The Project Gutenberg eBook of Le nostalgie

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Title: Le nostalgie

Author: Luigi Gualdo

Release date: October 1, 2006 [eBook #19428]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE NOSTALGIE ***

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LUIGI GUALDO

LE NOSTALGIE

TORINO F. CASANOVA, EDITORE

1883

LE NOSTALGIE

I.

. . . . .

*

Invitte stanno le superne cime
  Ancor dal genio umano inesplorate;
  Noi, nell'ore moderne scolorate,
  Dimentichiamo i mali della vita
  Cercando intorno le dorate rime.

Le cerchiamo nell'anima ferita
  E nell'azzurra terra ove si sogna,
  Le cerchiamo nel ver, nella menzogna,
  Nella brama d'un'estasi incompita,
  Nel rimpianto dell'uomo, in quel che agogna.

Facciamo scaturire una fontana
  Dalla sabbia—e dal mal la Poesia,
  Poichè l'evocatrice fantasia
  Che non ha culla e che non ha confine,
  Dovunque regna e da ogni cosa emàna.

E nel suo regno non vi son più spine,
  Non v'è di luce un troppo caldo raggio…
  Spira sempre una blanda aura di maggio,
  Simile a un soffio di spiaggie divine
  Che spande oblìo sovra il terren viaggio.

E là talor dell'immenso poema
  Qualche verso ne dice il rio, lo stelo;
  Sorge dal suolo una nota di cielo,
  Un lampo guizza allo sguardo abbagliato
  E intravediam la verità suprema.

Nell'oscuro desir del nostro fato,
  Cui sol misterïoso Amore schiara,
  Invan cerca lo spirito assetato
  Il ver celato dalla sorte avara.
  —E forse il nostro sogno è il meno errato.

È il metro stesso che la mente ispira,
  E quando in noi sentiam lo sconosciuto
  Poter, che tutto intorno a noi fa muto,
  Oh l'ascoltiam! Che forse s'ode il vero
  Da una corda ancor muta della Lira.

Forse nel ritmo è chiuso ogni mistero
  E nella Forma è la suprema legge,
  Forse un concerto l'universo regge,
  E nelle norme d'un divin pensiero
  Ogni stella pel ritmo si sorregge.

Non sveliamo i dolor, l'ire, le piaghe,
  Davanti al volgo indifferente, o lieto
  Del duolo nostro, ignaro del segreto.
  Oh nol cantiamo! Chè noi siam gli eletti,
  I soli accolti alle lucenti plaghe.

Soli sediamo ai magici banchetti
  E soli entriamo per le argentee porte;
  Per noi le antiche dee sono risorte,
  Tutto miriamo sotto arcani aspetti,
  Cantiam la vita e scrutiamo la morte.

Intrecciamo le gemme alle ghirlande,
  Voghiam sul mare verso l'orizzonte,
  Fin lontano lasciam le nostre impronte,
  Carichi di tesor, di spoglie opime,
  L'arte seguiamo paurosa e grande!

Noi ritorniamo vêr le cose prime,
  Tentiam svelare ciò che in noi si muove,
  Le nostre gioie le troviamo dove
  Brillano chiare le dorate rime,
  Nella purezza delle forme nuove.

* *

Così, talvolta, quando il bianco foglio
  S'annera, e i versi sgorgali dalla penna,
                         Vedo una fulgida
  Mèta e la Musa che col gesto accenna,
  E il cor mi batte per rinato orgoglio.

Tutto risplender parmi nella vita
  D'onde la triste realtà scompare,
              E senza lagrime,
  Senza nulla svelar dell'ore amare,
  Seguo il sentiero che la Musa addita.

E incontro forme immateriali e pure,
  Ma somiglianti a note forme amate,
              Figure pallide,
  Pupille azzurre arcanamente oscure
  E lunghe chiome al vento abbandonate.

Le incontro per la via mesta e serena
  Dove il sognare sempre ne conduce,
              E mi sorridono
  Con uno sguardo strano da sirena,
  In cui ritrovo pur l'antica luce.

E là tra i rivi rapidi d'argento,
  Nel chiarore lunar che tutto avvolge,
              Sull'erba morbida,
  Sotto alle piante che non temon vento,
  Involontario il canto mio si svolge.

Varia la scena, sorgon sontüose
  Ville di marmo in mezzo alla verdura,
              Dove ne olezzano
  Sui vecchi muri le novelle rose,
  E s'apre un atrio pieno di frescura.

Amo errare così per il paese
  Vasto del sogno ove tutto s'oblìa…
              Ma poi mi sveglio,
  La vita torna a diventar palese,
  E mi ritrovo sulla dura via.

E allora m'abbandona ogni fierezza,
  Ardua fatica è ripigliare il canto;
              Il verso languido
  Somiglia a debil ala che si spezza,
  E rido amaramente del mio vanto.

E parmi allor che la vita nemica
  Noi sfuggire possiam sol per brev'ora;
              Poichè implacabile
  Torna e ne schiaccia con la sua fatica
  E il coraggio ch'è in noi sperde e divora.

Pure i miei versi—altera illusïone—
  Sembravano condurmi ad una mèta
              Lontana e fulgida…
  E sorge al guardo mio la visïone
  Che ad ora ad ora evóca in me il poeta.

* * *

Il poeta dovria cantar l'eterna
  Lotta dell'uom col male e col desire,
              L'ardua battaglia
  E dei sensi e del cor che ne governa,
  La ribellione al duolo nostro sire.

Si dovria dire il Sogno e insiem la Vita,
  Approfondendo il vero ed il reale
              Ancor recondito,
  Poi spazïare ancor nella infinita
  Regïon che attira le instancabili ale.

E il volpossente che la musa ispira,
  Dal seno della terra infino all'alto
              Ignoto vertice
  S'inalzerebbe in vorticosa spira,
  A ogni ascoso desir dando l'assalto.

Dalle grotte celate al firmamento,
  Dalle lagrime apparse all'imo core,
              Contando i battiti,
  Dal lamento dell'uomo a quel del vento,
  Dall'amor della donna a quel del fiore.

Scrutar dovremmo arditi ogni problema,
  Dall'eterno mister che su noi libra
              Il cielo limpido,
  Fino al basso sentire che ne scema
  L'intelligenza e in noi la forza sfibra.

Se il robusto voler che l'alma eleva
  Sentiamo sol per un fugace istante,
              Se manca al povero
  Turbato spirto una possente leva,
  Al nostro core un palpito costante,

Troviamo almeno in tanto male istesso
  Forme novelle all'arte imperitura,
              Cantiam l'angoscia
  Del morbo arcano ond'è lo spirto oppresso
  E i dolor vani aggiunti alla natura.

Ma celar non dobbiam la brama intensa
  Di purezza ch'è in noi—acre rimpianto—
              Nè il sogno roseo
  Che ognor davanti all'occhio d'uom che pensa
  Sorge soave tormentoso incanto.

Tentiamo sviscerar dalla moderna
  Vita febbrile un'arte ultima e nuova,
              D'onde gli acrissimi
  S'alzan profumi e dove chi s'interna
  L'inconscïente suo mal or ritrova.

Ma ricordiam che batte eternamente
  In petto all'uomo un immutabil core,
                   E che negli ultimi
  Stanchi poeti d'una smorta gente
  Della lira d'Orfeo l'eco non muore.

II.

SEPARAZIONE

        Weary to death with the long hopeless keeping
        The watch for day that never morroweth.
                                            JOHN PAYNE.

A GIUSEPPE GIACOSA

*

Sopra il vasto terrazzo in marmo bianco
  Sta, seduta la dama altera e bionda;
  L'atteggiamento sul sinistro fianco
  Rivela lassitudine profonda.

Attraverso le fronde verdeggianti
  Sereno è il cielo sull'immenso mare,
  E s'ode l'eco dei remoti canti
  De' pescator che van per l'onde amare.

Ella è vestita di velluto rosso
  Con ricche trine e gemme rifulgenti;
  Il suo corpo divin talora è scosso,
  Rabbrividisce… eppur son dolci i venti,

E all'azzurro lontan volge l'azzurro
  De' suoi sguardi pensosi, ma l'arcano
  Indistinto pensier senza susurro
  E senza gesto, va assai più lontano.

* *

Il suo pensier traverso il bene e il male,
           Or chiaro or torbido,
  Come nave sul mare a gonfie vele
  Vola nel sogno verso l'ideale.

Ella ha sete e vorrìa l'assenzio e il miele,
           La manna e il tòssico,
  E sente in seno l'onda d'una brama
  Che or soave diventa ed or crudele.

Ella giunge le mani e attende e chiama,
           Tra speme e tedio,
  Il presentito compimento ignoto
  E la gioia fatal che ha sol chi ama.

Chi ama e vive e più non sente il vuoto
          Dell'ore rapide,
  E la pace che fa invocar la guerra,
  E l'avvenir che ognora è più remoto.

E il suo core talor tutto si serra
          E cessa il palpito,
  Ma poi torna il desir senza la speme
  E le sembra esser sola sulla terra.

E mentre ignara del suo mal pur geme,
          La solitaria
  Dal cielo implora i tormentosi affanni,
  Purchè vi sia chi con lei pianga insieme.

E che dan le dovizie a' suoi vent'anni?
          L'avito orgoglio
  E le turbe inchinate al suo passaggio?…
  Ella vorrebbe dispiegare i vanni

Dell'alma ardente al fulgido miraggio!
          —Ma resta immobile,
  Schiava del fato, con la testa china,
  Nè sa perchè tanto l'attrista il maggio;

Nè sa perchè, quando il sole declina,
          E malinconica
  Scende la sera sulle umane cose
  E par misterïosa la marina,

E sullo stelo languono le rose,
          E le mestissime
  Note lontane dell'Ave Maria
  S'odon venire in tra le piante ombrose,

Ella sente un conforto ignoto pria,
          Ed una languida
  Pace discende sullo spirto stanco
  E dormire per sempre ella vorrìa,

Ma invano poi sull'inquieto fianco
          Sonno benefico
  Attende mesta fino alla mattina.
  Oh! perchè abbrucia il suo guanciale, bianco

Come la neve sopra vetta alpina?
          E perchè pallido
  Ogni dì più diventa il suo bel volto,
  Più flessüosa par quando cammina?

E che le fa l'aureo crin disciolto
          Ad ogni zeffiro,
  E che le forme pure e sculturali,
  Se l'occhio indarno all'orizzonte è vólto?

Se indarno sente che le batton l'ali,
          Se niun può leggere
  Le cifre arcane che il suo sen racchiude,
  Le aspirazioni giovani, immortali?

Tremando, con la mente ella dischiude
          La strada al torrido
  Lontan paese ove il suo sire ha vinto
  Le barbare tribù feroci e nude,

E d'onde dee tornar, di gloria cinto,
          Al freddo abbraccio
  Di lei che invano egli amerìa d'amore,
  Mentr'ella ha il cor dal dover solo avvinto.

Ella tutto darebbe—e lo splendore
          Delle sue caccie,
  E le sale dorate ov'ella deve
  Sotto un sorriso ascondere il dolore,

(Mentre la luce le fa il cor più greve)
          E le magnifiche
  Gemme pesanti sulle bianche spalle,
  Pari a rugiade sparse sulla neve,

E le vesti per oro antico gialle,
          E pur le candide
  Storiche perle della sua corona,
  E il feudo antico e monte e piano e valle,

Per un dì sol di vita vera e buona.

* * *

Sotto il terrazzo, per l'angusta via
  Dalle libere frondi ottenebrata,
  Un giovanetto pallido s'avvia
  Verso la mèta della sua giornata.

La mèta incerta ov'ei sarà la sera,
  La borgata ove forse avrà riparo.
  Va col liuto ad armacollo e spera
  Che il castellan non gli fia troppo avaro.

La chioma bruna scende in molli anella
  Sul collo bianco e sul farsetto umile,
  Ha l'occhio grande e ner, parvenza snella,
  E il sorriso sul labbro giovanile,

Mentre lo sguardo è già pensoso e triste
  E il magro viso è contro il mal già fiero
  Come di chi traverso al duol persiste.
  —Tal va l'ignoto e bello passaggiero.

* * * *

E andando per la strada polverosa
          Egli fantastica
  Come si suole nell'età primiera
  Quando la vita appar misteriosa.

E sente in cor cantar la primavera.
          Stormir le foglie
  Della speranza in tra i fior sboccianti,
  E avvicendarsi un'allegrezza altera

Alla mestizia dei primieri incanti.
          Poichè nell'animo
  Ei già presente le vicine lotte
  Tra il ver crudele ed i desiri affranti.

E spesso son le note sue interrotte,
          Nè per l'irrompere
  Dei singulti saprebbe una ragione…
  Pur piange spesso quando vien la notte,

Poi lo rinfranca ancor la visïone
          Piena di gloria
  D'un avvenir purissimo e ridente,
  E sente che uscirà dalla tenzone

Incoronato da una luce ardente
          E con il premio,
  Ignoto ancor, d'un bacio pien d'oblio,
  Pien di memorie celestiali spente.

Ma l'alma sua è mesta nel desìo
          Indescrivibile,
  Ed una ingenua pace ognor s'estolle
  Involontaria dal suo petto a Dio.

E nelle vene il sangue gli ribolle,
          E qual da freccia
  Ferito è dal desire indefinito
  Della lontana sua speranza folle.

Perchè gli diè natura il guardo ardito
          Fatto al dominio,
  Pur dolce sì che fino all'alma arriva?
  E il portamento libero e spedito,

La mano bianca del lavoro schiva,
          Il volto pallido
  Ed i bruni capelli inanellati,
  La mente tanto imaginosa e viva?

Perchè il suo spirto aspira ai grandi fati,
          Alle battaglie,
  All'avventure ed ai perigli strani,
  Alle pene sublimi, ai dì beati?

Contento ei già vorrìa morir domani
          Purchè una pioggia
  D'amor sentisse scender nel suo core,
  E tener fra le sue due bianche mani

Potesse nella calma che in amore
          Segue la torbida
  Divina ebrezza che fa l'uomo altero
  E gli fa rinnegare ogni dolore.

Oh! se trovasse in mezzo al suo sentiero
          La mesta e giovane
  Castellana sognata lungamente
  Nelle malsane gioie del pensiero,

Superba e di bellezza risplendente,
          Ma resa languida
  E impietosita da un accento vero,
  Dal suo liuto o da un sospiro ardente,

Ei non vorrìa parlar, ma l'occhio nero
          A lei rivolgere
  Saprìa soltanto, e col ginocchio al suolo
  Offrirle alfine il suo core sincero.

E tutto dirìa poi con voce lenta:
          Il lungo attendere,
  L'antica speme ed il suo giovin duolo,
  E la brama divina che il tormenta,

E della fantasia il mesto volo,
          E il caldo irrompere
  Dei desideri immensi e trionfanti
  Dal cielo giunti in amoroso stuolo:

E tra le varie note de' suoi canti
          La dolce ed unica
  Nota che torna sempre inesorata,
  Fra l'acre gaudio dei soppressi pianti

E il balsamo dell'alma innamorata,
          E allor la fulgida
  Dama un sol bacio gli porrìa sulli occhi
  Ed ei con l'alma lieta ed affannata

Il volto asconderìa nei suoi ginocchi.

* * * * *

Egli andrà in fondo al lungo suo sentiero
  Senza trovare il dolce dì sognato.
  Ella all'oceano
  Calmo o furente volgerà l'altero
  Languido sguardo interrogando il fato
          Che non si può mai compiere.

Oh! chi può dir di questi amori, ignoti
  L'uno all'altro qui in terra, il compimento
  Paradisiaco?
  Oh! quando fiano i lor desiri immoti
  E in un confuso il duplice lamento
          E l'ineffabil gaudio?

Quanti tramonti ancora e quante aurore,
  Quanti voli da questo a quel pianeta,
  Oh! quanti secoli
  Dovran fuggire pria che il dì d'amore
  Sorga a riunire il giovane poeta
          Alla sua dama pallida?

. . . . . . . . .

III.

STORIA DI MARE

Spuntava il dì sereno; non aleggiava vento
  Sulla spiaggia che il flutto batteva molle e lento,
  Da breve ora soltanto s'era levato il sole.
  La pura aura marina, che spira fresca ed ole
  Con un profumo amaro, facea ondeggiar la tela
  D'una tenda costrutta con una vecchia vela.
  Non una voce. Solo come un punto in distanza
  Qualche barca da pesca che lentamente avanza.
Ma a un tratto dalla tenda una fanciulla bionda,
  Bella come la Venere che sorge in mezzo all'onda,
  Uscì qual visïone luminosa, inattesa.
  Sulle spalle superbe la chioma avea distesa,
  Ed il vestito bianco svelava la bellezza
  Delle sue forme pari alle antiche in purezza.
  I piedi sulla rena lasciavan delicata
  Orma di piante e dita che parevan di fata.
  Con gli occhi color d'aria dalle arcuate ciglia
  Guarda la giovin scena a cui ella somiglia
  Con una espressione di gioia giovanile.
  —O la freschezza lieta d'un bel giorno d'aprile!
  Per toccar le conchiglie s'abbassava talora,
  Ed una ne ammirava tutta rosea, e sonora.
  Si soffermò un istante, gettò uno sguardo intorno
  All'orizzonte chiaro dove brillava il giorno,
  Formando una visiera della sua aperta palma,
  E poi ridente, piena d'una letizia calma
  Corse nel mar, siccome da alcun desir fatale
  Attratta, e avviluppata da un fascino ideale.
  —Poi le mancò il terreno ed allungò le braccia,
  Le aprì, le riallungò, seguendo una sua traccia,
  E cominciò a nuotare con leggiadra baldanza.
  Già nelle prime mosse pervenne a una distanza
  Incredibil dal lido—elegante e veloce.

Non si sarìa potuta richiamar con la voce.
  Dritto davanti a lei, rapida e risplendente
  Ella fendeva i flutti, e ognor magistralmente
  Alzandosi e abbassandosi nel variato suo corso,
  Talvolta si voltava e nuotando sul dorso
  Guardava il vasto cielo, e sul fianco talvolta
  Al lido la dolcissima faccia tenea rivolta,
  Giuocando e andando sempre, come fosse rapita
  Dai venti—e poi talora in estasi infinita
  Parea dormisse, chiusi gli occhi azzurri e belli,
  Sparsi sul bianco viso i biondi suoi capelli.

Quest'era dall'infanzia il solo suo piacere.
  Sempre la si vedeva e per giornate intere
  Correre verso il largo. Preferiva il mattino,
  L'ora in cui è deserto il lido ed il cammino.
  La conosceva appena un vecchio marinaro.

Al bacio sol dell'onde fremea quel corpo ignaro.

Non si potea per essa conoscer la paura.
  Appena circondata dall'acqua amara e pura,
  Era nel suo elemento; e quando poi serena
  E allegra uscìa dai flutti, simile a una sirena,
  Il suo bel corpo bianco destava meraviglia.
  Pareva il mar sua culla, ella del mar la figlia;
  Del vasto oceano ignoto ognor sentiasi amica
  Ed ignorava ancora che fosse la fatica.
  Con le braccia sublimi qual di marmo animato
  L'Ellesponto ella pure avrìa attraversato
  Senza paura—ed anco senza desir d'amore!
  E spesso nella calma estiva e verso l'ore
  Pesanti del meriggio, scotendosi le goccie,
  Usciva tutta gaia, e in sulle ardenti roccie
  Si coricava offrendo del sole ai caldi baci
  Le giovanili forme innocenti e procaci.
  Là rimaneva a lungo placidamente, l'alma
  Sentendosi confondere alla natura calma.
  L'ira degli elementi per lei era una festa
  E sorrideva altera in mezzo alla tempesta.
  Era una dolce musica per lei lo spaventoso
  Rumoreggiar dei flutti che non hanno riposo
  E fra le nubi oscure il sibilar dei venti!
  —Ma preferìa l'arcano amor degli elementi,
  Il lungo bacio queto del pelago alla terra
  Allora che dei nembi s'è calmata la guerra,
  La molle ondulazione che ne viene dal largo
  Quando tutto s'addorme in un lento letargo,
  E quando, per cullarle sovra i flutti soavi,
  Sembra che il mar domato cerchi le grandi navi.

Quel giorno, ancor più lieta, piena di gioia pura
  Nuotava in alto mare in fra l'onde sicura.
  Lontana assai da terra si soffermò un istante,
  Tra la spuma giocò, poi senza andar più avante
  Si coricò e fu immobile—bagnando l'aureo crine
  Nell'acqua, che la linea sì delicata e fine
  Del viso incorniciava di cristallo verdastro.
  —Nel cielo s'innalzava gloriosamente l'astro
  Del giorno.—Ed ella alzava al vasto firmamento
  Gli occhi che d'azzurro s'empiano e di contento.

Alfin si mosse.
                Allora provò una gran sorpresa:
  Un giovane mai visto, con una mano tesa
  Dritto verso di lei nuotava ed un delfino
  Parea, maestoso qual era in suo cammino.

Veniva. Egli era bello al par d'un dio pagano.
  Veniva. Ad ogni istante era meno lontano.
  Avea i capelli bruni., non lunghi ed arricciati,
  Da gocciole lucenti coperti ed imperlati,
  Ed il suo viso imberbe più giovin dell'aprile
  Era d'una bellezza perfetta e femminile.
  Ei pure era sorpreso, e coi grand'occhi neri
  Pieni di dolce ardore e languidi ed alteri
  La contemplava fisso. A un tratto fu vicino.
  —«Io ti scorsi da lungi nel raggio mattutino.
  Colui che non vedevi per ammirarti accorse.
  Che niuno sa nuotare al par di me…»
                                     —«Io forse»
  E fuggì via. Ma rapido ei la raggiunse. Allora,
  Nuotando insieme andarono uniti per brev'ora,
  A forze uguali. A lei pareva fosse un gioco
  E quasi senza sforzo pur lo vìnceva un poco.

Ognor s'allontanavano. Ma dopo lunghi istanti,
  E stanca di guardare all'orizzonte avanti,
  Ella pur si voltò, e i loro sguardi alfine
  S'incontrarono. E allora le pupille divine
  Nell'innocenza sua fissò sul nuotatore
  E ingenua il contemplava e senz'alcun rossore.
  Essi correvan sempre; ma ecco che improvviso
  Una espressione strana le si dipinse in viso.
  Ignota lassitudine di lei s'impadroniva,
  Parca che le sue mani cercassero una riva…
  Il giovin se ne avvide, e le pupille fisse
  Sempre su lei: «Sei forse un poco stanca?», disse.
  —«Io? Giammai». Ma frattanto facevansi più lenti
  Mentre così dicea tutti i suoi movimenti.
  In tutto lo splendore sul vastissimo piano
  Il sole i rai possenti vibrava più lontano,
  E quella immensità che avean dinnanzi a loro
  Pareva tempestata di grosse gemme d'oro,
  Ma a riposar lo sguardo, sovra le loro teste
  Stendevasi tranquilla l'immensità celeste.

Senza contare il tempo andavano silenti.
  Ella era tutta gaia, ma già nuotava a stenti
  E si sentia contenta e un poco umiliata.
  Faceasi il respir corto e la lena affannata,
  Ed una man tenea sul seno palpitante,
  Ed egli le chiedea sommesso, ad ogni istante,
  S'ella era lassa, e sempre, sdegnosa e sorridente,
  Rispondeva di no. Eppur sensibilmente
  Ad ora ad or scemavano le forze sue già vinte
  Ed avanzava solo a disperate spinte.
  In fin le stese il braccio ed ella affranta, muta
  L'afferrò febbrilmente e già quasi svenuta.
  Tutta sentiasi invasa da ignoto turbamento.
  L'un contro l'altro stretti andavano col vento
  E i corpi si toccavano splendidamente belli
  E l'aura alla fanciulla i dorati capelli
  Moveva, e li spingea in opulenta massa
  Sulle spalle imbrunite di lui. Ell'era lassa,
  E di guardarlo in viso quasi più non osava…
  Egli con occhi languidi e ardenti contemplava.

S'allungavano forse gl'istanti all'infinito,
  Volavan forse l'ore?—Il tempo era smarrito.

Ell'era ognor più stanca. Il nuotator robusto
  La sostenne, cingendo il suo corpo venusto,
  Traendola con sè. Con forza prodigiosa
  La portava qual fosse una languida rosa.

Ella avea chiuso gli occhi, e quasi inconsciente
  Il cor di confidenza pieno ineffabilmente,
  Spinta da irresistibile e nuovissimo istinto
  Le braccia intorno al collo del giovine avea cinto.
  Egli mirava l'ombra che le palpebre chiuse
  Gettavan sulle guancie di pallore suffuse,
  E le labbra vermiglie. E si sentìa sul petto
  Le mosse di quel core a battere costretto,
  E per la prima volta. Ei mormorò sommesso:
  —«Io t'amo».
             Ella rispose: «Mi salva».
                                     Allor più presso
A lei cui già mancava la voce egli si stese
E con le labbra ardenti le dolci labbra prese.

La fanciulla innocente serrò con infinita
  Tenerezza colui che le dava la vita,
  Colui ch'ella, già debole, chiamava salvatore.
  E nulla ella sapeva pur sapendo l'amore.
  Lo sguardo nel suo sguardo ella teneva fisso,
  E in estasi novella pareale in un abisso
  Cadere lentamente, nelle brame infinite,
  Parean le loro bocche eternamente unite
  Ed era un di quei baci che finir non si ponno.
  Sembrava su lor scendere misterïoso sonno
  E a un tempo li riempiva possanza sovrumana.
  Egli sentiva in sè vibrar la forza arcana
  D'una felicità che non avrà più fine,
  Urtarsi le violenze delle gioie divine,
  E allor dalla sua bocca del bacio prigioniera
  Un mormorìo s'udì, una voce leggiera.

Gli augelli che passavano in ciel con l'ali aperte
  Fermavansi a guardare quelle due forme incerte
  E sovra il dolce gruppo circoscriveano il volo.
  E quello che vedevano sembrava un corpo solo
  Pien di forza e di grazia e doppio ed indiviso,
  Simile a visïone d'ignoto paradiso.
  Fu un lampo. Ma rinchiuso in la breve durata
  Era un eterno gaudio. Lei s'era risvegliata
  E le parea risorta esser già dalla morte
  E spinta nel mistero d'una novella sorte…
  E s'abbrancava al giovine e lo teneva stretto.
  Ma fu lui che pel primo sentì scemar nel petto
  Il soffio ed il vigore… fu lui che la fortezza
  Aveva degli olimpici cui vinceva in bellezza.
  E con un lieve gemito, un rantolo d'amore,
  Da un'indicibil estasi suprema, da un languore
  Si sentì tutto invadere soavissimo e fatale
  E si coprì il suo volto di pallore mortale.
  Ed egli sprofondava. Per un minuto ancora
  Ella il potè sorreggere, ma poi cedette, e allora
  Sempre più avvinta a lui, confusi in una speme,
  Unì il suo corpo al suo per rimanere insieme.
  —E lenta ma sicura già l'inghiottiva l'onda.—Pria
  s'agitò una forma, indi una chioma bionda
  Si vide ancor confondersi col bianco della spalla;
  L'oro di quei capelli restò un istante a galla,
  Poi l'acqua lo coprì con mormorio leggiero.—
  Ella lo avea seguito nel sogno e nel mistero
  Sentendo che divisi non sarìano più mai.

E più vivi ed ardenti dardeggia il sole i rai:
  Sovra l'immenso oceano più nulla si discerne.
  I flutti hanno più flebili le lamentele eterne,
  E par che alfin si stenda, dovunque, in ciel, sull'onda,
  Inalterabilmente serenità profonda.

IV.

ALLA SERA

Stanca è la terra e lasse son le cose;
  L'uomo è languente come la natura.
  Scende dal cìelo una gran pace oscura.
  Pendono già gli steli delle rose.

L'uomo è languente come la natura.
  Sorgon dall'alme le armonie nascose,
  Pendono già gli steli delle rose,
  Cessa la gioia e cede la sventura.

Sorgon nell'alme le armonie nascose
  Rivelatrici di vita futura…
  Cessa la gioia e cede la sventura
  Tra l'acri voluttà misterïose.

Rivelatrici di vita futura
  Son le tinte fugaci e calorose;
  Tra l'acri voluttà misterïose
  V'è un senso di speranza e di paura.

V.

. . . . .

Rose appassite cui non rise il sole,
  Vergini morte senza udir parole
  Dolci al cor mesto lungamente attese—
  Bellezze altere cui mentì la vita,
  Cui già sfiorò la guancia impallidita
  L'ala del tempo che volando offese,

Malati ingegni che non ebber lena
  E che al salir del monte giunti appena
  Caddero stanchi in vista della meta.
  Amanti orbati dalla fredda morte,
  Spirti legati da dure ritorte,
  Voi cui miseria ogni desire vieta,

O passeggieri per la vita vuota,
  Poeti oscuri! A voi sale la nota
  Del canto arcano che il mister susurra,
  Ed in voi soli sta l'eterno tema
  Che—protesta fatal, vago poema—
  S'erge alla sorda vasta vôlta azzurra.

Voi tutti unisce un vincolo fraterno,
  Intirizziti dallo stesso inverno
  Che congela nel cor gl'impeti veri,
  E fra tutti un dì voi riconoscete,
  Mesti assetati dalla stessa sete,
  Compagni di desiri e di pensieri.

Piangete tutti qualche spento amore
  La cui memoria è com'eco che muore,
  O qualche ingenua aspirazion che fugge;
  Voi nell'esilio d'una vita immota
  Pensate sempre ad una patria ignota,
  Non mai veduta, ma che il cor vi strugge.

E quei cui schiavo nella casa stretta
  La via che fugge all'orizzonte alletta,
  Forse deluso tornerìa dal polo
  Se potesse partir—e intanto soffre
  Di non saper carpir quello che s'offre
  Istante d'oro ove si piglia il volo.

Invan correte il mondo e la ventura
  Cercando nel mutar della natura
  Un pascolo allo spirto irrequieto.
  Fuggite sempre da voi stessi invano,
  E qual le stelle che dal ciel lontano
  La stessa luce mandano sul lieto

O triste suolo, indifferenti e belle,
  Così nel cor—simili all'alte stelle—
  Gli stessi sensi in region remote
  V'agitan sempre, e come al firmamento
  L'Orsa si mostra e la luna d'argento,
  Stanno nell'alma vostre brame immote.

Vittime tutti d'uno stesso inganno,
  Nell'imo vostro cor chiuso è l'affanno
  Che la parola invan cerca ridire,
  E s'ode solo qualche flebil suono.
  Incompreso dai più, mentre che un tuono
  Sublime dorme nelle vostre lire.

VI.

PRESENTIMENTO

La candida fanciulla ha sedici anni
  E non provò nè duolo ancor, nè gioia;
  Ignora i gaudi tristi e i dolci affanni
  E il disperar per fieri disinganni,

Quando sembra che il cor nel petto muoia.

Sciolti e cadenti i suoi capelli biondi
  Sul roseo volto dai grandi occhi puri,
  Allor che, o sole, i vasti campi inondi,
  Ella si siede sotto l'alte frondi

Nei recessi al meriggio ancora oscuri.

Sulla sua via ell'ha ben lievi impronte,
  Il suo passato ancora non le pesa,
  Niun periglio ella scorge all'orizzonte,
  Le tempeste ella ignora, i mali e l'onte,

E non sa nè il rimpianto nè l'attesa.

La terra è allegra sotto al firmamento,
  È puro il giorno come il suo bel viso,
  Par che tutto il creato sia contento,
  Cantan gli augelli mentre tace il vento,

La terra rende al cielo il suo sorriso.

Fiutano i bovi l'aura profumata,
  Ronzan tra i rami mille alati insetti;
  La pianura serena, illuminata,
  Vive una vita intensa e più beata,

Fremono già i misterïosi affetti.

E allora in mezzo a quella pace lieta;
  Sotto la vasta celestiale vôlta,
  Lei che improvviso ignota speme asseta,
  In tra la gioia cósmica e segreta

Si sente triste per la prima volta.

VII.

NEL PARCO

Nel mistero del crepuscolo
  S'addormìa la villa e il parco.
  Io sognavo ai tempi rosei,
  E la speme moribonda
  Cui ravviva la profonda
  Solitudine degli alberi
  Al mio cor trovava un varco.

S'era spento allor l'incendio
  Del tramonto all'orizzonte
  Nelle tinte d'oro e porpora,
  Celestiale ed uniforme
  Luce blanda sulle forme
  Si spandeva e nello spazio
  Cancellando l'altre impronte.

Cancellando ogni vestigio
  Doloroso delle lotte
  Che la vita sempre genera,
  Sul color troppo vivace
  Distendendo la sua pace,
  E annunciandone già prossima
  L'aura sacra della notte.

Si sentìa l'epitalamio
  Ineffabil della sera,
  V'eran soffii e note languide
  Che turbavano la mente,
  E facevan che le spente
  Rose antiche rifiorissero
  In ogni anima più nera.

VIII.

SEMPER ET UBIQUE

L'amour pleure en tout temps et triomphe en tout lieu.
                                  VICTOR HUGO

A GIOVANNI CAMERANA

*

A me, stupito, apparve un giovinetto
  Coronato di rose il crin ricciuto.
  Mi sorrise e guardò, ma stette muto
                Al mio cospetto.

Pareva, fatto ver, sogno d'artista
  Da ingelosir Pigmalïone o Apelle;
  E gli occhi suoi parean due nere stelle
                    Senz'ombra trista.

Pieno d'incanto era il suo bel sorriso,
  Fatte pei baci le sue labbra rosse,
  Armonïose le leggiadre mosse,
                    Fulgido il viso.

La sua tunica bianca a liste aurate
  Lasciava nude le marmoree braccia;
  Sul volto suo non si vedeva traccia
                    D'ore passate.

Vuote le mani, senza flauto o lira,
  Pur silente sembrava ch'ei cantasse
  Con la presenza sua—e l'alme lasse
                    Togliesse all'ira,

Alle lotte, ai dolori, ai desìr vani
Con la purezza del sereno sguardo.
—E compresi ch'egli era a parlar tardo
                    Per gaudi arcani.

Ed ei lieto tacea. Ma alfine io lessi
—Interpretando l'occhio che parlava
I segreti dell'alma allegra e schiava
                    Sul fronte impressi.

E diceva il suo sguardo: È senza inganni
La vita, e il cielo ognor ride ai mortali!
Più non invidio ai cherubini l'ali:
                    Ho diciott'anni.

Il mondo è mio, il piano e la foresta;
I vezzosi giardini e i verdi colli
Già mi donaron tutti i fior che volli
                    Per farmi festa.

Mai non si stanca questo piede e varca
Il monte che conduce all'alta mèta;
E non invidio alcun, prence o poeta,
                    Dotto o monarca.

Ed ignoro le voglie ambizïose,
Non mi curo d'imperio o di potenza,
Sprezzo i tesori, e d'oro so far senza
                    Perchè ho le rose.

Parlo tacendo e regno senza spada
E rinnegar la gioia mia non voglio,
Ma il segreto svelare dell'orgoglio
                    A ogni contrada:

Sono superbo perchè sono vinto
Dalla fragile man d'una fanciulla;
E mi tien quella man che si trastulla
                    Di fiori avvinto.

Ella è candida e bionda, alta e sottile
Nella maestà delle nascenti forme,
Divine son de' brevi piedi l'orme
                    Sul suolo vile.

Lo sguardo suo celestïale è pieno
Di ricordi di cielo e di speranze,
E le vïole acquistano fragranze
                    Sovra il suo seno.

E nel sentiero ombroso ed appartato,
Sotto le piante antiche ed indulgenti,
Passiamo uniti lungi dalle genti
                    A lato a lato—

Ciò diceva il suo sguardo, e lo splendore
Crescea della pupilla e del sorriso…
Aprì la bocca alfine, e d'improvviso
                    Mormorò: «Amore…»

* *

Obliai questo sogno. I giorni grigi
  Uniformi passavan senza eventi;
  E stetti a lungo ascoltando i concenti
  Del perenne tumulto di Parigi.

Vivevo assorto tra i rumori strani
  Della vita febbrile affaccendata,
  Dimenticando l'ora, il dì, la data,
  Noncurante dell'oggi e del domani.

Era bel tempo—ed il cangiante smalto
  Del ciel verdastro e grigio verso sera
  Facea parer tutta la folla nera
  Che passava serrata sull'«asfalto».

Un dì, seduto in mezzo al gran frastuono
  Dell'ampia via su cui l'ombra scendea,
  Sognavo senza concretar l'idea
  Mentre coi lumi già cresceva il suono.

Sorgevan vaghe imagini riflesse
  Dalla svariata scena a me davanti:
  Studïavo la storia dei sembianti,
  Le intere vite in un sol gesto espresse.

E quella via era teatro e specchio.
  Ma a un tratto si fissò la mia attenzione
  Sovra d'un uom che fra tante persone
  Umil passava e dispregiato: un vecchio.

La barba grigia avea lunga ed incolta,
  E come giunto a qualche passo estremo
  Stanchissimo pareva e quasi scemo,
  Qual chi non parla mai e rado ascolta.

Smorte, scarne le guancie, incerto il passo,
  A brandelli le vesti, e tremolanti
  Le magre mani, ei si fermò davanti
  A noi, guardando indifferente e lasso.

Lo spingeva la folla ed i monelli
  Al cencioso beon davan la baia,
  Si scostava la dama e l'ambubaia,
  L'insultavano i ricchi e i poverelli.

Ei non se ne accorgeva, e tra le rozze
  Spinte d'ognun mangiava un po' di pane,
  Proprio sul passo delle cortigiane,
  Tra il continuo rumor delle carrozze.

Mi vide, mi fissò nel viso, e fosse
  Ch'egli scorgesse in me pietà od ingegno,
  Si raddrizzò, guardò, cambiò contegno,
  Sorrise mestamente, e non si mosse.

Oh! qual tristezza in quello sguardo spento!
  Quanta miseria nell'aspetto affranto!
  Quanta eloquenza in quelle rughe, e quanto
  Dolore in quella bocca senz'accento!

Vi si leggevan vergognose doglie,
  E forse—orrende malcelate impronte
  D'anni passati tra rimorsi ed onte—
  Ebrezze trangugiate e morte voglie.

Nella moderna ed acre poesia
  Di quella strada pazza e fragorosa,
  Quale contrasto nella orribìl prosa
  Del misero che soffre e non desìa!

Tra la lotta malsana dei piaceri,
  In quella gara delle immonde brame,
  Null'altro egli sentiva che la fame
  E non avea ne sensi nè pensieri.

Gli diedi una moneta e domandai
  Più con lo sguardo assai che con un motto
  Come si fosse in tal stato ridotto,
  Per qual sequela di sventure e guai.

Allor la sua pupilla ebbe un bagliore,
  Crollò il capo scotendo il bianco crine,
  E con la rauca voce disse alfine
  Una parola sola: «Amore, amore…»

IX.

GLI AMORI

*

O felice la Grecia! Sensüale
  E puro insieme per la forma pura
  Vi librava l'amor le rapid'ale.
  Ignorando i tormenti e la paura.

O sereno l'amor che ingenuo assale,
  Che Orazio canta in seno alla natura,
  Scandendo il verso dolce ed immortale
  E bevendo il falerno fuori mura!

Il cielo sorrideva e il lieto sole
  Irradïava la beltà pagana,
  E musica sembravan le parole.

Là nel bosco s'udia passar Dïana…
  E Afrodite che regna dove vuole
  Era indulgente per la stirpe umana.

* *

E nella ferrea età medioevale
  Dalle barbare pugne e dai portenti,
  Tra i fati avversi ed i furor cruenti,
  Crescea pallido il fior dell'ideale.

Sostenea ne' perigli e negli stenti
  Il giovin paggio una cura immortale;
  Ei tenea chiusa nel cuore leale
  La bella fede de' suoi dì ridenti.

Un sorriso bastava. Egli moriva
  Per la divisa sovra il brando scritta,
  —O se tornava alla natìa sua riva

Per più non ritrovar la derelitta,
  Il vecchio cavaliero ancor sen giva
  Con la corazza da uno stral trafitta.

* * *

Poi divenne l'amor falso, elegante,
  Al dolore ribelle e insiem crudele;
  E se restava un core ancor fedele
  Pareva in uggia al secolo incostante.

Il convento s'apriva a qualche amante
  Sconsolata, e chiudevasi.—E le vele
  Verso Citera vôlte al suono de le
  Vïole seguitava il trionfante

Tragitto il bel navilio pien di suoni,
  Dai cordami di seta rispondenti
  Come corde di cetra alle canzoni.

Le donne artificiose e sorridenti
  Scordavano le labili passioni
  Col core pronto ai capricciosi eventi.

* * * *

Nella vita moderna comprendiamo
  La storia tutta degli amor passati.
  —Dal dì che ingenuamente il motto: t'amo
  Diciam, la prima volta innamorati,

Non sentiam solo in noi l'antico Adamo,
  Ma insieme al suo l'amor di tutti i vati,
  Il desir forte ed il languire gramo
  Del mesto cor, dei sensi inacerbati.

Nell'estasi più pura che levarne
  Può fino al cielo, pur sentiamo invisa
  La colpevol memoria della carne:

Nel loto ove sguazziamo in bassa guisa
  Un pensiero risorge a tormentarne,
  E sogniam d'Abelardo e d'Eloisa.

X.

UNA VOCE

*

Era deserto il vasto cimitero,
  Nella pace suprema silenzioso;
  Qua e là pel verde prato, maestoso
  S'alzava un monumento alto e severo.

E tra una fila di cipressi tristi
  Stavan gli umili avelli al par sacrati;
  Molti che qui passarono obliati
  Alfin dormivan là cheti e non visti.

Pendean dal tempo scolorite e storte
  Le antiche croci in legno nero—rotte
  E infracidile ognor dalle dirotte
  Pioggie inondanti il campo della morte.

Qualcuna si vedea su cui d'affetto
  Ultimo pegno stava ancor posata
  Una ghirlanda misera e sfiorata
  Che la mestizia ne risveglia in petto.

Coperte di mal erbe e insiem d'oblio
  Altre vedeansi ove taceano i lai:
  Stavano là da niun compiante mai,
  Con le due nere braccia aperte a Dio.

E nel vento spirante intesi voce
  Lugùbre e fioca da una tomba uscita:
  Era suon che venìa dall'altra vita:
  Mi piegai per udir sovra la croce.

—«O voi felici cui riscalda il sole!…
  Dimmi, mortal, che fate ancor tra i vivi?
  O voi che avete il cielo, il mare, i rivi,
  La terra, i fior, le piante, e le parole,

«Sospirate? Piangete ancor? Sperate?
  Che fate là? V'amate ognor? Gioite?
  Ancor chiedete al tempo le infinite
  Gioie fuggenti già in dolor mutate?

«Ai raggi incantatori della luna
  Sentite ancor le bramosìe nascose?
  Sonvi le selve ancor? Sonvi le rose
  Ch'esalano l'amore ad una ad una?

«Ti parlo qui, mortal, dall'altra riva,
  Dalla riva ove il vero è senza velo.
  Mi appar chiara la terra e aperto il cielo,
  Benchè giaccia quaggiù di luce priva.

«Son qui da sola, in questo avel, gelata
  Ultima stanza ove s'attende Iddio,
  —Verrà l'anime a scioglier dall'oblìo
  Dell'angelo divino la chiamata?

«Ma fino allora, oh! quanto è questa cella
  Gelido albergo per il corpo stanco!
  —Rigida sta nel suo lenzuolo bianco
  Colei che un giorno fu chiamata bella.»

* *

Gorgheggiavano intanto gli augelletti
  Smentendo tutte le tristezze umane.
  Splendeva il sol sulle iscrizioni vane,
  Sui nomi già scordati—o benedetti.

Mormoravan le piante all'aura estiva,
  E volsi il guardo al calmo firmamento,
  Limpido come il ver, pien di contento,
  Eterno sulla vita fuggitiva.

E dissi allor: Sognai. La tomba tace.
  La tomba è vuota. In tutto il cimitero
  Compie natura il suo vital mistero;
  Sorgono fiori dal terren ferace.

È lieto il cimiter, natura è lieta,
  Il dolore è nell'uomo e nella vita.
  Il resto è pien della gioia infinita,
  Della gioia immortale a noi segreta,

O voce ch'io credeva udir dal suolo
  Sorger vêr me con un mesto susurro,
  Piomba dall'alto invece e per l'azzurro
  Fino quaggiù discendi ratta a volo!

Volsi lo sguardo al ciel—l'orecchio invano
  Tesi aspettando l'implorata voce.
  Scordavo il duol della vicina croce,
  Ma il verbo non venìa dal ciel lontano.

XI.

. . . . .

*

Fuggiva il giorno ed io pensai: l'estate
  Segue la primavera e passa, e viene
  Il queto autunno, e poi le sconfortate

Brume; ma pur dopo le amare pene
  Giungon le gioie e l'esultanze liete,
  Dopo le lotte son l'ore serene.

L'uomo dopo la vita avrà quiete
  Nella luce letal crepuscolare,
  E dei desir più non saprà la sete.

Sì, una vita ventura che spaziare
  Lascierà l'alma nostra alfine pura
  Come libero augello sovra il mare

Verrà, ma forse nella nostra oscura
  Mente sogniam la speme d'una vita
  Fulgida troppo in la sorte futura.

Dei mondi nella serie indefinita
  Entro un mondo sarem di veli avvolto,
  E la luce sarà vaga e sbiadita.

Ne parrà forse rivedere il volto
  D'alcun che amammo sulla terra vieta,
  Ma mestamente fia l'occhio rivolto.

Avrem raggiunto il porto, ma la mèta
  Ne apparirà diversa e men lucente
  Di quanto disse ogni miglior profeta.

Un grigio azzurro regnerà; fian spente
  Allor le tinte più sonore e vive;
  Tutto parrà languire eternamente.

Color di perla, interminate rive
  Si seguiran, cristalli inargentati,
  E piante ignote d'ogni raggio schive,

E smorti fiori come addormentati
  Nell'eterno sopor dolce e fatale,
  E profumi sottili ed ignorati

Senza gli aromi turgidi del male,
  Senza i poemi intensi del dolore
  E dei peccati senza l'aureo strale,

Senza le lotte del terreno amore,
  Sarà quale ombra d'una vita arcana,
  E regnerà dove non suonan l'ore

Una nuova mestizia sovrumana.

* *

Pure al domani sotto il sol raggiante
  Che illuminava i piani e l'alte cime
  E mutava ogni goccia in un diamante

E pareva attestare il ver sublime.
  Sentii scendere ancor nell'alma lassa
  Il peso della vita che ne opprime.

Mi parve ancor che qui ove tutto passa,
  Ove il dolore sol di nostro è certo,
  E ogni voglia ne attira odiosa e bassa,

Ove tutti si va per cammin erto
  E faticoso ad una ignota mèta,
  Non sapendo il perchè d'aver sofferto,

Ove lo spirto mai non si disseta
  E ribellar sentiamo prigioniera
  L'alma rinchiusa nella fragil creta,

Temibile non è per l'uom la sera,
  Che alfin dirà ciò che a ciascuno è ignoto,
  E affermerà se la speranza è vera

O se il destino d'ogni senso è vuoto.

* * *

Ma sul mio capo s'avvolgean le spire
  Dei rami d'una quercia secolare
  Dal tronco immane che non vuol morire.

Ed ecco, a un tratto, io la sentii parlare!
  Una rauca e sottil voce da un ramo
  Su di me scese e dovetti ascoltare.

—«Ah! tu almeno t'arresti quando chiamo,
  E fai silenzio a queste mie parole.
  Odon le piante. Mentre leggevamo

Nel tuo pensier che ignora ciò che vuole
  E che per false strade si disperde,
  Ridemmo, chè sei cieco innanzi al sole.

Bello risplende delle frondi il verde
  Sull'azzurro del cielo, e altero è il fiore,
  —E in vani sogni il tuo pensier si perde,

Sorride il sol nell'allegro splendore,
  E le messi che zeffiro accarezza
  Piegano liete innanzi al mietitore;

È gaio il mare per la dolce brezza
  E avrà la gioia pur della tempesta…
  E trilla l'augellin che il guscio spezza.

Sulla terra e nel ciel dovunque è festa,
  Pur chiuso è ancor dell'universo il fato
  E l'avvenir che agli esseri s'appresta.

«Tutto è mister, ma nel tronco ingrossato
  Scorrer sentiamo il vital succo, come
  Il mondo sente vita in ogni lato.

L'aura folleggia tra le sparse chiome…
  Vengon gli amanti uniti—e poi retrivi
  Cercan sui tronchi nostri inciso un nome.

E le foglie agitiamo e siam giulivi
  Ignorando il destino, e pur sentiamo
  Che ovunque è vita. E tu solo non vivi?

Tu pensi e scruti e dici: il vero io bramo.
  E intanto passano i momenti vani
  E le fronde non vedi sul mio ramo,

Breve è la vita e lungo il suo domani,
  Qualunque sia. Sorridi dunque e sorgi!
  Qui non dormire i sonni tuoi malsani!

Il mondo è immensa gioia che non scorgi».

XII.

LA CASCATA

Irradiata di sole, spumeggiante,
  Dalla roccia scoscesa la cascata
  Vedea cader laggiù—romoreggiante,
                  Inalterata.

E anch'io nel cor sentivami un torrente
  Non bianco nè fulgente—doloroso—
  Ma in quel posto si fè subitamente
                  Meno penoso.

Ed una voce udii tra quel fragore
  Che mi disse: Tu pure hai la sorgente
  Come la mia. Dessa si chiama Amore
                  Eternamente.

Lascia che scorra dal tuo core aperto,
  In essa affogherai ogni tristezza;
  Ti scorderai perfin d'aver sofferto
                  Nell'allegrezza.

Compresi il ver, provai la commozione
  Che ne riempie l'alma tutta intera,
  E mi sentii nel petto una tenzone
                  Dolce ed altera.

E a me stupito là su quella sponda,
  Della vita tra il duolo e l'egra noia,
  Parve il cader dell'acqua vagabonda
                  Pianto di gioia!

XIII.

ATARAH
AD ARRIGO BOITO

*

Atarah regna sopra un vasto impero;
  Ha dolce l'occhio e lo sguardo severo,
  E passa eretta fra le vinte genti.
  Le sue pupille sono più fulgenti
  D'ogni fuoco che brilla al diadema
  Pel quale ognuno innanzi ad essa trema.
  La strana gemma che il coturno allaccia
  Dall'alto carro par che guardi in faccia
  —Mentre il corteggio maestoso incede—
  Il popol schiavo che le giunge al piede,
  (Al piè divin che sa sulla cervice
  Dell'uom posare e renderlo felice).
  Ella è possente, e se bella non fosse
  Col terror frenerebbe le sommosse;
  E come un uomo ella saprìa regnare
  E ricever l'incenso dell'altare.
  Ed anco è bella, e se non fosse forte
  Padrona pur sarebbe della sorte,
  E senza scettro ella potrìa guidare
  La moltitudin cui dal monte al mare
  Abbaglia il ritmo di sue forme e il truce
  Occhio languente dall'arcana luce.

Ella non teme alcun rivale e sfida
  Che il più grande l'offenda o la derida,
  E non paventa alcun Iddio e china
  Non si prostra ad alcun, poichè è divina.
  Sapïente, l'immenso impero regge
  E per sè non conosce alcuna legge
  E frena il mondo e non subisce freno.
  —E quando passa, alta e scoperto il seno
  Marmoreo e bruno e coronata in fronte,
  Porta la gloria alteramente e l'onte.

Prostràti al suolo cristïani e mori
  Miran tacendo i mostruosi amori
  Cui potenza e talento ognor la spinge—
  E i suoi desir stupiscono la sfinge
  Che sogna sempre nella sabbia avvinta
  Dall'immenso silenzio intorno cinta.

Ella tutto provò. Nei più segreti
  Abissi del piacer con gl'inquieti
  Sensi seguì la mente che galoppa,
  La fantasia malsana; e nella coppa
  Cercò l'ultima goccia. E tutto il campo
  Del possibile scorse (come lampo
  Che ovunque guizza) e lo trovò assai vasto,
  Ma limitato. Nulla m'è rimasto?
  Disse sognando, e con la sua possanza,
  Con l'ingegno che annulla la distanza,
  Con la muta scïenza della carne,
  I toccati confin vuole allargarne.

Si risovvenne ed inventò. La storia
  Le fu maestra, ma ad infame gloria
  Peggiore ell'è d'ogni regina; strinse
  Più stretti i nodi alla chimera e vinse
  Semiramide stessa invidïosa
  Nel superbo sepolcro.
                        A mente che osa
  Aiutata dall'oro e dal potere
  Natura cede.
               E nelle calde sere
  Perfino il puro ciel complice anch'esso
  Parea s'inebbriasse, a lei sommesso
  Con le infinite stelle. Ed ella in alto
  Guardava meditando un qualche assalto
  Per convertire coi desiri occulti
  Il firmamento ad infernali culti.

  Lo spirto suo è astuto, ardito e pazzo.
  —Talor sdraiata in sull'alto terrazzo,
  Talor seguente in mare le sue flotte—
  Ora voluttüosa in lunga notte
  Lontan dal sole nel gioir si affoga,
  Ora il nemico di sua man soggioga.
  Brevi battaglie lampeggianti adora
  Ed orgie senza termine in cui l'ora
  Passa obliata—Poi con regal calma
  Ozïosa sogna all'ombra d'una palma.

* *

Ella tornava un dì da una vittoria
  Suprema, cinta d'abbagliante gloria.
  E bella al par d'una immortai guerriera…
  Il suo serto splendeva nella sera
  Siccome un sol notturno sulla terra,
  E il popol suo e quello vinto in guerra
  Tremavano davanti al suo passaggio.
  Ed il cielo taceva sovra il maggio
  Fiorito e caldo, e la città giuliva
  Fiammeggiante brillava sulla riva,
  Accesa tutta da un delirio immane,
  Vivente mare fatto d'onde umane,

Sul re captivo ella teneva fise
  Le sue pupille.
                  Ella l'amò e l'uccise.

Dei prigionieri poi fissò la sorte;
  Prescrisse strane leggi; ogni coorte
  Vide sfilare in una polve d'oro.
  I serti vinti chiuse nel tesoro
  E prodigò le gemme. Poi le sale
  E i cortili s'aprirò a colossale
  Festa.
         Nel colmo del gioir furente,
  Ella scomparve. Andò per la silente
  Aperta scala al sommo del palazzo
  D'onde scorgeva l'assordante e pazzo
  Spettacolo dell'orgia impicciolito.
  E allor pensò, pensò con infinito
  Ardire. Ed un desìo sentì dolente
  E acuto; e assorta sulla sala ardente,
  Che avea per vôlta il cielo imperturbato,
  Ora volgeva l'occhio ancor velato
  Da torve ebbrezze, ora mirava invece
  Le calme stelle scintillanti. Fece

  Un gesto stanco, indi la mano stese
  E lentamente una gran coppa prese,
  E la vuotò con un gesto demente.
  S'accese la pupilla stranamente,
  Sparì dinanzi agli occhi suoi la festa,
  Curvossi indietro la sua bella testa
  Smorta e bramosa sotto il diadema,
  E cadde morta in una ebbrezza estrema.

XIV.

LA BARCA

Vidi una rotta barca sopra l'umida
  Spiaggia caduta, e giunta ai giorni estremi;
  Dall'albero pendea una vela lacera,
              Eran perduti i remi.

Smarrito è ormai il vessillo che fluttua,
  Franto il timon, le sarte—e la sirena
  Scolpita sulla prua, ridente al pèlago,
              Ahi! giace nella rena.

E gli arabeschi, e le dorate, ingenue
  Pitture son raschiate, e nulla resta
  Della prima parvenza e del bell'impeto
              Delle sere di festa.

Triste rovina avvolta nella polvere,
  Pur bella ancora per le svelte forme!
  —Simile all'uom che all'avvenire torbido
              Stanco rinunzia e dorme.

Tra le nubi del ciel, beffardo irrompere
  Scorgeasi un raggio sulla terra serena.
  Guardai. Sconnesse erano ormai le fradicie
              Coste della carena.

Era quella la barca che l'oceano
  Dovea meco solcar cercando i lidi
  Dove viviam felici nell'orgoglio
              Dei sentimenti fidi.

Era quello il navilio delle fervide
  Speranze nelle imprese ardimentose
  Per cui s'attese invan vento propizio
              Mentre appassian le rose.

Non indugiate mai, voi che la gondola
  Tenete in riva pronta per salpare.
  Furioso irride con lo scherno orribile
              Agli aspettanti il mare.

Varate pur tra la bufera rapida
  In tra i lampi ed i tuoni e le saette,
  Fidate pur le vostre gioie al turbine,
              A un fragil alber strette!

Per chi parte tra i fulmini e le tenebre,
  Sfidando il mar con una fede ardita,
  Spesso si snebbia il cielo e azzurro illumina
              Una novella vita.

XV.

. . . . .

Alta e superba nella sculturale
  Perfezïon delle sue forme pure,
  Pare una statua greca—eppur sa il male
              Delle tristezze oscure.

Divine son le linee del suo volto,
  Le curve altere della sua persona.
  —Nel bianco petto è un cor che soffrì molto
              E al soffrir s'abbandona.

Invano nel mirare il suo profilo
Scorre il pensiero ai lieti dì d'Atene
E ricordiam la Venere di Milo.
              —Le ore non son serene.

A poco a poco sul marmoreo viso
Nuovo pallor pose la vita. Antica
È la bellezza sua, ma il suo sorriso
              Conosce la fatica.

XVI.

RESURRECTA

              Che la vostra miseria non mi tange,
              Nè fiamma d'esto incendio non m'assale.
                                         DANTE

*

Ella già visse nell'antico Egitto,
  Tra le città che sembran visïoni,
  Allor che gloriosi nel delitto

Trionfavan superbi i Faraoni;
  E guardò calma col gran d'occhio nero
  Le feste immense e l'orride tenzoni.

Pallida e bruna, col sorriso altero,
  Della immobile Sfinge colossale
  Sfidò lo sguardo bianco ed il mistero

Con la serenità d'una rivale.
  —E degli amori sempre più implacati
  Conobbe il peso e il fàscino letale;

E gli ascosi desir negli abbagliati
  Occhi d'intera folla plaudente
  E le brame che lottano coi fati.

—Poscia sparì d'in mezzo a quella gente,
  La splendida sua vita ebbe una fine;
  Crebbe il pallor, fûr le pupille spente,

S'irrigidir le sue forme divine
  Qual prodigio che subito s'arresta,
  E nel sonno calò senza confine.

In bende avvolta fu dai pie' alla testa,
  E sotto la piramide, in l'eletto
  Sepolcro preparato come a festa,

Dormì mill'anni con lo stesso aspetto.

* *

Ora è fra noi. Per mistica e segreta
  Legge rinata sotto nuovo clima,
  Come una evocazione di poeta,

Bellezza tal che realtà sublima!
  I dolori dell'oggi ed i desiri
  Guardando senza sprezzo e senza stima.

Ahi! non cura le gioie ed i martiri
  Di quest'epoca folle ed ammalata,
  Ed ignora la causa dei sospiri.

E resta calma e pensierosa, e guata
  Tra le piccole feste e il triste amore,
  Nel trionfo paranco trasognata.

Della sua vita e morte anterïore
  Un vestigio sul viso l'è rimasto;
  Vi si scorge il ricordo che non muore

Dei sogni ardenti e del suo sonno casto.

XVII.

FRA I MONTI

*

Giovani e già dalle uniformi grevi
  Vicende affranti e dal tornar dei giorni
  Inesorabili,
  Dagli anni lunghi e dai dì troppo brevi
  Ora tumultüosi or disadorni,

Risospinti dal caso, ancor riuniti,
  Ma più divisi assai che dagli eventi
  Dal sentir intimo,
  Un istante obliavano, smarriti
  In te, Natura, che il cuore addormenti.

* *

Andavan soli come ai dì passati
  In una valle chiusa in mezzo ai monti.
  Era il meriggio,
  Ma sui verdi sentier dal sol dorati
  Nell'alme loro v'eran due tramonti.

Ei camminava mesto, lentamente.
  Guardando le pupille dolorose
  D'azzurro limpido
  E la purezza del profilo, e spente
  Quasi sul volto a lei le belle rose.

Gli antichi dì parean tornati ancora;
  Ei credeva sognare un sogno vero.
  Le foglie tremule
  Mormoravan su lor come in allora
  Che Amor li precedeva sul sentiero.

L'alte montagne nere e i verdeggianti
  Colli e le roccie e i pini e le cascate
  D'argento vivido
  Suscitavano in lui gli antichi canti,
  Ricordavano a lei l'ore passate.

Mirava il triste sguardo ed il sorriso
  Ancor più triste—e gli diceva i fati
  Lungo il silenzio
  E la terribil calma del suo viso
  E i suoi capelli d'oro scolorati.

Egli sentiva nuovo atro dolore
  E non osava prenderle la mano.
  Il labbro roseo,
  La bocca semiaperta come un fiore
  Davan tormento di desir lontano.

Andavan sempre, appena una parola
  Vana scambiando ed un sorriso mesto,
  Ma come un rantolo
  L'inutil detto ritornava in gola
  Ed il sorriso scompariva presto.

Giunsero alfine al pie' d'una cascata
  Che dall'alto piombava eternamente;
  E stanchi, subito
  Sedetter sulla pietra logorata
  Sotto la piova dell'acqua cadente.

Tutto era verde intorno, alberi ed erbe
  Ed il muschio dei sassi ognor spruzzati
  Dall'acqua candida,
  Verdi le foglie e verdi le superbe
  Cime dei monti eccelsi e imperturbati.

A un tratto innanzi a loro una parvenza
  Vaga si leva. Uno spettro gentile,
  Ahi! bello e pallido,
  Oltremodo e silente. Eppure senza
  Stupore lo guardaro in atto umile.

Poichè l'avevan ben riconosciuto
  Al pallore, agli spenti occhi divini,
  Ai raggio livido
  Che uscìa da lui, ed al suo labbro muto,
  —E rimaser tremanti, ad occhi chini.

Era il povero antico amor, perduto
  Da tanto tempo, d'ogni speme privo,
  Disciolto in l'aere!…
  E fûr trafitti da un rimorso acuto,
  L'antico amor non era ahimè! più vivo.

Ahi! senza vita egli era a lor davanti
  Coi capelli di fiori incoronati,
  Ma eran languide
  Appassite ghirlande e i vecchi pianti
  S'eran negli occhi suoi cristallizzati.

Lo spettro cadde a terra. Allor pietosa
  Anco una volta la bella compagna
  Posò un ginocchio;
  Lui pure si chinò; la prezïosa
  Salma portaro in mezzo alla campagna,

La portarono insieme a un vasto prato
  Solitario più ancora e là, scavata
  La terra, un tumulo
  Apprestarono, ed or giace isolato
  L'amore che finì la sua giornata.

La fossa è larga e guarda il firmamento
  Perchè ei possa risorger s'è immortale,
  Ed in silenzio
  Restaro a lungo là senza lamento
  E sentivan passar soffio letale.

Ed ella, fredda, lui guardava intanto
  Senza fede oramai ne' giorni bui.
  Guardava gelida;
  Ed ei sentì che l'occhio senza pianto
  Dicea che aveva amato più di lui.

XVIII.

. . . . .

La terra è un punto in mezzo al firmamento,
Tra una polve di soli astro ignorato:
Atomo è l'uomo ignaro del suo fato,
            Che appena nato è spento.

—Cosi pensiam nelle ore solitàrie
  Quando è di noi signor solo il pensiero,
  Quando cerchiam senza fralezza il vero
            E scrutiam l'invisibile—

Ma allor che avvinti da due bianche braccia
Nella festa dei sensi appare il vero
E ne sembra si fonda ogni mistero
            Nel mistero d'un bacio,

Sentiam che vasto più del vasto cielo
E più forte del fato Amore impera,
Che l'uomo è il re per cui vediam, la sera,
            Steso il sidereo velo.

XIX.

LA VILLA

*

Risplende il sole; il vasto cielo puro
  Distende la sua pace sovra il mondo;
  Dormono le colline, e lungi, in fondo
  Mette una riga nera il bosco oscuro;

Ed il largo viale sontüoso
  Conduce nella villa abbandonata,
  Aperta, dove l'alta sala ornata
  È piena di frescura e di riposo.

Errando nel tepor del mezzogiorno,
  Due vaghi amanti innanzi a quella villa
  S'arrestan contemplando la tranquilla
  Vista pensosi e il muto parco intorno,

Il vecchio giardiniere ai vaghi amanti
  Mostra la casa, e lor dice una storia
  D'amor celati e di trascorsa gloria,
  Di luminosi giorni e amari pianti—

E d'una principessa innamorata,
  Da ognun respinta e fiera del suo fallo…
  —E la descrive—amazzone, a cavallo
  Passare per la strada ombreggïata—

Amorosa sedere in sul terrazzo
  All'ora del tramonto a Lui vicino,
  —Poi sollevare uscendo dal giardino
  Con la piccola mano il greve arazzo.

* *

I vaghi amanti erraron fino a sera
  Tra le aiuole e i sentieri, e nelle vaste
  Gallerie, su e giù tra le rimaste
  Gaie memorie d'una gioia vera.

Il sorridente amor loro appariva
  Il sovvenir d'un sentimento fido,
  La lunga festa del nascosto nido,
  La passion che nel desir si avviva,

I rai del sol sulle sboccianti rose
  E la profonda gioia contenuta
  E il ridere argentino fra la muta
  Complicità festosa delle cose.

Ridean le cose. Un'allegria infinita
  Usciva dai cespugli, dai viali,
  E tra i profumi e un vivo batter d'ali
  Nell'ebbrezza la mente era smarrita.

E desiaron di restare. L'alma
  Dovea goder più dolcemente e forte
  In un tal sito l'indulgente sorte
  Che permetteva lor sì dolce calma.

* * *

Ma l'ombra scese della sera, a poco
  A poco invase il cielo ed ogni loco,
  E stese un velo sui ricordi lieti.
  S'adombraron le lucide pareti,
  Smorti si fero i bei colori, spenti
  Gli estremi bagliori aurei correnti
  In su le stoffe sontuose e oscure,
  Sulle quali vivevan le figure
  Dipinte una esistenza tenebrosa
  Mentre morìa la vita vera. Ascosa
  Malinconia sorgeva nei recessi
  Amati dove dagli Dei concessi
  Divini istanti eran trascorsi.
                                E voci
  Sorger pareano arcane—e dubbi atroci
  Mormoravano allora e di segreti
  Dolor non anco espressi dai poeti
  Svelavano a metà l'atro mistero,
  Senza parole definite, il vero
  Nudo mostrando e la fuggente gioia.
  E lo spettro s'alzava della Noia
  Regina alfine, ed i sospetti muti
  S'infiltravan siccome dardi acuti
  Per l'alme scosse nella giovin fede.
  E si sentia che l'uomo, triste erede
  Di colpe antiche e di fralezze vili,
  Sol può tener con vincoli sottili
  Per un istante l'alta, passaggiera
  Felicità, senza misura, intera.

Piangean le cose—una tristezza immensa
  S'alzava ovunque; si facea più densa
  La tenebra che ai cuori s'infiltrava.—
  Nello sconforto che la mente aggrava
  I rosei sogni già finiano in pianto—
  Rotto pei due era il soave incanto—
  La villa, prima gaia e ospitaliera
  Nel dì sereno, or diventava nera,
  Arcigna e chiusa in ostile rifiuto.
  Sacrileghi sentiansi entro quel muto
  Tempio dal Dio crudele abbandonato
  Su cui librava il minacciar del Fato
  Uguale sempre e che si fugge invano.

Il desire parea fatto lontano.
  Ed un fantasma incontro a lor venìa
  Che avea sul volto il Duolo e l'Ironia,
  La sazietà e la gioia bugiarda,
  L'ipocrita pietà per cui s'attarda
  L'amor che menzognero ancor sorride.

Il vecchio giardiniere allora vide
  Fuggire i due amanti impalliditi:
  —La bella villa dai cortesi inviti
  Or sembrava un soggiorno di iattura,
  —Scansando il malaugurio, dalle mura
  Usciron presto del giardin deserto,
  E ripresero il lor cammino incerto.

SONETTI

XX.

GIOIA PASSATA
A J. M. DE HEREDIA

Il palazzo è di marmo, e le fontane
  Ebber zampilli lieti e gorgoglianti;
  Sovra i pilastri due leon rampanti
  Superbi ancora alzan le zanne vane.

Il cancello ad ornati irti e pesanti,
  Semiaperto, cadente, alle lontane
  Ville ricorda ancor le pompe insane
  E le feste e gli amori e gli alti vanti,

Ma l'erba intanto cresce in sul viale,
  La ruggine corrode i gran blasoni,
  E stanno chiuse le istoriate sale,

Ahi, prive di chiarore e di canzoni!
  —La noia regna in fra le due grand'ale
  E con l'edera sale pei balconi.

XXI.

RISPOSTA A H. CAZALIS

Credete che la forma passaggiera
  Dalla materia eterna ch'è sua culla,
  Come caduta in mar goccia leggiera
  Disparirà nell'ocean del nulla.

Sperate che il destin che si trastulla
  Con l'alma nostra rifulgente e nera,
  Allor che lascerem la terra brulla
  Ne affogherà dentro una notte vera.

Ma v'ingannate: eterna è la condanna.
  Desire ignoto gli scomparsi affanna;
  Nasce chi muore, ad altro sol gettato.

Ma forse il dì della stanchezza estrema
  Comprenderemo alfin tutto il poema,
  Ed in quel dì perdoneremo al fato.

XXII.

RITRATTO

La testa, il busto suo da imperatrice
  Sembran scolpiti in marmo imperituro;
  Nel circo avrìa sorriso al morituro
  Gladiator, suprema vincitrice.

Il morso dei desir, che a noi non lice
  Impuniti pensar, nei dì che furo
  Avrìa sentito e nel triclinio impuro
  Regnato bionda incoronata attrice.

Or passa altera ma non più serena
  Nella moderna vita dolorosa,
  E il suo pallor dice la stanca lena,

Lo sguardo fisso la mestizia ascosa,
  Lo sforzo d'una fede che raffrena
  L'irrequieto spirto che non posa.

XXIII.

RITRATTO

Ella ha i capelli biondi e gli occhi neri,
  Lo sguardo dolce ed il sorriso astuto,
  Parla talora il ciglio e il labbro è muto,
  Volan le chiome e gli occhi son severi.

Ha buono il core e lo spirito arguto
  E i detti or folleggianti ed ora alteri,
  Variano i suoi pensier sempre sinceri,
  Ama la canzonetta ed il liuto,

Ama il chiarore della luna mesta
  E il falso luccicare della scena,
  Si sente triste in mezzo ad una festa,

Senza ragion l'alma ha di gioia piena.
  Vuole la calma e brama la tempesta,
  Bionda con l'occhio ner, cupa e serena.

XXIV.

RITRATTO

Col nero e lungo sguardo e con l'arcana
  Vaghezza del sorriso che indovina,
  Con la raccolta sua chioma corvina
  E col caldo pallor che il viso emana,

Ella sembra venuta da lontana
  Festa opulenta dove fu regina.
  Gemma salvata dalla gran rovina
  Della passata gloria veneziana.

Ma per lei si vorrebbe altra cornice:
  L'antico Canalazzo pien di festa
  Al tempo di Venezia imperatrice.

Dagli ornati scalini ecco s'appresta..
  E sullo smalto di quel ciel felice
  Spicca il profilo della bruna testa.

XXV.

È un castello feudale in miniatura,
  Dall'abbandono sorto in nuovo aspetto;
  Sei secoli passaron sul suo tetto
  E or ridon bianche le vetuste mura.

Solitario ed in mezzo alla frescura
  D'alte piante, tra verdi prati eretto,
  Da una profonda fossa è ancor protetto
  E d'acqua ha ancora una larga cintura.

Ma il ponte levatoio è fisso ormai,
  E aperta sta la sala allegra e vasta
  Dove non giunge il mugghiar del vento.

E ne sembra il castello, allor che i rai
  Vibran del sol che la torre sovrasta,
  Gioiel di pietra legato in argento.

XXVI.

RASSOMIGLIANZA

Vidi l'umido labbro e pur procace
  Lo sguardo per lussuria semispento,
  E il ciglio pien di volontà tenace
  E la fermezza del marmoreo mento;

Mirai la linea del profilo altera,
  La maestà della sua guancia smorta,
  E dissi: È larva od è figura vera?
  È viva o dal passato alfin risorta?

Chi è mai? Chi fu?—Ma nuova visïone
  S'alzò dinnanzi alla mia mente scossa:
  Era una sala aurata, e più persone
  In una luce profumata e rossa,

E Lei rividi bella e tenebrosa
  Versar l'ebbrezza in cesellata coppa
  E accendere il desir che più non posa
  Ma vola ognor della Chimera in groppa!

Era l'antica cena di Ferrara,
  L'amor letale ed il velen dell'orgia…
  E riconobbi, uscita dalla bara
  Alla moderna età, Lucrezia Borgia.

XXVII.

PAESAGGIO

Senza rumore, immacolata e lieve,
  Sovra il ghiaccio del lago smerigliato
  In linee lunghe scende ognor la neve
  E bianco sembra l'aere rigato.

E fino agli orizzonti indefiniti
  Tutto è candore. In sulle opposte rive
  Pendono gigantesche stalattiti
  Coperte di diamanti e luci vive.

Si disegnano i rami delle piante
  In bianco sovra il cielo grigio e smorto.
  I fiori son spariti e tutte quante
  Le frondi e l'erbe. Ed ecco tutto è morto

Per un tempo e sepolto nell'inverno.
  Cosi tace talora ogni desìo
  E sembra spento pure ciò ch'è eterno
  Sotto il manto di neve dell'oblìo.

XXVIII.

SOTTO UN RITRATTO

Diritta e bianca sorge in sul cammino
  Arido e triste della vita umana,
  Fragile come un fior di gelsomino,
  Eppur dotata di potenza arcana;
  Soave qual chi ancor ride al destino
  Ma altera come l'errante Dïana.

Dalle svelte sue forme arrotondate,
  Dallo sguardo, un olir voluttüoso—
  D'acri gioie imminenti ed aspettate
  Spira, desìr sotto le nevi ascoso.
  Il sen, le braccia di bellezza armate
  Formidabili sono nel riposo.

XXIX.

MARINA

Par quasi nero il mare sconfinato
  Sotto il cielo pesante e cupo. Il vento
  Tace e tutto ne sembra addormentato;
  Nella natura ogni volere è spento.

Dovunque regna una oppressiva pace,
  S'odono mormorii sottomarini.
  Si dirìa ferma alfin l'ora fugace
  E che immobili pendano i destini.

Ma è minacciosa la profonda e mesta
  Calma che rassomiglia ad una morte…
  Ed ecco, lungi, un soffio di tempesta
  Ed un fragor di ferree infrante porte!

Sordo rumor e lampi ardenti e tuoni,
  Tenebra fitta e luce che ne abbaglia…
  E in mezzo alle fulgenti visioni
  La letale magia della battaglia!

XXX.

MARINA

Di gente affaccendata è pieno il porto.
  Tutto è clamore, grida e voci sorde;
  Parlano i marinai con gesto accorto,
  Stridono lungo gli alberi le corde.

Al brulicar del suolo fa contrasto
  L'austera calma maestà del mare
  Che si stende color di piombo e vasto
  Fin dove sguardo umano può arrivare.

E sotto il sole ardente d'improvviso
  Tutto si tace e sta ciascuno e guata.
  Brillano gli occhi in ogni attento viso,
  La folla in varie pose sta atteggiata

Verso un sol punto. Ed ecco, abbandonando
  Lenta la riva, al pelago infedele
  Rivolta, ubbidïente ad un comando
  Esce la nave lieta a gonfie vele.

XXXI.

PAESAGGIO

Circondata da rupi alte e scoscese
  La valle è angusta, strana e tenebrosa
  Per l'altezza degli alberi. Il paese
  È degno d'ispirar Salvator Rosa.

Sotto quell'ombre, in tra le roccie rotte,
  Si sognano guerrieri in armature
  Che pugnan dal mattin sino alla notte
  Con la lancia affilata e con la scure,

Ed il cozzar de' destrier bardati
  E il fluttuar dell'ondeggianti piume
  E gli scudi sonare e gli ululati
  Dei feriti che piombano nel fiume.

I prodigiosi assalti e l'ire pazze,
  E il delirio di vincere e le scosse
  Supreme, allor che gli elmi e le corazze
  Si spezzano e le spade sono rosse,

Gli sguardi irati uscir dalle visiere
  E i lampi irradïar l'orrenda scena!
  —Ma passa un fanciullin con un paniere
  Vociando una canzone a gola piena.

XXXII.

PAESAGGIO

Tutto riposa al raggio della luna,
  Ma il viale è nell'ombra a noi davanti.
  S'ergono all'aura in lunga fila bruna
  I profili degli alberi giganti.

Biancheggia in fondo tacita la villa
  Tutta chiusa, deserta o addormentata.
  Non si scorge laggiù lume o scintilla,
  Ma la vôlta del ciel tutta è stellata.

Un poema infinito ed amoroso
  Le foglie vi susurrano giulive…
  Il parco nella notte appar festoso
  E le statue intraviste quasi vive.

Dormono i nidi ed i fragili fiori
  Posan col capo languido che pende,
  Si confondon le forme ed i colori…
  —E l'ombroso vial qualcuno attende.—

XXXIII.

A EMILIO PRAGA

Il gracile tuo corpo lotta fiera
  Brevemente pugnò:—Ma vinse alfine
  L'alma alata e fuggì. Misera fine,
                  Vittoria altera!

L'alma fuggì pari ai fulgenti versi
  Che uscìan da te quasi inconsciente e ignaro
  —E se ne andavan per le vie dispersi
                  Del mondo avaro—

E mentre qui tarda giustizia ormai
  Al tuo nome si rende sull'avello
  Che incoronato di pòstumi rai
                  Risorge bello,

E mentre qui trovano alfine il porto,
Il rimpianto e la lode i tuoi poemi,
E rivivono i primi con li estremi,
                  —Or che sei morto—

Tu forse già mutato in altra forma
Gioisci d'una gloria assai più pura,
Di qualche nuova vita nella norma
                  A noi oscura.

Ma nella tomba o in nuovi dì raggianti
Hai scordato, non vedi e non ascolti,
Ed ignori i pigmei a te rivolti,
                  Ora inneggianti!

XXXIV.

THÈOPHILE GAUTIER*

   * Dal libro Le Tombeau de Théophile Gautier
     (Paris, Lemerre, 1873).

Sereno, e stanco di vicende umane,
  Questa terra inquieta egli ha lasciato.
  Egli, il Maestro, delle forme arcane
                    Innamorato.

Era forte nell'arte—era il leone.
  Ne possedea la maestà severa,
  Lo sguardo assorto in calma visïone,
                    E la criniera.

Risuscitò l'ignota poesia,
  Evocando col suo desir possente
  Il fulgore infocato e la magìa
                    Dell'Orïente,

I monumenti sotto il cielo aperto
  Nella tòrrida luce polverosa,
  E la sublime noia del deserto
                    Senza una rosa.

Disse Bisanzio dove l'onda bagna
  L'alte moschee dalle dorate fronti,
  I calli angusti nella dolce Spagna
                    In mezzo ai monti.

Fu dell'Italia appassionato amante
  E ne applaudì la gloria e la fortuna,
  —I palazzi il ricordano vagante
                    Per la laguna.

Cantò la Gioia e il Bello e la pagana
  Voluttà della Forma, e gl'imi amori
  Delle cose e i desir—l'ebbrezza umana
                    E i suoi colori.

Eppur sapeva le segrete pene
  E le immense mestizie del poeta;
  Sentì tristezza nella morta Atene,
                    Pensò alla mèta,

Al destino, alla brama d'Infinito;
  Pianse il passato ed indagò il futuro,
  Interrogò le sfingi, e tese il dito
                    Verso l'oscuro.

L'occhio profondo all'orizzonte volto
  Assaliva i confini del pensiero…
  E il suo sogno vagava ognor più sciolto
                    Oltre il mistero.

Or lo ha seguito. Ei che raggiunta avea
Perfezione impeccabil di parola,
Sentiva in sè come sepolta dea
                    L'alma che vola.

E forse già lassù dove s'ammanta
La gran luce terribile e superna,
Bello di nuova vita, ardente canta
                    La Beltà eterna.

XXXV.

SARAH BERNHARDT

        Her eyes were as a dove's that sickeneth.
                                       SWINBURNE

Bianca apparizïon dagli occhi immensi,
  Dal magro viso smorto, dove un fiore
  Sanguigno par la bocca che nei sensi
                 Versa ignoto languore,

Ella s'avanza, arcana creatura,
  Dell'ideai col vero unione estrema,
  Anima che traspar dalla figura
                 E il corpo strema.

Ed in mezzo al silenzio uno strumento
Nuovo risuona per la vasta sala…
È la sua voce musical, portento
                 Ch'alta dolcezza esala.

Le rime echeggian nuove ed ecco i vieti
Ritmi ne sembra udir la prima volta;
Quelli accenti di fàscini segreti
                 Empion la vôlta.

Ella commove fin le turbe sorde
E l'ascosa rivela umana fibra.
Lira vivente dalle cento corde
                 Che ad ogni tocco vibra.

Or la vediamo pura statua, eterna
Classica imago dalle caste pose;
Ma all'indomani si rifà moderna,
                 E con le ondose

Movenze ed il febbril gesto e il sorriso
Parigina si mostra—avventuriera—
Gran dama—amante dallo stanco viso,
                 Smorta, morbosa, vera.

La lunga stola dalle pieghe belle
Tragicamente cade sul suo piede;
Ella prega ed impreca—irosa—imbelle
                 Comanda, chiede,

Schiava, regina dal gemmato crine—
Innamorata, ascetica, pagana…
—Poi sovra il raso sa sgualcir le trine
                 Occhïeggiando vana.

E a dieci lustri d'intervallo il dramma
Rifulge ancor nella novella attrice,
Arde in quell'esil corpo una gran fiamma
                 Divoratrice.

E, presente, il Poeta imperituro*
  Rammenta il dì della battaglia vinta!
  Ed al supremo suo trionfo puro
                 Ora la vuole avvinta.

E dico a Lei: avventurosa, insieme
  Al plauso della folla il plauso ottieni
  Di Lui che ancor dall'alto tuona e geme,
                 Spezzati i freni.

Vivo Egli assiste alla sua gloria intera;
  E applaude a te, artista, e a te sorride.
  —Il tuo meriggio unito alla sua sera
                 Non scorderà chi vide.

* Victor Hugo assisteva nella primavera del 1879 alla prova generale di Ruy Blas—in cui Sarah Bernhardt aveva assunto la parte della Regina.

XXXVI.

A ERNESTO ROSSI

Shakespear ne appar quale caverna mistica
  Da lontano riflesso stenebrata;
  Incerto è il suol, ma di rubini e zàffiri
                    La vôlta costellata.

Chi vi s'interna sente l'ali viscide
  Delle strigi passar sulla sua fronte
  E trova ignoti fior foschi e purpurei
                    Nelle sanguigne impronte.

Incespica tra i scettri e le corone,
  Urta i fantasmi mesti degli uccisi;
  Poi lo incanta la bianca visïone
                    Di sovrumani visi.

Inorridito per le larve pallide,
  Mentre fugge accecato dalle spade,
  Ode dal fiume la canzon d'Ofelia
                    E il sovvenir lo invade.

E l'immensa caverna ognora stendesi
  Da ogni lato nel mondo interïore,
  O tenebrosa nel delitto o rosea
                    Nel mistero d'amore.

E l'uomo vi si perde senza guida,
  Oppresso, ammaliato, smorto, anelo…
  Ma pur fra il tenebrore e fra le strida
                    Scorge un lembo di cielo.

Nè bello il vide mai qual nella plumbea
  Notte di quelle stanze sontüose
  Illuminar da una fessura tenue
                    Le più sordide cose.

Passan guerrieri spaventosi e taciti,
  Passan regine pel rimorso scarne,
  Tornan sibille con l'antico dubbio
                    Lo spirto a affaticarne.

Contorce il riso il labbro del buffone,
  E intanto al suoi cade una testa mozza…
  Vicino al canticchiare del beone
                    La passïon singhiozza,

La più gentil pietà vive in Cordelia
Eternamente—e ognora Otello latra;
Vince ogni senno con le forme olimpiche
                    L'imperïal Cleopatra.

Or tu, sublime attore, alta una fiaccola
  Scotendo in mano, discendesti al fondo
  Della buia caverna in cui nascondesi
                    Entro la terra un mondo.

Animoso scendesti del Poeta
  Nel vasto impero ove il volgo si tedia,
  E forzasti a parlar, possente atleta,
                    La velata tragedia.

E il popol vide corruscar di rùtili
  Gemme la vôlta, e le pareti in fiamma
  Pareangli allora che la vita scorrere
                    Sentivasi nel dramma.

Ai corpi, creator, donasti il palpito
  Strappando ad ogni petto il suo segreto;
  Nè si potè celar nel nero strascico
                    Il sognatore Amleto.

Qui ne appare un profilo e là d'un torso
  I muscoli, e laggiù brilla uno sguardo…
  Or ne atterra il delitto, ora il rimorso
                    Di Macbeth o Riccardo.

Con la toga romana, o sotto il lucido
  Corsaletto, od il manto d'ermellino,
  Del cuor dell'uom sentiamo eterno il battito
                    Pauroso del destino.

E ognor t'inoltri con l'accesa torcia,
  Infaticabil cercatore ardito,
  E rischiarato dal fulgente genio
                    Mostri un regno infinito.

XXXVII.

VENERE NERA

Era una notte chiara e tropicale.
          Nell'aria torrida
  Passava un soffio di languor letale,
          Afrodisiaco.

Sul mar brillava un luccichìo di fosforo,
          Misterïoso;
  Parca forier di cósmiche battaglie
          L'alto riposo,

Morivan lenti in su la calda riva
          I flutti languidi,
  L'onda lambendo la rena moriva
          Con lungo murmurare.

Tutto era bruno: e terra e cielo e oceano;
          Taceano i venti,
  Eppur movea lassù un arcano palpito
          Le stelle ardenti.

Stendeasi in là, vastissima pianura,
          Il suol dell'India;
  Il sacro suoi della gran fede oscura
          Pieno di tènebre.

Pareva il mar d'alto portento gravido.
          Irrequieto,
  Ma la natura già potea conoscere
          Il suo segreto.

Ecco, d'un tratto, l'onda si divide,
          E sorge argentea
  In mezzo al mar che intorno ad essa ride
          Una conchiglia,

Vasta conchiglia illuminata, rosea,
          Che par dischiuda
  Cosa di ciel, poichè vi sorge Venere
          Divina e nuda,

Ma paurosa ancor più della greca
          Bellezza candida,
  Chè bianca no, ma è d'un color che acceca,
          Di bronzo splendido.

S'allieta il ciel, la luna vibra un raggio…
          Ed ecco altera
  Incanta allora in sua beltà terribile
          Venere Nera.

XXXVIII.

INTERNO
A F. COPPÉE

Lontana dai rumor, chiara e quieta,
  Addorme il core ed il pensier risveglia
          La stanza del poeta,
  Qui c'è l'impronta della lunga veglia,
  Là stanno i libri che lo spirto adora,
  Ovunque è sparsa una malìa segreta.

La penna giace non asciutta ancora;
  Tutto spira la vita e insiem la pace.
          Ed il sole colora
  Ogni appeso ritratto: là, procace,
  Mostra un'attrice le sue grazie infide
  E turba lievemente la dimora.

Qui s'impegnò la lotta che non vide
  Il lettore distratto; e qui l'idea
  Passò come la donna che sorride,
          Poi torna Dea.
  —Su un piedestallo, bianca e imperitura,
  La Venere di Milo ne conquide

Con la sua posa eternamente pura.

XXXIX

*

In fondo ai chiari abissi prezïosi
  Che il mar contende irato agli occhi nostri,
  Gl'ignorati tesori stanno ascosi.

Difesi là da spaventosi mostri
  Ed ammassati in cristalline valli
  In tra lucenti grotte e rosei chiostri;

In tra le piante strane ed i coralli,
  Nei profondi splendor che, ignoti, per le
  Iridi hanno riflessi verdi e gialli,

Vergini d'ogni sguardo stan le perle.

* *

Così, lontani e avvolti nel mistero
  Dove sorgon spettrali visioni,
  Nel dominio fatato del pensiero,

Tra la magìa degli imminenti suoni,
  Tra i vïolenti olezzi e blandi e acuti,
  Prede rapite e ben celati doni,

Tra gli azzurri vapor come perduti,
  In confuso fulgor misti e sommersi,
  Attendendo i poeti ed i lïuti,

Non anco detti stanno i nuovi versi.

INDICE

I. Invitte stanno le superne cime 3
II. Separazione 15
III. Storia di mare 33
IV. Alla sera 47
V. Rose appassite cui non rise il sole 51
VI. Presentimento 57
VII. Nel parco 63
VIII. Semper et ubique 67
IX. Gli amori 79
X. Una voce 89
XI. Fuggiva il giorno ed io pensai 97
XII. La cascata 107
XIII. Atarah 111
XIV. La barca 121
XV. Alta e superba nella sculturale 127
XVI. Resurrecta 131
XVII. Fra i monti 137
XVIII. La terra è un punto in mezzo al firmamento 145
XIX. La villa 149
XX. Gioia passata 159
XXI. Risposta 161
XXII. Ritratto 163
XXIII. Ritratto 165
XXIV. Ritratto 167
XXV. È un castello feudale in miniatura 169
XXVI. Rassomiglianza 173
XXVII. Paesaggio 175
XXVIII. Sotto un ritratto 177
XXIX. Marina 179
XXX. Marina 181
XXXI. Paesaggio 183
XXXII. Paesaggio 185
XXXIII. A Emilio Praga 189
XXXIV. Théophile Gautier 193
XXXV. Sarah Bernhardt 199
XXXVI. A Ernesto Rossi 205
XXXVII. Venere Nera 213
XXXVIII. Interno 217
XXXIX. In fondo ai chiari abissi prezïosi 219