The Project Gutenberg eBook of Libro bizzarro

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Libro bizzarro

Author: Antonio Ghislanzoni

Release date: March 31, 2006 [eBook #18088]

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LIBRO BIZZARRO ***

Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the

Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at http://www.braidense.it/dire.html)

A. GHISLANZONI

LIBRO BIZZARRO

MILANO

A. BRIGOLA E C., EDITORI

Via Manzoni, 5

Proprietà letteraria

Milano, 1882. Tipografia Pagnoni.

AL MIO CARISSIMO AMICO ANTONIO VICINI DI GALLIANO

Nei due anni che io vissi a Mariaga tu mi hai colmato di amorevolezze. Il mio giardinetto, mercè le assidue e intelligenti tue cure, era pieno di fiori in ogni stagione dell'anno. E quante escursioni dilettevoli abbiamo fatto assieme, erborizzando, per valli e per monti! Ma tu eri botanico ed artista; alla coltura dei giardini tu alternavi quella del tuo spirito arguto, amavi la poesia, la musica, la pittura, dividevi le tue giornate tra i fiori ed i libri. Dedicando a te questo mio volumetto pieno di gaje futilità, intendo risvegliare e serbar vivo nell'animo tuo il ricordo di quei due anni in cui fummo indivisibili. Non posso offrirti altro pegno della mia riconoscenza e del mio inalterabile affetto.

Il tuo aff.^o A. GHISLANZONI.

Caprino Bergamasco, Gennaio 1882.

L'Isola di Micomar

L'isola di Micomar è poco nota agli Europei. I superbi navigli che tre volte all'anno compiono il giro dei due mari di Azimorra e di Gengiva, è ben raro che si accostino al porto di Carina, per sbarcarvi qualche viaggiatore. Carina, come ognun può vedere nel primo Dizionario che gli capiti tra le mani, è la capitale dell'isola. Le sue belle e candide mura di alabastro si innalzano maestose ai piedi del Monte Récor, laddove il Penémore, quel superbo fiume che all'ora del tramonto sembra ancora rosseggiare del sangue dei Polluteri trucidati dal barbaro Nabicondo, si getta fragorosamente nel mare. L'isola di Micomar, perciò appunto che pochissimi viaggiatori Europei si degnano visitarla, conserva l'impronta originale e caratteristica che aveva, due secoli or fanno, ai tempi del buon Re Vidocarta. Gli uomini vi crescono sani e vigorosi; le donne vincono in bellezza i più simpatici tipi ideati dai nostri pittori insigni. Grazie alle sane istituzioni, ai rigori delle leggi, e diciamolo pure, agli istinti ingeniti della buona razza Caldosemina, regna nell'isola una semplicità e morigeratezza di costumi che a noi, cresciuti nel brago della corruzione europea, parrebbe quasi ridicola. Basti dire che da circa trecento anni non si è mai constatato che dentro le mura di Carina avvenisse un solo crimine di adulterio. A mantenere inviolata la fedeltà dei talami concorrono, oltre alla già accennata bonomia degli istinti individuali, le saggie e veramente ammirabili istituzioni del paese. Mentre il matrimonio rappresenta ancora sul continente Europeo una mostruosità sociale non d'altro feconda che di abbominazioni e di delitti, qui all'incontro, grazie alla sapienza delle leggi ed alle consuetudini scrupolosamente osservate dagli isolani, il consorzio coniugale significa un ambiente di moralità e di benessere, la realizzazione di ciò che l'uomo e la donna possono ideare di più sereno in fatto di felicità domestica.

Le provvide leggi relative al matrimonio vennero promulgate nell'isola di Micomar sotto il regno pacifico di Semedamore, un Re filosofo, vissuto ai tempi di Salomone. Si vuole che i due sovrani abbiano sostenuto in quelle epoche da noi remote una fiera polemica sovra il tema delicatissimo della pluralità delle mogli. Semedamore, che al pari del suo regal cugino Salomone aveva fatto delle esperienze estenuanti sovra parecchie miliaja di concubine, concluse formulando in stile alquanto barbaro il concetto: «bastare all'uomo una sola donna, bastare alla donna un solo uomo, purchè l'uomo sia uomo, e la donna sia donna.» Quel saggio Re, proscrivendo da' suoi stati il concubinato e imponendo l'obbligo del matrimonio a tutti i suoi sudditi, si avvisò innanzi tutto di provvedere alla idoneità fisica dei mariti ed alla idoneità morale delle mogli. Partendo da tali principii, quel saggio fra i Re ottenne, ora fanno cinquemila anni all'incirca, di sciogliere un problema, intorno al quale oggidì si spendono infruttuosamente nei paesi dell'Europa civile tante pagine di libri e tante declamazioni da teatro.

*

Venendo a Carina, io recava meco una lettera commendatizia del barone di Granfort all'indirizzo di uno dei più ricchi commercianti della capitale, il signor De-Tonnalli Core-di-perla. Fra le molte, singolarissime costumanze di questo avventurato paese, vi è pur quella che a ciascun capo di famiglia è concesso, previo consenso ottenuto dagli Anziani, di mutare il proprio cognome. Tale concessione viene accordata specialmente a coloro, i quali si illustrano per qualche azione generosa, ovvero coi traffici, colle opere dell'ingegno, riescono ad emergere e a collocarsi in una posizione elevata. Bellissima costumanza mi sembra poi quella che i nomi personali vengano, come si usa qui, derivati da qualche dote caratteristica dell'individuo. Il nome personale vien dato ai fanciulli d'ambo i sessi appena sieno entrati nell'anno decimoterzo. I parenti, gli amici di famiglia si adunano a fratellevole banchetto. Il fanciullo siede in capo della tavola sovra uno sgabello elevato; parla, ride, canta, gesticola, mette in evidenza, durante e dopo il banchetto, tutte le sue doti fisiche e intellettuali—quindi, i parenti e gli amici si ritirano, discutono, qualche volta si accapigliano; ma alla fine, il nome vien messo ai voti e imposto al fanciullo tra i brindisi, i canti e le danze, che durano ordinariamente fino allo spuntar del mattino.

*

Presentandomi al signor De-Tonnalli, ebbi da lui una accoglienza, la quale giustificava il bel nome di Core-di-perla che i parenti gli avevano conferito.

—Ella vorrà scusarmi, mi disse con schiettissimo accento, se l'ho fatto attendere dieci minuti. Oggi, mio figlio Gal-di-fuoco deve intraprendere il suo giro di nozze…. Partirà verso le dieci…. ed io debbo……

—Non la si disturbi per me—gli risposi—io andrò intanto a vedere qualche monumento della città….

—Ma no!—disse il mio buon ospite stringendomi la mano per trattenermi; desidero che prima Ella veda mio figlio……

—Sarò lietissimo di augurare a lui ed alla sua sposa il buon viaggio……

Il signor De-Tonnalli sorrise.

—Ella prende equivoco, ovvero io non mi sono spiegato chiaramente, mi disse. Mio figlio intraprende oggi il suo giro di nozze, vale a dire…. (ma sicuro! Ella non conosce gli usi dell'isola). Gallo-di-fuoco ha compiuto il ventitreesimo anno, ed essendo jeri uscito vittorioso dalle prove sessuali imposte dalle nostre leggi, oggi, in compagnia del suo precettore, visiterà le principali famiglie della città per vedere se qualche bella, e savia, e brava fanciulla voglia fargli delle serie proposte. Oh! io non dubito dell'esito… Gallo-di-fuoco è un bel ragazzo…. e poi…. ha dello spirito…. e poi… Ma forse l'amor di padre mi illude… Ella stessa potrà giudicare….. e fare dei pronostici….» Inquel punto, una porta si aperse, e Gal-di-fuoco entrò nella sala al braccio di un ometto di cinquant'anni all'incirca, che era, affrettiamoci a dirlo, il suo precettore.

*

Gal-di-fuoco mi piacque di primo aspetto.—Era un bel giovane e un'anima ardente—il nome lo ritraeva fisicamente e moralmente. Dopo breve scambio di parole: io debbo uscire, mi disse, debbo andar in volta per la città, e visitare parecchie case per uno scopo (a tal punto le sue guancie che non potevano divenir più rosse, impallidirono di pudor verginale).—Il signore è già informato di tutto, interruppe il De-Tonnalli, vedendo l'imbarazzo del figlio—noi ti aspetteremo…. e credo non indugierai molto a tornare…

—Se al signore non dispiacesse, riprese Gal-di-fuoco volgendosi a me col suo fare più schietto ed ingenuo; se non le spiacesse accompagnarmi in questa breve escursione ch'io vado ad intraprendere, io gliene sarei gratissimo. L'averla a compagno mi darebbe coraggio…. E sebbene in ogni cosa io mi sia sempre affidato alla saggezza del mio ottimo precettore qui presente, pure io ritengo che in questo caso due consiglieri gioveranno meglio che uno.—Dunque: vorrebbe Ella accompagnarmi?

Non mi feci replicare l'invito. Io desiderava troppo di conoscere i costumi del paese, per non profittare della bella occasione che mi veniva offerta. Il precettore parve alquanto turbato; ma io mi affrettai a rabbonirlo con quelle dimostrazioni di deferenza e di rispetto che soddisfano tanto all'amor proprio degli uomini di tal specie. Quel precettore si chiamava Spugna-di-Senno—e ben presto, interrogandolo su vari argomenti, dovetti convincermi che al paragone di lui io non era che un sublime ignorante europeo.

Di là a pochi istanti io prendeva congedo dal signor De-Tonnalli e salivo con Gal-di-fuoco e Spugna-di-Senno in un magnifico carrozzone per far il giro della città.

*

Non s'era percorso mezzo chilometro di via, quando Spugna-di-Senno, dopo aver consultato un almanacco sul quale erano iscritte le famiglie più cospicue di Carina, ordinò al cocchiere di arrestare i cavalli. Gal-di-fuoco trasalì.

—Comincieremo, disse il savio precettore, dal visitare le famiglie più ricche; e che Dio faccia in seno di queste si trovi l'oggetto simpatico e consenziente! La ricchezza è un bene caduco, ma pure non guasta la felicità dell'imeneo.

—Illustre Spugna-di-Senno, sono anch'io del vostro avviso—risposi, dandogli il braccio per ajutarlo a discendere dal carrozzone.—Gal-di-fuoco non badava ai nostri discorsi. Egli si era slanciato negli atri del palazzo e il suo naso protuberante pareva fiutasse gli intimi appartamenti. Entrammo nella sala terrena che dava sul giardino. Spugna-di-Senno presentò una carta al maggiordomo. Questi lanciò una occhiata furbesca su Gal-di-fuoco e poi disse: vado subito ad avvertire madama e le due signorine.

Io chiesi al precettore: sarebbe, Vostra Sapienza, tanto cortese da dirmi il cognome dei proprietarii di questa casa?

—I proprietari di questa casa, rispose Spugna-di-Senno, discendono dalla illustre prosapia dei Batti-l'-oro. Debbo però avvertirvi che nell'isola nostra voi passereste per uomo di cattivo gusto chiamando le persone col cognome collettivo di famiglia. Gli abitanti di questo paese ci tengono assai al loro nome personale, il quale ritrae, come forse vi è noto, le qualità più spiccate di ciascun individuo. A tal punto, il maggiordomo ricomparve sulla porta del salotto ed annunziò seccamente l'arrivo di Alba-di-maggio.

Era una donna di quarant'anni all'incirca, assai florida e bella. Gallo-di-fuoco al vederla spiccò due salti per farsele incontro, ma il precettore lo trattenne per un braccio.

Alba-di-maggio vide e comprese—e volgendosi amabilmente a Gallo-di-fuoco: le prometto, disse sorridendo, che le mie figlie non si faranno attendere lungamente.

—Le sue figlie!—esclamò il giovane arretrando—ma io mi ero quasi innamorato della madre…. Ah! è pur bella, è pur seducente questa Alba-di-maggio!

Il fruscìo di una veste di seta attrasse nuovamente i nostri sguardi verso la porta, e una giovinetta leggiadrissima si fece innanzi salutandoci tutti quanti con spigliatezza elegante.

—Ecco la mia figlia più adulta, sclamò Alba-di-maggio. Il di lei nome…

—Vediamo un po' se questo bel signore è capace di indovinarlo! interruppe la giovinetta indirizzandosi a Gallo-di-fuoco che stavolta avea fatto quattro giri di piroetta per dissimulare la propria emozione.—Per agevolarvi un tal compito, vi dirò che il mio nome riproduce un tratto caratteristico del mio volto…. dunque, fissatemi gli occhi in viso… e poi… dite…!

—Il vostro nome, riprese Gallo-di-fuoco al colmo della emozione, non può esser che Occhio-di-Anémone… ovvero…

—Abbasso l'ovvero!—gridò la fanciulla battendo le palme—avete colto nel segno di primo tratto… Io mi chiamo Occhio-di-Anémone… come voi, mio bel signorino, dovreste chiamarvi…. dovreste…. chiamarvi…. Via! Ajutatemi un poco…

—Nel mio nome, rispose il giovane con ansia mal dissimulata, si riassumono due tratti caratteristici della mia figura e del mio temperamento.

—To! To! strano davvero! sclamò la fanciulla ridendo—sta a vedere che i vostri parenti hanno avuto il cattivo gusto di battezzarvi Pollo-di-fuoco!» Il giovane arrossì e chinò la testa con aria mortificata—poi disse: fra un pollo ed un gallo vi hanno poche differenze apparenti—ma io ritengo che in ogni caso della mia vita farò onore a quei presaghi osservatori della mia adolescenza che mi chiamarono gallo.

Ciò detto, il giovane mi trasse in disparte per mormorarmi all'orecchio: «io sono furiosamente innamorato di Occhio-d'-Anémone—ma vedo che Ella non vorrà saperne di me, e che io dovrò morire di crepacuore.

Una voce melodiosa che augurava il buon giorno a tutti riscosse il giovane isolano da quell'effimero abbattimento.

Era entrata nella sala la sorella di Occhio-d'Anémone.

Il povero giovane, ch'era rimasto poco dianzi in tale atteggiamento da assomigliar per davvero ad un pollo uscito dall'acqua, si rifece gallo al suono di una voce argentina, alla vista di un volto che vinceva in bellezza la idealità più fantastica.

—Bocca-di-fragola! esclamò il giovane più che mai ringalluzzito.

—Bocca-di-fragola per lo appunto, rispose la giovinetta battendo le mani.

—La mia secondogenita, soggiunse amabilmente Alba-di-maggio.

In quel punto la porta della sala si riaperse per dare accesso ad altre donne.

—Tu qui, Biscia-d'avorio!…

—E tu pure, Conca-di-perla!

—Voi… Pan-di-buttiro!…

Mentre le donne e le damigelle si baciavano allegramente, il precettore mi trasse in disparte e mi disse: «vedete come accorrono, quelle brave ragazze, al richiamo di un gallo…! Ciò mi è di buon augurio.

Gal-di-fuoco, malgrado le sue vesti di tulle leggerissime e trasparentissime, sudava dalla commozione.

—Se queste signorine lo permettono, disse balbettando, io spalanco le invetriate che danno sul giardino…

—In giardino! in giardino! strillò all'unissono quel festevole coro di fanciulle. E senz'altro, circondarono Gallo-di-fuoco, lo afferrarono per le mani; per le code del soprabito, e saltando, ridendo, trillando, lo trassero fuori del salotto.

Io rimasi nel salotto col precettore.

—Che ne dite? mi chiese Spugna-di-Senno; a voi, nato e vissuto in
Europa, i nostri costumi parranno alquanto singolari…

—Tanto singolari, che se voi, sapientissimo e facondissimo precettore, non mi porgete qualche schiarimento, io non saprò mai spiegarmi quanto ho veduto ed udito in questa casa. Ciò che più mi ha sorpreso, ciò che quasi mi ha scandalizzato, fu la petulanza, o piuttosto (scusate s'io parlo franco), la impudica sfrontatezza di quelle fanciulle. Da noi in Europa…

—Conosco, conosco la vostra vecchia Europa, interruppe Spugna-di-Senno. Non parlatemi dei vostri costumi. Se poi volete formarvi un giusto criterio dei nostri, mettete da banda i pregiudizi e le ipocrisie; e innanzi tutto fissatevi ben in capo quanto vado a dirvi, che qui da noi nessun legislatore o ministro del culto s'è mai sognato di infliggere una nota di infamia a quell'atto di propagazione che la natura si piacque imporre a tutti gli esseri organizzati. Anche noi abbiamo poetizzata questa istintiva e provvidenziale attrazione dei due sessi, chiamandola: amore. Anche noi, convinti che il libertinaggio produce il deperimento fisico e morale delle razze, abbiamo riconosciuto la necessità di moderarlo con provvide leggi. Non per questo abbiamo velato la statua del Dio; non abbiamo calunniato la natura. Voi avete detto: l'amore è un peccato; noi ci riteniamo più morali e più logici di voi, coll'aver proclamato che l'amore è un dovere ed un diritto di tutti gli esseri viventi. Dopo questo, non vi recherà meraviglia l'udire che il matrimonio è obbligatorio per tutti gli abitanti dell'isola nostra, salvo i pochi casi nei quali si presentino delle incompatibilità fisiche.

—Vi hanno dunque delle eccezioni…?

—Di queste parleremo in appresso. Permettete che innanzi tutto io vi esponga brevemente i principali articoli del nostro codice coniugale. Appena compiuti i vent'anni, ciascun cittadino dell'isola è autorizzato ad ammogliarsi; ma la fase che noi chiamiamo obbligatoria comincia ai ventitrè anni e finisce ai trentacinque. Quando io vi abbia soggiunto che l'età dello sposo non deve mai eccedere di tre anni quella della moglie, e che qui da noi le proposte matrimoniali si fanno in ogni caso dalla donna, comprenderete per quali ragioni il così detto giro di nozze viene dalla più parte dei nubili intrapreso in età giovanissima.

—Questa è nuova! interruppi crollando il capo.—Si fa dunque, in codesta isola vostra, precisamente l'opposto di ciò che si pratica da noi. Ora comincio a capire perchè quelle fanciulle da me poco dianzi vedute mi parvero sì petulanti e sfrontate—ma non comprendo per qual ragione vi paja utile ed onesto che le proposte matrimoniali partano da quel sesso, il cui più bell'ornamento dovrebb'essere, a veder mio, la timidezza e il pudore….

—Europeo incancrenito!—sclamò Spugna-di-Senno coll'accento della più sentita commiserazione—non comprendete! non comprendete!…ed io comprendo benissimo come da voi certe cose non si possan comprendere! Per rendermi comprensibile, non ci ha dunque altro mezzo; convien proprio ch'io vi metta sottocchio i bei risultati che si ottengono nei paesi vostri, dove si segue l'opposto sistema. Eccovi una delle vostre fanciulle; poniamo pure la più bella, la più buona, la più saggia delle figlie di Europa. A diciasette, a diciotto, a vent'anni, malgrado l'abbominio onde voi, sapientissimi e morigeratissimi, avete stigmatizzato il divino istinto della natura, ella pur sente il bisogno di amare e di essere amata. Ma voi le avete insegnato che bisogna reprimersi e dissimulare. Voi le avete detto che è contrario alle leggi della onestà, del pudore, che so io, manifestare ad un giovane dei sentimenti altrettanto soavi che naturali ed onesti. Voi condannate questa giovinetta alle noje della sterile aspettazione. Voi credete di sublimare la vergine, e create una martire tormentata da desiderii infecondi. Ch'ella aspetti. Non è lei che deve scegliere. Ella deve ricacciare nel profondo del cuore le vivaci simpatie che ad ogni tratto vorrebbero irrompere. E frattanto passano gli anni… Io voglio ammettere che a tempo opportuno, prima che il tormento degli insoddisfatti desiderii non l'abbiano logorata fisicamente e moralmente, alla vostra fanciulla si presenti… un aspirante. Voglio supporre che respinte le proposte del primo, perchè ripugnante ed uggioso, si presenti il secondo ed il terzo… Ma ditemi—signorino mio—credete voi che su cento matrimonii assortiti alla vostra bella moda Europea, ve ne abbiano cinque, ve ne abbiano due, pei quali una giovine donna vegga realizzarsi i suoi voti, i suoi sogni d'amore? Fortunate davvero le vostre fanciulle! Voi vietate ad esse di scegliere, voi le obbligate a subire. E subiscono, le disgraziate; subiscono per impazienza talvolta, più spesso, per disperazione. E poi vi lagnate se più tardi esse vi fanno quei graziosi regali!… Ma voi siete forse ammogliato, ed io mancherei alle leggi della buona creanza completando il mio pensiero. Spero essermi spiegato abbastanza perchè voi possiate rettificare i vostri criterii sulla moralità delle nostre fanciulle, sulla saggezza delle nostre leggi e dei nostri costumi.

Spugna-di-senno parlava coll'enfasi dell'uomo convinto, e la sua conversazione mi interessava a sommo grado. Dopo breve silenzio io ripresi ad interrogarlo:

—Avete parlato di incompatibilità fisiche; vorreste voi, illustre Spugna-di-senno, darmi su questo punto per me oscurissimo qualche schiarimento?

—In due parole vi metto al chiaro di tutto, rispose il mio amabile e facondo interlocutore. Vi par giusto, vi sembra conforme alle leggi della natura, ciò che si pratica nei vostri paesi, che il matrimonio venga consentito ad un individuo, il quale, per età, per malattia, per qualsivoglia diffetto di costituzione, non si reputi idoneo alle vigorose manifestazioni dell'amore? Ma i casi di deperimento precoce, è ben raro che oggidì si producano nell'isola nostra, dove cresce una razza bella e gagliarda, che non trova riscontri in nessun'altra popolazione del globo. Qui gli uomini prendono moglie nell'età delle fervide passioni; da voi, il matrimonio è una istituzione, che sotto molti aspetti somiglia ad un rifugio da invalidi. Si può mai ripromettersi una unione felice laddove ad una sposa giovinetta, ardente di lubricità contenuta, il marito non può recare altra dote fisica che un cumulo di acciacchi? Vedete il nostro Gal-di-fuoco! Ieri, prima di intraprendere il suo giro di nozze, egli ha fornite, come si vuole dai nostri usi, delle prove stupende di validità ad una delle emerite più esigenti. L'attestato che egli può mostrare alle fanciulle di Carina non potrebb'essere più onorevole per lui. Ma questo non basta. Avete notato il singolare abbigliamento che qui si costuma da chi intraprende il giro di nozze?

—Ho notato, e a dirvi candidamente il mio pensiero, rimasi non poco scandolezzato. Quei calzoni di tulle così diafani e trasparenti…

Spugna-di-senno crollò la testa in segno di commiserazione, poi esclamò a labbro stretto: «Sempre il vostro pudore che torna a galla! il vostro sublime pudore, che vorrebbe sovrapporsi alla legge di natura ed eludere gli intenti ammirabili dell'organismo animale.—Via! non vi allarmate di una inezia! Le brave e morigerate figliuole dell'isola non si corromperanno, ve lo prometto, per aver lanciato uno sguardo furtivo sulle trasparenze di un indumento di tulle. Se alle vostre pudicissime verginelle di laggiù fosse parimenti consentita questa preventiva esplorazione dei loro futuri sposi, non credete voi che i casi di incompatibilità fisica avverrebbero meno frequenti? Gli adulteri che si commettono nei vostri civilissimi paesi dipendono in gran parte dalla imperfetta rispondenza che dopo le nozze si verifica, fra la realtà organica dell'uno e gli appetiti più o meno esagerati dell'altro conjuge. Una volta ammesso che ne' suoi ingeniti desideri d'amore, ogni fanciulla vagheggia un suo tipo speciale, voi dovreste comprendere a qual grave pericolo vada incontro la donna sposando l'ignoto. Diamine! mi par ovvio, concluse il mio filosofo scoprendo nel suo bel sorriso da vecchio sano una batteria di denti candidissimi; prima di comperare un pollastro da mettere in pentola, si vuol vederlo spiumato, si vuol fiutarlo, si vuol pesarlo—e un pollastro, in fin dei conti, non ha da servire che ad un solo pranzo—e si vorrà poi che la donna non sia informata di tutte le particolarità fisiche e morali dell'uomo che dovrà appartenerle per tutta la vita?

Dopo avere, nella parentesi di una breve pausa, assaporata la sua facezia, l'amabile precettore stava per ripigliare la conversazione, quando un cinguettio di voci femminili si fece intendere al di fuori del salottino. Le belle e vivaci fanciulle che erano uscite poco dianzi nel giardino rientravano appigliate al braccio ed alle vesti di Gal-di-fuoco.

Cos'era avvenuto? Spugna-di-senno, levatosi dalla seggiola per muovere incontro al suo diletto discepolo; lo interrogava collo sguardo.

—Dunque?…

—Nulla! rispose il giovane crollando la testa.

Le fanciulle si erano discostate da lui, e in presenza di quella mestizia, parevano a loro volta impacciate e compunte.

Alba-di-maggio prese la parola:

—Le mie figlie e quest'altre amabili donzelle rendono piena giustizia ai meriti eminenti del cittadino Gal-di-fuoco, e tutte convengono che egli rappresenta uno dei tipi più perfetti del suo sesso. Ma è pur noto che ciascuna fanciulla suol prefiggersi un tipo di marito, e pare che il tipo del nostro simpatico Gal-di-fuoco non risponda nè fisicamente nè moralmente alle idealità preconcette di questo gruppo. Via! non è il caso di desolarsi. La città di Carina è abbastanza vasta! e conta parecchie migliaja di nubili giovinette le quali vagheggiano i tipi più svariati. Uscendo di qui il cittadino Gal-di-fuoco avrà ben tosto a rammaricarsi per l'imbarazzo della scelta.

In quell'istante la faccia di Gal-di-fuoco aveva proprio il colore di una cresta da gallo. Le sue guancie ardevano. Egli si congedò dalle donne con una stretta di mano, e appoggiatosi al braccio del venerabile precettore, si avviò con lui verso gli atrii.

Quella scena mi aveva sorpreso. Malgrado le spiegazioni a me precedentemente fornite dal venerabile Spugna-di-senno, mi pareva di trovarmi tuttavia in presenza di un enigma.

Io non poteva risolvermi ad abbandonare la sala se prima non avessi appagata una viva curiosità che mi era sorta nell'anima. Mi accostai a Bocca-di-fragola, e traendola in disparte dal crocchio, la interrogai sommessamente: «Sareste voi tanto indulgente da perdonare alla mia audacia, se io vi pregassi di palesarmi le ragioni che vi hanno resa indifferente alle attrattive seducentìssime di quel gentiluomo?

—Come! Non avete udito? rispose Bocca-di-fragola, investendomi con una occhiata che pareva significare: siete dunque imbecille?

Poi, quasi pentita della brusca risposta, soggiunse: «incompatibilità di tipo intellettuale.»

La mia curiosità era troppo eccitata perchè io non arrischiassi una replica:

—Vale a dire?

—Mi sono accorta, conversando con Gal-di-fuoco, che quel giovanotto ha la memoria debole; e siccome sgraziatamente la natura è stata avara anche meco di quel dono preziosissimo, io crederei commettere, sposandomi a colui, un attentato contro la perfezione intellettuale de' miei figli. Perchè l'unione coniugale riesca bene, è necessario che l'uomo completi la donna, vale a dire, che le forze dell'uno soccorrano alle debolezze dell'altra. Quando il marito e la moglie accusino entrambi la imperfezione o l'assenza di una facoltà fisica o morale, si può andar sicuri che i figli generati da tale unione riusciranno deplorabilmente imperfetti. Non vi pare?

E Bocca-di-fragola mi sfoderò sul viso una seconda occhiata non molto dissimile dalla prima, che forse voleva significare: «al di là del nostro mare, nei paesi da voi abitati, siete tutti cretini?»

Io cominciava a comprendere; l'enigma si chiariva. Ritenendo superfluo, fors'anche sconveniente lo interrogare ad una ad una le altre fanciulle, presi le mosse per uscire; ma, rasentando un crocchio, dove Biscia-d'-avorio, Conca-di-perle e Pan-di-buttiro stavano ancora cinguettando, mi ferirono l'orecchio queste parole:

«Che vuoi, biscia mia? Sotto l'aspetto fisico quel tipo non mi va. È troppo gallo, ed io vagheggio un piccione.

Mi inchinai sorridendo e in quattro salti raggiunsi gli altri nel vestibolo.

*

Gal-di-fuoco e Spugna-di-senno si erano accostati alla carrozza, e il precettore avea già spalancato lo sportello per dar passo al suo diletto discepolo, quando una fanciulla leggiadrissima, avviluppata in una ricca mantelletta che le scendeva fino alla caviglia, si slanciò in mezzo a noi, e trattenendo il garzone per la faldiglia dell'abito, gli gridò:

—Gal-di-fuoco, io desidero ardentemente di sposarmi teco: lo vuoi tu?

—Selva-di-crini! esclamò il giovane, vibrando lampi dagli occhi.

—Selva-di-crini, per lo appunto…. Tu mi riconosci! Io ti amo da due anni, da due anni ti desidero. Hai tu udito l'altra notte sotto i tuoi balconi una voce che cantava al suono del mandolino la bella romanza che comincia colle parole:

    Al chiarore degli astri divini
    Corre il gallo alla Selva di crini?

Quella voce era la mia. Sapendo che oggi dovevi intraprendere il giro di nozze, il mio febbrile desiderio di possederti mi spinse a muoverti incontro. Tu eri già uscito. Non puoi imaginare quanto io abbia sofferto nel vederti entrare in questa casa. Presa da una vertigine di amore e di terrore, sentii mancarmi le forze e dovetti sostare nel vestibolo. Ohimè! pensavo io—se qualcuna mi prevenisse!… s'io dovessi rinunziare al mio bel sogno! Ma tu esci solo da quella casa, tu non sei vincolato da veruna promessa. Guardami, Gal-di-fuoco; leggimi nel sembiante, scrutami il cuore, e poi rispondimi un monosillabo.

Gal-di-fuoco aperse due braccia sterminate che parevano ali, e la fanciulla si gettò nell'amplesso. Si intese uno scricchiolio di vertebre. Spugna-di-senno corrugò la fronte rabbrividendo.

Sciogliendosi giuliva e rubiconda dalle braccia del giovane, Selva-di-crini si slanciò nel carrozzone dove noi non tardammo a raggiungerla.

—Al palazzo di città! gridò al cocchiere Spugna-di-senno chiudendo gli sportelli; e salito anche egli nella carrozza, i cavalli presero il trotto.

*

Nel palazzo di città doveva compiersi il cerimoniale prescritto alla legalizzazione del connubio.

Entrammo in una magnifica sala, ammobigliata colla massima eleganza, decorata di statue e di emblemi simbolici. Le statue erano adamiticamente ignude. Un gruppo di figure in marmo di grandezza naturale ritraeva l'abbracciamento di una coppia innamorata con tale arditezza di verismo, da far inorridire il più corazzato libertino europeo. Ma le ragazze di Carina hanno l'occhio troppo esercitato alle espressioni del vero per scandolezzarsi alla vista del nudo.

Il funzionario incaricato di presiedere alla cerimonia non si fece molto attendere. Egli entrò nella sala accompagnato da due matrone. Quest'ultime si accostarono a Selva-di-crini, l'ajutarono a svilupparsi dalla mantelletta, quindi le snodarono le treccie. Un fiume di capelli neri lucentissimi, dalla testa scese fluttuante sul bel dorso della bella giovinetta, la quale, non d'altro indumento ricoperta fuor quello di una maglia di seta candidissima, somigliava ad una statua di alabastro ombreggiata da un salice bruno.

Notai, che all'istante in cui le matrone si chinavano per raccoglierle intorno ai fianchi quella ricca frangia di ebano, la giovinetta diede un guizzo, e subitamente sul seno e sulle coscie le candide maglie si imporporarono di una leggiera fioritura sanguigna.

Spugna-di-senno crollò il capo, e traendomi in disparte mi disse all'orecchio: «Oramai queste formalità dovrebbero abolirsi. Qui da noi, la specie umana si è abbastanza perfezionata, perchè una ragazza possa concepire il pensiero di ricorrere alla frode per correggere i proprii contorni. Da circa mezzo secolo qui non s'è più avverato il caso che alle punture dello spillo di verifica non abbia risposto immediatamente il signum cutis. Chi prende a moglie una nativa dell'isola può andar sicuro di portarsi in casa una donna di carne, non un cumulo di stracci o di guttaperga, foderato di uno scheletro vivo.

È probabile che, durante questo a parte fra me ed il venerabile precettore, siensi compiute presso la tabula pretoria dell'altre cerimonie curiose. Quando noi ci avvicinammo ai due sposi, il funzionario era già intento a recitare il formulario prescritto dalla legge. Quel formulario era un tessuto di frasi burocratiche, un succinto riepilogo dei doveri che incombono ai maritati, accompagnato da alcuni ammonimenti poco notevoli, dove si eccettui quest'uno che mi parve assai giudizioso:

«Non amatevi troppo; è il mezzo più sicuro per amarvi sempre; val meglio amarsi tutta la vita, che uccidere l'amore in pochi giorni di godimenti.»

Sovvenendomi che questa prosa non era che la parafrasi di quattro distici di Voltaire, ammirai il buon senso mostrato dagli antichi legislatori dell'isola nell'aver fatto tesoro di un così savio precetto.

Compiute le ultime, insignificanti formalità della cerimonia, Gal-di-fuoco sporse il braccio alla sposa, e noi prendemmo le mosse per uscire del palazzo. Al piè dello scalone mi attendeva una nuova sorpresa. I due giovani, dopo uno scambio di baci fervidissimi, si disgiunsero, e volgendosi collo sguardo un saluto pieno di amore e di tristezza esclamarono all'unissono: A rivederci dopo la quaresima!

—Ma, come? che significa questa separazione? domandai colle ciglia inarcate a Spugna-di-senno. Vi hanno ancora dell'altre formalità a compiersi prima che i due sposi vadano a coabitare sotto il medesimo tetto?

—Voi l'avete udito, rispose pacatamente l'illustre precettore; vi è di mezzo una quaresima.

Poi, sorridendo, soggiunse: «Ma voi, nella vostra qualità di straniero, non siete in dovere di comprendere. Montiamo nella carrozza, e là discorreremo a miglior agio.

Il precettore accennò a Gal-di-fuoco di salire, ciò che egli fece dopo aver rivolto un ultimo sguardo a Selva-di-crini, la quale si allontanava a passo leggiero, portata dalla sua beatitudine di fanciulla maritata.

Poichè tutti ci trovammo impancati sui morbidi cuscini del cocchio,
Spugna-di-senno riprese la parola:

—Per uniformarsi scrupolosamente ai riti nuziali imposti dal nostro codice, è d'uopo che i novelli conjugi, compiuto l'atto di iscrizione al palazzo di città, vivano per quaranta giorni disgiunti. È ciò che suol chiamarsi da noi la quaresima preparatoria. La giovane sposa impiega questo tempo ad erudirsi in ogni ramo di scienza che si riferisce all'igiene sessuale ed ai doveri della maternità. Da oggi fino al giorno destinato alla consumazione del matrimonio, Selva-di-crini assisterà quotidianamente alle lezioni di anatomia e di fisiologia genetica che si tengono espressamente nel nostro Ateneo per le fanciulle iscritte nell'albo pretorio. È là, che ogni nostra donna, prima di abbandonarsi alle rilassanti dolcezze della moglie, si prepara ai nobili sacrifizi e ai delicati uffici della madre; è là, che alle voluttuose compiacenze del desiderio coniugale vengono a sovrapporsi le serie preoccupazioni della fecondità, dell'allevamento dei figli, del benessere fisico e morale della famiglia. Vi par giusto? vi par saggio? S'è mai pensato, laggiù, nella vostra decrepita Europa, a istituire qualche cosa di somigliante? Ciò sarebbe scandaloso, non è vero? sarebbe abbominevole, laddove alla cima di ogni virtù femminile fu collocato il pudore. Infatti, nei vostri paesi, non accade forse mai che a traverso i suoi lubrici vagheggiamenti una delle vostre vergini vegga al di là del talamo giocondo spuntare l'imagine di una culla.

Malgrado le melanconiche riflessioni che in me si producevano da un confronto di idee e di costumi che umiliavano il mio amor proprio di uomo civile, io arrischiai un'altra domanda:

—E il nostro amabilissimo Gal-di-fuoco, di qual maniera impiegherà egli la sua quaresima?

Il giovane, tutto assorto ne' suoi pensieri, fors'anco affranto dalle molteplici emozioni subite durante la mattinata, crollò il capo mestamente e stette mutolo.

Spugna-di-senno, colla sua amabilità consueta si incaricò di rispondere per lui:

—Gal-di-fuoco, disse il vecchietto sorridendo, nella quaresima attenderà a rinvigorirsi, e subirà tutte le prove preparatorie alla nuova posizione che gli incombe. Importa che prima di intraprendere la vita conjugale, uno sposo si divezzi dalle abitudini di scapolo e si eserciti preventivamente a tollerare i disagi e le noje inseparabili dal nuovo stato. Credereste? Da noi si è perfino trovata la maniera di abituare il futuro babbo a certi inconvenienti della paternità, che riescono, alle persone dai nervi troppo delicati, i più uggiosi e intollerabili. Gal-di-fuoco, durante la quaresima nuziale, dovrà attendere a' suoi studi, tenere i suoi registri e scrivere le sue corrispondenze in presenza della poppatola Thompson, la quale non cesserà mai di funzionare ne' suoi appartamenti. Sapete voi cosa sia una puppattola Thompson? È un gran fantoccio di legno, nelle cui viscere sta chiuso un organetto, dal quale ad ogni intervallo di diversi minuti scattano dei suoni somiglianti al vagito del bimbi. Questi suoni prodotti dal meccanismo Thompson vibrano così acuti e stridenti, che una volta l'orecchio ci si avezzi, lo stridio di una dozzina di marmocchi al confronto pare un susurro di zeffiri.

—Perchè non aggiungi, interruppe Gal-di-fuoco riscuotendosi, che durante la maledetta quaresima ci si condanna altresì a sentire ogni notte nella nostra camera da letto il brontolìo di una pentola che bolle?

—Puerilità! esclamò il vecchio; ma pure, in certi casi, profittevoli. Non si sa mai quali transazioni, col volgere dell'età, possa subire il temperamento di una donna. Avezzato l'orecchio al brontolìo di una pentola, il futuro marito facilmente potrà rassegnarsi più tardi a tollerare il brontolìo della moglie.

Spugna-di-senno parlava ancora, quando la carrozza entrò nel palazzo
De-Tonnalli e ristette negli atri.

*

All'indomani, io dovea partire da Carina per intraprendere le mie esplorazioni scientifiche nell'interno dell'isola. Nel prendere congedo da' miei ospiti, promisi che, salvo ostacolo di malattia, od altro caso di forza maggiore, di là a quaranta giorni avrei fatto ritorno per prender parte al banchetto nuziale.

E tornai diffatto.

Rientrai nel palazzo De-Tonnalli a tarda sera, al momento in cui la famiglia e i numerosi invitati toccavano i bicchieri per gli ultimi brindisi. Al mio entrare nella sala, tutti si alzarono per abbracciarmi; fu un accoglimento festoso, cordiale, espansivo, del quale serberò eternamente la più grata ricordanza.

Gal-di-fuoco, dopo aver brindato alla mia salute, si accostò alla sposa, le porse il braccio e con mille carezze la trasse fuori della sala.

Al partire degli sposi, il signor De-Tonnalli levò gli occhi al pendolo e disse: «Fanno le dieci—alle dieci e quaranta minuti converrà separarli.»

—Alle dieci e quaranta minuti, gridarono tutti; e i brindisi ricominciarono.

Spugna-di-senno, alquanto brillo, mi sì accostò e mi disse all'orecchio:

—Probabilmente voi ignorate una delle più savie pratiche osservate nel nostro paese allo scopo di rendere più duratura la felicità degli sposi. Fra mezz'ora, noi saliremo nella stanza dove Gal-di-fuoco o Selva-di-crine in questo momento assaporano le prime dolcezze dell'amore, e buono o malgrado, li divideremo. I due novelli sposi dovranno pel restante della notte dormire separati.

—E domani? chiesi io.

—Domani, posdomani, pel corso di quindici giorni, i due conjugi potranno fruire delle due ore di talamo che il codice e la pratica consentono. Economizziamo il piacere! gridò il vecchietto, alzando il bicchiere spumeggiante di sciampagna—è una prudente misura.

E si fece a cantare i bei distici di Voltaire:

    Ne vous aimez pas trop, c'est moi qui vous en prie;
    C'est le plus sûr moyen de vous aimer toujours;
    Il vaut mieux être amis tout le temps de sa vie,
    Que d'être amants pour quelques jours.

Il flauto di mio Marito

CAPITOLO I.

La marchesa non parve adontarsi del mio epigramma—crollò leggermente la testa, e volgendomi un sorriso di compassione:

«Ragazzo!—mi disse—tu non comprendi per nulla il cuore della donna!… Iddio ti guardi dal prender moglie! diverresti troppo infelice o troppo ridicolo!»

Io mi accorsi che quella risposta era l'esordio di una confessione generale.

Discostai la lucerna, eclissandola dietro l'enorme mazzo di camelie che stava sulla tavola—e la voce della attempata peccatrice parve sciogliersi più liberamente:

«Sarò sincera con te—ti dirò tutto, onde non abbi più nulla a domandarmi od a rimproverarmi in avvenire…. Il Signore ha perdonato alla donna per aver molto amato; e i preti spingono la loro indulgenza fino ad assolvere i peccati di poco amore, purchè il colpevole si confessi con sincerità.

«Le mie debolezze—o colpe, che ti piaccia chiamarle—furono molte. Io non accuso i miei conoscenti ed amici di averle esagerate. Perocchè se io non ebbi mai l'accortezza di nasconderle quando l'occhio maligno dalla società spiava tutti i passi, per non dire tutti i pensieri della mia giovinezza—a che varrebbe ora lo smentirle o l'attenuarle?…

«Il mondo però mi ha calunniata iniquamente, attribuendo a volgare istinto di sensualità certe abberrazioni istantanee, le quali, per quanto variate e molteplici fossero, ebbero nondimeno una origine comune: il più puro, il più nobile, il più costante degli affetti!

«Tutta la mia storia potrebbe riepilogarsi in questo solo motto: Ho peccato con molti per aver troppo amato un solo uomo.

«Ho impiegato la mia vita, come una antica sacerdotessa di Vesta, a custodire la sacra fiamma del primo amore. E ci sono riuscita!… Quand'anche la mia giovinezza, oramai spenta, avesse per incanto a rianimarsi e a prolungarsi rigogliosa fino alla consumazione dei secoli, io non amerei che lui…. non potrei amare che lui…. lui solo….

—Il fu marchese vostro marito?…domandai sorridendo.

—Oltraggerei la memoria di quel degno e rispettabile compagno della mia giovinezza—rispose gravemente la marchesa—se affermassi di averlo amato… d'amore. Mio marito fu il primo prodotto di quella sublime passione, che non avendo potuto esaurirsi nell'essere adorato, corse dietro per tanti anni ai fantasmi di una dolce reminiscenza….

«Perchè tu mi possa comprendere, è d'uopo che io risalga al principio…

»Evochiamo l'angelo della rivelazione, il Prometeo della luce, il Dio agitatore di tutta la mia vita!…

»Crederesti?… nel profferire il nome di Adolfo, io risento una commozione sì viva, che mi sembra, come l'antica fata Morgana, uscire ringiovanita dalla vasca miracolosa.

»Egli dunque si chiamava Adolfo….

»Io lo vidi por la prima volta nel giardino della nostra villeggiatura di Medolago. Figurati una sera di maggio, fresca, olezzante e tranquilla come il mio cuore di sedici anni… Sì compievo appunto i sedici anni la sera in cui mio cugino Adolfo mi fu presentato.

»Un bel giovane, di media statura bruno di capelli—presso a poco i tuoi capelli, Eugenio; più crespi, più vigorosi, direi quasi fiammeggianti di giovinezza….

»Ma che giovano le descrizioni? La bellezza giovanile ha dei segreti che la parola non può rilevare, nè la tela riprodurre…

»Fra Adolfo e me corse un'occhiata fuggitiva—due correnti elettriche si stabilirono fra i nostri giovani cuori.—Adolfo arrossì—io tremai—ci ricambiammo i complimenti della presentazione con voce fioca e convulsa….

»Mia madre disse:—Eccoti, Ortensia, un egregio dilettante, di flauto, che verrà, noi vogliamo sperarlo, a deliziare qualche volta il nostro soggiorno campestre!

»Sarò ben felice, rispose Adolfo senza guardarmi in volto, di fare un poco di musica con voi, amabile cugina… Tutti vi dichiarano prodigiosa al pianoforte… Suoneremo dei duetti!…

»Io risposi con un'occhiata affermativa e un inchino da collegiale… Poi, per nascondere la mia viva agitazione, mi allontanai da Adolfo e da mia madre, facendomi a percorrere tutta sola i viali del parco…

»Quella notte non potei prender sonno… La bruna capigliatura di Adolfo, il suo sguardo di fuoco, il bianco e profumato sorriso, la voce insinuante, magnetica—tutto si rifletteva, come una iride voluttuosa, nel vivo cristallo della mia vergine fantasia…

»Io lo vedeva… io gli parlava come ad un amico lungamente aspettato…

»Al biancheggiare del mattino, dopo i lunghi affannosi vaneggiamenti, le mie ciglia si chiusero al sonno—ma l'anima vegliava tuttavia, nelle dolci illusioni di una musica celeste.

»Erano le note di un flauto lontano—era il canto misterioso dell'amore—era la risposta di un'anima sorella, che poche ore innanzi si era identificata colla mia… Nel sonno le mie membra si cullavano dolcemente, secondando le voluttuose cadenze… Ebbrezza salutare dei sogni! Qualche volta non sei che un riflesso, una larva sbiadita dei gaudi trascorsi…. Per me, giovinetta inesperta della vita, fosti una rivelazione di ignote delizie!…

»Eugenio, cominci tu a comprendere per quale associazione di idee voluttuose e sublimi, il flauto abbia potuto esercitare tanto fascino su tutta la mia vita?…

»I miei rapporti con Adolfo—rapporti brevi pur troppo, ma esuberanti di ogni dolcezza—non furono che un duetto di flauto e pianoforte, deliziosamente prolungato nella vicenda di interruzioni e riprese gradevolissime.

»Quel duetto cominciò all'indomani della presentazione. Adolfo, come aveva promesso, mi portò una raccolta di composizioni musicali per flauto e pianoforte, che noi prendemmo a studiare in presenza di mia madre…

»I concerti divennero quotidiani; l'arte e la passione progredirono del pari—mia madre si compiaceva, e si entusiasmava del nostro accordo perfetto…

»Così trascorrevano i giorni, le settimane, i mesi. Nè mai fra Adolfo e me ci eravamo scambiati una parola, una lettera, una stretta di mano, che equivalesse ad una franca dichiarazione. Noi ci intendevamo colla scelta dei pezzi, cogli accenti della esecuzione, col capriccio delle varianti, coll'arbitrio dei crescendo e dei rallentando, colla foga e la significante rilassatezza dei tempi…

»Qualche rara volta—per accidente—la estremità del flauto aveva sfiorato leggermente la mia spalla—il mio gomito, nelle volate ascendenti sulla tastiera, toccava… e trasaliva al contatto dell'istromento… Queste eventualità del concerto erano un eccitamento fortunato, e da esse la musica ritraeva maggior nerbo. Le fibre irritate galvanizzavano il cembalo—la voce del flauto pareva gonfiarsi… E allora nasceva quella fusione di armonie, che provocava gli applausi di mia madre…

»Mia madre era sempre là, in mancanza di altri ammiratori. La sua presenza incoraggiava l'arte e sorvegliava il buon costume… Sia pace all'anima di quella santa donna! Ma vi è un destino, un angelo, un demonio, un Dio—chiamalo come ti piace…—io preferisco di crederlo un Dio, perocchè ebbi molte prove della sua onnipotenza. Orbene, questo Dio non permette che le anime fortemente innamorate si consumino nello sterile desiderio.—Il nostro duetto a flauto e pianoforte si era prolungato tre mesi…e la vicenda delle interruzioni e delle riprese aveva affrante le nostre forze. Adolfo dimagrava… Al finire dei concerti due solchi profondi gli scendevano dal cavo dell'occhio fino all'estremo delle guancie… Scomponendo lo strumento per rimetterlo nell'astuccio, mi guardava, e pareva dirmi: fino a quando?

»Era tempo che il Dio degli innamorati venisse in nostro soccorso…

»Il duetto ebbe finalmente una soluzione, rapida…concitata…intensa… E la scossa fu tale, che io ne rimasi impressionata per tutta la vita…

»Quel giorno ripassavamo una fantasia di Rabboni sulla Straniera
Il flauto di Adolfo era più inquieto che mai… Più volte io aveva
sentito la canna di ebano scivolare sotto le mie treccie—l'alito di
Adolfo mi infuocava le guancie…

»Cominciava il cantabile: Meco tu meni!… Mia madre stava ad udirci appoggiata alla finestra che guardava il giardino…

»Ad un tratto ella si alza—passa dinanzi al cembalo in punta di piedi, e, accennando a noi di continuare la nostra musica, esce pian piano dalla sala.

»Mia madre—lo seppi più tardi—scendeva in giardino per sorprendere la cameriera, la quale era entrata col guattero nella serra dei limoni…

»Per la prima volta, dopo tre mesi di febbre amorosa, Adolfo ed io ci trovammo soli… I preliminari erano già esauriti… La musica aveva supplito eloquentemente alla parola… Fra noi erano stabiliti da un pezzo tutti gli accordi della passione, ripetuti e confermati in tutti i toni musicali…

»Non appena la porta si chiuse dietro i passi di mia madre, la sala fu sconvolta da un improvviso cataclisma—Adolfo, il flauto, il pianoforte, il meco tu vieni…tutto fu travolto in un caos delizioso e terribile…

»Oh! se qualcuno fosse entrato in quel momento! Fortunatamente il pianoforte si smosse, percorse la sala come una locomotiva a vapore…e andò a piantare la coda nel vano del caminetto.

»All'urto del mobile io mi riscossi…compresi il pericolo della situazione…mi svincolai dalle braccia di Adolfo—e balzai dalla tastiera sulla quale inavvertitamente mi era seduta!… Noi fummo in tempo, prima che mia madre rientrasse, di riparare all'immenso disordine…

»Quando la buona donna si affacciò alla porta della sala, Adolfo ripigliava il meco tu vieni!»

CAPITOLO II.

La marchesa chinò il volto mestamente, e si tacque. Poi, rialzando la fronte con un movimento un po' vivo, quasi volesse cacciare una dolorosa ricordanza:—Ebbene? riprese—cominci tu a comprendere qualche cosa?

—Oh!… senza dubbio! Io comprendo che, all'età di sedici anni e pochi mesi, voi eravate già iniziata ai più intimi misteri dell'amore… E non posso a meno di congratularmi con voi! Nessuno vorrà rimproverarvi di aver sprecato il vostro tempo!…

—A sedici anni la donna soccombe per inesperienza—la sua stessa onestà, il pudore, la timidezza, tutte le doti più sante dell'anima concorrono a tradirla… Quando una fanciulla di sedici anni può resistere alle violenze di una prima passione, vuol dire che ella è già pervertita…

»In un delirio sublime ho sacrificato ad Adolfo la mia innocenza… Abbandonandomi all'amplesso fatale io diedi a quel primo, a quell'unico amante la maggior prova della mia virtù…

»Non descriverò le terribili angoscie che seguirono la breve estasi di paradiso.—Non voglio far pompa di sentimento. Io ti svolgo i segreti dell'anima mia, per ajutarti a comprendere un paradosso oltremodo dilicato—altro scopo non hanno le mie confessioni.

»Quindici giorni dopo la scena che ti ho narrato—il mio povero Adolfo moriva di terribile malattia…»

La marchesa fece una breve pausa—e portò la mano agli occhi, per spremere una lacrima che tardava a spuntare.

»All'annunzio di quell'immensa sciagura, corsi nella mia camera—mi gettai sul letto, piansi disperatamente, e giurai, che tutta la mia vita sarebbe un olocausto d'amore alla memoria di quell'uomo adorato…!

»Due anni passarono—anni di lutto, di vaneggiamenti segreti, di sconsolati desiderii… L'immagine di Adolfo non si partiva dal mio cuore… Nelle veglie e nei sogni egli mi era sempre presente… Io lo vedeva, lo sentiva rivivere, ascoltava la sua voce nei miei esercizi musicali, riproducendo le divine melodie, che un tempo erano il nostro colloquio d'amore… Tutta l'anima mia era piena di lui!

»Puoi immaginare, Eugenio, di qual'occhio io mirassi gli eleganti giovanotti che frequentavano le nostre sale; come io accogliessi le banali galanterie e i facili omaggi!

»In quel tempo il marchese D… mi fu presentato.

—Povero marchese! Nobile, eccellente creatura!—Vera pasta da marito.—Egli prese a corteggiarmi con assiduità;—vedendosi il meglio accolto di quanti mi ronzavano intorno con pretesa di conquista, egli fu primo ad illudersi.—Più tardi ebbi anch'io la sventura di dividere quella fatale illusione! In un momento di esaltazione magnetica, il mio labbro promise… E il marchese divenne il primo anello di una lunga catena di mistificazioni, delle quali entrambi fummo vittime.

»Egli suonava il flauto… come Adolfo.—In udire quei suoni, credetti che un nuovo amore si rivelasse all'anima mia—invece era un flauto che rinfocava un amore antico!

A questo punto la marchesa mi vibrò di sbieco una occhiata diffidente, come temesse di sorprendere un sorriso di ironia. L'espressione del mio volto parve rassicurarla, ond'ella ripigliò con coraggio:

»Qual disinganno per l'orgoglio e la fatuità degli uomini, se la donna fosse meno abile nel dissimulare le ragioni dei suoi trasporti! Fortunatamente gli uomini non possono leggerci nel cuore! e noi medesime prendiamo talvolta degli equivoci molto strani sul nostro proprio conto!

»Il marchese era un distinto dilettante di flauto… Ecco il segreto della effimera simpatia!

»Io lo accompagnava col pianoforte…senza volgere il capo… I suoni mi beavano l'orecchio—lo strumento qualche volta mi sfiorava la pelle—un tremito mi scuoteva le fibre—tutti i miei sensi, aspiravano la voluttà di un amplesso desiderato.

»Una sera, mentre il marchese preludiava sul flauto diversi temi di Bellini, mia madre mi condusse in un gabinetto attiguo alla sala—mi fece sedere sovra un divano, e accarezzandomi con insolita tenerezza, mi annunziò, che il marchese le aveva chiesto formalmente la mia mano. Dal volto, dalle parole di mia madre, dalla eloquenza ch'ella impiegava per prevenirmi favorevolmente, compresi che un mio rifiuto l'avrebbe grandemente rattristata.—Il marchese era un eccellente partito!

»Io non osava rispondere—la mia agitazione e le mie lagrime rivelavano chiaro la mia avversione al matrimonio. Le esortazioni, i consigli, le preghiere di quell'ottima donna non avevano forza sul mio cuore… L'anima mia era tutta assorta in Adolfo, nell'uomo, cui la mia fede era vincolata in un segreto patto d'amore. E mentre mia madre tentava sedurmi colle promesse di un avvenire beato, io vaneggiava colle illusioni, io colmava quell'eliso di delizie, collocando il mio Adolfo al posto del marchese—mi perdeva voluttuosamente in quella vita ideale, che egli solo—il mio Adolfo—avrebbe potuto realizzare.

»Io era assorta in quell'estasi divina, allorquando dalla prossima sala si partirono le note di una melodia inebbriante, che da gran tempo io non aveva più udita!—Quel suono diede l'ultima scossa alla mia sensibilità, mia madre e il marchese trionfarono della povera affascinata—ed io dentro una nebbia profumata, deviai dal sentiero prefisso.

»Il marchese suonava l'aria del meco tu vieni—quell'aria, che era stata l'ultima espressione di amore e di piacere nelle braccia di Adolfo. Mia madre, interpretando a suo modo la mia commozione, insisteva per ottenere da me una formale risposta. Il sì tremendo mi uscì dal labbro… Ella uscì precipitosa per recarlo al marchese… Fatalità della vita!… Io aveva promesso ad Adolfo: e il marchese raccolse la fatale promessa…

»Due mesi dopo io mi chiamava la marchesa D…

La vecchia dama fece una pausa, aspettando una obbjezione. Io volli compiacerla:

—Perdonate, marchesa: io trovo un punto di inverosimiglianza nel vostro racconto… Se il consenso non era, come voi dite, che una espansione involontaria dell'anima in delirio, come avvenne che non abbiate più tardi rivocata la vostra parola, anzichè sacrificare i vostri nobili e santi affetti, ingannando un dabben'uomo, che pure aveva tutto il diritto alla vostra schiettezza?

La marchesa parve alquanto sconcertata, ma riprese bentosto:

—Era tanto felice mia madre!… Era tanto innamorato quel povero marchese!… Ed io era…timida tanto a quei tempi, e tanto devota a mia madre!… La tua frase non poteva essere più esatta quando dicesti, che io ho sacrificato i miei nobili affetti!… Non lo doveva io forse, trattandosi della sola creatura che io amava al mondo, della ottima madre mia?—In chiesa, dinanzi all'altare…quando il sacerdote mi volse la terribile domanda, alla quale io non poteva rispondere senza mentire, ti confesso che fui sul punto di levarmi, strapparmi dal capo il velo e la corona, e proclamare alla presenza di Dio e degli uomini che io non dovea…non poteva amare che…Adolfo!—La presenza di mia madre, la paura dello scandalo, ed anche…—vedi se, il mio cuore era buono!—il pensiero di addolorare e coprir di ridicolo un uomo che sinceramente mi amava, paralizzò quell'impeto di passione, e il sì irrevocabile fu proferito!… Eugenio, tu non puoi ideare quanto costi ad una misera donna il doversi prestare ai trasporti di uno sposo… giovane… ardente… impetuoso!… La mia virtù mi sostenne… Il matrimonio dava al marchese dei diritti, e mi imponeva dei doveri…io ebbi l'eroismo del sacrifizio—mi sottomisi!

»Che ti pare, Eugenio, della mia abnegazione, del mio coraggio?…

—Vi trovo sublime!… continuate!…

E presi l'atteggiamento del credenzone stupefatto.

CAPITOLO III.

«Il mio amore per Adolfo era un segreto fra me e Dio… proseguì la imperturbabile donna—ma desso non mi fece dimenticare che fra me ed il marchese era seguito un atto pubblico e solenne—ed io promisi rispettarlo, e corrispondere all'affetto di mio marito con una fedeltà irriprovevole!…

»Sa Iddio se quel voto era sincero!… Giuro per quanto vi ha di più sacro sulla terra, per la memoria di Adolfo, per le ceneri della mia dilettissima madre, che, per circa due mesi, nessun uomo, fuori di mio marito, potè vantarsi di avermi toccata una mano…

—Caspita!… due mesi di fedeltà!… Permettete, marchesa, che io vi esprima la mia ammirazione!…

—L'ironia è fuori di proposito, Eugenio! Noi ci avviciniamo all'episodio culminante, nel quale si racchiude la spiegazione di tutta la mia vita…

»Il marchese non ebbe che un solo rivale—il fantasma di Adolfo.—Qual colpa ebbi io mai, fragile creatura, se il destino mi pose al fianco un marito, il quale non cessò mai, finchè visse, di evocare in proprio danno una larva irresistibile? Io non ho mai ceduto alle insistenze dei miei adoratori, se non quando essi vennero a me colle sembianze di Adolfo—presentati, condotti, introdotti dal flauto di mio marito!—E dire che quel povero dabben uomo sceglieva sempre, per soffiare nel flauto, i momenti più pericolosi…alla sua sicurezza coniugale!

»Due mesi erano trascorsi dalle nostre nozze. Eravamo alla campagna, in un magnifico casino a poca distanza da Varese. Un amico di mio marito, il conte Smilza, venne a trovarci—mio marito lo pregò di rimanere con noi qualche giorno. A quell'epoca tutto il mondo fu scandolezzato della avventura.—La mia relazione col giovane conte fu, pei due mesi di autunno, il pascolo più ghiotto della malignità villeggiante… Tutte le apparenze mi accusavano. Qual altri fuori di me, avrebbe potuto sapere, che il solo, il vero colpevole di quella sciagurata avventura, era… il flauto di mio marito?

»Il conte Smilza era ciò che nel mondo elegante suol chiamarsi un bel giovane—vale a dire: una figura simetrica e suscettibile di quella distinzione artifiziale, che i ricchi possono procacciarsi a buon prezzo dal sartore e dal parrucchiere!

»Io non comprendo come alcune donne possano innamorarsi per la semplice attrazione della bellezza fisica. Le doti personali del conte non avrebbero prodotto nell'animo mio veruna impressione, se non avessi riscontrato nel di lui volto qualche rapporto di somiglianza con un tipo adorato… Il conte Smilza aveva le sopraciglia, il naso e i mustacchi di Adolfo!… Tanto bastò, perchè in vederlo la prima volta, io provassi una viva commozione. I miei occhi si fermarono a contemplarlo con simpatia… Sentii una leggiera vampa di rossore salirmi alle guancie—e il contino, illudendosi sulle cause del mio turbamento, si credette in obbligo di farmi la corte…

»Ferma ne' miei propositi di onestà, io mi studiava di evitarlo, di imporgli soggezione col mio freddo contegno—sopratutto io sfuggiva tutte le occasioni di trovarmi sola con lui. Lo scellerato poneva altrettanta costanza nel perseguitarmi! Per lui il progetto di conquista, in pochi giorni, era divenuto passione, amore irresistibile… Mio marito, il buon uomo!…favoriva tutti i piani strategici dell'ospite amico…»

»Due settimane trascorsero senza gravi conseguenze… Qualche volta, per simpatia di ricordanze, i miei sguardi indugiavano troppo espressivi sulle sembianze del conte. Egli ringalluzziva…prendeva coraggio—ma tosto la mia indifferenza e la mia austerità gli imponevano nuovo freno. Non aveva egli ragione di trovare inesplicabile la mia condotta?

»Le apparenze erano tali, ch'egli poteva crederne una civettuola capricciosa ed altera, il tipo di quelle donne di marmo, che si piacciono di veder liquefare gli amanti!

»Io aveva già provata la mia virtù negli intimi e solitari colloqui, ed ero uscita vittoriosa. Mi tenevo sicura di me stessa, forte a qualunque attacco. Da ultimo mi abbandonai improvvidamente al pericolo, non sospettando, che il poco formidabile adoratore dovesse avere quandochessia un alleato irresistibile…onnipotente—il flauto di mio marito…

»Sull'imbrunire di una tepida giornata, il conte mi offerse il suo braccio per accompagnarmi ad una passeggiata in giardino. Mi opposi dapprima, quasi presaga del pericolo—poi cedetti alle insistenze di mio marito, che promise raggiungerci.—Il marchese era predestinato!—Obbedii… Scendemmo in giardino… percorremmo un lungo viale… ci internammo in una specie di labirinto… alla fine, ci trovammo assisi sovra un banco di pietre circondato di mirti.—Sul nostro capo un padiglione di fiori—sotto il piede un tappeto di muschio e di limo selvaggio…

»Il conte non aveva proferito parola durante la passeggiata e—frattanto la mia mente fantastica si era smarrita nel prediletto sentiero delle rimembranze… Io dimenticava di aver al fianco un nemico, un cospiratore, il quale spiava il buon momento per aprirsi una breccia nella mia virtù!… Troppo tardi me ne sovenni, quando, seduti nel misterioso boschetto, il conte prese la mia mano, la portò con violenza alle labbra, e gettandosi alle mie ginocchia…

»Egli tentò un assalto da vero maestro—senza proferire parola—con quella audacia, che è propria delle grandi passioni.

»Feci uno sforzo per respingerlo… per levarmi in piedi—ma in quel punto un suono fatale… giunse al mio orecchio… mi turbò i sensi… mi paralizzò le forze… ed io rimasi soggiogata dal fascino melodioso… Mio marito, da una finestra del casino, salutava il sorgere della luna cornuta, intuonando sul flauto l'aria del meco tu vieni!»

La marchesa interruppe il racconto con un sorriso un po' equivoco, quasi a lasciarmi dubitare ch'ella parlasse per celia. La ipocrisia ebbe un lampo di pudore, ed io seppi frenarmi, e contrapporle la dissimulazione più perfetta.

CAPITOLO IV.

«Questa prima infedeltà coniugale—proseguì la marchesa—e colla parola riprese tutta la serietà di chi confida nella altrui dabbenaggine—questa prima infedeltà spiega tutte le altre, anzi le giustifica tutte.—Io non intendo narrarti i cento episodii di questo dramma, che durò ventidue anni, fino alla morte del marchese. Le sembianze di Adolfo e il flauto di mio marito non cessarono mai dal perseguitarmi. Gli uomini, sempre ingrati e crudeli colla donna che si abbandona, anche involontariamente, alle loro seduzioni, dopo aver profittato dei miei deliqui, mi carpirono nuovi favori colla minaccia dello scandalo. Quante volte io dovetti sacrificarmi alla pace di mio marito, al decoro della famiglia, ai pregiudizii del mondo!… Quante volte, rialzandomi da una fatale caduta, io mi trovai in potere di un despota appassionato, il quale usufruttando i miei terrori, non si vergognò di impormi il sacrifizio della mia virtù, a patto di mantenere il segreto! E credi tu, Eugenio, che io sia riuscita a salvarmi dalla pubblica maldicenza? La più parte de' miei fatui adoratori violò ignobilmente la promessa: io fui disonorata, infamata dalla calunnia, quale una Messalina! Manco male che le accuse vigliacche non giunsero all'orecchio di mio marito… Il buon uomo portò nella tomba la miglior opinione della mia onestà, come avviene ordinariamente a tutti i buoni mariti!

»Ed ora—esclamò sospirando la marchesa—la mia confessione è finita… Tu sai come io abbia molto amato un sol uomo… Vediamo se il tuo giudizio vuol essere inesorabile come quello del mondo!…»

—No! la vostra confessione non è finita, risposi dopo breve silenzio. Voi mi parlaste della vostra vita coniugale—e quand'anche io fossi tanto buono da ammettere il flauto di vostro marito come circostanza mitigante, vi resterebbero ancora non poche debolezze da giustificare—quelle che appartengono alla vedovanza. Il flauto magnetico avea già cessato di suonare, allorquando, or fanno pochi anni, in una sola giornata…

—Vedo… vedo… a che si riferiscono le nuove accuse, interruppe la marchesa con qualche imbarazzo.—Tu alludi alla battaglia di Magenta…all'ingresso delle truppe alleate!… Io aveva dimenticato che quella istoria si è fatta di ragione pubblica, per l'indiscrezione di uno sciaguratissimo turcos, il quale osò pretendere… l'impossibile!

»Poichè mi ricordi quell'episodio, ti dirò che esso non ha nulla a fare colla mia vita, co' miei sentimenti, colle mie passioni di donna. A quell'epoca io aveva già cessato di appartenere ad un sesso…

»Dopo la morte di mio marito—cessati gli eccitamenti quotidiani del flauto—disingannata dalla società—insterilita da una sequela di sfortunate emergenze—nel mio cuore si spensero le ultime faville della sensibilità.—Perfino la imagine di Adolfo cominciò a presentarsi sbiadita nelle mie ricordanze!

»Una crisi terribile è questa nella esistenza della donna, quando in lei inaridiscono i più nobili affetti!… Molte sconsigliate, a questa epoca della vita, trabordano in ridicole civetterie; talune si danno al giuoco, altre a tiranneggiare la gioventù, a tormentare la famiglia col pretesto di educare; moltissime si consacrano alla devozione, offrendo ai preti un logoro avanzo, e a Dio il rifiuto dei preti!

»Meglio ispirata, io mi infervorai di patriottismo, e presi parte alle agitazioni politiche del momento.

»Era giorno di festa per Milano… I Tedeschi scappavano a rompicollo… entravano i Francesi, i Piemontesi, i nostri!…. inebbriata di entusiasmo, apersi la mia casa ai liberatori, e il primo dei miei ospiti—uno zuavo, tutto ancor polveroso e schiumoso per le fatiche della marcia—non mi lasciò tempo da esprimergli la mia riconoscenza, e fece un assalto di sorpresa, che, per mia sbadataggine….gli riusciva a meraviglia. Che poteva io, debole donna, contro un espugnatore di Malakoff? Da qualche tempo non ero più abituata a simili assalti…nè avrei osato sperare….cioè….temere, che per me sussistessero ancora di tali pericoli!

»Or vedi fatalità!—Un bersagliere piemontese…si accorse, od ebbe sospetto, della buona fortuna toccata allo zuavo, e il giorno istesso mi fece delle proposte, che la mia virtù non poteva a meno di respingere fieramente.—«Oh!…sta bene!…esclamò il bersagliere con accento desolato: tutto pei Francesi… e niente per noi… Quale disgrazia chiamarsi soldati italiani!…

»Quelle parole mi trafissero l'anima;—io compresi che il povero figliuolo si teneva umiliato dalle mie ripulse… Era offeso dalla preferenza accordata allo zuavo… Mi credette avversa al Piemonte… Era mio dovere disingannarlo—e lo feci con tutto il cuore.

»Una scena poco dissimile mi accadde più tardi con un povero soldato di linea, il quale parimenti si lagnava che in grazia della uniforme più elegante e bizzarra, i bersaglieri venivano di preferenza festeggiati. Quel ragazzo mi fece pietà; volli consolarlo… E se io non mi fossi ribellata al quarto pretendente—un turcos dall'aspetto terribile—avrei forse evitato una rissa fra soldati, nella quale il mio patriottismo fu rivelato ed esposto agli ignobili commenti de' miei concittadini!… Non importa! Io perdono ai giornalisti la indegna interpretazione di quel fatto. Ho agito per patriottismo, e col massimo disinteresse… La mia coscienza è tranquilla.

»Or bene, Eugenio; posso io sperare che tu mi abbia compresa?…

CAPITOLO V.

—Sì: vi ho compresa perfettamente, risposi con qualche vivacità—forse meglio che voi non comprendiate voi stessa.

»Io non vi accuserò di ipocrisia… Qual'è la donna tanto abbrutita nel vizio, che, alla sua volta, non sappia creare un sublime sofisma per coonestare la propria condotta?—Ciò è nella stessa natura del sesso—e voi, marchesa, oltre all'esser donna, appartenete ad una classe sociale, dove suoi farsi uno inverecondo abuso di cotali sofismi.

»Io mi guarderò bene dal turbare la vostra coscienza con degli scrupoli inopportuni. Solo mi permetterò di farvi notare, come vi siate stranamente ingannata sulla origine dei vostri traviamenti…

»All'età di sedici anni, la prima volta che vi trovaste da sola a solo con un suonatore di flauto, voi soccombeste senza il menomo sforzo di resistenza… Credeste in quel giorno innamorarvi di un uomo, ed oggi ancora vi sembra di aver amato un uomo per tutta la vita. Ecco l'errore!… Voi vi innamoraste di un flauto, e non siete vissuta che per il flauto…

—Di mio marito?

—Perdonate, marchesa.—io parlo di flauto in genere… E credo che la più parte delle donne prendano lo stesso errore…

La marchesa ascoltava senza dar segno di irritazione—da ultimo sorrise maliziosamente, e pareva sul punto di dichiararsi convinta…quando un suonatore girovago passò sotto le finestre, e si fece a soffiare nel flauto quattro note stonate.

La marchesa ritorse gli occhi, e lasciò cadere lo braccia con significante abbandono—onde io, vedendo a che mirasse lo stratagemma, anzichè espormi a qualche imbarazzo, prevenni lo svenimento e uscii dalla sala.

Confessione generale d'un Critico

Gravi considerazioni m'inducono ad abbandonare per sempre il campo della critica.

Una quindicenne esperienza mi ha insegnato che la critica a nulla giova, o giova soltanto a coloro, i quali la convertono nel più vigliacco dei mestieri, smerciando la lode ed il biasimo a prezzo di tariffa.

Critico letterario non è ordinariamente che uno scrittore da poco, negletto dal pubblico e dagli editori, inetto a produrre delle opere attraenti, epperò nemico giurato di chi riesce collo ingegno, collo studio e colla operosità, a crearsi una posizione onorevole.

Critico musicale è quasi sempre un musicista abortito, il quale, dopo aver pubblicato una dozzina di polke pel consumo dei salumieri od aver fatta rappresentare un'opera altrettanto elaborata che stucchevole, si erige a maestro dei maestri, spacciando nei giornali le futili teorie che sono, per gli ingegni impotenti, un soprapeso di zavorra.

Critico d'arte è sovente un pittore reietto dalle Accademie e obliato dai Committenti, i cui quadri si vendono sulle pubbliche aste e passano dall'uno all'altro rigattiere per intercessione della cornice.

Il mestiere del critico ha poi un lato umiliante.—Non avvi idiota, non avvi cretino, il quale non sia in grado, dal più al meno peggio, di esercitarlo. È facile stampare in un quadrato di carta: «Manzoni è un gramo poeta, Verdi fa della musica mediocre, Vela è uno scultore grottesco.» Ma è difficile assai scrivere il Cinque Maggio, fare un'opera come il Rigoletto e trarre dal marmo uno Spartaco.

I critici hanno comune coi somari questo melanconico istinto che, all'apparire di un insolito bagliore, si danno a ragliare tutti in massa. Un tale fenomeno può essere constatato da chiunque si dia la pena di studiare siffatti animali nelle loro espansioni intermittenti.

Quando io sento elevarsi dalla terra un intollerabile frastuono di voci asinesche, l'anima mia si apre alla gioia come all'annunzio di faustissimo evento. Quella gagliarda sinfonia di stromenti unissoni, mi avverte che sull'orizzonte della letteratura o dell'arte è sorto un novello astro.

Ma, via! non imperversiamo sugli altri—non aggraviamo la mano sugli antichi colleghi, sui nostri fratelli di ieri. Fui critico anch'io—anch'io ho peccato grandemente; anch'io ho fornicato, ho mentito, ho truffato…. Il pentimento e il rimorso non cancellano la colpa—ben altra espiazione si esige.

—Venite qua—e a voi più direttamente mi volgo, o amici sconosciuti, i quali per tanti anni aveste la bontà di rappresentare, dinanzi alle mie critiche più o meno bestiali, più o meno assurde e colpevoli, la parte di pubblico. È a voi che io dedico questa mia confessione generale; confessione sincera ed integra quant'altra mai, perchè fatta sotto l'intimazione di quel prete terribile che si chiama il rimorso, al cospetto di quel Dio esploratore delle reni e dei lombi, che si chiama la coscienza.

Una confessione generale! Sapete voi che gli è un affare assai grave!… Buon per me che, a compiere questo grande atto di espiazione, non ho atteso i singulti dell'agonia….

Io mi trovo, laddiograzia, sano di corpo e di mente; le stoltezze e le nequizie della mia gioventù mi sfilano dinanzi agli occhi come una schiera di camelli o di paperi….

Come si fa a coordinare queste tumultuose reminiscenze, a ricostruire questo passato pieno di errori e di perfidie, in guisa che la coscienza non abbia più tardi a rinfacciarmi delle ommissioni?—Lo ripeto: è un affare assai grave.

Sulle prime, m'era venuto in pensiero di riprodurre e di confutare con eroica abnegazione tutte le enormità da me stampate in quindici anni di vita giornalistica.—Ohimè! Come rileggere duemila e centosessantadue articoli, sperperati in varî giornali, e oggimai inghiottiti per la massima parte da quei tubi assorbenti, ove lo spirito umano, già tradotto in materia mercè l'inchiostro e la carta, subisce l'ultima, forse la più utile decomposizione, diventando concime?

E tante altre maniere di confessione mi erano passate per la testa….

Ohimè!—La confessione ripugna all'orgoglio umano—nè alcuno farà meraviglia ch'io mi sia data la pena di tradurla in una forma, la quale fosse atta ad esprimere il vero, senza troppo pregiudicarmi nell'opinione del mondo.

Vediamo se ci riesco.

Io mi farò ad esprimere colla più scrupolosa sincerità le impressioni da me raccolte nel campo della letteratura e dell'arte; dichiarerò i miei veri e spontanei apprezzamenti su tutto ciò che ho veduto, o letto, o ascoltato, o meditato nel corso della intera mia vita. La mia confessione sarà una rettifica ed una ammenda, ma io non avrò da arrossire che in faccia a quei soli, i quali vorranno darsi la noia di raffrontare le menzogne dell'antico peccatore colle schiette manifestazioni del critico ravveduto.

*

Entriamo innanzi tutto nel campo della letteratura.

Fatta astrazione da Omero, che io lessi più volte con immenso diletto e pel quale professo la più sentita ammirazione, debbo confessare che il mio entusiasmo per i poeti dell'antica Grecia non salì mai a quel grado di elevazione ch'io lasciai supporre a' miei creduli ascoltatori.

Nella sonante e robusta versione di Felice Belletti ho comprese e gustate le tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Il secondo mi piacque di preferenza; ma allorquando, per far pompa di classica erudizione, ebbi a citare alcuni brani del Filottete, mentii ignobilmente a me stesso ed al pubblico, asserendo che quella tragedia mi aveva commosso alle lagrime.—Ci vuol del coraggio, miei cari, a rettificare quella vile menzogna e a proclamare che alcune tirate del più patetico, del più appassionato dramma del teatro greco, provocarono in me una ilarità irresistibile!

Quante volte mi è uscito dalla penna: l'inimitabile, l'insuperato Aristofane! Quante volte, ricordando quel grossolano e sguaiato motteggiatore, ebbi anch'io l'impudenza di chiamarlo argutissimo e festevolissimo! Aveva io dimenticato che la più parte de' suoi personaggi si permettono ad ogni tratto di ruttare plebeamente alla barba degli spettatori, quando non scendano in piazza a recitare un turpe monologo, facendo le loro occorrenze?… E questo era l'attico sale, di cui ho parlato così spesso nelle mie enfatiche digressioni sulla greca letteratura!…

Se ora vi dicessi francamente che mai non ho potuto reggere alla lettura di una intera ode di Pindaro; che le veneri di Anacreonte mi parvero il più delle volte scipite; come potrete voi perdonarmi di avere, a dispetto dei moderni poeti, simulato una quasi-adorazione per uno stucchevole ineggiatore di circensi, per un elegante ma monotono cantore di Batilli?

Ma io ho spinto più oltre la rettorica menzognera. Ho espresso degli entusiasmi per le statue di Fidia e di Prassitele… ho arso il mio granello di incenso al genio di Zeusi e di Apelle… Li avete visti mai, questi insigni capolavori dello scalpello e della tavolozza degli artisti greci? Nè anche in sogno.—Come avvenne che sì spesso li abbiate ricordati ed ammirati con tanto entusiasmo?—Polvere pei gonzi.

Passiamo ai poeti ed ai prosatori del Lazio.

Non è più tempo che io vi dissimuli la mia predilezione per Catullo e per Ovidio, sebbene, ogniqualvolta mi occorse fare delle citazioni, dalla mia penna sgorgassero di preferenza i nomi di Virgilio e di Orazio.

Virgilio è in gran credito presso i puristi; Orazio è più elevato ed astruso. Conveniva dunque, a riguardo del primo, secondare l'opinione pubblica, ed attestare, facendo l'apoteosi del secondo, un alto grado di comprensività, dal quale i miei buoni lettori sarebbero rimasti intontiti.

Orazio!—Quand'uno proferisce un tal nome con una certa solennità, è sicuro di ottenere il suo effetto.—Un critico che capisce, che gusta, che all'uopo sa commentare questo famigerato applicatore di epiteti, ottiene legalmente il diploma di erudito.

E non è forse l'Arte poetica, ricostruita da colui sulle tradizioni di Aristotile, che servì per tanti secoli e serve tuttora di cronometro agli inesorabili pedanti della letteratura e della critica?

È ben vero che nessuno ha mai capito, per esempio, quali alte ragioni di estetica impongano che la tragedia debba dividersi in cinque atti piuttosto che in quattro; ma un critico che si rispetta e che vuol farsi rispettare, avrà sempre buon giuoco in faccia ai suoi lettori ogni qual volta, coll'autorità di Aristotile e di Orazio, coopererà all'immobilizzazione di un pregiudizio.

Ciò che mi ha fatto stupire e quasi rabbrividire percorrendo i classici di ogni nazione, fu l'immoralità delle favole che essi svolsero in poemi drammatici, nonchè le triviali oscenità di che riboccano le loro commedie, le satire, gli epigrammi, le novelle. E nondimeno io pure mi sono unito al coro dei nostri critici-tartufi, per deplorare gli scandali della moderna letteratura, per ripetere che il dramma odierno è una scuola di corruzione, che il romanzo dell'epoca nostra rappresenta l'abbominio.

Così avvenne che, dopo aver applaudito senza riserva agli amori incestuosi di Fedra e di Mirra, alle orrende vendette di Medea, agli adulterii di Clitennestra, a quella sequela di tragiche inverecondie per cui si rese proverbiale la famiglia di Tieste, ho finto scandolezzarmi pei ravvedimenti di una Camelia innamorata, ed ostentai una grinza di pudore violato nell'assistere alle peripezie maritali del povero Clémenceau.

Perdonate, o giovani autori, perdonate alla mia ipocrisia!—Io non produrrò la circostanza attenuante dell'esser nato nel più ipocrita dei secoli; e non vi farò notare, a mia discolpa, che l'ipocrisia viene oggimai considerata, fra gli scrittori da gazzette, una figura rettorica;—ma farò degna ammenda delle mie ingiuste e stolide invettive, protestando che nessuno dei moderni drammaturghi ardirebbe oggi presentare sulla scena una figlia innamorata del proprio padre; come nessun poeta bernesco oserebbe segnare col proprio nome degli epigrammi sconci e indecentissimi come quelli di Marziale.

Non esigerete che io ripercorra tutta la biblioteca dei classici per mostrarvi quante volte ho mentito degli entusiasmi per autori non letti, o letti sbadigliando.—Forse meno che altri miei colleghi ho abusato del gran nome di Dante Alighieri. Pure, non debbo tacervi che, mentre ebbi la costanza d'imparare a memoria tutta la cantica dell'Inferno e di rileggere quattro volte il Purgatorio, non mi tengo ben certo di aver toccato la fine del Paradiso. Voi mi perdonerete, o lettori, se trattandosi di un poeta che ottenne onori divini, io dovetti posare da enfatico ammiratore di lui, fino al punto di dichiarare che ciascuna delle sue terzine è un vasto poema, che tutti i suoi versi meriterebbero di esser stampati in lettere d'oro, compreso anche:

«Ed egli avea del cul fatto trombetta.»

Queste iperboli mi valsero la stima di parecchi dotti, ai quali ero sempre apparso un dappoco.

Ne' miei giudizi sui quattro illustri poeti che più si onorano in Italia, ho vilmente mentito affermando di prediligere il cantore di Madonna Laura, mentre in realtà le mie più vive simpatie erano per l'Ariosto. Non ho mai potuto leggere tutte di seguito quattro pagine del Canzoniere, e nondimeno ho osato stampare che i versi del Petrarca, compreso anche:

Fior, fronde, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi

danno una melodia di paradiso.

Se un poeta moderno commettesse una si orribile cacofonia di elisioni, verrebbe lapidato.

Dopo ciò, ognun si avvede che anch'io ho seguito, rispetto ai celebri autori dell'antichità, quell'iniquo sistema di menzogna che giova meravigliosamente a deprimere i contemporanei ed a perpetuare il pregiudizio.

Io però non mi accuso di aver troppo abusato della denigrazione nel giudicare i moderni. Rispetto a questi, i miei torti consistono piuttosto in una inconsiderata sovrabbondanza di encomî e di incoraggiamenti.

Non vi tedierò coll'enumerazione de' miei falsi apprezzamenti. Vi dirò solo (e da ciò potrete argomentare il numero e la gravità delle mie colpe) che la più parte dei libri moderni io li ho lodati senza leggerli.—Il delitto non è grave, dirà taluno; non foss'altro, questa maniera di critica incoraggia gli autori e favorisce il commercio librario. Disingannatevi. Gli è con questo sistema che noi abbiamo indotta la diffidenza nel pubblico e ottenuto il miserando vantaggio che molti buoni libri si smercino a peso di stadera.

Ed io pure ho gridato all'unisono coi più gagliardi mistificatori del giornalismo, che l'Italia ha nulla da invidiare alle altre nazioni in fatto di coltura letteraria. E mentre nel periodo di circa vent'anni il paese nostro non ha prodotto che una dozzina di romanzi tollerabili, quattro o cinque volumi di liriche meglio che mediocri, e una dozzina fra drammi e commedie appena degni di plauso, ebbi la sfrontatezza di sostenere che la Francia, l'Inghilterra e la Germania non producono, al nostro confronto, che aborti mostruosi.—Questo linguaggio spavaldo mi valse naturalmente la simpatia e l'ammirazione degli idioti, che costituiscono la maggioranza della nazione.

Gran ventura per me che nessuno mi abbia chiamato al redde rationem. Figuratevi il mio imbarazzo, se un Francese od un Inglese mi avessero imposto di appoggiare la mia asserzione con dati statistici!

Eppure, quanto era facile il cogliermi in contraddizione!—Non ho io ricordato con ammirazione, nelle mie riviste critiche, parecchie centinaia di romanzi stranieri che appena pubblicati invasero le nostre biblioteche, i nostri gabinetti di lettura, i nostri salotti, le nostre camere da letto, obbligandoci a vegliare le lunghe notti nelle illusioni di un mondo ideale e fantastico? Balzac, i due Dumas, Eugenio Sue, Giorgio Sand, Alfonso Karr, Victor Hugo, Gauthier, Dikens, Féval…. Quanti nomi di romanzieri, di drammaturgi, di poeti, i cui volumi a mala pena si conterrebbero nel vasto salotto dove io sto scrivendo!

Più di cento produzioni drammatiche che (e dico poco) scesero dalle Alpi in questo breve periodo di tempo a fanatizzare le nostre platee. Per tutte ebbi parole di ammirazione entusiastica; e questa ammirazione, più che un risultato della analisi, era il riflesso delle impressioni immediate. Ma ciò non ha impedito che in ogni mia rassegna teatrale io mi sia permesso di ripetere il sempre applaudito ritornello delle melensaggini e delle mostruosità d'oltremonte.

Volete di peggio? Convien dir tutto, in mia confessione generale. Avvi un ramo dell'arte, dove infino a ieri l'Italia non aveva abdicato alla sua nobile supremazia. Questo ramo d'arte è la musica. E nondimeno in molti casi anch'io mi lasciai sorprendere da una codarda esitanza, quando mi avvenne di citare i nomi tanto giustamente famosi, ma pur tanto nostrani, di Rossini, di Donizetti, di Bellini, di Verdi.—Come si fa a passare per eruditi senza un po' di Chopin, un po' di Spohr, un po' di Schumann, un po' di Berlioz, un po' di Wagner e un'altra decina, per sovracarico, di nomi impronunziabili?

Mentre confesso di aver rinnegato il mio nazionale orgoglio per la vanità di conquistare il mio posto fra i critici d'alta levatura, mi pento e mi dolgo del mio peccato e ne chieggo perdono al buon pubblico.

Non ho il rimorso di aver ecceduto di indulgenza verso quei duecento maestri poco celebri, le cui opere mi avvenne di giudicare nella mia breve carriera di critico. Qualche volta ho però abusato delle perifrasi mitiganti. A taluni, a molti forse, conveniva dire francamente: rinunziate al teatro e datevi a comporre dei Kyrie! In ogni modo, la mia severità mi procacciò dei seri rabbuffi da parte di alcuni colleghi. Naturalmente, ne seguirono delle polemiche; ma siccome io non ebbi mai il coraggio di dire a' miei avversarî: «Tu hai rubato l'orologio al direttore del tuo giornale» ovvero: «io so che tua sorella fu veduta uscire da una casa di tolleranza;» così le mie polemiche non ebbero conseguenze, e le duecento opere caddero nell'oblìo.

Questa mia maniera troppo blanda di trattare la polemica non dà certo una idea molto edificante del mio carattere, e qualcuno scorgerà in essa la vera ragione per la quale io diserto innanzi tempo dall'esercito dei critici. Uno scrittore che non sa dire al suo avversario: Tu sei un ladro e tuo padre faceva la spia, non può esser degno di sedere nel consorzio giornalistico.

Ho preso una parte abbastanza vivace nella lotta che oggi si combatte fra i musicisti del passato e i musicisti dell'avvenire. Ebbi torto. In una questione che i posteri soltanto potranno sciogliere, i critici del presente fanno la figura dell'imbecille.

Sarei troppo lungo se volessi enumerare tutte le adulazioni e le bassezze di che mi resi colpevole parlando di cantanti, di comici, di ballerini, di mimi e di istrioni di ogni genere. Ho dato del celeberrimo a più di trecento tenori, dell'insuperabile a più di quattrocento donne, dell'inarrivabile a più di seicento baritoni; ho chiamato silfidi e figlie dell'aria, delle ballerine che pesavano cento chili, ed ho gratificato del titolo di professori dei suonatori di piffero, dei raschiatori di contrabasso, dei martellatori di gran cassa….

Eppure, a pensarci una intera giornata, fra i molti da me uditi e portati al quinto cielo dai miei encomî, riuscirei difficilmente a mettere assieme cinque nomi di tenori, dieci nomi di prime donne, quattro nomi di baritoni, ai quali competesse il titolo di artisti perfetti.

E quante volte, encomiando dei cantanti, ebbi ricorso al confronto di Rubini, di Filippo Galli, di Lablache, della Pasta, della Posaroni, del Duprez e di altri famosissimi che fecero la delizia di mio nonno!

Non ho io scritto che il tale attore ricordava nell'incesso il gran Talma? che la tale attrice riproduceva l'energia e la passione della Pelandi? I miei lettori, naturalmente, mi avran creduto decrepito. No: io non era che uno stolido mistificatore, il quale citando delle celebrità mummificate, aspirava a divenire autorevole.

Non vi dirò quante volte ho sentenziato di opere e di artisti senza avere assistito allo spettacolo e prima ancora che lo spettacolo avesse luogo; tacerò le frequenti gherminelle degli articoli preparati di lunga mano e pubblicati all'indomani di una prima rappresentazione. Tutto il mondo ha ammirato la vivacità e la copia della mia prosa estemporanea, ed oggi il mio amor proprio si risentirebbe troppo vivamente nel dover disingannare i buoni lettori.

Una sola discolpa, od almeno circostanza attenuante, mi sia lecito addurre:—Sono io stato il più tristo, il più assassino, il più vituperevole dei critici?—Oserei quasi rispondere che i più onesti non si comportano altrimenti.

Giuda Iscariota

I.

Io mi permetto di pubblicare un modesto compendio della vita di Giuda Iscariota, altro degli apostoli di Cristo, non il più esemplare per condotta morale e politica, ma forse il più interessante per la singolarità del suo carattere e per la bizzarra varietà delle sue avventure.

La biografia di Giuda Iscariota si potrebbe anche intitolare: Metodo naturale e pratico per arricchirsi e camparsela felicemente in mezzo alle crisi ed alle agitazioni politiche dei tempi più difficili. Come ognun vede, l'argomento può essere fecondo di utili applicazioni ai tempi che corrono.

Ciò premesso, entriamo in argomento.

II.

Giudaino, che più tardi assunse il nome di Iscariota, e quindi si fe' chiamare Bartolomeo Majocchi, nacque in un oscuro villaggio della Galilea, da una buona donna che negoziava di coloniali al minuto sotto l'antica Ditta Isacco Balaam e compagni. Quando il nostro Giudaino venne alla luce, la buona mamma era già vedova da quattordici mesi; e com'ella si era mostrata fino a quel giorno scrupolosamente fedele alle ceneri del marito, il cappellano gridò al miracolo, i villani credettero alla miglior fede, e un triduo solenne fu celebrato a spese del Comune.

La madre di Giuda chiamavasi Bersabea o Bersibea—nome di origine caldaica, ma abbastanza espressivo anche nella lingua nostra. Era donna di temperamento vivace, inclinata alle bibite forti, segnatamente all'assenzio di Neufchâtel, ch'ella fabbricava in segreto con una mistura di alcool, dulcamara e verde di rame.

III.

Giudaino, nel primo mese di sua vita, non dava alcun segno d'indole perversa. Qualche storico maligno pretende ch'egli poppasse il latte della grossa sua balia con avidità quasi feroce; ma questa calunnia è vittoriosamente combattuta da Giuseppe Ebreo e da altri scrittori contemporanei. La balia non lasciò alcun documento che comprovasse un'accusa tanto puerile. Commettete un assassinio a trent'anni, e i biografi, per dimostrare il vostro istinto malvagio, verranno ad asserire che avete ucciso e mangiato il vostro gemello nel grembo della madre!

L'indole di Giudaino non ebbe a manifestarsi che alcuni mesi più tardi, quando, ricondotto dalla nutrice al domicilio materno, egli diede prova di singolare ghiottoneria, immergendo la testa in un gran secchio di latte e miele, a rischio di morirvi soffocato. La buona Bersabea giunse a salvarlo estraendolo dal secchio con molta avvedutezza, e facendogli sorbire un bicchierino di melange, che il bambino trovò detestabile.

IV.

All'età di cinque anni, Giudaino fu mandato alla scuola; ma egli vi giungeva sempre in ritardo, quando il maestro aveva finita la lezione. Abbiamo sott'occhio le lettere di un suo zio bromista, dalle quali risulterebbe che lo sciagurato ragazzo perdesse il suo tempo nella strada giuocando a spannetta.

Nullameno, agli esami semestrali Giudaino ottenne il primo premio, con molto scandalo e molta indignazione dei condiscepoli più studiosi.

Più tardi si venne a sapere che il maestro si era lasciato sedurre da parecchi vasi di mostarda a lui regalati dall'allievo. È inutile avvertire che Giudaino aveva rubati quei vasi nella bottega di sua madre.

Ma il premio contestato da mille proteste ed a mille recriminazioni, mise il ragazzo a puntiglio. Giudaino, che non mancava di intelligenza, in breve tempo superò tutti i condiscepoli nello studio del greco e del latino. A sette anni egli traduceva Cicerone, e commentava Virgilio. A dodici anni sapeva fare dei versi; tanto che, venendo a passare nel villaggio il sotto-intendente di Gerusalemme e prefetto degli studi, cavaliere Ponzio Pilato, Giudaino ebbe l'incarico di complimentarlo con un'ode saffica latina.

Ponzio Pilato, che non sapeva di latino, fu oltremodo sorpreso e commosso—accorciò al professore la croce di San Maurizio, e volle che il giovane allievo lo seguisse a Gerusalemme, dove gli avrebbe accordata una piazza gratuita in un collegio di Ignorantelli.

V.

Giudaino accolse con giubilo la profferta, sebbene dovesse abbandonare nella solitudine e nel pianto la sua vecchia madre paralitica. Per consolarsi del crudele destino, alla vigilia della partenza, il fanciullo entrò nella bottega, aperse il cassetto molto gentilmente, e si imbottì le saccoccie di mutte piemontesi, moneta antichissima e alquanto sbiadita.

Ma, al posto delle mutte il buon figliuolo depose un biglietto ripieno di parole affettuose per sua madre: «Consolati, madre mia dolcissima,—diceva lo scritto—per divenir uomo completo, bisogna passare per le mani dei reverendi Ignorantelli; essi aprono la via alla fortuna ed agli onori del mondo. Mandami la tua benedizione per la posta con lettera franca, e a mezzo del cavallante qualche libbra di cioccolatte per addolcire i professori.»

VI.

Giudaino entrò nel collegio, e in breve divenne il Beniamino dei padri. Fece il corso di filosofia, applicandosi in specialità alla logica ed alla dialettica.

Imparò il giuoco della bazzica e del tresette, la dama, gli scacchi e da ultimo il tarocco;—divenne prefettone del collegio e segretario intimo del rettore, che aveva portati dal Belgio tutti i perfezionamenti della scienza umana; ma, sentendosi chiamato alla vita del secolo, un bel giorno si valse della protezione di Ponzio Pilato per riferirgli in confidenza certi segreti dello stabilimento, ch'egli conosceva meglio d'ogni altro convittore. Il collegio fu soppresso, e Giudaino in premio delle sue rivelazioni, fu elevato al grado di sotto-ispettore di polizia nell'undecimo circondario di Gerusalemme.

VII.

L'impiego fruttava poco e gli incerti divenivano molto rari, malgrado l'astuzia e la rapace antiveggenza del giovane sotto-ispettore, il quale, entrando in carriera, non avea tardato ad apprendere da' suoi superiori e colleghi il metodo più sicuro di quadruplicare le entrate, imponendo una contribuzione volontaria ai borsaiuoli ed alle donne di mal affare, a patto di chiudere uno o due occhi all'occorrenza. Ma il nostro Giudaino comprendeva i pericoli della sua falsa posizione. A quell'epoca, nella Giudea, cominciavano a manifestarsi i primi sintomi di ribellione al governo costituito. Giovanni Battista ed altri riformatori si creavano degli adepti colle prediche e colla moltiplicazione delle pagnotte. Gesù Cristo cospirava contro l'impero, e minacciava una repubblica democratica e sociale—Gli ufficiali di polizia venivano dal popolo riottoso qualificati coll'ignobile appellativo di Due e cinquanta!

VIII.

Gli uomini intelligenti prevengono i tempi, e Giuda era una mente superiore. Piuttosto che lasciarsi destituire dall'imperiale regio governo, egli si avvisò di offerire spontaneamente le sue dimissioni, ritirandosi, come egli diceva, dalla cosa pubblica. Questo nobile sacrifizio della pagnotta gli guadagnò qualche simpatia nella classe dei liberali—uomini di buona fede e di una ingenuità preadamitica fin da quei tempi.

IX.

Libero di sè medesimo, riconciliato alla parte più côlta e più rivoluzionaria della popolazione, Giuda cominciò a meditare seriamente sulla propria posizione e sul proprio avvenire.

Egli conosceva assai bene il suo tempo e l'indole immutabile del cuore umano—la semente dei padri Ignorantelli era caduta in buon terreno.

—Vediamo che s'ha a fare per riuscire prontamente! Quattro idee luminose balenarono nella mente dell'astuto pensatore:—Sposare una vecchia con una dote di cinquecentomila franchi—concorrere al posto di ragioniere, cassiere, od amministratore generale presso qualche famiglia cospicua—farsi iniziatore e presidente di una o più società filantropiche, riservandosi il diritto esclusivo di custodire e sorvegliare la cassa—tentare le sorti della politica, lanciandosi arditamente nel campo della opposizione.

X.

Pensato, fatto.—Un bel mattino l'audace avventuriere si recò dal primo sarto di Gerusalemme, certo Prandonio detto lo Scortica, e, spacciandosi barone russo e segretario intimo dello czarre, ordinò quattro tuniche nuove di crine di cavallo, sei paia di calzoni collanti, quattro gilets all'ussera, e un magnifico turbante a coda di pavone.—Il buon Prandonio, cui non pareva vero di poter servire un barone russo segretario intimo dello czarre, in meno di una settimana apprestò il sontuoso vestiario, e volle portarlo di persona all'albergo dei Blagueurs, dove Giuda aveva affittato un magnifico appartamento.

XI.

Poichè Giuda ebbe provati e riprovati gli sfarzosi abbigliamenti, si mostrò molto soddisfatto del sartore colmandolo di elogi, e promettendogli la sua alta protezione.—«Fra un anno tu servirai lo czarre e tutta la corte di Russia, e presto sarai elevato alla dignità di ciambellano, fors'anche di bascià a tre code, secondo la piega della questione d'Oriente. Frattanto dammi il conto, e ripassa fra…. un secolo.»

Prandonio fece un inchino profondo, e, nell'estasi della sua gioia, ricusò di consegnare la nota richiesta. Una tale formalità, con un personaggio di rango sì elevato, gli pareva non solamente arrogante, ma anche superflua.

XII.

Giuda si pose allo specchio, vestì gli abiti nuovi, e parve un altro uomo. Quella mattina stessa il calzolaio Mosconio depose nell'anticamera cinque paia di sandali di pelle di castoro, fiammanti di bottoni e di fibbie d'argento cristofle, poi ritirossi in punta di piedi, temendo che il russo avesse ad umiliarlo col saldo del conto.

A mezzogiorno, Giuda usciva dall'albergo trasformato completamente, sbuffando fumo d'avana negli occhi dell'albergatore e dei guatteri, che rimasero sulla porta pietrificati.

XIII.

Fece il giro della piazza, il capo rivolto al quinto piano delle case, una Guida di Gerusalemme nella mano e una immensa borsa di pelle a tracolla.

Vedendo che i borsaiuoli della città non riconoscevano in lui l'ex-ispettore di polizia, con cui molte volte avevano spartiti gli orologi ed i foulards, il nostro avventuriere prese coraggio—e, lanciandosi in una vettura da nolo, ordinò al cocchiere di dirigersi alla piazza Abimelecco, numero centoquarantatrè, alla porta della marchesa Sisara de Japhet.

XIV.

La marchesa era una donna di circa sessantacinque anni, ma l'opinione pubblica si ostinava ad attribuirgliene una dozzina di più, tanto nelle apparenze corporee ella arieggiava il decrepito. Portava una immensa parrucca di peli rossicci, aveva le dentiere rimesse, e un occhio di cristallo della fabbrica Vernet e Compagni. Ma Giuda non era uomo da badare a cotesti accessori volgari della materia. La marchesa era ricca, milionaria, a dir di taluni. Ella rappresentava per lui l'incarnazione di un ideale vagheggiato.

Nelle inserzioni a pagamento dei giornali della sera, Giuda avea letto che la vecchia marchesa aspirava di tutto cuore ad un giovane e robusto marito. Quell'avviso, molte volte riprodotto a caratteri distinti, non poteva dar luogo ad equivoci. La marchesa si qualificava: madamigella di illustre progenie, piuttosto attempata, ma sana di mente e di corpo, e dotata di cospicuo patrimonio, disposta a sposare un giovane di ragguardevole famiglia e fornito di sufficienti fortune.

XV.

Le attrattive di questo annunzio non erano abbastanza seducenti per destare una viva concorrenza fra i nobili celibatari di Gerusalemme.

Il nostro avventuriere ebbe la fortuna di presentarsi pel primo.

Immaginate la sorpresa, la commozione della illustre damigella, quando il maggiordomo venne ad annunziarle la visita del barone Iscariott de Judoff, segretario intimo dello czarre di tutte le Russie, ex-governatore di Malakoff, già ambasciatore presso la repubblica di San Marino, inviato straordinario e plenipotenziario per interim della Giudea e provincie limitrofe, eccetera, eccetera!

Gli storici e i cronisti dell'epoca ignorano i particolari di quell'abboccamento.—Giuseppe Ebreo si accontenta di accennare il fatto con una certa affettazione di verecondia, la quale darebbe luogo a molte supposizioni piuttosto canagliesche. Fatto è che le nozze si conclusero per le spiccie. Ciascuno dei contraenti avea degli speciali interessi per affrettare la cerimonia.

XVI.

Appena il nostro Giuda si riconobbe proprietario di un mezzo milione e di un logoro e vecchio carcame di marchesa, assunse immediatamente l'amministrazione del ricco patrimonio, emancipando la dolce metà da qualunque vincolo o livello coniugale. Egli mise innanzi certe sue teorie di tolleranza e di annegazione, che alla marchesa parvero di cattivo genere.

XVII.

Les salons del principe Iscariott de Judoff si apersero a splendide feste. Il cavaliere e commendatore Ponzio Pilato, allora governatore di Gerusalemme; il vice-intendente conte Caifasso, don Anna il proposto della cattedrale, e molti cavalieri di antica e recente fattura, in una parola tutta l'aristocrazia della città e dei Corpi Santi affluiva negli appartamenti del nuovo titolato.

XVIII.

Ricevimento magnifico, buffet completo, musica eccellente, libertà illimitata.—A che buono rimescolare le vecchie istorie?—Ponzio Pilato nel presentarsi al barone russo, avea chiesto più volte a sè medesimo: dove mai ho veduto altra volta quel ceffo da forca?—poi, dubitando delle proprie reminiscenze, accolse il partito di lasciar correre.

—Non ti pare ch'egli somigli perfettamente ad un questurino dell'undecimo circondario?—chiese una sera al conte marito la contessa Caifasso. Ma il vice-intendente, che a due mascelle spolpava un fagiano levato in quel punto dal buffet, lanciò alla moglie un'occhiata fulminea, e don Anna fece notare alla contessa come e qualmente il loro ospite illustre avesse il profilo dei Romanoff.

XIX.

Ma i bei giorni passarono veloci.

Il nostro barone, amministrando il patrimonio della sua dolce metà, fece le cose con tanto garbo, che al termine di sei mesi non gli restò più nulla da amministrare. La vecchia Sisara morì di crepacuore. Giuda che, fino a quel giorno, aveva saputo dissimulare in faccia alla società l'orribile dissesto delle sue finanze, dovette alla fine smascherarsi. Gli anziani della parocchia domandarono un anticipo sulle spese delle esequie—e Giuda, per mancanza assoluta di quattrini, non potè accordare alla lacrimata consorte che un funerale di terza classe, a moccoli spenti e barella scoperta.

XX.

L'aristocrazia di Gerusalemme, scandalizzata dall'avvenimento, ripudiò ipso facto il barone. Ponzio Pilato, il vice-intendente Caifasso, il proposto Anna, tutti quanti si sovvennero dell'antico questurino, e chiamandosi mistificati da un audacissimo furfante, spedirono quattro carabinieri per arrestarlo. Ma Giuda, che aveva degli amici alla Polizia, fu avvertito in tempo utile, e mentre i carabinieri perlustravano le sale interminabili del palazzo, egli usciva dalla città, e si avviava passo passo verso Cafarnao, come un borghese onesto che vada a prender aria.

XXI.

Dopo tre ore di cammino, giunse ad una casa isolata.—Picchiò—gli venne aperto. Intorno ad una lunga tavola sedevano cinque o sei pescatori, mangiando degli agoni fritti alla graticola.—Se possiamo servirla?…. disse il più anziano.—Con tutto il piacere! rispose Giuda, prendendo posto alla tavola. E in meno di due minuti divorò dieci dozzine di pesci, trangugiando le squame e le scaglie.

XXII.

—Se non m'inganno, disse Giuda respirando dal pasto—se non m'inganno questa è frutta del lago di Como!… Non ho gustato mai agoni più squisiti!…

—Questi non sono pesci di lago nè d'acqua salsa, rispose gravemente il più anziano dei pescatori—Cantate Domino canticum novum! perocchè voi foste degno di mangiare gli agoni del miracolo!

—In verità…miei buoni compagnoni… io non giungo a comprendere… Permettete che io ne assaggi un'altra dozzina… tanto da capacitarmi…

—Prendete! prendete pure—et manducate ad satietatem, quia mirabilia fecit Dominus! I cinque divennero cinquemila—e potranno diventare cinquantamila—e forse domani saranno cinquemila milioni di milioni!

XXIII.

—Cospetto! incomincio a capire! pensò Giuda, cavando di tasca un astuccio e offrendo degli zigari alla compagnia.—Quel linguaggio misterioso…. quell'enfasi…. quelle citazioni latine… Sta a vedere che io sono piombato in una loggia massonica della nuova setta! Ah!… se fossi ancora poliziotto, che bella occasione per far danaro!…. che magnifico arresto! Giuda stette alquanto silenzioso meditando il partito da prendersi.—Poi, vedendo d'aver a fare con gente di buona fede, e riflettendo agli imbarazzi della propria posizione, risolvette di arrischiare tutto per tutto, e di tentare ogni mezzo per aggregarsi alla setta.

XXIV.

Uno dei pescatori, il quale nomasi Pietro, ed era il più autorevole personaggio della brigata, parve indovinare il pensiero di Giuda, e senz'altri preamboli, lo interpellò della sua vocazione:

—Uomo di dura cervice: siete voi pronto a seguire il divin maestro?—colui che è venuto ad esaltare il povero, e ad umiliare il possidente?

—Caspita!… affare eccellente!…

—Colui che cambia l'acqua in vino?….

—Colla crittogama che c'è in giro!…. Amici miei…. contatemi pure fra i vostri!…

—Ebbene! Benedictus qui venit in nomine Domini!—concluse Pietro imponendo le mani sul capo del nuovo apostolo. Giuda lasciò fare, e picchiossi il petto come un fabbriciero alla messa, biascicando fra le gengive una giaculatoria che aveva imparata da bambino.

XXV.

—Vediamo, ora, quale impiego si può darti nella comunità, riprese
Pietro dopo breve silenzio. Sai tu leggere e scrivere?

Vi dirò… La calligrafia l'ho piuttosto buona…. So copiare… so scrivere sotto dettatura… Ma a dirvela in confidenza, io non oserei arrischiarmi in uno di quegli impieghi che si chiamano di concetto…. Il mio forte è, come dissi, la calligrafia—nella aritmetica, non faccio per vantarmi, credo che pochi mi stiano al pari—: ho finito il mio corso di ragioneria a Gerusalemme, insomma ho tutte le disposizioni e le doti necessaire per essere un buon impiegato d'ordine…. come a dire un amministratore, un cassiere, un sorvegliante dei registri…

—Un cassiere!…. esclamò Pietro con visibile commozione. Che vi pare, apostoli colleghi?… non sarebbe omai tempo che la società avesse un cassiere?…

Tutti assentirono per acclamazione.

XXVI.

Giuda fece un risolino impercettibile a fior di gengive—poi con voce melata si arrischiò a domandare:

—Ma…. miei buoni signori…. cioè voleva dire…. miei buoni colleghi…. siete voi ben certi…. innanzi tutto…. di avere…. o di poter avere…. una cassa?

Gli apostoli si guardarono in faccia, e parevano imbarazzati a rispondere.

—Non importa! esclamò Giuda riprendendo il suo fare da principe russo:—Createmi cassiere… ed io… in mancanza d'altri…. sì! penserò io a formare la cassa.—L'argomentazione è molto semplice—ed io, per adattarmi alla vostra capacità, qui, sui due piedi, voglio ridurvela a sillogismo.—Un uomo non può chiamarsi cassiere quando non abbia a sua disposizione una cassa—voi mi chiamate cassiere della vostra società—ergo io, conseguenza inevitabile, posseggo una cassa!

Gli apostoli, sbalorditi da questa logica altrettanto profonda che ardita, accordarono a Giuda l'impiego di cassiere, colla riserva di sottoporre la nomina all'exequatur del loro divin maestro.

Di tal modo il nostro Giuda scroccò l'apostolato, ed egli riuscì per qualche tempo a gabbare la buona fede dei santi colleghi, mostrandosi entusiasta delle nuove dottrine, e propagatore zelante delle idee più liberali e democratiche.

XXVII.

Nei caffè, nelle bettole, nelle piazze egli predicava come un maniaco contro il despotismo di Ponzio Pilato, contro i vili infamissimi arbitrii della imperiale regia Polizia. Commiserava il povero popolo, annunziava un'êra di abbondanza e di ricchezza universale; e mentre il Divino Maestro insegnava l'umiltà e la rassegnazione, la carità e il disprezzo dei beni terreni, Giuda istigava il povero ad insorgere contro il ricco, eccitava allo sciopero gli operai, declamava contro i padroni di casa, in una parola aizzava nel popolo tutti gli elementi dell'ira e della discordia. Egli non aveva tralasciato di aprire delle sottoscrizioni estorcendo dal povero popolo i sudati risparmi della settimana. Di tal modo sarebbe riuscito a formarsi un buon fondo di cassa, se il Divino Maestro, edotto dell'indegna simonia, con un giuoco miracoloso della sua volontà onnipossente, non avesse restituito il denaro alle milleduecento saccocce defraudate. Giuda nel constatare il nuovo prodigio, fece una brutta smorfia del naso, anzi, a dire di alcuni storici—rimase con un palmo di naso.

XXVIII.

L'orribile vuoto della cassa suggerì all'Iscariota le più desolanti considerazioni.—Un codice, che, ammettendo l'uguaglianza sociale, impone che ciascuno si spogli volontariamente del fatto suo per darlo ai bisognosi, non rispondeva alle naturali ed intime teorie del nostro demagogo. Egli avrebbe preferito un sistema più radicale e più spiccio: «Prendete ove ce n'è d'avanzo—fate vostro ciò che non serve agli altri—profittate d'ogni ben di Dio che vi capita sotto l'ugna.»

Queste considerazioni alienarono dal divin maestro le simpatie del volubile apostolo. Onde avvenne, che non sapendo ritrarre verun profitto da una cassa eternamente vuota, dopo otto mesi di bolletta disperata, Giuda prese partito poco onesto di denunciare tutta la setta, e vendere il Divin Maestro per la somma di trenta denari, equivalenti a due lire austriache e cinquanta centesimi.

XXIX.

La storia dell'infame tradimento è abbastanza nota ne' suoi particolari più minuziosi, perchè altri si faccia a ripeterla. La notte del giovedì santo, Giuda cenò lautamente in compagnia de' suoi colleghi apostoli; poi, uscito dalla sala col puerile pretesto di fumare una pipa all'aria aperta, prese tutto solo la via di Gerusalemme, e andò diffilato all'undecimo circondario di Polizia per fare la sua denunzia.

XXX.

Il passo era piuttosto temerario. I nostri lettori ricorderanno senza dubbio come da parecchi mesi fosse spiccato dalle autorità di Gerusalemme un mandato di cattura contro il sedicente barone Iscariota, segretario intimo dello czarre delle Russie. Il processo dell'audace truffatore era stato dibattuto alla corte delle assisie, e, dietro il verdetto del giurì, il contumace condannato a dieci anni di reclusione per falso, truffa, usurpazione di titoli non propri, e libidine contro natura.—Il matrimonio con una vecchia settuagenaria a quei tempi era considerato delitto contro natura.

XXXI.

Ma i governi dispotici sono troppo informati alla moralità, per non far uso in certe occasioni delicate di eccezionali indulgenze. Giuda, espertissimo dei misteri di polizia, conosceva la storia di molti altri bricconi, i quali erano riusciti a farsi perdonare i più atroci delitti coll'innocentissimo stratagemma di accusare un galantuomo e fornire delle buone calunnie per farlo appiccare. Erode, Pilato, Caifasso, il proposto Anna, il procuratore del Re, i giurati, i legulei, gli scribi, i fabbricieri, i possidenti, gli usurai, in una parola la grande maggioranza degli uomini d'ordine e della moderazione, l'avevano a morte contro il capo della setta cristiana, e già da più giorni correvano sulle traccie di lui per farlo fucilare o crocifiggere senza processo.

Armato di tali considerazioni, Giuda si presentò arditamente al commissario superiore dell'undecimo circondario, e senza perdersi in preamboli, si esibì di consegnare nelle mani dei carabinieri e delle guardie di pubblica sicurezza il capo della terribile congiura repubblicana.

XXXII.

Come si compiesse la nefanda perfidia, è noto a quanti hanno letto il catechismo. Giuda intascò il denaro dell'orribile contratto, tradì il Divin Maestro col perfido bacio, e poi, come se nulla fosse accaduto, si recò all'uffizio delle messaggerie internazionali, e prese un posto nel coupè della diligenza che partiva per l'Italia.

XXXIII.

Il signor Rénan nella sua Vita di Gesù ha dimostrato quanto vi sia di erroneo nella opinione di coloro i quali pretendono che Giuda si appiccasse ad una pianta di fico. Gli uomini che hanno tempra da Iscariota non commettono simili corbellerie. Citatemi un solo esempio di birbante, il quale siasi appiccato pel rimorso de' propri misfatti!

Giuda possedeva del denaro. Oltre le due svanziche e cinquanta centesimi, guadagnate legalmente come prezzo del ragguardevole servizio reso allo Stato, i nobili e i possidenti della città avevano aperto una soscrizione a di lui favore.—Nella notte del giovedì al sabato di Passione, fu raccolta per l'obolo di Giuda la somma di tremila e cinquecento franchi—dei quali ottocento ventitrè vennero incassati dall'apostolo, il resto andò perduto nei diversi uffizi dei giornali promotori e patrocinatori della colletta.

Ma Giuda non era uomo da badare a codeste inezie. Gli stava troppo a cuore di svignarsela presto da Gerusalemme e dai paesi limitrofi, dove un giorno o l'altro qualcuno de' suoi antichi conoscenti avrebbe potuto rimeritarlo del bel servizio reso a Gesù.

XXXIV.

Partì dunque, come abbiam detto, colla messaggeria internazionale alla volta d'Italia. Visitò Napoli, la Sicilia, poi venne a Roma, coll'intenzione di stabilirvi il proprio domicilio permanente. Quivi, dopo il breve soggiorno d'una settimana, ricevette un bullettino d'invito pel servizio di guardia nazionale. Protestò, mise innanzi delle scuse, si dichiarò malato di itterizia midollare, ma il Consiglio di Disciplina fu inesorabile. Giuda, per evitare l'incomodo di andare la notte in pattuglia, rinunziò alla splendida vita della capitale e recossi a Bologna.

XXXV.

I nostri lettori avranno già notato non senza meraviglia, come Giuda, fino a quell'epoca, fosse andato esente da quella fatale passione, cui tutti gli uomini ben organizzati vanno soggetti una o più volte nel corso della vita.—A Bologna, passeggiando sotto i portici, il nostro eroe vide finalmente una donna… una vergine… un cherubino!… Il cuore inveterato, quasi ossificato, del traditore di Cristo, si infiammò come un mazzo di zolfanelli al contatto di una stufa.

La giovinetta chiamavasi Camilla ed era figlia di un salsamentario, che a Bologna passava pel più distinto fabbricatore di mortadelle. Giuda passò venticinque volte dinanzi alla bottega lanciando, attraverso i salami della vetrina, delle occhiate temerarie. La giovinetta ingenua sbirciava, dietro un giambone, il galante forastiero. I due cuori si intesero. Appena Giuda potè leggere nel volto della fanciulla il sentimento di un affetto ricambiato, entrò nella bottega col pretesto di comperare cinque once di salato misto.—La ragazza ebbe il gentile e delicato pensiero di involgere la merce in una lettera tutta piena di frasi appasionate e di errori di ortografia.

XXXVI.

Le nozze si fecero presto. Ma essendo giunta fino a Bologna la notizia della orribile tragedia avvenuta a Gerusalemme, e il traditore di Cristo venendo designato dai fogli liberali alla esecrazione dell'universo, Giuda stimò bene di dissimulare la propria identità, e di assumere un nome di capriccio. Nel contratto di nozze, che ciascuno può esaminare quando gli piaccia, nella grande biblioteca vescovile di Bologna, il nostro eroe si firmò Bartolomeo Majocchi, negoziante di baccalà all'ingrosso ed al minuto.

XXXVII.

Negli uomini di buona tempra l'amore non elide la speculazione. L'idea di stabilire a Gerusalemme un negozio di salami era balenata alla mente imaginosa dell'ex-apostolo, all'indomani delle sue nozze.

Camilla, in mezzo ai trasporti ed all'estasi dei primi amplessi coniugali, aveva dichiarato allo sposo di conoscere perfettamente l'arte di insaccare ed assodare la carne di majale. Il salame, questo genere di commestibile ignoto agli abitanti della Giudea e vietato dalle leggi mosaiche a buona parte di quella colta popolazione, poteva riescire un solletico anche ai palati più scrupolosi.—Affare eccellente!… Si faccia presto e non si badi a pericolo!

XXXVIII.

Si fissò il giorno della partenza. Il padre della sposa fu molto contento di pagare in salami piuttosto che in danaro contante la dote della figliuola—e i due conjugi presero la via di Gerusalemme, trasferendo in quella città una dozzina di casse ripiene di prosciutti, codegotti, mortadelle, bondiole, e parecchie forme di cacio parmigiano… per assortimento di generi.

XXXIX.

Prima di entrare in Gerusalemme, il sedicente Bartolomeo Majocchi entrò nella bottega di un parrucchiere, si fece radere la barba, si pose in capo una parrucca rossa, inforcò al naso un paio di occhiali verdi, si applicò due cerotti, l'uno alla pozzetta del mento, l'altro nel mezzo della guancia sinistra, e così trasformato salì di nuovo in carrozza per proseguire il viaggio.

«—Ho dovuto mascherarmi perchè nessuno mi conosca a Gerusalemme, disse Giuda alla moglie—tu sai il proverbio, nemo propheta in patria—sarei anzi tentato di prendere un nome francese… Basta!… a suo tempo vedremo?…»

La Camilla, che era furba come una bolognese, non volle saperne d'altra spiegazione. I due conjugi, appena arrivati a Gerusalemme, presero in affitto una magnifica bottega sul corso Mardocheo, la decorarono con ottimo gusto, e in termine di una settimana, precisamente il giorno di S. Michele, ne fecero la solenne apertura.

XL.

L'insegna del nuovo Stabilimento produsse grande effetto. In essa era scritto a cifre dorate: ALLA BOLOGNESINA, grande assortimento di salati—specialità: mortadelle di Bologna e codegotti di Morbegno.—Dejeuners a la fourchette, UN FRANC, compresa la tazza Chiavenna—fuoco, stuzzicadenti e seggiole.—Cabinets particuliers pour le deux séxes.—Sophàs et fauteuils à discretion.—

Tutta Gerusalemme si accalcava nei primi giorni dinanzi alle vetrine. Il sedicente Majocchi ebbe la soddisfazione di vedere non pochi borsajuoli, sue vecchie conoscenze, far l'orologio e il foulard agli ammiratori più fanatici del suo negozio.

XLI.

Camilla, abbigliata con molto sfarzo, sedeva al banco per iscambiare le monete. I lions, gli uffiziali di cavalleria e gli studenti dell'Università la fulminavano di occhiate attraverso i cristalli. Il marito non vedeva, e agitando una immensa sciabola, passava in rassegna le mortadelle. La curiosità dei Gerosolimi fece il suo sfogo in una settimana; ma il salsamentario non si chiamava molto soddisfatto del proprio commercio.

Qualche neofito della nuova setta cristiana, il proposto don Anna, cinque o sei canonici della cattedrale e la moglie del vice-intendente Caifasso, erano i soli avventori della bottega. La contessa di Caifasso aveva altresì profittato dei gabinetti particolari in compagnia di un tenente degli usseri.

La grande maggioranza dei cittadini, costituita da Ebrei superstiziosi e testardi, vedeva di mal occhio quella scandalosa mostra di salami nel luogo più frequentato della città. Gli scribi e i farisei mormoravano—e tutte le sere, nel momento in cui Giuda saliva sullo sgabello per accendere il lampadario, qualche fanatico si bizzarriva a lanciare delle pietre contro le invetriate.

XLII.

L'Iscariota, filosofo profondo, incominciò a riflettere sui pericoli della propria situazione, e a cercare qualche provvedimento.—Questi ebrei, pensava egli, saranno la mia rovina. Ah! se avessi potuto prevedere… Ma… basta!… Ciò che è fatto è fatto! Quel Cristo era un grand'uomo…. un gran legislatore… Egli permetteva la carne di majale… Decisamente ho avuto un gran torto a denunziarlo!…

L'Iscariota, dopo una lunga meditazione sulle diverse religioni considerate nei loro rapporti colla carne di majale e più specialmente col salame, finì per innamorarsi del Cristianesimo, come quello che poteva immensamente favorirlo ne' suoi interessi commerciali.

XLIII.

Una mattina, essendo venuti a Gerusalemme gli Apostoli Pietro e Giovanni a predicare la nuova legge, Giuda si presentò ad essi per chiedere il battesimo, e fu battezzato infatti sulla pubblica piazza insieme con altri convertiti.

In quel giorno il nostro avventuriere fece il suo colpo di stato. Compiuta la cerimonia, egli invitò gli apostoli e tutti i nuovo-battezzati a far colazione nel suo negozio. Pietro e Giovanni lodarono le mortadelle—trovarono eccellente la birra—e promisero di far ricapito al negozio ogni qualvolta si recassero a Gerusalemme per la predicazione.—-D'allora in poi non fu celebrato un battesimo in Gerusalemme senza che gli apostoli e i nuovi cristiani non chiudessero la cerimonia con una colazione di salame ALLA BOLOGNESINA.

XLIV.

Il Cristianesimo fece progressi—la predicazione degli apostoli si estese alla Grecia, alla Turchia, all'Italia, all'Inghilterra—i missionari presero coraggio per tentare nuove spedizioni in lontani paesi.—Bartolomeo Majocchi col suo zelo, col suo fervore religioso, coll'esempio frequente delle pratiche devote, seppe acquistarsi tanto credito presso gli apostoli, ch'essi lo crearono Provveditore Generale della Società de Propaganda Fide. Da quel momento la fortuna dell'Iscariota fu stabilita. Egli cominciò a negoziare all'ingrosso. Aperse delle botteghe a Corinto, a Costantinopoli, a Parigi, a Londra, a Pietroburgo. I principali banchieri di Europa si associarono azionisti nella impresa; e i titoli della Rendita Salami furono per qualche tempo i più ricercati alla Borsa.

XLV.

In tal modo l'allievo, dei padri Ignorantelli, il Giuda ex-questurino, il cavaliere di industria processato e condannato alle assisie, la spia degli apostoli, il venditore di Cristo, ladro, falsario, paraninfo… della propria moglie—non solo era divenuto milionario, ma godeva nell'opinione pubblica il massimo credito, ed era citato come tipo di onesto negoziante, di eccellente marito, di buon padre di famiglia.

Tutte le mattine si alzava di buona ora per assistere alla prima messa; frequentava i sacramenti—alla terza domenica di ogni mese intuonava l'alleluja in coro e portava il baldacchino—prestava tutte le coperte e i lenzuoli della famiglia per pavesare le contrade il giorno del Corpus Domini—alla domenica spiegava la dottrinetta ai ragazzi…

XLVI.

Tale fu la condotta di Giuda Iscariota dopo il suo ritorno a Gerusalemme—e così visse fino all'età di anni novantaquattro e dieci mesi, ricco, beato, padre di bella e robusta prole, amato e rispettato da ogni ceto di cittadini. Morì della gotta per abuso di pollami—lasciando alla vedova ed ai figli un patrimonio di dieci milioni in denaro suonante, venticinque milioni in cartelle dello stato, ed altri ventidue milioni in lardo, baccalà, olio di Nizza, caviale, sardines di Nantes e salumerie di vario genere.

A nessuno fra i tanti che avevano frequentata la sua bottega pel corso di quarantacinque anni, venne mai in sospetto che il sedicente Bartolomeo Majocchi, o De Majocchi, come si fece chiamare più tardi, fosse il famigerato Iscariota, oggetto di esecrazione, e di abbominio a tutto il genere umano. Il solo Don Anna, che aveva naso da canonico, nutriva qualche dubbio in proposito, ma non osò mai manifestarlo neanche agli intimi amici.

Il ghiotto prelato doveva al Majocchi più di duemila e seicento franchi per vari generi di commestibili consumati nella bottega.—Egli amava troppo le lingue di Zurigo e i mascarponi di Codogno, per disgustare un creditore, il quale era pronto a notare per tempo indeterminato.

XLVII.

I funerali di Bartolomeo De-Majocchi si celebrarono a Gerusalemme con pompa non più veduta, e nella epigrafe piramidale esposta sulla facciata del tempio, il di lui nome per la prima volta si vide accompagnato col titolo di conte.

Fatto è, che dopo la morte dell'istitutore, il negozio detto della Bolognesina restò chiuso parecchi giorni per riaprirsi sotto la nuova ditta Barabba e Compagni. La vedova De-Majocchi si ritirò dal commercio cedendo la bottega e l'avviamento al suo primo garzone di macelleria. Maritò l'unica figliuola al figlio primogenito del governatore cav. Ponzio Pilato, indi lasciò Gerusalemme per chiudersi in una sua villa sul lago di Como, dove fino alla morte attese agli esercizi spirituali in compagnia di un frate gesuita.

La De-Pilato, unica ereditiera dell'immensa fortuna, menò brillantissima vita, continuando la tradizione paterna quanto a condotta politica e religiosa. Le sue sale erano convegno della più eletta aristocrazia e dei più alti dignitari ecclesiastici. E quando ella, per capriccio o per spirito di opposizione, rifiutava di concorrere a qualche opera pia, o negava il solito tributo alla Cassa di San Pietro, i preti non mancavano di ripeterle: vostro padre…. quello sì, ch'era un sant'uomo… e Dio gli ha dato del bene!…

XLVIII.

Qui la nostra istoria finisce—e noi ci ritiriamo senza aggiungere commenti, lasciando che il lettore formoli spontaneamente il suo concetto morale per applicarlo alle difficili emergenze della vita pratica.

Abbiamo scritto con verità e con giustizia.—Se qualcuno credesse scorgere in questa biografia qualche errore di nomi o di date, o qualche madornale anacronismo, venga per le spiegazioni e per le rettifiche, a fare una visita al nostro domicilio. Ovvero, senza prendersi questo incomodo, giri un'occhiata intorno a sè; cerchi, fra i suoi conoscenti ed amici gli uomini che, sôrti dal nulla, si fecero potenti, che divenuti potenti ottennero fama di galantuomini ed ebbero maggior agio di fare il birbone… Lettori, confessatelo—nella vita di Giuda che io vi ho narrata l'anacronismo non può sussistere—perocchè i Giuda sieno le figure predominanti di tutte le epoche—ed abbiano un tipo troppo marcato perchè la storia possa sfigurarlo od esagerarlo.

I drammi del mio giardino

La giornata era caldissima. Le abitatrici del gran formicaio giacevano inoperose e assonnate nelle loro piccole celle.

Poco dopo il tramonto del sole, Febbrajola—una grande formica, per età e per senno autorevolissima—dava la sveglia ad una delle sue figliuole predilette.

—Su! andiamo!… Usciamo dalla città!… L'aria si è rinfrescata, e una breve escursione fuor dalle mura ci farà bene alla salute.

Apriletta, la giovane formicuzza, non si fece pregare. Di là a poco, madre e figlia si dirigevano conversando verso la serra dei limoni.

Esse attraversavano una bella aiuola tutta in fiori. I moscherini e i piccoli ragni si agitavano fra le pianticelle in cerca di nutrimento. Dappertutto un gran moto, una gran gioia, una gran festa nell'assalirsi, nello schermirsi, nel divorarsi a vicenda. Apriletta si arrestava tratto tratto a contemplare quegli episodii della distruzione e della morte, dai quali perpetuamente si genera e si mantiene la vita dell'universo. Giovane, inesperta, fidente nelle proprie forze, ella non poteva rassegnarsi a frenare i suoi istinti aggressivi in presenza di quella ricca cacciagione.

Per giungere alla serra, conveniva sorpassare un muricciuolo coronato da una ventina di geranii. Compiuta la salita, Febbrajuola si adagiò colla figlia sull'orlo di un vaso, e all'ombra delle foglie olezzanti così prese a parlare:

—Che bella prospettiva! Quale incantevole paesaggio! Come sono cresciuti questi alberi, dall'ultima volta che ho traversato la foresta! Qualche giorno, se Iddio mi tiene in vita, torneremo qui colla intera famiglia. Faremo un buon pranzerello sotto una di queste foglie. Porteremo con noi quattro bei capponi verdi del gran rosaio. Le nostre schiave troveranno ben modo di trascinarli fin qui.

—Ah! sono pur deliziosi a mangiarsi quei cari capponi verdi! Ma credi tu, cara mamma, che noi potremo sempre trovarne sul grande rosaio? Ogni anno i nostri ne fanno tanta strage!… Non è a temersi che la specie venga costrutta?

—Ciò non potrà accadere, risponde gravemente Febbrajuola; quel Dio che ci ha create e costituite regine dell'universo, non cesserà di provvedere ai nostri bisogni ed ai comodi nostri. Benediciamo il Signore, figliuola mia! Benediciamolo in ogni ora, in ogni istante della vita! Questo bel sole, che ogni anno ricomparisce sull'orizzonte per illuminarci; questa meravigliosa varietà di alberi così ricchi di dolci frutti e di sughi corroboranti; questa infinita famiglia di animali; infine, tutto quanto ne circonda, tutto non fu creato per l'utile nostro?…

—Ma perchè? ma perchè? replicava Apriletta con quell'insistenza curiosa che è propria dei fanciulli…

—Perchè noi, a differenza degli altri animali, siamo dotati della ragione che è un riflesso della divinità…

—Ma cos'è questa ragione?… Come si fa a provare che tutti questi animali, più grandi, più belli, più forti di noi?…

—Le son domande coteste?…. Sta a vedere che il tuo piccolo cervello è già guasto dalle mostruose, esecrabili teorie di quei nostri filosofanti, i quali pretenderebbero degradare la formica, l'essere superiore, l'essere pensatore ed immortale, al livello dei bruti irragionevoli!… Vergognati, figliuola!… E quando ti si affacciano di tali dubbi, volgi uno sguardo alle opere gigantesche, ai monumenti imperituri creati dal nostro genio… Le nostre città, le nostre strade, le gallerie sotterranee, gli acquedotti, i magazzeni delle vettovaglie, tutto attesta la supremazia della specie formicola, tutto riflette la luce di una intelligenza animata dalla favilla divina. Quanto ordine nei nostri rapporti civili! quanta sapienza nelle nostre leggi, nelle nostre istituzioni! Spontaneamente consociate e vincolate da patti sapientissimi, l'unione ci fornisce una forza a cui nulla può resistere. Noi dominiamo gli elementi, noi soggioghiamo le belve più feroci. Jeri… non hai veduto la bella fine di quell'immane e mostruoso grillo che osò sfidarci nel formicaio?… In meno di un'ora ei rimase spolpato…. Ma è tempo, figliuola mia, di rimetterci in cammino; la notte è vicina…. Mi fu detto che al di là della montagna è venuta a stabilirsi da qualche tempo una colonia di formiche rosse… Profittando del numero, quelle selvaggie potrebbero assalirci e noi avremmo la peggio.—Dunque: occhi in avanti e piede lesto!… Andiamo, figliuola!

—Sono dunque ben cattive le rosse!—riprese Apriletta, stringendosi ai fianchi della madre.

—Tristi come la polvere persiana! È ben vero che esse pure fanno parte della grande famiglia degli animali ragionevoli—ciò non può mettersi in dubbio—ma siccome il loro intelletto è di un grado inferiore a quello della nostra razza, noi dobbiamo, quando il numero e le circostanze ci favoriscano, combatterle e sterminarle. Gli è ciò che fecero i nostri valorosi antenati allorchè vennero a stabilirsi in questo bell'angolo di terra, così fertile e propizio alla speculazione commerciale. La piccola tribù di indigene rosse che da tempo immemorabile occupava la provincia, fu distrutta dai nostri eserciti al grido di libertà e di progresso!… Noi rimanemmo padroni del campo—la civiltà trionfò delle barbarie, e i simboli della nostra religione presero il posto degli idoli abbattuti.

Febbrajuola era in vena di sermonare. Lungo il cammino, ella andava descrivendo a sua figlia la vastità meravigliosa dell'universo, che per lei si comprendeva in quattro pertiche di giardino. Ricordava uragani, e cataclismi, e terribili pestilenze, e guerre sanguinose. Apriletta ascoltava con meraviglia e terrore. E tratto tratto le due viaggiatrici si arrestavano, piegavano le ginocchia, e recitavano un versetto del Te Deum. Febbrajuola pretendeva che l'essere campata da tanti pericoli, e l'aver sopravvissuto a tante migliaia di vittime, era una prova visibile della speciale predilezione accordatale dal supremo dominatore dell'universo.

Fu in una di quelle soste, a metà di un versetto latino, che Apriletta mandò un grido straziante:

—Aiuto!… Soccorso!…

Febbrajuola accorse, e immemore di sè stessa, si lanciò dentro un vortice di sabbia dove la figlia si andava sprofondando. Ma ogni soccorso era vano. Apriletta era già quasi scomparsa. La sabbia oscillava. Un inesplicabile movimento sotterraneo cospirava ad inghiottire le due sventurate.

—Madre, mia buona madre! gridava Apriletta con voce strozzata; una mano di ferro mi stringe il fianco… Io mi sento morire…

—Noi siamo perdute! rispondeva Febbrajuola fra i singulti della morte; questo vortice è la tana del fiero leone, e io pure mi sento trafitta dal suo mortifero dardo. Addio, mia buona Apriletta! Noi ci rivedremo fra poco nella patria dei beati, ove le nostre anime vivranno immortali!…

Uno sbruffo violento di polvere involse le due formiche. Di là a pochi istanti entrambe si giacquero nelle tenebre, esauste di sangue e di vita.

Il panciuto ragno della caverna, terminato il suo pasto, si assise fra le due pellicole dissanguate, e incrociando le zampe in sull'addome, russò beatamente una giaculatoria. E accingendosi a ricomporre i granelli di sabbia in sugli orli del trabocchetto: Son pure, esclamava, son pure gli stupidi animaluzzi queste formiche! Fanno pietà!… Quale disgrazia… nascere irragionevoli!… E qual debito per noi di render grazie alla provvidenza per averci distinti dagli altri esseri viventi… col lume divino della ragione!

Così parlando, il ragno-leone aveva finito di riassettare il suo agguato e già stava per sprofondarsi nelle viscere della sabbia, allorquando un galletto del Giappone, spiccatosi dal terrazzo, gli fu sopra col becco, e giù per la gola come un granello di melica.

—Cattivo cuore! esclamò una gallinetta sentimentale che sedeva poco lungi.—C'è tanto grano al pollaio… e tu non cessi di incrudelire su questi poveri animaluzzi…. Via, Crestalunga! se è vero che mi vuoi tanto bene… se brami di conservarti il mio amore, cessa dal perseguitare, tormentare e distruggere tante creaturine innocenti.

—Sentimenti che ti onorano! rispose Crestalunga, accarezzando coll'estremo dell'ala la coda della sua innamorata.—Ma… d'altra parte—permetti che io te lo dica—pregiudizii!…. Questi animaletti, privi di ragione come tu sai, e dotati di un'anima tanto inferiore alla nostra…

Ma l'orgoglioso galletto non ebbe tempo di sviluppare il suo sistema filosofico, che d'un tratto si sentì agguantare per l'ala da una mano tenace.

—Vieni qua, la mia bella bestiolina!…. Mi duole proprio di doverti ammazzare… Che vuoi?… Il padrone mi ha dato degli ordini precisi… Zitto! zitto, carino!… ecco!… tutto è finito!…

E il mio cuoco gettò sul tavolo il galletto strozzato, lo coperse di un panno bianco, e accesa la pipa, andò in giardino a sdraiarsi sull'erba.

Frattanto la notte si avanzava e il sopravvenire delle tenebre ridestava alla vita le piccole sfingi, i baccherozzi, le zanzare, le lucciolette, le farfalluccie vespertine, infine tutti gli insetti nemici della luce.

Strani, misteriosi sussurri uscivano dagli arbusti e dall'erbe. Due zanzare, partite dai canneti del lago, volavano verso il giardino. Il loro canto era un saluto alla notte, un rendimento di grazie al supremo Creatore… delle tenebre.

—Oh! vedi il bel promontorio!… Moviamo per colà!… Vedrai che troveremo del cibo!

Detto, fatto. Le due zanzare sforzarono il volo e in men ch'io nol dica toccarono la meta.

—Presto!… non perdiamo tempo!… si scandagli il terreno!…

—Fuori le pompe!

—Oh! la buona…la deliziosa sorgente!

—No… non m'inganno…. questa è veramente la terra promessa. Come è saporito questo latte!

—Come è soave questo vino!…

—Inebbriamoci… Ciò farà piacere al buon Dio!…

Le due zanzare, gonfie di nutrimento, si assisero sull'estrema punta del promontorio e sciolsero il loro inno di grazia.

Il qual promontorio (è bene che i lettori lo sappiano) era il naso del mio povero cuoco, che dormiva beatamente sotto un albero di fico.

FINE.