The Project Gutenberg eBook of Poesie inedite vol. II

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Title: Poesie inedite vol. II

Author: Silvio Pellico

Release date: October 16, 2006 [eBook #19558]

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr)

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POESIE INEDITE

DI
SILVIO PELLICO.

L'Autore intende di godere del privilegio conceduto dalle Regie Patenti del 28 febbrajo 1826, avendo egli adempito quanto esse prescrivono.

POESIE

INEDITE
DI
SILVIO PELLICO
VOLUME SECONDO.
TORINO
TIPOGRAFIA CHIRIO E MINA
MDCCCXXXVII.

AI LETTORI

Erano da me stati immaginati alcuni poemetti narrativi, a cui dava nome di Cantiche, ponendoli, per finzione poetica, in bocca d'antico Trovadore Saluzzese; finzione che poscia ho rigettata, non avendo più in animo di tessere, siccome io divisava, un romanzo, il quale a tali Cantiche dovesse collegarsi.

Dato alla luce, anni sono, un saggio di esse, mi sembrò venisse gradito dal Pubblico Italiano, e perciò m'induco ora a consegnarne alle stampe altre sette.

Sebbene io senta essere scarse le mie forze nel mettere in esecuzione simili quadretti epici, mi pare non di meno d'accennare con essi una via lodevole a quegl'ingegni che hanno disposizione al genere narrativo, e alla pittura de' caratteri e delle passioni. Non molte storie offrono tema di grande poema epico, ma fra loro havvene assai, le quali possono porgere degno soggetto di brevi racconti eroici o pietosi, dandoci a rappresentare fatti avvenuti, od anche ad inventare dignitose favole, relative a questo o a quel paese, a questo od a quel secolo. Il raccontare azioni magnanime, ed errori e colpe, è uno de' modi con che la poesia può confortare lo spirito umano all'amore delle domestiche e civili perfezioni.

Chi avrà più vigore di me, potrà desumere molte morali Cantiche, più splendide delle mie, dagli annali delle varie parti d'Italia, niuna nazione essendovi che abbia avuto più luttuose e più felici vicende, più diritti alla stima e più torti, più uomini insigni d'ogni qualità. Ho fatto la mia prova con poemetti piuttosto semplici di tessitura, e non adorni di grande splendore pel soggetto. Se ottengono qualche suffragio, resterà vie meglio dimostrato quale buon successo potrebbe conseguirsi, traendo poetiche narrazioni di consimile foggia dai punti veramente luminosi delle storie nostre.

Le Cantiche da me eseguite sinora, vennero tutte poste nel medio evo, non già che io non discerna essere stati i pregi di quell'età contaminati da molta barbarie, ma bensì perchè tai secoli sono, per chi li vede in lontananza, un'età acconcia alla poesia, stante la forte lotta del bene e del male che allora sorse, e lungamente agitassi per ogni dove. Inoltre quei tempi non meritano vilipendio, e ciò ben dimostrano e quegli uomini che vi operarono alte cose, e quelli che le tentarono, e le potenti città che vi crebbero, e le istituzioni con che s'andò scemando l'ignoranza e la sventura, per impulso principalmente dei Sommi Pontefici e del Clero.

L'età presente offrirebbe altresì, a parer mio, un fondo eccellente per racconti poetici, nobilitati da scopo morale. Le gagliarde e terribili vicende che abbiamo vedute nel breve spazio di cinquant'anni, tante deluse promesse, tanti errori, tante guerre giuste ed ingiuste, sublimi e pazze, tanto cozzamento di popoli, d'opinioni, di sistemi, tutto ciò è grande per la poesia; tutto ciò abbonda di dolori umani, e quindi anche di lezioni. Ma possa l'impresa di dipingere poeticamente sì i nostri tempi, sì altre parti della storia patria, venire assunta da scrittori di nobile tempra, e non maligni nè cinici; da scrittori che pensino con forza, ma con forza religiosa, ed amino i progressi veri della civiltà, cioè i progressi delle virtù pubbliche e private. La poesia e la letteratura in generale non valgono niente, quando non tendono a destare sentimenti alti e benefici, e ad allontanare i concittadini dalle turpitudini dell'incredulità e dell'egoismo.

Se pubblicherò ancora altri versi, procaccerò di presentare qualche saggio di Cantiche relative ai secoli XVIII e XIX. Molti nomi ragguardevoli vi si possono mescere, e segnatamente nomi d'Italiani, che hanno con meriti di varia specie onorato la nativa terra e gli anni in cui sono vissuti, sfavillando quali di pregio purissimo, quali di pregio non incontaminato da deplorabili errori.

RAFAELLA.

Cantica.

La Cantica di Rafaella doveva essere il principio d'un'azione più vasta che non è quella presentemente qui disegnata. Fu il primo saggio ch'io abbia eseguito di tal genere di componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con altri scritti dalla mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere sugli uomini l'efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una serie di fatti, collocandoli in Italia a' tempi dell'Imperadore Ottone II, e divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l'Italia d'allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l'assunto di dipingere que' secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua Ricciarda, ed io con poesie narrative. Sebbene fossa fautore caldissimo degli studii classici, amava egli pure i soggetti de' mezzi tempi, soltanto volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze d'invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s'andavano introducendo.

RAFAELLA.

        Responsio mollis frangit iram, sermo
        durus suscitat furorem.
                        (Prov. 15. 1)

    O bell'arte de' carmi! Onde l'amore,
    Il dolcissimo amor, che sin dagli anni
    D'adolescenza io ti portava, e afflitto
    Da lunghi disinganni anco ti porto?
    Non per la melodìa, misterïosa
    Sol de' söavi accenti, e non per l'aura.
    Degli applausi sonanti entro le sale
    De' colti ingegni, e non per la più cara.
    Delle lodi,—la lagrima e il sorriso
    Delle donne gentili. Innamorato,
    O bell'arte de' carmi, hai la mia mente
    Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo
    È per me la parola alta e pittrice
    De' secreti dell'anima, ed un misto
    Di semplice e di grande e di pietoso,
    Che nessun'altra bella arte con tanta
    Efficacia produce. A te ne' voli,
    Cui fantasìa ti trae, tutte concede
    Sue grazie il vero; e tu, se Poesia
    Inclita sei, quella ond'amante io vivo,
    Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle
    Sai di delicatissimo splendore
    Che non punto le offende e non le muta,
    E pur le fa per molti occhi più dive,
    Più affascinanti l'intelletto. Incede
    Senza carmi e con leggi altre men gravi
    Più scioltamente un narrator, siccome
    Senza cinto la vergine; ma il cinto
    Converte la vaghezza in eleganza.
      Suoni sull'arpa mia, suoni la lode
    Delle forti sull'uom dolci potenze,
    Onde il femmineo cor va glorïoso;
    E mia cantica dica oggi le pompe
    Del Parlamento di Verona, e quale
    D'un magnanimo vate era il periglio,
    E più il periglio d'un illustre oppresso
    Se vergin trovadrice alla crucciata
    Alma d'un generoso imperadore
    Pacificanti melodìe opportune
    Dal mite e saggio cor non effondea.
      Quando Italia ordinar, lacera in mille
    Avversanti poteri, ebbe promesso.
    Il rege Ottone, e di Verona al circo
    Chiamò l'alta adunanza, ove concorse;
    Ogni baron d'elmo o di mitra ornato,
    Ch'oltre o di qua dell'alpi avesse nome,
    Immensa moltitudin coronava
    Sull'anfiteatrale ampia scalea
    La vasta piazza, in mezzo a cui d'Augusto
    La maestà fulger vedeasi, e quella
    De' reggenti minori. A gara e dritti
    S'agitavano e accuse. Ora fremente
    Rattenendo la giusta ira nel petto,
    Or con dolce sorriso, il re supremo
    Ascoltava e tacea dissimulando,
    Però che pria di pronunciar sue leggi,
    Gli altri indagava e maturava il senno.
      Fra le orrende in que' dì scagliate accuse
    Contro a veri o supposti empi, colpita
    D'Insubre cavalier venne la fama,
    La fama d'Ugonel. Gli s'apponea
    Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti,
    A giudizio del popolo, molt'anni,
    Atroce fatto di perfidia e sangue:
    Una lunga covata inimicizia
    Verso il prode Emerigo, e astute fila
    Per ingannarlo sotto il sacro ammanto
    Delle gioie amichevoli; ed in fine
    La morte stessa d'Emerigo, oprata,
    Per artifizi d'Ugonel, con feri
    Di streghe incantamenti o con veleno.

    Carissimo al regnante era Emerigo
    Per assai merti in guerra e pace, e quando
    Avvenne del baron la crudel morte,
    Fu visto nella reggia il coronato
    Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi
    Empirglisi di lagrime, e le grandi
    Rammemorar virtù del cavaliero,
    Giurando alta vendetta.
                     Ora Ugonello
    Vincolato ecco giace entro i profondi
    Umidi cavi di vetusta torre;
    E provata apparendo omai la nera
    Trama ed i sortilegi e l'omicidio,
    Gode l'accusator, gode una turba
    D'invidïosi or satisfatta, e ognuno
    Di que' nemici aspetta la imminente
    Del prigionier condanna; e non pertanto
    V'ha moltitudin pur d'illustri e d'imi,
    Che reo stimar non san quel, già fra' sommi
    Seguaci di virtude annoverato.
      Le cure mille del Tedesco Impero
    E del regale Italo serto, e il vivo
    Desìo di non fallir, tengon sospesa
    L'alma d'Otton per varii giorni. Intanto
    Veniva egli nel circo alle adunanze,
    E più del consüeto era cruccioso,
    E de' suoi fidi gl'intelletti ognora
    Feansi industri con feste a serenarlo.
      Misti alla densa spettatrice folla
    Palpitavan due petti, usi coll'arpa
    A ridir cose non del volgo: a loro
    D'ogni grande spettacolo la vista
    Era di grandi sensi ispiratrice.
    Uno è il vecchio Romeo, guerrier de' monti
    Onde scende Eridan; l'altro Aldigero,
    Suo figliuolo e discepolo: Aldigero
    Non noto sol per gl'inni suoi gagliardi,
    Ma formidabil nelle patrie pugne,
    E cor, cui sublimato ha degno amore
    Per la vergin de' cantici lombardi,
    Rafaella, a que' dì gloria d'Olona.
      Fascino avea sull'anima d'entrambi
    Que' bellicosi spiriti la luce
    De' poetici studi. Il vïandante
    Le valli attraversando in notti estive,
    Vïolarsi i dolcissimi silenzi
    Da dilette armonie sui colli udiva;
    Ed erano i due vati, ardenti spesso
    Di quell'estro recondito e divino,
    Che più tra il riso degli ameni campi
    Che nel fragor delle città sfavilla.
    Ma l'estro sempre non traean da' belli,
    Maravigliosi di natura aspetti.
    Or contemplavan, bianchi di spavento,
    Le tempeste che visitan la terra
    Come i ladroni, e menan beffe al pianto
    De' poveri, cui tutto han divorato;
    Or lunge ramingavano, e sui laghi;
    E sui precipitevoli torrenti
    E sulle oceanine onde le spume
    Ivan solcando ne' perigli, all'urto
    Più feroce de' venti, allor che il legno
    E s'innalza e sprofondasi impazzato,
    E qual degl'imbarcati urla, qual prega
    Con pentimento e con secrete angosce,
    Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero
    Non risponde, ma sibila convulso.
      Oltre a tai casi di terrore, a cui
    Aldigero e Romeo s'eran per lungo
    Vario peregrinar dimesticati,
    Da' lor nobili cuori assaporata
    Era la voluttà delle battaglie:
    Nelle imprese santissime, e il terrore
    Conoscean delle stragi, e l'alta febbre
    Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.
    E sovente il canuto ad Aldigero
    Avea parlato questi detti:
                        —A' vati
    Uopo è molto veder, che terra e cielo
    Offran lor di magnifico e tremendo,
    E ciò che s'è veduto indi in solinghe
    Ore volger nell'alma, conversando
    Colla propria mestizia, e colle sacre
    Memorie degli estinti, e col Signore
      Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasse
    La fama dell'eccelso intendimento,
    Che tanti spirti còngrega da mille
    Contrade lontanissime, e la fama
    Delle regali, portentose pompe.
      Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero
    Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo
    Degli antichi Romani. Oh quanta folla
    Sugli estesi gradini è brulicante!
    Quanto splender nel sottoposto foro,
    Intorno al soglio di colui che Italia
    Regge e Lamagna, e in Occidente è primo!
      —Oh padre! ei dice; qual soggetto a carme
    D'italo trovadore, e come il labbro
    Di Rafaella, se in Verona or fosse,
    L' alzerebbe sublime! Un gran monarca
    Che di due nazïoni i sommi aduna
    Per drizzar tutti i torti! E quel monarca
    Giudice è tal, che può cotante sciorre
    Inveterate liti, e le può sciorre
    O com'angiol di Dio, disseminando
    Sapïenza ed anelito di pace,
    O com'angiol di Sàtana, con ratto
    Piglio i buoni strozzando od illudendo!
      —Figlio, taci per or; bevi a larg'onda
    I robusti concetti, e le speranze,
    E il paventar magnanimo. Indi cresce
    Dell'ingegno l'acume, e in avvenire,
    A fulminar le laide opre de' vili,
    E a cingere di luce i generosi,
    Ti detterà più invigoriti i canti.
      Terminò dell'augusto parlamento
    L'affaccendato primo giorno, e allora
    Fino al seguente dì venner le regie
    Cure sospese, ed il pensoso Sire
    Collo scettro i baroni accomiatava.
    Gli applausi de' baroni Imperadore
    L'acclamavan del mondo, e le caterve
    Piene di maraviglia e di letizia
    Ripetean l'alto grido.
                    Asceso Ottone
    Sul candido destrier, per la più larga
    Trapassa delle vie (dall'eccheggiante
    Arena al suo palagio) ampia corsìa
    Tutta sparsa di fiori e di tappeti
    E d'ardenti profumi, entro le mura
    Della città scorrendo. A tanti viva
    Il festoso clangor si maritava
    Di cento e cento trombe; ed a' guerrieri
    Ed a' cavalli il cor battea sì lieto,
    Qual batter suol della vittoria al suono.
      Quel moversi de' popoli irruente
    Verso le regie case, un mar parea,
    Che traripando inondi la campagna,
    E le universe voci, ancor ch'allegre,
    Rombavan sì moltiplici e sì ferme,
    Che la tremenda ricordavan foga
    Di città che o si scagli alla rivolta,
    O per subiti incendi o per tremoto
    Impetüosa dagli alberghi spanda
    Uomini e donne, e per le vie cozzante
    Strilli fuggendo la insensata turba.
    Si discernea ch'ell'era gioia, e pure
    Era una gioia che mettea spavento.
      A quel mar traripato argine intorno
    Incrollabil si feano estesi armenti
    D'italici corsieri e di tedeschi,
    Affrenati da' prodi, irti di lance,
    E le precipitose onde giganti
    S'agitavan represse gorgogliando.
      In tali urti di gente il buon Romeo
    Da una parte fu spinto, e da altra parte
    Spinto venne il suo figlio, e vanamente
    Qua e là si cercan lungo tempo un l'altro,
    E a chiamarsi a vicenda alzan la voce.
      Il sole iva all'occaso, e detto avresti
    Ch'ei discendesse in mezzo al gregge umano,
    Tutto affollato sulla immensa terra.
    Quella vista, e la splendida vaghezza
    De' nugoletti occidentali, e il molle
    Nell'aere della sera innominato
    Religïoso incantamento, e in blandi
    Fremiti omai converso il fracassìo,
    Ed a que' blandi fremiti commista
    La grata dissonanza or de' nitriti
    Che le briglie scotendo alza, presago
    Della vicina stalla, il corridore;
    Or di persone salutanti, o mosse
    A subitanee risa; or d'allungato
    Grido di chi da lunge appellar sembra
    Con dolce affetto un qualche suo smarrito,
    De' trovadori commovea lo spirto.
      Alle söavi rimembranze è schiuso,
    Più in quella vespertina ora che in altre
    Dell'intero suo giorno, il cor dell'uomo,
    Perocchè il dileguarsi della lampa
    Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante
    Ad affetti patetici, e al ricordo
    Del dileguarsi della vita. Allora
    Diciam la requie a' nostri pii, che insieme
    Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro
    Ospital nappo s'estinguean la sete,
    E che falce di morte indi ha mietuto;
    E se remota è la natìa convalle,
    L'invochiam sospirando, e riportiamo
    Alle cene domestiche e alla pace
    Del proprio letto il desïoso sguardo.
    E le vergini piangono a quell'ora
    Più dolcemente o la perduta madre,
    O l'amica, od il prode, a cui risposto
    Avea già il cor, se non le labbra: «Io t'amo!»
    Ed a quell'ora tutto ciò nell'alma
    Sente un alto poeta, e più che mai
    Con mistica armonia s'ordinan belle
    D'egregi fatti istorie entro sua mente.
      Tal ben era Aldigero, e in sè volgea
    Fantasie nobilissime, e lui pure
    Premeva uopo di carmi. E nondimeno
    Sue fantasie turbava una tristezza,
    La tristezza gentil de' generosi,
    Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta
    Qui la festa fervea, mentre brïaca
    Di piaceri e spettacoli e conviti
    Era pur la genìa, carco di ferri,
    In cupe volte di prigion, nel lezzo
    E nel dolore un Ugonel giacesse
    Senza conforto di parola amata,
    Nè di soave illusïon, presago
    Di quell'orrendo palco e di que' neri
    Veli, e del manigoldo, e della scure!
    E quell'oppresso era Ugonel! Colui,
    Che il senno de' miglior dicea innocente!
      Di loco in loco errò Aldiger lung'ora,
    Indi all'ansante petto altra potenza
    Tormentosa s'aggiunse. Udì levarsi
    Dalle regie pareti una celeste
    Musica d'inni e corde, e a quelle sedi
    Egli tragge, vi giugne, e appena dice:
    «Son trovador», si schiudono le cinte
    Dell'amplissima sala, ove al fulgore
    Di faci innumerevoli e di gemme,
    Alla guisa d'un Dio, da inebbrïante
    Pompa sedea bëato il re de' regi.
      Cinquanta arpe sonavano, ed eletti
    Trovadori ed elette trovadrici,
    Bellissime di forma e verecondia,
    Coralmente cantavano salute.
    Al formidato e caro sir. Fra quelle
    Vergini illustri, chi s'affaccia al guardo
    Maravigliato d'Aldigero? È dessa!
    L'inimitabil Rafaella! Alcuna
    Ei dianzi speme non nutrìa che addotta
    Ivi da' consanguinei ella venisse,
    Inenarrabil giubilo s'indonna
    Dell'amante garzon; ma il foco ei cela,
    E mira, e pènsa, e ascolta, e più di prima
    Vago di carmi ha il fervido intelletto.
      Qual di lui fassi l'esultanza, quando
    Onorevol romor da tutte parti
    S'alza di gente che il ravvisa e dice:
    —Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero!
    Il famoso Aldiger!—Lo stesso Ottone
    Ode il pronto susurro, e poichè tanta
    Dell'estro d'Aldigero è qui la fama,
    Vuole che un'arpa a lui si porga e canti.
      Penetrato era intanto ivi Romeo,
    E testimon d'onor sì grande al figlio,
    Di tenerezza lagrimò: tremava
    Nondimeno il canuto, a cui più noto
    Era che al figlio suo, quanta abbisogni
    Innanzi ai re prudenza; egli tremava,
    Conscio dell'arditissimo desìo
    Di verità che in Aldiger fervea.
      Ed infatti Aldiger, poste le dita
    Sull'auree corde, e dolcemente svolta
    Ossequïosa melodìa, la sacra
    Maestà benedisse, indi i sublimi
    Doveri commendando de' regnanti,
    Osò mischiar con reverenti encomii
    Sentenze tai, ch'eran flagello al core
    Di taluni fra i grandi, e l'infiammato
    Inno rivolse a pingere l'uom giusto,
    Che i maligni allontanano dal trono
    Con atroci calunnie. E la pittura
    Dell'improvvido vate apertamente
    D'Ugonel presentava e le sembianze,
    E le virtù, ed il carcere. In suo cieco
    Zelo pel vero il trovador pregava
    D'Augusto la giustizia a diffidenza
    Contro orribili accuse, e predicea
    Indi a lui gloria, ed agl'iniqui infamia.

    Otton s'alzò sdegnato, e mise un cenno,
    E l'inno s'interruppe, e dalle mani
    D'uno scudier tolta al cantor fu l'arpa;
    E la popolosissima assemblea
    Alzò lungo susurro, in cui sommesso
    Plauso verso Aldiger mostravan molti,
    Ma plauso da rispetto e da paura
    Alternamente soffocato. I cuori
    Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi
    Nuocer temeano maggiormente ad ambi,
    Se quel plauso sciogliean.
                        Qui l'assennato
    Imperador volle calmare il moto
    Di quella moltitudine di menti,
    Mostrando alma pacifica, e di novo
    Sovra il trono s'assise, e chiese il canto
    Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire,
    Dissimulando la imprudente scossa
    Data ai pensieri dal gagliardo vate,
    E dolcissima scese sugli spirti
    Delle virginee voci insiem sonanti
    La musica celeste. Ognun per altro,
    Benchè temprato a palpiti più miti,
    Volgendo la pupilla in sul monarca,
    Contristar si sentìa; chè nell'augusta
    Faccia, atteggiata indarno alla quïete,
    Balenava recondito corruccio,
    E l'occhio suo fulmineo esser parea
    D'imminente rigor nuncio tremendo.
    I più avveduti spettatori scritta
    La morte vi scorgean del pro' Ugonello.
      Ad Aldiger s'approssimò Romeo,
    E—Che festi? gli disse sotto voce;
    Che fia di te? Finta indulgenza è questa,
    Che te impunito breve tempo lascia:
    Libero uscirai tu di questa cinta?
    E se pur libero esci, ove allo sdegno
    Ti sottrarrai del rege? Oh potess'io
    Trarti di qui!
              Pietosa a lor d'intorno
    Volea la folla schiudersi allo scampo
    Del perigliante vate.—Uso alla fuga
    Non son, disse Aldiger; se travïommi
    Nell'impeto dell'estro il buon desìo,
    Tal non è colpa che celarmi io debba,
    E molta ho fè nel retto cor del sire.
      Sebbene irremovibil dal suo loco,
    Pur mesto era Aldiger, tardi mirando
    Assai sciagure sovrastanti, e prima
    L'accelerato d'Ugonel supplizio,
    E rimordeagli coscïenza.—Io reo,
    Secretamente a sè dicea, d'audace
    Orgoglio fui; me ne punisce Iddio!
      Dopo il virgineo insiem sonante accordo,
    Palma Ottone degnò batter con palma,
    E sorridendo già sorgea, bramoso
    Di portar lunge da cotanti sguardi
    Alfin l'arcana impazïenza. Il passo
    Rafaella avanzò, novo tintinno
    Assumendo sull'arpa, ed il cortese
    Imperador si rifermò nel seggio,
    Brevi credendo reverenti augurii
    Dalla ispirata udir vergine illustre.
    Rafaella tremanti avea le bianche
    Mani sovra le corde, e uscìa tremante
    Dal dolce petto il modulato suono,
    E le guance arrossìano e di pallore
    Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente
    Errava intimidito, e s'atterriva
    Del re incontrando il formidato sguardo.
    Quel gentil trepidar della fanciulla
    Di tutte grazie adorna, intenerìa,
    E maggiormente a lei tutti amicava.
      Oh! prepotenza de' söavi incanti
    Che la donna somigliano al bambino,
    E pur la spargon di virtù nascosa
    Che ratta vince ogni viril fortezza!
    Oh! come l'uom, quell'apparente infanzia
    Mirando in viso della donna, e in tutti
    I morbidissimi atti di quell'ente,
    Gli s'avvicina con fiducia, e ardisce
    Dirsi maggiore,—ed a quell'ente quindi
    Che sì debol parea, tributi solve
    Di reverenza, e a sè maggior lo estima!
      Per quel poter che nelle forme regna
    E nella voce della donna, e astringe,
    Le feroci, virili alme ad ossequio,
    Dato alla donna è svolger ne' suoi detti
    Mirabili ardimenti; ed ardimenti
    Non sembran quasi, ma sospiri e preghi.
      Chi rivelato avea tal maestrìa
    Alla vergin de' cantici? Addolcisce
    A sua voglia e fortifica. Ispirava
    Pietà col suo tremor; poi quella voce
    Dianzi timida tanto, e quell'aspetto
    Sembran di cherubin conscio a sè stesso
    Di grazia e d'autorevole potenza
    Irresistibil. Ne stupisce Ottone,
    Ma non puote adirarsene, e diletto
    Anzi ne prova sommo. E Rafaella
    Seppe scansar ne' generosi carmi
    Quel periglioso, indefinibil punto
    Di baldanza per ottimi consigli,
    Che irritar puote qual pungente biasmo;
    E non pertanto ella assai disse a laude
    Della giustizia ne' regnanti, e disse
    Necessarii gl'indugi, ove affrettata
    Da esortatori fremebondi venga
    Di talun la caduta. Ogni pensiero
    Della bella arpatrice era incalzante
    A virtù, ma siccome i detti blandi
    Di madre, che a virtù sprona e accarezza
    L'indociletto garzoncello, o come
    I detti d'una figlia a piè del padre.
      Quell'umiltà, quella dolcissim'arte,
    Que' prorotti dal cor supplici versi
    Vinser l'alma del grande Imperadore,
    E gl'intenti ei capì di Rafaella.
    Battè le regie palme, e alla percossa
    Unissona fur segno, onde gli astanti
    Baroni il plauso prolungàr sì forte,
    Che ne tremaro il suolo e le colonne.
      Otton chiamò la vergine, le cinse
    L'eburneo collo di splendenti gemme,
    E dal suoi rïalzandola, degnossi
    Dirle:—Qual grazia chiederesti?—Ed ella:
    —Se t'offese Aldiger, deh! gli perdona,
    E mite sii nelle condanne, o sire!
      Cessò la festa, e pieno di söave
    Commozïone era d'Otton lo spirto,
    Ed all'intime stanze dei riposi
    Riträendosi, disse al più fidato
    De' cancellieri suoi:—M'avea lo schietto,
    Ma severo Aldiger mosso a tal ira,
    Ch'io divisava d'Ugonel la morte;
    Pacato or sono, e indugierò.
                        Felice
    Quel freno ai moti del rigor! felice
    La sapïente vergine che a brame
    Di verità togliea l'impeto scabro
    Delle audaci parole, e ammorbidìa
    Con abbondante carità i consigli!
    Il sospendersi i fulmini, die' loco
    A gravi scoprimenti: entrò discordia
    Fra gl'inimici d'Ugonel; le accuse
    Si contraddisser; la menzogna apparve;
    Del Sassone Emerigo l'omicida
    Fu manifesto e dato a morte; e colmo
    Di gloria uscì del carcer suo Ugonello.
      Fu grato all'Imperante il liberato
    Ed alla vergin trovadrice; e vide
    Ch'ella amava Aldigero, e che Aldigero
    Per l'emula ne'carmi si struggea,
    E fra i varii parenti accordo trasse,
    E l'imen si compiè. Sorrise Ottone
    Ai degni sposi, e a Rafaella disse:
    —Temprato dal tuo pio genio celeste,
    Il vigor d'Aldiger più non m'irrìta.
    Nè da quel dì Romeo gl'impeti incauti
    Non temè del figliuol: fatto era questi
    Prode leon che a gentil maga è ligio.

EBELINO

CANTICA.

L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento, ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza dell'immolato Ebelino.

EBELINO.

Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus! Job. 2, 10.

    Inno d'amore e di compianto al giusto,
    Al giusto denigrato! Ebelin, fido
    Campion del magno Ottone e consigliero,
    Colui che al generoso Imperadore
    Verità generose favellava,
    E i biasimati torti indi con mente
    Pronta e amorevol correggea e sagace;
    Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
    Spesso invece del sir ponea la destra
    Al timon dell'impero, e lo volgea
    Del sir con tanta gloria e securanza,
    Che questi, anco in cimento arduo serrando
    Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
    «Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»
    Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro
    Cener del magno Otton, d'Otton novello
    Fu parimente lunghi anni sostegno
    Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
    Sì che a nessun parea che dilettoso
    Ne' poveri tuguri e nelle sale
    Fervesse crocchio, ove lodato il nome
    Non fosse d'Ebelin,—quell'Ebelino
    Morì esecrato, ed era giusto! Amore
    E compianto agli oppressi!
                            Un dì l'Eterno,
    Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto
    Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
    —Onde vieni?
                E il maligno:—Ho circuita
    Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
      Ed il Signore:—O di calunnie padre,
    Non vedestù l'amico mio Ebelino,
    Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo
    Tanta in prosperi dì serba innocenza?
    E l'angiol di menzogna ambe le labbra
    Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
    Disse:—Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama
    Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
    Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.
      Ed il Signor:—Giorni di prova a' retti
    Forse non io so stabilir? Va; pongo
    Entro a tue mani dispietate or quanto
    Agli occhi della terra Ebelin porta,
    Fuorchè la vita.
                     L'avversario allora
    Avventossi precipite dal grembo
    Della nembosa nube, onde i mortali
    Atterria lampeggiando; ed in un punto
    Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
    Si soffermò, e da questo lato i campi
    Della lieta penisola mirando,
    E dall'altro le selve popolose
    De' boreali, l'una all'altra palma
    Battè plaudendo al sovrastante lutto
    D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
      La più squisita voluttà del male
    Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
    Fermò ignominia cagionar per mano…
    Di chi?—D'amico traditore! Il colpo
    Più doloroso e a dementar più adatto
    Chi molto amando irreprensibil visse!
      —Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia
    Giù dall'alpe scagliandosi e correndo
    Pe' teutonici boschi, e visitando
    Con infernal, veloce accorgimento
    Città e castella.
                      Iva ei cercando l'uomo,
    In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
    Atti, e l'irrequïeto occhio geloso
    Del venditor di Cristo; e non volgare
    Mente si fosse, ma gentil, ma calda
    Di lodevoli brame, ed inscia quasi
    Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
    D'amor per tutte le virtù, e seguirle
    Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
      Tale, od un vero giusto esser dovea
    Chi affascinasse d'Ebelino il core;
    E Sàtan nol trovava, e con dispregio
    Maledicea la lealtà nativa
    De' figli del Trïon, popol rapace
    Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
    Ma quando già il crudel quasi dispera,
    Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante
    Tosto il colpisce; e fra sè dice:—«È desso!»
    Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
      Quel benedetto dall'orribil genio
    Era un prode straniero, e fama tace
    Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
      Sul suo destrier peregrinava, e ladri
    Or assaliva, degli oppressi a scampo,
    Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
    Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
    Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
    Non l'avesse un fratel, che del paterno
    Retaggio spossessollo.
                          A che di bosco
    In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
    Dal caso alte venture, e perchè tarde
    Erano al suo desìo, volgea frequente
    Il pensier di distruggersi; e più volte
    Dall'altissime balze misurava
    Coll'occhio i precipizi, e mestamente
    Rideagli il core, e si sarìa slanciato
    Nelle cupe voragini, se voce,
    O aspetto di mortali, o speranze altre
    Non l'avesser ritratto.
                           —O cavaliere,
    Salve.
          —Scòstati, scòstati, o romito;
    Oro non tengo.
                  —Ed oro a te non chieggo;
    Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
    Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
    Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
    Occulta sapïenza ha rivelate:
    Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
    Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
    A' clementi occhi del regnante istesso.
      Così Satan, e sparve.
                           Incerto è quegli
    Se fu delirio o visïone. Al cielo
    Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe
    De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
    A cancellarli, e quindi in poi di tutte
    Virtù di cavaliere andare ornato.
      In quel fervor del pentimento, incontra
    Un mendico, e su lui getta il mantello,
    E sen compiace, e dice:—Uom non m'avanza
    In carità e giustizia.
                          E Sàtan rise,
    E non veduto gli baciò la fronte.
      Alla real Bamberga andò Guelardo,
    Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
    Supplice presentossi, e pïamente
    Da quella bella e grande alma si vide
    Ascoltato, compianto, e di non tarda
    Aïta lieto. Un fascino infernale
    Sovra la fronte di Guelardo imposto
    Ha del demone il bacio. Allo straniero
    Conglutinossi d'Ebelino il core
    In breve tempo; e nella reggia e in campo
    Quei Gionata parea, questi Davidde.
      Mirabile brillava ad ogni ciglio
    Quella forte amistà: Saran fremeva
    Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni
    Affrettar non potea. Nè ratto varco
    Sperabil era tra i pensieri onesti
    Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
    Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
    Nella virtù emularlo, e il desiderio
    Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
    Angiol si confortava misurando
    L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
    Secoli, breve istante eran poch'anni.
    Ed intanto ci godeva, a quell'imago
    Che tigre, sebben avida di sangue,
    Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
    Tragge di quella contemplando i moti
    E l'amabil fidanza, ed assapora
    Più lentamente la decreta strage.
      Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno
    Sospirato dall'invido. Al novello
    Otton contrarie qua e là in Italia
    Eran le menti di non pochi, e speme
    Vivea secreta ch'italo Ebelino
    Secretamente lor plaudesse. Il core
    Di molti era per esso, e nelle ardite
    Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo
    Susurravan, più splendido rinomo
    Non avervi del suo; null'uom più voti
    A suo pro riunir; doversi acciaro
    Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
      L'augusto sir dalla germana sede
    Contezza ebbe di fremiti e lamenti
    Nell'alme de' Lombardi esasperate,
    Ed a sedarle con prudenza invìa
    Ebelino e Guelardo.
                       Alla venuta
    Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
    Che fama addoppia de' lor alti pregi,
    E più de' pregi di colui, che sembra
    D'onnipotenza quasi insignorito,
    Ferve ognor più l'insana speme, e tutta
    In congressi pacifici prorompe,
    Ove i duo messi imperïali invano
    Senno indiceano e obbedïenza.
                                —O prodi!
    Così Ebelin risponde al temerario
    De' corrucciosi invito; io condottiero
    Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
    Gli son da conoscente animo e onore,
    E il portai fra mie braccia. E quando insieme
    Del moribondo padre suo le coltri
    Inondavam di pianto, il sacro vecchio
    Nostre mani congiunse, e disse:—Un figlio,
    O Ebelino, ti lascio;—ed a te lascio,
    O figlio, un padre in Ebelino!—Ed era
    In tai detti spirato. Allora il figlio
    Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
    Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
    E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
    Violati con voi fosse il mio sire,
    Biasmo sincer da mie labbra paterne
    Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
    Ma non odio, non guerra, non perfidia!
      —Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,
    Ov'è causa di popoli. Ed ignota
    Mal tu presumi essere a noi l'ingrata
    Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
    Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
    Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
    Finge, ma stolta è finzione omai
    Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
    Possente sei, ma più non sei quel desso
    Che ne' duo regni un dì tutto volvea.
    Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
    Sul germanico seggio ov'ei l'assunse
    Recò le greche astuzie, e lo circonda
    Di greci consiglieri. Essi con lei
    Van macchinando contro te ogni giorno;
    Che se finor cadute anco non sono
    Le podestà che a te largì il monarca,
    Della tua rinomanza egli è prodigio,
    E nel tiranno è di pudor reliquia.
    Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
    D'Otton l'iniquità rotto ha i legami
    D'ogni giusto con esso.
                           Un de' maggiori
    Così parlò fra gli adunati audaci.
    Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
    La parola di sdegno e di sospetto
    Circa l'imperadrice e i cortegiani
    Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
      Ma la candida e ferma alma del pio
    Ebelin s'adirò. L'imperadrice
    E Otton con nobil gagliardìa difese,
    E de' Greci sorrise. Ei sì facondo
    Favellava, e amichevole e verace,
    Che i più irati l'udìan con reverenza:
    Con tenerezza quasi, ancor che invitti
    Nel feroce astio e nell'ardente brama.
      Di Guelardo lo spirto a quel congresso
    Funestamente s'esaltò. Il diletto
    Ebelino ei vedea, nella commossa
    Fantasia, re, suscitator di gloria
    Ad un popol redento. Il vedea bello
    Giganteggiare in immortali istorie,
    Com'un di que' supremi, onde la terra
    Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
    Socio vedea di quel supremo, e a lui
    Successor forse, e… Che non sogna audace
    Ambizïon, se raggio ha di speranza?
      Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse
    Le voci insieme intese, e commentolle
    Coll'insistenza del favore; e aggiunse
    Maligno esame de' pensier, degli atti
    D'Ottone, e della Greca in trono assisa,
    E degli astuti amici ond'ella è cinta.
    Quasi certezza accolse i più irritanti
    Dubbi e i minimi indizi di periglio,
    E gridò ingratitudine, e diritto
    Alla rivolta. E a grado a grado questa
    Ei necessaria osò chiamare, e il pio
    Ebelin concitarvi. Lo interruppe
    Finalmente Ebelin; duplice tela
    Come già svolto aveva agli adunati,
    Svolse di novo al tentatore amico:
    Qua la turpezza del tradir, là i vani
    Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
    È nazïon da lunghi odii fraterni.
      Negli aneliti suoi s'ostinò il core
    Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
    A ridir con sofistica, inesausta
    Facondia per più dì l'empie sue brame;
    Sì che non poche volte il generoso
    Ebelino in resistergli, dal mite
    Considerare e dai soavi detti
    Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
      Turbossene colui, ma il turbamento
    Ascose e il disamore, e da quel tempo
    Crescente invidia in sen covò tremenda.
      Novi succedon fortunati eventi,
    Ch'ognuno attesta glorïosi al senno
    Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,
    Come negli anni primi, or della gloria
    Del suo benefattor non va giocondo.
    Ei con geloso sospettante ciglio
    Mira la sua grandezza, e superarla
    Vorria e non puote; e detestando, sogna
    Dall'amico esser detestate; e pargli,
    Laddove pria si belle in Ebelino
    Virtù vedea, più non veder che scaltra
    Ipocrisia. De' pervertiti è proprio
    Non credere a virtù; d'ogni più certo
    Generoso atto dubitar motivi
    Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
    Così abborriti fur dal mondo i santi.
      Da quello stato di rancor, di mente
    Ognor proclive a gettar fango ascoso
    Sovra l'opre del giusto, è breve il passo
    Ad assoluto di giustizia scherno.
      In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
    Di grande onor da Ottone è richiamato,
    Mentre Ebelin nell'itale contrade
    Resta moderator. L'ingrato amico
    Sospetta ch'Ebelino abbia con arte
    Tal partenza promosso, a fin di trarsi
    Uom dal cospetto che in secreto esècri.
      Del congedo gli amplessi ei rende a quello,
    Ma senza avvicendar come altre volte
    Palpiti dolci di desìo e di pena.
    Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
    Del più sincero degli umani, e parte
    Coi fremiti dell'odio, e maturando
    Di non avute offese alta vendetta.
      —Cieco tanto io sarò che vero estimi
    Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste
    Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
    Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre
    Nome a capitanarla, e di null'altro,
    La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata
    Dalla superba, greca, invida nuora
    È quell'antica d'Ebelin fautrice,
    La vantata Adelaide, che alle umìli
    Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?
    Or che Tëofania palesemente
    Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
    Il menzogner di me diffida: i vili
    Diffidan sempre! Allontanarmi volle
    Non senza mira ostil: me di qui toglie
    Per regnar sol, per non aver chi forse
    Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
    All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere
    Del suo tradito Imperador mi brama,
    Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta
    Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
    Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
    Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
    Stato non fora a tua amicizia ingrato;
    Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
    Valor non manca al vilipeso e senno
    Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
    Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
    Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
      Così nel suo vaneggiamento infame
    S'agita l'infelice, e non s'accorge
    Che il re d'abisso più e più il possede;
    Così travolve le apparenze ogn'uomo
    Che a livor s'abbandoni:
                             Ecco Guelardo
    Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
    Eccolo assaporante i nuovi onori,
    Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,
    Sente l'amaro della propria bile.
    Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
    Come già tempo, d'Ebelin non suona,
    O su quel labbro se talvolta suona,
    Laude non l'accompagna, e il favellante
    Impallidisce, e torvamente abbassa
    La pensosa pupilla irrequïeta,
    E la rïalza sfavillando; e ognuno
    Scerne che di compressa ira sfavilla.
      Del mutamento avvedasi esultando
    Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,
    E al convito di lei con gran decoro
    Visto sovente è quel Guelardo assiso,
    Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.
    Ordiscono essi alcuna trama insieme
    Contro al lontano giusto? o la perfidia
    Tutta covossi di Guelardo in petto?
      Un dì da quel convito esce il fellone,
    E quasi esterrefatto si presenta
    Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
    Ed esclama:—Ebelino è traditore!
    Le rivolte fomenta; alla corona
    D'Italia aspira: sciolta è l'amistade
    Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
      E false carte adduce in prova, e adduce
    Di vili già ribelli, or prigionieri,
    Menzogne tai, che faccia avean di vero.
    Ed il monarca trabalzò, fu vinto
    Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
    Dubitar volle novamente; a novo
    Esame ripiegò la scrupolosa
    Afflitta anima sua; ma le apparenze
    Trionfaron più orrende e più secure.
    Indi egli irato invìa turba di sgherri
    All'italo paese, onde sia tratto
    Carico di catene il formidato
    Duce a Bamberga.
                    L'innocente duce
    Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava
    Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia
    Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,
    Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
    «Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri
    Con affanno e singhiozzi ad una voce
    Ripetean: «Fuggi, fuggi!»
                             Ei si risveglia,
    E per quell'alme prega, e s'addormenta
    Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli
    Il magno Otton primiero ed Adelaide,
    Non cinta ancor di monacali bende,
    Ma il serto imperial sopra la fronte.
    Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi
    Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!
    Ira per te sarìa mortal!»
                             Si desta
    Il nobil duce, e per quell'alme prega,
    E s'addormenta un'altra volta. E vede
    Il tempo antico e la città solenne
    Ove sorge il Calvario, e là pur vede
    Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi
    Una frotta d'armati, e Iscarïote
    Dare il bacio alla vittima!… Ed oh vista!
    Iscarïote era Guelardo!
                           Balza
    Spaventato destandosi Ebelino,
    E que' tre sogni avvertimento estima
    Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
    Ma perchè? Fugge l'innocente mai?
    Pochi istanti anelò fra que' pensieri
    Di stupor, di tristezza, e piena d'armi
    Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
    Che dal suo Imperador venìan que' ferri,
    E il cenno di seguirli: ai manigoldi
    Cesse con muto fremito la spada,
    E porse ai ceppi gli onorati pugni.
      Quasi ladro il trascinano, e Milano
    E tutta Lombardia mira quel crollo
    Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
    Soffre inauditi; e non sarìagli pena
    Dagli sgherri soffrirli: itale voci
    Lo irridon per la via, maledicenti
    Al passato suo lustro. E quale esclama:
    —Va, di rivolte eccitator maligno!
    Va, scellerata causa, onde su noi
    Cesare versa il suo tremendo sdegno!—
    Qual:—Va, codardo degli Otton mancipio,
    Che d'Italia campion far ti negasti!
    Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!—
    Qual più schietto prorompe:—Erami noia
    Udir chiamarti il giusto; alfin delitti
    Potrem di te sapere ed abborrirti!
      Quant'è lunga la via sino a' confini
    Delle italiche valli, Ebelin tacque
    Degli spregi sofferti. Allor che in cima
    Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
    Le incatenate braccia,—Oh maledetta
    Troppo da' vizi tuoi, misera patria,
    Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
    Figli ti dia che s'amino fra loro,
    Ed amin te com'io t'amava e t'amo,
    E più di me felici acquistin gloria
    Senza espïarla con dolori e insulti!
    —Maledicila! gridagli all'orecchio
    Una voce infernal.
                      —Ti benedico
    L'ultima volta! ripres'egli.
                                E pianse
    Siccome pio figliuol sulla ignominia
    D'una madre infelice; e gli sovvenne
    Quanto già quella madre avea prefulso
    In virtù fra le genti, e a depravarla
    Quante cagioni eran concorse! E grande
    Su lei di Dio misericordia chiese;
    E dal dolce aer suo, dalle ridenti
    Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
    Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
    Satan che indarno occultamente spinto
    Avealo ad imprecar la patria terra,
    Urlò di rabbia le sue preci udendo;
    E di Lamagna per alture e piani
    Corse con questo grido:
                           —È alfin caduto
    L'italo malïardo, il seduttore
    De' nostri augusti, il protettor di quanti
    Di Lombardia traeano ad impinguarsi
    Sul germanico suol, genìa predace
    Onde la tanta povertà cresciuta
    In quest'anni da noi! Tutti Ebelino
    Nostri tesori al lido suo recava,
    E colà un trono alzar voleasi, allora
    Che ad atterrar le ribellanti spade
    Inetto fosse per miseria Ottone?
    —Ebelin mora! Universal risposta
    Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
    Da migliaia di cuori in un dì venne
    Quanto a lodarlo aveali invece astretti
    La sua mansüetudine, il modesto
    Non curar le ricchezze, il riversarle
    Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
    Benchè pio verso gl'Itali, men pio
    Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
    Serie di virtù splendide cotanto,
    Un incantesimo vil parve ad un tratto,
    Una menzogna. Convenìa disdirla:
    Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
    Esultan se pretesto a lor si porga
    Di rigettarla, e attaccaticci morbi
    Son odio, ingratitudine e calunnia.
    Conscio de' benefizi innumerati
    Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora
    L'irreprensibil cavalier che stretti,
    A lui fosser d'amor cuori infiniti.
    Le ripetute indegne contumelie
    Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
    Pravità de' mortali meditando,
    Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio
    Umilïossi. E vanamente ancora
    Stette Satan mirandolo e aspettando
    Il desìo di vendetta e le bestemmie.
    Chiama l'Onnipossente al suo cospetto
    Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
    —Onde vieni?
                   E il maligno:—Ho circüita
    Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
      Ed il Signore:—O di calunnie padre,
    Non vedestù l'amico mio Ebelino,
    Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,
    Tanta nel suo dolor serba innocenza?
      E l'angiol di menzogna ambe le labbra
    Si morse, e disse:—Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,
    Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
    In breve spera sua innocenza. Il braccio
    Estendi, e più percuotilo, e vedrai
    Se non t'impreca.
                      Ed il Signor:—Non forse
    Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:
    Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
    Anco la fama sua, perchè maggiore
    Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
      L'avversario precipite avventossi
    Dal grembo della nube, onde i mortali
    Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
    Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
    Si soffermò, e da questo lato i campi
    Della lieta penisola mirando,
    E dall'altro le selve popolose
    De' boreali, l'una e l'altra palma
    Battè plaudendo al sovrastante lutto
    D'entrambo i regni, ed esclamò:—Vittoria!
      Di là scagliossi alla città del trono
    E de' cento felici incliti alberghi,
    E delle orrende mura ove trascina
    Sua catena Ebelin. Desta il demonio
    Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama
    Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.
    Temon, se reo non trovan l'accusato,
    L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira
    Di quel Guelardo che per essi or regna;
    E dove il trovin reo, speran più pingui
    Gli onorati salarii, e maggior lustro.
      Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza
    Guelardo stesso!
                    Oh come il core all'empio
    Nondimen trema, udendo che s'appressa
    L'irreprensibil catenato! E questi
    Entra con umil, sì, ma non prostrato
    Animo, e reca sulla smorta fronte
    Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.
      Cela Guelardo il suo tremore, e prende
    Così ad interrogar:
                       —Qual è il tuo nome,
    O sciagurato reo?
                     —Sono Ebelino
    Da Villanova, amico tuo.
                            —Rigetto
    L'amistà d'un fello: giudice seggo.
    Che macchinasti co' Lombardi?
                                  In viso
    L'accusato guardollo, e non rispose.
      E Guelardo:—A lor trame eri secreto
    Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta
    Stava tua destra ad accettarlo in giorno
    Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno
    Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
    V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
    Al tribunale attesta.
                         E poichè muto
    Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
    Que' testimoni nella sala addotti.
      Eran duo di que' truci esclamatori
    Di libertà, di civiche vendette,
    Di patrio amor, che ne' consessi audaci
    Della rivolta più fervean, più scherno
    Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
    E più capaci d'affrontar qualunque
    Parean supplizio, anzi che mai parola
    Di codardia pel proprio scampo sciorre.
      Questi eroi da macelli, questi atroci
    Ostentatori d'invicibil rabbia,
    Come fur tolti a lor gioconde cene,
    E gravato di ferri ebbero il pugno,
    E il patibolo vider,—tremebondi
    Quasi cinèdi, le arroganti grida
    Volsero in turpi lagrime e in più turpi
    Esibimenti di riscatto infame,
    Altre teste al carnefice segnando.
    Ad Ebelino in riveder coloro
    Isfuggì un atto di stupor:—Voi dunque?
    Voi?… Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
    Io sempre le feroci alme ho spregiato,
    E ben diceami il cor quali voi foste!
    Ed appunto perchè troppe vid'io
    Alme siffatte là nelle congrèghe
    Ove il mio plauso si cercava indarno,
    E pochi vidi eccelsi petti, avversi
    Ad insolenza e a stragi, io mestamente
    Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
    S'ella sorda restava a' preghi miei,
    E alle minacce mie, quando insensata
    Io vostr'impresa nominava e iniqua.
      I testimoni balbettaro, e fisi
    Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
    Calunnïar sostennero. Ebelino
    Più non degnolli di risposta, e chiese
    D'esser condotto anzi ad Ottone a cui
    Parlar volea.
                 Respinge inutilmente
    Guelardo quest'inchiesta, e così forte
    La ripete Ebelin, ch'un de' seduti
    A giudicarlo generoso alzossi,
    Sclamando:—La tua brama, o il più infelice
    Fra gli accusati, porteranno al trono
    Le labbra mie.
                  Null'uom potè di quella
    Anima schietta rattenere i passi:
    Move all'Imperador, franco gli parla,
    E il pio monarca inducesi al colloquio.
      Mentre dunque l'afflitto incoronato
    Nelle regali, splendide pareti
    Aspettava che a lui tratto venisse
    Il già caro Ebelin, nella memoria
    Gli ritornavan gli alti e numerosi
    Servigi di quel prode, e l'amicizia
    Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
    E commoveasi ripensando quante
    Volte quell'Ebelin con tenerezza
    Lui prence fanciulletto infra le braccia
    Portato avea, quante paterne cure
    Prese per lui, quanti affrontati in guerra
    Per sua difesa ardui perigli,—e il core
    Gli si volgea a clemenza.
                             Ode sonanti
    Nelle vicine sale i trascinati
    Ferri del prigioniero, e gli si gela
    Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede
    Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
    E magnanimo pianto a stento cela.
      Ebelin pur commosso era, calcando
    Con vincolato piede oggi i tappeti,
    Che tante volte avea con dominante
    Passo calcati, e intorno a sè veggendo
    Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
    S'inchinavan temendo, ovver felici
    Andavan s'egli a lor stringea la destra,
    E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali
    A sterile pietà, quali ad insulto.
      Giunto Ebelino alla presenza augusta,
    Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
      —Favella, sciagurato: uom con più caldo
    Fervor non brama tue discolpe.
                                  —Sire,
    La mia innocenza esser dovriati scritta
    Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi
    Di tua casa al servizio e dell'onore.
    In inganno te volto han miei nemici,
    E me calunnia opprime.
                          —A tue parole
    Aggiungi prova, e riputato il sommo
    De' tuoi servigi questo fia da Ottone.
      —Se a te prova non son gli atti che oprai
    Alla luce del sol, l'abborrimento
    Sperimentato mio contra ogni fraude,
    Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla
    A te non dicon queste mie sembianze
    Imperturbate in così ria sventura,
    Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
    Anzi alle leggi mia supposta colpa
    È attestata abbastanza. Altro non posso
    Se non gli estremi del mio zelo sforzi
    In quest'istante consecrarti, o sire,
    Tai verità parlandoti, che forse
    Più non udresti, se da me non le odi.
      —T'ascolto, disse il rege.
                                 Ed Ebelino
    La propria causa obblïar parve, e diessi
    A svolgere di stato alti consigli,
    I bisogni quai fossero additando
    Delle schiere, del popol, dell'altare,
    De' tribunali, e della reggia stessa:
    Quali i provvedimenti unici, rotti
    Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza
    Delle rivolte, a raffermar lo impero:
    Quali de' prischi imperadori, e quali
    Del magno Otton le più laudabili opre,
    E quai le insane; e come arduo ognor sia
    Seguir le prime e non errare; e come
    Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
    Adulante caterva. Accennò alcuni
    Del sir lusingatori, accennò il vile
    Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
    Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi
    D'anime basse proferir neppure.
    Ma que' rapidi detti eran gagliardi,
    Siccome piglio di paterno braccio,
    Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra
    Perigliante figliuolo.
                          Otton si scuote.
    Da verità sì energiche, da senno
    Sì giusto e luminoso ed esaltante
    Non era stato mai colpito. In altri
    Colloqui a' dì felici il buon ministro
    Parlava il ver, ma forse in più gradita
    Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.
    Ora è il parlar solenne, il grido urgente
    D'uom, che vicino a morte anco un tributo
    Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
    Tutto dicendo che giovar del pari
    Sembrigli al trono e alle regnate genti.
      Alla beltà del vero e del coraggio,
    E di quel dignitoso intenerirsi
    Che da alterezza vien compresso, e pure
    Nella voce si sente e ne' benigni
    Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
    Da natura sortita un'armonìa
    Di nobili sembianze e di contegno,
    Talchè valor più prepotente dava
    A sua favella, ed escludea il supposto
    D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,
    E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
    Stranier non era a simpatia per cuori
    Di grandissima tempra. E fu vicino
    A cedere, a gettare ambe le braccia
    Del prigioniero al collo, al gridar:—Falsa
    Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
      Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse
    Tëofania d'Augusto in cerca.
                                Bella
    Era la greca donna e di vivaci
    Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
    Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
    La bonaria alemanna indol con motti
    Quasi di spregio; e di quei motti spesso
    Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,
    L'affascinante sposa, ambìa piacerle
    E far pompa d'accorta alma inconcussa,
    E a tal cagion solea de' generosi
    Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.
      Salutata dall'armi, il passo inoltra
    Fra le colonne di que' regii lochi
    La incoronata, e stabilisce e freme
    In vedere Ebelino; e sovra Ottone
    Lancia quel guardo che dir sembra:—Stolto!
    Sedur ti lasci?
                   Tanto, oimè, bastava
    A confondere il sire! Eccol a un tratto
    Con più severa maestà atteggiarsi
    Verso il captivo, e dir:—Riedi: a me il vero
    Tutto paleserassi; e tu, innocente,
    Gloria n'avrai; prevaricato, morte.
      Torna Ebelino al carcere, e già scerne
    Che inevitata è per lui morte. Oh come
    Lenti di nuovo i dì, lente le notti
    Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
    D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,
    Ed il perpetuo tenebrore—e i cibi
    Immondi e scarsi—e l'aspreggiante voce
    Di questo o quello sgherro—e il frequent'urlo
    D'altri prigioni disperati, in cupe
    Vicine volte seppelliti—e il suono
    De' ceppi loro, e quel de' propri—e il canto
    Osceno del ladron che, bestemmiando,
    La forca aspetta—e i gemiti dell'egro
    Forse non reo che sulla paglia spira—
    E il sollecito passo delle guardie
    Che dicono: «È spirato!»—e questo detto
    Che l'echeggiante corridoio in guisa
    Ripete orrenda—e il pianto d'un amico
    Che, udendo il nome dell'estinto, grida
    Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»—
    E per dispregio di quel pianto il ghigno
    Od il sibilo infame di coloro
    Che trascinano il morto—e, con siffatta
    Serie d'inenarrabili vicende
    Di castel, che i perenni affigurava
    Dell'abisso tormenti, il ricordarsi
    De' dì sereni che svanìr, de' plausi,
    Delle liete speranze, e, più di tutto,
    De' dolci affetti—ah! quella è tale immensa
    Congerie di dolori e di spaventi,
    Che dissennar minaccia ogni più forte
    E sdegnoso intelletto! E se si ponno
    Da intelletto simil serbar talvolta
    Contro all'empia fortuna altero scherno,
    O pensieri di pace e di perdono,
    E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora
    Amarissima vien che ineluttata
    Mestizia il cor miseramente serra,
    E non v'è chi consoli! Ed altre pari
    A quell'ora succedono, e d'angoscia
    In angoscia si cade! Ed un'ardente
    Smania investe il cervello, ed impazzato
    Esser si teme o brama! E il generoso
    Petto chiuder non puossi all'irrüente
    Piena dell'odio che in lui versan mille
    Della viltà degli uomini memorie!
    E feroce si resta, e di sè stesso
    S'inorridisce e sclamasi:—«Son io,
    Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»
    E chiedesi all'Eterno, e lungamente
    Chiedesi invan, d'amore una scintilla!
      Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
    Ed allora invisibile al suo fianco
    Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,
    Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira
    E a disperazïon trarlo potesse.
    Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
    In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,
    Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
    D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
    Che insensatezza all'occhio è de' felici,
    Insensatezza non pareagli, ed alta
    Storia pareagli che gli oppressi in tutti
    Lor martirii nobilita; e volgendo
    Quella storia ammiranda, a poco a poco
    Ammansava gli sdegni e perdonava.
      Ma la parte del cor, che più dolente
    Sanguinava, era quella ove scolpite
    Stavan due care fronti. Una è la fronte
    Della madre decrepita che in pace,
    All'ombra degli altar, da parecchi anni
    Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella
    Della madre d'Augusto. Ambe le antiche
    Serrava il chiostro istesso, e raramente
    Alla reggia venìan; che ad Adelaide
    Odïosa la reggia erasi fatta
    Per l'imperar della superba nuora.
      —Qual sarà stato di mia madre, e quale
    Dell'onoranda Imperadrice il core,
    Allorchè udir la mia sventura? Iniquo
    Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
    Mentre a tutti i mortali il nome mio
    In abbominio fia; caro l'avranno!
      Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
    La madre alfine ha di vederlo, e scende
    Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
    Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
    Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
    Che riscattar col sangue suo non puote
    Di sue viscere il frutto! ed il più amante
    Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
    Deplorar dee la lunga vita!
                               Il giorno
    Che dalla inconsolabil genitrice
    Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
    Seguito fu! L'espandersi de' cuori
    Nella sventura, è de' sollievi il sommo;
    Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
    Il prigionier dalle pietose braccia
    Di persona carissima è staccato,
    E solingo riman, quanto più dura
    Gli è solitudin! Quanto più affannoso
    Il desiderio de' bei tempi in cui
    Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
    Più lacerante la pietà ch'ei sente
    Di sè stesso e d'altrui!
                            Me a tal dolore
    Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
    O decennio del carcere, infiniti
    Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
    Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi
    Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,
    Del bacio suo, dicea:—Questo è l'estremo!
      Non un decennio, ma più lune ancora
    Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse
    Nel giudizio di Dio gli accusatori
    Sperava iniqui col possente acciaro
    Düellando atterrar. Chi d'Ebelino
    Avea la forza e la destrezza? E quanta
    Forza o destrezza in düellar non dona
    Senso d'intemerata anima offesa!
    Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo,
    Non volle che sancito il reo costume
    Per Ebelin venisse; o del demonio
    Opra fu l'impedirlo. Il pestilente
    Aere del carcer nell'oppresso infonde
    Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
    Da insanabili febbri. Il derelitto
    Pur talvolta illudeasi, immaginando
    Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea
    Suoi benefizi, or con repente mossa
    D'onore e gratitudin s'offerisse
    A combatter per esso:—attese indarno.
      Spunta il dì della morte, ed Ebelino
    Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo
    La sentenza gli legge! Il condannato
    Udì, chinò la fronte, e rese grazie
    Tacitamente a Dio che al sacrificio
    Termine alfin ponesse; e bramò ancora
    Una volta veder la genitrice.
      Venne l'antica, e insiem si consolaro
    Con nobil forza alterna, e con alterne
    Religïose cure. Ella ed un pio
    Ministro del Signor soli eran consci
    Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce
    Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti
    Sovrastan del patibolo. Umilmente
    Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
    Il giusto cavalier; quindi si prostra
    Anzi alla madre, ed ella il benedice,
    E si dividon sorridendo, e in cielo
    Riabbracciarsi in breve speran.
                                   Move
    Per le vie tra i carnefici, agguagliato
    Al più vil masnadiero, e contro a lui
    Insane urla di scherno alzan le turbe.
      Di quegl'inverecondi ultimi segni
    Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe
    Egli pregava. Ed arrivato al palco,
    Con fermo passo ascese, e parlar volle;
    Ma sue parole non s'udir, sì orrendi
    Vituperi sonavano. Ed allora
    Accennò egli medesimo al percussore,
    E siede sullo scanno, e tosto il collo
    Mise sul ceppo—e la mannaia cadde!
      L'angiol della calunnia, abbenchè indurre
    Non avesse potuto alla bestemmia
    Il retto cavaliere, e or si rodesse
    Invido i pugni, l'alta anima a Dio
    Salir veggendo—audacemente «Ho vinto!»
    Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
    Intera uscisse dell'infame petto,
    Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
    Spirto ravvolser negli eterni abissi.
      Ov'è il Giuda novel?—Perchè perduto
    Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
    Della voce e del guardo?—E perchè al riso
    Che da Tëofania volto gli è spesso
    Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
    Mira a destra e sinistra?—E perchè a sera,
    Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
    A illuminata parte, e ansante giunge
    Quasi inseguito fosse?—E perchè cerca
    Talor per via i mendici, e su lor versa
    A piene mani l'oro, e di lor preci
    L'aiuto invoca, e inefficaci poscia
    Di quei le preci ei furibondo chiama?—
    E perchè ne' festini alcune volte
    Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
    Contro a tutte paure, e quando a letto
    Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido
    Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
      Pentimento ei bramava, e scellerata
    L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.
      Un dì, colui con altri sommi duci
    Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,
    Ove ancor d'Ebelino ad alto palo
    Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
    Volea finger letizia, e le pupille
    Miseramente stralunava, e insieme
    Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
    E vacillar sovra l'arcione il vede,
    E a sostenerlo accorre.
                           —Oh! che ti turba?
    Oh! che ti turba? Gli ripete.
                                 —È desso!
    Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
    Chi dal giusto immolato mi sottragge?
      E prepotenza di rimorso invitta,
    Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
    E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.
    Folto drappello d'ottimati, e folta
    Moltitudin di volgo al confessante
    Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
    Tutta imparando la esecrata istoria.
    Da tanti petti universal s'innalza
    Un lamento:—Oh sventura! oh atroce colpa!
    Il caduto Ebelino era innocente!
      Ed Otton più che gli altri inconsolato
    Raccapricciando grida:—Oh me infelice!
    Era innocente, e trarre a morte il feci!
      Il traditor nel suo sangue stramazza.
    Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
    Fama saperlo. I più disser che ratto
    Un ferro in cor si configgesse il tristo,
    Altri che Otton percosselo. Il tumulto
    Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
    Ecco lacero, pesto, annichilato
    Il cadavere infame. E s'inchinaro
    D'Ebelino anzi il teschio e imperadore
    Ed ottimati e popolo, e nel tempio
    Dato fu loco alla reliquia santa.
      Alto clamor di giubilo e di rabbia
    Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi
    Il traditor, ma sol menonne festa
    L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:
    Il lor superbo re, poste con ira
    Su Guelardo le luci e le calcagna,
    Urlò:—Che gloria alma sì vil mi reca!

ILDEGARDE

CANTICA.

Anche l'Ildegarde è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.

ILDEGARDE.

Pars bona mulier bona. (Eccle. c. 26, 3.)

      —Perchè alle torri del superbo Irnando
    Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?
      —Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni
    Di nevose bufère, ognor la dolce
    Nostra infanzia mi torna alla memoria,
    Quando, arridenti il padre suo ed il mio,
    O di soppiatto noi dalle castella
    Usciti, incontravamci appo la riva
    Congelata del Pellice, e lung'ora
    Qua e là sdrucciolon ci vibravamo
    Ridendo e punzecchiandoci e luttando,
    E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta
    Indi spesso la fronte o insanguinata)
    Tornando a casa lieti e tracotanti.
    Allora il padre suo, se all'un di noi
    Vedea della caduta in fronte il segno,
    Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito
    Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio
    Lo prendea fra le braccia e lo baciava,
    L'amor lodando de' perigli e il gaio
    Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga,
    E nulla può sull'anima del forte.
    Un dì, com'or, fioccava a larghe falde
    Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi
    De' parenti sottrattici e de' servi
    Discendemmo ciascun nostra pendice,
    E ai cari ghiacci convenimmo. Assai
    Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense
    Pallottole durissime a diversa
    Meta lontana, in alto o pe' dirupi,
    Scagliammo a gara, acute urla di gioia
    Ripercosse da acuti echi levando.
    Men da stanchezza mossi che da fame
    Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi
    Anelante alla cena. A quando a quando
    Ci volgevam guardandoci, ed allora
    Che, già molto remoti, un veder l'altro
    Più non potea, salutavamci ancora
    Con prolungati affettüosi strilli;
    E questi udìansi dalle due castella,
    E mia madre s'alzava, e tremebonda
    Al balcon della torre s'affacciava,
    Incerta se di gioco o di dolore
    Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore
    Odo mutarsi quella sera infatti
    Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!»
    Ripeteva egli disperato. Io sudo
    Di spavento, ciò udito, e immaginando
    Di quel caro il periglio. I clivi scendo
    Novamente precipite: il ghiacciato
    Pellice varco, e per gli opposti greppi
    Affannato m'arrampico ed appello:
    «Irnando mio! Irnando mio!» Salito
    Egli era sovra un olmo. Eccol veloce
    Scendere a me. Ma il lupo allontanato
    Ritorce il passo, e verso noi s'avventa.
    Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï
    Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno
    Incessante giravasi la fiera.
    Oh come su quell'olmo il dolce amico
    Teneramente mi stringea al suo seno,
    Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea
    Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!»
    Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi,
    E tristo incontro pari al suo scansassi.
    «E tu invece, oh insensato! ei ripetea
    Vanamente arrischiasti i cari giorni
    Per aïtar l'amico, o coll'amico
    Preda morir di quelle orrende zanne!»
    Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva
    Suoi cari lacrimosi occhi baciando,
    E tal commozïone era profonda,
    Delizïosa per entrambe! oh come
    Sentivamo d'amarci! oh quanto vere
    Sonavan le proteste, asseverando
    Che l'un per l'altro volontier la vita
    Donata avrìa!—Dall'olmo alfin veggiamo
    Scender di qua e di là dalle pendici
    Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre
    Ed il mio che venìan, co' loro servi,
    Degli smarriti figliuoletti in cerca.
    Sgombrava il lupo a quella vista; e noi
    Dall'arbore ospital lieti calammo,
    E saltellanti sulla neve, incontro
    Movemmo ai genitor, con infinito
    Cinguettìo raccontando, io la paura
    Ch'ebbi di perder l'adorato amico,
    Egli la mia temerità e la prova
    Che in questa aveavi di gagliardo amore.
    Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode
    Al fratellevol nostro affetto i duo
    Parenti davan! Come altero Irnando
    Mostravasi di me! Com'io di lui!—
    Di nostra püerizia i dolci giorni
    Da mille vicenduole ivan cosparsi,
    Che all'uno e all'altro certa fean la mutua
    E generosa fede! E così stretto
    Vincol di due schiettissim'alme… il tempo
    Dovea spezzarlo!
                    In questa guisa geme
    Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde
    Dalle corvine chiome e dalla svelta,
    Maestosa statura:—O sposo amato,
    Perdona, prego, al mio pensier; non colpa
    Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo
    Nobilmente tentato al benedetto
    Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?
      —Di nostre nozze intera anco non volge
    La luna, o mia diletta, e mal conosci
    Del tuo Camillo il cor. Non di rossore
    Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:
    Garrir, no, non ti voglio: imparerai
    Col tempo qual possanza in questo core
    Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci
    Volte l'orgoglio mio non s'immolava
    Per racquistarmi quell'amico? Indarno
    Ei più non è quello di pria: uno spirto
    Di maligna superbia il signoreggia:
    Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!)
    Ei mi dispregia!—
                      L'arrossita dianzi
    Ildegarde a tai detti impallidiva,
    Mostrüoso sembrandole il destarsi
    Dispregio in chi che sia verso un mortale
    Sì per cavallereschi atti famoso,
    Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava
    Vibrando sguardi or con gentil disdegno
    Alla torre d'Irnando, or con desìo
    Passïonato al caro sposo. E sguardi
    Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce,
    La stima ten compensi in ch'io ti tengo.»
      Qual della inimistà la cagion fosse
    De' duo generosissimi, in diversi
    Inni diversamente i trovadori
    Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando,
    Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno
    De' contendenti re sacrò il suo ferro;
    Altri a Camillo applaudon, che s'accese
    Pel secondo aspirante al real trono,
    Ma aspirante illegittimo. Speraro
    Camillo e Irnando un l'altro süadersi
    All'abbracciata parte. E l'un de' duo,
    Non si sa qual, trascorse a villanìa.
      Furor di fazïon trasse dapprima
    Questo e quello davvero a stimar vile
    Il già sì caro amico. Assai palese
    Delle avversarie crude ire sembrava
    L'iniquità ad Irnando: ei non potea
    Creder che onesto intento in alcun fosse,
    Il qual per esse parteggiasse. Al pari
    A Camillo parea dell'altra causa
    Evidente l'infamia essere al mondo.
      In qualunque dei duo fallisse primo
    La carità di confratello, e germe
    Altro o no di rancor vi si aggiungesse,
    Furon veduti inferocir nel campo
    Come leoni. Ma l'atroce guerra
    E l'alterna fortuna delle insegne
    Loco porgean a esercitar da entrambe
    Parti eccelse virtù. Cento fïate
    Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,
    Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio,
    Sebben malvagio, egli è un eroe pur
    sempre!»
      Già quegli anni di sangue or son passati;
    Già molte spente sono illusïoni
    Nelle agitate lor menti guerriere,
    Benchè in età ancor verde. Eppur concordia
    Lor generose palme, ahi! non rinserra.
      Beato d'una sposa era anche Irnando,
    E questa il dolce avea nome d'Elina,
    E di più figli era già madre. Il cielo
    Dato le ha cor fervente, ed intelletto
    Gentil, ma entusïastico. Natìe
    Le pedemontanine aure in che vive
    A lei non son; romano è sangue; e il padre
    D'Elina, de' ribelli ognor nemico,
    Morì con gloria in campo. Ella supporre
    Non potria mai che Irnando ingiustamente
    Odio porti a Camillo. A lei Camillo
    Noto non è, ma sel figura indegno,
    Irreconcilïabile, covante
    Sempre perfidie. E motto mai non dice
    Per calmare il marito allor che l'ode
    Fremer contra il vicin.
                           Folli stranezze
    Del core umano! Irnando, ancorchè fiero
    Più di Camillo, e a malignar proclive,
    Più bei momenti non avea di quelli,
    In che, pensando alla sua dolce infanzia,
    Questo o quel nobil detto o nobil atto
    Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.
    In quei momenti (e rivenian di spesso)
    L'alma gli sorrideva, immaginando
    Quando ad entrambo tornerìa dolcezza
    Esser amici ancor: ma appena accorto
    Di questo desiderio, ei ripigliava
    A esacerbarsi, a biasimar sè stesso
    Di soverchia indulgenza, ed intimarsi
    Perseveranza d'astio e di disprezzo.
      Vedute in tanti cavalieri avea
    Mutazïoni di principii abbiette!
    Gli uni servi al buon prence, indi congiunti
    Perfidamente all'avversario suo;
    Gli altri farsi un Iddio del tracotante
    Contenditore al trono, e poi, caduta
    La sua potenza, irriderlo. E di tali
    Apostasie si repetea sovente
    La turpe inverecondia. E le più altere
    Alme se ne sdegnavano, e temendo
    Apostate parer, persistean truci
    Ne' giurati decreti, ove decreti
    Sconsigliati pur fossero. Ogni volta
    Che Irnando dalle sue balze rimira
    Il castel di Camillo, e rivolgendo
    Va quanto spesso col diletto amico
    In quelle sale, a quel verron, su quelle
    Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto
    Ciglione, in quella valle, avea di santi
    Affanni e santi gaudii conversato,
    Di repente corrucciasi, e la fronte
    Colla palma fregando, a sè ridice:
    «Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio
    L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi,
    Che amabil tanto mi pingean quel tristo!»
      Men concitato da alterigia, avea
    Camillo a dame ed a baroni ufficio
    Pacifero richiesto. E quelle e questi
    Sordo trovaro a lor parole Irnando.
    Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce
    Questa fera discordia; ognor paventa
    Che i fremebondi prorompano a guerra.
      —Freddi interceditori, o sposo mio,
    Forse fur quelle dame e que' baroni
    Di cui mi narri. Di te degno oh come
    Stato sarebbe il presentar te stesso
    Con amabil fidanza e quell'iroso!
      —Che parli, o donna? Io, non colpevol, io
    Codardamente supplice a' suoi piedi!
      —Codardìa consigliarti, o mio diletto,
    Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi
    A lui, supplice no, ma con onesta
    Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto
    Pinger mi suoli di quel prode offeso,
    Incapace ci sarìa di fare ingiuria
    A chi chiedesse entro sue torri ospizio.—
      Se il pio consiglio accolga, esita alcuni
    Giorni Camillo; indi alla sposa:—O amica,
    A tanto, no, non posso umilïarmi;
    Ma non perciò mi ristarò da speme
    Di pacificamento. Un messaggero
    Mai non mandai direttamente ancora
    Con parole d'onore all'orgoglioso.
    Forse gli estranei intercessori sdegna,
    Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,
    E amici detti per mia parte udendo,
    Commoverassi, e non vorrà esser meno
    Generoso di me.—
                     Compie Camillo
    La divisata prova. Indi attendea
    Il ritorno del messo, e d'una sala
    Passava in altra irrequïeto, e indugio
    Soverchio gli sembrava.
                           —Il furibondo
    Sdegnasse dare all'invïato ascolto?
    O frodoloso intento, o vil lusinga
    D'animo impaurito ei sospettasse,
    E rispondesse coll'atroce insulto
    Di vïolar con carcere o con morte
    La sacra testa dell'araldo mio?
    Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese
    Mansuëtudin questo cor; ma un cenno,
    E rïascender lo vedresti ad odio
    Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!
    Che dico? Bassa villania in quell'alma
    Inebbrïata da gigante orgoglio
    Non può capir. Abbietto spirto io sono
    Che immaginar sì turpe fatto ardisco.
    Intenerito si sarà; lung'ora
    Colmerà di dolcissime domande
    E d'onoranza il mio scudier; seguirlo
    Qui vorrà forse, o rattenuto or fia
    Da momentanee cure. A mezzo solo
    Esser seppi magnanimo. Io medesmo,
    Come la donna mia mi consigliava
    Io, non un messo, a lui mover dovea.
    Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo
    Stato non foran più parole; in braccio
    Gettato a me sariasi, e senza vane
    Spiegazïoni, e dolorose, entrambo
    Rïappellati ci saremmo amici.
      Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
    Per nasconderle il suo perturbamento,
    Della diletta sposa il dolce incontro.
      Ei cammina a gran passi; o nella sedia
    Breve momento s'agita, e risorge
    Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
    Or all'una effacciandosi, or all'altra
    Delle fenestre, or fuor della ferrata
    Negra sua porta uscendo, e non badando
    Al can che gli si appressa, e rispettoso
    Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera
    Dalla man signorile esser palpato.
      Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
    Lo scudier ravvisare. È desso, è desso.
      Al cavalier rimescolasi il sangue,
    E contener non puossi. Il ponte varca,
    Discende in fretta la pendice; incontro
    Al vegnente lo stimola sfrenata
    Smania d'udir.
                  —Perchè sì tardo movi?
    Gridagli.—
               I passi addoppia il fido, e parla:
    —Signor del tuo nemico entro la soglia
    Appena addotto io fui…
                            Camillo udendo
    Suo nemico nomarlo, impallidisce:
    E l'altro segue:
                    —Appena addotto io fui,
    I sensi tuoi gli esposi.
                            —In quali accenti?
      —Quali a me li dettasti. Oh cavaliero!
    Dissigli, il signor mio, dopo ondeggiante
    Con sè stesso luttar, cede al bisogno
    Di ricordarti sua amistà, di sciorre,
    Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende
    Frapposto aveano fra il suo core e il tuo
.
    Io proseguir volea. Rise il superbo
    Amaramente, ed esclamò: Non gelo,
    Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto!

    Proseguii nondimen, tuoi decorosi
    Sensi esponendo. A' primi istanti vinto
      Da prepotente anelito parea,
    Sebbene al riso s'atteggiasse ognora,
    Ed ostentasse di vibrarmi i guardi
    Della minaccia e del dispregio. Ei detti
    Di maggiore umiltà dal labbro mio
    Certo aspettava. Non trascesi: umìle,
    Ma dignitosa serbai fronte e voce;
    Ed ei sognò ch'io lo schernissi. Audaci
    Son tue pupille, o giovine!
proruppe;
    Abbassale!—Non già! Timor non sente,
    Risposi, di Camillo un messaggero.
    —Mandotti il temerario ad insultarmi
?
    Riprese urlando, a far vigliacca prova
    Della mia pazïenza? A tentar s'io
    Contaminar vo' mia illibata fama,
    Tua vil pelle col mio ferro toccando,
    O alle fruste segnandola? Va, stolto
    Incettator di vituperi e busse;
    Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente
    De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa
    L'amistà racquistar d'un generoso,
    Con ambagi non parla, e schiettamente
    Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza.

    A sì indegne parole arsi di sdegno
    Per l'onor tuo. Via di turpezza mai
    Non calcherà, mai non calcò il mio sire!

    Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume
    Di fulminea infrenabile eloquenza,
    Tutta rammemorò la sciagurata
    Storia del trono combattuto. E questa
    Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui
    Striscianti a piè del volgo, e lordamente
    Convenuti d'illuderlo e spogliarlo.
    E tu…. fremo in ridirlo.
                              —Io? Segui.
                                          —Un vile
    Patteggiator di condivisa infamia,
    E condivisi lucri.
                      —Ei ciò non disse!
    Ei ciò non disse!
                     —Il giuro.
                                —E non troncasti
    La scellerata voce entro sua gola?
      —La troncai svergognandolo. E costretto
    Fu ad arrossire e replicar: Non dico
    Ch'ei fosse, ma parea di condivisi
    Lucri patteggiatore, e per lavarsi
    Di macchia tal non bastano le ambagi.
    Solennemente si ricreda, e provi
    Che insensato, ma mondo era il suo core;
    Provi ch'egli esecrato ha le perfidie
    De' nemici del re; ch'egli esecrato
    Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto!

    Viltà sembrato mi sarìa modesti
    Accenti opporre ad arroganza tanta.
    Tel confesso, signor: ciò che gli dissi
    Appena il so. Non l'insultai, ma cose
    Di foco, certo, mi piovean dal labbro
    Contro a' denigratori; e di te laude
    Tal gli tessei, che fu colpito e plause.
    Va, buon servo, mi disse; amo il tuo ardire,
    ma non del tuo signor la ipocrisia
.
      —Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato
    Non t'han le orecchie tue?
                              —Disselo, il giuro.—
    A queste voci il cavalier si torse
    Rabbïoso le mani, e con un misto
    Di voluttà e di fremito, in più pezzi
    Franse un anel, che dono era d'Irnando,
    Ed a' caduti pezzi impallidendo
    Il piede impose, e li calcò nel fango.
      —È finito! proruppe.—Ed iracondo
    Lagrimava, nè udia del messaggero
    Parola più, nè rispondeagli.
                                A guerra
    Precipitato contra Irnando ei fora;
    Ma nol permise il ciel. D'una sorella
    Alla difesa mover dee Camillo,
    La qual di Monferrato all'erme balze
    Co' pargoletti suoi vedova geme,
    Da illustri masnadieri assedïata.
      Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti
    Per la salute dello sposo alzando,
    E per la sua vittoria, e pel ritorno,
    Pur trema che allorquando ei dalle pugne
    Rieda di Monferrato, incontro al sire
    Del vicino castel rompa la guerra.
      Un dì mirando quel castel, le cade
    Nell'animo un pensiero;—E s'io medesma
    Colà traessi, e mia nobil fidanza
    Vincesse il cor della romana altera
    E del truce baron?—
                        V'ha certi miti
    Senni, e tal era d'Ildegarde il senno,
    Che pur sono arditissimi, e formato
    Gentil proposto, se pur arduo ei paia,
    Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla
    Il seguente mattin, poichè alla messa
    Nel delubro domestico ha innalzato
    Il femminil suo spirto appo lo Spirto
    Che regge i mondi e agli atomi dà forza,
    Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco
    Palafreno seduta. A lei corteggio
    Sono una damigella e due famigli.
      Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura
    Del castello d'Irnando, un momentaneo
    Palpitamento presela, e memoria
    Di perfidie tornolle, ahi troppo allora
    Frequenti fra baroni! e pensò quale
    Disperato dolor fora a Camillo,
    Se il visitato sire oggi smentisse,
    Brïaco d'odio, il vanto invïolato
    Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo
    Volse alla damigella; e impallidita
    Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo
    Famigli, e impalliditi erano, e osaro
    Interroganti dir:—Retrocediamo?
      —Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi.
      Intanto del castello in ampia sala
    La romana bellissima traea
    Dalla ricca di gemme ed indorata
    Conocchia il molle lino, e fra le punte
    Di due candide dita lo umidiva;
    Indi con grazia angelica all'eburneo
    Fuso il pizzico dava, e con accento,
    Che a labbra subalpine il ciel ricusa,
    Cavalleresche melodie cantava.
      Belli come la madre accanto a Elina
    Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei
    Innamoratamente le pupille,
    Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,
    Alzando vispe, e ogni ultima parola
    Della strofa materna ripetendo
    Con cantilena armonïosa d'eco.
    Ed a quest'eco s'aggiungea la grave
    Voce del padre lor, che per la caccia
    Un arco preparava, e spesso l'arco
    Ponea in obblìo, l'affascinante donna
    Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.
      Portavan l'aure il suon del fervid'inno
    D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea
    Dell'arcione, ed a' paggi sorridente,
    Ma con trepido cor, dicea il suo nome.
      Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto
    E onore a dama diniegò egli mai?
    Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro
    Con reverente cortesìa, e l'adduce
    Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa
    L'aurea conocchia, e di seder le accenna.
      —Vicina mia gentil (prende Ildegarde
    Così a parlar), da lungo tempo agogno
    Veder tuo dolce volto, e palesarti
    Un mio desìo.
                 —Qual? le dimanda Elina.
    —D'ottener tua amistà, di consolarmi
    Teco de' miei dolori.
                         —E che? Infelice
    Sei tu? Come?…
                    E nel troppo accelerato
    Immaginar, già Elina e il cavaliero
    Presumon ch'ella fugga il ritornante
    Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro
    Verso tant'altri, un mostro esser dee pure
    Verso la sciagurata a lui consorte.
      Ad Ildegarde appressansi amendue,
    Ed Irnando le dice:—Il ferro mio
    Non fallirà, s'hai di mestier difesa.
      Ma oh stupor! La soave, in altro modo
    Che non credean, prosegue:
                              —Il sol non vede
    Donna di me più dal suo sposo amata,
    O buona Elina, e anch'io, quando al castello
    È il mio signore, ed io filo cantando,
    Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna
    La mia colla sua voce; e molte volte
    Abbaian nel cortile i guinzagliati
    Cani pronti alla caccia, ed alla caccia
    Propizio è l'aer di levi nubi sparso,
    Ed ei pur meco stassi, ed al cignale
    Fino al seguente dì tregua consente.
    Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse
    Alcuna volta, mai non fu quand'uno
    All'altro amato cor battea vicino.
    Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra
    Solinga vila crescerà l'incanto,
    Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida
    Alla dolce speranza!) uno o più figli,
    Siccome questi, fioriranno a lato!
      S'interrompe Ildegarde, e per gentile
    Impeto d'amorosa alma commossa,
    O per arte gentile, o per un misto
    D'impeto ed arte, i due bambin si prende,
    Uno a destra uno a manca, e li accarezza
    Con baci alterni e voluttà di madre,
    Sì che la madre vera e il genitore
    Inteneriti esultano, e amicati
    Tanto per lei vieppiù si senton, quanto
    A' pargoletti lor vieppiù è cortese.
      —Oh come a te in bellezza, o mia vicina,
    Questa bimba somiglia!
                          E ciò Ildegarde
    Dicendo, preme lungamente il labbro
    Sovra la rosea guancia paffutella
    Della cara angioletta, e la baciucchia.
    Poscia gitta la mano amabilmente
    Sulle ricciute chiome del fanciullo,
    E qua e là le palpa, indi pel ciuffo
    A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:
      —Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto
    Da fedel dipintore, il padre tuo
    Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato
    Il fulvo crin, larga la fronte, arditi
    E amorevoli gli occhi…
                            E questi detti
    Pronunciando Ildegarde, involontaria
    O accorta, alzava paventoso un guardo
    Sul cavaliero. Ed ei si perturbava
    Ricordando Camillo. Allor la pia
    Ambagi più non volve; e con candore
    Dice quanta cagion siale di tristo
    Rincrescimento il dissentir d'Irnando
    E di Camillo.
                 —O degna Elina! ov'anco
    D'uno dei duo per indomato orgoglio
    Quella discordia non cessasse, amiche
    Esser non possiam noi? Commiserarci
    Non possiam noi di questa ria fortuna,
    Ed amar nostri sposi, e niun furore
    Lor condivider che sia oltraggio al dritto?
      Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe,
    E si stringono al seno.
                           Irnando balza
    Rapito a quella vista, a quegli accenti,
    E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde
    Vorrìa provar nessuna esso aver colpa
    Nell'odio sorto fra Camillo e lui.
    Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati
    Spregi e d'ingratitudine a Camillo
    Accusa vibra, il corruccioso lagno
    Con cui ne parla, non par quel dell'odio,
    Ma d'un amor geloso. Ei non perdona
    All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto
    Un idol d'altra gente! aver potuto
    Per nemici obblïar sì sviscerato
    Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando.
      Ciò non isfugge all'ospite avveduta,
    E con lenta eloquenza insinüante,
    Che più e più le udenti anime scuote,
    Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi
    Un fautor generoso (errante forse,
    Ma generoso) d'abbagliante insegna,
    E che a virtù immolar tutto credea,
    Fin le dolcezze d'amistà più care.
    E come pur tal amistà in Camillo
    Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni
    Sospirass'egli della pace, in cui,
    Placato Irnando, il rïamasse ancora.
    Dice inoltre com'ei, reduce all'onde
    Del Pellice natìo, concilïarsi
    Con Irnando agognava, e si valea
    D'intercessori invan; come ad Irnando
    Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.
    Dice gli sguardi mesti e affascinati
    Di Camillo al castel del primo amico,
    E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone
    Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti
    Ove insieme natavano, ed ai ghiacci
    Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi,
    Ridendo e punzecchiandosi e luttando,
    E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta
    Indi spesso la fronte o insanguinata)
    Tornando a casa lieti e tracotanti.
      —Oh che facesti, sposo mio? prorompe
    La fervida Romana; un altro, un altro
    T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,
    Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro
    Che innanzi agli alterati occhi ci stava,
    No, non era quel pio, cui sì dilette
    Son dell'infanzia le memorie tutte,
    Cui tu sempre sei caro, e che sì caro
    Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.
      —Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio
    Gli si rïempie di söave pianto.
    Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe
    A me mandò que' freddi intercessori
    Che sì mal peroravano, e quel troppo
    Zelante messagger che m'inaspriva
    Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai
    Ch'esser amato da colui ch'io amava?
    D'odiarlo io giurava, e non potea!
    Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
    Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna
    Rammemoranza di me pia conserva,
    E quasi m'ama nel passato ancora,
    Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi
    Collegato di vili anco s'ardisse?
    Se sconsigliati egli dicesse i passi
    Che al mio castello hai mossi, e dall'irato
    Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando!
    Amarlo più non posso!»
                          I dolorosi
    Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
    Col ricordar sull'amicizia antica
    Questo o quel detto di Camillo.
                                   —Io dunque
    Era il superbo! esclama il cavaliero:
    Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra
    Lunge da me l'amico mio periglia;
    Ad aïtarlo di mie lance io volo.
      E i suoi fidi raguna, ed abbracciate
    La palpitante Elina ed Ildegarde
    E i pargoletti, in sella monta e parte.
      Per molti dì le due vicine a gara
    Si consolavan, si pascean di speme,
    E alterne visitavansi, aspettando
    De' baroni il ritorno, o messaggero
    Che di lor favellasse. Ascondon ambe
    Il lor perturbamento, e sol ciascuna,
    Quando al proprio castel siede romita,
    Numera i giorni ed angosciata piange.
    Quella dicendo: «Oh non avess'io mai
    Conosciuto Ildegarde! Ella funesta
    Forse è cagion che il mio signore è spento!»
    L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo
    Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,
    Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa
    Vedova Elina ed orfani i suoi figli
    Ah no, non restin!»
                       Cede alla possanza
    Del suo rammarco alfin l'inconsolata
    Moglie d'Irnando, ed una sera asceso
    Il solito cíglion con Ildegarde,
    Donde vedeasi per più lunga tratta
    La polverosa via, nè comparendo
    I cavalieri, o messo alcun, prorompe
    Abbracciando i figliuoli in disperato
    Pianto, e respinge dell'amica il bacio.
      —Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli
    Rapisti il genitore! A me rapisti
    Colui che tutto era al cor mio! Colui,
    Pel qual degli avi miei la dolce terra
    Senza cordoglio abbandonata avea!
    Viver senz'esso non poss'io: qual sorte
    A queste derelitte creature
    Verrà serbata, dacchè al padre i ferri
    Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?
    Voler, voler del cielo era d'Irnando
    L'inimistà pel tuo fatal consorte!
    Maledetto l'istante in che, ispirata
    Da infernal consiglier, lieta movevi
    A mia ruina! Maledetto il nome
    Di suora che ti diedi!—
                            Al furibondo
    Grido geme Ildegarde, e invan desìa
    Trovar parole per placar l'afflitta;
    Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora
    Più duramente rigettata e carca
    Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio
    Rispetta dell'amica, e ridiscende
    Dietro a lei mestamente la collina,
    D'ancella a guisa che garrita piange,
    E risponder non osa. A quando a quando
    Si sofferma Ildegarde, e confidata
    Tende l'orecchio e nella valle mira,
    Che voci udir le sembra; e quelle voci,
    Ahi! manda il villanel, che dagli arati
    Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara
    Son compagnia l'antica madre, curva
    Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta
    Moglie, peso maggior di rudi sterpi
    Con elegante alacrità portando.
      Ne' dì seguenti, al consüeto poggio
    Le due donne riedean, ma fremebonda
    Sempre era Elina, e, tramontato il sole,
    Moveva a casa delirante d'ira
    E di dolore; ognor vituperata
    Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.
      Odon lontane grida, e nella valle,
    Come all'usato i guardi avidamente
    Con palpiti d'amor gettano entrambe
    E di speranza e di paura. Il cane
    Drizza i villosi orecchi, ed un acuto
    Insolito latrato alza, e si scaglia
    Giù per la praterìa precipitoso,
    Folte siepi saltando ed ardui fossi
    E scoscesi macigni. E ad intervalli
    Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,
    Nè mai s'arresta.
                     —E sarà ver? Son dessi,
    Son dessi certo! Esclamano a vicenda
    Con ebbrezza febbril le desïose.
    Ma se alle lance reduci or mancasse
    Uno de' capitani, od ambo forse?
    Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!
    Chi ne assecura?
                    Sì dicendo, il passo
    Raddoppiano affannate. Al piano giunte,
    Odon le scalpitanti ugne veloci
    D'uno o duo corridori: ah fosser duo!
    Fosser de' duo baroni i corridori!
    Scerner gli oggetti mal lasciava un denso
    Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto
    Camillo e Irnando precedean, con ansia
    Di riveder le dolci spose. Oh gioia!
    Oh certezza felice! Il lor saluto
    Suona per l'aer, ben son lor voci queste.
    Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi!
    Oh istante indescrittibile! E il consorte,
    Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai
    L'ha coperto di lagrime e di baci,
    Ciascuna dell'amica infra le braccia
    Gittasi giubilando.
                       —Il dolor mio
    Aspra mi fea: perdonami Ildegarde.
      E Ildegarde alla suora il detto tronca,
    Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe
    Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli
    Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,
    E accarezzato li accarezza, e gode
    Porgendoli a Camillo, e di Camillo
    La nova tenerezza rimirando.
      Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,
    Un esclamar, un alternarsi accenti
    Di cortesìa e d'amore, un romper folle
    In pianto e in riso, un mescolar dimande
    E risposte e racconti, e i cominciati
    Detti obblïar per detti altri frapporre,
    Che niun di lor cosa veruna intende.
      Nel castello d'Irnando entrano. E assisi
    Nella gran sala—e da donzelle e fanti
    Portate l'ampie coppe—e zampillato
    Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente
    Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo—
    E del giocondo brindisi i sonanti
    Tocchi osservati—e roborato il core—
    Allor le maschie voci alzano a gara
    I baroni, e ripigliano il racconto
    In più seguìta, intelligibil foggia:
    —Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde,
    Te in così tempestiva ora spingendo
    A rannodar fra Irnando e me l'amato
    Vincol che stoltamente io franto avea!—
      Così Camillo, e l'interrompe l'altro:
      Io lo stolto! Io il feroce!—
                                   E quei la mano
    Sovra il labbro gli pon rïassumendo:
      —Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde!
    Perduto er'io, se redentrice possa
    D'amistà non venìa. L'assedïante
    Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo
    Novella frotta ragunò. Me chiuso
    Nel castel della suora, egli ogni giorno
    Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno
    Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi
    Del valor mio nulla potean su tanto
    Nover crescente di nemici. A noi
    Già le biade fallìan, già fallìan l'armi,
    E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio
    Rabido della fame a' guerrier nostri
    Consigliavan rivolta ed abbandono.
    Universal divenne voce alfine:
    «Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero
    Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora
    E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso
    E supplicante, io i perfidi arringava,
    Che della rocca aprir volean le porte:
    —«Sino a dimane il tradimento, o iniqui,
    Sino a dimane sospendete!» Un resto
    Di pietà e di rispetto, al grido mio,
    Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane!
    Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora
    Portenti oprato non avrà a tuo scampo,
    Lo scampo nostro procacciar n'è forza.»
    Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!
    Oh come orrenda cosa eraci il suono
    Del bronzo che segnavale! Oh angosciato
    Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti
    Muti sembianti della mia sorella
    E de' suoi pargoletti! Oh contrastante
    Dignità di parole in prepararci
    A' vicini supplizi! Ed oh com'io
    Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico
    Tutta la vita conservarmi Irnando?—
    Improvviso frastuono udiam levarsi
    Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!
    Una pugna! E con chi?—«La man di Dio!
    La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra
    Mi si prostran pentite, il giuramento
    Di fedeltà rinnovano; a gagliarda
    Sortita le süado, ed infinito
    Macel lung'ora de' nemici è fatto.
      Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:
    —Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta
    Prodezza ad ammirar non m'astringevi,
    Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga
    Eran molti de' miei, già in fuga io stesso
    Omai volgeami disperato: i colpi
    Tuoi scomposer l'esercito inimico,
    E di salvezza io debitor t'andai!—
      S'avvicendan la lode i cavalieri,
    L'uno dell'altro memorando i fatti.
    Alfine Elina sclama:—Ad Ildegarde
    Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei
    Prostratevi, e la sua destra baciate.—
      E i cavalieri prostratisi, e la destra
    Baciano d'Ildegarde, e penitenza
    Le chieggon del furente odio passato;
    Ed ella in penitenza un'annua festa
    Intima in questo e in quel castel, che festa
    Dell'amistà
si chiami, e dove uficio
    De' vati sia cantar quanti sospetti
    Calunnïosi partorisce l'ira,
    E quanto l'ira accrescano le ambagi
    De' falsi intercessori, e quanto egregia
    Sappia interceditrice esser la donna.
      —E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi
    Penitenza? soggiugne in umil atto
    Palma a palma accostando, ed il ginocchio
    Piegando Elina.—
                     Ed Ildegarde:—Il primo
    Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome
    Porti del mio Camillo; e mi sia dato,
    Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.

I SALUZZESI.

Cantica.

L'amore che porto a Saluzzo, mia città nativa, m'ha indotto a cantare un fatto luttuosissimo, che trovasi ne' suoi annali, al secolo XIV. Il Marchesato di Saluzzo era di qualche importanza a quei tempi, e la vicenda di cui parlo si collegava colle passioni che ferveano per tutta Italia.

Nel 1336 Tommaso II succedette al padre nella signorìa di Saluzzo, ma gli fu contrastato il seggio da Manfredo suo zio. Tommaso avea per moglie Riccarda Visconti di Milano, ed era quindi uno de' Principi ghibellini, ai quali i Visconti erano capo, tutte le speranze della parte ghibellina appoggiandosi a quel tempo sovra Azzo fratello di Riccarda di Saluzzo, e poscia sovra Luchino Visconti, loro zio.

Manfredo si professò guelfo per avere la protezione del potentissimo capo de' guelfi, Roberto Re di Napoli, della casa d'Angiò. Era questi un ragguardevole monarca per ingegno e per possedimenti. Oltre al suo regno ed alla contea di Provenza, suo avito dominio, gli appartenevano, per diritti veri o dubbii, parecchie signorìe qua a là in tutta la lunghezza della penisola. Roma e Firenze lo riconoscevano per protettore. Sventolava la sua bandiera sopra molte castella delle terre Lombarde, Monferrine, Astigiane, Piemontesi. A lui obbedivano Savigliano, Fossano, Cuneo ec. Non conduceva eserciti egli medesimo, e teneva, tutti quei disseminati dominii con masnade Provenzali, Napoletane o d'altre razze, sotto al comando di valorosi baroni, i quali, governando ciascuno a modo suo, mal sapeano affezionare le genti al loro sovrano. Voleva Roberto far cadere la potenza ghibellina de' Visconti, e domare tutti gli Stati Italiani; ma non essendo egli d'indole guerriera, operava con lentezza, e non conseguì mai l'ardito proposto. Guelfi e ghibellini si vantavano a vicenda d'essere i veri amanti della nazione, i veri fautori della civiltà, della giustizia, della causa di Dio; ed intanto mal si sarebbe distinto da qual lato fossero più errori e più colpe, benchè in tali tenebre pur lampeggiassero alcune alte virtù. L'età era cavalieresca e religiosa, con elementi di gelosie repubblicane. Tutto ciò è sommamente poetico.

A que' giorni viveano con immensa fama di dottrina Petrarca e Boccaccio, ed altri uomini sommi; ed il re Roberto ed i Visconti si gloriavano d'averli ad amici. Siccome il Marchesato di Saluzzo attraeva gli occhi della corte di Napoli, non è maraviglia che il Boccaccio abbia dato luogo fra le sue più nobili novelle alla Saluzzese Griselda.

Mentre quella splendida corte era modello di gentilezza, le schiere di Roberto, capitanate dal siniscalco Bertrando del Balzo, provenzale, e congiunte con altre armi, proruppero ne' nostri paesi per sostenere i pretesi diritti di Manfredo, empierono di rubamenti e di carnificine la contrada, espugnarono ed incendiarono Saluzzo, presero prigione il marchese Tommaso co' suoi figliuoli, gareggiarono con Manfredo a commettere ogni barbarie, e così in breve disingannarono coloro fra i prodi Saluzzesi che avevano sognato in Roberto un semidio, e ne' suoi guelfi altri semidei, chiamati ad abolire le antiche ingiustizie, ed a stabilire in Italia il secolo della sapienza e della rettitudine.

Ottenne Tommaso per riscatto la libertà, e trovando che Manfredo e tutti i guelfi erano esecrati, si volse ad adunare nuova oste di ghibellini, v'aggiunse uno stuolo assoldato di lance straniere, ma ben disciplinate, guerreggiò e vinse. Il tiranno Manfredo e i suoi alleati furono espulsi.

Questi avvenimenti di Saluzzo sono il soggetto della mia Cantica. Tratta di essi con assai numero di rilevanti particolarità la storia di Saluzzo di Delfino Muletti, e di Carlo suo figlio; ed ivi leggesi pubblicato la prima volta da esso Carlo uno scritto, in cui il cominciamento di quella guerra e delle crudeltà di Manfredo è dipinto con forza da autore di quel secolo, stato anzi egli medesimo testimonio della distruzione del luogo nativo. Quello scritto intitolato Calamitas calamitatum, Commentariolum Iohannis Iacobi de Fia, rivela nell'uomo che lo dettava una mente colta e generosa. Ei dimandava al cielo, e presagiva la caduta degl'invasori.—(Ploremus ergo coram Deo, poeniteat nos iniquitatum nostrarum, et a praesenti calamitate calamitatum maxima liberi facti erimus).

La cacciata degli stranieri diede novella virtù ai Saluzzesi; le discordie civili scemarono, e s'estinse a que' giorni con Roberto la gloria della fatale casa d'Angiò, che aveva cotanto illuso ed insanguinato l'Italia. Carlo, figlio di Roberto, era premorto al padre, e lo scettro passò nelle mani di Giovanna, figlia di Carlo, la quale, rea dell'uccisione d'un marito, patì infiniti guai, ed infine dal vendicatore del primo marito fu data a morte.

I SALUZZESI.

      Odium suscitat rixas, et universa
      delicta operit charitas.
                (Prov. 10. 12).

I.

    Dolce Saluzzo mia! terra d'antiche
    Nobili pugne, e d'alternate sorti
    Prospere e infelicissime, e d'ingegni
    Che t'onoràr con gravi magisteri,
    O con bell'arti, o con sincere istorie,
    O coll'affettüoso estro che splende
    In ognun che ti canta, e vieppiù splende.
    Sovra l'arpa gentil di Dëodata[1],
    Tua prediletta figlia! Io ti saluto,
    O terra de' miei padri, e dall'affetto
    Che ti porto, m'ispiro oggi cantando
    Un tuo illustre dolor d'anni lontani,
    Che fu dolor da forti alme compianto,
    E da forti alme sopportato e misto
    Ahi troppo! a colpe, ma pur misto a esempi
    Di patrio amor, di lealtà e di senno.
      O fantasia, sulle tue magich'ali
    Toglimi a' dì presenti, e con gagliardo
    Vol ritocchiamo il secolo guerriero
    Di Tommaso e Manfredo; il secol pieno
    Di guelfe e ghibelline ire, che servo
    Parve e non fu dell'ultimo Angioìno;
    Il pöetico secol, che dall'ombra
    Gigantesca di Dante e dalle pure
    Armonìe di Petrarca, e più dal lume
    D'ammirabili Santi, era di molti
    Olocausti di sangue consolato.
      Fra gl'Itali dominii, ecco Saluzzo
    Non ultima in possanza: eccola altera
    Di lunga tratta di montagne e valli
    E feconde pianure, e di castella
    Governate da prodi: eccola altera
    De' prenci suoi. La marchional corona
    Fregia Tommaso, affratellato ai grandi
    Ghibellini Visconti, onde Roberto
    Angiöin dalla sua Napoletana
    Splendida reggia freme, e agguati ordisce,
    Impor bramando con novello prence
    A' Saluzzesi il guelfo suo stendardo.
      Volgea quella stagion, quando Saluzzo
    Vede scemar pe' campi suoi le nevi,
    E ogni dì s'avvicendano i gelati
    Estremi soffi dell'inverno, e l'aure
    Che già vorrebbe intepidir l'amica
    Possa del Sol che a ricrëarci torna.
    E volgeva una sera, ed a tard'ora
    Entro alla cara sua celletta prono
    Stava orando il canuto Ugo, dolente
    Che involontaria a' preghi si mescesse
    Nel suo intelletto or questa cura or quella
    Di Staffarda pel chiostro, onde ei cingea
    L'infula veneranda. E benchè antico
    Nelle salde virtù di pazïenza
    E d'umiltà, pur non potea ne' preghi
    Trovar facìl quïete, anco ove miti
    Talor del monaster fosser gli affanni,
    Perocch'ei molte conoscea secrete
    D'alti alberghi sfortune e di tugurii,
    E d'innocenti peregrini oppressi;
    E la mente magnanima del vecchio
    Compatìa in tutti i cuori illustri o bassi
    Delle colpe gli strazi e quei del pianto.
      Or mentre inginocchiato ei le divine
    Grazie per tutti invoca, ode la squilla
    Che a notte suona il vïator venuto
    Alla porta ospital. Sospeso allora
    Il conversar con Dio, s'alza ed appella
    Un de' laici fratelli, e—Va, gli dice;
    Provvedi tu che all'arrivante abbondi
    Di carità dolcissima il conforto,
    Chiunque ei sia.
                Quindi, umilmente curva
    La nivea fronte, eccol di nuovo a' piedi
    Del Crocefisso, e nell'orar diceva:
    —Or chi sarà questo ramingo? Oh fosse
    Tal di que' mesti a cui giovar potessi!
      D'accelerati e poderosi passi
    D'un cavalier sonar sembran le volte;
    Poscia addotto dal laico entro la cella
    Viene… Eleardo.
                 —Oh amato zio!
                            —Nepote,
    Onde tu di Staffarda alla Badìa?
    Il laico si ritrasse. I duo congiunti
    Si strinsero le destre, e il giovin prode
    Sovra la scarna destra del canuto
    Le labbra pose, ed ambe allor le braccia
    Aperse questi, e al sen paternamente
    Il figlio accolse dell'estinta suora.
      Così il giovin comincia:
                        —Alto mistero
    Son chiamato a svelarti.
                      —In me fiducia
    Sai qual tua madre avesse; abbila pari.
      —Dacchè in Saluzzo reduce son io
    Dalla corte di Napoli e dal Tebro,
    Poche fïate al fianco tuo m'assisi,
    E assai pensieri d'Eleardo ignori.
      —E l'ignorarli mi mettea paure,
    Che forse sgombrerai.
                   —Padre, mentita
    È la fama che sparsa han da Milano
    I perfidi Visconti incontro al vero
    Proteggitor d'Italia tutta e nostro.
    In benefizi alto, fedel, possente
    È il regio cor del Provenzal Roberto:
    Ei la Chiesa vuol grande: ci de' tiranni
    Flagello fia; de' buoni prenci scampo.

      —Bada, o giovin bollente, omai tremenda
    Splender la luce di quel re straniero
    Che di Napoli al serto altre aggiungendo
    Minori signorìe, stende sue lance
    Di castello in castel, di villa in villa,
    Fra' Romani, fra' Toschi e fra' Lombardi,
    E feudi suoi non pochi ha in Monferrato
    E in Piemontesi sponde. A molti egregi
    Dubbia pietà è la sua sulle miserie
    Delle irate, cozzanti, Itale stirpi.
      —Dubbia fu dianzi, or più non è. Sol una
    Appalesasi speme, un sol desìo
    In re Roberto e nel Pastor del mondo:
    Concordia vonno e giuste leggi, e freno
    Ad eresìe, a tirannidi, a macelli:
    Collegare in un patto a comun gloria
    Vonno e prenci e repubbliche e baroni.
      —Del supremo Pastor ferve nel petto
    Ansïetà pe' figli suoi sublime;
    Il so: ma in petto di Roberto ferve
    Pericolosa ambizïon.
                  —Tal grida
    Del ghibellin Visconte la calunnia,
    Ma smascherato è l'impostor. Lui regge
    Ed ognor resse ambizïon! Lui preme
    Sete d'oro e di sangue! In Lombardia
    Ei d'un mortal più non possede il core:
    Sospiran ivi tutti i buoni o il braccio
    Liberator dell'Alemanno Augusto,
    O della serpe Viscontèa sul capo
    La folgor pontificia, e i benedetti
    Brandi del re. Quanto i Lombardi omai
    Da quella fatal serpe avviluppati,
    Contaminati, laceri, scherniti
    Non ci vediam noi Saluzzesi forse,
    Dacchè sposa al Marchese incantatrice
    Venne Riccarda, e tracotante stormo
    D'Insubri cortegiani accompagnolla?

      —Figlio, ricorda ch'altre volte io seppi
    Quell'ira tua sedar. Ragioni mille
    Di Saluzzo il dominio alla fortuna
    Stringono di Milano.
                  —Oggi disciolta
    È l'infernal necessità.
                     —Che intendi?
      —Svelta alfin oggi dall'ignobil crine
    Del marchese Tommaso è la corona.
      —Oh ciel! che parli? Come?
                          —Oggi Saluzzo
    E delle valli sue tutti i baroni
    Mutan sommo signor: nel seggio ascende
    Del marchesato…
                 —Chi?
                     —Manfredo.
                              —Un sogno,
    Un sogno è il tuo: Manfredo osò la mano
    Stendere al serto del nepote un giorno,
    Ma pochi il secondaro, e giurò pace.
      —Fur vïolati da Tommaso i sacri
    Vincoli della pace, e l'insultato
    Manfredo sorge con diritto, e pugna.
      —Foggiati insulti! Agli occhi miei rifulge
    Di Tommaso la fede.
                   —Or cessa, o zio,
    Di compianger l'iniquo, e sostenerlo.
    A quest'ora medesma in ch'io ti parlo,
    Invitte squadre ascosamente tratte
    Son da più lati del Piemonte, l'une
    Da Savigliano e circostanti borghi
    Obbedïenti al re, l'altre portando
    La Taurinense e la Sabauda insegna;
    Ed a lor si congiunge Asti, ed il nerbo
    De' Monferrini guelfi; e, pria che albeggi,
    Saluzzo investiranno, e di Saluzzo
    Da interni guelfi s'apriran le porte.

    —Perfidia tanta ah! non permetta il cielo!
    —Manfredo, signor nostro, a te m'invia,
    A te ch'egli ama e venera, e possente
    Crede appo Dio.
               —Che vuol da me il fellone?
    —T'acqueta.
            —Che vuol ei?
                        —Rende onoranza
    A quella fama tua che in parte celi
    Per umiltade, e forse in parte ignori,
    Ma che sul volgo e sui baroni è immensa.
    Il vigor de' Profeti, è nel tuo sguardo,
    Nella parola tua, nell'inclit'opre!
    Nè fur poste in obblìo le ardimentose
    Verità che portate hai cento volte
    In nome dell'Eterno a' piè de' forti.
    Banditor oggi te desìa, te vuole
    Di verità terribili Manfredo:
    Vieni i Visconti a maledir nel campo,
    Vieni in Saluzzo a maledirli; vieni
    Tommaso a maledir, che a' ghibellini
    Fatto s'era mancipio; e il tuo ispirato
    Ingegno volgi a secondar gl'intenti
    Di chi protegge i popoli e il diritto.
      Balza a tai detti dal suo antico seggio
    Il sacro vecchio, e grida:—Oh sconsigliati!
    Oh foss'io in tempo! Oh, me vestisse Iddio
    Del vigor de' Profeti un giorno solo!
    Ov'è Manfredo?
              —Il menan le notturne
    Ombre colla invadente oste a lui fida.
      —Mi si bardi il corsier, prorompe l'altro.
      E mentre il laico diligente move
    Ad obbedir, l'illustre coppia ancora
    Entro la cella si sofferma, e scambia
    Dell'agitato alterno animo i sensi.
      —Figlio, sedotto sei. Più che a te noti
    Di Roberto e Manfredo i cor mi sono.
    Ottimo è il re, ma in Napoli, ove lieto
    Di splendid'arti e cortesìa sfavilla:
    Lunge di là, malefico è il suo genio,
    Però che illude cavalieri e volgo,
    Con brame empie di guerra e di rivolta.
    E mentre a chi gli sta vicino ei mostra
    Amabili virtù, sparge per tutte
    Le vie della penisola protetta
    Superbi capitani a intimar pace,
    Depredando, uccidendo e soggiogando.
    Tal è il vantato amico re. Gli giova
    Scemar la possa de' Visconti, a noi
    Unici grandi appoggi; ed a quel fine
    Oggi stromento egli Manfredo elegge.
      —A Manfredo parlando e a' regii duci,
    Dissiperassi il tuo terror. Brandite
    Furon le generose armi con alto,
    Solenne giuro d'elevar gli oppressi,
    Ed atterrar chi leggi ed are spregia.
      —Di chi s'avventa a qual sia guerra, è il giuro.
      —Vedrai di stirpe Saluzzese egregi
    Baroni alzar la Manfredesca insegna.
      —So che vedrovvi tra i cospicui illusi
    Quell'Arrigo Elïon che ti governa,
    Sua figlia promettendoti. Arrossisci?
    Pur troppo non errai.
                   —Più che gli affetti,
    Seguir ragione e coscïenza intendo.
      Bardato del canuto è il palafreno,
    E accanto ad esso scalpita il corsiero
    Del giovin cavalier. Brevi l'abate
    Lascia a' monaci suoi caute parole;
    Di sua man l'acqua santa a lor comparte,
    Li benedice, ed eccolo salito
    Guerrescamente sull'arcion, siccome
    Uom, che pria della tonaca ha vestito
    Corazza e maglia, e nome ebbe di prode.

      Stride sui ferrei cardini la porta
    Del monastero, e si spalanca. Entrambo
    Escon gl'illustri, e su minor cavalli
    Duo servïenti; e soffermato resta
    In sulla soglia il monacal drappello,
    Cui s'abboccò l'abate alla partita.
      —Che fia? Si dicon con alterno sguardo
    Paventando sciagure, ed ignorando
    Le sovrastanti stragi. Intanto s'ode
    La campanella de' notturni salmi,
    E vien chiusa la porta, e traversato
    L'ampio cortil, tutta la pia famiglia
    Entra nel tempio e tragge al coro, e canta.

[1] La Contessa DEODATA ROERO DI REVELLO, nata SALUZZO.

II.

      All'ombra delle chiese oh fortunata
    Pace, in secoli d'odii e tradimenti!
    Ivi mentre ne' campi arse talora
    Venìan le messi, e al villanello afflitto
    Il guerriero aggiugnea scherni e percosse,
    E mentre in borghi ed in città i fratelli
    Trucidavan fratelli, e mentre noto
    Andava questo e quel castel per nappi
    Di velen ministrati, e per pugnali
    Vibrati nelle tenebre, e per donne,
    Che il geloso, implacabile barone
    Seppellìa vive delle torri in fondo,
    Il monaco espïava or sue passate
    Colpe, or le colpe delle stirpi inique:
    E non di rado quelle sacre lane
    Coprìano ingegni sapïenti e miti,
    Stranieri al secol lor, com'è straniero
    Fra malefici sterpi il fior gentile,
    E fra cocenti arene il zampillìo
    Ospital d'una fonte, e fra selvagge
    Masnade un cor che sopra i vinti gema.
      Intanto che a Staffarda i coccollati
    Salmeggiavano in coro, e che l'antico
    Ugo sul palafreno i pantanosi
    Sentieri e le boscaglie attraversava,
    Mossa da Moncalier, tragge a Saluzzo
    Moltitudine varia e spaventosa:
    Di regie insegne e d'alleati, e insieme
    Co' guerrieri diversi orrende bande
    Di comprati ladroni. Il sommo duce
    È Bertrando del Balzo, altero e prode
    Siniscalco del rege, e di Bertrando
    Primo seguace è il traditor Manfredo,
    Ch'entrambe i suoi fratelli sconsigliati
    Seco strascina alla malvagia impresa.

      Giunger vonno di notte appo le mura
    Insidïate, e lor sorride speme
    Ch'a suon di trombe s'apra ivi la porta.
    Ma precorsa è la fama, e quando arriva
    L'oste a' piè di Saluzzo, e dagli araldi
    Si suonano le trombe, al suono audace
    Interna intelligenza non risponde,
    E nessun ponte levatoio scende
    Degl'invasori al passo. Irte le mura
    Stan di lance fedeli, scintillanti
    Al raggio della luna, e dal lor grembo
    Piovon sull'oste urli di rabbia e dardi;
    Ed a quegli urli universal succede
    Il grido popolar:—«Viva Tommaso!».
    Sì che Manfredo per livor si morde
    Ambe le labbra, e al baldanzoso volgo
    Giura dar pena d'infinite stragi.
      Il Provenzal Bertrando, alma beffarda
    Dell'amistà del rege insuperbita,
    Quasi rege teneasi, e agevolmente
    Sovr'ogn'italo sir vibrava scherni.
    Prorompe ei quindi in tracotante riso,
    E voltosi a Manfredo:—Ecco, gli dice,
    Quel che ne promettesti universale
    Amor per te de' Saluzzesi spirti!

      Poi dopo il riso atteggiasi a disdegno:
    —Tutti siete così! Promesse, vanti,
    Folli speranze! ed ardui indi i perigli,
    Lunghe le imprese, ed il mio re frattanto
    Per vantaggi non suoi perde i suoi prodi!
      —T'acqueta, dice con infinta calma
    Il fremente Manfredo; oltre poch'ore
    Non dureran gl'inciampi: un solo basta
    Gagliardo assalto, e il disporrem veloci.
      Mentre a dispor l'assalto ardimentosi
    Coopran gl'intelletti de' supremi
    E l'obbedir delle volgari turbe,
    Congegnando, apprestando armi, brocchieri,
    Ferrate travi e macchine scaglianti,
    E tutta la pianura è voce e moto
    E cigolìo di carri, e picchiamento
    Di mannaie che atterrano le piante,
    E stridere di pietre agglomerate,
    E in mezzo alle fatiche or la bestemmia
    E l'impudente ghigno, ed ora il canto—
    Dentro Saluzzo non minor s'avviva
    Il poter delle menti e delle braccia
    Per la sacra difesa. Ignoti e pochi
    Sono gl'interni traditori, e a mille
    Ardono i cuori allo stendardo uniti
    Del marchese Tommaso. Ei di que' prenci
    Magnanimi era, ch'ove rischio appaia,
    Brillan di nova luce, e più sublime
    Han la parola, e più sublime il guardo,
    E quasi per magìa destan ne' petti
    Della poc'anzi malignante plebe
    Amor, concordia, ambizïon gentile.
      Pressochè in tutte l'alme ivi obblïato
    È questo o quell'error che, apposto o vero,
    Jer gran macchia parea sovra Tommaso:
    Più non vedesi in lui che un assalito
    Posseditore di paterni dritti,
    Un amato signor, una man pia
    Che premiava e puniva e sorreggeva,
    E ch'uopo è conservar. Sì che la stessa
    Bellissima Riccarda, onde cotanto
    A' Saluzzesi dispiacea la stirpe,
    Più d'abborrita origine non sembra,
    Or che il popol la vede paventosa,
    Ma non già vil, dividere i perigli
    E le cure del sir. La sua bellezza
    Molce i fedeli armati; il suo linguaggio
    Più non suona stranier, benchè lombardo.
    E quand'ella e Tommaso, a destra, a manca,
    Parlan di speme nell'accorrer pronto
    Dell'armi de' Visconti a lor salvezza,
    Esultan gli ascoltanti e mandan plauso.
      Al declinar di quell'orribil notte
    Ugo nella invadente oste arrivava
    Con Eleardo, e trassero al cospetto
    Del regio siniscalco e di Manfredo.
    Alzò Manfredo un grido di contento
    All'apparir del vecchio, ed a Bertrando
    Lo presentò dicendo:—O sir del Balzo,
    Eccoti di Staffarda il presul santo,
    Colui, che per bell'opre onnipossente
    Fama sul popol di Saluzzo ottenne!
    Il cor certo gli splende a questa aurora
    D'un avvenir pe' nostri patrii lidi
    Più glorïoso e fortunato e giusto.
      Avvicinossi ad Ugo il siniscalco,
    E celando nell'alma dispettosa
    Il disamore e il tedio, un reverente
    Foggiò sorriso, e disse:—Anco il monarca
    Serba di te memoria, o illustre padre,
    E qui trionfo, non dall'arme tanto,
    Che ben darglielo ponno, egli desìa,
    Quanto dall'opra del tuo amico senno.
      Indi Manfredo ripigliò i motivi
    A spiegar della guerra, annoverando
    Frodi e stoltezze e ineluttabili onte
    Sul nome di Tommaso accumulate,
    Perchè ligio all'astuta Insubre possa,
    Ed uopi urgenti di riparo, e prove
    Che il maggior uopo a' Saluzzesi fosse
    E a tutta Italia l'unità d'omaggio
    Di quanti erano feudi al re Roberto.
      Ed Ugo ai cavalieri:—Il mio suffragio
    Certo sarìa per la comun concordia
    Sotto uno scettro o ghibellino o guelfo,
    Ma non basta d'afflitti animi il voto
    Perchè cessi il poter dell'ire antiche
    In un popol di stirpi concitate
    Ad aneliti varii e a varii lucri;
    E ragioni si schierano possenti
    Al mio intelletto, sì ch'io neghi al regno
    D'uno straniero in Puglia incoronato
    Il giunger con sua fama e co' suoi brandi
    A collegarci a reverenza e pace.
      —Pensa, o canuto, ch'alto assunto è il nostro:
    Degna è di te l'aïta.
                   —Aïta bramo
    Recarvi, sì: guisa sol una io scorgo.
      —Qual?
           —Del popolo agli occhi e degli armati
    Intercessor presenterommi a voi,
    E per relïgione ambi e clemenza
    Sospenderete le battaglie, e intanto
    A Napoli n'andrò. Placherò, spero,
    L'augusto re; lo distorrò da impresa
    Onde gli torneria danno ed obbrobrio;
    E se leso alcun dritto era a Manfredo,
    Per saldi patti ei risarcito andranne.
      —Proporne indugio alle battaglie è vano:
    Impermutabil di Roberto è il cenno;
    E mal vai profetando obbrobrio e danno
    A chi certezza piena ha di vittoria.
    Solo uno sguardo a nostre schiere volgi,
    E vedrai che Saluzzo oggi s'espugna.
      —Espugnarla potrete, ed il ricovro
    Forse tor del castello al vinto sire,
    E prigion trascinarlo, e dalle chiome
    L'avito serto marchional strappargli,
    E tu, Manfredo, ornartene la fronte.
    Io non ciò vi contendo; io, per l'antico
    Conoscimento mio di questa terra
    E degli animi suoi, sol vi dichiaro,
    Che al crollar di Tommaso, ardua e non ferma
    Vittoria avreste. In cor de' più, gagliarde
    Son le eredate ghibelline fiamme,
    Gagliarda quindi l'amistà a' Visconti,
    Gagliardo l'odio per le guelfe insegne.
    Picciol popolo siam, ma ci dan forza
    E l'arme de' Visconti e il nostro ardire,
    E l'indol Saluzzese, aspra, selvaggia,
    Che paure non piegan ne' supplizi.
      —Obblii ch'io pur son Saluzzese, e mai
    Non mi piegan paure.
                  —In te, Manfredo,
    Splenda il miglior degli ardimenti: quello
    D'anteporre alle gioie empie del brando
    Una gloria più pia, l'amabil gloria
    D'allontanar dalle tue patrie rive
    Una guerra funesta!
                   —Altra favella,
    Assumi, o vecchio. Se t'è caro ufizio
    Scemar l'orror d'inevitata guerra,
    Sposa il vessillo mio, movi alle mura
    Assedïate, i cittadini arringa,
    Traggili a sottopormisi.
                      —Non posso!
    Nol debbo! Ufizio mio giovevol solo
    Esser ponno le supplici parole,
    E l'aprirvi, quai Dio me li palesa,
    I forti avvisi. Trattenete i brandi,
    E se ingiustizia fu in Tommaso, al dritto
    Basteran le ragioni a richiamarlo,
    Ed indi a pochi dì voi satisfatti
    E glorïosi e senza ira di sangue,
    Benedetti dai popoli e dal cielo,
    Trarrete a vostre sedi. Ove sospinto
    Da ambizïone e da rancori antichi
    Tu inesorabilmente alla corona
    Di Saluzzo, o Manfredo, oggi agognassi,
    E afferrarla potessi, in odio fora
    Il nome tuo a' soggetti, e, pur volendo,
    Felici farli non potresti. Iniqua
    Necessità di gelosie e vendette
    Nasce da civil guerra, e l'usurpante
    Non si sostien fuorchè a perpetuo patto
    Di timori e carnefici. E si ponga
    Che dianzi mal reggesse il prence vinto,
    L'esser vinto o fuggiasco ovver sotterra
    Amicherà al suo nome i cuori molti
    Che offeso avrai; s'obblïeranno i torti
    Del perduto signor; s'abbelliranno
    Le ricordate sue virtù. Lui spento,
    Sorgeran prenci astuti o generosi
    Per vendicarlo, e s'anco astuti ed empi
    Fossero in cor, venereralli il volgo,
    Giocondo sempre d'abborrire un forte,
    Che per ingegno e vïolenza regni.
    E a cotal colleganza d'assalenti
    Quai son le forze che opporrìa Manfredo?
      —Le regie forze! esclama furibondo
    Il Provenzal barone.
                  —In molte guerre
    Il vostro re s'avvolge, Ugo ripiglia,
    E ove sia con gagliarde armi assalito
    Per altri lidi, a propugnarli io veggo
    Receder queste schiere, e te, Manfredo,
    Veggo fremente e povero d'acciari,
    E tradito da' tuoi!…
                   Qui del profeta
    Interrompon la voce i capitani.
    Egli alza il Crocefisso, ed umilmente
    Prega i superbi, e pregali pel nome
    Del Redentor. Respinto viene, e sorge
    Più d'un ferro dell'oste a minacciarlo.
      Scudo al monaco feansi alcuni prodi,
    E fra questi Eleardo. Il santo vecchio
    Di scherni non tremò, nè di minacce,
    E più fïate ripetè ai felloni:
    —L'impresa vostra maledice Iddio!

III.

    Di te, Religïon, nobile è ufficio,
    L'affrontare imperterrita coll'arme
    Delle temute verità i superbi,
    Pur con periglio d'onta e di martirio!
    E quell'uficio, oh quante volte i veri
    Sacerdoti di Dio forti adempièro!
    Talor sotto l'acciar de' vïolenti
    Perìan que' venerandi, e talor rotti
    E insanguinati, e carichi di ferro
    Venìan sepolti in erma, orrida torre:
    Nè dai tremendi esempi sbigottito
    Era il cor d'altri santi. E se la voce
    D'un'alma pura e consecrata all'are
    Da iniqui prodi spesso iva schernita,
    Pur non inutil pienamente ell'era:
    Schernita andava, ma ponea ne' petti
    Di que' feroci inverecondi un germe
    Che forse un dì fruttava; ed era un germe
    Religïoso di terrore. E in mezzo
    A tai feroci petti, alcun pur sempre
    Ve n'avea di men guasto, a cui l'ardita
    Sacerdotal, magnanima parola
    Or di cospicui presuli, or d'umili
    Fraticelli o romiti in patrocinio
    Degl'innocenti, era parola invitta
    Che con pronti rimorsi il tormentava,
    Sì che riedesse a carità ed onore.
      Compagno fessi al vecchio Ugo per molti
    Passi Eleardo oltre al terren coperto
    Da quelle schiere di crudeli armati,
    Indi, con grave d'ambidue cordoglio,
    Il nipote strappossi dalle invano
    Tenaci braccia dell'amato antico.
      Ahi! senza pro sclamava questi:—Oh figlio!
    Qui non m'abbandonar! Più fra quell'empie
    Insegne che il Signore ha maledette
    Pel labbro mio, deh non ritrarre il piede!
    Te ne scongiuro per la sacra polve
    Della mia suora, a te sì dolce madre!
    Te ne scongiuro per la polve illustre
    Del tuo buon genitore e de' nostr'avi,
    Che fidi cavalieri ed incolpati
    Furon sostegni tutti a chi in Saluzzo
    Stringea con dritto il signorile acciaro!
    Esci dal laccio che al tuo core han teso
    I rapaci stranieri! A me, alla patria,
    Al tuo prence ritorna. Infamia e lutto
    Sta con Manfredo, con Tommaso il cielo!

      Udìa Eleardo il prolungato grido
    Del supplice canuto, ed il veloce
    Corso intanto seguìa. Ma benchè sordo
    Paresse e irreverente, a lui que' detti
    Eran quai dardi all'anima commossa,
    E vïolenza a sè medesmo ei fea
    Non fermando il suo corso, e non volgendo
    Il piè per rigittarsi alle ginocchia
    Del caro supplicante. Il pro' Eleardo
    S'ostinava per varii ignoti impulsi
    A ritornar fra i collegati duci,
    Cercando creder ch'ei virtù seguisse,
    Ed Ugo fosse un tentatore, un cieco
    D'errori amico. Intende il cavaliero
    Ad ogni vil tentazïon lo spirto
    Incolume serbare: idolo intende
    Virtù, virtù, non larva farsi alcuna!
    Virtù vuol ravvisar, virtù secura
    Nelle giurate splendide fortune,
    Che il re Angioìno ai Saluzzesi e a tutta
    La penisola appresta. Ei quel monarca
    Ed i suoi capitani, e più Manfredo
    Vuol reputar veraci eroi. Ma pure….
    Ad onta del proposto, il sen gli rode
    Nascente dubbio irresistibil. Cela
    Questo dubbio, ma il porta, e così giunge
    Turbato, afflitto ai Manfredeschi brandi.
    A molti il cela, sì, non a sè stesso;
    E ondeggia alquanto, indi neppur celarlo
    Può al genitor della donzella amata,
    Guerrier, cui lo stringea più che ad ogn'altro
    Pia reverenza. E sì gli parla:
                          —Oh Arrigo!
    Appartiamci, m'ascolta: allevïarmi
    D'occulta angoscia non poss'io, se teco
    Non ne ragiono come a padre.
                        Il fero
    Barone attento il mira, e con presaga
    Severità:—Vacilleresti?
                      —Lievi
    Estimar bramerei del venerando
    Ugo le voci, e non so dirti quale
    In siffatte or benigne or fulminanti
    Parole di tant'uom, che onoro ed amo,
    Splender raggio tremendo oggi mi paia!
      Aggrotta il ciglio Arrigo, e l'interrompe:
      —Bada, Eleardo, che al rischioso passo
    Dopo lungo pensar ci risolvemmo;
    Or paventar nel cominciato calle
    Obbrobrio fora.
               Ma sebbene Arrigo
    Al giovin cavalier biasmo gettasse,
    Non men del giovin si sentìa colui
    Perturbato nel cor, per l'ardimento
    Del fatidico abate, e nel futuro
    Nubi scorger pareagli atre e sinistre.
    Dissimulava non pertanto, e saldo
    Stava come mortal che da gran tempo
    Il proprio senno e i proprii fatti adora.
    Tal era il truce Arrigo: ei mille volte
    Morto sarìa, pria che mostrarsi in gravi
    Opre dapprima certo, indi esitante.
      Il ferreo vecchio avea ne' precedenti
    Anni, coll'inquïeta ed iraconda
    Sua desïanza di giustizia e gloria,
    E col non mai pieghevole intelletto,
    Molti alla corte di Tommaso offesi.
    L'esacerbaron quelli, ed egli volse
    L'animo suo secretamente a' guelfi
    Ed a Manfredo, ivi lor duce occulto.
      Parve a Manfredo egregio essere acquisto
    L'amistà di tal forte, incanutito
    In severi costumi; e scaltramente
    Il seppe avvincolar con dimostranze
    Di sommo ossequio, affinchè il guelfo volgo,
    Affidato d'Arrigo alla canizie,
    Argomentasse tutti esser maturi,
    Tutti esser giusti gli audacissimi atti
    Cui Manfredo appigliavasi. Ahi! d'Arrigo
    La canizie coprìa pochi pensieri,
    Benchè gagliardi, e quell'ardito prence
    Consigli non chiedea, ma obbedïenza.
      Arrigo sè medesmo in alto pregio
    Reputa nella mente di Manfredo:
    A lui si crede necessario, e spesso
    Immagina que' dì, quando in Saluzzo
    Dominerà quel novo sire, ed ivi
    Migliorate n'andran tutte le leggi.
    Giubila e fra sè dice:—A tanto bene
    Della mia patria io dato avrò l'impulso!
    Io sono il genio di Manfredo! Io lui
    Illuminato avrò! Tener lontana
    Saprò da lui l'adulatrice turba,
    E gli ottimi innalzar! Beneficate
    L'adoreran le Saluzzesi terre,
    Ma unito al nome suo splenderà il mio!
      Sì grande speme ad Eleardo egli apre,
    Voglioso d'infiammarlo. Il giovin ode,
    Ma sta sospeso e mesto, indi ripiglia:
      —Rimaner con Manfredo obbligo è nostro,
    S'egli, mantenitor delle più sacre
    Fra le promesse, non vendetta anela,
    Ma podestà di padre, e di supremo
    Difenditor de' nostri antichi dritti.
    Chè s'egli, come d'Ugo oggi è temenza,
    Sol esca avesse ambizione ed ira,
    E gettasse la larva, e m'apparisse
    Malefico signor, oh! apertamente
    Gli disdirei servigio, e a cielo e terra
    Confesserei ch'io per error lo amava!
      Del magnanimo detto d'Eleardo
    Stupisce Arrigo, e corrucciato esclama:
      —Supposto indegno è il tuo! Pensa che solo
    A impermutabil, vero animo guelfo
    Sposa n'andrà dell'inconcusso Arrigo
    L'obbedïente figlia!
                  Il disdegnoso
    Vecchio si scosta, e resta ivi solingo
    Col suo dolore, e colla sua turbata
    Ma non corrotta coscïenza il prode
    Amante cavalier.
                —Volli del giusto
    Seguir la insegna, e voglio: in me desìo
    Altro capir non potrà mai! Sospetti
    Sol mi ponno assalir che non qui sorga,
    Non qui del giusto la bramata insegna.
    E se ingannato mi foss'io? Se falsi
    Scorgessi i dritti di Manfredo? Ligio
    Ad armi inique ratterriami forse
    Perfido orgoglio? O ad armi inique ligio
    Mi ratterrìa questa laudevol fiamma
    Che in petto chiudo per Maria, per tale,
    Che tutte illustri damigelle avanza
    In bellezza e virtù? Mi farei vile
    Per ottener la mano sua? Non mai!
    Amarti debbo degnamente, o donna
    Di tutti i miei pensier; debbo onorarti
    Ogni virtù seguendo e suscitando,
    S'anco per onorarti, ah! il più crudele
    Mi colpisse infortunio, e te perdessi!
      Del maggior tempio di Saluzzo all'alto
    Vertice non lontano erge le ciglia,
    E curvando ei lo spirto anzi alla croce
    Che colassù sfavilla, al Signor chiede
    Lume a scernere il vero e a praticarlo.
      Il divin lume balenogli e crebbe
    Al guardo suo ne' dì seguenti, alcuna
    Non vedendo in Manfredo esser pietosa,
    Verace cura nel funesto assedio
    Di tutelar gli oppressi e vendicarli,
    Mentre la invaditrice oste pe' campi
    S'andava ad ogni infamia iscatenando.
      A tutelare o vendicar gli oppressi
    Bensì Eleardo qua e là accorreva,
    Ma non di lui bastanti eran gli sforzi,
    Nè bastanti gli sforzi erano d'altri
    D'animo pari al suo cavalleresco,
    Che insiem con esso or s'avvedean fremendo
    Quanta in Manfredo, e ne' fratelli suoi
    Ed in Bertrando e nelle rie caterve
    Indol, non già d'amici eroi si fosse,
    Ma d'impudenti ladri e di nemici.
      Insin dal primo giorno i brandi iniqui
    Della straniera turba entro innocenti
    Tugurii sparser miserando affanno.
    Qui sgozzarono vergini inseguìte,
    Là genitori che alle amate figlie
    Difensori si fean. Volge ma indarno
    La sua voce imperterrita Eleardo
    Or a questo or a quel de' condottieri.
    Il siniscalco move il capo e ride,
    E Manfredo le accuse ode in silenzio,
    Guarda le torri di Saluzzo, e sembra
    Dir:—Che mi cal d'iniquità e di pianto,
    Purchè in breve là entro io signoreggi?
      Vengono a tutta la contrada imposte
    Inaudite gravezze, e ad ogni adulto
    Legge s'intima, sì ch'ei giuri ossequio
    Al marchese novel. L'abbominato
    Giuro negavan molti; indi tremende
    Carnificine a spegnerli, ed i tetti
    Diroccati e consunti dalle fiamme,
    E borghi interi in cenere ed in sangue!
      Fama nel campo giunge aver Lunello,
    Antico sir di Cervignasco, il giuro
    Negato agl'intimanti, e colà sorta
    Esser numerosissima una plebe
    A difender quel sir.—Temono i duci
    Che di Lunel la resistenza esempio
    Ad altri arditi feudatari avvenga,
    Ed invìan fero stuolo a Cervignasco,
    Che tutto abbatta, e in ogni dove insegua
    Il valoroso sire, e in brani il faccia.
      Consanguineo Lunello è d'Eleardo,
    Ed il giovin l'amava. Ahimè! non puote
    Questi il cenno arrestar, ma prontamente
    Scagliasi dietro all'orme de' ladroni,
    E moderarli spera, o spera almeno
    Sottrarre agli omicidi i cari giorni
    Del congiunto barone e de' suoi figli,
    O almen d'alcun di loro. Ah! dalle spade
    Distruggitrici invaso, saccheggiato,
    Pieno di strage è il borgo! Il prò Lunello
    Ferito fugge, e a stento si ricovra
    All'ombre sacre d'una chiesa, e seco
    Tragge l'antica moglie e le sue nuore
    E i lattanti nepoti. Ecco nel tempio
    I sacrileghi brandi! Ecco all'altare
    Abbracciate le vittime! Eleardo
    Entra, s'inoltra, grida: i truci colpi
    Eran vibrati! A' pie' di lui nel sangue
    Stramazzando Lunel, queste supreme
    Voci mettea:—Se tu Eleardo sei,
    Non prestar fede al rio Manfredo; imìta
    L'esempio mio: pria che avvilirti, muori!
      Dato alla chiesa il guasto, escon gli armati
    In cerca d'altre prede, e fra que' morti,
    Appo quell'ara, in disperata angoscia
    Resta Eleardo, e piange ed urla, e i crini
    Dalla fronte si strappa. Oh! chi l'afferra
    Gagliardamente per un braccio e parla?
    Il presul di Staffarda. Il qual veniva
    Di Lunel suo cugino ai dolci alberghi,
    Ed impensata vi trovò battaglia
    Ed orribile eccidio, e dalla fama
    Venne sospinto ai sanguinosi altari.
      Il braccio afferra del nipote, e dice
    Con autorevol grido:
                   —O sciagurato,
    Non di lagrime è d'uopo in queste colpe,
    Ma di nobil rimorso! A me la cura
    Lascia di queste miserande spoglie:
    Di giusti da feroci arme sgozzati,
    E volgi ad opre valorose. Espìa
    Il breve tuo delirio: appella, aduna,
    Suscita i forti delle valli. Insieme
    V'avvincolate con possenti giuri:
    Pio ghibellino ridivieni e pugna.
      Abbracciò il giovin cavalier le piante
    Del magnanimo zio. Questi con forza
    Lo rïalzò, gli ripetè il comando,
    Gli mostrò i consanguinei trucidati
    E il rosso altare e le spezzate croci;
    Raccapricciò Eleardo, il cor gl'invase
    Lampo di speme, si riscosse e sparve.
      Che avvien di lui, mentre lo zio infelice
    Riman nel tempio e fra dolenti voci
    D'alcuni inconsolati villanelli
    E di pietose donne, a tanti uccisi
    D'ultima carità rende gli ufizi?

      Strazïato Eleardo dal conflitto
    De' sinistri pensieri, asceso in sella,
    Simile a forsennato errò per vie,
    Per prati e per arene di torrenti,
    Chiedendo a sè medesmo e al ciel chiedendo
    Che fare omai dovesse. Un forte impulso
    L'agitava, e diceagli ad ogni istante
    D'obbedir senza indugio ai sacri detti
    Del morente Lunello e ai detti d'Ugo,
    Ridivenendo ghibellin. Ma in core
    L'astuto angiol del mal gli rinnovava
    Quel lusinglliero dubbio:—E se agli scempi
    Inevitati di que' giorni atroci,
    Che forse gettan falsa ombra maligna
    Sul benefico intento di Manfredo,
    Succedesser davvero inclite prove
    D'alto senno in Manfredo e di giustizia,
    Sì che alla patria giovamento e lustro
    Per lunga età tornasse? Impresa egregia
    Senza olocausti non compìasi mai,
    Nè per questi dar loco a terror debbe
    L'alma del forte, a giusta gloria inteso.
      Così fra le incertezze e le speranze
    E i rimbrotti del cor riede Eleardo
    Delle masnade assedïanti al campo.

IV.

    Miseramente ricca è d'infinite
    Fallaci industrie coscïenza, i cari
    Proponimenti ad abbellir, pur quando
    Luce severa di ragion li danna.
    Ma chi d'iniquità volonteroso
    Per l'infame sentier non move il piede,
    Sente per quel sentier, sebben cosparso
    Da inferne mani di stupendi fiori,
    Un ribrezzo frequente, un indistinto
    Fetor che si frammesce a que' profumi,
    Ed il ferma e il sospinge ad arretrarsi;
    Simile a que' timori innominati
    Che invadon ne' deserti il buon destriero,
    S'ivi non lungi s'accovaccia il tigre;
    E simile a que' taciti spaventi
    Che fanno impallidir la verginella,
    Quando in sembiante d'uom che di bellezza
    Adorno splende, ella ravvisa ignoto
    Lineamento, o non so qual favilla
    Nel sorridente sguardo, o non so quale
    Moto di labbro che le dice:«Trema!»
      In que' presaghi palpiti d'un core
    Ch'è vicino al periglio, e per potenza
    Misterïosa se n'accorge e guata,
    V'è la voce di qualche angiolo amante
    Che tutti sforzi a pro dell'uomo adopra:
    V'è la possa d'Iddio che lume sempre
    Bastevol dona a illuminar suoi figli.
      Vane di coscïenza in Eleardo
    Son le fallaci industrie: ei sulla fronte
    Porta il corruccio di talun che vive
    Fra scoperti ribaldi, e più li mira,
    Più inorridisce; e nondimen vorrebbe
    Insensato scusarli e amarli ancora.
      Oh come trista di quel dì esecrando
    Giunse la sera, e qual più trista notte
    Agitò ognun che, pari ad Eleardo,
    Alti e pietosi sensi ivi serbasse!
    Ma la dimane di quel dì pur troppo
    Sorse peggior! Repente una perfidia
    Entro le mura di Saluzzo avvenne,
    Che affrettò la caduta. In vari alberghi
    Scoppiano incendi orribili, ed il volgo
    De' cittadini si sgomenta, accoglie
    Di calunnia le voci. Un grido s'alza
    Esser Tommaso degl'incendi autore,
    Affinchè al buon Manfredo omai vincente
    Nulla Saluzzo fuorchè cener resti.

      Da poche mani congiurate i fochi
    Erano stati per le soglie accesi,
    E poche fur le labbra che dapprima
    Spargere osaro il grido abbominoso.
    Ma frenesìa nel popolo s'appiglia,
    E ratto si moltiplica il pensiero,
    Esser Tommaso un barbaro oppressore
    Abborrito dal ciel. Lui benedetto
    Asseriscon invan con generosa
    Gara i ministri delle chiese e i sempre
    Pacificanti Francescani e il colto
    Stuol di color, che stretti avea la legge
    Di Domenico santo all'esercizio
    De' forti studi e della pia parola.
    Benefiche potenze eran que' frati
    Sullo spirto de' popoli, e sovente,
    In tai secoli d'impeti e di sangue,
    Ma di gagliarda fè, coi gonfaloni
    Di Francesco e Domenico a feroci
    Animi imponean calma e pentimento.
    Ma spuntano ai viventi ore talvolta
    Di contagiosa irrefrenabil rabbia,
    E sotto ore sì infauste debaccava
    Del Saluzzese popolo assai parte.
      Dal di fuori frattanto a que' momenti
    Ecco irromper l'assalto! ecco le mura
    Scalate, superate! ecco Tommaso
    Astretto a ceder le abitate vie,
    A salir frettoloso all'alta rocca
    A lui ricovro ed a' suoi cari estremo!
      Non eccelsa metropoli prostrata
    Da infinite falangi era Saluzzo,
    Nè i suoi dolori fur soggetto a carmi
    Di stupefatte illustri nazïoni,
    Ma fur sommi dolori! E li divise
    Quel Iacopo da Fia, che vergò in forti
    Carte la istoria del tremendo eccidio.
    Ah, inorridisco in leggerle, e m'ispiro
    Io tardo trovadore al mesto canto!
      La fella di Manfredo anima irosa
    Crucciavan nuovi aneliti a vendetta,
    Perocchè a' piedi suoi sotto le mura
    Fracassati da travi e da macigni
    Dianzi veduto alcuni cari avea,
    E fra loro un fratello, il più diletto
    De' prodi e truci due degni fratelli.
      In ogni vinto armato cittadino,
    Ed anco negl'inermi e ne' vegliardi,
    E nelle donne stesse il furibondo
    Immaginava la nemica destra
    Ch'orbo l'avea di quel fratello, e tutti
    Ei sterminati indi li avrìa. Frenava
    Il proprio acciar, ma non frenava quelli
    Della brïaca moltitudin varia
    Ivi con esso a imperversar prorotta.
      Rifugge l'estro mio dalla pittura
    Degl'inauditi singolari strazi
    Che segnalàr quel giorno. Oh vane e stolte
    Speranze dei domati! oh retrospinte
    Preghiere fervidissime, innalzate
    Da' miseri che proni eran nel sangne
    De' figli loro o nel fraterno sangue!
    Oh giustamente non curati applausi
    Della stolida feccia scellerata
    Che menar volea festa ai vincitori,
    Liberator' chiamandoli, e mandati
    A raddrizzar tutti i plebei diritti!
    Oh inutil congregarsi trepidando
    Di lagrimose vergini e di madri
    E di fanciulli anzi ai predoni infami,
    Ricordando a costoro i dolci nomi
    Di pietà, di giustizia e d'innocenza!
    Oh ingiurie non dicibili! Oh colpiti
    Dalle scuri sacrileghe gl'ingressi
    Di più case di Dio, dove sgozzati
    Cadono antichi sacerdoti, e gioco
    Reliquie vanno e sacri vasi ai ladri!
      Tutto è dileggio e rubamento e morte
    Intero un giorno e la seguente notte,
    E già parte dell'armi e de' congegni
    Ratta si volge ad investir la rocca.
      Magnifico sorgea d'aprile un sole,
    E delle pompe di sì splendid'astro
    Raccapricciaron di Saluzzo i vinti,
    Lor macerie e cadaveri mirando,
    Quand'a lor s'apprestàr novelle ambasce.
      Clangor repente innalzasi di tromba,
    E nel nome abborrito di Manfredo
    Gridan gli araldi questo atroce bando:
    «Esser giusto castigo al contumace
    Popol de' ribellanti soggiogati,
    Ch'ivi su pietra più non resti pietra,
    E irremovibilmente or quel castigo
    Compiersi pria che il sol giunga all'occaso;
    Ma perdonata andare ancor la vita
    Ai puniti felloni, e per clemenza
    Che maggiormente moderi il flagello,
    Concedersi ad ognuno il portar seco
    Qual ch'egli serbi di tesori avanzo».
      Tal legge uscita, il raddoppiato pianto

    Chi dirìa degli oppressi? A que' lamenti
    Inesorata del tiranno è l'alma,
    Inesorata al supplicar di molti
    Infra suoi cavalieri e d'Eleardo:
    Forz'è ch'ogni abitante i cari tetti
    Sgombri innanzi la sera, e chi sa dove
    Ramingo vada. Non v'è tempo a indugi,
    E vedi con sollecito, confuso
    Moto d'alme avvilite e disperate,
    Fra i singhiozzi e fra gli urli incominciarsi
    L'infelice spettacolo. Agl'infermi
    Ed agli avi decrepiti sostegno
    Fansi gli adulti d'ambo i sessi, e cinte
    D'adolescenti e pargoli e lattanti
    Collacrimar vedi le donne. Ognuno
    Che già d'averi non sia privo, or seco
    Gli ultimi tragge vestimenti e arredi.
    Di sì misera vista i vincitori
    Gioìron crudelmente insin che tutta
    Fosse la turba delle case uscita.
      Frodolento il decreto era a sol fine
    Di scovrir se ricchezza aveavi ancora
    Che al saccheggio primier fosse sfuggita.
    Or poichè tutti di lor robe carchi
    Furono i cittadini, il rio Manfredo
    Misericorde spirito ostentando,
    Disse che rasi non andrian gli ostelli,
    Ma diè barbaro cenno alle coorti
    Che assalisser la turba, e d'ogni spoglia
    La derubasser. Così il vil tiranno
    Suoi debiti solveva ai masnadieri,
    Che a quel regno di sangue aveanlo alzato.
      L'inverecondo estremo predamento
    Desta a furor gli sventurati. Allora
    Più non resiste agl'impeti possenti
    Del suo sdegno Eleardo:—Io m'ingannai,
    Alto grida fra il popolo; io sognava
    Esser Manfredo della patria padre;
    Usurpator mi s'appalesa infame!
    Con lui rompo ogni vincolo, al cospetto
    Di voi, di lui medesmo!
                     Intorno al prode
    Cento gagliardi giovani un celato
    Ferro traggon dal seno, od ai nemici
    Tolgon con forza l'arme, e questo pronto
    Saluzzese drappello osa brev'ora
    Sperar prodìgi. Orribile, ostinato
    Combattimento per le piazze ferve,
    E più fïate incontrasi Eleardo
    Coll'iniquo Manfredo, e mescolati
    Sono i lor brandi valorosi indarno.
      S'incontrano Eleardo e Arrigo pure,
    E quei più volte può svenare il vecchio
    Ma con affetto filïal lo sparmia,
    Benchè Arrigo lo imprechi. Alfin dal troppo
    Numero sopraffatta è l'animosa
    Schiera de' cento, e arretra, e quasi intera
    Esce fuor delle mura, ed inseguìta
    Viene per la campagna infin che l'ombre
    Delle selve la involano ai crudeli.
      Intanto agli occhi di Saluzzo un nuovo
    Si compiva infortunio. In man degli empi
    Cade la rocca stessa, e prigioniero
    Indi co' dolci figli esce Tommaso,
    E tratti van gli sciagurati illustri
    In carceri diverse. Alta ventura
    Ancor si fu che in piena sua balìa
    Non li avesse Manfredo: ei li avrìa spenti.
    Il fero siniscalco uman s'è fatto,
    Sì perchè non abbietto era il suo core,
    Sì perchè astutamente al rio Manfredo
    Volea serbar temuto un avversario,
    E sì perch'egli al generoso senno
    Ed alle scaltre previdenze unìa
    Non leve sete d'oro: immenso chiede
    Pel vinto sir riscatto ai ghibellini.
      Ma che diss'io, nel provenzal barone
    Immaginando non abbietto il core?
    Qual fu pietà la sua, mentre di scherni
    Osò abbevrar fuor di Saluzzo, a' piedi
    De' trionfati muri, innanzi a tutte
    Le invereconde vincitrici squadre,
    L'illustre prigionier, lui dichiarando
    Spoglio di signorìa? lui dividendo
    Da' lagrimosi tenerelli infanti,
    Che al sir d'Acaia fur commessi e tratti
    Di Pinerol nella superba rocca?
      L'infelice Tommaso a sorso a sorso
    D'amara prigionìa sorbì la tazza,
    Prima in Cardato brevi dì, poi chiuso
    Di Savigliano entro il castel, poi tolto
    Maggiormente alla vista de' mortali,
    E seppellito in solitaria torre,
    Di Pocapaglia sovra l'erta cima,
    Indi levato da quel forse troppo
    Mal securo deserto, e fra le mura
    Di Cuneo inespugnabili nascoso.
      Non sì tosto compita, ahi! di Tommaso
    Fu la caduta dall' avito seggio,
    Volò del tristo avvenimento il grido
    Pe' saluzzesi piani e per le balze,
    E l'intese Eleardo entro a' suoi boschi.
    Disconfortati allora esso e i compagni,
    Depongon le arditissime speranze
    Accarezzate nella prima ebbrezza,
    O se tutti non vonno appien deporle,
    In avvenir remoto, indefinito
    Le vagheggiano omai. Son ripetuti
    D'amicizia fra loro e di costante
    Cor ghibellino i dolci giuramenti,
    E con dolor s'abbracciano bagnando
    Di lagrime fraterne i forti petti,
    E chi per questa sponda e chi per quella,
    A diverso destin ciascun si trae.

V.

      Oh fra i più strazïanti umani affanni
    Quello di non perversa alma che rea
    Ad un tratto si tiene, ove sciagure
    Piovon non tanto sulla sua cervice,
    Quanto sulle cervici de' suoi cari
    E dell'intera patria sua, ch'ei vede
    Agonizzar, nè può recarle aïta!
    E più quando quell'alma, in suoi terrori
    Disamata s'estima, e disamata
    Da tal cuor ch'era suo! da tal diletto
    Cuor, che per sempre ei scorge ora perduto!
    Così da lunge qua e là mirando
    E pensando a Maria, come colui
    Che vedovato delle sue pupille
    Pensa a quel sol ch'ei non vedrà più mai,—
    Giunge di nottetempo alla badìa
    D'Ugo il nepote, e chiede ivi l'ingresso.
      —Dov'è lo zio?
                 —Signor, finiti dianzi
    Erano i salmi, ed ei restò nel tempio.
      —Colà n'andrò.
                 —Perturberesti forse
    Le più calde sue preci. Odi, ti ferma.
      A tai voci non bada il cavaliero,
    Ed il portico varca, e l'infrapposto
    Varca esteso cortile, e al tempio move.
    Apre la porta, inoltrasi tremando;
    E della sacra lampada al pallore
    Scorge prostrato il solitario antico
    Appo l'altar. Questi repente s'alza
    Al rimbombo de' passi.
                    —Olà chi sei?
    Assaliti siam noi dalle masnade
    De' traditori? Oh che ravviso? Oh iniquo!
    Tu nella casa del Signor? T'arretra:
    Tinto di sangue cittadin tu vieni.
      Sino all'ingresso s'arretrò Eleardo,
    Confuso, esterrefatto, e dalle fauci
    Mettea supplici grida. Alfine a' piedi
    Dello zio inginocchiossi, e in abbondanti
    Lagrime ruppe; indi a' singulti amari
    Impose freno, alzò la fronte e disse:
      —Uomo di Dio, non maledirmi ancora,
    Porgi a mia strazïata anima ascolto!
      —Che di Saluzzo avvenne?
                         —Ell'è caduta!
    Saccheggiata! arsa!
                   —Che del sire avvenne?
      —Strascinato è prigion.
                        —Quali i pensieri,
    Quai sono i fatti di Manfredo?
                          —Orrendi!
      —E il proteggente provenzal vessillo?
      —Esulta negli oltraggi e ne' delitti!
      —E l'empio figlio di mia suora il brando
    Rotò per lor!
             —L'infame brando io ruppi,
    E qui vengo ad ascondere a' viventi
    La mia vergogna. E per quell'ara santa
    Giuro che illuso fui! Giuro che guerra
    Credei seguir magnanima, e salute
    Alla patria recar! Mi si è svelata
    L'ipocrit'alma di Manfredo alfine:
    Al par di te sue perfid'opre abborro,
    E disdico mie stolte ire nutrite
    Contro alla signorìa ch'oggi è crollata,
    E per Tommaso prego Iddio! e lo prego
    Che gli susciti vindici possenti,
    Sì che il traggan di carcere, e le insegne
    Espulsino straniere, ed ei risalga
    Al seggio avito, e il patrio suol conforti!
      —Oh Eleardo! mio figlio! àlzati; al cielo
    Chi delle colpe si ricrede, è caro.
    Piangi fra le mie braccia il breve fallo,
    E nobile fidanza indi ripiglia.
      —Unica posso una fidanza accorre
    Dopo tanto error mio; posso divina
    Misericordia chiedere e sperarla,
    Ma lontano dagli uomini, ma scevro
    D'ogni gloria del mondo. Io tutto perdo
    Ciò che più sorrideami, e affronto l'odio
    Del padre stesso dell'amata donna!
    L'odio di lei medesma! Alle terrene
    Cose son morto; seppellir qui voglio
    Tra penitenti angosce il nome mio!
      —Monaco tu? Vera sarebbe questa
    Vocazïon del Re del Cielo?… Ascolta.
      —Ugo, non contrastar; non mover dubbio
    Sulla chiamata che a me volge Iddio.
    Onor, dover m'astringono a deporre
    L'armi impugnate pel tiranno, e questa
    Ritratta mia decreto è che per sempre
    A me toglie la vergin ch'io adorava!
    Dopo tal sacrifìcio, il mondo spregio;
    Più non resta per me che o disperata
    Morte, o d'un chiostro il confortato pianto.
      —Figlio, se così scritto è dall'Eterno,
    Così sarà. Ma intanto a me l'Eterno
    Pon nell'alma un consiglio: odi e obbedisci.
      —Fede ti presto; obbedirò.
                         —Disdici
    Con voci ed opre apertamente il rio
    Vincol che ti stringeva agl'invasori.
    Gloria rendi al diritto; offri il tuo sangue
    Pel patrio suolo. Ingegno e braccia al sire
    Che oppresso giace e salvatori chiede,
    Generoso consacra. Eccita i forti,
    I deboli rincora, e lor rammenta.
    Che speranza e virtù prodigii ponno.
      Arrossiva Eleardo, impallidiva
    A questi detti, ed arrossìa di novo,
    E balbettava:—Obbedirò, ma…
                          —Tronca,
    Gli disse il vecchio, ogni esitanza, e parti.
    Servi al tuo prence ed a Saluzzo.
                             —Come?
      —Volgiti a Dio; t'ispirerà. T'adopra
    Sì che, per gara de' baroni, l'oro
    Di Tommaso al riscatto or si fornisca:
    Scuoti la possa de' Visconti, scuoti
    I nostri prodi. Combattete: egregio
    Acquista un loco tra' vincenti, o muori!
      —Ch'io snudi il ferro, e di Maria nel padre
    Forse mi scontri, e di svenarlo io rischi?
    Troppo, troppo dimandi. A me bastante
    Sforzo è perder Maria, qui seppellendo
    I giorni miei fra lagrime e rimorsi.
      —Più degna del Signor, dopo alti fatti,
    Riporterai qui la tua fronte, io spero,
    E non che il padre di Maria tu sveni,
    Di salvare i suoi dì forse avrai campo!
      Profetici parean gli atti, gli sguardi,
    E la voce del vecchio. E ciò dicendo,
    Forte afferrò la destra d'Eleardo,
    E dalla porta appo l'altar lo trasse.
    Ivi dalla parete una pesante
    Antica spada sciolse, e a lui:—La spada
    Quest'è che strinsi in gioventù, e di sangue
    Saracin l'abbevrai; prendila e pugna
    Com'io pugnava per fratelli oppressi.
      Eleardo s'infiamma; il sacro ferro
    Prende, snuda, lo bacia, il pon sull'ara;
    Attesta Iddio che il roterà sugli empi;
    Le preci implora del canuto, e parte.
      E quand'ei fu partito, Ugo prostrossi
    Novamente nel tempio, e pel nipote
    Orò gran tempo, insin che all'altro ufficio
    Mosser ver l'alba in coro i cenobiti.
    Allora il santo abate al pio drappello
    Disse:—Pregate per Saluzzo!
                        E pianse;
    E diè contezza dell'orrenda guerra;
    Ed i monaci in cor si rammentaro
    Parenti e amici, e lagrimaro anch'essi.
    Pregaron per Tommaso e pe' suoi fidi,
    E pregare altresì per gli oppressori,
    Solo Iddio supplicando a spodestarli
    Della vittoria che li fea superbi.

VI.

      In popol da' civili ire diviso
    Speranza poca è di salute, allora
    Che sol gagliarde fervono le incaute
    Anime giovanili, intente a còrre
    Bella, sognata, non possibil palma,
    Mentre della canizie intorpidito
    Vacilla il senno, sì che norma e freno
    Agli audaci inesperti alcuna sacra
    Fronte non sorge di guerriero antico.
      Mancanza tal di celebrato prode
    Che vero prode alla sua patria splenda,
    Nel colmo avvien de' tralignati tempi,
    E lunga indi stagion regna di pazzo,
    Sanguinoso dominio e d'anarchìa,
    Molteplice opra di fanciulli eroi,
    Fintanto che spossati e fatti vili
    Piegano il collo a tranquillante giogo.
      Non a tal segno eran corrotti i giorni
    Di Saluzzo ch'io canto, abbenchè tristi.
    Gioventù inferocìa, ma valorosi
    Vecchi brillavan sui crescenti ingegni
    Per nobil fama di bontà e prodezza.
      Fra tai canuti un prence grandeggiava,
    E Giovanni era, l'invincibil sire
    Dell'alte torri di Dogliani. Ei nato
    All'avo di Tommaso era fratello,
    E niun de' feudatarii dominanti
    S'agguagliava a Giovanni in virtù schiette
    D'amico e padre e leal servo a quelli
    Che abbisognavan di consiglio o scampo.
    In dì lontani ei superava i mille
    Cavalieri compagni in patrie pugne,
    Ed in pugne oltremar, sotto il vessillo
    De' campioni di Cristo: or men robusto
    È il braccio suo, ma pronta sempre e forte
    La intelligenza e immacolato il core.
    Grande è la fè del venerato prode
    Pel suo nipote or prigionier, ch'egli ama
    Siccome dolce padre ama il suo figlio,
    E ad un tempo siccome un pio guerriero
    Ama il signor cui vassallaggio debbe.
      Giovanni con baroni altri devoti
    A ghibellina parte ed a Tommaso
    S'adopravan solleciti, sì ch'oro
    Adunar si potesse e adunar gemme,
    Al fine urgente di comporre il chiesto
    Spaventoso tesoro, onde al marchese
    E a sua progenie libertà riedesse.

      Un dì alle sale di Dogliani aveva
    A non lieto convito egli parecchi
    Fervidi amici accolto, a consultarsi
    Coi lor fidi intelletti e a stimolarli,
    Prodigando con bello accorgimento
    Lodi e parole di speranza e preghi.
    Dopo la mensa i congregati forti,
    Nel bollor de' pensieri e de' colloqui,
    Facean di voci rintronar le auguste,
    Adornate di ferri, alle pareti,
    Allor ch'entrò il valletto d'armi, e nunzio
    Fu dell'arrivo d'Eleardo.
                       Al nome
    D'Eleardo s'aggrottano le ciglia
    De' ghibellini.
               —Ingresso entro tue mura
    Darai, Giovanni, all'arrogante guelfo?
      —Venga il fellon. Certo, Manfredo il manda:
    Udirlo giova.
             Non sapeano alcuni
    Infra quei generosi fremebondi
    Ch'Eleardo si fosse un di coloro,
    I quai, vedute l'ultime rapine,
    Disperata battaglia avean con gloria,
    Benchè indarno, arrischiato entro Saluzzo.
      Ei nella sala addotto vien. Severo
    Salutevole cenno appena a lui
    Movon gl'irati ghibellini.
                        —Donde
    Tu, guelfo, a me?
                 —Sir di Dogliani, al cielo
    Piacque arricchir le avite mie castella
    Di non lieve tesor. Vedi tal borsa
    E orïentali perle ed adamanti,
    Che saranno alcun che, perchè s'affretti
    Dell'infelice signor mio il riscatto.
      —-Che veggo? Agli occhi miei creder poss'io?
    Tu che a Manfredo!…
                   —A lui sacrato ho l'armi
    Credendol pio liberator: lo vidi
    Menzognero e tiranno, e gli ho disdetto
    Il non dovuto mio servigio.
                         Ai torvi
    Cavalieri asserenansi le fronti:
    Esultan, cingon l'arrivato prode,
    Gli stringono la destra, e per quegli ori
    Da lui recati, soverchiare omai
    Veggion quanto al riscatto era mestieri,
    E benedicon Dio.
                Quel dì medesmo
    Andò il sir di Dogliani al regio campo;
    La libertà ricomperò del prence
    E de' figli di lui; volaron messi
    A Cuneo, a Pinerolo: e nel seguente
    Giorno redenti uscirono il felice
    Padre dai torrïon che il Gesso bagna,
    E dall'altra fortezza i giovinetti,
    E si rïabbracciar con dolce pianto;
    E dal suolo, natìo trasser raminghi
    Con Riccarda all'Insùbre ospitai reggia.
      Gli esuli amati accompagnò Giovanni
    Con altri pochi; e fra costor v'avea
    Un cavalier cui nascondea il sembiante
    Ferrea visiera. Di Dogliani il sire
    Narra per via a Tommaso, onde l'estrema
    Voluta somma gli venisse. Il prence
    Chiede ove sia il benefico Eleardo;
    E il pro' Giovanni sottovoce:—Vedi
    Quel cavalier che le sembianze cela,
    E accostarsi non osa: egli è Eleardo.
    Sino a' confini ei t'accompagna, e poscia
    Rieder vuole a sue torri, e mantenervi
    L'insegna tua ed apparecchiarti aiuti
    Pel dì che il ciel te chiamerà a vittoria.
      Serbar silenzio non potè il commosso
    Esul marchese, e, volto il palafreno,
    Ad Eleardo s'accostò, e per nome
    Chiamandol con affetto,—A te perenni
    Sien grazie, disse; or mi si svela quanto
    Debitor ti son io.
                  Balzar di sella
    Volle e prostrarsi il giovin, ricordando
    La frenesìa che inimicollo al sire.
    Ma smontò questi insieme, e lo rattenne
    Con vivo amplesso, e intorno al cavaliero
    Venner anco Riccarda e i dolci figli,
    Mercè rendendo, chè senz'esso lunga
    Durar potea la prigionìa tuttora.
      Più da temersi non parea Tommaso
    A' nemici frattanto, e sovra lui
    Liete canzoni alzavano beffarde.
    Ma tacquer le canzoni indi a non molto
    Al grido inaspettato, esser Tommaso,
    Non nella reggia de' Visconti, in vana
    Mestizia ed in abbietti ozi sepolto;
    Bensì già di colà rapidamente
    Tornato a' gioghi saluzzesi, in mezzo
    A falange d'armati, inalberando
    Il vessillo di guerra.
                    Allor Manfredo
    Sovra il suo seggio impallidisce, e copre
    Il timor collo sdegno, alto sclamando:
      —La prima volta i dì sparmiammo al tristo;
    In nostre mani or riede, e, qual lo merta,
    Guiderdon di sua audacia avrà la scure.
      Solleciti provveggono Manfredo
    E il sir del Balzo al moversi di lance
    Che di Tommaso sperdano i fautori,
    E s'odon rinnovar le invereconde
    Del patrio ben promesse. Odonsi voci
    D'increscimento onde si dice afflitto
    Degli scempii Manfredo. Odonsi voci
    Di futura clemenza irrevocata,
    E di leggi paterne, e di novello
    Tribunale integerrimo, e d'onori
    A chi giovi col senno e colla spada
    Al marchese, allo stato, ai sacri altari.
      Uso antico, perenne è di potenze
    Su rapina fondate, allor che spunta
    Il giorno del periglio, il serrar l'ugne
    Sovra l'oppresso volgo e accarezzarlo,
    E sfoggiar mire eccelse a sgombrar tutti
    Alfin gli avanzi de' passati danni.
      Di nuovo suona piucchè mai d'astuti
    Stranieri l'eloquenza: essi la mente
    San di Roberto; un re sì pio, sì grande
    Ne' benefici intenti, unqua non visse.
    Ei vuol felice Italia, ei vuol felici
    I prodi Saluzzesi. Attribüirsi
    Non denno a lui nè a' capitani suoi
    Nè all'ottimo Manfredo i brevi strazi
    Recati dalla guerra al marchesato.
    Si saneran le cicatrici, e in loco
    Della prisca Saluzzo, è già decreta
    Sulle rovine sue più vasta e bella
    E forte una città che degna appaia
    Di cotanto dominio, e faccia invidia
    Alla rival Taurino. Al guelfo rege
    Cosa non è che sì altamente prema,
    Come il dispor che a' piè dell'Alpi sia
    Il regio feudo Saluzzese un nido
    Glorïoso di prodi, atto a far fronte
    Ai vicini avversari. Indi i confini
    Di questo feudo estendere or si vonno,
    Sì che divenga ampia duchea gagliarda,
    A' Visconti terrore ed a' Sabaudi.
      Tal dipintura offerta è dagli scaltri
    Alle volgari fantasìe. Nè il lustro
    Della reggia di Napoli si tace,
    Che l'egual non fu visto, e il portentoso
    Incivilir de' popoli ove impulso
    A piena civiltà dona sì forte
    Il gran Roberto; il gran Roberto, amico
    Di dottrine e bell'arti; il gran Roberto
    Che pone il core in luminosi ingegni,
    E più in Petrarca, uomo divino, a cui
    Sulle chiome Roberto in Campidoglio
    Metteva fregio d'immortal corona.
    E si dice che tosto il re a Saluzzo
    Con Petrarca verranne e coll'arguto
    Narrator di Certaldo, il cui volume
    Fra le più vaghe istorie annoverati
    Ha d'una sposa Saluzzese i vanti,
    Onde per tutti d'Occidente i regni
    L'alme gentili, in onorar Griselda,
    Onoran di Saluzzo il caro nome.
      Ed in qual secol e in qual mai contrada
    Mancaron voci splendide e robuste
    Ad adular la moltitudin cieca,
    Schernendo quasi barbara e compiuta
    La vicenda de' scorsi anni infelici,
    E asseverando ch'ora alfin comincia
    L'età de' veggentissimi intelletti?
    Ma tempi v'ha più di prestigio ricchi
    Per quest'amabil fola; e simil tempo
    Era quel di Roberto e delle tante
    Suscitate degl'Itali speranze,
    Ch'indi la morte di quel re disperse.
      Tai brillanti menzogne avriano forse
    Illuso ancor le Saluzzesi valli,
    Se a governar l'esercito severa
    D'un retto capitan sì fosse stesa
    La destra allor, frenando de' guerrieri
    L'esecranda licenza. Al siniscalco
    Tanta giustizia non premea; invocata
    Venìa talor, ma indarno da Manfredo.
    Ambo imperar voleano, e il Provenzale
    Non consentìa che un suo guerrier giammai,
    Per quante iniquità sui vinti oprasse,
    Colpevol fosse detto e avesse pena.
      Del supremo stranier la tracotanza,
    E quindi le ribalde opre di mille
    Armati suoi sovra l'inulta plebe
    Qui riprodusser quel furor, che visto
    S'era in Sicilia poco innanzi, quando
    Per l'isola scoppiar vespri di sangue.
    Se non che men secreti i Saluzzesi
    Scorger lasciaro improvvidi le trame,
    E più avveduti e unanimi vegliaro
    Gl'investiti oppressori alla difesa.

    Tace il mio carme i varii assalti e i varii
    Destini delle insegne ora fuggiasche
    Or vincitrìci. Sempre a' ghibellini
    Anima principale era il Dogliani,
    Come già tempo il Procida a sue terre,
    E fra i ministri al suo comando egregi
    Splendea per senno e per virtù Eleardo.

VII.

    Amor di patria in vani sogni il core
    No, non agita allor, ma di divina
    Potenza il nutre e lo sublima, quando
    Svolgesi in terra da stranieri oppressa:
    Allor non dubbia è sua purezza; allora
    Tutte s'intendon l'alme generose
    Che fremono del giogo; allor divisi
    In discordanti aneliti e dottrine
    Non son nobili e volgo: unica han meta
    L'espulsïon delle insultanti spade,
    E della prisca dignità il ritorno.
      Quanto in que' dì contrario al patrio bene
    Fosse pe' Saluzzesi il guelfo spirto,
    Meglio comprese ognuno all'improvvisa
    Morte del vecchio provenzal monarca.
    Orbo questi del figlio, al debil pugno
    Della nepote abbandonò lo scettro;
    E della incauta il leve cor s'avvolse
    In infelici amori, e la sua fama
    Fu dalla morte del trafitto sposo
    Più orrendamente deturpata, e i novi
    Mariti la tradìan, sin che il feroce
    Vendicator carnefice a lei fessi.
      Sceso Roberto nella tomba, crebbe
    Per tutta Italia il ghibellin coraggio,
    E si volser de' più le speranzose
    Ciglia novellamente alle promesse
    Della potente signorìa Lombarda.
      Moltiplicati vidersi gli esempli
    Di fraterna concordia e di valore
    Ne' nostri lidi Saluzzesi. Al bello
    De' popoli fervor corrispondea
    La virtù di Tommaso: egli emulava
    De' suoi più forti la prodezza. Il nome
    Di Tommaso era sola indi una cosa
    Col nome della patria al cor de' giusti;
    E da lunga, sfortuna raffinato,
    Il suo spirto gentil s'affratellava
    Sinceramente co' minori, e segni
    Dava di gratitudin commoventi
    A cavalieri e ad infimi mortali
    Che ponean fede in esso, ed olocausto
    Con lui fean degli averi e della vita.
      Godea l'animo a tutti i generosi
    In vederlo onorar gli alti consigli
    Del canuto Giovanni. Eran Tommaso
    E di Dogliani il sir qual figlio e padre,
    E il portentoso vecchio corregnando
    Söavemente sulle suddit'alme
    Più e più le affidava. Alcune volte
    Lievi nascean principii di discordia
    Nelle diverse ghibelline schiere,
    Perocchè a' Saluzzesi andavan misti
    Sotto il vessillo di Tommaso e Insùbri
    E assoldati Germani. Alla parola
    Dell'antico Giovanni i dissidenti
    Animi s'acquetavano, e sebbene
    Cagion di lagno non restasse agli altri,
    Pur gioìa il Saluzzese, ognor veggendo
    Che anteposto a lui mai nell'intelletto
    De' sommi duci lo stranier non era.
      L'opposto caso tuttodì avvenìa
    Nella parte de' guelfi. Il rio Manfredo
    Dell'odio de' nativi esacerbossi
    Più feramente ciascun giorno; e volle
    Col terror contenerli: indi suprema
    Grazia spargea sugli esteri comprati,
    E verso ogni nativo anco più fido
    Scorger lasciava diffidenza ed ira.
      Giunse a tal, ne' suoi dì più disperati,
    La tirannide sua, che i prigionieri,
    Se patria avean la saluzzese terra,
    Considerava ribellanti degni
    Dell'ultimo supplizio, e senza indugio
    Strage ne fea. Tal rabida inclemenza
    Costrinse i ghibellini a rappresaglia,
    Sì che perdòn più non brillò sui vinti.
      A quel tempo si vide in ambo i campi
    Accorrer di Staffarda il santo abate,
    Misericordia supplicando invano
    Pe' guerrieri captivi. A lui Manfredo
    Con vilipendio rispondea, sgozzando
    Innanzi a lui le vittime, e nell'altro
    Campo l'udìano con ossequio i prodi,
    Ma rispondean che giusto uso di guerra
    Stabilìa le vendette, unico modo
    A frenar gli avversari in tal barbarie.
      Per tutti gl'immolati Ugo gemea,
    E notte e giorno l'atterrìa il timore
    Che prigion di Manfredo in qualche pugna
    Eleardo restasse. Ah! insiem con esso
    Un altro cuor da quel pensier tremendo
    Era a que' tempi strazïato: il cuore
    Della figlia d'Arrigo. Avea creduto
    L'infelice Maria poter nemica
    Vivere ad Eleardo, allor che intese
    Ch'ei dipartito dalle guelfe insegne
    Alla destra di lei più non ambiva.
    L'avea davvero alcuni dì abborrito
    Com'uom che lei tradìa, com' uom che l'armi
    Tradìa de' generosi. Ah! nel sincero
    Animo della vergin quello sdegno
    Fu breve fiamma, e sfavillò al suo ciglio
    De' ghibellini la giustizia, e pianse
    Riconoscendo in qual funesto errore
    Il padre s'avvolgesse. Ella in Envìe
    Nel paterno castel traea la vita
    Colle dilette ancelle, trepidando
    Pel genitore e per l'amante. Ascesa
    I passegger vedeanla da lontano
    Su questo ovver su quel dei sette grigi
    Torrïoni d'Envìe. La sventurata
    Scorgea nella pianura o sovra i colli
    Gl'incontri delle avverse aste feroci,
    E talor le parea per que' remoti
    Lochi discerner dal fulgor degli elmi
    Arrigo od Eleardo, od ambidue
    Cozzanti insiem. Prostravasi la pia
    Lagrimando e pregando il Re del Cielo
    E la Donna degli Angioli; e sovente
    Restava lunghi giorni il dilicato
    Corpo affliggendo con digiuni, e intere
    Vigilava le notti in calde preci,
    I proprii patimenti a Dio offerendo
    Per la salvezza de' suoi cari. E seco
    Viveano in lutto e assidua penitenza
    Le fide ancelle e antichi servi. L'alme
    Angosciate si schiudono a paure
    Di superstizïone. Or dalla torre
    Nelle nubi scorgean croci di sangue,
    E sembianze di scheletri, e l'immensa
    Falce e dell'Angiol della morte il pugno;
    Or di sciagure sovrastanti indizio
    Lo strido era dell'ùpupa ed il mesto
    Urlo notturno dell'errante cagna;
    Or dagli armati servi a mezzanotte
    L'estinta madre di Maria s'udiva
    Singhiozzar nel sepolcro, o lentamente
    Scoperchiarlo ed uscirne, e per le brune
    Scale salire, ed appellar con fioca
    Voce il marito o la diletta figlia.

      A calmar quelle ambasce e que' terrori
    E a consolarsi fra i soavi amplessi
    Dell'innocente vergine, il cruccioso
    Padre venìa talor. Con duri modi
    L'aspreggiava e garriala del suo pianto,
    Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci
    La supplicava d'innalzar pe' guelfi.
      E nelle rughe della smorta fronte
    Ella più e più leggea del genitore
    I sinistri presagi. Insinüante
    Sonava un non so che nella pietosa
    Voce di lei che costringea il canuto
    A poco a poco a palesarle occulti
    Sempre novi dolori.
                   Un dì le disse:
    —Più non pregar pe' guelfi! abbandonati
    Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze
    Il superbo Manfredo: i miei consigli,
    I preghi miei non cura. Adulatrici
    Parole ei vuol; darle non so. Un drappello
    D'infami lusinghieri applaude a tutte
    Sue tirannie, le suscita, il fa cieco
    Stromento a loro insazïabil sete
    Di tesori e vendette. Apportar senno
    Volevamo e giustizia; abbiam delitti
    E stoltezza apportato. Ad uno ad uno
    Da noi si dipartìano i prodi amici:
    Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo
    Dell'estrema ignominia!
                     —Oh sciagurate
    Voci! oh misero padre! I vaticinii
    Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo
    Lascia tu dunque di Manfredo: accetta
    Di Tommaso la grazia!
                   —È tardi, o figlia!
    Errò Manfredo, ma infelice il veggo:
    Mai da prence infelice non si scosta
    Fuorchè il vigliacco!
                   —Oh padre amato, pensa…
      —Che vigliacco non son, che con Manfredo
    Debbo cader.
            —Mai di vigliacco taccia
    Ad Eleardo non darassi.
                     —Ei corse
    Quando da noi si svincolò, a bandiera
    D'un prence espulso: audace era il partito,
    Ma generoso. Non così oggi fora,
    Correndo a sir cui la fortuna arride.
    Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto:
    Dimane si combatte, e se non opra
    Per noi prodìgi Iddio… dimane, o figlia,
    Più non hai padre!
                  —Oh feri detti!
                              —Io vengo
    L'ultima volta a benedirti forse:
    Con vigor di te degno, odimi: stirpe
    Di codardi non siam. Tergi le ciglia,
    Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta:
    Un patto pongo al benedirti.
                        —Quale?
      —Bada che guelfo io moro, e maledetta
    Sarà tua man se a ghibellin la porgi!
      —T'affida, o padre: intendo. Amo Eleardo,
    Ma te guelfo perdendo, a ghibellino
    Moglie mai non sarei!
                   —Tutti il Signore
    Dunque sul capo tuo spanda i suoi doni!
    Me sol, me sol de' falli miei punendo,
    Sparmii l'anima tua!
                  Disse. Ad un servo
    L'accomandò; da lor si svelse e sparve.

VIII.

    Infelici ambidue!—Ma più infelice
    Forse d'ogni innocente addolorato
    È quel mortal che temerario corse
    A illusïoni infauste, onde tormento
    Ineluttabil ridondò a' suoi cari!
    Oh come allor, nella pietà ch'ei sente
    Di questa o quella vittima diletta,
    Tardi vede primier debito d'uomo
    Esser religïon, carità, pace,
    Provvedimento a dolce sicurezza
    Di domestiche gioie, e non desìo
    Imprudente di gloria e di perigli.
      Tal verità gli splende, or che non puote
    Più sollievo ritrarne il vecchio Arrigo;
    E forte è assai per sè medesmo in tutte
    Avversità, ma non è forte, al duolo
    Della figlia pensando, e sebben mostri
    In mezzo a' suoi guerrieri animo invitto,
    Spesso ei nel manto si rinchiude e piange.
      Tre dì Maria si stette in disperati
    Non cessanti delirii:
                   —Empio Eleardo!
    Perchè movevi alle felici insegne
    Destinate al trionfo, e il padre mio
    Per dolci preghi e dolce vïolenza
    Teco a salvezza non traevi? Oh fossi
    Tu restato co' guelfi! il valoroso
    Tuo braccio avriali sostenuti. Un prode
    Fatal perdemmo in te: spesso deciso
    A pro de' ghibellini hai la vittoria.
    Possente impulso hai dato alla fortuna
    Del profugo Tommaso: alta, primiera
    Cagion tu sei delle sconfitte nostre.
    Ah, non m'amavi, ingrato! E insino ad ora
    Io figlia iniqua, immemor de' perigli
    Del caro padre mio, secretamente
    Alzato sempre voti ho pe' tuoi giorni!
    Que' voti abborro! quell'amor disdico!
    Il padre mio si serbi! il padre vinca!
    Il padre atterri i suoi nemici, i miei!
    Guelfa, guelfa son io! Mendace è il grido
    Che di virtù civile ai ghibellini
    Or dona palma. I nostri petti infiamma
    Vero di patria amor: calunnïato
    È Manfredo da voi; calunnïato
    È il padre mio, di giuste opre seguace;
    Ma vinti siamo, e il mondo vil ne impreca!
      Così l'immenso affanno isconsolata
    Iva Maria sfogando; e avvicendava
    Accenti d'ira e di pietà, e d'umìle
    Fervida prece. E promettea al Signore,
    Se dagli eccidii salvo andasse il padre,
    Essa tutrice farsi ad orfanelli,
    A vedove, ad infermi, a pellegrini,
    E tutti gli anni un dono offrire eletto
    Sì di Riffredo al monister famoso,
    Sì ad altri santi d'innocenza asìli.
    Ella avrebbe voluto alle promesse
    Che le dettava il core, aggiunger quella
    Di cingere in Riffredo il santo velo,
    Ma la meschina non potea, pensando
    Al solitario padre orbo di figli!
    Ed, ahi, forse non conscia ella a sè stessa,
    Anco pensava mal suo grado ognora
    A colui, che ne' scorsi anni felici
    Erale stato così caro!
                    Oh come
    La infelice Maria sta dalla torre
    Investigando ogni lontano moto
    D'armi o di passeggieri, ed in lei cresce
    Indicibil timor ch'ella securo
    Presentimento d'alto lutto estima!
      Chi son que' duo che sull'arcion veloci
    Movon per la pianura? Ad essi lunghe
    Soverchiamente son le usate strade,
    E là passano un rio, là per gli sterpi
    D'una macchia s'inoltrano, agognando
    Il più diretto corso. Alla borgata
    Pareano volti di Revello, e pure
    Quivi non si soffermano, e alla terra
    Certo d'Envìe sospingono i cavalli.
    Oh di Maria nell'anima dubbiante
    Ansïetà novella? Or si protende
    A guardare in silenzio, or si dispera,
    E grida e trema di saper chi sièno
    Que' frettolosi. Omai discerne alfine
    Che non guerriera è la lor veste; e poscia
    Sospetta, avvisa che l'un d'essi il giusto
    Presule sia col fido laico. Un dubbio
    No, più non è; son dessi!
                       A quella vista
    Le ginocchia le mancano, ma i sensi
    Non perde ancor. La reggono le ancelle,
    E la misera esclama:—Ugo! tu vieni
    A me del padre ad annunciar la morte!
      Ma quando intese appo il castel d'Envìe
    Scalpitare i corsieri, allor sì grande
    Fu la tema e il dolor, che appieno svenne.
      Ahimè! spenta la credon qualche tempo
    Le ancelle e i servi. Alfine in sè ritorna,
    Ed entrar vede pallido, turbato,
    Lagrimoso il canuto.
                  —Il padre mio…
    Parla… dov'è sua spoglia?
                         —Ei vive ancora;
    Ma prigionier, ma dalla cruda legge
    Che a morte danna i prigionieri, oppresso!
      —Oh sventurato! oh più felici quelli
    Che in battaglia cadeano! E tu a supplizi
    Lasci lui trarre? Intercessor non debbe
    Uom di Dio farsi a disarmar le atroci
    Ire de'vincitori?
                 —Ah! da te sono,
    O vergine, ignorati i vani sforzi
    Che tentai da Tommaso! I suoi nemici,
    Or volgon pochi dì, sacrificaro
    Barbaramente dieci illustri teste
    Di ghibellin captivi. Universale
    Nell'oste ghibellina è quindi il grido,
    Che gl'immolati abbian vendetta. Arrigo
    Morrà domane con nov'altri: il cenno
    Tommaso niega rivocar; respinto
    Venni da lui. Prova sol una or resta:
    Seguimi al campo: sforzerem l'ingresso
    Della tenda del sir; forse il tuo pianto
    Ammollirà il suo nobil cor, dai truci
    Fatti d'alterna rabbia incrudelito.
      —Il ciel t'ispira: andiam.
                         Rapidamente
    La vergin s'allestì; rapidamente
    Ella e pochi fedeli in sui corsieri
    Volser con Ugo al saluzzese campo.
      Ad un tronco giaceva incatenato
    Tra i furenti nemici Arrigo, a breve
    Di Saluzzo distanza. Ei siccom'uomo
    Che avea la gloria di Saluzzo amata
    Vagheggiando per essa e per Manfredo
    Fortune alte, impossibili, or mirava
    Con istupor, qual visïon non vera,
    Quell'ultima sconfitta, e quell'orrendo
    Svanir d'ogni speranza, e quel ritorno
    De' ghibellini e di Tommaso, e quella
    Guerra in veloci tratti or consumata
    Con nessun frutto, fuorchè stragi e scherni
    E povertà ed obbrobrio e sacrilegii!
    E tutto ciò per vicendevol, grande,
    Creduto zelo di virtù e di patria!
      E innanzi a lui mirando egli quel loco
    Dove a prosperi dì sorgea Saluzzo,
    E dove diroccato oggi è il recinto,
    E dentro quel, fra orribili macerie,
    Non v'ha che rari antichi alberghi e templi
    Con negri campanili, e qualche novo
    Incominciato cittadino ostello,
    Sente Arrigo la dura alma infiacchirsi
    Da pietà inusitata. Ei nella foga
    Delle gioie guerresche avea con occhi
    Di ferocia le fiamme un dì veduto
    Ed il saccheggio devastar Saluzzo.
    Or cessata l'ebbrezza, il cavaliero
    Delle avvenute iniquità s'affligge,
    E dice mal suo grado:—Ecco onde il CieIo
    Manfredo e i guelfi e me con lor condanna!
      Poi caccia quel pensiero, e, benchè rieda,
    Celarlo vuole, e alta la fronte ei tiene,
    Con dispregio guardando i vincitori.
      Cacciar vorrebbe altro pensier più dolce,
    Ma in un più divorante. Ei nelle meste
    Sale d'Envìe scorge la figlia, ed ode
    Il miserando suo lamento, e sola,
    Orfana, senza prossimi congiunti,
    Senza soccorsi d'amistà la mira;
    E le canute palpebre di pianto
    Amarissimo grondano e i singhiozzi
    Frenar non puote, e colle scarne mani
    Si copre il volto per vergogna e rugge.
      Un de' custodi come un tempo i falsi
    Di Giobbe amici, lo compiange e incuora.
      —Non avvilirti, o prode; in cielo è scritto
    Il destin de' mortali; adorar sempre
    Dobbiam di Dio gl'imperscrutati cenni:
    Non accettarli è codardia e bestemmia.
      —Taci, impudente ghibellin; m'è noto
    Che giusto è Iddio, che i falli miei punisce,
    Che l'are sue mal onorai, che vissi
    D'ira e d'orgoglio più d'ogn'uom, che merto
    Cader per mani inesorate e inique.
    Non mi ribello contro a lui; non biasmo
    Il suo rigor, non tremiti codardi
    Me presso a morte invadono: un'angoscia
    Non ignobil mi preme. Ho una figliuola
    Ch'orfana resta, e sua sventura io piango!
      —Padre ai pupilli derelitti è Iddio.
      —Vero favelli, ma la terra è piena
    Di pupilli derisi, insidïati,
    Spogli di tutto; ed ahi! su lor punite
    Forse da Dio son le paterne colpe!
    Indi io pavento, io peccator, sul fato
    Che all'innocente figlia mia sovrasta.
      —Ben paventate, o sciagurati guelfi,
    Che tanti alberghi incendïaste, e tanti
    Olocausti sacrileghi immolaste:
    Men empio è il ghibellino.
                        —Empi siam tutti,
    Amor vantando di giustizia a gara,
    E ognor con nostre stolte ambizïoni
    Opprimendo la patria e calpestando
    Natura e dritti ed innocenza e onore!
      Così dal labbro del feroce vecchio
    Usciva un misto d'indomata audacia
    E di sincero pentimento. Il capo
    Piegava sotto ai fulmini divini,
    Ma i consigli degli uomini esecrava,
    E negli sguardi suoi sì presso a morte
    Indistinti fulgean Cielo ed Inferno.

IX.

      Bella fra tutte umane imprese è quella
    Dell'uom che avvampa di desìo di pace
    E di perdon, non per suo proprio bene,
    Ma per altrui! ma per servire a Dio,
    Ed alla dolce patria e ad infelici
    Cuori ch'egli ama e consolare anela!
    Tal nell'ire civili è il vostro uficio,
    O vegliardi autorevoli che all'ara
    Del Dio di pace consecraste i giorni!
      Ecco arrivare al campo Ugo e Maria:
    E mentre del marchese al padiglione
    Van rivolgendo accelerati i passi,
    Veggono appunto da catena stretto
    A fisso legno fra custodi Arrigo.
      Con qual pianto e quali impeti di grida
    Prorompe la fanciulla infra le care
    Braccia paterne! e qual celeste han suono
    Sue filïali tenere parole
    A genitor così infelice? Ei serra
    Al sen quella innocente; e sclama:
                              —Oh gioia!
    Ma insana gioia! Oh nuovi affanni orrendi!
    Deh, perchè a me non li sparmiava Iddio?
    Non misero abbastanza era il mio fato,
    Ugo crudel? Tu qui la figlia traggi
    A vedermi morir!
                —Padre, ei mi tragge
    A salvare i tuoi dì.
                  —Che? supplicando
    Codardamente il vincitor maligno
    Di largirmi il perdon? Non sarà mai!
    La stirpe mia non annovrò guerrieri
    Che morir non sapessero da forti.
    D'espor ti vieto il virginal sembiante
    Al barbaro sorriso de' felici!
    Io so morir, io morir voglio prima
    Che la mia figlia a'piedi altrui si prostri!
      —Padre, lasciami: il so, ti disdirebbe
    Di coraggio scarsezza ai più tremendi
    Giorni della sconfitta, e se il nemico
    Te immolar vuol, da prode cavaliero
    E da cristiano perirai pregando
    Non gli uomini, ma Dio. Lasciami: un altro
    Dovere è quel di figlia. A me ignominia
    Fora il non chieder la tua vita al sire.
      —Vilipesa sarai.
                   —Pur vilipesa,
    Degna sarò d'ossequio e di compianto:
    Avrò adempiuto quanto amor di figlia,
    Quanto la voce del Signor m'impone.
      Contendeano in tal foggia, e l'ostinato
    Arrigo persistea nel suo divieto;
    Ma di Staffarda l'infulato duce
    Strappò Maria dalle paterne braccia,
    Ed attraverso a numerose tende
    Corrono di Tommaso al padiglione.
      Udivan essi da lontano gli urli
    Del corrucciato Arrigo:
                     —A tutte dunque
    Serbato io son le più esecrabili onte!
    Di me la figlia indegnamente stesa
    Ad implorar la vita mia, la vita
    Che mi si fa spregevol, che non posso,
    Che non voglio accettar! Riedi, ten prego,
    Tel comando! paventa il furor mio,
    Il maledir d'un genitor morente!
    Ghibellino fu sempre Ugo, e nol move
    Pietà di noi. L'ipocrita vegliardo
    Del nostro duolo infamemente esulta,
    E per farlo maggior vuol che d'Arrigo
    L'ultima figlia esempio doni abbietto.
      Del minacciar, paterno e delle ingiuste
    Voci contr'Ugo questa inorridiva;
    Ma il venerando abate alla fanciulla
    Reggeva il cor, dicendole:—Salvarlo
    Dobbiam malgrado l'ira sua superba.
      Ma qual d'entrambi è l'animo allorquando
    Dalle guardie interdetto al padiglione
    Vien lor l'ingresso! Non bastàr nè preghi,
    Nè lagrime, nè strida. Un assoluto
    Cenno del sir faceva inesorati
    Tutti i guerrieri che cingean la tenda.
      Stavano dentro a quella in assemblea
    Col supremo signor parecchi duci;
    E questi duci tutti eran da lunghi
    Danni e da amare perdite innaspriti,
    Sì che spinto da lor venìa il marchese
    A costante fierezza, insin che, espulsi
    Pienamente i nemici, astro securo
    Di comun gioia sfavillar potesse.
      Entro la rocca di Saluzzo chiuso
    Erasi il rio Manfredo, e colà ancora
    Ei da stranieri iva sperando aïta,
    Benchè spersi fuggissero, inseguiti
    Dall'antico Giovanni e da Eleardo.
      Di questi duo suoi fidi cavalieri
    Or più Tommaso non avea contezza
    Già da due dì. Certo parea il trionfo;
    Ma se fallito avesse? e se impensate
    Novelle squadre di possenti guelfi
    Nel paese irrompessero? Que' dubbii
    Nutron lo sdegno di Tommaso. Impone
    Che congedati sien Ugo e Maria,
    E quai si fosser supplicanti.
                         Allora
    Pria di ritrarsi il presul generoso
    Resistendo alle guardie, alzò la voce:
      —Nobil marchese di Saluzzo, ascolta
    I moti del cor tuo: non meritato
    Da' tuoi nemici è di tua grazia il raggio,
    Ma so ch'aneli d'emanarlo, e Iddio
    L'adempimento di tua brama aspetta
    Per benedirti più e più…
                        Troncato,
    Fu duramente da' guerrieri il pio
    Grido del vecchio, e fu troncato il grido
    Dell'angosciata vergine, e repente
    Lunge dal padiglion venner sospinti.
      Videli Arrigo a sè tornare, e disse
    Con amaro sogghigno:—Il pianto vostro
    Non terse dunque il vincitor? Lucraste,
    E ben vi sta, gli ultimi oltraggi: io puro
    Son di codesto obbrobrio vostro almeno!
    A Dio mi curvo; a nessun uomo in terra!
      Ma dopo quel sogghigno e quell'acerba
    Favella, intenerissi alle dirotte
    Lagrime di Maria. Con lui rimase
    La sconsolata, e ritornò alla tenda
    Il santo amico lor, novellamente
    Tentar volendo di Tommaso il core;
    Ed intanto la vergine abbracciando
    Del padre le ginocchia, or lo pregava
    Di placar Dio con miti sensi, ed ora
    A Dio medesmo rivolgea sue preci.
      Ugo, ahimè, ricompar! nulla otteneva,
    Nulla ottener più spera! Alta mestizia
    Al degno sacerdote in volto siede,
    Ma mestizia di forte alma che viene
    Un moribondo a regger nel tremendo
    Agonizzar dell'ore sue supreme.
      Maria l'intende, e misera prorompe
    In impeti di duolo inenarrati;
    Smarrisce i sensi, e inconsapevol tratta
    Viene appartatamente infra pietose
    Donne che a lei soccorrono. Prostrossi
    Arrigo allor del sacerdote a' piedi,
    E confessò sue colpe. E dacchè sciolto
    Gli fu in nome di Dio di queste il laccio,
    Si rïalzò con pacatezza altera,
    Ma non di quella indomita alterigia
    Che in lui dianzi apparia, qual di nociva
    Fosca meteora formidabil luce.
    Or quell'ardito e dignitoso sguardo
    Porta di pace e d'umiltà un'impronta
    Che vien dal Ciel, dal Cielo, autor sublime
    Di stupende armonie!
                  —Dov'è mia figlia?
    Ugo, traggila a me: l'estrema volta,
    Benedirla degg'io. Meco brev'ora
    Star si potrà.
             Fu ricondotta al padre
    La sventurata, ed ancorchè d'affanno
    Le sanguinasse il cor, pur di lui vide
    Con maraviglia la quiete, e grazie
    Alla Donna degli Angioli ne rese,
    Ed impose a se stessa umiltà, pace,
    Eroica forza. Ella piangea, ma freno
    Ponea a' lamenti, e con devote ciglia
    Mirava il padre, e sue parole tutte
    Accoglieva nell'anima, siccome
    Parole d'uom che santamente muoia.
      Festivo era quel giorno, e perciò l'altro
    Pei supplizi aspettavasi. Omai tarda
    Era la sera, ed Ugo apparecchiati
    A pio morire aveva altri prigioni.
    Ritorna ei quindi presso Arrigo, e i proprii
    Palpitamenti di pietà vorrìa
    Celare in parte:—O cavaliere! o donna!…
    Tutto puossi con Dio!…
                      —Dal padre amato
    Deh, ch'io non venga separata ancora!
    Lontana è l'alba.
                 —Più crudel sarìa
    Vicino all'alba separarvi.
                        Arrigo
    Stringeva al sen la figlia, e lei disporre
    Desïava a partir. Ma la infelice
    Alla prova tremenda obblïò i miti
    Sentimenti di pace, e la ragione
    Le si turbò miseramente.—Oh guerre
    Scellerate di popoli! oh stendardi
    Di virtù menzognere! oh glorie infami
    D'emuli cavalieri, onde son frutto
    Crudeltà e morte! Ah! perchè Dio fecondi
    Alla feroce umana stirpe ognora
    Fa gl'imenei, se la catena intera
    De' secoli spruzzata è d'uman sangue?
    E qual di sì esecrande ire perenni
    Colpa abbiam noi, dell'uom compagne e figlie,
    Nate ad amar, nate a compianger, nate
    A viver senza offesa, assorte in Dio!
    Di qual delitto intrisa son perch'oggi
    A me tolgano il padre i masnadieri,
    Nè generoso pur vi sia terrestre
    O celeste poter, che degli oppressi
    Alla difesa accorra? Ed Eleardo
    In ch'io tanto fidava, anco Eleardo
    Ch'io tanto amava, abbandonommi!
                            Il campo
    Suona improvviso di festanti grida.
    Balza il core a Maria; porge ella ascolto:
    Che sarà mai? Reduci sono il prode
    Antico Doglianese ed Eleardo,
    Apportatori di vittoria piena.
      Brillan del presul le ispirate luci
    Per novella speranza, e i passi affretta
    Ver l'amato nepote; il giunge, il ferma,
    E d'Arrigo gli parla.
                   Intanto usciva
    Del padiglion Tommaso, e lieto amplesso
    Porgeva a' trionfanti; e ratto a lui
    Volgea tai detti di Dogliani il sire,
    Indicando Eleardo;—Alla prodezza
    Di questo forte molto devi, o prence;
    Le più valenti squadre egli ha sconfitte.
      Stende il marchese al giovin glorïoso
    L'amica destra. Ei gliela bacia, e prono.
    —Signor, grida, signor, me qui tu miri
    Astretto a chieder dalla tua clemenza
    A' pochi miei servigi alta mercede.
      —Quai pur sieno tue brame, o campion mio,
    Le manifesta, e saran paghe.
                        —I giorni
    Chieggo salvi d'Arrigo. Il so, fu reo:
    Non corrucciarti del mio ardito prego.
    Arrigo a me qual padre ebbi molt'anni,
    E padre è di colei che sul mio core
    Sin dall'infanzia regna.
                      Ondeggia alquanto
    Il magnanimo prence, indi prevale
    Benignità sugli altri affetti, e sclama:
      —Ho perdonato! ogni prigion si sciolga,
    Ed a' suoi tetti rieda, apparecchiando
    A più nobile oprar suoi dì futuri.
      A quella augusta consolante voce
    Mill'altre voci eccheggiano, e fra loro
    Quella del vecchio di Dogliani, e quella
    Del presul di Staffarda, e più robusta
    Quella del giovin che all'amata donna
    Rendere può del genitor la vita.
      A tanti applausi si nasconde il prence
    Rïentrando commosso entro sua tenda:
    Ed ecco volan Ugo ed Eleardo
    A scior d'Arrigo i lacci.
                       Il prigioniero
    Uso ad ira e superbia, esitò prima,
    Poi fu da conoscente animo vinto
    E da dolcezza, ed Eleardo al seno
    Colla figlia serrando, inginocchiossi,
    E disse a Dio:—Sovra Tommaso schiudi
    Tuo più giocondo riso, e prosperato
    Sia nel dominio e nella prole, e cessi
    A lui d'intorno ogni fraterna guerra!
      Modestia e gratitudine e contento
    E maraviglia e amor davano agli occhi
    Della vergin bellissima un novello
    Indicibile incanto, onde il fedele
    Suo cavalier gioìva inebbrïato.
      Scorge i lor voti il padre, e prende e unisce
    Le destre loro. Un grido alza di gioia
    Il felice Eleardo, e la tremante
    Fanciulla irrompe in lagrime soavi,
    Benedicendo la celeste aïta
    Che i lunghi affanni in tanto gaudio volse.
      Di Saluzzo la rocca indi a tre giorni
    Spalancar si dovette. Uscì Manfredo
    Con pochi suoi compagni ed esularo;
    E in sua paterna sede il buon Tommaso,
    Se non durevol pace, almen godette
    Signorìa da virtudi alte illustrata,
    E alle rovine di Saluzzo orrende
    Nuovi successer tetti e nuovi prodi.

AROLDO E CLARA

CANTICA.

Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io, sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi dallo scrivere satire:—«La poesia arrabbiata non migliora nessuno; e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di carità e d'indulgenza.»

AROLDO E CLARA.

    Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da
      illi.

                                           (Ep. ad Rom. 12.)

I.

    Piangi, o la più gentil fra le convalli
    Dello spumante Pellice, ove un giorno
    Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi
    Cavalieri affluìano ad alte feste.
    Più non vedrai delle sue torri a sera
    Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
    Caramente appoggiando un braccio e l'altro
    Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
    Ciglio volgendo con amor, ma indarno,
    Ai dolci rai del tramontante sole.
      Que' figli suoi nascean gemelli, e santa
    Tenerezza li univa. Or sola e mesta
    Clara accompagna il cieco padre a sera
    Fuor della torre, perocchè il gagliardo
    Fratel devote ha l'armi alla difesa
    Del pio Tommaso suo ramingo prence
    Contro i nemici della patria terra.
      Rosseggiava bellissimo un tramonto
    Sulle nevi lontane, e stupefatto
    Pareva il sol che dal romito albergo
    A salutarlo non venisse il vecchio.
    Ahimè, quell'era di sventura un novo
    Spaventevole dì! Schiudesi alfine
    La porta del castello, e con veloci
    Passi agitatamente escono Aroldo,
    Clara e più servi; nè il canuto ciglio
    Ai soavi del sole ultimi rai
    Volger si cura. Che avvenia?—Dal campo
    Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido
    Contro l'usurpator del saluzzese
    Seggio osando tropp'oltre avventurarsi
    Nel calor della pugna, il circondaro
    L'empie straniere spade, e prigion cadde.
      Speme di riscattar sì cara vita
    Nutre il barone antico; e vuole ei stesso
    Trar supplichevol senza indugio al truce
    Fortunato invasor, che se talora
    Immolar gode i miseri captivi,
    Talor si placa a ricca d'oro offerta,
    Molto dovendo da sua iniqua sede
    Oro il tiranno effonder sulle bande
    Dell'alleato provenzal monarca.
      Giunto al margin vicino ove al tragitto
    Nel rigonfiato Pellice è apprestata
    La navicella, Aroldo porge il bacio
    Del congedo alla figlia. Allora al collo
    Gli s'avvinghia la pia.—Sola a mie stanze
    Non riederò, buon genitor; pupilla
    Esser della tua fronte a chi s'aspetta
    Se non a me? Forse pietà maggiore
    Assalirà dello sdegnato sire
    Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi
    La veneranda tua canizie e gli anni
    Giovenili di vergine scorgendo,
    Che colla vita del fratel la vita
    Chiede del padre.
                     Vuole opporsi Aroldo,
    Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo
    Già vel precede, e al consentir paterno
    Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde
    Perigliose attraversano. Ma ov'era
    L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,
    Generosa innocente? A voi non velo
    Fecer colle tutrici ale a celarvi
    Alla vista de' prossimi ladroni
    Che irrompono co' brandi alla rapina.
      Voler divino ai nembi di sfortuna
    Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
    Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
    Nei patimenti una virtù Dio pose
    Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.
      Sbandato di predoni era un drappello,
    Che della guerra col favor raccolto
    S'era d'Itale spiagge e di straniere
    A rubamenti ed omicidii, altero
    Linguaggio alzando di zelanti eroi,
    Campioni della patria e di Manfredo.
    S'azzuffan del baron coi fidi servi,
    E nell'orrenda mischia ad uno ad uno
    Dal soverchiante numero feriti
    Vengon que' servi, e de' vincenti in mano
    Son le ricchezze che a comprar la vita
    Destinava del figlio il cieco sire.
      Intero un dì per boschi e per dirupi
    Ei trascinato colla figlia venne,
    Ma il manto della notte ai duo infelici
    Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
    Del brïaco drappel de' masnadieri
    Quetamente si trassero alla valle.
      Come lontani fur dall'empia frotta,
    E ardiron favellare, il cieco strinse
    La figlia al seno, e grazie alte le rese
    D'averlo addotto a salvamento, e lei
    Per l'accorto suo senno e per la dolce
    Filial carità ribenedisse.
      —Or dove, o padre, senza aïta alcuna
    Ci avvïeremo?
                  —O Clara mia, remoti
    Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
    Il tempo mancheria; son prezïosi
    Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo
    Verso il campo nemico, appo le triste
    Di Saluzzo rovine. O senza doni
    Compariremo anzi al tremendo sire,
    Ma sincere promesse il piegherranno
    A moti di clemenza. Inoltre ho fede
    In mia canizie e in queste spente occhiaie
    E nel pianto che versano, e ben anco,
    Figlia, nel tuo.
                    Pensava Aroldo ospizio
    Prender non lunge, ove la figlia al raggio
    Della luna scorgea l'amica torre
    D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
    Odon che il giorno pria furibonda oste
    Era quivi passata e avea deserta
    La rocca e trucidato il castellano,
    E devastato a' villici i tugurii.
      Il negro pan de' villici dispersi
    Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
    E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
    Per tutti i casolari, invan cercando
    Palafreno o giumento: avean le schiere
    De' nemici avidissime votata
    In que' lochi ogni stalla.
                              —Ahi, dilungati
    Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
    Or dove andrem?
                   —Pedon la via si segua
    Sino al mattin: buio non è, dicesti.
    Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
    D'altri ladron te, mia dovizia or sola,
    Te il ciel pietoso asconderà.
                                 Sì disse,
    E di padre l'affetto e di sorella
    Lena lor porge insino all'alba. Il campo
    Mostrossi allora al pauroso orecchio
    Della fanciulla pria che agli occhi.
                                        —O padre,
    Odi tu, disse, odi tu roco un suono
    Simile al suon della bufèra o a quello
    Di molte acque correnti?
                            Il vecchio capo
    Ei soffermò, ed immemore un istante
    Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
      —Oh di qual gioia quel fragor m'empiea
    Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
    Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
    Come voce di sposa al suo diletto.
    Un dì così fremente io il bellicoso
    Aere appena sentia, sovra il mio scudo
    Battea forte l'acciaro, e dai precordii
    Metteva un grido che atterrìa da lunge
    Del nemico le scolte. E i miei congiunti
    Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,
    Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca
    È questa voce, e più la destra, e al breve
    Giubilo del guerrier tosto succede
    In me a quel suono il trepidar del padre.
      Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,
    Che sino allor söavemente a' detti
    Del genitore avea frammisti i suoi,
    Incominciò a interrompersi, e risposte
    Dar che, non conscio l'intelletto, un moto
    Parean sol delle labbra. A poco spazio
    Vedea della distante oste per l'aure
    Quasi di nave altissimi duo pini
    Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
    Come al suolo confitti. E secondata
    Venìa quell'opra da un clamor che il primo
    Clamor non era, ma or fischiante or rotto
    Da infami ghigni o da cupo silenzio.
      A' sensi suoi creder dovea? Le cime
    Parean gravate de' duo legni, e il pondo
    Che le gravava non scerneasi. Udito
    Spesso Clara ha di barbari supplizi,
    Ove ad appesa vittima lo strale
    Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.
    Quei che divide dalle ciglia il teschio.
      Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio
    Peggior di morte! E chi alla sbigottita
    Dice s'uno colà de' morïenti
    L'amato suo fratello ora non sia?
    Chi le dice se il passo al genitore
    Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
    E se il padre trattien, non di Ioffrido,
    Che forse ancor sull'albero non pende,
    Cagionerà la morte?… Ad ogni costo
    Vadasi al fatal loco!
                         Il piè, tremando
    In ciò pensare, affretta. In man la mano
    Della meschina Aroldo tien.—Di gelo,
    Fra sè diceva, è questa man, siccome
    Quella ch'io strinsi di sua madre al letto
    Ove s'estinse.
                  Indi il vegliardo scuote
    Il capo, quasi scuotere volesse
    Un malaugurio, e non potea.—Di morte,
    Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.
    Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari
    Detti mi porgi che tue labbra sciorre
    Uniche san, quando scorato è il padre.
      Nata ne' giorni di sventura, e in erma
    Torre cresciuta, ove sorelle e madre
    Vide spirar, sollecita a sinistri
    Presentimenti schiuder l'alma, è fatto
    In lei religïon. Si raccapriccia
    In udir che s'affaccin alla mente
    Del genitore e in quest'istante i negri
    Pensamenti di morte. A lui si volge,
    Apre le labbra—e i consolanti detti
    Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:
    Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
    Che inobbedito di suo padre è il cenno.
      —Più de' pensier miei tristi or malaugurio
    M'è il tuo silenzio, ei dice.
                                 E lo spavento
    In lei crescendo, e a' rai primi del sole
    Splender veggendo le volanti frecce,
    Improvviso s'arresta.—Oh genitore!
    Non c'inoltriam: non odi tu le strida
    Degli assassini?
                    —Il figlio, il figlio mio
    Forse a morte strascinano: affrettiamci.
      —Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.
    Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
    In vita è ancor, di novo al fianco tuo
    Tosto mi rendo, ma te… O ciel! raddurre
    Te vivo a casa allor io posso almeno!
      —Sciagurata, che parli? Orrende cose
    Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
    Fra quelle voci che il mio antico orecchio
    Non distinte percuotono, tu scerni
    Voci di morte e del fratello il nome.
    Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
    Porta il tumultüoso aere d'atroce?
      —Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa
    Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
    L'orribil caso… tu m'intendi… allora
    Orfana forse rimarrei nel campo.
      —Me perder temi, e non t'avvedi, insana,
    Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
    E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
    Tel comando, obbedisci.
                           All'inusata
    Ira paterna impaurissi Clara;
    S'alzò. Con passi rapidi il cammino
    Misura il cieco, e strascinata quasi
    La giovinetta il segue. Erasi spersa
    La turba intanto che cingea i duo pini,
    E presso a questi il padre e la sorella
    Arrivan di Ioffrido. Ella più volte
    Erse il ciglio tremando, e insanguinate
    Scorse due salme, e incontanente a terra
    Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse
    Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
    Han la coppa del cranio, e dal mozzato
    Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
      Ma quell'orrida vista e lo spavento
    Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:
      —Padre! dic'ella, padre!… E qui stramazza
    A' piè d'Aroldo.
                    E mentre brancolando
    Col caro pegno tra le braccia fugge
    D'in mezzo della via, però che udito
    Brigata di cavalli ha scalpitante
    Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
    Ad un de' lati fermasi, ove un tronco
    D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo
    Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,
    Che di baroni provenzali cinto
    Per intenti di guerra iva il terreno
    Intorno visitando. Una fanciulla
    Scorge egli tramortita ed un vegliardo;
    E voltosi ad Aroldo, acerbamente
    Così gli grida:—O discortese e stolto,
    Perchè nel sangue d'un fellone e sotto
    Il patibolo tratta hai quell'afflitta,
    Cui toglie i sensi il raccapriccio?
                                       —Oh sire,
    Oh novo sire di Saluzzo! esclama
    L'antico cavalier, cui non intera
    L'aspra parola del crudel pungea,
    Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
    Aroldo io son dalle romite torri
    Che si specchian nel Pellice. E l'illustre
    Tuo genitor te adolescente spesso
    Adduceva a mie sale, e co' miei figli
    In un calice sol beevi a mensa.
    Ah per memoria del tuo estinto padre
    Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
    Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,
    E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
    Io non leggeri doni a te in riscatto
    Dal mio castel portato avea, ma iniqui
    Predatori per via m'hanno assalito.
    Alle mie braccia il caro figlio rendi,
    E qual tributo m'imporrai ti solvo,
    Pareggiasse anco de' miei campi aviti
    L'intero pregio.
                    —O sciagurato Aroldo,
    Di qual osi tributo or favellarmi,
    Se finor tutto mi negasti? È tardi.
      —Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,
    Fu da bollente figlio mio l'insegna
    De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,
    E la vittoria a tua prodezza arride.
    Ma tu il fervido oprar del giovinetto
    Dona pietosamente al supplicante
    Suo genitor che in venti pugne il sangue
    Versò pel nobil padre tuo, quand'esso
    Con tanta gloria signorìa qui tenne.
      —È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli
    Tutta la forza ond'è capace il core
    D'un cavalier. Sovra quel legno pende
    Un trafitto cui grazia altra non posso
    Conceder più che di ritorlo ai corvi,
    E consentirgli de' suoi cari il pianto.
      Disse, e accennando che una guardia il morto
    Dalla croce calasse e all'infelice
    Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
    Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.
      Clara i sensi racquista, e oh di dolore
    Qual novo orrendo palpito! Era dunque
    Il fratel suo quel miserando ucciso!
    Eccolo tolto dal funesto legno;
    Ed ella il raffigura a cicatrici
    Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
    E l'angosciata giovin su quel corpo
    S'abbandonan piangendo! Ella in lino
    L'infranta testa pïamente avvolge,
    E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
    Carità si commove una famiglia
    Di Saluzzesi agricoltori, e dato
    Viene un carro con bovi, onde al lontano
    Castello il morto cavalier si tragga.

II.

    Or da quel giorno d'ineffabil lutto
    Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
    E la mesta mia cantica, i solinghi
    Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia
    Commiserando, svolga altra vicenda.
      Era una sera: alle vetuste mura
    Del baron s'appresenta un fuggitivo,
    A cui ferite e febbril sete esausta
    Miseramente avean la voce. Aroldo
    Piena di vino gli mandò una coppa
    Con questi detti: Al focolar t'accosta
    Sin che apprestata sia la cena, e al sire
    Perdona del castel s'ei di sue stanze
    Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
      Clara portò que' detti, e il fuggitivo
    Che al maestoso inceder cavaliero
    Parea e mendìco a' finti panni, il volto
    Pria si coverse, indi con pronti passi
    Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
    Di mortal che, caduto in impensato
    Orribile periglio, aneli scampo.
    Ma nella mossa impetuosa a lui
    Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
    Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
    Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
      Chi era? Chi!… Manfredo! il già possente
    Desolator della sua patria! il ladro
    Che alla corona del nepote osava
    Stender la man sacrilega, e sul capo
    Inverecondo imporsela, e i diritti
    Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
    Dirsi benefattor, serva a stranieri
    Brandi facendo la natìa contrada!
    Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco
    Da compiuta sconfitta è l'empio sire,
    E per sottrarsi agl'inseguenti ferri
    Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote
    Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
    Nella pugna perduto e per la rabbia
    Gli s'era da brev'ora intorbidato
    Sì fattamente il lume del pensiero,
    Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto
    Era ai campi d'Aroldo altra credendo
    Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
    D'adolescenza riportate mai
    Non avea l'orme, ed alberi e tugurii
    Mutato avean l'aspetto della terra.
      Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie
    Raffigurò d'Aroldo, e se bastata
    A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
      Manfredo! e senza guardie! e semivivo,
    Sotto il tetto dell'uom cui trucidato
    Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!
    Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
    I famigli richiamano, ella corre
    Alle stanze del padre, e già già quasi
    A lui così sclamava:—Esci, un prodigio
    Ad ammirar del Dio delle vendette:
    Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene
    Il suo assassin!
                    Ma in quell'istante gli occhi
    Della donzella alzaronsi a parete,
    Onde pendea dell'Uomo-Dio morente
    Effigie veneranda, e a quella vista
    L'irrompente parola in cor rattenne.
      Religïoso fremito la invase
    Dinanzi a quell'effigie.
                            —Oh mio Signore!
    Quai voci arcane alla tua ancella parli?
    Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
    E a quei che l'uccidean pur perdonavi!
    Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
    Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,
    In carcer sotterraneo, o d'inquieti
    Elementi per l'alte aure ludibrio
    Sta ancor penando, e a liberarlo vane
    Fervon le preci, e in loco d'esse un atto
    Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!
    Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma
    È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando
    Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
    Come a noi perdonato ha il Redentore!
    Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
    Delle forze d'un padre il dare aïta
    D'un caro figlio all'uccisor. La lancia
    Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
    D'uom che toccò la mensa sua… Ma pure
    Chi può segnar dove talor trascorra
    Nella foga dell'ira un core offeso?
    Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!
      Disse, e prona curvossi, e lungamente
    Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio
    Esser tentata; innanzi a Dio temea
    Calunnïar la santa alma del padre.
    Ma nella mente repentino un raggio
    Di fidanza pienissima le splende,
    E ratta sorge e dice:—Ah sì, fratello!
    Questo è il momento in che del ciel la porta
    A tue brame si schiude: io di tua gioia
    Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
      Un servo entrava:—Damigella, o carco
    D'inaudite peccata, o fuor di senno
    È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio
    Parla tra sè com'uom cui prema occulto
    Di vendette terribili spavento,
    E di qui vuol fuggir.
                         —Tosto bardata
    Per lui sia mia cavalla.
                            Il servo parte
    Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
    Antico armadio la fanciulla schiude,
    Ed indi tratto un de' paterni manti,
    Al leve suo tesor poscia s'affretta
    D'auree monete, e in una borsa il pone.
      Così ver l'agitato ospite mosse,
    E que' doni offerendogli—D'Aroldo
    Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
      Fremea la generosa in lui mirando
    L'uccisor di Ioffrido e il formidato
    Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
    Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
    Del castello accennando, a lui soggiunse:
      —Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena
    Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!
      Clara sparve, ciò detto. E l'infelice
    Tiranno—Angiol! gridò.—Poi diè dal core
    Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
    Pentimento verace a lui fu strazio,
    Le proprie atroci colpe rammentando,
    E rammentando il giovine Ioffrido,
    E quel misero cieco che appoggiato
    Ad un alber credeasi, e gli grondava
    Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
      Frettoloso Manfredo i doni tolse;
    L'inaudita pietà benedicendo,
    D'Aroldo cinse su le spalle il manto,
    E quindi a pochi tratti il vide Clara
    Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
    Con sembiante commosso intorno intorno
    Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
    In atto di preghiera ergea le mani,
    Poi le briglie toccava ed era in sella.
      Fermato ivi un istante, ad alta voce
    Mise queste parole:—Aroldo! Aroldo!
    Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
    Seggio e de' vituperi onde vo sazio,
    Consolarmi potrò; non potrò mai
    Consolarmi d'aver tua nobil alma
    Col più truce rigore insanguinata.
      Udì il vecchio baron quel forte grido,
    E balzò dalla seggiola esclamando:
    —Figlia! il nemico nostro! il maledetto
    Uccisor di Ioffrido!
                        E sul rugoso
    Pallido volto del canuto il foco
    S'accese del furore. A' piedi suoi
    Clara gettasi allora, e gli palesa
    Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.
                                    —No, Iddio
    Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;
    Manfredo è un empio! ei di dominio sete
    Portò infernal su queste invase terre,
    Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
    Infame della patria e del suo prence
    Manfredo è traditor. Per sollevarsi
    Sulla sede non sua, trasse alleati
    E Provenzali e Càlabri e venduti
    Guelfi di tutta Italia allo sterminio
    De' nostri feudi e delle nostre plebi,
    E incenerì Saluzzo!… e il figlio mio,
    Il figlio mio su scellerata croce
    A' carnefici suoi diede bersaglio!
      Lunga e tremenda di rammarco e d'ira
    Fu l'eloquenza dell'antico. A lui
    Clara abbracciava le ginocchia, e santi
    Detti porgea con supplice dolcezza:
      —Le iniquità punir sol puote Iddio;
    Noi non possiam sul misero fuggiasco
    Punirle coll'acciar: solo a punirle
    Una guisa n'è data, ed è il perdono.
    Càlmati, o genitor; pensa che o degno
    Per penitenza diverrà Manfredo,
    O, rimanendo iniquo, a lui carboni
    Saranno inestinguibili sul core,
    Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi
    E fra l'alme perverse il danno eterno.
    A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,
    E il benefico palpito e l'eccesso
    Della pietà non sol sugl'innocenti,
    Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo
    Del perdono di Dio morendo avremo!
      —Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,
    Ti benedico; santamente oprasti!
      L'alza, al petto la stringe, e lagrimando
    Mercè le rende che alla prova il senno
    D'esacerbato padre ella non mise.
      Un dì alle torri del baron fu visto
    Giungere di Manfredo un messaggero
    Da lontana contrada, e apportatore
    Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
    Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto
    Era il castello, ed in vicino chiostro
    Cinta di sacre lane, i dolci salmi
    L'orfana, per la cara alma del padre
    E del fratel, tutte le notti ergea.

ROCCELLO.

Cantica.

M'era sembrato si potesse fare una specie di romanzo in due o tre volumi, dipingendo un generoso cavaliero italiano del secolo decimoquarto, il quale visitasse una dopo l'altra le varie dominazioni in cui stava divisa la nostra penisola, e così si disingannasse di molti sogni. Provatomi a tal lavoro, incontrai troppi scogli, stante l'obbligo che ha di svolgere con minutezza molti argomenti chi assume lunga prosa relativa a punti storici. Convertendo il soggetto in cantica, tutti i quadri si sono impiccioliti; ma forse così il lettore non avendo tempo d'annojarsi, potrà meglio afferrarne le armonie morali.

Ogni cosa veduta dal mio Roccello nella Italia de' suoi tempi è esattamente storica.

ROCCELLO.

    Nec memor eris iniuriae civium tuorum.
                 (Levit. 19.18).

    Oh sospirato d'indulgenza alterna
    Malagevol ritorno, allor che fiamma
    Di discordia civil tocche ha l'irose
    Schiatte de' forti! Nè bastò la fuga
    Delle guelfe di Napoli bandiere
    E del lor collegato empio Manfredo
    A raddur tosto pe' Saluzzii lidi
    L'armonia del perdono e delle paci.
    Aperti scherni ed avventate punte
    Di calunnia secreta e più crudele
    Affliggean le famiglie, e singolari
    Ne seguìano certami e vïolenti
    Scoppi a vendette. Il buon Roccel, perduti
    Ambo i vecchi parenti, e contristato
    Dallo spettacol di cotanti sdegni,
    Caduta in troppe a lui sembrò bassezze
    La stirpe umana entro la patria terra.
      Di Milan sorrideagli e de' Visconti
    La rimembranza, ed a Milan s'avvia
    Vagheggiando col fervido pensiero
    I costumi leali e generosi
    Della città lombarda.—Oh dell'estinta
    Mia genitrice amata culla! Oh pie
    Torri de' suoi congiunti! Oh come tutta
    Combacian quest'amante anima i fatti
    De' cavalieri che in Milano io vidi!
    Là s'albergo pur v'hanno alcuni indegni,
    I degnissimi abbondano: là i cuori
    Intemerati a cuori intemerati
    Unir si ponno e confortarsi. Un tempo
    Anco Saluzzo e le sue valli amene
    Eran così; mietute ha cruda guerra
    Le magnanime vite, e brulicante
    Vil di rettili resta oggi semenza.
      Scotea le spalle il suo scudier Gilnero
    Dietro a lui cavalcando:—Illustre sire,
    Trista per ogni dove è l'agitata
    De' mortali progenie, e sol da lunge
    Sfavillan di virtù le stranie rive.
      —Gilner, tu ignori l'età nostra: eccelse
    Speranze arridon per più genti, e il loco
    Onde arridono più, certo è Milano.
    Grandi cose avverran: d'uopo il mio core
    Ha di batter fra giusti e fra gagliardi.
      —Signor, di giusti e di gagliardi copia
    Non nutre alcun terren.
                     —Grandi ti dico
    Avverran cose in questo secol. Rozza,
    Ignara del presente e del futuro
    È la nostra Saluzzo; io nella sede
    Degli operanti e de' veggenti spirti
    Nato a viver mi sento.
                    —Udite, o sire…
      —Taci.
           E Gilner tacea; ma affettuose
    Occhiate indietro qua e là gettava
    Ai Saluzzesi campanili, ai poggi
    Che dalle mura estendonsi con tanta
    Varïetà e vaghezza di contorni
    Per le verdi convalli, ed agli acuti
    Gioghi che più remote alzan le teste
    Coronate di neve. A quell'aspetto
    Sin da' prim'anni a lui sì caro, il mesto
    Scudier sospira e brontola:—Contrade
    Si cerchin pur simili a questa! Il mondo
    Alquanto anch'io stolidamente ho corso:
    V'è un sol Monviso sulla terra, un solo
    Gruppo di monti come quello, un solo
    Pian che s'agguagli di Saluzzo al piano.
    Su via, vediam quel de' Lombardi. Un tempo
    So che di maestose ombre penuria
    Patìa pe' molli prati, e su quel guazzo
    Giacean fetide nebbie. Or sarà, certo,
    Ricco di piante al par di questo, e scarso
    Di pantani e di febbri; e trasportate
    Le bige nebbie si saranno oltr'Alpe.
      —Gilner, non adirarmi: e quando cieco
    Ti parvi di mia patria alla bellezza?
    Non questa fuggo, ma color che iniquo
    Su terra sì gentil traggon respiro.
      Brontolava sovente il buon seguace,
    E gemiti mandava, e sovra gli occhi
    Talor di furto colla destra il pianto
    Mal compresso tergeva; e se Roccello
    Vedea quel pianto, commoveasi anch'esso
    Ma celava del dolce animo i sensi,
    E si fea beffe di Gilner.—Cinquanta
    Anni, e sei debol come donna!
                         —Ingrato
    A mia terra non son, dicea con ira
    Il rozzo Saluzzese: amo ed onoro
    Tutte le sponde sue, tutti i suoi rivi,
    Perchè infinita all'alma mia recaro
    Per molt'anni letizia! Un Saluzzese
    Che s'innamori di straniere spiagge,
    Sire, oltre voi, lo cercherete indarno.
      In tali avvicendati impeti il suolo
    Di Piemonte magnifico varcaro
    I duo peregrinanti, e nella Insùbre
    Signorìa de' Visconti eccoli alfine.
      Bello l'aspetto della reggia altera
    Ove rinnovellato han de' Lombardi
    La monarchia i Visconti, esterminando
    La invecchiata repubblica! E del forte
    Imperante Luchin bella col saggio
    Fratel Giovanni l'armonia perpetua,
    Mentre Giovanni dall'Olona il lituo
    Stendeva episcopal per così vasta
    Regïon cisalpina! Ambo i fratelli
    Sprona eccelso desìo: giustizia, freno
    Alle gare de' grandi e alle plebee,
    Accrescimento di virtù guerriera,
    Civil, religïosa. Ogni sublime
    Italo indegno è loro amico: il sommo
    Petrarca istesso ad Avignone omai
    Vuol Milano anteporre. Oh bella, oh piena
    Di nobili destini una contrada
    Signoreggiata da potente senno,
    Il qual sue lance dilatando astringe
    Popoletti ad unirsi, e così sempre
    Prosperità, studi e fortezza aumenta!
      In tal guisa Roccel solea dapprima
    In Milano esclamare. Esilarati
    Venìan gli spirti suoi dalle splendenti
    Feste del prence in Lombardia primiero
    Che a lui dal seggio sorridea, siccome
    A tutti sorridea gli ospiti illustri,
    Anelando in occulto alle sue mire
    Ambizïose partigiani farli.
    E ricolmo di grazie iva Roccello
    Dalla moglie del prence incantatrice,
    Isabella del Fiesco, emula a grandi
    Regine della terra in gemme ed auro
    E di corte eleganza e di conviti.
    Tali accoglienze un fàscino alla mente
    Poser del saluzzese ospite, a segno
    Che men trista gli parve una sciagura,
    Il non trovar tra' Milanesi amati
    Alcuni volti consanguinei. Morte
    Ed esilio colpite avean più teste
    Ne' giorni infausti in che Luchino ad uno
    De' suoi proprii fratelli, al bellicoso
    Marco, troncò le trame e in un la vita.
      Roccel creder non può che nell'orrenda,
    Storia del fratricidio il gran Visconte
    Da tiranno operasse. Ode assai bocche
    Giustificarlo ed attestar che il sire
    Dannò, costretto da giustizia e rischio,
    L'empio fratello, e in condannarlo pianse.
      Sol dopo trenta giorni al buon Gilnero
    Badò Roccello alquanto.—Il cor, signore,
    Quei gli dicea, voi nella reggia aprite
    Alle voci di tali infra i Lombardi,
    Cui prodiga Luchino ogni onoranza:
    Io parlo al popol. Di Luchino il regno
    Regno è di frodi e sangue. Il trucidato
    Marco avea queste colpe: alti pensieri
    Pel comun bene e invitta spada e senno.
    Tolta la vita all'innocente prode,
    Vite molt'altre caddero. Il terrore
    Per le vie di Milan muto passeggia,
    E questa in ogni dove or celebrata
    Prosperità, è menzogna. A signoria
    Dritti non ha Luchino, e dove manca
    La possanza de' dritti, usasi il ferro.
      —Fole, Gilnero mio.
                    —Fole? E l'indegna
    Di Luchino alleanza oggi col rio
    Filippin de' Gonzaghi, uom che fregiato
    Della corona mantovana obblìa
    Ogni fè signorile, e omai s'agguaglia
    Con sue perfidie ai masnadier più vili?
    Udiste pur di Filippin l'infame
    Sovr'Obizzo degli Esti tradimento,
    Promettendogli il passo, e su lui quindi
    Con oste scellerata prorompendo
    Che fe' de' pellegrini ampio macello?
      Vero, inaudito, orribile misfatto
    Mentovava Gilnero, e collegato
    Col truce sire infatti era il Visconte.
      —Taci, dicea Roccello al temerario
    Ragionator. Ma breve tempo quegli
    Ammutolisce e a mormorar ripiglia:
      —Luchino un grande cavalier? Luchino
    Degno di regio serto? Il salvatore
    Ei dell'itale glorie? Alma villana
    Mascherata da re! Col fratricidio
    Non si pianta un impero a' dì cristiani.
    Indarno ei rapinava una dop'altra
    Città qui intorno tante, e si curvaro
    Alla vipera alzata in sanguinosi
    Stendardi Alba, Cherasco, Asti, Alessandria,
    E intero omai s'arroga egli il Piemonte.
    Gloria oggidì al ladrone, e doman forse
    La fune al collo! Eroe lo chiaman oggi;
    Doman da quei che gli movean più laudi,
    Si scaglierà sulla sua tomba oltraggio!
      —Taci! era il grido di Roccello ancora.
    Ma ruminava ei di Gilnero i motti,
    E scrutando iva poscia altri pensanti;
    E a poco a poco discoprìa infelice
    La città Milanese, e fremebonda
    Di rancori indelebili e di trame.
    Vide egli stesso di Luchin nel tetto
    Paure e inimicizie ed immolate
    Nobilissime fronti; e vide il sommo
    Vate Petrarca abbrevïar l'ospizio
    Largito a lui dal protettor Visconte;
    E dalle labbra di quel sommo intese
    Questo secreto, spaventevol detto:
    —Qui sovrasta ogni dì spada o veleno!
      La bellissima Ligure Isabella,
    De' Milanesi ammalïante donna,
    Al Veneto san Marco un voto sciorre
    A que' tempi volea. Glielo consente
    Il signor suo. Con sontüosa, immensa
    Di liete dame e lieti cavalieri
    Cavalcante brigata ella al devoto
    Vïaggio move[1]. Italia mai non ebbe
    Lusso più vago di monili e insegne
    E vesti ed armi e splendidi corsieri,
    Ed arpe e trombe e canti. Anco Roccello
    Quelle pompe seguì, vago ad un tempo
    Di visitar la veneta laguna,
    Ed ansio nel cor suo di trarsi a lochi
    Men da rammarchi e tirannia infestati.
      —Nasconder non tel vo, fido Gilnero:
    Con letizia abbandono or quelle mura
    Che più non son la mia gentil Milano
    Degli anni andati, quando tanti avea
    La genitrice mia concittadini
    A lei pari in contento e cortesìa.

    [1] Vedi il libro del SANTAROSA, intitolato Scene istoriche del
    Medio Evo
    Spenti sono i migliori, e succeduta
    È qui razza di mesti e di discordi
    Ch'ogni dì più contristerìami. Or voglio
    Questa regal magnificente corsa
    Assaporar per via; fermo in Vinegia
    Prendere ostello intendo poi: Vinegia,
    La città senza esempio! il più bel frutto
    Dell'italica mente! il seggio dove,
    La maestà si ricovrò latina!
    Barbara cosa è tutto il resto: i soli
    Veneti han leggi e libertà e senato
    Come i prischi Romani, e ad emularli
    Chiamati son per l'universa terra.
      —Vedrem, dicea Gilner, vedrem codesta
    Città di fetid'acque e di palagi.
    Piantati nella melma! E veneranda
    Nazïon certo ne parrà una ciurma
    Di possenti pirati, usi a galere
    E traffichi e saccheggi, ingentilita
    Men fra cristiani che fra turchi e mori!
      Ma giunsero a Verona, e qui la moglie
    Del temuto Luchin maravigliose
    Accoglienze gioconde ebbe dai duo
    Scaligeri fratelli ivi regnanti,
    Mastino e Alberto: illustre coppia e forte
    D'unanimi signori, anch'essi audaci
    In desiderio di supremo impero.
      Il saluzzese cavalier si piacque
    Su' bei liti dell'Adige, e più lieta
    D'ogni altra corte or giudicando questa,
    Disse a Gilner:—Se poi Vinegia a noi
    Stanza grata non fosse, io, vedi, ho fermo
    Di trarmi a queste sponde. Il sai, prosapia
    È d'eroi la Scaligera, e la insidia
    Qui della serpe Viscontèa non cova.
    Dante Alighier, quel lume delle genti
    Che passato e presente e avvenir seppe,
    Com'esul fu dalla sua ingrata terra
    Qui portò i passi, ed altre itale reggie
    Non onorò sì lungamente. È fama
    Che l'ispirato ingegno presagisse
    A questa prode casa alte fortune.
    In Mastino ed Alberto io veramente
    D'anime grandi e voci e modi scerno.
      —Signor, non volge lungo tempo, il guardo
    Accarezzante e astuto del Visconte
    Apparìavi innocenza di colomba.
      —Taci!
           —Que' nomi di Mastino e Cane
    Che di Verona usano i prenci, un segno
    Mi par di minacciosa indol cagnesca
    Più che di santa carità e di pace.
      Proseguiro il viaggio e finalmente
    Videro la laguna e di san Marco
    Le mura incomparabil. Il superbo
    Doge e il Senato e innumerevol folla
    D'uomini e donne illustri a Dea simile
    Tenner la bella di Milan signora,
    E d'onoranze pie la inebbrïaro.
      Fulgeano i giorni dell'Ascensa e il ricco
    Sfoggio di tutte merci e tutti giochi
    E in Vinegia fervea gente di cento
    Itale spiagge e greche e saracine;
    E il portentoso Bucentor dai mille
    Remi indorati recò il doge in trono
    Sulle sparse di fiori onde spumanti
    Ed allor dalle dita il doge trasse
    L'anel, gettollo, e si sposò col mare.
      Più d'Isabella forse inebbriato
    Da sì vaghi spettacoli era il core
    Immaginoso di Roccello.—Oh primo
    Popolo di quest'orbe! Oh manifeste
    Testimonianze d'opulenza e regno
    Che crebbe e cresce e crescerà. Oh ridenti
    E colte labbra anco del volgo! Oh dolce
    D'amor linguaggio e d'intima blandizie
    Costringente a fiducia! Oh maga stirpe
    Che da pantani eleva case e templi,
    Ed eserciti crea, manda, alimenta,
    E miete palme, e serto a serto aggiunge!
    Qui respirar vogl'io; qui mi vo scerre
    Gentil compagna, e padre esser di prole
    Cui toccar possa virtù chiara e gloria.
      Brontolava Gilner, ma—Taci! taci!
    Gridò con più vigor l'acceso sire;
    Veneto voglio farmi, allo stendardo.
    Sacrar della repubblica il mio brando
    Mescer di prode Saluzzese il nome
    Ad immortali Adriaci nomi. In guerra
    Sta Vinegia co' Dàlmati: sottratte
    Al cenno suo di Zara son le torri,
    Per impulso degli Ungheri; ma il forte
    Leon non perde sue conquiste mai.
      Ciò meditava il cavaliere, e intanto
    Fama gli arriva di severe, atroci
    Opre de' reggitori. E Zara ed altre
    Città soggette fremono di leggi
    E di capricci d'avidi mercanti
    Fattisi quasi prenci. Entro la stessa
    Celebrata laguna, appo quel vampo
    Di libertà e di rìso e di saggezza,
    S'odon sommessamente acerbe storie
    Di tribunal secreto e di profonde
    Fosse per vivi seppelliti, a piedi
    Della reggia de' dogi; e su tal reggia
    Mentovavansi bolge arse dal sole
    Sotto infocati piombi, e là espïati
    Venìan da illustri vittime delitti
    Che il volgo mal sapea, che il volgo in dubbio
    Osava por. Malediche, oltrespinte
    Eran tai voci del terrore, e niuno
    Forse dalla repubblica iva tolto
    Dal dolce liber'aer, se d'esecrandi
    Fatti non reo. Ma all'alma di Roccello
    Que' vivi seppelliti e quelle bolge
    Che son corona a tal palagio, un sogno
    Angoscioso divennero. Imprudenti
    Quesiti usò su quelle storie, ed ecco
    Farglisi incontro, un dì, cortese fante
    De' vigili patrizi imperadori,
    Il qual l'avverte pronta esser la nave,
    E l'affretta a salirvi, e gli pronuncia,
    Sotto pena di scure, eterno bando.
      Non è a ridirsi il sogghignare amaro
    Del fremente Gilner. Giunti alla riva,
    E risaliti sull'arcion, guardossi
    Intorno intorno lo scudier, poi volto
    Ver la città dell'acque, alzò la destra.
    E a mezza voce' fulminò parole
    Di maledizïon. Non l'interruppe
    Con dirgli «Taci» in sulle prime il sire,
    Ma diessi poscia ad acquetarlo.
                           —Eh via!
    Non t'infiammar con tal corruccio il sangue.
    Tedio noi già prendea di quelle meste
    Gondole e de' canali impegolati,
    E i piedi nostri e de' corsier le zampe
    Nascean per batter sul terren, le impronte.
      —M'era dolce, o signor, che di quel lezzo
    Ci traessimo alfin, ma volontarii,
    Non come coppia di birboni espulsi!
    Ed espulsi da chi? Da insolentita
    Di possenti usurai turba corsara!
      —Oibò, Gilner! qualche rigor molesto
    Ponno i Veneti oprar, nè però cessa
    Delle lor leggi il venerevol lustro:
    Fu colpa mia; chè di maggiore ossequio
    Era a tai leggi debitor. Creduto
    M'hanno inimico, e pur, tu vedi, in ceppi
    Non siam ne' pozzi o nell'aeree buche.
    —Meglio infatti così! sclamò Gilnero;
    Ma dove andiam?
               —Mel chiedi? Al cor mio nota
    Città non è che in leggiadria e costumi
    Cavallereschi agguaglisi a Verona:
    Da lei scostarmi io non doveva; e l'orme
    Sacre di Dante ivi mi legan.
                        —Parmi
    Che qua e là, come le nostre, erranti
    Vagasser l'orme di quel vate, ognora
    Fiori di senno e carità cercando,
    Ed abbrancando non que' fior, ma spine
    E morte frasche e laidi insetti e rospi.
    Ma l'esul Fiorentin dritto al compianto
    Avea d'ogni gentil, chiuse dall'arme
    Veggendosi le valli, ove ne' campi
    Degli avi suoi vissuto fora, amando
    Se non tutti i mortali, almen taluno
    De' servi e cani delle sue pareti.
    Noi, sir, compianto non mertiam, fuggendo
    Senza esilio que' lochi ove la polve
    De' padri nostri giace, ove ogni zolla
    Rammenta di que' padri angosce o gioie
    Ad essi sacre, e non men sacre ai figli.
      —Taci! disse Roccello. Ed ambidue
    S'asciugaron le ciglia.
                     Entro il regnetto
    Della prosapia da Carrara i passi
    Misero i vïaggianti, ed ivi i dotti
    Portici Padovani appena tocchi
    Venner dal cavaliero, a questo un fante
    Cortese come il Veneto affacciossi.
      —Illustre sir, picciolo prence è il nostro,
    E l'ira di san Marco evitar debbe:
    A voi di là bandito i Padovani
    Dar non possono ospizio: uscir vi piaccia.
      Sulle cavalcature i Saluzzesi
    Risaliron mirandosi, e Gilnero
    Vermiglia come brage avea la faccia.
    —Spero, disse a Roccel, che da ogni lido
    Sarem cacciati come ladri, e grazia
    Poca non fia se n'è sparmiato il laccio.
      Ma novamente in breve eccoli a riva
    Stanzïati dell'Adige, il fremente
    Gilnero sbadigliando, e il lieto sire
    Gioie di cavalieri assaporando
    Ora a torneamenti, or a pompose
    Sere di corte, ove su nobili arpe
    La scaligera gloria i trovadori
    Su tutte glorie esaltano, e obblïato
    Non è l'ospizio e l'amistà che v'ebbe
    Il ramingo signor de' patrii canti.
      Ma dopo il giro di due lune, oppressi
    Cittadini conobbe il Saluzzese,
    Che si dolean secretamente: il tempo
    Esser dicean per sempre estinto, in cui
    Davver fiorìa Verona, uomini insigni
    Recando in seggio. Or tralignato il seme
    Stimavan de' lor prenci. Or su Verona
    Primeggiante vedean di giorno in giorno
    Vieppiù Milano: or non fulgea più raggio
    Di grandezza ai nepoti; ora infamato
    Iva il nome scaligero da paci
    Ed alleanze instabili e bugiarde,
    E pazze guerre e di giustizia spregio.
      S'attristava Roccel considerando
    Come per ogni umana gente, accanto
    A superbe allegrezze e a larghi incensi
    Tributati al natìo suolo beato,
    Ferva di sconsolate alme il dolore,
    Ch'ivi non veggion fuorchè fango ed onta.
      —Dunque, ei dicea (non a Gilner, ma chiuso
    Entro se stesso), a che vogl'io contrade
    Trovar migliori di Saluzzo? Inferma
    L'umana razza non è tutta al pari?
    Vana apparenza ognor non sono il lustro
    E l'albagìa de' più cospicui lidi?
    Vana apparenza non è tutto, i retti
    Pensieri tranne e le magnanim'opre?
      Meditava ei così, ma fantasie
    Più splendide e men vere indi volgea,
    Che bello il secol gli pingeano, e bello
    il vincolarsi all'inclito destino
    De' prenci più operosi e più possenti:
    Alte dal secol suo cose aspettava,
    E da Verona or presagìane il cenno.
      Del bando a lui da' Veneti scagliato
    Voce traspira intanto, e da maligni
    O sospettosi inventansi novelle
    Sulla cagion del fatto. Ei di Luchino
    Viene estimato esploratore astuto,
    E cessano per lui gli accoglimenti
    Nelle sale de' sommi ed il sorriso
    Delle dame scaligere. Egli espulso
    Per comando non vien, ma dai serrati
    Cuori si scosta disdegnoso e parte.
      Invan Gilnero, il curïoso adunco
    Naso arricciando, investigar tentava
    Dal taciturno signor suo le cause
    Del pronto dipartir.—M'era avvezzato,
    Sire, a quelle bell'onde, a que' bei colli,
      Aquel sublime anfiteatro, a quella
    Cavalleresca, franca indol soave
    Della incorrotta Veronese stirpe.
    E da lei ci togliam? Sire, io non penso
    Che pur qui v' abbian detto: «Ite in mal'ora».
      —Temerario!
              —Ma dunque…
                        —Ognor vaghezza
    Di Fiorenza ebbi, e visitarla or voglio,
    E so ch'ella Verona in pregio vince.
      —Bel pregio, parmi, esser madrigna atroce
    A quel re de' poeti, onde cotanto
    Italia e tutta umanità s'onora!
      —Dell'Alighieri a' tempi incrudeliva
    Parte malvagia entro Fiorenza; or pio
    Vi campeggia stendardo, e all'Alighieri
    Culto, siccome a patrio angiol, si rende.
      Mossi i duo Saluzzesi ecco alla volta
    Delle tosche amenissime colline,
    E toccan pria le fertili campagne
    Dell'Abdüano, e non si ferman, tanta
    Ira colà nutrono i petti al nome
    Di Filippin di Mantova tiranno;
    E varcan per Ferrara, egregia sede
    D'Obizzo Estense, ma laddove il ferro
    Sempre sovrasta del vicin Gonzaga
    E del Visconte, e queta alba non sorge;
    E varcan per Bologna, ove l'acciaro
    Stendon robusti i Pepoli, ma dove
    Da' nemici de' Pepoli ogni notte
    S'alza tumulto, e pallidi il mattino
    I passegger pacifici bagnate
    Veggion di sangue cittadin le vie,
    Od appesi alle forche i ribellanti.
      —Salve, Fiorenza! un dì sclamò Roccello
    Con ardente esultanza, allor che alfine
    Vide sulla pendice i generosi
    Tetti della repubblica più ardita
    Che in cor d' Italia splenda. A te serbata
    Di tutta Etruria è signorìa secura,
    Dacchè il ciel maledetta ha l'esecranda
    Torre di Pisa, ove perìan di fame
    I figli d'Ugolin: Pisa, già donna
    Di tanti mari e terre, oggi da guelfi
    E ghibellini lacera e da nuovi
    Ospiti protettori ogni dì spoglia.
    Salve, o patria di vati e di guerrieri,
    Che non han pari altrove! Oh, finalmente
    Avrà qui posa il mio agitato spirto,
    Avido d'alti fatti e di verace
    Gara per dritti e libertà ed onore!
      —Ma parmi, o sir, che, non ha molto, un grido
    Universal vilissima chiamasse
    Questa prosapia di toscani eroi,
    Curva a lambir d'un cavalier francese
    L'orme sanguigne.
                 —Oibò, Gilnero! Il tristo
    Gualtier duca d'Atene avea la stolta
    Sua gallica arroganza ivi recato,
    Soggiogarli sperando; e più rifulse
    Di Fiorenza il valor! più la concordia
    Contro a straniere tirannie! Di laude
    Più che mai degna è questa illustre terra.
      Così in Fiorenza entrarono, e tre giorni
    Roccel d'amor s'inebbriò e d'ossequio
    Per quelle mura, per quel ciel, per quelle
    Argute faccie, per quel dolce vezzo
    D'un idïoma che le grazie vince
    Pur de' veneti suoni, e per palagi
    E chiese e monumenti, ove di grandi
    Anime tante la memoria vive:
    E d'amore e d'ossequio inebbrïossi
    Per le repubblicane alto-sonanti
    Paterne leggi, onde con bello orgoglio
    Favellava ne' trivii anco l'artiero.
      Volgea la terza notte, i Saluzzesi
    Desta ad un tratto un rombo, ed era a guisa
    Di nembo e terremoto. Ed ecco rugge
    Di strida l'aura, e splendono attraverso
    La fenestra giganti orrende fiamme
    Divoratrici di civili alberghi.
    S'alza Roccel, s'alza Gilnero: ascolto
    Porgono all'empie voci, e gridar morte
    Odono a' guelfi e morte a' ghibellini,
    E viva i buoni popolani, e viva
    Le patrizie famiglie! Intanto ferve
    Carnificina sino all'alba; e poscia
    Ecco feste e clamori di vittoria,
    Ed a suono di trombe un proclamarsi
    Felicità, cui mischiasi condanna
    Di scure o strozzamento a' reggitori
    Che regnavano ier, se alcun di loro
    Fia che al notturno scempio anco sorvivan
    Ed insiem si proclama uno stupendo
    Magistrato di plebe imperadrice,
    Tutto saggezza e libertà e confische,
    E carità di patria e manigoldi.
      In tal trionfo di giustizia e senno
    Roccello e lo scudier venner percossi
    E ingiurïati e rapinati, e a stento
    Salvo recàr lunge dall'Arno il capo.
      Frenar Giluero or chi potea?—Villana
    Di beccai libertà! sozza di schiavi
    Sollevati repubblica! Ed è questa
    Dell'itale divine arti la terra?
    La degna patria d'Alighier? la gente
    Che se vivo il dannò, morto l'adora?
    Oh! nella schietta saluzzese lingua,
    Razza di!…
            —Taci; andiamo. Oggi qui palma
    Pur troppo han colto i rei. Se piace a Dio,
    Roma ci appagherà.
                  —Roma? Neppure
    Il Padre Santo più v'alberga!
                         —I tempi
    Trapiantavan la sede in Avignone,
    Ma al Tebro, il sai, riede Clemente alfine.
      —Quando vedrollo, il crederò: promesso
    Da molt'anni è il ritorno; ad impedirlo
    Troppi s'adopran fra romani istessi.
    Lasciamo, o sire, i vani sogni. Il mondo
    S'approssima al suo fin, tutto è rapina,
    Fraude, eresia, bestemmia; e più si muta,
    Più si peggiora. Un angolo men tristo
    In quest'ampia penisola rimane
    All'alme generose, ed è Saluzzo:
    Colà si nasce ancor come nasceste,
    Come nacqui io: garrula gente, ardita,
    Prona ad afferrar brandi e a menar busse,
    Ma larga di compianti e di perdoni.
      Rivolto a Roma, non badò Roccello
    Al consiglier che lo seguìa cruccioso;
    E più cruccioso, imperocchè per via
    Cose orrende s'udìan dell'empia stirpe
    Onde in Ravenna uscita era Francesca,
    La trucidata in Rimini infelice.
      Regnava Ostasio, e morto questo, il serto
    E i mutui dì s'insidïaro i figli
    Con nere trame, ed un de' tre sgabello
    Fece a sua gloria i duo fratelli in ferri.
      Odono i vïatori anco tragedie
    De' Malatesti a Rimini imperanti,
    E de' tiranni di Forlì Ordelaffi,
    E de' Trinci in Foligno, e delle venti
    Schiatte di masnadieri insignoriti
    Di Romagna e di Marca e dell'antico
    Patrimonio di Pier. Mille fïate
    Più di pria sanguinose eran le genti
    Di quel latino suol, dacchè lontana
    La tïara gemea quasi captiva.
      Sconfortato Roccel da tante voci
    Di sciagure e di colpe, arrivò un giorno
    Alle sette colline, e messe appena
    Nella sacra città l'umili piante,
    Andò ne' templi a lagrimar. Chi puote
    Non lagrimar mirando Roma e tali
    Di sua crollata possa orme famose,
    Ed orme di miracoli e martirii,
    E pur troppo fra i santi anco frammiste
    Alme d' Iscarïoti e di perenni
    Del Figliuolo di Dio crocefissori!
      E assai giorni Roccello e il suo scudiero,
    Le romane basiliche ammirando
    E le mille rüine e le vetuste
    Effigie e le colonne e gli obelischi,
    Alternàr gioia e lutto ed ira e scherno
    E penitenza e preci, ogni pensiero
    Della terra obblïando oltre a' pensieri
    Che in lor destava la città rëina,
    Afflitta sì, ma ognor rëina al mondo
    Per memorie e speranze e immortal ara.
      A far vieppiù maravigliosa e grande
    La città de' portenti, ecco a tai giorni
    Sorger Cola di Rienzo, uom che insanito
    Pareva e saggio, e invaso da potenza
    Non si sapea se inferna o celestiale.
      Abbietto di prosapia, alto d'ardire,
    Vissuto in gravi studii, amico a' sommi
    Di dottrina e di cor, predicò, volle
    Che da Avignon la Pontificia Sede
    Sul Tevere tornasse, e poichè udita
    Non fu sua voce, sguainò la spada,
    Quasi guerrier profeta, e intitolossi
    Tribuno e sire e correttor dell'orbe.
      Tal fu l'audace senno o gl'incantesmi
    Del plebeo fatto eroe, che al suo comando
    Patrizi e popol si curvaro, e plausi
    Ebbe da re lontani, e il suo stendardo
    Parve a Petrarca stesso il destinato
    Per ristaurar giustizia e fede e pace.
      Ratto elevossi e ratto cadde, e ratto
    S'elevò ancor l'incomprensibil forte,
    Adorato e imprecato. Oh quante in esso
    L'alma fidente di Roccel sognava
    Forze divine! Or nella vera patria
    Ei sì credea de' generosi, e patria
    A se medesmo Roma indi eleggea!
    Sublimi, eterne gli parean le leggi
    Di quel re popolano: alme d'eroi
    Pareangli tutti, e sommi ed imi, in Roma.
    E che a Roccello non parea?… Gilnero
    Zufolava fremendo e intercalando:
    —Cola di Rienzo il tavernar! costui
    Aver senno da Cesari! Albagìa
    D'uom che impazzì su que' vetusti libri
    Di cui la gente il dice dotto, e breve
    Reca stupor! ne ghignerem dimane.
      E la dimane da Gilner predetta
    Spuntò non tarda. Il dotto imbaldanzito
    Sol ne' volumi conoscea la grande
    Arte del regno, e in suoi pensier foggiava
    Uomini antichi, ed ignorava il core
    De' respiranti, e gioco alto imprendea
    Da giocator frenetico. Trasparve
    Tra' suoi lampi d'ingegno al mobil volgo
    La stoltezza di Cola, e fin que' lampi
    Gli si negaro, e l'appellar buffone,
    E riser di sue leggi e dalle spalle
    Strappargli voller di tribuno il manto,
    Ed ei chiamò i suoi fidi alla battaglia,
    E quei che fidi ei riputava, il ferro
    Volser sull'idol loro e il laceraro!
      In quella orrenda civil pugna, il folle
    Parteggiar di Roccel per l'assalito
    L'espose a risse ed a coltelli. A stento
    Si strascinò ferito alle ospitali
    Soglie d'un chiostro, e le pietose cure
    Di Gilnero e de' frati il serbàr vivo.
      Il magnanimo infermo cavaliero
    Più dì e più notti delirò, imprecando
    I nemici di Cola e Cola istesso,
    E le promesse e le speranze e l'ire
    Del suo secol maligno, e ciascheduna
    Delle da lui percorse itale spiagge.
      Gilner l'interrompea:—Saluzzo in vero
    Non è paese come questi, e vale
    Tutte le Rome della terra: ad ogni
    Paio di birbi abbiam cinquanta onesti!
    Ad ogni donna vil, cento zitelle
    E cento mogli che son perle! Andate
    Dove volete, una Saluzzo è sola!
      L'infermo cavalier ne' suoi delirii
    Tai di Gilnero udendo amate voci,
    Non discernea chi il parlator si fosse,
    E a lui diceva:—Oh! chi se' tu, cortese
    Venerando filosofo, che alfine
    Sveli al mio indagatore, avido spirto
    La contrada cui tende ogni mia brama,
    La contrada de' buoni?
                       —Io son Gilnero,
    E a Dio piacesse ch'io vi fossi ognora
    Sembrato un venerando! Io vi consiglio
    Di risanar dalle ferite e in uno
    Dalle vostre follìe. Cercando eroi
    Si trovan coltellate, e si consuma
    Inutilmente sanità e danaro.
      —Dunque?
             —A Saluzzo torneram.
                            —No: vista
    Non ho Napoli ancor, la fortunata
    Monarchia di Giovanna: ah troppo dure
    Son le maschie superbe anime, e solo
    Dove bella Reina un popol regge,
    Imperar ponno amore e pace e gloria.
      Ito a Napoli fora il cavaliero,
    Ma mentre ei stava risanando, crebbe
    Contro Giovanna in tutta Italia il grido,
    Aver dessa aguzzato i brandi infami
    Che la francàr dall'abborrito sposo,
    Ed esser già del novo sposo stanca,
    Ed avvilirsi in empi amori, e tutto
    Esser rivolte ed omicidii il regno
    Ed alterne vendette e sacrilegio.
      —Dunque? ridisse al buon Gilner.
                            —Saluzzo!
    Ripigliò questi.
                E uscirono del chiostro,
    Mercè rendendo alla ospital famiglia
    De' fraticelli. E uscirono di Roma,
    E verso le dilette Alpi lontane
    Venner ricavalcando. Ardui perigli
    Incontran mille, ma le sponde un giorno
    Ritoccan del Piemonte, e omai vicina
    La maestà riveggion del Monviso,
    E le pendici amene, innamoranti
    Del marchesato. Oh grande, oh incomparata
    Gioia a chi mosse ramingando in cerca
    D'egregi umani e di felici terre,
    Ed incontrò per ogni dove umani
    Da colpa travagliati e da sventura,
    E ritornando alle natìe convalli
    Gli amici primi si ricorda, e i fatti
    Glorïosi degli avi e l'indol cara
    Della fraterna stirpe! Invaso il seno
    Da quella nova gioia avea Roccello,
    Nè il suo Gilner con palpiti men dolci
    Salutava l'Eridano ed i poggi
    Di Taurino eleganti e la pianura
    D'arbori e prati e campi e ruscei vaga,
    E i monti di Saluzzo, e finalmente
    Saluzzo istessa.
                —Ah vi siam giunti! esclama
    Quegli e questi a vicenda; e il cavaliero,
    Fervido sempre, altissime, abbondanti
    Mette dal cor voci di laude al loco,
    Al principe, alle leggi, a' consanguinei,
    Al volgo, agli usi, alla favella, a tutto.
      —Temprate il foco del contento, o sire,
    Dice il savio Gilner: senza magagne
    Non evvi terra, ed ha le sue pur questa.
    Ma poichè pieno è di magagne il mondo,
    Indulgete de' vostri avi alla terra
    Più che ad ogni altra, e pïamente a lei
    Sacrate il senno ed i tesori e il brando.

LA MORTE DI DANTE.

Cantica.

Non ho mai capito in qual modo Dante, perch'egli fra i magnanimi suoi versi ne ha alcuni iratissimi di varii generi, sia potuto sembrare ai nemici della Chiesa Cattolica un loro corifeo; cioè un rabbioso filosofo, il quale o non credesse nulla, o professasse un cristianesimo diverso dal Romano. Tutto il suo poema a chi di buona fede lo legga, e non per impegno di sistema, attesta un pensatore, sì, ma sdegnoso di scismi e d'eresìe, e consonissimo a tutte le cattoliche dottrine. Giovani che sì giustamente ammirate quel sommo, studiatelo col vostro nativo candore, e scorgerete che non volle mai esservi maestro di furori e d'incredulità, ma bensì di virtù religiose e civili.

LA MORTE DI DANTE.

    Lavamini, mundi estote!
           (Is. I)

    E perchè l'arpa mia—debol, ma vaga
    Di ritrarre in devoti, alti racconti,
    A conforto degli altri e di me stesso,
    Gioie e dolori di supremi spirti—
    Perchè in sue melodìe qualche felice
    O mesta ora de' sommi itali vati,
    Qualche virtù del cor, qualche sublime
    Effondimento de' lor sacri ingegni
    Non ridirebbe? Oh quante volte ad essi
    M'è grato alzar gli ossequïosi sguardi
    Come figlio a parenti, investigando
    Lor nobile natura, e divisando
    Quasi funerea su ciascun di loro
    Scior tal pietosa cantica di laude,
    Che, senza nè adular que' generosi,
    Nè tacer pur di colpe ov'ebber colpe,
    Sia gentile tributo alle lor tombe!
    Non avrai tu, per tragich'ira primo,
    Possentissimo Alfieri, onde reliquia[1]
    Sì prezïosa a me largì Quirina,
    Tu che maestro all'arte mia più cara
    Sì fortemente in giovinezza amai,
    Tu che ad Italia ed a' nativi nostri
    Pedemontani lidi onor sei tanto,
    Non avrai tu dalle mie labbra un carme?
    L'avrai.—Nè per Parini anco fia scevra
    Di parole d'amor l'alma di Silvio;
    Nè per Monti e per chiari altri intelletti
    Di non remoti dì.—Ma se più d'una
    Cantica aspettan molte ombre di vati,
    Più l'aspettan le antiche.—Oggi tu, Dante,
    All'anima mi parli. I tuoi divini
    Versi non seguo, nè dipingo i giorni
    Del tuo esular; di te la morte io canto.
      Splendeva all'Alighier l'ultima aurora,
    E sulle coltri sue muto ed assorto.
    Ne' pensieri santissimi ei giacea
    Munito già del Dio che alle fedeli
    Alme è quaggiù ineffabile alimento.
      Umile fraticel presso gli stava,
    Or con brevi parole or collo sguardo
    Le divine speranze rammentando;
    E presso al letto, e qua e là per l'ampia
    Sala, in piedi o sedenti, erano il vecchio
    Guido sir di Ravenna e i figli suoi,
    Ed assai cavalieri. Impallidite
    Presso alla porta si vedean le facce
    De' giovincelli paggi e delle guardie.
      Dopo i riti adorabili, in silenzio
    Stette gran tempo l'Alighier, ma gli occhi:
    Significavan prece e consolante
    Vista di cose celestiali e amore.
      Poi si riscosse, mirò intorno, e grato
    Salutevole cenno ai circostanti
    Volse, e coll'imperar della possente
    Sua volontà rinvigorì lo spirto,
    La voce, i guardi, e levò il capo, e disse:
      —Sia benedetta la pietà di Guido
    Ch'ospital posa al mio morir provvide!
    Sia benedetto, o amici tutti, il dolce
    Vostro compianto, e benedetto ognuno
    Di que' che al tosco esule vate il tristo
    Pellegrinaggio consolâr d'onore
    E d'applausi magnanimi—e di pane!
    Ma non però il mio benedir ti manchi,
    Patria crudel che a me noverca fosti,
    Ed io qual madre amava ed amo! Andate
    Le mie voci a ridirle e il mio perdono,
    E i miei consigli e il lagrimar di Dante
    Sulle materne iniquità e sventure!
      Qui pianse e tacque. Indi il febbril tumulto
    De' generosi suoi dolori il senso
    Addoppiò della vita entro il suo petto,
    E la parola gli tornò sul labbro
    Non tremula, non fiacca. Ognun si stava
    Rispettoso ed attonito, ascoltando
    Di quel gran cor gli oracoli supremi.
      —Dite a Fiorenza, e in un con essa a quante
    Son dell'amata Italia mia le spiagge,
    Che s'io censor severo e fremebondo
    Ne' miei carmi di foco ira esalai,
    Men da rabbia dettati eran que' carmi
    Che da desìo perenne e tormentoso
    Di ritrarre e caduti e vacillanti
    D'infra il sozzume lor di melma e sangue.
    E se nell'ira mia sfolgorò vampa
    D'orgoglio e d'odio, or ne' pensier di morte
    La condanno e l'estinguo, e prego pace
    A' miei nemici sì viventi ancora,
    Sì nella notte dell'avel sepolti.
      Tacque di novo, e sollalzato meglio
    L'infermo fianco, assisesi, ed eresse
    La fronte, e colla palma la percosse:,
    E disse:—Io veggo l'avvenir!
                         Nell'ossa
    Degli uditori un gel di reverenza
    Rapido corse e di spavento.
                         —Io veggo
    In quel lezzo di fango e di macelli
    Volversi le repubbliche di questa
    Agitata penisola, e gli scettri
    De' Visconti e Scaligeri, e le inique
    Insegne vostre, o guelfi e ghibellini,
    E bianchi e neri, e quanti siete, o falsi
    Promettitori di virtù e di gloria!
    Giù que' brandi sacrileghi e que' nomi
    Di maledizione e di discordia!
    E giù quelle speranze, ahi, da me pure
    Nutrite un dì, nelle straniere spade!
    Gloria non sorge da esecrande leghe,
    E da trame e da perfidi pugnali
    Innalzati col vanto inverecondo
    Del patrio ben, nè da fraterne guerre.
    Cessate i mutui di vittoria sogni
    Per primeggiar sull'abborrita parte,
    Chè vane son fuggevoli vittorie
    Onde un nemico trae letizia e lucro,
    E la patria dissanguasi e s'infama.
    —Chi è quel grande che non par che curi
    Nè la bassezza della propria stirpe,
    Nè gli altrui ferri, nè i diritti altrui,
    Nè il mobil genio delle stolte plebi,
    E sale in Campidoglio, e de' Romani
    S'intitola tribuno, e or par del santo
    Seggio il forte campione, or l'irrisore?
    Insano! Ei grida libertà e ritorno
    D'Itala imperiale onnipotenza
    A rïalzar per l'orbe ogni giustizia,
    Ed, ingiusto ei medesmo, irrìta Iddio,
    E le folgori scoppiano, e quell'alto
    Simulacro d'eroe crolla, ed è polve!
    —Chi son color che un idolo si fanno
    Dell'Angioïna Gallica burbanza
    Da Carlo in trono appo il Vesevo assisa,
    E la dicon sublime esca a future
    Italiche armonie di leggi e forza
    E civiltà! Strappatevi la benda:
    Straniero è il Gallo! sua virtude è oltr'Alpe,
    Qui pianta è che traligna, e non soave
    Olezzo, ma fetor manda e veleno!
    Qui tutela è bugiarda e si converte,
    In laido furto ed in più laido oltraggio!
    Qui farmachi alle piaghe offre, e vi sparge
    Aceto e sale, e ficcavi gli artigli,
    E de' ruggiti degl'infermi ride!
    Onoriamolo oltr'Alpe, o quando inerme
    Visita le latine illustri terre,
    Non quando s'arma ed amistà ne giura!
    Lui quasi imbelli pargoli maestro
    Non invochiam, non invochiamlo padre:
    Adulti siam se ci crediamo adulti!
    E ad esser tai, non fremiti, non risse,
    Non sommosse vi vogliono, ma senno,
    E fede ai patti, ed indulgenza e amore!
      Tacque come spossato e intenerito
    Un'altra volta l'Alighier. Poi lena
    Ripigliando sclamò:—Quanto sei bella
    Fiorenza mia! Quanto sei bella, o Italia,
    In tutte le tue valli, ancorchè sparse
    D'ossa infelici e di crudeli istorie!
    E che monta che in genti altre sfavilli
    D'eccelsi troni maestà maggiore,
    Mentre per varie signorie te reggi?
    Chi può sfrondar della tua gloria il serto?
    Chi a te delle gentili arti l'impero
    Involar mai? Chi scancellar dal core
    D'ogn'uom che bevve al nascer suo quest'aure
    La gioia d'esser Italo? la gioia
    D'esser nepote dell'antica Roma
    E figlio della nuova? Abbian fortune
    Luminose altri popoli: in disdoro
    Mai non cadrà la venerata terra
    Che domò l'universo, e dove eretta
    Dall'Apostolo Pier fu la immortale
    Face che tutti a salvaménto chiama!
    Ma bastan forse aviti pregi? Il grido
    Non vi colpì de' miei robusti carmi?
    E ch'altro, poetando io per lungh'anni,
    Vi dissi, Itali, mai, fuorchè d'apporre
    Nobiltà a nobiltà, virtù a virtude
    Innanzi al mondo, e a voi medesmi, e a Dio?
    Oh gioventù d'alte speranze, i gioghi
    Del vizio esecra e non i santi gioghi!
    Le gare tue sien di pietà le gare
    E degli esimii studi, onde ammirato
    Il vïator che d'oltremonte viene,
    T'onori e dica: «Ben ne' figli brilla
    De' prischi forti la mental potenza!»
      Ahi! delle giovin'alme i novi errori
    A che biasmate, o corrucciosi vecchi,
    Maledicendo al secolo perverso?
    Che opraste voi per migliorarlo, e prole
    Ad Italia lasciar che alteramente
    Fosse sdegnosa di licenza e scismi,
    E santamente amasse ara, scïenza,
    Cavalleresca fede e patrio onore?
    Provvedete a' crescenti! egregia scola
    Sien le famiglie a' nati; egregia scola
    Patrizi e dotti alla ignorante plebe;
    Egregia scola per città e convalli
    La sapïente carità de' cherci!
    Ah sì! primiero, o Sacerdoti, esempio
    Siate tra voi di pace e bei costumi!
    Non sia drappel ch'altro drappello imprechi!
    Umiltà vi congiunga imi con sommi
    Sotto l'imper benedicente e sacro
    Dell'Apostol supremo! Ognun di voi
    Decoro sia del tempio, e sparga incanto
    D'innocenza e di grazia: allor null'uomo
    Luce di verità cercherà altrove!
      D'Alighier le profetiche rampogne
    E il supplice sospir profondamente
    Commovean gli ascoltanti. E più commossi
    Fur quando l'egro venerando vate,
    Dopo quella versata onda robusta
    D'autorevoli detti, e quell'ardente
    Sguardo che nuncio ancor parea di vita,
    Più languid'occhi intorno volse, e sparve
    Il foco onde suffuse eran le gote,
    E i fianchi più nol ressero, e la sacra
    Testa cercò dell'origlier l'appoggio,
    E la palpante man tremula corse
    Al crocefisso, e lo portò alle labbra.
      Presso all'infermo palpitàr concordi
    Gl'impauriti cuori, e mal frenate
    Voci s'udìr di pianto. Il vecchio Guido
    Mirò i piangenti ed accennò silenzio;
    Ma involontaria dal suo ciglio eruppe
    Sovra Dante una lagrima, e il poeta
    Sull'ospite magnanimo la grata
    Pupilla alzando, gli serrò la destra.
    Un de' figli di Guido al suol prostrossi
    Presso al letto, sclamando:—Eterno Iddio,
    Prendi l'inutil vita mia! conserva
    Quella del re degl'itali intelletti!
    Tutti gli accenti suoi son luce e scampo!
    Tutta la vita sua fu impareggiato
    Rimbrotto ai vili e sprone ai generosi!
    Un uom divino egli è!
                   —Giovine insano!
    Disse con voce moribonda il vate:
    Deh, sii miglior di me! Mia forza imìta,
    Non l'ire mie superbe.
                    —O padre Dante,
    Ripigliò quegli, se i miei dì non ponno
    Invece de' tuoi dì farsi olocausto,
    Consiglia, impera; dimmi: ov'è la insegna
    Nel secol mio più santa? ov'è la insegna
    Cui darà palma Iddio sovra gl'iniqui?
    Ov'è la insegna destinata a cose
    Sulla terra sublimi? Io vo' seguirla!
      E il vate a lui:—Non chieder tanto: il ferro
    E la mente consacra al natio prence,
    Al natio lido, e lascia a Dio l'arcana
    Delle sorti bilancia: ogni stendardo
    Che non sia traditor guida a virtude.
      Disse, e pose la man sovra la testa
    Del fervido garzon. Questi aspettava,
    Tutti aspettavan che parola ancora
    Benedicendo da quel labbro uscisse:
    Irrigidita era la man, gelata
    Nelle fauci la lingua, estinto l'occhio…
    L'alma di Dante era salita al Cielo!

[1] L'orologio d'Alfieri mandatomi in dono da Firenze nel 1833 dalla signora Quirina Magiotti.

FINE.

INDICE DELLE CANTICHE.

  Raffaella……………….Pag. 9.
  Ebelino…………………… 35.
  Ildegarde…………………. 81.
  I Saluzzesi………………. 121.
  Aroldo e Clara……………. 219.
  Roccello…………………. 247.
  La morte di Dante…………. 285.

Con permissione.

PRESSO GIUSEPPE BOCCA LIBRAJO DI S. M.

End of Project Gutenberg's Poesie inedite vol. II, by Silvio Pellico