The Project Gutenberg eBook of Galatea

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Galatea

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: October 1, 2006 [eBook #19427]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK GALATEA ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

GALATEA

ROMANZO

DI
ANTON GIULIO BARRILI

MILANO—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO

  ROMA
  Via del Corso, 383.
  NAPOLI
  Via Roma (già Toledo), 34.

  BOLOGNA: Libreria Fratelli Treves, di P. Virano, Angolo Via Farini.
  TRIESTE: presso G. Schubart.
  PARIGI: presso Boyveau et Chevillet, 22, rue de la Banque.
  LIPSIA, BERLINO e VIENNA: presso F. A. Brockhaus.

OPERE di A. G. BARRILI.

Capitan Dodero (1865). ll.^a ediz………………..L.1— Santa Cecilia (1865). 9.^a ediz……………………1— Il libro nero (1868). 4.^a ediz……………………2— I Rossi e i Neri (1870). 5.^a ediz. (2 vol.)………..2— Le confessioni di Fra Gualberto (1878). 7.^a ediz……1— Val d'Olivi (1873). 13.° migliaio………………….1— Semiramide, racconto babilonese (1873). 7.^a ediz……1— La notte del commendatore (1875). 2.^a ediz…………4— Castel Gavone (1875). 8.^a ediz……………………1— Come un sogno (1875). 19.^a ediz…………………..1— Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). 14^a ediz. (2 vol.).2— Tizio Caio Sempronio (1877), 2.^a ediz……………..3 50 L'olmo e l'edera (1879) 16.^a ediz…………………1— Diana degli Embriaci (1877). 2.^a ediz……………..3— Lutezia (1878). 2.^a ediz…………………………2— La conquista d'Alessandro (1879). 2.^a ediz…………4— Il tesoro di Golconda (1879). 8.^a ediz…………….1— Il merlo bianco (1879). 2.^a ediz………………….3 50 —Edizione illustrata (1890). 5.^a ediz…………………..5— La donna di picche (1880). 4.^a ediz……………….1— L'undecimo comandamento (1881). 9.^a ediz…………..1— Il ritratto del Diavolo (1882). 3.^a ediz…………..3— Il biancospino (1882). 9.^a ediz…………………..1— L'anello di Salomone (1883). 3.^a ediz……………..3 50 O tutto o nulla (1883). 2.^a ediz………………….3 50 Fior di Mughetto (1883). 4.^a ediz…………………3 50 Dalla Rupe (1884). 2.^a ediz………………………3 50 Il conte Rosso (1884). 3.^a ediz…………………..3 50 Amori alla macchia (1884). 3.^a ediz……………….3 50 Monsù Tomé (1885). 2.^a ediz………………………3 50 Il lettore della principessa (1885). 3.^a ediz………4— —Edizione illustrata (1891)…………………………….5— Victor Hugo, discorso (1885)………………………2 50 Casa Polidori (1886). 2.^a ediz……………………4— La Montanara (1886). 5.^a ediz…………………….2— —Edizione illustrata (1893)…………………………….5— Uomini e bestie (1886). 2.^a ediz………………….3 50 Arrigo il Savio (1886). 2.^a ediz………………….3 50 La spada di fuoco (1887). 2.^a ediz………………..4— Il giudizio di Dio (1887)…………………………4— Zio Cesare, commedia in cinque atti (1888)………….1 20 Il Dandino (1888). 2.^a ediz………………………3 50 La signora Autari (1888). 2.^a ediz………………..3 50 La Sirena (1889)…………………………………2— Scudi e corone (1890). 2.^a ediz…………………..4— Amori antichi (1890). 2.^a ediz……………………4— Rosa di Gerico (1891). 2.^a ediz…………………..3 50 La bella Graziana (1892). 2.^a ediz………………..3 50 —Edizione illustrata (1893)…………………………….3 50 Le due Beatrici (1892) 2.^a ediz…………………..3 50 Terra Vergine (1892). 2.^a ediz……………………3 50 I figli del cielo (1893)………………………….3 50 La Castellana (1894). 2.^a ediz……………………3 50 Fior d'oro (1895)………………………………..3 50 Con Garibaldi, alle porte di Roma, ricordi (1895)……4— Il Prato Maledetto (1895)…………………………3 50 Galatea (1896)…………………………………..3 50

IN PREPARAZIONE:

Sorrisi di gioventù—Il diamante nero.

GALATEA

ROMANZO

Di

ANTON GIULIO BARRILI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI

1896.

  PROPRIETÀ LETTERARIA
  Riservati tutti i diritti.

Milano.—Tip. Fratelli Treves.

GALATEA

I.

Rinaldo a Filippo.

Corsenna, 7 luglio 18…

Notizie mie? Eccole. Son venuto qua, come sai, per dar pace a questi poveri nervi; e ci lavoro alacremente, chiudendomi nell'inerzia più fitta. Bada, io non so quanto sia vero che ai giorni nostri i nervi si sciupino più di prima, nella gran varietà e nella troppa intensità delle sensazioni: ma è certo che oggi come prima lo strapazzo nuoce ad ogni organismo, e certissimo poi che il tuo vecchio amico aveva bisogno di questo riposo; tanto gli pare d'esser tuttavia sfiaccolato. Pure non faccio nulla, assolutamente nulla; questa lettera, che viene un po' tardi in risposta al tuo cortese biglietto, è la prima fatica dopo un mese di quiete. Già, non potrei far nulla, anche volendo. Non sento più; e se, come dice il filosofo, niente può essere nell'intelletto che non sia stato prima nel senso, io posso stimarmi finito, e metter magari l'appigionasi in fronte, come sulla facciata d'una casa vuota. Che bella cosa, dopo tutto, non sentir nulla; esser libero e netto d'ogni cura del mondo circostante; udendo senza commuoversi, vedendo senza partecipare, vivendo la vita dello specchio, che riflette tranquillamente ogni cosa e sorride! Ma sì, un po' d'ironia nel fondo ce la dovrebbe avere anche lui; per virtù, non foss'altro, degl'ingredienti che lo rendono opaco. Quel po' d'ironia non è finalmente la meno feroce delle nostre vendette? e il genere umano, salva sempre la immagine del suo creatore, non meriterebbe di peggio?

"Ama il prossimo tuo come te stesso" è alla fin fine il comando del principale: ed egli sa bene che io non amo me stesso. Frattanto, come è vero che quello è il mio prossimo! Io l'ho sempre sentito dal premere che mi faceva d'attorno, pari ai gomiti di quattro o cinque vicini nella calca dove ci ha ficcati il nostro mal genio, in un quarto d'ora di sciocca curiosità. E il mondo è una calca, una moltitudine, una ressa di forze invisibili, che d'ogni parte lavorano su te, per prenderti il posto che occupi, per non lasciarti occupare il posto che desideri, fosse pure un posto d'usciere. Si tira a tutto, e con la stessa arte da tutti; qualunque sia il grado, o l'educazione, è sempre guerra sorda di agguati, d'insidie, di tradimenti. Ognuno l'ha con te: più sei forte, o più ti credono tale, più si affannano a soverchiarti, a tirarti giù, a darti il gambetto. Gl'interessi che non hai offesi fischiano da tutti i pruneti, si avventano da tutte le macchie; nessun briccone è più appostato di te dagli onest'uomini in caccia. Se tu provassi a morire! oh, allora, lodato il cielo, una buona rifiatata di mille petti, che si diffonderebbe dalla tua città, come un soffio di primavera, a tutti i punti del "bello italo regno." Vivo, non avevi scritto altro che birbonate; morto te, erano tutte maravigile. Ti gabellavano per un asino? eccoti diventato un cigno; l'ultima tua ode era degna di Pindaro. Prova a morire, e vedrai; ti faranno un funerale di prima classe, e tutta una cittadinanza "dipinta di cordoglio" farà spalliera al cortèo, mentre tu, felice grand'uomo, traballerai nel tuo carro sotto una montagna di corone, che più non ebbe scudi addosso la vergine Tarpeia, in premio del Campidoglio aperto ai Sabini. Quanto a me, senti: ho già fatto testamento, e scritto in chiarissima forma: "Non voglio discorsi, nè marce funebri; nè bugie, nè stuonature. Voglio andare al mio ripostiglio di nottetempo; con due amici, se tanti me ne saranno rimasti, i quali si prenderanno cura di vigilare che le mie ossa vadano proprio al luogo assegnato, e un altro morto non mi rubi la fossa." Con questo prossimo benedetto, non si sa mai quel che possa succedere.

Idee nere, dirai. Ma io, se rammenti, le ho sempre avute. A certe cose bisogna pensarci in tempo, per non esser poi colti alla sprovveduta. Quella gran diavola della falce è così capricciosa! Già, donna anche lei; ed io non voglio esser più corbellato. Errori, ne ho commessi molti, fin troppi, cercando l'introvabile. Povere donne, del resto! Ossequiate, lusingate, insidiate, ti amano per vanità: molte, se sei ricco, sentono il bisogno di entrare nella tua casa; nessuna il desiderio di penetrare nell'anima tua. Ed è strano contrasto; perchè noi uomini, chi più chi meno, avremmo tutti la curiosità di penetrare nell'anima loro, anche a costo di non trovarci niente. Così l'amore, rinunziando al piacere dell'indagine psicologica, si riduce necessariamente ad uno scherzo, ad un grazioso errore commesso qualche volta per ardore di temperamento, più spesso per follia d'imitazione. Ah, il mondo non è più dei sensitivi. Si fanno tante cose per consuetudine, per vezzo, per moda, non ritrovandoci più il senso arcano dei loro principii; esempio l'andare in campagna, un piacere estivo, che si compra senza gustarlo, senza intenderlo, trasformandolo secondo l'uso della città. Dov'è strada piana, gli uomini portano la bicicletta; dov'è lago, il sandolino; da per tutto il lawn-tennis. In fin de' conti, meglio così; la campagna è tutta per me. Sono miei i folti castagni del bosco; miei gli olmi e i salici, i fràssini e gli ontàni del fiumo; mia la borraccina delle balze, donde si levano gli argentei pennacchi dei cardi, rilucenti ad una spera di sole.

Questa campagna è bella, quantunque senza carattere. Salvator Rosa ci perderebbe l'ispirazione tormentata e robusta, Claudio Lorenese la sua placida e larga vena poetica. Non ci sono dirupi minacciosi, non classiche aperture d'orizzonti lontani. Così niente fa pensare, tutto fa vegetare; ottima cosa per me, che non ho più fantasia. Dov'è andata a finire? Sicuramente, l'ho fatta correr troppo. L'uomo ha le sue quaranta libbre di sangue e le sue quattr'once d'ideale: se egli sa farne un uso discreto, bene; se no, addio roba. Io non iscrivo più una riga. Il mio Don Giovanni dorme. Buon poema, che voleva esprimer la vita veduta, collegandola coll'invisibile sentito! Non lo intendo più; ne rigiro per ogni verso la tela, e non ci trovo il vivagno; vedo il contorno e mi sfugge la linea, l'idea madre, che mi pareva già tanto chiara, originale e profonda. Sono una rovina, e brutta, che per le rovine è il peggio. C'è qui, sulla fine di un campo, lungo la strada maestra, una casupola ad uscio e tetto, ma coll'uscio sfondato e il tetto crollato. Corse un giorno la voce che là dentro si fosse veduta la Madonna; e non mancava la ragazzina innocente per dar fede al miracolo. Ma che vuoi? il miracolo non ha potuto attecchire, come attecchivano le ortiche, in quel cumulo di macerie così poco romantiche. Poesia, voleva essere; e qui non c'è poesia.

Tanto meglio per me. Questa vita vegetativa mi conviene benissimo. Leggo poco; a mala pena giornali, e nei giornali solamente i telegrammi, per tenermi in comunione di noie con l'Europa. Gli eventi politici son grigi, come il mio spirito, e mi fanno dormire. Ma che follia, nel dormire! Sogno ancora qualche volta, vedendo la bella inglesina. Te ne rammenti, dell'inglesina dei miei sogni d'adolescente, che soleva ritornare a punti di luna nei miei sogni di giovinetto? C'era, obbligata in chiave, la strada polverosa, bianca, abbagliante, sotto la sferza del sol di giugno; la grossa berlina a tre cavalli, coi bauli dietro e il postiglione alto a cassetta; lei, l'inglesina, accanto al suo babbo, vecchio muso di cartapecora, miniato liberalmente di rosso tra due fedinoni grigi, ma sempre mezzo nascosto nell'ombra, dall altra parte della carrozza, per comodo della mia prospettiva amorosa; mentre lei, dolce creatura bionda, si vedeva tutta quanta allo sportello, intesa a ricambiare d'uno sguardo pietoso il mio gesto e il mio grido di supplicante. Cara inglesina del sogno ricorrente! Tu raffiguravi il divino ideale, che passa sempre a galoppo, che se ne va inesorabilmente, dileguandosi nel polverìo della strada battuta.

Che ideale, poi! Se, col permesso del babbo, l'inglesina ci pigliasse in parola, e in carrozza, poveri a noi!—How do you do?—Very well, Sir; we have never been better.—How do you like Italy?—Very much indeed: do you like sandwiches, Sir?—I like them very much.—And roastbeef?—It is delicious, but I should prefer a veal-cutlet.— Che orrori!

II.

Sequitur Lamentatio….

Corsenna, 12 luglio 18…

Hai un bel canzonarmi, osservando che io porto i miei sopraccapi anche in villa, e paragonandomi (questa poi è nuovissima) al triste cavaliere di Orazio, che si trascinava in groppa la più fastidiosa tra le dame. Ma io non posso farmi diverso da quello che sono: faccio già molto a scriverti, e tu dovresti essermi grato d'un sacrifizio che nessun altri ottiene da me. Del resto, canzonami pure; mentre io, per non disimparare del tutto la vecchia arte di Cadmo, bene o male continuo a scrivere, facendo per te una specie di giornale; il giornale di Corsenna, niente di meno! Questo villaggio non ha mai sognato, nella più felice delle sue notti, un onor così grande. Il giornale rimarrà inedito, pur troppo: ma i Corsennati avranno pazienza; l'avranno tanto più volentieri, in quanto che, se il giornale fosse stampato, essi non si prenderebbero certamente la briga di leggerlo. Sono un popolo saggio, i Corsennati, di ceppo italico antico e sincero.

Incominciamo ad ogni modo. Articolo di fondo: ho trovato una bella passeggiata veramente degna di noi. Seguimi, facendoti coraggio tuttavia, perchè bisogna passare sopra un pancone, anzi su due, accostati pei lor capi a tocca e non tocca sull'asse d'una piedica, che vorrebbe parere una pila di ponte. La vedo brutta, quella povera pila, ai primi rovesci d'autunno; e vedo brutti egualmente i due panconi sconnessi, con quel tronco di pino che fa da ringhiera, mal rimondato e peggio assicurato su quattro pali malissimo inchiodati, per uso dei passeggeri che soffrono di vertigini. Già, i più non ci si fidano, e passan di sotto. Per tua norma, il fiume è magro anzi che no, tanto magro che fa pena a vederlo, disteso in quel suo grandissimo letto. Pozze e pozzanghere non gliene mancano, ma già tirano al verde: ci ha da una sponda o dall'altra qualche fosserello addormentato sotto la frasca sporgente dei frassini, e qualche tonfano rannicchiato al riparo d'un gran masso rugoso; mentre un fil d'acqua viva corre brillando e sussurrando tra i ciottoli, per collegare e nutrire tutti quei Nianza e Tanganica, dei quali il più grosso non è largo due metri.

Di là dal greto, che si vede qua e là screziato e rallegrato da larghi cesti di romice, da candelabri fogliosi di tasso barbasso, di labbra d'asino, di denti di leone, d'orecchi di topo e di scarpette di Venere, si stende una fila nereggiante di ontàni. Un po' radi, gli ontàni e non alti, perchè i proprietarii di qui non lasciano invecchiare le piante da taglio, smaniosi di far quattrini, che il diavolo se li porti! Dietro la scarsa fila degli ontàni, corre un sentiero campestre, costeggiando la riva; di là dal sentiero, davanti a me ed al mio ponte di legno, si dilunga verso la montagna una doppia fila di pioppi, spettacolosi per l'altezza delle vette ed anche per la grossezza dei tronchi. Ah, sia lodato il cielo; si capisce qui che il padrone di quei pioppi è un signore per davvero, o che almeno non ha l'acqua alla gola, e in ogni caso è un poeta, che ama le belle cose e vuol dare la sua parte anche agli occhi.

Che sarà mai questa piantata di pioppi? Sono un centinaio per parte, e il largo viale che si stende nel mezzo dovrebbe condurre ad un castello, ad un palazzo, ad un nobile edifizio, insomma. Cerca cerca, l'edifizio non c'è; neanche le rovine. Meglio così; le rovine non avrebbero carattere; un edifizio in piedi, abitato e custodito, mi costringerebbe a girar largo, per non dar noia o non riceverne dai suoi possessori. Quel gran viale, bontà sua, ti conduce ad una vasta prateria, ad una conca, ad un anfiteatro di verdura, più nobile di qualsivoglia edifizio. Che bellezza! e che pace, compimento di bellezza! Il dolce piano, leggermente incavato, è tutto un tappeto di verde tenero, che si ravviva di toni gialli al sorriso del sole; screziato a capriccio dalle candide rappe delle piantaggini tremolanti alla brezza sui loro elegantissimi steli, o dai rossi calici spampanati dei rosolacci in ritardo; rotto a larghi intervalli, o infoscato sui lembi, da cesti di sermollino, da ciuffi di règamo, da cespugli di mentastro. In capo alla prateria, che sale via via come il labbro d'una coppa di malachite, sorge e si spande una siepe di carpinelle, oltre la quale si leva la costa del poggio, tutta densa di castagni fino al suo colmo, donde sbuca un campanile aguzzo e trapela il tetto della chiesuola di Santa Giustina.

Non conosco la santa, e non ho ancora veduto il santuario. È la prima volta che mi decido a passare il fiume, e che quel campanile m'invita. Dicono che il fulmine l'abbia già visitato due volte. Certo, il fulmine è più volenteroso alpinista di me; ed anche più allegro. Lo ha notato il poeta nella indimenticabile strofa:

    Il gentile terremoto
    Con l'amabile suo moto
    Diroccava le città;

    Ed il fulmine giulivo
    Che non lascia uomo vivo
    Saltellava qua e là.

Facciamoci avanti. Tra la siepe delle carpinelle e le falde del monte, serrata ai fianchi dal margine naturale del terreno e da quello di un rialto artificiale tutto vestito di zolle verdeggianti, corre un'acqua profonda, limpida e cristallina. Ah, capisco finalmente perchè il fiume abbia sete. Gli han fatto una pescaia molto più in su, e l'acqua se ne viene da un lato, per il suo canaletto, mormorando il suo saluto alle felci e ai capelveneri, cheta cheta immollando il terreno senza corroderlo. Quante erbe ci vivono, in quella grazia di Dio. succhiandola con mille e mille radici! quanti fiori ci pendon sopra, come se volessero covarla con gli occhi innamorati! Fiorellini, fiorellini, oserò dir io i vostri nomi, nella barbara lingua dotta che voi non sapete? Nella lingua del paese non li so io, e non ho tempo da perdere, volendo piuttosto ammirarvi. Il vostro nome è bellezza; e questo in tutte le lingue del mondo. Uno di essi è bianco di latte, e la sua corolla piccina, fatta di quattro petali spanti, pesa ancor molto sulla lunga asticciuola filiforme. Dev'esser zuccherino, il suo calice, perchè troppo volentieri gl'insetti vanno ad immergere il muso là dentro. Un altro ha il gambo più grosso, almeno quanto un cordoncino di tre fili di refe; e porta in capo un tubetto rigonfio alla base, più stretto al collo, donde salgono arrovesciandosi quattro eleganti lacinie, per mezzo alle quali guardando s'intravvede nel fondo un giro di grumoletti d'oro, sospesi su tenui stami d'argento, come perle o gemme sulle punte d'una corona. A chi è destinato il tesoro? Qual genio minuscolo, della figliuolanza di Oberone e Titania, cingerà il grazioso diadema custodito in quell'urna di zaffiro? Non indaghiamo, non facciamo almanacchi. Vegetiamo, sia la parola d'ordine per me, come a Pertinace il suo "Militemus" come il suo "Laboremus" a Settimio Severo.

"Qui freno al corso," come dice David nella prima scena del Saul; qui siedo e me ne sto un paio d'ore al rezzo, contemplando i moscerini che volano nell'aria cupa, non trattenendo i pensieri che passano liberamente per l'anima, senza lasciarci una traccia. È in questo recesso ombroso una quiete, una calma tiepida, attraversata a quando a quando da soavissimi aliti di frescura, onde hai tutte le sensazioni del supremo benessere. Non so come sia che un miliardo e mezzo di creature, tra ragionanti, e sragionanti, sparse sulla faccia della terra, non l'abbiano ancora sentito. Capisco che per molti è questione di vivere, e i bisogni urgenti non danno agio a pensare: capisco ancora che la felicità suprema dell'estasi inerte richiede un alto grado di perfezione intellettuale. Ma tutti quelli che l'hanno raggiunto, quel grado, perchè si vengono moltiplicando senza ragione i bisogni? perchè vanno attorno cercando i malanni col lumicino? perchè ficcano la mano nel vaso di Pandora, rovistando nel fondo, se per caso ci fosse rimasto ancora un fastidio? A buon conto, io non mi prenderò quello di salire a Santa Giustina. Si sta qui tanto bene, mezzo appoggiati e mezzo seduti sulla spalla dell'argine! Passano a coppie le farfalle, pieridi e vanesse dorate, rincorrendosi tra le piante, apparendo e disparendo senza posa, contente di agitarsi e di vivere; vengono folgorando nell'aria, quasi radendo il pelo dell'acqua, le damigelle e i cavalocchi dalle diafane ali iridate, dai corpicini sottili, tutti a colori metallici, per andare a librarsi un tratto sulle rappe fiorite, donde guizzano e scintillano senza posa, come pennini di gioie tremolanti sul capo di una bella donna a teatro.

E dove lascio gli uccellini? Ce ne sono di tutte le specie, che attendono ai fatti loro senza curarsi di me; cincie, pettirossi, cardellini, scriccioli; pigolanti, strillanti, zirlanti nella macchia, ch'è un piacere a sentirli. Le stonature non mancano. Laggiù, dagli olmi del gran viale, si sente un gracchio che non mi va niente a sangue.

—È il rosignuolo;—mi dice un contadino che passa e che mi ha dato il buon giorno.

—Il rosignuolo, quello?—esclamo io.—Avrei detto un corvo, piuttosto, o una gazza, sua parente.

—Nossignore, gli è proprio il rosignuolo. Da mezzo giugno in poi, canta così. È nel nido.

—In famiglia, non è vero?

—Eh sì, come vuole Vossignoria. La casa del rosignuolo è il suo nido, e la rosignuola è sua moglie.—

Ho capito, e ne sono tutto confuso. Dunque la storia è questa? Appaiato e contento, il rosignuolo non canta più così bene come quando faceva all'amore; anzi, non canta più affatto, dà fuori un grido rauco d'animale accidioso e brontolone. Ah, figlio d'un…. rosignuolo anche tu! Dopo le dolci pene del desiderio, la fiaccona del possesso; e addio le ventiquattro arie diverse, non tenendo conto delle variazioni, dei passaggi, delle rifiorite che nel tuo canto ha notate con diligenza tedesca il Bechstein. Ma sono uomini, dunque, i rosignuoli? uomini anch'essi? Ahi, triste cosa!

III.

All'Acqua Ascosa.

Corsenna, 15 luglio 18…

Ci sono molti villeggianti a Corsenna. Li chiama la bontà dell'aria, a quattrocentosessanta metri soltanto sul livello del mare; li chiama il fresco di queste convalli, e finalmente lo spirito d'imitazione, che l'uomo ha comune con tanti altri animali. Uno ha provato, e s'è ritrovato bene; lo ha detto, e lo hanno seguito due altri; quei due a lor volta…. Ma no, non voglio rifarti l'enumerazione degli atti; mi basta di dirti che quest'anno tutti i villini dei dintorni sono occupati, ed anche molti quartierini in paese; dove per altro bisogna adattarsi. Ma si è in campagna, e non si guarda nel sottile; tanto più che la gente, venuta per goder l'aria, sta in casa il meno che può. La vita villereccia è gaia: fanno scarrozzate ai paesi vicini; non disdegnano la vecchia invenzione degli omnibus, rinfrescata col nuovo nome di tranvai, che permette di andare qua e là per pochi soldi, in dodici o quattordici persone. Fanno concerti, la sera, con gran giubilo e maraviglia di questi naturali; ballano anche, mi si dice, dove col pianoforte, dove coll'organino di Barberia, e dove coll'herofon, un nuovo strumento macinatore di musica; necessario, in verità, perchè di simili arnesi non ce n'era abbastanza.

Te ne parlo per sentita dire, non andando io in nessun luogo. Vedo le brigate, passando; cappellini e cappelloni, gonne e casacche, guarnelli e vestaglie, roste, sciarpe, ombrellini, tutto un rigoglio di colori sgargianti, tutto un miscuglio di cose; ma per lo più da lontano. M'imbatto nella gente quando vado alla posta, per ritirare i miei giornali, le poche lettere che mi vengon da casa o dai pochissimi amici che vogliono ricordarsi di me. Conosco appena tre o quattro famiglie di questi ospiti estivi; saluto, baratto alcune frasi di convenienza, e non mi accompagno mai. L'orso di Corsenna, mi chiamano. È questa la notizia che mi ha dato un diavolo di ragazzino, nella sua terribile ingenuità, che ha fatta arrossire la sua mamma dalla radice del collo fino a quella dei capelli. Ebbene, sia, l'orso di Corsenna, e d'ogni luogo dove mi piaccia di andare. Non si viene egli al verde per goder libertà? Soddisfatto l'obbligo della leva, pagate le tasse, quante sono o vorranno essere in processo di tempo, faccia ognuno quel che gli pare.

Io, poi, vestito ordinariamente di tela, con un cappellaccio di sparto che ha la falda rialzata sulla nuca e tirata giù sul naso, con una mazza di nocciuolo, tagliata da me, e più lunga di quelle che usavano i Babilonesi (qui è utilissima per tener distanti i buoi e per mettere in fuga le serpi), non sono un figurino da far bella mostra in società. Lascio agli altri la strada maestra, l'abitato e i dintorni dell'abitato; passo il ponte di legno e mi ritrovo sul mio. Per altro, non ci corro; m'indugio di qua e di là per i campi, aspettando a passare quando sono ben certo che nessuno mi veda. Se, Dio guardi, avessero a scoprire il mio regno, mi potrei tappare in casa; tanto la riva destra del fiume è invasa e corsa e ricorsa da questo gaio sciame "d'infanti, di femmine e di viri". Alla riva sinistra, almeno in questo tratto per circa due miglia, non ci s'arrischia nessuno, perchè non mette a nessun luogo; mentre alla chiesuola di Santa Giustina, che è meta di scampagnate, si va più comodamente da un'altra via, per un ponte vero e sicuro, gittato all'estremità del paese. Così, dopo avere imitati nella mazza lunga i Babilonesi, ho imitati nella sottile accortezza i Fenicii, quando ebbero scoperta oltre le colonne d'Ercole la via delle isole Esperidi; faccio quanto posso per tener celata la mia direzione, e a buon conto non metto nessun sull'orma. Così il gran viale dei pioppi è mio; mio il grande tappeto verde, mia l'acqua ascosa, che dietro la fila delle carpinelle va cercando il mulino, per ritrovarlo un mezzo chilometro più in giù.

Ho preso Orazio in compagnia; Orazio, per far la corte a te, che me lo hai citato; nella edizione civettuola del Murray, per far piacere a me, che amo tanto veder belli i libri buoni. Quel caro Orazio è il più vario di tutti i poeti del mondo: ha tutte le corde della lira; c'è Pindaro, in lui, ed Anacreonte, Saffo, Simonide, Alceo, e chi sa quanti altri smarriti della greca antichità, i quali ci si faranno ritrovare un giorno (voglio sperarlo, almeno) nelle fasce di qualche mummia egiziana del periodo alessandrino. Come li ha tutti condensati, il Venosino, esprimendoli tutti con quel sentimento della misura ch'è la vera dote del genio! come li ha tutti rivissuti in sè stesso, non già intarsiator diligente ed accorto, ma fonditore balioso e geniale, rendendoli come guizzi dell'anima sua, da tanti spiragli di sincerità, con tanti lumi di vero! Senza vantarmi, credo d'essere un po' come lui; non nell'arte, intendiamoci, ma nel modo di pensare e d'intender la vita. Egli amò la campagna per le sue intime bellezze naturali, dopo aver goduta la città nei suoi eleganti artifizi. Non odiava gli uomini, conoscendoli, e sapendone ridere; aveva in pregio gli amici, e amava qualche delicatezza nel vivere. Perchè rinunzieremmo alle grazie? Può mai dimenticarle, chi le ha conosciute e praticate una volta?

Amo Orazio, e mi godo qualche sua ode, centellinando, assaporando le strofe, in mezzo a quei fregi, ornati, bozzetti di scene romane e pompeiane, onde il Murray ha accompagnato il testo, come di cose che gli appartengono. Più volentieri mi fermo ai passi dov'è fatta menzione dell'acqua. Quell'amico del vino sentì la poesia delle fonti. La sentirono, del resto, tutti i Romani. L'acqua è diamante liquido; abbraccia bene, penetra e scioglie, purifica e rallegra, canta bene e non istuona mai, salvo a maritarla col vino.

Orazio in una tasca della mia giacca e due panini nell'altra, me ne vado ogni giorno al mio rifugio nel verde. Perchè i panini, dirai, e per chi? Pei cani che ho sempre amati e più sento di amare, dopo che gli uomini hanno lavorato più alacremente a renderli uggiosi, vedendo da per tutto la rabbia. Se i cani diventano idrofobi, non hanno poi tutti i torti. Li vogliamo amici ad ogni costo, e neghiamo loro ogni onesta libertà; non li lasciamo ben avere in nessun modo, e li facciamo servire alle nostre esperienze fisiologiche. I cani lo sanno, e ne arrabbiano. Un giorno o l'altro vedrai diventare idrofobi i conigli e i porcellini d'India; questi, anzi, sotto il lor nome scientifico di cavie, saranno i primi a mordere i polpacci dei dotti.

Qui, dove son liberi, ma dove pare che ricevano i viveri in contanti, i cani mi vogliono tutti un gran bene, e vengono volentieri con me; cani da caccia e da pagliaio, da guardia e da tartufi, mi fanno le capriole, mi saltano alla cintola, mugolando, scodinzolando, fiutando, girandomi attorno, seguendomi, precedendomi, ringhiando per onor mio a tutti coloro che passano. Questa è stata la storia della prima settimana; ma poi s'è dovuto smettere via via, non passando più dai casolari dove incontravo quei cari amici, che a certe ore mi usavano la cortesia d'aspettarmi sugli usci. I padroni non vedevano volentieri queste amicizie dei guardiani di casa col signor forestiero; ed io, che ho capita la solfa, ho diradate le visite. L'ultimo dei miei amici di qui è stato Buci, il cane più stravagante di Corsenna. Piccolo e tozzo, di pelo rossigno con una macchia bianca dall'occhio destro al naso, gli occhi rossi, mozzate le orecchie e la coda, non è davvero l'Adone dei cani; ma ride, e ciò lo rende piacevole a vedere; ride, arricciando con atto strano il labbro superiore e mostrandomi tutti i suoi denti, corti, serrati, sani e bianchissimi. S'intende che ride con me e con altri pochi a cui vuol bene; sa ringhiare, per contro, e ringhia volentieri a molti, specie agli altri cani, volendo battaglia con tutti.

—Buci, che cosa sono queste scenate?—gli ho detto io qualche volta.—Non è da cani addentare il proprio simile, ricordatelo bene, è da uomini. Voi siate buono, affabile, cortese, morigerato e virtuoso; virtuoso sopra tutto, mi capite? La virtù, per vostra norma, ha sempre il suo premio, qui, nella mia tasca di destra.—

Questi discorsi fanno sempre un certo effetto su lui. Penso che quel cane sia capace d'una vera educazione. Il nome della virtù, sopra tutto, gli fa drizzare quei suoi mozziconi d'orecchi. Gli occhietti rossi ammiccano maliziosamente all'idea del premio serbato alla virtù sulla terra; e ride, di quel suo riso muto, ma tanto espressivo, arricciando le froge sulla chiostra dei denti. Povero Bucino! Ho dovuto rinunciare alla sua educazione compiuta. Il suo padrone, un contadino del colle qui presso, dice che glielo svio; perciò da otto giorni non mi faccio più vedere da quella parte. Ma se non ci sono io a sviargli il suo cane, c'è altri. Ah, questi benedetti villeggianti, che frucano da per tutto!

Oggi, per l'appunto, era andato sulle nove del mattino a fare la mia solita passeggiata, con la solita fermatina oraziana al mio rivolo. "O fonte di Bandusia, più lucente del vetro!" E letto un paio d'odi, m'ero anche addormentato; non per colpa d'Orazio, ma dell'argine erboso, che faceva gradevole invito. Dormivo nondimeno d'un sonno molto leggero, perchè uno stormir di frasche bastò a risvegliarmi. Chi vedo? Lui, proprio lui; Buci che mi scova, Buci che mi salta addosso, mi vuol baciare, mi fiuta il premio della virtù nella tasca…. No, non calunniamo quel povero Buci. È stato uno dei tanti suoi atti incomposti; e a quello non si è fermato, non ha insistito su quello. Per oggi, sicuramente, egli pensa coll'antico filosofo, che la virtù sia premio a sè stessa.

—Voi qui, Buci?—gli grido, destandomi in soprassalto.—Dormivo così bene!—

Ma egli non era solo, e la mia frase fu rotta appena incominciata. Di mezzo alla frappa delle carpinelle appariva una bianca figura; la signorina Wilson, vestita alla Pamela, o giù di lì, colla sua gonna di mussolina bianca a fiorellini, un gran fisciù incrociato intorno alla vita, di mussolina, di tulle, o di garza, non so più bene, certo della medesima stoffa del cappellino, assai largo di giro, chiuso serrato sotto il mento, per modo da farle una candida aureola intorno alla faccia colorita.

Ah, ecco l'inglesina! dirai tu, giungendo a questo punto del mio letterone. No, niente inglesina; il nome straniero è qui per trarti in inganno. Si chiamava Wilson il babbo di lei, ora morto, ma nato in Italia, dove i suoi erano venuti a stabilirsi per ragione di commercio; è italiana la mamma, fiorentina per la pelle. Aggiungi che la signorina non è bionda, anzi ha neri, ma proprio neri d'inchiostro, i capelli; che non è vaporosa di forme, nè altrimenti preraffaellesca, come pare si costumi laggiù. Di carnagione, per altro, doveva esser bianca; ma oramai, dal gran vivere che fa sempre all'aperto, è cotta bruciata dal sole. Mani e braccia sono egualmente abbronzite, non calzando mai guanti. L'ombrellino lo porta solamente, io credo, per darsi alle mosche. È, a dirti tutto in due parole, una mezza viragine. E lei e sua madre ho conosciute due settimane fa, con la Berti e con altre signore, tutte donne di sboccio; per istrada, si capisce, in un momento che non potevo più cansare l'incontro, ed ho barattate quattro parole di complimento, come s'usa in tutte le presentazioni. Non gridar dunque all'armi; niente inglesina, e la strada polverosa ha portato via tutti gl'ideali. A quest'età, poi, caro Filippo, vorrei vederlo io l'ideale che avesse il coraggio di farsi avanti!

Ed anche oggi si barattarono quattro parole, mentre io, da buon cavaliere forzato, l'accompagnavo fino al principio del paese. Tanto, il mio sonno era rotto, e rotto l'incantesimo della mia pace nel verde. Quel che è peggio, e non potrò mai consolarmene, è violato il mio dolce segreto. Povera acqua ascosa, com'io volevo battezzarla! Ne verranno, delle brigate, ne verranno a far chiasso da queste parti, specie per il gran viale dei pioppi, che la signorina Wilson ha dichiarato un prodigio.

Pazienza! cercherò dell'altro. E se non troverò dell'altro, me ne andrò. Il diavolo si porti le fanciulle girandolone, e i cani riconoscenti!

IV.

Poscritto…. rimasto a casa.

15 luglio 18…

Strano incontro e bizzarra conversazione, con questa signorina Wilson. Ben a ragione l'ho chiamata viragine. S'è fatta avanti arrossendo un poco, anzi diciamo pur molto, se molto ce ne voleva per trasparire dal bruno della carnagione, e ridendo in pari tempo, ridendo alto, più gradevolmente di Buci, che ha il riso muto.

—Il signor Morelli!—diss'ella, inoltrandosi.—Capisco ora perchè Buci voleva venire quassù ad ogni costo. Ma che cosa faceva Lei qui? dormiva, accanto all'acqua? Narciso ci si sarebbe voluto specchiare.

—Segno,—risposi io,—che non sono un Narciso.

—O piuttosto,—ribattè la signorina Wilson,—questa non è acqua da affogarci.

—Lo crede?—replicai.—Provando a tenerci dentro la testa….

—Allora, capisco bene, anche un catino basterebbe. Che bell'acqua viva, del resto!—soggiunse ella, affacciandosi all'argine.—Vien voglia di ficcarci le mani.—

E fece come diceva, affondando le mani, una dopo l'altra, e le braccia fino al gomito nell'onda cristallina, che fece intorno ad esse un lucido braccialetto d'argento. Io frattanto raccattavo il mio povero Orazio, che era scivolato sull'erba, e correva il rischio di prendere una bagnatura tanto molesta, quanto era piacevole alla signorina Wilson quella delle sue braccia indorate dal sole.

—Ecco il compagno di solitudine;—diss'ella, ridendo ancora alla vista del libro che stavo allora per rimettermi in tasca.—Un romanzo!

—Che! veda piuttosto.—

Così dicendo le squadernai sotto gli occhi il volume, avendo essa le mani impacciate e non amando io che quelle mani, per quanto gentili, battezzassero il mio poeta, pagano nella vita e nell'arte; e già anglicano nell'edizione, se mai.

Sis licet felix ubicumque mavis,—lesse ella, accostando la sua faccia a quelle del libro,—et memor nostri, Galatea, vivas…. Che cos'è? latino? Capisco ora perchè si fosse addormentato il lettore.

—Oh!—gridai.—Non faccia questo torto ad Orazio, nè a Galatea, il cui bel nome le è capitato sott'occhio. Mi ero addormentato qui, perchè avevo dormito poco stanotte.

—Ha ballato?—mi chiese, ammiccando.

—Io! Le pare?

—Ah, sì, è vero; non son cose per Lei, che è… se lo lascia dire?

—L'orso di Corsenna? Dica pure liberamente.

—Come lo sa?

—L'innocenza ha parlato, per bocca del figliuoletto dei Rossi. E sarà
Lei, m'immagino, che ha inventato il soprannome.

—Mi crede dunque molto cattiva?

—No, ma poichè voleva dirmelo….—ripigliai.—Gli autori recitano così volentieri le cose loro!

—Non sono stata io;—disse la signorina con accento più grave, che voleva acquistar fede alla sua asserzione.—Ma certamente mi pare che Le convenga. È proprio un orso, signor Morelli. Si fa la vita di campagna, vita allegra, di buona compagnia, e Lei se ne sta sempre da parte come un frate certosino. Si fanno corse di qua e di là, pranzi nei paesi e merende nei boschi, in dieci, in quindici, in venti persone, e Lei non si lascia vedere. Si balla qualche volta….

—E l'orso, contro l'uso, non fa neppur questo;—interruppi io.—Che orso male addestrato, non è vero? Quanto alle passeggiate, vede bene, signorina, che ne faccio.

—Ma da solo. L'ha mai veduto uno che si diverta da solo?

—Potrei dirle di sì, se avessi l'uso di guardarmi allo specchio. Ma io sono anche un orso mal pettinato. Infine, vivo da solo, com'Ella dice.

—E basta a sè stesso, non è così? Capisco infatti che tutto assorto nei suoi alti pensieri….

—No, non dica questo, La prego. Io non mi basto; e i miei pensieri, se mai, radono piuttosto la terra.—

Guardavo a terra, accompagnando col gesto la frase. E lì, a due passi da me, sporgeva il piedino della fanciulla; non un piede da viragine, in verità, e bisognava rendergli giustizia. Ella certamente si vergognò, perchè ritrasse il piede, dissimulando tuttavia l'atto sollecito con una carezza a Buci, che si era posto a sedere molto gravemente lì presso, quasi in mezzo a noi due. Dal canto mio, ero pentito già del mio atto, e tanto più facilmente, in quanto che era stato involontario.

—Radono piuttosto la terra,—ripigliai, volendo mostrare che non facevo nessuna allusione di cattivo gusto,—perchè appunto la terra mi piace, così verde, così sana, così confortante allo spirito. Per amor della terra vengo in campagna. Lor signore, lo so, guardano più volentieri in aria; quando giuocano al lawn-tennis, per esempio.

—Un bel giuoco; non Le piace?

—Avrò il coraggio di confessarlo; niente affatto.

—Pure, è ginnastica.

—Per che farne?

—Per rinvigorirsi. Alle battaglie della vita bisogna esser forti, respirar bene, muoversi bene….

—Certo; per ballare, per andare nell'inverno a teatro.

—Due cose che hanno la loro bellezza; non è anche Lei di questa opinione?

—No, signorina.

—Perchè?

—Sono molti, i perchè; richiederebbero molto tempo; ed è forse ora per Lei di ritornare a casa.

—Ecco, ci muoveremo, e Lei li potrà dir tutti passeggiando.

—Non tutti, non tutti; sarebbero troppi. Ma uno basterà. Nelle conversazioni, nei ricevimenti, nei balli, nei teatri, in tutti i luoghi, insomma, dove le donne portano la loro grazia e la loro gioventù, c'è sempre una caterva di sciocchi. Sono essi il maggior numero, vorrà convenirne. Per costoro si avrà da perdere il tempo e l'arte? per costoro da sciupar la grazia e l'ingegno?

—Ma non è vero, non è vero ciò ch'Ella dice;—esclamò la signorina Wilson, mentre passava davanti a me attraverso il fogliame delle carpinelle.—Per un uomo che sa il latino,—soggiunse, prendendo coraggio dall'andar che faceva senza guardarmi,—sono idee molto… molto… mi aiuti a dire?

—Stravaganti.

—Eh, quasi. Infatti, vediamo, crede proprio che le donne vadano ai balli e ai teatri per darsi pensiero degli sciocchi? Gli sciocchi son sciocchi, e nella società si accettano per contorno, come in certi piatti, mi passi il paragone, gli zucchettini e i cavoli di Brusselles!

—Poveri zucchettini!—mormorai.—Poveri cavoli di Brusselles!

—Ho detto quelli, non avendo altro alla mano;—diss'ella ridendo.—Cerchi Lei il contorno più sciocco, e sarà quello che ci servirà per definire tutti quei personaggi, che dispiacciono a me come a Lei.

—Ma non dispiace egualmente essere ammirate, citate sui giornali, vedere il giorno appresso descritte in tutti i loro particolari le graziose abbigliature.

—Oh sì, mi parli di quelle! Con tanti errori, dovendo farsi aiutare dalle modiste, e se Dio vuole riuscendo ad imprestare ad una signora il vestito di un'altra. Del resto, ritornando sui generali, voglio ammettere anch'io che un po' di tempo si perda in queste occupazioni di società. Ma questo avviene a tutti, e in ogni genere di vita. Lo guadagna forse Lei, il suo tempo, leggendo libri latini?

—Chi sa? Il vivere è un disporsi a morire.

—Ah bene! altre idee… come quelle di poco fa.

—Rinunziamoci dunque. Il vivere è un vegetare.—

Qui la viragine diede addirittura in uno scoppio di risa.

—Povera vita, a che la riduce! Ma almeno, per vegetare, bisognerebbe farsi piantare. Preferisce in vaso, o in piena terra?—

Gran diavola! Con lei, così pronta alla ribattuta, non si poteva vincere nè impattare.

—Ci sono,—provai a rispondere,—delle piante che non vivono per le radici, non avendone affatto; piante che vanno, come una arcana inquietudine interna le sospinge; piante che volano, come il vento le porta.

—Davvero? Le metteremo alla prova. Mi accompagni, sulla cima di quel monte.

—Signorina!…

—Perchè no? Tal quale mi vede, io vado da per tutto, anche da sola. Stamane ho già fatta una scorribanda assai lunga, e per luoghi abbastanza selvatici, senz'altra compagnia che quella di Buci. È un eroe, non lo sa?

—Lo so benissimo. Qualche volta è fin troppo ardito, temerario a dirittura. Ma per andare lassù, a Santa Giustina, giudicando così ad occhio e croce, penso che tra il salire, il restare, il discendere ci vorranno almeno due ore. E sono adesso le undici.

—Allora sarà per domani. Cioè, non per domani. Domani si va a visitare un altro santo. Come si chiama più? È il monte più alto di questi dintorni, a mille metri sul livello del mare.

—San Donato;—le dissi.

—Sì, per l'appunto, San Donato;—rispose ella.—C'è forse già stato?

—No, mai: ho letto il nome sulla carta.

—Senta il desiderio di portargli la sua; voglio dire la sua carta di visita. Ci venga anche Lei, domattina.

—Io? Le pare?

—Lei, sì, Lei. Saremo una ventina di persone; le Berti, ch'Ella conosce; la contessa Quarneri, col sèguito; il commendator Matteini; Terenzio Spazzòli, detto l'impareggiabile, ed altri che non ricordo, ma tra i quali non vanno dimenticati i ragazzi della signora Berti. Hanno poi promesso di accompagnarci la signora sindachessa e la signora segretaria comunale, che sono, vorrà convenirne, le due prime dame di Corsenna, per diritto d'uffizio. Condurremo anche Buci, qui presente ed accettante. Non si decide?

—Oh, non sarebbe per Buci, se mai; nè per tante altre persone che mi ha nominate.

—Volevo ben dire!—gridò ella battendo le palme.—Non sarebbe stato cavaliere. Parlando sul serio, signor Morelli, veda un po' d'esser buono. Tutte queste signore villeggianti di Corsenna dicono che Lei vive così appartato, perchè non ha trovata una compagnia abbastanza piacevole. Smentisca la calunnia, e venga.

—Signorina… non per la calunnia, che si chiarirebbe tale da sè, ma per non rispondere con un mal garbo alla sua gentilezza, verrò. I posteri non lo crederanno, ma infine….

—I posteri non lo sapranno neanche;—rispose ella, entrando con gioconda padronanza nella mia celia.—E poi, chi vuole occuparsi di loro?—

In questi discorsi eravamo giunti al viale dei pioppi. La signorina Wilson, venuta su da un'altra parte, non lo aveva ancora veduto. Ne fu tutta ammirata, innamorata, rapita al settimo cielo. Sincera, vivace, tutta di primo impeto, aveva facili le espansioni, come pronta la lingua. Di quella maravigliosa piantata di pioppi volle fare uno schizzo nel piccolo albo che portava sempre con sè. Furono pochi segni di matita, ma sicuri ed efficaci. Gran diavola, l'ho già detto e lo ripeterò ancora Dio sa quante volte, gran diavola di ragazza! Osservavo, intanto; e com'ella ebbe finito, lodai, non solamente per obbligo di cortesia, ma ancora per sentimento di verità, ch'ella doveva pur riconoscere.

—No, non mi lodi;—rispose ella tuttavia;—come disegno non val niente. È un ricordo, e come ricordo può andare. Vede intanto, signor Morelli, che io non perdo sempre il mio tempo? Se una cosa è bella, se franca la spesa, ne godo; se è sciocca, la lascio stare.

—Amen;—fui per rispondere; ma mi contentai di dirlo col gesto.

Mezz'ora dopo eravamo al principio del paese, dov'io presi commiato ed
ora per il giorno seguente. Giunto a casa, ho finita la lettera per
Filippo Ferri, ed ho tirato giù questo passio. Anch'io per ricordo.
Come ricordo può andare… e restare. Che perditempi, dopo tutto!

V.

All'altra bellissima ottava.

17 luglio 18…

Sì, diciamolo pure, che perditempi! E vanno proprio notati nel memoriale. Questo, davvero, meglio delle mie lettere a Filippo Ferri, vuol riuscire il "Giornale di Corsenna".

Ieri mattina alle sei, puntuale come un creditore, mi sono presentato in armi sulla piazza. Avrei voluto fare più nobili apparecchi di vestiario; ma poi ho pensato che si andava in montagna, che ero io l'invitato e non il mio abito, che finalmente il mio tutto vestito di tela era decentissimo, e il far novità sarebbe parso un atto di debolezza. Così non ho mutato niente del mio fornimento; solo v'ho aggiunto un bel fiocco di cravatta a capi svolazzanti, che facesse un pochino di spicco, dando tono e grazia a tutto il restante. Sciocchezze! ma chi non ne fa non ne conta.

C'erano le Berti, mamma, tre figliuole e due ragazzi, come a dire la chioccia e i pulcini. C'era la segretaria comunale, ma senza la sindachessa, che non aveva potuto muoversi da casa, essendo indisposto il primo magistrato di Corsenna. Si prevedeva, del resto; non già che fosse indisposto il sindaco, ma che la sindachessa, dopo aver detto di sì, facesse di no: era quello il suo modo di affermare la propria importanza. Giungevano in quel punto le Wilson, madre e figliuola; si faceva aspettare mezz'ora buona la contessa Quarneri, luminosa bellezza che non era mai pronta, ed aveva bisogno di comparire ultima sull'orizzonte, da quell'astro che era, e accompagnata dai suoi satelliti, come è costume degli astri. Appena giunta lei, ci mettemmo in cammino. Ricorderò, per amor d'esattezza, il commendator Matteini, un gentiluomo che ha conservato per trentacinque anni le patrie ipoteche, ed ora con eguale pertinacia conserva le sue fedine bionde, facendo il bello con la modesta gravità dell'uomo che non vuol dare importanza soverchia a questo dono di natura. Brav'uomo, del resto, e niente noioso, neanche quando parla del tempo ch'egli era di posto a Bologna; la "città dell'anima" com'egli la chiama, accompagnando la frase con una certa allargata di mantici e con certi stravolgimenti d'occhi, da lasciar balenare Dio sa quali ipoteche; radiate, speriamo, radiate oramai.

I vecchi son giovani, viva la faccia loro; ma chi sarà vecchio, se non ci si mettono i giovani? Ecco appunto Terenzio Spazzòli, che tiene nobilmente il suo posto di vecchio, senza averne l'età; Terenzio Spazzòli, senz'altri titoli, nè personali, nè ereditarii. Ma quello ha l'aria d'esser tutto; indispensabile in società, gran velocipedista nel cospetto delle tribune, gran guidatore di cotillons nelle feste, gran mastro di campo in tutte le giostre, socio nato di tutti i clubs che Dio misericordioso permette, di tutte le brigate "sportive" che sanno architettare e favorire le donne, queste graziose emulatrici della onnipotenza divina. Severo nel vestire, inappuntabile, inimitabile, impareggiabile, come lo ha battezzato la signorina Wilson; angoloso, bislungo e magro, ma adatto come un attaccapanni a tutte le mode; parco di parole e di gesti; un po' can barbone all'aspetto. Ha intera la barba, di fatti, ma rada, corta intorno alle guance, solamente più lunga e appuntata alla spagnuola sul mento; barba nera, aggiungo, che dà risalto ai denti bianchissimi, spesso e volentieri in mostra, come quelli di Buci. Anch'egli ha questo modo di ridere, a denti stretti, senza sonorità, senza spruzzi, manco male; e di ciò gli va data gran lode.

Mi fanno tutti di gran cortesie, non c'è che dire. La signora Berti e la signora Wilson, due mamme, mi prendono in mezzo, dopo che tutti gli altri mi hanno salutato; il commendator Matteini, con benevolenza tranquilla di capo d'ufficio in vacanza; Terenzio Spazzòli con gravità contegnosa, che potrebb'essere timidezza ed è forse degnazione; i tre satelliti della contessa Quarneri con pronta ed eguale affabilità, dopo che l'astro luminoso m'ha involto benignamente in un effluvio di pelle di Spagna, in una musica di paroline soavi, in un barbaglio di raggi e di sorrisi. Bravi, ragazzi; così va bene, senza dissonanze tra voi e senza sospetti per me. Ma dove mi sono imbarcato! Non vedo neanche il mio Buci, buon amico personale, e diciamo pure politico.

—Gliel'avevo fatto sperare;—trovò modo di dirmi la signorina Wilson, che pareva indovinare la causa della mia tristezza.—Ma il suo padrone è venuto iersera a ridomandarlo. Povero cane! non voleva spiccarsi da noi, temendo forse di buscarle. Ho ottenuto dal suo padrone che non lo bastonasse; quanto a lui, l'ho fatto andar più contento, promettendogli tutti gli avanzi della grande giornata.—

Gli avanzi promettono d'esser vistosi, perchè gli apparecchi son molti. C'è tutta una batteria di ceste, di canestri, di sporte, a cui bastano appena due muli e un somarello, fissati da Terenzio Spazzòli, nostro duca e signore. Come sempre avviene, l'asino è il più carico; del che non si duole. Con quei suoi passi corti e veloci, mossi a contrattempo, va sempre avanti a tutti, povero ciuco, e le sue grandi orecchie tese danno il buon esempio ai membruti compagni. Saltellano intanto le some; si sentono tintinnire le latte delle conserve, acciottolar le stoviglie, sgrigiolare gl'involti del pane, delle carni arrostite, lesse, salate. Fortuna che le bottiglie sono diligentemente impagliate, e i fiaschi bene affondati in grandi ceste di fieno. C'è un canestro che Terenzio Spazzòli ha fatto caricare con maggior cura; e non si sa che cosa ci sia dentro, e tutti muoiono dal desiderio di saperlo; ma l'inflessibile condottiero non si lascia smuovere da domande nè da supplicazioni; mostra i denti con una autorità inesorabile. Non vuole nemmeno che si parli di un altro carico misterioso, che dovrebb'essere la sua improvvisata più grande. È il più voluminoso, di fatti.

La mia mazza babilonese, tagliata in un ramo diritto di nocciuolo, ha destata la maraviglia delle signore. Ho dovuto spiegare perchè sia così lunga, e la signora Berti se n'è sbigottita. Ci son dunque molte serpi, in montagna? No, su per giù quante ce ne sono in pianura, e inoffensive, se mai, cioè non velenose; ma bisogna potersi guardare, e in questi casi un bastone lungo, pieghevole e rustico, val sempre meglio d'una corta e pulita mazza cittadinesca. Terenzio Spazzòli mi ha dato ragione, osservando giudiziosamente che male servirebbe in questi luoghi l'alpenstock, tanto di moda oggidì, ed anche fatto di bambù; vero arnese di parata, che nei passi difficili serve poco a sostenere, e nei brutti incontri, dovendo assestare due o tre colpi, si spezza, o alla men trista si sciupa; mentre un buon bastone egualmente lungo, di nocciuolo o di fràssino, sarebbe in ogni caso il più adatto.

Abiti convenienti per una gita in montagna sono stati messi fuori dalla contessa Quarneri, dalle signorine Berti e dalle due Wilson, madre e figliuola: cappellini semplici, senza sfoggio di nastri e di pennacchi, giacche alla marinara e gonne corte, che lasciano vedere i borzacchini di pelle chiara, allacciati sopra la noce del piede. Anche gli uomini tiroleggiano (concediamoci il gaudio d'un verbo nuovo), col fondo dei calzoni chiuso dentro le ghette, o dentro il collo delle scarpe da caccia; le giacche di panno bigio, tagliate a camiciotto e la cintura cucita addosso, per accoglierle in artistiche piegoline attorno alla vita. Il commendator Matteini è un poema; ha perfino la penna di pavone e il fiore stellato dell'edelweiss sulla testiera del suo cappello verde.

Nella prima ora del nostro viaggio eravamo tutti uniti in un solo drappello. A poco a poco, salendo la strada a ritroso del fiume, ci troviamo divisi in manipoli, secondo che hanno portato i capricci della conversazione, gli umori diversi e la maggiore o minore sveltezza delle gambe. Senza volerlo, io sono rimasto degli ultimi, colla Berti madre, che è la mia conoscenza più vecchia, e rappresenta del resto il maggior volume della brigata. La buona signora mi parla con arguta sincerità dei suoi ottantanove chilogrammi di peso, che non sono sempre piacevoli a portare: ma si consola pensando che erano già stati novantaquattro; ond'ella si è già liberata di cinque, e più spera di lasciarne in istrada, facendo continuamente del moto. Iddio l'esaudisca; ma per intanto ella viene ultima da per tutto.

E si sale ancora, si sale sempre su per la valle lunga; traversando paeselli e casolari; prendendo alcuni, un po' per chiasso, un po' per comodità, l'aiuto dei carri di contadini che si combinano per via; riunendosi qualche volta i manipoli sparsi, e separandosi da capo; ridendo tutti, chiacchierando, vociando, ammirando qua e là, facendo le maraviglie d'ogni più piccola cosa, e giurando che mai e poi mai si è fatta una più bella scampagnata. Così abbiamo passato l'ultimo ceppo di case, un mulino e una ferriera, dove la valle si fa più stretta e più fosca, e la via diventa un sentiero, tra macchie di ontàni, di querci e di fràssini, tra ciuffi d'eriche, di felci, di rovi, tra rumori continui di acque zampillanti, sussurranti, gorgoglianti d'ogni parte. La natura è qui d'una bellezza orrida, che piace assai, come tutti i contrasti. Il fiume, più ristretto d'alveo, si fa anche più capriccioso. Spesso il suo letto è quasi interamente attraversato da grossi petroni, impedito da balze e scogliere, ingombrato da massi tondeggianti come palle di bombarde spettacolose, non mai più viste, non mai più fabbricate. La signorina Wilson vuol sapere perchè quei massi rotondi, rugosi, di color rossastro si trovino là. Pietre cadute dai monti, risponde il commendator Matteini. Passi pei petroni, pei lastroni, per le falde e i macigni di calcare, che si vedono qua e là lungo il cammino, ancor male arrotondati dalle acque e dagli attriti del viaggio; ma quei massi tondeggianti appariscono più compatti e più antichi; son di granito, o di quarzo; centinaia di secoli li han visti così, e non sempre a quel posto. Io qui metto fuori la teorica dei massi erratici, lavorati e trasportati dagli immensi ghiacciai dell'epoca terziaria. Ciò mi solleva di qualche cubito nell'estimazione dei miei uditori; ci divento il geologo, lo scienziato della spedizione. A buon patto, non è vero? Ma io non ne abuso, e mi chiudo tosto in un prudente riserbo. Troppo vorrebbero saper ora da me le graziose signore, specie in materia di botanica, e più che io non mi ricordi d'averne imparato a pezzi e bocconi.

Seguendo i capricci del sentiero, si passa l'acqua almeno una dozzina di volte; si beve a tutti gli zampilli delle balze circostanti; si assaggiano tutti i frutti che offre la macchia. Abbondano le bagole, piccoli chicchi d'uva nera, che nascono dai ramicelli d'una specie di mirto, tanto graditi nell'autunno agli uccelli di passo; si trovano perfino le nespole selvatiche, piccine, ma più fresche al palato e più gustose delle domestiche. La signorina Wilson fruga per tutte le siepi, e ad ogni frutto che vede, domanda a me se può metterci il dente. "Mangi pure, signorina; queste bacche dal colore dell'indaco son le prune selvatiche, le madri delle nostre susine; asprigne, ma di gusto piacevole. Non ne abusi, per altro; si attacchi piuttosto alle fragole montanine, ai lamponi." Così ragionando, assaggiando di qua e di là il pasto degli uccelli, si sale, si sale ancora, fino al borro dove ha le sue sorgenti il fiume, diventato una cosa da nulla, e donde, chiuso il cammino dalla gran parete del monte, bisogna inerpicarsi da un lato sulla ripida costiera, per un sentiero a sghembi, che a vederlo di lì si direbbe un passo da capre. Ma ardito ci si arrampica il ciuco, e lo seguono i muli; ci arrampichiamo allegramente anche noi. La signora Berti è rimasta più ultima che mai; la regge e governa un fiero alpinista, il commendator Matteini. La contessa Quarneri ci ha i suoi tre satelliti; la segretaria comunale, la signora Wilson e le tre Berti, carine adolescenti, obbediscono ai cenni di Terenzio Spazzòli, sempre severo in ogni cosa che faccia, sempre sicuro di sè. I ragazzi trottano come puledri, ficcandosi tra i piedi dei grandi, inciampando, ruzzolando, saltellando e facendo il diavolo a quattro. Io prendo le mie vendette d'un troppo lungo restare in serrafila; sono in testa di colonna, e la signorina Wilson mi segue.

Gran montanara, gran camminatrice nel cospetto di Dio! E non suda, o non pare, mentre io grondo come una fonte. Ma è questo il mio solito; e non mi sento men forte, per ciò, meno voglioso di muovermi. In questo essa è come me; sente il piacere di andare in alto, sente come me il piacere di guardarsi indietro. Questo, poi, diciamo pure che può esserle venuto dalla moglie di Lot. Per fortuna non ci resta di sale. Quantunque, ad un certo punto della nostra salita, e in una delle nostre più belle fermate, la gran diavola fu per rimanermi di stucco. Contemplavamo la valle, così larga e così pittoresca davanti a noi, con tanti casolari sospesi come nidi sui fianchi verdi dei monti, con quella linea della strada che biancheggiava a tratti nel fondo, da qualche radura della frappa, allorquando la mia compagna diede un grido di maraviglia.

—Il lupo, signor Morelli, il lupo! Oh che bella cosa!

—Non tanto, signorina;—risposi.—Ma dove?

—Laggiù, veda; guardando diritto a quella sporgenza della montagna; più sotto, di qua dal grande albero….

—Ci sono, ci sono. Ma non è un lupo, quello; sarà un suo parente; voglio dire un cane.

—Già; e lo pensavo ancor io; ma volevo vedere che atteggiamento mi prendeva Lei, colla sua mazza babilonese. Proprio un cane; e come corre!

—Se non sapessi che è sotto chiave,—soggiunsi,—direi….

—Lo dica; abbia fede, signor Morelli, lo dica. È lui, il nostro
Buci.—

Il nostro Buci! Questo suonava più grato dell'accenno alla mia mazza babilonese e all'atteggiamento che la signorina Wilson si riprometteva da me per far fronte al pericolo. Ed anche, diciamo pur tutto, poteva far piacere l'idea di posseder qualche cosa in società con una bella ragazza; fosse pure un cane di villa.

Era lui, povero cane; era lui veramente, che aveva delusa la vigilanza del padrone, ed era corso sull'orma dei suoi protettori. Quanta strada aveva dovuto fare, per raggiungerci! Ma n'era finalmente venuto a capo; ed arrivando a noi, ansante, trafelato, con un palmo di lingua fuori, faceva ancora una mezza dozzina di salti buffi, mugolando ed alzando le froge per mostrarci tutti i suoi denti in un riso. Terenzio Spazzòli non sarebbe più stato solo a rider così.

Vorremmo concedere qualche minuto di riposo a Buci; ma egli non mostra di averne voglia; perciò ripigliamo la salita, restando d'un bel tratto i primi della comitiva. Sull'ultimo scaglione del monte ci fermiamo ad aspettarla.

—Che bellezza!—gridai, dando un'occhiata in giro a tutta quella gloria di vette, digradanti di prospettiva e di colore.

—Bravo! e Lei che non voleva venirci!

—Ma no, signorina. Ho accettato, appena me lo ha detto Lei.

—Con qualche restrizione. I suoi posteri, per esempio, che non lo avrebbero creduto….

—È vero; ma quando Lei mi ha soggiunto che non lo avrebbero saputo….

—A proposito, signor Morelli…. I posteri, voglio sperare, sapranno il suo nome di battesimo, mentre io, sua contemporanea, non ho ancora questa fortuna.

—Fortuna! Vogliamo dire? Mi chiamo Rinaldo.

—Rinaldo!—ripetè ella.—Un nome di paladino.

—Che non sarà mai esistito, se Dio vuole. E Lei? Sentiamo il suo, ora.

—Un brutto nome; sicuro, ne giudichi; Caterina.

—Bellissimo, anzi. E se ne possono cavare anche parecchi vezzeggiativi.

—Cominciando da Càtera, non è vero?

—No, lasciamo Càtera a Mercato Vecchio, C'è Rina, non Le garba?

—Ah!—esclamò essa ridendo.—Lei vuole accostarmi a Rinaldo.

—Senza sforzo, se mai; ed è il vezzeggiativo più signorile di Caterina. Ci sono poi le forme esotiche; le inglesi, prima di tutto, poichè Lei ha già inglese il casato. Kathleen, che è così dolce; Kate, che è così fine; Kitty, che è così birichino….

—Si fermi, e levi l'epiteto. Così per l'appunto mi chiamano in famiglia. Del resto, ci ho parecchi altri nomi, a registro; Frances, Evelyn, Dorothea.—

Il mio pensiero volò a Galatea e all'ode d'Orazio che il giorno innanzi le era caduta sott'occhio. Volevo ripigliare; ma in quel punto si affacciavano dalla salita le signorine Berti, e la nostra conversazione s'interruppe di schianto. Ed altri seguivano per l'erta, tutti affrettando il passo, a mala pena ebbero veduto noi, con quella furia montanina che è così naturale alla vista del luogo dove si farà la fermata. Là, poi, tutti si voltarono ad ammirare la valle, e si diè tempo di arrivare anche agli ottantanove chilogrammi della signora Berti, guardati, conservati e ipotecati per allora dal giubilato e giubilante commendator Matteini. Per la coppia ultima venuta bisognava allungare la stazione; e la signorina Kitty volle approfittare dell'indugio, correndo più in là a visitare una grande e folta piantata di faggi; vecchi faggi secolari, come se ne vedono più pochi sulle nostre montagne, poichè il bisogno e l'ingordigia hanno appiccicata all'umanità sprecona la malattia del far assi a tutto spiano. E si contentasse ancora di ciò! Dove ho letto io l'altro giorno che si pensa ad usare come forza motrice la cascata delle Marmore, cantata dal Byron? e che in Francia si pensa a fare il somigliante delle "chiare, fresche e dolci acque" di Valchiusa? Gli uomini son vandali su tutta la faccia della terra; e un giorno, ne ho fede, verrà un altro diluvio per castigarli. Spoglino per intanto le montagne, e vedranno.

Corsi dietro alla signorina Kitty, per trattenerla.

—Non vada laggiù; ci son buche e tradimenti.

—Come! tra i faggi?

—Per l'appunto, tra i faggi vecchi. Cascano i più vecchi e marciscono sotto le nevi; tra rami, foglie, licheni e borraccina, si forma su quell'intreccio di tronchi uno strato che inganna; par di andare sul sodo, e ad un tratto cricche, ci si può lasciare una gamba. Ha capito? Le proibisco di andare.—

La signorina Kitty abbassò il capo, alzando le pupille a guardarmi di traverso.

—Come comanda bene!—mormorava frattanto.

—Ho piacere che l'osservi;—risposi.—E Lei obbedisca bene.—

Mi fece il muso lungo lungo; poi scoppiò in una risata, che fece ridere anche me. Gran diavola e buona compagnona!

Si ripigliò la strada, costeggiando il bosco dei faggi, così nero sotto il denso fogliame, che alle nove del mattino si distinguevano appena le prime cinque o sei file di tronchi, e tutto l'altro era sepolto nell'ombra. Mezz'ora dopo, si afferrava la vetta; non la più alta del San Donato, ma uno dei suoi sproni, e il più prossimo, tra il quale e la cima del monte si stendeva una lunghissima prateria, tutta liscia e verde di smeraldo. Dall'orlo di questa, affacciandosi verso mezzodì, si offriva ai nostri occhi una scena stupenda. "Thalatta! Thalatta!" avrei gridato io, se fossi stato certo che i miei compagni gradissero il greco. "Il mare! il mare!" gridarono essi, tutti accorrendo, perfino la signora Berti, che prese un'ipoteca temporanea sul braccio del commendator Matteini.

Scena stupenda, per verità, incantevole, divina, come una di quelle che immaginiamo qualche volta essere arrise nei luoghi eccelsi alle albe del genere umano. Gran verde ai nostri piedi; poi subito un gran vano, come un abisso spalancato, profondo, buio alla prima vista, ma pieno di cose e di colori indistinti; di là dall'abisso un lungo disordine, ma severo e solenne, di dorsi montuosi, di picchi e di guglie rocciose; di là ancora, oltre una riva non vista, l'ampia infinita distesa del mare, calma superficie tra turchiniccia e verdognola, solcata per lungo da liste di bianco, sfumata qua e là da chiazze irregolari di grigio; e tutto fremente, tutto sfavillante d'una luce vaporosa, come sotto un mobile polviscolo d'argento e d'oro. Immobili a fior d'acqua, come ninfe marine, apparivano le prime isole del Tirreno: la Gorgona e la Capraia, minuscole, quasi burchielli arrovesciati sui flutti; l'Elba, più vasta, in forma d'un lungo scudo sannitico; e laggiù, a destra, sull'orizzonte, bianca scogliera rilucente al sole, la punta settentrionale della Corsica. Bellissimo! bellissimo! E non si sapeva dir altro. Bellissimo, infatti, com'è sempre il bello, quando si vede da lontano, e lascia modo a pensarci, a fantasticarlo secondo i nostri desiderii.

Ho sonno; finirò domani.

VI.

In alto, e in basso.

18 luglio 18…

Le signore hanno protestato di non voler salire più oltre. L'ultima punta del San Donato è alta ancora un centinaio di metri; ma che cosa si potrà vedere di lassù, che non si veda dall'orlo del prato? la Sardegna, forse? o la costa d'Africa? Dunque, fermi lì, dove si sta così bene. Terenzio Spazzòli è interrogato da una quindicina di sguardi, più o meno supplichevoli; Terenzio Spazzòli si arrende al desiderio dei popoli, ma con la dignità di un re, che sembra dire coll'atto: era questo il parer mio per l'appunto. E subito comanda ai serventi di portare le provvigioni di bocca in un vicino boschetto di faggi, che già aveva adocchiato arrivando.

—Non là;—disse la signorina Kitty, gittando verso di me un'occhiata maliziosa.—Ci saranno delle buche, tra i faggi.

—Non c'è pericolo; rispose l'esperienza paesana, per bocca di uno dei mulattieri.—È una faggeta di pochi anni, e c'è sodo come sulla strada battuta.—

Si va a vedere, seguendo le nostre salmerie. Il luogo è adatto e grazioso; una selvetta che par pettinata mezz'ora prima dalla madre natura, tutta a masse ben distribuite, tutta viali, sentieri, redole, andirivieni, che paion tracciati a disegno. Fatti un cento di passi, ecco una bella radura, con una fontana nel fondo, certamente più alta di tutte quelle che danno origine al fiume. Sgorga l'acqua da un fiorellino, tra ciuffi di felci e capelveneri; zampilla, gorgoglia, sussurra per un po' di cammino fra i sassi, andando a far lago in una buca di forse due metri, che s'è scavata nella zolla del prato; donde poi straripa e scivola a valle, immollando per un buon tratto il terreno. Acqua limpida e fredda, dove la signorina Wilson è già corsa a tuffar le mani con gioia infantile, io l'amo e la venero come tutte le fonti, in ciò sentendomi veramente pagano. Terenzio Spazzòli si affretta a profanarla, ficcandoci dentro non meno di trentasei bottiglie, fra segni non dubbi di approvazione e di ammirazione da parte dei saggi. A che altro, di grazia, dovrebbero servire le fonti, se non a tenere in fresco il vino, specie quando le bottiglie, mal difese dal tessuto delle ceste, si sono scaldate al sole in tre ore di marcia?

Terenzio Spazzòli è l'uomo sapiente che nessuna cosa vale a turbare, o solamente a commuovere. Potrà essere uno sciocco; ma è certamente un personaggio destinato al comando, solo che altri lo tenga da ciò, riconoscendo la mediocrità di lui quanto bisogna per non sentirne invidia; donde ha origine un bel moto dell'anima, e la voglia matta di spingerlo in alto. Egli frattanto può raccomandarsi benissimo all'attenzione de' suoi simili, rendendosi utile e tenendosi abbastanza prezioso. È a buon conto uno di quegli uomini che fanno di tutto: non eccessivamente bene, capisco; ma ogni eccesso non è forse difetto? Gran gente, i mediocri, quando sono operosi, attenti e pacati. Non hanno scatti di pensieri, di affetti, di risoluzioni; fanno quel che possono e sanno, magari quel che non sanno, ma con tanta buona volontà! Chi crede di far meglio si faccia avanti; essi hanno data la loro misura, non facendosi pregar troppo, non ispaventandosi di nessuna malleveria. E riescono, il più delle volte; se non riescono, sarà ancora un bel merito aver provato di fare. Sono utili, così; diventano necessarii; chi ne rideva da principio, si avvezza a loro, non vede che loro, non sa passarsi più dell'opera loro e della loro persona. Mediocri, io vi saluto; se stèsse in me, vi adoprerei tutti al governo.

Si fanno grandi apparecchi intorno alla fontana; ed anche poco distante, tra i faggi, dove sono state condotte e scaricate le bestie da soma. I serventi son tutti in faccende, obbedendo agli ordini di Terenzio Spazzòli. Hanno perfino improvvisato un focolare, di cui sentiamo crepitare la stipa. Che cosa vorrà essere la nostra refezione all'aperto? Terenzio viene modestamente a consigliarsi con le signore; propone un pasto che sia colazione e desinare ad un tempo, osservando che due pasti separati da troppo breve intervallo si guasterebbero l'un l'altro. La sua osservazione è giudiziosa, quasi profonda, come tutto ciò che gli esce di bocca. Terenzio bocca d'oro! E niente insuperbito dell'approvazione universale, si volge a me, domandando come si potrebbe chiamare il pasto consigliato da lui. A me? certo, ed anche naturalmente: non son io, per decreto delle signore, lo scienziato della spedizione? Propongo di chiamarlo "colazione desinatoria", corroborando la mia proposta con la "coulassion disnoira" dei Piemontesi e col "dèjeuner dinatoire" dei Francesi. La necessità di copiare è evidente; se c'è la cosa, perchè dovrà mancar la parola? e se degli italiani l'han trovata in dialetto, perchè non si dovrebbe farla passare nella lingua?

Accettata la parola, o le parole, si aspetta con desiderio la cosa. La camminata lunga e l'aria montanina hanno recati i loro effetti maravigliosi; gli stomachi vuoti rimordono, come altrettante coscienze aggravate. Ma bisogna aver pazienza un momentino; quel tal momentino che diventa un quarto d'ora per via. Non è molto, poi; ed anche è bene speso quel po' di tempo, perchè sono arrivate le scodelle e distribuite sui tovagliuoli, davanti ai commensali, adagiati sull'erba; e dietro le scodelle arrivano parecchie latte di brodo fumante. "Questo ristora" osserva Terenzio Spazzòli, facendosi attorno col cucchiaione, per servir le signore. I fabbricatori di conserve alimentari hanno fatto il miracolo; il fuoco l'ha compiuto, dando una scaldata alle latte; nondimeno, si dà merito di tutto a Terenzio Spazzòli. Infatti, è giusto; l'idea di ristorare gli stomachi, prima di nutrirli con le vivande fredde, l'ha avuta lui, e gliene va data la lode. Notate ancora: arrivato il brodo, a parecchi viene l'idea di far la zuppa del cane, rompendoci dentro una mezza pagnottina. Ma no, non c'è bisogno di questo; Terenzio Spazzòli ha pensato egualmente ai piccoli dadi di pane tostato nel burro. Sarà la zuppa del viaggiatore, se mai; zuppa da persone di garbo, che vogliono dare la sua parte anche all'occhio. E sia pure zuppa del cane anche questa, ma solo quando ne avrà assaggiato il povero Buci, che va trottolando, scodinzolando, mugolando, fiutando, dalla fontana alla cucina, dalla cucina alla fontana; certo, all'apparenza, il più affaccendato di tutti. Il brodo caldo ha ristorati gli stomachi: ora vengono i freddi: prosciutto, mortadelle, polli arrosto, galantine, gelatine, burro, sardelle di Nantes, bottarghe e via discorrendo; tutta roba che dà buon bere agli uomini. Ed anche le signore non canzonano; è bello vederle all'opera, sgranocchiare allegramente d'ogni cosa, rinunziando volentieri alle forchette e ai coltelli, dove possono bastare le mani, non badando ad ungersi un pochino le dita, e magari gli angoli della bocca. Ai miei tempi sono stato romantico anch'io, e poco mi piacevano le donne in atto di mangiare; cresciuto negli anni, nella esperienza e nel sentimento della vita, amo vederle a tavola, occupate graziosamente a morsicchiar petti di pollo e pasticcini di Strasburgo; senza contare che la tavola meglio imbandita, dov'esse manchino, è triste. Per passare la musoneria, lo so bene, ci si beve di più; ma allora, peggio che andar di notte, corrono i discorsacci, volano i motti pungenti e si risica di finire come alle nozze di Pulcinella, che le furon legnate. Colle donne a tavola, c'è sempre in ogni piatto il condimento della grazia, che vi farebbe parer buona anche una frittata senz'ova; c'è l'allegria contenuta, la celia garbata, il desiderio di piacere, la cura di non esser noiosi; tutte le buone qualità dell'uomo sono in mostra, e le cattive abilmente dissimulate; sicchè par proprio di ritrovarsi fra gente civile.

Così pensano i classicisti, che oramai tengono il campo. Ma ecco, mentre clan volta i romantici, venir fuori un'altra razza di guastamestieri, gli uomini politici e i politicanti, coi loro banchetti mascolini a un tanto a testa, colla minestra cotta stracotta e raffreddata per via, colle salse andate a male, col pesce passato, col servizio fatto a casaccio; e tutto ciò per il maledetto gusto di sorbirsi alle frutta un bicchiere di vinello che la pretende a Sciampagna, e una tantafera sconclusionata che la pretende a discorso. Ma ne sono quasi sempre puniti; perchè, se il bicchiere è uno, son due i discorsi, tre, cinque, sette; e qualche volta, data la gravità del fallo, s'aggiunge il castigo di Dio d'un sonetto, improvvisato per l'occasione la sera innanzi, o quell'altro del personaggio cupo che si leva ultimo, incominciando: "Signori, io non sono oratore…" e cava dalla tasca del soprabito uno scartafaccio enorme.

Sono di cattivo umore, io. E non erano così, l'altro ieri, i miei compagni di San Donato. Alle frutta non si fecero discorsi, quantunque fossero molto bene snodate le lingue. Venne e fu aperto sotto i nostri occhi il vaso di Pandora; voglio dire il canestro misterioso, per cui si erano fatte tante ciarle e tante supposizioni durante il viaggio. Ne uscirono fuori chicchere, piattini, cucchiaini, caffettiera, zuccheriera, tutto un servizio da caffè. Dio degli Dei! e già dalla cucina nascosta tra i faggi si spandeva, giungendo fino a noi, l'aroma della bevanda celestiale, che staccava il bollore nel bricco.

Terenzio Spazzòli fu proclamato ad unanimi voti un grand'uomo. Lo avremmo levato sugli scudi, se non ci fossero mancati gli arnesi da ciò, e se non fosse stato necessario levarci noi da sedere. Il nostro condottiero accolse con tacita compiacenza le lodi, e attese egli stesso al servizio, presentando la chicchera fumante alle dame. Lo aiutava la signorina Wilson, presentando la chicchera ai cavalieri; gran degnazione in lei, nuovo pregio che si aggiungeva alla cosa, e per cui Galatea si tramutava in Ebe. La seconda immagine non è mia; è del commendator Matteini, giubilato come conservator d'ipoteche, ma non ancora come conservatore delle buone tradizioni letterarie. Ed era graziosa, quell'Ebe; ma forse un po' troppo gloriosa, avendo l'aria d'essere stata a parte del segreto. Anzi, diciamo tutto, ad un certo punto se lo lasciò sfuggire di bocca. "Ma sì, volevamo fare una improvvisata." Ahi, questo non è bene. Dunque la signorina Kitty ci ha l'uso delle partecipazioni? Infatti, può dire a me: "il nostro Buci"; a Terenzio Spazzòli: "il nostro caffè."

La signorina Kitty conosce anche il segreto della cesta? Ma sì, figuriamoci se non ne ha la sua parte! Non ho ancora digerito il caffè, e già mi danno l'assenzio. Il taciturno condottiero ha lasciata la compagnia, sottraendosi al coro dei suoi lodatori. Ed anche lei si muove, andando tra i faggi, verso il deposito delle provvigioni. C'è del nuovo, per aria, e si sente. Quando ritorna, con la sua aria birichina e col suo risolino malizioso, va a discorrere sottovoce colla contessa Quarneri. Non afferro che questa frase, con cui ella finisce: "ci sta Lei?"

—Ma sì,—risponde la luminosa contessa, è un'idea stupenda. A mille —metri sopra il livello del mare! Non potranno vantarsene molti.

—Che c'è?—domandano le signore, poichè la contessa ha parlato a voce alta, e non vuol far mistero di nulla.—Un'altra improvvisata?

—E come! un lawn-tennis su quella prateria, che par fatta a bella posta.—

Un lawn-tennis! Le ragazze Berti saltano dalla gioia. La mamma loro non farà certamente quell'esercizio ginnastico; ma in fondo non le dispiace, dopo desinare, godersi un po' di spettacolo. La signora Wilson madre non può sgradire un divertimento della sua patria d'adozione. La signora segretaria comunale non lo conosce ancora da vicino; sarà felice di essere ai primi posti, per assistere ad una delle tante inezie della moda. I tre satelliti della contessa amano tutto ciò che ama il loro astro dominatore. Il commendator Matteini non ha opinioni in proposito; rammenta d'essere stato ai suoi tempi un dilettante di pallone; si adatterà volentieri a veder giuocare alla palla; condizione di spettatore tranquillo, che può pensare intanto a tutt'altro, magari alla "città dell'anima" Quanto a me, dovevo immaginarmelo, questo tiro mancino. Abomino il lawn-tennis, più ch'io non faccia i miei peccati di gioventù, pensieri, opere ed ommissioni; e proprio a me doveva toccare questa delizia, a mille metri, anzi a mille e diciannove, sul livello del mare.

Ho fatto di necessità virtù, accompagnando la brigata sulla prateria destinata. Avrei fatta anche la fatica di andare attorno, in cerca di petroni, per far sedili alle signore. Ma c'erano i ripieghini, utili e maneschi sederini di tela, coi due staggi mastiettati a iccase, che venivano a fare l'ufficio loro in buon punto. Il saggio Terenzio Spazzòli aveva proprio pensato a tutto, perfino agli ottantanove chilogrammi della signora Berti.

E già, in quella sua breve assenza dalla fontana, aveva fatto prodigi. Aiutato dai serventi che gli tenevano le cordicelle tese, e dai due piccoli Berti che gli portavano il gesso, aveva segnate le doppie linee parallele del campo di giuoco; poi, piantati i piuoli, aveva rizzata nel mezzo la rete, che fa nel lawn-tenis l'uffizio del cordino nel giuoco del pallone, e che bisogna sempre trapassare con la palla, perchè il giuoco sia buono. Le racchette erano a posto sulle due estremità del campo; a posto sulla battuta le palle di guttaperca, in numero di sei, per averne sempre una in pronto, se un'altra si crepasse, e un'altra o parecchie volassero di qua o di là fuor del confine. Per quelle, poi, vigilavano i ragazzi, sempre vogliosi di correre. Così tutte disposte le cose, in mezzo a due file di spettatori si distribuirono le coppie dei giuocatori e le mute rispettive. Primi a giuocare furono da una parte la contessa Quarneri con Terenzio Spazzòli, dall'altra la signorina Wilson col primo (è poi veramente il primo?) dei famosi satelliti. Anche a me fecero cortesia, invitandomi a giuocare. Mi sono scusato, confessando d'essere ad ogni giuoco una sbercia.

Non è meno sbercia (sia detto con tutto l'ossequio dovuto a tanti pregi fisici e intellettuali) non è meno sbercia di me la contessa Quarneri, che con una sequela di falli conduce in perdizione il suo compagno di giuoco e sè stessa. Pure, aveva contrario uno dei fidi satelliti, che lavorava con ogni suo potere a farla guadagnare, non azzeccandone mai una. Ma vegliava accanto a lui la signorina Kitty, che le imbroccava tutte, e che, com'ebbe visto far cilecca il compagno, prese a levargli la mano, muovendosi lei, leggera come una ninfa, e sopramano e sottomano, come le veniva fatto, rimandando la palla; ma, da furba, non mai dalla parte di Terenzio Spazzòli.

Ho detto che le imbroccava tutte, e non mi disdico, sebbene due le uscissero dalle righe. Ma quelle due le aveva gettate a bella posta fuori del giuoco. Scambio di rimandarle alla parte avversaria, con un abile giro di racchetta le scagliava verso di me, una facendone ruzzolare fino a' miei piedi, e l'altra, poi, accoccandomela senza misericordia sul mio cappello di sparto; senza averne l'aria, si capisce, mentre io stavo discorrendo colla contessa Quarneri, che si era stancata alle prime partite, e uscita di giuoco e surrogata dalla maggiore delle Berti, era venuta a sedersi presso di me, rimasto a caso in disparte. Non più Ebe, no davvero, Galatea da capo; e non già quella di Orazio, che si metteva in viaggio; non già quella di Teocrito, che tradiva Polifemo per Aci; la Virgiliana, dico, della quale cantò Darneta nella terza delle Bucoliche:

Malo me Galateo, petti, lasciva puèlla, Et fugit ad salices et se cupit ante videri.

Ad un certo punto, approfittando della distrazione di uno dei ragazzi, viene a raccogliere una palla a poca distanza da me. Avrei dovuto alzarmi io a raccoglierla; ma mi tratteneva nel dialogo una battuta un po' lunga della contessa Quarneri. Passando leggera davanti a noi, la signorina Wilson mi gitta poche parole, che rompono a mezzo il discorsetto della mia interlocutrice.

—Non è vero, signor Rinaldo, che è bello il lawn-tennis?—

Le rispondo che è bellissimo; ma ella è già trascorsa veloce, sorridente, graziosa; si curva sulla vita, raccoglie la palla, e fugge al suo posto di combattimento. Gran diavola di ninfa! Non offre all'occhio che belle linee flessuose, elegantissime nella loro mobilità: ogni atto, in lei, ogni gesto, ogni movenza, è un prodigio di grazia. Ci ha parte sicuramente il lawn-tennis, con tanta varietà di movimenti che richiede; ed è forse per questo che le signorine giuocano volentieri al lawn-tennis.

Ma ogni bel giuoco dura poco, anche quando pare una gran novità, a mille diciannove metri sul livello del mare. La signora Wilson e la signora Berti, madri, ed arbitro del campo, hanno guardato l'orologio e fatto un gesto a Terenzio Spazzòli. La signora Berti è anche un po' di cattivo umore. Perchè? Immagino che le dia noia la luminosa bionda che ha tre serventi, mentre le sue figliuole non ne hanno nessuno. Eppure son tanto carine! Ma che mania, scusi, è la sua, di condurle da per tutto in mostra, a far numero tra le donne di sboccio, tra quelle, io vo' dire, che stanno sulle mode e sugli spassi, che son vaghe di conversazioni, di teatri e di feste da ballo? Giuro, anzi scommetto, che a far così non troveranno marito. Uno che abbia la vocazione di prender moglie, o cerca una dote vistosa, o si appiglia a qualità più modeste. Le sue care figliuole hanno tutte le mode ultimissime, scorrazzano su tutti i marciapiedi, si fanno vedere a tutte le prime rappresentazioni, a tutte le feste, a tutti i ricevimenti solenni. È una cattiva strada, quella che prende la signora Berti degnissima. E ci ha, dopo tutto, un cuor d'eroina: per il suo nobile errore si adatta ad ogni fatica più improba; corre di qua e di là senza posa, naviga e pesca in ogni acqua, povero vascello a tre ponti, e si scusa dicendo che fa tutto ciò per ragion di salute.

Se almeno uno dei tre satelliti lasciasse un po' la Quarneri! Ma no, niente; son fermi al posto, e si direbbe quasi che si facciano la guardia l'un l'altro. Dove uno va, si cacciano gli altri due. Garbati, silenziosi, sospettosi, non sanno neanche marciare in fila; vanno sempre di fronte. Quando uno ha l'ombrellino della signora da tenere, l'altro porta il ventaglio, e il terzo i guanti. La contessa li tratta tutti egualmente, con languida benevolenza imperatoria. Con altrettanta benevolenza ha chiesto dei versi a me, pel suo albo. "Gli amici miei ci son tutti," mi ha detto, "e non altri che amici." Dio, quanti ce ne debbono essere! È molto bella, e d'una bellezza che attrae: carnagione di madreperla, con toni rosei; capelli biondi, ma d'un biondo strano che tira all'amaranto, con vene e riflessi d'oro di zecchino; occhi un po' grigi, ma fosforescenti; bellezza luminosa, ho già detto, e non c'è altro da aggiungere.

Gli arnesi del giuoco sono raccolti nella cesta; raccolta e caricata la batteria degli impicci, delle provvigioni avanzate, delle stoviglie, e via discorrendo. Si dà un'occhiata stracca alla gran scena del mare, che ci aveva tanto commossi all'arrivo, e si riprende il sentiero della valle. Laggiù, a due terzi di strada, dove si era notato un luogo assai pittoresco in vicinanza del mulino, si farà una lunga fermata ed anche una merenda. Così decreta Terenzio Spazzòli. Le signore protestano che non toccheranno più cibo; ma egli, sicuro del fatto suo, sentenzia che giunte laggiù sentiranno ancora gli stimoli dell'appetito, e non vorranno poi lasciar soli a macinare i compagni del sesso forte, che sentiranno gli strazii della fame. Si ride, si salta, si canta e si scende.

La signorina Wilson è venuta al mio fianco, a caso, e per non rimanerci a lungo.

—Di che cosa le parlava con tanto ardore la signora Quarneri?—mi chiede.

—Di poeti, in genere;—rispondo.—Ma più del Leopardi. Ne va matta.

—Sì?—-esclama lei, torcendo le labbra.—Oh cara!—

Qui fa una pausa, e poi parla d'altro; finalmente, disponendosi a lasciarmi per andar colla Berti, mi scaglia la frecciata del Parto fuggente.

—Ho osservato che Lei diventerà un discreto giuocatore di lawn-tennis.

—Io? e perchè?

—Perchè si adatta così bene a fare il quarto—

Assassina! Vorrei chiederle conto della sua frase, ritenendola oscura: ma lei è già lontana, e chiama Buci ad alta voce. Buci arriva, ma a piccole giornate; non salta più, trova appena il tempo di ridere, avendo fatta una scorpacciata da vicario foraneo.

Lascio la signorina Kitty al suo Buci. Ed ella non sa che potrei farla ridere con più gusto e più rumorosamente di Buci. Basterebbe che io le riferissi un brano di discorso della signora Quarneri.

—Quanto l'amo, quel caro Leopardi! E dica, è sempre laggiù confinato nella sua Recanati?—

VII.

Rinaldo a Filippo.

25 luglio 18…

Che idee ti passano per la testa? Che opinione ti sei formata di me? che io sia diventato un mulino a vento, da muover le pale ad ogni soffio? un arcolaio, che quanto è più vecchio e più gira, ai capricci delle donne gentili che si trastullano a dipanare? un guancialino da aghi e da spilli, per uso delle ragazze che si addestrano a pungere? e peggio, poi, un tappeto, una pedana, un posapiedi da contesse?

Tu vuoi aver l'aria di saper molto addentro dei fatti di Corsenna; e non sai niente, lasciatelo dire, niente di niente. Se sai, perchè ti lagni che non ti scrivo io? Ma infine, è vero, non ti ho più scritto da dieci giorni, magari da quindici. Ho la malattia degli scrittori, mio caro; quella specie d'intermittenza, ch'essi hanno comune con certe fontane. Sono periodi d'inerzia. Quando non riesco ad azzeccare un'idea, ed ho nondimeno il prurito nelle mani, scrivo lettere; è giusto allora che io scriva al miglior degli amici. Ma poi le idee mi ritornano, o mi pare; e allora son tutto al lavoro. Guai se non fosse così.

Quanto al "giornale di Corsenna", checchè tu ne pensi, non si poteva tirare avanti; era vuoto di cose, ed io non potevo tesserlo tutto di ciance. Altro che articoli di fondo, come li vuoi chiamar tu, sognando ad occhi aperti. Vedo qualche volta, saluto, e da lontano, se posso: quando non posso da lontano, adempio gli obblighi di società, tirandomi fuori alla svelta, e mi rifaccio al poema. Sicuro, al poema, mio tormento e mia gloria. Rivedo più chiara l'idea madre; anzi, ti dirò che mi è cresciuta fra mani. Don Giovanni è l'uomo, nella sua bramosia insaziata d'ideale, dell'ideale che cerca da per tutto, che crede ad ogni istante di afferrare, e che da ogni parte gli sfugge. Mi dirai che questo è poi Faust, quello della seconda, e più ancora della terza parte. Vero; ma quello è veduto un po' tardi, ed espresso anche timidamente, sarei per dire fiaccamente, con ingegno sempre sveglio, ma con mano senile, del tempo triste in cui ride ancora al poeta l'immagine, ma incomincia a mancare la fantasia ordinatrice. Nè io voglio dirti che farò meglio del Goethe; mi basta assicurarti che farò diversamente da lui.

La signorina…. di cui mi parli, fu un'apparizione momentanea, ed anche, se ti degnerai di rileggermi, capitata in mal punto a romper la quiete del mio rifugio nel verde. Sei tanto curioso di lei? Perchè non mi domandi ancora del cane? Quello, per esempio, è interessante davvero; e vive oramai con me. Il padrone, dopo un'assenza un po' lunga, l'ha castigato chiudendolo in casa. Quell'altro è scappato dalla finestra; ha fatto un'assenza anche più lunga, tanto lunga che non ha più voluto ritornare. Il contadino l'ha cercato da per tutto in paese; finalmente l'ha ritrovato da me. Ma la povera bestia, che ride così volentieri, s'è messa a guaire, anche prima di ricevere il più piccolo colpo. Ne ho fatta una delle mie; ho proposto al contadino di comperargli il suo cane. A quello non parve neppur vero di buscarsi venti lire per un povero cane da pastori, non più di primo pelo, e sviato oramai, che non gli avrebbe più fatto niente di buono. Buci, a farla grossa, non val dieci lire, come cane; come amico vale un Perù. È felicissimo del trapasso. Non mi lascia un minuto; dorme accanto al mio letto sopra una sedia che fa ballar tutta la notte, dandosi poco riguardosamente alle pulci; ringhia a tutti, per via; mangia quando gli fa comodo, e mi obbedisce quando gli piace; a fartela breve, aveva un padrone, lo ha lasciato, e si è procacciato un servitore.

Ti ho date così, e non brevemente, tutte le mie notizie. In ricambio, dovresti farmi un piacere; mandarmi tre libri, che ti sarà facile ritrovare da ogni libraio: un Teocrito, un Virgilio, un Orazio, per far certi confronti che mi son necessarii. Edizioni del Teubner, mi raccomando, che hanno le varianti di tutti i codici. Il Teocrito mi pare sia quello che porta le note del Fritzche. Dell'Orazio son sicuro che ha le note del Mueller, e del Virgilio son parimente sicuro che ha quelle del Kappes.

Son venuto qua senza libri, non contando l'Orazio del Murray, un gingillo, non un libro di studio, e non contando il mio Dante, il babbo di tutti, e non se l'abbia a male nessuno. C'è tutto in lui, come nella Bibbia; ed è sempre nuovo. Dio di misericordia, non si potrà dunque far meglio? Consoliamoci, per altro; l'insuperabile è nostro italiano, e quelli che di tanto in tanto gli voglion mettere a paro possono farlo colla voglia; non hanno descritto nè contenuto un mondo come il suo, così pieno, così vario, così mirabilmente fuso, del reale e dell'ideale; perciò non reggono alla prova, cadono irreparabilmente con quella moda medesima che li aveva fatti sorgere alla gloria degli altari.

Mi raccomando, adunque: Teocrito, Virgilio, Orazio, e del Teubner, per veder tutte le varianti in quei passi che mi preme di confrontare, e fors'anche mi verrà voglia di tradurre. Non ti puoi immaginare come giovi il tradurre, come rifaccia la mano. Ci andiamo sbrandellando, sfilacciando, sbriciolando, nella facilità della nostra lingua corrente, che porta a dir tutto, anche l'inutile; e Dante ci richiama alla sobrietà efficace. Ma Dante è l'esempio: occorre l'esercizio. Allora si traduce dal latino o dal greco, si combatte a corpo a corpo coll'idea e colla espressione che le è propria, si acquista precisione, si consegue agilità, si ottiene fermezza.

Vedi bene che non ho il capo alle donne. Che idee ti passano per la testa?

30 luglio 18…

Troppo breve! Ti lagni ancora. Troppo breve! Ma che cosa dovevo io dirti di più, per allungare l'epistola? Leggi quelle di Cicerone, e vedrai che il grand'uomo ne ha scritte d'ogni misura, anche da Roma, capo del mondo, e conoscendone tutti i segreti. Da Cuma, poi, o da altro dei suoi luoghi di villeggiatura, non scriveva più lettere, ma biglietti, pagillares, come dicevano allora, da stare nel pugno; e guai a stringere, non se ne spremeva una goccia di sugo. Che cosa dovrò raccontarti io da Corsenna?

La contessa Quarneri, mi dici; e vedo che ti sta molto a cuore. Caro mio, prega il marito di morire alle sue acque di San Pellegrino; passa, da quel terribile spadaccino che sei, sopra i cadaveri fumanti della sua guardia…. del corpo, e sposala; per me, te la rinunzio. Mi ha chiesto dei versi per il suo albo, dove non scrivono che amici. Che piena! Affrèttati anche tu, perchè ci sono a mala pena due pagine bianche. Io mi sono contentato di un angolo, dove ho ricopiato per la ottantesima volta il mio famoso sonetto del cigno. Dicono che è classico; lei lo ha trovato stupendo; ma tu, che sai la storia di queste repliche, qual prova più convincente vorresti della mia innocenza e della mia indifferenza?

È bella, sì, Dio mio, fin troppo bella; è una di quelle donne che dicono alla gente: guardatemi, contemplatemi, adoratemi. In una città sono istituzioni, monumenti, musei; si va a visitarle, e si segna nel taccuino: l'ho veduta. Compiango per altro il custode di quel museo; povero custode, che ha perdute le chiavi, e deve lasciare aperto a tutti i curiosi! Non capisco veramente come sia venuta quest'anno a Corsenna, dove non ha modo di brillare…. a suo modo. Che il marito l'abbia mandata qui in punizione? o per cautela? Certo, non sarebbe stato bello che mentre egli era a curar gli acciacchi a San Pellegrino, la signora fosse a Rimini, a Livorno, a Viareggio. Si, dev'essere per questo.

Sono andato tre giorni fa a visitarla. Non tremare, facevo il quarto. Per una visita sola, può andare; ma non ci cascherei la seconda volta. Nè quarto, nè terzo, nè secondo. Cesare aveva ragione. Arrivato l'ultimo nel salotto della contessa Quarneri, ci son pure rimasto un'ora buona, per non parerle desideroso di fuggirla, o seccato dalla compagnia importuna: e nondimeno ho dovuto partirmene per il primo, tanto quei tre Anabattisti tenevano duro.

Grazie dei libri, che ho ricevuti ieri. Ho già incominciato a servirmene, traducendo una saffica di Orazio. Te ne manderò un assaggio a suo tempo, se pure sarò contento dei fatti miei.

E tu non vai in nessun luogo? Rammento la tua massima: quando tutti se ne vanno in campagna, l'uomo sapiente villeggia al largo in città. È un'idea; voglio provare un altr'anno ancor io.

4 agosto 18…

E neanche la Wilsoncina, no, niente nientissimo. Che uomo sei tu, che non ti basta neanche la parola? Fai anche le tue supposizioni sul fatto che io non la nomino. Sei troppo sospettoso. A buon conto, non son io che te ne ho scritto? Se non t'accennavo io il suo nome, un mese fa, non ne sapresti forse l'esistenza; certo, ne ignoreresti la presenza in Corsenna.

Del resto, sappi che la signorina non è il mio genere. Sono un uomo tranquillo, io, amico della pace, e quella è un argento vivo. Mi pare una giovane Baccante; ed io vorrei Diana, se mai, la tacita dea delle selve. Correre, divertirsi, giuocare, far chiasso, è il suo gusto. Ti par fatta per piacere ad un letterato, sia pure un letterato dilettante, come il tuo divotissimo servo?

Senti questa, dopo tutto, e finisci di persuaderti. L'altra sera, passando per istrada, incontrai tutta la comitiva delle signore e dei cavalieri, che tornavano dal loro eterno lavorar di racchette. Costretto a rimanere qualche minuto con loro, non mi lasciai fuggir l'occasione di dire del lawn-tennis (garbatamente, per altro) tutto ciò che ne penso. E la graziosa Wilsoncina, cinque minuti dopo, trovò il modo di dire, non so più bene a chi, ma in guisa che io potessi sentirla:

—Ho osservato che il lawn-tennis non piace ai grassi, e che la caccia non piace ai miopi.—

Applica, filosofo. Ella sa benissimo che non amo la caccia. Così m'ha dato ad un punto del grasso e del miope; m'ha fatto due offese che sarebbero mortali, se io non fossi corazzato da un pezzo contro i motteggi delle fanciulle audaci, come contro i vezzi delle signore cascanti.

Sei persuaso? Dammi pace, e lasciami tradurre da Orazio.

VIII.

Si torna al memoriale.

4 agosto 18…

Quel diavolo del Ferri! Non ne passa una. Ma già, per la Quarneri, si sa da tutti che è venuta in Corsenna. È uno di quei corpi luminosi che hanno tanto di strascico, e lasciano il solco dovunque trascorrano: quando non si vede più niente di loro nello spazio, si sente che mancano, e si vuol sapere ad ogni costo dove siano andati a parare; gli astronomi del marciapiede ne studiano il corso, ne determinano l'orbita, come si fa delle comete. Della Wilson, poi, ho scritto io. Che sciocco imprudente! Potevo dire: "una giovane villeggiante", e ce n'era d'avanzo. Non bisogna mai scriver nomi di donne; neanche agli amici più intimi. Quello ora s'immagina che io ne sia innamorato.

Innamorato io! io, legno stagionato, navigato, provato ad ogni vento, passato per tutte le acque. Quanti pericoli non ho affrontati, quante Cicladi, quante Sirti, e Sirene cantanti, e Scille latranti e Cariddi voraci! Forse, come il Don Giovanni del Campoamor, sono passato accanto alla felicità senza avvedermene, ed ho lasciato intatto il suggello al dolce bigliettino in cui mi era promessa.

Innamorato io! ma che? mi sento libero il cuore, calmo, tranquillo, sereno lo spirito, senza alcuno di quei turbamenti che accompagnano il nascere d'una passione. Studiamoci su, analizziamo, che è sempre il miglior modo d'intendere; la sintesi è troppo spesso una confusione. Certo, considerando il primo principio della mia conoscenza colla signorina Wilson, o, per dire più esattamente, del mio pensare a lei, un carattere dell'amore si potrebbe rinvenire; ed è il modo strano del nostro avvicinamento, la prontezza quasi fulminea, certo senza passaggi, senza gradazioni, di quella certa intimità, che ci ha condotti ridendo a dirci ogni cosa più amena. Ma già, molti giorni prima, avevo conosciuta la signorina Wilson, l'avevo riverita insieme colle altre villeggianti di qui, e non m'aveva fatto un senso particolare; tanto che trovavo carine le Berti, e di lei non avevo pensato nulla; tanto che trovavo bellissima la Quarneri, anzi pericolosissima, e per la Wilsoncina non m'era venuto in mente il più modesto superlativo, neanche un "gentilissima" che si prodiga a tutte.

Osservo che il suo genere di bellezza non è tale da colpire, e forse bisogna vederla a lungo per esserne presi. È sana, forte e fresca; ha la grazia della donna nascente, sotto la scorza della fanciullona matta. Così avviene della camelia; si annunzia male, sotto quella embriciata di ruvide brattee giallognole che ne inviluppano il calice, mentre il bocciuolo della rosa s'invermiglia delicato e piacente alla prima vista tra i sèpali verdi, che lo proteggono senza volerlo nascondere. Cerchiamo un altro paragone, e non tra i fiori; la signorina Wilson ricorda la ingenuità rusticana che tiene ancora un pochino della corteccia dei tronchi, donde gli antichi hanno fatto sbocciar le Amadriadi; le quali, poi, dispiccate dalle fibre del legno nel dolce silenzio d'una notte di primavera, frementi di gioventù, fosforescenti di bellezza, corrono per l'ombra dei boschi, escono nelle radure, danzando lietamente al queto lume della luna, timidi sussurri, intime fragranze, occhi amorosi della natura, che si rivolgono al cielo. E d'una ninfa ha la persona, snella ad un tempo e robusta; d'una ninfa il portamento altero e i movimenti non senza eleganza impetuosi; d'una ninfa la carne tra vermiglia e dorata, l'indocile capigliatura corvina, l'occhio curioso nella sua bella semplicità di nuova venuta ai misteri della vita, la bocca fiorente, umida e viva, che il piacere non ha ancora dischiusa, nè ancor suggellata il dolore.

Sì, tutto questo andrà bene, se pure non è un tantino arbitrario, come tutte le osservazioni personali: ma una cosa è fuori di dubbio, che la strana forma del nostro primo incontro è quella che mi ha colpito, e non altra ragione, non altra. Questo è senza fallo uno dei caratteri dell'amore; ma non basta, e d'un solo fiore non si può tesser ghirlanda. Sento, o piuttosto riconosco, che la signorina Wilson sarebbe una buona compagna di passeggiate. Vado con lei di qua e di là; tutte le volte che c'incontriamo si riesce a fare insieme un'ora di cammino per forre o per balze, con Buci in avanguardia. Ride volentieri, ed ha il riso piacevole, comunicativo in sommo grado. Ha poi delle scappate che mi rallegrano, come raggi di sole che splendano d'improvviso sull'erba, passando tra il fogliame d'un bosco. Dice qualche volta, confessiamolo pure, delle cose che non rallegrano affatto, e a cui bisogna far bocca da ridere per non aver aria di gente permalosa. Ma ella stessa si affretta a spiegarle. "Ho detto per celia; che uomo è Lei, che va in collera?"

"Io, signorina? No davvero, non sono andato in collera affatto; quantunque, esser chiamato grasso e miope tutto d'un colpo"… "Ah, vede? Ne aveva avuto noia. Ed è grasso, sì; almeno non può prender posto tra i magri. Ma corre, si arrampica, resiste ad ogni fatica, e questo non è da grassi. Quanto all'esser miope, l'ho creduto, sa? ma ora non ne sono più tanto persuasa, e dubito che lo faccia a posta, per ingannare la gente." "Eccone un'altra; che cosa intenderebbe di dire con questa?" "Niente, niente; ho fatto per celia." E ride, ride, e non c'è verso di cavarne più altro.

E così, come niente la trattiene, niente la spaventa, niente le pare impossibile o inammissibile, neanche l'andare attorno con un uomo che non è suo fratello, nè suo zio, e neppure suo cugino, quel buon cugino che fa tanto comodo alle altre italiane. Ma in fondo in fondo, non è italiana, lei, essendo inglese dal babbo, e tenendo assai di quelle donne inglesi, che erano già di doppia indole fin dai principii della stirpe, vaporose e pensose come Sassoni, forti e imperterrite come Angliche e Danesi; donne che ornano singolarmente la casa, e corrono così volentieri le strade maestre; donne che fanno il tè, che hanno inventata la celeste mistura delle acciughe e del burro, che hanno accolta a festa l'invenzione delle patate e ritrovato che tra i cento modi di servirle in tavola il migliore è ancora il più semplice, d'imbandirle a lesso per contorno alla carne; donne che sanno distillare il rosolio di gooseberry, come la moglie del vicario di Wakefield, e galoppare pel mondo, come lady Stanhope; terribili come Anna Radcliffe, appassionate come Carolina Lamb, calze azzurre come lady Wortley Montaigue e come la contessa di Blessington, qualche volta con un granellino di pazzia, sempre con due o tre di piacente originalità; donne soprattutto da mandar sempre uniti i pregi più disparati del loro doppio carattere, da portare in ogni luogo più inospite le confortevoli usanze della casa, da prepararvi un tè sulla piramide di Cheope o in riva al lago Tanganika, sulle sponde dell'Eufrate o sulle rovine di Tello. Ah, forse bisognerebbe che una buona e veramente efficace alleanza anglo-italiana stabilisse in due articoli il suo patto fondamentale; articolo primo: "Dal 1901 in giù, per la durata di cinquantanni, gl'Inglesi non isposeranno che donne Italiane, e gl'Italiani non isposeranno che donne Inglesi"; articolo secondo: "In capo ai cinquantanni si vedrà se sia o non sia il caso di continuare." Ma che matto son io! Io che non amo il tè, starei fresco.

Kathleen (già non la chiamerò più Kitty; ciò la rende troppo minuscola) Kathleen ha molto di Galatea. Ma di quale? della Oraziana, della Virgiliana, o della Teocritèa? La Oraziana, a ben guardare, non consiste che in due versi, quelli che son caduti, per istrana combinazione, sotto gli occhi della signorina Wilson:

    "Sii pur felice ovunque andar ti piaccia,
    "E di noi, Galatea, memore vivi."

Il resto è tutto un ripieno; il poeta ha messi quei due versi con quel noi tutto suo, tra tanta enumerazione d'animali di buono e di cattivo augurio, e una diffusa descrizione del ratto d'Europa; il qual noi è come una tenerezza nascosta, da lasciarci pensare due cose: che Lelia Galla piaceva ad Orazio, e che per piacere in quel modo ad un uomo di buon naso come lui, bisognava essere un fior di donna, possedere il quid arcanum; una cosa che a noi sfugge, poichè egli non ha stimato prudente di dircela. Tradurrò certamente tutta l'ode, e resterà una memoria dell'Acqua Ascosa, come tante e tante altre che dormono nel cassetto dei ricordi: poveri ricordi, che qualche volta (inorridisco a dirlo) non mi ricordan più nulla.

È forse la Galatea Virgiliana? Appare anch'essa in due versi di Dameta, che fa agli strambotti con Menalca, come due capri farebbero a' cozzi in un prato. Ricordando la scena del San Donato, si potrebbe tradurre così:

    "Un pomo in su la testa
    "Matta fanciulla, Galatea m'assesta;
    "E se ne fugge via
    "Fra i salci, ed ama esser veduta in pria."

Gran birichina, quella Galatea di Dameta! ma anche piena d'ingegno e di grazia nel suo discorso. Infatti il daino continua:

    "Oh dolci parolette
    "Che tante volte Galatea mi ha dette!
    "Vorrei che un saggio il vento
    "Ne portasse agii dei del firmamento."

Sì, questa è la Galatea che mi piace. Ma la mia non potrebbe esser quella di Teocrito? Amata pazzamente da Polifemo, è invaghita del giovane Aci. Sventuratissimo Polifemo! Quanti caldi sospiri, quante ardenti proteste, quante vane querele, che Ovidio ha raccolte, e non paion troppe al bisogno, in quella stemperata fuga d'esametri delle sue Metamorfosi! Che farci? Egli è la scarmigliata vecchiaia, ed Aci è la florida gioventù. Inoltre, il disgraziato Polifemo ha un occhio solo, quasi a significare la sua vita dimezzata. "Nel mezzo del cammin di nostra vita!" Non ci sono ancor io, Dante da strapazzo, ancor io? Galatea è invaghita di Aci; non può essere altrimenti. Se un Aci non è ancora capitato, mettiamo pure che non sia molto lontano.

Per fortuna, non amo Galatea. Quattro chiacchiere, più garbate e più amene che mi vengano fatte, ora e sempre; ma niente di più. Vediamo intanto; quest'Aci non potrebb'essere…. Terenzio Spazzòli! Non è bello, e ci corre. Oh Dio, e che significa ciò? È la mia opinione, dopo tutto; e si è sempre visto piacere alle donne quello che a noi pareva un becco di cutrettola, un muso di pecora, un ceffo di cane. Già, le donne badano molto al figurino; anche quelle che non lo vogliono ammettere, e quelle che non lo confessano neppure a sè stesse. Terenzio è sempre all'ultima moda; in ogni cosa, dal capo alle piante, sia fuori o in casa, in piedi o a letto, un prodigio. E poi, vecchi e giovani, per piacere, bisogna sapersi mettere a pari con quei che piacciono. Io mi lascio andar troppo giù; la mia semplicità potrebbe passare, ma a patto che non paresse negligenza. Per fortuna, ripeto, non amo Galatea; e non soffro niente a pensare che ci ha avuto un segreto in comune con Terenzio Spazzòli, anzi due segreti: il canestro del caffè e la cesta del lawn-tennis. Ah, respiro! Questa analisi mi ha fatto bene: posso andarmene a letto tranquillo.

IX.

Il castello dei burattini.

6 agosto 18…

—Perchè non è venuto ai burattini, iersera?

—Ah, perbacco!—esclamai, battendomi la fronte.

—Se n'era dimenticato? Belle cose!

—Dimenticato io, dei burattini? Come si vede che non mi conosce! Ma non sa che li adoro? Sì, è il verbo adatto, e Lei dica pure ch'è un'iperbole mia. Delizia della mia infanzia, sorriso della mia giovinezza, memore dilettazione della mia… maturità, i burattini hanno sempre avuto un fascino strano su me. Cari fantocci di cenci, con la testa di legno, che da ragazzo mi parevano uomini, e più mi paiono uomini quanto più m'inoltro nell'esperienza del mondo; sempre quelli, sempre maneggiati da un burattinaio invisibile dietro la tenda, per dire e per fare mai sempre le medesime cose, con quelle loro smorfie intagliate, fissate, irrigidite nella sorda materia! E noti, signorina; quelle smorfie sono le loro qualità e le loro virtù, i loro difetti e i loro vizi, un po' contraffatti, ma per eccesso di significazione, che è pur necessario, a darci da lontano l'apparenza del vero. E riescono tanto evidenti, così! Non c'è modo di scambiar gli uni per gli altri, nè da crederli diversi da noi. La nostra sciocchezza e la nostra viltà, le nostre astuzie e le nostre piccinerie, tutto ciò che siamo e tutto ciò che sentiamo, hanno la loro espressione chiara, sicura, efficace, in quelle facce di legno. Tutto il teatro, e per conseguenza tutta la vita, è là dentro, e non c'è più nulla da aggiungere. Com'è giunto l'uomo, per qual arte divinatoria, per qual lampo d'ingegno, a immaginare il burattino? Ed è così antico, oramai! Ma nessuna maraviglia di ciò; è pure antica L'Iliade. C'è stato un tempo, molto lontano da noi, che l'uomo ha veduto, inteso e potuto esprimere artisticamente sè stesso. Quello è stato il gran punto; in quel giorno tutto è stato creato, nella filosofia, nella morale e nell'arte; tutto, capisce? tutto, tranne la polvere da cannone, la stampa, la strada ferrata e il telegrafo; quattro arnesi di utilità, ne convengo, e non sarò venuto al mondo io per dirne male. Voglio dire piuttosto che son cose piccine; mentre tutte le cose alte e grandi, che per via della rappresentazione hanno raggiunta l'intelligenza della vita, avevano già da duemil'anni, forse da tremila, la loro estrinsecazione miracolosa, il loro svolgimento felice, il loro ufficio rinnovatore nel mondo.—

La signorina Wilson mi lasciava dire. Ero in vena, ed ella non voleva trattenermi. Forse ha imparato a conoscermi, ed ha presa l'abitudine di lasciarmi sfogare. Il che, dopo tutto, mi fa piacere, e vuol essere una delle ragioni che me la rendono simpatica. L'uomo che ciancia, bisogna lasciarlo cianciare; egli si persuade di piacervi, e piacete tanto più a lui quanto più state a sentirlo. Ma non bisogna distrarsi, quando egli ha sciolto Giordano. Povero a voi, se egli si ferma per domandarvi approvazione, e voi siete col capo ad altro. Io, per esempio, quando mi fanno un discorso troppo lungo, penso volentieri ai fatti miei; ma uso l'avvertenza di collocare ad ogni tanto un "già" un "sicuro" un "è proprio così" che mi vengono naturalissimi, facilissimi, senza bisogno di studiarci. Guardatevi per altro dalle interruzioni che escano dai generali. A me accadde un giorno di collocare un "e lui?" che fece rimaner male l'amico.

—Ma che lui!—mi gridò egli stizzito.—Ti parlavo di lei.

—Ah sì, è vero;—rimediai alla meglio. È stato un lapsus linguae.—

Torniamo alla signorina Wilson, che mi aveva lasciato dire a mia posta, e poi soggiunse, con accento malinconico:

—Il burattinaio ha fatto capolino tre volte dalla sua tenda, cercando con gli occhi in giro nel suo uditorio. Pareva il patriarca Noè, quando mise il capo fuori dal finestrino dell'Arca, per vedere se il corvo fosse ancora tornato. Ma il corvo non c'era.

—Ah, me ne dispiace, creda, me ne dispiace.

—E a me più di Lei. Sono una ragazza, e non ho la borsa troppo gaia. La mamma, del resto, non mi lascerebbe fare la bella follia che ha fatta Lei l'altra sera. Ah, come l'avrei dato volentieri io, quello scudo!

—Signorina… Le ha fatto piacere? Ne sono contento, più ancora che degli occhi sbarrati della burattinaia, quando vide il mio biglietto da cinque nel suo piattellino di stagno. Ma dica, non c'erano dunque cavalieri, alla rappresentazione di iersera?

—Tutti; non mancava che Lei. Ma non vogliono andare in rovina, quei là, Due soldi appena, mi capisce? due miseri soldi. E si scusano con una buona ragione, quei signori: dicono che il burattinaio manda la moglie in giro tre volte, e che tre volte due soldi fan sei.

—E sei per ognuno dei tre satelliti della contessa, fanno diciotto soldi in una sera; che scialo!

—I satelliti!—ripetè la signorina Wilson, ridendo senza averne voglia.—È strano che Le siano venuti in mente quelli.

—Oh, non faccia caso. Volevo evitare Terenzio Spazzòli, il mio divo
Terenzio, che fa bene ogni cosa.

—Buono, quello! E Lei gli è molto amico, non è vero?

—Sì, dopo la trovata del caffè, Le confesso che m'è entrato in grazia.

—Chi La sentisse, signor Morelli!

—E chi sentisse Lei, signorina, quando mi dice che gli son tanto amico!—

Questo il dialogo occorso oggi tra me e la signorina Kathleen. Io, veramente, non avevo dimenticato il burattinaio, venuto la sera del 4 a dar saggio della sua abilità in Corsenna; ma lo avevo creduto uccel di passo, che dovesse contentarsi di una sola rappresentazione e portare la sua baracca altrove; perciò, volendo scrivere, ordinar le mie note, ero rimasto a casa. Non bisogna neanche star troppo ai fianchi della gente, pensavo; e voi signor Buci, per questa sera rimarrete in camera, a far ballare eternamente la sedia.

Lo spettacolo dell'altra sera, gran novità annunziata a suon di tamburo per l'unica via del villaggio, aveva tirato in piazza tutto il popolo dei Corsennati. La colonia dei villeggianti si era commossa di desiderio. In campagna par sempre di annoiarsi, e si corre volentieri a tutti gli svaghi. Mi avevano incontrato, preso in mezzo e condotto a teatro; cioè a dire in piazza, dove si stava pigiati su certe panche d'osteria, davanti ad un castello di burattini, illuminato da due lampade fumose a petrolio. La povertà del burattinaio mi aveva fatto pena: contando così a occhio e croce i soldi che la sua donna veniva raccogliendo negli intermezzi dalla "bontà di lor signori", pensai che quei poveri diavoli non avrebbero intascate due lire; dond'era poi da detrarre il prezzo di locazione delle panche e il costo del petrolio, non restando forse una lira alla "fabbrica dell'appetito". Preso dalla compassione, alla seconda tornata della burattinaia avevo fatto scivolare un biglietto da cinque lire nel suo piattellino, sperando che la cosa non fosse osservata da nessuno, in quella mezza oscurità della piazza. Ma la burattinaia, avvezza a vederci di notte come i gatti, e costretta a tener d'occhio quei pochi, per timore che i monelli, scambio di darne, lavorassero a ghermirne, si era bene avveduta della mia generosità, si era fermata a guardare il biglietto, poi me, che dovetti parerle un principe travestito. Tutto ciò aveva dato tempo alla signorina Wilson, che mi sedeva daccanto, di vedere a sua volta nel piattellino. Quanto a me, non avevo creduto di far niente di strano. Tra l'altre cose, avrei giurato che Terenzio Spazzòli dèsse almeno una ventina di lire. Le signore si divertivano tanto, a quello spettacolo inaspettato! Non bisognava forse pagarle, quelle buone scappate di risa argentine! Ma niente; due soldi, tre soldi; fors'anche più "argentini" delle risa sullodate, i due soldi, e da non poterli spendere niente di più. Anche il mio divo Terenzio Spazzòli, due soldi? "Buono quello!" e nel sarcastico epifonema della signorina Wilson l'amico inarrivabile ci ha avuto il suo conto saldato. In verità, gli egoisti che sanno spendere solamente per sè stessi, e tutto si mettono sulla persona, non sanno quel che si facciano.

Ripeto, io non sapevo che ci fosse ieri una seconda rappresentazione. Credevo che il burattinaio fosse di passaggio in Corsenna, avviato a qualche borgo più importante e più capace d'intenderlo. Vuol far la stagione qui? E sia. Ho promesso stamane alla signorina Wilson di non mancar questa sera, ed ho mantenuta la parola.

Intorno alle otto, grande stamburata per l'unica via di Corsenna. Non tengo conto dei vicoli e delle traverse, si capisce. Il cartellone, appeso alla facciata del palazzo comunale, annunzia: Griselda di Saluzzo, ovvero sia la Moglie obbediente e il Marito stravagante, con Fasolino armigero Bolognese, La favola è patetica, nel Decamerone; sa Iddio come l'avrà conciata il burattinaio. Ho osservato ier l'altro che il suo Fasolino è un po' sboccato; per piacere ai volghi, s'intende, ma non sapendo distinguere tra chi lo paga in applausi e chi gli da la mancia più larga. Perciò, lasciate un momento le signore, ho rincorso l'uomo del tamburo, l'ho tratto in un vicolo, e gli ho raccomandato di dir meno parolacce e di somministrar più legnate.

—Sarà contento;—dice il burattinaio, a cui brillano gli occhi, poichè mi ha riconosciuto per quel dello scudo.—Ci ho Fasolino in una parte tutta da ridere; Fasolino che scampa dai ladri e poi dalla giustizia.

—Bene, mi raccomando, legnate a tutti, tante legnate da far piangere gli occhi dal ridere. E badate, voglio veder molti morti accatastati sulla ribalta.

—Non dubiti, illustrissimo; ci passerà tutta la compagnia.

—Quanto guadagnate?—gli ho chiesto prima di congedarlo.

—Ah, signore, una miseria! Iersera, che Lei non c'era, appena una lira e venti!—

Poveraccio! Iersera i miei cavalieri hanno dunque lesinato perfino i due soldi?

—Una lira e venti!—rispondo.—C'è da morire. Io per questa sera ve ne dò dieci; sì, dieci, ed eccole qua; ma ad un patto.

—Comandi, illustrissimo, comandi.

—Che questa sera non mandiate attorno il piattellino della buona grazia. Regalo io la rappresentazione, stasera; e resto incognito, c'intendiamo?

—Non dubiti; che il Cielo la benedica.—

La Griselda ha molto divertito il buon popolo di Corsenna, ed anche in certi punti lo ha commosso. Non così la colonia dei villeggianti, a cui pare, e giustamente, che il patetico non faccia buona prova, con le teste di legno. Del resto, non potendo far dire delle cosacce al suo Fasolino, il povero burattinaio ha perso la metà dei suoi effetti di chiaroscuro. Che importa? Ha fatto un maggior effetto, non mandando in giro la moglie col piattellino di stagno. "Che novità è mai questa?" si domanda nei posti distinti. È forse ammalata, la povera donna? Ed io che avevo i miei soldi qui pronti! ed io! ed io! Vuol rinunziare ad una bella somma, il brav'uomo!"

A un certo punto cresce l'effetto, è sbalorditoio senz'altro. Si presenta Fasolino alla ribalta, a sipario calato, fra il quarto e il quint'atto del dramma, e così prende a parlare, agitando in aria un matterello più grosso della sua testa e lungo quattro volte la sua smilza persona:

—Colto e rispettabile pubblico, inclita guarnigione, cari ed amati ragazzi, speranze di Corsenna, a v'salut…. sì dico, vi saluto. Ora si darà l'ultimo atto della Griselda di Saluzzo; che, come avete ben capito, è opera di un astore eminente, dello Schiacciaspie, niente di meno; e se non pernunzio bene il suvo riverito nome, pensate che sono un povero diavolo senza ostruzione, e l'inglese lo parlo, ma non lo intendo. Dopo questa produzione dell'immortale Scappavia si farà la farsa, e ve lo dico perchè non scappiate voi altri; farsa tutta da ridere, tanto che ve ne piangeranno gli occhi, come si è degnato di dire un grande astore di mia conoscenza auricolare. Fasolino, che sono poi me, sarà in guerra coi ladri assissini e poi colla giustizia, con trionfo finale dell'innocente, che sono poi sempre me. E questo sia per saluto di ringraziamento a questa nobilissima città di Corsenna, alla quale si leva l'incomodo questa notte, per viaggiare da gran signori, col fresco. Rappresentazione tutta a gratis…. Ma non si grattino, quei ragazzi laggiù, perchè a n'sta mia bein, sì dico, non sta bene in società, alla presenza di un inlustre personaggio, al quale faccio tanti rispetti, e viva sempre la sua bella fazza, sì dico, la suva degna persona, che ha tanto buon cuore per i poveri diavoli traditi dall'infame destino. Io non ero nato, credetelo, per viver così, mendicando la vita a frutto a frutto nelle campagne, e restando senza frutti quando è la cattiva stagione. Sono figlio di gran signori, caduti in miseria per causa della loro generosità, che loro a chi davano e a chi imprestavano, e quando imprestavano, mi capite, non riavevano più la testa d'un baiocco. I miei antenati erano padroni di Ravenna; avevano un palazzo in città ed un castello fuori, chiamato, per l'abbondanza della grazia di Dio, il castello di Polenta. Ora, come vedete, non conservo più che il mestone. Col quale a v'salut. Macchinista, su il sipario, e risplenda la reggia di Saluzzo agli occhi dell'attonito riguardante. Ci abbiamo speso un capitale.—

Il colto pubblico sghignazza; l'inclita guarnigione, assente com'è, non può partecipare a tanta allegrezza. Io, sentendo l'accenno all'inlustre personaggio, son rimasto un po' male. Ma un gomito sinistro sfiora gentilmente il mio gomito destro. Divina fanciulla, se tu l'hai fatto apposta, sii benedetta; e concedimi il bis.

—Chi sarà mai questo personaggio che paga per tutti?—domanda la contessa Quarneri.

—Eh, s'indovina;—risponde la signora Berti.—Terenzio Spazzòli.—

A lui si rivolgono tutti, con cenni di complimento. Terenzio Spazzòli sorride, come Buci, senza schiudere i denti. Ah briccone! Ma sia come ti pare; io non ho bisogno delle mie penne; vèstitene pure, cornacchia.

Questa sera, finita la rappresentazione, e mentre si ride ancora delle legnate con cui Fasolino ha accoppato i ladri assissini, la vecchia manutengola, l'usciere che va a citarlo, i gendarmi che vanno ad arrestarlo, i giudici che vorrebbero condannarlo, la signorina Wilson mi ha detto:

—Come sono stata felice! E come è delicato, Lei, signor Morelli! Scommetto che per esser tale del tutto, ha dato questa sera due scudi, non uno.

—È vero, signorina; ma sa Lei perchè?

—Non mi par difficile intenderlo: per riparare alla mancanza sua d'ieri sera.

—No, s'inganna. Posso aver mancato verso le signore, rimanendo a casa; quantunque, a dire la verità, poteva trattenermi benissimo il pensiero di essere importuno. Ma al burattinaio non ero debitore di nulla. Fu dunque, e La prego di crederlo, per un'altra ragione.

—Quale?

—Indovini.

—Non ci arrivo. Me la voglia dir Lei.

—Non posso. È una ragione che se uno non la indovina, l'altro non la può dire.

—Ebbene, proviamo;—diss'ella, dopo un istante di pausa.—Lei ha dato due scudi, per associar qualcheduno…. via, diciamo pure il nome…. per associar Buci alla sua opera buona.

—Buci, veramente….—mormorai.—Ma sia; diciamo pur Buci; tanto egli non avrà da saperne nulla; e zitti…. e buci.—

Birichina! come ha saputo accoccarmi anche questa! Ma è una mela fragrante, dopo tutto, non una palla di guttaperca. Queste sono oramai per te, divo Terenzio Spazzòli. "Buono, quello! buono, quello!" e portalo a casa.

Ho scritto tutto? Rileggo, e mi pare che ce ne sia d'avanzo. Non si direbbe, infatti, che sono innamorato? Eh via, questo poi no. Galatea è una graziosa ninfa, piacevole a quel dio, e sarebbe un'ottima compagna per un lungo viaggio. Ma non a te, vecchio barbone che sei. Godi da saggio epicureo il tuo sorriso di gioventù, il tuo granellino di dolce follìa; ma guai a fartene un albero! Capisco, finalmente, che certe ubbriacature passano presto. Son come lo Sciampagna, queste care figliuole: un po' di spuma, e buona notte. Domani sarà di giorno.

Ma no, poi! perchè questi ragionamenti volgari? Ma no…. Come, no? non sarà dunque di giorno, domani? Al diavolo le incertezze. Non vorrei mica essere stregato; non vorrei mica impazzire.

X.

Pelle di Spagna.

12 agosto 18…

La gloria è a buon mercato in Corsenna. Per quindici lire buttate via, son salito in grande estimazione presso le signore. Che buona occasione ha perduta Terenzio Spazzòli, di apparire un uomo perfetto! Ora egli ha una macchia nel suo blasone, un'ombra nella sua luce. La contessa Quarneri non è rimasta ingannata dalla supposizione che alla signora Berti era piaciuto di fare, e non crede affatto che il divo Terenzio sia stato il protettore del povero burattinaio, il Mecenate delle arti, il dator di spettacoli in piazza. Me lo ha detto ella stessa, la luminosa contessa; e in quella occasione, con bel garbo di confidenza signorile, ha preso a darmi del voi. Cosa che mi piace, e non mi piace ad un tempo. Mi piace perchè suona bene; non mi piace perchè farà credere Dio sa che cosa, quando gli altri osserveranno la novità del trattamento, che sembrerà un abbandono delle antiche cerimonie. Ma così voglion le belle, e non c'è da resistere; diamoci pure del voi.

—Non siamo amici, forse?—mi ha detto.—Specie dopo che come amico mi avete dato dei versi?—

Ah sì; mi ricordo benissimo che come tale sono stato ammesso nell'albo, e come tale anche difeso da lei. È infine una gentile signora. Possiede una cultura molto superficiale, tanto da non sapere, due settimane fa, che il Leopardi è morto. Ma che? per gustar le bellezze d'un poeta è forse necessario di conoscerne la vita? Quella è scritta in prosa, e la contessa non si rovina gli occhi nella prosa; ecco tutto. Le donne, di solito, non sanno niente di storia letteraria. Dio buono! e chi ne sa, intorno a loro! Terenzio Spazzòli conosce la letteratura francese modernissima, per aver letto dei titoli e qualche pagina dei libri parigini; conosce la russa, per sentita dire, e solo perchè i romanzi russi son passati dallo staccio di Parigi. Vuole oggi psicologia nei libri, come qualche anno fa avrà voluto fisiologia e patologia, psicopatia, patopsichia, od altra consimile tautologia, senza sapere da dove si cominci. Se nel romanzo è russo, nel teatro è scandinavo, per moda; deve averglielo suggerito quel po' di testo che accompagna il suo figurino nel giornale dei sarti. Ne sanno più addentro, o pretendono a saperne, i tre satelliti della contessa; uno dei quali è "decadente" e fa delle rime impossibili. Ha perfino stampato un volumino ino ino, ma di gran margine, che nessuno ha letto; anzi no, dico male, lo han letto moltissimi, ma non lo ha comprato nessuno. Onde un'ira feroce, dissimulata sotto un olimpico disprezzo, contro la letteratura "alimentare". Che cosa ha veduto di alimentare nel mio Cigno, per dirne tanto male nel salotto della contessa? Se fosse stata un'oca, pazienza, capirei; ma un povero cigno tiglioso e stoppone, via, non meritava tanta durezza di giudizio.

La contessa ha dovuto riprenderlo, e so che l'ha fatto con una grazia tutta sua, che non escludeva la forza. La contessa ha buon gusto; e se non sa certe cose, che importa! È tanto bella, che avrebbe perfino il diritto di non saper nulla al mondo. Mi ha invitato da capo al suo villino, ma non mi sono lasciato prendere. Galatea direbbe, e con ragione, che mi adatto a fare il quarto. Poi, quei tre compagni mi annoierebbero. So far bocca da ridere anche ai nemici, ma non sopporto i noiosi. In larga compagnia, all'aperto, son gocce d'inchiostro che s'affogano in un secchio d'acqua e non la tingono troppo: in un salotto, loro tre, su cinque presenti e sedenti, dovrebbero essere una morte sola, e continua.

L'altra sera la signora contessa ha invitata tutta la comitiva di San Donato a prendere il tè in casa sua. Anche qui mi sono scusato. Ma qui ci avevo almeno un'altra ragione, abbastanza ridicola; e imperiosa, nondimeno, ineluttabile, perentoria. Figurarsi; non avevo ricevuto ancora dal mio sarto un tutto-vestito di stoffa inglese, che mi è necessario, e che io ho dimenticato di portare per le mezze parate, non prevedendo tutti questi perditempi quotidiani. Gli abiti che ho con me in Corsenna vanno mattamente da un estremo all'altro: o di gran parata, e non è il luogo, nè l'uso di questi giovanotti; o di tela d'alpaca e che so io, fatti a giacca, e non possono andare che all'aperta campagna. Miserie, lo so; ma di queste si vive. E il tutto-vestito grigio non m'è arrivato che ieri, quando l'occasione era passata.

Alla signora, per altro, non era passata la collera, per la mia diserzione, per il mio tradimento, come ha voluto chiamare una semplice assenza. Ha scoperto anche lei il mio dolce rifugio dell'Acqua Ascosa. Senza averne la topografia esatta, ci s'è accostata di molto; e ad un'ora insolita, andando a diporto tutta sola, ha presa la via del mulino, dove mi ha combinato. Proprio allora, col mio Teocrito in tasca, andavo a cercare il mio covo. E qui complimenti, si capisce, maraviglie ed ossequii da parte mia, che non potevo far altro; qualche bottata da parte sua; finalmente la pace.

—M'hanno detto,—incominciò essa allora con la sua vocina insidiosa di sirena,—che di là dal mulino c'è un luogo ombroso stupendo, e che Voi lo conoscete. Volete farne parte anche a me?—

Come dire di no? M'inchino, e l'accompagno. Si risale la strada a fianco del mulino e della sua ruota, immane mostro che dorme in quest'ora, mezzo al sole e mezzo all'ombra della sua buca, tutto vestito d'erba viscida lungo le pale nerastre. Là dietro si passa sopra un ponticello di legno, che corre tra la ruota e la gola del bottaccio, mettendoci dall'altra banda su d'un robustissimo terrapieno a scarpa, levato ad argine tra l'acqua alta e la prateria che va giù a conca, scendendo sempre e dilungandosi verso il gran viale dei pioppi. Per un tratto, dove è più profondo il serbatoio, l'argine ha così larga la cima, che ci si passa comodamente in due; ma più in là, dove il bottaccio incomincia a restringersi, la ripa si restringe anch'essa via via; non si può andare tutt'e due di fronte, ed ella è costretta ad appoggiarsi sulla mia spalla. Ma che dico, appoggiarsi? Vi s'aggrappa per disperata, come una bella spericolona al braccio del robusto bagnaiuolo che l'ha in custodia, sulla spiaggia di Livorno o di Rimini.

Già aveva tremato un pochino al passaggio d'un secondo ponticello che cavalca la chiusa, donde il bottaccio si scarica quando non lavora il mulino. Ma qui è un tremar continuo, dovendo andar noi sulla ripa alta e stretta, coll'acqua profonda a manca e la prateria molto bassa a diritta.

—Volete forse tornare indietro?—le dico.

—No,—mi risponde, con un brivido che parrebbe far contro alle parole,—il pericolo ha le sue attrattive.—

Avanti dunque con le attrattive. Ma la impaccia il suo ombrellino da sole e da pioggia, il suo en-tout-cas, com'ella lo chiama, e che prendo io in governo; la impaccia il suo gran ventaglio, che le ballonzola sulle ginocchia, e che io metto accanto all'ombrellino, facendone tutta una manciata; la impaccia la gonna troppo lunga, di cui non posso io egualmente raccogliere i lembi, e che bisogna lasciar strascicare sull'erba. Si va a passi lenti e corti, inframmezzati da lei di piccole strida, e di larghe risate da me per farle coraggio; mentre ella, così serrata sulla mia spalla, m'involge tutto in un profumo di pelle di Spagna, soave, delicato, inebbriante davvero.

Basta; come Dio vuole, eccola in salvo. La ripa, su cui si procede, è sempre angusta per due; ma siamo giunti dove la prateria sottostante risale, risale sempre più, per venir quasi a filo dell'argine, e non c'è più pericolo di capogiri. Il sentieruolo, lasciando lo scoperto, si ficca dentro alla piantata delle carpinelle; ed eccoci inselvati, coll'acqua susurrona che ci corre daccanto, e, di là dall'acqua, le falde del monte che salgono, vestite di borraccina e d'eriche nane, sotto la guardia e l'ombra dei vecchi castagni.

—Com'è folto qua sotto!—esclama la contessa.—Chi sa trovarci è bravo.

—Non dubitate; ancora pochi passi, e si riesce al chiaro.

—Oh, non mi dolgo già di quest'ombra; c'è così fresco!

—Voglio dire che troveremo più rado il fogliame, e d'ombra ce ne sarà ancora abbastanza. Queste carpinelle girano tutto intorno, fino al punto dove la montagna fa uno sprone sull'acqua; laggiù saremo più al largo, e vi parrà di respirare un po' meglio.—

Eccoci infatti allo sprone. La balza vien giù tagliata a picco, e sarebbe troppo brulla, come una cava di pietre, se due o tre semi di fràssino non fossero volati ad allogarsi tra i crepacci, per venir fuori in giovani piante, che sporgono ad ombrello, e rompono pittorescamente la nudità della roccia. Il luogo è bello, e le piace; disgraziatamente non c'è da sedere. Eh, lo so ben io dove c'è da sedere; ma mi secca un pochino di doverla guidare fin là. Nondimeno, poichè io non son più padrone di tornare indietro, si prosegue lungo la sponda del rivo, si scende ancora un poco, dove l'acqua ritorna a mostrarsi arginata, Eccolo lì, il mio rifugio; passo davanti al mio arginello erboso e fiorito, ma senza guardarlo, per timore che gli occhi tradiscano le mie tenerezze.

—O Teocrito!—esclamo dentro di me.—Qui volevo venire, per leggerti. Pazienza, non è vero? pazienza per me. Quanto a te, vecchio Siracusano andato ad ammorbidirti fra le graziette Alessandrine, scommetto che se tu potessi uscir vivo e sano dalle pagine del tuo signor Teubner, vorresti essere al mio posto e filar qui un graziosissimo idilio.—

Frattanto la contessa ha trovato da sedere. E lì, proprio lì, si ferma sui due piedi, gridando:

—Ecco un buon posto. Non è forse il vostro, Morelli?—

Io non ho mai saputo mentire senza farmici rosso. E perchè ella mi guarda, ed io non voglio arrossire, rispondo:

—Sì, è questo per l'appunto.

—Bene; sediamoci dunque. E datemi il ventaglio, vi prego. Se volete, vi lascerò l'en-tout-cas.—

Sorrido dentro di me, parendomi d'essere il quarto satellite, e mi siedo accanto a lei, col suo ombrellino tra mani.

—È veramente un bel luogo, e molto poetico;—diss'ella, dopo aver guardato in giro con aria di somma compiacenza.—Ma non da venirci da soli. Io ci avrei paura, da sola.

—È sicurissimo;—risposi.—Corsenna non è un nido d'aquile; ma non ci sono neanche avvoltoi, nò sparvieri. Poi, qui dietro, a cento passi, c'è un casale, con quattro o cinque famiglie di contadini, tutta bravissima gente.

—Dio sa,—ripigliò la contessa, seguendo il suo filo e non il mio,—quante coppie felici saran venute qui a dirsi tante belle cose! Peccato che non ce ne rimanga l'eco.

—Possiamo immaginarcele, contessa. Del resto, si può domandarne a quelle farfalle che passano, o a quegli uccellini che si rincorrono tra gli alberi….

—Pensando che noi siamo una di quelle coppie felici, non è così? Disingannatevi, uccellini del bosco;—soggiunse la contessa, con accento tra comico e patetico;—il signor Morelli è un solitario, che si ritrova qui accompagnato per caso.—

E rideva; e risi ancor io.

—Oh, non ci sarebbe da ridere;—soggiunse ella, sforzandosi di far cipiglio.—Che cos'è questa vostra maniera di fare, Morelli? Perchè non avete voluto venire a prendere il tè, l'altra sera, e in compagnia di tutti i nostri buoni amici? Perchè non volete mai rifar la salita del Roccolo? È tanto breve, lo sapete, essendoci stato una volta. Vi spiace il nome? Spiace anche a me; lo cambieremo. Anzi, studiateci, e datelo voi; non ho fantasia, io, e ne sarò felicissima.

—Ci penserò.

—Ah bene. Ma ci verrete, non è vero? Per carità, non mi condannate a questa condizione spiacevolissima, di vedere in casa mia solamente i noiosi.

—Scusate, signora; ma se io avessi proprio temuto di far numero con questi?

—Sarebbe stato un timore indegno di voi;—replicò la contessa.—Confessate piuttosto, tanto mi ripugna di ammettere che potesse spiacervi la padrona di casa, confessate piuttosto che i suoi eterni visitatori vi seccano.

—Ah, quelli poi…. se mi date licenza, mi sfogo. Quelli, poi, mi fanno perder le staffe. Non ho mai visto più molesti…. come chiamarli? Lasciamo il sostantivo; certo l'Alighieri non li avrebbe chiamati mai graziosi nè benigni.

—Bene, bene! Così mi piacete; sincero. Ancor io, son tutta impastata di sincerità. E vi seccano dunque, come seccano me? Un momento mi è parso di avervi capito, quell'unica volta che siete venuto a vedermi. Siete rimasto un'ora, e nessuno di quei signori, che c'erano già da due ore, si è mosso, tanto che voi ve ne siete andato prima di loro. Già, fanno sempre così; sospettosi con tutti, ed anche peggio tra loro. Se resto la sera a casa, suonano le dieci, suonano le undici, e nessuno si vuol muovere per il primo; cosicchè io sono costretta a congedarli in massa. È una persecuzione. Qualche volta casco dal sonno, e non se ne vogliono accorgere. Molesti animali; avete detto bene, Morelli.

—Veramente, non avevo osato di proferirlo, il sostantivo che li definisce. Di solito, e senza cercare molto addentro nel sentimento che destano, io li chiamo tra me e me i vostri satelliti. Se Giove in cielo ne ha quattro, perchè non ne avrebbe tre l'astro luminoso di Venere? Non badate, signora; m'è venuto così spontaneo, che avreste torto a non lasciarlo passare. Il vostro caso, del resto, non è nuovo nella storia; si è dato il simile, tremila e più anni fa, nell'isola d'Itaca, ed è toccato alla regina Penelope. Ce ne aveva un bel numero anche lei, che non le davano tregua. Ma un giorno capitò Ulisse a casa, e li conciò per le feste. Se uno di questi giorni, imitando Ulisse, il savio conte Quarneri….—

La contessa mi mozzò le parole in bocca con una matta risata.

—Ah sì, proprio; credereste che bisognasse ricorrere a questa estremità!

—Non so; siete giudice voi;—risposi, un tantino mortificato.—Del resto, anche senza chiamarlo, e volendo pure liberarsi dai satelliti seccatori, si potrebbe annunciarlo come prossimo ad arrivare, e si vedrebbe l'effetto che fa.

—Resterebbero male, lo capisco;—replicò la contessa;—ma intanto resterebbero fino all'arrivo; e non arrivando lui, seguiterebbero a non muoversi.—

Capisco, o mi par di capire, che la luminosa contessa mi faccia questi sfoghi per chiasso, e che nel fondo sia molto contenta d'esser seccata. Questi assedii ostinati piacciono alle donne belle, come, se si leggono bene le storie, dovevano piacere alle antiche città, quando avevano buone mura e viveri dentro, per durare anche a dieci e vent'anni d'investimento. Ma la contessa non è ancor sazia di ciance, e vuol proprio che io pensi al caso suo.

—Non avete altro consiglio da darmi?—soggiunge.—Con tutta la vostra fantasìa!…

—Ecco, signora, la mia fantasia è una povera cosa, e di consigli non può offrirvene che due. Il primo, che v'ha dato, era il consiglio classico; ma non vi è parso buono. Passiamo al consiglio romantico; ma vi avverto che, dopo questo, io non saprei più che cosa trovare per il vostro bisogno.

—Sentiamo, sentiamo il consiglio romantico;—gridò ella, battendo le palme con gioia infantile.—Son veramente curiosa.

—Ci ho gusto, contessa, e spero che questa volta sarete anche persuasa. Incominciate dal figurarvi che io sia voi; ciò sarà molto stravagante, e per conseguenza molto romantico. Ho il vostro en-tout-cas; se aggiungeste per grazia somma il vostro ventaglio…. Così, facendomi vento, parlerei in questa forma ai miei satelliti: "Signori miei dilettissimi, sapete voi che stanotte non ho potuto dormire? Ho passato il mio tempo pensando a voi altri. Quei cari giovani! dicevo tra me e me. Perchè, veramente, siete cari, tanto cari, che io non so quale sia il più caro tra voi….

—Oh, questo, poi!—gridò la contessa.

—O questo, od altro;—ripresi.—Il proemio sia pure a vostra scelta; purchè ci sia l'essenziale, secondo il parer mio. E l'essenziale è di dire ai satelliti: "Signori miei, perchè non pensate ad accasarvi? È un ottimo stato, il matrimoniale. Io l'ho scelto, e me ne trovo felicissima. Imitate l'esempio mio, e sarà una prova di bella amicizia. Anzi, vedete, avevo stanotte pensato anche a trovarvi la sposa. Ci sono tre Berti, in Corsenna, una per uno, e tutte e tre molto carine, tanto carine, che io veramente non so qual sia la più carina delle tre. Volete? Faccio io la domanda per voi."

—Ah, bello, bello, magnifico, stupendo! ed anche romantico, sì, molto romantico!—gridò la contessa, arrovesciando le spalle sull'argine e ridendo a più non posso.—Ma se non accettano?

—Oh Dio! se non accettano, tanto peggio per loro;—risposi.—Del resto, io faccio un dilemma: O sono giovani di cuore e di spirito, o solamente di spirito. Mi ripugna di aggiungere un corno all'argomentazione, e di crederli sciocchi. Se hanno spirito e cuore, accetteranno il vostro consiglio, perchè in verità le tre Berti sono molto carine, e possono far la felicità di altrettanti figli d'Adamo in questa valle di lacrime. Se sono solamente o niente affatto di spirito, tutti e tre prendono ventiquattr'ore di tempo a rispondervi; ma in quelle ventiquattr'ore fanno le valigie, prendono un biglietto alla prima stazione di strada ferrata, e vanno a farsi impiccare altrove. Vi torna?

—Sì, sì, ottima idea; quantunque io non voglia fare l'esperienza precisamente nella forma che voi proponete, e per cui ci vorreste voi, signor Rinaldo, col vostro modo curioso di farvi vento. Ma vi son grata, sapete? vi sono gratissima, e qualche cosa di simile a ciò che voi avete immaginato, certamente farò.—

Mi stese la mano, così dicendo, e strinse forte la mia. Era contenta di me; ed io incominciavo ad esser contento di lei, tanto che dimenticavo perfino la storia del povero Leopardi a Recanati. Quand'ecco (il quand'ecco è di rito in questi casi) si sente un fruscio tra i rami bassi delle carpinelle, e un cane mi sbuca di là, Buci, l'eterno Buci, il mio satellite, che ride e mi fa impallidire e tremare.

Quella mattina non avevo badato a lui, che non era in casa, ed io non mi ero dato il pensiero di cercarlo. Buci aveva saltata la siepe dell'orto, secondo l'uso suo e dei suoi pari. Benedetti cani! Prima era sempre con me, e per venire con me, per essermi alle calcagna dovunque andassi, risicava le busse del suo padrone ogni sera: adesso che sta con me, va sempre con gli altri, e quando è con gli altri, non ha pace finchè non li guida sulle mie tracce. Da tanti giorni non venivo al rifugio dell'Acqua Ascosa; ed ecco, proprio la prima volta che ci torno, Buci mi viene a scovare, e sicuramente porta qualcheduno con sè.

Tutte queste cose pensai, o piuttosto vidi in un attimo; e il pensarle e il vederle mi alterarono in faccia.

—Che c'è!—disse lei.

—Nulla; vi prego, alzatevi e venite via.

—Perchè?

—Ve lo dirò poi; venite via.

—Dove?

—Lo saprete; ma venite, senza perdere un minuto secondo.

—Ma che debbo temere? che mi trovino qui?—diss'ella, avviandosi.

—Ebbene, non sarebbe già bello;—risposi, trascinandola.

—Ma io non ho paura, ad esser trovata con voi, con un gentiluomo, con un cavaliere.

—Grazie; ma venite più svelta, vi supplico.

—Comandate, obbedisco.—

E prese il mio braccio, per correre più spedita. Io avevo fatto un gesto a Buci, come per dirgli che andasse all'inferno; ma egli non lo capì. Gliene feci un altro per accennargli che mi precedesse; ed egli capì quello, finalmente!

La contessa muoveva frettolosa al mio braccio. Si giunse ad un punto del sentiero, donde, o pel fogliame degli alberi, o per la piega del monte, non si vedeva più il posto dove eravamo stati a sedere. Laggiù incominciai a riprendere il fiato.

—Che uomo siete voi!—mormorò la luminosa contessa.—Un altro al vostro posto….

—Un altro,—interruppi,—sarebbe uno sciocco, o un mascalzone; io non sono nè l'uno nè l'altro. Venite; ancora pochi passi, e saremo fuori del tiro.—

Si costeggiava la sponda del canale, sempre in mezzo alle piante. Ad un certo punto incontrammo l'ostacolo che io già conoscevo, una casa di contadini che cavalcava il ruscello. E qui, una delle due: o passar l'acqua, inerpicandoci tosto per un orto a scaglioni, risalire di là ai casali di Santa Giustina, e sparire di là, per riapparire al bisogno donde ci paresse meglio, con aria di persone a diporto su d'una strada scoperta; o scendere dall'altra parte della pescaia e arrivare al greto del fiume, dove ci avrebbero veduti, indovinando anche come e perchè ci trovassimo là. No, niente al fiume; piuttosto ai casali di Santa Giustina.

—Vi sentite,—dissi alla contessa,—di saltare quest'acqua?—

Ella guardò un poco il ruscello, misurandone a occhio l'ampiezza.

—No, vi confesso;—rispose.—Coll'impiccio della gonna!

—Permettete, allora; qui non c'è tempo da perdere; vi rapisco senz'altro.—

Le prendo ventaglio e ombrellino, e getto i due arnesi sull'altra sponda, ma un po' lontani, che non m'impaccino il passo. Poi prendo lei nelle braccia, mi assicuro di averla bene in equilibrio sul petto, e spicco il salto. Il rivo non era largo più di sei palmi, e non facevo poi un miracolo di destrezza; ma il peso che avevo sulle braccia, e la cura che richiedeva, non mi lasciarono veder bene davanti a me, nò pensare che la sponda di là era in un certo punto assai molle per l'avanzarsi dell'acqua sotto l'erba traditrice. Così immollai un piede fino alla caviglia; ma la contessa era in salvo. La deposi sul sodo terreno, raccolsi l'ombrellino e il ventaglio, feci un altro gesto rabbioso a Buci, che si era fermato davanti a me, non intendendo una saetta di tutte quelle novità; e su per la salita a gran passi.

—Siete forte come un Turco;—mi diss'ella, ridendo.—Ecco un ratto in piena forma.

—Zitta, con quella voce, per carità!—

E via, senza posarci un minuto. Si passa davanti ad un casale, e per fortuna non si vede anima viva, nè alle finestre nè agli usci. Avevo pensato di far sosta ad una di quelle casupole, fingendo di esser capitati là dalla strada alta; ma il non esser visti da nessuno e il trovar lì, sotto la mano, anzi meglio, sotto il piede, un sentiero che mette nel bosco dei castagni, mi fa cambiare d'idea. La conduco da quella banda, ed ho il conforto di vedere che il sentiero pianeggia abbastanza. Così ella non si affaticherà troppo a salire.

—Sentite?—dice ella ad un certo punto, tendendo l'orecchio.—Ci chiamano.—

Avevo sentito ancor io, anzi prima di lei. Di laggiù commettevano a tutti gli echi, a tutti i punti cardinali, i nomi di Adriana e di Rinaldo. Riconoscevo la voce delle giovani Berti, di Terenzio Spazzòli, di Enrico Dal Ciotto, uno dei satelliti; il che mi lasciava supporre che ci fossero anche gli altri due. Ma il guaio più grosso, e che mi metteva le ali alle calcagna, era quello di aver riconosciuta fra l'altre la voce della signorina Wilson. Fortunatamente la comitiva si era fermata al punto dove noi eravamo stati a sedere, e di là si sentivano venire le voci; mentre noi, avviati nel sentiero alto a mezza costa, eravamo celati a tutti dallo sprone del monte, che già avevamo oltrepassato, per muovere verso il mulino. Per poco che fossero rimasti a cercare di noi laggiù, e ad invocare i nostri nomi invano, saremmo arrivati a salvamento, e sempre benissimo nascosti tra i castagni, fino al punto della strada battuta, dove ci eravamo due ore prima incontrati.

La contessa avrebbe voluto fermarsi al mulino. Secondo lei, si doveva restarci fino a tanto ritornasse indietro la comitiva, e aver l'aria di essere entrati là dentro a vedere le macchine; donde la possibilità del non esserci incontrati prima coi nostri cercatori importuni.

—Sì;—risposi;—ma se anch'essi, venendo, fossero entrati al mulino? o solo avessero attaccato discorso con qualcheduno della casa?

—Ebbene,—replicò lei,—tanto peggio per loro. Poichè tra quei curiosi ci ho i miei tre satelliti, sarebbe il terzo modo, non classico nè romantico, ma egualmente sbrigativo, per liberarmi di loro.—

La ringraziai con un inchino della bellissima idea, che poteva lusingare benissimo la mia vanità mascolina, ma che non conferiva punto alla mia quiete. La voce di Galatea, udita laggiù dall'Acqua Ascosa, mi aveva dato un gran rimescolo al sangue.

—Sentite, signora;—le dissi gravemente;—il meglio è di non dover dare spiegazioni, siano esse trovate buone o cattive. Son venuti a cercare di noi, e non ci hanno trovato; segno che non c'eravamo, o che essi non hanno saputo scovarci. A buon conto, non eravamo là, dove sono andati a far capo. Voi a casa vostra, quest'oggi, non avete da dar ragione dei vostri passi, e nessuno sarà tanto ineducato da farvi domande in proposito. Con me nessuno ha tanta confidenza da entrare in simili inchieste. Pensino quel che vorranno; dal canto nostro, come saremo laggiù al crocicchio, in vicinanza della nobil Corsenna, ci divideremo da buoni amici, per rivederci più tardi.

—Avete ragione;—rispose la contessa.—Poichè siamo fuggiti, tanto vale approfittar della fuga.—

Quella sera ci fu un pochettino di musoneria nella colonia villeggiante di Corsenna. I satelliti avevano le facce scure; Terenzio Spazzòli non si degnò di mostrare i denti più d'una volta. Le Berti, amabili innocenti, accennarono soltanto di essere andate il mattino a passeggio di là dal mulino, avendo sentito che Adriana era andata a passeggio anche lei, traversando il paese e girando da quella parte; ma certamente s'erano ingannati gl'informatori, poichè non l'avevano trovata.

—No,—rispose la contessa, con la sua bella tranquillità di signora accorta,—non s'erano ingannati. Ero uscita fuor d'ora, avendo l'emicrania e non potendo star ferma in casa; ero anche andata di là dal ponte, coll'idea di salire a Santa Giustina; ma ad un certo punto, vedendo due strade, ho temuto di smarrirmi, e son ritornata.—

A me non si disse nulla, che avrei saputo rispondere; a Buci nemmeno, che avrebbe potuto cavarsela ridendo. Per me, soltanto, ci fu a quattr'occhi una bottata di Galatea.

—Che odore, questa mattina, all'Acqua Ascosa! un odore acuto… come di pelle di Spagna.

—Ah sì?—risposi, colpito in pieno petto, ma non volendo parere.—È poi l'odore delle rose canine e dei fiori di rovo. Ce n'è tanti laggiù!—

XI.

Marlborough s'en va-t en guerre…

13 luglio 18…

Questa mattina ero stato un po' in forse dell'andare o del non andare in visita al Roccolo. È debito, dicevo tra me, debito di galantuomo, dopo l'impresa del mulino. Sì, mi rispondevo, ma che cosa ne penserà Galatea? Orbene, che male ci sarà? Son io infeudato alla signorina Kitty? Le ho mai detto una parola più calda di tutte le altre, e mie e di coloro che vede ogni giorno? Con lei, con sua madre, colle Berti, colla Quarneri, perfino colla signora segretaria comunale e colla signora sindachessa di Corsenna, ci ho i miei doveri di galateo. Così è; una volta imbarcati per questa vita da negri, che è la vita di società, bisogna bene curvar le spalle e adattarsi a coltivar canne da zucchero. Che cosa penserebbe dei fatti miei la contessa, se io non andassi a riverirla, a sentire da lei com'è finita, se ha avuto code o no, piccole noie per lei, la matta impresa di ieri? E che cosa direbbero i signori satelliti, se non mi vedessero comparire al Roccolo quest'oggi? Farei senza dubbio la figura del can bastonato, bastonato da lei, e pauroso di loro. Ah no, perdincibacco, non sarà mai.

L'idea di ciò che potevano dire i satelliti, mi ha messo di cattivo umore: il cattivo umore mi ha fatto mettere in armi. Siamo in guerra, combattiamo. E tanto per cominciare, esploriamo il terreno. Ieri mattina la contessa Adriana era uscita di casa alle otto, ora insolita per lei, bruciata per i suoi assedianti, che dovevano immaginarla non uscita ancora dalle sue camere. Essi, di certo, non usano andare che verso le undici alle loro batterie; infatti, a quell'ora, non avendola trovata al Roccolo, si son dati alla campagna, raccogliendo per via tutta la colonia villeggiante, come a dire tutto l'esercito di Corsenna; han preso lingua, han saputo che la contessa Adriana aveva preso il sentiero del mulino, hanno sospettato che fossi ancor io da quelle parti, e tutti sull'orma, che hanno perduta, fortunatamente per noi. Dunque, ricapitoliamo; la contessa è sola fino alle undici; se ci vado tra le nove e le dieci, sono sicuro di trovarla, di aver tempo a discorrere, a sentire da lei tutto quello che sarà utile di sapere. Rimarrò quanto ella vorrà; e se dovrò rimaner tanto che arrivino i satelliti, niente di male; potrò andarmene in loro presenza, insegnando a chi non lo sapesse ancora, che non è di buon genere star nei salotti in sentinella come all'ingresso d'una caserma, d'un parco d'artiglieria, d'una polveriera.

Alle nove del mattino, indossato il mio tutto vestito grigio d'autentica stoffa inglese (così almeno assicura il mio sarto, che è di Biella), raso accuratamente, ravviato, ripicchiato a dovere, con un bel garofano bianco all'occhiello, mi mossi alla volta del Roccolo; evitando l'abitato di Corsenna, per altro, tanto che ci arrivai alle nove e quaranta minuti. Troppo presto, forse? Eh, dopo tutto, avrei lasciato un biglietto di visita. Ma non ci fu bisogno di questo mezzo termine. Ero a mezzo il viale, quando ella si mostrò nel vano di una finestra, al primo piano della sua palazzina; mi vide, mi riconobbe, mi gettò con la sua vocina insidiosa un buon giorno di sirena, e sparì, ma per avvicinarsi. Compariva di fatto nell'atrio, quando io mettevo il piede sulla soglia del tempio.

—Ah bene!—gridò, stendendomi tutt'e due le mani.—Questo è un bel tratto, veramente degno di voi. E di me,—soggiunse, dopo un istante di pausa,—perchè io v'aspettavo.—

Risposi non so che cosa, ma balbettando assai più che parlando. Ella, intanto, preso il mio braccio, mi conduceva in un salottino accanto al vestibolo, indicandomi una poltroncina, sulla quale mi posi a sedere, ammirando un pochino l'addobbo della stanza e più quello della padrona di casa, che indossava un grazioso abito da camera. Dovrei chiamarlo déshabillé, alla francese; ma in verità non mi pare che il nome vada a capello. Come chiamare déshabillé un abito, sia pur sciolto intorno alla vita e largo di maniche, tutto ricami, trafori e passamani, colla giunta d'una guarnizione di merletti? Del resto, abbia il nome che si vuole; sian parecchi i déshabillés delle signore, come gli abiti di mattina, da passeggio, da ricevimento, accollati, scollati, a mezzo scollo, e ne mutino due, tre, quattro volte in un giorno; saranno belle in due; tre, quattro maniere. La bellezza è cosa di cielo; ammiriamola, perchè narra anch'essa la gloria di Dio.

—Come siete stato gentile!—ripiglia la contessa Adriana, dopo aver concesso qualche minuto secondo alle mie ammirazioni.

—Che dite, contessa? Era il mio dovere. Volevo informarmi di ieri.
Tutto è andato bene, non è vero?

—Sì, quantunque, sarebbe stato meglio rimanere al nostro posto. Eravamo a discorrere al fresco; ci avrebbero trovati, e ci avrebbero fatto compagnia, se fosse loro piaciuto. Ma infine, io non andrò indagando tutte le ragioni che vi hanno persuaso a volere altrimenti. Forse ci perdevate un tanto a farvi vedere con una donna brutta; e allora….

—Signora!…

—Scherzo, sapete? So bene di non essere il diavolo. E non mi fate complimenti, vi supplico. Non ho parlato così colla intenzione di averne uno da voi. Li gradisco, ma quando non li ho provocati, e sopra tutto quando vengono spontanei, nella sincerità del momento; come accade a voi, che siete poeta. Ieri, per esempio, ne avete trovato uno bellissimo.

—Io? quando? come?

—Sì, quando avete parlato dei quattro satelliti di Giove; donde così naturalmente, senza pensarci, vi è venuto di accennare ai tre che si potrebbero concedere… ad un altro corpo celeste.

—A Venere, infatti.

—Scusate, non volevo proferirne io il nome. Vi sarei parsa vanitosa. Ma era tanto carino, il vostro complimento, a proposito dei miei satelliti. Che noiosi, quelli! e se sapeste che musi lunghi, iersera!

—Questo appunto mi premeva di sapere. Avete già fatto il famoso discorso?

—No, non ancora; non mi pareva il momento. Erano anche così poco trattabili! Se, Dio guardi, mi fanno oggi la seconda di cambio, vi assicuro che non ricorro neanche al consiglio di ammogliarli. Ma veniamo al fatto. Iersera, quando ci siamo lasciati sul ponte, mi hanno accompagnato tutti e tre, secondo l'uso, che a quell'ora tarda non mi dispiace nemmeno. Saliti al Roccolo, sono entrati, si sono seduti qui, muti, accigliati, come un terzetto di giudici. Non volevano il tè; ma lo volevo prender io, e l'ho preparato; si son rassegnati a sorbirlo, ma trovandolo amaro. Nessuna allusione alle indagini del mattino; solo uno, il Martorana, mi chiese di punto in bianco: "vi è passata l'emicrania?"—Non ancora del tutto; risposi. Quindici minuti dopo, si congedarono. Ma se erano stati muti nel mio salotto, diventarono loquaci all'aperto, specie in fondo alla villa, dove Clarina li ha uditi. Clarina è la mia cameriera; ed è fuori spesso e volentieri, quando io non ho bisogno di lei. Credo, tra parentesi, che ci abbia l'innamorato, un giovane muratore di qui. Vorrà diventarci bianca, di bruna che è; ma passiamo, che questo non è affar mio. Clarina adunque li ha sentiti; parlavano di una gita che avevano fatta quella mattina, di due persone che andavano cercando e che non avevano trovate.—Ma sicuramente erano là,—diceva uno, il signor Dal Ciotto, che era il più arrabbiato dei tre,—il cane li ha messi in sospetto e li ha fatti fuggire; bisognava guardare dal fiume.—Se è vero…—diceva un altro, il signor Cerinelli,—se è vero, abbiam fatta una bella figura, e c'è qualcuno che riderà di noi.—Il signor qualcuno la pagherà salata;—replicò Enrico Dal Ciotto. Tutte queste cose è venuta a riferirmi Clarina; e vi confesso che sulle prime mi avevano un po' turbata. Ma siccome i miei tre satelliti non sapevano niente, tanto che iersera immaginavano ancora una mia fuga dalla parte del fiume, e siccome ne sapranno anche meno domani o doman l'altro, e siccome, finalmente, sono tre sciocchi, mi sono subito tranquillata sul conto delle loro vendette. Spero bene che non ne tremerete neppur voi.

—Io? no davvero; mi ci diverto mezzo mondo. E non dico un mondo intiero, perchè già un mezzo mondo m'annoiano.

—Li manderò via, non dubitate, farò quel tal discorso.

—Sarà sempre bene,—conchiusi.—Ho visto degli sciocchi diventar mariti eccellenti; e la signora Berti sarà la più felice delle madri.—

Ci fu un momento di sosta nel dialogo, ed io reputai conveniente di dare un'altra occhiata dintorno.

—Come siete bene qui! Opera vostra?…

—Povero addobbo!—diss'ella.—Mi mancavano tante cose, quando ci sono arrivata! Ho fatto quel che ho potuto, adattando al mio gusto una casa d'altri. Sapete bene com'è venuta a noi, per pagamento d'un credito che aveva mio marito, e che non si sarebbe potuto ricuperare altrimenti. A lui da princìpio pareva una gran cosa, avendo appunto bisogno d'aria di montagna; a me invece non piaceva affatto. Ora a lui non va più, perchè gli hanno ordinate le acque di San Pellegrino, e piace a me poichè ho dovuto adattarmici per una stagione. Se potrò aggiustarla del tutto a modo mio, mi ci troverò meglio un altr'anno. E voi, Morelli, venite tutti gli anni in Corsenna?

—È il prim'anno, questo. Anzi, non sapevo che fosse un luogo tanto frequentato. Ero venuto per istudiarci, figuratevi!

—Oh, ci studierete, dando agli amici appena appena quel po' di tempo che potrete. Scegliendo bene, si possono risparmiare molte ore. E voi, con tanto ingegno che avete, non potete sottrarvi al lavoro. Sarebbe un delitto. Che cosa avete pubblicato, fin qui?

—Niente, signora, o quasi niente. Già, per far numero tra i mediocri, è inutile stampare.

—Che cosa dite voi mai? Parlano tutti di voi con tanta ammirazione!

—Già, perchè non fo nulla. Se facessi, mi giudicherebbero diversamente. Così va il mondo, signora. Ma noi c'inganniamo volentieri l'un l'altro, esso prodigandomi una stima che è tutta fondata sulla certezza della mia pigrizia invincibile, io godendone senza risparmio, e pensando che quella stima io la perderei senza fallo, se mai mi decidessi ad uscir dalla nuvola.

—Che pessimismo! Ma voi dite per celia, non è vero? e non avete una così brutta opinione di tante persone gentili che aspettano luce e conforto da voi.

—Un po' tardi, se mai! Non sapete che ho già trentacinque anni?

—Trentacinque!—esclamò la contessa.—In verità, vi credevo a mala pena sui trenta. Ma che cosa son poi trentacinque anni?—soggiunse.—La virilità della gioventù, per un uomo. Io ne ho ventisei, e come donna posso dirmi vicina alla maturità. Che differenza tra noi! Ma gli anni, con le rughe che portano a noi donne, non mi toglieranno di seguirvi nei vostri trionfi. Mi leggerete quello che fate, non è vero?—

Non so che cosa fossi per risponderle. In quel momento si udiva un fruscio sulla ghiaia del giardino, e Clarina appariva sull'uscio del salotto per annunziare una visita, anzi due in un punto.

—Già?—mormorò la contessa Adriana, volgendo un'occhiata all'orologio del caminetto, che segnava allora le dieci e tre quarti.—Beviamo quest'amarissimo calice;—soggiunse, volgendosi a me con un mesto sorriso.

Entrarono due satelliti, Maurizio Cerinelli e Giovanni Martorana; entrarono, e vedendo l'intruso, fecero il muso lungo un palmo.

—Soli?—esclamò la contessa.—E il signor Dal Ciotto?

—-È andato per la carrozza. Sarà qui fra due minuti.

—La carrozza! Per che farne?

—Non rammentate, signora?—disse il Martorana.

—Avevate manifestato il desiderio di visitare il convento di
Dusiana;—soggiunse il Cerinelli.

—È vero, è vero;—rispose la contessa, con aria di cader dalle nuvole.—Ma si era detto per oggi? Questo m'era passato di mente. A quest'ora, poi!

—Il cielo è coperto;—disse il Martorana.

—E potrà piovere, allora;—ripigliò la contessa.—Anch'io, con quest'emicrania che non mi vuole dar tregua!…—

Qui la luminosa contessa fece un gesto di persona seccata, e non aggiunse parola. Capitò il Dal Ciotto, anche lui con tanto di muso, a mala pena mi vide. Ma era più padrone di sè, forse essendo stato avvertito della mia presenza colà. Più padrone di sè, ripeto; ma mi fece anche un saluto che non mi piacque. Se non fossimo stati in casa d'altri e in presenza di signore, a quel saluto breve e sarcastico avrei risposto con un ceffone, tanto per cominciare. Già, posso ammettere ed anche gradire che uno non mi saluti; ma che mi saluti male, mi annoia. Ho già pensato, del resto, a ciò che mi conviene di fare. Le lettere qui s'impostano alle sei di sera. Scriverò prima delle sei a Filippo.

La signora non vorrebbe andare, a Dusiana. Le occorrerebbe un'ora almeno per vestirsi. Inoltre, è un brutto giorno; un tredici. Lo dice ridendo, ma lo dice.

Io rido con lei, e la conforto ad andare. Il tredici secondo me non è altro che un numero il quale ha il torto di venire dopo il dodici e prima del quattordici. Del resto, non a tutti dispiace, non a tutti porta sfortuna. Io posso assicurare per mia esperienza che è un numero eccellente, un numero aureo. Tutte le cose che ho fatte in un giorno tredici mi sono andate benissimo.

—Ah sì?—esclama Enrico Dal Ciotto, strascicando anche la frase, come se la tirasse con l'argano.

—Certamente;—gli rispondo io, senza scompormi, e sul medesimo tono.

La contessa Adriana nota le pause e le inflessioni di voce; aggrotta le ciglia, per mostrare a qualcheduno che ha capito e che non è contenta per nulla. Poi, con sembiante mutato rivolgendosi a me, vuol farmi sentire che la padrona di casa non rileva le piccole impertinenze, e che io posso far come lei.

—Voi inventate a buon fine, signor Rinaldo;—mi dice;—e il numero tredici vi dovrebbe esser grato di questo servizio che gli rendete. Ma io sono ancora molto dubbiosa. Aggiungete che debbo scrivere parecchie lettere; a mio marito, per esempio, che oggi avrà aspettato inutilmente i miei uncinetti. Se sto due giorni senza scrivergli, è capace d'inquietarsi, e di piantare San Pellegrino, per venire in Corsenna. Ne avrei piacere, per un lato; per l'altro mi rincrescerebbe, temendo che la sua cura ne soffrisse.

—Se non fosse per questo,—risposi,—sarei lietissimo di avere la parte mia nel fargli mancare una lettera; tanto ho desiderio di essergli presentato. È, a detta di tutti, un gran gentiluomo.

—Ma sì, fa questo effetto su quanti lo avvicinano;—replicò la contessa.—Sono una moglie fortunata, e sfortunata ad un tempo. Sapete che le belle signore se lo contendono? L'anno scorso a Roncegno faceva lui tutte le carte; ed io, che non avevo patito mai del brutto male, mi capite, mi son ritrovata ad esser gelosa. Ed egli rideva, delle mie collere; rideva saporitamente, come fate voi, signori uomini, che poi, se Dio vuole, sarete peggio di noi.—

Fatte poche altre ciance su questo tono più allegro, mi alzo, la riverisco e me ne vado, senza saper bene se andrà o non andrà a vedere il convento di Dasiana. Quanto ai tre satelliti, li saluto appena quanto basta per la decenza. E me ne torno a casa, dove butto giù le mie note. Ora poi, scriviamo a Filippo.

La lettera è fatta. Mi par utile di ricopiarla qui:

_"My Dear,

"A friend in need is a friend indeed, says the proverb. Now it happens that I have, at this moment, very great need of a friend,_ and I am resolved to make the trial…. sopra di te, mio dolce e fiero Filippo. Tu non hai niente che ti trattenga in città, salvo l'abitudine, o la pigrizia, mentre io ho bisogno qui d'un amico, an uncommon want, come lord Byron aveva bisogno di un eroe. Lascia dunque i tuoi affari inutili, e vieni a confortare l'amico tuo; il quale non ti ha scritto da tanti giorni per la semplicissima ragione che ha speso il suo tempo a commettere un certo numero di sciocchezze, e ti vorrebbe qui per dargli una mano. In altri termini, temo (senza sgomenti, però) di avere ai fianchi una piccola tribù di scioperati. Dipenderà forse da me, di causarne gli attacchi; ma se proprio dipendesse da me, non vorrei causarli davvero, e mi metterei volentieri in guerra, come Marlborough. Qui non ho persona amica, seria ed armigera quanto bisogna, a cui commetter tutto me stesso. Hai capito? Vieni dunque tu, vola, e porta per ogni buon fine una coppia di tutte le armi cavallerescamente possibili. Per dar colore alla spedizione potresti portare un arsenale di sciabole, fioretti e pistole, da esercitarci tra noi. Saresti nella tua beva, non ti pare?

"Non ti ho mai chiesto nulla; non mi ricusare la prima. Credi pure che questa volta ho somma necessità d'essere raffidato dalla tua presenza. Ti aspetto, e preceduto da un telegramma, per venirti a prendere alla stazione, ch'è un po' lontanetta da qui. Grazie, anticipate, e un amplesso spirituale per giunta.

"Il tuo "RINALDO".

Ho impostata la lettera in tempo, e più tranquillo me ne sono andato a desinare. Questa sera, passeggiando in paese, ho incontrata mezza la colonia, che ritornava dal suo eterno lawn-tennis. Si è fatto sosta all'unico ma infame caffè di Corsenna, in grazia del suo "Qui si gela" che promette alle signore la dolce voluttà del sorbetto. Poi diranno che Corsenna è un villaggio. Conosco delle città, dove si gela, sì, ma solamente e naturalmente d'inverno.

Ho potuto sapere che la contessa Quarneri non è andata a Dusiana. I tre satelliti devono esser furenti; imbronciati li vedo, ma quieti, in atto di rodere il freno. Che abbiano avuto una correzione salutare? Mi dispiacerebbe per me, che li vedrei volentieri andare in collera, specie se mi danno due giorni di tempo, tanto che arrivi il Ferri, con tutti gli omonimi suoi. Quanto a loro, se han presa la ramanzina, non hanno male che non si sian meritato, avendo smascherate le loro batterie in presenza della contessa. Mi paiono tre ragazzi, con quel loro cospirare all'aperto, in un sentiero di villa, dove tutti gli alberi hanno orecchi per udire, e bocche per riferire.

Viva la faccia delle Berti. Quelle non sentono, non vedono quasi, e non han niente da riferire a nessuno. Passano nel mondo sorridendo e sperando; beate loro, e madre bofficiona e figliuole snelle, che cresceranno in bellezza e in rotondità come lei.

La signorina Kathleen mi pare un po' sostenuta. Cara fanciulla! ma che cosa ne posso io? Se sapesse che non ci ho colpa, e che mi trovo impegnato in questo negozio per l'onor della firma! Del resto, veda un po' lei; non è mica Rinaldo Morelli, l'uomo che accompagna al Roccolo la contessa Adriana, quando ella si risolve di lasciare il caffè di Corsenna. E infine, lei stessa, la signorina Kathleen carissima, non è forse tutta fiori e baccelli colla luminosa contessa? Si direbbe anzi che da iersera le è diventata più amica che mai. Animo, dunque, la preghi un pochino, e si faccia dir tutto.

Ma forse m'inganno, e do troppa importanza al mio signor me stesso. Quell'aria della signorina non è di sostenutezza con me; è di stanchezza, per la fatica del lawn-tennis. Infatti, ecco che si rianima, dopo partita la contessa coi suoi tre satelliti. Terenzio Spazzòli ha incominciato un discorso di rowing-club e di swimming-club, e lei è tutta intenta alle belle imprese del mare, da quella gran vogatrice, da quella gran nuotatrice che è. Galatea, ninfa marina! A Viareggio, dov'ella ha passata l'estate scorsa, ne sanno qualche cosa: nessuna di quelle Nereidi era più intrepida e più valente di lei.

Confessiamolo, è una bella cosa, e buona sopra tutto, viver la vita così pienamente come ella fa. A questo modo vengon su le belle schiatte, sane, forti, robuste, pari a quelle che hanno lasciato tanto buon nome nel mondo. E tuttavia, se Kathleen fosse mia moglie, non vorrei tante cose da lei; nè racchetta, nè tuffi in acqua, nè remo, nè vela; casa, casa, casa; e tè, magari, quantunque non mi piaccia; e latte e burro a tutto spiano.

Similmente non vorrei che la luminosa contessa, dato e non concesso che portasse il mio nome, avesse tre satelliti per accompagnarla tutte le sere a casa. Piuttosto una mezza legione di carabinieri. Per compenso le permetterei, crepi l'avarizia, di confessare ai suoi visitatori quattro anni di più. Sono ancor primavere, che diamine!

XII.

Violino di spalla.

16 agosto 18…

Che due giornatacce! Sono stato di pessimo umore, e n'ho avuto le mie buone ragioni. Io, già, son fatto così; non amo i mezzi termini, nè le mezze misure. O la pace stabilita, o la guerra dichiarata. Mi seccano le tregue, e più mi turbano le vigilie, con le loro aspettazioni, coi loro sospetti, colle loro incertezze tra il sì ed il no. Star sempre in armi è una condizione sciocca, alla quale non mi saprei adattare, perchè temerei sempre di far troppo o troppo poco, e sopra tutto di perdere la pazienza prima del tempo, come sarebbe il caso qui per l'appunto. Perchè io non li temo, i miei tre fastidiosi personaggi, e temo piuttosto che mi vogliano stancare, ridersi di me, per trovar poi qualche gretola e scapparmi via, dopo avermi ben molestato; li voglio al punto buono, per andar subito a fondo. Hanno certe arie, davanti a me, da cavare i ceffoni dalle mani di un santo. La pazienza non è il mio forte, e mi duole che non ne siano persuasi. A buon conto, una ne ho fatta, che li ha costretti a meditare. Quando c'incontriamo, senza che ci siano signore di mezzo, non ci salutiamo neanche. Ho incominciato io; questa voglia me la sono levata, rizzando la testa e facendo sporgere un pochettino il labbro inferiore, come un arciduca di casa d'Austria. Tanto meglio per loro, se facendo così li avrò liberati d'una noia; certo mi son liberato io d'un'altra maggiore. Ma se credono che io voglia fermarmi qui, la sbagliano di grosso.

Sono io innamorato della contessa? No davvero. Incapriccito? Neanche. Anzi, diciamo tutto, se alle prime poteva darmi negli occhi, perchè la bellezza è sempre la bellezza, ora non me ne faccio più nè di qua nè di là, perchè quella bellezza mi si è mostrata falsa. Nell'anima, s'intende. L'hanno anche i bottoni, e volere o no si riverbera sempre all'esterno. Che bisogno c'era di darsi ventisei anni? Ne ha trentadue per lo meno. E di che si lagna? Si può esser belle a trentasei, a quaranta, e piacere anche più in là. Finalmente, si ha l'età che si dimostra. Io non mi vergogno dei miei trentacinque; se ne avessi, colla faccia d'oggi, quaranta e cinquanta, che male ci sarebbe, per oggi? Levarsi gli anni è una debolezza che non ammetto neanche nelle donne; anzi nelle donne meno che negli uomini. Esse, in fin dei conti, hanno l'invidiabile privilegio di non sentirsi domandare in società la fede di nascita. Perchè darla falsa a chi non ha domandata la vera?

Questo è stato un punto nero per lei. Resta bella, ma non mi è più simpatica come prima. Del resto, più mi osservo e mi studio, più riconosco di non essere stato un solo momento ingannato dalle sue belle moine. Aggiungiamo che per me quella donna ha la bellezza troppo vistosa, del genere a cui tutti s'inchinano, essendo ella formata di quegli elementi che piacciono al maggior numero. Veste troppo bene, tanto che vi rifà il figurino a capello. Che cosa significa ciò, se non questo, che il suo personale si adatta a tutte le mode, non istonando con nessuno dei loro artifizi? La testa è bellissima per la eleganza dei lineamenti; ma non è forse troppo piccina, tanto ella va con tutte le fogge di pettinatura? Non è nel complesso un po' bambola? Quella bocca… le rendo giustizia, e faccio il saluto militare. Ma quegli occhi lunghi, sotto quelle palpebre tagliate a mandorla, son proprio naturali? Apparirebbero tanto luminosi, fosforescenti, senza il sapiente contrapposto del bistro? Non sarà così, ma pare che sia, e sa di commedia. Proprio come una regina di commedia, la contessa ha bisogno, dovunque ella sia, di aver tutti a' suoi piedi; non è contenta, fin che ce n'è uno che non accetti il suo giogo. Ero io quel tale, in Corsenna; si è rivolta a me, come si sarebbe rivolta ad un altro, al commendator Matteini, per esempio, prendendo ipoteca anche su lui.

Vedo queste cose, e ci sto; senza far molto, solo per dar noia a quei tre, ma ci sto. Non mi prendo l'incarico di accompagnarla a casa, come fanno loro; ma dove mi trovo con lei, cerco d'invadere, aiutandomi lei con una grazia che dev'essere crudele per chi ne soffre. Soffrono essi poi tanto? Animali da esperienze, son forse meno sensibili al dolore. Non si adattano già a portar la croce in tre? Comunque sia, devo essere un bruscolo nell'occhio per tutti e tre; me ne persuado al muso che fanno.

Non intendo Galatea, che è sempre e più che mai pane e cacio colla contessa. Quando è presente Adriana, la signorina Wilson non rifugge neanche dal ritrovarsi con me; pare anzi che ci prenda gusto a farmi parlare, rimanendo in nostra compagnia. Quando non c'è Adriana, non mi sfugge, ma non mi cerca neanche, e se è lontana ci resta volentieri, amando meglio di prendere ipoteca sul commendator Matteini. A vederlo, allora, il più conservato dei conservatori, come fa la ruota! Credo che non parli più nemmeno di Bologna, "città dell'anima". Che gusto ci trova, la signorina Kathleen? Ma già, capisco che quella gran diavola fa per chiasso, sempre bisognosa di moto, di varietà, d'aria, di luce, sempre aperta l'anima e il cuore, sempre fuori del guscio, come l'argonauta, toute en dehors, direbbero i francesi. È più intima, più raccolta, più seria, quando è con Terenzio Spazzòli, col quale ieri ha confabulato a lungo. Hanno un altro segreto insieme, ed io ho potuto scoprirlo, da certi discorsi che hanno tenuto colla sindachessa e colla segretaria comunale. Parlavano dell'Asilo infantile e dei suoi bisogni pecuniarii; domandavano se ci fosse una sala abbastanza vasta in paese, quella dell'Asilo non parendo abbastanza capace di una numerosa assemblea. Si tratta d'imbastire un concerto a pagamento, un concerto vocale e strumentale, il gran da fare di tutte le stazioni, di tutte le colonie e di tutte le stazioni estive. Mi è giunto perfino all'orecchio l'accenno d'un prologo in versi, che qualche signorina potrebbe recitare. Hanno già sotto la mano il poeta? Forse; non è vivo e sano Enrico Dal Ciotto? Ma vorrei proprio vedere che la signorina Kathleen si rivolgesse a lui. Questa, poi, me l'avrei per male; sempre che i martelliani dovesse recitarli lei. Se si tratterà delle Berti, sia pur chi si vuole il poeta. Ma la musica? qui ti voglio; non c'è neanche un concertino di trombe, in Corsenna; per avere un pianoforte e un "maestro al cembalo" bisognerebbe mandare a Dusiana. Basta, vedremo.

Frattanto, siamo giunti a quest'oggi. Filippo mi ha telegrafato ieri che si metteva in viaggio; arriverà oggi al tocco. Eccellente amico! Capiterà con la sua bell'aria marziale di paladino antico. Non è un letterato, che Dio lo benedica; è un uom di fatti, tagliato alla brava in un buon tronco di querce, diritto come una spada e netto come il filo d'un rasoio. In che modo siamo andati d'accordo noi due? Per le nostre dissonanze, direbbe un osservatore superficiale; e non è vero. Se all'aspetto non ci rassomigliamo punto punto, credo che abbiamo comune qualche intrinseca qualità, e che questa ci unisca. Egli è più rigido, in apparenza, più riguardoso nelle sue maniere, più abbottonato; ma è poi altrettanto sincero. Abbiamo il nostro guscio tutt'e due; ma io, meno savio, son troppo spesso e volentieri fuori del guscio. Altra differenza; io faccio spropositi da cavallo, sempre nell'idea di andar per le spicce, mentre egli è sempre ponderato e di buon consiglio; eppure non ne dà mai di debolezza nè di pace. Vecchio schermidore da terreno, suol dire che la migliore di tutte le parate è l'andare a fondo.

Curioso cavaliere, che per gloria sua avrebbe dovuto nascere otto secoli fa! Ricorderò sempre quella volta che andò per conto mio, con un altro degno collega, a chiedere una spiegazione. Trovò l'avversario, brav'uomo e d'ingegno, che aveva avuta la colpa o il merito di darmi una solenne stroncatura per certi miei versi, e gli parlò in questa forma:

—Perdoni l'incomodo, che sarà breve. Siamo i tali dei tali; veniamo in nome del signor Rinaldo Morelli, nostro amico, a chiederle in cortesia tre cose: il luogo, l'arma e l'ora.—

Filippo Ferri è fatto così; tutto d'un pezzo. Sta sulla sua come un Artabano; ma nessuna sua parola offende. Pochi uomini sono cortesi quanto lui, nessuno più di lui; ma suol parare andando a fondo. Ha dolce il sorriso e fiero lo sguardo; solo a vederlo per istrada bisogna dire: ecco un uomo.

Al tocco ero alla stazione della strada ferrata, distante un'ora da questo dolce paese. Il treno è arrivato ansimando, come per farmi capire che non era colpa sua se giungeva con quaranta minuti di ritardo. La testa di Filippo appariva da un finestrino, e gli occhi suoi mi balenarono un sorriso che ancora non trapelava dal doppio festoncino dei baffi. Corsi ad aprirgli lo sportello; si calò giù, e mi si avventò al collo come un padre. Ma dopo avermi baciato e ribaciato, si tirò indietro con aria di rimprovero, aria paterna anche questa, per dirmi:

—Ah cane! Così mi hai ingannato?

—Io!—esclamai.—In che modo?

—-Dicendomi che non c'era l'inglesina, perbacco.

—E non c'è, difatti, non c'è.

—Come, non c'è? Non mi hai tu incominciata la tua lettera in inglese? Ancora un paragrafo di quegli starnuti, e mi toccava di pigliare un interpetre. Sai bene che d'inglese io non ne mastico, e di tedesco nemmeno.—

Lo so benissimo. Tra le originalità di Filippo Ferri c'è questa, di non volersi dedicare a nessuno studio di prossima e diretta utilità. Per capriccio ha imparato l'ebraico; per prolungamento di capriccio ha imparato l'arabo e il copto.

—Sai che l'inglese è la mia passione;—gli dissi.

—E le inglesine no?

—No, ti giuro; e quando ti avrò raccontato ogni cosa, vedrai che si tratta di ben altro. Ora non è il momento.

—Nè il luogo;—soggiunse Filippo.—Lasciami dar la valigia a qualcheduno.

—C'è qui Pilade, il mio servitore. Hai bagaglio?

—Sì, e che bagaglio! un cassone.

—Consegna il polizzino a Pilade; sarà ritirato e caricato nella vettura… se pure una vettura basterà. Altrimenti prenderemo un carro.

—Basterà, che diamine! Ma ci sarà il dazio; vorranno visitare, e così si scopriranno gli altarini.

—No, non dubitare. È comune aperto, qui; per conseguenza, il tuo cassone arriverà chiuso nell'alma Corsenna.

—Di' pure il tuo, perchè io l'ho portato per te;—mi rispose Filippo, mentre uscivamo dalla stazione.—C'è un vero arsenale. Dieci fioretti coi bottoni, e una coppia di spade; dieci sciabole non affilate, e quattro col filo; ti bastano?

—Ce n'è d'avanzo. Ma son tutte armi bianche?

—Non mancano le nere: quattro Flobert, quattro Lepage, con le rispettive munizioni nella valigia; va bene?

—Ottimamente; ci sono così tutti i ferri necessarii.

—Senza contar me.

—Ah, tu sei il re dei Ferri;—gridai, montando in carrozza.

Il bagaglio fu caricato a cassetta, sotto ai piedi del cocchiere e del servitore, che si aggiustarono come poterono; e i cavalli presero il trotto. Io ero raggiante di gioia; non avevo più niente da desiderare, se non forse di giunger presto a casa, per poter raccontare minutamente a Filippo tutto ciò ch'era necessario di fargli sapere. Egli non domandò nulla, per quanto fu lungo il tragitto. Di solito non domanda mai nulla. La sua massima è questa: Si ha da partire? Si parte; dal piè sinistro, uno, due; è la cosa più facile di questo mondo, e non so come i coscritti ci sudino tanto.

La strada è piacevole, alberata e fresca, lungo la riva del fiume, e il tragitto si fa senza molestia. Per me il paese è senza carattere; ma a Filippo non dispiace, forse perchè egli non ha l'uso di andar mai in campagna, e lo spettacolo gli riesce nuovo, con tutto quello sfoggio di verde. Sono contento che gli faccia buon effetto la valle di Corsenna. Quando incomodiamo un amico, siamo sempre felici ch'egli non si trovi male nel luogo dove l'abbiamo tirato contro sua voglia, o contro le sue consuetudini.

—Non credevo che queste montagne fossero così belle;—diceva egli, guardandosi intorno.—Sta a vedere che m'innamoro dei boschi, e faccio un idilio ancor io!

—Non dipenderà che da te; c'è tutto l'occorrente.

—Per iscriverlo?

—Ed anche per iscriverlo; ma io non credevo che tu intendessi di dir questo.

—Castagni!—disse Filippo, girando largo.—Castagni da per tutto. E lassù, quel nero sui monti?

—Abeti, mio caro, abeti e pini. Corsenna è famosa per il suo pinus
Pinsapo
.

—Ah! i miei complimenti. E niente peachpine?

—Non credo. Ma che ti salta di parlare inglese?

—Non ne far caso; non so che questo vocabolo. Ma capisco che bisognerà impararne degli altri.

—Che idee! Se ti ho detto che non c'è niente di vero, nelle tue supposizioni!

—E sia;—rispose Filippo.—Può esser bene come tu dici. Non vedo infatti la via polverosa.

—Oh, per questo, non ci ho merito; è piovuto stanotte.

—Ed è una gentilezza che mi usa questa poetica valle;—replicò Filippo, ridendo.—Io non amo il polverio, ed è questa una delle cagioni che mi fanno odiar la campagna. Le altre sono le mosche, i mosconi, le zanzare ed altri animali noiosi che ci s'incontrano. Non è anche la tua opinione?

—Per gli altri animali, sicuramente. Ma ora che c'è l'arsenale, li metteremo a dovere.

—Quando penso,—disse Filippo, mutando registro e mettendo un sospiro tanto fatto,—quando penso a tutte le scioccherie che l'uomo ha commesse, per volersi credere un animale socievole, mi viene la stizza. Era nato per vivere a coppie, ed ha voluto vivere a branchi, far tribù, città, popoli, reami ed imperi. Che cosa ci ha guadagnato? L'ira in casa e la guerra permanente ai confini, o uno stato d'animi che non aiuta certamente a far buone digestioni, nè in casa nè fuori di casa.

—Sei diventato filosofo? Mi congratulo.

—Ma sì, che vuoi? Come tutti i guerrieri, per romper la noia d'un'ora di marcia.

—Non dubitare; siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Eccoti l'alma Corsenna, che s'affaccia alla svolta. Vedi quel torrione là in fondo? È una colombaia di casa colonica. Quell'edifizio lungo e nero, che pare un castello o un convento? È una filanda, che non lavora più da molti anni. Il baco non ha voluto attecchire in Corsenna; e il villaggio, che s'incamminava a diventare un borgo, è rimasto villaggio.

—Vedo delle casine, per altro; dei villini sparsi qua e là.

—Certo; e sono l'unica bellezza del paese. Un po' di bianco nel verde, un po' d'acqua corrente da fianco e da piedi, e la gente assetata di fresco ci corre ogni estate a rifugio. Vedi quella palazzina lassù? Pare a mezza costa, di qui; ma per effetto di prospettiva. È veramente sul colmo d'un poggio. Si chiama il Roccolo, ed è il rifugio di una bella signora che tu sai, perchè me l'hai nominata in una tua lettera.

—Per sentita dire;—rispose Filippo.—Di persona non l'ho conosciuta
mai. Il Roccolo!—soggiunse egli.—Che nome! E la signora è forse
Diana cacciatrice? Scherzo, sai; non posso ignorare che si chiama
Armida.

—Ma che Armida! vorrai dire Adriana!

—Diciamo pure Adriana; quanto a me, vorrei proprio dire Armida… e Rinaldo. Infatti, mi passa per la mente che non essendoci di mezzo nessuna inglesina, quest'altra….

—Ti dirò, ti dirò;—interruppi io;—appena saremo a casa.

—Ed anche più tardi, bada; io non ho bisogno di saper nulla. Parlavo così, per chiasso, e per non mostrarci troppo accigliati, quasi imbronciati, ai naturali del paese. Ma eccone tre, che non dovrebbero essere indigeni. Tre bei moscardini, in fede mia!—

Diedi una sbirciata ancor io, e vidi poco più su dai cavalli, in atto di tirarsi da banda, i miei tre famosi satelliti; li vidi in tempo per rizzar muso quanto ce ne voleva al loro bisogno.

—Quei tre vanno al Roccolo;—dissi a Filippo;—perciò li vedi in istrada a quest'ora. Son pronipoti dei Proci dell'Odissea. Ulisse è alle acque di San Pellegrino, ed essi non lasciano un'ora di pace a Penelope. Tu intanto non potevi esser più felice di così, Filippo mio caro; sei giunto appena, non hai ancora veduta la prima casa di Corsenna, e ti vien sotto la tribù dei seccatori, per cui ti ho pregato di venirmi a dare man forte. Vedili là, che passano il ponte.

—Ed è quello che non vorrebbero lasciar passare a te, non è vero?

—Se stèsse a loro, certamente. Ma non han barba da impedirmelo.

—Vorrà essere ad ogni modo un bel passo d'armi;—conchiuse Filippo.—Intanto, è di buon augurio per me averli veduti alla prima.—

L'abitato di Corsenna fu presto traversato dalla nostra vettura, e senza altri incontri di persone della colonia villeggiante. Bene si affacciavano alle finestre, ai terrazzini, agli sporti delle botteghe i Corsennati dei due sessi, per conoscere il nuovo venuto, fare i conti sulle sue valigie, e Dio sa quali supposizioni sul cassone ond'era accompagnato. Gran gioia la loro, al veder sempre tante facce nuove, che si scomodano dal piano per salire ai loro quattrocento sessanta metri sul livello del mare! "Ci vengono per l'aria buona", dice il campanaro di Corsenna. "E non son mica ignoranti, i medici che ce li mandano. Vedete noi, di fatti, che arie di salute!" A farlo a posta, il campanaro di Corsenna è nero, magro, stecchito come un'aringa affumicata. Ma chi si contenta gode. E il campanaro di Corsenna è un uomo che si contenta. "Mai peggio di così!" è il suo intercalare.

Son felicissimo di vedere che il mio villino piace a Filippo anche più della valle, dei castagni, degli abeti e della strada maestra. Gli faccio vedere nel mio ritiro campestre ogni cosa; tranne Buci, che non c'è. Ma già so dove bazzica, quel ghiottone famoso. Non va mica al Roccolo, lui, dove si vive a petti di pollo e a zabaioni. Outsides, beefsteaks, cutlets, pigeon-pies, plum-puddings, sono, io credo, i suoi piatti favoriti. Ed hai ragione, o cane, e sei certamente più saggio di me.

Ho posto da alloggiare una intiera famiglia, e son solo, con due persone di servizio; posso dare a Filippo non una camera, ma due, tre, quante ne vuole. Ne occupa due, ci dispone tutti i suoi arnesi, e, mutati abiti, scende in giardino con me, aspettando l'ora del desinare. Qui, naturalmente, incomincio a raccontargli tutto ciò che mi è occorso.

—Briccone!—mi dice, dopo essermi stato tranquillamente a sentire.—Vuoi venire ai ferri, e farmi credere che non sei innamorato di Armida?

—Te lo giuro! Che ragione avrei per mentire con te? La contessa Quarneri è bellissima; la vedrai, e l'ammirerai come faccio io, ma intendendo anche tu che si possa ammirar la bellezza, senza scaldarcisi più che tanto. Non per niente siamo stagionati e navigati, ne convieni? Quanto a me, ti confesso che ci discorro volentieri. Ha una cultura scarsa, il che, dopo tutto, non guasta; ma è intelligente, ha una parlantina graziosa, e la sua conversazione mi va, senza bisogno d'altri sentimenti più intimi, e più matti. Non è accaduto anche a te di trovare delle signore con le quali si discorre bene, e non si vuol rinunziare alla loro conversazione?

—Non me ne parlare; la preferisco a quella degli uomini più dotti;—rispose con grave accento il mio amico Filippo.—Ma basti di ciò. Il tuo caso non mi par molto chiaro, per quanto riguarda le conseguenze possibili. Non sei innamorato, e vuoi leticare con tre rivali. Capisco, sì; non perchè siano rivali e ti voghino sul remo, non perchè tu sia rivale a loro e non li voglia sull'orma; solamente perchè ti hanno in uggia, come un visitatore pericoloso, e te lo lasciano intender troppo. E tu non vuoi mosche sul naso; è giustissimo, e te ne lodo. Ma c'è una signora di mezzo; ci vuol giudizio, nel condurre questa faccenda. Quantunque, alle volte, la pazienza si perde;—soggiunse l'amico, tentennando la testa.—Mi hai fatto fremere, poc'anzi, con quell'"ah sì?" del tuo signor Dal Ciotto. E fors'anche un po' nasale, come il naïn ebraico, non è vero? Ma tu hai fatto bene a contenerti, per la prima volta, rispondendogli un "certamente" altrettanto strascicato e più naïn di lui. Facciamo le cose a modo; i tuoi moscardini non ci diventeranno mica troppo duri, per aver aspettato un giorno di più ad esser pescati e fritti. Li vedrò più da vicino, questa sera, o domani, e me ne prenderò magari un paio per me.

—Ecco l'uomo che mi consiglia di far le cose con giudizio;—osservai.—Bella chiusa, signor Ferri!

—Ma sì, una bella chiusa a bastonate, degna del poema villereccio che tu sei riuscito ad imbastire. Il giudizio, poi, non esclude l'andare a fondo, quando questo sia opportuno. Io voglio che si facciano le cose con calma. Tu sei di primo impeto. Non mi hai confessato tu stesso che se ci avevi in pronto i tuoi ferri, incominciavi subito dal ceffone? Io no; prima di saltare addosso al mio uomo, me lo voglio patullare un'oretta, che diamine! Un combattimento senza avvisaglie, è come un desinare senza i principii.

—Ahimè! li avremo?—dissi io.—La cuoca è spartana, ti avverto, quantunque si chiami Argia.

—Ma Corsenna non sarà poi senza burro;—rispose Filippo Ferri, imperturbato.—Dammi del burro; aggiungi… qualche altra cosa; al resto ci penso io.—

XIII.

Una giornata campale.

18 agosto 18…

Ier l'altro a sera ho presentato il mio Ferri. Si era già sparsa la voce dell'arrivo di un nuovo villeggiante, smontato con un grosso bagaglio al cancello del Giardinetto. Si chiama così il villino che occupo io. I Corsennati non brillano per inventiva; hanno veduto nascere, tanti anni fa, intorno a questa casa campestre un po' di fiori e d'arbusti, e subito gli hanno trovato il nome; senza stillarsi il cervello, come si vede.

Con uguale facilità pedestre di raziocinio, vedendo smontare il forestiero al Giardinetto, e sapendo che al Giardinetto comando io, nè soffrirei casigliani, hanno concluso che il forestiero fosse mio ospite. L'importanza del bagaglio li ha pure condotti a pensare che l'ospite si fermerà qui per tutta la stagione; e questa notizia, corsa per tutti i villini, ha destata la curiosità universale. Come mai? un nuovo villeggiante in Corsenna, ed ospite del signor Morelli, di quel signor Morelli che abbiamo veduto ancora iersera, e che non ha creduto necessario, nè utile nè opportuno di dircene nulla? Immaginarsi adunque la curiosità della colonia! Ciò che è nulla e meno di nulla in Roma o a Firenze (stavo per dire ad Atene) è un gran fatto in Corsenna. Terenzia e Tulliola, moglie e figliuola di Cicerone, dovevano esser curiose, nelle loro estati di Pozzuoli e nei loro autunni di Tuscolo, assai più che non fossero nei loro inverni e nelle loro primavere del clivo Capitolino.

Perciò seduta plenaria, l'altra sera, al Bottegone di Corsenna; tanto che si dovettero metter fuori due tavolini di più. E quando sono comparso in piazza, un po' più tardi del solito per fare più effetto, tutti gli occhi si volsero a guardare il personaggio che mi veniva da lato. Tacquero le voci e i bisbigli; si voleva vedere, si voleva giudicare. Nessuna bella donna arrivò tardi nel suo palchetto a teatro, che fosse più guardata e più studiata di Filippo Ferri sulla piazza maggiore, ed anche unica, della nobil Corsenna.

L'ho presentato a tutte le signore, incominciando dalla sindachessa, per non destar gelosie. Si è preso l'arlecchino, di fravola e di limone, che è il caval di battaglia, ed anche il ronzino, del nostro caffettiere; il quale a tutti i complimenti che gli si fanno sull'arte sua (e qualche volta un po' ironici) guarda i suoi due bigonciuoli pieni di ghiaccio, e coperti di frasche di castagno, dicendo modestamente: "si fa quel che si può, per contentare i signori". Preso il sorbetto, si chiacchiera; le signore vanno a gara per intrattenersi col mio amico, e in breve la conversazione diventa generale. Filippo Ferri è sempre cortese, non sa, non può esser diverso; ma quando vuole riesce amenissimo; e questa volta fa proprio uno sforzo immane di volontà. Fa lui tutte le carte; parla di cento cose, suscitando il desiderio di domandargliene mille. Ha viaggiato; conosce due terzi d'Europa, l'Asia Minore e l'Egitto; è stato a Massaua, all'Asmara, a Keren; insegna di passaggio, senza averne l'aria, a dir Dogàli e non Dògali; racconta aneddoti arabi, copti, abissini; mette in ballo le povere donne di tutti i paesi che ha visitati; alterna storie allegre e patetiche, fa ridere e fremere, come gli piace, sopra tutto dilettando le signore, che son tutte felici di averlo conosciuto. Nell'entusiasmo che il nuovo villeggiante ha destato, sorge, cresce, giganteggia e trionfa un'idea; quella di star tutti insieme il giorno seguente, facendo una scampagnata a Dusiana. Ah, finalmente, a Dusiana! quella gita che i tre satelliti non erano riusciti a fare con la contessa Quarneri, e che lei, proprio lei, propone ora di fare, per atto di onoranza festosa al nuovo venuto.

Siamo ritornati al Giardinetto assai tardi. Ma la conversazione era stata così viva, che l'ora uscì di mente a tutti. Neanche si pensò che il nuovo venuto doveva essere stanco del viaggio. Ma che stanco, dopo tutto? Aveva ad essere stanco di cinquantasei miglia di strada ferrata, un uomo che in tre ore di chiacchiere era corso da Londra a Vienna, da Vienna a Costantinopoli, da Costantinopoli a Smirne, al Cairo, a Massaua, al Pian delle Scimmie, passando ancora per venti o trenta punti intermedii?

—Ebbene,—gli dissi, come ci fummo ridotti a casa,—che te ne pare della nostra colonia?

—Niente, finora; ho appena veduto, cercando di orizzontarmi. La tua contessa è bellissima. La Berti madre mi pare una donna di buon senso, che porti con dignità il doppio carico della sua mole matronale e delle sue tre figliuole, che sono molto graziose. La sindachessa è un'oca; la segretaria comunale una cingallegra. Non ho infatti potuto giudicarlo che ai gesti, perchè non hanno parlato quasi mai. La signora Wilson madre è una fiorentina, m'hai detto? Se è tale, diciamo pure che è una fiorentina di genere nuovo, perchè parla sempre coi denti stretti, e poco, per conseguenza, poichè deve durarci fatica.

—Ha sposato un Inglese, rammentalo; ed ha dovuto parlare quasi sempre inglese, in famiglia.

—Del resto, quel poco che dice è sempre assennato;—riprese
Filippo.—Mi pare un'ottima donna, e molto e giustamente superba della
sua graziosa figliuola. Veniamo agli uomini. Il tuo commendator
Matteini è un rudero.

—Ma ben conservato.

—Intonacato, vuoi dire? Aspettiamolo di giorno chiaro, per vederci le crepe.

—E i miei tre satelliti?

—Quelli non li ho studiati ancora. Mi ha tanto distratto quel
Terenzio Spazzòli!

—Sì, ho ben veduto che non lo hai molto gradito.

—Di' pure che m'è venuto a traverso, come una lisca di pesce in gola. Il diavolo se lo porti! ci voleva proprio lui, qui, per dire di avermi incontrato a Montecarlo e veduto in una gara di pistola.

—Che hai vinta; e ciò ti ha messo in buona vista colle signore.

—Ma in troppa vista coi tuoi tre satelliti; non ci pensi, a questo? Ora prevedo che bisognerà cambiare di punto in bianco il nostro giuoco.

—In che modo?

—Lasciami pensare. E prima di tutto lasciami andare a dormire. Sai che domattina dobbiamo alzarci alle cinque.—

Che diamine ha inteso di dire Filippo, colla necessità di cambiare il giuoco? Ci ho pensato a lungo, nella notte, prima di prender sonno; ed anche ieri mattina, appena svegliato. Forse voleva farsi sotto con astuzia, quatto quatto, senza parere, alla maniera delle tigri. Ma questo, come poteva sperarlo? Un uomo come lui, anche a non conoscerlo di prima, si annunzia subito per quello che è, con quel suo piglio marziale e con quelle sue spalle da Ercole. E in che consisterà il suo cambiamento di giuoco? Di punto in bianco; dunque smascherando le batterie, facendo pompa di se! Non è vanaglorioso, e non saprà millantare. Son curioso di sapere a che partito s'appiglia.

La mattina alle cinque, prima che ci portino il caffè, l'amico Filippo è già in piedi. Quando entro nella sua camera per dargli il buon dì, vedo che si è già fatta la barba. Alle sei siamo in piazza, dove sono arrivate le due giardiniere che dovevano portarci a Dusiana. A due, a tre, a quattro per volta, arrivano tutti i nostri compagni di scarrozzata. La contessa Quarneri viene ultima, essendo la più lontana di alloggiamento; ma non s'è fatta aspettare più di cinque minuti, rendiamole questa giustizia, ed ha con sè le tre guardie del corpo, che sembrano aver passata la notte davanti al cancello del Roccolo, per non perderla d'occhio. Colle signore Wilson è venuto anche Buci, che ardisce venirmi a scodinzolare davanti e a ridermi, se Dio vuole, sul muso. Vile schiavo! Dopo che io t'ho sottratto alle bastonate del tuo primo padrone, comprandoti per venti lire da lui, così mi tratti, così mi ricompensi della mia dabbenaggine? Lo guardo a squarciasacco, e faccio ridere la signorina Kathleen, che però si ricompone subito, e mi fa grinta dura, quando io alzo gli occhi verso di lei.

È bella a quel dio, la birichina, con quel suo vestito alla marinara, bianco, a risvolte turchine, semplice ed elegante. Elegantissima è la contessa, che sfoggia per questa occasione un abito azzurro sormontato d'una cotta bianca a trafori, e porta con bell'audacia sul capo tutto un verziere, anzi tutto un frutteto. La bellissima signora, ammirata dagli uomini, acclamata dalle amiche, sequestra per sè la signorina Kathleen e il mio amico Filippo, prendendo posto con essi nella prima giardiniera. I tre satelliti, naturalmente, son pronti a ficcarsi nello scompartimento davanti, donde voltandosi, e mettendo i gomiti sulla spalliera, potranno tenerla d'occhio quant'è lunga la strada.

Abbandonato da Filippo, dalla signorina Wilson, e perfino da quello scellerato di Buci, che è saltato in carrozza per accovacciarsi sotto il sedile di lei, vado a smaltire la mia stizza nella seconda giardiniera, dov'è la Berti madre colle figliuole. I ragazzi, sapientissimi, non volendo mangiar polvere, sono andati nella prima, occupando la panca dietro il vetturino, per godersi la strada. Con noi è la signora Wilson madre; con noi la segretaria comunale, che ha lasciato, honoris causa, il posto nell'altra vettura alla sua superiora diretta; con noi il commendator Matteini e Terenzio Spazzòli. Felicissimo uomo! e pare, a vederlo, che quel posto nel secondo carrozzone l'abbia scelto lui. Il divo Terenzio non si scompone mai, non si turba, non si sconcerta di nulla. Se casca, diciamo pure con lui che voleva scendere.

I due tranvai si muovono, e traversano fragorosamente mezzo il paese, oggetto d'invidia ai Corsennati, tutta gente mattiniera che deve accudire alle sue faccende quotidiane. "Come son felici, i signori!" diranno essi in cuor loro, vedendoci passare. E voi niente, o Corsennati? A buon conto, voi non avete da discorrere di economia politica e di scienza di governo col commendator Matteini. Il degno conservatore a riposo l'ha oggi con me; Dio sa quando mi lascia. Certo, ha provato i giorni scorsi con Terenzio Spazzòli, e lo ha trovato indegno di accogliere i tesori della sua molta esperienza.

Il tragitto non si racconta. Per aver qualche cosa che mettesse conto d'esser qui registrata nel mio memoriale, bisognerebbe essere stati là, nell'altro carrozzone, a sentire le belle cose che avrà raccontate il mio dolce amico Filippo, il beniamino, il cucco delle signore. Triste cosa, in una società, essere antichi! I nuovi venuti han tutte le preferenze, tutte le graziette, tutte le moine delle signore. È giusto, infine; e poi, se fan festa al mio Ferri, non debbo esserne felice io, che l'ho presentato?

A Dusiana, dove siamo arrivati alle otto e mezzo, abbiamo veduto un paese come tutti gli altri, e degli abitanti su per giù come quei di Corsenna. Il paese nondimeno è più vasto; tre Corsenne, a dir poco; una gran piazza con dei portici su tre dei suoi lati, il che deve essere stato immaginato per far dire alla gente: e perchè non ne hanno voluto mettere nel quarto? Forse a compenso di questa mancanza di simmetria, ci sono sulla gran piazza di Dusiana due gelsi smisurati, giganti bistorti, pieni di nocchi, di gobbe, di cicatrici, coetanei, credo, dell'introduzione dell'arte della seta in Europa. Mentre si fanno queste ed altre considerazioni archeologiche, la contessa Adriana si è avvicinata a me, per dirmi con quella tal vocina insidiosa:

—Vi abbiamo un po' trascurato, Morelli? Ma non è colpa mia.

—Che dite, signora? Ma era giusto che il nuovo venuto fosse il più festeggiato. Quanto a me, sono riconoscentissimo di tutte le cortesie che si fanno al mio amico Filippo.

—Le merita, sapete, ed anche merita la vostra amicizia così generosa.
Egli ha detto lungo il viaggio un gran bene di voi.

—Ah sì? Filippo Ferri ha il difetto di volermi bene.

—Come! è un difetto? Con questo modo di ragionare leverete il coraggio a tutti coloro che fossero per imitarlo.—

Sorrido al complimento, e tanto più volentieri, poichè vedo la cera brusca di Enrico Dal Ciotto, che si era avvicinato allora allora, precedendo di due passi i colleghi satelliti. Quanto a te, caro, ti tengo. "Ah sì?" E strascica pure i tuoi, monosillabi. Alla seconda di cambio, ti voglio; e vedrai che bel giuoco.

Si dovrebbe per intanto vedere questa famosa abbazia di Dusiana, della quale in Corsenna si son raccontate tante maraviglie, di marmi, di capitelli, di colonnini, di lapidi, d'iscrizioni antiche, e via discorrendo. Ma prevale l'idea di far colazione; poichè i frati agostiniani dell'abbazia son tutti morti da un pezzo, e saremmo trattati là dentro come all'osteria della Luna, che chi n'ha ne mangia e chi non n'ha digiuna.

Diamo un'occhiata in giro, e vediamo un'insegna. Il titolo "Albergo della Posta" prometterebbe la prima locanda del paese; ma le piccole finestre e la povera apparenza dello stabile, non ci lasciano sperar bene. Scovo più in là un "Albergo Roma", e chiamo da quella parte le signore. La casa è più bassa e più nuova di fabbrica; dovrebb'essere più pulito l'interno. Mi arrisico dentro, e vedo due sale abbastanza capaci: mobili pochi e lucenti. È il fatto nostro. Il padrone e la padrona, giovani ancora, hanno aria di gente per bene; non avvezze per altro a ricevere tanta gente in un tratto.

—Il nome della eterna città vuole che diamo la preferenza al suo albergo, padrona; ma non vorrà mica essere eterno il cuoco? Siamo quindici; c'è chi porta appetito e chi fame. C'è modo d'intenderci?—

Questo breve discorso strappa ai due coniugi un risolino di buon augurio.

—Se si contentano…—attacca il padrone.

—Pensando che non siamo in una città…—sottentra a cànone la padrona.

In breve siamo d'accordo; e ci apparecchiano la gran tavola della seconda stanza, le cui finestre non guardano sulla strada, nè bevono il suo polverìo, ma ci aprono la veduta ampia dei monti, d'una valle pittoresca e di un fiume; il quale, a differenza del suo collega di Corsenna, è presente, disteso nel suo letto, ed occupandone una parte notevole. In capo a dieci minuti, che noi abbiamo spesi a guardarci dattorno, tutte le sedie dell'albergo di Roma son collocate intorno alla tavola, o, per dire più esattamente, alle due tavole accostate. Vengono i bicchieri, le bocce dell'acqua, le saliere, le pepaiuole, e molte bottiglie di vino, che alle signore paiono troppe davvero. E vengono i principii, tanto cari a Filippo Ferri, che ammira la bellezza dei sedani strappati freschi freschi nell'orto, le olive, i peperoni, i cetriolini e i capperi sotto l'aceto, ma più un pan di burro che arriva, per far buona compagnia a quattro scatole di lamiera, saviamente munite della loro chiavetta, che girando trarrà via la lista metallica stagnata torno torno, permettendo di scoperchiare quattro ipogèi di sardelle sott'olio. Si attacca allegramente tutto ciò che è in tavola; ogni aggiunta è salutata da un nuovo grido di gioia. Le signore si divertono qui, come facevano nella faggeta del San Donato, e più ancora, perchè si trovano meglio sedute, e meno sparpagliate. Non c'è la possibilità di un lawn-tennis; ma ci vorrà pazienza; non bisognerà chieder troppo alla bontà divina.

I principii tirano in lungo, e non lasciano pensare all'indugio della minestra, che finalmente arriva ed è trovata eccellente. Segue un gran piatto, una catasta, un monte di costolette. Cutlets, signor Buci; queste dovrebbero piacere a voi, più che la pelle degli otto o nove cani di Dusiana, dai quali vi siete fatto conoscere e rispettare. Non so se vi saranno piaciuti egualmente certi funghi rossi sulla gratella, che alle signore parvero una squisitissima cosa; certo ne avete avuto un assaggio, perchè di tutte le pietanze che vennero in tavola una bella mano vi passava sempre mezza la parte sua. Un servito di caciuole delicatissime, con aggiunta di frutte, chiuse il nostro pasto mattutino. Se non fosse stata una colazione, si sarebbe potuta chiamare senz'altro una cena luculliana.

M'incaricai io del conto. Quella brava coppia di sposi furono più che discreti; non ci fecero pagare che due lire a testa. Abbondai per compenso nella mancia. Ma pare che non sia costume di darne, a Dusiana, o che fosse troppo forte la mia; perchè cinque minuti dopo venne il padrone a pregarmi di accettare per la staffa quattro bottiglie di vin buono. Buono, soggiungeva egli, perchè dolce e gentile, che di quello ne potevano ber le signore. E le signore, che avevano bevuto acqua pazza, fecero onore alla cortesia dell'albergatore garbato.

Sarebbe tempo, oramai, di andare a visitar l'abbazia. Per questo eravamo venuti a Dusiana, e non per dimenticarci a tavola. Si prende lingua, e si va: ma guai a lei, se non è stupenda; non siamo disposti a tollerar cose mediocri. Da lontano, l'edifizio si presenta bene, con una fronte severa; un po' brulla, per verità, poco ravvivata da certe feritoie che non riescono a parer finestre: ma infine quello è lo stile longobardico, bisogna striderci; vedremo poi dentro. Ah sì, dentro, si è più fuori che mai; il tetto è crollato, gli archi in pezzi, i fianchi sfondati, tutto un mucchio di pietre e di calcinacci. O le colonnine a fascio? i capitelli lavorati? gli archetti, i peducci, le mensole, i costoloni, i rosoni, di cui si fa sempre un gran parlare per tutto il circondario?… Ah, quelli, a detta di certi contadini che hanno la loro abitazione lì accanto, quelli sono stati levati da un pezzo, chi sa? da cinquant'anni, o da cento, e trasportati e messi in opera nella chiesa parrocchiale di Dusiana. Non tutti, per altro; una buona parte, ch'erano avanzati sul posto, li ha avuti per niente, o quasi niente, un famoso avvocato, che n'ha decorata la sua "Discordia civium, concordia lapidum", voglio dire la sua residenza autunnale. E non c'era altro? lapidi? iscrizioni antiche? un pozzo col suo bel puteale baccellato di marmo bianco, che si attribuisce all'epoca romana, e di cui si dicono maraviglie? Quello? chi sa? forse colle lapidi, e con tanti altri rottami, dall'avvocato. Essi, per altro, i contadini, non potrebbero giurarlo; non sanno niente di certo; son qui da due anni, ed han trovato tutto così. Dunque, buona notte alle lapidi, e buona notte al puteale. Ma il chiostro, almeno? Oh quello c'è; vedano, signori, i pilastri e gli archi del porticato, trasparire dall'intonaco renoso, per tutta la fronte della casa colonica. E sia; ma è un lato solo. E gli altri tre porticati?

—Ah!—grida Filippo.—Son forse quelli che abbiamo veduti sulla piazza di Dusiana. Li avran trasportati là, per ripararsi dalla pioggia, nell'autunno, e dalla neve nell'inverno. Ci vuol pazienza, del resto; le rovine son tutte così; per goderle bene bisogna osservarle di notte, e senza luna.

—Se vogliono vedere i sotterranei…—dice il capo della famiglia.

Le signore rabbrividiscono di piacevol terrore. Son pazze di sotterranei; tanto la fantasia lavora. Si entra in una stanzetta buia; si scende per una scaletta anche più buia; alla prima voltata c'è un fil di luce, che viene da un finestrino di fianco, e lascia vedere là in fondo, tra due corte e tozze colorine d'arenaria, un gran torchio, colla sua madrevite inoperosa sulla gabbia vuota, e tutto intorno il bottame della fattoria, che manda un forte odor di vinacce dell'altr'anno. Giusto cielo! si scappa, senza aver posto il piede sull'ultimo gradino, e si porta il nostro disinganno all'aperto.

E nessuna leggenda? nessun racconto di paure, da rimettere in corpo qualcheduno di quei dolci brividi che la vista di una tinaia aveva fatti cessare? Sì, qualche cosa, stuzzicando, aiutando, grattando il corpo alla cicala, si ottiene. Il vecchio ha inteso a dire d'un tempo che c'erano gli spiriti. Ma poi l'ala del fabbricato donde si sentivano i lamenti era stata atterrata, e gli spiriti, trovandosi all'aperto, col terreno dissodato e posto a vigna, erano scomparsi. Aveva anche sentito dire d'un viaggiatore, che era capitato di sera al convento, e gli avevano dato alloggio per la notte, non essendo a' quei tempi sicure le strade; cosa naturalissima in paese di confine. Il viaggiatore, non potendo chiuder occhio, era uscito dalla foresteria, passeggiando poi corridoi a lume di luna; trovato aperto un uscio che metteva su d'un terrazzo, era andato da quella parte a prendere il fresco; ma di là aveva potuto assistere ad una scena che lo fece sudar freddo e scappare, più contento di cascare in mano ai ladri, che di rimanere al sicuro tra i frati. Figurarsi! nel fondo dell'orto, con gran solennità di processione e di preghiere latine, avevano seppellito vivo un povero fraticello, legato di funi e piangente come una vite tagliata. E perchè lo seppellivano vivo? Perchè aveva fatto la spia, rivelando al governo del duca che i monaci dell'abbazia frodavano la gabella; donde poi ne era venuto un processo, e i frati erano stati cacciati di là. Povera poesia del frate sepolto vivo! La storiella, incominciata così bene, da accapponar la pelle a tutte le nostre signore, finiva male, troppo male, in una question di gabella.

—Ma non è così;—gridai io.—La gabella ducale non c'entra per niente, oppure è molto più tarda. Il fraticello aveva fatto ben altro, da meritare quell'orribile sentenza. Se le signore permettono, la racconterò io, questa patetica istoria, che ricordo benissimo.

—Da bravo, raccontatela;—gridò la contessa Adriana, giubilando e battendo le palme.

—Padre Anacleto era giovane,—cominciai,—troppo giovane, aveva troppo ingegno, troppe fantasie per la testa, e troppo buon sangue nelle vene. Entrato nella vita monastica con pura e fervida fede, non ne aveva trovata altrettanta ne' suoi compagni di clausura. Si biascicavano intorno a lui molte preghiere, a tutte le ore del giorno, ma senza pensarci, senza fermarsi ad intenderne il significato profondo, sonnecchiandoci su a mattutino, a vespro, a compieta, e non vegliando bene che in refettorio. Padre Anacleto si era rifugiato nello studio, nascondendo il suo intimo pensiero, dissimulando la sua nausea. Dotto di patristica, forte di sacra eloquenza, aveva anche veduto che tutta la dottrina era già concentrata nei quattro Evangelii, negli atti e nelle Epistole di san Paolo; nè più altro aveva voluto sapere, nè più d'altro fuoco scaldava le sue prediche. La religione di Cristo era per lui la religione del Verbo, e il Verbo era l'Amore. Ciò era nuovo, e a tutta prima pareva anche bello; la gente accorreva a sentire; mai si era veduta così piena di popolo la chiesa dell'abbazia; e ciò pareva anche buono. Ma presto incominciò a non parer tanto vero. Fratello, gli dicevano i più semplici e i più amorevoli del convento, fratello, temperate il vostro zelo; tanto ardore vi condurrà in perdizione. Ma il padre Anacleto non voleva sentir ragioni di quella fatta, infervorato com'era dal fuoco divino. Il popolo incominciava a venerarlo come un santo; gli uomini s'inchinavano, per baciare i lembi della sua tonaca; le donne dicevano che era l'arcangelo Gabriele, tanto somigliava al benedetto messaggero celeste. Padre Anacleto non s'invaniva già di quel culto ingenuo, che ben sapeva non rivolto a sè, ma al Dio che egli serviva, di cui dispensava la dolce parola alle turbe. La potenza dell'ingegno si rinvigoriva nella semplicità del suo cuore, traendo tutte le logiche conseguenze dalla formola intravveduta nell'anima sua: Dio è il Verbo, e il Verbo è l'Amore. Dunque, diceva egli, siate fratelli in Dio, e portate lietamente la sua croce; ognuno di voi voglia la sua parte del peso, e questo vi parrà soavissimo; amandovi tra voi, non vivendo che d'amore, il regno di Dio scenderà sulla terra.

—Parlava bene, povero frate!—esclamò la contessa.

—Sì, ma sapeva un pochettino di eretico;—ripigliai.—Per consenso dei dottori, il regno di Dio non può scendere in terra, che agli ultimi giorni. Del resto, il regno di Dio non è di questo mondo, non essendo questo mondo che il luogo di prova; nè si potrebbe mai confondere la Gerusalemme celeste con la Gerusalemme terrestre. Dunque il padre Anacleto era caduto nell'eresia, per eccesso di ardore. Lo tolleravano ancora, ma esortandolo a temperarsi, pregandolo di meditar meglio la vera dottrina dei libri, raccomandandogli di flagellarsi a sangue, per cacciar via quell'orgoglio, certamente soffiato dal maligno nel suo intelletto, per non lasciargli vedere il serpe appiattato tra i fiori della sua eloquenza. Ed egli si flagellava; ma più si flagellava, più sentiva che il Verbo è l'Amore. È anche l'Intelligenza, il Verbo, poichè il Verbo è Dio; ma l'intelligenza, se mai, non abitava più nel convento di Dusiana. E non pensò egli forse ad alta voce qualche cosa di simile, quando gli scappò detto dal pergamo ai fedeli, che diffidassero dei lupi rapaci in veste di pastori? quando soggiunse, non bastandogli quel poco, che taluni i quali ostentavano umiltà, dottrina e santità, erano sentine di vizi, pozzi d'iniquità, armamentarii di frode? Si cominciò a sussurrare di un attacco che padre Anacleto avesse voluto muovere al priore. Lo scandalo era grave; bisognava punirlo, e punirlo soffocandolo. Si fece un processo, nella clausura del chiostro. Il reo, più infervorato che mai, non volle disdir le sue massime fondamentali, che troppo somigliavano a quelle ond'erano venuti tanti scismi pericolosi alla Chiesa militante. Sarebbe dunque scaturito un nuovo Ario, un altro Eutiche, un altro Donato, un altro Socino, e dall'abbazia di Dusiana? Ah no, per sant'Agostino! Disdicesse il reo le sue massime, facesse ammenda di tutto. E lui, peggio che mai. Non voleva neanche sentir parlare di coperti attacchi al priore, a nessuno dei suoi superiori o compagni. Parlava la parola di Dio; si rallegrassero i sani, rimediassero alle lor piaghe gì'infermi. Guardavano essi alla terra, ed egli aveva gli occhi fissati nel cielo.—

Mi sentivo la gola asciutta; non ne potevo più, e avrei bevuto volentieri un bicchier d'acqua. Ma il mio uditorio era troppo attento, aspettando la mie; non volli guastarmi l'effetto, e pigliai la rincorsa.

—Ma allora, vedendo tanta pervicacia nell'errore, e il reo farsi accusatore sotto quella ipocrita forma, scattarono le rivolte del consesso giudicante, e vennero le rappresaglie feroci. Lui con gli occhi al cielo, lui! Non aveva ragionato più a lungo del bisogno, sulla pubblica via, con le Maddalene del vicinato? Non lo avevano veduto al pozzo intrattenersi con le donne di Samaria? Sì, era la verità; ma per parlare di Dio ad anime assetate di rugiade celesti, ma per ricondurre le povere anime al culto della virtù, come aveva fatto santamente il Figlio dell'Uomo. E la fanciulla invasata di tanta passione per lui, da seguitarlo per via, da far giornate intiere di cammino a piedi, per andarlo a sentire quando predicava nei paesi vicini? Era impazzita, la poveretta, e avevano dovuto esorcizzarla. Non aveva egli gettato un fascino su lei? Un fascino! povero padre Anacleto! Ci divenne furioso, e parve ossesso egli medesimo, in quel punto fatale. Certamente il demonio era penetrato in lui, per la via dell'orgoglio, ed oramai spadroneggiava in quella povera testa, che si era creduta così forte. E poichè perfidiava nel non voler riconoscere la impossibilità di vedere in terra la Gerusalemme celeste, poichè si ostinava a sostenere che la religione non fosse altro che un misterio d'amore tra Dio e la sua creatura, e peggio, delle creature tra loro, il padre Anacleto fu condannato alla massima pena, all'unica che togliesse per sempre lo scandalo, soffocandolo nell'in pace. Era necessario. Non si arrogava egli perfino la personalità divina? non lo avevano sentito dire una volta, nel fervore delle sue improvvisazioni: Ecco, io sono la verità e la via?—

Qui poi avevo finito, e mi fermai per sentirne l'effetto. Le ascoltatrici erano commosse; ma più di loro il vecchio contadino.

—Lei la sa meglio di me, la storia del fraticello;—diss'egli nella sua grande semplicità, sotto cui forse s'appiattava un po' d'ironia.—Peccato che io non saprò raccontarla così, agli altri signori che verranno.—

Risero le mie ascoltatrici, risero i miei ascoltatori; fu una risata generale, che mi guastò tutto l'effetto della patetica storia. Io non guardai le signore, che avevano il diritto di ridere; non guardai quelli tra gli uomini a cui lo concedevo di buon grado; mi volsi in quella vece a squadrare i miei tre satelliti, e primo il signor Enrico Dal Ciotto. Quello era serio e composto; si capiva che non aveva riso, perchè non aveva potuto ridere, tanto era rimasto seccato dalla mia parlantina. Ma poichè egli aveva le labbra chiuse, dovetti pure contentarmi. Rideva in sua vece il Cerinelli; oh, come rideva di gusto! Approfittai della ilarità generale, e avendo l'aria di sottrarmi alla gloria del trionfo, andai diritto sul Cerinelli, per dirgli a mezza voce, ma con piglio risoluto:

—Di che cosa ride, Lei?

—Del contadino, che è così buffo. La sua storia mi è piaciuta moltissimo, signor Morelli. Non si poteva con più garbo….—

Lo lasciai solo a finir la sua frase. Ero cascato male; proprio sul più debole dei tre. Ma non è stata colpa mia, se quello era il più vicino ad Enrico Dal Ciotto, e se per il secondo mi è venuto sott'occhio. Per lui, frattanto, ho perduta l'occasione di guardar la faccia del Martorana.

La contessa Quarneri volle rimetterci tutti in carreggiata, facendomi le sue congratulazioni.

—Sapete ora,—soggiunse, dopo avermi lodato,—che cosa vogliamo da voi, Morelli?

—Comandate, signora.

—Un'ode,—ripigliò,—un'ode sul povero fraticello. Sì, dico, un componimento poetico a vostra scelta. Mi pare che il soggetto si presti.—

Le signorine Berti si associano, ed anche le mamme, colla sindachessa e la segretaria comunale. Unica, la signorina Kathleen sta zitta. Galatea è classica, non c'è che dire, e non ama queste romanticherie.

Ci siamo messi in moto, per ritornare al paese. Io trovo il modo d'avvicinarmi a lei, che non mi vede, chinata com'è a coglier ramoscelli di menta lungo la proda di un campo.

—Dunque,—le dico,—scriverò i versi sul frate?—

Si volta, mi guarda, abbassa gli occhi e risponde:

—Faranno piacere ad Adriana; li scriva pure.

—Non scriverò niente, allora;—ribatto io, punto sul vivo.

As you like it;—dice ella di rimando.

—Che significa ciò?

—Come vi piace; è il titolo di una commedia di Shakespeare. Ha già disimparato l'inglese?—

Mi dice queste cose con un tono che mi leva la voglia di proseguire la conversazione. Ho un diavolo per occhio, e sto per assestare una pedata a Buci, che viene a strisciarmi contro una gamba. Debbo calmarmi, tuttavia, perchè le Berti son vicine e mi chiamano. Si rientra indi a poco nell'abitato di Dusiana, e si delibera sull'ora del ritorno. Ma qui il commendator Matteini ha un'idea luminosa, e la sottopone ai lumi della luminosa contessa. Si è stati così bene per la colazione all'Albergo di Roma, che in verità si potrebbe rimanere a pranzo, e in Corsenna non si ritornerebbe che per l'ora dell'arlecchino. Piace l'idea, e si comunica all'albergatore, che la trova degna di noi. E mentre egli si metterà in quattro per servirci, desideroso di farci anche assaggiare le trote del fiume, noi andiamo a visitar la chiesa parrocchiale, l'oratorio e tutte le antichità del luogo, non perdonando nemmeno ad una di quelle croci di Baldassarre, che si vedono piantate lungo la via maestra in tanti paesi campestri, con tutti gli emblemi della Passione, e che prendono il nome dal povero vagabondo, fattosi, un cinquanta o sessanta anni fa, impresario di simili devozioni per le terre d'Italia. Avanzandoci ancora del tempo, si gira Dusiana per tutti i versi; i tre porticati della piazza ci trattengono un'ora buona, mentre le signore entrano qua e là nelle botteghe, spogliando le vetrine di cento cose inutili, rimaste invendute dall'ultima fiera. Finalmente è l'ora del pranzo, e si va a fargli onore, onorati anche noi alle frutta da un concerto musicale, venuto a rallegrarci delle sue "scelte armonie" davanti all'ingresso dell'albergo. Le signore sono piacevolmente commosse da questa delicata attenzione; vogliono far entrare i musicanti, per offrir loro il bicchiere della riconoscenza, e dànno l'incarico a me di fare il complimento. Me la cavo alla meno peggio, conchiudendo in questa forma:

—Sapevamo, o signori, che Dusiana era una nobilissima terra, abitata da un popolo civile, intelligente al sommo, forte per industrie, fiorente per arti gentili. Ma in verità ignoravamo che il suo concerto musicale fosse di tal forza, come noi l'abbiamo potuto sentire poc'anzi. Porteremo, o signori, un'eco fedele delle vostre glorie a Corsenna. Così potessimo sperare che voleste voi portarci il concorso della vostra valentia, nella occasione di una accademia di beneficenza, che stiamo preparando colà.—

Anche la mia idea piace, è accettata dal maestro capobanda, e acclamata da tutti. Da tutti? mi spiego; anche qui mi è mancata l'approvazione di Galatea, o, se pure l'approvazione c'era, non mi è stata manifestata nelle forme convenienti.

—Ma che cosa ne sa Lei, dell'accademia?—mi chiese ella poco dopo, con la sua aria scontrosa.

—So tutto io, signorina; il mio angelo mi dice tutto;—risposi.

—La contessa l'ha informato.

—Prima di tutto, la contessa non è il mio angelo; in secondo luogo non so niente da lei.—

Le ho resa la botta dell'inglese, ed ella ne è rimasta un po' sconcertata. Ma non più; si parte finalmente. La contessa mi vuole nella sua giardiniera, forse in premio della storia del frate e dell'invito al concerto musicale di Dusiana. Galatea, ch'era già salita con lei, non ha più modo di andarsene. Quanto a me, non accetterei; ma ci ho qui i miei tre noiosi; voglio averli sotto mano e patullarmeli anch'io, se mi riesce. Filippo, per non destar gelosie, va nell'altra giardiniera colle Berti. La contessa Adriana, in verità, ci ha perduto molto nel cambio. Son nervoso, irrequieto, fastidioso, pronto all'attacco, più pronto alla risposta, non lascio passar niente a nessuno; e mi sopportano tutti, perfino il Dal Ciotto, che due volte minacciato ricusa il ferro e dà indietro. La contessa, con ammirabile pazienza condita di grazia, mette pace da per tutto. Ah che giornata! che giornata d'alti e bassi, come tutte le giornate della misera vita! Ma per tutti gli Dei infernali, io non sono mai stato così poco contento di me, come quest'oggi.

—Ricapitoliamo;—ho detto a Filippo, quando finalmente ci siamo trovati soli al Giardinetto.

—Ricapitoliamo;—m'ha egli risposto.—Quanto a me, ti confesserò che ho passato una buona giornata, lasciandomi vezzeggiare e osservando la mia gente. Mi sono trovato bene, come un pesce nell'acqua.

—Ed io come un pesce nell'olio.

—Friggendo, non è vero? Ti ho ben visto qualche volta. E non hai avuto occasioni di rompere con nessuno?

—Le ho cercate, ma ho fatto fiasco. Ho detto a Enrico Dal Ciotto che si chiamano decadenti in arte solamente quelli che non sanno star ritti; ed egli non è andato in collera. Gli ho detto che le cravatte larghe le portano i petti stretti e mal formati….

—E lui?

—Mi ha risposto ch'era in tutto e per tutto della mia opinione.

—Ah! quello è il più duro dei tre. E gli altri?

—Ho domandato al Cerinelli perchè ridesse; e mi ha risposto: per la semplicità del contadino; ma Lei, come ha parlato bene, Lei!

—Di bene in meglio. E il terzo?

—Non gli ho detto niente, mi sono disanimato.

—Tasta ancora quell'altro. È forse l'incaricato, il sorteggiato della combriccola. Quantunque, noi forse facciamo loro un onore che non meritano, immaginando che abbiano delle idee di battaglia.

—Oh, per questo, non ne dubitare, le avrebbero. Ma io incomincio a temere che la contessa Adriana li abbia catechizzati, minacciandoli di ritirar loro la sua grazia, se mai si arrischiassero a leticare con me.

—Lo saprò;—disse Filippo.

—Tu?

—Io, sì; sono invitato per domattina al Roccolo.

—Ah, bene; e ci andrai sulle dieci, m'immagino.

—Sì, se pure vorrai darmene licenza.

—Io? figurati! Sai bene quel che ti ho detto. E, a parlarti sinceramente, andando tu, mi liberi da un falso obbligo.

—Che cos'è un falso obbligo?

—Il dubbio sciocco di credersi necessario, il timore vanitoso che la tua mancanza sia notata e faccia dispiacere alla gente. Per questo dubbio, e per questo timore, quante volte si va dove non si vorrebbe andare! quante cose si fanno, che non si vorrebbero fare! Da bravo, dunque, vai tu.—

XIV.

Il prologo… e l'epilogo.

18 agosto 18…

Questa mattina il mio dolce Filippo è uscito di casa alle nove; avviato al Roccolo, si capisce, dond'è ritornato sul mezzodì, mentre io finivo di buttar giù il racconto della gran giornata di ieri.

—Tre ore di conferenza! Mi congratulo;—gli dissi.

—No, sai; mezz'ora per andare, con tutto il comodo mio, e mezz'ora per ritornare; son dunque state a mala pena due ore. La contessa avrebbe voluto trattenermi a colazione; ma io mi sono scusato, essendo in balìa del mio ospite ed amico. Per una prima visita ho voluto esser breve; mi rifarò un'altra volta; sempre che,—soggiunse maliziosamente Filippo,—non ti dispiaccia la cosa.

—Ma no, ma no; quante volte l'ho a dire, che non mi dispiace, che anzi mi fa un piacer matto?

—Del resto,—rispose Filippo,—la tua dama è sciocca, quasi tanto sciocca quanto è bella. Mi ha parlato d'armi a tutto pasto; non sapeva, non voleva parlarmi che d'armi. Io tentavo di fare qualche scorreria nel campo letterario, che non è veramente il mio forte; ma lei, non dubitare, mi levò sempre l'incomodo, ritornando alle armi.

—Avrà voluto tastarti.

—Che! Lo Spazzòli, se mai, le ha fatto ben capire che sono un ammazza sette e uno stroppia quattordici. Avrà creduto piuttosto di farmi piacere, mostrando di trovar gusto nelle mie occupazioni favorite.

—Come ha fatto con me, parlandomi sempre di versi.

—Sicuramente. Quella donna, caro mio, è come gli specchi, non sa che riflettere le immagini a cui si trova di rimpetto. Perciò mi ha detto di non aver simpatia che per gli uomini animosi, per gli uomini valorosi, pieni d'onore e di cavalleria; mi capisci? Tutte queste belle cose erano là, rappresentate, incarnate nel tuo umilissimo servo. Ah, che burlette! E bisogna aver l'aria di prenderle per buona moneta. Mi ha domandato poi se mi sono mai battuto per una donna; ed io penso di averla un po' mortificata, dicendole troppo presto di no. Chi sa? forse l'avrò consolata, soggiungendo che non mi si era ancor presentata l'occasione. La donna che amerò è certamente nata; guai a lei se aspettasse ancora a nascere, perchè vorrebbe ritrovarmi già troppo stagionato; ma il fatto sta ed è che io non ho avuto occasione di far niente in onor suo. Qui, come ti puoi immaginare, un'occhiata fosforescente, oh molto fosforescente. Che cosa vorrà dire? Lo domanderò questa sera alle lucciole, che di queste cose se ne dovrebbero intendere. Che bel tipo, la tua contessa! Hai ragione a non esserti invaghito di lei; come hai torto, lasciatelo dire, a non invaghirti dell'inglesina.

—Perchè?

—Perchè quella è una fanciulla d'oro.—Con la sua parte di lega, vorrei rispondere; ma tengo prudentemente la restrizione per me.

—Caro mio,—gli rispondo in quella vece, io temo d'essere un po' —stravagante e disadatto agli amori. Ricordi quello che disse la —bella veneziana a Gian Giacomo Rousseau: "Zaneto, lassa star le done —e studia le matematiche." Ed io medito il buon consiglio, senza che —nessuna me l'abbia dato. Sai a che penso io? A scrivere il mio buon —poema, che le sciocche gelosie dei tre satelliti mi hanno in mal —punto interrotto.

—Facendo venir me a frastornarti dell'altro, non è vero?—soggiunse
Filippo.

—Che dici? Posso ben lavorar di mattina, e far molto; specie se tu hai sempre l'uso di covare il letto.

—Quando si può, non si deve pretermettere questo piacevole e saluberrimo uffizio. Alzarsi a bruzzico per lavorare, quando non ce n'è bisogno, che idea! Peggio ancora, quando nessuno ce lo comanda, quando nessuno aspetta i frutti del nostro lavoro. I posteri, mi dirai. Ma io ti dirò che cosa faranno i posteri del tuo poema. Parlo dei posteri di buon gusto, s'intende, e ricchi abbastanza per farti onore. Ti faranno rilegare in pelle, con bei fregi d'oro; ed intonso, mi capisci? intonso. Un libro intonso ha più pregio d'un libro colle carte smarginate. Anche i pizzicagnoli, sai, li preferiscono intatti. Ah, mio caro Rinaldo, dai retta, vivi e gusta tutto il prezzo inestimabile della vita. Le tue vigilie, le tue clausure, non profittando a nessuno, tolgono molta parte di gioia anche a te. La gloria, risponderai. Ma che cos'è la gloria? Ne ho domandato ad un uomo di grande ingegno, e mi ha detto sorridendo: la gloria è il diritto, acquistato un po' caramente, di sentirsi legger la vita tutti i giorni che fa Dio, cucinare a tutte le salse, negare la fantasia, l'arte, l'intelligenza, il criterio, il senso comune, oggi a benefizio d'uno, domani a benefizio di un altro, e così via, fino a tanto che non venga un gran postero, armato d'una falce lunga lunga, e ziffe, faccia di tutti un monte di fieno, per dar nervi e polpe ad un'altra generazione d'animali.

—Sì, tutto come vorrai;—risposi un po' offeso, ma non sapendo lì per lì che cosa ribattergli.—Ed hai poi saputo niente di ciò che importava? Li ha catechizzati lei, i suoi tre cari satelliti?

—Non me lo ha confessato, ma l'ho potuto intendere egualmente. Parlando di te, dicendo che sei molto gentile, non ha taciuto il tuo difetto, nobilissimo difetto, di pigliar fuoco per nulla… come lei, del resto, come lei. Passando ai tre satelliti, ne ha detto anche bene; poveracci, tanto gentili, attenti, divoti e pronti ad ogni cenno, ad ogni desiderio; ma ancora un po' gelosi, come tutti i vecchi servitori, e poco benevoli, ad ogni nuovo venuto; ma non sgarbati, finalmente, che questo ella non sarebbe donna da tollerarlo; solo un tantino, un tantino… come dire? Aspretti, suggerii, parendomi che non dovesse spiacere. Infatti, un sapore aspretto non esclude bontà di frutto, nè di bevanda; e c'è l'amaro delle cento erbe, che fa bene allo stomaco. Ci siamo accordati così, voltando la cosa in burletta e passando. Ma io m'avvedo di esser capitato a tempo; perchè la contessa non riescirà mica a trattenerli sempre, i suoi cani, specie se tu sarai sempre aggressivo come ieri.

—Me ne compiaccio, e farò peggio ancora.

—Non dico di no. Ma bisognerà agguerrirsi, prepararsi di tutte armi all'impresa. Hai sempre sicuro il tuo colpo a venticinque passi?

—Lo credo.

—Mettiti in esercizio, Rinaldo. Ed anche d'armi bianche, per non far torto a nessuna.—

Oggi stesso ho fatto piantare in fondo al giardino un'asse di quercia, sulla quale Filippo ha disegnato a grossi contorni di carbone un uomo di giusta statura, veduto in tre quarti. Nel torace del nostro uomo abbiamo segnato tre cerchi concentrici, ed uno, tanto per variare il bersaglio, nel mezzo della testa. Filippo ha messo fuori le pistole, con una diecina di cariche, ed io l'ho tutto consolato facendogli quattro centri nella testa e cinque nel costato dell'avversario di legno. Un colpo solo dei dieci aveva sgarrato di due linee, rompendo sempre il mostaccio poco raffaellesco che mi aveva disegnato Filippo.

La pistola andava a quel dio. Si venne alla spada. Ma qui Filippo è troppo più forte di me; non riesco a dargli che due bottonate, contro dieci che ne tocco da lui.

—Va bene, va bene ad ogni modo;—mi dice egli, soddisfatto abbastanza dei fatti miei.—Hai bisogno di scioglierti il pugno. Perciò, caro mio, meno lavoro di penna, e lascia dormire il poema.—

Tra questi passatempi arriva l'ora del desinare. E dopo desinare, tanto per affrettare la digestione, quattro assalti di sciabola, con rispettive ammaccature. Qui sono più fortunato; lo tocco cinque volte, contro sei che ne consegna a me; ed ho anche la fortuna d'essere stato il primo a toccare, cosa che non m'era avvenuta alla spada. Ne son felicissimo; e con la furia che metto sempre in tutte le cose mie, decido di non fare più altro, mattina e sera, che scherma ed esercizio di pistola. Filippo non desidera altro; è nel suo elemento. Molle di sudore, mi rasciugo, come Carlomagno dopo le sue cacce d'Aquisgrana; depongo l'umida maglia, ne indosso un'altra, e tutto il rimanente, per andare con Filippo al sorbetto serale. Un po' tardi, però, troppo più tardi del solito; e la cosa è notata dalle signore, con accento di cortese rimprovero.

—Il mio ospite fa versi;—risponde Filippo;—ed io gli faccio la corte, leggendoli.

—Ma non tutto il santo giorno;—osserva il commendator Malteini.—Quest'oggi, passando davanti al Giardinetto, ho sentito spari su spari; tanto che a tutta prima ho pensato ad una infrazione dei regolamenti, non essendo ancora aperta la caccia.

—Io avrei il patentino, se mai;—rispose Filippo.—Ma nel fatto, non si cacciava; ero io, che, non avendo un poema da scrivere, facevo i miei quattro colpi quotidiani al bersaglio.

—Un bell'esercizio!—disse la signorina Wilson.—Mi piacerebbe tanto!

—Anche Lei, signorina, se crede, potrà contentare il suo desiderio molto facilmente. Le porterò uno dei miei Flobert.

—Grazie! se la mamma lo permette….

—Per farti poi del male, bambina?…

—Oh, non c'è pericolo, signora, e la sua figliuola può esercitarsi benissimo. La carica del Flobert è così minuscola, che non c'è nessun timore di veder scoppiare la canna. Del resto,—soggiunse Filippo,—non si potrebbe far meglio? Ci abbiamo l'accademia per l'Asilo da allestire. Che cosa direbbero questi signori d'una gara di pistola? Si potrebbe anche improvvisare una fiera di beneficenza.

—Sì, sì, una fiera; che bellezza!—gridarono le signorine Berti.—E tutte le signore ai banchi; che ne dice, contessa?

—Credo bene che si ricaverebbe più denaro, che non dai biglietti d'ingresso al concerto;—rispose la contessa Adriana.—Per me, ci sto volentieri.—

L'idea, così naturalmente nata da una indiscrezione del commendator Matteini, ottenne tutti i voti, parendo quella di tutti. Concerto vocale e istrumentale, fiera di beneficenza, gara di pistola; perchè non anche un'accademia di scherma? La giunta veniva da sè; ma parve che la cavasse dalle profondità inesplorate della sua mente il divo Terenzio Spazzòli, che, dopo averla proposta, si offerse per mandare a prendere gli arnesi occorrenti.

—Se permette, ci penso io;—disse Filippo;—tanto, non ho niente da fare. Sciabole, guantoni; maschere; ci sarà tutto. Così, negli intermezzi del concerto, si potrà fare qualche assalto. Che cosa ne dice, signor Dal Ciotto? Le garba?

—Sì, molto;—rispose quell'altro, lasciando cader le parole dall'alto, come un uomo annoiato.—Quantunque, preferirei la spada. È arma più elegante.

—Ha ragione; ma non bisogna rinunziare alla varietà, nè all'idea di contentare tutti i gusti. Ci saranno anche i fioretti. Anzi, se mi gradisce, mi offro fin d'ora a Lei per il primo assalto.—

Enrico Dal Ciotto fece un gesto cerimonioso d'assenso.

—Benissimo!—esclamò la contessa Adriana.—Tutti dunque a lavoro. E voi Morelli?

—Un povero poeta, signora…. Che cosa potrebbe far egli?

—Il prologo del concerto, non vi pare! Un prologo in versi; è cosa da poeti, per l'appunto. Vi sentite?

—Ubbidirò; ma chi vorrà recitarlo?

—Le signorine Berti mi paiono già destinate ad ordinare la fiera. La signorina Wilson, che non ha ancora aperto bocca, potrebbe incaricarsene lei.

—Bene, sì, Kitty!—gridano le Berti.—Lo recita Kitty.

—No,—risponde la signorina Wilson,—non mi sento da tanto. Perchè non puoi recitarlo tu, Adriana?

—Se non vuoi tu, se altre non vogliono, dovrò bene adattarmi a recitarlo io;—conchiuse la contessa.—Purchè il signor Morelli non mi faccia dei versi troppo difficili, come usano ora! Ho poca ritenitiva, e in quello che non capisco mi ci confondo troppo. Ancora, vorrei che i versi fossero rimati a due a due, per aiutar meglio la memoria.

—Sarà fatto come volete, e come avete il diritto di volere, poichè vi piace di recitare una mia composizione, che sarà, al solito, una birbonata.—

L'allusione va al mio Aristarco, che non batte palpebra, ma è verde dalla rabbia. Oh povero Dal Ciotto! e perchè non gliel han detto a lui, di scrivere il prologo? Ne avremmo sentite delle belline.

Egli, del resto, si è quasi scelta da sè la sua parte, tra gli uomini d'arme, e non bisognerebbe incomodarlo per altri uffizi. I suoi due compagni di satellizio hanno accettato di aiutare le signorine Berti nella invenzione dei premii umoristici, per la inevitabile lotteria che accompagna le fiere di beneficenza; ed anzi ne è la chiave di volta, dove scarseggiano le venditrici lusinghiere, onnipotenti, e le borse disposte a lasciarsi taglieggiare. Il commendator Matteini s'incarica di scrivere i numeri nei polizzini da estrarre. Quanto alle carabattole da mettere in vendita, ne promettono tutti la parte loro; e certamente vuol essere una ricca mèsse di novità, di archilèi, di gingilli, di cianciafruscole, di balocchi, di piccole utilità ed anche di inutilità, per le quali si spoglieranno tutte le botteghe dei paesi vicini, incominciando da Dusiana. Il concerto, per la parte istrumentale, avrà il sostegno della banda che ho scritturata io, con tanta prontezza, levata a cielo dalle signore: ma ci saranno anche i tre mandolini delle Berti. Non sapevo ancora di questa dote musicale delle signorine; ma già, qual è oramai la casa signorile dove non trionfi il mandolino, accanto al pianoforte? E con accompagnamento di due mandolini, la maggiore delle Berti, deposto per un istante il suo, canterà due canzoncine spagnuole; magari quattro, se ad ognuna delle prime ci sarà la richiesta del bis.

Abbiamo dunque già imbastito e messo in carta ogni cosa. Ci potranno essere delle varianti, delle aggiunte, delle sostituzioni, ma nel complesso ci troviamo ormeggiati. Manca il luogo adatto per il triplice trattenimento, e a me sovviene la filanda, chiusa da parecchi anni, che si potrebbe ottenere assai facilmente, in grazia del santissimo fine. Andiamo per intanto a visitarla: nella morente luce del crepuscolo vediamo quanto basta per collocare coll'immaginazione trecento persone entro la gran sala squallida, che si potrà rinfrescare d'una man di bianco e ornare alla meglio con frasche di castagno e coi quadri dell'Asilo. La fiera si potrà mettere, per maggior comodità dei Corsennati, sotto gli archi del porticato; il tiro di pistola, in fondo al cortile. Tutto bene, adunque, anzi all right, come ho detto stasera, chiudendo i lavori della seduta preliminare. La signorina Wilson non potrà dire che sto disimparando l'inglese.

—Hai sentito?—mi bisbiglia Filippo, mentre siamo in cammino per ritornarcene al Giardinetto.—La spada è arma più elegante. Caro! te la darò io, l'eleganza! Ma come c'è cascato bene! come ci son cascati tutti! E bisogna darne merito al commendator Matteini, con quella sua scoperta degli spari, che a te, m'immagino, sarà parsa a tutta prima un'indiscrezione pericolosa. Avremo dunque tiro di pistola, assalti di sciabola, assalti di spada, e senza lasciar credere che la proposta venisse da noi. Vedrò dunque la spada di questo Dal Ciotto. Ma anche tu, bello mio, da domattina, devi lavorar bene a rifarti la mano. Ci hai otto giorni per esercitarti; e tanto faremo, che conteranno per sedici, magari per trentadue.—

25 agosto 18…

Ed anche per sessantaquattro; tanto si è battagliato, dalla mattina alla sera. Mio povero e caro Don Juan, non ti ho più aggiunto un verso, non ti ho più consacrato un pensiero. Ma già, vedi bene che non ho avuto neanche il tempo di scrivere una riga nel mio memoriale. Pure, dei versi, ne ho fatti. Ma quelli, come dispensarmi dal farli? Avrei voluto veder te, cavaliere garbato, quantunque briccone, se Donna Elvira o Donna Sol ti avesse ipotecato per iscriverle il prologo d'una accademia di beneficenza. Sarebbero stati versi diligentemente torniti, non è vero? versi sonanti, galoppanti a coppie, versi d'arte mayor, colla speranza di averne il premio, di dare il millesimo e quarto nome alla lista spagnuola del tuo servitore Leporello. Io ho scritto per niente, vedi; non avrei presa la penna, se ci fosse stata l'illusione del premio. Ma già, io sono un cavaliere indegno di te; fors'anche indegno di cantar le tue gesta, a quei carissimi posteri che danno tanto sui nervi a Filippo.

Questo prologo è stato il lavoro di una mattinata, e temo che sarà una birbonata senz'altro. Ma non potevo neanche tenermi troppo alto, lavorar di fine, che avrei dato nel difficile; e il difficile alla contessa Adriana non piace. Così è stata contenta; contenta lei, dovrebbero dichiararsi contenti anche gli altri. E poi, subito ai ferri. Tutti i giorni, dopo aver battagliato quattr'ore del mattino, prima di battagliare altre quattr'ore del pomeriggio, alternando la sciabola colla spada, e tutt'e due colla pistola, me ne vado pedinando fino al Roccolo. È necessario, poichè devo imbeccare il prologo alla mia recitante novellina. Curiosa declamatrice! e come mi fa disperare! Quando parla, è naturale; quando recita, mi piglia un tuono e una cantilena da disgradarne un canonico in coro. Ci ha pure la voce nasale, che Iddio ci perdoni a tutti. Se almeno si contentasse di cantare! È il difetto naturale dei martelliani; il metro a cui ho dovuto attenermi, essendo il martelliano il verso dei prologhi. Perchè, poi? Forse perchè il martelliano, dal Goldoni e dal Chiari in giù, pare che si accompagni meglio colla cipria; ed è carità incipriata quella che fanno le nostre signore nei loro concerti, accademie, fiere e lotterie di beneficenza. "È carità fiorita" non se ne dubita nemmeno "che rallegrando il cuore santifica la vita". E i bambini cari? Oh, ci ho messi anche quelli, mi ci sono dilungato "sulle bionde testine, speranze di Corsenna; gran terra, le cui lodi si lascian nella penna; notando solamente, per non parervi senza la virtù così rara della riconoscenza, che non abbiam ricordo d'un angolo di mondo così verde e tranquillo, così caro e giocondo". Ah sì, giocondo davvero! e caro, poi, caro come i miei martelliani.

Quest'oggi, salito al Roccolo per la penultima prova, gran novità; ci ho trovata la signorina Wilson. Ha aperte le labbra e socchiusi gli occhi ad un risolino malizioso; poi mi è diventata di sasso. Pure, vedendo lei, avevo detto subito alla padrona di casa:

—Ah, bene; sono felice che sia qui la signorina Kathleen.—

Ella non ignora che preferisco il nome di Kathleen a quello di Kitty.
Ma neanche questo è bastato a rabbonirla.

—Perchè?—mi domandava frattanto la contessa Adriana.

—Perchè recitando il prologo avrete oggi per la prima volta l'idea di trovarvi davanti al gentile uditorio. Finora non avete avuto da recitare che davanti al maestro; chiamiamolo pure così.—

La contessa Adriana non badò più che tanto alla mia sottile trovata. Badandoci un poco, avrebbe potuto rispondermi: "Vi è venuta ora, l'idea? Non siete voi, signor Morelli degnissimo, voi per l'appunto, che non avete voluto nessuno alle prove? neanche i miei poveri satelliti, che per il vostro capriccio hanno dovuto cangiar l'orario della prima visita? E ce n'è voluto, sapete, a persuaderli, tanto erano pieni di stizza!" Così avrebbe potuto rispondermi, la signora del prologo. Ma ecco che cosa avrei potuto replicarle io, e con un gusto matto:

—Quei vostri satelliti io non li posso patire. E non già perché vi fanno la corte, badate, ma perché mi dan noia. Non verrei da voi, signora mia gentilissima, se non fosse la speranza di farne uscire qualcheduno dai gangheri. Non voglio che nessuno s'immagini di potermi metter paura, capite? Per ciò che riguarda voi e la vostra bellezza, quanto più ci penso, tanto più mi avvedo di amar Galatea. Sicuro, Galatea; non sapete chi è Galatea? Una gran birichina, che m'ha scagliato un pomo, e poi è fuggita. Et fugit ad salices. E mi fugge, insieme con lei, anche quel malandrino di Buci; l'ingrato, ch'ella si tira sempre sull'orma. Dove vanno, ora? Non so; non riesco a indovinarlo; certo, non vanno all'Acqua Ascosa, dove son ritornato tante volte, senza aver mai la fortuna di combinarli, dopo quella gita fatale con voi e dopo il mio stratagemma molto innocente e punto necessario. Ah, signora, se sapeste come mi avete dato noia con quell'incontro casuale al mulino, dove io passavo col mio Teocrito in tasca, e pensando a voi come al gran Cane dei Tartari! Quella passeggiata fu l'origine di tutte le mie disgrazie. Faccio l'uomo, m'irrigidisco sotto la maschera, sto sulla mia; ma non sono contento di me, com'è vero Dio, non sono contento di me. Passar io per un vostro adoratore! Ma fossi matto! Con tutta la vostra bellezza, consacro il vostro capo agli Dei infernali. Il punto d'onore mi trattenne accanto a voi, il maledetto punto d'onore; ed ora anche il prologo, che bisogna imbeccarvi con tanta fatica, avendo le orecchie intronate dalle vostre cantilene corali, dalle vostre inflessioni nasali. Maledettissimo prologo, che la signorina Galatea non ha voluto recitare!—

Mi avrebbe lasciato giungere fin qua, la signora contessa? Credo di no. Se mi avesse lasciato parlare così, le avrei detto ancora:

—Perchè (vedete, signora?) voi siete stata la pietra di paragone. Proprio di questi giorni, legato in apparenza al vostro carro, ho capito me stesso. E l'altro dì, quando Filippo, ritornato dal Roccolo, mi ha raccontato che gli avevate fatte tante moine, di quelle che sapete far voi, neanche una fibra si è scossa in tutto il mio essere, non un capello si è mosso. L'amico mi ha soggiunto che voi gli diceste assai bene di me, ma con certe restrizioni intorno al mio carattere; e l'unica pena che io ne ho sentita è stata quella che di restrizioni non ne aveste fatte di più. Sappiatelo bene; avevo bisogno di voi per intendere come sia maravigliosa la semplice bellezza di Galatea. Voi ci avete la fosforescenza, bellezza di lucciola, a cui è necessario il contorno dell'ombra. Non dico che non siate bella anche al sole; parlo così per necessità di compiere il paragone; intendo di dire che alla vostra bellezza è necessario l'accompagnamento delle abbigliature, delle acconciature, degli artifizi della moda. Tutto vi sta bene egualmente, lo so; ma nel fatto non siete che un magnifico figurino, anzi diciamo uno splendido modello di vimini, fatto a pennello nei suoi contorni, per uso delle modiste. Quando si è capito ciò, non occorre più altro. E si capisce in capo a tre giorni; dopo il qual termine la vostra bellezza non dice più nulla ad uno che abbia conosciuto Galatea, cioè la donna vera e la ninfa, il frutto primaticcio che ha sapore in se stesso e non dallo zucchero in cui bisogna giulebbarne tanti altri, il flore che ha una fragranza sua, senza bisogno di opoponax e di pelle di Spagna.—

Che orrore! direste. Ma io, arrivato a questo punto vorrei proseguire:

—Notate che vedo e riconosco i difetti di Galatea. Ne ha; oh se ne ha! Quella sua passione per tutti i giuochi, per tutti i divertimenti! Bisogno irrefrenabile di moto, lo capisco; ma io, se fossi padrone di quel cuore, non vorrei tanto moto, non vorrei tutto quel vivere fuori del guscio, come fa l'argonauta; vorrei meno racchette, meno remi, meno tuffi in acqua, meno balli, e un po' più di languore femmineo. Ma è così giovane! più giovane del vero. Infatti, potrà avere vent'anni d'età; e frattanto il suo pensiero ne ha quindici, con tutte le mariuolerie, le impertinenze, i dispettucci di una bambina. Ah, scellerata! non vorrei confessarlo, e l'adoro. Guai a me, contessa, se queste cose io le dicessi a voi. Ma le scrivo nel mio memoriale, un libro che apro io solo, che dovrò leggere io solo. E qui, tanto per pigliarmene una satolla, aggiungo volentieri: Long live the queen of my heart! hurrah for Galathea! Galathea for ever!

XV.

Per quei cari bambini.

27 agosto 18…

La fatica è stata molta, quest'oggi, per condurre a buon fine l'impresa, come in questi ultimi giorni per prepararla. Diceva bene iersera il commendator Matteini, mettendo gli ultimi numeri arrotolati nella gran ruota della fortuna, che il fare della beneficenza non è come sorbire un uovo fresco. Il degno uomo confessava candidamente di non aver lavorato mai tanto, nella bellezza dei trentacinque anni della sua vita ipotecaria. Anch'io, colla cura del concerto musicale, con quell'altra del prologo, e poi con cento piccole cose dell'alta direzione, sono stato occupato la parte mia; ed oggi, finalmente, alla stanchezza intellettuale si è aggiunta la stanchezza fisica, che m'ha fatto rimanere due ore a tavola, quantunque senza voglia di mangiare o di bere. Stasera ho ricusato di muovermi da casa, ed ho lasciato andar solo il mio ospite. Che uomo d'acciaio, quello! Pare, a vederlo, che sia stato a veder gli altri, mentre ha lavorato anche lui come un negro.

Consoliamoci, perchè le cose sono andate a quel dio. La sala era parata benissimo, e il divo Terenzio ha meritati davvero gli elogi di tutta la colonia villeggiante. I ritratti del re e della regina, tolti per l'occasione dalla sala dell'Asilo, sono stati appesi nel fondo del palco improvvisato, sotto un baldacchino di drappelloni rossi (due tappeti della contessa Quarneri) tra corone di quercia e festoncini di fiori. E di mazzi di fiori disposti a losanghe si abbellivano le pareti della sala, che erano tutte inverdite con frasche di castagno. Dio, quanti chiodi ci son voluti, per fissare tutta quella roba, che aveva poi da durare una mezza giornata! Non fu così facile, del resto, dissimulare la bruttezza del pavimento; ma su quello erano tante file di sedie, che quando la gente ebbe preso posto, l'ammattonato scomparve per due terzi della sua superficie; un terzo, nel mezzo della sala, era coperto dal tavolato, messo là per le prove di scherma.

Si fece porta alle dieci del mattino. Avevamo preparato cinquecento biglietti d'ingresso, a cinquanta centesimi l'uno; e s'intende che, salvo i venduti a chi ne faceva richiesta, ce ne spartivamo il grosso tra noi. Una cinquantina erano già necessarii per noi villeggianti e per la gente di casa; un centinaio furono presi dai naturali di Corsenna; il resto fu distribuito da noi, all'ultim'ora, e gratis, per fare una piena spettacolosa. I Corsennati, che stavano per istrada a guardare verso l'uscio della filanda, gradirono assai quest'atto di generosità; forse lo avrebbero gradito, mezz'ora prima, anche quelli che erano dentro, e che avevano dovuto pagare il biglietto, la più parte per onor della firma. I Corsennati son gente savia, tanto che si potrebbero dire più esattamente assennati; e pensano che se i signori vogliono fare del bene, farebbero anche meglio a farlo intiero. Nondimeno, e paganti e non paganti si son mostrati soddisfatti ad un modo, e non ci hanno lesinati gli applausi.

La banda di Dusiana aperse il fuoco, assordandoci con la più rumorosa delle sue marce guerriere. Fu applaudita a furore, e si gridò viva Dusiana; il che non è mai male tra popoli contermini, che hanno di tanto in tanto i loro piccoli screzi e dissapori. Già si voleva il bis; ma il capobanda fece un gesto che voleva dire: "abbiate fede; ci sentirete anche più del bisogno." Frattanto otteneva silenzio la contessa Quarneri, apparendo sul palco. Era diventata bianca bianca, non potendo impallidire del tutto; la rianimarono gli applausi della colonia e quelli anche più rumorosi, che seguirono, del buon popolo Corsennate. Incominciò essa allora il suo prologo, tremandole un pochino la voce ai primi versi. Io tremavo più di lei. Temevo che intaccasse; e in quella vece tirò via, forse un po' troppo veloce, ma tanto più sicura del fatto suo, quanto più correva verso la fine. Trascurò, si capisce, molte sfumature, perdè molti effetti; ma non dimenticò il suo tuono predicatorio, la sua cantilena, le sue inflessioni nasali. Niente paura, dopo tutto; si era in Corsenna, e Corsenna applaudì tutta come un uomo solo. Credo che sia volata anche qualche spalliera di seggiola. I miei Corsennati, questa volta si tramutarono in forsennati.

—Che talento!—esclamò la sindachessa, stimando necessario di dar lei l'intonazione ai giudizi dei suoi amministrati, o di suo marito, che poi è tutt'uno.—Per il possesso di scena, par proprio un'attrice.

—Pare la Madonna;—diceva più in là una ragazza modestamente vestita.—Ce ne saran voluti, dei biglietti da cento, per coprirla di merletti a quel modo!

—Che fior di farina!—gridava anche più in là, nella calca, il mugnaio del paese.—Di quella roba lì non se ne trova mica a sacchi. Che cosa ne dite voi, Giacomino?

—State zitto; la mangerei;—rispondeva Giacomino, il panattiere.

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Tra il talento di attrice scoperto dalla sindachessa, l'effetto di una ricca abbigliatura che faceva morir d'invidia le ragazze del paese, e quello d'una bellezza innegabile che destava istinti d'antropofago perfino nel più interessato apostolo della nutrizione vegetale, il prologo andò a vele gonfie. Seguì ancora una suonata della banda, con assòlo di tromba a pistoni; chetato il quale, si ebbe una mandolinata delle tre Berti, tanto carine e meritamente applaudite, colla domanda del bis: domanda che fu tosto esaudita, ma variando il pezzo, secondo l'uso dei concertisti che si rispettano. Da capo, finito il terzetto delle mandoliniste, volle rumoreggiare la banda, con un centone di pezzi della Norma, dove non mancò la "Casta diva" nè il suo contrapposto del "Guerra, guerra". Quello era il momento buono per metter mano all'armi. Discese Filippo Ferri sul tavolato, e lo seguì Enrico Dal Ciotto. Terenzio Spazzòli, uomo tagliato a tutti i grandi uffici, con molta dignità prese a tenere la smarra. L'assalto è, per consenso universale, assai bello; non già perchè i Corsennati siano intendenti in materia, ma perchè assistono per la prima volta ad uno spettacolo di quella fatta. Il povero Dal Ciotto ha più audacia che perizia di schermitore: ha preso una bottonata, due, tre, senza collocarne una delle sue; quattro, cinque e sei, con eguale risultato. Ma qui Filippo Ferri si è mosso a compassione; ha un po' rallentato il suo giuoco, e si è fatto toccare ad un braccio; più di striscio, in verità, che di punta; ma s'è affrettato ad accusar ricevuta. Pare ad Enrico Dal Ciotto di potersi rifare; ne busca una settima, e si dà allora per vinto.

—Son proprio fuori d'esercizio;—conchiude, rivolgendosi alle signore.—Ma sono felice ad ogni modo di aver fatto brillare il giuoco del signor Ferri; un giuoco veramente magistrale.—

Bravo satellite! Così mi piaci; senza rancore, con un granellino di spirito, che non avrei immaginato mai, e che son lieto di riconoscere.

Si domanda il bis; ma Enrico Dal Ciotto è stando, e non lo concede.

—Si provi Lei;—mi dice la signorina Wilson, che è seduta ai primi posti, e che non dubita di rivolgermi il discorso, quando c'è gente.

—Volentieri;—le rispondo;—per farmi battere.—

E m'avanzo sul tavolato, per calzare il guanto o metter la maschera.

—Animo!—mi bisbiglia Filippo, mentre mi aiuta fraternamente nell'opera.—Qui si parrà la tua nobilitate.—

Lo spero bene. È chiaro come il sole, che ne buscherò parecchie, anzi molte; ma non farò la figura di Enrico Dal Ciotto, e ne restituirò più d'una.

Incominciamo guardinghi, studiandoci l'un l'altro, facendo di passata un po' di fioriture accademiche. Filippo Ferri ama i principii a tavola; li ama ancora sul tavolato. S'impegna un giuoco serrato di finte, di parate, di attacchi e di contrattacchi, d'intrecci e di sparizioni, che diverte un mondo, come al giuoco del pallone una lunga sequela di colpi senza lasciar ruzzolare il pallone per terra. Quella prima messa in guardia è senza bottonate; la folla degli spettatori va tutta in visibilio. "Come fanno a non toccarsi mai?" gridano di qua e di là; "come fanno?" E si applaude furiosamente al prodigio.

Ma eccoci da capo impegnati. Filippo è un gran cavaliere; mi lascia l'onore della prima bottonata, e ne accusa ricevuta colla solita cortesia. Ma non vuol neanche parer troppo generoso, e finge di essere in collera con sè medesimo; ripiglia, attacca vigoroso, mi obbliga a fare un salto indietro; m'invita fieramente col piede, e appena son ritornato in misura, mi sferra in pieno petto la sua botta diritta. È allora un furore d'applausi. Evidentemente io sono simpatico ai Corsennati; ma la passione del maggior numero è in questo momento per lui. Non me ne dolgo; mi basta di aver sostenuto quel primo assalto così lungo, tenendogli testa senza esser colpito, scherzando, giuocherellando col ferro quanto lui; m'è più che bastante l'onore della prima bottonata, che egli mi ha tanto cortesemente lasciato. E vorrei, dopo la prima sua, lasciarmene dare una seconda e una terza, che mi parrebbe sempre di aver fatto una buona figura. Ma egli non è del mio parere; mi batte la campagna, non approfitta del suo vantaggio; seguita a descrivere, a distanza di otto centimetri dal mio costato, i suoi elegantissimi otto, in piedi o coricati, come gli pare, senza toccarmi mai. Va bene che molte io ne paro, e potrà anche sembrare agli astanti che io le pari tutte; ma dentro di me sento che egli potrebbe entrare più d'una volta. Perchè non lo fa? Mi scaldo al giuoco, rompo uno di quegli elegantissimi otto, ed entro io con una seconda bottonata. Egli accenna del capo, e sembra volermi dire sotto la maschera: "finalmente! è mezz'ora che l'aspetto." Poi me ne dà una a sua volta, un'altra se ne lascia dare; e così via, un po' per uno, giungiamo al punto che io ne ho date sei, quante lui, nè più nè meno. Facciamo la bella? Facciamola. E la dà lui, dopo un maraviglioso sfoggio di finte e di attacchi; la dà lui, imperiosa, gloriosa, solenne. Ed è piena giustizia, che mi rende felice, mentre egli, tra uno scroscio di applausi, è dichiarato il campione della spada.

—Signori,—dice modestamente il mio avversario agli astanti di prima fila, dopo avermi dato, a maschere levate, un abbraccio fraterno,—il nostro poeta è di prima forza; non lo sapevano? Bisognerebbe ancora vederlo alla sciabola.

—Sì, sì, un assalto di sciabola;—si grida.

—Non già con me;—risponde Filippo Ferri.—Io sono ora un po' stanco.—

Si fa invito coi gesti; ma nessuno dei sedenti risponde. Terenzio Spazzòli è un fior di cortesia; si offre lui, cede la smarra a Filippo, mette la maschera e il guantone, impugna la sciabola, e in guardia. Son largo con lui, come Filippo è stato largo con me, e mi lascio far volontieri il solito manichino di controtaglio, e di primo appetito; poi, serrandolo al mio giuoco, gli dò una puntata, guizzando subito fuori e rimettendomi in guardia. Seguono gli assalti, e non mi lascio toccar più; un altro suo tentativo di manichino è rotto da un guadagno di lama, seguito a volo da un colpo alla faccia.

—Ho il mio conto;—dice Terenzio, levandosi la maschera ed asciugando il sudore.—E questa poi me la son meritata, col mio ritorno al controtaglio. Piuttosto mi par duro essermi lasciato colpire di punta.

—E a me ne duole moltissimo;—rispondo.—È un vizio di metodo. Anche colla sciabola faccio, senza volerlo, il giuoco della spada; rischiando poi, se non mi vien bene il colpo, di farmi affettare una spalla.

—Non temo che ciò le succeda, se ha tanto sicuro l'atto di portare il taglio in su, e così veloce l'attacco. Quanto al vizio di metodo, glielo invidio. L'ho sempre detto io, che il giuoco di sciabola va fatto più serrato, sì, più serrato, come quel della spada in certi casi; e in tutti gli altri, non troppo distante di lì.—

La dottrina e l'asseveranza compensano nel divo Terenzio il difetto di pratica; ed egli rimane agli occhi di tutti un gran cavaliere. La mia gloria, nondimeno, è al colmo. La contessa Adriana, nel farmi le sue vivissime congratulazioni, mi offre perfino dei fiori. Oh Dio! e Galatea, che vede, che cosa penserà del fatto? che cosa dei ringraziamenti, che son pur costretto a fare? Cerco di rimediare, rivolgendomi alle altre signore, alle Berti, da principio.

—Non avrò i loro fiori, signorine?—

Le tre fanciulle son ben liete di appagare il mio desiderio; mi danno tre bei garofani dei loro mazzolini. Anche le mamme mi fioriscono alla lor volta; e così posso chiedere il suo fiore alla signorina Wilson.

—Ne ha già troppi;—mi risponde.—Ed io, del resto, non ne ho…. devo averli smarriti.—

O lasciati cadere, birichina; lasciati cadere a bella posta dietro la sedia, a mala pena mi hai veduto in giro, col manifesto proposito di finire da te.

La banda di Dusiana rumoreggia da capo, con un centone di motivi dell'Attila. Sarà mediocre, la banda di Dusiana; ma non è certamente peggiore di tante e tante altre. Poi, viva la faccia dei popoli campestri, che amano la musica, e preferiscono questo passatempo a quello della morra e della politica d'osteria. Finalmente, la banda di Dusiana suona una musica che mi piace per tante ragioni, non ultima quella del gran bene che ha fatto ai suoi tempi. Ancor caldo delle mie sciabolate, canticchio in cadenza coi suonatori il "Cara patria, già madre e reina" e l'"Empia lama, or l'indovina", non dispiacendo neanche al trombone, a cui è affidata la frase melodica in discorso.

Ma una voce più graziosa, sopra tutto più intonata della mia, rallegra l'uditorio. È la voce della signorina Virginia Berti, che arpeggiando sulla sua mandòla canta due belle canzoncine spagnuole. Anche a lei, molti applausi: i Corsennati, sicuramente, dal continuo picchiare, hanno già le bollicine alle mani. E ancora non abbiamo finito; ecco il bello che viene, con una fila di bambini, tutti vestiti ad un modo, che si schierano sul tavolato e cantano una strofetta di ringraziamento. Il bello, ho detto: ma a me non piace, essendomi sempre parso un rompere il turibolo sul naso ai così detti benefattori, e un profanare la onesta dignità dei così detti beneficati, il far cantare una filza di complimenti smaccati, da quelle care bocche innocenti. Non piace a me, ripeto; piace nondimeno agli altri, e perfino ai parenti di quelle tenere vite; passi dunque il ringraziamento cantato. C'è poi una bella tombolina che si presenta sul palco, e recita un paio d'ottave: non si capisce niente di ciò ch'ella balbetta; ma la tombolina balbetta con tanta grazia, che ne son tutti inteneriti, e la levano di lassù a braccia tese, le fanno carezze, la divorano coi baci. Il concerto è finito; si dispongono le mense pei bambini, ai quali è dedicata la festa. La banda di Dusiana intuona la marcia reale, e questo mi piace; ma che dico, mi piace? È una vera trovata. Non sono quei bambini i re dell'avvenire? Godete, bambini, il vostro primo giorno di regno; e non vi manchi corte bandita a tutti gli altri che seguiranno. Noi vi lasciamo alla vostra dolce occupazione, per prendere una boccata d'aria, ed anche uno spuntino, che la cortesia di Terenzio Spazzòli ha fatto servire a noi in un'altra sala della filanda. Finito lo spuntino degli "artisti" e il desinare dei fanciulli, si va nel cortile ad aprire il tiro al bersaglio; tiro di pistola, s'intende. Lo inauguro io, con un centro tanto fatto.

—Ma voi siete un mago!—mi grida la contessa Adriana.—Chi vi potrebbe resistere?

—Oh povero me! per un po' di fortuna!—rispondo umilmente.—Certo, mi sono sempre esercitato, per avere un colpo abbastanza sicuro contro chi mi vuol male.—

Spara a sua volta Filippo, e non fa che centri, puntando a mala pena. Spara anche il divo Terenzio, discretamente bene, cogliendo sempre il bersaglio in vicinanza del centro. Enrico Dal Ciotto, invitato a sparare, si scusa col braccio stanco; del resto, è un po' fuori d'esercizio. Meno geloso dell'arte sua, si prova il Cerinelli, e qualcuna ne indovina. Quanto al Martorana, è una sbercia senz'altro, ed ha il buon gusto di convenirne. Tastato anche quello, e risponde picche. Insomma, sconfitti tutti e tre, i miei fieri satelliti faranno molto a potersi ritirare in disordine.

Enrico Dal Ciotto si rifà un pochettino alla ruota di fortuna, guadagnando al primo numero un servizio da tavola per venticinque persone. È la solita canzonatura di tutte le lotterie; un mazzo di venticinque stecchini. Questo dei premi umoristici, è il caval di battaglia del divo Terenzio, che fa stupendamente da segretario alle signore venditrici. La ruota gira, rigira, senza fermarsi mai, ma non fruttando che premi di pochissimo conto. Delle cose migliori si fanno lotterie particolari, a mezza lira, a una lira al numero. A quella e a queste, poco alla volta, tutta Corsenna si scalda; e mentre qualche bel capo, qualche utile arnese è portato via, i ragazzi del paese fanno bottino di trombette, di zufoli, di tutte le piccole carabattole che i grandi hanno guadagnate, ma regalano loro, non sapendo che farsene.

A me, tra le risate universali, tocca un bavaglino; e dopo una diecina di polizzini bianchi, un altro arnese da bimbi, una cuffina. Son destinato; me lo dicono tutti, ridendo alle mie spalle: ma io non mi spavento per così poco, e inalbero arditamente i miei piccoli trofei. Enrico Dal Ciotto riesce finalmente a vendicarsi della mala fortuna, guadagnando una sveglia, niente di meno. Beato lui! gli servirà per destarsi di buon mattino, il giorno che dovrà far le valigie, che Iddio l'accompagni.

La fiera di beneficenza ci porta via tre ore buone. Oramai non ne possiamo più. Siamo in moto dalle nove del mattino; sentiamo il bisogno di sedere, e non per pochi minuti. Inoltre, lo spuntino del mezzodì non ha fatto altro che aguzzar l'appetito. Gli "artisti" lasciano il teatro delle loro glorie alla vigilanza del segretario comunale, e vanno a desinare all'osteria, piuttosto male, ma non senza buon condimento d'allegrezza. Poi, tant'è, vogliono dare un'ultima occhiata alla fiera, contendersi gli ultimi doni, sentire le ultime suonate della banda di Dusiana. Tutto è venduto, portato via alla fortuna del polizzino; restano i banchi vuoti e la cassa piena. Si son fatte seicento novanta lire; paion poche, e si arrotonda la cifra, quotandoci in parecchi per aggiungerne dieci. S'intende che sono settecento lire nette, da consegnare alla direzione dell'Asilo. Le spese le abbiamo fatte noi villeggianti, così per la banda di Dusiana, come per l'arredamento dello stabile e per l'ordinamento della fiera. Dei doni per la lotteria, i due terzi sono stati regalati dalla contessa Quarneri. Sia detto a sua lode; non diventerà mai una grande attrice; resterà sempre una cortese signora.

Tutti han lavorato quest'oggi; ma un po' meno la signorina Wilson, che non ha voluto assumersi nessuna parte nell'accademia. Si è per contro occupata assai della fiera, in compagnia del commendator Matteini e di Terenzio Spazzòli. Buci ha partecipato largamente a tutto il trattenimento; sempre in moto per la sala del concerto, in quella dello spuntino, alla fiera, all'osteria, poi da capo alla fiera. Sul finir della festa è diventato quasi un personaggio importante. Non ha voluto riconoscere il suo antico padrone, che voleva fargli una carezza, vedendolo così lustro di pelo. Per compenso, non ha nemmeno guardato il suo padrone odierno, e legittimo per virtù di regolare contratto. Due o tre volte, passandomi egli a tiro, m'è tornata la voglia di assestargli una pedata. Ingratissimo cane!

La festa è finita, almeno per quanto riguarda gli "artisti". Ultimi fanno ancora qualche cosa i filarmonici di Dusiana, rumoreggiando per quanto è lungo il paese, e accettando ancora un bicchiere ad ogni frasca, ad ogni bottega, fino a tanto che non giungono davanti alla giardiniera che deve trasportarli a casa loro, madidi di sudore e di vino, ma più d'amore fraterno per i loro buoni vicini di Corsenna, a cui, dopo la loro partenza, non rimangono che le fisarmoniche locali per continuar la gazzarra e ballar sulla piazza. A memoria d'uomini non si è mai visto tanto tripudio in Corsenna. Beneficenza, son questi i tuoi miracoli. E quando poi ti si è fatto onore senza secondi fini, come nel caso presente, per solo amore del nostro simile, con un accordo perfetto tra i promotori, che non ne fu mai tanto tra i suonatori di Dusiana, bisogna proprio andar superbi di noi medesimi, e conchiudere che il mondo non è brutto quanto si dipinge.

Sono le undici, e suonano al cancello. È l'amico Filippo, il buon fratello che arriva, che torna da godersi il resto della serata, nella graziosa compagnia della contessa Adriana. Smettiamo; voglio andarlo a ringraziare di tutto quello che ha fatto per me….

PS. Ma bene, benissimo! Filippo ha lavorato anche lui per la gloria. Ecco le sue parole:

—Rammenterai quel che ti ho detto due giorni dopo il mio arrivo. Bisogna mutar registro. Scoperto l'uomo d'armi, e forse indovinato il violino di spalla, era necessario non aspettare i nostri satelliti, ma andar loro incontro con qualche dimostrazione di forze. Questo si è fatto, più presto e meglio che non ci fosse dato sperare. Anche tu, in una settimana d'esercizio, hai fatto prodigi, e la giornata d'oggi è stata un trionfo per te.

—Sì, ma come mi hai validamente aiutato!—risposi.—E come mi hai cacciato avanti… contro il merito mio!

—No, sai, o ben poco. Ammettiamo pure che non mi avresti dato la prima; quanto al resto, hai fatto il tuo potere, come io facevo il mio. Sei diventato fortissimo, e te ne faccio i miei complimenti. Già, quando si è avuta una buona scuola, non si dimentica più. Sono contento di te, quanto ne saranno scontenti i satelliti della contessa Adriana. Scommetto che se ne vanno entro i sette giorni. Felice mortale, a te.

—Ti ridico per la ventesima volta, che non ne sono innamorato. Sciolta la mia questione d'amor proprio con quei là, penso a lei come al gran cane dei Tartari.

—E allora tanto meglio, o tanto peggio. Avrai tempo e libertà per ardere i classici incensi ad un'altra.

—Ma che! a nessuna, mio caro. Sai pure che il mio poema mi assorbe.

—E dalli col tuo poema;—gridò Filippo, con accento di comica stizza.—Io, vedi, se avessi un poema da finire, e sperassi con fondamento di trovare un editore, lo butterei dalla finestra, il poema, solo per un sorriso della signorina Wilson.

—Che! come?—balbettai.

—Ma tu, fradicio di letteratura, non capisci più niente di niente;—continuò Filippo, infervorato nel suo ragionamento.—Ebbene, tanto meglio; sei uno di meno in giostra. Amo quella ragazza; e se mi riesce, la sposo.

—Ah sì?

—Certamente. Ma ecco,—soggiunge Filippo, rìdendo,—senza volerlo, si casca a ripetere il tuo dialoghetto col signor Enrico Dal Ciotto. Eccoti dunque, mio caro Rinaldo, eccoti dunque il segreto dell'anima mia. Per una volta tanto, sono innamorato morto. E poichè tu vuoi avere tanta gratitudine per me, che non ho fatto niente o ben poco in tuo favore, e perchè, finalmente, una mano lava l'altra, mi farai la grazia di aiutarmi un po' tu, con qualche buon discorsetto preliminare alla mamma.—

XVI.

Mattina e sera.

28 agosto 18.. (mattina).

Sono rimasto male, molto male, tanto male, che non ho saputo rispondere quello che andava risposto. "Si vedrà", gli ho detto; ed egli se n'è contentato. Si vedrà…. si vedrà…. Vivaddio, non si vedrà niente, me vivo.

Ma che cosa c'è di vero? che cosa c'è di serio, nell'idea del signor Ferri? com'è nata? come ha potuto formarsi in una testa cavalieresca, sì, ma così poco romantica come la sua? Per amar così forte la signorina Wilson, bisogna che speri di esserne riamato. Per nutrire una speranza simile, è necessario che abbia avuto qualche occasione, qualche appiglio favorevole. Ma quale? in che modo l'ha trovato? Oh bella! come si trovano gli appigli, come si trovano le occasioni. Non avrebbe trovato niente, se fosse rimasto a casa sua; meglio ancora, non si sarebbe neanche avveduto della esistenza di una signorina Wilson sotto la cappa del cielo.

Sciocco io, sciocco io, a farlo capitare in Corsenna. Doveva essere un pericolo, quell'uomo, un pericolo da per tutto e per tutti, con quella sua grand'aria di cavaliere antico. Le donne amano i forti. Quello è un corazziere, all'aspetto, con occhi d'aquila e una bocca di fanciulla. E sono i temibili, questi; non si sfugge all'immagine della forza, quando è accoppiata alla bellezza, alla bontà, alla grazia. È in natura. Ah sciocco, sciocco, tre volte sciocco! Non potevo condurla da me, quella stupida impresa? Senza contare che la mia matta fantasia aveva lavorato sopra una falsa supposizione. Erano tre ragazzacci, e niente più; con una certa voglia di parere impertinenti, ma senza il coraggio di giungere agli estremi.

Ed ora, che si fa? Ho passato una notte d'inferno, dormendo male, e sognando che il corazziere la conduceva all'altare, tutta bianca nella sua nube di merletti e di veli, colla corona di fior d'arancio sul capo. Io ero testimonio; naturalmente, nella mia condizione d'amico…. e di sciocco. Bizzarro episodio di quella cerimonia: prima di rispondere il fatale monosillabo, si è voltata a mezzo dalla parte mia, mi ha gittato un'occhiata birichina attraverso il lembo del suo velo, più tenue, più diafano che mai, ed anche colle sue belle labbra vermiglie mi ha fatto boccuccia. Che ardire! e non pensava che potevano vederla? Il prete, a buon conto, ha notato il suo atto, e levando gli occhi si è volto a guardar me, pensando, intravvedendo in un baleno Dio sa quante cose. Ma lei si era già voltata dalla parte buona, e proferiva il suo sì, un sì tanto acuto, che ne tremò tutta la chiesa, ed io mi sono svegliato coi sudori freddi alle tempia.

Mi sento male, questa mattina, e non parlo di alzarmi. Filippo è venuto in camera mia, ed approva la mia risoluzione di stare in riposo.

—È la grande stanchezza di ieri;—dice egli.—Avrai anche la testa pesante; vedo che hai gli occhi un po' rossi. Ti consiglierei di metterti in corpo un'oncia e mezzo di magnesia effervescente. È la mia cura, quando non mi sento bene. Vedrai che ti passa ogni cosa.—

Non mi passerà niente, colla tua magnesia. Ritira piuttosto, rimangiati quel che mi hai detto iersera, assassino; e vedrai che salti faccio sul letto! Ma è stata un'infamia! Innamorarsi della signorina Wilson! di Kathleen! di Galatea! Per tutti i settemila!… Di tutte le disgrazie che mi potevano capitare, questa è la più grossa; è andato proprio a cercarla nel mazzo.

E quanta cavalleria, per domandarmi, per voler sapere ad ogni costo, se fossi invaghito della contessa! Era perfino diventato noioso, col suo non volersi persuadere. Ora capisco il suo giuoco; mi ci voleva inchiodare, al Roccolo; magari facendomi ingelosire un pochino di sè, per aver poi il merito di ritirarsi davanti a me, di lasciarmi il passo franco. Sì, è così, non altrimenti. Egli non aveva avuto da lei nessuna di quelle lusinghe che mi voleva far credere. Infatti, a chi ha dato ieri il premio di un fiore, la signora contessa? Oh, quel fiore, quel fiore! ci voleva proprio quel fiore del malanno, per meritarmi un altro sgarbo di Galatea.

Galatea, Galatea! Penso che voi abbiate fisso il chiodo di farmi impazzire. Per una passeggiata innocente, per un incontro non potuto prevedere, non potuto evitare, e del quale non avete nemmeno certezza, trattarmi così male, via, è un po' forte. Rizzarmi muso, sfuggir tutte le occasioni di ritrovarvi presso di me, di barattar due parole con me, non vi pare una crudeltà senza esempio? Da che tigre arcana siete voi nata, sia detto col massimo ossequio per la vostra signora madre i Dopo tante belle cose che abbiamo fatte insieme sui monti, dopo tante graziose birichinate per pigliarvi spasso di me, dovevate mutarvi di punto in bianco a quel modo? Si andava così bene d'accordo nelle ragazzate! mi sentivo ritornar così giovane, accanto a voi! La vita con voi sarebbe stata così bella! tanto bella, che per un momento ne ho avuto il capogiro, e mi sono sforzato di scacciarne l'idea. Ah sì, gran sapiente che sono stato! Ero uscito un tratto fuori dalla soglia del mio paradiso, e m'han chiuso l'uscio dietro le spalle.

Che c'è? Una lettera, e larga tanto, col bollo comunale di Corsenna. È il sindaco che scrive, per ringraziarmi. Non han voluto perder tempo. Settecento lire di sussidio all'Asilo, meritavano questa sollecitudine. Ma perchè a me? Perchè son io il personaggio più importante della colonia, l'amico più vecchio di Corsenna, il primo capitato tra questi monti; e finalmente, "vegnendo a dir el merito" son io che ho fatto tutto. Benissimo; sta a vedere che uno di questi giorni mi conferiscono la cittadinanza. Son io, veramente io, che ho fatto tutto, e non ho male che non mi sia meritato! Al diavolo! non ne posso più. Sento che schiatto, se sto ancora cinque minuti qua dentro.

28 agosto 18.. (sera).

Volevo levarmi una spina dal cuore. Dove sarà andato il Ferri, che m'è uscito di casa attillato, spalmato, ripicchiato come uno sposo? Dalla contessa, non credo; dalle Berti, meno che mai; dalle Wilson, dunque? Potrebbe darsi; a buon conto, andiamo a vedere. Evitando le strade, per altro; girando dai campi, strisciando tra i boschi. Ho il territorio di Corsenna sulla punta delle dita. E giungo in vista della casina dove stanno le Wilson, e do un'occhiata intorno, prima di uscire dalla macchia. Ho fatto bene a non fidarmi troppo; ecco Filippo, eccolo là che sale dalla strada maestra, avviato per l'appunto alla casina di color rosa, per la quale io diventerò verde, pur troppo! Eccolo là; o, my prophetic soul! presaga anima mia! Come è vero che la gelosia dà sempre nel segno!

Ed ora ch'egli è entrato, andrò io? Bella figura ci vorrei fare! Mi atterrò all'altra, peggiore, più brutta, ma almeno solitaria e non vista, di starmene in sentinella. Per quante ore? Le Wilson fanno la prima colazione, il breakfast, alle otto, e oramai sono le nove suonate; la seconda, il lunch, al tocco, e ce ne avremo ancora per quattr'ore. Poveri noi, se il signor Ferri s'incanta laggiù fino al lunch! Vorrei vedere anche questa, che non sarebbe poi di buon genere. Sediamo. Ma per che fare? Non posso leggere; non vedo neanche le parole. Ah gelosia, brutto male! Che cosa le dirà ora il signor Filippo degnissimo? Parleranno della gran giornata di ieri, della sua valentia, delle sue botte diritte, segnatamente dell'ultima, che m'avrebbe passato fuor fuori come un ranocchio, se il fioretto non avesse avuto il bottone. E lui "tutto umile in tanta gloria"; non è così che va fatto? Un colpo di fortuna, debolezze; parliamo d'altro. Lei, signorina, era bellissima, ieri, con quella sua marinara. Semplicissima, e brillava più di tutte. Ah briccone! gliene dirai tante, che qualcheduna le toccherà il cuore. Ma tu non potrai dirle la meglio, non la potrai chiamar Galatea; non lo sai, tu, il nome arcano della signorina Kathleen.

Che novità è mai questa? Sono passati appena venti minuti, e Filippo ricomparisce nel viale. Se ne va? Certo, e non di gamba malata. Visita breve; perchè? Son curioso di saperlo. Essere al fianco di Galatea, ed alzarsi per prender congedo; ecco due termini contradditorii, strani, insociabili. Ah, non ci reggo più. Filippo è già in fondo al viale; gira il canto, sparisce. Avanti dunque, usciamo dalla macchia, andiamo noi a vedere come ci accoglie Galatea.

—È permesso?

—Avanti. Oh, signor Morelli! che buon vento?…—

È la signora Wilson madre, che mi accoglie con tanta cortesia, levando gli occhi e la mano dal suo telaio da ricamo. Stringo quella mano che ella mi offre, e prendo la sedia che mi addita vicino a lei; una sedia ancor calda delle fiamme di Filippo Ferri. Egli stesso vien subito in ballo.

—Se fosse arrivato cinque minuti prima,—soggiunge la signora,—avrebbe trovato qui il suo amico.

—Oh, davvero? che peccato!

—È stato così gentile,—ripiglia la signora,—da venir da noi, per ringraziarci di ieri. Non c'è veramente di che; noi non abbiam fatto nulla, o al più quello che han Tatto le altre signore, che non prendevano parte all'accademia. Ma che bella festa, non è vero, signor Morelli? e come è bene riuscito in ogni parte il programma! Una giornata indimenticabile; e indimenticabili, prima d'ogni altra cosa, i suoi versi.

—Troppo buona, signora mia, troppo buona. Erano versi tirati un po' giù, per l'urgenza, e certamente avevano bisogno di lima. Ah, perchè la signorina Kitty non ha voluto recitarli?

—Lei sa come è poco sicura di sè, quella cara figliuola. Per giuocare, per camminare, per ridere, non la passa nessuno; ma recitare dei versi, salire sul palco scenico, fosse pure in Corsenna, non è il fatto suo. Del resto, di che cosa si lagna? i suoi versi sono stati recitati benissimo.

—Le pare?

—Sì, con una grazia adorabile.—

Ho capito; la consegna è di trovar tutto bene. E frattanto Galatea non si vede spuntare.

—Ma con un po' di cantilena, non è parso anche a Lei?—ripiglio, non volendo adattarmi.

—Non me ne sono avveduta; e mia figlia nemmeno, che anzi ne è rimasta incantata al pari di me. Ma gli autori sono incontentabili, se lo lascia dire? Ed hanno ragione, vagheggiando essi un ideale, che forse non è possibile raggiungere in terra. Ma Lei, signor Morelli, si lasci anche far complimenti per la sua valentia di schermitore. Il signor Terenzio Spazzòli, che di queste cose se ne intende benissimo, l'ha proclamato uno spadaccino di prima forza.

—Ahimè, non di primissima.

—Ebbene, che vuol dire? C'è sempre qualcuno che in una cosa sola ci può superare: ma è già bello esser forti in molte, non Le pare? Quanto alla scherma, pare che il suo amico Ferri sia il non plus ultra. Ma che persona a modo! che perfetto cavaliere! e niente superbo, niente millantatore! Ecco gli uomini come li intendo io, che in verità ne avevo trovato, non meritandolo, uno stupendo esemplare. Ma non parliamo di ciò;—soggiunse la signora Wilson, mandando un sospiro alla buona memoria del padre di Kitty.—È solo, di casa sua, il signor Ferri? Che idea si fa della vita? che disegni vagheggia per il suo avvenire? Gli uomini come lui interessano sempre. Son creature nobili; si vorrebbe saperle egualmente felici.—

To', sarebbe questo il momento buono per dirle…. Ah sì, che idea buffa ci ha avuta il signor Filippo Ferri! Io…. io? fossi matto!

—Chi sa dove veda egli la propria felicità?—rispondo alla signora Wilson.—Alla sua età, che non è più giovanissima, e non è per contro matura abbastanza, idee ne vengono molte, e si dileguano ancora.

—Amore di libertà, intendo benissimo;—conchiuse la signora.—E forse hanno ragione. È così difficile indovinarla!—

Oh sì, molto difficile, vorrei rispondere; ma parli al singolare, e per lui. Quanto a me, l'avrei indovinata benissimo. E frattanto, Galatea non si vede.

—La signorina Kitty studia sempre?—domando.

—Oh no, siamo in campagna, e la mia figliuola in campagna fa sempre il meno che può; sempre in giro, come una libellula, a far provvista d'aria e di sole.

—Buona usanza!—esclamo.—Inglese od americana che sia, è una buona usanza davvero. Le nostre italiane….

—Eccole qui;—disse ridendo la signora Wilson, che è nata per l'appunto italiana, e di Firenze;—le italiane al telaio, nell'angolo più riposto del salottino.—

Si fanno ancora quattro minuti di chiacchiere, e finisco di persuadermi che la signorina non è in casa. Si può egli credere che ci sia, e non voglia farsi vedere da me? In questo caso avrebbe dovuto dir troppe cose a sua madre. Del resto, se ci fosse, sarebbe comparsa prima all'amico Filippo; e Filippo non avrebbe fatto quella sua visita da medico. Egli se n'è cavato colla scusa dei ringraziamenti da presentare alle signore; come se fosse lui…. che ha fatto tutto; ed ora è andato sicuramente dalle Berti, o dalla Quarneri, per passarle in rassegna…. sperando di trovare in un luogo o nell'altro la signorina Wilson. Prendo commiato ancor io, ma non per imitare Filippo. Son sicuro che Galatea non è dalla contessa, nè dalle Berti, nè da alcun'altra delle signore di Corsenna. La compagnia è per l'ora del lawn-tennis, se mai. Ma potrebb'essere andata con le ragazze Berti a passeggio, come altre volte ha già fatto. Sia; ma in questo caso bisogna andarla a cercare all'aperto. Laggiù all'Acqua Ascosa, per esempio? Sì, andiamo da quella parte; ma non prendendo la strada bassa del mulino, che poi, se non la trovassi laggiù, dovrei fare una pettata per risalire a Santa Giustina. Come mi è venuta in mente Santa Giustina? Non so; forse allo stesso modo che m'è venuto in mente di andare dalle Wilson, anzichè dalle Berti, o dalla Quarneri.

Mi avvio, tagliando il monte a mezza costiera, e via via risalendo fino ad afferrarne la vetta, donde mi faccio a guardare d'ogni banda, e a porger l'orecchio. Nessun rumore; il luogo è deserto; deserte le valli all'intorno. Fo il giro del santuario, non aspirando a guadagnare nessuna indulgenza, e non vedo anima nata. È stato dunque un vano presentimento il mio? Scendo, un po' avvilito, giù dalla ripa alta, in mezzo al bosco dei castagni; e di là, fatti un cento di passi, sento un cane che abbaia. Ma è Buci, quello; oh caro Buci! vien qua, Bucino dell'anima mia! Il cane non sente la forza della mia giaculatoria, forse per non essere al vento, mentre io sento benissimo i suoi latrati lontani. Egli abbaia al rumore di qualche sasso in cui ho inciampato io, facendolo ruzzolare dall'alto; abbaia come un cane che sa l'obbligo suo, e conosce il prezzo del tesoro affidato alla sua vigilanza. Scendo ancora un centinaio di passi, e lo vedo finalmente, ritto e fermo sulle quattro zampe, col muso in alto e la gola spalancata. Mi vede ancor egli, mi riconosce, tralascia d'abbaiare e prende il galoppo per venire alla volta del suo legittimo e negletto padrone. Ma io non voglio che si scomodi tanto per me; corro verso di lui come posso, ci avviciniamo, e per poco non caschiamo l'uno nelle braccia o nelle zampe dell'altro. Buci scodinzola, alza le froge, per mostrarmi i suoi denti, più candidi della sua coscienza di cane; e subito, quasi sapesse di aver qualche cosa da farsi perdonare, si avvia per insegnarmi la strada. Ti comprendo, o Buci; a buon intenditor poche parole, e pochissimi gesti.

Riconosco il sentiero dei casali, quello stesso sentiero che ho già fatto una volta, ma risalendo, in compagnia della contessa Adriana. Maledetta passeggiata, donde son nati tutti i miei guai! Laggiù, dove il sentiero si allarga e pianeggia in forma d'aia da batterci il grano, seduta davanti all'uscio d'una casupola, è lei, Galatea, che leva gli occhi curiosi a guardare. Ah, non era dunque vano il mio presentimento! Dovevo trovarla, un po' più in alto, un po' più in basso, ma sempre in quei luoghi, all'ombra di Santa Giustina? Ma che cosa faceva là, seduta, davanti a quella casupola? Cuciva; rammendava una camicia di tela grossolana, per far risparmiare la fatica ad una povera vecchia, che stava seduta accanto a lei, e la guardava cogli occhi istupiditi.

—Lei!—esclamò, ravvisandomi.

—Io, signorina;—risposi.—Venivo a cercarla…. per commissione della mamma.

—Commissione! per me?

—Sì, la mamma ha bisogno di Lei. Non si turbi, la prego. Dev'essere per un consiglio, dovendo scrivere una lettera, da impostare quest'oggi.

—C'era tempo, allora.

—E forse sarà per un'altra ragione. Che ne so io?

—Vengo;—diss'ella, rassegnandosi.—Addio, buona Nunziata. Ritornerò presto.—

Ha proferite le ultime parole a voce bassa, quasi bisbigliandole all'orecchio della contadina. Ma io le ho udite egualmente. Ah, dunque è di qua, a mezza costa, che venite a rimpiattarvi, mentre i poveri cristiani vi vanno cercando per monti e per valli? È bene saperlo, signorina.

È molto impacciata negli atti, venendo con me frettolosa a cercar l'uscita del sentieruolo sulla strada di Santa Giustina. Ella non sa che dire, ed io meno di lei; perciò si va silenziosi, seguendo i passi di Buci. Zitti e buci, si potrebbe ripetere col proverbio.

E ora, come dirle che ho usato d'uno stratagemma per levarla di là? che la mamma non c'entra per niente, ma solo un mio capriccio, una mia follia temeraria? Se la signorina Kitty non ride, se ella non ritorna Galatea, la scherzosa Galatea, capace di fare una burla e di soffrirla, io sono perduto. A mezza strada sento rumoreggiare la cascata del mulino; tra poco saremo in luogo meno solitario, dove potremo imbatterci in qualche persona di conoscenza, ed io non avrò più modo di spiegarle l'arcano, lo stupido arcano. Mi faccio un coraggio da leone; mi fermo in mezzo alla strada, costringendola a voltarsi per lo stupore dell'atto improvviso, e le dico:

—Signorina Kathleen, perdoni il mio ardimento; io l'ho ingannata poc'anzi.

—Che cosa dice?

—Che l'ho ingannata, che non le ho detta la verità. La mamma non aveva punto bisogno di lei.

—Ah, volevo ben dire!—

E in queste parole, la signorina Wilson si voltò risoluta, per ritornare ai casali di Santa Giustina. Bel frutto della mia alzata d'ingegno! bel premio alla sincerità della mia confessione!

—Ah, no;—gridai, attraversandole il passo;—non sarebbe degna di Lei, questa fuga. Che cosa penserebbe la vecchia contadina di me, che faccio di queste burle, e di Lei che può tollerarle?

—Ammette dunque che siano intollerabili?—ribattè ella, severa.

—Sì, e ne porterò quella pena che a Lei piacerà d'infliggermi. Ma ho bisogno di parlarle; ho bisogno ch'ella mi ascolti, e non mi tratti più da nemico, come ha preso a fare da tanti giorni, senza che negli atti miei ci sia stato mai niente da meritarmelo. Mi risponda schietto, com'io Le parlerò, signorina; con durezza, quanto Le piacerà, dovessi pure morirne, ma con altrettanta sincerità. Che cosa pensa Lei…. di Filippo Ferri?—

La signorina Wilson molto probabilmente s'aspettava tutt'altra domanda. Appariva seccata dalla mia insistenza, ma quasi rassegnata a starmi a sentire. Com'ebbi proferito quel nome, e la domanda a cui s'accompagnava quel nome, andò in collera senz'altro. Senza dubbio le ero parso brutale.

—Signor Morelli!—gridò ella con voce alterata.

Capii allora, di aver domandato troppo: ma era tardi per mutar domanda, ad anche per attenuarla.

—Scusi,—ripigliai, inginocchiandomi quasi,—io perdo la testa, non lo vede? Ho bisogno ch'Ella non trovi un'offesa in ciò ch'io Le ho detto, in ciò che sono ancora per dirle. Vorrei cader qui. Le giuro sull'onor mio, cader qui fulminato, in questo momento; e sarebbe fortuna per me, tanto soffro. Risponda alla mia domanda, come se gliela facesse un fratello maggiore. Ama Ella forse il signor Ferri?—

La signorina Wilson fece un gesto di noia suprema, quasi volesse dire: si va di male in peggio, con costui. Ma il gesto non mutava la condizione delle cose. Ella stette un po' dura, sopra di sè, muovendo convulsamente le labbra. Voleva dire di sì? voleva dire di no? Certo, riuscì a non dire nè una cosa nè l'altra, poichè mi guizzò via con questa bottata:

—Come Lei la contessa Adriana. Le son serva.—

E faceva da capo per andarsene; ond'io fui costretto a trattenerla.

—Ma non è vero….—gridai, singhiozzando,—non è vero ciò ch'Ella dice. Le giuro….

—Eh, faccia un piacere a me, per compenso dell'essere stata a sentirla;—rispose ella, mozzandomi le parole in bocca;—non giuri, e non dica bugie. Che cosa ne importa a me, dopo tutto? S'è scherzato un poco, e male. Non tutti gli scherzi son belli; e il suo non merita certo d'essere portato ad esempio. Ma ci vorrà pazienza, non è vero? e un'altra volta farà meglio. Intanto, io ho celiato con Lei, come Lei aveva celiato con me; botta e risposta, come ieri facevano loro sul tavolato, e tutti pari. Buon giorno.

—Ancora una parola, di grazia! S'è celiato, Lei dice? Non vada in collera, allora, e non mi congedi così bruscamente.

—Non La congedo; mi congedo.

—Distinzioni troppo sottili! Le paiono degne di noi? Mi senta, signorina, voglio convincerla, voglio persuaderla. Son sicuro di riuscirvi, solo che si degni d'ascoltarmi. Vuole che scendiamo da questa parte, verso il fiume? È tutta strada per ritornare a casa, ed altre volte l'ha fatta nella medesima compagnia che oggi Le spiace tanto. Si passa dalla prateria e dal viale dei pioppi. Io La precedo a volo, fino al Giardinetto, prendo un libro, un taccuino, e glielo porto da leggere. Da un pezzo ci scrivo tutto quel che mi accade, giorno per giorno, tutto quello che dico. È il mio memoriale; sono effigiato là dentro; e non Le parrà bello, ne sono sicuro, ma Le parrà tanto più vero, ne ho la certezza. Leggerà tutto, vedrà tutto, e mi renderà la sua stima.—

Credevo di averla persuasa, almeno scossa, e di farla scendere verso il viale dei pioppi. Ma Ella non si distolse affatto dalla sua via, e rise d'un riso sardonico, che non avevo mai veduto sulle sue labbra.

—Ella mi propone una cosa, signor Morelli…. una cosa di cui non vede la sconvenienza suprema. E forse in questa ignoranza è la sua scusa. Ma io non ne avrei nessuna, se m'arrendessi al suo desiderio. Posso esserle parsa un po' sventata e leggera; ma ciò non giustifica punto il suo ardimento, o la puerilità della sua trovata, che le par così bella e così vittoriosa. Via, signor Morelli, sia cavaliere, e non domandi ad una ragazza ciò ch'ella non può fare nè dire.—

Ero rimasto atterrato. La signorina Wilson colse il buon momento per andarsene via, non più trattenuta da me, non più leggera e snella come una ninfa birichina; ma diritta e solenne, come una regina sdegnata.

Son venuto io, solo soletto, per il viale dei pioppi; son venuto a rinchiudermi nella mia stanza, ed ho scritto questa dolorosissima istoria. Molto male, perchè la testa mi arde ed ho perso il lume degli occhi.

—Che cos'hai?—mi ha detto Filippo, quando è rientrato per l'ora di desinare.—Sempre stanco?

—Stanchissimo. Ho voluto escire a prender aria, e non m'ha fatto bene.

—Ripòsati, che diamine!—conchiude il signor Ferri, col suo piglio autorevole.

La sera, si capisce, non esco di casa; lo lascio andar solo, dove gli pare. Ma non vado io a riposarmi, tutt'altro. Ho un diavolo per occhio; e non so quale dei due mi faccia nascere un'idea. Ma certo è luminosa, e l'afferro con giubilo, se non è piuttosto da dire ch'ella s'impadronisce di me. Scrivo, scrivo una letteraccia per lui. Quando l'ho scritta, la rileggo, e mi pare che vada; la chiudo nella sua busta, e vado a deporla nella camera del signor Ferri, sul marmo del comodino, accanto al suo candeliere.

Il dado è tratto, e non si torna più indietro. Sarei libero di dormire a mia posta; ma non mi riesce. Ho gli occhi spalancati, che paiono due lanterne. Suonano le undici, e il mio ospite ritorna a casa. Lo sento salire la scala interna, entrare nella sua camera e chiudersi dentro. Ora leggerà…. legge sicuramente…. ha letto…. verrà a bussare al mio uscio. No, niente di ciò; sento in quella vece lo scroscio della poltrona su cui si adagia per ispogliarsi; sento il tonfo dei suoi borzacchini, che saltano sul pavimento, e buona notte, ci siam visti. Cinque minuti dopo, lavora rumorosamente e saporitamente di mantice. Beato lui! Solamente i felici sanno russare così.

XVII.

A tu per tu.

15 settembre 18…

"Scrivo giorno per giorno tutto quello che mi accade, nel mio memoriale." Ah sì, davvero, me ne sono vantato a tempo, colla signorina Wilson. Ecco qua diciassette giorni che il memoriale non riceve nessuna delle mie confidenze. Pure, la materia c'era, e come! Ne sono ancora tutto intronato; me ne dolgono tutte le giunture; la penna mi sta male tra le dita. Ma voglio, comunque sia, ripigliare. È necessario; farò come potrò; quando la mano ricuserà l'uffizio, mi fermerò, per ricominciare più tardi. Ecco intanto la letteraccia. Non ne avevo tenuto copia, scrivendo confusamente tutto quello che mi veniva alla mente, e dalla mente alla penna. Ma è qui l'originale, che Filippo Ferri non ha voluto conservare, e che mi ha restituito in malo modo, mostrando per giunta di non essere un appassionato raccoglitore d'autografi:

"Amico, nemico, qual più mi vorrai,

"Non ti maravigliare di questo cominciamento, nè di quello che verrà dopo. È del savio non maravigliarsi di nulla. Batti ma ascolta, disse Temistocle ad Euribiade, se crediamo a Plutarco; leggi e poi fa quel che ti pare, dirò io a te. Mi hai messo l'inferno nell'anima: non ne posso più; ho bisogno di sfogarmi, e mi sfogo. Tu sei venuto per mia disgrazia in Corsenna: sotto veste d'amico eri un traditore, e non saprei che altro dirti di peggio. Così si viene a turbar la pace della gente? a profanar l'amicizia?

"Intendi già che io voglio parlare delle tue idee stravaganti, intollerabili, a proposito della signorina Wilson. Non ti ho detto iersera quello che ti meritavi, tanto mi avevi fatto trasecolare colla tua alzata d'ingegno. Io parlare in tuo favore alla mamma di Lei? chiederle la mano di sua figlia per te, io che la voglio per me, ed ho, per volerla, il diritto di precedenza? Lèvati di testa il pensiero che io possa dare un passo per utile tuo; lèvati di testa quell'altro che ella possa mai esser tua. La signorina Wilson l'amo io, e da un pezzo. Chiederai perchè non te l'ho detto prima. Per due ragioni, ti rispondo; la prima è che non ho l'uso di confidare i miei segreti a nessuno; la seconda è che io mi fidavo di veder volgere ad altra parte il tuo cuore infiammato e i tuoi omaggi cavallereschi. È stato un errore di giudizio, il mio; un altro errore il tuo; ma gli errori si voglion correggere, e non è bello che li lasciamo durare.

"Senti, ora; io non so che effetto ti farà questa lettera. Pazza, ti farà ridere di compassione; amara, ti farà torcer la bocca. Amara o pazza che sia, non posso ritenermi di scriverla. Andiamo diritti al fine. Non mi conviene questa tua aria di padronanza in Corsenna. Ti avevo pregato di venirci, per darmi una mano, come mio futuro padrino possibile. L'occasione si è dileguata, ed io dovevo prevedere che non fosse neanche per nascere, avendo da fare con una triade di sciocchi. È stato un altro errore; ma tu vuoi farmelo pagar troppo caro. Non mi conviene, ti ripeto, non mi conviene.

"Ora, io non ho che una cosa a fare; ringraziarti delle tue cure fraterne, e pregarti di andartene. Sei sunctus munere. Ti è duro il latino? Hai adempito l'ufficio, e non c'è più bisogno dell'opera tua. Il discorso non ti parrà da ospite, e non è certamente; per contro, è da uomo che non gradisce di sentirsi vogare sul remo. Quella fanciulla è mia, capisci? mia; l'ho sposata io, con un atto della mia volontà, davanti all'altare del mio cuore, dov'io son parroco e scaccino, in un municipio dove son io il sindaco, il segretario e l'usciere; non la sposerà altri fino a tanto che io viva, fino a tanto che io possa far riconoscere l'autenticità de' miei atti. Pel tuo meglio, va, e non se ne parli più.

"Ho fatto un sogno; che tu iersera avessi parlato per celia. Brutta celia, in verità, e che mi ha fatto perdere quel po' di cervello che ancora mi rimaneva. Ma se è così, vieni a dirmelo, e mi parrà di rinascere. Se non puoi darmi questa notizia consolante, se metti il tuo amor proprio in luogo dell'antica amicizia, sai quello che ti resta a fare. Io sarò a tua disposizione. E bada, non per giuocare il possesso di una bella mano su d'un colpo di spada o di pistola. Questo io l'ho fatto una volta sola in vita mia; ma non per la donna, che, poveraccia, poteva forse valere di più, come di meno, ma per la mia dignità, che doveva e voleva avere il di sopra. Qui non mi giuoco nulla, perchè è la mia passione in causa; fino all'ultimo soffio di vita difenderò quello che mi appartiene.

"Pensaci. Se ami quella donna come l'amo io, son sicuro di quello che avverrà. Se non l'ami come l'amo io, non far questione d'amor proprio; vattene.

"RINALDO."

Inutile raccontar qui la mia notte; nè, volendo, potrei. Facevo e disfacevo continuamente peripezie e catastrofi, intrecci e scioglimenti di una sola tragedia. Mi addormentai, seguitando ad almanaccare nel sogno; mi destai la mattina scontento di me, ma niente pentito di aver scritta la mia letteraccia. Su quel punto ero fermo, e più inviperito che mai.

Erano le otto, ed io stavo misurando per la centesima volta i nove palmi di spazio libero della mia camera da letto, quando mi venne davanti Filippo. Grave nell'aspetto, ma tranquillo, il mio corazziere; certamente più padrone di sè, che io non fossi di me. Aveva in mano la mia lettera; me la fece vedere, e mi chiese:

—Sei tu che hai scritto ciò?

—Io;—risposi.—Non conosci più il mio carattere?

—Lo conosco ancora;—replicò;—ma non ci ho veduto il tuo senno.
Questa lettera; mi pare d'un matto.

—Se credi di offendermi!…

—No, dico quello che ne penso, secondo il mio costume. E dirò ancora che per la forma non sarà da mettere tra gli esempi di bello scrivere.

—Certo…. non credo che sia da annoverarsi tra le mie cose migliori.
Ma è così, e non si muta.

—Vuol dunque essere una lettera insolente?

—Se tu vuoi sposare la signorina Wilson, sì, vuol essere insolentissima.—

Filippo Ferri si buttò a sedere sulla mia poltrona, e ci rimase un tratto in silenzio, ruotando gli occhi, tormentandosi i baffi.

—Oh, perdio!—-esclamò finalmente.—Non la vuoi capire, che questo è uno sciocco litigio, e mi secca?

—E tu,—replicai,—non la vuoi capire che c'è una donna di mezzo, e che su questo capitolo non si scherza e non si transige? Toccami qui, e sarò una bestia feroce. L'antico uomo non muore.

—Complimenti all'atavismo! Ma io, per tua norma, non dò il passo agl'istinti, e per ragion di donne non mi sono battuto mai.

—Bene! Se ti sentisse quella!…

—E vorrei che mi sentisse; darebbe ragione a me e torto a te. Alle donne, rispetto ed ossequio in ogni occasione; non è ossequio nè rispetto tirarle in questi balli sanguinosi, dove non c'è altro guadagno per loro che di scivolare. Ti rammenti ch'io abbia mai dato indietro d'un passo, e davanti a chicchessia? Sei stato tre volte padrino mio in questioni d'onore; sai che in simili giostre ho toccata la dozzina.

—Non ti dispiaccia troppo di passare al brutto numero;—diss'io di rimando.—E non mi fare il saccente, volendo dimostrarmi il non si può e il non si deve di certe cose, dove ognuno vede e si governa a suo modo. Del resto, senti; con poca letteratura, anzi con nessuna, ti ripeto da amico: lasciala stare.

—Non posso.

—Ah, vedi?

—E se potessi,—ripigliò Filippo,—ti direi ancora: non voglio; tanto m'offende il modo di domandarmi un sacrifizio.

—Ti offende!—esclamai.—Ti offende, e stai qui a disputare? Ma io da nemico ti dirò: voglio il tuo sangue, e non patisco rivali.

—Il che significa,—diss'egli,—che non hai sicurezza dell'amore di lei.

—Non l'ho, e tu me ne darai soddisfazione.—

Filippo si alzò da sedere. Rideva, gli lampeggiavano gli occhi, ed io mi avvidi d'aver commesso un errore.

—Ah!—gridò egli.—E proprio dopo questa tua confessione dovrei far le valigie? Sarei un bel cavaliere, se mi appigliassi al partito della viltà; e per i tuoi belli occhi, ancora! Va là, Rinaldo, va là! Tu hai ancora da studiare un pochino il cuore umano, prima di rimetterti al tuo Don Giovanni. Per intanto, ti consiglierei di far colazione, e di meditare un po' meglio su questa faccenda, che non va trattata con leggerezza. Pensaci; me ne riparlerai dopo mezzogiorno.

—Una proroga!

—Di poche ore.

—E che cosa ne speri?

—Che tu verrai dopo mezzogiorno a dirmi: Filippo, amico mio, avevo fatta ieri una cattiva digestione; ho dimenticata l'amicizia, l'ospitalità, ogni cosa. Ero diventato matto; che ci vuoi fare? Alla passione non sempre si può comandare. Ma ora ho pensato meglio; ho avuto un lucido intervallo, ed ho capito che non è in noi di voltar sempre le cose a nostro beneplacito, quando da noi non dipendono, quando ci sono delle sacre volontà da rispettare. Lasciamo dunque che la signorina abbia la sua volontà e ne usi liberamente. Sceglierà lei, e chi sarà il disgraziato chinerà da galantuomo la testa.

—Non ti dirò queste cose, stanne certo.

—Sarà un error di giudizio e un difetto di cavalleria. Ma io voglio ad ogni modo queste poche ore di tregua, per non aver rimorsi da parte mia.

—Voglio! Ma sai che è una bella pretesa? In casa mia!…

—L'osservazione è crudele;—rispose Filippo.—Io sarei già alloggiato alla prima ed unica osteria di Corsenna, se non fosse stato il timore di uno scandalo…. prima del tempo. Anche questa ti perdono, mettendola sul conto della tua follìa. A mezzogiorno, dunque, ci si rivede.—

Così dicendo fece una girata sui tacchi, e se ne andò, lasciandomi solo, con la mia letteraccia, che aveva gittata sul letto. La levai di là e la deposi sulla scrivania, per restituirgliela più tardi. Ma neanche più tardi l'ha voluta riprendere, quando ci siamo riveduti dopo mezzogiorno, e dopo esserci ritrovati dello stesso umore di prima.

—Se è per l'insolenza, non dubitare, l'ho avuta e me la tengo;—diss'egli.—Ma il documento non mi è necessario; in mano mia potrebbe smarrirsi, e nuocere alla tua riputazione letteraria.

—Lo scherzo è rancido, oramai.

—Allora abbi del nuovo; e non sia più uno scherzo, ma un rimprovero. Non posso, nè voglio tener io, e forse smarrire una lettera come quella, dove si nomina una persona…. la quale non ci ha dato il diritto di servirci del suo cognome con tanta libertà.—

Era una bottata diritta; la ricevevo in pieno petto, e avendola meritata. Però chinai la testa, senza rispondere.

—Che arma vuoi scegliere?—gli dissi.

—Non ho preferenze.

—Ma sei l'offeso.

—Io!

—Sì, tu; non ti ho scritta la lettera, che ti è dispiaciuta?

—Ebbene, che importa? Tu hai voluto offendermi, ed io non mi sento offeso al punto di volerne vendetta. Io rido, per tua norma; rido verde, giallo, pavonazzo, turchino, ma rido. Se vuoi ad ogni costo una lezione, son uomo da dartela, hai capito? Ma non scelgo io l'arma, non la scelgo, non la scelgo.

—Chetati, la scelgo io. La nera, ti va?

—Sia pure la nera: ma in questo caso bisognerà andar lontano sui monti, o tra i monti, ed essendo ben sicuri di non aver gente sulla linea del tiro.

—Non è necessario di andar lontano;—risposi.—Qui nel giardino, è più presto fatto.

—Non è possibile.

—Perchè? se ci si tira al bersaglio, mi pare….

—Sicuro,—disse Filippo,—ci si tira al bersaglio, perchè c'è spazio sufficiente, dalla casa al muro di cinta. Il tuo giardinetto è una tabacchiera, mio caro. Ma qui, nel caso nostro, non sarebbe più un bersaglio; sarebbero due bersagli, uno dalla casa al muro, l'altro dal muro alla casa, col rischio, per colui che fosse dalla parte del muro, di uccidere Argia, la tua cuoca, o Pilade, il tuo servitore; due persone che non ti han fatto niente, ch'io sappia.

—Ebbene, alla spada;—conchiusi io, adattandomi ad un ragionamento che non faceva una grinza.

—Alla spada;—rispose Filippo.

Andai subito a cercare le spade, che avevamo lasciate con le altre armi nel salottino, e postele in croce ne offersi le due impugnature al mio avversario. Egli ne prese una, ed io l'altra, muovendo tosto verso il giardino. Ma egli non pensava a seguirmi; teneva la spada in mano come una croce, ne guardava l'impugnatura e metteva un sospiro.

—Che?—gridai stupefatto.—Ti dispiace?

—Eh sì! pensando che le ho portate io…. È dura, sai!

—Rinunzia…. a lei.

—No;—proruppe egli, dandomi un'occhiata che pareva volesse passarmi fuor fuori.

—Perchè, no? finalmente, che speranze hai?

—E tu?

—Capisco,—ripigliai,—che potremmo leticare così fino al giorno del giudizio.

—All'infinito, dunque;—commentò Filippo.—A te non verrà mai, il giudizio.—

Gli risposi con una spallata, e gli feci cenno di passare in giardino.

—Per che fare?—mi domandò.

—Per cominciare. Io butterò la mia giacca, tu butterai la tua, e saremo subito in arnese di combattimento.

—Capisco. Ma i padrini?

—Che padrini d'Egitto!

—Uno, almeno; e si può averlo in mezz'ora. Ti va lo Spazzòli? Son sicuro che non vorrà ricusarci il favore; almeno per la stranezza del caso.

—Non voglio nessuno;—risposi.

—Ma tu sei più matto che io non credessi;—gridò Filippo spazientito.—Va a fartela mettere da altri, la camicia di forza. Un assassinio? Perchè un duello senza testimoni è un assassinio, mi capisci? Se io fossi sicuro che tu assassinassi me, non protesterei; ma perchè tra due rischi c'è quello ch'io ammazzi te, non intendo di andare in corte d'assise e alla reclusione, per te e per le tue follie. O un testimonio, o niente duello.

—Ma io di quei di laggiù non ne voglio.

—Ed io ti potrei dire che ci sono soltanto quei di laggiù capaci di renderci il servizio, in Corsenna. Ma non voglio parerti desideroso di salvarmi con un sotterfugio dai lampi della tua terribile spada. Mi hai mortalmente seccato, e non vedo l'ora di farla finita. C'è Pilade, in casa? Venga lui ad assisterci; gli diremo in pochi salti e brutti il nostro bisogno, e sotto i suoi occhi c'infilzeremo come due ranocchi. Ti va?

—Mi va. Ohè, Pilade!—

Pilade non indugiò a comparirci davanti.

—Sei stato soldato, non è vero?—gli dissi.

—Tre anni, nei bersaglieri;—rispose, mettendosi involontariamente sull'attenti.

—Bene; e non hai paura?

—No, signor padrone; neanche di tre che scappino—

Filippo ride; ma non rido io, invelenito come sono.

—Benissimo;—ripiglio, e veramente poco in tuono colla risposta di Pilade.—Tu ora ci vedi qui, il signor Ferri e me, desiderosi di sbudellarci. Sì, e non c'è che ridire. Ci siamo offesi; nessuno di noi vuol cedere d'un punto; decidano dunque le armi. Tu resterai qui testimone, per poter dire al bisogno che tutto è passato d'amore e d'accordo tra noi.—

Pilade balena un istante, ed ammicca. Il mio discorso non finisce di piacergli.

—D'accordo, sia, non dico di no; ma d'amore…. signor padrone….

—Eh, intendi per discrezione. Voglio dire che siamo rimasti così tra noi due, e che il duello si fa in piena regola.—

Un momento di riposo sarà necessario. La mano trema; le povere dita intormentite portano la, penna fuori di riga. E poi, si avvicina l'ora di andar laggiù…. anzi no, lassù; bisogna proprio dire lassù…. dove gli angeli stanno di casa.

XVIII.

Teste rotte.

16 settembre 18…

Ripiglio il racconto, lasciato ieri in tronco per cagione di queste povere dita. Pilade era rimasto sbalordito, o fingeva. Sì, credo proprio che fingesse. Quello è un ragazzo che non si sbigottisce di nulla, e fa qualche volta il minchione per non pagar gabella; ma è un furbo trincato. Egli dunque stette un poco sopra di sè, a bocca aperta, come un vero baggeo; poi disse:

—Che discorsi son questi?

—Discorsi da matti;—risposi io.

—E noi siamo due matti;—rincalzò Filippo.—Che ci vuoi fare?

—Scusino;—riprese Pilade, ammiccando;—ma allora… L'ho a dire?

—Parla; hai libertà di parola.

—Allora… perchè non vanno al manicomio?

—Perchè…—risposi io, sconcertato.—Perchè i matti non ci vanno mai colle lor gambe. E tu assisti frattanto al nostro duello.

—Duello!—esclamò Pilade, facendo bocca da ridere, da quello scimunito che voleva parere.—Con quelle spade?

—E con che? con un par di stecchini?

—Eh, a tavola, per esempio… dopo aver ben lavorato di forchetta, perchè no? Ma io volevo dire… volevo proporre… Oh, infine, sentano, poichè m'hanno data libertà di parola… Io sarò un asino, ma ho sempre sentito dire che un asino vivo val più d'un dottore morto… ed anche, se lor signori s'infilzano, di due. Io dunque domando e dico; se hanno delle bizze da sfogare, c'è egli bisogno di spiedi? Se hanno da cavarsi il ruzzo dal capo, a che servono? Per rompersi la testa serviranno meglio i bastoni. Dico a Lei, sor padrone, che na fa uso così spesso e volentieri, di quei così lunghi lunghi; che fanno stupire, ed anche, diciamo tutto, anche rider la gente. Ne taglia Lei, ne taglio io per farle piacere; ce n'è una collezione, in saletta….

—Che dici?—esclama Filippo.—Continua.—

Ma l'altro non approfitta della licenza; si è mosso dal posto, andando via come un lampo e sparendo dall'uscio vicino; come un lampo è ritornato all'aperto, con una bracciatella di bastoni di nocciuolo, ruvidi, rugosi, alti un metro e sessanta; tutti i miei bastoni babilonesi, che a detta di Pilade fanno rider la gente. E rida la gente; quando avrà ben riso schiatterà.

—Mi assaggino un po' questi;—dice il servitore, ammiccando da capo.—Sodi, robusti, maneggevoli, cedono quanto basta, rimbalzano bene, e dove toccano lasciano il segno. Con questi alla mano si sfoghino, se ne diano quante vogliono, fino a tanto che potranno star ritti. Io assisterò, e vedrò di contar giusto.

—È un'idea;—grida Filippo, inuzzolito.

—Le piace?

—A me sì; è semplice e pratica. Ma chiedine piuttosto al tuo padrone; io non comando.

—Piace anche a me;—rispondo allora, incominciando a levarmi di dosso la giacca.

Filippo si affretta ad imitarmi. Levata la sottoveste, deposti gli orologi sopra un sedile, ci troviamo tutt'e due in maniche di camicia, l'uno di fronte all'altro.

Qui poi bisogna veder Pilade, con la sua aria di papa Sisto dopo che ebbe gittata la gruccia; bisogna vederlo raggiante, misurare i bastoni, trovarne due di pari lunghezza, che non ci sia la differenza d'un millimetro, offrirceli con un gesto largo, prenderne un terzo per sè, levarlo in alto e piantarsi davanti a noi come maestro di combattimento.

—Così, come in caserma;—dice egli.—Ma scusino la libertà grande; con tutta la loro arte di scherma, penso che non faranno prodigi. Il bastone è l'arma per eccellenza; lo diceva il nostro professore al battaglione; ma è pure un'arma molto difficile.

Mastro Raffae', non te ne incaricare;—gli rispondo io.—Vedrai che in caserma non si è mai fatto meglio di qui; e vorrai, spero, esserci largo della tua alta approvazione.—

Volendo dimostrargli che la scherma del bastone non è poi l'arca santa per noi, ci mettiamo in posizione, gli facciamo sotto il naso un mulinello in piena regola; poi caschiamo in guardia, io di terza e Filippo di quarta, invitandoci l'un l'altro coi soliti inganni all'attacco di primo appetito. Ma nessuno dei due si lascia cogliere alla lustra; vogliamo persuader Pilade che non siamo al bastone quei novellini che egli s'immaginava, e procediamo per via di finte, tastandoci, attaccando guardinghi e parando, scaldandoci a grado a grado nel giuoco, accennando alla testa, alla faccia, sui fianchi, facendo insomma tutto quello che è necessario tra schermitori provetti. Intanto, a quel nuovo bisogno di associar le due mani in un solo lavoro, si sciolgono i polsi, brillano i muscoli, guizzano, si stendono e si contraggono i tendini, fulminando imperiosi ogni moto che gli occhi vigilanti avvertano necessario alle membra in orgasmo. Eccoci al punto buono; si colpisce strisciando qua e là, si para un po' meno e si risponde di più, si picchia e si ripicchia, ora alternamente ed ora all'unisono, come due battitori indefessi, quando menano il correggiato sull'aia, e volano i colpi, rombano in alto, calano impetuosi i randelli, nè l'occhio discerne più il manfanile dalla vetta, non vedendo più neanche la gòmbina.

Quello che non si vede, qualche volta si sente; e come! In quella cieca tempesta di bastonate, me n'è calata una sulle nocche delle dita, che mi fa vedere, se non altro, le stelle. Inferocisco; mi caccio sotto al mio avversario, ho la fortuna di guadagnar mezzo tempo e di assestargliene una di sotto in su, che gli fa sgusciar di mano il bastone. Ma non c'è da cantar vittoria; il mio avversario si china rapidamente, abbranca il bastone, sguizza via prima che io passi dal montante al fendente, torna all'assalto più infellonito che mai. Egli a me ed io a lui, si picchia così sodo e così lungo, che i poveri bastoni non ne possono più, gemono, si sfibrano, si sfasciano, a guisa di canne peste.

—Ne hanno abbastanza?—chiede il maestro di combattimento.

—No;—brontolo io.

—No;—rugghia Filippo.

E vorremmo proseguire; ma Pilade ha posto in mezzo il suo bastone di comando.

—Si fermino dunque un minuto secondo; dice egli, a mo' di —conclusione;—e prendano due bastoni nuovi. Questi li hanno —finiti.—

Si buttano i due avanzi miserevoli, si afferrano le due vette nuove che Pilade ci porge con nobilissimo gesto, e giù da capo la gragnuola. Pare che i bastoni nuovi ci abbiano rinnovate le forze. Sicuramente hanno migliore la presa, e i colpi ci vengono più aggiustati. Vedo io doppio come un toro infuriato, o Filippo è gravemente ferito? Certo, è toccato alla guancia, tra l'occhio e l'orecchio destro, e il sangue gli spiccia da uno strappo che mi pare assai lungo. Vorrei fermarmi, e faccio intanto un gesto d'angoscia.

—Niente, niente;—grida egli, che ha capito a volo.—È una graffiatura. Questi bastoni son troppo sottili, cedono troppo, e la parata non serve sempre a sviare la botta.—

La grandinata ripiglia, e spesseggia. Ne busco la parte mia; ma niente paura, son quasi tutte sulle braccia, e i muscoli enfiati le rifiutano. Mi fischiano gli orecchi, dal sangue che mi corre veloce alle tempia; sento confusamente una voce di donna che strilla, e Pilade che grida più alto di lei:

—Tornate alle vostre cazzaruole; qui non è luogo per voi.—

Capisco, è Argia che ha sentito il frastuono ed è accorsa sbigottita sull'uscio. Ma si è subito ritirata, obbedendo alla voce di Pilade, che è per un momento il vero padrone di casa; e là, in un angolo della cucina, pregherà il Signore e la Vergine benedetta per una coppia di matti furiosi. Pilade si è chetato, e bada a noi colla sua solita flemma; io non odo più altro che il respiro affannoso dei miei polmoni e di quelli del mio avversario, in cadenza colla rovina dei colpi. E a poco a poco mi mutan colore le cose; incomincio a veder rosso, sempre più rosso nell'aria, e in mezzo a quel balenio di randellate che paiono tante linee intrecciate nell'aria, gli occhi spalancati di Filippo Ferri, che mi sembrano quelli di un grosso ragno appiattato tra le fila concentriche della sua tela insidiosa. Sento e non sento il suo bastone toccar me; sento e non sento il mio toccar lui. Che importa oramai contare i colpi? Ai lividi si riscontreranno i conti, e si aggiusteran le partite. Non è più un combattimento, è un battibuglio, come alle nozze di Pulcinella. Ah sì, io che amo tanto le legnate dei burattini, ho qui il fatto mio. E ancora io addosso a lui, e lui a me, come due cani rabbiosi, che non ismettono per morsi che tocchino, per brandelli di carne che perdano. Quando siamo troppo sotto misura, balziamo indietro, o io, o lui, per saltarci addosso da capo; nessuno vuol cedere, nessuno si guarda più tanto o quanto; si fa a cozzare per cozzare, a colpire per la voluttà di colpire; vanno dove le vanno, e chi le tocca son sue; è l'inferno scatenato, è il finimondo, è l'ira di Dio. Poi… poi buio pesto e silenzio di tomba; non ho più visto, non ho sentito più nulla.

Quando riebbi coscienza di me, ero nella mia camera, lungo disteso nel mio letto. Mi guardai dattorno istupidito, non sapendo darmi ragione di niente. Adagino adagino, quasi volessi vedere se ero io e non un altro in quella postura, provai a muover la testa, e mi venne fatto; le braccia, e mi sentii dolere dalle spalle alle mani; le gambe, e non mi parve che rispondessero affatto.

Pilade era là, seduto in un angolo, ed io non lo avevo veduto. Si alzò, al primo gesto ch'io feci, e venne a raccomandarmi di star cheto.

—Ma che cos'è?—gli dissi, maravigliandomi un poco di sentir la mia voce.—Perchè sono in letto?

—Oh, c'è da un pezzo, signor padrone. Non si rammenta di sei giorni fa?

—Sei giorni!… Ah, sì, sono dunque passati sei giorni? Dove avevo la testa?

—Nel ghiaccio, signor padrone, nel ghiaccio pesto, e grazie a Dio ce ne siam fatti fuori.

—Bene…—mormorai;—bene! e… il signor Ferri?

—Anche lui, anche lui. Vadano là, se ne son date di buone. Mamma mia!
Pareva la gragnuola che avesse dato in un campo di zucche.

—Ti ringrazio….

—Scusi, dicevo così per dire. È il primo paragone che m'è venuto in mente. Ma basta, non si stanchi a parlare, per la prima volta che le è tornato il giudizio.

—Credi?

—Volevo dire il raziocinio, il sentimento, il che so io.—

Lascio correre l'annaspìo del signor Pilade, mio padron riverito, che è dopo tutto un buon ragazzo, e che in questi giorni ha dato prove di aver più giudizio di me. Mi cheto, come egli raccomanda, ed anche mi addormento, dopo aver bevuto un sorso della pozione che mi offre, senza sapermi dire che cosa ci sia. Due o tre ore dopo arriva il dottore, che riconosco benissimo, e che è lieto di sentirmi parlare.

—Animo, via, le cose vanno benissimo.

—Se lo dice Lei…. Ma ci ho dolori da per tutto.

—Si contenti, si contenti. Quelli passeranno in due o tre giorni. Era la testa, la testa, quella che mi teneva in pensiero; ma ora, sia lode al cielo, sono tranquillo. Se lo lasci dire, signor Morelli, Lei ha un cranio a tutta botta.

—E il signor Ferri, come sta?

—Discretamente, dal canto suo.

—Mi par di ricordare che n'avesse toccato una in testa anche lui.

—Dica pure due, con lacerazione cutanea, e non contiamo le ammaccature. Ma non c'è niente di grave. Il suo amico si duole assai più d'un colpo al ginocchio; dice, anzi, che non è stato di buona guerra.

—Ed io, dottore? Che cosa dovrei dir io, che non posso muover le gambe, tanto le ho peste?

—Oh, gliel'ho detto, non dubiti, ed ha dovuto convenire di aver torto. Son colpi alla testa, ha osservato lui molto giudiziosamente, colpi alla testa, ma che non hanno trovato il bersaglio, e son calati giù a battere dove hanno potuto. Ma che pazzie, signori miei belli, che pazzie!

—Ha ragione, dottore; ma almeno ci siamo sfogati. S'era fatta una scommessa; ci eravamo dette delle male parole; capirà….

—Capisco, sì, capisco che hanno la gioventù nel sangue; ed anche, aiutando il caldo della stagione, sono montati in furore. Ma non lo facciano più; è insalubre.—

Ci son voluti dieci giorni a rimettermi in gambe, quanto bastava per scender da letto. Filippo è venuto al settimo giorno in camera mia. Evidentemente io ho avuta la peggio, se egli ha potuto alzarsi tre giorni prima di me. Ma io, con una lacerazione al cuoio capelluto, non ho segni in faccia; egli porta uno sfregio alla guancia destra, fra l'orecchio e lo zigomo, con una sfumatura di livido. Deve essere stata una brutta legnata, e ne porterà per un po' di tempo l'insegna.

Gli ho offerta la mano, ed egli l'ha stretta, ma subito pentendosi d'aver fatto troppo forte. Infatti, mi ha veduto torcer le labbra, per trattenere un grido di dolore. Queste povere dita, ancor oggi mi dolgono, e fanno molto a tenere la penna. Il mio scritto è raspatura di gallina.

Non sì è parlato di niente, come se niente fosse avvenuto tra noi. Perchè tornare sul passato? Non è storia da dover tramandare ai posteri, ed è già troppo che l'abbiano a ricordare i presenti. Soltanto al decimo giorno, quando ho cominciato a muovermi per casa, gli ho chiesto:

—Ebbene, che cosa si dice in Corsenna?

—Capirai,—mi ha risposto,—sono rimasti tutti un po' male; specie per il fatto di non saperne abbastanza. Tutti domandano, prendono lingua dove possono. Io ho inventato qualche cosa, che bastasse ad appagare la curiosità dei più discreti; quanto agli indiscreti, vadano a farsi impiccare. Pilade, da quell'uomo di giudizio che è, aveva incominciato a creare la leggenda d'un nostro alterco, nato da una questione di scherma; ed io, felicissimo della trovata, ho abbondato in quel senso. Per tua norma, tu sei partigiano della scuola lombarda, ed io della napoletana; ci sono queste due scuole, infatti, per la sciabola, come per il mandolino, e tutt'e due la pretendono ad insegnarci il miglior modo di romper la testa al prossimo. Cosicchè, caro mio, se tu anteponi la napoletana alla lombarda, abbi oramai la compiacenza di tenerti in corpo la tua opinione, perchè sarebbe tardi, e mi faresti bugiardo senza alcun sugo. T'avverto ancora che non s'è parlato di bastoni, chè tutt'e due ci saremmo diventati ridicoli, e questo poi, senza rimedio. Ci siamo invece picchiati ed ammaccati colle sciabole da sala, nella furia dell'alterco, ed anche un po' per ismargiassata, non mettendo la maschera. Con questo ho giustificata la mia graffiatura; quella che si vede, naturalmente. L'altra, che "interessa il cuoio capelluto", come dice il dottore, è fortunatamente nascosta, e il mio cuoio capelluto non ha nessun interesse a metterla in piazza.

—Sei dunque uscito?—gli ho chiesto.

—Sì, ho fatto le mie visite, e per me e per te. Non mi crederai mica un egoista!—

Sorrido e ringrazio; ma non ardisco chiedergli altro. Frattanto si affaccia Pilade sull'uscio, e gli fa cenno.

—Che vuoi?—dice Filippo.—Ah, sì, ho capito; vengo subito.

—Segreti?—domando io.

—No, si tratta di una commissione. Vado e ritorno.—

Così dicendo, Filippo esce, e si richiude l'uscio dietro. Potrei andare ancor io; ma non sono curioso, e rimango. Per altro, il Giardinetto non è una caserma; è una palazzina di due piani; una persona di più dell'ordinario si fa sentire, non può passare inavvertita; ed io odo una voce d'uomo, voce nuova ed insolita, che si alterna con quella di Filippo. Chi sarà mai? Mi affaccio alla finestra, e la voce mi vien più distinta all'orecchio. "Si degni di venir fuori, discorreremo più comodamente" ha detto Filippo; ed esce infatti, e un signore lo segue borbottando. Chi sarà mai? torno a dire; chi sarà mai? e che necessità di condurlo fuori?

Chiamo il servitore, e lo interrogo. Voglio sapere chi sia quel signore, che è venuto a cercare il mio ospite, ed è uscito da casa mia brontolando.

—Non faccia caso;—risponde Pilade;-è il suo fare, e credo che non possa parlare altrimenti. Par sempre di sentire un rumor di tuono in lontananza, quando sembra che voglia far burrasca, e la burrasca non si decide. Quello è il signor conte Quarneri. Ma per carità, sor padrone, non mi tradisca; se no, il suo amico mi accarezza la schiena col bastone. Specie ora che gli ho insegnato a maneggiare quest'arma!

—Il conte Quarneri! il marito della contessa? Che cosa vuole egli da noi?

—Che ne so io? Dev'essere un altro che ha i nervi.

—È venuto altre volte?

—Sì, a cercare di Lei, e gli ha risposto il signor Filippo che Lei era ammalato, perciò volesse parlare con lui, che faceva lo stesso; tanto erano amici. Non gli è parso che fosse la medesima cosa, e se n'è andato borbottando. Oggi è tornato, ha borbottato dell'altro, e il signor Filippo lo ha condotto fuori facendo gli occhiacci. Se quell'altro ha delle idee, se le levi di testa, perchè non mi par uomo da stargli a petto, no davvero.—

Il conte Quarneri! Che cosa viene a borbottare da noi? che cosa voleva da me? E sopra tutto, perchè è capitato in Corsenna? Richiamo il servitore, che era già tornato alle sue faccende.

—Dimmi, Pilade; son venute signore al Giardinetto, dacchè ci siamo picchiati?

—Sì, sor padrone. La prima è stata la chioccia con tutta la sua covata; voglio dire la signora Berti, con le tre pollastrine e i due galletti. Poi le signore inglesi, come dicono, quantunque la mamma sia fiorentina, e la figliuola di non so dove, ma certamente italiana.

—Ah, c'era anche la figliuola? E com'era?… com'erano?… dolenti?

—Eh, si può figurare! dolentissime.—

Non ardisco domandare di più, intorno a questo argomento. Chi sa? forse sarà stata dolentissima…. per Filippo.

—Poi, ogni giorno,—continua Pilade,—hanno mandato a cercar notizie il ragazzo della villa, che viene in paese per la spesa. Naturalmente, io e l'Argia le abbiamo date sempre buonissime.

—E la contessa è venuta?

—Sì, due volte; la prima volta da sola, e pareva la statua dell'Addolorata; la seconda volta con quattro signori. A proposito, quei lì hanno lasciati i loro biglietti di visita. Vuole che vada a prenderli?

—Non occorre; Spazzòli, Dal Ciotto, Cerinelli, Martorana; li ho tutti in testa. Fa conto che io li abbia anche in tasca.—

Su queste notizie di Pilade incomincio ad almanaccare, ma senza riuscire a nulla che mi contenti. Perchè il marito della contessa in Corsenna? Perchè in casa mia? Che mi faccia l'onore di esser geloso di me? Ma in che modo gli è venuto il baco? Ah, se fosse com'io incomincio a sospettare…. No, no; è impossibile; una viltà come questa, non s'impresta neanche al peggior dei nemici. Frattanto passa un'ora, ne passano due, e Filippo non ritorna. Che diamine sarà avvenuto? L'impazienza mi prende, e scendo per uscire. Pilade vorrebbe almeno accompagnarmi. Ma è inutile; ecco Filippo che ritorna finalmente, franco, ardito, e, salvo il suo frinzello sulla guancia, fresco come una rosa.

—Bravo!—mi grida.—Fai la passeggiata di prova?

—Sì, come vedi, e volevo venirti incontro nel viale. Anzi, poichè ci sei, e Pilade dovrà andare ad apparecchiare la tavola, puoi vigilarmi un po' tu. Ed ora dimmi;—ripigliai, dopo che il servitore si fu allontanato,—che cosa vuole il conte Quarneri?

—Come sai? Pilade ti ha detto?…

—No, niente Pilade; l'ho veduto io, il conte; dalla finestra, quando usciva con te, brontolando.

—Come l'hai conosciuto, se viene per la prima volta in Corsenna?

—Oh, lo conosco benissimo; figurati…. che la contessa Adriana me lo ha fatto ammirare in effigie.—

È una bugia; ma m'è venuta bene, e Filippo si persuade.

—Poichè lo sai,—dice egli, stringendosi nelle spalle—eccoti il resto dell'avventura. Il signor conte è capitato in Corsenna, chiamato da una lettera cieca; la solita lettera cieca che vuol ridar la vista degli occhi a chi l'avesse perduta. È venuto a cercarti…. Perchè poi te, e non me, lo saprà chi ha scritto la lettera…. È venuto a cercarti tre giorni fa, e gli han detto che eri a letto ammalato; è ripassato ieri, e l'ho ricevuto io, dicendogli la medesima cosa; soggiungendogli per altro che poteva parlare con me, che ero un altro te stesso. Ho da parlare con lui; mi ha risposto. E allora aspetterà per un pezzo, gli ho ribattuto; l'amico mio è appena convalescente, e non può dare udienza a nessuno. Se n'è andato; credevo che si fosse persuaso; ma no; rieccolo quest'oggi, e quest'oggi si contenta di parlare con me, per guadagnar tempo, come s'è degnato di dirmi. E mi ha mostrata la lettera, in cui gli si dava l'avvertimento salutare, di guardar bene casa sua, di mettere al dovere certi cacciatori troppo invaghiti del Roccolo, eccetera, eccetera. Senta, gli ho detto, i cacciatori son parecchi; sono del bel numero anch'io. Il signor Morelli, contro cui Le hanno scritto, ci andava per insegnare certi versi, da recitare in un concerto di beneficenza; non c'era niente di male, e se non ci ho trovato niente di male io, che cosa vorrebbe trovarci Lei da ridire, Lei che non c'era?

—E lui? che ti ha risposto?

—Ah, se tu lo avessi veduto, che muso! Come? mi ha gridato, fermandosi sui due piedi. E chi è Lei, per darmi di queste lezioni? Sono, gli ho risposto, un gentiluomo che rende giustizia ai meriti della contessa, e Le confesserò candidamente di esser rimasto preso all'incanto delle sue grazie.—Lei scherza; ed io non son uomo da scherzi.—Nemmen io, sa? E non mi rompa la testa per una lettera cieca che ha ricevuta. Se avesse senno, prenderebbe per un orecchio, l'un dopo l'altro, tutti coloro che Le vengono per casa, e li metterebbe inesorabilmente fuori dell'uscio. Inoltre, poichè Le ha dato noia l'acqua tiepida, non dovrebbe aspettare la calda, e dovunque Le piacesse di andare a curar la salute, dovrebbe condurre la sua signora con sè. In coscienza, quando si ha nel giardino una vite moscadella come la sua, non si lasciano andare e venire comodamente le vespe.—Ella mi renderà conto della sua impertinenza.—Nossignore, nessun conto. Sappia che per ragion di donne non mi batto. Alle donne rispetto ed ossequio, non mai colpi di spada o di pistola per esse, col rischio certo di offendere la loro riputazione. Se queste cose non le capisce un marito, le capisco io, che morrò scapolo. Vuol leticare ad ogni costo con me? Mi passi accanto, mi pesti un piede, sperando che io ci abbia un callo….—Se lo facessi ora?—Ora o poi, vedrebbe…. Anzi no, sentirebbe che pedata; e da farla tornare in fretta a San Pellegrino. Son uomo da dargliela, sa? ed anche da stiacciarla con un pugno; non mi tenti, non mi stuzzichi, perchè son latino.—Ella abusa della forza fisica.—Ma sì, caro signore, e ringrazio il cielo di avermela data per levarmi di torno i noiosi. Del resto, non l'ho usata ancora con Lei, che chiama al soccorso prima del tempo. Ma badi, qualunque cosa Ella tenti di fare contro me o contro amici miei, La stronco, com'è vero Dio, La stronco con queste due mani. Le ha viste? Ora mi si levi da' piedi.

—Filippo! Filippo! Tu sei un eroe; ma ci hai pur troppo il difetto di tutti gli eroi.

—Quale?

—Di non veder che te stesso. E non hai pensato che c'ero io in ballo, e che non sono un vecchio, nè un fanciullo, nè altrimenti una povera creatura che debba esser protetta da nessun cavaliere errante. Ti ringrazio della generosa intenzione; ma non posso approfittare della tua cortesia. E poichè il conte Quarneri cercava me, avendola con me, andrò io a mettermi a sua disposizione.

—Caro, non ti ho detto tutto;—riprese Filippo.—Io posso avere esagerato; è il mio costume, in un cert'ordine di cose. Ma comunque sia, il mio bravo conte è diventato un agnellino; s'è intenerito; ha preso a ragionare più pacatamente; si è persuaso della tua e perfino della mia innocenza; ha capito donde venisse il colpo della lettera cieca; non ti chiederà più nulla; non chiederà nulla a nessuno; metterà perfino i satelliti alla porta…. ma con una leggera variante al primitivo disegno che avevo osato sottoporgli, cioè chiudendo il Roccolo e portando la signora con sè. Sicuramente,—conchiuse Filippo,—voleva partire col treno delle quattro e venti. Sono ora le cinque; sicchè…. tira le somme.

—Ah! tu sei un gran prepotente;—esclamai.

—Ma che? volevi che per una scioccheria simile lasciassi andar te sul terreno?

—E ci saresti andato tu?

—Certamente; se non si fosse potuto farne di meno.

—Lasciando supporre Dio sa quali ragioni?…—ripigliai.—E che ne avrebbe detto Galatea?

—Che Galatea?

—Perdonami; ho ancora il cervello intronato da una delle tue bastonate.

—Ed io niente, assassino? Ma tu volevi dire….

—Volevo dire la signorina Wilson.—

Filippo Ferri trasse un profondo sospiro dall'ampio torace.

—Eh, caro mio,—mi rispose,—l'ho detto dianzi a quel conte, che io morrò scapolo. Credo bene che la gentile fanciulla pensi a me, come alla prima bambola a cui avrà rotta la testa. E se tu avessi tenuto con me un altro modo, scambio di scrivermi quella tua letteraccia, scambio di ostinarti, come hai fatto, a volermi morto se non m'inchinavo ai tuoi olimpici voleri, non ci saremmo rotte, da veri bamboccioni, le nostre.—

Ho abbracciato Filippo Ferri (era il meno che potessi fare) e pianto come una vite tagliata.

XIX.

Cavalier bagnato.

17 settembre 18…

Una grossa bega evitata; che fortuna! Per quanto gridassi di voler provvedere da me alle faccende mie, m'avrebbe seccato mortalmente un duello con questo conte Quarneri, degnissimo gentiluomo che non ho mai più visto nè conosciuto dal giorno che l'ho dato a balia. Filippo si è mostrato veramente savio, in questa occasione, ed io lo aggiungerò volentieri ottavo ai famosissimi sette dell'antica Grecia. Ed anche, come mi ha rimesso il fiato in corpo con una sua modesta confessione! Mi son sentito rinascere; ancor oggi mi par d'essere quel tale, che uscito fuori convalescente dagli ardori e dai delirii d'una febbre da cavalli, ricomincia a sentir l'allegrezza del vivere, poichè dalla finestra riaperta penetra una buona corrente d'aria fresca nell'afa e nel viscidume della sua stanza d'infermo.

Oggi sono andato fuori, la prima volta dopo tanti giorni, per far qualche visita; lento, a piccoli passi, col mio bastoncino di città, rinunziando alle mie mazze babilonesi di ridicola e dolorosa memoria, facendomi più debole di quello che veramente io non sia, e fermandomi volentieri ad ogni svolta della strada campestre. La prima stazione del mio viaggio di gratitudine, un po' per riguardo alle conoscenze più antiche, un po' per avvezzarmi all'ufficio e procedere per gradi, dal minore al maggiore, è stata dalle Berti. La voluminosa Giunone e le sue tre graziose figliuole m'hanno fatto una festa da non dirsi.

—Ma che idea è stata la loro, di far della scherma senza le maschere?—mi ha detto la buona signora, giungendo le palme.—Non sono, per caso, un po' matti? L'abbiamo già detto al signor Ferri, che è stato tanto sincero da convenirne. Così abbiamo avuto il dispiacere di perderli tutt'e due, per una quindicina di giorni. Ma anche lor signori, con questa assenza prolungata, hanno perduto molto. Corsenna, come Lei saprà, è rimasta deserta.

—Deserta? E ci son Loro?

—Questa, signor Morelli, è una galanteria. Ma il fatto sta che abbiamo perduta la contessa. Ha promesso di ritornare; ma, colla stagione inoltrata, ci sarà poco da sperarlo.

—Ebbene? Una signora di meno;—risposi.—Ma da quanto ho sentito dire, ne sono arrivate di nuove; la marchesa Valtorta, per esempio.

—Ah sì, ne è giunta la notizia anche al Giardinetto? La marchesa Valtorta è una gran signora, che il caldo eccessivo della campagna pisana ha fatta fuggire in Corsenna. Ha condotto molta gente con sè; ma non mi pare che n'abbia abbastanza, poichè ci ha quasi rubato il nostro commendator Matteini. Ed è un guaio; perchè i cavalieri della nostra piccola società sono rimasti pochi, assai pochi.

—Che cosa mi racconta! E il Dal Ciotto?

—Partito.

—Ah! ed allora…. anche il Martorana?

—Sicuro, e poteva aggiungere il signor Cerinelli;—conchiuse la signora Berti, ridendo maliziosamente.—Si capisce; erano tre inseparabili amici.

—Gran perdita, ne convengo;—ripigliai. Ma infine, la marchesa
—Valtorta non vorrà essere così egoista, e alla vecchia società di
—Corsenna farà parte della nuova che ha portata con sè.

—Non c'è caso, signor Morelli. Per fonderci, dovremmo adattarci ad un altro genere di vita. Noi si ama prender aria e passeggiare: in casa Valtorta si sta chiusi e si giuoca. Sicuro; la marchesa è ancora una bella donna, che forse vede ancora i quaranta, e può lasciar credere che siano trentacinque o trentasei; e già si butta per disperata in braccio al peggiore dei diavoli, che è quello del giuoco. Carte, signor Morelli, carte a tutto spiano. E a che giuoco, poi! lo indovini.

—A tressetti? a briscola? a naso e primiera?

—Oh, peggio assai, a zecchinetto; e corrono un po' troppo i quattrini. Bisogna averci fortuna, come il nostro commendatore, per trovarci gusto. Dopo tutto, una signora gentilissima; e se vorrà esserle presentato….

—No, Dio guardi!—interruppi.—Ora vorrei rifarmi dell'ozio. L'aria è più fresca, e ne approfitterò per lavorare un pochino.—

Uscito dalle Berti, passai dalla signora sindachessa, per una visita da medico. Più lunga volevo farla dalle signore Wilson, dove andai a finire. Mi batteva il cuore, arrivando davanti alla palazzina; e più mi batteva entrando nel salottino, dove la signora Wilson madre era seduta secondo l'uso al suo telaio da ricamo. Non sola, per altro, come l'ultima volta ch'ero andato a visitarla; Galatea era con lei, reduce allora dalla solita passeggiata. Inutile il dire che combinai in casa anche Buci.

—Gliel'ho un po' sviato, il suo Buci!—mi disse la signorina Kathleen, dopo i convenevoli d'obbligo, che riuscirono del resto un po' magri e naturalmente impacciati.

—Ah, signorina, io glielo rinunzio, se vuole, anche per iscritto, e su carta bollata;—risposi.—Il signor Buci non vuol riconoscermi più, neanche per prossimo.

—Non ce l'offra, La prego;—gridò la signora Wilson madre, con un gesto di comico terrore.—Mia figlia sarebbe capace di accettarlo.

—Oh, mamma, mi credi dunque così egoista? Il signor Morelli si riprenderà il suo Buci, quando noi ce ne andremo da Corsenna, e sarà sempre stata una gran gentilezza da parte sua avercelo lasciato per questo po' di tempo. Non è vero, Buci, che ritornerete dal vostro padrone?—

Buci non la intende così; ma ride, per cortese abitudine; frattanto gliene importa di me come dell'ultimo collarino che ha smesso. E come no? ne ha uno nuovissimo, di fettuccia rossa, col nome ricamato d'oro dalle mani della sua bella padroncina pro tempore.

Per tenere un po' viva la conversazione colla signorina Kathleen, bisogna parlarle di Buci; ed io non mi lascio sfuggire l'appiglio.

—Buci avrà un pregio per me, quando se ne saranno andate;—rispondo;—quello di essere stato con Loro per tutta la stagione. Se mi permetteranno di venirle a riverire a Firenze, lo condurrò a farsi vedere…. Ma ad un'ora bruciata, s'intende.

—Perchè?

—Perchè, in verità, non è una bestia presentabile. In campagna, passi; ma in città….

—Non ne faccia così poca stima;—mi ribatte Galatea;—altrimenti non
Le vorrà più bene affatto.—

È tutto ciò che ho ottenuto dalla buona grazia di Galatea. Ma che cosa doveva poi fare? Saltarmi davanti, come il re David nel cospetto dell'Arca? Fu cortese e garbata; non poteva esser di più, rivedendomi per la prima volta, dopo una certa conversazione, che il mio cattivo umore aveva resa fin troppo penosa per lei. Quest'oggi, poi, nè essa nè la sua mamma gentile fecero allusioni alla mia testa rotta; neanche mi vennero sul tema della contessa Quarneri e della sua fuga da Corsenna. Sì, tutto bene; ma io ero andato colla speranza di rimanere un paio d'ore; e dopo mezz'ora, per la freddezza cerimoniosa del ricevimento, vidi la necessità di prender congedo. Per fortuna, quando mi alzai, la mamma gentile mi disse:

—Ci rivedremo, signor Morelli? Qui, se non Le spiace; perchè in piazza oramai si va poco. La società è quasi sciolta.

—Ho bene inteso;—risposi, dopo essermi inchinato profondamente alla cortesia dell'invito.—C'è un astro nuovo, sull'orizzonte di Corsenna, e dicono che ci abbia già rubato il nostro commendator Matteini.

—Oh, quello….—entrò a dire la signorina Kathleen, ridendo per la prima volta del suo bel riso protervo di Galatea;—quello, poi, ci sentiremmo di riafferrarlo alla prima occasione. Ma ce ne manca il desiderio; e del resto, chi non ci vuole non ci merita.

—Kitty!—esclamò la signora Wilson, con accento di dolce rimprovero.

—La lasci dire, signora;—gridai.—È una gran massima, e può consolare tutti coloro che non è destinata a colpire.—

Mi congedai presto, ho detto, perchè già ero in piedi; ma me ne andai molto più lieto, osando stringere coll'antica effusione fraterna la cara mano che Galatea non potè ricusarmi in quel punto.

A casa m'aspettava Filippo, con una notizia…. come dirò? sì, certamente spiacevole. Ha deciso di partire, e di partir domattina. S'intende che l'ho pregato, ed anche sinceramente, di rimanere, almeno due o tre giorni ancora. Ma egli è risoluto, e non si lascia smuovere.

—Senti;—mi ha detto,—ogni bel giuoco dura poco, e il mio è durato fin troppo. Tu non hai più bisogno di me, e puoi lasciarmi andare pei fatti miei. Piuttosto hai bisogno di far la tua strada. Non ti perdere in ragazzate, che n'hai fatte già molte, e possono bastare. Vai all'arma bianca, e conquista una mano che è degna di te.

—Ah, sì, per me non vorrei di meglio. Ma è così fredda, mio Dio! così ferma nel suo puntiglio!

—Ma che! avrebbe da far le pazzie, per dimostrarti quel che pensa di te? È una ragazza, non lo dimenticare. Quanto al puntiglio, è ancora e sempre una ragazza, che non ti può chiedere la spiegazione a cui ha diritto, e non può neanche aver l'aria di desiderarla. Animo, dunque, all'opera; "qui si parrà la tua nobilitate." Il tuo Don Giovanni, così pratico dei cuori femminili, come m'immagino che debba essere, vorrà avere qualche idea in proposito. Fattela suggerire da lui.—

Filippo è un amico eccellente. Se ne va, togliendomi d'impiccio, e mi lascia un buon consiglio, che io seguirò certamente.

18 settembre 18…

Corsenna è deserta, dicono. Ma che deserta! è libera! Io sono stato oggi un po' triste, accompagnando Filippo alla stazione. Poveraccio! egli meritava questo tacito omaggio del cuore alle sue nobilissime doti ed ai suoi utilissimi servigi. Ma io, ritornando al Giardinetto, mi sentivo più padrone di me, che non fossi stato mai. Avevo due ore libere, prima di desinare, e le ho subito messe a profitto correndo al fiume, al pancone, al viale dei pioppi, alla gran prateria, alle carpinelle, e al mio sacro rivolo dell'Acqua Ascosa. Non per ritrovarci Galatea, che non era quello il momento, se pure avesse l'usanza di andarci ancora, ma per pensare a lei liberamente. Sia pure Don Giovanni il consigliere; ma sia un Don Giovanni che abbia affogata la sua malizia in un mar di latte. Così dicevo a me stesso, arrivando al mio dolce rifugio.

Quanto è bello, fresco, ridente, quest'angolo di mondo ignorato! e quanto sarebbe più bello, più fresco, più ridente, se fosse qui Galatea, lieta, fiduciosa, serena come una volta, prima di quella tal passeggiata che le sarà parsa una profanazione, ma in cui non ebbi colpa veruna! Ecco dei fiorellini nuovi, autunnali, che dovrebbero piacerle. Ma ci viene ella più, da queste parti? Vorrei domandarne a quei cardellini, che saltellano, svolazzano e si rincorrono sull'orlo di quella ripa: ma essi non intendono il mio linguaggio, ed io non intendo il loro. Quest'erba tenera, che forse ella ha calpestata, è muta, e conserva gelosamente il segreto. Ah, non tanto gelosamente! Ecco qua, tra un ciuffo di sermolino e un cesto di terracrepolo, biancheggia qualche cosa. Un tesoro, niente di meno, un tesoro. A tutta prima l'ho creduto un temperino; ma no, è più minuscolo ancora d'un temperino. Vediamo; è un ninnolo, un amore di stecchettina d'avorio, di quelle che adoperano le signore per tagliar le carte dei libri, in viaggio, colla piccola presa a taglio vivo da un lato, per usarne come segno quando hanno smesso di leggere.

Ed è sua, la stecchettina minuscola, è sua; vedo il nome di Kitty inciso sulla costola, in bei caratterini italici, di colore azzurro carico. Ah, Galatea, siete tradita! ed io vi potrei convincere d'esser venuta all'Acqua Ascosa stamane, o alla più lunga ieri mattina. Ma non lo farò; non mi preme di convincervi, non mi piace di restituirvi il fatto vostro. Questa cara stecchettina è mia; roba trovata è più che comprata.

Contento della mia piccola fortuna, non amo guastarla andando la sera a cercare la nostra antica colonia villeggiante, o quel tanto che n'è rimasto in Corsenna, e che la marchesa Valtorta non ne ha tirato al suo zecchinetto. Temo che le signore Wilson, o le Berti, credano necessario di parlarmi di Filippo Ferri; cosa che sarebbe pure naturalissima, nel giorno istesso ch'egli è partito. Voglio bene a Filippo, ma non amo sentirmelo ricordare davanti a Galatea. Domattina, domattina la vedrò, quella cara puntigliosa, se si risolverà di uscire a passeggio.

19 settembre 18…

Stamane, infatti, mi sono rimesso in caccia un po' prima dell'ora in cui ella suole andar fuori. Al rivolo dell'Acqua Ascosa non c'era; ed io, lesto ai casali di Santa Giustina. Ecco la Nunziata, la buona vecchierella che attende alle sue occupazioni domestiche. Mi fermo a chiacchierare con lei; assisto al pasto delle sue galline; accarezzo il collo della sua mucca, le parlo di cento cose, e trovo anche il modo di farle un regaluccio, in compenso del bicchier di latte che ella mi offre, ancor caldo e spumoso. Trepidante, girando largo, conduco il discorso sulla signorina Wilson. Che buona e bella figliuola, niente superba, tutta amorosa colla povera gente, non è vero? E viene sempre a trovarvi? Sì, sempre, ma non tutti i giorni, perchè ci ha qualche cosa da fare in casa, specie nell'ultimo mese del suo soggiorno in Corsenna. Come vola il tempo! E par ieri, che la signorina è venuta in campagna. Ma ella ha promesso di ritornare un altr'anno. Si è trovata così bene, la sua mamma, tra queste montagne! Ed anche lei, quantunque non ci sia venuta per salute, come la sua mamma cara. È stata ieri a Santa Giustina, non è vero? Sì, ieri, una mezz'ora appena; ma oggi, chi sa?

Non ho più niente da dire, e saluto la buona vecchia, promettendo di ritornar qualche volta a bere il latte della sua mucca. L'ho pur detto; Don Giovanni affogherà la sua malizia in un mar di latte. E preso il sentiero del bosco, scendo verso il mulino, andando a fermarmi più in là, sulla strada che mette al paese. È il luogo dove ho incontrata per mia disdetta la signora Adriana; non mi piace, e vado ad appostarmi cinquanta passi più oltre, seduto sul lembo estremo del bosco, sopra un tappeto di eriche nane, e mezzo nascosto tra il fogliame di alcune ceppaie di castagno, che han rimessi i polloni. Specola eccellente, donde io posso dominare l'incontro di tutti i sentieri dai quali ella potrebbe passare, andando o ritornando; ma non mi serve, perchè stamane ella non si lascia vedere.

La vedo questa sera, a passeggio, con la mamma e con le Berti. È cortese, ma fredda, e, più che fredda, occupata a discorrere con l'una o con l'altra delle sue giovani amiche. Poi c'è Terenzio Spazzòli, a cui si fanno complimenti della sua poca passione per lo zecchinetto. Egli ci si gonfia un pochino, ed io mi annoio altrettanto.

Ah, c'è uno strappo nelle mie relazioni con Galatea! uno strappo che bisogna rammendare ad ogni costo. Ma tu ci passerai, bambina, laggiù dalla parte del mulino; ci passerai, una mattina o l'altra, e dovrai pagare il pedaggio.

20 settembre 18…

"Roma è nostra", mi ha detto stamane il signor sindaco, incontrandomi sul ponte, avviato verso la strada del mulino. "Viva Roma in eterno", ho risposto con pari ardore, al patrio ricordo del primo magistrato di Corsenna. Era di buon augurio la data: Roma è nostra; e Galatea è mia, posso soggiunger qui, senza aspettar complimenti ed evviva. Giorno fortunato davvero, quantunque non senza pericolo; ma il pericolo fa preziosa la vittoria, e più caro il trionfo. O Buci, o cane impagabile, io troverò bene uno scultore che voglia farti il ritratto e gittarmelo in bronzo, affinchè io possa mettere il tuo simulacro a decorazione della piazza grande, ed unica, della nobil Corsenna.

Erano le nove e sette minuti, quando la signorina Wilson mi apparì tra gli alberi della strada campestre. Come mi batteva il cuore, come mi batteva, intravvedendo nel verde la sua marinara bianca dalle risvolte turchine! Ella veniva innanzi a passi lenti, leggendo; Buci la precedeva, da buon battistrada. Al lieve rumore, che io feci, alzandomi dal mio nascondiglio sul ciglione del bosco, il buon cane si fermò di botto sulle quattro zampe, abbaiando. Allora mi lasciai vedere, e saltai sulla strada.

—Oh, Lei!—esclamò la signorina.—Credevo che Buci avesse visto un serpe.

—Povero serpe intirizzito, se mai! E dove se ne va, signorina!

—Quassù, dalla mia buona Nunziata.

—Ah, bene. Ci sono andato ancor io, ieri mattina, a bere un bicchier di latte della sua mucca. E volevo ritornarci anche oggi, ma poi….

—Ma poi, che cosa?

—Ho deciso di aspettarla qui, signorina, perchè volevo…. desideravo parlarle.

—Era dunque in agguato? Male. Ma noi non abbiamo paura, e possiamo dire al malandrino: ci accompagni pure, e beva il suo latte.

—Volentieri lo farò, signorina. Ma sarei tanto felice, se Ella mi concedesse un quarticello d'ora, qui, proprio qui….—

La signorina Kathleen rimase un po' sconcertata, guardandomi.

—In questo punto;—ripigliai, incalzando.—Soffra che io Le faccia una rispettosa domanda: Che cosa Le ho fatto io, perchè Ella sia tanto severa con me?

—Io?—diss'ella, sforzandosi di ridere.—Lei vede sempre, signor Morelli, tutto quel che non è. Non Le ho detto or ora di accompagnarmi fino a Santa Giustina?

—Or ora, sì;—risposi.—Ma tutti questi giorni passati…. povero a me! non mi pareva di meritarmi tanta sua crudeltà.

—Crudeltà! che sarebbe? Ella vuol farmi ancora dei discorsi che io non posso sentire?

—No, no; si cheti; potrà sentir tutto, glielo giuro. E si fermi, La supplico.

—Fermiamoci;—diss'ella, crollando il capo come persona rassegnata.—Vede? mi siedo per giunta. E parliamo. Ma, se permette, incomincio io, che sono più tranquilla di Lei. Dica su, come si trova contento di Corsenna?—

La signorina Kitty voleva darmi la baia, con quel vano discorso. Ma io lo girai destramente ai miei fini.

—Moltissimo,—risposi,—perchè finalmente c'è quiete. La campagna dovrebb'esser sempre così.

—Se l'abbian per detto le persone che ci hanno lasciati a goderne, non è vero?

—Sì, se l'abbian per detto; quantunque…. della partenza di una mi duole un pochino.

—Ah! e quale?

—Filippo Ferri.

—Dopo essersi battuto con lui…. veramente….

—Che vuole, signorina? Dopo ciò che mi aveva detto Lei, lassù, alla discesa di Santa Giustina!…

—Ah! ed è per quel discorso che Lei ha messo mano alle armi?

—Sì, per quello; e non ne avevo forse ragione? Le assicuro, ero fuori di me dalla rabbia.

—Che uomini!—esclamò.—Vuol dire che se avesse potuto battersi con me….

—Quel giorno, sì, l'avrei fatto;—risposi.

—Mi piace la sincerità. Ma è sempre così sincero, Lei?

—Sempre.

—Allora mi dica un'altra cosa;—diss'ella, dopo aver balenato un'istante.

—Domandi, domandi pure.

—Ma Lei giuri….

—Di esser sincero? Non ne dubiti nè ora nè mai! Voglio ad ogni costo meritar la sua stima; almeno quella!…—soggiunsi, lasciandole intendere il resto.

Si fece un po' rossa; ma voleva padroneggiarsi, e ne venne a capo. Del resto, si capiva ch'ella aveva accettato battaglia, e che, avendola accettata, voleva anche attaccarla a suo modo.

—Ottimamente;—diss'ella.—Or dunque, alla prova, e in una cosa da nulla; badi, proprio da nulla, salvo la difficoltà dell'indovinare di chi parlo, perchè io non l'aiuterò punto punto. Dove l'aveva incontrata? Perchè c'era, non è così?

—Sì, c'era;—risposi.—Anzi, c'eravamo, e avevamo presa la fuga. Essa non voleva, rendiamole giustizia; son io che ho voluto ad ogni costo, e posso dirgliene il perchè.

—Lasci che la interroghi io;—replicò la mia giudichessa.—Ella deve rispondere ancora alla mia prima domanda. Dove l'aveva incontrata?

—Là, a cinquanta passi da noi, dove Ella vede appunto quel rigagnolo che attraversa la strada.

—A caso? Non l'aspettava, come aspettava oggi?

—Sull'onor mio, e per il conto che io faccio della sua stima, non l'aspettavo. Scendevo dal bottaccio, mi avviavo da questa parte, quando improvvisamente l'ho veduta. Giuro inoltre che se fossi stato in tempo di cansarmi, l'avrei fatto; e con che gusto, se lo può figurare.

—Io, veramente, non mi posso figurar nulla. E poi? dove sono andati?

—Vuole che rifacciamo la strada, signorina? A passo a passo le racconterò ogni cosa, come l'ho scritta nel mio memoriale, ch'Ella non ha voluto leggere.

—Lasciamo stare il suo memoriale; ne parleremo poi. E andiamo rifacendo la strada, che tanto è la mia per salire a Santa Giustina.

—Non tutta;—risposi.—Bisognerebbe salirci dall'altra parte, se mai, passato l'argine dell'Acqua Ascosa.

—E così faremo;—conchiuse ella, che aveva rotto il ghiaccio oramai, e appariva risolutissima.—Prima di tutto, saltiamo questo rigagnolo, come avrà fatto quell'altra…. Immagino che non avrà voluto immollarsi la punta degli scarpini.

—Non so, non ho badato. Le ho già detto ch'ero molto seccato dell'incontro, e per conseguenza confuso. Ed ecco, proprio qui, imbattendosi in me, mi chiese dove fosse l'Acqua Ascosa. Che cosa avrebbe fatto Lei ne' miei panni?

—L'avrei accompagnata, ci s'intende.

—Così feci, risalendo con lei questo po' di sentiero, di fianco alla ruota del mulino; e di là, poi, conducendola sul ponticello che cavalca la caduta dell'acqua.

—Ed ecco, ci sono anch'io;—disse ridendo la signorina Wilson.

—Ma Lei ora mi precede, e soffrirà che io passi avanti per rifarle questo importante episodio. La signora aveva paura, molta paura, ed io dovetti prenderla per mano.

—Così?

—Per l'appunto;—diss'io, fremendo al contatto della mano di Galatea.

—E tremava, dunque?

—Può immaginarselo, colla paura che aveva.

—Strano!—diss'ella.—Ora mi pare che tremi Lei, signor Morelli.
Capisco; forse è pel ricordo.

—Le pare? A me pare, invece, che Lei voglia ridersi un pochino di me.
Ma basta; seguitiamo.

—Qui, poi, siamo all'argine del bottaccio; riprese la signorina;—al —largo, adunque, e non c'è più bisogno di tenersi per mano.

—Infatti, è vero;—diss'io.—Lei intende le cose, signorina, e le rifà come se fosse stata presente. Ma badi, che l'argine non continua sempre così forte e così largo. C'è ora quest'altro ponticello, che cavalca lo sportello della cateratta. A questo punto fu un altro guaio. La signora non si peritava più di venire avanti da sola; nè si poteva andar tutti e due sulla medesima fronte.

—Allora?

—Allora le fu necessario aggrapparsi alla mia spalla.

—Che sciocca! che sciocca!—gridò Galatea.—Ma a questo modo si vuol egli andare in campagna? Non c'è posto per camminare, in due, qui? Ebbene, si va da soli; e se occorre si passa avanti al compagno; così. senza tante paure.—

E mandava gli atti compagni alle parole. Aveva posata la mano sinistra sulla mia spalla destra, assai leggermele, che appena l'avevo sentita, e di lancio mi era passata di fianco, per correr via davanti a me sul colmo dell'argine, toccando a mala pena il terreno con la punta dei piedi. E volli correre anch'io per raggiungerla; ma proprio in quel punto che alzavo il piede a mia volta, inciampai in qualche cosa che non avevo avvertito, e mi ritrovai di punto in bianco per aria. Ci fossi almeno rimasto; sarebbe stato un miracolo. Ma no; non ci stetti niente più del tempo necessario alla caduta dei gravi, e precipitai nel bottaccio, facendo un tonfo rumoroso nell'acqua, che era alta almeno un uomo e mezzo in quel punto.

Che cos'era? Un'alzata d'ingegno di Buci. Il nostro buon cane era stato modestamente il terzo, finchè Galatea era stata seconda. Ma come ebbe veduto lei farmisi avanti e correr veloce sull'argine, il signor Buci non istette alle mosse, volle esser lui il secondo, e si cacciò avanti senza badare a me, suo legittimo padrone e degno del massimo rispetto, non foss'altro, per le venti lire che avevo buttate via, a riscattarlo dalla schiavitù di Corsenna. Si cacciò avanti, ho detto; il sentiero bastava appena per me, ed egli strisciò contro le gambe mie, proprio al momento che io levavo il passo per correr dietro alla mia fuggitiva. Così avvenne che io perdessi l'equilibrio, e mi ritrovassi in acqua prima di aver visto il pericolo.

Al tonfo che io feci si volse Galatea, e mise un grido di spavento. Ma il grido non poteva far niente al caso mio. Piuttosto poteva giovare il consiglio che ella mi gittò, in mezzo ai latrati di Buci.

—Nuoti verso l'argine; non si lasci trascinare dal filo della corrente.—

Io non sono stato mai un gran nuotatore nel cospetto di Dio. Ma se anche fossi stato meno sbercia di quel che sono, credo che non mi sarei cavato con le mani mie dal pericolo di stamane, perchè non ero più in tempo di seguire il consiglio di Galatea. Nella confusione del momento, e pestando l'acqua alla guisa dei can barboni, mi ero ritrovato per l'appunto nel bel mezzo del bottaccio, non riuscendo a far cammino contro corrente, nè a tirarmi destramente da un lato. Il caso mio poteva dirsi disperato, perchè di laggiù dal mulino nessuno mi poteva sentire, se avessi gridato al soccorso, essendo la gran ruota in movimento, e la cascata facendo un rumore d'inferno.

La signorina Kathleen era corsa indietro a furia, e m'incitava colla voce a piegare quanto potessi verso di lei. Ma ella non istette molto a capire che il filo della corrente era più forte di me, nuotatore mal pratico. E appena ebbe capito, non pose tempo in mezzo; com'era là, vestita di tutto punto, sì buttò in acqua e mi afferrò per una mano, tirandomi forte a sè, fuori della corrente. Descrissi, io credo, un mezzo cerchio nell'acqua, e mi ritrovai vicino allo sportello della cateratta, al cui anello di ferro fui pronto ad aggrapparmi, colla furia disperata del naufrago.

—Sì, bravo, respiri;—-mi disse Galatea, ridiventata ninfa marina per me, quantunque in acqua dolce.—E adesso, se può nuotare adagino….

—Nè adagino, nè altrimenti;—risposi.—Ho le mani intormentite da certi colpi dell'altra settimana, e m'è tornato il dolore, acutissimo.

—Anche il duello ci voleva! E facciamo altrimenti. Veda di attaccarsi ad un lembo della mia veste; così, leggero leggero, per non tirarmi sott'acqua, che s'affogherebbe in due. Nuoterò io; ma Lei si tenga quanto più Le vien fatto rasento all'argine, e spinga coi piedi. Non avrà mica intormentite le gambe. Bravo, così va bene; avanti sempre.

—E voi tacete di lassù, perfido cane;—gridai, raffidato da quella buona andatura, e cercando di volgere il nostro caso in burletta;—siete voi che m'avete fatto incespicare, obbligando Galatea, la più candida delle ninfe, a seguirmi nell'acqua.

—Lasci star Galatea!—rispose la mia nuotatrice.—Quella poverina ha rimorso d'essersi messa a correre come una bambina matta.

—Perchè rimorso? Se tutti i miei mali hanno da essere come questo, io ne invocherò uno al giorno dalla misericordia divina.

—Sì, bravo, si preghi anche un reuma;—diss'ella ridendo;—e lo preghi a me pure. Faccia meglio, per ora; si rizzi in piedi, perchè qui si tocca, e via presto presto, verso la stretta del bottaccio. Ma si tenga ancora all'argine, che oramai, come vede, si può afferrarne già l'orlo. Qua, qua, è fuori di pericolo, sia lodato il Signore!—

Siamo usciti di là tutti inzuppati, e battendo un po' i denti. All'aperto non si poteva andare, col rischio di abbatterci in qualcheduno che vedesse il nostro stato compassionevole. Si rideva come due ragazzacci, che venissero via da qualche impresa un po' matta, e si andava frattanto lungo la siepe delle carpinelle, avviati al rivolo dell'Acqua Ascosa; dove per altro, così bagnati fino all'osso, non avremmo potuto rimanere.

—Che peccato!—le dissi.—Si doveva star qui un'ora almeno, a finire la storia incominciata.

—Un'ora!—esclamò.—Doveva durar tanto, quella brutta storia?

—No, quella poteva esser finita in due minuti, tanto era vuota; ma ce ne sarebbero rimasti cinquantotto per ragionar di cose più liete.

—Ah, volevo ben dire! Ma ciò che non mi può raccontare quest'oggi, mi potrà raccontare un altro giorno.

—Domani!

—Anche domani. Veda di rammentarsela bene.

—Oh, non dubiti; l'ho scritta tutta nel mio memoriale, ed Ella potrà confrontare….

—Capisco; Ella ha una gran voglia ch'io legga il suo memoriale.

—Sicuramente; c'è tutta la mia giustificazione.

—E niente la sua glorificazione? Gli autori di memoriali son tutti così.

—Non io, signorina. Vedrà, se si degna di leggerlo, che spesso mi tratto…. secondo i meriti miei.—

Così ragionando, si era giunti a quello che si potrebbe chiamare il
Passo della Contessa.

—Di qui, signorina;—diss'io;—bisogna saltare il rivolo, per salire da quell'orto ai casali di Santa Giustina.

—Ho ben capito;—mi rispose Galatea.—Di qui era saltato anche il cane. Buci,—soggiunse ella,—voi conoscete la strada, animo, su.—

Buci saltò l'acqua, ed ella dietro a Buci. Volevo saltare ancor io; ma ella mi trattenne col gesto.

—Alto là!—disse poi.—Vado dalla buona Nunziata a rasciugare i miei abiti. Non potrei mica ritornare in paese così. E lei, signor Morelli, deve fare altrettanto a casa sua, che per andarci non ha da passare per l'abitato. Intanto, con quel bagno che ha preso, si è levato di dosso un certo odore di pelle di Spagna, che non era niente piacevole. E noti che io lo gradivo, in altri tempi; ma da parecchie settimane, non so come, mi era venuto a noia.

—Non sia cattiva, La supplico. Quando avrà letto….

—Sì, sì; ma vada a casa, poverino, che è tutto immollato; vada a casa, e si cambi alla svelta.

—Andrò; ma ad un patto.

—Dei patti a me?

—Sì, a Lei, e favorisca di ripetere le mie parole: Che mi lasci….

—Che La lasci….

—Parlare quest'oggi….

—Parlare quest'oggi….

—A…. nostra madre.—

Galatea rimase un istante perplessa: ma tosto, vedendo il brutto senso che il suo silenzio faceva su di me, gridò intenerita:

—Sì, sì, a nostra madre. Non è dunque più lecito di fare una piccola pausa, per meditare…. per gustare…. un bel modo di direi—

E mi stese la mano, che io afferrai prontamente, e lungamente e divotamente baciai. Oh, sire Iddio, questa è felicità grande e piena, e senza mistura! Buci, gran cane, io vi farò fare certamente un simulacro di bronzo. Corsi a precipizio verso il viale dei pioppi, valicai il fiume di sotto al pancone, e cinque minuti dopo ero al Giardinetto, per mutar abiti. Un'ora prima che Galatea ritornasse a casa sua, c'ero già io, e facevo un breve ma solenne discorso alla signora Wilson, che già abbastanza mi conosceva e mi voleva bene, contro i meriti miei, da non sapermi dire di no, e da non pigliar tempo a rispondermi.

—Come!—esclamò la signorina stupita, vedendomi.—Lei qui?

—Io, per l'appunto;—risposi.—E se non temessi di dispiacerle con la mia tracotanza, Le riferirei quel che ho finito di dire a sua madre. E se non volessi lasciare a sua madre l'incarico di persuaderla, Le soggiungerei che la buona signora per conto suo risponderebbe volentieri di sì ad una mia calda e rispettosa domanda.

—Eh!—mormorò la signora Wilson.—Mi pare che il nostro signor Rinaldo non mi lasci più niente da fare. Che ne pensi tu, Kitty, o piuttosto Kathleen, come bisognerà dire oramai, per far piacere a lui?

—Mamma!—gridò Galatea.

E non potè proferire una parola di più. Ma intanto si gittava nelle braccia della madre, scoccandole sulle guance due baci, che mi parvero fratelli germani di quelli ch'io avevo impresso tre ore prima sulla cara sua mano.

XX.

Galathea for ever.

21 settembre 18…

Tiriamo le somme. Io ho trentacinque anni, e Galatea ne ha ventuno. Forse sono un po' troppo vecchio per lei. Ma c'è chi sostiene che l'uomo debba avere dieci o dodici anni più della moglie, essendo ragionevole ch'egli abbia giudizio per due. A questo patto, io sono ancora troppo giovane; e mi consolo, pensando che il dente del giudizio non mi è nato ancora. Una pazzia avrò causato di fare, non terminando il mio Don Giovanni. Poco male, del resto; ero appena al settimo canto, e il mio disegno avrebbe portato il poema ai quaranta.

Ha ragione Filippo Ferri. Perchè darsi pensiero della posterità, la quale non si darà pensiero di noi? E farà bene, dal canto suo; noi dal nostro ci leveremo il gusto di mandarle qualche saggio del nostro valore, ma non in carta stampata; in carne ed ossa, piuttosto, in buona salute e di ottimo umore, che sappia ridere di lei, vedendola fare le medesime sciocchezze ond'è rallegrato il secolo nostro, non dissimile in ciò dai passati. Del resto, se il mondo durerà ancora nel secolo ventesimo et ultra, sarà sempre in forza di una buona consuetudine che noi abbiamo ereditata dai nostri maggiori, quella di prender moglie e di far famiglia; buona consuetudine, che io non raccomanderò mai abbastanza ai miei cari ed amati contemporanei.

Galatea leggerà questa sera il mio memoriale. L'ha chiesto, ed io glielo porterò, condotto diligentemente fin qui. Lo giudicherà; e se vorrà condannarlo alle fiamme, non sarò per lagnarmene. Le cose buone e piacevoli che ci son registrate, le ho tutte scolpite nel cuore; non è necessario che rimangano scritte sulla carta. E finalmente, io voglio inaugurare l'altra buona consuetudine di far tutto ciò che a lei piacerà. L'umano consorzio va male, dacchè il codice costringe le mogli ad obbedire ai mariti. Chi sa che non voglia andare un po' meglio, se i mariti prenderanno il verso d'obbedire alle mogli?

22 settembre 18…

"Ho letto, e scrivo io, Galatea. Prima di tutto mi piace il nome, e lo assumo per mio. Direi una bugia, se soggiungessi che mi piace egualmente tutto ciò che è scritto in questo memoriale del signor Rinaldo Morelli. Vedo che la pelle di Spagna è stata lì lì per dare al cervello del mio fidanzato, e non saprei consolarmene, se non rendessi giustizia alla sua sincerità, che sovra ogni altra cosa mi è cara. Fors'anche lo scrittore s'è lasciato un po' vincer la mano dal suo ippogrifo, e l'amor della frase lo ha condotto oltre i termini del vero. Teniamo conto anche di questo, e conchiudiamo col nostro Shakespeare, che all's well that ends well. In casa mia, del resto, non entrerà pelle di Spagna; ne faccio promessa formale. Ma io non sarò prepotente, e qualche freno accetterò ancor io; per esempio, non giuocherò più al lawn-tennis. Che idea, per altro; non amare un giuoco tanto bello! Ma sui gusti non si discute; ciò che non piace a lui, non piacerà a me, di sicuro.

"In un'altra cosa ci troviamo pienamente d'accordo: il simulacro di bronzo a Duci. Buci lo ha meritato. Ha, veramente, corso il rischio di guastar sulla fine quello che aveva cominciato; ma quello che aveva cominciato era buono. Vedi il memoriale di Rinaldo al capitolo quarto. E ne sia lode a Buci, sapientissimo cane, che ride senza far rumore, e pensa ottime cose dei suoi amici, senza tingersi le dita d'inchiostro. Il guaio intanto è accaduto a me. Con che coraggio stenderò io la mano a Rinaldo? specie sapendo per esperienza recente che egli….

"Basta; sarà quel che sarà. Intanto non gli neghiamo il "visto, si approva."

"GALATEA."

Ma che inchiostro! che inchiostro! Paura io, dell'inchiostro!.. Vi siete persuasa ora? È fuggita, si capisce, dopo avermi accoccato quello che lì per lì le è venuto alla mano; un gomitolo di refe. Sempre lei, sempre lei; viva Galatea, Galathea for ever! Ma non senza una giunta, intendiamoci. Galatea Morelli, s'ha a dire. Sarete meno mitologica, mia dolce bambina; ma tanto più vera, e sommamente piacevole a me.

RINALDO.

FINE.

INDICE.

  I. Rinaldo a Filippo………………Pag. 1
  II. Sequitur Lamentatio……………….10
  III. All'Acqua Ascosa…………………20
  IV. Poscritto…. rimasto a casa……….32
  V. All'altra bellissima ottava…………45
  VI. In alto e in basso………………..66
  VII. Rinaldo a Filippo………………..87
  VIII. Si torna al memoriale……………98
  IX. Il castello dei burattini…………109
  X. Pelle di Spagna…………………..126
  XI, Marlborough s'en va-t en guerre……153
  XII. Violino di spalla……………….174
  XIII. Una giornata campale……………196
  XIV. Il prologo… e l'epilogo………..233
  XV. Per quei cari bambini…………….257
  XVI. Mattina e sera………………….280
  XVII. A tu per tu……………………305
  XVIII. Teste rotte…………………..322
  XIX. Cavalier bagnato………………..348
  XX. Galathea for ever………………..382