grande. Leggeva molto Orazio, e sovente ne cita i detti, o li trasporta in italiano con felicità incomparabile: mi serva il riportare questo verso,

Il taciuto valor quasi è viltade,

bellissima versione di quella sentenza che tormentò sempre i traduttori del Venosino: paulum distat inertiae celata virtus. In Orazio commendava la lingua colta, l'eccellenza degli aggiunti, il non avere nulla di soverchio, e l'adornarsi di sentenze morali. E siccome il nostro CHIABRERA avea pur dato opera agli studj sacri, compiacevasi molto del profeta Isaja, ch'è pure sommo poeta; e negli ultimi anni aveva in costume di portarlo seco insieme con Dante.

Con tanti presidj ed ammaestramenti, e dotato d'ingegno grande, e bramoso di gloria, non poteva il CHIABRERA non levarsi sopra la schiera de' poeti, e giungere a tale di altezza, che altri non avesse speranza di aggiungerlo. Tentò quasi tutti i generi di poesia, e i più felicemente.

Francesco Maria Zanotti, che soli quattro lirici sommi voleva riconoscere in Italia, tra questi collocò il CHIABRERA. Scipione Maffei riconosce due scuole poetiche in Italia, quella del Petrarca e l'altra del CHIABRERA. Antonmaria Salvini affermava niuno meglio del nostro poeta aver inteso il carattere sublime di Pindaro e il vezzoso d'Anacreonte. Ma parecchie difficoltà fecero contrasto alla gloria del CHIABRERA; cosicchè il Muratori con ogni ragione lagnavasi che non fosse conosciuto quanto e' meritava. E in primo luogo, lui vivente, si contaminava la letteratura colle gonfiezze e i bisticci del secento; e perciò coloro che avrebbero dovuto imitarlo, ivano perduti nella pazza scuola de' concetti e delle stravaganze: conobbelo il CHIABRERA negli ultimi anni; e ne diede cenno nelle sue lettere al Giustiniani. I pochi, che bene vedevano la sciocchezza dell'Achillini e de' suoi imitatori, non volendo in tutto allontanarsi dall'uso corrotto, eleggevano una via di mezzo, attenendosi al Testi, al Filicaja e al Guidi; nobili poeti; ma pur di troppo lontani della semplicità degli antichi esemplari. Aggiungasi la corruzione de' costumi, entrata coll'ozio e l'ignoranza in Italia; onde avvenne che nel secolo XVII non più si parlava nè d'Omero, e Virgilio, nè di Dante e di Francesco Petrarca, ma dell'Adone, del Pastor Fido, e di altri libri maestri o provocatori di lussuria. Finalmente, come notò il M. Maffei «quest'autore ricerca studio fondato e fermo, perchè non poco difficile è da principio discernere la sua bellezza;» e pochissimi sono coloro che vogliano durare la fatica di uno studio poetico fondato e fermo. Ma negli ultimi tempi si è cominciato a conoscere alquanto meglio il valore del Savonese; e il Monti nella Proposta, e il Cesari nelle Bellezze di Dante il commendarono con parole sì fatte, che più non potevasi.

Nelle Satire, o Sermoni, è il CHIABRERA così eccellente, che può dirsi il secondo, dando il primo luogo ad Orazio, com'è convenevole. Di che veggasi il bellissimo articolo che ne scrisse Clementino Vannetti nelle Osservazioni sopra di Orazio[4]. Nella satira più audace ed irosa, si provò d'imitare Archiloco, ma non satisfece a se stesso: come dichiara nella vita sua propria; benchè il Guasco, pubblicando l'Amedeida minore, promettesse di volerne dare con altri componimenti, le canzoni archiloche, ossia le satire alla maniera di quel Greco.

Negli epitaffj, chi ama la schiettezza congiunta all'urbanità, non può non dar lode segnalata al CHIABRERA. Poche sono l'egloghe che ne abbiamo; e degne ch'altri non l'abbia a vile. Ne' ditirambi piacque al critico Fioretti ed al Soave; e che piacesse molto al Redi, si può argomentare dall'avere saputo quest'illustre Toscano giovarsi del CHIABRERA pel suo Bacco in Toscana.

La gloria d'essere riguardato come il Pindaro e l'Anacreonte e l'Orazio d'Italia, non ritenne il CHIABRERA dal tentare la poesia drammatica. Non trovo ch'egli mai si volgesse a scrivere commedie; giudicando forse che poco o nulla si potesse aggiungere a quelle de' Toscani, che veramente sarebbero perfettissime, se non fossero sfacciate. Nelle tragedie, altri amava meglio trarne gli argomenti dalle favole antiche, altri da quelle de' romanzi: il CHIABRERA imitò i primi nella Ippodamia, della quale sono lodati i cori; s'accostò a' secondi nell'Angelica in Ebuda; e direi ben anco nell'Erminia, se io ne avessi trovato notizia sicura.

Un'altra maniera di poesia drammatica è la favola pastorale; che Torquato Tasso avea levato a tal di perfezione da consigliare i poeti a non volere farsi emulatori dell'Aminta. Io non dirò che il CHIABRERA possa starsi appetto del Tasso; ma dico d'essere pienamente convinto, aver egli il primo seggio, dopo Torquato, tra gli scrittori di favole pastorali; e forse a farlo men chiaro, concorrono due pregj, che agli occhi de' volgari sono difetti; la semplicità dello stile, puro sempre e grazioso, e la modestia del costume; perciocchè, a parlare ingenuamente, v'ha non pochi, e talora in vista gravi ed assennati, i quali danno lodi egregie a certe composizioni, che forse farebbero segno a critiche amare, se in quelle non trovassero di che pascere le passioni segrete; e così veggiamo essere avvenuto del Pastor Fido; ch'è una filza ingegnosa di madrigali e concettini lascivi.

Nella drammatica spettacolosa, ossia nell'ordinare scene con pompa e varietà di macchine meravigliose, ed a' personaggi che in esse deggiono comparire acconciare brevi parole in verso, fu il CHIABRERA celebratissimo; e i Medici per ciò il chiamavano a Firenze, e i Gonzaga a Mantova; e per questi suoi ingegnosi ritrovamenti ebbe pensioni da que' Principi, non per la sua eccellenza nella poesia; chè sempre, tra le nazioni molli ed oziose, il piacere de' sensi venne anteposto alla illustrazione della mente.

È un altro campo, già tenuto da campioni impareggiabili, e che non pertanto invita gli uomini d'alto ingegno ad entrarvi per vaghezza di gloria; vo' dire l'epica poesia. Il CHIABRERA in poemetti di poche centinaja di versi sciolti, mostrò la grandezza del suo ingegno; sia per l'evidenza delle descrizioni, la forza e la rapidità delle azioni, sia per l'eleganza dello stile; e per quella maestria nel numero del verso, che niuno, dopo di lui, seppe mai pareggiare. Ed eccellente fu non meno ne' sacri argomenti che ne' profani. Provossi eziandio in poemetti di pochi canti; trattando il soggetto, con legger mutamento, e in rima e in versi dalla rima disciolti; come fece nel Batista e nella Giuditta, o solamente in isciolti, quale il Foresto. Ancora, d'un episodio trasse un poema; per esempio, il Ruggiero di dieci canti, ricavato da un'azione dell'Orlando Furioso. Tentò ancora la vera epopea, scrivendo l'Italia liberata dai Goti, la Firenze, e l'Amedeida. Tutti e tre hanno pregi grandissimi; e nell'Italia specialmente il nostro Poeta versò il tesoro dell'urbanità ed eleganza toscana ch'egli possedeva maravigliosamente; ma niuno de' tre è argomento popolare; condizione principalissima negli epici poemi, benchè i Retori l'abbiano dimenticata ne' loro precetti. La Firenze, è minore e maggiore; quest'ultima ha dieci canti in ottava rima. L'AMEDEIDE fu dall'Autore pubblicata in canti 23 e ridotta in 10, e in questa minor forma, lui morto, data alle stampe.

Nè il CHIABRERA fu solamente poeta sommo: vuolsi pur lodarlo altamente come prosatore. Il suo parlare è propriamente fiorentino purissimo; ma senza riboboli nè smancerie da pedanti: parvi d'udire una gentil donna fiorentina che non abbia letto libri tradotti malamente dal francese, nè conversato con uomini che s'estimano letterati solo che possano contaminare con modi stranieri il bellissimo idioma dell'Arno. Non ha periodi lunghi soverchiamente nè trasposizioni affettate; e dice le cose grandi con parole gravi e semplici; le umili con graziose. Nelle lettere famigliari è schietto, festivo, felicissimo; e va innanzi a tutti gli altri nostri, specialmente in quelle 150 a Pier Giuseppe Giustiniani, trovate in Genova, ed impresse in Bologna per gentil pensiero del P. Porrata, nobile genovese, della C. di Gesù. Nella ristampa fattane in Genova per mio suggerimento, ma condotta contro a' miei consigli, per mano altrui, si legge un certo numero di lettere inedite, che io ottenni gentilmente da chi avevale trascritte dall'archivio di Savona; ma in esse, come distese in istile curiale, non apparisce il valore del CHIABRERA. Lodevoli molto sono quelle altre, forse un 250, che usciranno colla mia assistenza dai torchj del signor Ponthenier. Bellissimi poi sono i dialoghi sull'arte poetica, e quello che contiene la sposizione di un sonetto del Petrarca: in essi non è la grandezza platonica; sì una nobile semplicità, che vestendo leggiadramente una dottrina non volgare, diletta e rapisce. Nell'orazione per un nuovo Doge di casa Spinola e negli elogj de' letterati coetanei, il CHIABRERA è minore di se. Degno di lui è l'elogio di Alessandro Farnese, che con altre egregie prose, ricavate per mia cura da' testi a penna, fece stampare il signor Vincenzo Canepa nell'anno 1823 in-12. I discorsi all'Accademia degli Addormentati di Genova possono dirsi mediocri.

Parmi di avere accennato tutte le composizioni di GABRIELLO CHIABRERA così in prosa come in verso; benchè ve n'abbian molte inedite; per figura, le lettere al pittore Luciano Borzone, e le poesie varie che Benedetto Guasco prometteva di voler mandare alla luce pubblica; ma furon parole.

Ora è da far motto degli amici, che n'ebbe molti, e segnalati. Già si è detto di P. Manuzio, del Mureto, di Sperone Speroni, del P. Grillo, e di Gianvincenzo Imperiale. Aggiungeremo Fulvio Testi, Agostino Mascardi, Virginio Cesarmi, Giacomo Filippo Durazzo, e Monsignor Ciampoli, il P. Rho Gesuita di Lombardia, il P. Antinori, il Cav. Luca Assarino, Mariano Valguarnera, siciliano, il Cicognini, il Balducci, Ansaldo Cebà, Giangiacomo Cavalli, poeta sommo nel dialetto di Genova, il pittore Cristofano Allori, Lorenzo Fabbri, lucchese, che stavasi in Genova, i due fratelli Ambrogio e Giulio Salinero, Pier Girolamo Gentile e il P. Alberti, Somasco, tutti e quattro savonesi. In Firenze ebbe amici ed ospiti i signori Corsi marchesi di Cajazzo; in Genova, Gianfrancesco Brignole Sale marchese di Groppoli, e Pier Giuseppe Giustiniani: quest'ultimo signore, degno veramente dell'illustre sua stirpe, ebbe col CHIABRERA un'amistà familiare, che durò fino alla morte del poeta: l'albergava in sua casa; e tutti gli anni il voleva a Fassolo; dove gli aveva fatto apprestare una stanza rivolta a mezzodì, e sopra la porta fatto incidere il distico seguente:

    Intus agit Gabriel: sacram ne rumpe quietem:
    Si strepis, ah! periit nil minus Iliade.

Gli onori che il Pindaro Savonese ottenne da' Sovrani d'Italia furon grandissimi; ed egli stesso gli ha minutamente descritti nella sua vita, che, tranne cotal vanità, è un modello non che d'eleganza, di modestia eziandio. Noi dunque nulla ne diremo; accennando solamente che per l'anno santo del 1625 Papa Urbano VIII, gli scrisse un breve, come si praticava co' principi, invitandolo a Roma: il Poeta andò, e fu ricevuto da quel dotto Pontefice con dimostrazioni singolari di stima e di affetto. E fu questo, parmi, l'ultimo viaggio del CHIABRERA; il quale sempre s'era dilettato di viaggiare; ed aveva visitato tutte le corti e le città principali d'Italia; ma soggiorno non fece che in due, in Firenze ed in Genova; giacchè a Roma, dopo il bando avutone alcun tempo per la rissa dianzi accennata, ebbe sempre l'animo avverso. In patria fu similmente onorato e prezzato; benchè io non trovi ch'egli fosse mai Priore degli Anziani, ch'era la maggior dignità che potessero dare i Savonesi a' loro patrizj. Bensì sappiamo che fu più volte Oratore a Genova pe' suoi cittadini; cosa che piacevagli sommamente, perchè gli dava opportunità di godersi Genova a spese di Savona.

Così visse GABRIELLO CHIABRERA fino all'anno 87 della sua vita: mancò poco a poco, per vecchiezza anzichè per forza di morbo. Ed essendo vivuto mai sempre, come a vero cattolico s'addice, sentendo appressarsi il fine del suo vivere, si confessò d'ogni sua colpa al P. Garassino, Servita, e ricevette il Viatico e l'Olio Santo dalle mani di Benedetto Malfante suo parroco. Confortato in tal guisa dalla Religione, si morì il 14 ottobre 1638; e il dì appresso, fu il suo cadavere onorevolmente accompagnato alla chiesa di S. Jacopo de' Minori Riformati, e nell'arca della sua famiglia deposto; ma nè la moglie, benchè agiata ed erede del marito, nè gli amici, nè il Comune pensarono mai a onorarne la tomba. Lelia sopravvisse fino al 1647. Il testamento del Poeta ha la data del 3 febbrajo 1634; quello della sua vedova, del 5 maggio 1640: ambedue ricevuti in Savona dal notajo Marcantonio Castellini. Qui porrò fine alle notizie di GABRIELLO CHIABRERA, principal vanto di Savona, gloria della Liguria ed ornamento d'Italia.

ANNOTAZIONI ALLA VITA.

[1] Benchè il Chiabrera non dica per qual motivo Giovanni suo zio abitasse in Roma, io credo poter affermare che ciò fosse per ragione di commercio. Certo è che Augusto fratel naturale del Poeta maneggiava in Roma la dote di Lelia; e maneggiare qui significa mercanteggiare. Lelia era di casa Pavese; e che i Pavesi eziandio tenessero negozio in Roma, è cosa notissima. Sappiamo similmente che al commercio applicavano nella capitale del mondo cattolico i Siri, ragguardevole famiglia di Albisola. Erano speculazioni commerciali di banco, che non offuscano la nobiltà, secondo che dimostra il Conte Napione nella sua dissert. sulla patria di C. Colombo. Ma il Chiabrera che voleva comparire nelle Corti, non ha parola, da cui si ritragga il negoziare de' suoi, i quali sopperivano coll'industria alla strettezza del nostro territorio. E a dirla schietta, io penso che pure a motivo di negozj fosse in Roma all'età del Chiabrera un ramo degli Spotorno; e l'argomento dal vedere che la casa avevano a Ripa grande, e la sepoltura in S. Francesco a Ripa, come insegnano le iscrizioni che vi si leggono tuttavia.

[2] Il marchese Maffei nell'Arte magica dileguata riferisce che il dotto P. Lebrun nell'opera des pratiques superstitieuses ebbe fede a colui che gli riferì «come suo padre e sua madre per sette anni erano stati inabili, e che una vecchia ruppe il maleficio e li lasciò liberi.» E qualche chiesa particolare di Francia, non mai la Romana, lasciò trascorrere ne' Rituali diocesani alcun cenno di tali malie per inabilitare gli sposi.

[3] Molte di queste notizie si trovano nel Viaggio per la Liguria del sig. Bertolottì; ma e' le trascrisse assai fedelmente dal tomo IV. della Storia Letteraria Lig.

[4] Abbiamo i Sermoni del Chiabrera corretti sovra d'un testo a penna ed illustrati, Genova, 1833 in-12.º e in-8.º per gentil cura del chiar. Prof. Ab. Rebuffo che intitolò quest'edizione all'illustre suo amico Prof. Bertoloni.

AMEDEIDE

POEMA

Con gli Argomenti

DELL'AVVOCATO
GIAMBATISTA BELLORO
SAVONESE

CANTO PRIMO

ARGOMENTO.

Di Rodi Angel divino alla difesa
AMEDEO chiama, e 'l guida in sul naviglio;
Ma l'empia Aletto allor da tanta impresa
De' suoi temendo l'ultimo periglio,
Alla stretta città novella offesa
Sveglia Ottomano a far, col suo consiglio;
Ed egli di Sultana il cor piagato,
La mostra vuol veder del campo armato.

I

Musa, ch'alme corone al crine adorno
Tessi di stelle, e di bei lampi ardenti,
E dal Cielo, ove fai dolce soggiorno,
D'ammirabile spirto empi le menti,
Di' d'AMEDEO, come da Rodi intorno
Tolse il furor de le nemiche genti,
Quando a' Cristiani altar porgendo aita
Il feroce Ottoman trasse di vita.

II

E Tu, ch'alto adoprando, ampio sentiero
T'appresti, o CARLO, a le magion stellanti,
Mentre pur sali, e nel vïaggio altiero
Belle orme imprimi, odine lieto i canti;
Non perchè 'l corso del real pensiero
Spronar tu deggia del grand'Avo ai vanti;
Non è mestier: così spedito, e franco
Voli a le mete eterne unqua non stanco.

III

Scorgi sol, ch'agli Eroi sacra corona
Dassi in Parnaso; e lo sperar sia certo,
Ch'un dì cetra immortal lungo Elicona
Temprerà Febo al tuo sì nobil merto:
Bene alto in terra d'AMEDEO risuona
Il giusto affanno in guerreggiar sofferto;
Ma più sublimi inverso il ciel tue lodi
Allor n'andranno: or dà l'orecchio a Rodi.

IV

Chi mosse in prima, e per pietà soccorse
Quei tanto afflitti, e guerreggiati regni?
Il gran Batista; Egli ver Dio sen corse
Forte pregando, e mitigò suoi sdegni.
Per le colpe di Rodi in ira sorse,
Ch'avean d'ogni pietà varcati i segni,
E guardava su lei con fronte carca
Di ben giusto furor l'alto Monarca.

V

Già d'acerbi guerrier tutte cosperse
Avea l'aspro Ottoman piaggie, o pendici,
E già sforzando le difese avverse,
De le mura abbattea gli alti edifici.
Ma non Giovanni rimirar sofferse
Senza conforto i popoli infelici,
E sperando impetrarne alcun perdono,
Di Dio sen venne a l'ineffabil Trono.

VI

Ed ivi ardente, come amore invita,
Parlò cosparso di pietà ben vera:
Alto Dio, la cui forza alta infinita
Non mai per ira i peccator dispera,
Che 'n lor miseria i Rodiani aita
Sperin da tua mercè per mia preghiera,
Etti palese; e s'io per lor procuro,
Di non spiacerne a Te son ben sicuro.

VII

Eterno Redentor, tempra i disdegni,
E di tua gran bontà cresci gli esempi;
Non dar popoli tuoi, non dar tuoi regni
A' tuoi nemici abbominati ed empi;
Quante rie ferità, quanti atti indegni
Su gli aitar forniransi, e dentro i Tempi?
Quante vergini piè verransi a meno?
Deh Dio, deh stringi a la giustizia il freno.

VIII

Così pregando inginocchiato avante
Del Signor stava a l'immortal presenza,
E di vera pietà colmo il sembiante
Tenta per ogni via l'alta clemenza.
A quel parlar commosso il gran Tonante,
Rivolse nel pensier nova sentenza,
E si dispose a dispensar pietate;
Poi queste fece udir voci beate:

IX

In lor gran cecità non mai per certo
Fian ciechi i peccator, s'a' lor peccati
Dimanderan perdon col vostro merto,
O nel colmo del Ciel spirti beati;
Ed oggi i Rodïan del mal sofferto
Godranno il fine, e gli avversarj armati
Vedran sul campo traboccar funesti;
Con sì fatta pietà preghi porgesti.

X

Così diceva, ed il pensier, che chiude
Nel petto eterno, a Gabriel fa chiaro;
Scenda di Sciro in su l'arene ignude,
Ove il grande AMEDEO vinto gittaro
Di concitato mar tempeste crude,
Poi ch'i navigli suoi sparsi affondaro;
Indi per l'ampio mar seco sen vada,
E poi di Rodi al fin gli apra la strada.

XI

Dier lode allor nel Re del mondo intenti
I gran stuoli de gli Angioli, e dei Santi;
E gli aurei cerchi de le stelle ardenti,
E i campi eterni risonaro a i canti.
Ma veste infra soavi almi concenti
Fulgidi vanni a fulgido or sembianti
Quel divin nunzio, e ne fornisce il tergo,
Ed esce fuor del sempiterno albergo.

XII

Qual se poi lungo vagheggiar l'aspetto
De l'aureo sol, de le stellanti sfere,
Move aquila superba aspro diletto
A sanguinar l'unghie ritorte, altiere,
Sù, le nubi nel ciel fende col petto,
E 'n un punto quà giù l'aure leggiere,
E quanto è d'aria infra la terra, e 'l polo
Sembra solcar, sembra varcar d'un volo;

XIII

Tal giù si cala, e le volubil piume
Rivolge intento a l'arenosa sponda,
Ove tra salse, e tra cerulee spume
Il procelloso Egeo Sciro circonda;
Omai de l'alba rugiadosa il lume
Indorava del mar l'instabil onda,
Quando l'Angelo giunse a l'antro ombroso,
Ove in terra AMEDEO prendea riposo.

XIV

Egli lo stuol de' suoi, che 'n mare estinto
Scorse affondar ne la tempesta rea,
Pianse dolente, e se medesmo; or vinto
I nobili occhi in sul mattin chiudea;
Quì fronte annosa, e lungo crin ritinto
In molta neve il messaggier prendea,
E di rigidi manti il busto involve;
Lo scote, e sveglia, indi la lingua ei solve:

XV

O d'arme invitto, e più di cor gentile,
Germe immortal degl'immortali Eroi,
Com'è, che d'ozio neghittoso e vile
Non tuo valor, non tua virtù s'annoi?
Tu di vil plebe a seguitar lo stile
Or volgi riposando i pensier tuoi;
Ma qual poscia in Italia, almo paese,
Fia sculto marmo a le tue chiare imprese?

XVI

Allor di doglia al così dir confuso
Tragge dal mesto cor lungo sospiro,
E diceva AMEDEO: del vulgar uso
L'anima serva a le viltà raggiro?
Io vago d'ozio? che risplenda, o chiuso
Stia 'l sole in mar, questa prigion sospiro?
Ah che quì circonscritto odio la vita,
E conto ore e momenti a la partita.

XVII

Sciolsi spirando in cielo aure serene,
Del gran Sïon per adorar le mura;
Ma su per queste inabitate arene
Ruppe nostri sentier cruda ventura;
Sì tra fere, e tra boschi il ciel mi tiene,
Come tu scorgi e 'l lagrimar non cura;
Così l'onor, di che sperava altiero
Mio nome incoronarsi, omai dispero.

XVIII

Ma tu chi sei? che 'n sì crudel martoro
Anima afflitta visitar non sdegni?
Vivi mortale? od immortal fra loro,
C'han pace eterna in su gli eterni regni?
Se m'appari celeste, ecco io t'adoro;
Toglimi, o Santo, a tanti casi indegni;
O perchè mia memoria indi difenda,
Sì rei destin la bella Italia intenda.

XIX

Così pregava alto gemendo; allora
Sparse d'eletti fior nembo giocondo
L'Angelo intorno; e sè di raggi indora,
Mirabil vista! entro fulgor profondo:
Dice, o guerrier, del cui gran pregio ancora
Memoria eterna fia sacrata al mondo,
A più lieti pensier l'alma rivolta,
E me messo di Dio verace ascolta.

XX

Come risorga il sol, (del mar forniti
I rischi or son: non paventar sue frodi)
Pensa al partir; ma ricercar quai liti
Deggia partendo, di mia bocca or odi;
Asia, Orïente, eserciti infiniti,
Arme d'inferno, aspro guerreggian Rodi,
E mille armate navi, orribil guerra,
Tutto chiudono il mar, chiudon la terra.

XXI

Oppressa da furor barbari ed empi
Sente omai da vicin l'ultimo pianto;
Va tu colà; suoi formidabil scempi
Saran del ciel cura pietosa intanto;
Là fa scudo a gli altar, fa scudo ai Tempi,
E di Savoia sempiterna il vanto;
Così diceva; e di pietate accese
L'anima fida a le sacrate imprese.

XXII

S'invola poscia il volator Divino,
Qual sparisce per l'aure aureo baleno.
Tende le palme, e reverente inchino
Traeva gridi il cavalier dal seno:
Qual celeste pietà, qual mio destino
Ti veste l'ali? e giù dal ciel sereno
A questo afflitto dispensar conforto
Te quì possente messaggiero ha scorto?

XXIII

Deh se ne l'alto ciel fatto hai ritorno,
Mio pronto cor, deh tua pietà non cele;
Esponlo, prego, a' piè di Dio; col giorno,
Qual tu m'impon, dispiegherò le vele;
Pronto a morir, con mille rischi intorno
A' cenni suoi combatterò fedele.
Sì da l'antro deserto, ove ei si serra,
Volgesi a Dio con le ginocchia in terra.

XXIV

Nè così tosto a l'immortal sentiero
Mosse la fulgida Alba il piè celeste,
Ch'ei nel fondo del cor sveglia il pensiero,
Come se stesso a la partenza appreste.
Su l'erma piaggia non pervien nocchiero;
Or come troncherà l'aspre foreste?
Onde bipenne avrà? con quali ingegni
A far naviglio tesserà quei legni?

XXV

In tanto affanno ver la terra inchine
Ferma le ciglia; e giù nel sen non posa
Il cor, che vuol, nè può partirsi; alfine
Ne ritrova la via l'alma animosa;
Vassene a l'aspre rupi indi vicine
Là, 've le navi sue l'onda spumosa
Con lungo assalto tempestando aperse,
E sovra i liti le lasciò disperse.

XXVI

Ivi le travi, che fur scherzo a l'ira
De l'Oceàno, col pensier misura
Intentamente; e benchè rotto, ei mira
Che quasi in stato un battelletto dura;
Ponvi la mano, e su l'asciutto il tira;
Poscia fornirlo, e risaldar procura
Con gli arnesi sdrusciti, e con le sarte,
Che de la vinta armata il mare ha sparte.

XXVII

Ed al fin punta in su la ripa il piede,
E 'n varando il naviglio ei su v'ascende;
E poi da terra allontanato il vede,
Picciola vela agli aquilon distende.
Ma su la poppa non veduto siede
L'Angelo seco, ed al governo attende
Con occhio intento, e per la fragil nave
Spira su lucida onda aura soave.

XXVIII

Nè con sembiante neghittoso e lento
I gran soccorsi rimirava Aletto,
Mostro infernal, cui sol pena e tormento
Di Rodi afflitta empiea di gaudio il petto:
Volse il pensier per mille parti intento
A sviarne il campion dal Cielo eletto,
E quando ella il dispera, aspra s'ingegna
Di far Rodi espugnar prima ch'ei vegna.

XXIX

  Teme del campo a Rodi avverso, teme
Del Tartareo tiranno aspri destini;
Nè può mirar da le miserie estreme
A sua salute i Rodïan vicini.
Arsa tra queste furie ulula, e freme
Livida i guardi, invenenata i crini;
Nè punto cessa intra furori immensi,
Che su lo strazio de Cristian non pensi.

XXX

  Quinci un momento sol non spende in vano;
Ma di Bostange ella vestì sembianza,
E volò trasformata ad Ottomano
Là sotto Rodi in ammirabil stanza:
Ponsi ivi al petto l'una e l'altra mano,
E reverente a la real possanza
La fronte inchina, e le ginocchia piega,
E con tal voce i suoi pensier dispiega:

XXXI

  Perchè dal ferro, e dal travaglio oppressi
Alcuna requie i tuoi guerrier ristori,
Già molti dì dal guerreggiar tu cessi,
E del tuo fiero cor tempri gli ardori;
Rompi i riposi al campo tuo concessi,
E con l'armi risveglia i tuoi furori,
Risvegliali, Ottomano; ecco a gran corso
Sen viene inverso Rodi alto soccorso.

XXXII

A piè de' monti, e fra quelle alpi estreme,
Onde il Francese inver l'Italia scende,
Regna AMEDEO, che di virtù supreme
Quasi un fulgido Sol quivi risplende;
Forte così, ch'ogni nemico il teme,
O se spada impugnando egli contende
Fuor di dorato arcione, o se con asta
Su corridor spumante altrui contrasta.

XXXIII

Deggio forse narrar come possente
Domò l'orgoglio de' vicin nemici,
O ne i regni lontan come non lente
Spiegò l'insegne a sollevar gli amici?
Che più narrar degg'io? l'inclita gente
Sempre in guerra ha vibrato arme felici;
E questi ad emular forte s'accese
Di tanti avi magnanimi l'imprese.

XXXIV

Scoterà forte il tuo sì saldo impero,
Farassi appoggio a queste debil mura:
Sorgi, sorgi, Ottoman; tanto guerriero
Precorri armato, e trïonfar procura.
Sì disse il mostro, e dileguò leggiero,
Come rapido augel per l'aria pura,
E sparsi i nembi, onde egli apparve adorno,
Ivi stridendo se ne va dintorno.

XXXV

Grida Ottomano; e che farà quel forte?
Alzi l'antenne, e quanto può s'affretti;
Vengane omai; dure catene, e morte
Per suo trionfo, il forsennato aspetti.
Rodi sottrar da miserabil sorte?
Ardir cotanto de' Cristian ne' petti?
Perchè non paventar, ch'Europa cada
Sotto il giusto furor di questa spada?

XXXVI

Ma pur da gli atti a reputar costretto
Ch'oltramondano il messaggier si manda,
Benchè rigonfio d'alterezza il petto,
I gran duci del campo a se dimanda.
A pena han de gli araldi inteso il detto,
Che corrono ad udir ciò, ch'ei comanda,
E stan dimessi ad ascoltar sue voci;
Ed ei sì le formava aspre, e feroci:

XXXVII

Rodi soccorso avrà; sì per pietate
Odo, ch'a' Re cristian vien che ne caglia;
Ma pria giungano quì lor navi armate
Certo ella ha da cader per mia battaglia;
Oggi le turbe io vo' veder schierate;
Come risorga il Sol vo' che s'assaglia;
Non sia per gioco mia parola udita;
Chi non avrà valor, non avrà vita.

XXXVIII

Quì fine ei pose a gli orgogliosi accenti;
E quei dimora ivi non fanno alcuna;
Ma ver l'insegne le disperse genti
De' tamburi animosi il suon raguna.
In tanto sul gran pian mille Sergenti
Spiegano tenda di real fortuna,
Di donde rimirar l'alto tiranno
Debba le turbe, che schierate andranno.

XXXIX

Parte di gemme la distinse, parte
D'oro e di seta, inimitabil mano,
Ammirabile sì, ch'ivi con l'arte
Giostrar vedeasi ogni ricchezza in vano;
Di bianche perle intra zaffiri sparto
Ondeggia un tranquillissimo oceàno,
Che i lidi implica; e di tessuto vento
Il fanno tremolar soffi d'argento.

XL

Vedeasi, alto diletto a l'altrui ciglio,
Argo solcarvi; ed il drappello Acheo
Travaglia i remi nel mortal periglio
Per entro i golfi de l'ignoto Egeo:
Canta su cetra, e di virtù consiglio
A ciascun porge incoronato Orfeo;
Quinci liete sen van l'antenne ardite;
Guardale con stupor l'ampia Anfitrite.

XLI

Ver sì gran tenda il gran Signor s'invia;
Seco Sultana a paro, a par movea;
Ed Ebräin mille guerrier per via,
Usata guardia, intorno lor scorgea;
Purpurea vesta ad Ottoman coprìa
Il busto fier, che di piropi ardea;
E cinto su quegli ostri aureo risplende,
Onde al fianco la spada aurea s'appende.

XLII

Di bianchissimi lin turbante altiero,
Carco di gran tesor, fascia i capelli,
E tremano su lui, ricco cimiero,
Gemmate piume di famosi augelli.
Tale in sembianza minaccioso, e fiero
Gli occhi volgea per gioventù più belli,
E spirava nel barbaro ornamento
Per entro ad ogni cor tema e spavento.

XLIII

Ma ne l'anima altrui sol spira amori
Sultana, e foco di letizia pieno;
Sì vincea con la chioma i più fin'ori,
E con la tersa fronte il ciel sereno;
Rubin le labbra, e su la guancia fiori
Avea rosati, e d'alabastro il seno;
Ed in celeste fiamma i guardi accesi
Con dolce asprezza a rimirar cortesi,

XLIV

Cerchio sazio di perle il crin le cinge;
E ricca in pompa di dorati manti
Con la candida mano un scettro stringe,
Che folgora d'elettri, e di diamanti;
Quinci il fiero Ottoman frena, e sospinge
Solo col variar de' bei sembianti,
E sol che vibri de' begli occhi un giro,
Sforza di quel superbo ogni desiro.

XLV

Costei di Regi in glorïosa sorte
Già nei regni di Lidia i lumi aperse,
Ma poscia il Turco in guerreggiar più forte
La grandezza di lor tutta disperse;
Sultana allor se ne correva a morte
Per involarsi a le miserie avverse;
Ma quando ella la destra al ferro porse,
Ottoman giunse, e sul ferir la scorse.

XLVI

A pena scorta, rimirata a pena,
Siccome lampo gli passò nel core,
Ed indi gli trascorse in ogni vena
Fiamma immortal di non provato amore.
Subito il ferro, e la man bella ei frena,
E fervido consola il suo dolore,
E per sua vita ritornar gioiosa
Di se chiamolla imperatrice, e sposa

XLVII

Nè, se l'alba risorge, o 'l carro ardente
Lava ne l'Ocean Febo dorato,
Egli arso, egli anelante unqua consente
Pur da se dilungarsi il viso amato;
Ed oggi a riguardar l'armata gente
In real seggio ei la si vuol da lato,
Perchè del campo ciascun'alma inchina
Volga le ciglia in lei, come in reina.

XLVIII

Musa, che sù nel Ciel sparsa le chiome
Di sempiterni raggi inclita splendi,
E l'opre eccelse, che disperse e dome
Non caschino, dal tempo indi difendi,
Conta le squadre, e de' lor duci il nome,
E di che Regni usciti a narrar prendi;
Che oppressa da l'obblìo spira a fatica
Quì fra' mortali la memoria antica.

XLIX

Le turbe in pria su l'ampio campo andaro,
Che 'n pace avean per la Cilicia albergo,
Il fianco cinte di ritorto acciaro,
E l'arco in pugno, e faretrate il tergo;
Non d'altro il busto, che di seta armaro;
Sprezzano i Turchi luminoso usbergo,
Nè portare elmo in testa han per costume;
Ma tele attorte, e gran cimier di piume.

L

Diciotto insegne tremolando al vento
Lo squadron folto in trapassar discioglie;
A se dintorno cinque volte cento
Ciascuna insegna di pedon raccoglie.
Guidagli Ebreno; ei già canuto il mento
Non sbandisce dal cor fervide voglie;
Ma stima di guerrier vergogna e scorno
L'alma spirar senza dure armi intorno.

LI

Dal genitor sì nobile arte apprese,
Anima inespugnabile, superba,
Ch'oltra sedeci lustri in armi spese
L'etate ad onta de le rughe acerba;
E sì l'asta vibrò, sì l'arco tese,
Che suo nome per l'Asia anco si serba;
Druso appellossi; or di lui fier non manco
Ebreno appar, benchè rugoso, e bianco.

LII

Del vecchio Capitan l'orme seconda
Alfange il bel, che da le belle ciglia
Spande luce sì vaga, e sì gioconda,
Ch'altrui d'amare, e riverir consiglia;
Pel non avea, che su le guancie asconda
La fresca rosa, che fiorìa vermiglia,
E d'or la fronte per lo crin splendea,
Che pura e tersa, e sovra gli altri ergea.

LIII

Pianse la madre il suo partire, e meno,
Quasi a forza di duol, venne sua vita,
Ed inondàr mille donzelle il seno
Piangendo pur quella mortal partita;
Ei fatto sordo, colà sciolse il freno,
Ove tromba di morte a l'armi invita:
Tanto eran giù nel cor sue voglie vaghe
Tutte illustrarsi d'onorate piaghe.

LIV

Venti bandiere ai venti avea suo stuolo,
Che, lui seguendo, di Panfilia uscìa;
E trenta quel, ch'abbandonato il suolo
Fertil di Licia, appresso lor sen gìa;
Erane Arsace il guidator, che solo
A bei raggi del sole un occhio aprìa,
L'altro in battaglia incontrò notte oscura,
Ed ei per gloria i danni suoi non cura.

LV

Fra la barbara turba armi non prese
A seguir d'Ottoman gli aspri furori
Anima di costui via più cortese,
E meno amica d'adunar tesori;
Nè tra 'l periglio de le dure imprese
Porsero preghi con più studio i cori
Per altrui scampo al ciel, nè fer devoti,
Con più frequenza e con più pompa, i voti.

LVI

Ma tutti indarno, e su le piume ai venti
Dissipati per aria al fin sen giro,
Che per man d'AMEDEO tra i primi spenti
Provò l'angoscia del mortal sospiro.
Pianserlo di Chimèra i gioghi ardenti,
E mesti di Limèra, ove l'udirò,
Pianserlo i fonti, e scolorite in viso
Il piansero le ninfe di Telmiso.

LVII

Dietro vien Caria; e rimembrava ancora
Del gran Sepolcro l'immortal fatica,
Onde la polve del consorte onora,
Ben raro esempio, la reina antica;
Turacano era il duce; a lui non fora
Sembiante Orso, o Leon, ch'alpe nutrica,
Tanto è fiero di spirto intra i più fieri;
Ed avea cinque sopra dieci alfieri.

LVIII

Spoglia d'orrido lupo intorno il cinge
Gemmata l'unghie; ed ha faretra altiera
Per mirabili smalti, ove si finge
Tra veneniferi angui aurea Megera;
Nè sola atroce ella minaccia; Sfinge
Spande ivi tosco, e fiamme alta Chimera,
E con lor sembra, che latrar si scerna
Il can custode de la valle inferna.

LIX

Non poca gente indi vestigi imprime,
Che solca i campi della Lidia, e miete;
Di varia pompa ella sen va sublime,
E chiaro il guardo, e le sembianze ha liete;
Non perchè pria, che da l'äeree cime
Suoi corsi in grembo a l'Oceàno acquete,
Sen va Pattòlo intra lucente arena
Torbido d'or con ammirabil vena;

LX

Ma perchè il germe de' suoi regi estinti
Sultana, armata di beltà divina,
I crudi orgogli d'Ottomano ha vinti,
E del suo vincitor vive reina.
Schiera di cigni, che d'albor dipinti
I lunghi colli, in sul Caïstro affina
La voce in sul mattin, sembran costoro;
Sì van cantando la letizia loro.

LXI

Han per iscorta in arme otto stendardi
Col nome di Giassarte a l'aura stesi,
Gagliardo in guerreggiar tra' più gagliardi,
Colmo di spirti in bella gloria accesi.
Non son l'orme di questi a seguir tardi
Gli armati, che di Misia hanno i paesi;
Fur cinque mila; e li conduce Alete,
Mal sempre acceso d'amorosa sete.

LXII

Popol seguìa, ch'abbandonò le rive
Di Xanto, e d'Ida la selvosa altezza,
Ove nude mostrar l'antiche dive
Al mortal guardo l'immortal bellezza;
È duce Alcasto; di costui non vive
Braccio, ch'avventi stral con più certezza;
Quì seco d'armi nove insegne ei mena,
Nè del Xanto rivide unqua l'arena.

LXIII

Ultimi di ciascun mossero il piede
Numerosi di Ponto abitatori.
Questi in cura a Bostange Ottoman diede;
Seco ha cinquanta Capitan minori;
Bostange per età, per lunga fede
Godeva in guerra i più sublimi onori,
Chè là, dove Ottomano oste conduce,
Sempre in vece di lui nel campo è duce.

LXIV

Scita di sangue; per virtù d'ingegno,
Per lingua scaltra, per gentil sembianti,
E per opra di man cotanto è degno,
Ch'a tutti altri guerrier trapassa avanti.
Tanti, e sì fatti fur di ciascun regno
I duci sommi, e fur cotanti i fanti;
Poscia nube di polve al ciel solleva
Squadra, che freno a' corridor stringeva.

LXV

Gli scorge Araspe; ei lungo il mar vermiglio
Ebbe culla in Arabia, almo paese,
E bel fu sì, che con l'ardor del ciglio
In alta fiamma la Reina accese;
Quinci posto di morte in gran periglio,
Lunge dal Re geloso a fuggir prese;
E poscia appo Ottoman cotanto sorse
Che duce in guerra i cavalieri ei scorse.

LXVI

Nè mai per selva trapassar sì fiero
Centauro in caccia rimirò Tessaglia,
Come ei su rapidissimo destriero
Nel polveroso pian move in battaglia;
Cinto di ricca spada, in atto altiero,
Fea per l'aria tremar lunga zagaglia,
Coperto il busto di fregiati argenti;
E gli altri in campo lo seguian non lenti.

LXVII

Son mille, e tutti scelti; arcione, morso,
Scudo, asta, brando di tesor cosparsi;
I bei destrier, che li reggean sul dorso,
Quasi nutriti d'aura, odian fermarsi;
De' ferri al suon, di sì gran gente al corso,
L'onda intorno del mar sembrò turbarsi,
E mugghiò il grembo de le valli erbose,
E le fronti de' monti alte e selvose.

LXVIII

Qual s'avvien, che Vulcan selva divori,
Quando fra l'arse piante Austro discende;
Mirasi il ciel sotto i dispersi ardori,
Ch'orribile a veder, lunge risplende;
Tal da l'armi dorate aurei splendori
Il sol quì tragge, e così l'aria accende,
Che fiammeggiavan di volanti lampi
Le rive, i colli, le foreste e i campi.

LXIX

Sì l'oste in trapassar non men guerriera,
Ch'altieramente dimostrossi adorna;
E quando da mostrarsi altri non era,
Verso i tetti reali il Re sen torna.
Ma fin, che Febo il carro inchini a sera,
La plebe i ferri ad apprestar soggiorna
Dentro le tende, ed hanno i cor conversi
A via più farli impiagatori, e tersi.

FINE DEL PRIMO CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO I.

L'anno 1654, per le stampe di Benedetto Guasco si pubblicò in Genova in forma di 12 la—Amedeida poema eroico di Gabriello Chiabrera con gli argomenti in ottava rima del Forestiero Idrontino e con la vita dell'Auttore (sic) da lui stesso descritta—Dopo la dedicatoria del Guasco a Gio. Francesco Tasso, e dopo l'avviso dello Stampatore, si leggono le parole seguenti:

«Questo poema esce in luce nella forma, che l'Autore lo compose da prima, e vivendo volse, che così appunto si stampasse.»

Come avvenisse che un poema composto dapprima di soli canti dieci, qual si legge nell'edizione del Guasco, crescesse fino a canti 23, quanti se ne contano in quella del Pavoni, può vedersi nelle lettere del Chiabrera a Bernardo Castello, che si stampano dal signor Ponthenier.

Avendo promesso di dare in questa nostra edizione l'una e l'altra Amedeide, e non volendo ingrossare il volume, si è pensato di collocare appiè di ogni canto della maggiore tutte le varietà che s'incontrano nella minore; notando accuratamente tutto ciò che non è in questa e si trova in quella, e riscontrando minutamente l'uno e l'altro esemplare per cavarne le varianti.

Nell'Amedeide minore, innanzi al canto primo si legge così:

SOGGETTO DEL POEMA.

«Che uno Amedeo di Savoja già difendesse Rodi, è fama universale: alcune istorie dicono ch'egli la difendesse da Ottomano Signore de' Turchi; ma qual modo fosse tenuto in difenderla, non si racconta distintamente: come potesse avvenire narrasi in questo poema, per dare diletto a' Lettori.»

Il Forestiero Idrontino che fece gli argomenti all'Amedeida minore, è Andrea Peschiulli, natìo di Corgliano in terra d'Otranto, e perciò detto latinamente Idrontino; e stampandosi quegli argomenti in Genova, tanto lontana dalla sua patria, con ragione poteva darglisi il titolo di Forestiero. Fu amico di alcuni Genovesi, e specialmente del famoso Padre Angelico Aprosio, che ne fa onorevol memoria nella Biblioteca Aprosiana pag. 336 e segg.

Argomento del Peschiulli al canto I. dell'Amedeida minore.

    Prega per Rodi il gran Battista, e scende
    Angelo in Sciro, onde Amedeo ritrove;
    E 'l famoso Guerrier, poichè l'intende.
    Inver l'isola oppressa indi si move.
    Scorgelo Aletto, ed Ottomano accende.
    Perchè gli assalti alla città rinnove;
    Ma il fiero Trace a la Sultana a lato
    Vede prima in gran campo il Campo armato.

Nell'edizione dell'Amedeide maggiore, Genova, Pavoni, 1620, in 4.º dopo il frontespizio si legge il Contenuto del poema, che giudichiamo lavoro del Chiabrera. In esso con poche parole si dà il sommario d'ogni canto. Quello del primo dice così:

«Nel primo canto l'Angelo invita Amedeo a Rodi; il Diavolo ne dà notizia ad Ottomano: egli fa rassegnare; e si parla di Sultana sua Dama.»

NB. Ambedue l'edizioni di questo poema leggono Amedeida, non Amedeide. Non vi hanno varie lezioni nel canto 1.º.

Giudizio dell'Amedeide presentato con data del dì 14 dicembre 1618 al Duca Carlo Emanuele I. da Onorato d'Urfé, Gentiluomo francese a' servigj della R. Casa di Savoja, Marchese di Valromey, e Cavaliere dell'Ordine supremo della SS. Nunziata.

Nel Canto 1º.

1. Non piace al Critico che il Poeta abbia detto, come Dio

    Per le colpe di Rodi in ira sorse,
    C'avean d'ogni pietà varcato i segni.

«Je voudrois plus tost dire, que les Esprits infernaux…. susciterent cet Ottoman pour ruiner les habitans et deffaire du tout celle sainte Relligion (des Chev. de S.t Jean).» Ma il Poeta partì da un principio già proclamato dall'Ariosto, per non citar quì Teologi ed Ascetici, che cioè le guerre barbare o ingiuste, sono da Dio permesse a punire i peccati de' monarchi e de' popoli.

2. Giudica un peu froide la preghiera del Batista, e vorrebbe che S. Giovanni avesse numerate ad una ad una le belle imprese fatte da' Cavalieri e da farsi.—Forse è vero che la preghiera è un po' fredda; ma doveva egli il Batista ricordare a Dio i meriti della milizia di Rodi? Forse che Dio ha bisogno di sapere le cose per le parole de' Santi?

3. Alla preghiera del Precursore Dio si mosse a pietà. Quì nota il Critico: «il faloit que le perdon fui ou devancé, ou suivi de repantance et de quelque grande penitance faitte par eux.» Ma è cosa verisimile che il Poeta volesse dimostrare quanto sia efficace presso Dio la intercessione del Batista.

4. L'Angelo rimproverando Amedeo, che stava in ozio, così gli dice:

  Ma qual poscia in Italia, almo paese,
  Fia sculto marmo a le tue chiare imprese?

Spiace al Critico, che il Poeta ristringa la gloria d'Amedeo «toutte en Italie, qui est, ce me semble, une bien petite partie de la terre.» Credo che il Chiabrera, sempre intento ne' suoi versi alla gloria d'Italia, volesse far comprendere che ad un Principe che possedeva già una bella parte del nostro paese, doveva star a cuore d'esservi specialmente onorato.

5. L'Angelo nel suo primo favellare ad Amedeo, ha tutte le apparenze d'un uomo; e nondimeno il Duca gli dice:

    Vivi mortale, od immortal….?
    Se m'appari celeste, ecco io t'adoro.

Quì starei con l'Urfé, e mei perdoni il Poeta.

6. «Les Turcs se razent tous la teste, et ne portent jamais cheveux.» Dunque errò il Poeta e in questo canto 1.º e ne' seguenti, dando capigliatura ai Turchi.

7. Facendosi a descrivere l'esercito de' Turchi invoca la Musa; di che si sdegna l'Urfé, quasi che il poeta volesse immortaliser les Turcs.—Non merita risposta.

8. «Cette seconde invocation descript la Muse comme la premiere—Crine adorno di stelle e di raggi—Et etant touttes deux dans un même chant il semble qu'elles ne devoient rien tenir l'une de l'autre.» Ma il Chiabrera invoca nuovamente la Musa stessa già invocata nel cominciamento.

9. e 10. Il Poeta non conta se non se mille cavalli nell'esercito de' Turchi; e non descrive mai nè macchine, nè altri ingegni guerreschi che danno bella varietà ai poemi.—Può rispondersi, 1.º che in Rodi non doveva trovar luogo molta cavalleria; 2.º che i Turchi allora, e alcuni secoli appresso, valevano ben poco nell'arte di maneggiare le macchine da guerra.

CANTO II.

ARGOMENTO.

Mentre Folco, onde far Rodi secura,
Rincora i suoi Fedeli, Angelo eletto,
Che d'Argomedo ha presa la figura,
In cheto AMEDEO guida ermo ricetto;
Ma poi ch'ode colui tale ventura,
L'esercito rassegna a se soggetto:
Visita Trasideo la sposa, e veste
La trapunta da lei candida veste.

I

E già per entro il mar l'onde serene
E d'Aquilon piacevole aura gode
Il battel d'AMEDEO sì, che l'arene
Scerne, e su Rodi i fier tumulti Egli ode;
Come del lungo corso al fin perviene
L'Angel, che del viaggio era custode,
L'umida sabbia con la prora fende;
E sul lito AMEDEO fervido scende.

II

Ma forma presa l'invisibil messo
Di canut'uom, verso il guerrier cammina,
E quasi romitel fattogli presso
Salutando umilmente a lui s'inchina:
Ben quì sia giunto il Cavalier concesso
Contra Ottoman da la Bontà divina;
O Signor, lungamente io quì t'aspetto;
E con dolcezza l'accogliea, ciò detto.

III

Rispose il grande Eroe: meco per certo
Nunzio trattò del gran Monarca eterno,
Ch'a Rodi andassi; ma che 'l varco aperto
Esser colà mi deggia io non discerno;
Fra cotante armi d'Ottoman coperto
Fia 'l calle mio? prendi ogni risco a scherno:
L'Angelo giunge; e come l'alte imprese
Han da fornirsi, il ti farò palese.

IV

Or vienne, o Franco; ed ei nel dir non stassi,
Ma move innanzi le vestigia pronte,
E per via dura di scoscesi sassi
Sagliono lenti di Filermo il monte.
Su l'erto giogo con distorti passi
Vite s'inalza, ed adombrava un fonte
Qual di cristal; ma per l'alpestra riva
Oscura a gl'occhi altrui grotta s'apriva.

V

Ermo soggiorno; colà dentro il piede
Portano a ricercar giusto riposo.
Di costa ad AMEDEO l'Angelo siede,
E lo sguardo fisò, come pensoso;
Poi così cominciò: Prencipe erede
Di mille Scettri, onde Torin famoso
D'ogni vera virtute ascende in cima,
E l'alma Italia alto valor sublima,

VI

Il giudicio di Dio, ch'a l'uom s'asconde,
Oh quanto è eccelso! Al divin Seggio intorno
Girasi orror di tenebre profonde,
E lume tal, ch'a gli occhi altrui fa scorno;
Sua voluntate è mar, che non ha sponde;
Però de' rai de l'umiltate adorno
Con silenzio adorando ognun s'acqueti:
Nè cerchiam la cagion dei gran decreti.

VII

L'orgoglioso Ottoman, che i fieri Sciti,
Usi d'intorno errar, siccome fere,
Seco ha raccolti, e sì gli scorge arditi,
Che maneggiano invitti, armi e bandiere,
A pena d'Asia ha soggiogati i liti,
Che ne l'Europa vuol guidar sue schiere,
Palme cercando in esecrabil modi;
Ed or minaccia, e dà battaglia a Rodi.

VIII

Ad essa in guerreggiar fallìa speranza
Per lo suo scampo; ma gentil pietade
Preghiera porse a l'eternal possanza,
Che la coprisse da l'avverse spade.
La Gran Bontà, che tutti preghi avanza,
Consente a' Rodïan più lunga etade
Per fare emenda di lor vita indegna,
E vuol, che 'l campo Turco oggi si spegna.

IX

A sì nobile pregio il Ciel destina
La tua virtù; tu volgerai dolenti
I Turchi in fuga; a la crudel ruina
Tu sottrarrai le Rodïane genti;
Ma ferma in Ciel la volontà divina,
Che quì pugnando i giorni tuoi sian spenti,
E che Signor d'insuperabil spada
Sopra i nemici, vincitor tu cada.

X

Sul fin de le parole affisa il guardo,
Che d'almi rai divinamente splende
Verso il guerriero; ed AMEDEO non tardo
In brevi detti la risposta rende:
I decreti celesti io non ritardo;
Qualunque indugio i miei desiri offende:
Veggasi in questo dì Rodi difesa;
E la mia vita altieramente è spesa.

XI

Tace, e ne gli occhi gli si legge espresso,
Che già travaglia nei maggior perigli
Col gran pensier. Giunge l'etereo Messo:
Oh come da lodar son tuoi consigli;
Oltra il servire a Dio nulla è concesso
In questa valle de gli umani esigli,
Di bene a l'uom: fumo gli scettri, e gli ori;
I veri onor son nei Divini onori.

XII

E se tanto quà giù suole ammirarsi
De' tuoi Grandi Avi l'immortal virtute,
Per te non fieno i vanti al mondo scarsi,
Nè mai le lingue a la tua gloria mute;
Or senti me: fra' Turchi vinti, e sparsi
Tu fatti sordo al lor pregar salute;
Di querele e di duol, per la battaglia,
Vuolsi così nel Ciel, nulla ti caglia.

XIII

E, perchè l'armi tue dure tempeste
Dianzi sparsero in grembo a l'Oceàno,
Non moverai, che Messaggier celeste
Novella spada non ti ponga in mano.
La giù su quelle piaggie atre e funeste
Il mortal guardo scorgerà, se 'n vano
Spera in popoli armati umano ardire,
Quando del sommo Dio risveglia l'ire.

XIV

Più non diss'ei; ma sorridendo sorse
Del basso seggio, e disparendo a volo
Scosse le penne luminose, e corse
Sovra il seren de lo stellante polo.
Ch'era messo del Ciel tosto s'accorse
Il Re sublime, onde su l'ermo suolo
L'inchina umìle, e disïando aspetta
L'ora dal Cielo a sue fatiche eletta.

XV

Intanto al Re de' Cavalier, che 'n petto
Portan candida Croce, erano avanti,
Umidi gli occhi, e da l'interno affetto
Cosparsi di mestizia atti, e sembianti
Alcimedonte, e Timodemo; eletto
Di lor ciascun da' Rodïan tremanti
Per le miserie estreme omai vicine,
De l'aspra guerra a ripregare il fine.

XVI

In lui speranza avean, perchè non meno
Ognor clemente si mostrò, che forte;
Già ne la bella Francia, almo terreno,
Provenza il crebbe in riguardevol sorte;
Ma così fatto zel rinchiuse in seno,
Che sprezzò terre, e rifiutò consorte,
E lontano da' suoi viver sostenne,
Ed a sacrarsi Cavalier sen venne.

XVII

Infra lor gli anni giovenili spese
Trattando l'armi; e su spalmati legni
Tale apparì ne le più gravi imprese,
Che de' nemici sbigottiva i regni;
In ogni opra d'onor cotanto ascese,
Che da tergo lasciossi anco i più degni,
E per maniera tal sua gloria crebbe
Che l'imperio di tutti a regger ebbe.

XVIII

Mentre regnò con disarmata mano
Il nobil scettro al popol suo fu caro,
Ed ora in guerreggiar l'aspro Ottomano
Con virtù non minor veste l'acciaro;
Conforto dunque non sperando in vano
Da l'uomo eccelso i Rodïan, mandaro,
Perch'egli a la città scampo non neghi
In tal tempo, messaggi a porger preghi.

XIX

Essi di sangue, e di ricchezza altieri,
E scaltri a pien per la virtù de gli anni
Avean nel tempo rio fissi i pensieri
A far men gravi de la patria i danni;
Timodemo dicea: tuoi gran guerrieri,
Signor, non fia chi di viltà condanni;
Anzi del chiaro e lor sì nobil vanto
Eterna fama ha da stancar suo canto.

XX

Ha quì tratte Ottoman squadre infinite,
Chiuse le vie del mar, cinte le mura,
E tra ceppi, tra fiamme, e tra ferite
Minaccia fa d'ogni crudel ventura.
E pur con l'alme, e con le fronti ardite
Tengono infino ad or Rodi secura,
Incontra morte coraggiosi e franchi,
E per vegghiare, e travagliar non stanchi.

XXI

Ma senza aita a che cotanto ardire?
Cadremo al fine; or tu consiglia il core,
E del barbaro fier contempra l'ire;
E sottranne con patti al suo furore:
Se nel risco presente, oltra il morire,
Di maggior mal non ci turbasse orrore,
Voce non aprirei; ma quali schermi
Avran le donne e i pargoletti infermi?

XXII

Ah che di sozze abominevol voglie
Rapina fian: quì la rugosa fronte
Gemendo abbassa in su le palme, e scioglie
Giù da le ciglia lagrimando un fonte.
Mentre il vince così forza di doglie
A favellar comincia Alcimedonte,
Non senza affanno; e sì dolor lo strinse,
Ch'a mezzo il favellar gemiti spinse.

XXIII

Miseri noi! cui sole alba non mena,
Nè chiude a sera in occidente il giorno,
Che non ci si minacci aspra catena,
Che duri oltraggi non ci sian dintorno;
E nostra vita gir di pena in pena,
Far su le scure tombe atro soggiorno,
Stillar gli occhi, piangendo i cari ancisi,
E depor sul ferètro i crin recisi.

XXIV

Su ciò volgendo il cor chi fia possente
In petto non raccor somma pietade?
Ma quanto più sarà Rodi dolente
Posta in balìa de le nemiche spade?
Non daranne Ottoman ne l'ira ardente
Esempio d'ineffabil crudeltade?
Non sfogherassi con furori immensi?
Che ciò si vieti a tua virtù conviensi.

XXV

Pensa a la nostra Fe': caro e diletto
Sempre fu vostro imperio a nostre schiere;
Ed or non ci pentiam: tranne dal petto
Alta necessità queste preghiere.
A questi detti serenò l'aspetto
E mostrò Folco le sembianze altiere;
Ma, serbando nel cor la tema ascosta,
Cotale a' messaggier diede risposta.

XXVI

Fedeli, io mossi da Provenza allora,
Che 'l mento ombra di pel non mi copriva;
E fin oggi con voi fatto ho dimora,
De la mia vita omai presso la riva:
Non mento io, no; fin che vivrommi ancora,
Meco di voi fia la memoria viva.
Rodi preposi al mio terren natio;
Come da me porrassi unqua in oblio?

XXVII

Mentre in tal forma il gran Baron consiglia,
Angel scelto di Rodi a la difesa,
La crespa fronte, e le canute ciglia
E d'Argodemo ogni sembianza ha presa;
Al guardo di costui, gran meraviglia!
Spazio alcuno in mirar non fa contesa;
Ma dove di ciascun perde la vista,
La sua più forza, e più possanza acquista.

XXVIII

Quinci è ben noto; or di sì fatto aspetto
L'Angelo si colora; indi apparìa
Là, dove Folco nel real suo tetto
De' suoi l'affanno, e le preghiere udìa;
Dicegli: d'Ottomano anzi il cospetto
Pur ora il campo a schiera a schiera uscìa;
Certo novello orgoglio oggi il commove,
De gli aspri assalti a ritentar le prove.

XXIX

Ma non temete; di vigor ripiene
L'alme vostre fiammeggino: vicino
Oggimai veggo farsi a queste arene
Incontra Turchi un Cavalier divino;
Per salute di noi ratto sen viene,
Trascorrendo di mar lungo cammino,
Il gran guerrier, che di supremo alloro
La Dora adorna, e la Città del Toro.

XXX

Sul fin de le parole ei si disveste
De l'altrui volto, ed invisibil torna;
Ma nel suo disparir, lume celeste
Via più, che 'l sole i regj alberghi adorna;
Qual se gran lampo tra più ree tempeste
Balena in antro, ove pastor soggiorna,
A quei fochi divin tremagli in seno
L'anima rozza, e di timor vien meno.

XXXI

Tal Folco in pria di se medesmo tolto
Immobilmente stassi; indi ravviva
Dio ringraziando, la letizia in volto,
E verso i messaggier le labbra apriva:
Se per scampo di noi, lunge non molto
Move il Grande AMEDEO da questa riva,
Sieno forti le destre, e i cori ardenti,
E di scitico stral non si paventi.

XXXII

Non che sottrarci da fortuna acerba
Con sì forte guerrier non siam bastanti;
Ma sentirà nostre armi Asia superba;
Ma tra catene lasceremla in pianti;
Qual Savoia ne' suoi virtù riserba,
Come di quel gran sangue ergansi i vanti,
È noto, ed ove in mar Febo s'asconde,
Ed ove il carro d'or tragge da l'onde.

XXXIII

Voi la fuor di ragion presa paura
Ammorzate in altrui con nobil voci,
Mentre le torri, e l'assalite mura
Assegno in guardia a Cavalier feroci.
Tale in sembianza a rimirar secura
Folco parlava; i Rodïan veloci
Poi ch'inchinato e reverito l'hanno,
Van per scemare ai cittadin l'affanno.

XXXIV

Ma succinto di spada, altier sen giva
Il vecchio Folco con breve asta in mano;
Ed eccitando i Duci ei pria veniva
Là, v'era in guardia il buon Velasco Ispano.
Questi correndo il mar di riva in riva
Alzò ricchi trofei per l'oceano;
E fra gli Iberi suoi molto s'avanza,
A cui Folco dicea lieto in sembianza:

XXXV

Viensene al fine, e del soccorso giunge
Fama non vana; a' nostri casi indegni
Mosse, o Fernando, ed è da noi non lunge
Il buon Signor de' Savoiardi regni;
Tu, se di vero onor cura ti punge,
L'anima infiamma d'animosi sdegni
Nei novi assalti; e questo debil muro
Fa contra l'armi d'Ottoman securo,

XXXVI

Or ch'ei n'infesta. Le pensose ciglia
Volge Fernando al suo Sovran Signore
Posatamente, ed a risponder piglia
Sponendo altier ciò ch'a lui detta il core:
Quel, che tuo nobil senno or mi consiglia,
Non manco il mi consiglia il proprio onore;
A sua voglia AMEDEO vegna, e non vegna;
Quì non giammai cadrà la nostra insegna.

XXXVII

Lieto lodalo Folco, e quindi i passi
Rivolge, ed affrettando il piede antico
Vien, dove tra' Francesi armato stassi,
Lor cara scorta, l'animoso Enrico;
Or, che per questi rüinosi sassi
Vuoi di novo assalirne il fier nemico,
Che pensi tu? sul combattuto calle
Costringerassi a rivoltar le spalle?

XXXVIII

Tanto sangue fin quì, tanto in battaglia
Sparso da noi sudor, tanto ardimento,
Oggi con esso te cotanto vaglia,
Che non ti prenda d'Ottoman spavento.
Risponde Enrico: de la morte assaglia
Spavento un core a le vili opre intento;
Io m'adornai di questa Croce il petto,
Perchè di bella gloria ebbi diletto.

XXXIX

Così disse egli. Folco oltre cammina
Là, dove, pregio del suo Tebro eterno,
II giovine Giordan, progenie Orsina,
De l'Italica lingua have il governo;
Sue guancie eran qual rosa mattutina,
Che d'ostro ride a lo sparir del verno,
E splende un lume altier negli occhi suoi,
Onde sono usi fiammeggiar gli Eroi.

XL

Ver lui Folco diceva: esser puoi certo,
Ch'ogni forte guerrier quinci a mille anni
Invidïando il nostro nobil merto
Avrà desir di sì lodati affanni;
E s'a' vostri Romani il varco aperto
Fu de la gloria in soggiogar tiranni,
In soffrir pene, in disprezzar perigli,
Deh non sian di viltà nostri consigli.

XLI

E quei risponde: io prontamente attendo
Le vestigia seguir de gli avi altieri;
Siasi Ottoman quanto mai fosse orrendo,
Non fia, che 'n Dio fidando, unqua io disperi.
Folco sì forte la risposta udendo,
Verso una porta allor calca i sentieri,
Onde poteano entrare armi d'aita,
Ed onde far contra i nemici uscita.

XLII

Per quella aspra stagion fido custode
L'animoso Lancastro ivi s'elesse,
Che sorto da la culla, in su le prode
Del bel Tamigi le vestigia impresse;
Chiaro per gli avi; ma superba lode
Acquistò, di sua man con l'opre istesse
Tra' ferri or sotto caldi, or sotto geli
Stancando il fianco, ed imbiancando i peli.

XLIII

A costui Folco favellò: le mura
Già tutte aperte, e da gli assalti offese,
Parte pregando ho già lasciate in cura
Ed a l'Ispano, ed al valor Francese;
Parte non men di lor farà secura
Il valor de l'Italiche difese.
I duci io vidi; e coraggioso e forte
Trovai ciascuno a vilipender morte.

XLIV

Lancastro, alberghi d'oro, alta ricchezza,
Qual sommo ben non ogni spirto ammira,
Ed anco in van scettro real si prezza;
Sì miseria sovente in basso il tira;
Ma tra rischi di morte oprar fortezza,
Vincer la rabbia de' nemici, e l'ira,
E consacrarsi a Dio ciascuno onora;
Ciò dentro il tuo gran cor faccia dimora.

XLV

Rispose: e qual posso incontrar fatica,
Quale oggi sarà stral, che mi percota,
O qual m'assalirà spada nemica,
Ch'altra in guerra simìl non mi sia nota?
Io da l'etate acerba a questa antica,
O per prossima piaggia, o per remota,
Ed in terra, ed in mar vibrate ho l'armi:
Signor, studio soverchio è 'l rifrancarmi.

XLVI

Mentre così dicea, volge animoso
Lo sguardo acceso di terribil lume,
E su l'elmo scotea cimier pomposo
Di fregi d'oro, e di purpuree piume;
Sembra fra' suoi seguaci olmo frondoso,
Che trema i verdi rami in ripa al fiume
Sotto Aquilon. Folco godea, che 'l vede
Fiero cotanto; indi moveva il piede.

XLVII

E venne in mezzo a la città. Raccolto
Fra' termini, che 'l duce ivi prescrisse,
Stava gran stuolo in lucide arme avvolto
Per gir colà, dove chiamarsi udisse.
Folco ivi giunto, fe' sereno il volto,
Ed ivi i passi raffrenando, disse,
Verso color, che con silenzio attenti
Coglieano il suon degli aspettati accenti:

XLVIII

Che ratto in corso a noi difender mova
Campion di fama, e di virtute altiero,
Mentre l'aspro Ottoman forze rinnova,
E schiera turbe ad assalirne, è vero;
Dunque in tale stagion sia nostra prova
Mostrar petto robusto, animo fiero,
E con armata man cercar vittoria,
O con nobile morte impetrar gloria.

XLIX

Così disse egli: un coraggioso ardore
In quelle squadre stimolava i petti;
Ed aprendo le labbra Ottario, fuore
Sospinse altier cotal risposta ai detti:
Diane assalto Ottoman, ch'al suo furore
Questi miei fidi a la difesa eletti
I varchi chiuderan del rotto muro;
In vece loro alzo la destra, e 'l giuro.

L

Gli occhi aperse costui là dove il Reno
Per sì famosa via lava Costanza,
Molti anni in guerra esperto, e quinci il freno
Di quelle armate torme ebbe in possanza.
Folco al parlar di lealtà ripieno
Accrebbe dentro il cor nova speranza;
Poscia i vestigi invìa dentro la reggia,
Ch'altri cercando ivi trovarlo deggia.

LI

E già, lasciando in ciel gli spazj oscuri,
Chiudeasi il Sol ne le marine Ibere,
Quando per nova guardia i fier tamburi
Chiamando van le rassegnate schiere;
E con sembianti a rimirar securi
Avvolto in armi a meraviglia altiere,
Da le cui folte gemme un lume usciva,
Come di stelle, Trasideo sen giva.

LII

A costui di sue grazie il cielo avaro,
Ben largo fu; diegli real beltate,
Sì che sul fior di gioventute è chiaro
Sovra ogni duce infra le squadre armate:
Avea di Lesbo il regno; e i suoi regnaro
Per la Tessaglia a le stagioni andate,
E ne l'orecchie altrui fama spargea,
Che da l'inclito Achille ei discendea.

LIII

Quinci a l'orror de le battaglie volto
Non tralignò; pien di vigore il petto,
Fortissimo di man, sul piè disciolto
Non avea, fuor che d'armi, altro diletto;
Ma pur d'Amore entro la rete involto
All'imperio di lui si fe' soggetto,
E grave piaga volentier sofferse,
Ch'ammirabile donna in cor gli aperse.

LIV

Ella per l'Asia intorno era famosa,
Non pure in patria, ed appellossi Egina,
D'Argesto nata, e de la grande Ermosa.
Suoi nobil pregi ogni superbia inchina;
E beltà Rodi nominar non osa,
Ch'a la beltà di lei vada vicina,
Nè forza di tesor le venìa meno,
Anzi d'ampie castella aveva il freno.

LV

Felice a pien; per Trasideo bramata
Già da' suoi genitor gli si promise;
Ma venne il Turco, e la stagione armata
Celebrare Imenei non gli permise.
Questa beltà fervidamente amata
Ei per mirar alquanto in via si mise,
Dando a gli sguardi suoi, che tempo corto
Avean di rimirarla, alcun conforto.

LVI

Dunque volgendo al caro albergo i passi
Per varchi chiusi a le straniere genti,
Ampia sala trovò, per onde vassi
In loggia aperta a lo spirar dei venti:
Quì con la vecchia madre Egina stassi
Splendida in gonna di tessuti argenti,
E con l'eburnee mani ordiva rete
Di fila aurate, e di cerulee sete.

LVII

Ma come il volto amato ebbe davanti
In repentino oblìo sparse i lavori,
Ed agitata ella cangiò sembianti
Accesa il volto di più bei rossori;
Nè meno in Trasideo; stile d'amanti;
Si destaro nel sen geli ed ardori,
Chè nell'istesso punto or rosso, or bianco
Interrotti sospir trasse dal fianco.

LVIII

Ver lui, che contra lei s'era rivolto,
Si move Ermosa, e con desir l'abbraccia,
Ed indi afflitta gli diceva: ascolto
D'armi orribile suon che 'l cor m'agghiaccia;
Deh chi sarà nel ciel, che quinci tolto
L'aspro Ottoman, così dolente il faccia,
Come gli empi furor del duro Scita
Empiono di dolor la nostra vita?

LIX

Provin, provino, oh Dio! de' nostri affanni
Il gran martir nei proprj lor perigli,
Ed al peso sentir de' nostri danni
Dannati sian lor genitori, e figli;
Ma te la gioventù de' fervidi anni,
O speme del mio cor, sì non consigli,
Che dietro un nome lusinghier di gloria,
Di te stesso, e di noi perda memoria.

LX

Quando lucente, e di metal guernito
T'avanzerai ne le battaglie orrende
Rammenta, Trasideo soverchio ardito,
Di chi piangendo i tuoi ritorni attende.
Sì parla, e giù dal volto scolorito
Calda pioggia di lagrime discende;
Ma non scemando in Trasideo l'ardire,
Verso le donne amate ei prese a dire:

LXI

Guarderà su nel ciel questa mia vita,
Qual per l'addietro, alta Pietà divina;
Vuolsi sperar: non lusinghiera aita
D'uno Italico Eroe fassi vicina.
Con questi detti a confortarsi invita
L'anima bella de l'afflitta Egina;
Ma per conforto in van forma ogni detto:
Cotanto affanno le conturba il petto.

LXII

Ella ver Trasideo rivolge alquanto
Le vaghe ciglia, indi le affisa in terra,
E ne' begli occhi le lampeggia il pianto,
Cui per estrema forza il varco serra;
Poi dimessa dicea: vivrem mai tanto,
Che giunga il fin de l'odïata guerra?
Sì che d'avverse trombe al crudo orrore
Non ci si scota palpitando il core?

LXIII

Che più spero dolente? o che non spero?
E che dirti degg'io? corri in battaglia;
Tu de la patria, e tu di noi guerriero
Posar non dei, quando Ottoman n'assaglia.
Quì Trasideo non tacque: il tempo è fiero;
Con torbido furor Marte travaglia
Nostre speranze; e per trovar salute
È da provarsi in arme ogni virtute.

LXIV

Che fia non so; ben ho fermato in mente
Anzi fra duri acciar correre a morte,
Che del crudo Ottoman l'iniqua gente
Vincitrice mirar dentro a le porte,
Troverò requie infra le turbe spente:
Voi, quale aspetti miserabil sorte,
Eleggo non pensar; tormento immenso
Troppo suolmi assalir, s'unqua ci penso.

LXV

Cotal rivolto a le miserie incerte,
Egli dicea d'ogni speranza in forse.
Ella avendo a' sospir le labbra aperte
Dal nobil cor tale risposta porse:
Che per lo sangue mio fosser sofferte
Viltati indegne il Sole unqua non scorse,
Nè soffrirò, che per innanzi ei scorga,
Ch'a vil catena queste braccia io porga.

LXVI

Diasi Rodi al furor d'aspri nemici,
Chiudano in porto i vincitor le vele;
Me già non mireran Frigi, e Cilici
Portare urne da fonti, e tesser tele.
Per tal modo schernìa l'ore infelici
Tra le minaccia d'Ottoman crudele
La vergine superba; in rimirarla
Alto agitato Trasideo non parla.

LXVII

Ed ella fa recar candida vesta,
Che lungo studio di Meonia gente
Fra gangetiche perle avea contesta,
Giungendo a varia seta oro lucente.
Era quivi a mirar, ch'empio funesta
L'onde spumanti del Troian torrente
Con ampio sangue, e che sdegnoso ancide
Le Dardanie falangi il gran Pelide.

LXVIII

Mirasi poi da gran furor sospinto,
Che de l'estrema tomba il dono ei nega,
E sovra lui, che gli ha l'amico estinto,
Del terribile cor l'ira dispiega;
I piè trafigge al Cavalier già vinto,
E tra le rote del gran carro il lega:
Tre volte intorno a le muraglia ei gira
De i patrii alberghi, e seco dietro il tira.

LXIX

I superbi destrier volve e rivolve,
Il freno allenta ed implacabil fiede;
Ettor s'adombra d'una orribil polve,
E da l'alte sue torri Ecuba il vede.
Di sì nobile spoglia il busto involve
Al Cavalier, cui se medesma diede;
E soggiungea: quì ti sia specchio il vanto,
Onde il gran sangue tuo splende cotanto.

LXX

Sì disse alteramente; indi il sereno
Volto alquanto turbò, nè più ragiona.
Trasideo colmo di gran fiamma il seno
L'amatissima vergine abbandona;
Diparte, e pur tiensi cotanto a freno
Contra il dovuto ardir, ch'indi lo sprona,
Ch'ad ogni passo indietro ei si raggira,
E le bellezze abbandonate mira.

LXXI

Così sen va: poi che le scale ha scese,
E son de la sua donna i rai disparsi,
Al domestico albergo i passi stese,
Ed entra stanza, ove ha per uso armarsi;
Sceglie ivi scudo, luminoso arnese,
Ch'a fochi di Damasco ei fe' temprarsi;
E pronto a Rodi procurar soccorso,
Ov'era il grande Orsin, drizzava il corso.

FINE DEL II. CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO II.

Il Contenuto del canto 2.º

«Nel canto II. il gran Maestro intende che Amedeo viene a soccorrerlo; egli parla co' duci di tutte le nazioni de' Cavalieri; e Trasideo visita Egina sua Sposa innanzi che andare alla muraglia a combattere.»

Argomento del Peschiulli al canto 2.º dell'Amedeide minore:

    De l'ombroso Filermo infra gli orrori
    Spada immortal l'Eroe d'Italia aspetta;
    Affida il Rodian ne' suoi timori
    Angelo, e Folco i Duci a l'armi alletta.
    Va Trasideo da gli amorosi ardori
    Sospinto a visitar la sua diletta;
    Et ha ricamo in dono, ove Pelide,
    Gloria d'ago guerriero, Ettore ancide.

Osservazioni critiche del Cav. Onorato d'Urfé al canto 2.º dell'Amedeide maggiore.

St. 2. «Cette seconde vision de l'Ange est superflue, parce que par la premiere il pouvoit faire la mesme chose.»

St. 5 e 29. «Quand l'Ange et l'Ange Custode parle du pays d'Amedee, l'un le nomme Turin, et l'autre ny ajoute que la Dora. Il me semble que c'est faire tort a la grandeur de son Heros, qui avoit des grandes provinces et des grands fleuves, et mesmes des costes de la mer; de sorte qu'il fallait nommer plutost les Allobroges ou la Savoye, le Pau (Po) et la mer ligustique, que non pas une vile (ville) de Turin et un petit ruisseau comme est la Dora.» Questa osservazione è contraria al costume di tutti i Poeti, die sono usi di nominare la città capitale, e il fiume, grande o piccolo, che la bagna. Così fece ultimamente il Manzoni, che nel 5 maggio nominò l'umile Manzanares, non l'Ebro, nè il Tago. E la Savoja non è dimenticata dal Chiabrera; perchè nella st. 32 di questo canto, si legge

Qual Savoja ne' suoi virtù riserba,

ed appresso, st. 35.

Il buon Signor de' Savojardi regni.

St. 39 «Il dit que l'Orsino etoit chef de la langue italienne et le descrit jeune: cela est contro les statuts de l'ordre de ces chevaliers, parce que telles charges ne se donnent que par ancienneté, et cette ancienneté ne se peut avoir qu'avec l'age.»

Variante del canto 2.º

Amedeide magg. st. 7 L'orgoglioso Ottoman. …… min. ivi Orgoglioso Ottoman.

CANTO III.

ARGOMENTO.

Fan caldi prieghi a Dio le Rodie genti,
Onde aiti l'esercito Cristiano.
Contro Amedeo pieno di spirti ardenti
Prova di guerra far desìa Ottomano:
Muovonsi l'armi ai bellici cimenti;
È ferito de' franchi il Capitano:
Di Fernando per man colpo discende,
Che morto Alfange in sul terren distende.

I

Nè dentro Rodi a l'animosa gente
Solo veggonsi in mano aste e bandiere:
Chè volti in verso Dio gli occhi e la mente
Fansi presso gli altar voti e preghiere.
Di vecchi infermi popolo dolente,
E di donzelle impallidite schiere
Danno a man giunte di pietate esempi,
E meste vanno a' consecrati tempi.

II

Fra lo stuol, che devoto ivi piangea,
Lui, ch'era di quelle alme a guardia eletto
Sì verso lor di caritate ardea,
Che via più, che ciascun lavava il petto.
Greco di sangue, ebbe per patria Eubea,
Poi crebbe in Roma, e Doroteo fu detto,
E poi canuto il crin, bianco le tempie,
Di Pastor sacro i sommi uffici adempie.

III

Chino sul suol con lagrimevol fronte
Nel Redentor fermava i guardi intenti,
E giù dal seno a le preghiere pronte
Apriva il varco tra sospiri ardenti:
Quella pietà, che di Calvario al monte
Già ti fece soffrir tanti tormenti,
Quella nel punto estremo oggi ti pieghi,
Sì che non lasci al vento i nostri preghi.

IV

Mira, che tratti ne l'angustie estreme
Han da vicino irreparabil danno,
E che i popoli tuoi fondar sua speme,
Salvo che 'n tua clemenza, oggi non sanno;
Ma cresce orgoglio, e minaccevol freme
Più sempre in guerra l'Ottoman tiranno,
E tutto gonfio il cor d'empia fierezza,
Le forze umane e le divine ei sprezza.

V

Omai de l'ira tua l'arco disserra,
Doma il superbo, e 'n sua miseria impari
A depor l'armi, e non alzarsi in guerra
Chi del tuo nome eterno odia gli altari:
O fondator de la non mobil terra,
Motor de' cieli, e correttor de' mari,
Odi tua gente, che sospira e grida,
E colma di cordoglio in te confida.

VI

Santi pietosi de l'uman tormento,
Inchinatevi a lui, che non s'adiri
Senza pietà: gran Precursor non lento
Acompagna co' nostri i tuoi sospiri;
E tu del Paradiso alto ornamento,
Che sempre scampo a' peccator desiri,
Oggi al nostro sperar porgi la mano,
Madre di Dio, non mai chiamata in vano.

VII

Per cotal via da' tribolati petti
Spargeano gridi nel supremo affanno
Inverso il Cielo, e per quegli ampi tetti
Voci di pianto e di pietà sen vanno.
Poscia del tempio i Sacerdoti eletti
Alternamente a salmeggiar si danno,
E fan sonar di Dio le glorie sparte
Con alto stil su le sacrate carte.

VIII

Che per entro l'inferno a' suoi desiri
De gli empi spirti ogni contrasto è vano,
Nè mai sa ritrovar, salvo martiri,
S'a lui rubella l'ardimento umano.
Ei del gran Ciel dà movimento ai giri,
Ha de la terra i fondamenti in mano;
Comanda al Sol, che per cammin s'arresti,
Ed i suoi corsi ad ubbidir son presti.

IX

Chi tra i confin de la minuta arena
All'indomito mar costringe l'onde?
Chi gli alti abissi in bella calma affrena?
E chi fa tempestar l'acque profonde?
Dio l'aspetto de l'aria apre e serena,
E torbide su lei nubi diffonde,
Austro addormenta, ed i suoi fiati ei lega,
Ed ei le piume ad Aquilon dispiega.

X

Tabor, fra stuoli morti al pian distesi;
Rupe d'Oreb fra sitibonda gente,
Voi vel provaste; intra ferrati arnesi
Tu tel sentisti, o di Cison torrente:
Tra gran prodigi non altrove intesi,
Gran Nilo, i pregi suoi canti dolente;
E sul terren degli Amorrei fugaci
Di lui temendo, o Gabäon, non taci.

XI

Absorse Faraon l'onda Eritrea,
Le squadre di Moisè franche varcaro;
E mentre che di manna ei le pascea,
Edom, Moabbe e Canäan tremaro.
Così cantando il coro umìl piangea;
Nè le fervide note unqua cessaro
Bench'appellasse con più cupi orrori
Notte a posarsi i miserabil cori.

XII

Ma poi che 'l bel mattin per l'aria pura
D'oro lucido e d'ostro il ciel dipinge,
Alle piume Ottoman pronto si fura,
E veste i regj manti, e 'l brando cinge.
Allor Bostange, i cui pensier la cura
Degli aspri assalti vigilar costringe,
Inchino fassi al gran tiranno appresso;
E così favellava in suon dimesso:

XIII

Sorta da l'Ocëan l'alba lucente
Ne chiama a l'armi: io tue seguaci schiere
Spingerò contra l'assediata gente,
Se così ferma il tuo real volere.
Gli risponde Ottoman: nel dì presente
Mostri quanto ha valor, quanto ha potere
Per la vittoria il mio gran campo: io poi
Dò Rodi vinta in preda ai furor suoi.

XIV

Omai s'atterri; e tenebrosi ardori
Volino al colmo de' suoi tetti egregi;
Tolgansi a' templi le reliquie, e gli ori;
E serbinsi a le donne onte e dispregi.
Questo supremo dì de' suoi dolori
Non vo', che risco, o mia fatica il pregi:
Già così le sue mura ho tratte al piano,
Che contra lei non fa mestier mia mano.

XV

E parmi udir, ch'a' Rodïani aita
S'appressa omai; ch'uno AMEDEO sen viene.
Venga quel fier: sia la sua destra ardita
A farsi rimirar su queste arene.
Io spogliando a costui l'armi e la vita,
Tutto inondando il suol de le sue vene,
Farolio agli altri Re ben chiaro esempio:
Voi dentro a la Città fate gran scempio.

XVI

Sì minaccioso ei favellava; e d'ira
Versa per gli occhi un duro incendio fuora;
Poscia in verso i cavalli il passo gira,
E con Araspe, ed Ebräin dimora.
Quando non più parlar Bostange il mira,
Chinando il capo il sommo Duce onora,
Ed indi parte; e de l'armate schiere
Favella ai Duci con sembianze altiere.

XVII

Ciascuno al fin de le battaglie intento
Rivesta l'armi; ed infiammate in guerra
I magnanimi cor d'alto ardimento.
Hassi a sforzar l'assediata Terra:
E del popol di Rodi il vigor spento,
Dissipate le mura, onde ei si serra,
Il fosso pien, da travagliarsi è poco
Per entrar con l'insegne, e porla in fuoco.

XVIII

Ora in un punto sol vo' che si cinga
La città d'armi, e 'n guisa tal s'assaglia,
Ch'Alfange, Alcasto, e Turacan sospinga
Le turbe tripartite alla battaglia.
Se gli sforzi primier fia che rispinga
L'impeto Rodïan da la muraglia,
Allor Giassarte, e tu feroce Alete,
Meco gli assalti a rinfrescar sarete.

XIX

Ma con Arsace il coraggioso Ebreno
Torranno a guardia ogni spedito calle,
Onde tra ferri e fra tumulti appieno
Secure avran gli assalitor le spalle.
E già Febo salendo al ciel sereno
Ogni monte illustrava, ed ogni valle,
E dentro l'arme i Rodïan ben desti
Con sommo ardire a guerreggiar son presti.

XX

Di nove torri a meraviglia altiere
Afforzasi di Rodi il muro antico;
Tre col valor de l'assegnate schiere
Incontra Alcasto ne difende Enrico;
E sovra tre Fernando alza bandiere,
Che l'intrepido Alfange avrà nemico;
Su l'altre a Turacan, pregio Latino,
Farà contrasto il giovinetto Orsino.

XXI

De' Cavalier su gli onorati petti
Veggonsi sfavillar candide Croci,
E vibrare armi in minacciosi aspetti
Sotto l'insegne i Rodïan feroci.
Folco nei luoghi a la difesa eletti
Raggira, provvedendo, i piè veloci:
Comanda, prega, ed ecco andare in alto
L'orribil suon de l'aspettato assalto.

XXII

Forte eccitando van trombe canore
L'alme già pronte a la crudel contesa;
Ed alza strido d'infinito orrore
La turba al canto di rei bronzi accesa.
Quale in folta foresta acceso ardore;
Qual nei campi del ciel nube scoscesa
Da grave tuon; qual per brumal stagione
Lungo mugghio di mar sotto aquilone:

XXIII

Tal quivi era il rimbombo. Al vento sparsi
Volan verso le mura i fier stendardi,
Nè schifano i guerrier nel corso urtarsi,
Per bella gloria a ben morir non tardi.
Veggonsi a un tempo mille scale alzarsi,
Su portarvi le piante i più gagliardi,
Brandi ed aste vibrar, scoter cimieri,
E prender mira, e saettare arcieri.

XXIV

Pur minacciosi e colmi d'ira i volti,
Le spade in pugno luminose e terse,
Stanno sul varco i Rodïan raccolti
Vendicator de le percosse avverse.
Molti nel fosso traboccavan; molti
Salìan le mura già di sangue asperse;
Chi fier ferìa, chi sul morir piangea:
D'orribile tumulto il ciel s'empiea.

XXV

Tra' coraggiosi, che l'eccelse cime
Preser del muro, e vi fermar le piante,
Era Dragutto a riguardar sublime,
Ne lo stuol d'Ottoman quasi gigante.
Costui da sommo il capo a le parti ime
Taglia del collo il Tolosano Argante,
E sanguinoso in su la terra il lassa;
E contra gli altri sovra lui sen passa.

XXVI

Poi contra Anselmo maneggiò non manco
La larga spada, e sì tra 'l braccio, e 'l collo
Accarna il ferro, e giù discende al fianco,
Che senza più ferir morto lasciollo.
Al dolente guerrier non usciva anco
Piuma sul volto; Baldovin creollo,
Perch'a la patria Angier fosse ornamento;
E da lei lunge in sul fiorire è spento.

XXVII

Mentre a terra cadea, mentre gelato
Se ne morìa: non vanamente il vedo,
Eccomi, Anselmo, a la vendetta armato;
Ver lui gridava l'Angevin Goffredo.
Nè fu contento al dir, ch'entro il costato
Caccia a Dragutto un boschereccio spiedo,
L'ossame frange, e sì crudel sospinge,
Che nel fegato acceso il ferro tinge.

XXVIII

Qual sul tepido Autunno Orso velloso
Le rozze branche e i rozzi piè fatica,
E dolci frutti depredar bramoso,
Su l'alto vien di bella pianta antica,
Ed ivi ingordo tra le frondi ascoso
Empie le fauci, e 'l ventre ampio nutrica;
Spezzansi i rami finalmente, ei cade:
Rimbombo dan le rusticane strade;

XXIX

Tal de lo Scita in traboccando avviene.
Scorselo Alcasto da lontano, e fiero
Incendio d'ira gli avvampò le vene,
E segno dienne, memorando arciero.
Già l'arco teso infra le mani ei tiene,
Arco di smalto, arco di fregi altiero,
Ed una su vi pon tra mille eletta,
Pregio di sue faretre, empia saetta.

XXX

Stava Ridolfo infra lo stuol più folto
Sventolando d'Enrico alto stendardo,
Ed avea d'oro il crin, di rose il volto,
Nato in Bologna a l'Ocëan Piccardo.
Non prima il rimirò, ch'a lui rivolto
Alcasto in petto gli fissò lo sguardo,
Ed a punto ove fermo il guardo ci tenne,
L'acutissimo strale a ferir venne.

XXXI

Per entro l'ossa ha di passar valore;
I polmon squarcia, e sì la piaga è rea,
Che ne le tele, onde è fasciato il core
Via disperge l'umor, che lo ricrea.
Sparso il volto gentil d'atro pallore,
Ei tremò su le gambe, indi cadea.
Miralo Enrico, e per tal modo il mira
Ch'ei fassi esempio d'implacabil ira.

XXXII

Qual su l'Atlante empio Leon, che vinto
Da dura fame, più s'infiamma al pasto,
Allor ch'atroce, e più di sangue è tinto
Il guardo, allor che più 'l ruggito e vasto,
Se incontra armenti, in mezzo lor sospinto
Gli sbrana l'unghia, a cui non è contrasto,
E le tepide membra aspro divora,
E benchè sazio, ne fa scempio ancora:

XXXIII

Tal'era Enrico, ed a pugnar più ria
La spada ei volge, e Reduano assale.
Quando quadrel da la faretra uscìa
D'Alcasto in aria, e sibilò su l'ale;
Spingeasi al cor, ma s'abbassò per via,
E nel ginocchio s'internò lo strale,
E sloga l'osso, onde movendo il passo
Cadde il guerrier sul manco piede a basso.

XXXIV

Presso è Sciriffo; ed egli a' suoi converso
Gridava: o d'Ottoman squadra possente,
Mirate in terra, e di suo sangue asperso
Il capitan de la nemica gente;
Sfoghisi omai sul popolo disperso
L'ira dovuta, mia virtù non mente:
Ecco io per sangue al gran Signor congiunto
Da voi tra' rischi non giammai disgiunto.

XXXV

Egli così diceva. Enrico sorge,
E mal grado del duolo in piè sostiensi;
Poi con fiero sembiante ardire ei porge
A le sue squadre, ed alza gridi immensi:
Estremo risco a guerreggiar ne scorge,
A cari figli il Rodïan ripensi,
Ripensi il Cavalier su la sua gloria,
E ciascun de la Fè serbi memoria.

XXXVI

L'avverso stuol, ch'ode l'orribil voce,
E tanti intorno lui morti rimira,
Ritien per la temenza il piè veloce,
Solo da lunge disfogando l'ira.
Votano le faretre; ognun feroce
Sceglie acute quadrella, e l'arco tira
Sì che repente ad ogni stral nemico
Segno diventa il valoroso Enrico.

XXXVII

Squarciansi de l'usbergo in un momento
Le ricchissime vesti, onde era chiaro;
E del cimier, che si crollava al vento
Lunge le piume dissipate andaro;
Ma de lo scudo nel temprato argento
Di tanti dardi penetrò l'acciaro,
Che nulla più da saettarsi avanza;
Ed ha di folta selva omai sembianza

XXXVIII

Freme il campion, nè da' guerrier s'aspetta
Prova d'alto valor, ch'ei non adempia;
Quando il fiero Ismael scoccò saetta
Da la corda tirata oltra la tempia.
Verso la destra coscia ella s'affretta
Del gran Francese, e sì crudel lo scempia
Che lo trabocca col ginocchio in terra;
Nè però teme, anzi è più franco in guerra.

XXXIX

Mossero allor veloci; un di Roano
Nacque sul lito, ed appellossi Anglante,
Nè di lui pronti men Guelfo, e Serrano,
Chiari in Bretagna, ambo nutriti in Nante.
Costor forti di cor, forti di mano,
Al percosso Baron piantansi avante,
Dando esempio di fede in tempo duro;
Ma ne l'ardir mal fortunati furo.

XL

Chè da lo stuolo in saettar non sazio
Nembo d'acuti dardi a lor sen vola;
E tanti di Serran fecero strazio,
Che ben tosto a la vita egli s'invola;
Nè di provarsi Anglante ebbe più spazio,
Si da non pochi gli s'aprì la gola:
Quattro a Guelfo piagaro il petto, e 'l tergo,
E trasser l'alma dal mortale albergo.

XLI

Ma non per tanto da temenza oppresso
Lascia ogni Turco l'ardimento in bando,
E stan da lunge, e fan vedere espresso
Quanto d'Enrico è paventato il brando:
Chè non venite a guerreggiar dappresso,
Femmine d'Asia? egli dicea gridando.
E pur bramoso di propinquo assalto,
La nobil spada sollevava in alto.

XLII

Quinci fu mosso; e che da spron d'onore
Ben stimolato ad affrontarlo vada
Sciriffo il dimostrò: con tal furore
Egli trascorse, anzi volò la strada.
Ma non prima giungea, che dentro il core
Sdegnoso Enrico gli piantò la spada;
Ivi i nodi de l'anima dissolve,
E di profondo orror tutto l'involve:

XLIII

Poi su lo scudo sanguinoso inchina
I membri a morte infievoliti, e lassi;
Ma verso la sua gente ivi vicina
Preghi facea, perchè fermasse i passi.
In sì rio tempo un Rodïan cammina
Là, dove il fiero Folco armato stassi;
Clinia fu questi, e come avvien, che 'l trove,
Lo riverisce, ed a parlar poi move:

XLIV

Su le torri di Francia il Turco ascende;
Non che si dia le spalle al fier nemico,
Pugnasi; ma colà mentre contende,
Mal sostiensi ferito il forte Enrico:
Uopo è d'aita. Ove ciò dirlo intende,
Volge Folco animoso il piede antico,
E le vestigia sue stuolo seguìa
Di cento armati, a cui dicea per via:

XLV

Non ha Guascogna Cavalier più forte
Del buono Enrico; a la Valetta il pregio
Mai non scemò; s'oggi è caduto a morte,
Prova udirem del suo valore egregio.
Amici, colpo di contraria sorte
A verace virtute è nobil fregio;
Spavento popolar non vi ritegna,
La Fè, la Patria guerreggiare insegna.

XLVI

Con sì nobili detti oltre s'avanza,
E tra' suoi Franchi si conduce al fine;
E visto a pena ei fu, ch'alta speranza
Prese quelle alme a sbigottir vicine:
Gridaro, ed ebbe quel gridar sembianza
Di procelloso suon d'onde marine,
Allor che presso Calpe a l'aer bruno
Trascorre irato il tridentier Nettuno.

XLVII

Così nova risorse aspra battaglia,
Ed a proprio nemico ognun s'afferra;
Forte Abdulen contra Olivier si scaglia,
E fiero Uberto a Soliman fa guerra;
Amuratto a Rinaldo il braccio taglia
Che tien la spada, e lo calpesta in terra;
Carlo fere a Derniso, ove sul fianco
Ha la faretra; ed ei di duol vien bianco.

XLVIII

Fulvio le ciglia ad Acomàte fora,
Onde fur gli occhi eternamente oscuri,
E fora il core a Dragomano ancora:
Tanto il brando cacciò tra gli ossi duri.
Così feriansi, e s'innalzava ognora
Ferocissimo suon d'aspri tamburi,
Ed ognor consigliava a sprezzar morte
L'altiero fiato de le trombe intorte.

XLIX

Quinci tendere gli archi, erger gli scudi
Ciascun s'affretta e raggirar le spade:
Chi urta armati, chi ferisce ignudi,
Chi sorge altier, chi miserabil cade.
Infra tutti con atti a mirar crudi
Via più del sangue ostil lava le strade
Il vecchio Folco: coraggioso sfida
I fier nemici, ed a' seguaci ei grida:

L

Non perdete vigor, saldi le piante,
Di sdegno il petto, o Cavalieri, empiete;
Pronti le mani a l'armi, aspri il sembiante,
Fuggite voi, se me fuggir vedrete.
Ei sì diceva, e sospingeasi avante.
Allor chi spada, e chi ferrato abete,
E chi punta di stral bagnò nel sangue;
Ma pure il Turco in guerreggiar non langue.

LI

Nè meno alzano gridi ire spietate,
Nè men tra' fieri Duci aspra contesa
È sopra Rodi intra le schiere armate
Là, 've dal forte Ispano era difesa.
Parte per vie nei duri assalti usate
Pugna la Turca gente in alto ascesa;
Parte sul muro dissipato a terra,
Senza scale adoprar, fanno aspra guerra.

LII

Quì spirando per gli occhi alto ardimento
Argine fassi a' Barbari furori
Fernando, e sta fra mille rischi intento
Con forte destra a stoccheggiar nei cori:
Per lui Drausso, ed Alifar fu spento,
Che ricchi di Panfilia intra Pastori
Presso le gregge lor per le pendici
Di Sardimiso esser solean felici.

LIII

Come cinghial, cui molti verni alberga
Vesolo ombroso, ove assalirsi mira,
Inverso i cacciatori, aspro le terga,
Dal guardo irato i crudi incendj spira:
E come incontra il fier, bench'ei disperga
L'aste ferrate ne l'orribil ira,
Affretta l'orme, e gli si scaglia addosso
Con strano ardir l'abbaiator molosso:

LIV

Tal sta Fernando, e contra lui per via
Tal fassi Alfange; ei la faretra in posa
Lascia sul tergo, e da vicin ferìa
Sì che romperli il calle altri non osa.
Pur Diego l'incontrò, Diego d'Urìa,
Germe tra' più gentil di Sarragosa,
Di morte sprezzator, pur che si scriva
Suo nome eterno al suo grande Ebro in riva,

LV

In quel momento duro stral pervenne,
Colpo d'Astorgo, al Cavaliere Ispano;
Astorgo in mezzo il petto il guardo tenne,
E sciolse il dardo, e non lo sciolse in vano.
Ch'al tergo il ferro, e sovra il sen le penne
Fur del quadrel: Diego cadde sul piano,
E rimembrando i genitori ei piange.
Ma verso i Turchi favellava Alfange:

LVI

Chi nobile asta, e guadagnar disìa
Ricche faretre, e di bell'or cimieri,
Mostri valor, chè per la destra mia
Ornerallo Ottoman di doni altieri;
Ma chi codardo feritate oblia,
Consorte, e figli più veder non speri;
Or quì lo sbraneran queste mie mani,
E farò del suo cor convito ai cani.

LVII

Nè perchè favellasse il piè ritarda,
Anzi per entro la Cittate ei monta
Fervidamente, e disïoso ei guarda,
S'alcun de' Rodïan seco s'affronta.
Fernando il vede, e par che d'ira egli arda,
E de la gente a guerreggiar più pronta
Ordina squadra bene armata e folta;
Ed a frenare il Turco ei si rivolta.

LVIII

Qual move a' gioghi d'Apennino intorno,
O sul Taburno il più guerrier de' tori,
Che sembra i venti minacciar col corno,
Ch'aure nei piedi, e c'ha negli occhi ardori,
Tal sotto l'elmo di gran piume adorno,
E del dorato scudo intra i fulgori
Ei move. Alfange, che venir lo scerne,
Sente alquanto gelar sue furie interne.

LIX

A se stesso in valor non s'assimiglia
Su quel dubbio momento; il piè sospende,
E di ritrarsi quindi ei si consiglia;
Poscia animoso il suo temer riprende:
Qual spavento di morte oggi mi piglia?
Ottoman che dirà, s'unqua l'intende?
E che dirà costui? parmelo udire,
Ch'egli innalzi trofeo del mio fuggire:

LX

Ah non sia ver giammai. Così contrasta
Per temenza d'infamia a sua paura.
Ma lungamente contrastar non basta,
E fuor sen va dall'occupate mura.
Scotea Fernando la terribile asta,
E dietro gli gridava: aurea armatura,
Alfange, intorno ti vegg'io, ma parmi
Che di guerrier non abbia altro che l'armi.

LXI

Ove ten fuggi? hai sì le piante alate?
Ferma alquanto a mirar come s'onori
Spagna nel risco de le schiere armate;
Ma che? più volte ve l'han detto i Mori.
Sì rivolto a biasmar tanta viltate,
Il faceva arrossir de' suoi timori;
Onde in mezzo del cor sentì fiorire
Di nobile battaglia alto desire.

LXII

Perchè formossi, e co' più fier sembianti,
E pur con guancie di rossor cosparte,
Rispose Alfange: io ti consento i vanti
Perchè la patria te ne insegna l'arte;
Ma pensa tu, che da' leggiadri amanti
Or periglio mortal tienti in disparte,
Nè procuri tra pompe i tuoi diletti
Col porre in corso, e col frenar ginnetti.

LXIII

Hai sugli occhi la morte: alto dolore
A la ria fama ingombrerà Castiglia,
Ove le belle dame arse d'amore
Dal tuo giostrar non rivolgean le ciglia.
Marran: in questo dir, sdegno, e furore
Ad impeto di tigre il rassimiglia,
Ed appressa l'Ispano, e vibra in alto
La spada, e move a più mortale assalto.

LXIV

Cupido di ferir scendea fischiando
Ver la sinistra tempia il crudo acciaro;
Ma con la spada avvicinarlo quando
Fernando il rimirò, favvi riparo;
Poscia la destra e l'affilato brando
Volge a colà ferir, dove legaro
I pieghevoli nervi il busto e 'l braccio;
Ed ivi il frange, come fragil ghiaccio.

LXV

Lunge sul pian da lo spallon reciso,
Come da fonte, il sangue atro discende;
Crollasi Alfange, e vien di neve in viso,
Al fin spossato in sul terren si stende.
Dardagan, che lo sguardo in lui tien fiso,
Di sdegno il petto e di pietate accende,
E corre a lui, ne' cui sembianti mira
Che l'alma giovinetta ancor non spira.

LXVI

Pregio di guerra è dimostrar valore,
Alfange, ei dice, ove il nemico assaglia;
Però, se quinci ti corona onore,
Di piaghe e di morir nulla ti caglia.
E quei, le ciglia, cui mortale orrore
Ad ora ad or più scuramente abbaglia,
Solleva alquanto, e con l'ardire usato
Rende risposta al Cavaliero amato:

LXVII

Vago di gloria e di virtù, sprezzai
Riposo ed or ne la magion paterna,
E tra queste armi di cangiar bramai
Caduca vita a bella fama eterna;
Or ch'io mi mora, e ch'io mi campi omai
Sia cura del gran Dio ch'altrui governa:
Tu, ben ti prego, ad Ottoman fa fede,
Ch'io non morii dando la fuga al piede.

LXVIII

Quì dietro il sangue, che sì largo ei versa,
L'anima vinta in ver le labbra invìa,
E di freddo pallor la guancia aspersa,
Tremando e palpitando ei si morìa.
Ma ne la patria in grave duol sommersa
L'antica genitrice il si disìa,
E stanca il Ciel tutte le notti e i giorni,
Pregando in van perch'egli a lei sen torni.

FINE DEL III CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO III.

Osservazioni critiche

DEL CAV. ONORATO D'URFÈ.

St. 60: «Il dit qu'Alfange est cogneu de Fernande (sic) et meme il le nomme par son nom, combatant avec lui armé de toutte (sic) piece, et de meme Alfange le nomme Espagnol; en quoy il y a peu d'aparance s'il ne dit quelque chose au paravant qui soit cause qu'ils se recognoissent.» Qual maraviglia, che un prode cavaliere spagnuolo sia noto per nome ad un capitano de' Turchi, in una età, quando si combatteva continuo dagli Spagnuoli contro de' Mori, e quando i Baroni cristiani sovente andavano a militare in Oriente contro de' Turchi?

St. 66: «De plus en ce combat il fait qu'un amy d'Alfange luy parla fort long tems et en presance de Fernande; et que peut on panser qu'un ennemi fasse, dans la chaleur d'un combat, ou l'un et l'autre s'estoit blessé.» Ma nell'Amedeide, com'è stampata, non è detto che Fernando fosse presente alle parole che Dardagnano dice ad Alfange; le quali si stendono per soli qualtro versi, che non durano certamente fort long tems.

«Faut noter que toutte la description de cet assaut est fort ennuyeuse, tant parce qu'il est donné sans ordre ny sans art de guerre, que d'aulant qu'il y a fort peu d'incidants qui meritent d'estre racontez, et l'enumeration de tant de morts incognus, et mesmes (sic) tous tuez d'un coup est fort ennuyeuse.

Et encores que Virgile, et au paravant Homere, en ayent quelque fois usé, il n'est pas bon de les imiter en ce que lon les a repriz; outre que les tems sont fort differants et que le poete y doit faire une grande consideration. Outre qu'il n'est pas vrais semblable qu'etant armez ils soient tous tuez d'un seul coup.»

Non credo che il Chiabrera possa meritar lode d'intelligenza nell'arte militare, essendo veramente senz'ordine e senza strategia la sua descrizione dell'assalto dato alla città di Rodi e della difesa che ne fanno i Cristiani. Ma vuolsi pur avvertire che i Turchi non avevano allora quella cognizione dell'arte del guerreggiare, che ora cercano d'apprendere; e tutto facevano con impeto disordinato, supplendo col fanatismo e col numero degli uomini al difetto della scienza guerresca. E quanto a' Cristiani, non eran neppur essi tattici famosi; e il valore individuale, più che la forza delle masse bene ordinate, decideva dell'esito delle pugne. Non vorrei che l'Urfé avesse giudicato de' tempi di Amedeo colle idee e le arti de' tempi di Carlo Emanuele.

Egli è poi certissimo non esser verisimile, che un sol colpo uccidesse cavalieri armati di ferro da capo a piedi; ma il Poeta ci fa intendere assai volte la ragione perchè un guerriero cadesse al primo colpo nemico. Innanzi a tutto diciamo non essere stato mai costume de' Turchi, di ricoprirsi con armature di ferro; e perciò dovevano essi cadere prestamente sotto le spade e le aste de' forti cristiani. In secondo luogo, il Cavaliere cristiano non era invulnerabile; non essendo nè potendo essere l'armatura tutta d'un pezzo; e il pregio degli arcieri e de' più destri combattitori stava in questo di mirare colle saette, e di volgere le punte de' lor ferri, a quelle parti del corpo che non aveano riparo nè d'elmo nè d'usbergo, cioè alle giunture, dove le commettiture de' pezzi diversi dell'armatura lasciano un varco alle punte delle lance, delle spade e degli stocchi. E la storia ci fa conoscere che alcuna volta si perdettero battaglie per la grande uccisione cagionata dall'accorgimento di serrarsi da presso al nemico, e con gli stocchi ferirlo nelle parti vitali, ovunque le commettiture lasciavano un piccolo varco all'armi di punta.

Varie Lezioni.

Amed. magg. st. 2 E poi canuto crin, bianco le tempia. ……min. ivi E per canuto crin bianco le tempia.

La prima lezione è apertamente viziosa, mancando a crin l'articolo che noi vi abbiamo restituito, stamp. il crin.

Amed. magg. st. 3 Di Calvaria al monte. ……min. ivi Di Calvario al monte.

Possono stare amendue rettamente.

Amed. magg. st. 5 E colma di cordoglio in te confida. ……min. ivi E pur da te battuta in te confida.

Nell'Amed magg. la st. 7 finisce così:

    E fan sonar di Dio le glorie sparte
    Con alto stil su le sacrate carte.

Poi seguono le st. 8. 9. 10. e 11. e questa si chiude co' due versi seguenti:

    Ben che appellasse con più cupi orrori
    Notte a posarsi i miserabil cori.

Ma nell'Amed. minore, mancano al tutto le st. 8. 9. 10. e 11, terminando la 7 così come siegue:

    Benchè chiamasse con più cupi orrori
    Notte a posarsi i miserabil cori.

Nell'Amed. min. manca la st. 15 E parmi udir ec.

Nella st. 37 dell'Amed. magg. ambedue l'ediz. leggono Bertagna, idiotismo genovese, che gli operaj delle stamperie avranno posto in luogo di Bretagna.

Le st. 47 e 48 non si leggono nell'Amed. minore.

Amed. magg. st. 63 marran; in questo dir sdegno e furore. ……min. Protervo; in questo dir sdegno e furore.

    Amed. magg. st. ult. L'antica genitrice il si disia.
    ……min. st. ult. L'antica genitrice il si desia.

Il canto III. nell'Amed. magg. ha st. 68: nella min. st. 61.

Argomento del Peschiulli al canto III dell'Amedeide minore.

    Dassi a Rodi battaglia, e i traci arcieri
    Caggiono a fasci, ove combatte Enrico;
    Ma, lui piagato, audace opponsi ai fieri
    Su la rotta muraglia, il Duce antico.
    Fernando, gloria dei famosi Iberi,
    Alfange in altra parte ha per nemico;
    Ma temuto il rampogna, e sì l'offende,
    Che dispossato in sul terren lo stende.

CANTO IV.

ARGOMENTO.

Infiamma Adrasta i femminili cori
Di girne a ritrovar l'aspra battaglia;
E lasciati i domestici lavori
Molte la van seguendo alla muraglia;
I detti di Nicandra i lor furori
A mitigar non han forza che vaglia:
Mentre parla Erimanto alla diletta,
Impiaga il braccio a lei crudel saetta.

I

Per l'armi intanto, e per l'armata gente
Così per entro Rodi alto risuona,
Che men rimbomba, se per l'aria ardente
La gran porta del ciel fulmina, e tuona;
Ed a gravi pensier volta la mente
Quinci Adrasta magnanima ragiona
Nel tempio, ove le donne afflitte il ciglio
Facean preghiera nel mortal periglio.

II

Pria, ch'io pigli a parlar parmi vedere,
Che la parola mia sembrerà strana;
Ond'è giusta ragion farvi sapere,
Che per lo nascimento io son Spartana.
Le femmine colà di sangue altiere
Non disperdono il tempo in tesser lana;
Nè su trapunti coloriti e vaghi
Stancansi maneggiando e sete, ed aghi.

III

Ma ben sono use di faretra incarco
Portar sul tergo, ed affinar gli strali,
E tra foreste insidïando il varco
Trafigger duramente orsi e cinghiali;
Nè pur con forza di saetta, e d'arco
De gli uomini al valor si fanno uguali;
Ma ciascuna lottando il fianco allena,
E correndo la terra imprime a pena.

IV

Fra tai costumi in tale patria nata,
Figlia del ben famoso Onesicrito,
Quì nella terra vostra io fui traslata,
Ove il forte Cleandro ebbi a marito.
Non fia la voce mia dunque ammirata
S'a generosa impresa oggi v'invito;
E s'io v'accendo a dimostrar virtute,
Onde forse la patria abbia salute.

V

Udite voi come ad ogn'or maggiore
Rimbombo empie del ciel tutte le bande?
E che strepito d'armi, e che furore
Di varie voci orribile si spande?
Certo che degli assalti aspro è l'orrore,
E de lo scampo nostro il risco è grande;
E certo, quanto il mio pensier comprende,
De l'estrema speranza or si contende.

VI

Or perchè dunque disperando stassi,
E per noi di campar non si tien cura?
Chè non moviamo, ove si pugna, i passi,
Tentando farne la Città sicura?
Colà con dardi, o traboccando sassi,
Non potrem forse assicurar le mura?
Non potremo versar vasi bollenti
Sovra esso il volto a le nemiche genti?

VII

Ma vero sia, che nostra man non vaglia
Far prova d'armi in così gran perigli.
Fia pur, ch'ogni guerrier ne la battaglia
Quinci a più travagliar si riconsigli:
E come non fia ciò? su la muraglia
Verso le madri mireranno i figli?
Verso le care donne i car consorti?
E poscia a loro pro non saran forti?

VIII

Potran mirar di noi l'egra vecchiezza
Condannarsi a dispregi, ed a martiri?
O lor non peserà, nostra bellezza
Farsi trastullo a barbari desiri?
Non crescerà, non doppierà fortezza
Ogni alma di guerrier come ci miri?
Non diverrà più coraggiosa? Andiamo:
Chi ci ritien? che paventiam? che stiamo?

IX

Nè queste nostre man fien le primiere,
Che tra' nemici sian vedute armate;
Anzi presso ciascun, donne guerriere
Furo famose a le stagioni andate;
Veduta fu tra coraggiose schiere
Magnanima reina in su l'Eufrate
Andar fra' duri strepiti di Marte
Ver Babilonia con le chiome sparte.

X

Ma che più vi dico io? sul Termodonte
Non corse già stagion, ch'ogni donzella
Con le man forti, e con le voglie pronte
Si coceva sul petto una mammella?
E con fier guardo in minaccevol fronte
Esercitava in guerra arco, e quadrella?
E correr si vedea, come se penne
Avesse a' piedi, e maneggiar bipenne?

XI

Se dunque in tanti lochi, e 'n tanti tempi
Tra l'armi il nome femminil s'avanza,
Non dobbiam noi per così chiari esempi
Tra' rischi avvalorar nostra speranza?
Non dobbiam per la patria, e per li Tempi
Vivamente provar nostra possanza?
E ver nemico tal, che da lui vinte
Potremo a gran ragion bramarci estinte.

XII

Non è quegli Ottoman, ch'a strazio mena?
Che porta, ovunque giunge, aspra ventura?
Che vincitor la nobiltà disvena?
E danna i vili a ria prigione oscura?
La costui fiera man pietà non frena;
Ma per le voci di pietà s'indura,
E da la ferità solo ritiensi
Allor, che per lussuria infiamma i sensi.

XIII

Così diceva; ed al fervor dei detti,
Ed a' sembianti altier, con che gli espose,
D'insolito ardimento empieva i petti,
E le donne, ch'udian, fea coraggiose,
E già vedeansi sfavillar gli aspetti,
E già moveansi i piè; quando s'oppose
La canuta Nicandra a quei pensieri,
Disconsigliando a donne atti guerrieri.

XIV

Costei Massa lasciò, lasciò Carrara,
E venne pronta ne la Rodia terra
Presso il figlio Eritreo, di cui ben chiara
Fama trascorse o fosse in pace, o 'n guerra.
Visse ei così, ch'a farsi eterno impara,
S'altri l'imita; al fin sen gìo sotterra,
Lasciando a' Malaspini alme ghirlande,
Progenie sua, che a Val di Macra è grande.

XV

Ella quì prese a favellar; che dica
Voce di fama, e se a guerrier furore
Manifestasse a la stagione antica
La destra femminil tanto valore,
Prender non vuò di esaminar fatica;
Ma ben pensando mi ritorna in core,
Che la fama quaggiù spesso è verace,
E che spesso mentendo anco non tace.

XVII

Vago pensier di seminar diletti,
E d'adescare il popolare ingegno,
Di leggiadre menzogne adombra i detti,
E della verità trapassa il segno.
Ma se il molle candor de i nostri petti,
Se nostra fievolezza a guardar vegno,
Se 'l mansueto cor, per certo parmi,
Che vanamente ci voltiamo a l'armi.

XVIII

Candide mani a bei ricami usate
Vibreran ferro? e da le tele ordite
Trapasserem contra le schiere armate?
Ah? che sarem soverchiamente ardite.
Nè se a risco mortal fien rimirate
Da' nostri cavalier le nostre vite,
Fia di sdegno maggior loro alma accesa,
Nè più feroce ne la ria contesa.

XIX

Anzi pietate, ed amorosa cura,
Che suoi cari oblïar non mai sofferse,
Ammolliran per la crudel ventura
L'anime fiere, a noi mirar converse.
Le destre lor, ne la battaglia dura,
Di barbarico sangue atre e cosperse,
Per noi coprir da le percosse infeste,
Incontra Turchi appariran men preste.

XX

Ben è ver, ch'Ottoman non frena l'ira,
Sempre ingordo via più dei nostri danni,
E del misero dì l'ora desira,
In che noi tutti a giogo vil condanni.
Ma dal ciel Dio grandissimo rimira
Sovra il furor dei perfidi tiranni,
E con sue forze onnipotenti, eterne
I loro orgogli e l'alterezza scherne.

XXI

Pensate a Faraon fra tante pene
Già tanto afflitto; ei rote, arme, destrieri
Già mise in campo per le rosse arene,
Ed affondò se stesso, e suoi guerrieri.
Or non men d'Ottoman sperar conviene,
Se 'l Ciel prende a disdegno i suoi pensieri:
Ed ei gli prenderà, s'umilemente
Ne farem verso Dio preghiera ardente.

XXII

Dunque de l'aste, e dei guerrieri acciari
La cura abbandoniam: nostri campioni,
Nel tempo andato in guerreggiar ben chiari,
Oggi saranno a noi difender buoni:
Noi supplicando a' sacrosanti Altari
Preghiamo il Ciel, ch'a Rodi oggi perdoni
E sul nostro fallir pietà dimostri;
Chè questi son gli abbattimenti nostri.

XXIII

Ella quì tacque, e lagrimosa il ciglio
S'atterra, e verso Dio manda preghiere;
Ed a ben molte fe' mutar consiglio
Di più trovar le combattute schiere.
Ma la Spartana nel mortal periglio
Tien fermo non per tanto il suo volere,
Ratto movendo il piè ver la muraglia,
Per colà ritrovar l'aspra battaglia.

XXIV

Seco non poche; e dal gentil sembiante
Vedeansi sfavillar magnanime ire,
Mentre col passo de le vaghe piante
Movono in atto di guerriero ardire,
E sotto bianchi lini aura volante
Loro rabuffa il crin. Tali apparire
Sul muro, ove s'impiaga, ove s'ancide,
Infra 'l comune orror, Folco le vide.

XXV

Ei raccolse nel cor gran meraviglia,
E, mosso inverso lor senza dimora,
Dice: forse schernisconsi mie ciglia?
Deh che vegg'io non più veduto ancora?
Quale d'armi vaghezza oggi vi piglia?
E chi tanto donzelle oggi avvalora?
Perchè siete fra noi? Certo io non trassi
Con alcun messaggiero i vostri passi.

XXVI

Adrasta, sparsa d'ardimento il viso,
De' lor vïaggi la cagion dispiega.
E Folco allor con un gentil sorriso
Dalla muraglia a dipartir le prega:
Che sia colmo d'amore il vostro avviso,
Certo è senza ragion, s'alcuno il nega;
Ma non dovete voi scemar le lodi,
E far vergogna a i difensor di Rodi.

XXVII

Dunque a nostra onta nell'età futura
Udransi i Turchi, e non pur or vantarsi,
Che per difesa de le patrie mura
Fosser costrette anco le donne armarsi?
Non è ragion; ma se da ria ventura
Può per armata man Rodi salvarsi,
Cessi l'affanno, e rinfrancato il core,
Salvarla queste nostre avran valore.

XXVIII

Or voi presso gli altar fate ritorno,
E meste le ginocchia ivi atterrate,
E pregate il gran Dio, che in questo giorno
Ci sia Dio di clemenza e di pietate.
Noi con man pronte moveremo intorno,
Ed a gli assalti de le turbe armate
Farem contrasto; incontrarem ferite;
E porremo in oblìo le nostre vite.

XXIX

Udendo il gran Baron, gran reverenza
Prese le donne; e tutte unite insieme,
Verso i lasciati altar, fero partenza,
A colà rinnovar preghiere estreme.
Ma pure Adrasta non cangiò sentenza;
Ed a veder, se rimanea più speme
Per la muraglia a passeggiar si diede;
Ed Alcimida movea seco il piede.

XXX

Alcimida bellissima, cui luce
Tanto splendor ne l'ammirabil volto,
Che ad amorosi ceppi ognun conduce
Senza mai disïar d'esser disciolto,
Figlia fu di Feralmo, inclito Duce;
Ei molto in guerra ebbe di gloria, e molto
Lasciò di disïabile ricchezza;
Immensa dote a la costei bellezza.

XXXI

Di quì tra' Rodïan per lei feriti
Fur mille cori, e mille petti accesi;
Ma tutti ardendo rimanean scherniti
E ne le fiamme lor ben vilipesi.
Solo fur d'Erimanto i preghi uditi
Benignamente, ed i sospiri intesi,
Ed a gli occhi di lui porgea conforto
Con dolcissimi sguardi, e non a torto.

XXXII

In altr'uom, gioventù non mai simile
Rodi mirò; viso vermiglio e bianco,
E per nobile sangue aria gentile,
Ed in robuste membra animo franco.
Ma perchè tanto onor sembrasse vile,
La forza del tesor gli venne manco;
Ed a Creùsa, onde Alcimida nacque,
II sì povero pregio unqua non piacque.

XXXIII

Però mai sempre al suo desir ritrosa
Serbò la figlia in solitario letto;
Ed ella il sofferì; perch'amorosa
Non avea, ch'Erimanto, altro diletto;
Ed a ben sostener la fiamma ascosa
Dentro le vene, onde struggeasi il petto,
Tenea, quando poteva, il guardo intento
A rimirarlo, e feane il cor contento.

XXXIV

Quinci mosse dal tempio, ed ebbe ardire
D'appressarsi all'assalto; e quinci schiva
Fu del saggio consiglio al dipartire
Dianzi, ch'ogni altra donna indi partiva.
Or mentre secondando il suo desire,
Pur con Adrasta infra i guerrier sen giva,
Adrasta vide il figlio, e seco a lato
Starsi Erimanto, e vagamente armato.

XXXV

La gran Spartana giù del nobil seno
Grida, o Pelasgo; ed ei si volse intorno;
Ed il sembiante dimostrò sereno
E di vera fortezza il guardo adorno.
Ella soggiunge: non ti tenga a freno
Rimembranza di morte in questo giorno;
Fa schermo a Rodi da' nemici incendi;
Pensa al nome di Sparta, onde discendi.

XXXVI

A tal detti risposta egli non porge;
Anzi con forte piede oltra si spinge,
E nel giovane petto impeto sorge,
Tal ch'a vittoria, od a morir s'accinge.
Ma, la sua donna, ove Erimanto scorge,
A lei s'accosta e di parlar si finge,
E pur di fiamme disïate, e ree
Con gli occhi fissi un lungo incendio bee.

XXXVII

Poscia diceva: o del mio cor conforto,
Unico Sole, onde dovea serena
Farsi mia scura vita, e chi t'ha scorto?
Certo la man d'Amore or quì ti mena;
Chè se nei duri assalti io cadrò morto,
Almen avrò da consolar mia pena;
Poi che sul punto estremo oggi rimiro
Chi per me raddolcisce ogni martiro.

XXXVIII

Sia di tua madre altiera il cor contento,
Chè dato non t'avrà povero sposo,
Quando poco splendor d'oro, e d'argento
Oscura, appresso lei, merto amoroso;
Ma se gli occhi rivolgi al mio tormento,
S'al vivo foco ne le vene ascoso,
Ove infelice mi consumo e moro,
Dirai, che tanta fede era tesoro.

XXXIX

Or così vada, e se cadrommi in guerra,
Memoria serba de' miei lunghi affanni,
E d'un breve sospir degna la terra,
In cui rinchiuderansi i miei verdi anni;
E se di questo amor, che 'n me si serra,
Sarà lingua mortal, che mi condanni
Come superbo, e che trapassi il segno
De la modestia, io di perdon son degno.

XL

Il pregio singolar di tua bellezza,
Ove pregio mortal non può salire,
Mise in cotanto ardor mia giovinezza
Che di teco sposarmi io presi ardire.
Ora che d'oro, e che di fral ricchezza
Altri non mi soverchi, io non vuo' dire;
Potrai con altri consumar tuoi giorni,
Che 'l tuo bel volto di più gemme adorni:

XLI

Ma ne l'amar, nel procacciarti onore,
Ne l'inchinar, nel riverirti appieno,
Al mondo mai non troverassi un core,
Ch'avanzi questo, che ti serbo in seno.
O preghi sparsi, o sostenuto ardore,
O lunga fè mai non venuta a meno,
O quanti mai non furo in petto umano
Da me sofferti affanni; e tutti in vano.

XLII

Mentre l'arso garzon fa sue querele,
Tratto a parlar per amoroso duolo,
Ed ora alza Alcimida al suo fedele
Gli occhi infiammati, ora gli abbassa al suolo;
Ecco d'arco acerbissimo crudele
Venir saetta sibilando a volo,
Che d'altrui pianto, e di far strazio vaga,
A la vaga donzella il braccio impiaga.

XLIII

Disgorga il sangue, e per l'avorio bianco
Va de la mano, ed il gentil vermiglio
Su la guancia rosata indi vien manco,
E nube di cordoglio adombra il ciglio.
Il giovinetto allor tragge dal fianco
Alti sospir nel repentin periglio,
Ed agitato da la smania atroce
Percotendosi il petto alza la voce:

XLIV

Questa dunque d'Amor fia la pietate,
Ove han da consolarsi i miei dolori?
Specchiarmi in queste membra insanguinate,
E vederle coprir d'atri pallori?
O dolcissima fronte, o ciglia amate,
Son pervenuti a fin vostri splendori?
Non fia, che 'l vostro lume io più rimiri?
Qual mio fallo mi dà tanti martiri?

XLV

Deh chi fa per pietà scorta a mia mano,
Si ch'io spenga e disperga il crudo arciere!
Ma lasso me, che quì minaccio in vano,
Ed ei sen va della percossa altiero.
Ah! tra spume l'inghiotta aspro Oceàno;
Ah! pera di dolor sì come io pero.
Quì tace alquanto, e piange; e poscia grida:
Queste ultime parole odi, Alcimida:

XLVI

Se per l'acerba piaga a te fia tolta
Vita più lunga, io vo' sperar, ch'andrai
Su ne l'alto del Cielo, ove raccolta
Fra' canti eterni, eterno albergo avrai;
E da quegli almi seggi a noi rivolta
Co' tuoi begli occhi rimirar potrai
Come intenso dolor, come infinita
Fia destinata angoscia a la mia vita.

XLVII

Povero d'ogni ben, fuor di sostegno,
Specchio a gli afflitti io menerò l'etate,
Ed in odio di me, finchè non vegno
A presentarmi a' rai di tua beltate;
Ma se non dassi dal superno regno
Per un misero cor bando a pietate,
Deh! scendi a consolar col tuo sereno
Se non le mie vigilie, i sonni almeno.

XLVIII

Volea seguir; ma ne l'eburneo petto
Prese novo vigor l'alma smarrita;
Onde la donna a l'amator diletto
Porge conforto, ed a sperar l'invita:
Tempra il timor; non conturbar l'aspetto;
È lieve a sofferir questa ferita;
Sol fa ch'io gema, e che martir ne senta
Veder, che 'l vostro cor tanto tormenta.

XLIX

Mentre così dicea, fosco diviene
L'ostro amoroso in su la guancia smorta.
Allora Adrasta a medicar le pene
Ritorno far ne la magion conforta;
Quinci il fievole corpo ella sostiene,
Quindi parte Erimanto in braccio il porta
Soavemente; e del comune affanno
Pensosi e muti per cammin sen vanno.

L

Giunti a l'albergo de la donna amata,
Tiensi Erimanto in su la soglia; e quando
Son per entrar, la damigella ei guata
Tra pensier varii, e di se stesso in bando;
Nè può voce formar, ma s'acommiata
Altamente gemendo, e sospirando;
E bestemmiando sua crudel ventura,
Volge ratto i vestigi in ver le mura.

LI

Seco dicea: perchè lo strale odioso
Ha l'innocente vergine trafitta,
E non questo mio cor? ch'ei men doglioso,
E men l'anima mia ne fora afflitta.
Oh! d'amore quaggiù mar tempestoso,
Ove rompendo in scoglio ogn'or tragitta.
Ma chi fia tra' mortali, o tra' celesti,
Ch'a nostra aita per pietà s'appresti?

LII

Vergine bella, che sul Nilo a vôto
Facesti uscir de l'altrui senno i pregi,
Ed a l'eterno Dio serbasti il voto
Tra le minacce di superbi Regi,
Questa vergine guarda, ed io devoto
Tue Chiese adornerò d'altari egregi,
E sovra il Sinaì fermando il piede,
Farò memoria di sì gran mercede.

LIII

Sì nudrendo nel cor mesti pensieri,
Volgeva i passi; ed a la fin si trova
Dove Fernando tra' campioni Iberi
D'orribile battaglia arte rinnova.
Lor si giunge Erimanto; e tra' più fieri
Mena la spada, e di morir fa prova.
Saliano i Turchi impetuosi; e quivi
Di caldo sangue trascorrean gran rivi.

FINE DEL IV CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO IV.

1. Di questo canto nulla si ha nell'Amedeide minore; e niente che ad esso si riferisca, trovo nelle osservazioni critiche del Cav. d'Urfé.

2. Gli argomenti del Poeta ai canti III e IV sono i seguenti.

  «Nel III il Vescovo fa preghiere a Dio per lo scampo di Rodi; i
  Turchi danno assalto: della lingua francese è malamente ferito
  Enrico lor duce; Fernando duce degli Spagnoli (sic) amazza Alfange
  Bassà.»

  «Nel IV le donne di Rodi si muovono per andare alla muraglia:
  Alcimida parlando con Erimanto suo innamorato, ivi è ferita.»

CANTO V.

ARGOMENTO.

Incomincia di Marte orrido assalto
Tra le infedeli e le italiane schiere:
Nell'auree sedi dell'eterno smalto
Matteo d'un Doria a pro porge preghiere.
Compie furia infernal quella, che in alto
Morte, mirando in giù dall'alte sfere,
A Giordan degli Orsin Iddio destina:
Ferito Trasideo, tratto è ad Egina.

I

In guisa tal scotea torbido Marte
L'Ispane genti. Su quella ora istessa
Non men fassi aspra guerra in quella parte,
ch'a l'Italiche destre era commessa;
Ivi con asta infra le genti sparte
Chiama suo stuol, se da gli assalti cessa,
In su le mura, e Turacan salito,
Di molti ancisi insanguinava il lito.

II

Spense, fra' molti, Artemidor Visconte,
Di Milan pregio; indi Guiscardo Albano,
Germe de la Città, che sul bel monte
Vagheggia il Brembo, ov'ei trascorre il piano;
Poi nubiloso di furor la fronte
Con guardo fier, come leone ircano,
Contra le spade avverse, aspro fremea,
Ed ad Orcan suo fido alfier dicea:

III

Alza la destra, e lo stendardo porta
Ben oltra, ad onta de la turba indegna.
E quello alfier come il signor conforta,
Sospinse i passi, e sollevò l'insegna;
Ma non sì tosto ha tanta audacia scorta
Che de Riarj un cavalier si sdegna:
Costui nacque sul mar, là dov'ei suona
Battendo il muro a la non vil Savona.

IV

Termo appellossi, e di gran spada armato
Su per le mura sanguinose, immonde,
Ei percosse ad Ircano il manco lato,
E caccia il ferro, dove il fiel s'asconde.
Ratto quei sovra il suol cade gelato,
E de la piaga fuor sangue diffonde,
E mentre afflitto in sul morir sospira,
Pur trabocca dal fiele un fonte d'ira.

V

Allor di mille accenti in se discordi
S'innalza tuon, che tutta l'aria spezza,
Tuono de' Turchi, ch'a pugnar concordi
Essempio dan di sanguinosa asprezza.
Ma tu grande Roman ben ti ricordi
Nel risco fier, de la natìa fortezza,
Nè su quell'ore a sommo duol vicine
Ti prese oblìo de le corone Orsine.

VI

Anzi ti stai come caucàsea sponda
Alzata al ciel presso le rive algose,
Che giù nel basso centro il piè profonda,
E sul dosso sostien foreste ombrose:
Sorge Nettuno imperador de l'onda,
Esercita su lei l'ire spumose;
Ma benchè gli aspri fianchi ogn'or percota,
Ella sprezza gli assalti, e stassi immota.

VII

Tal'era il gran Campion. Dal forte essempio
Mosso è contra nemici alto drappello.
Primier n'andò vago di far gran scempio
Il nobil cor del Parmeggian Torello;
Ma venne d'arco ben lunato ed empio
Sibilando per aria empio quadrello;
Ed al pronto guerrier piagò la coscia,
Che zoppo andarne fu costretto poscia.

VIII

Un, che già bevve di Bologna il Reno,
Nobil Campeggio, a Turacan s'avventa;
E gli s'avventa uno Speron non meno
Pianta gentil de l'Antenorea Brenta;
Ed un cresciuto di Verona in seno
Non punto contra i ferri il corso allenta:
Nacque del sangue Fracastoro antico,
Sangue di Febo e de le muse amico.

IX

Pronto ciascun ne la contraria sorte
Lasciar di sè quaggiù lunga memoria,
Ed acquistar con onorata morte
Su per l'Olimpo non caduca gloria,
Fieri movean; ma di ciascun più forte
Acciar più forte maneggiava un Doria:
Era Telefo altier: stringe la spada,
Ed al rio Turacan rompe la strada.

X

Per questo ardir tanti nemici arcieri,
Quanti su corde tese ebbono strali,
Tutti contra il Campion spinsero fieri
A bagnar nel suo sangue il ferro, e l'ali;
Ma sen giro delusi i lor pensieri:
Tante percosse in lui non che mortali,
Anzi fallaci fur per varie guise:
La Regina del Ciel così commise.

XI

Quando su la prima alba al duro assalto
Sorser le destre de la gente armata,
Stimolata d'Amor sorse ne l'alto,
Del sacrato Matteo l'alma bëata;
Per l'auree strade de l'eterno smalto
Giunse, dove immortal sede stellata
Marìa raccoglie, e colà dove ogn'ora
Da la milizia del gran Ciel s'adora.

XII

A Lei, che d'alma caritate ardenti
Gli occhi volgea, con umiltà si piega,
E con dolcezza di dimessi accenti
Divinamente il suo desir le spiega:
Madre di Dio, s'a l'affannate genti
Già mai conforto tua pietà non nega,
Non oblïar la grazïosa usanza;
Ed or porgi la destra a mia speranza:

XIII

La giù di Rodi a la fedel difesa
Armi veste de' Doria un gran guerriero,
Che ne l'orror de la sanguigna impresa
I sommi rischi incontrerà primiero.
Questi ha ben di pietà l'anima accesa
Verso ogni nume del celeste impero;
Ma più con mente immaculata e pura
A me si volge, e gli onor miei procura.

XIV

Ne la città, che di Liguria i mari
Corregge, alza di marmi altiera mole;
Ed ivi intorno a' sacrosanti altari
Appender voto, ed invocarmi ei suole:
O che sorga la notte, o che rischiari
L'umide nebbie, ritornando il sole,
Che mi si cantino inni, ha per costume,
E ch'ivi eterno mi si nudra il lume.

XV

Unica de' mortali egri, dogliosi
Speme, che 'l mondo di clemenza adorni,
Ferma sovra esso lui gli occhi pietosi,
E fa da l'arme altrui schermo a' suoi giorni.
Sì quel Santo diceva. Altri amorosi
Spirti raccolti ne i divin soggiorni
Segno facean de la lor voglia interna;
Cui diè risposta la Reina eterna:

XVI

Se per nulla virtù nel mondo errante
Fosse quel Duce a gli occhi miei non noto,
Per ch'io ben lo gradissi, era bastante
L'affermarsi da te, ch'è tuo devoto.
Ne l'assalto mortal fermi le piante,
Che 'l tuo giusto desir non andrà voto:
Ogni percossa di nemica mano
Contra la vita sua fia spesa in vano.

XVII

Ella così parlò: quinci secura
Di quel buon cavalier fu la salute,
Mentre cadean ne la battaglia dura
Tanti baron tra le saette acute.
Svegliare intanto Turacan procura
Entro gli assalitor forza e virtute,
Ed il suo stuol ne la cittate invìa,
A cui dincontra il gran Orsin sen gìa.

XVIII

Perchè lasciaste, o di Gesù campioni,
Sul fior de gli anni la paterna sede?
Non perch'ognun di voi fama incoroni
Qual difensor de la cristiana fede?
Eccovi l'ora: a le più ree stagioni
Vostro nobile voto or vi si chiede.
Sì dice, e d'ogni intorno ei si rivolve
Sparso di sangue, in nembo atro di polve.

XIX

Quinci ben pronto a gli ultimi soccorsi
Con rattissimi passi ognun sen giva.
Fra tutti primo un cavalier de' Corsi
Prodotto d'Arno in su la nobil riva,
Infra color, ch'a morte eran trascorsi,
E fra la turba in guerreggiar mal viva
Con intrepido piè giva veloce;
Quando chiamarsi udì con fievol voce:

XX

Bardo, deh posa, e le mie voci ascolta,
Ben che tempo crudel t'inviti a guerra;
Breve ho da favellarti. Ei si rivolta,
E scorge Cosmo de' Capponi in terra;
Vedegli il busto, e l'armatura involta
Nel proprio sangue, e ch'omai gli occhi ei serra;
E segno di virtù palese e certo,
Vedegli il petto in molte parti aperto.

XXI

Chinasi a lui, che tutto inonda il suolo,
E dice: o pregio di Firenze nostra,
Il così rimirarti emmi gran duolo;
Pur verace valor tal mi ti mostra.
E quei risponde: a morte omai men volo,
Sia 'l nome mio ne la memoria vostra,
E fa conto tal'or lungo il bello Arno,
Che bianca croce io non vestiva indarno.

XXII

Questo commetto a la tua nobil fede,
Perchè lo rechi a' miei consorti: chiaro
Quì de gli assalti miei parte si vede.
Si disse; e de lo scudo alzò l'acciaro;
Sferza di gloria a generoso crede
Esser può quel metallo; ivi piagaro
Cento faretre, e del nemico sdegno
Per cento spade è manifesto il segno.

XXIII

Ed ecco alzarsi di più trombe i canti,
E nove arme ingombrar l'alta muraglia:
Ciò furo squadre, che spingeansi avanti
Perchè più forte, e più mortal s'assaglia.
Bardo diceva allor: Cosmo, rimanti;
Non mi lascia più quì l'aspra battaglia:
Tanto farò, quanto per te s'attende,
Se barbarico stral nol mi contende.

XXIV

Ciò detto corse, e con la destra forte
Forte contrasta a' salitori il varco,
Là dove a segno d'infallibil morte
Posto era in terra il Rodïan Nearco:
L'anima di costui per varie porte
Già se ne va, sì di ferite è carco,
Nè più soccorso palpitando aspetta:
Sì gran stuol di faretre ivi saetta.

XXV

Per ciò non teme; anzi 'n dorato acciaro
Stassi de' Martinenghi il fiero Alberto,
Chiaro per sangue in fra Bresciani, e chiaro
Per l'alma Italia d'onorato merto:
D'elmo, che 'n patria i fabbri suoi tempraro
La magnanima fronte è ricoperto,
Su cui di piume alto cimiero ondeggia,
E con la spada in pugno arde, e lampeggia.

XXVI

Era a veder, quale è d'un stagno a i lidi
Gran nibbio; a l'aie ben talor sen vola,
Ma de la villanella udendo i gridi
Non de la chioccia i pargoletti invola;
Quinci infestando i limacchiosi nidi
D'attorte bisce il suo digiun consola,
E col curvo picchiar del becco forte
Le rane gracidose ei tragge a morte.

XXVII

A l'alte prove un Beccarìa presente,
Nato in Pavia, di fulminar non resta,
Crudo a veder, qual Mongibello ardente,
Crudo come Ocèan quando tempesta.
Seco col grido, e con la man possente
Un Castiglion le turbe avverse infesta,
Cui del Sol luminoso a i raggi diede
La città, che nel Mincio altiera siede.

XXVIII

Gonfio di rabbia Turacano intanto
Le fiere labbra ad alte voci aperse,
Gridando: ah gran viltà! spazio cotanto
A dissipar sì poche turbe avverse?
Voi già di tante palme aveste il vanto;
Mal le vostre battaglie Asia sofferse;
Ed ora afflitto, ed affamato stuolo
Vi romperà de la vittoria il volo?

XXIX

  Per questi detti a rinforzar s'appresta
Folta schiera de' Turchi, e l'arme, e l'ire,
E le già tronche membra ognun calpesta
Sordo a querele de l'altrui martire.
Ma ne l'Orsin magnanimo si desta
Di vittoria, o di morte alto desire,
E col sembiante, e con la destra ardita
I suoi seguaci a famose opre invita.

XXX

  Nobil guerrier, che su ne l'alto eletti
Ha Dio con armi a sostentar sua fede,
La bella croce, onde segnate i petti
Vi faccia forza a quì fermare il piede;
Care son queste piaghe; ogni alma aspetti
Per alquanto di sangue ampia mercede
Di celeste corona. E a queste voci
Va tra' nemici con le man feroci.

XXXI

  Al vecchio Alcalde di Laruna taglia
La destra guancia; indi rivolve il passo,
E porta ad Affarèo mortal battaglia,
Nobile abitator d'Alicarnasso;
Poscia fremendo a Goldeman si scaglia,
Squarciagli il gozzo; indi col ferro basso
A Techedel l'epa trafora; ed ambe
Al rapido Gomel tronca le gambe.

XXXII

Sì lo sdegno infiammando, aspro governo
Ei fa de' Turchi, ed a morir li tragge.
Gange non mai, s'unqua ha le sponde a scherno,
Doma sì fier le soggiogate piagge;
Non s'orgoglioso per orribil verno
Il gonfiano di pioggia alpi selvagge;
E per distrutto gel scendendo altiere
L'accompagnano al mar cento riviere.

XXXIII

E già di rotti acciar, d'aste recise,
Di scudi aperti, di stendardi sparsi,
Di membra altre spiranti, ed altre ancise
Sembrano monti d'ogni intorno alzarsi.
Ma fermàti da lunge in varie guise
Non sono i Turchi a guerreggiarlo scarsi:
Piombi, lance, saette, e selci alpestre
Lanciangli incontra l'adirate destre.

XXXIV

Ed ei nol prezza, e contra lor fremente
Su l'elmo scote le cerulee piume,
E da gli smalti de lo scudo ardente
Travolve intorno formidabil lume;
E fra le torme lacerate e spente
Guazza nel sangue, onde trascorre un fiume,
E per tutto col brando aspro s'avventa,
E da lunge co' gridi altrui sgomenta.

XXXV

  Qual fassi entro l'orror d'atra tempesta
Per ermo calle il peregrin già stanco,
Se con monti di ghiaccio alta foresta
Ha da varcar con anelante fianco:
Tale i turchi si fean, lento s'arresta,
Non pur l'orgoglio in Turacan vien manco.
Ma disperando Aletto ulula e mugge,
Nè sa biasmar chi volge il tergo, e fugge.

XXXVI

  In su quel punto dal fulgor profondo,
Onde Egli avvolto immortalmente bea
L'alme celesti, il Correttor del mondo
L'eterno sguardo al grande Orsin volgea:
Non è forza mortal, che trarlo in fondo
Esser possa bastante, Egli dicea,
Nè destra, che più forte abbia la terra,
Può dargli palma di martirio in guerra.

XXXVII

  Ed ei la brama, e da l'immobil core
Più sempre caldi ne raddoppia i preghi;
S'ascolti dunque omai: piaga d'onore
L'anima bella dal mortal disleghi.
Ei così ferma; e l'infernal furore
Lascia, ch'Aletto nel gran fatto impieghi;
E l'orrido demon, quando s'accorse
De la data balìa, rapido corse.

XXXVIII

  Con empia destra non visibil toglie
Al duce invitto il saettato scudo,
E de la spada lo disarma, e scioglie
Da l'elmo il capo, e fa vederlo ignudo.
Quinci i Turchi infiammati, ognun raccoglie
Novo ardimento ed in battaglia è crudo.
Ma Pirro al gran guerrier trafisse il tergo,
Nè resse a la percossa il forte usbergo.

XXXIX

  Giordano allor dal grave duol non vinto
Diceva: o Dio, non vano amor, non sdegno,
Non onor popolar l'armi m'han cinto,
Non cupidigia di tesor, non Regno;
Pugnai per te: s'io ne rimango estinto,
L'immensa tua bontà me ne fa degno.
Quì traboccò: lunge risuona il suolo;
E Turacan corregli sopra a volo.

XL

  Con ferrata asta al cavaliero impiaga
Di nuovo il petto; indi gridava: o fiero,
Che 'l tanto sangue, che dintorno allaga,
Dianzi spargendo te ne andavi altiero,
Or giaci estinto, e i nostri voti appaga.
E Giordan rispondea: Turco guerriero,
Che tra i rischi de l'arme il fianco affanni,
Deh lascia il culto, e di Macon gl'inganni.

XLI

Ei promettendo altrui gaudj supremi
Vi caccia in fondo di miserie orrende;
Ma tu, se brami non fallaci premi,
Corri a la Fè, che 'n Vatican s'apprende.
Quì rinchiuse le labbra a i detti estremi;
E su l'Olimpo a trïonfare ascende,
Ove a' piedi di Dio l'anima grande
Colse d'eterna gloria auree ghirlande.

XLII

Nè fra l'ire de l'armi in lui converse
Giacque ludibrio a non dovute offese
Il busto altier; ma fra le turbe avverse
L'Angelo suo custode in guardia il prese;
Ei d'alma ambrosia medicollo, e terse
L'oneste piaghe, e luminoso il rese;
Ed a sacrarsi lo depose in Roma
Sul nobil monte, che da lui si noma.

XLIII

Qual, senza il buon mastin, pasto diviene
A lo scannar de gli affamati denti
Torma d'agnelli, ove talor sen viene
Lupo notturno intra vellosi armenti:
Tal senza il grande Eroe mal si sostiene
L'usato ardir de le cristiane genti;
Se non, ch'avverso a Turacan sen corre
De' fier Baglioni il coraggioso Astorre;

XLIV

Non scuro lampo di Perugia, degno
D'allor sul mare, e via più degno in terra;
Ma dignissimo quì, dove sostegno
Fassi de l'alme disperate in guerra;
A l'intrepida man giunge l'ingegno,
Sì ch'a' barbari stuoli il varco serra,
Parte col ferro i turchi a terra stende,
Parte i seguaci suoi col grido accende.

XLV

Ah cavalier! dunque dimessi il ciglio
Andrem per l'Asia vilipesi e schiavi?
Non risospingerem tanto periglio?
Ove de' padri? ove il valor degli avi?
Così d'alta virtù porgea consiglio
Il buon campion ne i tempi avversi e gravi,
Nè d'un buon Piccolomini s'affrena
La destra forte, onde vien pregio a Siena.

XLVI

Già di sangue infedel molle il terreno,
Ed è sparso per lui di membra ancise.
Ma benchè fier, benchè possente, a pieno
Atropo di sua vita il fil recise,
Fra tanti, che salìan scorge Algazeno
Di quel ferir le memorabil guise;
E curva l'arco, e 'l tende: indi lo scocca,
Piagalo in fronte, ed il guerrier trabocca.

XLVII

Cresce il tumulto, e la crudel tenzone
Chiama al periglio i cavalieri eletti;
Onde v'accorre il Ravegnan Raspone,
E d'Ancona superba Anzio Ferretti.
Ch'indi ritiri il piè non è campione:
Travagliansi le man, spongonsi i petti
Al crudo acciar, ma Trasideo già privo
D'ogni vigor se ne languìa mal vivo.

XLVIII

Trasideo sorse al primo albore, ed arse,
Le trombe udendo, e fulminò su i vinti,
E sordo a preghi inesorabil sparse
Di sangue il campo, e calpestò gli estinti;
Poi fra le selci per lo ciel cosparse,
E fra gli strali da le corde spinti
Tutto trafitto egli caddeo sul muro,
Ivi fatto a mirar spettacol duro.

XLIX

Macchiansi i crin ne l'atro sangue appresi,
Ch'a l'oro per l'addietro il pregio han tolto,
E su le spoglie de i dorati arnesi
Pure un torbido sangue erra disciolto.
Gli occhi d'ardor già vivamente accesi
Omai non apre, e impallidisce il volto;
E per le parti estreme immobil gela,
E fuor del petto a gran fatica anela.

L

In tale stato duo scudier l'han scorto,
Ismeno, e Codro; e favellava Ismeno:
Codro, che direm noi? del tutto è morto,
O la grande alma anco raccoglie in seno?
E Codro: ecco ei rispira; abbia conforto,
A lui medica man non vegna meno,
Fia forse a la sua vita alcun riparo.
E su le braccia il grave peso alzare.

LI

Indi gemendo tra sospir sen vanno
Suo signor sostenendo, a passi lenti.
Ma Trasideo dal sostenuto affanno
Alza alquanto per via gli occhi dolenti.
Ravvisa i buon scudier, che 'n braccio l'hanno,
E dicea lor con interrotti accenti:
Or come è, che da l'armi io vo lontano?
Più nulla in guerra ha da sperar mia mano?

LII

Dimmi: son forse giunti i dì supremi?
E trascorre Ottoman dentro le mura?
Nò; Codro rispondea: soverchio temi;
Pugnano i cavalieri; Rodi è sicura.
E quì la forza de i dolori estremi
Gli occhi di nuovo al gran guerriero oscura,
E gli toglie il vigor, s'a dire ei prende:
Ma pure Egina mormorar s'intende.

LIII

Quinci il trassero a lei. Con nobil core
Pensava al punto de l'orribil sorte
La vergine real, s'unqua il valore
Del campo Rodïan fosse men forte,
Come sottrarsi al barbaro furore
Dovesse, o se con fuga, o se con morte,
Ferma in non consentir, che mai possente
Sia sovra lei l'abbominata gente.

LIV

Tal su dorato seggio in se romita
Altieramente i suoi pensier consiglia,
E del risco mortal nulla smarrita
A gran pittura ella volgea le ciglia:
Ivi è, che larga de la nobil vita
La terra con acciar facea vermiglia
La Romana Lucrezia, e per diletto
D'alta onestà si trapassava il petto.

LV

Guardavi intenta, e per l'esempio Egina
Via più sentiasi a le belle opre accesa;
Quando con Trasideo fatta vicina
La mesta coppia i suoi dolor palesa;
E le diceva Ismeno: alta Reina,
Rodi dal signor nostro ebbe difesa:
Finalmente cadèo; spirto gli avanza,
Ed abbiam de lo scampo anco speranza.

LVI

Non risponde la donna al dir doglioso:
Chirurghi chiama, ed a' rimedi è presta;
E perchè l'egre membra aggian riposo,
Fa che a tenero letto ei si disvesta;
Ed ella stessa al moribondo sposo
Toglie con franca man l'elmo di testa,
E gli discinge il brando, e 'n tanta pena,
Cotanto è forte, i suoi cordogli affrena.

LVII

Tra così cari uffici alza languente
Lo sguardo alquanto il cavaliero, e mira
La bellissima donna, onde repente
Si disacerba il duol, che lo martira;
Crescere intorno il cor gli spirti sente;
Da l'affannato sen largo respira;
E sotto gli occhi amati ei si rinfranca.
Tanto, ch'a' detti suoi voce non manca.

LVIII

Su l'alte torri, e per la patria armato
Ritrovai morte, ove cercarla è degno;
Ed ora a farmi nel morir beato,
Donna, fra le tue braccia a spirar vegno.
Così disse egli: e per lo sen piagato
Il sangue se ne va senza ritegno,
E del letto cosparge ambe le sponde;
Ed Egina il rasciuga, indi risponde:

LIX

S'unqua varrà studio mortal, se care
Fian ne l'alto del ciel nostre preghiere,
Avrà la doglia, che sì forte appare
Contra lo scampo tuo picciol potere:
Ma queste piaghe, che a mirar sì chiare
Al mondo ammireran l'alme guerriere,
Esserti, o Trasideo, non posson gravi,
Come a gran successor de' tuoi grandi avi.

LX

Io certamente porgo aìta al core
In tanto affanno, e mi conforto alquanto
Ripensando, che 'l ciel diemmi a signore,
Ch'altri nol possa pareggiar col vanto.
Così tenendo a fren l'aspro dolore
L'altera donna dava bando al pianto;
E la turba fedel, ch'ivi dolente
Ode il parlar, con meraviglia il sente.

LXI

Fra l'armi intanto, e ne le ree contese
Era sul muro lo spettacol fiero
Più d'ora in or; colà forte s'accese
D'alto disdegno Emanuel Rovèro.
Questi gentile a pien, dal sangue scese,
Che già de' Longobardi ebbono impero;
E la stanza paterna altier fermava
Là, 've Tanaro d'Asti i campi lava.

LXII

Ma quì sovra elmo luminoso scote
Argentee piume, ed in corazza ardente
Con lunga asta serrata aspro percote,
E tiene a freno d'Ottoman la gente:
O per gran nobiltate anime note,
E per virtù, ciascun si volga in mente
L'antico onor, sospireremlo invano
Se ne l'armi oggidì langue la mano:

LXIII

Sì parla, e va ne la battaglia dura,
Perchè del suo valor prova si scerna.
Ma l'Angel, che di Rodi il ben procura,
Umil parlava a la possanza eterna:
Mova tua pièta grande oltra misura
Contra il furor de la malizia inferna
Di Rodi afflitta la miseria omai,
E per tua destra si sottragga a' guai.

LXIV

Corrono i Turchi minacciando, e lieti
Omai di certa speme empiono il petto:
Io non m'oppongo lor, chè tu mel vieti;
E di tua volontate il cenno aspetto.
Sì chiedeva di Dio gli alti decreti
L'Angel di Rodi a la difesa eletto
In zelo ardendo, e con dimesse fronti
Pure altri spirti a ripregar son pronti.

FINE DEL V CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO V.

Argomento del Poeta, nell'Amedeide maggiore:

«Nel V. narrasi l'assalto fra Turchi e fra Italiani: Giordano Orsino lor duce rimane morto; Trasideo pieno di ferite è condotto ad Egina sua sposa.»

«Argomento del Paschiulli al canto IV dell'Amedeide minore, che in parte corrisponde al V della magg.

    Dopo chiare prodezze il grande Orsino
    Cade sui muri, e sale in ciel beato;
    E Trasideo, quasi a morir vicino,
    Si rinfranca in veder l'idolo amato.
    D'arnesi, ove sudò fabbro divino,
    È per Michel l'Eroe fatale armato,
    E da procelle accompagnato e lampi
    Fa di scitica strage orridi i campi.

Osservazioni critiche del Cavaliere d'Urfé al canto V.

«Je ne dis rien icy de la remarque que V. A. a faitte fort a propos de ce que N. D. sauve le Doria, qu'il favorisse presqu'autant qu'Amedee, et plus beaucoup que Folques le grand maistre; ce qui n'est pas raisonable et ne le peut excuser, si non qu'il est genevois (vuol dire génois) aussy bien que l'Auteur.» I poeti epici hanno un personaggio, che non è il principale, ma cui danno una grandezza e virtù ideale; nè alcuno mai pensò di condannarli con sì grave sopracciglio, come fa il censore dell'Amedeide. Bastino gli esempj di Turno nell'Eneide e di Rinaldo nella Gerusalemme.

«La longue enumeration des tuez d'un seul coup est si ennuyeuse que le lecteur ne se peut empescher d'en desirer la fin; parce il ny voit rien de nouveau, et que le plus souvent il ny a que les noms tous seuls, et encore des noms si facheux a prononcer qu'il est impossible presque de les lire sans y faillir.» Quanto alla parte prima di questa censura; cioè alla lunga lista di morti uccisi d'un colpo solo, si è già risposto nelle annotazioni al canto III. Se al censore piacque di ripeterla, a noi spiace d'annojare i lettori.

Riguardo ai nomi così malagevoli a pronunziare, il signor d'Urfé non è giudice competente. A me riesce più facile pronunziare, per es. Orsino che de Bouflers, Trasideo che Bouchicaut ecc.; ma io non conosco come fosse formato il timpano, nè come fatta la lingua dell'Urfé.

«Il faut notter qu'il met force noms de maisons qui n'etoient point en lumiere en ce temps la, ou pour le moins qui estoient si vils qu'il ne pouvoient etre mis au rang ou il s'en sert, comme de Fracastor, Caponi, et plusieurs de Savonne; en quoy il fait tord a ceux qu'il nomme et qui etoient veritablement illustre (sic) en ce temps la.»

Tra le doti egregie dell'animo del Chiabrera, non è ultima quella di uno sviscerato amore per la gloria dalla nazione italiana. Guidato da sì nobile sentimento volle fingere che all'assedio di Rodi si trovassero molti cavalieri italiani; dando loro i cognomi o di qualche famiglia per feudi e per guerrieri famosa, come Doria, Orsini e Baglioni; o per sommi letterati illustre, siccome Fracastoro e Castiglioni. L'amor di patria fecegli introdurre nel poema un Riario savonese. L'amicizia gli dettò d'innestarvi un Corsi fiorentino ed uno Sperone, padovano: per altre città scelse a piacere tra' cognomi più nobili; per es, in Asti i Rovèro, in Ancona i Ferretti. Vero è che non tutte queste case erano egualmente famose a' tempi di Amedeo; ma un poema non è un albero genealogico.

«Le discours de Codre et de son compagnon, qui parlent si longuement entre eux quand ils rencontrent leur maistre en terre est bien superflu, car encores que il eust esté mort, tousiours estoit (sic) ce bien fait d'emporter le corps de leur maistre pour l'enterrer: a quoy donq'tant de propos se demandant s'il est en vie et s'ils l'emporteront?»

Nell'Amedeide, qual va stampata, tutto il lungo discorso di Codro e del compagno è ristretto in meno di cinque versi (V. 50):

    In tale stato duo scudier l'han scorto,
    Ismeno e Codro; e favellava Ismeno:
    Codro, che direm noi? del tutto è morto,
    O la grand'alma anco raccoglie in seno?

    E Codro: ecco ei respira; abbia conforto,
    A lui medica man non venga meno:
    Fia forse alla sua vita alcun riparo.

    E sulle braccia il grave peso alzaro.»

Ma forse nel MS. presentato dal Poeta al Duca il dialogo degli scudieri sarà stato più diffuso.

Varianti del canto V, che nella minore è il quarto.

Mancano alla minore le stanze 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, e 18; perciocchè dall'ultimo verso della st. 8.

Sangue di Febo e de le muse amico,

si trapassa alla st. che comincia,

Quinci ben pronto agli ultimi soccorsi,

che perciò è la 9 nell'Amed. min. e la 19 nella maggiore.

Nella st. 34 della magg.

Travolve intorno formidabil lume.

Ma nella minore, st. 24: Involve intorno formidabil lume.

La st. 25 della min. finisce in questa guisa:

    Nè pur l'orgoglio in Turacan vien meno;
    Anzi al gran Cavalier trafigge il tergo,
    Nè resse alle percossa il forte usbergo.

Seguita poi la st. 26.

    Con ferrat'asta al Cavalier impiaga
    Di nuovo il fianco ecc.

Al contrario l'Amed. magg. ha questa varietà. La st. 35 si termina alquanto diversamente:

    Non pur l'orgoglio in Turacan vien meno;
    Ma disperando Aletto ulula e mugge,
    Nè sa biasmar chi volge il tergo e fugge.

Appresso si leggono le st. 36, 37, 38 e 39; e quella che nella minore è st. 26, nella maggiore è 40:

    Con ferrat'asta al Cavaliero impiaga
    Di nuovo il petto ecc.

Dopo la st. 60 della maggiore che si chiude

Ode il parlar, con maraviglia il sente,

si leggono quattro stanze 61—64; e si chiude il canto V; dove al contrario nella minore, subito dopo il verso allegato, si continua il canto IV:

    Ma verso il campo i lumi eterni inchina
    Il Re del Ciel ecc.

Di questa stanza e delle seguenti il Poeta formò il canto VII. Laonde nulla si ha nell'Am. piccola di ciò che forma il canto VI della maggiore.

CANTO VI.

ARGOMENTO.

Vien d'Ilario AMEDEO presso al ricetto
Là del Filermo fra l'orrore ombroso:
Quì di matrona in simulato aspetto,
Pianti versando in mesto atto e doglioso,
Gli si fè incontra l'infernale Aletto;
E 'l ver tenendo in falsi detti ascoso,
Invan tentò con sue malizie e frodi
Che gisse il gran Campion lunge da Rodi.

I

Aletto in tanto per lo giogo ombroso
E del Filermo ne l'alpestro orrore
Scorse AMEDEO, che di pugnar bramoso
Da travagliarsi in armi attendea l'ore.
Ei da l'antro selvaggio, ove nascoso
La notte soggiornò, sen venne fuore
A guardar, se fra l'orride foreste
Scender vedeva a sè nunzio celeste.

II

Alza la fronte, e per lo ciel tal volta
E per gli aerei campi il ciglio gira,
Nè men tal volta de la selva folta
Tra pianta e pianta intentamente mira;
Nulla non vede, e via più sempre ascolta
Fiero rimbombo di minaccia e d'ira,
E de le trombe eccitatrici i carmi,
E 'ntorno Rodi ogn'or gridarsi a l'armi.

III

Quinci ratto assalir l'infide genti
Grande gli corre ardore entro a le vene.
Come Leon se pascolare armenti
Vede oltre al fiume ne le piaggie armene
Ben l'unghie indura, e bene arrota i denti,
E ben farìa sanguigne erbe ed arene;
Ma pur paventa di superbia carco
L'ampia riviera, che contrasta il varco.

IV

Tal fu del gran guerrier. S'avvampa in seno
Di dare assalto, ed a pensar poi prende
Sovra l'Angelo apparso, e' tiensi a freno,
E, sofferendo, i suoi ritorni attende.
Così con lenti piè l'ermo terreno
Va trascorrendo, ed ora sale, or scende
Fin che trova bagnar l'alpestri sponde
Dolce ruscel di limpidissime onde.

V

In su la destra e su la manca riva
Foltissime innalzarsi orride e dure
Quercie vedeansi; e non giammai s'apriva
Strada a' raggi del sol per l'ombre oscure;
E di loro ogni tronco al ciel saliva
Non mai percosso da villana scure,
Nè mai soleasi al bello orror selvaggio
Far da' pastori o da gli armenti oltraggio.

VI

E non senza ragion: quivi soggiorno
Già scelse Ilario. Era costui ben chiaro
Per suoi tesori, e di virtute adorno
Pregi di nobiltate anco l'ornaro;
Ma per far più spedito al ciel ritorno,
Contra gli agi del mondo ebbe riparo
A l'aspra povertate; e' in questi liti
Trasse de la sua vita i dì romiti.

VII

Ei quì di vimi rusticani un tetto
Per sè compose; e non usate piume,
Ispide paglie gli prestavan letto,
Mentre Febo nel mar chiudeva il lume:
Furono i manti suoi bigio negletto;
I cibi l'erba, le bevande il fiume:
E di mille infelici a sè devoti,
Umil pregando, egli adempieva i voti.

VIII

Mute lingue sciogliea; grazie divine;
E di febbri cessò ghiacci ed ardori;
Ed ad ogn'or per quelle strade alpine
Apparìan zoppi, e divenìan cursori;
Onde poi giunto de la vita al fine
Lasciò ver sè tanto amorosi i cori,
Ch'a dimostrare altrui siccome degno
Fosse d'altiero onor, si fece segno.

IX

Ersero quì di bianca rupe e dura,
Colonna sposta a' guardi anco lontani,
Su cui del famoso uom l'aurea figura
Giunte levava al cielo ambe le mani:
Ma ne la base non vulgar scultura
Segna le vie de gli esercizii umani,
Dando a veder, ch'al gran Signor di sopra
Servesi or col pensiero ed or con l'opra.

X

Vedeasi Elìa, che senza tema alcuna
L'empio furor di Giesabel sopporta
Sul monte; ed a nutrir l'alma digiuna
Il sollecito corbo esca gli porta.
In altra parte Gedeon raguna
Sua gente al fiume, ed ivi a ber conforta;
E de l'immenso stuol sceglie trecento,
Che di prodezza dier chiaro argomento.

XI

Fisso AMEDEO ne la scolpita istoria
Dal profondo del cor tragge tai detti:
Felicissimi spirti, a tanta gloria
Dal monarca del cielo in terra eletti.
Sì parla; e tuttavia volge in memoria
Le meraviglie de i divini effetti;
Ed in quei marmi tien la vista intenta,
Quando il mostro infernal gli si presenta.

XII

S'era l'empio Demon d'intorno tolto
L'orrore, e via dal crin gli angui fischianti,
E dimostrava, trasformando il volto,
Di ben nobile donna atti e sembianti;
Svelato il seno, e tutto il busto involto
Avea tra seta di cerulei manti,
D'abito fra negletta e fra pomposa:
Ma sovra modo a rimirar dogliosa.

XIII

Cotale agli occhi del guerrier scoprirsi
Determinò ne la remota sede
Aletto; e di repente indi partirsi
Sembiante fa, come di lui s'avvede.
Ed ei, che la mirò quasi pentirsi
D'avere innanzi a lui fermato il piede
Volge placidi sguardi; e poi cortese
In sì fatta maniera a parlar prese:

XIV

Non torcere orma, e nel tuo cor speranza
Ravviva, e sgombra ogni sospetto indegno;
Ferma; chè di mia destra ogni possanza
Per lo scampo di Rodi a provar vegno.
A questo dir non serenò sembianza;
Pur d'affidarsi il rio Demon fe' segno,
E quasi in aspro duol fosse sommerso
Mise alta voce incontro al Ciel converso:

XV

Era vantaggio non giammai fondarsi
Tuoi regii alberghi e tue superbe mura,
Rodi, s'al mondo acerbamente farsi
Doveano specchio di crudel ventura.
O pensier di mia vita al vento sparsi!
Ma quale alma qua giù vive secura?
Ciascuno in terra è condannato in guai;
E fora meglio non ci nascer mai.

XVI

Ecco dolenti mi s'accrescon gli anni
A pianger de' miei regi il sangue morto,
E bene esperta de gli umani inganni
Ritrovo angoscia, ove cercai conforto.
Quì per la forza de gl'interni affanni
Bagna di caldi pianti il viso smorto,
E tra lunghi sospir non fa parola.
Ma quei tormenti il Cavalier consola:

XVII

Nobile donna, non largare il freno
A' gridi, e fra i dolori asciuga il ciglio,
Che per questo mortal corso terreno
A ben condursi fa mestier consiglio;
E se t'ingombra di terrore il seno
De l'assediata Rodi il fier periglio,
Esser può, che tuo pianto invan si spanda,
Chè 'l gran Dio per soccorso oggi mi manda.

XVIII

Io non son nulla; ogni mio moto è tardo;
E non ho spirti a la vittoria pronti:
Ma per Dio l'uomo fral fassi gagliardo;
E mille esempi se ne van ben conti:
Dio regge il mondo; e se raggira un guardo
Quetansi i venti, e son tremanti i monti,
E benchè frema, l'arenose sponde
Non bagna il mar, s'ei lo comanda a l'onde.

XIX

Per tanto spera. Ei più non disse. All'ora
Tenne alquanto il Demon le ciglia immote,
E poi gridò: se colà su dimora
Alcuno Dio fra le stellanti rote,
Nol so; ma se pur v'è, perchè ad ogn'ora
Le preghiere di noi lascia gir vote?
Forse ne l'alto egli trïonfa e regna,
E noi qua giuso riguardar disdegna?

XX

Lassa da grave e da mortal ruina
Sentomi tanto duramente oppressa,
Che quasi al disperar fatta vicina
Mi conduco a parlar fuor di me stessa:
Crebbi in mezzo a' tesor; nacqui reina;
Ed or d'ogni miseria in fondo messa,
Per questi boschi, ovunque il piè mi mena,
Fuggo de' Turchi la crudel catena.

XXI

Dunque obbrobrio a la patria, obbrobrio a gli avi
Camperò schiava? o mie speranze liete,
E del viver giocondo ore soavi,
Ove sparite? ed a che fin giungete?
Ma tu che 'n tempi sì dogliosi e gravi
Per noi venivi ad arrecar quiete,
Come indugiasti? e per l'Egeo ritenne
Qual torbido austro tue velate antenne?

XXII

Certo il sembiante e de begli occhi ardenti
I lampi e gli atti a rimirar celesti
Creder mi fan, che da l'inique genti
Il popol Rodïan difeso avresti;
Or sei giunto ad udir gridi dolenti,
E de' buon cavalier corpi funesti,
Altari e chiese depredate ed arse,
E lor sacre reliquie al vento sparse.

XXIII

Così ragiona ingannatore e geme,
E di lagrime finte inonda il viso,
E poscia batte ambe le palme insieme
E nel gran cavalier tien l'occhio fiso.
Egli ascoltando le querele estreme
E de la terra il non temuto avviso,
Alquanto i suoi pensier seco raccoglie
Non certo a pieno, indi la lingua scioglie:

XXIV

Donna, se 'l tuo parlar per me s'intende,
Rodi è caduta a terra; ascolto il vero?
Più da' suoi cavalier non si difende?
Del superbo Ottoman sostien l'impero?
Quivi Aletto sue frodi a narrar prende:
Ma ferma il guardo in volto al cavaliero,
Ben osservando, s'ei consente o nega
Credenza al ver, mentre le note spiega.

XXV

Chi superbo, diss'ella, alza la mente,
E tra' mortali temerario spera,
Nè sa, come qua giù fugga repente
Lunge da noi felicità leggiera,
Stato oggi al guerreggiar fosse presente,
Ed al cader de la cittade altiera,
Che fatto quinci si sarebbe esperto
Come sia di ciascun lo stato incerto.

XXVI

Rodi fulgida d'or, nudrice antica
D'alme guerriere, e al cui superbo grido
Non reggeva giammai forza nemica,
Ove ogni industria, ogni valor fea nido,
Sparsa è per terra; ed avverrà, che dica
Nocchier tra l'onde costeggiando il lido:
L'alta reggia dì Rodi era in quel loco
Quando il fier Ottoman la diede al foco.

XXVII

Signor, da' Rodïan tanta difesa
Fecesi un tempo, e sì schernîr sua vita,
Che stanco il Turco di fornir l'impresa
Omai la speme avea quasi smarrita;
Ed ecco fama vivamente intesa
Fu per ciascun, ch'a noi veniva aìta:
Un Italico re, franco, feroce
Mosso già s'era a navigar veloce.

XXVIII

Regge il Piemonte; e tra guerrieri acciari
Gode sudando; e sol di gloria ha brama;
E sangue di mille avi al mondo chiari,
Chiaro risplende, ed AMEDEO si chiama;
Or sì fatto campion solcare i mari,
Ascoltando Ottoman cantar la fama,
Di prevenir suoi corsi il prese cura;
Schierò le genti ed assaltò le mura.

XXIX

Non sì tosto il mattin l'ombre disperse,
Che udissi all'armi. Ogni guerrier cristiano
Intrepido a la morte il petto offerse,
E vittoria cercò con nobil mano.
Aspramente pugnossi, al fine aperse
Varco ne la città l'empio Ottomano
A' suoi popoli ingordi, onde repente
Dentro inondò l'abbominevol gente.

XXX

Sparsero i Rodïan gemiti e pianti:
Ma del rio vincitor le man spieiate
Da per tutto spargean fochi fumanti,
Non perdonando a le magion sacrate.
Io, che nel tempio con umìl sembianti
A la corte del ciel chiedea pietate,
Fra 'l rimbombo de i gridi e de gli ardori,
Piena di ghiaccio il cor, men venni fuori.

XXXI

Incontro un mio scudier pallido in viso,
E dimando qual sia nostra ventura.
Ei mi risponde: è tuo figliuolo anciso;
Ottoman trïonfante entro le mura.
Alla fiera novella io presi avviso
Di serbar la mia vita almen sicura,
E sovra legno piccioletto ignoto
Ho cercato del mar seno remoto.

XXXII

Vegno qua sù, perchè minor periglio
Stimai partire entro la notte ombrosa;
E mentre quì m'ascondo, il mio naviglio
Ed il nocchier là giù m'attende e posa.
Così dicendo, annuvolava il ciglio,
Pianti versando, e si mostrò dogliosa,
E lungamente sospirava, e come
Tutta infelice disperdea le chiome.

XXXIII

A quegli atti AMEDEO cangia l'aspetto,
Ed in parti diverse il pensier gira;
E per qual via deggia avverarsi il detto
De l'Angel sacro taciturno ammira.
Ed in quel punto va seguendo Aletto
Le cominciate frodi; in pria sospira,
Poi dal preso cordoglio ella si scote
E franca in voce fa sentir tai note:

XXXIV

Chiarissimo Signor, la cui sembianza
Porge d'ogni virtute alto argomento,
Poscia che ad impiegar la tua possanza
Per lo stuol Rodïan stato sei lento,
Odi quale per noi riman speranza;
E se lo stato mio teco rammento,
Ed il mio favellar vien da lontano,
Non te ne caglia, ch'io non parlo in vano

XXXV

Non distante di quì lungo sentiero,
Samo da non sprezzarsi, isola siede,
In cui regnò d'ogni virtude altiero
Argesto, e di lui nacqui unica erede;
E perchè senza maschi al bello impero,
Per usanza, la donna anco succede,
Io di non pochi re mossi le voglie,
Che gareggiando mi chiedeano a moglie.

XXXVI

Ma sovra ognun tra la sì nobil gente
A' miei parenti rassembrò più degno
Filippomène; ei di tesor possente
In Scio già nacque, e ne godeva il regno:
Vago d'aspetto, e ne le guerre ardente,
E ne la pace di cortese ingegno:
Nè men per sangue: eran congiunti seco
I più chiari signor del popol greco.

XXXVII

Sposata io fei giocondo il cor paterno
Per un figliol d'ogni bellezza adorno:
Ma, lasciandolo infante, al ciel superno
L'alma del genitor fece ritorno.
Pur da me non per tanto ebbe governo
Tal che fregi d'onor si vide intorno;
E d'ogni alma virtute apprese l'arte;
Benchè più forte egli donossi a Marte.

XXXVIII

Glauco appellossi; e, come fu sul fiore
Degli anni suoi più verdi, ebbe desire
Di porre in Rodi il piè; scola d'onore,
E reggia d'armi e d'onorato ardire;
Andovvi; e quivi giunto arco d'amore
Il costrinse a provar dolce martire;
Chè Melibea con suoi begli occhi il prese,
E del giovine incauto il petto accese.

XXXIX

Di così fatto amor fama trascorse
Sì ch'intorno a l'Egeo ciascun ne parla;
Ed a l'animo mio temenza porse
Non seco proponesse alfin sposarla.
Mentre dunque poteva, ed era in forse
La ria ventura, io destinai vietarla.
Bene avea la fanciulla i pregi suoi:
Ma bassi assai per adeguarsi a noi.

XL

Dunque sciolsi le vele, e fei vedermi
In Rodi seco, e mie preghiere esposi,
E con ragion sostenni i sensi infermi,
E dolcemente a' suoi desir m'opposi.
Ma mentre io vo cercando indugi e schermi,
Oh de l'eterno Dio giudicj ascosi!
Ecco che i miei disegni in un momento
Spariti son, siccome nebbia al vento.

XLI

  Venne Ottomano, e, come suol, spietato
De la pace ad ogn'or troncò la speme;
Onde a lui contra, il Rodïano armato
Oggi è caduto, e seco Glauco insieme.
Cadde, misera me! nè mi fu dato
Mirarlo almeno in su quelle ore estreme,
E ripor le sue membra in nobil marmi,
Ed ivi, come suolsi, appender l'armi.

XLII

  Ah che sul petto d'ogni onor ben degno,
E sul crin d'oro e su la regia testa
Sfoga l'empio Ottoman forse il disdegno,
E da l'iniqua turba or si calpesta!
Alma ben nata, s'oggi a te non vegno,
Vedi come qua giù nulla m'arresta,
Se non se quella, che per te s'aspetta,
Contra il nemico rio, giusta vendetta.

XLIII

  E tu, sommo Campion, che 'l mal presente
Fosti dal Cielo a divietare eletto,
Come affermasti; ed a ciò far possente,
Ben ti confessa il sovrumano aspetto:
Signor, vientene meco; io navi e gente
E ciò, che 'n guerra fa mestier, prometto:
Quanto può Samo, e quanto possa Scio
Da' cenni pende e da l'arbitrio mio.

XIIV

Poi parentadi ed amicizie, quanti
Veggonsi oggi regnar per l'onda Egea,
Armi susciteranno e naviganti
E Lenno e Lesbo e la discosta Eubea.
Così parlando rinnovava i pianti
L'odioso spirto: ei tuttavia fingea
Volto a tentar con le sottil sue frodi,
Che sen gisse AMEDEO lunge da Rodi.

XLV

Ed ei tenendo in cor le voci impresse
De l'alto messaggier dianzi disceso,
Seco non sa pensar, come cadesse
Un regno, che dal Cielo era difeso.
E pur costei con le sue luci istesse
Videlo darsi in preda al fuoco acceso;
E fra 'l sangue de' suoi spenti e dispersi
Aveva in trista fuga i piè conversi.

XLVI

Fra' tai pensieri in sè medesmo ondeggia.
Alfin non sa voltarsi indi a partire
Che pria l'eccelso messagger non veggia.
E verso il mostro ei così prende a dire:
Non è regno sì forte o nobil reggia.
Donna, per cui s'adeschi uman desire,
Che polvere sul pian tosto non cada,
Se la destra di Dio vibra la spada.

XLVII

Ha forse Rodi a la pietade eterna
Con lunghe colpe sue rotto il confine,
Onde il sommo Signor, ch'altrui governa,
Pur con giustizia or la corregge al fine.
Ma, benchè l'occhio uman poco discerna
L'alto giudizio e l'azïon divine,
A dritta ragïon creder conviene
Ch'anco l'ira di Dio sia nostro bene.

XLVIII

Ei talor flagellando in tempi duri
Di severo Signor prende sembianza,
Perchè del nostro errar fatti sicuri
Apprendiamo invocar la sua possanza.
Or tu, reina, sollevar procuri
Con arme e con tesor nostra speranza;
Caduche forze; e per le vie del mondo
Vuoi fornir tuoi disegni; ed io rispondo:

XLIX

Dal ciel venne messaggio; ed ei commise
Ch'io quì posassi; e ch'Ottomano a terra
Vedrebbe il campo, per mia man, promise,
Ch'oggidì Rodi sì terribil serra.
Ma, fin ch'a me ritorni, ei non permise
Scender dal monte, o riprovarmi in guerra.
Egli arme recherìa da soggiogarlo;
E tutto questo è ver, come ti parlo.

L

Se quì dunque soccorsi abbiam sì presti,
A che cercando gir forze lontane?
Certo non deesi co' favor celesti
Porre in bilancia le possanze umane.
Ei più non ragionava. Aletto a questi
Detti del gran guerrier mesta rimane;
E pur con tutto ciò l'anima fiera
Trar ne l'inganno alfin non si dispera.

LI

Chiaro è per sè, che dove Dio s'impiega,
Non è contrasto: ma sua man possente
Pur ciascun dì far meraviglie nega,
Ed ama, che 'n suo pro sudi la gente.
Deh! vien, Signor, dove costei ti prega;
Fatti Duce de' nostri; indi repente
Torna, tonando, ad Ottoman, che prende
Lungo piacer de i vinti, e non t'attende.

LII

Così diss'ella; e non però commove
Il gran guerrier a di là torre i passi;
Chè, qual su l'Apennin quercia di Giove
Contra i soffi di Borea, immobil stassi.
Veggendo Aletto uscire in van sue prove,
Indi sparisce rimugghiando, e fassi
Fra le cresciute rabbie un foco d'ira.
Ed AMEDEO con meraviglia il mira.

FINE DEL VI CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO VI.

Si è già detto nelle annotazioni al canto V, che nell'Amedeide minore nulla si ha di ciò che costituisce il canto VI della maggiore; e perciò manca l'argomento del Peschiulli. Quello del Poeta dice così:

«Aletto con inganni si prova di far partire Amedeo da Rodi; ma invano.»

Tre critiche osservazioni trovo nel MS. del cav. d'Urfé; le quali cadono sul canto VI.

1. «Je remarque deux choses en la tromperie que le demon veut faire a Amedee lorsqu'il se presente a luy; l'une que luy voulant persuader que Rodes estoit desja priz, il devoit avoir priz la forme d'un homme de qui le nom fust cogneu par reputation et non pas d'une femme du tout incognue, que Amedee pouvoit avec raison croire s'en estre fuye de peur.» Il critico ha ragione.

2. «Et puisque l'auteur vouloit donner cette forme au demon, il devoit aussy y aiouter touttes les choses vray samblables; mais il n'est pas vray samblable, qu'une royne telle qu'il (le demon) se dit, soit aynsi seule parmi les rochers, et mesme ayant sa navire ancree a la plage voisine.» È verissimo che la finta regina dice ad Amedeo:

    E mentre quì m'ascondo, il mio naviglio
    Ed il nocchier là già m'attende e posa;

ma trattandosi di piccoletto legno, come chi dicesse una gondoletta, potea ben essere che nel naviglio si trovasse un solo marinajo; il quale, rimanendosi a guardia del legno, non poteva accompagnare la regina; che non era poi la regina di Francia, ma di due isolette in levante.

3. «Et le discours d'Amedee me samble aussy peu vray samblable, car il ny a pas apparence qu'un si sage prence rancontrant une femme exploree luy aille dire qu'il vient pour secourir Rhodes, ny moins qu'il s'aille vanter que Dieu le mande pour donner ce secours; et puis enfin luy descouvre que Dieu luy ait envoyé un Ange pour ce subjet, et luy en doive envoyer encores un autre; car ces graces et ces visions se doivent celler a cascun, a plus forte raison a une femme et femme encores incognue.»

Che le grazie e le visioni si debbano celare, non è sempre vero; Raffaele diceva a Tobia, essere bene rivelare le opere di Dio. Lasciata dunque da un lato la ragione ascetica, non opportunamente allegata dal cav. d'Urfé, diremo che il Duca troppo apertamente scopre cose importantissime e segrete ad una principessa ignota; la quale, partendosi sul piccoletto legno, e divulgando il luogo dove Amedeo si stava, e i disegni che volgeva nell'animo, avrebbe potuto nuocere moltissimo all'impresa del soccorso di Rodi. In somma, in questo canto VI. sono versi bellissimi, nobili sentenze, e locuzione elegante; ma non è degno di quella mente che il compose, nè di quella scienza che sempre apparir debbe in tutte le parti d'un epico poema.

CANTO VII.

ARGOMENTO.

Il Re del Cielo ad AMEDEO destina
Michele ad arrecar l'armi immortali:
Pronto egli dalla torre adamantina
A lui ne scende dibattendo l'ali
E compie, l'alta volontà divina.
Se le indossa AMEDEO; con armi tali
Scende il monte qual turbine di vento,
E i Turchi ingombra di mortal spavento.

I

Ma verso il campo i lumi eterni inchina
Il Re del Ciel da l'immortal sua sede,
E certo nunzio al gran guerrier destina
Scelto campion de l'immutabil fede.
Guarda per l'ampia regïon divina
Spirti infiniti, che gli stanno al piede;
Indi a Michel guerreggiator sublime
Ne l'armi eterne il suo voler esprime:

II

Fendi l'aria, dic'Ei, vola repente
In sul Filermo, ove AMEDEO soggiorna:
Armi gli reca; e la fida alma ardente
A l'armi infiamma; indi qua sù ritorna.
Perch'a l'orgoglio de l'iniqua gente,
Ei pugnando la giù, fiacchi le corna,
Seco gli Angioli fian, cui data è cura
E di Lui stesso e de le rodie mura.

III

Tanto diss'egli: e fiammeggiando ascende
Michel su l'ali, ove ne l'alto appese
Serbansi l'armi, sempiterne, orrende,
Vinte non mai ne le sacrate imprese.
Torre è nel ciel, ch'inespugnabil splende
Tra' nembi ardenti, e tra gran fiamme accese,
E di diaspro insuperabil, scorno
De gli anni, immensa si dilata intorno.

IV

Tanto s'innalza oltra il gran ciel superno,
Quanto il superno ciel s'alza da terra:
Copre i gran tetti suoi diamante eterno,
Diamante eterno apre il suo varco e 'l serra:
Dentro son l'armi, onde il profondo inferno,
Onde il rio mondo si conquassa in guerra:
Eterei dardi, archi fulminei, vaste
Squame d'usberghi fiammeggianti ed aste.

V

Pendon lucidi carri, onde volanti
Gli Angioli van su per gli eterei campi;
Scudi fulgidi, brandi, elmi spiranti,
Da l'oro eterno, inestinguibil vampi.
Miratisi quivi i fulmini tonanti
Sparsi di nembi, di fragor, di lampi:
Armi, di che 'l gran Dio può solo armarsi,
Splendenti, ardenti, orribili a mirarsi.

VI

Or, poi che dentro a l'ampia mole ascese,
Da Dio sospinto, il messagger beato,
Scudo, elmo, brando, intra' più scelti, ei prese,
Onde AMEDEO scenda in battaglia armato,
E tromba; onde egli a memorande imprese
Sprona gli eroi con l'immortal suo fiato:
Sì provveduto, in su l'aeree penne
Dal sommo olimpo al cavalier sen venne.

VII

Passa il cristal, cui pura luce aggiorna,
E 'l ciel trasvola giù di stella in stella;
Passa ove accende le volubil corna
De l'almo sol la vergine sorella;
Varca il foco e le nubi; indi l'adorna
Piaggia de l'aria rugiadosa e bella,
E tra le selve di Filermo ombrose,
A piè del gran guerrier l'armi depose.

VIII

Ivi fra viva luce, onde circonda,
Orribile a veder, l'ampie foreste
Con aura soavissima, gioconda,
Scioglie in voce mortal, spirto celeste:
L'armi, onde oggi Ottoman tua man confonda,
Dal ciel ti reco; or tu feroce in queste
Fulmina omai su le nemiche genti:
E sta quale alpe al minacciar de' venti.

IX

La terra e 'l ciel tramuteransi avanti
Che 'l fato crolli, ove il gran Dio destina:
Sì cinto di dïaspri e di diamanti
Stassi il voler de la virtù divina.
Così gli dice; e spargli indi davanti:
Pur come sol, ch'a l'oceàno inchina
Rapido a sera: ed AMEDEO raggira
Cupido i lumi, e le grandi armi ammira.

X

Qual, se in danze amorose anzi il cospetto
Esce di duci peregrini e regi,
Regia donzella, empie di gaudio il petto,
Mirando sè con ammirabil fregi:
Tale in petto AMEDEO cresce il diletto,
In quelle armi guardando, eterei pregi;
E più s'infiamma a la battaglia; e veste
L'inclite membra de l'acciar celeste.

XI

Impugna il brando fiammeggiante, allaccia
L'elmo d'almo fulgor giammai non spento,
E l'ampio scudo fulminoso imbraccia,
E scende, quasi in mar turbo di vento:
L'adegua in corso; e l'implacabil faccia
Michele ingombra di mortal spavento;
E con sua tromba ad eccitarlo in guerra,
L'aria scotendo, abbandonò la terra.

XII

Ciò rimirava, e stimolando Aletto
A l'armi infiamma la commossa gente,
E corre entro ogni vena, entro ogni petto,
Qual corre lampo entro le nubi ardente;
Quinci di guerreggiar nuovo diletto
A' barbari agitati arde la mente.
Trascorre il mostro, e i cori avvampa e punge:
Quando tremendo ecco AMEDEO sorgiunge.

XIII

Quale il fiume superbo, ove ancor piange
Cigno sul caso di Fetonte indegno;
O quale il Nilo sconosciuto o 'l Gange,
Se 'l freno usato ha de le ripe a sdegno,
Dilaga orrendo in gran diluvii, e frange
Ogni argine, ogni sponda, ogni ritegno,
E biade e selve e ciò, che opponsi intorno,
Ne porta al mar su l'implacabil corno.

XIV

A tal sembianza il cavalier superno
Ne i campi avversi formidabil fere;
Ed allor traboccò, preda d'inferno,
Arsace il forte sotto l'armi altiere;
Colmo d'orgoglio e di furore interno
Ei trascorrea tra le seguaci schiere:
Quando scorge AMEDEO, che orribil scende,
E nel petto di lui la mira ei prende.

XV

Tende con dura mano arco lunato,
Ove gran smalto, ove grande oro abbonda;
Ma trascorrendo a vôto il dardo alato
Poco le voglie de l'arcier seconda.
AMEDEO l'urta; e nel sinistro lato
Il brando insuperabile profonda:
Gelido a morte singhiozzando ei geme:
Con piè veloce il vincitore il preme.

XVI

Indi si scaglia, e con terribil mano
Asconde il ferro a Baiazetto in seno,
E percote Giaffer, percote Ismano,
E fier percote Ariaden non meno,
Stende Giunusso e Mustafa sul piano,
Ferratto, Assan, Giesul, cari ad Ebreno,
Cari ad Arsace, nel cui stuolo altieri
Parte fur capitani, e parte alfieri.

XVII

Ed ecco giù dal ciel fulmini in terra
Con destra armata d'immortal splendore
Vibra Dio rimbombando; e i Turchi in guerra
Tonando e ritonando empie d'orrore.
Fende le nubi tenebrose, ed erra
Per l'aria scossa un minaccioso ardore,
Che tutto occupa il cielo in un momento:
Tuona ei pur anco: ed ecco orribil vento,

XVIII

Che atro nembo di polve alza a le stelle,
Che ne gli antri profondi agita l'ira
Del vasto mar, che le foreste svelle,
Ed isvelte su turbini le gira.
Come il vulgo infedel tante procelle
Contra sè volte e 'l folgorar rimira,
Smarrisce il cor. Ma più terribil stringe
AMEDEO l'armi, e contra lor si spinge.

XIX

Tutto di raggi orribilmente adorno
Fra' turbati guerrier sangue diffonde,
E l'alto Dio da l'immortal soggiorno
Pur tuona, e d'atri nembi il polo asconde.
A l'immenso fragor mugghiano intorno
Le valli, i campi, le montagne e l'onde.
Turbasi l'aria, e ne rimbomba il cielo:
In fra i Turchi ogni cor s'empie di gelo.

XX

Tanto allor di temenza accoglie in seno
Di Licia il campo, e sì fuggir desira,
Ch'ei turba d'ogn'intorno, onde non meno
Il campo de' Cilici a fuggir tira.
Vede il tumulto, odene i gridi Ebreno,
E contra lor solo AMEDEO rimira;
Però s'innaspra, e di mortal disdegno
Con volto irato e con gridar fa segno.

XXI

Poscia a lui da vicino alza la destra,
Quasi duro villan dura bipenne,
Quando batte, anelando, elce silvestra,
Che a nave deggia rinnovar le antenne:
L'elmo percote; ei come selce alpestra
Saldo la piaga scitica sostenne.
Ma l'Italico re tra' lombi spinse
Punta mortal, ch'immantinente il vinse.

XXII

Sbieca le luci oscuramente, e suda
Freddo sudor, come di neve uscito:
E nel giù traboccar l'anima cruda,
Sdegnosa del partir, tragge un muggito.
Lasso! non ha chi ne la tomba il chiuda;
Ma sanguinoso rimarrà sul lito
Privo de' pianti e de gli estremi onori,
Lungo pasto al digiun d'aspri avoltori.

XXIII

Quinci Aletto crudel sul duce anciso
L'indomito furor non ben consola;
E di Danastro a sè fingendo il viso
Verso Alete e Giassarte ella sen vola.
Grida il mostro infernal: certo è l'avviso:
Non ascoltate invan la mia parola;
Mentre quì state ad assalir le mura,
Mal nostra gente è colà giù sicura.

XXIV

Quello, a noi tanto minacciato, move
AMEDEO l'armi senza fallo altiere:
Ei sol turba le squadre: or vostre prove
Siano a lui contra in rinfrancar le schiere.
Sì grida Aletto, e i cavalier commove,
E lor giunge a le piante ali leggiere.
Fiero intanto AMEDEO minaccia e stride,
E Pirgo e Gorgo ed Acomate ancide.

XXV

Era ivi presso Abenamar, che sposo
Non pria godèo de la bellezza amata,
Che per legge real mosse doglioso
Presso l'insegne de la gente armata.
Or quì l'arco di gemme luminoso
Depose in terra e la faretra aurata,
E ginocchiato in ripregar mercede,
Umil baciava al gran nemico il piede.

XXVI

Ei cosparse d'oblìo, ne i gran timori,
Ch'era figliol del celebrato Alferno,
Guerrier non privo di sublimi onori,
E che già di Panfilia ebbe il governo.
Ivi ei seppe adunar gemme e tesori,
Onde l'altiero Ebren non l'ebbe a scherno;
Anzi a la figlia di bellezze eccelse
Per buon consorte Abenamar ei scelse.

XXVII

Ed ella disse in su la ria partita:
Guarditi in guerra alto favor di Dio;
Chè, se perviene a fin tua nobil vita,
Anco fia giunto a riva il viver mio.
Però membrando la parola udita,
D'allungarsi l'etate ebbe disìo,
E formò, tristo e lagrimoso il ciglio,
Sì fatte note nel mortal periglio:

XXVIII

Deh se nel patrio regno ambo i parenti
Tu pur lasciasti e la gentil consorte,
Vaglia il nome di lor sì che rammenti
De' miei, ch'afflitti piangeran mia morte.
Non son queste saette oggi possenti
Del campo estinto a ristorar la sorte:
Asia per te de la vittoria è priva;
Che monta omai, ch'io di quì fugga, e viva.

XXIX

Così diss'egli. Ed AMEDEO, che 'n seno
Chiudea memoria de' voler divini,
Per quei preghi al furor non stringe il freno,
Ma con la manca man gli afferra i crini,
E colà con l'acciar colpisce appieno
Ove il petto e la gola han suoi confini.
Quei supin cade, ed AMEDEO calpesta
Le fredde membra, e di ferir non resta.

XXX

Spense Almorato, Oluzalin percosse,
E poi Chiausso egli piagò nel fianco,
Indi Serraffo de la vita scosse,
Giammai co' dardi in guerreggiar non stanco;
Su l'arene di sangue umide e rosse,
Fuggendo, al fier Dragutto il piè vien manco;
E mentre alzarsi dal terren s'affanna
Con alta piaga il vincitor lo scanna.

XXXI

Mentre de l'altrui vita acerbe prede
Fa l'alta destra, e 'n guerreggiar non posa,
L'Angel di Rodi avea fermato il piede,
Sembiante ad uom, ne la città dogliosa.
Ivi gridava. Aspro aquilon, che fiede
Sotto nubilo ciel valle selvosa,
I sovrumani accenti altrui sembraro;
Sì ch'a ciascuno il suo parlar fu chiaro:

XXXII

Rodj campioni, avvalorate i petti:
Di quel grande AMEDEO giunta è la spada;
E seco i turchi a guerreggiar costretti
Non ch'altro, di fuggir non han pur strada.
Sì li conforta. E su la fin dei detti
Ei parve stella, che per l'aria vada,
Allor che più la notte il ciel n'adorna:
E cinta d'aure ad AMEDEO sen torna.

XXXIII

L'alto campion gir trascorrendo in questa,
Omai trionfator dei duci spenti,
Mirava Aletto, e, per crudel tempesta,
Traboccar d'Ottoman l'armate genti.
Quindi di sdegno la tartarea testa
E gonfi di venen scote i serpenti
Al collo intorno, e rimugghiando gira
Mille cose nel cor gravido d'ira.

XXXIV

Se stessa alfin d'umane membra adorna,
E va, torbido orror, per l'aure liete,
Là dove per lo pian poco soggiorna,
D'AMEDEO ricercando il forte Alete:
Se prudente pensier non mi distorna,
Guerrieri invitti, a certa morte andrete;
Cotanto piove d'immortal valore
Oggi da l'alto ad AMEDEO nel core.

XXXV

Cosparso di pallor bagna la strada
Arsace, Ebren, del proprio sangue a morte;
Perchè da solo a sol contra la spada
Provarsi d'AMEDEO ciascun fu forte.
Nessun più solo ad assalire il vada:
Cedete alquanto a la contraria sorte;
E sì forte uom, come prudenza insegna,
Con lo sforzo del campo alfin si spegna.

XXXVI

Cotal consiglia. E disdegnosa e rea
Dileguando per aria indi diparte,
Ed appar là dove Rostange ardea
D'ira sul campo, e dove ardea Giassarte.
Ciò, ch'ad Alete ella parlò, dicea
Quivi ad entrambi. Indi nel ciel cosparte
Lascia le membra simulate e move,
E tutti infiamma a sanguinose prove.

XXXVII

Agita gli angui, onde ella è cinta, atroci,
E nel petto de' turchi incendio spira,
E con suono alto di tartaree voci
Va risvegliando la vergogna e l'ira:
Su, suso, anime vil, su su veloci
Fuggite pur, che 'l vostro re se 'l mira;
Prezïosa corona, ampia mercede
Vi promette ei, che sì dappresso il vede.

XXXVIII

Allor fra gli altri in minaccevol fronte
Alete grida al fuggitivo stuolo:
Non temerete voi, ch'altri racconte,
Ch'andate in fuga? e che cacciovvi un solo?
Così parlava disdegnoso. E pronte
Pur le turbe al fuggir volgonsi a volo
Impallidite: ma con fier sembianti
Di nuovo ei corse, e lor parossi avanti.

XXXIX

E dice: o fidi a l'ottomana insegna
E già per l'Asia vincitori altieri,
Pugnate forti: così far v'insegna
La chiara fama degli onor primieri.
Ma l'incauto Imeral, che si disdegna
Pugnar nascosto tra' lontani arcieri,
Fra le turbe terribile si scaglia,
Ed aspra move, e da vicin, battaglia.

XL

Fiero di man, fiero di spirto, e chiaro
Per beltà grande in su l'età fiorita,
Al cor d'Alete così forte è caro,
C'ha men cara di lui sua propria vita.
Costui lucente di gemmato acciaro
Alza verso AMEDEO la destra ardita,
E col brando gli assalta il fianco ignudo:
Ei con la manca oppon l'etereo scudo.

XLI

E con la destra irata, ove trapunta
Fascia d'indiche perle il sen circonda,
Spigne entro il ricco manto orribil punta,
E v'imprime ferita ampia e profonda.
L'anima coraggiosa al varco giunta
Sen va col sangue, che la terra inonda,
E mesta abbandonò per modo indegno
Le membra, in che beltate ebbe il suo regno.

XLII

Come chiusi quegli occhi in sonno eterno
E mira il volto impallidito e scuro,
Freme Alete così, ch'orrido verno
È su per l'onde a rimirar men duro.
Presta a quell'empio, o Regnator superno,
Presta i fulmini tuoi; non fia sicuro:
Chè de l'estinta gioventù diletta,
A mal grado di te, vuò trar vendetta.

XLIII

Nel così dir, perchè mortale offenda,
Avvisa fier là 'v'impiagarlo deggia.
Ma di quanto furor l'anima accenda
Ode il gran Dio da la stellante reggia;
Sorge nell'alto, ed in sembianza orrenda
Tutto balena il ciel, tutto lampeggia,
E tra' fulgor di luminose rote
Fulmini avventa, e l'empio cor percote.

XLIV

Qual del gran Po su l'arenose foci
Al ciel pinte anetrelle alzano l'ali,
Se fa sovra lo stormo, arcier, veloci
Da l'arco intorto sibilar gli strali:
Tali i turchi sen van, dianzi feroci,
Vinti al tonar de i fulmini immortali.
AMEDEO freme, e fra le turbe incerte
Il volto e 'l brando vincitor converte.

XLV

Che sembrava egli allor che dentro il petto
Incendio raccogliea d'ire infinite?
Voi, ch'avete nel cielo alto ricetto,
Vergini sacrosante, or sì mei dite.
Qual, se sdegno a Nettun cangia l'aspetto,
Teme Glauco e Nerco, teme Anfitrite:
Ed ei su rote immense aspro fremente
Conturba intorno il mar col gran tridente:

XLVI

Per guisa tal su quell'orribil piano
L'alto d'Italia cavalier sen giva
Pien di tempesta, e con terribil mano
Fiumi di sangue in fra le squadre apriva.
Ivi fra' tanti per suo scampo in vano
Rapidamente Boecan fuggiva;
Ed invan fugge Agazamin; chè 'l corso
AMEDEO vince, e gli trafigge il dorso.

XLVII

Fugge Abdalà, ch'insuperabil'arco
Ebbe dal padre già famoso arciero,
Mai sempre invitto: ma ritrova il varco
De l'atra stige sotto il gran guerriero;
Piagato il collo traboccava Essarco
Sul suol sanguigno. Ed AMEDEO leggiero
Sovra i piè velocissimi, calcando
Va tronchi e morti, e non dà posa al brando.

XLVIII

Fulmina in arme il cavalier sublime,
E, sparso il volto di disdegno interno,
Prego non ode, i guerreggianti opprime,
E fa de' fuggitivi aspro governo.
Gran selce par, giù da l'alpestri cime,
Da l'onde spinta e da l'orribil verno,
Che scote d'Apennin l'ombrose spalle,
E da lontan fa ribombar la valle.

XLIX

Atro sangue mortal dintorno inonda,
Quasi torrente altier, l'ampia contrada,
E pur per entro uccisïon profonda
Tinge AMEDEO la formidabil spada.
Qual dove fertil pian Cerere imbionda
Sotto buon mietitor casca la biada:
Tal quì le turbe impallidite e vinte
A' colpi del gran re cascano estinte.

L

E già nel campo errar sossopra in volta
Il re de' turchi rimirato avea
Sue turbe armate, e via più sempre ascolta
Grido, ch'ogn'ora al cielo alto ascendea;
Che sia non sa: mille pensier rivolta
Nel petto acceso, ed in sembianza rea
E pur con occhio di crudel disdegno,
Ch'a se ne venga Oronte al fin fa segno.

LI

Quei pronto move; ed al signor vicino
E con rapidi passi in un momento,
Ivi, la fronte umilemente inchino,
Ch'a dir prendesse egli aspettava intento.
Ed irato Ottoman: pur sul mattino
Per noi vinceasi, onde or tanto spavento?
Qual larva de le turbe agita il core?
Cerca, onde sia de' nostri il gran terrore;

LII

E mi si scopra. Ei sì dicea turbato.
Stette ascoltando il cavalier dimesso,
Ed indi sprona il corridor frenato
Battendo l'orme in sul sentier commesso.
Tosto che dentro da lo stuolo armato
Ei si condusse, a' primi sguardi espresso
Gli fu, con grave pena oltra ogni essempio,
De le genti dilette il crudo scempio.

LIII

Rimira di battaglia orribil'arte,
Correre il sangue ed allagare il suolo,
Mira monti d'estinti, e mira sparte
Le squadre in fuga e che non pugna un solo;
Parte s'adira riguardando, parte
Ingombra il fiero sen pietate e duolo,
E ferma il corso, e ne la gente ancisa
Colmo di meraviglia il guardo affisa.

LIV

Non altramente da cordoglio è vinto
Indo bifolco, ove ripone il piede
Ne l'ampie stalle de l'armento estinto,
Ch'a l'aer fosco del leon fur prede:
Vede sbranati i fieri tori, e tinto
De le squarciate membra il terren vede:
E sparsa vede al vento ogni sua speme,
E tra' singulti inconsolabil geme.

LV

A tal sembianza in rimirar s'attrista
Oronte, e grida: ah miserabil sorte!
Così per noi vittoria oggi s'acquista?
Ed i trofei sperati oggi son morte?
Mentre nel così dir volge la vista,
Scerne Giassarte che terribil, forte
Porge ne la battaglia in vario corso,
Ove richiesto è più, saldo soccorso.

LVI

Di folta polve è ricoperto, e piove
Giù per le guancia ampio sudor nel seno,
E dal petto anelando il fiato move
Che per molta fatica omai vien meno.
Ver lui, che di guerrier fa nobil prove
Oronte volge frettoloso il freno,
E sollecito i fianchi al destrier punge:
Ed, o Giassarte, egli gridò da lunge,

LVII

Onde il terror, che da vittoria certa
Si casca in fuga? E quegli a lui vicino:
Rodi era omai d'ogni suo stato incerta,
Quando ecco apparve il cavalier latino;
Non so, se di mortal titolo merta:
Rassembra a me guerreggiator divino;
Ei di gran sangue ha tutto sparso il piano;
E noi le turbe incoraggiamo in vano.

LVIII

Arsace incontra lui cadde primiero,
Aperto il fianco di crudel ferita.
Cadde a terra trafitto Ebreno il fiero
E sanguinando il suol sparse la vita.
L'esercito a fuggir prende il sentiero
Senza duci: ogni squadra era smarrita.
Por loro animo in cor non è speranza:
Omai fuor che morir nulla n'avanza.

LIX

Oronte udendo, giù da gli occhi un fonte
Di caldo pianto distillava, e poscia
Con la sinistra man batte la fronte,
E d'acerbo dolor batte la coscia.
Dunque a l'orecchia d'Ottoman fien conte
Per me novelle di cotanta angoscia?
Ch'ogni più gran guerrier di vita è tolto?
E che 'l campo disperso in fuga è volto?

LX

Non darà del gran duol l'aspra novella
Per certo Oronte; infra miserie tante
Amo più tosto uscir morto di sella,
Se gli altri vendicar non son bastante:
Ma l'avverso campion come s'appella?
Onde è repente apparso? ha di diamante
Il fianco? il braccio ha di temprato acciaro,
Che contra il suo ferir non sia riparo?

LXI

Così diceva. A i generosi accenti
Cotal Giassarte la risposta porse:
Che soggiunger poss'io? non ti rammenti
Qual tra noi fama questi dì trascorse?
Ch'a pro dovea de le rinchiuse genti
AMEDEO tosto a la battaglia esporse,
AMEDEO, ch'alto nell'Italia impera,
Del cielo stirpe glorïosa altiera?

LXII

Quì tace. Oronte al cavaliere amico
Con altiera sembianza a dir prendea:
Giassarte, io nacqui in Misia, ove il Caìco
L'onde rivolve, e fu mia patria Elea;
Per genitori il Ciel diemmi Ulderico
E la chiara beltà d'Algazarea,
E mentre a' gradi eccelsi in guerra ascendo,
De l'alma grazia d'Ottoman quì splendo.

LXIII

Non starmi dunque, nè mirar, ch'in vano
Pugni la plebe, o miserabil mora;
Provarmi deggio, e racquistar sul piano
L'alta vittoria non perduta ancora.
E quì spronava: ma sul fren la mano
Pongli Giassarte, e fagli far dimora.
Sporgli volea quella, che dianzi scese
Voce dal ciel: ma nulla Oronte intese.

LXIV

Ch'ove la fuga è più dispersa e folta,
Ove più risonar sente le strida,
Colà vibrando l'asta il fren rivolta,
Ed arso d'ira a' fuggitivi ei grida:
O dentro un vano orror gente sepolta,
Chi sbigottiti a sì fuggir vi guida?
Del popol d'Ottoman sì fatto è l'uso?
Cangiate il brando a la conocchia, al fuso.

LXV

Così l'ingiurie e le parole adopra.
E trascorrea per la sanguigna strada,
E già scorgea, ch'ad Agricalte è sopra
Fiero AMEDEO con la terribil spada.
A ciò con lo splender di nobil'opra,
Chiaro volando il nome suo sen vada,
Costui s'arrischia. Ed AMEDEO la strozza
Gli fere acerbo, e con l'acciar lo sgozza.

LXVI

Subito Oronte in sul destrier si scaglia,
In foco d'ira fiammeggiando, e crudo
Avventa di due punte una zagaglia
Inverso il sen, che 'l vincitore ha nudo;
Non l'offende però l'aspra battaglia,
Ch'ei si rinchiuse ne l'immenso scudo,
Tempra del ciel: ben su per l'aria andaro
Scossi i rimbombi del superno acciaro.

LXVII

Allor scote le briglie, e picca il fianco
Del gran destriero; e con la destra irata
Impugna il brando, che dal lato manco
Pendea ricinto di catena aurata.
Ma nel buon corridor l'ardir vien manco
Per l'alta fiamma a non mirarsi usata,
Che da l'armi celesti in varie rote
L'aria dintorno co' gran rai percote.

/*

LXVIII

Ora restìo sul deretan si posa
Innalberando; or fa ritroso il corso;
Or tien la testa sotto il petto ascosa,
E calci scaglia, e nulla sente il morso.
Lascia d'Oronte alfin l'alma orgogliosa
Con lieve salto il rubellante dorso
Del corsier sbigottito, ed empie il seno
D'ira, e per gli occhi fuor spande veneno.

LXIX

E move l'arme con terribil passo;
Non diverso a mirar dal crudo orrore
Di giogo alpestro, che travolve a basso
Austro piovoso, o d'aquilon furore;
Pianta il bosco non ha, ch'al gran fracasso
Non crolli il tronco; e, palpitando il core,
L'orecchia porge il montanaro intento;
E lascia l'erba per terror l'armento.

LXX

Tale al grande AMEDEO fassi da presso,
E col furore estremo, onde s'accende,
Batte lo scudo, e col furore istesso
L'elmo e 'l cimier ch'immortalmente splende.
Ma non che di piagar gli sia concesso
Lui, che l'arnese eterno arma e difende,
Rintuzza il brando. Ed AMEDEO gli ha posta
La fiera spada ne la destra costa.
*/

/*

LXXI

Poi ne la tragge, e con la man guerriera
Immantenente ad assalir si volse
Il dritto colmo de la testa altiera;
Ma percotendo non di taglio il colse:
Pur l'abbatteo; chè la percossa fiera
L'intronò sì che di se stesso il tolse.
AMEDEO lascia il fier, ch'estinto crede,
E su gli altri fugaci affretta il piede.

LXXII

Qual su schiera d'augei, che 'n ripa al fiume
Gode bel sol di boreal stagione,
Spronato da digiun batte le piume
Con unghia ingorda il peregrin falcone:
Tale infra Turchi oltra l'uman costume
Se stesso avventa l'immortal campione,
Feroce, atroce; e fa sanguigni i lidi
Fra pianti avversi, fra dolor, fra gridi.
*/

FINE DEL VII. CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO VII.

L'argomento del canto VII viene così compendiato dal Poeta: «nel VII l'Angelo porta ad Amedeo armi: egli assale il campo de' turchi e lo mette in ispavento.»

La prima stanza del canto VII dell'Amedeide maggiore è la 47 del canto IV della minore, il quale ha termine nella st. 22 del VII della maggiore che comincia: Sbieca le luci ec. Il canto V. della minore, principia con la 24 del settimo della maggiore Quinci Aletto crudel ec. Le stanze 26, 27, 47, 50 a 71, non si leggono nella minore, e quella che nella maggiore è la 72 ed ultima del VII, nell'altra è la 25 del V, e dice con diversa lezione così:

    Qual su schiera d'augel, che in ripa al fiume
    Gode bel sol di boreal stagione,
    Spronato da digiun batte le piume,
    Con unghia ingorda il peregrin falcone,
    Tal infra i turchi, oltra l'uman costume,
    Se stesso avventa l'immortal campione:
    Feroce, atroce; ma tra furie accensa
    Su 'l risco Aletto d'Ottoman ripensa
.

Le parole scritte in corsivo veggonsi nella maggiore alla st. 14 del canto VIII, con qualche varietà di lezione; come a suo luogo diremo.

Le censure di Onorato d'Urfè sono molto prolisse; e perciò ne daremo brevemente la sostanza.

Non piace al critico che Amedeo riceva le impenetrabili armi celesti; perciocchè «faire faire tous par la force des armes, et par les miracles c'est luy (ad Amedeo) ravir une grande partie de sa gloire.» Osserva che Omero lascia ad Achille un endroit par ou il peut estre blessé; e che Virgilio non dice che fossero invincibili le armi temperate nella fucina di Vulcano per Enea. Conchiude il Censore: «Adunque io vorrei, per lasciare qualche luogo alla virtù del grande Amedeo, dargli quest'armi, mettendo però certe condizioni alla forza; come, se l'Angelo gli dicesse: Quest'armi sono così fatte, che nulla ti potrà resistere, se tu sei prode, se tua speranza metti in Dio, se i tuoi disegni sono tutti ad onore e gloria di lui; se la fatica non ti abbatte: se non ti abbandoni alla voluttà ed ai vizj, e somiglianti condizioni; perchè in tal guisa, oltre l'elezione di Dio, sarebbevi alcuna cosa di proprio, che farebbe crescere in pregio l'Eroe.

Nota poi, come cosa fuor d'ogni verisimiglianza, che Amedeo, e pressochè tutti gli altri combattenti, uccidono i nemici con un solo colpo; tranne Ottomano; la quale cosa non è poi vera così sempre, come dice il Cav. d'Urfé, e ne abbiamo già toccato altrove.

St. 21. Canta il poeta che un maomettano ad Amedeo

    L'elmo percote: ei come selce alpestre
    Saldo la piaga scitica sostenne.

E il censore, rammentato, poco gentilmente invero, l'antico proverbio «conviene che il mentitore abbia buona memoria» aggiunge che il Chiabrera non ricordando più le armi impenetrabili date ad Amedeo «il escrit qu'un turc le frappe sur l'eaulme, et le blesse—saldo la piaga scitica sostenne.» Ma forse il poeta usò piaga per colpo: benchè non mi sovvenga esempio di tal significato.

St. 25-29. Abenamar, vedutosi sul punto di essere ucciso da Amedeo,

«…l'arco di gemme luminoso Depose in terra e la faretra armata; E ginocchiato in ripregar mercede Umil baciava al gran nemico il piede . . . . . . . . . . . . . . . «…et Amedeo che in seno Chiudea memoria de' voler divini… …con la manca man gli afferra i crini E colà con l'acciar colpisce appieno, Ove il petto e la gola han suoi confini; Quei supin cade, et Amedeo calpesta Le fredde membra; e di ferir non resta.»

In questo luogo il cav. d'Urfè trova degna di grave riprensione la crudeltà attribuita ad Amedeo; e dice non vedere nel poema che l'Eroe abbia ricevuto ordini divini così severi, che non lascino luogo ad un atto di pietà. E il calpestare le membra del nemico ucciso, è fatto non degno di alto cavaliere. Ricorda poi che i turchi non nutriscono i crini; facendosi rader la testa, che cuoprono col turbante. Ma forse non è rigorosamente vero, che tutti i maomettani si radano affatto il capo. Nel Genovesato si afferma che lasciavano un ciuffo di capegli, detto dal volgo nostro sciscìa.

St. 66. Narra il poeta che Oronte

    Avventa di due punte una zagaglia
    Inverso il sen che 'l vincitore ha nudo.

«Je ne say pas (dice il critico) commant il l'arme de toutte piece, et puis qu'il die qu'il a le flanc et le sein nud.» Sarà una distrazione del Chiabrera.

CANTO VIII.

ARGOMENTO.

In ruinosa fuga il piè rivolve
L'oste infedel: grida Bostange invano.
Ma l'empia Furia che trovar risolve
Scampo a salvar l'esercito ottomano,
In un momento d'ombra oscura involve
L'aria serena, e tutto abbuja il piano.
Ne va Folco a incontrar il sommo Duce,
E dentro la città seco il conduce.

I

In sì torbido tempo indomito erra
Bostange, e, pien d'ardir le membra antiche,
Garrisce i suoi, che ne la dubbia guerra
Non osano aspettar l'armi nemiche:
Tornate in Asia, e da la patria terra
Quì mandate a soffrir vostre fatiche
Stuolo di donne, o cavalier codardi,
Ch'elle più forte avventeranno i dardi.

II

Così ne i vinti cor va rinforzando
L'ardir caduto, e con terribil guardo
Vibra dintorno trascorrendo il brando,
Saldo sul fianco, e sovra i piè non tardo;
Errando scerne, che gittava Urgando
Del già feroce Alete il gran stendardo,
E che per l'orme de l'ignobil via
Appresso il vile alfier lo stuol sen gìa.

III

Sozzo infamato, egli dal cor profondo
Grida ver lui, che lo stendardo abbatte,
Così si lascia ogni virtute al fondo?
Uomo in grado d'onor così combatte?
Che pera il giorno, che nascesti al mondo,
E la ria madre, che ti diede il latte.
E tanto di furor gridando ei s'empie
Che con l'elso a l'alfier batte le tempie.

IV

Nè meno a gli altri incontra aspro si sdegna;
Ma dice: il brando ha da recarvi aìta:
Fuggite in van; cotesta fuga indegna
Con esso un palo vi torrà di vita.
Ma non per tanto rinfrancar s'ingegna
La turba indarno; ella sen va smarrita,
Nè prego ascolta, nè conforto aspetta;
E pur Bostange intorno i passi affretta.

V

Errando avviensi, ove del duol sofferto
Fatto avea 'l fiero Oronte in sè ritorno,
Ed a l'aure serene il guardo aperto
Il rivolgea pien di vergogna e scorno.
Da lunge il Duce di sua vista incerto,
S'appressa ove il guerrier facea soggiorno,
E quando in ravvisarlo errar non puote,
Apre il varco del petto a cotai note:

VI

Oronte, guerreggiando unqua mirasti
Sembiante assalto? ove virtù mortale
Sembra, che 'n campo contrastar non basti,
E contra l'armi d'un guerrier sia frale?
Ma dimmi, come ne l'assalto entrasti?
Come nullo altro in su l'arcione assale
Con forte destra gli avversarj teco?
E la tua piaga alcun periglio ha seco?

VII

Sì Bostange dicea. L'altro solleva
Dal polveroso suolo, ove è disteso,
Il fianco infermo, e con la man stringeva
Il sangue, che venìa dal fianco offeso.
Risponde poi: mentre a fuggir prendeva
La turba quì, n'ebbe il tumulto inteso
Il signor nostro; e de le genti ancise
Ch'io ricercassi la cagion, commise.

VIII

Onde io quì venni: ed, o Bostange, oh quanto
Per noi raccolgo suscitarsi affanno!
Come estinto rimansi il nostro vanto!
In fumo i nostri onor come sen vanno!
Giorno eterno di duol, giorno di pianto,
Giorno dove il morir fia 'l minor danno;
E tu pur chiedi, se mia piaga è forte?
Avessemi ella già condotto a morte.

IX

Quivi lo sguardo nel guerrier rivolto
Spinse dietro le voci alto sospiro;
E Bostange si diè con saldo volto
A di lui consolar l'aspro martiro:
Quale hai dal fianco sospirar disciolto?
E dal tuo mesto cor quai note usciro?
Uomo, ch'imbianca guerreggiando il crine,
Non sa che de gli assalti è dubbio il fine?

X

Rimembra, Oronte, ed indivina a pieno
Per le passate le stagion future:
Pria ch'Asia d'Ottoman soffrisse il freno
Quante ore volser sanguinose e dure?
Così di Rodi n'avverrà non meno:
Oggi d'un lampeggiar vane paure
Empiono a queste turbe il cor di ghiaccio,
Dimane avranno invitto il petto e 'l braccio.

XI

Tu le piaghe a saldar, come è dovuto,
Ritorna, e del morir lascia il pensiero;
Pensa a l'acquisto del vigor perduto
Per farti poi de la vittoria altiero.
E già de gli scudier col pronto aiuto
In sella il fa salir del buon destriero;
Poi dolce l'accommiata, e 'n varia parte
La fuga affrena de le genti sparte.

XII

Ma sprona Oronte, e, studïando il passo,
Del campo afflitto immantenente è fuora,
E colà torna infievolito e lasso
Ove il suo re tra' cavalier dimora;
Fattosi da vicin col capo basso,
Poi ch'è disceso dal destrier, l'onora;
E mentre egli la lingua a dir sciogliea,
Dal fianco il sangue tuttavia scendea.

XIII

Signor, posto in oblìo l'antico onore,
Langue il tuo campo da temenza oppresso;
E di quello AMEDEO l'opprime orrore
Per solo scampo a' Rodïan concesso;
Ma non de' duci tuoi langue il valore:
Dirà di lor virtù, lor sangue istesso,
Mal grado de' cristian, nel caso avverso,
Ciò che dice di me, questo ch'io verso.

XIV

Tace, e con occhi di furor turbati
Stassi Ottoman a riguardarlo alquanto;
E via più sempre da gli stuol fugati
Cresceva il grido ed il tumulto intanto.
Sentelo il Turco, e con sembianti irati
Volto a i Baran, c'ha reverenti a canto,
Armi chiedea. Ma ne le furie accensa
Aletto sovra lui forte ripensa.

XV

Poi batte l'ali, e de gli aerei regni
Va tra gli umidi campi in un momento,
Là dove rei demon tra rei disdegni
Errano intenti ne l'altrui tormento;
Però che 'l dì, che de gli spirti indegni
Si vendicò nel ciel l'empio ardimento,
E da l'eccelso olimpo ebbono bando,
Per varie parti fur dispersi errando.

XVI

Verrà stagion, che l'universo intenda
Terribil tromba di giudicj estremi
Nel ciel sonarsi, e quindi ogni alma attenda
Per sè miserie sempiterne, o premi:
Allor sotterra ne la fiamma orrenda,
Allor nel fondo de gli orror supremi
Rinchiuderansi fulminati, allora
Faran nel centro, e senza fin, dimora.

XVII

In tanto ognun per mille vie procura
Che 'n ogni alma il peccar cresca diletto.
Ora a quegli empi, che per l'aria oscura
Han loro albergo, favellava Aletto:
Già sprezzar l'armi, abbandonar le mura
Era poc'anzi il Rodïan costretto;
Già nulla di suo scampo avea speranza:
Cotanto io crebbi ad Ottoman possanza.

XVIII

Quando AMEDEO fin da l'Italia corse
E scese in Rodi ad arrecar salute,
Ove gli amici così fier soccorse,
Che son le glorie d'Ottoman perdute.
Chi sia costui, ch'a noi contrario sorse,
Qual ne la destra sua splenda virtute,
Io nol dirò: del Vatican devoto,
A grande onta di noi, pur troppo è noto.

XIX

O de l'orride nubi, o de' sonori
Turbini al mondo eccitator famosi,
Densate nebbie, e con più cupi orrori
Gli almi raggi del sol volgami ascosi:
Se 'n terra ad AMEDEO gli aspri furori
Destra non è, che d'interromper osi,
Voi sì misero giorno omai spegnete,
Onde il campo de' Turchi aggia quiete.

XX

Fiera fremendo a questi detti a pena
Ella il fin pose, che l'orribil stuolo,
Come sua furia scelerata il mena,
Su gli spazj di Rodi affretta il volo.
Ed ecco perturbar l'aria serena,
Ecco tempesta minacciarsi al suolo,
Ed in un punto abominevol ombra
Il cielo afflitto oscuramente ingombra.

XXI

Quanti torbidi nembi austro governa
L'odiosa squadra in su quei campi aduna;
Stende uggia folta; e d'atra nebbia inferna
Abbuia l'aura, e più che pece imbruna;
S'annotta sì, che de la fiamma eterna
De l'aureo sol luce non splende alcuna
Per l'orror tetro; indi si finge Aletto
Le membra e l'armi e d'Ebräin l'aspetto.

XXII

E dove ardente il corridore ei sprona,
Ottoman giunge, e, serenando il ciglio,
Parla: Febo de' tuoi l'armi abbandona;
Or di riposo è via miglior consiglio;
Diman le trombe a novo assalto suona,
Come il dì sorga in sul mattin vermiglio;
Allor mia destra in guerreggiar fia teco.
Sparve ciò detto, e va per l'aer cieco.

XXIII

A l'ammonir del tenebroso nume
Placasi il Turco, e, raggirando il freno,
Impon il suon, c'ha di raccor costume,
E fra le tende aspetta il dì sereno.
Ma, poi ch'a l'armi sue vien manco il lume,
Da la pugna AMEDEO cessa non meno,
E per mezzo il dolor, ch'alto s'udìa
De' Turchi oppressi a la città s'invìa.

XXIV

Subito allor su le percosse mura
L'Angel di Rodi protettor discende,
E del greco Argilan presa figura,
Col vecchio Folco a favellare ei prende:
Ecco che sorta omai la notte oscura
Rodi pur con le tenebre difende,
E chiamano le trombe saracine
I fieri Turchi a riposarsi al fine.

XXV

Nè men l'alto AMEDEO, che 'n sì brev'ora
Ha percossa de' Tartari la spene,
Da l'armi cessa, e fino a nova aurora
Per teco starsi a la città sen viene.
Tu movi incontra e riverente onora
La fortissima destra, a cui s'attiene
Nostra salute. E così detto sparve,
E del ciel messo, disparendo, apparve.

XXVI

Udito il messaggier nulla altro aspetta
Folco, nè sente quel parlare in vano:
Ma de' gran duci suoi schiera diletta
Seco s'aggiunge, il buon Velasco ispano,
Il Baglione, il Brisacco; indi s'affretta
Il rege invitto ad incontrar sul piano:
Come fu da vicin, le guardie apriro
La ferrea porta; e quei gran duci usciro.

XXVII

Ma fuor de la città corto cammino
Segnaro d'orma le robuste piante,
Che quasi su l'uscir fatto vicino
Lo splendor de l'Italia ebber davante:
Ei sotto l'elmo dell'acciar divino
Sfavillava in magnanimo sembiante,
E con le membra del rio sangue asperse
Nobile vista e sovra umana offerse.

XXVIII

La destra porge caramente, e poi
L'inchina: e dice il Rodïano appresso:
Inclito sangue de' più forti eroi,
Per nostro scampo a noi dal Ciel concesso,
Se, pugnando Ottoman, da' furor suoi
Doveva in guerra rimanermi oppresso,
Io per far scherno a la miseria rea
Qual miglior destra unqua invocar potea?

XXIX

Certo a l'orecchie altrui chiara memoria
Nel mondo fia, ch'a noi porgendo aita,
Rompesse d'Ottoman tanta vittoria,
E s'affannasse così nobil vita.
Così diss'egli. Ed AMEDEO: la gloria,
S'a me pur ne verrà, verrà gradita,
Poscia che per decreto io m'affatico
Del Cielo, a scampo di cotanto amico.

XXX

Sì brevemente al Rodïan risponde;
Poi rinova, d'amor la fronte adorno,
Accoglienze dolcissime, gioconde;
Ed indi fanno a la città ritorno.
In tanto il suo venir fama diffonde
Con spesse voci; ed a le porte intorno
Già per tutto si spande il popol folto,
Di veder vago il gran guerriero in volto.

XXXI

Gioioso incontro; qual veggiam, se il lume
Rimena il sol de la fiorita estate,
Che di volar gioconde han per costume
Presso de l'aureo re l'api dorate;
Con lui ne i campi erbosi, o lungo il fiume,
O vanno intorno da le cere amate;
Tal vanno i Rodïan, dove a grande agio
Posi AMEDEO dentro il real palagio.

XXXII

Entrano presso l'immortal campione
I sommi duci in quel sovran soggiorno,
Che di trofei, di spoglie e di corone
È la gran corte e le gran scale adorno;
Là su giunto AMEDEO l'armi depone
In chiusa stanza, ed a lui poscia intorno
Sono i guerrieri; e de' guerrieri il duce
In ampia sala con sua man l'adduce.

XXXIII

Ivi il cibaro; ove la voglia accesa
De' cibi è spenta, il Rodïan ragiona:
Non perchè picciol regno a sua difesa
Ponga in sudor la tua gentil persona,
Fia che di ciò, come di vile impresa,
A te deggia venir vile corona,
E deggia il mondo e la cristiana fede
A l'altiera tua man scarsa mercede.

XXXIV

Chè noi quì posti a militar per questa
Isola angusta, e custodir suoi liti,
Fatti siam, come sponda a la tempesta
Che possa uscir da faretrati sciti;
I quai non più ladron per la foresta
Predano biade, o peregrin smarriti;
Ma seguendo Ottoman, che 'n loro regna,
Alzano al ciel non vilipesa insegna.

XXXV

Ei, poste a fren le regïon bitine
Tra ferro e fiamma, in che pugnò primiero,
Allargò dentro l'Asia il suo confine,
Noi minacciando di superbo impero:
Or con mille nocchier l'onde marine
Ingombra, e verso noi prende il sentiero;
Perchè, Rodi abbattuta, una battaglia
Il varco gli apra, onde l'Europa assaglia.

XXXVI

E noi quì lunge ad ogni aita, e stretti
Per dura fame in sì guardati mari,
A Dio sacriamo sanguinosi i petti,
Stancando l'aste ed i nemici acciari;
Ma tu, ch'a nostro scampo il corso affretti,
Chi ti conduce? e di qual parte appari?
Come fra le nostre arme oggi ti trovi?
Senza scorta di noi certo non movi?

XXXVII

Gli risponde AMEDEO: per l'Occidente
Erano a pena i vostri affanni intesi;
Quando la tomba del gran Dio vivente
Peregrinando a visitare io presi.
Sciolsi, e per entro il mar l'onda fremente
Mi fu seconda, e gli aquilon cortesi,
Fin che nei campi dell'Egeo pervenni;
Quivi d'alte procelle ira sostenni.

XXXVIII

Tre giorni in mezzo a le tempeste oscure
Corsi là dove il turbine mi mena.
A Sciro ruppi finalmente; e pure
Giunsi notando in su l'asciutta arena:
Quivi tra scogli e tra foreste oscure
Trassi più giorni solitario in pena.
Mossi indi al fin: ma ch'a trovarvi io vegna
Dal ciel disceso messaggier m'insegna.

XXXIX

Tacque; ed incontra le sue nobil voci
Folco dicea: dunque da noi lontano
Vada ogni tema; i turbini veloci
La sommergano in fondo a l'oceàno.
Tu struggerai gli eserciti feroci
Invitto, altier; fia di tua nobil mano
Ottoman servo: or ne i silenzj ombrosi
De l'alma notte il tuo valor riposi.

XL

Sì disse; e'n questa appar Lancastro inglese,
Al cui valor la rodïana porta
Commessa fu per le guerriere imprese;
Ed egli ad un guerrier faceva scorta.
Il guerrier su le giubbe al piè distese
Lega con cinto d'or spada ritorta,
E volge intorno al crin candida tela,
Ed il sovran de le due labbra impela.

XLI

Ne l'aspetto di lui splende beltate,
Ed era il viver suo lunge non molto
Da' dieci lustri; e pur la lunga etate
Con poche rughe gli solcava il volto.
Ora a i Baron, che ne le sedi aurate
Riposavano a mensa, ei fu rivolto;
E chino ambe le man sul sen si pose;
E 'n questi detti i suoi pensieri espose:

XLII

Il così fatto arnese, onde m'adorno,
E più l'uscir da l'ottomane tende,
Ove palesemente io fo soggiorno,
Che Turco io sia testimonianza rende:
Ma non debbo tacere in questo giorno,
Che da' cristian l'origin mia discende,
A ciò che più lontan d'ogni sospetto
V'entri nel cor ciò, che da me fia detto.

XLIII

Or voi dell'ascoltar fatemi degno,
Nè v'incresca raccor quanto ragiono,
Securi a pien che io mi conduco e vegno
De lo scampo di Rodi a farvi dono.
Ch'ei dovesse parlar fecero segno
Ambo quei grandi: ed ei soggiunse: io sono
In fra ciascun, che de la grazia altiero
Sen vada d'Ottoman, forse il primiero.

XLIV

Strano ad udir; ma le terrene genti
Hanno di vita lagrimosa, o lieta
Specchi a vicenda, onde a le umane menti
Nulla temer, nulla sperar si vieta.
Ora io deggio narrar, che miei parenti
D'Italia usciro, e dimoraro in Creta:
Quì dal grembo materno a la stess'ora
Con un altro fratel men venni fuora.

XLV

Nove anni a pena in ciel Febo rivolse,
Ch'andò la genitrice a l'ore estreme;
Quinci di Creta il genitor si tolse,
Perch'ebbe in Cipro d'avanzarsi speme:
Dunque su legno, che primier disciolse
Fidò se stesso, e noi suoi figli insieme,
E non grande tesor: solcammo i mari,
E fummo colti da' ladron corsari.

XLVI

Vennesi a l'arme, e con terribil core
Travagliossi ciascun per sua salute:
Ma, contrastando a barbaro furore,
Non ebber peregrin pari virtute:
Tratti furo i robusti a l'ultime ore,
Nostre persone al ferro, indi vendute
Ad un turco baron, nei cui servigi
Molto sudammo ne i paesi frigi.

XLVII

II mio fratel, cui la città straniera
Cangiò suo nome, ed appellollo Alcmano,
Si dilettò fin da l'età primiera
Di schermire da' morbi il corpo umano:
Erba non era in giogo alpin, non era
Suco salubre in solitario piano,
Nè pregiate acque di riposto fonte,
Ch'a l'industria di lui non fosser conte.

XLVIII

Lunga stagione in questi studj spese;
Poscia a' popoli infermi egli sovvenne;
Glorïoso si fe'; d'ogni paese
Il suo bel nome a la notizia venne.
E l'istesso Ottoman, come l'intese,
A se chiamollo, ed in gran pregio il tenne,
E quale avesse in lui dimostrò fede;
Che de la vita sua cura gli diede.

XLIX

Sì caro al gran signor pormi in oblìo
Fraterna carità non gli sofferse;
Ma volto ad innalzar lo stato mio
A la grazia real strada m'aperse.
Colto opportuno tempo al suo disìo
Dunque me servo ad Ottomano offerse,
E sì degno mi fe', che notte e giorno
A la persona sua dimoro intorno.

L

Posso a mia voglia entrar le regie tende,
Nè, s'altri il divietasse, il passo arresto:
Quando il re vegghia; e s'ei riposo prende,
Non meno il servo, e le sue membra io vesto:
Disiderio d'onor sì non m'accende
Ch'io menta; quanto parlo è manifesto:
Pregio di ventate apprezzo ed amo:
Son noto a tutti; Agitercan mi chiamo.

LI

E non per tanto, s'appo voi sicuro
Fia mio soggiorno, e, se miei merti avranno
Appo voi grazia, io fo promessa, e giuro
Che segherò la gola al fìer tiranno.
Così fatto parlar sembrò ben duro
A' Rodïan poi che sentito l'hanno;
E co' sembianti lor segno ne fero;
Onde soggiunse il cavalier straniero:

LII

Atto stimate d'ascoltarsi indegno
Questa vendetta, che di far prometto,
E forse incontra me d'aspro disdegno
E di repentino odio empiete il petto:
Ma quando il torto, che sì fier sostegno
Da l'iniquo Ottoman, per me fia detto,
Forse in voi cesserà la meraviglia.
Quì tace alquanto, e poscia a dire ei piglia.

FINE DEL CANTO VIII.

ANNOTAZIONI

AL CANTO VIII.

Argomento del Poeta: «Nel VIII (sic) Aletto addensa l'aria in modo, che si cessa dal combattere: Amedeo entra nella città.»

Nella st. 14 dice il Chiabrera:

    Sentelo il Turco, e con sembianti irati
    Volto a i Baron c'ha reverenti a canto ec.

E il cav. d'Urfe' nota: «je ne say commant il puisse attribuer ce nom aux Turcs, qui n'ont point non seulement de ces titres de marquis contes ny barons, mais qui n'ont pas mesme celuy de noblesse.» Ha ragione il critico, ove il vocabolo barone si voglia intendere nel senso feudale dell'occidente; ma le parole pigliano assai volte un senso più largo che non avevano a principio: così Marchese propriamente significava Governatore civile e militare di una vasta provincia su i confini d'un grande impero: Conte voleva dire Governatore d'una città e provincia; ed ora sono puramente titoli d'onore. Ed anche si potrebbe dimostrare storicamente, che i Maomettani, se non hanno de' Baroni, hanno però de' feudatarj, che possono in nostra favella meritare quel titolo. Ma non occorre dir altro su questo proposito, sapendosi che Barone ne' poemi italiani significa un capitano di alto grado nell'esercito.

Comincia alla stanza 40 un episodio; intorno al quale furono proposte alcune opposizioni. Ad una porta di Rodi, della quale aveva la guardia Lancastro inglese, si presenta Agitercano; che, avendo ricevuta una grave ingiuria da Ottomano, viene ad offerirsi a' Cristiani, promettendo di uccidere il Signore de' Turchi. Lancastro introduce Agitercano, e lo presenta a Folco Gran Mastro di Rodi. Parve al Duca di Savoja, udendo leggere il poema, che Lancastro avesse trasgredito le regole della guerra, introducendo nella città, in tempo dell'oppugnazione, un incognito che veniva dal campo nemico, senz'averne prima ottenuta facoltà dal capitano supremo. Il cav. d'Urfé trova ragionevole, ed a buon dritto, l'osservazione del Duca; ed aggiunge che il Poeta «devoit avoir fait faire a ce Turc quelque chose en vengeance de l'offance de la quelle il se plaignoit,» E veramente non facendo più nulla questo Agitercano, l'episodio non è collegato col poema; e senz'avere la bellezza di quello di Olindo e Sofronia del Tasso, ne ha il principale difetto. Un episodio che si può stralciare senza che il poema ne riceva danno, è contrario alle leggi della poesia.

Ma l'Urfé propone un'altra censura, che risguarda alla moralità; ed è questa, che il Poeta doveva trovare l'incontro di mostrarci punito Agitercano del suo tradimento «pour montrer que Dieu punit toujours les traistres, et mesmes ceux qui pour quelque occasion qui ce soit veulent attanter a la vie de leur prince souvrain.»—Perciocchè, seguita a dire il critico, debbe il poeta sopra ogni cosa studiarsi ognora di proporre degli esempj di rimunerazione e di castigamento delle virtù e de' vizj, per allettare a quelle, e da questi allontanare i leggitori.» Sentenza degna di cavaliere cristiano! Com'ebbe Agitercano palesato il disegno di uccidere Ottomano, veggendo Amedeo che il Gran Mastro non faceva risposta, così prese a dire al traditore (canto IX 32):

    «… Guerrier, le tue ragioni intendo;
    L'opra del Re fu scellerata e rea:
    Il tuo disegno io volentier commendo;
    Ma non vo' che di pregio e che di gloria
    Si scemi con tua man nostra vittoria.»

La qual risposta parve al cav. d'Urfé une chose un peu estrange: «Il me semble qu'une telle action ne devoit point estre avouee pour bonne par un si grand Prince.»

Nell'Amedeide minore non si legge parola di quest'episodio di
Agitercano.

CANTO IX.

ARGOMENTO.

Ode d'Ifigenia la trista istoria,
E d'Alcmano AMEDEO: ma niega poi
Che Agitercan rapisca a lui la gloria
(Come promette co' disegni suoi,
Uccidendo Ottoman) della vittoria.
Folco a veder va gli impiagati Eroi;
E, lor soavi compartendo accenti,
Ne puote serenar le afflitte menti.

I

Già sposò mio fratel per sua ventura,
E per sua disventura una donzella,
La qual formando s'ingegnò natura,
Ch'avesse con ragion titol di bella;
Taccio, che la sua treccia era ambra pura,
Ed ogni sguardo suo fulgida stella,
Rubin le labbra, e che di bel sereno
Splendea la fronte e d'alabastro il seno.

II

Se movea passo, o se facea soggiorno,
S'a detti, o s'a sospir la bocca aprìa,
Posasse gli occhi, o li girasse intorno,
Seco era gentilezza e leggiadrìa;
E, se 'n nobile danza, abito adorno
O domestici manti ella vestìa,
Lasciava in dubbio altrui, quando maggiore
Fosse di sua beltà l'almo splendore.

III

E queste doti eccelse e questi vanti,
Di che pregiolla il cielo, incoronava
Con una fè non mai veduta avanti,
Onde gioconda il suo consorte amava:
Ella da' cenni suoi, da' suoi sembianti
Pendeva, i detti suoi soli ascoltava:
Per tal modo in costei vedeansi insieme
Somma virtù, nè men bellezze estreme.

IV

Or mentre il suo fratel söavemente
Per sì fatta cagion mena la vita;
Ecco caso avvenire, onde repente
Sommerse tutti noi pena infinita:
Un giorno in Prusia la più nobil gente
Ottoman lieto a festeggiare invita,
Bramoso d'onorar duci fenici
Ch'indi facean cammin sì come amici.

V

Fessi di donne memorabil danza:
Altra ammirossi per serene ciglia,
Chi d'abito gentil, chi di sembianza,
E chi di leggiadrìa diè meraviglia.
Ma come ogni chiarezza in cielo avanza
Febo, quando il precorre alba vermiglia;
Per cotal guisa ogni beltà famosa
Ivi del mio german vinse la sposa.

VI

Allo splender di quella luce altiera
Ratto si volse ognun, come ella apparse;
Ma guardolla Ottoman per tal maniera
Che da prima lodolla, e poscia n'arse:
Si danzò, si gioì, giunse la sera,
E con doglia d'ognuno il sol disparse:
Stassi Ottomano alquanto, e poscia invìa
Bagon suo messo a la cognata mia.

VII

Perle, cui già nudrì l'onda eritrea,
E forza d'or, che l'universo apprezza,
Recolle in dono. Indi così dicea,
Per adescar la feminil vaghezza:
Recarti ei stesso questi don volea
Ottoman per ornar la tua bellezza,
Onde l'imperio suo si rende adorno:
Ma poi volle serbarsi ad altro giorno.

VIII

Or manda me, ch'a nome suo t'onori,
Onde la speme tua rimanga certa
Che de' reali altissimi favori
Per me ti faccia non bugiarda offerta.
Felice te, che 'n sì sublimi amori
Trovi la via senza cercarla aperta,
E grazie godi, che per nulla etate
S'affidò disïare altra beltate.

IX

Ifigenìa, che del parlare intese
L'occulto fin, tale risposta diede:
Troppo altamente il gran signor cortese
Ad una vil sua serva usa mercede:
Ma non mi dir, che meraviglia il prese
De la scura beltà, che 'n me si vede;
Ch'egli usato a mirarne alme ed altiere,
D'una sì fral non può sentir piacere.

X

E qual mi sia, sai ben, ch'al mio consorte
Mi lega d'Imeneo salda promessa,
Sì che nol debbo ingiurïar sì forte;
Ma non meno amar lui, ch'ami me stessa.
Quì tacque. E visto per sì nobil sorte
Mostrar la donna la sua voglia espressa,
Fu stupido Bagon: poscia raccolse
I suoi pensieri, indi la lingua sciolse:

XI

Forse avvien, che di me vergogna prendi;
O ch'al mio favellar non dai credenza:
Ma per mia bocca quelle cose intendi
Ch'avria detto Ottomano in tua presenza.
Or la cagione, onde al mio dir contendi,
E che narrasti, è popolar sentenza,
Ed indegna di te, nel cui bel petto
E senno ed accortezza han suo ricetto.

XII

Qual sì felice fia per l'Orïente
Alma, o sì paga degli uman desiri,
Che per invidia non divenga ardente,
Quando alle tue grandezze ella rimiri?
Tu su le voglie d'Ottoman possente
Sì ch'ubbidisca del tuo guardo ai giri?
Sì che cangi color per tuoi sembianti?
Sì che venga di ghiaccio a te davanti?

XIII

Sommo trïonfo di beltà, nè mai
Visto fra noi; ma di tesori immensi
Per ogni tempo il pieno arbitrio avrai,
E fia tua sola man che li dispensi.
Che di cotanto onor biasmar giammai
Ti deggia Alcman, torto gli fai, sel pensi
Ei come saggio sa, che 'l nostro bene
Ne la grazia del re por si conviene.

XIV

Nè questo detto io vo' tenerti ascoso;
D'Ottoman l'alma a disdegnarsi è presta.
Ed io vorrei, pria che 'l suo cor sdegnoso,
Incontrare un leon per la foresta.
Sì disse lusinghiero e minaccioso;
Ma non d'Ifigenìa la mente onesta
Per forza di speranza e di spavento
Scosse dal suo gentil proponimento.

XV

Ella con franca voce il fea sicuro
Ch'ogni artificio s'adoprava invano:
Era qualunque strazio a lei men duro,
Che caricar di tanta infamia Alcmano,
Credi Bagon; con veritade il giuro;
Tanto del re non può donar la mano,
Ch'a lui mi venda: e l'or, ch'oggi mi porgi,
Io lo reputo vil; ben te n'accorgi.

XVI

Sia tuo; serbalo teco; io tel consegno:
E tu del gran Signor tempra le voglie,
Ed affatica il conosciuto ingegno
Ad ammorzar l'ardor che 'n se raccoglie.
Visto, ch'ella d'amar prende disdegno
Sì fortemente, il messo indi si toglie;
E noi creder dobbiam, ch'egli dicesse
Poscia al tiranno fier quanto successe.

XVII

Finse Ottoman di disïar piacere
Una giornata in caccia; e sul mattino
Mosse con pochi a perseguir le fere,
Per entro un bosco a la città vicino.
Quivi lasciò de le seguaci schiere
L'usata corte, e travïò camino,
E, trapassando per lo folto, disse
Co' cenni al mio fratel, che lo seguisse.

XVIII

Ed ei seguillo. Come seco il vede,
Gli dimostra Ottoman volto giocondo,
E seco parla, fin c'ha posto il piede
In su la riva d'un vallon profondo.
Come l'ebbe colà, spinta gli diede
E traboccollo: non pervenne al fondo
Il corpo infelicissimo, che spento
Spirò la vita, e la disperse al vento.

XIX

Fornì la caccia; e sul fornir del giorno
Ognuno il piè rivolse a le sue case:
Torna ognun: solo Alcman non fa ritorno;
E quinci Ifigenìa trista rimase.
Spedì messaggi a ricercarlo intorno
Ove lui ritrovar si persuase;
E nulla fu del risaperne. Intanto
Fingeasi in cor varie cagion di pianto.

XX

Mentre languisce, e ch'ella un dì sostiene
Col sonno il cor da l'amarezza vinto,
Ecco, che su l'aurora a lei sen viene
In sogno l'ombra del consorte estinto.
Ah che le ciglia sue non fur serene,
Nè di neve, nè d'ostro il viso tinto!
Nè ver lei sfavillava al modo usato
La bella luce del sembiante amato.

XXI

Rabbuffato le chiome, il sguardo mesto,
D'orrida pallidezza afflitto il volto,
Ed il busto di piaghe atro e funesto,
E di sangue e d'orror tutto era involto;
E le diceva: il tuo consorte è questo:
Io così sotto il ciel giaccio insepolto
Esposto a saziar belve affamate,
S'aiuto non mi vien da tua pietate.

XXII

Ottoman stesso ingiurioso ed empio,
M'uccise. E quivi le solinghe rive,
Ove sofferse il non temuto scempio,
E come gli avvenisse a pien descrive.
A l'esecrabile atto oltra ogni essempio
Apre le luci di più viver schive
La donna; e l'ombra apparsa più non vede;
Sol pensa a quello annunzio, e vero il crede.

XXIII

E, poi che sorse il sol su l'emispero,
Vien meco: Alcmano a ritrovare andiamo,
Mi dice. Ed io con lei calco il sentiero,
Ed in brev'ora la foresta entriamo;
Molto cercammo, ed oh spettacol fiero!
Al fine in scura valle il ritroviamo
Tutto sanguigno, e le sue membra ancise,
Sbranate e lacerate in varie guise.

XXIV

Subito fummo, io da mestizia oppresso,
Gelido il petto, e con le ciglia immote,
A lei di favellar non fu concesso:
Cotanto pianto l'inondò le gote.
Poi grida: e pur non ingannevol messo
A me venisti, e vere fur tue note?
E quivi di pallor copre l'aspetto,
Stracciando i crini, e percotendo il petto.

XXV

Poscia narrommi d'Ottoman l'amore
Nato fra balli, e che Bagon propose;
I doni, i preghi ad ammollirle il core,
E ciò che disdegnando ella rispose:
Narrommi ancor, che sul notturno orrore
Alcmano istesso i suoi martiri espose.
Io stimai, ch'ei giungesse a quella morte
Per cagion de l'amor de la consorte.

XXVI

E però senno giudicai frodarsi
Con simulato cor tanta sventura,
Che la colpa del re manifestarsi
Mal nostra vita renderìa sicura.
Dunque fra i pianti e fra i sospiri sparsi
Pensammo come porsi in sepoltura
Dovesse il corpo sfortunato; e poi
Di lui non far parola unqua fra noi.

XXVII

Così dove men sodo era il terreno
De l'ima valle ivi per noi s'aperse,
Ed Alcman vi si pose, indi non meno
De lo stesso terren si ricoperse.
Ma chi giammai potrìa narrare a pieno
Di che misere lagrime t'asperse?
Al mesto loco alfin volgemmo il tergo,
E tornammo dolenti al patrio albergo.

XXVIII

Dopo due giorni tra mortale affanno
Secretamente Ifigenìa mi chiama;
Ben nel volto di lei fuor d'ogni inganno
Si conoscea del suo morir la brama.
Ella mi disse: il perfido tiranno
Questa bellezza miserabil ama;
E, per ch'era a sue colpe impedimento
Il tuo fratello, il traditor l'ha spento.

XXIX

Contrastare a la barbara vaghezza
Di sì fiero uom qual sarìa mai bastante?
Ma non vogl'io, che de la mia bellezza,
Trattone Alcmano, altri si veggia amante:
Dunque sul primo fior di giovinezza
D'ognuno a gli occhi io mi torrò davante:
Ho bevuto venen: tu se potrai
Vendica i nostri incomparabil guai.

XXX

Poichè così parlommi, in tempo breve
Abbassar gli occhi, e scolorir si mira;
E sparsa di sudor come di neve
Tutta si scote palpitando e spira.
Sì fatto oltraggio perdonarsi deve?
A torto mi lamento? ingiusta è l'ira?
O pur debbo cercar con ogni ingegno
Scacciar dal mondo il regnatore indegno?

XXXI

Trarlo di vita io ben potei sovente
Con questa man: ma dove poi salvarmi?
Or s'io l'uccido, infra la vostra gente,
Consentendolo voi, posso ritrarmi;
Ucciderollo, e di sue membra spente
Al fin godrò: voi moverete l'armi.
E sbigottito e sfortunato campo
E senza re, quale indi aver può scampo?

XXXII

Quì fa punto al parlar, nè più dicea
Agitercano. Ed AMEDEO, vedendo
Che Folco a quel parlar non rispondea,
Disse: guerrier, le tue ragioni intendo;
L'opra del re fu scelerata e rea;
Il tuo disdegno io volentier commendo:
Ma non vuò, che di pregio e che di gloria
Si scemi con tua man nostra vittoria.

XXXIII

Non ti dar pena, e, fin che sparga i rai
Dimane il sol per l'universo, aspetta;
Che con la morte d'Ottoman vedrai
Farsi di tutti voi degna vendetta.
Cotal diede risposta. E quando omai
Al mezzo del cammin notte s'affretta
Sì che cagion di riposarsi porge,
Il vecchio Folco da la sedia sorge.

XXXIV

E rivolto de Turchi al cavaliero
Ei così gli dicea lieto in sembianza:
Che di' tu d'Ottoman? qual fa pensiero?
De la nostra vittoria ha più speranza?
Quei risponde: Ottoman superbo, altiero
Ne i suoi disdegni e ne i furor s'avanza,
E non sa sbigottir: ben la sua gente
Sorpresa da timor fassi dolente.

XXXV

Ma non per tanto hai da temer: s'attende
Con non picciole navi alta reina;
Ella fra' Colchi impera, in armi splende,
E viene ad affrettar vostra ruina.
Come cosa, che 'n gioco altri si prende
Ascoltandolo Folco oltra cammina;
E pur con voci e con fattezze liete
Sen giva a ritrovar stanze secrete.

XXXVI

AMEDEO seco: ei di sua man l'adduce
Là ove le membra col dormir ristori;
Stanza real, che 'n tenebre riluce,
Sì tutta d'ostri ella è fornita e d'ori.
Posa AMEDEO; solo di Rodi il duce
Vegghia più parte de' notturni orrori,
Ben provvedendo a la città mal forte
Ed a' sommi guerrier piagati a morte.

XXXVII

Verso i tetti d'Enrico i passi ei torse,
E non pochi guerrier gli vanno appresso;
Pervenuto colà tosto s'accorse,
Ch'a lui poco di vita era concesso;
Sì vinto gli occhi, e di pallor gli scorse
Ambe le labbra, e tutto il volto impresso:
Sì palpitava, e per sì picciol via
Dal travagliato sen lo spirto uscìa.

XXXVIII

Vicino al cavalier fermossi in piede
Folco, e gli disse: tra' funesti acciari,
In verso il ciel de la tua nobil fede,
Ecco che i segni a rimirar son chiari.
Per te di gloria a divenire erede
In mezzo l'armi ogni ben nato impari;
E ti fia gaudio: i cavalier sublimi
Corrono a' rischi ed a la morte i primi.

XXXIX

Quì tacque Folco. E raccogliendo al fiato
Ben lentamente, e ravvivando il volto
Enrico favellò: stanco e piagato
Da l'assalite mura oggi fui tolto:
Poscia nulla seppi io del nostro stato.
Signor, che fia di noi? sarà disciolto
Il barbarico assedio? abbiam possanza?
A che segno riman nostra speranza?

XL

E Folco rispondea: rinfranca il core;
Sono al barbaro stuol chiuse le porte:
Noi da le mura lo spingemmo, e fuore
La spada d'AMEDEO gli trasse a morte.
Quì soverchiando del mortal dolore
L'estrema angoscia a favellar fu forte
Con più chiarezza, e poteo far palese
L'interno gaudio il cavalier francese.

XLI

Chiudansi a posta lor questi occhi; omai
Il viver di qua giù lieto abbandono;
E se poco potei, se poco oprai,
Folco, in servigio tuo, cheggio perdono.
Poscia cedendo de le piaghe a' guai
Fornì del suo parlar l'ultimo suono,
Ed agghiacciando il sangue in ogni vena
Tragge un lento sospir, ch'a morte il mena.

XLII

Fra le turbe dolenti a piè del letto
Stava d'Enrico un ben gentil nipote,
Poco sovra due lustri, altier d'aspetto,
Inanellato il crin, bianco le gote;
E mentre ei piagne, e da l'acceso petto
Con fervidi sospir l'aria percote,
Folco a lui si rivolse in quegli affanni;
E confortò l'infermità de gli anni.

XLIII

E così gli dicea: cessa il tormento,
Nobil fanciul, che ti destini a Marte,
E sappi che 'l cordoglio e lo spavento
Da le scole di lui vanno in disparte:
Le ferite del zio, che piagni spento
Ti siano specchio; indi raccogli l'arte
De le battaglie, e fian di gloria adorni
Se con tal pregio forniran tuoi giorni.

XLIV

Così 'l fanciullo avvalorar procura;
Poi verso Trasideo prende sua via:
Ma quale avesse il grande Orsin ventura
Da' cavalier, che lo seguiano ei spia;
E risponde il Baglion: sovra le mura
Io lo mirai ne la battaglia ria
Col ferro in man fra le nemiche schiere
Da prima fulminar, poscia cadere.

XLV

Ma tramontando il sol, quando rispinti
Furo i Turchi costretti alfin ritrarsi,
Fattolo ricercar fra i corpi estinti.
Ivi non fu concesso unqua trovarsi
Con occhi gravi e di mestizia vinti,
Udendo Folco, dimostrò turbarsi;
E diceva: al maggior dei nostri amici
Non si daran d'amor gli estremi uffici?

XLVI

A l'ingiurie del vento e de la pioggia
Il nobil busto gitteran quei cani?
E già feansi dal tetto ove s'alloggia
Il piagato baron poco lontani.
Come ivi giunse, immantenente poggia
Folco del ricco albergo a i primi piani,
Ed ivi fassi incontra, ove l'inchina
Con esso Ermosa la leggiadra Egina.

XLVII

Chiede da l'alte donne, ed indi intese
Sovra il dolor da Trasideo sofferto,
Che da molte percosse egli s'offese;
Ma non per tanto, che suo scampo è certo;
Onde con esso lor sen va cortese
A trovare il guerrier di sì gran merto,
E con sembianze di allegrezza asperse
Primier le labbra a favellargli aperse.

XLVIII

E seco s'allegrò, che fosser frali
State l'armi nemiche, onde ei s'afflisse;
Ma che del pregio suo palme immortali
Fama nel mondo tesserìa, gli disse.
Rispose Trasideo: l'ore mortali
Non fu veduto mai ch'altri fuggisse,
E de l'uomo caduco il viver breve
Rendere eterno col valor si deve.

XLIX

Tu su l'ultima età con chiari essempi
Infiammasti a la pugna il desir mio,
E ne la pugna difendeansi i tempi,
I sacri altar, le leggi alme di Dio:
Lascio di dir, ch'io ritoglieva a scempi
Donna sola, per cui viver disio,
Per cui le piaghe numerose e gravi
Che soffersi in pugnar mi son soavi.

L

Or se quinci avverrà, ch'onor men vegna,
È la mercè, che da gli affanni attendo.
Per gloria anelo, e così far m'insegna
Il nome di quel grande, onde discendo.
Quì tacque e teme non dolor sostegna
Folco il guerrier più lungamente udendo;
Però non dà risposta, e s'accommiata,
E fa ritorno a sua magione usata.

LI

Di colà manda l'onorata gente
Seco venuta a ristorarsi alquanto,
Ed ei si disciogliea l'elmo lucente,
E l'aureo brando si togliea da canto.
Ma pure al grande Orsin volge la mente,
E ne le ciglia non ritiene il pianto:
Alfin sul letto a ricercar riposo
Le membra adagia, e tuttavia pensoso.

LII

Nè così tosto nel silenzio avvolto,
Dolce requie d'altrui, sonno l'adombra,
Che del caro campion dal corpo sciolto
Rapidamente gli s'offerse l'ombra;
Rideano i guardi, sfavillava il volto,
E l'alma fronte era d'affanno sgombra:
Le piaghe, onde sgorgò di sangue un fiume
Pareano a rimirar fonte di lume.

LIII

Egli diceva: estremamente ho caro,
Anima grande, che di me ti caglia;
Ma de' miei giorni, ch'a l'occaso andaro,
Nulla, se prezzi il ver, pena t'assaglia:
Le membra ancise da nemico acciaro,
Tolte per man del ciel da la muraglia,
Son date in Roma a la pietà paterna;
E l'alma gode alma letizia eterna.

LIV

Folco, son fosche nebbie i carri altieri,
E già del Tebro i sì famosi allori
Appo quei che ne l'alto a' suoi guerrieri
Il grandissimo Dio comparte onori:
Esperto il dico; i detti miei son veri:
Tu fanne certi de' seguaci i cori,
Perchè, spendendo l'animose vite,
Aggiano per tesor le sue ferite.

LV

Così diceva, e non d'umani accenti,
Tant'era caro, rassembrava il dire.
Indi si scorse fra bei lampi ardenti,
Tornando al ciel, come balen sparire;
Di repentino oblio sparge i tormenti
Folco ascoltando, ed un novel gioire
Par che nel petto afflitto al duol succeda,
E tutta volta era del sonno in preda.

FINE DEL IX CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO IX.

L'argomento in prosa dice così:

«Nel IX. Agitercano Turco si offere di uccidere Ottomano; et Amedeo non l'accetta. Il Gran Maestro visita Enrico e Trasideo feriti.»

L'episodio di Agitercano avendo principio nel canto VIII. è da vedere quanto si è detto nelle annotazioni a quel canto.

Il Cav. d'Urfè ha due sole censure pel IX.

Aveva detto il Poeta, che Ottomano, condotto Alemano

    «In sulla riva d'un vallon profondo,
    Come l'ebbe colà, spinta gli diede
    E trabocollo……»

«Il me samble (parla il Critico) que quand Ottoman tue Alcmane ce soit une chose contraire a ce que les grans Turcs ont accoutumé de faire, parce que leur ordinaire est de le faire faire par autre; touttefois s'il se peut excuser sur la colere, je m'en remets au jugement d'autruy, et mesme s'il y a subjet de colere, puisqu'il estoit blessé et que mesme il dit que le sang couloit encore, et que Alcmane le dit luy mesme a Ottoman.»

Quanto al fare che Ottomano uccida l'infelice di sua mano propria, vero è che i gran Signori de' Turchi si servono in cotali uccisioni del braccio altrui; ma quì trattavasi di materia gelosa, e in ispecie nell'Oriente, ed in un secolo non ancora guasto dalla mollezza; e però il far trucidare Alemano alla scoperta, sarebbe stato come un far pubblica l'onta di una fiamma disonesta.

L'altra parte della censura, ingenuamente dichiaro ch'io non l'intendo. Può essere che il Chiabrera mutasse alcuna cosa nel dare alle stampe il poema; e da ciò verrebbe l'oscurità della critica fatta sul manuscritto. Più chiara è questa che segue.

«En ce chant on ne voit presque rien que des songes et des apparitions d'esprits, et des discours des démons entre-eux qui sont du tout trop ordinaires, comme V. A. a bien remarqué.»

Questo difetto tolse il Poeta riducendo l'Amedeida a soli dieci canti; e ordinando che fosse pubblicata lui morto. Ma su questo poema convien leggere le lettere del Chiabrera a Bernardo Castello, che si stampano dal sig. Ponthenier; essendo in esse la storia minutissima dell'Amedeida.

CANTO X.

ARGOMENTO.

Prende le forme di Licasta, e muove
Così la Furia di Sultana al letto;
Onde ella di distor faccia sue prove
Dal desio di pugnar il Re diletto.
Prega essa; ma pregar nulla ha che giove,
Nè ardore ammorza nel guerriero petto.
La Furia allor da le tartaree grotte
I figli tragge dell'eterna notte.

I

Ma carco d'armi il natural riposo
Schifa ne l'ombra taciturna, e bruna
Ottoman fiero, e su quel dì pensoso
A se davanti i sommi Duci aduna;
Ivi con guardo turbido, focoso
Da prima voce non esprime alcuna;
Poi con sembianza tal, ch'a rimirarla
Porgea spavento, apre la bocca, e parla.

II

Senza che sporlo favellando io tenti
Creder per voi si po, che quì v'aspetto
Per alto sublimar vostri ardimenti,
E la virtù, che vi sfavilla in petto;
Ah cani, ah cervi a sola fuga intenti;
Anco il piè vi conduce al mio cospetto?
Tornate a me così sconfitti in guerra?
Oltre, vil schiavi, ad abitar sotterra.

III

Degnati in campo al più sublime onore,
Scelti fra tanti a dilatar l'Impero,
Dovevate fuggir colmi d'orrore
Non per altre arme, che d'un sol guerriero?
Or sì come dal mar l'alba vien fuore
Pur di ratto fuggir fate pensiero,
Perchè di gente tal possa vantarmi,
Eterna infamia del mestier de l'armi?

IV

Tal minacciava; e da la fronte oscura
Per gli occhi fiamma sfavillava intorno,
Gelidi i capitan d'alta paura
A le tende ciascun fa suo ritorno;
Quivi, presaga di più rea ventura,
La vinta plebe al trapassato giorno
Volgea la mente, e tra' più rei martiri
Bestemmia d'Ottoman gli empi desiri.

V

Non è chi terga elmi sanguigni, o studi
Ne l'ampio vallo disfrenar destrieri;
L'aste vedresti, e gl'ingemmati scudi
In folta polve, e i ricchi arnesi altieri;
Erra fremendo orrida Aletto, e crudi
Giù ne l'alma infernal nudre pensieri,
Gli aspidi vibra in su la fronte atroce,
Ed ivi errando se ne va veloce.

VI

Ella, che sa quanto languisce, e quanto
Ne le vene Ottoman chiude d'ardore,
Creder non vuol, che di Sultana al pianto
Non pieghi alfine intenerito il core.
Dunque sen vola; e su per l'aria intanto
Lascia il sembiante, e l'infernal terrore,
Fassi Licasta, ch'a Sultana in culla
Diè la mammella, e la nudrì fanciulla.

VII

La nobil donna lagrimava, e mesta
Sola traeva guai sul regio letto,
E de l'interno duol nube funesta
Turbava l'aria del sereno aspetto;
La manca mano ha sotto l'aurea testa,
La destra in su l'avorio del bel petto;
Sì stava, di gran mal quasi indivina,
Quando il rio mostro da vicin l'inchina.

VIII

E dice: abbandonata quì dimori,
Ed apri al pianto, ed a' sospir le porte,
Ma schernendo Ottoman gli altrui timori
Contra il grande AMEDEO s'appresta a morte;
Certo, che fra le piaghe, e fra i dolori
Andranne al ciel re coraggioso, e forte,
Specchio ad altrui de la virtute umana;
Ma pensa tu, che fia di te, Sultana.

IX

Tolta dal regno a dispietate genti
Cotanto offese, e vincitrici in mano,
Onde a' tuoi duri oltraggi, onde a' tormenti
Sperar mercè potrai se non invano?
Dunque non versar quì pianti e lamenti,
Anzi lavane i piedi ad Ottomano
Inginocchiata, e fa che posta ei miri
La beltà, ch'egli adora, in gran martiri.

X

Al così favellar doglia profonda
D'alto gelo a Sultana empie le vene;
Indi si scote; e su l'eburnea sponda
L'afflitta guancia con le man sostiene:
Oh per me, disse alfine, ora gioconda,
Se come a far m'accinsi, uscia di pene
Col ferro allor che 'l genitor mio sparse
L'alma canuta, e che la patria s'arse.

XI

Che quel dì mi togliesse a scempio indegno,
Ch'Ottoman di mio mal prendesse cura,
Acerbo fu d'alcun demon disdegno,
Che quì mi serba a più crudel ventura;
Ch'ei torni in Asia tuttavia m'ingegno
Per comune salute, ed ei s'indura,
E sprezza quanto il ciel chiaro predice
Per ambedue d'atroce, e d'infelice.

XII

Tu di', ch'io pianga, e che l'angoscia io versi,
Ch'io mi strugga dolente al suo cospetto;
Oh non del mio dolor tutto il cospersi?
Non mi vide egli a se morir sul petto?
Omai preveggo i Rodian perversi
De le miserie mie farsi diletto;
Certo è così, ma schernirogli almeno
O con coltello, o con mortal veneno.

XIII

Cotal diss'ella, e giù dal fianco svelte
Sospiri ardenti; e per lo sen le scende
Caldo ruscel di lagrime novelle;
Allora il mostro a così dir le prende:
Reina, anco dal cielo, e da le stelle
S'armato è di prudenza uom si difende;
Rinova i preghi; a la tua nobil vita
Giugne soccorso d'immortale aita.

XIV

Indi per foschi nembi, atro sentiero,
La simulata imagine sen vola,
Come per soffio d'aquilon leggiero
Ratto a lo sguardo altrui nube s'invola;
Ma la donna real, ch'entro 'l pensiero
De la finta nudrice ha la parola,
Speme avvivando, si rinfranca, e move
A far co' preghi suoi l'ultime prove.

XV

Lascia le piume, ed abbandona ogni arte.
Onde con pompa sue bellezze onori;
Nulla su' manti suoi gemma comparte,
Nulla s'asperge di soavi odori;
Le belle chiome al vento ivano sparte
Argomento a mirar d'alti dolori;
Nè del bel collo al puro latte intorno
Giransi perle, onde fiammeggi adorno.

XVI

Così veloce ad Ottoman sen riede,
E col bel guardo di mestizia pieno
Fiso il rimira, e gli si getta al piede,
E vinta di dolor quasi vien meno:
Egli in foco sen va come la vede,
L'alza da terra, e la si stringe al seno,
E stan gemendo, e palpitando alquanto;
Sultana alfine apre le porte al pianto;

XVII

Percote il petto, e con la man dolente
Le bende straccia, indi le chiome aurate,
Poi con singulti fece udire ardente,
Il suono afflitto de le voci amate:
Ne l'empio risco, e nel gran mal presente
Deh risorga, Ottoman, l'alta pietate,
Che nel petto real da prima sorse
Mirando me di me medesma in forse.

XVIII

Volgiti addietro, e ti rammenta il giorno,
Che Lidia in guerra soggiogata ardea,
Allor ch'a' vinti si girava intorno
Tra sangue e foco ogni miseria rea,
Io per tor la mia vita a scempio, a scorno
Quel giorno a morte volentier correa,
Stringea la spada, e già feriami il petto,
Quando il ciel ti condusse al mio cospetto.

XIX

Vittorioso intra gli acciar funesti
Movevi intento a le nemiche offese,
Ma non prima lo sguardo in me volgesti,
Che di mio stato alta pietà t'accese;
Corresti, e l'arme di mia man traesti,
Prendesti meco a favellar cortese,
Comandando a ciascun, che 'n ogni loco
Cessasse il sangue, e s'affrenasse il foco.

XX

Poco alfin ti sembrò, che scampo avesse
La serva tua da miserabil morte,
Che 'l tuo nobile cor tosto m'elesse,
Infinita mercè, per sua consorte;
Indi per l'Asia a le reine istesse
Beata apparvi, e s'ammirò mia sorte,
Che nel corso degli anni un picciol punto
Non fosse il fianco mio dal tuo disgiunto.

XXI

Io ne le liete, io ne le sorti avverse
Sempre in terra ed in mar fra le tue schiere;
La bella asta real per me si terse;
Adornossi il cimier di piume altiere;
E se nel corpo tuo piaga s'aperse
Le labbra mie la ti baciar primiere,
E sempre, che 'n sudor tornasti avvolto
Fur queste man che t'asciugaro il volto.

XXII

Or lassa ove t'offesi? ove cotanti
Error commisi, che da me lontano
Rivolgi il cor sì, che mi struggo in pianti
Te pur pregando, e mi distruggo invano?
Forse tra scogli, e turbini sonanti
Ti produsse, Ottoman, l'empio Oceano?
Ch'a te non cal, che fra i Latin schernita
Tragga in dolor la miserabil vita?

XXIII

Quì tra lunghi sospir china l'adorno
Suo guardo a terra moribonda, e geme;
Ed egli arso d'amore, arso di scorno,
Tra molli pianti inesorabil freme;
E grida: a te dure catene intorno?
Tu n'andrai serva a le miserie estreme?
Sultana d'Ottoman tanto temesti?
Unqua voce sì ria formar potesti?

XXIV

Certo, ch'infra Latin porrai le piante,
Ma colà giù fra lor ti vo' reina;
Vogl'io, ch'a' cenni tuoi cangi sembiante,
E corra Italia tributaria inchina;
Roma fra sette colli arsa, fumante
De gli eserciti tuoi farò rapina,
Ed in lei marmi sacrerotti eterni;
Cotali avrai per me catene e scherni.

XXV

Quì tacque; ed ella con sembianza oscura
Per grave duolo a così dir riprese:
Mentr'io timida il cor su tua ventura
Dianzi piangea, dal cielo ombra discese,
Ch'a' tuoi guerrier battaglia avversa e dura,
E duro fin de l'animose imprese,
Ed a gli assalti tuoi pianto predisse,
Se quinci il campo tuo lunge non gisse.

XXVI

Che possa l'asta d'Ottoman fe' chiaro
Asia, dicea, dove ei fermò l'impero,
Ove, se regi le provincie armaro,
Per loro morte ei più divenne altiero;
Or sotto Rodi egli cadrà; riparo
Altro non è, che rimutar pensiero;
Corri, Sultana, a dipartirsi il prega;
Miseri voi, se 'l tuo pregar nol piega.

XXVII

Così dicendo se n'andò co' venti,
E rivolando al ciel subito sparse,
Ed io son quì; tu le minacce senti,
Senti, che d'alto messaggier m'apparse:
Or che farai? deh se gli strali ardenti
Più stanti al fianco, e se l'incendio, ch'arse
Per me tuo core, or più t'avvampa il petto,
Al celeste voler non far disdetto.

XXVIII

Mira, ch'a pianger teco oggi non vegno
Per leggiera cagion con tante pene;
Piango la vita tua, piango il tuo regno,
Piango ogni mio conforto, ogni mio bene:
Onde, se non da te, scampo, e sostegno?
Onde refugio alcun sperar conviene?
Ove ho da riparar? quale speranza
In tanti mali a la mia vita avanza?

XXIX

Padre non ho, ch'antivedendo i danni
Di vita uscì, tanto dolore il vinse
Per tue battaglie; e sul fiorir de gli anni
Tre miei fratelli la tua spada estinse;
La madre oppressa per cotanti affanni
Al nobil collo un duro laccio avvinse;
Gli amici o che dispersi, o che sotterra
Pur mandommegli allor forza di guerra.

XXX

Oh fra tante miserie alfin beata,
Se 'ntra le fiamme de la patria, vinta,
Battuta, vilipesa, incatenata
Come nemica era a morir sospinta:
Fossi, misera me, foss'io non nata,
Foss'io tra fasce ne la culla estinta,
Se 'l pianto scherni onde ti lavo i piedi,
E se del cielo a messaggier non credi,

XXXI

Ove torci la fronte? ove i sembianti?
Il carissimo sguardo ove raggiri?
Quì non son mostri; inginocchiata avanti
Hai Sultana, che sparge alti sospiri.
Diceva ancor, ma lo sgorgar de i pianti
Tra singulti interrotto, e tra sospiri
Il vigor tolse; e sì l'angoscia crebbe
Ch'ella a più favellar forza non ebbe.

XXXII

Irta le chiome, pallida, gelata
Palpitando riman tra viva e morta;
Sovra aureo letto di sudor bagnata
Stuol di vergini serve indi la porta;
Ma per lei da martir tanto agitata
Il feroce Ottoman si disconforta
E si contrista sì, che non ha posa
Ne le gran fiamme sue l'alma amorosa.

XXXIII

Scuotesi tutto; e l'empio duol del core
Per mille guise gli apparisce in volto;
Pietà di lei, suo natural furore
Il turban sì, che di se stesso è tolto;
Poi che di guerra, e che pensier d'amore
L'ha lungamente alfin volto, e rivolto,
Tragge un sospiro, e con la destra segna
Ch'Ebrain sì diletto a lui sen vegna.

XXXIV

Corre il buon servo, ed al tiranno avante
S'atterra; ei l'alza, e la sinistra pone
Sul caro tergo; indi in real sembiante
Incomincia con lui grave sermone:
Sultana, come donna, e come amante,
Ha de' sospetti suoi molta cagione,
Ma perch'al suo voler pronto m'inchini
Aggiunge segni, e messaggier divini.

XXXV

Turbami, che da se lunge non spinga
De l'acerbo mio fin tanti sospetti;
Ch'ella per suo cordoglio il mal si finga,
E che mia morte, e mia miseria aspetti;
Duolmi che 'n van tanto dolor la stringa;
Ma debbo dar de' miei nemici a i petti
Le spalle in guerra? e s'a pugnar mi chiede
Giusta cagion, volgere in fuga il piede?

XXXVI

Fia, che l'Asia di me tanta viltate,
O pur l'Europa, cui minaccio, intenda?
Varchi, Ebraino, a la futura etate
Arte miglior, che d'Ottoman s'apprenda;
Uscirò, pugnerò; mia feritate
Mia destra, il nome mio m'armi e difenda;
Contra ogni cavalier non son possente?
Or ciò che prendo a favellar pon mente.

XXXVII

Quanta nel petto mio fiamma dimora
Per l'altiera beltà, ch'Amor m'offerse
Quando Sultana appena vista ancora
Con l'afflitta sembianza il cor m'aperse,
Io non dirò: tu meco fosti, allora
Nulla del caso mio ti si coperse;
Ben per altra cagion dirti potrei
Non furo ardor da pareggiarsi a' miei.

XXXVIII

Ed or che presso le fatiche estreme
O vincere, o morir m'accingo in armi,
Non mi turba la morte, o ciò che insieme
Sul punto del morir possa incontrarmi;
Solamente, o fedel, per me si teme
Che de l'alta beltà possa spogliarmi
Troppo avversa battaglia; e solo ho cura
Dopo il mio fin de la costei ventura.

XXXIX

Che fia di me, se giù per l'ombra inferna
Fra re guerrieri ed amorosi accolto
Udrò, ch'altri ne goda, o pur che scherna
Con indegni servigi il suo bel volto?
Ah colà tra gli abissi atra caverna
Mi s'apra innanzi, e d'ogni orror più folto
Tutto m'involga, e non ritrovi via,
Per impiagarmi il cor, fama sì ria.

LX

Che per la morte mia d'ogni mio bene
Alcuno altro amator faccia rapina?
O per onta di me d'aspre catene
Gravi perversa man la mia reina?
Ella goda qua suso aure serene
Fin ch'io godo del ciel l'aura divina;
S'incontra il mio valor miseria indegna
Ovunque son per gir meco sen vegna.

XLI

Tanto vogl'io, tanto Ebrain richiede
Per estremo conforto a' casi duri
L'antico tuo signor; s'ami la fede,
Fa, che ben cauto i miei desir procuri;
Non ingombri tuo cor vana mercede;
Pronto disponti a ciò; vuo' che tu giuri,
Che s'io rimango ne la pugna oppresso,
Sultana per tua man verrammi appresso.

XLII

Sì disse: e di dolor grave i sembianti
Fiso lo sguardo in Ebrain volgea;
L'antico servo se n'andava in pianti,
E con singulti al suo signor dicea:
Non sorga giorno di dolor cotanti;
Ma se pur ne verrà stagion sì rea,
Di questo tuo desir vivi sicuro;
Mio solo Re, per ogni fe' tel giuro.

XLIII

Quì tacque: ed Ottoman, come dolente,
Torna a le piume, e ne l'orribil guerra
I duci estinti rivolgendo in mente
In tra duri pensier gli occhi non serra:
Così molto vegghiò; pur finalmente
Sonno lo sforza lusingando, ed erra
Per lo petto agitato alma quiete,
Ch'ogni aspra cura gli sommerge in Lete.

XLIV

Ma breve fu, che non biondeggia ancora
Dentro l'orror, che tutto il ciel coperse,
Cinta di rose la novella aurora,
Ch'egli si scosse, e le palpebre aperse;
E pur si volve, e col pensier dimora
Su per le squadre in guerreggiar disperse,
E del fin de la guerra omai dubbioso
Rigira in mille parti il cor pensoso.

XLV

Che dee far egli? alto campion contende
Sì, che Rodi atterrar non è speranza;
Se quinci ne i suoi regni a tornar prende,
Quel suo ritorno ha di fuggir sembianza;
Fra se diceva: or l'universo attende
Quanto mia forza in arme oltra s'avanza,
E se col mio furor son van gli schermi,
E nel più nobil corso udrà cadermi?

XLVI

Sparsa è la fama; ed omai l'Asia crede,
Che per me giaccia il Rodiano oppresso,
E colà porterò repente il piede
Di mie vergogne messaggiero io stesso?
Facciami il ciel d'altra memoria erede;
Questa io rifiuto: ad AMEDEO concesso
Sia fornir contra me tutti i desiri,
Ma ch'io volga le spalle, unqua nol miri.

XLVII

In cotal guisa favellando ei veste
D'usata pompa il regio busto, e guarda
Che chiude l'alba ancor l'uscio celeste,
E d'ira par, che per l'indugio egli arda;
Torna a le piume, e pur le ciglia ha deste,
Onde tra quei riposi ei più non tarda;
Va per le tende, e perturbato in faccia
Con interrotto suon duolsi e minaccia.

XLVIII

Obbrobrio d'Asia, a la stagione eletta
Per la vittoria ogni guerrier paventa?
Meglio era lor….. ma di costui vendetta
Prima farò, che i Rodian sostenta:
Oh se questo arco incontra lui saetta!
Oh se con cento piaghe aspro il tormenta!
E se lupo a le tane esca sel porti?
Sì forsennando avvien ch'ei si conforti.

XLIX

Ma dal rabbioso cor voci spietate
Spargeva Aletto, e sì terribil freme,
Che da la fronte, e da le ciglia irate
Fiamma rinversa, e rio veneno insieme;
Spento Ottoman, spente sue squadre armate
Quì rimiro oggi mai, spenta ogni speme,
E che si possa far, quinci m'adiro,
Per opra nostra a suo favor, non miro.

L

L'aer qua giù contra i furori inferni
Tutto è ripien di messaggier celesti,
E dal colmo del ciel fulmini eterni,
Dianzi il vedemmo, a rimbombar son presti:
O noi nati a soffrir tormenti e scherni!
Ella nel così dir par che tempesti,
Sì d'atra spuma ambe le labbra asperge,
E 'n furor novo il rio demon s'immerge.

LI

Di tanti suoi desir non ben sicuro
Volge in un sol pensier cose infinite;
Al fin va, dove al ciel stellante e puro
Asfaltide diffonde alta mefite;
Quinci si scaglia più che l'ombre oscuro
Per l'ombre oscure a la città di Dite,
E batte in quegli orror non mai sereni
L'ali infette di serpi e di veneni.

LII

Varca Cocito ed Acheronte immondo,
Varca di Stige i gorghi atri e bollenti,
E s'innabissa al Tartaro profondo
Tra fier rimbombi de le fiamme ardenti:
D'Erebo quivi è tenebroso il fondo;
Stanza eterna di pianti e di tormenti;
Quivi al fin scorge de' tartarei chiostri
L'aspro rettor tra formidabil mostri.

LIII

Per l'ima tomba al sommo Olimpo avversa,
Ove giammai pietà non segna l'orme,
Fremea su l'empia turba arsa e sommersa
Orrendo, immenso, tenebroso, informe;
Versa ardor da mille occhi, ardore ei versa
Da mille petti in mille orribil forme,
E da ben mille bocche orribil tuona;
A lui s'inchina Aletto, indi ragiona:

LIV

O de gli orrendi e tenebrosi imperi
Arbitro incontrastabile, sovrano,
Io de l'ardir de' Rodïan guerrieri
A te quì scendo messaggier non vano;
Non vinti, no, che coraggiosi, altieri
Danno assalto di morte ad Ottomano
Insuperbiti: ognun minaccia e freme,
E di salute, e di vittoria han speme.

LV

Di lor presso ch'estinti alta speranza
Giunse AMEDEO, che di Savoia in fronte
Porta corona, e di sua gran possanza
Van mille prove glorïose e conte;
Pur io su Rodi a l'infernale usanza
Volea rinovellar tormenti ed onte,
E farla campo a falciator di biada,
E vibrasse AMEDEO l'asta e la spada:

LVI

Se non che duci eccelsi, eccelse schiere
A' Turchi incontro armi superne han prese,
E fan volar da le stellanti sfere
Nembi sonanti di saette accese;
Non han cotanto i miei furor potere
Sì che di tutto il Ciel stanchi l'offese,
Ma se tu la grand'alma empi di sdegno,
E gridi a l'arme, io pur ne bramo il segno.

LVII

Sì dice Aletto; e l'infernal tiranno
L'unghie affocate in se rivolve, e i denti,
E con atroce, alto anelar d'affanno
Cosparge intorno opache nubi ardenti;
Cotal divien, che 'n rimirar ne tranno
Novo, immenso dolor l'alme dolenti;
Ed egli impria per formidabil rabbia
A pena infuriato apre le labbia:

LVIII

Diffonde poscia minaccioso, orrendo
Fragor, che turba l'ampia valle inferna,
Che fa tremare il Tartaro tremendo,
Che scuote i campi de la notte eterna;
Prorompe al fin sulfureggiando, ardendo
In vasti accenti la procella interna,
E sgorga fuor l'irrefrenabil ira;
Colmo d'orrore ogni demonio il mira.

LIX

Dunque, diss'ei, ne l'alto Olimpo ardente
Valsi a tentar l'inaccessibil sorte,
Ed or caduco ardir di mortal gente
Su l'ima terra a contrastarmi è forte?
Io poi d'orrore, io poi d'ardor possente?
Io de l'inferno re? re de la morte?
Che re? che 'nferno? io non mi scorgo intorno
Altro, che sprezzo obbrobrioso e scorno:

LX

Essi re lui, che va superbo in terra
D'eterna aver sul Vatican sua sede,
Che trionfa di noi, ch'a noi fa guerra,
Che rompe il corso a le tartaree prede,
Ei le porte del ciel serra e disserra,
Sacransi l'orme, ove egli imprime il piede,
Noi detti rei, detti essecrabil mostri;
Non regni, no; son vil sepolcri i nostri.

LXI

Se sostenga AMEDEO forza divina,
O nol sostenga, oggi a pensar non vegno;
Ma poi, ch'al pescador Rodi s'inchina,
Ardo ver lei d'aspro immortal disdegno;
E s'orrenda tentarsi alta ruina,
Scuoter de l'onde, e de la terra il regno,
Al fin s'è forza traboccarsi al fondo
Per lei domar, traboccherovvi il mondo.

LXII

Ma non tanto sudor, non tanto affanno
Convien, che Rodi in soggiogar mi prenda,
Che per recarle addosso ultimo danno
Con cotanto di sforzo oggi io contenda;
A terra sparse le sue torri andranno,
V'andranno, e Pier s'ei sa, se le difenda;
Or tu d'anime inferne arma uno stuolo
E contra lei te ne ritorna a volo.

LXIII

Quinci le squadre a straziar più pronte,
E qual s'agita più larva sdegnosa,
Aletto aduna di Cocito al fonte
Rapidamente; e di venen spumosa,
E d'accesi serpenti irta la fronte
Gonfiale con sue strida; indi non posa,
Ma con rimbombo d'odiose voci
Prende a cercar quelle provincie atroci.

LXIV

Piomba là, 've tra fiamme, alta riviera
Sulfureo spuma il Flegetonte eterno,
E trova armata infuriar Megera
Tra' più rei mostri, e tormentar l'inferno:
O tra spirti feroci aspra guerriera,
Le dice, incontro al regnator superno,
O pronta sempre a traversar la strada,
Onde in cielo a bearsi alma non vada;

LXV

Tu pur di ferri, e di ceraste intorte
Flagelli intorno a l'infocate arene;
Ma quanti quì de la tartarea corte
Ministri son, rinnovator di pene?
In tanto a novo scempio, a nova morte
Sorgon lassù fra lor l'armi terrene,
Nè pria porrà nel mar Febo la chioma,
Che n'andrà Rodi o vincitrice, o doma.

LXVI

Qual per noi danno unqua maggior, quali onte,
Che s'a' Turchi de l'Asia il fren si tolle?
O che se mai del Vaticano il monte
Suo nome in Asia, e la sua legge estolle?
Diceva ancor, ma di Megera in fronte
De gli atri abissi il rio venen ribolle,
E la dura alma, a l'universo infesta,
In fra turbini d'ira alto tempesta.

LXVII

E s'affretta a gridar: fin che ne l'alto
Le stelle, ove pugnammo, in giro andranno,
L'armi e le forze, onde l'inferno esalto
Mai sempre infeste al Vatican saranno:
Gonfi, gonfi le trombe; al fiero assalto
L'insegne spieghi il Rodïan tiranno:
Questo infra i giorni tenebrosi, acerbi
Vogl'io, che Rodi eternamente il serbi.

LXVIII

Ella nel così dir batte le piume,
E con l'empia compagna il volo stende,
E là sen van dove de l'arso fiume
Su l'aspra riva ogni demon l'attende;
Ivi con strida a l'infernal costume
Alto commove le falangi orrende,
E de la rabbia, onde hanno gonfio il petto,
Lor cresce il foco imperversando Aletto.

LXIX

Sì provveduta a l'infernal soggiorno
Rivolge il tergo bestemmiando, e fiera
Fa contra Rodi a guerreggiar ritorno
La Furia rapidissima, leggiera;
A pena ella apparia, che 'l volto adorno
De l'auree stelle, e tutto il ciel s'annera,
Tanto de gli atri abissi a lei van dietro
Puzzo ed orror caliginoso e tetro.

FINE DEL X CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO X.

L'argomento dell'Autore dice così: «Nel X Sultana prega Ottomano a lasciare l'impresa di Rodi: Aletto ritorna all'inferno, e mena squadre di diavoli per soccorrere i Turchi.»

Due sono le censure del Cavaliere d'Urfè sul canto X. La prima è una ripetizione di quella dianzi riportata appiè del IX: «Ce chant est aussy tout plein d'esprits; et je ne say pourquoy Aletto qui fait ranforcer le combat et l'assaut contre Rhody, fait ce qu'elle peut pour persuader la Sultane de faire partir Ottoman et laisser le siège: il samble, qu'il y ayt de la contradiction.» Non v'ha contraddizione di sorta. Al trionfo de' Turchi o conveniva che Rodi fosse espugnata, o che Ottomano si ritirasse prima che una di lui sconfitta potesse rendere più gloriosi e più forti i Cristiani. Aletto perciò adopera due mezzi, che pajono l'un l'altro contrarj; ma che tendono pure ad un fine medesimo; ch'è quello o di espugnar Rodi, dovesse pure andarvi la vita di Ottomano, o di farlo risolvere a ritirarsi avanti che fosse vinto con danno e vergogna de' Musulmani.

L'altra critica annotazione dell'Urfè può dar motivo di risa al nostro secolo; ma era cosa molto seria nei tempi del Chiabrera: «L'Auteur dit que Sangario estoit magicien; et touttefois touttes les choses qu'il lui attribue en descrivant cet homme ne sont que celles d'un sorcier, qui est de gresler, faire la tempeste et l'orage, faire mal au bestail et samblables: et il faut noter qu'il y a grande differance du sorcier au magicien, car le magicien fait ses sortileges avec art, et le sorcier ne fait que les maux que le Diable luy donne a faire, et par des choses les quelles luy mesme n'entend pas.» Nel secolo XVIII il Tartarotti con un libro pieno di erudite citazioni si sforzò di difendere altra cosa essere l'arte magica, ed altra la stregheria; negando questa, e quell'altra ammettendo. Contro a questo libro del Tartarotti pubblicò il Marchese Maffei due operette, l'Arte magica dileguata, e l'Arte magica distrutta; ed avendo il Tartarotti, e con lui molti altri scrittori, combattuto in difesa della Magia, pubblicò finalmente l'Arte magica annichilata. Noi rimettiamo i dilettanti di stregherie e di magiche frodi a' libri degli autori citati; aggiungendo solamente che la stregheria ammessa così seriamente dal cav. d'Urfè, è negata dall'Ab. Tartarotti, che ammette solamente la magia. Così che a difesa del Chiabrera dovrem dire ch'egli un secolo prima del Tartarotti pensò doversi attribuire alla magia tutte le operazioni che altri ripartivano tra la magia e la stregheria.

N.B. Nella st. 8 di questo canto X ambedue l'edizioni hanno—ma schermendo Ottoman ec.—Noi abbiamo stampato schernendo, sembrandone che così richiedesse il contesto. Alla st. 13 dove l'ediz. prima legge trova le piume, la seconda ha invece torna a le piume.

CANTO XI.

ARGOMENTO.

Sultana d'Ottoman volta allo scampo
Sangario invoca, e gli esecrati incanti;
Ei di battaglia a scongiurar sul campo
Va i morti corpi, quivi oprar suoi vanti:
Surge un estinto nel tracciato campo
Degli incantati al suon magici canti;
All'annunzio di quello, offre sua vita
Per dare al re la bella Irene aita.

I

E pur Sultana in quel notturno orrore
Con fervido pensier cerca ogni strada
Perchè tra gli aspri assalti il suo signore
Soverchio ardito in guerreggiar non cada:
De gli annunzj del Ciel prende timore,
E teme d'AMEDEO l'invitta spada.
Così molto rivolve il cor dolente;
Al fin Sangario le ritorna in mente.

II

Costui scorse del sole il primo aspetto,
E di sua vita le stagion novelle
Trasse sul Nilo; ed ivi ebbe diletto
Osservando il girar de l'auree stelle;
Al fine empio divenne, e volse il petto
A gli inganni de l'ombre a Dio rubelle,
E ne l'arte infernal trascorse avanti,
Maestro rio d'abbominati incanti.

III

Poi giunse in Asia; a sua gran fama intento
Quivi Ottoman d'ogni favore il degna;
Or con sì fatto mago il suo tormento
Sultana afflitta consigliar disegna:
Quinci manda Arimeo, che 'n un momento
Comandi a lui, perch'egli a lei sen vegna;
Ed Arimeo trovollo, ove rinchiuso
Lunge da gli altri essercitarsi era uso.

IV

Colà su l'ora, che più folta e scura
La notte al colmo de' suoi corsi ascende,
Artefice crudel spende ogni cura
Ne la malvagità de l'opre orrende;
Toglie corpi infelici a sepoltura,
E di sanguigne membra empie le tende,
E da loro unghie egli disvelle e chiome,
E di cento demoni invoca il nome.

V

Quinci è forte a sfiorir de i pregi amati
Gentil beltà sì che si prenda a scherno,
E guastando per via parti aspettati
Infecondare altrui l'alvo materno;
Quinci rompe de l'anno i corsi usati
Ed usa a le stagion cangiar governo,
E cosparge per l'aria umidi nembi,
E de l'umide nubi asciuga i grembi.

VI

Mentr'egli col favor de l'orrida ombra
Ne gli studi essecrabili s'avanza,
Arimeo giunge, e di timor s'ingombra
In su l'entrar de la terribil stanza;
Sì folto ciglio ambe le luci adombra
Al mago, e così fosca ha la sembianza,
E sì bieca la vista e venenosa
Che sofferirla il messaggier non osa.

VII

Ei si ferma da lunge, e gli occhi bassi
Da lui rivolve, ed a sì dir gli prende:
Vuolti Sultana; or meco movi i passi,
Là, 've bramosa il tuo venire attende.
Dentro la tenda ria pigro non stassi
Come il desir de la regina intende
Sangario, e col messaggio a lei s'affretta,
Ed a lei giunto il suo parlare aspetta.

VIII

Ella di pianti nubilosa il ciglio,
E punta il cor d'inconsolabil duolo,
Scolora in su la guancia il bel vermiglio,
Ed indi scioglie a questi detti il volo:
Mirabile maestro, il cui consiglio
Ne i gravi affanni è mio refugio solo,
Ed a cui di spiar non è chi vieti
De l'inferno e del ciel gli alti secreti;

IX

Se mai tuo spirto in su l'Olimpo ascese
A misurar de l'auree stelle i segni,
E s'affannando per eccelse imprese
Mai scongiurasti de l'abisso i regni;
Oggi del tuo saper siami cortese,
E l'alma tua più che giammai s'ingegni,
E di quanto ella può nulla mi neghi,
Ch'altissima cagion fa, che ten preghi.

X

Già tu saper ben dei, come Ottomano
Soggiogava di Rodi omai l'impero,
Quando improvviso, e per cammin lontano
Venne da l'alma Italia alto guerriero,
E con atroce incontrastabil mano
Come fece di sangue ogni sentiero,
E chiudendo per noi la strada aperta
Oggi ne rende la vittoria incerta.

XI

Di quì s'infiamma, ed a lo sdegno il freno
Ottoman scioglie, e guerreggiar destina,
Nè vuol, che per altrui gli venga meno
La palma al suo valor tanto vicina;
Mentr'ei sì di furor rigonfia il seno,
A me dianzi discese ombra divina,
E con certo parlar fe' manifesto
Il fin di queste guerre empio e funesto.

XII

Consiglionne di quì partir veloce
E così torsi a le miserie crude;
Io pregai del mio re l'alma feroce,
Ed ebbe il mio pregar nulla virtude;
Chiude gli occhi al mio pianto, ed a mia voce
Ognor l'orecchie inesorabil chiude,
Sì che sperar non so, che a i casi rei
Altri 'l sappia involar, se tu non sei.

XIII

Movi, Sangario, e ne l'orribil sorte
Salda la fede, e l'arti tue sian pronte;
Ed imprimi quei segni, onde sei forte
Scotere i campi, e di Cocito il fonte;
Rimira, ch'Ottoman sen corre a morte:
Deh togli a l'Asia e le miserie e l'onte,
E ti caglia di me, cui si riserba
Più ch'ad altro mortal miseria acerba.

XIV

Sangario volto a que' begli occhi aspersi
Di caldo pianto, ch'a pietate invita,
Rispose: quando a' Rodïan dispersi
Cantò la fama, che verrebbe aita,
Io con gli studi miei l'alma conversi
A bene esaminar la voce udita,
Saper bramando qual nemico fosse,
Che sì da lunge i nostri cor percosse.

XV

E risposto mi fu, che dal confine
De l'alma Italia appariria guerriero
Con la cui nobil destra armi divine
A Rodi afflitta manterrian l'impero;
Io chiedei molto, e molto intesi; al fine,
Vincer le costui forze è van pensiero,
E s'altri soverchiar spera suo vanto,
Erede fia d'incomparabil pianto.

XVI

Muto rimasi, e palpitommi il core,
E ciò sentendo ebbi di ghiaccio il petto;
Ed ora il mio timor fassi maggiore
Quando cotanto mal vienti predetto;
Duolmi, che 'l grande ardir del tuo signore
Abbia di quì pugnar sì gran diletto;
Chè la vaghezza de gli uman pensieri
Sovente a gran tormento apre i sentieri.

XVII

Ma non per tanto e sacri rombi, e rote
Composte a' vampi di sulfurei fumi,
Ed al senno mortale erbe non note,
Colte per opra di tartarei numi,
Spenderò tutte, e l'ineffabil note
Onde ne i corsi lor fermansi i fiumi,
Ed a' lumi del cielo erranti e fissi
Darò travaglio, e stancherò gli abissi.

XVIII

Tacquesi a tanto; e la reina allora
Con sembiante gentil grazie gli rende,
E fra nobili detti, onde l'onora,
D'alte promesse a caricarlo prende;
Ma Sangario colà non fa dimora,
Anzi ritorna a le rinchiuse tende,
E d'esecrati arnesi ei si provvede,
Poi sul campo dei morti affretta il piede.

XIX

Ivi, somma pietate al guardo umano,
Scannato in terra canuto uom rimira,
E da gli altri cadaveri lontano
Infra duo fochi di cipresso il tira:
Poi supin lo distende, indi sul piano
Ben sette volte a lui dintorno ei gira
Vibrando con la destra un orrido angue,
Ma spande con la manca onda di sangue.

XX

E grida orrendo: o del più basso inferno
Squallidi campi e tenebrosi orrori,
E del fier Flegetonte incendio eterno,
E del golfo leteo zolfi e bollori,
Spirti, che di Pluton siete al governo,
E tu Pluton, che ne i profondi ardori
Tormento assegni, e dai supplicio a gli empi,
E cresci ognor di feritate esempi;

XXI

Se pur d'atrocità sommo diletto
Sempre ho nel cor; s'a scongiurar non vegno
Che di furia infernal non gonfi il petto,
E le leggi del ciel non prenda a sdegno,
Infra voi mio desir non sia negletto,
Numi possenti del tartareo regno,
Ma siavi a grado, e questo incanto udite
Fatto con tanto studio, ombre di Dite.

XXII

Batta le piume, e la prigion profonda
L'anima di costui lasci a' miei preghi,
E ne l'esangui fibre ella s'asconda,
E le venture d'Ottoman dispieghi;
S'avvien, ch'al gran signor vita gioconda
E di più quì regnar spazio si neghi,
Lecito sia, che per sua voce intenda
Quale a scampo di lui può farsi emenda.

XXIII

Così dicea; ma l'infelice estinto
Le membra a quel suo dir nulla non mosse.
Allor Sangario ambe le guancie è tinto
D'atro pallore, e le pupille ha rosse;
Muto riguarda, e da furor sospinto
Calcò pria lo scannato, indi il percosse
Con le vipere ree, che 'n man stringea,
E con gridi, e latrati alto dicea:

XXIV

Posasi il mondo, ed in pregarvi io solo
M'affanno, e tutto ciò vien, che non vaglia
Sì mal m'udite, e pur n'andreste a volo,
A scongiuri di Colco e di Tessaglia;
Torme cadute da l'etereo polo,
Fia mai, che di mio studio a voi non caglia?
Onde l'orgoglio? or così poco è noto
Il valor de' miei carmi, Atropo e Cloto?

XXV

Forse spargete la mia voce a i venti,
Nè sonvi a cor le mie vergogne e l'onte,
Perchè tempro con voi soavi accenti?
Nè so gridar? nè le minaccie ho pronte?
Ah Persefone ria, non ti rammenti
Quando a te col mio dir cangio la fronte?
E che, se forte a scongiurarlo prendo,
Costringo al mio voler l'Erebo orrendo?

XXVI

Non pose fine al favellar, che sorto
Scorse l'uom spento e 'n guisa tal s'offerse,
Che sembrava a mirar tra vivo e morto
Di sì fatto colore ei si coperse;
Era sanguigno i crin, lo sguardo torto,
La fronte oscura; e sì le labbra aperse
Che, qual fischio per l'aria udir si suole,
Ferian l'orecchie altrui le sue parole.

XXVII

E dice: a che 'l tuo cor cotanto or freme?
Perchè minacci? e di gridar non resti?
O te crudel, che dopo l'ore estreme
I miseri svenati anco molesti;
Cadrà 'l popolo turco, e seco insieme
Questi campi Ottoman farà funesti
Del proprio sangue dilagati e sparsi
Pria che dimane il sol veggia corcarsi.

XXVIII

Egli scampo non ha; tutta è fornita
La speranza di voi, se per pietade
Vergine non espon sua propria vita,
E se stessa uccidendo ella non cade,
Come dal petto fìer la voce uscita
Nunzia fu de l'atroce crudeltade,
Fece in aria volar strida dogliose,
Indi il morto cadeo, nè più rispose.

XXIX

Poi che da l'ombra ria Sangario colse
Esser la morte d'Ottoman vicina,
E quale era il rifugio, ei si rivolse
A farne saggio il cor de la regina;
Ella ben pronta il suo venir raccolse,
Ma da gli atti di lui duol s'indivina
Onde non può tacer tosto che vede
Quegli occhi foschi, e disiosa chiede:

XXX

Che rechi tu? l'oscurità del ciglio,
E l'affanno, che 'n faccia io ti rimiro
Danmi certezza del mortal periglio,
E de l'immenso danno, ond'io sospiro.
O del grande Ottoman fiero consiglio,
Ostinato ad ogn'or nel mio martiro?
Sara pur ver, che ne gli strazj acerbi
Per me nulla pietate il Ciel riserbi?

XXXI

Mentre si lascia in preda a fier cordogli,
Sangario le dicea: perchè t'affanni?
In van da gli atti miei pena raccogli,
Falso argomenti, e te medesma inganni;
Reina, dal timor l'alma disciogli,
Chè non è stella in Ciel, che ti condanni,
Anzi a tua vita ritrovar conforto
Aperto varco e non fallace ho scorto.

XXXII

Indi il secreto inferno ei le dispiega
E quale scampo ad Ottomano avanza,
E varj detti accortamente impiega,
Per forte sollevar la sua speranza;
Ella gli occhi dogliosi a terra piega,
Tutta vinta d'angoscia a la sembianza,
E stette immota alquanto, indi si scosse,
E poi la fronte con la man percosse.

XXXIII

Ululi l'Asia, ella diceva, e i canti
Oblii dolente, e tutta a brun si vesta,
Ed ogni sposa co' più rei sembianti
Omai de l'aureo crin rada la testa;
Qual fra miserie, e fra dolor cotanti
Ora puossi aspettar salvo funesta?
E qual con Ottoman, che corre a morte
Non ci s'appresta miserabil sorte?

XXXIV

A lo scampo di lui propensi aita
Se verginella al suo morir succede;
Se donna si chiedeva, era mia vita
Ben pronta ad offerir l'estrema fede:
Ah che nostra salute oggi è schernita;
Una vergine a morte ecco si chiede
Che trovar non sapremo, ed io che presta
A morir mi sarei, non son richiesta.

XXXV

Or chi verrà che nostre colpe emendi?
Come in ciel placherassi il fier disdegno?
Chi chiuderà la strada a casi orrendi?
Da qual possanza aspetterem sostegno?
Ottoman, tu sei morto; in van contendi,
Rodi fia de' tuoi giorni ultimo segno;
Sì grida; e tratta a le sì nove pene
Ver lei sen venne, e presentossi Irene.

XXXVI

Costei nacque reina, ed a Sultana
Poi crebbe in seno, a lei minor sorella,
Bella così, ch'ogni bellezza umana
Perdeva in paragon nome di bella;
E ne l'aria del volto umile e piana
Ogni sguardo di lei sembrava stella
Che scintillando intra notturni orrori
Vibri in cielo seren raggi maggiori.

XXXVII

Era sul terzo lustro, e ne l'aspetto
Le rideva il bel fior di gioventute,
Ma per eccelso cor nudriva in petto
Saldo desir d'ogni maggior virtute;
Or quando udì ciò che Sangario ha detto,
Del sovrano signor per la salute,
Intenerita di Sultana al duolo,
Franca disciolse a questi detti il volo.

XXXVIII

E disse: o del mio cor cara germana,
Ed o cara reina, onde disperi?
Perchè cotanti guai? mira, Sultana,
Che di troppo spavento empi i pensieri;
Se da Sangario vien fama non vana
Sottrarremo Ottomano a' casi fieri,
Che per farti felice alto diletto
Sarammi il sangue riversar dal petto.

XXXIX

Ella così dicea: ma prende a sdegno
Sultana quel parlar, come l'ascolta,
E mesta sì, che non può stare a segno,
Gli occhi ora in terra, ed or al ciel rivolta;
Pera Ottoman; vada sossopra il regno,
Ed io nel mio dolor stiami sepolta,
Io via più di ciascun, per cui sola una
Guasta i pregi de l'Asia empia fortuna.

XL

Per me di fiera guerra orribile arte
Arma di Rodi il campo in questi giorni,
Che se del gaudio suo non fossi a parte,
Forano d'Ottoman lieti i ritorni;
E d'altrui si vedran le vene sparte
Perchè regia corona il crin m'adorni?
Tale offerta s'udrà? tu, che l'intendi
O celeste pietà non te ne offendi?

XLI

Deh come lieta, e del mio ben gioiosa
Verrebbe l'Asia a rimirarmi intenta
Veggendomi apparir vittoriosa
Col voto altier de la sorella spenta?
Qual non sarà per me vista sdegnosa?
O qual fìa lingua a bestemmiarmi lenta?
Chi da me lunge non torrà suoi passi?
Per certo anco le fere, ed anco i sassi.

XLII

Ella così contrasta; e non per tanto
Ne la nobile impresa Irene è forte,
E soggiungea: non invidiar mio vanto;
Io son fermata di condurmi a morte,
Or tu disgombra il duol, disgombra il pianto,
E l'incauto pensier volgi a tua sorte,
Acerbissima sì, ch'ella ti mena;
S'io nol divieto, a miserabil pena.

XLIII

Dono i miei giorni a queste squadre armate;
E perchè l'Asia nostra alma s'onori;
E perchè sian di te l'ore beate
Godendo i regni, e d'Ottoman gli amori,
Le rimembranze, che ciascuna etate
Per chiara fama ascolterà maggiori
Il grido, il rimbombar de i pregi miei
Fiami quel ben, che più vivendo avrei.

XLIV

De l'umano passaggio i dì son corti;
Solo n'eterna, e ne mantien virtute;
Vivete lieti, e ne i maggior conforti
Me rammentate, onde vi vien salute.
Sultana a quel parlar sembianti smorti,
Occhi avea tenebrosi, e labbra mute,
Venuta a men nel duol che la trafisse,
Allora Irene in ver Sangario disse:

XLV

Mentre che di se stessa il duol la toglie,
Ed ogni senso passion le fura,
Andiam; chè le sue strida, e le sue doglie
La morte a sofferir mi farian dura;
Tu de l'inferno ad appagar le voglie
Con l'arte occulta, e col saper procura,
Io darò 'l sangue, e serberovvi in vita
Il gran signor con la mortal ferita.

XLVI

Ciò disse a pena, e con altier sembianti
Trasporta il piè fuor de le regie tende
Succinta in gonna d'or, che di diamanti
E di gran perle variata splende;
Allor Sangario le trapassa avanti,
E d'atra pece sette faci accende,
E va nel campo ove giaceansi estinti
De la battaglia, e vincitori e vinti.

XLVII

Quivi tra mille brandi un ferro scelse
Ancor stillante, e con dimessi accenti
Da l'immondo terren l'erba divelse,
Ed impresse su lui segni possenti;
Poscia rivolto in ver le stelle eccelse,
E verso i regni de l'inferno ardenti
Col mormorio, che più tra' maghi è forte,
L'alta donzella consegnava a morte.

XLVIII

Al fin le porge il ferro; ed ella franca
Pur col bel guardo a rimirar sereno
Strinselo ne la destra, e con la manca
I ricchi manti si squarciò dal seno;
Mostrò quel petto, che se l'alpe imbianca
Candida neve in paragon vien meno;
Indi le belle ciglia al ciel converse,
E poi le labbra a questi detti aperse:

XLIX

Se 'n vece sua, perch'Ottoman non mora,
Alma trafitta volentier s'accetta,
Questa, che per mia man sen vola fuora,
Numi eterni del ciel, non sia negletta;
Plachinsi vostri sdegni, e da quest'ora
Sovra Rodi per noi scenda vendetta,
Nè vestigio di gloria in lei rimanga,
E sotto il giogo turco ululi, e pianga.

L

Regni Sultana; e ne la patria terra
Non pure il pregio suo sen vada altiero,
Ma di quanto l'Egeo nel grembo serra
Al legnaggio di lei si faccia impero;
Ei tenda l'arco, e minacciando in guerra
Italia il tremi, e l'orgoglioso Ibero;
Questo cheggio da voi, questo dimando,
E con queste preghiere il sangue spando.

LI

Fornito il dir, de l'essecrabil spada
Pon l'else in terra, e con crudel furore
Sovra lei s'abbandona, e fa che vada
L'orrida punta a ritrovarle il core;
L'alma, che se ne uscì per l'empia strada,
Le guancie asperse di mortal pallore,
E quegli occhi ammorzò, ch'al mondo furo
Lampi di viva luce, un nembo oscuro.

LII

Tepido ancora, e de le piaghe molle
Era il bel corpo, e sanguinava il lito,
Quando tra forti turbini s'estolle
Ed a gli amici sguardi ecco è rapito;
Froda fu di demon, che mostrar volle
Esser l'atto terribile gradito,
E che s'era adempiuto il fier decreto,
Ed il cor di Sangario indi fu lieto.

LIII

Ei calcando il sentier rapidamente
A la tenda real fece ritorno,
Che vicina a' zafir de l'Orïente
Omai l'aurora precorreva il giorno;
E già guerniti d'arme, inclita gente,
Erano i duci ad Ottomano intorno,
Ed ei volto a gli assalti omai vicini,
Sbandito il sonno, abbandonava i lini.

LIV

Ivi disse del re l'ore perverse,
E ciò che per suo scampo il ciel promise;
E ch'a morte magnanima s'offerse
La bella Irene e di sua man s'ancise.
Verso il nunzio crudel l'alme converse
Teneano i Turchi in miserabil guise,
E 'l sovrano signor, come l'intese,
Tra pietoso ed irato, a parlar prese:

LV

Omai di Rodi soggiogar l'impero
Posso a mia voglia, ed oscurar sua gloria,
Ma gioir poco, e poco andarne altiero
Mio nome unqua potrà per la vittoria,
Che non sol ci costò sangue guerriero
Ne l'universo durerà memoria
Lasso, ma si dirà, ch'io fui costretto
Di real donna a lacerare il petto.

LVI

Ah che nulla ne seppi; e certo in vano
Per me salvar ti condannasti a morte;
Nè permesso l'avrei, ch'era mia mano
D'ogni nemico a trionfar ben forte;
Ma se tu sul fiorir per Ottomano
Non paventasti formidabil sorte,
Che dee fare egli intra Cristiani armato,
Perch'al nome di te non sembri ingrato?

LVII

Poi che Rodi atterrata, e di sue mura
Fia cosparso l'incendio oltra le stelle;
Vecchi ed infanti entro prigione oscura,
E fian le madri vilipese ancelle,
Io per vendetta di tua morte dura
Scannerò con mia man cento donzelle,
Ed ergerò sepolcro, in cui si miri
Lunga memoria di tuoi bei martiri.

LVIII

Non mento, Irene, i Rodïan dolori
Con altra prova affermeran mio detto;
E tu ben lunge da gli umani errori
Discerni appien quanto richiudo in petto;
Sì dice; e va dove i notturni orrori
Suoi Sultana passar sovra aureo letto;
Ivi seco disfoga i casi amari
Finchè l'ore notturne il sol rischiari.

FINE DEL CANTO XI.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XI.

L'argomento del poeta è brevissimo:—Nel XI si sacrifica Irene sorella di Sultana per lo scampo di Ottomano.—Ma le osservazioni critiche del Cav. d'Urfé sono copiose. Nota in primo luogo che il poeta «descrit l'habitation de Sangario, comme si c'estoit en sa propre demeure avec les paremants et horreurs qui sont dans les effroyables cavernes de telles gens.» La qual cosa sembra non convenevole al censore; perchè cioè ils sont devant de Rhodes, non già nella patria di Sangario, il quale nacque sul Nilo, poi giunse in Asia ed ottenne il favore di Ottomano. La censura è verissima; se non che nella stampa non si trova la descrizione della casa del Mago e de' paramenti che orribilmente l'ornavano. Vero è che il Poeta dice l'orribil stanza parlando del luogo, nel quale chiudevasi Sangario per operare i suoi studj di magia; ma oltre che il Chiabrera non fa descrizione di paramenti, ognuno ben vede che il mago doveva avere una tenda, o trabacca, o cosa simile, dov'esercitarsi ne' suoi incantesimi. Adunque diremo che il Poeta togliesse dall'opera sua quella descrizione che giustamente spiaceva al censore.

Seguita a dire il Cav. d'Urfé che «la Sultane parle a Sangario de l'action que Amedee avoit fait le mesme jour comme s'il y avoit des mois et des annees; venne de l'alma Italia; fece di sangue ogni sentiero.» L'osservazione è giustissima; e duolmi che il Chiabrera non abbia tolto dal poema questa dissonanza; nè anche nel MS. che lasciò emendato per la seconda edizione.

La terza censura riprende il Poeta per avere mal conosciute le regole de' magici scongiuri: «Sangario au commancemant de sa coniuration outrage le Demon qu'il invoque et l'appelle cruel et meschant, ce qui n'est pas suivant le reigles de samblables enchanteurs, qui au contraire les louent toujours.» Io confesso la mia ignoranza assoluta del cerimoniale de' Maghi quando parlano a' demonj; ma dico che nel poema, qual è nella stampa, non veggio che Sangario sul bel principio manchi di rispetto a' signori del regno tenebroso; che anzi li prega e dà loro il titolo di Numi possenti. Forse il MS. venne riformato dal Chiabrera, dopo d'aver imparato, dal suo censore il Galateo de' diavoli.

Profonda è l'osservazione seguente, per coloro che riguardassero le magiche frodi come un'arte vera fondata sopra regole sicure: «Mais il faut noter icy une chose; que je ne say comme l'Auteur a osé mettre les paroles mesmes des quelles le magicien se sert; chose qui est encores sans exemple, car c'est aprandre a faire le mesme sortilege. Et tous les autres poetes qui en ont parlé, s'ils mettent les circostances et les choses qu'ils font, ils ne mettent point les parolles, mais disent seulement, il murmura certains vers ou certaines parolles; et s'ils mettent les parolles, ils passent sous silance les circostances, mais celuy cy a mis touttes le deux. Et ce qui est cause que cela ne se doit pas, c'est que ou lon aprand (sic) a etre sourcier si la recette est vraye; ou bien si quelque curieux la vouloit espreuver et ne le trouvant pas vray (sic), il peut convaincre l'auteur de faux.»

Veramente io penso che non dorrebbe gran cosa al Poeta d'esser convinto di falso in arti magiche; ma se il Chiabrera voleva introdurre magie nell'Amedeide, doveva conformarsi a ciò, che secondo l'opinione di coloro che prestano fede a' sortilegj e simili sciocche ribalderie, è proprio dell'arte magica; specialmente avendone gli esempj d'altri poeti.

Un'altra censura non sarà quì trascritta, perchè nel poema stampato non apparisce la contraddizione notata dal Cav. d'Urfè; ed è la seguente: Irene s'offre a morire per placare gli spiriti infernali; ma nell'atto di darsi la morte prega gli spiriti celesti ad esser paghi di tal sacrifizio. Se così era nel MS. ottimamente fece il Poeta a riformare questa parte dell'opera.

Ma, soggiunge l'Urfè: il Demonio che inventò l'artifìzio di far morire una Vergine vittima agli Dei, era molto ignorante, non sapendo che i Turchi adorano un solo Dio, e non fanno sagrifizj agli Spiriti infernali. Questa osservazione non è da porsi in dispregio.

E ciò stesso diciamo della seguente: vassene Sangario a cercare un morto nel luogo dove il dì avanti s'era combattuto; nè il Poeta parla di sentinelle, che guardassero il campo; cosa troppo contraria alle regole di buona guerra. Si potrebbe rispondere che i Turchi d'allora non sapevano, o non curavano tutte le minutezze della nostra disciplina militare; ma sarebbe risposta da non farne conto; perciocchè i Rodiani, specialmente essendo smantellata la città, e il campo ad essa vicino, non potevano rimanere senza guardie in faccia al nemico; secondo che ottimamente considera il censore.

Trascriverò l'ultima osservazione: «De plus, il fait que Ireine se tue elle mesme, qui est une chose inacoutumee et qui n'a iamais esté ditte que la victime se tua soy mesme.» Qui altri potrebbe dire, che non si trattava precisamente di un sagrifizio in tutto il rigore teologico ossia liturgico (che anche le false religioni hanno certe loro credenze e cerimonie fedelmente mantenute), ma sì di far morire una vergine, della quale i demonj chiedevano la morte per salvare Ottomano. Come che sia, non piace nè a me pure, quella Irene che da se medesima s'uccide. Vorrem noi dire che il Poeta pensasse con ciò di far meglio risaltare l'eroismo della vergine?

È degno di osservazione che nel sec. XVI, anzi nel 1555 due protestanti inglesi, cioè il chimico Devi ed un Kellay suo compagno, avevano posto nuovamente in uso la sacrilega superstizione di tentare per mezzo de' cadaveri di conoscere le cose occulte; come si può vedere in una operetta del Gaspari intorno le avventure di Francesco Pucci.

NB. Nella st. 10 dì questo canto XI dove l'ediz. prima legge:

Come fece di sangue ogni sentiero,

nella ediz. 2. è—Come sparse di sangue ec.—

CANTO XII

ARGOMENTO.

Dona al figlio un abbraccio e alla consorte
Alceo pria di recarsi alla battaglia,
Chiaman dell'armi alla dubbiosa sorte
Le trombe, e i Rodj vanno alla muraglia;
Pugnar con AMEDEO fuor delle porte
Va, cui avvien che maggior gloria caglia,
Esce Ottomano anch'ei dall'altra parte
Sul piano che i due eserciti comparte.

I

Non prima sorge tra' bei fior cosparsi
L'alba nel cielo rugiadosa il seno,
Nè pria comincia al suo venir sgombrarsi
L'ombra, ch'umida avvolse il ciel sereno,
Che dentro Rodi ed i guerrieri armarsi
Imponsi, e porsi i corridori al freno;
Van già dintorno a risvegliar le schiere,
E feriscono il ciel trombe guerriere.

II

Femine e vecchi, abbandonata etate,
Mal atti al peso de' guerrieri acciari,
Volgonsi al tempio a ricercar pietate,
Dio supplicando appo i sacrati altari;
E tra fanciulle di bellezza ornate,
E che d'alta onestà pregi avean chiari,
Mover con la consorte allor si vide
Astidamante successor d'Alcide.

III

Poi che dannato, ed al parente estinto
Pagò sue pene sostenendo esiglio,
A suo mal grado abbandonò Tirinto
Tlepolemo d'Alcide inclito figlio;
Molto per varia via spinto e rispinto,
Al fin Rodi abitar prese consiglio;
Quivi dal lungo error fermò suoi piedi
Gran genitor di numerosi eredi.

IV

Trascorre il tempo, e tra l'arene altieri
Diedero di virtute eccelsi segni,
E ne i giorni de l'ozio, e nei guerrieri
Di non usata gloria apparver degni;
Forti di braccio e sovra i piè leggieri
Rivolsero in stupor d'Elide i regni;
Fier lottatori, e fur sue glorie note
De gli aurei carri in raggirar le rote.

V

E quando il sole ad onorar s'accese
Rodi, ed il gran colosso a l'aria ella erse,
Corse la nobil gente a l'alte imprese,
Ed immensa ricchezza ivi disperse;
Da sì fatti avi Astidamante scese,
Nè giammai Rodi tralignar lo scerse
In bella pace da gli antichi onori,
E colse in guerra i più sublimi allori.

VI

Ma ne l'ore presenti infermo il fianco,
E tra le crespe scolorito il volto,
E curvo il tergo, e su le guancie bianco,
De la spada guerriera iva disciolto;
Or mentre affaticava il piede stanco,
Ver duo giovani figli il guardo ha volto,
Coppia, che 'n armi intrepida e sicura
Amava morte per l'amabil mura.

VII

Dicea: vecchiezza del morir vicina,
Non pure a guerreggiar le vie mi serra,
Ma questi omeri miei sì forte inchina,
Ch'altro non mi riman, che gir sotterra;
Voi de la patria a la mortal ruina
Siate sostegno, e travagliate in guerra,
Voi sprezzate animosi archi e ferite,
Ed ornate i begli anni, onde fiorite.

VIII

Mirate ben, che singolar bellezza
Nel vostro sangue onestamente splende;
Serva fia d'ogni barbara vaghezza,
Se per vostra virtù non si difende.
Quivi nobile ardir di giovinezza
Fervidamente in Telamon s'accende;
Ultimo fu di lor, che gli occhi aprisse
Nascendo al mondo; ei diè risposta e disse:

IX

Non s'apriranno i barbareschi arcieri
Quì dentro il varco; il lor sperar fia vano,
Noi s'apriran giammai; folli pensieri
Va nudrendo nel cor l'empio Ottomano;
Noi certamente di vittoria altieri
Pregi riporterem con nobil mano,
O ciascuno di noi caderà spento,
Carico il sen di cento piaghe e cento.

X

Memorabile ardir farà palese,
Che da te prole non uscì codarda.
Alza la madre, ove ciò dirlo intese,
Le palme al cielo, ed a sì dir non tarda;
Sieno, o beata, ne le tue difese
Questi innocenti, e sovra noi riguarda,
Madre di Dio, che 'l Creator lattasti:
Son vani al tuo voler tutti i contrasti.

XI

Com'ella tacque; e che la madre udiro
Mesta parlar su la stagion sì fiera,
Le vergini il bel volto impallidiro,
Qual vaga rosa che sfiorisce a sera;
Timide poi co' genitor sen giro
In verso il tempio a rinnovar preghiera,
Nè pigro Telamon con fier sembiante
Ove le trombe udia mosse le piante.

XII

E lo seguiva Alceo; ma su le soglie
E del palagio in su l'uscir l'aspetta
Col figlio in braccio la dolente moglie
Ben caramente del suo cor diletta;
Nè d'argento, nè d'or fregiate spoglie
Ella ha d'intorno; ella apparia negletta
Sì come il risco e la stagion chiedea;
E pur nei suoi dolor beltà splendea.

XIII

E lui mirando con l'usbergo intorno
Presto tra ferri a le battaglie estreme,
Riga di caldi rivi il viso adorno,
E tra sospir rompe le voci e geme;
Allor ferma i vestigi, e fa soggiorno
Con essa alquanto a consolarsi insieme,
E chiudendo nel petto Alceo la pena
In su la fronte i suoi dolor serena.

XIV

E le dicea: perchè la guancia oscuri,
E fai sì distillar gli occhi dolenti?
Omai son franchi de la patria i muri;
Non sospirar; dà la temenza a i venti;
Oggi fra casi lagrimosi e duri
Vedrai per terra gli avversarj spenti,
E de' Turchi superbi il fiero orgoglio
Farsi a' popoli d'Asia aspro cordoglio.

XV

Esser non può, che d'AMEDEO la spada
Non vinca, ed a bagnar l'ampia campagna
Sotto il suo braccio ogni Bassà non cada,
Sì del favor celeste ei s'accompagna;
Ma ben pote accader, ch'a morte io vada
E tra' nostri guerrier spento io rimagna;
Chè di valor cercando alma corona,
A nullo i rischi suoi Marte perdona.

XVI

E s'avverrà che ne la pugna io mora,
Vò che di questo core i preghi intenda,
Sì che nei manti vedovili ancora,
Del comune figliuol cura ti prenda;
E se 'l verace ardor, che m'innamora
Può sì, che la tua fede anco s'accenda,
Siedanti in mezzo a l'alma i desir miei,
Nè condurre al tuo letto altri Imenei.

XVII

Sì disse, e come de gli amanti è stile
Fuor de le ciglia sfavillava ardore,
E Cassinice più che mai gentile
Con questi detti fe' palese il core:
Se 'n Rodi al sangue tuo sangue simile,
E pari al tuo valor fosse valore,
Ben potresti temer, non da te sciolta
Mi dessi a l'altrui fede un'altra volta.

XVIII

Ma se de gli altrui mal non mai digiuna
Fia che la guerra a' miei desir ti tolga,
Al mondo non riman sembianza alcuna
Di peregrino merto, ov'io mi volga;
Tolta da gli altrui guardi, in vesta bruna,
Sarà stanza d'orror che mi raccolga,
In cui sempre di te rivolta al nome
Spoglierò 'l capo mio di queste chiome.

XIX

Giuro la fiamma di quel sol superna,
Che tutte di quaggiù l'opre rimira,
Giuro di Dio la forza alta ed eterna,
Onde ei già fu creato, onde ei si gira,
D'Alceo vivrommi, e non sarà ch'io scherna
La giusta fede, che 'l tuo cor desira;
S'altro chiudi nel sen, fammelo aperto;
Di questo, onde mi preghi, esser dei certo.

XX

A questi detti Alceo soggiunse: avvegna
Che debba oggi Ottoman perder suo vanto,
E mirarsi atterrar ciascuna insegna,
Di forza ha l'asta d'AMEDEO cotanto,
Par tuttavia, che paventar convegna
Non trovi un giorno Rodi ultimo pianto,
E sotto Turchi non trabocchi al fine,
Sì l'armi impetuose ella ha vicine.

XXI

Donna, se di mia scorta il Ciel ti priva,
Cresci l'unico erede; indi lontano
Fuggi, e di Rodi il precipizio schiva,
Ben certo a i guardi del giudicio umano;
Italia cerca, e de la Dora in riva
Riposa il piè su l'ammirabil piano,
Ove sotto buon scettro a ciascuna ora
Il valor cresce e la virtù s'onora.

XXII

Sì parla, e 'n braccio da la madre prende
Il caro germe; ed ei rivolto al lume,
Che da l'elmo paterno intorno splende
Pargoleggiando ne trattò le piume;
Alceo lo bacia, indi a la madre il rende:
E non è, disse, di fanciul costume
Trastullando affisar ferri sì tersi;
O ce lo guardi il ciel da' casi avversi.

/*

XXIII

Fornito il favellar, cinto di brando
Così sen va, ch'a pena segna il suolo;
Falcon men pronto alza le ciglia, quando
Il buon maestro gli discioglie il volo;
Rimansi Cassinice, e sospirando
Giù per le guancie ella rinversa il duolo,
E fin ch'appare intentamente il guarda,
Poscia a le stanze ritornar non tarda.

XXIV

In tanto de le trombe al suono acuto,
Sì tosto che di Febo è sorto il lume,
Folco dei fieri acciar non fa rifiuto,
Intrepido de' vecchi oltra il costume;
Copre di nobil'elmo il crin canuto,
Cui sopra fan cimier candide piume,
Onde scosse da l'aure a l'altrui vista
Non più vaghezza, che terror s'acquista.

XXV

Occupa il colmo, e tra le penne ascosa
Siede sirena a riguardar tranquilla;
D'ambo i lati sul mar sorge spumosa
Fra mostri latrator Cariddi, e Scilla;
E l'aspre belve, e più la piaggia ondosa
Lunge di gemme e di tesor sfavilla,
E vibra intorno rai tra vampe accese
Di perle e di diamanti, altiero arnese.
*/
/*

XXVI

Portollo Armadio; ei de' ladroni avari
Già fu gran duce, e l'albergò Cirene,
Ove auree spoglie de' predati mari
Solea spiegar su le sicure arene;
Folco scelto campion contra i corsari,
Vincitor di costui troncò le vene,
E diede i membri sparsi al mar profondo,
Ed alzò su l'antenne il teschio immondo.

XXVII

I legni armati, onde patì gran scempi
Per lungo spazio de' Cristiani il regno,
A Rodi ei trasse, singolari essempi
Ad infiammar l'altrui guerriero ingegno;
Le vinte insegne ei ne fe' dono a i tempi
Perchè di sua pietà fossero segno,
Ma l'alterezza de l'elmetto egregio
Appo sè riservò, come suo pregio.

XXVIII

Di questo armossi immantenente, e crebbe
La sembianza real col gran cimiero;
Poi diede ai braccio immenso scudo, e l'ebbe.
Dal Re che di Bizanzio avea l'impero;
Per favella mortal mal si potrebbe
Narrar di quel metallo il magistero;
Il buon Bronzin, cui di tale arte lece
Corre ogni allor, con ogni studio il fece.
*/
/*

XXIX

Porsenna in arme la città di Marte
Con numerose squadre ivi circonda;
Rompe i legami, e tra le guardie sparte
Viensene Clelia a la paterna sponda,
La magnanima vergine con arte
De la mano e del piè percote l'onda,
E sospende per l'aria il crin lucente,
E soggioga il furor del gran torrente.

XXX

Non lunge Orazio altier, perchè non cada
Sotto rio stuol di regnator perverso,
Solo sul ponte a la natia contrada
Scudo si fa contra il furore avverso;
Lui ricerca ogni lancia ed ogni spada,
In lui d'ogni arco è 'l saettar converso;
A lui vola ogni pietra, ed ei non teme
Piaga, nè morte, e formidabil freme.

XXXI

Tal fa lo scudo; ed a gli umani sguardi
Vibrare armi lo stuol, ch'ivi fremea,
Splendere il foco, trasvolare i dardi,
E il fiume in corso mormorar parea;
Poscia i suoi fidi ad arrecar non tardi
La spada fur, che 'n reverenza avea,
E cui sacrò con venerabil mano
L'alto, che pastor siede in Vaticano.
*/
/*

XXXII

Così guarnito ei fa mirarsi, ed erra
Dintorno, e vangli i cavalier da lato;
E tuttavia de la rinchiusa terra
Di bellicose trombe udiasi il fiato;
Ne l'ora stessa a rinnovar la guerra
AMEDEO sorge, e si dimostra armato;
Fangli dintorno i cavalier corona;
Ei saluta cortese, indi ragiona:

XXXIII

Guerrier sacrati; e tu di Rodi al regno
D'armi altiero maestro e di consiglio,
Ecco a' cenni di te pronto ne vegno
Or che s'innalza il bel mattin vermiglio;
Di salde torri io non vo' far sostegno
A nostra speme nel mortal periglio,
Nè trar da larghe fosse io voglio scampo,
Anzi pugnar per la vittoria in campo.

XXXIV

Or chi sofferse guerreggiando offesa,
Rimanga, ed esca la robusta gente
Meco a pugnar ne la sì pia contesa;
Dio sovra i suoi rimirerà clemente,
Risponde Folco; e qual sublime impresa
Non fia la destra a terminar possente,
Da cui per duri oltraggi aspra vendetta,
E Rodi in don sua libertate aspetta?
*/

XXXV

Indi a' suoi duci egli parlò: prendete
Ciò che di forte in Rodi oggi dimora
Per mover guerra, e nel gran pian scendete,
Che de gli assalti omai vicina è l'ora;
Altro dirvi non deggio, usi voi siete
A la virtù, che vostri nomi onora;
Ed io, sì come è degno, ho da provarmi
Con esso voi nel grande orror de l'armi.

XXXVI

Mentr'ei così dicea, scorge un scudiero
Per lui tener gran corridore a freno,
Che da le nari spande il fiato altiero,
E col ferrato piè zappa il terreno;
E dice: in questo giorno odio il destriero,
E vo', ch'ognun di voi l'odi non meno,
Instrumento di fuga; i nostri schermi
Siano le man ben pronte, i piè ben fermi.

XXXVII

Allor seicento ivi rauna appena
Il buon Velasco; e 'l successor d'Enrico
Brisacco novecento altri ne mena;
E de l'armi turchesche aspro nemico
Mille a sua voglia Astor Baglione affrena.
In vece de l'Orsin; Lancastro antico
Con picciol schiera de le porte ha cura,
E stassi Ottario a custodir le mura.

XXXVIII

Nè su le piume risonare intorno
Sentono d'arme i coraggiosi inviti,
Che dentro i valli al ritornar del giorno
Tornano a l'armi i sagittarj sciti;
Corrono entro il reale ampio soggiorno
I duci sommi a la sembianza arditi,
E stanno avanti ad Ottoman, ch'ardente
Armi dimanda indomito, fremente.

XXXIX

Altri il busto real d'ostro, che splende
Chiaro più tra' Fenici, umil circonda
Sì che dal collo in sul ginocchio scende,
E d'aurei fregi, e di gran gemme abbonda;
Altri l'ostro superbo a cinger prende;
Indi la spada, onde di sangue immonda
Corse per l'Asia ogni riviera, ed anco
Onde Rodi tremò, gli appende al fianco.

XL

L'acciar temprossi ne la Siria terra
Con lungo studio, e tra' miglior si scelse;
E d'oro, e di diaspro ove ei si serra,
Diaspro, ed or per nobile arte è l'else;
Poscia su l'elmo, alto ornamento in guerra,
Penne di più colori ergono eccelse,
Penne, cui rimirar senza paura
Alma di cavalier non è secura.

XLI

Tra le superbe piume aspro minaccia
Guerrier centauro di piropo acceso,
Che col vigor de le robuste braccia
Saetta strai sul fulgido arco teso;
Sì nobile arme sotto il mento allaccia,
Onde ne vada il capo altier difeso,
Indi ampio scudo gli si porge al fine,
Che 'n temprarsi stancò regie fucine.

XLII

Saldi diamanti al lucido orlo intorno
Splendeano ardenti, e dentro lor rinchiusa,
Dorato mostro e di gran gemme adorno,
Vedeasi atroce minacciar Medusa;
Acciar sì forte e sì pomposo il giorno
De' maggior rischi rivestirsi egli usa;
Però con questo a le dubbiose prove
Contra AMEDEO fuor de la tenda or move.

XLIII

Pronto è 'l destriero, ed ei feroce ascende
Sovra il dorato arcion d'un leggier salto;
Ed il buon corridor tutto s'accende,
Che 'l Re conosce, al sanguinoso assalto;
Rivolge il guardo minaccioso, tende
L'orecchie, sbalza i piè ferrati in alto,
Alza i nitriti, e di canuta spuma
Il morso imbianca, e da le nari ei fuma.

XLIV

Leardo era di pel, gli estremi crini
E la gran coda colorito a nero;
Aquila in cielo, e per lo mar delfini
Seco perdeano in divorar sentiero;
Fulmine ei si dicea fra' Saracini;
Crebbe a l'onda d'Eufrate, Armeno impero
E per uso di Regi indi ritolto,
Splendea fra gemme a meraviglia involto,

XLV

Perla, che già nel sen l'Indo Oceano
Nudrì più scelta, ove riponsi il piede
Orna la staffa, e fiammeggiar lontano
Fra lampi di smeraldo il fren si vede;
D'oro è la sella, e per industre mano
Di rubin sparsa, cui terribil sede
Il gran tiranno, e co' più rei sembianti
Così grida i Bassà ch'avea davanti:

XLVI

O non nati per l'armi a cinger spada,
Ma sotto sferze a travagliare un remo
In duri ceppi, ora ciascun sen vada,
E conti altrui, s'io sbigottisco e tremo;
Io sol vo' farmi a Rodi oggi la strada,
Io sol provarmi nel periglio estremo;
Toglietevi di mano ed archi e strali:
Ah lacci poco essercitati e pali!

XLVII

Indi sen esce, e sul gran pian comparte
L'ordin de la battaglia; al manco lato
Pon Turacano, al destro il fier Giassarte;
Bostange al mezzo, e 'l fiero Alcasto ha dato,
I cavalieri a l'una e l'altra parte;
Così comanda, e ne l'acciar gemmato
Sul gemmato destrier lunge risplende,
E gli stuoli schierati a guardar prende.

XLVIII

Volgesi or quindi, or quinci, e d'ogni tromba
Onor gli fan le Saracine genti,
Sì che la terra intorno, e 'l ciel rimbomba,
E rimbombano in mar l'onde frementi;
Ed ei sen va, qual di selvosa tomba
Esce antico leon, ch'or vibra i denti,
Or spiega l'unghie, se ruggito ei traggie
Tremano i monti, e le cinisie piaggie.

XLIX

Ed ei dicea: fedeli, il cui valore
Ha tanti in Asia empi tiranni oppressi,
Che dansi a vostra man pregi d'onore
Per alcun tempo a nessun mai concessi,
A nove glorie rivolgete il core,
Eccovi innanzi i Rodiani istessi
Che più volte da voi sconfitti furo
Pur su questa campagna e su quel muro.

L

Nè d'AMEDEO cura vi prenda, io solo
A quella destra foltamente ardita
Darò gastigo, o fuggirassi a volo,
O perderà la temeraria vita;
Vuò, che 'l veggiate palpitar sul suolo
Sotto il dolor de la mortai ferita,
E vi sia gioco sorridendo il vanto,
Che dentro Rodi il fa prezzar cotanto.

LI

A sì feroci detti il varco apriva
Giocondo in volto, e d'ogni intorno egli erra;
E dovunque sul campo egli sen giva,
Nessun le labbra a le sue glorie serra:
Viva Ottoman, nuovo Alessandro, viva
La spada sua, ch'ha da domar la terra,
Monarca altier, soggiogator de' Regi,
Che 'l sommo Dio sovra ciascuno il pregi.

LII

Così gridaro, ed oltra Rodi intesi
Ben lunge i gridi fur, tanto gli alzaro,
E tutti il petto a la vittoria accesi
L'ozio via men, che la battaglia han caro;
Già tirano le corde a gli archi tesi,
Ed a le spade d'affilato acciaro
Han le man sovra gli elsi; ogni asta è scossa,
Ed è presto ogni piede a prender mossa.

LIII

In tanto Folco in belle spoglie ardente
I suoi seguaci a ben disporre attende;
Ei li congiunge a ripa, ove un torrente
Tra sassi dissipati aspro discende;
Quivi lo stuol de la non molta gente
A' Turchi in fronte quanto può distende;
Sta Spagna al destro, Italia al lato manco,
E nel mezzo ripone il popol franco.

LIV

Ed allora AMEDEO pronto soccorso
Porge con note di sublime ardire:
Incliti cavalier, volgete il corso
Contra quegli empi, e saziate l'ire;
Petto non volgeran, che 'l dì trascorso
Ciascuno apprese a sol dover fuggire;
Spengasi omai l'aspro Ottoman, lui vinto
Casca de l'Asia ogni potere estinto.

LV

Il forte acciar, che vi fiammeggia in mano
Non pur quì lascerà Rodi sicura,
Ma sgombrerà di doglia il gran Giordano,
Ma farà franche di Sion le mura;
Quale in battaglia a l'ardimento umano
Fu proposta giammai simil ventura?
Su, che n'aspetta di Sion sul monte
Celeste lauro a coronar la fronte.

LVI

Mentre dicea, da le belle armi intorno
Spargeasi incendio di divin fulgori;
E qual di tersi raggi Espero adorno
Appar nel grembo de' notturni orrori,
Tale apparia; ma ripensando al giorno
Ove in guerra ei versò tanti furori,
Gelano i Turchi in rimirarli, e sanno
Ben divinarsi il non lontano affanno.

LVII

Ma le parole, e de' lor duci i volti,
E del grande Ottoman gli alti sembianti,
E cotanti stendardi a l'aura sciolti,
E 'l suon de l'armi, e de le trombe i canti,
Possono sì, ch'a la temenza tolti
E fanti e cavalier spingonsi avanti,
Nè sul campo i Cristiani han tardo il piede,
E già fra loro il suoi sparir si vede.

LVIII

Oltra misura coraggiosi e crudi
Par che con ali a piè ciascun s'affretti;
E nel primiero incontro urtansi scudi,
Percotonsi corazze, apronsi elmetti;
E quinci insanguinando i brandi ignudi
Sforzansi penetrar per entro i petti
Profondamente, e ne la furia immensa
Ciascun minaccia, e sul morir non pensa.

FINE DEL XII CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XII.

In quattro parole ne ha racchiuso l'argomento il Poeta medesimo: «Nel
XII fassi battaglia fra Turchi e fra Rodiani.»

Nella st. 28 per indicare l'Imperatore di Costantinopoli, si dice—il Re che di Bisanzio avea l'impero—Spiace al Cav. d'Urfè questo titolo di Re dato ad un Imperatore, dicendo che i titoli si possono accrescere, non già scemare; ma è censura troppo sottile; nè un canto poetico è un diploma.

Meno spregevole è l'osservazione che siegue: «Les armes d'Ottoman sont descrittes trop au long et les choses qu'il y met ne sont d'aucune substance pour le poeme, estant presque touttes des fables et choses assez triviales.» Per altro nella stampa, la descrizione delle armi non empie quattro stanze, e perciò non può dirsi troppo lunga; e se non è di sostanza, è d'ornamento al poema. È vero che anche il cavallo e gli arnesi che il coprono e l'adornano, hanno qui la propria descrizione; ma questa similmente è breve, e i versi sono bellissimi.

Aggiunge il critico una più severa osservazione, che daremo succintamente, perchè il poema stampato in questa parte sembra non rispondere esattamente al manuscritto esaminato dal Cav. d'Urfè.

In primo luogo trova esser contrario ad ogni principio dell'arte militare il rappresentar Folco, comandante della piazza stretta d'assedio, che ne esce fuora a ordinare le schiere per la battaglia campale. Ed è verissimo, comunemente parlando, che il comandante supremo d'una piazza non esce in persona; ma chi ne assicura che tal regola non possa avere le sue eccezioni? E parmi che qualche esempio se ne legga nella guerra del 1813.

Rimprovera in secondo luogo al Poeta, che faccia restare la città di Rodi quasi priva di difensori; ed anche in questo trova giustamente un errore d'arte militare; ma nella stampa non si vede quest'abbaglio così manifesto, come forse appariva nel testo a penna.

Finalmente; non sa darsi pace il censore veggendo due o tre mila cristiani presentar battaglia a 74 mila ottomani. Ma i poeti fanno di questi prodigj, e de' maggiori: e poi, non è nuovo che pochi drappelli d'europei abbiano l'audacia di venire a cimento con eserciti d'orientali. La storia della Grecia antica può servire d'esempio. Ed anche si vuol notare che i cristiani erano stretti dalla necessità ad accettar la pugna; e che la vicinanza della città di Rodi gli assicurava in qualche modo, coprendo un lato del loro piccolo esercito; e offerendo un luogo di ritirata in caso di sventura.

CANTO XIII.

ARGOMENTO.

Ancide l'invincibile AMEDEO
Turacan, e le schiere a lui soggette;
Da Belïàl consolasi Asmodeo,
E van cercando alle a fuggir costrette
Turbe uno scampo; denso turbo e reo
Di polve contro alle Cristiane elette
Genti spingean; ma Dio dall'alto mira,
Ed il turbo infernal già più non spira.

I

Nel fier tumulto Turacan s'accorse
Al gran cimier, che d'ogni intorno alluma
Ove AMEDEO travaglia in armi; e sorse
Tale ira in lui, che da le labbra ei spuma;
E troppo osando colà giù sen corse
Con quel desio, ch'altrui le piante impiuma,
E fra gran gemme egli apparia nel campo
Quale in nubilo ciel fulgido lampo.

II

La pompa e l'ira onde a pugnar si mosse
Ratto al grande AMEDEO fisse in pensiero,
Che pur de i Turchi il gran tiranno ei fosse:
E contra andogli oltra ogni creder fiero.
Turacano da lunge aspro 'l percosse,
Che molto al corso rimanea sentiero
Quando fece volar terribil ferro,
Onde in punta s'armava asta di cerro.

III

L'asta sen vola a voto; ei s'appresenta,
Nè sol l'aspetto d'AMEDEO sostiene,
Anzi assalto gli dà, ma indarno il tenta,
Sì forte con la spada egli il previene;
Piagalo ne la gola, e non s'allenta,
Che dentro il petto gli secò le vene,
Ond'egli traboccò gonfio di rabbia,
E diè di morso a la nemica sabbia.

IV

Infra i seguaci a vendicar lui pronti,
Corsevi squadra di valore altiera,
Usa già fra le selve, usa fra i monti
Orribil farsi ad ogni orribil fera;
In vece d'elmo ad inasprir le fronti
Portano teschio di crudel pantera,
E de la varia spoglia intorno cinti
Fra gli altri risplendean quasi dipinti.

V

Giù dal profondo cor ciascun sospira,
Batte la fronte lagrimoso e geme,
Ma pur dove cader pallido il mira
Infuriato Mustafà ne freme:
Veggia mendici, a lor medesmi in ira,
I figli, e serva di lussurie estreme
La moglie, ei grida, da digiun costretta
Chi del caro signor non fa vendetta.

VI

Cotal dicendo alza la spada, e crudo
AMEDEO strigne; ei che 'l furor discerne
Al ferir, che ne vien porge lo scudo,
Così l'offesa, e la minaccia scherne;
Ma dove quel selvaggio il corpo ha nudo
Caccia l'acciaro entro le parti interne,
E prima il ventre, e poi le reni impiaga;
Quei cade, e 'l campo di suo sangue allaga.

VII

Ma la spada AMEDEO fatta vermiglia
Ver gli altri volse, ed a Rustan percote
L'orrida testa, intra l'irsute ciglia
Cala il tepido ferro oltra le gote;
Lungo singhiozzo e sanguinoso il piglia;
Vassene a terra; ivi le gambe ei scote,
E fatto in sul morir tutto di gelo
Con gli occhi cerca, e non ritrova il cielo.

VIII

Allor per gran dolor quasi rabbioso:
Celebino empio, ah rio Macon, dicea;
Non Dio, ma se pur Dio, Dio neghittoso,
Saziati appien di nostra angoscia rea;
Il ferro intanto di ferir bramoso
Verso la fronte al gran guerrier scendea
Folgoreggiando; ma su l'elmo al fine
Non resse in penetrar tempre divine.

IX

In mille scheggie se ne va qual vetro.
Spigne allora AMEDEO l'armata mano;
E quei dal cor, come ei la trasse indietro,
Rivi di sangue disgorgò lontano;
Freddo a toccarsi, a rimirarsi tetro
Caddeo repente, e fe' sonare il piano
Qual alto pin, ch'al fulminar trabocchi,
E morte oscura gli volò ne gli occhi.

X

In sì forte tumulto oltre si spigne
Sinan da Tarfe già canuto in guerra,
Cresciuto in su le ripe, onde si strigne
Ermo, che ricco d'or sì nobile erra;
AMEDEO con lo scudo il risospigne
Feroce urtando, e quei trabocca in terra;
Ivi AMEDEO l'impiaga, ove è diviso
L'un ciglio e l'altro, e quei rimansi anciso.

XI

Giunge Chendemo; ei già felice albergo
Faceva in Tarso ove pescar solea,
Poscia bramoso d'or vestendo usbergo
In se provò, s'avara voglia è rea;
Ratto per l'alta man trafitto il tergo
Ei ferma il piè, che sì leggier correa;
Ma nol fermava il vincitor, che forte
Caraman fere, e lo conduce a morte.

XII

Allunga il braccio, e la temuta spada
Interna fier ne la sinistra tempia,
E spezza l'osso, e per sanguina strada
Va nel cerebro, e tutto il cranio scempia;
Forza è, che l'infelice a terra cada
E del nemico i desiderj adempia;
Or quì freme Megera, e 'n fier furore
Rugge di rabbia e infellonisce il core.

XIII

Sferza ogni petto infuriando, e fiede
De' Turchi a dentro il cor, fiamma infernale
Sparge e strider che le procelle eccede
Gridando in suono a' fieri tuoni eguale:
Un sol nemico, ognun di voi sel vede,
Una spada soletta oggi v'assale,
Nè s'ardisce per voi, salvo fuggire?
E d'innalzar più gli occhi avrete ardire?

XIV

Mille minacce allor, mille rivolte
Son piaghe incontro al gran guerrier, ma vane
Molte ne fa l'elmo divino, molte
Lo scudo invitto a le percosse umane,
Molte da gli archi e da la mira tolte
L'Angel faceva indi volar lontane,
Molte non manco che per l'aria scerne
Con destri salti il cavalier ne scherne.

XV

Sì da gli strali e da le spade aita
Cercano indarno, e 'n trascorrendo il piano
Col gran ferro divin toglie di vita
Olfan, Zulemo, Beregir, Giorano,
Giaffer, Pirgo, Azamor; quinci smarrita
Fugge la turba la terribil mano,
E fatta al suono de le trombe sorda,
Nè di fè, nè d'onor non si ricorda.

XVI

Qual s'orba tigre a le caucasee sponde
Le gregge affronta, o là vicino al Gange
Empia col morso, empia con l'unghie immonde
Mille gole apre e mille fianchi frange;
Rimugghiano le selve alte e profonde
A l'atro scempio e 'l pastorel ne piange;
Sangue intanto funesta ampio la terra,
Tal feroce AMEDEO s'inaspra in guerra.

XVII

Sparso intorno di lampi e di fulgori
Vibra ne i petti altrui l'arme lucenti,
Crudo a mirar, come leon, che fuori
Dal chiuso vien de i lacerati armenti;
Versa dai torbidi occhi aspri furori,
Divampa, freme, alto dibatte i denti,
E de la vita il don contende e niega,
E tronca le man giunte, onde altri il prega.

XVIII

Quinci di Turacan su quello instante
Mal sommersa in terror fugge ogni schiera;
E quando ad altro oprar non è bastante,
Lor fassi scorta inverso il mar Megera;
Mettesi in mente quella turba errante
Por su le navi, e sì camparla spera;
Ma non per tanto con volubil piede
A non molti AMEDEO fuggir concede.

XIX

Aspro in valore ed in furor s'avanza,
Nè punto allenta la mortal battaglia,
Anzi di tuono ardente a la sembianza
Vince l'anima altrui pria che l'assaglia,
Tal soggiogando in guerra ogni possanza
Fende le lucide armi, i corpi taglia,
Infrange l'ossa, e d'atro sangue involto
Calca de gli atterrati il petto e 'l volto.

XX

Sì dietro a i vinti egli sen corre a volo
Pure a le piaghe, ed a gli strazj intento.
Ivi fra tanti insanguinava il suolo
Usucassano impallidito e spento;
E sovra lui, come sommerso in duolo,
Innalzava un demon strano lamento,
Lamento tal, quale a demon conviene,
E bestemmiando inacerbia sue pene.

XXI

Scorgelo un altro de lo stuolo inferno,
E gridava ver lui con guardi irati:
Asmodeo sì possente, or che discerno?
Ove lasci sepolti i pregi usati?
Fassi in guerra di Turchi aspro governo,
E tu quì piangi neghittoso e guati?
Nè per salute lor svegli l'ingegno?
Ora è ciò prova d'infernal disdegno?

XXII

Io, benchè indarno procurar vittoria
Oggi mai possa d'Ottomano a l'armi,
Vuò tal de l'opre mie lasciar memoria,
Che Lucifero almen deggia lodarmi,
Gli risponde Asmodeo; s'odi l'istoria
Ond'io contristo il cor, non che biasmarmi,
Anzi compiangerai, s'oggi quì piango,
Di sì caro desir privo rimango.

XXIII

Quì tacque, e dicea poi: di gemme e d'ori
Fa ben superba in Caria i suoi soggiorni
Carme, ch'accende co' begli occhi i cori,
Nè men gli accende co' sembianti adorni;
Costei fra le delizie e fra gli amori
Trasse de la sua vita i primi giorni,
E sormontando a la più salda etate,
Sempre fu liberal di sua beltate.

XXIV

Di tutto ciò ch'a medicare il volto
Per arte femminile ha maggior vanti
Ella ebbe il fior ne le sue man raccolto,
Piacevole esca per novelli amanti;
Nè di ciò ben contenta, il pensier volto
Le vidi ad opre de gli occulti incanti,
E quivi io me l'offersi, ed in più modi
Fei serva sua bellezza a le mie frodi.

XXV

Ove ella disiommi, al primo detto
De gli scongiuri suoi pronto volai,
E poi dentro aureo anel quasi costretto
Or le diedi risposta, or le parlai;
Per modo alfin la soggiogai, che 'l petto
Senza incendio d'amor non fu giammai,
Ed invogliata di desir perversi
Entro un mar di lascivia io la sommersi.

XXVI

Volsersi gli anni, ed al natio paese
Un suo figliastro ritornò d'essiglio,
Forte in campo d'amor ne le contese,
Vivace il guardo, il volto avea vermiglio;
Veder d'ambedue lor l'anime accese
A me sembrava non vulgar consiglio;
Lei mossi, ed a lui contra ella s'accinse,
E lusingando finalmente il vinse.

XXVII

Mentre gioconda e consolata appieno
Volgea la vita in dilettevol sorte,
Grave spavento contristolle il seno
Oltraggiando ad ogn'or tanto il consorte;
Ma breve fu, ch'ella temprò veneno,
E glielo porse, e lo condusse a morte;
Femmina al mondo d'ardimenti egregi
E degna che fra noi sempre si pregi.

XXVIII

Posta in sua libertà via più s'accende,
E salvo che diletti, altro non pensa;
Infra giochi, e fra danze il giorno spende,
E fra vin generosi a nobil mensa,
Ma l'ore che nel ciel Febo non splende
Fra delizie più care ella dispensa;
Sì fatte leggi io prescriveva a Carme,
Quando Ottoman sonò la tromba a l'arme.

XXIX

Sotto l'insegne del signor feroce
La fiera gioventù mosse le piante,
Nè fra 'l comune ardor manco veloce
Volle mostrarsi di costei l'amante;
Ella percossa di cordoglio atroce
Sparse caldi sospir, cangiò sembiante,
Stracciò le chiome d'or con dura mano,
Fece preghi e lamenti, e tutto in vano.

XXX

Poichè piegar non valse i rei pensieri
Troppo ostinati a la crudel partita,
Mi scongiurò, che tra' Rodian guerrieri
Prendessi a guardia così nobil vita;
Io gliene diedi fè. Duci, nocchieri
Godono il vento ch'a partire invita;
Giungesi in Rodi, e quì fra tanti ancisi
Vivo lo conservai, come promisi.

XXXI

Ma poco dianzi, quasi ria tempesta,
AMEDEO forte a nostri danni è sorto,
E per entro la strage atra e funesta
Il mio fedel, come tu vedi, è morto.
Non mi dannar s'io fremo; in questa testa
Per me si perde non leggier conforto,
Così pronto e veloce ei trascorrea
Ad ogni atrocità, quando il movea.

XXXII

E forse lei, che di costui fia priva
Incontra me s'infiammerà di sdegno,
E de' consigli miei venuta schiva
Ad opre oneste volgerà l'ingegno:
Ah pera il dì, che su la Rodia riva
Ottoman venne a dilatar suo regno,
Sì dicea con parole aspre e dogliose
A Belial; ma Belial rispose:

XXXIII

E che sento io? che di tua bocca ascolto?
Quale è tuo cor, chè sì trascorre ed erra?
Devesi altri turbar poco, nè molto
Quando un guerreggiator trabocca in guerra?
Il tuo fedel, che da la vita è tolto,
Pur nostro servo ne riman sotterra
Sposto a le fiamme eterne ed a i martiri;
Or non son questi alfin nostri desiri?

XXXIV

Carme tosto saprà torsi ai tormenti,
E nudrendo nel cor novella arsura
Diverrà vaga d'amator viventi
Schernendo di costui la sepoltura;
In van teco vaneggi, in van paventi,
L'impudicizia sua troppo è secura;
Se co' stimoli tuoi punto la desti,
Farai caderla in più malvagi incesti.

XXXV

Or le memorie lor copri d'obblio;
Ed incontro al valor de i campi avversi
Aggiungi i tuoi furori al furor mio
A pro de' Turchi, che sen van dispersi.
Megera di salvarli ebbe disio,
E verso l'Oceano hagli conversi;
Ma per la fuga lor, come si vede,
L'orribile AMEDEO non ferma il piede.

XXXVI

Su, movi, e dispieghiamo ali leggiere
Là 've stan d'Ottoman legni infiniti,
Ed a raccor le fuggitive schiere
Lievi battelli raduniamo a i liti.
Così sen vanno; in tanto aste e bandiere,
Torme di cavalier spenti e feriti
Cadean sul piano, e si vedeano in corso
Molti destrier senza rettor sul dorso.

XXXVII

Più nulla tromba con la voce orrenda
L'aria dintorno altieramente scuote;
E perchè de le turbe il cor s'accenda
Gli aspri tamburi nulla man percote.
Gridano i duci; ma non è ch'attenda
Alcun guerriero a l'animose note;
I cor tremanti, impalliditi i volti,
E son tutti a la fuga i piè rivolti.

XXXVIII

In questo punto, ch'a la turca gente
Di sua salute ogni sentier si toglie,
Scorge Megera, e giù nel cor dolente
Più sdegno cresce, e più furor raccoglie;
Per le spumose labbra un mugghio ardente
Dal petto arrabbiatissimo discioglie,
E da lo sguardo spaventoso e fosco
Schizzano gli occhi immedicabil tosco.

XXXIX

Ponsi le mani in su la testa e forte
Straccia le serpi, che rigonfie ed empie
Fischiano d'ira; ed in più groppi attorte
Armano il crin de l'infocate tempie;
Pensa de' Turchi a divietar la morte,
Ma non ben de' pensieri alcun s'adempie;
Fra tanti rifiutati al fin solo uno
Al fierissimo cor sembra opportuno.

XL

Ella sul campo, ove l'eccelse prove
Son d'AMEDEO, tutto di nebbia involve,
E sveglia vento procelloso e move
In contra il gran Campion nembi di polve;
Qual se per giogo alpin grandina e piove,
E l'aria in neve aspro aquilon risolve,
Vinto per via da la brumal tempesta,
Chiudendo gli occhi, il peregrin s'arresta.

XLI

In tal modo il guerrier ferma le piante
Intenebrato da la sparsa arena,
E da le tante piaghe e da le tante
Morti la destra, ed il fier brando affrena;
Ma la furia infernal cangiò sembiante,
E stretta intorno a se l'aria serena,
Quasi di corpo uman si ricoperse,
E quale è Megapente, altrui s'offerse.

XLII

Costui sul Gange in India ebbe gran pregi,
E di bugiarda santità fu chiaro
E sen fuggì, perch'annunziando a' regi
La lor malvagità, forte l'odiaro;
Quinci trattò di Ponto i duci egregi,
Ed a la fine in Caria ebbe riparo,
Donde movendo le velate antenne
Con gli esserciti a Rodi egli sen venne.

XLIII

Quì fatto singolar d'alto sapere,
Le glorie sue presso ciascun son note;
Costui simiglia il mostro, e tra le schiere
Del morto Turacan trova il nipote;
Giovin superbo, che le chiome ha nere,
E che di negro pelo empie le gote,
E ch'orgoglioso, e che soverchio osando
Non tende l'arco, e non si cinge il brando.

XLIV

Sol fra le turbe e fra l'orror di Marte
Con fulgida bipenne entra in battaglia,
Che parte punge orribilmente, parte
Con sottil filo orribilmente taglia;
Sparso il ferro è di fregi e tale è l'arte
Che d'altre arme il lavor non gli s'agguaglia;
Era il manico avorio, e 'n varj modi
Ben stelleggiato di dorati chiodi.

XLV

A sì fatto guerrier fassi d'appresso
L'atra Megera, e gli dicea: Tirinto,
In questo giorno da l'infamia oppresso
Il nostro pregio rimarrassi estinto.
Io mi credea, che 'l Rodïan concesso
A noi fosse oggi incatenato e vinto,
E con le turbe lor spente e mal vive
Saldare il danno de le patrie rive.

XLVI

Ma noi fuggiamo, e femminil spavento
N'empie le vene, e tutto il cor n'agghiaccia;
Or dove dileguò nostro ardimento?
Non abbiam spirto in sen? non abbiam braccia?
Mira la forza de l'orribil vento,
Ch'al nemico crudel percote in faccia,
È soccorso del ciel; stringiam la spada,
Ed apriamo a vittoria omai la strada.

XLVII

Così gli disse, e rinfrescogli in petto
La rimembranza de l'usato ardire,
Onde il prese di guerra alto diletto,
E d'acerba vendetta ebbe disire.
Già tutto sparso di furor l'aspetto
Dentro le ciglia ha le minacce e l'ire,
Gonfio di lena il fianco, il piè non tardo,
E 'l polso de le man via più gagliardo.

XLVIII

Per cotal guisa indomito, focoso
Verso Tersandro a lui vicin favella,
Tersandro d'Atalanta amato sposo,
Al già fier Turacan sola sorella;
Quel, che da gli occhi nostri or s'è nascoso
L'indiano Megapente in van s'appella;
Egli è messaggio sovrauman, chè tali
Non si movono andando i piè mortali.

XLIX

Ed io repente a le sue voci acceso
Sentomi franco, ed ho guerriero il core,
E l'usato vigor non m'è conteso,
Anzi a la destra mia cresce il valore.
Gli risponde Tersandro: hai ben compreso;
Anch'io di me medesmo or son maggiore,
Ho le piante leggiere, il braccio ho saldo,
E via più che l'usato il petto è caldo.

L

Proviamci a l'armi, e d'acquistar si tenti
L'alta vittoria ad Ottoman dovuta;
Non disperiam, che tra l'armate genti
De la guerra il tenor spesso si muta.
Udendo il cavalier sì fatti accenti,
Nessun periglio di morir rifiuta,
Vago de l'opre e de gli essempi altieri,
Cotanto arde Megera i suoi pensieri.

LI

Ed ella vola, e suoi veneni spande
Fra le turbe oggimai senza possanza,
Che rivolte a fuggir per varie bande,
Solo han posta ne i piè la lor speranza;
Ciascun la spada d'AMEDEO sì grande,
Ciascun volge in pensier l'alta sembianza
De l'orribile Eroe, quando li trova
Il mostro inferno, e rinfrancargli prova.

LII

Parla a Cefiso, a Foroneo ragiona,
Agita Trasimede, agita Eurota;
Gente, che di valor porta corona,
E che del duce morto era devota:
Deh come è, che virtù sì n'abbandona?
Come è, che 'l nostro acciar più non percota?
Squadra di premi e d'ogni onor ben degna,
De le vostre minacce or vi sovvegna.

LIII

Quando di Caria si sciogliean le sarte,
Rodi a le vostre destre era vil guerra,
Per le labbra di voi le voci sparte
Volean d'Europa soggiogar la terra;
Italia, Roma, il popolo di Marte,
Ciò, che da' sette colli entro si serra
Allor si riponeva in fiamme e 'n pianti,
Ed ora in lungo obblio son posti i vanti?

LIV

Perchè non sento quì l'altiere voci,
E non rimiro le sembianze istesse?
Rimembrate quei dì tanto feroci;
Io dimando ora a voi vostre promesse.
Per questi gridi divenute atroci
Le turbe dianzi da viltate oppresse
Stringonsi vivamente a le lor scorte,
Da se sgombrando il vil pensier di morte.

LV

Qual fieri lupi entro selvaggia sponda,
In cui fer scempio di lanoso armento,
Sen vanno addrappellati, ove bella onda
Spande con mormorio fonte d'argento;
Orribil vista! d'atro sangue gronda
L'ingorda bocca, e ne rosseggia il mento,
Ardono gli occhi, e l'arator lontano
Guarda tremante; egli bestemmia in vano.

LVI

Cotal moveano, e con sembianze orrende
Ciascun per gli occhi sfavillava d'ira;
Ma dal gran seggio, ove immortai risplende
Il sempiterno Creator sel mira,
Nè pria col cenno a comandarlo prende,
Che il turbo inferno più quà giù non spira,
E sul mosso terren posa l'arena,
E l'aria per lo ciel fassi serena.

LVII

Ed ecco in alto un fiammeggiar profondo
Correa di tuoni orribile infinito;
Traggo al rimbombo l'Ocean dal fondo
De gli antri spaziosi ampio muggito;
Tutto si scuote il ciel, si scuote il mondo,
Si scuote infra gli abissi il gran Cocito;
Ed orrendo AMEDEO spegne e minaccia
Il campo avverso, e ne la fuga il caccia.

FINE DEL CANTO XIII.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XIII.

«Nel XIII. si continua di narrare la battaglia.» In queste pochissime parole strinse il Chiabrera l'argomento del Canto.

Il cavaliere d'Urfè nota in primo luogo, che non doveva il Poeta far combattere i due eserciti, quanto si stendono quasi due canti—sans qu'Amedee y soit.—Questo difetto sarà stato nel MS; ma non è nella stampa; dove il verso 3 della st. I ci rappresenta Amedeo che si travaglia in armi; e nella st. 5 il veggiamo ferire a morte uno de' turchi più. valenti, nominato Mustafà. Che anzi il critico stesso, dimenticando ciò che dianzi avea detto, ripete l'osservazione già fatta ne' canti precedenti «que tous les combats d'Amedee sont commancez et finis d'un seul coup» Se non che allora così scrisse generalmente di tutti gli scontri d'un guerriero contro dell'altro; e qui rinnova la querela in modo speciale per Amedeo. A dire il vero, non può negarsi che i singolari combattimenti descritti dal Tasso con tanta varietà di avvolgimenti e di ferite, non sieno spettacolo più bello e più gradito che non i colpi mortali del Duca di Savoja; ma si potrebbe dire non meno, che l'Autore della Gerusalemme trasportò in Palestina e tra' combattenti le finte pugne delle giostre che vedeva in Ferrara alla corte degli Estensi.

Assai ragionevole mi sembra un'altra obbiezione del critico; ed è quella che cade sopra le stanze 20. 21. e seg.: »Le discours d'Asmodee est (leg. et) de Belial seroit plus propre d'estre omis, parce qu'il ne sert de rien au poeme et sinon a faire parler des demons, qui ne sont que trop ordinaires en cet oeuvre, et mesmes qu'ils ne doivent iamais estre represantez que pour chose entierement necessaire.»

CANTO XIV.

ARGOMENTO.

Reina a Coleo, i suoi guida Anacarsi,
In favor d'Ottomano, all'alta impresa:
Quì fatta amante osò di vezzi armarsi,
E al core d'AMEDEO far dolce offesa;
Ma le lusinghe e i vezzi furon scarsi,
E al core d'AMEDEO fece difesa
L'alma grazia del Dio che lo seconda;
Però la stolta si affondò nell'onda.

I

Mentre più sempre a le terribil prove
Vibrando l'armi il gran Guerrier s'accende,
Ognor d'anime turche un nembo piove
Giù ne l'abisso intra le fiamme orrende.
Sì fatto strazio a riguardar commove
Tutto l'inferno, e meraviglia il prende;
E Tesifone ria chiaro argomenta
Mal d'Ottoman per quella turba spenta.

II

Dice il demon: corsi già son duo mesi
Che forte a Rodi si guerreggia intorno,
E de' Turchi fra noi veggio discesi
Più che 'n tutti quei tempi in questo giorno;
Or da qual asta i Cristian difesi
Son colà su, ch'ad Ottoman fan scorno
Sì feramente? ed han la man sì forte
Che le falangi sue traggono a morte?

III

Dunque fia ver, come diceva Aletto,
Ch'a prò di Rodi il Correttor superno
Aggia per la vittoria un duce eletto?
E costui fa de' Turchi un tal governo?
Vederlo io vuò; quinci riarsa il petto
E gonfia di furor lascia l'inferno,
E vien de l'aria a contristare il lume,
E sopra Rodi al fin ferma le piume.

IV

Vede colà, nè senza sdegno il vede,
Del sangue turco rosseggiare il piano,
E che tremando rivolgeva il piede
Da l'invitto AMEDEO ciascun lontano;
Ella n'arrabbia, ed a tentar si diede
Come quel scempio ella non vegga in vano;
Ed ecco da vicin visto le venne
Piegarsi in porto più velate antenne.

V

Eran dodici prore, altieri legni,
Tutte di smalti variate e d'ori,
In cui vegghiando più famosi ingegni
Impressero d'avorio almi lavori;
Quivi di Colco abbandonati i regni
Son mille scelti infra guerrier migliori
Che a fatica di Marte usino armarsi,
E la Reina lor detta Anacarsi.

VI

Costei già di Caffà tra le foreste
Si spose a morte; ivi salvò la vita
Perchè da l'unghie de le belve infeste,
Mirabil cosa a dir, fu reverita;
Questa salute sua grazia celeste
Si reputò, come ella fu sentita;
E parto tanto singolar nutrire
In cor di nobile uom sorse desire.

VII

Quinci cresceasi, e con paterna cura
Ne la città; ma non rivolse a pena
Dieci anni il Sol, ch'ella a ciascun si fura,
E tra solinghi boschi il viver mena,
Tutta gioconda ivi le membra indura
Sotto freddo rigor d'aria serena,
E sempre che da l'alto il mondo accese
La gran lampa di Febo in gioco il prese.

VIII

Era suo studio travagliare in corso
Per silvestre cammin cerva leggiera
E cerviero atterrare, e piagare orso,
Terror de' boschi, non fallace arciera;
E de l'orride spoglie ornava il dorso,
E quasi di trofeo ne giva altiera,
Nè men per l'ampie valli era possente
A soggiogar notando ogni torrente.

IX

Per tal modo se stessa ella consiglia
Passar nascosta la fiorita etate;
Ma s'alcun la mirò, che meraviglia
In raccontar di lei l'alma beltate!
Di quì mossa la Fama un volo piglia
E narra l'eccellenze altrui celate,
E tanto de la donna i pregi spande,
Che varco le s'aperse a venir grande.

X

A' popoli di Colco il fren reggea
Autumedon ne le stagioni istesse,
E per moglie al figliuol, che solo avea,
Donna cotanto celebrata elesse;
Dunque fra l'erme balze in che vivea
Spedì messaggi e suo desiro espresse.
Tosto Anacarsi a quel pregar s'inclina,
Colpa stimando il non si far reina:

XI

Pronta mettesi in strada, e quando omai
Era al seggio real lunge non molto
Udì, come del Sol perdendo i rai
Il promesso consorte era sepolto;
Non sbigottissi, anzi sforzando i guai
Del vecchio Autumedon s'offerse al volto;
Ed ei vistala tal fece disegno
Di dirla erede, e di lasciarle il regno.

XII

Nè fu pentito; ebbe Anacarsi in mano
Quinci lo scettro, e con sì gran valore
Il resse poi, che sofferirlo strano
Non parve a Colco, anzi gli parve onore.
Di sua real virtù presso e lontano
Si sparse grido, e n'infiammaro il core
D'ardentissimo amor principi e regi;
Ma si voltò di castitate a i pregi.

XIII

Sdegnò compagni, e solitario letto
Era suo voto; i giusti altrui pensieri
Onorar con mercede ebbe diletto,
E mostrava al malvagio atti severi;
Sovente armava di corazza il petto,
Ed ergeva su l'elmo alti cimieri,
E tra le squadre de' nemici sparte
Vibrò vittoriosa asta di Marte.

XIV

Sì fatta donna a navigar si mosse
Per approdar la Rodïana foce
Sì perchè brama il fiero cor commosse
Di farsi nota ad Ottoman feroce,
Sì che le piaggie sue spesso percosse
La gente altiera da la bianca Croce,
La qual veggendo a le vendette esposta,
Di profondarla in duol s'era disposta.

XV

Però da' suoi guerrier tolta ogni posa,
Scender li fea su l'arenosa riva.
Ed ecco che fremente, impetuosa
La perversa Tesifone appariva;
Da la forma de' manti, onde è pomposa,
E da le note, che formarla udiva,
Che vien nemica a' Cristian comprende,
Onde umane sembianze il mostro prende.

XVI

E così le dicea: Regia donzella,
Che d'ogni sommo Re vinci la gloria,
Se quì tu vieni a sanguinar quadrella,
Oh quale al mondo lascerai memoria!
Già su la gente di Macon rubella
Ottien quasi Ottoman piena vittoria,
Mostrando suo valor sotto le mura,
Ma lungo il mare i Turchi hanno sventura.

XVII

Quivi un solo guerrier può tanto avanti,
Che nostri stuoli ha dissipati e sparsi;
Se tu domi costui, sovra i tuoi vanti
Non ha certo Ottoman di che vantarsi.
Rasserena i magnanimi sembianti
Di novello splendor l'alta Anacarsi,
E fa le ciglia di più rai gioconde
Quasi a lieta novella, indi risponde:

XVIII

Perchè l'amore, ed il valor sia chiaro,
De' quali armata a ritrovar vi vegno,
Da tua bocca sentir non ho discaro
De la gente diletta il rischio indegno.
Quì pose fine al dir, poi ch'Aldemaro
A lei venisse con la man fe' segno;
Uom già canuto, tra' guerrieri uffici
Esperto, e primo infra i reali amici.

XIX

A lui dicea: fa ch'a marciar si metta
La gente d'armi, ed a me venga appresso;
Io me ne vo colà dove m'affretta
Questo buon messaggier del campo oppresso.
Ciò detto s'arma di faretra eletta
Fra cento d'oro; ed era l'oro impresso
Di scintillanti stelle in ciel notturno;
Carca poscia la man de l'arco eburno.

XX

Cingesi spada, ed ivi appar scolpito
Cinghial, che i curvi denti empie di spume;
Ma su l'elmo d'acciar, d'oro guernito,
Scotesi verso il ciel bosco di piume;
Ella in gonna succinta, al piè spedito
Noia non fa; Termodonteo costume,
Gonna, ove abbaglia altrui porpora coa,
E gemme nate di rugiada Eoa.

XXI

Tal sen va ratta ove il demon la scorge;
Tigre parea, che belle macchie adorna,
A' Libici pastor temenza porge
S'a far strage d'armento unque ritorna.
Ma non però sì vaga in ciel risorge
L'alba tra varii fior quando s'aggiorna,
Ch'a pregi di costei non ceda molto,
Tanta bellezza le fiorisce in volto.

XXII

Dicea la Furia a lusingarle il core:
Certamente del cielo alto messaggio
Quì de i perigli misurando l'ore
Ha prescritti gli spazj al tuo viaggio;
Chè 'n mezzo l'armi a dimostrar valore
Non ha il popolo nostro oggi coraggio,
E ne la mente sua viltà ricopre
Del tempo andato le lodevoli opre.

XXIII

Pur col primo apparir di tua sembianza
L'afflitto cor gli si farà giocondo;
E qual nemico orgoglio? e qual possanza
Incontro a te non rimarrassi al fondo?
O de' fedeli tuoi salda speranza,
Di chi nascesti, onde venisti al mondo?
Ma ne richieggio in van, chiaro si vede
Ch'alcun nume celeste a noi ti diede.

XXIV

Favellando così, poco lontano
Fecesi al campo, ove confuse insieme
Fuga prendeano, e da la nobil mano
Poco le turbe di salvarsi han speme;
Nube di polve sollevar dal piano,
E percotere il ciel querele estreme
Vede Anacarsi, e ne l'ignobil guerra
Aste, ed insegne ricoprir la terra.

XXV

Quinci parte nel cor s'infiamma d'ira,
Parte al popolo vil porge ardimento,
E lo conforta e lo minaccia; e mira
Alfin, ch'ogni opra va dispersa al vento.
Però ne' gran tumulti il ciglio gira
Se trova il Duce, onde quel campo è spento,
E mentre in varia parte affanna il guardo,
Pon su la cocca immedicabil dardo.

XXVI

Era a veder, quale è cercando il lito
Libico arcier d'aspro leone in caccia,
Che se l'orrida belva alza ruggito
Tra' cari armenti, il pastorel n'agghiaccia,
Ed ei feroce, e ne i perigli ardito
D'insolito vigor sparge la faccia,
E sfavilla per gli occhi e corre al varco,
E disposto al ferir contorce l'arco.

XXVII

Sì la vergine orrenda in varia strada
Cercando il duce le vestigia volve
Fin che vien, dove il campo apre e dirada
Il fortissimo Eroe tra sangue e polve:
Ella mira il vibrar de l'aurea spada,
Come de l'altrui vita i nodi solve,
Come sparge terror; quinci ripiena
Di stupor non usato i colpi affrena.

XXVIII

E poscia in riguardar quale alto ascende
Fulgor da l'elmo, e da lo scudo, e quale
Vivace lampo di bellezza splende
Di lui nel volto a gli immortali eguale,
Isconosciuto affetto il cor le prende
E di nova pietà forza l'assale,
Nè par, che senza universal disdegno
Spegnersi possa un cavalier sì degno.

XXIX

Così dentro commossa empie la mente
Dianzi feroce d'un pensier novello,
Quasi altra da se stessa; indi repente
Disarma l'arco del mortal quadrello,
E placando le ciglia, il raggio ardente
De lo sguardo guerrier torna più bello;
E tale al grande Eroe fassi vicina,
E con regia alterezza a lui s'inchina.

XXX

Rivolto de la donna al gran sembiante
Mansueto AMEDEO prende a mirarla,
E sprezza il campo che fuggia tremante,
Togliendo il corso al piè, per ascoltarla;
Ma la bella Anacarsi in quello istante
Sciogliendo voce Italica gli parla,
Che da Ligura gente infra 'l paese
Già di Caffà quello idioma apprese.

XXXI

Dice: signor, ben crederò, che sorga
Gran meraviglia nel tuo nobil petto
Quando improvviso avvien, ch'oggi tu scorga
Donna infra le battaglie al tuo cospetto,
Ed avverrà, che via maggior ne porga
Il mio pensier, come da me fia detto;
Ma fra grandi è ragion, che 'l mondo veggia
Cose trattarsi, onde stupir sen deggia.

XXXII

Or di me narrerò: come sia nata,
E di che sangue è la notizia oscura,
Tuttavia splendo a sommo seggio alzata
Figliuola di virtute e di ventura;
Mio regno è Colco, e di mia destra armata
Con altrui pianto la memoria dura
Là per la Scizia, e non cadrà per certo
Fin che di guerra non s'invidii al merlo.

XXXIII

Di colà mossi, ed a venir fui presta
Ad Ottoman, per travagliar con l'armi
L'altiera gente al suo gran scettro infesta,
E sì forte signor quinci obbligarmi;
Ma tal prodezza in te si manifesta,
Che 'l pregio d'Ottomano un sogno parmi,
E senza il suo poter la mia possanza
Sollevar fino al ciel prendo speranza.

XXXIV

Che s'a' miei regni legge dar non schivi,
Ed a me stessa, ove non fia, che 'n terra
De' nostri nomi lo splendore arrivi?
E di nostre armi lo spavento in guerra?
Ove il sol cade, ed ove sorge, quivi
Indarno ogni nemico il varco serra,
Ch'abbatterassi; e fra' lamenti sparsi
Rimireransi nostre insegne alzarsi.

XXXV

Nè come cosa vil per te si spregi
Ciò, che da me supponsi al tuo volere;
Credi, che me ne fer ben mille Regi
Arsi da desiderio alte preghiere,
Ed io le rifiutai; titoli egregi,
E di vero valor corone altiere
Ho fin quì ricercato; or che le trovo,
Con alma accesa inverso lor mi movo.

XXXVI

Così diss'ella: e folgoreggia viva
Fiamma da gli occhi suoi mentre li gira
Verso il campione; ed il campion, ch'udiva
Sì fatta offerta, in se medesmo ammira,
E ben fermato di non trarre a riva
Quella opera d'amor, ch'ella desira,
Pensando va, come cortese neghi
A la donna il piacer di che fa preghi.

XXXVII

Onde così parlò: felice appieno
Il grembo di colei, ch'a noi ti diede,
Qualunque è stata; e non felice meno
La patria terra, ove fermasti il piede;
Quale veggio splendor? quale sereno
Che del bel di là su ne può far fede?
E quale oggi beltà splende fra noi
Non vista pria, nè da vedersi poi?

XXXVIII

E s'a ciascuno il tuo valor sovrasta,
E durar teco in arme altri non vale
Cingendo il brando; o s'abbassando l'asta
Su spumante destrier non trovi eguale,
Meraviglia non è; chè non contrasta,
Ad immortal virtù forza mortale;
Ed a vergine tal darsi vittoria
È per l'uom vinto incomparabil gloria.

XXXIX

Di quì certo a ragion sommi guerrieri,
Ed hanno incliti Re l'animo acceso;
E come no? donna, tuoi pregi altieri
Vincono d'ogni donna il pregio inteso;
Ma non convien, che tanto bene io speri
Da sì forte cagion viemmi conteso;
E dolermen dovrei, ma che? non lice
Farsi per ogni via quà giù felice.

XL

Io meco ho sposa, e me la diede Amore,
E di più figli la mia reggia è lieta;
Che si pareggi al tuo non ha valore,
Ma non per tanto i miei desiri acqueta;
Altra sposarne, o dare ad altra il core,
Il Dio grande, ch'adoro il mi divieta;
Ed ei de' falli altrui piglia vendetta,
Però mi scusa, e mie ragioni accetta.

XLI

La vergine real, come orgogliosa,
E da ciascuno ad ammirarsi avvezza,
Quando meno il pensò, quasi vil cosa,
Sentendo disprezzar la sua bellezza,
Vassene fuor di se; pensa sdegnosa
Vendicarsi di lui, che la disprezza,
Pensa preghiera rinnovare ardente,
Ma d'ogni suo pensiero indi si pente.

XLII

Così confusa nè può far parola,
Nè sa tacere, onde s'arrabbia e strugge;
Alfine a gli occhi d'AMEDEO s'invola,
E di lui vergognando ella sen fugge;
Cerca piaggie romite, e quando è sola
Versa dolor, come leon che rugge,
E dal colmo veggendosi caduta
De l'alte glorie sue, vita rifiuta.

XLIII

Dunque, dicea, fra' Rodïan fian conte
Tante mie colpe? ed avverrà ch'uom dica
Le mie preghiere? e le ripulse e l'onte?
E mi predicheran come impudica?
Colui non pur solleverà la fronte
Per l'atterrata gente a lui nemica,
Ch'a se medesmo crescerà gli onori
Per miei derisi, e vilipesi amori?

XLIV

Pera quel giorno, ch'a venir quì presi;
E se pure a tal fin la reggia altiera
Trasportarmi dovea, quando v'ascesi
Per altrui don, pera quel giorno, pera;
Così porto terror? questi paesi
Domo così? così pugno guerriera?
Oh bel trofeo, che vana, e che lasciva
Oggi m'innalzo in su la patria riva!

XLV

Deh che pregai? deh che rivolsi in mente?
Che mi cosparse di veneno il petto?
Forse fu lui, che da la volgar gente
Fra tante meraviglie Amor vien detto?
S'è così fatto Amor veracemente,
Ei fu di tigre, e di leon concetto,
E da perversi mostri ebbe governo,
E bevè per suo latte onda d'inferno.

XLVI

Or che farò? se 'n Colco unqua ritorno,
Da quei Regi il mio biasmo ecco cantarsi;
Se nel Regno di Rodi io fo soggiorno,
Pur oggi i falli miei vi fian cosparsi,
Ed udralli Ottoman; cotanto scorno
Non è da sofferir per Anacarsi;
E se contra il desir stata è mal forte,
Emenda farne le convien con morte.

XLVII

Ma perchè m'abbandono? a che non stringo
La spada, e volgo il piè su quelle arene?
Chè non trovo quell'empio? chè non tingo,
Chè non lavo la man ne le sue vene?
Misera me, che i miei furor lusingo;
Giacciasi estinto, or quale onor men viene?
Ella si vendicò, diran le genti,
De' suoi non accettati abbracciamenti.

XLVIII

No, no; tutt'altro è in van; solo il morire
A tanto affanno, a tanto obbrobrio avanza,
Sì freme, e fra l'asprissimo martire
Omai di forsennata avea sembianza,
Indi con forte piè prende a salire
Rupe deserta, che di belve è stanza,
Le cui sublimi e solitarie sponde
Del mar spumante percotevan l'onde.

XLIX

Quì sta pensosa; e così grida al fine:
Deh perchè di Caffà le selve ombrose
Già mi salvaro e quelle balze alpine?
Ed in quel folto orror le fere ascose
Chè non fero di me strane rapine,
Allor che la mia vita ivi s'espose?
E de le membra con orribil strazio
Loro digiun non rimiraron sazio?

L

Ma non è tempo omai da più gir presso
A sì fatti pensier; le mie giornate
A fin son giunte, o morte, io mi t'appresso,
Raccogli tu le membra egre, affannate,
E se nume è là giù, cui sia commesso
D'un'anima dolente aver pietate,
Voglia d'un prego sol farmi contenta,
Ed è celarmi altrui poi che io sia spenta.

LI

O luce, o sol, che per le vie supreme
Corri tra' rai, d'ogni occhio almo desio;
O scettri, onde gioir tanta ebbi speme,
O reggia, o Colco, ecco io vi dico addio;
Queste, ch'io fo son le parole estreme,
Ch'omai fia ne gli abissi il parlar mio.
Sì disse, e traboccossi; il mare aperse
Con un grave rimbombo, e si sommerse.

LII

Erano intanto a guerreggiar feroci
Fatti al grande AMEDEO poco lontano
Gli esserciti di Colco, e più veloci
Sempre Aldemaro gli scorgea sul piano,
E Tesifone ria con nobil voci
Pur si manifestava in volto umano,
E lor fierezza a mantener più viva
Su la morta Reina ella mentiva.

LIII

Così dicea: deh rinforzate i passi,
Guerrier di Colco, in duro tempo apparsi
Rodi a domar, chè sbigottiti e lassi
I Turchi per lo campo omai son sparsi:
È ver ch'a fronte, e coraggiosa stassi
Contra il fiero AMEDEO l'alta Anacarsi,
È certo ver, ma non è buon consiglio
Lasciar sua vita in sì mortal periglio.

LIV

Così dicendo stimolava i petti;
E non men per la via forte Aldemaro
Al parlar del demon giunge suoi detti:
Popol di Colco in guerreggiar ben chiaro,
Sarà mestier, che voce d'uom v'affretti
In questo tempo a maneggiar l'acciaro?
In questo tempo, ove crudel battaglia
De l'inclita Reina il cor travaglia?

LV

A queste note i cavalieri armati
Movean per la campagna i piè leggieri,
Qual per i colli, o per gli aperti prati
Su rapide orme se ne van levreri,
Quando con strida, o dando il corno a i fiati,
Gli spinge per salvatici sentieri
L'ingordo cacciator, ch'avvampa d'ira
Per lieve cerva che fuggir si mira,

LVI

Tal vien quel stuol, ma da lo stuol converso
De' Turchi in fuga egli è per via percosso
Sì fieramente, che da pria disperso
E fu seco a fuggir poscia commosso;
Acqua di fiume rassembrò, che verso
Il mar sen va tutto agitato e grosso,
Da cui sospinta indietro, al fin spumosa
Ristagna in grembo di campagna erbosa.

LVII

Ma d'AMEDEO via più sfavilla il core,
E più divampa di disdegno in faccia,
E circondato da divin fulgore
Più con orride voci altrui minaccia;
Sembra leon, che per selvaggio orrore,
Secco le fauci, va ruggendo in caccia,
O tuono, ch'arde inaccessibile alpe,
O mar, ch'atroce inonda Abila e Calpe.

LVIII

Infocata Tesifone discerne
Omai di Rodi la vittoria, e dice:
Ecco l'umane, ecco le forze inferne
Uscite indarno; or che tentar più lice?
Ma se con l'armi onnipotenti, eterne
AMEDEO sorge a trionfar felice,
Perchè mirarlo? è meglio andar fra' rei
Là giù dove io pur anco alzo trofei.

LIX

Ciò detto ella ritorna ai campi ardenti
De la profonda region funesta;
Ivi più cruda ognor l'alme dolenti
Un punto sol di tormentar non resta;
Ma tuttavia fra le nemiche genti
Essercita AMEDEO la spada infesta,
Ed elle in fondo di mortale affanno
Null'altro omai, salvo fuggir non sanno.

FINE DEL CANTO XIV.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XIV.

L'argomento postovi dal Chiabrera dice così: «Nel XIV viene a soccorso d'Ottomano Anacarsi reina di Colco; ed essa rifiutata in amore da AMEDEO, si annega.»

Nulla si ha nel MS. del cavaliere d'Urfè, che si possa riferire a questo canto XIV.

CANTO XV.

ARGOMENTO.

Ovunque il suo valore lo trasporta
Segue AMEDEO la fuggitiva gente,
E in campo e in mar strage infinita apporta.
A lui che nuota in sul destrier, repente
Megera turba il mar, ma lo conforta,
E 'l tragge al lido, dal celeste oriente
Sceso MAURIZIO il Santo, della chiara
Sua stirpe ei poi l'eccelse glorie impara.

I

Giungono alfin del mar sonante in riva,
E pur fuggendo gli inimici sdegni
Verso l'armata a nuoto altri sen giva
Gittando l'armi con vili atti indegni;
Ed allor da le navi ecco appariva
Pronto soccorso di più lievi legni
Dal Demon mossi, e verso loro ardente
Caccia AMEDEO la sbigottita gente.

II

Egli a Tomandro d'Ismael figliuolo
Sì percote la fronte a sommo il naso,
Ch'ambe due le pupille in fiero duolo
Furo condotte in repentino occaso,
E quel meschin sul sanguinoso suolo
Con la misera vita orbo rimaso
Forte gridava, e per gli estremi uffici
Chiamava a nome i combattuti amici.

III

Ma diceva AMEDEO: costì rimanti,
Che la consorte non porrassi intorno
Per la vittoria tua pompa di manti,
Nè fregierà di treccie il crine adorno;
Poscia spirando ardir da i fier sembianti
Col sanguinoso acciar trascorre intorno
Quasi procella di rio vento, e d'onda
Su per le spiche de la messe bionda.

IV

Quinci a Techel, ch'a minacciar s'accinge,
La spada volge in ver la bocca; ei stride,
Ma la spada adirata gli rispinge
Le strida ne la gola, indi l'ancide.
Ad Alcanzo la manca, ond'egli stringe
L'arco, ch'armava di quadrel, recide;
Sì che morta ella casca in sul sentiero,
Ed in van duolsi lo storpiato arciero.

V

Poscia in mezzo a la plebe il brando gira,
Ed aspre piaghe rinovella e scempi,
E dove i meno sbigottiti ei mira
Dà con la spada di fortezza essempi;
Come procella, quando il ciel s'adira,
Le biade abbatte in sul terren de gli empi,
Che del gran Dio le leggi hanno in dispregio,
Tal rassembrava il cavaliero egregio.

VI

Incontra Ariovisto ei move in guerra;
E quei si ferma in minaccioso aspetto,
E d'un morto guerrier la picca afferra,
E l'aspra punta gli presenta al petto;
Da sì feroce ardir, che nel cor serra,
Fu tosto il duce a giudicar costretto
Ch'era ben prode, onde colpir nol lassa,
Ma spezzando la picca il cor gli passa.

VII

Ei crolla; ed Azamor la man gli porge
A sostentarlo, e pur trabocca al piano;
Ond'ei si volge ad AMEDEO, che scorge
Sì minacciar con la terribil mano:
Cotanto nel tuo cor d'orgoglio sorge,
Che 'l voler d'Ottoman speri far vano;
Non sai, come ogni Turco il sangue spanda
Pronto a la morte, ove il signor comanda?

VIII

A l'ignoto parlar non dà risposta
Il gran Campion; ma nel pugnar non stanco
L'acerba spada al temerario ha posta,
Che schermir non la sa, nel lato manco;
Passa il ferro mortal tra costa e costa
Vago di sangue, ed Azamor vien bianco,
E la luce del sol perdono gli occhi,
Ed in terra a cader piega i ginocchi.

IX

Sul caldo umor, che la ferita piove,
Tutto si bagna, e nel morir si scuote:
Tal veggiam traboccar quercia di Giove,
Che con bipenne il villanel percote;
Ei del carro talor con travi nove
Vuol ristorar le fracassate rote,
E taglia il piè di pianta aspra, selvaggia,
Ed ella ingombra in sul cader la piaggia.

X

Come toro superbo in riva amena,
Ove fu duce di mugghianti armenti
Sbranato da leon, con larga vena
Riversa sul terren caldi torrenti,
Tal colui sanguinoso in su l'arena
Macchia presso al morir l'arme lucenti;
A lui volge AMEDEO ben ratto il dorso,
E contra i rei nemici affretta il corso.

XI

Impiaga Soliman d'ampia ferita;
Dal ferro ebbe bambin scampo felice,
Chè per medica man venne a la vita,
Sì male il partoria la genitrice;
Ma quì sul colmo de l'età fiorita
A lui scampo simil sperar non lice,
Che trafitto le coste ei casca a terra;
Contra gli altri AMEDEO si move in guerra.

XII

Indi lunge fuggia Rossan non molto,
Che fra' Cilici, ove facea soggiorno,
Sempre di duo begli occhi, e d'un bel volto,
Servo d'Amore, ebbe la fiamma intorno.
E quì tra l'armi in bianca seta involto
D'oro fiammeggia, e di begli ostri adorno,
E pur pomposo d'apparir s'ingegna,
Sì come a' suoi seguaci Amore insegna.

XIII

Mentre questi a fuggir veloce attende,
Ver lui col ferro il gran Guerrier si volve,
E 'l piè quando per l'aria egli il sospende,
Fagli cader su la minuta polve;
Ei sì storpiato in sul terren si stende
Sangue versando, e giù del cor dissolve
Lunghi sospiri, e tre fiate chiama
Ariaden, cui di gran tempo egli ama.

XIV

E quel fedel, che da vicino il sente,
Dietro la voce, che 'l chiamò sen viene,
E dove il rimirò languir dolente
Porgea la man per medicar sue pene;
Ma quei: s'ho nel mio mal saggia la mente,
Nulla di viver più m'avanza spene,
Sì ne la piaga, e nel martir sofferto
Scorgo segnal, che di morir fa certo.

XV

Tu, se riponi entro i Cilici il piede,
Trova la bella donna, al cui bel foco
Con sì fatta possanza Amor mi diede,
Ch'ardere tormentando ebbi per gioco;
Dille, ch'io mi morii, ma che mia fede
Meco se ne verrà per ciascun loco,
Nè prenda a lagrimar sovra il mio stato,
Sol, ch'ella in cor mi serbi, io son beato.

XVI

Sì rivolto a colei, ch'era suo sole,
Cresce il martir de la giornata avversa;
E l'altro al caro suon de le parole
Rivi di pianto per lo sen rinversa;
In tanto par, che di terror sen vole
Anzi al fier braccio d'AMEDEO dispersa
Ogni barbara insegna; ed ei calcando
Va tronchi e morti, e non dà posa al brando.

XVII

Quivi tra' fuggitivi errava altiero
Con forti gridi, e con non fievol mano
Atanagildo in armi aspro guerriero,
E che del grande Araspe era germano;
Costui sedea sul tergo a gran destriero
Sauro di manto, il manco piè balzano,
Ferrigno d'unghia, e come stral veloce,
E fea sentirsi con terribil voce:

XVIII

Poi che virtute in voi così vien manco,
Indarno anco a fuggir siete sì presti;
Per Dio non sarà cor, non sarà fianco,
Ch'a piè nol mi trafigga, e nol calpesti;
Mirate me, se di timor son bianco?
Or non fia di voi tutti un, che s'arresti?
Sì dicea fra le turbe al mar vicine,
Ed incontra AMEDEO si scaglia al fine.

XIX

Lunga zagaglia, che dorata splende,
Scuote per l'aria, e violento sprona;
Con lo scudo AMEDEO se ne difende,
Ch'a le fiere percosse alto risuona,
Poscia l'appressa, e su la tempia il fende,
Nè, benchè a morte crolli, ei l'abbandona,
Ma gli trafora il fianco, e l'alta spada
Non cessa insanguinar fin che non cada.

XX

Poi che disteso il vede, e su l'arena
Vede, ch'ognun nel mar cerca soccorso,
Suoi spirti il vincitor punto non frena,
Ma del voto destrier salta sul dorso,
E spingesi fra lor; vasta balena,
Che per lungo digiun s'avvolge in corso
Ne l'immenso Ocean, fa minor scempi,
Che d'AMEDEO la forza infra quegli empi.

XXI

Indomito la man, feroce il brando,
Fra lampi d'ira fulminoso il ciglio
Trascorre intorno su l'arcion notando
L'armi, e le membra a riguardar vermiglio,
Fracassa i remi, e ne le prore urtando
Non lascia alma fuggir senza periglio;
E già per entro il mar vedeansi absorti
E ferri e spoglie, ed impiagati e morti.

XXII

Qual, se chiudendo in sen ghiaccio rifeo
Cui condensa ad ognor l'aspro Boote
Con esso Arturo ad infestar l'Egeo
Borea le piume formidabil scote;
O quale ad atterrar novo Tifeo
Fulmine piomba da l'eteree rote,
Tal, d'orribili rai sparso l'aspetto,
Ei colma a' Turchi di spavento il petto.

XXIII

Allor, posti in oblio gli usati orgogli,
Sospirano infelici i lor più cari,
E fuor che d'alti pianti, e di cordogli
Non han contra la morte altri ripari;
A quei flebili accenti arene e scogli
S'accordan scossi da sanguigni acciari,
E percossi da lunge, in voci meste,
Rispondono ululando antri e foreste.

XXIV

Ivi è Megera, e rimirando stride,
Ed alto grida il mostro a' suoi converso:
S'AMEDEO non si fuga, o non s'ancide,
Certo è l'imperio d'Ottoman disperso,
O forti, o dell'inferno anime fide,
Deh per vostro valor piombi sommerso,
E sul cielo, e sul mare or che 'l vedete
Col destrier navigar, turbo movete.

XXV

Allor per l'aria, e dell'Egeo sul regno
L'alme scacciate al sommo Dio rubelle
Tal, che de l'uso uman passano il segno,
Sollevano d'intorno aspre procelle;
Già mugghia il mar, già d'implacabil sdegno
La negra onda spumante alza a le stelle,
Già s'addensano i nembi, e già dal volto
De l'aureo sole ogni splendor s'è tolto.

XXVI

Rompe dal chiuso de le nubi oscure
Alto spavento, un minaccioso ardore;
E di tuoni un rimbombo, alte paure,
Accresce i mugghi del marin furore;
Fra quei flutti AMEDEO, poco sicure
Già sentendo le forze al corridore,
Tralascia il freno, e da la sella vota
Scagliasi in grembo al fier Nettuno, e nota.

XXVII

I salsi umori, onde la fronte è molle,
Scuote, e le piume, onde ha la chioma aspersa
Crollando il capo, e quanto può l'estolle,
E soffia incontra la procella avversa;
Così nel mar, che freme irato e bolle,
A le rive la vista ei tien conversa,
E con le man robuste, e con le piante
Facea contrasto a l'Ocean spumante.

XXVIII

Pur nel risco mortal volse la mente
A l'alta aita del celeste regno,
E MAURIZIO appellò, come possente
A ricovrarlo dal periglio indegno;
O gran MAURIZIO, le mie membra spente
Dunque fian schermo del marin disdegno?
Nè tra piaghe d'onor, qual cavaliero,
Ma mi morrò, come vulgar nocchiero?

XXIX

Vaglia teco mia fè, vagliano i voti,
Ch'a tua somma bontate i miei sacraro.
Così pregava il gran Campion, nè voti
Preda de la tempesta i preghi andaro;
Chiaro di pregi eterni in Ciel ben noti,
Ove più di be' rai l'Olimpo è chiaro,
Stava MAURIZIO, e d'ogni intorno avea
Chiara non men la legion Tebea.

XXX

Per quegli eterni alberghi alma infinita
Pace godeva, e ne beava il core,
Premio di quel, che ne la mortal vita
Fra l'empie man seppe soffrir dolore.
Ma ratto a quel pregar per via spedita
Trasvola inestimabile fulgore,
E de l'eterno Re s'inchina al piede,
E sovra i suoi desir grazia gli chiede.

XXXI

Poscia dal tranquillissimo sereno
De gli almi alberghi a l'Ocean discende,
Per tal sembianza ch'augellin via meno
Verso i sicuri nidi a volar prende;
Qual vola in un momento aureo baleno,
Se de l'oscure nubi il grembo fende,
Tal ei volò su i tempestosi flutti
E ne trasse AMEDEO su i lidi asciutti.

XXXII

E così gli dicea: nobil Campione,
Che 'n paesi stranier, tra ferri avversi
Portando a' Rodïan belle corone,
Hai lor nemici in fuga omai conversi,
Se 'n periglio mortal d'aspra tenzone
Da la fronte il sudor largo rinversi,
Se forte anela il sen, non te ne caglia,
Che fia trionfo tuo questa battaglia.

XXXIII

Io messaggio del Ciel, per cui contendi,
Oggi quì mi rivelo a tuo conforto;
Dammi l'orecchio, e ben disposto attendi
A tutto ciò, che favellando apporto:
È ver, che del gran sangue, onde discendi,
Infra mortali non ti pregi a torto,
Di verace valor prencipi altieri,
E fra regie virtù scettri primieri.

XXXIV

Ma per lo corso de' passati tempi
Essi con più fulgor non fur mai chiari,
Che quando con tesoro ersero tempi,
O pur con arme difendeano altari;
Godi ascoltando, e così fatti essempi
Al tuo nobile cor giungano cari,
Ed a seguir i gran cursor da presso
Con la memoria lor sferza te stesso.

XXXV

Che da' Germani errando il bon BERALDO,
BERALDO eccelso, e vostro ceppo antico,
Non men che le man pronte, il petto caldo
Avesse in armi per l'Imperio amico;
Che contra il suo poter non fosse saldo
In contrasto di guerra alcun nemico,
E ch'al suo giogo i mansueti spirti
Corresser di bon grado io non vuò dirti.

XXXVI

Ben ti dirò, che dove armato e forte
Del fier Piemonte l'orgogliose schiere
In val di Moriana ei trasse a morte,
Ed il sangue ondeggiò presso Cerdiere,
Non trascorse d'onor le strade torte,
Gran trofei sollevando al suo potere,
Anzi macchine alzò d'illustri marmi,
Ove a Dio si spargesse incensi e carmi.

XXXVII

Nè per la bella via correndo l'orme
L'alme de i successor furon men pronte;
Che 'l secondo AMEDEO ruppe le torme,
E pose in fuga di Gebenna il conte,
E poi di sacri alberghi altiere forme
Ei del Tamiso fe' mirar sul monte,
Ove devoto il peregrino inchina
De le stelle, e del ciel l'alta Reina.

XXXVIII

Fu chi d'Ambrun per lo pastor sacrato
Già discacciò l'occupator Delfino;
E di Sion il rubellante stato
Ritornò de la Chiesa al fren divino;
Posso nomar chi di bella asta armato
Argine fessi al corso Saracino,
E da la patria s'affannò ben lunge;
Chè l'uom trasvola, ove pietate il punge.

XXXIX

Degg'io parlar de la sacrata Terra
Che da piedi infedeli or si calpesta?
Nè di lei rimembranza in cor si serra?
Nè spirto di Cristian per lei si desta?
Freme Occidente, ed a disfarsi in guerra
Sorgon gli scettri, e l'uno e l'altro infesta,
È di fallace onor ciascuno ingordo,
Ed al divin cieco diventa e sordo.

XL

Grande stupor; ma di sì vil sciocchezza
Non fur per ogni etate infermi i cori,
Ch'Europa un tempo a nobili armi avvezza
Sgombrò Gerusalem d'ombre e d'orrori;
Alme, che peregrine ebber vaghezza
La fronte ornarsi di celesti allori,
Onde via più, che per altrui non s'usa,
Per loro udrassi incomparabil musa.

XLI

Or fra quei sommi duci, onde l'oltraggio
De la patria di Dio non fu sofferto,
Quale aquila su l'ali, al gran viaggio
Cinto di spada se ne corse UBERTO;
Quasi in notturno ciel di stella un raggio
De gli anni infra l'orror splenda suo merto,
E si dilati, e si sollevi come
Sul gran Libano cedro, il suo bel nome.

XLII

Ma segui me con la memoria, e mira
Quando in alta discordia il Vaticano
Sospirò sì, che men nocchier sospira
Sotto avverso aquilon per l'Oceano;
Allor di Pietro il sommo seggio in ira
Fu visto al quarto Enrico, empio germano,
Che versando nel cor dolcezze false,
De la legge di Dio poco gli calse.

XLIII

Ei non sen vide mai tanto raccolto,
Che molto più non dispergesse argento,
Sì che precipitando a freno sciolto
De l'or sacerdotale ebbe talento,
De la man largo, e de la mente stolto
Al manto Imperial non fu contento;
Sprezzò le chiavi eterne, e fece offesa
A la tanto di Dio diletta Chiesa.

XLIV

Le feroci superbie al Cielo avverse
Ben compianse di Roma il gran Pastore,
E con mel di parole il crudo asperse,
Ma via più sempre s'innasprì quel core;
Finalmente a giustizia il varco aperse,
Ed infiammato di superno ardore
Armò la destra, e fe' volarne i tuoni,
Stanco di preghi e d'offerir perdoni.

XLV

Sotto i fulmini sacri umil pensiero
Fece Germania, e scolorì sembianti,
Ed alzò gridi, e diè consiglio al fiero
Di fine imporre a quegli error cotanti;
Ei sazio d'empietà prese il sentiero
Per adorar col bacio i piedi santi,
E lasciata da parte ogni sua possa,
Sen venne al buon Gregorio entro a Canossa.

XLVI

Quivi per nova via strano veneno
Sorse d'inferno, onde bolleano i petti,
Sì ch'allentando a le querele il freno
Di novo udiansi germogliar sospetti;
Ma del vostro AMEDEO non venne meno
L'ardor de l'opre, ed il fervor de i detti,
Sì che valse a ritrar dal calle oblico
Per drittissima strada il fiero Enrico.

XLVII

Egli dicea, come del Tebro in riva
Il vicario di Dio ferma sua sede,
E che per ciascuna alma indi deriva
Certo tenor di non fallibil fede;
Come da sue vestigia altri partiva,
Poneva in via di precipizio il piede;
E come a tanta maestà piegarsi
Era l'arte qua giù d'alto levarsi.

XLVIII

Ben può, dicea, talor nembo d'inferno
Tra l'onde sollevar tempesta oscura,
Ma la nave di Pietro ha tal governo
Che dal rompersi in scoglio ella è sicura;
Con queste note de l'orgoglio interno
Spogliar l'anima incauta egli procura,
E con tanto di forza i preghi porse,
Che l'ingannato de l'error s'accorse.

XLIX

Quinci fu di letizia alma, infinita,
Poco sperata il Vaticano adorno,
Ed aurea pace di qua giù sbandita
Ver la greggia di Dio fece ritorno;
Quinci furo suoi paschi erba fiorita,
Ch'apriva rugiadosa a' colli intorno,
E trasvolò per l'aria aura lucente,
E sen corse di manna ogni torrente.

L

Sì fatto apparve intra virtù sublimi
Il sangue tuo: dietro sì belle scorte
Sul calcato sentier vestigia imprimi,
Che del ciel giungerai dentro le porte;
Servire a Dio sieno i pensier tuoi primi,
Poi fatti caro a la superna corte;
I Santi inverso voi tengono i guardi
Per lo vostro soccorso unqua non tardi.

LI

Io son MAURIZIO; infra le torme ancise
Tu me pregasti, io tue preghiere intesi;
Ricorsi al Rege eterno, ed ei commise
Che fossero tuoi giorni oggi difesi.
Sì disse al gran Campione, indi sorrise
Tra' chiari rai di caritate accesi,
Quasi de le sue glorie ei lieto fosse;
Poscia novellamente a parlar mosse:

LII

Su questa umida arena in van s'arresta
Tua spada omai; tutta la turba è spenta;
Mira, che su la riva atra e funesta,
S'altri non cade morto, almen paventa;
Ma per andar dove Ottoman tempesta,
Tue membra lasse il piede egro sostenta
Debilemente; or fin ch'a te non torno,
Quì non t'incresca far breve soggiorno.

FINE DEL CANTO XV.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XV.

«Nel XV Amedeo perseguitando i Turchi che s'imbarcavano, è per annegarsi in mare; Santo Maurizio il libera dal pericolo.» Quest'è l'argomento postovi dall'Autore.

Nella st. 15 l'ediz. prima legge:

Tu se riponi entro Cilici il piede;

Ma l'ediz. 2.ª ci da una miglior lezione, o almeno più chiara:

Tu, se riponi entro i Cilici il piede.

Vuol dire nella Cilicia.

Maravigliose prove ci narra il Poeta, st. 1—20, del valore di Amedeo, il quale urta l'oste nemica, e la sospinge verso il mare a cercarvi riparo nelle navi: ma il cav. d'Urfè non sa darsi pace di tante prodezze: »Quand il dit qu'Amedee luy seul poursuit et chasse tant de milliers d'hommes, ne samble til point qu'il se moque du lecteur?»

Amedeo vedendo fuggire que' vili »del vôto destrier salta sul dorso» spingesi fra loro nel mare, e fa scempio de' nemici. E questo ancora spiace al nostro Censore. »Et quand il le fait entrer a cheval dans la mer et poursuivre les barques, ne le represante il pas sans jugement?»

L'inferno, a procacciare scampo a' Maomettani, desta in mare una orribile procella; ed Amedeo, abbandonato il cavallo, e postosi a nuoto, invoca nel pericolo estremo il favore di S. Maurizio (st. 28). Ed il Critico molto severamente ne rimbrotta il Poeta: «Et quand il le fait plaindre et lamanter de peur de se noyer, ne le fait il pas faible et perdu de courage? mais quelle action de courage et de prudence lui attribuet il?» Il critico era scrittore di romanzi; e in questo genere di libri non vi ha virtù naturale nè eroica; ma tutto è tolto dalla immaginazione e spinto agli estremi. Il qual difetto parmi di ravvisare in questo tratto della sua censura; perciocchè sarebbe stupidezza, non valore, il non sentir dispiacere di morirsi per naufragio. Il Chiabrera si ricordava dell'Eneide lib. I, non delle virtù romanzesche.

S. Maurizio ascolta la preghiera del Duca; discende a consolarlo; e gli narra le glorie de' principi di Savoja di lui predecessori. Il cav. d'Urfè con più di ragione condanna questa parte del poema; adducendone tre motivi; che i fatti degli antenati non dovevano essere ignoti ad Amedeo; che non v'ha ragione di far palesare da persona venuta dal Cielo le cose scritte nella memoria degli uomini; che non era quello il momento di trattenere Amedeo ad udire il racconto di S. Maurizio.

CANTO XVI.

ARGOMENTO.

Desta Megera in Periandro ardire
D'ancidere AMEDEO con uno strale;
Ma rese van l'iniquo suo desire
Angelo eletto, e lo stornò con l'ale:
Perciò l'accolto in sen vuol reo martire
Disfogar contro lui mostro infernale.
Vola in Eden MAURIZIO, e coglie frutto,
Onde in vigore è il gran guerrier ridotto.

I

Ei così disse: e disparì qual vento
Lasciando ivi soletto il gran Guerriero,
Che de l'alma beata a i detti intento,
Suoi ritorni aspettar facea pensiero;
Volgesi intorno, e che di puro argento
Da vicin trascorrea dritto sentiero
Scorge un ruscello, e per fiorita riva
Che verso l'Oriente al mar sen giva.

II

Mentre che per la via cheto s'affretta
Dipartesi in tre rami, ed un verdeggia
Sì come è verde in su quel suol l'erbetta,
L'altro sì come foco arde e lampeggia;
L'acqua del terzo è così bianca e netta,
Che par ch'a neve pareggiar si deggia
Quando in cima di monte ella discende,
Nè scuro turbo in suo cammin l'offende.

III

Feansi veder su l'una e l'altra sponda
Sette pallidi olivi, e sette allori,
E quattro palme, cui nudria la fronda
Tenor soave di celesti ardori;
Nè prendea sorso de la limpida onda,
Nè trapassando ingiuriava i fiori,
Nè selvaggio animal gonfio di tosco
Era unqua cittadin del picciol bosco.

IV

Ben su l'alto de' rami infra le foglie
Mirar si lascia il Pellican benigno,
Che cotanto d'amor nel petto accoglie,
Ch'ei stesso per amor sel fa sanguigno;
Guardando inverso lui canti discioglie,
Nè stancar se ne sa candido cigno,
E passer solitario a' cari accenti
Disposto è sempre e ne raccheta i venti.

V

Mirabile soggiorno; in lui riposo
Ricercando AMEDEO ripose il piede,
E di MAURIZIO sopra il dir pensoso
Appoggia il fianco ad un bel tronco, e siede;
Ma pur su l'erba, e tra le piante ascoso
Con lo sguardo infernal Megera il vede,
E tra gli orror de la gentil dimora
Pensa di far, che nol temendo ei mora.

VI

Prende fra' Turchi fuggitivi un volo,
E dove è Periandro affrena i passi;
Era costui di Boristen figliuolo,
Supremo arcier fra' popoli Circassi;
E gli dicea: se ti percote il duolo
De' nostri in guerra sbigottiti e lassi,
E dati a morte, e se nel cor disire
Ti sfavilla di gloria, odi il mio dire.

VII

Il grandissimo Duce, al cui furore
Il campo d'Ottoman venuto è manco,
In quel bosco colà trapassa l'ore
Steso su l'erba infievolito e stanco;
Or se a vera virtù risvegli il core,
Vientene meco, e gli saetta il fianco;
Senza risco il farai, ch'ei non attende
Piaga nemica, e sonno forse il prende.

VIII

Brami tu per mercede a tuo diletto
Donarsi schiava una gentil donzella,
La qual su piume d'amoroso letto
Ti sia compagna ne l'età novella?
Farò, che tu l'avrai; ma se nel petto
Chiudi disio di governar castella,
O pur su navi comandar nocchieri,
Giuro, che non fian vôti i tuoi pensieri.

IX

E Periandro rispondeva: è chiaro
Quanto la destra d'AMEDEO feroce
Fulminasse in battaglia; altro riparo
Non fu ver lui, salvo fuggir veloce;
Io, s'egli dorme, o se l'invitto acciaro
Riposar lascia, ascolterò tua voce,
E farò col vigor di questa mano
Che mi deggia pregiar l'alto Ottomano.

X

Premio de l'opra mia non fia ricchezza,
Nè con imperio vuò solcare i mari,
Nè governar città; mio cor non prezza
Il travagliar per disiderj avari;
Se mercè mi si dee, cheggio bellezza,
Onde ho tormenti, ed i tormenti ho cari,
Ed onde afflitto mi consumo in pianto,
E pur per lei del lagrimar mi vanto.

XI

Ella nacque in Bitinia, ed è donzella
Per le cui man Sultana usa adornarsi;
Chiamasi Barce, e non è turca ancella,
Che seco di virtù possa adeguarsi;
Dir, ch'ella sia gentil, ch'ella sia bella,
Che per lei d'infiniti i cor sieno arsi,
È travagliar in van, nessuno il nega;
Sì fatto guiderdon per me si prega.

XII

Ei sì dimostra il suo desire aperto;
Ma che sua voglia rimarrà gioiosa
Il demon lusingando il rende certo,
Indi lo scorge ove AMEDEO riposa;
E gli dicea: ben mille volte esperto
Fu cotesto arco tuo d'opra famosa,
Ma se con esso il gran nemico ancidi,
Arco non fia giammai, che non t'invidi.

XIII

Ecco che da noi volto il tergo espone
A strali, l'ora a saettare invita;
Trafiggi le dure ossa al fier Campione;
Io sarò teco, e porgerotti aita.
Come ha detto fin quì, ratto depone
La forma, onde al Circasso era apparita
L'aspra Megera, ed invisibil torna,
Ma pur da presso al buono arcier soggiorna.

XIV

Ed egli al disparir volve le ciglia
A le parti propinque, a le lontane,
E scendegli nel cor gran meraviglia
Sovra il pensier de l'apparenze strane;
Non per tanto di men fidanza piglia
Che sian state le voci altro, ch'umane,
E fatto lieto a saettar s'accende,
E con bramosa man l'arco riprende.

XV

A gran balena il più duro osso tolse
Il buon maestro del guerrier lavoro,
Ed in lucida pelle indi l'avvolse
D'aspro serpente, e stelleggiolla d'oro;
Saetta sì possente iniqua non sciolse
Da corda tesa sagittario Moro,
Che frale in corso non lasciasse e lenta
Lo stral, che da quest'arco il Turco avventa

XVI

Fu già stagion, che ne la Frigia terra
Fecersi ad Agasirto onori altieri,
Frequentando la tomba, ove ei si serra
Duci in quel Regno per virtù primieri;
Spronossi allor per simulata guerra;
Assalto di piacer, forti destrieri,
Ed in robusta lotta altri sudaro,
Ed inverso le mete altri volaro.

XVII

Ma fra color, ch'esercitar l'ingegno
Solean spingendo le saette a volo,
Toccò più volte Periandro il segno,
E fra cotanti ei vincitor fu solo;
Però di sì bello arco il fece degno
Anzi il cospetto de l'immenso stuolo
La destra d'Ottomano, e per tal pregio
Egli appellossi il Sagittario egregio.

XVIII

E via più che giammai con la man forte
Egli il contorce, e con più studio il tende;
Seco è Megera, e da le chiome attorte
Una disvelle de le serpi orrende,
E perchè deggia far piaga di morte
Molto di tosco in su la punta spende
Del ferro, e ferma ne l'arciero il guardo,
Menando smanie, ch'a scoccar sia tardo.

XIX

Ed ecco scocca, e contra il nobil dorso
Venia bramosa la crudel saetta,
Se non che 'n aria le travolve il corso
De l'Angel d'AMEDEO la guardia eletta,
Ben tempestivo al cavalier soccorso;
Ma l'empio stral, che per cammin s'affretta,
Ronza così, che d'ognintorno gira
AMEDEO gli occhi, e quello arciero ei mira.

XX

Salta rapido in piè, sfodra la spada,
Movegli incontro con sembianza altiera.
Che tua nobile vita allor non cada,
Buon Periandro, il divietò Megera;
Ella, mentre AMEDEO corre la strada,
L'aer condensa, e d'ombra umida e nera
Immantenente il Sagittario involse,
E quinci a l'ira d'AMEDEO lo tolse.

XXI

Quale in campagna cacciator, che infesta
Per belle corna capriol ramoso,
Pieno di disconforto i passi arresta
Se d'occhio il perde infra le selve ascoso;
Cotal sen riede a la gentil foresta
Sul caso occorso il Cavalier pensoso;
Ma rigonfiata d'infernal veneno
Dicea Megera nel terribil seno:

XXII

Che più quì mi travaglio? indarno io spero,
Il Ciel mie frodi ed i miei sforzi abbatte;
Ei più verso AMEDEO volge il pensiero,
Che madre al figlio, cui dispensa il latte;
Meglio è ch'io ver colà prenda il sentiero
Ove Ottomano i Cristian combatte,
E col suo brando a perseguir m'affanni
L'odiata gente; indi spiegava i vanni.

XXIII

Era quivi a mirar come possente
Schermo avea fatto il messaggier superno
A l'alto Duce, e se ne fe' dolente
Leviatàn mostro crudel d'inferno;
Nè forte a rifrenar l'impeto ardente,
Nè la ria furia de l'orgoglio interno,
Con occhio fosco e con sembianze accese
Incontro al buon custode a parlar prese:

XXIV

Alzate i risi, e ricolmate il seno
Di giocondo piacer; vostri desiri
In questo dì ponno fornirsi appieno:
Su, su, vostro trionfo oggi si miri;
D'Ottomano il furor tenete a freno,
E procurate a' suoi crudi martiri;
Il potete adoprar, Dio nol vi nega,
Anzi la destra, ed i suoi tuoni impiega.

XXV

Dianzi ben fur sentiti, e non per tanto
Han sì fatto vigor nostri pensieri,
Ch'al fin di Rodi miserabil pianto
Vuol ragion, che per noi non si disperi;
Di questa iniqua gente avremo il vanto,
E sì lunge trarremo i lor sentieri
Dal sentiero al gran Dio caro e diletto,
Che dargli in nostra forza ei fie costretto.

XXVI

Ed allora in un mar di sangue spento
E ne le fiamme di funesto ardore
Oh come vendicar questo tormento,
Oh come fier vuò consolar queste ore?
Gli altari in foco, e del sacrato argento
Empieransene i grembi al vincitore,
E carchi di catene i lor vestigi
Daransi i Sacerdoti a rei servigi.

XXVII

I primi infanti, nobiltate altiera;
Cresciuti in ostro, e le gentil donzelle
Piangendo in van la libertà primiera
Su strana terra condurransi ancelle;
Quivi a caldo desir di gente fiera
Esporranno il candor de le mammelle,
E con ragion portando invidia a' morti
Tra ceppi il mireran gli egri consorti.

XXVIII

Per simil guisa di Sion sul monte
I casi di costor non son famosi?
Quando del sommo Dio rivolti a l'onte
Piacendo a noi si fero al Cielo odiosi?
Quinci de' Saracin fur le man pronte
In campi aperti, e su per colli ombrosi
A perseguir de la lor fuga il volo,
E fur dispersi, e fur sommersi in duolo.

XXIX

Vide Gierusalem cader sue mura
A spessi colpi di nemici acciari,
E farsi polve per la fiamma oscura
Le torri, di sue turbe alti ripari;
Da l'altrui man non fu magion sicura,
Preda i sacri tesor, preda gli altari;
E s'impressero allor vestigia immonde
Del gran Tabor su le famose sponde.

XXX

Spasimossi ogni cor, non v'ebbe coro,
Salvo dolente, e la letizia tacque,
E sparse al vento le speranze loro,
Stesa per terra la superbia giacque;
Le legna loro essi comprar con oro,
E bevvero per oro un sorso d'acque,
E le ricchezze de la patria sede
Videro trasportarsi a strano erede.

XXXI

Così scacciati da l'amata terra
Ebbon rifugio a l'infinite pene
Quì dentro, ove AMEDEO feroce in guerra
Con la forza del Cielo or li sostiene;
Ma poco andrà, nè mia sentenza or erra,
Che vinti fuggiran da queste arene,
E per noi rubellando a vostra legge
Sdegneran Dio, ch'or li difende e regge.

XXXII

Più non diss'egli, e fe' cotal mirarsi
Che turba altrui con la terribil vista,
E con fetidi fiati arsi e riarsi
Ammorba intorno, e tutta l'aria attrista;
L'Angelo nel fulgor di rai cosparsi,
Lume che 'n cielo alma beata acquista,
Con note e con sembianze alme e gioconde
Al perverso Demon così risponde:

XXXIII

Leviatàn, per lo sentier che pensi
I tuoi consorti de l'inferno andranno;
Ma pensi tu come a color conviensi,
Che d'alcuna bontate arte non sanno;
Vostri desir, vostri furori immensi
D'avanzarsi per via forza non hanno,
Se non v'allenta al piè l'aspra catena
La gran destra di Dio che vi raffrena.

XXXIV

Di quegli antichi dì l'alta vittoria
Non è mostro infernal che non rammenti,
Ma teco volentier ne fo memoria
Per accrescere incendio a' tuoi tormenti;
Creati foste a sempiterna gloria
De l'aureo Olimpo in su le stelle ardenti,
Albergo ove sta Pace in su le porte,
Nè vi lascia appressar pianto, nè morte.

XXXV

Quivi di voi fuor di misura amanti
Il capo gonfio di superbia ergeste,
Ed i lampi ineffabili, tonanti
Armi del gran Monarca, a scherno aveste;
Il vostro duce in su gli ardor stellanti
Voleva opporsi al Regnator celeste;
Volea sì come Dio sue sedi eccelse,
Empio ver lui ch'a tanto onor lo scelse.

XXXVI

Deggioti dir, che del seren le chiare
Piagge perdeste? e ch'abbattuti e vinti
Foste nel centro giù per entro un mare
D'ardor, d'orrore e di fetor sospinti?
E se d'abisso ne le pene amare
Non giacquer vostri pregi affatto estinti,
Certo si religò vostra possanza:
Che dunque a voi per far minacce avanza?

XXXVII

D'aita i Rodïan non fian deserti,
Ma quanti spirti han de l'Olimpo i regni
A farli franchi ne gli assalti incerti
Porranno in prova i mansueti ingegni;
In ogni tempo a l'alme lor scoperti
Per voi saranno i vostri inganni indegni,
E pregherem di Dio l'alta bontate
A non gli scompagnar di sua pietate.

XXXVIII

Forse che de' celesti almi decreti
Fia, che nel mondo a torto obblio li prenda,
E che ne l'opre rie si faccian lieti
Senza prezzar di pentimento emenda;
Se schernendo i saldissimi divieti
S'indureran ne la malizia orrenda,
Allor daransi in man de' suoi nemici
Come a ministri de' divin giudici.

XXXIX

Solo è colpa qua giù del core umano
Quando sviato dal cammin superno
Al verace suo ben fassi lontano;
Malvagio nol può far tutto l'inferno;
Ma ne la pena altrui non splende in vano
L'alma giustizia del Signor eterno,
Che flagellando e tormentando l'empio,
A gli altri peccator proponsi essempio.

XL

Che dunque latri iniquo? onde dal seno
Vanamente ti scoppia il tuon de l'ire?
Inghiotti le tue rabbie, e mordi il freno,
Eterno specchio di sovran martire;
Mira ne l'alto, che lo stuol terreno
È colà succeduto al tuo gioire,
Tu ne l'oscuro Tartaro rimanti,
Ove non sa regnare altro che pianti.

XLI

Mentre così dicea l'alma beata,
Piena di gaudio e tutta luce in viso,
L'aspro Demon fiero digrigna, e guata
Su l'onda e su l'arena il campo anciso;
E certo omai, che de la gente amata
Sia per volare in Asia un mesto avviso,
Forte bestemmia; ivi confuso il lassa,
Ed al grande AMEDEO l'Angel sen passa.

XLII

Era trascorso il buon MAURIZIO intanto
Sì spedito per via verso Oriente,
Che di velocità perderia vanto
Qual cosa più sen va velocemente:
Giunse a l'almo giardin noto cotanto
Per lo gran caso de la prima gente,
In cui per tutti noi cagion di morte
Adam porse l'orecchio a sua consorte.

XLIII

Sul varco eterni messaggieri in mano
Avean spada ed ardor; gran meraviglia,
Per ciascun piede indi tener lontano;
Ma verso lor MAURIZIO a parlar piglia:
Non è s'io volo, il mio volare in vano,
E caduco pensier non mi consiglia,
Anzi vien procacciando il voler mio
Alto pregio a la legge alma di Dio.

XLIV

Ottomano de' Turchi aspro tiranno
Rodi combatte; a sue perverse schiere
Oggi ne la battaglia incontra stanno
Del fedele AMEDEO le forze altiere;
Ed egli vinto dal sofferto affanno
Vien meno a consumar l'opre guerriere,
Però velocemente a voi men vegno
Cercando, onde al guerrier porga sostegno.

XLV

Sì dice, e passa il varco, onde si serra
Quell'orto a gli occhi de' mortali ascoso,
Quell'orto, che per l'onda e per la terra,
E per l'aure del ciel sempre è gioioso;
Vedeasi fiume che trascorre ed erra
Qual puro elettro per lo campo erboso,
Creare uscendo dal giardin giocondo
I quattro fiumi celebrati al mondo.

XLVI

Ed ei soave mormorando intorno
Sveglia bell'aura per lo ciel sereno,
Sereno sì, ch'a l'immortal soggiorno
De' bei raggi del sol non mai vien meno;
Ma chi de l'erbe, onde per tutto adorno
Verdeggia il prato, narrerebbe a pieno?
Vivi smeraldi, nel cui sen cosparsi
Veggonsi alberi mille al cielo alzarsi.

XLVII

Nel mezzo de' bei campi alma sorgea
Pianta, pregio ed onor de l'altre piante,
Che ne' bei frutti suoi virtù chiudea
Da render l'uomo a non morir bastante;
Sorgea presso di lei, membranza rea
Del primo genitor poco costante,
Quella cui di gustar fessi il divieto,
Ma fu posto in obblio l'alto decreto.

XLVIII

Per varj fior tutto s'ingemma il prato,
A le cui lodi umano studio è poco,
Nè comunque rivolga il carro aurato,
Febo ne spoglia il fortunato loco;
Vile appo loro il balsamo odorato,
Ed appo lor da non fiutarsi il croco,
E fieno ombra di fior, tanto fian vinti
Uscendo in paragon, nostri giacinti.

XLIX

Di soave colore altri s'indora,
Altri splende ceruleo, altri appar bianco,
Ma pur ciascun sì vivamente odora,
Che l'umano vigor ne divien franco;
Cogliene alquanti, ed in brevissim'ora
Torna al guerrier ne le vittorie stanco,
E l'esorta MAURIZIO a fornir l'opra,
Che caro il rende al gran Signor di sopra.

L

Nè punto men di quell'odor possente
Tutto l'asperge, onde sfavilla il guardo,
E ristorato il cor nulla non sente
Del sostenuto affanno il piè gagliardo;
Con esso in paragon forano lente
Orme disciolte di veloce pardo;
E tal s'invia dove Ottomano in guerra
Più sempre acerbo i Rodiani atterra.

FINE DEL CANTO XVI.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XVI.

L'argomento postovi dall'Autore dice così: «Nel XVI un Demonio parla con l'Angelo custode d'Amedeo, e dall'Angelo gli si risponde, e si lascia confuso.»

Comincia il canto con la descrizione di un luogo amenissimo, in cui è ricoverato Amedeo. Ma il severo Cav. d'Urfè non si lascia vincere dalle delizie poetiche; e rimprovera il Chiabrera nella forma seguente: «Il y a peu d'apparance en la description du lieu qu'Amedee trouve, estant si beau, si delicieux, et tant de beaux arbres et telle quantité d'oyseaux si rares, n'y ayant apparance qu'ou les armees si grandes sejournent les lieux soient si bien conservez et le oyseaux si prives.» È censura da non dispregiare.

Simil giudizio parmi che si possa pronunziare sopra l'osservazione che siegue; cioè non essere cosa dicevole che nel tempo che gli altri combattono, un Cavaliere sì grande e sì prode, si riposi in ameni boschetti. E vana è la scusa della stanchezza di Amedeo; perciocchè s'egli poteva correre con prestezza dietro all'arciere nemico ch'era venuto di soppiatto a ferirlo con saetta, non era così stracco da non potere andarne al campo, dove la sua presenza doveva essere di momento grandissimo alla vittoria. Finalmente S. Maurizio ch'era ito nel paradiso terrestre a provvedere di che ricreare le forze del Duca, poteva così ristorarlo nel luogo della pugna, come nel bosco dilettoso.

La terza ed ultima censura dell'Urfè sul canto XVI sarà qui trascritta letteralmente: «Le (sic) discours de l'Ange custode de Rhodes et de Leviatan le demon sont si longs qu'ils tiennent une grande partie de ce chant; et je ne say pourquoy il donne au demon le savoir de prophetiser la peste qui est depuis avenue a Rhodes, veu que les Demons ne savent point les choses futures.» Quanto è della lunghezza de' ragionamenti tra l'Angelo e il Demonio, ha ragione il Censore; formando essi la parte maggiore del canto; e si può vedere dall'argomento qui sopra riferito, che il Chiabrera medesimo in quel dialogo riponeva la somma di questa parte del poema. Non deggio egualmente lodare l'Urfè dell'avere negato che il Demonio potesse predire la peste, che non tardò molto a palesarsi in Rodi. I Teologi concordemente attestano che gli Angeli rubelli, perduta la grazia e la gloria, non perciò rimasero privi del dono dell'intelligenza che conviene agli spiriti. Questa dottrina è notissima, e il proverbio volgare—ne sa più del diavolo—per accennare una somma acutezza d'ingegno, esprime appunto la dottrina delle scuole teologiche. Nè il predire una peste vicina è da dirsi profezia; perchè tal flagello ha le sue cause in disposizioni naturali, che il Demonio conosce meglio e più presto che l'uomo: e quantunque ogni pestilenza si debba riconoscere come un flagello permesso o mandato da Dio a nostra punizione, cotal dottrina verissima non toglie che la causa prossima e materiale non si deggia trovare o nel cattivo nutrimento, o ne' miasmi, o in altre disposizioni sì all'uomo interne, com'esterne; di che lasceremo il discorso a coloro che professano la medicina.

N. B. Alla st. 13, v. 6. nella stampa si legge il Circasso; è un errore materiale che abbiamo corretto, mettendovi al Circasso.

Nella st. 24, v. 6 si legge «e procurate a' suoi crudi martiri.» Quel suoi è mal collocato, oscurando il senso: suoi vuol dire gli uomini di Ottomano.

Al v. 5 della st. 44 si leggeva vinto del sofferto affanno: abbiamo stampato dal per maggior chiarezza, ed anco esattezza.

CANTO XVII.

ARGOMENTO.

Rompe le fila de' cristiani armati,
Ed opre Ottoman fa d'alto valore;
De' Saracini stan le Furie a' lati,
E van crescendo a' colpi lor vigore,
Nè minor prova i cavalier crociati
Fanno dell'armi nel marziale ardore;
Chè Folco, e Astor Baglione in varj modi
Vanno allori cogliendo a pro di Rodi.

I

Già spento il campo, o per fuggir disciolto
Stato saria; ma ne la sorte rea
Che 'n ritonda battaglia ei fosse volto
Il saggio Folco comandato avea;
In cotal guisa raggirando il volto
Con lunghissime picche ei difendea
Per la vittoria a l'inimico i varchi,
Esposto solo al tempestar de gli archi.

II

Tre fiate Ottoman con man ferrata
Di fulgida asta il corridor sospinge,
E tre fiate quella selva armata
D'acutissimo ferro il risospinge;
Quivi Aletto di rabbia arsa infocata
Pure al soccorso d'Ottoman s'accinge,
I metalli sì folti ella dirada,
Ed egli corse ed occupò la strada.

II

Allenta il freno, e su le turbe spente
Del rapido destrier punge la pancia,
Ed al guardo de' popoli fremente
Mostra la punta de l'orribil lancia;
Ora de' Rodian tronca la gente,
Or d'Italia, or di Spagna, ora di Francia,
E pieno il cor d'inestinguibile ira
Cento braccia a lor morte ei si disira.

IV

Nato in Narbona il buon Danese ancide
Piagato in fronte, indi Gusmano atterra;
L'ampia Siviglia il crebbe; ei gli recide
Le ciglia e gli occhi in tetro orror gli serra;
Grison, cui par Sebeto unqua non vide
In maneggiar corsieri incliti in guerra,
Lacerato le fauci anco trabocca,
E sangue e denti gli cadean di bocca.

V

A l'Anguisciola altier rifulse in vano
Il biondo crin per impetrar salute,
Nè per Baldi fermar l'orrida mano
Le lunghissime chiome omai canute;
Scannati entrambo insanguinaro il piano.
Sospirò di colui l'alta virtute
Piacenza in riva il Po, l'ermo Appennino
Pianse costui là, 've s'estolle Urbino.

VI

E gridava Ottomano: ite, mal nati,
Ove celebra Amor dolci imenei;
Ite sparsi di fior, d'ambra odorati,
A giocar canne, a passeggiar tornei;
Non son per vostra man brandi affilati,
Nè sanguinosi acciar; vostri trofei
Sono in danza apparir con chiome attorte;
Quì conviensi incontrar piaghe di morte.

VII

Così gridando in su l'arcion sen vola
Riarsa di furor l'alma sdegnosa,
E ne la man, che tante vite invola,
L'acerbissima lancia unqua non posa;
Tratta appena egli l'ha da l'altrui gola,
Che 'n fondo a l'altrui petto ei l'ha nascosa;
E su monti d'estinti e di feriti
Saltando il buon destrier spande i nitriti.

VIII

Crolla gli orridi crini e i passi volve
Con guardi accesi calpestando intorno
Sì ch'omai carco di sanguigna polve
Le gemme oscura, onde fiammeggia adorno;
Godene Aletto, e di fulgor l'involve
Torbidamente, e seco fa soggiorno
Fremendo, urlando, e diffondendo a' venti,
Suono infernal di spaventosi accenti.

IX

Etna s'avvampa da la tomba oscura
Sembrò 'l rimbombo che dal mostro usciva,
Mugghionne il monte, ne tremar le mura,
Scossesi il suol de la marina riva;
Quì palpitante di percossa dura
Agaffino sul suol già si moriva,
Molle e tinto di sangue e petto e chiome,
Pregio non scuro de' Solari al nome.

X

Nacque in Piemonte, e presso il Po, là dove
Volve non grande ancor la nobile onda,
Comandava a Moretta, onde non move
Vaga di sì bel pian Cerere bionda;
Ma disioso d'onorate prove
Si tolse a l'ozio de la patria sponda
A ciò che fra' mortali oblio nol copra,
E comprò gloria con mirabile opra.

XI

Magnanimo garzon l'angoscia vinse
De l'aspre piaghe, e raccogliendo in seno
I fuggitivi spirti un'asta strinse
Col vigor de la man, che venia meno,
Ottoman passa, ed ei l'acciar sospinse
Nel ventre al corridor; pon sul terreno
Tosto le piante il fier tiranno e rugge,
Ma dal buon vincitor l'alma sen fugge.

XII

Scorse la prova di virtù ben chiara
E di memoria singolar ben degna
Ercole Pio, che la gentil Ferrara
Diede di Rodi a la sacrata insegna:
Ed onde meglio a guerreggiar s'impara?
O chi valor più vivamente insegna?
Volto al fiero Guglielmo ei sì favella,
Che Modenese de Rangon s'appella.

XIII

Ed ei: se morto omai fece ritorno
A' duri assalti, ed illustrò sua fede,
Qual non sarà per noi picciolo scorno
Ove da' rischi si ritiri il piede?
Oh d'un sì fatto ardir mio nome adorno
Vada volando a la paterna sede,
Sì che talor membrando armi e furori
Con meraviglia il cittadin m'onori.

XIV

Sì dice; e sparso d'ardimento il ciglio
Contra l'empio nemico il petto accende,
Lento non più che volator smeriglio
Che su drappel d'alodolette scende;
Nè meno ogni altro nel mortal periglio
Porge a vicenda i belli essempi e prende:
Anzi a la patria procacciando aiuto
Timassarco movea benchè canuto.

XV

Ben del vecchione altier l'aspro sembiante
Seco ha stranio terror, ma le ferite
Non san poscia onorar la man tremante,
Ch'aria piagando se ne van smarrite;
Pur fermando in sul suol salde le piante
Solleva giù dal cor parole ardite,
E dice ad un ch'a lui vicino è fermo,
Ed era lume del real Palermo:

XVI

Fu Valguarnera, ei con faretra al tergo
Arco tendea, che formidabil suona,
E spingea stral, cui non reggeva usbergo;
A costui Timassarco alto ragiona:
Se la virtù, c'ha nel tuo core albergo
Felicità di stral non abbandona,
Sì che trabocchi il gran nemico a terra,
È tua la palma di sì nobil guerra.

XVII

Che dunque badi? e quei risponde ardito:
Tre dardi ho spinti i più crudeli e fieri,
Ma fu da tutti il mio pensier tradito;
Di questo quarto non so ben, che io speri;
Così dicendo fa volar spedito
Quadrel non vile infra maestri arcieri;
Ei ratto andava ad Ottoman nel petto
Ma s'interpose e traviollo Aletto.

XVIII

In quel momento formidabil voci
L'orride squadre d'Acheronte alzaro,
E dal soccorso lor fatti feroci
I Turchi al fine il Rodian sforzaro;
Per l'abbattute picche entrar veloci
Lasciando gli archi, ed impugnar l'acciaro
Con forte man de le ritorte spade,
E piagando correan per varie strade.

XIX

Alto crollando de le piume sparte
I gran cimier su la velata testa
Bostange, Alcasto, e 'l non minor Giassarte
D'uccider mai, mai di ferir non resta;
E quinci appar di sanguinoso Marte
Più crudele sembianza e più funesta,
Di ferri scossi più terribil suono
Più minacciar, più dimandar perdono.

XX

Tra' ferri intanto, e ne l'incendio fiero
De i cor sdegnosi, e tra i superbi accenti
In quella parte, ove più Folco altiero
Co' suoi contrasta a le nemiche genti,
Ragionava Georgo al crudo Alcmero:
Io veggio i Turchi in guerreggiare ardenti
Per modo tal, che la vittoria in breve
Per l'eccelso Ottoman sperar si deve.

XXI

Esposti al ferro ed al furor de l'ire
Ecco sul campo i Rodïan son sparsi
Senza riparo; omai fuga, o morire,
E cosa altra di lor non può sperarsi;
E non senza ragion: soverchio ardire
Sì poco stuolo incontra tanti armarsi,
Ben de i duci nel cor virtù s'avanza,
Ma che? tutto non può mortai possanza.

XXII

Però se prova ne lusinga il core,
Onde nostra memoria in pregio saglia,
Quì con la spada in man non perdiam l'ore,
Che se ne corre a fin l'aspra battaglia;
Co' proprj Turchi, singolare onore,
Alcasto fier noi peregrini agguaglia
Sotto l'insegne, e d'Ottoman l'altezza
Non scarsamente i nostri nomi apprezza.

XXIII

Di cotesto arco, ove leggiadro ingegno
Non poco smalto in adornarlo spese,
Ei di sua propria man ti fece degno;
A me di questa spada ei fu cortese;
Su questi detti ad irritar lo sdegno
De i cavalier ne le guerriere imprese
Colà Bostange trascorrea veloce,
Ed in verso quei duo sciolse la voce:

XXIV

Per tutto infra le squadre omai festante
Al ciel de la vittoria il grido ascende,
E quì di fuggitivi hassi sembiante?
Qual entro a' vostri cor viltà s'accende?
Chè non volgete a ben fuggir le piante
Se le ferite a voi sembrano orrende?
L'altissimo Ottoman stendardi spiega
Per chi sua vita a la virtù non nega.

XXV

Udendo Alcmero il ragionar pungente,
Di disdegno turbò l'aspra presenza,
E rispondea: cosa rivolgi in mente?
E qual di favellar pigli licenza?
Serba tai modi per la vulgar gente,
Perchè con esso me poi farne senza,
Che da lontano a guerreggiar mi mena
Mio libero voler su questa arena.

XXVI

Io nacqui in Libia, ove cocente arsura
Di fortissimo sol percola i liti,
E corsi i campi, e non mi fean paura
Ira di tigri, o di leon ruggiti;
Nè di là vegno a la milizia dura
Perchè ricchezza d'Ottoman m'inviti;
Oro di duce alcun non può comprarmi,
Onor m'appaga ed ei m'invoglia a l'armi.

XXVII

E quì forse d'Anteo la gloria intesa,
E che di lui grido immortai ridica?
Eccelso lottator, la cui contesa
Già fu d'Alcide non umil fatica?
Di sì gran stirpe mia famiglia è scesa;
Ed io non macchio la memoria antica:
Col ferro in pugno ad ogni incontro io basto;
E se son tal racconterallo Alcasto.

XXVIII

Sì parla il Moro e mira il Turco in volto;
Ed ei de l'ire sue fattosi accorto
Dicea: qual d'uom che si disdegni, ascolto
Le voci tue, ma ti disdegni a torto;
Che dove il capitan fra 'l popol folto
A l'opre militar porge conforto,
Non fa vergogna altrui, s'aspro ragiona,
Anzi co' biasmi a la vittoria sprona.

XXIX

Godo, che lo splendor d'alto legnaggio
Sì come affermi a la virtù ti tiri;
Ora al pregio de' tuoi non fare oltraggio,
Ma fa, ch'al sommo de la gloria aspiri;
Favellato fia quì segue il viaggio,
E nel campo Ottoman sveglia i desiri
De la vittoria in ogni cor guerriero;
Parla in tanto Georgo al forte Alcmero:

XXX

Mira di quì poco lontan, là dove
Con le mie dita a gli occhi tuoi fo segno;
Mira il canuto Cavalier, ch'altrove
Non fu per noi veduto anco il più degno;
L'alto sembiante e l'armi sue son prove,
Ch'egli ha di Rodi in suo governo il regno,
Ed argomento ne fa certo ancora
Il drappel dei guerrier, che sì l'onora.

XXXI

Tendi ben l'arco e su la corda incocca
La freccia più mortale impiagatrice,
Chè se per tua faretra egli trabocca
Farai con un sol colpo Asia felice.
Come a Georgo riserrar la bocca
Alcmer discerne, ei la riapre e dice
Rivolgendo le ciglia al ciel superno
Inverso di Maccon, nume d'inferno:

XXXII

Se la percossa, che nel petto invio
Al Re di Rodi, per cammin non erra,
Ma fatta ubbidiente al desir mio
Trapassandogli il cor morto l'afferra,
Maccone, a te tutte le spoglie, ed io
Per te dirommi fortunato in guerra,
Appenderotti la faretra e l'arco,
Ora del tuo favor non m'esser parco.

XXXIII

Tacque, e per gaudio gli sfavilla il guardo,
E giù nel petto il cor gli si commove,
E lo strale più reo sceglie non tardo,
E n'arma l'arco a le bramate prove;
E perch'a morte ei vada, il crudo dardo
Piantar nel cavalier guarda ben dove;
Poi la piaga volar per l'aria lassa,
Ma dal guerrier da lunge ella trapassa.

XXXIV

Sfodra la scimitarra, indi si scaglia
Rapido inverso Folco; ei lo rimira,
Ed incontrato per la via gli taglia
La fierissima man che l'arco tira;
Nè però dà riposo a la battaglia,
Ma gli squarcia i polmoni, ond'ei respira,
Alcmer feroce in fra le pene estreme
Verso Georgo così parla e freme:

XXXV

Ah che de la mia vita il tempo è corso,
E di me la memoria mi tormenta;
Però squarciami il cor, dammi soccorso
Contra la morte ch'a venirne è lenta.
Allor Georgo: ed a che dir sei corso?
Parti ragion, che tai parole io senta,
Ch'offenda te, che te di vita io privi?
Io, ch'amo il viver mio perchè tu vivi.

XXXVI

Rinfranca l'alma; le ferite dure
Condurransi a salute, anco sperarsi
Ben lece onor ne le stagion future;
Chè non è biasmo un cavalier piagarsi.
Alcmer crucciato e con sembianze oscure
Altamente gridava: in chi fidarsi
Deve oggi l'uom, s'egli trabocca in fondo?
Ah che qua giuso è tutto froda il mondo.

XXXVII

Non ho più scampo alcun, meco dimora
Non può far l'alma, ed io riprego in vano;
E perch'afflitto e con angustie io mora
Ecco mi nega un mio fedel sua mano;
Orsù rimanti e non m'udir, ch'or, ora
Verrammi a quì scannar ferro cristiano;
E sotto i colpi lor mi vedrai steso,
E non estinto sol, ma vilipeso.

XXXVIII

Se pur verrammi tal miseria, attendi
Che da l'ombra infernal spirto sdegnoso
Deggia apparirti, e con sembianti orrendi
Mai, nè notte, nè dì, darti riposo.
Georgo rispondea: chiaro comprendi
Se de le pene tue vivo doglioso,
E se tolto da te la vita ho cara,
Da questa mia percossa oggi l'impara.

XXXIX

Nè pose fine al dir, che dentro al seno
La cruda spada per lo core immerse
In fino a l'ultimo else, e sul terreno
Di caldo sangue un largo fiume aperse;
Ed indi a poco infievolito a pieno
Alcmer d'ombra mortal si ricoperse;
Nè su quel punto si faceano altrove
Con ferro atroce meno orribil prove.

XL

Era pugnando il fier Baglione intanto
Fra i turchi acciar di sua salute incerto,
Il cimier scosso, traforato il manto
E l'ampio scudo in cento lochi aperto;
Ma barbaro guerrier non ebbe vanto
Che 'l nobil volto di pallor coperto
Men minacciasse col terribil guardo,
O fosse il brando ad impiagar più tardo.

XLI

Crudo al popolo avverso, e a i duci loro
Apparìa di Perugia il novo Marte,
Quando a lui non lontan giunse Medoro,
D'onorato Imeneo nato a Giassarte;
Egli del pel, ch'esser dovea fin'oro,
Non mostrava le labbra anco cosparte,
Che visto avea d'april l'aura serena
Destare i fior diciotto volte a pena.

XLII

Ebbe per madre Aspasia; ed ella nacque
Del ricco Erimedonte, alto Signore
La, 've 'l monte Sigeo bagnano l'acque,
Cui fama dier l'Agamenonie prore;
Quivi nato a Medoro altro non piacque,
Salvo foreste e boschereccio orrore,
Ed ivi al fier cinghial tessere aguati,
E di molossi fier sentir latrati.

XLIII

Spesso al garzon contra le belve errante
Mostrato fu ne la montagna Idea
L'antica valle, ove di bel sembiante
Il pregio diessi a l'Acidalia Dea;
E spesso rimirò l'ombrose piante
Ove il nome d'Enon Pari scrivea,
Ed ove colma il cor di rei tormenti
Ella pianse la fè dispersa a i venti.

XLIV

Ma sì fatte d'umor memorie antiche
Dentro il seno del tempo anco ben chiare,
Benchè per uso a gioventute amiche,
Al giovinetto cor poco eran care;
Ben, se mai giunse ne le piaggie apriche
Ove Scamandro se ne corre al mare,
Ei chiedeo, come ardesse, ed in qual loco
L'armata argiva per l'Ettoreo foco;

XLV

Spiò, volgendo in petto alti pensieri
De l'altiere battaglie al suono inteso
Ove, mirabil preda i gran destrieri
Tolse Diomede e diè la morte a Beso;
Ove di Licia tra' miglior guerrieri
In terra Sarpedon giacque disteso,
E dove da Nettun si fece audace
Scampo de' Greci il Telamonio Aiace.

XLVI

Fra tai vaghezze in essercizj duri
Gli anni afforzava de l'inferma etate,
Quando il grande Ottoman trombe e tamburi
Fe' passeggiar per le provincie armate;
Quì reggendo ei, come ciascun procuri
Terger le spade e le saette alate,
E gli scudi indorar, fra tante squadre
Armarsi volle, e seguitare il padre.

XLVII

Ned ei glielo contese; anzi bramoso,
Ch'egli per tempo di valor s'adorni,
Diello in guardia a guerrier, che glorioso
Tra bei sudori ha trapassati i giorni;
Coimbro ei s'appellò, tra monti ascoso
Ei facea riposando i suoi soggiorni,
Già canuto le chiome, e per Giassarte,
Come buon servo, ridonossi a Marte.

XLVIII

A' cenni di costui le piante volve
Medor, nè de la morte avea spavento;
Ma tra gli scossi acciar sparso di polve
Oggi più che giammai mostra ardimento:
Entro giubba di seta il busto involve
Sciamito azzurro, ove serpeggia argento
Ogni parte trapunta in fino al lembo
Di gemme colte a l'Eritreo nel grembo.

XLIX

Sotto vago cimier ch'alto risplende
Per piume, onde airon videsi alato,
La fronte giovenile orna e difende
Sopra le chiome d'or feltro dorato;
Giù da cinto di smalti il brando pende
Ed ha ne la sinistra arco lunato,
E la faretra gli sonava al tergo,
D'acuti strali singolare albergo.

L

Dentro sì ricca pompa egli s'avanza
Correndo fier tra l'affannate genti;
Di leon giovinetto avea sembianza
Non molto esperto a disbranare armenti,
Ma che sentendo ognor più gran possanza
Crescer ne l'unghie e ne gli orribil denti,
Vagheggiando i gran velli aspro minaccia,
E va tra' boschi a riprovarsi in caccia.

LI

Tal fu Medoro, e nel Baglion guardando,
Assaltarlo da presso ebbe desire,
E già stringea ferocemente il brando
Quando Coimbro intepidì quelle ire:
Lascia, diss'ei, tanta vaghezza in bando,
Che per tua man questo è soverchio ardire,
Spesso in guerra a morir la gloria alletta;
Non l'appressar, ma di lontan saetta.

LII

Ed egli ascolta, e non ascolta in vano,
Che tendea l'arco e non moveva il passo.
Astorre il vide, ed inchinò la mano
Verso il terreno, e sollevonne un sasso,
Un sasso tal, ch'altri levar dal piano
Male oserebbe e non venirne lasso,
E l'alto cavalier tal se ne affanna
Qual farebbe in lanciar tronco di canna.

LIII

Vola la rupe e per lo voto calle
Ronza feroce, e tutta l'aria scote,
E nel corso bramato ella non falle,
Che 'n mezzo al petto del garzon percote:
Ei crolla e sul terren batte le spalle,
E di freddo pallor tinge le gote,
E vicino a morir singhiozza sangue,
E cade l'arco da la man che langue.

LIV

Forte al suo traboccar Coimbro stride;
E su quel punto ecco Giassarte apparse,
E su la piaggia riversato il vide,
Ed alto di pietate incendio l'arse;
Se la forza del duol quì non l'ancide,
Dic'ei, mediche man non gli sian scarse;
Coimbro, a la tua fede oggi ne caglia;
Chè me chiama a pugnar l'aspra battaglia.

LV

Posto quì fine al dir stringe la spada
Ricoprendo d'oblio la propria pena,
Ed eccitando i suoi prende la strada
Ove furor contra il Baglione il mena;
Toro sembrò, ch'arso d'amor sen vada
Con adirato piè spargendo arena,
Quando il corno arrotando empio si sdegna,
Ed inverso il rival move l'insegna.

LVI

E di sì torbida ira il cor bolliva
Sotto il caldo del dì, ch'ei non sofferse
I fregi, onde la fronte alto guerniva,
Ma via scagliolli infra le turbe avverse;
Allor fiero da gli occhi incendio usciva,
E le chiome sul collo ivan disperse,
E soffio d'aura ne venia coprendo
In parte il volto e più faceasi orrendo.

LVII

Gridava alto il Baglion: gente diletta,
Chi stringe il brando? o chi la picca afferra?
Questa è battaglia sacra, oggi n'aspetta
Gloria nel ciel, se non vittoria in terra.
Per questi detti infra Cristian s'alletta
Novello ardire e s'inaspria la guerra;
Ma d'altra parte divenendo atroce,
Più che non suol, Giassarte alza la voce:

LVIII

Domaste l'Asia, ed i superbi regi
Condannaste a soffrir dura catena?
Coglieste là di tante palme i pregi
Per dissiparli quì su questa arena,
O d'Orïente vincitori egregi,
Ove viltate, ove timor vi mena?
Non vi cal d'Ottoman? così dicea,
E quinci orrenda la battaglia ardea.

FINE DEL CANTO XVII.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XVII.

Il Poeta diede a questo canto l'argomento che siegue: «Nel XVII si narra la battaglia fra Ottomano e' Rodiani, mentre Amedeo era contra Turchi in riva al mare.»

La prima censura del cav. d'Urfè cade sopra un punto di tattica militare. Perciocchè vedendo Folco, Gran Mastro di Rodi, che i suoi erano per trovarsi disciolti e costretti a fuggire, ordinò che formassero un cerchio, ossia una battaglia ritonda, e che mostrando il volto rispingessero colle picche l'assalto de' nemici. È facile il vedere, che la battaglia ritonda si assomiglia (mutata la figura) al bataillon carré de' tattici moderni. Ora sentiamo l'osservazione del critico: «il dit que Foulques avait fait un bataillon de touttes ses gens tout entourné de piques et en rond, de telle sorte que rien ne le pouvoit offancer que les fleches: et touttes fois il dit qu'Ottoman a cheval en tue un grand nombre. Il samble qu'il y aye en cela de la contradiction.» Ma veramente il poeta attribuisce ad Aletto l'aver aperto quella selva di picche per dar luogo ad Ottomano d'entrare nel battaglione ritondo, e fare scempio de' Cristiani; cossicchè non vi ha errore d'arte militare.

Aggiunge l'Urfè non essere costume del Gran Signore de' Turchi l'entrare in battaglia, salvo il caso che v'abbia pericolo d'una grande sconfitta; e che perciò non doveva il Poeta far combattere Ottomano in uno scontro, dove non era periglio sì grande. Parmi che il censore sia troppo severo: a' poeti si debbono dare consigli e precetti, non porre le pastoje.

Sottigliezza, non verità, ravviso nell'altra censura del cav. d'Urfè; dove riprende il Chiabrera per aver fatto che una saetta indirizzata da Valguarnera ad Ottomano, fosse traviata per cura d'Aletto (st. 17):

    «……. fa volar spedito
    Quadrel non vile infra maestri arcieri;
    Ei ratto andava ad Ottoman nel petto;
    Ma s'interpose e traviollo Aletto.»

Ciò non è possibile, dice l'Urfè, per non avere il Demonio cotal possanza; e se il Poeta intendeva imitare Omero, dovea ricordare che nel Greco sono Dei che fanno di sì fatti portenti, non sono demoni. Ma secondo la volgar credenza sull'arte magica, uno spirito infernale poteva operare cose troppo maggiori che non è il deviare una saetta dalla mira cui l'indirizza l'arciere.

Con migliore avvedimento scrive il Censore le parole seguenti: «Le discours d'Alcmar et de Giorgo est trop long et le poete fait quee Giorgo se tue sans raison, car ne voyant point son ami encores mort, il devoit le porter en lieu, ou il le peut faire panser, et s'il mouroit il luy eust esté alors plus permis de se tuer pour la perte de son amy, ou pour le suivre.» Non perciò approvo che Georgo potesse uccidersi per seguitare il suo amico; ma, come già dissi, l'Urfè era scrittore di Romanzi, e la virtù romanzesca non è la verace.

L'ultima censura non mi piace, dando colpa al poeta di ciò, onde altri dovrebbe lodarlo; stantechè accennando il Chiabrera la patria e la casa de' guerrieri si spianava la via ad onorare città e famiglie. »Alors qu'il nomme quelqu'un, il dit d'ou il est et quel il est et commant venu en ce lieu, ce qui interromt infiniment le discours; c'est pourquoy si ce n'est pour un ou deux dans tout un livre, les poetes ont accoutumé d'en dire fort peu en leur propre personne, mais la font dire par d'autres, ou aux revues generalles ou en quelque autre occasion.

CANTO XVIII.

ARGOMENTO.

Racconta a Dardagan Panta ferita,
Che per Alfange vendicar ne muore.
Egli della donzella a se gradita
Sente novella; dove il guida amore
Corre a cercarla, e quella trova in vita.
A lui promette Berenice il core,
Se dona morte al sommo Duce Ispano;
Ed egli tosto il fa cadere al piano.

I

Quivi da l'armi e da lo stuol più folto
Fuggia Seleuco scolorito in faccia
Verso le mura; e pur sul piè disciolto
Fier Dardagan ne la vil fuga il caccia,
E da se per la via lunge non molto
Vede un guerrier, ch'impallidito agghiaccia
Versando sangue, ed irrigando il piano,
Dal braccio, onde recisa era la mano.

II

Siede in sul suolo, et ad un tronco annoso
Di salvatica quercia appoggia il fianco,
E mal reggeva, a rimirar pomposo
Per grande ala di cigno il cimier bianco;
Or visto Dardagan, nel cor doglioso
Gli spirti aduna, che venian già manco,
Indi la lingua nel gran duol dispiega,
E che s'arresti ad ascoltare il prega:

III

Guerrier, se di Maoma il nome adori,
Deh per un tuo consorte il corso affrena,
Chè se teco disfogo i miei dolori,
Sarà men grave del morir la pena.
Ed ei rivolto de le spoglie a gli ori,
Ed a l'angoscia che a morire il mena,
Vinto da la pietà rompe il cammino
Ed a l'egro Campion fassi vicino.

IV

E così gli dicea: sgombra l'affanno,
Che per te non mortal fia la ferita;
E prendi a dir; tuoi desideri avranno
Di vera fede ogni cortese aita;
Qui l'altro fra' sospir ch'al ciel sen vanno
Lentamente soggiunge: odio la vita;
E come sian miei detti al fin venuti,
Non mi saprai dannar, ch'io la rifiuti.

V

Caso dirò, che di tacersi è degno;
Ma perc'ho di morir fermato in mente,
Per mio conforto a favellarne vegno;
Dunque presta al mio dir l'orecchie attente:
Ebbi per patria di Panfilia il regno,
E nacqui in Perga di ben nobil gente,
Donna di gran tesor, Panta è mio nome,
Or moro in Rodi, e narrerotti come.

VI

Reggeva Alfange de le genti armate
In quei paesi a suo volere il freno,
Alfange, a cui ciascun d'alta beltate
Negò trovarsi paragon terreno;
L'alme sembianze, e da ciascun lodate,
Appena viste io pur lodai non meno,
Ed a la vita mia d'aspro tormento
Ciò fu cagion, ma non però men pento.

VII

Un dì d'april, che la stagione acerba
Sen fugge, ed è del Sol più chiaro il lume,
Per le campagne io mi godea su l'erba
L'odor de' prati al mormorar d'un fiume;
Ed ecco in pompa di tesor superba,
Ed in sembianza oltra l'uman costume
Alfange a gran destrier lentava il morso,
Seguendo l'orme d'un bel cervo il corso.

VIII

Ornavano con frange il busto altiero
Su ceruleo tabì nastri gemmati;
Ed in faretra custodiva arciero
Scherzo de le sue man strali ferrati;
Spandea fuor de la bocca il buon destriero
Forte i nitriti e da le nari i fiati,
Falbo di manto, e riposava appena
I piè non stanchi in su l'erbosa arena.

IX

Ma sul volto, onde pel non anco usciva,
Infra gigli fiorian rose novelle,
E da lo sguardo sfavillar sì viva
Luce vedeasi, come in ciel due stelle;
Parean di sua beltà la bella riva
E la bell'onda divenir più belle,
E l'aura vaga gli volava intorno
A far più l'oro de la chioma adorno.

X

A tanta vista io mi rivolsi, e stretto
Tenere il fren non valsi a' miei desiri
Sì, che da me rubella uscì dal petto
L'anima tra gli affanni e tra i sospiri,
E, come dir non so, provai diletto,
E ne l'istesso tempo anco martiri,
E pianti sparsi, e trasformai sembiante
In gran pensieri ora arsa, ora tremante.

XI

Al fine io seco di sposarmi elessi,
Quinci l'immense mie ricchezze offersi,
Ed esposi ver lui preghi dimessi,
Nè furo i suoi pensier da' miei diversi;
Degnommi in somma; ma quei giorni istessi
Erano i duci d'Ottoman conversi
A l'assalto di Rodi, ond'egli pose
Indugio a terminar l'opre amorose.

XII

Così sarpossi, e l'ampie vele alzaro
Lunghi nel mare a ritentar viaggi;
Allora in Asia m'apparì men chiaro
Il Sole, e foschi rimirai suoi raggi;
E solo a' sensi miei vita serbaro
I mandati da lui spessi messaggi,
E col pronto pensier la rimembranza
E la sì cara a gli amator speranza.

XIII

Ma pur le ciglia lagrimose e meste
Portai mai sempre; e vaghe piaggie e liete
Furonmi lassa a rimirar moleste,
Nè da' sonni notturni ebbi quiete;
S'a te l'armi d'Amor son manifeste,
O mai cadesti a l'invisibil rete,
Non mi saprai negar, che non sia forte
Di lontananza il duol come la morte.

XIV

Che far dovea? de le guerriere imprese
Il fine aspetto? la dimora è rea;
Vadone a lui? se mi partia, palese
Vario contrasto apparecchiar vedea.
In cotale stagion dunque si prese
Il consiglio per me, che rimanea;
In militari spoglie io mi rinvolsi,
Ed a la vecchia madre indi mi tolsi.

XV

Chiara di sangue una compagna sola
Eleggo taciturna a mio conforto;
Dassi de' remi in acqua, il legno vola,
Giungo di Rodi lietamente in porto;
Quì d'Alfange dimando, altra parola
Misera non udii, salvo egli è morto;
Ah fossi stata sorda e stata muta,
O sommersa nel mar pria che venuta.

XVI

Velasco, duce de le torme ispane,
Crudo il trafisse; io di morir fermata
Tutto oggi seguitai l'arme ottomane,
Ed era meco la compagna armata;
Fu nostro voto ritrovar quel cane
E co' denti sbranar la carne odiata,
Ed il sangue succhiar de l'empie vene,
E per tal guisa vendicar mie pene.

XVII

Ma ci provammo in van; scura mia vita,
Chè de gli afflitti non ha ben la speme;
Pugnai, ma come vedi empia ferita
E le mie forze, e le mie membra ha sceme;
Così carca di pena aspra infinita
Corro languendo inverso l'ore estreme;
Pur del punto mortal prendo diletto
Che porrammi d'Alfange anzi il cospetto.

XVIII

Così diceva, ed inchinò la fronte
Di dolor grave; e Dardagano allora,
A cui di lei le dignità son conte,
Dolce risponde, e quanto può l'onora:
Donna, mie voglie a te servir son pronte,
Di Panfilia nel regno io fei dimora,
Et ad Alfange il bel vissi devoto,
Fui seco in Perga; non parlasti a vôto.

XIX

È ver che su le mura ei cadde a terra,
Ma cadde carco d'onorati fregi,
E sì fatto morir non spiacque in guerra
In alcun tempo ai sommi Duci e Regi:
Or per segno d'amor, ben che sotterra,
Certo ei non vuol che con la morte il pregi
Rompendo in sul fiorir tuoi giorni acerbi,
Ma che tu viva, e sua memoria serbi.

XX

L'ignota fuga da natii paesi,
E dentro Rodi aver fermato il piede,
Non ti perturbi il petto; alme cortesi
Potran forse biasmare atto di fede?
Tal con accenti di pietate accesi
L'afflitta donna a consolar si diede
Frodando in parte sue miserie; ed ella
Ostinata a morir così favella:

XXI

Di duo desiri la speranza avrei
Cara morendo, ch'a le patrie genti
S'esprimesser veraci i desir miei;
E questi in guerra ch'io soffrii tormenti;
Forse andranno colà d'infamia rei
I miei pensier ch'ebbi d'amore ardenti,
S'a mio danno avverrà, ch'amica lingua
A l'orecchie d'altrui non li distingua.

XXII

E pur da me ne la battaglia dura
Fu la compagna mia dianzi divisa;
Or chi le narrerà l'aspra ventura
De le mie piaghe? ch'io rimasi ancisa?
Deh ritrovarla, o Cavalier, procura,
Se sei pietoso, e del mio duol l'avvisa:
Perchè de la compagna almen si dolga
E le misere membra indi raccolga.

XXIII

Ha purpureo cimier, purpurea vesta
E ne lo scudo l'immortal Fenice;
Senza destrier co' piedi il suol calpesta;
E nacque in Perga; il nome è Berenice.
Qui subita d'amor calda tempesta
Sorge nel petto a Dardagano, e dice:
Non morir, no, le mie preghiere intendi,
Salva te stessa, ed a sperare apprendi.

XXIV

Forse dolce stagione anco ritorna;
Ma Berenice nel guerriero orrore
Come lasciasti tu? dove soggiorna?
Averà scampo dal cristian furore?
Ah che de gli occhi e de la fronte adorna
Son posto in fiamma e mi si stempra il core;
E de le chiome e del bel volto a i rai
Sono i miei spirti inceneriti omai.

XXV

Mentre il Turco dicea, dal dolor vinta
Languia la Donna e già veniasi meno,
Ed in freddo pallor tutta ritinta
Faceasi de la fronte atro il sereno;
E già la luce è ne lo sguardo estinta,
E già s'ammorza il respirar nel seno.
Dardagan fiso la riguarda e piange;
Ella trapassa, e mormorava Alfange.

XXVI

Poco presso la Donna il piè riposa
Sovra il sanguigno suol stesa e gelata
Del Turco cavalier l'alma amorosa
Per fervido desir tutta agitata;
E spesso cangia via, creder non osa
Che sia tra' rischi de la gente armata
La gentil Damigella, e quinci ei prende
A lei cercar fra le disperse tende.

XXVII

Pentesi poscia, e ver colà sen giva
Ove più de la guerra il grido è fiero;
E scorge non lontan, che su la riva
Movea quasi smarrito un cavaliero;
Come fu da vicin, rosso appariva
Ondeggiar su la fronte il gran cimiero,
E d'ostro rosseggiar la sopravesta,
E quinci in Dardagan speme si desta.

XXVIII

Affretta i passi, e de le ciglia il lume
Affisa de lo scudo entro l'acciaro,
E vede ivi dipinto arder le piume
L'augel, c'ha ne la morte il suo riparo;
Allor, come gli amanti han per costume
Fu gelo, ed i suoi spirti in fiamma andaro;
Fermossi, e poscia di se stesso in bando
Rapido in verso lei mosse gridando:

XXIX

O tanto amata, o del mio cor desire,
E qual ventura or mi ti fa presente?
Vaneggio io lasso? o pur del tuo venire
Con esso me l'altrui parlar non mente?
O Berenice. A così fatto dire
La Donna di timor s'empie repente,
E di se stessa gelosia la punge,
Nè sa parlar; ma Dardagan soggiunge:

XXX

Deh qual temenza oggi t'ingombra il core?
Perchè taci con me? chi ti ritiene?
Panta mi rivelò l'atto d'amore
Per cui venisti ignota in queste arene;
Io mi son Dardagan; pensa l'ardore
Che sì forte m'avvampa entro le vene;
E di chi muor per te prendi mercede,
E confidati omai ne la mia fede.

XXXI

Ahi lasso me, fra tante spade e tante,
Perchè nel cor non mi passò ferita?
O d'AMEDEO non traboccando avante
Sotto la fiera man perdei la vita?
Dunque sarò sì sfortunato amante,
E fia la fede mia sì mal gradita,
Ch'oggi per mio conforto, e per tuo scampo
Tu mi rifiuti fra tante arme in campo?

XXXII

La Donna udendo, di stupor non poco
L'anima adempie, indi formò tal note:
Panta quando lasciasti? ed in che loco?
Spavento de' suoi rischi il cor mi scote.
E quegli ardendo in amoroso foco
Le trapassate cose a lei fa note,
Come Panta incontrò, ciò ch'ella disse,
E come de la piaga alfin morisse.

XXXIII

A questo annunzio da cordoglio oppressa
Disciolse Berenice alti sospiri,
E tratta dal dolor fuor di se stessa
Stavasi taciturna infra martiri.
Dardagan tace alquanto, indi non cessa
Di seguir gli ardentissimi desiri,
E raccogliendo i suoi pensier, dislega
Alfin la lingua, e sì lusinga e prega:

XXXIV

Quantunque di pietà spada rubella
Abbia chiusa la strada a' desir vostri,
Pur grandi atti di fede inver la bella
E nobil Donna son per te dimostri,
Qua giuso in terra narreransi, ed ella
Non taceralli ne' superni chiostri;
Però tanta tuo cor doglia non prenda
Del caso occorso, ove non vedi emenda.

XXXV

E se Panta apparì tanto amorosa
Ch'a la patria lasciar dispose il core,
E corse per lo mar via perigliosa,
E de la morte soverchiò l'orrore,
E se tu fosti a lei seguir bramosa
Là, 've sì forte la traeva amore,
Gran miracol parrà, s'oggi disprezza
Pur di lasciarsi amar tua giovinezza.

XXXVI

Ma se la legge appresso te s'onora
Che per ogni mortal detta natura,
Deggio sperar, che tua pietate ancora
Porga a le fiamme mie lieta ventura;
O sempre cara e fortunata l'ora
Che nella mente mia sì fresca dura,
Quando questi occhi a tua beltà conversi
Non mai qua giù nel mondo usa a vedersi.

XXXVII

Ne la bella stagion, che 'l Sol rimena
Più lunghi i giorni, ed ei più caldo appare,
Tu sul vago mattin presso l'arena
In snella prora trascorrevi il mare;
Mormorava nel cielo aura serena
Onde erano a mirar l'onde più chiare,
Il mondo tutto di beltà splendea,
Ma teco posto in paragon perdea.

XXXVIII

Candida era tua gonna, e d'ognintorno
Dispiegava tesor d'aurei lavori,
E di ricchi giacinti un cinto adorno
La stringeva sul sen tra smalti ed ori,
E su le chiome, onde fin oro ha scorno
Spandeva cari odor cerchio di fiori,
E tal con ammirabili sembianti
Lieta formavi ora sorrisi, or canti.

XXXIX

Se 'n quelle spume, e d'Ocean nel regno
Hanno incogniti numi alcun ricetto,
Come affermarsi suol, credere è degno
Ch'allor fosse ciascuno arder costretto;
Io certamente senza alcun ritegno
Corsi a le fiamme, e tutto accesi il petto
E dentro a giocondissimo martiro
Se n'andò la mia vita in un sospiro.

XL

Da indi innanzi non sentii giammai
Ne gli occhi sonno e ne la bocca riso;
Ben portai sempre, e tu medesma il sai,
Scura la fronte e scolorito il viso;
Ed in foco, ed in giel piansi e cercai
Conforto al cor da' tuoi begli occhi anciso;
Sparsi lamenti ognor, querele crebbi
A te chiedendo aita, e mai non l'ebbi.

XLI

Deh, se spedita da gli umani affanni
Passi in prosperità ben lunga etate,
E mal grado al venen de gl'invidi anni
Veggasi rifiorir tua gran beltate,
Ostinato rigor non mi condanni
A sempre tormentar senza pietate,
E non si faccia del mortal mio scempio
A l'alma de gli amanti odioso esempio.

XLII

Al fervido pregar tien Berenice
I fulgidi occhi in Dardagano intenti,
E dopo alquanto apre la bocca e dice,
Mentre colui sparge sospiri ardenti:
Certo il nostro pensier fu mal felice;
Ma non sian pronte a biasimar le genti
Se noi sponemmo ne la guerra ardite
A l'inimico acciar le nostre vite.

XLIII

Che se donzelle, ed a non cinger nate
La spada, ed a pugnar poco guerriere,
Contra ogni belva non per tanto armate
Fummo famose e bene esperte arciere;
Or di questo non più: le membra amate
Vili sul suol non lascerò giacere,
E vedrà procurar l'alma diletta
La sua bramata infra Cristian vendetta.

XLIV

Dunque disponti, ed al guerriero ispano,
Ch'ad Alfange portò l'ora funesta,
Movi all'incontra, e con la nobil mano
Fa traboccar l'abbominata testa;
A sì gran risco non ti poni in vano,
Chè di me conquistar la strada è questa;
Tuo valor gradirò, quando ti caglia
Questa, ch'io dico, esercitar battaglia.

XLV

Allora Dardagan, sparso la faccia
Di novo gaudio, e sfavillando i guardi,
Non può frenarsi, ed a l'Ispan minaccia,
E gli assalti al suo cor sembrano tardi;
Innalza l'arco, e grida: in van procaccia
Schermo contra il ferir di questi dardi;
Del più forte ed acuto il cor gli piago:
Non temer, donna, il tuo desire è pago.

XLVI

Conosco lui, le spoglie onde egli è adorno;
Ho contezza de l'armi, onde risplende,
E so, dove poc'anzi ei fea soggiorno,
E colà tuttavia forse contende;
Ma, s'egli a disparir quinci dintorno
Non veste l'ali ed a volar non prende,
O pur non si sommerge in mezzo a l'onda,
Non fia, ch'oggi a miei guardi ei si nasconda.

XLVII

Così diceva, e con la donna a lato,
Ove la gente combattea s'invia,
E gli occhi volge ad ogni duce armato,
Ed armi e spoglie fissamente spia;
Nè molto va, che 'l cavalier cercato
Da lunge scorge; ei coraggioso apria
Folto stuolo de' Turchi, e si fea strada
A somme glorie con la nobil spada.

XLVIII

Qual vien tra' gioghi d'Apennin canuti
Per molta neve il cacciator gioioso,
S'alfin ritrova de' cinghiali irsuti
L'aspro covil tra dure selve ascoso,
Tal gode il Turco, e de gli strali acuti
Un tinto di licor più venenoso,
Pon su la corda, indi traea dal core
Fervide voci e ripregava amore:

XLIX

Amor, che su per l'alto il volo affretti,
Ed in terra ed in mar dispieghi l'ali,
Sì ch'al nome di te rendi soggetti
Con la faretra eterna i cor mortali,
Amor mio solo nume, odi i miei detti,
E contra quel fellon reggi miei strali,
Perchè sgombrando il cor d'aspri dolori
Più le tue leggi e le tue forze onori.

L

Sì grida, e di grande ira arso le vene
Scocca il fiero quadrel con studio intenso,
Che trasvolando va l'aure serene,
Rivolgendo al suo suono il popol denso;
E finalmente al grande Ispan perviene;
Nè tanto valse de lo scudo immenso
Il terso acciaro e l'interzate cuoia,
Che di quel colpo il cavalier non muoia.

LI

Trafitto a sommo il petto egli trabocca;
E sembrò scoglio, che per lunga etade
Combattuto da l'onde al fin dirocca,
E fa lunge sonar l'erme contrade.
Il Turco a lieti gridi apre la bocca,
E volto a riguardar l'alta beltade
De la donna gentil fatta gioiosa,
Ei non tiene nel cor la fiamma ascosa.

LII

Dicea: nobil cagion de' miei martiri,
Tue giuste voglie ecco appagate or vedi
Per la faretra mia: s'altro desiri
Dal tuo fedele, apri la bocca e chiedi;
Se con nemico duce altro t'adiri,
Te 'l mirerai senza dimora a' piedi
Qui da me tratto a supplicar la vita,
E spegnerollo con mortal ferita.

LIII

Degg'io trapassare alpe? o varcar fiume?
O trascorrer di mare onde spumose?
Tutto farò; di vero amor costume
È superar l'insuperabil cose;
O chiara fronte, e de' begli occhi o lume
Onde avrà la mia vita ore gioiose,
O alma in terra ed immortal sembianza,
Come quì vi ritrovo oltra speranza?

LIV

Non ben duolsi d'Amor l'umano ingegno
Come solo comparta affanni estremi,
Ch'egli al fin con ragion governa il regno,
Ed a chi merta non defrauda i premi.
Così parlava, e che non stava a segno,
Ma vaneggiava ne' piacer supremi,
Vide la bella donna, onde sorrise,
Ed a quel favellar termine mise.

LV

Poi ch'oggi senza Panta il Ciel mi serba,
Dic'ella, in vita lagrimosa e dura,
Scorgimi tu dove ferita acerba
Sparse i begli occhi suoi di nebbia oscura;
Il nobil corpo, che si sta su l'erba,
Chiama da la mia fe' sua sepoltura;
Nè da quest'alma afflitta ella s'oblia.
Ratto ascoltando Dardagan s'invia.

FINE DEL XVIII CANTO.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XVIII.

«Nel XVIII si raccontano gli amori di Panta e di Alfange; e di
Dardagano e di Berenice.» Questo è l'argomento postovi dal Poeta.

Le censure del Cavaliere d'Urfè sovra questo canto sono due. Ecco la prima: »Pante raconte a Dardaganio (sic) sa fortune, estant si blessée, qu'elle meurt a l'heure mesme: le poete la fait amuser en cet estat a descrire des choses ou il ny a pas apparance, comme a particulariser la beauté des habits d'Alfange et de son cheval, ny ayant pas apparance que se santant deffaillir elle s'amusat a ces petites choses.» Non ardirei allontanarmi dall'opinione del Critico.

Trascrivo la seconda: «Le discours long de Dardagonio (sic) avec sa maistresse est hors de temps, car il s'amuse a desduire (leg. descrire) les habits de sa maistresse et la douceur de son chant au lieu de vanger Pante, d'en aller querir le corps et l'enterrer, ou faire quelque autre chose conforme au lieu, au temps et la personne.» È verissimo che Dardagano si piace nel descrivere il vestire e l'adornarsi il capo di Berenice; ma non trovo che si fermi a parlare del canto di lei; avendolo appena ricordato nell'ultimo verso della st. 38:

Lieta formavi ora sorrisi, or canti.

CANTO XIX.

ARGOMENTO.

Sotto mentito volto un demon reo
Prende a Folco narrar fìnta novella,
Che la turba in seguir, cadde AMEDEO,
E fu estinto nel mar dalla procella;
Ma l'inganno infernal nulla poteo,
Che il confortò con l'immortal favella
L'Angelo dell'Eroe: così la speme
Del soccorso vicin, fa ch'ei non teme.

I

Fiero intanto Ottoman per varia strada
Riversando da gli occhi incendio d'ira.
Vibra nei Rodïan fulminea spada
Là, ve più forte contrastarsi mira;
Ma ch'a terra disperso il popol cada
Sotto il fìer Turco Telamon sospira,
E parte freme, e dentro il petto altiero
Ei così favellava al suo pensiero:

II

Deh che discerno? ogni faretra, ogni asta
Oggi in battaglia a' Rodïan vien meno?
Ed al grande AMEDEO forza non basta
Sì che questo leon si tenga a freno?
Or se per nostro scampo in van contrasta
L'ultimo sforzo del valor terreno,
Ombra oscura di morte oggi mi copra,
Ma procacciando onor per nobil opra.

III

Disse, ed al fianco egli ripose il brando;
E diè di man su la sanguigna riva
A l'armi d'uno arcier, che palpitando
Giacea piagato, e sul morir languiva;
Era di Smirna abitatore, e quando
Spogliar sentissi, egli la bocca apriva,
E sollevando gli occhi omai già spenti,
La voce appena egli spiccò da i denti:

IV

Oh di quale arco intra più forti eletto
Signor diventi, e di che strali egregi?
Se vero Turco sei, prendi diletto
Infra Cristian di saettarne i Regi.
E Telamone: i tuoi consigli accetto,
Moverò con queste armi a sommi pregi,
E s'oggi a segno i miei desiri andranno
Saetteronne il cor del tuo tiranno.

V

Più non disse egli; e l'uno e l'altro corno
Piega de l'arco, e fa volarne il dardo,
Che fende l'aria, e sibilando intorno
Al gran nemico se ne vien non tardo;
Fora di bei tesor lo scudo adorno,
Ma de l'arcier non ubbidisce al guardo,
Che ne l'odiata gola il tenne fiso,
Vedere amando l'avversario anciso.

VI

Quinci fier Telamon la spada afferra,
E sì sen va su la calcata arena,
Che giunge ad Ottoman per fargli guerra,
Che la saetta era posata appena;
Giovine capriol, che rapido erra
Lunge da i can, che 'l cacciator scatena,
Con corso men leggier trascorre l'erba,
Che del timido piede orma non serba.

VII

Tal costui venne, e col lucente acciaro
L'elmo gemmato ad Ottoman percote;
Mille accese faville al cielo andaro,
E sonaro le piaggie indi remote;
I gran diamanti, onde l'elmetto è chiaro,
Il brando, ben che fin, spezzar non pote;
Ben del feroce Re l'animo accese,
Ch'a lui si volse, e sul terren lo stese.

VIII

Spigne l'irata spada, aspro a vedersi;
Piagalo in petto, e sì d'orror l'involve,
Che sul piè Telamon non può tenersi,
Ma cade, e gli occhi per dolor travolve;
Ed ivi i crin via più che l'oro tersi,
Spettacol di pietà, macchia di polve,
E macchia quelle guance, i cui candori
Già di mille donzelle arsero i cori.

IX

Tale albero gentil, che l'aura estiva
E d'un ruscello il mormorar d'argento
Solea nutrire in solitaria riva,
Al crin de le Napee vago ornamento,
S'unqua d'april quando più bel fioriva
Il disperde sul suol rabbia di vento,
Secca le verdi frondi, odor non spira,
E pietà move in chi passando il mira.

X

Mentre in tal guisa di percosse orrende
Cadeano Turchi e Rodïani insieme,
Su quell'orrido strazio il volo stende
Megera atroce, e riguardandol freme.
Ne l'ira acerba, che vostri odii accende,
O de l'antico Adam mal nato seme,
Cadete a morte; e col nostro odio indegno
Saziate alquanto l'infernal disdegno.

XI

Per cotal guisa egli bestemmia, e fiero
Pasceasi il fier demon ne i guerrier morti,
E pure in gran furor volge il pensiero
Si come a' Rodïan tormento apporti.
D'Anteo Mercurial non poco altiero
Fra i cavalier più coraggiosi e forti,
Fabbricossi di nembi il bel sembiante
Ed al gran Folco appresentossi avante.

XII

L'alto AMEDEO, nel cui valor ti fidi,
Ben contra Turchi, egli dicea, fu franco;
Ei caccionne gran turba inverso i lidi,
Le lor vestigia a seguitar non stanco;
Vidi, che 'n fuga ei li disperse e vidi
Che su l'arena gli trafisse, ed anco
Ch'ei si spinse nel mar, folle consiglio,
Che con immenso ardir sempre è periglio.

XIII

Addosso i vinti, che ne gian dolenti
Verso le navi, ei per lo mar trascorse;
Ed ecco, che di nubi e che di venti
Grave tempesta e subitana sorse;
Così tremendo a le nemiche genti
Violenza d'un turbine l'absorse,
Ed a voi senza lui fragil speranza
Per la vittoria e per lo scampo avanza.

XIV

Senza l'invitta spada in van tu studi
Contrasto far ne la tenzon sì dura,
Percossi, infievoliti a casi crudi
Ci condurrà questa giornata oscura;
Suona le trombe, e, se ti par, rinchiudi
Queste poche reliquie entro le mura;
O salva te, ne la cui gran virtute
Rodi confida, e può sperar salute.

XV

Così mentiva; e non aggiunge a queste
Altra parola, e si coprì d'orrore;
E per farsi stimar cosa celeste,
Sparse sul suo sparir l'aura d'ardore.
Turbossi Folco; e ne le ciglia meste
I pensier gravi si leggean del core,
Piangendo il popol suo quasi disperso,
E l'alto pregio d'AMEDEO sommerso.

XVI

Non sa che far de le seguaci schiere,
Se 'n campo dimorar, se dipartire;
In campo dimorar, certo è cadere;
Partirsi, fia con morte anco fuggire;
Se chi parlò, de le superne sfere
Apparve messaggier, non può mentire;
Ma come nel suo dir fian mentitori
Tanti, che d'AMEDEO disser gli onori?

XVII

Tra questi affanni in ver la terra inchina
Tacito il guardo, ed è di duol confuso;
Quando ecco l'Angiol suo gli si avvicina
D'amabile splendor tutto rinchiuso;
E cosparge dintorno aura divina
Tra' mortali a sentirsi odor non uso,
Che 'l cor rinfranca, e ravvivarlo suole,
Indi il volo disciolse a tai parole:

XVIII

Sgombra la tema; e giù del core in fondo,
Stabilissima sia la tua credenza,
E ti rivolgi al Correttor del mondo,
Chè contra il suo voler non è potenza.
Perfido spirto, e de l'abisso immondo,
Apparve poco dianzi a tua presenza,
E come ei fosse de' celesti un nume
L'orribil forma rabbellì di lume.

XIX

Mente, che d'AMEDEO la nobil vita
Giaccia sommersa, e ti sgomenta in vano;
Ben ci spense colà turba infinita,
E di sangue macchiò l'ampio Oceano;
Rado veduta, o fu nel mondo udita
Prova in guerra simil di mortal mano,
Cotanto il sommo Re, che 'n ciel soggiorna,
Il suo campion d'immensa gloria adorna.

XX

Egli feroce, e più che mai possente
Or quì rivolge il piè rapido e lieve;
E come giunga, d'Ottoman la gente
Fia sotto il braccio suo come al sol neve.
Folco, sia fermo il cor, ferma la mente,
Che de la vostra pena il tempo è breve,
E di quel sangue, che per Dio si spande,
Io tel rammento, la mercede è grande.

XXI

Nè di queste battaglie il tempo fiero
Turbar ti deve, o 'l dei raccor per segno
Che 'l Signor sommo de l'eterno impero
Oggi vostra salute aggia a disdegno;
Non è la forma del divin sentiero
Come le strade de l'umano ingegno,
Che Dio per fargli eccelsi e farli chiari
Prova ne le miserie i suoi più cari.

XXII

Su questi detti il suo fulgor nascose
Pur come suol, che disparisca a sera,
Ma sparse incenso, e d'odorate rose
Alma ed incomparabil primavera.
Allor di Folco in ascoltar depose
Ogni preso timor l'anima altiera,
E sul tenor de le parole intese,
Nel magnanimo petto a parlar prese:

XXIII

Qual sarà cor, che di viltà s'offenda
In sommo risco di stagioni armate,
Quando ripensi e del gran Dio comprenda
Sovra i seguaci suoi l'alta bontate?
Ecco è pur verità, ch'Angelo scenda
Inverso me da le magion stellate
E serrando la strada a' nostri danni
Fa manifesti gl'infernali inganni.

XXIV

Come nocchier, che de la chiara Aurora
Volse le negre antenne a i ricchi liti,
E s'attristò ch'a la veloce prora
Torbido euro frenasse i corsi arditi,
Se soffia vento disiato, allora
Alza gli spirti che giacean smarriti,
E crescendo ne l'alma i pensier lieti
Ara i gran campi de l'instabil Teti;

XXV

Tale il buon Folco rasserena in fronte
L'alma cui dianzi afflisse aspro martire,
E le sue squadre a guerreggiar ben pronte
Empie gridando di novello ardire:
Su, cavalier, che se n'andran ben conte
Le vostre prove; ora infiammate l'ire
E reggete furor che stavvi intorno
Fin che 'l forte AMEDEO faccia ritorno.

XXVI

Ei diè lor caccia, e dissipati a pieno,
Parte i Turchi ha sommersi in mezzo l'onda,
Ed or sen viene a noi come baleno
A quì rinovellar strage profonda;
Intanto col valor ch'avete in seno
La patria in sì gran dì fate gioconda,
O vero in sul morir prendiam diletto
Per bella piaga, che ci splenda in petto.

XXVII

Alto così gridava, e tra' bei lampi
Del fiammeggiante scudo ei si rivolta
Là, 've nel pian dei sanguinosi campi
L'aspra turba de' Turchi era più folta;
Nè meno a quel suo dir sembra ch'avvampi
D'ira ogni cavalier, ch'ivi l'ascolta,
Onde al suon de l'acciar che si percote
Rimbombano le piaggie indi remote.

XXVIII

Tal s'a far nave, che l'Egeo spumoso
Deggia sprezzar ne le tempeste oscure,
Vanno boschier su l'Apennin selvoso
Intenti ad atterrar piante più dure,
Allor mentre su' gioghi il bosco ombroso
Geme al ferir de l'arrotata scure,
Alto muggito dan l'alpestri sponde,
Ed eccheggiando ogni antro alto risponde.

XXIX

In altra parte, ove con forte acciaro
Tronca Bostange de' Cristian la vita,
Sen van duo cavalieri a paro a paro,
Col cor superbo e con la destra ardita;
Un colse l'aura, e 'l primo sguardo al chiaro
Sole egli aperse, e fe' nel mondo uscita
La, 've guarda del mar l'alta riviera
Cinta d'ameni colli Udine altiera.

XXX

La schiatta, onde chiarissimo discende
È Colloreto, e non sì tosto crebbe
In gioventù, che per le balze orrende
Orrende belve a sgomentare egli ebbe;
Ma giunto al colmo, ove l'etate ascende,
La finta guerra al fiero spirto increbbe,
E dando pace a' boschi alpestri ed alti
Ornò sue glorie di veraci assalti.

XXXI

Sacrossi in Rodi, e su spalmate prore
Tutte de l'Asia sbigottì le rive,
E de' fieri ladron domo il furore,
Mille lor vele già menò captive;
Or quì col brando in pugno al suo valore
Termine per timor non si prescrive,
Intrepido di core, altier d'aspetto,
E bianco i crin Timoleon fu detto.

XXXII

Fulvio con lui ne la stagion sì rea
S'aggiunse pronto nei perigli illustri,
Nobile cavalier, ch'allor correa
Lo spazio giovenil di sette lustri;
Leggier sul piè, forte di man spargea
Di rose ambe le guancie e di ligustri,
E di lucido pel, vago ornamento,
Quasi di nube d'or, fasciava il mento.

XXXIII

In riva a l'Oglio comandava il padre
Bozolo lieto, di magion Gonzaga,
Magion, che nel sudor d'opre leggiadre
Stancar le membra, ed i pensier s'appaga;
Fu Colonnese infra Latin la madre,
Gente d'imperii e di vittorie vaga,
E forte ei s'affrettava a' pregi eterni
Sferzato il fianco da gli onor paterni.

XXXIV

Gridava ferocissimo in sembianza:
O Cavalier, l'umana vita è frale,
Ed in conviti ed in piacevol danza
Ed in ozio d'amor pur batte l'ale;
Or se morir convien, ch'altro n'avanza,
Salvo con la virtù farsi immortale?
Sì dicendo, fra' Turchi oltra si spigne,
Nè men Timoleon la spada tigne.

XXXV

Come talor scagliosi il curvo dorso
A salto, a salto se ne van delfini
Terror portando col terribil morso
Entro i minuti eserciti marini,
Tal per diversa via volgendo il corso
Sen van quei duo baron tra' Saracini
Pur con le spade in man facendo audaci
Il già perduto cor dei lor seguaci.

XXXVI

Ma là dove del mar trascorre al lito
L'aspro torrente infra l'arene e i sassi,
D'asta crudel la destra man ferito,
Gualtier Vitelli avea fermato i passi,
E benchè sperto e ne i perigli ardito,
Con fronte oscura e tutto grave ei stassi
Perch'al suo campo da' nemici oppresso
Più soccorso prestar non gli è concesso.

XXXVII

Ivi seco vicin prende riposo,
Ambe le gambe stranamente offeso,
Alderan Cibo, e pur sen sta doglioso
Che gli han le piaghe il guerreggiar conteso.
Entrambi udian volar grido orgoglioso
Da i Turchi petti, e da timor sorpreso
Vedeano il campo Rodïan sfidarsi,
Onde i lor volti di pietà son sparsi.

XXXVIII

Qual ricco montanar quando matura
Già splende l'uva, onde gioire ha speme,
Se trabocca da ciel tempesta oscura,
Ei che schermire non la può, ne geme;
Ah che mal da le grandini sicura
Fia la vendemmia; ah che co' venti insieme
Le belle frutte in sul terreno andranno,
E la speranza perirà de l'anno:

XXXIX

Sì fatti in rimirar feansi i guerrieri
Mal atti in guerra a maneggiare acciaro;
Alfin disse al compagno il buon Gualtieri:
O de' grandi avi tuoi germe più chiaro,
Sì come il corso de gli uman pensieri
Erri qua giuso io nuovamente imparo,
Ed oggi fassi la mia mente esperta,
Che mortal vita è di suo stato incerta.

XL

Prencipe quì fra noi d'alta memoria,
Con armi eccelse jeri AMEDEO sen venne,
E la spada vibrò con tanta gloria,
Che 'l campo d'Ottoman poco il sostenne;
Ma nel presente dì l'alta vittoria
Non ci mantien, di che speranza dienne;
E pur s'oggi per noi langue sua mano,
Quanto jer si vinse, sarà vinto in vano.

XLI

Dunque fia ver, che miserabil vegna
Di Rodi il nome? e ch'Ottoman calpesti
A suo pieno voler la nostra insegna?
E l'ordine di noi tanto funesti?
E che per me ne la miseria indegna
Un avversario sol non si molesti?
E perchè de' nemici alcun non cada,
Divietato mi sia stringer la spada?

XLII

Ah non la destra man dianzi ferita
M'avesse stral ne la battaglia rea,
Ma m'avesse quadrel tolta la vita.
Ei così d'ira e di dolor fremea;
L'altro buon cavalier poscia ch'udita
Ha l'amica querela a dir prendea,
Consolando in Gualtier gli aspri tormenti
Con magnanimo suon di dolci accenti:

XLIII

Veggo il risco mortal; Marte travaglia
Con estremo rigor le nostre schiere,
E mal sostiensi omai tanta battaglia
Con la forza de i duci e col sapere;
Io non l'oso negar, ma non ten caglia,
Lo scettro Rodian non può cadere
Poscia che contra il Turco, e l'armi infide
Eroe sì glorioso il Ciel provvide.

XLIV

L'altissimo Signor, che 'n ciel governa,
Tal volta abbassa la mortal possanza
Acciocchè l'uom ne la bontate eterna
Impari di ripor la sua speranza;
Quanto appartiensi a noi, perchè si scerna
Nostro valor, che più d'oprar n'avanza?
Se di battaglia nostre man fur vaghe,
Il narreran le sostenute piaghe.

XLV

Sì fatte note egli formava ancora
Ch'un duce venne, e ne venia con pena,
Sì da la testa, ove il bel crin s'indora
Bagna le guancie sue sanguigna vena,
E turbato Alderan diceva allora:
L'oscura faccia ch'esser suol serena
Oggi a mal giudicar forse m'adduce?
Dimmi: sei tu de' Cesarini il duce?

XLVI

Quei s'inginocchia, e frettoloso immerge
Il volto afflitto ne le limpide onde,
E con le mani diguazzando il terge
E s'innalza ver loro; indi risponde:
Chiari campion per cui l'Italia s'erge
Con gloria tal, che non sfavilla altronde,
Ecco riman, quando più forte schermo
Ne chiedea Rodi, il valor nostro infermo.

XLVII

Quivi disse Gualtier: quando in periglio
Fan di se prova i cavalieri armati,
Deh quale a noi si porgerà consiglio
Da potersi fornir, benchè piagati?
Giunse il Romano: a consigliar non piglio
Ch'escano a guerreggiar duci storpiati
In orribile campo, ove contrasta
Popolo armato di faretra e d'asta.

XLVIII

Ben vi dirò, che con mirabil mano
Ha gran parte de' Turchi in fuga spinta
L'alto AMEDEO, sicchè per lui sul piano
Ed in riva del mar rimansi estinta;
Ma mentre che da noi pugna lontano,
Ottoman quasi nostra gente ha vinta,
Se non se quanto Folco e i duci insieme
Non vengon manco a le speranze estreme.

XLIX

Se puon durar fin che dal mar sen rieda
Il Cavalier, ch'a noi dal Ciel fu scorta,
Fian dati i Turchi de la morte in preda,
E non meno Ottoman con lor fia morto.
Or, perchè l'opra che bramiam succeda,
A noi stessi per noi diasi conforti,
Andiam colà; combatterem co' detti,
Se non co' brandi, co' feroci aspetti.

L

E se buon vi rassembra, ergasi il core,
Porgansi preghi a la bontà divina,
E con voto fedel facciamo onore
Al santo eccelso, che Galizia inchina.
Gualtiero allor dicea: chiaro splendore,
E vivo lampo di virtù latina,
Che dici tu, che da lodar non sia?
Poi fer suoi voti, indi ciascun s'invia.

LI

Ognuno è pronto; e le possanze frali
Del corpo afflitto avvalorar s'ingegna,
E van tra sassi e tra volanti strali
Là dove del Baglion ferma è l'insegna;
Ivi, come gli assalti aspri e mortali
E le percosse disprezzar convegna,
Narravano a' soldati assai smarriti
E col sembiante li faceano arditi.

FINE DEL CANTO XIX.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XIX.

Argomento postovi dal Chiabrera: «Nel XIX si continua di narrare la battaglia fra Ottomano e i Rodiani.»

La prima censura del Cav. d'Urfè sopra questo canto è tolta dall'arte militare; ed in questa certamente non era perito il Poeta, benchè fosse uomo non timido, ed in gioventù avesse non una volta sfoderata la spada: ma ben altro è un duello, o una rissa, ed altro la cognizione delle militari ordinanze. Ascoltiamo l'Urfè: »Il fait que Ottoman vient aux mains avec Telamon sans nulle observation de l'art militaire, parce qu'ayant dit que Foulques de touttes ses gens avoit fait un bataillon, commant sans avoir dit qu'il soit ouvert ou seulemant attaqué, dit il qu'Ottoman vienne aux mains avec Telamon? Mais il ne faut pas trouver ce combat estrange, car tous les autres sont faits de mesme.»

Pieno di bellezze poetiche è questo canto XIX. considerandone le parti ad una ad una; sia per le descrizioni vive ed evidenti, sia per la locuzione veramente poetica, e l'armonia del verso; ma il tutto, il totum di Orazio, non è immune dalla critica dell'Urfè: »Les visions, discours et apparitions des Esprits contiennent la plus grande partie de ce chant, qui est une chose bien importune.» Il critico non ha torto.

CANTO XX.

ARGOMENTO.

Ecco AMEDEO, sul campo avverso ei scende,
E trae seco ove passa alta ruina;
Ecco AMEDEO, di guerra le vicende
Mutansi a un tratto. Il guardo a terra inchina,
Il sommo Dio; Michel le nubi fende
Pronto al voler di lui che lo destina;
E tutto dei demon lo stuolo immondo
Nel tartareo cacciò gorgo profondo.

I

Mentre in lor si raccende alto valore,
Ecco AMEDEO cinto di lampi ardenti,
Pronto al soccorso; ed eccitando il core
Innalza grido di temuti accenti;
L'Angel custode ad avanzar terrore
Più grande intorno fe' portarlo ai venti,
Nè sì tosto per l'aria inteso l'ebbe,
Che l'Angelo di Rodi anch'ei l'accrebbe.

II

Quinci il campo cristian sforza la mano
A vibrare armi, e con gli spirti avviva
Ardir per entro i cor; ma d'Ottomano
Tremò la turba, che 'l rimbombo udiva;
E mugghio d'ira fe' volar lontano
Megera e seco Aletto anco muggiva,
E forsennando ne le rabbie eterne
Seco muggian le legioni inferne.

III

Sì fra i tuoni del ciel, fra le terrene
Voci, fra gli urli de i Demon frementi
Onde le selve intorno, onde l'arene,
Onde i monti tremar, l'arme possenti
AMEDEO move, e non men fier sen viene
Che quando assorda al suo cader le genti
Precipitato da l'orribil sponda
L'Etiopo mar, che poi l'Egitto inonda.

IV

Nè mai rifulse nel trascorso assalto
L'elmo cotanto incontro a i guardi avversi,
Sì chiari lampi da l'etereo smalto,
Pur ch'ei lo scota, se ne van dispersi,
E l'almo brando, s'ei lo vibra in alto,
Rassembra i rai ne l'Ocean ben tersi
Pur d'Orione, e per lo cielo oscuro
Men che lo scudo suo risplende Arturo.

V

Qual, se grembo di nubi umido ombroso
Squarciasi a forza di rinchiusi ardori
Corrono in prima per lo ciel nemboso,
Ma senza danno altrui, tuoni e fulgori;
Poi fulminando, l'Apennin selvoso
Mira tronchi fumar, cader pastori,
E dispersi atterrarsi armenti e gregge,
Ed arse rupi dissiparsi in schegge:

VI

Tal di raggi superni inclito lume
Sorse, e rimbombo da l'Eroe lontano,
Poscia vicino, oltra l'uman costume
Ei folgorò con formidabil mano;
Squarcia le squadre, e fa di sangue un fiume
Correr spumante, e tutto copre il piano
Di tronche membra, e di sbranati arnesi,
E calpesta guerrier sul pian distesi.

VII

A l'orrido Gorgutto egli s'avventa
E 'l cor gli passa col celeste acciaro;
Subito di pallor sozzo diventa,
E ciechi gli occhi in sul morir gelaro;
Egli sul Grago già menò contenta
Sua vita, e stette co' duri orsi al paro,
Al fin pentito di quei rischi indegni
Venne di Rodi a guerreggiar ne i regni.

VIII

Giù ruinando in su la terra appena
Il colpo diè, che sul morir feroce
Ergendo il capo da la bassa arena
Inverso Micalogle alza la voce:
Poscia, che guerreggiando oggi ne mena
A dura morte il Cavaliere atroce,
Deh fin ch'a te nel petto il vigor dura
I cari amici vendicar procura.

IX

Spegni tu l'empio, o Micalogle, e scorno
Fa poi col ferro a quei suoi membri spenti;
Se fai col duro teschio a lor ritorno,
Stella sarai fra le paterne genti.
Sì gonfio d'ira ei fea volare intorno
Per sua vendetta gli animosi accenti;
Nè Micalogle ad ascoltarlo è tardo,
Che tende l'arco e fa volarne il dardo.

X

Indi la destra al manco lato stende
E sfodra il ferro, e spigne innanzi il piede,
E vuol ferir, ma su lo scudo offende,
E senza piaga il fiero acciar sen riede;
L'alto guerrier mena la spada, e fende
Là, 've gli spirti del polmone han sede;
Ei cade a terra; ed AMEDEO calcando
Va tronchi e morti, e non dà posa al brando.

XI

Ben ne l'affanno di sì gran periglio
Giassarte il petto a la viltà non piega,
Ed Alcasto con l'opra e col consiglio
Ferma le turbe; ed or minaccia, or prega;
Nè cessa Araspe; ma turbato il ciglio
Duolsi Bostange, ed anco i pianti impiega:
Miserabile me, con quai sembianti
Apparir deggio ad Ottoman davanti?

XII

Jer fu sì gonfio di minaccia e d'ira
Perchè sembrammo a la vittoria lenti;
Or che farà, se tutto armato mira
Che non siam l'armi a sostener possenti?
Soldati, il vostro duce a voi sospira;
Mirate i pianti, udite i suoi lamenti:
Volete voi, che ne l'etate estrema
Dopo cotanti onor d'un palo io tema?

XIII

Sì parla, e sempre indarno; alta paura
Tragge gli stuoli a più poter fugati;
Parte disperde il piè per la pianura,
Parte vanno a trovar gli ampi steccati:
Ed allora animosi oltra misura
Lor sono al tergo i Rodiani armati;
Quivi pur volto a ritentar contrasto
Dicea Giassarte al sagittario Alcasto:

XIV

Tu, che per arco memorabil splendi,
E ben Rodi il provò su la muraglia,
Per quale assalto il serbi? a che nol tendi?
Ed a costui sì fier non dai battaglia?
Risponde Alcasto: a gran ragion m'accendi;
Ecco io sono a provar quanto ei mi vaglia,
E s'al presente il suo valor fia poco,
Faronne pezzi, o lo porrò sul foco.

XV

Più non parlò, ma tra gli strali esperti
Il più pungente e più crudel scegliea,
Onde commosso Erimedon Lamberti
Campion di Lucca al grande Eroe dicea:
Porgi lo scudo in fuor; tien gli occhi aperti;
Veggo cercar ne la faretra rea
Un turco cavalier lo stral più fiero,
Ed infra loro è singolare arciero.

XVI

Ben tal può dirsi; ei negli assalti in vano
Non scoccò dardo e si colmò d'onore;
Ed arco incurva, che maestra mano
Non fabbricò tra Sciti unqua il migliore.
Soggiunse il grande Eroe: quando in sul piano
Spinto l'avrò pien di mortale orrore,
Tu quell'arco predar serba in memoria,
E fanne eterno testimon di gloria.

XVII

Egli ancor non tacea, quando sen viene
Lo strale ingordo, ma sel prende a scherno
Lo scudo immenso, e' suoi furor sostiene
Con l'alta tempra de lo smalto eterno;
Giassarte ove il mirò, gonfia le vene
E di veneno e di disdegno inferno
Oltra l'usato, e mosso fu stringendo
La scimitarra, a rimirarsi orrendo.

XVIII

Mal fortunato lui; non ebbe ingegno
Che per cotante prove ei s'accorgesse
Com'era il giorno, che 'l divin disdegno
Volea, che 'l pregio d'Ottoman cadesse;
Qual fiume alpestre, cui frenò sostegno
Perchè non fosser le campagne oppresse,
Fracassate le macchine tal volta
Veggiam precipitar l'onda disciolta;

XIX

Tale il guerriero indomito s'avventa
Contra AMEDEO per sanguinosa strada,
Ed alza il braccio ed impiagarlo tenta
Su l'alma fronte, perch'a morte ei vada;
Ma quel Re formidabile appresenta
L'invitta punta de l'eterea spada
Sotto il braccio alto, e ne l'ascella il piaga
E d'atro sangue tutto il fianco allaga.

XX

Era ivi presso, e rimirava intento
Un mostro inferno le mortali imprese,
Misantropo diceasi, e perchè spento
Non fosse il Turco da la terra il prese,
E levato per aria in un momento
Su verde piaggia indi lontan lo stese;
Poscia Astragor, ch'ivi dintorno spiega
Le fetide ali, in queste note ei prega:

XXI

Batti le piume tu, cui manifeste
Son l'erbe ignote a gli intelletti umani,
E suco ne trarrai che le funeste
Percosse chiuda, onde il campion risani;
Quei sen volava, e la sanguigna veste
Pone a spogliar Misantropo le mani,
Ed il sangue tergea de la ferita,
E porgea dolce al cavaliero aita.

XXII

Immantenente ecco Astragor sen riede
Ed ha seco valor d'erbe possenti,
E ne cosparge la percossa, e cede
Ratto l'acerbità di quei tormenti;
Ma d'aspra rabbia inebbriato fiede
L'aria quel mostro di perversi accenti:
Tal tempesta mirare, onde s'affanna
Lo scettro d'Ottoman, chi ci condanna?

XXIII

Dispergonsi le squadre, ogni speranza
Ch'eser possa ne i grandi ecco s'atterra;
E l'istesso Ottoman nulla s'avanza,
Cotanto sorge un sol Cristiano in guerra;
Chi gli presta il valor? tale possanza
Può dargli spirto che nel ciel si serra?
Ma se pure egli è Dio, che sì l'onora,
Non rimaniam di bestemmiarlo ogn'ora.

XXIV

Ei così grida. A le superbe voci
Misantropo risponde: omai t'affrena;
Apparire orgogliosi, esser feroci
Non ogni volta ove bramiam ci mena;
Per altro tempo ed in perigli atroci
Il monarca, che tuona e che balena,
De' cari suoi la dignità sostenne
Ed a noi lassi sofferir convenne.

XXV

Non sai, che la possanza de gli Assiri
Sotto Oloferne tormentò Giudea?
E ch'orribile giogo e di martiri
Formidabile scempio ella temea?
Quando commossa da superni giri
A lor sen venne vedovella Ebrea,
E tante aste ferrate e tanti dardi
Rivolse in fuga col fulgor dei guardi?

XXVI

Col forsennato duce ella sorride,
Per adescarlo sue bellezze adorna,
E dove dee bearlo, ivi l'ancide,
Quinci col fiero teschio a' suoi sen torna.
Ed altra volta Madian non vide
Allor che 'l sol ne l'Ocean soggiorna,
Con poche larve e con trecento soli
Condursi a morte innumerabil stuoli?

XXVII

Già rimirò, perchè da l'ombre involto
L'aspro nemico d'Israel non scampi,
Farsi il dì lungo oltra l'usato molto
Un cavalier di Gabaon ne i campi;
I destrier, che correndo a freno sciolto
Givan per l'alto e diffondeano lampi,
Fermaro il passo, e l'infocate rote,
Volubil sempre, si mostraro immote.

XXVIII

Che più debbo narrar? varco s'aperse
Per entro le voragini profonde
A lo stuol di Mosè; nè si sommerse,
Anzi lieto occupò l'arabe sponde;
Sì disusato oltraggio il mar sofferse,
Che quasi smalto s'induraron l'onde,
Ed ivi asciutto il piè corser destrieri
Ove le vele disciogliean nocchieri.

XXIX

Ciò ch'io racconto, rivelossi a pieno
Al mondo tutto, ed a narrar nol vegno
Perch'io n'aggia diletto, anzi nel seno
Ne sento incendio di mortal disdegno;
Io n'arrabbio così, che 'l ciel sereno
Vorrei far polve, e de le stelle il regno,
Vorrei la terra e 'l mar volger sossopra,
Ma mio voler non posso porre in opra.

XXX

Mentre fra gli esecrabili furori
Gli empi Demoni disfogavan l'ira,
Per virtù de gli incogniti licori
Giassarte da l'angoscia ecco rispira;
Già franco, già del sol gli almi splendori
Con lo sguardo vivace egli rimira,
E ferve il sangue, e si dilegua il ghiaccio
Dal corpo afflitto, e divien forte il braccio.

XXXI

Come addivien se fuor del campo ondoso
Spigne delfin mar travagliato e vento,
Ch'ei si dibatte sul terren sabbioso,
Poi languendo riman sì come spento;
Ma se passando peregrin pietoso
Lo rende a l'acque amate, in un momento
Terge le belle squamme e si ravviva,
E salta lunge da l'odiosa riva;

XXXII

Cotal dell'egro cavalier succede;
Ratto ogni fievolezza ivi abbandona,
Onde il mostro infernal, che forte il vede,
Seco in sembianza d'uom così ragiona:
Vanne colà, dove pietate e fede
Sul punto estremo a travagliarti sprona;
Torna a fugar le Rodïane genti,
Ma di dar guerra ad AMEDEO ritienti.

XXXIII

Ei ben feroce, ei di fortezza adorno
Via molto più che non suol dar natura,
Trascorre folgorando in questo giorno;
Forse altra volta avrà peggior ventura.
Fra questi detti a se sgombrando intorno
Il corpo finto a gli occhi altrui si fura;
E sovra il piè leggier ver quella parte
Ove si pugna se ne va Giassarte.

XXXIV

Intanto sul terren, ch'atro ribagna
Sangue de' Turchi il grande Eroe sì freme,
Che tutto ingombra il ciel di chi si lagna,
Orribile rimbombo, e di chi geme;
Molti ne van destrier per la campagna,
Ed il dorso di lor nessun non preme,
Che i nobili rettor caduti al piano
Fieno aspettati da la patria in vano.

XXXV

Qual torbido torrente allor che scende
Gonfio di spume da montagna alpestra,
O qual è fiamma ove più forte incende
Co' soffi d'aquilon valle silvestra,
Qual fulmine che nube atra scoscende,
Tal rassembrava d'AMEDEO la destra;
Megera il guarda e per furor trabocca
Cerberea spuma da l'orribil bocca.

XXXVI

E dal guardo non manco aspro veneno
Cosparge Aletto, ed a volar non lenta
Trova Megera, e dal terribil seno
Empie parole imperversando avventa:
Pur sotto l'asta d'AMEDEO vien meno
La turca gente o sbigottita, o spenta,
Nè di più rinfrancarla hanno potere
Tante del nostro inferno armate schiere?

XXXVII

Un sol nemico ne soggioga, indegna
Per noi memoria, ah gli si sterpi il core
A brani, a ghiado il traditor si spegna,
Megera; e quì divampa ira e furore;
Megera in ascoltando aspra si sdegna,
Nè per gli occhi travolve ira minore;
Sì fiere si movean l'anime infeste,
Ma raffrenolle il regnator celeste.

XXXVIII

Termine ei fisse a i Rodïan dolori
Pur come piacque al suo volere eterno,
E tante de' demoni ire e furori
Volle serrar nel tenebroso inferno;
Però ne l'alto in fra gli eterei cori
Del numeroso esercito superno
Egli rivolse in ver Michele il guardo,
Unqua suoi cenni ad ubbidir non tardo:

XXXIX

Scendi su Rodi, e fa sentir tua voce,
E i demon scaccia a la prigione orrenda;
Di', che non sia la giù spirto feroce
Sì che di nuovo a le battaglie ascenda;
Michel s'inchina, ed a partir veloce
Stringe grande asta con la man tremenda,
Asta, ch'a braccio altrui vibrar non lice,
Forte, grave, immortal, sterminatrice.

XL

Gran scudo imbraccia a la sua fè commesso;
Pregio immortal, dal gran tonante eterno.
Il dì ch'ei spinse col gran scudo istesso
I rubellanti dal gran ciel superno;
Quivi timor, quivi terrore impresso,
Quivi era orror del tenebroso inferno;
V'era che 'n alto, abbominati esempi,
Ergea gran seggio il regnator de gli empi.

XLI

Ma l'aurea luce, onde è cotanto adorno
Par che repente in tetro orrore ei cange,
Almo trofeo del memorabil giorno
Che 'l cieco abisso ancor bestemmia e piange;
Tra sì belle armi coruscando intorno
Ei rassomiglia il Sol ch'esce dal Gange,
E spiega l'ali da l'etereo polo,
E contra i rei demon sen viene a volo.

XLII

Cosparge per lo ciel voce divina,
Aerei campi dibattendo in giro,
E quasi incendio per foresta alpina
Lunge dintorno i gridi suoi s'udiro:
O con obbrobriosa, alta ruina
Precipitati ad immortal martiro:
Non son per voi l'aure serene e liete;
A vostre orride tombe, empi, scendete.

XLIII

Perduti eternamente, anco mirate
L'aspetto di quei cieli, onde cadeste,
E debellati contrapporvi osate
Pur a quell'armi, onde ogni ben perdeste?
Così gridando in su le piume aurate
Moveva intorno il volator celeste,
E lo guardava orribilmente fiera
Da lunge Aletto e la crudel Megera.

XLIV

Gonfiansi entrambe, e rio furor le accende
Con orgoglio superbo a far difesa;
Ma poi nel petto lor tema discende
Sì che torna di giel l'anima accesa;
Quinci Aletto smarrita a fuggir prende,
Segue Megera, e la bramata impresa
Rimansi ivi deserta, onde d'affanno
E con ringhi e con mugghi aspri sen vanno.

XLV

La dove più gli acherontei bollori
Empiono di fetor gli antri focosi,
Corron per notte di profondi orrori
I fieri spirti in suo cammin dogliosi.
Michel cinto di rai, cinto d'ardori,
Come nel centro rimirogli ascosi,
Ferma le piume, onde fornisce il tergo,
Sopra il sogliar de l'infernale albergo.

XLVI

Ivi sua voce inverso lor conversa,
D'Erebo fa tremar tutte le bande;
Men suona il Nil che 'n precipizio versa
Da l'alto l'onde, e i gran diluvii spande;
Grida: o vil gente al Re del mondo avversa,
Già ne i seggi del ciel felice e grande,
Ed or qua giù sommersa, onde si scerna
Chiaro il valor de la giustizia eterna;

XLVII

Ancor vi sferza empia sciocchezza? e tira
A trattar arme? a ministrare ardori?
Imperversate? il vostro cor desira
Crescer la vita e d'Ottoman gli onori?
Fremete in van; vano è lo sdegno e l'ira;
Rompe fato di Dio vostri furori;
Omai le dure rabbie, omai fornite,
Empi, le furie e 'l gran destin sentite.

XLVIII

Fa sanguinosa e lagrimevol messe
Ferro latin di vostre amiche genti;
Ma quì non sia chi sovvenir l'oppresse
Schiere con opra, o con pensier pur tenti;
Ciascun come pugnò, come cadesse,
I tuoni, l'arme del gran Dio rammenti;
Sì disse: e 'n volto minaccioso e crudo
Vibrò la lancia ed innalzò lo scudo.

XLIX

Veduto avresti a quel suo dir costretti
I superbi inchinar l'arme fatali,
E gonfiar d'ira e di veneno i petti,
Ed avanzar ne gli infiniti mali.
Spiega Michel poi c'ha finiti i detti
Rapido il corso fiammeggiante e l'ali,
E d'aurei nembi risonando intorno
Fa nei campi superni almo ritorno.

L

Tal s'ama strangolare angue squammoso,
L'ali superbe in ver le siepi inchina,
O ver tra fossi ove egli striscia ascoso,
De gl'impennati augei l'alta regina,
Ma di star colà giù sdegna il riposo,
Ch'a le rote del ciel torna vicina
Subitamente, e gloriosa fende
Le nubi avverse, e verso il sole ascende.

FINE DEL CANTO XX.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XX.

Argomento del Poeta: «Nel XX. Amedeo ritorna in campo contra Ottomano.
Dio manda l'Angelo che scacci i diavoli dalla tenzone.»

Niuna osservazione critica sopra questo Canto si trova nel MS. del
Cav. d'Urfè.

CANTO XXI.

ARGOMENTO.

Scontransi alfine i duo campioni in guerra,
E terribil fra lor zuffa si stringe;
L'Eterno Nume le bilancie afferra,
E le sorti a pesarne ecco s'accinge;
Tosto il fato d'entrambi si disserra,
Che la colpa Ottomano in giù sospinge;
Onde uscì colpo d'AMEDEO dal brando.
Che cacciò l'altro della vita in bando.

I

Sul campo intanto e fra le sparse schiere
AMEDEO scorge il gran nemico, e gira
Là dove ei combattea l'orme leggiere
Tutto di gaudio sfavillando e d'ira;
Al fiero corso, a le sembianze altiere
Il conosce Ottoman tosto che 'l mira,
E scote il capo e tra le furie estreme
Solleva un grido minaccioso e freme.

II

Ambe le guancie di disdegno ei tinge,
E d'orribile foco empie ogni vena;
Lampeggia il guardo, e sì furor lo spinge,
Che de' piedi la terra imprime a pena,
Fattosi da vicin la spada stringe;
L'aria di quel fulgor lunge balena
Come se tuona; ed AMEDEO non cessa,
Ma vibra il brando, e l'inimico appressa.

III

Qual, s'a leon devorator d'armenti,
Che pur dianzi scannò su prati erbosi,
Giunge tratto a l'odor de i tori spenti
Affamato leon da gli antri ascosi,
Scagliansi incontra con la spuma a i denti,
Frementi, ardenti, di sbranar bramosi,
E con attorte code aspro veneno
Svegliansi d'ira nel terribil seno;

IV

Tal di quei duo feroci era a mirarsi
L'ammirabile assalto; alto furore
Ora il capo, ora il petto, ora impiagarsi
Gli detta il fianco, e trapassarsi il core;
Da l'armi indarno travagliate sparsi
Volano per lo ciel lampi d'orrore,
E sì fier suon, che da' propinqui move
Monti ogni belva sbigottita altrove.

V

Poscia, che i ferri a penetrar comprende
Vana ogni prova, infellonito e crudo
Ciascun la spada a maneggiare attende
Che impiaghi là dove il nemico è nudo;
Ed ora punge insidioso, or fende,
Ora accenna a l'elmetto, ora a lo scudo,
Or volgendosi a destra, ora a sinistra
La man de l'ira e del furor ministra.

VI

Tra mille finte al fin, tra mille vere,
Dal Turco infuriato esce percossa,
Ch'AMEDEO trova, e ne la coscia il fere
Gagliardo sì, ch'ivi tremar fe' l'ossa;
Tosto che rimirò le vene altiere
La terra far del nobil sangue rossa
Mise alto strido il feritor, che tuono,
Squarciando umida nube ha minor suono.

VII

Rodi non più ne la battaglia avversa
Aver celeste difensor si vanti;
Ecco è pur verità, che sangue ei versa,
E che le membra sue non son diamanti;
Farò ben'io, ch'ella cadrà dispersa,
Se 'n costui spera: con altier sembianti
Così dicea, crudel; per le ferite
Arse incendio AMEDEO d'ire infinite.

VIII

Ne l'armi eterne a la mortal battaglia
Ratto a se vendicar con le man pronte
Contra la forza d'Ottoman si scaglia
Impresso d'odio la terribil fronte,
Sì come tigre, che gli armenti assaglia,
Sì come turbo, che scotendo il monte
Di svelte piante va coprendo i campi,
Sì come orrido tuon, tra nembi e lampi.

IX

D'indomita ira giù nel petto acceso
Verso l'empio nemico alza la spada.
E quegli'alza lo scudo, onde difeso
Fa pur, ch'a vôto il fier ferir sen vada;
Ma da la forza estrema il braccio offeso
Tanto non può valer, che giù non cada
Il grave scudo, a cui levar vien manco;
E riman nudo ad Ottomano il fianco.

X

Mentre riarsi il cor d'empi disdegni
Son trasportati dal furore interno,
E del valore uman varcando i segni
Hanno le piaghe, hanno la morte a scherno,
Dal colmo eccelso degli eterei regni
Chinò l'eterno Dio lo sguardo eterno,
Mirando in Rodi e fuggitivi e spenti,
Nè men de i vincitor l'arme possenti.

XI

E su quel punto alme bilancie ei prese
Splendide d'or con l'infallibil mano,
Ed ivi dentro in un momento appese
Che sperare e temer possa Ottomano;
Sua colpa in giù profondamente scese,
Sì che giustizia egli aspettava in vano,
Se non per pena; in ciò mirando fisse
Dio l'alme ciglia immortalmente, e disse:

XII

Giunto è l'ultimo dì; chiuse le porte
A lui son del perdon; giusto è ch'ei mora;
Ora dunque AMEDEO nel tragga a morte,
Sangue, che tanto le mie leggi onora;
E quinci infonde coraggioso e forte
Spirto, onde l'alto cor più s'avvalora
E contra il Turco a la sua fin d'appresso
Pugna più ch'a mortal non è concesso.

XIII

Ecco la destra, ecco sospinge il piede,
E folgorando con l'acciar celeste
Inverso il petto disarmato il fiede
Orribile di piaghe ampie e funeste:
Come s'Arturo al sommo ciel sen riede
Suscitator di nembi e di tempeste,
Mira nave talvolta in un momento
L'alber fiaccarsi al rinforzar del vento;

XIV

Tal supin casca, e rimbombar fa 'l piano
Il tanto dianzi formidabil Scita;
Sorger tentò, ma fu suo sforzo in vano,
Chè gli toglie il vigor l'ampia ferita.
Bene al campion, non dal morir lontano,
Era pronto a donar l'inferno aita,
Se non che 'l cielo, e i suoi messaggi ei teme;
Però sel guarda bestemmiando, e freme.

XV

Ma verso lui ch'a ripugnar s'accinge
Più il glorioso vincitor s'adira,
E ne la gola il duro acciar gli spinge,
Ed ivi tienlo fin che vivo il mira:
Gli occhi travolve e di pallor si tinge
Freddo Ottoman e sul morir sospira
La cara vita e la fortuna andata,
E via più ch'altro la bellezza amata.

XVI

Intanto Araspe il corridor frenato
Spronava intorno, ed animando giva
Le turbe vinte, onde mirò sul prato
Sanguinoso Ottoman, che si moriva;
Da repentina angoscia alto agitato
Ei l'addita a lo stuol che lui seguiva,
Poi con mugghio dicea d'aspro tormento:
E quale spirto a guerreggiar fia lento?

XVII

Spento giace Ottoman, e chi lo spense
Stagli sopra ridendo: al fin dei detti,
Non più di doglie, che di rabbie immense
Quegli armati fedeli empiono i petti;
Come da selve solitarie e dense
Orridi lupi da digiun costretti
Infra gregge sen van, così veloci
Nè men contra AMEDEO mosser feroci.

XVIII

Ed egli alto gridò, ben che ferito,
Vibrando il brando con altier sembianti:
Empi, nemici al ciel, cotanto ardito
Un sia di voi, che si sospinga avanti.
Sì disse, e fu quel dir per l'aria udito
Qual rimbombo di fulmini tonanti,
Sì l'Angel suo, ch'a lui vicin sen vola
Fe' grande il suon de la mortal parola.

XIX

Ed indi sparso d'aureo nembo ardente
Pur in sembianza incontrastabil fiera
Tende lor contra con la man possente
Arco, che d'ogni scampo altrui dispera;
Arco, di cui minor tende sovente
Arco in ciel di Giunon la messaggiera;
Quei si posero in fuga; ognun s'affretta;
E rimane Ottoman senza vendetta.

XX

Fama intorno ne va; Folco l'ascolta
Per cento bocche, ed a le trombe impone
D'ognintorno sonare alto a raccolta;
Ed ei ratto s'aggiunge al gran campione,
Seco al fin verso Rodi il piè rivolta;
Al fin perviene a la real magione
Ove con molti messaggier si chiama
Fisico altier di peregrina fama.

XXI

Destrissimo di man, di polso forte
E di vista lincea venne Geloo,
Secondo pregio in far contrasto a morte,
Ma non men chiaro, che 'l primier di Coo,
Pur che nobili sian tutte egli ha scorte
L'erbe del suolo Esperio e de l'Eoo;
Ed ogni lor virtù gli fe' palese
Onfale che di lui forte s'accese.

XXII

Costei tra boschi, e su l'Emonia riva
Incantando abitava erma caverna,
E fama indegna per la terra argiva
Gloriosa la fea ne l'arte inferna;
Ma tempo fu che 'l buon Geloo sen giva
Lunge col piè da la magion paterna
Fuggendo di matrigna empio disdegno,
E colà d'alto onor fu fatto degno.

XXIII

Onfale il vide, e de' suoi be' sembianti
Ardendo ebbe a soffrir pena profonda;
E perch'ei gisse altier fra gli altri amanti
Non pur valor di sconosciuta fronda,
Ma gli volle insegnar forza d'incanti
Onde cangiar potesse il corso a l'onda,
Ed affrettasse ed arrestasse i venti,
E del sole oscurasse i raggi ardenti.

XXIV

Egli gentile appien l'animo tolse
Da quei secreti abbominati e crudi,
E sol de l'erbe a penetrar si volse
Con l'arti di costei vizj e virtudi;
Quinci fu chiaro, e bella fama sciolse
I gridi intorno a celebrar suoi studi,
E se del suo valore unqua diè segno,
Or per lo grande Eroe sforza l'ingegno.

XXV

D'armi e di panni a dispogliarlo attende,
E perchè 'l lasso corpo aggia quiete
Sopra morbide piume egli il distende
Tra fregi d'oro e tra Meonie sete;
Poi preme e terge la ferita, e spende
Ivi intorno licor d'erbe scerete
Che le percosse inacerbir divieta,
Dittamo scelto che fiorisce in Creta.

XXVI

Medicato l'Eroe, prende commiato,
Ed a lui prima, a gli altri poi s'inchina;
Indi il buon Folco al cavalier piagato,
Tutto lieto a mirar, si ravvicina,
E dice: al nostro miserabil stato,
Signor, col braccio tuo forza divina
Termine ha posto, onde ci colma il petto
Un già poco sperato alto diletto.

XXVII

Ma perchè di tuo scampo ecci nel core,
Come è ben giusto, disianza estrema,
Tutto che molto lieve il tuo dolore,
Non poca parte del gioir ci scema;
Pur così ti vuò dir: non ha timore
Il buon Geloo, che tanto o quanto il prema;
Sì che la Dio mercè salva è tua vita,
E di gloria immortai fia la ferita.

XXVIII

O de l'Asia terror, non fia guerriero,
Che di candida croce il petto segni,
In cui per ogni età saldo pensiero
De' tuoi gran merti in mezzo il cor non regni,
Quanto del ciel per l'immortai sentiero
Riguarda il sol tra' luminosi segni,
Ovunque onda di mar percote i lidi,
Faran sonar di tua vittoria i gridi.

XXIX

E quei rende risposta in voce altiera
Posatamente: io maneggiate ho l'armi
Come convenne; or che mi campi o pera,
Al gran voler di Dio debbo quetarmi;
Ma che da Rodi servitù sì fiera
Io facessi lontana ho da vantarmi;
Quivi acciò si riposi, e gli occhi abbassi
Folco il saluta, indi moveva i passi.

XXX

Ma che fuor quelle tende alcun s'arresti
De i cavalier, ch'egli ha da lato impone,
Acciò servigi ad AMEDEO sian presti,
Se forse di servir vegna cagione;
Poscia le squadre armate, e i duci desti
Che sian comanda, e come suol dispone
Guardia fidata a le percosse mura,
E come sempre d'ogni risco ha cura.

XXXI

Ma nel regno infernal, dove circonda
Tartaro sempre tenebroso, e dove
Tra zolfi accesi Flegetonte inonda,
E dove Lete innavigabil move
Su l'estinto Ottoman doglia profonda
Quell'empie turbe a lamentar commove,
E di cordoglio e di bestemmie inferne
Sentonsi alto ulular l'empie caverne.

XXXII

Spirto non è là giù, che contra il forte
Campion non latri; ogni demon sospira
Di Rodi il vanto e d'Ottoman la morte,
E contra il mondo, e contra il ciel s'adira;
Or, quando tanto in nuova rabbia assorte
L'alme dannate il Re tetro rimira
Dentro reggia d'ardor fetida e bruna
Del popol suo gli orridi spirti aduna.

XXXIII

Tra le fiamme di Dite alza veloce
La vasta fronte, onde i demon frementi
Compresso il pianto e l'ulular feroce,
Ne l'aspro Re fermano gli occhi intenti;
Ei torce il guardo folgorante, atroce,
Alto quassa le tempie, empi portenti,
Fulmina d'una bocca accenti orrendi,
E da mille altre atri divampa incendi.

XXXIV

Tanto affanno, diss'ei, tanto quì sento
Sparso dolor, perchè l'ignobil terra
D'isola angusta altri n'usurpi e spento
Caschi un sol Duce e senza biasmo in guerra?
Non di danno sì vil tempra il tormento
Il mondo immenso, e l'Ocean, che 'l serra?
Ove ad un cenno sol tanto reggete,
Che certo Rodi disprezzar potete?

XXXV

Stiasi il vil borgo, e l'alte fiamme accese
Schifi, nè sia furor ch'ora il deprede,
E sian di Pietro memorande imprese
Con tanto sforzo ivi serbar sua fede;
Intanto l'Asia, e l'African paese
Devoto a noi già non cadragli al piede,
Nè fia, che legge altra, che nostra onori,
Nè tempio, o nume altro, che nostro adori.

XXXVI

O de l'Erebo eterno ombre possenti,
Poi sì v'ange di Pier bassa vittoria,
Volgete in cor le tributarie genti
Per l'Oriente, incomparabil gloria;
Qual ivi aitar? quali ivi incensi ardenti?
Qual ivi appar del Vatican memoria?
Frequentansi fra lor culti divini?
Evvi pur un che 'l Crocifisso inchini?

XXXVII

Dite, che Pietro a contrastarmi impero
Colà presuma, e perturbar mia pace,
O questo di Savoia alto guerriero
Poi che de l'armi sue tanto è seguace;
Ma quel mondo ove il Nil torce il sentiero
Quasi infinito, al cui voler soggiace?
E per nobile parte Europa anch'ella
Non è d'inferno ubbidiente ancella?

XXXVIII

Voi de la terra al fin, voi degli immensi
Campi del mar, voi raggirate il freno;
Se lo scettro del ciel per voi non tiensi,
Con sforzo orrendo il combatteste almeno;
Su generosi, alto levate i sensi,
Di magnanimi spirti empiete il seno,
Sgombrisi ogni timor, poco vi caglia,
Divi del mondo, una sì vil battaglia.

XXXIX

Mirate i cerchi de l'abisso, e quante
Gemono al vostro giogo alme funeste,
Tutte per se bramolle il Re stellante,
E voi lor tutte in questo ardor traeste.
Così parlava latrator, mugghiante
Contra l'eccelso tonator celeste,
Quinci obbliando d'Ottoman lo scherno
Volgonsi crudi a tormentar l'inferno.

XL

Nè fama intanto d'Ottomano oscura
Fra' Turchi a susurrar batte le penne,
Ma de la morte sua certa e sicura
Verso Bostange un messaggier sen venne;
Al primo suon de la novella dura
Ebbe tanto dolor, ch'ei nol sostenne;
Poi fassi franco, e ne la pena immensa
Come schernir tanta miseria pensa.

XLI

E tosto a circondar gli ampi steccati
Finchè l'aurora rimenasse il giorno
Manda animoso i capitani armati,
E fa fiero sonar le trombe intorno;
Non contra i Turchi di timor gelati
E privi d'Ottoman, faccia ritorno
La spada d'AMEDEO forte paventa,
E lor ben poco il riposar consenta.

XLII

Poscia premendo in petto i rei pensieri,
Ed i sembianti serenando egli erra
Per ogni parte, e l'alme de' guerrieri
Desta a travagli de l'orribil guerra,
Ed indi i duci de le squadre altieri
Ei chiama, e vanno colà dove in terra
Giaceva il gran signor per indi trarlo,
Ed a le pompe estreme almen serbarlo.

XLIII

Pien Glassarte di duol, pien di tormento,
E pure Araspe di dolor ripieno
Piangeva andando, e seco alto lamento
Il canuto Ebrain facea non meno;
Ma come impallidito, come spento,
Come sparso di sangue il volto e 'l seno,
E come steso il caro Re scorgea
Ciascun di doppia doglia il core empiea.

XLIV

Tacquesi alquanto, indi Bostange: o degno
Ben d'ampio impero, ecco, pur dianzi in core
L'Asia volgevi, e de l'Europa il regno
Come scettri dovuti al tuo valore,
Or vinto, or morto, onde venir sostegno
Deggia a' popoli tuoi contra il furore
Di tanto vincitor ch'aspro s'adira,
Dio lo si sa ch'a sì rio fin ti tira.

XLV

Così piangeva; ed a la man, che viva
Dell'Asia i vinti Re tanto inchinaro,
Ivi disciolta e di fortezza priva,
Tutti in segno d'onor baci donaro;
Dolenti al fin da la dolente riva
Le care membra e riverite alzaro,
E van con esse in ver le regie tende,
E lor sempre nel sen pianto discende.

XLVI

Sultana intanto, i cui pensier confonde
De l'amato signor speme e paura,
A Licasta diceva: omai ne l'onde
Il sol trabocca, e tutto il ciel s'oscura,
E pur de' messaggier nessun risponde
Qual del mio caro Re sia la ventura:
Tanto ha di forza quel latin guerriero,
Che consumi l'assalto un giorno intiero?

XLVII

In tanto affanno ad aspettar più forte
La mia vita non è; movi, nutrice,
Corri, comprendi d'Ottoman la sorte,
E fa certa del ver questa infelice.
Trema la lingua, ambe le guance smorte
Tingonsi di pallor mentre ella dice;
E la vecchia fedel, cui forte incresce
Sì grave duol, del padiglion fuor'esce.

XLVIII

Ogni sembianza tra' guerrier dogliosa,
Ivi mira, ch'ognun lagrime scioglie;
Al fin che 'l Re sotto la man famosa
Cadesse d'AMEDEO chiaro raccoglie.
Traggene guai, ma certa ella non osa
Le novelle recar di sì gran doglie,
E tra' sospir di quella gente mesta
Pur lagrimando a sospirar s'arresta.

XLIX

Di tanti indugi suoi punge più strano
Timor Sultana, e lo sperar le vieta:
Non è, dicea, ch'ella non torni, in vano;
Non si cela ad altrui ventura lieta;
Quinci nel biondo crin la bianca mano
Sospinge, e l'alma in nulla parte acqueta;
Al fin alto gridò: perchè non riede,
Io pur vedrollo; indi moveva il piede.

L

Del grave duolo il vago volto impressa
Va tra l'armate genti; ognun la mira,
E mirarla di duol cotanto oppressa
Più fuor de gli occhi altrui lagrime tira.
Ella ciascun di dimandar non cessa,
Ma tacendo ver lei ciascun sospira;
Pur volge il guardo, ove dolente stassi
Piangendo Alcasto, e colà move i passi.

LI

Quei l'alta donna reverente onora;
Ed ella a lui, che le s'inchina avanti;
Alcasto, il nostro Re dove dimora?
E perchè quì tante querele e pianti?
Il Capitan per la pietate allora
Colma di più dolor voce e sembianti,
Ed a Sultana la miseria indegna
Con modo accorto palesar s'ingegna.

LII

E dice: il tuo signor nel campo uscita
Fece, o Reina, ivi pugnò qual forte;
Al nemico AMEDEO diede ferita,
Ma le battaglie non han stabil sorte;
Tu sai, che per l'onor cara è la vita,
E che pur per l'onor cara è la morte;
Ben verso lui, s'è di mestier soccorso,
Bostange, Araspe e 'l buon Giassarte è corso.

LIII

Non prima il Cavalier tenne la voce,
Ch'ella di nuovi pianti il sen fa molle,
E grida sospirando: ah cor feroce,
Pregai cotanto, ed egli udir non volle;
Pena de le mie colpe; indi veloce
Fuor da gli ampi steccati ella si tolle,
E scorge Araspe, e che ciascun sen viene,
E che le membra d'Ottoman sostiene.

LIV

Fassi al corpo vicina in un momento,
E di pena e di morte è sua sembianza;
Ma quando il vede trapassato e spento
Gridava: o mio conforto, o mia speranza!
E cotanto di forza ebbe il tormento,
Che di più favellar non ha possanza,
Sol bacia il volto, e colà dove aperse
La dura spada ch'AMEDEO v'immerse.

LV

Poi tra l'angoscia, onde si stempra il core,
Il collo abbraccia del signor diletto,
E sì vien da quegli occhi il pianto fuore,
Che 'l viso tutto, e gliene lava il petto;
Tal colmi di mestizia e di dolore
Vanno a le tende del real ricetto,
E grande il morto Re turba accompagna,
Nè di tanti è pur un ch'alto non piagna.

LVI

Come dentro son giunti, ed ella il posa
Sovr'auree sete ed odorate tele,
Indi le piaghe sue mira pensosa,
Indi comincia a rinnovar querele:
O di stato mortal grandezza odiosa!
O spettacol di Regi empio e crudele!
Ed io dannata a miserabil scempio
Perchè ci nacqui d'infelici esempio?

LVII

Visto ho nemici in su la patria riva,
E d'altrui man nostri tesor fur prede,
Spenti i parenti e de lo scettro priva,
D'altro non fui che di miserie erede;
Poscia per Ottoman, ben che captiva,
Altra volta fui posta in regia sede;
Cotanto, o stelle, m'innalzaste, e solo
Per crescer più de' precipizii il duolo.

LVIII

Ah crudeltà, col Ciel forse contesi?
Trassi gli altar con empie fiamme a terra?
O rubella del padre il ferro presi?
O pur contra la patria io mossi in guerra?
Deh spengansi del sol le fiamme accese,
Caschino l'alte stelle omai sotterra,
E travolgasi il mondo in forma nova,
Poi ch'innocente cor pietà non trova.

LIX

Ma se 'l tenore è del mio mal sì forte
Ch'io non deggia aspettar, salvo tormenti,
Con franchezza di cor cerchiam la morte,
Sol refugio de' mesti e de' dolenti;
Tra queste amare voci apre le porte
A caldi pianti, ed a sospiri ardenti,
Straccia le chiome, e a gran furor percote
Pur con ambe le palme ambe le gote.

FINE DEL CANTO XXI.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XXI.

«Nel XXI. Amedeo uccide Ottomano; et Amedeo ferito si medica. Sultana piange sopra Ottomano.» Così l'argomento postovi dal Poeta.

Il Cav. d'Urfè trova molto da censurare in questo canto. Comincia con osservare che l'Autore «il fait combattre Amedee et Ottoman sans dire commant cela pouvoit estre, parceque de croire, qu'Ottoman soit veu (vu) combattre et mal traitté, et que les siens ne le secourent point il n'est pas vraysamblable, d'autant que ce n'estoit pas un combat assigné ny fait avec les assurances d'un coté et d'autre.» E vuol dire che l'incontro di Amedeo con Ottomano non essendo un combattimento singolare concertato secondo le regole invariabili dell'antica cavalleria, per le quali niuno poteva recare soccorso a' combattenti, è perciò cosa incredibile che i Turchi veggendo il duce loro in pericolo non si movessero a dargli soccorso. Ma si potrebbe dire in contrario, che sebbene i due campioni non avessero assegnato nè il giorno nè il luogo alla pugna, vero è non pertanto, che il dirizzarsi dell'uno contro dell'altro, lasciando qualunque altra cura degli eserciti, veniva a costituire ipso facto una singolar tenzone, in cui altri non si poteva introdurre senza disonorare se medesimo ed i campioni. E per tal motivo panni al tutto fuor di proposito il suggerimento del critico: «c'est pourquoy je pense qu'il ent esté fort a propos de faire que la foule de Turcs voulant secourir Ottoman les separe mais trop tard pour Ottoman qui meurt incontinant apres des grands coups receus.»

Meglio ponderata mi sembra la censura seconda. Finge il Poeta, che durando tuttora la battaglia tra' due campioni, l'eterno Dio,

    «…. alme bilance ei prese
    Splendide d'or con infallibil mano,
    Et ivi dentro in un momento appese
    Che sperare e temer possa Ottomano;
    Sua colpa in giù profondamente scese ecc.»

Ma il Cav. d'Urfè osserva come «la balance que Dieu prand pour savoir lequel des deux mourra, d'Amedee et d'Ottoman, est une imitation d'Homere en ce qui est d'Achile et d'Hector, mais ce me samble peu convenablement apropriee en ce lieu, car Homere dit que les dieux n'estoient pas resolu lequel devoit vaincre, et en ce combat il n'est pas ainsy, car puisqu'Amedee avoit les armes invincibles et contre les quelles rien ne pouvoit resister, il est certain que Dieu avoit desia (deja)* resolu qu'il vincroit.» Ma con pace del Censore, qui si trattava non se dovesse aver la vittoria Ottomano ed Amedeo, sì se Ottomano avesse a cadere quel dì precisamente sotto la spada invincibile del Duca:

Giunto è l'ultimo dì…….. ……………… Ora dunque Amedeo nel tragga a morte.»

Quanto al non potere Ottomano resistere alle armi di Amedeo, ciò vuolsi intendere con alcuna riserva: noi veggiam pure che

    «Dal Turco infuriato esce percossa
    Che Amedeo trova e nella coscia il fere
    Gagliardo sì, ch'ivi tremar fe l'ossa:
    Tosto che rimirò le vene altiere
    La terra far del nobil sangue rossa ecc.»

Non è dunque da pensare che niun pericolo incorresse Amedeo combattendo coll'armi temprate dal favore celeste.

«De plus (continua il Critico) Achile et Hector estoient et l'un et l'autre soutenus par des dieux partials, ce qui n'est pas en ceux cy; car l'un qui est Amedee est du tout soustenu de Dieu. De plus la balance estoit pour peser lequel estoit meilleur: pour le moins il dit que les coulpes d'Ottoman le firent dessandre en bas: et en cela il samble qu'il outrage Amedee et sa prud'hommie de le balancer luy qui est si grand serviteur de Dieu avec un Turc qui en est si grand ennemi.» Ripeto che nel poema, secondo il testo a stampa, non si mettono sulla bilancia i meriti di Amedeo e di Ottomano, ma solamente si determina se le colpe del Turco sieno giunte a quel segno che provoca il colpo finale della vendetta, ossia giustizia divina.

«Il dit que les esprits inferneaux pleignoient autour du corps d'Ottoman; et peu au paravant il avoit dit que l'Ange les avoit par comandement de Dieu ranfermé tous en enfer, et mesme (XX. st. 38) il en fait une longue description.» L'ordine dato da Michele agli spiriti rubelli non era già che più non uscissero d'inferno, ma che più non osassero portare soccorso agli Ottomani: canto XX. st. 48:

    «Ma quì non sia chi sovvenir l'oppresse
    Schiere con opra o con pensier pur tenti.»

Quantunque le osservazioni critiche dell'Urfè sul canto XXI sieno assai deboli prese partitamente, tuttavia nel complesso non sono d'aversi a vile; e concorro di buon grado con esso lui a giudicare poco avvedutamente introdotto l'episodio delle bilance nella mano di Dio, trattandosi di cristiani e d'infedeli, e di guerra apertamente ingiusta dalla parte de' Maomettani.

L'ultima censura cade sull'arte militare; ed in questa, come si è detto più volte, il Chiabrera mancava di teoria e di pratica: «Il fait que les Chrestiens se retirent apres ce combat d'Ottoman dans Rhodes, sans dire commant les deux armees se separent, et tout aynsi que si c'estoit une chose fort aysee et de nulle importance.

N. B. Nella st. 29 si legge: ma che da Rodi ecc. può stare così; ma forse piacerebbe meglio; nè che da Rodi ecc.

La st. 58 è difettosa nelle rime, così nell'ediz. in 4.º, come nell'Amedeida minore (X. 37): si poteva emendare:

«Trassi gli altar con empie forze a terra? . . . . . . . . . . . . . . Deh spengansi del sole i raggi accesi.»

ma nulla si vuol mutare senza l'autorità de' testi antichi.

CANTO XXII.

ARGOMENTO.

De' Saracin gli avanzi insiem raccolti
Tengon fra loro l'ultimo consiglio;
Sorte contraria fa che ognuno ascolti,
Ed apra gli occhi sul comun periglio;
Onde da Rodi a dipartir son volti,
Ed a pigliarne volontario esiglio.
Per Ottoman scioglie ai lamenti il freno
Sultana, e beve poi letal veneno.

I

Così la vince il gran martir; ma volse
A lo scampo de' suoi Bostange il core
Sul risco estremo, ed i guerrieri accolse
Che nel campo godean grado d'onore;
Guardogli alquanto; indi la lingua sciolse,
Nel profondo del cor chiuse il dolore,
Ed a' mesti baron chiedea consiglio
Con salda voce nel sovran periglio:

II

De le nostre battaglie ove trascorso
Or sia lo stato vel vedete aperto;
Rodi su quel momento ebbe soccorso
Che lo sterminio ella attendea per certo;
Ottoman combattendo a morte è corso;
La plebe vinta, e del martir sofferto
Isbigottita, s'avvalora in vano,
Nè più porgere a' ferri osa la mano.

III

Or quando incontra noi veggiam converse
Tante miserie, e sì gran Duce armarsi,
Ed è per l'uom ne le stagioni avverse
Prova d'alto valor ben consigliarsi,
Che proponete? in questi detti aperse
Le labbra il Cavaliero; ove chetarsi
Mirollo Araspe, alzò la fronte altiera,
Poi sospinse dal cor voce guerriera,

IV

E disse: uscimmo dai paterni tetti
Rodi a domar; taccio i piagati e i morti,
Ma son d'assedio i difensor si stretti,
Che speranza non han che li conforti:
Or qual dunque timor n'ingombra i petti?
Qual gelo i nostri cor rende men forti?
Per lor giunse AMEDEO, forse direte?
Ah vergogna! d'un sol dunque temete?

V

Se cadde il gran Signor, tra' più lodati
Famoso almeno egli cadeo; ma spento
Dimostra a noi contra nemici armati
Se si deggia nutrir pari ardimento;
O per addietro invitti, ora fugati,
Gite in Asia a mostrar vostro spavento;
Là fien de' vostri onor l'aure ripiene;
Io per me vuò morir su queste arene.

VI

Sì colmo Araspe di soverchio ardire
Porgea consiglio e su la guancia sparto
Egli avea fiamme; indi secondo a dire
Con tranquillo parlar sorse Giassarte:
Se di mortal guerriero orgogli ed ire,
E di battaglie esperienza ed arte
Ne chiudesse a vittoria oggi la strada,
Io vorrei l'asta ed adoprar la spada.

VII

Non son nuovo agli assalti, in guerra il pelo
Fatto ho canuto; io mille volte i lidi
Visti ho sanguigni, ed or venir di gelo
Le squadre, or franche sollevare i gridi,
Ma non pertanto contrastar col cielo
Ardimento mortal non mai m'affidi,
Nè sia coraggio d'uom che mi sospinga
Sì che contra il gran Dio la spada io stringa.

VIII

Non prezzo i Cavalier ch'entro si serra
Rodi, non prezzo d'AMEDEO le prove,
Prezzo che s'AMEDEO si move in guerra,
A suo prò l'universo anco si move:
Non rimirate voi scoter la terra?
Che mugghia il mar, che 'l ciel grandina e piove?
Che con terribil suon fulmini avventa?
E che sparso di fiamme altrui sgomenta?

IX

Per lunga fama ed approvata intendo,
Che l'uomo saggio il suo poter misura;
S'altramente vi sembra, io non contendo;
Il morire al mio cor non fa paura.
Di costoro al parlar va trascorrendo
Un mormorio, ma picciol tempo dura,
Che Bostange la destra innanzi stese,
E fe' silenzio ed a sì dire ei prese:

X

Amici, in campo la battaglia alterna
Vittorie e danni; de le guerre i fini
Non son certi giammai; s'altri governa
Il suo consiglio co' voler divini
È fuor di biasmo; che la destra eterna
A la vita mortal ferma i confini,
Nè ci ha giudicio su' giudicii suoi;
Ed oggi, amici, ella è contraria a noi.

XI

Però cediam; con questi avanzi io spero
Tornare in Asia, e ristorando i danni
Al figlio d'Ottoman guardar l'impero
Fin ch'egli giunga de lo scettro agli anni;
Dunque ciascun di voi svegli il pensiero,
E le sue squadre a raunar s'affanni,
E per l'ombra notturna armando i legni
Senza dimora veleggiar s'ingegni.

XII

Tu ver le tende di Sultana andrai,
E palese farai nostra partita
A sua grandezza, e come è giusto avrai
Cura, Ebrain, de la real sua vita.
Così non vil, ma cauto in mezzo a guai
Bostange favellò con fronte ardita,
E sprezzando egualmente ogni riposo
Alcun di quei baron non fu ritroso.

XIII

Ma ciascun mosse, ed al disperso stuolo
La legge del partir fa manifesta,
Che come notte più ricopra il polo
Ogni bandiera a navigar sia presta:
Sì come in lunghe file erra sul suolo,
Nè trasportando salme unqua s'arresta
Di formiche un gran popolo; talmente
Sen giva al mar la comandata gente.

XIV

Solo Ebrain verso Sultana il piede
Volgendo afflitto da sua fè sospinto
L'alta donna trovò che 'n terra siede
Presso il feretro del signore estinto;
Ivi che piange e che sospira ei vede,
E ch'oggimai di morte il viso ha tinto,
E che sommersa nel cordoglio e lassa
Su la sinistra palma il capo abbassa.

XV

Da prima entrando il Cavalier l'inchina,
E seco geme a quel dolor cotanto,
Poscia con lento piè le s'avvicina,
E guarda in terra e stassi immoto alquanto.
Scorgendo il suo fedel l'egra Reina
Stima ch'ei vegna a rasciugarle il pianto,
Nè volendo a sue pene atroci ed empie
Conforto sofferir, scote le tempie.

XVI

Poi dice: indarno movi al mio martire
Racconsolar, ch'ogni conforto ei schiva:
Di Sultana il conforto oggi è morire,
E fora biasmo il rimaner più viva.
Ascoltando Ebrain, che al suo desire
L'addolorata donna il varco apriva,
Discreto da lontan move a tentarla
Con detti oscuri, e sì con essa ei parla.

XVII

Grandemente amerei nel caso indegno
Ragione aver da consolar tua pena;
Ma perder tuo signor, perder tuo regno,
Tra nemici aspettar dura catena,
È tanto affanno che trapassa il segno,
E d'ogni aita a disperar mi mena,
E fa mestier nel così gran dolore
Di forte destra e di non debil core.

XVIII

Ma pur nel mondo ogni minaccia, ogn'ira,
Ogni grave miseria anco sostiensi.
Sì dicendo da lei gli occhi non gira,
Tutto intento a spiar ciò ch'ella pensi.
Ed ella giù nel cor prima sospira,
Soggiunge poscia: di martiri immensi
Altra vivendo non rifiuti il peso,
Ciò non fia certo di Sultana inteso.

XIX

A che deggio, Ebrain, dianzi beata
Via più d'ogni Reina altra terrena,
Farmi al mondo veder serva, legata,
Vinta le braccia e i piè d'aspra catena?
Qui dentro i Rodïan, gente spietata,
Forse ho da trastullar con la mia pena,
E di quì tratta per Italia alfine
Ho da soffrir le ferità latine?

XX

Unqua al fiero AMEDEO vedran le genti
Piegarmi in atto di supremo onore?
E baciar quelle man che fur possenti
Dar percossa di morte al mio signore?
Me, me de l'alto Ciel fulmini ardenti,
Prima traete a l'infernale orrore;
Me, me togliete a l'esecrabii sorte;
A voi mi volgo, io d'Ottoman consorte.

XXI

Così nel caso miserabil, rio
Ella il suo nobil cor mostrava aperto,
Ed ei del suo signor mostra il desio,
E lascia in bando il ragionar coperto:
Vera Regina, e che più dir degg'io?
Su tua miseria il tuo pensiero è certo,
E certo a te sottrai d'alti perigli
Altieramente il tuo gran cor consigli.

XXII

Sultana allor: se la presente sorte,
E se 'l risco vicin di maggior pianti
A farmi dolce reputar la morte
Oggi non fossero, Ebrain, bastanti,
Pur la vita troncarmi esser dee forte
Questo Re che trafitto emmi davanti,
Cui fermamente io so che fui diletta,
E che pur con desio seco m'aspetta.

XXIII

Così diceva, e con l'eburnea mano
Asciuga i lumi nubilosi e mesti;
Cui rispose Ebrain: non credi in vano,
Di creder ciò mille argomenti avesti;
Pur dirne un grande io vuò: dianzi Ottomano
Chiamommi in sul vestir gli acciar funesti,
E disse: io muovo in su l'assalto estremo
Contra AMEDEO, nè de la morte io temo.

XXIV

Temo ben io, che s'egli avvien ch'io mora,
Sultana incontrerà strania ventura,
E sì fatto timor tanto m'accora,
Che del morir la pena è via men dura;
Deh ch'ella meco se ne venga allora,
O diletto Ebrain, seco procura;
A mio nome con lei raddoppia i preghi,
Che 'l segno estremo di sua fè non neghi.

XXV

Qui tacque il servo; e la Reina volse
Il volto impresso di più reo tormento
Verso le membra d'Ottomano, e sciolse
Voce interrotta da mortal lamento:
Ah mio Re, cui nemico empio mi tolse
Quando più n'era il mio desir contento,
Sì poco dunque la mia fede espressi,
Che tu venirne in dubbio unqua dovessi?

XXVI

Qui l'oro straccia de le chiome e 'l seno
Fa risonar de le percosse crude,
Poi comanda: Ebrain, reca veneno,
Che spegner prestamente aggia virtude.
Egli a quel comandar non tiensi a freno:
Sultana allor nel padiglion si chiude,
Ed ivi presso al suo signor s'asside,
E lui guardando alza un sospiro e stride.

XXVII

Chiunque aspira a le grandezze estreme
Più sempre vago di superbo impero,
E giù dal colmo ruinar non teme,
Ne lo stato di noi volga il pensiero;
Per alcun tempo a la mortale speme
Non si rappresentò specchio più vero,
Nè si mostrò come caduca e vana
Sia giuso in terra la possanza umana.

XXVIII

Chi giammai dentro il cor potea fermarsi
Che omai di Rodi vincitor, che omai
Suoi muri in guerra ed abbattuti ed arsi,
Dovessimo incontrar sì fieri guai?
Misera! quai preghiere? e quai non sparsi
Pianti? che non fec'io? che non tentai?
Da quale parte non sperai soccorso?
Anco a numi d'inferno ebbi ricorso.

XXIX

O sul fior de l'età pronta a morire
Per lo scampo di noi, diletta Irene,
Su le tue piaghe, e contra il tuo desire,
Ecco pur ch'Ottoman morte sostiene;
Ma ci veggo dannati a tal martire,
Ed è sì grande il mar di nostre pene,
Che non so con qual senso io mi rimanga,
Irene, e se t'invidii, o se ti pianga.

XXX

Incliti scettri, altieri manti adorni
Son tornati per noi ceppi dolenti:
Oh tra le fasce e su l'april dei giorni
Fossimo al mondo trapassati e spenti,
Ch'oggi il sommo dolor de' nostri scorni
Non faria liete le cristiane genti,
Nè per l'Europa i nostri casi avversi
Darian materia de' Cristiani ai versi.

XXXI

Ottoman, su tua morte alzano il canto,
Me destinando a vil servigio indegno;
Ma nol faran, ch'io vuò morire; intanto
Queste misere chiome io ti consegno;
Di mirra in vece io t'ungerò col pianto;
E tu, mio Re, nol ti recare a sdegno,
Che lo sgorgano gli occhi, onde uscia lume,
Che pure avesti d'apprezzar costume.

XXXII

In questa da gli abissi un mostro apparse
Quasi Ottoman; sotto le ciglia accende
Altiero sguardo, e su le guancie sparse
Di puro latte un vivo minio splende;
Con quel vigor, con quel furore onde arse
Fiero di cor ne le battaglie orrende
A la dolente donna ei si dipinge,
E vaso d'or con la sinistra stringe.

XXXIII

Perchè l'indugio quel suo moto interno
Non queti, e cessi d'ammazzar se stessa,
Adducendo il demon tosco d'inferno,
Verso Sultana ingannator s'appressa:
O dolce del mio cor tormento eterno,
Pena per mio conforto a me concessa,
Perchè contristi sì l'alta beltate
Vientene a me, che tu mi fai pietate.

XXXIV

A questo dir, tutta agitata, ardente
L'afflitta donna sollevossi in piede,
E verso il suo signor mosse repente,
E con tai note a ragionar si diede:
Vaneggio io forse nel gran duol presente?
O senza inganno lo mio sguardo or vede?
Se sei vero Ottoman, perchè ritorni?
Quale è la vita tua? dove soggiorni?

XXXV

Così gridava, e scolorita in faccia
Tra fervidi sospir pianti rinnova,
Ed abbracciarlo vuol, ma con le braccia,
Fuor che vani color, nulla non trova,
Risponde l'ombra, e col suo dir procaccia
Ch'ella animosamente a morir mova:
A che piangi di me, ch'altiero vivo
In lieta parte, e non d'imperj privo?

XXXVI

Fuior del caduco mondo aurei splendori
Ornano campi, ove Regine, e Regi
Di sempiterno gaudio empiono i cori,
Premio dell'armi e degli affanni egregi;
Or se con me goder cotanti onori
Di fragil vita per desio non spregi,
Sugo ti porgo, che d'un sorso solo
Basta il vigore, e te ne vieni a volo.

XXXVII

Cotanto appena il rio demon favella,
Che s'involve di nebbia atra e profonda,
Ma lascia l'oro avvelenato; ed ella
Ponselo a bocca, e tutto il cor n'inonda;
Nè fra tanti martir punto men bella,
Stassi del caro letto in su la sponda;
Ivi del suo signor la destra prende
Con la sua destra, e l'ultim'ora attende.

XXXVIII

Fra pensier varj ora rivolge in mente
Scettri, corone, e quegli onor cotanti,
Onde fu lieta; or la stagion presente,
E l'acerbo dolor, ch'ella ha davanti;
Quando poscia partir l'anima sente,
Compone il busto, e con le man tremanti
Sul volto si dispiega un aureo velo,
E traendo sospir fassi di gelo.

XXXIX

Qual, se candida nube in alto ascesa
Le rose adombra, onde il mattin s'infiora,
Ben rimiriam ch'ella ne langue offesa,
Ma pure è vaga a riguardar l'aurora;
Tal già la guancia di bell'ostro accesa
Sotto freddo candor si discolora,
E di mortal pallor le labbra asperse
Han non so qual beltate anco a vederse.

XL

Quasi non era ancor dal corpo adorno
L'afflitto spirto per sua via partito,
Che facendo Ebrain colà ritorno
D'Ottomano il desir vide fornito;
Pria dal duol vinto fe' sonare intorno
Gemito tal, che rassembrò muggito;
Disse poscia: alto Re, dovunque godi
Vita immortale, il tuo fedele or odi.

XLI

Nel punto estremo di tua morte indegna,
Qual commettesti tu, serbai tua fede;
Ora a te ne verrei; ma ch'io non vegna
Il vuole amor del tuo diletto erede;
E perchè trasportare indi disegna
Le regie membra in ver le navi, ei chiede
E d'ancelle, e di serve il pronto aiuto,
E stassi percotendo il sen canuto.

XLII

Infra la turba lagrimosa e trista,
Ch'al chiamar d'Ebrain mossero il passo,
Venne Licasta, ed a la flebil vista
Ella si feo come insensibil sasso;
E quando a favellar forze racquista,
Gridò gemendo: o del mio viver lasso
E de gli affanni miei solo sostegno,
In quale guisa a ritrovarti vegno?

XLIII

Non son già queste de' miei pregi altieri
Quella che tu nutrivi in me speranze,
Quando fra semplicissimi pensieri
Pargoleggiavi per le regie stanze;
Oh de gli scherzi e de' tuoi dì primieri
Amare e sfortunate rimembranze;
Tu davi al collo mio baci soavi,
E così tra bei vezzi indi parlavi:

XLIV

Allor che stanca e per l'età matura
Volerà del tuo sen l'anima fuori,
Io chiuderotti gli occhi, e 'n sepoltura
Ti spargerò di più soavi odori.
Così dicevi; ma crudel ventura
Che mi sommerge in mar d'aspri dolori,
Or mi fa ricordar fra duri affanni
Come per la speranza altri s'inganni.

XLV

Tu non a me sul fin di mia vecchiezza
Gli occhi componi; io son, che morta omai
Sul tuo più vago fior di giovinezza
Mando sotterra te che tanto amai.
Qual ti farà chiamar la tua grandezza?
Per lo scettro real qual nome avrai?
Ah che se fra' mortali il ver si dice,
Altro nome non è, salvo infelice.

XLVI

Quì fra le turbe a lamentarsi pronte
Ella quasi di duol si venia meno;
Poscia Ebrain con lamentevol fronte
A gridi sciolse ed a querele il freno:
Deh chi de gli occhi miei fa larga fonte
E d'alti pianti oggi m'inonda il seno
Sì che di fede e di dovuto amore
Possa far testimonio al mio signore?

XLVII

Ottoman piango; ed ho nel cor disdegno
Che parcamente i pianti miei sian sparsi;
Ma pur Meandro e di Panfilia il regno
Di martirj e di duol non ti fian scarsi;
Là da' popoli tuoi senza ritegno
Preveggo al tuo morir l'esequie farsi
Con abissi di pianto; ed è ragione,
Poi che perdono in te tante corone.

XLVIII

Chi tra gli allor che le provincie ornaro
Innalzerà vincendo omai trofei?
Ed onde avrassi scampo, onde riparo
Al minacciar de gli avversarii rei?
O di trionfo, o di vittorie chiaro,
Grande Ottoman, dove sparito or sei?
Dove trasporti tu la nostra speme,
Noi quì lasciando infra miserie estreme?

XLIX

Parmi che su ne l'alto il Sol non splenda,
E che seco ogni luce a noi sia tolta,
Onde in profondità di notte orrenda
Si rimanga per sempre Asia sepolta.
Oh del mondo qua giù strana vicenda,
Ecco Europa a gioir quinci è rivolta
Allor ch'ogni speranza avea perduta,
E la nostra allegrezza in duol si muta!

L

Fra questi detti, che si vada al mare
Per prestamente veleggiar procaccia,
Onde a le membra riverite e care
Ciascuno a gara ivi soppon le braccia;
E per tutta la via lagrime amare
Del popolo leal bagnan la faccia,
Nè puossi udir tra le funeste genti
Se non un lungo suon d'aspri lamenti.

FINE DEL CANTO XXII.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XXII.

Non poteva farsi argomento più breve di quello postovi dal Poeta: «Nel
XXII. Sultana s'avvelena.»

Una sola critica osservazione si legge nel ms. del Cav. d'Urfè, ed è la seguente: «Ce chant est beau et tragique, mais il me samble que les plaintes de la nourrice et du valet de chambre sont trop longues, parce qu'aux choses tristes il faut estre brief, parce qu'autremant l'esprit du lecteur se lasse et s'ennuye grandement.» Ottimo è il suggerimento del Critico; e fu detto anticamente, niuna cosa asciugarsi più presto delle lagrime.

CANTO XXIII.

ARGOMENTO.

Ove del gran Batista il nome onora
Popol devoto, i Cavalier sen vanno;
Quivi l'Eterno Dio ringrazia e adora
AMEDEO genuflesso; ed ogni affanno
Sgombro da lui con lode in sino allora
Incontro al truce Saracin tiranno
Ricorda Doroteo. Fuggon, ma rotte
Il vasto mar le infide navi inghiotte.

I

Già trascorrea del ciel l'alto sentiero,
Notte più scura; ed AMEDEO piagato
Vigilando tenea fisso in pensiero
Ciò ch'egli udì dal messaggier beato,
Ch'ei ben de la vittoria andrebbe altiero,
Ma che del viver suo fora troncato
Lo starne in Rodi; onde devoto e forte
S'apparecchiava a la propinqua morte.

II

Sforza il fievole corpo, e sovra il letto
In zelo ardendo le ginocchia piega
E giunge umile ambe le palme al petto,
E sì la lingua inverso Dio dispiega:
Signor, se come il tuo messaggio ha detto
Più de la vita a me spazio si nega,
A tuo grado, o Signor, l'alma si sciolga,
Ma sia tua santa man, che la raccolga.

III

Poi da gli occhi versando un caldo fiume
Largo chiedeva a' falli suoi perdono;
Ed ecco sfavillar mirabil lume,
Di cui s'udia via più mirabil suono;
Il gran Batista ivi battea le piume,
Del santissimo aspetto i fulgor sono
Ch'ivi splendeano; e per divin decreto
Voci formava ad AMEDEO far lieto:

IV

Inclito Eroe, per la cui man sì forte
Sorge, la fè che 'l Vatican sublima,
Acciò splendesse il tuo valor, di morte
Ti si fe' motto del Filermo in cima;
Ma d'altrove morir t'è dato in sorte,
E palme illustri adorneranti prima;
Sveglia l'anima invitta a novi vanti,
Mentir non sanno i messaggier stellanti.

V

Così gli disse; e di licor soavi
Dolce la piaga inonda; ella repente
Salda diviene; e mitigar le gravi
Angoscie, e franco il Cavalier si sente.
Giunse il Batista allor: verso le navi
Affretta il piè la sbigottita gente,
E sarebbe ragion stringer la spada,
Ed a la fuga lor romper la strada.

VI

Ma nol farai; vuole il Monarca eterno
Contra loro agitar l'onde marine;
E poi ch'ad onta del dannato inferno
Rodi de' rischi suoi rimira il fine,
L'armi, ch'avesti tu dal Ciel superno
Io porterolle a le magion divine,
E là ne l'alto serberansi appese
Per darle a' tuoi ne le più gravi imprese.

VII

Non parlo in van; ciò che lassù nei cieli
Dal supremo Signor non mi s'ascose,
Quì consiglia ragion, ch'oggi io riveli;
Ascoltami e gioisci: opre famose
In soggiogar tiranni aspri e crudeli,
In calpestar corone ingiuriose,
Faran pur con queste armi i tuoi sublimi;
Ma duo fra tanti appariranno i primi.

VIII

Nè creder tu ch'entro sanguigno acciaro
De gli aspri assalti a la stagione orrenda
Deggia il nemico aver lungo riparo
Ove a l'incontro un di costor contenda;
L'alme de l'universo il vedran chiaro
Quando avverrà ch'EMANUEL s'accenda,
E che 'n battaglia fier fulmini spanda,
Ingombrando d'orror l'onda normanda.

IX

Fremeran l'armi de l'Europa; ed arsi
Andranno in ira i regnator possenti,
Onde di sangue e di sudor cosparsi
I campi ondeggieran d'atri torrenti,
Ma poi che i grandi altieramente apparsi
Porransi in fuga, o sotto lui fian spenti,
Darà, traendol di dolor profondo,
Quel sommo Eroe leggi di pace al mondo.

X

Succederan de le rie trombe ai crudi
Rimbombi suoni a belle danze eletti,
E de gli usberghi in su le dure incudi
Faransi aratri, e dei dorati elmetti;
Allor le muse, e fioriran gli studi
D'ogni bell'arte nei terribil petti,
E sbandito il furor, porransi in sede
A ben regnar vera Pietate, e Fede.

XI

Nè meno Astrea, che a l'immortal soggiorno
Avea già da la terra i piè rivolti,
Con sue bilancie trascorrendo intorno
Empierà di letizia i seni e i volti;
Sì fatto il vincitor farà ritorno
A gli scettri paterni a lui mal tolti,
Ove innalzando al Ciel sommi trofei
Godrà pregio real d'alti imenei.

XII

Non già così, che l'onorata spada
Non cinga ardente, e 'l viver suo non scherna
Quando in periglio di macchiarsi cada
Del grandissimo Dio la legge eterna;
Quinci a' trionfi s'aprirà la strada
Stringendo a fren più d'una valle inferna,
Tra varchi alpestri e dirupati scogli
Domando atroci, et esecrati orgogli.

XIII

CARLO vien poi, che di Gebenna a gli empi
Mal soffrirà lasciar l'alpi sicure;
CARLO il famoso, che gli altar, che i tempi
Trarrà dal sangue e da le fiamme impure;
Alzerà di pietate incliti esempi,
E di fortezza in quelle etati oscure
Ratto col ferro a procacciar corona
In campo allor che 'l Vatican lo sprona.

XIV

Farà ben saggio da ria turba infesta
Schermo a Saluzzo; e di Durenza il regno
Avrà per aspra ed infernal tempesta
Da la spada real saldo sostegno;
Vinon con asta in man, con elmo in testa
Vedrallo incontra ad empio stuolo indegno
Che sol guardarlo in fronte ivi s'affida,
Poi che fugge il fellon, che 'n campo il guida.

XV

Mal felice è la froda; il sole ardente
Non sì ratto distrugge aria nebbiosa
Come CARLO quei crudi, indi repente
Empie del suo valor l'alpe selvosa,
Isara quivi fulminar lo sente;
Il sente, e geme; ei sul destrier non posa
Fra sparsi infino al Ciel gridi infiniti
Fin che di tronchi non sian carchi i liti.

XVI

Di magnanimo ardir sparso i sembianti
Calcherà dentro il sangue elmi ed usberghi,
Sì ch'al fier brando volgeran tremanti
Le turbe in corso sbigottite i terghi;
Ben dureranno a gli orfanelli infanti
Lunga memoria nei funesti alberghi,
Cui bagneranno in grembo a le nudrici
Con latte di dolor pianti infelici.

XVII

Che più deggio narrarti? immensa istoria
Faransi al mondo i costui fatti egregi,
Nè per gli anni remoti unqua memoria
Fia, che pensando con stupor nol pregi;
Indarno a segno di cotanta gloria
Dispiegheranno Imperadori e Regi
O carchi d'arme, o disarmati il volo;
E scoppierà l'Invidia arsa di duolo.

XVIII

Ove si favellò, le labbra chiuse,
E sparse al suo fulgor nuvoli densi,
Ma di celeste Arabia odor diffuse;
Dolcezza ignota de' mortali ai sensi;
Con basse ciglia, a tanto onor non use,
Che soffersero male i raggi immensi,
Stassi cheto AMEDEO non picciola ora,
E del gran Dio l'alta pietate adora.

XIX

Ma risorta dal mar l'alba celeste
Tingeva di rossor l'aure serene
Quando le membra il Cavalier riveste
Di vigore immortal tutto ripiene;
Nè più lento di lui le ciglia ha deste
Folco, ma ratto a salutarlo viene,
E come su la soglia ha posto il piede,
Fattolo franco, e che passeggia ei vede.

XX

S'arresta e ne l'Eroe fisa le ciglia
Sì come in larve simulate e vane;
E quei soave a favellargli piglia
Quando sì di stupor colmo rimane:
Quale ingombra il tuo cor gran meraviglia?
Non di licor, non di scienze umane
Sconosciuta virtù sano m'ha reso;
Ma di Dio messo per pietà disceso.

XXI

Così ragiona, e ver lui move il passo;
Ma Folco al gran campion più s'avvicina,
E giocondo a mirar, col capo basso
Il ginocchio piegando umil s'inchina;
Dice poscia: è ragion, che 'l corpo lasso
Ti ristori, o Signor, grazia divina,
Poi che per Dio sì travagliarlo godi;
Or l'eterna bontà sempre si lodi.

XXII

Ma del campo infedel, ch'a tua possanza
Jer si sottrasse, oggi che fia? per terra
Correr farai de l'empio stuol ch'avanza
L'odiato sangue, e fornirai la guerra?
Ed AMEDEO: fora di Marte usanza;
Ma di Dio messaggier la via ci serra,
Nè vuol ch'usciamo a più pugnar sul piano,
Spegnerà gli empi l'immortai sua mano.

XXIII

Noi lo spazio del dì, ch'a l'altrui vita
Troncar doveasi, ed a l'assalto estremo,
Lodando la possanza alta infinita,
Ne i sacri templi a consumare andremo.
Sì disse; e da l'albergo ei fa partita;
Subito appresso il Cavalier supremo,
Seguendo i Rodïan l'inclito esempio
Volgono l'orme del Batista al tempio.

XXIV

Ampia nel mezzo a la città sorgea
De' monti eccelsi e de le nubi al paro
La sacrata magion che di Giudea
Quivi giungendo i Cavalier fondaro;
Ella qual neve candida splendea
Infra selci finissimo di Paro;
E per gradi purissimi s'ascende
Scala, che pur di Paro ampia risplende.

XXV

Le ricche porte di fin oro ardente
Sopra soglia di porfido fiammante
Hanno di cedro e d'ebano lucente,
Fregi contesti e d'indico elefante;
Dentro, sudor d'innumerabil gente,
Colonne stan, che fur montagne avante;
Di vaghi marmi è variato il piano,
Lunga vigilia di Dedalea mano.

XXVI

Per l'immensa parete, onde si gira
Il gran Ciel de la macchina superba,
Del Precursor santissimo si mira
La dura vita e la ria morte acerba;
Evvi, che da le turbe il piè ritira
Vago di bere il fiume e pascer l'erba,
Sol di ruvido pel tutto coperto,
Solingo cittadin d'aspro deserto.

XXVII

Poi del Giordano a le paterne sponde
Fassi veder da l'orrida foresta,
Ove gridando infra le turbe immonde
L'erto cammin de la salute appresta;
Evvi, ch'umile al Redentor diffonde
Limpido rio su l'adorata testa;
Evvi, che d'alto il Genitor rimbomba;
Evvi fra lampi d'or l'alma colomba.

XXVIII

Altrove al Re di Galilea s'invia
Là, dove ardor di caritate il mena
A forte biasimar la fiamma ria,
Che suggendolo va di vena in vena;
Ma quei sì dolce le parole udia,
Che pria lo strigne in ceppi, indi lo svena
Tosto che per mercè vergine il chiede,
Che 'n ballo mosse allettatrice il piede.

XXIX

Sì leggiadra le piante ella governa
Quando s'indugia il suon, quando s'affretta,
Che 'l Re commosso da dolcezza interna
Par ch'a sua voglia il guiderdon prometta:
Ella per appagar l'ira materna
Procurava ingiustissima vendetta;
Del gran Battezzator la morte prega;
E ch'ei s'ancida il Galileo non nega.

XXX

Turba di Siri sagittaria scende
De l'uomo giusto a le prigioni oscure;
Egli il collo magnanimo distende,
Sicuro a la carnefice secure;
Sì bipartito da percosse orrende
Fa larga fonte di sue vene pure;
Stassi nel sangue il freddo busto involto;
Il caro capo i rei ministri han tolto.

XXXI

Al fin rinchiuso entro reale argento
L'aspra donzella il si vagheggia; e gode,
Che 'l nobil teschio condennato e spento
Sia di sue danze testimonio e lode,
Ma pur ne gli occhi si leggea tormento
Chiuso nel petto al dispietato Erode;
Sì de la vita e del gran santo estinto
L'ammirabile tempio era dipinto.

XXXII

Ivi non prima i Cavalier crociati
Entrano pronti a gli immortali onori
Che trascorrendo van musici fiati
Per dotta man su gli organi canori;
Varca AMEDEO fra' popoli adunati
Là dove cinto di perpetui ardori
Dentro gran gemme il Redentor si serba
D'infinite ricchezze opra superba.

XXXIII

Sovra ampio altar, cui porpora di Tiro
Fregiata di tesor fascia ogni sponda,
Erta splendea dì Nabateo zafiro
Pur sovra base d'or mole ritonda;
D'alti piropi luminoso giro
Preziose colonne la circonda;
Sovra loro, a mirar gran meraviglia,
Posa cornice di rubin vermiglia.

XXXIV

Quinci s'innalza di topazio ardente
Il tetto, e curvo si rinchiude al fine
Tempestato di perla risplendente,
Puro tesor de l'Eritree marine;
Sul colmo si vedea l'asta possente.
Sacra ne le vittorie alme e divine
La bella croce, onde l'inferno è vinto;
Ed ella rilucea d'alto giacinto.

XXXV

Or l'Italico Re lunga dimora
Quivi fa cinto de' baron più noti
Inginocchiato, e la grande ostia adora,
Fisso nel suo Signor gli occhi devoti;
Da lunge il vulgo; ed ei s'atterra ancora
A Dio sciogliendo, o confermando i voti
Nel risco fatti de la patria; intanto
Ergeasi al Ciel de' Sacerdoti il canto.

XXXVI

Poi che su i sacri altar l'alto mistero,
E fur gli uffici de la Fè forniti,
Doroteo rese grazie al gran guerriero,
E fur di lui cotali accenti uditi:
Or che per la tua man fugge leggiero
L'affanno, onde a ragion fummo smarriti,
Giustissima ragion ne stringe il core
A dar pregio di gloria al tuo valore.

XXXVII

Ma qual fia mai per così larga impresa
Lingua mortale a faticarsi ardita?
Tu de la Fè, tu de gli altar difesa,
Unica tu de Rodïani aita;
La fiamma rea per questi altari accesa
Spegnesti tu; fosti a la debil vita
Di canuti e d'infanti alto riparo;
Ciascuno al fin le forze tue salvaro.

XXXVIII

Nei secoli avvenir, fra sudor tanti,
I rischi tuoi ben d'ogni gloria degni
Quanto grave imporran peso di canti
Ai cari a Febo, ed a' sublimi ingegni?
Ma perchè forse i tuoi mirabil vanti
Quì lungamente d'ascoltar disdegni,
Io reggendo il parlar come conviensi
Cosa dirò, ch'ad ogni Re pertiensi.

XXXIX

In Chiaramonte a la sacrata guerra
S'unirò un tempo i più veraci Eroi;
Ivi Francia, ivi Scozia, ivi Inghilterra,
E l'alma Italia ivi sospinse i suoi.
Del sommo Dio, del suo Vicario in terra
Udiro il prego ubbidienti; e poi
Con mille trombe coraggiosi e fieri
Chiamaro a le belle armi i buon guerrieri.

XL

Gli ampii tesor, che per ben lunga etate
Frenando i suoi desir gli avi serbaro,
S'aperser tutti; ed a le squadre armate
I regni i Re cortesi anco donaro;
Non fu per opra di si gran pietate,
Non fu man scarsa e non fu petto avaro,
E nulla altra vaghezza altrui ritenne,
Ma ciascuno al desir giunse le penne.

XLI

De' figli amore il petto lor non vinse,
Nol vinse amor de le gentil consorti;
Studio del Ciel tutti infiammolli e spinse
In mare e 'n terra a disprezzar le morti:
Ben l'empio inferno in contra lor s'accinse;
Ma nulla fu; chè coraggiosi e forti
Più sempre ebbono l'alme e le man pronte,
E di Sion voller vedere il monte.

XLII

Che fu mirar dentro dorato usbergo
Con aste invitte e fulminose spade
Battere allor de' Saracini il tergo,
E d'atro sangue dilagar le strade?
Qual torna sbigottita al chiuso albergo,
Se da torbido ciel grandine cade,
Vaga schiera d'augei rapidamente,
Cotal vinto fuggì l'empio Oriente.

XLIII

Egli il più forte de le mura scelse
A rinfrancare il suo smarrito ardire,
Ma punto non giovar le torri eccelse
Contra lo sforzo de le nobil ire,
Franse ogni marmo ed ogni porta svelse
Il vincitor; quinci crudel martire,
Grave strido d'orror confuso ed alto
Diè la vittoria e terminò l'assalto.

XLIV

Allor non più di minaccevol canto
L'aer turbava sanguinosa tromba,
Ma con pensier di penitenza e pianto
Tutti adorar la sacrosanta tomba.
Sì vinser quegli Eroi, del cui gran vanto
Sì chiara la memoria anco rimbomba;
Ma pure Europa neghittosa or gode
In gran letargo e 'l rimbombar non ode.

XLV

Spirti, che tra' fulgor d'eterna gloria
Splendete in Cielo a par del sol ben noti,
Vedete voi che debile memoria
Di vostra gran virtù tocca i nipoti?
Lasso, caduta è quì l'alta vittoria,
Chè al peregrin son contrastati i voti,
Nè di Sion può rimirar le mura,
E 'l gran sepolcro è di rei cani usura.

XLV

Mal spiegaro per noi l'inclita insegna,
Mal diero assalto, e trionfar quel giorno,
Se la lor fama gloriosa e degna
Ne dovea partorir vergogna e scorno;
Tanta viltà deh chi sarà che vegna
Omai d'Europa a disgombrar dintorno?
Sì che pensiero ella raccolga in seno
Se non d'onor, de' suoi perigli almeno?

XLVII

Tu, de' cui raggi luminosi, ardenti
Più che Gange del sol gode la Dora,
Come oggi Rodi afflitta, i suoi tormenti
Ti metta in cor Gerusalemme ancora;
Oh che loda! oh che pregio appo le genti
Per cui la croce del gran Dio s'adora,
Se col valor de la tua nobil spada
Al bramato Giordan s'apre la strada?

XLVIII

Allor del Nilo ignoto oltre a la fonte,
Oltra l'Atlante, oltra Boote andranno
Altieramente le tue glorie conte,
Ch'or per mia bocca risonar non sanno;
Ma pur queste d'amore anime pronte
Alzano al Cielo il tuo sofferto affanno,
E sto quasi per dir, che 'n lieti gridi
Fansi ver te queste onde e questi lidi.

XLIX

E se fia mai, che de' reali eredi
Il giustissimo scettro unqua s'infesti,
Di quanti Cavalier vedi, e non vedi,
L'armi fien pronte, e i fieri cor fian presti.
Mentre dicea, ne le dorate sedi
Affermar quei baron veduto avresti;
Quinci AMEDEO dopo i sacrati uffici
Al palagio sen va fra i duci amici.

L

Ed in quel punto si scorgea lontano
I legni infidi da le Rodie arene,
I gran campi varcar de l'Oceano
Con bel volo di vele culiate e piene;
Era il suolo del mar tranquillo e piano
E correan d'ognintorno aure serene,
Nè fosca nube lor faceva oltraggio;
Quando scese di Dio forte messaggio.

LI

Su le piaggie de l'aria almo a mirarsi
Con imperio frenò l'ali veloci,
E spinse tra fulgor di rai cosparsi
Orribil suon di sempiterne voci;
Non fremono cotanto, ove ad armarsi
Chiamano mille trombe i cor feroci,
Se Marte ama versar torbido in guerra
Di sangue un mare e funestar la terra:

LII

Venti, dicea, che da principio venti
Pria che 'n aria vi fosse il soffiar dato
Nulla eravate; e con le man possenti
Dio poi creovvi, e sì vi pose in stato;
Udite, o venti, il suo volere attenti;
Nel mar scendete e con terribil fiato
Gonfiate l'onde e 'n suo cammin dispersi
Siano i perfidi Turchi al fin sommersi.

LIII

Indi sul colmo de l'eteree sfere
Ratto sen va per lo sentier superno,
Là, 've d'Angeli sacri immense schiere
Cantano gloria al gran Monarca eterno;
Ed ecco sorge in su le piume nere
Austro di Libia ad eccitar gran verno
Contra le navi, e dissipate e rotte
Nel grembo irato il vasto Egeo le inghiotte.

FINE DEL CANTO XXIII.

ANNOTAZIONI

AL CANTO XXIII.

L'argomento postovi dal Poeta dice brevemente così: «Amedeo risanato va coi Rodiani al tempio, e si rendono grazie a Dio per la vittoria.»

Le osservazioni critiche del Cav. d'Urfè sono molte, ma perchè fatte sul MS. non più rispondono in tutto al poema, qual si legge in istampa. Non piace, a cagion d'esempio, al Critico, che l'Autore faccia «predire par S.t Maurice les actions du Duc Emanuel Philibert et de V. A. (del Duca Carlo Emanuele)…. il devoit mettre la bataille de S.t Maurice, et cela d'autant plus que c'estoit S.t Maurice qui parloit.» Ora nella stampa la predizione si fa da S. Giovanni Batista; e molto convenevolmente, essendo il protettore de' Cavalieri di Rodi.

Quanto ai fatti che il Chiabrera non fece predire, e che il Critico suggerisce come degni d'essere predetti, trovasi quello de la prise de Monferrat; ma il Poeta che si godeva una pensione sulla tesoreria del Monferrato concedutagli da' Gonzaga, allora principi Sovrani di questo paese, non doveva toccare una corda così delicata, trattandosi di fatto recentissimo, con certezza di offendere il Duca del Monferrato suo benefattore.

E perciò, tralasciando quelle cose che l'Urfè vorrebbe nel poema, che sono consigli non critiche, dirò di due difetti da lui notati in quest'ultimo canto. Nella St. 6. dice il Batista ad Amedeo:

    L'armi ch'avesti tu dal ciel superno
    Io porterolle a le magion divine,
    E là ne l'alto serberansi appese
    Per darle a' tuoi nelle più gravi imprese.

E il Critico: «Je trouve aussy que d'avoir osté les armes divines a Amedee n'est pas bien a propos, parce que jamais Dieu ne nous oste les graces qui nous l'alt que quelque nostre demerite ne precede… mais i'eusse voulu les luy laisser, et pour montrer la particuliere protection qu'il plait a Dieu d'avoir a jamais de la Maison de Savoye, ie voudroit les luy laisser sa vie durant avec promesse de mettre les armes invincibles dans la Savoye et les garder la a iamais pour la conservation et assurance des estats de ses grands et iustes successeurs.» Confesso il vero, quel ripigliarsi l'armi celesti date al Duca, non mi sembra invenzione lodevole; ma forse il Poeta non sapendo dove collocarle degnamente (chè il metterle in Savoja avrebbe potuto dispiacere a' dominj italiani della R. Casa) si volse al partito di farle trasportare colà dond'erano venute.

La censura seconda, ch'è pure l'ultima, cade sopra la chiusa del poema: i Cristiani vanno con Amedeo al tempio a render grazie all'Altissimo Iddio per vedersi liberati dal pericolo; benchè i Turchi o non siano ancora partiti dall'isola, o si trovino sulle navi vicino a Rodi. E bene osserva il Cav. d'Urfè che la vicinanza d'un nemico potente mantenendo il pensiero del pericolo, non lascia luogo ad allegrezza intera e sicura; e che perciò si doveva descrivere in primo luogo la tempesta che fece perire le navi co' Turchi fuggitivi, e poi condurre i duci, i soldati e il popolo tutto a ringraziare di tanto favore il Dio degli eserciti. Questa censura è lodevole, non solamente per la ragione addotta dal Francese, ma sì per quest'altra, che chiudendosi il poema col naufragio de' nemici, il fine ha una certa tristezza, che lascia una sensazione dolorosa negli animi gentili; dove al contrario, affondate le navi, perduti con esse i Turchi assalitori, viene il canto di grazie, l'allegrezza della vittoria, la sicurtà del paese; tutte immagini gioconde che dolcemente si spargono per l'animo del leggitore, facendogli dimenticare gli sdegni, il sangue e le rovine della guerra.

«Voila, Monseigneur, (conchiude il Cav. d'Urfè parlando al Duca) ce qui me samble de ce poeme qui a la veritè est beau et docte, mais que ie croy qui plaira plus aux savants qu'au vulgaire: aussi n'est il pas permis a tous de se servir de la masse d'Hercule…. J'ay remarqué ces choses a la haste et par le commandement qu'il a pleu a V. A. de m'en faire, parlant touttefois avec toutte sort de respect d'un si grand personnage qui est le Seigneur Chiabrera. »

Il manuscritto, dal quale abbiamo ricavato le critiche, serbasi nella
Civica Biblioteca Berio, ed è copia tutta di mano del dottissimo
Barone Vernazza fatta sull'originale in Torino nel 1791.

PARALLELO

DELL'AMEDEIDA MINORE
COLLA MAGGIORE.

L'Amedeida maggiore, ossia quella pubblicata dall'Autore, Genova 1620 in 4.º, è partita in canti 23, ed ha in tutto 1335 stanze: l'Amedeida minore, cioè quella impressa in Genova dal Guasco, 1654 in 12.º in soli 10 canti, contiene stanze 667. Non sarebbe senza qualche diletto l'investigare i motivi che indussero il Poeta a ridurre alla metà precisamente il suo nobil lavoro; ma la brevità delle nostre illustrazioni non ci consente di far lungo discorso. S'egli avverrà mai che sieno date al pubblico le lettere del Chiabrera a Bernardo Castello, delle quali il diligentissimo signor Ponthenier incominciò la stampa nel 1834, si avranno in esse molte notizie sull'accrescimento che o il Poeta o l'altrui desiderio andavano procacciando all'Amedeida; e chi vorrà tener conto di non pochi stralciamenti, s'accorgerà che vennero suggeriti all'irritabile autore da un pensiero di quella vendetta poetica, che involge nel silenzio i falsi promettitori e gli uomini ingrati. Consiglio più generoso sarebbe stato il cacciare da se l'iracondia, e rider degli uomini stolti; ma dovendo il Chiabrera troncare tanta parte del poema, malagevolmente poteva resistere alla tentazione di far una forse giusta, ma non leggiadra vendetta. Come che sia, ecco un parallelo delle due Amedeide, che può tener luogo di ambedue l'edizioni; stantechè il Poeta nulla mutò dell'elocuzione, nulla dell'ordine, nulla delle parti fondamentali: troncò de' canti interi, delle descrizioni, delle dicerie, degli episodj, ma con avvedimento così sottile, che le cose stralciate si potrebbono rimettere a' luoghi proprj senza guastare l'Amedeida minore. Per qual forma il facesse, diciam brevemente.

I. Il primo canto della minore è quel desso che si ha nella maggiore.

II. Una sola variante si osserva nel canto 2.º della minore, ed è indicata nelle nostre annotazioni: nel rimanente ambedue l'edizioni si trovano concordi.

III. Il canto 3.º della minore non differisce dal terzo della maggiore, se non se in questo, che mancano ad esso le stanze 8, 9, 10, 11, 15, 47 e 48 della maggiore. Le poche varianti si leggono registrate nelle nostre annotazioni.

N.B. I canti IV. e VI. della maggiore furono soppressi interamente nella minore.

IV. A formare il canto IV. della minore concorsero il V. e il VII. della maggiore: cioè fu conservato tutto il V, meno le stanze 9-18, 36, 37, 38, 39, e meno le ultime quattro; e i troncamenti furono compensati con introdurvi le stanze 1-22 del canto VII. Le annotazioni al canto V. della magg. additano le varianti dei due testi.

V. Per comporre il canto V. della minore si adunarono le spoglie dei canti VII. VIII, e IX. della maggiore.

Del VII. si ritennero le st. 23-59, meno le st. 26, 27 e 47. La 72. che nella maggiore diceva,

    Feroce, atroce, e fa sanguigni i lidi
    Fra pianti avversi, fra dolor, fra gridi;

nella minore vedesi racconcia così:

    Feroce, atroce; ma tra furie accensa
    Su 'l risco Aletto d'Ottoman ripensa.

Il canto VIII. diede le st. 15-39.

Il canto IX. contribuì le st. 36 fino alla 55. ch'è l'ultima del IX. nella maggiore e del V. nella minore.

N.B. Il verso della st. 36. canto IX. della magg.

Amedeo seco: ei di sua man l'adduce,

trovasi nel V. della min. mutato nel seguente:

Così dicendo, di sua man l'adduce.

VI. Il canto VI. della minore formasi del X. della maggiore, soppresse in quella le st. 48, 63 e 68, e racconciato il primo verso dell'ultima nella maniera seguente:

Così dicendo, a l'infernal soggiorno.

VII. Può dirsi che il canto VII. della min. altro non sia, se non se l'undecimo della maggiore. La differenza consiste nello stralciamento delle st. 24, 40, 45, 46, 47, 52 e 53; e nelle varietà di lezioni, che qui si registrano.

St. 44. magg.

    Venuta a men nel duol che la trafisse:
    Allora Irene ver Sangario disse:

nella min.

    E venia manco: Irene indi diparte,
    E si rinchiude in solitaria parte.

I primi due versi della st. 48. magg. sono così emendati nella min.

    E prende ferro bene acuto, e franca
    Pur con lo sguardo ec.

Similmente vi ha diversa lezione nella st. 54 magg. che nella min. si legge:

    Nè così tosto il molle petto aperse,
    Che vaga Fama a raccontar si mise
    Come a morte magnanima s'offerse
    La bella Irene, e di sua man s'uccise.
    A nunzio sì crudel ecc.

VIII. Quattro canti della maggiore cedettero alcuna parte delle loro ottave per formare il canto VIII, della minore.

Il XII. diede le st. 1, 38, 39-48, 51 e 58. Ma la 51. è rifatta nella min. come segue:

    Cotale altier su l'arenosa riva
    Giva Ottomano, e fra le schiere egli erra,
    E dovunque nel campo egli appariva;
    Nessun la bocca a le sue glorie serra;
    Et Amedeo da l'altra parte usciva
    A franca far la rodiana terra;
    E fra gridi magnanimi cosparsi
    Fermo alquanto ciascun fa rimirarsi.

Il primo verso della st. 58 così è scritto nella minore:

Movonsi poscia a la battaglia, e crudi ecc.

Dal canto XIII. passarono nell'VIII. della min. le stanze 1-19 e 37-41. Il ritratto di Megapente che occupava le tre st. 42, 43, e parte della 44, trovasi compendiato in una sola:

Costui fra l'armi e fra l'orror di Marte ecc.

Le altre st. 44, 45, 46, 55, 56 e 57 sono pure concorse alla formazione del canto VIII.

Nulla contribuì il XIV. stralciato interamente.

Il canto XV. diede le st. 1, 2, 4, 12, 13-32. e la 51. Ma nella 2.ª della magg. leggevasi Tomandro; dove nella min. si legge, e meglio, Timandro.

Una sola stanza potè salvarsi del canto XVI. per passare nell'VIII. con questa variante:

Ma poi cosparge d'un odor possente.

Per altro tra la st. penultima e l'ultima del canto VIII, della minore apparisce una lacuna, chi ne considera il senso; ma non sapremmo come restituire la vera lezione.

IX. Anche il canto IX. della minore componsi di brani tolti a diversi canti della maggiore.

Il XVII. diede le st. 2-7, 18, 40, 41, 42, 43, 57 e 58. Le due st. 44 e 46 vennero dal Poeta ristrette in questa forma:

    Ma sì fatte d'amor memorie antiche
    Dentro il seno del tempo anco ben chiare,
    Benechè per uso a gioventute amiche,
    Al giovinetto cor poco eran care:
    Quinci lasciando le campagne apriche
    Ove Scamandro se ne corre al mare,
    Ei venne a Rodi, e fra cotante squadre
    Armarsi volle e seguitare il padre.

La st. 57. varia così nella minore:

    Feroce oltra l'etate or quì saetta,
    E dal suo segno in discoccar non erra:
    Ma gridava il Baglione: oggi n'aspetta ecc.

Nulla potè contribuire il canto XVIII. troncato al tutto dal poema.

Il XIX. porgeva le st. 1-35.

Dal XX. s'ebbero le st. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 35-50.

Furono tratte dal canto XXI. le st. 1-9, 13, 14 e 15.

X. Il canto X. ed ultimo della minore si compone di spoglie rapite a' tre ultimi della maggiore.

Dal canto XXI. passaron nel X. la stanza 20; i primi sei versi della 21 e gli ultimi due della 24; le st. 31-40; 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50; i primi sei versi della 51, e gli ultimi due della 53; le st. 54-59.

Il canto XXII. porse la st. 14. così ritoccata:

    E tosto inverso lei volgendo il piede
    Mesto Ebram da la sua fe sospinto;

la 15; la 19. col primo verso così rifatto:

A che deggio, Ebrain, dianzi beata;

la 22 col primo verso racconcio in tal guisa:

Deh! che dich'io? se la presente sorte

la 23, la 24, la 25. La seconda metà della st. è così rifatta nella minore:

    Et egli un vaso le ne dà ripieno,
    Che tosto de la vita i varchi chiude,
    Indi fuore se n'esce. Ella dolente
    Così parlò sovra il destin presente:

Le altre stanze del XXII. conservate nella minore, sono la 30, e la 31. Avvi qualche varietà ne' primi versi della 37, che nella minore si leggono in tal forma:

    Cotanto appena il rio demon favella,
    Che s'involve di nebbia atra e profonda,
    Ma lascia l'oro avvelenato, ed ella
    Ponselo a bocca, e tutto il sen n'inonda.

Hannovi senza discrepanza le st. 38 e 39.

Dal canto XXIII. trasse il Poeta la st. 1. con ritoccarne il verso primo,

E già correa del ciel l'alto sentiero;

e le st. 2, 3, 4, e 5. La 6. ha una variante di molto rilievo: nella magg. diceva:

Per darle a' tuoi nelle più grand'imprese,

e nella min. vi si legge,

Per darle a' Grandi nelle grav'imprese.

Appresso si trovano le st. 18, 19, 20, 21, 22 e 23. La 35. sta nella min. con una leggerissima variante:

Quì l'italico Re lunga dimora ec.

Chiudono la minore le st. 50, 51, 52 e 53 che similmente impongono fine alla maggiore.

GLI ARGOMENTI

DI ANDREA PESCHIULLI
ALL'AMEDEIDA MINORE.

La discrepanza già rilevata tra le due edizioni dell'Amedeide, spiega il motivo perchè non ci fu possibile dare gli argomenti del Peschiulli nelle annotazioni appiè d'ogni canto di questa nuova edizione. Ma fedeli alla nostra promessa di raccogliere in un solo volume e la maggiore e la minore, trascriviamo in questo luogo le ottave molto lodevoli di quel letterato idrontino.

Arg. del canto I. vedilo a facc. 28.
      » II. » 57.
      » III. » 86.
      » IV. » 128.

Arg. del canto V:

    Irrita i Turchi Aletto, e l'empio Alete
    Cade percosso da fulmineo telo;
    E d'orrore i Demonj, onde si viete
    La morte ai Saracin coprono il cielo
    Passa Amedeo dentro le mura, e liete
    Voci innalzan colà giubilo e zelo.
    Visita Folco i suoi piagali amici,
    E di vera pietate empie gli uffici.

Arg. del canto VI:

    Fassi Aletto Licasta, e i suoi consigli
    Sultana uditi, ad Ottoman s'atterra,
    E mesta il volto e lagrimosa i cigli
    Pregalo invan d'abbandonar la guerra:
    Quindi soccorso ai barbari perigli
    Scende la Furia a domandar sotterra:
    Riede poi con Megera, e lor va dietro
    Puzzo et orror caliginoso e tetro.

Arg. del canto VII:

    Narra Sangario a la Reina afflitta,
    Dopo scongiuro abbominato e forte,
    Che se non cade vergine trafitta,
    Fiera minaccia ad Ottoman la sorte.
    Odelo Irene, e come altier le ditta
    Desio di bella gloria, offresi a morte;
    Quindi s'uccide, e in formidabil guisa
    Piange il Soldan su la donzella ancisa.

Arg. del canto VIII:

    Fassi atroce battaglia: ivi sì fiera
    La spada aggira il Cavalier Sovrano,
    Che tenta l'implacabile Megera
    Sottrarre i Turchi al di lui braccio invano.
    Ma quando svena più l'alma guerriera
    In mezzo a' flutti dello stuol pagano,
    Move l'inferno atra procella, e forse
    Colà cadea, ma il cielo a lui soccorse.

Arg. del canto IX:

    Tre fiate Ottoman con man ferrata
    Di fulgid'asta il corridor sospinge,
    E tre di Rodian falange armata
    D'Acutissimo ferro il risospinge.
    Quivi Aletto di rabbia arsa, infocata,
    Pure al soccorso d'Ottoman s'accinge;
    I metalli sì folti ella dirada,
    Et egli corse et occupò la strada.

Arg. del canto X:

    Geme l'inferno, e miserabil more
    Sull'estinto Ottoman l'egra Sultana;
    E il gran Batista in sul notturno orrore
    Scende al Guerrier che vinse in guerra, e il sana
    Partono i Traci alfin da Rodi, e l'ore
    Trovano amiche, e chiara è l'onda e piana;
    Ma sorge verno, e dissipate e rotte
    Il tempestoso Egeo le navi inghiotte.

FINE.

V. PAOLO AMEDEO GIOVANELLI

Prev. a S. Don. Rev. Arc.

V. Per la Stampa MARONE.