Title: Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 1
Author: conte Cesare Balbo
Release date: November 14, 2006 [eBook #19808]
Language: Italian
Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)
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BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI
1913
LA CASA G. LATERZA & FIGLI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1913
(Losanna, Bonamici, 1846).
Il presente ristretto è stato scritto ad uso dell'Enciclopedia popolare che si viene stampando in questa cittá. Gentilmente richiestone, or fa l'anno, da quegli editori, io accettai molto volentieri l'incarico, l'occasione di raccogliere in uno e compendiare i vari studi di storia d'Italia che io era venuto facendo dal 1824 in qua. Ma il tempo, lo spazio or concedutimi erano brevissimi; e poi, quelle condizioni della pubblicitá in Italia che ognun sa, sforzavano quegli editori, ed, accettato l'incarico, me stesso ad alcune soppressioni. E di queste, ed anche piú di quella fretta, rimangono numerose tracce e nell'edizione dell'Enciclopedia, ed in quella staccatane e lasciata, salvo il sesto e l'errata, compiutamente conforme, affinché ella fosse sofferta dove era stata sofferta la prima. Quindi io avea premura, lo confesso, di sottoporre a' miei compatrioti un'edizione compiuta, e quanto sapessi, nel medesimo tempo, corretta.—E tale è questa.
Ma a malgrado la nuova o totale elaborazione, niuno sa meglio di me quanto rimanga questo lavoro pieno di difetti; irreparabili gli uni come dipendenti dalla natura dell'opera o da mie forze inadeguate, piú o meno correggibili gli altri. I quali ultimi poi possono essere di due sorte: errori e dimenticanze di fatti importanti, errori di giudizi, di opinioni.
Degli errori e delle dimenticanze di fatti, io desidero, io domando a' miei colti leggitori, di volermi donare quante piú correzioni vengano loro vedute possibili, serbando la natura, l'estrema brevitá dell'opera; e di donarmele privatamente o pubblicamente, in qualunque modo paia loro piú opportuno e piú comodo. Se mai con qualche lavoro precedente o col presente io mi sia acquistata la benevolenza di alcuni, io questi prego specialmente di essermi larghi di tale aiuto. Ed oso pur pregarne quegli stessi a cui lo scrittore rimanga indifferente, ma a cui tal non sia la storia di nostra patria, o l'uso che si può fare di essa. Finché non avremo un grande e vero corpo di storia nazionale, da cui si faccia poi con piú facilitá e piú esattezza uno di que' ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si dice, un «manuale», io non so se m'ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo. Né mi porrò a dire l'utilitá che verrebbe d'un tal manuale ben fatto; ma è appunto a far questo intanto il men cattivo possibile, ch'io domando l'aiuto de' compatrioti. E giá il signor Predari direttore dell'Enciclopedia, a cui debbo inoltre l'occasione di questo libro, e via via i signori Carlo Promis, Federigo Sclopis, Luigi Cibrario, Roberto e Massimo d'Azeglio, Ricotti e Carena non mi negarono di tali aiuti; i quali io nomino ed a gratitudine ed a vanto, né senza speranza di poter a questi aggiugner altri onorati nomi, quando che sia.
Quanto alle opinioni storiche o politiche, io so bene, che voglia io o non voglia, me ne saranno fatte critiche, piú o meno moderate, piú o meno cortesi, piú o meno esatte, secondo la natura, l'educazione e gli studi di ciascuno; e che l'ultime di queste potranno certo esser utili agli studiosi di nostra storia. Ma non paia superbia se aggiungo, che queste critiche, cioè in somma queste esposizioni delle opinioni altrui, potran difficilmente mutar le mie; siccome quelle che sono non solamente sincere, ma da lunghi anni concepite e quasi fattemi passar in sangue, e dall'educazione ricevuta da un padre lungamente, onoratissimamente sperimentato ne' pubblici affari, e da quel poco di sperienza che potei acquistar io stesso dal 1808 al 1821, e dall'aver sofferto per esse poi, e dai non brevi studi fatti d'allora in poi. E mi si conceda aggiugnere, che pochi uomini, anche de' paesi piú liberi, hanno al par di me quell'indipendenza di opinioni che è somma forse di tutte, quella che viene a uno scrittore dall'aver poco a temere, nulla a sperare politicamente per sé. È vero, che, come ognuno che scriva, io tengo in gran pregio, io desidero con ardore quel consenso de' leggitori, quella simpatia de' compatrioti che si chiama «popolaritá», e che è insieme sanzione di ciò che s'è voluto far per la patria, e mezzo a servirla ulteriormente; ed è vero che quando io n'ebbi alcun cenno (da que' giovani italiani principalmente, nelle cui mani son per passare i destini della patria), mi venner dimenticate tutte quelle pene, che non son poche, dello scrivere in Italia, e dimenticate le risoluzioni di non iscrivere piú. Ma appunto la popolaritá mi parve sempre, come i pubblici uffici, mezzo di potenza, mezzo di servire la patria, e non piú; come scopo ultimo, nulla sono gli uffici, nulla la popolaritá. E quindi chi è ridotto a servir la patria d'«opere d'inchiostro», cioè d'opere di veritá, se abbandoni scientemente questa la quale sola può giovare, per correr dietro alla popolaritá, ei corre dietro a un mezzo senza scopo, a un nulla che porta a nulla. Ei mi fu detto giá, che alcune opinioni mie non sono popolari in Italia. Tanto meglio dunque l'averle scritte: quando si scrive con vero e vivo convincimento, non si suole scriver ciò di che tutti sien giá persuasi; si scrive appunto per far passare le proprie opinioni dalla minoritá alla pluralitá. E quest'è che dá sovente piú calore agli scritti della minoritá: la brama di diventar pluralitá colle ragioni. Il che poi, sol che si potessero far correr davvero e sufficientemente le ragioni, sarebbe forse piú facile in Italia che altrove; perché, tra tutti i vizi acquistati, ella serba indestruttibili, e prime forse del mondo, le sue facoltá, le sue virtú intellettuali.
Il desiderio di rimanere indipendente, non solamente da altrui ma per cosí dir da me stesso, da ciò che possa essere in me men ragione che sentimento, mi fece fermarmi all'anno 1814. Giá lungo tutta l'opera m'era paruto penosissimo quell'ufficio storico del giudicar cosí brevemente tanti fatti, tanti uomini grandissimi; la brevitá aggiugne inevitabilmente alla severitá; le parole stringate e tronche prendono naturalmente aspetto di assolute, aspre, superbe. E giá, appressandomi a' tempi nostri, mi si era raddoppiata tal pena. Ma ei mi sarebbe riuscito intollerabile cosí giudicare gli uomini viventi, e a me non ignoti, né per benefizio né per ingiuria. Io mostrai in altro scritto non aver ripugnanza, non timor forse al discorrere delle cose presenti; ma appunto ne discorsi lá distesamente, e prendendo agio a quelle eccezioni e spiegazioni, che sole fan tollerabile un tal discorso alla coscienza d'uno scrittore. Ei fu detto giá, doversi ai morti non piú che la veritá, ma ai vivi anche riguardi. Ma io non so fino a qual punto sia giusta tal distinzione; parendomi che a morti e vivi si debbano veritá e riguardi; salvo un solo di piú ai vivi, quello di lasciarli finir lor vita prima di giudicarli definitamente e assolutamente. Iddio stesso fa cosí; finché dura lo stato di prova, ei lascia a tutti di poter giustificare e ricomprar le opere fatte colle fattibili: non tronchiamo a nessuno il tempo conceduto da Dio.—Del resto, l'aver appunto parlato del tempo presente in un altro studio mio, m'era nuova ragione di non riparlarne qui. Io desidero che il presente studio rimanga introduzione o compimento a quello.
Finalmente, parrá forse ad alcuni che un semplice sommario avrebbe potuto e dovuto scriversi sciolto da qualunque opinione, e che cosí scritto avrebbe potuto durar utile piú a lungo. Ma prima, ei mi parve sempre materialmente impossibile scrivere una storia, o un compendio, o una stessa tavola cronologica, senza esprimere piú o meno le proprie opinioni: chi si vanta di cosí fare, nol fa all'opera; e per applicar qui un modo di dire napoleonico, le opinioni si scopron fin dietro alle date ed alle virgole. E poi, elle mi paiono forse piú necessarie e piú utili ad esprimersi in un compendio che in una storia distesa; piú necessarie, perché quanto meno si scende ai particolari, tanto piú diventa indispensabile spiegar i fatti con quelle esposizioni generali, che in somma sono esposizioni di opinioni; piú utili, perché quanto piú si accumulano e si ravvicinano fatti a fatti, tanto piú ne risultano a vicenda spiegate e quasi commentate le opinioni. E cosí, per vero dire, veggo essere stato fatto da Bossuet, da Hainault, que' modelli de' compendiatori, ed anche da Mignet e Zschokke a' nostri dí. Che anzi, perché non dirlo? non che vergognarmene, io me ne vanto: un compendio destinato non agli eruditi, non ai letterati; ma a' semplici colti, e cosí ai piú numerosi e piú pratici uomini d'una nazione, porge un'ottima occasione a persuadere i compatrioti, una di quelle occasioni che non si lasciano sfuggire da nessuno sinceramente convinto delle proprie opinioni, e caldo quindi a promuoverle. E quanto al durare o non durare, io temo che duri pur troppo lungamente opportuno l'inculcare nelle menti e nei cuori italiani quel principio d'indipendenza che è il nucleo, il substrato di tutte le mie opinioni storiche o politiche. E venga pur il tempo che non si tratti piú d'acquistare ma solamente di applicare quel principio, quella fortuna, quella virtú. Non che invecchiare, io credo che ella sará allora ringiovenita, piú cara a tutti; ed io la veggo aver cosí ispirate le migliori storie delle piú indipendenti nazioni del mondo. Del resto, porti pur questo libretto le tracce del tempo suo: è destino di ben altri e maggiori, e le storie specialmente (se ne persuadano leggitori, scrittori, critici e governi), o bisogna spegnerle del tutto, o lasciarle ritrarre insieme e i tempi di che elle scrivono, e quelli in cui elle furono scritte.
Torino, 16 novembre 1846.
Nella prefazione all'edizione terza di Losanna 1846, ho esposto come mi venisse scritto questo volume ad uso di un'enciclopedia, quali aiuti e difficoltá vi avessi, quali opposizioni io prevedessi dall'opinione di quei tempi; tutti que' particolari insomma, che sono o paiono necessari a dirsi, al momento di una pubblicazione. Ma passati pochi anni, tuttociò non ha guari piú interesse se non per chi scriva forse qualche articolo di bibliografia, biografia, o storia letteraria.
E cosí sará probabilmente dei particolari seguenti che mi paiono ora necessari. Non tenendo conto delle due edizioni fatte senza mia saputa (con data di Bastia… e Losanna 1849)[1], questa è la prima, che rifaccia io dopo quella terza del 1846. Ora, cosí facendo dopo quattro tali anni, io v'avevo due soli modi schietti: primo, ristampare esattamente il mio testo del 1846, per serbare cosí intiero quel poco di merito o di fortuna che poté essere allora a prevedere e suggerire qua o lá alcuni «invidiati veri». E confesserò che, oltre alla pigrizia, la mia vanitá letteraria, od anche politica, mi fece pendere a tal modo. Ma per cosí fare con indisputabile ischiettezza, era necessario non introdurre una correzione né di storia, né di stile, o nemmeno di stampa; lasciare il testo scrupolosamente qual era, e poter dire che non vi s'era mutato una sillaba. E mi parve men bello, e forse brutto sagrificare a quelle vanitá quanti miglioramenti avessi a fare, ora omai, al mio lavoro. Se io ristampassi quelle opere politiche che scrissi giá a diverse occasioni, io mi terrei a siffatto modo di riproduzione letterale, sola onesta in tal caso. Ma qualunque scritto fatto con intenzione a tutti i tempi, e perciò qualunque storia, deve certamente migliorarsi dallo scrittore, finché e quanto piú possa.—Quindi mi appigliai e seguii il secondo modo; di fare tutte le correzioni di stampa, di stile, di storia, od anche di politica, che mi venisser sembrando necessarie od utili, senza niun ritegno né cattiva vergogna. Io m'ero giá dato l'esempio di non temer condannarmi, accennando ai fatti del 1809; che se poi io abbia forse dimostrata qualche consistenza di princípi e di fatti nella mia non breve vita letteraria o politica, io me l'attribuisco non a merito ma a fortuna; alla fortuna primamente dell'educazione e degli esempi paterni, ed a quella pur forse d'essermi rivolto a questi studi della storia nostra. Né di biasimo, ma di lode mi sembran degni coloro, pochi pur troppo, i quali sanno fare buon pro degli insegnamenti dati dalla sperienza o dallo spettacolo di grandi eventi.
[1] Le edizioni che si fecero di questo libro senza saputa dell'autore furono cinque, fatte a Losanna nel 1848 e nel 1849, a Milano, a Napoli ed a Bastia; onde l'ultima del 1852 fatta a Torino, con consenso dell'autore, riuscí la nona, e la presente è la decima, se non se ne son fatte altre (Nota dell'edizione Le Monnier).
Ma il fatto sta che effettuando con tali propositi le mie correzioni, e facendone innumerevoli di stampa e di stile, ed alcune ne' fatti storici, non ne trovai, ch'io ne sia conscio, una sola da fare ne' miei princípi storici o politici, ed una sola (che notai) nelle mie previsioni; e che tutte le altre mi sembrano anzi, esser consistite in porre al passato alcune allusioni le quali erano al futuro, ovvero in confermare, e rinforzare i princípi giá posti.—Del resto, le due edizioni sono lí, facili ad aversi alle mani da chiunque voglia comparare, giudicare o biasimare. Io abbandono il mio libro e me stesso a' miei critici nemici od amici. Non trovai tempo finora, ed ancor meno genio a scrivere delle cose mie; né forse ne troverò: e rimango intanto non senza fiducia che la mia indifesa perseveranza sia per aggiungere qualche conferma a quei princípi, di che penetrato io ogni di piú, è naturale ch'io desideri penetrare i miei compatrioti.
A coloro poi i quali biasimano, quasi contrario alla imparzialitá della storia, questo modo di scriverne, non solamente narrando ma giudicando, io ho giá risposto e nella citata prefazione ed altrove. Ma perché, se v'è colpa, io l'ho aggravata nella presente edizione, aggiugnerò qui: che l'imparzialitá mi sembra consistere non nel non giudicare, ma nel giudicare imparzialmente; che anzi non capisco come possa essere imparzialitá dove non sia giudizio; che senza questo non può essere se non indifferenza, e che le storie (fortunatamente rare) scritte con indifferenza alla virtú od al vizio, alla buona od alla cattiva politica della patria, adempiono male quell'ufficio, che pur si pretende imporre alla storia, di maestra della vita pubblica degli uomini e delle nazioni. Del resto, tutto ciò tocca a una questione piú che letteraria e delle piú importanti nelle condizioni presenti della patria nostra. A qualunque nazione è necessario farsi e tener ferma una politica nazionale. È chiaro per sé; uomo o nazione, niuno vive bene senza uno scopo buono e ben tenuto; e la fortuna è de' perduranti. Ma abbondano gli esempi a conferma: Roma antica, ed anche moderna; casa d'Austria da parecchi secoli; casa Prussia e casa Russia da poco piú di uno; il piccolo e nuovo Belgio da vent'anni; e sopratutto quei due popoli che vantan comune il vecchio sangue sassone, ma si trovano in condizioni e luoghi cosí diversi; vecchio l'uno sul proprio suolo, monarchico, ed in mezzo agli interessi europei; nuovo l'altro all'incontro, repubblicano ed isolato fra le solitudini americane; e che tutti e due colla fermezza delle loro politiche interne sono cresciuti, l'uno da centocinquanta l'altro da settantacinque anni, a tal grandezza da contendersi e dividersi oramai l'imperio, il primato, l'egemonia dell'orbe intiero. Noi siamo lungi da siffatti destini; non abbiamo da conquistar egemonie, preoccupate da altri, impossibili a tramutarsi, stolte a sognarsi, per ogni avvenire prevedibile. Ma abbiamo conquiste molto piú importanti a fare o compiere; la libertá e l'indipendenza importano incomparabilmente piú che l'imperio del mondo. Né arriveremo mai a siffatti scopi, se non sappiamo prefiggerli a noi stessi con sapienza, e tendervi poi con virilitá e costanza; cioè se non sappiam farci e seguir poi una buona politica nazionale. Miriamo agli esempi contrari e fatali del secolo presente: Francia, Spagna, Germania, Polonia; o meglio, miriamo a noi stessi da quattordici secoli in qua fino a ieri.
Nelle monarchie assolute e nelle aristocrazie, le politiche nazionali si fondano e si serbano molto piú facilmente; basta un gran principe o un gran cittadino ad inventarle; e si tramandano poi per successione, per educazione, per tradizione. Fu giá piú difficile nelle democrazie antiche e del medio evo, dove molti giá concorrevano ad avviare o sviare la cosa pubblica; ma negli Stati rappresentativi moderni (repubbliche o monarchie con poca differenza, benché con qualche vantaggio dell'ultime) i concorrenti alla cosa pubblica non sono piú a migliaia, né a centinaia di migliaia, come i cittadini raccolti sulle piazze di quelle repubbliche municipali; bensí a milioni sparsi su territori estesi e diversi; ondeché è cresciuta d'altrettanto, dall'uno al mille talora, la difficoltá di formare e serbare quell'opinione comune e costante che forma e serba qualunque politica nazionale. Che anzi, la difficoltá sarebbe impossibilitá senza quell'aiuto, quello stromento somministrato a tempo dalla Provvidenza conduttrice degli eventi umani; non fu possibile il vero e durevole ordinamento de' governi rappresentativi, prima che si fosse inventato e diffuso un mezzo ad ampliare la discussione della cosa pubblica in quella medesima proporzione, prima che si fosse inventata e diffusa la stampa. Io ho accennato in questo volume l'epoca dell'invenzione della rappresentanza, precedente di due secoli alla invenzione, di tre o quattro alla diffusione della stampa. E l'invenzione della rappresentanza non serví, venne meno, si neglesse, si perdé, finché non fu fatta e diffusa quella della stampa.
La stampa aiuta il buono ordinamento degli Stati rappresentativi in tre modi: 1° diffondendo in tutti gli angoli del paese, portando a cognizione di tutti i concorrenti alla cosa pubblica gli atti e i discorsi e le opinioni degli uomini pubblici che la conducono; 2° discutendo via via quegli atti, que' discorsi, quelle opinioni, tutta la politica giornaliera; 3° innalzandosi a discutere, sforzandosi a stabilire una politica permanente della nazione. I due primi uffici sono della stampa giornaliera; dove questa esiste ed è libera, cessa l'utilitá e la frequenza di quegli scritti politici fatti all'occasione, che si dicono altrove «di circostanza», «brochures», «pamphlets». Ma tutt'all'incontro, l'ufficio di fondare la politica permanente d'una nazione qualunque non può esser adempiuto bene dalla stampa giornaliera; preoccupata della giornaliera politica; non si può, non si suole adempier bene da essa, nemmeno presso alle nazioni raccolte in uno Stato, dove sono una cosa sola la politica della nazione e quella dello Stato; ma è piú impossibile che mai presso a una nazione divisa in vari Stati, dove perciò sono cose necessariamente moltiplici la politica della nazione intiera e le politiche parziali degli Stati divisi. Non serve deplorar sempre i fatti deplorabili; bisogna mutarli dove sia possibile; e dove no, sapervi applicare la politica giornaliera o permanente della patria. E cosí in una divisa in parecchi Stati, quand'anche fossero tutti rappresentativi, bisogna saper vedere che la politica nazionale permanente non è possibile a formarsi bene né dagli oratori né dai pubblicisti giornalieri di ciascuno di quegli Stati; non è possibile, se mai, se non da quegli scrittori che rotti alla pratica ed allo studio della cosa pubblica ne sappiano raccôrre i risultati in iscritti posati e meditati con mira alla patria intiera. Dico che questi soli hanno probabilitá di fondare una politica permanente della nazione italiana, perché non tengo per probabilitá computabile, tengo per poco piú che caso, quello che avvenisse mai d'un principe od uomo di Stato, cosí grande insieme e cosí fortunato, da vincere le discordie e le invidie, da raccôrre in una le diverse opinioni, le politiche parziali italiane.
Tolto un tal caso, un tal dono di Dio, che non si sprechi l'ufficio di fondare la futura politica patria, non può appartenere se non agli studi, agli scritti gravi, lungamente, virilmente apparecchiati e condotti; non può appartenere se non a voi, giovani scrittori italiani i quali venite su in etá tanto piú fortunata che non la nostra, i quali v'avete non solamente quella libertá di scrivere e pubblicare, quelle occasioni e quegli eccitamenti che non avemmo noi, ma uno scopo oramai determinato e magnifico, lo scopo di mantenere ed estendere la libertá e l'indipendenza. Non vi lasciate forse ingannare da vane speranze o vani timori, lusinghe d'ogni pigrizia, impedimenti ad ogni operare. Questa politica nazionale non ci è, ma ci può essere per opera virile di voi. Non ci è, posciaché si tituba ancora; ne' fatti, tra l'assolutismo e la libertá rappresentativa; e nell'opinione, tra la monarchia rappresentativa e le repubbliche rappresentativa o democratica o sociale o che so io, posciaché si dubita forse della stessa necessitá dell'indipendenza, certo sui modi di acquistarla ed ordinarla. Ma ella può essere poi certamente. Non sono i compatrioti vostri piú ottusi o men capaci di ragione degli altri popoli civili; sono, è vero, piú appassionati nell'azione, piú disavvezzi d'ogni politica, piú nuovi alla rappresentativa: ma non vi lasciate sgomentare; tali difficoltá son di quelle che si vincono. Voi vincerete le passioni colla ragione, purché vogliate ragionare, valendovi de' riposi che avvengono sempre tra le rivoluzioni; voi vincerete ogni ignoranza con gli studi vostri, purché li sappiate fare e scrivere poi con sinceritá, semplicitá e virilitá. Né vi lasciate soverchiare, nemmeno dal sentimento (quantunque bello, in voi giovani principalmente) del rispetto ai maggiori. I vostri grandi avi, iniziatori di tutta la coltura e di gran parte della civiltá europea, scrissero secondo le opportunitá e le possibilitá di quei princípi; non potevano scrivere secondo le possibilitá e per le necessitá de' vostri tempi progrediti e progredienti. I vostri avi piú vicini e minori scrissero di ciò che potevano, e cosí non, o male, di politica, lungo i tre secoli di servitú. E i vostri padri poterono a stento abbozzare, accennare desidèri. Voi avete un dovere, un destino severo, ma magnifico; avete tutto da fare in materia di politica nazionale, avete un'opera meno da compiere che da fare o rifare tutta intiera; tutta l'opera politica della patria vostra, tutte le parti ond'ella si compone: spiegazioni del passato, esposizioni del presente, previsioni dell'avvenire, storia generale della patria, storie speciali de' diversi Stati e delle diverse etá, politica generale e politiche speciali, statistiche od inventari delle forze vive o morte della nazione, comparazione con quelle degli avversari, degli alleati, di tutti i compagni di civiltá; ed avete ad inventare per fino le forme, i mezzi, lo stile e la lingua a tutto ciò. Tutto ciò decadde ne' tre secoli, né si può imitare da modelli piú antichi, antiquati. Voi avete tutto a fare; voi siete nella piú bella condizione che sia o possa essere al mondo, per uomini giovani, forti, e bramosi di servir la patria.
Quanto alla storia in particolare, io non vorrei cadere in quel vizio o pedanteria di esagerare l'importanza di quello studio a che abbia atteso ciascuno piú specialmente. E quindi non aderirò a quel detto, che la storia non sia la gran maestra della vita pubblica agli uomini ed alle nazioni; piú gran maestra agli uni e all'altre è la pratica senza dubbio. Ma dove manchi la buona pratica (e tale è il caso nostro pur troppo), la storia è pure il miglior aiuto, il miglior fondamento che si possa avere ad una politica nazionale. Mal si fonda qualunque politica sulle piú profonde considerazioni teoriche o filosofiche, ovvero sulle stesse condizioni naturali del paese o delle schiatte. A quel modo che non poche cose fatte di mano degli uomini, come le fortezze, le vie, i canali, i porti di mare e le grandi cittá diventano condizioni del paese non meno reali od importanti che le naturali, i monti, i fiumi, o le marine; cosí i fatti de' maggiori lasciano tradizioni, memorie, nomi, glorie, addentellati, che son pur essi realitá in mezzo a quelle de' fatti presenti. E la storia poi è il solo registro di tali realitá; sola ella ricorda come sí sien poste in opera or bene or male queste e tutte le altre realitá naturali od artefatte, tutte le forze vive o morte della nazione; sola ella può giudicare quali esempi patrii sieno da imitare, quali da fuggire. Una nazione nuova senza storia (come l'americana) ha nel fondare la sua politica i vantaggi degli uomini nuovi; piú operositá, piú o sola preoccupazione avvenire, niun impaccio di diritti o pregiudizi passati. Ma una nazione vecchia, e che perciò abbia storia, ma non la sappia, non ha i vantaggi né degli uomini nuovi né degli antichi, ha tutti gli svantaggi degli uni e degli altri, orgogli con ignoranze, pregiudizi senza tradizioni, i vizi senza le virtú degli avi, impossibilitá di rifare il passato, incapacitá di farsi un avvenire. Non v'è rimedio; non si può uscire dalle condizioni del proprio essere; bisogna saper esser bene ciò che si è; chi ha un passato, debbe tenerne conto nel presente, se vuole apparecchiarsi un avvenire.
Ma io tronco questo discorso di un tempo che si annunzia oramai sereno all'operositá italiana, per tornare alla mia oscuritá. Fu giá sogno di mia gioventú letteraria scrivere una storia generale di mia patria. Fu colpa mia non averlo adempiuto? Dio solo sa ciò che avrebbono potuto gli uomini. Ad ogni modo questo volume è misero resto di quel sogno. Sia tale almeno, che porti seco tutta quella utilitá che può avere. Un ristretto come questo non può recare quegli esempi particolari che soli servono d'insegnamento alla vita pubblica degli uomini; ma raccogliendo in poco spazio e presentando cosí alla memoria ed all'attenzione altrui la vita intiera d'una nazione, può servir talora alla formazione della politica permanente di lei. Non aggiungo alla piccolezza del lavoro né la miseria delle vanitá personali né quella di troppa obbedienza alle supposte od anche alle buone regole. Se si trovi soverchio il mio discorrere per un sommario, si muti questa parola sul titolo, e vi si ponga Discorsi. Ci sará cosí almeno conceduto il discorrere.
Per servire al medesimo scopo, ho esteso e posto al passato il cenno ch'io faceva giá degli anni non finiti allora dal 1814 al 1848; ed ho aggiunte alcune parole sugli anni presenti.—Debbo i miglioramenti tipografici, e quello principale dell'indice dei nomi, a' miei editori; e debbo al signor Reumont, tedesco caro all'Italia, alcune correzioni dei fatti storici: ne avrei potute far altre, se in questi anni in che si pensava a tutt'altro che libri, non avessi smarrite alcune simili note mandatemi da altri benevoli ed attenti leggitori. Se non fosse indiscrezione nuova, pregherei questi a rimandarmele, e chicchessia a mandarmene altre. S'intende sempre correzioni di fatti; ché, quanto a' princípi od opinioni, è piú difficile che mai ch'io ne muti nessuna.
Torino, 5 novembre 1850.
(anno 2600 circa—390 circa av. G. C.).
1. I tirreni.—Gli antichi, ed alcuni moderni, credettero i popoli primitivi nati sul suolo in varie parti della terra; ma le scienze fisiologiche, le filologiche e le storiche progredite non concedono tali origini moltiplici; ne ammettono una sola, dall'Asia media tra l'Indo e l'Eufrate, e da una famiglia cresciuta in tre schiatte, semiti, camiti e giapetici.—L'Europa, salve poche e piccole eccezioni, fu tutta de' giapetici. I primi stanziativi furono, secondo tutte le apparenze, i iavani, iaoni, o ioni; i quali popolarono ciò che chiamiam Grecia e i paesi all'intorno, e diedero nome di Ionio al mare ulteriore.—I secondi furono probabilmente i tiraseni, tirseni, raseni o tirreni, i quali occuparono ciò che chiamiamo Italia, e diedero similmente il nome di Tirreno al mare ulteriore ad essi. Vennero dalla punta dell'Asia minore, dall'ultime falde del Tauro, da quelle regioni che si chiamaron poi Lidia; come risulta da tutte le tradizioni italiche, duranti a' tempi ancora di Tacito. Dimorarono e dieder nomi in Tracia; stanziarono nella nostra penisola; e par che vi si dividessero in tre parti principali: i taurisci o montanari a settentrione, di qua e forse di lá del nuovo Tauro, cioè dell'Alpi nostre: i tusci od etrusci in mezzo: gli osci a mezzodí. E, fosser parte della medesima grande schiatta, o solamente compagni della medesima migrazione, par che insieme o poco appresso venissero i veneti, e stanziassero nei paesi detti poi Venezia ed Illiria.—Perchè poi da queste regioni si sparsero a settentrione molte genti, dette giá veneti, illirici, pannoni, sarmati, e poi tzechi, lechi e russi, ed ora comprese tutte sotto il nome di «slavi»; e perché, s'io non m'inganno, alcuni segni di consanguineitá rimangono tra le lingue slave ed italiche; perciò io crederei comune pure alle due schiatte l'origine tirasena. Ma è semplice congettura.
2. Gli iberici.—Migrarono parimente nella penisola e nell'isole nostre, gli iberici e i kettim, kelti o celti; due popoli ch'io crederei staccati dalla famiglia de' iavani. Gli iberici (che nominiam cosí per non entrare in lunga discussione sul nome loro primitivo), giunti alla nostra penisola, si divisero; e gli iberi propriamente detti progredirono oltre alle bocche del Rodano ed alla penisola detta poi Iberia da essi, mentre gli altri rimasero da noi. Questi si suddivisero poi, nominandosi ligi o liguri all'occidente di nostra penisola sulle bocche del Rodano fin oltre i Pirenei, e probabilmente anche nell'isole di Corsica e di Sardegna; vituli, viteli od itali, in mezzo; siculi, siceli e sicani, nel mezzodí e nell'isola detta da essi Sicania e Sicilia; nella quale, come nell'altre isole, tutti questi si sovrapposero a' ciclopi, lestrigoni ed altre genti fenicie, camitiche o semitiche. Ma tutti questi iberici, par che fossero men numerosi che non i tirreni; e certo non occuparono definitamente se non la metá occidentale della penisola, sia che ne cacciassero i tirreni, o che si sovrapponessero ad essi e li signoreggiassero.
3. I celti-umbri.—Della migrazione celtica io crederei ch'ella si dividesse prima di giugnere a noi in due grandi fiumane, di lá e di qua dell'Alpi. La settentrionale risalí il Danubio, e stanziò intorno ad esso; finché spinta innanzi dai dod, toth, deudch, teutch o teutoni, passò il Reno ed occupò la gran regione detta da essi Celtica, da qualche gente di essi Gallia, e l'altra detta Britannia. La migrazione meridionale e minore dei celti-umbri entrò nella nostra penisola, e vi si sovrappose a' tirreni in tutta la parte orientale della nostra penisola dall'Alpi piú o meno fino al Metauro; onde ella fece una punta tra gli Appennini lungo l'Ombrone, fino al mar Tirreno. Ed essa pure vi si suddivise in tre: gl'isumbri od insubri sul Po; i vilumbri alla marina; gli olumbri tra l'Appennino. Né faccia specie questa divisione in tre, cosí costante tra' popoli italici: si ritrova in ben altri; in quasi tutti quelli del globo, principalmente nei giapetici.
4. Tempo, ordine di queste tre immigrazioni primarie [anni 2600 circa-1600 circa].—Tuttociò nel millenio dall'anno 2600 al 1600, approssimativamente. La prima di quest'epoche ci è data con gran probabilitá dal trovar incontrastabilmente popolate giá allora non soltanto l'Egitto e l'India piú vicine, ma anche la Cina piú discosta che non le terre nostre dalla culla comune; la seconda con piú certezza, dal trovar allora incontrastabili qui tutte tre le grandi schiatte e le suddivisioni accennate.—Piú dubbio può rimanere sull'ordine delle tre immigrazioni tirrena, iberica, umbra. Ma i tirreni si trovan dapertutto, gli iberici nella metá piú lontana dal punto d'arrivo, gli umbri piú vicini, e i tirreni sparsi, soggetti tra gl'iberici e gli umbri; ondeché par probabile l'ordine detto: venuti primi i tirreni; poi gl'iberici e gli umbri insieme, ovvero secondi gli iberici e terzi gli umbri. Ad ogni modo, queste tre immigrazioni precedettero senza dubbio le altre, si trovano stanziate quando avvennero l'altre, e si possono quindi dir primarie.
5. I pelasgi; immigrazioni secondarie [1600 c.-1150 c.].—Durante quel millenio [intorno al 1900] una serie d'immigrazioni marittime succedettersi in Grecia, e furono secondo ogni probabilitá principalmente di semiti. Venner cacciati probabilmente d'Egitto, di Palestina o Fenicia; e col nome di pelasgi o phalesgi, che in lor lingua suonava «dispersi» o «raminghi», si sovrapposero colá ai ioni primitivi, occuparono e nomaron da essi Pelasgia la penisola meridionale, salirono alla media, ed in Tessaglia. Regnarono, guerreggiarono, sacerdotarono, incivilirono dapertutto. De' ioni vinti, parte migrarono probabilmente, e son forse quelli veduti; parte rimasero, o sudditi, o rifuggiti a' monti, e furono gli elisi o elleni. Ridiscesero questi, o si sollevarono guidati da Deucalione ed altri eroi; e, combattuta una lunga guerra d'indipendenza, di cui l'ultima gran fazione fu la distruzione della pelasgica Troia intorno al 1150, cacciarono dal suolo patrio gli stranieri pelasgi, ridotti cosí a nuovo errare.—I piú e principali di questi cacciati migrarono via via nella nostra penisola. La storia n'è chiara da molte tradizioni; precipuamente da quelle raccolte da Dionisio d'Alicarnasso, scrittore screditato giá da alcuni moderni, riposto in onore da parecchi contemporanei nostri. Egli distingue le migrazioni, le narra con particolari, ne cita e discute i fonti, le date; niuna critica sana lo può rigettare.—La prima invasione venne dunque intorno al 1600; approdò al seno de' peucezi, passò all'opposto degli enotri (genti sicule probabilmente), s'estese, salí su per la penisola fra altre genti sicule, itale, osche e tusche fino intorno a Rieti—La seconda scese alla bocca meridionale del Po, a Spina, vi stanziò in parte e fu distrutta, e parte penetrò fra gli umbri, gl'itali e i tusci a raggiungere i consanguinei. Allora lá intorno a Rieti (in quelle regioni dov'era stato probabilmente il centro degli itali, dove fu poi certamente quello della gran sollevazione italica contro ai romani, dove restano anche oggidí i nomi dell'«umbilico d'Italia», del «gran sasso d'Italia») fu il centro della potenza pelasgica. Di lá raggiarono, occupando e fortificando cittá e castella; lá abbondano anche oggi le rovine di lor mura militari, simili alle pelasgiche di Grecia nella costruzione e nel nome (argos, acros, arx). I siculi furono rigettati a raggiungere i consanguinei in Sicania o Sicilia; gl'itali, gli osci, i tusci, dispersi a' monti o soggiogati, come gli elleni nell'altra penisola.
6. Continua.—E come gli elleni, essi ricacciarono poi quegli stranieri. Perciocché l'ira degli dèi, dice Dionisio, l'ira del servaggio diremo noi, sollevò tutti i nostri popoli primari contra a questi secondari; l'unitá del servaggio li riuní in una impresa d'indipendenza, simile all'ellenica, prima dell'italiche. E forse fin d'allora crebbe il santo nome d'Italia, estendendosi dalla gente prima, o piú ardita nell'impresa, alle seguaci. Ad ogni modo questa incominciò e finí in poco piú d'una generazione, intorno al tempo dell'assedio di Troia [1150 circa]. I pelasgi, ricacciati al mare per la terza o quarta volta (dall'Egitto, dalla Palestina, dalla Ellenia ed or dalla Tirrenia od Italia), si dispersero per l'ultima volta, or pirateggiando, or rifuggendo in vari luoghi del continente e delle isole elleniche, e fino in Tracia, dove alcuni pochi serbarono gran tempo lor lingua, trovata barbara da Erodoto. Forse alcuni ne rimasero nell'Italia o penisola inferiore. Ma furono pochi per certo; ondeché di tanti sangui fin d'allora rimescolati nell'italico, non rimase certamente se non a stille il pelasgico. Rimasero sí comuni co' pelasgo-ellenici molte parole e numi, riti, costumi e simboli, e stili di belle arti.
7. Magno-greci; immigrazioni terziarie [a. 1150 c.-600 c.].—Oltreché, fosse per finir di cacciar di qua come da Troia gli odiati pelasgi, o fosse per imitarli e sottentrar loro dopo che furono cacciati, ad ogni modo gli elleni essi pure migrarono ripetutamente in Italia.—Le prime migrazioni elleniche si confondono colle ultime pelasgiche, in guisa da non potersi chiaramente distinguere. Pelasgiche od elleniche furono quelle di Evandro e di Pallante alle bocche del Tevere.—Ellenica forse quella di Ercole (eroe, mito, simbolo, a parer mio, dapertutto della lotta ellenica contro a' pelasgi), il quale dicesi approdato prima ai liguri, poi a quel medesimo Tevere.—Pelasgico-troiane certamente quella di Antenore alle foci del Po, e quella di Enea che fu terza sul Tevere.—Ed elleniche poi quelle posteriori e moltiplici, per cui furono fondate le colonie di Taranto, Crotona, Sibari, Turio, Locri, Regio, Cuma, Partenope e parecchie altre sulle due marine meridionali; e Siracusa, Girgenti, Messina, Selinunte ed altre in Sicilia; Cagliari in Sardegna; Alaria in Corsica.—Tutti insieme poi questi elleni chiamaronsi «greci»; un nome che dicesi significasse «antichi», e fu forse preso dagli elleni ad accennare la prioritá di loro schiatta su quella de' pelasgi negli stanziamenti comuni. Perché poi i nostri si dicessero, a differenza degli altri, «magno-greci», parmi difficile a risapere; essendo certamente men numerosi essi, e men lati questi loro stanziamenti occidentali, che non gli originari nella Grecia propriamente detta. Ad ogni modo, religioni, costituzioni, dapprima regie, repubblicane poi, costumi, lingua ed arti, tutta la civiltá e tutta la coltura, furono comuni alla madre patria ed alle colonie, alla Grecia e alla Magna-Grecia.
8. I popoli itali, etrusci ed altri contemporanei [1150 c.-600 c.].—Ma questi magno greci non occupavano forse tutte le marine, né certo l'interno delle nostre regioni meridionali. Ivi duravano gli itali principalmente, venutivi dalla media penisola, e sottentrativi giá, poco prima o poco dopo della cacciata de' pelasgi, a' siculi loro fratelli, quando passarono allora in Sicilia. E duravano, pur risorte dopo quella cacciata, parecchie genti osche, ed altre dette latini, sabini, sanniti, marsi, peligni, campani ecc.; de' quali sará forse sempre impossibile determinare se appartenessero a questa o quella delle schiatte primarie, secondarie, od anche terziarie, o se e come si componessero di parecchie. Ad ogni modo, tutte insieme possono considerarsi come membri di una civiltá e coltura intermediaria tra la magno-greca a mezzodí, e l'etrusca a settentrione. Perciocché gli etrusci furono il popolo principale risorto dopo i pelasgi. Liberati a un tempo e da questi cacciati al mare, e dagli itali cacciati, o progrediti da sé al mezzodí, rinnovarono la potenza tirrena. Furono ristretti dapprima tra il Tevere, la Macra e l'Appennino; tra i popoli testé nomati a mezzodí, i liguri a settentrione-ponente, gli umbri a settentrione e levante; poco piú che la Toscana presente. Dodici cittá principali vi ebbero, ma molte altre pure, regnate ciascuna probabilmente da un principe chiamato «lucumone», governate inoltre da un'aristocrazia di nobili chiamati «lars», confederate certamente tutte tra sé. Niuna colonia straniera, niuna altra gente dominante tramezzo. Quindi indipendenza compiuta, tranquillitá almeno esterna, e commerci, marineria, arti, culti splendidi, civiltá e colture, o eguali o poco minori dell'elleniche. E in breve, allargamenti, conquiste. Condusser guerre secolari contro agli umbri; e il risultato fu un'Etruria nuova, stabilita nell'Insubria tra l'Appennino, le Alpi e quel mare che appunto allora, da Adria una di lor colonie, fu detto Adriatico. Ivi pure dodici cittá principali; e i medesimi ordini civili, i medesimi splendori di coltura. Ancora, pare che a mezzodí si estendessero intorno al Liri, e v'avessero altre cittá; ma se queste fossero propriamente etrusche, o solamente consanguinee tirrene-osche, sará forse impossibile determinarsi mai, anche in istudi piú speciali.—Ad ogni modo, dall'Alpi al mezzodí della penisola era risorta la potenza, cresciuta la civiltá e la coltura degli antichi tirreni; ma erasi concentrata dalla nazione intiera nella gente etrusca. E le facevan quasi corona all'intorno, i liguri alla marina oggi ancora nomata da essi, e sull'alto Po nelle sedi degli antichi taurisci mescolati forse con essi e detti allora «taurini»; i veneti sull'alto Adriatico; gli umbri ridotti forse fin d'allora a ciò che ancor si chiama Umbria; le genti italo-osche, e i magno-greci a mezzodí. Queste furono le condizioni de' nostri padri, per li quattro secoli e mezzo dopo la cacciata de' pelasgi.
9. I galli, immigrazioni quaternarie [600 c.-391].—Ma fin dal secolo sesto av. G. C. s'era raccolto in Asia un altro di que' nembi di genti, che precipitaron di lá per tanti altri secoli ancora sull'Europa. Un gran rimescolio, una gran contesa ribolliva in tutto il settentrione dalle fonti dell'Indo fino alle bocche del Danubio, tra le genti dette gog e magog, geti e massageti o piú modernamente sciti, e quelle dette gomer, kimri, cimbri o cimmeri. Le prime, piú orientali, cacciarono e spinsero le seconde in Europa. Queste, i kimri, inondarono Germania, Gallia, e fin l'ultima Britannia, or confondendosi, or frammettendosi tra le antiche schiatte teutoniche e galliche. La Gallia, par che rimanesse divisa diagonalmente tra i kimri a nord-ovest e i galli a sud-est verso noi. Ivi compressi, travasarono questi nella nostra penisola, con immigrazioni successive, le quali, tutte insieme e rispetto a noi, diremo quaternarie. Cinque furono principali.—La prima sotto Belloveso scese pel Monginevra, soggiogò i liguri taurini, entrò, passando il Ticino, nella Etruria nuova; e ritrovativi gli antichi consanguinei, restituí forse ad essi la libertá, e il nome d'Insubria, e fondò in mezzo Milano (forse Mid-land o Mid-lawn), una grande e principal cittá.—La seconda sotto Elitovio raggiunse la prima, compiè la conquista della manca del Po fino a' veneti, e fondò Brescia e Verona.—La terza mista di galli e liguri scese per l'Alpi marittime, e, rimasta a destra del Ticino, stanziò in Piemonte.—La quarta mista di galli e kimri scese per l'Alpi pennine, occupò i piani tra il Po e l'Appennino, e stanziò principalmente nell'etrusca Felsina, nomata quindi Bologna da' boi una di quelle genti.—La quinta si diffuse tra gli umbri dell'Adriatico, e, passando gli Appennini, piantò, e da' senoni nomò Siena in grembo alla stessa antica Etruria. Tuttociò dal 587 al 521; e la durata, la moltiplicitá di queste invasioni, sembrano accennare una lunga e forte difesa degli etrusci, e cosí non esser questi troppo decaduti lungo i secoli di lor fortuna; che è vanto raro nell'antichitá, quando la somma fortuna soleva esser seguita dappresso dalla corruzione.—E tanto piú, che, anche cosí ridotti a men che lor sedi antiche, gli etrusci durarono, senza piú scemare che si sappia, altri centotrenta anni. Non che fosser salvi del tutto delle scorrerie galliche, le quali pur vennero estendendosi giú per l'Adriatico sino a' magno-greci; ma né greci, né etrusci, né itali, osci o latini, non par che fossero piú cacciati da niuna lor sede notevole durante tutto questo tempo.—Finalmente nel 391, o fosse una di queste scorrerie, od una di quelle inimicizie consuete pur troppo in Italia tra vicini, ad ogni modo i galli senoni vennero ad assediar Chiusi. Questa cittá antichissima e delle principali etrusche, ricorse non piú a' consanguinei oramai impotenti, bensí ad una cittá vicina ma straniera, anzi nemica degli etrusci, ed ultimamente salita in fortuna ed orgoglio, per la conquista di due cittá etrusche Falerio e Veio. La cittá cosí invocata accettò la protezione, mandò ambasciadori a' galli tre giovani patrizi suoi; i quali, tentato invano di trattare, combatterono per li nuovi alleati. E i galli, orgogliosi anch'essi, lasciata la conquista minore, si rivolsero alla maggiore, convocando compatrioti da tutta la Gallia cisalpina.
10. Roma [754-390].—Quell'animosa cittá si chiamava Roma. Sedeva, in un angolo tra il Tevere e l'Aniene, su un suolo che era stato anticamente de' siculi, poi triplice confine degli etrusci, de' sabini e de' latini. Era stata fondata, o forse rifondata, l'anno 754 da Romolo, che le diede o forse ne prese il nome; e, fatta asilo, mercato di quelle tre genti diverse, antichi tirreni i primi, iberici itali probabilmente i secondi, e mistura d'itali, di pelasgi e d'elleni i terzi; avea raccolti abitatori da tutte tre. Ma da' latini principalmente ella professò tener suoi fondatori, sue origini, sua lingua; la confederazione de' latini fu quella a cui prima ella fu addetta e si fece capo. Poi s'era ampliata, popolata, arricchita ed afforzata a spese degli altri due vicini, sabini ed etrusci; ma cosí lentamente, che dopo tre secoli e mezzo, le due recenti conquiste di Falerio e di Veio erano le maggiori che ella avesse mai fatte; e l'ultima era pure a un dieci miglia dalla cittá.—Del resto, regnata giá come tutte le altre cittá d'Italia e d'Etruria od anzi della penisola, od anzi come tutte le genti primitive stanziate od erranti, cioè retta da un principe, da un senato di patrizi e da un'adunanza popolare, aveva (secondo le tradizioni) obbedito cosí a sette re: Romolo [754-717], Numa Pompilio [717-679], Tullo Ostilio [679-640], Anco Marzio [640-617], Tarquinio Prisco [617-578], Servio Tullio [578-534], e Tarquinio Superbo [534-509]. Quindi, cacciato l'ultimo nell'anno 509, era passata a governo repubblicano quasi a un tempo che le cittá elleniche; una contemporaneitá molto notevole, e che mostra, questa rivoluzione antichissima dai principati alle repubbliche essersi estesa serpeggiando di regione in regione, a modo di molte moderne. Del resto, queste rivoluzioni in generale, e la romana in particolare, fecero poco piú che mutare il sommo magistrato, giá unico ed ereditario od a vita secondo le occorrenze, in parecchi elettivi ed a tempo; serbando le «gerontie» o senati e le assemblee popolari, l'aristocrazia e la democrazia. In Roma i sommi magistrati fecersi annui, e chiamaronsi «consoli»; e continuò a preponderare il senato, l'aristocrazia. La quale poi fu fortissima od anche superba in quest'occasione, contro ai galli. Non che dare i giovani ambasciadori, i Fabi, chiesti a vittime, li fece capi al proprio esercito. Ma vinto questo all'Allia, fu occupata la cittá di Roma. Molti patrizi vi si fecero uccidere, dicesi, sulle lor sedie curuli; altri racchiusersi nella ròcca od arx del Campidoglio, e vi durarono assediati sette mesi; altri si raccolsero fuori in Veio, la nuova conquista; altri intorno a Furio Camillo che n'era stato il conquistatore, e che, invidiato poi, traeva l'esilio in Ardea. E Camillo (il piú grande forse fra le migliaia d'esuli italiani) guerreggiò dapprima per gli ardeati; poi, fatto dittatore, per la ingrata patria, contro agli stranieri; poi, quando gli assediati del Campidoglio ebber patteggiato co' galli, e se ne furon liberati a peso d'oro e d'umiltá, egli il dittatore annullò il patto, ed inseguí e sconfisse i vincitori predoni, e li ricacciò, per allora, a lor sedi.—Cosí l'aristocrazia, conservatrice di natura sua, conservando la patria nei pericoli estremi di guerra, mostrossi degna di conservarne il governo in pace. E cosí Roma arrestò per sempre l'invasione straniera, a' limiti di quella che allora si chiamava Italia; cosí ella si pose a capo della guerra d'indipendenza; cosí ella salí a potenza, dapprima su quell'Italia, poscia a poco a poco su tutta la penisola; e contemporaneamente su quasi tutt'Europa, e molta Asia e molta Africa, tutto il gran cerchio del Mediterraneo. Potenza ammirabilmente originata e meritata.
11. Religioni.—Perciò qui dove incominciò Roma a mutare e fermare le condizioni politiche della nostra patria, noi terminiamo l'etá dei nostri popoli vaganti e primitivi. De' quali diremo intanto quali sieno state le condizioni religiose, civili, e di coltura.—E primamente, non soltanto la storia sacra ma anche tutte le profane mostrano che tutte le religioni incominciarono dal monoteismo, dall'adorazione d'un solo Dio. Ma in breve caddesi per corruzione nel politeismo, moltiplicaronsi gli dèi in vari modi. Fecesi un dio diverso d'ogni diverso nome di Dio, il Signore, il Creatore, il Santo, il Giusto ecc.; deificaronsi le grandi potenze della natura, l'aria, il fuoco, il sole, altri astri, il cielo, la terra; e deificaronsi i padri delle grandi schiatte e delle genti. Poi si cadde piú giú, nell'idolatria, nell'adorazione delle immagini, dei simboli di tutti quegli iddii moltiplicati; e si precipitò finalmente nell'eccesso di quest'eccesso stesso, nel feticismo.—Questa serie di corruzioni o regressi primitivi è tutta contraria a quella dei progressi o perfezionamenti delle religioni primitive, che fu idea di alcuni filosofi recenti. Ma io confido al presente e vero progresso delle scienze storiche, mitiche, filologiche e filosofiche, le quali giudicheranno, od han giá giudicato, quale delle due serie sia piú, od anzi sia sola consentanea ai fatti ed alle ragioni, ai nomi, alle genealogie, agli atti di tutti questi iddii, ed all'umana natura.—Del resto, ognuna delle tre grandi schiatte, semiti, chamiti e giapetici, ebbe suoi modi particolari di corruzioni. I semiti, anche gli erranti, serbarono piú a lungo il monoteismo, aggiunsero meno numi al Signore primitivo Adonai, Adone. I chamiti al lor Signor sommo Baal, Belo, aggiunsero antichissimamente il Sole, il Fuoco; e gli egizi in particolare idearono essi tutta quella genealogia, quella famiglia d'iddii, che i pelasgi recarono poi di lá e volgarizzarono tra' popoli elleni, tirreni ed italici; e i giapetici, piú scostatisi dalla culla, piú vaganti, piú moltiplicati, si scostarono anche piú dalla religione primitiva; non serbarono a lungo o almeno non ci tramandarono niun nome loro del Signor sommo (se tal non sia forse quel di Brahama); fecero loro dio sommo il Cielo, o il Signor del Cielo, Thian alla Cina, Zeus in Grecia, Saturno forse in Italia. Che questi fosse tra' nostri maggiori iddio sommo prima che Zeus o Iupiter, sembra accennato dal mito che l'ultimo togliesse al primo lo scettro degli iddii, e dal nome di Saturnia dato giá alla patria nostra. Ancora, fu certamente dio speciale, nazionale de' nostri maggiori, quel Giano, che non si ritrova in niun'altra mitologia, e il cui nome è cosí simile a quello di Iavan, che non parmi da dubitare essersi cosí adottato lo stipite comune delle due schiatte primitive degli iberici e dei celti; e parmi confermata tal congettura dalla doppia faccia di quel Dio, e dal tempio a lui innalzato dai romani sul limite degli uni e degli altri, e dall'aprirsi e chiudersi di esso secondo che era guerra o pace.—Ad ogni modo, sopraggiunti nella penisola nostra, come giá nell'ellenica, i pelasgi, e diffusivi parimente lor numi e lor culti, ne risultò in Etruria e in tutta la bassa penisola una religione cosí simile alla greca, che tradotti i nomi delle divinitá dall'une lingue nell'altre, le due religioni apparvero identiche; e che qua come lá s'ebbe quella medesima famiglia di Saturno, Giove, Giunone, Apollo, Diana, Minerva, Venere, Vulcano, e via via tutti quegli dèi moltiplici, che furono illustrati poi dai poeti delle due nazioni. E l'Etruria, stata sede principale de' pelasgi, serbò cosí nome, vanto ed ufficio di nazione sacerdotale sopra l'altre nostre.
12. Condizioni politiche.—Delle condizioni politiche di tutte queste nostre genti antichissime, molto si scrisse, poco rimane certo. Evidentemente le prime genti immigrate, tirrene, iberiche ed umbre, furon nomadi sino intorno alla cacciata de' pelasgi all'epoca di Troia [1150]; perciocché di quel tempo ancora sono e la traslazione de' siculi, dal mezzodí della penisola in Sicilia, narrata da Dionisio, e quella degli itali, che presero il luogo lasciato da' siculi. Ed anche i pelasgi errarono molto, tra noi come in Grecia e dapertutto; ma poco numerosi certamente (come venuti dal mare), il loro errare e stanziare fu meno da genti nomadi che da venturieri quasi feudali, quali vedremo molti secoli appresso i normanni nelle medesime regioni. Gli stanziamenti ellenici poi, furono colonie e non piú; e conquiste quelle degli etrusci nell'Insubria; ma di nuovo immigrazioni vere ed ultime, quelle de' galli nel sesto secolo.—Fin da' pelasgi, e tanto piú dopo, vedesi la civitas (di cui ciò che chiamiam noi «cittá», non era se non il centro), cioè lo stanziamento d'ogni gente o tribú, aver costituito uno Stato, un'unitá politica per sé; come in Grecia, del resto, od anzi come in tutto l'Occidente. Bensí, le diverse genti e cittá d'ogni schiatta o nazione rimasero certamente confederate tra sé; ed in confederazioni si riunirono pure le cittá che si vennero innalzando di genti raccogliticce e diverse. Sono evidenti nelle storie la confederazione etrusca, l'umbra, la latina, la sabina, la sannite e parecchie altre. Ed evidenti in ciascuna di quelle cittá, dapprima quella costituzione che accennammo delle cittá etrusche e di Roma, il principato temperato d'aristocrazia e democrazia; e poi la mutazione sorvenuta dal principato alle repubbliche similmente miste. Il fatto sta che la prima di tali costituzioni, la quale riunisce e contempera tutti tre i poteri politici naturali o possibili, il poter d'uno, quel de' grandi e quel di tutti, fu forse la piú antica, certo la piú consueta in tutte le etá e tutte le regioni del globo; tanto che chi ne faccia il conto regione per regione o tutte insieme, troverá essere stati retti gli uomini piú sovente sotto tal forma del principato temperato, che non sotto quella del principato assoluto senza quel moderame, o della repubblica senza principato, prese insieme. E sarebbe ragione di chiamar normale, naturale quella forma mista dei tre poteri; e di tornarvi quanto prima da chi non l'abbia, e tenervisi fermi quanto piú si possa da chi l'abbia.—Del resto, sembra questa nostra Italia primitiva essere stata ricchissima di cittá, di popolazioni, di biade, d'armenti, d'industrie e di commerci, di navigazioni. I tirreni in generale, gli etrusci principalmente, furono potentissimi, rimasero famosi in mare; e di Roma, tuttavia cittaduzza latina, sopravive un trattato di commercio dell'anno 508 con Cartagine. Che anzi, la potenza di questa non sembra esser diventata preponderante nel Mediterraneo, se non appunto quando cadde l'etrusca; e la rivalitá che siam per vedere di Roma con Cartagine non fu probabilmente se non retaggio tramandatole dalla Etruria.
13. Colture.—Da quanto venimmo esponendo delle tre prime e principali schiatte popolatrici della nostra penisola, si può dedurre, che tre famiglie di lingue dovettero nascerne; la tirrena degli etruschi ed osci; l'iberica dei liguri, siculi ed itali; e la celto-umbra; diversissima la prima dalle due ultime, piú simili probabilmente queste tra sé, come iavaniche amendue. Certo, non pochi fatti confermano tal deduzione. La lingua etrusca si trova cosí diversa da ogni altra nostra o straniera, che resiste finora a qualunque interpretazione: leggesi, ma non s'intende ne' monumenti. All'incontro, la lingua latina, che venne senza dubbio principalmente da' siculi ed itali, padri aborigeni de' latini, sembra per l'una parte aver grandi somiglianze colla vicina umbra che si trova sulle tavole eugubine; e dall'altra colle antiche lingue dell'Iberia, come si scorge dal trovarsi lá e qua molti nomi simili od anzi identici di cittá; ed anche da ciò, che, quando la lingua latina fu piantata poi in tutta Europa dalle conquiste romane, niun'altra delle nazioni conquistate la prese cosí facilmente, la coltivò cosí elegantemente, la serbò tra i barbari posteriori cosí costantemente, come la nazione iberica; tantoché, se parecchie lingue moderne paion figlie della latina antica, e sorelle della italiana moderna, questa e la spagnuola paion gemelle. Del resto, e la lingua etrusca e la latina preser probabilmente molte parole dalla pelasgica, e non poche certamente dall'ellenica. E tutte quattro e l'umbra ancora si scrisser poi con caratteri poco diversi da quelli pelasgici, che furon portati di Fenicia in Europa da Cadmo o quali che siensi altri di que' marittimi erranti.—Del resto, di nessuna di quelle lingue non ci rimangono monumenti letterari (se tali non voglian dirsi le dette tavole eugubine), e nemmen nomi di scrittori; grande argomento a credere che fu poca la coltura letteraria di quelle lingue antichissime. I grandi monumenti delle lettere sogliono sopravivere alle nazioni e far sopravivere le lingue: i nomi de' grand'uomini sopravivono alle lingue stesse; e se ne fossero stati, specialmente tra gli etrusci, essi sarebbero rimasti illustri tra' romani cosí vicini di luogo e di tempo. Il fatto sta che furono molto piú antichi (senza contare i nostri scrittori sacri antichissimi di tutti) Valmichi, Omero, Esiodo e parecchi altri, di cui restano i nomi e gli scritti; e che della nostra stessa patria, della Magna Grecia, restano, se non monumenti, almeno nomi d'uomini famosi in lettere e scienze, famosissimo fra tutti quello di Pitagora. Nato in Samo, ma venuto in Magna Grecia, vi fu intorno al 500 legislatore di parecchie cittá, e gran filosofo matematico, fisico, metafisico e morale, ed origine delle due scuole dette italica ed eleatica.—All'incontro ci abbondano i monumenti dell'arti, e le mostrano avanzatissime. Giá accennammo le mura pelasgiche, simili tra noi a quelle che pur restano in Grecia, non dissimili nella costruzione (di sassi ora irregolari or regolari) agli edifizi egizi. Veggonsene resti in Fiesole, in Roselle, in Cortona, in Volterra, in Faleri, in Tarquinia, ecc. Ed in Tarquinia, Vulci, Ceri, Albafucense ed altrove se ne veggono di templi, e massime di magnifiche tombe, scolpite e dipinte; da cui e da altri scavi, si van traendo innumerevoli statuette, e vasi fittili e gioielli e gemme e monete. Tutto ciò di stili progredienti, dalla somma rozzezza all'ultima perfezione ellenica; e tutto ciò in vari luoghi, etrusci, italici, intermediari ed elleni. E quindi pare indubitabile, e fu naturale: un solo stile progrediente, un solo progresso, una sola arte fu a que' tempi, nella Grecia propria e nella Magno-Grecia, in quella che allor chiamavasi Italia ed in Etruria. Ma ella giunse a piú perfezione nella Magno-Grecia che in Etruria e in Italia, ed a piú grandezza nella Grecia propria che nella Magno-Grecia; onde, anziché dirla arte etrusca od itala, od anche italo-greca, ogni spregiudicato la dirá francamente e principalmente arte greca. Quanto poi al crederla originata tra noi e andata da noi in Grecia, dove si veggono tanti monumenti dell'origine e d'ogni progresso via via, ella mi pare una di quelle pretensioni, di quelle adulazioni o gloriuzze retrospettive, di che si trastullano e consolano le nazioni, non meno che le famiglie nobili decadute[1]. Del resto, anche cedendo a tal debolezza, noi avremmo ben altre glorie piú certe e piú grandi da vantare. Ma sarebbe anche meglio imitarle; e basterebbe forse che ne imitassimo una: quella che siamo per vedere, della romana costanza contro agli stranieri.
[1] In tutta questa etá, e principalmente nelle origini, io mi sono scostato sovente da coloro che ne scrissero fin qui. I miei fonti e le mie ragioni sono esposti nell'Antologia italiana, 1846, fascicoli II e III; e saranno ulteriormente nelle Meditazioni storiche.
(anni 390 circa-30 av. G. C.).
1. Origine della grandezza di Roma.—Machiavello, Bossuet, Vico, Montesquieu e gli altri scrittori che ragionarono della grandezza di Roma ne cercarono per lo piú le cause nelle leggi, nell'interna costituzione di lei. Ma cosí succede nella storia, come nell'altre scienze progredite, che gli uomini minori ma posteriori, valendosi delle fatiche altrui, de' fatti nuovamente scoperti, de' progressi della scienza, possano forse aggiungere alcunché alle conchiusioni di que' sommi. Certo che le due costituzioni monarchica e repubblicana di Roma, mettendo in opera, riunendo all'opera tutte le forze vive dello Stato, furono belle, virili, vigorose, progressive costituzioni. Ma ogni ragione è di credere oramai che le cittá circonvicine e molte delle piú discoste, come le umbre e le sanniti, le quali si mostrarono poi cosí forti contro a Roma stessa, avessero non solamente simili costituzioni, simili ordini civili e militari, ma non dissimile virtú; e il fatto sta che ne' trecentosessantaquattro primi anni suoi (poco meno della metá di sua esistenza da Romolo ad Augusto), Roma non ottenne, non asserí niuna grande superioritá sulle cittá contemporanee, niuna vera preponderanza, anzi niuna grande potenza nella penisola. Ed all'incontro il fatto sta che da quell'anno 390, dalla magnifica rivendicazione dell'indipendenza propria contro ai galli, dalla piú magnifica rivendicazione dell'indipendenza di tutte le genti italiche antiche ch'ella intraprese allora contro ai medesimi, incomincia, e piú non cessa, e s'accresce d'anno in anno la potenza materiale, il credito, la preponderanza politica di Roma fra e sopra tutte quelle cittá, quelle genti, quella nazione d'Italia. Questa, dunque, evidentemente è la principal causa causante, qui è l'origine della meritata grandezza di Roma; l'avere bene ed opportunamente assunta la rivendicazione dell'indipendenza nazionale. Né, del resto, fu cosa nuova nella storia delle genti: molte, antiche e nuove, si fecer grandi allo stesso modo: la gente tebana tra l'antichissime egizie, la persiana tra le mediche, l'ateniese e la spartana tra l'elleniche, la castigliana tra le spagnuole, la prussiana tra le recenti germaniche. E gli etrusci avevano bensí esercitato sette secoli addietro tale ufficio contro a' pelasgi, epperciò erano diventati grandi tra le genti italiche; ma non esercitandolo, come decaduti, sufficientemente contro ai galli, Roma intanto cresciuta, sottentrò loro nell'impresa, nella grandezza, nell'impero d'Italia.—Ad ogni modo, questa epoca in che Roma incominciò a ponderare e preponderare in Italia ci parve molto piú importante, piú atta a segnare il fine della etá primitiva, il principio d'una seconda etá della nostra storia, che non sia l'epoca della fondazione di Roma, scelta a ciò dalla maggior parte degli storici moderni. E tanto piú che gli antichi diedero a Camillo, il gran motore di quell'impresa, il nome di «secondo fondatore di Roma», e che antichi e moderni concordano a dire incerta e poco men che favolosa o poetica tutta la storia romana precedente la guerra de' galli.
2. Mezzi; costituzione e mutazioni.—Camillo e Roma furono poi ammirabili dopo la prima vittoria; si apparecchiarono a proseguirla colle mutazioni interne opportune; innalzarono se stessi alla cresciuta fortuna; non si arrestarono nella virtú; la passata fu ad essi non piú che principio della avvenire.—La costituzione era questa allora. Un senato di patrizi ereditari, ma che ammettevano nel loro seno ogni popolano fatto grande nella patria; un popolo che s'adunava al fòro in varie forme, le une piú, le altre meno soggette alla influenza dei patroni su' clienti, dei patrizi su' popolani; ondeché lo stabilire e l'usar l'una o l'altra forma fu soggetto di dispute grandi e frequenti colá, come furono e saran sempre le leggi d'elezioni ne' popoli moderni di governo rappresentativo. Il popolo eleggeva i magistrati: due consoli annui, poco men che principi in cittá e all'esercito; pretori, loro aiuti dentro e fuori; e poi edili, tribuni ed altri uffiziali minori. All'infuori di questa gerarchia, i censori, che facevano ogni quinquennio il censo o statistica, e n'aveano grande autoritá mutando di grado e di condizione i cittadini, e sindacando, o, come fu detto, censurando i costumi; il dittatore, magistrato straordinario ed assoluto eletto nelle occasioni di gravi pericoli militari o civili: il pontefice massimo e molti minori; oltre i tribuni della plebe, difensori allora, estenditori poi de' diritti popolani.—Le elezioni a tutti questi carichi erano state originariamente fatte dal popolo, ma tra' patrizi. Ora, appunto ne' primi anni della impresa nazionale contro ai galli, i patrizi accomunarono que' carichi a' plebei; ed accomunaron le nozze; grandi arti (male imitate ai tempi nostri) ad accomunare gli animi, e farsi forti tutti insieme contro allo straniero. E giá dal tempo dell'assedio di Veio erasi compiuta un'altra mutazione; quella della milizia annuale in stanziale e perciò pagata. E questa pure fu mutazione grande e feconda di conseguenze. La legione romana, forte allora d'un cinque o seimila uomini, e formata di fanti gravi e leggeri e di cavalli, era senza dubbio una bella unitá militare. Ma forse nemmen questa fu esclusivamente de' romani; ed all'incontro tal fu allora la milizia stanziale. Cosí si maturò la costituzione civile e militare, ad uso delle esterne conquiste.
3. Un secolo di guerre ed estensioni circonvicine [390-290].—Le quali furono proseguite meravigliosamente dalla rinnovata Roma fin dal primo secolo. Coi galli ella non s'alleò mai contro ad altri popoli nazionali come facevan questi tra lor gare domestiche. Poche paci od anzi tregue, guerre quasi continue.—Con gli etrusci all'incontro, ora guerre, ma ora alleanze; e per mezzo dell'une e dell'altre, sempre estensioni in quell'Etruria oramai decadente a precipizio. Cosí con gli altri popoli via via incontrati nell'estendersi, umbri, campani, sanniti, lucani, apuli. I sanniti furon l'osso piú duro a frangere; con essi durò la guerra oltre a cinquant'anni [343-290]. Una volta [321] parve perduta; quando un esercito romano sconfitto alle Forche caudine passò sotto il giogo. Ma perdurando, Roma vinse finalmente; e il Sannio vinto, lasciò tutta la penisola meridionale (salvi i greci), l'Italia d'allora, soggetta, o piuttosto aggiunta a Roma per l'imprese ulteriori. Perciocché il dominio romano in quest'Italia non fu da signore a servi, ma poco piú che da capo a membri di confederazione. Nella quale poi erano gradi diversi d'unione, procedenti per certo da diversi gradi di parentela della gente romana colle circonvicine: alcune furono fatte partecipi di tutti i diritti romani, salvo quello di voto in fòro; e furono perciò dette «municipia». Le antiche latine s'eran date a patti simili all'incirca, e il lor complesso fu quello detto «ius Latii». E il ius italicum piú lato in territorio, piú ristretto in privilegi che non il ius latinum, prova che la gente italica comprendeva fra l'altre le latine, le quali comprendevano fra l'altre Roma; e questa è tutta la spiegazione dell'antica Italia. Le une e le altre eran socii; poche furono ridotte a condizione di sudditi (dedititii). A queste sole si mandavano magistrati romani (praefecti), e toglievasi parte delle terre; donate poi alcune a cittadini romani rimanenti in Roma (che vedremo occasioni di gran dissensioni), e alcune ad altri mandativi ad abitare con nome di coloni, sfogo alla popolazione soverchia di Roma, e posti avanzati a tenere i sudditi, ed anche gli alleati.
4. Guerra di Pirro [290-264].—Venivano intanto con gli altri cadendo sotto a Roma anche i magno-greci. Ed era pure il tempo della maggior potenza esterna di lor nazione; il tempo che gli Alessandriadi tenean regni dall'Illirio all'Indo. Taranto assalita dai romani ricorse al piú vicino di coloro; ad uno, se non de' piú potenti, certo de' piú prodi e piú ambiziosi, a Pirro re dell'Epiro. Venne questi nel 280, e vinse due volte a Pandosia e ad Ascoli; ma, perdurando al solito i romani, ed attendendo egli meno a proseguir la guerra difficile che a farsi un imperio facile, si distrasse in Sicilia. E sí tornonne; ma fu sconfitto allora a Benevento e ripatriò in Epiro. E, caduta Taranto nel 272, la potenza romana s'estese sui greci nell'ultima penisola.
5. Prima guerra punica [264-241].—Tra breve n'uscí per la prima volta invadendo Sicilia, ed assalendovi Cartagine che signoreggiava i greci signori degli antichi siculi. Cartagine, fondata parecchi secoli prima di Roma, giá colonia de' fenici o poeni di Sidone, giá regno, poi repubblica indipendente, aveva estese le proprie colonie e il dominio in tutta l'Africa occidentale, in Iberia, in Sicilia. Roma cittaduzza latina avea sanciti trattati di navigazione con lei [508], Roma giá potente gli avea rinnovati [345]. Ma ora Roma cresciuta in signoria ed ambizione occupava Messina [264]. Cartagine nol patí, e la guerra diventò terrestre insieme e marittima. I romani, con quella facilitá che ebber sempre a mutar modi di guerra come di governo secondo le occorrenze, a prendere ciò che paresse lor necessario da fuori come d'addentro Italia, da' nemici come dagli amici, armaron flotte alla cartaginese, diventaron potenza di mare, e vinsero due grandi vittorie navali all'abordaggio, modo solito de' piú arditi e men periti in quell'arte. Quindi passarono in Africa, per ferire, secondo loro uso, il nemico al cuore. Ma furono vinti lá; e vi rimase prigione quel Regolo, che, rimandato in patria per negoziare, si fece immortale tornando a' ferri per morirvi, e cosí lasciar Roma libera nel suo costume di perdurare finché vincesse. Ed ella vinse di nuovo in mare ed in terra, e compiè la conquista di Sicilia; e allora fece pace, escludendo la rivale dall'isola. La quale fu poi la prima che ella governasse come vinta, a «provincia», cioè con un pretore che signoreggiava cittá e principi governanti in apparenza.
6. Nuove estensioni [241-218].—Alle vittorie contro ai forti sogliono succedere conquiste minori, vittorie contro ai deboli rimasti indifesi. In una ventina d'anni, Roma aggiunse al suo giá lato e vario impero, la Sardegna e la Corsica; guerreggiò e vinse nell'Illirio, e cosí asserí sua potenza nell'Adriatico e s'appressò a Grecia; e, spingendo contro ai galli la guerra allentata giá ne' pericoli, pressata sempre ne' respiri, vinse presso a Chiusi, giunse al Po, ed ivi piantò due colonie, Piacenza e Cremona.
7. Seconda guerra punica [218-201].—Ma intanto risorgeva Cartagine, meno indebolita giá che non concitata dal risultato della prima guerra. Annibale, capo in quella repubblica del partito della guerra, capitano giá vittorioso in Ispagna, e giovenilmente fecondo di quelle idee nuove ed ardite onde sorgono le guerre e i capitani immortali, ideò venir di Spagna a Italia per terra, attraversando Gallia transalpina, Alpi e Gallia cisalpina. Cosí fece. Gran disputa ne rimane tra gli eruditi, dove ei varcasse l'Alpi. Dicesi al Monginevra o al Piccolo o al Gran San Bernardo, passi i piú consueti nell'antichitá. Ma se fosse disceso per passi noti, sarebbe stato notato; e da niuno di questi detti (bensí dal Moncenisio e da molti altri) si vedono que' nostri piani, che le tradizioni dicono mostrati allora per la prima di tante volte dal duce agli invasori stranieri. Ad ogni modo Annibale scese ne' taurini, vinse i romani, prima al Ticino, poi alla Trebbia, poi al Trasimeno. Ma, o sbigottito, come molti, anche grandi guerrieri (non Alessandro, Cesare e Napoleone), dal pericolo d'occupar dopo una gran guerra una gran capitale, o veramente impotente a ciò, girò intorno a Roma, prese Capua; ed ivi e nella penisola meridionale comunicante con la patria, colla Sicilia e con Filippo re di Macedonia nuovo alleato suo, stabilí, come or si direbbe, una nuova base d'operazioni. Ma Roma perdurava negoziando in Grecia, e guerreggiando in Italia, in Sicilia e in Ispagna stessa. E qui fu vinta primamente sotto due Scipioni. Ma mandatovi il terzo, Publio Cornelio che è il grande, ei vi restituí e in breve vi fece soverchiar la potenza romana, e ridusse il paese a province; mentre Asdrubale ne partiva per Italia, e qui poi era sconfitto e morto, prima di raggiungere Annibale fratel suo. E allora Scipione fatto consolo, negletta la guerra di Annibale in Italia, ne portò una nuova in Africa; e con Massinissa alleato suo vinse due battaglie contra i cartaginesi e Siface, ed una terza ed ultima poi a Zama contro Annibale sforzato ad accorrervi. Quindi Cartagine domata dovette fare meno una pace che non una capitolazione; fu multata, spoglia di sue navi e suoi elefanti, ristretta all'Africa, ivi diminuita a pro di Massinissa, ed impegnata a non guerreggiare se non consenziente Roma; ridotta, in somma, a poco piú che provincia.
8. Dieci anni di estendimenti [200-190].—Di nuovo seguono conquiste piú facili, ma pur grandissime. Si assale, si vince Filippo re di Macedonia, a castigo dell'alleanza testé pattuita con Annibale; si restituisce di nome la libertá a' greci, in fatto si fanno alleati cioè seguaci di Roma. Poi, prendendone pretesto a liberar pure i greci d'Asia minore, si passa in quella, e s'assale Antioco re di Siria; si vince in due battaglie navali ed una terrestre presso a Magnesia; e, fatta pace, si dividono le conquiste d'Asia tra gli alleati di Roma. Intanto si perseguitano fin lá in Asia i nemici nazionali, i galli, che v'aveano spinta una migrazione; si ferma alleanza cioè preponderanza su Egitto; e si guerreggia e vince in Liguria e in Ispagna. Cosí la guerra e la politica romana s'estesero dall'Atlantico all'Eusino; e ciò in quarant'anni; comparabili, anzi (posciaché durò l'effetto loro) superiori a' dieci da noi veduti dell'imperio di Napoleone.
9. Séguito e conseguenze [190-150].—Ne' quaranta seguenti, si continuò ed ordinò il principiato. Si contese di nuovo con Filippo, si guerreggiò con Perseo successore di lui, ed ultimo re di Macedonia. Perciocché, vincitore dapprima, vinto poi a Cidna, ei fu preso e tratto in trionfo a Roma; e Macedonia ne rimase liberata, a modo di Grecia, sotto l'alleanza romana. E si continuò a guerreggiare in Ispagna, Liguria, Sardegna, Corsica, Istria ed Illirio; e si decideva a Roma delle successioni de' regni di Siria e di Egitto.
10. Terza guerra punica, l'acaica, la spagnuola ed altre [150-134].—Dopo tanto padroneggiare tutto intorno al Mediterraneo era conseguente, inevitabile compier l'annientamento dell'antica rivale. Fu meno una guerra, che non un disarmamento e una distruzione; provocata da Catone e da quel suo continuo «delenda Carthago», che sarebbe stato piú generoso se detto contro un nemico piú forte. Scipione Emiliano condusse quest'ultima guerra punica, eseguí la distruzione [146]. Né furono diverse l'ultima guerra greca, la distruzione della lega achea e di Corinto. E, distrutti cosí in un anno i due maggiori centri commerciali del Mediterraneo, la preponderanza marittima di Roma diventò signoria unica, e il Mediterraneo lago italiano. Rimaneva, quasi sola grave, quella guerra di Spagna, che s'era fatta tanto piú accanita dopo che, cacciati i cartaginesi, rimanevano gli spagnuoli soli a difendere la propria indipendenza. Allora furono que' magnifici esempi (cosí ben imitati lá al nostro secolo) di Viriate, un «guerrigliero», che non cessò se non quando fatto uccidere a tradimento; e di Numanzia, una cittá, che non s'arrese se non quando distrutta. Finalmente, dopo sessanta e piú anni, soggiacque sotto Scipione Emiliano tutta la penisola [133], salvi i celtiberi, i piú perduranti fra que' perduranti.—E quasi a un tempo, ma in modo opposto, per viltá, fu acquistato un regno in Asia: quel di Pergamo, lasciato in testamento da Attalo re alla fortunata o perfida Roma.
11. La corruzione, le fazioni interne.—Qui incomincia una seconda parte della storia di Roma capo d'Italia. Fin qui i turbamenti civili erano stati cosí poca cosa da non potersi notare in un sommario: le guerre, le conquiste erano state tutto. Ora, estese queste in tutta l'Italia propriamente detta, in Liguria, in quasi tutta Gallia cisalpina, quasi tutta Spagna, quasi tutto il lido africano, e in Asia e Grecia, Macedonia ed Illirio, si rallentano le conquiste e fervono le guerre civili piú e piú per tutto l'ultimo secolo della repubblica. La vinta Grecia vinse Roma coll'arti; l'Asia, col lusso e la corruzione. Dicemmo i carichi accomunati per legge tra patrizi e plebei; ma in fatto erano rimasti de' patrizi, e cosí questi riportavano quasi soli dalle guerre le prede, i metalli tanto piú preziosi a casa quanto ivi piú rari fin allora. E dicemmo molte cittá d'Italia spogliate a pro dei cittadini romani, patrizi e plebei; ma di fatto le porzioni de' plebei poveri, comprate a poco contante dai patrizi arricchiti, ricaddero in questi quasi tutte. Quindi quell'ire di popolo a nobili, legalmente ingiuste, equamente giustissime, ma avvelenate dall'invidie; e adoperate poi dagli avidi di popolaritá, non men frequenti ne' governi liberi che gli avidi di favore ne' principati assoluti. In tutto, la condizione della repubblica romana al principio dell'ultimo secolo era molto simile a quella dell'Inghilterra presente: un'aristocrazia prepotente in ricchezze territoriali e nelle forme costituzionali primitive, ma prepotente la democrazia per il numero suo, e per le conquiste nuovamente fatte od in corso di farsi in quella costituzione.
12. I Gracchi [134-121].—Lo scoppio venne dai Gracchi, una famiglia nobile di parte popolana. Tiberio tribuno fece passare una prima legge agraria che limitava la quantitá delle terre possedibili da ogni cittadino; poi una seconda per lo spartimento de' tesori testé legati dal re di Pergamo. Erano appunto di quelle leggi tribunizie, piú facili a farsi che ad eseguirsi; ne sorsero turbamenti maggiori che mai, e non terminati né dall'uccisione di Tiberio perpetrata in piazza da Scipione Nasica, né dall'allontanamento di questo capo della parte aristocratica. Successero nuovi capi. Scipione Emiliano della parte aristocratica, Caio Gracco, fratello di Tiberio, della democratica; poi nuove leggi agrarie, e parimente ucciso Caio; e allora la vittoria parve rimasta al senato. Ma tra tuttociò s'erano inventate e incominciate le distribuzioni di grano al popolo, nuovo incentivo ad ozio e corruzioni; e s'era inventato e proposto quell'accomunamento compiuto de' diritti romani ai popoli italici, dal quale, benché non sancito allora, rimase l'addentellato a turbamenti maggiori.—Intanto, s'era vinta una prima ribellione di schiavi in Sicilia; eransi conquistate le Baleari; e passatosi oltre Alpi negli allobrogi, negli arverni ed a Marsiglia, erasi intorno all'ultima stabilita quella provincia romana che si chiama oggi ancora Provenza.
13. Guerra di Giugurta [118-106].—Sorse tra breve una guerra piú grossa: una di quelle inevitabili tra la civiltá, di natura sua progrediente, e la barbarie, di natura sua offerente occasioni a que' progressi. Giugurta, re de' numidi, assalí ed uccise due principi alleati romani. Si ruppe la guerra, si fece una prima pace. Ma Giugurta, chiamato a Roma per giustificarsi, perpetrò una nuova barbarie contra un altro principe parente suo. Si riaprí la guerra, condotta male primamente da parecchi, poi felicemente da Quinto Metello, e finita poscia da Mario suo subalterno che lo soppiantò. La Numidia fu divisa tra parecchi principi di quella nazione e Bocca re de' mauritani, giá alleato poi traditor di Giugurta, che egli avea dato in mano a Mario. I romani non avean fretta mai di aggiungersi province; furono meno avidi di conquiste che non si scrive, non le fecero guari se non isforzati o poco meno; come i piú de' conquistatori, quando una volta hanno incominciato, come ora gli inglesi all'Indie.
14. Guerra cimbrica [113-101].—Intanto era sorta una guerra anche maggiore, ed anche piú inevitabile. Que' gomer, kimri, cimbri o cimmeri, che vedemmo invaditori dell'Eusino alla Gallia e alla Britannia ed a noi fin da tre secoli addietro, convien dire che avesser lasciato allora gran parte di sé nelle sedi primiere; ed è naturale: i kimri o gomer furono una grande schiatta primitiva. Ad ogni modo, questa seconda parte di essi invase ora l'Europa, risalendo il Danubio; sconfisse un primo esercito romano in Stiria [113], proseguí ad occidente, s'aggiunse genti teutoniche, passò in Gallia, vi s'aggiunse probabilmente all'antiche consanguinee, vi sconfisse quattro eserciti romani [109-105], arrivò a' Pirenei ed alla provincia romana. Allora, vi fu mandato il vincitor di Giugurta, Mario; il quale vinse i teutoni in una gran battaglia sul Rodano all'Acque Sestie, e i cimbri poi in una non minore, che si disputa se sull'Adige o sulla Toccia. La penisola nostra fu salva. I cimbri si dispersero e confusero tra i teutoni e i consanguinei settentrionali.
15. Mario. Guerra italica [101-88].—Mario ne diventò primo capitano, primo uomo di Roma. Egli era, non di quelle famiglie plebee che, operando ed arricchendo, s'aggiungono piú o meno dapertutto, e tanto piú ne' paesi meglio costituiti, all'aristocrazia, ma uomo nuovo del tutto. Invidioso de' grandi, invidiatone, anzi impeditone sovente nel proseguimento di sue vittorie, volle, potentissimo ora, diventar prepotente. S'aggiunse a Saturnino tribuno e a Glaucia pretore. Metello, giá soppiantato da Mario, fu contro a lui il primo capo della parte de' grandi. Fu esiliato. Ma la parte popolana si divise nella vittoria; e allora, mutata fortuna, Metello tornò, e Mario se ne fu a guerreggiare in Asia.—Ma passati pochi anni comparativamente tranquilli, sorse, istigata dalle parti della cittá, una guerra esterna ad essa, ma pur civile rispetto allo Stato. Le cittá socie dell'Italia venivan domandando esse quell'accomunamento compiuto della cittadinanza romana, che i capipopolo di Roma avean giá domandato per esse. Risuscitarono l'antico nome d'Italia, e il diedero alla cittá di Corfinio, ove avean fatto centro; e ne restano monete ad irrefragabile monumento, a suggello di quanto dicemmo dell'origine, del nome e della collocazione degli itali primitivi. Se tale nome fosse originato (come dissero i greci, e dietro essi quasi tutti) da un re, da una gente particolare e piccola dell'ultimo corno meridionale della penisola, come sarebbe cosí salito alla media, come fattosi cosí caro a que' popoli, come preso a titolo o quasi bandiera d'una sollevazione, d'una resurrezione nazionale? Ad ogni modo, questa s'apparecchiò nel 95, scoppiò nel 91, fu capitanata pe' romani da Mario e Silla principalmente, per gl'italici da Caio Papio. E fece, piú che niuna guerra straniera, pericolare lo Stato di Roma; continuò con successi vari fino all'88; fu terminata da Roma vincitrice col concedere i diritti domandati, prima ai soci rimasti fedeli, poco dappoi agli ostili. Grandi furono certamente l'aristocrazia, i governanti romani in vigoria; ma grandissimi in prudenza governativa, in non ostinarsi mai contro alle concessioni diventate necessarie. È vero, che quest'ultima accrebbe smisuratamente numero e forza alla plebe, la fece di potente prepotente. Ma chi può dire ciò che sarebbe succeduto senza tal concessione? Forse il fine della repubblica un cinquant'anni prima di ciò che avvenne; e il fatto sta, che tutti i governanti d'allora in poi estesero per anco quella concessione, fino ad Augusto, che la compiè concedendo la cittadinanza a tutta la penisola.
16. Mario e Silla, Mitridate [88-83].—Ma il peggior frutto di quella guerra fu l'esservisi rifatto potente Mario, e fatto Silla. Capo questi de' nobili come Mario de' plebei, le loro gare personali ampliarono le due parti, occuparono la repubblica intiera. Giá sul finir della guerra italica, Mitridate re del Ponto, uom diverso da ogni altro asiatico, gran cuore, gran capitano, gran nemico di Roma, aveva aperta guerra contro a lei, occupate Cappadocia e Paflagonia, vinti Nicomede re di Bitinia e un esercito romano, trucidati i romani sparsi in Asia minore, e finalmente occupata Grecia, minacciata Italia. Silla ottenne la condotta di tanta guerra. Mario ne lo volle spogliare. Silla coll'esercito che stava raccogliendo, ebbe la mala gloria di esser primo tra tanti faziosi che marciasse sulla patria. Ebbela, e fecene cacciare e proscrivere Mario e gli altri capipopolo. Quindi riordinati a suo modo e pro il senato e i magistrati, partí per Grecia. E vinti in parecchie battaglie gli eserciti di Mitridate, presa e saccheggiata Atene [87], passò in Asia, e concedette pace a Mitridate riducendolo al regno nativo. Né avrebbe conceduto tanto; ma era pressato dalle mutazioni di Roma risollevata, ridivisa, saccheggiata, piú turbata che mai da Cinna e Mario, e, morti essi, da Carbone, Mario il giovane e Norbano, faziosi minori e forse peggiori. Costoro avean mandato un nuovo esercito in Asia, ma men contra Mitridate che contra Silla. Il quale perciò, fatta pace col nemico, si rivolse all'Italia.
17. Silla dittatore, e conseguenze [82-72].—Approdatovi, vinse Norbano, poi Mario il giovane in due battaglie, e fu raggiunto da Pompeo e quasi tutti i grandi. Poi, vinto un terzo esercito d'italici, che fra que' turbamenti avean tenuto per Mario, entrò in Roma, proscrisse i nemici della parte sua e i suoi, e prese la dittatura. Se ne serví ad inseguire i nemici restanti in Africa, a tôrre i diritti a molti soci, a riordinare il senato e tutta la parte aristocratica; e ciò fatto, lasciò dopo due anni la dittatura e gli affari pubblici; o per infermitá, o per amor d'ozio e di vizi, o per disdegno di una potenza giá tranquilla, o forse per orgoglio e vanto di lasciar andare da sé la repubblica scelleratamente sí ma fortemente, e forse non inopportunamente, ricostituita sotto l'aristocrazia. E per vero dire, come nell'anno ch'ei sopravisse, cosí dopo, rimasero in piè gli ordinamenti di lui, ed anzi compieronsi con varie vittorie sui resistenti in Etruria e in Ispagna. In questa Sertorio, un fuggitivo di Roma, continuò la parte di Mario, sollevando spagnuoli e lusitani al nome d'indipendenza. Ma vinto finalmente anch'egli da Pompeo, il maggiore fra i continuatori di Silla, fu ucciso da Perpenna.
18. Spartaco, i pirati, Mitridate, Pompeo magno [75-63].—Intanto, eran sorti pericoli nuovi, vicini e lontani. Una turba di gladiatori e schiavi fuggitivi tra que' trambusti s'era raccolta in Campania; e, fatto capo Spartaco, avea corso l'Italia, minacciata Roma, vinti quattro capitani romani. Furon vinti essi da Crasso, e dispersi poco dopo.—Una turba di pirati, schiuma delle guerre straniere e civili intorno e sul Mediterraneo, lo infestavano intiero, dalla Sicilia e dall'Isauria principalmente. Furono vinti prima da Servilio che ne fu detto «isaurico», e vinsero Marc'Antonio. Ma Pompeo, ottenuto tal comando, li vinse ultimamente, li distrusse e tranquillò il mare in quaranta giorni. Creta fu in tal guerra ridotta a provincia da Lucullo.—Finalmente, Mitridate (che giá avea rotta una seconda guerra con Silla e finitala in breve trattando) n'avea rotta ora [75] una terza, all'occasione che Prusia re di Bitinia aveva anch'egli legato il regno a' romani. Fu condotta da prima da Lucullo, il celebre lussurioso. Tutta l'Asia occidentale, tutti quei resti di re greci, e i parti, gente nuova che grandeggiava, vi preser parte. E Lucullo fu vittorioso da prima; ma mal governando il proprio esercito e l'Asia vinta, lasciò rifarsi il perdurante Mitridate. Allora, data tal guerra al vincitor di Sertorio e de' pirati, a Pompeo, egli accorse e vinse all'Eufrate, sottomise l'Armenia, fugò Mitridate alla Tauride, passò vincendo al Caucaso, ed in Siria. Quindi, Mitridate si uccise [63]; e Pompeo riordinò in province e regni poco diversi da province l'Asia intiera dall'Eufrate in qua.—Noi vedemmo giá un'altra volta Roma guerreggiare e conquistare dalla Spagna all'Asia minore, in dieci anni; ora, in dieci anni pure, un solo romano guerreggiò, conquistò ed ordinò dalla Lusitania all'Eufrate. Cosí la voce, l'opinione pubblica della maggior nazione del mondo, diede a Pompeo vivente il nome di «magno». Che se Cesare parve ai posteri piú grande ancora, non è forse che facesse, ma perché lasciò cose piú grandi. La posteritá suol giudicare men dalle fatte che dalle lasciate; ed ha ragione.
19. Pompeo, Crasso, Cesare, Cicerone, Catilina [70-60].—In cittá, Pompeo era di quelli che vogliono esser potenti legalmente, per via dell'opinione e del popolo; e corteggiava l'una e l'altro. Consolo con Crasso [70], restituí la potenza de' tribuni abbattuta da Silla. Crasso era di quelli i quali, piú che per altro, possono per le loro ricchezze; e n'avea di tali che soleva disprezzare chiunque non avesse da soldare un esercito. Catilina era un patrizio sfrenatamente corrotto, che si sforzava di potere per via della corruzione e de' suoi sozi in essa. Cicerone era il principale di quella condizione de' cavalieri, che, intermediaria fin dall'origine tra il patriziato e la plebe, era stata innalzata via via ne' turbamenti dall'uno e dall'altra. Cesare poi era un giovane di gran famiglia, grande ingegno, grandissima ambizione, che diceva voler essere primo in una terricciuola anziché secondo in Roma, ma intendeva esser primo in questa, con mezzi legali o non legali. Catone solo aveva forse l'ambizione, magnificamente stolta oramai, di salvar la patria colla virtú; aveva certo quella di vivere e morire virtuoso e libero in qualunque caso.—Di tali e tante ambizioni che s'agitavano in quella civiltá romana (e che rimaser poi tipi a tante altre tanto minori), scoppiò prima, come succede, la piú corrotta, quella di Catilina. E scoppiò nel modo usuale a tali uomini, colle congiure. Due tentonne. Gli riuscí la terza[64]; fino a tal segno, che Cicerone consolo osò trarre al supplizio i complici di lui, ma non lui. Fuggito e postosi a capo de' compagni in Etruria, fu vinto facilmente dall'altro consolo, e finí in breve, senz'altro effetto che il solito di simili imprese, accrescere i turbamenti, la corruzione. La quale era accresciuta, del resto, da Lucullo, Verre e gli altri proconsoli o governatori tornanti dalle province predate, dall'Asia principalmente. Né saprei dire se ne tornasse puro nemmen Pompeo; tornonne certo magnificamente, dopo aver finito l'ordinamento di tutta quella parte di ciò che si poteva giá chiamare il mondo romano [61].
20. Primo triumvirato [60-50].—Tornava quasi al medesimo tempo Cesare dalla Lusitania; e frammettendosi a Pompeo e Crasso maggiori di lui e rivaleggianti, salí a pareggiarli. La potenza dei tre, che suol chiamarsi nella storia il «primo triumvirato», condusse la repubblica. Allontanarono Catone mandandolo a Cipro, ridotta in breve a provincia, ed esiliarono Cicerone. Ma Pompeo, che s'aiutava della virtú dell'uno e dell'eloquenza dell'altro, li fece in breve richiamare. Le province principali furono spartite fra i triumviri: Spagna ed Africa a Pompeo; Siria colla guerra contro a' parti, la maggior che fosse allora, a Crasso; Illirio e le due Gallie colla guerra lá sorgente da una invasione di teutoni che incominciavano a chiamarsi «germani», a Cesare. Solo pacifico dei tre il governo di Pompeo, il lasciava rimanere a Roma. Cesare diedesi tutto alle Gallie, in cui scorgeva occasione di gloria e potenza militare, strumenti massimi ad occupare la repubblica. Volò oltre Alpi, respinse i germani-elvetici [58]; si frammischiò alle parti, alle contese interne delle genti galliche; vinse i belgi [57], gli aquitani [56]; e, giá domata tutta Gallia, passò in Britannia [55] e in Germania oltre Reno [54], tornò su' galli risollevati, e ridomolli [53-51]. Intanto era passato Crasso in Asia contro a' parti, con un esercito raccolto a proprie spese, ma ch'ei non seppe condurre; ondeché fu sconfitto ed ucciso [54-53]. E quindi due grandi danni: i parti cresciuti a tal gloria e potenza che non furono mai piú domati; ed in cittá, sciolto il triumvirato, ridotto a duumvirato, piú difficile a durare. E tanto piú tra uno avvezzo a massima potenza, e l'altro risoluto a non soffrirla.—Nel 53, Pompeo si fece nomar solo consolo, quasi dittatore. Ma Cesare, quantunque assente, giá poteva in cittá quanto lui. Seguirono negoziati, proposizioni reciproche di smetter ciascuno il proprio comando; ma ineseguite, forse ineseguibili. Finalmente [ai primi dí del 49] Pompeo, senza smettersi, fece dal senato ordinare a Cesare di smettersi. Era ordinar lo scoppio, e la propria sconfitta.
21. Cesare dittatore [49-44].—Cesare raccolse sue vecchie legioni in Cisalpina, passò il Rubicone, limite all'oriente tra quella provincia e l'antica Italia, occupò Roma e tutta la penisola, in due mesi. Pompeo fugato raccolse suo nerbo in Grecia, pur tenendo Africa e Spagna, sue vecchie province. Allora si guerreggiò in tutto il mondo romano. La posizione di Cesare dall'Italia, centro locale e politico insieme, era di gran lunga vantaggiosa; e Cesare uomo da valersene. Fu vinto dapprima in Africa dove non andò egli, ma vinse dovunque andò; e prima in Ispagna, onde tornato prese facilmente la dittatura, poi il consolato per cinque anni. Poi [48] passò in Grecia, v'assalí Pompeo, il vinse e distrusse a Farsaglia [48]. Pompeo fuggitivo approdò in Egitto e vi fu morto dal vil re Tolomeo. Cesare ve l'inseguí; e rivoltosi contro al re assassino, ma distratto dall'amor di Cleopatra sorella di lui, vi rimase e perdé sei mesi. Poi preso definitamente il nome di dittatore con potenza estesa a dieci anni [47], passò in Asia, vinsevi il figlio di Mitridate sollevatosi, e fermò in tutto Oriente la propria potenza. Tornato a Roma inquieta, la tranquillò co' soliti mezzi suoi, clemenza, alacritá ed operositá; poi ripassò in Africa [46], vinsevi i pompeiani e loro alleati, ridusse Catone ad uccidersi, e la Numidia a provincia. Tornato a Roma, e ripartitone a Spagna, vinsevi a Munda i due figliuoli di Pompeo, uccisovi l'uno, fugato, ridotto l'altro a partigiano nei celtiberi [marzo 45]. Allora, preso il nome vecchio, ma con potenza nuova, d'«imperatore» o signor militare, tornò a Roma. Né giá a fruire oziando, anzi ad usare operando la signoria universale, incontrastatagli oramai. Superati tutti, intendeva, secondo la magnifica espressione di Plutarco, «emular se stesso»; intendeva passare in Asia, vendicarvi Crasso e la dignitá romana contro a' parti; e vintili, per la Scizia, d'intorno al Ponto prendere a spalle i germani giá da lui stati assaliti di fronte; e per l'Alpi tornare a Roma, fatta signora d'ogni gente nota di qua dell'Eufrate. Dicesi, volesse il nome odiato di «re», prima di partire; certo poteasi temere che il prendesse tornando. Ne fremevano i repubblicani; legittimisti poco politici, che non vedevano l'impossibilitá di restituire una repubblica cosí lata, cosí corrotta. Bruto e Cassio ordinarono una congiura, un'uccisione che poté parer legale allora, ch'or si chiama «assassinio». Cesare fu pugnalato in senato addí 15 marzo del 44; e non se n'ebbe altro, che quattordici anni di guerre civili, e mutata la clemenza in proscrizioni, mutato un regno che sarebbe stato probabilmente sincero, costituito e temperato, in una signoria indeterminata, epperciò tanto piú sfrenata; insomma, mutato un Cesare in un Augusto.
22. Agonia, fine della repubblica [44-31].—Morti tutti i sommi, sorsero, come succede, tutti i minori di quell'etá malamente ma grandemente operosa: Antonio e Lepido, i due vecchi e principali fra' partigiani di Cesare; Ottavio giovanissimo, nipote ed erede di lui, detto quindi Cesare Ottaviano; Bruto e Cassio i due uccisori; Cicerone il grand'oratore; Sesto Pompeo sceso da' Pirenei, prima a pirateggiare, poi a poter grandemente sul mare. Tra costoro, Antonio e Lepido eran per sé; tutti gli altri, anche Ottavio dapprima, per il senato, per la repubblica. I quali, sorretti in cittá dall'eloquenza di Cicerone, aprono la guerra nella Cisalpina, intorno a Modena contra Antonio, che, vintovi, s'unisce a Lepido nella Gallia transalpina [44-43]. Ma tra breve Ottavio lascia la parte del senato, e si unisce ai due cesariani; ne sorge il secondo, il pessimo triumvirato; ed, occupata Roma, proscrivono tutti i nemici di ciascuno, superando le memorie di Mario e Silla. Cicerone fu il massimo di que' proscritti. Allora Antonio e Ottavio, i due operosi del triumvirato, si volgono contra Bruto e Cassio che s'eran rinforzati in Grecia, Asia ed Egitto, tutto l'Oriente. Seguirono due battaglie a Filippi; e disfattivi Cassio e Bruto, s'uccise il primo dopo la prima, il secondo dopo la seconda [fine 42]. Quindi, mentre Marco Antonio si perdeva ad ordinar l'Asia e l'Egitto ed a poltrirvi egli pure e peggio con Cleopatra, Ottavio tornava a Italia, vi si volgeva contro Lucio Antonio fratello di Marco. Accorso questo, seguiva fra' triumviri e Sesto Pompeo un accordo, un nuovo spartimento di province; che costoro sognavan forse far perpetuo, e simile a quello giá degli Alessandriadi [40]. Ma Pompeo riapre la guerra navale, la fa due anni, e poi vinto da Lepido e da Agrippa fugge e muore in Asia [38-36]; e Lepido vincitore perde l'esercito guadagnatogli da Ottavio, onde anche questo triumvirato è ridotto a duumvirato tra Marco Antonio ed Ottavio. Quindi seguono quattro anni di respiro interno e di guerre straniere: Ottavio contro ai dalmati e i pannoni, Antonio in Egitto e contro ai parti. Ma vinto questo nell'impresa superiore a sua virtú, ed aggiunte alla vergogna di vinto quelle del mal governo d'Asia, e del nuovo poltrire presso a Cleopatra, ed offeso Ottavio con repudiare la sorella di lui [32], s'aprí finalmente la guerra tra' due; e si finí in un atto, in una gran battaglia navale ad Azio. Antonio vinto rifuggí alle braccia di Cleopatra, ed inseguitovi da Ottavio vi s'uccise. Cleopatra l'imitò. L'Egitto fu ridotto in provincia; il duumvirato diventò principato; la repubblica, serbando il nome, fu tutta del nuovo e minor Cesare.
23. Religione, coltura.—Delle condizioni politiche e civili di questa etá dicemmo via via, e cosí faremo per le etá seguenti; ondeché ne diremo separatamente.—La religione poi, simile, come vedemmo, nell'origine e nella genealogia degli dèi alla greca, si accomunò ora interamente con essa; e perché i greci l'avean giá accomunata a tutto l'Oriente, ed ella non trovava nell'Occidente numi e culti molto diversi, ella diventò, senza difficoltá, universale nel mondo romano. Ogni politeismo è naturalmente tollerante; serbando gli dèi propri, ammette a secondari gli dèi stranieri. Del resto, tali religioni, tutto esterne di natura loro, erano in Grecia diventate giá indifferenti a chiunque vi s'internasse colla filosofia; e cosí diventarono ai romani quand'ebber bevuta quella filosofia. La religione rimase poco piú che arte politica, stromento, arcano d'imperio, in mano a' patrizi, che serbarono fino alla fine della repubblica la privativa del sommo pontificato e de' sacerdozi maggiori.—Incominciata da Socrate, Platone, Aristotele e gli altri capiscuola, questa fu la grande, la utile etá della filosofia; non ne sorgerá mai piú un'altra tale. In seno alla religione vera, restan minori di necessitá i destini della filosofia. All'incontro la filosofia greco-romana andava molto piú oltre e piú giusto nella veritá che non la religione contemporanea; e perciò fu grande ed utilissima. E perciò Cicerone, tutti i romani professavano doversi prendere da essa, eloquenza, lettere, ius pubblico e privato, costumi, ogni civiltá, ogni coltura, di preferenza che dalla religione.—Le lettere specialmente dipendettero tutte, si conformarono tutte dalla filosofia. Del resto, le romane furono sempre figliuole delle greche; fin dall'origini, quando è tradizione che Numa le prendesse da Pitagora (tradizione falsa quanto a Pitagora che fu posteriore, ma giusta nel significato nazionale); quando Demarato le portava giá dalla Grecia propria; e poi quando i romani piú rozzi conquistarono i magno-greci piú colti, e finalmente i greci coltissimi. Polibio, contemporaneo ed amico de' Scipioni, fu uno de' primi e piú grandi venuti di Grecia a ingentilir Roma.—Nella quale poi, come dapertutto, s'ingentilí la lingua poetica primamente: Livio Andronico uno schiavo greco, Nevio un campano, Ennio un magno-greco, Plauto un umbro, Terenzio schiavo cartaginese (tutti stranieri al Lazio) furono i primi poeti e scrittori latini dal 250 al 150 all'incirca. Romani si furono i primi prosatori e storici, Fabio Pittore e Catone il vecchio, di poco posteriori a' primi poeti. Seguirono nell'ultimo secolo, e i piú negli ultimi anni della repubblica, Lucrezio, Catullo ed altri poeti; Varrone, Sallustio, Cesare ed altri storici e prosatori vari; e principalmente, com'era naturale in quel governo libero, in quelle contese di libertá e di parti, molti uomini di Stato, giureconsulti ed oratori, gli Scevola, i Bruti, i Rufi, Ortensio, Cicerone; oltre poi tutti i grandi capi di parte, che nominammo dai Gracchi fino ad Augusto, i quali non poterono certo diventare tali, se non colla persuasione prima che coll'armi; colla persuasione, che sovente non è retorica, talora non filosofia né ragione né giustizia, ma sempre si deve dire «eloquenza».—Degno, e forse importante, è poi ad osservarsi, che mentre fiorivano tuttavia i piú e migliori di questi, giá erano nati ed educati Tito Livio, Cornelio Nipote, Orazio, Virgilio, Ovidio e tutti insomma gli aurei del secolo detto «aureo» al cader della repubblica. Figli dunque della repubblica, cresciuti nella viva atmosfera della libertá, si debbono dire tutti questi sommi latini, tutti questi splendori, che mal si sogliono chiamare del secolo d'Augusto. I grandi son figli dell'etá in cui s'allevano, e non di quella in cui finiscono; i secoli si dovrebbero nominare da chi li genera ed educa, e non da chi li termina; e il cosí detto secolo d'Augusto, finí ad Augusto e per Augusto.—Ad ogni modo, questi ultimi scolari de' greci emularono, arrivaron sovente, superarono talora i maestri. Non forse in poesia, ma certo in parecchie di quelle lettere che dipendono dalla scienza e dalla pratica di Stato. Nell'eloquenza, per vero dire, io odo i periti delle due lingue por Demostene il sommo greco sopra Cicerone il sommo romano; ed io m'accosto volentieri a tal opinione, e per quella superior semplicitá che riluce nell'ateniese, e perché difensor d'indipendenza, mi par piú fortemente ispirato che non il romano difensor di libertá. Certo, se mi si conceda di giudicare (con metodo opposto al solito) degli antichi da' moderni, tutti i grandi oratori politici del secolo scorso e del presente, i Pitt, Fox, Burke, Mirabeau, Foix, Canning, e i viventi, si veggono seguir molto piú l'andamento oratorio demosteniano, che non il ciceroniano; ondeché si può credere che il primo, il quale regge ai secoli e si rinnova cosí in societá diversissime, sia piú naturale, piú universale, piú pratico. Quanto agli storici mi pare che i romani tutti insieme abbiano superati i greci. Niuna semplicitá, non quella stessa di Tucidide, è superiore a quella di Cesare; e Cesare è superiore a Senofonte nel parlar di sé, nel dettare storie personali, memorie militari. Tito Livio (a malgrado gli assalti moderni i quali non provano nulla contro a lui, se non ch'ei parlò incompiutamente e dubitativamente di fatti trovati incompiuti e dubbi nelle tradizioni), Tito Livio rimane pure a' nostri dí il piú grande, l'inarrivato, forse inarrivabile esempio d'una storia nazionale, scritta ad uso non d'eruditi, non di questa o quella condizione speciale d'uomini, ma di tutte. Sallustio, non imitator de' greci, né di nessuno, fu primo e forse sommo in quel modo stretto e forte, che fu imitato poi, e portato oltre, da Tacito; e se è vero che fosse vizioso uomo alla pratica, egli ha almeno il merito, pur troppo non cercato da' nostri cinquecentisti ed altri moderni, d'esser rimasto virtuoso scrittore. L'ipocrisia della virtú e l'ipocrisia del vizio, sono amendue brutte; ma la seconda è piú dannosa. In tutto, niuna etá, niuna nazione, niuna lingua finora, vanta una triade di storici come Cesare, Sallustio e Tito Livio; senza contar Tacito posteriore. Finalmente, superiore a tutti gli antichi, furono i giurisperiti romani. Poco resta, per vero dire, da giudicar di quelli dell'etá repubblicana; tuttavia e quel poco, e le tradizioni, e la ragione stessa ci fa certi che in quell'etá dell'origini e della libertá furono le fondamenta di quella scienza, la quale sopra ogni altra dipende dai fatti originari e si fonda sulla libertá. In somma, di tutta questa letteratura latina, o prima italiana, gli oratori, gli storici, i giureconsulti son quelli che noi dovremmo studiare incomparabilmente piú. Ivi quello stile piano e pratico, che è cosí raro nelle lettere italiane; ivi una realtá, una vita, una libera operositá che si ritrovano sí ne' nostri trecentisti e quattrocentisti, ma non guari piú giú; ivi poi una grandezza degli affari trattati che non si ritrova forse (dirollo a malgrado le invidie nostre ed altrui) se non ne' romani moderni, negli inglesi. Né vogliamo studiare quegli stessi a servile imitazione od a vano vanto: quella è pedanteria sempre, questo vergogna a decaduti. Sopra ogni cosa di que' grandi maggiori nostri, imitiamo lo spirito di pratica, la sodezza nello scrivere come nell'operare: questo è il miglior modo di dimostrare la filiazione nostra da que' romani, che furono i piú sodi, i piú pratici uomini del mondo antico.
24. Continua.—Di quelle scienze che alcuni chiamano «naturali», altri «positive», ma ch'io chiedo licenza di chiamare, per piú precisione, «materiali», poco è a notare in questa etá. Degli etrusci, dicesi sapessero tirar il fulmine: sará! Dei romani, toltone Catone scrittor d'agricoltura, non saprei qual altro un po' grande nomare. Ma se, come dobbiamo, noi chiamiamo «italiani» tutti coloro che nacquero e crebbero di schiatte diverse in qualunque delle terre che or si chiamano Italia; noi abbiamo di quest'etá il maggiore scienziato che sia stato nell'antichitá tutt'intiera. Archimede siracusano [—208], gran matematico, gran filosofo, grande ingegner militare. Ma non si vede che abbia avuta scuola; certo, tutte le scienze avanzate da lui, non avanzarono dopo lui. Eppure, cosí positive come sono, cosí appoggiate alla facoltá del ragionar forte, elle sembrerebbero aver dovuto essere simpatiche al genio romano. Ma il fatto sta, che tal genio non era a nessuna contemplazione, nemmeno questa; era tutto alla vita attiva politica, finché fu conceduta.—E cosí è, che dell'arti quasi niuna fu coltivata felicemente da' romani repubblicani. Della musica non si trova vi ponessero di gran lunga quell'amore, quell'importanza che i greci; quasi non pare la coltivassero.—Il nome di Pittore aggiunto ad uno de' Fabi, è delle poche memorie che faccian credere essere stata l'arte, bene o male coltivata da liberi anzi da patrizi romani. Supplivano sí gli altri italiani. Quest'è l'etá a cui si riferiscono dagli archeologi presenti que' monumenti piú perfetti dell'arte italo-greca, che s'attribuirono giá agli etrusci piú antichi. E giá accennammo quanti di que' monumenti siensi trovati nelle cittá italiche. Ma è piú meraviglioso ciò che ce n'è detto dalle storie: duemila statue, dice Plinio, essere state in Volsci, quando fu presa da' romani, spinti dal desiderio di esse. A questo modo i romani ornavano lor cittá. Se non che le pitture, che si facevano allora le piú sulle mura, non potevano esser trasportate; e cosí essi fecer probabilmente venir di fuori piú pittori, ma anche scultori, fonditori, figulini, incisori di monete e di gemme.—In una sola arte (fossero cittadini od altri italiani o greci gli artisti) si può dire che i romani avessero stili propri, peculiaritá: nell'architettura; e le loro peculiaritá vi furono le due solite, la sodezza e l'utilitá. Usarono fin da principio, molto piú che i greci, le vòlte, gli archi; furono, a dir di Strabone, inventori degli acquedotti; la cloaca massima è del tempo dei re; l'emissario d'Albano, dell'etá repubblicana [350 c.]. Ma la principale, piú certa e piú utile invenzione loro, fu quella delle grandi, ben diritte e sodissime vie pubbliche. Certo che anche prima di essi, in tutte le regioni incivilite di Grecia o d'Asia, furono vie segnate e fatte dal lungo passaggio; e certo che vi s'aggiunsero qua e lá tagli, argini, ponti, opere d'arte; ma colá non erano opere d'arte le vie intiere. I romani, all'incontro, le fecer tali fin da principio; e come vennero estendendosi nella penisola, vi fecero a poco a poco una vera rete di vie, non meno maravigliosa a quell'etá, di quel che sieno alla nostra le reti di strade ferrate, promosse da' romani moderni che dicemmo. Tanto s'assomigliano le operositá, le necessitá della civiltá quantunque diversissime! O piuttosto, tanto s'assomigliano le civiltá anche piú diverse! Lo spendere per il pubblico, il capitalizzare il lavoro delle generazioni presenti a pro delle avvenire, è proprio sempre di tutte le nazioni forti, che han fiducia nel proprio avvenire, di quelle che sono conscie di lavorar per sé, non per altrui.
(anni 30 av. G. C.—476 dall'èra cristiana).
1. Augusto [30 av. G. C.-14 dopo].—Il ritorno d'Augusto e i quarantaquattro anni che seguirono di tranquillitá e d'ordine restituito, furono in Roma molto simili a quelli veduti a' nostri dí in Francia sotto Napoleone consolo. A' piú terribili e piú colossali turbamenti che sieno forse stati mai in niuna gran civiltá, succedevano clemenza, riposo, riordinamento. Le lunghe guerre, le proscrizioni aveano spenti i piú appassionati, rinnovata la generazione. Tutti erano stanchi, tutti capacitati dell'impossibilitá d'una restaurazione repubblicana, tutti della necessitá del principato. Cesare Ottaviano, tra breve per antonomasia, per adulazione religiosa, detto Augusto, pareva nato a tale uffizio; scellerato repubblicano, ottimo, modesto principe. Non ebbe corte all'orientale, alla moderna; bensí, ad uso patrio, gran clientela, di quasi tutti i grandi scrittori che nominammo testé, e di molti altri men nominati o innominati, che sogliono far volgo in tutte le grandi etá letterarie, e poi degli artisti ed artefici che abbellivan Roma a' cenni di lui, e principalmente di tutti i postulanti o possessori d'impieghi e cariche, e magistrati della repubblica. Perciocché ei conservò di questa il nome e tutti gli uffizi, contentandosi di usurpare e unire in sé i maggiori. Prese, non ottenuta l'ultima vittoria, quello d'imperatore [31]; subito dopo, la potestá tribunizia perpetua [30]; quindi il consolato dapprima annuo, poi perpetuo [19], lasciandone gli onori senza potenza a due consoli supplementari (suffecti); la censura, pur perpetua [id.]; e finalmente il pontificato massimo [15].—Al popolo lasciò i comizi, ma ridotti a poche elezioni. Le piú furono date via via al senato fatto e rifatto da lui, tutto suo; e con questo divise le province, commettendogli le piú tranquille, tenendo egli quelle di frontiera. Alle senatorie furono eletti proconsuli, alle imperiali scelti legati.—Ordinò gli eserciti in campi stanziali (stativa); una guardia del principe (cohortes praetorianae), una urbana (cohortes urbanae) presso la cittá; le legioni al Reno, al Danubio, all'Eufrate, al Nilo, all'Atlante; due flotte di qua e di lá ai due mari d'Italia, a Miseno e a Ravenna.—Ordinò le finanze: due casse distinte, il fiscum dell'imperatore, l'aerarium dello Stato; il primo, maggiore e fornito dalle terre dette perciò «confiscate», e da' tributi delle province imperiali; il secondo, da quelli delle province senatorie. Le necessitá sorte a poco a poco avevano stabilita quella varietá di tributi, che la scienza moderna disapprovò giá, ma approva ora unanimemente; proprietá e mutazioni di proprietá territoriali, commerci interni ed esterni, sostenevano il carico pubblico.—Né trascurò, anzi compiè, le conquiste: e fermolle con ammirabile opportunitá. E prima ridusse i salassi, ed altre genti galliche alpestri; fatto piccolo ma notevole, perché solamente allora, e cosí dopo quattro secoli, si vede terminata la gran guerra nazionale contro ai galli, e compiuta la conquista della penisola, a cui intiera s'estese allora il nome d'Italia. Né è senza onore al complesso di queste genti, che diremo «italiane» d'ora in poi, che la conquista, l'unione di esse a Roma, abbia cosí costato altrettanto tempo, quanto appunto ne costò tutto il resto del mondo romano, tutto il cerchio del Mediterraneo. Attorno al quale poi e nell'interno del continente furono finiti di ridurre i celtiberi dei Pirenei, gli armorici ed ultimi galli occidentali, i reti, i vindelici, i norici, i pannoni, i mesii, tutti i germani e slavi di qua del Danubio, e in Asia gli armeni. E furono tentati poi altri estendimenti; minacciati i parti, ma non assaliti di fatto; tentati gli arabi e gli etiopi, ma fino al deserto solamente, ed ivi lasciati; assaliti bensí piú volte e fortemente i germani d'oltre Reno e Danubio, ma con successi vari dapprima, e lasciandovi finalmente l'ossa delle legioni di Varo, distrutte da un duce a cui ne rimase il nome generico di «guerriero», Heerman od Arminio [9]. Piansene Augusto, ma non era un Giulio Cesare da andarvi e vincervi: mandovvi legati; e quella guerra trasmessa dall'uno all'altro de' suoi successori, non proseguita da niuno di essi, nemmeno forse da Traiano, coll'antica ostinatezza romana, quella guerra germanica occupa tutta l'etá che incominciamo, non finisce se non con lei, cioè coll'imperio occidentale.
2. Continua.—Limiti d'Augusto furono dunque, il Reno, il Danubio, l'Eufrate e i deserti d'Arabia, di Nubia, di Numidia. In mezzo, il Mediterraneo tutt'intiero, lago italiano, che non fu né sará, probabilmente, mai piú lago di niun'altra nazione.—In Ispagna erano tre province: lusitania, betica e tarragonese.—In Gallia transalpina, quattro: narbonese, lugdunese aquitanica e belgica.—In Germania e ne' paesi danubiani, otto: Vindelizia, Rezia, Norico, due Pannonie, due Mesie ed Illirico.—In Grecia, tre: Macedonia, Tracia ed Acaia.—In Asia, quattro: Asia, Bitinia, Cilicia, Siria, oltre Giudea, Comagene, Cappadocia, Ponto, Licia, Samo e Rodi, Armenia e Mesopotamia, piú o men libere o regnate di nome, ma rette di fatto da qualunque proconsolo o legato romano, e che diventarono province poi.—In Africa, tre: Egitto, Cirenaica ed Africa, oltre la Mauritania pur retta a regno allora, pur divisa in province poco dopo.—E finalmente in grembo al Mediterraneo, quattro: Siracusa e Lilibeo in Sicilia, Sardegna e Corsica.—L'Italia, la penisola signoreggiante, non era allor divisa in province; serbava tutte le distinzioni di sue genti primitive, secondo i patti con cui ciascuna s'era aggregata a Roma; ma queste distinzioni erano scemate dalla concessione, che Augusto fece allora a tutte insieme, di quel diritto di cittadinanza, tanto contrastato giá quando non era un'ombra.
3. Continua..—Molte leggi buone fece Augusto per tutto ciò, e per restituir la pace e i costumi. Ma a confermarli, due pessime; non abusate, per vero dire, da lui, bensí all'infinito da' successori: quella di maestá (Iulia de maiestate) che faceva delitto d'ogni menoma mancanza di rispetto all'imperatore; e quella che istituiva commissioni speciali, tribunali eccezionali (cognitiones extraordinariae), a perseguire questi od altri delitti. Ma il peggior danno fatto da Augusto alla patria fu il non aver esso dato nome o almen forma sincera di regno allo Stato, come avea voluto Cesare; l'averlo lasciato non repubblica e non principato finito, il non avere insomma osato far legge di successione. Destinò eredi prima Caio e Lucio nati di Giulia figliuola sua; poi, morti i due, Tiberio Nerone figliuolo di Livia sua seconda moglie. L'adottò; lo fece dal servo senato chiamare a parte di tutte le magistrature che costituivano il principato. I posteri piú sfacciati chiamarono questa e le simili poi «leges regiae»; ma non erano tali né nulla di determinato, mezzi termini e non piú. In alcune teoriche non dedotte dalla sperienza, il principato elettivo fu giá detto migliore che l'ereditario; in pratica, e perciò nelle buone teoriche, è preferito l'ereditario. Ma in ogni maniera di pratiche o di teoriche, il pessimo de' principati è quello in cui la successione, non determinata da niuna legge, si fa volta per volta, per adozioni, per destrezze, per intrighi, per forza, per compre. E tal fu quello lasciato da Augusto a tutto l'orbe romano; alla misera Italia in particolare, sulla quale durò e pesò variamente, ma poco men che senza interruzione, per diciotto secoli.
4. Tiberio [14-37].—Quindi la serie degli imperadori romani fu la pessima che s'abbia di niun principato. Cosí lunga ed immane tirannia, cosí prostrata servitú non sembrano essere state possibili in una civiltá, con una coltura cosí progredite come le romane; e il fatto dimostra la superioritá della civiltá e della coltura cristiane, in mezzo a cui elle furono fin qui, e sono piú che mai impossibili veramente.—La serie s'apre con uno dei peggiori, Tiberio. Era stato uomo capace, forse virtuoso in gioventú; erasi pervertito tra le ambagi, gli artifizi, gli ozi, i vizi dell'aspettazione; era falso, sospettoso, crudele e perduto in voluttá, quando imperiò a cinquantasei anni. Die' subito grande effetto alle leggi di maestá; accrebbelo coll'incoraggiare, istituzione nuova, i delatori. Peggio che mai, quando invecchiato lasciò il governo a Seiano, e andò a marcire nei segreti di Capri, dove finí. Guerreggiò in Germania ed Asia; non egli, dopo che fu imperatore, ma pe' suoi capitani, fra cui principale, e perciò odiato, Germanico figlio di suo fratello. Sotto lui furono ridotte a provincia Cappadocia e Comagene.
5. I tre ultimi della famiglia di Cesare [37-68].—Succedette Caio figlio di Germanico, adolescente di speranze, giovane voluttuoso, crudele e poco men che impazzato. L'uccisero dopo quattro anni i pretoriani, e gridarono imperatore lo zio di lui Claudio, che ne li pagò con un donativo. Quindi il modo cattivo di successione diventò pessimo.—Claudio era giá di cinquant'anni, uom mediocre per sé, peggiorato dall'ozio, dal sospetto in cui eran tenuti i collaterali di casa Cesare, come quelli poi di casa Ottomana. Debole, ghiotto, donnaiuolo, governarono per lui donne e liberti, Agrippina, Messalina, Pallante, Narciso, nomi infami. Regnò tredici anni, morí di veleno datogli per affrettare la successione a Nerone genero di lui.—Questi era giovane di diciassette anni, pur esso di speranze, allievo di Seneca filosofo. Diventò crudele per paura. Incominciò con uccider Britannico cugino suo, proseguí contra quanti appartenevano piú o meno alla famiglia di Cesare; finí con uccidere sua moglie Ottavia che l'avea fatto salire a quella famiglia, sua madre Agrippina che l'avea posto in trono, e Poppea sua seconda moglie che l'avea spinto e amato tra tutto ciò. Poi, macelli di grandi e piccoli numerosissimi; fra gli altri di molti cristiani, a trastullo; e poi voluttá, nefanditá, pazzie. Sorsero parecchie sollevazioni; i pretoriani l'uccisero dopo quattordici anni di tirannia; e con lui finí la famiglia vera de' Cesari. Ma tutti i successori ne serbarono il nome.—Sotto Claudio s'estesero i limiti in Britannia, e si ridussero a provincia Mauritania, Licia, Giudea e Tracia; sotto Nerone fu di nuovo estesa e ridotta a provincia Britannia; e si guerreggiò in Armenia, e in Giudea giá sollevata, e contro a' parti.
6. I tre primi contendenti, e i tre Flavi [68-96].—Galba, vecchio capitano di settantadue anni, era stato gridato imperatore in Ispagna, mentre s'uccideva Nerone. Venuto a Roma, vi fu riconosciuto dal senato, mal veduto da' pretoriani e sbalzato in pochi mesi da Ottone [68-69]. Il quale riconosciuto in Roma e non dalle legioni germaniche, andò loro incontro, ne fu vinto, e s'uccise; durò tre mesi [69].—Vitellio condotto a Roma da quelle legioni, vi fu riconosciuto; ma, disprezzato in breve per libidini e crudeltá, fu sconfitto ed ucciso in pochi altri mesi dalle legioni di Siria e del Danubio, che acclamarono e condussero a Roma Flavio Vespasiano [69].—Quindi la nuova famiglia de' Flavi che imperiò per tre generazioni. Vespasiano tranquillò, riordinò l'imperio sovvertito nei cinquantacinque anni dei quattro Cesari nefandi, e dall'ultime competenze. Dovette accrescere i tributi; abolí le accuse di maestá, ributtò i delatori; fu buon principe; guerreggiò co' batavi risollevati tra le ultime contese dell'imperio; co' giudei sollevati, a cui Tito distrusse Gerusalemme [71]; co' britanni e co' caledoni vinti da Agricola; ridusse o confermò a province Rodi, Samo, Licia, Tracia, Cilicia e Comagene.—Successegli Tito figliuolo di lui, stato giá devoto a lui ed alla patria, capitano vittorioso e per que' tempi clemente; modello de' principi ereditari. Non regnò se non due anni [79-81], e gli bastarono a farsi modello de' regnanti.—Seguí Domiziano fratello di lui, ma troppo diverso; vano, invido, sospettoso, crudele, richiamò Agricola vittorioso dalla Britannia, guerreggiò or a pompa in persona, or pe' capitani contro a' germani e ai daci, or vanamente, or cosí vilmente che patteggiò un tributo agli ultimi. Fu ucciso per congiura di palazzo [81-96].
7. Nerva, Traiano, Adriano [96-138].—Posto in trono da' congiurati Nerva, un vecchio onorando di settanta anni, furono restituiti l'ordine, lo splendore dell'imperio; e continuati, accresciuti poi per una serie di buone adozioni durante quasi un secolo. Questo fu, senza paragone, il piú, od anzi il solo buon secolo di quella grande autocrazia; fu, secondo l'espressione d'un autocrata moderno, caso fortunato. Nerva regnò poco piú d'un anno; ma in quello, fece uno forse de' piú rari, certo uno de' piú utili atti adempibili da un principe, apparecchiossi un successore maggiore di lui [98].—Traiano figliuolo adottivo di Nerva, spagnuolo, e cosí primo degli augusti che non fosse italiano, gran capitano, grande uomo di Stato, fu tale sul trono, che può credersi sarebbe stato grande senz'esso, sarebbe stato gran cittadino di una patria libera. Ordinò, temperò il principato; abolí i giudizi di maestá; restituí al popolo i comizi, le elezioni lasciategli da Augusto, al senato la libertá delle deliberazioni. Non solamente lavorava ma operava molto; in finanze era gran massaio e grande spenditore insieme; in monumenti e strade pubbliche (quella antica gloria romana che giunse allora al sommo) splendidissimo. Fece molte guerre contro ai parti, agli arabi e ai daci, che a taluni paion troppe, ma che forse eran necessarie, e ad ogni modo furon tutte gloriose. Prima di lui non erasi guerreggiato se non per mantenere i limiti d'Augusto, o tutto al piú per ordinare in province alcune genti inchiuse in essi; egli li estese, e passando il basso Danubio contro a quei daci a cui Domiziano avea testé pagato tributo, li vinse e ridusse a provincia romana.—Successegli [117] Adriano suo figliuolo adottivo, principe pacifico. Trattò co' parti ed abbandonò tutte le conquiste asiatiche incominciate dal padre. Buon ordinatore, buon amministratore anch'egli; piú che mai splendido, ma forse giá men buon gustaio in arti e monumenti; gran viaggiatore in tutte le parti dell'imperio, fu in complesso principe buono dopo un grande. S'era apparecchiato un cattivo successore adottando Lucio Antonio Vero; ma morto quello, ne adottò uno ottimo, Antonino.
8. Gli Antonini [138-192].—Antonino Pio continuò, accrebbe la pace, l'ordine dell'imperio; e si contentò di difenderlo pe' suoi legati contro alle genti che l'assalivano all'intorno.—E cosí Marco Aurelio figliuolo adottivo di lui [161-180]. Salendo al trono adottò Lucio Vero e il chiamò non solamente cesare (titolo dato fin d'allora a' figliuoli e successori), ma augusto, e cosí l'associò intieramente all'imperio; e fu il primo esempio di due imperatori regnanti insieme. E diedero i due l'esempio, non guari seguíto, di regnare concordi. Marco Aurelio effettuò quel desiderio di non so quale antico, di veder sul trono un filosofo. Fu tale non soltanto speculando, ma scrivendo; che è forse troppo per chi ha l'ufficio del fare, superiore a quello dello scrivere. Lucio Vero fu dissoluto. E guerreggiarono i due or per sé or pei legati contro a' parti felicemente; ma con successi vari contro a' marcomanni, una lega di popoli germanici del confine (come suona il nome stesso) i quali penetrarono una volta fino in Italia. E allora [166 circa] per la prima volta furono assoldate, e stanziate entro a' limiti, genti intiere di barbari; per l'addietro non s'erano assoldati se non militi sparsi. È incontrastabile: due de' maggiori danni dell'imperio, il trono diviso e lo stanziamento de' barbari, furono inventati innocentemente dal principe filosofo. Premorto Vero, morí Marco Aurelio nel 180; lasciò l'imperio al figliuolo Commodo.—Il quale, indegnissimo de' cinque predecessori, dissoluto, crudele, sfrenato, comprò la pace co' marcomanni, tiranneggiò in Roma, fecevi l'istrione, il gladiatore, l'Ercole, sui teatri pubblici, abbandonò il governo ai prefetti del pretorio ed ai liberti; e costoro, di concerto con le meretrici, l'uccisero finalmente [192].
9. Il terzo secolo dell'imperio giá decadente [193-285].—Quindi, per quasi un secolo, nuove contese di successione, ed imperatori cosí moltiplici che appena si possono numerare.—Pertinace innalzato dagli uccisori di Commodo per tre mesi, e poi ucciso [193]; Didio Giuliano, che comprò l'imperio all'incanto dai pretoriani; Pescennio acclamato dalle legioni di Siria, Albino dalle britanniche, Settimio Severo dall'illiriche. Vinse l'ultimo; fu buon soldato, sconfisse i parti, regnò diciassette anni [193-211], e lasciò l'imperio ai due figliuoli suoi Caracalla e Geta.—I quali regnarono per poco insieme, odiandosi. Caracalla uccise il fratello in grembo alla madre; e, come era conseguente, tiranneggiò poi. Guerreggiò con gli alemanni, una nuova lega (come suona il nome) di germani diversi raccogliticci che si vede sottentrar ora a quella che sparisce de' marcomanni. Caracalla fu quegli che estese il diritto di cittadinanza dall'Italia a tutte le province. Dicesi il facesse per accrescer l'entrate, estendendo i carichi pubblici; ed è strano veder quindi che questi avesser pesato piú su coloro i quali aveano diritto e nome di cittadini, che non sui provinciali. Ad ogni modo, cosí cessò il nome stesso di quel primato conquistato giá con tanto sangue dagli italiani, sancito in essi da Augusto. Mentre Caracalla guerreggiava co' parti, fu ucciso dal prefetto del pretorio [211-217].—Questi, Macrino, comprata la pace da que' barbari, era tuttavia in Asia, quando le legioni innalzarono Eliogabalo, un giovine sacerdote del Sole, che Soemi sua madre proclamò figliuolo di Caracalla. Battutisi i due, rimase vincitore e imperatore il giovine sacerdote [217-218]. Il quale portò sul trono di Roma, pur giá tanto macchiato, nuove infamie, nuove superstizioni; e fu trucidato in men di quattro anni dalle guardie [218-222].—Alessandro Severo cugino di lui, e adolescente egli pure, fu tuttavia diversissimo. Costumato, belligero, restaurator di discipline, guerreggiò co' persiani, i quali avean testé distrutta la potenza de' parti non saputa distruggere mai da' romani, ed avean cosí fondato un nuovo imperio, anche piú pericoloso. E guerreggiando co' germani fu trucidato da' soldati impazienti della rinnovata disciplina [222-235].—Massimino, un soldato trace semibarbaro e feroce, mal innalzato cosí, guerreggiò tuttavia felicemente contra i germani, i pannoni e i sarmati stessi piú lontani; ma intanto furono gridati in Roma, prima due Gordiani padre e figlio; poi, morti questi, un Papieno, un Balbino. Contra i quali scendendo Massimino dal Sirmio, furono uccisi tutti e tre, ciascuno da' propri soldati, e rimase solo un terzo Gordiano, figlio e nipote de' due altri [237-238].—Il quale, quasi fanciullo, regnò prima sotto la tutela d'un prefetto del pretorio, e fu sei anni appresso ucciso da un altro [238-244].—Costui, un arabo, chiamato Filippo, tenne cinque anni l'imperio, disputatogli in varie province, toltogli colla vita da Decio suo capitano, ch'egli avea mandato a combattere competitori in Pannonia [244-249].—Decio guerreggiò contro a' goti invadenti per la prima volta l'imperio di qua dal Danubio, e morí col figlio, sconfitto da essi [249-251].—L'esercito acclamò Gallo, l'uccise tra pochi mesi; acclamò Emiliano e pur l'uccise, acclamando Valeriano [251-253].—Valeriano ebbe a difendere i limiti giá intaccati in tutto il giro dagli alemanni sul Reno e l'alto Danubio, da' goti sul basso, dai persiani sull'Eufrate. E li difese contro a' primi e a' secondi, ma succombette e fu preso da' terzi [253-259].—Succedettegli Gallieno figliuol suo, giá associato all'imperio; e quindi vidersi due imperatori romani, padre e figlio, languire e perir l'uno ne' ferri barbarici, seder l'altro sul maggior trono del mondo; e sorger quindi tanti altri imperatori in ogni provincia, che chi ne conta diciannove, chi trenta, detti nella storia i trenta tiranni. Allora ebbero grand'agio i barbari ad ordinarsi, ad assalire su tutti i limiti. E tre grandi leghe di genti germaniche ne sorsero o crebbero dalle bocche del Reno alle bocche del Danubio: quelle de' franchi, degli alemanni e dei goti, che furon poi le principali distruggitrici dell'imperio [259-268].—Morto Gallieno, successegli, chiamato da lui, miglior di lui, Aurelio Claudio che vinse prima uno de' competitori, gli alemanni, poi i goti, ma morí in breve di peste a Sirmio. Il senato gl'innalzò poi meritamente una grande statua d'oro in Campidoglio [268-270].—Furono acclamati dal senato Quintilio fratello di Claudio, e dall'esercito, Aureliano; e uccisosi il primo, dopo pochi giorni di porpora, rimase solo il secondo e regnò gloriosamente cinque anni. Respinse gli alemanni e i goti, non piú invasori solamente de' limiti, ma d'Italia, dell'Umbria! E vinse e prese Zenobia, la famosa regina di Palmira, invaditrice d'Asia minore, Siria ed Egitto. E vinti i rimanenti tiranni in Gallia, Spagna e Britannia, ed abbandonata la Dacia e cosí ridotti i limiti di Traiano, ma restituiti tutt'intorno quelli d'Augusto, poté apparir vincitore, restauratore dell'imperio. Ma fu per poco: dopo cinque anni gloriosissimi, fu ucciso come uno de' volgari imperatori, e ricadde l'imperio nello strazio consueto [270-275].—Seguí anzi, strazio nuovo, un interregno di sei mesi; senato ed esercito si rimbalzavan la scelta; non che conteso, l'imperio non era piú desiderato. Finalmente fu eletto dal senato Tacito, un vecchio di settantacinque anni, che morí guerreggiando contro ai goti dopo altri sei mesi [275-276].—Successero Floriano, fratello di Tacito, per elezione del senato, e Probo, gridato dall'esercito di Siria. Ed ucciso in breve il primo dai propri soldati, rimase solo il secondo. Imperiò e guerreggiò sei anni sul Reno e il Danubio, tra' quali innalzò un gran muro, vana difesa; fu ucciso al solito dai soldati, i quali tolleravano anche meno i forti imperatori che non i dappoco [276-282].—Innalzarono Caro prefetto del pretorio che guerreggiò felicemente contro ai goti, ed avviatosi contro ai persiani, morí, dicesi, di fulmine [282-284].—E successero insieme i due figliuoli di lui Carino e Numeriano. Ma in breve, ucciso Numeriano dal suo prefetto del pretorio, e innalzato a luogo di lui Diocleziano, e ucciso pur Carino da un tribuno a cui egli avea tolta la moglie, rimase solo Diocleziano [284-285]. Tristo secolo, deplorabile imperio, noiosa storia!
10. Diocleziano e i successori fino a Costantino [285-306].—Quando uno Stato è venuto decadendo per parecchie generazioni, il restaurarlo è difficile a un uomo solo quantunque grande per sé e per potenza, perché non trova appoggio nel proprio popolo corrotto; gli è d'uopo procacciar primamente che sia piú o men rinnovato dall'esempio de' popoli vicini non corrotti. Ma ciò è impossibile nelle civiltá corrotte tutt'intiere. Tuttavia un grand'uomo che si trovi in occasione di tale impresa, non suole, non può tenersi dal non tentarla; e nella storia, ne' giudizi de' posteri resta poi sempre dubbio, se il tentativo abbia ritardata o non forse accelerata la caduta. Ciò avvenne a Diocleziano e Costantino, restauratori, mutatori indubitati dell'imperio. Propensi noi a lodare chi opera grandemente, quand'anche sventuratamente, anziché chi aspetta, oziando, la fortuna, a noi paiono essi tutti e due uomini grandi nati in tempi dappoco.—Diocleziano vide i due sommi pericoli dell'imperio: le contese di successione tra i capi degli eserciti, e l'invasione de' barbari giá prementi su tutti i limiti; e tentò riparare ai due insieme con un ordinamento grande, un pensiero generoso. Solo signor dell'imperio, solo augusto, non solamente fece augusto e pari suo Massimiano, ma in breve aggiunse a sé ed al socio due cesari, o successori designati, Valerio e Costanzio Cloro. Né furono piú di quelle associazioni vane od anzi pericolose per l'imperio, utili solamente all'imperatore che guarantivano: fu vera divisione del territorio, che non era difendibile oramai da un solo imperatore. Distribuí le province tra i quattro: l'Asia a sé; Tracia ed Illirico a Valerio, cesare suo; Italia ed Africa a Massimiano augusto; e Gallia, Spagna, Britannia e Mauritania a Costanzio, l'altro cesare. Cosí (essendo tenuta dai due augusti una supremazia sui due cesari), l'imperio, giá unico, rimase fin d'allora diviso in que' due, orientale ed occidentale, che mutarono e rimutarono sí continuamente limiti e signori, ma si ricostituirono e durarono in lor dualitá poco meno che due altri secoli. Roma e l'Italia giá fin da Caracalla cadute in condizioni pari alle province, ne decadder molto indubitatamente: e ne patirono tutti i popoli che ebbero a far le spese a quattro palazzi imperiali in luogo d'uno; e tanto piú, che moltiplicaronsi d'allora in poi, in quei palazzi diventati vere corti, le pompe, gli uffici, i titoli, i rispetti, all'uso antico orientale. Ma i due intenti del riformatore furono arrivati: le successioni (che nella storia appaiono, moltiplicandosi e incrociandosi, anche piú complicate) furono in effetto men contese coll'armi, rimasero piú lungamente nelle medesime famiglie; e le frontiere difese da quattro principi, ciascuno dal posto suo, furono, secondo ogni probabilitá, difese meglio che non sarebbero state da un principe universale, sforzato ad accorrere dall'oceano settentrionale al golfo persico, e a lasciar un pericolo d'invasione esterna ed uno d'usurpazione interna in ciascuno degli eserciti ove non si trovasse.—E di fatti, vinsersi allora facilmente alcuni competitori: e mantenuti i limiti europei, s'estesero momentaneamente gli asiatici dall'Eufrate al Tigri. Ma nulla è che stanchi come una operositá, una fortuna stessa, che si sperimentino insufficienti allo scopo prefisso. Dopo venti anni di regno glorioso, Diocleziano abdicò e fece abdicar Massimiano l'augusto, compagno suo [285-305].—I due cesari, Galerio e Costanzio ne diventarono essi augusti; ma molto disugualmente, rimanendo al primo (con due nuovi cesari, Severo e Massimino) l'Oriente, l'Italia e l'Africa, ed al secondo Britannia, Gallia e Spagna solamente. E morto in breve Costanzio e succedutogli il figliuolo Costantino, prese il titolo d'augusto, ma non fu riconosciuto se non come cesare da Galerio [306]. E ne seguirono nuove guerre, finché rimase solo Costantino.
11. Il cristianesimo [1-306].—Ma ci è debito qui accennare i princípi e i progressi di quella religione cristiana, che, nata coll'imperio, cresciuta mentre questo decadeva, e compressa, perseguitata fin ora, salí ora a un tratto a condizione di religione trionfante e regnante.—Nato in Giudea sotto Augusto, nella famiglia regia ma decaduta di Davidde, un fanciullo chiamato Gesú, era cresciuto in casa al mestiero paterno di falegname, e vi si era trattenuto trenta anni; ed avea predicato poi per tre altri, sé professando il Messia aspettato da sua nazione, sé il Cristo profetato, sé figliuolo di Dio, rinnovatore ed estenditore all'intero mondo della religione primitiva d'un solo Dio. Morto esso al tempo di Tiberio, sulla croce, per opera degli ebrei che aspettavano un liberatore politico, un Messia temporale, e che scandalezzandosi abborrivan questo; subito dopo, dodici discepoli principali di lui, detti «apostoli», e sessanta altri, tutti gente incolta, popolana, bassissima, e di quella nazione dispregiatissima, s'eran dispersi ad annunziare il gran fatto che l'Uomo Dio era risuscitato e salito al cielo, che regnerebbe spiritualmente a poco a poco sulla terra tutta, fino al fine de' secoli, ed altre simili novelle, dette fin d'allora da nemici ed amici «stoltezze de' cristiani», «stoltezze della croce». Eppure furono credute via via, secondo che si spargevano; e si sparsero prontamente, largamente. In molte cittá di Giudea, d'Asia, di Grecia, sorsero adunanze, chiese di cristiani. Il principale de' principali discepoli ne fondò una in Antiochia, poi in Roma, centro dell'imperio; e questa fu quindi la principale e centrale di tutte. Cosí l'Italia ebbe da Dio quest'ufficio di centro della cristianitá: un ufficio, come tutti quelli di quaggiú, dotato di diritti e vantaggi, carico di doveri, che vedremo, nella storia seguente, perenni. In quelle chiese o congreghe primitive s'accumunavano dapprima tutti i beni; poi, tanto almeno da mantenerne i fratelli poveri; del resto, un solo Dio in cielo, una sola fede in terra, una sola donna a ciascuno, le passioni umane condannate, il corpo vilipeso, l'anima eterna sola importante; insomma, una credenza e una morale purissime, non dissimili veramente da quelle speculate invano da alcuni filosofi, ma fatte ora effettive, universali tra questi novatori, ma fondate su principi, su fatti i piú contrari che potessero essere alla ragione pura, filosofica, precedente o non ammettente que' fatti. Quindi, non che aiuto, repulsione, guerra di questi filosofi allora trionfanti, guerra di ogni uomo dell'antica coltura allora avanzatissima, guerra d'ogni uomo devoto alle religioni patrie, guerra di ogni uomo di Stato serbatore di queste contro ai nuovi settari. E quindi supplizi, martíri, persecuzioni legali contro essi. Dieci principali se ne contano, sotto Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, Decio, Valeriano, Aureliano, e finalmente la piú feroce e piú universale sotto Diocleziano; imperatori diversi, come si vede, gli uni tiranni, gli altri buoni, altri grandi, e nel numero Traiano il sommo uomo di Stato, Marco Aurelio il filosofo, tutti uniti nella massima di Stato di distrurre la nuova setta. Eppure, tra tante opposizioni e persecuzioni, e contro ad ogni ragione e probabilitá filosofica, politica e storica, contro ad ogni andamento consueto degli eventi umani, queste «stoltezze cristiane» s'erano sparse fin da' tempi di Traiano cosí, che Plinio si lagnava ne fosser deserti i templi de' numi patrii, e che al principio del terzo secolo se ne scorgon pieni il palazzo, Roma, le province, le legioni. E tutto un altro secolo durò, crebbe, soffrí questa societá religiosa che taluni osan chiamare setta filosofica o politica, ma che fu tutto all'opposto; non filosofica, posciaché, imponendo dommi e virtú asprissime alla natura umana, conquistò pure quelle moltitudini dove niuna filosofia riuscí mai a penetrare; e non politica nemmeno, posciaché appunto diventò moltitudine e pluralitá di cittadini, senza entrar una volta nelle contese, nelle congiure, ne' tumulti, nelle turpitudini dell'imperio. Ed ora, siam per vedere l'imperatore farsi cristiano, senza un interesse che potesse muoverlo, se non di prendere l'opinione, la religione de' piú; e cristiano palesarsi a un tratto l'imperio tutto intiero. E quindi (benché non sia istituto mio di persuader nessuno, ma solamente, com'è ad ogni storico, di presentare gli eventi col carattere che vi vedo), quindi parmi dover notare, che tutta questa serie d'eventi naturalissimi non poté succedere se non sopranaturalmente, dico per intervenzione straordinaria, immediata, manifesta della Providenza divina. Sant'Agostino e Dante posero questo dilemma di che non s'esce: o la propagazione del cristianesimo innaturale in ogni etá, innaturalissima in quella della massima coltura antica, fu effetto de' miracoli che persuasero i neofiti; ovvero avvenne il miracolo maggiore, d'un fatto grandissimo adempiutosi contro a tutte le ragioni naturali, un effetto senza causa; e nell'un caso e nell'altro dunque, v'è miracolo, sopranaturalitá, intervenzione, rivelazione, religione divina.—E il vero è poi, che senza sopranaturalitá non si spiegano né il principio, né il mezzo, né l'andamento, né lo scopo del genere umano, non la storia universale; e men che niuna, non la storia speciale dell'Italia, sede del miracolo perenne della centralitá da diciotto secoli.
12. Costantino [306-337].—Ripigliamo, or che il potremo capire, Costantino. Ai tre competitori che egli avea contro, Galerio augusto, Massimino e Severo cesari, se ne aggiunsero in breve tre altri: Massimiano stesso che riprese nome di augusto, Masenzio figlio di lui e Licinio poi, che il presero. Ma Costantino, buon capitano, e politico abile o talor forse traditore, aspettando, trattando e guerreggiando diciassette anni, si liberò di tutti sei. Severo fu ucciso da Massimiano, Massimiano da Costantino a cui era rifuggito, Galerio dalle dissolutezze, Masenzio nella gran battaglia presso a Roma [312]; Massimino da se stesso dopo una battaglia perduta contra Licinio [313]; e finalmente Licinio, dopo aver spartito con Costantino l'imperio, e tenutane la metá orientale nove anni [314-323], da Costantino. Cosí questi si trovò e regnò solo poi altri quattordici anni [323-337]. Continuò, compiè le novitá di Diocleziano, e n'aggiunse due maggiori: la conversione al cristianesimo e la fondazione d'una seconda capitale, detta Roma nuova o Costantinopoli.—La conversione, ei la incominciò ponendo la croce sul suo stendardo o labaro, al dí della battaglia di Roma contra Masenzio [312]: ma non la compié se non a poco a poco e parecchi anni appresso, quando fecesi battezzare. E prima e dopo fu principe cristiano piú zelante che prudente. Avvezzo al pontificato massimo degli augusti, non poteva usurpare tal dignitá giá tutta ecclesiastica tra' cristiani; ma non si tenne dall'usurparne quanto potesse, e die' il malo e troppo seguíto esempio di un principe teologizzante e facente affari di Stato delle dispute di Chiesa e dell'eresie; tanto che, come succede, egli forse vi s'imbrattò. Del resto, convertí a templi cristiani molti idolatri ed altri edifizi civili, e parecchi ne edificò; e molte chiese arricchí, principalmente quella di Roma. Del che, mi perdonino Dante e i ghibellini antichi, mi perdonino i protestanti e protestantizzanti moderni, io non lo so parimente biasimare: perché, se è vero che il cristianesimo sia non solamente religione ma civiltá, abbia non solamente il maggior ufficio di condur gli uomini al cielo, ma anche quello minore e pur grande di condurli intanto sulla terra alla civiltá, era, è, e sará pur sempre conseguente e necessario ch'egli avesse ed abbia a ciò mezzi terreni, diversi secondo le etá, ma durati e duraturi in tutte. Né gli abusi debbon toglier l'uso; ché altrimenti si toglierebbe quello della religione stessa, abusata or da ecclesiastici e pur da secolari, or da amici e pur da nemici di lei.—Costantinopoli, ei la fondò, dicesi, per odio a Roma ostinata nella religione antica; ma forse meglio per avere una grande, degna ed opportuna residenza a quell'imperio orientale giá istituito da Diocleziano, giá indispensabile contro ai goti, i piú vicini e piú formidabili minacciatori di tutto il mondo romano. Che tal fondazione, tal sito fossero opportunissimi, è dimostrato dal fatto, dall'esser caduta poi Roma, non Costantinopoli mai, sotto a quelli od altri barbari settentrionali, dall'aver durato l'imperio colá poco men che mille anni piú che a Roma.—Ma la corte trasferita a Costantinopoli finí di dar forme, costituzione orientale, asiatica, despotica, all'imperio. Diademi, vesti, eunuchi all'antico uso medo od assiro. Un praepositus sacri cubiculi e molti comites palatii e cubicularii (gran ciamberlano e ciamberlani), con altri simili per tutte le parti del palazzo, tutte dette «sacre» fino alle stalle; un magister officiorum (ministro dell'interno e dell'estero), un comes sacrarum largitionum (delle finanze), un quaestor (della legislazione e giustizia), un comes rei privatae (del tesoro del principe), due comites domesticorum (capitani delle guardie dette «scholae»). Agli eserciti furon preposti un magister utriusque militiae, e sotto esso due magistri peditum ed equitum, e sotto questi i comites, ed ultimi i duces.—E cosí, spogli d'ogni comando militare, furono ridotti a governatori civili i giá pericolosi prefetti del pretorio. Quattro ne furon fatti per le quattro grandi divisioni dell'imperio giá stabilite da Diocleziano, ora ordinate e chiamate «praefecturae». 1° Prefettura d'Oriente, divisa in cinque diocesi (ogni diocesi poi in province), Oriente, Egitto, Asia, Ponto e Tracia. 2° Prefettura d'Illirio, divisa in due diocesi, Macedonia e Tracia. 3° Prefettura d'Italia, divisa in tre diocesi, Italia, Illirio ed Africa. 4° Prefettura delle Gallie, divisa in tre diocesi, Gallia, Spagna e Britannia. Alle diocesi e province furono posti governatori di vari nomi, rectores, proconsules, vicarii, ecc.—E sotto tutti questi, ultime e piú potenti forse fin d'allora sorgevano le costituzioni delle cittá, stampate piú o meno sul modello degli antichi municipi italiani: un'adunanza popolare, via via ridotta per vero dire a poche elezioni, ma mantenuta poi principalmente per quelle de' nuovi vescovi a cui contribuivano insieme col clero e coi decurioni; un consiglio piú ristretto (resto dei senati) detto «ordo», «decuriones» o «patres»; e due o piú magistrati esecutivi, per lo piú annui (resti o imitazione dei consoli), detti «duumviri», «triumviri», ecc.; oltre parecchi tribuni ed ufficiali inferiori. I tributi furon dati a riscuotere a que' decurioni, fattine garanti e quasi impresari; ondeché fuggivasi tal dignitá diventata carico pesantissimo, e gl'imperatori sforzavano le famiglie a serbarla od assumerla. Del resto, continuavano questi tributi ad esser moltiplici; ma diventò principale il territoriale, che si stanziò od indisse incominciando dal 312 (l'anno della vittoria di Costantino) di quindici in quindici anni, periodo detto quindi «indizione».—Tale, all'ingrosso, fu l'ordinamento del nuovo e ben detto «basso imperio». Tal durò con poche mutazioni sino al fine della metá occidentale. E tale il vedremo poi imitato dagli imperatori occidentali rinnovati; ed anche (principalmente nella moltiplicitá degli uffizi cortigiani) da altri principi minori fino ai nostri dí. Ma vedremo pure, piú seria imitazione, quella dei municípi romani fatta dai comuni italiani.
13. I Costantiniani [337-379].—I tre figli di Costantino, cesari in vita di lui, augusti dopo lui, tennero nell'imperio diviso, Costantino II, la prefettura delle Gallie; Costante, l'italica e l'illirica; Costanzio, la orientale. Tra breve, Costantino mosse guerra a Costante, e vi morí; onde Costante riuní tutto l'Occidente. Ma fu poi ucciso da Magnenzio nuovo competitore sorto in Gallia. Guerreggiarono allora Magnenzio e Costanzio; Magnenzio vinto s'uccise, e Costanzio rimase solo augusto.—Allora ei fece cesari prima Gallo, che in breve ei temette ed uccise; poi Giuliano letterato filosofo, cui non temeva. Questi governò dapprima in Gallia, e guerreggiò felicemente contro a' franchi ed altri germani piú che mai prementi. Costanzio perdente all'incontro dinanzi ai persiani, chiese a Giuliano cesare il suo esercito; e l'esercito gridò augusto Giuliano stesso, il quale, morto intanto Costanzio, rimase egli pure imperator solo.—Era capitano ed uom di Stato non volgare; ma filosofo all'antica, romano stantío retrogrado. Rinnegò la religion nuova, e perseguitolla a modo suo; pochi supplizi e molti impedimenti (modo imitato in un grand'imperio a' nostri dí); protesse, rinnovò all'incontro la religione vecchia, nazionale, di che era capo.—Passato in Oriente corse contro a' persiani, li vinse, giunse al Tigri, e vi perí in battaglia, ultimo de' Costantiniani [363], ultimo degli imperatori idolatri; e dopo il quale l'idolatria si ridusse a poco a poco al senato di Roma, alla statua della Vittoria ivi serbata per qualche tempo ancora, ed agli abitatori piú rozzi, men progressivi delle terricciuole, de' pagi, onde furon detti «pagani».—L'esercito, rimasto senza imperatore, acclamò Gioviano, che cedette subito a' persiani le conquiste e morí fra pochi mesi di malattia.—Quindi fu similmente acclamato Valentiniano, che si associò subito suo fratello Valente. Imperiò il primo in Occidente, s'associò suo figliuolo Graziano, e guerreggiò co' germani sul Reno e sul Danubio, e morto lui, nel 375, imperiò Graziano, che s'associò suo fratello Valentiniano. E intanto imperiò Valente in Oriente che guerreggiò e patteggiò co' persiani. Ed avendo patteggiato poi co' visigoti spinti a spalle dagli unni, e conceduto loro di passare e stanziare sulla destra del Danubio, egli fu in breve assalito, vinto ed ucciso da essi ribellati. Questo fu il primo stanziamento grande fatto da' barbari di qua da' limiti di Augusto. Quindi spaventato Graziano, imperatore occidentale che avea giá un socio ma fanciullo, s'associò Teodosio capitano di nome, dandogli le prefetture minacciate d'Oriente e d'Illirio [379].
14. Teodosio [379-395].—È notevole, se non altro come aiuto di memoria, che que' limiti dell'impero stabiliti giá nell'ultimo quarto del secolo avanti Gesú Cristo da Augusto, furono oltrepassati intorno al 75 da Traiano che v'aggiunse la Dacia oltre Danubio; ripresi, abbandonata questa da Valeriano, un secolo appresso intorno al 175; intaccati dopo un altro secolo intorno al 275; ora rotti del tutto dopo un altro intorno al 375; e calcati, cancellati poi durante tutto un ultimo secolo fino alla distruzione dell'imperio nel 476. Certo una tal difesa, sia che si conti di cinque, sia che solamente di tre secoli, fatta dall'imperio quantunque straziato addentro in tante guise, contro alle genti affollantisi all'intorno, mostra una gran vitalitá, una gran vigoria ed operositá nella schiatta italiana, indubitata fondatrice e signora prima di quell'imperio. Ma questa schiatta era venuta meno a poco a poco; ed ora erano figli degeneri di barbari o barbari stipendiati, avviliti, e quasi apostati dalla barbarie, que' cosí detti romani che difendevano contro ai barbari veri e rimasti di puro sangue, l'imperio precipitante. Il quale resse in Asia, non solamente contro a' persiani, ma contro alle stesse nazioni settentrionali piú nuove e piú terribili, per la forza locale di quella Costantinopoli cosí ben piantata a ciò. E videsi allora, che giunsero quasi tutti que' barbari europei ed asiatici via via alle foci del Danubio, anzi alle falde dell'Emo o Balkano, vicinissime a Costantinopoli: e tutti furono, per forza di tal vicinanza, indugiati prima, ribalzati poi d'Oriente ad Occidente, dall'Asia sull'Europa, da Roma nuova sulla vecchia. L'indugio durò appunto quanto Teodosio, il rimbalzo tutto il resto del secolo.—Teodosio, non piú che imperatore orientale dapprima, sofferse i visigoti tra il Danubio e l'Emo; ma ve li rattenne, e con essi quanti premevano addietro. Si frappose, forse troppo anch'egli, nelle contese cristiane; ma almeno, tenendosi fermo contro all'eresia ariana e all'altre, serbò unita la cristianitá romana, contro ai barbari giá gentili, poi via via quasi tutti ariani. E cosí la guerra, che giá era di civiltá contro alla barbarie, diventò pure di religione; il che risponde all'accusa antica e nuovamente fatta al cristianesimo d'avere menomata quella difesa dell'imperio. Se questo avesse potuto o dovuto esser salvato, sarebbe stato da una guerra di religione. Del resto, ucciso Graziano da Massimo un nuovo augusto, Teodosio venne in aiuto a Valentiniano II, prese ed uccise Massimo; e quando Valentiniano fu ucciso dal suo maestro de' militi che innalzò Eugenio, egli, Teodosio, combatté e prese pur questo; e cosí riuní per l'ultima volta, ma per poco, i due imperii. Morí l'anno appresso, 395.
15. L'ultima divisione, l'invasione e la caduta dell'imperio [395-476].—Per sempre dunque si ridivisero i due imperii: l'orientale (compreso l'Illirio) sotto Arcadio primogenito; l'occidentale sotto Onorio, l'altro figliuolo del gran Teodosio. Degeneri, mediocri amendue, lasciarono governare lor maestri de' militi, lor cortigiani, lor donne, loro eunuchi. Allora straripò, innondò la piena de' barbari vicini, premuti a spalle piú e piú da quegli unni che giá vedemmo sul Danubio, e di che si disputa tuttavia, da quali steppe dell'Asia fosser giunti, di quale schiatta, finnica, turca, o propria, fosser cresciuti.—Quindi, dal basso Danubio scesero i visigoti per mare e per terra, in Grecia, Pannonia ed Illirio; dalla Germania, i vandali, gli alani e gli svevi, in Gallia, e quindi attraversandola, in Ispagna [400 c.]. Tra breve, Alarico re de' visigoti penetrò fino a Verona, e vi fu vinto da Stilicone, maestro de' militi e poco men che tutore dell'imperatore occidentale. E penetrò secondo Radagasio con un nembo di genti varie fino in Toscana, e vi fu vinto dal medesimo Stilicone. Ma venuto questo in sospetto, giusto, o no, di voler usurpare l'imperio, ed ucciso nel 408, Alarico ridiscese subito fino a Roma che multò; poi tornovvi l'anno appresso e la prese innalzandovi, contra Onorio, Attalo ad imperatore [409]; poi tornovvi la terza volta e la pose a sacco [410], e morí poi. Quindi Ataulfo suo successore lasciò l'Italia, passò in Gallia meridionale e Spagna, fondovvi un regno goto, unendosi ai barbari precedenti. Intanto Onorio faceva augusto Costanzio un suo capitano vittorioso; e, morti i due [421-423], quel resto d'imperio occidentale, occupato un momento da un Giovanni, rimase a Valentiniano III figliuolo di Costanzio [424].—Sotto il quale fu abbandonata dai romani ed occupata da' sassoni la Britannia [426]; occupata l'Africa da Genserico e da' vandali di Spagna [429]; occupata Elvezia e Gallia orientale da' borgognoni [435]; cedute Pannonia, Norico e Dalmazia all'imperio orientale [437].—Peggio fu quando [444] innalzato a re degli unni Attila «flagellum Dei» (come fu detto da' contemporanei), egli raccolse intorno a sé tutte le genti unne, slave e germaniche colá ancor rimanenti e ribollenti. Volsesi prima all'imperio orientale; ma questo se ne salvò con un tributo annuo [450]. Allora precipitò il nembo sull'occidentale; attraversò, s'ingrossò in Germania, piombò su Gallia. Ma riunitisi ivi sotto Ezio i restanti romani e i nuovi visigoti contro ai novissimi invasori, li vinsero a Châlons in gran battaglia [451], e cosí li rigettarono sull'Italia. Penetrò Attila in questa, assediò Aquileia, giunse al Po e fu ivi fermato, dicesi per miracolo, certo incomprensibilmente da un'ambasceria romana a cui capo era san Leone, il quale si può contare cosí per il primo de' grandi papi politici [452]. Morí Attila appena tornato in Germania al suo ring, vallo, o campo, o cittá capitale; e fu sciolto il suo barbaro e momentaneo imperio.—Ma sorsero dai frantumi nuove leghe, nuovi duci di genti, che furono i definitivi distruggitori dell'imperio. E tanto piú, che Ezio, il sommo o solo capitano imperiale, fu ucciso per sospetti da Valentiniano III [454]; ucciso esso in breve da Massimo senatore, a cui avea rapita la donna [455].—Seguirono venti anni d'agonia, nove ultimi augusti: Massimo per tre mesi, mentre Genserico e i vandali venivan d'Africa a prendere, saccheggiare e lasciar Roma [455]; Avito vinto e deposto da Ricimero, un duce di genti barbare varie [456]; Magiorano innalzato e in breve ucciso da Ricimero [457]; Livio Severo innalzato pur da Ricimero, e lasciato imperiar di nome sett'anni, poi morto, forse di veleno [465]; poi, dopo due anni d'interregno tenuto da Ricimero, Antemio innalzato per accordo di lui coll'imperatore orientale [467], da lui poscia combattuto, vinto ed ucciso [472]; poi morto Ricimero, che stava per prendere esso l'imperio, Olibrio morto fra tre mesi [472]; poi Glicerio imporporato in Italia, e Nipote nominato a Costantinopoli, il quale cacciò l'emolo [474] e fu cacciato egli stesso da Oreste suo maestro de' militi; e finalmente Romolo Augustolo figliuolo d'Oreste, deposto in breve da Odoacre duce di genti raccogliticce, le une sollevate in Italia e l'altre tratte d'in sul Danubio dalle reliquie dell'imperio unno. Odoacre non istimò rifare inutili imperatori, e fu finito l'imperio occidentale, l'imperio italiano [476].
16. Coltura antica, idolatra.—Della religione giá dicemmo a suo luogo, e cosí faremo pure per le seguenti etá, nelle quali le cose religiose si verranno sempre piú mescolando colle civili e politiche; ondeché non ci resta né resterá a parlare separatamente se non delle colture.—Nella etá dell'imperio romano, come due religioni, cosí furono due colture, una antica e cadente coll'idolatria, una nuova e progrediente col cristianesimo.—Il cader della prima incominciò vivente od appena morto Augusto, e continuò senza interruzione, peggiorando via via poi; ondeché non può attribuirsi, come si fa da alcuni, né ai barbari che erano tuttavia lontanissimi, né al cristianesimo che era ancora impotentissimo a ciò. Alcuni altri, del resto grandi, fanno causa di questa come d'ogni altra decadenza della coltura, non so qual legge di periodicitá, a cui dicono soggetta la natura umana; e per cui ogni coltura, giunta al sommo, dovrebbe sempre e di necessitá cadere, fino a che sorga un'altra a succederle crescendo, arrivando al sommo suo, e ricadendo di nuovo, all'infinito. Ma costoro si lasciaron forse ingannare dallo spettacolo, frequente sí, non costante, di siffatti periodi. I quali non si veggono dalla scienza or progredita né nella coltura indiana né nella cinese; e men che mai in nessuna delle moderne cristiane, non nell'italiana, né nella francese, e men che in niun'altra forse, nell'inglese. E quindi sembra da abbandonare del tutto questa supposta legge universale, e da cercar piú attentamente in ciascuna delle colture decadute le cause speciali che la fecero decadere. E cosí facendo della romana, parrá chiaro ch'ella decadde originariamente e principalmente per la sola ragione, che fu spenta lá la libertá. Questa, il vedemmo, avea generati, educati prima d'Augusto tutti i grandi del secolo ben detto «aureo», mal detto «d'Augusto». Sotto il quale o dopo il quale non sorse piú uno pari a quelli, non uno forse che sia poi stato detto «aureo». È accennato nel bellissimo opuscolo contemporaneo Della perduta eloquenza, è volgare ai nostri dí: le lettere si nutron di fatti gravi, importanti, da discutere, o narrare, o ritrarre in qualunque modo di prosa e poesia; ondeché, cessando ovvero i fatti, ovvero la libertá del discuterli o narrarli o ritrarli, ovvero peggio ed insieme i fatti grandi e la libertá, cessa il cibo, il sangue, la vita delle lettere; elle languono, si spossano, infermano talora fino a morte. E cosí avvenne allora: l'eloquenza senza affari pubblici diventò retorica, o panegirici, che suol essere lo stesso; la poesia, tragica, epica, o lirica, inceppata dalle leggi di maestá, diventò leggiera, concettosa, non efficace, non alta, non larga, versi non poesia; la filosofia resistette, die' alcuni lampi, gli ultimi forse di quell'etá; ma la filosofia, che ha pretensione di condurre ed è piú sovente condotta dalle lettere, seguí poscia anch'essa la decadenza; e la seguirono, come sogliono, le arti e le scienze stesse. Perciocché insomma le lettere che si dicono talora (appunto quando la servitú le ha fatte incapaci) la piú vana, la men positiva, la men produttiva fra le colture, son pur quelle che nutrono, ispirano e vivificano tutte le altre; ondeché, mancando la vita ad esse, manca a tutte le altre. Né servono allora i rimedi delle protezioni, o, come si suol dire, dei mecenati: non serví il vero e vivo Mecenate, non Augusto ad impedire, non Vespasiano, Tito, Traiano, Adriano, Antonino o Marc'Aurelio, a trattenere di molto la decadenza. E tutto ciò è fuor d'ogni dubbio chiarito dalla successione, dalle date degli scrittori via via minori.—Di Tibullo e Properzio, aurei ancora, si disputa in qual anno nascessero, ma si crede negli anni ancor della repubblica. Ovidio nato negli ultimi è certo il meno aureo degli aurei. Fedro, un servo trace nato piú o meno tra le due etá, è aureo di stile, ma il genere trattato da lui è di quelli minori, scelti appunto quando vengon meno i maggiori. Lucano, Persio, Stazio, Marziale, Seneca il tragico, Seneca filosofo, del primo secolo dell'imperio, son tutti minori e detti «argentei» unanimemente.—Quintiliano, fiorente tra il primo e il secondo secolo, non se n'alza, pure sforzandosi di rialzar esso le lettere cadenti. I due Plini, quantunque erudito il primo ed elegante il secondo, e Giovenale stesso, quantunque generoso, non vi fecero guari piú. Se avesse potuto farsi, sarebbe stato fatto da Tacito, uno scrittore, un uomo (per quanto si sappia) di meravigliosa virtú in tempi or viziosi, or almeno minori. Ma, vizio forse inevitabile in qualunque uomo combattente il secolo suo, Tacito, resistendo alla decadenza giá invincibile, e sforzandovisi, ne rimase aspro, duro, travagliato oltre alle leggi del bello, che non è piú bello quando non è facile. E cosí Tacito rimarrá immortalmente simpatico agli animi virtuosi, che si confortano allo spettacolo della altrui virtú infelice; ma riman segno egli stesso della decadenza invano da lui trattenuta. Seguono decadenti via via piú Svetonio, Frontino, Frontone, Petronio, numerati ancora fra gli argentei;—e poi nel terzo, quarto e quinto secolo, detti di bronzo, di ferro e non so piú che, una serie rara rara di minori, Ausonio, Claudiano, Eutropio, Apuleio, Giustino, Macrobio, ed altri che non nomineremo.—Misti a tutti questi latini, fiorirono alcuni greci, Plutarco solo grande, con una turba di filosofi minori di varie scuole, od anzi di scuola ecletica in Alessandria. E questi furono la speranza di Giuliano apostata. Dopo il quale ancora, a' tempi di Teodosio, Simmaco, un senatore principale di Roma, acquistava nome di eloquente o forse di animoso fra' contemporanei, difendendo l'altare della Vittoria, ultimo degli idoli nella curia. Ma giudichi ora ciascuno quale eloquenza, qual filosofia, quali animi retrogradi dovessero esser questi; e qual regresso si fosse fatto, in somma, dalle varie ma tutte vive ed incalzanti parole d'un Catone, d'un Cicerone o d'un Giulio Cesare.—Le arti, greche e purissime da principio, riempirono dapprima Roma, poi l'imperio. Augusto vantavasi di aver trovata Roma di mattoni, e lasciarla di marmi. E in Gallia, in Ispagna e nell'estrema Africa, quasi come in Italia, si trovan resti da far meravigliare quanto se n'empissero le cittá e le terre. Il fatto sta (e credo sia da notare per l'avvenire dell'arti italiane che dovrebbon essere provveditrici al mondo moderno), che l'ornamento dell'arti diventa un bisogno in tutte le civiltá molto avanzate. Ancora, a tutte queste province fu estesa dagli imperatori la rete delle strade romane. Tutto ciò fino agli Antonini. Ma arti ed opere pubbliche furono neglette nel secolo delle contese e de' moltiplici imperatori; e giá colle lettere si trovano l'arti molto corrotte solto Diocleziano e Costantino, e corrottissime poi al cader dell'imperio. I barbari sopravegnenti non trovarono della coltura antica nulla da corrompere; tutt'al piú, resti da disperdere.
17. Coltura nuova, cristiana.—Fu tutt'all'incontro nella nuova coltura generata, vivificata, spinta innanzi dalla religione, dall'operositá cristiana. Qui si, abbondavano i soggetti reali, belli, grandi, incalzanti.—Ma, né religiosamente né letterariamente parlando, non oserem nominare come parti o frutti di tal coltura i Vangeli, gli Atti o le lettere degli apostoli. Ivi la semplicitá è piú che aurea, o del secolo d'Augusto; ivi i pensieri spirituali ed anche temporali, ivi l'altezza e l'ampiezza dei giudizi e delle previsioni morali, ed anche storiche e politiche, sono tali, che a chiunque vi s'interni spregiudicatamente, sará impossibile non vedere, per cosí dire, materialmente la sopranaturalitá, l'onniveggenza, la ispirazione divina di quelle scritture. Compatibili al paragone di noi sono coloro che non le videro, ne' secoli precedenti. Ma in questo nostro cosí inoltrato nell'adempimento di tanti destini umani e cristiani, predetti lá da per tutto (principalmente nelle predicazioni di Gesú Cristo e nelle Epistole di san Paolo), e che non si potevan pure naturalmente prevedere allora, io non so come possiamo leggere quelle scritture senza esser compresi di meraviglia e quasi di spavento, senza sentirci quasi in presenza materiale di quella inevitabile sopranaturalitá, di quella rivelazione. E quindi non frutti, ma semi diremo questi della coltura cristiana; la quale poi in realtá si trova tutta derivata da essi.—Greci tutti dapprima, latini molti poi degli scrittori cristiani, li nomineremo tutti insieme, come membri d'una sola coltura. I primi, san Clemente papa, san Barnaba, sant'Ignazio, san Policarpo, scrissero non piú che lettere a conforto e guida di questa o quella chiesa, come gli apostoli.—Ma tra breve, fin da mezzo il secondo secolo (che tal si conta dell'imperio e della chiesa, quasi esattamente coetanei) sorsero scrittori maggiori; molti apologisti della religione nuova contro alla religione e alla filosofia antiche, fra cui principali san Giustino israelita, san Clemente alessandrino, Tertulliano latino ed altri minori; oltre a sant'Ireneo ed altri scrittori propriamente teologi o controversisti contra gli eretici.—E continuarono i primi, e moltiplicaronsi i secondi nel terzo secolo; o piuttosto, apologisti e controversisti insieme furono gli scrittori ecclesiastici giá allora numerosi e fecondi ed eloquentissimi, Origene e Dionisio alessandrini, san Cipriano, san Gregorio taumaturgo, Esichio e molti altri. E questo secolo è pur quello dell'imperio straziato dalle contese militari, e della coltura antica risolutamente precipitante; ondeché in esso giá si può dire asserita la superioritá, la vittoria della coltura nuova.—Tanto piú nel secolo seguente e quarto, che fu quello di Costantino, e della Chiesa trionfante nello Stato, ma straziata dall'eresia ariana e da parecchie altre. E quindi s'affolla la serie degli scrittori ecclesiastici d'ogni sorta, ed è una folla di grandi; sant'Atanasio l'eroe della guerra ariana, san Cirillo, sant'Ilario, sant'Eusebio, sant'Efrem, san Basilio, due santi Gregori, quel di Nicea e quel di Nazianzo, san Giovanni crisostomo, Arnobio, Lattanzio e il nostro sant'Ambrogio tra molti altri.—E seguono finalmente, nati nel medesimo secolo, finiti nella prima metá del quinto, san Pietro crisologo, san Leone papa (il fermator d'Attila), Sulpicio Severo, Paolo Orosio, san Prospero, Prudenzio, Apollinare, e sopra tutti questi (quasi tutti latini oramai) i due grandi lumi della chiesa latina, san Girolamo e sant'Agostino.—Greci o latini, i maggiori di tutti questi son quelli che si soglion chiamare meritamente i «santi padri della Chiesa»; e i piú sono dalla metá del quarto alla metá del quinto secolo, quando giá era poco men che cessata la coltura antica, quando giá erano inondati di barbari i due imperii, e principalmente il latino; onde apparisce piú che mai la contrarietá delle due colture antica e cristiana, delle due serie decrescente e crescente. E perché poi nell'ultima metá del secolo quinto cessò a un tratto questo gran fiorire della coltura cristiana, perciò apparisce sopratutto che quella scusa, quel quasi vanto di essere stata distrutta da' barbari che si dá da alcuni alla coltura antica, non a lei, ma sí veramente si può, si dee dare alla sola coltura cristiana.—Le arti cristiane poi, furono naturalmente oscurissime ne' tre primi secoli, tra le catacombe. D'architettura non n'era bisogno né possibilitá in tali luoghi; né vi potevan fiorir nemmeno le pitture o le sculture. Quindi sono rozzissimi e discordi da quelli dell'arte idolatra i pochi monumenti cristiani che si trovano di quell'etá primitiva. Né sorsero guari poi, all'uscir dalle catacombe, le due arti figurative cristiane: trovavano giá decadute anche l'arti idolatre. Ma sorse a un tratto a nuovi modi l'architettura; quell'arte tanto piú varia che non le due sorelle, perché ella può e deve adattarsi alle variabili condizioni della societá, mentre queste debbono sempre figurare l'invariabil natura. Cosí l'architettura cristiana prese per li templi la forma delle basiliche da' primi edifizi donati a tale uso; e v'aggiunse poi i due lati a crociera, per ricordar nella pianta o la croce, o piuttosto i crocicchi delle catacombe. Sono del tempo di Costantino, oltre altre, l'antica chiesa di San Pietro, e quella di San Paolo che durò fino agli anni nostri. E la rozza magnificenza dell'ultima basterebbe sola a provare che se son sognate le donazioni di potenza politica, furono reali quelle di edifizi ed altre possessioni, fatte ai papi da Costantino. Dal quale in poi moltiplicaronsi gli edifizi sacri in Italia e fuori, ed in Costantinopoli principalmente; e perché naturalmente e bene o male gli edifizi dánno occasioni di pitture e scolture, nacquene nell'arte intiera quello stile, che, per essere stato coltivato principalmente e piú a lungo a Costantinopoli, ebbe e serba nome di «bizantino». Stile rozzo, goffo, e decaduto senza dubbio; ma serbò pure un resto d'arti; ma aiutò il risorgimento poi. Ondeché dell'arti come delle lettere si può dire che le cristiane sorsero fin d'allora a' progressi futuri, mentre le idolatre finivano di cadere.
(anni 476-774).
1. Il nesso tra le due storie nostre.—Giunti al limite tra le due storie nostre, fermiamoci un momento: non sará forse perduto a far intendere ciò che le memorie della prima poterono e possono anche operare nella seconda.—L'Italia è la sola tra le nazioni d'Europa, che abbia una grande storia antica, una grande moderna; Grecia non ha finora se non la prima; l'altre non hanno in proprio se non la seconda, non hanno della prima se non guari quella parte della nostra, che resta loro dall'essere state province dell'imperio romano. Alcuni affettano trattar di quell'imperio quasi comune culla, di quella civiltá quasi comune merito, de' romani quasi comuni padri a tutte le nazioni occidentali d'Europa. Ma sono fatti storici evidentissimi, che l'imperio fu primamente e lungamente de' romani e degli altri italici; che la civiltá fu primamente, lungamente, esclusivamente tutta italica; e che, se alquanto del sangue de' signori italici si mescolò con quello de' sudditi occidentali, mescolatisi poi l'uno e l'altro col sangue germanico, quel sangue signorile non si mescolò in Italia se non una volta sola col sangue nuovo germanico. Dunque, non sembra dubbio: noi siam di razza, di sangue piú puro; noi siamo piú anticamente potenti e signori, piú nobili, nobilissimi.—Ma ciò conceduto, incombevano nell'etá seguenti, incombono ora tanto piú, alla nostra nobil nazione tutti i doveri, tutte le convenienze che sono universalmente imposte alle nobili famiglie. Dunque tra le altre: 1° Non esagerare la propria nobiltá; e cosí non dir per esempio quel nonsenso, che la nostra schiatta sia piú antica dell'altre; perciocché tutte le schiatte sono egualmente antiche, vengon tutte dal padre Noè e dal padre Adamo; lasciar anzi lo stesso vanto della puritá del sangue; perciocché, oltre alla difficoltá del provarla risalendo all'origini piú antiche che noi vedemmo cosí moltiplici, non è deciso poi se sien migliori, e piú atti a tutto, i sangui puri o i misti.—2° Di puro o non puro sangue, padri o non padri nostri, coloro che abitarono anticamente le nostre terre, che bevetter le nostre arie, furono giá il popolo piú forte in guerra, piú sodo in politica, piú civile e piú colto in tutto, fra tutti quelli dell'antichitá; e ciò basta a provare la falsitá di quello scoraggiamento datoci da molti stranieri, accettato da alcuni nostri, che il nostro molle clima, la nostra bella terra ci faccia naturalmente men forti che gli occidentali o settentrionali. La bella, la molle Italia, fu giá la forte, la virile Italia. Ma dovere nostro secondo era ed è, non esagerare, non difendere in tutto questa virtú degli avi. Sacro è senza dubbio difendere, colla veritá, la memoria d'un padre; ma men sacra, ed anche men possibile, si fa questa difesa per l'avo, meno ancora per il bisavo, e poi per l'atavo e gli avi piú lontani via via; e perché piú numerosi, e perché viventi in que' tempi piú e piú barbari, quando la potenza e l'illustrazione non si acquistavano guari in modi legittimi e virtuosi. Non v'è mezzo: o bisogna sacrificar la difesa delle conquiste e dell'imperio dei nostri maggiori, o bisogna sacrificar la difesa de' migliori e piú certi principi della presente civiltá: tutti quelli principalmente, su cui si fondano i diritti, i doveri dell'indipendenza. Se noi giustifichiamo l'imperio dei nostri avi sugli iberi, sui galli e sui germani, noi giustifichiam l'imperio de' francesi, degli spagnuoli e de' tedeschi su noi; né credo che il voglia niun italiano presente. Ma pur troppo il vollero molti italiani del medio evo; e vedremo l'inopportuna memoria dell'imperio romano, e le pretese di rinnovarlo sviar le nostre generazioni, guastar quasi tutta la nostra storia moderna.—E quindi apparisce un terzo nostro dovere, che è di emular sí, ma non pretendere a pareggiare i grandi maggiori; di emularli secondo i tempi mutati e le proprie possibilitá. Tutte le imitazioni servili, troppo simili, nascono da incapacitá, riescono a mediocritá nell'opera, anche piú che nello scritto. Uno che voglia operare, non dico come l'antico autore di sua famiglia, ma come l'avo di due o tre generazioni, è stolto e si fa risibile a guisa del famoso cavaliero. Cosí qualunque nazione. Noi fummo giá la prima in potenza tra le antiche, la prima in coltura tra le moderne; ma noi siamo (non voglio dire a qual grado) decaduti dall'uno e l'altro primato; e bisogna saperlo vedere. Perciocché tutti quei doveri, comuni a chiunque pretende a nobiltá, sono tanto piú stretti a chiunque si trovi in nobiltá decaduta. Nella quale, i vanti d'antichitá, i vanti della virtú degli avi, i vanti di pareggiarli, si fanno poi non solamente piú risibili ma fatali. La superbia può essere tollerabile quando si cerca ne' propri meriti, ma non quando si fruga tra gli avi. Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti. Per fare tutto quello che si può, bisogna non pretendere a quello che non si può. Di tutti i sogni che distraggono dalla realitá, i sogni del passato sono i pessimi, perché i piú impossibili ad effettuare; il futuro anche piú improbabile può succedere, ma il passato non succede mai piú. Uno dei grandi vantaggi delle nuove nazioni, come de' nuovi uomini, è quello di non poter impazzire del proprio passato, di esser tutto al presente e all'avvenire; e tal fu appunto Roma antica, tale è la nazione anglo-americana presente. Del resto, io mi vergogno di dimorar cosí a lungo su queste debolezze; ma elle furono quelle di tutti quanti i secoli che ci restano a percorrere; e sono d'oggi, dicevo io e pur troppo non m'ingannavo, quando scrivevo per la prima volta questa pagina; e guastano, in somma, i giudizi sulle nostre due storie antica e moderna, e sulla presente e la futura ancora. Epperciò parvemi ufficio di storico il segnalarle.—Ma se, tutto ciò lasciando, noi ci sapremo mai innalzare all'intelligenza dell'ufficio, del destino peculiare di nostra nazione in mezzo a quello universale del genere umano (quella intelligenza che è sommo e pratico fine di qualunque storia nazionale lunga o breve), noi non troveremo nulla di meglio né di piú a dire su Roma e l'imperio romano antico, che ciò che ne fu detto dai tre maggiori filosofi storici che sieno stati mai, sant'Agostino, Dante e Bossuet; cioè, che evidentemente l'ufficio, la missione providenziale di Roma antica, fu quella di riunire, di apparecchiare tutto il mondo antico occidentale a prima sede della cristianitá. E questo modo di vedere si fará a noi tanto piú manifesto nelle due etá seguenti, in che vedremo accorrere le genti barbariche, e sorgere le nazioni moderne a prender lor luoghi nella cristianitá. E vedremo poi nella etá ulteriore, dei comuni, sorgere un nuovo ufficio o destino nostro non meno evidente, non meno bello; quello di ravviare e riunire la cristianitá in una nuova civiltá e in una nuova coltura; e soffrir noi certamente e molto in questa grand'opera, ma compierla meno a pro nostro che d'altrui; e poter quindi rallegrarci ancora dei nostri stessi dolori, riusciti cosí utili nell'ordine universale. E non sará guari se non nell'ultima delle etá nostre, in quella che chiameremo delle preponderanze straniere, che noi troveremo dolori senza compensi, patria storia senza patrio ufficio, senza consolazione, senza gloria. Fino allora, in un modo o in un altro, noi avevamo operato o primi o per lo meno importantissimi sui destini della cristianitá; d'allora in poi non operammo né primi né importanti, facemmo poco piú che durare, sopravivere, poltrire, vegetare, non solamente decaduti ma degeneri.—Ma le nazioni cristiane non possono restar sempre degeneri, senza ufficio, senza opera. E giá si può forse prevedere l'ufficio futuro di nostra nazione, collocata in mezzo al Mediterraneo, centro e via degli interessi materiali, collocata intorno alla sedia pontificale, centro e capo degli interessi spirituali della cristianitá: l'ufficio di procacciare, agevolare, mantenere, perfezionar l'unione, ogni sorta d'unione, delle nazioni cristiane. Sarebbe ufficio simile nello scopo, ma dissimile nel mezzo, per vero dire, ai due altri nostri antichi: noi nol possiamo piú adempiere primeggiando, ma nol potremo adempiere se non pareggiando le nazioni sorelle. E noi siamo lungi da tal situazione; ma alcuni piú o men notevoli passi si son pur fatti ad essa, uno ultimo e grande da quando attendevamo primamente allo studio delle etá nostre passate. Continuiamovi, ostinati dunque tanto piú. Il passato ha piú interesse quanto piú si vien rischiarando l'avvenire. La storia non serve bene a sollazzo: vi serve meglio qualunque novella alquanto elegante. Né la storia dee servire a ruminazioni, rincrescimenti, piagnistei, vanti, o, peggio, ire; non può, non dee servire se non come raccolta di sperimenti passati, ad uso di coloro che operano il presente, mirando all'avvenire della patria.
2. I regni nuovi romano-tedeschi.—I barbari invasori dell'imperio furono quasi tutti di quella nazione, che chiamò e chiama se stessa dei «Deutsch», che i romani chiamarono primamente «teutoni» e poi «germani», e noi chiamiamo «tedeschi». Poche eccezioni trovansi a tal fatto, piú poche tra le genti stanziate; e noi noteremo quelle che venner tra noi. In generale i nuovi regni furono tutti romano-tedeschi; in essi fu un elemento romano ed uno tedesco. E noi accennammo finora il primo via via; or accenneremo il secondo.—La nazione tedesca era tuttavia al secolo quinto in quella condizione di genti divise, che fu la primitiva di tutte le nazioni, e in che vedemmo durar la nostra fino alla conquista romana. Piú o men nomadi ancora, regnate le une (da capi nominati lá «kan», «king», «konung», «koenig»), le altre no, divisa ciascuna in aristocrazia e democrazia, le loro costituzioni sono ritratte meravigliosamente in quel detto di Tacito: che delle cose minori deliberavano i «principi»; delle maggiori, prima i principi, poi tutti, cioè l'assemblea universale della gente. E questa è l'origine indubitata di quelle assemblee, di que' parlamenti moderni, che tra varie vicende si serbarono, mutarono, si spensero, risuscitarono quasi da per tutto oramai; ma con questa grande differenza, che non era allora inventata la rappresentanza, cioè quel modo di riunirsi pochi deputati eletti da molti elettori, il quale non sorse se non dai comuni: ognuno assisteva allora per conto proprio; e chi non veniva, non era rappresentato. Queste assemblee teneansi tra' banchetti (mahl), e cosí dissersi in lor lingua «malli»; e in latino barbaro poi, or generalmente «concilia», or «placita» dalle deliberazioni ivi piaciute a tutti, or «campi di maggio» o «di marzo» dall'epoca delle annue convocazioni.—Fin dalle selve o steppe nazionali, e tanto piú quando furono stanziate le genti ne' nostri colti, il loro territorio divisesi in gau o shire (latino «comitatus», italiano «contado»); e a capo della tribú che l'occupava fu un magistrato, capitano in guerra, giudice in pace, chiamato «graf» o «sheriff» (comes, conte). Nei giudizi il graf era assistito or da alcuni notevoli della tribú chiamati «schoeffe» (latino ed italiano «scabini»); ora, per la verificazione del fatto principalmente, da certi guaranti (or detti «giurati») che si chiamavano «rachimburgi». Le pene, poche corporali, eran quasi tutte multe imposte al condannato, in profitto, parte del conte e del re, parte dell'offeso o degli eredi dell'offeso, e chiamavansi «widergeld», «widrigild» o «compensazioni». Il gau dividevasi in parecchi mark (italiano «marche», latino «vici»), e questi erano abitati poi per lo piú dalle «fare» o tribú, il capo (faro, baro, barone) in mezzo nel suo castello (hof, curtis, corte), e gli altri sparsamente all'intorno.—Del resto, l'ordine civile subordinato al militare; il graf, per lo piú capo di mille, aveva talora sotto sé parecchi di tali capi detti «tungini»; il migliaio diviso in centinaia (hundreda), ciascuna delle quali aveva a capo lo schulteis (latino «schuldacius», «scultetus», «centenarius»); il centinaio diviso in decurie, ciascuna delle quali aveva a capo lo zehnter (latino «decanus»). Ma se queste migliaia, centinaia e decurie fossero di «fare» o tribú, di famiglie o case, ovvero solamente di militi (heereman, latino «arimanni», «exercitales», «milites»), io nol saprei dir qui, né so che il sappia con certezza nessuno. Ancora, in parecchie delle genti, tra cui i longobardi, la decuria non era di dieci, ma di dodici; ondeché il centinaio era di centoquarantaquattro, e il migliaio di millesettecentoventotto. Ad ogni modo e all'ingrosso, per quanto si può dire in tanta varietá e mutabilitá di genti e d'usanze, questo fu quello che si può chiamare l'ordinamento costituzionale consueto delle genti tedesche all'epoca della loro invasione.
3. Continua.—Ma oltre questo, era, se sia lecito cosí dire, pur consueto un ordinamento eccezionale. Oltre alla gente era lá la compagnia (geleite); vale a dire che tra la gente o tra varie genti, od anche d'intiere genti raccozzavasi talora una compagnia venturiera, la quale se era piccola chiamavasi «schaar» (scara, schiera); e se era grande, prendeva nome di «heer» (exercitus), e il capo di essa chiamavasi «heerzog» (dux, duca). Di tali duci venturieri furono certo molti condottieri d'invasione, e fra gli altri Ricimero. Naturalmente poi, quando stanziava l'invasione, l'heerzog, o duca, prendeva nome di «koenig», o re; e allora essa stessa la compagnia, apparisce nella storia quasi nuova gente o confederazione di genti; né altre furono probabilmente quelle che vedemmo via via quasi sorte a un tratto de' marcomanni, degli alemanni, de' burgundi, de' franchi ed altre che siamo per vedere.—Del resto, Tacito ci dá ammirabilmente anche questa costituzione straordinaria delle compagnie, dicendoci: che in esse combattevano i duci per la propria gloria, i compagni (gesinde, gasindii, commensales, leudes, fideles, ed anche poi bassi, vassi, vassalli) per il duca; il quale li nudriva, tra la guerra, colla guerra, e li ricompensava dopo la vittoria con doni d'un collare, d'un'arma o d'un cavallo. E cosí durò finché dimorarono nelle lor deserte selve e lande. Ma quando ebbero predati tesori, distribuiron ricchezze; e quando province e popoli, distribuirono terre e schiavi.
4. Continua.—E quindi, dalle due costituzioni della gente e della compagnia, alcuni usi di conquista, che pur si ritrovano piú o meno in tutti i nuovi regni romano-tedeschi.—Molte, forse le piú delle genti, le giapetiche principalmente, le tedesche sopra tutte, furono, giá l'accennammo, divise in tre parti. E quindi molte delle migrazioni fecersi da uno o due de' terzi; e ciò spiega come si ritrovino sovente i nomi delle genti migrate sul suolo primiero. E ciò spiega un altro fatto, anche piú importante qui: come, perché i piú degli invasori pretendessero, pigliassero un terzo, talor due delle terre invase. Era naturale, pareva loro giusto e moderato. Avevano abbandonato uno, due terzi delle terre avite; pigliavano la medesima quota delle conquistate.—Questo terzo poi, o due terzi delle terre conquistate chiamavasi la «parte de' barbari» (pars barbarorum), e ridividevasi in parecchie altre: una grandissima al re, una grande ancora ai conti, tungini, centenari e decani, tutti ufficiali pubblici posti a tempo ed al piacer del re; e finalmente la parte di ciascun milite, che traevasi a sorte, ed era quindi detta «sorte dei barbari» o «parte comune» (sors barbarorum o barbarica, allod, allodium), od anche «terra franca», «salica», «borgognona» ecc., dal nome degli invasori. Ma in ciò furono usati due modi molto diversi. 1° In alcuni de' nuovi regni la parte barbarica, l'allodio era dato in terra a ciascuno de' barbari, co' servi (coloni, liti, aldii) che giá erano sul suolo romano. 2° Talora, benché piú di rado, la parte barbarica non era data in natura al barbaro: era riscossa, fosse terzo o due terzi, da lui sull'abitatore romano, che rimaneva proprietario unico sí, ma proprietario «aggravato» (che cosí appunto si disse) di questo gravissimo carico, oltre forse i tributi. Nell'un caso e nell'altro, ogni barbaro cosí accoppiato ad ogni romano chiamavasi «ospite» (hospes, ostes) di lui; e l'abitazione sua «hospitium», «alberg», «albergum». Era questo modo secondo piú spedito, piú facile, piú utile al barbaro, che non s'aveva ad impacciare di amministrazione né coltivazione: e fu cosí usato da' barbari piú barbari, meno inciviliti; ma gravò molto piú sugli abitatori antichi, ridotti essi stessi cosí a condizione poco men che di coloni.—Ma oltre a tutto questo spartimento generale, spartivasi poi la parte particolare del re. Il quale non solamente ne manteneva alla corte i suoi commensali o fedeli o gasindi, a modo degli antichi capi di compagnia, ma, perché non poteva egli stesso amministrare le terre vicine o lontane, le dava a governare a questi suoi gasindi, qua e lá, in tutto il regno; e questi amministratori regi furono detti «gast-halter», «gastaldii», e i beni regi cosí dati furono chiamati «beni donati» o «beni de' fedeli», «fee-od», «feuda», «feudi», od anche «beneficia» per equipararli a quelli guarentiti alla Chiesa. Perciocché questi, sia che fosser lasciati tutti gli antichi posseduti dagli ecclesiastici sotto l'imperio romano, sia che diminuiti nella conquista, sia che poscia accresciuti, tutti sempre furon lasciati indipendenti da ogni altra supremazia, sotto la protezione, la tutela immediata e sola (mund, mundium, mundiburgium) del re. E cosí quindi i feodali. Questo era l'ordinamento de' barbari, i quali soli governavano, soli militavano. E talora questo ordinamento era solo legale, serviva a' barbari signori ed ai romani civilmente servi; ma talor all'incontro, allato o piuttosto sotto all'ordinamento barbarico, serbossi il romano, inferiore e dominato sí, ma pur riconosciuto e legale.—E di tutte queste varietá siam per vedere esempi nella misera Italia; tanto piú misera, che variarono in essa i modi di servitú, mentre furono piú costanti e perciò alla lunga piú tollerabili negli altri regni contemporanei. La miseria speciale d'Italia in tutte le etá seguenti fu il non fermarsi in niuna servitú, il rimutar padroni continuamente. Degli altri popoli giá provinciali, ultimamente consudditi nostri nell'imperio, niuno ebbe a soffrire tante conquiste come noi; per gli altri, queste furon finite alla fine del secolo quinto: e cosí de' popoli romani e tedeschi insieme poteron sorger miste e farsi uniformi colá quelle popolazioni spagnuole, francesi ed inglesi, che resistettero quindi piú facilmente alle conquiste piú moderne. In Italia, all'incontro, vedrem succedersi barbari d'Odoacre, goti, longobardi, franchi antichi, francesi nuovi e tedeschi antichi e nuovi; e gli invasori antichi incalzati da' nuovi non ebbero quasi mai tempo a fondersi nella nazione. E quindi, ciò che si suol dire dell'altre nazioni moderne europee, che il lor sangue servile di provinciali romani fu rinnovato dal sangue libero tedesco, non è vero per l'Italia. Il vantato puro sangue italiano, non servile, per vero dire, come di provinciali, ma servilissimo, come di piú imbelli e piú avviliti sotto la piú vicina tirannia imperiale, non si rinnovò di niun sangue libero e militare per gran tempo. I guerrieri settentrionali non si confusero co' servi italiani se non piú tardi; quando furono essi pure, a vicenda, invasi e conservi.
5. I barbari d'Odoacre [476-489].—I distruggitori dell'imperio occidentale furono una compagnia raccogliticcia di eruli, rugi, sciri, turcilingi e forse altri. Gli eruli, probabilmente piú numerosi (posciaché si trovano in varie storie aver dato nome alla compagnia), furono probabilmente tedeschi; cosí i rugi, parte de' quali stanziati sul Baltico, diedero nome all'isola di Rugen. Degli sciri non saprei. I turcilingi paion dal nome turchi venuti con Attila. Odovacar o Odoacre, figlio d'Edika giá duce de' rugi, stato poi de' protettori o guardie imperiali, li raccolse; parte forse in Italia ove militavan ancor essi, parte certamente in Pannonia, ove vagabondavano tra le disperse orde d'Attila. Sollevaronsi o vennero, chiedendo, a modo di tutti gli altri barbari, il terzo delle terre d'Italia. Presa Pavia, gridarono re loro (rex gentium) Odoacre addí 23 agosto 476; e tra breve, prese Ravenna e Roma, ucciso Oreste patrizio, chiuso a languire e morire nell'antica villa di Lucullo presso a Napoli Augustolo, l'imperator fanciullo, Odoacre padroneggiò, regnò su tutta Italia. Mandato dire all'imperator orientale che «bastava oramai un imperatore al mondo», ebbe da quello e da Nipote (un altro imperator occidentale superstite in Dalmazia) quel titolo di «patrizio», che era grande ma indeterminata dignitá del basso imperio, e che fu tenuto anche da altri re barbari. Ucciso Nipote da due suoi conti, Odoacre mosse a vendicarlo; ma riuní Dalmazia al suo regno e patriziato. Il quale, oltre la penisola, comprendeva le due Rezie e Sicilia, restando Sardegna e Corsica ai vandali d'Africa. Del resto, Odoacre non prese la porpora, mandò gli ornamenti imperiali a Costantinopoli, serbò in Roma il consolo solito nomarsi in Occidente, e il senato; nelle cittá i governi municipali, le curie; tutto il governo romano allato al barbarico: l'ordinamento del suo Stato fu di quelli misti testé detti. Né, oltre alle prime occasioni della conquista, ed al pigliar il terzo delle terre, sembra ch'egli incrudelisse, predasse o tiranneggiasse. Gli si trova data questa lode, semplice, ma molto insueta ad un distruttor d'imperio ed invasor di popoli: «fu uomo di buona volontá». Bisogna dire che paresse una benedizione quell'invasione stanziata dopo tante momentanee, piú crudeli e piú sovvertitrici; a quella che par talora la tirannia, ai popoli stanchi ed avviliti dalle momentanee e ripetute rivoluzioni.—Ma tutto ciò non durò che dieci anni. Nel 487, egli mosse una guerra in Pannonia contro ai rugi compatrioti suoi colá rimasti; e, vintili, non serbò lor paese, ma li trasse esso in Italia; evidentemente, ad accrescervi le forze, le genti dominatrici. E Federico, il re spogliato e scampato, rifuggí in Mesia a Teoderico re degli ostrogoti.
6. Teoderico e gli ostrogoti [489-526].—I goti tutti insieme furono una gran gente, salita giá dall'Asia alla Scandinavia, e quindi ridiscesa sulle sponde settentrionali dell'Eusino. Molto si disputa a qual famiglia di genti appartenessero, se a quelle de' geti, o degli sciti, o de' germani. A me pare provato (se non altro, dal trovarsi cosí tedeschi tanti lor nomi di persone e d'uffici, e la lor traduzione della Bibbia fatta da Ulfila nel quarto secolo) che essi furono probabilmente teutoni; forse de' kimri o cimbri, certo d'una di quelle due schiatte da cui sorsero la nazione e la lingua tedesche.—Ad ogni modo, gli ostrogoti o goti orientali erano una parte di questa nazione, rimasta giá sulle bocche del Danubio, quando i lor fratelli visigoti o goti occidentali n'erano partiti, poco men che un secolo addietro, a correr l'Europa, a capitare e fondare un regno sul Rodano e in tutta la penisola spagnuola. Erano stati congiunti coll'imperio di Attila; rovinato il quale, n'eran rimasti la frazione principale. Correvano, dominavano dalla Pannonia fin presso alle mura di Costantinopoli; ed ora avean per duca o re Teoderico degli Amali, giá statico ed educato nella corte greca, poi a vicenda capitano ed avversario di essa: un misto di barbaro e incivilito, un ambizioso, un grand'uomo. E fosse spinto dal proprio pensiero, o dal re rugo a lui rifuggito per vendicarsi, o dall'imperator greco per liberarsene, ad ogni modo nel 488 ebbe da questo (pretendente dominio sull'imperio occidentale invaso) la concessione d'Italia. Cosí per la prima volta il nome, la memoria, il vanto, il diritto preteso dell'imperio romano furono funesti all'Italia, furono causa di nuova e di prontissima mutazione.—S'incamminò con tutta sua gente, guerrieri, vecchi, fanciulli, donne, armenti, carri e masserizie; guerreggiò per via, e s'ingrossò d'altre genti, passò l'Alpi carniche, giunse all'Isonzo, dove l'aspettava alla riscossa Odoacre, ingrossato anch'egli di genti e re alleati. Combatterono lí, addí 27 marzo 489 una prima volta, poi una seconda sotto Verona, e fu vinto Odoacre nelle due. Fuggí a Roma, fu ricevuto a porte chiuse: evidentemente gl'italiani parteggiavano e s'illudevano giá per l'imperio, in nome di cui veniva Teoderico. Il quale poi, non per l'imperio ma per sé prendeva Milano, Pavia, tutta l'Italia superiore; vinceva all'Adda per la terza volta Odoacre, e chiudevalo in Ravenna. Tre anni l'assediò, preselo nel 493, ucciselo pochi dí appresso, in convito, alla barbara: tutta l'Italia fu sua.—Noi vedemmo giá un'antichissima guerra d'indipendenza combattersi dagli itali ed etruschi per due generazioni contra i pelasgi, e finir con buttar questi al mare; e vedemmo una seconda guerra d'indipendenza intraprendersi da' romani a capo dei popoli italici contro a' galli, e durare da trecentosessanta anni poi, e finir colla soggezione de' galli cisalpini e transalpini. Or qui, con questo accostarsi degli italiani all'imperio contro ad Odoacre, noi veggiamo incominciata la terza guerra d'indipendenza italiana, la guerra contro a' popoli tedeschi, che dura da milletrecentocinquantasette anni, e non è finita.
7. Continua.—Teoderico poi ordinò, governò, estese il regno cosí, ch'ei si può dire il piú civile insieme e il piú grande dei re romano-barbari. Come quel d'Odoacre il governo di lui fu misto, duplice, de' goti e de' romani. Serbati alcuni, cacciati i piú de' barbari precedenti, lor terzo di terre passò ai barbari nuovi; i romani non par che ne patissero altrimenti: sembra anzi in tutto migliorata lor condizione, accresciuta lor ingerenza. Goto il re, per vero dire, goto l'esercito, gote l'oltrepotenze, e quindi senza dubbio le prepotenze; ma romano il principal ministro del regno, Cassiodoro, romani molti altri minori; ed in ciascuna delle grandi cittá (aboliti allora o prima i duumviri) un graf goto a governare e giudicare i goti, un comes romano pe' romani. Del resto, leggi e grandi raccomandazioni di esser buoni co' romani, di vestire, radersi, vivere alla romana: i monumenti antichi di tutta Italia, que' di Roma principalmente, visitati dal re, fatti serbare, restaurare; altri nuovi (a Ravenna principalmente) edificati; papi e vescovi rispettati; rispettata dal re e da' suoi barbari, tutti ariani, la religione nazionale italiana, che fu dall'origine e sempre la cattolica.—Di fuori Teoderico, che non era un barbaro venturiero come Odoacre, ma della schiatta regia, anzi Ansa, cioè eroica e mitologica degli Amali, e portava la porpora, ed avea dato o fatto dare a parecchi sudditti suoi il titolo di patrizio, portato allora da parecchi re barbari, s'apparentò, trattò, guerreggiò con molti di questi, men da pari che superiore. S'apparentò coi re de' borgognoni in Gallia, de' turingi in Germania, de' vandali in Africa, de' goti in Ispagna, e con quel Clodoveo uno de' re franchi, il quale allora appunto veniva sollevandosi sopra gli altri, e cosí fondando quella monarchia tanto minore allora, tanto piú durevole poi, che non quella di Teoderico.—Signor giá della penisola, della Sicilia, delle due Rezie e del Norico, incominciò nel 504 nuove guerre e conquiste. E prima, contro ai gepidi e bulgari in Pannonia, la quale conquistò fino al Sirmio; poi contra Clodoveo, che estendendosi avea sconfitto e morto a Poitiers [506] il re de' visigoti, ed occupate tutte lor province di Gallia, tranne Provenza e Rossiglione. Teoderico salvò queste sí ad Amalarico re fanciullo figliuolo dell'ucciso, ma gli mandò a tutore Teuda uno de' suoi conti; e pare che il facesse governare in nome suo, e prendesse egli titolo di re dei visigoti. Morto poi Clodoveo, continuò a guerreggiar co' franchi e co' borgognoni; ed insomma, o in nome proprio o del pupillo, vedesi Teoderico signoreggiare, intorno al 520, Illirio occidentale, gran parte di Pannonia, Norico, Rezie, Gallia meridionale e Spagna. La Theiss, il Danubio, il Rodano, la Garona erano limiti all'incirca del magnifico regno.
8. Continua.—Il quale tuttavia incominciò, lui vivente, a minacciar rovina; ed al medesimo modo che quel d'Odoacre, per impulso venuto dall'imperio, per le inopportune memorie, per gli stolti affetti degli italiani a quel nome, a quel resto d'imperio, tutt'altro oramai che italiano. Giustino, l'imperator di Costantinopoli, seguendo l'uso di quella corte troppo e mal teologhessa, si pose a perseguitar gli ariani. Teoderico ariano, ma tollerantissimo fin allora, perseguitò ora a rappresaglia i cattolici. Quindi ire, sospetti reciproci, tra goti ed italiani. Primo Albino un grande romano, poi Boezio anche piú grande, poi Simmaco suocero di lui, poi Giovanni papa, furono accusati «d'avere sperata la libertá di Roma», di carteggiare coll'imperatore, e via via. Boezio e il papa morirono in carcere, Simmaco decollato. Finalmente, in agosto del 526, Teoderico fulminò un decreto per dar le chiese de' cattolici agli ariani; ma morí prima del dí fissato all'eseguimento, tra' rimorsi e i prodigi, disse il volgo, tra le esecrazioni di esso certamente; e troppo tardi raccomandando a' grandi goti e romani, raccolti intorno al letto suo, quella concordia, che è cosí difficile sempre tra conquistatori e conquistati, ch'egli giovane e forte avea saputa mantenere, ma che invecchiato avea lasciato allentarsi giá, e stava ora per isciogliersi del tutto in mano di una donna, un fanciullo ed un letterato.
9. Caduta de' goti [526-566].—Succedette Atalarico, fanciullo di sette anni, figlio d'Amalasunta, figlia di Teoderico, la quale fu reggente. Eran nel regno le quattro parti che sempre sono in un regno di stranieri: i nazionali amici e i nemici degli stranieri, gli stranieri amici e i nemici de' nazionali. Amalasunta e Teodato un suo cugino, eran de' goti romanizzati, inciviliti, letterati. Amalasunta educava il re alla romana. I goti puri se ne turbarono, e le tolsero il giovane; il quale allevato quindi alla barbara, oziando, gozzovigliando e corrompendosi, si consunse e morí di diciotto anni [534].—Cacciata Amalasunta in un'isoletta del lago di Bolsena, dove ella tra breve fu tolta di mezzo, regnò Teodato. Pare che fra questi pericoli Amalasunta avesse giá trattato, ed or certo Teodato trattò coll'imperatore greco per averne aiuti o rifugio. Imperatore era allora Giustiniano, il gran raccoglitor di leggi e codici romani, il gran riconquistatore di molta parte d'Occidente. Triboniano ed altri giureconsulti l'avean aiutato alla prima gloria; Belisario ed altri capitani l'aiutarono alla seconda; ma restò a lui la gloria personale, e sempre grande a un principe, d'aver saputo scegliersi aiuti, senza invidia. Belisario avea giá vinti i persiani, e ritolte ai vandali Africa, Sardegna, Corsica. Erano tra l'imperatore e i re goti piccole contese di limiti; ed erano allettamento a quello le dissensioni di questi. Belisario scese in Sicilia e la conquistò, passò Napoli e la prese, senza che si movesse Teodato. Contro al quale insospettiti o sdegnati finalmente i goti di Roma, escivano della cittá, e facean lor re Vitige, non principe, semplice guerriero, ma buono. E Teodato, fuggendo, era scannato per via [536].
10. Continua.—Vitige disapparecchiato lasciò Roma, e Belisario v'entrò [dicembre 536]. Ma non forte abbastanza per ispingere i goti, vi si chiuse e fortificò con cinque o sei mila uomini, e tra breve Vitige venne ad assediarlo, dicesi, con centocinquantamila. Fu famosa fazione: durò un anno [marzo 537-marzo 538]. Ma Belisario aiutato dai romani, e ricevuti rinforzi, sconfisse piú volte i goti, e finalmente li respinse ed inseguí. Prese Ancona, Milano, Fiesole; corse mezza Italia, corsa intanto da un nembo di borgognoni e franchi, predoni terzi sopravvenuti tra i contendenti. Finalmente Belisario assediò Ravenna, giá capitale de' goti, ora lor rifugio; e presela con Vitige e il nerbo de' goti ch'ei trasse poi seco prigioni a Costantinopoli [fine 539].—Rimanevano quindi i greci mal capitanati da parecchi duchi, i quali dividevansi le cittá, le governavano militarmente, sovranamente, serbando sí i governi municipali ma ponendovisi essi a capo, successori insieme de' grafioni goti e dei conti romani, e taglieggiandovi probabilmente ognun per due. Allora a rivolgersi gl'italiani, a desiderar di nuovo i goti; e questi a raccogliersi, a rinnovar la guerra. Rimanevano loro Verona, Pavia, e forse tutta l'Italia occidentale allor detta Liguria.—Gridan re, prima Ildibaldo un nobile e forte guerriero, in breve ucciso per vendetta privata; poi si dividono tra Eurarico e Baduilla, ed ucciso quello, resta solo questo, chiamato poi Totila o «il vittorioso». Quindi incomincia un'ultima guerra di riscossa, che è la piú nobil parte della storia de' goti in Italia. Sorge Totila [541] da Verona con cinquemila uomini, batte e disperde i duchi greci a Faenza, s'allarga prendendo cittá in Emilia, in Toscana; poi gira intorno a Roma e Napoli, corre tutto il mezzodí; torna su Napoli, la piglia [543] e non la saccheggia. Chiaro è: i goti rinnovati dalla sventura, erano ridiventati non solo forti, ma piú miti e migliori in tutto che i greci. Allora, perduta oramai, fuor di Roma e Ravenna, quasi tutta Italia, la corte donnaiola di Costantinopoli rimandava il conquistator Belisario; ma tra' molti intrighi, e con poco esercito, pochi danari, poco favore. Scese a Ravenna: ma rinchiusovisi, seguí una guerra sminuzzata; finché Totila vittorioso pose finalmente assedio a Roma, e la prese in faccia a Belisario accorso ad aiuto [dicembre 546]; e allora, inasprita oramai la guerra contro alle popolazioni italiane, saccheggiò, disertò la cittá, n'atterrò le mura e lasciolla. Fu rioccupata da Belisario, riassalita da Totila; combattevvisi intorno tre dí, e fu vinto Totila; ma con poco frutto: ché dopo poco di guerra spicciolata fu in breve, per nuovi intrighi di corte, richiamato Belisario, il quale avea cosí guastata la gloria di sua prima impresa d'Italia. Allora (tra una nuova invasione di franchi ed una prima e breve di longobardi) Totila riprese Roma e restaurolla, passò in Sicilia e presela pur quasi tutta.—Finalmente, dopo parecchi altri capitani greci tutti cattivi, venne uno che pareva dover essere il pessimo: Narsete, un eunuco del gineceo imperiale, vecchio di presso a ottant'anni, e che nella prima guerra di Belisario era stato sotto lui uno dei duchi piú indisciplinati. E tuttavia, costui vinse e finí la lunga guerra. Forte in corte, e cosí ben proveduto di danari e di uomini (fra cui un duemila longobardi), venne [552] per l'Illirio e la Venezia a Ravenna: e quindi uscito in breve, marciò contro a Totila che s'avanzava da mezzodí. Incontraronsi presso a Gubbio; e fu una gran rotta di goti: Totila che avea combattuto de' primi e degli ultimi, da re, morí ferito nella fuga.—Fu in Pavia gridato a degno successore di lui Teia, uno de' capitani principali. Il quale in pochi mesi raccogliendo le forze restanti a' suoi nazionali, scese giú per la penisola contro a Narsete, che dopo aver ripresa Roma (quinto eccidio di essa in quella guerra), assediava ora il castello di Cuma, ov'eran serbate le insegne regie e il tesoro de' goti. Combattessi una seconda gran battaglia alle falde del Vesuvio; e vi pugnò Teia come Totila nella prima: piú felice di lui, morendo sul campo, e, dicesi, dopo aver cambiati parecchi scudi, carichi, l'un dopo l'altro, di aste nemiche. Allora si arresero tutti i goti lá restanti [553]; e chi li dice poi cacciati fuor d'Italia, chi sparsi in essa. Certo, molti rimaneano ancora. Forse essi furono che chiamarono una grande invasione d'alemanni; i quali sotto Leutari e Buccellino corsero e predarono la penisola uno o due anni, finché furono vinti essi pure da Narsete. Vedonsi, ad ogni modo, continuare sollevazioni e piccole guerre di barbari qua e lá, e non conquistata tutta la penisola se non al fine de' dodici anni che durò la signoria greca. E cosí, con difesa perdurante fino all'ultimo, veggonsi finire a poco a poco que' goti, il cui nome non ritrovasi piú nelle storie; le cui reliquie durano forse qua e lá tra le terre e i monti d'Italia. Nobile e forte schiatta, per vero dire, e piú che niun'altra barbara mansueta ai vinti, in Italia come in Ispagna! Ondeché non merita il mal nome che le restò nella storia nostra, mal fatta e rifatta per lo piú co' pregiudizi romani, imperiali. Se non era de' quali, chi sa? sarebber rimasti e durati questi goti tra noi, come lor fratelli in Ispagna e i franchi in Francia; e misti noi con essi, non avremmo mutate tante signorie, né avuta a soffrire la divisione d'Italia; di che siamo per vedere i princípi.
11. I greci.—Veggiamo intanto qual profitto avesser tratto que' nostri maggiori, al rifarsi imperiali, al ridiventare, come dicevasi allora, romani, in realtá provinciali greci. E prima, poiché non furono finiti di cacciare tutti i barbari se non uno o due anni prima che venissero i longobardi, vedesi che la misera Italia non respirò se non d'altrettanto. Poi, gl'italiani, che, come pare accennato da certi negoziati tra Vitige e Belisario, e come, del resto, è naturale immaginare, aveano sperato riavere un imperator occidentale, ebbero a governator sommo Narsete eunuco, maestro de' militi, patrizio e gran ciamberlano, e sotto a lui, un prefetto del pretorio. Non trovo se i due sedessero in Roma o Ravenna: è probabile in questa. Di rettori od altri governatori di province, non è cenno. Probabilmente, i duchi continuarono ad esser tutto in ciascuna delle cittá, con territori piú o meno fatti a caso dalla guerra. Sotto essi i giudici, governatori civili, capi de' corpi municipali, ma non eletti da essi, anzi dati, talor forse dai duchi, certo sovente da' vescovi, e perciò chiamati «dativi». I membri di questi corpi non eran piú detti «decurioni», ma indeterminatamente «principali» od anche «consoli», nome vecchio, significazione nuova, non piú di capi, ma di consiglieri municipali. Roma stessa, ridotta a par dell'altre, ebbe un duca. Che diventò il terzo barbarico delle terre? Non è probabile fosse restituito ai possessori antichi italiani. Dovette essere incamerato, od anzi distribuito o preso dai duchi ed altri greci. Non n'è cenno nella prammatica del 554, che Giustiniano gran promulgator di leggi fece a riordinar Italia, e che non riordinò nulla. Del resto, da ciò e da tutta la storia vedesi, che fu un governo da stranieri lontani, peggior sempre che quello di stranieri stanziati. E il pessimo e piú vergognoso (ma non insueto a tali stranieri) fu che non seppero nemmen difender la conquista da stranieri nuovi.—Morto Giustiniano nel 565, succedutogli Giustino molto dammeno, questi richiamò Narsete; dicesi, perché non mandava danari in corte; onde sarebbe a dire la corte lontana peggiore che il governatore vicino, e richiamato questo per non aver saputo farsi abbastanza cattivo: né sarebbe insueto ciò nemmeno. Dicesi poi, fosse richiamato con quelle parole vituperose della nuova imperatrice: «che tornasse l'eunuco a far filar lane nel gineceo»; ed adiratone egli, perciò chiamasse i longobardi. I quali vennero ad ogni modo tre anni appresso.
12. I longobardi prima della conquista.—Qui incomincia la seconda e piú lunga parte di questa etá dei barbari. I longobardi furono antichissimamente d'una gente scandinava detta vinnuli o vendeli; un terzo della quale passato il Baltico, e preso quando che fosse il nuovo nome dalle lunghe barbe o dalle lunghe aste, posarono primamente nell'isola di Rugen, poi sull'Elba. Tacito li dice «nobilitati da lor pochezza», a malgrado la quale sempre rimasero indipendenti; e Velleio Patercolo «gente piú feroce che non la germanica ferocitá». E pochezza con ferocitá furono i due distintivi serbati da essi poi. In Germania appartennero all'antica confederazione degli svevi, e probabilmente a quella piú nuova de' sassoni, di cui pur furono gli angli, padri degl'inglesi, bella parentela. Soggiacquero agli unni, occuparono in Pannonia il Rugiland o terra de' rugi, vuotata giá da Odoacre; e rivaleggiarono lá co' gepidi; e li vinsero in due grandi battaglie; dove Alboino figliuolo del re longobardo nella prima, re nella seconda, uccise di mano sua i due re gepidi, Torrismondo e Cunimondo. Cumulazione poi di barbarie, poco men che incredibile ora, ma attestata da tutte le tradizioni, il feroce uccisore sposò Rosmunda figlia e nipote dei due uccisi; e del teschio del suocero fecesi un bicchiere a banchettare. I gepidi eran distrutti; il loro nome non trovasi piú; i rimasugli si perdettero certo nelle due genti de' longobardi e degli unni-ávari lor alleati. E, fosse stato patto dell'alleanza, o che le due discese giá notate di alcuni longobardi in Italia li avessero invogliati del bel paese, o fossero essi tratti, come poc'anzi altri barbari, dalla debolezza de' greci, od invitati veramente da Narsete; il fatto sta, che i longobardi lasciarono, appena compiuta, lor conquista di Pannonia a quegli alleati, i quali le diedero poi il nome proprio di Unn-Avaria od Ungheria; e che essi ingrossati di varie frazioni di genti, gepidi, bulgari, sarmati, svevi e principalmente sassoni, scesero in Italia l'anno 568. Né inganni siffatta moltiplicitá di nomi sul numero degli invasori. I longobardi furono certamente i piú numerosi tra essi di gran lunga; eppure furono pochi. Trovansi divisi in quelle migliaia, centinaia e decanie (ma decanie di dodici) che dicemmo; e tutta la gente composta probabilmente di tre dozzine di queste migliaia, cioè in tutto di poco piú che sessantaduemila guerrieri. Ad ogni modo, la loro pochezza si manifesta da ciò, che non poterono, né nell'invasione né poi mai, né occupare tutta Italia contro a' greci, né difenderla contro a' franchi. E cosí continuò il danno vecchio, che ogni potenza sorgente da noi lasci nel proprio edificio l'addentellato alla potenza ulteriore; e sorse il danno, nuovissimo allora, il dividersi la penisola per non riunirsi forse mai piú.
13. Alboino e Clefi [568-584].—Scese Alboino, come i piú, per l'Alpi carniche; occupò prima Foro Giulio, or Cividal del Friuli, e subito vi pose un duca con iscelte «fare» d'uomini e razze di cavalli. E questo titolo di «duca» è dato poi nella storia a trentasei capi di schiere (probabilmente migliaia) di militi longobardi lasciati via via nelle cittá conquistate, ed indi signoreggianti su territori varissimi, or larghi or ristretti. Tedescamente eran detti «heerzog» o «graf»? Io crederei il secondo, posciaché i veri duchi od heerzog di que' tempi (come il duca di Baviera soggetto ai franchi) trovansi principi piú grandi; e crederei che il titolo di «graf», tradotto sotto i goti con «conte», si traducesse ora con «duca», per assimilazione ai greci. Né monta che sotto ai duchi si trovin conti; questi furono probabilmente non piú che schulteis o centenari. A ogni modo i duchi furono lasciati quasi indipendenti fin da principio; e fu modo barbaro oltre al solito, e per li conquistati piú che mai abbandonati a lor mercé, e per li conquistatori cosí scematine, e per la conquista cosí impoverita, fatta a caso, non mai compiuta. Occuparono molte ma non tutte le cittá della Venezia e della Liguria. La quale tuttavia oltrepassarono, varcando l'Alpi, entrando nelle terre franche, e cosí incominciando la guerra bisecolare che finí con lor perdizione. Del resto, ne furon respinti fin d'allora; e lasciaron di colá partirsi per tornar a Germania i sassoni lor compagni. In Italia poi, i greci non si mostrarono mai alla campagna. Vedesi fin di qua ciò che durò sempre poi; i greci dammeno che i longobardi, questi dammeno che i franchi. In Pavia sola si trovano aver i greci resistito. Tre anni durò l'assedio; dopo i quali Alboino la prese, e la fece capitale del regno. E perché i greci respinti s'andaron raccogliendo intorno a Ravenna, e gl'italiani intorno a Roma principalmente, tre capitali si può dír che avesse quindi l'Italia per due secoli: Pavia de' longobardi, Ravenna de' greci, e Roma (non osata assalir dai primi, abbandonata dai secondi, protetta dai suoi pontefici che ne grandeggiarono) degl'italiani.—Banchettando poi un dí Alboino co' suoi barbari, facevasi venir la regina e l'invitava «a ber col padre» nel bicchier del teschio; ed ella quindi si vendicava abbandonandosi ad uno di que' bravi, e spingendolo ad uccidere l'odiato sposo. Uccisolo, fuggirono insieme a Ravenna, dove in breve s'ucciser tra essi. I longobardi gridaron lor re Clefi, duca di Bergamo, che regnò diciotto mesi, continuando le conquiste, predando ed uccidendo i principali italiani; e fu ucciso poi da un suo gasindio [574]. Tutto ciò in sei anni; Velleio Patercolo avea ragione, e l'ha Manzoni: fu conquista barbara fra le barbare.
14. I trentasei duchi.—Nuova barbarie, i trentasei duchi non s'elesser re. Vollero restare indipendenti, sciolti; e principalmente non aver a spogliarsi della consueta «parte regia». I duchi settentrionali guerreggiarono di nuovo stoltamente, e invasero Provenza. I medii e meridionali estesero lor conquiste a tutto ciò che rimase poi regno longobardo. Il quale saprebbesi qual fosse, se avessimo il nome de' trentasei ducati, che furono probabilmente dodici in ciascuna delle tre grandi divisioni, Austria ad oriente, Neustria ad occidente d'Adda e Trebbia, Tuscia a mezzodí. Ma restano certi solamente undici nell'Austria, Foro Iulio, Treviso, Ceneda, Vicenza, Verona, Trento, Bergamo, Brescia, Parma, Piacenza e Regio; incerto il dodicesimo, Brescello o forse Mantova presa fin d'allora. In Neustria certi soltanto sei, Milano, Pavia, San Giulio nel lago d'Orta, Ivrea, Torino, Asti; incerti gli altri sei, Vercelli, Lumello, Acqui, Alba, Auriate, Bredulo. Nella Tuscia certi nove, Lucca, Chiusi, Firenze, Populonia, Perugia, Fermo, Rimini, Spoleto e Benevento; incerti gli altri tre, Siena o Soana, Camerino ed Imola. Vedesi che tenevan quasi tutta la Venezia, salvo Padova con quelle sue lagune ove veniva sorgendo la cittá di lei figliuola; tutta l'antica Insubria e Liguria, salvo Genova e sue riviere; e tutta Toscana e il mezzodí d'Italia, salvo Ravenna e alcune altre cittá alla marina orientale, e Napoli e poche altre alla occidentale, e Roma in mezzo isolata e compressa tra i due potenti duchi di Spoleto e Benevento. Del resto, hassi da Paolo Diacono loro storico nazionale che «spogliarono le chiese ed estinsero i popoli»; e piú espressamente che «allora molti dei nobili furono per cupidigia uccisi; e gli altri divisi fra gli ospiti, affinché pagassero ai longobardi la terza parte de' lor frutti (frugum)» (lib. II, 32). Chiaro è: i longobardi, che sempre piú si conferman barbarissimi fra' barbari, usarono allora il modo piú barbaro di trarre il terzo non in terre separate, ma in frutti pagabili da' conquistati, ridotti cosí a servitú territoriale e poco men che personale. E quindi l'ire degl'italiani contro a questi barbari, piú acerbe che contro a nessuni de' precedenti; quindi fin d'allora un primo ricorso di un papa (Pelagio II) e d'uno stesso imperatore greco (Maurizio) a' franchi nemici de' longobardi, affinché scendessero. E scese Childeberto re d'Austrasia; esempio poscia ad altri principi franchi troppo maggiori, cagione allora che nel pericolo i duchi s'eleggessero finalmente un re.
15. La restaurazione del regno [584].—Innalzarono, restaurarono Autari figliuol di Clefi, fanciullo quando moriva il padre, or adulto. «Diedergli la metá delle loro sostanze per gli usi regali, da nodrirsi esso il re e coloro che aderivano a lui» (Paolo Diacono), cioè i suoi gasindi o dipendenti immediati. Essi i duchi serbarono dunque l'altra metá, e cosí rimaser probabilmente piú ricchi, piú potenti che non i soliti graf degli altri regni barbarici. Cessò poi, a quel che pare, la spogliazione disordinata de' miseri italiani; mansuefecesi la conquista. Come alcuni re visigoti, Autari e alcuni altri re longobardi presero poi il nome romano di Flavio; perché questo, piú che qualunque altro, non si scorge; forse perché ricordava Tito e Vespasiano signori rimasti popolarmente famosi per bontá. E trovasi poi un passo unico, il quale indicherebbe un addolcimento materiale negli ordini della conquista, se non che ei si legge diversamente ne' codici: «Populi tamen aggravati pro longobardis hospitia partiuntur», ovvero «per longobardos hospites partiuntur», oltre altre lezioni ancora. Né ci possiam metter qui tra le interminate dispute che se ne fanno. Dirò, in una parola, che io pendo alla prima lezione, e cosí all'interpretazione la quale concorda con tutto l'addolcimento della conquista narrata da Paolo: cioè che i longobardi oramai stanziati si risolvessero al modo piú mite di prendere il terzo, non piú in frutti, ma in terre; e che cosí rimanessero molti italiani territorialmente liberi. Ad ogni modo, civilmente e politicamente essi rimaser certo servi molto piú che non sotto a' goti. Di magistrati propri essi ebber tutto al piú alcuni giudici, dati forse anche qui dai vescovi, e sofferti da' longobardi che non volean per certo imparar le leggi romane; ma non piú conti propri pari a' grafioni, come sotto ai goti, e men che mai ministri romani, come Cassiodoro, ed altri anche in Francia e Spagna.
16. Autari ed Agilulfo [584-615].—Con tutto quest'ordinamento, scioltissimo, come si vede, e giá simile a quello che fu poi detto «feodale», segue una storia povera di vera grandezza, ricca sí di quelle avventure cavalleresche, che ad alcuni paiono essere state rimedio, a noi poco piú che ornamento della feodalitá.—Autari allontanò i franchi scesi tre volte, trattando prima, poi sconfiggendoli; co' greci fece tregue e guerre, e corsa l'Italia fino a Reggio di Calabria, spinse il cavallo in mare gridando:—Fin qui il regno.—Poi, volendo aver a moglie Teodelinda la bella e saggia figliuola del duca di Baviera, andò colá travestito da ambasciador di se stesso a dimandarla e vederla. E poco mancò che si scoprisse, ricevendo secondo l'usanza un nappo di mano della promessa sposa; e si scoprí poi a' limiti, lanciando l'asta contro un albero e dicendo:—Cosí ferisce Autari.—Quindi Childeberto il re d'Austrasia, da cui dipendeva Baviera e a cui era stata impromessa la fanciulla, invase quel paese; ed ella si fuggí a Italia, e Autari la sposò, e Childeberto mandò qui un grand'esercito di franchi d'accordo co' greci; e Autari indugiando e trattando si liberò degli uni e degli altri. Ma morí poco appresso [590].—Allora, i longobardi diedero alla giovane lo scegliere a se stessa un nuovo sposo, ad essi il re; ed ella si scelse Agilulfo duca di Torino. Regnarono insieme e gloriosi venticinque anni. Ariani Agilulfo e i longobardi, cattolica Teodelinda, ella a poco a poco convertí lo sposo e gran parte della nazione; e fu un nuovo e massimo addolcimento della conquista; avendo noi veduto al tempo de' goti, ed essendo sempre pessima di quante differenze separan conquistatori e conquistati, peggiore che non quella stessa delle lingue, la differenza delle religioni. Ed a ciò poi Teodelinda strinse pratiche col papa.—Il quale era san Gregorio I, detto «il magno», quantunque due altri poi ne sieno stati non guari minori per noi italiani. Nobile, ricco, potente in Roma da giovane, scrittore ecclesiastico copioso e sapiente rispetto all'etá, assunto al pontificato nel 590, e d'allora in poi zelante per la propagazione della fede a cui mandò sant'Agostino l'apostolo e incivilitor d'Inghilterra, fu quanto a noi, in Roma e nelle province greche e nelle stesse longobarde, gran protettore degl'italiani peggio che mai abbandonati; e per ciò negoziator co' duchi e col re e la regina, e cosí grande avanzator della potenza papale, non indipendente per anco, ma giá differente dall'imperiale. Fu, in tutto, secondo de' grandi papi politici.—Agilulfo e Teodelinda poi furono fondatori di chiese e monasteri; fra cui principale San Giovanni di Monza, dove mostrasi tuttavia, fra parecchie corone di essi, quella «di ferro», che dicesi d'uno dei chiodi della Passione di Nostro Signore; ed è quella su cui, cingendola, pronunziò Napoleone quelle vane parole:—Guai a chi la tocca.—Del resto Agilulfo ebbe a reprimere parecchie ribellioni di duchi, talor alleati co' greci; guerreggiò con questi, impose loro tributo, e soffrí una correria degli ávari nel Friuli. Morí nel 615, ed ebbe a successore Adaloaldo figliuolo suo e di Teodelinda, giá associato da fanciullo al regno.
17. Successioni dei re per un secolo [615-712].—Segue un secolo di re longobardi, poco men che simili a que' franchi contemporanei, i quali furono detti lá re «fa nulla» o poltrenti. Niuna impresa guerriera di conto, niun ordine nuovo; perciocché lo scriversi che si fece in quel secolo delle leggi antiche longobarde, come delle franche, borgognone, bavare e visigotiche fu certo cosa buona, ma non ordine nuovo. Del resto, continuano non poche storie e novelle cavalleresche, che sarebbero utili a pittori e poeti, ma che non abbiamo spazio qui di servir ad essi come pur vorremmo.—Adaloaldo fanciullo regnò prima sotto la tutela di sua madre Teodelinda; ma fatto adulto impazzí, ammaliato, dissero, da un ambasciador greco, e fu poi cacciato del regno, e spento di veleno. Tuttociò sembra accennare in quel re un ozio, un insolito tollerar i greci, non sofferto dai longobardi [625].—Succedette Arioaldo, duca di Torino e marito di Gundeberga, figlia essa pure degli amati Agilulfo e Teodelinda; ed essa, caduta in sospetto al marito, fu chiusa in una torre, giustificata poi e liberata per un combattimento singolare. Arioaldo morí nel 636.—Lasciata a Gundeberga, come giá a sua madre, la scelta di uno sposo re, ella scelse Rotari duca di Brescia, il quale egli pure la rinchiuse per abbandonarsi a sue libidini, e la lasciò liberare in simil modo. Meno ozioso tuttavia che gli altri, Rotari conquistò contro a' greci Genova e le due riviere liguri, e Oderzo nella Venezia, ed egli fu che fece scrivere il primo de' codici longobardi. Morí nel 652.—Succedettergli prima il figliuolo di lui Rodoaldo; ma per pochi mesi, ignobilmente morto per aver rapito una donna.—E poi Ariperto figlio d'un fratello di Teodelinda, dalla cui famiglia, dalla cui memoria i longobardi non si sapevano staccare. Né di lui si sa altro, se non che fu gran fondatore di chiese, e che morendo nel 661 o 662 lasciò, con esempio unico ne' longobardi, diviso il regno tra due figliuoli suoi.—Cosí regnò Bertarido in Milano, e Godeberto in Pavia. Ma in breve sorser discordie, e venne Grimoaldo duca di Benevento, che uccise il secondo e fugò il primo ad Ungheria, e regnò egli [662].—Respinse poi di Benevento Costante il solo imperador greco che mai venisse in Italia, ma che non vi fu buono a nulla se non a spogliarla; tanto i signori stranieri, civili o barbari, si rassomigliano. Né Grimoaldo fu buono a proseguire la fortuna; diede sí una gran rotta a' franchi discesi fin presso ad Asti; poi volendo domare un duca del Friuli ribellato, e scansare, dice Paolo, guerra civile, chiamò rimedio peggior del danno, gli ávari, ed ebbe poi a volgersi contr'essi per cacciarli. E tra queste ed altre minori imprese, sprecata la vita operosa ma inutile al regno, morí nel 671.—Lasciò il regno a Garibaldo figliuol suo, avuto da una sorella di Bertarido. Il quale venuto di Francia, dove esulava, cacciò il nipote dopo tre mesi di regno, e regnò egli per la seconda volta, diciassette anni; pio, mansueto, gran fondator di monasteri, del resto ozioso [688].—Successegli suo figliuolo Cuniberto, che giá avea regnato dieci anni con lui; e gli fu occupato il palazzo e il regno da Alachi duca di Trento, giá ribelle perdonato da lui. Ma tiranneggiando costui, risorse Cuniberto; combatterono, ed ucciso Alachi, regnò Cuniberto con nome di prode fin al 700. E di lui, e Teodote una bella romana, si novella.—Successegli Liutberto, suo figliuolo fanciullo, cacciato in breve da Ragimberto, duca di Torino e figliuolo di re Godeberto. Morto in breve Ragimberto, Ariberto II suo figliuolo vinse ed uccise Liutberto, e cosí regnò, pio, limosiniero anche esso; finché sceso contro di lui ed aiutato dai bavari Ansprando tutor giá di Liutberto, combatterono i due presso a Pavia; e vincitor prima, vinto poi Ariberto, affondò, fuggendo, in Ticino. Fu l'ultimo che regnasse per parentela e in memoria di Teodelinda [712].—E salito cosí al trono Ansprando e vivutovi tre mesi soli, lasciò il regno a Liutprando figliuol suo.
18. Liutprando. Le prime cittá, i primi papi indipendenti [712-744].—Liutprando fu, dice Paolo, «uomo pio, sagace, amator di pace, potente in guerra, clemente, casto, limosiniere, buon parlatore, legislatore, e benché illiterato, da eguagliarsi ai filosofi». Noi diremo che fu il men dappoco o il piú approssimantesi a grandezza fra' re longobardi, dopo Agilulfo e Teodelinda. Ma, molto piú che i fatti propri, son notevoli i tempi di Liutprando. Perciocché non fu notato abbastanza, ma allor furono incontrastabilmente, e le prime cittá indipendenti (non meno indipendenti che i comuni di quattro secoli dopo), e le prime e troppo di rado imitate confederazioni di esse, e i primi papi temporalmente indipendenti e signoreggianti; ma allor pure, novitá che rovinò quasi tutte l'altre, il primo ricorso di essi i papi ai franchi. E quindi io non saprei dire qual periodo di storia italiana meriti piú d'essere trattato distesamente, espressamente; quale perciò mi peni piú d'aver a restringere, troppo inadeguatamente. Gli imperatori greci, che poco duolci non aver luogo di nominare, s'erano succeduti peggiorando, s'erano lasciati spogliar da' persiani dapprima e da' maomettani poi (religione e potenza nuova sorta, come ognun sa, nel settimo secolo), di mezzo il loro territorio asiatico e di tutto l'africano. In Italia essi e gli esarchi avean giá piú volte conteso co' papi. E cosí tra tali contese s'eran venute sollevando Roma, Ravenna e parecchie altre cittá; s'eran piú volte nominati lor duchi, senza aspettarli di Costantinopoli (cosí Venezia tra il 713 e 716); e giá aveano se non mutati i magistrati propri, almeno aggiuntivi i maestri di militi, e schiere (scholae) di militi propri, che è piú importante; e giá dal secolo precedente o dal principio di questo ottavo, il nome nuovo di Pentapoli preso da cinque cittá, che si credono Ancona, Umana, Pesaro, Fano e Rimini, sembra accennare una prima confederazione di esse; e giá i papi eran venuti crescendo tra tutto questo.—Finalmente, tutto ciò scoppiò a ribellioni aperte, a mutazioni grandi nel 726. Era imperatore Leone isauro, un barbaro, non solamente caduto, a modo solito di quella corte, nell'eresie, ma inventor esso di una nuova, contro alle imagini, detta perciò «iconoclastía». Per questa minacciò, perseguitò il papa. Il quale si trovò essere un gran papa, gran principe, Gregorio II [715-731]; il quale troppo trascurato dagli storici, non resterá tale per certo, quando Italia indipendente cerchi e glorifichi tutti i periodi, tutti gli eroi di sue indipendenze. Egli forte pontefice, resistette cattolicamente all'imperator eretico; egli gran vescovo, gran cittadino, raccolse apertamente intorno a sé i romani di Roma; egli grande italiano raccolse pur gli altri italiani antichi, li difese, ne fu difeso dalla tirannia dell'eretico imperatore; egli, come tutti coloro che sollevan popoli non a propria ambizione ma a difesa comune e giusta, non rinnegò il nome, il diritto del signore legittimo o legale, ma gli rinnegò l'obbedienza in ciò che era pur diritto proprio e del popolo suo; egli limitò la rivoluzione a giusta resistenza, egli l'adattò alle tendenze, alle condizioni del tempo suo; ed egli non inventò forse ma si serví delle giá inventate confederazioni, le accrebbe, le condusse, le fece efficaci, vittoriose. Primo de' papi s'alleò co' longobardi contro a' greci, primo fu di fatto principe indipendente; e fece tutto ciò in cinque anni dal 726 al 731.—E ciò fu continuato dal successore ed omonimo di lui, Gregorio III, dal 731 al 743. Se non che, piú sovente che non il predecessore, guastatosi co' longobardi, e pressato tra questi e i greci, e men che il predecessore confidando forse nelle cittá, nella nazione italiana, egli primo fece quella chiamata dei franchi, che fu rinnovata poi da' successori. E queste chiamate sono condannate universalmente ora nella storia, nell'opinione italiana. Né senza ragione, se si guardi ai tristi e lunghi effetti che ne vennero. Tuttavia io non saprei se non sia lecito, se non debito forse a un uomo posto a capo d'una nazione, difendere l'indipendenza propria e di quella nazione, difenderne l'acquisto recente e dubbio ancora, chiamando contro agli stranieri prementi altri stranieri che paiano meno pericolosi. Perciocché io non so fino a qual punto sia lecito ai reggitori sagrificare i pericoli certi de' popoli presenti agli incerti de' popoli futuri, né fino a qual punto sia da apporsi a tali reggitori il futuro mal preveduto. Ad ogni modo, se resta colpa apponibile a que' nostri antichi, ella non può apporsi certo da que' moderni, grandi o popolani, governanti o governati, i quali caddero nella medesima, fecero simili chiamate, e si lagnarono che non fossero esaudite. Quanto al risultato poi, un'opinione la quale vituperasse in ogni caso queste chiamate di stranieri contra stranieri, sarebbe certo opinione molto imprudente, molto impolitica, molto improvida per li casi futuri.—La chiamata di Gregorio III fu fatta a Carlo Martello, il maggiore di que' maggiordomi o pfalz-graf, o capi di gasindi, che eran venuti crescendo presso ai re franchi «fa nulla»; a Carlo Martello, che colle vittorie sui propri emuli, su' grandi ribelli del regno, e principalmente sugli stranieri maomettani, vinti in gran battaglia a Poitiers l'anno 732, s'era acquistato nome e potenza di capo della nazione franca, e quasi della cristianitá. A tal uomo fu almeno men brutto ricorrere; e cosí bastò l'autorita di lui su' longobardi alleati suoi, a salvar il papa e le cittá italiane. E cosí, e l'uno e l'altre eran rimaste, od anzi cresciute nell'indipendenza, quando morirono Gregorio III, Leone iconoclasta e Carlo Martello nel 741, e Liutprando nel 744. Del quale, non aggiugneremo altro, se non che, or alleato, or nemico de' papi e delle cittá, e de' greci e de' propri duchi, egli prese una volta Ravenna, toltagli in breve da' veneziani sudditi greci fedeli quella volta; e prese parecchie altre cittá, fra cui Sutri che donò a San Pietro e San Paolo, cioè alla mensa di Roma, cioè al papa, primo esempio di tali donazioni. E resta dubbio se serbasse l'altre e cosí accrescesse definitamente il regno. Ad ogni modo, avendo egli, fin che le tenne, trattatele meno alla barbara, e non ispogliati questi nuovi sudditi suoi, diventa certo dopo lui ciò che era dubbio prima di lui: che questi romani possedetter terre, furono territorialmente liberi nel regno longobardo. Apparisce chiaro dalle numerose leggi lasciate da Liutprando.
19. Ildebrando, Rachi, Astolfo, Desiderio, ultimi re longobardi [744-774].—Segue, sotto uomini tutti mutati, e, salvo i franchi, tutti minori, la caduta dei longobardi. Regnava da parecchi anni aggiunto a Liutprando il nipote di lui Ildebrando; or gli successe, ma per sette mesi soli, cacciato che fu da Rachi duca del Friuli.—Regnò questi serbando cinque anni una tregua di venti fatta giá da Liutprando col papa e le cittá; ma rottala nel 749, stava a campo contro a Perugia, quando accorse a rattenerlo papa Zaccaria, e il tenne e mutò cosí, che egli il re barbaro si fece monaco. Era, è vero, una smania di quei tempi, in che si videro un re anglo-sassone venire a Roma e morirvi vestito da pellegrino, e farsi monaci un duca d'Aquitania, un d'Austrasia ed un del Friuli.—Succedette a Rachi Astolfo fratello di lui, uno di quegli uomini che avventati alle cose facili, avviliti nelle difficili, paion mandati apposta da Dio quando vuol perdere i regni. Fin dal 751 o 752 riaprí la guerra, prese Ravenna, tutto l'Esarcato ed Istria, e in somma tutta l'Italia greca, tranne le lagune di Venezia, Roma, Napoli, ed altre cittá di quella marina, e Sicilia. Le quali sole rimasero d'allora in poi all'imperio greco, perdute per sempre quelle prime. E proseguendo Astolfo in tali conquiste, facili a farsi contro a nemici deboli, ma difficili a serbarsi contro a vicini forti, assalí Roma; e allora papa Stefano II ricorse per aiuti a Costantinopoli invano, a Francia efficacemente.—Ivi era succeduta intanto una grandissima novitá; ché, deposto e ridotto a monaco Childerico l'ultimo re merovingio, Pipino figliuolo di Carlo Martello s'era fatto gridar re in campo di marzo a Soissons, in quel medesimo anno 752. E forse il vano Astolfo sperava nelle difficoltá di quelle mutazioni. Ma invano; ché, andato Stefano II a Francia nel 753 e 754, vi consagrava i nuovi re Pipino e i suoi due figliuoli Carlo e Carlomanno, aggiungendo loro (con consenso o no dell'imperatore o de' romani, non consta) il titolo di patrizi romani. Quindi, rendendo servigio per servigio, scendea Pipino in persona per Moncenisio alle Chiuse di Susa, fatali a' longobardi; e rottovi Astolfo e assediatolo in Pavia, n'ottenea promessa di pace a Roma, e restituzione delle conquiste, e poi tornava a Francia.—Ma, non corso un anno, Astolfo ricominciò la guerra, e tornò a campo a Roma, e ricominciarono le doglienze, le lettere del papa a Pipino; il quale ricalcava sua via, ribatteva i longobardi alle Chiuse, riassediava Astolfo in Pavia; e ridottolo, prendeva il terzo del tesoro regio, gli imponeva un tributo annuo, e fattesi ora restituire in effetto le conquiste, ne faceva egli poi donazione a San Pietro, alla Chiesa romana ed ai papi, in perpetuo e per iscritto. Anastasio, scrittor di due secoli appresso, dice aver veduto esso tuttavia lo scritto; e compresevi Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Iesi, Forlimpopoli, Forlí, Castel Sussubio, Montefeltro, Acerraggio, Monte Lucaro, Serra, Castel San Mariano, Bobro, Urbino, Cagli, Luceolo, Gubbio, Comacchio e Narni; non Roma, come si vede, la quale reggevasi di nome sotto l'imperador tuttavia, di fatto da sé sotto al papa e sotto al re franco patrizio, ed affettando il nome ambiguo di «repubblica romana». E morí poco appresso Astolfo, perdute le conquiste, lasciato tributario, ma tuttavia intiero ne' limiti antichi, il regno longobardo [756].—Successe Desiderio, duca, come si crede, di Brescia, che il dovea perdere intiero. E dapprima ebbe a contrastarlo con Rachi, il re monaco; ma scartò questo in breve per intervenzione del papa, a cui promise di «compiere le restituzioni». Comprendevansi elle in tal promessa alcune cittá comprese giá nella donazione, ovvero altre? Non vengo a capo di discernerlo. Ad ogni modo, qualunque fosse tal restituzione, diventò occasione di nuove contese tra Desiderio e i papi, di nuove lettere papali a Pipino; il quale tuttavia, o invecchiato od occupato in altro, non ritornò piú.—Ma morto esso nel 768, e succedutigli dividendosi il regno que' due figliuoli suoi giá re e patrizi, Carlo e Carlomanno, il primo che è Carlomagno sposò e fecesi venir a Francia una figliuola di Desiderio; ma tenutala poco, o forse nulla, la ripudiò e rimandò al padre l'anno 771. Poi, morto Carlomanno, Carlomagno facevasi eleggere a succedergli nella parte ch'era stata di lui; e i figli spogliati colla madre vedova rifuggirono a Desiderio. E rifuggivvi in quel torno Unaldo, un antico duca d'Aquitania spogliato da que' Carolingi. E moriva papa Stefano III, che s'era tenuto bene co' longobardi; e saliva a pontificare Adriano I, un romano di gran conto e che pendeva a' franchi. Tutti i nembi s'accumulavano contro a quella reggia di Pavia, fatta refugio de' nemici di Carlomagno. S'aggiunse l'imprudenza, che sembra stoltezza, di Desiderio. Aprí egli la guerra, prese o corse le cittá papaline, fin presso a Roma; poi, dubitando o giá minacciato, indietreggiò a settentrione. Né Carlomagno si fece aspettare. Tornato appena d'una prima di quelle imprese di Sassonia ch'ei moltiplicò poi in quasi tutta sua vita, tenne l'anno 773 il campo di marzo in Ginevra. E quindi, diviso l'esercito in due, e mandata per il Gran San Bernardo l'una parte di che non si sa altro, egli stesso coll'esercito principale scese per la via giá solita del Moncenisio e della Novalesa; e venne alle solite Chiuse tra il monte Caprario e il Pircheriano, quello su cui torreggiò poi e torreggia il monastero di San Michele detto appunto della Chiusa, allo sbocco della Comba o valle di Susa ne' piani di Torino. Ivi erano, dietro le fortificazioni innalzate a sbarra, il vecchio Desiderio e il giovane e prode Adelchi figliuol suo, re egli pure associato al padre. Combattessi molte volte; Adelchi a cavallo colla mazza d'armi facea prodezze, macello di franchi. Dicesi Carlomagno trattasse giá d'accordi, od anche d'indietreggiare. Quando, fosse per cenno d'un giullare, o d'un diacono di Ravenna mandatovi apposta, o per tradimento d'alcuni infami longobardi, o meglio per perspicacia ed arte militare, che certo non mancò in Carlomagno; ad ogni modo ei metteva una schiera per le gole laterali e non guardate di Giaveno, intorno al Pircheriano, e cosí prendeva a spalle i longobardi, che se ne spaventarono, e fuggirono sbaragliati. Chiusersi i due re e i grandi in Pavia e Verona; e Carlomagno assediò la prima fin dal giugno 773; e prese la seconda al fine di quell'anno. Combattevasi tuttavia alla campagna; e dicesi si facesse un gran macello di longobardi su un campo, dettone poscia Mortara. E resistente ancora Pavia, Carlomagno s'avviava per la pasqua del 774 a Roma; dove intanto papa Adriano stava accettando dedizioni di cittá italiane, e di longobardi che correvano a farsi tosare a modo romano, e perfino d'un duca di Spoleto che gli si faceva vassallo. L'incontro fu qual di vittoriosi; feste, funzioni di chiesa, giuramenti di guarentigie ed amicizie eterne, e soprattutto conferma delle donazioni di Pipino, ed aggiunte fattevi probabilmente, benché non negli estesi limiti riferiti da alcuni. E quindi tornò Carlomagno dinanzi a Pavia, e la prese finalmente in maggio o giugno 774. Desiderio ed Ansa, re e regina spogliati, furono mandati a Francia, dove vissero in pie opere e forse monaci; Adelchi o Adelgiso rifuggí in Costantinopoli, presevi il nome greco di Teodoro, e tornato da venturiero in Italia fu famoso nelle fiabe del medio evo, e fatto illustre a' di nostri dal Manzoni.—E cosí cadde, con poca gloria, come avea signoreggiata, la nazione longobarda. La quale tenutasi, finché signoreggiò, piú che le altre barbare, diversa, divisa dagli italiani, si mescolò, si confuse con essi poi nella comune servitú. Distrutta l'esistenza politica indipendente, non distrutte né cacciate le schiatte di lei, molte leggi, molte usanze ne rimasero per parecchi secoli; molto sangue nelle vene, molte parole nella lingua e ne' dialetti di quasi tutta Italia fino ad oggi. E ne rimane il nome ad una grande, bella, buona, ricca provincia italiana, or suddita imperiale e reale austriaca.
20. Coltura.—Al principio dell'etá dei barbari, due scrittori rappresentano insieme la condizione delle popolazioni e delle lettere romane: Boezio [470-525] che vedemmo perseguitato, fatto morire da' goti, Cassiodoro [470-562] che fu ministro di tre o quattro de' lor re. Il primo scrisse parecchi ristretti di filosofia, rimasti famosi ne' secoli seguenti fino alla restaurazione degli originali, e in carcere poi il bel libro Delle consolazioni della filosofia; ondeché si può dir ultimo dei romani antichi e primo degli scolastici. Il secondo piú retore, piú intralciato, piú barbaro in tutto, non interessa quasi se non per li fatti che si trovano nelle lettere di lui, e nel ristretto della sua Storia dei goti compendiata da Iornandes.—Gregorio magno [542-604], scrittore ecclesiastico copiosissimo, si può giá dire scolastico intieramente. San Colombano [540-615] monaco d'Irlanda venuto di colá in Francia, poi in Longobardia sotto Agilulfo e Teodelinda, e fondator del monastero di Bobbio dove furon ritrovati a' nostri dí parecchi codici d'autori antichi, accenna l'ultimo precipizio delle lettere italiane, che ricevean cosí quasi una restaurazione dall'ultima Irlanda. Paolo Diacono [740 circa-790 circa] il solo scrittore di qualche conto che abbiamo di nazione longobarda, e scrittor unico della storia di essa, ci è prezioso perciò, ci è caro per l'amore ch'ei mostra, scrivendo sotto Carlomagno, a sua gente caduta; ma è, del resto, o pari o di poco superiore ai piú meschini cronachisti dell'etá seguente. Misero ritratto di tre secoli di letteratura! ma che si potrebbe argomentare dalla storia politica; allor sí veramente i barbari distrussero le poche lettere antiche, le molte cristiane che rimanevano.—Delle arti, l'architettura trova sempre qualche modo di fiorire sotto a principi potenti quantunque barbari; e cosí fiori sotto Teoderico, e poi sotto Teodelinda ed Agilulfo. Fu architettura romana, decadente via via piú, non dissimile, ma meno splendida della bizantina; ondeché si vede chiaro qui ciò che del resto ognun sa oramai, quanto sia falso il nome di «gotica», dato poi a quell'altra architettura molto posteriore, tutto diversa, anzi contraria, degli archi acuti e delle colonne sottili. Nella vera architettura gotico-longobarda, l'arco viene anzi abbassandosi, e le colonne ingrossando, e tutto lo stile diventando tozzo e goffo. Il quale poi ritrovandosi tra' sassoni in Inghilterra e in Francia e Germania fino appunto alla diffusione dello stile acuto e sottile, convien dire che tutto quel primo stile pesante chiamato «sassone» da alcuni, venisse dal romano-gotico-longobardo. E ciò si fa tanto piú probabile, che dalle leggi longobarde abbiamo un cenno di una quasi societá di maestri muratori settentrionali d'Italia (magistri comacini), i quali aggirandosi tra noi e probabilmente anche fuori, mantennero e diffusero l'architettura, lo stile italiano imbarbarito; e furono forse origini di quelle societá o confraternite o gilde di muratori od architetti, che si ritrovano quattro o cinque secoli appresso; e che si pretendono origine esse di quella societá o setta segreta de' franchi-muratori, modello poi o madre stolta e brutta di piú brutte e piú stolte figliuole. Del resto, que' maestri scolpivano probabilmente e dipingevano quel pochissimo che era da scolpire e dipingere ne' poveri edifizi edificati da essi. Onde anche quell'altro nome di «stile greco», dato alle pitture e sculture tozze e goffe di que' tempi, sarebbe forse da mutarsi tutt'insieme in quello di «stile italiano imbarbarito»; piú brevemente, «stile comacino».
21. Legislazioni.—Questa etá è poi molto piú notevole per un genere di libri o compilazioni, le quali sono sí elle pure parte della coltura, ma piú che coltura poi all'effetto, dico i codici di leggi. Strano fatto, che le leggi le quali servirono a tutta Europa nelle etá piú civili e piú colte fino a' nostri dí, e che anche oggi servono in gran parte all'Inghilterra, cioè alla nazione piú avanzata in civiltá e coltura, e che diedero origine a' codici nuovi nelle altre, sieno state compilate tutte lungo l'etá dei barbari, in Oriente od Occidente. Ma il vero è che non sono di tale etá se non le compilazioni; e che le leggi stesse, e i responsi de' giureconsulti che le accompagnano, sono frutti di lunghe etá precedenti, sono risultato complessivo ed ultimo delle due grandi civiltá europee fino allora disgiunte, e allora riunite, la romana e la germanica, la imperiale e quella delle genti. E quindi appunto fu naturale, che allora, nel riaccostarsi le due civiltá, volesse ciascuna serbare i propri risultati; naturale che li compilassero; e naturale poi, che tali compilazioni ritardassero le fusioni fino alla etá nostra piú unificante.—Le leggi, la giurisprudenza romana, furono raccolte, primamente (e prima dell'etá de' barbari, ma invadenti giá essi), da Teodosio II in un Codice che porta il nome di lui [438]; poi da Giustiniano in un nuovo e piú ampio Codice [529], in una compilazione di leggi e decisioni antiche detta Digesto o Pandette [533]; in un'aggiunta al Codice detta Novelle [534], e in un ristretto detto Istituzioni. E tutta questa legislazione giustinianea fu, senza che non ne resti dubbio oramai, recata in Italia; ovvero giá da Belisario e dalla prima conquista (essendo presumibile che il legislatore autore imponesse quanto prima l'opera sua in tutto l'imperio suo), ovvero nel 554, insieme colla prammatica che dicemmo; ovvero anche piú tardi nelle province rimaste greche. Ma, voluminoso tutto questo Corpus iuris, non s'adattava alla poca coltura delle etá seguenti, né al poco e impedito uso che ne aveano a fare i miseri italiani soggetti e poco men che schiavi di barbari germanici od imbarbariti greci; ondeché essi usarono vari ristretti fattine via via, e principalmente quello d'Alarico re de' goti di Spagna.—De' codici barbarici poi, lasciando quelli fatti fuor d'Italia, e venendo a' nostri goti, ci basterá accennare, che Teoderico e gli altri re loro fecero senza dubbio non poche leggi; ma non restano testi, se non di due editti di Teoderico e d'Atalarico, oltre poi molti cenni nelle lettere di Cassiodoro. E, cacciati i goti, non ne restò probabilmente traccia nelle giurisprudenze posteriori. I longobardi sí, compilarono, come accennammo, contemporaneamente con gli altri barbari lor leggi od usanze (dette con parola loro antica «anclab» od «anclap», che forse significava «connessione», «collegazione», e sarebbe cosí sinonimo di «lex»); e la prima compilazione fu di Rotari intorno all'anno 643, e seguirono le aggiunte di Grimoaldo, di Liutprando, di Rachi e d'Astolfo.—E lodinsi pure tutti questi principi codificatori: le pubblicazioni di codici sono sempre benefizi a' popoli che han bisogno di conoscere quanto piú facilmente le leggi buone o cattive onde son retti. Ma non diasi ad essi, nemmeno a Giustiniano, quella lode di legislatori veri, che Machiavello pone sopra tutte le umane. Perciocché i legislatori veri sono, non quelli che compilano leggi vecchie o ne aggiungon poche nuove conformi, ma quelli (come Mosé, Licurgo, Solone ed anche, bene o male, Augusto, Diocleziano, Costantino e pochissimi altri) i quali inventano, e con leggi in parte antiche e in parte nuove, ordinano, rinnovano uno Stato comunque invecchiato, conformemente alle condizioni delle civiltá e de' tempi nuovi. E siffatta somma lode fu meritata (non corsi due anni dacché io cosí ne parlava primamente) da quattro principi italiani; ma non rimane che ad uno, Carlo Alberto. E cosí Dio ispiri i tre altri a riacquistarsela, ad onore, od anzi forse a salvezza propria e di lor successori e lor popoli.—Del resto, sapientissima, elegantissima ne' particolari la legislazione romana, ma tutta imperiale, tutta assoluta nel principe, tutta ciecamente obbediente e quasi adorante ne' sudditi, pagana pe' tre quarti, cristiana qua e lá per aggiunta, ella contribuí certo molto ed a quelle stolte pretensioni di monarchia universale, ed a quelle di dispotismo civile ed ecclesiastico degli imperatori, onde sorsero poi tanti danni in tutti i secoli che siam per vedere; mentre le legislazioni barbariche contribuirono a quella dispersione della potenza regia in potenze via via minori e poco men che assolute, onde vedremo sorgere l'ordine feudale, uno de' peggiori disordini sociali che sieno stati mai. Miseri secoli in tutto, quelli che straziati continuamente tra i due assolutismi del concentramento e della dispersione, non trovavan riposo dalle violenze della guerra, se non nei disordini della pace; quelli, in cui questi disordini eran fonte perenne di quelle violenze, e quelle violenze, di disordini nuovi. Quando impareremo noi a tener conto de' tempi presenti, ad esserne grati alla divina Providenza, a non farne stolti, od anche empi piagnistei?
(anni 774-1073).
1. Carlomagno re [774-814].—Carlomagno sí che fu vero legislatore, vero e grande rinnovatore ed ordinator di popoli e d'imperio, vero e buono intenditore delle condizioni di suo tempo, dei desidèri, delle necessitá de' suoi popoli. E cosí è, che gli ordinamenti di lui durarono gli uni alcuni, altri poi molti secoli, fino al nostro. Durar sempre non è dato a niuna istituzione umana, è distintivo di quelle divine, anzi di quella sola dalla ragione di Dio destinata a raccoglier nel grembo suo tutte le schiatte e tutti i secoli umani; quella che alcuni effimeri scrittori o politici vanno di dieci in dieci anni predicendo finita, ma che ha giá raccolti diciotto secoli e mezzo, e raccoglierá, Dio guarante, gli avvenire. Degli ordinamenti umani, all'incontro, i migliori sono fatti insufficienti dai tempi progrediti: e quindi la storia debbe sapere insieme ed ammirarli finché furono propizi a' tempi loro, e notar ciò che li fece caduchi, e segnare i tempi quando diventarono inetti. Ciò tenteremo far qui accennando l'operato di Carlomagno, e piú tardi via via.—I Carolingi s'erano innalzati, il dicemmo, come capi del palazzo, maggiordomi, pfalz-graf di que' re franchi oziosi che avean divise le conquiste di Clodoveo in vari regni, e lasciato dividere ogni regno da parecchi grandi duchi. Quindi, la prima opera di Carlomagno fu sempre tôr di mezzo i duchi che rimanevano potenti, dividere i loro territori in parecchi gau o pagi o comitati sotto altrettanti conti dipendenti direttamente dal re, ma giudice sommo ciascuno nel proprio comitato, e capitano dell'eribanno o raccolta degli arimanni viventi in esso. Era ritorno all'antica costituzione germanica, ordinaria; vivente Carlomagno, vi si trovano poche eccezioni; e queste alle frontiere dove il conte d'un sol comitato non sarebbe stato potente abbastanza contro agli stranieri; e dove perciò furono riuniti parecchi comitati sotto un conte de' limiti (mark-graf, marchio, marchese), che talor ebbe pure (forse nell'uso piú che legalmente) il titolo di «duca».—Ma i maggiori di Carlomagno s'erano innalzati in que' palazzi regi, principalmente come capi dei gasindi o fedeli del re, a' quali si davan quelle terre regie che furon dette «benefici» o «feudi»; e queste terre erano ora tanto piú numerose nelle mani di Carlomagno, che egli ebbe tutte quelle e de' regni franchi e del longobardo e dei duchi qua e lá aboliti. E seconda opera di Carlomagno fu dunque, distribuire questi benefici o feudi da per tutto a' suoi gasindi o fedeli, che con nome esclusivo chiamaronsi ora «bassi», «vassi», «vassalli»; e che, sia dimorando in corte, sia trovando a ciò piú profitto, divisero poi quelle terre in simil modo ad uomini loro, detti quindi «vassalli vassallorum» o «valvassori»; i quali poi suddivisero ancora le terre a' «valvassini» via via minori, senza che sia possibile determinare a quanti gradi scendesse tale sminuzzamento.—Chiaro è poi, che tutto ciò era, giá fin dal tempo di Carlomagno, una gran dispersione della somma potenza; e Carlomagno, come ogni gran dominatore, sentí certo la necessitá di riunirla, centralizzarla. Quindi una terza, una quarta ed una quinta delle opere di Carlomagno: far visitar di continuo i vari Stati da alcuni suoi grandi detti «missi dominici», superiori e quasi ispettori dei conti e de' vassalli: corrervi egli stesso di sua persona frequente e rapidissimamente, accompagnato d'una schiera eletta di conti e guerrieri palatini, che sono i paladini de' romanzi: e soprattutto, in questi suoi viaggi fermarsi egli due volte all'anno alle due pasque di Natale e di Resurrezione, piú sovente al cuor di sua potenza, in Aquisgrana o in altri luoghi del Basso Reno, talora in Italia o agli altri estremi; ed ivi adunare le assemblee nazionali dei grandi, e di quanti minori vi volessero venire a portar domande, doglienze o consigli; men numerosa al consueto, e de' soli grandi l'assemblea di Natale; piú numerosa per il concorso universale quella di primavera, detta «campo» or «di marzo» or «di maggio». Ed anche ciò fu rinnovazione degli antichissimi ordini germanici giá accennati da Tacito.—Finalmente una sesta ed importante opera politica fu proseguita sempre da Carlomagno: favorire, ingrandire que' papi, que' vescovi, tutti quegli ecclesiastici che aveano aiutata sua casa, consacrati re suo padre e lui, e datagli or l'Italia; e per ciò porre sotto la propria tutela immediata (mundiburgium) i benefici posseduti da essi, e darne loro dei nuovi; e in tutto, porre a contrappeso o correttivo della potenza secolare de' conti e dei vassalli la potenza temporale della Chiesa, tanto piú grande, che traeva seco tutte le popolazioni antiche romane, galliche od italiche.—Questi furono i sommi capi della politica di Carlomagno; questi gli strumenti di sua grandezza; e questi gli elementi delle dissoluzioni feodali posteriori.—S'intende, che in Italia, paese di conquista, le miserie incominciaron subito; le miserie de' conquistati sono parte fondamentale e perenne della grandezza del conquistatore.
2. Continua.—Quando all'anno 774 Carlomagno giovane di trentadue anni ebbe spogliati i re longobardi, egli regnava su tutta Francia, tra' Pirenei, il Reno e le Alpi; su Baviera, Svevia e Turingia; e sull'intiero regno longobardo, meno il ducato di Benevento titubante nell'obbedienza. Sul papa, su Roma e sulle cittá date alla Chiesa romana, dominava come patrizio e donatore. Erano in Italia, sole fuori d'ogni giurisdizione di lui, Venezia, Napoli e le altre cittá meridionali, Sicilia, Sardegna e Corsica, di nome imperiali-greche, di fatto e secondo le occasioni (Venezia principalmente) indipendenti. Non distrusse dapprima il regno longobardo, non ne tolse i duchi, non vi mutò nulla se non il re, che fu egli. E lasciando solamente un presidio, una schiera di franchi in Pavia, se ne fu del medesimo anno ad una delle sue numerose imprese di Sassonia. E allora, fosse o no per restaurare Adelchi, congiurarono parecchi duchi longobardi; e, dicesi, tutti e tre, quelli di Benevento, di Spoleto e del Friuli, che erano stati i maggiori del regno.—Avvisatone Carlomagno, accorse dal Reno all'Alpi, discese una seconda volta in Italia [principio del 776], si volse contra il duca del Friuli piú scopertosi o piú pericoloso, lo vinse e fece morire, e prese parecchie cittá di lui. E allora dicesi distruggesse i ducati, ordinasse i conti; ma trovansi pur tra breve nomati duchi o marchesi non solamente del Friuli, di Spoleto e di Benevento, ma altri ancora; ondeché resta dubbio se l'ordinamento de' comitati fosse o cosí subitano come è qui detto, o cosí costante poi in Italia come nell'interno di Francia. Ad ogni modo, del medesimo anno ei ripartí.—E quattro anni rimase fuor d'Italia, facendo tre imprese contro a' sassoni, ed una in Ispagna. Alla quale, fra l'altre, andarono (come mille e piú anni appresso sotto Napoleone) parecchie schiere longobarde; ed onde tornando poi, toccò Carlo la famosa e sola sua rotta di Roncisvalle, e quella in cui cadde Rutlando, l'Orlando de' romanzi, stavo per dire l'Orlando nostro, fattoci popolare da' nostri poeti.—Ridiscese per la terza volta in Italia [a. 780]; e, lasciando in Francia suo figliuolo primogenito Carlo, condusse seco i due minori, Pipino che fece dal papa incoronare a re d'Italia, e Ludovico a re d'Aquitania. Erano fanciulli di quattro e due anni; ondeché, ciò non mutò nulla, ma accenna il principio del disegno di dividere i regni, e forse giá di far loro centro un imperatore. Né si fermò guari in Italia. N'uscí del 781.—Fece poi quattro altre imprese successive contro a' sassoni; i quali, martellati cosí, parvero pacificarsi, e si fecero battezzar molti, e fra gli altri Vitikindo lor duca, il gran propugnatore di loro indipendenza.—E allora, ornato di nuova gloria, di quella che piú rifulge nel corso de' secoli cristiani, che meglio ne segna i progressi, e che, rarissima ne' tempi da noi qui corsi, è forse troppo poco cercata negli stessi nostri, in che sarebbe tanto piú facile; ornato, dico, della gloria di propagatore della cristianitá, Carlo veramente magno ridiscese al centro di questa, a Italia per la quarta volta [a. 786]. E qui fece un'impresa contro al duca di Benevento non assoggettato per anco, e l'assoggettò; ma lasciògli intiero il ducato, e la soggezione non fu durevole né mai compiuta. I duchi longobardi di Benevento sempre rimaservi duchi, e presero anzi nome di principi; e vi fecero dinastie piú o meno indipendenti, secondo le occasioni per tre secoli all'incirca. Carlo poi, risalita Italia, e lasciato a Pavia Pipino il re fanciullo, tornò a Francia.—Quindi mosse a Baviera contra Tassilone duca, genero di Desiderio, mentre il faceva assalir pel Tirolo da un esercito longobardo. E avutolo nelle mani, lo spogliò e fece monaco; e divise pur quel ducato in contadi. Ebbersi a respinger poi una invasione di unni-ávari da Baviera e dal Friuli; ed un approdo di Adelchi e di greci alle coste di Napoli e Calabria; e si allargò il regno fino all'Istria. E per dieci anni poi Carlomagno rimase fuor d'Italia a far imprese contro agli slavi e agli unni, diventati vicini suoi, dappoiché era signor di tutta Germania, a reprimere ribellioni di sassoni, ed eresie interne, e ad abbellir Aquisgrana. In Italia l'esercito longobardo l'aiutò piú volte contro agli unni, e l'«esercito romano» talor contro ai greci. Morí dopo un lungo pontificato Adriano I [795], quegli che avea giá chiamato Carlo, ed era poi stato sempre amico e quasi luogotenente di lui in Italia; benché pur sempre si dolesse a lui (come s'esprime nelle sue lettere) delle «giustizie non restituite», e vuol dir senza dubbio di quelle cittá, quali che fossero, che Carlo gli avea promesse e non date. Successegli Leone III, e pontificò dapprima tranquillamente. Poi, nel 799 (principio di quelle guerre civili che turbarono per secoli Roma mal ordinata tra repubblica, principato del papa, e supremazia imperiale straniera), una mano di potenti romani assalí, prese il papa; il quale, liberato dal duca di Spoleto e da un altro messo regio, rifuggí prima a Spoleto e tra breve a Francia. E giá poco prima [797] l'altra signoria che sussisteva ancora di nome in Roma, quella dell'imperatore orientale, aveva sofferto un nuovo crollo, uno scandalo non mai veduto. Irene imperatrice, mal cacciata dal marito Costantino, mal cacciò lui, e fecesi imperatrice regnante. Gli eventi precipitavano, le occasioni s'accumulavano ad una nuova grandezza di Carlo. E Carlo, giá il vedemmo, non soleva lasciarle passare.
3. Carlomagno imperatore [799-814].—Fin dal tempo di Pipino, e piú in questi di Carlo, tra quelle lettere de' papi che rimangono documento preziosissimo di tutta questa storia sotto il nome di Codice caroliniano, trovansi cenni da lasciar credere via via concepito e maturato tra' Carolingi e i papi il gran disegno della restaurazione dell'imperio occidentale. Ora, aiutato, o, direm meglio, sofferto dalla Providenza, scoppiò. Carlo ricevette con gran pompa e gran rispetti il papa rifuggito; e con pompa e rispetti ed accompagnamento di vescovi e conti franchi il rimandò restaurato a Roma. Quindi egli Carlomagno (continuando intanto pe' suoi capitani le guerre di Germania e d'Ungheria) partivasi d'Aquisgrana, faceva un giro per sue province francesi, abboccavasi a Tours con Alcuino, il maggiore scolastico e filosofo di quell'etá, che pare essere stato consultato in tutto ciò; tornava ad Aquisgrana, scendevane in Italia, fermavasi a Ravenna, giungeva a Roma al fine di novembre. Ed ivi teneva primamente un'assemblea di grandi, e vi giudicava (come patrizio e capo della repubblica senza dubbio) i nemici del papa, a cui richiesta li graziava; ed assisteva alla giustificazione del papa stesso, fatta, come fu dichiarato, secondo il costume de' maggiori, con semplice giuramento di lui.—Quindi, al gran dí del Natale 799, assistendo Carlomagno coi due figli suoi Carlo il primogenito e Pipino re d'Italia alla messa, il papa, finita questa, rivolgevasi al re, gli metteva in capo una corona, e gridava, gridando il popolo tre volte con lui: «A Carlo piissimo augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore, vita e vittoria»; poi, secondo alcuni, ungeva Carlomagno, e Carlo il giovane designatogli successore.—Cosí consumavasi il piú grande evento che sia stato per mille e piú anni nella storia europea; quello che la dominò primamente tutta di fatto, poi di nome fino a' nostri dí; quello che, felicissimo come parve senza dubbio a que' dí, fece poi, pur senza dubbio, l'infelicitá di molti popoli, ma principalmente degli italiani. Certo, i romani e tutti gli italiani, soggetti al papa, si rallegrarono allora d'avere spogliato ogni resto di dipendenza dall'imperator greco lontano, di non aver piú se non quella che giá aveano da Carlo, giá patrizio, or imperatore. La diminuzione dei gradi di dipendenze è sempre guadagno reale. Ma forse che i romani e gl'italiani, sempre sognatori del rinnovamento del primato antico, sperarono, credettero riaverlo sotto quel nome d'«imperator romano». E forse alcuni altri sudditi di Carlomagno qua e lá fecero fin d'allora quell'altro sogno, che veggiam fatto retrospettivamente a' nostri dí stessi da alcuni poeti politici: il sogno, dico, di una cristianitá riunita intorno a due centri, due capi, l'imperatore e il papa; il sogno della perfetta feodalitá, risalente dall'ultimo valvassino ai valvassori, ai vassalli diretti, ai re, all'imperatore. Ma i fatti, i secoli dimostrarono poi, che tutto questo era un edifizio durevole sí, ma poco piú che nel nome e ne' vizi suoi, non in nessuna delle supposte sue virtú. I due centri, le due somme potenze, mal determinate ne' limiti vicendevoli, incominciarono fin d'allora ad urtarsi, e s'urtarono e combatterono per secoli. Gl'imperatori risuscitarono a poco a poco l'antica pretesa imperiale di approvare l'elezione del papa; e i papi, che dal dí del Natale 799 incoronarono gl'imperatori, n'ebbero naturalmente la pretesa di approvare gl'imperatori; e cosí imperatori e papi dipendettero l'un dall'altro continuamente, e dipendettero senza riconoscere bene né l'un né l'altro la dipendenza. I re poi, che non debbono, che non possono, per esser re veri, aver superiore, l'ebbero negl'imperatori; le sovranitá non furono piú sovrane, le nazionalitá non compiute. La feodalitá sí, se si voglia cosí dire, si perfezionò, si compiè; ma questa fu sventura; sventura la perfezione d'un ordine, in cui non entravano se non i signori, i governanti, fuor di cui erano i governati, i piú, il grosso del popolo. E tutto ciò, da per tutto dove s'estesero la potenza, le pretese imperiali. Ma in Italia, sedia sempiterna e reale del papa, sedia nominale e troppo a lungo de' nuovi imperatori, gli urti furono immediati e infinitamente piú sentiti; fu sentita e segnata di sventure e sventure ogni elezione d'imperatore, ogni elezione di papi; e ne sorsero cattivi e stranieri imperatori, cattivi e simoniaci e corrotti papi per oltre a due secoli; e poi papi grandi e grandissimi sí, ma allora le contese della Chiesa e dell'Imperio, le parti guelfa e ghibellina, la debolezza d'Italia, Italia aperta a nuovi stranieri, Italia divisa, anche dopo caduto ogni nome d'imperio, tra nazionali e stranieri.—La storia di quest'etá non fa che svolgere i primi de' fatti qui accennati; tutta la rimanente, i successivi. E chi tema nel nostro compendio la preoccupazione della indipendenza, ricorra ad altri. La preoccupazione della indipendenza fu pur anima di tutte le storie nazionali scritte da Erodoto o piuttosto da Mosé in qua. Della sola storia d'Italia si fece sovente un'apologia od anche un panegirico della dipendenza; sappiamo, almeno in ciò, porci al par degli altri. Usciam dalla servilitá fino a questo punto almeno di pronunciare e lasciar pronunciare la parola d'«indipendenza», nella storia.
4. Continua.—Il novello imperatore romano rimase in Roma il tempo d'inverno che soleva in qualsifosse cittá, da Natale a Pasqua; e non tornovvi mai piú. Aggravato dall'etá o dalla dignitá, dimorò poi quasi sempre in Aquisgrana sua capitale vera, la nuova Roma o futura Roma, come trovasi allor nominata. Fece molte leggi dette «capitolari», meravigliose per quell'entrar ne' particolari senza perdere i disegni, che è proprio di tutti i grandi. Guerreggiò pe' suoi figli e capitani co' sassoni, che soggiogò finalmente del tutto; con gli slavi, che tenne di lá dell'Elba; con gli unni-ávari, che spinse di lá della Theiss; co' musulmani fino in sull'Ebro e sul Mediterraneo, dove costoro pirateggiavano; co' normanni o danesi e scandinavi, che pirateggiavano sulle coste oceaniche. In Italia, Pipino re guerreggiò contra il duca di Benevento, ma senza frutto; contra greci e veneziani, con questo gran frutto per gli ultimi, che tra guerre e paci coll'imperatore occidentale, essi scossero piú che mai lor dipendenza dall'orientale.—Nell'806, Carlomagno fece una prima partizione de' suoi regni tra' figliuoli, Carlo destinato imperatore e re de' franchi, Ludovico re d'Aquitania, e Pipino re d'Italia. Ma era destinato altrimenti. Morí Pipino a Milano nell'810, lasciando un solo figliuol maschio, Bernardo. Carlomagno fece una nuova partizione nell'811. Ma nel medesimo anno morí senza figliuoli Carlo il giovane, il primo e come pare il piú belligero de' suoi figliuoli. Non rimaneva piú al vecchio imperatore se non un figliuolo, Ludovico, ch'ei prevedeva probabilmente poco degno di lui.—E perciò forse s'affrettò a far pace con tutti; coll'imperator greco, da cui fu definitamente riconosciuto l'imperio occidentale nell'812; col principe di Benevento, che si riconobbe tributario; e fin co' califfi spagnuoli di Cordova. Poi mandò re in Italia il giovane Bernardo. Poi nell'agosto 813, in gran placito ad Aquisgrana, riconobbe a successore in tutti gli altri regni e nell'imperio Ludovico; e dicono che (negletto giá il papa) gli facesse prendere da sé sull'altare la corona imperiale. E languente fin d'allora, languí quindi pochi altri mesi; e addí 28 gennaio 814 spirò. I posteri unanimi a dargli nome di «magno», mille anni di storia empiuti delle cose bene e mal create da lui, le voci del popolo e la poesia che lo cantano, fanno di lui tali lodi vere, che inviterebbono a tacere anche uno storico retore o panegirista.
5. I Carolingi [814-888].—Sotto ai Carolingi, principi gli uni miseramente pii, gli altri sfacciatamente scellerati, tutti mediocri, tutti contendenti per li numerosi ed instabili regni in che si divise e ridivise l'imperio, e quasi tutti per la dignitá d'imperatore che li dominava ed infermava, seguono settantaquattro anni i piú poveri che sieno stati mai di fatti veramente nazionali. I papi che incoronavano gl'imperatori, i re che entravano in quelle contese di famiglia, furono i soli che operassero. La nazione italiana v'era (e lo vedremo poi), ma non faceva nulla: serviva, soffriva, generava e moriva. Quindi molti abbreviatori, ed anche scrittori distesi di nostre storie, fuggon su tali complicazioni ingrate. A noi pare accennarle, perché sono il carattere principale dell'etá; e perché la noia stessa dello scriverle e del leggerle ci fará meglio entrare nella miseria di coloro che le soffrirono.—Ludovico dunque, detto dagli uni «il pio», dagli altri meglio «il bonario», incominciò a imperiar solo [814] su tutto l'imperio, tranne Italia che era di Bernardo re. Nell'817 egli spartí i regni a' suoi tre figli: Baviera a Lotario suo primogenito che associò all'imperio, Aquitania a Pipino, Francia (tutta o parte) a Ludovico, rimanendo Italia a Bernardo. Ma questi pretende egli all'imperio, s'apparecchia con gl'italiani, vede non esserne sostenuto (come era naturale, poiché non era causa nazionale), s'arrende, va a Francia, v'è giudicato in placito ed accecato, e tra l'incrudelito supplizio muore. Piangene il Bonario, e manda a succedergli Lotario, re cosí d'Italia e Baviera. Nell'822, l'imperatore fa penitenza pubblica della morte di Bernardo, in dieta ad Attigny. Nell'829, natogli un nuovo figliuolo, Carlo, gli fa un regno di pezzi stracciati da quelli degli altri. Costoro ribellansi nell'830, fan guerra al Bonario, lo prendono; poi, tra lor discordie, il lasciano restaurare. Nell'833, l'imperatore muove contra Pipino, lo spoglia d'Aquitania che dá a Carlo. Nuova sollevazione dei tre re; gli eserciti sono in presenza, il Bonario è abbandonato dal suo; e quindi tratto a far nuova e vergognosa penitenza a Compiègne, e poi dato in mano a Lotario imperatore aggiunto e re d'Italia. Nell'834 è restaurato, e tocca a Lotario a domandargli perdono. Nell'835 è annullato quanto era stato fatto contro a lui; nell'837 ei dá quasi tutta Francia a Carlo, suo figlio ultimo e diletto. Nell'839 (morto giá Pipino d'Aquitania) egli spartisce un'ultima volta gli Stati; e ne rimangono, imperatore e re d'Italia con parte di Francia Lotario, re di Francia con molta Germania Carlo, re solamente di Baviera Ludovico. Questi se ne lagna e ribella, ma è vinto; e Ludovico muore nell'840.—In Italia, suddita insieme di Ludovico imperatore primario e di Lotario imperatore aggiunto e re, noteremo che i papi incoronarono l'uno e l'altro, ed a vicenda domandarono sempre o quasi sempre ad essi le conferme di loro elezioni; che essi i papi, e i vescovi, e gli abati si frammischiarono in quelle guerre di famiglia e v'accrebbero loro autoritá; che contesero tra sé papi e vescovi di Ravenna, papi e romani in Roma, e le due parti greca e franca in Venezia. E guerreggiassi tra' principi di Benevento e le cittá greche, Napoli, Amalfi ed altre. I saracini infestarono mare e marine. Bonifazio, conte di Lucca e forse marchese di Toscana, fu con un naviglio ad infestarli essi in Africa. Ma, intorno all'828, Eufemio, un greco di Sicilia, innamorato d'una fanciulla (monaca dicono alcuni), e minacciato di perderla, fugge ai saracini, li invita, li trae, li aiuta a Sicilia ed essi in pochi anni se ne fan signori; e quindi infestano peggio che mai le marine italiane; e Gregorio IV, papa, rifá Ostia per guardare contro essi le bocche del Tevere. Né, oltre a tali fatti, è altro piú importante a notare, che un capitolare dell'829; il quale ordina studi centrali di varie province (quasi giá universitá) in Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona, Vicenza e Cividal del Friuli.
6. Continua [840-888].—Seguono contese di re, miserie di popoli, peggio che mai.—Lotario rimasto imperatore primario (perciocché oltre la confusione di tutti que' gradi di sovranitá non sovrane che dicemmo, essendo pur questa degli imperatori in primo ed in secondo, ei ci è forza distinguere), Lotario, dico, va in Francia e Germania contro a' fratelli Carlo il calvo e Ludovico, e ne tocca una gran rotta a Fontenay. Si ripacificano i tre [843] a Verdun, e Lotario n'ha oltre Italia tutta Francia occidentale. Nell'844 egli fa dal papa incoronar re di Italia Ludovico II suo figliuolo, e nell'849 l'associa all'imperio; e morendo poi nell'855, lascia gli altri Stati agli altri due suoi figliuoli, Lotario e Carlo. Durante questo regno, nuove guerre dei duchi di Benevento e di Spoleto, e delle cittá greche e de' saracini, e nuovi turbamenti in Roma. I saracini vengono fino a questa, e depredano a San Pietro e San Paolo, ambe allora fuor delle mura; re Ludovico accorre, allontana la guerra; si cingono di mura le due basiliche; e il quartier di San Pietro ne prende da papa Leone IV il nome di «cittá leonina».—Ludovico II succede dunque alla dignitá d'imperatore primario, ma alla sola potenza reale di re d'Italia con Provenza. E cosí attese all'Italia, fu re piú italiano che gli altri; meno male quando un re straniero ha nazionali il piú degli Stati. Risedette in Pavia, l'antica capitale. Guerreggiò nel Friuli contra gli slavoni invadenti; e, durante quasi tutto il regnar suo, guerreggiò contro a' saracini, alle cittá greche e al duca di Benevento. Prese Capua, Bari; fu fatto e rimase alcuni giorni prigione del duca; alcuni normanni infestarono quelle marine. Morí nell'875 senza figliuoli maschi.—Accorrono alla successione dell'imperio e del regno d'Italia Carlo il calvo re di Francia, Carlo e Carlomanno figliuoli di Ludovico re di Germania. Ma Carlo il calvo se ne libera per allora; ed è incoronato imperatore a Roma da papa Giovanni VIII, e poi re a Pavia. Ripassa in Francia, ritorna in Italia contro Carlomanno tornatovi; n'è cacciato, e fuggendo pel Moncenisio, muore lí nell'877. E continuano le depredazioni de' saracini, le guerre complicate al mezzodí.—Carlomanno regna allora in Italia e l'anno 879 s'associa Carlo il grosso suo fratello giá re di Svevia, e muore nell'880; e continuano i saracini, le guerre di mezzodí, e i turbamenti di Roma.—Rimasto solo re d'Italia Carlo il grosso, prende l'imperio vacante da tre anni, ed è incoronato dal papa. Nell'882 ei succede all'altro suo fratello Luigi, e cosí riunisce, oltre Italia, tutta Germania. E nell'884 succede a Carlomanno cugino suo re di Francia; ond'egli riunisce, terzo dopo Carlomagno e Ludovico il bonario, tutto l'imperio. Sarebbe potuto credersi, che n'uscisse una restaurazione di questo; n'uscí la rovina ultima. La quale attribuita da quasi tutti all'incapacitá di Carlo il grosso, debbe forse attribuirsi anche piú alla tendenza naturale che aveano le diverse nazioni europee a ricostituire le loro nazionalitá, or riunite or divise ma sempre offese contro la natura delle schiatte e de' limiti, da tutti i Carolingi. Niuna causa piú di questa operò a far finir cosí presto e cosí male quella dinastia giá cosí grandemente iniziata e dilatata in tutta la cristianitá. E noi viventi vedemmo una simile causa produrre un simile effetto, anche piú presto. Le nazionalitá poterono sí estinguersi nell'antiche barbarie, e talora nelle stesse antiche civiltá, perché queste erano poco meno che barbare. Ma la civiltá cristiana, nelle stesse sue etá dette «barbare» od «oscure», e tanto piú nelle progredite, fu sempre ed è tale, che non somministra mezzi alle distruzioni delle nazionalitá, non lascia possibili (almeno nel proprio seno) quelle estreme barbarie che sono a ciò necessarie.—Le nazionalitá cristiane si comprimono, ma non si distruggono; e le compresse si vendicano, sempre occupando e scemando le forze a' compressori; e talora poi abbattendoli. I successori degeneri pagano allora i peccati di lor grand'avi: cosí Carlo il grosso quelli di Carlomagno. Ito Carlo a Francia nell'885, poi a Germania, gli è rapita Francia da Odone conte di Parigi, e Germania da Arnolfo duca di Carintia e bastardo di Carlomanno, nell'887; ed egli muore poi, naturalmente, o strozzato, in gennaio 888. Allora levasi ultima Italia; e di febbraio è incoronato re in Milano Berengario duca o marchese del Friuli, figlio di Gisela figlia di Ludovico il bonario. Cosí trovansi ridivise, ricostituite Francia, Germania e Italia; la prima per sempre fino a' nostri dí; le due altre a rimescolarsi e impedirsi e nuocersi finora a vicenda. Qual secolo, qual confusione, quale storia, ci si conceda ripeter qui, come giá al tempo degli strazi dell'antico e vero imperio romano!
7. Berengario I, Guido, Lamberto, Arnolfo, Ludovico, Rodolfo [888-924].—Eppure, per noi, tutto ciò diventa anche peggiore e piú brutto. Questa era senza dubbio una grande occasione d'indipendenza, come all'altre, cosí alla nazione italiana. Se non che questa era men nazione che l'altre; non solamente, come l'altre contemporanee e feodali, non avea popolo formato né potente, ma nemmeno feodalitá nazionale. Que' conti, marchesi o duchi (a cui fu aureo questo secolo, ferreo per ogni altro) erano almeno in Francia francesi, in Germania tedeschi; ma erano in Italia francesi o tedeschi di nascita o d'aderenze; ondeché l'Italia non italiana incominciò allora a dividersi in quelle parti francese e tedesca, che duraron d'allora in poi e dureranno fin tanto che l'indipendenza compiuta non c'insegni a usar le nazioni straniere come alleate straniere e non come capiparti nazionali. Se qualunque di questi principi stranieri avesse saputo staccarsi dall'aderenze straniere e farsi italiano, egli e i suoi nipoti avrebbero probabilmente regnato a lungo sull'Italia; o rimarrebbero almeno benedetti nella memoria degli italiani. Ma, perché a costoro, come a tanti poi, parve piú facile accettare un aiuto bell'e fatto da fuori, che non farsene uno addentro col buon governo e colla virtú, perciò non poser radice nella nazione, perciò ebbero a moltiplicare, a mutar ricorsi, e cosí s'avvilirono nell'opinione e nella realtá; e l'avvilimento li fece crudeli, scempi, perduti di vizi essi e lor donne, corrotti insomma e disprezzati in quella stessa corrottissima etá. Alcuni de' papi del secolo scorso aveano, è vero, dato esempio di questi ricorsi stranieri; ma quelli n'avean dato uno, e questi ne dieder molti; quelli l'avean dato contro altri stranieri greci o longobardi, e questi li diedero contro nazionali e compagni di potenza; quelli poi avean pur dati molti esempi di appoggiarsi alla nazione, alle cittá, data a molte cittá l'indipendenza, e questi non la diedero; ondeché dee far meraviglia, che si accumulino gl'impropèri a que' papi, e si risparmino a questi principi italiani, i quali anzi talor si lodano o compatiscono quasi vittime, di quella dipendenza di che furono strumenti od autori. Non compatiamo mai i potenti, che mal usarono la potenza. E sopratutto poi, giustizia eguale per tutti.—I tre duchi potentissimi fin da' longobardi, Friuli, Spoleto e Benevento, eran rimasti tali sotto a' Carolingi. Ma staccato l'ultimo oramai dal regno ed occupato contro alle cittá greche, Napoli, Amalfi, ecc., restavan dunque principali nel regno longobardo o d'Italia, i duchi del Friuli e di Spoleto. Duca del Friuli era quel Berengario affine de' Carolingi che prese la corona d'Italia fin dal febbraio 888, ma che dicesi l'avvilisse subito riconoscendola feodalmente da Arnolfo re di Germania. E duca di Spoleto era Guido; pur affine, dicesi (ma si disputa come), de' Carolingi. Questi tentò prima la corona di Francia e andovvi; ma respintone, tornò tra noi con aiuti francesi. S'impadroni dell'occidente, e mosse contro a Berengario forte all'oriente. Combatterono a Brescia [888], ricombatterono sulla Trebbia [889]; e vinto allora Berengario, si ridusse intorno a Verona, mentre Guido si fece incoronar re in Pavia, e quindi imperatore in Roma [891], e s'aggiunse all'imperio suo figliuolo Lamberto [892].—Ma Arnolfo il re tedesco, signore del re italiano Berengario, mandava in aiuto a costui suo figliuolo Sventebaldo [893]; e scendeva egli poi con Berengario ito a sollecitarlo. Prendeva Bergamo; uccideva, prendeva o mutava conti e marchesi; e facevasi incoronar esso re d'Italia; a ragione, io direi, poiché era signor del re; era vero re, poiché sommo. Poi prendeva Ivrea, e moveva a Borgogna contro Rodolfo alleato di Guido; ma respinto di lá, e respinto o noiato d'Italia, tornava a Germania, mentre moriva Guido imperatore.—E cosí rimaneva Italia con un imperatore, Lamberto succeduto al padre; e tre re competitori, il medesimo Lamberto, Arnolfo e Berengario [894]. Quindi ridiscende Arnolfo, e spoglia questa volta intieramente Berengario del regno e de' contadi [895]; ed egli muove a Roma, la prende e si fa incoronare da Formoso papa. E qui, se non prima, incominciano a peggiorar que' papi barcheggianti in mezzo a tutte queste brutte vicende d'Italia, e alle bruttissime di Roma, e tra i potenti e scellerati cittadini od anche cittadine di essa. E cosí, da questo fine del secolo nono a tutto il decimo e mezzo l'undecimo, succedettersi poi, con poche eccezioni, i peggiori papi che sieno stati mai, e come papi e come principi; finché non li vedremo corretti e ravviati da parecchi santi e da uno grandissimo. Ma ciò notato a compiutezza di veritá storica, noi non ci crediamo obbligati a fermarci, come desidererebbono alcuni, in queste turpitudini, piú che non abbiam fatto in quelle degli imperatori romani, o sarem per fare in quelle de' principotti italiani. Non sarebbe gran male quando per «reverenza delle somme chiavi» s'usasse un po' di mantello figliale. Ma insomma i papi son uomini; e se ne furono de' corrotti in secoli corrotti, de' deboli in secoli deboli, niuna serie di principi cristiani ha pur, come la loro, tanti nomi di rigeneratori della civiltá cristiana; niuna di principi italiani, dell'italiana. E noi ciò gridammo, e n'avemmo nome di «papalini», quando giá pareva ingiuria; e ciò ripetemmo quando, mutati gli auspíci nel 1846, gridavasi papalina Italia intiera; e ciò ripetiamo rimutati ora auspici, grida ed opinioni popolari. La storia non muta a seconda delle popolaritá: tenta guidarle, ed alla peggio, le sfida.—Ad ogni modo, nell'896, s'ammala Arnolfo il nuovo imperatore, e torna a Germania; risorgono Lamberto e Berengario; e corretti una volta fan pace tra sé, e ne riman divisa Italia, l'occidentale a Lamberto, l'orientale a Berengario. Ma muoion Lamberto a caccia a Marengo [898], e Arnolfo in Germania [899], e resta finalmente solo re Berengario.—Ma per poco; sorge a nuovo competitore Ludovico re di Borgogna, risuscita la parte di Lamberto. Scendono gli ungheri (non piú gli unni-ávari antichi, ma i magiari fattisi lor signori e chiamati sempre da noi col nome di lor soggetti), vincono Berengario e saccheggiano Lombardia. Quindi cresce Ludovico, batte anch'egli Berengario e si fa incoronar re [900], e poi imperatore a Roma; e Berengario fugge a Germania [901]. Ma Ludovico torna a Francia, e Berengario a Italia, e la tien tutta di nuovo alcuni anni [902-904]. Poi torna Ludovico appoggiato principalmente da Adalberto, uno di que' marchesi o duchi di Toscana che eran venuti grandeggiando al paro o giá sopra i maggiori del regno; e signoreggia in tutta Italia e a Verona stessa, la capitale di Berengario. Ma Berengario rientra in questa a tradimento, spaventa i borgognoni, fa prigione Ludovico e il rimanda con gli occhi cavati in Borgogna, ove serbò il titolo d'imperatore, ma onde non tornò piú [905].—Allora per la terza volta Berengario tien tutta Italia, e se ne mostra meno indegno. Respinge o piuttosto termina con doni una seconda invasione di ungheri; e contra essi poi fa o lascia fortificare le cittá, le castella, i monasteri di Lombardia; fatto notevole, che alcuni dicono origine, noi diremo solamente aiuto alle libertá cittadine future. Ei regna del resto tranquillo, quasi glorioso; e, tranne una terza ma breve invasione di ungheri, l'Italia settentrionale respira sotto lui un diciassette anni. Non la meridionale, stracciata al solito tra principi beneventani, cittá greche poco men che libere, greci che venivano di tempo in tempo, e saracini che stanziavano e grandeggiavano. Una mano di costoro scesi e stabilitisi a Frassineto presso a Nizza, trafilò tra alpe ed alpe fino a Susa, e poi fin nel Vallese. E contro a' meridionali fu da papa Giovanni X chiamato Berengario, che venuto a Roma ne fu incoronato imperatore [916]; a' saracini non pare facesse altro che paura.—Ma il regno italico settentrionale fu alla fine riperduto da alcuni di quegli scellerati marchesi, a cui non giovava aver tranquillitá ne' re. Chiamano Rodolfo re della Borgogna trasiurana, cognato di Bonifazio di Toscana principale tra essi; lo traggono a Italia e l'incoronano re a Pavia [922]. Berengario chiama ungheri; fa battaglia a Firenzuola, è sconfitto [923]; ne chiama altri che prendono e saccheggian Pavia ed altre cittá, e passan fino in Francia ad assalir Rodolfo; e muore egli intanto, assassinato da uno de' suoi in Verona [924]. Di costui, che fin da principio fece vassalla la corona d'Italia, che dal principio al fine per trentasei anni di regno interrotto fu il piú gran chiamatore e soffritore d'ogni sorta stranieri, fecero alcuni moderni un eroe d'indipendenza italiana! Povera storia, povera politica, povera indipendenza italiana! come s'interpretano!
8. Tre re francesi [924-950].—Or qui peggio che mai si sporca la storia nostra. Non bastavano conti, marchesi, duchi scellerati, non vescovi e papi tanto peggiori di quanto è piú santo l'ufficio loro; sorsero donne, pessime di tutti, corruttrici di tutto, quando lasciano il dolce e pio ufficio loro di consolare colla virtú domestica dalle pubbliche corruzioni, e si fan furie virili. Allora, avvilito l'amore, avvilita la famiglia, s'avvilisce il piú gran motore che sia a far risorgere una patria.—Mariuccia o Marozia, Ermengarda, nomi fatti infami dalle storie contemporanee, passano nella nostra a malgrado nostro. Marozia figlia di Teodora, una nobile romana giá potente tra le parti di quella cittá e le elezioni dei papi, aiutava e succedeva a siffatta potenza della madre, ed era or moglie di Alberico conte di Tusculo prepotente in Roma. Ermengarda, sorella di Guido marchese di Toscana e di Ugo conte o marchese di Provenza, era or moglie di Adalberto marchese d'Ivrea; ed era prepotente appresso a Rodolfo tornato, e rimasto solo re d'Italia dopo la morte di Berengario [924]. Ma costei stringe pratiche per suo fratello Ugo; il quale, fuggito giá Rodolfo a sua Borgogna, scende a Pisa, si fa incoronare a Milano, occupa tutto il regno [926], e vi si fa aggiunger suo figliuolo Lotario [931]. Poi l'empie di provenzali, incrudelisce contro agl'italiani congiuranti contro a lui, e sposa la Marozia, vedova giá del conte di Tusculo, e poi di Guido di Toscana suo secondo marito, e cosí cognata di questo terzo [932]. Il quale trovandosi in Roma, e facendosi servir l'acqua alle mani dal suo figliastro, un secondo Alberico, questi il fa di cattiva grazia, e re Ugo gli dá uno schiaffo, e il giovane esce, solleva il popolo, fuga in castel Sant'Angelo il re, che ne scampa a Lombardia, ed ei si fa patrizio e consolo cioè tiranno in Roma, e tien prigione sua madre Marozia, e poco meno suo fratello, che era (vergogna a dirlo) papa Giovanni XI. Ugo ridiscende contra lui e l'assedia, ma è respinto e risale a Lombardia. Allora gl'italiani richiamano Rodolfo l'altro re francese, ma s'accomodano i due; e ne resta anzi disposata Adelaide la figliuola di re Rodolfo a re Lotario figliuolo di re Ugo [933]. Gl'italiani, cioè al solito i grandi, chiamano un altro competitore, Arnoldo detto «il cattivo», di Baviera; ma Ugo il batte, e non se ne parla piú [934]. Quindi Ugo torna a campo a Roma; e non potendo sforzarla, si pacifica col figliastro Alberico, e gli dá a sposa sua figlia; poi andandosene, saccheggia Toscana [936], e fa poi (vedovo o no di Marozia?) una gita in Borgogna, a sposar Berta vedova di Rodolfo [937]. Scendono intanto gli ungheri, e saccheggiano mezza Italia fino in Campania. Finalmente, nel 940, volendo Ugo spogliar conti e marchesi e fra gli altri Berengario d'Ivrea, questi avvisatone, fugge a Ottone sassone re di Germania; il quale qui s'introduce nella storia nostra con una bella risposta fatta a re Ugo che offriva gran danaro per riavere il rifuggito: «poter far senza i danari altrui, ma non ricusar protezione a chi gliela domandava». Quindi a temerne Ugo. Torna a Roma per rientrarvi, ma non gli riesce; paga gli ungheri ridiscesi, perché se ne vadano; muove contra i saracini di Frassineto, ma fa accordo con essi e dá loro a tener i passi contra il temuto Berengario. Finalmente [945] questi, disceso per Trento, trova disposti tutti gli animi, aperte tutte le porte, giunge a Milano, e, lasciando regnar di nome Ugo e Lotario, governa egli. Ugo fugge quindi a sua Provenza [946] e tra breve vi muore [947]. E cosí regnano i giovanetti Lotario e Adelaide; e Berengario governa tre anni, tranne un'invasione di ungheri, indisturbati. Ma nel 950 muor Lotario II frenetico, e, gridasi, di veleno.
9. Berengario II [951-964].—Il trono restò vacante presso a un mese; poi furono regolarmente eletti re in assemblea nazionale Berengario II e suo figliuolo Adalberto. E quindi nasce un sospetto favorevole, che re e nazione fossero finalmente piú uniti, e che Berengario non fosse cosí cattivo come i predecessori, né come ce lo rappresentano gli storici dediti a' nemici di lui. Ma il séguito de' fatti sembra togliere anche questa consolazione. Ad ogni modo, egli e sua moglie Villa (detta pessima donna, essa pure, da un contemporaneo) si rivolsero contra Adelaide bella, santa, giovane, vedova e regina, per farla sposare ad Adalberto. Fugge ella in una selva, poi nel castello di Canossa (scena destinata a drammi anche maggiori), ed indi implora aiuto da Ottone re di Germania. Scende questi nel medesimo anno, non incontra resistenza, si fa proclamare re in Pavia, libera Adelaide, la sposa, e in breve la conduce seco a Germania, richiamatovi dal mal contento di un suo figlio per queste seconde nozze [952]. Quindi Berengario avrebbe avuto gran gioco, se fosse stato uom di cuore e unito colla nazione. Ma, mancassegli l'uno o l'altra, ei rinnova l'esempio di Berengario I, va a Germania due volte, ed alla seconda egli e Adalberto fanno omaggio della corona d'Italia a quella di Germania. Cosí tornano bruttamente confermati nel regno; e regnano poi, volgendosi contro a' vescovi e marchesi lor contrari, ma principalmente contro a quell'Alberto Azzo conte o marchese di Canossa (stipite di casa d'Este), che avea ricoverata Adelaide. Tuttociò finché Ottone fu occupato in Germania. Ma nel 956 scende Liutulfo figliuolo di lui, libera il signor di Canossa dell'assedio ond'era stretto dai due re, prende l'un dopo l'altro; ma li rilascia liberi e di nuovo re. E pare che fosse per allora approvata siffatta clemenza da Ottone stesso. Ma continuando Berengario a tiranneggiar vescovi, conti e marchesi, o forse a volerne un'obbedienza che essi non volevano, e a far correrie nel territorio di Roma, ed a ritener l'Esarcato e la Pentapoli, usurpate giá da re Ugo ai papi, s'unirono ora papa e grandi a chiamare un'altra volta Ottone, e questi scese l'anno 961 per il Tirolo. Adalberto l'aspettava alle Chiuse d'Adige con un esercito, dicesi, di sessantamila italiani. Ma questi, di mala voglia contro Berengario, domandavano ad Adalberto di farsi lasciare il trono; e ciò parrebbe accennare il figlio miglior del padre. Berengario ricusa, l'esercito si scioglie, Ottone viene a Pavia e a Milano; e qui, in dieta, deposti Berengario e Adalberto, ei riceve di nuovo la corona regia d'Italia in Sant'Ambrogio. L'anno appresso riceve l'imperiale in Roma [962], e fa nominare re Ottone II figliuol suo. Chiudonsi Berengario II in San Leo, Adalberto in un'isola del lago di Garda, Guido fratello di lui in una del lago di Como, e Villa in una del lago d'Orta. Ottone assale gli uni dopo gli altri; ed intanto si rivolge contra Giovanni XII, il papa che l'avea testé incoronato, ma uno de' pessimi fra que' cattivi, che si rivolgeva di nuovo ad Adalberto; e fattolo deporre in concilio, fa eleggere Leone VIII. Finalmente, presi Berengario e Villa [964], li tien prigioni dapprima in Lombardia, poi in Germania. Nuovo Adelchi, Adalberto fugge a Costantinopoli, poi, dicesi, alla corte di Borgogna, dov'egli e il figliuolo di lui ebber parecchi comitati in su' limiti d'Italia. Ad ogni modo, la corona d'Italia prostituita da que' principi, che non so s'io dica italiani né d'animo né di sangue, passò cosí ai tedeschi.
10. I tre Ottoni [964-1002].—Nella storia come nella realitá non è peggior dolore, che d'aver a lodar il governo degli stranieri sopra quello degl'italiani. Ma prima di tutto la veritá. Dalla quale sola sempre risultano i buoni insegnamenti, e qui questo: che all'ultimo risultato un governo straniero, quantunque buono, è piú fatale alla nazione che non uno nazionale, quantunque pessimo; perché questo passa, e lascia la nazione a' suoi destini migliori; ma quello, quant'è men cattivo, tanto piú fa comportabili e suggella col tempo i ferri stranieri. Dal grande e buono Ottone in qua, e salvo un'eccezione cosí breve che quasi resta tacciata di ribellione, la corona imperiale romana rimase ottocentoquarant'anni a' tedeschi, la regia lombarda non n'è uscita tuttavia; e tutta la nazione fino a nostri dí, fu or piú or meno, ma sempre dipendente. Le cittá che siam per vedere talor liberate, talor liberarsi, non furono mai pienamente libere, nemmen di nome, nemmeno nelle loro pretese: sempre riconobbero la supremazia dell'imperatore straniero, e la riconobbero molti papi, e i piú dei principi; e i pochi che non riconobbero la dipendenza, patirono la preponderanza, che in realtá diventa lo stesso. Senza queste avvertenze non si capirebbe la storia nostra ulteriore, diversa da tutte le altre contemporanee e piú liete. La spiegazione di ciò che ebbe o non ebbe d'indipendenza una nazione, è la principale spiegazione o ragione o filosofia della storia di lei; e perché quella non si volle far mai, perciò non abbiamo niuna satisfacente storia d'Italia, perciò mi è dovere insistervi in questo sommario.—Prigione Berengario, fugato Adalberto, e aggiunta dopo trentotto anni di vacanza la corona imperiale alle due regie di Germania e d'Italia, Ottone I, o il grande, potente in quella, conquistatore ed estensore della cristianitá in Danimarca, fu in Italia tutt'altro imperatore e re che non i regoli stranieri od italiani precedenti. Restituí l'imperio-regno, e a ciò usò tre modi principalmente. 1^o Quello di Carlomagno: scemare i grandi ducati e marchesati ricresciuti, e ridividerli in comitati anche minori degli antichi, comitati d'ogni cittá, od anche comitati «rurali» di semplici castella. E quindi ebbero lor castigo que' principi italiani, che non volendo patire niun pari diventato superiore, avevano iniziata la lunga storia dell'invidie italiane. 2^o Ai conti o marchesi delle cittá grandi, che sarebbon rimasti troppo grandi ancora, non lasciò, per lo piú, se non il comitato esterno o contado; e tolse loro (non egli primo ma piú frequentemente) la cittá e il distretto vicino intorno alle mura, e sottopose l'una e l'altro ai vescovi, alla chiesa vescovile, onde quel distretto fu detto poi «Weichbild» o «de' corpi santi». E perché sotto al vescovo, ed al «vogt» od «avvocato» o «visconte» di lui, poterono poi nelle cittá i «valvassori» o «capitani» o «cattani» principali di ciascuna, e sotto a questi non solamente tutti i militi ed arimanni nipoti de' conquistatori vari, ma (secondo la natura sempre democratica della potenza ecclesiastica) anche i nipoti de' conquistati risaliti dalle condizioni piú o men servili a piú o men compiuta libertá, tutti gli «uomini» in somma o «vicini» della cittá; perciò Ottone fu da non pochi detto fondatore delle libertá, de' governi municipali, dei «comuni» italiani. Ma il vero è, che questo non fu se non un passo a tal libertá; e che, forse il nome, certo l'essenza del comune (la quale fu d'aver governo indipendente dal vescovo come dal conte) non vennero se non un cento anni appresso. 3^o Finalmente, Ottone e tutti i suoi successori usarono un modo tutto contrario a quello de' Carolingi, fondatori ed ampliatori della potenza papale; la scemarono facendo piú che mai valere in effetto quella che prima era poco piú che pretesa d'imperio, d'approvare e perciò dirigere l'elezione dei papi; e cosí facendoli e disfacendoli, a lor pro, a lor talento, simoniacamente. E cosí è, che continuarono ad eleggersi papi cattivi, e d'uno in altro peggiori.—Nel 964 stesso, morto Giovanni XII in Roma, onde egli avea cacciato Leone VIII, i romani eleggon Benedetto e cosí rimangon due papi. Viene Ottone, assedia Roma, v'entra; e deposto Benedetto, vi restaura Leone VIII; e dimorato il resto dell'anno in Lombardia, torna a Germania. Ma morto Leone, e succeduto Giovanni XIII, e turbandosi Roma di nuovo, e sollevandosi alcuni signori per il re esule Adalberto, ridiscende Ottone [966], viene a Roma, punisce severamente o crudelmente i turbatori, e fa incoronare imperatore suo figliuolo Ottone II [967]. Quindi passa a mezzodí, dove continuavan quelle guerre, che ci stancammo di menzionare ad ogni regno, tra' principi longobardi di Benevento e di Salerno, e Napoli, Amalfi e le altre cittá greche o mezzo libere, e i greci che pur venivano di tempo in tempo a far sentire il resto di lor signoria, e i saracini che or predavano ora stanziavano tra tutto ciò. Or venner gli Ottoni di soprappiú a tentar d'ivi estendere il regno-imperio. E perciò, oltre al guerreggiarvi, Ottone I volle maritar suo figliuolo Ottone II a Teofania, figlia dell'imperator greco. Liutprando vescovo (lo storico di questa etá) va invano ambasciatore a Costantinopoli [968]. Continuasi a guerreggiar quattro anni; poi conchiudesi la pace tra i due imperatori [971], e si fan le nozze desiderate [972]. Ma tornato a Germania, muore vecchio e glorioso Ottone il grande [973]. La grandezza di lui fu certamente una delle maggiori calamitá d'Italia.
11. Continua.—Succede Ottone II giá imperatore, e re di Germania e d'Italia; non iscende per parecchi anni, e intanto continuano le guerre tra' principi beneventani, cittá, greci e saracini. Ma scende nel 980, e l'anno appresso viene a Roma; e spinto da Teofania muove a mezzodí, si frammette di nuovo a quelle guerre, vi prende parecchie cittá, fa gran battaglia contra greci e saracini; e vincitor prima, vinto poi, rifugge sconosciuto a una galea greca; è conosciuto, e ne scampa arditamente a nuoto [982]. Quindi egli risale a Lombardia; ed indi e di tutto l'imperio stava facendo grandi apparecchi, a finire una volta quella lunga guerra, quando morí, giovane di grandi speranze, degno del padre [983].—Succedegli Ottone III fanciullo di quattro anni, giá eletto in dieta a Verona re di Germania e d'Italia, e probabilmente imperatore. Governano per lui prima Teofania madre di lui, fino al 991, e, morta essa poi, Adelaide di lui ava, ambe con nome ed autoritá d'imperatrici. Intanto si succedono papi, antipapi, e guerre civili cosí moltiplici da non poterne nemmen fissare la cronologia; e in mezzo a tutto ciò s'innalza Crescenzio, uno de' capitani di Roma, a tirannia. Né molto diversamente a Milano, a Cremona sollevansi popoli contro a lor vescovi; princípi di cose maggiori. Finalmente, nel 996, giovanetto giá di diciassette anni, scende Ottone III a Italia; e morto intanto papa Giovanni XVI, s'avanza a Roma, fa eleggere suo cugino Gregorio V, da cui è poi incoronato imperatore. Poi risale a Lombardia e vi si fa incoronar re in Milano, e rientra in Germania. Ma risorge Crescenzio, fuga Gregorio V e fa un antipapa. Ottone III ridiscende [997], compone gli affari di Cremona, visita da privato Venezia, a cui tutti gli Ottoni concedettero privilegi, ma in cui pur non regnavano; poi viene a Roma, vi restaura Gregorio V, ed assediato e preso Crescenzio in castel Sant'Angelo, fa troncare il capo a lui e dodici de' suoi partigiani. L'anno appresso [998] muor Gregorio, e gli succede, per opera dell'imperatore, eppur papa buono finalmente, Gerberto, un francese giá precettore di esso Ottone, e cosí gran letterato rispetto all'etá, che ne fu detto negromante. Prese nome di Silvestro II; se avesse vivuto, forse avrebbe avuta egli la gloria di preparar la restaurazione del pontificato, che vedremo toccar mezzo secolo appresso ad alcuni tedeschi. Ma non pontificò che quattro anni. L'anno 1000 (quell'anno aspettato con grande ansietá dalla ignorante cristianitá, che credeva dovesse essere del finimondo), Ottone III va a Germania e ne torna; l'anno 1001, ei muove guerra a Tivoli ribellata a Roma, e perdonando a quella si guasta con questa; ma si ripacifica. E quindi, mentre, come il padre, apparecchia forse un'impresa a mezzodí, ei muore [gennaio 1002]. Tutti questi Ottoni proseguirono evidentemente, e quantunque lentamente pur felicemente, i due disegni di pacificare e riunire l'Italia; e perciò dimorarono molto in essa, e furono in tutto i migliori, i piú italianizzati tra gl'imperatori e re stranieri. Se l'idea che fu poi de' ghibellini, di far grande l'Italia sotto agli imperatori germanici, fosse stata l'idea della Providenza, ella sarebbesi compiuta sotto gli Ottoni piú facilmente che sott'altri mai. Ma il primo era vecchio quando imperiò, e i due ultimi morirono di ventotto e ventidue anni. Qui, sia lecito dire, è il dito di Dio.
12. Arduino re, Arrigo, detto secondo, re e imperatore [1002-1024].—Alla morte dell'ultimo Ottone, scoppiò uno dei movimenti piú incontrastabilmente italiani che si trovino. Assalgono per via la scorta del feretro portato a Germania; e in men d'un mese, addí 15 febbraio, s'adunano a Pavia, e gridan lor re un italiano; uno di nuovo de' potenti marchesi, Arduino d'Ivrea, di quella famiglia degli Arduini di Torino, la quale, venuta al tempo de' re francesi, e cresciuta sotto essi e gli Ottoni, teneva ora tutti i comitati a manca del Po da Vercelli a Saluzzo. Ma i tedeschi eleggono Arrigo di Sassonia consanguineo degli Ottoni, che pretende alla corona d'Italia; era naturale, dopo le vili infeodazioni di essa fatte dai Berengari. E perché Arrigo fu bensí in Italia il primo re di questo nome, ma fu in Germania, e cosí è per lo piú nella storia chiamato il «secondo»; perciò noi lo chiameremo pur cosí, cercando chiarezza anziché precisione diplomatica o cancelleresca; e se ci resta vergogna il prender numeri e nomi altrui, ella è per certo delle minime che ci vengano dalla straniera signoria. Arduino si mostra dapprima pronto e prode; va incontro a un esercito tedesco che scende per Tirolo, e lo sconfigge; e regna, come pare, indisputato un anno e piú. Scende Arrigo al principio del 1004, e Arduino va pure ardito contro a lui; ma è allora abbandonato da' suoi conti e principalmente da' vescovi. Fu in quelli invidia solita italiana, e in questi vendetta delle angarie ed usurpazioni giá esercitate contro essi da Arduino marchese o da Arduino re? Difficile a risolvere questo punto di uno de' piú interessanti episodi di nostra storia. Certo, Arduino è accusato dagli annalisti poco men che unanimemente. Ma questi scrissero, spento lui, e furono tutti ecclesiastici, e la inimicizia tra vescovi, e conti o marchesi, non che consueta allora, era natural conseguenza di quelle concessioni delle cittá comitali a' vescovi, che dicemmo fatte e moltiplicate dagli Ottoni. Ad ogni modo, conti e vescovi italiani quasi tutti abbandonarono il re italiano per il tedesco; e conducono questo a Pavia, l'eleggono, l'incoronano, addí 14 maggio. Ma il popolo ha talor sentimento di nazionalitá piú che i grandi; peccato che quando è solo ei l'eserciti, per lo piú, male e inutilmente! La medesima sera nasce una baruffa tra' cittadini e soldati stranieri; si combatte, s'appicca il fuoco, e Pavia ne rimane incendiata. Esce Arrigo di essa e d'Italia, in gran fretta. E quindi qui una condizione nuova; un re lontano ed uno non guari riconosciuto; Milano per quello, e Pavia per questo (origine o almeno uno de' primi fatti della rivalitá tra le due); una confusione, una mancanza di re e governo, un armarsi, un guerreggiarsi le cittá, che fu nuovo e gran passo alle libertá loro future. Cosí va il mondo; quella che avrebbe potuto essere magnifica occasione d'indipendenza nazionale, non fu che di libertá cittadine; se ne contenti chi voglia. Trovansi guerre allora tra Pisa e Lucca; e Pisa saccheggiata una notte da' saracini, e liberata, secondo le tradizioni, da Cinzica Sismondi, una sua cittadina; un'altra guerra tra Fiesole e Firenze, e quella distrutta e i cittadini trasportatine in questa (èra principale della storia fiorentina); e papa Benedetto VIII cacciato di Roma raggiungere in Germania presso Arrigo lo stuolo dei vescovi colá rifuggiti; e Mele e Datto, due nobili cittadini di Bari, liberar del tutto lor cittá da' greci. Chiaro è, un ardor di libertá scoppiava dall'Alpi a Cariddi. Tutto ciò fino al 1013; quando ridisceso Arrigo, veniva a Pavia abbandonatagli da Arduino, e quindi a Roma dove fu incoronato imperatore [1014] con Cunegonda moglie sua. Ma, ciò fatto, o non volesse o non potesse altro, tornava a Germania. Quindi si trova Arduino risalito in forze ne' suoi comitati soliti, e prender Vercelli e forse Novara, ed allearsi con Oberto II d'Este ed altri potenti conti e marchesi, e porre un parente suo vescovo in Asti, ed opporvisi Arnulfo l'arcivescovo di Milano, il gran nemico di lui. E quindi a un tratto, senza che si veda bene il perché, Arduino piú che mai abbandonato, ovvero stanco o infermo, si fa monaco all'abazia di Fruttuaria, dove poi muore addí 29 ottobre 1015. Uno degli uomini piú variamente giudicati nella nostra storia, re legittimo, usurpatore, scomunicato, santo fondator di monasteri; ad ogni modo ultimo italiano che abbia osato por mano alla corona d'Italia.—Né, rimasto solo re Arrigo II, se ne mutano le condizioni nostre. Egli continua in Germania, e l'Italia resta abbandonata a sé. I saracini di Sicilia fanno una discesa contra Salerno; ed ivi dicesi combattessero per la prima volta in Italia alcuni normanni (di quelli giá stanziati nella provincia francese detta da essi Normandia) lá capitati tornando pellegrini da Terrasanta; e seguissero alcuni altri pellegrini a San Michele del monte Gargano in aiuto a Mele, il cittadino liberatore di Bari, ed a' principi longobardi: piccoli inizi di gran regno. I saracini di Sardegna (giacché questa e Corsica, passate giá dall'imperio orientale all'occidentale, erano state occupate da que' barbari) scesero a Luni, e furono cacciati da un naviglio raccolto dal papa [1016]. Poi genovesi e pisani scendono in Sardegna, e ne cacciano i saracini; e difesala contro nuove discese, vi si stabiliscono, e se la disputano a lungo [1017]. E vedesi quindi, anche piú che dagli altri fatti precedenti, come le cittá italiane, non libere ancora nel loro interno comunque retto da' loro conti o vescovi o capitani, avessero pure al di fuori una qualsifosse autonomia. Nel 1020, papa Benedetto e Mele vanno alla corte imperiale tedesca ad implorar aiuto contro a' greci; ma il lento imperatore non iscende se non al fine del 1021. Entra quindi con un grand'esercito in Benevento, fa riconoscer il suo imperio da que' duchi e dagli altri longobardi, e da Napoli ed altre cittá greche e libere; e distribuiti colá contadi e castelli, risale a Toscana, a Lombardia, a Germania [1022]; dov'egli muore nel 1024. Egli e la imperatrice sua Cunegonda furono poi amendue santificati. E, morti senza figliuoli, terminò la casa imperiale e reale di Sassonia.
13. La casa de' Franconi o Ghibellini. Corrado il salico [1024-1039].—Incomincia quindi la nuova casa detta de' Vibellini, o Ghibellini, dal castello di Weibelingen lor culla, e de' Franconi, dalla provincia dove eran cresciuti e fattisi duchi prima di salire al regno ed all'imperio. E perché le mutazioni di dinastie sogliono essere insieme effetti e cause di nuove condizioni nazionali, perciò da esse si dividono opportunamente le storie di parecchie altre nazioni, e perciò parecchi storici imitatori cosí dividon la nostra. Ma molto inopportunamente questi, a parer mio. Perciocché, quando i re son di due nazioni, le mutazioni di dinastie si fanno secondo le mutazioni della nazione dov'elle sono nazionali, e non di quella dove elle sono straniere; ondeché queste mutazioni di dinastie, patite e non fatte da noi, non sono se non segno nuovo di solita sofferenza e non di mutazioni nazionali nostre. Le quali poi in Italia venner da altro, e appunto in bel mezzo della presente dinastia.—Eletto dunque re in Germania Corrado duca di Franconia, egli rimaneva, secondo il diritto germanico, re d'Italia. Ma non secondo il diritto italico. I tedeschi eran venuti piú e piú a noia. Appena saputa la morte di Arrigo il santo, i pavesi avean a furia di popolo distrutto il palazzo regio di lor cittá. Quindi Maginfredo conte e marchese di Torino, Alrico vescovo d'Asti fratello di lui, i marchesi d'Este ed altri grandi offrono la corona a Roberto re di Francia, secondo de' Capezi, per lui o suo figlio; e rifiutati, a Guglielmo duca d'Aquitania pur per lui o suo figlio; e il duca viene a Italia, guarda, esamina, e va via. Tanto era caduta ancor da vent'anni la misera corona, non piú osata cingere da nessuno di que' marchesi italiani, portata fuori ad offrir qua e lá, e rifiutata da ciascuno per non mettersi in nostre divisioni, nostri odii, nostre invidiuzze, direi quasi nostri pettegolezzi. Intanto Ariberto, arcivescovo potentissimo di Milano, tronca i dubbi, e va a Germania a far omaggio a Corrado ed incoronarlo [1025]. Scende questi poco appresso [1026], e con grand'oste muove contro a Pavia; ma trovatala forte, va a farsi incoronar a Monza, e poi prende cittá e castella, e viene a Ravenna, dove nasce nuova baruffa tra tedeschi e cittadini, torna a Milano, passa l'inverno in Ivrea. L'anno appresso [1027] passa per Toscana e si fa incoronare imperatore in Roma da papa Giovanni XIX; ed ivi terza baruffa tra romani e tedeschi. Tutto inutile. Scende a Benevento e Capua, e vi si fa riconoscere all'intorno, risale a Roma, a Ravenna, a Verona, a Germania, lasciando tranquilli i pavesi, a patto che riedifichino il palazzo. Resta Ariberto con quella potenza di vicario imperiale, che incominciavano a dar gl'imperatori a' lor aderenti principali qua e lá. Era naturale; gl'imperatori non potendo far valer essi da lungi lor autoritá indeterminata, sconosciuta, la trasmettevano qual era, per valer ciò che potesse, a qualche grande che paresse poterlo da vicino. Nel 1032, egli Ariberto e Bonifazio, marchese di Toscana, guidano un esercito d'italiani in aiuto a Corrado che prese il regno di Borgogna finito allora in Rodolfo. Nel 1035, scoppia tra l'arcivescovo e i suoi valvassori di Milano una guerra grave, e molto notevole a far intendere le condizioni di quella societá feodale cosí diversa dalla nostra. Perciocché sembra ne sorgessero allora piú o meno delle simili in Italia, ed anche fuori, tra i vassalli grandi, o, come si diceano, «capitani seniori», o signori, e i valvassori piccoli o «iuniori». Era finito il secol d'oro di quelli, incominciava di questi; era un principio di quell'emancipazione delle classi inferiori dalle superiori che dura d'allora in poi. Combattessi in Milano, i piccoli valvassori n'usciron vinti: ma si fecer forti de' lor pari alla campagna; e tutti insieme alzarono una lega, un tumulto, che chiamossi «la Motta» (e voleva probabilmente dire «ammottinamento»), e andò allargandosi via via. Scende allora [fine 1036] Corrado a giudicar e compor questi nuovi turbamenti; e favorisce la Motta contra l'arcivescovo, i valvassori piccoli contro a' vassalli grandi. Era naturale, era séguito della politica imperiale, che vedemmo dividere i ducati in comitati; i comitati grandi in piccoli, od in giurisdizion del vescovo entro alla cittá e il «corpo santo», e comitato diventato rurale; o piuttosto è politica di tutti i grandissimi, che contro a' grandi innalzano i piccoli. E cosí Corrado tiene prima a bada Ariberto accorso in sua corte, e poscia in Pavia fa prender lui, e qua e lá altri vescovi. Ariberto ubbriaca, dicesi, i tedeschi che gli erano a guardia, e fugge a Milano. Vienvi a campo l'imperadore, e sfoga il dispetto contra terre e castella; e poi, rotto dall'arcivescovo e milanesi, si ritragge a Cremona, e poi a Parma, dove sorge la solita baruffa tra popolo e tedeschi. E fu durante l'assedio di Milano, addí 28 maggio, che Corrado fece la sua famosa costituzione de' feudi, in che appunto ei protegge i feudatari piccoli contro a' grandi, e li fa ereditari: quella costituzione che fu giá detta perfezione del bel sistema feodale, che noi diremo nuovo passo a libertá. E fu pur da questo assedio che incominciò Milano ad essere antitedesca; e perciò, per le solite emulazioni de' vicini italiani, diventò all'incontro tedesca Pavia; un rovesciamento di parti, onde vedrem sorgere maggiori pericoli e rovine, ma maggior potenza e gloria a Milano. Sciolto dall'assedio, l'arcivescovo vittorioso offrí la corona al conte di Sciampagna; e dicesi questi l'accettasse, ma appunto allora ei morí. Ad ogni modo, l'imperatore chiamato da papa Benedetto IX, che si trovava ne' medesimi frangenti co' suoi baroni, fu [1038] a Roma, dove ripose il papa in potenza, e poi a Capua e Benevento alle solite contese di colá; le quali poi lasciando, non men che quelle di Milano, ei risalí a Germania, e vi morí l'anno appresso [1039]. Intanto Ariberto, pressato da' vicini di parte imperiale e da' propri valvassori, seguiva la medesima arte che l'imperatore, quella solita di sollevar contro ai propri minori i minimi, i popolani cittadini o campagnuoli da lui dipendenti. E perché questi non erano come i militi a cavallo, ma povera gente a piè, dava ad essi a stendardo, a segno di raccolta in battaglia, quel carro grave, tirato da buoi, e portante una campana, che era stato usato giá da' monaci certamente (vedi Cronaca della Novalesa), e forse da' vescovi, a raccoglier le tasse di lor dipendenti; e che accresciuto quando che sia della croce, e d'un intiero altare a dirvi messa e dar benedizione a' combattenti, fu ora chiamato il «carroccio»; e fu usato poi da quasi tutte le cittá italiane, troppo di rado sacro nelle guerre d'indipendenza, troppo sovente sacrilego nelle civili di cittá a cittá, o di cittadini a concittadini, famoso ad ogni modo nelle nostre storie. Sarebbe bello a qualche principe italiano restaurar, rimodernandola, la nazionale e devota usanza. Ma, mentre in Germania si rinnovano quanti si possono di siffatti sussidi allo spirito di nazionalitá, in Italia si disprezzano come erudizioni del passato, o sogni dell'avvenire.
14. Arrigo III [1039-1056].—A Corrado successe incontrastato oramai di lá e di qua dalle Alpi il figlio di lui Arrigo III, il miglior forse della casa Ghibellina. Fece subito pace con Ariberto; e pare che una pure ne seguisse tra questo e i valvassori o mottesi. Ma rinnovatisi i turbamenti [1041], fu cacciato l'arcivescovo co' capitani o nobili principali; mentre rimasero riuniti in cittá i mottesi e il popolo sotto uno di essi o de' capitani, seguíto forse da altri. Il quale si chiamava Lanzone, e merita essere nominato qui, perché diede uno de' piú santi esempi rammentati da nostra storia; un esempio che dicesi imitato a' nostri dí in modo piú puro ancora, e da un uomo anche piú grande. Stretto Lanzone una volta dall'arcivescovo e dai capitani, fu a Germania, ed ebbe da Arrigo promessa d'un forte aiuto. Ma ripatriato persuase i cittadini, mottesi e grandi, a non aspettarlo, a far accordo tra sé, a depor l'armi civili prima che giungessero le straniere [1044]. E cosí in quella Milano, che fu (e il vedremo dimostrato nell'etá seguente) modello alle costituzioni libere delle cittá lombarde, trovasi questa cosí avanzata fin d'ora, che si potrebbe quasi dire compiuta; se non che, quanto piú studiammo questa materia, tanto piú ci parve non doversi dire veramente compiuta, se non quando, al fine del presente secolo, fu istituito il governo de' consoli. E quindi diremo questo se non piú che nuovo passo fatto a tale costituzione. Ma osserveremo intanto, che ei fu fatto far qui, e indubitabilmente pure in tutte le altre cittá, dalla riunione di tutte le classi o condizioni di cittadini, de' grandi o capitani, de' medii o valvassori o mottesi o semplici militi, e de' popolani grassi, come si dissero allora, e si direbbono ora borghesi, e de' popolani minori delle «gilde» od arti diverse. Perciocché questo appunto fu accennato dalla parola di «comune» o «comunio», la quale fin d'ora si vien trovando qua e lá; quest'unione o comunione o fratellanza delle classi, fu quella che fece la libertá, la forza, la grandezza, l'eroismo, la gloria delle cittá italiane, finché durò; fu quella che, cessando poi, lasciolle deboli, impotenti, abbandonate ad ogni preponderanza e prepotenza straniera. Se io avessi trovato, che la libertá comunale, gloria dell'etá seguente, fosse dovuta ad una delle classi cittadine esclusivamente, io avrei adempiuto al dovere ingrato di dire tal veritá. Ma la veritá, grazie a Dio, ricomincia qui finalmente ad esser bella a dire; ed è, del resto, veritá trita, montando a ciò, insomma, che la forza è sempre fatta dall'unione.—Morí Ariberto l'anno appresso [1045]; men lodevol prelato che non gran signore feodale, ei ci ritrae la condizione di quasi tutti quei vescovi, abati ed uomini di chiesa di quell'etá. Disputatane la successione, rimase eletto, benché ingrato al suo popolo, Arialdo d'Alzate notaio d'Arrigo III. Il quale (conseguenza dell'esser diventati veri feudi le sedi ecclesiastiche) piú che mai s'immischiava nelle loro elezioni; e in quella principalmente della Sedia romana, considerata oramai dagli imperatori quasi sommo di que' feudi, mentre quella Sedia pretendeva talora, esser l'imperio quasi feudo della Chiesa romana. A comporre tutto ciò scese dunque Arrigo III nel 1046. Passò a Milano, venne a Roma. Dove durava, od anzi era giunta al suo estremo, la corruzione sotto Benedetto IX, terzo di que' papi della casa dei conti di Tusculo, discendenti di Teodora, Marozia ed Alberico: nella quale, se il papato fosse ufficio soggetto alle semplici probabilitá umane, esso avrebbe potuto farsi cosí ereditario. Giovane od anzi adolescente, dissoluto e scellerato, Benedetto non fu sofferto da' romani, che gli contraposero per poco un Silvestro III, poi Gregorio VI, un pio e sant'uomo; dal quale fin d'allora trovasi innalzato nella curia romana quell'Ildebrando, che dominò non essa sola, ma tutta la sua etá quasi sempre d'allora in poi.—Ma, giunto ora Arrigo e convocato un concilio, Gregorio depose il pontificato, e con Ildebrando si ritrasse a Cluny in Francia; e deposti gli altri due, fu eletto Clemente II, un tedesco, a cui succedettero altri poi (giustizia a tutti) tutti buoni. Cosí finí lo scandalo dei papi Tusculani e degli altri corrottissimi, per l'intervenzione imperiale; ondeché non s'oserebbe dir qui il rimedio peggior che il male, se non fosse che quella intervenzione era stata causa essa stessa delle cattive elezioni e della corruzione; e non fu dunque qui se non caso buono di pessima usanza. Ad ogni modo, fattosi incoronar Arrigo, fece la solita punta a Capua e Benevento, e poi per Verona risalí a Germania [1047]. Morí nel medesimo anno Clemente II, dopo aver fatto contro alle elezioni simoniache uno di que' decreti pontificali, che incominciarono la riforma della Chiesa. E risalí poi Benedetto IX il Tusculano; ma fu tra breve ricacciato da Damaso, un secondo tedesco. Il quale pur morto, successe un terzo, Leone IX, eletto in Germania, che passando a Cluny, s'abboccò con Ildebrando, trasselo seco a Roma, dove per consiglio di lui si fece rieleggere canonicamente. E con tal consiglio pontificò poi gloriosamente, e incominciò e proseguí quelle due guerre ecclesiastiche contro alla simonia ed al concubinato, e quella temporale contro ai principi beneventani, che furono poi tre delle opere maggiori d'Ildebrando stesso. E in una di queste guerre [1053] rimase il papa alcun tempo prigione de' normanni. Morto [1054] il quale, andò Ildebrando a Germania, a combinare l'elezione del successore, che fu Vittore II, un quarto tedesco.—L'anno appresso [1055] scese Arrigo III contra Goffredo di Lorena, giá suo nemico colá, e che avendo testé sposata Beatrice vedova di Bonifazio marchese di Toscana, ed avendo un fratello cardinale, era diventato potente in Italia. Arrigo dunque fece prigione o statica Beatrice, sforzò Goffredo ad uscir a Francia, e il cardinale a chiudersi in Montecassino. E risalito egli stesso in Germania, vi morí l'anno appresso 1056.
15. Arrigo IV [1056-1073].—Un tedesco ed acatolico, ma robusto e sincero scrittore di storia italiana, giudica cosí Arrigo IV, e con lui gli altri imperatori e re di casa Ghibellina: «Proprio di quella casa fu il farsi lecito ogni mezzo di potenza. Tuttavia Corrado e i due Arrighi III e V ebbero forte volontá, coraggio e vasto ingegno; Arrigo IV, all'incontro, giunse d'una in altra stravaganza giovanile ad ogni sfrenatezza, all'ultima indifferenza tra mezzi buoni o cattivi. [1]. Succedette anch'egli senza contrasto colá e qua. Ma fanciullo di sei anni, la tutela di lui fu prima di Agnese sua madre, poi di Annone arcivescovo di Colonia, uno zelante anzi austero prelato, poi di Adelberto di Brema tutto diverso, i quali ei prese in ira a vicenda, e con essi forse ogni uom di chiesa. D'anni quindici [1065], fu dichiarato maggiorenne; d'anni diciassette disposato a Berta figliuola di Odone di Savoia e d'Adelaide di Torino; erede quello della potenza nuova de' conti di Savoia, questa dell'antica dei conti e marchesi di Torino; padre e madre amendue di que' principi alpigiani, che si vedono giá grandi fin d'allora in Italia, che veggiam ora riunire con felici auspizi tutta l'antica Liguria, tutta l'Italia occidentale. Ma il giovane corrottissimo disprezzò, e, se si creda a' contemporanei, vituperò infamemente la sposa fin dal 1069. Tentò ripudiarla, ma ne fu impedito, tra per la paura di Rodolfo duca di Svevia che aveva a moglie un'altra Savoiarda sorella della misera regina, e l'intervenzione di Pier Damiano, un altro zelante e santo prelato lá mandato dal papa, e per la dolce e sofferente virtú della giovinetta essa stessa. Ma si rivolse poi colá in Germania contro l'inviso cognato di Svevia, e contro a' sassoni ribellati per suo mal governo, e contra un duca di Baviera pur ribellato o temuto ribellarsi; e spogliò questo del ducato, e diedelo a Guelfo, congiunto in qualunque modo dello spogliato, italiano ad ogni modo e di casa d'Este; il quale fu cosí stipite di quegli Estensi tedeschi che tennero poi e tengono tanti troni settentrionali, di quegli Estensi o Guelfi che, cosí innalzati dalla casa Ghibellina, furono poi gli emuli di essa, e diedero il nome a tutti gli avversari di essa.—L'Italia intanto, mentre tutto ciò si travagliava in Germania, rimaneva, non tranquilla, ma abbandonata a sé, a' propri destini; e vi si avanzava in Roma, in Toscana, in Milano, che furono i tre fomiti delle crescenti libertá italiane; il primo delle ecclestiastiche, il secondo delle feudali, il terzo delle cittadine. Morto Vittore II nel 1057, fu eletto, e prese nome di Stefano IX, quel fratello che dicemmo di Goffredo di Lorena, il marito di Matilde, restituito allor duca di Toscana; e fu un altro buono di que' papi tedeschi, e piú potente che gli altri. Perciocché questi duchi toscani erano sempre venuti crescendo in tutto il presente secolo, e di parecchi di essi si narrano pompe, sfarzi, ricchezze meravigliose, e che parrebbero incredibili in quell'etá; se non fosse che, signori supremi essi di Pisa, ma mezzo libera questa, e operosa oltre ogni altra cittá contemporanea in traffichi e navigazioni, fu naturale che se ne accrescessero in qualunque modo le ricchezze di que' Bonifazi antenati di Beatrice e Matilde. E dicesi anzi che Stefano IX disegnasse far il fratello re d'Italia indipendente, e giá ne trattasse a Costantinopoli; ma morí pur troppo, egli il papa, l'anno appresso 1058.—Succedette Nicolò II, italiano, vescovo di Firenze, eletto dunque, come pare, per la medesima grande influenza toscana. Ed egli pure avanzò l'opera della riforma dei simoniaci e dei concubinari, e quella insieme delle libertá ecclesiastiche. Egli fu che in concilio diede a' paroci, o «preti cardinali», della cittá di Roma la elezione de' papi, i quali cosí non rimasero piú se non da acclamarsi o confermarsi dal rimanente clero o popolo romano e poi dagli imperatori. E trattando e guerreggiando intorno a Roma ed in Puglia, accrebbe la Sede; e die' la mano in Lombardia a' vescovi di Vercelli, di Piacenza ed altri zelanti o riformatori, ed ai popoli sollevatisi via via per la riforma, contro ai vescovi di Milano, di Pavia, d'Asti ed altri che vi resistevano, od erano di fatto o nell'opinione simoniaci. Tanto cresceva e poteva giá quest'opinione popolare, la quale se non si trova cosí chiaramente espressa nella storia de' secoli oscuri come degli splendidi, in quelli pure si manifesta a chi non isdegni cercarla. Il piú ardente poi di questi secolari aiutanti alla riforma fu Erlembaldo di Milano; il quale dicesi vi fosse acceso per una offesa fatta all'onor di sua donna da uno degli ecclesiastici corrotti. Venuto a Roma per aiuti, vi trovò morto giá papa Nicolò II [1061], e succedutogli Anselmo da Bagio uno degli zelanti milanesi, giá vescovo di Lucca, or papa Alessandro II. Il quale, tra per queste aderenze di Lombardia e Toscana, e il men breve pontificato, e la propria fortezza, e i conforti d'Ildebrando sempre piú grande nella curia romana, fu immediato e degnissimo predecessore, nel tempo di Gregorio VII, nel nome di Alessandro III, del piú grande e del piú italiano fra' papi. Eletto nella nuova e piú libera forma, e sia che trascurasse o no la conferma imperiale, non fu riconosciuto dalla parte tedesca, che gli oppose Cadaloo vescovo di Parma. Quindi a complicarsi in tutta Italia le parti dei due, e dell'imperio e delle cittá, e degli zelanti e de' nemici della riforma, e d'italiani e tedeschi, e duchi di Toscana e Normanni di Puglia, fino al 1066, che per opera di Annone di Colonia e d'Ildebrando fu deposto Cadaloo. Crebbe piú che mai la parte papalina poco appresso [1069] per le nozze di Matilde, la giovane e ricca figlia di Beatrice, con Goffredo Lorenese, figlio del marito di questa e successore di lui nel ducato di Toscana. Se non che, deforme e dappoco costui, non par che fossero felici e non furono feconde tali nozze; e Goffredo fu piú sovente a sua Lorena che non in Italia, dove rimase e poté poi molto Matilde. Finalmente, se non prima, certo al principio del 1073, papa Alessandro si rivolse a comporre le cose di Germania peggio che mai sconvolte. Venuti di lá lo zelante Annone con due altri arcivescovi tedeschi, ei li ricevette a Lucca, presso alle sue alleate, le due grandi contesse; e forte di tal aiuto, e di quello dell'opinione italiana, e del grande accrescimento preso da venticinque anni dalla potenza papale, rinnovò ed oltrepassò l'esempio de' papi giudici de' re Carolingi. Rimandando a Germania gli arcivescovi tedeschi, citò a render conto degli atti simoniaci e degli altri misfatti Arrigo imperatore eletto, re di Germania e d'Italia. Cosí s'aprí la gran contesa dell'Imperio e della Chiesa. E morendo poco dopo [1073] papa Alessandro II, lasciolla in retaggio a un successore degno, anzi maggiore, di lui.
[1] LEO, I, 406, ediz. tedesca.]
16. Coltura.—Nei tre secoli che corsero dal 774 a questo 1073, la coltura cristiana universale, imbarbarita sotto ai barbari, ebbe un primo risorgimento incontrastabile da Carlomagno al principio del secolo nono; si fermò senza progredire, ed anzi di nuovo retrocedette sotto gli ultimi Carolingi, e tra le contese dei re, regoli e marchesi lor successori, dalla metá del secolo nono a tutto il decimo: e ripigliò poi un tal qual moto progressivo nella prima metá, uno certo e giá rapido in questa seconda metá del secolo undecimo a cui siam giunti.—L'Italia ebbe poca parte al risorgimento di Carlomagno; tutto vi fu opera personale di lui e di quell'Alcuino sassone-inglese [726-804], ch'egli aveva chiamato e tenuto sovente in corte, e tanto che il vedemmo consigliere forse alla restaurazione dell'imperio. Tra i due, istituirono nel palazzo una vera academia; i membri della quale, non esclusi il vecchio e vittorioso imperatore che non sapeva scrivere, e i suoi figliuoli e forse alcuni di quelli che noi chiamiamo i «paladini», e non dovevano esser guari piú colti, tutti quanti preser nomi academici di Davide, Platone od altri; precursori, piú compatibili allora, di nostre ragazzate del Seicento e Settecento. Non saprei dire se l'Italia fornisse di questi academici primitivi. Il piú che si trovi preso da Carlomagno in Italia fu la musica corale, il canto fermo romano; di che istituí scuole in Francia, e in che, dicono, facessesi colá poco progresso. Né so s'io mi rida, o s'io abbia a dar vanto all'Italia di questo antichissimo primato della musica, il quale solo or ci resta. Direi, che se non fosse solo, sarebbe da gloriarcene certamente; ma che, finché è solo, piú mi accuora il difetto degli altri, che non mi rallegra la perseveranza di questo; e conchiuderei doverci pur esser cara, e poter anche esserci utile la nostra musica, se da semplice trastullo o da molle consolazione ch'ella è a' nostri mali, la sapesse alcuno sollevare a' virili e virtuosi incitamenti. La musica, certo rozzissima, de' greci antichi fu pur da essi tenuta per mezzo politico non dispregevole a conformare gli animi loro virili; perché non sarebbe pur tale la musica tanto progredita? Ad ogni modo, un gran progresso di essa fecesi in Italia, verso il principio del secolo undecimo, per opera di Guido d'Arezzo monaco; il quale inventò, non saprei ben dire, e credo si disputi, se la divisione delle sette note dell'ottava, o la scrittura di esse che serví d'allora in poi, o se solamente i loro nomi.—Del resto, poco o nulla produsse l'Italia nei secoli nono e decimo; e non è se non appunto tra tal mancanza, che restano degni di essere accennati Agnello, Anastasio bibliotecario ed Erchemperto, compilatori delle vite degli arcivescovi di Ravenna, de' papi, e de' principi beneventani; Liutprando, storico di que' brutti tempi de' marchesi italiani in cui operò; e i due anonimi salernitano e beneventano, continuatori di Erchemperto. I cronachisti, per poveri che sieno, hanno sugli altri cattivi scrittori questo vantaggio, di rimanere preziosi per li fatti serbati. Al principio del secolo undecimo poi, risplende anche in Italia, dove fu monaco in Bobbio, e poi papa buono fra molti cattivi, quel Gerberto francese, da cui alcuni contano il risorgimento delle colture, piú o meno progredite sempre d'allora in poi; e il quale dicono le prendesse dagli arabi di Spagna, a cui noi dovremmo dunque originariamente quel risorgimento. Ma mi pare grande illusione, gran pregiudizio questo dell'origine arabica della coltura di Gerberto; la quale in gran parte fu teologica cristiana, e quanto alla parte matematica ed astronomica ed astrologica, io non so se fosse cosí gran cosa da aver prodotto frutto di conto allora o poi. Uno scrittor modernissimo attribuisce bensí a Gerberto l'introduzione delle cifre decimali dette «arabiche», attribuita giá a Leonardo Fibonacci; ma appunto il medesimo scrittore (Chasles) nega che fosse invenzione degli arabi. Il fatto sta, che questo secondo e vero risorgimento, detto «del mille», non fu se non del fine di quel secolo undecimo; e fu tutto ecclesiastico, di ecclesiastici scrittori e d'ecclesiastica coltura; non fu se non come un episodio, una parte, una conseguenza del gran risorgimento ecclesiastico che vedemmo incominciare sotto i papi tedeschi, ed ingrandirsi giá sotto a parecchi italiani, spinti a ciò probabilissimamente da quel grande intelletto, e massime gran cuore, grand'animo d'Ildebrando, che lo doveva compiere poi. E il fatto sta, che la parte letteraria di tal risorgimento fu quasi tutta italiana. I nomi di san Pier Damiano [988-1072], Lanfranco [1005-1089], sant'Anselmo di Lucca, oltre parecchi altri, e sopra tutti sant'Anselmo d'Aosta [1033-1109], che fu per due secoli, fino a san Tomaso, il piú gran teologo e filosofo d'Italia e della cristianitá, pongono fuor di dubbio questo antichissimo primato della coltura italiana; e confermano, del resto, ciò che sará forse giá stato osservato dagli attenti leggitori; che le grandi opere di Gregorio VII non furono di lui solamente, ma di parecchi insieme, di tutto il secolo di lui; che Gregorio VII, come tutti gli altri variamente grandi, non fu grande solitario ma accompagnato; il piú grande fra uno stuolo di grandi; un grandissimo che non disdegna né invidia gli altri, ma se n'aiuta. Del rimanente, e tutti questi, ed altri non nominati, ed Ildebrando stesso, e tutto il risorgimento vennero senza dubbio dalle numerose riforme di monaci fattesi in questo secolo, da' monasteri. Ogni cosa ha il tempo suo, e non è cecitá piú nociva ad ogni retta intelligenza della storia, che non saper veder la grandezza antica delle cose impicciolite poi.—Finalmente, fu altra parte del medesimo risorgimento ecclesiastico, il risorgimento di quella che è sempre primogenita fra le arti del disegno, dell'architettura. Nei secoli stessi piú barbari, i papi edificarono per vero dire, ed ornarono chiese in Roma; ma barbaramente allora. All'incontro nel secolo decimo i veneziani incominciarono San Marco, e fu certamente grand'opera, principio di risorgimento. Tuttavia fu ancora architettura bizantina, greca, non nostra, e d'artisti probabilmente non nostri; come, del resto, quel poco che avemmo allora dell'altre due arti. Ma è monumento d'arte giá diversa, e che perciò può incominciare a chiamarsi «italiana», il duomo di Pisa, incominciato da Buschetto, italiano, nel 1016, finito nel 1092, edificato in gran parte di ruderi antichi, e in istile che non si può piú dir né romano decaduto, né longobardo, né greco, né arabo, ma quasi eclectico e giá originale. Perciocché questo fu fin da principio, nell'arti, come poi nelle lettere, il carattere dell'originalitá italiana; che ella risultò appunto dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che pareva bello ad ogni volta, senza esclusioni né impegni né quasi scuola, senza insomma quelle grettezze di nazionalitá che si vanno ora predicando. Queste non si vorrebber porre nemmen nella politica, dove son piú dannose; ma caccinsi almeno dalle lettere, o almen almeno dall'arti, che sono universali di natura loro.—Ad ogni modo e in due parole, furono notevolissimi due risorgimenti di coltura italiana nell'etá che or lasciamo; quelli della teologia e dell'architettura; ed amendue evidentemente ecclesiastici.
(anni 1073-1492).
1. Gregorio VII e l'etá seguente, in generale.—Gli uomini veramente grandi, Camillo, Cesare, Carlomagno, Gregorio VII, hanno il privilegio di dar principio a nuove etá. È naturale: essi non furono cosí grandi, se non perché sorgendo i loro grandi animi in mezzo alla piú grande delle umane occasioni, quando le generazioni, stanche di lor cattive condizioni, hanno bisogno e desiderio di mutarle, essi seppero porsi a capo di tale desiderio, lo secondarono, lo guidarono, lo effettuarono. Gli animi nati grandi ma senza occasioni, gli animi nati grandi ma rivoltisi contro alle occasioni, non fanno frutto d'utilitá né di gloria; sono simili a que' semi sovrabbondantemente sparsi anche nella creazione materiale, affinché ne frutti dei mille uno, e gli altri manifestino l'oltrepotenza del Creatore.—La grande occasione in che sorse Gregorio VII, noi, se non ci siamo ingannati, l'abbiamo giá dichiarata via via. Da presso a tre secoli pativano i popoli, pativano e s'erano corrotti gli ecclesiastici universalmente, piú quelli d'Italia, piú di tutti quelli di Roma, per il mal inventato imperio, per il mal perfezionatosi sistema feodale; popoli e chiese, e chiesa romana principalmente, avevano desiderio, necessitá di uscir di tali patimenti e corruzioni, di liberarsi e restaurarsi. Quando uno de' primi papi buoni che risorsero, Gregorio VI, ebbe innalzato nella curia romana Ildebrando, da quel dí [1044-1046] tutto, incominciando da quello stesso papa dubbiosamente eletto, tutto si riforma, si restaura, si migliora colá e da colá; elezioni e regole di elezioni dei papi, elezioni dei vescovi, costumi ecclesiastici in generale. E per trent'anni poi proseguesi l'opera, senza dar un passo indietro; ondeché tutti gli storici videro qui un'impulsione, un'opera personale, quella d'Ildebrando presente e potente.—Salito ora esso stesso Ildebrando al papato [1073], qual fu l'opera di lui? Diciamolo, come si conviene alla nostra brevitá, ad un tratto: fu né piú né meno che continuazione dell'opera precedente, della restaurazione della Chiesa in generale, della chiesa romana in particolare. La quale restaurazione poi comprendeva: 1^o l'abolizione del concubinato degli ecclesiastici, il rinnovamento e stabilimento definitivo di lor celibato; 2^o l'abolizione delle elezioni simoniache feodali; 3^o la liberazione soprattutto della chiesa romana da quella condizione di feudo imperiale, che era pretesa dalla corte germanica; 4^o quindi, di necessitá, la restaurazione della chiesa romana, nella pretesa contraria, ma antica, ma originaria, ma inevitabile dal dí del Natale 799, d'incoronare e proclamare, e quindi confermare e perciò giudicare l'imperatore. Pretesa esorbitante, sia pure; ma a chi la colpa? A Carlomagno che aveva cosí fondato l'imperio, all'imperio cosí fondato; 5^o finalmente, quella che altri chiama perfezione e noi chiamiamo confusione, caos feodale, aveva da per tutto sottoposti molti feudi laici a questa o quella chiesa vescovile od abbazia, e n'aveva sottoposti tanto piú alla chiesa somma romana: parecchi ducati longobardi e normanni a mezzodí d'Italia, Sardegna, Corsica, alcuni regni spagnuoli, e via via. E fu quindi anche opera naturale di Gregorio VII rivendicar tutte queste pretese. Le quali dicansi pur di nuovo cattive da' filosofi o politici, noi contradiremo loro meno che mai. Ma che gli storici e biografi di Gregorio VII, non attendendo a niun fatto precedente, gli attribuiscano un progetto, un'idea, un'invenzione di non so qual monarchia universale, che sarebbe stata tutta contraria alle idee, alle possibilitá di questa etá, la quale giá aveva la monarchia universale dell'imperio; questa mi pare una delle piú antistoriche fra le molte antistoriche spiegazioni che si dánno della storia. Gregorio VII non fece questa, non fece nessuna invenzione nuova; non fece, tutt'al piú, se non il disegno di restaurar la Chiesa in tutti i diritti suoi allora esistenti; e siffatto disegno era in tutto legittimo, e in molte parti utile, grande, e conforme ai bisogni, ai desidèri, di quell'etá; era una reazione naturalissima. Eccedette egli ne' mezzi? Siam per vederlo e per dirlo schiettamente, come il vedremo via via.—Ma fin di qua dobbiamo far osservare a' nostri leggitori italiani, che dal proseguimento di questo disegno di Gregorio VII, dall'abbattimento ch'ei procacciò cosí alla potenza imperiale, sorse indubitabilmente e finalmente (senza che forse ei vi mirasse), sorse, lui vivente o pochissimi anni appresso, il compimento della costituzione de' comuni italiani, il loro governo consolare. E perciò qui cominciamo l'etá di questi comuni. Della quale, copiosissima d'eventi, ci sará piú che mai necessario distinguere le suddivisioni; e ci pare poterle fare molto naturalmente, di secolo in secolo, da quest'ultimo quarto dell'undecimo, all'ultimo quarto via via de' quattro successivi.
2. Pontificato di Gregorio VII [1073-1085].—Gregorio VII era vecchio d'intorno a sessant'anni, quando, appena sepolto il predecessore, ei fu (suo malgrado, dicesi) acclamato papa, senz'altra elezione, dal clero e dal popolo romano. Incominciò con grandissima moderazione verso Arrigo; sottoposesi, secondo il costume, all'approvazione di lui, non die' séguito per allora alla citazione fatta dal predecessore; si proferse mediatore tra esso il re e i principi e popoli tedeschi sollevati; e andato a Benevento e a Capua, vi ricevette il giuramento da Landolfo ultimo de' principi longobardi di Benevento, e da Riccardo uno di que' principi normanni che andavan crescendo [1073].—Nel second'anno [1074] di suo pontificato adunò un gran concilio; e cosí fece quasi ogni anno poi; onde vedesi essere lui stato uno di que' principi, che, volendo far molto e contro a molti, sentono aver bisogno pur di molti, e non temono né avversari né amici: i concili eran allora ai papi ciò che allora ed ora le assemblee nazionali ai principi secolari, impedimento ai mediocri, nuova forza agli operosi ed arditi. E cosí, fin da quel primo concilio, Gregorio depose i sacerdoti concubinari, impose l'obbligazione del celibato a chiunque s'ordinasse, anatemizzò i simoniaci.—Poi in nuovo concilio [1075] proibí piú esplicitamente le investiture ecclesiastiche feodali, quelle specialmente date col pastorale e l'anello (che erano segni non feodali ma ecclesiastici) da re o signori secolari a vescovi od abati. E questi decreti sollevarono fin d'allora in tutta la cristianitá numerosissimi avversari a Gregorio: gli ecclesiastici concubinari, i simoniaci, e i signori che aveano date le investiture, cosí dichiarate simoniache. Da qualunque de' quali fosse mosso Cencio o Crescenzio un potente di Roma, rapí il papa dall'altare la notte di Natale in Santa Maria maggiore, e il chiuse in una torre sua. Ma prima di giorno fu liberato Gregorio a furia di popolo. Tutte queste non eran che tempeste giá provate da altri; e ben altre s'ammassavano contro a quel gran capo di Gregorio VII. I nemici delle riforme son sempre molti; perché le riforme non si fanno se non quando son grandi abusi, e i grandi abusi han sempre grandi e molti amici, quasi tutti coloro che ne approfittano. L'anno appresso [1076], vittorioso giá Arrigo in Germania convoca in Vormazia una dieta di signori feodali e di ecclesiastici inquietati in loro sedi e lor vizi; ed ivi annullano l'elezione giá riconosciuta di Gregorio VII, e lo scomunicano. Chiaro è; l'iniziativa degli eccessi venne qui dall'imperatore, e dagli amici degli abusi. Scende un messo imperiale a portar tale sfida in concilio a Roma; costui è poco men che ucciso tra l'ira che ne sorge; il papa lo salva; e lascia poi o fa scomunicare Arrigo, che fu molto naturale e secondo il costume antico; e poi sciogliere i sudditi di lor giuramento di fedeltá, che Muratori dice cosa nuova «e creduta giusta in quella congiuntura». Né mi porrò io a troncar in una riga tali questioni su cui si sono scritte biblioteche, né a risollevar questioni felicemente cadute; dico sí, che in quella etá, e secondo l'istituzione di Carlomagno, io veggo molto piú diritto nel papa di depor l'imperatore, che non nell'imperatore (del resto non incoronato ed assalitore) di deporre il papa.—Ad ogni modo, qui si vede per chi stava l'opinione universale. Il papa, che s'era concitati tanti avversari, non ne fu scosso; il re vittorioso fu abbandonato da quasi tutti. Adunasi [1077] una dieta a Triburia, si tratta di eleggere un nuovo re, si rimanda la decisione a una nuova dieta indicata ad Augsburg, e vi s'invita il papa. Questi vi s'avvia con Matilde la gran contessa; giugne a Vercelli; e udito che scende Arrigo stesso, indietreggiano, si racchiudono in Canossa, antico e giá storico castello che era or della contessa. Intanto scende Arrigo con poca comitiva, ma con Berta, la moglie giá disprezzata ai dolci dí dopo lo sposalizio, or protettrice di lui al dí della sventura. S'abbocca oltre Alpi con Adelaide ed Amedeo, la torinese ed il savoiardo madre e fratello di lei; e per averne passaggio concede loro nuovi comitati, accrescimento a lor potenza giá grande. Quindi varcano il Moncenisio; e per Torino e Piacenza arrivano tutti insieme a Canossa. Ivi stava coll'altra gran contessa Gregorio, ricevendo, penitenziando, assolvendo scomunicati. Arrigo implora, fa implorar il pontefice. Spoglio degli abiti imperiali è introdotto oltre una prima, oltre una seconda cinta; rimane tra questa e la terza tre dí; digiunando, tremando, avviliendosi. Apreglisi finalmente l'ultima porta, s'inginocchia tra que' grandi e quelle donne, è assolto. Poi Gregorio pontifica, si comunica, ed offre l'ostia ad Arrigo, che non osa e ricusa. Brutta, eccessiva scena senza dubbio in tutto, per tutti due, al re che s'avvilí, al pontefice che l'avvilí; e di che pagarono il fio tutti e due. Ma gli eccessi son quelli appunto, che fanno spiccar piú chiara la natura d'ogni uomo; e qui Gregorio avviliendo l'avversario, e pur non scemandolo, anzi restaurandolo coll'assoluzione, si mostrò senza dubbio tutt'altro che artifizioso o profondo politico; non altro che ciò che fu sempre, un teologo o piuttosto un canonista irremovibile ne' diritti che crede suoi; una coscienza ferrea, un'anima che fa ciò che crede bene, senza pensare un momento a ciò che avverrá.—Uscito Arrigo di colá, lombardi e tedeschi lo accolgono dapprima con dispregio, poi con pietá, poi con interesse, e il fanno risollevar contro al papa. Ma s'adunano gli avversari d'Arrigo in Germania, e fan re Rodolfo di Svevia cognato di lui. Risale Arrigo, e si tratta e guerreggia poi tra' due [1078 e 1079], e il papa non approva né disapprova il nuovo re. Di nuovo è chiaro qui il cattivissimo politico, l'uomo che si modera venendo a fatti gravi e pensati, il teologo fermo quando (bene o male) vede chiaro il diritto suo canonico, ma titubante negli affari umani.—Finalmente [1080] ei si decide e dichiara per Rodolfo; ed Arrigo aduna, all'incontro, i suoi a Brixen, e fa eleggere antipapa Ghiberto arcivescovo di Ravenna, uno de' piú scomunicati. Allora, in situazione giá estrema, diventa, come sogliono i veri grandi, grandissimo Gregorio VII. Fa pace con Roberto Guiscardo, il piú potente de' duchi normanni che fosse stato per anco, vero fondatore di quella monarchia; e se ne fa un alleato, che fu in breve quasi unico. Perciocché, al medesimo dí 15 ottobre le schiere di Matilde toccano nel Mantovano una gran rotta dalle imperiali, ed è mortalmente ferito re Rodolfo in un'altra battaglia in Germania. (Il ducato di Svevia fu allora dato da Arrigo agli Hohenstaufen, che furono poi i successori della casa, i continuatori dell'opera de' Ghibellini).—Allora [1081] fa sua seconda e ben diversa discesa Arrigo, or vittorioso ed a capo d'un grand'esercito. Pone assedio a Firenze, ma n'è respinto; una prima gloria di quella cittá, che non diremo ancor guelfa, ma giá papalina ed anti-imperiale; una prima gloria mal avvertita dagli storici fiorentini, piú attenti a' pettegolezzi interni o vicini, che non alle opere veramente nazionali di lei. Arrigo poi venne con Ghiberto a campo dinanzi a Roma; ma ivi pure, respinto dalla malaria, levò l'assedio, e tornò a Toscana e a Ravenna, dove poi svernò, mentre in Germania si eleggeva contro a lui un nuovo re, Ermanno di Lorena.—Alla primavera del 1082, ritorna Arrigo dinanzi a Roma; e di nuovo se ne ritrae alla stagione della malaria, e risale a Lombardia. Al terzo anno [1083], pone e leva un terzo assedio. Finalmente al quarto [1084], ei tratta col popolo romano stanco, o, dicono, compro da lui. Gli sono aperte le porte; il perdurante pontefice co' grandi che stavan per lui si racchiude in castel Sant'Angelo; e, intronizzato l'antipapa Ghiberto, da costui poscia è incoronato l'imperatore. Allora finalmente a muoversi il tardo alleato, Roberto Guiscardo, che erasi occupato fin allora nell'ingrandirsi in Puglia, e cacciarne i greci e perseguirli in lor terre; e che, per volersi far loro imperatore, dicono trascurasse pur troppo l'offerta del regno d'Italia fattagli da Gregorio. Quante belle occasioni perdute! Ad ogni modo, accorrendo ora Guiscardo con un grande esercito e suo gran nome, non fu aspettato dall'imperator dappoco, che risalí quindi in Germania, né dall'antipapa; ondeché egli entrò facilmente in Roma con sue bande, fra cui erano saracini, e si pose a ruba ed a sacco ed a fuoco la cittá; e si ricominciò, sollevatisi i romani, tre dí appresso. Cosí funestamente si trovò allora liberato il pontefice, e restituito in Roma mezzo distrutta. Quindi, fosse dolore di tal rovina, o timor degli instabili e compri romani, ei lasciolla con Guiscardo o poco dopo, e si ridusse con esso a Salerno. E mentre Matilde, raccolto un esercito contro all'imperatore, gli dava una sconfitta nel Modenese, e il Guiscardo tornava a sue imprese contro a' greci, lo sventurato pontefice, forse aspettando miglior ventura, forse vinto, nell'anima no, ma nell'infermo corpo (gli uomini non son di ferro), si rimase tutto il resto di quell'anno e il principio del seguente 1085 a quel rifugio. Finché, peggiorato e richiesto di levar le numerose scomuniche da lui pronunziate, dicesi le levasse tutte, tranne quelle di Arrigo, dell'antipapa e de' principali fautori di questo; ed interrogato di chi potesse essere, tra tanti pericoli, successor suo, dicesi ne nominasse tre, de' quali due furono papi poi; e che esclamando: «Dilexi iustitiam, odivi iniquitatem, propterea morior in exilio», spirasse l'anima invitta. Niuno, ch'io sappia, fece il ritratto di lui cosí esattamente, com'egli in queste poche parole, che furono il grido ultimo di sua rettissima coscienza. Ad ogni modo, cosí cacciato di sua sedia egli che avea rimossi tanti vescovi dalle loro, cacciato da' concittadini egli che avea sollevati tanti popoli, lasciando un antipapa nella Chiesa egli che avea voluto restaurare ed esaltare il papato, lasciando vittorioso l'imperatore da lui giá deposto e raumiliato, lasciando insomma fallite in apparenza tutte le imprese sue, morí non iscoraggiato il grand'uomo. E tutta quella turba di anime volgari devote della ventura, che attestano sempre la Providenza contro ad ogni malavventurato, videro forse allora il giudicio di Dio pronunciato contro alle imprese di Gregorio VII.—Ma passati pochi anni, si trovan compiute tutte le imprese incominciate, ispirate da lui; stabilito il celibato ecclesiastico; tolte di mezzo la simonia, le investiture feodali delle chiese; tralasciata la stessa conferma imperiale del sommo pontefice; due de' tre designati da lui fatti papi; la potenza temporale accresciuta dalle donazioni di Matilde, giá fatte fin dai dí di Canossa; le crociate, a cui fin dal primo anno egli aveva invano confortato Arrigo, effettuate; la potenza imperiale abbattuta cosí, che non si rialzò mai piú ad assoluta in Italia; e quindi (ciò che importa qui particolarmente) i comuni costituiti; e il nome di lui bestemmiato dai contemporanei, santificato poi dalla Chiesa; ribestemmiato ne' nostri secoli da tutti i nemici della Chiesa, da molti scrupolosi adoratori delle potenze temporali, rionorato oggi nella storia da alcuni protestanti non illiberali. Cosí s'avanza il mondo cristiano; a forza di uomini di gran fede che soffrono e muoiono per avanzarlo; mentre ridono e trionfano i piccoli, credendo averlo fermato o sviato.—E cosí gioveranno un dí senza dubbio le morti vostre, o Carlo Alberto, o cari nostri caduti.
3. Ultimi anni d'Arrigo IV [1085-1106].—Pochi mesi dopo Gregorio VII, morí il suo aiutatore Roberto Guiscardo, e ne rimasero tanto piú forti Arrigo e Ghiberto antipapa. Né per un anno osò nessuno succedere a quel terribil Gregorio, che il dolce san Pier Damiano avea chiamato «santo demonio». Finalmente fu eletto quasi a forza Vittore III, uno dei designati dal predecessore; e Roma fu a vicenda or di lui or dell'antipapa.—E morto Vittore [1087], succedette Urbano II, francese, un altro dei designati [1088], un grand'uomo esso pure. Rimase parecchi anni ridotto a pochi partigiani oltre a Matilde, che nel 1098 sposò Guelfo d'Este, figlio del duca di Baviera. Nel 1090 poi, Arrigo, giá vincitore in Germania e liberato di Ermanno che aveva rinunciato alla corona usurpata, ridiscese per la terza volta in Italia, non migliorato dalle sventure. Guerreggiò contro ad una donna quasi sola, Matilde: presele Mantova, Reggio, Parma e Piacenza, ma fu respinto da Canossa, e risalí a Germania nel 1092. Allora a risorgere la parte papalina in Lombardia; Milano, Lodi, Cremona, Piacenza s'allearono per venti anni contro a' tedeschi, e fu un primo esempio di leghe lombarde, e principio allora di gran novitá. Ché, rifuggito a que' collegati Corrado, figliuolo primogenito e ribelle ad Arrigo, fu [1093] incoronato a Monza dall'arcivescovo di Milano. Scese allora [1094] per la quarta volta Arrigo, ma non fece frutto; anzi, la parte papalina, giá forte, si rinforzò per il matrimonio di Corrado colla figliuola di Ruggeri Normanno conte di Sicilia [1095]; ed Urbano tenne in quell'anno due grandi concili, uno a Piacenza, dove comparí Adelaide di Russia, seconda moglie d'Arrigo IV pur maltrattata da lui; e dove si deliberò la prima e maggior crociata, bandita poi al concilio che seguí in Clermont in Francia. Cosí fu effettuato uno dei piú grandi, e che parean piú ineseguibili, pensieri di Gregorio VII, dieci anni soli dopo la morte di lui. Una parte de' crociati, passando per Italia, cacciarono di Roma l'antipapa, ed imbarcandosi in Puglia andarono a raggiungere in Asia i rimanenti; i quali tutti insieme presero poi Gerusalemme, e vi fondarono un regno latino [1099]. Intanto, tornati Arrigo a Germania [1097] e papa Urbano a Italia e a Roma [1098], morí questi glorioso l'anno medesimo della presa di Gerusalemme.—Succedettegli (quasi sforzato esso pure) Pasquale II; il quale, morto Ghiberto antipapa e presi dai normanni due antipapi fattigli succedere, rimase solo. Morí poi Corrado, il figliuol ribelle, in Firenze [1101]. E cosí, rimanendo Arrigo IV liberato a un tempo e degli incomodi amici, gli antipapi ch'egli era impegnato a sostenere, e di suo principal avversario, il proprio figliuolo, ma succedendo in Germania una nuova ribellione di Arrigo suo secondo figliuolo diventato suo erede [1104]; egli Arrigo IV non iscese piú, non si die' piú gran cura delle cose d'Italia, e lá morí, deposto in dieta, e prigione del figlio giá regnante [1106]. Compatito per queste ribellioni domestiche, parve ad alcuni finir men male che non incominciò; ma fu pure in tutto pessimo degl'imperatori e re Ghibellini, pessimo forse de' tedeschi! Nato operoso, e capace dunque di virtú, ma infelicemente educato, fu di quelli che non solo perdon l'opera del resistere al secolo loro, ma vi si inaspriscono e impiccoliscono e viziano: fu non solamente l'avversario, ma tutto l'opposto di Gregorio VII. Restaurator che avea voluto essere della potenza imperiale sui papi, lasciò questi liberi per sempre della antica conferma imperiale; difensore della feodalitá laicale, oppugnator della potenza ecclesiastica, lasciò quella poco men che distrutta in Italia, questa poco men che confermata dappertutto; e sotto l'ombra di lei costituito quel governo de' consoli, che dicemmo giá solo mancare alla costituzione dei comuni italiani.
4. La prima costituzione comunale, i consoli [1100 circa].—Qui è il luogo perciò di ricordare tutte insieme le vicende che accennammo via via delle libertá cittadine italiane: la penisola nostra, come la greca, fin dalle origini divisa in confederazioni di cittá liberissime; serbati poi sotto a' romani i governi cittadini, variamente, secondo che le cittá eran latine, italiche, municipi, colonie o sozie; e la guerra sociale od italica fatta da parecchie di esse per avere pieni i diritti romani, e non averli avuti tutte se non sotto Augusto, quando giá non eran essi piú nulla; poi, sotto Caracalla, estesi a tutte le cittá dell'imperio que' diritti o piuttosto quelle forme di governo cittadino; poi perdute queste piú o meno sotto ai graf e conti goti, e del tutto sotto ai duchi ed altri uffiziali longobardi, e poco meno sotto ai duchi greci contemporanei. Ma, fin dal principio del secolo ottavo vedemmo un gran papa, Gregorio II, porsi a capo di Roma e d'altre cittá suddite greche, e resistere con esse alla tirannia religiosa dello scismatico imperatore orientale; e di esse far confederazioni, e con esse guerreggiare e trattare contro a' nemici comuni greci o lombardi: ondeché, se si cerchino i primi esempi di cittá libere moderne, essi si trovano di un quattro secoli piú antichi in Italia che non in niun'altra regione europea; si trovano libere a quel principio del secolo ottavo Roma, Venezia, le cittá della Pentapoli, ed or l'une or l'altre delle greche all'oriente e al mezzodí d'Italia. E di queste libertá del secolo ottavo vedemmo durar parecchie poi, ma variamente; quella di Venezia crescendo, e diventando in breve incontrastata, assoluta, vera indipendenza; quella di Roma dubbiosa, contrastante, contrastata sotto alle potenze nominali dell'imperator greco, del patrizio Carlomagno, degli imperatori carolingi e dei successori, sotto alla potenza piú reale ma pur indeterminata dei papi; quelle delle cittá orientali donate al papa, poco diversamente; e quelle di Napoli, Amalfi ed altre cittá meridionali, or crescendo or ricadendo sotto ai principi longobardi di Benevento, a' saracini ed a' normanni; mentre pur venivansi aggiungendo le libertá crescenti di parecchie cittá toscane e lombarde, suddite franche e tedesche.—Ma tutte queste de' secoli ottavo, nono e decimo erano, se ben s'attenda, cittá libere sí, non tuttavia (nemmen quando gli Ottoni ebbero moltiplicate le esenzioni de' vescovi e delle cittá dalle giurisdizioni comitali) ciò che si chiamò «comune» o «comunio» al primo quarto del secolo undecimo; quando si vennero confondendo in interessi comuni tutte o quasi tutte le condizioni de' cittadini, i valvassori grandi o capitani, i minori o valvassini, gli arimanni o militi, i popolani grassi o borghesi, le gilde od arti maggiori o minori, tutti insomma gli uomini liberi, o come si disse allora semplicemente, gli «uomini» o «vicini» delle cittá. Questo comune, o comunio, noi congetturiamo si facesse primamente in Milano al tempo dell'arcivescovo Ariberto: e certo, se si fece altrove, non dovette farsi né molto prima, né molto discosto; e ad ogni modo nella storia, quale finora si sa, resta a Milano la gloria di tal prioritá.—Ma questo stesso comune non si resse certamente dapprima se non in modi indeterminati e vari; or sotto il vescovo e suo avvocato o visconte, or sotto qualche altro capitano o capopopolo, un Lanzone, un Erlembaldo, secondo le occasioni. E cosí altrove; né fu se non dopo aver provati mezzo secolo all'incirca di tali governi, i quali or si direbbero «provvisori» o «rivoluzionari», che si pensò ad ordinarli, a costituirli. Allora, negli anni che seguono la morte di Gregorio VII, in questi d'intorno al 1100 a cui siam giunti, noi scorgiamo a un tratto, in due o tre decine d'anni, in una generazione tutt'al piú, costituito un nuovo governo uniformemente in moltissime, in quasi tutte le maggiori cittá del regno italico, Lombardia e Toscana; con un magistrato supremo di tre, sei o dodici «consoli», un Consiglio minore o «Credenza», e uno maggiore od adunanza di tutti i cittadini.—Ed ora, quel nome di «consoli» cosí subitamente e universalmente preso, fu egli reminiscenza de' due antichi consoli romani, ovvero de' consoli o consiglieri piú numerosi che si trovano nelle cittá greche a' tempi longobardi o carolingi? A me pare degli uni e degli altri succedutisi, ma chi ne deciderá oramai? Certo è, che questo nome, questo ufficio, questo governo, diedero alle cittá italiane quel compimento di libertá ch'elle ebbero poi, poco piú poco meno, in tutti i lor secoli di libertá; quel compimento pur troppo insufficiente, quella libertá. pur troppo non mai compiuta, che rimase o si rifece soggetta or ai conti, marchesi o duchi antichi, ora ad usurpatori o tiranni, e sempre al signor sommo feodale straniero, l'imperatore; quella libertá che pur troppo bastò loro, ma non fu mai indipendenza.—Altra disputa si fa di questi consoli: se fossero successori, e quasi i medesimi che gli scabini o giudici assessori de' conti antichi, e cosí poi de' vescovi, o lor vogt, avvocati o visconti. Ma posciaché è dubbio se i consoli governanti giudicassero, ed anzi se ne trovano altri diversi e minori, istituiti fin da principio o poco appresso per giudicare, e detti «consoli de placitis», essi i consoli governanti e capitananti mi paiono talora successori de' capitani, o piuttosto i capitani stessi costituiti.—Finalmente, terza disputa si può fare a quale o quali delle cittá italiane abbiasi ad attribuire la gloria di aver prima costituito il governo consolare. Ma tra tante gare cittadine nocive che si sono fatte, non si attese forse sufficientemente a questa innocentissima; ondeché, non avendo luogo a disputarne noi qui, ripeteremo pure ciò che ne accennammo in altri studi; che il nome di «consoli» ci è bensí dato in Pisa fin dall'anno 1017, ma da uno storico posteriore, ondeché ei non è forse se non un nome nuovo dato a' magistrati antichi; che piú autentico forse è il medesimo nome dove si trova nelle Memorie lucchesi; ma che il piú antico documento del nome di «consoli» è forse del 1093, e di un piccolissimo comune, quello di Blandrate vicino a Milano; ondeché è impossibile che i consoli giá non esistessero in Milano. Tanto piú che nel medesimo 1093 noi vedemmo Milano aver fatta lega con altre cittá lombarde, e con Matilde e Corrado, contro l'imperatore e per il papa; ondeché documento e storia si riuniscono qui a dare anche questa prioritá alla nobil Milano; la quale dunque (nello stato presente della scienza storica) ha le due, dei due ultimi e sommi passi fatti alla libertá cittadina, il nome di «comune», e il governo de' consoli.—Del resto, attribuiscasi l'istituzione de' consoli alla necessitá di costituire il governo comunale, in mancanza d'altro governo, quando contesero due vescovi, uno concubinario e l'altro zelante, uno papalino ed uno imperiale in ogni cittá; ovvero alla necessitá di costituirsi Milano ed altre contro allo straniero; sempre la causa di queste due necessitá rimane Gregorio VII, il gran papa, che fu autore insieme della riforma e della libertá ecclesiastica, occasione quella, aiuto questa e spinta alla libertá nostra cittadina.
Aggiugniamo alcune considerazioni a far intendere il nesso, l'origine unica, le due diverse vie della libertá in Italia e in altre regioni d'Europa. La formazione de' comuni intorno al 1100 fu quella che costituí un popolo nelle varie nazioni, che l'aggiunse per ogni dove ai grandi secolari od ecclesiastici, i quali soli sino allora avevano governato. Ma questo fatto primitivo produsse due effetti, due serie di fatti diversi in Italia, e nel resto d'Europa. In Italia, dove il principe era straniero e lontano, odiato e disprezzato, i comuni, appena sorti, sciolsero la monarchia, senza sapere fondare né una né molte repubbliche vere, vere dico di nome e di fatto, ben equilibrate e intieramente indipendenti; e questa confusione, questa monarchia composta di repubblichette, ovvero queste repubblichette componenti una monarchia, questa libertá ancor servile, questa ancor barbara civiltá, dopo aver dati lampi ammirabili, ricaddero in servitú, caddero in corruzioni, finirono negli ozi ne' vizi nelle nullitá del Seicento, del Settecento e dell'Ottocento ancora. All'incontro, altrove, tra l'altre nazioni europee, dov'erano principi nazionali e vicini, e cosí amati o temuti, i comuni e i popoli nuovamente sorti non pensarono mai a scioglier le monarchie, non pensavano ad altro se non anzi ad entrarvi essi, ad ottenervi lor parte di governo; e l'ottennero entrando ne' parlamenti antichi, facendovi uno stato terzo (talora anche un quarto) oltre ai due primi e fin allor soli. Ma questo stato terzo, o dei comuni, o del popolo, non poteva materialmente venire a sedervi intiero in que' parlamenti; fu forza mandarvi e farvi sedere deputati eletti, rappresentanti; e allora, e cosí fu fatta la grande invocazione della «rappresentanza», fu inventato quel governo «rappresentativo»; il quale, a mal grado tante incompiute e tante stolte e tante infelici prove recenti, non è possibile non dire il piú perfetto, il piú civile, il piú progredito, il piú progressivo fra tutti gli inventati o provati mai, il solo conforme alla civiltá presente e futura, il solo destinato a trionfarvi e farla trionfare. Né, per vero dire, fu perfetto nemmeno questo governo fin dalle origini, o progredí con passi costanti a sua perfezione. Anzi brancolò, fu negletto, si perdette quasi intieramente tra le nazioni continentali preoccupate di lor misere ed infeconde gare reciproche. Ma si serbò piú o meno sempre nella isolata e piú felice Britannia, vi resistette alle gare domestiche ed alle religiose, agli assalti dell'assolutismo, agli eccessi repubblicani, alle insidie delle restaurazioni, ai pericoli delle mutazioni dinastiche; e finalmente, dal 1688 in qua, da quella rivoluzione (che si chiama colá la «gloriosa», perché fu l'ultima) si venne per centosettant'anni, a poco a poco, con passi lenti ma continui e meditatissimi, a questa perfezione dove lo veggiamo. E nel frattempo, quasi aggiunta di sua fortuna o ricompensa di sua sapienza interna, s'acquistò il primato del mondo dalla predestinata Britannia. Le altre nazioni non hanno, non possono avere ormai altra via a fortuna o grandezza, se non questa mostrata loro ed agevolata dalla loro preceditrice. Ostano, è vero, alcune difficoltá nell'imitazioni; ma niuna maggiore forse che l'invidia: e le nazioni europee piú o meno infette di questa lue, piú o meno pretendenti a fare cose diverse, proprie, nuove o maggiori, si perdono in istolti tentativi, per capitare, una volta o l'altra, a ciò che avrebbono potuto prendere quasi fatto e senza imitazioni troppo servili; perciocché non si debbe né suole chiamare servile, ma anzi sapiente, qualunque imitazione si faccia dalle cose recate all'ultima perfezione possibile in ciascun tempo. La macchina rappresentativa perfezionata è nell'ordine politico ciò che quella a vapore nell'ordine materiale. E chi è che si creda imitatore servile, quando, avendo mestieri d'una di queste, va in cerca di una che sia fatta dove che sia, secondo le norme ultime della scienza, della sperienza, di una congegnata secondo gli ultimi perfezionamenti?
E mi duole aver io stesso a tôrre valore al mio giá misero lavoro; ma la veritá come la vedo innanzi a tutto. Sorge dalle considerazioni precedute un gran disappunto, diciamolo chiaro, una gran diminuzione d'interesse nella nostra storia; noi non vi troviamo se non pochi, piccoli, sparsi e mal riusciti esempi di governi rappresentativi: non uno di quella perfezione di tal governo che è e debb'essere ormai lo studio e il desiderio, la meta di tutte le nazioni cristiane e civili. La piú nobile delle nazioni ha nella sua storia meno esempi da imitare, meno memorie da resuscitare, che non qualunque delle sue serve antiche; noi siamo, bisogna saperlo vedere, nella condizione delle nazioni nuove che debbono imparare poco men che tutto da quelle che le precedettero in civiltá. E noi siamo tuttora quella fra tutte che ha piú bisogno di imparare la libertá rappresentativa; perciocché ormai, dall'ultimo tentativo in qua, non è piú, come sperammo, l'indipendenza che ci possa dare la libertá, ma la libertá che sola ci può condurre alla indipendenza. Ma, in compenso di questa utilitá positiva che le mancò, la storia nostra può avere almeno una grande utilitá negativa; quella di farci vedere i piú numerosi, piú vari sperimenti che sieno stati fatti mai da niuna nazione di governi diversissimi, e tutti infelici; quella di dimostrarci cosí, quasi dall'assurdo, la bontá, la necessitá del governo rappresentativo. Sappiamo trarne quest'utile almeno, e proseguiamo.
5. Arrigo V [1106 1125].—Ora, mentre venivasi costituendo il governo delle cittá (libero internamente, non indipendente di fuori, è necessario non perderlo di mente), veggiamo come ne usassero e lo difendessero poi.—Ad Arrigo IV succedette il ribelle figliuolo di lui Arrigo V, senza contrasto, anzi con applauso, della parte papalina in Italia. Ma fin dall'anno seguente trovasi rinnovata tra lui e Pasquale la contesa delle investiture ecclesiastiche; e continuare le guerre tra cittá e cittá, per l'Imperio o la Chiesa, pro e contra Matilde, per l'uno o l'altro vescovo, per altri interessi di vicinato; e moltiplicarsi tanto piú ora che avevano governo piú costituito. Cosí guerreggiaronsi Milano e Pavia [1108], Milano e Brescia contro Lodi, Pavia e Cremona [1109], Pisa e Lucca [1110], e principalmente e lungamente Genova e Pisa per la Sardegna, per la Corsica e per rivalitá commerciale, la piú acre di tutte; ed altre poi, che non abbiamo spazio a notare.—Nel 1110, discese Arrigo; non fu ricevuto a Milano, tenne dieta a Roncaglia, trattò con Matilde, passò a Firenze, a Pisa, prese terre e castella. Appressatosi a Roma [1111], seguirono sull'investiture negoziati e trattati oscurissimi, rotti in breve ad ogni modo; tantoché Arrigo fece prigione il papa, il popolo si sollevò contro a' tedeschi, Arrigo si ritrasse col papa prigione; e il rilasciò poi, e fece con esso un primo trattato, per cui serbò le investiture, e ne fu poi incoronato imperatore; e per Toscana e Verona risalí a Germania.—Sollevossi la curia romana contro il trattato, e fu condannato in concilio [1112 e 1116]: e cosí fu riaperta la contesa. E tra breve se ne aggiunse un'altra. Nel 1115, morí vecchia e gloriosa Matilde, e si contese tra imperatori e papi per il retaggio di lei, da lei certamente donato in Canossa e confermato poi a Gregorio VII e a' suoi successori. Gran disputa si fa anche oggi, se quelle donazioni comprendessero i soli beni allodiali, ovvero anche i feudi. I quali essendo da gran tempo ereditari, e talor di maschio in maschio, ma talor pure in femine, e sempre sotto la supremazia o beneplacito imperiale, io crederei che la gran contessa lasciasse i suoi diritti quali e quanti potessero essere; e che perciò appunto se ne disputasse, e ad ogni modo se ne disputò cosí a lungo, che non è nemmen possibile forse determinare quando e come finisse quella contesa intrecciata a tant'altre.—Ed a ciò scese per la seconda volta Arrigo [1116], occupò comunque il retaggio, poi passò a Roma, e il papa fuggí e morí [1117]. Intanto, risalito Arrigo a Lombardia, vi poté cosí poco, che dicesi si facesse a Milano una assemblea numerosa di vescovi e consoli contro a lui, e se n'abbozzasse una seconda lega che fu ad ogni modo essa pure rotta tra breve dalle inimicizie municipali. Succeduto papa Gelasio II, si disputò, si guerreggiò in Roma e fuori contra lui, e fu fatto un antipapa. Arrigo tornò a Roma, e Gelasio rifuggí a Francia e vi morí [1119]. Succedettegli Calisto I, che tornò a Roma [1120], e guerreggiò e prese e depose l'antipapa [1121], e che finalmente l'anno 1122 finí la gran contesa dell'investiture, ottenendo che non fosser piú fatte col pastorale e l'anello, simboli ecclesiastici; concedendo che si facessero collo scettro, simbolo della potenza temporale sui beni territoriali delle chiese. Cosí con tal temperamento terminò felicemente, e, come ne giudicano le etá progredite, moderatamente, virtuosamente la gran contesa. E cosí solamente possono terminare le piú delle contese tra la Chiesa e gli Stati, che sono due potenze indipendentissime l'una dall'altra; ed elle perciò non possono tornare in pace mai, se non colle concessioni reciproche; non essendo tra esse né giudice supremo né possibilitá di quella decisione per forza d'armi, che tronca tante contese tra l'altre potenze indipendenti, ma che non serve a nulla, è uguale a zero contra quella immateriale della Chiesa.—Morí quindi [1124] glorioso il papa, e gli successe, non senza contrasti in Roma, Onorio II. E morí [1125] Arrigo V, partecipe anch'egli di quella gloria di pacificatore, e, per ciò almeno, miglior del padre. E morto esso senza figliuoli, morí con lui la prima, la vera casa Ghibellina.
6. Lotario [1125-1137].—I piú prossimi parenti d'Arrigo erano i figli di sua sorella, Federigo e Corrado, detti di Hohenstaufen dal castello lor nido originario, e di Svevia dal ducato che dicemmo dato a lor famiglia. Federigo pretese al regno germanico; ma prevalse nell'elezione Lotario di Suplinburga; e s'aprí la guerra.—Corrado scese in Italia [1128], e fu acclamato re da' milanesi e dalle cittá loro aderenti, combattuto da Pavia e dalle cittá che la seguivano; ma non riconosciuto dal papa, ed abbandonato da' milanesi stessi, tornò a Germania.—Morto papa Onorio [1130], fu eletto papa, e protetto da' Frangipani e gli altri nobili romani, Innocenzo II; ed antipapa Anacleto, un discendente d'ebrei e figlio di Pier Leone, che era stato prefetto imperiale e potente ne' turbamenti dei pontificati anteriori. Quindi a dividersi Roma, le cittá italiane l'una contro all'altra peggio che mai, la cristianitá. Anacleto ebbe per sé Ruggeri giá signor di Sicilia, or duca di Puglia e riunitore dei vari principati di que' normanni, di cui non avemmo spazio a riferire (né crediamo abbia a dolerne a' leggitori) tutti gli accrescimenti, le contese, le guerre, le successioni. Ora, Anacleto diede, o confermò, a Ruggeri [1130] il titolo di re. E quindi incomincia quel regno di Sicilia e Puglia, il quale non solamente è di gran lunga il piú antico, ma per sei secoli rimase il solo d'Italia (non contandosi giá quello di Italia propriamente detto, indissolubilmente unito all'Imperio); e che perciò trovasi da' nostri scrittori chiamato semplicemente il «Regno». Nobilissima monarchia dunque senza dubbio! Nella quale è peccato solamente, che sia durata cosí poco questa prima dinastia normanna e sei altre ne sien succedute poi: mentre continuava una sola in parecchi principati europei, e fra gli altri, in quello, tanto piú umilmente e lentamente cresciuto, della monarchia di Savoia. Direm noi perciò, che sia vizio naturale, o del suolo, o degli abitatori? o peggio, celieremo noi, come fanno alcuni, insolentemente, quasi barbaramente, sulle tante rivoluzioni della «fedelissima» Napoli? No davvero. Parliam seriamente; la colpa fu molto meno di que' popoli, che non di quelle stesse dinastie; le quali esse furono, che non seppero radicarsi su quel suolo cosí fecondo di tutto, contentarsi di esso, non cercar fortune lontane, non perdere il certo per l'incerto. Vedremo tra poco questi primi Normanni dar troppo male la loro erede a un figlio d'imperatori tedeschi, svevi; e gli Svevi poi, come imperatori, naturalmente aspirare a tutta Italia, a mezzo mondo, e soccombere a quel peso, aggravato, pigiato lor sulla testa, per vero dire, dalle nemiche mani de' pontefici; poi soccombere gli Angioini al proprio mal governo, alle proprie divisioni; e spengersi gli Aragonesi nella prima casa d'Austria; e questa da sé, felicemente questa volta, ché il bel Regno, rimasto provincia lontana per due secoli e piú, ritornò a indipendenza sotto a' Borboni; e passare non senza splendore un Napoleonide, ma spegnersi con Napoleone; e ritornare i Borboni, che Dio voglia far degni di durare. Evidentemente, in tutte queste mutazioni non è ombra di colpe popolari; son tutte colpe di principi, d'intiere dinastie, che alcune non seppero, altre non si curaron nemmeno di diventar siciliane, napoletane, o, per dir piú e meglio, italiane. Non s'inganni forse taluno per troppa erudizione. Perché non si trovano i nomi, le idee di patria, d'Italia, cosí sovente negli scritti de' secoli addietro come del presente, non si creda perciò che fosse guari men necessario allora l'amar questa patria, l'esser buoni italiani. Queste idee sono molto utili senza dubbio a discutere, a rischiarare, queste parole a pronunziare e ripetere; ed è un bene, un progresso, che cosí si faccia ora, quando non si fa troppo ignorantemente od anche scelleratamente. Ma anche senza questi, che non sono insomma se non amminicoli, i popoli vollero e vorran sempre esser tenuti di conto, apprezzati, coltivati con attenzione, con amore da' loro principi; e chi nol fece, chi attese ad altri o ad altro, chi non seppe nazionalizzarsi in qualunque nazione sua, italianizzarsi in Italia, sempre fu o cacciato o abbandonato da' propri popoli, alla prima o alla seconda occasione; sempre vide esso, o videro i figliuoli o i nepoti, finire lor dinastia. Non saran forse inutili queste avvertenze a intendere le storie del Regno.—Ad ogni modo, cacciato da quell'antipapa Anacleto, papa Innocenzo rifuggí a Francia; e fiancheggiato da san Bernardo, gran teologo e filosofo scolastico di quella nazione, fu in breve riconosciuto da tutti, e da Lotario stesso, che è detto da un antico, «uom devoto al diritto ecclesiastico».—Sceso quindi questi [1132] per Val d'Adige, venne a Roma [1133], vi fu incoronato da Innocenzo in Laterano (essendo il Vaticano in mano dell'antipapa): e fatto con quello un trattato per la successione di Matilde, risalí in Germania.—Si rinnovarono allora, si accrebber le guerre tra cittá e cittá, tra parte e parte delle medesime cittá. San Bernardo tentò comporre una volta [1134] quelle di Milano ed altre di Lombardia; primo cosí o de' primi di que' monaci che a ciò s'adoprarono santamente, ma poco men che inutilmente ne' secoli posteriori.—Lotario, libero giá della parte degli Hohenstaufen in Germania, ridiscese in Italia [1136], come pare, con un esercito piú forte del solito; assalí, prese Pavia, Torino, Bologna e molte altre cittá che gli contrastavano, sia che tenessero per l'antipapa, sia che gli chiudessero le porte per non pagare il «fodero» o viatico, e non cader negli altri carichi del viaggio imperiale e nelle contese dei dritti reciproci. Passò poi in Puglia contro Ruggeri sempre nemico del papa, e risalendo a Germania, morí per via [1137] in quel Tirolo, che rimarrebbe selciato, se non le avessero portate via, d'ossa tedesche. È lodato come buon imperatore. Ma si vede che gl'italiani non li soffrivano oramai né buoni né cattivi.
7. Corrado II [1138-1152].—Fu disputata la corona tra Arrigo d'Este o de' Guelfi, duca di Baviera e Sassonia, detto il «superbo», e potentissimo in Germania ed Italia, e quel Corrado d'Hohenstaufen che giá vedemmo tener per poco il regno d'Italia. Vinse Corrado l'elezione; e quindi incominciò il lungo regnare di questi Svevi; e incominciarono insieme in Germania i due nomi di «guelfi» e «ghibellini», il primo ad accennar la parte antiimperiale, il secondo quella degli imperatori Svevi eredi e successori della prima e propriamente detta casa Ghibellina. Morto Arrigo il superbo nel 1139, Guelfo, fratello di lui, continuò la parte e guerreggiò contra Corrado; e finalmente andarono amendue [1147] a quella seconda crociata che, promossa con tanto zelo da san Bernardo, terminò cosí male. Ma tornatine i due, guerreggiossi di nuovo nel 1150; e vincitore Corrado si disponeva a scendere in Italia, quando morí nel 1152. Fu il primo imperatore che non iscendesse mai; furon quindici anni d'abbandono, di respiro, dal signore straniero.—Ma gli intervalli d'abbandono, di signoria non sentita, son quelli in che appunto gli improvidi italiani pensaron sempre meno a liberarsi; e que' nostri padri non si valsero di que' quindici anni se non a dividersi e guerreggiarsi tra sé piú e piú, per quegli interessi piccoli e presenti, che fanno improvidi gli uomini ai grandi e futuri. Morto Anacleto antipapa, continuò la parte di lui, e fu ridotta ad obbedienza per intervenzione di san Bernardo il gran pacificatore. Ma sorsero intanto nuovi turbamenti in Roma per Arnaldo da Brescia, un riformatore ostile e inopportuno della Chiesa, ultimamente e bene riformata da Gregorio VII e i successori. Fu condannato in concilio fin dal 1139, e combattuto anch'esso da san Bernardo. Continuò Ruggieri sue guerre di conquista e riunione del Regno, e gli fu confermato questo [1139] da papa Innocenzo II. E morto Innocenzo [1143], succedettergli Celestino II, Lucio II, Eugenio III, buoni pontefici, turbati da' grandi romani costituitisi in senato; imitazione forse buona de' nuovi Consigli di credenza, ma fatta risibile dalla formola di «senatus populusque romanus», che si riprese. Le grandi formole usate nelle cose piccole non servono che a far sentire tal piccolezza. In Toscana e Lombardia guerreggiaronsi peggio che mai le cittá; Roma contra Tivoli, Milano contra Cremona, Milano contra Como, Pavia contra Verona, Verona contra Padova, Padova contra Venezia, Venezia contra Ravenna, Piacenza e Milano contra Parma e Cremona, Modena e Reggio e Parma contra Bologna, Bologna e Faenza contra Ravenna ed Imola e Forlí, Verona e Vicenza contra Padova e Treviso, Venezia contra Pisa, Pisa e Firenze contra Lucca e Siena; trista lista abbreviata sui cenni probabilmente non compiuti del Muratori, e che ho voluto qui porre a mostrare quali fossero in generale gli errori della gioventú di que' comuni, quali in particolare lor mali apparecchi alla grande occasione nazionale che s'appressava. Né ciò era tutto; dividevasi ogni cittá in parti pro o contra l'imperio, pro o contra ogni discesa imperiale, pro o contra que' nobili, que' capitani o cattani, rinchiusi gli uni in lor castella e talor pretendenti alla signoria feodale della cittá, aggregati gli altri alle cittadinanze e rinchiusi in loro alberghi o case consortili. Era uno sminuzzamento di potenza, una discordia universale, maggiore che non la feodale stessa; migliore in ciò solo, che la discordia era almeno per gli interessi di tutti e non dei pochi tiranneggianti. Ma le discordie, quali che sieno, son mali apparecchi, perdizioni delle occasioni nazionali. E tanto piú che le discordie non sogliono essere altro che invidie; e le invidie sono il vizio piú pervertitore delle menti; e le menti pervertite non sono piú bastanti alle dure imprese d'indipendenza. Il vedremo registrato qui; e il vedemmo, in natura, altrove.
8. Federigo I imperatore, la guerra d'indipendenza [1152-1183].—E quindi non fará meraviglia, se la guerra seguente, la piú bella, la sola santa e nazionale che si trovasse, prima dell'ultima, nella storia moderna d'Italia, non fu tuttavia unanime, non universale, non condotta fino ad effetto compiuto. Sarebbe facile forse, ma vano certamente il celarlo; vano, se non nocivo seguir quell'uso invalso poc'anzi tra noi di magnificar le glorie nostre passate, quando non si potevan le presenti, serbato ora da alcuni per avvilir queste. La veritá esatta può solo esser utile; io dirolla come la veggo. E se ne avrò taccia di troppo austero, mi giustificherò, primamente, come sogliono i piccoli, coll'esempio de' grandi, Dante, Machiavello, Alfieri; e noterò poi che chi parla cosí ai compatrioti, erri o no, mostra almeno di tenerli per uomini, adulti, sani e capaci d'udir veritá; mentre chi dice necessarie ad incoraggiarli le lodi esagerate, le adulazioni, li tratta quasi donne, bambini, infermi o rimbambiti.—Morto Corrado Svevo, i tedeschi elessero a re loro, e cosí, giá incontrastabilmente nel fatto, re d'Italia e imperatore, Federigo I detto «Barbarossa», figlio di quel fratello di lui che aveva preteso all'imperio, e di Giuditta de' Guelfi Estensi. E riunite cosí in lui le due parti germaniche, rimasero lá pacificate allora e per alcun tempo. Quindi ad esso l'occasione, quasi il dovere di far l'opposto del predecessore, di lasciar Germania per attendere a Italia; di vendicar Lotario il penultimo imperadore, a cui erano state chiuse in faccia le porte di tante cittá italiane. Oramai queste discese degli imperatori erano diventate guerre naturali, e poco men che universali tra noi. Gl'imperatori, i tedeschi avevano contra sé non piú solamente le cittá avverse all'imperio, ma quelle stesse che si proferivano imperiali, e che pur intendevano i diritti imperiali tutto diversamente da ciò che eran pretesi dagli imperatori. Questi volevan giudicare, statuire tra l'una e l'altra parte d'ogni cittá, tra l'una e l'altra cittá, e principalmente tra i signori e le cittá; e tuttociò non era sofferto dalle piú di esse, imperiali o non imperiali. Ancora, l'imperatore aveva nelle cittá molti diritti d'onore e di lucro personale; e questi, compresi sotto il nome di «regalie», e giá disputati ab antico, erano venuti meno via via, e principalmente ne' quindici anni di Corrado. Finalmente, gl'imperatori che avean fatte giá nell'etá passate tante concessioni alle cittá, non avean mai conceduti loro i governi consolari, e li riconoscean sí di fatto, ma li vedean male; mentre le cittá se n'eran venute compiacendo piú e piú da mezzo secolo. In somma, non furono mai due opinioni, due politiche piú opposte che quelle degli imperatori e delle cittá italiane, della cancelleria imperiale e reale e de' governi comunali, quando s'apparecchiava a scendere Federigo I re incontrastato di Germania, re d'Italia e imperator designato, giovane coraggioso, afforzato ed insuperbito dell'unione di Germania.—Giá in dieta a Vurtzburga ed a Costanza [1152-1153] fu sollecitato da' messaggeri del papa contra Arnaldo da Brescia, da un principe spogliato di Capua contra re Ruggeri, da due fuorusciti di Como contra Milano che teneva lor cittá soggetta da un quarant'anni. Federigo mandò un messo imperiale a Milano con un diploma in favor di Lodi, e i milanesi glielo tolsero di mano e stracciarono in faccia, e lo cacciarono.—Scese quindi [1154] ben accompagnato di milizie feodali Federigo per il Tirolo, e venne presso a Piacenza; a quel campo di Roncaglia, dove gli ultimi imperatori solean tener dieta e raunar loro aderenti, dacché appunto solean chiudersi loro le cittá. V'udí i lamenti di Como e Lodi contra Milano, del marchese di Monferrato contra Chieri ed Asti. Barcheggiò dapprima con Milano; e facendosene fornir viveri, risalí il Ticino. Poi sorta disputa per que' viveri, aprí la guerra, prese a' milanesi tre castella, Rosate, Trecate e Galiate; ed arsi a proprie spalle i ponti sul Ticino, risalí il Po fino a Torino [1155], passollo ed arse Chieri, che serba cosí l'onore d'essere stata prima cittá vittima di lui, e poi Asti. Tornato cosí lá presso onde s'era mosso (strana guerra o piuttosto scorreria che giá mostra il niuno accordo degli italiani), pose campo contro a Tortona alleata di Milano, nemica di Pavia; intimolle di mutar alleanze, fu rifiutato, assediolla due mesi, incrudelí contro ai prigioni, guastò i fonti agli assediati, e prese la cittá [15 aprile], la saccheggiò ed arse.—Quindi fattosi incoronar re a Pavia, s'avviò per farsi incoronare imperatore a Roma. Dove, morto giá Eugenio III [1153] ed Anastasio IV [1154], pontificava Adriano IV, ma poteva il nuovo senato; e sott'esso quell'Arnaldo da Brescia, il condannato d'eresia, predicante per il senato contro al papa. E papa e senato aspettavano ora la decisione dell'imperatore; scusabili dunque tutti e due, se si voglia, sulle condizioni de' tempi; tutti e due condannabili, se si attenda a quel dovere di tutti i tempi, di non dividersi in presenza allo straniero; quel dovere che ben fu, a distanza di otto secoli, saputo adempiere da un Lanzone a Milano, da un Mastai a Spoleto. Quanto poi al far, come taluni, sempre colpevoli i papi, sempre scusabili od anche eroi di libertá, o, piú, d'indipendenza, i loro avversari; ella mi pare di quelle nequizie che non possono se non isviar del tutto la storia, e, che è peggio, la politica pratica della nazione. Ad ogni modo, Arnaldo era allora giá piú o meno abbandonato dal senato, e trovavasi rifuggito in un castello vicino d'un partigiano suo. Giunto lá presso, Federigo prese costui, e fecegli dar Arnaldo nelle mani del prefetto imperiale di Roma, che il fece ardere in piazza del Popolo. Compiangiamo il supplizio religioso o politico; ma non piú. Quindi avanzossi Federigo, ed incontrato dal papa gli tenne la staffa; incontrato da una deputazione del senato, che orò quasi senato antico ed elettor d'imperatori, passò oltre, ridendone egli e i suoi tedeschi, come succede degli scaduti che si credono grandi tuttavia. Quindi fu incoronato [1155] in Vaticano senza entrare in Roma, combatté colle milizie di Roma sollevateglisi contro, si ritrasse a Tivoli, mosse contra Spoleto che avea lesi parecchi diritti d'imperio, e l'arse. Poi, negletto il Regno, dove al primo e gran re Ruggeri era succeduto suo figliuolo Guglielmo detto «il cattivo» [1153], licenziò in Ancona il suo esercito feodale, e sfuggendo le insidie de' veronesi, per il Tirolo risalí a Germania. Avea prese le due corone, avea fatta sentir qua e lá crudelmente ma non rinvigorita la potenza regio-imperiale, ed avea schivata la cittá nemica principale, Milano.—Quindi ad innalzarsi i milanesi a giusto orgoglio, a gran credito, a meritata potenza in tutta Italia: Milano faceva allora ciò che giá Roma all'epoca di Camillo: in Milano era la somma, era l'onor d'Italia; i milanesi furono sublimi, prudenti, disinteressati, generosi in tutta questa guerra. Giá, presente ancora Federigo, aveano essi stessi riedificata Tortona, la fedele alleata, e sconfitti i pavesi contrastanti. Ora, assente lui, ridussero questi alla pace; e punirono piú o meno gli imperiali, il marchese di Monferrato, Cremona, Lodi; ristrinser lor alleanze, fortificarono i passi d'Adda e Ticino. E quindi ad accostarsi pur il papa alla parte nazionale, a stringer alleanza con re Guglielmo, a insuperbire coll'imperatore. In una lettera gli parlò della corona imperiale come di «beneficio» concedutogli; ed alla cancelleria tedesca parve tanto piú ingiuria, perché allora tal parola aveva, oltre sua significazione naturale, pur quella di feudo. Il papa spiegò che aveva intesa la prima, l'imperatore si contentò.
9. Continua.—Fece una seconda discesa [1158] come la prima, per Tirolo; e la molta gente sua (centomila fanti, dicesi, e quindicimila cavalli) per gli altri passi del Friuli, di Como e del Gran San Bernardo. Volea finirla una volta con questi italiani, con questi milanesi principalmente, che intendean cosí male l'imperio; volea questo restaurare a modo suo finalmente. Occupò, atterrí tutta Lombardia; presentossi a Brescia, sola che mostrasse di voler restar costante a Milano, alla indipendenza; e n'ebbe obbedienza, Sforzò i passi dell'Adda difesi da' milanesi, prese loro varie castella, diede a' lodigiani nuovo sito a riedificar lor cittá, arrivò dinanzi a Milano [8 agosto]. Ma non osò assalirla a forza; la circondò, l'affamò. Seguirono belle sortite degli assediati. Ma in capo a due mesi il conte di Blandrate, un signor potente, lor capitano, li persuase ad una capitolazione; la quale ebbero moderata, dando all'imperatore poco piú che il giuramento e le regalíe, e serbando i consoli [7 settembre].—Ma Federigo adunava una nuova gran dieta a Roncaglia, e vi chiamava i giureconsulti dello Studio di Bologna, sorto fin dal principio del secolo; i quali spiegarono i diritti imperiali secondo i codici giustinianei, e non sugli acquisti via via fatti di libertá. Bisogna dire, che i giureconsulti di quell'etá non conoscessero né il diritto di prescrizione, né anche meno quello imprescrittibile di qualunque nazione, di non soggiacere ad un'altra. Certo che anche di questo, come di qualsiasi diritto, si può disputare e si disputa ad ogni occasione, se sia rivendicato con mezzi legittimi e prudenti, o no: ma l'imprudenza o l'illegittimitá de' mezzi non toglie il diritto primitivo. Se tu mi rubi il mio, ed io tento ucciderti, fo male senza dubbio; ma il mio rubatomi riman sempre mio. Ma i giureconsulti di Bologna non l'intendean cosí; non facevano imprescrittibili se non i diritti del sacro romano imperio ai tempi di Teodosio e Giustiniano. Quindi, non solo furono da costoro rivendicate all'imperio le regalie, e tolto alle cittá l'uso delle guerre cittadine, ma fu inventato, e stabilito poi in ogni cittá dove poté l'imperatore, un magistrato suo, che dovea, rimanendo i consoli, rappresentare la potenza imperiale, e che appunto fu chiamato «potestas», «podestá». Quindi condannavasi e smuravasi Piacenza, a brutta richiesta della vicina Cremona; e rivendicavansi all'imperio Sardegna e Corsica, tenute da' genovesi e pisani. I primi accennarono resistere; uomini, donne, vecchi e fanciulli edificarono allora lor forti mura; e furon lasciati tranquilli, anzi esenti dalle regalie, liberi del tutto. Ma non cosí Milano, risorta con Brescia e Crema contro ai podestá e all'altre infrazioni degli ultimi patti. Cosí Federigo ebbe a ripigliar l'armi; e, saccheggiati i campi, pose assedio a Crema addí 4 luglio 1159.—Segue una delle piú nobili fazioni di quella e di qualunque guerra. Sei mesi e mezzo di resistenza; Milano e Brescia mandano aiuti; belle sortite, vittorie degli assediati; Federigo fa da barbaro impiccar i prigioni dinanzi alle mura; i cremaschi impiccan sulle mura a rappresaglia; Federigo inferocisce, uccide gli ostaggi adulti, e attacca i bambini a una torre di legno che s'avanzava secondo l'uso per l'assalto, e contro cui tiravano i mangani de' difensori. Fra le grida disperate de' figliuoli e de' padri, esclama uno di questi:—Benedetti coloro che muoiono per la patria;—e continuan gli argani, finché i tedeschi di sotto alla torre temono esservi schiacciati, e la ritraggono. Eran morti nove, feriti due, salvi pochi di quelle vittime. Questi son sangui che a nostra etá parrebbon dover sollevar milioni; ma non è vero, né per allora né per adesso. Non se ne accrebbe la guerra: le cittá imperiali rimasero imperiali, e le vicine rabbiosamente invide delle vicine; tantoché, quando la dissanguata Crema si pose a discrezione [26 gennaio 1160] dello straniero inferocito, non chiese grazia che d'esser salva dalla ferocia della vicina Cremona: ma nol fu; ché usciti i cittadini, predata ed incendiata la cittá, i cremonesi si tolser essi il carico di abbattere i resti, d'appianare il suolo. Noi vedemmo, due secoli addietro, invidie di principi e marchesi; un secolo addietro, invidie di signori minori e d'ecclesiastici; ora, appena libere le cittá, incominciano i secoli, anche piú lunghi, delle invidie cittadine. Sempre invidie in Italia, sempre il vizio di odiar la grandezza nazionale piú che la straniera, il vizio, il piacer servile di ribattere i ferri a' conservi.—Intanto Crema, la generosa cittaduzza, avea, sagrificando se stessa, consunte le forze, e, che era piú allora, il tempo dell'imperatore. Questi dovette lasciar tornare a casa i feudatari, sciogliersi l'esercito, ridursi lui a guerra, a zuffe contro a' milanesi; e ne fu battuto due volte a Cassano e Balchignano. Ed intanto sorgeva nuovo e grande aiuto morale a' milanesi. Morto papa Adriano, giá piú e piú guastato coll'imperatore [1159], erangli stati eletti due successori: papa Alessandro III da tutti i cardinali, salvo tre; Vittore IV antipapa, uno dei tre, dagli altri due. L'imperatore citolli a sé. Alessandro da vero papa ricusò, e fu riconosciuto dall'Italia libera, dalla cristianitá; Vittore accettò, e fu riconosciuto dall'imperatore. Allora la guerra nazionale s'inasprí in religiosa.—E venuto un nuovo esercito a Federigo nel 1161, mosse egli finalmente contra a' milanesi, rinchiuseli entro lor mura, arse lor mèssi, tagliò loro gli arrivi, ma, come la prima volta, non osò assalirli, li affamò: cosí durarono, resistettero un nove mesi. Poi, esausti, domandarono a capitolare; l'imperatore li volle a discrezione; i consoli volean durare ancora, il popolo cedè, s'ammutinò, li sforzò. Giá erasi lungi dall'imitazione romana; ma non s'avea forte, ordinata aristocrazia che potesse partecipare al proprio la virtú propria di lei, la perduranza. Allora i consoli giurarono [1° marzo 1162], fare, e far fare tutte le voglie dell'imperatore. Il quale, fosse vil timore o vil piacere d'assaporar le crudeltá, manifestolle a poco a poco. Furono un dí fatti uscire trecento militi a depor l'armi; un altro dí tutti i consoli de' tre ultimi anni, le croci in mano, a domandar mercé; poi tutti quanti i cittadini, che furon dispersi nelle cittá vicine e rivali; e finalmente, Federigo entrò nella vuota cittá e diedene a disfare un quartiere ad ognuna di quelle altre che non ho il cuore di nominare.—E, domata Milano, tornò Federigo alla vicina Pavia, e vi ricevette omaggio delle giá imperiali, e di quelle che tali facevansi ora per timore. L'Italia parea domata. A mezzo l'anno 1162 risalí in Germania, quasi senza esercito.
10. Continua.—E come a paese domato ridiscese per la terza volta [fine 1163] con gran corte e poche armi. Successero nuovi atti di servitú, d'invidie italiane. Pavia domandò di atterrare la riedificata Tortona, e l'ottenne e l'adempiè. Genova e Pisa, poc'anzi pacificate per forza dall'imperatore, conteser di nuovo per la Sardegna; e Federigo concedettela con titolo di re a un Barisone, che rimase poi parecchi anni prigione, per debiti, de' genovesi. Ma col 1164 incominciano i begli anni di questa bella guerra, gli anni delle confederazioni e della meritata fortuna. Que' podestá che erano stati posti dall'imperatore nelle cittá nemiche ed anche nelle amiche, tiranneggiavano le une e le altre; e dove non erano podestá nuovi, bastavano a ciò gli antichi diritti imperiali, dismessi a lungo, or rivendicati dopo la vittoria. Che anzi queste tirannie intollerabili a tutte, erano tanto piú a quelle cittá che non entrate fino allora nella guerra, non avevano a soffrirle come vendette o castighi. Sollevaronsi e diedero il primo esempio d'una lega quattro cittá orientali che se ne daran vanto un dí, Verona, Vicenza, Padova, e Treviso; alle quali s'aggiunse Venezia la forte, la savia, che aiutata da sua situazione, e costante sotto a sua antica aristocrazia e a' suoi antichi duci o dogi, aveva sola saputa accrescere, compiere, mantener sua indipendenza, ed or temeva per essa e vi provedeva bene cosí. Federigo, privo di tedeschi, adunò gl'italiani fedeli suoi, signori feudali e milizie di cittá, e mosse contro a Verona; ma s'accorse d'essere oramai malveduto, e indietreggiò e risalí a Germania, minacciando il ritorno. Se non che fu trattenuto colá due anni e piú, dalla contesa che avea con Francia ed Inghilterra per li suoi antipapi (Vittore, poi Pasquale), e da quell'altra, or risorta, di sua casa Ghibellina contro alla Guelfa.—Intanto se n'avvantaggiava tra noi la parte non chiamata ancora ma giá simile, giá anti-ghibellina, anti-imperiale. Papa Alessandro, rifuggito in Francia, era stato richiamato, e tornò a Roma [1165] aiutato dal re di Puglia Guglielmo I; a cui [1166] succedette Guglielmo II detto «il buono», contrario naturalmente, come tutti i predecessori, agli imperatori.—Finalmente [1166] fece Federigo la sua quarta discesa per Val Camonica e Brescia, impedito che gli era il passo solito del Tirolo dalla lega veronese. Dicesi avesse un forte esercito; ed io crederei che fosse veramente forte di tedeschi come i precedenti; ma che quelle centinaia di migliaia che si contavano in quelli fossero d'italiani aggiuntisi loro allora, e non aggiuntisi ora, e che cosí in tutto rimanesse povero l'esercito imperiale. Cosí è: quando gli stranieri non troveranno piú cattivi italiani in Italia, essi, contandosi, si troveran sempre pochi. Il fatto sta, che Federigo non assalí una cittá in Lombardia, perdette sei mesi intorno a Bologna, scese contro ad Ancona, la quale per resistergli s'era alleata o forse data all'imperatore orientale e n'avea un presidio greco. Ma Ancona si riscattò con danari, e Federigo s'avanzò contra Roma e papa Alessandro; sforzò la cittá leonina, assalí ma non poté sforzare il Colosseo dove il papa s'era rinchiuso, ed onde poi egli si salvò a Benevento. Allora Roma diedesi a' tedeschi; ma questi furono tra breve invasi, morti molti, spaventati i superstiti dalle febbri endemiche; ondeché si ritrasse Federigo per Toscana, e fu quasi fermato dalla cittaduzza di Pontremoli, e salvo dal marchese Malaspina che il condusse a Pavia. E intanto, in aprile 1167, s'erano adunati al monastero di Pontida i deputati di Cremona, Bergamo, Brescia, Mantova e Ferrara, una prima lega lombarda simile alla veronese. Poi, al dí immortale del primo decembre del medesimo 1167 (pur troppo non è segnato il luogo in quel diploma, serbatoci dal buon Muratori[1], che è certo il piú bello della storia d'Italia), si riunirono le due leghe veronese e lombarda; Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e Bologna, quindici cittá i cui nomi resteranno, checché succeda, santi sempre all'Italia, in una lega sola, o come porta il magnifico atto, in una «Concordia». Giurarono difendersi, tenersi indenni reciprocamente contro chiunque (non escluso l'imperatore) li volesse astringere ad altro che ciò che aveano fatto dal tempo d'Arrigo (certo il quinto) fino alla prima discesa di Federigo. E qui vedesi che molte cittá, dapprima imperiali, s'eran giá riunite alla causa comune; e giá entrar a paro dell'altre Milano, testé riedificata in mirabile modo, a gran concorso delle cittá concordi. E cosí, spoglio oramai d'alleati, Federigo fuggí di Pavia alla primavera dell'anno seguente 1168 con una trentina di tedeschi ed alcuni statichi nostri. I quali poi, mentre passava per Susa a Moncenisio, gli furon tolti di mano da quell'ultima nostra cittaduzza. Dicesi ne facesse impiccar uno, e ciò sollevasse que' generosi borghigiani.
11. Continua.—Allora, naturalmente, ad accrescersi la lega lombarda, la Concordia; ad entrarvi Novara, Vercelli, Como, Asti, Tortona, parecchi signori feudali, il marchese Malaspina stesso. Non rimanevano guari piú imperiali, se non Pavia e il marchese di Monferrato. E contra questi, i confederati immaginarono edificare una fortezza; ma le fortezze di que' tempi erano le cittá, o piuttosto i numerosi cittadini. E cosí in un piano tra Bormida e Tanaro fondarono una cittá nuova, che dal papa, loro alleato, chiamarono Alessandria; e la fortificarono e popolarono dalle terre all'intorno, in tal modo che dicesi armasse nell'anno quindicimila guerrieri [1168]. Poi entrarono nella Concordia nuove cittá, Ravenna, Rimini, Imola, Forlí; e allora preser il nome piú esteso di «Societá di Venezia, Lombardia, Marca e Romagna ed Alessandria». I consoli delle cittá si riunivano a parlamento ed eleggevan rettori della Societá; e si estesero i giuramenti a non far pace né tregua né compromesso coll'imperatore, ad impedire «che non scendesse esercito imperiale grosso né piccolo di qua dall'Alpi», a mantener la lega per cinquant'anni; tutto magnifico, salvo che mancarono sempre in quegli atti le due parole, in quelle menti le due idee d'«indipendenza» e d'«Italia». E queste furono le deficienze (non, come si dice dal Sismondi ed altri, quella di una repubblica federativa; perciocché una tale era giá di fatto costituita nell'assemblea de' consoli di ogni cittá; né sei secoli appresso, durante la rivoluzione tanto piú felice degli anglo-americani, s'ebbe mai niuna assemblea confederativa piú ordinata), queste furono le deficienze che perdettero tutto, che fecero inutili poi tutti gli altri fatti di quella guerra; queste, che fecero la Societá lombarda tanto meno gloriosa ed efficace che non le leghe posteriori delle Province unite di Neerlandia o d'America; queste, che rimangono scusabili forse per l'opinione mal avanzata o piuttosto pervertita dall'antico amore all'imperio, ma deplorabili ad ogni modo da quanti italiani sentano oramai la virtú di quelle due parole od idee.—Sei anni rimase allora l'Italia senza l'imperatore, occupato nelle sue cose germaniche; né la lega progredí guari piú. Genova, che avea privilegi assicurati e che non volea concordia ma guerra colla odiata Pisa, non aderí mai; e questa guerra delle due trasse seco quella di Toscana tutta, Lucca, Siena e Pistoia con Genova, Firenze e Prato con Pisa. E niuna di queste aderí, e tutte trattarono piú o meno con Cristiano, arcivescovo di Magonza, cancelliere imperiale e capitano d'eserciti; ed Ancona sostenne uno stupendo assedio contra questo prete guerriero, ma s'accostò non alla Societá, sí all'imperator greco, e cosí ebbe contro di sé Venezia. E finalmente, nefando a dire, in uno de' giuramenti di confederazione, di societá, di concordia, trovasi Cremona riserbarsi il diritto di tener distrutta la vicina ed invisa Crema. Duole nell'anima, ma cosí è. Noi non abbiamo vent'anni di storia compiutamente bella, di vera concordia in tutti i nostri secoli moderni. Il fatto è; sappiam vederlo e confessarlo una volta finalmente, per non rifarlo mai piú. Alle nazioni, come ai principi, come ad ogni uomo, l'essenziale non è non aver errato, ma risolversi a non rifare il medesimo errore.—Nel 1174 ridiscese finalmente Federigo per la quinta ed ultima volta. Non gli era aperto se non il passo di Susa, per le terre dei conti di Savoia che troppo duole trovare qui. Scendendo il Moncenisio arse Susa, a vendetta del fatto di sei anni addietro. S'avanzò ad Asti, la quale, meno devota a libertá che non la prima volta, entrò in patti e si sottopose. S'avanzò contra Alessandria; e questa, cinta di mura di terra pesta e paglia, ovvero coperta i tetti di paglia (onde il glorioso nome rimastole di Alessandria «della paglia»), si difese fortemente quattro mesi, senza soccorsi della Societá. Finalmente, adunata questa a Modena, mandò un esercito; e Federigo, levato l'assedio [1175], mosse verso quello. Ma, non assalito (forse per il solito rispetto all'imperio), entrò in trattati; ottenne, licenziando l'esercito suo, che i lombardi licenziassero il loro; e cosí egli e sua corte ebbero il passo e giunsero a Pavia. Seguirono trattati nuovi, che non condussero a conchiusione, ma che giá allentarono la Societá. E cosí passò, perdettesi il rimanente di quell'anno.—Alla primavera del seguente e gloriosissimo 1176, scese un nuovo esercito tedesco per li Grigioni e Como, in aiuto all'imperatore; ed egli, lasciando la corte in Pavia, andò di sua persona di soppiatto a raggiungerlo. Allora, i milanesi aiutati solamente delle milizie di Piacenza, e d'alcuni scelti di Verona, Brescia, Novara, Vercelli, e forse (come vantano alcune famiglie in lor tradizioni) di fuorusciti di altre cittá diroccate, uscirono alla campagna, formarono due compagnie elette nomate «della Morte» e «del Carroccio», e s'avanzarono sulla via da Milano al Lago Maggiore. S'incontrarono a Legnano, ed ivi seguí, addí 29 maggio 1176, la piú bella battaglia di nostra storia. I lombardi, vedendo avanzar l'oste straniera, si inginocchiarono per chiedere a Dio la vittoria, si rialzarono risoluti ad ottenerla o morire; la disputarono a lungo, l'ottener compiuta. Federigo, non gran capitano di guerra, ma grande uomo di battaglia, gran cavaliero, cadde combattendo presso al carroccio, non comparve alla fuga, arrivò solo e giá pianto a Pavia. Ma Federigo fu troppo piú gran negoziatore, grand'uomo di Stato, conobbe i tempi, cedette a proposito. Adunque mandò ambasciatori a papa Alessandro, che era stato alleato non capo della guerra: ma che doveva essere naturalmente, e tal fu ora de' negoziati; e che potrebbe in essi accusarsi d'aver derelitta la Societá lombarda, se non fosse che due doveri sono in qualunque papa, di capo della cristianitá e di principe italiano, e che quello è primo incontrastabilmente, e lo sforza a riaccettar nella Chiesa chiunque vi vuol rientrare, sia a pro o a danno d'Italia; se non fosse del resto, che non è un cenno, non un'ombra a mostrare che le cittá lombarde o niun italiano d'allora desiderasse l'indipendenza, desiderasse piú di ciò che al fine s'ottenne; se non fosse anzi, che parecchie delle cittá si staccarono dalla Societá comune, trattarono miserabilmente, separatamente, molto piú che il papa. Il quale ad ogni modo non volle conchiuder nulla egli solo, nulla se non in Lombardia; e perciò imbarcatosi sulle navi di Venezia [1177], venne a questa, dove fu convenuto non riceverebbe l'imperatore prima che fosse conchiusa pace o tregua. E la pace non si conchiuse, sí la tregua per sei anni; e fu convenuto non si guerreggiasse intanto tra imperatore ed imperiali da una parte, e le cittá collegate dall'altra; e queste conservassero lor Societá, e non fosser richieste di giuramento; una specie di status quo. Allora Federigo, che giá era a Chioggia, entrò in Venezia; e secondo le tradizioni si prostrò a' piedi di Alessandro, e questi glieli pose sul capo dicendo il testo «super aspidem et basiliscum»; e l'imperatore rialzandosi rispose:—«Non tibi sed Petro»;—e il papa riprese:—«Et mihi et Petro»;—fiabe forse, ma che accennano i costumi e le opinioni del tempo. Ad ogni modo furono pacificati.—Quindi il papa tornò a Roma, e pacificossi definitamente col senato; e l'imperatore, visitata Toscana e Genova, pel Moncenisio ritornò in Germania. Ed indi, ne' sei anni della tregua, negoziando con parecchie cittá separatamente, ed assicurando loro cosí per ogni caso que' tristi privilegi, che, soli in somma, eran voluti da tutti, ei le staccò. La brevitá del nostro scritto ci dispensa da tali miserandi particolari; noteremo solo il piú caratteristico. Alessandria nata dalla lega se ne staccò pur essa, fecesi privilegiare; i cittadini di lei usciron tutti, un brutto dí, dalle mura, e rientrarono a cenno, a grazia d'un commissario imperiale, lasciarono il bel nome, preser quello di Cesarea. I posteri furon piú degni, ripresero il primo.—Finalmente addí 25 giugno 1183, appressandosi a giorni il fine della tregua di Venezia, fu ultimata la pace a Costanza. Firmarono come ancor collegate Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, diciassette costanti; e coll'imperatore Pavia, Genova, Alba, Cremona, Como, Tortona, Asti e Cesarea. Ottennero i privilegi che avean voluti e tenuti dal tempo d'Arrigo V in qua: confermate alle cittá le regalie entro alle mura e nel distretto: solo lasciato all'imperatore il «fodero» o viatico quando scendeva; serbati i consoli senza conferma, colla sola investitura imperiale; soli lasciati all'imperatore i giudici in appello, e questi costituiti in un giudice stabile, il podestá; riconosciuto il diritto di pace e di guerra; riconosciuto quello, che avrebbe potuto esser piú utile, di serbare e rinnovare la Societá. Il trattato era dunque onorevolissimo, anche utile, anche progressivo. Ma era perduta per compiere l'indipendenza la grande occasione che la nazione era in armi contro al signore straniero.—Né l'occasione tornò mai piú per seicentosessantacinque anni. L'Italia progredí in lettere, in arti, in ogni sorta di coltura, in molte parti della civiltá, ma non nella piú essenziale, nell'indipendenza; e la nostra storia non narra quasi piú che variazioni di dipendenze. Perciò ci trattenemmo oltre al solito in questo secolo corso da Gregorio VII alla pace di Costanza, che è il piú bello di nostra bella etá. Ci rifaremo abbreviando i secoli delle discordie interne; sempre ne rimarrá abbastanza da mostrarceli troppo minori di quello, dove la concordia, non ottenuta, fu almeno nomata e tentata.
[1] Ant. Ital., IV, p. 262.
12. Il secondo periodo della presente etá [1183-1263]. Governo delle cittá.—Dalla pace di Costanza al finir degli Svevi o Ghibellini secondi, corre una seconda parte della etá dei comuni. I quali noi continueremo a chiamare cosí sempre, e non come fan altri, «repubbliche»; perché questo nome ci sembra implicare governo di tutta la cosa pubblica, sovranitá piena, indipendenza; e che, salvo Venezia, tutte le cittá italiane riconobber sempre come sovrano l'imperatore e re straniero, e come privilegio i governi, i diritti propri. Oltreché, queste improvide cittá non si divisero giá solamente, quasi repubbliche, in quelle due parti infelicissime ma forse inevitabili de' grandi e de' piccoli, de' nobili e de' plebei; ma, come veri comuni dipendenti, in quelle anche piú infelici pro e contro al signore straniero. Questa divisione propria de' comuni fu quella che accrebbe, inasprí la repubblicana; perché i grandi, i nobili, piú o meno signori di castella fuor delle mura, o di «alberghi» o case forti addentro, or per memoria de' lor bei tempi feodali, or per isperanza di crescere a signori infeodati delle cittá stesse, ad ogni modo, s'accostarono piú facilmente alla parte imperiale o straniera, mentre i popolani piú facilmente alla parte cittadina o d'indipendenza; ondeché questi non ebber nulla mai di piú caro, di piú pressante che cacciar quelli del tutto; molto piú che non si sia fatto in altre repubbliche, e che non sarebbesi fatto in quelle se fossero state repubbliche vere. E questo inasprimento delle due parti inevitabili, fu giá un primo gran male senza dubbio. Ma fu secondo, che, cacciati i primi nobili, e sottentrati al posto loro i popolani grassi, diventando principali, nobili essi, essi pure furono invidiati, prepotenti, cacciati né piú né meno. E cosí dopo questi secondi, i terzi, i quarti interminabilmente. Perciocché, insomma, di nobili o grandi ne son sempre dappertutto; e il popolo che ne caccia, non li caccia ma li muta; ed ogni mutazione non fa, oltre il mal dell'invidia, se non diminuire le forze morali, materiali e personali delle cittá. Né son io che ciò dica a difesa d'una classe non generosamente forse, certo non utilmente, assalita da alcuni popolani de' nostri dí; fu osservato e detto incominciando da Dante e da' primi uomini politici che seppero scrivere in quell'etá, fino a Machiavello e a Botta stesso, talor errante, piú sovente generoso. I quali, chi piú chi meno, attribuiron alle cacciate, alle diminuzioni dei nobili la diminuzione delle forze cittadine in generale, delle militari particolarmente; onde poi l'impossibilitá di resistere alle nuove discese degli imperatori e d'ogni altro straniero, e il venir meno la vita militare ne' cittadini, e il sorger a poco a poco (fin dal tempo delle leghe lombarde) le soldatesche mercenarie, e quindi le masnade, le compagnie piccole, e le grosse; e il passar que' troppo gelosi comuni a signorie, a principati, a tirannie, or d'un nobile vicino vincitor della cittá spoglia di militi cittadini, or d'un popolano grasso vincitor della parte de' grandi, or di questo o quest'altro capo di parte, podestá o condottiero. Perciocché dei podestá è a notar questo; che istituiti, come vedemmo, per mantener la potenza imperiale nelle cittá, per il resto privilegiate di libertá, in breve furono per ulterior privilegio (che trovasi conceduto a Milano fin dal 1185, due anni dopo la pace di Costanza) lasciati ad elezioni delle cittá stesse; ondeché ne cadde del tutto, e quasi a un tratto, la potenza e quasi il nome de' consoli, ed essi i podestá diventarono magistrati cittadini e comunali del tutto. La solita invidia cittadina feceli bensí scegliere quasi sempre forestieri al comune; ma traendo seco un séguito di uomini propri, e facendosi sovente cosí pur capitani del comune o di piú comuni, li tiranneggiarono tanto piú facilmente. I rimedi suggeriti dalla invidia e dalla paura, sogliono far piú mal che bene. A Roma stessa prevalse questo magistrato unico; solamente, invece di «podestá» fu chiamato «senatore»; e come il podestá a' consoli, cosí sottentrò il senatore al senato.—E servano a tutto il rimanente della presente etá questi rapidi e certo incompiuti cenni delle divisioni, de' pervertimenti, delle guerre intestine dei comuni. Alle quali ad ogni modo noi torneremo anche meno che non alle guerre di cittá a cittá; ristretti che siamo ne' limiti d'un sommario, e cosí sforzati a diventar qui tanto piú brevi, quanto piú, sorti i comuni, sorge oramai una storia particolare d'ognuno, si sminuzza moltiplicandosi quella universale d'Italia.
13. Fine di Federigo I, Arrigo VI [1183-1198].—Fin dall'anno seguente alla pace [1184], scese per la sesta volta Federigo I, e trattò e ottenne di maritar suo figliuolo Arrigo con Costanza figlia del gran Ruggeri, zia ed erede di Guglielmo II re di Puglia e Sicilia, che non avea figli. E cosí Federigo riacquistò con un matrimonio piú potenza in Italia a sua casa Sveva, che non ne avesser perduta egli e i suoi predecessori della medesima o della prima casa Ghibellina. Giá vedemmo il padre di Federigo avergli apparecchiato l'imperio, riuniendo le famiglie Guelfa e Ghibellina di Germania con un matrimonio; e con un matrimonio vedrem Federigo II acquistar diritti alla corona di Gerusalemme; onde si vuol dire che questa casa di Svevia precedesse casa d'Austria in quella politica matrimoniale, che fu a questa cosí felice. Ma allora ei si può dir pure, che quindi venissero le infelicitá, e finalmente la rovina ultima di casa Sveva. Perocché, anche alla politica rozza ed appassionata di quei tempi apparve chiaro il pericolo di lasciar gli Svevi potenti insieme nell'antico regno d'Italia o Lombardia, e nel nuovo di Puglia o Sicilia. Apparve a tutti gl'italiani, che non capaci d'idear l'indipendenza compiuta erano pure innamorati della libertá quale l'aveano: e quindi sorse la parte non piú solamente anti-imperiale in generale, ma anti-sveva, anti-ghibellina in particolare, cioè giá guelfa. E s'aggiunsero naturalmente a tal parte, e ne diventarono duci, i papi, pretendenti fin dall'origine alla signoria o supremazia del egno, tementi ora di tali vassalli imperatori. E quindi sulla antica inimicizia de' papi e degli imperatori crebbe, irreconciliabile ormai, quella de' papi del secolo decimoterzo e casa Sveva, la quale finí colla perdizione di questa; quell'inimicizia che può esser loro rimproverata da' tedeschi e non da noi.—Intanto Federigo, o per questo nuovo interesse, ovvero perché ei fosse di quegli uomini che migliorano tra gli affari umani, e sanno adattarsi a ciò che combatterono ma vedono inevitabile, Federigo si mutò tutto in favor de' lombardi, e in particolare de' milanesi. Concedette loro nuovi privilegi, riedificò Crema, anzi si volse contro ai duri cremonesi che il voleano impedire; e i milanesi festeggiarono improvvidi quelle nozze fatali, princípi di tanti nuovi guai all'Italia.—Nel 1187, fu presa Gerusalemme da Saladino. Urbano III (successore giá ad Alessandro III morto nel 1181, e a Lucio morto nel 1185) ne morí, dicono, di dolore; e succedettero Gregorio VIII per un mese, e poi Clemente III, che concitò la cristianitá al gran riacquisto. Ne seguirono paci in tutta quella; in Italia stessa pacificaronsi, guerreggiarono concordi in Oriente, le emule Genova e Pisa: e Federigo I, presa la croce, per Ungheria e Bulgaria [1189] passò in Asia; conquistò Icona, e morí poi bagnandosi in un ruscello [1190]. Rendiamo onore a' nostri avversari; fu uno de' piú nobili, ed ultimamente de' piú generosi che abbiamo avuto mai. Del resto, fu anch'egli uno di coloro che sprecarono le forze, la grandezza contro all'onnipotenza dell'opinione pubblica, del secolo.—Successegli Arrigo VI suo figlio, erede giá di Guglielmo II testé morto. Ma Tancredi, figlio naturale di Ruggeri, toglievagli il bel retaggio facendosi re. Quindi s'apre la guerra; Genova e Pisa armano per Arrigo; questi scende, ed è incoronato in Roma [1190] da papa Celestino testé succeduto. Poi muove contro a Tancredi, ma è respinto e risale a Germania, componendo per via una delle molte guerre che giá ferveano di nuovo tra cittá e cittá e signori in Lombardia.—Muore poi [1194] Tancredi; e allora Arrigo ridiscende, è riconosciuto re senza contrasto di qua e di lá dal faro; ma tiranneggia, spoglia i nuovi sudditi e fa piú che mai odioso il nome tedesco a quelli, a tutti gl'italiani, e a sua moglie stessa che dicono congiurasse contra lui.—Risalí nel 1195, ridiscese nel 1196, e morí a Messina nel 1197; lasciando lí regina Costanza, e giá incoronato re di Germania, d'Italia e di Sicilia il lor figliuolo di tre anni, Federigo II che fu poi miglior del padre, degno dell'avo.
14. Filippo e Ottone [1198-1218].—Morirono poco appresso Celestino III, a cui succedette [1198] Innocenzo III, un nuovo gran papa, e Costanza che lasciò a questo la tutela del figlio, forse perché la gran donna sentiva che egli era natural avversario, e volle sforzarlo a farsi cosí difensor del figliuolo fanciullo. Né le fallí il pensiero; i grandi animi s'intendono. Innocenzo III, esagerato forse nell'esercizio dell'autoritá pontificale fuor d'Italia, fu grand'uomo ad ogni modo; ed esercitò la tutela, anche piú che non sarebbe stato utile all'Italia, generosamente, fedelmente. Ma giá, senza badare a quel fanciullo, erano stati eletti re in Germania Filippo di Svevia, fratello d'Arrigo VI figliuolo di Federigo I e capo cosí della casa e della parte ghibellina; e contra lui, Ottone giá duca di Sassonia e Baviera, e capo di parte guelfa. E perché molto si parteggiò per l'uno e l'altro, e con li due nomi di parti pure in Italia, quindi ripetono gli scrittori antichi l'origine o almeno l'introduzione delle due tra noi. Ma i nomi tutt'al piú poterono esser introdotti allora; ché quanto alle parti, com'elle diventarono in breve (prevalendo gli Svevi o ghibellini) imperiale e tedesca l'una, anti-imperiale e anti-tedesca l'altra, elle esistevano da gran tempo certamente, ed esisteranno inevitabilmente, finché saranno imperatori tedeschi, ed uomini italiani, in Italia. Ed è perciò appunto che ai nostri dí alcuni, almeno incauti, vorrebbono risuscitare il nome «guelfo». Grande inutilitá! essendo piú chiaro, piú esplicito, piú buono, piú facile ad accettarsi ed ampliarsi il nome di «parte nazionale» od «italiana» od «antistraniera». Grande imprudenza! tale essendo il tôrci carico de' peccati antichi di quella parte, che vedremo farne meno certamente che non i ghibellini, ma farne pur troppi ancora.—I due competitori poi guerreggiaronsi a lungo in Germania; non discesero in Italia. Fu Ottone riconosciuto da Innocenzo l'anno 1200, ma vinto nel 1206 da Filippo.—Dopo la morte del quale [1208] riconosciuto Ottone universalmente in Germania, scese in Italia e fu incoronato a Roma [1209]. Ma progredito quindi a Puglia, per ispogliare del regno Federigo il pupillo di Innocenzo, è scomunicato da questo; e Germania se ne solleva, ed egli è sforzato a risalirvi [1211]. Quindi s'impiccia nelle guerre dei francesi ed inglesi; e sconfitto da' primi a Bovines, ne cade sua potenza in Germania, e poco men che derelitto muor poi nel 1218. E lasciò indisputato oramai quel regno, e perciò quel d'Italia e l'imperio a Federigo, lá risalito fin dal tempo della scomunica del competitore, lá tre volte rieletto, e due volte incoronato, ed or giovane adulto di ventidue anni.—Intanto in Italia era cresciuta la potenza di papa Innocenzo III, al modo solo in che sempre crebbe, in che solo può crescere la potenza temporale d'un papa, congiungendosi coll'opinione d'Italia che circonda quella potenza. In Roma accettò, ordinò la potenza nuova del senatore. Ed Innocenzo III era pure un grande, un forte, un arditissimo uomo. Ma il fatto sta, che sono appunto questi gli uomini i quali ripugnan meno alle concessioni opportune; sia perché le loro grandi menti fan loro vedere piú chiara tale opportunitá o necessitá; sia perché non temono di parer temere, né di lasciarsi soverchiare o prender la mano dalle concessioni. In Sicilia Innocenzo III guerreggiò in nome del pupillo contra Marcovaldo, tedesco, siniscalco del Regno, alleato de' saracini. In Toscana, sia in nome del retaggio di Matilde, sia in nome della libertá, guerreggiò, trattò colle cittá, e riunille quasi tutte (salvo Pisa che avea ottenuti nuovi privilegi ed era quindi sempre piú imperiale) in una prima lega toscana o guelfa, conchiusa a San Miniato. A Spoleto ed Ancona guerreggiò in nome delle antiche donazioni. Riuní piú territorio che niuno de' predecessori. E risuscitando le pretensioni di Gregorio VII (ma senza le necessitá ecclesiastiche di quello), fece intervenire la sua autoritá negli affari d'Ungheria, Polonia, Danimarca, Francia, Inghilterra, Aragona e Portogallo, tutta Europa. E tali intervenzioni furono utili senza dubbio parecchie volte. Se fossero esagerate talora, ne giudichi altri; non sono affari nostri. Sorti ai tempi di lui due grandi ed operosissimi santi, san Francesco, italiano, e san Domenico, spagnuolo, furono da lui approvati i loro due grandi ordini mendicanti, de' frati minori, e de' predicatori. Come il cristianesimo fu detto «pazzia della croce», questi si potrebbon dire «pazzie della caritá». L'esercitavano, passivamente colla povertá; attivamente, colle limosine, colla predicazione, colle missioni nella gentilitá fin d'allora. I predicatori furono accusati dagli uni, giustificati dagli altri, di crudeltá contro agli albigesi, eretici francesi; ed anche questa non è cosa nostra. È vero che in Italia pure poteron aiutare alle persecuzioni contro agli eretici catari e paterini che sorgevano allora non guari diversi dai francesi; ma piú sovente servirono alle pacificazioni, alle concordie di cittá e signori. E san Tomaso, domenicano, san Bonaventura, francescano, grandi teologi che fiorirono intorno alla metá di questo secolo, diedero senza dubbio (molto piú che non i primi poeti) alla coltura italiana quella spinta, quell'andamento progressivo, che non cessò piú per tre secoli, che la fece primeggiare tra tutte le contemporanee.
15. La quarta crociata, il principio del secondo primato italiano nel Mediterraneo [1201-1204].—Ma il fatto a noi principale di questo tempo, fu la quarta crociata; che, adempiutasi in parte per opera del medesimo Innocenzo III, e soprattutto de' veneziani, condusse alla conquista latina di Costantinopoli, e quindi al rinnovamento del primato italiano nel Mediterraneo. Noi vedemmo questo giá lago italiano sotto a' romani; non forse che questi od altri italiani vi navigassero e mercanteggiassero molto essi stessi; signori, cioè oziosi, in ciò probabilmente come in ogni cosa, si facevan servire di commerci da' greci, da' fenici, dagli egiziani, in ciò antichi. Tre vie sono dal Mediterraneo all'Indie e alla Cina, a quel commercio orientale che fu sempre finora il massimo del mondo: prima l'Egitto e l'Eritreo; seconda la Fenicia o Siria, l'Eufrate e il golfo persico; terza il Bosforo, il mar Nero e l'Alta Persia. Prima della fondazione di Costantinopoli, eran prevalse la prima e la seconda; dopo, prevalse questa terza, e Costantinopoli diventò non solamente via o scalo, ma emporio principale di quel commercio, e in breve anche gran centro industriale. Quindi, da quella fondazione, si può dir cessato l'antico primato nostro; e il Mediterraneo non piú lago italiano, ma per cinque secoli (dal quarto a tutto l'ottavo) lago greco; poi, per quattro altri (dal nono a tutto il decimosecondo) lago greco-arabo, tenendo gli arabi le due vie d'Egitto e Siria, e rimanendo ai greci la sola via del Bosforo o Costantinopoli. Certo, ne' due ultimi secoli s'eran giá frammesse non poche cittá italiane, Venezia, Amalfi, Genova, Pisa forse sopra tutte, tra le due nazioni primeggianti; e giá nelle tre prime crociate s'eran elle avvantaggiate co' trasporti de' guerrieri e lor impedimenti, col commercio del nuovo regno latino di Gerusalemme, e collo stabilimento di grandi fondachi, di vie e quartieri intieri italiani nelle cittá conquistate. Il Pardessus[1] ci dá una cronologia preziosa de' privilegi ottenuti da' genovesi; in Antiochia nel 1098 e 1127; in Giaffa, Cesarea ed Acri nel 1105; in Tripoli nel 1109; in Laodicea ne' 1108 e 1127:—da' veneziani in Giaffa nel 1099; in tutto il regno di Gerusalemme ne' 1111, 1113, 1123, 1130:—e da' pisani in Giaffa, Cesarea ed Acri nel 1105, e in Antiochia nel 1108. Ma, né tutte queste eran per anche conquiste vere o riconosciute, né il commercio od anche meno la potenza italiana eran tuttavia principali nel Mediterraneo, né anche meno era tornato questo all'onor di lago italiano. Ora sí, ciò rivedremo.—Venezia è poco venuta finora in queste pagine, per ciò che ella fu finora poca cosa all'Italia in generale; e che avea guerreggiato sí parecchie volte nell'Illirio e in Oriente, ma che, simile a Roma antica, dopo un quattro secoli d'esistenza, il territorio di lei non s'estendeva guari oltre al dogato, cioè alle lagune e ai lidi; ondeché la storia di lei non fu, lungo que' secoli, se non istoria tutto cittadina, tutt'empita di que' particolari di governo interno a cui dicemmo non poterci fermare. Bensí, è da avvertire in tutto, che le parti in lei furono molto men cattive che non altrove in Italia, non infette di dipendenza straniera, non di feodalitá: e quindi meno acri tra nobili e plebei, men varianti il governo; il quale fu sempre piú o meno equilibrato di democrazia, aristocrazia e quasi monarchia, un Consiglio generale, i senatori e lor Consigli, il duca o doge. La situazione avea aiutata l'indipendenza, l'indipendenza avea serbata la concordia, e la concordia aveva compiuta e sancita l'indipendenza.—Ultimamente, da un cinquant'anni, parecchie contese e guerre le erano sorte contro al re d'Ungheria per l'Illirio, contro all'imperator greco per gli stabilimenti orientali. Ora apparecchiandosi la quarta e grande crociata, promossa dall'operoso Innocenzo III, i crociati fecer patto [1201] con Venezia d'un grande armamento navale per il passaggio. Ma, non essendo venuti tutti i patteggiati, e non potendo i venuti pagar il prezzo totale pattuito, convennesi che per quel che ne mancava, essi servirebbon la repubblica d'un colpo di mano per riprendere Zara al re d'Ungheria; e cosí fecero in pochi dí [1202]. Quindi incorati dal successo, veneziani e crociati dánno retta ad Alessio il giovane (figlio d'Isacco imperator greco testé spogliato dal fratello Alessio), che li esortava a riporre il padre sul trono, e prometteva gran paga e grandi aiuti poi. Il papa non voleva; ma i crociati per aviditá, i veneziani per aviditá e vendetta accettan l'impresa. Era a capo Enrico Dandolo doge, vecchio d'oltre a novant'anni, cieco o poco meno, eppure arditissimo, che aveva presa la croce testé in San Marco. Arrivano dinanzi a Costantinopoli, approdano alla costa d'Asia, varcano il Bosforo, e fugano i vili greci. Seguono parecchie fazioni, e finalmente un assalto per terra e mare; dove il vecchio doge gridava a' suoi, volerli far impiccare se nol mettean de' primi a terra; e messovi, vinse egli, ed impedí i francesi d'esser vinti. Non ancor presa la cittá, fuggí Alessio imperatore; e, riposti in trono Isacco ed Alessio il giovane, entrarono Dandolo e i crociati veneziani e francesi [luglio 1203]. Ma, come succede tra restaurati e restauratori, rimaser per poco alleati greci e latini, disputando sulle promesse reciproche. Riapresi la guerra; il popolo di Costantinopoli si solleva contro a' due principi (pur come succede) caduti in sospetto di vil obbedienza a' restauratori, lí depone, e grida imperadore Alessio duca, detto Murzuflo. Contra costui i crociati assediano, assaltano di nuovo la cittá, e prendono e pongono a fuoco, a sangue, e massime a grandissima ruba [aprile 1204]. Poi, tra molti scherni fatti da' semibarbari ma prodi latini a que' greci serbatori della antica coltura (portarono una volta una penna ed un calamaio in processione tra lor lucide armi vittoriose) nominano un imperator latino, Baldovino conte di Fiandra. Ma spartiscon l'imperio: un regno di Tessalonica al marchese di Monferrato; Peloponneso (giá detto Morea da' mori o gelsi che la arricchivano allora) sminuzzato tra vari signori feodali; e un quarto e mezzo dell'imperio dato in cittá ed isole varie a Venezia. La quale, per vero dire, non le occupò; né le poteva occupare con sua popolazione, non salita per anco oltre a due o trecentomila anime; ma le ne rimasero a lungo parecchie, e principalmente Candia che fu poi massima ed ultima delle colonie sue. E quindi in breve, per emulazione, per quell'imitazione, che, a malgrado le inimicizie de' governi, trae sovente ad imitarsi e seguirsi i popoli connazionali, i pisani e massime i genovesi fecero pure stabilimenti orientali; e cosí fu acquistata tutta questa via al commercio italiano, il quale, caduti gli arabi, giá praticava le altre due; e cosí tra le tre incominciò il secondo primato nostro nel Mediterraneo; cosí ricominciò questo ad esser lago italiano. E tal durò poi, come giá anticamente, tre secoli o poco piú. L'istituzione, il nome de' «consoli» dato da quegli italiani ai capi e giudici de' loro commercianti in ogni cittá orientale (come a quelli che erano nelle madri patrie), ed esteso poi in tutto il globo, rimane anch'oggi monumento di quel nostro primato commerciale.
[1] Tableau, p. VIII bis.
16. Federigo II [1218-1250].—Federigo era giovane di ventiquattr'anni, quando rimase libero del competitore. Dimorò due anni in Germania a confermarvi sua potenza.—Scese [1220] a farsi incoronare da papa Onorio, e promise fin d'allora prender la croce per la ricuperazione di Gerusalemme. Ma passò prima a farsi riconoscer nel Regno, ed ordinarlo. Ridusse i saracini, che pur rimanean numerosi in Sicilia, e ne trasportò i resti di qua dal faro, a Lucera e Nocera; dove stanziarono e fiorirono, e ond'egli li trasse sovente poi a guerreggiare contro ai papi e agli italiani, e ne fu odiato tanto piú. Die' leggi a tutto il Regno; buone per quel tempo, ma che improntate di feodalitá mantennero colá, piú a lungo che altrove in Italia, quell'ordine o disordine. Edificò castella a farsi forte nelle terre, nelle cittá, uno principalmente in Napoli, la quale diventonne poi residenza regia e capitale. Ed ivi istituí una universitá, seconda in Italia dopo quella giá piú che centenaria di Bologna. E colto, prode e corteggiator di donne, si compiacque di poesia e poeti in lingue romanze e volgari, e scrisse nella nostra che sorgeva. Nel 1225, sposò quella Iolanda di Lusignano, figlia ed erede del re spogliato di Gerusalemme, che fu terza donna accrescitrice di pretensioni in casa Svevia. E, nel 1227, salí finalmente sulle navi a Brindisi per il nuovo regno suo. Ma infermati esso e molti suoi, sbarcò ed indugiò un altro anno, e fu perciò scomunicato da Gregorio IX, papa nuovo di quell'anno, gran papa politico, e incominciatore di quella gran contesa papalina o guelfa o italiana, contro agli Svevi or napoletani, che durò quarant'anni. E qui, al solito, non pochi moderni sofisticano per trovar in questi papi grandi disegni di monarchia universale. Ma qui pure il disegno fu piú semplice, e qui poi tutto italiano. Come tutti gli Svevi, Federigo II era principe superbissimo, soverchiatore, sprezzator di tutti e massime de' papi, e non dirò della religione cristiana, ma almeno di quelle che sono sempre convenienze, ed in quel secolo parevano essenza di lei. E cosí tenuto per poco credente o mal credente, o come allora dicevasi, epicureo, paterino, eretico e quasi maomettano, saracino o pagano, ei sollevò contro sé l'opinione universale, la italiana principalmente, quella de' papi sopra tutti. I quali poi secondarono l'opinione nazionale, tanto piú volentieri che non piú solamente la riunione dell'imperio-regno d'Italia col regno di Puglia e Sicilia faceva gli Svevi, ma le qualitá personali di Federigo II lo facevano piú pericoloso. E fecero bene e naturalmente senza dubbio in ciò; fecero male solamente in questa o quella esagerazione di tal politica, in questa o quella scomunica; ecco tutto. Effettuato il passaggio [1228] con meno gente che l'anno addietro (causa di nuova ira del papa e nuova scomunica), Federigo guerreggiò poco in Asia, trattò ed ottenne per sé Gerusalemme, ma lasciò il Santo Sepolcro in mano a' maomettani [1229], nuovo scandalo e nuova ira. Tornò quindi nel Regno contra Lusignano, il proprio suocero, che mosso dal papa l'aveva occupato; né gli fu difficile cacciar costui, riordinar il Regno, rinforzarvisi.—Quindi si rivolse a Lombardia; dove Milano, tornata a sua primiera avversione contra gli Svevi o ghibellini, e risorta a capo di parte guelfa, né allora né poi non aprí mai le porte all'imperatore per lasciargli prendere la corona d'Italia. E giá da tre anni [1226] avea (del resto, secondo suoi privilegi) rinnovata la lega di Lombardia. Eranvi allora entrate Milano, Bologna, Piacenza, Verona, Vicenza, Treviso, Padova, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo, Torino ed Alessandria, ed accostatesi poi parecchie altre, Venezia stessa. Ma questa seconda lega lombarda, anche men della prima, non mirò all'indipendenza; piú forti tutte queste cittá, per essersi esercitate da quarant'anni in una libertá quasi compiuta, è anche piú da stupire che non sapesser compierla. E perché appunto questo era l'unico scopo buono, naturale, che la nuova lega potesse avere, ed ella non l'ebbe, non si scorge in essa nessuno scopo, né disegno, né idea. La prima avea volute le regalie, i consoli, troppo poco forse, ma in somma quel poco, e l'aveva ottenuto; la seconda non aveva che a proseguire; e non volle ciò, né nulla. La prima era difensiva, conservatrice de' diritti acquistati, e conservolli; la seconda era offensiva, ed offese, ma senza pro, senza acquisto ulteriore. Non fu altro che odio, parte guelfa, lega guelfa, contra odio e parte e leghe ghibelline, che pur sorsero qua e lá. Riuscí un cumolo di fatti peggio che mai moltiplicati e sminuzzati; piú brutti naturalmente dalla parte straniera e ghibellina, ma non belli nemmeno da parte guelfa, mediocri tutti. Il vero è che senza grande scopo le parti non possono aver né grandi virtú né grande effetto; e che queste del secolo decimoterzo non servirono a nulla, se non a far crescere i signorotti o tirannucci, giá sorgenti nelle cittá.—Le parti di quel secolo ebbero vizio tutto contrario a quello delle presenti. Il quale è d'oltrepassare gli scopi primieri e buoni, di pigliarne altri via via ulteriori e cattivi: dopo la libertá, l'uguaglianza, que' socialismi e comunismi, che sono barbare idee in barbare parole; dopo il principato costituzionale rappresentativo, la repubblica, e non giá niuna sapientemente equilibrata, ma la democratica e sociale; dopo, ed anzi prima dell'indipendenza, l'unitá. Quando sapranno le parti italiane prefiggersi scopi buoni e non oltrepassarli, quando non peccare né per difetto né per eccesso, non essere né tutto stolte né tutto matte? Non mai, diranno alcuni di que' superbi che troncano ogni difficoltá facilmente con qualche sentenza dispregiativa degli uomini; gli uomini son sempre stolti o matti; le parti, sempre mancanti od eccessive; chi le spera moderate, prudenti, sagge, capaci di scegliersi scopi buoni e contentarsene, spera da stolto o da matto; egli stesso è da compatire. Ma, rispondiamo noi compatiti, ma Inghilterra ed America, e il piccolo continental Belgio a' tempi nostri, ed un altro pur piccolo e continentale Stato in questi ultimi dí; ma Olanda e Svizzera ne' secoli moderni; ma Venezia (quasi sola, per vero dire) nel nostro medio evo, ed Atene e Sparta e Tebe; ma tutte insomma le repubbliche, tutti gli Stati comunque liberi, ebbero parti; e seppero averne sovente delle moderate, non inefficaci come le nostre del secolo decimoterzo, o almeno non cosí matte come queste che ci si dicono ora naturali ed inevitabili al secolo decimonono; e non furono grandi e felici, se non appunto quando e perché il seppero: ondeché, noi non veggiamo per noi questa necessitá di non averlo mai a sapere od imparare; e cosí ci ostiniamo, contro a' dispregiatori e disperanti, a sperare venga pure un dí che anche le parti italiane non saran piú stolte né matte, non senza scopo, e non con inaccessibili e inarrivabili o scellerati. Mi si perdoni la digressione, e torniamo alle stoltezze del secolo decimoterzo.—Tre famiglie principalmente ne crebbero: gli Ezzelini, tedeschi venuti con Federigo I, cresciuti in Vicenza, Treviso, Padova ed all'intorno, ghibellini arrabbiati, famosi per immani crudeltá: gli Estensi, che vedemmo antichi italiani, antichi guelfi, anzi battezzatori di quella parte, fedeli ad essa, or cresciuti in Modena e Ferrara, gente molto migliore, ma, come pare, di generazione in generazione mediocre, e di che non trovasi mai un gran fatto, un gran nome (se non vogliasi accettar nella storia quelle adulazioni dell'Ariosto e del Tasso che sono venute a noia anche nella loro bella poesia); e finalmente i Torriani, gente antica d'intorno a Milano che crebbe facendosi capo di quel popolo. Del resto, dopo poca e oscura guerra, fecesi [1230] una prima pace tra la lega guelfa e il papa per una parte, e Federigo dall'altra. Ed estesesi via via a molte cittá per opera de' nuovi frati, principalmente i minori o francescani, e sopra tutti di sant'Antonio di Padova, e di quel fra Giovanni da Vicenza, O' Connello del medio evo, che dicesi adunasse una volta presso a Verona le centinaia di migliaia di uditori [1233]. Ma tutto ciò durò poco. Ché del 1234, fosse o no ad istigazione del papa e de' guelfi, sollevossi primo in Germania Arrigo figliuolo dell'imperatore; e questi v'accorse, e, senza combattere, lo prese e mandò prigione in Puglia, dove poscia morí. E risollevatasi la lega lombarda e guelfa, e non bastando contra essa Ezzelino III, capo de' ghibellini, ridiscese Federigo [1236] per Verona, e prese Vicenza, mentre Ezzelino prendeva Padova; e risalí quindi a Germania. Ridiscese per la terza volta [1237] piú forte, e diede allora a Cortenuova una gran rotta a' milanesi. Né perciò osò assalir Milano. Assediò sí Brescia parecchi mesi, ma invano [1238]; ed ebbe a satisfarsi di correr Lombardia e Piemonte, riaccostando a sé le cittá men forti o men costanti, e lo stesso marchese d'Este. Allora Gregorio IX scomunicava Federigo [1239]; e quando questi scese a Toscana e minacciò Roma, ei predicò contra lui una crociata [1240]. Convocato quindi un concilio a Roma, ed essendosi i prelati francesi imbarcati in Genova che era oramai tutta guelfa, Pisa, che era sempre tutta ghibellina, armò all'incontro una gran flotta; e ne seguí [3 maggio 1241] una gran battaglia navale alla Meloria, dove Genova fu rotta, ed onde saliron Pisa e i ghibellini piú che mai al primato di Toscana. Dicesi ne morisse di dolore il terribil papa Gregorio, e vacò poi la sede da due anni.—Finalmente, a mezzo il 1243, fu eletto Innocenzo IV, che da cardinale era stato amico a Federigo, e gli fu papa nemico peggio che i predecessori. Stretto da' ghibellini di Roma e d'intorno, fuggí a Genova patria sua [1244], e quindi a Lione in Francia [1245]. Ed ivi adunò un gran concilio a provvedere ai pericoli della cristianitá nuovamente spogliata di Gerusalemme, ed assalita in Polonia ed Ungheria dall'invasione dei mogolli successori di Gengis khan. Ma allor si vide a che servisse quel vantato ordinamento della cristianitá sotto a' suoi due capi temporale e spirituale. I due capi eran divisi, e si divisero tanto piú dopo il concilio, che scomunicò pur esso Federigo. Il papa lo depose; molte cittá l'abbandonarono; molti signori delle Due Sicilie gli congiuraron contro. Dicesi che un suo medico tentasse avvelenarlo; e che Pier delle Vigne suo cancelliero ed amico, che gli avea condotto costui, ne cadesse in sospetto ed in tal disperazione, che perciò si uccidesse urtando il capo al muro [1246]. Allora il domato Federigo domandò pace e poco men che mercé, implorò l'intervento di san Luigi re di Francia, e promise riprender la croce. Venuto a Torino per accostarsi al papa, fu richiamato indietro dalla sollevazione di Parma; vi pose campo all'intorno, e tentò imitare la fondazione di Alessandria, fondando lá presso una sua cittá ghibellina che chiamò Vittoria; ma, quasi a scherno di fortuna, ei fu vinto colá [1248], e la cittá incipiente fu distrutta. Le cose andavan meglio per lui in Toscana; i ghibellini s'insignorivano della stessa Firenze, capo de' guelfi. Ma intanto Bologna raccoglieva intorno a sé le cittá, le milizie della parte, e dava [1249] una gran rotta agli imperiali, e vi prendeva Enzo, uno de' non pochi figliuoli naturali di Federigo, ornato del nome, non della potenza, di re di Sardegna. Fu gran trionfo a' bolognesi, i quali mostrano oggi ancora il luogo dove trassero e tennero il giovane in pomposa prigionia per venti e piú anni, finché morí. All'incontro, prosperavano i ghibellini sull'Adige e la Brenta; vi prosperava e inferociva peggio che mai Ezzelino tiranno. Era, come si vede, tra Napoli ghibellina, Roma guelfa, Toscana ghibellina, Bologna guelfa, Padova e il resto ghibellino, un frapporsi, un intrecciarsi di parti, di guerre, di vittorie e sconfitte che doveva parer insolubile. Fu sciolto dalla morte di Federigo II [13 dicembre 1250] avvenuta in Puglia, dov'erasi ritratto, e rimasto poco men che ozioso, forse scoraggiato, da un anno. Fu indubitabilmente uomo di grandi facoltá native. Se la potenza tedesca avesse potuto ordinarsi definitamente in Italia, sarebbesi fatto da lui, che riuniva le due potenze d'imperatore, re d'Italia e delle Due Sicilie, che imperiò e regnò oltre a cinquant'anni, che quasi sempre dimorò tra noi, che fu, si può dire, piú italiano che tedesco, e fu grand'uomo. Ma tutte queste qualitá facendolo piú pericoloso, il fecero anche piú odiato. Egli pure fu (mi scuso di ritornar cosí sovente a tale osservazione, ma ritorna sovente il fatto) di quelli che sprecano le facoltá, l'operositá, la fortuna, la grandezza contra l'opinione dei piú, che è onnipotente quando è giustamente progressiva.
17. Fine degli Svevi [1250-1268].—La morte di Federigo II lasciò l'Italia libera d'imperatori per sessant'anni, e ne' diciotto primi precipitò la casa di Svevia. Corrado suo figliuol primogenito, giá incoronato re di Germania, successe lá e vi rimase un anno; mentre i fratelli di lui Arrigo e Manfredo bastardo governaron per esso Sicilia e Puglia; ed Innocenzo IV tornava a Italia trionfando, per Genova, Milano, Ferrara, Bologna, Perugia, e faceva risorgere da per tutto parte guelfa.—Sceso Corrado [1251], venne nel Regno, ebbelo di mano di Manfredo; e con lui riprese e puní Napoli ed altre cittá sollevatesi per il papa [1252]. Il quale allora offrí quel regno per la prima volta a Riccardo, poi ad Edmondo, fratello quello, figlio questo del re d'Inghilterra; e l'ultimo l'accettò, ma non venne.—Morto poscia Corrado [1254], e succedendogli in diritto Corradino figlio di lui, fanciullo di due anni, rimasto in Germania, sollevaronsi i siciliani contro a' tedeschi e saracini; e il papa s'avanzò nel Regno per impossessarsene. Manfredi venivagli incontro; ma i suoi cavalieri prendeano zuffa con uno de' guelfi del papa, e l'uccideano; ed egli fuggiva e raggiungeva i saracini di Lucera devotissimi di sua casa; e risollevava il Regno. Moriva Innocenzo IV nel medesimo anno; e succedevagli Alessandro IV minor di lui, ma non meno aspro avversario degli Svevi, di tutti i ghibellini. Non seppe conservare il Regno; Manfredi lo riconquistò tutto in breve.—Alessandro predicò la croce contra Ezzelino, il tiranno di Verona, Vicenza, Padova ed all'intorno; il quale era cresciuto a invidie e crudeltá, che non iscompariscono al paragone con quelle de' marchesi e delle cittaduzze e degli altri tiranni piccoli o grandi, antichi o moderni, italiani o stranieri; ondeché contra costui, fu, almeno una volta, opera santa la crociata di cristiani contra cristiani. Tre anni durò, tenendosi stretti i ghibellini all'infame lor capo. Finalmente [1259] due signori principali di questi, Oberto Pelavicino e Buoso da Doara, sollecitati l'un contro l'altro dal tiranno, scoprono il doppio tradimento, abbandonano il traditore, s'aggiungono alla lega guelfa; ed Ezzelino che avanzavasi verso Milano, si trova rinchiuso tra questa e l'Adda, in mezzo a un cerchio di nemici; combatte a Cassano, è vinto, ferito e preso, e si lascia morir ferocemente. Quasi tutta Lombardia ne rimase guelfa. I Torriani ne crebbero in Milano; gli Scaligeri ne sorsero all'incontro in Verona, e vi continuarono la potenza, il capitanato ghibellino di Lombardia.—Intanto [1258] Manfredi, udita, o data, una falsa nuova della morte di suo nipote re Corradino, avea presa la corona di Puglia e Sicilia; e udito che quegli viveva, serbolla, nominandolo suo successore. Quindi volendo rinforzarsi in Toscana v'aiutava i ghibellini, i fuorusciti di Firenze. Seguivane [1260] la battaglia di Montaperti (4 settembre) immortale ne' versi di Dante, famosa allora per la vittoria de' ghibellini, il loro ritorno in Firenze, e il lor disegno di distruggerla, impedito dal solo Farinata degli Uberti.—L'anno appresso [1261] è quello della caduta dell'imperio latino in Costantinopoli; dove si rinnovava il greco, e si fondava, in odio a' veneziani, la colonia di Galata da' genovesi rivaleggianti. E morto in quello papa Alessandro IV, succedevagli Urbano IV, francese, piú che mai caldo nell'odio italiano contro agli Svevi, e nell'impresa di cacciarli dal Regno. Subito l'offrí a Carlo d'Angiò, conte di Provenza fratello di san Luigi re di Francia, facendovi rinunziare quell'Edmondo d'Inghilterra a cui era stato dato dal predecessore [1263]. Non poté adempier l'impresa, ma lasciolla morendo [1265] a Clemente IV pur francese, anzi provenzale, e tanto piú caldo in essa.—Allora eleggevasi Carlo a senator di Roma, e la guerra contra Manfredi era dichiarata crociata. Carlo avviava sua moglie, l'ambiziosa Beatrice, con un forte esercito per Piemonte e Lombardia; e venuto egli per mare a Roma con mille cavalieri, vi riceveva l'investitura del Regno. Sceso quell'esercito, congiungevasi co' Torriani e i guelfi lombardi, batteva Pelavicino e i ghibellini, e per Romagna raggiungeva Carlo nuovo re. Avanzavasi questi da Roma a Benevento, e vi s'avanzava dal Regno re Manfredi, mal secondato, giá tradito da' suoi. Seguiva una gran battaglia (26 febbraio 1266); e Manfredi v'era ucciso, seppellito sotto un monumento militare d'un sasso gettatogli da ogni uomo, diseppellito e buttato fuori dalle terre del papa da un feroce legato. Anche Manfredi fu principe di conto, non indegno del padre. Ma non mi par quell'eroe, massime non eroe d'indipendenza, di nazionalitá italiana, che ne vorrebbon fare taluni. Il fatto sta che per il gran desiderio che se n'aveva testé, e non avendone allora niun vero, se ne fingevano degli immaginari.—Inferocirono subito i francesi in Benevento, nel Regno occupato senza contrasto. Quindi, fin d'allora, a sollevarsi contr'essi l'opinione universale, le speranze ghibelline. Chiamarono di Germania Corradino, bello e prode giovanetto di sedici anni, che la madre non voleva lasciar partire, che partí con gran séguito di principi e signori tedeschi. Giunse a Verona sul finir del 1267, mentre ghibellini e saracini si sollevavan per lui nel Regno. Quindi dovette accorrere Carlo, lasciando Toscana ove erasi avanzato a rifarla guelfa. Giunsevi Corradino, vi fu festeggiato e rinforzato da' pisani, s'avanzò a Roma lasciata dal papa, penetrò negli Abruzzi fino a Tagliacozzo. Ed ivi fu incontrato da Carlo, men forte ma piú astuto capitano. E combattutavi [23 agosto] una gran battaglia, rimase vincitore primamente Corradino, poi, per l'arte (suggeritagli da un vecchio suo guerriero) di tener intatta una riserva, Carlo d'Angiò. E preso il giovane infelice e scelleratamente giudicato, perdé sul palco il capo innocente, su cui s'erano accumulati tanti odii, odii guelfi contra Svevi, odii papali contra imperatori, odii cristiani contra saracini, odii italiani contra tedeschi. Dal palco gettò un guanto in mezzo alla folla degli spettatori; ed uno di essi il portava poi a Costanza figliuola di Manfredi e regina d'Aragona, solo resto oramai di casa Sveva.—Enzo, quell'altro innocente, moriva quattro anni dopo in suo carcere a Bologna.
18. Il terzo periodo della presente etá in generale [1268-1377].—Segue il periodo della potenza angioina, meno infelice, men pericolosa alla libertá, giá confermata, de' comuni. Perciocché per quanto severo sia il giudicio che si deve fare degli ultimi papi, inutilissimamente qui chiamatori di nuovi stranieri, il fatto sta che la libertá d'Italia non fu mai cosí presso a compiuta come ne' due secoli seguenti, come in generale tutte le volte che alla signoria o preponderanza tedesca sul settentrione d'Italia si contrappose staccato il Regno del mezzodí. Allora, per poco che non sieno mediocrissimi, paurosissimi quei re lontani dalla prepotenza tedesca, sorge un equilibrio naturale, che dá fiato, che diminuisce la servitú della penisola intiera; e se fosse mai sorto, se sorgesse mai un gran principe colá, non è dubbio che la servitú cesserebbe del tutto. Se Carlo I fosse stato simile al gran fratello san Luigi di Francia (ma forse, se tale, non sarebbe venuto a Italia), sarebbesi ciò allora adempiuto. Ma qui fu il gran danno, qui la colpa del secolo che siam per correre; né Carlo I né niuno degli Angioini non furono grandi principi mai; furono principi semibarbari, semifeodali, non occupati in altro che nell'estendere lor potenza personale, senza uno di quei pensieri di riunire in un corpo una nazione, di appoggiarsi sugli interessi generali, sulle opinioni di lei, di riunirla quando divisa, di ordinarla quando scomposta, di liberarla quando dipendente, o di accrescere la somma delle forze, della virtú, della felicitá di lei, quando giá sia indipendente; i quali, per vero dire, son pensieri di etá piú progredite, od anzi di pochi eletti in queste stesse. E tuttavia anche allora, anche non bene costituito il Regno, il costituirsi antitedesco di esso fu tal fatto, che se ne muta quinci innanzi l'andamento di tutti i fatti minori; che dopo un secolo di prepotenza tedesca combattuta ed abbattuta, segue un secolo di prepotenza francese; che l'imperio, gli imperatori eletti, od anche discesi ed incoronati, ne scemano del tutto d'importanza; e che non piú sulla successione di questi, ma su quella dei re Angioini, ci pare dover oramai dividere ed ordinare la successione degli eventi.—Del resto, noi continueremo per forza a tralasciare le guerre civili di cittá a cittá, ed anche peggio le cittadine entro ad ogni cittá, e gli accrescimenti piú che mai frequenti de' tirannucci in ciascuna, o de' signori feodali, quando tutti questi fatti non sieno importantissimi alle vicende di tutta Italia, le quali sole qui proseguiamo. Noi non abbiamo spazio da badare agli interessi, alle memorie anche gloriose (se ci sia lecito dir cosí) di niun campanile, sia pur quello di Santa Maria del fiore di Firenze, di San Marco di Venezia; né agli interessi o alle genealogie di nessuna famiglia principesca, sia pur quella d'Este o di Savoia. All'incontro, ci pare importante a notar fin di qua della parte guelfa; che siam per vederne i piú gravi errori, gl'imperdonabili pervertimenti, il passar di lei sotto a capi stranieri, e quindi l'esagerarsi, il dividersi, il perder lo scopo qualunque che pur aveva avuto, il ridursi piú che mai a nome vano e nocivo di discordie. E noteremo delle cittá in generale: che elle giá non si reggevano né si resser piú in niuna di quelle forme originarie, quasi universali e piú semplici, de' consoli del secolo decimosecondo, o de' podestá del principio del decimoterzo; che ogni governo cittadino s'era mutato in forme diversissime, e variabilissime, secondo la preponderanza de' ghibellini o de' guelfi, de' nobili antichi o de' nuovi, de' popolani dell'arti maggiori o delle minori, od anche dell'ultima plebe, ad ogni decennio, ad ogni lustro, ad ogni anno; che questi governi quali che fossero, quand'eran di parecchi, si chiamarono la «Signoria»; e quando d'uno costituito legalmente o illegalmente, il «signore» dagli amici, il «tiranno» da' nemici; e che insomma le divisioni e suddivisioni e diversitá e gelosie ed invidie e pettegolezzi d'Italia non furono cosí moltiplici mai come in questo secolo. Il quale tuttavia è il secolo di Dante (nato l'anno appunto della discesa di Carlo, 1265) e di Petrarca, Boccaccio, e Giotto e Arnolfo di Lapo e Nicolò Pisano, il secolo in che piú progredirono a un tratto la lingua, le lettere, le arti nostre. Tanto a tutte le colture generalmente, alle lettere principalmente, valgono l'indipendenza anche incompiuta, la libertá anche coi suoi inconvenienti ed abusi ed eccessi.
19. Re Carlo I d'Angiò [1268-1285].—Morto Corradino, trionfò parte guelfa. Morto Clemente IV un mese dopo, e non succeduto nessun papa quasi per tre anni, re Carlo rimase solo capo della parte trionfatrice, capo straniero della parte nazionale, che fu il seme di tutti i danni. In Toscana, in Lombardia, in Piemonte le cittá si rifacevan guelfe, e le piú facevan Carlo capo di lor vari governi, di lor signorie, signore. Firenze era stata delle prime (fin dal 1266); e perseverò poi guelfa sempre, non ultima causa di sua grandezza, di sua coltura; l'ispirazione nazionale è somma delle ispirazioni. In Lombardia, i due grandi capi ghibellini Oberto Pelavicino e Buoso di Doara finirono, quegli poco piú che signor privato di castella, questi spoglio del tutto. Se Carlo si fosse contentato d'Italia, egli l'aveva allora. Ma fu dapprima distratto da quella crociata ch'ei fece col fratello san Luigi in Africa, dove questi morí [1270]; e sempre poi dal disegno di riconquistar l'imperio greco. E fosse leggerezza naturale o perché le menti ristrette non sanno attendere a un tempo alle cose presenti e alle ulteriori, fu meravigliosa la noncuranza con che egli e i suoi francesi malcontentarono i regnicoli, gl'italiani tutti, gli stessi guelfi. Naufragate le navi genovesi al ritorno d'Africa sulle coste di Sicilia, ei le fece predare; era uso del tempo in casi soliti, ma scandaloso anche allora contra crociati ed alleati. Guido di Monforte, uno de' principali francesi, che aveva perduto il padre nelle guerre contra Inghilterra, trovandosi un dí in chiesa con Arrigo principe inglese, lo trucidò a personale e vile vendetta, fuggí di chiesa, e ripentito rientrovvi a tirar fuori l'ucciso pe' capegli, come gli era stato tirato il padre; e re Carlo lasciò impunito quell'arrabbiato. Poi, gli storici concordano ad accusare Carlo e i francesi di ruberie, di lussi e lussurie; tanto piú insultanti a que' repubblicani, che eran rimasti semplici e costumati fin allora, e che allora appunto (com'è notato da Dante e da' cronachisti) incominciarono a corrompersi. Poi, come succede a tutte le parti vittoriose di dividersi in moderati ed esagerati, cosí fin d'allora subito si divise parte Guelfa in quelle due suddivisioni che poc'anni appresso furono famose in Firenze sotto ai nomi di «bianchi» e «neri»; e i papi seguenti, quando furon nazionali, furono in generale moderati; e gli Angioini e francesi e lor papi furono sempre esagerati. Ed insomma, per legge naturale, inevitabile, in pochi anni gli stranieri nuovi furono odiati, certo non meno, forse piú che gli antichi. Tutto ciò incominciò a vedersi quando fu fatta finalmente l'elezione di Gregorio X [1272]; uno de' papi, che seppe far meglio insieme i due uffici di pontefice e di principe, che adoprò i quattro anni del troppo breve pontificato a far paci dentro e fuori Italia, in tutta la cristianitá, per riunirla ad una nuova crociata. Anche lasciando la santitá e l'utilitá politica di quell'imprese a cui dopo Gregorio X niuno attese piú per due secoli, restano belli e superiori alla sua etá gli sforzi per cui egli fece richiamar i ghibellini nelle cittá guelfe di Toscana, e conchiuder paci tra re Carlo e Genova, tra Venezia e Bologna. Carlo all'incontro faceva ricacciare i ghibellini ripatriati. Come Gregorio primo e il secondo e il settimo, cosí il decimo segna un'epoca, un cambiamento nella politica dei papi. Fu primo de' guelfi moderati. Ancora Gregorio riconobbe l'imperator greco, e riuní (per poco pur troppo) quella chiesa alla latina; e re Carlo trattò all'incontro, s'apparentò con Baldovino l'imperator latino cacciato. Finalmente attese Gregorio X a far cessare l'interregno nell'imperio occidentale, vanamente disputato da parecchi anni tra due competitori lontani ed impotenti, Alfonso re di Castiglia e Riccardo di Cornovaglia, principe d'Inghilterra. Scartati quelli, fu ora eletto in Germania a re de' romani (cosí incominciavasi a chiamar il re di colá, investito oramai, per prescrizione, del diritto d'esser incoronato imperatore) Rodolfo d'Absburga, lo stipite della prima casa imperiale d'Austria. Ma quest'ultima non fu certamente buona opera politica per l'Italia, a cui aveva giovato giá l'interregno, a cui avrebbe anche piú, se si fosse lasciato cader in disuso il funesto nome, le funeste pretensioni: ondeché ciò che dicemmo de' comuni e di lor leghe, è a dir ora di questo e de' seguenti od anzi forse di tutti i papi; che essi non seppero innalzarsi mai a desiderare od imaginare né l'indipendenza compiuta d'Italia, né, finché durarono gl'imperadori romani, una cristianitá senza tal capo ed ornamento. Del resto, Rodolfo fu forse il migliore che s'avesse mai. Principe non solamente prode e gran guerriero, ma (lo dico con intimo convincimento) previdentissimo politico, attese tutta sua vita a fondare, ad estendere la potenza di sua casa in Germania; e la fondò ed estese molto bene in que' paesi d'Austria e Boemia, su quel Danubio, dove fu, è, e sará sempre il nerbo, la veritá di lor potenza; trascurò l'Italia dov'era lo splendore, ma dov'era e sará sempre la fallacia di essa. Non vi scese mai, diede appena speranze di venirvi ad alcuni ghibellini, confermò ai papi (piú esplicitamente che non fosse forse stato fatto mai da Pipino, Carlomagno o Matilde) quegli Stati ch'essi hanno oggi ancora. E tutta questa germanica politica di casa d'Austria, ei la fondò e tramandò cosí bene, che rimase piú o meno quella di tutti i discendenti di lui, imperadori o non imperadori, per due secoli, fino a Massimiliano e Carlo V. Cosí questi non l'avesser lasciata, per tornare a quella delle due case ghibelline di Franconia e di Svevia! L'Italia ne sarebbe da parecchi secoli, non la piú grande, non la primeggiante probabilmente, ma almeno la piú felice fra le nazioni del mondo; e casa d'Austria non avrebbe perduto il principato di Germania per proseguir sempre quel d'Italia, e non averlo tranquillo mai; e Germania, rimasta piú felice essa pure, e piú unita, avrebbe adempiuto meglio l'ufficio suo passato di difenditrice, adempirebbe meglio il suo presente o futuro di estenditrice della cristianitá, all'Oriente. Ma che? Dall'epoca appunto a cui siam giunti, dall'abbandono delle crociate, dal non ascolto dato a Gregorio X, i principi cristiani quasi sempre amarono aggirarsi, intricarsi nel medesimo cerchio di politica ristretta europea gli uni contra gli altri, anziché estenderla agli interessi esterni e comuni.—Ad ogni modo, morto il buon papa Gregorio X, come appunto s'apparecchiava a passar in Asia egli stesso [1276], succedettergli in poco piú d'un anno quattro papi: Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI e [1277] Niccolò III imitator di Gregorio, paciero e guelfo moderato come quello, ed anche piú di quello, temperator della oltrepotenza angioina. Appoggiandosi al nuovo re de' romani, fece a Carlo deporre i titoli e le potenze di senator di Roma, e di vicario imperiale in Toscana; e pacificò quindi questa e Romagna, facendo ripatriar i ghibellini. Ma morto esso nel 1280, e disputandosi l'elezione tra italiani e francesi, soverchiaron questi per forza di Carlo, e fu eletto [1281] Martino IV francese; e francese, angioina, guelfa esagerata rifecesi l'Italia.—Ma intanto da quel resto di sangue e di diritti ghibellini che erano stati portati da Costanza a Pietro d'Aragona, dalla fedeltá di due grandi fuorusciti pugliesi, Ruggeri da Loria e Giovanni da Procida, e principalissimamente dall'ira de' popoli oppressi, apparecchiavasi una mezza rovina agli Angioini, un terzo popolo straniero alla misera Italia, una divisione di quel bello e natural regno delle Due Sicilie, che riuní allora per poco, che riunisce ora da oltre un secolo il piú gran numero d'italiani indipendenti; ondeché non può se non dolere qualunque volta ci si veda o si tema ridiviso. Ruggeri era in Aragona diventato almirante e grand'uomo di mare; il Procida (se grandezza e cospirazione possono stare insieme) gran cospiratore. Corse Sicilia ad inasprir grandi e popolo; Costantinopoli due volte, a farvi sentire i pericoli, le minacce dell'ambizioso Carlo, e trarne sussidi di danaro; Roma (sotto Niccolò III) ad ottenerne approvazione quando fosse fatto; ed Aragona a rendervi conto e pressare un'impresa a Sicilia. E Pietro l'apparecchiava sotto nome d'impresa contro a' saracini, e salpava e scendeva in Africa; quando il lunedí di Pasqua 30 marzo 1282, andando secondo il costume i cittadini di Palermo a' vespri del vicino Monreale, un francese insultò una fanciulla al fianco di suo fidanzato, e fu ucciso lí da questo, e tutto il popolo si sollevò al grido «Muoiano i francesi»; e ne fu fatto macello in Palermo, e via via poi in ciascuna delle cittá dell'isola, al dí, all'ora che v'arrivò la novella del feroce esempio. Cosí, come suole quando v'è materia vera, la rivoluzione popolare troncò indugi e dubbi alla cospirazione principesca ed aristocratica. Allora Carlo, giá mezzo disperato all'annunzio, pregava Dio, «se dovea scendere, di scendere almeno di piccol passo», ed assaliva poi Messina con una gran flotta. Ma sopragiungevano finalmente [30 agosto] Pietro, che fu riconosciuto re in tutta l'isola, e Ruggeri di Loria che sforzò Carlo a lasciar Messina, e gl'inseguí ed incendiò la flotta. Poi Carlo e Pietro si sfidavano personalmente a vicenda per a Bordeaux in Francia; ed a vicenda andandovi, s'accusaron l'un l'altro di non esservisi trovati, di non avervi sicurezza; e non se ne fece altro [1283]. Il papa francese spogliava Pietro de' suoi regni, e Pietro li serbava. E Carlo tornando di Francia a Napoli, trovava sua flotta ribattuta dal gran Ruggeri, e condottone via prigione il proprio figliuolo Carlo il giovane [1284]; e si vendicò malvagiamente sui napoletani, ed accorato morí in sul principio del 1285. Morendo dicono pregasse Dio: gli perdonasse i peccati, per il merito fattosi in conquistar il Regno a santa Chiesa! Tanto gli uomini sembrano illuder sé, e voler illudere Dio stesso, chiamando merito e sacrificio le proprie ambizioni! Ma entriamo noi il men possibile nell'intenzioni: son segreti di Dio giudice, giudice terribile e misericordioso.—L'anno innanzi [1284] erasi combattuta un'altra gran battaglia navale tra genovesi e pisani, di nuovo alla Meloria. Ma qui furono vinti i pisani; e non se ne rialzaron mai piú, né essi, né parte ghibellina in Toscana.
20. Re Carlo II d'Angiò [1285-1309].—A Carlo I d'Angiò successe, da sua prigionia d'Aragona, Carlo II figliuolo di lui, nel regno di Puglia ed insieme nel contado di Provenza e gli altri feudi francesi. E fu nuova disgrazia nostra siffatta riunione del regno italiano e delle province francesi negli Angioini; i quali, quantunque dimoranti tra noi, sempre rimaser francesi, non si fecer nostri bene mai, come succedé poi piú volte delle famiglie di principi stranieri ma venute a regnare in Italia sola. Il tempo di Carlo II è famoso nella nostra storia letteraria, perché è quello della vita politica di Dante, quello de' fatti che entrano piú abbondantemente nel poema di lui. Ed è pur tempo molto notevole nella nostra storia politica, perché oramai abbiamo in essa tedeschi, francesi, spagnuoli, tutti quanti gli stranieri moderni; e perché poi è il tempo degli ultimi errori di parte guelfa, quello in che succombette la suddivisione moderata, papalina ed italiana, e prevalse l'esagerata, pura o francese.—Morirono nel medesimo anno che Carlo I, papa Martino, a cui succedette Onorio IV italiano, e Pietro re, a cui succedettero il figliuolo primogenito di lui Alfonso III nel regno d'Aragona, e il secondogenito Giacomo in quel di Sicilia. Carlo II d'Angiò fu liberato per un trattato del 1288; onde rimase a lui il regno di Napoli o Puglia, a Giacomo quel di Sicilia. Ma appena giunto Carlo in Italia, ei ruppe il trattato; e si riaprí la guerra di Francia, Castiglia e Napoli contra Aragona e Sicilia, giá di nuovo riunite (per la morte di Alfonso) in Giacomo re dell'una e dell'altra. Cosí pressato, questi conchiudeva [1296] un nuovo trattato, per cui anche Sicilia era abbandonata all'Angioino. Ma sollevaronsi i siciliani, gridaron re Federigo fratello minore dell'Aragonese; e il sostenner poi generosamente, fortissimamente in lunga guerra contra Napoli, Francia, ed Aragona stessa.—Intanto al breve e non importante pontificato d'Onorio IV era succeduto quello non guari diverso di Nicolò IV [1288-1292]; ed era quindi vacata la Sedia due anni tra le dispute de' cardinali italiani e francesi; ed eletto poi Celestino V, un santo romito, che fu grande esempio del non bastare le virtú private a quel sommo posto della cristianitá; e che fece quindi «il gran rifiuto», spintovi, dicesi, dalle arti di colui che voleva essere e fu in breve successor suo, Bonifazio VIII [1294]. Noi vedemmo, per due secoli e piú, un papa grandissimo e come pontefice e come principe italiano, non pochi grandi, quasi tutti buoni nelle due qualitá, quantunque talora imitatori inopportuni ed esagerati di Gregorio VII, alcuni solamente degli ultimi, i francesi, non buoni principi, come esageratori di parte guelfa fatta francese. Ora, Bonifazio VIII italiano, ma da principio tutto guelfo, esagerato, tutto francese, e poscia tutto contrario, e non solo imitatore inopportuno, ma, se sia lecito dire, caricatura di Gregorio VII incominciò la serie de' papi men buoni o cattivi che vedremo poi. Una delle opere piú infelici di lui, fu il sostegno dato ai guelfi esagerati di Toscana; i quali prima in Pistoia, poi in Firenze e tutt'intorno, incominciarono a chiamarsi «neri»; contro ai moderati, chiamati «bianchi», ed accusati (secondo il consueto) di pendere alla parte opposta ghibellina. Dante, Dino Compagni, il padre di Petrarca, e quanti erano animi alti e migliori in Firenze furono naturalmente di parte moderata; ma fu poi gran colpa politica di Dante e non pochi altri, di quasi giustificar quell'accusa, rivolgendosi poi, quando perseguitati, e per ira, a quella parte non loro, a quelli che avrebbon dovuto serbare per avversari comuni. Intanto Bonifazio chiamava ad aiuto de' guelfi neri o puri Carlo di Valois. un guerriero venturiero di casa Francia, a cui giá era stato dato e tolto nelle guerre e paci anteriori (in parole non in fatto) il regno d'Aragona. Scese in Italia con poca gente, pochi danari, s'abboccò con Bonifazio, risalí a Firenze, mutovvi il governo da' bianchi a' neri, che esiliarono i bianchi, e cosí Dante [1301]. L'anno appresso guerreggiò contra Federigo Aragonese, approdò in Sicilia; ma vi fu ridotto a cosí mal partito, che ne seguí finalmente la pace tra Francia, Aragona, Puglia e papa da una parte, e Federigo dall'altra, e ne rimase Sicilia a questo, secondo lo scritto per sua vita solamente, ma di fatto a sua famiglia poi [1303]. A tal fine contraria riusciva una delle ire di Bonifazio. Peggio che mai le due altre, in che si precipitò contro a' Colonnesi, una famiglia cresciuta a gran potenza intorno a Roma; e contro allo stesso Filippo il bello, re di Francia, alla cui parte in Italia ei s'era anche troppo accostato, ne' cui affari francesi ei voleva, ma non era lasciato entrare. Fu la prima od una delle prime volte che si parteggiò colá per quelle cosí dette libertá della chiesa gallicana, le quali Sismondi non cattolico ma liberale chiama «diritto di quel clero di sacrificar la coscienza stessa alle voglie del padrone secolare, e di respingere la protezione d'un capo straniero e indipendente contro alla tirannia». Ad ogni modo, accordatisi un mal cavaliero francese, ed un malo italiano, Nogareto e Sciarra Colonna, insidiarono il papa in Anagni; presero la cittá, invasero la casa, insultarono, minacciarono, e fu detto Sciarra battesse il vecchio pontefice di ottantasei anni. Ad ogni modo il tenner prigione tre dí, finché fu liberato dal popolo sollevato contro all'eccesso; ed egli d'angoscia o di furore moriva fra pochi altri dí [1303].—Succedevagli Benedetto XI, papa italiano, buono e di nuovo paciero; ma morí fra pochi mesi, e, dicono, di veleno [1304]. Allora disputavasi a lungo l'elezione, di nuovo tra francesi ed italiani; e finivasi con un compromesso, che questi eleggessero tre candidati, e quelli nominassero ultimamente uno fra' tre; e ne riuscí papa Clemente V, francese [1305], di funesta memoria, che tutti s'accordano a dire aver patteggiato di pontificare a voglia del re francese, e che ad ogni modo cosí pontificò. Rimase in Francia, chiamovvi i cardinali, la curia romana; e non potendo la Sedia, piantovvi la residenza, che continuò colá intorno a settant'anni, e fu dai contemporanei scandalezzati chiamata «cattivitá di Babilonia». Ancora, egli fu che abolí i templieri, ordine di frati guerrieri simili a' gerosolimitani, piú guerrieri che frati, forse giá decaduti in costumi, certo cresciuti in ricchezze: ondeché loro spoglie furono forse allettamento, certo grande e brutta preda. In Italia Clemente V volle far il paciero; ma lontano, straniero, e da terra straniera non gli riuscí. La parte francese, guelfa esagerata, trionfò quasi dappertutto. In Toscana continuarono, s'accrebbero i neri; in Bologna prevalsero, cacciando i bianchi nel 1306. In Milano, dove, cacciati i Torriani da parecchi anni, avean signoreggiato i Visconti pendenti a ghibellini, erano stati cacciati questi fin dal 1302; e ne era seguíta una lega guelfa di molte cittá, lega non piú di nazionali contra stranieri, ma nazionali contra nazionali, caricatura anche questa di bei fatti antichi. Nei soli Scaligeri di Verona rimaneva qualche forza, qualche speranza, il primato della parte ghibellina, a cui i tedeschi non pensavano piú. Ché, morto Rodolfo nel 1292, e succedutogli a re de' romani Adolfo di Nassau, non iscese, non poté nulla in Italia. Né vi scese o poté Alberto d'Austria figliuolo di Rodolfo, che nel 1298 fu eletto contro Adolfo, e lo spogliò ed uccise in battaglia; e che fu quello poi contro a cui nel 1307 si sollevarono e si liberarono ammirabilmente gli svizzeri, come ognun sa. Ma ucciso costui da un suo parente a vendetta personale nel 1308, gli fu eletto a successore Arrigo VII di Lucemburgo; il quale, chiamato da' ghibellini, annunziò voler finalmente dopo sessant'anni far rivedere all'Italia una discesa imperiale. Ma, prima che l'effettuasse, morí Carlo II d'Angiò, e succedettegli Roberto suo figliuolo secondo [1309]. Il primo, Carlo Martello, l'amico di Dante, era morto da parecchi anni, lasciando un figliuolo, stipite degli Angioini d'Ungheria, i quali rivedremo in Italia.
21. Re Roberto d'Angiò [1309-1343].—La discesa d'Arrigo VII è quasi controprova di quanto osservammo ultimamente, prova soprattutto della corruzione di parte guelfa, della mancanza di unitá, di scopo in essa. Arrigo scendea con poca gente, poco danaro, non trovava parte ghibellina forte in nessun luogo, salvo Verona. Avrebbe potuto esser escluso facilmente; fu accettato, corteggiato da' guelfi poco men che da' ghibellini. Limitò, per vero dire, sue pretese (quanto diverso da' predecessori!) a stabilir vicari imperiali, e far ripatriar fuorusciti nelle cittá guelfe o ghibelline, quasi egualmente: e fu quasi dappertutto obbedito dove passava; disobbedito appena passato. La potenza imperiale era oramai un'ombra, un nome; ma ombra e nome era pure oramai parte guelfa contro agli stranieri, realitá solamente per proseguir le invidie, le vendette, gli sminuzzamenti d'Italia. Scese Arrigo in sul finir del 1310 pel Moncenisio; venne ad Asti, giunse a Milano, e vi ricevette la corona reale [1311]. Sollevossi il popolo; e, represso, ne rimaser ricacciati i Torriani, ritornati in potenza i Visconti, che non la perdettero piú. Sollevaronsi, ripacificaronsi parecchie cittá di Lombardia. Brescia sola, fin d'allora piú perdurante dell'altre, fu assediata e presa. Quindi Arrigo venne a Genova, l'antica guelfa, che gli si diede; a Pisa, l'antica ghibellina, che gli aperse le braccia; a Roma, dove fu incoronato in Laterano da' legati del papa [1312], mentre Vaticano era tenuto per Roberto di Napoli, capo naturale ma inoperoso dei guelfi. Risalí quindi a Toscana, pose campo contro a Firenze, che sola ebbe qui e sempre la lode di costanza guelfa, che disprezzò le minacce di cancelleria e di guerra, che resistette. Quindi Arrigo levonne il campo, avviossi contra il Regno, ma infermò e morí a Buonconvento [1313]. Fu quasi fuoco fatuo, lucente ed innocente.—E quindi, come ogni parte dopo una speranza, o peggio un tentativo fallito, decadde la parte ghibellina (divisa anch'essa, del resto, in esagerati e moderati, detti «verdi» e «secchi»), non men che la guelfa. Rimasero le due senza scopo né d'imperatori né di papi, lontani e disprezzati gli uni e gli altri; sopravivendo di nome, si spensero in realitá; lasciaron luogo a nuovi interessi, passioni nuove. Uguccione della Faggiola, fatto capitano di Pisa e Lucca e di tutti i ghibellini all'intorno, si mantenne alcuni anni, ed anzi crebbe e ruppe fiorentini a Montecatini [1315]; ma fu finalmente cacciato [1316]; e fu fatta [1317] una pace in Toscana per intervenzione ed a profitto de' guelfi e di re Roberto. Poco appresso s'innalzò un nuovo capo ghibellino, Castruccio Castracane, fattosi signor di Lucca [1320] e di Pistoia [1325]. Tentò Pisa piú volte, ma invano; guerreggiò Firenze, vinsela in battaglia [1325]; e Firenze diede la signoria al duca di Calabria, figlio di re Roberto [1326], per dieci anni. Pisa intanto decadeva; Aragona toglievale la Sardegna [1323].—In Lombardia si moltiplicarono le guerre di cittá a cittá, il sorgervi, cadervi, risorgere, estendersi e rimutarsi signori o tirannucci cosí, che ci è impossibile oramai lo stesso accennarne. Basti il notare, che contro all'intento giá del buon Arrigo VII ne riuscirono confermati, aggranditi i signori vecchi, stabiliti de' nuovi; principali gli Scaligeri in Verona, i Carraresi in Padova, gli Estensi in Ferrara. Ma sopra tutte confermavasi, crescea la potenza di Matteo Visconti in Milano, ed estendevasi in breve a Cremona, Tortona ed Alessandria, anzi sulla stessa Pavia l'emula antica, or fatta provinciale di Milano. Appena è da notare ch'ei fu scomunicato da papa Giovanni XXII, succeduto a Clemente V [1316], e papa francese anche egli, dimorante in Francia, e cosí impotentissimo in Italia. Queste scomuniche moltiplicate e non piú sostenute dall'armi né dalla presenza dei papi, non eran piú nulla; nulla in Italia i papi stessi; soli capi di parte guelfa gli Angioini di Napoli, ambiziosi sí, ma mediocri, e lontani da Lombardia, dove fervean le parti. Mosse tuttavia re Roberto a difender Genova quando ella fu assalita da Matteo Visconti e da' ghibellini, lombardi e fuorusciti di lei [1318]. Veniva un nuovo principe francese, Filippo di Valois, a capo de' guelfi lombardi, ma Matteo Visconti lo sforzò a partire [1320]; veniva Cardona, un venturiero aragonese, e il Visconti vinceva lui [1321], e tutti i guelfi, e tutti i nemici di sua casa, che lasciò definitamente fondata quando morí [1322]. Fu detto il «gran Matteo»; ma siffatti epiteti son sempre relativi al secolo in che si dánno; e in questo non furono veri grandi se non i padri di nostra lingua, od anzi solo Dante; in politica e guerra di terra, non ne fu uno certamente; tutt'al piú alcuni ammiragli che vedremo. A Matteo, dopo brevi contrasti, succedette Galeazzo figliuolo di lui.—Intanto in Germania, dopo la morte di Arrigo VII, erano stati eletti due re de' romani, Ludovico di Baviera, e Federigo d'Austria figliuolo d'Alberto [1314]. Combattutisi ott'anni, era stato vinto e fatto prigione l'Austriaco [1322], e liberato poi, rinunciando all'imperio [1325]. Quindi il Bavaro rimase solo; e disprezzando papa Giovanni XXII che voleva intervenire nella legittimitá di lui, fece per Tirolo una discesa imperiale [1327], meno innocua che l'ultima, piú simile alle antiche. Accolto a Milano da Galeazzo, presevi la corona regia, e depose Galeazzo che in breve morí. Poi, evitando Bologna guelfa, scese a Toscana per Pontremoli e Pietrasanta; si guastò con Pisa l'antica ghibellina, per arti di Castruccio che la voleva; e l'assalí e prese, ma non diella a Castruccio. L'anno appresso, bensí, fecelo duca di Lucca e d'altre cittá, che fu (s'io non m'inganno) il primo esempio di questi tirannucci o signori repubblicani, innalzati a principi titolati dell'imperio. Ma il nuovo duca morí l'anno appresso 1328. Nel quale Ludovico, evitando Firenze, venne a Roma, e giá scomunicato dal papa, fecesi consacrare da due vescovi scomunicati e incoronar da un Colonna, e poi fece giudicare e deporre il papa, ed eleggere un antipapa. Tutto ciò (salvo l'incoronazione per un Colonna) era all'usanza de' maggiori; e cosí furono il sollevarsi del popolo romano, ed il partirsi dell'imperatore, senza proseguire contro a Napoli, com'era stato convenuto con gli Aragonesi di Sicilia. Risalito a Toscana [1329], schivò Firenze di nuovo, venne a Lucca e vendella a' parenti di Castruccio, che la riperdettero in breve: vendé Milano al figliuolo dello spogliato Galeazzo, ad Azzo Visconti che tuttavia gliene chiuse le porte; si ritrasse a Trento. V'attendeva a riunir la parte ghibellina piú che mai sfasciata, quando morto Federigo d'Austria, e movendosi i fratelli di quello, egli Ludovico corse a Germania [1330], e sparí colle fischiate di tutta Italia, lasciando senza capo la parte ghibellina, a cui era morto l'anno innanzi [1329] Can della Scala. Fu anche questo detto «il grande»; perché anch'esso seppe farsi signore di parecchie cittá, e perché sopratutto fu protettore, mecenate, ospite a letterati, fuorusciti e giullari ch'ei teneva a tavola (se credasi a' biografi e ad alcuni passi di Dante) alla rinfusa. Ad ogni modo, in mancanza d'altri, i ghibellini si gettarono in braccio a uno strano capo, Giovanni re di Boemia figliuolo di Arrigo VII, un bel giovane tutto zelante per l'imperatore, per il papa, per la pace, per qualunque impresa, vero cavaliere di ventura, precursor de' condottieri, quasi giá condottiero. Veniva a Lombardia, corteggiava i ghibellini, le cittá, otteneva la signoria di molte, finiva con venderle a parecchi signorotti, e risalire e sparire egli pure [1333]. Veda ognuno, se son perdonabili i guelfi di non aver saputo allora liberarsi per sempre di siffatti nemici.—Ma Firenze sola era savia. Ella fu che movendo una lega di cittá e signori lombardi, fece sparire Giovanni. Se non che, sparito, s'entrò in disputa sulle spoglie. Contesero Firenze e Mastino della Scala successor di Can grande; e Firenze strinse contro esso con Venezia un'alleanza [1336], per cui fu ripresa Padova e ridonata a' Carraresi, e furono assoggettate a Venezia, Treviso, Castelfranco e Ceneda, le prime conquiste di quella repubblica in terraferma, il primo ingresso di lei nella politica d'ambizioni italiane. Ma Venezia conchiuse la pace [1338] da sé; e Firenze, che ambiva Lucca, ne rimase delusa. Intanto Bologna, cacciato il legato Bertrando del Poggetto, che avea di lá governata a lungo parte guelfa, era caduta sotto la tirannia di Taddeo Pepoli [1337], rivoltosi poi a' ghibellini. Genova, stanca di sua tumultuosa libertá, s'era sottoposta ad un governo simile a quello dell'emula Venezia, a un doge [1339]. Cittá guelfe e ghibelline del paro, a vicenda e quasi a gara, precipitavano nel governo d'uno, doge, duca, signore o tiranno. La causa, l'abbiamo accennata piú volte, non la ripeteremo piú; poco men che dappertutto, una famiglia nobile, unendo sue aderenze alla parte popolana, conquistò la signoria. Sempre la medesima serie: aristocrazia, democrazia, tirannia. Firenze stessa provò un venturiero francese [1342], il duca di Atene; ma il ricacciò tra pochi mesi, e continuò a governarsi a forma di repubblica; ché quanto ad essenza, non si dimentichi, salvo Venezia, niuna cittá l'ebbe mai.—Morto papa Giovanni XXII, gli succedette Benedetto XI pur francese [1334], che pur continuò in Avignone. Morto Azzo Visconti, gli succedette suo zio Luchino [1339]. E nel 1343 morí re Roberto di Napoli che fu detto «il buono», che direbbesi meglio «il mediocre». Niuno forse lasciò perdersi mai tante e cosí belle occasioni d'ingrandire la parte di che era capo naturale; niuno la lasciò cader tanto giú come egli ne' ventiquattr'anni di regno. È da Dante chiamato «re da sermone». Fu anch'egli protettor di letterati; anzi quasi letterato. Due anni prima di morire esaminò, incoronò, laureò Francesco Petrarca. Penso che indi sia l'invenzione de' poeti laureati.
22. Le compagnie, i condottieri [1314-1343].—Ma vegniamo ad una piú seria, ad una che fu danno estremo e fatale della giá misera Italia. Giá dicemmo i mercenari usati dalle cittá italiane fin quasi dalla loro origine, fin dalle prime loro invidie tra sé, ed in sé. Meno male finché furono presi ad uomo ad uomo, od a compagnie piccole, e pagati per a tempo, ad ogni occasione. Peggio giá quando vennero in ogni cittá co' podestá o capitani annui o di pochi anni. Tuttavia, ciò non disavvezzava del tutto ancora i cittadini dal tener in mano i ferri, o li disavvezzava solamente in questa o quella cittá. Ma fu danno pessimo e nazionale, quando i mercenari si raccolsero in compagnie grosse, quando esse e lor condottieri furono nuove potenze che s'aggiunsero a tutte quelle giá cosí miseramente moltiplici dell'imperatore e re, del papa, delle cittá, degli antichi e restanti signori feodali, dei nuovi tiranni. Vano, od anzi ad ogni sincero uomo impossibile è l'illudersi: la pluralitá delle potenze ordinate può sí essere, è spesso utile in uno Stato; può, facendo concorrere tutte le forze e le operositá di una nazione, accrescere la forza totale di lei; ma la moltiplicazione delle potenze disordinate, indeterminate e sminuzzate non può se non tôrre ogni nerbo, se non isciogliere qualunque Stato, qualunque nazione. Invano si vien cercando una consolazione, un vantaggio di questi sminuzzamenti, si vien dicendo che se n'accrescevano le potenze, le facoltá individuali, o, come or si dice, la personalitá d'ognuno. Questi accrescimenti delle personalitá non sono altro, insomma, se non dissoluzioni dello Stato; il quale (sia in bene o in male) può tanto meno, quanto piú vi può ogni persona staccata. Questi accrescimenti di personalitá possono esser buoni (fino a un certo segno) alle lettere, alle arti, e tali furono ne' nostri secoli decimoquarto, decimoquinto e decimosesto; ma chi non ponga le lettere e l'arti sopra allo Stato, la coltura sopra alla civiltá, lo splendore d'una nazione sopra alla forza e all'indipendenza di lei, non potrá se non deplorare queste come che si dicano esaltazioni di personalitá, o dispersioni di potenze, di quelle potenze italiane giá cosí scandalosamente moltiplici all'epoca a che siam giunti, piú moltiplicate che mai per l'invenzione delle compagnie e de' condottieri. E mi si conceda ripeterlo qui: anche a me, come a chicchessia naturalmente, piacerebbe il dar lodi ai maggiori, il compiacerne i contemporanei; anche a me dorrá esser accusato di annerire o menomare la storia di questi secoli nostri, che si chiaman repubblicani e gloriosi. Ma io cedo a quel desiderio maggiore che s'è fatto in me quasi passione a un tempo e dovere, di cercare quanto piú io sappia sinceramente, e di svelare quanto io piú possa compiutamente tutta quella serie di errori ch'io veggo; che han dovuto essere pur troppo piú numerosi e piú gravi nella nostra nazione, che nell'altre contemporanee; posciaché queste uscirono di tali secoli con quell'unitá, quella nazionalitá e quell'indipendenza che noi non abbiamo. Le disgrazie d'ogni creatura naturalmente debole, donne o fanciulli, sono per lo piú indipendenti da' fatti loro, e perciò si commiserano da ogn'anima ben nata; le disgrazie degli uomini naturalmente piú potenti sono giá men sovente incolpevoli, e si scusan tanto meno, quanto piú essi sono potenti; ma le disgrazie delle nazioni,—le quali insomma, nel complesso di tutte le classi e di tutte le generazioni, sono, in natura, tutte potenti,—le disgrazie, le miserie delle nazioni non possono essere mai indipendenti da' fatti loro, non possono essere incolpevoli, non sono pienamente scusabili mai. Tutt'al piú, è scusabile una generazione a spese d'una o parecchie altre. Ma, data una gran nazione che non abbia l'indipendenza, non si può uscire da questo terribile dilemma: o bisogna dire che ella fu colpevole, o ch'ella n'è incapace. E della nostra io credo ed amo meglio il primo.—In tutta Europa furono, lungo il secolo decimoquarto, soldati, contestabili, capitani, compagnie di ventura. Era ultima degenerazione della feodalitá, di quella personalitá o individualitá appunto che si loda cosí stoltamente. Ma altrove, dove durava un centro, un re piú o men potente nella nazione, una aristocrazia armata intorno al re, una nazione piú o meno unita all'uno ed all'altra, questo malanno delle compagnie di ventura parve cosí evidente, cosí scandaloso, cosí contrario ad ogni nazionalitá e civiltá, anche di que' tempi, che tutti, re, nobili e popolo si raccolsero insieme per liberarsene; e se ne liberarono, e serví anzi ad unir meglio popolo, nobili e re. All'incontro, in Italia, dove non era tal centro, in Italia divisa e suddivisa, in Italia miserabilmente repubblicana senza le virtú delle repubbliche, tiranneggiata senza nemmen la centralitá delle tirannie, in Italia piú colta sí ma piú mal civile giá che le nazioni contemporanee, il malanno appena inventato crebbe, si diffuse, si aggiunse agli altri, li superò tutti. Il fiorire e durar delle compagnie fu primamente conseguenza, poi prova incontrastabile dell'assenza assoluta di vero spirito pubblico, d'ogni spirito militare; cioè dunque in tutto, d'ogni spirito patrio, cioè dunque di buona ed efficace civiltá degli italiani di questo secolo decimoquarto.—In sul principio di esso si accrebbero da noi i mercenari e venturieri stranieri, degli aragonesi raccolti al soldo di Federigo re di Sicilia, e poi de' tedeschi venuti a preda con Arrigo VII e Ludovico il bavaro imperatori. Gli aragonesi, rimasti liberi per la pace del 1303 tra i re di Sicilia e di Puglia, formarono fin d'allora una numerosa compagnia, che fu detta con parola araba degli «almogavari»; ma questi non piombarono sull'Italia, furono a guerreggiare, pirateggiare, conquistare e perdersi tra latini e greci dell'imperio orientale. All'incontro, i tedeschi d'Arrigo VII rimasero in Italia dopo la morte di lui; ed accresciuti di nuovi lor compatrioti ed altri venturieri, e riuniti in compagnie non grosse per anche sotto a' lor contestabili, servirono a parecchi de' tirannucci da noi nomati, Uguccione della Faggiola, Castruccio, Can grande, e principalmente il gran Matteo e Galeazzo Visconti. Costoro, servienti ai signori di Milano, furono capitanati da' minori o cadetti di quella famiglia, Marco e Lodrisio Visconti, che si posson quindi dire primi capitani di compagnie grosse, primi condottieri, nel frattempo delle due discese d'Arrigo VII e Ludovico il bavaro, tra il 1313 e il 1327. Ma s'accrebbero durante e dopo quest'ultima, e quella poi di Giovanni di Boemia; e diventarono piú grosse e indipendenti dalle cittá e da' signori che servivano e taglieggiavano, passando dagli uni agli altri; e furono insomma perfette allora, ebbero esistenza da sé, abbisognarono d'un nome. E cosí una prima e minore si chiamò della «Colomba», e guerreggiò e predò in Toscana intorno al 1335; una seconda e maggiore, di «San Giorgio», e capitanata da Lodrisio, fu sconfitta da Luchino Visconti in gran battaglia a Parabiago [1339]. E finalmente una detta la «gran compagnia», dopo aver predati i confini di Toscana e Romagna, e minacciata Lombardia, sotto un Da Panigo e un Da Cusano, italiani, e un duca Guarnieri, tedesco sfrenato che portava scritto in argento sulla corazza «nemico di Dio e di misericordia», si sciolse tra per minacce e per danari, e il Guarnieri risalí, quasi uno degli imperatori, a Germania, per indi ridiscendere [1343]. E cosí fu costituita questa nuova peste d'Italia. E di questa, come dell'altre, verremo accennando poi gli strazi principali; non tutti, che sarebbono le dieci e cento volte altrettanti in istorie piú estese. D'allora in poi, le compagnie scorrenti dall'un capo all'altro della penisola, tra cittá e cittá o signorie italiane, si potrebbero paragonare alle comete sguizzanti tra pianeta e pianeta del nostro sistema solare; se non che, indegno o quasi empio sarebbe il paragone tra questo sistema divinamente ordinato, e quella confusione sofferta dalla provvidenza; e che niun paragone poi può esprimere il disordine nuovo arrecato da que' pubblici ladroni. E pure, anche costoro sono ammirati da taluni.—Ma ei mi pare primamente, che, anche lasciando lor crudeltá e i tradimenti e le rapine, non fossero in costoro né grand'arte né quelle vere virtú militari, che sono le prime di tutte quando elle s'esercitano per la patria, ma che non sono piú virtú, quando per la paga, o peggio, per la preda. Il coraggio virile non è che animale, quando scoppia solamente dalla passione; e diventa bestiale, quando non ha scopo che del vitto; e inferiore al bestiale, quando ha scopo di semplice ricchezza; ed io non gli trovo nome che d'infernale, quando s'esercita ad oppressione.—E quindi parmi chiaro che da costoro incominci e venga in gran parte quel pervertimento, e poi quella perdizione quasi totale della vera virtú o spirito militare, che è pur troppo innegabile in Italia. Innegabilmente, questa virtú sussisteva ancora ai tempi delle fazioni di Milano, di Tortona, di Crema, d'Alessandria, d'Ancona e di Legnano, nella seconda metá del secolo decimosecondo. Ma dal principio del decimoterzo, incominciando le compagnie di stranieri od anche d'italiani, a darsi a nolo, e bastando essi poi a tutte le guerre fatte per due secoli, ne venne naturalmente che il grosso degli italiani, cittadini, borghigiani e contadini, si disavvezzarono dall'armi, da quel vero e virtuoso mestiero dell'armi, che io non so dire se sia piú necessario a mantenere la moralitá degli individui, o la indipendenza della nazione. Le cittá mercantili principalmente, e le contrade all'intorno, Venezia e Firenze soprattutto, fecero ogni lor guerra piú co' fiorini che con l'armi proprie; pagando il sangue altrui, disimpararono a spargere il proprio. Né si citi, all'incontro, l'assedio di Firenze, od altre simili fazioni; sono lampi, eccezioni; e il vero spirito militare è abitudine. E il peggio fu quando, perduta questa, vennero meno (com'era naturale nella civiltá progredita) le compagnie che v'aveano, malamente, pur supplito. Allora non rimase piú nulla di veramente militare nelle evirate province d'Italia, o meno in quelle piú anticamente disavvezze; non ne rimase piú se non in Piemonte. Il quale lo deve a' principi suoi, che lo salvarono dall'armi pagate, dalle compagnie di ventura; capitani, venturieri essi stessi in que' secoli, cavalieri prima, generali dopo, militari sempre, di razza, secondo i tempi. Ma se lo tolgano di mente gl'italiani, i quali volgon gli occhi bramosi a questo Piemonte, a questi principi: la prova fu fatta; non importa se bene o male, anche fatta meglio, non riescirá, non può riuscire, se fatta da questi soli, se non secondata da tutte, o poco meno, le province italiane, in qualunque modo, ma proporzionatamente al pro rata. Io son per dir cosa che parrá bestemmia a taluni: ma bisogna pur che sia detta da alcuno. Non solamente quelle idee che tanto si vantano, ma le stesse virtú politiche, ma la stessa concordia sono un nulla a petto della virtú militare, per il nostro patrio avvenire. Sia un'Italia concorde e ricca di quante idee e virtú politiche, ma povera di braccia militari, ella rimarrá ciò che è: sia un'Italia anche discorde, e senza altra idea o virtú che di sapere andare e stare sui campi di battaglia militarmente, ed ella sará indipendente. Quattro milioni non servono in somma a liberarne ventiquattro. Pensino i venti al modo di disfar l'opera de' sei secoli pervertitori della milizia italiana.
23. La regina Giovanna e i suoi quattro mariti [1343-1377].—Roberto di Napoli lasciò morendo il regno a Giovanna figlia di suo figliuolo premorto, giovinetta di diciassett'anni e giá maritata ad Andrea d'Angiò fratello di Luigi re d'Ungheria, pronipote anch'egli de' due Carli I e II. Visser discordi pochi anni; fu ucciso Andrea, uscendo d'appresso alla moglie [1346]. Papa Clemente VI ne mandò giudicare da Avignone; furono torturati e suppliziati parecchi uomini e donne; e la regina si rimaritò [1347] con Luigi di Taranto, un altro collaterale di casa Angiò. Scende Luigi d'Ungheria fratello dell'estinto a vendetta, e caccia gli sposi novelli che rifuggono al papa in Avignone [1348], gli vendono questa cittá, e co' danari tornano a Napoli, onde Luigi s'era partito per paura della famosa peste (descritta da Boccaccio) di quell'anno. Guarnieri, il condottier tedesco ridisceso giá con Luigi, a capo della «gran compagnia» rifatta, passa a Giovanna, ripassa a Luigi. Se ne prolunga la guerra; riscende Luigi per mare a Manfredonia [1350]; si ricombatte, si rimette il giudicio a papa Clemente; giudica Giovanna innocente, ed ella riprende il Regno ed è incoronata con Luigi di Taranto [1352]. Morto il quale poi senza figliuoli [1362], Giovanna prende del medesimo anno a terzo marito Giacomo d'Aragona figlio del re di Maiorca, ma non gli dá titolo di re. Egli la abbandona, guerreggia in Ispagna, v'è fatto prigione, è riscattato dalla moglie [1365] e vien a raggiungerla. E morto esso pure [1374], Giovanna prende a quarto marito Ottone di Brunswick [1376]. Intanto in Roma succedeva uno degli effetti piú strani di quella smania imitativa, di quella pretesa di restaurar l'antico primato romano, che giá vedemmo sorgere in Arnaldo da Brescia e nei senatori disprezzati da Federigo I; quella smania che era venuta crescendo nel presente secolo col ricrescer delle lettere e delle memorie antiche, in parecchie cittá italiane, in Firenze e Venezia principalmente (come si scorge da' lor fatti e loro storici), ma soprattutto, com'era naturale, in Roma. Qui dunque avvenne una rivoluzione letterata, pedante: Cola di Rienzo, un giovane del volgo, ma colto e imaginoso, imagina restaurar il nome, i magistrati, la potenza del popolo romano, abbandonato da' papi, straziato da' Colonna, Orsini, Savelli ed altri grandi. Contra questi ei nodriva (è frase del Sismondi) «un odio quasi classico, e ch'ei credeva ereditato da' Gracchi». Un dí di maggio 1347 ei solleva il popolo, si fa tribuno, stabilisce quello ch'ei chiama il «buono stato», s'accorda col vicario del papa, sale con esso in Campidoglio, e cita dinanzi al popolo romano Ludovico di Baviera imperatore, ed il competitore di lui Carlo di Lucemburgo (figlio di Giovanni il venturiero, nipote di Arrigo VII). È riconosciuto, lodato in tutta Italia, massime da' letterati. Ma letterato, antiquario, poeta, il buon Cola non sa governare, meno guerreggiare. È cacciato prima che finisse l'anno da' nobili e da un legato del papa; fugge a Carlo IV che, morto il Bavaro e scartati alcuni competitori, era rimasto solo. Nel 1352 è consegnato a papa Innocenzo IV allor succeduto in Avignone, ed è da questo aggiunto al cardinale Albornoz di lá mandato a restaurar la potenza papale in Italia. Cosí da luglio a ottobre 1354 signoreggia di nuovo in Roma con dignitá di senatore; finché popolo e grandi si sollevan contro lui, e lo trafiggono a piè del Campidoglio. Non frammischiatosi, come giá Arnaldo, in cose spirituali, non in elezioni di papi ed antipapi come gli antichi Alberici, fu il piú innocente fra gli usurpatori romani; fu sognatore, ed esempio a molti altri.—Dopo di lui l'Albornoz continuò con piú politica e piú fortuna la restaurazione della potenza papale in Roma, nelle Marche, in Romagna, in Toscana stessa, durante tutto il pontificato d'Innocenzo VI e quasi tutto quello d'Urbano V, succedutogli nel 1362. Francese questi pure, pontificò primamente come gli altri da Avignone; ma nel 1367 ei fece rivedere un papa al posto suo, venne a Roma, vi rimase presso a tre anni, e tornò poi nel 1370 ad Avignone, e nel medesimo anno vi morí. Succedette Gregorio XI pur francese; il quale pure pontificò primamente in Avignone; ma pressato, dicesi, principalmente da santa Caterina da Siena e da santa Brigida, restituí finalmente la Sedia in Roma l'anno 1377. Eran settant'anni appunto dalla traslazione in Francia.—In Toscana, Firenze risplendeva, s'arricchiva, poteva piú che mai. Raccoglieva il frutto di sua costanza guelfa, di sua indipendenza, meglio difesa che non quella di niuna altra cittá italiana, salvo Venezia. Eccessiva giá in democrazia, tollerava ora i nuovi nobili o grandi, sorti sulle rovine dell'antica aristocrazia, i grandi commercianti, fra cui giá sorgevano i Medici, fra cui pure riammetteva per grazia alcuni antichi. E cosí finalmente tollerandosi, le due classi inevitabili dell'aristocrazia e della democrazia si salvarono da que' tirannucci, peggiori certamente che non le offese reciproche o gli eccessi dell'una e dell'altra. Fin d'allora, non militare abbastanza per ordinare armi proprie, per esentarsi de' condottieri, fu politica in modo da barcheggiare con essi, e servirsene nelle solite rivalitá contro a Pisa, e in quella or piú pericolosa co' Visconti di Milano. Firenze non fu buono Stato se si giudichi positivamente da sé, posciaché non asserí l'indipendenza compiuta, posciaché non ebbe armi proprie; ma Firenze fu senza dubbio il migliore Stato d'Italia dopo Venezia; e non merita né tutti gl'improperi di Dante, né tutti gl'inni di Sismondi.—I Visconti erano sempre i maggiori principi d'Italia. Morto Luchino, avvelenato, dicesi, dalla moglie [1349], eragli succeduto suo fratello Giovanni arcivescovo. Signore giá di sedici cittá, comprò da Pepoli Bologna [1350]. Fu citato a renderne conto ad Avignone; rispose che v'andrebbe con dodicimila fanti, seimila cavalli; s'accomodarono. Tenne Bologna in feudo papalino [1352]. Minacciò, guerreggiò invano Firenze, signoreggiò Genova [1353], morí nel 1354. Succedettergli insieme nella signoria tre nipoti suoi, Matteo, Bernabò e Galeazzo; ma morto il primo, dicesi avvelenato da' due altri, questi, serbando Milano in comune, si spartirono l'altre cittá. Ma liberaronsi in breve Bologna, Genova e Pavia [1366]. Capo di questa fecesi un fra Iacopo de' Bussolari, letterato, poeta, amico del Petrarca anch'egli, un Cola di Rienzo lombardo. E anch'egli durò poco; restituí Pavia ai Visconti [1359]; finí in un carcere di frati a Vercelli. E i Visconti assaliti poi da una potente lega di fiorentini e degli Estensi di Ferrara, de' Gonzaga di Mantova e del marchese di Monferrato, resistettero.—Genova e Venezia fecersi di questi tempi una guerra maggior delle precedenti; disputaronsi il primato del lago italiano, a cui Pisa decaduta giá non pretendeva piú. I genovesi, afforzati in Galata e Pera sobborghi di Costantinopoli, contesero, rupper la guerra con Cantacuzeno imperatore, gli assediaron la cittá, gli arser la flotta [1348]. Poi contesero co' tartari a Caffa, altra lor colonia [1350]; poi co' veneziani a cui voller chiudere il commercio alla Tana (Taganrog). Questi s'allearono co' greci e con gli aragonesi, e capitanati tutti da Niccolò Pisani grand'uomo di mare, combatterono una gran battaglia nel Bosforo contro a' genovesi capitanati da Paganino Doria, altro grande [1352]. Vinsero i genovesi, e fatta pace co' greci continuaron la guerra co' veneziani. Ma furono vinti dai pisani alla Loiera nel mar di Sardegna [1353], e allor fu che diedersi al Visconti. Con tal aiuto riarmarono, rifecer capitano Paganino Doria, ricombatterono una terza battaglia al golfo di Sapienza in Morea, e vinsero [1354]. Allora fecesi tra le due repubbliche una pace, che pur troppo non durò poi, che durando avrebbe forse confermato il primato marittimo all'Italia per sempre. Ma giá si sa: l'assurditá delle rivalitá marittime è l'ultima ad intendersi, anche in tempi piú progrediti che non eran quelli. Venezia fu turbata poi da una congiura, piú o meno accertata, del suo doge stesso Marin Faliero. Ne fu accusato, condannato, ucciso segretamente [1355]; materia di future tragedie.—Del resto, si frammischiarono a tutti i fatti della penisola, guerreggiarono, predarono, si moltiplicarono, si sciolsero, si riunirono, e si accrebbero di quelle che Francia veniva cacciando, le funeste campagnie italiane sotto duca Guarnieri il tedesco «nemico di Dio», fra Moriale un provenzale, il conte Lando, Anichino Bongarten, Alberto Sterz tedeschi, Giovanni Hawkwood inglese, ed altri minori.—E poco diverso oramai da cotestoro discese Carlo di Lucemburgo [1354], fu incoronato re a Milano, imperatore a Roma [1355], e risalí a Germania. Dove poi l'anno appresso [1356] ei pubblicò la Bolla d'oro; quella costituzione che ordinò l'elezione, gli elettori degli imperatori romani o germanici, e durò (mutata, s'intende, nel corso de' secoli) finché duraron quelli. Nel 1368 ridiscese in Italia, vendette signorie, vicariati imperiali qua e lá, e fece incoronar l'imperatrice in Roma da quel papa Urbano V, che vedemmo precursore della restituzione della sedia pontificale.
24. Il quarto periodo della presente etá in generale [1377-1492].—La storia politica de' nostri comuni, repubblicani dapprima, tiranneggiati quasi tutti poi, è cosí intricata, che ella cape difficilmente in niuna mente o memoria umana, che niun'arte di scrittore la fece o la fará forse mai né molto letta, né perfettamente chiara a chi la legge. All'incontro, la storia letteraria di questi nostri secoli è cosí bella e cosí splendida a chicchessia, che fin da fanciulli noi la sappiam tutti e ne abbiamo la mente invasa e preoccupata. Quindi un errore involontario e frequente: di tener il secolo decimoquarto, il secolo di Dante, Petrarca, Boccaccio e Giotto, quasi piú splendido in tutto, anche in politica, che non il decimoquinto, in che niun nome tale non apparisce a colpir gli animi nostri. Nel trattar della coltura di quest'etá, noi avrem forse a diminuire questa apparente contradizione delle due nostre storie politica e letteraria. Intanto ci pare dover qui accennare che, cessata la dimora de' papi in Francia e cosí la innatural soggezione loro alla corte francese, sottentrò sí dapprima il danno spiritualmente maggiore della divisione della cristianitá, il grande scisma occidentale; ma che, politicamente, all'Italia ferma nell'obbedienza al papa legittimo di Roma, fu minore assai lo stesso danno spirituale, e grande poi il vantaggio di riavere in sé la sedia di quella cosí intimamente, cosí inevitabilmente italiana potenza del papa; e fu vantaggio nuovo, quando, cessato lo scisma, si ordinò questa potenza; come furono l'ordinarsi, l'ampliarsi di altri Stati italiani, il diminuirsi lo sminuzzamento della penisola, il farsi italiane le compagnie. E il fatto sta, che in questo nuovo secolo escon fuori parecchi piú o men puri, ma certo splendidi nomi politici e militari: Francesco Sforza, il Carmagnola, Cosimo e Lorenzo de' Medici, Niccolò V, Pio II, Alfonso il magnanimo, indubitabilmente superiori ai nomi politici del secolo precedente.—Del resto, continua qui e continuerá sino al fine di nostra storia la difficoltá, l'impossibilitá di trovare un vero centro, intorno a cui rannodare i fatti moltiplici. Finché durò la lotta contro agli imperatori, questi furono, se sia lecito dir cosí, centro passivo, centro contro cui si volsero gli sforzi, non di tutti purtroppo, ma de' migliori italiani, dei papi e di Firenze principalmente. Ma cessata quella lotta (per l'infausta traslazione, per l'infrancesarsi de' papi da una parte, e per la trascuranza degli imperatori dall'altra), noi dovemmo giá cercare un nuovo centro tal quale, per averne epoche, date, riposi a cui condurre via via parallelamente i fatti diversi; e cosí prendemmo dapprima gli Angioini di Napoli. Ma noi vedemmo cessata in breve lor prepotenza, anzi, quanto all'Italia media e settentrionale, ogni loro potenza; ondeché forse giá prima di qua avremmo dovuto, certo qui dobbiamo di nuovo mutar centro, e ci par migliore Milano. Del resto, quanto piú si complica la storia, tanto piú arbitrario resta qualunque ordinamento di essa. E benché i piú degli scrittori non soglian notare siffatte difficoltá insuperabili o almeno insuperate nelle loro storie, parve a noi che il renderne conto candidamente potesse conferire ai due scopi nostri, di far capire e ritenere, il meno male possibile, la nostra storia.
25. Bernabò e Gian Galeazzo Visconti primo duca di Milano [1378- 1402].—Il ritorno de' papi non fu dunque dapprima se non principio di nuova calamitá. Corso poco piú che un anno, morí Gregorio XI [1378], e si disputò l'elezione tra dodici cardinali francesi, e quattro italiani. Il popolo gridava in piazza:—Lo volemo romano!—Fu per compromesso eletto un napoletano, e cosí suddito francese, Urbano VI. Contentaronsene i romani, ma non i cardinali francesi, i quali pochi mesi appresso elessero un francese davvero, Clemente VII. Ne seguí per quarant'anni quello che fu chiamato poi il grande scisma occidentale, una serie di papi italiani in Roma, a cui obbedivano la penisola italiana e Germania; ed una serie di papi francesi in Avignone, a cui obbedivano Francia, Inghilterra e Spagna con Sicilia. Urbano VI fu zelante italiano, zelante papa, ma imprudente forse ed avventato. Scostatasi da lui la regina Giovanna, ei chiamò d'Ungheria nuovi competitori. Del 1385, puní ferocemente alcuni cardinali congiuranti contro lui; lasciò ridissolversi lo Stato, riunito giá dal cardinal Albornoz; e morí poi nel 1389. Successegli in Roma Bonifazio IX. Cosí scese d'Ungheria Carlo di Durazzo, ultimo maschio della stirpe di Carlo I, contro alla vecchia regina Giovanna; prese Napoli, fecesi proclamar re Carlo III [1381]; prese poco appresso Giovanna stessa derelitta da tutti, tennela nove mesi prigione; e, dicesi, tra le piume del letto spensela poi [1382]. Giovanna aveva giá chiamato ad erede Carlo di Durazzo; ma nel frattempo che era assalita da lui, chiamò Luigi figlio del re di Francia, e nuovo duca d'Angiò, nuovo stipite di una seconda casa Angioina di Napoli. Questi scese nello stesso 1382 a difendere giá, a vendicare poi Giovanna; guerreggiò nel regno fino al 1384, che morí e lasciò le pretese a Luigi II suo figliuolo. Allora regnò solo Carlo di Durazzo; ma guastossi anch'egli col papa, guerreggiò con esso, risalí ad Ungheria e vi morí, lasciando il regno a Ladislao suo figliuolo, fanciullo [1386]. Guerreggiarono quindi per questo i suoi partigiani contra Ottone, ultimo marito della spenta Giovanna, contra Urbano VI, contra Luigi II per lunghi anni. Cresciuto, guerreggiò egli; e riunito il regno finalmente l'anno 1399, lo tenne poi crudelmente vendicandosi dei nemici, a modo del secolo.—In Toscana, in tutta l'Italia media continuavano numerosi sollevamenti dei popolani minori contro a' maggiori diventati nobili. Il piú famoso e che può servir d'esempio fu quello di Firenze. Ivi i nobili nuovi si dividevano giá in due, gli Albizzi a capo de' piú aristocratici; i Ricci e i Medici, de' piú democratici. Cosí succede e succederá sempre. Tanto sarebbe tenersi i primitivi. Ma l'invidia non ragiona, e soprattutto non sente bene; chiama generosa l'acrimonia contra quanto è grande; non pensa che sará punita essa stessa un giorno onde peccò, da nuove invidie ripunite. Salvestro de' Medici fatto gonfaloniero nel 1378, e Benedetto Alberti, sollevarono la parte democratica pura, le arti minori, quella della lana principalmente, detta de' Ciompi, contro alla parte diventata aristocratica, le arti maggiori, gli Albizzi. Disputossi ne' Consigli, combattessi in piazza, vinsero i soliti padroni della piazza, gl'infimi, i ciompi. Michele Lando, uno di essi, portò il gonfalone; fu fatto gonfaloniero. Ma fu in breve assalito da' piú democratici fra' suoi democratici, da' piú ciompi fra' suoi ciompi; resistette alquanto ma invano; gli Albizzi furono perseguitati, suppliziati [1379]. Poi, vincitori i ciompi si divisero; e le arti maggiori, gli Albizzi, i nobili popolani trionfarono all'ultimo [1382]; cioè anch'essi per allora fino a che, come vedremo, trionfò di nuovo la parte ultra popolana sotto i Medici, che se ne fecero scala alla signoria.—Cosí in Genova, alle divisioni tra i Doria e i Fieschi e l'altre famiglie antiche, eran succedute divisioni poco diverse tra gli Adorni e Fregosi, genti nuove. Ferveva intanto nuova guerra tra Genova e Venezia. Erasi combattuto dapprima in Cipro, in tutto Oriente; ma vinti i genovesi nel 1378 ad Anzio, fecero un grande armamento, occuparono l'Adriatico, vinsero a Pola Vettor Pisani [1379], che fu perciò stoltamente imprigionato da' suoi concittadini. Quindi i genovesi assediaron Venezia da Chioggia e il mare, mentre Francesco Carrara signor di Padova la stringea da terra, dalle Lagune. Non mai Venezia erasi trovata a tale estremo: chiese, pregò pace. Ma Pietro Doria, l'ammiraglio genovese, rispose: «voler prima por le briglie a' cavalli di San Marco». Questo fece tornar il senno e il cuore a' veneziani; e, tolto dal carcere e rifatto capitano Vettor Pisani, richiamate lor flotte da Levante sotto Carlo Zen, un altro grand'uomo di mare, resistettero dapprima virilmente, poi riassediarono essi i nemici in Chioggia [1380], li ridussero ad arrendersi, si liberarono. E stanche finalmente le due repubbliche, terminarono quella troppo famosa guerra, detta di Chioggia, con un trattato fatto in Torino per mediazione d'uno di que' principi Savoiardi, che ingrandivano [1381].—Tra' Visconti, morto Galeazzo [1378] uno de' due fratelli, succedevagli Gian Galeazzo figliuolo di lui, e cosí divideva la signoria, con Bernabò suo zio. Ma per pochi anni; ché nel 1385, mentre in un abboccamento s'abbracciavano nipote e zio, quegli dicendo a sue guardie tedesche—Streike,—fece questo disarmare, prendere, imprigionare, e poi dicesi avvelenare e riavvelenare. Cosí rimasero Milano e Pavia e tutta la gran signoria viscontea sotto a Gian Galeazzo. Da secoli e secoli molti signori e tiranni italiani avevano giá usate perfidie e crudeltá, ma alla cieca, alla barbara, piú per istinto che per arte. I Visconti furono i primi, i quali usarono efficacemente quell'arte, che l'opinione vergognosamente corrotta di que' secoli chiamò «virtú», che alcuni pochi ammirano ancor di soppiatto sotto nome d'«abilitá»; ma che, come il bene vien talor dal male, fu forse utile ad ingrandire e riunire gli Stati, a scemare la funestissima dispersione delle potenze d'Italia, come fu utile un cent'anni appresso a riunir Francia sotto Luigi XI. Appena Gian Galeazzo ebbe tutto lo Stato visconteo, egli si volse ad ingrandirlo. S'uní prima ai Carraresi di Padova contro a Venezia ed agli Scaligeri, e prese a questi Verona [1386]. Quindi s'uní co' veneziani contro ai Carraresi, e prese Padova e Treviso [1387]. Fuggitone Francesco II di Carrara a Firenze, tornò per Germania col duca di Baviera genero giá di Bernabò cui volea vendicare, e riacquistò Padova [1390]. Intanto Gian Galeazzo assaliva Bologna e Toscana tutta. S'alzava Firenze, ma piú da mercante che da guerriera, e soldava l'Acuto (cosí avea fiorentinamente addolcito l'impronunciabile Hawkwood), soldava il duca di Baviera [1390], soldava un conte d'Armagnacco [1391], e cosí si salvava e facea pace [1392]. Finalmente nel 1395 Gian Galeazzo comprò dal vil imperatore Venceslao (che dimenticammo di dir succeduto nel 1378 a Carlo IV di Lucemburgo padre suo) il titolo di duca di Milano per sé e suoi successori di maschio in maschio, con ventisei cittá lombarde dal Ticino alle Lagune, per centomila fiorini. Fu una delle vergogne che fecero dagli elettori tedeschi depor Venceslao, ed eleggergli a successore Roberto giá conte palatino [1400]. Questi discese subito contro al nuovo duca italiano; ma sconfittone presso a Brescia [1401], ed abbandonato poi da tutti i suoi alleati, ed avendo esausti i sussidi fiorentini, risalí e sparí in Germania [1403], dove poi regnò fino al 1410. Intanto rimase poco men che abbandonata al duca Visconti tutta l'Italia. Nel 1399 aveva compra Pisa al figliuolo di Iacopo d'Appiano, che l'aveva usurpata ad un Pietro Gambacorta. Nel 1400 acquistò Assisi, e Perugia divisa dopo la morte di Pandolfo Baglioni, capo di parte nobile colá; e ricevette sotto sua protezione Paolo Guinigi, nuovo tiranno di Lucca; nel 1401 prese Bologna a Giovanni Bentivoglio, tiranno nuovo esso pure. Insomma (tranne Modena, Mantova e Padova) avea tutta Lombardia dal Ticino all'Adriatico; con Bologna, Lunigiana, Pisa, Siena, Assisi e Perugia. Se non moriva di peste nel 1402, chi sa, costui riuniva l'Italia almen settentrionale. Cosí fosse stato! Gli uomini passano, e le istituzioni restano sotto uomini migliori.—Gian Galeazzo fece un bene; usò, promosse, ingrandí le compagnie italiane che s'eran venute raccogliendo sotto parecchi Da Farnese, un Dal Verme, un Biondo, un Broglia, un Ubaldino, i Malatesta e parecchi altri, e sopra gli altri Alberico da Barbiano. Tra un malanno straniero ed uno italiano, questo è sempre meno male. Genova divisa, incapace di difendersi, erasi fin dal 1396 data a Francia.
26. Giovanni Maria Visconti secondo duca [1402-1412].—Ma poco mancò che coloro non rovinassero il nuovo ducato de' Visconti. Morendo Gian Galeazzo avea lasciati due figliuoli di tredici e dodici anni: Giovan Maria che gli succedette nel ducato di Milano, Filippo Maria nel contado di Pavia; ambi sotto la tutela di Caterina lor madre, sotto la protezione de' condottieri. Ma le cittá si sollevarono, e i condottieri riducendole le serbarono per sé; si fecero forti in ciascuna, Facino Cane il principale di tutti in Alessandria, Ottobon Terzo in Parma, Malatesta in Brescia, Giovanni da Vignate in Lodi, Gabrino Fondolo in Cremona e via via. Caterina, tiranneggiante con Barbavara cameriero giá di suo marito, fu chiusa in carcere, dove morí; colui cacciato [1404]. Giovan Maria cresciuto e sorretto da Facino Cane, tiranneggiò, incrudelí, lussureggiò anch'esso in Milano. Gran cacciatore, dicono (ma è credibile?) cacciasse uomini; fu scannato da alcuni gentiluomini milanesi addí 16 maggio 1412. Diventò duca il fratello di lui Filippo Maria conte di Pavia. Intanto, anche piú facilmente s'erano sollevate e liberate le cittá piú lontane venete e toscane. Francesco Novello da Carrara univasi con Guglielmo ultimo degli Scaligeri, figlio di quello spogliato giá quindici anni addietro; e insieme riprendeano Verona [1404]. Ma lo Scaligero morí, dicesi di veleno, pochi dí appresso; e cosí finí quella famiglia dopo due secoli di signoria, senza vera gloria, senza risultato. Quante pene sprecate, quanti semi di virtú perduti, per ingrandir le famiglie! E non lasciar all'ultimo un'opera compiuta, un benefizio alla patria, una benedizione in cuore ai compatrioti! Verona passò quindi al Carrarese, e Vicenza a Venezia; e ruppesi guerra tra quello e questa. Ma le guerre erano allora de' piú ricchi che pagavano piú venturieri; e qui non v'era paragone. Venezia prese Verona e Padova, e Francesco Novello e i piú degli altri Carraresi [1405]; e fece strozzare in carcere lui e due figliuoli di lui [1406], e pose sfacciatamente a prezzo le vite de' minori a lei sfuggiti. Venezia entrava a un tempo nella carriera delle conquiste, e in quella della scellerata virtú del secolo decimoquinto. E cosí finí anche questa famiglia d'antichi principi italiani.—Né si mosse Firenze, giá lor alleata e patronessa; era occupata in un'impresa non dissimile, quantunque men barbaramente adempiuta. Perugia e Bologna eransi liberate da' Visconti e ridonate al papa; e liberatesi Siena e Lucca. Sola Pisa rimaneva a un bastardo di Gian Galeazzo, protetto da Boucicault, signor di Genova per Francia. Costoro vendettero a Firenze il castello di Pisa, e poi il francese fece decapitare l'italiano. I pisani ripresero il castello, fecero signore un Gambacorta, sostennero un lungo e bell'assedio, e furon venduti da colui, e i fiorentini entrarono cosí a tradimento [1406], e finí la libertá di Pisa. Non vi furono crudeltá: Firenze fu sempre relativamente mite.—Quindi ivi, nella nuova suddita Pisa, convocossi un concilio a finir lo scisma. A Bonifazio IX, papa, erano succeduti Innocenzo VII [1404] e Gregorio XII [1406]. In Avignone papeggiava Pier di Luna sotto nome di Benedetto XIII. Questi due furon citati al concilio di Pisa [1409], s'appressarono, ma non vennero. Furon deposti, fu eletto Alessandro V; e lui morto nel 1410, e succedutogli Giovanni, invece di due s'ebber tre contendenti, e furon citati tutti poi a un nuovo concilio a Costanza.—In mezzo a tutto ciò venne a frapporsi l'ambizione di Ladislao re di Napoli, che invase Roma e Toscana [1408]. Firenze, minacciata e sempre pendente a Francia, chiamògli contra il competitore Luigi d'Angiò. Guerreggiossi quindi parecchi anni in Toscana e in tutto il mezzodí, tra i due competitori; combattendo per il francese e Firenze Braccio da Montone, per Ladislao Attendolo Sforza. Erano allora i due condottieri maggiori d'Italia, i due che introdussero qualche arte di guerra in lor mestiero: piú ardito Braccio, piú assegnato Sforza, fecero e lasciarono le due famose scuole italiane de' bracceschi e sforzeschi.—Nel 1409 il regno di Sicilia erasi di nuovo riunito ad Aragona. Noi lasciammo quello cent'anni addietro in mano a quel Federigo che l'aveva difeso cosí bene contro al proprio fratello d'Aragona, agli Angioini di Napoli, a Francia, al papa, a Carlo di Valois e ai guelfi neri; e l'aveva avuto per sua vita colla pace del 1303. A malgrado della quale egli il lasciò poi nel 1337 a suo figliuolo Pietro II, che il lasciò nel 1342 a suo figlio Luigi, che il lasciò nel 1355 a suo fratello Federigo II, che il lasciò nel 1377 a sua figlia Maria, che il lasciò nel 1402 a suo sposo Martino d'Aragona, che il lasciò morendo nel 1409 a suo padre Martino il vecchio, che fu cosí re d'Aragona e Sicilia. Il quale morto poi senza figliuoli [1410], e cosí spenta in lui l'antica schiatta d'Aragona, disputossi la successione e passò a Ferdinando principe di Castiglia [1412]. Non ci possiam fermare a tutti questi, mediocri per sé e per potenza, e che, tranne alcune contese e piccole guerre con gli Angioini di Napoli, non importarono nelle vicende d'Italia.
27. Piemonte. Casa Savoia. Amedeo VIII [1100-1434].—Ma qui è d'uopo lasciar l'Italia meridionale, e volgerci a quell'angolo occidentale in cui scriviamo, e che pur trascurammo fin dal principio della presente etá, fin dalle origini italiane della casa di Savoia. Dicemmo Odone conte di Morienna e d'altri feudi oltre Alpi, ed Adelaide contessa di Torino e d'altre cittá e feudi in Piemonte, stipiti di quella famiglia, a cui alcuni cercano una antichitá italiana ulteriore, a cui può bastar questa di otto secoli, superior cosí di sette a quelle di ogni altro principe italiano presente, salvo i papi. Al tempo di Adelaide era stata nell'Italia occidentale un'altra casa molto potente, quella d'un conte Aleramo signoreggiante negli Appennini dalla sponda destra del Po fino a Savona. Alla morte di Adelaide [1091], la successione di lei fu disputata, straziata, tra Umberto II Savoiardo, figlio di suo figlio; Bonifazio conte di Savona, figlio di una figlia d'un altro suo figlio; Corrado di Franconia, figlio di Berta sua figlia, l'infelice moglie che vedemmo dello scellerato Arrigo IV imperatore; e soprattutto poi dalle cittá che appunto allora vedemmo costituirsi in comuni. Quindi Umberto II e i Savoiardi primi successori di lui furono ridotti a poco piú che Savoia e i comitati oltremontani; e le famiglie Aleramiche, tra cui principali quelle di Monferrato in mezzo agli Appennini, e di Saluzzo tra l'Alpi ai fonti del Po, divisero l'Italia occidentale con le cittá liberatesi, Torino, Chieri, Asti, Vercelli, Novara, e, quando fu fondata, Alessandria. I Savoiardi scendevano, potevano secondo le occasioni, in Torino e l'altre; e quando non potevano qui, s'estendevano all'intorno di Savoia, in Elvezia, in Francia; ovvero guerreggiavan piú lungi, alla ventura, in Inghilterra, in Fiandra, in Oriente, alle crociate. Casa Savoia fornirebbe ad una storia della cavalleria piú numerosi, piú splendidi e piú veri cavalieri, che non ne sieno di falsi in parecchi poemi e romanzi; casa Savoia ebbe quasi sempre la virtú di entrare con alacritá, e cosí con fortuna, nelle condizioni de' secoli suoi.—Al finir del decimoterzo fece un grand'errore; ma perché questo pure era del tempo, e gli errori stessi, quando sono tali, sono men pericolosi, perciò questo la indebolí appena, o forse l'afforzò. Vi si disputò, s'alterò, forse s'usurpò, e certo si divise la successione tra Amedeo V e il fanciullo Filippo nipote di lui [1285]. Gli Stati generali, raunati in Giaveno, ne decisero o sancirono la decisione; Amedeo V rimase conte di Savoia e signor supremo, il fanciullo signor vassallo del Piemonte. E cosí rimase la famiglia divisa ne' due rami (oltre altri minori) un centotrenta anni; pur signoreggiando il ramo Savoiardo su quel di Piemonte, che dalla moglie di Filippo ebbe pretese e nome di principi d'Acaia. Del resto, Amedeo V superò forse i predecessori in isplendor di cavalleria e certo in potenza. Nel 1290 entrò in una lega contro a Guglielmo di Monferrato, che fu poi preso dagli alessandrini, e tenuto in una gabbia dove morí commiserato da Dante nel poema [1292]. Finita in Giovanni, figlio di questo, la casa Aleramica e prima di Monferrato [1305], passò il marchesato a sua figlia ed al marito che era de' Paleologhi di Costantinopoli, e continuò in questa seconda casa, benché i saluzzesi gliel disputassero e perciò facessero omaggio ad Amedeo V. Questi fu poi gran seguace e consigliero ad Arrigo VII imperatore nella sua discesa dal 1309 al 1313; e gran nemico come tutti i suoi, ed era naturale, agli Angioini che da Provenza e dal mezzodí volevano ficcarsi in Piemonte. Nel 1316 dicono andasse a combattere pe' cavalieri gerosolimitani contro a' saracini a Rodi; e salvatala, ne portasse il motto cavalleresco di «FERT», il quale significhi colle quattro iniziali: «Fortitudo Eius Rodhum Tenuit». Ma se mi si conceda una digressione di due righe su questo patrio trastullo, io crederei che questo motto, il quale si trova piú antico e sempre intrecciato con «lacci d'amore», non voglia dir altro, se non che uno di que' buoni cavalieri, l'inventor del motto, si vantava di portar que' lacci. Morí Amedeo V in Avignone, dov'era andato a promuovere una nuova crociata presso ad uno di que' papi infingardi [1323].—Seguendo separati i due rami di Savoia e di Piemonte o Acaia, questi, che non aveano ad attendere al di lá dell'Alpi, attesero tanto piú al Piemonte, e vi s'ingrandirono tra' nuovi marchesi di Monferrato, e gli antichi di Saluzzo, e gli Angioini, e le cittá guelfe e ghibelline, e i tirannucci e i condottieri; mentre i cugini di Savoia li aiutavano all'occasione. Fra' Savoiardi fu di nuovo cavaliero splendidissimo in fatti di guerra e di pace Amedeo VI, detto il conte Verde dal colore (secondo quegli usi) costantemente da lui usato. In Piemonte guerreggiò e s'aggrandí; e guerreggiò contro a' Visconti parenti suoi, per difender due pupilli di Monferrato; e guerreggiò in Puglia, e in Oriente; assisté al ritorno de' papi in Roma; arbitrò e conchiuse la pace di Torino dopo la guerra di Chioggia tra Genova e Venezia. Una volta, accogliendo a sua corte Carlo IV imperadore, e ricevendone l'investitura de' suoi Stati, e rompendosi, secondo l'uso barbaro-imperiale, gli stendardi e gli stemmi al vassallo prima d'investirlo, egli afferrando il suo della croce bianca, nol patí; e cosí in modo cavalleresco e politico insieme protestò della indipendenza (fosse di diritto o di fatto) di casa Savoia. Governò, risplendette quarantanove anni [1334-1383].—Succedettegli Amedeo VII, detto il conte Rosso; il quale pure guerreggiò, torneò in casa, e fuori, e aggiunse a' suoi Stati Nizza e quella bella contea, squarcio di Provenza, datagli da quei cittadini, concedutagli da re Ladislao per non poterla difendere esso da Luigi d'Angiò, e lasciatagli prender da questo non meno impotente quantunque vicino. Morí dopo otto anni di signoria [1391].—E successegli, fanciullo, Amedeo VIII tutto diverso de' predecessori; giá non piú gran cavaliero, ma uomo politico, prudente insieme ed ardito, riunitore ed ampliator dello Stato, se non incolpevole, certo lontanissimo dalle infamie de' Visconti e degli altri tirannucci contemporanei; ordinator poi e legislatore, e che cosí, cioè secondando i tempi senza prenderne i vizi, fu fondator nuovo della sua robusta monarchia. Seppe guerreggiare, ma fu famoso massimamente in trattar negozi vari. Cosí asserí suoi diritti su Ginevra, sui marchesi di Saluzzo, contro i Delfini e i Borboni di Francia. Entrò, giovò ne' negoziati che vedremo, per far finir lo scisma. Nel 1416, ottenne dall'imperator Sigismondo il titolo di duca. Nel 1418, estinta la casa d'Acaia, riuní gli Stati. Nel 1430, ordinò, ampliò gli antichi statuti di Savoia, e feceli comuni ne' suoi Stati, pur lasciandone molti locali qua e lá; saviezza di que' tempi, in cui era ancora impossibile l'uniformitá. Come i maggiori suoi, comprò, acquistossi in vari modi parecchie signorie feodali o cittadine incastrate ne' suoi Stati o limitrofe. La piú bella fu Vercelli, avuta da' Visconti [1427]. Finalmente, nel 1434 Amedeo VIII lasciava quasi tutte le cure del governo a suo figliuolo Ludovico, e si ritraeva poi, egli primo con sette compagni, in Ripaglia, un bel sito sul lago di Ginevra, per vivervi tranquilli, romiti, cristiani. Ma il vedremo indi ritolto poi a nuovi e maggiori affari. Oramai la storia di questo gran seno occidentale, non si può separare piú da quella della restante Italia, e vi diventerá talor principale. Quella piú antica che abbiam qui corsa, non ha guari altro interesse che le imprese cavalleresche di que' principi. Ma giova, ricrea l'animo seguir le vicende di quella, dicasi pur rozza, feodale o semibarbara, ma virile, ma semplice, ma virtuosa schiatta, non pura forse d'ogni violenza od inganno, ma non imbrattata certamente di niuna di quelle nefanditá e viltá de' Visconti, degli Estensi, degli Scaligeri, degli Ezzelini, e de' papi di Avignone, e degli Angioini di Napoli, e de' senatori di Venezia e delle signorie cittadine, e dei condottieri tramezzati in tutto ciò. Siffatto paragone è semplice veritá, e non è ragion di tacerla perché sia a lode de' principi miei. Anche la paura di esser tacciato d'adulazione è viltá, se fa tacer la veritá. Or torniamo alle nefanditá.
28. Filippo Maria Visconti [1412-1447].—Lasciammo Toscana e tutto il mezzodí straziato tra Ladislao, penultimo de' discendenti di Carlo d'Angiò, insieme con Braccio, e Luigi II degli Angioini nuovi, con Attendolo Sforza. Nel 1413 Ladislao fu vittorioso, prese Roma, minacciò Toscana, Bologna. Ma ei morí l'anno appresso 1414. Succedettegli sua sorella Giovanna II, piú infame che la prima, vedova d'un duca d'Austria, e che sposò [1415] un Borbone francese. Questi prese nome di re, mandò al supplizio un favorito di Giovanna, e imprigionò lei nel palazzo. Il popolo si sollevò per lei [1416]; ella depose dal regno il marito, l'imprigionò, rilasciollo [1419]. Ed egli fuggendo tal moglie, tal paese, tal sorte, si ritrasse a Francia; e sopravvivendo a Giovanna, non tornonne mai piú. Allora, costei che era senza figliuoli adottò Alfonso V re d'Aragona e di Sicilia, succeduto [1416] a Ferdinando. Viene Alfonso [1421], si guastano, si combattono; ed ella revoca l'adozione, ed adotta il nemico, l'emulo di sua casa, Luigi III [1433]. Si combatte con vicende varie, tra tutti questi, e Francesco Sforza figlio e successor di Attendolo, e Niccolò Piccinino successor di Braccio (i due grandi capiscuola eran morti del medesimo anno 1424). Nel 1433 Giovanna si riconcilia con Alfonso, e l'adotta di nuovo; e nel 1434 si riconcilia con Luigi che muore; e muor ella nel 1435, chiamando Renato fratello dell'Angioino allor prigione in Borgogna. Regna quindi Alfonso indisturbato, salvo due discese inefficaci fatte poi da Renato nel 1438 e 1453, e regna glorioso, acquista il nome di «magnanimo».—Noi lasciammo la Santa Sede straziata tra Gregorio XII, Benedetto XIII e Giovanni XXIII. S'adunò il concilio di Costanza e non li riuní. Succeduto al primo Martino V [1417], egli riuní prima due [1419], e finalmente [1429] tutte e tre le obbedienze. Cinquant'anni avea durato il grande scisma. E Martino V de' Colonna di Roma, gran protettor di lettere, fu di nuovo gran principe; riuní la Chiesa, riuní, restaurò lo Stato papale, straziato giá durante lo scisma. Ma morto esso [1431], succedettegli Eugenio IV, che si guastò coi Colonnesi e turbò lo Stato; e che, adunato un concilio a Basilea [1431], e rottolo, turbò la Chiesa; cosicché i padri rimasti a quella contro al divieto, elesser un nuovo antipapa, Amedeo VIII, il glorioso duca e romito di Savoia, che prese nome di Felice V [1439]. Riaprivasi lo scisma. Se non che, morto papa Eugenio, e succedutogli Niccolò V da Sarzana, un nuovo gran papa [1447], il duca antipapa gli rinunciò la Sede poco appresso [1449], e morí poi nel 1451 dopo aver signoreggiato sessantun anni da conte, duca, prior di romiti, antipapa, e decano de' cardinali. Al secolo dei venturieri fu piú grande e migliore de' venturieri.—In Firenze (oramai signora di Pistoia, Arezzo, Volterra e Pisa) dopo la disfatta de' Ricci, de' Medici, e de' Ciompi, continuò a preponderare l'aristocrazia popolana degli Albizzi, alcuni anni. Ma risorse l'aristocrazia ultra popolana sotto a' Medici; sorsero i Medici per mezzo della democrazia a poco men che signoria, esempio solito. I Medici erano grandissimi fra' mercanti e banchieri di quella cittá, giá grande per industrie e commerci di terra fin da quando l'adito del mare le era chiuso dalla nemica Pisa. E perciò, oltre all'ambizione di accrescimento, volgare in tutte quelle cittá italiane che speravan ciascuna diventar una Roma novella, per ciò Firenze volle ed ebbe Pisa. E allora crebbe ella piú che mai, e in essa crebbero i Medici; cioè quel Salvestro che vedemmo ne' Ciompi; e poi Giovanni figlio di lui che fu gonfaloniero nel 1421, benché ancor potessero gli Albizzi; e sopra, Cosimo di Giovanni. Noi viviamo in tempi di grandi banchieri; ma questi non arrivan forse a quei principi del commercio d'allora. Non so, per vero dire, se sarebbe fattibile il paragone de' capitali maneggiati dagli uni e dagli altri; né, se fattolo, e tenuto conto della raritá de' metalli allora correnti, ne riuscirebbero piú grandi capitalisti questi o quelli. Certo poi non v'è paragone tra le liberalitá, le splendidezze. Cosimo aveva il piú bello e gran palazzo di Firenze, forse d'Italia o della cristianitá; vi raunava i filosofi, i dotti, i letterati italiani, e gli orientali, quando vennero, cadendo e caduta Costantinopoli. E di qua e di lá raunava codici, anticaglie, scolture, pitture, e pittori e scultori, a cui molto piú che ai letterati giova, anzi è indispensabile la protezione. Soprattutto imprestava, spargeva gran danari; strumento supremo di popolaritá. Con tali mezzi era terribil capo d'opposizione contro a Rinaldo degli Albizzi, capo del governo. Questi volle liberarsene d'un colpo. Del 1433, datagli dalla sorte una signoria composta di partigiani suoi, chiamò Cosimo a palazzo, sostennelo, fecelo esiliare, e tolse poi i nomi de' partigiani di lui dalle borse onde si traevano a sorte i magistrati. Cosimo si ritrasse a Venezia, l'antica alleata di Firenze; ed ivi, esule magnifico, continuò le medesime splendidezze, edificando palazzi, raccogliendo codici, anticaglie, letterati, artisti; e pur mantenendo relazioni con sua parte in Firenze. E cosí, corso appena un anno, ed uscita a sorte, a malgrado le esclusioni, una signoria meno avversa a Cosimo, egli fu desiderato e richiamato; e cacciossi Rinaldo degli Albizzi, che esule troppo diverso fu a rifugio a Milano, ai Visconti, antichi nemici suoi e di sua patria. Fu del resto rivoluzione pura di sangue, che è meraviglia in quell'etá. E puri, o quasi, ne rimasero i Medici allor risorti e piú che mai crescenti in tutto. Se questi primi Medici del secolo decimoquinto si voglian pure (come si fa da alcuni) chiamar tiranni, ei bisogna avvertire almeno, che essi furono molto diversi e dagli altri contemporanei, e da' loro stessi discendenti del secolo decimosesto e seguenti.—Men buono di gran lunga, e tuttavia non de' peggiori del suo, fu Filippo Maria Visconti. Brutto di figura, cresciuto tra' pericoli e le sventure, e riuscitone prudentissimo anzi timido, sospettoso e cupo, non capitano, non guerriero, non buon parlatore, fu abile conoscitore e destro maneggiator d'uomini a proprio pro, e crudele sí, ma poco per un Visconti. Scannatogli, come dicemmo, il fratello [1412], corse a Milano, fu riconosciuto signore, sposò la vedova di Facino Cane, ebbe cosí per sé quella compagnia; alla quale sovrapose Francesco Bussone, detto il Carmagnola da un borgo del Piemonte dov'era stato guardiano di vacche. Questi poi riacquistò a poco a poco a Filippo Maria tutto lo Stato dell'avo in Lombardia, e Genova stessa, che non sapendo a lungo mai star libera si diede a lui e al Visconti, come poc'anzi a Francia [1412-1422]. Ivi fu fatto governatore, facente funzioni di doge, il guardian di vacche. Ma al soldato di ventura era esiglio, posciaché era ozio, o almeno non guerra. Lagnossi, cadde in sospetto. E comandato congedar sue lance, va invece in corte a Milano, ad Abbiategrasso dove villeggiava il duca; non è ricevuto; freme, grida, risalta in sella, varca Ticino, varca Sesia, corre ad Ivrea, s'abbocca con Amedeo duca di Savoia, promuove una gran lega con Firenze giá assalita e Venezia minacciata dal Visconti, e pel San Bernardo e Germania viene a San Marco [1424]. La lega si fa; il Carmagnola n'è condottiero per Venezia [1426]. Prende Brescia e il paese all'intorno; è battuto poi a Gottolengo, ma sconfigge in una gran battaglia a Maclodio Niccolò Piccinino e Francesco Sforza, emuli giá, riuniti ora nel servigio del Visconti [1427]. Ma Carmagnola rilascia i prigioni. Era uso tra quei venturieri che giá si battevan con riguardi, e finirono con non ammazzarsi; ma i veneziani non l'inteser cosí, e incominciarono da quel dí a tener in sospetto il Carmagnola. Fecesi la pace [1428]; rivolsersi i condottieri del Visconti a Toscana, ma non ne riuscí nulla; riaprissi la guerra nel 1431. Carmagnola è battuto a Soncino, lascia battere senza muoversi l'armatetta veneziana sul Po presso a Cremona, e riposa il resto di quell'anno. Al principio del seguente [1432] è chiamato a Venezia sott'ombra di concertar le operazioni di quella campagna; è accarezzato per via, a Venezia, in palazzo ancora, finché nell'uscire è sostenuto, incarcerato, e poi segretamente accusato, torturato con corda e fuoco, condannato e pubblicamente decollato in piazza San Marco addí 5 maggio 1432. Fu innocente o colpevole? Nemmen la critica storica, cosí informata a' nostri dí, non ne sa decidere. Il peggio delle persecuzioni de' tiranni non è il supplizio, è il segreto calunniatore. Del resto, ciò non potea scandalezzare in quel tempo di quella cupa e feroce aristocrazia, che avea mandati a simil supplizio i Carraresi evidentemente innocentissimi, anzi non giustiziabili né giudicabili da lei. Rifecesi pace [1433] tra Venezia e il Visconti.—Ma continuando i genovesi sudditi di lui la guerra lor propria per gli Angioini contra Alfonso d'Aragona, essi il presero in battaglia navale e il trasser prigione a Milano. Filippo Maria il rimandò libero, e Genova se ne sollevò e rivendicossi in libertá [1435]. Piccinino e Sforza guerreggiavano intanto in Toscana e negli Stati del papa. Riapresi in breve la guerra tra Visconti e Firenze [1436]. Si rifá pace, si riapre guerra [1436], istigata dall'Albizzi il mal fuoruscito, e vi s'aggiunge Venezia poi; e combattono a lungo Piccinino per il duca, Sforza questa volta per le repubbliche. Seguono nuove paci e guerre, piú intricate che mai, da Lombardia fino a Puglia, a cui notare si farebbon pagine lunghe, e che del resto non ebbero risultato; finché, cacciatone lo Sforza, ed abbattutone il Visconti, questi trasse a sé quello, offrendogli la mano di Bianca sua figliuola naturale, ma unica. Allor fecesi pace universale [1441]. Ma anche questa ruppesi in breve. Guastaronsi suocero e genero; e ne seguiron simili guerre, simili scompigli e simile conchiusione. Ridotto a mal partito il Visconti, vecchio, morente, e perciò tanto piú allettante allo Sforza che gli volea succedere, si ripacificarono. Ma morí Filippo Maria prima che si congiungessero [1447].—Sigismondo imperatore discese in Italia nel 1431. Fu incoronato a Milano (assente e chiuso in suo castello d'Abbiategrasso il timido Filippo Maria); a Roma [1432] tentò paci e non le fece; risalí nel 1433, morí nel 1439. Succedette [1440] Federigo duca d'Austria; dal quale in poi, l'imperio non uscí piú di quella casa, prima o seconda.
29. Francesco Sforza quarto duca di Milano [1447-1466]. Il ducato era stato dato a' Visconti in feudo mascolino; niuna femmina, niun discendente o marito di femmine, v'avea diritto. Tuttavia vi preteser cosí parecchi; il duca di Savoia, il duca d'Orléans e Francesco Sforza. I milanesi si rivendicarono in libertá, restituirono il comune o repubblica, ma non seppero ordinare armi proprie a difenderla; assoldarono i migliori condottieri, due Sanseverini, Bartolomeo Coleoni, due Piccinini figli di Niccolò [morto nel 1444], e Francesco Sforza stesso. L'Orléans assaliva dal Piemonte, prendeva Asti, e la serbava poi; i veneziani continuavan la guerra incominciata contra il Visconti e passavan l'Adda. Sforza vincevali e rivincevali costí e sul Po, tre volte in un anno [1448]; ma faceva poi pace con essi, a patto d'esserne aiutato alla signoria di Milano [1448]; e cosí alzava lo stendardo contro alla repubblica, indebolita giá per sue pretese a serbar le cittá suddite. Perciocché, il nome di «libertá» è bello ed attraente senza dubbio; ma a chi la vuol per sé e la toglie altrui, il nome sta troppo male in bocca e non tira nessuno. E perché cosí facevano di lor natura tutte le cittá o repubblichette del medio evo, perciò poche poterono fondare Stati grossi. Insomma, le cittá del ducato apriron le porte allo Sforza, e Milano restò quasi sola. Nel 1449 fece con Venezia un trattato a cui lo Sforza accedé, ma per poco. Anzi, riprese l'armi, tagliò le vettovaglie a Milano; e il popolo si sollevò, e addí 26 gennaio 1450 gli aprí le porte e riconobbelo per duca.—E qui v'ha chi piange, e dice perduta una grande occasione di collegarsi le tre repubbliche di Milano, Venezia e Firenze per l'indipendenza di tutta Italia; e certo s'ei vuol dire che elle avrebbero dovuto ciò fare, io consento per questa come per qualunque altra occasione. Ma il fatto sta che le repubbliche o comuni o cittá, furono, piú che non gli stessi signori, discoste sempre da tali idee; e che la storia de' quattro secoli addietro dimostra la loro incapacitá ed all'indipendenza ed alla libertá stessa; e che qui appunto, da questa metá del secolo decimoquinto, da questo ascendere dello Sforza alla signoria, incomincia un periodo, pur troppo breve, non arrivante a mezzo secolo, ma che fu forse il piú felice, il piú vicino all'indipendenza compiuta, certo il piú fecondo di grandezze e splendori che sia stato mai all'Italia, dopo il vero imperio romano. E il fatto sta che la preoccupazione repubblicana fece a molti travedere ed anche travisare la storia d'Italia; li fece quasi per disprezzo tralasciare di studiare e notare la storia di que' grandi principati italiani, che si vennero apparecchiando fin da quest'epoca, che durarono d'allora in poi, e durano, che hanno quindi per noi un interesse molto piú attuale. Siffatte preoccupazioni esclusive, siffatte trascuranze volontarie od involontarie di tutta una serie di fatti, sono fonti di miseri errori, grettezze in tutti gli studi; nella storia, nella scienza de' fatti, sono distruzione della scienza intiera.—E studiando dunque i principati non meno che le repubbliche, noi noteremo fin di qua, che qui si vede la gran differenza tra un principe assoldator di condottieri, e un principe condottiero lui stesso. Quattro anni bastarono a Francesco, principe nuovo ma militare, per finir quelle guerre che avean occupata tutta la vita di Filippo Maria, principe antico ma non militare. Nel 1454 fu firmata una pace, stabile oramai, che fermò, limitò gli Stati di Milano e Venezia, quali li vedemmo fino a' nostri dí. Francesco signoreggiò poi tranquillo, glorioso, splendido altri dodici anni; e negatagli l'investitura da Federigo d'Austria, non se ne curò; offertagli per danari, la ricusò.—Costui era disceso nel 1452, ed avea fatti gli Estensi duchi di Modena e Reggio, cosí innalzando un altro de' principati duraturi; e scansata Milano, erasi fatto incoronar a Roma, non solamente imperatore, ma, contra l'uso, re d'Italia, da papa Niccolò V troppo condiscendente; poi era risalito. Nel 1453, Stefano Porcari, un gentiluomo romano, che poc'anni addietro, nell'interregno della elezione di Niccolò, avea propugnati i diritti di libertá del popolo romano, fece una congiura di fuorusciti, rientrò con trecento una notte in una casa; fu tradito, accerchiato, preso, appiccato.—In quest'anno medesimo si compiè la gran vergogna e calamitá della cristianitá europea; fu presa Costantinopoli da Maometto II e i turchi; e cosí finí l'imperio greco, orientale, romano, quella reliquia, lungamente superstite, della civiltá antica. Quindi si sparsero i turchi tra pochi anni nelle province greche dell'Eusino, del Danubio, di Atene, della Morea e nelle isole; facendovi servi, «giaurri», i milioni d'abitatori cristiani. Spaventossene la cristianitá, ma non se ne mosse; non avea piú quel fior di zelo cristiano che avea mosse le crociate; non ancora quello zelo di civiltá che la muove, benché tanto discordemente epperciò lentamente, a' nostri dí. E giá fin d'allora lo zelo commerciale superava qualunque altro, faceva prendere i mezzi termini. Nell'anno della conquista, Venezia fece col barbaro conquistatore un trattato di pace, d'alleanza e buon vicinato, per salvare i suoi stabilimenti, i suoi scali, e a capo di essi il bailo ambasciadore, consolo, giudice de' cittadini veneziani lá sofferti. Trovasi menzione d'una lega italiana ideata tra il 1454 e il 1455; ma furon parole: gl'interessi minori ma presenti fecero lasciare i maggiori e lontani. Fu nuova vergogna e danno alla cristianitá; danno poi particolare all'Italia, in cui saran sempre sogni le confederazioni immaginate in generale, senza scopo, senza occasione; in cui le occasioni sole posson condurre alle leghe temporarie, e queste sole, se mai, a qualche confederazione perenne; in cui dunque dovrebbesi prender come benefizio della Provvidenza qualunque occasione di far leghe, piccole, grosse, temporarie o durature. Ad ogni modo spargevansi in Italia letterati, filosofi, reliquie di quella reliquia; a' quali fu mal attribuito il fior delle nostre lettere giá fiorenti spontanee da duecento anni, a cui è tutt'al piú da attribuir l'esagerato affetto alle cose antiche che seguí. Furono accolti principalmente da Cosimo de' Medici e da Niccolò V, il quale morí poi due anni appresso, e, dicono, di dolore [1455].—Successegli Calisto III, uno spagnuolo, un primo Borgia, ottimo papa, che occupò il breve pontificato in confortar invano la cristianitá contro a' suoi nemici naturali. E morto esso [1458], succedette Pio II (Enea Silvio Piccolomini) un dotto ed elegante uom di lettere, che diede due buoni esempi: lasciar le lettere per li fatti quando s'arriva a potenza, e condannar gli scritti propri quando non si trovan piú buoni. Volsesi poi tutto anch'egli a riunire e confortar contro a' turchi la cristianitá. Venezia fu costretta [1463] a romper guerra per le sue possessioni stesse in Morea; e allora fece alleanza con Mattia Corvino re d'Ungheria e grand'uomo, col duca di Borgogna uomo ambizioso che volea porsi a capo della crociata, e con Giorgio Castriotto sollevator degli albanesi. Ma morirono Pio II [1464], e il Castriotto [1466]; e tutto quel rumore cessò, e Venezia che s'era voluta isolare nella pace, rimase meritamente sola alla guerra. Nel papato successe Paolo II (Pietro Barbo veneziano).—Intanto [1456] era succeduta in Venezia una nuova di quelle misteriose tragedie a lei peculiari o simili solamente a quelle del serraglio o dell'altre corti orientali. Dogava dal 1423, cioè dall'epoca delle ambizioni, delle conquiste, delle glorie di sua patria, Francesco Foscari, il piú glorioso principe che Venezia avesse avuto da Enrico Dandolo in qua. Eppure, fin dal 1445 gli era stato perseguitato, torturato, esiliato il figlio Iacopo, accusato da un vil fuoruscito fiorentino d'aver toccato danari dal Visconti. E fu riaccusato di assassinio, ritorturato, riesiliato cinque anni appresso. E fu accusato, torturato una terza volta per una lettera di lui al duca di Milano; scritta apposta, disse il miserando giovane, per essere cosí ricondotto dall'esilio, e ricomprare con quelle torture l'invincibil brama di riabbracciar i parenti decrepiti, la dolce moglie, i figliuoli. E per la terza volta fu ricacciato, e morí lontano. Quindici mesi appresso, il vecchio glorioso, ma certo rimbambito, posciaché soffrí di regnare dopo tutto ciò, fu deposto; e al sonar della campana grossa che annunciava l'incoronazione del successore, morí di dolor d'ambizione colui che non avea saputo morire di dolor di padre [1457]. Che libertá, che repubbliche, che aristocrazie!—Con gloria piú incolume, morí [1458] Alfonso il magnanimo. Benché signor di altri regni in Ispagna, non avea piú lasciato quello delle Due Sicilie da trentott'anni; v'avea combattuto a lungo, l'avea pacificato, ordinato, fatto riposare e risplender d'arti e di lettere; e compié i suoi benefizi a' sudditi napoletani, lasciando i regni spagnuoli e Sicilia a Giovanni suo fratello, ma Napoli distaccato, a Ferdinando suo figliuolo naturale. Se non che, qui come ad ogni altra occasione passata, presente o futura, lamenteremo sempre qualunque sminuzzamento del bello ed util Regno di qua e di lá dal faro, come di qualunque altro Stato italiano esistente. Ma che giova? Mentre si disperano e cercano riunioni l'une difficili, l'altre impossibili, si sminuzza ciò che è giá riunito. Sogni ed ire, sempre la medesima storia. Non solamente il desiderabile proseguito in luogo del possibile; ma niun criterio a distinguere ciò che sia desiderabile veramente, niuna costanza a desiderar le medesime cose; inconseguenza, inconsistenza, passioni.—Ferdinando poi non valse il padre: s'inimicò i baroni; e questi chiamarono un duca di Calabria figlio di Renato d'Angiò, che scese e si mantenne parecchi anni nel Regno. Ferdinando fu mantenuto dalla sapienza politica dello Sforza e di Cosimo de' Medici, che non vollero introdurre un nuovo straniero in Italia; ma si deturpò peggio che mai colle vendette, e col tradimento che fece a Iacopo Piccinino, accarezzandolo, traendolo a sé, ed uccidendolo, a modo di Venezia con Carmagnola [1465].—Pochi mesi addietro era morto Cosimo de' Medici il gran cittadino di Firenze, il grande autore e conservator della pace in sua cittá e in Italia. Avea governato per mezzo di sua parte giá democratica, poi meno aristocratica, poi aristocratica sola; né aveva usurpati, o nemmen ritenuti carichi; anzi li avea dati e mantenuti a Neri Capponi, a Luca Pitti, a tutti i grandi minori di lui; avea portato il segno della vera e rara grandezza, non aveva avute invidie. Non vi fu sangue al tempo suo; pochi di quegli stessi esigli, i quali son forse inevitabili nelle repubbliche, dove qualunque cittadino presente può forse esser potente; mentre ne' principati puri è facilissimo annientar un suddito, presente come assente. Ed a malgrado di tutto ciò, Cosimo è da alcuni vituperato quasi tiranno, perché, volente o non volente (chi può saper le intenzioni?), egli apparecchiò le vie a' discendenti che tiranneggiarono cinquanta o sessant'anni dopo lui. Ma il fatto sta, che ei governò la repubblica, primo sí, ma non principe, ed anche meno tiranno; ch'egli ottenne da' contemporanei il nome di «padre della patria»; ch'ei somigliò a quanti grandi cittadini furono nelle piú splendide repubbliche antiche, e superò forse quanti furono nelle italiane. Quando saprá l'Italia far giustizia tra i veri e i falsi grandi suoi? Forse non prima che ella sia compiutamente libera. Intanto par che corra quasi un impegno di abbassare i veri grandi e d'innalzare i piccoli di nostra storia. Sarebb'egli per ridurli tutti insieme alla misura di nostra mediocritá? Vi badino coloro che han credito sull'opinione patria. Forse per gran tempo ancora non si potrá in tutta Italia dare a coloro che la servono, ciò che ogni generoso fra essi desidera naturalmente piú, i mezzi di piú e piú servirla, la potenza; per gran tempo ella non avrá altro premio a dar che le lodi; sappiamo almeno non negarle né avvilirle.—L'ultimo a morire di questa gran generazione del mezzo del secolo decimoquinto fu Francesco Sforza [1466]. Due anni innanzi, Genova, che dal 1458 aveva ridonata la signoria a Francia, abbandonata da questa, l'aveva donata a lui. Cosí morí Francesco nel colmo di sua fortuna; uomo meno incolpevole certamente, ma non minor principe egli, che Cosimo gran cittadino; la loro amicizia serbò allora la pace d'Italia, e li onora presso ai posteri amendue.
30. Galeazzo Sforza quinto duca di Milano [1466-1476].—Fu poi uno di que' fatti indipendenti forse da ogni colpa umana, ma gravidi di mali ad ogni modo, che a tutti que' grandi della metá del secolo decimoquinto succedessero uomini di gran lunga minori; a Francesco, Galeazzo Sforza figliuolo di lui; a Niccolò V e Pio II, Paolo II; ad Amedeo VIII di Savoia, Luigi ed Amedeo IX il beato; ad Alfonso il magnanimo, Ferdinando il bastardo; a Cosimo de' Medici, Piero.—Questi, fin dal secondo anno [1466], fece o lasciò esiliare molti cittadini; ond'essi, unitisi agli antichi fuorusciti, e a Bartolomeo Coleoni condottiero, fecero contro alla patria una di quelle imprese, dove si spera e non si trova poi l'aiuto del popolo [1467]. Del resto, sopravisse la pace fondata da que' grandi. Italia posava, Italia avrebbe piú che mai potuto far la lega contro a' turchi; e molto se ne trattò; e se ne firmò una a Roma, nel 1470, tra papa Paolo II, Luigi marchese di Mantova, Guglielmo marchese di Monferrato, Amedeo IX duca di Savoia, Siena, Lucca e Giovanni d'Aragona. Ma, oltre alle feste che se ne fecero, non n'uscí nulla, e fu lasciata Venezia sola proseguire con varia fortuna la guerra, che avrebbe potuto e dovuto essere nazionale. E cosí avviene sempre ed avverrá, finché si ricadrá in questo vizio femminile e da bimbi, di festeggiare ciò che si spera e non si sa compiere poi, di sciupare in feste quello che rimane d'operositá.—Poi, come succede nelle paci subitane dopo grandi moti, quando restan disoccupati a un tratto e malcontenti molti animi irrequieti, seguiron parecchi anni, che si potrebbon dire i classici delle congiure italiane, gli anni che gioverebbe studiare, per vedere a che elle montino, che ne risulti. Tre ne furono nel solo 1476, l'anno millenario della distruzione dell'imperio antico. Quanto lenta ancora era progredita la civiltá! Una di quelle tre fu in Genova, di un Gerolamo Gentile che volle liberarla dal giogo milanese, e riuscí ad impadronirsi delle porte, poi soggiacque. Un'altra in Ferrara (testé dal papa innalzata a ducato in favor degli Estensi giá duchi di Modena), dove Niccolò d'Este s'intromise con una mano di fanti per cacciare il duca Ercole, e soggiacque, e fu decapitato egli, impiccati venticinque compagni. Finalmente, una in Milano, dove tiranneggiava Galeazzo tra le crudeltá e le libidini, da dieci anni. E contro tal tirannia doveva riuscire e riuscí la congiura; ma a danno de' congiurati, non men che del tiranno, a danno forse della cittá patria, e certo poi della intiera patria italiana. Tre giovani, un Olgiati, un Visconti ed un Lampugnani, giustamente adirati della tirannia, stoltamente istigati, dicesi, da un Cola Montano letterato e filosofo all'antica, s'esercitarono alla milizia, si confortarono alla religione, e tradiron l'una e l'altra esercitandosi al pugnale. Poi, addí 26 dicembre 1476, aspettarono il tiranno nella chiesa di Santo Stefano, e com'ei s'avanzava tra due ambasciadori, se gli appressarono, e lo trafissero. Furono fatti a pezzi lí dalle guardie, Lampugnani, inceppatosi tra i panni delle donne inginocchiate, e pochi passi discosto, il Visconti. N'uscí solo l'Olgiati a gridar libertá; ma non fu ascoltato da nessuno, fu rigettato da suo padre stesso, si nascose, fu scoperto, imprigionato, scrisse sua confessione, e morí straziato e vantando il proprio fatto. Ed allo Sforza ucciso succedé tranquillamente Gian Galeazzo suo figliuolo, fanciullo, sotto la tutela di Bona di Savoia, madre di lui; e si vedrá qual destino egli avesse poi, e qual traesse a tutta Italia.
31. Gian Galeazzo Sforza sesto duca di Milano [1476-1492].—Corsi due anni, avvenne una quarta congiura, essa pur fatale alla libertá. A Pier de' Medici, morto nel 1469, eran succeduti Lorenzo e Giuliano, figliuoli di lui, nelle ricchezze e nella potenza indeterminata di lor famiglia. Amendue giovani eleganti, generosi, dilettanti. promotori di lettere ed arti come l'avo; ma men che lui liberali di quella potenza pubblica, la quale par sommo bene ai popoli, ed anche piú alle aristocrazie libere. I Pazzi, stretti di parentele co' Medici, erano stati de' principali chiamati al convito di potenza da Cosimo; furono ora de' principali esclusi. Accomunarono gli odii col Salviati vescovo di Firenze, co' Riari nipoti di papa Sisto IV (Della Rovere, succeduto a Paolo II fin dal 1471), e dicesi col papa stesso, oltre altri minori. Congiurarono, appuntarono vari luoghi a pugnalar i Medici, e gridar libertá; e fallite loro altre occasioni, appuntaron la chiesa, come s'era fatto allo Sforza. Pare impossibile, ma è certo; avvi una contagiositá dei delitti; e tanto piú, quanto piú eccessivi. Addí 26 aprile 1478, in mezzo alla messa udita da' due fratelli, al segno dell'elevazione, un Bandini trafigge Giuliano, un Pazzi pure gli s'avventa con tal impeto, che trafigge se stesso; mentre un Antonio da Volterra manca il colpo su Lorenzo, che si difende colla cappa e rifugge in sacrestia. Ciò veduto, e che il popolo fiorentino inorridiva invece di sollevarsi, il Bandini fuggí di cittá, d'Italia, dalla cristianitá, a Costantinopoli. Intanto il vescovo Salviati, che dovea prendere il palazzo della Signoria, separato per un caso da' compagni giá introdottivi, s'era turbato e scoperto; e preso esso ed essi dal gonfaloniero, e chi scannato lí, chi sbalzato dalle finestre, furono ivi appiccati il vescovo con due cugini suoi, e Iacopo Bracciolini, figlio del famoso letterato. La congiura era spenta. Si spense dopo essa, come succede, molto di libertá fiorentina, e, che forse fu peggio, quell'unione degli Stati italiani, la quale era stata fondata da' grandi uomini della penultima generazione, mantenuta dagli stessi minori dell'ultima. Lorenzo, rimasto solo alla potenza repubblicana, la rivolse poco meno che in signoria; non risparmiò supplizi, non rispettò la costituzione dello Stato. E tutta Italia se ne turbò. Il papa scomunicò Lorenzo e la Signoria per l'uccisione del vescovo Salviati, e s'uní con Ferdinando di Napoli e con Siena contra Firenze. Federigo, duca di Urbino, fu condottiero della lega; Ercole d'Este, de' fiorentini, che al solito non avean grandi uomini di guerra tra lor cittadini. Bona di Savoia, reggente il ducato di Milano, era sola alleata loro. Ma le furon suscitati nemici in casa e intorno. Nel medesimo anno i genovesi scossero la signoria di Milano, e rifecersi un doge cittadino. Poi (1479), scesero svizzeri, e vinsero i milanesi a Giornico. E finalmente, Ludovico il moro (il gran traditor d'Italia poi), lo zio del fanciullo Galeazzo, dichiaratolo maggior d'etá, tolse a Bona e prese egli la potenza che tenne sempre poi. Intanto, i fiorentini, sconfitti al Poggio imperiale, erano all'ultimo. Allora Lorenzo, che non era stato buono a far il capitano, mostrossi buono e coraggioso uomo di Stato. Entrato in negoziati, e veduto di non poter conchiudere co' capitani della lega, e che il tempo pressava, fu egli stesso a Napoli, a quel Ferdinando che poc'anni addietro avea finiti i suoi negoziati col Piccinino con tradirlo ed ucciderlo. La cosa riuscí a Lorenzo; conchiuse pace con Ferdinando [1480], e tornò in trionfo a Firenze, che ne fu piú che mai sua. E tanto piú che, del medesimo anno scesi i turchi ad Otranto, il papa se ne spaventò, e fece pace anch'egli. I turchi furono cacciati [1481].—Ma in breve fu suscitata nuova guerra da quel vizio che veniva sorgendo ne' papi di far principi i lor parenti, quel vizio a cui fu quindi inventato il nome di «nepotismo». Non pochi principati, Milano, Savoia, Modena e Ferrara, Mantova, Urbino, s'erano costituiti ultimamente, crescendo di grado gli uni per concessioni imperiali, gli altri per concessioni pontificie. Questo destò ne' papi la nuova ambizione, il nuovo vizio del nepotismo che guastò da Sisto IV in poi tanti papi; che, per quasi un secolo, fu arcano o piuttosto sfacciata massima di lor politica, ed abbandono della grande e nazional politica papale, proseguita da' loro gloriosi predecessori; che diminuí poi, diminuita la potenza de' papi, ma' fu anche allora impiccio, impoverimento del loro Stato; e che nell'un modo e nell'altro, essendo vizio il piú anticanonico di tutti, ambizione personale, piccola, interessata, e tanto minore delle grandi ed ecclesiastiche ambizioni dei Gregori e degli Innocenzi, conferí forse piú che null'altro a diminuir la dignitá, la potenza del papato nella pubblica opinione per tre secoli, fino all'immortal Pio VII. Sisto IV voleva far uno Stato al nipote Riario. Collegossi con Venezia per ispogliar gli Estensi e dividersi loro Stati, Napoli, Milano e Firenze, cioè Ferdinando, Ludovico e Lorenzo collegaronsi per difenderli [1482]. Seguirono intrighi, alleanze nuove, minacce; e morí tra esse Sisto IV, lasciando Gerolamo Riario signor d'Imola e Forlí [1484]. Successegli Innocenzo VIII (Cibo di Genova); perciocché questa del nepotismo è la ragione, che ci sforza a notar i casati di questi nuovi papi, cosí diversi da quegli antichi che non avevano famiglia se non, come pontefici, la Chiesa; e come principi, la parte nazionale d'Italia. E quindi io non so non trattenermi ancora a notare quella che mi pare anche qui non giusta distribuzione di lodi, quell'errore d'inveire contro agli antichi papi italiani, italianissimi, per lodare, blandire o scusar almeno questi nuovi, splendidi sí sott'altri aspetti, ma cattivi italiani, arrendevoli a qualunque straniero li aiutasse a collocar lor nipoti. Che gli scrittori stranieri facciano tal errore, è naturale; parlan per essi: sappiamo anche noi parlar per noi, o piuttosto (né è a disperar che si faccia un dí nella civiltá progredita) parliamo tutti per quel principio politico sommo, di difendere o promuovere in casa, di rispettare ed aiutare fuori la nazionalitá d'ogni nazione. Papa Cibo non fu migliore, anzi peggiore del predecessore; nepotista al par di lui; e di piú, depravato di costumi, altra novitá, altro scandalo aiutato re e accrescitor del primo. Seguono negoziati, guerre, paci e congiure ed assassinii per interessi privati, piú che per comuni: una guerra d'Innocenzo contra Ferdinando e fiorentini, ed una pace del 1486; un matrimonio tra una figliuola di Lorenzo de' Medici e Franceschetto Cibo, a' cui posteri rimase quindi il ducato di Massa-Carrara; Gerolamo Riario, pugnalato da tre capitani suoi [1488]. La sua vedova seppe conservar il principato a lor figlio; ed ella sposò poi Giovanni de' Medici, detto delle «bande nere», che vedremo ultimo de' condottieri italiani, primo de' fiorentini, e padre a Cosimo granduca. E fu pugnalato [1489] Galeotto Manfredi, ma rimase pure ad Astorre suo figliuolo la signoria di Faenza. Piú che mai si vede l'inutilitá dei delitti: le cose continuano ad andare, mutati i nomi, per il lor verso; e continuarono allora per quello dei principati fermi ereditari. Il solo acquisto che se ne facesse, fu d'infamia. Appressavansi gli anni che l'Europa civile tutta quanta si versò sull'Italia; e quando costoro (che non eran pure di civiltá avanzata né severa, ma perfidi ingannatori, politici a guisa di Luigi XI, Comines, Carlo il temerario di Borgogna, Arrigo VIII, Fernando cattolico ed altri simili) trovarono generazioni d'italiani piú perfidi, piú scelleratamente abili, piú congiuratori, piú pugnalatori che non essi; essi si scandalizzarono, come fanno volentieri i cattivi de' peggiori; e riportarono a lor case, e tramandarono di generazione in generazione il mal nome della perfidia italiana. Noi paghiamo il fio delle colpe de' maggiori. È giustizia? Non lo so. Certo, è abitudine, e sará finché duri mondo. E noi non saremo ammessi a lagnarcene, finché si rinnoveranno, men frequenti che a' secoli decimoquarto o decimoquinto, ma troppe ancora pel decimonono, simili nefanditá. Né queste poi torceranno il secolo nostro dalle monarchie rappresentative, piú che quelle dei maggiori torcessero il loro dalla signoria assoluta.—Ad ogni modo, l'etá dei comuni repubblicani è qui finita. Firenze, Siena, Lucca, Genova, Venezia sopravvivon sole. Coloro che prolungano l'etá repubblicana quarant'anni ancora, fino alla caduta di Firenze, la potrebbon prolungare sessanta, fino a quella di Siena, o fino a' nostri dí, quando caddero le tre ultime; ovvero dir che durano le repubbliche anch'oggi, in San Marino. In nome d'Italia, lasci di guardare ciascuno all'idolo suo; guardiamo alla patria tutta intiera, alla condizione universale, alle importanze principali, anche scrivendo.—E cosí facendo, concorderemo poi con tutti gli scrittori contemporanei in dire: principio, èra dei nuovi guai d'Italia, del massimo di tutti, la venuta di nuovi stranieri che seguí d'appresso alla immatura morte di Lorenzo de' Medici (all'etá di quarantaquattro anni, 8 aprile 1492). Come gran cittadino repubblicano, Lorenzo non pareggiò Cosimo certamente: fu men modesto, s'accostò piú al principato; e cosí, invece di quel gran titolo di «padre della patria», non gli rimase che quello, volgare allora, di «magnifico». Com'uomo di Stato poi e grande italiano, se Cosimo fu l'inventore, l'ordinatore della grande unione di Milano, Firenze e Napoli (quell'unione, quella politica che valse, che fu una vera confederazione italiana), Lorenzo ebbe pure il merito di mantenerla in condizioni fors'anche piú difficili, con uomini certamente molto minori, anzi cattivi; di serbarla, quando pericolante; di rinnovarla, ad ogni volta che si venne guastando. E il fatto sta, che mutando nomi o luoghi speciali, secondo le occorrenze, questa unione di tre grandi principati nazionali del settentrione, del mezzo e del mezzodí d'Italia, è forse la sola confederazione possibile in Italia, la sola che possa salvare o rivendicare mai la nazionalitá di lei. Certo, era la sola a que' dí; e, spento Lorenzo, ella si spense fino a' nostri. E quindi incominciò l'etá degli Stati italiani sotto le preponderanze straniere combattute, pazientate, equilibrate, e ad ogni modo duranti, e durature Dio solo sa fino a quando.
32. Coltura dell'etá dei comuni in generale.—Noi abbiamo ritratto in colori piú oscuri forse che non si suole la politica della nostra etá dei comuni. Se ci siamo ingannati, sia perdonato all'intimo nostro convincimento di questo principio: che prima delle felicitá, primo dei doveri nazionali, primo dei doveri della libertá stessa, è il procacciare quell'indipendenza che i comuni non seppero compiere in quattro secoli di libertá. Ad ogni modo, sorge quindi nella nostra storia una contraddizione apparente giá accennata: che quella libertá de' nostri comuni, cosí poco apprezzata od anche disprezzata da noi, fu pure incontrastabilmente capace di generare la piú splendida, la piú varia e la piú nazionale coltura che sia stata mai. Per quattro secoli questa crebbe in Italia sola, in mezzo all'Europa tutta oscura; la stessa coltura greca non ebbe tanti secoli di tale splendore esclusivo. Per trovare esempi di simili esclusivitá bisognerebbe andar all'Indie o alla Cina; ma le colture ivi cercate sarebbero (mi perdonino indianisti e sinologi) incomparabilmente minori. Come ciò? Come quest'apparente contraddizione di una libertá cosí incapace d'indipendenza, cosí capace di coltura? Ma, quanto all'incapacitá d'indipendenza noi ne svolgemmo via via giá la causa evidentissima; quella preoccupazione dell'imperio romano che fu in tutti i comuni, in tutte le parti, nella stessa guelfa o nazionale. E quanto poi alla capacitá di coltura, noi l'accennammo pure; la libertá anche cattiva, anche barbara, disordinata, eccessiva, cadente in licenza, è tuttavia culla piú favorevole alla coltura che non possa essere il principato assoluto o feodale. Il duplice fatto non è dubbio; e la prova della virtú che è nella libertá di generare la coltura, ne risulta tanto piú evidente, quanto piú cattiva ed incompiuta fu questa libertá, quanto politicamente parlando le altre nazioni furono meglio costituite, e prepararono migliori, invidiabili costituzioni di nazionalitá. Se fosse conveniente qui una digressione, io crederei poter dimostrar facilmente: che in tutti i tempi, in tutti i luoghi le grandi colture furono figlie o d'una libertá legittima, legale, stabilita, o d'una reale quantunque non riconosciuta, o almeno d'una incipiente quantunque non progredita; che in particolare quella magnifica coltura francese, la quale prende nome da Ludovico XIV, fu tutta esercitata da uomini nati e cresciuti fra le contese di libertá, che, cattivissime del resto, sorsero durante la minoritá di lui e furon dette della Fronda; che insomma e dai fatti e colle ragioni si prova sempre, le colture aver bisogno di libertá, e quasi sempre la libertá aver bisogno di coltura. Ma non avendo noi luogo a distrarci, ci basti accennare la fratellanza, o il parallelismo speciale della nostra libertá e della nostra coltura da Gregorio VII fino all'epoca a cui siam giunti.—La libertá ecclesiastica, propugnata, ottenuta da Gregorio VII e da' suoi predecessori e contemporanei, ebbe bisogno di grandi teologi; e cosí li fece sorgere, e con essi parecchi di que' filosofi scolastici, i quali mal si distinguono da' teologi, e de' quali è gloria di alcuni filosofi contemporanei nostri aver saputo riconoscere i meriti finalmente. E la libertá ecclesiastica facendo sorgere ogni zelo ecclesiastico, fece moltiplicar que' templi, quelle chiese di che giá accennammo le due prime di Venezia e Pisa, e che tutte furono poi veri musei d'antichitá e scuole a tutte l'arti italiane. Poi la libertá comunale, dico la primissima, informe, de' consoli del 1100, non poté essere né un anno o un dí senza aver bisogno, in ogni cittá o terra italiana, di oratori, uomini di Stato, capi di nobili, capi popolo, capi parte, piccolissimi terricciolai quanto si voglia, ma pur oratori ed uomini politici, i quali ebber bisogno di parlare e persuadere in qualunque lingua parlassero, latino, volgar lombardo, volgar toscano, o romanesco, o napoletano, o siciliano, o piemontese; e cosí nacque di necessitá un'arte, non artifiziata ma naturale, oratoria. Quindi dal mescolarsi quegli interessi e quegli uomini in tutta la penisola nasceva fin d'allora, fin dal principio del secolo decimosecondo senza dubbio, il bisogno d'una lingua comune o italiana; e cosí nasceva quella di che trattò Dante centocinquanta o duecento anni appresso come di lingua giá antica, quella che crebbe di necessitá in que' mostri di assemblee, che dicemmo simili alle moderne d'Irlanda. Quindi cresciute le ambizioni, le emulazioni di cittá, crebbero in ciascuna i bisogni di forti mura; e cosí nacque quell'architettura militare, che è piú antica forse tra noi che non si suol dire anche da' piú esagerati esaltatori dei nostri primati. E quindi l'altre emulazioni, il volere ogni cittá piú bei templi che le vicine, ed ogni nobile un piú bel palazzo che i concittadini, e i nobili popolani piú che gli antichi, e via via. E poi la libertá del dire, il non esservi né il fatto né nemmeno l'idea delle censure moderne, fece scrivere nella nuova lingua di ogni cosa che si sapesse scrivere; e perciò primamente d'amore, che è forse il piú facile, ed è certo il piú piacevole degli argomenti a chi scrive o legge; e poi di storia patria, che è il piú necessario in ogni paese libero; e poi di ogni cosa, in quel modo enciclopedico che da Esiodo a Varrone, a Brunetto Latini e a Montaigne od anche a Bacone e Leibnizio, suol essere de' primi saggi che si facciano in qualunque letteratura incipiente, quasi a rassegna di ciò che si sa per indi progredire. E sorte tutte queste colture, sorse il commercio che n'è fratello or maggiore or minore; e sorsero le industrie, le scienze che ne son pur sorelle, tutta famiglia della libertá; in cui entraron l'arti belle, quelle arti che son forse un po' meretricie, un po' prodighe di lor favori, senza gran discernimento tra tirannia e libertá, ma che li concedon pur sempre piú compiuti insieme e piú eleganti alla libertá. Del resto, quanto al commercio in particolare, duolmi piú che mai non potermi fermare ad accennare quali fossero le condizioni di esso ne' nostri comuni, quali le libertá concedutegli. Forse ne risulterebbe un fatto tutto opposto a quello creduto volgarmente; il fatto, che esistettero ne' nostri rozzi comuni molte di quelle libertá commerciali, le quali furono spente dalla cattiva pratica, dalla scienza incipiente de' secoli successivi; le quali la scienza progredita domanda da un ottanta anni in qua, e la pratica incominciò a concedere mentre appunto io veniva scrivendo queste linee per la prima volta. Quando, deh quando si fará una storia dei commerci, dell'economia politica de' nostri comuni?—Ad ogni modo, di fiore in fiore, di fecondazione in fecondazione, d'operositá in operositá, cosí si venne al fine di quel secolo decimoquinto, in cui vedremo nascere quasi tutti i grandi e splendidi uomini del decimosesto; quel secolo decimoquinto che ebbe cosí col secolo ultimo della libertá latina la sorte comune di tramandar tutte educate le grandezze ai due secoli nomati da Augusto e da Leon X. Gli uomini furono quasi sempre tardivi in lor gratitudini; le concedettero sovente ai successori di coloro che le meritarono. Ma non cadder forse mai in tale ingiustizia cosí scandalosamente come a quell'epoca, in che dieder nome di Leon X al secolo inaugurato da Lorenzo il magnifico, nome d'America al mondo di Colombo.—Or veggiamo di corsa alcuni particolari, alcuni uomini di questa nostra grande etá di coltura.
33. Coltura dei due primi periodi di quest'etá, da Gregorio VII a Carlo d'Angiò [1073-1268].—Dicemmo giá sorti con Ildebrando, giá grandi al pontificar di lui parecchi teologi e filosofi e scolastici: sant'Anselmo vescovo di Lucca [-1086]; Lanfranco di Pavia monaco del Bec in Normandia, amico seguace di Guglielmo il conquistatore, e da lui fatto arcivescovo di Cantorbery [1005-1089]; sant'Anselmo d'Aosta abate del medesimo monastero normanno, arcivescovo della medesima chiesa inglese [1033-1109], quel sant'Anselmo a cui gli storici moderni della filosofia danno il primato tra' filosofi scolastici. Seguirono Pier Lombardo, vescovo di Parigi, detto il «maestro delle sentenze» [-1164]; Pietro Comestore [-1198]; papa Innocenzo III [-1216] e finalmente il grande san Bonaventura [1221-1274], e il grandissimo san Tommaso [1227-1275], amendue professori a Parigi. Chiaro è: qui abbiamo una serie di grandi superiori agli stranieri contemporanei, Guido di Champeaux, Abelardo, san Bernardo ed Alberto magno; la quale dimostra le scienze, allora unite, della teologia e della filosofia esser cresciute a grandissimo fiore per opera principalmente degli italiani, e da essi recate in Francia ed Inghilterra, e in quello stesso studio od universitá di Parigi, che ne fu il centro locale.—Intanto fondavansi in Italia i centri, gli studi di due altre scienze, della medicina e fisica in Salerno, e della giurisprudenza in Bologna. La prima sorse lá in un ospedale de' vicini benedettini di Montecassino, e dalle tradizioni unite de' greci e degli arabi occidentali, aiutate poi al tempo delle crociate da quello zelo che fece sorger allora in Palestina e in Europa tanti ordini spedalieri, tanti spedali e tante lebbroserie.—In Bologna poi, o che ivi o nella vicina Ravenna si fosser conservati piú codici, piú studio delle leggi romane, teodosiane e giustinianee, o che si debba attribuire al caso il nascervi o lo stabilirvisi un primo grande studioso; il fatto sta che da Irnerio, creduto giá tedesco, or italiano [1150], incominciò ad essere famoso e frequentatissimo lá quello studio della giurisprudenza, che fu il nocciolo di quella prima universitá italiana. E seguono immediatamente quei quattro scolari di lui, Bulgaro, Martino, Ugo e Iacopo, a cui resta nella nostra storia politica la vergogna d'aver mal applicati i diritti imperiali romani all'imperio straniero di Federigo I contro alle libertá e all'indipendenza italiane; ma che con queste stesse applicazioni ai fatti attuali contemporanei, e colle discussioni e le contraddizioni che certamente ne sorsero, furono senza dubbio accrescitori, divulgatori della scienza. Perciocché cosí succede, questa è una delle virtú, questo uno degli effetti immanchevoli della libertá; che, dov'ella sia sorta, servano ad essa que' nemici stessi di lei, i quali, non sorta, l'avrebbero impedita di sorgere. La libertá è generosa; innalza, ingrandisce gli stessi avversari suoi. E continuò poi in Bologna e da Bologna la serie de' giurisperiti grandi, rispetto al tempo, in tutto il secolo che seguí fino ad Accursio [-1260].—E in questi due secoli stessi sorgevano, da lingue semplicemente parlate o di rado scritte, a lingue giá letterarie, tutte quelle insieme che si chiamarono «volgari», «romano-barbare», «romanze»; e che furon principi delle moderne meridionali, spagnuola, provenzale, o lingua d'«oc», francese men meridionale, o lingua d'«oil», ed italiana o del «sí». È opinione consueta, che in queste lingue rimanesse tanto piú dell'elemento latino primitivo, quanto meno di barbaro fosse stato introdotto giá dagli invasori del secolo quinto. Ma ei parmi che i fatti non concordino guarí con tale opinione. Perciocché i fatti sono che la Spagna e l'Italia, le cui lingue serbano piú latino, ebbero piú invasori che non Francia; e che in questa n'ebbe forse piú la parte meridionale la cui lingua d'oc serbò parimente piú latino. Né io crederei che sia da cercar la causa di questa superior latinitá delle lingue spagnuola, provenzale ed italiana nella maggior antichitá della conquista romana; perciocché, se tal fosse stata la causa, ella avrebbe dovuto operare incomparabilmente piú in Italia che non ne' due altri paesi, e in Ispagna specialmente; mentre all'incontro la lingua spagnuola (a malgrado delle stesse voci arabe che furono un'introduzione posteriore) è forse ricca di voci latine al paro dell'italiana, ed è poi indubitabilmente piú latina nelle desinenze, nel suono. Quindi è forse da attribuire la gran latinitá delle tre lingue, non al latino propriamente detto, ma alla consanguineitá primitiva del latino od italico antico coll'antico ligure della Francia meridionale, coll'antico iberico della Spagna. E questo spiegherebbe pure alcuni fatti particolari della nostra lingua volgare al sorger suo ne' secoli decimosecondo e decimoterzo: come (lasciando a un tratto quell'origine esclusivamente toscana o fiorentina, che da Dante in qua mi pare abbandonata da ogni mente un po' comprensiva, quella origine la cui questione si dee separar del tutto dalla questione del purismo od eleganza, che fu ed è incontrastabilmente in Toscana), come, dico, il volgare italiano sorgesse a un tempo in Toscana ed all'ingiú in tutta la penisola meridionale ed in Sicilia, ed anzi in questa forse prima che altrove, perché queste appunto furono le sedi degli antichi popoli itali e siculi di famiglia iberica; come in Sardegna, antica e moderna sede di liguri, si serbassero e si serbino piú che in nessun luogo forse le voci, le desinenze, i suoni latini; come anch'oggi l'uso della lingua comune italiana e i dialetti piú vicini ad essa si trovino in quelle stesse regioni.—Ad ogni modo, comunque cresciute le lingue romanze fino al secolo decimosecondo, non è dubbio che in tutto questo e nel seguente decimoterzo il primato tra esse fu delle due lingue francesi, d'oil e d'oc. Né è difficile a spiegare. Il primato, od anzi ogni grado di dignitá e potenza delle lingue, viene in ogni secolo dal primato e da' gradi d'operositá delle nazioni che le parlano. Ora, ne' due secoli decimosecondo e decimoterzo la grande operositá europea o cristiana fu quella delle crociate; e nelle crociate furono sommi operosi i francesi. Lá in Oriente, qua per via, si mescolarono allora le nazioni cristiane, oltre forse ad ogni mescolanza moderna; e lá e qua trovaronsi forse piú francesi che tutt'altri insieme, lá e qua dovette quindi parlarsi piú lingua francese che di tutt'altre. Il fatto sta, che non solamente nella poesia de' troveri e trovatori (che è notato da tutti), ma anche nella prosa di buonissimi cronacisti come Ville Hardouin e Joinville (che è tralasciato da molti), le due lingue francesi precedettero, ebbero il primato sull'italiana; come, del resto, pur l'ebbe la lingua spagnuola, che si trova quasi perfetta nei romances e nelle leggi di questi secoli. Che piú? I nostri primi poeti Folchetto, Calvi Bonaventura e Doria Percivalle di Genova, Nicoletto da Torino, Giorgio di Venezia, Sordello di Mantova, e Brunetto Latini di Firenze scrissero in francese lungo tutto il secolo decimoterzo; e san Francesco dicesi avesse tal soprannome diventato nome dal suo parlar abituale francese: ed in francese poetarono Federigo II e tutta sua corte siciliana, prima che vi si poetasse e scrivesse in italiano. Sappiam badare ai fatti, alle date, se vogliamo spogliare i pregiudizi, rivendicar le vere glorie nostre. La lingua italiana fu l'ultima ad essere scritta delle romanze; tanto piú glorioso fu che ella n'uscisse la prima ad essere scritta, come ognun sa, meravigliosamente.—Adunque, non fu se non contemporaneamente o poco dopo agli italiani poetanti nei dialetti francesi, che, ora i medesimi, or altri scrissero ne' dialetti, cioè, piú o meno, nella lingua comune d'Italia. Poetarono cosí Duoso Lucio pisano [-1190], Ciullo d'Alcamo in Sicilia [-1200?], Pier delle Vigne il cancellier di Federigo II [-1248], Guido Ghisilieri di Bologna [-1250], Dante da Maiano in Toscana [-1275], Nina siciliana [-1280] amica di lui, e Guido Guinicelli da Bologna [-1276]. Scrissero in prosa nostra Riccardo da San Germano [-1243?], Guidotto da Bologna [-1257], Niccolò di Iamsilla [-1268], san Bonaventura [-1274], Niccolò Smerago di Vicenza [-1279], Ricordano Malaspini [-1281], Dino Compagni [1260?-1323]. Del resto, da tutti questi principi, da tutti questi nomi parmi chiaro che la storia, non solamente della nostra coltura in generale ma della stessa nostra letteratura, si debba incominciare un secolo e mezzo, od anche due, prima che non si suole; che non sorgessero giá né la lingua nostra né i tre grandi di essa, quasi proli senza madri create, per una di quelle generazioni spontanee e subitane, che non esistono né nell'ordine materiale né nell'intellettuale; che all'incontro lingua e grandi nostri sorgessero, come succede in tutto, a poco a poco, in mezzo ad altri fratelli e sorelle; e che se lingua e grandi nostri furon piú grandi poi che non gli stranieri per due altri secoli, questo lor progresso superiore sia tanto piú certamente da attribuirsi al solo vantaggio avuto da' maggiori nostri su' loro contemporanei, al vantaggio della libertá.—Ancora, giá accennammo esser incominciate esse pure le arti nostre un secolo e mezzo prima di ciò che si suol dire; e prima fra esse, com'è naturale e come avvenne dappertutto, l'architettura, che dá luogo poi alla scultura e alla pittura; e primo monumento di stile e artisti italiani essere stato il duomo di Pisa. Ed in Pisa parimente sorsero nel 1152 il battistero, opera di Diotisalvi da Siena o Pisa; e nel 1174 la bella torre, vero museo di colonnette e ruderi antichi, opera di Bonanno e Tommaso da Pisa; ondeché si vede che Pisa fu la vera culla dell'architettura, ed anzi di tutta l'arte italiana. Perciocché questi, ed altri minori, e Andrea pisano maggior di tutti, che operò in tutta Italia [-1280] e si riaccostò agli antichi nell'arca di san Domenico, quasi tutti furono scultori non meno che architetti; e finalmente, un cencinquanta anni dopo l'architettura, un settanta o ottanta dopo la scultura, nacque pure, cioè si staccò dalla greca, la pittura italiana, per opera di Giunta pisano, Guido da Siena, Margaritone d'Arezzo e Cimabue fiorentino [-1300]. Evidentemente, l'arte italiana incominciò dal duomo di Pisa e Buschetto al principio del secolo decimosecondo; ed in Pisa primeggiò d'ogni maniera per tutto un primo periodo, presso a due secoli, fino a Cimabue e Giotto; dai quali non incominciò se non il periodo secondo di lei, il periodo fiorentino.
34. Coltura del terzo periodo, o secolo di Dante, da Carlo d'Angiò al ritorno dei papi [1268-1377].—Questo poi fu certamente uno de' periodi di qualunque nazione, in cui sieno mai progredite piú a un tratto ed insieme tutte le colture. E Dante fu uno degli uomini che sieno mai progrediti piú sopra i propri contemporanei. Nato nel 1265, l'anno della calata di Carlo d'Angiò, cresciuto, educato tra i trionfi della libertá fiorentina e della parte nazionale, e insieme in sull'aurora del poetare italiano, in tempi dunque d'ogni maniera propizi allo svolgersi di suo grande ingegno; preso di gentile e puro amore fin dall'adolescenza, infelice in esso fin dalla gioventú, provata poesia, ideato e lasciato il poema giovanile, provata la vita pubblica, e respinto da essa e di sua cittá per quella moderazione di opinioni, per quell'ardenza nel proseguirle che tutti gli animi un po' distinti sentono, che i volgari di qua e di lá, di su e di giú non capiscono e non perdonano; si rivolse, esulando, allo scrivere, all'idea giovanile, a quel poema di religione, di filosofia, di politica e di amore, il quale, simile nella forma a parecchi contemporanei, supera forse in sublimitá e vigor di pensieri, agguaglia per certo in tenerezza e splendor di poesia ed in proprietá di espressioni i piú belli delle piú colte etá antiche o moderne; ed in tale opera, e nell'esiglio, perseverò poi vent'anni fino alla morte [1321]. Noi non celammo l'error politico di Dante, che fu di lasciare la propria parte buona e nazionale perché si guastava in esagerata, straniera e sciocca, di rivolgersi per ira alla parte contraria ed essenzialmente straniera; ed aggiungeremo qui ch'ei pose il colmo a tale errore, protestando di continuar nella moderazione, affettando comune disprezzo alle due parti, mentre rivolgevasi a propugnare l'imperio, e nel poema, e in quel suo libro, del resto mediocre, Della monarchia. Ma ciò posto ed eccettuato francamente, ed eccettuate forse alcune vendette personali terribilmente fatte con sue parole immortali, Dante e il poema suo restan pure l'uomo e il libro incontrastabilmente piú virili ed austeri della nostra letteratura: virile l'uomo, nel saper sopportare le pubbliche, le segrete miserie dell'esiglio, nel non saper sopportare né le insolenti protezioni delle corti né le insolentissime grazie di sua cittá, nel sapere dalla vita attiva, che pur anteponeva ma gli era negata, passare alacre alla letteraria e farvisi grande: virile poi ed austero il poema in amore, in costumi, in politica, in istile, e per quella stessa accumulazione di pensieri che fa del leggerlo una fatica, ma la piú virile, la piú sana fra le esercitazioni somministrate dalle lettere nazionali ai molli animi italiani. Quest'esercizio dunque, e non le opinioni politiche particolari, sovente guaste, sovente contradicenti a se stesse, è ciò che si vuol cercare, è ciò che si troverá abbondantemente nel nostro poema nazionale; è ciò che il fa caro a tutti coloro che si congiungono nel desiderio di veder ritemprati gli animi italiani; è ciò che il fa odiato e deriso da tutti coloro che ci vorrebbon tenere nelle nostre mollezze secolari. Farebbe opera feconda di risultati non solamente letterari, ma morali e politici, chi mostrasse questo che a me par merito incontrastabile di Dante sopra tutti i nostri scrittori de' secoli seguenti. Ma egli spicca, forse piú che altrove, al confronto dei due, i quali insieme con lui son volgarmente detti padri della nostra lingua.—Petrarca [1304-1374] ha parecchi grandi meriti senza dubbio: quello d'essere sommo tra quanti poetarono d'amore in tutte le lingue romanze; quello d'aver cantato d'Italia nobilissimamente e forse piú giustamente, piú per l'indipendenza, che non Dante stesso; e quello poi di essere stato non primo (ché fu preceduto almeno da san Tommaso), ma uno de' primi e piú efficaci cercatori e restauratori degli antichi scrittori greci e latini. Ma quanto alla poesia amorosa, romanza o lirica, è a considerare, che non solo ella fu una sola parte, quasi uno squarcio dell'ingegno di Dante, da lui negletto per salir piú su; ma (ed importa molto piú) che questo bello e facil genere non sale, non può riuscire a grandezza mai, non sopratutto innalzare o temprare una lingua, una letteratura, una nazione; tantoché ne restarono forse stemprate le stesse poesie nazionali di Petrarca, ne restò stemprato per certo l'ingegno di lui, il quale fece pochissime di tali poesie, e non seppe darci un canzoniere nazionale o popolare, come Dante ci avea dato un poema; tantoché sorse quindi una serie, una folla d'imitatori i piú fiacchi e piú noiosi che siena stati mai. Del resto, Petrarca portò il segno della sua inferioritá a Dante, invidiollo; e si vede (senza scendere agli aneddoti) da ciò, che nei Trionfi d'Amore e della Fama non seppe trovar luogo al piú amoroso e famoso de' suoi contemporanei. Petrarca fu un gran letterato e nulla piú; non ha quella gloria che sola può innalzar gli scrittori alla dignitá degli altri servitori della patria, quella d'aver servito a migliorarla.—D'animo piú gentile, non invidioso, anzi di quelli che son sensitivi, che trovan piacere alle grandezze altrui, fu Boccaccio [1313-1375]; ma ei pur fu di quelli in parte utili, in parte nocivi alla patria. Fu utile anch'esso collo studiare e cercar codici, autori antichi; e fu utile lasciandoci la vita del sommo poeta, ed instaurando una cattedra apposta per leggere e spiegare il sommo poema. E fu gentile poi, fu sommo egli in un altro genere de' tempi suoi, nelle novelle. Ma ei non fu utile in esse certamente; e perché non seppe indirizzar quel genere di letteratura a que' fini morali e politici ai quali fu innalzato poi variamente da Cervantes in Ispagna, Fénelon in Francia, Walter Scott in Inghilterra, Manzoni in Italia, e pochi altri; perché all'incontro egli l'avviò a solo piacere, anzi al piacere talor basso, sovente dissoluto; ed anche perché, sommo scrittor di prosa de' suoi tempi, ma scrittor per celia, e forse per celia imitator dello stile fiorito e rotondo di alcuni antichi, egli incamminò la prosa italiana per quella via dell'imitazione latina, che è innaturale, antipatica alla nostra lingua priva di casi, ingombra di particelle staccate. Gran danno fu, per certo, che lo scrittor primo diventato modello, che il formator di nostra prosa sia stato un novellator per celia; come fu poi gran vantaggio di una nazione vicina l'aver avuti a modelli e formatori di sua prosa due severi filosofi e geometri, un Descartes e un Pascal. Del resto, siffatto danno nostro fu conseguenza naturale di nostra precocitá, quasi sconto od inconveniente della gloriosa nostra precedenza nelle lettere; e non si deve quindi apporre a que' padri della nostra lingua, i quali non potevan essere progrediti come i padri della francese, venuti quattro secoli piú tardi. Ma deve apparsi si a tutti que' nostri scrittori posteriori e presenti, che, or per natural pigrizia, or per istolta affettazione di nazionalitá, non sanno uscire dalla imitazione de' nostri padri precoci, non ne sanno imitare gli ingegni vivi, inventivi, larghi, eclettici, accettatori, cercatori d'ogni bellezza antica, moderna, classica, romantica, nazionale o straniera, non sanno imitare se non le voci, i modi di dire, i periodi, i vezzi e quasi le smorfie de' lor modelli, e di quel Boccaccio specialmente il quale rideva scrivendo, ma riderebbe ora anche piú al leggere cosí pedanti, pesanti e dislocate imitazioni.—A petto de' tre sommi scompariscono poi i molti poeti e prosatori loro contemporanei; fra gli altri Guitton d'Arezzo [-1294?], Brunetto Latini [-1294], Matteo Spinello, Guido Cavalcanti [-1300], fra Iacopone da Todi, Cecco d'Ascoli [-1327], fra Domenico Cavalca [-1342], Bartolomeo da San Concordio [-1347], Francesco da Barberino [-1348], Giovanni [-1348] e Matteo Villani [-1363], Iacopo Passavanti [-1357], Fazio degli Uberti [-1360]; ed in lingua latina, oltre parecchi di questi, Albertin Mussato [-1330], Pietro d'Abano medico ed alchimista [nato 1250], Pier Crescenzio filosofo ed agronomo [-1320], Cino da Pistoia [-1336] e Bartolo [-1356] giureconsulti. Ma tutto questo era pure un bell'accompagnamento letterario e filosofico ai tre grandi. La teologia e filosofia speculativa sole (se non vogliansi contar due donne, santa Caterina e santa Brigida, morte 1373, 1380) non trovansi guari coltivate in Italia lungo questo secolo. Ma non che biasimo le ne darem lode. Perciocché non essendo queste due scienze, come l'altre, indefinitamente progressive, ci pare che dopo un grandissimo uomo, come fu san Tommaso, sia stato molto piú opportuno il tacerne e riposarvi degli italiani, che non il ridisputarne e dividervisi tra tomisti, scotisti e albertisti, che seguí oltramonti. Né le dispute precedenti, de' nominalisti e realisti, non eran giunte a turbarci gran fatto; e in generale (salvo poche eccezioni, di che Dio voglia continuar a guardarci), le astrazioni, le sottigliezze, le entelechie, le pretese soverchie della metafisica non allignarono guari mai in Italia; le menti italiane sono limpide di lor natura, resistono all'appannatura, respingono le nebbie all'intorno. Del resto, non vorrei esser franteso; Dio mi guardi dal voler respinti que' nostri grandi e pochi i quali continuano sinceramente l'antica opera di Anselmo e san Tommaso, l'unione della filosofia e della teologia, della ragione e della fede, del naturale e del soprannaturale. Ma io rispingerei volentieri tutti que' disputanti continuatori, que' noiosi imitatori, que' nocivi esageratori, tutta quella turba di filosofanti, che fanno uscir lor scienza da' limiti suoi per turbarne la storia, la politica, la giurisprudenza, l'economia pubblica, la pedagogia, tutte le scienze di Stato e di pratica. Del resto, avremo pur troppo a tornare a tale assunto.—Fecersi all'incontro in quell'operosissimo secolo grandi progressi nell'arti e nelle scoperte geografiche, e grandi invenzioni o introduzioni. Nell'arti, Cimabue primo [-1300], Giotto secondo ma d'un gran salto piú su [-1336], volsero ormai decisamente la pittura dalla imitazione de' greci a quella dell'antico od anche meglio della natura; e furon seguiti da molti, fra cui principali Taddeo [-1350] ed altri Gaddi, Andrea [-1380] ed altri Orgagna fiorentini, Simon Memmi [-1344] ed altri sanesi, Franco bolognese ed Oderisi da Gubbio miniatori. E progredirono poi nella medesima buona via, da esse giá presa, l'architettura e la scultura esercitate da quasi tutti i sopranomati pittori, e da Arnolfo di Lapo [1310], architetto e scultore che ideò e incominciò la bella Santa Maria del fiore di Firenze; da Giovanni [-1320?] figlio di Nicola pur architetto e scultore, e da Andrea pisano [1350] scultore della prima porta del battistero di Firenze. Vedesi quindi continuato, ed accresciuto della pittura, quell'esercitarsi le tre arti sorelle da' medesimi artisti, che dicemmo peculiaritá italiana. Piú si va, piú si vede quanto mirabilmente si volga a tutte le colture l'ingegno italiano; a niuna forse cosí facilmente e abbondantemente come alle arti del disegno, o piuttosto a tutte l'arti del bello.—E tutto ciò fu grande senza dubbio; eppure virilmente, cristianamente, un po' altamente considerando o le virtú promotrici o gli effetti promossi, tutto ciò dico, fu un nulla se si compari all'opera di quei grandi viaggiatori, missionari o commercianti, che sorsero pochi anni prima, e moltiplicaronsi al tempo e lungo tutto il secolo di Dante. Questi sono i precursori di quell'altro italiano, piú grande che Dante stesso, di quello che ebbe (salvo forse Gregorio VII) piú efficacia sui destini del genere umano, di Colombo. La religion nostra, il suo spirito propagatore, i suoi capi, pontefici romani, dieder le mosse; il commercio allor ardito, il genio allor venturiero degli italiani le seguirono. Giovanni da Pian Carpino italiano fin dal 1246, Andrea di Longimello [1249], Rubruquis olandese (?) e Bartolomeo da Cremona [1253] monaci e missionari, viaggiarono e predicarono tra' mogolli; Anzelino domenicano andò ambasciator del papa al khan di Persia [1254]; e seguí [1270-1295] quella famiglia veneziana de' Poli, e principalmente quel Marco che visitò, abitò e descrisse poi Mongolia, Tartaria, Cina ed India, tutta l'Asia de' primi discendenti di Gengis khan; e che venne a languir poi in un carcere e morire ignoto tra' pettegolezzi cittadineschi italiani. Seguirono ed esplorarono pur l'Asia Oderico da Pordenone francescano [1314-1350], Marco Cornaro veneziano [1319], Pegoletti [1335] e Marin Sanuto [-1325].—E intanto [1202 circa] Leonardo Fibonacci, un mercatante pisano, ovvero portava egli nella cristianitá da' saracini che li avevan portati dall'Indie, ovvero faceva volgari co' suoi scritti que' primi elementi dell'algebra che altri dice portati o ritrovati da Gerberto papa.—E Flavio Gioia d'Amalfi [1300 circa] introduceva dalle medesime regioni la bussola. Ma anche questa invenzione o introduzione ci è disputata da' francesi.—E di chiunque fosse, non fu poi italiana quella poco posteriore della polvere da guerra. Né, quand'anche n'avessimo luogo, noi disputeremmo qui od altrove delle nostre glorie dubbiose. N'abbiam tante delle certe! E in somma, questo secolo di Dante fu certo cosí grande in colture, come il vedemmo piccolo e cattivo in politica. E fu accennato da Dante che se n'intendeva.
35. Coltura del quarto periodo, dal ritorno dei papi alla chiamata di Carlo VIII [1377-1492].—I leggitori avranno giá osservato che noi non seguiamo la divisione per secoli esatti, solita farsi nelle nostre storie puramente letterarie od artistiche. In queste può giovare tal divisione piú chiara e piú mnemonica. Ma essendo scopo nostro accennar le relazioni, le dipendenze d'ogni nostra coltura dalle condizioni e dai fatti politici nazionali, ci parve piú utile seguir le epoche, le divisioni giá dateci da questi fatti. Che anzi, se non sia illusione, ci pare che ne risultino divisioni, periodi piú naturali nella storia stessa delle colture considerate in sé. Cosí nel periodo testé percorso, si trovano raccolte né piú né meno le vite dei tre padri di nostra lingua, e né piú né meno Giotto e gli artisti della scuola fiorentina primitiva. E cosí poi ora per il periodo che segue risulterá chiaro nella storia della coltura quell'allentamento di progresso, che incominciò, non giá, come si suol dire, col secolo decimoquinto, ma fin dalle morti contemporanee di Petrarca e Boccaccio intorno al 1375, che durò poi non per quel secolo intiero, ma solamente fin presso al suo mezzo; dopo il quale s'accelerò di nuovo il progresso rapidamente, splendidamente per li quattro impulsi che concorsero a quell'epoca, le due paci religiosa e politica, l'arrivo de' greci, e la grande invenzione della stampa. In somma, il periodo da noi qui considerato si suddivide in due andamenti; uno lento, l'altro rapidissimo; uno mediocre, l'altro grande; ed in coltura come in politica la cosí detta mediocritá del secolo decimoquinto si riduce alla prima metá od al primo terzo di esso.—Nella letteratura e in quelle scienze storiche, filologiche, filosofiche e teologiche, che ne sono quasi il substrato a cui ella non fa se non aggiunger la forma, e che mal si separano quindi da essa, i nomi meno oscuri che noi troviamo dapprima, sono quelli di Iacopo di Dante Allighieri [-1390?]; di Franco Sacchetti [-1400] e ser Giovanni Fiorentino novellatori; di Baldo giureconsulto [-1400]; di Filippo Villani [-1404] e Leonardo Bruni aretino [-1444] scrittori di storie; di san Vincenzo Ferreri [-1419] e san Bernardino da Siena [-1444] scrittori ecclesiastici; di Agnolo Pandolfini, scrittore del bel Trattato della famiglia [-1446]; e di Burchiello, uno di quegli scrittori triviali che mal si continuano a porre tra' gioielli di nostra lingua [-1448]. All'incontro, seguono inoltrandosi nella seconda metá del secolo, e via via piú splendidi, i nomi di Lorenzo Valla latinista ed ellenista [-1457], di Poggio Bracciolini storico e uno de' piú operosi fra' molti cercatori e pubblicatori di codici antichi [-1459], di san'Antonino arcivescovo di Firenze [-1459], del cardinal Cusano [1464], di Enea Silvio Piccolomini che fu papa Pio II, dottissimo e variatissimo scrittore [-1464], di Leon Battista Alberti, artista e primo nostro scrittor d'arti [-1471], di Francesco Filelfo, storico e poligrafo [-1481], di Luigi Pulci, l'autor del Morgante [-1486], di Lorenzo de' Medici [-1492], e degli amici di lui Pico della Mirandola ed Angelo Poliziano morti poco dopo lui [1494].—Cosí pure, ma con piú splendore nelle tre arti, le quali mal si distinguerebbero ne' seguenti; Mantegna [nato 1430] Luca della Robbia [1438], Masaccio [-1443], Filippo Brunelleschi, l'innalzator della cupola di Santa Maria del fiore di Firenze [-1444], Michelozzo Michelozzi [-1450 circa], Lorenzo Ghiberti, scultor di quelle porte del battistero di Firenze che furono da Michelangelo dette «porte del paradiso» [-1455?], Donatello [-1466], Francesco di Giorgio sanese [-1505 o 15], il beato Angelico [-1455], fra Filippo Lippi [-1469], il Ghirlandaio [-1493], quasi tutti toscani. Perciocché a tutta Toscana s'estesero allora le arti; in Toscana fecersi tutti i loro maggiori progressi; in Toscana son le origini dell'arti come delle lettere, come poi delle scienze italiane, origini esse di tutte le moderne cristiane; la Toscana sarebbe il primo paese d'Italia e del mondo, quando non fosse l'ultimo in quello spirito militare, senza cui nulla dura, nulla giova, nulla vale, nulla si stima. Perdonino al piemontese.—Intanto, spargevasi, fioriva piú che altrove in Italia l'invenzione nuova della stampa. Della grandezza della quale, sentita da tutti, sarebbe declamazione oramai qualunque cosa si dicesse. Ma gioverá osservare quanto rapidamente gl'italiani d'allora abbiano saputo appropriarsi l'invenzione straniera. Fu naturale; straricchi di proprie, non potevano invidiare, sapevano apprezzare le altrui; operosissimi, non esitavano, non indugiavano, non vergognavano, non temevano nel prendere le operositá straniere, come vedrem farsi ne' secoli peggiorati. Le prime stampe furono di carte da giuoco e santi, talor con iscrizioni e lettere, scavate in tavola, e fin dal secolo decimoquarto. Ma le stampe di libri con caratteri metallici e mobili non si fecero se non nel 1455 a Magonza, per invenzione di Guttemberg, aiutato in danari da Fust, e nell'opifizio da Schoeffer, tre tedeschi. E i tedeschi la portarono in Italia dieci soli anni appresso; Sweinheim e Pannartz in Subiaco nel 1465, e in Roma nel 1467; Giovanni da Spira in Venezia nel 1469; ed altri altrove. Ma seguono prontissimamente gl'italiani: Emiliano degli Ursini in Foligno, e Bartolomeo de Rubeis in Pinerolo, ambi nel 1470; e subito altri in Bologna, Ferrara, Firenze, Milano, Napoli, Pavia, Treviso nel 1471 e 1472; e d'anno in anno, in tutta la penisola, moltissimi altri, fra cui principale Aldo Pio Manuzio in Venezia fin dal 1480.—Del resto, se i leggitori non sieno stanchi di questi nomi e queste date, le quali possono pur essere feconde di paragoni e pensieri a ciascuno, noi ne aggiungeremo qui un'altra serie, la quale sará forse la piú feconda di tutte; la quale dimostrerá almeno quella similitudine che dicemmo tra gli ultimi anni della repubblica romana, e questi ultimi dell'etá dei comuni. In questi dunque, terminanti alla morte di Lorenzo, nacquero, e, piú o meno, si allevarono, a questi dunque debbono attribuirsi i maggiori uomini dell'etá seguente: Bramante [n. 1444 circa], Pietro Perugino [n. 1446], Aldo Manuzio [n. 1447], Leonardo da Vinci [n. 1452], Sannazzaro [n. 1458], Baldassar Castiglione [n. 1468], Machiavelli [n. 1469], fra Bartolommeo [n. 1469], l'Ariosto [n. 1473], Giorgione [n. 1477], Tiziano [n. 1477], Berni [-1536], Guicciardini [n. 1482], Raffaello [n. 1483]. I quali tutti furono protetti, secondati qua e lá in tutta Italia da' papi, dagli Sforza ed altri signori italiani, ma principalmente da Lorenzo de' Medici, superiore in ciò o piú felice che il grand'avo, superior forse a quanti furono mai protettori o promotori di lettere ed arti. Perciocché egli non era simile a quegli Scaligeri antichi, od a que' principi italiani de' secoli posteriori, che davan alloggio in palazzo, e tavola ed abiti, a letterati ed artisti; dava loro, come amator vero ed intendente egli stesso, consigli, aiuti e soprattutto occasioni, lasciando lavorare gli scrittori e facendo lavorare gli artisti; che è il modo certamente migliore, ben che sia preso a rovescio da tanti, che fanno scrivere, e lascian gli artisti cercarsi i lavori. Certo che adorno di tali splendidezze e tali nomi il fine del secolo decimoquinto apparisce superiore in progresso di coltura a qualunque generazione antica e moderna.—Eppure superiore a tutti questi è un nome, un uomo solitariamente cresciuto, anzi giá invecchiato in quest'etá, Cristoforo Colombo. I viaggi e le scoperte erano state dell'opere piú abbandonate dagli italiani dopo il secolo di Dante e Marco Polo. I papi erano stati distratti dallo scisma, i veneziani dalle conquiste continentali in Italia, i genovesi da lor discordie e loro in sofferenze e della libertá propria e dell'unione con Milano. I portoghesi ci avean tolto, non che il primato, ogni opera di scoperte. Aveano inventato l'astrolabio, strumento informe tuttavia, ma giá aiutante a dirigere il corso dagli astri, e cosí ad avventurarsi lungi dalle coste, a mutar il cabotaggio in gran navigazione. L'infante Enrico [1394-1460] ideò, proseguí, non compié egli la scoperta del giro d'Africa, ma l'avanzò col far riconoscere via via quella costa occidentale. Dopo lui, continuarono i portoghesi per la medesima via; nel 1471, passarono l'equatore; nel 1486, Diaz scopri, e non passò ancora il capo da lui detto delle Tempeste; passollo Vasco de Gama nel 1494, e chiamollo di Buona speranza. Ma questa grande scoperta fu preceduta da quella anche maggiore di Colombo. Nato intorno al 1435 in Genova od intorno, ché non importa guari, studiò a Pavia, navigò per la sua patria e pe' francesi che la signoreggiavano, e per gli Angioini che essa aiutava, intorno al 1459. Capitato a Lisbona intorno al 1470, cioè in sull'ardore delle scoperte africane, sposò Filippa di Palestrello un venturiero italiano, seguace giá dell'infante scopritore; s'accese tutto di quelle idee, di quelle avventure, navigò, abitò a Porto Santo, uno de' nuovi stabilimenti; studiò, carteggiò con Toscanelli [-1482], un dotto geografo fiorentino, e dicesi avesse cognizione d'una mappa fatta da fra Mauro veneziano. E da tutti questi studi, e dalle tradizioni raccolte d'ogni dove, e da' viaggi di Marco Polo, e da' lavori cosmografici di fra Mauro, e dalla considerazione della rotonditá della terra, e fin da alcuni testi biblici, acquistò la persuasione, la certezza: doversi, navigando ad occidente, capitar prima a un'isola Antilla rammentata da Aristotele, e poi all'Asia, al Cataio di Marco Polo. Quindi il proseguire, il darsi tutto a quel pensiero, concepito, dicesi, fin dal 1474. E da tal pensiero passando in altro, quell'anima sublimemente insaziabile sognava arricchirne, e poi levar un esercito e conquistar Terra santa alla cristianitá. Visitò un'isola di Tule, che credesi l'Islanda; propose invano la sua idea a Giovanni II re di Portogallo; partí di lá nel 1484; dicesi la proponesse nel 1485 a Genova sua cittá, a Venezia, e ne fosse rigettato. Ad ogni modo venne nel 1486 a Spagna, al monastero della Rabida presso al piccolo porto di Palos in Andalusia, dove fu accolto poco men che mendico dal buon priore; ed onde protetto poi, fu alla corte di Ferdinando ed Isabella re e regina d'Aragona e Castiglia, che stavan compiendo lor guerra nazionale di sette secoli contro ai mori. E mandato espor suoi pensieri all'universitá di Salamanca, e rigettatone; e rigettato e deriso, indugiato, richiamato, disgustato dalla corte per sei anni intieri, perdurò e riuscí finalmente a persuadere Isabella, tra l'alacritá della vittoria dopo presa Granata (2 gennaio 1492). Ai 3 d'agosto del medesimo anno, ei salpò con tre caravelle dal porto di Palos; e navigando sessantanove dí, giunse addí 12 ottobre all'isola di San Salvatore; e, toccate Cuba e San Domingo, tornò a Spagna nel 1493. E fatto viceré delle Nuove Indie (come si chiamarono allora o poco appresso), fecevi una seconda, una terza spedizione nel medesimo 1493 e nel 1498, e vi scoprí, oltre altre isole, anche la costa settentrionale del continente meridionale; tradito, deposto, incarcerato, incatenato e rimandato a Spagna da Bovadilla, un suo luogotenente rimastone infame; e fu tenuto in carcere per qualche tempo nell'ingrata sua patria seconda, e fece poi nel 1502 una quarta spedizione al medesimo continente, e tornatone, morí nel 1506. Cosí quell'italiano (il cui coraggio, la cui perduranza, prudenza, bontá e semplicitá d'animo risplendono meravigliosamente in tutte le sue azioni, tantoché non si sa, leggendone, s'ei piú s'ami o s'ammiri), cosí quell'italiano, primo di tanti poi che non poterono dar alla patria la propria operositá, diedela a Spagna, e con essa il nuovo mondo. Cosí quell'anno 1492, fatale all'Italia per la morte di Lorenzo de' Medici, per la chiamata di nuovi stranieri, fu epoca a Spagna ed alla cristianitá della cacciata de' maomettani dall'Europa occidentale, e dell'acquisto di tutto un occidentale emisferio. Finiva l'etá del primato (qualunque fosse) d'Italia; incominciava quella de' primati occidentali di Spagna, poi Francia, poi Inghilterra.
Dedica pag. 3
Prefazione alla terza edizione 5
Prefazione progettata dall'autore per l'edizione nona 11
1. I tirreni 21 2. Gli iberici 22 3. I celti-umbri ivi 4. Tempo, ordine di queste tre immigrazioni primarie 23 5. I pelasgi; immigrazioni secondarie ivi 6. Continua 24 7. Magno-greci; immigrazioni terziarie 25 8. I popoli itali, etrusci ed altri contemporanei ivi 9. I galli, immigrazioni quaternarie 27 10. Roma 28 11. Religioni 30 12. Condizioni politiche 31 13. Colture 33
1. Origine della grandezza di Roma 39 2. Mezzi; costituzione e mutazioni 40 3. Un secolo di guerre ed estensioni circonvicine 41 4. Guerra di Pirro 42 5. Prima guerra punica 43 6. Nuove estensioni ivi 7. Seconda guerra punica ivi 8. Dieci anni di estendimenti 45 9. Séguito e conseguenze ivi 10. Terza guerra punica, l'acaica, la spagnuola ed altre ivi 11. La corruzione, le fazioni interne 46 12. I Gracchi 47 13. Guerra di Giugurta ivi 14. Guerra cimbrica 48 15. Mario, Guerra italica ivi 16. Mario e Silla, Mitridate 49 17. Silla dittatore, e conseguenze 50 18. Spartaco, i pirati, Mitridate, Pompeo magno 51 19. Pompeo, Crasso, Cesare, Cicerone, Catilina ivi 20. Primo triumvirato 52 21. Cesare dittatore 53 22. Agonia, fine della repubblica 55 23. Religione, coltura 56 24. Continua 59
1. Augusto 65 2. Continua 67 3. Continua ivi 4. Tiberio 68 5. I tre ultimi della famiglia di Cesare 69 6. I tre primi contendenti, e i tre Flavi ivi 7. Nerva, Traiano, Adriano 70 8. Gli Antonini 71 9. Il terzo secolo dell'imperio giá decadente 72 10. Diocleziano e i successori fino a Costantino 75 11. Il cristianesimo 76 12. Costantino 79 13. I Costantiniani 81 14. Teodosio 83 15. L'ultima divisione, l'invasione e la caduta dell'imperio 84 16. Coltura antica, idolatra 86 17. Coltura nuova, cristiana 89
1. Il nesso tra le due storie nostre 95 2. I regni nuovi romano-tedeschi 99 3. Continua 100 4. Continua 101 5. I barbari d'Odoacre 103 6. Teoderico e gli ostrogoti 105 7. Continua 106 8. Continua 107 9. Caduta de' goti 108 10. Continua 109 11. I greci 111 12. I longobardi prima della conquista 112 13. Alboino e Clefi 113 14. I trentasei duchi 115 15. La restaurazione del regno 116 16. Autari ed Agilulfo 117 17. Successioni dei re per un secolo 118 18. Liutprando. Le prime cittá, i primi papi indipendenti 120 19. Ildebrando, Rachi, Astolfo, Desiderio, ultimi re longobardi 123 20. Coltura 126 21. Legislazioni 128
1. Carlomagno re 133 2. Continua 135 3. Carlomagno imperatore 138 4. Continua 140 5. I Carolingi 141 6. Continua 143 7. Berengario I, Guido, Lamberto, Arnolfo, Ludovico, Rodolfo 145 8. Tre re francesi 149 9. Berengario II 151 10. I tre Ottoni 152 11. Continua 152 12. Arduino re, Arrigo, detto secondo, re e imperatore 156 13. La casa de' Franconi o Ghibellini. Corrado il salico 159 14. Arrigo III 162 15. Arrigo IV 165 16. Coltura 168
1. Gregorio VII e l'etá presente, in generale pag. 175 2. Pontificato di Gregorio VII 177 3. Ultimi anni d'Arrigo IV 182 4. La prima costituzione comunale, i consoli 184 5. Arrigo V 189 6. Lotario 191 7. Corrado II 194 8. Federigo I imperatore; la guerra d'indipendenza 196 9. Continua 199 10. Continua 204 11. Continua 204 12. Il secondo periodo della presente etá. Governo delle cittá 209 13. Fine di Federigo I, Arrigo VI 211 14. Filippo e Ottone 212 15. La quarta crociata, il principio del secondo primato italiano nel Mediterraneo 215 16. Federigo II 218 17. Fine degli Svevi 224 18. Il terzo periodo della presente etá in generale 226 19. Re Carlo I d'Angiò 228 20. Re Carlo II d'Angiò 233 21. Re Roberto d'Angiò 236 22. Le compagnie, i condottieri 241 23. La regina Giovanna e i suoi quattro mariti 246 24. Il quarto periodo della presente etá in generale 250 25. Bernabò e Gian Galeazzo Visconti primo duca di Milano 252 26. Giovanni Maria Visconti secondo duca 255 27· Piemonte. Casa Savoia. Amadeo VIII 258 28. Filippo Maria Visconti 261 29· Francesco Sforza, quarto duca di Milano 266 30· Galeazzo Sforza, quinto duca di Milano 272 31. Gian Galeazzo Sforza, sesto duca di Milano 273 32. Coltura dell'etá dei comuni in generale 278 33· Coltura dei due primi periodi di quest'etá, da Gregorio VII a Carlo d'Angió 281 34. Coltura del terzo periodo o secolo di Dante, da Carlo d'Angiò al ritorno dei papi 285 35. Coltura del quarto periodo, dal ritorno dei papi alla chiamata di Carlo VIII 291
End of Project Gutenberg's Della storia d'Italia, v. 1-2, by Cesare Balbo