Title: Poesie inedite vol. II
Author: Silvio Pellico
Release date: October 16, 2006 [eBook #19558]
Language: Italian
Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr)
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L'Autore intende di godere del privilegio conceduto dalle Regie Patenti del 28 febbrajo 1826, avendo egli adempito quanto esse prescrivono.
Erano da me stati immaginati alcuni poemetti narrativi, a cui dava nome di Cantiche, ponendoli, per finzione poetica, in bocca d'antico Trovadore Saluzzese; finzione che poscia ho rigettata, non avendo più in animo di tessere, siccome io divisava, un romanzo, il quale a tali Cantiche dovesse collegarsi.
Dato alla luce, anni sono, un saggio di esse, mi sembrò venisse gradito dal Pubblico Italiano, e perciò m'induco ora a consegnarne alle stampe altre sette.
Sebbene io senta essere scarse le mie forze nel mettere in esecuzione simili quadretti epici, mi pare non di meno d'accennare con essi una via lodevole a quegl'ingegni che hanno disposizione al genere narrativo, e alla pittura de' caratteri e delle passioni. Non molte storie offrono tema di grande poema epico, ma fra loro havvene assai, le quali possono porgere degno soggetto di brevi racconti eroici o pietosi, dandoci a rappresentare fatti avvenuti, od anche ad inventare dignitose favole, relative a questo o a quel paese, a questo od a quel secolo. Il raccontare azioni magnanime, ed errori e colpe, è uno de' modi con che la poesia può confortare lo spirito umano all'amore delle domestiche e civili perfezioni.
Chi avrà più vigore di me, potrà desumere molte morali Cantiche, più splendide delle mie, dagli annali delle varie parti d'Italia, niuna nazione essendovi che abbia avuto più luttuose e più felici vicende, più diritti alla stima e più torti, più uomini insigni d'ogni qualità. Ho fatto la mia prova con poemetti piuttosto semplici di tessitura, e non adorni di grande splendore pel soggetto. Se ottengono qualche suffragio, resterà vie meglio dimostrato quale buon successo potrebbe conseguirsi, traendo poetiche narrazioni di consimile foggia dai punti veramente luminosi delle storie nostre.
Le Cantiche da me eseguite sinora, vennero tutte poste nel medio evo, non già che io non discerna essere stati i pregi di quell'età contaminati da molta barbarie, ma bensì perchè tai secoli sono, per chi li vede in lontananza, un'età acconcia alla poesia, stante la forte lotta del bene e del male che allora sorse, e lungamente agitassi per ogni dove. Inoltre quei tempi non meritano vilipendio, e ciò ben dimostrano e quegli uomini che vi operarono alte cose, e quelli che le tentarono, e le potenti città che vi crebbero, e le istituzioni con che s'andò scemando l'ignoranza e la sventura, per impulso principalmente dei Sommi Pontefici e del Clero.
L'età presente offrirebbe altresì, a parer mio, un fondo eccellente per racconti poetici, nobilitati da scopo morale. Le gagliarde e terribili vicende che abbiamo vedute nel breve spazio di cinquant'anni, tante deluse promesse, tanti errori, tante guerre giuste ed ingiuste, sublimi e pazze, tanto cozzamento di popoli, d'opinioni, di sistemi, tutto ciò è grande per la poesia; tutto ciò abbonda di dolori umani, e quindi anche di lezioni. Ma possa l'impresa di dipingere poeticamente sì i nostri tempi, sì altre parti della storia patria, venire assunta da scrittori di nobile tempra, e non maligni nè cinici; da scrittori che pensino con forza, ma con forza religiosa, ed amino i progressi veri della civiltà, cioè i progressi delle virtù pubbliche e private. La poesia e la letteratura in generale non valgono niente, quando non tendono a destare sentimenti alti e benefici, e ad allontanare i concittadini dalle turpitudini dell'incredulità e dell'egoismo.
Se pubblicherò ancora altri versi, procaccerò di presentare qualche saggio di Cantiche relative ai secoli XVIII e XIX. Molti nomi ragguardevoli vi si possono mescere, e segnatamente nomi d'Italiani, che hanno con meriti di varia specie onorato la nativa terra e gli anni in cui sono vissuti, sfavillando quali di pregio purissimo, quali di pregio non incontaminato da deplorabili errori.
Cantica.
La Cantica di Rafaella doveva essere il principio d'un'azione più vasta che non è quella presentemente qui disegnata. Fu il primo saggio ch'io abbia eseguito di tal genere di componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con altri scritti dalla mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere sugli uomini l'efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una serie di fatti, collocandoli in Italia a' tempi dell'Imperadore Ottone II, e divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l'Italia d'allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l'assunto di dipingere que' secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua Ricciarda, ed io con poesie narrative. Sebbene fossa fautore caldissimo degli studii classici, amava egli pure i soggetti de' mezzi tempi, soltanto volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze d'invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s'andavano introducendo.
Responsio mollis frangit iram, sermo
durus suscitat furorem.
(Prov. 15. 1)
O bell'arte de' carmi! Onde l'amore,
Il dolcissimo amor, che sin dagli anni
D'adolescenza io ti portava, e afflitto
Da lunghi disinganni anco ti porto?
Non per la melodìa, misterïosa
Sol de' söavi accenti, e non per l'aura.
Degli applausi sonanti entro le sale
De' colti ingegni, e non per la più cara.
Delle lodi,—la lagrima e il sorriso
Delle donne gentili. Innamorato,
O bell'arte de' carmi, hai la mia mente
Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo
È per me la parola alta e pittrice
De' secreti dell'anima, ed un misto
Di semplice e di grande e di pietoso,
Che nessun'altra bella arte con tanta
Efficacia produce. A te ne' voli,
Cui fantasìa ti trae, tutte concede
Sue grazie il vero; e tu, se Poesia
Inclita sei, quella ond'amante io vivo,
Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle
Sai di delicatissimo splendore
Che non punto le offende e non le muta,
E pur le fa per molti occhi più dive,
Più affascinanti l'intelletto. Incede
Senza carmi e con leggi altre men gravi
Più scioltamente un narrator, siccome
Senza cinto la vergine; ma il cinto
Converte la vaghezza in eleganza.
Suoni sull'arpa mia, suoni la lode
Delle forti sull'uom dolci potenze,
Onde il femmineo cor va glorïoso;
E mia cantica dica oggi le pompe
Del Parlamento di Verona, e quale
D'un magnanimo vate era il periglio,
E più il periglio d'un illustre oppresso
Se vergin trovadrice alla crucciata
Alma d'un generoso imperadore
Pacificanti melodìe opportune
Dal mite e saggio cor non effondea.
Quando Italia ordinar, lacera in mille
Avversanti poteri, ebbe promesso.
Il rege Ottone, e di Verona al circo
Chiamò l'alta adunanza, ove concorse;
Ogni baron d'elmo o di mitra ornato,
Ch'oltre o di qua dell'alpi avesse nome,
Immensa moltitudin coronava
Sull'anfiteatrale ampia scalea
La vasta piazza, in mezzo a cui d'Augusto
La maestà fulger vedeasi, e quella
De' reggenti minori. A gara e dritti
S'agitavano e accuse. Ora fremente
Rattenendo la giusta ira nel petto,
Or con dolce sorriso, il re supremo
Ascoltava e tacea dissimulando,
Però che pria di pronunciar sue leggi,
Gli altri indagava e maturava il senno.
Fra le orrende in que' dì scagliate accuse
Contro a veri o supposti empi, colpita
D'Insubre cavalier venne la fama,
La fama d'Ugonel. Gli s'apponea
Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti,
A giudizio del popolo, molt'anni,
Atroce fatto di perfidia e sangue:
Una lunga covata inimicizia
Verso il prode Emerigo, e astute fila
Per ingannarlo sotto il sacro ammanto
Delle gioie amichevoli; ed in fine
La morte stessa d'Emerigo, oprata,
Per artifizi d'Ugonel, con feri
Di streghe incantamenti o con veleno.
Carissimo al regnante era Emerigo
Per assai merti in guerra e pace, e quando
Avvenne del baron la crudel morte,
Fu visto nella reggia il coronato
Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi
Empirglisi di lagrime, e le grandi
Rammemorar virtù del cavaliero,
Giurando alta vendetta.
Ora Ugonello
Vincolato ecco giace entro i profondi
Umidi cavi di vetusta torre;
E provata apparendo omai la nera
Trama ed i sortilegi e l'omicidio,
Gode l'accusator, gode una turba
D'invidïosi or satisfatta, e ognuno
Di que' nemici aspetta la imminente
Del prigionier condanna; e non pertanto
V'ha moltitudin pur d'illustri e d'imi,
Che reo stimar non san quel, già fra' sommi
Seguaci di virtude annoverato.
Le cure mille del Tedesco Impero
E del regale Italo serto, e il vivo
Desìo di non fallir, tengon sospesa
L'alma d'Otton per varii giorni. Intanto
Veniva egli nel circo alle adunanze,
E più del consüeto era cruccioso,
E de' suoi fidi gl'intelletti ognora
Feansi industri con feste a serenarlo.
Misti alla densa spettatrice folla
Palpitavan due petti, usi coll'arpa
A ridir cose non del volgo: a loro
D'ogni grande spettacolo la vista
Era di grandi sensi ispiratrice.
Uno è il vecchio Romeo, guerrier de' monti
Onde scende Eridan; l'altro Aldigero,
Suo figliuolo e discepolo: Aldigero
Non noto sol per gl'inni suoi gagliardi,
Ma formidabil nelle patrie pugne,
E cor, cui sublimato ha degno amore
Per la vergin de' cantici lombardi,
Rafaella, a que' dì gloria d'Olona.
Fascino avea sull'anima d'entrambi
Que' bellicosi spiriti la luce
De' poetici studi. Il vïandante
Le valli attraversando in notti estive,
Vïolarsi i dolcissimi silenzi
Da dilette armonie sui colli udiva;
Ed erano i due vati, ardenti spesso
Di quell'estro recondito e divino,
Che più tra il riso degli ameni campi
Che nel fragor delle città sfavilla.
Ma l'estro sempre non traean da' belli,
Maravigliosi di natura aspetti.
Or contemplavan, bianchi di spavento,
Le tempeste che visitan la terra
Come i ladroni, e menan beffe al pianto
De' poveri, cui tutto han divorato;
Or lunge ramingavano, e sui laghi;
E sui precipitevoli torrenti
E sulle oceanine onde le spume
Ivan solcando ne' perigli, all'urto
Più feroce de' venti, allor che il legno
E s'innalza e sprofondasi impazzato,
E qual degl'imbarcati urla, qual prega
Con pentimento e con secrete angosce,
Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero
Non risponde, ma sibila convulso.
Oltre a tai casi di terrore, a cui
Aldigero e Romeo s'eran per lungo
Vario peregrinar dimesticati,
Da' lor nobili cuori assaporata
Era la voluttà delle battaglie:
Nelle imprese santissime, e il terrore
Conoscean delle stragi, e l'alta febbre
Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.
E sovente il canuto ad Aldigero
Avea parlato questi detti:
—A' vati
Uopo è molto veder, che terra e cielo
Offran lor di magnifico e tremendo,
E ciò che s'è veduto indi in solinghe
Ore volger nell'alma, conversando
Colla propria mestizia, e colle sacre
Memorie degli estinti, e col Signore
Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasse
La fama dell'eccelso intendimento,
Che tanti spirti còngrega da mille
Contrade lontanissime, e la fama
Delle regali, portentose pompe.
Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero
Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo
Degli antichi Romani. Oh quanta folla
Sugli estesi gradini è brulicante!
Quanto splender nel sottoposto foro,
Intorno al soglio di colui che Italia
Regge e Lamagna, e in Occidente è primo!
—Oh padre! ei dice; qual soggetto a carme
D'italo trovadore, e come il labbro
Di Rafaella, se in Verona or fosse,
L' alzerebbe sublime! Un gran monarca
Che di due nazïoni i sommi aduna
Per drizzar tutti i torti! E quel monarca
Giudice è tal, che può cotante sciorre
Inveterate liti, e le può sciorre
O com'angiol di Dio, disseminando
Sapïenza ed anelito di pace,
O com'angiol di Sàtana, con ratto
Piglio i buoni strozzando od illudendo!
—Figlio, taci per or; bevi a larg'onda
I robusti concetti, e le speranze,
E il paventar magnanimo. Indi cresce
Dell'ingegno l'acume, e in avvenire,
A fulminar le laide opre de' vili,
E a cingere di luce i generosi,
Ti detterà più invigoriti i canti.
Terminò dell'augusto parlamento
L'affaccendato primo giorno, e allora
Fino al seguente dì venner le regie
Cure sospese, ed il pensoso Sire
Collo scettro i baroni accomiatava.
Gli applausi de' baroni Imperadore
L'acclamavan del mondo, e le caterve
Piene di maraviglia e di letizia
Ripetean l'alto grido.
Asceso Ottone
Sul candido destrier, per la più larga
Trapassa delle vie (dall'eccheggiante
Arena al suo palagio) ampia corsìa
Tutta sparsa di fiori e di tappeti
E d'ardenti profumi, entro le mura
Della città scorrendo. A tanti viva
Il festoso clangor si maritava
Di cento e cento trombe; ed a' guerrieri
Ed a' cavalli il cor battea sì lieto,
Qual batter suol della vittoria al suono.
Quel moversi de' popoli irruente
Verso le regie case, un mar parea,
Che traripando inondi la campagna,
E le universe voci, ancor ch'allegre,
Rombavan sì moltiplici e sì ferme,
Che la tremenda ricordavan foga
Di città che o si scagli alla rivolta,
O per subiti incendi o per tremoto
Impetüosa dagli alberghi spanda
Uomini e donne, e per le vie cozzante
Strilli fuggendo la insensata turba.
Si discernea ch'ell'era gioia, e pure
Era una gioia che mettea spavento.
A quel mar traripato argine intorno
Incrollabil si feano estesi armenti
D'italici corsieri e di tedeschi,
Affrenati da' prodi, irti di lance,
E le precipitose onde giganti
S'agitavan represse gorgogliando.
In tali urti di gente il buon Romeo
Da una parte fu spinto, e da altra parte
Spinto venne il suo figlio, e vanamente
Qua e là si cercan lungo tempo un l'altro,
E a chiamarsi a vicenda alzan la voce.
Il sole iva all'occaso, e detto avresti
Ch'ei discendesse in mezzo al gregge umano,
Tutto affollato sulla immensa terra.
Quella vista, e la splendida vaghezza
De' nugoletti occidentali, e il molle
Nell'aere della sera innominato
Religïoso incantamento, e in blandi
Fremiti omai converso il fracassìo,
Ed a que' blandi fremiti commista
La grata dissonanza or de' nitriti
Che le briglie scotendo alza, presago
Della vicina stalla, il corridore;
Or di persone salutanti, o mosse
A subitanee risa; or d'allungato
Grido di chi da lunge appellar sembra
Con dolce affetto un qualche suo smarrito,
De' trovadori commovea lo spirto.
Alle söavi rimembranze è schiuso,
Più in quella vespertina ora che in altre
Dell'intero suo giorno, il cor dell'uomo,
Perocchè il dileguarsi della lampa
Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante
Ad affetti patetici, e al ricordo
Del dileguarsi della vita. Allora
Diciam la requie a' nostri pii, che insieme
Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro
Ospital nappo s'estinguean la sete,
E che falce di morte indi ha mietuto;
E se remota è la natìa convalle,
L'invochiam sospirando, e riportiamo
Alle cene domestiche e alla pace
Del proprio letto il desïoso sguardo.
E le vergini piangono a quell'ora
Più dolcemente o la perduta madre,
O l'amica, od il prode, a cui risposto
Avea già il cor, se non le labbra: «Io t'amo!»
Ed a quell'ora tutto ciò nell'alma
Sente un alto poeta, e più che mai
Con mistica armonia s'ordinan belle
D'egregi fatti istorie entro sua mente.
Tal ben era Aldigero, e in sè volgea
Fantasie nobilissime, e lui pure
Premeva uopo di carmi. E nondimeno
Sue fantasie turbava una tristezza,
La tristezza gentil de' generosi,
Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta
Qui la festa fervea, mentre brïaca
Di piaceri e spettacoli e conviti
Era pur la genìa, carco di ferri,
In cupe volte di prigion, nel lezzo
E nel dolore un Ugonel giacesse
Senza conforto di parola amata,
Nè di soave illusïon, presago
Di quell'orrendo palco e di que' neri
Veli, e del manigoldo, e della scure!
E quell'oppresso era Ugonel! Colui,
Che il senno de' miglior dicea innocente!
Di loco in loco errò Aldiger lung'ora,
Indi all'ansante petto altra potenza
Tormentosa s'aggiunse. Udì levarsi
Dalle regie pareti una celeste
Musica d'inni e corde, e a quelle sedi
Egli tragge, vi giugne, e appena dice:
«Son trovador», si schiudono le cinte
Dell'amplissima sala, ove al fulgore
Di faci innumerevoli e di gemme,
Alla guisa d'un Dio, da inebbrïante
Pompa sedea bëato il re de' regi.
Cinquanta arpe sonavano, ed eletti
Trovadori ed elette trovadrici,
Bellissime di forma e verecondia,
Coralmente cantavano salute.
Al formidato e caro sir. Fra quelle
Vergini illustri, chi s'affaccia al guardo
Maravigliato d'Aldigero? È dessa!
L'inimitabil Rafaella! Alcuna
Ei dianzi speme non nutrìa che addotta
Ivi da' consanguinei ella venisse,
Inenarrabil giubilo s'indonna
Dell'amante garzon; ma il foco ei cela,
E mira, e pènsa, e ascolta, e più di prima
Vago di carmi ha il fervido intelletto.
Qual di lui fassi l'esultanza, quando
Onorevol romor da tutte parti
S'alza di gente che il ravvisa e dice:
—Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero!
Il famoso Aldiger!—Lo stesso Ottone
Ode il pronto susurro, e poichè tanta
Dell'estro d'Aldigero è qui la fama,
Vuole che un'arpa a lui si porga e canti.
Penetrato era intanto ivi Romeo,
E testimon d'onor sì grande al figlio,
Di tenerezza lagrimò: tremava
Nondimeno il canuto, a cui più noto
Era che al figlio suo, quanta abbisogni
Innanzi ai re prudenza; egli tremava,
Conscio dell'arditissimo desìo
Di verità che in Aldiger fervea.
Ed infatti Aldiger, poste le dita
Sull'auree corde, e dolcemente svolta
Ossequïosa melodìa, la sacra
Maestà benedisse, indi i sublimi
Doveri commendando de' regnanti,
Osò mischiar con reverenti encomii
Sentenze tai, ch'eran flagello al core
Di taluni fra i grandi, e l'infiammato
Inno rivolse a pingere l'uom giusto,
Che i maligni allontanano dal trono
Con atroci calunnie. E la pittura
Dell'improvvido vate apertamente
D'Ugonel presentava e le sembianze,
E le virtù, ed il carcere. In suo cieco
Zelo pel vero il trovador pregava
D'Augusto la giustizia a diffidenza
Contro orribili accuse, e predicea
Indi a lui gloria, ed agl'iniqui infamia.
Otton s'alzò sdegnato, e mise un cenno,
E l'inno s'interruppe, e dalle mani
D'uno scudier tolta al cantor fu l'arpa;
E la popolosissima assemblea
Alzò lungo susurro, in cui sommesso
Plauso verso Aldiger mostravan molti,
Ma plauso da rispetto e da paura
Alternamente soffocato. I cuori
Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi
Nuocer temeano maggiormente ad ambi,
Se quel plauso sciogliean.
Qui l'assennato
Imperador volle calmare il moto
Di quella moltitudine di menti,
Mostrando alma pacifica, e di novo
Sovra il trono s'assise, e chiese il canto
Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire,
Dissimulando la imprudente scossa
Data ai pensieri dal gagliardo vate,
E dolcissima scese sugli spirti
Delle virginee voci insiem sonanti
La musica celeste. Ognun per altro,
Benchè temprato a palpiti più miti,
Volgendo la pupilla in sul monarca,
Contristar si sentìa; chè nell'augusta
Faccia, atteggiata indarno alla quïete,
Balenava recondito corruccio,
E l'occhio suo fulmineo esser parea
D'imminente rigor nuncio tremendo.
I più avveduti spettatori scritta
La morte vi scorgean del pro' Ugonello.
Ad Aldiger s'approssimò Romeo,
E—Che festi? gli disse sotto voce;
Che fia di te? Finta indulgenza è questa,
Che te impunito breve tempo lascia:
Libero uscirai tu di questa cinta?
E se pur libero esci, ove allo sdegno
Ti sottrarrai del rege? Oh potess'io
Trarti di qui!
Pietosa a lor d'intorno
Volea la folla schiudersi allo scampo
Del perigliante vate.—Uso alla fuga
Non son, disse Aldiger; se travïommi
Nell'impeto dell'estro il buon desìo,
Tal non è colpa che celarmi io debba,
E molta ho fè nel retto cor del sire.
Sebbene irremovibil dal suo loco,
Pur mesto era Aldiger, tardi mirando
Assai sciagure sovrastanti, e prima
L'accelerato d'Ugonel supplizio,
E rimordeagli coscïenza.—Io reo,
Secretamente a sè dicea, d'audace
Orgoglio fui; me ne punisce Iddio!
Dopo il virgineo insiem sonante accordo,
Palma Ottone degnò batter con palma,
E sorridendo già sorgea, bramoso
Di portar lunge da cotanti sguardi
Alfin l'arcana impazïenza. Il passo
Rafaella avanzò, novo tintinno
Assumendo sull'arpa, ed il cortese
Imperador si rifermò nel seggio,
Brevi credendo reverenti augurii
Dalla ispirata udir vergine illustre.
Rafaella tremanti avea le bianche
Mani sovra le corde, e uscìa tremante
Dal dolce petto il modulato suono,
E le guance arrossìano e di pallore
Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente
Errava intimidito, e s'atterriva
Del re incontrando il formidato sguardo.
Quel gentil trepidar della fanciulla
Di tutte grazie adorna, intenerìa,
E maggiormente a lei tutti amicava.
Oh! prepotenza de' söavi incanti
Che la donna somigliano al bambino,
E pur la spargon di virtù nascosa
Che ratta vince ogni viril fortezza!
Oh! come l'uom, quell'apparente infanzia
Mirando in viso della donna, e in tutti
I morbidissimi atti di quell'ente,
Gli s'avvicina con fiducia, e ardisce
Dirsi maggiore,—ed a quell'ente quindi
Che sì debol parea, tributi solve
Di reverenza, e a sè maggior lo estima!
Per quel poter che nelle forme regna
E nella voce della donna, e astringe,
Le feroci, virili alme ad ossequio,
Dato alla donna è svolger ne' suoi detti
Mirabili ardimenti; ed ardimenti
Non sembran quasi, ma sospiri e preghi.
Chi rivelato avea tal maestrìa
Alla vergin de' cantici? Addolcisce
A sua voglia e fortifica. Ispirava
Pietà col suo tremor; poi quella voce
Dianzi timida tanto, e quell'aspetto
Sembran di cherubin conscio a sè stesso
Di grazia e d'autorevole potenza
Irresistibil. Ne stupisce Ottone,
Ma non puote adirarsene, e diletto
Anzi ne prova sommo. E Rafaella
Seppe scansar ne' generosi carmi
Quel periglioso, indefinibil punto
Di baldanza per ottimi consigli,
Che irritar puote qual pungente biasmo;
E non pertanto ella assai disse a laude
Della giustizia ne' regnanti, e disse
Necessarii gl'indugi, ove affrettata
Da esortatori fremebondi venga
Di talun la caduta. Ogni pensiero
Della bella arpatrice era incalzante
A virtù, ma siccome i detti blandi
Di madre, che a virtù sprona e accarezza
L'indociletto garzoncello, o come
I detti d'una figlia a piè del padre.
Quell'umiltà, quella dolcissim'arte,
Que' prorotti dal cor supplici versi
Vinser l'alma del grande Imperadore,
E gl'intenti ei capì di Rafaella.
Battè le regie palme, e alla percossa
Unissona fur segno, onde gli astanti
Baroni il plauso prolungàr sì forte,
Che ne tremaro il suolo e le colonne.
Otton chiamò la vergine, le cinse
L'eburneo collo di splendenti gemme,
E dal suoi rïalzandola, degnossi
Dirle:—Qual grazia chiederesti?—Ed ella:
—Se t'offese Aldiger, deh! gli perdona,
E mite sii nelle condanne, o sire!
Cessò la festa, e pieno di söave
Commozïone era d'Otton lo spirto,
Ed all'intime stanze dei riposi
Riträendosi, disse al più fidato
De' cancellieri suoi:—M'avea lo schietto,
Ma severo Aldiger mosso a tal ira,
Ch'io divisava d'Ugonel la morte;
Pacato or sono, e indugierò.
Felice
Quel freno ai moti del rigor! felice
La sapïente vergine che a brame
Di verità togliea l'impeto scabro
Delle audaci parole, e ammorbidìa
Con abbondante carità i consigli!
Il sospendersi i fulmini, die' loco
A gravi scoprimenti: entrò discordia
Fra gl'inimici d'Ugonel; le accuse
Si contraddisser; la menzogna apparve;
Del Sassone Emerigo l'omicida
Fu manifesto e dato a morte; e colmo
Di gloria uscì del carcer suo Ugonello.
Fu grato all'Imperante il liberato
Ed alla vergin trovadrice; e vide
Ch'ella amava Aldigero, e che Aldigero
Per l'emula ne'carmi si struggea,
E fra i varii parenti accordo trasse,
E l'imen si compiè. Sorrise Ottone
Ai degni sposi, e a Rafaella disse:
—Temprato dal tuo pio genio celeste,
Il vigor d'Aldiger più non m'irrìta.
Nè da quel dì Romeo gl'impeti incauti
Non temè del figliuol: fatto era questi
Prode leon che a gentil maga è ligio.
L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.
Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus! Job. 2, 10.
Inno d'amore e di compianto al giusto,
Al giusto denigrato! Ebelin, fido
Campion del magno Ottone e consigliero,
Colui che al generoso Imperadore
Verità generose favellava,
E i biasimati torti indi con mente
Pronta e amorevol correggea e sagace;
Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
Spesso invece del sir ponea la destra
Al timon dell'impero, e lo volgea
Del sir con tanta gloria e securanza,
Che questi, anco in cimento arduo serrando
Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
«Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»
Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro
Cener del magno Otton, d'Otton novello
Fu parimente lunghi anni sostegno
Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
Sì che a nessun parea che dilettoso
Ne' poveri tuguri e nelle sale
Fervesse crocchio, ove lodato il nome
Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino
Morì esecrato, ed era giusto! Amore
E compianto agli oppressi!
Un dì l'Eterno,
Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto
Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circuita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo
Tanta in prosperi dì serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama
Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.
Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti
Forse non io so stabilir? Va; pongo
Entro a tue mani dispietate or quanto
Agli occhi della terra Ebelin porta,
Fuorchè la vita.
L'avversario allora
Avventossi precipite dal grembo
Della nembosa nube, onde i mortali
Atterria lampeggiando; ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una all'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
La più squisita voluttà del male
Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
Fermò ignominia cagionar per mano…
Di chi?—D'amico traditore! Il colpo
Più doloroso e a dementar più adatto
Chi molto amando irreprensibil visse!
—Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia
Giù dall'alpe scagliandosi e correndo
Pe' teutonici boschi, e visitando
Con infernal, veloce accorgimento
Città e castella.
Iva ei cercando l'uomo,
In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
Atti, e l'irrequïeto occhio geloso
Del venditor di Cristo; e non volgare
Mente si fosse, ma gentil, ma calda
Di lodevoli brame, ed inscia quasi
Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
D'amor per tutte le virtù, e seguirle
Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
Tale, od un vero giusto esser dovea
Chi affascinasse d'Ebelino il core;
E Sàtan nol trovava, e con dispregio
Maledicea la lealtà nativa
De' figli del Trïon, popol rapace
Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
Ma quando già il crudel quasi dispera,
Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante
Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!»
Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
Quel benedetto dall'orribil genio
Era un prode straniero, e fama tace
Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
Sul suo destrier peregrinava, e ladri
Or assaliva, degli oppressi a scampo,
Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
Non l'avesse un fratel, che del paterno
Retaggio spossessollo.
A che di bosco
In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
Dal caso alte venture, e perchè tarde
Erano al suo desìo, volgea frequente
Il pensier di distruggersi; e più volte
Dall'altissime balze misurava
Coll'occhio i precipizi, e mestamente
Rideagli il core, e si sarìa slanciato
Nelle cupe voragini, se voce,
O aspetto di mortali, o speranze altre
Non l'avesser ritratto.
—O cavaliere,
Salve.
—Scòstati, scòstati, o romito;
Oro non tengo.
—Ed oro a te non chieggo;
Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
Occulta sapïenza ha rivelate:
Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
A' clementi occhi del regnante istesso.
Così Satan, e sparve.
Incerto è quegli
Se fu delirio o visïone. Al cielo
Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe
De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
A cancellarli, e quindi in poi di tutte
Virtù di cavaliere andare ornato.
In quel fervor del pentimento, incontra
Un mendico, e su lui getta il mantello,
E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza
In carità e giustizia.
E Sàtan rise,
E non veduto gli baciò la fronte.
Alla real Bamberga andò Guelardo,
Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
Supplice presentossi, e pïamente
Da quella bella e grande alma si vide
Ascoltato, compianto, e di non tarda
Aïta lieto. Un fascino infernale
Sovra la fronte di Guelardo imposto
Ha del demone il bacio. Allo straniero
Conglutinossi d'Ebelino il core
In breve tempo; e nella reggia e in campo
Quei Gionata parea, questi Davidde.
Mirabile brillava ad ogni ciglio
Quella forte amistà: Saran fremeva
Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni
Affrettar non potea. Nè ratto varco
Sperabil era tra i pensieri onesti
Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
Nella virtù emularlo, e il desiderio
Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
Angiol si confortava misurando
L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
Secoli, breve istante eran poch'anni.
Ed intanto ci godeva, a quell'imago
Che tigre, sebben avida di sangue,
Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
Tragge di quella contemplando i moti
E l'amabil fidanza, ed assapora
Più lentamente la decreta strage.
Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno
Sospirato dall'invido. Al novello
Otton contrarie qua e là in Italia
Eran le menti di non pochi, e speme
Vivea secreta ch'italo Ebelino
Secretamente lor plaudesse. Il core
Di molti era per esso, e nelle ardite
Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo
Susurravan, più splendido rinomo
Non avervi del suo; null'uom più voti
A suo pro riunir; doversi acciaro
Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
L'augusto sir dalla germana sede
Contezza ebbe di fremiti e lamenti
Nell'alme de' Lombardi esasperate,
Ed a sedarle con prudenza invìa
Ebelino e Guelardo.
Alla venuta
Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
Che fama addoppia de' lor alti pregi,
E più de' pregi di colui, che sembra
D'onnipotenza quasi insignorito,
Ferve ognor più l'insana speme, e tutta
In congressi pacifici prorompe,
Ove i duo messi imperïali invano
Senno indiceano e obbedïenza.
—O prodi!
Così Ebelin risponde al temerario
De' corrucciosi invito; io condottiero
Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
Gli son da conoscente animo e onore,
E il portai fra mie braccia. E quando insieme
Del moribondo padre suo le coltri
Inondavam di pianto, il sacro vecchio
Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio,
O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio,
O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era
In tai detti spirato. Allora il figlio
Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
Violati con voi fosse il mio sire,
Biasmo sincer da mie labbra paterne
Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
Ma non odio, non guerra, non perfidia!
—Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,
Ov'è causa di popoli. Ed ignota
Mal tu presumi essere a noi l'ingrata
Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
Finge, ma stolta è finzione omai
Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
Possente sei, ma più non sei quel desso
Che ne' duo regni un dì tutto volvea.
Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
Sul germanico seggio ov'ei l'assunse
Recò le greche astuzie, e lo circonda
Di greci consiglieri. Essi con lei
Van macchinando contro te ogni giorno;
Che se finor cadute anco non sono
Le podestà che a te largì il monarca,
Della tua rinomanza egli è prodigio,
E nel tiranno è di pudor reliquia.
Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
D'Otton l'iniquità rotto ha i legami
D'ogni giusto con esso.
Un de' maggiori
Così parlò fra gli adunati audaci.
Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
La parola di sdegno e di sospetto
Circa l'imperadrice e i cortegiani
Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
Ma la candida e ferma alma del pio
Ebelin s'adirò. L'imperadrice
E Otton con nobil gagliardìa difese,
E de' Greci sorrise. Ei sì facondo
Favellava, e amichevole e verace,
Che i più irati l'udìan con reverenza:
Con tenerezza quasi, ancor che invitti
Nel feroce astio e nell'ardente brama.
Di Guelardo lo spirto a quel congresso
Funestamente s'esaltò. Il diletto
Ebelino ei vedea, nella commossa
Fantasia, re, suscitator di gloria
Ad un popol redento. Il vedea bello
Giganteggiare in immortali istorie,
Com'un di que' supremi, onde la terra
Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
Socio vedea di quel supremo, e a lui
Successor forse, e… Che non sogna audace
Ambizïon, se raggio ha di speranza?
Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse
Le voci insieme intese, e commentolle
Coll'insistenza del favore; e aggiunse
Maligno esame de' pensier, degli atti
D'Ottone, e della Greca in trono assisa,
E degli astuti amici ond'ella è cinta.
Quasi certezza accolse i più irritanti
Dubbi e i minimi indizi di periglio,
E gridò ingratitudine, e diritto
Alla rivolta. E a grado a grado questa
Ei necessaria osò chiamare, e il pio
Ebelin concitarvi. Lo interruppe
Finalmente Ebelin; duplice tela
Come già svolto aveva agli adunati,
Svolse di novo al tentatore amico:
Qua la turpezza del tradir, là i vani
Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
È nazïon da lunghi odii fraterni.
Negli aneliti suoi s'ostinò il core
Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
A ridir con sofistica, inesausta
Facondia per più dì l'empie sue brame;
Sì che non poche volte il generoso
Ebelino in resistergli, dal mite
Considerare e dai soavi detti
Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
Turbossene colui, ma il turbamento
Ascose e il disamore, e da quel tempo
Crescente invidia in sen covò tremenda.
Novi succedon fortunati eventi,
Ch'ognuno attesta glorïosi al senno
Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,
Come negli anni primi, or della gloria
Del suo benefattor non va giocondo.
Ei con geloso sospettante ciglio
Mira la sua grandezza, e superarla
Vorria e non puote; e detestando, sogna
Dall'amico esser detestate; e pargli,
Laddove pria si belle in Ebelino
Virtù vedea, più non veder che scaltra
Ipocrisia. De' pervertiti è proprio
Non credere a virtù; d'ogni più certo
Generoso atto dubitar motivi
Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
Così abborriti fur dal mondo i santi.
Da quello stato di rancor, di mente
Ognor proclive a gettar fango ascoso
Sovra l'opre del giusto, è breve il passo
Ad assoluto di giustizia scherno.
In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
Di grande onor da Ottone è richiamato,
Mentre Ebelin nell'itale contrade
Resta moderator. L'ingrato amico
Sospetta ch'Ebelino abbia con arte
Tal partenza promosso, a fin di trarsi
Uom dal cospetto che in secreto esècri.
Del congedo gli amplessi ei rende a quello,
Ma senza avvicendar come altre volte
Palpiti dolci di desìo e di pena.
Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
Del più sincero degli umani, e parte
Coi fremiti dell'odio, e maturando
Di non avute offese alta vendetta.
—Cieco tanto io sarò che vero estimi
Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste
Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre
Nome a capitanarla, e di null'altro,
La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata
Dalla superba, greca, invida nuora
È quell'antica d'Ebelin fautrice,
La vantata Adelaide, che alle umìli
Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?
Or che Tëofania palesemente
Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
Il menzogner di me diffida: i vili
Diffidan sempre! Allontanarmi volle
Non senza mira ostil: me di qui toglie
Per regnar sol, per non aver chi forse
Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere
Del suo tradito Imperador mi brama,
Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta
Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
Stato non fora a tua amicizia ingrato;
Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
Valor non manca al vilipeso e senno
Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
Così nel suo vaneggiamento infame
S'agita l'infelice, e non s'accorge
Che il re d'abisso più e più il possede;
Così travolve le apparenze ogn'uomo
Che a livor s'abbandoni:
Ecco Guelardo
Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
Eccolo assaporante i nuovi onori,
Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,
Sente l'amaro della propria bile.
Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
Come già tempo, d'Ebelin non suona,
O su quel labbro se talvolta suona,
Laude non l'accompagna, e il favellante
Impallidisce, e torvamente abbassa
La pensosa pupilla irrequïeta,
E la rïalza sfavillando; e ognuno
Scerne che di compressa ira sfavilla.
Del mutamento avvedasi esultando
Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,
E al convito di lei con gran decoro
Visto sovente è quel Guelardo assiso,
Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.
Ordiscono essi alcuna trama insieme
Contro al lontano giusto? o la perfidia
Tutta covossi di Guelardo in petto?
Un dì da quel convito esce il fellone,
E quasi esterrefatto si presenta
Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
Ed esclama:—Ebelino è traditore!
Le rivolte fomenta; alla corona
D'Italia aspira: sciolta è l'amistade
Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
E false carte adduce in prova, e adduce
Di vili già ribelli, or prigionieri,
Menzogne tai, che faccia avean di vero.
Ed il monarca trabalzò, fu vinto
Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
Dubitar volle novamente; a novo
Esame ripiegò la scrupolosa
Afflitta anima sua; ma le apparenze
Trionfaron più orrende e più secure.
Indi egli irato invìa turba di sgherri
All'italo paese, onde sia tratto
Carico di catene il formidato
Duce a Bamberga.
L'innocente duce
Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava
Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia
Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,
Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
«Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri
Con affanno e singhiozzi ad una voce
Ripetean: «Fuggi, fuggi!»
Ei si risveglia,
E per quell'alme prega, e s'addormenta
Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli
Il magno Otton primiero ed Adelaide,
Non cinta ancor di monacali bende,
Ma il serto imperial sopra la fronte.
Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi
Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!
Ira per te sarìa mortal!»
Si desta
Il nobil duce, e per quell'alme prega,
E s'addormenta un'altra volta. E vede
Il tempo antico e la città solenne
Ove sorge il Calvario, e là pur vede
Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi
Una frotta d'armati, e Iscarïote
Dare il bacio alla vittima!… Ed oh vista!
Iscarïote era Guelardo!
Balza
Spaventato destandosi Ebelino,
E que' tre sogni avvertimento estima
Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
Ma perchè? Fugge l'innocente mai?
Pochi istanti anelò fra que' pensieri
Di stupor, di tristezza, e piena d'armi
Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
Che dal suo Imperador venìan que' ferri,
E il cenno di seguirli: ai manigoldi
Cesse con muto fremito la spada,
E porse ai ceppi gli onorati pugni.
Quasi ladro il trascinano, e Milano
E tutta Lombardia mira quel crollo
Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
Soffre inauditi; e non sarìagli pena
Dagli sgherri soffrirli: itale voci
Lo irridon per la via, maledicenti
Al passato suo lustro. E quale esclama:
—Va, di rivolte eccitator maligno!
Va, scellerata causa, onde su noi
Cesare versa il suo tremendo sdegno!—
Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio,
Che d'Italia campion far ti negasti!
Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!—
Qual più schietto prorompe:—Erami noia
Udir chiamarti il giusto; alfin delitti
Potrem di te sapere ed abborrirti!
Quant'è lunga la via sino a' confini
Delle italiche valli, Ebelin tacque
Degli spregi sofferti. Allor che in cima
Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
Le incatenate braccia,—Oh maledetta
Troppo da' vizi tuoi, misera patria,
Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
Figli ti dia che s'amino fra loro,
Ed amin te com'io t'amava e t'amo,
E più di me felici acquistin gloria
Senza espïarla con dolori e insulti!
—Maledicila! gridagli all'orecchio
Una voce infernal.
—Ti benedico
L'ultima volta! ripres'egli.
E pianse
Siccome pio figliuol sulla ignominia
D'una madre infelice; e gli sovvenne
Quanto già quella madre avea prefulso
In virtù fra le genti, e a depravarla
Quante cagioni eran concorse! E grande
Su lei di Dio misericordia chiese;
E dal dolce aer suo, dalle ridenti
Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
Satan che indarno occultamente spinto
Avealo ad imprecar la patria terra,
Urlò di rabbia le sue preci udendo;
E di Lamagna per alture e piani
Corse con questo grido:
—È alfin caduto
L'italo malïardo, il seduttore
De' nostri augusti, il protettor di quanti
Di Lombardia traeano ad impinguarsi
Sul germanico suol, genìa predace
Onde la tanta povertà cresciuta
In quest'anni da noi! Tutti Ebelino
Nostri tesori al lido suo recava,
E colà un trono alzar voleasi, allora
Che ad atterrar le ribellanti spade
Inetto fosse per miseria Ottone?
—Ebelin mora! Universal risposta
Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
Da migliaia di cuori in un dì venne
Quanto a lodarlo aveali invece astretti
La sua mansüetudine, il modesto
Non curar le ricchezze, il riversarle
Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
Benchè pio verso gl'Itali, men pio
Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
Serie di virtù splendide cotanto,
Un incantesimo vil parve ad un tratto,
Una menzogna. Convenìa disdirla:
Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
Esultan se pretesto a lor si porga
Di rigettarla, e attaccaticci morbi
Son odio, ingratitudine e calunnia.
Conscio de' benefizi innumerati
Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora
L'irreprensibil cavalier che stretti,
A lui fosser d'amor cuori infiniti.
Le ripetute indegne contumelie
Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
Pravità de' mortali meditando,
Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio
Umilïossi. E vanamente ancora
Stette Satan mirandolo e aspettando
Il desìo di vendetta e le bestemmie.
Chiama l'Onnipossente al suo cospetto
Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
—Onde vieni?
E il maligno:—Ho circüita
Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
Ed il Signore:—O di calunnie padre,
Non vedestù l'amico mio Ebelino,
Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,
Tanta nel suo dolor serba innocenza?
E l'angiol di menzogna ambe le labbra
Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,
Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
In breve spera sua innocenza. Il braccio
Estendi, e più percuotilo, e vedrai
Se non t'impreca.
Ed il Signor:—Non forse
Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:
Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
Anco la fama sua, perchè maggiore
Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
L'avversario precipite avventossi
Dal grembo della nube, onde i mortali
Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
Si soffermò, e da questo lato i campi
Della lieta penisola mirando,
E dall'altro le selve popolose
De' boreali, l'una e l'altra palma
Battè plaudendo al sovrastante lutto
D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
Di là scagliossi alla città del trono
E de' cento felici incliti alberghi,
E delle orrende mura ove trascina
Sua catena Ebelin. Desta il demonio
Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama
Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.
Temon, se reo non trovan l'accusato,
L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira
Di quel Guelardo che per essi or regna;
E dove il trovin reo, speran più pingui
Gli onorati salarii, e maggior lustro.
Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza
Guelardo stesso!
Oh come il core all'empio
Nondimen trema, udendo che s'appressa
L'irreprensibil catenato! E questi
Entra con umil, sì, ma non prostrato
Animo, e reca sulla smorta fronte
Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.
Cela Guelardo il suo tremore, e prende
Così ad interrogar:
—Qual è il tuo nome,
O sciagurato reo?
—Sono Ebelino
Da Villanova, amico tuo.
—Rigetto
L'amistà d'un fello: giudice seggo.
Che macchinasti co' Lombardi?
In viso
L'accusato guardollo, e non rispose.
E Guelardo:—A lor trame eri secreto
Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta
Stava tua destra ad accettarlo in giorno
Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno
Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
Al tribunale attesta.
E poichè muto
Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
Que' testimoni nella sala addotti.
Eran duo di que' truci esclamatori
Di libertà, di civiche vendette,
Di patrio amor, che ne' consessi audaci
Della rivolta più fervean, più scherno
Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
E più capaci d'affrontar qualunque
Parean supplizio, anzi che mai parola
Di codardia pel proprio scampo sciorre.
Questi eroi da macelli, questi atroci
Ostentatori d'invicibil rabbia,
Come fur tolti a lor gioconde cene,
E gravato di ferri ebbero il pugno,
E il patibolo vider,—tremebondi
Quasi cinèdi, le arroganti grida
Volsero in turpi lagrime e in più turpi
Esibimenti di riscatto infame,
Altre teste al carnefice segnando.
Ad Ebelino in riveder coloro
Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque?
Voi?… Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
Io sempre le feroci alme ho spregiato,
E ben diceami il cor quali voi foste!
Ed appunto perchè troppe vid'io
Alme siffatte là nelle congrèghe
Ove il mio plauso si cercava indarno,
E pochi vidi eccelsi petti, avversi
Ad insolenza e a stragi, io mestamente
Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
S'ella sorda restava a' preghi miei,
E alle minacce mie, quando insensata
Io vostr'impresa nominava e iniqua.
I testimoni balbettaro, e fisi
Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
Calunnïar sostennero. Ebelino
Più non degnolli di risposta, e chiese
D'esser condotto anzi ad Ottone a cui
Parlar volea.
Respinge inutilmente
Guelardo quest'inchiesta, e così forte
La ripete Ebelin, ch'un de' seduti
A giudicarlo generoso alzossi,
Sclamando:—La tua brama, o il più infelice
Fra gli accusati, porteranno al trono
Le labbra mie.
Null'uom potè di quella
Anima schietta rattenere i passi:
Move all'Imperador, franco gli parla,
E il pio monarca inducesi al colloquio.
Mentre dunque l'afflitto incoronato
Nelle regali, splendide pareti
Aspettava che a lui tratto venisse
Il già caro Ebelin, nella memoria
Gli ritornavan gli alti e numerosi
Servigi di quel prode, e l'amicizia
Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
E commoveasi ripensando quante
Volte quell'Ebelin con tenerezza
Lui prence fanciulletto infra le braccia
Portato avea, quante paterne cure
Prese per lui, quanti affrontati in guerra
Per sua difesa ardui perigli,—e il core
Gli si volgea a clemenza.
Ode sonanti
Nelle vicine sale i trascinati
Ferri del prigioniero, e gli si gela
Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede
Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
E magnanimo pianto a stento cela.
Ebelin pur commosso era, calcando
Con vincolato piede oggi i tappeti,
Che tante volte avea con dominante
Passo calcati, e intorno a sè veggendo
Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
S'inchinavan temendo, ovver felici
Andavan s'egli a lor stringea la destra,
E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali
A sterile pietà, quali ad insulto.
Giunto Ebelino alla presenza augusta,
Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
—Favella, sciagurato: uom con più caldo
Fervor non brama tue discolpe.
—Sire,
La mia innocenza esser dovriati scritta
Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi
Di tua casa al servizio e dell'onore.
In inganno te volto han miei nemici,
E me calunnia opprime.
—A tue parole
Aggiungi prova, e riputato il sommo
De' tuoi servigi questo fia da Ottone.
—Se a te prova non son gli atti che oprai
Alla luce del sol, l'abborrimento
Sperimentato mio contra ogni fraude,
Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla
A te non dicon queste mie sembianze
Imperturbate in così ria sventura,
Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
Anzi alle leggi mia supposta colpa
È attestata abbastanza. Altro non posso
Se non gli estremi del mio zelo sforzi
In quest'istante consecrarti, o sire,
Tai verità parlandoti, che forse
Più non udresti, se da me non le odi.
—T'ascolto, disse il rege.
Ed Ebelino
La propria causa obblïar parve, e diessi
A svolgere di stato alti consigli,
I bisogni quai fossero additando
Delle schiere, del popol, dell'altare,
De' tribunali, e della reggia stessa:
Quali i provvedimenti unici, rotti
Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza
Delle rivolte, a raffermar lo impero:
Quali de' prischi imperadori, e quali
Del magno Otton le più laudabili opre,
E quai le insane; e come arduo ognor sia
Seguir le prime e non errare; e come
Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
Adulante caterva. Accennò alcuni
Del sir lusingatori, accennò il vile
Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi
D'anime basse proferir neppure.
Ma que' rapidi detti eran gagliardi,
Siccome piglio di paterno braccio,
Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra
Perigliante figliuolo.
Otton si scuote.
Da verità sì energiche, da senno
Sì giusto e luminoso ed esaltante
Non era stato mai colpito. In altri
Colloqui a' dì felici il buon ministro
Parlava il ver, ma forse in più gradita
Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.
Ora è il parlar solenne, il grido urgente
D'uom, che vicino a morte anco un tributo
Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
Tutto dicendo che giovar del pari
Sembrigli al trono e alle regnate genti.
Alla beltà del vero e del coraggio,
E di quel dignitoso intenerirsi
Che da alterezza vien compresso, e pure
Nella voce si sente e ne' benigni
Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
Da natura sortita un'armonìa
Di nobili sembianze e di contegno,
Talchè valor più prepotente dava
A sua favella, ed escludea il supposto
D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,
E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
Stranier non era a simpatia per cuori
Di grandissima tempra. E fu vicino
A cedere, a gettare ambe le braccia
Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa
Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse
Tëofania d'Augusto in cerca.
Bella
Era la greca donna e di vivaci
Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
La bonaria alemanna indol con motti
Quasi di spregio; e di quei motti spesso
Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,
L'affascinante sposa, ambìa piacerle
E far pompa d'accorta alma inconcussa,
E a tal cagion solea de' generosi
Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.
Salutata dall'armi, il passo inoltra
Fra le colonne di que' regii lochi
La incoronata, e stabilisce e freme
In vedere Ebelino; e sovra Ottone
Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto!
Sedur ti lasci?
Tanto, oimè, bastava
A confondere il sire! Eccol a un tratto
Con più severa maestà atteggiarsi
Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero
Tutto paleserassi; e tu, innocente,
Gloria n'avrai; prevaricato, morte.
Torna Ebelino al carcere, e già scerne
Che inevitata è per lui morte. Oh come
Lenti di nuovo i dì, lente le notti
Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,
Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi
Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce
Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo
D'altri prigioni disperati, in cupe
Vicine volte seppelliti—e il suono
De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto
Osceno del ladron che, bestemmiando,
La forca aspetta—e i gemiti dell'egro
Forse non reo che sulla paglia spira—
E il sollecito passo delle guardie
Che dicono: «È spirato!»—e questo detto
Che l'echeggiante corridoio in guisa
Ripete orrenda—e il pianto d'un amico
Che, udendo il nome dell'estinto, grida
Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»—
E per dispregio di quel pianto il ghigno
Od il sibilo infame di coloro
Che trascinano il morto—e, con siffatta
Serie d'inenarrabili vicende
Di castel, che i perenni affigurava
Dell'abisso tormenti, il ricordarsi
De' dì sereni che svanìr, de' plausi,
Delle liete speranze, e, più di tutto,
De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa
Congerie di dolori e di spaventi,
Che dissennar minaccia ogni più forte
E sdegnoso intelletto! E se si ponno
Da intelletto simil serbar talvolta
Contro all'empia fortuna altero scherno,
O pensieri di pace e di perdono,
E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora
Amarissima vien che ineluttata
Mestizia il cor miseramente serra,
E non v'è chi consoli! Ed altre pari
A quell'ora succedono, e d'angoscia
In angoscia si cade! Ed un'ardente
Smania investe il cervello, ed impazzato
Esser si teme o brama! E il generoso
Petto chiuder non puossi all'irrüente
Piena dell'odio che in lui versan mille
Della viltà degli uomini memorie!
E feroce si resta, e di sè stesso
S'inorridisce e sclamasi:—«Son io,
Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»
E chiedesi all'Eterno, e lungamente
Chiedesi invan, d'amore una scintilla!
Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
Ed allora invisibile al suo fianco
Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,
Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira
E a disperazïon trarlo potesse.
Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,
Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
Che insensatezza all'occhio è de' felici,
Insensatezza non pareagli, ed alta
Storia pareagli che gli oppressi in tutti
Lor martirii nobilita; e volgendo
Quella storia ammiranda, a poco a poco
Ammansava gli sdegni e perdonava.
Ma la parte del cor, che più dolente
Sanguinava, era quella ove scolpite
Stavan due care fronti. Una è la fronte
Della madre decrepita che in pace,
All'ombra degli altar, da parecchi anni
Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella
Della madre d'Augusto. Ambe le antiche
Serrava il chiostro istesso, e raramente
Alla reggia venìan; che ad Adelaide
Odïosa la reggia erasi fatta
Per l'imperar della superba nuora.
—Qual sarà stato di mia madre, e quale
Dell'onoranda Imperadrice il core,
Allorchè udir la mia sventura? Iniquo
Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
Mentre a tutti i mortali il nome mio
In abbominio fia; caro l'avranno!
Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
La madre alfine ha di vederlo, e scende
Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
Che riscattar col sangue suo non puote
Di sue viscere il frutto! ed il più amante
Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
Deplorar dee la lunga vita!
Il giorno
Che dalla inconsolabil genitrice
Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
Seguito fu! L'espandersi de' cuori
Nella sventura, è de' sollievi il sommo;
Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
Il prigionier dalle pietose braccia
Di persona carissima è staccato,
E solingo riman, quanto più dura
Gli è solitudin! Quanto più affannoso
Il desiderio de' bei tempi in cui
Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
Più lacerante la pietà ch'ei sente
Di sè stesso e d'altrui!
Me a tal dolore
Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
O decennio del carcere, infiniti
Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi
Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,
Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo!
Non un decennio, ma più lune ancora
Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse
Nel giudizio di Dio gli accusatori
Sperava iniqui col possente acciaro
Düellando atterrar. Chi d'Ebelino
Avea la forza e la destrezza? E quanta
Forza o destrezza in düellar non dona
Senso d'intemerata anima offesa!
Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo,
Non volle che sancito il reo costume
Per Ebelin venisse; o del demonio
Opra fu l'impedirlo. Il pestilente
Aere del carcer nell'oppresso infonde
Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
Da insanabili febbri. Il derelitto
Pur talvolta illudeasi, immaginando
Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea
Suoi benefizi, or con repente mossa
D'onore e gratitudin s'offerisse
A combatter per esso:—attese indarno.
Spunta il dì della morte, ed Ebelino
Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo
La sentenza gli legge! Il condannato
Udì, chinò la fronte, e rese grazie
Tacitamente a Dio che al sacrificio
Termine alfin ponesse; e bramò ancora
Una volta veder la genitrice.
Venne l'antica, e insiem si consolaro
Con nobil forza alterna, e con alterne
Religïose cure. Ella ed un pio
Ministro del Signor soli eran consci
Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce
Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti
Sovrastan del patibolo. Umilmente
Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
Il giusto cavalier; quindi si prostra
Anzi alla madre, ed ella il benedice,
E si dividon sorridendo, e in cielo
Riabbracciarsi in breve speran.
Move
Per le vie tra i carnefici, agguagliato
Al più vil masnadiero, e contro a lui
Insane urla di scherno alzan le turbe.
Di quegl'inverecondi ultimi segni
Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe
Egli pregava. Ed arrivato al palco,
Con fermo passo ascese, e parlar volle;
Ma sue parole non s'udir, sì orrendi
Vituperi sonavano. Ed allora
Accennò egli medesimo al percussore,
E siede sullo scanno, e tosto il collo
Mise sul ceppo—e la mannaia cadde!
L'angiol della calunnia, abbenchè indurre
Non avesse potuto alla bestemmia
Il retto cavaliere, e or si rodesse
Invido i pugni, l'alta anima a Dio
Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!»
Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
Intera uscisse dell'infame petto,
Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
Spirto ravvolser negli eterni abissi.
Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto
Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
Della voce e del guardo?—E perchè al riso
Che da Tëofania volto gli è spesso
Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera,
Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
A illuminata parte, e ansante giunge
Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca
Talor per via i mendici, e su lor versa
A piene mani l'oro, e di lor preci
L'aiuto invoca, e inefficaci poscia
Di quei le preci ei furibondo chiama?—
E perchè ne' festini alcune volte
Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
Contro a tutte paure, e quando a letto
Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido
Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
Pentimento ei bramava, e scellerata
L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.
Un dì, colui con altri sommi duci
Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,
Ove ancor d'Ebelino ad alto palo
Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
Volea finger letizia, e le pupille
Miseramente stralunava, e insieme
Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
E vacillar sovra l'arcione il vede,
E a sostenerlo accorre.
—Oh! che ti turba?
Oh! che ti turba? Gli ripete.
—È desso!
Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
Chi dal giusto immolato mi sottragge?
E prepotenza di rimorso invitta,
Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.
Folto drappello d'ottimati, e folta
Moltitudin di volgo al confessante
Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
Tutta imparando la esecrata istoria.
Da tanti petti universal s'innalza
Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa!
Il caduto Ebelino era innocente!
Ed Otton più che gli altri inconsolato
Raccapricciando grida:—Oh me infelice!
Era innocente, e trarre a morte il feci!
Il traditor nel suo sangue stramazza.
Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
Fama saperlo. I più disser che ratto
Un ferro in cor si configgesse il tristo,
Altri che Otton percosselo. Il tumulto
Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
Ecco lacero, pesto, annichilato
Il cadavere infame. E s'inchinaro
D'Ebelino anzi il teschio e imperadore
Ed ottimati e popolo, e nel tempio
Dato fu loco alla reliquia santa.
Alto clamor di giubilo e di rabbia
Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi
Il traditor, ma sol menonne festa
L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:
Il lor superbo re, poste con ira
Su Guelardo le luci e le calcagna,
Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!
Anche l'Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.
Pars bona mulier bona. (Eccle. c. 26, 3.)
—Perchè alle torri del superbo Irnando
Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?
—Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni
Di nevose bufère, ognor la dolce
Nostra infanzia mi torna alla memoria,
Quando, arridenti il padre suo ed il mio,
O di soppiatto noi dalle castella
Usciti, incontravamci appo la riva
Congelata del Pellice, e lung'ora
Qua e là sdrucciolon ci vibravamo
Ridendo e punzecchiandoci e luttando,
E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
Allora il padre suo, se all'un di noi
Vedea della caduta in fronte il segno,
Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito
Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio
Lo prendea fra le braccia e lo baciava,
L'amor lodando de' perigli e il gaio
Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga,
E nulla può sull'anima del forte.
Un dì, com'or, fioccava a larghe falde
Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi
De' parenti sottrattici e de' servi
Discendemmo ciascun nostra pendice,
E ai cari ghiacci convenimmo. Assai
Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense
Pallottole durissime a diversa
Meta lontana, in alto o pe' dirupi,
Scagliammo a gara, acute urla di gioia
Ripercosse da acuti echi levando.
Men da stanchezza mossi che da fame
Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi
Anelante alla cena. A quando a quando
Ci volgevam guardandoci, ed allora
Che, già molto remoti, un veder l'altro
Più non potea, salutavamci ancora
Con prolungati affettüosi strilli;
E questi udìansi dalle due castella,
E mia madre s'alzava, e tremebonda
Al balcon della torre s'affacciava,
Incerta se di gioco o di dolore
Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore
Odo mutarsi quella sera infatti
Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!»
Ripeteva egli disperato. Io sudo
Di spavento, ciò udito, e immaginando
Di quel caro il periglio. I clivi scendo
Novamente precipite: il ghiacciato
Pellice varco, e per gli opposti greppi
Affannato m'arrampico ed appello:
«Irnando mio! Irnando mio!» Salito
Egli era sovra un olmo. Eccol veloce
Scendere a me. Ma il lupo allontanato
Ritorce il passo, e verso noi s'avventa.
Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï
Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno
Incessante giravasi la fiera.
Oh come su quell'olmo il dolce amico
Teneramente mi stringea al suo seno,
Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea
Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!»
Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi,
E tristo incontro pari al suo scansassi.
«E tu invece, oh insensato! ei ripetea
Vanamente arrischiasti i cari giorni
Per aïtar l'amico, o coll'amico
Preda morir di quelle orrende zanne!»
Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva
Suoi cari lacrimosi occhi baciando,
E tal commozïone era profonda,
Delizïosa per entrambe! oh come
Sentivamo d'amarci! oh quanto vere
Sonavan le proteste, asseverando
Che l'un per l'altro volontier la vita
Donata avrìa!—Dall'olmo alfin veggiamo
Scender di qua e di là dalle pendici
Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre
Ed il mio che venìan, co' loro servi,
Degli smarriti figliuoletti in cerca.
Sgombrava il lupo a quella vista; e noi
Dall'arbore ospital lieti calammo,
E saltellanti sulla neve, incontro
Movemmo ai genitor, con infinito
Cinguettìo raccontando, io la paura
Ch'ebbi di perder l'adorato amico,
Egli la mia temerità e la prova
Che in questa aveavi di gagliardo amore.
Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode
Al fratellevol nostro affetto i duo
Parenti davan! Come altero Irnando
Mostravasi di me! Com'io di lui!—
Di nostra püerizia i dolci giorni
Da mille vicenduole ivan cosparsi,
Che all'uno e all'altro certa fean la mutua
E generosa fede! E così stretto
Vincol di due schiettissim'alme… il tempo
Dovea spezzarlo!
In questa guisa geme
Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde
Dalle corvine chiome e dalla svelta,
Maestosa statura:—O sposo amato,
Perdona, prego, al mio pensier; non colpa
Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo
Nobilmente tentato al benedetto
Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?
—Di nostre nozze intera anco non volge
La luna, o mia diletta, e mal conosci
Del tuo Camillo il cor. Non di rossore
Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:
Garrir, no, non ti voglio: imparerai
Col tempo qual possanza in questo core
Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci
Volte l'orgoglio mio non s'immolava
Per racquistarmi quell'amico? Indarno
Ei più non è quello di pria: uno spirto
Di maligna superbia il signoreggia:
Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!)
Ei mi dispregia!—
L'arrossita dianzi
Ildegarde a tai detti impallidiva,
Mostrüoso sembrandole il destarsi
Dispregio in chi che sia verso un mortale
Sì per cavallereschi atti famoso,
Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava
Vibrando sguardi or con gentil disdegno
Alla torre d'Irnando, or con desìo
Passïonato al caro sposo. E sguardi
Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce,
La stima ten compensi in ch'io ti tengo.»
Qual della inimistà la cagion fosse
De' duo generosissimi, in diversi
Inni diversamente i trovadori
Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando,
Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno
De' contendenti re sacrò il suo ferro;
Altri a Camillo applaudon, che s'accese
Pel secondo aspirante al real trono,
Ma aspirante illegittimo. Speraro
Camillo e Irnando un l'altro süadersi
All'abbracciata parte. E l'un de' duo,
Non si sa qual, trascorse a villanìa.
Furor di fazïon trasse dapprima
Questo e quello davvero a stimar vile
Il già sì caro amico. Assai palese
Delle avversarie crude ire sembrava
L'iniquità ad Irnando: ei non potea
Creder che onesto intento in alcun fosse,
Il qual per esse parteggiasse. Al pari
A Camillo parea dell'altra causa
Evidente l'infamia essere al mondo.
In qualunque dei duo fallisse primo
La carità di confratello, e germe
Altro o no di rancor vi si aggiungesse,
Furon veduti inferocir nel campo
Come leoni. Ma l'atroce guerra
E l'alterna fortuna delle insegne
Loco porgean a esercitar da entrambe
Parti eccelse virtù. Cento fïate
Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,
Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio,
Sebben malvagio, egli è un eroe pur
sempre!»
Già quegli anni di sangue or son passati;
Già molte spente sono illusïoni
Nelle agitate lor menti guerriere,
Benchè in età ancor verde. Eppur concordia
Lor generose palme, ahi! non rinserra.
Beato d'una sposa era anche Irnando,
E questa il dolce avea nome d'Elina,
E di più figli era già madre. Il cielo
Dato le ha cor fervente, ed intelletto
Gentil, ma entusïastico. Natìe
Le pedemontanine aure in che vive
A lei non son; romano è sangue; e il padre
D'Elina, de' ribelli ognor nemico,
Morì con gloria in campo. Ella supporre
Non potria mai che Irnando ingiustamente
Odio porti a Camillo. A lei Camillo
Noto non è, ma sel figura indegno,
Irreconcilïabile, covante
Sempre perfidie. E motto mai non dice
Per calmare il marito allor che l'ode
Fremer contra il vicin.
Folli stranezze
Del core umano! Irnando, ancorchè fiero
Più di Camillo, e a malignar proclive,
Più bei momenti non avea di quelli,
In che, pensando alla sua dolce infanzia,
Questo o quel nobil detto o nobil atto
Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.
In quei momenti (e rivenian di spesso)
L'alma gli sorrideva, immaginando
Quando ad entrambo tornerìa dolcezza
Esser amici ancor: ma appena accorto
Di questo desiderio, ei ripigliava
A esacerbarsi, a biasimar sè stesso
Di soverchia indulgenza, ed intimarsi
Perseveranza d'astio e di disprezzo.
Vedute in tanti cavalieri avea
Mutazïoni di principii abbiette!
Gli uni servi al buon prence, indi congiunti
Perfidamente all'avversario suo;
Gli altri farsi un Iddio del tracotante
Contenditore al trono, e poi, caduta
La sua potenza, irriderlo. E di tali
Apostasie si repetea sovente
La turpe inverecondia. E le più altere
Alme se ne sdegnavano, e temendo
Apostate parer, persistean truci
Ne' giurati decreti, ove decreti
Sconsigliati pur fossero. Ogni volta
Che Irnando dalle sue balze rimira
Il castel di Camillo, e rivolgendo
Va quanto spesso col diletto amico
In quelle sale, a quel verron, su quelle
Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto
Ciglione, in quella valle, avea di santi
Affanni e santi gaudii conversato,
Di repente corrucciasi, e la fronte
Colla palma fregando, a sè ridice:
«Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio
L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi,
Che amabil tanto mi pingean quel tristo!»
Men concitato da alterigia, avea
Camillo a dame ed a baroni ufficio
Pacifero richiesto. E quelle e questi
Sordo trovaro a lor parole Irnando.
Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce
Questa fera discordia; ognor paventa
Che i fremebondi prorompano a guerra.
—Freddi interceditori, o sposo mio,
Forse fur quelle dame e que' baroni
Di cui mi narri. Di te degno oh come
Stato sarebbe il presentar te stesso
Con amabil fidanza e quell'iroso!
—Che parli, o donna? Io, non colpevol, io
Codardamente supplice a' suoi piedi!
—Codardìa consigliarti, o mio diletto,
Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi
A lui, supplice no, ma con onesta
Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto
Pinger mi suoli di quel prode offeso,
Incapace ci sarìa di fare ingiuria
A chi chiedesse entro sue torri ospizio.—
Se il pio consiglio accolga, esita alcuni
Giorni Camillo; indi alla sposa:—O amica,
A tanto, no, non posso umilïarmi;
Ma non perciò mi ristarò da speme
Di pacificamento. Un messaggero
Mai non mandai direttamente ancora
Con parole d'onore all'orgoglioso.
Forse gli estranei intercessori sdegna,
Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,
E amici detti per mia parte udendo,
Commoverassi, e non vorrà esser meno
Generoso di me.—
Compie Camillo
La divisata prova. Indi attendea
Il ritorno del messo, e d'una sala
Passava in altra irrequïeto, e indugio
Soverchio gli sembrava.
—Il furibondo
Sdegnasse dare all'invïato ascolto?
O frodoloso intento, o vil lusinga
D'animo impaurito ei sospettasse,
E rispondesse coll'atroce insulto
Di vïolar con carcere o con morte
La sacra testa dell'araldo mio?
Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese
Mansuëtudin questo cor; ma un cenno,
E rïascender lo vedresti ad odio
Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!
Che dico? Bassa villania in quell'alma
Inebbrïata da gigante orgoglio
Non può capir. Abbietto spirto io sono
Che immaginar sì turpe fatto ardisco.
Intenerito si sarà; lung'ora
Colmerà di dolcissime domande
E d'onoranza il mio scudier; seguirlo
Qui vorrà forse, o rattenuto or fia
Da momentanee cure. A mezzo solo
Esser seppi magnanimo. Io medesmo,
Come la donna mia mi consigliava
Io, non un messo, a lui mover dovea.
Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo
Stato non foran più parole; in braccio
Gettato a me sariasi, e senza vane
Spiegazïoni, e dolorose, entrambo
Rïappellati ci saremmo amici.
Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
Per nasconderle il suo perturbamento,
Della diletta sposa il dolce incontro.
Ei cammina a gran passi; o nella sedia
Breve momento s'agita, e risorge
Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
Or all'una effacciandosi, or all'altra
Delle fenestre, or fuor della ferrata
Negra sua porta uscendo, e non badando
Al can che gli si appressa, e rispettoso
Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera
Dalla man signorile esser palpato.
Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
Lo scudier ravvisare. È desso, è desso.
Al cavalier rimescolasi il sangue,
E contener non puossi. Il ponte varca,
Discende in fretta la pendice; incontro
Al vegnente lo stimola sfrenata
Smania d'udir.
—Perchè sì tardo movi?
Gridagli.—
I passi addoppia il fido, e parla:
—Signor del tuo nemico entro la soglia
Appena addotto io fui…
Camillo udendo
Suo nemico nomarlo, impallidisce:
E l'altro segue:
—Appena addotto io fui,
I sensi tuoi gli esposi.
—In quali accenti?
—Quali a me li dettasti. Oh cavaliero!
Dissigli, il signor mio, dopo ondeggiante
Con sè stesso luttar, cede al bisogno
Di ricordarti sua amistà, di sciorre,
Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende
Frapposto aveano fra il suo core e il tuo.
Io proseguir volea. Rise il superbo
Amaramente, ed esclamò: Non gelo,
Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto!—
Proseguii nondimen, tuoi decorosi
Sensi esponendo. A' primi istanti vinto
Da prepotente anelito parea,
Sebbene al riso s'atteggiasse ognora,
Ed ostentasse di vibrarmi i guardi
Della minaccia e del dispregio. Ei detti
Di maggiore umiltà dal labbro mio
Certo aspettava. Non trascesi: umìle,
Ma dignitosa serbai fronte e voce;
Ed ei sognò ch'io lo schernissi. Audaci
Son tue pupille, o giovine! proruppe;
Abbassale!—Non già! Timor non sente,
Risposi, di Camillo un messaggero.
—Mandotti il temerario ad insultarmi?
Riprese urlando, a far vigliacca prova
Della mia pazïenza? A tentar s'io
Contaminar vo' mia illibata fama,
Tua vil pelle col mio ferro toccando,
O alle fruste segnandola? Va, stolto
Incettator di vituperi e busse;
Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente
De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa
L'amistà racquistar d'un generoso,
Con ambagi non parla, e schiettamente
Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza.
A sì indegne parole arsi di sdegno
Per l'onor tuo. Via di turpezza mai
Non calcherà, mai non calcò il mio sire!
Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume
Di fulminea infrenabile eloquenza,
Tutta rammemorò la sciagurata
Storia del trono combattuto. E questa
Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui
Striscianti a piè del volgo, e lordamente
Convenuti d'illuderlo e spogliarlo.
E tu…. fremo in ridirlo.
—Io? Segui.
—Un vile
Patteggiator di condivisa infamia,
E condivisi lucri.
—Ei ciò non disse!
Ei ciò non disse!
—Il giuro.
—E non troncasti
La scellerata voce entro sua gola?
—La troncai svergognandolo. E costretto
Fu ad arrossire e replicar: Non dico
Ch'ei fosse, ma parea di condivisi
Lucri patteggiatore, e per lavarsi
Di macchia tal non bastano le ambagi.
Solennemente si ricreda, e provi
Che insensato, ma mondo era il suo core;
Provi ch'egli esecrato ha le perfidie
De' nemici del re; ch'egli esecrato
Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto!
Viltà sembrato mi sarìa modesti
Accenti opporre ad arroganza tanta.
Tel confesso, signor: ciò che gli dissi
Appena il so. Non l'insultai, ma cose
Di foco, certo, mi piovean dal labbro
Contro a' denigratori; e di te laude
Tal gli tessei, che fu colpito e plause.
Va, buon servo, mi disse; amo il tuo ardire,
ma non del tuo signor la ipocrisia.
—Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato
Non t'han le orecchie tue?
—Disselo, il giuro.—
A queste voci il cavalier si torse
Rabbïoso le mani, e con un misto
Di voluttà e di fremito, in più pezzi
Franse un anel, che dono era d'Irnando,
Ed a' caduti pezzi impallidendo
Il piede impose, e li calcò nel fango.
—È finito! proruppe.—Ed iracondo
Lagrimava, nè udia del messaggero
Parola più, nè rispondeagli.
A guerra
Precipitato contra Irnando ei fora;
Ma nol permise il ciel. D'una sorella
Alla difesa mover dee Camillo,
La qual di Monferrato all'erme balze
Co' pargoletti suoi vedova geme,
Da illustri masnadieri assedïata.
Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti
Per la salute dello sposo alzando,
E per la sua vittoria, e pel ritorno,
Pur trema che allorquando ei dalle pugne
Rieda di Monferrato, incontro al sire
Del vicino castel rompa la guerra.
Un dì mirando quel castel, le cade
Nell'animo un pensiero;—E s'io medesma
Colà traessi, e mia nobil fidanza
Vincesse il cor della romana altera
E del truce baron?—
V'ha certi miti
Senni, e tal era d'Ildegarde il senno,
Che pur sono arditissimi, e formato
Gentil proposto, se pur arduo ei paia,
Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla
Il seguente mattin, poichè alla messa
Nel delubro domestico ha innalzato
Il femminil suo spirto appo lo Spirto
Che regge i mondi e agli atomi dà forza,
Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco
Palafreno seduta. A lei corteggio
Sono una damigella e due famigli.
Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura
Del castello d'Irnando, un momentaneo
Palpitamento presela, e memoria
Di perfidie tornolle, ahi troppo allora
Frequenti fra baroni! e pensò quale
Disperato dolor fora a Camillo,
Se il visitato sire oggi smentisse,
Brïaco d'odio, il vanto invïolato
Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo
Volse alla damigella; e impallidita
Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo
Famigli, e impalliditi erano, e osaro
Interroganti dir:—Retrocediamo?
—Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi.
Intanto del castello in ampia sala
La romana bellissima traea
Dalla ricca di gemme ed indorata
Conocchia il molle lino, e fra le punte
Di due candide dita lo umidiva;
Indi con grazia angelica all'eburneo
Fuso il pizzico dava, e con accento,
Che a labbra subalpine il ciel ricusa,
Cavalleresche melodie cantava.
Belli come la madre accanto a Elina
Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei
Innamoratamente le pupille,
Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,
Alzando vispe, e ogni ultima parola
Della strofa materna ripetendo
Con cantilena armonïosa d'eco.
Ed a quest'eco s'aggiungea la grave
Voce del padre lor, che per la caccia
Un arco preparava, e spesso l'arco
Ponea in obblìo, l'affascinante donna
Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.
Portavan l'aure il suon del fervid'inno
D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea
Dell'arcione, ed a' paggi sorridente,
Ma con trepido cor, dicea il suo nome.
Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto
E onore a dama diniegò egli mai?
Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro
Con reverente cortesìa, e l'adduce
Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa
L'aurea conocchia, e di seder le accenna.
—Vicina mia gentil (prende Ildegarde
Così a parlar), da lungo tempo agogno
Veder tuo dolce volto, e palesarti
Un mio desìo.
—Qual? le dimanda Elina.
—D'ottener tua amistà, di consolarmi
Teco de' miei dolori.
—E che? Infelice
Sei tu? Come?…
E nel troppo accelerato
Immaginar, già Elina e il cavaliero
Presumon ch'ella fugga il ritornante
Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro
Verso tant'altri, un mostro esser dee pure
Verso la sciagurata a lui consorte.
Ad Ildegarde appressansi amendue,
Ed Irnando le dice:—Il ferro mio
Non fallirà, s'hai di mestier difesa.
Ma oh stupor! La soave, in altro modo
Che non credean, prosegue:
—Il sol non vede
Donna di me più dal suo sposo amata,
O buona Elina, e anch'io, quando al castello
È il mio signore, ed io filo cantando,
Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna
La mia colla sua voce; e molte volte
Abbaian nel cortile i guinzagliati
Cani pronti alla caccia, ed alla caccia
Propizio è l'aer di levi nubi sparso,
Ed ei pur meco stassi, ed al cignale
Fino al seguente dì tregua consente.
Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse
Alcuna volta, mai non fu quand'uno
All'altro amato cor battea vicino.
Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra
Solinga vila crescerà l'incanto,
Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida
Alla dolce speranza!) uno o più figli,
Siccome questi, fioriranno a lato!
S'interrompe Ildegarde, e per gentile
Impeto d'amorosa alma commossa,
O per arte gentile, o per un misto
D'impeto ed arte, i due bambin si prende,
Uno a destra uno a manca, e li accarezza
Con baci alterni e voluttà di madre,
Sì che la madre vera e il genitore
Inteneriti esultano, e amicati
Tanto per lei vieppiù si senton, quanto
A' pargoletti lor vieppiù è cortese.
—Oh come a te in bellezza, o mia vicina,
Questa bimba somiglia!
E ciò Ildegarde
Dicendo, preme lungamente il labbro
Sovra la rosea guancia paffutella
Della cara angioletta, e la baciucchia.
Poscia gitta la mano amabilmente
Sulle ricciute chiome del fanciullo,
E qua e là le palpa, indi pel ciuffo
A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:
—Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto
Da fedel dipintore, il padre tuo
Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato
Il fulvo crin, larga la fronte, arditi
E amorevoli gli occhi…
E questi detti
Pronunciando Ildegarde, involontaria
O accorta, alzava paventoso un guardo
Sul cavaliero. Ed ei si perturbava
Ricordando Camillo. Allor la pia
Ambagi più non volve; e con candore
Dice quanta cagion siale di tristo
Rincrescimento il dissentir d'Irnando
E di Camillo.
—O degna Elina! ov'anco
D'uno dei duo per indomato orgoglio
Quella discordia non cessasse, amiche
Esser non possiam noi? Commiserarci
Non possiam noi di questa ria fortuna,
Ed amar nostri sposi, e niun furore
Lor condivider che sia oltraggio al dritto?
Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe,
E si stringono al seno.
Irnando balza
Rapito a quella vista, a quegli accenti,
E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde
Vorrìa provar nessuna esso aver colpa
Nell'odio sorto fra Camillo e lui.
Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati
Spregi e d'ingratitudine a Camillo
Accusa vibra, il corruccioso lagno
Con cui ne parla, non par quel dell'odio,
Ma d'un amor geloso. Ei non perdona
All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto
Un idol d'altra gente! aver potuto
Per nemici obblïar sì sviscerato
Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando.
Ciò non isfugge all'ospite avveduta,
E con lenta eloquenza insinüante,
Che più e più le udenti anime scuote,
Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi
Un fautor generoso (errante forse,
Ma generoso) d'abbagliante insegna,
E che a virtù immolar tutto credea,
Fin le dolcezze d'amistà più care.
E come pur tal amistà in Camillo
Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni
Sospirass'egli della pace, in cui,
Placato Irnando, il rïamasse ancora.
Dice inoltre com'ei, reduce all'onde
Del Pellice natìo, concilïarsi
Con Irnando agognava, e si valea
D'intercessori invan; come ad Irnando
Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.
Dice gli sguardi mesti e affascinati
Di Camillo al castel del primo amico,
E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone
Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti
Ove insieme natavano, ed ai ghiacci
Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi,
Ridendo e punzecchiandosi e luttando,
E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
—Oh che facesti, sposo mio? prorompe
La fervida Romana; un altro, un altro
T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,
Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro
Che innanzi agli alterati occhi ci stava,
No, non era quel pio, cui sì dilette
Son dell'infanzia le memorie tutte,
Cui tu sempre sei caro, e che sì caro
Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.
—Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio
Gli si rïempie di söave pianto.
Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe
A me mandò que' freddi intercessori
Che sì mal peroravano, e quel troppo
Zelante messagger che m'inaspriva
Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai
Ch'esser amato da colui ch'io amava?
D'odiarlo io giurava, e non potea!
Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna
Rammemoranza di me pia conserva,
E quasi m'ama nel passato ancora,
Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi
Collegato di vili anco s'ardisse?
Se sconsigliati egli dicesse i passi
Che al mio castello hai mossi, e dall'irato
Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando!
Amarlo più non posso!»
I dolorosi
Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
Col ricordar sull'amicizia antica
Questo o quel detto di Camillo.
—Io dunque
Era il superbo! esclama il cavaliero:
Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra
Lunge da me l'amico mio periglia;
Ad aïtarlo di mie lance io volo.
E i suoi fidi raguna, ed abbracciate
La palpitante Elina ed Ildegarde
E i pargoletti, in sella monta e parte.
Per molti dì le due vicine a gara
Si consolavan, si pascean di speme,
E alterne visitavansi, aspettando
De' baroni il ritorno, o messaggero
Che di lor favellasse. Ascondon ambe
Il lor perturbamento, e sol ciascuna,
Quando al proprio castel siede romita,
Numera i giorni ed angosciata piange.
Quella dicendo: «Oh non avess'io mai
Conosciuto Ildegarde! Ella funesta
Forse è cagion che il mio signore è spento!»
L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo
Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,
Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa
Vedova Elina ed orfani i suoi figli
Ah no, non restin!»
Cede alla possanza
Del suo rammarco alfin l'inconsolata
Moglie d'Irnando, ed una sera asceso
Il solito cíglion con Ildegarde,
Donde vedeasi per più lunga tratta
La polverosa via, nè comparendo
I cavalieri, o messo alcun, prorompe
Abbracciando i figliuoli in disperato
Pianto, e respinge dell'amica il bacio.
—Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli
Rapisti il genitore! A me rapisti
Colui che tutto era al cor mio! Colui,
Pel qual degli avi miei la dolce terra
Senza cordoglio abbandonata avea!
Viver senz'esso non poss'io: qual sorte
A queste derelitte creature
Verrà serbata, dacchè al padre i ferri
Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?
Voler, voler del cielo era d'Irnando
L'inimistà pel tuo fatal consorte!
Maledetto l'istante in che, ispirata
Da infernal consiglier, lieta movevi
A mia ruina! Maledetto il nome
Di suora che ti diedi!—
Al furibondo
Grido geme Ildegarde, e invan desìa
Trovar parole per placar l'afflitta;
Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora
Più duramente rigettata e carca
Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio
Rispetta dell'amica, e ridiscende
Dietro a lei mestamente la collina,
D'ancella a guisa che garrita piange,
E risponder non osa. A quando a quando
Si sofferma Ildegarde, e confidata
Tende l'orecchio e nella valle mira,
Che voci udir le sembra; e quelle voci,
Ahi! manda il villanel, che dagli arati
Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara
Son compagnia l'antica madre, curva
Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta
Moglie, peso maggior di rudi sterpi
Con elegante alacrità portando.
Ne' dì seguenti, al consüeto poggio
Le due donne riedean, ma fremebonda
Sempre era Elina, e, tramontato il sole,
Moveva a casa delirante d'ira
E di dolore; ognor vituperata
Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.
Odon lontane grida, e nella valle,
Come all'usato i guardi avidamente
Con palpiti d'amor gettano entrambe
E di speranza e di paura. Il cane
Drizza i villosi orecchi, ed un acuto
Insolito latrato alza, e si scaglia
Giù per la praterìa precipitoso,
Folte siepi saltando ed ardui fossi
E scoscesi macigni. E ad intervalli
Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,
Nè mai s'arresta.
—E sarà ver? Son dessi,
Son dessi certo! Esclamano a vicenda
Con ebbrezza febbril le desïose.
Ma se alle lance reduci or mancasse
Uno de' capitani, od ambo forse?
Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!
Chi ne assecura?
Sì dicendo, il passo
Raddoppiano affannate. Al piano giunte,
Odon le scalpitanti ugne veloci
D'uno o duo corridori: ah fosser duo!
Fosser de' duo baroni i corridori!
Scerner gli oggetti mal lasciava un denso
Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto
Camillo e Irnando precedean, con ansia
Di riveder le dolci spose. Oh gioia!
Oh certezza felice! Il lor saluto
Suona per l'aer, ben son lor voci queste.
Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi!
Oh istante indescrittibile! E il consorte,
Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai
L'ha coperto di lagrime e di baci,
Ciascuna dell'amica infra le braccia
Gittasi giubilando.
—Il dolor mio
Aspra mi fea: perdonami Ildegarde.
E Ildegarde alla suora il detto tronca,
Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe
Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli
Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,
E accarezzato li accarezza, e gode
Porgendoli a Camillo, e di Camillo
La nova tenerezza rimirando.
Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,
Un esclamar, un alternarsi accenti
Di cortesìa e d'amore, un romper folle
In pianto e in riso, un mescolar dimande
E risposte e racconti, e i cominciati
Detti obblïar per detti altri frapporre,
Che niun di lor cosa veruna intende.
Nel castello d'Irnando entrano. E assisi
Nella gran sala—e da donzelle e fanti
Portate l'ampie coppe—e zampillato
Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente
Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo—
E del giocondo brindisi i sonanti
Tocchi osservati—e roborato il core—
Allor le maschie voci alzano a gara
I baroni, e ripigliano il racconto
In più seguìta, intelligibil foggia:
—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde,
Te in così tempestiva ora spingendo
A rannodar fra Irnando e me l'amato
Vincol che stoltamente io franto avea!—
Così Camillo, e l'interrompe l'altro:
Io lo stolto! Io il feroce!—
E quei la mano
Sovra il labbro gli pon rïassumendo:
—Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde!
Perduto er'io, se redentrice possa
D'amistà non venìa. L'assedïante
Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo
Novella frotta ragunò. Me chiuso
Nel castel della suora, egli ogni giorno
Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno
Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi
Del valor mio nulla potean su tanto
Nover crescente di nemici. A noi
Già le biade fallìan, già fallìan l'armi,
E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio
Rabido della fame a' guerrier nostri
Consigliavan rivolta ed abbandono.
Universal divenne voce alfine:
«Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero
Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora
E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso
E supplicante, io i perfidi arringava,
Che della rocca aprir volean le porte:
—«Sino a dimane il tradimento, o iniqui,
Sino a dimane sospendete!» Un resto
Di pietà e di rispetto, al grido mio,
Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane!
Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora
Portenti oprato non avrà a tuo scampo,
Lo scampo nostro procacciar n'è forza.»
Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!
Oh come orrenda cosa eraci il suono
Del bronzo che segnavale! Oh angosciato
Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti
Muti sembianti della mia sorella
E de' suoi pargoletti! Oh contrastante
Dignità di parole in prepararci
A' vicini supplizi! Ed oh com'io
Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico
Tutta la vita conservarmi Irnando?—
Improvviso frastuono udiam levarsi
Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!
Una pugna! E con chi?—«La man di Dio!
La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra
Mi si prostran pentite, il giuramento
Di fedeltà rinnovano; a gagliarda
Sortita le süado, ed infinito
Macel lung'ora de' nemici è fatto.
Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:
—Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta
Prodezza ad ammirar non m'astringevi,
Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga
Eran molti de' miei, già in fuga io stesso
Omai volgeami disperato: i colpi
Tuoi scomposer l'esercito inimico,
E di salvezza io debitor t'andai!—
S'avvicendan la lode i cavalieri,
L'uno dell'altro memorando i fatti.
Alfine Elina sclama:—Ad Ildegarde
Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei
Prostratevi, e la sua destra baciate.—
E i cavalieri prostratisi, e la destra
Baciano d'Ildegarde, e penitenza
Le chieggon del furente odio passato;
Ed ella in penitenza un'annua festa
Intima in questo e in quel castel, che festa
Dell'amistà si chiami, e dove uficio
De' vati sia cantar quanti sospetti
Calunnïosi partorisce l'ira,
E quanto l'ira accrescano le ambagi
De' falsi intercessori, e quanto egregia
Sappia interceditrice esser la donna.
—E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi
Penitenza? soggiugne in umil atto
Palma a palma accostando, ed il ginocchio
Piegando Elina.—
Ed Ildegarde:—Il primo
Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome
Porti del mio Camillo; e mi sia dato,
Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.
Cantica.
L'amore che porto a Saluzzo, mia città nativa, m'ha indotto a cantare un fatto luttuosissimo, che trovasi ne' suoi annali, al secolo XIV. Il Marchesato di Saluzzo era di qualche importanza a quei tempi, e la vicenda di cui parlo si collegava colle passioni che ferveano per tutta Italia.
Nel 1336 Tommaso II succedette al padre nella signorìa di Saluzzo, ma gli fu contrastato il seggio da Manfredo suo zio. Tommaso avea per moglie Riccarda Visconti di Milano, ed era quindi uno de' Principi ghibellini, ai quali i Visconti erano capo, tutte le speranze della parte ghibellina appoggiandosi a quel tempo sovra Azzo fratello di Riccarda di Saluzzo, e poscia sovra Luchino Visconti, loro zio.
Manfredo si professò guelfo per avere la protezione del potentissimo capo de' guelfi, Roberto Re di Napoli, della casa d'Angiò. Era questi un ragguardevole monarca per ingegno e per possedimenti. Oltre al suo regno ed alla contea di Provenza, suo avito dominio, gli appartenevano, per diritti veri o dubbii, parecchie signorìe qua a là in tutta la lunghezza della penisola. Roma e Firenze lo riconoscevano per protettore. Sventolava la sua bandiera sopra molte castella delle terre Lombarde, Monferrine, Astigiane, Piemontesi. A lui obbedivano Savigliano, Fossano, Cuneo ec. Non conduceva eserciti egli medesimo, e teneva, tutti quei disseminati dominii con masnade Provenzali, Napoletane o d'altre razze, sotto al comando di valorosi baroni, i quali, governando ciascuno a modo suo, mal sapeano affezionare le genti al loro sovrano. Voleva Roberto far cadere la potenza ghibellina de' Visconti, e domare tutti gli Stati Italiani; ma non essendo egli d'indole guerriera, operava con lentezza, e non conseguì mai l'ardito proposto. Guelfi e ghibellini si vantavano a vicenda d'essere i veri amanti della nazione, i veri fautori della civiltà, della giustizia, della causa di Dio; ed intanto mal si sarebbe distinto da qual lato fossero più errori e più colpe, benchè in tali tenebre pur lampeggiassero alcune alte virtù. L'età era cavalieresca e religiosa, con elementi di gelosie repubblicane. Tutto ciò è sommamente poetico.
A que' giorni viveano con immensa fama di dottrina Petrarca e Boccaccio, ed altri uomini sommi; ed il re Roberto ed i Visconti si gloriavano d'averli ad amici. Siccome il Marchesato di Saluzzo attraeva gli occhi della corte di Napoli, non è maraviglia che il Boccaccio abbia dato luogo fra le sue più nobili novelle alla Saluzzese Griselda.
Mentre quella splendida corte era modello di gentilezza, le schiere di Roberto, capitanate dal siniscalco Bertrando del Balzo, provenzale, e congiunte con altre armi, proruppero ne' nostri paesi per sostenere i pretesi diritti di Manfredo, empierono di rubamenti e di carnificine la contrada, espugnarono ed incendiarono Saluzzo, presero prigione il marchese Tommaso co' suoi figliuoli, gareggiarono con Manfredo a commettere ogni barbarie, e così in breve disingannarono coloro fra i prodi Saluzzesi che avevano sognato in Roberto un semidio, e ne' suoi guelfi altri semidei, chiamati ad abolire le antiche ingiustizie, ed a stabilire in Italia il secolo della sapienza e della rettitudine.
Ottenne Tommaso per riscatto la libertà, e trovando che Manfredo e tutti i guelfi erano esecrati, si volse ad adunare nuova oste di ghibellini, v'aggiunse uno stuolo assoldato di lance straniere, ma ben disciplinate, guerreggiò e vinse. Il tiranno Manfredo e i suoi alleati furono espulsi.
Questi avvenimenti di Saluzzo sono il soggetto della mia Cantica. Tratta di essi con assai numero di rilevanti particolarità la storia di Saluzzo di Delfino Muletti, e di Carlo suo figlio; ed ivi leggesi pubblicato la prima volta da esso Carlo uno scritto, in cui il cominciamento di quella guerra e delle crudeltà di Manfredo è dipinto con forza da autore di quel secolo, stato anzi egli medesimo testimonio della distruzione del luogo nativo. Quello scritto intitolato Calamitas calamitatum, Commentariolum Iohannis Iacobi de Fia, rivela nell'uomo che lo dettava una mente colta e generosa. Ei dimandava al cielo, e presagiva la caduta degl'invasori.—(Ploremus ergo coram Deo, poeniteat nos iniquitatum nostrarum, et a praesenti calamitate calamitatum maxima liberi facti erimus).
La cacciata degli stranieri diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s'estinse a que' giorni con Roberto la gloria della fatale casa d'Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinato l'Italia. Carlo, figlio di Roberto, era premorto al padre, e lo scettro passò nelle mani di Giovanna, figlia di Carlo, la quale, rea dell'uccisione d'un marito, patì infiniti guai, ed infine dal vendicatore del primo marito fu data a morte.
Odium suscitat rixas, et universa
delicta operit charitas.
(Prov. 10. 12).
Dolce Saluzzo mia! terra d'antiche
Nobili pugne, e d'alternate sorti
Prospere e infelicissime, e d'ingegni
Che t'onoràr con gravi magisteri,
O con bell'arti, o con sincere istorie,
O coll'affettüoso estro che splende
In ognun che ti canta, e vieppiù splende.
Sovra l'arpa gentil di Dëodata[1],
Tua prediletta figlia! Io ti saluto,
O terra de' miei padri, e dall'affetto
Che ti porto, m'ispiro oggi cantando
Un tuo illustre dolor d'anni lontani,
Che fu dolor da forti alme compianto,
E da forti alme sopportato e misto
Ahi troppo! a colpe, ma pur misto a esempi
Di patrio amor, di lealtà e di senno.
O fantasia, sulle tue magich'ali
Toglimi a' dì presenti, e con gagliardo
Vol ritocchiamo il secolo guerriero
Di Tommaso e Manfredo; il secol pieno
Di guelfe e ghibelline ire, che servo
Parve e non fu dell'ultimo Angioìno;
Il pöetico secol, che dall'ombra
Gigantesca di Dante e dalle pure
Armonìe di Petrarca, e più dal lume
D'ammirabili Santi, era di molti
Olocausti di sangue consolato.
Fra gl'Itali dominii, ecco Saluzzo
Non ultima in possanza: eccola altera
Di lunga tratta di montagne e valli
E feconde pianure, e di castella
Governate da prodi: eccola altera
De' prenci suoi. La marchional corona
Fregia Tommaso, affratellato ai grandi
Ghibellini Visconti, onde Roberto
Angiöin dalla sua Napoletana
Splendida reggia freme, e agguati ordisce,
Impor bramando con novello prence
A' Saluzzesi il guelfo suo stendardo.
Volgea quella stagion, quando Saluzzo
Vede scemar pe' campi suoi le nevi,
E ogni dì s'avvicendano i gelati
Estremi soffi dell'inverno, e l'aure
Che già vorrebbe intepidir l'amica
Possa del Sol che a ricrëarci torna.
E volgeva una sera, ed a tard'ora
Entro alla cara sua celletta prono
Stava orando il canuto Ugo, dolente
Che involontaria a' preghi si mescesse
Nel suo intelletto or questa cura or quella
Di Staffarda pel chiostro, onde ei cingea
L'infula veneranda. E benchè antico
Nelle salde virtù di pazïenza
E d'umiltà, pur non potea ne' preghi
Trovar facìl quïete, anco ove miti
Talor del monaster fosser gli affanni,
Perocch'ei molte conoscea secrete
D'alti alberghi sfortune e di tugurii,
E d'innocenti peregrini oppressi;
E la mente magnanima del vecchio
Compatìa in tutti i cuori illustri o bassi
Delle colpe gli strazi e quei del pianto.
Or mentre inginocchiato ei le divine
Grazie per tutti invoca, ode la squilla
Che a notte suona il vïator venuto
Alla porta ospital. Sospeso allora
Il conversar con Dio, s'alza ed appella
Un de' laici fratelli, e—Va, gli dice;
Provvedi tu che all'arrivante abbondi
Di carità dolcissima il conforto,
Chiunque ei sia.
Quindi, umilmente curva
La nivea fronte, eccol di nuovo a' piedi
Del Crocefisso, e nell'orar diceva:
—Or chi sarà questo ramingo? Oh fosse
Tal di que' mesti a cui giovar potessi!
D'accelerati e poderosi passi
D'un cavalier sonar sembran le volte;
Poscia addotto dal laico entro la cella
Viene… Eleardo.
—Oh amato zio!
—Nepote,
Onde tu di Staffarda alla Badìa?
Il laico si ritrasse. I duo congiunti
Si strinsero le destre, e il giovin prode
Sovra la scarna destra del canuto
Le labbra pose, ed ambe allor le braccia
Aperse questi, e al sen paternamente
Il figlio accolse dell'estinta suora.
Così il giovin comincia:
—Alto mistero
Son chiamato a svelarti.
—In me fiducia
Sai qual tua madre avesse; abbila pari.
—Dacchè in Saluzzo reduce son io
Dalla corte di Napoli e dal Tebro,
Poche fïate al fianco tuo m'assisi,
E assai pensieri d'Eleardo ignori.
—E l'ignorarli mi mettea paure,
Che forse sgombrerai.
—Padre, mentita
È la fama che sparsa han da Milano
I perfidi Visconti incontro al vero
Proteggitor d'Italia tutta e nostro.
In benefizi alto, fedel, possente
È il regio cor del Provenzal Roberto:
Ei la Chiesa vuol grande: ci de' tiranni
Flagello fia; de' buoni prenci scampo.
—Bada, o giovin bollente, omai tremenda
Splender la luce di quel re straniero
Che di Napoli al serto altre aggiungendo
Minori signorìe, stende sue lance
Di castello in castel, di villa in villa,
Fra' Romani, fra' Toschi e fra' Lombardi,
E feudi suoi non pochi ha in Monferrato
E in Piemontesi sponde. A molti egregi
Dubbia pietà è la sua sulle miserie
Delle irate, cozzanti, Itale stirpi.
—Dubbia fu dianzi, or più non è. Sol una
Appalesasi speme, un sol desìo
In re Roberto e nel Pastor del mondo:
Concordia vonno e giuste leggi, e freno
Ad eresìe, a tirannidi, a macelli:
Collegare in un patto a comun gloria
Vonno e prenci e repubbliche e baroni.
—Del supremo Pastor ferve nel petto
Ansïetà pe' figli suoi sublime;
Il so: ma in petto di Roberto ferve
Pericolosa ambizïon.
—Tal grida
Del ghibellin Visconte la calunnia,
Ma smascherato è l'impostor. Lui regge
Ed ognor resse ambizïon! Lui preme
Sete d'oro e di sangue! In Lombardia
Ei d'un mortal più non possede il core:
Sospiran ivi tutti i buoni o il braccio
Liberator dell'Alemanno Augusto,
O della serpe Viscontèa sul capo
La folgor pontificia, e i benedetti
Brandi del re. Quanto i Lombardi omai
Da quella fatal serpe avviluppati,
Contaminati, laceri, scherniti
Non ci vediam noi Saluzzesi forse,
Dacchè sposa al Marchese incantatrice
Venne Riccarda, e tracotante stormo
D'Insubri cortegiani accompagnolla?
—Figlio, ricorda ch'altre volte io seppi
Quell'ira tua sedar. Ragioni mille
Di Saluzzo il dominio alla fortuna
Stringono di Milano.
—Oggi disciolta
È l'infernal necessità.
—Che intendi?
—Svelta alfin oggi dall'ignobil crine
Del marchese Tommaso è la corona.
—Oh ciel! che parli? Come?
—Oggi Saluzzo
E delle valli sue tutti i baroni
Mutan sommo signor: nel seggio ascende
Del marchesato…
—Chi?
—Manfredo.
—Un sogno,
Un sogno è il tuo: Manfredo osò la mano
Stendere al serto del nepote un giorno,
Ma pochi il secondaro, e giurò pace.
—Fur vïolati da Tommaso i sacri
Vincoli della pace, e l'insultato
Manfredo sorge con diritto, e pugna.
—Foggiati insulti! Agli occhi miei rifulge
Di Tommaso la fede.
—Or cessa, o zio,
Di compianger l'iniquo, e sostenerlo.
A quest'ora medesma in ch'io ti parlo,
Invitte squadre ascosamente tratte
Son da più lati del Piemonte, l'une
Da Savigliano e circostanti borghi
Obbedïenti al re, l'altre portando
La Taurinense e la Sabauda insegna;
Ed a lor si congiunge Asti, ed il nerbo
De' Monferrini guelfi; e, pria che albeggi,
Saluzzo investiranno, e di Saluzzo
Da interni guelfi s'apriran le porte.
—Perfidia tanta ah! non permetta il cielo!
—Manfredo, signor nostro, a te m'invia,
A te ch'egli ama e venera, e possente
Crede appo Dio.
—Che vuol da me il fellone?
—T'acqueta.
—Che vuol ei?
—Rende onoranza
A quella fama tua che in parte celi
Per umiltade, e forse in parte ignori,
Ma che sul volgo e sui baroni è immensa.
Il vigor de' Profeti, è nel tuo sguardo,
Nella parola tua, nell'inclit'opre!
Nè fur poste in obblìo le ardimentose
Verità che portate hai cento volte
In nome dell'Eterno a' piè de' forti.
Banditor oggi te desìa, te vuole
Di verità terribili Manfredo:
Vieni i Visconti a maledir nel campo,
Vieni in Saluzzo a maledirli; vieni
Tommaso a maledir, che a' ghibellini
Fatto s'era mancipio; e il tuo ispirato
Ingegno volgi a secondar gl'intenti
Di chi protegge i popoli e il diritto.
Balza a tai detti dal suo antico seggio
Il sacro vecchio, e grida:—Oh sconsigliati!
Oh foss'io in tempo! Oh, me vestisse Iddio
Del vigor de' Profeti un giorno solo!
Ov'è Manfredo?
—Il menan le notturne
Ombre colla invadente oste a lui fida.
—Mi si bardi il corsier, prorompe l'altro.
E mentre il laico diligente move
Ad obbedir, l'illustre coppia ancora
Entro la cella si sofferma, e scambia
Dell'agitato alterno animo i sensi.
—Figlio, sedotto sei. Più che a te noti
Di Roberto e Manfredo i cor mi sono.
Ottimo è il re, ma in Napoli, ove lieto
Di splendid'arti e cortesìa sfavilla:
Lunge di là, malefico è il suo genio,
Però che illude cavalieri e volgo,
Con brame empie di guerra e di rivolta.
E mentre a chi gli sta vicino ei mostra
Amabili virtù, sparge per tutte
Le vie della penisola protetta
Superbi capitani a intimar pace,
Depredando, uccidendo e soggiogando.
Tal è il vantato amico re. Gli giova
Scemar la possa de' Visconti, a noi
Unici grandi appoggi; ed a quel fine
Oggi stromento egli Manfredo elegge.
—A Manfredo parlando e a' regii duci,
Dissiperassi il tuo terror. Brandite
Furon le generose armi con alto,
Solenne giuro d'elevar gli oppressi,
Ed atterrar chi leggi ed are spregia.
—Di chi s'avventa a qual sia guerra, è il giuro.
—Vedrai di stirpe Saluzzese egregi
Baroni alzar la Manfredesca insegna.
—So che vedrovvi tra i cospicui illusi
Quell'Arrigo Elïon che ti governa,
Sua figlia promettendoti. Arrossisci?
Pur troppo non errai.
—Più che gli affetti,
Seguir ragione e coscïenza intendo.
Bardato del canuto è il palafreno,
E accanto ad esso scalpita il corsiero
Del giovin cavalier. Brevi l'abate
Lascia a' monaci suoi caute parole;
Di sua man l'acqua santa a lor comparte,
Li benedice, ed eccolo salito
Guerrescamente sull'arcion, siccome
Uom, che pria della tonaca ha vestito
Corazza e maglia, e nome ebbe di prode.
Stride sui ferrei cardini la porta
Del monastero, e si spalanca. Entrambo
Escon gl'illustri, e su minor cavalli
Duo servïenti; e soffermato resta
In sulla soglia il monacal drappello,
Cui s'abboccò l'abate alla partita.
—Che fia? Si dicon con alterno sguardo
Paventando sciagure, ed ignorando
Le sovrastanti stragi. Intanto s'ode
La campanella de' notturni salmi,
E vien chiusa la porta, e traversato
L'ampio cortil, tutta la pia famiglia
Entra nel tempio e tragge al coro, e canta.
[1] La Contessa DEODATA ROERO DI REVELLO, nata SALUZZO.
All'ombra delle chiese oh fortunata
Pace, in secoli d'odii e tradimenti!
Ivi mentre ne' campi arse talora
Venìan le messi, e al villanello afflitto
Il guerriero aggiugnea scherni e percosse,
E mentre in borghi ed in città i fratelli
Trucidavan fratelli, e mentre noto
Andava questo e quel castel per nappi
Di velen ministrati, e per pugnali
Vibrati nelle tenebre, e per donne,
Che il geloso, implacabile barone
Seppellìa vive delle torri in fondo,
Il monaco espïava or sue passate
Colpe, or le colpe delle stirpi inique:
E non di rado quelle sacre lane
Coprìano ingegni sapïenti e miti,
Stranieri al secol lor, com'è straniero
Fra malefici sterpi il fior gentile,
E fra cocenti arene il zampillìo
Ospital d'una fonte, e fra selvagge
Masnade un cor che sopra i vinti gema.
Intanto che a Staffarda i coccollati
Salmeggiavano in coro, e che l'antico
Ugo sul palafreno i pantanosi
Sentieri e le boscaglie attraversava,
Mossa da Moncalier, tragge a Saluzzo
Moltitudine varia e spaventosa:
Di regie insegne e d'alleati, e insieme
Co' guerrieri diversi orrende bande
Di comprati ladroni. Il sommo duce
È Bertrando del Balzo, altero e prode
Siniscalco del rege, e di Bertrando
Primo seguace è il traditor Manfredo,
Ch'entrambe i suoi fratelli sconsigliati
Seco strascina alla malvagia impresa.
Giunger vonno di notte appo le mura
Insidïate, e lor sorride speme
Ch'a suon di trombe s'apra ivi la porta.
Ma precorsa è la fama, e quando arriva
L'oste a' piè di Saluzzo, e dagli araldi
Si suonano le trombe, al suono audace
Interna intelligenza non risponde,
E nessun ponte levatoio scende
Degl'invasori al passo. Irte le mura
Stan di lance fedeli, scintillanti
Al raggio della luna, e dal lor grembo
Piovon sull'oste urli di rabbia e dardi;
Ed a quegli urli universal succede
Il grido popolar:—«Viva Tommaso!».
Sì che Manfredo per livor si morde
Ambe le labbra, e al baldanzoso volgo
Giura dar pena d'infinite stragi.
Il Provenzal Bertrando, alma beffarda
Dell'amistà del rege insuperbita,
Quasi rege teneasi, e agevolmente
Sovr'ogn'italo sir vibrava scherni.
Prorompe ei quindi in tracotante riso,
E voltosi a Manfredo:—Ecco, gli dice,
Quel che ne promettesti universale
Amor per te de' Saluzzesi spirti!
Poi dopo il riso atteggiasi a disdegno:
—Tutti siete così! Promesse, vanti,
Folli speranze! ed ardui indi i perigli,
Lunghe le imprese, ed il mio re frattanto
Per vantaggi non suoi perde i suoi prodi!
—T'acqueta, dice con infinta calma
Il fremente Manfredo; oltre poch'ore
Non dureran gl'inciampi: un solo basta
Gagliardo assalto, e il disporrem veloci.
Mentre a dispor l'assalto ardimentosi
Coopran gl'intelletti de' supremi
E l'obbedir delle volgari turbe,
Congegnando, apprestando armi, brocchieri,
Ferrate travi e macchine scaglianti,
E tutta la pianura è voce e moto
E cigolìo di carri, e picchiamento
Di mannaie che atterrano le piante,
E stridere di pietre agglomerate,
E in mezzo alle fatiche or la bestemmia
E l'impudente ghigno, ed ora il canto—
Dentro Saluzzo non minor s'avviva
Il poter delle menti e delle braccia
Per la sacra difesa. Ignoti e pochi
Sono gl'interni traditori, e a mille
Ardono i cuori allo stendardo uniti
Del marchese Tommaso. Ei di que' prenci
Magnanimi era, ch'ove rischio appaia,
Brillan di nova luce, e più sublime
Han la parola, e più sublime il guardo,
E quasi per magìa destan ne' petti
Della poc'anzi malignante plebe
Amor, concordia, ambizïon gentile.
Pressochè in tutte l'alme ivi obblïato
È questo o quell'error che, apposto o vero,
Jer gran macchia parea sovra Tommaso:
Più non vedesi in lui che un assalito
Posseditore di paterni dritti,
Un amato signor, una man pia
Che premiava e puniva e sorreggeva,
E ch'uopo è conservar. Sì che la stessa
Bellissima Riccarda, onde cotanto
A' Saluzzesi dispiacea la stirpe,
Più d'abborrita origine non sembra,
Or che il popol la vede paventosa,
Ma non già vil, dividere i perigli
E le cure del sir. La sua bellezza
Molce i fedeli armati; il suo linguaggio
Più non suona stranier, benchè lombardo.
E quand'ella e Tommaso, a destra, a manca,
Parlan di speme nell'accorrer pronto
Dell'armi de' Visconti a lor salvezza,
Esultan gli ascoltanti e mandan plauso.
Al declinar di quell'orribil notte
Ugo nella invadente oste arrivava
Con Eleardo, e trassero al cospetto
Del regio siniscalco e di Manfredo.
Alzò Manfredo un grido di contento
All'apparir del vecchio, ed a Bertrando
Lo presentò dicendo:—O sir del Balzo,
Eccoti di Staffarda il presul santo,
Colui, che per bell'opre onnipossente
Fama sul popol di Saluzzo ottenne!
Il cor certo gli splende a questa aurora
D'un avvenir pe' nostri patrii lidi
Più glorïoso e fortunato e giusto.
Avvicinossi ad Ugo il siniscalco,
E celando nell'alma dispettosa
Il disamore e il tedio, un reverente
Foggiò sorriso, e disse:—Anco il monarca
Serba di te memoria, o illustre padre,
E qui trionfo, non dall'arme tanto,
Che ben darglielo ponno, egli desìa,
Quanto dall'opra del tuo amico senno.
Indi Manfredo ripigliò i motivi
A spiegar della guerra, annoverando
Frodi e stoltezze e ineluttabili onte
Sul nome di Tommaso accumulate,
Perchè ligio all'astuta Insubre possa,
Ed uopi urgenti di riparo, e prove
Che il maggior uopo a' Saluzzesi fosse
E a tutta Italia l'unità d'omaggio
Di quanti erano feudi al re Roberto.
Ed Ugo ai cavalieri:—Il mio suffragio
Certo sarìa per la comun concordia
Sotto uno scettro o ghibellino o guelfo,
Ma non basta d'afflitti animi il voto
Perchè cessi il poter dell'ire antiche
In un popol di stirpi concitate
Ad aneliti varii e a varii lucri;
E ragioni si schierano possenti
Al mio intelletto, sì ch'io neghi al regno
D'uno straniero in Puglia incoronato
Il giunger con sua fama e co' suoi brandi
A collegarci a reverenza e pace.
—Pensa, o canuto, ch'alto assunto è il nostro:
Degna è di te l'aïta.
—Aïta bramo
Recarvi, sì: guisa sol una io scorgo.
—Qual?
—Del popolo agli occhi e degli armati
Intercessor presenterommi a voi,
E per relïgione ambi e clemenza
Sospenderete le battaglie, e intanto
A Napoli n'andrò. Placherò, spero,
L'augusto re; lo distorrò da impresa
Onde gli torneria danno ed obbrobrio;
E se leso alcun dritto era a Manfredo,
Per saldi patti ei risarcito andranne.
—Proporne indugio alle battaglie è vano:
Impermutabil di Roberto è il cenno;
E mal vai profetando obbrobrio e danno
A chi certezza piena ha di vittoria.
Solo uno sguardo a nostre schiere volgi,
E vedrai che Saluzzo oggi s'espugna.
—Espugnarla potrete, ed il ricovro
Forse tor del castello al vinto sire,
E prigion trascinarlo, e dalle chiome
L'avito serto marchional strappargli,
E tu, Manfredo, ornartene la fronte.
Io non ciò vi contendo; io, per l'antico
Conoscimento mio di questa terra
E degli animi suoi, sol vi dichiaro,
Che al crollar di Tommaso, ardua e non ferma
Vittoria avreste. In cor de' più, gagliarde
Son le eredate ghibelline fiamme,
Gagliarda quindi l'amistà a' Visconti,
Gagliardo l'odio per le guelfe insegne.
Picciol popolo siam, ma ci dan forza
E l'arme de' Visconti e il nostro ardire,
E l'indol Saluzzese, aspra, selvaggia,
Che paure non piegan ne' supplizi.
—Obblii ch'io pur son Saluzzese, e mai
Non mi piegan paure.
—In te, Manfredo,
Splenda il miglior degli ardimenti: quello
D'anteporre alle gioie empie del brando
Una gloria più pia, l'amabil gloria
D'allontanar dalle tue patrie rive
Una guerra funesta!
—Altra favella,
Assumi, o vecchio. Se t'è caro ufizio
Scemar l'orror d'inevitata guerra,
Sposa il vessillo mio, movi alle mura
Assedïate, i cittadini arringa,
Traggili a sottopormisi.
—Non posso!
Nol debbo! Ufizio mio giovevol solo
Esser ponno le supplici parole,
E l'aprirvi, quai Dio me li palesa,
I forti avvisi. Trattenete i brandi,
E se ingiustizia fu in Tommaso, al dritto
Basteran le ragioni a richiamarlo,
Ed indi a pochi dì voi satisfatti
E glorïosi e senza ira di sangue,
Benedetti dai popoli e dal cielo,
Trarrete a vostre sedi. Ove sospinto
Da ambizïone e da rancori antichi
Tu inesorabilmente alla corona
Di Saluzzo, o Manfredo, oggi agognassi,
E afferrarla potessi, in odio fora
Il nome tuo a' soggetti, e, pur volendo,
Felici farli non potresti. Iniqua
Necessità di gelosie e vendette
Nasce da civil guerra, e l'usurpante
Non si sostien fuorchè a perpetuo patto
Di timori e carnefici. E si ponga
Che dianzi mal reggesse il prence vinto,
L'esser vinto o fuggiasco ovver sotterra
Amicherà al suo nome i cuori molti
Che offeso avrai; s'obblïeranno i torti
Del perduto signor; s'abbelliranno
Le ricordate sue virtù. Lui spento,
Sorgeran prenci astuti o generosi
Per vendicarlo, e s'anco astuti ed empi
Fossero in cor, venereralli il volgo,
Giocondo sempre d'abborrire un forte,
Che per ingegno e vïolenza regni.
E a cotal colleganza d'assalenti
Quai son le forze che opporrìa Manfredo?
—Le regie forze! esclama furibondo
Il Provenzal barone.
—In molte guerre
Il vostro re s'avvolge, Ugo ripiglia,
E ove sia con gagliarde armi assalito
Per altri lidi, a propugnarli io veggo
Receder queste schiere, e te, Manfredo,
Veggo fremente e povero d'acciari,
E tradito da' tuoi!…
Qui del profeta
Interrompon la voce i capitani.
Egli alza il Crocefisso, ed umilmente
Prega i superbi, e pregali pel nome
Del Redentor. Respinto viene, e sorge
Più d'un ferro dell'oste a minacciarlo.
Scudo al monaco feansi alcuni prodi,
E fra questi Eleardo. Il santo vecchio
Di scherni non tremò, nè di minacce,
E più fïate ripetè ai felloni:
—L'impresa vostra maledice Iddio!
Di te, Religïon, nobile è ufficio,
L'affrontare imperterrita coll'arme
Delle temute verità i superbi,
Pur con periglio d'onta e di martirio!
E quell'uficio, oh quante volte i veri
Sacerdoti di Dio forti adempièro!
Talor sotto l'acciar de' vïolenti
Perìan que' venerandi, e talor rotti
E insanguinati, e carichi di ferro
Venìan sepolti in erma, orrida torre:
Nè dai tremendi esempi sbigottito
Era il cor d'altri santi. E se la voce
D'un'alma pura e consecrata all'are
Da iniqui prodi spesso iva schernita,
Pur non inutil pienamente ell'era:
Schernita andava, ma ponea ne' petti
Di que' feroci inverecondi un germe
Che forse un dì fruttava; ed era un germe
Religïoso di terrore. E in mezzo
A tai feroci petti, alcun pur sempre
Ve n'avea di men guasto, a cui l'ardita
Sacerdotal, magnanima parola
Or di cospicui presuli, or d'umili
Fraticelli o romiti in patrocinio
Degl'innocenti, era parola invitta
Che con pronti rimorsi il tormentava,
Sì che riedesse a carità ed onore.
Compagno fessi al vecchio Ugo per molti
Passi Eleardo oltre al terren coperto
Da quelle schiere di crudeli armati,
Indi, con grave d'ambidue cordoglio,
Il nipote strappossi dalle invano
Tenaci braccia dell'amato antico.
Ahi! senza pro sclamava questi:—Oh figlio!
Qui non m'abbandonar! Più fra quell'empie
Insegne che il Signore ha maledette
Pel labbro mio, deh non ritrarre il piede!
Te ne scongiuro per la sacra polve
Della mia suora, a te sì dolce madre!
Te ne scongiuro per la polve illustre
Del tuo buon genitore e de' nostr'avi,
Che fidi cavalieri ed incolpati
Furon sostegni tutti a chi in Saluzzo
Stringea con dritto il signorile acciaro!
Esci dal laccio che al tuo core han teso
I rapaci stranieri! A me, alla patria,
Al tuo prence ritorna. Infamia e lutto
Sta con Manfredo, con Tommaso il cielo!
Udìa Eleardo il prolungato grido
Del supplice canuto, ed il veloce
Corso intanto seguìa. Ma benchè sordo
Paresse e irreverente, a lui que' detti
Eran quai dardi all'anima commossa,
E vïolenza a sè medesmo ei fea
Non fermando il suo corso, e non volgendo
Il piè per rigittarsi alle ginocchia
Del caro supplicante. Il pro' Eleardo
S'ostinava per varii ignoti impulsi
A ritornar fra i collegati duci,
Cercando creder ch'ei virtù seguisse,
Ed Ugo fosse un tentatore, un cieco
D'errori amico. Intende il cavaliero
Ad ogni vil tentazïon lo spirto
Incolume serbare: idolo intende
Virtù, virtù, non larva farsi alcuna!
Virtù vuol ravvisar, virtù secura
Nelle giurate splendide fortune,
Che il re Angioìno ai Saluzzesi e a tutta
La penisola appresta. Ei quel monarca
Ed i suoi capitani, e più Manfredo
Vuol reputar veraci eroi. Ma pure….
Ad onta del proposto, il sen gli rode
Nascente dubbio irresistibil. Cela
Questo dubbio, ma il porta, e così giunge
Turbato, afflitto ai Manfredeschi brandi.
A molti il cela, sì, non a sè stesso;
E ondeggia alquanto, indi neppur celarlo
Può al genitor della donzella amata,
Guerrier, cui lo stringea più che ad ogn'altro
Pia reverenza. E sì gli parla:
—Oh Arrigo!
Appartiamci, m'ascolta: allevïarmi
D'occulta angoscia non poss'io, se teco
Non ne ragiono come a padre.
Il fero
Barone attento il mira, e con presaga
Severità:—Vacilleresti?
—Lievi
Estimar bramerei del venerando
Ugo le voci, e non so dirti quale
In siffatte or benigne or fulminanti
Parole di tant'uom, che onoro ed amo,
Splender raggio tremendo oggi mi paia!
Aggrotta il ciglio Arrigo, e l'interrompe:
—Bada, Eleardo, che al rischioso passo
Dopo lungo pensar ci risolvemmo;
Or paventar nel cominciato calle
Obbrobrio fora.
Ma sebbene Arrigo
Al giovin cavalier biasmo gettasse,
Non men del giovin si sentìa colui
Perturbato nel cor, per l'ardimento
Del fatidico abate, e nel futuro
Nubi scorger pareagli atre e sinistre.
Dissimulava non pertanto, e saldo
Stava come mortal che da gran tempo
Il proprio senno e i proprii fatti adora.
Tal era il truce Arrigo: ei mille volte
Morto sarìa, pria che mostrarsi in gravi
Opre dapprima certo, indi esitante.
Il ferreo vecchio avea ne' precedenti
Anni, coll'inquïeta ed iraconda
Sua desïanza di giustizia e gloria,
E col non mai pieghevole intelletto,
Molti alla corte di Tommaso offesi.
L'esacerbaron quelli, ed egli volse
L'animo suo secretamente a' guelfi
Ed a Manfredo, ivi lor duce occulto.
Parve a Manfredo egregio essere acquisto
L'amistà di tal forte, incanutito
In severi costumi; e scaltramente
Il seppe avvincolar con dimostranze
Di sommo ossequio, affinchè il guelfo volgo,
Affidato d'Arrigo alla canizie,
Argomentasse tutti esser maturi,
Tutti esser giusti gli audacissimi atti
Cui Manfredo appigliavasi. Ahi! d'Arrigo
La canizie coprìa pochi pensieri,
Benchè gagliardi, e quell'ardito prence
Consigli non chiedea, ma obbedïenza.
Arrigo sè medesmo in alto pregio
Reputa nella mente di Manfredo:
A lui si crede necessario, e spesso
Immagina que' dì, quando in Saluzzo
Dominerà quel novo sire, ed ivi
Migliorate n'andran tutte le leggi.
Giubila e fra sè dice:—A tanto bene
Della mia patria io dato avrò l'impulso!
Io sono il genio di Manfredo! Io lui
Illuminato avrò! Tener lontana
Saprò da lui l'adulatrice turba,
E gli ottimi innalzar! Beneficate
L'adoreran le Saluzzesi terre,
Ma unito al nome suo splenderà il mio!
Sì grande speme ad Eleardo egli apre,
Voglioso d'infiammarlo. Il giovin ode,
Ma sta sospeso e mesto, indi ripiglia:
—Rimaner con Manfredo obbligo è nostro,
S'egli, mantenitor delle più sacre
Fra le promesse, non vendetta anela,
Ma podestà di padre, e di supremo
Difenditor de' nostri antichi dritti.
Chè s'egli, come d'Ugo oggi è temenza,
Sol esca avesse ambizione ed ira,
E gettasse la larva, e m'apparisse
Malefico signor, oh! apertamente
Gli disdirei servigio, e a cielo e terra
Confesserei ch'io per error lo amava!
Del magnanimo detto d'Eleardo
Stupisce Arrigo, e corrucciato esclama:
—Supposto indegno è il tuo! Pensa che solo
A impermutabil, vero animo guelfo
Sposa n'andrà dell'inconcusso Arrigo
L'obbedïente figlia!
Il disdegnoso
Vecchio si scosta, e resta ivi solingo
Col suo dolore, e colla sua turbata
Ma non corrotta coscïenza il prode
Amante cavalier.
—Volli del giusto
Seguir la insegna, e voglio: in me desìo
Altro capir non potrà mai! Sospetti
Sol mi ponno assalir che non qui sorga,
Non qui del giusto la bramata insegna.
E se ingannato mi foss'io? Se falsi
Scorgessi i dritti di Manfredo? Ligio
Ad armi inique ratterriami forse
Perfido orgoglio? O ad armi inique ligio
Mi ratterrìa questa laudevol fiamma
Che in petto chiudo per Maria, per tale,
Che tutte illustri damigelle avanza
In bellezza e virtù? Mi farei vile
Per ottener la mano sua? Non mai!
Amarti debbo degnamente, o donna
Di tutti i miei pensier; debbo onorarti
Ogni virtù seguendo e suscitando,
S'anco per onorarti, ah! il più crudele
Mi colpisse infortunio, e te perdessi!
Del maggior tempio di Saluzzo all'alto
Vertice non lontano erge le ciglia,
E curvando ei lo spirto anzi alla croce
Che colassù sfavilla, al Signor chiede
Lume a scernere il vero e a praticarlo.
Il divin lume balenogli e crebbe
Al guardo suo ne' dì seguenti, alcuna
Non vedendo in Manfredo esser pietosa,
Verace cura nel funesto assedio
Di tutelar gli oppressi e vendicarli,
Mentre la invaditrice oste pe' campi
S'andava ad ogni infamia iscatenando.
A tutelare o vendicar gli oppressi
Bensì Eleardo qua e là accorreva,
Ma non di lui bastanti eran gli sforzi,
Nè bastanti gli sforzi erano d'altri
D'animo pari al suo cavalleresco,
Che insiem con esso or s'avvedean fremendo
Quanta in Manfredo, e ne' fratelli suoi
Ed in Bertrando e nelle rie caterve
Indol, non già d'amici eroi si fosse,
Ma d'impudenti ladri e di nemici.
Insin dal primo giorno i brandi iniqui
Della straniera turba entro innocenti
Tugurii sparser miserando affanno.
Qui sgozzarono vergini inseguìte,
Là genitori che alle amate figlie
Difensori si fean. Volge ma indarno
La sua voce imperterrita Eleardo
Or a questo or a quel de' condottieri.
Il siniscalco move il capo e ride,
E Manfredo le accuse ode in silenzio,
Guarda le torri di Saluzzo, e sembra
Dir:—Che mi cal d'iniquità e di pianto,
Purchè in breve là entro io signoreggi?
Vengono a tutta la contrada imposte
Inaudite gravezze, e ad ogni adulto
Legge s'intima, sì ch'ei giuri ossequio
Al marchese novel. L'abbominato
Giuro negavan molti; indi tremende
Carnificine a spegnerli, ed i tetti
Diroccati e consunti dalle fiamme,
E borghi interi in cenere ed in sangue!
Fama nel campo giunge aver Lunello,
Antico sir di Cervignasco, il giuro
Negato agl'intimanti, e colà sorta
Esser numerosissima una plebe
A difender quel sir.—Temono i duci
Che di Lunel la resistenza esempio
Ad altri arditi feudatari avvenga,
Ed invìan fero stuolo a Cervignasco,
Che tutto abbatta, e in ogni dove insegua
Il valoroso sire, e in brani il faccia.
Consanguineo Lunello è d'Eleardo,
Ed il giovin l'amava. Ahimè! non puote
Questi il cenno arrestar, ma prontamente
Scagliasi dietro all'orme de' ladroni,
E moderarli spera, o spera almeno
Sottrarre agli omicidi i cari giorni
Del congiunto barone e de' suoi figli,
O almen d'alcun di loro. Ah! dalle spade
Distruggitrici invaso, saccheggiato,
Pieno di strage è il borgo! Il prò Lunello
Ferito fugge, e a stento si ricovra
All'ombre sacre d'una chiesa, e seco
Tragge l'antica moglie e le sue nuore
E i lattanti nepoti. Ecco nel tempio
I sacrileghi brandi! Ecco all'altare
Abbracciate le vittime! Eleardo
Entra, s'inoltra, grida: i truci colpi
Eran vibrati! A' pie' di lui nel sangue
Stramazzando Lunel, queste supreme
Voci mettea:—Se tu Eleardo sei,
Non prestar fede al rio Manfredo; imìta
L'esempio mio: pria che avvilirti, muori!
Dato alla chiesa il guasto, escon gli armati
In cerca d'altre prede, e fra que' morti,
Appo quell'ara, in disperata angoscia
Resta Eleardo, e piange ed urla, e i crini
Dalla fronte si strappa. Oh! chi l'afferra
Gagliardamente per un braccio e parla?
Il presul di Staffarda. Il qual veniva
Di Lunel suo cugino ai dolci alberghi,
Ed impensata vi trovò battaglia
Ed orribile eccidio, e dalla fama
Venne sospinto ai sanguinosi altari.
Il braccio afferra del nipote, e dice
Con autorevol grido:
—O sciagurato,
Non di lagrime è d'uopo in queste colpe,
Ma di nobil rimorso! A me la cura
Lascia di queste miserande spoglie:
Di giusti da feroci arme sgozzati,
E volgi ad opre valorose. Espìa
Il breve tuo delirio: appella, aduna,
Suscita i forti delle valli. Insieme
V'avvincolate con possenti giuri:
Pio ghibellino ridivieni e pugna.
Abbracciò il giovin cavalier le piante
Del magnanimo zio. Questi con forza
Lo rïalzò, gli ripetè il comando,
Gli mostrò i consanguinei trucidati
E il rosso altare e le spezzate croci;
Raccapricciò Eleardo, il cor gl'invase
Lampo di speme, si riscosse e sparve.
Che avvien di lui, mentre lo zio infelice
Riman nel tempio e fra dolenti voci
D'alcuni inconsolati villanelli
E di pietose donne, a tanti uccisi
D'ultima carità rende gli ufizi?
Strazïato Eleardo dal conflitto
De' sinistri pensieri, asceso in sella,
Simile a forsennato errò per vie,
Per prati e per arene di torrenti,
Chiedendo a sè medesmo e al ciel chiedendo
Che fare omai dovesse. Un forte impulso
L'agitava, e diceagli ad ogni istante
D'obbedir senza indugio ai sacri detti
Del morente Lunello e ai detti d'Ugo,
Ridivenendo ghibellin. Ma in core
L'astuto angiol del mal gli rinnovava
Quel lusinglliero dubbio:—E se agli scempi
Inevitati di que' giorni atroci,
Che forse gettan falsa ombra maligna
Sul benefico intento di Manfredo,
Succedesser davvero inclite prove
D'alto senno in Manfredo e di giustizia,
Sì che alla patria giovamento e lustro
Per lunga età tornasse? Impresa egregia
Senza olocausti non compìasi mai,
Nè per questi dar loco a terror debbe
L'alma del forte, a giusta gloria inteso.
Così fra le incertezze e le speranze
E i rimbrotti del cor riede Eleardo
Delle masnade assedïanti al campo.
Miseramente ricca è d'infinite
Fallaci industrie coscïenza, i cari
Proponimenti ad abbellir, pur quando
Luce severa di ragion li danna.
Ma chi d'iniquità volonteroso
Per l'infame sentier non move il piede,
Sente per quel sentier, sebben cosparso
Da inferne mani di stupendi fiori,
Un ribrezzo frequente, un indistinto
Fetor che si frammesce a que' profumi,
Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi;
Simile a que' timori innominati
Che invadon ne' deserti il buon destriero,
S'ivi non lungi s'accovaccia il tigre;
E simile a que' taciti spaventi
Che fanno impallidir la verginella,
Quando in sembiante d'uom che di bellezza
Adorno splende, ella ravvisa ignoto
Lineamento, o non so qual favilla
Nel sorridente sguardo, o non so quale
Moto di labbro che le dice:«Trema!»
In que' presaghi palpiti d'un core
Ch'è vicino al periglio, e per potenza
Misterïosa se n'accorge e guata,
V'è la voce di qualche angiolo amante
Che tutti sforzi a pro dell'uomo adopra:
V'è la possa d'Iddio che lume sempre
Bastevol dona a illuminar suoi figli.
Vane di coscïenza in Eleardo
Son le fallaci industrie: ei sulla fronte
Porta il corruccio di talun che vive
Fra scoperti ribaldi, e più li mira,
Più inorridisce; e nondimen vorrebbe
Insensato scusarli e amarli ancora.
Oh come trista di quel dì esecrando
Giunse la sera, e qual più trista notte
Agitò ognun che, pari ad Eleardo,
Alti e pietosi sensi ivi serbasse!
Ma la dimane di quel dì pur troppo
Sorse peggior! Repente una perfidia
Entro le mura di Saluzzo avvenne,
Che affrettò la caduta. In vari alberghi
Scoppiano incendi orribili, ed il volgo
De' cittadini si sgomenta, accoglie
Di calunnia le voci. Un grido s'alza
Esser Tommaso degl'incendi autore,
Affinchè al buon Manfredo omai vincente
Nulla Saluzzo fuorchè cener resti.
Da poche mani congiurate i fochi
Erano stati per le soglie accesi,
E poche fur le labbra che dapprima
Spargere osaro il grido abbominoso.
Ma frenesìa nel popolo s'appiglia,
E ratto si moltiplica il pensiero,
Esser Tommaso un barbaro oppressore
Abborrito dal ciel. Lui benedetto
Asseriscon invan con generosa
Gara i ministri delle chiese e i sempre
Pacificanti Francescani e il colto
Stuol di color, che stretti avea la legge
Di Domenico santo all'esercizio
De' forti studi e della pia parola.
Benefiche potenze eran que' frati
Sullo spirto de' popoli, e sovente,
In tai secoli d'impeti e di sangue,
Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni
Di Francesco e Domenico a feroci
Animi imponean calma e pentimento.
Ma spuntano ai viventi ore talvolta
Di contagiosa irrefrenabil rabbia,
E sotto ore sì infauste debaccava
Del Saluzzese popolo assai parte.
Dal di fuori frattanto a que' momenti
Ecco irromper l'assalto! ecco le mura
Scalate, superate! ecco Tommaso
Astretto a ceder le abitate vie,
A salir frettoloso all'alta rocca
A lui ricovro ed a' suoi cari estremo!
Non eccelsa metropoli prostrata
Da infinite falangi era Saluzzo,
Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi
Di stupefatte illustri nazïoni,
Ma fur sommi dolori! E li divise
Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti
Carte la istoria del tremendo eccidio.
Ah, inorridisco in leggerle, e m'ispiro
Io tardo trovadore al mesto canto!
La fella di Manfredo anima irosa
Crucciavan nuovi aneliti a vendetta,
Perocchè a' piedi suoi sotto le mura
Fracassati da travi e da macigni
Dianzi veduto alcuni cari avea,
E fra loro un fratello, il più diletto
De' prodi e truci due degni fratelli.
In ogni vinto armato cittadino,
Ed anco negl'inermi e ne' vegliardi,
E nelle donne stesse il furibondo
Immaginava la nemica destra
Ch'orbo l'avea di quel fratello, e tutti
Ei sterminati indi li avrìa. Frenava
Il proprio acciar, ma non frenava quelli
Della brïaca moltitudin varia
Ivi con esso a imperversar prorotta.
Rifugge l'estro mio dalla pittura
Degl'inauditi singolari strazi
Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte
Speranze dei domati! oh retrospinte
Preghiere fervidissime, innalzate
Da' miseri che proni eran nel sangne
De' figli loro o nel fraterno sangue!
Oh giustamente non curati applausi
Della stolida feccia scellerata
Che menar volea festa ai vincitori,
Liberator' chiamandoli, e mandati
A raddrizzar tutti i plebei diritti!
Oh inutil congregarsi trepidando
Di lagrimose vergini e di madri
E di fanciulli anzi ai predoni infami,
Ricordando a costoro i dolci nomi
Di pietà, di giustizia e d'innocenza!
Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti
Dalle scuri sacrileghe gl'ingressi
Di più case di Dio, dove sgozzati
Cadono antichi sacerdoti, e gioco
Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri!
Tutto è dileggio e rubamento e morte
Intero un giorno e la seguente notte,
E già parte dell'armi e de' congegni
Ratta si volge ad investir la rocca.
Magnifico sorgea d'aprile un sole,
E delle pompe di sì splendid'astro
Raccapricciaron di Saluzzo i vinti,
Lor macerie e cadaveri mirando,
Quand'a lor s'apprestàr novelle ambasce.
Clangor repente innalzasi di tromba,
E nel nome abborrito di Manfredo
Gridan gli araldi questo atroce bando:
«Esser giusto castigo al contumace
Popol de' ribellanti soggiogati,
Ch'ivi su pietra più non resti pietra,
E irremovibilmente or quel castigo
Compiersi pria che il sol giunga all'occaso;
Ma perdonata andare ancor la vita
Ai puniti felloni, e per clemenza
Che maggiormente moderi il flagello,
Concedersi ad ognuno il portar seco
Qual ch'egli serbi di tesori avanzo».
Tal legge uscita, il raddoppiato pianto
Chi dirìa degli oppressi? A que' lamenti
Inesorata del tiranno è l'alma,
Inesorata al supplicar di molti
Infra suoi cavalieri e d'Eleardo:
Forz'è ch'ogni abitante i cari tetti
Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove
Ramingo vada. Non v'è tempo a indugi,
E vedi con sollecito, confuso
Moto d'alme avvilite e disperate,
Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi
L'infelice spettacolo. Agl'infermi
Ed agli avi decrepiti sostegno
Fansi gli adulti d'ambo i sessi, e cinte
D'adolescenti e pargoli e lattanti
Collacrimar vedi le donne. Ognuno
Che già d'averi non sia privo, or seco
Gli ultimi tragge vestimenti e arredi.
Di sì misera vista i vincitori
Gioìron crudelmente insin che tutta
Fosse la turba delle case uscita.
Frodolento il decreto era a sol fine
Di scovrir se ricchezza aveavi ancora
Che al saccheggio primier fosse sfuggita.
Or poichè tutti di lor robe carchi
Furono i cittadini, il rio Manfredo
Misericorde spirito ostentando,
Disse che rasi non andrian gli ostelli,
Ma diè barbaro cenno alle coorti
Che assalisser la turba, e d'ogni spoglia
La derubasser. Così il vil tiranno
Suoi debiti solveva ai masnadieri,
Che a quel regno di sangue aveanlo alzato.
L'inverecondo estremo predamento
Desta a furor gli sventurati. Allora
Più non resiste agl'impeti possenti
Del suo sdegno Eleardo:—Io m'ingannai,
Alto grida fra il popolo; io sognava
Esser Manfredo della patria padre;
Usurpator mi s'appalesa infame!
Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto
Di voi, di lui medesmo!
Intorno al prode
Cento gagliardi giovani un celato
Ferro traggon dal seno, od ai nemici
Tolgon con forza l'arme, e questo pronto
Saluzzese drappello osa brev'ora
Sperar prodìgi. Orribile, ostinato
Combattimento per le piazze ferve,
E più fïate incontrasi Eleardo
Coll'iniquo Manfredo, e mescolati
Sono i lor brandi valorosi indarno.
S'incontrano Eleardo e Arrigo pure,
E quei più volte può svenare il vecchio
Ma con affetto filïal lo sparmia,
Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo
Numero sopraffatta è l'animosa
Schiera de' cento, e arretra, e quasi intera
Esce fuor delle mura, ed inseguìta
Viene per la campagna infin che l'ombre
Delle selve la involano ai crudeli.
Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo
Si compiva infortunio. In man degli empi
Cade la rocca stessa, e prigioniero
Indi co' dolci figli esce Tommaso,
E tratti van gli sciagurati illustri
In carceri diverse. Alta ventura
Ancor si fu che in piena sua balìa
Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti.
Il fero siniscalco uman s'è fatto,
Sì perchè non abbietto era il suo core,
Sì perchè astutamente al rio Manfredo
Volea serbar temuto un avversario,
E sì perch'egli al generoso senno
Ed alle scaltre previdenze unìa
Non leve sete d'oro: immenso chiede
Pel vinto sir riscatto ai ghibellini.
Ma che diss'io, nel provenzal barone
Immaginando non abbietto il core?
Qual fu pietà la sua, mentre di scherni
Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a' piedi
De' trionfati muri, innanzi a tutte
Le invereconde vincitrici squadre,
L'illustre prigionier, lui dichiarando
Spoglio di signorìa? lui dividendo
Da' lagrimosi tenerelli infanti,
Che al sir d'Acaia fur commessi e tratti
Di Pinerol nella superba rocca?
L'infelice Tommaso a sorso a sorso
D'amara prigionìa sorbì la tazza,
Prima in Cardato brevi dì, poi chiuso
Di Savigliano entro il castel, poi tolto
Maggiormente alla vista de' mortali,
E seppellito in solitaria torre,
Di Pocapaglia sovra l'erta cima,
Indi levato da quel forse troppo
Mal securo deserto, e fra le mura
Di Cuneo inespugnabili nascoso.
Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso
Fu la caduta dall' avito seggio,
Volò del tristo avvenimento il grido
Pe' saluzzesi piani e per le balze,
E l'intese Eleardo entro a' suoi boschi.
Disconfortati allora esso e i compagni,
Depongon le arditissime speranze
Accarezzate nella prima ebbrezza,
O se tutti non vonno appien deporle,
In avvenir remoto, indefinito
Le vagheggiano omai. Son ripetuti
D'amicizia fra loro e di costante
Cor ghibellino i dolci giuramenti,
E con dolor s'abbracciano bagnando
Di lagrime fraterne i forti petti,
E chi per questa sponda e chi per quella,
A diverso destin ciascun si trae.
Oh fra i più strazïanti umani affanni
Quello di non perversa alma che rea
Ad un tratto si tiene, ove sciagure
Piovon non tanto sulla sua cervice,
Quanto sulle cervici de' suoi cari
E dell'intera patria sua, ch'ei vede
Agonizzar, nè può recarle aïta!
E più quando quell'alma, in suoi terrori
Disamata s'estima, e disamata
Da tal cuor ch'era suo! da tal diletto
Cuor, che per sempre ei scorge ora perduto!
Così da lunge qua e là mirando
E pensando a Maria, come colui
Che vedovato delle sue pupille
Pensa a quel sol ch'ei non vedrà più mai,—
Giunge di nottetempo alla badìa
D'Ugo il nepote, e chiede ivi l'ingresso.
—Dov'è lo zio?
—Signor, finiti dianzi
Erano i salmi, ed ei restò nel tempio.
—Colà n'andrò.
—Perturberesti forse
Le più calde sue preci. Odi, ti ferma.
A tai voci non bada il cavaliero,
Ed il portico varca, e l'infrapposto
Varca esteso cortile, e al tempio move.
Apre la porta, inoltrasi tremando;
E della sacra lampada al pallore
Scorge prostrato il solitario antico
Appo l'altar. Questi repente s'alza
Al rimbombo de' passi.
—Olà chi sei?
Assaliti siam noi dalle masnade
De' traditori? Oh che ravviso? Oh iniquo!
Tu nella casa del Signor? T'arretra:
Tinto di sangue cittadin tu vieni.
Sino all'ingresso s'arretrò Eleardo,
Confuso, esterrefatto, e dalle fauci
Mettea supplici grida. Alfine a' piedi
Dello zio inginocchiossi, e in abbondanti
Lagrime ruppe; indi a' singulti amari
Impose freno, alzò la fronte e disse:
—Uomo di Dio, non maledirmi ancora,
Porgi a mia strazïata anima ascolto!
—Che di Saluzzo avvenne?
—Ell'è caduta!
Saccheggiata! arsa!
—Che del sire avvenne?
—Strascinato è prigion.
—Quali i pensieri,
Quai sono i fatti di Manfredo?
—Orrendi!
—E il proteggente provenzal vessillo?
—Esulta negli oltraggi e ne' delitti!
—E l'empio figlio di mia suora il brando
Rotò per lor!
—L'infame brando io ruppi,
E qui vengo ad ascondere a' viventi
La mia vergogna. E per quell'ara santa
Giuro che illuso fui! Giuro che guerra
Credei seguir magnanima, e salute
Alla patria recar! Mi si è svelata
L'ipocrit'alma di Manfredo alfine:
Al par di te sue perfid'opre abborro,
E disdico mie stolte ire nutrite
Contro alla signorìa ch'oggi è crollata,
E per Tommaso prego Iddio! e lo prego
Che gli susciti vindici possenti,
Sì che il traggan di carcere, e le insegne
Espulsino straniere, ed ei risalga
Al seggio avito, e il patrio suol conforti!
—Oh Eleardo! mio figlio! àlzati; al cielo
Chi delle colpe si ricrede, è caro.
Piangi fra le mie braccia il breve fallo,
E nobile fidanza indi ripiglia.
—Unica posso una fidanza accorre
Dopo tanto error mio; posso divina
Misericordia chiedere e sperarla,
Ma lontano dagli uomini, ma scevro
D'ogni gloria del mondo. Io tutto perdo
Ciò che più sorrideami, e affronto l'odio
Del padre stesso dell'amata donna!
L'odio di lei medesma! Alle terrene
Cose son morto; seppellir qui voglio
Tra penitenti angosce il nome mio!
—Monaco tu? Vera sarebbe questa
Vocazïon del Re del Cielo?… Ascolta.
—Ugo, non contrastar; non mover dubbio
Sulla chiamata che a me volge Iddio.
Onor, dover m'astringono a deporre
L'armi impugnate pel tiranno, e questa
Ritratta mia decreto è che per sempre
A me toglie la vergin ch'io adorava!
Dopo tal sacrifìcio, il mondo spregio;
Più non resta per me che o disperata
Morte, o d'un chiostro il confortato pianto.
—Figlio, se così scritto è dall'Eterno,
Così sarà. Ma intanto a me l'Eterno
Pon nell'alma un consiglio: odi e obbedisci.
—Fede ti presto; obbedirò.
—Disdici
Con voci ed opre apertamente il rio
Vincol che ti stringeva agl'invasori.
Gloria rendi al diritto; offri il tuo sangue
Pel patrio suolo. Ingegno e braccia al sire
Che oppresso giace e salvatori chiede,
Generoso consacra. Eccita i forti,
I deboli rincora, e lor rammenta.
Che speranza e virtù prodigii ponno.
Arrossiva Eleardo, impallidiva
A questi detti, ed arrossìa di novo,
E balbettava:—Obbedirò, ma…
—Tronca,
Gli disse il vecchio, ogni esitanza, e parti.
Servi al tuo prence ed a Saluzzo.
—Come?
—Volgiti a Dio; t'ispirerà. T'adopra
Sì che, per gara de' baroni, l'oro
Di Tommaso al riscatto or si fornisca:
Scuoti la possa de' Visconti, scuoti
I nostri prodi. Combattete: egregio
Acquista un loco tra' vincenti, o muori!
—Ch'io snudi il ferro, e di Maria nel padre
Forse mi scontri, e di svenarlo io rischi?
Troppo, troppo dimandi. A me bastante
Sforzo è perder Maria, qui seppellendo
I giorni miei fra lagrime e rimorsi.
—Più degna del Signor, dopo alti fatti,
Riporterai qui la tua fronte, io spero,
E non che il padre di Maria tu sveni,
Di salvare i suoi dì forse avrai campo!
Profetici parean gli atti, gli sguardi,
E la voce del vecchio. E ciò dicendo,
Forte afferrò la destra d'Eleardo,
E dalla porta appo l'altar lo trasse.
Ivi dalla parete una pesante
Antica spada sciolse, e a lui:—La spada
Quest'è che strinsi in gioventù, e di sangue
Saracin l'abbevrai; prendila e pugna
Com'io pugnava per fratelli oppressi.
Eleardo s'infiamma; il sacro ferro
Prende, snuda, lo bacia, il pon sull'ara;
Attesta Iddio che il roterà sugli empi;
Le preci implora del canuto, e parte.
E quand'ei fu partito, Ugo prostrossi
Novamente nel tempio, e pel nipote
Orò gran tempo, insin che all'altro ufficio
Mosser ver l'alba in coro i cenobiti.
Allora il santo abate al pio drappello
Disse:—Pregate per Saluzzo!
E pianse;
E diè contezza dell'orrenda guerra;
Ed i monaci in cor si rammentaro
Parenti e amici, e lagrimaro anch'essi.
Pregaron per Tommaso e pe' suoi fidi,
E pregare altresì per gli oppressori,
Solo Iddio supplicando a spodestarli
Della vittoria che li fea superbi.
In popol da' civili ire diviso
Speranza poca è di salute, allora
Che sol gagliarde fervono le incaute
Anime giovanili, intente a còrre
Bella, sognata, non possibil palma,
Mentre della canizie intorpidito
Vacilla il senno, sì che norma e freno
Agli audaci inesperti alcuna sacra
Fronte non sorge di guerriero antico.
Mancanza tal di celebrato prode
Che vero prode alla sua patria splenda,
Nel colmo avvien de' tralignati tempi,
E lunga indi stagion regna di pazzo,
Sanguinoso dominio e d'anarchìa,
Molteplice opra di fanciulli eroi,
Fintanto che spossati e fatti vili
Piegano il collo a tranquillante giogo.
Non a tal segno eran corrotti i giorni
Di Saluzzo ch'io canto, abbenchè tristi.
Gioventù inferocìa, ma valorosi
Vecchi brillavan sui crescenti ingegni
Per nobil fama di bontà e prodezza.
Fra tai canuti un prence grandeggiava,
E Giovanni era, l'invincibil sire
Dell'alte torri di Dogliani. Ei nato
All'avo di Tommaso era fratello,
E niun de' feudatarii dominanti
S'agguagliava a Giovanni in virtù schiette
D'amico e padre e leal servo a quelli
Che abbisognavan di consiglio o scampo.
In dì lontani ei superava i mille
Cavalieri compagni in patrie pugne,
Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo
De' campioni di Cristo: or men robusto
È il braccio suo, ma pronta sempre e forte
La intelligenza e immacolato il core.
Grande è la fè del venerato prode
Pel suo nipote or prigionier, ch'egli ama
Siccome dolce padre ama il suo figlio,
E ad un tempo siccome un pio guerriero
Ama il signor cui vassallaggio debbe.
Giovanni con baroni altri devoti
A ghibellina parte ed a Tommaso
S'adopravan solleciti, sì ch'oro
Adunar si potesse e adunar gemme,
Al fine urgente di comporre il chiesto
Spaventoso tesoro, onde al marchese
E a sua progenie libertà riedesse.
Un dì alle sale di Dogliani aveva
A non lieto convito egli parecchi
Fervidi amici accolto, a consultarsi
Coi lor fidi intelletti e a stimolarli,
Prodigando con bello accorgimento
Lodi e parole di speranza e preghi.
Dopo la mensa i congregati forti,
Nel bollor de' pensieri e de' colloqui,
Facean di voci rintronar le auguste,
Adornate di ferri, alle pareti,
Allor ch'entrò il valletto d'armi, e nunzio
Fu dell'arrivo d'Eleardo.
Al nome
D'Eleardo s'aggrottano le ciglia
De' ghibellini.
—Ingresso entro tue mura
Darai, Giovanni, all'arrogante guelfo?
—Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda:
Udirlo giova.
Non sapeano alcuni
Infra quei generosi fremebondi
Ch'Eleardo si fosse un di coloro,
I quai, vedute l'ultime rapine,
Disperata battaglia avean con gloria,
Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo.
Ei nella sala addotto vien. Severo
Salutevole cenno appena a lui
Movon gl'irati ghibellini.
—Donde
Tu, guelfo, a me?
—Sir di Dogliani, al cielo
Piacque arricchir le avite mie castella
Di non lieve tesor. Vedi tal borsa
E orïentali perle ed adamanti,
Che saranno alcun che, perchè s'affretti
Dell'infelice signor mio il riscatto.
—-Che veggo? Agli occhi miei creder poss'io?
Tu che a Manfredo!…
—A lui sacrato ho l'armi
Credendol pio liberator: lo vidi
Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto
Il non dovuto mio servigio.
Ai torvi
Cavalieri asserenansi le fronti:
Esultan, cingon l'arrivato prode,
Gli stringono la destra, e per quegli ori
Da lui recati, soverchiare omai
Veggion quanto al riscatto era mestieri,
E benedicon Dio.
Quel dì medesmo
Andò il sir di Dogliani al regio campo;
La libertà ricomperò del prence
E de' figli di lui; volaron messi
A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente
Giorno redenti uscirono il felice
Padre dai torrïon che il Gesso bagna,
E dall'altra fortezza i giovinetti,
E si rïabbracciar con dolce pianto;
E dal suolo, natìo trasser raminghi
Con Riccarda all'Insùbre ospitai reggia.
Gli esuli amati accompagnò Giovanni
Con altri pochi; e fra costor v'avea
Un cavalier cui nascondea il sembiante
Ferrea visiera. Di Dogliani il sire
Narra per via a Tommaso, onde l'estrema
Voluta somma gli venisse. Il prence
Chiede ove sia il benefico Eleardo;
E il pro' Giovanni sottovoce:—Vedi
Quel cavalier che le sembianze cela,
E accostarsi non osa: egli è Eleardo.
Sino a' confini ei t'accompagna, e poscia
Rieder vuole a sue torri, e mantenervi
L'insegna tua ed apparecchiarti aiuti
Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria.
Serbar silenzio non potè il commosso
Esul marchese, e, volto il palafreno,
Ad Eleardo s'accostò, e per nome
Chiamandol con affetto,—A te perenni
Sien grazie, disse; or mi si svela quanto
Debitor ti son io.
Balzar di sella
Volle e prostrarsi il giovin, ricordando
La frenesìa che inimicollo al sire.
Ma smontò questi insieme, e lo rattenne
Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero
Venner anco Riccarda e i dolci figli,
Mercè rendendo, chè senz'esso lunga
Durar potea la prigionìa tuttora.
Più da temersi non parea Tommaso
A' nemici frattanto, e sovra lui
Liete canzoni alzavano beffarde.
Ma tacquer le canzoni indi a non molto
Al grido inaspettato, esser Tommaso,
Non nella reggia de' Visconti, in vana
Mestizia ed in abbietti ozi sepolto;
Bensì già di colà rapidamente
Tornato a' gioghi saluzzesi, in mezzo
A falange d'armati, inalberando
Il vessillo di guerra.
Allor Manfredo
Sovra il suo seggio impallidisce, e copre
Il timor collo sdegno, alto sclamando:
—La prima volta i dì sparmiammo al tristo;
In nostre mani or riede, e, qual lo merta,
Guiderdon di sua audacia avrà la scure.
Solleciti provveggono Manfredo
E il sir del Balzo al moversi di lance
Che di Tommaso sperdano i fautori,
E s'odon rinnovar le invereconde
Del patrio ben promesse. Odonsi voci
D'increscimento onde si dice afflitto
Degli scempii Manfredo. Odonsi voci
Di futura clemenza irrevocata,
E di leggi paterne, e di novello
Tribunale integerrimo, e d'onori
A chi giovi col senno e colla spada
Al marchese, allo stato, ai sacri altari.
Uso antico, perenne è di potenze
Su rapina fondate, allor che spunta
Il giorno del periglio, il serrar l'ugne
Sovra l'oppresso volgo e accarezzarlo,
E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti
Alfin gli avanzi de' passati danni.
Di nuovo suona piucchè mai d'astuti
Stranieri l'eloquenza: essi la mente
San di Roberto; un re sì pio, sì grande
Ne' benefici intenti, unqua non visse.
Ei vuol felice Italia, ei vuol felici
I prodi Saluzzesi. Attribüirsi
Non denno a lui nè a' capitani suoi
Nè all'ottimo Manfredo i brevi strazi
Recati dalla guerra al marchesato.
Si saneran le cicatrici, e in loco
Della prisca Saluzzo, è già decreta
Sulle rovine sue più vasta e bella
E forte una città che degna appaia
Di cotanto dominio, e faccia invidia
Alla rival Taurino. Al guelfo rege
Cosa non è che sì altamente prema,
Come il dispor che a' piè dell'Alpi sia
Il regio feudo Saluzzese un nido
Glorïoso di prodi, atto a far fronte
Ai vicini avversari. Indi i confini
Di questo feudo estendere or si vonno,
Sì che divenga ampia duchea gagliarda,
A' Visconti terrore ed a' Sabaudi.
Tal dipintura offerta è dagli scaltri
Alle volgari fantasìe. Nè il lustro
Della reggia di Napoli si tace,
Che l'egual non fu visto, e il portentoso
Incivilir de' popoli ove impulso
A piena civiltà dona sì forte
Il gran Roberto; il gran Roberto, amico
Di dottrine e bell'arti; il gran Roberto
Che pone il core in luminosi ingegni,
E più in Petrarca, uomo divino, a cui
Sulle chiome Roberto in Campidoglio
Metteva fregio d'immortal corona.
E si dice che tosto il re a Saluzzo
Con Petrarca verranne e coll'arguto
Narrator di Certaldo, il cui volume
Fra le più vaghe istorie annoverati
Ha d'una sposa Saluzzese i vanti,
Onde per tutti d'Occidente i regni
L'alme gentili, in onorar Griselda,
Onoran di Saluzzo il caro nome.
Ed in qual secol e in qual mai contrada
Mancaron voci splendide e robuste
Ad adular la moltitudin cieca,
Schernendo quasi barbara e compiuta
La vicenda de' scorsi anni infelici,
E asseverando ch'ora alfin comincia
L'età de' veggentissimi intelletti?
Ma tempi v'ha più di prestigio ricchi
Per quest'amabil fola; e simil tempo
Era quel di Roberto e delle tante
Suscitate degl'Itali speranze,
Ch'indi la morte di quel re disperse.
Tai brillanti menzogne avriano forse
Illuso ancor le Saluzzesi valli,
Se a governar l'esercito severa
D'un retto capitan sì fosse stesa
La destra allor, frenando de' guerrieri
L'esecranda licenza. Al siniscalco
Tanta giustizia non premea; invocata
Venìa talor, ma indarno da Manfredo.
Ambo imperar voleano, e il Provenzale
Non consentìa che un suo guerrier giammai,
Per quante iniquità sui vinti oprasse,
Colpevol fosse detto e avesse pena.
Del supremo stranier la tracotanza,
E quindi le ribalde opre di mille
Armati suoi sovra l'inulta plebe
Qui riprodusser quel furor, che visto
S'era in Sicilia poco innanzi, quando
Per l'isola scoppiar vespri di sangue.
Se non che men secreti i Saluzzesi
Scorger lasciaro improvvidi le trame,
E più avveduti e unanimi vegliaro
Gl'investiti oppressori alla difesa.
Tace il mio carme i varii assalti e i varii
Destini delle insegne ora fuggiasche
Or vincitrìci. Sempre a' ghibellini
Anima principale era il Dogliani,
Come già tempo il Procida a sue terre,
E fra i ministri al suo comando egregi
Splendea per senno e per virtù Eleardo.
Amor di patria in vani sogni il core
No, non agita allor, ma di divina
Potenza il nutre e lo sublima, quando
Svolgesi in terra da stranieri oppressa:
Allor non dubbia è sua purezza; allora
Tutte s'intendon l'alme generose
Che fremono del giogo; allor divisi
In discordanti aneliti e dottrine
Non son nobili e volgo: unica han meta
L'espulsïon delle insultanti spade,
E della prisca dignità il ritorno.
Quanto in que' dì contrario al patrio bene
Fosse pe' Saluzzesi il guelfo spirto,
Meglio comprese ognuno all'improvvisa
Morte del vecchio provenzal monarca.
Orbo questi del figlio, al debil pugno
Della nepote abbandonò lo scettro;
E della incauta il leve cor s'avvolse
In infelici amori, e la sua fama
Fu dalla morte del trafitto sposo
Più orrendamente deturpata, e i novi
Mariti la tradìan, sin che il feroce
Vendicator carnefice a lei fessi.
Sceso Roberto nella tomba, crebbe
Per tutta Italia il ghibellin coraggio,
E si volser de' più le speranzose
Ciglia novellamente alle promesse
Della potente signorìa Lombarda.
Moltiplicati vidersi gli esempli
Di fraterna concordia e di valore
Ne' nostri lidi Saluzzesi. Al bello
De' popoli fervor corrispondea
La virtù di Tommaso: egli emulava
De' suoi più forti la prodezza. Il nome
Di Tommaso era sola indi una cosa
Col nome della patria al cor de' giusti;
E da lunga, sfortuna raffinato,
Il suo spirto gentil s'affratellava
Sinceramente co' minori, e segni
Dava di gratitudin commoventi
A cavalieri e ad infimi mortali
Che ponean fede in esso, ed olocausto
Con lui fean degli averi e della vita.
Godea l'animo a tutti i generosi
In vederlo onorar gli alti consigli
Del canuto Giovanni. Eran Tommaso
E di Dogliani il sir qual figlio e padre,
E il portentoso vecchio corregnando
Söavemente sulle suddit'alme
Più e più le affidava. Alcune volte
Lievi nascean principii di discordia
Nelle diverse ghibelline schiere,
Perocchè a' Saluzzesi andavan misti
Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri
E assoldati Germani. Alla parola
Dell'antico Giovanni i dissidenti
Animi s'acquetavano, e sebbene
Cagion di lagno non restasse agli altri,
Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo
Che anteposto a lui mai nell'intelletto
De' sommi duci lo stranier non era.
L'opposto caso tuttodì avvenìa
Nella parte de' guelfi. Il rio Manfredo
Dell'odio de' nativi esacerbossi
Più feramente ciascun giorno; e volle
Col terror contenerli: indi suprema
Grazia spargea sugli esteri comprati,
E verso ogni nativo anco più fido
Scorger lasciava diffidenza ed ira.
Giunse a tal, ne' suoi dì più disperati,
La tirannide sua, che i prigionieri,
Se patria avean la saluzzese terra,
Considerava ribellanti degni
Dell'ultimo supplizio, e senza indugio
Strage ne fea. Tal rabida inclemenza
Costrinse i ghibellini a rappresaglia,
Sì che perdòn più non brillò sui vinti.
A quel tempo si vide in ambo i campi
Accorrer di Staffarda il santo abate,
Misericordia supplicando invano
Pe' guerrieri captivi. A lui Manfredo
Con vilipendio rispondea, sgozzando
Innanzi a lui le vittime, e nell'altro
Campo l'udìano con ossequio i prodi,
Ma rispondean che giusto uso di guerra
Stabilìa le vendette, unico modo
A frenar gli avversari in tal barbarie.
Per tutti gl'immolati Ugo gemea,
E notte e giorno l'atterrìa il timore
Che prigion di Manfredo in qualche pugna
Eleardo restasse. Ah! insiem con esso
Un altro cuor da quel pensier tremendo
Era a que' tempi strazïato: il cuore
Della figlia d'Arrigo. Avea creduto
L'infelice Maria poter nemica
Vivere ad Eleardo, allor che intese
Ch'ei dipartito dalle guelfe insegne
Alla destra di lei più non ambiva.
L'avea davvero alcuni dì abborrito
Com'uom che lei tradìa, com' uom che l'armi
Tradìa de' generosi. Ah! nel sincero
Animo della vergin quello sdegno
Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio
De' ghibellini la giustizia, e pianse
Riconoscendo in qual funesto errore
Il padre s'avvolgesse. Ella in Envìe
Nel paterno castel traea la vita
Colle dilette ancelle, trepidando
Pel genitore e per l'amante. Ascesa
I passegger vedeanla da lontano
Su questo ovver su quel dei sette grigi
Torrïoni d'Envìe. La sventurata
Scorgea nella pianura o sovra i colli
Gl'incontri delle avverse aste feroci,
E talor le parea per que' remoti
Lochi discerner dal fulgor degli elmi
Arrigo od Eleardo, od ambidue
Cozzanti insiem. Prostravasi la pia
Lagrimando e pregando il Re del Cielo
E la Donna degli Angioli; e sovente
Restava lunghi giorni il dilicato
Corpo affliggendo con digiuni, e intere
Vigilava le notti in calde preci,
I proprii patimenti a Dio offerendo
Per la salvezza de' suoi cari. E seco
Viveano in lutto e assidua penitenza
Le fide ancelle e antichi servi. L'alme
Angosciate si schiudono a paure
Di superstizïone. Or dalla torre
Nelle nubi scorgean croci di sangue,
E sembianze di scheletri, e l'immensa
Falce e dell'Angiol della morte il pugno;
Or di sciagure sovrastanti indizio
Lo strido era dell'ùpupa ed il mesto
Urlo notturno dell'errante cagna;
Or dagli armati servi a mezzanotte
L'estinta madre di Maria s'udiva
Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente
Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune
Scale salire, ed appellar con fioca
Voce il marito o la diletta figlia.
A calmar quelle ambasce e que' terrori
E a consolarsi fra i soavi amplessi
Dell'innocente vergine, il cruccioso
Padre venìa talor. Con duri modi
L'aspreggiava e garriala del suo pianto,
Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci
La supplicava d'innalzar pe' guelfi.
E nelle rughe della smorta fronte
Ella più e più leggea del genitore
I sinistri presagi. Insinüante
Sonava un non so che nella pietosa
Voce di lei che costringea il canuto
A poco a poco a palesarle occulti
Sempre novi dolori.
Un dì le disse:
—Più non pregar pe' guelfi! abbandonati
Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze
Il superbo Manfredo: i miei consigli,
I preghi miei non cura. Adulatrici
Parole ei vuol; darle non so. Un drappello
D'infami lusinghieri applaude a tutte
Sue tirannie, le suscita, il fa cieco
Stromento a loro insazïabil sete
Di tesori e vendette. Apportar senno
Volevamo e giustizia; abbiam delitti
E stoltezza apportato. Ad uno ad uno
Da noi si dipartìano i prodi amici:
Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo
Dell'estrema ignominia!
—Oh sciagurate
Voci! oh misero padre! I vaticinii
Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo
Lascia tu dunque di Manfredo: accetta
Di Tommaso la grazia!
—È tardi, o figlia!
Errò Manfredo, ma infelice il veggo:
Mai da prence infelice non si scosta
Fuorchè il vigliacco!
—Oh padre amato, pensa…
—Che vigliacco non son, che con Manfredo
Debbo cader.
—Mai di vigliacco taccia
Ad Eleardo non darassi.
—Ei corse
Quando da noi si svincolò, a bandiera
D'un prence espulso: audace era il partito,
Ma generoso. Non così oggi fora,
Correndo a sir cui la fortuna arride.
Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto:
Dimane si combatte, e se non opra
Per noi prodìgi Iddio… dimane, o figlia,
Più non hai padre!
—Oh feri detti!
—Io vengo
L'ultima volta a benedirti forse:
Con vigor di te degno, odimi: stirpe
Di codardi non siam. Tergi le ciglia,
Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta:
Un patto pongo al benedirti.
—Quale?
—Bada che guelfo io moro, e maledetta
Sarà tua man se a ghibellin la porgi!
—T'affida, o padre: intendo. Amo Eleardo,
Ma te guelfo perdendo, a ghibellino
Moglie mai non sarei!
—Tutti il Signore
Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni!
Me sol, me sol de' falli miei punendo,
Sparmii l'anima tua!
Disse. Ad un servo
L'accomandò; da lor si svelse e sparve.
Infelici ambidue!—Ma più infelice
Forse d'ogni innocente addolorato
È quel mortal che temerario corse
A illusïoni infauste, onde tormento
Ineluttabil ridondò a' suoi cari!
Oh come allor, nella pietà ch'ei sente
Di questa o quella vittima diletta,
Tardi vede primier debito d'uomo
Esser religïon, carità, pace,
Provvedimento a dolce sicurezza
Di domestiche gioie, e non desìo
Imprudente di gloria e di perigli.
Tal verità gli splende, or che non puote
Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo;
E forte è assai per sè medesmo in tutte
Avversità, ma non è forte, al duolo
Della figlia pensando, e sebben mostri
In mezzo a' suoi guerrieri animo invitto,
Spesso ei nel manto si rinchiude e piange.
Tre dì Maria si stette in disperati
Non cessanti delirii:
—Empio Eleardo!
Perchè movevi alle felici insegne
Destinate al trionfo, e il padre mio
Per dolci preghi e dolce vïolenza
Teco a salvezza non traevi? Oh fossi
Tu restato co' guelfi! il valoroso
Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode
Fatal perdemmo in te: spesso deciso
A pro de' ghibellini hai la vittoria.
Possente impulso hai dato alla fortuna
Del profugo Tommaso: alta, primiera
Cagion tu sei delle sconfitte nostre.
Ah, non m'amavi, ingrato! E insino ad ora
Io figlia iniqua, immemor de' perigli
Del caro padre mio, secretamente
Alzato sempre voti ho pe' tuoi giorni!
Que' voti abborro! quell'amor disdico!
Il padre mio si serbi! il padre vinca!
Il padre atterri i suoi nemici, i miei!
Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido
Che di virtù civile ai ghibellini
Or dona palma. I nostri petti infiamma
Vero di patria amor: calunnïato
È Manfredo da voi; calunnïato
È il padre mio, di giuste opre seguace;
Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca!
Così l'immenso affanno isconsolata
Iva Maria sfogando; e avvicendava
Accenti d'ira e di pietà, e d'umìle
Fervida prece. E promettea al Signore,
Se dagli eccidii salvo andasse il padre,
Essa tutrice farsi ad orfanelli,
A vedove, ad infermi, a pellegrini,
E tutti gli anni un dono offrire eletto
Sì di Riffredo al monister famoso,
Sì ad altri santi d'innocenza asìli.
Ella avrebbe voluto alle promesse
Che le dettava il core, aggiunger quella
Di cingere in Riffredo il santo velo,
Ma la meschina non potea, pensando
Al solitario padre orbo di figli!
Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa,
Anco pensava mal suo grado ognora
A colui, che ne' scorsi anni felici
Erale stato così caro!
Oh come
La infelice Maria sta dalla torre
Investigando ogni lontano moto
D'armi o di passeggieri, ed in lei cresce
Indicibil timor ch'ella securo
Presentimento d'alto lutto estima!
Chi son que' duo che sull'arcion veloci
Movon per la pianura? Ad essi lunghe
Soverchiamente son le usate strade,
E là passano un rio, là per gli sterpi
D'una macchia s'inoltrano, agognando
Il più diretto corso. Alla borgata
Pareano volti di Revello, e pure
Quivi non si soffermano, e alla terra
Certo d'Envìe sospingono i cavalli.
Oh di Maria nell'anima dubbiante
Ansïetà novella? Or si protende
A guardare in silenzio, or si dispera,
E grida e trema di saper chi sièno
Que' frettolosi. Omai discerne alfine
Che non guerriera è la lor veste; e poscia
Sospetta, avvisa che l'un d'essi il giusto
Presule sia col fido laico. Un dubbio
No, più non è; son dessi!
A quella vista
Le ginocchia le mancano, ma i sensi
Non perde ancor. La reggono le ancelle,
E la misera esclama:—Ugo! tu vieni
A me del padre ad annunciar la morte!
Ma quando intese appo il castel d'Envìe
Scalpitare i corsieri, allor sì grande
Fu la tema e il dolor, che appieno svenne.
Ahimè! spenta la credon qualche tempo
Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna,
Ed entrar vede pallido, turbato,
Lagrimoso il canuto.
—Il padre mio…
Parla… dov'è sua spoglia?
—Ei vive ancora;
Ma prigionier, ma dalla cruda legge
Che a morte danna i prigionieri, oppresso!
—Oh sventurato! oh più felici quelli
Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi
Lasci lui trarre? Intercessor non debbe
Uom di Dio farsi a disarmar le atroci
Ire de'vincitori?
—Ah! da te sono,
O vergine, ignorati i vani sforzi
Che tentai da Tommaso! I suoi nemici,
Or volgon pochi dì, sacrificaro
Barbaramente dieci illustri teste
Di ghibellin captivi. Universale
Nell'oste ghibellina è quindi il grido,
Che gl'immolati abbian vendetta. Arrigo
Morrà domane con nov'altri: il cenno
Tommaso niega rivocar; respinto
Venni da lui. Prova sol una or resta:
Seguimi al campo: sforzerem l'ingresso
Della tenda del sir; forse il tuo pianto
Ammollirà il suo nobil cor, dai truci
Fatti d'alterna rabbia incrudelito.
—Il ciel t'ispira: andiam.
Rapidamente
La vergin s'allestì; rapidamente
Ella e pochi fedeli in sui corsieri
Volser con Ugo al saluzzese campo.
Ad un tronco giaceva incatenato
Tra i furenti nemici Arrigo, a breve
Di Saluzzo distanza. Ei siccom'uomo
Che avea la gloria di Saluzzo amata
Vagheggiando per essa e per Manfredo
Fortune alte, impossibili, or mirava
Con istupor, qual visïon non vera,
Quell'ultima sconfitta, e quell'orrendo
Svanir d'ogni speranza, e quel ritorno
De' ghibellini e di Tommaso, e quella
Guerra in veloci tratti or consumata
Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni
E povertà ed obbrobrio e sacrilegii!
E tutto ciò per vicendevol, grande,
Creduto zelo di virtù e di patria!
E innanzi a lui mirando egli quel loco
Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo,
E dove diroccato oggi è il recinto,
E dentro quel, fra orribili macerie,
Non v'ha che rari antichi alberghi e templi
Con negri campanili, e qualche novo
Incominciato cittadino ostello,
Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi
Da pietà inusitata. Ei nella foga
Delle gioie guerresche avea con occhi
Di ferocia le fiamme un dì veduto
Ed il saccheggio devastar Saluzzo.
Or cessata l'ebbrezza, il cavaliero
Delle avvenute iniquità s'affligge,
E dice mal suo grado:—Ecco onde il CieIo
Manfredo e i guelfi e me con lor condanna!
Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda,
Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene,
Con dispregio guardando i vincitori.
Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce,
Ma in un più divorante. Ei nelle meste
Sale d'Envìe scorge la figlia, ed ode
Il miserando suo lamento, e sola,
Orfana, senza prossimi congiunti,
Senza soccorsi d'amistà la mira;
E le canute palpebre di pianto
Amarissimo grondano e i singhiozzi
Frenar non puote, e colle scarne mani
Si copre il volto per vergogna e rugge.
Un de' custodi come un tempo i falsi
Di Giobbe amici, lo compiange e incuora.
—Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto
Il destin de' mortali; adorar sempre
Dobbiam di Dio gl'imperscrutati cenni:
Non accettarli è codardia e bestemmia.
—Taci, impudente ghibellin; m'è noto
Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce,
Che l'are sue mal onorai, che vissi
D'ira e d'orgoglio più d'ogn'uom, che merto
Cader per mani inesorate e inique.
Non mi ribello contro a lui; non biasmo
Il suo rigor, non tremiti codardi
Me presso a morte invadono: un'angoscia
Non ignobil mi preme. Ho una figliuola
Ch'orfana resta, e sua sventura io piango!
—Padre ai pupilli derelitti è Iddio.
—Vero favelli, ma la terra è piena
Di pupilli derisi, insidïati,
Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite
Forse da Dio son le paterne colpe!
Indi io pavento, io peccator, sul fato
Che all'innocente figlia mia sovrasta.
—Ben paventate, o sciagurati guelfi,
Che tanti alberghi incendïaste, e tanti
Olocausti sacrileghi immolaste:
Men empio è il ghibellino.
—Empi siam tutti,
Amor vantando di giustizia a gara,
E ognor con nostre stolte ambizïoni
Opprimendo la patria e calpestando
Natura e dritti ed innocenza e onore!
Così dal labbro del feroce vecchio
Usciva un misto d'indomata audacia
E di sincero pentimento. Il capo
Piegava sotto ai fulmini divini,
Ma i consigli degli uomini esecrava,
E negli sguardi suoi sì presso a morte
Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.
Bella fra tutte umane imprese è quella
Dell'uom che avvampa di desìo di pace
E di perdon, non per suo proprio bene,
Ma per altrui! ma per servire a Dio,
Ed alla dolce patria e ad infelici
Cuori ch'egli ama e consolare anela!
Tal nell'ire civili è il vostro uficio,
O vegliardi autorevoli che all'ara
Del Dio di pace consecraste i giorni!
Ecco arrivare al campo Ugo e Maria:
E mentre del marchese al padiglione
Van rivolgendo accelerati i passi,
Veggono appunto da catena stretto
A fisso legno fra custodi Arrigo.
Con qual pianto e quali impeti di grida
Prorompe la fanciulla infra le care
Braccia paterne! e qual celeste han suono
Sue filïali tenere parole
A genitor così infelice? Ei serra
Al sen quella innocente; e sclama:
—Oh gioia!
Ma insana gioia! Oh nuovi affanni orrendi!
Deh, perchè a me non li sparmiava Iddio?
Non misero abbastanza era il mio fato,
Ugo crudel? Tu qui la figlia traggi
A vedermi morir!
—Padre, ei mi tragge
A salvare i tuoi dì.
—Che? supplicando
Codardamente il vincitor maligno
Di largirmi il perdon? Non sarà mai!
La stirpe mia non annovrò guerrieri
Che morir non sapessero da forti.
D'espor ti vieto il virginal sembiante
Al barbaro sorriso de' felici!
Io so morir, io morir voglio prima
Che la mia figlia a'piedi altrui si prostri!
—Padre, lasciami: il so, ti disdirebbe
Di coraggio scarsezza ai più tremendi
Giorni della sconfitta, e se il nemico
Te immolar vuol, da prode cavaliero
E da cristiano perirai pregando
Non gli uomini, ma Dio. Lasciami: un altro
Dovere è quel di figlia. A me ignominia
Fora il non chieder la tua vita al sire.
—Vilipesa sarai.
—Pur vilipesa,
Degna sarò d'ossequio e di compianto:
Avrò adempiuto quanto amor di figlia,
Quanto la voce del Signor m'impone.
Contendeano in tal foggia, e l'ostinato
Arrigo persistea nel suo divieto;
Ma di Staffarda l'infulato duce
Strappò Maria dalle paterne braccia,
Ed attraverso a numerose tende
Corrono di Tommaso al padiglione.
Udivan essi da lontano gli urli
Del corrucciato Arrigo:
—A tutte dunque
Serbato io son le più esecrabili onte!
Di me la figlia indegnamente stesa
Ad implorar la vita mia, la vita
Che mi si fa spregevol, che non posso,
Che non voglio accettar! Riedi, ten prego,
Tel comando! paventa il furor mio,
Il maledir d'un genitor morente!
Ghibellino fu sempre Ugo, e nol move
Pietà di noi. L'ipocrita vegliardo
Del nostro duolo infamemente esulta,
E per farlo maggior vuol che d'Arrigo
L'ultima figlia esempio doni abbietto.
Del minacciar, paterno e delle ingiuste
Voci contr'Ugo questa inorridiva;
Ma il venerando abate alla fanciulla
Reggeva il cor, dicendole:—Salvarlo
Dobbiam malgrado l'ira sua superba.
Ma qual d'entrambi è l'animo allorquando
Dalle guardie interdetto al padiglione
Vien lor l'ingresso! Non bastàr nè preghi,
Nè lagrime, nè strida. Un assoluto
Cenno del sir faceva inesorati
Tutti i guerrieri che cingean la tenda.
Stavano dentro a quella in assemblea
Col supremo signor parecchi duci;
E questi duci tutti eran da lunghi
Danni e da amare perdite innaspriti,
Sì che spinto da lor venìa il marchese
A costante fierezza, insin che, espulsi
Pienamente i nemici, astro securo
Di comun gioia sfavillar potesse.
Entro la rocca di Saluzzo chiuso
Erasi il rio Manfredo, e colà ancora
Ei da stranieri iva sperando aïta,
Benchè spersi fuggissero, inseguiti
Dall'antico Giovanni e da Eleardo.
Di questi duo suoi fidi cavalieri
Or più Tommaso non avea contezza
Già da due dì. Certo parea il trionfo;
Ma se fallito avesse? e se impensate
Novelle squadre di possenti guelfi
Nel paese irrompessero? Que' dubbii
Nutron lo sdegno di Tommaso. Impone
Che congedati sien Ugo e Maria,
E quai si fosser supplicanti.
Allora
Pria di ritrarsi il presul generoso
Resistendo alle guardie, alzò la voce:
—Nobil marchese di Saluzzo, ascolta
I moti del cor tuo: non meritato
Da' tuoi nemici è di tua grazia il raggio,
Ma so ch'aneli d'emanarlo, e Iddio
L'adempimento di tua brama aspetta
Per benedirti più e più…
Troncato,
Fu duramente da' guerrieri il pio
Grido del vecchio, e fu troncato il grido
Dell'angosciata vergine, e repente
Lunge dal padiglion venner sospinti.
Videli Arrigo a sè tornare, e disse
Con amaro sogghigno:—Il pianto vostro
Non terse dunque il vincitor? Lucraste,
E ben vi sta, gli ultimi oltraggi: io puro
Son di codesto obbrobrio vostro almeno!
A Dio mi curvo; a nessun uomo in terra!
Ma dopo quel sogghigno e quell'acerba
Favella, intenerissi alle dirotte
Lagrime di Maria. Con lui rimase
La sconsolata, e ritornò alla tenda
Il santo amico lor, novellamente
Tentar volendo di Tommaso il core;
Ed intanto la vergine abbracciando
Del padre le ginocchia, or lo pregava
Di placar Dio con miti sensi, ed ora
A Dio medesmo rivolgea sue preci.
Ugo, ahimè, ricompar! nulla otteneva,
Nulla ottener più spera! Alta mestizia
Al degno sacerdote in volto siede,
Ma mestizia di forte alma che viene
Un moribondo a regger nel tremendo
Agonizzar dell'ore sue supreme.
Maria l'intende, e misera prorompe
In impeti di duolo inenarrati;
Smarrisce i sensi, e inconsapevol tratta
Viene appartatamente infra pietose
Donne che a lei soccorrono. Prostrossi
Arrigo allor del sacerdote a' piedi,
E confessò sue colpe. E dacchè sciolto
Gli fu in nome di Dio di queste il laccio,
Si rïalzò con pacatezza altera,
Ma non di quella indomita alterigia
Che in lui dianzi apparia, qual di nociva
Fosca meteora formidabil luce.
Or quell'ardito e dignitoso sguardo
Porta di pace e d'umiltà un'impronta
Che vien dal Ciel, dal Cielo, autor sublime
Di stupende armonie!
—Dov'è mia figlia?
Ugo, traggila a me: l'estrema volta,
Benedirla degg'io. Meco brev'ora
Star si potrà.
Fu ricondotta al padre
La sventurata, ed ancorchè d'affanno
Le sanguinasse il cor, pur di lui vide
Con maraviglia la quiete, e grazie
Alla Donna degli Angioli ne rese,
Ed impose a se stessa umiltà, pace,
Eroica forza. Ella piangea, ma freno
Ponea a' lamenti, e con devote ciglia
Mirava il padre, e sue parole tutte
Accoglieva nell'anima, siccome
Parole d'uom che santamente muoia.
Festivo era quel giorno, e perciò l'altro
Pei supplizi aspettavasi. Omai tarda
Era la sera, ed Ugo apparecchiati
A pio morire aveva altri prigioni.
Ritorna ei quindi presso Arrigo, e i proprii
Palpitamenti di pietà vorrìa
Celare in parte:—O cavaliere! o donna!…
Tutto puossi con Dio!…
—Dal padre amato
Deh, ch'io non venga separata ancora!
Lontana è l'alba.
—Più crudel sarìa
Vicino all'alba separarvi.
Arrigo
Stringeva al sen la figlia, e lei disporre
Desïava a partir. Ma la infelice
Alla prova tremenda obblïò i miti
Sentimenti di pace, e la ragione
Le si turbò miseramente.—Oh guerre
Scellerate di popoli! oh stendardi
Di virtù menzognere! oh glorie infami
D'emuli cavalieri, onde son frutto
Crudeltà e morte! Ah! perchè Dio fecondi
Alla feroce umana stirpe ognora
Fa gl'imenei, se la catena intera
De' secoli spruzzata è d'uman sangue?
E qual di sì esecrande ire perenni
Colpa abbiam noi, dell'uom compagne e figlie,
Nate ad amar, nate a compianger, nate
A viver senza offesa, assorte in Dio!
Di qual delitto intrisa son perch'oggi
A me tolgano il padre i masnadieri,
Nè generoso pur vi sia terrestre
O celeste poter, che degli oppressi
Alla difesa accorra? Ed Eleardo
In ch'io tanto fidava, anco Eleardo
Ch'io tanto amava, abbandonommi!
Il campo
Suona improvviso di festanti grida.
Balza il core a Maria; porge ella ascolto:
Che sarà mai? Reduci sono il prode
Antico Doglianese ed Eleardo,
Apportatori di vittoria piena.
Brillan del presul le ispirate luci
Per novella speranza, e i passi affretta
Ver l'amato nepote; il giunge, il ferma,
E d'Arrigo gli parla.
Intanto usciva
Del padiglion Tommaso, e lieto amplesso
Porgeva a' trionfanti; e ratto a lui
Volgea tai detti di Dogliani il sire,
Indicando Eleardo;—Alla prodezza
Di questo forte molto devi, o prence;
Le più valenti squadre egli ha sconfitte.
Stende il marchese al giovin glorïoso
L'amica destra. Ei gliela bacia, e prono.
—Signor, grida, signor, me qui tu miri
Astretto a chieder dalla tua clemenza
A' pochi miei servigi alta mercede.
—Quai pur sieno tue brame, o campion mio,
Le manifesta, e saran paghe.
—I giorni
Chieggo salvi d'Arrigo. Il so, fu reo:
Non corrucciarti del mio ardito prego.
Arrigo a me qual padre ebbi molt'anni,
E padre è di colei che sul mio core
Sin dall'infanzia regna.
Ondeggia alquanto
Il magnanimo prence, indi prevale
Benignità sugli altri affetti, e sclama:
—Ho perdonato! ogni prigion si sciolga,
Ed a' suoi tetti rieda, apparecchiando
A più nobile oprar suoi dì futuri.
A quella augusta consolante voce
Mill'altre voci eccheggiano, e fra loro
Quella del vecchio di Dogliani, e quella
Del presul di Staffarda, e più robusta
Quella del giovin che all'amata donna
Rendere può del genitor la vita.
A tanti applausi si nasconde il prence
Rïentrando commosso entro sua tenda:
Ed ecco volan Ugo ed Eleardo
A scior d'Arrigo i lacci.
Il prigioniero
Uso ad ira e superbia, esitò prima,
Poi fu da conoscente animo vinto
E da dolcezza, ed Eleardo al seno
Colla figlia serrando, inginocchiossi,
E disse a Dio:—Sovra Tommaso schiudi
Tuo più giocondo riso, e prosperato
Sia nel dominio e nella prole, e cessi
A lui d'intorno ogni fraterna guerra!
Modestia e gratitudine e contento
E maraviglia e amor davano agli occhi
Della vergin bellissima un novello
Indicibile incanto, onde il fedele
Suo cavalier gioìva inebbrïato.
Scorge i lor voti il padre, e prende e unisce
Le destre loro. Un grido alza di gioia
Il felice Eleardo, e la tremante
Fanciulla irrompe in lagrime soavi,
Benedicendo la celeste aïta
Che i lunghi affanni in tanto gaudio volse.
Di Saluzzo la rocca indi a tre giorni
Spalancar si dovette. Uscì Manfredo
Con pochi suoi compagni ed esularo;
E in sua paterna sede il buon Tommaso,
Se non durevol pace, almen godette
Signorìa da virtudi alte illustrata,
E alle rovine di Saluzzo orrende
Nuovi successer tetti e nuovi prodi.
Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire:—«La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»
Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da
illi.
(Ep. ad Rom. 12.)
Piangi, o la più gentil fra le convalli
Dello spumante Pellice, ove un giorno
Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi
Cavalieri affluìano ad alte feste.
Più non vedrai delle sue torri a sera
Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
Caramente appoggiando un braccio e l'altro
Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
Ciglio volgendo con amor, ma indarno,
Ai dolci rai del tramontante sole.
Que' figli suoi nascean gemelli, e santa
Tenerezza li univa. Or sola e mesta
Clara accompagna il cieco padre a sera
Fuor della torre, perocchè il gagliardo
Fratel devote ha l'armi alla difesa
Del pio Tommaso suo ramingo prence
Contro i nemici della patria terra.
Rosseggiava bellissimo un tramonto
Sulle nevi lontane, e stupefatto
Pareva il sol che dal romito albergo
A salutarlo non venisse il vecchio.
Ahimè, quell'era di sventura un novo
Spaventevole dì! Schiudesi alfine
La porta del castello, e con veloci
Passi agitatamente escono Aroldo,
Clara e più servi; nè il canuto ciglio
Ai soavi del sole ultimi rai
Volger si cura. Che avvenia?—Dal campo
Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido
Contro l'usurpator del saluzzese
Seggio osando tropp'oltre avventurarsi
Nel calor della pugna, il circondaro
L'empie straniere spade, e prigion cadde.
Speme di riscattar sì cara vita
Nutre il barone antico; e vuole ei stesso
Trar supplichevol senza indugio al truce
Fortunato invasor, che se talora
Immolar gode i miseri captivi,
Talor si placa a ricca d'oro offerta,
Molto dovendo da sua iniqua sede
Oro il tiranno effonder sulle bande
Dell'alleato provenzal monarca.
Giunto al margin vicino ove al tragitto
Nel rigonfiato Pellice è apprestata
La navicella, Aroldo porge il bacio
Del congedo alla figlia. Allora al collo
Gli s'avvinghia la pia.—Sola a mie stanze
Non riederò, buon genitor; pupilla
Esser della tua fronte a chi s'aspetta
Se non a me? Forse pietà maggiore
Assalirà dello sdegnato sire
Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi
La veneranda tua canizie e gli anni
Giovenili di vergine scorgendo,
Che colla vita del fratel la vita
Chiede del padre.
Vuole opporsi Aroldo,
Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo
Già vel precede, e al consentir paterno
Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde
Perigliose attraversano. Ma ov'era
L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,
Generosa innocente? A voi non velo
Fecer colle tutrici ale a celarvi
Alla vista de' prossimi ladroni
Che irrompono co' brandi alla rapina.
Voler divino ai nembi di sfortuna
Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
Nei patimenti una virtù Dio pose
Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.
Sbandato di predoni era un drappello,
Che della guerra col favor raccolto
S'era d'Itale spiagge e di straniere
A rubamenti ed omicidii, altero
Linguaggio alzando di zelanti eroi,
Campioni della patria e di Manfredo.
S'azzuffan del baron coi fidi servi,
E nell'orrenda mischia ad uno ad uno
Dal soverchiante numero feriti
Vengon que' servi, e de' vincenti in mano
Son le ricchezze che a comprar la vita
Destinava del figlio il cieco sire.
Intero un dì per boschi e per dirupi
Ei trascinato colla figlia venne,
Ma il manto della notte ai duo infelici
Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
Del brïaco drappel de' masnadieri
Quetamente si trassero alla valle.
Come lontani fur dall'empia frotta,
E ardiron favellare, il cieco strinse
La figlia al seno, e grazie alte le rese
D'averlo addotto a salvamento, e lei
Per l'accorto suo senno e per la dolce
Filial carità ribenedisse.
—Or dove, o padre, senza aïta alcuna
Ci avvïeremo?
—O Clara mia, remoti
Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
Il tempo mancheria; son prezïosi
Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo
Verso il campo nemico, appo le triste
Di Saluzzo rovine. O senza doni
Compariremo anzi al tremendo sire,
Ma sincere promesse il piegherranno
A moti di clemenza. Inoltre ho fede
In mia canizie e in queste spente occhiaie
E nel pianto che versano, e ben anco,
Figlia, nel tuo.
Pensava Aroldo ospizio
Prender non lunge, ove la figlia al raggio
Della luna scorgea l'amica torre
D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
Odon che il giorno pria furibonda oste
Era quivi passata e avea deserta
La rocca e trucidato il castellano,
E devastato a' villici i tugurii.
Il negro pan de' villici dispersi
Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
Per tutti i casolari, invan cercando
Palafreno o giumento: avean le schiere
De' nemici avidissime votata
In que' lochi ogni stalla.
—Ahi, dilungati
Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
Or dove andrem?
—Pedon la via si segua
Sino al mattin: buio non è, dicesti.
Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
D'altri ladron te, mia dovizia or sola,
Te il ciel pietoso asconderà.
Sì disse,
E di padre l'affetto e di sorella
Lena lor porge insino all'alba. Il campo
Mostrossi allora al pauroso orecchio
Della fanciulla pria che agli occhi.
—O padre,
Odi tu, disse, odi tu roco un suono
Simile al suon della bufèra o a quello
Di molte acque correnti?
Il vecchio capo
Ei soffermò, ed immemore un istante
Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
—Oh di qual gioia quel fragor m'empiea
Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
Come voce di sposa al suo diletto.
Un dì così fremente io il bellicoso
Aere appena sentia, sovra il mio scudo
Battea forte l'acciaro, e dai precordii
Metteva un grido che atterrìa da lunge
Del nemico le scolte. E i miei congiunti
Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,
Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca
È questa voce, e più la destra, e al breve
Giubilo del guerrier tosto succede
In me a quel suono il trepidar del padre.
Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,
Che sino allor söavemente a' detti
Del genitore avea frammisti i suoi,
Incominciò a interrompersi, e risposte
Dar che, non conscio l'intelletto, un moto
Parean sol delle labbra. A poco spazio
Vedea della distante oste per l'aure
Quasi di nave altissimi duo pini
Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
Come al suolo confitti. E secondata
Venìa quell'opra da un clamor che il primo
Clamor non era, ma or fischiante or rotto
Da infami ghigni o da cupo silenzio.
A' sensi suoi creder dovea? Le cime
Parean gravate de' duo legni, e il pondo
Che le gravava non scerneasi. Udito
Spesso Clara ha di barbari supplizi,
Ove ad appesa vittima lo strale
Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.
Quei che divide dalle ciglia il teschio.
Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio
Peggior di morte! E chi alla sbigottita
Dice s'uno colà de' morïenti
L'amato suo fratello ora non sia?
Chi le dice se il passo al genitore
Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
E se il padre trattien, non di Ioffrido,
Che forse ancor sull'albero non pende,
Cagionerà la morte?… Ad ogni costo
Vadasi al fatal loco!
Il piè, tremando
In ciò pensare, affretta. In man la mano
Della meschina Aroldo tien.—Di gelo,
Fra sè diceva, è questa man, siccome
Quella ch'io strinsi di sua madre al letto
Ove s'estinse.
Indi il vegliardo scuote
Il capo, quasi scuotere volesse
Un malaugurio, e non potea.—Di morte,
Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.
Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari
Detti mi porgi che tue labbra sciorre
Uniche san, quando scorato è il padre.
Nata ne' giorni di sventura, e in erma
Torre cresciuta, ove sorelle e madre
Vide spirar, sollecita a sinistri
Presentimenti schiuder l'alma, è fatto
In lei religïon. Si raccapriccia
In udir che s'affaccin alla mente
Del genitore e in quest'istante i negri
Pensamenti di morte. A lui si volge,
Apre le labbra—e i consolanti detti
Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:
Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
Che inobbedito di suo padre è il cenno.
—Più de' pensier miei tristi or malaugurio
M'è il tuo silenzio, ei dice.
E lo spavento
In lei crescendo, e a' rai primi del sole
Splender veggendo le volanti frecce,
Improvviso s'arresta.—Oh genitore!
Non c'inoltriam: non odi tu le strida
Degli assassini?
—Il figlio, il figlio mio
Forse a morte strascinano: affrettiamci.
—Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.
Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
In vita è ancor, di novo al fianco tuo
Tosto mi rendo, ma te… O ciel! raddurre
Te vivo a casa allor io posso almeno!
—Sciagurata, che parli? Orrende cose
Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
Fra quelle voci che il mio antico orecchio
Non distinte percuotono, tu scerni
Voci di morte e del fratello il nome.
Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
Porta il tumultüoso aere d'atroce?
—Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa
Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
L'orribil caso… tu m'intendi… allora
Orfana forse rimarrei nel campo.
—Me perder temi, e non t'avvedi, insana,
Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
Tel comando, obbedisci.
All'inusata
Ira paterna impaurissi Clara;
S'alzò. Con passi rapidi il cammino
Misura il cieco, e strascinata quasi
La giovinetta il segue. Erasi spersa
La turba intanto che cingea i duo pini,
E presso a questi il padre e la sorella
Arrivan di Ioffrido. Ella più volte
Erse il ciglio tremando, e insanguinate
Scorse due salme, e incontanente a terra
Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse
Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
Han la coppa del cranio, e dal mozzato
Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
Ma quell'orrida vista e lo spavento
Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:
—Padre! dic'ella, padre!… E qui stramazza
A' piè d'Aroldo.
E mentre brancolando
Col caro pegno tra le braccia fugge
D'in mezzo della via, però che udito
Brigata di cavalli ha scalpitante
Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
Ad un de' lati fermasi, ove un tronco
D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo
Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,
Che di baroni provenzali cinto
Per intenti di guerra iva il terreno
Intorno visitando. Una fanciulla
Scorge egli tramortita ed un vegliardo;
E voltosi ad Aroldo, acerbamente
Così gli grida:—O discortese e stolto,
Perchè nel sangue d'un fellone e sotto
Il patibolo tratta hai quell'afflitta,
Cui toglie i sensi il raccapriccio?
—Oh sire,
Oh novo sire di Saluzzo! esclama
L'antico cavalier, cui non intera
L'aspra parola del crudel pungea,
Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
Aroldo io son dalle romite torri
Che si specchian nel Pellice. E l'illustre
Tuo genitor te adolescente spesso
Adduceva a mie sale, e co' miei figli
In un calice sol beevi a mensa.
Ah per memoria del tuo estinto padre
Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,
E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
Io non leggeri doni a te in riscatto
Dal mio castel portato avea, ma iniqui
Predatori per via m'hanno assalito.
Alle mie braccia il caro figlio rendi,
E qual tributo m'imporrai ti solvo,
Pareggiasse anco de' miei campi aviti
L'intero pregio.
—O sciagurato Aroldo,
Di qual osi tributo or favellarmi,
Se finor tutto mi negasti? È tardi.
—Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,
Fu da bollente figlio mio l'insegna
De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,
E la vittoria a tua prodezza arride.
Ma tu il fervido oprar del giovinetto
Dona pietosamente al supplicante
Suo genitor che in venti pugne il sangue
Versò pel nobil padre tuo, quand'esso
Con tanta gloria signorìa qui tenne.
—È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli
Tutta la forza ond'è capace il core
D'un cavalier. Sovra quel legno pende
Un trafitto cui grazia altra non posso
Conceder più che di ritorlo ai corvi,
E consentirgli de' suoi cari il pianto.
Disse, e accennando che una guardia il morto
Dalla croce calasse e all'infelice
Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.
Clara i sensi racquista, e oh di dolore
Qual novo orrendo palpito! Era dunque
Il fratel suo quel miserando ucciso!
Eccolo tolto dal funesto legno;
Ed ella il raffigura a cicatrici
Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
E l'angosciata giovin su quel corpo
S'abbandonan piangendo! Ella in lino
L'infranta testa pïamente avvolge,
E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
Carità si commove una famiglia
Di Saluzzesi agricoltori, e dato
Viene un carro con bovi, onde al lontano
Castello il morto cavalier si tragga.
Or da quel giorno d'ineffabil lutto
Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
E la mesta mia cantica, i solinghi
Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia
Commiserando, svolga altra vicenda.
Era una sera: alle vetuste mura
Del baron s'appresenta un fuggitivo,
A cui ferite e febbril sete esausta
Miseramente avean la voce. Aroldo
Piena di vino gli mandò una coppa
Con questi detti: Al focolar t'accosta
Sin che apprestata sia la cena, e al sire
Perdona del castel s'ei di sue stanze
Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
Clara portò que' detti, e il fuggitivo
Che al maestoso inceder cavaliero
Parea e mendìco a' finti panni, il volto
Pria si coverse, indi con pronti passi
Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
Di mortal che, caduto in impensato
Orribile periglio, aneli scampo.
Ma nella mossa impetuosa a lui
Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
Chi era? Chi!… Manfredo! il già possente
Desolator della sua patria! il ladro
Che alla corona del nepote osava
Stender la man sacrilega, e sul capo
Inverecondo imporsela, e i diritti
Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
Dirsi benefattor, serva a stranieri
Brandi facendo la natìa contrada!
Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco
Da compiuta sconfitta è l'empio sire,
E per sottrarsi agl'inseguenti ferri
Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote
Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
Nella pugna perduto e per la rabbia
Gli s'era da brev'ora intorbidato
Sì fattamente il lume del pensiero,
Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto
Era ai campi d'Aroldo altra credendo
Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
D'adolescenza riportate mai
Non avea l'orme, ed alberi e tugurii
Mutato avean l'aspetto della terra.
Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie
Raffigurò d'Aroldo, e se bastata
A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
Manfredo! e senza guardie! e semivivo,
Sotto il tetto dell'uom cui trucidato
Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!
Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
I famigli richiamano, ella corre
Alle stanze del padre, e già già quasi
A lui così sclamava:—Esci, un prodigio
Ad ammirar del Dio delle vendette:
Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene
Il suo assassin!
Ma in quell'istante gli occhi
Della donzella alzaronsi a parete,
Onde pendea dell'Uomo-Dio morente
Effigie veneranda, e a quella vista
L'irrompente parola in cor rattenne.
Religïoso fremito la invase
Dinanzi a quell'effigie.
—Oh mio Signore!
Quai voci arcane alla tua ancella parli?
Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
E a quei che l'uccidean pur perdonavi!
Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,
In carcer sotterraneo, o d'inquieti
Elementi per l'alte aure ludibrio
Sta ancor penando, e a liberarlo vane
Fervon le preci, e in loco d'esse un atto
Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!
Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma
È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando
Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
Come a noi perdonato ha il Redentore!
Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
Delle forze d'un padre il dare aïta
D'un caro figlio all'uccisor. La lancia
Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
D'uom che toccò la mensa sua… Ma pure
Chi può segnar dove talor trascorra
Nella foga dell'ira un core offeso?
Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!
Disse, e prona curvossi, e lungamente
Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio
Esser tentata; innanzi a Dio temea
Calunnïar la santa alma del padre.
Ma nella mente repentino un raggio
Di fidanza pienissima le splende,
E ratta sorge e dice:—Ah sì, fratello!
Questo è il momento in che del ciel la porta
A tue brame si schiude: io di tua gioia
Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
Un servo entrava:—Damigella, o carco
D'inaudite peccata, o fuor di senno
È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio
Parla tra sè com'uom cui prema occulto
Di vendette terribili spavento,
E di qui vuol fuggir.
—Tosto bardata
Per lui sia mia cavalla.
Il servo parte
Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
Antico armadio la fanciulla schiude,
Ed indi tratto un de' paterni manti,
Al leve suo tesor poscia s'affretta
D'auree monete, e in una borsa il pone.
Così ver l'agitato ospite mosse,
E que' doni offerendogli—D'Aroldo
Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
Fremea la generosa in lui mirando
L'uccisor di Ioffrido e il formidato
Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
Del castello accennando, a lui soggiunse:
—Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena
Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!
Clara sparve, ciò detto. E l'infelice
Tiranno—Angiol! gridò.—Poi diè dal core
Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
Pentimento verace a lui fu strazio,
Le proprie atroci colpe rammentando,
E rammentando il giovine Ioffrido,
E quel misero cieco che appoggiato
Ad un alber credeasi, e gli grondava
Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
Frettoloso Manfredo i doni tolse;
L'inaudita pietà benedicendo,
D'Aroldo cinse su le spalle il manto,
E quindi a pochi tratti il vide Clara
Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
Con sembiante commosso intorno intorno
Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
In atto di preghiera ergea le mani,
Poi le briglie toccava ed era in sella.
Fermato ivi un istante, ad alta voce
Mise queste parole:—Aroldo! Aroldo!
Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
Seggio e de' vituperi onde vo sazio,
Consolarmi potrò; non potrò mai
Consolarmi d'aver tua nobil alma
Col più truce rigore insanguinata.
Udì il vecchio baron quel forte grido,
E balzò dalla seggiola esclamando:
—Figlia! il nemico nostro! il maledetto
Uccisor di Ioffrido!
E sul rugoso
Pallido volto del canuto il foco
S'accese del furore. A' piedi suoi
Clara gettasi allora, e gli palesa
Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.
—No, Iddio
Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;
Manfredo è un empio! ei di dominio sete
Portò infernal su queste invase terre,
Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
Infame della patria e del suo prence
Manfredo è traditor. Per sollevarsi
Sulla sede non sua, trasse alleati
E Provenzali e Càlabri e venduti
Guelfi di tutta Italia allo sterminio
De' nostri feudi e delle nostre plebi,
E incenerì Saluzzo!… e il figlio mio,
Il figlio mio su scellerata croce
A' carnefici suoi diede bersaglio!
Lunga e tremenda di rammarco e d'ira
Fu l'eloquenza dell'antico. A lui
Clara abbracciava le ginocchia, e santi
Detti porgea con supplice dolcezza:
—Le iniquità punir sol puote Iddio;
Noi non possiam sul misero fuggiasco
Punirle coll'acciar: solo a punirle
Una guisa n'è data, ed è il perdono.
Càlmati, o genitor; pensa che o degno
Per penitenza diverrà Manfredo,
O, rimanendo iniquo, a lui carboni
Saranno inestinguibili sul core,
Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi
E fra l'alme perverse il danno eterno.
A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,
E il benefico palpito e l'eccesso
Della pietà non sol sugl'innocenti,
Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo
Del perdono di Dio morendo avremo!
—Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,
Ti benedico; santamente oprasti!
L'alza, al petto la stringe, e lagrimando
Mercè le rende che alla prova il senno
D'esacerbato padre ella non mise.
Un dì alle torri del baron fu visto
Giungere di Manfredo un messaggero
Da lontana contrada, e apportatore
Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto
Era il castello, ed in vicino chiostro
Cinta di sacre lane, i dolci salmi
L'orfana, per la cara alma del padre
E del fratel, tutte le notti ergea.
Cantica.
M'era sembrato si potesse fare una specie di romanzo in due o tre volumi, dipingendo un generoso cavaliero italiano del secolo decimoquarto, il quale visitasse una dopo l'altra le varie dominazioni in cui stava divisa la nostra penisola, e così si disingannasse di molti sogni. Provatomi a tal lavoro, incontrai troppi scogli, stante l'obbligo che ha di svolgere con minutezza molti argomenti chi assume lunga prosa relativa a punti storici. Convertendo il soggetto in cantica, tutti i quadri si sono impiccioliti; ma forse così il lettore non avendo tempo d'annojarsi, potrà meglio afferrarne le armonie morali.
Ogni cosa veduta dal mio Roccello nella Italia de' suoi tempi è esattamente storica.
Nec memor eris iniuriae civium tuorum.
(Levit. 19.18).
Oh sospirato d'indulgenza alterna
Malagevol ritorno, allor che fiamma
Di discordia civil tocche ha l'irose
Schiatte de' forti! Nè bastò la fuga
Delle guelfe di Napoli bandiere
E del lor collegato empio Manfredo
A raddur tosto pe' Saluzzii lidi
L'armonia del perdono e delle paci.
Aperti scherni ed avventate punte
Di calunnia secreta e più crudele
Affliggean le famiglie, e singolari
Ne seguìano certami e vïolenti
Scoppi a vendette. Il buon Roccel, perduti
Ambo i vecchi parenti, e contristato
Dallo spettacol di cotanti sdegni,
Caduta in troppe a lui sembrò bassezze
La stirpe umana entro la patria terra.
Di Milan sorrideagli e de' Visconti
La rimembranza, ed a Milan s'avvia
Vagheggiando col fervido pensiero
I costumi leali e generosi
Della città lombarda.—Oh dell'estinta
Mia genitrice amata culla! Oh pie
Torri de' suoi congiunti! Oh come tutta
Combacian quest'amante anima i fatti
De' cavalieri che in Milano io vidi!
Là s'albergo pur v'hanno alcuni indegni,
I degnissimi abbondano: là i cuori
Intemerati a cuori intemerati
Unir si ponno e confortarsi. Un tempo
Anco Saluzzo e le sue valli amene
Eran così; mietute ha cruda guerra
Le magnanime vite, e brulicante
Vil di rettili resta oggi semenza.
Scotea le spalle il suo scudier Gilnero
Dietro a lui cavalcando:—Illustre sire,
Trista per ogni dove è l'agitata
De' mortali progenie, e sol da lunge
Sfavillan di virtù le stranie rive.
—Gilner, tu ignori l'età nostra: eccelse
Speranze arridon per più genti, e il loco
Onde arridono più, certo è Milano.
Grandi cose avverran: d'uopo il mio core
Ha di batter fra giusti e fra gagliardi.
—Signor, di giusti e di gagliardi copia
Non nutre alcun terren.
—Grandi ti dico
Avverran cose in questo secol. Rozza,
Ignara del presente e del futuro
È la nostra Saluzzo; io nella sede
Degli operanti e de' veggenti spirti
Nato a viver mi sento.
—Udite, o sire…
—Taci.
E Gilner tacea; ma affettuose
Occhiate indietro qua e là gettava
Ai Saluzzesi campanili, ai poggi
Che dalle mura estendonsi con tanta
Varïetà e vaghezza di contorni
Per le verdi convalli, ed agli acuti
Gioghi che più remote alzan le teste
Coronate di neve. A quell'aspetto
Sin da' prim'anni a lui sì caro, il mesto
Scudier sospira e brontola:—Contrade
Si cerchin pur simili a questa! Il mondo
Alquanto anch'io stolidamente ho corso:
V'è un sol Monviso sulla terra, un solo
Gruppo di monti come quello, un solo
Pian che s'agguagli di Saluzzo al piano.
Su via, vediam quel de' Lombardi. Un tempo
So che di maestose ombre penuria
Patìa pe' molli prati, e su quel guazzo
Giacean fetide nebbie. Or sarà, certo,
Ricco di piante al par di questo, e scarso
Di pantani e di febbri; e trasportate
Le bige nebbie si saranno oltr'Alpe.
—Gilner, non adirarmi: e quando cieco
Ti parvi di mia patria alla bellezza?
Non questa fuggo, ma color che iniquo
Su terra sì gentil traggon respiro.
Brontolava sovente il buon seguace,
E gemiti mandava, e sovra gli occhi
Talor di furto colla destra il pianto
Mal compresso tergeva; e se Roccello
Vedea quel pianto, commoveasi anch'esso
Ma celava del dolce animo i sensi,
E si fea beffe di Gilner.—Cinquanta
Anni, e sei debol come donna!
—Ingrato
A mia terra non son, dicea con ira
Il rozzo Saluzzese: amo ed onoro
Tutte le sponde sue, tutti i suoi rivi,
Perchè infinita all'alma mia recaro
Per molt'anni letizia! Un Saluzzese
Che s'innamori di straniere spiagge,
Sire, oltre voi, lo cercherete indarno.
In tali avvicendati impeti il suolo
Di Piemonte magnifico varcaro
I duo peregrinanti, e nella Insùbre
Signorìa de' Visconti eccoli alfine.
Bello l'aspetto della reggia altera
Ove rinnovellato han de' Lombardi
La monarchia i Visconti, esterminando
La invecchiata repubblica! E del forte
Imperante Luchin bella col saggio
Fratel Giovanni l'armonia perpetua,
Mentre Giovanni dall'Olona il lituo
Stendeva episcopal per così vasta
Regïon cisalpina! Ambo i fratelli
Sprona eccelso desìo: giustizia, freno
Alle gare de' grandi e alle plebee,
Accrescimento di virtù guerriera,
Civil, religïosa. Ogni sublime
Italo indegno è loro amico: il sommo
Petrarca istesso ad Avignone omai
Vuol Milano anteporre. Oh bella, oh piena
Di nobili destini una contrada
Signoreggiata da potente senno,
Il qual sue lance dilatando astringe
Popoletti ad unirsi, e così sempre
Prosperità, studi e fortezza aumenta!
In tal guisa Roccel solea dapprima
In Milano esclamare. Esilarati
Venìan gli spirti suoi dalle splendenti
Feste del prence in Lombardia primiero
Che a lui dal seggio sorridea, siccome
A tutti sorridea gli ospiti illustri,
Anelando in occulto alle sue mire
Ambizïose partigiani farli.
E ricolmo di grazie iva Roccello
Dalla moglie del prence incantatrice,
Isabella del Fiesco, emula a grandi
Regine della terra in gemme ed auro
E di corte eleganza e di conviti.
Tali accoglienze un fàscino alla mente
Poser del saluzzese ospite, a segno
Che men trista gli parve una sciagura,
Il non trovar tra' Milanesi amati
Alcuni volti consanguinei. Morte
Ed esilio colpite avean più teste
Ne' giorni infausti in che Luchino ad uno
De' suoi proprii fratelli, al bellicoso
Marco, troncò le trame e in un la vita.
Roccel creder non può che nell'orrenda,
Storia del fratricidio il gran Visconte
Da tiranno operasse. Ode assai bocche
Giustificarlo ed attestar che il sire
Dannò, costretto da giustizia e rischio,
L'empio fratello, e in condannarlo pianse.
Sol dopo trenta giorni al buon Gilnero
Badò Roccello alquanto.—Il cor, signore,
Quei gli dicea, voi nella reggia aprite
Alle voci di tali infra i Lombardi,
Cui prodiga Luchino ogni onoranza:
Io parlo al popol. Di Luchino il regno
Regno è di frodi e sangue. Il trucidato
Marco avea queste colpe: alti pensieri
Pel comun bene e invitta spada e senno.
Tolta la vita all'innocente prode,
Vite molt'altre caddero. Il terrore
Per le vie di Milan muto passeggia,
E questa in ogni dove or celebrata
Prosperità, è menzogna. A signoria
Dritti non ha Luchino, e dove manca
La possanza de' dritti, usasi il ferro.
—Fole, Gilnero mio.
—Fole? E l'indegna
Di Luchino alleanza oggi col rio
Filippin de' Gonzaghi, uom che fregiato
Della corona mantovana obblìa
Ogni fè signorile, e omai s'agguaglia
Con sue perfidie ai masnadier più vili?
Udiste pur di Filippin l'infame
Sovr'Obizzo degli Esti tradimento,
Promettendogli il passo, e su lui quindi
Con oste scellerata prorompendo
Che fe' de' pellegrini ampio macello?
Vero, inaudito, orribile misfatto
Mentovava Gilnero, e collegato
Col truce sire infatti era il Visconte.
—Taci, dicea Roccello al temerario
Ragionator. Ma breve tempo quegli
Ammutolisce e a mormorar ripiglia:
—Luchino un grande cavalier? Luchino
Degno di regio serto? Il salvatore
Ei dell'itale glorie? Alma villana
Mascherata da re! Col fratricidio
Non si pianta un impero a' dì cristiani.
Indarno ei rapinava una dop'altra
Città qui intorno tante, e si curvaro
Alla vipera alzata in sanguinosi
Stendardi Alba, Cherasco, Asti, Alessandria,
E intero omai s'arroga egli il Piemonte.
Gloria oggidì al ladrone, e doman forse
La fune al collo! Eroe lo chiaman oggi;
Doman da quei che gli movean più laudi,
Si scaglierà sulla sua tomba oltraggio!
—Taci! era il grido di Roccello ancora.
Ma ruminava ei di Gilnero i motti,
E scrutando iva poscia altri pensanti;
E a poco a poco discoprìa infelice
La città Milanese, e fremebonda
Di rancori indelebili e di trame.
Vide egli stesso di Luchin nel tetto
Paure e inimicizie ed immolate
Nobilissime fronti; e vide il sommo
Vate Petrarca abbrevïar l'ospizio
Largito a lui dal protettor Visconte;
E dalle labbra di quel sommo intese
Questo secreto, spaventevol detto:
—Qui sovrasta ogni dì spada o veleno!
La bellissima Ligure Isabella,
De' Milanesi ammalïante donna,
Al Veneto san Marco un voto sciorre
A que' tempi volea. Glielo consente
Il signor suo. Con sontüosa, immensa
Di liete dame e lieti cavalieri
Cavalcante brigata ella al devoto
Vïaggio move[1]. Italia mai non ebbe
Lusso più vago di monili e insegne
E vesti ed armi e splendidi corsieri,
Ed arpe e trombe e canti. Anco Roccello
Quelle pompe seguì, vago ad un tempo
Di visitar la veneta laguna,
Ed ansio nel cor suo di trarsi a lochi
Men da rammarchi e tirannia infestati.
—Nasconder non tel vo, fido Gilnero:
Con letizia abbandono or quelle mura
Che più non son la mia gentil Milano
Degli anni andati, quando tanti avea
La genitrice mia concittadini
A lei pari in contento e cortesìa.
[1] Vedi il libro del SANTAROSA, intitolato Scene istoriche del
Medio Evo
Spenti sono i migliori, e succeduta
È qui razza di mesti e di discordi
Ch'ogni dì più contristerìami. Or voglio
Questa regal magnificente corsa
Assaporar per via; fermo in Vinegia
Prendere ostello intendo poi: Vinegia,
La città senza esempio! il più bel frutto
Dell'italica mente! il seggio dove,
La maestà si ricovrò latina!
Barbara cosa è tutto il resto: i soli
Veneti han leggi e libertà e senato
Come i prischi Romani, e ad emularli
Chiamati son per l'universa terra.
—Vedrem, dicea Gilner, vedrem codesta
Città di fetid'acque e di palagi.
Piantati nella melma! E veneranda
Nazïon certo ne parrà una ciurma
Di possenti pirati, usi a galere
E traffichi e saccheggi, ingentilita
Men fra cristiani che fra turchi e mori!
Ma giunsero a Verona, e qui la moglie
Del temuto Luchin maravigliose
Accoglienze gioconde ebbe dai duo
Scaligeri fratelli ivi regnanti,
Mastino e Alberto: illustre coppia e forte
D'unanimi signori, anch'essi audaci
In desiderio di supremo impero.
Il saluzzese cavalier si piacque
Su' bei liti dell'Adige, e più lieta
D'ogni altra corte or giudicando questa,
Disse a Gilner:—Se poi Vinegia a noi
Stanza grata non fosse, io, vedi, ho fermo
Di trarmi a queste sponde. Il sai, prosapia
È d'eroi la Scaligera, e la insidia
Qui della serpe Viscontèa non cova.
Dante Alighier, quel lume delle genti
Che passato e presente e avvenir seppe,
Com'esul fu dalla sua ingrata terra
Qui portò i passi, ed altre itale reggie
Non onorò sì lungamente. È fama
Che l'ispirato ingegno presagisse
A questa prode casa alte fortune.
In Mastino ed Alberto io veramente
D'anime grandi e voci e modi scerno.
—Signor, non volge lungo tempo, il guardo
Accarezzante e astuto del Visconte
Apparìavi innocenza di colomba.
—Taci!
—Que' nomi di Mastino e Cane
Che di Verona usano i prenci, un segno
Mi par di minacciosa indol cagnesca
Più che di santa carità e di pace.
Proseguiro il viaggio e finalmente
Videro la laguna e di san Marco
Le mura incomparabil. Il superbo
Doge e il Senato e innumerevol folla
D'uomini e donne illustri a Dea simile
Tenner la bella di Milan signora,
E d'onoranze pie la inebbrïaro.
Fulgeano i giorni dell'Ascensa e il ricco
Sfoggio di tutte merci e tutti giochi
E in Vinegia fervea gente di cento
Itale spiagge e greche e saracine;
E il portentoso Bucentor dai mille
Remi indorati recò il doge in trono
Sulle sparse di fiori onde spumanti
Ed allor dalle dita il doge trasse
L'anel, gettollo, e si sposò col mare.
Più d'Isabella forse inebbriato
Da sì vaghi spettacoli era il core
Immaginoso di Roccello.—Oh primo
Popolo di quest'orbe! Oh manifeste
Testimonianze d'opulenza e regno
Che crebbe e cresce e crescerà. Oh ridenti
E colte labbra anco del volgo! Oh dolce
D'amor linguaggio e d'intima blandizie
Costringente a fiducia! Oh maga stirpe
Che da pantani eleva case e templi,
Ed eserciti crea, manda, alimenta,
E miete palme, e serto a serto aggiunge!
Qui respirar vogl'io; qui mi vo scerre
Gentil compagna, e padre esser di prole
Cui toccar possa virtù chiara e gloria.
Brontolava Gilner, ma—Taci! taci!
Gridò con più vigor l'acceso sire;
Veneto voglio farmi, allo stendardo.
Sacrar della repubblica il mio brando
Mescer di prode Saluzzese il nome
Ad immortali Adriaci nomi. In guerra
Sta Vinegia co' Dàlmati: sottratte
Al cenno suo di Zara son le torri,
Per impulso degli Ungheri; ma il forte
Leon non perde sue conquiste mai.
Ciò meditava il cavaliere, e intanto
Fama gli arriva di severe, atroci
Opre de' reggitori. E Zara ed altre
Città soggette fremono di leggi
E di capricci d'avidi mercanti
Fattisi quasi prenci. Entro la stessa
Celebrata laguna, appo quel vampo
Di libertà e di rìso e di saggezza,
S'odon sommessamente acerbe storie
Di tribunal secreto e di profonde
Fosse per vivi seppelliti, a piedi
Della reggia de' dogi; e su tal reggia
Mentovavansi bolge arse dal sole
Sotto infocati piombi, e là espïati
Venìan da illustri vittime delitti
Che il volgo mal sapea, che il volgo in dubbio
Osava por. Malediche, oltrespinte
Eran tai voci del terrore, e niuno
Forse dalla repubblica iva tolto
Dal dolce liber'aer, se d'esecrandi
Fatti non reo. Ma all'alma di Roccello
Que' vivi seppelliti e quelle bolge
Che son corona a tal palagio, un sogno
Angoscioso divennero. Imprudenti
Quesiti usò su quelle storie, ed ecco
Farglisi incontro, un dì, cortese fante
De' vigili patrizi imperadori,
Il qual l'avverte pronta esser la nave,
E l'affretta a salirvi, e gli pronuncia,
Sotto pena di scure, eterno bando.
Non è a ridirsi il sogghignare amaro
Del fremente Gilner. Giunti alla riva,
E risaliti sull'arcion, guardossi
Intorno intorno lo scudier, poi volto
Ver la città dell'acque, alzò la destra.
E a mezza voce' fulminò parole
Di maledizïon. Non l'interruppe
Con dirgli «Taci» in sulle prime il sire,
Ma diessi poscia ad acquetarlo.
—Eh via!
Non t'infiammar con tal corruccio il sangue.
Tedio noi già prendea di quelle meste
Gondole e de' canali impegolati,
E i piedi nostri e de' corsier le zampe
Nascean per batter sul terren, le impronte.
—M'era dolce, o signor, che di quel lezzo
Ci traessimo alfin, ma volontarii,
Non come coppia di birboni espulsi!
Ed espulsi da chi? Da insolentita
Di possenti usurai turba corsara!
—Oibò, Gilner! qualche rigor molesto
Ponno i Veneti oprar, nè però cessa
Delle lor leggi il venerevol lustro:
Fu colpa mia; chè di maggiore ossequio
Era a tai leggi debitor. Creduto
M'hanno inimico, e pur, tu vedi, in ceppi
Non siam ne' pozzi o nell'aeree buche.
—Meglio infatti così! sclamò Gilnero;
Ma dove andiam?
—Mel chiedi? Al cor mio nota
Città non è che in leggiadria e costumi
Cavallereschi agguaglisi a Verona:
Da lei scostarmi io non doveva; e l'orme
Sacre di Dante ivi mi legan.
—Parmi
Che qua e là, come le nostre, erranti
Vagasser l'orme di quel vate, ognora
Fiori di senno e carità cercando,
Ed abbrancando non que' fior, ma spine
E morte frasche e laidi insetti e rospi.
Ma l'esul Fiorentin dritto al compianto
Avea d'ogni gentil, chiuse dall'arme
Veggendosi le valli, ove ne' campi
Degli avi suoi vissuto fora, amando
Se non tutti i mortali, almen taluno
De' servi e cani delle sue pareti.
Noi, sir, compianto non mertiam, fuggendo
Senza esilio que' lochi ove la polve
De' padri nostri giace, ove ogni zolla
Rammenta di que' padri angosce o gioie
Ad essi sacre, e non men sacre ai figli.
—Taci! disse Roccello. Ed ambidue
S'asciugaron le ciglia.
Entro il regnetto
Della prosapia da Carrara i passi
Misero i vïaggianti, ed ivi i dotti
Portici Padovani appena tocchi
Venner dal cavaliero, a questo un fante
Cortese come il Veneto affacciossi.
—Illustre sir, picciolo prence è il nostro,
E l'ira di san Marco evitar debbe:
A voi di là bandito i Padovani
Dar non possono ospizio: uscir vi piaccia.
Sulle cavalcature i Saluzzesi
Risaliron mirandosi, e Gilnero
Vermiglia come brage avea la faccia.
—Spero, disse a Roccel, che da ogni lido
Sarem cacciati come ladri, e grazia
Poca non fia se n'è sparmiato il laccio.
Ma novamente in breve eccoli a riva
Stanzïati dell'Adige, il fremente
Gilnero sbadigliando, e il lieto sire
Gioie di cavalieri assaporando
Ora a torneamenti, or a pompose
Sere di corte, ove su nobili arpe
La scaligera gloria i trovadori
Su tutte glorie esaltano, e obblïato
Non è l'ospizio e l'amistà che v'ebbe
Il ramingo signor de' patrii canti.
Ma dopo il giro di due lune, oppressi
Cittadini conobbe il Saluzzese,
Che si dolean secretamente: il tempo
Esser dicean per sempre estinto, in cui
Davver fiorìa Verona, uomini insigni
Recando in seggio. Or tralignato il seme
Stimavan de' lor prenci. Or su Verona
Primeggiante vedean di giorno in giorno
Vieppiù Milano: or non fulgea più raggio
Di grandezza ai nepoti; ora infamato
Iva il nome scaligero da paci
Ed alleanze instabili e bugiarde,
E pazze guerre e di giustizia spregio.
S'attristava Roccel considerando
Come per ogni umana gente, accanto
A superbe allegrezze e a larghi incensi
Tributati al natìo suolo beato,
Ferva di sconsolate alme il dolore,
Ch'ivi non veggion fuorchè fango ed onta.
—Dunque, ei dicea (non a Gilner, ma chiuso
Entro se stesso), a che vogl'io contrade
Trovar migliori di Saluzzo? Inferma
L'umana razza non è tutta al pari?
Vana apparenza ognor non sono il lustro
E l'albagìa de' più cospicui lidi?
Vana apparenza non è tutto, i retti
Pensieri tranne e le magnanim'opre?
Meditava ei così, ma fantasie
Più splendide e men vere indi volgea,
Che bello il secol gli pingeano, e bello
il vincolarsi all'inclito destino
De' prenci più operosi e più possenti:
Alte dal secol suo cose aspettava,
E da Verona or presagìane il cenno.
Del bando a lui da' Veneti scagliato
Voce traspira intanto, e da maligni
O sospettosi inventansi novelle
Sulla cagion del fatto. Ei di Luchino
Viene estimato esploratore astuto,
E cessano per lui gli accoglimenti
Nelle sale de' sommi ed il sorriso
Delle dame scaligere. Egli espulso
Per comando non vien, ma dai serrati
Cuori si scosta disdegnoso e parte.
Invan Gilnero, il curïoso adunco
Naso arricciando, investigar tentava
Dal taciturno signor suo le cause
Del pronto dipartir.—M'era avvezzato,
Sire, a quelle bell'onde, a que' bei colli,
Aquel sublime anfiteatro, a quella
Cavalleresca, franca indol soave
Della incorrotta Veronese stirpe.
E da lei ci togliam? Sire, io non penso
Che pur qui v' abbian detto: «Ite in mal'ora».
—Temerario!
—Ma dunque…
—Ognor vaghezza
Di Fiorenza ebbi, e visitarla or voglio,
E so ch'ella Verona in pregio vince.
—Bel pregio, parmi, esser madrigna atroce
A quel re de' poeti, onde cotanto
Italia e tutta umanità s'onora!
—Dell'Alighieri a' tempi incrudeliva
Parte malvagia entro Fiorenza; or pio
Vi campeggia stendardo, e all'Alighieri
Culto, siccome a patrio angiol, si rende.
Mossi i duo Saluzzesi ecco alla volta
Delle tosche amenissime colline,
E toccan pria le fertili campagne
Dell'Abdüano, e non si ferman, tanta
Ira colà nutrono i petti al nome
Di Filippin di Mantova tiranno;
E varcan per Ferrara, egregia sede
D'Obizzo Estense, ma laddove il ferro
Sempre sovrasta del vicin Gonzaga
E del Visconte, e queta alba non sorge;
E varcan per Bologna, ove l'acciaro
Stendon robusti i Pepoli, ma dove
Da' nemici de' Pepoli ogni notte
S'alza tumulto, e pallidi il mattino
I passegger pacifici bagnate
Veggion di sangue cittadin le vie,
Od appesi alle forche i ribellanti.
—Salve, Fiorenza! un dì sclamò Roccello
Con ardente esultanza, allor che alfine
Vide sulla pendice i generosi
Tetti della repubblica più ardita
Che in cor d' Italia splenda. A te serbata
Di tutta Etruria è signorìa secura,
Dacchè il ciel maledetta ha l'esecranda
Torre di Pisa, ove perìan di fame
I figli d'Ugolin: Pisa, già donna
Di tanti mari e terre, oggi da guelfi
E ghibellini lacera e da nuovi
Ospiti protettori ogni dì spoglia.
Salve, o patria di vati e di guerrieri,
Che non han pari altrove! Oh, finalmente
Avrà qui posa il mio agitato spirto,
Avido d'alti fatti e di verace
Gara per dritti e libertà ed onore!
—Ma parmi, o sir, che, non ha molto, un grido
Universal vilissima chiamasse
Questa prosapia di toscani eroi,
Curva a lambir d'un cavalier francese
L'orme sanguigne.
—Oibò, Gilnero! Il tristo
Gualtier duca d'Atene avea la stolta
Sua gallica arroganza ivi recato,
Soggiogarli sperando; e più rifulse
Di Fiorenza il valor! più la concordia
Contro a straniere tirannie! Di laude
Più che mai degna è questa illustre terra.
Così in Fiorenza entrarono, e tre giorni
Roccel d'amor s'inebbriò e d'ossequio
Per quelle mura, per quel ciel, per quelle
Argute faccie, per quel dolce vezzo
D'un idïoma che le grazie vince
Pur de' veneti suoni, e per palagi
E chiese e monumenti, ove di grandi
Anime tante la memoria vive:
E d'amore e d'ossequio inebbrïossi
Per le repubblicane alto-sonanti
Paterne leggi, onde con bello orgoglio
Favellava ne' trivii anco l'artiero.
Volgea la terza notte, i Saluzzesi
Desta ad un tratto un rombo, ed era a guisa
Di nembo e terremoto. Ed ecco rugge
Di strida l'aura, e splendono attraverso
La fenestra giganti orrende fiamme
Divoratrici di civili alberghi.
S'alza Roccel, s'alza Gilnero: ascolto
Porgono all'empie voci, e gridar morte
Odono a' guelfi e morte a' ghibellini,
E viva i buoni popolani, e viva
Le patrizie famiglie! Intanto ferve
Carnificina sino all'alba; e poscia
Ecco feste e clamori di vittoria,
Ed a suono di trombe un proclamarsi
Felicità, cui mischiasi condanna
Di scure o strozzamento a' reggitori
Che regnavano ier, se alcun di loro
Fia che al notturno scempio anco sorvivan
Ed insiem si proclama uno stupendo
Magistrato di plebe imperadrice,
Tutto saggezza e libertà e confische,
E carità di patria e manigoldi.
In tal trionfo di giustizia e senno
Roccello e lo scudier venner percossi
E ingiurïati e rapinati, e a stento
Salvo recàr lunge dall'Arno il capo.
Frenar Giluero or chi potea?—Villana
Di beccai libertà! sozza di schiavi
Sollevati repubblica! Ed è questa
Dell'itale divine arti la terra?
La degna patria d'Alighier? la gente
Che se vivo il dannò, morto l'adora?
Oh! nella schietta saluzzese lingua,
Razza di!…
—Taci; andiamo. Oggi qui palma
Pur troppo han colto i rei. Se piace a Dio,
Roma ci appagherà.
—Roma? Neppure
Il Padre Santo più v'alberga!
—I tempi
Trapiantavan la sede in Avignone,
Ma al Tebro, il sai, riede Clemente alfine.
—Quando vedrollo, il crederò: promesso
Da molt'anni è il ritorno; ad impedirlo
Troppi s'adopran fra romani istessi.
Lasciamo, o sire, i vani sogni. Il mondo
S'approssima al suo fin, tutto è rapina,
Fraude, eresia, bestemmia; e più si muta,
Più si peggiora. Un angolo men tristo
In quest'ampia penisola rimane
All'alme generose, ed è Saluzzo:
Colà si nasce ancor come nasceste,
Come nacqui io: garrula gente, ardita,
Prona ad afferrar brandi e a menar busse,
Ma larga di compianti e di perdoni.
Rivolto a Roma, non badò Roccello
Al consiglier che lo seguìa cruccioso;
E più cruccioso, imperocchè per via
Cose orrende s'udìan dell'empia stirpe
Onde in Ravenna uscita era Francesca,
La trucidata in Rimini infelice.
Regnava Ostasio, e morto questo, il serto
E i mutui dì s'insidïaro i figli
Con nere trame, ed un de' tre sgabello
Fece a sua gloria i duo fratelli in ferri.
Odono i vïatori anco tragedie
De' Malatesti a Rimini imperanti,
E de' tiranni di Forlì Ordelaffi,
E de' Trinci in Foligno, e delle venti
Schiatte di masnadieri insignoriti
Di Romagna e di Marca e dell'antico
Patrimonio di Pier. Mille fïate
Più di pria sanguinose eran le genti
Di quel latino suol, dacchè lontana
La tïara gemea quasi captiva.
Sconfortato Roccel da tante voci
Di sciagure e di colpe, arrivò un giorno
Alle sette colline, e messe appena
Nella sacra città l'umili piante,
Andò ne' templi a lagrimar. Chi puote
Non lagrimar mirando Roma e tali
Di sua crollata possa orme famose,
Ed orme di miracoli e martirii,
E pur troppo fra i santi anco frammiste
Alme d' Iscarïoti e di perenni
Del Figliuolo di Dio crocefissori!
E assai giorni Roccello e il suo scudiero,
Le romane basiliche ammirando
E le mille rüine e le vetuste
Effigie e le colonne e gli obelischi,
Alternàr gioia e lutto ed ira e scherno
E penitenza e preci, ogni pensiero
Della terra obblïando oltre a' pensieri
Che in lor destava la città rëina,
Afflitta sì, ma ognor rëina al mondo
Per memorie e speranze e immortal ara.
A far vieppiù maravigliosa e grande
La città de' portenti, ecco a tai giorni
Sorger Cola di Rienzo, uom che insanito
Pareva e saggio, e invaso da potenza
Non si sapea se inferna o celestiale.
Abbietto di prosapia, alto d'ardire,
Vissuto in gravi studii, amico a' sommi
Di dottrina e di cor, predicò, volle
Che da Avignon la Pontificia Sede
Sul Tevere tornasse, e poichè udita
Non fu sua voce, sguainò la spada,
Quasi guerrier profeta, e intitolossi
Tribuno e sire e correttor dell'orbe.
Tal fu l'audace senno o gl'incantesmi
Del plebeo fatto eroe, che al suo comando
Patrizi e popol si curvaro, e plausi
Ebbe da re lontani, e il suo stendardo
Parve a Petrarca stesso il destinato
Per ristaurar giustizia e fede e pace.
Ratto elevossi e ratto cadde, e ratto
S'elevò ancor l'incomprensibil forte,
Adorato e imprecato. Oh quante in esso
L'alma fidente di Roccel sognava
Forze divine! Or nella vera patria
Ei sì credea de' generosi, e patria
A se medesmo Roma indi eleggea!
Sublimi, eterne gli parean le leggi
Di quel re popolano: alme d'eroi
Pareangli tutti, e sommi ed imi, in Roma.
E che a Roccello non parea?… Gilnero
Zufolava fremendo e intercalando:
—Cola di Rienzo il tavernar! costui
Aver senno da Cesari! Albagìa
D'uom che impazzì su que' vetusti libri
Di cui la gente il dice dotto, e breve
Reca stupor! ne ghignerem dimane.
E la dimane da Gilner predetta
Spuntò non tarda. Il dotto imbaldanzito
Sol ne' volumi conoscea la grande
Arte del regno, e in suoi pensier foggiava
Uomini antichi, ed ignorava il core
De' respiranti, e gioco alto imprendea
Da giocator frenetico. Trasparve
Tra' suoi lampi d'ingegno al mobil volgo
La stoltezza di Cola, e fin que' lampi
Gli si negaro, e l'appellar buffone,
E riser di sue leggi e dalle spalle
Strappargli voller di tribuno il manto,
Ed ei chiamò i suoi fidi alla battaglia,
E quei che fidi ei riputava, il ferro
Volser sull'idol loro e il laceraro!
In quella orrenda civil pugna, il folle
Parteggiar di Roccel per l'assalito
L'espose a risse ed a coltelli. A stento
Si strascinò ferito alle ospitali
Soglie d'un chiostro, e le pietose cure
Di Gilnero e de' frati il serbàr vivo.
Il magnanimo infermo cavaliero
Più dì e più notti delirò, imprecando
I nemici di Cola e Cola istesso,
E le promesse e le speranze e l'ire
Del suo secol maligno, e ciascheduna
Delle da lui percorse itale spiagge.
Gilner l'interrompea:—Saluzzo in vero
Non è paese come questi, e vale
Tutte le Rome della terra: ad ogni
Paio di birbi abbiam cinquanta onesti!
Ad ogni donna vil, cento zitelle
E cento mogli che son perle! Andate
Dove volete, una Saluzzo è sola!
L'infermo cavalier ne' suoi delirii
Tai di Gilnero udendo amate voci,
Non discernea chi il parlator si fosse,
E a lui diceva:—Oh! chi se' tu, cortese
Venerando filosofo, che alfine
Sveli al mio indagatore, avido spirto
La contrada cui tende ogni mia brama,
La contrada de' buoni?
—Io son Gilnero,
E a Dio piacesse ch'io vi fossi ognora
Sembrato un venerando! Io vi consiglio
Di risanar dalle ferite e in uno
Dalle vostre follìe. Cercando eroi
Si trovan coltellate, e si consuma
Inutilmente sanità e danaro.
—Dunque?
—A Saluzzo torneram.
—No: vista
Non ho Napoli ancor, la fortunata
Monarchia di Giovanna: ah troppo dure
Son le maschie superbe anime, e solo
Dove bella Reina un popol regge,
Imperar ponno amore e pace e gloria.
Ito a Napoli fora il cavaliero,
Ma mentre ei stava risanando, crebbe
Contro Giovanna in tutta Italia il grido,
Aver dessa aguzzato i brandi infami
Che la francàr dall'abborrito sposo,
Ed esser già del novo sposo stanca,
Ed avvilirsi in empi amori, e tutto
Esser rivolte ed omicidii il regno
Ed alterne vendette e sacrilegio.
—Dunque? ridisse al buon Gilner.
—Saluzzo!
Ripigliò questi.
E uscirono del chiostro,
Mercè rendendo alla ospital famiglia
De' fraticelli. E uscirono di Roma,
E verso le dilette Alpi lontane
Venner ricavalcando. Ardui perigli
Incontran mille, ma le sponde un giorno
Ritoccan del Piemonte, e omai vicina
La maestà riveggion del Monviso,
E le pendici amene, innamoranti
Del marchesato. Oh grande, oh incomparata
Gioia a chi mosse ramingando in cerca
D'egregi umani e di felici terre,
Ed incontrò per ogni dove umani
Da colpa travagliati e da sventura,
E ritornando alle natìe convalli
Gli amici primi si ricorda, e i fatti
Glorïosi degli avi e l'indol cara
Della fraterna stirpe! Invaso il seno
Da quella nova gioia avea Roccello,
Nè il suo Gilner con palpiti men dolci
Salutava l'Eridano ed i poggi
Di Taurino eleganti e la pianura
D'arbori e prati e campi e ruscei vaga,
E i monti di Saluzzo, e finalmente
Saluzzo istessa.
—Ah vi siam giunti! esclama
Quegli e questi a vicenda; e il cavaliero,
Fervido sempre, altissime, abbondanti
Mette dal cor voci di laude al loco,
Al principe, alle leggi, a' consanguinei,
Al volgo, agli usi, alla favella, a tutto.
—Temprate il foco del contento, o sire,
Dice il savio Gilner: senza magagne
Non evvi terra, ed ha le sue pur questa.
Ma poichè pieno è di magagne il mondo,
Indulgete de' vostri avi alla terra
Più che ad ogni altra, e pïamente a lei
Sacrate il senno ed i tesori e il brando.
Cantica.
Non ho mai capito in qual modo Dante, perch'egli fra i magnanimi suoi versi ne ha alcuni iratissimi di varii generi, sia potuto sembrare ai nemici della Chiesa Cattolica un loro corifeo; cioè un rabbioso filosofo, il quale o non credesse nulla, o professasse un cristianesimo diverso dal Romano. Tutto il suo poema a chi di buona fede lo legga, e non per impegno di sistema, attesta un pensatore, sì, ma sdegnoso di scismi e d'eresìe, e consonissimo a tutte le cattoliche dottrine. Giovani che sì giustamente ammirate quel sommo, studiatelo col vostro nativo candore, e scorgerete che non volle mai esservi maestro di furori e d'incredulità, ma bensì di virtù religiose e civili.
Lavamini, mundi estote!
(Is. I)
E perchè l'arpa mia—debol, ma vaga
Di ritrarre in devoti, alti racconti,
A conforto degli altri e di me stesso,
Gioie e dolori di supremi spirti—
Perchè in sue melodìe qualche felice
O mesta ora de' sommi itali vati,
Qualche virtù del cor, qualche sublime
Effondimento de' lor sacri ingegni
Non ridirebbe? Oh quante volte ad essi
M'è grato alzar gli ossequïosi sguardi
Come figlio a parenti, investigando
Lor nobile natura, e divisando
Quasi funerea su ciascun di loro
Scior tal pietosa cantica di laude,
Che, senza nè adular que' generosi,
Nè tacer pur di colpe ov'ebber colpe,
Sia gentile tributo alle lor tombe!
Non avrai tu, per tragich'ira primo,
Possentissimo Alfieri, onde reliquia[1]
Sì prezïosa a me largì Quirina,
Tu che maestro all'arte mia più cara
Sì fortemente in giovinezza amai,
Tu che ad Italia ed a' nativi nostri
Pedemontani lidi onor sei tanto,
Non avrai tu dalle mie labbra un carme?
L'avrai.—Nè per Parini anco fia scevra
Di parole d'amor l'alma di Silvio;
Nè per Monti e per chiari altri intelletti
Di non remoti dì.—Ma se più d'una
Cantica aspettan molte ombre di vati,
Più l'aspettan le antiche.—Oggi tu, Dante,
All'anima mi parli. I tuoi divini
Versi non seguo, nè dipingo i giorni
Del tuo esular; di te la morte io canto.
Splendeva all'Alighier l'ultima aurora,
E sulle coltri sue muto ed assorto.
Ne' pensieri santissimi ei giacea
Munito già del Dio che alle fedeli
Alme è quaggiù ineffabile alimento.
Umile fraticel presso gli stava,
Or con brevi parole or collo sguardo
Le divine speranze rammentando;
E presso al letto, e qua e là per l'ampia
Sala, in piedi o sedenti, erano il vecchio
Guido sir di Ravenna e i figli suoi,
Ed assai cavalieri. Impallidite
Presso alla porta si vedean le facce
De' giovincelli paggi e delle guardie.
Dopo i riti adorabili, in silenzio
Stette gran tempo l'Alighier, ma gli occhi:
Significavan prece e consolante
Vista di cose celestiali e amore.
Poi si riscosse, mirò intorno, e grato
Salutevole cenno ai circostanti
Volse, e coll'imperar della possente
Sua volontà rinvigorì lo spirto,
La voce, i guardi, e levò il capo, e disse:
—Sia benedetta la pietà di Guido
Ch'ospital posa al mio morir provvide!
Sia benedetto, o amici tutti, il dolce
Vostro compianto, e benedetto ognuno
Di que' che al tosco esule vate il tristo
Pellegrinaggio consolâr d'onore
E d'applausi magnanimi—e di pane!
Ma non però il mio benedir ti manchi,
Patria crudel che a me noverca fosti,
Ed io qual madre amava ed amo! Andate
Le mie voci a ridirle e il mio perdono,
E i miei consigli e il lagrimar di Dante
Sulle materne iniquità e sventure!
Qui pianse e tacque. Indi il febbril tumulto
De' generosi suoi dolori il senso
Addoppiò della vita entro il suo petto,
E la parola gli tornò sul labbro
Non tremula, non fiacca. Ognun si stava
Rispettoso ed attonito, ascoltando
Di quel gran cor gli oracoli supremi.
—Dite a Fiorenza, e in un con essa a quante
Son dell'amata Italia mia le spiagge,
Che s'io censor severo e fremebondo
Ne' miei carmi di foco ira esalai,
Men da rabbia dettati eran que' carmi
Che da desìo perenne e tormentoso
Di ritrarre e caduti e vacillanti
D'infra il sozzume lor di melma e sangue.
E se nell'ira mia sfolgorò vampa
D'orgoglio e d'odio, or ne' pensier di morte
La condanno e l'estinguo, e prego pace
A' miei nemici sì viventi ancora,
Sì nella notte dell'avel sepolti.
Tacque di novo, e sollalzato meglio
L'infermo fianco, assisesi, ed eresse
La fronte, e colla palma la percosse:,
E disse:—Io veggo l'avvenir!
Nell'ossa
Degli uditori un gel di reverenza
Rapido corse e di spavento.
—Io veggo
In quel lezzo di fango e di macelli
Volversi le repubbliche di questa
Agitata penisola, e gli scettri
De' Visconti e Scaligeri, e le inique
Insegne vostre, o guelfi e ghibellini,
E bianchi e neri, e quanti siete, o falsi
Promettitori di virtù e di gloria!
Giù que' brandi sacrileghi e que' nomi
Di maledizione e di discordia!
E giù quelle speranze, ahi, da me pure
Nutrite un dì, nelle straniere spade!
Gloria non sorge da esecrande leghe,
E da trame e da perfidi pugnali
Innalzati col vanto inverecondo
Del patrio ben, nè da fraterne guerre.
Cessate i mutui di vittoria sogni
Per primeggiar sull'abborrita parte,
Chè vane son fuggevoli vittorie
Onde un nemico trae letizia e lucro,
E la patria dissanguasi e s'infama.
—Chi è quel grande che non par che curi
Nè la bassezza della propria stirpe,
Nè gli altrui ferri, nè i diritti altrui,
Nè il mobil genio delle stolte plebi,
E sale in Campidoglio, e de' Romani
S'intitola tribuno, e or par del santo
Seggio il forte campione, or l'irrisore?
Insano! Ei grida libertà e ritorno
D'Itala imperiale onnipotenza
A rïalzar per l'orbe ogni giustizia,
Ed, ingiusto ei medesmo, irrìta Iddio,
E le folgori scoppiano, e quell'alto
Simulacro d'eroe crolla, ed è polve!
—Chi son color che un idolo si fanno
Dell'Angioïna Gallica burbanza
Da Carlo in trono appo il Vesevo assisa,
E la dicon sublime esca a future
Italiche armonie di leggi e forza
E civiltà! Strappatevi la benda:
Straniero è il Gallo! sua virtude è oltr'Alpe,
Qui pianta è che traligna, e non soave
Olezzo, ma fetor manda e veleno!
Qui tutela è bugiarda e si converte,
In laido furto ed in più laido oltraggio!
Qui farmachi alle piaghe offre, e vi sparge
Aceto e sale, e ficcavi gli artigli,
E de' ruggiti degl'infermi ride!
Onoriamolo oltr'Alpe, o quando inerme
Visita le latine illustri terre,
Non quando s'arma ed amistà ne giura!
Lui quasi imbelli pargoli maestro
Non invochiam, non invochiamlo padre:
Adulti siam se ci crediamo adulti!
E ad esser tai, non fremiti, non risse,
Non sommosse vi vogliono, ma senno,
E fede ai patti, ed indulgenza e amore!
Tacque come spossato e intenerito
Un'altra volta l'Alighier. Poi lena
Ripigliando sclamò:—Quanto sei bella
Fiorenza mia! Quanto sei bella, o Italia,
In tutte le tue valli, ancorchè sparse
D'ossa infelici e di crudeli istorie!
E che monta che in genti altre sfavilli
D'eccelsi troni maestà maggiore,
Mentre per varie signorie te reggi?
Chi può sfrondar della tua gloria il serto?
Chi a te delle gentili arti l'impero
Involar mai? Chi scancellar dal core
D'ogn'uom che bevve al nascer suo quest'aure
La gioia d'esser Italo? la gioia
D'esser nepote dell'antica Roma
E figlio della nuova? Abbian fortune
Luminose altri popoli: in disdoro
Mai non cadrà la venerata terra
Che domò l'universo, e dove eretta
Dall'Apostolo Pier fu la immortale
Face che tutti a salvaménto chiama!
Ma bastan forse aviti pregi? Il grido
Non vi colpì de' miei robusti carmi?
E ch'altro, poetando io per lungh'anni,
Vi dissi, Itali, mai, fuorchè d'apporre
Nobiltà a nobiltà, virtù a virtude
Innanzi al mondo, e a voi medesmi, e a Dio?
Oh gioventù d'alte speranze, i gioghi
Del vizio esecra e non i santi gioghi!
Le gare tue sien di pietà le gare
E degli esimii studi, onde ammirato
Il vïator che d'oltremonte viene,
T'onori e dica: «Ben ne' figli brilla
De' prischi forti la mental potenza!»
Ahi! delle giovin'alme i novi errori
A che biasmate, o corrucciosi vecchi,
Maledicendo al secolo perverso?
Che opraste voi per migliorarlo, e prole
Ad Italia lasciar che alteramente
Fosse sdegnosa di licenza e scismi,
E santamente amasse ara, scïenza,
Cavalleresca fede e patrio onore?
Provvedete a' crescenti! egregia scola
Sien le famiglie a' nati; egregia scola
Patrizi e dotti alla ignorante plebe;
Egregia scola per città e convalli
La sapïente carità de' cherci!
Ah sì! primiero, o Sacerdoti, esempio
Siate tra voi di pace e bei costumi!
Non sia drappel ch'altro drappello imprechi!
Umiltà vi congiunga imi con sommi
Sotto l'imper benedicente e sacro
Dell'Apostol supremo! Ognun di voi
Decoro sia del tempio, e sparga incanto
D'innocenza e di grazia: allor null'uomo
Luce di verità cercherà altrove!
D'Alighier le profetiche rampogne
E il supplice sospir profondamente
Commovean gli ascoltanti. E più commossi
Fur quando l'egro venerando vate,
Dopo quella versata onda robusta
D'autorevoli detti, e quell'ardente
Sguardo che nuncio ancor parea di vita,
Più languid'occhi intorno volse, e sparve
Il foco onde suffuse eran le gote,
E i fianchi più nol ressero, e la sacra
Testa cercò dell'origlier l'appoggio,
E la palpante man tremula corse
Al crocefisso, e lo portò alle labbra.
Presso all'infermo palpitàr concordi
Gl'impauriti cuori, e mal frenate
Voci s'udìr di pianto. Il vecchio Guido
Mirò i piangenti ed accennò silenzio;
Ma involontaria dal suo ciglio eruppe
Sovra Dante una lagrima, e il poeta
Sull'ospite magnanimo la grata
Pupilla alzando, gli serrò la destra.
Un de' figli di Guido al suol prostrossi
Presso al letto, sclamando:—Eterno Iddio,
Prendi l'inutil vita mia! conserva
Quella del re degl'itali intelletti!
Tutti gli accenti suoi son luce e scampo!
Tutta la vita sua fu impareggiato
Rimbrotto ai vili e sprone ai generosi!
Un uom divino egli è!
—Giovine insano!
Disse con voce moribonda il vate:
Deh, sii miglior di me! Mia forza imìta,
Non l'ire mie superbe.
—O padre Dante,
Ripigliò quegli, se i miei dì non ponno
Invece de' tuoi dì farsi olocausto,
Consiglia, impera; dimmi: ov'è la insegna
Nel secol mio più santa? ov'è la insegna
Cui darà palma Iddio sovra gl'iniqui?
Ov'è la insegna destinata a cose
Sulla terra sublimi? Io vo' seguirla!
E il vate a lui:—Non chieder tanto: il ferro
E la mente consacra al natio prence,
Al natio lido, e lascia a Dio l'arcana
Delle sorti bilancia: ogni stendardo
Che non sia traditor guida a virtude.
Disse, e pose la man sovra la testa
Del fervido garzon. Questi aspettava,
Tutti aspettavan che parola ancora
Benedicendo da quel labbro uscisse:
Irrigidita era la man, gelata
Nelle fauci la lingua, estinto l'occhio…
L'alma di Dante era salita al Cielo!
[1] L'orologio d'Alfieri mandatomi in dono da Firenze nel 1833 dalla signora Quirina Magiotti.
Raffaella……………….Pag. 9.
Ebelino…………………… 35.
Ildegarde…………………. 81.
I Saluzzesi………………. 121.
Aroldo e Clara……………. 219.
Roccello…………………. 247.
La morte di Dante…………. 285.
Con permissione.
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