Title: Rime di Argia Sbolenfi
Author: Olindo Guerrini
Release date: February 24, 2006 [eBook #17847]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net
Ecco un libro sbagliato.
E poichè una cortese ma assidua insistenza durata oramai tre anni, riuscì pure a levarmi di sotto questa prefazione che non scrissi volontieri, così, per patto espresso, mi serbai il diritto di dire l'animo mio tutto intero e lo dico.
* * *
Ai lettori (se il libro ne avrà, che non li merita) riuscirà difficile capire come diavolo possa esser nata una insanità simile a questa; ed ecco, per quel ch'io so, come avvenne.
Vegetava in Bologna, e può darsi che vi agonizzi ancora, un foglietto di carta stampata venduto una volta la settimana ai cittadini che non sanno come sciupare il tempo. S'intitolava «È permesso?…» e non poteva uscire dalla breve cerchia delle mura poichè mordeva solo gli uomini che dentro alle mura hanno fama, uffici o difetti. Perciò era scritto o in dialetto o in italiano così fitto d'idiotismi da parere un peggiorativo del dialetto. Lo dirigeva un certo Cesare Dallanoce, al cui cognome botanico s'era appiccata l'aggiunta di Moscata; giovane nottambulo, di qualche spirito, con un fisico di cercopiteco peggiorato, sotto al quale stavano mescolati l'odio e la bontà in un connubio stravagante. Anzi l'odio era uno e le bontà parecchie; e segno dell'odio cieco, furibondo, indomabile era il Presidente di questa Deputazione Provinciale che non gli aveva mai fatto niente; anzi non gli badava nemmeno. Ma il Moscata era fatto cosi e se la sua bestia nera avesse fatto più miracoli che non S. Antonio di Padova, gli avrebbe tolti i meriti ad uno ad uno, mordendolo e lacerandolo tutti i sabati nel suo foglio di carta.
Tolto questo brutto difetto, che doveva esser vizio di natura incurabile, era buon diavolo e tutti gli volevano bene. Prestava volentieri sè stesso e il giornale per opere di beneficenza, non diceva troppo male del prossimo suo, insomma era simpatico a molti ed odiato da nessuno.
Aveva avuto la fortuna, fin da principio, di contare tra i collaboratori «El sgner Pirein» il signor Pierino, il cui nome ed il cui tipo non saranno dimenticati così presto dai bolognesi.
Antonio Fiacchi, bravo e buon giovane di brillante ingegno, aveva trovato questo esilarantissimo tipo del vecchio petroniano col cappello bianco a cilindro l'estate, il tabarrino a pipistrello l'inverno e le scarpe di panno tutta l'annata; il vecchietto brontolone, credenzone, ricordatore inesausto dei tempi passati, detrattore dei presenti, ma in fondo ingenuo sino alla balordaggine. In un altro di questi giornaletti municipali aveva fatto le prime armi, in un dialetto italianizzato che accresceva comicità al contenuto di certe lettere che non possono ricordarsi tuttora senza ridere. Il tipo aveva fatto fortuna ed era quasi assunto alla dignità di maschera cittadina come il dottor Balanzone; cosicchè in certe feste carnovalesche, in un villaggio di legno e di cartone che serviva da fiera, il signor Pierino fu fatto sindaco e sciorinò proclami ed allocuzioni da non dire. Ma il Fiacchi fu chiamato a Roma e il signor Pierino tacque.
Il Moscata che aveva buon fiuto, lo cercò pel suo giornaletto, ma il Fiacchi rispondeva a buona ragione che, fuori dell'ambiente bolognese, si sentiva disorientato e che temeva di non far nulla di buono. Moscata insistè e si venne a questo che il signor Pierino Sbolenfi avrebbe scritto come corrispondente dalla capitale; e così fu.
Allora il bel tipo ideato dal Fiacchi rivisse in una serie di lettere datate «dalle rive del Colosseo» che fecero la fortuna del giornale. L'egregio signor Sbolenfi aveva ingrandito l'allegro campo dell'arte sua ed oltre alle amene confidenze delle sue tribolazioni famigliari, ci dava le impressioni romane ricamate sulla tela delle proprie avventure. E lo vedemmo uscire di non so qual Ministero, autocandidato al tempo delle elezioni Giolitti, perdere l'impiego e cercarne un altro per perderlo di nuovo. Lo vedemmo custode dei tempietti municipali sacri alla Dea Cloacina abbandonarsi a meste riflessioni sulle miserie umane ed a giudizi comparativi argutissimi sul giornalismo contemporaneo in relazione ai riti celebrati nel suo tempietto. Ma poichè le autorità municipali nel tempo del colèra avevano segretamente ordinato a lui ed ai colleghi una sorveglianza intima sulla condotta dei cittadini ed egli aveva propalato la cosa nel giornale, eccolo di nuovo senza impiego ed in cerca di un altro. Insomma tutto un romanzo comico, pieno di trovate felici, di festività arguta e qualche volta di velata melanconia.
E il signor Pietro Sbolenfi aveva per moglie la signora Lucrezia e per figlia la signorina Argia, attrici principali nella stravagante commedia della sua vita. La grafomania è contagiosa e la signorina Argia cominciò a mandare al giornale le sue epistole lamentevoli e pretenziose.
Si voleva, a quel che pare, crear un altro tipo; quello della ragazza che ebbe una mediocre istruzione e che, inacetita dal celibato, chiama il pubblico a testimonio delle sue isteriche sofferenze, Il tipo non era così allegro come l'altro; di più non era nuovo e le manifestazioni dell'isterismo essendo spesso erotiche, c'era pericolo di cadere in una triviale pornografia.
E la signorina ci cadde malamente, lunga e distesa.
È ben vero, lo ripeto, che il tipo non si poteva intendere senza l'erotismo; ma c'è modo e modo. È ben vero che i lettori di un giornale quasi in dialetto non avrebbero inteso bene una Nuova Eloisa e che per ottenere l'effetto occorreva sal grosso di cucina, non aromi delicati; ma resta tuttavia che nulla giustifica il turpiloquio mal velato sotto gli equivoci grossolani, la scatologia suina che non si vergogna della sua loia. Ci fu chi torse il naso, ma purtroppo il pubblico in generale applaudì!
Così l'Argia si mise in piazza, prima, come ho detto, con certe lettere ridicolose che rifacevano l'ortografia e lo stile paterno, poi a poco a poco, con certe poesie non meno ridicole di cui son saggio le prime di questo sbagliato volume.
Unico merito, se pure è tale, è un progressivo levarsi e correggersi, come di chi, avvistosi dell'errore, cerca di spacciarsi dal brago. Ma ciò non scusa in modo alcuno la bassezza e la sudiceria sciocca degli esordi.
A questo modo la poetessa (come si battezzava da sè modestamente) seguitò a metter fuori le sue fagiolate e il male non sarebbe poi stato grande se non si fosse pensato a raccoglierle in volume. Ah, veramente il bisogno di una sporcizia di più, a questi, bei lumi di luna, non era sentito!
A me pareva impossibile che si potesse giungere a questo; tanto che, pregato anni sono, di fare la prefazione alla raccolta, dissi di sì, nella certezza che non se ne sarebbe fatto nulla. I versi erano ancora pochi e pensavo che fino ad un volume la poetessa non ci sarebbe arrivata; ed ahimè, ci arrivò!
Ora innamorata dell'Imperatore di Germania che credeva venuto a Roma per sposar lei, ora intabaccata di un canonicaccio di manica larga, degno Vescovo di Seboim, la pettegola figliò tanti versi da mettermi al punto di mantenere la promessa. Non è a dire quante scappatoie cercai per esimermene, come volli dissuadere, come temporeggiai! Ma non ci fu verso. La parola era data e, per quanta ripugnanza ci avessi, dovetti mantenerla. Solo mi riserbai di dire schiettamente quel che ne penso, non perchè il disapprovare possa valermi di scusa, ma perchè lo sfogarsi dopo tutto è un sollievo.
* * *
Se frugo nei più intimi ripostigli della mia coscienza, non ci trovo nulla che mi chiami all'onore degli altari. In quel quarto d'ora di notorietà cui, come tanti altri, soggiacqui, non fui precisamente lodato come continuatore delle virtù di S. Luigi Gonzaga o come emulo di Giuseppe servo di Putifar. Tempi, ahimè, troppo lontani e che volentieri rivivrei; parole e versi che, potendo, ridirei senza rimorso e senza rossore; ma tempi, ahimè, troppo lontani!
Dico questo, non per balorda libidine di parlare de' fatti miei, ma perchè si creda che, disapprovando senza restrizioni queste scelleraggini, scrivo per convinzione e non per affettazione. Allora ed oggi mi persuadeva e mi persuade la teoria della immacolatezza dell'arte, purchè sia arte e sia bella. Venere Anadiomene e Cristo Crocifisso sono rappresentati ignudi tutti e due e nessuno dei due nella rappresentazione artistica è immorale. Onorato di Balzac, che non è poi il primo capitato, nell'Avant—propos de la Comédie Humaine, diceva—«Le reproche d'immoralité qui n'a jamais failli à l'écrivain courageux, est d'ailleurs le dernier qui reste à faire quand on n'a plus rien a dire a un poète. Si vous étes vrai dans vos peintures, si à force de travaux diurnes et nocturnes vous parvenez à écrire la langue la plus difficile du monde, on vous jette alors le mot immoral à la face»—Solo il brutto è immorale.
È perciò che questa studiata ricerca del brutto, del triviale, dell'imbecille, mi irrita. Questa non è più arte, è laidezza, è turpiloquio spregievole; ed ho appunto voluto ricordare il quarto d'ora di notorietà che ebbi in passato perchè si vegga che la disapprovazione non viene da bigotta ipocrisia, ma da convinzione salda intorno alla ragion d'essere dell'arte. E che cosa ha da fare l'arte con queste cretinerie pediculose che s'intitolano romanze, favolette etc.? Anzi è bestemmia solo il ricordare il nome santo dell'arte a questo proposito e il criterio non corrotto del pubblico italiano condannerà senza dubbio e senz'appello queste stolte sconcezze all'obbrobrio ed all'oblio che meritano.
Mi duole di dover parlare così acerbamente, ma era, lo sento, mio stretto dovere.
Più avanti la poetessa (chiamiamola così, poichè lo vuole) lascia lo sterquilinio in che si compiaceva e si innalza, per quanto glielo permettono le deboli penne, ad una forma un po' più elevata. C'è per esempio un «Inno a Venere» che, se nel concetto è della più abietta pornografia, nella esecuzione si può dire più conforme ai canoni della lirica; ed io, appunto per quel che ho detto di sopra, non lo disapprovo affatto. Qui si potrà parlare d'arte, ma nella prima parte del volumetto, no, mai. Tutt'al più ci potremmo rifugiare nella caricatura, nella rimeria giocosa, negli scherzi più o meno piacevoli, ma il giudizio, anche il più indulgente, sarà sempre di riprovazione. La stupidità può muoverci alla compassione, ma l'affettazione, la caricatura della stupidità, specie se oscena, potrà muoverci al riso per un momento, ma non mai all'applauso sincero.
Nè vale sfoderare illustri esempi. Ma chi oserebbe parlare del Berni, del Burchiello od anche dei poeti maccheronici o fidenziani a questo proposito? Certo, in quei capitoli e in quei sonetti c'è il doppio senso, l'allusione mal velata, la forma volutamente pedestre: ma il punto di partenza è proprio diametralmente opposto a quello da cui parte la nostra poetessa. Il Folengo, per esempio, par che voglia rifare (almeno nella Zanitonella), il contadino che si sforza di parlare come il cittadino, l'idiota che si sforza di parlar colto. Qui invece è la persona colta che si sforza di parere abietta. Là c'è uno che vuoi uscire, come il Vallera della Nencia, dal dialetto e dalla rusticità e cerca il comico nel tentativo di elevarsi alla dignità dell'arte; qui, al contrario, abbiamo la ricerca del comico intervertita, la rappresentazione di una persona colta che, per far ridere, si abbassa e si infanga in tutti i letamai che trova per via. Là c'è una caricatura del tentativo di salire, qui del discendere. Là c'è il pagliaccio che esce dal circo e s'ingegna di far intendere che, uomo anch'egli, soffre ed ama; qui abbiamo invece la persona per bene (almeno lo spero!) che s'incanaglia e si fa pagliaccio per far ridere colle smorfie e le contorsioni del viso infarinato. È perciò che male si potrebbero addurre gli esempi come scusa, perchè gli esempi non calzano.
Si può essere di manica larga, vantarsi spregiudicati e sorrider di tutto; ma in fondo al cuore resta pur sempre qualche cosa che si rivolta al puzzo ed alla lordura. La ripugnanza pel laido è istintiva e si vede mal volentieri un'artista, o una che si crede tale, far getto così sconciamente della propria dignità. Avete visto in qualche «caffè concerto» di ultima classe certe matrone appassite e verniciate cantar colle gambe e gesticolare colle natiche? Ne inorridite ancora? Ebbene, questa della signorina Sbolenfi è letteratura da «caffè concerto.»!
Dunque, riprovazione piena, intera ed assoluta.
* * *
Ed ora che ho detto per lungo e per largo il parer mio, bisognerà pur cercare in questo scellerato libercolo, non dirò qualche cosa degna di lode, che non ce n'è, ma un pretesto per invocare le circostanze attenuanti. Una prefazione che fosse una stroncatura da capo a fondo sarebbe una mostruosità. Proviamoci.
Si potrebbe dire intanto che l'autrice ha fatto bene ordinando queste cose sue in modo che crescano sempre di serietà (!) e di correzione. Parte dalla insanità cercando di salire alla lirica e in questo successivo progresso è il filo che lega il volume. Bisogna ricordare che si tratta di una pettegola semi letterata che va raffinandosi a poco a poco. Questo almeno pare che sia il concetto generale e, anche nei volumi di liriche, credo lodevole un legame che costringa le parti diverse. Sia un mazzo di fiori, sia un fascio di stecchi, un vincolo ci deve essere, se no, invece di un mazzo o di un fascio, avremo un mucchio incoerente di spazzatura. M'è sempre piaciuto, anche nelle raccolte di versi, un romanzo che spieghi tutto. Il Canzoniere del Petrarca (se non è peccato mortale ricordarlo qui ed a questo proposito) non è egli dunque un romanzo d'amore? Un concetto unico circola per le diverse parti, come il sangue nelle membra e vivifica l'opera nella mente del lettore. Un libro deve essere un organismo.
Ed anche non è da passare senza almeno un segno di benevolo consentimento sul tentativo di poesia patriottica ed un po' socialista, che fa capolino in fondo al volumetto. In questi nostri bellissimi tempi pareva che il patriottismo consistesse tutto nel prendere la roba altrui. Di qui i disastri eritrei, di qui l'epizoozia dei commendatori, la quistione morale e i sospetti, confortati da troppe probabilità, sulla corruttela, la venalità, la disonestà insomma, di chi doveva esser esempio del contrario. Sottrarre gli accusati all'istruttoria ed ai giudici costò poco ad una maggioranza metà di amici, metà di complici, ma è facile capire come questi segni di decadenza morale fossero dolorosamente sentiti da tutti coloro pei quali il patriottismo non fu mai una chiave falsa per aprire gli scrigni pubblici o privati. «Avete fatta l'Italia per mangiarvela» dissero i clericali, così pronti a profittare delle calamità del loro paese; egli Italiani, scettici per istinto, rilessero dubitando le pagine della storia loro e sentirono rimpicciolire in se stessi le sante idee di patria, di indipendenza e di libertà. Quanto male abbiano fatto alla coscienza italica gli ultimi scandali, lo dirà purtroppo l'avvenire: per ora intanto la patria non è più di moda.
Di moda invece vuoi diventare il clericalismo. Chi guadagnò diventa conservatore e conservatori si dicono e sono tutti gli arrivati. Se, per fortuna delle idee liberali, la cocciutaggine della decrepitezza non mantenesse così ampia la fossa che separa l'Italia dal papato, tutti questi conservatori d'oggi sarebbero papalini domani. Già le classi abbienti fan l'occhio di triglia alla teocrazia, si offrono e si danno. Poichè la fiducia nella protezione della Benemerita Arma è scemata e i timori per la sicurezza della proprietà sono cresciuti, gli abbienti pensano che la paura dell'inferno può essere utile ed efficace. Di qui un ritorno interessato alla religione e l'adorazione nuova di un Dio personale, terribile e punitore. Non è la fede che fa queste miracolose conversioni, ma il basso, il laido interesse. Se costoro pensassero di trovare altrove una buona tutela dei beni o delle cariche, con la stessa facilità sarebbero domani protestanti, ebrei e magari repubblicani. Per conservare una buona rendita si può portare anche il berretto rosso.
E così si veggono a poco a poco scomparire i partiti intermedii nella gran massa dei cittadini. Si riveggono soltanto in Parlamento, poichè per giungere su quegli scanni, è necessario l'ibridismo. Il deputato deve essere come il pipistrello che si diceva topo od uccello secondo il bisogno; deve essere possibile sempre ed atto per indecisione di lineamenti a qualunque trasformazione. Ma il paese non è così e va scindendosi in due grandi partiti; il clericale e il socialista.
E sono le due uniche schiere dove ci sia ancora vitalità, abnegazione, e passione di proselitismo. Tutto il resto è morto od è moribondo. Guardatevi intorno e dite se questa non è la verità.
Così a poco a poco ciascuno entra in una di queste due parti, secondo le convinzioni o gli interessi. Gli odiatori del nuovo, i timorosi dell'avvenire, tornano penitenti a Canossa; gli altri che hanno ancor fede nel progresso dell'umanità, nella perfettibilità dell'assetto sociale, fanno un passo innanzi e, socialoidi oggi, saranno socialisti domani.
E dell'esser andata piuttosto con chi va avanti che con chi retrocede, volevo tener buon conto all'autrice di queste rime; di quelle, dico, che chiudono il volume. Tuttavia, siccome questo sarebbe un giudizio di opinione e non di letteratura, me ne astengo. Ma ho voluto dir tutto questo anche per notare un altro difetto del libro; quello cioè di esser formato, nella sua parte men pessima, di rime di occasione, le quali, come è naturale, colla occasione, sfioriscono. Molti fatti e molte allusioni domani non saranno più ricordati; alcuni anzi, anche oggi, sono quasi fuori della nostra memoria. È perciò che questo libercolo, secondo me, è nato morto, e gli sta bene! Già era meglio che non nascesse.
Ma quel che sopratutto mi piace nella poetessa, (come si chiama lei) è l'aver sdegnato i novissimi deliri simbolisti e decadenti, nei quali pure poteva cascare, tratta com'era dalla smania della stravaganza. Di questo, senza restrizione alcuna, la lodo.
Oh, i preraffaelisti! Chi ci libererà finalmente da questi nuovi monaci in veste di artisti, che per libidine di novità, per ricerca di posa, retrocedono sino alle puerilità del Beato Angelico, nell'odio affettato ed ipocrita della vita vera e della forma plastica? Perchè, lettori, chinatevi pure, raccogliete i torsoli di cavolo, magari le pietre e scagliatemi tutto sulla testa, ma lasciatemi dire quel che sento: il Beato Angelico non lo posso soffrire. Ah, come sono antipatiche quelle sue Madonne magre allampanate, con gli occhi inebetiti e le carni verdoline; e quegli angeli col parucchino biondo bene arricciato, la trombettina alla bocca e il tutto su fondo d'oro! Bella roba, per Dio, impiastrava questo frataccio, in pieno Rinascimento! Anche un passo indietro e tornava ai bizantini, vivente Donatello! Se c'è qualche cosa da ammirare in lui, sono i suoi ammiratori.
Ed ora, a sentire questi nuovi missionari dell'arte ideale, bisognerebbe ritornare forse più indietro. La carne è impura per loro come per gli asceti della Tebaide, e dipingono certe figure anemiche, sofferenti per stento di pubertà malaticcie, che fanno venir sulle labbra il motto imperativo stampato su tutti i muri Bevete il Ferro-china Bisleri! Bevetelo e lasciate in pace queste figurine di uomini senza polpe e di donnine che vedon bianco. Non ci sono solo angoli al mondo; ci sono anche le curve.
È certo che lo studio e la riproduzione del mondo esterno come è, costano più fatica che non l'operare secondo una formola od una maniera. Non è così difficile il buttar giù una di queste faccine insipide e di madreperla, come il mettere il sangue e la vita in un viso di carne sana come fecero il Correggio e il Tiziano; e sia. Ma perchè mascherare l'impotenza colle teorie e tornare indietro e non confessare piuttosto che manca la forza per andare avanti? Ah no, mangiate carne o ricorrete magari a tutti i ricostituenti, a tutti gli intrugli farmaceutici più corroborativi, ma non dipingete più fantasime e burattini!
E come sono noiose le sciarade del simbolismo! Pensare che ci sono dei superuomini che invidiano gli allori di Oscar Wilde; pensare che tutto questo è un regresso, un ritorno al Medio Evo, proprio quando sta per cominciare il secolo ventesimo! Ma dunque sarà proprio vero che l'intero genere umano sia malato di nervi, poichè in tutti questi libri non si trovano che squilibrati e mattoidi? Non ci sono più donne sane in terra che da ogni pagina vaporano le aure dell'isterismo? È possibile che non si trovi più un cuore buono, un cervello equilibrato, un utero normale? L'epilessia e l'allucinazione sono dunque la regola e la sanità l'eccezione?
Se i disturbi dell'innervazione sono così generali, come sembra a questa letteratura psicopatica, non sarebbe egli più utile raccomandare ai sofferenti, non la morfina, ma le docciature e la bicicletta? Se l'esaurimento nervoso è il male che affligge la presenti generazioni, non sarebbe meglio leggere l'Ariosto all'aria aperta, piuttosto che inghiottire l'Ibsen nell'afa del teatro? Ma no; l'Ariosto non è più di moda e l'aria aperta sciupa il candore della pelle clorotica; e così sia!
Anche la signorina Sbolenfi è isterica, e come! Ma essa sorride della propria imperfezione e la mette in caricatura, per finire il volume, se non perfettamente risanata, almeno convalescente. E di questo ritorno a lodarla, perchè è troppo facile, in tempi di contagio, ammalare come il prossimo.
* * *
Ed ora che ho detto il bene e il male, depongo volentieri, anzi con gioia, la penna che non avrei preso in mano se una promessa non mi ci avesse costretto. Abbandono il libro al disprezzo dei virtuosi ed alle risate di quegli altri, lieto, in quanto a me, di aver imparato questo; che non bisogna prometter mai prefazioni e tanto meno farne.
Condannata da l'empio destino
a l'iniquo mestier della cuoca,
io compongo vicino alla fuoca[1]
i miei deboli versi d'amor,
e l'imago d'un giovin divino
m'apparisce a gli sguardi incantati;
sento l'orma de i passi adorati
echeggiarmi ne l'vergine cor!
Quant'è bello il diletto garzone
cui le grazie fan lungo corteo!
Rassomiglia a Giulietta e Romeo
che la penna de l' Tasso cantò!
E' robusto sì come Sansone,
è più forte di Tirsi e d'Orlando,
e se snuda il durissimo brando
qual mal donna resister ci può?
Vieni meco, mio energico amico,
ch'io ti stringa in un morbido amplesso!
Tu sei bello, sei forte, sei desso,
il marito che innanzi mi sta!
Ma chi rompe l'imene pudico,
ma chi turba il mio sogno fremente?
E' mio padre che grida furente:
«La brasàdla la pòzza e d' strinà!»[2]
(Pensata nella domestica cucina
e scritta ivi il giorno dopo)
[*] Questo fu il primo parto della nostra Poetessa e le mende
storiche e mitologiche ne accusano l'inesperienza.
[1]: Focolare, Dialetto bolognese.
[2] "La costoletta puzza di bruciato", Dial. bol.
Tra le palme del deserto
C'è un magnifico castel,
Ch'è impossibile di certo
Di trovarne uno più bel.
Ivi tien la sua dimora
Di quei popoli il signor.
Egli è bello e giovin, fuora
Che ha il difetto d'esser mor.
Stando assente dal paese
D'una vergin s'invaghì.
Era bella e bolognese,
E difatti la rapì.
Ma suo padre, ahi sorte dura!
Che mandarla giù non può,
Si rivolse alla Questura
Che due guardie ci mandò;
E alla patria abbandonata
La volevan trascinar,
Ma la bella innamorata
Non voleva ritornar,
E rivolta al suo diletto
Ci diceva: «o bel re mor,
»Fa il piacere, tienmi stretto,
»Non lasciarmi con costor!
»Deh, non fia che il fato amaro
»M'allontani dal tuo sen!
»Ah, difendimi, mio caro,
»Che ti voglio tanto ben!»
Ma il re moro pensieroso
Resta muto sul sofà
E un pensiero mostruoso
Nello sguardo e in cor gli sta!
Poichè il moro non risponde
Sta la bella in oppression;
Straccia via le chiome bionde
E si butta in ginocchion.
E poi fece tante cose,
Disse, pianse e supplicò…
Ma quel porco non rispose,
Stette zitto e la piantò!
O scellerato che tirasti su
Quel genitor che il cielo a me largì,
Hai ben ragion che sei non si sa chi
E il telegramma senza il nome fu!
Empio, domanda pure a chi vuoi tu
Se son cose da far quelle che lì,
Che sta sicuro che se fosti qui
Staresti un pezzo di non farne più,
Che colla forza la maggior che ho
Ti vorrei scorticar da capo a piè
E con la pelle tua farmi un paltò!
Nessun ti salverebbe, a meno che
Fosti bello e robusto anzichenò
E promettesti di sposarmi me.
[*] L'ottimo Signor Pietro Sbolenfi si portava candidato alla Deputazione in tutti e tre i Collegi di Bologna. Il vero merito non è mai conosciuto e lo Sbolenfi rimase in terra. Un malvagio, rimasto avvolto nelle ombre del mistero, telegrafò allo sconfitto candidato che invece la sorte gli aveva sorriso. La famiglia quasi impazzì di gioia, il signor Pietro diede le dimissioni dal suo impiego di ff. di inserviente di III classe e si trovarono sul lastrico. Onta sul cranio indegno che pensò simile orrore!
Che veggo? Che miro? Rimbomba già il tuono!
Il tempo mi pare che faccia da buono!
Ahi, miser chi a casa scordato ha l'ombrel!
La grandine è grossa che pare una noce
E omai per vederci nel scuro feroce
Accender fa d'uopo frequenti candel.
Che veggo? Che miro? Un giovin garzone
Che solo soletto traversa il ciclone
E par che non curi dell'acqua il piombar!
Ah, certo tra i lampi lo guida l'amore!
Mel dice la speme che m'arde nel core!
Ah, certo quell'uomo mi viene a sposar!
Deh, frena il furore, fa un poco più adagio,
Che tu nol rovini, mio buon nubifragio!
Deh, fa che non giunga bagnato al mio sen!
Che veggo? Che miro? Ah, cruda mia stella!
M'illuse la speme, ho fatto padella![1]
Egli era il Questore, non era il mio ben!!
[1] Prendere un granchio: Decapodus brachiurus Linn.
Ad Enrico Zanettini
Questa è la mia ghirlanda! Il lauro eterno
Intrecciato co' fior, m'orna la fronte
E così salgo il dilettoso monte
Che il Nume de' poeti ha in suo governo.
Questa è la mia ghirlanda e state, o verno
O venti, o geli, non le arrecan onte.
La bagnò l'onda del Castalio fonte,
Col raggio la baciò l'astro superno.
Eccola: a voi, poeti, a voi la mostro
Olezzante di rose e di vïole,
Pura qual neve che sull'alpe fiocca.
Eccola dei color di croco e d'ostro,
Leggiadra come un fior che s'apre al sole:
Dio me l'ha data e guai chi la tocca!
Ma se tu, Zanettin, toccarla vuoi,
L'Argia t'adora e non se ne lamenta
E se magari ami fiutarla, il puoi,
Che tu ne sarai lieto ed io contenta.
Vieni Enrico ed ammira i color suoi:
Prendi e sciupala pur se ti talenta,
Poi che intatta la porgo agli occhi tuoi
E sguardo indagator non la sgomenta.
La conservai qual me la diede Iddio
Pura nella favella e nei pensieri,
Sogno dei vati e de' guerrier desio;
Ma poichè mi son legge i tuoi voleri,
Ad un solo tuo cenno, Enrico mio,
Te la do tutta quanta e volentieri!
[*] Enrico Zanettini domestico di S.E. Reverendissima Mons. Vescovo di Fano, respinse indignato l'effemeride dove scriveva la Poetessa, perchè infetta di massime eterodosse. La signorina Argia gli pose affetto e gli inviò una corona di cardi con questi sonetti.
S'ode a destra tirar per la valle,
A sinistra si tira lo stesso;
D'ambo i lati si vedon le palle
Da pistole montate scoppiar.
Lunghi e grossi ch'è un gusto guardarli
Sono i pezzi che scarican spesso,
E se alcuno provasse a tastarli
Sentirebbe la mano a scottar.
Colle gambe per aria da un lato,
Colle gambe per aria dall'altro,
Cade a terra il meschino soldato
Che l'amante al paese lasciò.
Fieramente si drizza l'ardito,
Cautamente si china lo scaltro,
E ciascun ha un enorme prurito
Di pigliar meno botte che può.
Da una parte si sente un comando,
Una bomba dall'altro si sente;
Gli ufficiali che impugnano il brando
In un lampo si vedon venir.
C'è chi un membro sul campo ha perduto
E rimane per sempre impotente:
C'è chi morto in un fosso è caduto,
Nè più mai gli fia dato d'uscir.
Finalmente Bismarck grida in fretta:
«Abbiam vinto!»—ed un'eco risponde!
Va pur là, Cancelliere polpetta,
Anche questa la devi pagar!
Assassini! Ed intanto arrabbiate
Ardon mille ragazze infeconde!
Assassini! Se i maschi ammazzate,
Noi dovremo i somari sposar!
Già con versi diversi offersi a Tirsi
Un cor lieto d'offrirsi e gliel'apersi,
Ma i carmi tersi se n'andar dispersi
Ed io soffersi quel che non può dirsi.
Potè fuggirsi dunque e non sentirsi
Il crudo petto aprirsi al mio dolersi?
Potè amato sapersi e compiacersi
D'indispettirsi meco e di partirsi?
Tardi lo scorsi e tardi il piè ritorsi
Dai sentieri percorsi! Urge fermarsi
E rassegnarsi dei rimorsi ai morsi.
Quei dì son scorsi ed or che resta a farsi?
Il crin velarsi, il bruno intorno porsi,
E i discorsi trascorsi, ahimè, scordarsi!
Son circa tre anni, tre mesi e tre giorni
Che il paggio Fernando montava a caval
E adesso galoppa per questi contorni
Saltando gli abissi, le piante e il canal.
Per cosa galoppa? Un turco infernale
Al povero paggio l'amante rubò
Ed ora egli cerca quel porco maiale,
Perchè di sbranarlo Fernando giurò.
Ma il turco, ben visto dal proprio Sovrano,
Fu giusto per Pasqua promosso Pascià;
Pascià da tre code, che dopo il Sultano
È l'uom più codardo di quella città.
Fernando che il seppe, fu svelto e ci andiede
E incognito al turco si fe' presentar.
Un monte di ciarle d'intender ci diede,
Di modo che a pranzo si fece invitar.
Mangiato l'allesso, mangiato l'arrosto,
Il turco si fece portare i marron,
Sui quali Fernando buttò di nascosto
Dei torcibudella che avea nei calzon.
—«O Dio, che dolori! Chiudete la porta …
Chiamatemi il prete… più regger non so …
Io muoio!…» Ed insomma, per farvela corta?
Fu tanta la sciolta che il turco crepò.
Allora Fernando andò sull'altana,
Chiamò la sua bella, la fece scappar,
Ci diede i quattrini la Banca Romana
E a casa col treno potetter tornar.
Garzoni e donzelle che attenti ascoltate
La lieta canzone che pianger vi fa,
L'amore del prode Fernando imitate,
Però col permesso del vostro papà.
Suonate campane la Pasqua giuliva,
Prendete o fanciulli in mano la piva,
Fedeli soldati sparate il cannon!
Risorto è il giornale che dianzi moria,
Risorto è Pierino, risorta l'Argia,
La vergin che disse la casta canzon!
Pudiche fanciulle, dal pianto cessate,
La danza del ventre pel gaudio danzate,
La vostra Sbolenfi tra i vivi e tuttor.
E, vergine sempre, ritorna fra voi
Tirando più forte d'un paio di buoi
Il carro funesto del proprio dolor.
Deh, come, o fanciulle, deh come piangeste
E tristi nel letto solingo diceste
«La nostra Sbolenfi perchè non è qui?»
Ma mentre la bella defunta pareva,
La morte che in pugno già stretta l'aveva,
Dischiuse le dita e quella fuggì.
Ed or che il mio canto più dolce rinacque,
All'opra interrotta che tanto vi piacque,
Pudiche fanciulle, tornate con me.
Destata dal sonno, col plettro rivengo,
Lo scuoto, lo stringo, nel pugno lo tengo
E voglio provarvi che morto non è.
[*] Rinasceva l'effemeride nella quale la Poetessa e Pietro, suo
genitore, deponevano le loro secrezioni cerebellari.
Cadea la notte. Già il cancelliere
Avea degli atti chiuso il volume
E il Presidente disse all'usciere:
«Portate il lume!»
Non un sussurro s'udia nel Foro,
Nemmeno un lieve ronzar d'insetto,
Quando, calzati gli occhiali d'oro,
Lesse il verdetto,
E disse: «Vista la legge, udita
La parte avversa, pesati i danni,
La pena è questa:—Galera in vita
Per quarant'anni».
Briscola! Quando mi sentii preso
Così da questa sentenza infame,
Cascai per terra lungo e disteso
Come un salame,
E il giorno dopo due immense palle
Recar dovetti per ogni dove,
E mi fu scritto dietro le spalle
«69»
Quante ferriate nella finestra!
Quanti bigatti nel mio pan nero!
Quanti fagioli nella minestra
Del prigioniero!
Ed il mobilio? Ecco un saccone
Dove gl'insetti tengon cappella
E per … (s'intende) là in quel cantone
C'è la mastella.
Sono vestito di panno grosso
Con un stifelius tagliato male,
E la catena che porto addosso
Pesa un quintale.
Con una lima, frega e rifrega,
Potrei scappare non osservato …
Ah, se potessi farmi una sega,
Sarei beato!…
O giornalisti, da sera a mane
Vi sia presente questo mio stato.
Un per finire fatto da cane
M'ha rovinato!
[*] Parla il Direttore della effemeride citata, il quale era
accusato di aver commesso un per finire diffamatorio, mentre
non era che cretino. Il processo andò a monte.
Non relinquam vos orphanos;
veniam ad vos.
Jo. XIV, 18.
Sopra le piume vigilando sola,
Colei che già fu di Petronio e Zama
Leva le palme al ciel, languida e grama,
Poi che gaudio d'amor non la consola.
Lungo uno strazio è nella sua parola
Qual già nel pianto di Rachele in Rama,
E dal vedovo letto il __Padre__ chiama
Perchè non scordi la fedel figliola.
E prega e mostra le gramaglie nere
In che da sì gran tempo il viso asconde,
E la nave di Dio senza nocchiere:
Ma il suo pianto non posa e n'ha ben d'onde
Poi che il barbaro __Padre__, alle preghiere
Con l'iniqua parola,[1] ahimè, risponde!
[1] L'iniqua parola è una interiezione dialettale bolognese che suona ingiurioso invito ad operazioni pneumatiche.
Fra Bordighiera e Nizza,
Dove più azzurro è il mar,
Un giovin marinar
L'albero drizza.
Forte, gentile e bello
Vola sull'Ocean,
Col suo timone in man,
Come un uccello.
Nè morte nè ferita
Gli fa terror, perchè
Assicurato egli è
Sopra la vita;
Ma dalle parti basse
Di Greco e Maestral
Si leva un temporal
Di prima classe,
S'odon da lunge i tuoni
Si vede lampeggiar
E allora il marinar
Dice: «Coioni![1]
Se dura niente niente
Tra poco si anderà
In pasto ai baccalà
Sicuramente.
Le braghe di fustagno
Umide sono già….
Cosa dirà mamà:
Se me le bagno?
In mar si sta benone,
Ma, se credete a me,
Si gode più al Caffè
Del Pavaglione,[2]
E se a toccare il suolo
Arrivo col seder,
Piuttosto che il nocchier
Fo il ruscarolo».[3]
Ma per combinazione
Mentre dicea così,
Il tempo si schiarì
Là, in quel cantone.
Dell'onde il mal governo
In un balen cessò
E il temporale andò
Verso Paderno.[4]
L'iniqua alfin parola
Ode in un porto dir
E tira un gran sospir
Che lo consola.
Gli affari di famiglia
Scorda e l'orrendo mar
E corre a ritrovar
La Centomiglia;[5]
Ahi lasso! e i suoi quattrini
Li spende così mal
Che va nell'Ospedal
Da Gamberini.[6]
Vedi da ciò quant'erra
Il detto popolar
Che dice: «loda il mar,
Tienti alla terra».
[1] Interiezione marinaresca che denota sorpresa.
[2] Condotto da Enrico Lamma in piazza Galvani a Bologna.
[3] Raccoglitore ambulante di detriti organici. Dial. bol.
[4] Qui la geografia è bastonata. Paderno non è tra Bordighiera e
Nizza, ma sui colli a sud di Bologna.
[5] Etera peripatetica e scalcagnata che disonora i vicoli di
Bologna.
[6] Già Direttore della Clinica Dermosifilopatica all'Ospedale di
S. Orsola.
Il Ministero e zero invero contano
Spesso lo stesso e solo un sesso vantano.
A un'unità di qua o di là si montano,
Di un voto ignoto al moto indi si spiantano.
Sorretti e accetti i Gabinetti affrontano
Ritti i conflitti ed i sconfitti schiantano;
Poi, grati ai Fati se i soldati ammontano
A tanti quanti son bastanti, cantano.
Ma se i fiacchi o i vigliacchi i tacchi puntano,
O se un minuto il muto aiuto allentano,
Liti e garriti tra i partiti spuntano.
Desti gli onesti e questi si addormentano;
Rimovi i chiovi e i novi più si appuntano;
E tasse e sopratasse a masse aumentano!
_Gentil Donzella cui Ciprigna dona
Lieto il color delle Acidalie rose,
Cui di lauri raccolti in Elicona
Di Cirra il Nume una ghirlanda impose,
Ben fosti cara al nato di Latona
Se del Parnaso in sulla via ti pose
E del sacro Permesso a te sprigiona
Dolci di mele Ibleo l'onde famose!
Ma se fia che tra breve alla palestra
Rieda, di nuovi onor carica e pregna,
Non dilettarci sol, ma ci ammaestra;
E di Quirino alle nepoti insegna
L'arte soave in che tu sei maestra,
O della Lesbia Saffo emula degna!_
Di EDRA COPRODITE
Pastore Arcade
[*] Umile parto dell'umilissimo chiosatore.
Saggio Pastor, poichè il tuo nome suona
Chiaro nelle città dotte e famose,
Dall'altezza ove stai mite perdona
Alle mie rime tristi e vergognose.
Ahi, la ghirlanda che il tuo cor mi dona
È purtroppo d'alloro e non di rose
E vorrei barattar questa corona
In carni meno crespe e più polpose!
Che m'importa il saper come maestra
L'arte di Saffo quando Amor mi sdegna
Scaricandomi addosso la balestra?
Vorrei mutar questa vitaccia indegna,
Vorrei sentir suonare un'altr'orchestra…
Un marito, per Dio[*], chi me lo insegna?
[*] Bacco.
Spero davvero che il mio fiero isterico
Male, che assale quale un fucil carico,
Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
Cada per strada e vada nel chimerico.
Bandito è il rito ed un vestito serico
Stato è tagliato, come o dato incarico;
Del normal verginal segnai mi scarico,
Che l'ara cara già prepara il chierico.
Sposo! ed oso un focoso panegirico
In onor di chi al cor l'amor teorico,
(Che splende e non accende) or rende empirico.
Chi è matto affatto, questo fatto storico
Può far burlar nel suo ghignar satirico,
Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!
[*] Ahi, non fu vero!
Titiro, tu che d'un gran faggio all'ombra,
A gambe aperte, stravaccato[1] stai,
Mangiando allegramente una cucombra,[2]
Un canonico sembri e chi sa mai,
Chi potesse vederti le budelle,
Bollettario, anche te che sghissa[3] avrai!
Io stento invece e queste pecorelle
Sono ormai senza tetto e senza pane
E campan di polenta e di sardelle.
Hai forse avuto eredità lontane?
Hai rubato una pisside o un ciborio?
O ti fai mantener dalle sottane?
Amico Melibeo, questo è notorio
E lo san fino i sassi di Bologna,
Che tu sei sempre stato un tabalorio;[4]
Ma non sapevo, e il dico a mia vergogna
Perchè l'imparo adesso solamente,
Non sapevo che fossi una carogna.
Qual reo sospetto t'è venuto in mente,
Asino porco, sulla mia condotta?
Sono un pastore onesto ed innocente!
E se non fossi mio compatriotta
Ed anzi amico mio di Seminario,
Tu mi faresti venir su la fotta.
Basta; veggo però ch'è necessario
Dirti come domai l'iniqua rana,[5]
Essendo un fatto un po' straordinario.
Tu saprai che quest'altra settimana
Una dolce fanciulla, un puro fiore,
Che delle poetesse è la sovrana,
Magrolina se vuoi, ma un vero amore,
L'Argia Sbolenfi insomma, e ho detto tutto,
Sposa … imagina chi? L'Imperatore!
La nuova si sapeva dappertutto,
Ma io la vidi sol nell'È Permesso,[6]
L'unico foglio serio e di costrutto.
Appena letto, allon! mi sono messo
Le braghe dalla festa e il gabbanino
E son corso da lei come un espresso;
Ma siccome era chiusa in camerino
A far dei versi al suo futuro sposo,
Fui ricevuto dal signor Pierino[7]
Che largo, liberale e generoso,
Mi offerse cordialmente da sedere,
Ma il caffè no, perchè gli dà il nervoso.
«Ohi, chi vedo!»—«Tersuà»—«Bravo! ho piacere!
»Cosa porti? L'agnello?»—«Nossignori»—
»Peccato, che t'avrei dato da bere!»—
Così ciarlando, ecco l'Argia vien fuori,
La qual, come saprai, ci diedi il latte,
(Ossia mia moglie) e latte dei migliori.
Era in disabigliè, con le ciabatte,
Una sottana bianca e un zuavino
Che ci arrivava appena alle culatte.
«Oh!»—lei dice—«Mo bravo Titirino!
»Non sai chi sposo? Ah son tanto felice
»Che a momenti mi viene uno smalvino![8]
»Fra pochi giorni sono Imperatrice!
»Sei venuto a veder la tua sovrana?
»Ti farò ricco, e sai chi te lo dice!
»A tua moglie ci pago una collana,
»E con l'acqua di felsina, all'armento
»Fin da quest'oggi laverai la lana.
»Farò indorar le vacche ed il giumento,
»Ti selciarò la stalla di brillanti,
»E l'aldamàra[9] tua sarà d'argento.
»Or vanne Titirino e quei birbanti
»Che tempo addietro mi credevan pazza,
»Crepino d'accidente tutti quanti.
»Vanne a Bologna, sta contento e sguazza,
»Che in compenso del latte che m'hai dato,
»Io ti farò più ricco di Cavazza![10]»—
Io dico grazia! vado, e sul mercato
Da un buon amico mio, sessanta lire
Al sessanta per cento, ho ritrovato;
Ma il primo vaglia che mi fa venire
L'Imperatrice Argia, pago ogni cosa,
Faccio il porco e mi voglio divertire.
Ecco spiegata la ragione ascosa
Di tutta quanta l'allegrezza mia,
Viva il signor Pierin! Viva la sposa!
Viva l'Imperator! Viva l'Argia!!!
[*] Per errore di troppo eccitabile imaginazione, la Poetessa credette che S.M. l'Imperatore di Germania venisse l'ultima volta a Roma per chiedere al Sommo Pontefice il divorzio dalla Imperatrice e sposar quindi lei.—Vedi le note in fondo al capitolo.
[1] Coricato. Recubans sub tegmine fagi. VIRG. Dum stravaccatae pegorae marezant_. MERL. COCCAI Zaniton.
[2] Cocomero, anguria. Cucurbita citrullus Linn.
[3] Appetito furibondo.
[4] Uomo di poco cervello. Captus mentis.
[5] Non è la rana esculenta Linn. ma il sinonimo bolognese di miseria. Questo simbolico batracio ricorrerà sovente in queste carte.
[6] L'effemeride in cui videro la luce molte di queste rime.
[7] L'onorando signor Pietro Sbolenfi, degno genitore dell'autrice, cui è dedicato il volume.
[8] Che Dio ci liberi e scampi tutti! È un accidente.
[9] Concimaia.
[10] Il Conte Felice Gavazza, banchiere, riputato per uno dei più ricchi bolognesi.
Mio diletto Signor, poichè vedesti
Senz'alcun velo il negro mio misfatto,
Signor, perdona e fa che in te non desti
Scandalosi pensier l'orribil fatto.
Nel momento fatal forse dicesti:
«Cos'è quello, per zio?! Divento matto?
È questo l'occhio dell'Argia? Son questi
L'aspetto e i vezzi suoi? Mo niente affatto!»
E ben dicesti! Anch'io quanto mi posi
Viceversa così, pensai lo stesso
E tu lo sai che non te lo nascosi;
Ma, deh, quell'affaraccio dell'ingresso
E il panorama che alla folla esposi,
Scordali, Cocco, e sposami lo stesso!
[*] Recatasi incontro a S.M. l'Imperatore, salì sopra un palo e,
urtata dalla folla, cadde a capofitto, mostrando al suo sperato
amante, com'ella dice, poco rispetto.
C'era una volta in Roma una ragazza
Il cui nome gentil non vi dirò,
Che per l'Imperator divenne pazza
E di dargli la man si lusingò.
Ei venne a Roma e per la gioia grande
Ella dinanzi a lui cadde boccon
E gli mostrò che non avea mutande
In omaggio all'igiene e alla stagion.
Bismarck, quando lo seppe, andò in furore,
Afferrò penna, carta e calamar
E poi telegrafò all'Imperatore
Che per l'amor di Dio non stesse far,
E quella donna ci si mise dietro
Seguitandolo sempre per città,
Dal re, dal papa, in piazza ed in San Pietro,
Raccontandogli mille infamità.
E lui sentendo questa sinfonia,
Da prima cominciò a tintinagar,[1]
Poi nel più bello piantò lì l'Argia
E coi Sovrani s'imbarcò per mar.
L'empio! Intanto la povera tradita
Nei Cappuccini andò per la passion;
Mutò speranze, desideri e vita,
Ed, ancella di Dio, prese il cordon.
Caste donzelle, deh, accogliete in seno
Questo consiglio che mi vien dal cor.
Portate sempre le mutande, o almeno
Copritevi se vien l'Imperator!
[*] Colui, ahimè, è l'alto personaggio di cui alle rime precedenti, e quella donna la sua legittima e graziosa consorte.
[1] Tentennare. Dial. bol.
All'illustre e Venerato prosatore
e suo diletto genitore
questo segno d'onore
pegno d'amore
col cuore
Argia
dà
Padre diletto,
Sbolenfi Pietro,
Al tuo cospetto
Vinta m'arretro,
Perchè sei degno
D'aver un regno.
Ma poichè il regno ti negò la sorte
E giaci oppresso dall'immonda rana,
Col tuo bel libro sfiderai la morte,
Il bel libro cui feci io da mammana,
Il bel libro che può dirsi un portento,
Da cui speriamo alfine il nutrimento.
E poichè il mondo,
Non ti fa onore
Vieni, giocondo
Mio genitore,
Che ad alta voce
Ti dò la croce!
[*] L'ottimo ed erudito Signor Pietro Sbolenfi, genitore della poetessa, aveva stampato un applaudito volume di ricordi bolognesi. La poetessa lo rimeritò della dedica fattale con questo segno d'onore.
Crudo ed avaro, nel suo castello
Viveva il Conte del Meloncello,[1]
Quindi nessuno ci volea ben.
Trattava i figli come serpenti,
E, dice un libro, che ai suoi serventi
Il pane e l'acqua ci dava appen.
Il primogenito di nome Augusto
Era un bel giovine, svelto e robusto,
Che l'ammiravano per la città.
Membro dei Reduci dalle Crociate,
Molte godevasi maccaronate
Coi Soci, e andavano di qua e di là.
Lo seppe il padre che, all'olmo andato,[2]
A sè un sicario tosto chiamato,
Mettere il figlio fece in prigion.
Cavar gli fece l'elmo e lo scudo
E in una torre lo mise nudo
Ed era, ahi vista! senza i calzon!
Ma il padre barbaro che una mattina
Privo di lampada stava in cantina
E, come al solito, tirava il vin,
(Ah, proteggeteci Angeli e Santi!)
Fetente e squallida si vide avanti
L'ombra terribile d'un cappuccin.
E l'ombra disse: «Non hai vergogna
Di quel che hai fatto, brutta carogna?
Libera il figlio; dà mente a me!»
Al padre infame, pel terror grande,
Cambiar colore fin le mutande,
Tal che ammorbava da capo a piè.
Indi, recatosi alla prigione,
Con mano tremula aprì il portone
E disse: «Vattene dai piedi fuor!»
Augusto, libero, ratto andò via,
Indi, impiegatosi, sposò l'Argia[3]
E lunghi vissero giorni d'amor.
[1] Arco a due chilometri da Bologna. Il castello non esiste più, ma invece vi si trovano, una stazione di Guardie di P.S. e un'osteria.
[2] Andato in furia.
[3] Ahi, non fu vero!
Ridicolo che il vicolo girandoli,
Sciupi i sassi coi passi e indarno ciondoli.
Ti parlo schietto, io non ammetto scandoli,
Ne sopporto uno storto che mi sdondoli.
Gli affetti celo e in denso velo ascondoli
Ai vegliardi testardi; indi burlandoli,
Li mando in bando quando, innamorandoli,
Strazio i lor cor e nel dolor sprofondoli.
Se i maschi adoro, pur tra loro io scindoli
In vecchi molli c'hanno i colli pendoli
E in giovinetti eretti e di buone indoli;
Ma i somari tuoi pari io vilipendoli
E far puoi quel che vuoi, tu non m'abbindoli,
Vecchio brutto, distrutto e tutto a sbrendoli!
O pia Maria, ve' della mia terribile
Pena terrena la catena ignobile!
Vien manco il fianco stanco ed è impossibile
Ch'io resti a questi mal molesti immobile!
Dura sciagura, arsura inestinguibile,
Ricetto eletto han nel mio petto e, mobile
La mente, sente un serpente invisibile
Che ha vinto, estinto, in lei l'istinto nobile!
O Bella Stella, o Verginella amabile,
Ascolta, volta a me stolta e volubile,
La preghiera sincera e vera e stabile.
Odo che un nodo sodo e indissolubile
Fa fiorita ogni vita attrita e labile….
Mia pia Maria, fa ch'io non sia più nubile!!
Rana, sovrana dell'umana e ignobile
Razza, che pazza sguazza in brago orribile,
Sdegno il tuo regno indegno e sfido immobile
Mira! l'ira tua dira e inestinguibile!
Tardi e codardi dardi avventi al nobile
Mio petto, schietto, eletto e irremovibile.
Sprezzo il tuo lezzo e in mezzo al volgo mobile,
Vera guerriera e fiera, io sto invincibile.
Il mondo in fondo è tondo ed è volubile,
Come una luna la fortuna è instabile,
E, onesta o lesta, niuna resta nubile;
Sol io, mio Dio, col mio desio ineffabile,
Giaccio, e non straccio il tuo laccio insolubile,
Rana ircana, malsana e miserabile!!
[*] Batracio simbolico di cui vedi indietro.
Il coccodrillo
Chiese al mandrillo:
«Perchè sei qui?»
Disse il mandrillo
Al coccodrillo:
«Perchè di si!»
Morale
Opra tranquillo
Come il mandrillo
La notte e il dì.
Un pollaio, di gennaio,
Nel solaio d'un notaio
Un porcaio diventò;
Ed un pollo non satollo,
Il suo collo mezzo frollo
Col midollo si mangiò!
Morale
Imparate, disgraziate
Non pigliate cantonate
Se bramate dei cocô!
La cicala avea cantato
Tutto luglio a perdifiato.
Quando il caldo fu sparito,
Si sentì molto appetito
Ed andò dalla formica
Domandandole una spica.
La formica le richiese:
«Che facesti l'altro mese?»
La cicala allor riprese:
«Ho cantato, o dolce amica!»
«Brava!»—disse la formica—
«Tu facesti arci benone
«Ed invece d'una spica,
«Prendi, cara, ecco un zampone!»
Morale
Imitate in ogni cosa
La formica generosa.
Una sciabola un po'sciocca
Col revolver litigò
E finì col dirgli: «tocca
Questa lama e tacerò!»
A costei che lo contrasta
Con sì stolta vanità,
Il revolver disse: «tasta
Queste palle, e zitto là!»
Morale
Ragazze, non scherzate
Con l'armi caricate!
La pulce milanese
Che vive di stracchino,
Fuori del suo paese
La credono un pulcino.
Morale
Un uomo d'esperienza
Si fida all'apparenza.
La farfalletta
Sopra la vetta
D'una polpetta
Si riposò.
Ma una civetta
Accorse in fretta
E, poveretta!
Se la mangiò.
Morale
Lettor, sta attento e vedi
Dove tu metti i piedi.
La pispola diceva al pispolino:
«Bada di non sporcarti il gabannino!
Ma il pispolin la madre non paventa
E in umido finì con la polenta.
Morale
Ubbidisci alla madre ed al fratello,
O nell'umido andrai come l'uccello.
Un tonno innamorato
Lesse i Promessi Sposi
E tutto riscaldato
Da sensi religiosi,
Andò pianin pianino
A farsi cappuccino.
Morale
Fai bene se t'astieni
Dal legger libri osceni.
Una foca in vaporino
Volle andar sino a Bazzano,
Ma le cadde il taccuino
Dalla tasca del gabbano
E se volle andarci mai
Dovè prendere il tramvai.
Morale
Toccherà sempre così
A chi viaggia in venerdì.
Un delfino al mare in ripa
Che fumava nella pipa,
Prese fuoco e si scottò;
Ma uno struzzo di passaggio
Lo guarì con del formaggio
Che sul buco ci applicò.
Morale
Questa favola mi pare
Che v'insegni a non fumare.
Fece l'ovo un giovin gallo
Fuor del nido e lo covò,
Ma uno svizzero a cavallo
Non volendo lo schiacciò.
Morale
Di qui apprendi, o giovinetto,
A far l'ovo nel tuo letto.
Il soldo ed il baiocco
Trovandosi in questione,
Portavano lo stocco
Nascosto nel bastone;
Ma tosto i deputati
Votarono un'inchiesta
E furon condannati
Al taglio della testa.
Morale
Chi tradisce l'amicizia
Cade in man della giustizia.
Il leon per fare il bagno
Punto fu dal pesce ragno,
Ma un dentista forestiere
Lo guarì con un clistere.
Morale
Chi vuol far l'altrui mestiere
Molte volte fa piacere.
Lo storione—in un cantone
Profittò dell'occasione,
Ma il leone—cappellone
Gl'intimò contravvenzione.
Morale
Son molti i guai—che ti risparmierai
Se a ritirarti a tempo imparerai.
Tra la provvida formica
E il catarro di vescica
Fu contratta società.
Ma si sciolsero ben tosto,
Perchè ognuno ad ogni costo
Pretendeva la metà.
Morale
Non c'è gusto in un bel gioco
Quando dura troppo poco.
La pecora inferma
Tirando di scherma
In breve guarì.
Ma perse il tabarro
E prese un catarro
Del quale morì.
Morale
Questa piccola novella
Vi consiglia la flanella.
L'ippopotamo droghiere
E il merluzzo salumiere
Ragionavan con piacere
Ciaschedun del suo mestiere.
Ma un astuto alligatore,
Anche lui commendatore,
Disse: «Ah stupidi! il migliore
È il mestiere del signore.»
Morale
Se le bestie parlan bene,
Frequentarle si conviene.
Il re Tappella
Facea la guerra,
Ma dalla sella
Cascò per terra
E nel tracollo
Si ruppe il collo.
Morale
Per detto generale
Chi casca si fa male.
La lima ed il limone
Per causa dei giornali
Ebbero una questione
Davanti ai tribunali,
Ma proprio nel momento
Di farsi onor coll'arte,
Tirò sì forte il vento
Che portò via le carte.
Morale
Oh che gioia, oh che contento
Se tirasse solo il vento!
Stava il corvo alla finestra
Aspettando la mammana
E teneva nella destra
Una forma parmigiana.
Una volpe ivi passò
Ed a lui così parlò:
«Deh, chi mai vide un uccello
Più piacevole e più bello?
Se il tuo canto è come il viso,
Sei l'uccel del Paradiso!…»
Ascoltando queste cose,
Tosto il corvo le rispose:
«Cara volpe, a chi mi loda
Dico: baciami la coda!»
Morale
Se qualcun vi loda spesso,
Rispondetegli lo stesso.
La tinca in una cassa
Piena di formentone
Si fece tanto grassa
Che diventò un tincone.
Morale
A molti il vizio
Fa quel servizio.
La sega ed il ditale
Sposi a dieci anni soli
Dal nodo coniugale
Non ebbero figliuoli,
Perciò, con atto egregio,
Fondarono un collegio.
Morale
Son sterili soventi
Le nozze tra parenti.
Il bue disse alla vacca:
«Vuoi tonno o vuoi salacca?»
La vacca disse al bue:
«Dammeli tutti e due!»
Morale
Nelle giornate magre di quaresima
Son simile alla vacca anch'io medesima.
Un somaro in Egitto per scommessa
Sposò una poetessa
E in barca la condusse al Cairo e a Menfi…
Morale
Sposate ARGIA SBOLENFI!!!
Va per la selva nera
Solingo un cavalier
Ornato d'un cimier
Colla criniera..
Dai piedi fino al mento
Coperto è di metal;
Galoppa il suo caval
Che pare il vento.
Quand'ecco che un romito
Innanzi gli si fa
E dice: «vieni quà,
Guerriero ardito!
C'è una fanciulla pia,
Leggiadra anzichenò,
E il padre la chiamò
Sbolenfi Argia.
Ti sta nel suo palazzo
Fremente ad aspettar
E tu l'hai da sposar
Bravo ragazzo!
Faresti un buon affare
E non puoi dir di no.
Io vi mariterò;
Valla a pigliare!…»
A questa esortazione
Commosso il cavalier,
Nel ventre del destrier
Piantò lo sprone,
E si partì al galoppo
Bramoso di venir,
Veloce come al tir
Palla di schioppo…
Scorsero gli anni e i mesi,
I giorni e le stagion,
Ed io sul mio balcon
Sempre l'attesi!
Ma invan lo sguardo esplora
Le strade ed i sentier;
Il prode cavalier
Galoppa ancora!!
¿Habla: se puede ser mas desdichada?
Quiereba Carlos el toreadores,
Ma un toro viense in la plaza mayores
Y per matarlos el sfrodò la espada
El toro escapò vias por la contrada
¡Mo Carlos, dietros. fagando romores!
Cuando el toro ¡ahi de mi, caros señores!
Per de dietros ce apogia una cornada.
Carlos cascò cridando ¡ahi, porco mundo!
Viense el medico y hablò: ¡mo bozaradas,
El corno ha penetrado ensino al fundo!
¡Parece un nido carico de vrespas;
Las pobras chiapas miranse sfondadas,
Todo està roto y buena noche crespas!
[*] Lo Spagnuolo non beve… certo l'onda del Mançanares!
Padre, nei giorni, ahimè! vissuti insieme,
Nei tristi giorni in cui, non pur degli agi,
Ma fin del pane ci fallìa la speme,
Quando furtivi, squallidi e randagi
Le poma guaste cercavamo e l'ossa
A piè de' monasteri e dei palagi,
Quando il verno crudel con la sua possa
Sotto il breve lenzuol ci costringeva
Come morti a gelar dentro la fossa,
Padre, la figlia tua non si doleva
Sotto il duro flagel della fortuna.
Io mi sentiva forte e non piangeva,
Ma poi chè, fior di gioventù, la bruna
Mia pubertà sbocciando, amor m'apprese,
Obliai le miserie ad una ad una.
Il gaudio della vita in cor mi scese
E nuovo e forte palpitò il desio
Nel petto ansante e nelle vene accese.
Ma tu, sorpreso del delirio mio,
Mi chiedevi talor—figlia, che hai?
Aprimi il core: il padre tuo son io!—
T'amo, Pietro Sbolenfi, e ben lo sai,
Tanto, che al dolce suon dei detti onesti
Non te lo apersi, ma lo spalancai.
—Mo, tananòn Mingheina!—allor dicesti—
Costei già sogna il matrimonio e i figli!
È tempo di vegliarla e di star desti!—
Mi sciorinasti allor cento consigli
Di virtù, di morale e di prudenza
Per agguerrirmi il cor contro ai perigli.
—Cara figlia—dicevi—abbi pazienza,
Sceglilo ricco e sceglilo maturo,
Che pigliarlo in bolletta è un'imprudenza.
Cerca, se puoi, di metterti al sicuro!
Guarda tuo padre e resta persuasa
Come il campar senza quattrini è duro.
Guarda invece il canonico di casa!
Quanti fogli da cento ha nel borsello
E che salute nella faccia rasa!
Prendi, mia cara, un uomo come quello.
Fattene la signora e la padrona
Ed anche il Re si caverà il cappello!—
Per ciò, figlia esemplar, docile e buona,
Eseguendo alla lettera i tuoi detti,
Me ne andai col canonico in persona!
Ed or perchè ti duoli e perchè getti,
Quasi porco ferito, alti clamori?
Perchè, dimmi, perchè ci hai maledetti?
Perchè vieni a cianciar de' tuoi dolori,
Mentre tu ci portavi il candeliere
E fosti Galeotto ai nostri amori?
Io lo dirò il perchè! Sperasti avere
Dal genero sognato agi e monete
Per menar le ganascie a tuo piacere,
Ed or che sei rimasto con la sete
Fai lo scontento e lo scandalizzato
Perchè tua figlia dorme con un prete!
Ma padre mio, ti sei dimenticato
Tutto ad un tratto la parola detta
Ed il consiglio che m'avevi dato?
Tu mi dicevi di tenermi stretta
E ferma del canonico al mantegno….
Io mi ci tengo e tu m'hai maledetta!
Andiamo, smetti questo finto sdegno!
Ribenedici la diletta figlia
Or che porta d'amor nel seno un pegno!
Presto nonno sarai! Spiana le ciglia
Che un bugiardo furor move ed infiamma.
Sta quieto per ragioni di famiglia
Ricevi un bacio e tante cose a mamma.
Ben sovente
T'ho presente
Nella mente,
Vezzosissima cappella,
E il tuo aspetto
Nel mio petto
Fa l'effetto
Della cosa la più bella.
Parlo a stento
Dal contento,
Anzi sento
Che mi manca la favella,
E deliro
Quando in giro
Io ti miro
Rosseggiar superba e snella!
Quasi nera
T'alzi altera
Nella sera
Che il candor degli astri abbella;
T'alzi ed io
Nel cor mio
Ti desio
Vezzosissima cappella!
O progenie divina,
o d'ogni ben cagione,
figlio di Salamina
e de'l Re Salomone;
o de la fame infame
trionfator, Salame,
balzi or l'agile strofa innanzi a te;
a te, forte e gentile
onor de 'l genio umano
e de 'l mondo civile
consolator sovrano,
ne le cui forme dorme
una possanza enorme
che squarcia i monti e sfonda il trono a i Re.
Fatto con diligenza,
o montanaro, o fino,
con l'ova sode o senza,
sempre tu sei divino
e t'amo e ognor ti bramo
e Nume mio ti chiamo
e tua mi giuro e ti consacro il cor.
Oh quante volte, oh quante,
ne' sogni miei ti vedo
e vinta e palpitante
stringerti a 'l cor mi credo
e desta, la mia mesta
sorte m'appar funesta,
poichè tu manchi a 'l mio focoso amor.
E pur la rabbia ostile
disonorarti brama
e de 'l onagro vile,
vile figliuol ti chiama;
ma tu sorridi e gridi
—tornate a i vostri lidi
e cessate d'infrangermi i calzon!—
Deh, se ne i dì sereni
io mi sperai tua sposa,
tra le mie braccia vieni,
sovra il mio sen riposa.
Orgoglio mio, ti voglio
far co' miei baci il soglio,
lo scettro, la corona e il padiglion!
Piangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor!
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo!
Che se a qualcuno importa
Saperne la cagion,
Sappiate che al Veglion
Prese una storta.
La storta che ha pigliata
Passava pel caffè
Vestita da bebè
Molto scollata.
Ed ei che aveva piena
La tasca di quattrin
Ai Quattro Pellegrin
Le diè una cena.
Costei che aveva i denti
Aguzzi anzichenò,
Gli bevve e gli mangiò
Tre abbonamenti.
Indi, per sua sventura,
Si volle sdebitar,
Ma non pagò in denar,
Pagò in natura.
E il nostro Principale
Dopo due giorni o tre,
Cos'è, cosa non è,
Si sentì male.
Basta, per farla corta,
Il nostro Direttor
Ricorse al suo dottor
Per questa storta,
Che stette un pò dubbioso
Indi gli suggerì
Santalo del Midi,
Malva e riposo.
Piangete al gran galoppo,
Dolcissimi lettor,
Il nostro Direttor,
Moscata, è zoppo!
[*] Cesare Dalla Noce detto Moscata dirigeva l'effemeride
in cui la Poetessa faceva le sue armi.
Pornografia? Sta bene:
Ma siete voi sicuri
Che il fine ognun misuri
Dalle apparenze oscene?
E appunto a voi conviene
D'esser sprezzanti e duri
Quando lo sanno i muri
Che fondo vi mantiene?
Tartufi rugiadosi,
Quanto prendete al mese
Per esser virtuosi?
O di virtù modello,
Chi vi rifà le spese
Del gioco e del bordello?
Chi pel selvoso monte
Lascia la nuda valle
E del roccioso calle
L'erta salendo va,
Sente grondar la fronte
E vacillare il fianco,
Sente che il piè già stanco
Forza d'andar non ha.
Ma giunto in su la vetta,
Con l'occhio erra lontano
Sul verdeggiante piano
Che gli si stende al piè.
Allor trionfa e getta
Un grido alto e giocondo;
Vede soggetto il mondo
E se ne sente il re.
Anch'io così, sudando
Su la ribelle rima,
Potei toccar la cima
Lieta del sacro allor.
E, sotto a me guardando
Con la pupilla altera,
Maggiore e assai più vera
D'altri sentirmi in cor.
Perciò sappia chi viene,
Folle, a contender meco
Od a negarmi, bieco,
La seggiola curùl,
Che tre scodelle piene
Di tagliatelle asciutte
Io me le mangio tutte
E vado….. ad Irminsùl.[1]
[1] Località ignota, forse dell'altro emisfero
Vegliai! Dice la fiamma omai languente
Che il petrolio calò nella lucerna.
Vegliai piangendo ed ecco lentamente
Destarsi al novo dì la Città Eterna.
Le carrette dei broccoli e la gente
Ripassan sotto alla magion paterna,
Il padre russa e un campanil si sente
Laudar da lungi la Bontà Superna.
Lieto un chicchirichì vien da lontano
Da' cortil suburbani e da' pollai
Destati dal chiarore antelucano;
Ed io, infelice, di dolenti lai
L'aria, l'acqua, la terra assordo invano,
Perchè un gallo per me non canta mai!
Eccoti o mar, solenne ed infinito,
Del divino poter simbolo e stampa:
Eccoti, e in faccia a te cade atterrito
L'occhio che di febea fiamma divampa.
Sei tremendo nell'ira e al tuo ruggito
Non regge prora e poppa mai non scampa,
Ma nella calma tua, liscio e pulito,
Sembri la ciccia di Minghino Svampa.
Ecco un'aura d'amor scende dal cielo
E va dell'onda che pur or posava
Soavemente accarezzando il pelo.
E la persona mia che lorda stava,
Ora la porgo aperta e senza velo
Al mar che me la bacia e me la lava.
Florentem cytisum sequitur lasciva capella.
VIRG. Ecl. II, 64.
Quando trovo qualcun che me la mena,
La mia capretta, a pascolar sul monte,
Tutta la sento di dolcezza piena
Guizzar pel gusto che le brilla in fronte:
E se poi qualchedun me la rimena,
Corro tosto a lavarla ad una fonte,
Indi l'asciugo e non è asciutta appena
Che a trastullarsi ancor le voglie ha pronte.
Sempre sana e piacente, al caldo e al gelo
Va intorno e cogli scherzi altrui diletta,
Tanto la tenni e l'educai con zelo.
Eccola quì che una carezza aspetta,
Fresca, pulita e non le pute il pelo…..
Dite, chi vuol baciar la mia capretta?
Giammai, scoccata da una man feroce
Dall'arco teso non fuggì saetta
Come sul suo sentier corre veloce
La bicicletta.
Volan le rote e mentre sulla via
Nessun rumor presso di lei si sente,
Qualche imbecille al corridore invia
Un accidente.
A me che importa se della canaglia
M'insegue il riso o il mormorar d'alcuni,
Se l'iniqua parola altri mi scaglia
O il molla Buni?
Io corro, io volo sulla bicicletta
Questo ideal delle cavalcature:
Chi soffre d'emorroidi o di bolletta
M'insulti pure,
Ch'io son beata e un fremito m'assale,
Mi avvolge un'onda di piacer sovrano
Quando vengo stringendo il trionfale
Manubrio in mano.
Io son beata allor che fra le gambe
Sento il rigido ordigno e in quegli istanti
Tendo le coscie e l'agitar d'entrambe
Lo spinge avanti.
Poi che il pendolo tuo giù penzoloni
Non ha più moto ed impotente stà
E gl'inutili pesi ha testimoni
Della perduta sua vitalità,
Vecchio strumento, m'affatico invano
A ridestar l'antica tua virtù;
Inutilmente con l'industre mano
Tento la molla che non tira più.
Questa tua chiave, che ficcai si spesso
Nel suo pertugio, inoperosa è già;
Rotto è il coperchio e libero l'ingresso
Ad ogni più riposta cavità.
Deh, come baldanzoso un dì solevi
L'ora dolce del gaudio a me segnar
E petulante l'ago tuo movevi
Non mai spossato dal costante andar!
Quante volte su lui lo sguardo fiso
Or tengo e penso al buon tempo che fu.
Se almen segnasse mezzodì preciso…..
Ma sei e mezza!… e non si move più!
Perchè, Mio Bene, se vicin mi siedi
Taci e rivolgi gli occhi ai travicelli,
Oppur ti osservi attentamente i piedi
Quasi credendo di trovarli belli?
Guardami invece gli occhi e leggi e vedi
Di quante fiamme il nuovo amor li abbellì;
Guardali, non temer, fissali e credi
Che prometton ben più ch'io non favelli.
Parla e fa che il timor non vinca e prema
Del tuo vergine cor l'immenso affetto:
Chi vuol gli amplessi miei, tenti e non tema.
Parla, poichè il mio gaudio, il mio diletto,
La mia felicità sola e suprema,
Dalla tua lingua, amico mio, l'aspetto.
Io dissi: «Ah, come pendo!
Mi sembra di cascar!»
Ma tosto sorridendo
Rispose il marinar:
«Pieno di scene orrende
Sarebbe il mondo intier
Se tutto quel che pende
Dovesse, oh Dio, cader!»
Agl'immensi Tuoi piè, Padre, chinata
Stetti trepida in volto e reverente;
A Te levai le palme e Tu clemente
Mi facesti partir racconsolata,
Ond'io terrò nella memoria grata
La benedetta imagin Tua presente
In fin ch'io viva, e spesso con la mente
A questa tornerò santa giornata.
Tutto ricordo: i detti Tuoi soavi,
Le Angeliche Sembianze, il carcer tetro
E l'angolo preciso in cui parlavi.
Ricordo fin la guglia di San Pietro
Che, guardando dal luogo ove tu stavi,
Io l'avevo davanti e Tu didietro.
Poi che il sol tramontò, poi che lontana
piange la mesta squilla il dì che muor,
da 'l solingo veron la castellana
canta così alle stelle il suo dolor:
«Qui presso, tra due monti, è rimpiattato
un castello che il sol mai non scaldò.
Il vento che vi spira è avvelenato,
Buco è il suo nome e se lo meritò.
»Invece in faccia a 'l sol ride scoperto
questo palagio mio cinto di fior.
Ride tra i boschi, ospitalmente aperto
ad ogni dolce peregrin d'amor.
»L'altra notte vegliai su 'l mio balcone
e vidi ne la valle un cavalier,
oh, come bello! e con l'aurato sprone
il cavallo spingea lungo il sentier.
Il cor mi palpitò quando lo scorsi,
l'aspetto suo mi vinse e mi rapì.
Tutta tremante da 'l balcon mi sporsi,
tesi le braccia e gli parlai così:
—Fermati cavalieri Deh, tante cose
vorrei dirti!…. Ove vai? Fermati quì!—»
Ma galoppando il cavalier rispose:
Signora, io vado a Buco…—«e poi sparì».
Vittima di se stesso e del destino
Ecco torna da Buco il cavalier;
Carogna tentennante, a capo chino,
Tra le gambe gli zoppica il destrier.
L'errore dell'andar, tornando, espia,
Poichè la strada pessima trovò
Ed il pantan della fetente via
Da capo a piedi lo contaminò.
Passa così sotto al veron fiorito
Dove la voce dell'amor sentì;
Passa e si duol d'avergli preferito
Il laido Buco dove imputridì.
«Deh, colline ridenti, ombroso bosco
Lieto d'acque perenni e di piacer
E voi, labbra di rosa, ora conosco
In che guai mi travolse un reo pensier!
Deh, affacciati al veron, tu che m'hai detto
—Cavalier, dove vai? Fermati qui!—
Ecco torno pentito, ecco nel petto
Col rimorso, l'amor mi rifiorì!»
Uscì la bionda castellana e china
Del memore balcone al davanzal,
Non vide un cavalier, ma una latrina,
Un lurido fantasma intestinal
E disse:—«Alfin la collera celeste,
Mossa dal mio pregar, ti castigò!
Scortese cavalier, quella è la peste…..
Lo spedale è più avanti!… «—E se ne andò.
(Dipinto ad olio)
Guardate! Atteone
Osserva il prospetto
Ignudo e perfetto
Che Trivia gli espone.
La Dea, che suppone
Gli perda il rispetto,
Le corna e l'aspetto
Di cervo gl'impone.
Fuggita è lontana
Dal tempo presente
La bella Diana,
Ma sono cresciuti
In modo indecente
Le corna e i cornuti.
Giove, padre degli Dei,
Vide Leda e innamorato
Ebbe il gusto depravato
Di volerne gl'imenei
E l'aggiunse ai suoi trofei
Con l'astuzia e con l'agguato,
Poi che in cigno tramutato
Si calò nel grembo a lei.
Donna Leda gli diè il covo,
Ma con questo bel lavoro
Fu gallata e fece l'ovo.
Già l'effetto è sempre quello
Quando ruzzano fra loro
Una donna ed un uccello.
Acceso il Tonante
Per Danae d'affetto
Ottenne l'effetto
Mutando sembiante
E, splendido amante,
Le cadde nel letto
Prendendo l'aspetto
Dell'oro sonante.
Da noi, siamo schietti,
Ne andava in possesso
Cambiato in biglietti;
Che in oro o in argento
Ci avrebbe rimesso
Il 5 p. %.
Atalanta giovinetta
Alla corsa ognun sfidava
E sì forte galoppava
Che pareva in bicicletta.
Per passarla, una burletta
Ippomène imaginava
E, correndo, le gettava
D'oro in palle una cassetta.
Adocchiandole sì gialle,
Per volerle raccattare
Ella uscìa dal ritto calle;
Il che serve per provare
Che le donne per le palle
Si farebbero pelare.
Pane, cornuto Iddio
Benchè non abbia moglie,
Sul margine d'un rio
S'appiatta in fra le foglie.
Assalta di scancìo
Le Ninfe e poi le coglie,
Facendone sciupìo
Secondo le sue voglie.
Però fissa e solinga
Ebbe una fiamma in core
Per la gentil Siringa:
Dal che dedur conviene
Che il povero signore
Non orinasse bene.
Io, diventata vacca
Per volontà di Giove,
Fessa, dolente e stracca,
Così diceva al bove:
«Come mi sento fiacca
E rotta in ogni dove!
Non valgo una patacca
In queste forme nuove:
»Il fieno m'è indigesto
E i visceri m'annoda
In modo disonesto.
»L'utile sol ch'io goda
Nel mutamento, è questo:
Che guadagnai la coda.»
(Per un numero unico)
Fu la scena soltanto,
Fu il drammaccio cruento,
Che vi commosse al pianto.
Se il monte non cascava,
Morivano di stento
Ma nessun ci badava.
[*] Per intendere questo epigramma bisogna sapere che nel comune di Sasso erano alcune grotte nel monte e alcune catapecchie dove parecchie famiglie disgraziate tenevano coi denti la vita. Tutti lo sapevano, lo vedevano è passavano. Rovinò il monte e fece quel che non aveva fatto la fame: uccise i disgraziati. Subito si fecero sottoscrizioni, conferenze e numeri unici e in uno di questi la Poetessa, sott'altro nome che il suo, inserì i versi qui sopra.
Usci la «Romanina»
E il labaro spiegò,
Ma l'orda libertina
Lo prese e lo stracciò,
E tale una rovina
Di calci si levò
Che rotto per la china
Qualche osso sacro andò.
La barca di San Pietro
Che a prora è fessa già,
Si rompe anche di dietro!
Non vede Santità?
Gli han detto «__vade retro__»
E Satana ci va.
[*] La Società cattolica detta la Romanina volle celebrare in Roma non so che festività a Cristoforo Colombo e andò al Pincio con làbari, trombette, oratori e simili strumenti. Alcuni giovani liberali presero a pedate i dimostranti che scappano ancora.
Non la criniera lucida, poi che non la possiedi,
ma il ventre di maiolica e i quattro eburnei piedi
concedimi, o corsier;
fammi inforcar la candida tua groppa e su gli arcioni
starò, superba amazzone, senz'armi e senza sproni
o ausilio di scudier,
chè tu, gentil quadrupede, non scalpiti con l'ugna
quando la groppa docile porgi a l'usata spugna
e a 'l salubre sapon,
ma su le zampe, immobile e mansueto, aspetti
d'acque lustrali il tepido lavacro e i larghi getti
de l'industre sifon.
Te cavalcando, visito tutto de' sogni il regno,
ed un polledro rapido, non un caval di legno,
allor tu sei per me,
e ne'l sognar mio bellico, un capitan mi sento:
le schiere mie galloppano con le bandiere a 'l vento
ne 'l cospetto del Re,
Savoia! e i prodi, memori de la fortezza antica,
freno non danno a l'impeto e già l'oste nimica
le terga a noi voltò.
Che val se, a 'l campo reduce, scendo di sella esangue,
se da uno squarcio orribile veggo fuggirmi il sangue?…
La palma a noi restò!
Le schiere avverse fuggono, ma tu fuggir non sai
e sovra i piè di mogano solennemente stai
fermo, senza fiatar…..
Ma i sogni, ahimè, svaniscono. Cessata è la battaglia!…
L'ora de 'l pranzo è prossima: datemi la tovaglia
chè mi voglio asciugar.
Ho sognato un mar di laudano
Denso, nero e sterminato,
Come un piano formidabile
Di sciroppo concentrato.
Sovra l'onde immote e brune,
Tra i vapor del zafferano,
Svolazzavano importune
Molte mosche di Milano,
Io, per far con meno incomodo
Di quel mar la traversata,
Mi recai sul porto prossimo
E vi presi una fregata.
Il suo nome si leggea
Scritto a lettere d'un metro,
Vale a dir FARMACOPEA,
E l'aveva per dietro.
Grossi e ritti erano gli alberi
Con le vele di cerotto,
Con le sartie e con le gomene
Verniciate di decotto;
E la nave fabbricata
Di campeggio e legno quassio,
Era tutta incatramata
Di ioduro di potassio.
Drappeggiati in negre tonache
Molti giovani assistenti
Impastavano le pillole
Lassative od astringenti,
Le supposte, i vescicanti
E gli empiastri da enfiagione
Da servire ai naviganti
A merenda e colazione.
Un po' il fuoco che facevano,
Un po' il caldo naturale,
In quel tanfo farmaceutico
Mi sentivo venir male;
Per cui, visto un recipiente,
Ci sedei sopra di botto
E, vedendo un assistente,
Chiamai forte—Ehi, giovinotto!—
—Che comanda?—chiese il giovane—
Vuol di malva una infusione?
Vuol copaive in mucilaggine?
Preferisce una iniezione?—
Adirata lo ribattei:
—Non son quella che credete!
Non ho il male che avrà lei;
Ho soltanto un po' di sete.—
—Sete?—disse—Il male è piccolo
E guarir con l'acqua suole;
Ma se l'acqua ella desidera,
Mi dirà come la vuole.
Forestiera o del paese?
Vuol Tettuccio o Castrocaro?
Vuol un po' d'acqua ungherese
O un bicchier di sale amaro?—
—Voglio solo acqua purissima!—
Furibonda allor gli osservo.
Mi rispose:—Va benissimo,
Ma in che modo gliela servo?
Perchè buono è da sapersi
Che da noi s'usa di bere
In due modi assai diversi;
O per bocca o per clistere.—
Detto fatto e dalla tonaca
Con un gesto pittoresco
Tirò fuori una gran cannula,
Un affare gigantesco,
E mentr'io gridava:—Ehi, sente…
Lei m'ha preso per isbaglio!—
Quel birbone d'assistente
Lo puntava nel bersaglio.
Se non era che voltandomi
Torsi il fianco un poco a destra,
Quell'infame di flebotomo
Scaricava la balestra;
Ma, insistendo l'animale,
Ne successe un serra serra
E, com'era naturale,
Tutto il brodo andò per terra.
Io credeva d'esser libera,
Ma mi accadde un altro guaio
Ch'egli prese dietro a corrermi
Col pestello del mortaio.
Un orrore, uno spavento,
Un battaglio da museo,
Una razza di strumento
Da sfondare un mausoleo!
Io già stavo per soccombere
Alla orribile balista,
Ma gridai—Galeno salvami,
Da quest'empio farmacista!—
E ad un tratto, e fu un enigma,
Spirò un'aria purgativa
Che pareva un borborigma….
E sbarcai sull'altra riva.
Multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos:
in dolore paries filios.
GEN. III 16.
Nell'interno del bacino,
Semprechè non sia deforme,
Vedi un corpo piriforme
Appoggiato all'intestino,
Appo cui fisso rimane
Con diversi ligamenti
E coi rami divergenti
Delle trombe falloppiane.
Ivi, quando è cominciata
L'ordinaria emorragia
E una certa ipertrofia
S'è per ciò manifestata,
Dal follicolo maturo
Esce l'ovulo vagante
Che il processo fecondante
Mette subito al sicuro;
Chè lo impiglia, anzi lo imbuca
Nella tunica villosa
Che presenta la mucosa,
La qual mutasi in caduca
E nel crescere diventa
L'amnio e il corion, traversati
Da quei vasi complicati
Che nutriscon la placenta.
Ivi il germe ha forma e cresce
In un sacco membranoso
Pien di liquido sieroso
Dove nuota come un pesce
E la sua vita fetale
Svolge senza sentimento,
Ritraendo l'alimento
Dal cordone ombelicale.
In quel tempo la gestante
Non si sente molto bene
E per solito le viene
Qualche voglia stravagante.
Ha lo stomaco disfatto,
L'energia molto depressa
E cammina un po' sconnessa
Causa il ventre tumefatto.
Finalmente la sorprende
Un disturbo del sensorio
E un dolor premonitorio
Lungo il rachis le discende.
Il marito al suo lamento
Corre, interroga e le dice:
«Vo a chiamar la levatrice
E ritorno in un momento!»
A intervalli lunghi e rari
Incomincian le pressioni
E le forti contrazioni
Delle fibre muscolari.
Sono sistoli speciali
Cui la diastole consente
E interessan totalmente
Le pareti addominali.
Ecco intanto alla degente
Si rinnovano i dolori
Sempre più provocatori
E di ritmo più frequente,
Finchè, sotto alla pressione,
Il liquor che l'amnio serra
Rompe il sacco e va per terra,
Precursor dell'epulsione.
La faccenda allor va lesta
E non c'è d'aver paura
Se però la creatura
Si presenta con la testa.
Ma nel caso che al contrario
Si presenti con un braccio,
Può accadere un affaraccio,
E il chirurgo è necessario.
Non son fatti sì frequenti,
Ma se mai caso si desse
Che l'ostetrico dovesse
Operar rivolgimenti,
O usar ferri, allor conviene
Star tranquilla, ilare, ardita,
Che la scienza è progredita
E le cose andranno bene.
Dopo un grido indebolito,
In un premito finale,
Nasce un maschio ed è vitale
Come annuncia il suo vagito.
Sente allor di gioia un'onda
La puerpera nel core
E con l'ultimo dolore
Viene espulsa la seconda.
Gentilissima lettrice,
Ti narrai chiara e sincera
In che modo e in che maniera
Nasce al mondo un infelice:
Non gittar strilli d'orrore
Da lussarti le ganasce;
Meglio dir come si nasce
Che narrar come si muore.
Su'l reo lito che Pasife
contaminò con l'esecrando fallo
forse l'industre Dedalo
torse in cavo cilindro il tuo metallo,
Ei lavorò ne l'ebano
la mobil elsa e, con la man divina,
su la sudata incudine
per consiglio d'Igea temprò la spina.
I suoi possenti farmachi
Esculapio di poi t'ascose in seno
ed a i dolenti podici
consolator t'offrì turgido e pieno.
Oh, qual grido di giubilo
il tuo primo apparir ne 'l mondo accolse!
Come le terga subito
la constipata umanità ti volse!
e tu, buono, e sollecito
più de l'altrui che de la tua fortuna,
a le ribelli viscere
pronto volasti ad esplorar la cruna;
nè ti commosse il torbido
occhio che a l'opra tua natura oppose,
nè d'atre bocche l'alito
cui tolse il fato d'emular le rose;
ma la compressa canula
un tepido zampillo alto sospinse
che, su l'esempio d'Ercole,
Caco ne l'antro suo sorprese e vinse.
Corsero allor le lubriche
linfe la cieca via che a l'Orco immette
e strani indi scoppiarono,
da l'opposto emisfer, venti e saette.
Indi a i redenti visceri
un po' di pepe e sal non parve ostile
ed i mal sani fegati
riser, purgati da la densa bile…..
A voi, ventri purissimi,
che di mal digerirmi avete il vanto,
a voi consacro e dedico
l'opportuno rimedio e questo canto.
Al Signore
ANDREA SAXLEHNER
Buda-Pesth
Non più anelanti a i pascoli latini
le barbare cavalle Attila caccia;
rivisse il fior de gl'itali giardini
su la sua traccia.
Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba
dove l'alta Aquilea fumando giacque;
da le fecondi ceneri superba
Venezia nacque.
Il Danubio lavò le curve spade
grondanti di gentil sangue romano,
ma di quel sangue mai goccia non cade
versata invano,
e con le stille che tingevan l'onde
de 'l pescoso Tibisco e de la Drava
di Roma il fato a fecondar le sponde
barbare andava,
e di messi la steppa e di vitigni
rise, ed a 'l sol che civiltà conduce
i biechi de i mongoli occhi sanguigni
vider la luce;
nè più l'Europa giudicò minaccia
ma baluardo de' magiari il petto,
quando il Corvino alzò la spada in faccia
a Maometto;
nè più imprecò il latino in val di Pado
a i varchi onde calò di Dio il flagello,
ma l'unno che morì sotto Belgrado
disse fratello.
Oh, benedetto il suol che trepidava
sotto il galoppo de la santa schiera
se l'unnìade Giovanni alto levava
la sua bandiera!
Oh, benedetto il suol che de la buona
ausonia civiltà reca le impronte
se de l'unnìade in nome a noi sprigiona
salubre un fonte
a 'l cui salso licor cedon le avare
viscere umane il faticoso pondo,
cantando inni sonanti a 'l salutare
flusso giocondo.
E poi che il fato reo l'opera vieta
de le viscere tarde invan spremute,
a l'ungarica possa anch'io, poeta,
chieggo salute.
Non il regal Tokay, ma l'acqua umile
che Buda ci mandò mi fia sollievo.
Tendimi il nappo Igea. Buda civile,
a te lo bevo!
Pel fiammante de l' ciel tramite sacro
gli agitati corsier disfrena il sole
e d'onde fresche a 'l salutar lavacro
luglio ci vuole.
O fortunata se veder potessi
tremolar la marina a l'orizzonte,
o tra selve d'abeti e di cipressi
fredda una fonte!
Ma il iato mi negò, come ha costume,
il bacio di salubri acque cadenti
e de 'l sonante mar le bianche spume
rotte da i venti.
Pur, qual lo scrigno famigliar concede,
me ancor d'umili terme allieta l'onda
che in brevi cerchi accarezzar si vede
la ferrea sponda.
E se zefiro alcun non va temprando
de l' sol le vampe con la sua carezza,
il serico flabel l'aure agitando
copia la brezza.
Ivi, gettando allor la tenue vesta
pudicamente ignuda, io volgo il passo.
Disciolto il crin da l'apollinea testa
fluisce a 'l basso;
fluisce e lambe il tergo mio che mostra
callipigie beltà che il sole ignora…
Onde, apritemi il seno! ecco la vostra
dolce signora!
Io non t'invidio il fior de 'l corpo bianco,
o de le ciprie spume eterna figlia,
se a l'concavo sedil concedo il fianco
come a conchiglia.
Onde apritemi il seno! ecco, m'assido
su 'l metallico trono … ecco m'affondo,
e la parte di me che lascia il lido,
cala ne'l fondo,
ove, strisciando con l'esperta mano,
detergo il lezzo a le inquinate membra.
Mormora l'onda ed il suo picciol piano
il mar mi sembra,
e le tempeste sogno e veggo e sento
l'imperversar de l'aquilon crudele
e le triremi trionfali a 'l vento
scioglier le vele
e una nave puntar, negra su l'onda,
la bocca d'un cannon fetente e cupo…
Numi, che scoppio!… Ne vibrò la sponda
de 'l semicupo!
Andovvi poi lo Vas d'elezione.
DANTE, Inferno, II.
Te non Pandora da l'abisso a gli uomini
recò, nefasto dono
onde il perenne ancor pianto de' miseri
sale di Giove a'l trono,
ma l'arte ti plasmò tra i colli floridi
che a Doccia son ghirlanda,
e l'Arno industre che ti vide nascere
vergine a noi ti manda;
vergine qual su l'alpe inaccessibile
candor di nevi intatte,
qual ne' chiusi presepi in larghe ciotole
de le giovenche il latte.
Il labbro immacolato ecco sorridere
veggio, curvato in arco
e, ingordo, ne 'l candor concavo, accogliere
de' lombi miei l'incarco.
Ecco il tuo ventre d'un sonoro crepito
ripete il rauco invito
e de le fauci spalancate a 'l fornice
tardar sembra il convito.
Ahi, ma 'l candor de l'ermellino perdere
omai dovrà 'l tuo smalto!
Triste a tutti è la vita e cose orribili
vedrai da 'l basso a l'alto.
Udrai ne l'ampia oscurità le raffiche
de l'uragan possente
e sovra te discatenato d'Eolo
il soffio pestilente,
e piover caldo e grandinar meteore
precipitate a l' basso
e rimbombar di male olenti fulmini
lo scoppio ed il fracasso.
Pender biechi vedrai, ne l'aura torbida,
lo Scorpio ed i Gemelli
e incomber sovra te, negri e monoculi,
Polifemi novelli.
Quanti atroci dolor le umane viscere
celino, allor saprai
e sotto breve foglio in forme ignobili
deposti in te li avrai.
Così tra breve, maculato il lucido
onor de 'l ventre bianco,
ti sentirai, da crepe immonde infrangere
l'affaticato fianco,
ed un vil sterquilinio avrà le briciole
de le tue membra rotte!….
Crudo è 'l fato e noi donne a te siam simili,
o chicchera da notte!
Tangheri di poeti
Che, se andate in amore,
Raccontate i segreti
Di tutte le signore,
Siate meno indiscreti
Negli affari di cuore
E imparate dai preti
Che non fanno rumore.
Chi spiffera in tribuna
Quello che il cor gli detta,
Non farà mai fortuna.
Noi non abbiamo mica
Scrupoli a darvi retta:
Temiamo che si dica.
Exultavit in gaudio infans in utero meo.
LUC. I, 44.
No, che su zolla sterile
Non fu gittato il seme
Se, lacerato il solido
Guscio che invan lo preme,
Esce il rampollo e germina
Pei campi o per le aiuole,
Schiuso al tepor del sole
Sotto al clemente ciel.
No, la bollente gocciola,
Plasma del germe umano,
Nel sitibondo fornice
Non fu scagliata invano
Se nel mio fianco turgido,
Come in risposta cella,
Un'anima novella
Veste il corporeo vel.
Oh, alfin potrò conoscerti
Amor santo e sereno
Di madre e roseo stringermi
Un pargoletto al seno….
Addormentarti, crescerti,
Potrò sul grembo anch'io,
Sangue del sangue mio,
Frutto d'immenso amor!
T'insegnerò a disciogliere
I passi e le parole,
Ti narrerò, baciandoti,
Gl'incanti delle fole,
Indi trarremo in giubilo
Lungo un campestre calle
Seguendo le farfalle
E raccogliendo i fior.
Ti guiderò per l'ardue
Strade dell'arti prime
L'alto volume aprendoti
Delle materne rime;
Io sulle illustri pagine
Ti condurrò la mano,
Io t'aprirò l'arcano
Del mondo e del saper.
E allor che il sangue giovane
Ti pulserà nel petto
E sentirai le trepide
Ansie del primo affetto,
Sarò al tuo fianco assidua
E virilmente fida
Consigliatrice e guida
Nei dubbi del sentier.
Al focolar domestico
Io sarò presso ancora
Quando velata e timida
Mi condurrai la nuora
Che me, benigna pronuba,
Dirà perversa e cruda
Se nel tuo letto, ignuda
Vergin, la spingerò.
E quando i fior del talamo
Matureranno i frutti,
Ava prudente e provvida
Io veglierò per tutti;
Poi con le palme tremule
Carezzerò i nepoti
E a Dio la prece e i voti
Per loro innalzerò.
E già mi veggio, debile
Vecchia, tra lor seduta
Narrar, senza rimpiangerla,
La gioventù caduta
E i versi miei ripetere
A un coro d'innocenti,
I versi miei fulgenti
Di virtuoso zel.
Ava, così, amorevole
E santa educatrice.
In mezzo ai biondi pargoli
Vivrò lieta e felice
E quando giunga al termine
La vita mia modesta,
Reclinerò la testa
Per ridestarmi in ciel.
Forse ch'io sogno?… Ah, palpita
Pur nel mio grembo un vivo
E freme e balza e s'agita
Or che a lui penso e scrivo….
Deh, perchè tardi o nobile
Della mia gloria erede?
Non sai che la mia fede
E l'amor mio sei tu?
Ma intanto?… Ah, un dubbio orribile
Mi sta confitto in core.
Sento un mister nell'anima
Pensando al genitore….
Parla, se puoi rispondermi,
Tu che doman vivrai;
Dimmi, se pur lo sai,
Il padre tuo chi fu?
[*] Credeva di avere concepito un figlio. Invece aveva preso
freddo e tutto finì con una fuga d'aria compressa.
Ut ambules in via bona.
PROV. II, 20.
Signor, poi che una Diocesi
Dall'Augusto Vegliardo hai conseguito
E l'anello di Vescovo
Come novello sposo hai messo in dito,
Tra il fumo dei turiboli,
Tra il plauso della folla intorno accolta,
Mite Pastor di Seboim,
Porgi l'orecchio e la mia voce ascolta.
Deh, quando sul tuo popolo
Benedicendo stenderai la mano
E la lieta Pentapoli
A piè del trono avrai come un Sovrano,
Serbati buono e i miseri
Intorno a te raccogli e li consola;
Ricorda Cristo e predica
Più con l'esempio e men con la parola.
Non insegnare ai chierici
Che il Pontefice solo aprir può il cielo;
Non insegnare il Sillabo,
Ma lo scordato ormai vecchio Vangelo.
Trafficator non renderti
Di Giubilei, Congressi e pellegrini,
Ma proibisci l'Obolo
E l'altre furberie per far quattrini.
Nell'ira tua scomunica
Chi va col collo torto e il viso basso;
Lascia che di Quaresima
I Diocesani tuoi mangin di grasso;
Non annoiare i pargoli
Col Catechismo, i Salmi e la Scrittura;
Dà lor le chicche e mandali
A scuola od a saltar lungo le mura,
Lascia ballare i giovani,
Lasciali far l'amor quando han ballato
E se poi si confessano
Ridi e dichiara: «quel ch'è stato è stato!»
Non ributtar la femina
Che degli affetti suoi non fu padrona;
Pensa a Maria di Magdalo:
I peccati d'amor Dio li perdona.
Non tormentare i parroci
Per le chiacchere intorno alla servetta;
Dì lor che i Sacri Canoni
Non vietano d'andare in bicicletta.
Così facendo, i popoli
Tutti t'obbediran come d'incanto
E nei venturi secoli
Avrai solenne culto e sarai santo.
O benedetta, o nobile
Alma, sottratta alla terrestre lue,
Allor vedrai le monache
Baciar devote le reliquie tue.
Sotto quel bacio fervido
Si rizzeranno alla virtù natìa,
Rinnovando i miracoli
Che, vivo, hai fatto per la dolce Argia.
_J'aime le doux parfum qui vient de la cuisine,
Le parfum de la soupe et l'encens du roti,
Le Champagne mousseux et la Chartreuse fine,
Et les petits fours chauds qu'on vend chez Maiani.
J'aime un bas bien tiré qu'on voit sur la bottine
Paraître avec malice comme un secret trahi;
J'aime guetter le soir le lit de ma voisine
Qui ne se doute guere du binocle ennemi.
J'aime tous les plaisirs dont la terre est feconde
Et le cancan tout comme le noble cotillon;
J'aime la brune—hélas—mais j'aime aussi la blonde.
Et pourtant il n'y a qu'un seul plaisir de bon,
Qui enfonce, croyez moi, tous les plaisirs du monde,
Et c'est rire d'un âne qui se pretend lion._
Lode a te sia, Milano,
Poichè Papa Leone
Ti manda di lontano
La sua benedizione!
Vieni a baciar la mano
Del Vicerè padrone
E torna piano piano
Ai giorni del bastone.
Il tempo è già maturo
Pel giudizio statario
Ed il carcere duro.
Intanto, Segretario
Del Sindaco futuro,
Sarà Don Albertario.
Per grazia del Signore
Un regime paterno
Studiato dal Questore
Diventerà governo
E il vigile censore
Ricaccerà all'inferno
I libri e quest'orrore
Di spirito moderno.
Chi avesse poi prurito
Di fare il liberale,
Sarà preso e punito
E il Regno Temporale
Sarà ristabilito
Per decreto reale.
O spirito santo
De' visceri umani
Che tutti del canto
Conosci gli arcani,
Che onori e letifichi
D'armonici fiati
Gli sforzi dei vati,
Dal buio profondo
Dell'antro nativo
Prorompi nel mondo
Sonoro e giulivo;
Di tepidi balsami
Circonda ed allieta
Lettori e poeta.
Tu, soffio eloquente
Del verbo divino
Concesso ugualmente
Al ricco e al tapino,
Tu sei come l'anima
Per leggi fatali
Comune ai mortali.
Conforti il villano
Che pasce gli armenti,
Alberghi sovrano
Ne' chiusi conventi,
De' gravi canonici
Compagno canoro
Solfeggi nel coro.
Nel casto segreto
Dell'intima cella
Rallegri discreto
La pia monacella;
Nel ballo, da timide
Fanciulle compresso,
Sospiri sommesso.
Tu visiti e curi
Con equa fortuna
Palazzi e tuguri,
Altare e tribuna
E avvolto di porpora
De' plausi tra il suono,
Favelli sul trono.
Ma guai se vapori
Dal patrio forame
Recandone fuori
Il glutine infame!
Purissimo spirito
Che l'alvo ricrei
Allor più non sei;
Ma pregno diventi
D'essenze funeste
Che ammorban le genti
Col tanfo di peste
E guasti e contamini
I lini più ascosi
Di segni schifosi.
Così colorito
Per nostra sciagura,
Di soffio gradito
Diventi sozzura;
Degnissima imagine,
Ritratto vivente
Del tempo presente.
Lentato ogni freno
Ti getti sul mondo
Spargendo il veleno
Dell'alito immondo
E appesti ed infracidi
Le menti ed i cuori
Di turpi vapori.
Maestro nell'arte
Di nuovi delitti
Tu lordi le carte
Del plico Giolitti,
Tu puzzi nel carcere
Sul labbro bugiardo
Del vecchio Bernardo.
Aiuti i sensali
Dei voti comprati,
Avalli cambiali
Pe' tuoi deplorati,
Trionfi, pontifichi
De' ladri nel coro,
Men porco di loro.
Al Nilo, al Nilo! Nasconderemo
Laggiù mia bella l'amor deriso,
Là sconosciuti noi ci faremo
Non una casa ma un paradiso,
Sul chiaro margine dell'acque calme
Dove si specchiano verdi le palme.
Il chiosco vedi ch'io t'ho fiorito
Di cento rose come un giardino!
Dentro ai bracieri d'oro brunito
Fuman le lagrime del benzoino
E dal marmoreo balcone aperto
Vampe d'amore manda il deserto.
Nera nel cielo color di rosa
Che nel tramonto caldo risplende,
Come una lupa libidinosa
Accoccolata la sfinge attende,
E grave un alito di strani amori
L'acre vivifica nozze dei fiori.
Alle carezze molli del vento
Data la lunga cesarie d'oro,
Nell'onda tenue del vel d'argento,
Nudo del bianco seno il tesoro,
Sarai mia sempre, mia tutt'intera,
Se non ti viene prima il colera.
Signor, poi che ti sta supplice ai piedi
Questa Felsina tua che un dì sdegnosa
Bacio di prete sofferir non volle,
Costei che, infranto il trono in cui tu siedi,
Cercando libertà tinse gioiosa
Del suo sangue miglior l'itale zolle,
Absolvi or la pentita e le concedi
L'amplesso del perdono
Dimenticando dell'error l'audacia.
Sii generoso e buono
Con chi, come a Signor, la man ti bacia
E poi che piango ravveduta anch'io,
Misericorde ascolta il canto mio.
Un tempo, e ben lo sai, morta di fame,
Schiava del tuo stranier temprò la plebe
Ceppi a se stessa su la propria incude:
Pe' sacerdoti tuoi le turbe grame
Reser feconde le sudate glebe
E sul solco natio caddero ignude
Ai campi della Chiesa util letame;
Ma un Dio consolatore
Da' sacri templi a lor dicea: «Soffrite,
Turbe nate al dolore
E che felici nel dolor morite,
Poi che v'aspetta in ciel di Dio il sorriso
E sol de' tribolati è il paradiso».
Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno
In cui la libertà disse il suo nome
La prima volta nella rea Parigi,
Poi che le turbe allor volsero intorno
Torbido l'occhio e scossero le some
Brandendo l'armi ad operar prodigi
Di che all'anime pie duro è il ritorno.
Germogli del mal seme
Crebbe il tristo terren le idee novelle;
Compresso indarno, freme
Tra i nuovi ceppi il popolo ribelle
E poi che in cor gli agonizzò la fede
Non più la libertà, ma il pan ci chiede.
E grida: «Senza gioia e senza luce,
Martiri del lavoro e degli stenti
Moriamo e il pane ancor ci si rifiuta.
Aprimmo il solco e non per noi produce,
Altri ha le lane e noi guardiam gli armenti
Altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta.
Nuovo un tiranno i servi suoi riduce
A maledir la vita
E, come bruti a litigar le ghiande;
Ci calca inferocita
La gente nuova che facemmo grande,
Ma lieto il dì della riscossa arriva:
Corriamo all'armi e la giustizia viva!»
Deh! soccorri, o Signor! Più non ci giova
Rinnovar le catene ed i tormenti
O sfrenar birri alle cercate stragi.
Troncata l'idra i capi suoi rinnova
E i pubblicani ed i giudei dolenti
Tremano su gli scrigni e nei palagi
Dove il tripudio del goder si prova.
La turba macilente
Accorre e di morir non ha paura
Poi che, soffrendo, sente
Che a lei la vita e non la morte è dura….
Deh, Signor, ci soccorri e se al desio
Mancan le Guardie, ci difenda Iddio!
E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa
Quando i ribelli al timor suo riduce
E delle turbe ci ridà il governo;
Quando agli eletti suoi l'ausilio porta,
Quando tra i volghi creduli conduce
L'util minaccia ed il terror d'inferno
Ed ha il demonio pauroso a scorta?
Ben venga Iddio se reca
Fede agli umili, securtà ai possenti,
L'obbedienza cieca,
Il catechismo, i preti, i sacramenti,
De' frati tuoi la sacrosanta loia,
Il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia.
Ben vedi che timor, non cortesia,
I magistrati nostri a' piè ti caccia
Inginocchiati a far debita ammenda.
Ieri nemici ognun di lor fuggìa
Fino il pretesto di guardarti in faccia,
Ma la tema del poi gli animi emenda
Ed eccoli a gridar Gesù e Maria.
Reca dunque, o Levita,
Benedetti dal ciel giorni soavi
Alla città pentita,
Al Senator che te ne dà le chiavi;
Stringi la briglia nella man paterna
E questo popol tuo reggi e governa.
Canzon vanne alla sede
Del Pastor cui fu porto
Omaggio di paura e non di fede.
Egli è saggio ed accorto
E se ben tu lo guardi
Gli leggerai nel viso: «È troppo tardi!»
A voi fecondi clivi
Sabini, a voi vestiti
Di frondeggianti viti
E di feraci ulivi,
Tra cui muggendo viene
Il turbolento Aniene,
A voi, nel roseo incanto
Del moribondo sole,
Sante d'amor parole
Disse d'Orazio il canto,
Ma del tripudio il giorno
Passò senza ritorno.
Rade, ai pendii fiorenti
Dove ridean le vigne,
Germoglian le gramigne
Agli sparuti armenti:
Nega al villan la vita
La terra insterilita.
Che se, vincendo l'arsa
Rabbia del sol rovente,
Sudata lungamente
Cresce la messe scarsa,
Lo scarno agricoltore
La miete al suo signore;
E a lui la terra magra
Matura il reo frumento
Che gli distilla il lento
Velen della pellagra,
Quando clemente il cielo
Non l'arde in sullo stelo….
…………………….
[*] Frammento. Tutti ricordano ancora la fame sofferta dagli
infelici abitatori di Sambuci (Roma) nell'inverno del 1895.
In lectulo meo per noctes quaesivi quem diligit anima mea: quaesivi illum et non inveni, CANT. CANTICOR. III. I.
—«Guarda, mortal, le fiamme
De' larghi occhi lucenti
E le chiome fluenti
Sulle superbe mamme.
Guarda! L'estremo lembo
Gittai che ti copriva
La pubertà giuliva
Che mi fiorisce in grembo.
Vieni e sui fior ti giaci
E me sui fior ricevi;
Tra le mie labbra bevi
Il dolce miel de' baci,
I lombi miei circonda
Con le possenti braccia,
Stringimi al sen la faccia
E l'amor mio feconda.»—
Così parlò e sorrise
La Dea porgendo il fianco
Soavemente bianco
Al giovinetto Anchise
Poi volse le parole
In gemiti sommessi
E dei divini amplessi
Fu testimonio il sole.
Vittima anch'io d'Amore
Omai dispero aita
Poi che la sua ferita
Mi sanguina nel core,
Nè lacrimar mi vale
Nè maledir, costretta
A spasimar soletta
Sul vergine guanciale.
Che se fugaci istanti
Di pace al sonno chiedo,
Mille fantasmi vedo
Pel glauco ciel vaganti.
Passa sul campo arato
Caldo di nozze il vento
E in se recar lo sento
La febbre del peccato.
Desta così all'ebbrezza
Del germinar, la terra
Le viscere disserra
Del sole alla carezza
E con le carni e il core
Arsi da fiamme arcane,
Urlan le genti umane
«Amore, amore, amore!»
Tra l'ombre e gli spaventi
Delle materne selve
Si stringono le belve
In ciechi accoppiamenti
E dalle fulve arene
Che il mar commosso esclude
Perfidamente ignude
Mi chiaman le sirene,
Mentre di Bromio stanche,
Roche per gli ebbri canti,
Le lubriche Baccanti
Gittan le vesti bianche
E sui compressi fiori
Curvan le rosee forme
Sotto l'impulso enorme
Dei Fauni assalitori.
E allor mi desto sola
Sul letto immacolato
Coll'urlo disperato
Del mio martirio in gola….
Deh, morrei pur gioiosa
Se fossi in quel momento
Segnata dal cruento
Stigma di nuova sposa,
Se nella gonfia mole
Dell'utero fecondo
Balzar sentissi il pondo
Della concetta prole,
Se alfin delle mie pene
Lieta chiudessi il ciglio
Addormentando un figlio
Tra le mammelle piene!
O Dea, Madre, Signora
Dei vivi e della vita,
Dal mar di Cipro uscita
Al bacio dell'aurora,
Che il premio a noi concedi
Nella tenzon gentile
Ed al vigor maschile
Il fior del sangue chiedi,
Se di perenni rose
T'ornino ancor l'altare
Le verginelle ignare
E le conscienti spose,
Se l'atra onda Letea
Il biondo Adon ti renda,
Pietà di me ti prenda
Madre, Signora, Dea!
Si levan sospinti dal vento
I bianchi vapori dei monti;
Nel cielo di piombo le nubi d'argento
Cacciate, travolte, nascondono il sol.
Recando la mota dei letti
Traboccan le torbide fonti;
La piova scrosciando rovina dai tetti
E un largo pantano contamina il suoi.
Languisce la terra sopita
Nel soffio del freddo aquilone;
Ai rami gelati non torna la vita,
Le gemme aspettanti non s'aprono ancor.
O fosche giornate d'orrore,
Dov'è la novella stagione?
Dov'è primavera fragrante d'amore
Che scalda e feconda le nozze dei fior?
Deh, riedi e coi giorni più miti,
O maggio, conduci il sereno:
I canti dei nidi sui peschi fioriti,
L'odor delle rose risveglia con te.
Infondi coi baci del sole
La vita nel freddo terreno,
Fiorisci le zolle di fresche viole,
Ravviva i ligustri degli alberi al piè.
O maggio, e doman tornerai
Dai fior salutato e dal canto;
A tutti doman la gioia darai,
Io sola piangendo tornar ti vedrò.
Io sola son morta all'affetto,
Io sola mi struggo nel pianto;
Letizia di vita non sento nel petto,
Germoglio d'amore nel sangue non ho.
Il verno da me più non toglie
L'orror delle bianche pruine;
Al sole di maggio il gel non si scioglie,
Il gelo di morte che il cor mi coprì.
Il primo capello canuto
Quest'oggi mi svelsi dal crine….
Ah, giovane tempo, sì presto caduto,
Con te la speranza quest'oggi morì!
Il sole brucia implacabile, uguale,
Le stoppie gialle del pian vaporoso,
L'azzurra volta del ciel luminoso
Riflette in terra la fiamma estivale.
Non move foglia. La vita animale
Langue in un grave sopor neghittoso
Turba la pace al meriggio affannoso
Solo un molesto frinir di cicala.
Sull'erba verde, nel bosco frondoso,
Fresco t'ho fatto di fiori un guanciale
E tu vi adagi le membra al riposo.
Dormi discinta nell'ombra ospitale
Ed io contemplo con l'occhio bramoso
L'onda del petto che scende e che sale.
Dell'alta notte la negra magia
M'empie il cervello, mi filtra nel core.
Un soffio passa sull'anima mia,
Un freddo soffio che m'empie d'orrore.
Sente di fuori, l'orecchio che spia,
Strani bisbigli che metton terrore,
Ma nelle case la vita s'oblia
Come annegata in un denso stupore.
Solo nel buio, laggiù, della via,
Dietro una tenda, l'immobil candore
Un lume fioco da lungi m'invia.
Rischiara forse il discreto bagliore
Lo spasimar d'un atroce agonia
Od il gioir d'una notte d'amore?
O monti, albergo di pace infinita,
Ancor nel vivo ricordo rimane
Il susurrar delle chiare fontane
Tra la fragranza dell'erba fiorita
E il tremolar della luce salita
Coll'alba fresca alle cime lontane
Nel rado vel delle nebbie montane
Su i boschi pieni di canti e di vita
E nel tepor della rorida mane
Fioco il belar dell'agnella smarrita
Od il rintocco di meste campane.
Oh, nel mister della selva romita
Fuggir con lei dalle cure mondane
E tra i capelli sentir le sue dita!
Il mar lambendo instancabile e lento
La sabbia fina dell'umida sponda,
Con ritmo uguale mandava un lamento,
Quasi un singhiozzo, alla notte profonda.
Occhi benigni, le stelle d'argento
Guardavan fisse la terra feconda.
Amor vagava nel ciel sonnolento
Ed io sperai la fortuna seconda.
Il cor t'apersi con timido accento,
Sfiorai col labbro la chioma tua bionda
Ed al trionfo credetti un momento….
Addio, fantasmi d'un'ora gioconda,
Sogni d'amore dispersi dal vento,
Care speranze cadute nell'onda!
Al suo balcone s'affaccia beata
La dama, tratta dal maggio fiorente.
Il sol carezza la treccia dorata,
La rosea gota ed il labbro ridente.
Il giovin paggio da lunge la guata
E tutto caldo d'amore si sente
Nè gli par cosa terrena e creata,
Ma ben di cielo angioletta vivente.
Correr vorrebbe a battaglie cruente,
Soffrir pugnando una morte spietata
Sol per averne uno sguardo clemente;
E pur la dama dagli occhi di fata,
E pur la bianca angioletta piacente
Dal dì che nacque non s'è più lavata!
Mormora l'arpa toccata in sordina
Lento un motivo che par minuetto.
Lenta la dama danzando s'inchina,
Tutta eleganza, sussiego e belletto.
Di nei segnata, la pelle argentina
Manda un profumo sottil di zibetto:
Sotto una nebbia di candida trina
Ansano i bianchi segreti del petto.
Danza e sul molle tappeto trascina
La ricca vesta ed il piè piccioletto
Col portamento d'altera regina.
Tutti scoraggia col rigido aspetto,
Con l'occhio pieno di calma divina,
E lo staffiere l'attende nel letto.
Dolci parole d'amor, susurrate
Presso i cespugli fioriti di rose,
Parole dolci, parole gioiose,
Appena dette che mai diventate?
Salite al cielo col vento e volate
Degli angioletti alle labbra amorose,
O, come accade dell'ottime cose,
Parole dolci, nel nulla tornate!
Ahi, che piuttosto all'inferno dannate
Sì come streghe mendaci e schifose,
Forma e veleno di biscie pigliate
E, tra i cespugli nativi nascose,
Mordete al core gli amanti e li fate
Vittime e strazio di cure gelose!
L'ultime note languenti, velate,
Muoiono come sospiri sonori
In un tripudio di mazzi di fiori
In un profumo di donne scollate.
E il sangue tende le arterie gonfiate,
Passan su gli occhi fugaci bagliori;
Tutta la vita prorompe di fuori
Sotto l'impulso di forze ignorate.
Allor le forme ci sembran mutate
E ridipinte di strani colori,
Quasi fantasmi di cose sognate.
Poi tutto passa; ma resta nei cuori
Come un rimpianto di gioie passate,
Come un presagio di nuovi dolori.
Chi, quando il giorno muore,
Ode, seguendo il Gange,
La tortora che piange
Sotto i roseti in fiore
E, lungo l'acque stanche
Specchio alle palme nere,
Vede passar le schiere
Delle pagode bianche,
Lento discerne ancora
Fumar dal tardo fiume
Il denso putridume
Che in faccia al sol vapora,
E galleggiar sull'onde
Carogne omai disfatte
Che l'acqua gialla sbatte
Sulle fangose sponde.
Lungo i giuncheti pigri,
Nido di serpi immani,
Piangono i caimani
E ruggono le tigri,
Mentre nell'aria bassa
Del crepuscolo torvo
Gracchia sinistro il corvo
Sazio di carne grassa.
Allor nel plumbeo cielo
S'erge dall'acqua oscura
D'un angiol la figura
Chiusa da un fosco velo,
E sale a poco a poco
Sul livido orizzonte,
Gocciando dalla fronte
Sangue, veleno e fuoco.
Sale gigante e solo
Dell'universo in faccia,
Tende le negre braccia,
Apre l'immenso volo….
Ah, invan chiudi le porte,
Trista progenie d'Eva;
Ecco, su te si leva
L'angelo della morte!
E passa infaticato
Sulle città fastose,
Sovra le ville ascose,
Sovra il castel merlato,
Sul casolar che ride
Di sue virtù contento….
Passa solenne e lento
E dove passa, uccide.
Sul suo cammin, segnato
Dai morti e dai morenti,
Alto le umane genti
Mandano un ululato.
L'orror dell'ecatombe
Fin la speranza scaccia
E mancano le braccia
Per iscavar le tombe…
Del cor premendo i moti,
Sbarrando gli occhi tardi,
Inchiodano i vegliardi
Le bare dei nipoti;
Col pianto sulle gote
Le madri moribonde
Piegan le teste bionde
Sopra le culle vote.
Dubita l'uom che venga
Il mondo all'ore estreme
E guata in alto e teme
Che il sole in ciel si spenga,
Mentre gli grida il prete:
«Guai nel gran giorno all'empio!
»Portate l'oro al tempio,
»Poichè doman morrete!»
Sul sacro limitare
Cadono allor gli oranti,
Lordan gli agonizzanti
Le pietre dell'altare
E pur la turba stolta
Che ciecamente adora,
Inginocchiata implora
Iddio, che non l'ascolta.
Turba, che il vacuo gelo
Della tua fede or tocchi,
Muori, volgendo gli occhi
Inutilmente al cielo.
Alle pupille offese
Il vero or si disserra:
Non ti mentì la terra
Quando per lei ti chiese,
Non ti giurò promesse
D'un avvenir mal certo,
Ma dal suo fianco aperto
Ti germogliò la messe.
Giovin, dell'odio invece,
L'amor ti accese in seno,
E per un giorno almeno
Miglior di Dio ti fece.
Musa mia dolce, che le alterigie
De' carmi arcigni non hai sul viso,
Tu che rallegri l'ore mie grigie
Di stravaganti scoppi di riso
E volentieri mostri la pelle
Dai larghi strappi de le gonnelle,
Musa mia dolce, vieni, discendi
A la solinga mia cameretta;
Avide ai baci le labbra tendi,
Libera i lacci de la fascetta,
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
E chiudi l'uscio. L'ora è venuta,
L'ora in cui l'odio fermenta e invade,
Lurida peste, le menti e i cuori;
In cui la gente giù per le strade
Rutta bestemmie, rece rancori
E, masticando laide querele,
Inghiotte o sputa veleno e fiele.
Ognuno in queste turpi giornate
Morde o calunnia, froda o minaccia.
Lo sterco e il fango colto a manate
All'avversario si scaglia in faccia.
Riddano in piazza, lerci e impudichi,
Spie, deplorati, ruffiani e plichi:
E i giornalisti, tinta di loia
La meretrice penna d'acciaio,
Pur che sia piena la mangiatoia
Vendon la feccia del calamaio
Per imbrattarne l'onore altrui,
Quasi superbo che paghi Lui.
Indi, nell'ora concessa al voto,
Cupi, nervosi, van gli elettori,
Parlando basso col viso immoto,—
Guatando come cospiratori
E in ogni canto dice un cartello:
Votate questo!…. Votate quello!….
Entro la sala buia e fetente,
Sozza la gromma vernicia i muri
E intorno a un desco men che decente
Seduti in cerchio cinque figuri
Veglian con l'occhio cogitabondo
L'urna di vetro dal doppio fondo.
S'apre la chiama. Nel pigia pigia
Vota ciascuna pecora sciocca.
Ardono alcuni di cupidigia,
Ad altri l'ira torce la bocca,
Ma quasi tutti, dopo votato,
Palpano il prezzo del lor mercato;
E tutti, uscendo, da un reo contagio
Attossicato sentono il cuore.
Chi entrò dabbene n'uscì malvagio,
Chi entrò ribaldo n'uscì peggiore.
Chi vinse, il turpe bottino aspetta,
Chi perse, spera nella vendetta.
Ecco i comizi! Di quando in quando,
Se non accade qualche sinistro,
Dall'urna falsa sbuca onorando
Un frodolento caro al ministro,
O un imbecille pien di commende;
E l'un si compra, l'altro si vende.
Or perchè debbo far da mezzano
All'ingordigia di Calandrino?
Perchè mi debbo lordar la mano
Scrivendo il nome d'uno strozzino?
Perchè gettarmi nella battaglia
Sotto gli sputi della canaglia?
Musa mia dolce, sulla tua faccia
Ride un giocondo color di rosa.
Passerò lieto fra le tue braccia
Il giorno laido, l'ora schifosa.
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
E chiudi l'uscio. L'ora è venuta.
Meglio, Trento, per te se dalle mura
Sante aspettasti invano
Il vessillo che i patti e la paura
Respinsero lontano.
Meglio, Trieste, indarno a queste sponde
Tener l'anima fissa;
Meglio indarno aspettar che lavin l'onde
La vergogna di Lissa.
Deh, non cercate della madre il petto,
Figlie aspettanti ancora,
Poichè il fracido cancro ond'egli è infetto
O uccide o disonora.
La madre, del vessillo a tre colori
S'è fatta un origliere
Per fornicar co' suoi commendatori
Scappati alle galere.
Vende l'onore de' suoi figli morti,
Gioca le glorie avite
E fa copia di se negli angiporti
Delle banche fallite.
Questa, questa è colei per cui sperate
Cessar le vostre pene
Ed essa per paura ha patteggiate
Fin le vostre catene;
Ed essa, in Roma, penitente adora
La fraude vaticana
Baciando la rea man che gronda ancora
Del sangue di Mentana….
Ah, no, questo di vizi ampio carcame
Che al bacio vil si prostra,
Ah, no per Dio, questa bagascia infame
Non è la madre nostra.
Mentì chi l' disse! O voi, dai fortunati
Sepolcri ove dormite,
Martiri nostri ormai dimenticati,
Levatevi e venite!
Voi che gridaste Italia e il piombo intanto
Vi rompea la parola,
Voi che ne confessaste il nome santo
Col capestro alla gola,
Smascheratela voi la svergognata
Che adultera col prete;
Dite a questa carogna incoronata
Che non la conoscete.
Altra è la sacra Italia, amor dei forti
Che un dì fu vostra cura.
Oh, destatela voi, poveri morti,
Se i vivi hanno paura!
Fate che torni e nella destra rechi
Una spada infocata
Contro questi ladroni obliqui e biechi
Che l'han vituperata.
Arda col foco suo fin che bisogna
Questa stalla d'Augìa,
Tagli col ferro la civil vergogna
E la giustizia sia!
Consurgite et ascendamus in meridie,
JEREM VI, 4.
Se nella mesta sera,
Cinto di luce strana,
Lo scoglio di Caprera
All'occidente levasi
Superbo sulla nera onda lontana,
Il marinar che passa
Sull'agile naviglio
Tien la bandiera bassa
E tra le palme ruvide
Il duro capo abbassa e china il ciglio.
Là, nella calma enorme
Della morente luce,
Sotto il granito informe,
Presso le acacie memori
L'ultimo sonno dorme il nostro duce.
Dorme il Messia invocato
Nel giorno del dolore,
Dorme il gentil soldato
Che amò come una vergine
E col suo s'è fermato il nostro core.
Quando il leon scoteva
L'ampia cesarie d'oro,
Un popolo sorgeva
Bello, gagliardo e giovane
Che la pugna chiedeva e non l'alloro;
Sorgean gli eroi sublimi
Che il duce taciturno
Primo davanti ai primi
Guidava all'ardua carica
Contro Calatafimi e sul Volturno;
Poi, rotta nel cimento
La schiera e pur non doma,
Cadea senza un lamento,
Mal vendicata vittima
Sul colle di Nomento in faccia a Roma.
Nè alcun tendea la mano
A mendicar mercede,
Nè per voler sovrano,
Nè per clamor di popolo
Mentiva il capitano alla sua fede,
Chè il duce ed il soldato
Chiudevan ne' petti ardenti
Il cor di Cincinnato
E ai solchi ritornavano
Del plauso non cercato assai contenti.
Ed or che resta? O santo
Sangue versato invano,
O fior d'Italia, pianto
Un dì con tante lagrime,
Or ti mette all'incanto il pubblicano!
O gloria unica al sole,
Pura in tante vicende,
Alla crescente prole
Pura dovevi scendere
E ti compra chi vuole e ti rivende!
Tutto governa l'oro,
Tutto è sottil garrito
Di legulei nel foro
E de' comizi il traffico
Frutta come tesoro al più scaltrito.
Il suo veleno occulto
Ci mesce la menzogna
E gli ebri, nel tumulto
Dell'ira, si barattano
La calunnia, l'insulto e la vergogna.
Ahi, della prima schiera
Non resta alcuno in vita?
Dunque laggiù a Caprera
Col biondo Cristo italico
L'incolpevol bandiera è seppellita?
Ah no! Sacra coorte,
Per l'ultima battaglia
Ti risparmiò la morte:
Inerme e pur terribile
Di Roma su le porte ancor ti scaglia.
Non sangue essa ti chiede,
Ma invoca i difensori.
Schieratevi al suo piede,
Voi forti, e proteggetela
Con l'incorrotta fede e gli alti cuori.
Trombe dal sonno scosse
Sonate alla raccolta!
Correte alle riscosse,
Salvate voi la patria,
Vecchie camicie rosse, un'altra volta!
Alto il vessillo alzate
De' traditori a fronte…..
Ma voi, deh, riposate
Nelle giberne lacere
Cartucce non sparate all'Aspromonte!
Passano lenti. Un lampeggiar febbrile
arde a ciascuno il ciglio.
Passan solenni e da le dense file
non si leva un bisbiglio.
Toccandosi le mani ognun di loro
cerca il vicin chi sia.
Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
quella è una man di spia.
Sotto l'aspra fatica e il reo destino
molti già son caduti,
molti il carcer ne tiene od il confino,
e pur sono cresciuti.
Striscia il gran serpe de la folla oscura
dei ricchi su le porte.
Dentro, nello stupor de la paura,
si ragiona di morte.
Intanto il passo de la muta schiera
allontanar si sente
e nel silenzio de la fosca sera
spegnersi lentamente.
Ecco allora Epulon, vinto il terrore
socchiude l'uscio e guata
e dice: «lode a Crispi ed al Signore,
anche questa è passata!»
* * *
È passata, ma invan te ne compiaci
ne l'allegre parole.
Son gli antichi rancor troppo tenaci
per tramontar col sole.
Nel ferreo pugno non hai più la plebe
che serva un dì schernivi:
germina l'odio da le pingui glebe
che mieti e non coltivi.
Ne le officine fumiganti e nere
contro te si cospira:
sotto la casa tua, ne le miniere,
pronta allo scoppio è l'ira
e mal ti gioverà crescer guardiani
a le porte sbarrate;
l'armi custodi del tuo aver, domani
da chi saran portate?
Chi ti difenderà domani, quando
le turbe mal nudrite
assedieranno le tue case, urlando:
«è il primo maggio: aprite?»
Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati
a l'avvenir fecondo
e tu chini la fronte! I tuoi peccati
hanno stancato il mondo.
Addio sorrisi dell'albe rosate,
Addio tramonti che d'oro parete!
Novembre porta le tristi giornate
E delle nebbie la bigia quïete!
Gli uccelli migran in file serrate
Cercando a volo contrade più liete,
Ma noi restiamo, calcando immutate,
Sul fango vecchio, le vie consuete.
Restiamo e sempre le stesse infinite
Noie e le stesse speranze remote
C'infliggeranno le stesse ferite.
Finchè abbassando le teste canute,
Chinando al suolo le pallide gote,
Qui marcirem come foglie cadute.
Tu che aprendo il mercato alla menzogna
Alto salir potesti
E che senza pietà, senza vergogna,
Vivo, di noi ridesti,
Or nella tomba dormirai contento
Buon vecchio di Stradella,
Che accompagnar solevi al tradimento
L'arte di Pulcinella.
Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato
Dai servi e dai rivali
E sogghigna se 'l puoi. T'han perdonato
I morti di Dogali.
A ben più grave e più feroce guerra
L'Italia è condannata;
Nuovo sangue latin beve la terra
Dell'Eritrea bruciata.
Nuove vittime ancor di rei consigli
Cadran sull'arse arene
E nuove madri cresceranno i figli
Per ingrassar le iene!
Lascia, scarno villan, lascia il sudato
Solco a te non diviso.
Tu non devi morir dove sei nato,
Dove amor t'ha sorriso.
La gentil civiltà de' tuoi signori
Ti spinge alla battaglia.
Va, povero villano, uccidi e muori.
Dopo, avrai la medaglia.
E mentre i legulei ti lauderanno
Con sonanti parole,
Oh, come l'ossa tue biancheggieranno
Gloriosamente al sole!
Sulla sabbia deserta e funerale
Rotoleranno al vento,
Ma in qualche trivio della Capitale
Sorgerà un monumento.
Su cui tra i bronzi falsi e le sculture
Dell'arte a buon mercato
Sarà il tuo nome, o buon villan, se pure
Non l'han dimenticato.
Piange intanto colei che la tua culla
Vegliò amorosa e forte;
Piange le tristi nozze una fanciulla,
Le nozze con la morte.
Ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio,
Giunte le palme grame,
Dice:—beato te povero figlio,
Che non avrai più fame.—
Quando l'ora verrà, l'ora che deve
Esser l'estrema che vedrete al mondo,
Voi cercherete invan col moribondo
Occhio l'alpe natìa, bianca di neve.
E indarno de' ghiacciai la brezza lieve
Ricercherete nell'ansar profondo.
Oh, quanto lungi al labbro sitibondo
Saran le fonti ove il camoscio beve!
Ahimè, madri dolenti e fidanzate
Dolenti, dite voi se questo è il santo
Il giocondo avvenir che sognavate?
Vanno all'inutil sacrificio e intanto
Noi veneriam le vanità sfacciate
Cui piacque il sangue loro e il vostro pianto!
Le madri, nel tormento
Crudel d'un dubbio arcano,
Cercan con l'occhio intento
Qualche speranza invano.
Non sale un noto accento
Dall'aspettante piano,
Non una vela al vento
Sul freddo mar lontano!
Ed ecco, il messaggero
Nunzio della fortuna
Passa sul lor sentiero,
E a lui chiede ciascuna,
Bianca d'angoscia, il vero:
«Che novità?»—«Nessuna!!»
Se un pesce grosso sparpagliò cambiali
E non le ha mai pagate,
O le pagò col voto, i suoi giornali
Dicon: «cose private!»
Se vende un gran cordon, poscia negato,
E lo vende a un briccone,
Son cose che riguardan l'avvocato,
Cose di professione.
Se il Codice Penal soffre gli sfregi
De' suoi superbi sprezzi,
Se fa comprare o vendere i Collegi,
Sono pettegolezzi.
Ma se un pesce piccin, stando digiuno
Sente un po' d'appetito,
Peggio poi se lo dice a qualcheduno,
È subito ammonito.
Se gli sembra che il secolo egoista
Viva delle sue spoglie,
Se incappa in qualche idea da socialista,
San Stefano lo coglie.
Se vede Bosco o De Felice in sogno,
Se soffre e non dispera,
Se ha visto il Lega fare il suo bisogno,
In galera! in galera!
O Messia profetato ai sofferenti,
Pietoso un dì consolator del mondo,
Inutilmente ormai torni alle genti,
Bambino biondo!
Non è più il tempo in cui l'amor potea
Illuminar le menti e incender l'alme,
In cui per te Gerusalemme avea
Osanna e palme.
O dilettose al cor notti stellate
De' colli galilei sui dolci clivi,
Tra il canto delle donne innamorate,
Sotto gli ulivi;
O susurranti al sol gaie fontane,
Di solinghi riposi allettatrici,
Cui sale la canzon delle lontane
Spigolatrici;
O vigne d'Israel che i dolci frutti
Maturaste all'umil schiera seguace,
Voi non l'udrete più chieder per tutti
Giustizia e pace!
E tu, benigno, che a cercar scendevi
L'agnel che si smarrì nella campagna
E l'Evangelo dell'amor dicevi
Sulla montagna,
Guarda! Un'idolatria cauta e discreta
Agli Apostoli tuoi cresce l'entrate.
Pietro che ti negò, batte moneta;
Tommaso è frate.
Il sangue che grondò dalla tua croce
Oggi feconda l'odio e non l'amore.
Presso al complice altar veglia feroce
L'inquisitore.
L'astuta ipocrisia dell'egoismo
Che la ragione all'util suo sommette,
Distilla le bugie del catechismo
Nelle scolette
E nella Chiesa che chiamar non sdegna
Santo l'inganno e la menzogna pia,
Angelico Dottor, Barabba insegna
Teologia.
Perchè tornar se alla novella pena
Oggi trarresti inutilmente il fianco?
Più balsami non ha la Maddalena
Pel rabbi stanco.
Non si ricorda più d'averti amato,
Ma, isterica romea, col bacio scende
Al laido piè che, del tuo nome ornato,
Caifa le stende:
E colei che chiamar madre ti piacque
E nel sepolcro il corpo tuo compose,
Or vezzeggia i clienti e vende l'acque
Miracolose.
Fuggì, foggi da noi, bambino biondo:
Torna piangendo dal presépe al cielo.
Il Sillabo di Pio cacciò dal mondo
Il tuo Vangelo.
Dall'avarizia vinta e dal peccato
La tua fede morì povera e nuda.
Oggi nel nome tuo regna Pilato,
Governa Giuda.
Dedicato ad Anna E…….
Madri, lo ricordate il dì sereno
In cui d'amore il pegno
La prima volta nel fecondo seno
Vi diè di vita un segno?
Con che orgoglio gentil del grembo incinto
Allor vi compiaceste!
Come la culla col materno istinto
Morbida gli faceste!
E poi che al suo vagir tacque il dolore
Del fianco insanguinato,
Con che speranze, o madri, e con che cuore
Benediceste il nato
E nutrito di voi lo riscaldaste
Stringendolo sul petto,
E se morte il ghermìa, glielo strappaste
Col prepotente affetto!
Lo cresceste così, biondo fanciullo,
Sovra i fidi ginocchi,
Vegliando il primo passo e il suo trastullo
Con l'anima negli occhi
E speraste veder l'ore supreme
In braccio a lui più liete….
Quanto amor, quanti baci e quanta speme,
O madri che piangete!
Ed ora? I vostri figli a mille a mille
Cadder lungi da voi
Perchè un ladro impazzito e un imbecille
Si son creduti eroi.
E vi tentano ancor, gli scellerati,
Con le astute parole,
Ma i cadaveri nudi e mutilati
Si putrefanno al sole,
Ma già dai loro immondi antri, le iene
Calando irsute e scarne,
Leccano il sangue de le vostre vene,
Straccian la vostra carne!
E il delitto cadrà nel grave oblio
In che omai tutto langue?
No, levatevi voi, donne, perdio,
Raccogliete quel sangue,
Gettatelo ululanti e scapigliate
Dei colpevoli in faccia;
Quando il giorno verrà, non dubitate,
Ne troverem la traccia;
E dite agli altri, o neghittosi, o incerti,
«Pietà di noi vi prenda!
La nostra patria è qui, non nei deserti
Dell'Abissinia orrenda!
Pietà, chiediam pietà, madri dolenti,
Figlie, sorelle, spose;
Pietà, per gl'insepolti e pei morenti
Su l'ambe sanguinose!
Non tolga vite ai campi, a le officine,
La conquista rapace.
La nostra patria è qui. Datele alfine
La giustizia e la pace!»
Dite così. Ma se domani ancora
Tripudieranno i ladri
E moriranno gl'innocenti, allora,
O dolorose madri,
Non porgete più latte al mite Abele
Che s'acconcia al destino,
Ma raccogliete ne le poppe il fiele
Per allevar Caino.
Giusti della fallita Apocalissi,
Marci Porci Catoni, in questo errai
Che delle birberie forse ne scrissi,
Ma non ne feci mai.
Oh se n'avessi fatto, e lo potevo,
Di che frasche m'avreste incoronata!
Un'abiura e tra i grandi anch'io sedevo,
Illustre deplorata!
Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri
Curvando il dorso, mi negò natura;
Perciò gridate che incitai le madri
A strillar di paura.
Chi parla di viltà? Chi con gagliarde
Frasi, dopo il caffè, facil tribuno,
Povere donne, vi chiamò codarde
Perchè vestite a bruno?
Chi fumando in poltrona, empie i giornali
Di vendette, di stragi e di rovine,
Da la ciambella moderando l'ali
Dell'aquile latine?
Chi dei debiti nuovi alla conquista
Le apostrofi all'onor guida in falange
E soggioga lo Scioa dal liquorista,
Insultando chi piange?
Ah, siete voi? Salute o ben pensanti,
In cui l'onor s'imbotta e si travasa;
Ma dite un po', perchè gridate «avanti!»
E poi restate a casa?
Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti,
Comodamente d'ingrassar soffrite,
Baritonando ai poveri coscritti
«Armiamoci e partite?»
Partite voi, se generoso il core
Sotto al pingue torace il ciel vi diede.
O Baiardi, è laggiù dove si muore
Che il coraggio si vede,
Non quì, tra le balorde zitellone,
Madri spartane di robuste prose,
Che chieggon morti per compor corone
D'alloro, ahi, non di rose!
Ma no, non partirete! A questi tempi,
Se dovesse mancar «la parte sana,»
Chi resterebbe a predicar gli'esempi
Della virtù romana?
Chi resterebbe a consolar coi detti
Le vedove beltà che il bruno adorna?
Chi li farebbe i brindisi ai banchetti
Per chi parte o chi torna?
Ah, forti Aiaci della guerra a fondo,
Ussari della morte, ah, non tentate
D'uscir di qui per conquistare il mondo,
Perchè, se ve ne andate,
Forse la vigna che godeste voi
Fruttar potrebbe ad operai più scaltri…
No, restate, restate a far gli eroi
Con la pelle degli altri!
Dicono—Gesù mio, quanto schiamazzo
Per due vecchi tappeti!
Nemmen se ritornassero in Palazzo
Gli Svizzeri ed i preti!
I contadini a non vederli esporre
Ci credevan birbanti;
Sono elettori anch'essi e quando occorre
Votan pei ben pensanti.
Che v'importan quei cenci o i Credi fatti
Recitar nelle scuole?
Siam liberali. Non badate agli atti,
Badate alle parole.
Rispondono—I tappeti alla ringhiera
Non son stracci e cimosa;
Cencio di pochi palmi è una bandiera,
Ma vuol dir qualche cosa.
O le liste da chi furono empiute
E da chi consigliate?
Voi ci diceste; non le abbiam vedute:
E pur lo sapevate!
Confessatelo, via, siate leali,
Poichè non siete scaltri:
Voi pascete di fumo i liberali
E d'arrosto…. quegli altri.
Ma v'è chi dice—Ecco, Bisanzio ancora
Con le ciarle si regge
Dei cento legulei della malora
Che gli falsan la legge.
Lasciamoli cianciar del più e del meno,
Lasciamoli garrire;
Noi guardiamo più in alto, ad un sereno,
Ad un santo avvenire.
Noi guardiamo più in alto e questa bassa
Miseria non ci tange.
Con ben altra eloquenza il cor ci passa
La voce di chi piange!
Ma quando il pianto cesserà e verranno
Ben altre feste, allora
Quelle coltri lassù, riscalderanno
Il letto a chi lavora.
Che non può far d'un cor ch'abbia soggetto
Questo crudele e traditore Amore,
Poichè ad Orlando può levar dal petto
La tanta fè che debbe al suo Signore!
ARIOSTO, Orl. Fur. C. IX, I.
Apparia tremolando all'orizzonte
La tenue luce della nuova aurora
E la vaghezza delle rosee impronte
Crescea più viva coll'andar dell'ora,
Quando, sul fido Brigliadoro, il Conte
Uscì pensoso di Baldacco fuora
E d'ignoti sentier sull'erba molle
Lentamente discese il verde colle.
Come giovine sposa, allor che il sole
Fra le cortine del balcon s'affaccia
Lascia lenta le coltri e volger suole
Al conscio letto con desìo la faccia,
Ma, rivestita poi, non più si duole
Rimemorando i baci e il sonno scaccia,
Indi lieta intrecciando il crin disciolto
Canta allo specchio e amor le ride in volto.
La natura così malvolentieri
Dai notturni riposi uscir parea
Semivelata dai vapor leggeri
Che lenta l'aura del mattiti movea,
Ma poi ridesta e de' color primieri
Rifiorendo col dì, tutta fremea
In un gaudio fecondo, in una ebbrezza
Di gioventù, d'amore e di bellezza.
Non sgomentati del cavallo ai passi
L'inno di gioia ripetean gli augelli,
Pareano susurrar tra l'erbe e i sassi
Giocondi epitalami anche i ruscelli.
E i caprifogli penduti dai massi,
Scotendo i rami a guisa di capelli,
Gocciavan perle di sottil rugiada
Sulle nozze de' fior lungo la strada.
Nel tripudio d'amor ringiovanita
La pianura parea tutta un giardino
Che vaporasse tepida e squisita
La fragranza de' fiori al ciel turchino,
Sì che pien di desìo, gonfio di vita,
S'apriva il chiuso cor del Paladino
E conquisa cedea l'anima fiera
Alle lusinghe della primavera.
Dimenticò Re Carlo e i suoi baroni
E il santo gonfalon del fiordaliso,
I giganti, le fate e gli stregoni,
Gano schernito ed Agramante ucciso.
Dimenticò gli assalti e le tenzoni
Tra lo stuol battezzato e il circonciso
E vide col pensier mille rosate
Imagini di donne innamorate.
Rivide Olimpia, offerta all'esecrando
Mostro, chieder mercè nuda e tremante
E passar sorridendo e sospirando
Fiordispina, Isabella e Bradamante.
Vide Marfisa non curar pugnando
Le salde nudità del petto ansante
E d'Angelica sua gli occhi procaci
Languir di gaudio di Medoro ai baci.
Allor si sentì solo e in cor gli scese
Gelida un'onda di malinconia,
Tal che a se stesso dubitando chiese
Se la gloria non fosse una pazzia;
Ed una voce in fondo al core intese
Dirgli: «che val la tua cavalleria
»Che valgon le tue gesta e il tuo valore
»Senza un bacio di donna e senza amore?»
Discendeva così fantasticando
Intorno a questa sua doglia novella,
E sospirava fieramente, quando
Vide dal bosco uscire una donzella
Che raccogliendo fior venìa cantando
Soavemente e la persona bella
Di tal vivo desìo lo prese e punse
Che spronò Brigliadoro e la raggiunse.
Si trasse l'elmo, dall'arcion si sporse
E con voce tremante amor le chiese.
Lentamente a mirarlo il viso torse
La giovinetta ed a sorrider prese.
L'occhio le scintillò, ma quando scorse
La croce sull'usbergo e sul palvese,
La scintilla si spense ed il sorriso
Subitamente le sparì dal viso.
E disse: «Cavalier, tu porti in petto
Del Dio che adori il segno e la dottrina
Tu segui Gesù Cristo, io Maometto;
Tu sei di stirpe Franca, io Saracina;
Io cingo fiori al capo e tu l'elmetto,
Tu sei nato possente ed io tapina;
Vanne e ti basti sol ch'io ti confessi
Che t'amerei se tu a Macon credessi.»
Eh, come lieti tra le verdi fronde
Cantavano gli augelli i novi amori,
Come all'aura d'april le rubiconde
Corolle aprivan tripudiando i fiori,
Come splendeano al sol le chiome bionde,
Come ridevan gli occhi incantatori,
Allor che il Paladin vinto si diede
E per un bacio rinnegò la fede!
Quando spuntar vedrete a l'orizzonte
Questo suol benedetto e sospirato
E la brezza natia su l'arsa fronte
Il bacio vi darà del ben tornato;
Quando in folla calar vedrete al lido
I cari vostri a salutar le prore
E il dolce vento de la patria, il grido
Vi porterà de l'aspettante amore;
Quando nel cor di rimembranze pieno
L'impeto cesserà de la tempesta
E, consolati, sul materno seno
Riposerete alfin la stanca testa;
Se vi parrà d'udir fioco un lamento
Che seco il pianto e la tristezza porti
Ascoltatelo pur senza sgomento;
«Quella è la voce dei compagni morti
Che dice:—«All'avvenir sorridevamo
Quando il destino ci portò con lui
Ed ecco che con voi non ritorniamo,
Noi mal sepolti ne la terra altrui.
Ma, dite, la giustizia alzò il flagello
Su gli eroi da poltrona e i paladini?
Chi come bestie ci cacciò al macello,
Il supplizio subì degli assassini?—»
Voi rispondete:—«Ahimè, dormite in pace
Del triste campo nel silenzio enorme!
Qui dei delitti la memoria tace,
Qui stipendiata la giustizia dorme.
Sovra i tumuli vostri erra feroce
La iena e ne la notte urla il leone,
Ma gli eroi da poltrona hanno la croce
E gli assassini vostri han la pensione».
Infuria il vento e nella bieca notte
Fredda la piova incalza.
L'acqua che stroscia dalle gronde rotte
Sui ciottoli rimbalza.
Entro l'oscurità profonda e vuota
Delle vie taciturne
Guizzan, specchiate nell'immonda mota,
Le fiammelle notturne
E nel sordido fango e nel pattume
Putrefatto del suolo,
Miserabile spettro, agita il lume
E fruga il ciccaiolo.
Quand'ecco dal silenzio esce lontano
Scalpito d'una rozza
E tra la pioggia, il vento ed il pantano,
Appare una carrozza
Che in un dirugginìo di chiavistelli
Trabalza oscenamente,
Col profilo dei birri agli sportelli
E le lanterne spente.
E il ciccaiol che vive razzolando
Nel brago e nel fetore,
Sente lo schifo e brontola sputando:
«Passa un commendatore!»
Il mio cuore è uno scrigno di velluto
Che con sette sigilli è sigillato,
Molti voller saperne il contenuto,
Ma nessuno finor l'ha indovinato.
Lungamente il segreto ho mantenuto
E, il labbro come il cor tenni serrato,
Ma più a lungo tacer non ho potuto
Ed i sette sigilli ho lacerato.
Sappiate dunque che nel cor segreto
Chiudo i ricordi del tempo remoto,
I fiori secchi dell'april mio lieto,
Fra cui quest'oggi, per gentile invito,
Scesi a frugar con l'animo devoto
Per cavarne un sonetto impallidito;
Un povero sonetto impallidito,
Fior dell'anima mia morto e seccato,
Che tra le foglie sue reca smarrito
Come un lontano odor del mio passato,
Come un ricordo vago e scolorito,
Un'eco lieve del tempo beato,
Un rimpianto profondo ed infinito
Di tutto quel che in giovinezza ho amato.
Ed ecco che il sonetto esce discreto
Da la prigion dove dormiva ignoto
E rivede tremando il mondo lieto.
Va dunque, o mesto fior da me cresciuto,
Porta a chi m'ama del mio core il voto,
Ed a chi m'odia porta il mio saluto.
Son la fontana che nasce sui monti
Limpida e gaia tra i sassi sonanti,
Fresco ristoro di greggi vaganti,
Vergine ancora di mura e di ponti
E che, ingrossata da torbide fonti,
Bagna e feconda le valli aspettanti,
Poi, ferma in larghe paludi stagnanti,
Vapora febbri nei grigi tramonti;
Indi travolta a città pestilenti,
Livida inghiotte le salme dei vinti
E scalza e scuote le reggie possenti,
Finchè, gli spazi del mare raggiunti,
Tra i flutti eterni dal vento sospinti
Si perde e gode l'oblio dei defunti.
Secoletto borghese,
Ecco il libro finì. Chiudilo in pace,
Degno di te lo rese
Quell'arte che ti meriti e ti piace.
PREFAZIONE, vii
Si descrive un vago desio
La ballata del Re Moro
Sonetto contro un anonimo che ci fece la burla del telegramma
Si descrive un temporale nel deserto
La mia ghirlanda poetica
La battaglia di Sadova
Si duole di essere abbandonata dall'amante
La romanza del paggio
Risurrezione
Il lamento del prigioniero
Pianto della chiesa bolognese senza pastore
Tempesta in mare
Per la caduta di Palamidone
Alla poetessa Argia Sbolenfi (Proposta)
A Edra Coprodite, pastore arcade (Risposta)
Si compiace delle prossime nozze
Egloga
Si scusa per avergli mostrato poco rispetto
Sfogo contro colui
Ave Crux
L'apparizione
In disprezzo dì uno spasimante
Confida le sue pene alla Beata Vergine
In dispregio della immonda rana
Favolette morali
II gentil cavaliero
¡Pobre Carlos!
La risposta della figlia maledetta
Si descrive una rustica cappella
Inno al salame
Lamento
Anacreontica
L'alba
In mare
La capretta
In bicicletta
Ad un orologio guasto
A lui
È vero!
Affetti di una pellegrina all'augusto vegliardo
La ballata del cavalier discortese
Sonetti mitologici
La rovina del Sasso
Sonetto
Al mio destriero
Ode farmaceutica
Ode ostetrica
KLYSO
Hunyadi Jànos
Nel bagno (Ode)
A un vaso nuovo di porcellana Ginori
Ai colleghi
«Nascituro»
Al vescovo di Seboim
«En rev'nant d' la revue»
Le elezioni di Milano (1895)
Deo crepitvi sacrvm
Fantasia egiziana
Le visite del Cardinale
Sambvci
A Venere genitrice
Il primo capello bianco
Sonetti decadenti
Morbvs
Elezioni
Dopo il plico
Da capo,
Primo Maggio MDCCCXCV
Novembre
Mentre partono
Alpini
Ultime notizie
Piscicoltura
Sermone di Natale
Alle madri
Agli eroissimi
Coltrici festive
L'idillio di Orlando
Ai reduci dallo Scioa
Notte d'autunno
Il mio cuore
Parla il libro
Commiato
Finito di stampare il dì XXIV Dicembre MDCCCXCVIII nella tipografia dei Successori Monti in Bologna
End of Project Gutenberg's Rime di Argia Sbolenfi, by Argia Sbolenfi