The Project Gutenberg eBook of Opere, Volume Secondo : scritti critici e letterari

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Title: Opere, Volume Secondo : scritti critici e letterari

Author: Giovanni Berchet

Editor: Egidio Bellorini

Release date: December 12, 2006 [eBook #20094]

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

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Nota di trascrizione: corsivo __spazieggiato__ |maiuscoletto| {piccolo}

SCRITTORI D'ITALIA

G. BERCHET

OPERE
II

GIOVANNI BERCHET

OPERE

A CURA DI EGIDIO BELLORINI
VOLUME SECONDO
SCRITTI CRITICI E LETTERARI

BARI

  GIUS. LATERZA & FIGLI
  TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
  1912

PROPRIETÀ LETTERARIA LUGLIO MCMXII—31762

[p.1]

I

LETTERA

|sul dramma «Demetrio e Polibio» cantato nel teatro Carcano|

Di Milano, il dí 27 luglio 1813.

Non ho fatto risposta prima d'ora alla tua dimanda intorno al merito dell'opera seria Demetrio e Polibio, perché il giudicio mio in fatto di musica, non potendo io derivarlo, come sai, da conoscenza alcuna dell'arte, sarebbe forse parso intempestivo anche a me medesimo, se per indurmi a proferirlo avessi stimato sufficiente il suffragio delle prime sensazioni del cuor mio. E però, non contentandomi io di quello, mi parve di dover aspettare che il voto del cuore, per la ripetizione continuata ed uniforme delle stesse sensazioni, pervenisse ad ottenere anche la fredda approvazione della mente.

Se primo adunque e forse unico istituto della musica gli è quello d'impadronirsi rapidamente dei cuori umani e di dirigerne e travolgerne ad arbitrio assoluto di lei gli affetti; se il terrore, se la pietá, se l'amore, se la téma e la gioia si sollevano a vicenda dentro di me e mi agitano fortemente, appunto quando il maestro intese di volere suscitare in me queste passioni; se manifestissimi segni mi convincono che la medesima commozione che io provo è sempre e con gli stessi mezzi destata né piú né meno viva nell'universalitá degli spettatori, a segno di togliermi affatto ogni dubbio che ella possa prodursi in me solamente, o per ignota e bizzarra disposizione di fibre, per una [p.2] debolezza non comune di anima, o per certe troppo squisite attitudini a sentire, alle quali m'abbia disposto forse malamente una peculiare educazione; e se infine dal maggiore o minore conseguimento d'affetti è lecito far paragone fra una musica e l'altra, e il misurarne cosí la bontá positiva di ciascheduna non è logica strana; io sprezzerò con ardimento deliberato qualsivoglia anatema dei pedanti dell'arte musica, e quantunque non iniziato ne' loro misteri, non grave il capo di crome e biscrome, giurerò solennemente a te, e teco, se ti aggrada, anche al pubblico intero, che il signor Rossini quando dettava quest'opera era quasi certamente ispirato da un genio buono.

Modellando il signor Rossini l'arte sua al vero gusto italiano, si sgabellò delle astruse metafisiche di molti degli oltramontani; e lasciando che a loro tenga luogo d'ogni altro senso l'orecchio, vide che in Italia v'erano anche de' bisogni nel cuore, e questi studiò di appagare; vide che se la sola armonia bastava all'udito, ella non bastava però a conseguire quel fine a cui egli mirava, ed a lei saviamente accoppiò la cantilena; vide che la persuasione è operata dalla continuitá del pensiero e, certo egli di possedere profondamente la scienza musica, non si curò di farne uso vano e puerile, ma maneggiandola da padrone allungò i suoi pensieri in modo da schivare le tante e ricercate spezzature, delle quali pare che vadano innamorati i moderni eruditi dell'arte; vide che il suono degli strumenti, quando sia unito al canto, non può ragionevolmente affettare il primato, ma sí bene deve a quello sottostare pazientemente, e non si diede perciò a seppellire la dolcezza delle voci umane nella tempesta dei timpani e nello stridore delle corde e dei chiarini; vide egli insomma tutto quello di cui si erano accorti prima di lui e Pergolesi e Iomelli e Cimarosa e Paesiello e, rispettandone l'ombre senza seguirle servilmente, si aprí una via alla gloria. E se vago, com'egli è, dell'aver semplicitá, pur non ebbe il coraggio di inimicarsi del tutto i cacciatori dei ghirigori musicali, bisogna almeno confessare che nel placar di frastagli e ricami quella divinitá egli fu scarso assai ne' suoi sagrifici. Fortunato giovinetto, e fortunati noi pure, se le meritate lodi, delle quali lo onorano [p.3] i suoi paesani, varranno a mantenerlo ostinato nel suo proposito e ad irritare sempre piú nell'animo di lui quella sete di fama che io vorrei necessariamente insaziabile ed eterna nei grandi ingegni, ma che però con danno universale si spegne talvolta per colpa della facile contentabilitá giovanile.

Ora immáginati, amico mio, una musica quale noi la invocammo tante volte, allorché uscivamo di teatro inveleniti contro la crescente barbarie dei tempi nostri e stanchi di bestemmiarla. Que' precetti, che allora venivano dettati da noi, non erano per comune nostra fortuna uditi da altra anima vivente che ne potesse redarguire la troppa presunzione; e come ignote a noi sono le regole dell'arte musica, e cosí rimanevano ignoti agli altri i delíri nostri intorno a lei. Ma io intanto scommetto che il signor Rossini pensò forse piú ordinatamente, ma non diversamente certo di quello che noi facessimo. E però ti so dire che i desidèri nostri sono oggimai per grazia di lui avverati pienamente.

Immáginati, dico, una tale musica, cantata con maestria inestricabile da due care voci femminili le piú simpatiche che tu possa desiderare, da un baritono destro nel mestiere suo quanto basti per poter secondare ottimamente ogni piú ardito professore e mantenere armoniosissimo ed esatto qualsivoglia concento a cui egli si frammetta, e da un tenore poi il quale ha tutte in pronto le piú recondite dottrine dell'arte e le vie tutte della seduzione e che, ad una rara e somma energia d'animo e ad una robustezza non comune di petto congiungendo un delicatissimo sentimento del bello, sa con fina disinvoltura riparare le onte che gli anni devono per natural legge aver recate alla sua voce. Le quali onte però se non isfuggono, come che lievi, all'udito del conoscitore, non offendono per nulla l'animo di lui. E tanto è il predominio del buon gusto sul brio ineducato de' soliti cantori nostri, che ogni spettatore d'indole appena appena non triviale non si lascerebbe indurre cosí di leggieri a rinunziare, per le lusinghe della fresca voce d'un giovinotto, alle diverse lusinghe colle quali quest'uomo ne riduce alla memoria il bel metodo antico dei recitativi, e ne mostra [p.4] com'egli intenda e senta sempre ciò ch'egli dice, e n'insegna l'utilitá del sillabare con esattezza le parole, e ne dispiega una acuta cognizione de' recessi piú riposti del cuore umano e lo zelo costante con cui egli si propose di parlare a lui e d'intenerirlo, anziché farsi a correr dietro alla smania volgare di rendersi ammirato per dovizia di arzigogoli e trilli. Vieni ad udirlo, amico mio, e non appena avrai cominciato a gemere di non averlo potuto ascoltare nella sua gioventú, che giá vinto dal piacere presente dimenticherai affatto le ipotesi, ed una forza segreta ti scambierá sul labbro la prima esclamazione: «Quale sará stato egli mai!», nell'altra piú sentita: «Quale egli è mai costui!»

Non contento però il signor Mombelli di allettarne giá tanto colle sue belle maniere musicali, volle valersi anche d'un altro mezzo astutissimo onde trarre a sé la nostra riconoscenza, e seppe rifarci perfino del poco decadimento della sua voce. Avvedutosi egli di quanto la natura era stata in ciò liberale colle due sue figliuole, educò con vero amore paterno e con sí appassionato studio le floride voci di quelle gentili giovinette, che lo spirito del padre, versandosi tutto, per cosí dire, nelle anime novelle delle fanciulle, tornò a giovinezza e si adornò di ben altri vezzi e di ben altre ed infinite soavitá. Davvero mi bisognerebbe tutta l'abilitá dell'Albano per poter trovar modo onde darti ad intendere di quante ridenti idee m'abbiano inondata la memoria, di che dolcezza m'abbiano inebriato il cuore queste due vergini grazie. Ti ricordi, carissimo amico, quell'ultima lettera ch'io ti scriveva due mesi fa? Quella lettera riboccava di fantasie tutte negre, come l'anima mia era allora, piena zeppa di amarezze e travagliata dalla noia della vita, terribilissima delle umane sciagure. Oh se mi vedessi ora! Se vedessi come m'abbia guarito lo spirito questa magica operetta! Fa' conto che in vita mia non mi sovviene d'aver mai tanto benedetta l'esistenza come a questi dí. Mi sono riconciliato con me medesimo e cogli uomini; ed ora l'universo mi sorride innanzi seminato tutto di rose. Ed ogni oggetto che mi si affaccia io lo credo partecipe della mia gioia; ed ogni suono mi par l'eco che ripeta colla divina cantilena:

[p.5]

    Questo cor ti giura amore,
    mia speranza, mio tesoro.

E come l'anima si commove tutta, io me la sento dalle sedi segrete rispondere:

    Questo cor ti giura amore,
    mia speranza, mio tesoro.

Mille volte ho desiderata la tua compagnia. Mille volte ho desiderato di dividere con te questo diletto di paradiso. Che importerebbe a noi del sogghigno di quelle mute fisonomie calcolatrici, su cui non isbalza mai una scintilla dell'anima?

Invidieremo forse noi a costoro il letargo che gli assidera, noi che piú che per la mente viviamo pel cuore? Che se voi, o freddi filosofi, mi togliete queste care illusioni, questa violenza di emozioni, io offro alla vostra scure anche il collo mio, e vi cedo tosto e di buon grado la vita, per la pace del sepolcro: ma s'ella precede la morte, io l'abborro.

Ma tu forse sospetterai che a tanto incantesimo contribuisca non poco l'aspetto della bellezza e delle tante attrattive della gioventú. Maligno animo! Io ti confesso candidamente che le due ragazze Mombelli ebbero entrambe propizia assai la venustá, e che la minore di esse, per quanto appare dalle scene, unendo ad un volto animatissimo e ad un par d'occhi leggiadri un sorriso tutto serenitá ed una certa ingenua lindura di modi, non riescirebbe vano soggetto di studio a quel pittore che colla contemplazione di vari modelli naturali volesse arricchirsi la mente d'immagini delicate ed arrischiarsi di ridurre a umane forme l'idea astratta dell'amabilitá. Tu però, in compenso della sinceritá mia, accetta per sacrosanto il giuramento che ti fo d'avere io scrupolosamente poste ad analisi le mie sensazioni, d'averne investigato l'origine, e d'aver trovato che questo piacevole entusiasmo che mi rapisce è generato dalla dolcezza tutta nuova della voce di lei che tiene assai del contralto e che, senza svagarsi, piomba diritto sui cuori altrui e se ne impadronisce; poi dal metodo semplice, ma affettuoso, ma pieno di [p.6] veritá, con cui ella canta. I dotti nell'arte ravvisano forse piú vasta conoscenza di musica e piú agilitá di voce nella maggiore delle fanciulle. E le belle milanesi, che si piegano al parere dei dotti per mantenersi anch'esse riputazione di dottrina e che, placidamente leziose, infastidiscono il cantar piano, a lei dánno la palma. Ma il piú degli uomini, che non sono né belli né dotti, ammirano e lodano la signora Ester, e si lasciano vincere dal canto della signora Annetta. Se poi la musica sia fatta per dilettare i dotti soltanto o sí bene tutta l'umana razza, s'ella debba giudicarsi dagli effetti generali o da' particolari, io non so, né vorrei dirlo ora se lo sapessi. Bensí mi è caro il vedermi confortato nell'opinione mia dall'applauso con cui è festeggiata sempre la signora Annetta dalle persone tutte che, venerando la ragione dell'intelletto, cedono pure alla prepotenza della ragione del cuore.

Non per questo vorrei però io scompagnate mai le due angeliche cantatrici; ché anzi, giovandosi elle a vicenda mirabilmente, l'una all'altra a vicenda porge tratto tratto occasione onde far in piú lucida guisa spiccare la propria maestria. Ed unite poi, perfettissimo accordo, ne risulta quella armoniosa voluttá che si spande sugli animi degli uditori, e a poco a poco li induce all'oblio intero delle cure moleste ed al sentimento carissimo della loro origine celeste.

Dio vi benedica entrambe, o creature gentili; e mandi sul capo vostro mille felicitá, e vi conservi, colla domestica virtú e colla bella onestá dei costumi vostri, il diritto di meritarvele sempre maggiori. Dio vi benedica entrambe; e le sorti sieno feconde di prosperitá verso dei parenti vostri, quantunque a loro sia giá invidiatissima delizia la compiacenza di avervi allevato tanto bene.

E tu, amico mio, sbrigati di far presto quello che devi fare costí; e corri per caritá a Milano prima che si chiudano nuovamente le porte del teatro Carcano. Io non ti dico che tu ci avrai di che pascerti gli occhi nello splendore delle decorazioni e nello sfarzo delle vesti; perché la veritá è che ve n'ha proprio una penuria men che decente, né tu sei ragazzotto da [p.7] gongolare di sí fatte baie. Non ti dico che tu ci vedrai la recita di belli versi, sebbene il libretto non debba invero temere di venire al paragone con tanti del moderno teatro nostro. Ma se per lo stile esso tiene dietro rigorosamente ai vestigi di alcuni dolcissimi pseudo Metastasi della Scala, s'è posto però un tantino al disopra delle Signorie Loro, per certa chiarezza e semplicitá d'argomento, per certa ragionevolezza di condotta e per l'introduzione non infelice dei cosí detti «colpi di scena» e delle «situazioni teatrali». Aggiungasi che chi lo scrisse merita poi facilmente da te, che sei buon femminiero per la vita, un qualche compatimento. Oh guarda il furfantaccio come egli straluna gli occhi per la curiositá di saperne l'autore! Indovinalo tu: e se non te ne basta l'animo, strabilia e trasusa quanto piú vuoi; ma sappi che l'ha composto la signora Vincenza Mombelli, la madre istessa delle due fanciulle. E se i servi cortigiani di Nerone sagramentavano essere nobilissimi i versi di quel tiranno, tu, che ti vanti cortigiano e servo d'un'altra tirannia meno austera, smetti, per Dio, gli occhiali e non mi far tanto lo schizzinoso su questo libretto.

In compenso però di alcune poche mancanze, tu troverai dei piaceri piú veri e piú durevoli. E proverai siccome ella sia proprio una consolazione il vedere che i concittadini nostri ritengono pur tuttavia una gran dose di buon senso, e che eglino accorrono sempre in folla al teatro Carcano, quasi bramosi di espiare con ciò i lunghi traviamenti, pei quali diedero non ha guari tanta materia di scandalo in altro teatro. E sta' certo poi che il canto della signora Annetta ti sanerá appieno quella piaguzza da cui devi sentirti lacerare il cuore nel separarti per alcun tempo da codesta tua innamorata. Poveretta! salutala per nome mio, ma non le dire che, se tu vieni a Milano, io tremo davvero per certo presagio a lei poco felice. Sta' sano intanto ed amami.

Il tuo N. N.

[p.8][p.9]

II

|Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Bürger|
|Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo|

Figliuolo carissimo,

M'ha fatto maraviglia davvero che tu, convittore di un collegio, ti dessi a cercarmi con desiderio cosí vivo una traduzione italiana di due componimenti poetici del Bürger. Che posso io negare al figliuolo mio? Povero vecchio inesercitato, ho penato assai a tradurli; ma pur finalmente ne sono venuto a capo.

In tanta condiscendenza non altro mi stava a cuore che di farti conoscere il Bürger: però non mi resse l'animo di alterare con colori troppo italiani i lineamenti di quel tedesco; e la traduzione è in prosa. Tu vedi che anche col fatto io sto saldo alle opinioni mie; e la veritá è che gli esempi altrui mi ribadiscono ogni dí piú questo chiodo. Non è per altro ch'io intenda dire che tutto tuttoquanto di poetico manda una lingua ad un'altra s'abbia da questa a tradurre in prosa. Nemico giurato di qualunque sistema esclusivo, riderei di chi proponesse una legge siffatta, come mi rido di Voltaire che voleva che i versi fossero da tradursi sempre in versi. Le ragioni che devono muovere il traduttore ad appigliarsi piú all'uno che all'altro partito stanno nel testo, e variano a seconda della diversa indole e della diversa provenienza di quello.

Tutti i popoli, che piú o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i popoli posseggono un linguaggio poetico separato dal linguaggio prosaico. I termini convenzionali per l'espressione del bello non sono da per tutto i medesimi. Come la squisitezza nel modo di sentire, cosí anche l'ardimento nel modo di dichiarare poeticamente le sensazioni è determinato presso [p.10] di ciaschedun popolo da accidenti dissimili. E quella spiegazione armoniosa di un concetto poetico, che sará sublime a Londra od a Berlino, riescirá non di rado ridicola se ricantata in Toscana.

Ché se tu mi lasci il concetto straniero ma, per servire alle inclinazioni della poesia della tua patria, me lo vesti di tutti panni italiani e troppo diversi da' suoi nativi, chi potrá in coscienza salutarti come autore, chi ringraziarti come traduttore?

Colla prosa la faccenda è tutt'altra; da che allora il lettore non si dimentica un momento mai che il libro ch'ei legge è una traduzione, e tutto perdona in grazia del gusto ch'egli ha nel fare amicizia con genti ignote e nello squadrarle da capo a piedi tal quali sono. Il lettore, quand'ha per le mani una traduzione in verso, non sempre può conseguire intera una tale soddisfazione. La mente di lui, divisa in due, ora si rivolge a raffigurare l'originalitá del testo, ora a pesare quanta sia l'abilitá poetica del traduttore. Queste due attenzioni non tirano innanzi molto cosí insieme; e la seconda per lo piú vince, perché l'altra, come quella che è la meno direttamente adescata e la meno contentata, illanguidisce. Ed è allora che chi legge si fa schizzinoso di piú; e come se esaminasse versi originali italiani, ti crivella le frasi fino allo scrupolo.

Chi porrá mente alle circostanze differenti che rendono differente il modo di concepire le idee e verrá investigando le origini delle varie lingue e letterature, troverá che i popoli, anche per questo lato, hanno tra di loro de' gradi maggiori o minori di parentela. Da ciò deriverá al traduttore tanto lume che basti per metter lui sulla buona via, ov'egli abbia intenzione conforme all'obbligo che gli corre, quella cioè di darci a conoscere il testo, non di regalarcene egli uno del suo.

Il signor Bellotti imprese a tradurre Sofocle; e prima ancora che comparisse in luce quell'esimio lavoro, chi sognò mai che egli si fosse ingannato nella scelta del mezzo, per avere pigliato a condurre in versi la sua traduzione?

Per lo contrario vedi ora, figliuolo mio, se io ti abbia vaticinato il falso quando ti parlai tempo fa d'una traduzione del [p.11] teatro di Shakespeare, prossima allora ad uscire in Firenze. Il signor Leoni ha ingegno, anima, erudizione, acutezza di critica, disinvoltura di lingua italiana, cognizione molta di lingua inglese, tutti insomma i requisiti per essere un valente traduttore di Shakespeare. Ma il signor Leoni l'ha sbagliata. I suoi versi sono buoni versi italiani. Ma che vuoi? Shakespeare è svisato; e noi siamo tuttavia costretti ad invidiare ai francesi il loro Letourneur. E sí che il signor Leoni bastava a smorzarcela affatto questa invidia!

Di quanti altri puntelli potrebbesi rinfiancare questo argomento, lo sa Dio. Ma perché sbracciarmi a dimostrare che il fuoco scotta? Chi s'ostina a negarlo, buon pro per lui!

E non occorre dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa robusta, elegante, snella, tenera quanto la francese. La lingua italiana non la sapremo maneggiare con bella maniera né io né tu, perché tu sei un ragazzotto ed io un vecchio dabbene e nulla piú; ma fa' ch'ella trovi un artefice destro, ed è materia da cavarne ogni costrutto. Ma questa materia non istá tutta negli scaffali delle biblioteche. Ma non lá solamente la vanno spolverando que' pochi cervelli acuti che non aspirano alla fama di messer lo Sonnifero.

In Italia qualunque libro non triviale esca in pubblico incontra bensí qua e lá qualche drappelletto minuto di scrutinapensieri, che pure non lo spaventano mai con brutto viso, perché genti di lor natura savie e discrete. Ma poveretto! eccolo poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole, infinito, inevitabile e sempre all'erta e prodigo sempre d'anatemi. Però io, non avuto riguardo per ora alla fatica che costano i bei versi a tesserli, confesso che qui, tra noi, per rispetto solamente alla lingua, chiunque si sgomenta de' latrati dei pedanti piglia impresa meno scabra d'assai se scrive in versi e non in prosa. Confesso che per rispetto solamente alla lingua e non ad altro, tanto nel tradurre come nel comporre di getto originale, il montar su' trampoli e verseggiare costa meno pericoli. Confesso che allo scrittore di prose bisogna studiare e libri e uomini e usanze; perocché altro è lo stare ristretto a' confini determinati [p.12] di un linguaggio poetico, altro è lo spaziarsi per l'immenso mare di una lingua tanto lussuriante ne' modi, e viva e parlata ed alla quale non si può chiudere il vocabolario, se prima non le si fanno le esequie. Ma lo specifico vero per salire in grido letterario è forse l'impigrire colle mani in mano, e l'inchiodar se stessi sul vocabolario della Crusca, come il giudeo inchioda sul travicello i suoi paperi perché ingrassino?

No no, figliuolo mio, la penuria che oggidí noi abbiamo di belle prose non proviene, grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che da sonetti. Fa' che il tuo padre spirituale ti legga la parabola dei talenti nell'evangelista; e la santa parola con quel «serve male et piger» ti snebbierá questo fenomeno morale.

Ora, per dire di ciò che importa a te, sappi, o carissimo, che i lirici tedeschi piú rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe, lo Schiller e il Bürger. Quest'ultimo, dotato di un sentire dilicato ma d'un'immaginazione altresí arditissima, si piacque spesso di trattare il terribile. Egli scrisse altre poesie sull'andare del Cacciatore feroce e della Eleonora; ma queste due sono le piú famose. lo credo di doverle chiamare «romanzi»; e se il vocabolo spiacerá ai dotti d'Italia, non farò per questo a scappellotti colle Signorie Loro.

Poesie di simil genere avevano i provenzali; bellissime piú di tutti e molte ne hanno gli inglesi; ne hanno gli spagnuoli; altre e d'altri autori i tedeschi; i francesi le coltivavano un tempo; gli italiani, ch'io sappia, non mai: se pure non si ha a tener conto di leggende in versi congegnate non da' poeti letterati, ma dal volgo, e cantate da lui; fra le quali quella della Samaritana meriterebbe forse il primato per la fortuna di qualche strofetta. Non pretendo con ciò di menomare d'un pelo la reputazione di alcuni «romanzi» in dialetti municipali; perché, parlando di letteratura italiana, non posso aver la mira che alla universale d'Italia[1].

[p.13]

Il Bürger portava opinione «che la sola vera poesia fosse la popolare». Quindi egli studiò di derivare i suoi poemi quasi sempre da fonti conosciute e di proporzionarli poi sempre con tutti i mezzi dell'arte alla concezione del popolo. Anche delle composizioni che ti mando oggi tradotte, l'argomento della prima è ricavato da una tradizione volgare, quello della seconda è inventato, imitando le tradizioni comuni in Germania; il che vedremo in séguito piú distesamente. Anche in entrambi questi componimenti v'ha una certa semplicitá di narrazione, che manifesta nel poeta il proponimento di gradire alla moltitudine.

Forse il Bürger, com'è destino talvolta degli uomini d'alto ingegno, trascorreva in quella sua teoria agli estremi. Ma perché i soli uomini d'alto ingegno sanno poi di per se stessi ritenersene giudiziosamente nella pratica, noi, leggendo i versi del Bürger, confessiamo che neppure il dotto vi scapita, né ha ragione di dolersi del poeta. L'opinione nondimeno che la poesia debba essere popolare non albergò solamente presso del Bürger, ma a lei s'accostarono pur molto anche gli altri poeti sommi d'una parte della Germania. Né io credo d'ingannarmi dicendo ch'ella pende assai nel vero. E se, applicandola alla storia dell'arte e pigliandola per codice nel far giudizio delle opere dei poeti che furono, ella può sembrare troppo avventata (giacché al [p.14] Petrarca, a modo d'esempio, ed al Parini, benché rade volte popolari, bisogna pur fare di cappello), parmi che, considerandola come consiglio a' poeti che sono ed ammettendola con discrezione, ella sia santissima. E dico cosí, non per riverenza servile a' tedeschi ed agli inglesi, ma per libero amore dell'arte e per desiderio che tu, nascente poeta d'Italia, non abbia a dare nelle solite secche che da qualche tempo in qua impediscono il corso agli intelletti e trasmutano la poesia in matrona degli sbadigli.

Questa è la precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i libri del Blair, del Villa e de' loro consorti, tosto che la barba sul mento dará indizio di senno in te piú maturo. Allora avrai da me danaro per comperartene altri, come a dire del Vico, del Burke, del Lessing, del Bouterweck, dello Schiller, del Beccaria, di madama de Staël, dello Schlegel e d'altri che fin qui hanno pensate e scritte cose appartenenti alla estetica: né il Platone in Italia del consigliere Cuoco sará l'ultimo dei doni ch'io ti farò. Ma per ora non dir nulla di questo co' maestri tuoi, che giá non t'intenderebbono.

Tuttavolta, perché la massima della popolaritá della poesia mi preme troppo che la si faccia carne e sangue in te, contentati ch'io m'ingegni fin d'ora di dimostrartene la convenienza cosí appena di volo, e come meglio può un vecchiarello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né filosofo.

Tutti gli uomini, da Adamo in giú fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell'anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.

La natura, versando a piene mani i suoi doni nell'animo di que' rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de' poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l'«est deus in nobis». Di qui il piú vero dettato di tutti i filosofi: che i poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola societá ma dell'intero universo. E per [p.15] veritá chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de' loro poeti, parmi che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalitá nazionali. Omero, Shakespeare, il Calderon, il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, l'Ariosto e l'Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai alla energia dell'amore che il vero poeta consacra per instituto dell'arte sua a tutta insieme la umana razza, né alla intensa volontá per la quale egli studia colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme l'umana razza. Però questo amore universale, che governa l'intenzione de' poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l'obbligo della gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da questo sacro dovere. Finanche l'ira della guerra rispetta la tomba d'Omero e la casa di Pindaro.

Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverá mai a scuotere fortemente l'animo de' lettori suoi, né mai potrá ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch'essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita.

Lo stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s'addormenta. Esce de' suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s'addormenta. Avvolto perpetuamente tra 'l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l'immagine, pe' quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessitá quella della tendenza poetica.

Per lo contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, [p.16] è passato attraverso una folta immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per cosí dire); gli effetti di esse non lo commovono piú, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessitá in vigoria, da che l'anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti a' quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico, diventa filosofo.

Se la stupiditá dell'ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell'anima del primo, perché non trovano la via d'entrarvi. Nell'anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l'espressione arditissima di tutto ciò che v'ha di piú fervido nell'umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sará piú bene accolto che piú penderá all'epigrammatico?

Ma la stupiditá dell'ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che piú o meno dispongono l'uomo alla poesia. E s'io dovessi indicare uomini che piú si trovino oggidí in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in una parte della Germania.

A consolazione non pertanto de' poeti, in ogni terra, ovunque è coltura intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n'ha bensí in copia ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d'uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerá mai della loro [p.17] esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della plebe affamata, e di lá salta a dirittura nelle botteghe da caffé, ne' gabinetti delle Aspasie, nelle corti de' principi, e nulla piú. Ad ogni tratto egli rischierá di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell'indole dei suoi concittadini egli non saprá mai un ette.

Ché s'egli considera che la sua nazione non la compongono que' dugento che gli stanno intorno nelle veglie e ne' conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne' teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a piú vaste intenzioni.

L'annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche; non fa all'intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch'io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d'Europa—l'italiana anch'essa né piú né meno—sono formate da tre classi d'individui: l'una di ottentoti, l'una di parigini e l'una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant'altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di «popolo».

Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi i quali escono dalla comune in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensí essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio, che i membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da' confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal [p.18] altro poeta; e ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro di doverlo ora ricusare. Le opinioni scolastiche, i precetti bevuti pigramente un tempo come infallibili, reggono tuttavia il loro intelletto, che non li mise mai ad esame, perché d'altro curante. Però l'orgoglio umano, a cui è duro il dover discendere a discredere ciò che per molti anni s'è creduto, il piú delle volte li fa tenaci delle massime inveterate. E il piú delle volte eglino combattono per esse come per l'antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme, ogni scudo giova. E perché una serie di secoli non si brigò piú che tanto di discutere l'importanza di quelle massime, eccoti in campo un bello argomento di difesa nel silenzio delle generazioni. «Chi tace non parla», diciamo noi. Ma «chi tace approva», dicono essi, e il sopore dei secoli lo vanno predicando come consenso assoluto di tuttaquanta la ragione umana alla necessitá di certe regole chiamate, Dio sa perché, di «buon gusto»; e però via via d'ugual passo sgozzano ad esse ogni tratto qualche vittima illustre.

La lode, che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione, non può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch'ella sentenzia non ha a mettergli grande spavento. La gente ch'egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred'io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s'egli bada al proprio interesse ed all'interesse vero dell'arte. Ed ecco come la __sola vera poesia__ sia la __popolare__: salve le eccezioni sempre, come ho giá detto; e salva sempre la discrezione ragionevole, con cui questa regola vuole essere interpretata.

Se i poeti moderni d'una parte della Germania menano tanto romore di sé e in casa loro e in tutte le contrade d'Europa, ciò è da ascriversi alla popolaritá della poesia loro. E questa salutare direzione ch'eglino diedero all'arte fu suggerita loro dagli studi profondi fatti sul cuore umano, sullo scopo dell'arte, sulla storia di lei e sulle opere ch'ella in ogni secolo produsse: fu suggerita loro dalla divisione in «classica» e «romantica» ch'eglino immaginarono nella poesia.

[p.19]

Però sappi, tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri intelletti, come piace di borbottare a certi giudici che senza processare sentenziano; non è sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere di poesia convengono; da che uno de' poeti chiamati «romantici» è il Tasso. E fra le accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udí mai messa in campo quella di trasgressione delle regole? Qual altro poema piú si conforma alle speculazioni algebraiche degli aristotelici?

Né ti dare a credere, figliuolo mio, che con quella divisione i tedeschi di cui parlo pretendessero che d'un'arte, la quale è unica, indivisibile, si avesse a farne due; perocché stolti non erano. Ma se le produzioni di quest'arte, seguendo l'indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni, hanno assunte facce differenti, perché non potrò io distribuirle in tribú differenti? e se quelle della seconda tribú hanno in sé qualche cosa che piú intimamente esprime l'indole della presente civilizzazione europea, dovrò io rigettarle per questo solo che non hanno volto simile al volto della prima tribú?

Di mano in mano che le nazioni europee si riscuotevano dal sonno e dall'avvilimento, di che le aveva tutte ingombrate la irruzione de' barbari dopo la caduta dell'impero romano, poeti qua e lá emergevano a ringentilirle. Compagna volontaria del pensiero e figlia ardente delle passioni, l'arte della poesia, come la fenice, era risuscitata di per sé in Europa, e di per sé anche sarebbe giunta al colmo della perfezione. I miracoli di Dio, le angosce e le fortune dell'amore, la gioia de' conviti, le acerbe ire, gli splendidi fatti de' cavalieri muovevano la potenza poetica nell'anima de' trovatori. E i trovatori, né da Pindaro instruiti né da Orazio, correndo all'arpa prorompevano in canti spontanei ed intimavano all'anima del popolo il sentimento del bello, gran tempo ancora innanzi che l'invenzione della stampa e i fuggitivi di Costantinopoli profondessero da per tutto i poemi de' greci e de' latini. Avviata cosí nelle nazioni d'Europa la tendenza poetica, crebbe ne' poeti il desiderio di lusingarla piú degnamente. Però industriaronsi per mille maniere di trovare soccorsi; e giovandosi della occasione, si volsero anche [p.20] allo studio delle poesie antiche, in prima come ad un santuario misterioso accessibile ad essi soli, poi come ad una sorgente pubblica di fantasie, a cui tutti i lettori potevano attignere. Ma ad onta degli studi e della erudizione, i poeti, che dal risorgimento delle lettere giú fino a' dí nostri illustrarono l'Europa e che portano il nome comune di «moderni», tennero strade diverse. Alcuni, sperando di riprodurre le bellezze ammirate ne' greci e ne' romani, ripeterono, e piú spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la mitologia de' popoli antichi. Altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono la credenza del popolo: e n'ebbero in risposta i misteri della religione cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire, il timore di una eternitá di pene. Interrogarono l'animo umano vivente: e quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da' loro contemporanei; cose risultanti dalle usanze ora cavalleresche, ora religiose, ora feroci, ma o praticate e presenti o conosciute generalmente; cose risultanti dal complesso della civiltá del secolo in cui vivevano.

La poesia de' primi è «classica», quella de' secondi è «romantica». Cosí le chiamarono i dotti d'una parte della Germania, che dinanzi agli altri riconobbero la diversitá delle vie battute dai poeti moderni. Chi trovasse a ridire a questi vocaboli può cambiarli a posta sua. Però io stimo di poter nominare con tutta ragione «poesia de' morti» la prima, e «poesia de' vivi» la seconda. Né temo di ingannarmi dicendo che Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide ecc. ecc., al tempo loro, furono in certo modo romantici, perché non cantarono le cose degli egizi o de' caldei, ma quelle dei loro greci; siccome il Milton non cantò le superstizioni omeriche, ma le tradizioni cristiane. Chi volesse poi soggiungere che, anche fra i poeti moderni seguaci del genere classico, quelli sono i migliori che ritengono molta mescolanza del romantico e che giusto giusto allo spirito romantico essi devono saper grado se le opere loro vanno salve dall'obblio, parmi che non meriterebbe lo staffile. E la ragione non viene [p.21] ella forse in sussidio di siffatte sentenze, allorché gridando c'insegna che la poesia vuole essere specchio di ciò che commuove maggiormente l'anima? Ora l'anima è commossa al vivo dalle cose nostre che ci circondano tuttodí, non dalle antiche altrui che a noi sono notificate per mezzo soltanto de' libri e della storia.

Allorché tu vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sará per via delle gazzette, imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che quelli della natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo bello, è la natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come va rispettata davvero la letteratura de' greci e de' latini, imparerai come davvero giovartene. Ma sentirai altresí come la divisione proposta contribuisca possentemente a sgabellarti del predominio sempre nocivo della autoritá. Non giurerai piú nella parola di nessuno, quando trattasi di cose a cui basta il tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della natura, non una imitazione di imitazione. A dispetto de' tuoi maestri, la tua coscienza ti libererá dall'obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di un codice vecchio e tarlato, per sottoporti a quello della ragione, perpetuo e lucidissimo. E riderai de' tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno a frugare nel codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v'è scritto.

Materia di lungo discorso sarebbe il voler parlare all'Italia della divisione suaccennata; ed importerebbe una anatomia lunghissima delle qualitá costituenti il genere classico e di quelle che determinano il romantico. A me non concede la fortuna né tempo né forze sufficienti per tentare una siffatta dissertazione, perocché il ripetere quanto hanno detto in ciò i tedeschi non basterebbe. Avvezzi a vedere ogni cosa complessivamente, eglino non di rado trascurano di segnare i precisi confini de' loro sistemi; e la fiaccola, con cui illuminano i passi altrui, manda talvolta una luce confusa. Ma poiché in Italia, a giudicare da qualche cenno giá apparso, non v'ha difetto intero di buona filosofia, io prego che un libro sia composto finalmente qui tra noi, il quale non tratti d'altro che di questo argomento, e trovi [p.22] modo di appianar tutto, di confermare nel proposito i giá iniziati, di rincorare i timidi e di spuntare con cristiana caritá le corna ai pedanti.

Ben è vero che a que' pochi del mestiere, a' quali può giovare per le opere loro una idea distinta del genere romantico, questa, io spero, sará giá entrata nel cervello loro, mercé l'acume della propria lor mente. Ma perché voi altri giovinetti siete esposti alla furia di tante contrarie sentenze, e la veritá non siete in caso di snudarla da per voi, è bene che qualcuno metta in mano vostra ed in mano del pubblico un libro che vi scampi dal peccato, pur sí frequente in Italia, di bestemmiare ciò che s'ignora.

Intanto che il voto mio va ricercando chi lo accolga e lo secondi; intanto che, irritati dalla novitá del vocabolo «romantico», da Dan fino a Bersabea si levano a fracasso i pedanti nostri, e fanno a rabbuffarsi l'un l'altro e a contumeliarsi e a sagramentare e a non intendersi tra di loro, come a Babilonia; intanto che la divisione per cui si arrovellano è per loro piú mistica della piú mistica dottrina del Talmud; vediamo, figliuolo mio, quali effetti ottenessero i poeti che la immaginarono.

Posti frammezzo a un popolo non barbaro, non civilissimo, se se ne riguarda tutta la massa degli abitanti e non la sola schiera degli studiosi, i poeti recenti d'una parte della Germania dovevano superare in grido i loro confratelli contemporanei sparsi nel restante d'Europa. Ma della fortuna della poesia loro tutto il merito non è da darsi alla fortuna del loro nascimento. L'essersi avveduti di questa propizia circostanza e l'aver saputo trarne partito, è merito personale. E a ciò contribuí, del pari che l'arguzia dell'ingegno, la santitá del cuore.

Sentirono essi che la verissima delle muse è la filantropia, e che l'arte loro aveva un fine ben piú sublime che il diletto momentaneo di pochi oziosi. Però, avidi di richiamare l'arte a' di lei principi, indirizzandola al perfezionamento morale del maggior numero de' loro compatrioti, eglino non gridarono, come Orazio:

Satis est equitem nobis plaudere;

[p.23] non mirarono a piaggiare un Mecenate, a gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei grandi; non ambirono i soli battimani d'un branco di scioperati raccolti nell'anticamera del principe.

Oltrediché non è da tacersi come insieme a questo pio sentimento congiurasse anche nelle anime di que' poeti la sete della gloria, ardentissima sempre ne' sovrani ingegni e sprone inevitabile al far bene. Eglino avevano letto che in Grecia la corona del lauro non l'accordavano né principi né accademie, ma cento e cento mila persone convenute d'ogni parte in Tebe e in Olimpia. Avevano letto che i canti di Omero, di Pindaro, di Tirteo non erano misteri di letterati, ma canzoni di popolo. Avevano letto che Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane non si facevano belli della lode de' loro compagni di mestiere, ma anelavano al plauso di trentamila spettatori e l'ottenevano. Quindi, agitati da castissima invidia, vollero anch'essi quel plauso e quella corona. Ma e in che modo conseguirla? Posero mente alle opere che ci rimangono de' poeti greci; e quantunque s'innamorassero sulle prime della leggiadria di quei versi, dello splendore di quella elocuzione, dell'artificio mirabile con cui le immagini erano accoppiate e spiegate, pure non si diedero a credere che in ciò fosse riposto tutto il talismano. E come crederlo, se in casa loro e fuori di casa vedevano condannati all'untume del pizzicagnolo versi, a cui né sceltezza di frasi mancava né armonia?

Lambiccarono allora essi con piú fina critica quelle opere, onde scoprire di che malie profittavansi in Grecia i poeti per guadagnarsi tanto suffragio dai loro contemporanei. Videro che quelle malie erano i loro dèi, la loro religione, le loro superstizioni, le loro leggi, i loro riti, i loro costumi, la storia loro, le loro tradizioni volgari, la geografia loro, le loro opinioni, i loro pregiudizi, le fogge loro, ecc. ecc. ecc.—E noi—dissero eglino,—noi abbiamo altro Dio, altro culto; abbiamo anche noi le nostre superstizioni; abbiamo altre leggi, altri costumi, altre inclinazioni piú ossequiose e piú cortesi verso la beltá femminina. Caviamo di qui anche noi le malie nostre, e il popolo c'intenderá. E i versi nostri non saranno per lui reminiscenze d'una [p.24] fredda erudizione scolastica, ma cose proprie e interessanti e sentite nell'anima.

A rinforzarli nella determinazione soccorse loro l'esempio altresí de' poeti che dal risorgimento delle lettere in Europa fino a' dí nostri sono i piú famosi. E chi negherá questi essere tanto piú venerati e cari, quanto di queste nuove malie piú sparsero ne' loro versi?

Cosí i poeti d'una parte della Germania, co' medesimi auspici, con l'arte medesima né piú né meno, col medesimo intendimento de' greci, scesero nell'aringo, desiderarono la palma e chiesero al popolo che la desse loro. E il popolo, non obbliato, non vilipeso da' suoi poeti, ma carezzato, ma dilettato, ma istruito, non ricusò d'accordarla.

A che miri la parola mia, tu lo sai: però fanne senno, figliuolo mio, e non permettere che la paterna caritá si sfoghi al vento. So che agli uomini piace talvolta di onestare la loro inerzia con bei paroloni. Ma io non darò retta mai né a te né a chiunque mi ritesserá le solite canzoni: e che l'Italia è un armento di venti popoli divisi l'uno dall'altro, e ch'ella non ha una gran cittá capitale dove ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno ove non è una patria. Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l'avevano questa unitá di patria e questo tumulto d'una capitale unica i poeti dei quali ho parlato? E se noi non possediamo una comune patria politica, come neppure essi la possedevano, chi ci vieta di crearci intanto, com'essi, a conforto delle umane sciagure, una patria letteraria comune? Forse che Dante, il Petrarca, l'Ariosto per fiorire aspettarono che l'Italia fosse una? Forse che la latina è la piú splendida delle letterature? e nondimeno qual piú vasta metropoli di Roma sotto Ottaviano e sotto i Cesari?

—Voi—gridava l'altro dí nella voce dell'ira sua il curato di Monte Atino, l'amico mio dall'anima ardente,—voi, se siete caldi di vero amore per la vostra bella Italia, levate l'orecchio, o generosi italiani. Udite come tuttaquanta l'Europa ne rinfaccia d'ogni parte il presente decadimento delle nostre lettere. È egli da credersi che tanta universalitá di disprezzo sia tutta opera della [p.25] malignitá? Ponetevi, in nome di Dio, ponetevi una mano al petto; interrogate la coscienza vostra. E non la sentite anch'essa tremar di vergogna? Però perdonate gli insulti villani, con che ne strapazzano oggi que' popoli stessi che un tempo o ne lodavano o taciturni rodevansi d'invidia pe' nostri trionfi letterari: alle calunnie, ché calunnie pur anche piovono addosso all'Italia, non istate ad opporre altro che la dignitá del silenzio; e cadranno di per sé. Ma de' consigli giovatevi: e la gloria della vostra terra ricuperatela col far voi, non col citare le opere degli avi vostri. «Gloria nostra sit testimonium conscientiae nostrae», diceva san Paolo a que' di Corinto. Vincete l'avversitá collo studio, smettete una volta la boria di reputarvi i soli europei che abbiano occhi in testa, smettete la petulanza con cui vi sputate l'un l'altro in viso e per inezie da fanciulli, unitevi l'un l'altro coi vincoli di amorosa concordia fraterna, senza della quale voi sarete nulli in tutto e per tutto. E poiché perspicacia d'intelletto non ve ne manca, solo che vogliate rifarvi delle male abitudini, lavorate, ve ne scongiuro, e lavorate da senno. Ma prima di tutto spogliatevi della stolida divozione per un solo idolo letterario. Leggete Omero, leggete Virgilio, che Dio ve ne benedica! Ma tributate e vigilie e incenso anche a tutti gli altri begli altari che i poeti in ogni tempo e in ogni luogo innalzarono alla natura. E quantunque a rischio di lasciare qualche dí nella dimenticanza e i volumi dell'antichitá e i volumi de' moderni, traetevi ad esaminare da vicino voi stessi la natura, e lei imitate, lei sola davvero e niente altro. Rendetevi coevi al secolo vostro e non ai secoli seppelliti; spacciatevi dalla nebbia che oggidí invocate sulla vostra dizione; spacciatevi dagli arcani sibillini, dalle vetuste liturgie, da tutte le Veneri e da tutte le loro turpitudini, cavoli giá putridi; non rifriggeteli. Fate di piacere al __popolo__ vostro; investigate l'animo di lui; pascetelo di pensieri e non di vento. Credete voi forse che i lettori italiani non gustino altro che il sapore dell'idioma e il lusso della verbositá? Badate che leggono libri stranieri, che s'accostumano a pensare e che dalle fatuitá vanno ogni dí piú divezzandosi. Badate che i progressi intellettuali d'una parte di [p.26] Europa finiranno col tirar dietro a sé anche il restante. E voi con tutta la vostra albagia rimarrete lí soli soli, a far voi da autori insieme e da lettori. Insomma siate uomini e non cicale; e i vostri paesani vi benediranno, e lo straniero ripiglierá modestia e parlerá di voi coll'antico rispetto.—

Nessuno de' ricchi tra' tuoi terrazzani venga a morte fuori della tua giurisdizione parrocchiale, o buon curato di Monte Atino, o anima italiana davvero! Chi non ti perdonerebbe la declamazione in grazia dello zelo e del patriottismo che spirano le tue ammonizioni?

Ora, figliuolo mio, ti sia palese che tutto il discorso fatto sin qui, sebbene paresse sviarsi dal soggetto, pure era necessario. Cosí mi sono preparata la via alla soluzione de' due quesiti che tu mi hai fatti, ed ai quali posso ora rispondere con maggiore brevitá. Eccoli entrambi, e in termini piú precisi de' tuoi: 1. «La moderna Italia ammetterebbe ella poesie di questo genere (i romanzi)?». 2. «Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in Italia?».

Non fa mestieri, cred'io, di molte lucubrazioni per trovare che alla prima interrogazione vuolsi rispondere con un «sí» netto e stentoreo. Da quanto ho detto sulla opportunitá di indirizzare la poesia non all'intelligenza di pochi eruditi ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di guadagnarne l'attenzione, tu avrai di per te stesso inferita questa sentenza: che i poeti italiani possono del pari che gli stranieri dedurre materia pe' loro canti dalle tradizioni e dalle opinioni volgari, e che anzi gioverebbe di presente ch'eglino preferissero queste a tutto intero il libro di Natale de' Conti. Però non voglio sprecar tempo in dimostrarti che, per tale rispetto, questo genere di romanzi si conviene anche all'Italia; e per veritá non farei che ridire le parole mie. Che poi questo modo di narrare liricamente una avventura offenderá gli italiani, non credo[2].

La poesia d'Italia non è arte diversa dalla poesia degli altri popoli. I princípi e lo scopo di lei sono perpetui ed universali. [p.27] Ella, come vedemmo, è diretta a migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a contentarne i bisogni della fantasia e del cuore; poiché la tendenza alla poesia, simigliante ad ogni altro desiderio, suscita in noi veri bisogni morali. Per arrivare all'intento suo la poesia si vale di quattro forme elementari: la lirica, la didascalica, l'epica e la drammatica. Ma perché ella di sua natura abborre i sistemi costrettivi e perché i bisogni che ella prende ad appagare possono essere modificati in infinito, ha diritto anche ella di adoperare mezzi modificati in infinito. Quindi a sua posta ella unisce e confonde insieme in mille modi le quattro forme elementari, derivandone mille temperamenti.

Se la poesia è l'espressione della natura viva, ella deve essere viva come l'oggetto ch'ella esprime, libera come il pensiero che le dá moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme ch'ella assume non costituiscono la di lei essenza, ma solo contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle di lei intenzioni. Però fino a tanto ch'ella non esce dell'instituto suo, non v'ha muso d'uomo che di propria facoltá le abbia a dettare restrizioni su questo punto del tramischiare le forme elementari.

Che i due romanzi del Bürger spiaceranno agli italiani per l'argomento loro e per lo stile, forse sará. Ma che l'Italia non patirebbe che i suoi poeti scrivessero romanzi del genere di questi, perché forse schifa della mescolanza dell'epico col lirico, non credo. Siffatte obbiezioni non suggeriscono che al cervello de' pedanti, i quali parlano della poesia senza conoscerne la proprietá. Ma se il presagio non mi falla, la tirannide dei pedanti sta per cadere in Italia. E il popolo e i poeti si consiglieranno a vicenda senza paura delle Signorie Loro, ed a vicenda si educheranno; e non andrá molto, spero.

La meditazione della filosofia riuscirá bensì a determinare, a un di presso, di quali materiali debbano i poeti giovarsi nell'esercizio dell'arte, di quali no, e fin dove possano estendere l'ardimento della imitazione. E l'esperienza dimostra che in questo l'arte della poesia soffre confini come tutte le di lei sorelle. Ma quale filosofia potrá dire in coscienza al poeta: «Le modificazioni delle forme sono queste, non altre»?

[p.28]

So che i pedanti si stilleranno l'intelletto per rinvenire, a modo d'esempio, la bandiera sotto cui far trottare le terzine del signor Torti sulla Passione del Salvatore. So che, nel repertorio de' titoli disceso loro da padre in figlio, non ne troveranno forse uno che torni a capello per quelle terzine. Carme no, ode no, idillio no: eroide forse?… Ma intanto quella squisita poesia, con buona pace delle Signorie Loro, è giá per le bocche di tutti. E l'Italia, non badando a' frontispizi, scongiura il signor Torti a non lasciarla lungamente desiderosa d'altri regali consimili. Lo stesso avverrá d'ogni altra poesia futura, quando le modificazioni delle forme siano corrispondenti all'argomento ed alla intenzione del poeta, e quando siffatta intenzione sia conforme allo scopo dell'arte ed a' bisogni dell'uomo.

Il sentimento della convenienza, che induce il poeta alla scelta di un metro piuttosto che di un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla concezione delle idee ch'egli ha in animo di spiegare nel suo componimento ed al disegno che lo muove a poetare. Le regole generali degli scrittori di Poetiche non montano gran fatto, da che ogni caso vorrebbe regola a parte. Laonde è opinione mia che un uomo dell'arte possa bensí assisterti ogni volta con un buon consiglio; ma che se tu aspetti che te lo diano i trattatisti, non ne faremo nulla, figliuolo mio. E a questo proposito mi piace di rallegrarti con un'altra scappata declamatoria, in cui diede, non ha guari, il buon curato di Monte Atino, l'amico mio dall'anima ardente.

Una persona, che aveva aria d'uomo non dozzinale e non l'era davvero, parlava della poesia «romantica» con Sua Reverenza. E Sua Reverenza l'udiva con volto pacato e con segni d'approvazione, perché erano lodi alla poesia «romantica», la prediletta dell'anima sua. Quando tutt'ad un tratto il panegirista uscí fuori con un voto, perché alcuno in Italia pigliasse a scrivere una Poetica romantica.—Che Poetiche di Dio!—gridò allora il buon curato di Monte Atino, dimenandosi sul suo seggiolone come un energumeno,—che Poetiche di Dio! Se ai giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro, vivesse Sofocle, dovrebbono essi cambiare arte forse? No, in nome del cielo, no. Ma la [p.29] differenza dei secoli renderebbe differenti le cose che que' poeti imprenderebbono ora a trattare. E la differenza delle cose indurrebbe di necessitá differenza nella mescolanza delle forme e nell'accoppiamento delle immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle sarebbero poeti «romantici», volere o non volere. Ma l'arte loro sarebbe tuttavia quella stessa de' classici antichi. Che importa a me se il Cellini oggi mi cesella un vezzo per madama d'Étampes e domani un calice pel santo padre? Egli è pur sempre Benvenuto, l'orefice fiorentino. Ma questo Proteo irrequieto come l'amore, quest'arte della poesia, questa perpetua inventrice del bello, chi l'insegna? Le Poetiche forse? Sono forse le Poetiche che hanno sviluppate le menti a que' tre miracoli della Grecia? sono forse le Poetiche che dissero come tener la penna in mano a Dante, all'Ariosto, a Shakespeare? Al diavolo queste corbellerie! Mostratemi una Poetica anteriore alla esistenza di un poeta. Mostratemi un vero poeta educato e formato dalle Poetiche. Dov'è, dov'è? Io vi mostrerò de' poeti che colle opere loro hanno prestata materia di che rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta maestruzzi. Io vi mostrerò trentamila pedanti, e tutti figli delle Poetiche, e tutti misuratori di sillabe, e tutti sputasentenze, e tutti teste di legno. Al diavolo colle Poetiche! Perché non t'incarni un'altra volta, o bella anima di Omar, tanto appena che ti basti tempo per discendere in Italia a metter fuoco a tutte le Poetiche, da quella di Aristotile fino a quella del Menzini?—

E qui Sua Reverenza mandò un lungo sospiro di desiderio. Poi tosto ammutí, guardò in alto per un poco, e si fece tutto rosso in viso, vergognando, cred'io, d'avere unito il nome d'Aristotile a quello di un guastamestiere. Poi, ripreso fiato, stese la mano all'ospite e col sorriso della cortesia lo pregò perché proseguisse il panegirico che tanto gli andava a sangue. Terminato il dire, l'ospite pigliò licenza. Il povero curato lo accompagnò fino all'uscio; e lasciata scappare una lagrima, gli strinse la mano e gli disse:—Domando mille scuse; ho gridato fuori d'ogni creanza: ma sappia Vossignoria ch'io non l'aveva con lei. A lei io ho data la mia stima. Capperi! Vossignoria ha detto pel [p.30] primo in Italia cose che non tutti sanno dire o che tutti qui s'ostinano a non voler dire. Da bravo! Stia fermo, e non si lasci atterrire da chi senza entrare in ragionamenti le abbaia dietro de' mali motteggi e delle insipide satire. Siamo cristiani e sacerdoti entrambi; perdoniamo adunque di buona volontá agli insolenti. Dio n'abbia anch'egli misericordia! Sono montato in furia contro le Poetiche, perché la sento cosí e perché questo mio maledetto naturale è tutto stizza e non lo so mai frenare. Ma i filosofi estetici io non li confondo cogli scrittori di Poetiche. No, no, quelli li rispetto, e glielo giuro sull'onor mio. E le giuro che qualche volta leggo con vera aviditá le cose del Burke e del Lessing, come se fossero squarci della Cittá di Dio del mio sant'Agostino. Ma Ella compatisca se in questo punto delle Poetiche io sono di parere contrario a quello manifestato da lei: compatisca e mi voglia bene.—

Interrogazione seconda. «Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in Italia?».

Questo è quesito di non cosí facile scioglimento come il primo. Madama de Staël, nell'ingegnosa ed arguta sua opera sull'Alemagna, ha analizzati entrambi questi romanzi. E come è solito dei fervidi ed alti intelletti, che hanno sortita fantasia vasta, l'aggiungere senza avvedersene qualche cosa sempre del loro alle opere altrui delle quali s'innamorano, ella vi trovò bellezze forse piú che non hanno e gli ammirò forse troppo. Nondimeno ella è di parere che difficile e quasi impossibile sarebbe il far gustare que' romanzi in Francia; e che ciò provenga dalla difficoltá del tradurli in versi, e da questo: che in Francia «rien de bizarre n'est naturel». In quanto alla bizzarria ed alla difficoltá di tradurre in versi, sta a' francesi ed a madama de Staël il decidere. In quanto al poterne tentare una versione in prosa francese, io credo di non errare pensando che, se madama de Staël avesse voluto piegarsi ella stessa all'ufficio di traduttore, i francesi avrebbero accolta come eccellente la traduzione di lei. E se mai il giudizio, che ella portò sulla incompatibilitá del gusto francese colla bizzarria de' pensieri, fosse meno esatto, la tanta poesia che vive in tutte le [p.31] prose di madama si sarebbe trasfusa di certo anche in questa, per modo che la mancanza del metro non sarebbe stata sciagura deplorabile. L'armonia non è di cosí essenziale importanza da dover dipendere totalmente da essa la fortuna di un componimento.

Per riguardo all'Italia, io non saprei temere di un ostacolo dal semplice lato della bizzarria, da che l'Ariosto è l'idolo delle fantasie italiane. Però, lasciato stare il danno che a questi romanzi può venire dall'andar vestiti di una poco bella traduzione per le contrade d'Italia, dico che a me sembra di ravvisare in essi una cagione piú intrinseca, per la quale non saranno forse comunemente gustati tra di noi.

Entrambi questi romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul terribile, due potentissime occasioni di movimento per l'animo umano. Ma l'uomo che, per uscire del letargo che gli è incomportabile, invoca anche scosse violenti all'anima sua e anela sempre di afferrare siffatte occasioni, pure non se ne lascia vincere mai, se non per via della credenza. E il terribile e il maraviglioso, quando non sono creduti, riescono inoperosi e ridicoli, come la verga di Mosé in mano a un misero levita.

L'effetto dunque, che produrranno i due romanzi del Bürger, sará proporzionato sempre alla fede che il lettore presterá agli argomenti di maraviglia e di terrore de' quali essi riboccano. Ora, dipendendo da ciò principalmente l'esito della loro emigrazione presso gli italiani, a me non dá il cuore di pronosticarla fortunata.

Cominciamo dal primo. Ecco la traduzione del Cacciatore feroce.

IL CACCIATORE FEROCE.

Il conte di Rheingrafenstein[3] diede fiato alla cornetta:—Olá olá, su su, in piedi e in sella!—

[p.32]

Il Suo cavallo mise nitriti, e via d'un salto si slanciò innanzi. E dietro a lui precipitosa a fracasso tutta la salmeria; e un correre, uno squittire di cani squinzagliati su e giú per mezzo a biade e prunaie, per mezzo a ginestreti ed a stoppie.

Illuminata dal raggio mattutino della domenica, biancheggiava da alto la cupola del duomo. Con tocchi distinti, con un rombar grave, le campane festive chiamavano il popolo alla messa cantata. Di lontano risonavano i cantici della turba divota de' cristiani.

E via via via, attraverso bivi e quadrivi veniva impetuosa la caccia: e da per tutto erano gridi, «to to to, ciuee ciuee!».

Ed ecco a destra, ecco a sinistra uscire un cavaliero di qui, un cavaliero di lá. Il corridore del cavaliero a destra era nitido come argento; del color del fuoco era quello che portava il cavaliero a sinistra.

  Chi era mai il cavaliero a destra, chi mai il cavaliero a sinistra?
  Ben me lo presagisce il cuore, ma chi sieno non so.

  Il cavaliero a destra comparve in candido vestimento e con un volto
  soave come la primavera. Il cavaliero a sinistra, orrendo e vestito
  d'un fosco giallo, vibrava folgori dall'occhio come la tempesta.

—In tempo, in tempo giungeste! Ben venga ognuno di voi alla nobile caccia! Né qui in terra, né su in cielo vi ha spasso piú caro di questo.—

Egli cosí esclamò; e lieto fe' scoppiar la palma sull'anca; e toltosi di testa il cappello, l'agitò su per l'aria.

—Mal si accorda il suono della tua cornetta alla squilla festiva ed a' cantici del coro,—disse con placido animo il cavaliero a destra.—Torna, torna in dietro: la tua caccia è mal augurata quest'oggi. Cedi al consiglio dell'angelo buono, e non ti lasciar traviare dal cattivo.

—Innanzi, innanzi, séguita su, séguita la tua caccia, o mio nobil signore!—interruppe violento il cavaliero a sinistra.

—Che ronzo di squilla? che clamore di coro? Ben piú vi fará allegri la gioia della caccia. Io v'insegnerò quali trastulli si [p.33] convengano a' principi. Non istate a dar, no, retta al costui spauracchio.

—Ah sí, ben parli, o cavaliero a sinistra! Tu sei un eroe secondo il cuor mio. Chi rifugge l'uscire a caccia, vada in malora a snocciolar paternostri. A tuo dispetto, bacchettone scimunito, a tuo dispetto voglio cavarmi la mia brama.—

E via via via, fuor d'un campo, dentro un altro, su pel poggio, giú per la china, sempre sempre gli venivano cavalcando stretti a' fianchi il cavaliero a destra e il cavaliero a sinistra. Quand'ecco a un tratto smacchiar di lontano un bianco cervo con corna di sedici palchi.

Il conte raddoppiò il fiato alla cornetta, e piú veloci accorsero d'ogni parte cavalieri e pedoni. Ed ecco, or di dietro or dinanzi, or l'uno or l'altro de' seguaci stramazzare tramortito sul terreno per la gran furia.

  —Stramazza pure, stramazza, al diavolo! Non per questo deve andar
  guasto lo spasso de' principi.—

  La belva si accoscia in un campo di spighe e vi spera rifugio. Ecco un
  povero contadino trarre innanzi umilmente e metter gemiti e lagrime:

  —Pietá, signor mio, pietá! Abbiate riguardo agli stenti, al sudore
  del poverello.—

  Il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá
  ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo
  instiga all'oltraggio maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del
  cavaliero a destra e si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

  —Via di qua, miserabile!—grida sbuffando terribile il conte al
  povero aratore—o ch'io, per Satanasso! su te, su te dirizzo la
  caccia. Olá, compagni! addosso addosso! dálli dálli! In segno che ho
  giurato il vero, fategli fischiar le fruste sugli orecchi.—

Detto fatto, il conte si scagliò furibondo al disopra la siepe; e dietro a lui un bisbiglio, un rimbombo, e tutto quanto il traino [p.34] con cani e cavalli e pedoni. E cani e pedoni e cavalli pestavano i fusti del grano, sicché la campagna tutta era un polverio.

All'avvicinarsi di quello schiamazzo, spaventata, la belva, via via, fuor d'un campo, dentro un altro, su pel poggio, giú per la china, messa in fuga, inseguita, ma non arrivata, guadagna i piani del pascolo comunale; e astuta si frammette alle mansuete mandre onde salvarsi.

Ma di qua, di lá, per campagne e per boschi; di su, di giú, per boschi e per campagne, i veltri la perseguitano e n'hanno tosto fiutata la traccia.

Il mandriano[4], pieno d'angoscia pel suo armento, si butta a' piedi del conte.

—Pietá, signore, pietá! Fate di lasciare in pace queste mie povere bestie mansuete. Ponete mente, signor mio, che qui pascolano le vacche di tante povere vedove, che non hanno altra sostanza. Abbiate pietá de' poveri. Misericordia, signor mio, misericordia!—

Il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra e si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

—Ribaldo, temerario, che a me contrasti! Ah perché non sei tu incarnato tu stesso nella migliore delle tue vacche, e in lei non è incarnata altresí ognuna di quelle sgualdrine? Che gioia sarebbe allora pel cuor mio lo incalzarvi tutti insieme a dirittura fino all'altro mondo!

Olá, compagni! addosso addosso, dálli dálli! To to, qui qui, ciuee ciuee ciuee!—

[p.35]

E ciascuno de' cani s'avventò aizzato sul primo oggetto che gli si parò innanzi. Insanguinato cadde a terra il mandriano, insanguinate caddero l'una dopo l'altra le vacche.

A stento la belva si sottrae a quel macello, con sempre minor lena di corso. Spruzzata di sangue, intrisa di bava, eccola prendere il cupo della foresta e ripararvisi. Addentro addentro ella si inselva, e viene a trovar nascondiglio nella cappella di un eremita.

Via via, senza posa mai.—To to, ciuee ciuee, to to to!—Allo scoppiar delle fruste, all'abbaiare de' veltri, allo squillare dei corni la schiera feroce anche colá si precipita.

  Il santo eremita uscí della cappelletta e si fece incontro con mite
  scongiuro.

  —Rimanti, rimanti, abbandona la traccia. Non profanare l'asilo di
  Dio.

  La creatura manda gemiti al cielo e implora da Dio il gastigo tuo.
  Lasciati per l'ultima volta ammonire, o la tua empietá ti trarrá in
  perdizione.—

Sollecito il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontá ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. E, oh Dio! ad onta delle ammonizioni del cavaliero a destra, egli si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

—Che empietá, che perdizione parli tu mai? Forse—grida egli,—forse che la mi spaventa gran fatto? Questa mia caccia, dovessi io anche vederla spinta fino al terzo cielo, che rileva, che monta a me? Sí, per Dio! vo' proseguirla, voglio sbramarmi. E sia pure a dispetto di te, o scimunito, e a dispetto di Dio.—

Egli mena vibrata la frusta, dá fiato alla cornetta.—Olá, compagni, addosso addosso! dálli dálli!—

Oh Dio! Ecco in un tratto spariscono innanzi a lui ed eremita e cappelletta; spariscono dietro a lui e cavalli e pedoni. E in un batter d'occhio, e fracassi e suoni ed urli di caccia, tutto tutto ingoia un silenzio di morte.

[p.36]

Atterrito il conte gira lo sguardo; dá fiato alla cornetta, e la cornetta non rende suono; mette un grido, e non ha piú sentore della propria voce; vibra la frusta, e la frusta non fischia; sprona l'un fianco e l'altro al destriero, né può cavalcare innanzi o retrocedere.

  E subito intorno a lui un buio, e piú e piú sempre un buio, come di
  sepolcro; ed un mugghiare, come di marina lontana. Su alto per l'aria,
  al di sopra del suo capo, una voce di tuono grida tremenda con furor
  di burrasca questa sentenza:

  —O tiranno, o indole d'inferno, che insolentisci contro Dio, contro
  gli uomini, contro ogni cosa! Il singulto, il gemito della creatura e
  la tua iniquitá ti hanno citato a gran voce innanzi al tribunale, lá
  su dove arde la fiaccola della vendetta.

Fuggi, empio, fuggi. E sia tu da qui innanzi per tutta l'eternitá perseguitato tu stesso in caccia dall'inferno e dal demonio. E sia spavento, questo, de' principi d'ogni secolo che, a saziare le loro voglie scellerate, non perdonano né a Creatore né a creatura.—

A queste parole un bagliore giallo come zolfo guizza intorno alle frondi della foresta. Via via per l'ossa e per le midolle discorre al conte l'angoscia. Una vampa gli opprime il respiro. Stordisce e non ode piú nulla. Innanzi, tutto gli soffia sul viso gelo e terrore; e alla nuca lo insiegue il fischio della bufera.

Cresce il soffio del terrore, cresce il fischio della bufera; e su dalla terra, oh spavento! ecco un pugno negro emergere, giganteggiare. Apresi, stringe gli artigli; ahi! ahi! giá lo abbranca pel ciuffo; ahi! ahi! travolta in un attimo la faccia del conte, sovrasta alle spalle di lui.

Intorno intorno a lui un corruscar di faville e di fiamme verdi, brune e sanguigne. Un mar di fuoco presso presso gli ondeggia d'ogni lato; e dentro vi brulica la ciurma infernale. In un subito mille veltri infernali prorompono aizzati a fracasso su dalla voragine.

[p.37]

Via precipitoso egli si scaglia attraverso i boschi, attraverso la campagna; e fugge mettendo lai e ululati.—Ahi, me misero! misero!—

Ma per tutto l'ampio mondo lo perseguita il latrar dell'inferno, di giorno giú per le caverne della terra, a mezzanotte su in alto per l'aria.

La faccia di lui sovrasta perpetuamente alle spalle, ond'egli abbia perpetuamente la veduta de' mostri che lo inseguono. E per quanto rapida la fuga lo strascini innanzi, incitato dagli urli dello spirito cattivo, gli bisogna mirare perpetuamente il digrignar dei denti e lo spalancarsi delle fauci ringhiose che gli stanno sopra per azzannarlo.

Tale è la caccia della ciurma feroce; e dura e durerá fino al dí del giudizio. Spesso nella notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e inorridirlo. E testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d'assai cacciatori, se per altre ragioni non convenisse a loro il silenzio[5].

La favola di questo romanzo è tratta da una tradizione popolare in Germania; però è un soggetto bello ed opportuno per un poeta tedesco. Ivi il popolo la crede vera; e da questa opinione acquistandosi fede il poeta, ha potuto a suo talento far piangere e tremar di terrore i suoi lettori. I costumi, ch'egli ha dipinti, sono o costumi de' suoi tempi, o costumi moderni e notissimi al popolo: quindi sempre maggiore l'interesse, e sempre piú aumentata la fede.

Ma noi, lettori italiani, non abbiamo come i tedeschi quella tradizione. E, a volere reputar vera o verisimile la catastrofe del Cacciatore feroce, ci bisognerebbe uno sforzo d'immaginosa superstizione. Ora, che che ne dicano gli stranieri, siamo, noi italiani, dotati di tanta superstizione? La religione nostra ben ci farebbe tenere come racconto verisimile che Dio avesse castigata severamente la ferocia del cacciatore. Ma il castigo strano [p.38] ed incessante su questa terra piuttosto che nell'inferno, noi non lo crederemmo, perché non abbiamo esempi consimili da paragonargli. Ben è vero che nella novella ottava della Giornata quinta del Decamerone noi leggiamo di una pena sull'andare di questa, benché per colpa tutt'altra. Ma quella storia non è creduta piú in Italia, e forse non era tradizione indigena qui neppure a' tempi del Boccaccio, che probabilmente la tolse ad imprestito dal monaco francese Elinando, scrittore del 1200, e di suo capriccio la traspiantò nella pineta di Ravenna.

Oltrediché noi non viviamo sulla sponda del Reno. La ingiustizia feudale e l'insultante privilegio delle cacce riservate ai nobili sono mali che noi ora non proviamo. La narrazione di sciagure contemporanee, alle quali noi non partecipiamo, non sará davvero udita con indifferenza; ma non ci commoverá tanto quanto i tedeschi. L'uomo non può pensare all'uomo lontano e posto in circostanze diverse dalle sue con quell'interesse medesimo, con cui egli pensa a se stesso ed a' vicini. Le lagrime del povero contadino, l'angoscia del mandriano, la pace dell'eremita profanata ci faranno pietá. Ma questa pietá, paragonata con quella de' tedeschi, sará minore d'assai; come il batticuore di noi europei mediterranei è minore di quello degli onesti fra gli abitanti delle colonie al rammentare la compassionevole tratta dei negri. Discendendo giú per questa scala di compassioni decrescenti, si giunge fino a quel grado di affanno leggiero leggiero, con cui noi viventi del secolo decimonono ascoltiamo le sventure degli Atridi, de' Tiestei e de' Priamidi.

Cessate anche in Germania parte delle prepotenze feudali, variate anche alcune costumanze, mille memorie nondimeno di luogo e di nomi, mille affinitá di patria e di famiglie richiameranno la storia di quelle alla mente de' tedeschi, e per lunghissimi secoli. Cosí, e per le stesse ragioni, le sciagure che afflissero anticamente i padri nostri in Italia, quantunque non piú le medesime che proviamo noi, pure percuoteranno l'animo nostro con bastante vigore, ricordandole poeticamente. E come le iniquitá, a modo d'esempio, de' nostri Visconti non sarebbero mai sentite tanto fortemente da' lettori tedeschi quanto [p.39] dagli italiani, cosí la storia del Cacciatore feroce non lo sará, temo, da noi quanto da loro.

Non so indurmi a dar l'ultimo addio al Cacciatore feroce, se prima non fo qualche cosa a onore e gloria de' commentatori e della consuetudine loro. Sappi dunque, o figliuolo, d'un pezzo di poesia italiana che ha qualche sorta di cognazione con questo del Bürger.

Erasmo di Valvasone, verso la fine del canto terzo del suo poema La caccia, raccomanda a' cacciatori di non uscire mai alla campagna sprovveduti di una messa sentita e dell'aiuto invocato di tutti i santi. E per ispaventare gli scapestrati, reca in mezzo la mala ventura di un certo Terone, ch'egli stesso, il poeta, dice d'aver conosciuto. Terone, mentre viveva giovinetto lungo la riva del nativo Tagliamento, era gran cacciatore e persona divota; e Dio l'aveva scampato sempre d'ogni pericolo. Fatto adulto, viaggiò tutta la Germania e v'imparò altri costumi. Tornò a casa, e non usò piú né a messe né a chiese. Un cignale orribile metteva a guasto ed a spavento la campagna d'Aquilea: però una caccia generale fu bandita per tal domenica. Infinite genti v'intervennero, e Terone anch'egli, come il feritore piú certo. La comitiva si recò sull'alba al tempio e non n'uscí che benedetta dal sacerdote. Terone solo si rimase, schernendo il rito. La caccia ha principio: la belva si appiatta in un pantano; è scoperta; i cacciatori le sono addosso. Ma impaurito si arretra ognuno. Solo a Terone il cuore non batte di paura. Egli bestemmia la viltá de' compagni, bestemmia la lor divozione, bestemmia Dio; e si avventa alla fiera. Quella, come mossa dalla divina vendetta, sdegna ogni altro nemico e si scaglia su Terone, né lo lascia che dopo di avergli tolto e ardimento e vita. Dismessa poi la ferocia, anch'essa, la fiera, viene ad offrirsi da sé a' colpi de' cacciatori, e cade morta. E il poeta, che sente oramai stracco il suo colascione, dá fine al canto con un paio di versi, tutti novitá di pensiero, tutti eleganza di modi:

Imparate giustizia, o genti umane, e non spregiar le deitá sovrane.

[p.40] Virgilio glieli perdoni. E tu perdona a me se ti ho fatto ingozzare tutto questo episodio. Quel poema della Caccia so che non lo hai letto mai, né lo leggerai forse, benché stampato fra i Classici italiani; del che non vorrò biasimarti. Ma a' discendenti di quegli eruditi che, zelanti della loro Italia, seppero trovare l'origine italiana del Paradiso perduto del Milton, io regalo questo bel pezzo del museo Valvasoni, insieme alla novella ottava della Giornata quinta del Decamerone, affinché ne compongano un solo manicaretto, e ne estraggano la quintessenza, e se la bevano; poi, con una predica scritta sugosamente, sul fare, per esempio, delle orazioni di monsignore Della Casa, escano a ridomandare le sostanze che sono di nostro diritto, mostrando come in Italia v'abbia la semenza di tutto e come, in fine del conto, gli stranieri non si facciano pavoni che con le penne nostre.

Quella novella, per altro, del Boccaccio, a dirla tra di noi, è una grande infamia. Volere che la giustizia di Dio punisca di ripetute morti acerbissime una donna, perché costantemente ricusò di amare! E che diritto aveva Guido degli Anastagi, che diritto hanno gli uomini qualunque sul cuore femminino? È forse uno de' comandamenti per la femmina il cedere alle voglie di chi la prega d'amore? Se Guido degli Anastagi s'era ammazzato, peggio per lui! L'amore è una passione spontanea che vive di libertá. E la donna, che si ostina a dirmi di no, mi fará infelice; ma della mia infelicitá ella non può essere né accusata né condannata da legge veruna. La massima che le donne sieno in obbligo di riamare chi le ama, è uno de' sofismi usati da' seduttori. Limitandola anche al caso di amore onesto, cioè accompagnato dall'intenzione di strigner nozze, è una massima che fa a pugni colla dottrina de' cristiani; attesoché ella reputa stato di perfezione la castitá del celibato. E per chi scriveva egli, il Boccaccio, se non per gente cattolica?

Pedanti e non pedanti hanno biasimato il Sannazaro, perché, non contento egli di avere giá sparso bastantemente di erudizioni mitologiche antiche tuttoquanto il suo poema sulla nascita di Gesú Cristo, De partu Virginis, abbia poi voluto introdurvi [p.41] anche, come enti contemporanei ed operanti, le naiadi e le driadi. Ma l'errore del Sannazaro non è egli forse meno grave di cotesto del Boccaccio? Non è egli peggio forse il falsare la morale della religione che uno introduce nel suo componimento, di quello non sia l'unirvi alcune invenzioni eterogenee, col solo, innocente e manifesto proposito di sbizzarrirsi in fantasie poetiche?

Basterebbe che questa infame novella della pineta di Ravenna venisse creduta vera a' dí nostri e lodata in Italia, perché fosse data vinta la causa a quegli stranieri che ci mandano titolo di vendicativi, di feroci, di superstiziosi e di poco religiosi nel cuore. Ma come è vero che noi non siamo cosí tristi, nessuno in Italia vorrebbe oggi avere scritto egli quel vituperio della pineta. E Dio lo tolga dalla memoria fino de' bibliotecari!

Leggi ora, figliuolo mio, la traduzione della Eleonora.

ELEONORA.

Sul far del mattino Eleonora sbalzò su, agitata da sogni affannosi:—Sei tu infedele, o Guglielmo, o sei tu morto? E fino a quando indugerai?—

Egli era uscito coll'esercito del re Federigo alla battaglia di Praga, e non aveva scritto mai se ne fosse scampato.

Stanchi delle lunghe ire, il re e l'imperatrice ammollirono le feroci anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de' timpani, da suoni e da sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle proprie case.

E da per tutto, da per tutto, sulle strade, sui sentieri, giovani e vecchi traevano incontro ai «viva» d'allegrezza de' vegnenti.—Sia lode al cielo!—esclamavano fanciulli e mogli.—Ben venga!—esclamavano assai spose contente.

Ma, oh Dio! per Eleonora non v'era né saluto né bacio.

Ella di qua, di lá cercò tutto l'esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno v'era che le desse ragguaglio. [p.42] Oltrepassate che furono da ultimo tuttequante le schiere, ella si stracciò la nera chioma[6], e furibonda si buttò sul terreno.

Accorse precipitosa la madre.—O Dio, misericordia! Che hai, che t'avvenne, figlia mia cara?—E se la serrò fra le braccia.

—O madre, madre! È perduto, è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina! Non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!

  —O Dio, ne assisti! Misericordia, o Signore! Di', figlia mia, di' un
  paternostro. Quello che è fatto da Dio è ben fatto. Egli sí, Iddio è
  pietoso di noi.

  —O madre, madre! Tutte illusioni. Nulla di bene ha fatto per me il
  Signore! nulla. Che giovarono, che giovarono le mie orazioni? Oramai
  non n'è piú bisogno.

  —O Dio, ne assisti! Chi in Dio riconosce il nostro padre sa ch'egli
  soccorre a' figliuoli. Il santissimo Sacramento metterá calma al tuo
  affanno.

  —O madre, madre! Questo incendio che m'arde non v'ha Sacramento che
  me lo calmi. Non v'ha Sacramento che restituisca a' morti la vita.

  —Ascoltami, o cara; e se quell'uom falso, lá lontano nell'Ungheria,
  avesse rinnegata la fede per isposarsi ad altra donna? No, cara, non
  pensar piú a quel suo cuore. E neppure egli se ne troverá contento.
  Quando un giorno l'anima verrá a separarsi dal corpo, lui trarrá nelle
  fiamme il suo spergiuro.

—O madre, madre! Non è piú, non è piú; egli è perduto, perduto per sempre. La morte! altro non mi resta che la morte! Oh! non fossi io nata mai! Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo. Muori, muori sepolta nella notte e nell'orrore! No, non ha misericordia Iddio. Ahi me misera! misera!

—O Dio, ne assisti! Non voler, no, entrare, o Dio, in giudizio contra la povera tua creatura. Ella non sa quel che la sua lingua si [p.43] dica: non tener conto de' peccati di lei. Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena; pensa al Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t'assicura che non verrá meno lo sposo all'anima tua.

—E che è mai, o madre, la beatitudine eterna? che mai, o madre, è l'inferno? Con lui, con lui è beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v'ha che inferno. Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell'orrore! Senza di lui, né sulla terra né fuori della terra posso aver pace io mai.—

Cosí a lei nella mente e nelle vene infuriava la disperazione. Piú e piú continuò temeraria ad accusare la provvidenza di Dio; si percosse il seno, si storse le mani, fino al tramonto del sole, fino all'apparire delle stelle auree per la vòlta del cielo.

Quand'ecco, trap trap trap, un calpestio al di fuori come una zampa di destriero; e strepitante nell'armadura smontare agli scalini del verone un cavaliere. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian piano la campanella dell'uscio; e da traverso l'uscio venire queste distinte parole:

—Su su! Apri, o mia cara, apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue verso di me? Piangi o sei lieta?

—Oh cielo! Tu, Guglielmo? Tu… di notte.., cosí tardi?.. Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un grande affanno ho sostenuto… E donde vieni tu cosí a cavallo?

  —Noi non mettiamo sella che a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a
  questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e
  voglio condurti meco.

—Ah Guglielmo! Entra prima qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne' roveti. Entra, vieni, cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia.

—Lascia pure che il vento fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m'è concesso alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto e géttati in groppa al mio morello. [p.44] Ben cento miglia mi restano a correre teco quest'oggi per arrivare al letto nuziale.

—Oh cielo! E tu vorresti in questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto nuziale? Odi come romba tuttavia la campana: le undici sono giá battute.

—Gira, gira lo sguardo. Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia. Oggi, sí quest'oggi, scommetto ch'io ti porto nel letto nuziale.

  —E dov'è, dimmi, dov'è la cameretta? E dove, e che letticciuolo
  nuziale è il tuo?

  —Lontano, lontano di qui…, in mezzo al silenzio…, alla
  frescura…, angusto… Sei assi… e due assicelle…

—V'ha spazio per me?

—Per te e per me. Vieni, succingiti, spicca un salto e géttati in groppa. I convitati alle nozze aspettano; la camera è giá schiusa per noi.—

La vezzosa donzelletta innamorata si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e con le candide mani tutta si ristrinse all'amato cavaliere. E arri arri arri! salta salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere, e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

  A destra e a sinistra, deh, come fuggivano loro innanzi allo sguardo e
  pascoli e lande e paesi! come sotto la pesta rintronavano i ponti!

  —E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri! I
  morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura de' morti?

—Ah no! Ma lasciali in pace i morti.—

Da colaggiú qual canto, qual suono mai rimbombò? che svolazzare fu quello de' corvi?… Odi suono di squille, odi canto di morte! «Seppelliamo il cadavere».

Ed ecco avvicinarsi una comitiva funebre, e recar la cassa e la bara de' morti. E l'inno somigliava al gracidar dei rospi negli stagni.

—Passata la mezzanotte, seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io accompagno a casa la giovinetta mia [p.45] sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni, o sagrestano, vieni col coro e precedimi intuonando il cantico delle nozze. Vieni, o sacerdote, vieni a darci la benedizione, prima che ci mettiamo a giacere.—

Tace il suono, tace il canto; la bara sparí. E obbedienti alla chiamata, quelli correvano veloci, arri arri arri! lí lí sulle peste del morello. E va e va e va; salta salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere, e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

Deh, come fuggivano a destra, come a sinistra fuggivano, e montagne e piante e siepi! Come fuggivano a sinistra, a destra, e ville e cittá e borghi!

  —E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri arri arri!
  I morti cavalcano in furia. E tu, mia cara, hai paura de' morti?

—Ahi misera! Lasciali in pace i morti.—

  Ecco ecco; lá sul patibolo, al lume incerto della luna, una ciurma di
  larve balla intorno al perno della ruota![7].

  —Qua qua, o larve. Venite, seguitemi. Ballateci la giga degli sposi
  quando saliremo in letto.—

E via via via, le larve gli stormivano dietro a' passi, come turbine che in una selvetta di nocciuoli stride frammezzo all'arida frasca. E va e va e va, salta salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere, e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.

Ogni cosa che la luna illuminava d'intorno, deh, come ratto fuggiva alla lontana! Come fuggivano e cieli e stelle al disopra di lui!

—E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel chiaro di luna! Arri [p.46] arri arri! I morti cavalcano in furia. Ed hai tuttavia paura de' morti, o mia cara?

—Ahi me misera! Lasciali in pace i morti.

—Su su, o morello! Parmi che il gallo giá canti. Fra poco il sabbione sará omai tutto trascorso. Su, morello, morello! Al fiuto sento giá l'aria del mattino… Di qua, o morello, caracolla di qua… Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s'apre il letto nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la mèta.—

  Impetetuoso s'avventò a briglia sciolta contra un cancello di ferro.
  Ad uno sferzar di scudiscio toppa e chiavistello gli si spezzarono
  innanzi, e le ferree imposte cigolando si spalancarono. Il destriero
  drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror della luna tutto
  biancheggiava di monumenti.

Ed ecco, ecco in un subito, portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco a brandelli a brandelli cascar l'armatura, com'esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo gli si convertí il capo, e la persona in ischeletro armato di ronca e d'oriuolo.

Alto s'impennò e inferocí sbuffando il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via eccolo sparito e sprofondato disotto alla fanciulla; e strida e strida su per l'aere; e venir dal fondo della fossa un ululato!… A gran palpiti tremava il cuore d'Eleonora e combatteva tra la morte e la vita.

Allora sí, allora sotto il raggio della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo della catena, con feroci urli ripetevano questa nenia:—Abbi pazienza, pazienza, s'anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non venir a contesa. Eccoti sciolta dal corpo… Iddio usi all'anima misericordia!—

A differenza della prima, la favola di questo secondo romanzo, a quel ch'io sappia, è tutta invenzione del poeta. Parrebbe dunque che, non sostenuta da una tradizione, l'Eleonora non dovesse trovare né fede né applausi neppure in Germania. E nondimeno è noto come ella sia colá la lodatissima delle poesie del Bürger. A che ascriveremo noi questo?

[p.47]

I popoli colti d'una parte della Germania, pe' quali il Bürger cantava, sono inclinati all'entusiasmo. Avidi essi di emozioni, non aspettano che quelle vengano di per sé; ma per ottenerne, si aiutano fin anche del meditare. Il bisogno fortissimo di emozioni nasce in loro, se mal non veggo, per la mancanza di una continua varietá di oggetti esteriori che possa occuparli e muoverne gli animi piacevolmente. E questa mancanza è prodotta dalle circostanze politiche, da quelle del clima, della geografia loro e della loro vita sociale. Ma le circostanze medesime, se per un riguardo gli offendono, servono per un altro a rinforzare notabilmente la loro riflessione, allorché la noia gli obbliga a concentrarsi in se stessi, a ripiegarsi nell'animo proprio, onde provarne il moto che li faccia accorti dell'esistenza. Educati cosí alla meditazione, non di rado giungono essi a scoprire qualche lato importante e patetico nelle cose, in cui sguardo superficiale nol vede. Tosto che l'hanno adocchiato, eglino vi si affezionano e s'infervorano; e l'amore di una parte tira seco l'amore del tutto.

Con ciò viene a spiegarsi per noi da che provenga l'affettazione di certo «sentimentalismo» che governa spesso il discorso de' romanzieri del nord, e che male è imitato da' romanzieri di Francia, e mal sarebbe da que' d'Italia; perché posa su pensieri ed affetti che non sono sentiti in Francia e in Italia né da chi scrive né da chi legge. Quante volte l'uomo del nord, viaggiando in Italia, non fa egli strabiliare gli ospiti suoi, parlando ogni tratto di sensazioni domestiche, di piaceri segreti dell'animo, di simpatie recondite, di compassioni prodigalizzate a un fiorellino del campo, di lagrime sparse per pietá di un asinello defunto, di memorie lugubri suscitate in lui dalla menoma novitá di nugoloni colorati! Pare a noi che egli allora monti sull'ippogrifo. Eppure chi sa che per lunga assuefazione egli non abbia il cuore, troppo piú che noi non ci figuriamo, pronto a palpitare per tante fantasie?

A quelle docili immaginazioni bastò quindi pensare che la finzione dell'Eleonora era omogenea ed analoga alle tradizioni popolari, perché a lei anche estendessero il vero di opinione [p.48] che quelle hanno. La stravaganza del tutto non nocque allora piú all'effetto delle parti. E siccome le parti sono bellissime, l'approvazione e l'ammirazione vennero di per sé.

Noi popoli piú meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla perpetua successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di andare in traccia di emozioni per sentire la vita. Noi aspettiamo che quelle ci riscuotano come a viva forza; ma non ci curiamo di promuoverle noi col nostro entusiasmo. Di qui, piú che lettori appassionati, noi riesciamo critici freddi. E prima di dare una lagrima alle sventure di Eleonora, noi metteremo sul bilancino i gradi di verisimiglianza che ha la storia della fanciulla, e non li pagheremo della nostra credenza che grano per grano.

Forse, e bada bene che tiro a indovinare e non altro, forse gli abitanti d'una parte della Germania, de' quali ho parlato fin qui, hanno, o nel fondo del cuore o dentro la mente, piú religione che noi non abbiamo[8]. Forse, avvezzati essi dalle sètte e dalla necessitá delle controversie a meditare i dogmi della religione, come noi a prestarle fede senza meditazioni, hanno talmente inclinati i pensieri a lei, che tuttoquanto partecipa dello spirito del cristianesimo essi lo sentono di primo tratto, qualunque sia l'oggetto che gli occupi, qualunque sia lo stato dell'animo loro. Quindi è forse che il tedesco, leggendo il romanzo dell'Eleonora, lascia bensí che il cuore di lui si pieghi a compassione delle sventure della fanciulla; ma immediatamente corre colla idea all'enormitá del peccato commesso da lei nel rinnegare la provvidenza di Dio. Associata a quella idea eccoti subito l'altra: che ogni vendetta di Dio, per quanto fiera ella sembri a umano intendimento, non può mai aggiungere a tanto da pareggiare l'immensitá del delitto di cui si fa reo chi offende Dio di qualsivoglia maniera. Mesci ora insieme il sussidio delle idee religiose alla somiglianza che la favola della Eleonora dicemmo avere colle tradizioni popolari in Germania; e vedi come [p.49] il tedesco s'induca ad essere liberale di credenza verso la catastrofe del romanzo. Nell'animo di lui direi quasi che il sentimento massimo sará quello dell'enormitá del peccato e della maestá di Dio irritata, e che la compassione per gli affanni amorosi della fanciulla non sará che un sentimento concomitante.

Se l'Italia leggente fosse composta di uomini tutti profondamente studiosi della loro religione, forse l'Eleonora, scendendo tra di noi, non verrebbe a capitare in terra straniera affatto. Ma quantunque in Italia v'abbiano teologi eruditissimi, io temo che il piú degli italiani, ancorché cattolici di buona fede, non si siano addimesticati tanto coi dogmi della loro religione da salvare per questi una costante reminiscenza in tutte le loro sensazioni. Il lettore teologo, anche in mezzo alle seduzioni della poesia, anche sbattuto dai palpiti ch'ella produce, stará fermo alle dottrine da lui conosciute e professate, e stabilirá tosto relazioni tra quelle e ciò ch'ei legge. Un lato della sua mente egli lo tiene vergine sempre di tutt'altri pensieri, salvo i religiosi. Però egli sentirá il maraviglioso e il terribile del romanzo dell'Eleonora; e l'idea della divinitá oltraggiata e della severitá onnipossente, che procede dalla giustizia di Dio, gli ingombrerá tanto l'anima, da lasciargliene una parte ben poca in preda ad altre riflessioni e ad altri affetti. Pieno di spavento, egli chinerá il capo innanzi a Dio; ripeterá anch'egli la nenia delle larve, e finirá esclamando:—Salvami, o Signore, salvami dall'offenderti!—

Ma avremo, noi, lettori teologi molti? O io m'inganno, o tra di noi sará maggiore il numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni perché le vorrebbono scusate a se medesimi, si lasceranno andare alla pietá, come al sentimento piú repentino per essi. Cedendo all'impeto delle prime impressioni cagionate dalle miserie d'Eleonora, e non interrogando gran fatto il sentimento religioso, che in essi, a differenza de' tedeschi, riescirá il meno forte, eglino, parmi, diranno cosí:—Una povera vergine innamorata, disperante della vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia e della importunitá dei consigli di una vecchia assiderata, perché nell'impeto [p.50] del dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la rinnegazione della provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva? meritava che il ministro dell'ira di Dio fosse quello stesso amante per cui ella aveva spasimato tanto? meritava che questi alla gelata indifferenza dovesse anche aggiungere la crudeltá della ironia, e continuarla fino all'ultimo della vita? Se dopo lunghe macchinazioni, ella fredda fredda avesse per avarizia piantato un coltello nel petto al padre e strozzata la madre, le starebbe bene questo ed ogni altro rigore di pena; ma nel delirio dell'amore… per una parola inconsiderata… tanto supplizio! No, non può essere. Il Dio nostro è il Dio della misericordia. Tratto a doverci visitare nell'ira sua, egli guarda pur sempre all'intenzione del peccatore, e distingue il delirio d'una passione innocente dalla gelida, ostinata empietá. Eleonora ha peccato. Ma qual proporzione qui tra 'l peccato e la pena? No no, la storia d'Eleonora non è credibile. È una invenzione nera nera che mette ribrezzo; è una favola da nutrici che non è raccomandata da verisimiglianza veruna, e che non meritava neppure una sola delle nostre lagrime.—

Davvero io non torrei a difendere innanzi al Santo offizio l'ortodossia di chi ragionasse cosí. Davvero sono persuaso che qualunque persona trascorresse a discorsi siffatti, dopo piú mature considerazioni, se ne disdirebbe. Ma fattili una volta, e rovinato con ciò l'effetto primo di questa poesia, come trovarla bella dappoi? come gradir bene dappoi ciò che sulle prime n'è venuto in fastidio? E che a molti si aggireranno pel capo pensieri consimili a questi ch'io portai qui sopra, oserei scommetterlo. Non mi dorrebbe di rimanere perdente; anzi 'l desidero.

Ad ogni modo in entrambi questi romanzi, e piú nel secondo, v'ha qualche cosa di magico che non si lascia definire. Ed io conosco uomini in Italia che, capaci quant'altri di esercitare la critica, pure fu loro necessitá metterla in silenzio, perché sentivansi l'anima strascinata dalla prepotenza del terribile, intenerita dal patetico che regna in questi componimenti. E la monotonia stessa, che qua e lá il poeta vi sparse, rendeva piú profonda e piú perseverante la commozione. [p.51] Dopo un esperimento siffatto, io credo di potere rispondere a te che in Italia altri rideranno freddamente di questi due romanzi; altri diranno essere un peccato l'avere arricchito di tanta poesia argomenti da non trattarsi; ed altri si trasporteranno alle circostanze del popolo per cui furono scritti, ed assumendone le opinioni e l'entusiasmo, divideranno con lui la pietá, la maraviglia e il terrore. Parmi che gli ultimi, comeché pochi forse, mostreranno indole più poetica.

In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere romanzi in Italia sul fare di questi, va' cauto e fa' di non lasciarti traviare in soggetti non verisimili, quando essi siano tolti di peso dalla fantasia tua. Ché se l'argomento ti viene prestato da una storia scritta o da una tradizione che dica:—Il tal fatto è accaduto così,—e tu senti che comunemente è creduto così, allora non istare ad angariarti il cervello per timore d'inverisimiglianze, da che tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato d'attenerti piú volentieri ai soggetti ricavati dalla storia che non agli ideali. Né ti fidare molto a quelle tradizioni che non escirono mai del ricinto d'un sol municipio, perché la fama tua non sarebbe che municipale: del che non ti vorrei contento.

Finalmente, se i due componimenti del Bürger che ti stanno ora innanzi, e che furono immaginati per la Germania e proporzionati a que' lettori, non piaceranno universalmente in Italia, bada bene a non inferire da questo che la letteratura tedesca sia tutta incompatibile col gusto nostro. Vi hanno in Germania componimenti moltissimi fondati su maniere e su geni comuni a' tedeschi, a noi ed al resto dell'Europa colta. E il dire che un po' piú un po' meno di lucidezza di sole renda affatto opposte tra di loro le menti umane, ed inaccordabili onninamente le operazioni intellettuali di chi vive tre mesi fra le nebbie con quelle di chi ne vive sei, è puerilitá tanto piú ripetuta quanto ella è piú facile a dar vita ad un meschino epigramma. Se ne' greci e ne' latini troviamo cose ripugnanti al genio della poesia italiana e le confessiamo, perché infastidirci se ne' francesi, negli spagnuoli, negli inglesi e ne' tedeschi ne scopriamo parimenti [p.52] che vogliono da noi rifiutarsi? O legger nulla o legger tutto fa d'uopo. Però io, portando opinione che il secondo partito sia da scegliersi, credo che anche lo studio del Cacciatore feroce e della Eleonora sará utile in Italia, perché mostra da quali fonti i valenti poeti d'una parte della Germania derivino la poesia applaudita nel loro paese. Cercarono essi con somma cura di prevalersi di tutte le passioni, di tutte le opinioni, di tutti i sentimenti de' loro compatriotti, e trovarono cosí argomenti che vincono l'animo universalmente.

Facciamo lo stesso anche noi. E la poesia italiana si arricchirá di nuove bellezze, talvolta originali molto, e sempre caratteristiche del secolo in cui viviamo. Cosí vedremo moltiplicarsi i soggetti moderni e riescir belli e graditi quanto il Filippo, il Mattino, la Basvilliana e l'Ortis. E forse anche noi conseguiremo scrittori di romanzi in prosa, tanto quanto i francesi, gli inglesi e i tedeschi.

Figliuolo carissimo, se tu hai ingegno, com'io spero, ti sarai pure accorto che fin qui la lettera mia non fu che uno scherzo. La gravitá, con cui in questa tiritera di commento ho affastellate tante stramberie, è una gravitá tolta a nolo; e la costanza della ironia sbalza agli occhi di per sé. Ho voluto spassarmi a spese de' novatori. Ma con te, figliuolo, con te la coscienza di padre mi grida ch'io lasci le baie e mi metta finalmente sul serio.

Sappi dunque che fuori d'Italia gli uomini vanno carpone in materia di letteratura. Sappi che se tu, tralignando da' maestri tuoi, metterai naso ne' libri oltramontani, finirai anche tu col muso al pavimento. Questo voler dividere i lavori della poesia in due battaglioni, «classico» e «romantico», sa dell'eretico; ed è appunto un trovato d'eretici; e non è, e non può essere, cosa buona, da che la Crusca non ne fa menzione e neppure registra il vocabolo «romantico».

Tutti sanno che in Inghilterra e in Germania non si coltiva da letterato veruno né la lingua greca né la latina, e che non si ha contezza ivi degli scrittori di Atene e di Roma se non [p.53] per mezzo di traduzioni italiane. Separati cosí quasi affatto dalla conoscenza de' capi d'opera dell'antichitá, come potevano quegli infelici far poesie e non dare in ciampanelle? Poi vollero giustificare i loro strafalcioni; e congiurarono co' loro fratelli filosofi, e tentarono la metafisica e la logica e dettarono sistemi. Ma tutti insieme i congiurati diedero in nuove ciampanelle, perché la metafisica e la logica sono piante che non allignano che in Italia.

Figúrati che arrivarono fino a dire quasi: che la religione cristiana ha resa piú malinconica e piú meditativa la mente dell'uomo; ch'ella gli ha insegnato delle speranze e de' timori ignoti in prima; che le passioni de' cristiani, quantunque rivolte a oggetti esteriori, hanno pure una perpetua mischianza con qualche cosa di piú intimo che non avevano quelle de' pagani; che in noi è frequente il contrasto tra 'l desiderio e 'l dovere, tra l'intolleranza delle sventure e la sommessione ai decreti del cielo; che i poeti nostri, per non riescire plagiari gelati, bisogna che pongano mente a quelle tinte e dipingano oggi le passioni con tratti diversi dagli antichi; e che e che, e cento altri «che» di tal fatta, e miserabilissimi tutti. E davvero, a volere stramazzare quegli atleti, basterebbe, a modo d'esempio, instituire, come noi lo possiamo far bene e non essi, un paragone analitico tra Anacreonte e Tibullo da una parte, e 'l Petrarca dall'altra, e dimostrare come i patimenti dei due primi innamorati siano gli stessi stessissimi patimenti che travagliavano l'animo al Petrarca. E chi non sente infatti che que' tre amori, per somiglianza tra di loro, sono proprio tre gocciole d'acqua?

Alcuni cervellini d'Italia che non sanno né di latino né di greco, lingue per essi troppo ardue, vorrebbero menar superbia dell'avere imparate le lingue del nord, che ognuno impara in due settimane, tanto sono facili. Però fanno eco a tutte queste fandonie estetiche, che in fine non valgono né le pianelle pure di Longino, non che il suo libro Del sublime, che è la maraviglia dell'umano sapere. Il quale umano sapere non è mica progressivo e perfettibile, come i fatti pertinacemente attestano; ma è sempre stato immobile, e non può di sua natura patire incremento mai, per la gran ragione che «nil sub sole novum». [p.54] E questi cervellini battono poi le mani ad ogni frascheria che viene di lontano, e corrono dietro a Shakespeare ed allo Schiller, come i bamboli alle prime farfalle in cui si abbattono, perché non sanno che ve n'ha di piú occhiute e di piú vaghe.

Ma viva Dio! quello Shakespeare è un matto senza freno; traduce sul teatro gli uomini tal quali sono, la vita umana tal quale è; lascia ch'entri in dialogo l'eroe col becchino, il principe col sicario; cose che non sono permesse che agli eroi da vero e non da scena. E invece di mandarti a fiamme l'anima con belle dissertazioni politiche, con argomenti pro e contra, a modo de' nostri avvocati, egli ti pone sott'occhio le virtú ed i vizi in azione: il che ti scema l'interesse e ti fa tepido. Quello Schiller poi, se 'l paragoni, non dico con altri, ma col solo Seneca, ti spira miseria.

A buon conto gli stessi novatori, mentre si aguzzano alla disperata onde predicarne le lodi, sono costretti dal coltello alla gola a confessare che le opere di Shakespeare e dello Schiller, quantunque, come essi dicono, maravigliose in totale, non vanno scevre di magagne, se si guarda separatamente alle parti. E s'ha a dire bel libro di poesia quello che non può vantarsi incontaminato d'ogni menomo peccato veniale? I grandi poeti dell'antichitá sono invece fiocchi sempre di tutta neve immacolata.

Ed è poco misfatto rispettare l'unitá d'azione, che è la meno importante, per dare un calcio poi alle unitá di tempo e di luogo, che formano il cardine della nostra fede drammatica, fuori della quale non v'ha salute? E noi dovremmo sorgere ammiratori di ribaldi tanto sfrontati, noi pronepoti d'Orazio, del Vida e del Menzini?

Era aforisma che nel giro di ventiquattro ore, e nulla piú, dovesse andare ristretta l'azione di un dramma. I meno puristi hanno spinta ora la tolleranza fino a concederne altre dodici, purché ciò non passasse in esempio di nuove larghezze; e basta cosí. L'uomo per virtú della illusione teatrale può arrivare a tanto ch'egli persuada a se stesso d'essere vissuto trentasei ore, quando non ne ha vissute che le poche tre per le quali dura lo spettacolo. Ma a un minuto di piú la povera mente umana [p.55] non regge colla sua immaginativa. L'esattezza del computo non è da porsi in dubbio, poiché il Buon gusto egli medesimo, armato di gesso, sedeva alla lavagna, disegnando: 36 = 3.

E la illusione teatrale noi sappiamo essere la illusione di tutte le illusioni, la magia per eccellenza; da che come due e due fanno quattro, cosí anche, ad onta della veritá, è provato che dallo alzarsi fino al calar del sipario lo spettatore si dimentica affatto di ogni sua occorrenza domestica, non sa piú d'esser in teatro, giura ch'egli manda occhiate proprio nel Ceramico e nel Partenone, e crede vere proprio le coltellate che si dánno gli eroi sul palco e vero sangue quello che gronda dalle loro ferite.

Quanta sia poi l'importanza della unitá di luogo, è da vedersi in quelle tante pagine che in favore di lei avrebbe dovuto scrivere Aristotile. E il ribellarsi da Aristotile, parlante o tacente ch'egli sia, sarebbe infamia.

Per decreto de' «romantici» la mitologia antica vada tutta in perdizione. Ma pe' gorghi Strimoni! questo ostracismo lascia egli sperare briciolo di ragionevolezza in chi l'invoca? Perché rapirci ciò che ne tocca piú da vicino? E come prestar venustá alla lirica, come vestire di veritá i concetti, di splendore le immagini, senza Minerve, senza Giunoni, senza Mercuri, che pur sentiamo apparire ogni notte, in ogni sogno, ad ogni fedel cristiano? come parlar di guerre senza far sedere Bellona a cassetta d'un qualche coupé, senza metterle in mano la briglia d'un paio di morellotti d'Andaluzia? E non è noto forse, per deposizione di tutti i soldati reduci, com'anche a Waterloo quella dea sia stata veduta correre su e giú pel campo, vestita di velluto nero, con due pistole nere in cintura e con in testa un cappelletto nero all'inglese?

«Ut pictura poësis». E ciò che concedete alla pittura lo avete a concedere anche alla poesia, a dispetto della persuasione e delle dimostrazioni irrefragabili del Lessing. E sapete perché? Perché lo ha detto chi poteva dirlo, chi poteva con piena potestá comandarlo, chi aveva rubata al papa l'infallibilitá, prima che il papa nascesse, __Orazio__ insomma. E zitti per caritá.

[p.56]

Non è maraviglia poi se genti farnetiche, le quali mischiano psicologia fino nel parlar di canzoni, vestono oggi il sacco del missionario, ed esclamano:—Voi, italiani, avete un bel suolo, un bel cielo, una bella lingua; ma dei tesori intellettuali, di cui va ricca oggimai tutta insieme l'Europa, voi non ne possedete quanto certi altri popoli. Voi ci foste maestri un tempo; adesso non piú. Alcuni tra voi coltivano bene le scienze fisiche e matematiche; ma di buone lettere e di scienze morali voi di presente patite penuria, avendo troppo poche persone eccellenti in questi generi.—

Noi dunque penuriamo? Bravi davvero! Lasciamo stare che tutto quel poco che si sa fuori d'Italia è tutto dono nostro. Lasciamo stare che noi potremmo comperare mezzo il Mogol, se voi, stranieri, ci pagaste solamente un baiocco per ogni sonetto stampato da venti anni in qua in Italia, e che noi per un baiocco l'uno acconsentiremmo di vendervi. Lasciamo stare che da venti anni in qua noi abbiamo immaginato libri tali di letteratura, da potere squadernarli sul viso a qualunque detrattore, allorché ci risolveremo a comporli ed a svergognare il resto d'Europa. Lasciamo stare che in Firenze e fuori di Firenze vi hanno giornali che vegliano dí e notte alla vendetta, e che con brevi ma calzanti argomenti rovinano i paralogismi e mandano scornata l'arroganza di chi ne minaccia assalto; e quel che è proprio edificante, usando rispetto verso le persone, decenza nei modi e galanteria fiorita coi rivali di sesso gentile: arti tutte non praticate che in Italia, perché il Galateo è nato qui. Lasciamo stare che le ingiurie de' nostri nimici, non appena scorsi diciannove anni da che sono stampate, cosí calde calde noi le confutiamo: tanto è vero che in Italia non si dorme! Lasciamo stare che da qui ad altri diciannove anni saremo pronti a ripetere le osservazioni in lode dell'Italia che trovansi stampate ne' libri di quegli stessi nemici e non leggonsi ne' libri nostri. Lasciamo stare, dico, tutto questo. Sia pur vero l'ozio letterario di che ne si vuole rimproverati. Ma che potete voi dire di piú lusinghiero per noi? Questo nostro far nulla per le lettere non è egli il documento piú autentico della ricchezza che n'abbiamo? [p.57] Chi non ha rinomanza, stenti la sua vita per guadagnarsela. Chi non ereditò patrimonio, sudi la vita sua a ragunarne uno. La letteratura d'Italia è un pingue fedecommesso. Bella e fatta l'hanno trasmessa a noi i padri nostri. Né ci stringe altro obbligo che di gridare ogni dí trenta volte i nomi e la memoria de' fondatori del fedecommesso e di tramandarlo poi tal quale a' figli nostri, perché ne godano l'usufrutto e il titolo in santa pace.

Però non ti dia scandalo, figliuolo mio, se certi lilliputti nostrali, non trovando altro modo a scuotersi giú dalle spalle l'oscuritá, si dánno a parteggiare nel seno della cara patria, e ripetono per le contrade della cara patria la sentenza universale d'Europa contro la cara patria nostra.

Oltrediché questi degeneri figli dell'Italia oseranno anche susurrarti altre bestemmie all'orecchio: come a dire, che la confessione de' propri difetti è indizio di generositá d'animo; che il nasconderli quando sono giá palesi a tutti è viltá ridicola; che il primo passo al far bene è il conoscere di aver fatto male; che questa conoscenza valse a' francesi il secolo di Luigi decimoquarto, alla Germania il secolo diciottesimo; e che in fine poi anche Dante, anche il Petrarca e l'Ariosto e 'l Machiavello e l'Alfieri stimarono lecito lo scagliare invettive amare contro l'Italia. Oibò! non è vero. Que' brutti passi[9] furono malignamente [p.58] inseriti nelle opere loro dagli editori oltramontani; e la trufferia è manifesta. È egli credibile che gente italiana per la vita cadesse in tanta empietá? Chiunque ama davvero la patria sua non cerca di migliorarne la condizione. Chi tasta nel polso al fratello suo la febbre mortale, se ama lui davvero, gliela tace; non gli consiglia farmaco mai né letto, e lo lascia andar diritto al Creatore.

E tu, allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico d'ogni novitá; o il mio viso non lo vedrai sereno __unquanco__. «Unquanco» dico; e questo solo avverbio ti faccia fede che il vocabolario della Crusca io lo rispetto; __comeché io, conciossiaché di piccola levatura uomo io mi sia, a otta a otta mal mio grado pe' triboli fuorviato avere, e per tal convenente io lui, avegna Dio che niente ne fosse, in non calere mettere parere disconsentire non ardisca__.

Per l'onor tuo intanto e pel mio e per quello della patria nostra, ti scongiuro ad usar bene del tempo. Però bell'e finito mandami presto quell'idillio in cui introduci Menalca e Melibeo a cantare tuttaquanta, alla distesa, la genealogia di Agamennone miceneo. La via della gloria ti sta aperta. Addio.

Il tuo |Grisostomo|.

[1] Il |Bouterweck|, nella sua Estetica, riconoscendo tuttavia l'eccellenza di questi due romanzi, ne censura l'autore per questo solo che dava ad essi titolo di poesie «epico-liriche»; censura che in un filosofo mette stupore, da che l'epiteto di «epico-lirici» caratterizza ottimamente siffatti componimenti. Tutti sanno che «poesia epica», definendone il senso piú generico e piú filosofico e prescindendo dalle distinzioni de' retori, significa «poesia narrativa»; e i due poemetti di cui trattasi sono narrazioni. E la forma epica è poi mescolata in essi colla forma lirica, attesa la qualitá del metro, che è di versetti lirici rimati e scompartiti in tante strofe. Nell'edizione per altro che ho sott'occhio, i due romanzi, stampati in un fascio con altri, non portano titolo che di Poesie semplicemente: Gedichte.

Volendo servire ad una scrupolosa esattezza nel classificare i lavori de' poeti, parmi che alcune odi di Orazio ed alcune odi e canzoni nostre meriterebbero anch'esse il nome di «romanzi», consistendo appunto in __narrazioni__, come, a modo d'esempio, la canzone del Guidi sulla Fortuna. E che altro è infatti quella canzone, se non un racconto di una apparizione immaginaria della dea Fortuna, di un dialogo seco lei e d'una vendetta ch'ella consuma? Ma ho detto che poesie del genere di codeste del Bürger non furono forse mai scritte da' letterati in Italia, per la somma differenza che codeste hanno per cento lati coll'ode del Guidi e con altre che si potrebbero citare.

[2] Vedi la nota a p. 13.

[3] Il testo ha «der Wild- und Rheingraf». Certa famiglia di conti del Reno, discendente da Rheingrafenstein, porta il nome di «Wild- und Rheingraf».—|Adelung|, Gran dizionario, articolo «Rheingraf» (Nota del traduttore).

[4] I comuni in Germania pagano un mandriano. Questi ha obbligo di menare al pascolo comunale e di guardare tutte insieme le bestie che i contadini gli affidano; e ciò perché la povera gente abbia tempo di badare alle proprie faccende domestiche e rurali, e i ragazzi non siano tolti alla scuola per mandarli a condurre vacche e asinelli (Nota del traduttore).

  [5] Le ragioni sono, che a nessuno il quale abbia veduto il portento è
    lecito rilevarne le particolaritá. Cosí comandando, la tradizione
    superstiziosa ha provveduto ella stessa alla propria durata (Nota
    del traduttore).

  [6] Il testo ha «Rabenhaar», vocabolo composto da «corvi» e da
    «chioma», «chioma corvina». In italiano, per la sola necessitá dei
    due vocaboli separati, l'idea perderebbe rapiditá, e parrebbe
    affettazione (Nota del traduttore).

[7] Terminato il supplizio de' rotati, è uso in Germania di piantare in mezzo del palco un palo alto, in cima a cui è ficcata orizzontalmente la ruota fatale. Su di questa buttansi i cadaveri de' giustiziati. E vi stanno a spavento de' tristi e ad orrore de' viandanti, finché il tempo ve li lascia stare (Nota del traduttore).

[8] Per rispetto a' tedeschi protestanti, è evidente che per «religione» intendo quella religiositá che è sentimento umano e non dono della grazia.

[9] Non donna di provincie, ma bordello [l'Italia].

|Dante|, Purgatorio, canto VI.

Italia, che i suoi guai non par che senta, vecchia oziosa e lenta, dormirá sempre…?

|Petrarca|, canzone XI: «Spirto gentil».

… l'accecata Italia, d'error piena.

|Ariosto|, Orlando furioso, canto XXXIV; e altrove:

O d'ogni vizio fetida sentina, dormi, Italia imbriaca.

«Non si può sperare nulla di bene nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte, com'è l'Italia sopra tutte le altre; e ancora la Francia e la Spagna di tale corruzione ritengono parte», ecc.—|Machiavello|, Discorsi sopra Tito Livio, libro I, capo 55, e passim, passim, passim su questo gusto.

Nell'ozio e ne' piacer noiosa immersa [l'Italia].

|Alfieri|, sonetto 143.

Dunque l'Italia è bagascia, vecchia, bevona, oziosa, senza occhi, senza bontá, corrotta e fetente. Se tutte queste contumelie fossero farina proprio del sacco degli autori a cui sono attribuite, e non tradimenti stranieri, bella e bizzarra materia di discorso avrebbe chi pigliasse a dimostrare che le vere glorie d'Italia derivano da chi la sgrida, e ch'ella tanto piú onora i suoi quanto piú liberamente le rinfacciano le vergogne di lei (Nota di |Giacomo| fratello di |Grisostomo|).

[p.59]

III

ALLOCUZIONE

|Nei funerali del pittore Andrea Appiani celebrati nella chiesa della Passione il giorno 10 di novembre 1817|

Questo cadavere intorno a cui ci raduna l'onor nazionale e l'entusiasmo dell'ammirazione, questo cadavere era Andrea Appiani pittore. Giá da quattro anni un fiero colpo d'apoplessia lo aveva rapito alle arti ed all'incremento della gloria italiana; ma egli vivea pur tuttavia. E la sua vita, quantunque infelice, era nondimeno un carissimo conforto alla famiglia, una speranza pe' suoi amici. Un secondo insulto dell'apoplessia ruppe tutte le nostre speranze, ed egli non è piú. La chiarezza dell'ingegno, la dolcezza de' modi, le virtú famigliari e cittadine, l'arte squisita, tutto insomma che piú fa illustre su questa terra, tutto perdemmo in lui; e di lui non ci resta che questo cadavere e la gloria del nome. La natura avea versato in lui tutti quei doni de' quali era stata giá prodiga tanto verso Raffaello. Ella avea voluto che Appiani ne fosse l'emulo; e Appiani obbedí. L'alacritá con cui egli si diede agli studi piú profondi dell'arte, l'amore infinito, ardentissimo del bello a cui educò la propria anima, il sentimento della delicatezza ch'egli si procacciò col culto delle maniere piú gentili, svilupparono ed accrebbero i doni della natura. I tempi favorivano l'ingegno. Ed Appiani può dirsi per eccellenza il pittore del secolo.

Ogni lode verrebbe meno a voler dire delle maravigliose opere di lui. Ciascuno di noi sente nel fondo dell'anima ciò [p.60] ch'egli fu, e la tristezza cambia l'inno di lode in un pianto. Ma questo pianto che accompagna la sepoltura dell'uomo grande, questo pianto che fa onore a chi lo versa, chi sa quando avrá fine? chi sa quando vedremo sorgere un artista a riparare il danno che la morte fece ora alla pittura? Ben è vero che di molte speranze abbonda la patria; ma avremo noi un altro Appiani?

Ogni lusinga futura non basta a scemare l'amarezza del presente dolore. Troppo abbiamo perduto, troppo! E per poter qui sostituire lunghe parole alle lagrime, bisognerebbe non essere italiani, non sentire profondamente la nostra sventura.

[p.61]

IV

DEL CRITERIO NE' DISCORSI

Mylord P…, ch'io conobbi questi di addietro in Milano, è veramente uomo di garbo. La sua conversazione mi compensò alquanto della ruvida ed insipida breviloquenza, di che alcuni suoi compatrioti avevano qualche tempo innanzi premiata l'officiositá mia, per modo ch'eglino soli pareva si tenessero per individui della specie umana. Superbia per veritá ridicola.—Ma questa corda non fa al proposito; non tocchiamola adesso.—Eppure mylord P…, con tutta la sua cordialitá, non lasciò di versarmi anch'egli sull'anima una goccia d'amarezza. Non è male che il pubblico ne sappia il come.

Erano le undici di sera; e mylord P… stava bevendo meco a quattr'occhi una tazza di tè; e svagandosi d'argomento in argomento cosí alla buona, parlava e diceva cose che mostravano in lui una conoscenza squisita del mondo, una finezza singolare d'intendimento. Di parola in parola si venne finalmente a quella cadenza, in cui una volta almeno ogni dí vanno a sciogliersi i discorsi ed i pensieri degli uomini tutti che non hanno vestito il sacco dell'anacoreta. Cadenza carissima: perché, se tu non sei un brutale, ti sveglia in capo un mondo d'idee tutte leggiadre e gentili; e quando hai rotto il cuore dalla noia, te lo rinfresca di nuova vita.—Or dunque, poiché ci siamo —diss'io,—che ve pare, mylord, delle nostre donne milanesi? Non sono elle care creature?—

Mylord intende perfettamente l'italiano; ma nol parla troppo bene, ed usa d'intarsiarvi talvolta vocaboli inglesi. E però sarebbe una disperazione pe' grammatici s'io riportassi il dialogo tutto tutto tal quale avvenne. Farò come meglio potrò.—Ebbene, che ve ne pare, mylord?—Egli continuava a bere e taceva. La sua fisonomia d'improvviso s'abbuiò, come se la [p.62] memoria di cosa disgustosa gli attraversasse la mente. Tornai ad interrogarlo. Tacque ancora un buon pezzo; poi ruppe il silenzio con un sorriso:—Eh! sí—mi disse,—sí, belle davvero. —Ed eleganti—diss'io—e cortesi e piene di bei modi.—

Mylord P… andava ripetendo le mie parole in segno d'approvazione; ma non ci metteva nulla del suo: la voce non gli correva lesta sul labbro. L'avresti detto uomo voglioso di lasciar morire il discorso. Me ne seppe male, in coscienza mia. Davvero, ho in gran pregio le mie concittadine, ed avrei avuto caro di sentirne dalla bocca di lui un bel panegirico. Proseguii a dire nondimeno come in esse non è penuria d'ingegno, come in generale l'educazione loro va ogni di piú migliorando, come una delle lor doti principali è la giustezza del criterio.—Ingegno, educazione—diceva mylord,—pretty well[1]. Criterio…, può anche essere; ma non me ne sono accorto.—

Il sangue mi si rimescolò. Gli occhi miei erano fissi bruscamente negli occhi di mylord.—Fatemi un favore—gli dissi;—parlatemi schietto. Voi di certo derivate da qualche accidente individuale un giudizio che credete di dovere estendere all'universale. Su via, lasciate ogni mistero.

—Siamo amici—rispose mylord;—non entriamo dunque in guai. Vi dirò lealmente l'opinione mia; ma voi promettetemi in prima di voler prestarmi orecchio pacato, e di non dare nelle smanie di un don Chisciotte per amore delle vostre Dulcinee.—Glielo promisi, ed ecco com'egli continuò:

—Non pretendo, no, di dare un giudizio assoluto sul criterio di tutto il bel sesso milanese. Non sarebbe qui neppur cosa possibile. A Parigi, se voi conoscete cinque o sei donne, parlo delle eleganti, potete dire di conoscerle tutte; da che ivi, per riguardo alla conversazione, sono modellate tutte presso a poco ad un modo. Un certo spirito universale, che chiamano «bon ton», regola ivi il giudizio, le maniere, i discorsi, le frasi di tutte nel conversare; sicché sentite sempre la stessa armonia, e non v'è donna che stuoni. Qui parmi che la faccenda sia tutt'altra. [p.63] Qui le donne vivono rade volte in comune tra di esse. Quindi ogni mente femminina rimane tal qual è; e non perde scabrositá né acquista liscezza per l'attrito con altre menti sue consimili. Eppure siffatto attrito è la scuola migliore per gl'intelletti; e le lezioni migliori derivano da' confronti, dalla necessitá di emulare altrui, da quelle minute mortificazioni onde cento individui raccolti insieme sono percossi dal trionfo di un individuo. Ben è vero che ogni donna qui è circondata da molti uomini. Ma gli uomini sono vaghi di un sorriso delle signore, e queste pagano di un sorriso le adulazioni. E tra una mente adulata ed una mente adulante non vi può essere attrito. Qui dunque ogni donna ha maniere proprie, idee e discorsi propri. Le combinazioni intellettuali dell'una non sono mai quelle dell'altra; e la espressione di tali combinazioni non ha mai per norma un tipo universale. In ogni palchetto del teatro trovi modificazioni diverse d'idee, e con esse un frasario particolare. Sicché io sarei un bel pazzo se, per aver qui vedute con frequenza otto o dieci signore tutt'al piú, mi dessi a credere di potere far sentenza su tutte. Anzi vi dichiaro apertamente che di tutte io, non potendo giudicar per me stesso, ne riporterò buon concetto in Inghilterra, fidandomi al giudizio vostro. Non fatemi dunque brutto viso se vi ripeto quel mio «non me ne sono accorto»; che è quanto dire che, tra le otto o dieci donne da me udite parlare, il caso non me n'ha fatta capitare una che desse indizio di such a great deal[2] di criterio.

—Sta a vedere—diss'io tra me stesso—che mylord si butta nelle sofisticherie!—E lo pregai che mi citasse dove, come ed in che avesse scorto mancanza di criterio.

—Potrei—rispose—addurne assai prove; ma ve ne basti una sola. Non manifesta forse difetto di criterio chi usa vocaboli de' quali non intende il significato? Non è egli questo un tradir se stessi, un esporsi alla derisione del savio? Ed ha criterio fino chi sbadatamente si rende ridicolo?

[p.64]

—Ma, e quali sono—diss'io—questi vocaboli scialacquati a sproposito?—Qui mylord me ne canticchiò una dozzina, indicandomi a un per uno l'occasione in cui avevali uditi adoperare. In totale mylord non era poi tanto su' cavilli. Ma io l'interruppi gridando:—Minuzie minuzie!

—Minuzie?—diss'egli.—Minuzie per chi ci beve grosso. Il non sapere una cosa può anche non far vergogna a nessuno; ma l'esserne proprio al buio, e volerne ciarlar co' veggenti trinciando sentenze, è un vituperio. Pigliamo a modo d'esempio i due vocaboli or piú comuni in Milano, i due aggettivi «classico» e «romantico». Nessuna delle donne da me frequentate sa che cosa voglia dire «classico», che cosa voglia dire «romantico», nella nuova significazione data dai letterati a quegli epiteti. Derivano essi, come sapete, da teorie filosofiche, che per essere conosciute vogliono essere studiate; e quelle signore non le hanno studiate mai. Né fin qui c'è di che biasimarle. Le donne hanno a leggere a posta loro poesie e romanzi quanti vogliono; ed i poeti hanno obbligo di far di tutto onde piacere colle opere loro alle donne, e di tener conto del giudizio ch'esse ne dánno, poiché procede netto netto dalle sensazioni, senza miscuglio di pedanterie scolastiche. Ma i ragionamenti sull'arte, le speculazioni letterario-psicologiche, le teorie astratte elle hanno a lasciarle a chi è del mestiere. Come pretendono esse di intenderle bene, se sovente neppure chi ha fatti gli studi analoghi a quelle teorie mostra di averle intese? So che in Italia, com'anche in Inghilterra e da per tutto, questo vizio di volerla far da dottori, senz'altra suppellettile intellettuale che il dictum de dicto, è nell'ossa e ne' midolli non solo de' zerbini ciancerelli ma talvolta ben anche degli uomini d'aspetto grave; e che da essi le donne, delle quali io parlo, n'hanno forse pigliato il contagio. But this damnned Plague[3] è il testimonio del poco giudizio degli uni e del poco criterio delle altre. Chi non sa il valore dei vocaboli «classico» e «romantico» non se ne vergogni. Ma se ne sa il valore, non usi contro di essi né applausi né [p.65] derisioni [4]. L'ignoranza del giudice è la prima ragione dell'incompetenza di lui; e i decreti dello stolto tirano addosso le beffe al decretante. Che se quelle signore da me conosciute hanno such a great deal di criterio, perché non vanno caute ne' loro discorsi? perché non evitano d'avventurarsi in regioni ignote? perché non si guardano dal ripetere tutto il santo di parole delle quali non hanno in capo l'idee corrispondenti?—È la moda che vuol cosí—mi diranno. Ma non chiamerò io giustamente questa lor moda a very nonsensical petulancy?[5]. Ho udito una di esse dolersi che la forma del suo ventaglio fosse piuttosto classica che romantica. All nonsense! Un'altra chiedeva ad un suo amico se, come romantico ch'egli era, le permettesse di adoperare nella sua toeletta essenze odorose. All nonsense! Un'altra stava mirando un bel paesetto del vostro Gozzi, e le pareva che fosse troppo classico. All nonsense! La poveretta credeva forse che «classico» servisse precisamente d'antitesi al nostro vecchio aggettivo inglese «romantic», che ha significato tutto diverso da quello attribuito al nuovo epiteto letterario d'oggidí, [p.66] e che proprio è tutt'altra cosa, come sa chiunque appena si briga di siffatte notizie.

Mi raccontava madama Y… certa avventura galante d'un gentiluomo suo conoscente, e tratto tratto esclamava ch'era davvero un'avventura romantica. All nonsense! Ho potuto accorgermi che madama Y… voleva dire «romanzesca». Vedi guazzabuglio!

—Io sono romantica per la vita—gridava madama X…;—ed è per questo che non amo molto le pitture dell'Appiani. Quelle sue figure mitologiche mi sanno troppo del classico.—All nonsense! Madama X… confonde insieme pittura e poesia. Le avrei dato volentieri a leggere il Laocoonte del Lessing; ma nella societá di lei non ho scorto alcun uomo capace d'aiutarla a comprenderne le dottrine.—Sono diventata romantica anch'io,—mi disse madama K… In prova di che mi confidò che non leggeva ormai altro che i canti d'Ossian. Le poesie dunque di Ossian, al dir di madama, sono romantiche. Misericordia! What a positive token of nonsense! I costumi dei caledoni sono forse quelli della civiltá nostra?

—Che importa mai—diceva un'altra—che il poeta sia romantico piuttosto che classicista! Faccia pur com'egli vuole de' bei versi, sappia guadagnarsi sempre la mia attenzione, metta interesse in tutto, mi colpisca sul vivo; e basta. Che importano mai tante teorie? Il bello è sempre bello.—All nonsense! Madama imita la solita canzone dei fratelli pacieri; e stando cosí sulle generali, crede di dir grandi cose, e non sa che lo star sulle generali e il dir niente è tutt'uno. Il bello è sempre bello. Vedi bellissima novitá di sentenza! Anche i cavoli sono sempre cavoli. Ma e per questo sará goffo chi m'insegna in qual terra, sotto qual clima crescono piú rigogliosi, e come seminarli, come coltivarli, come renderli piú saporiti? Dite a madama che non le Poetiche, le quali trattano delle sole forme esteriori, ma le meditazioni metafisico-letterarie, che analizzano l'essenza intima della poesia e che indicano la linea di contatto tra essa e le vicissitudini della vita umana, tendono giusto giusto a far che nascano componimenti quali ella li [p.67] vorrebbe. Ma ditele insieme ch'ella stia zitta, perché quelle meditazioni non sono né cappellini né merletti né sciarpe.

—A dirvela schietta, tutto ciò che sente del romantico m'infastidisce.—E pronunciata una tale protesta, madama Z… domandò a un servo se la carrozza fosse pronta. Venne meco al teatro. Vi recitavano il dramma l'Agnese. Madama s'intenerí, pianse, si consolò, tornò ad intenerirsi e non distolse gli occhi mai dalla scena.—Cielo, cielo!—esclamò madama Z…—quanto mi son cari questi drammi sentimentali!—Le feci osservare che l'Agnese è dramma romantico e, quel che è peggio, d'indole orrida. Madama si degnò di compatirmi come uomo di gusto poco squisito.—Se fosse romantico non mi piacerebbe—disse madama Z… All nonsense!

—Sarei romantica anch'io—disse un'altra,—se l'onore italiano lo comportasse. La terra nostra è terra classica, e noi dobbiamo rimaner classici.—Confesso che le parole di costei riuscirono indovinelli per me. Le nuove dottrine non muovono guerra al buono, di che abbondano i libri de' poeti italiani; e l'onore dell'Italia nol veggo compromesso in altro che nel modo frivolo con cui trattasi da taluni la questione letteraria d'oggidí.—

Mylord P… non avrebbe cessato mai d'infilzare esempi di tal fatta, s'io, stucco e ristucco, non gli avessi detto di finirla e ch'egli andava cercando il pelo nell'uovo.

—Ah sí!—rispose—voi siete noiato; e questa noia vostra è appunto il miglior trionfo per me. Confessate dunque che quel mio «non me ne sono accorto» non era fuor di luogo.—

Io non diceva parola, né fiatava pure.—Amereste voi—gridò mylord,—amereste voi che la prediletta del vostro cuore fosse una delle nonsensical creatures di cui v'ho parlato?

—No, mylord; no davvero; no, no, no. Ma non sono poi tutte cosí. Ve ne mostrerei a centinaia, che fanno proprio la consolazione del savio. Domani vi condurrò io a casa…

—Domattina sarò in viaggio per Londra—disse mylord;—intanto buona notte.

|Grisostomo|.

[1] Cosí cosí.

[2] Tanta abbondanza.

[3] Ma questo maledetto contagio.

[4] L'estensore di questo articolo, mentre che si professa rispettoso verso il sapere di chicchessia, reputa opportuno di giovarsi dell'occasione presente per far nota la sua insistenza nel parere manifestato da lui giá da qualche tempo, in altro scritto, relativamente alla divisione della poesia in «romantica» e «classica». Quella divisione gli parve e gli par tuttavia utilissima sí alla teoria che alla pratica. Alla teoria, perché serve a caratterizzare con due denominazioni generiche le invenzioni poetiche ispirate dal cristianesimo e dalla civilizzazione europea dopo l'invasione de' barbari, distinguendole da quelle derivate dal paganesimo e dal complesso de' costumi in Grecia ed in Roma; alla pratica, perché il parallelo tra le due civilizzazioni tende a far risaltare sempre piú evidentemente la pedantesca servilitá del classicismo nelle opere moderne. E però l'estensore, non per tenerezza ch'egli porti a' vocaboli, ma perché convinto della convenienza delle idee che con que' segni s'è voluto indicare, rinnova qui il voto che qualcuno s'incarichi della briga di trattarne ex professo in un'opera italiana, raccogliendo ciò che di meglio ne hanno giá ragionato i tedeschi ed i romantisti francesi, ed aggiungendovi quelle ulteriori riflessioni, quegli schiarimenti, quelle deduzioni e conseguenze che possono giovare all'intelligenza ed al perfezionamento di un sistema di dottrine giá propagato in Europa, sul quale si parla tuttavia e si continuerá certo a parlare dai dotti.

I lettori discreti vorranno perdonare all'estensore d'averli sviati in questa nota, forse di nessuna importanza per essi, ma importantissima per lui, nella tanta discordia pubblica delle opinioni.

[5] Lasciamo che altri interpreti queste parole di significato alquanto amaro.

[p.68][p.69]

V

|Scortesie maschili al teatro della Scala|

Abbiamo ricevuta la lettera seguente, alla quale l'urbanitá vorrebbe che si facesse una risposta.

Signor Conciliatore,—Sono un viaggiatore, e corro l'Europa con intenzione di scrivere il mio viaggio. Ma questo debb'essere un libro d'una natura tutta nuova. Non parlerò che di costumi, scegliendo i meno osservati prima d'ora, in apparenza i meno importanti. Né tanto noterò i costumi quanto le ragioni di essi, investigandole con accuratezza.

Per lo piú i viaggiatori prima di visitare un popolo si formano di esso un'idea, e se la mettono a cavallo dell'intelletto. Poi corrono le poste e, come a traverso d'un par d'occhiali verdi, mirano ogni cosa a traverso di quella loro idea; e senza por mente a' fatti che talvolta congiurano a smentirla, se la riportano vergine a casa.

Alcuni anni fa un amico mio parti di Parigi per visitare la Spagna. S'era fitto in mente che in Ispagna i mariti fossero tutti Otelli. Era giovine, bello, gentile, tale insomma da esser l'odio d'ogni sposo. A Madrid, a Cadice, a Valladolid e da per tutto ebbe accoglienze ed ospitalitá dalle donne; e da per tutto colla propria hermosura sconfisse hidalgamente l'altrui castitad, e non incontrò mai né veleni né coltelli né spade né visi arcigni. Tornò a Parigi, e scrisse e stampò che in Ispagna la gelosia de' mariti è feroce e sempre in agguato.

Non farò cosí io. Tornato in Francia, io, per esempio, non dirò che in Italia sieno frequentissimi gli assassinii e tenuissimo l'orrore che vi destano; perché, ad onta ch'io pur lo credessi un tempo, ho veduto che ciò non è vero. A me piace esaminare, [p.70] interrogare e ripeter l'esame; e non iscrivo sillaba se prima non ho soddisfatta per ogni verso la coscienza mia.

Ora questi miei scrupoli m'obbligano a ricorrere al Conciliatore per la spiegazione d'un fenomeno, cercata da me invano ad altre persone. È un'inezia; eppure non v'è uomo qui che si compiaccia di ragguagliarmene, e tutti, né so perché, me ne fanno un mistero.

Fui al teatro della Scala la prima sera d'uno spettacolo. La folla era immensa, e frammezzo alla folla ondeggiava tratto tratto qualche bella piuma, qualche bel fiore. Erano cittadine gentili che venivano a rallegrare della loro presenza la mascolina monotonia della platea. Pareva che dolcemente s'industriassero di spingersi innanzi; ma nessuno degli uomini, fra cui elle venivano, secondava quell'industria col ceder loro il passo. Ciascuno stava fermo sulla sua base, salvo che urtato riurtava. Arrossivano le poverette; e raccomandata la destra al braccio de' loro serventi, si lasciavano trascinare oltre. Giunte alle sedie, le vedevano occupate tutte. Gli uomini sedenti si rivolgevano a fissar gli occhi in volto a quelle gentili ed a squadrarle da capo a piedi senza misericordia. Ma nessuno si alzava ad offrir loro la propria scranna. Di fila in fila scorreva l'occhio de' serventi in traccia (credeva io) d'un asilo, e non v'era modo di rinvenirlo. A destra, a sinistra, a capo d'ogni fila le poverette ristavansi, implorando (credeva io) un riposo. Ma nessuno, nessuno de' sedenti si alzava per offrire ad esse la propria scranna. Lo spettacolo era giá incominciato, e nella platea del teatro di Milano v'erano donne in piedi ed uomini sdraiati su' canapé. Non seppi piú che mi pensare. Aspettai un'altra sera in cui vi avesse gran concorso al teatro: vidi lo stesso fenomeno. E lo rividi senza mutamento alcuno per ben sette sere.—So per cento altre prove—diss'io allora nel cuor mio—che i milanesi sono educati a maniere eleganti e cortesi: bisogna dunque credere che il posto d'onore qui in Milano sia lo stare in piedi, e che la muta espressione della gentilezza consista nel non lasciar né via né spazio a persona veruna, bensí nel contenderglielo e far che t'abbia a urtare in passando. Tant'è, ciò che in Francia sarebbe uno sgarbo villano, qui forse è cortesia fiorita. Ecco come la buona creanza, cambiando clima, cambia i suoi riti esteriori.—

Ma, a dir vero, mi restano alcuni dubbi ancora sulla spiegazione di questo fenomeno morale. Prima di registrarla nel mio itinerario, vorrei sentire il parere di un uomo pratico de' costumi milanesi. [p.71] E per questo mi rivolgo a voi, signor Conciliatore, pregandovi d'essermi cortese d'una risposta che mi metta chiarezza nell'intelletto e tranquillitá nella coscienza. Ve ne sarò gratissimo.

Milano, il 16 settembre 1818.

Vostro umilissimo servitore I. |D'Andely|.

Per quanto si sia andato pensando di trovar modo che la risposta da mandarsi al signor d'Andely soddisfacesse pienamente alla domanda di lui, ed al desiderio altresí che noi abbiamo di mantenere intatta a' nostri concittadini la fama ch'eglino hanno di educati a maniere eleganti e cortesi, non ci riuscí mai di scrivere due righe che valessero un centesimo. E però preghiamo i lettori di volerci questa volta aiutare col suggerirci un mezzo termine che ci cavi decentemente d'imbroglio. Confessare una scortesia de' nostri concittadini verso il bel sesso, non conviene. Lasciare senza risposta il signor d'Andely, non è decente. Tradir la veritá, non è onesto. Dunque?… Dunque chi manderá all'ufficio del Conciliatore la miglior lettera, che, salvando tutte le convenienze, possa servir di risposta a quella del signor d'Andely, non andrá senza premio, perché vedrá il proprio nome registrato onorevolmente nella biografia universale de' piú esperti scrittori di note diplomatiche.

|Grisostomo|.

[p.72][p.73]

VI

|Sulla «Storia della poesia e dell'eloquenza» del
Bouterweck[1]|

I

Fra le molte opere filosofiche e letterarie del signor Federigo Bouterweck[2] non ci pare la meno importante questa che annunziamo. L'autore ne mandò alle stampe il primo volume l'anno 1801, e cosí via via gli altri fino al decimo, che uscí in luce lo scorso anno e che ce ne promette per lo meno un altro ancora.

Quest'opera, che contiene l'analisi di tutta la letteratura moderna dal risorgimento de' buoni studi fino pressoché ai giorni presenti, meriterebbe una traduzione italiana, specialmente per ciò che si riferisce a' popoli non italiani.

Le letterature straniere non sono comunemente troppo conosciute in Italia, quantunque pur tanto qui se ne parli da taluni o per lodarle o per biasimarle, secondo che la moda od altri impulsi meno innocenti comandano. E l'opera di un filosofo, che, netto d'ogni pregiudizio nazionale od individuale, consacra la propria mente alla limpida contemplazione della veritá per solo amore di essa, e parla del bello e del brutto che trovasi nelle varie letterature, investigandone finamente le ragioni e [p.74] spargendo ne' propri scritti gran copia de' lumi del suo secolo, riescirebbe forse di non poco vantaggio all'Italia ed opportunissima alla tendenza attuale della nostra civilizzazione.

Ne' tempi addietro coloro, che in Italia conoscevano alcun poco la letteratura de' greci e quella de' latini e la nostra, reputavansi dottissimi. Quindi que' dottissimi, riposando tranquilli col sentimento della gloria giá facilmente ottenuta, non pensavano mai a rivolgere i loro studi alle letterature moderne degli oltramontani. O se taluno pur si degnava di concedere ad esse qualche ora di ozio, lo faceva con sí tenue serietá, che piú che uno studiare era uno scartabellare inconcludente. I pedanti avevano d'uopo di un uditorio che tenesse alquanto del sempliciotto; e però andavano pascendo i padri nostri di fandonie pastorali, di leziosaggini amorose vòte d'ogni senso d'amore, di dicerie semierudite, e d'altre tali quisquiglie. E mentre proponevano superbamente siffatte miserie o proprie o d'altrui siccome gran belle cose, ed incitavano gl'italiani perché ne scrivessero di continuo, appena appena con una sterile lode, messa loro sul labbro non dal sentimento ma dalla tradizione, nominavano qualche volta le opere di Dante e del Machiavelli; e la sterilitá di siffatte lodi, piú che ad altro, serviva ad allontanare da que' sublimi libri gl'italiani. Poi gridavano e persuadevano che fuori di questa nostra avventurata penisola la sapienza era poca, e poco il buon gusto a paragone del tanto che regnava tra noi, e che inutil cosa era il por mente alle lettere straniere. E gl'italiani, poco meno che tutti, stavano contenti al detto de' pedanti, dal quale era magistralmente lusingata l'inerzia. Persuasione fatale che di presente ancora esercita un resto del suo impero, mantenendo negli animi d'alcuni un'ignoranza senza rimorsi, una cieca avversione a tutto ciò che sanno non esser frutto del suolo d'Italia.

L'amore della patria, questo carissimo affetto, che pure è figliuolo sempre della virtú, fu per maligna destrezza de' pedanti spogliato del bel candore della sua innocenza ed accoppiato all'odio d'altrui, turpissimo de' vizi sociali. Confuse per tal maniera le ragioni delle cose presso il popolo, che non sa far [p.75] distinzioni ogni tratto, e presso coloro che per interesse privato non le vogliono fare, l'Italia rimase gran pezza come separata dal resto de' viventi. E que' pochi che osavano far parola della comoditá di allargare i confini della nostra dottrina, rinforzando gli studi patri colla conoscenza degli studi stranieri[3], erano accusati come nemici dell'onore italiano, o per lo meno derisi e respinti nel silenzio della lor solitudine.

Ma i pedanti hanno un bel fare: lo spirito umano cammina sempre, e ad essi manca la forza per rattenerlo. Nell'ultima metá del secolo scorso il regno di quelle signorie cominciò anche tra noi a dare un crollo e ad inclinarsi verso la sua fiera catastrofe. Gli studi pigliarono voga maggiore per molte cagioni che non occorre di annoverare, ma specialmente per questa: che, a misura che veniva cadendo di mano a' frati l'istruzione della gioventú, il perpetuare ne' popoli l'insipienza, e con essa la timida subordinazione, cessava d'essere il fine unico a cui mirassero le intenzioni de' precettori. Quelle tra le opere de' greci e de' latini, che sono ricche di bellezze permanenti, furono gustate assai piú, perché spiegate con intelligenza meno superficiale. Per lo contrario i pedissequi imitatori di esse vennero perdendo sempre piú di credito, secondo che piú s'imparava a separare l'opportunitá dell'ammirazione dall'opportunitá dell'imitazione. Alle arcadiche fanciullaggini sottentrarono l'entusiasmo per Dante e per l'Ariosto e la ricerca di libri che inducessero a meditazione. Alcuni barlumi di una filosofia psicologico-letteraria fecero sospettare che vi avesse un tipo perpetuo ed universale del bello poetico, indipendentemente dalle opinioni municipali e dalle leggi e tradizioni scolastiche, indipendentemente dai soli fiori della locuzione. Si sentí la necessitá d'investigare l'essenza di questo tipo perpetuo; ma lo spirito analitico non era ancora [p.76] lo spirito de' tempi. Però intanto si cercò di guadagnar cognizioni. E la mente degli italiani, irrequieta tra l'ignoranza e la volontá di sapere, si volse ovunque per ottenerle. Allora gli stranieri principiarono a diventar meno stranieri per noi; e vari de' nostri, smettendo la ruggine antica, si affratellarono qualche poco con essi anche a viso scoperto. Cosí, secondando la nuova inclinazione degl'italiani, vedemmo comparire in Italia frequenti traduzioni di poesie e prose oltramontane; e vedemmo ben anche alcuni dei nostri dotti pubblicare storie, dissertazioni, discorsi intorno alle letterature delle diverse nazioni d'Europa.

Senz'animo di voler detrarre un minimo iota alla gratitudine che possano meritare tali fatiche, massimamente le tante e sí lunghe dell'Andrés[4], noi portiamo opinione che all'Italia manchi tuttavia un libro d'autore italiano sufficiente a darle un'idea compita dell'origine, de' progressi e dello stato presente delle lettere presso l'una o l'altra delle nazioni straniere, e che, per averne qualche esatta contezza, le bisogni cercarla fuori di casa. Gli scrittori nostri, che fino a questi ultimi anni ne parlarono, ci sembrano non abbastanza provveduti d'idee estetiche elementari: quindi non abbastanza franchi e risoluti nella scelta del bello, e spesse volte piú encomiatori imprudenti che critici pacati; o, se a quando a quando censori, uomini pressoché sempre di corta veduta. D'altronde lo studio dell'uomo e di tutte le sue relazioni col passato e col futuro non era ancora, a quel che pare, lo studio favorito per essi. La strettezza de' vincoli che congiungono sempre le lettere alle opinioni politiche, religiose e morali, a tutta insomma la civilizzazione dei popoli, era tuttavia un mistero in Italia. E però eglino consideravano i libri de' poeti e de' prosatori piú come semplici azioni individuali che come espressioni della qualitá de' secoli, piú come un lusso lodevole delle nazioni che come un bisogno perpetuo dell'uomo sociale; bisogno che rinascerebbe pur sempre di per [p.77] sé, se anche venissero meno ad un tratto tutti gli esempi della preesistenza di esso ne' popoli antichi. Quegli scritori, partendo sempre da princípi derivati da una critica o municipale o provinciale o tutto al piú nazionale, credettero di poter sottoporre ad esame l'Europa intera. Ed eglino pure, a simiglianza de' loro antenati, andarono rintracciando il bello quasi sempre negli accidenti esteriori della spiegazione de' concetti e della dizione, fermandosi, per cosí dire, sul limitare di un edificio a dar giudizio intero di tutto il complesso della sua bontá.

Non possiamo negare che in fatto di letterature moderne straniere il Cesarotti vide talvolta piú addentro d'ogni altro suo contemporaneo italiano. Nato piú per esser filosofo che per esser poeta e libero di molti pregiudizi, il Cesarotti avrebbe potuto riformare assai tra di noi l'arte critica, se si fosse dato a studi piú profondi. Ma quella sua facile coscienza, che tratto tratto lo faceva andar pago di cognizioni superficiali e che gli guastò il capo per modo da non lasciargli intendere il vero spirito di Omero, lo riscaldò alcuna volta come di un furore d'ammirazione, inopportuno alla filosofia, da farlo parere ne' suoi giudizi persona avventata e parziale. Ad ogni modo, dovendo noi per amore di brevitá tacere qui molti nomi di scrittori italiani, credemmo di dover fare questa breve menzione separata del Cesarotti, onde apparisca che, quantunque non troppo fautori del suo ingegno poetico, noi riconosciamo in lui, comparativamente a' tempi, un ingegno filosofico non comune.

Ma se null'altro di bene avessero procurato all'Italia tutti insieme gli scrittori de' quali parliamo, di questo certamente vogliono essere lodati: che furono i primi a fiaccare l'odio italiano verso le letterature straniere e prepararono qui la via a trionfi maggiori della ragione.

E infatti i progressi generali del sapere umano e le recenti vicende politiche insegnarono finalmente anche al maggior numero degli italiani che i popoli attuali d'Europa non formano oggimai altro che una sola famiglia di tutti fratelli; insegnarono che l'essere questi talvolta aizzati gli uni contra gli altri non è opera del loro vero interesse generale, ma sí bene della [p.78] preponderanza di passioni individuali, e che la ferocia delle ire tra nazione e nazione, per produrre la contentezza di un tre o quattro uomini, bisogna che ne rovini un tre o quattro milioni, rinforzata l'idea giá detta da secoli che, se i popoli riescono alquanto diversi tra di essi per ragione di lievi accidenti, sono nondimeno fratelli davvero per ragione di origine e per l'uniformitá de' loro diritti e de' loro bisogni massimi; insegnarono quali sieno i nostri diritti e quali i nostri bisogni presenti; insegnarono che l'odiarsi a vicenda de' popoli è uno dei difetti piú deplorabili dell'umanitá. Difetto che parve perdere alquanto della sua turpitudine agli occhi di taluni, perché lo videro scendere a noi per via di scolastica tradizione insieme ad alcune altre venerate ribalderie degli antichi. Le mire a cui tendono i popoli attuali d'Europa sono in tutti le medesime, e ciascuno di essi può conseguire i propri desidèri senza nuocere a' desidèri dell'altro. Perché dunque con ributtante fierezza sdegnare di consigliarsi a vicenda? L'amore della patria è santissimo ora come lo fu sempre. Ma esso consiste nel desiderare operosamente la felicitá, non nella ostentazione di riti meramente verbali. E i mezzi di conseguire tale felicitá variano col variare delle circostanze. Ai romani, illusi dall'orgoglio e dall'avarizia, una via di felicitá parve lo sprezzar gli altri popoli e il conquistarli. L'esperienza ha mostrato purtroppo che la smania delle conquiste ne' popoli moderni è una fonte tremenda di sciagure non solo pei conquistati ma ben anche sovente pe' conquistatori, e che da tutt'altri principi dipende ora la bella o la trista fortuna de' popoli.

Noi non pretendiamo di dire che la letteratura sia l'unica guida che possa condurre i popoli alla prosperitá. Persuasi nondimeno ch'essa vi contribuisca non poco, crediamo fermamente d'altronde di dovere in essa ravvisare la spia piú veridica del grado di civilizzazione ne' popoli, e quindi il termometro della loro maggiore o minore prossimitá alla perfezione del vivere sociale. E siccome a noi italiani importa assai di sapere a quanti passi sieno verso una tale perfezione i nostri confratelli europei, onde precorrerli nella carriera che tutti battono o per lo meno [p.79] non rimanere gli ultimi, cosí dobbiamo confortarci l'un l'altro allo studio delle letterature straniere, non tanto, se cosí vuolsi, per necessitá estetica quanto per necessitá politica.

Il signor Bouterweck, siccome filosofo ch'egli è, considera la poesia, e con essa anche la eloquenza, siccome cose inerentissime sempre alla vita umana. Quindi non solamente va investigando nelle vicissitudini politiche e morali le cagioni fortuite dell'incremento e della decadenza degli studi; ma di un sol guardo contempla tutto il complesso della civilizzazione de' secoli; e, conosciutone lo spirito, si volge ad analizzare lo spirito delle loro letterature, e ti fa scoprire con evidenza lucidissima tutte le affinitá che corrono tra l'uno spirito e l'altro.

Le opinioni letterarie che l'illustre autore manifesta in quest'opera, massimamente ne' discorsi premessi alle varie letterature ed alle varie epoche di esse, ci sembrano quasi sempre derivate da quella franca persuasione che è frutto dell'intima conoscenza delle cose. Egli ci pare accostarsi assai a quel grado di robustezza intellettuale che la crescente sapienza de' tempi vuole in un critico. Da tutto insieme il suo libro si viene a raccogliere con quanta finezza d'accorgimento il signor Bouterweck studiasse la natura dell'uomo, tutte le relazioni di esso coll'universo, poi la storia non tanto delle famiglie dei principi quanto della gran famiglia europea, poi tutti gli accidenti intellettuali che moderano l'umana sensibilitá, tutte le modificazioni del gusto, tutte le teorie del bello d'imitazione e del bello ideale, tutte fin anche le regole de' retori e dei trattatisti poetici, sieno o no giovevoli all'estetica perfezione.

Nessuno, per altro, tema di rinvenire in quest'opera del signor Bouterweck alcun tratto di quella filosofia che or chiamasi «trascendentale», e che colla sua oscuritá reca fastidio ad ogni lettore che non sia metafisico consumato nelle piú astratte speculazioni germaniche. Egli stesso l'autore rinunziò spontaneamente ad alcune poche idee trascendentali che avrebbero potuto essergli utili, affinché nel suo libro non campeggiasse che quella filosofia che è piana per tutti coloro che non sono affatto inezie ambulanti ed articolanti la voce.

[p.80]

Ad onta di tutto questo, noi saremmo poco pratichi del nostro paese se non prevedessimo che, ove la storia che annunziamo venisse tradotta in italiano, a certe poche persone sembrerebbero nuove troppo alcune delle opinioni letterarie del signor Bouterweck, e per ciò solo meritevole di disprezzo tutto il suo libro. Lo sperar tolleranza in animi irrigiditi da un'antiquata presunzione forse è uno sperar ciriegie il gennaio: tuttavolta a certe poche persone noi crediamo di dover gittare questa parola di propiziazione:—Usate tolleranza, o signori; e se non vi spiace, imparatela da noi medesimi. Noi crediamo che la storia letteraria del signor Bouterweck sia in totale un libro buono davvero. E nondimeno protestiamo noi stessi che a quando a quando trovammo in esso alcune coserelle che non ci andarono a genio interamente. Alcune distinzioni ci riescirono non troppo chiare e precise; alcune applicazioni delle teorie a' fatti non forse esattissimamente concordi a' princípi generali professati dall'autore. Ma perché il buono di quel libro è sí esuberante, e i libri vogliono essere giudicati in totale, noi stiamo fermi alle lodi ed alla tolleranza di poche minuzie meno lodevoli. Ed in questa tolleranza ci rinfranca il pensare a' limiti della mente umana, alla vastitá dell'impresa del signor Bouterweck, ed a questo: che, nel poco dissentire che noi facciamo dall'illustre autore, potrebbe anche essere che il torto stesse con noi e non con lui. E però anche voi, o signori, che assai ottime dottrine troverete di certo nel libro di che parliamo e, se non fosse altro, vi sentirete lusingati dalle molte lodi che l'autore tributa a' poeti d'Italia, ricordatevi della tolleranza nostra od almeno dell'«ubi plura nitent» ecc. di Orazio. Ed a questa sentenza aggiungete un'altra considerazione che non è dettata da Orazio, ma che non è per questo men vera; ed eccola. Molte e molte cose, che a voi sembreranno novitá, hanno pur giá molto del vecchio presso la maggior parte dei dotti di Europa.

[p.81]

II

Un'opera di tanta vastitá quanta ne comprende quella del signor Bouterweck aveva bisogno di venir divisa in vari scompartimenti, onde non riescire un caos da sconfortare l'attenzione de' lettori. Il voler tentare di ridurre in un sol quadro storico i sincroni andamenti dello spirito estetico, ossia del gusto, di tutta la moderna Europa, pigliando a considerarlo unicamente per ordine di tempo e non per ordine di lingue, sarebbe stato un intendimento piú pomposo che profittevole. E però l'autore preferí di procacciar de' riposi alla mente de' suoi lettori, e di parlare separatamente di ciascuna delle letterature moderne, continuando di ciascuna separatamente la storia da' primordi di essa fino agli anni piú vicini a noi. Tenendo questo metodo, egli mostra per altro di non dimenticarsi mai del complesso della storia europea, e di giovarsi spesso di quelle idee che possono opportunamente venir suggerite dalla conoscenza delle relazioni che esistono tra la storia parziale di un popolo e la generale degli uomini d'Europa.

Egli incomincia la sua rivista dalla letteratura italiana, poi trapassa alla spagnuola ed alla portoghese, poi alla francese, poi all'inglese e finalmente alla tedesca. Cosí veniamo ad avere un tutto abbastanza connesso, ed in certa qual maniera disposto con successione cronologica; da che sa ognuno che le epoche piú belle e piú memorabili delle nuove letterature tengono dietro l'una all'altra, per ragione di tempo, coll'ordine pressoché sempre medesimo con cui l'autore dispone nella sua rivista le nazioni letterate delle quali va parlando.

Per non allargare di troppo il nostro lavoro su quest'opera del signor Bouterweck, noi per ora non intendiamo di far parola che de' soli due primi volumi contenenti la storia della letteratura d'Italia. Ma siccome ci par conveniente che tu abbia in prima, o lettore, un qualche indizio del modo di pensare del nostro autore, cosí abbiamo creduto di dover tenere per un terzo [p.82] articolo (e per ora sará l'ultimo) quei due volumi, e di darti qui alcun cenno del discorso ch'egli fa precedere come introduzione generale a tutta la letteratura moderna. Per veritá avremmo amato di riportar per intero una traduzione di quel discorso; ma, comparativamente alla poca pazienza d'un lettor di giornale, lo credemmo troppo lungo. Lo strignerlo in un esatto compendio era impossibile, perché, pieno zeppo com'è d'idee importanti, ha giá per se stesso un andamento rapidissimo. E però contèntati, o lettore, di quel che faremo. E vaglia a raccomandarti la lettura di questo secondo articolo il sapere che nel cenno presente non abbiamo mischiata alcuna idea nostra a quelle del signor Bouterweck. Sta' dunque attento a lui e non a noi.

Allorché lo spirito umano—cosí principia il discorso suddetto—si risvegliò in Europa all'epoca dalla quale incomincia la storia moderna[5], ed assunse nuova attitudine operosa, non rimaneva piú che una traccia oscura della civilizzazione greca e romana. Tutte le circostanze erano cambiate. Nuovi uomini adoravano nuove divinitá. Con nuove regole i potenti regnavano, i sudditi obbedivano. Nuove lingue, nuove opinioni, nuovi costumi; nuovo insomma il mondo morale e tutto diverso da quel di prima.

Tale novitá d'ogni cosa doveva necessariamente dare una nuova impronta, un nuovo carattere alle opere del genio moderno.

Qui il signor Bouterweck viene dimostrando come questo nuovo carattere, piú che nelle altre arti, dovesse scorgersi manifestamente in quelle che per loro mezzo di rappresentazione servonsi della parola. E detto come le opere de' poeti e de' prosatori sieno in certa qual maniera l'ultimo risultato del carattere nazionale, della coltura intellettuale e del modo di pensare di tutto quel popolo, nella lingua del quale lo scrittore rivela i propri pensieri, stabilisce il principio fondamentale della sua critica colle seguenti parole: «Per potere esattamente apprezzare [p.83] il merito dei moderni per rispetto alle lettere, fa d'uopo richiamarci prima alla memoria tutte le circostanze religiose, civili e letterarie, per le quali i tempi che vennero dopo il risorgimento delle arti riescono tanto differenti dalla classica antichitá. Intendendo in tutta la sua estensione lo spirito dei nuovi tempi, e pigliando da questo punto di vista a contemplare le qualitá caratteristiche della letteratura moderna, si corre meno rischio di sagrificare il vero merito a' capricci di una critica ostinatamente vana».

Procede quindi il discorso ad analizzare le differenze massime che corrono tra la nuova civilizzazione e l'antica, considerandole unicamente nelle loro relazioni colle arti, ed in ispecial modo colla poesia.

I.—E prima di tutto l'autore parla del cristianesimo e del paganesimo e confronta l'una con l'altra le due religioni, esaminando in che la nuova riuscisse di vantaggio a' poeti, in che svantaggiosa. Il cristianesimo angustiò sommamente la libertá fantastica de' poeti a paragone della religione dei gentili, che non aveva un fondatore, non dogmi scritti, non regole di fede, ma, figlia tutta della immaginazione e del caso, lasciava a' greci la facoltá di adornarla tratto tratto di nuove storie e di nuove fantasie. Quella religione, a ben considerarla, era una continua poesia; e la poesia de' greci era pressoché sempre l'espressione d'un sentimento religioso.

Ma allorché il paganesimo cessò d'essere la religione dei popoli d'Europa, ed i poeti pensarono di temperare nelle loro opere l'austeritá della religione cristiana coll'introdurre in esse l'antica mitologia, scomparve l'incantesimo di quel sentimento religioso che le dava vita ne' canti dei greci; e le immagini mitologiche ne' canti de' moderni non divennero altro che fredde allegorie, prive d'ogni spontanea inspirazione. Cosí Amore, terribile dio a cui i greci con sinceritá di cuore mandavano voti e preghiere, nelle poesie de' moderni diventò un fantastico garzoncello, freddo emblema d'un sentimento; e cosí tutti gli dèi dell'Olimpo non riuscirono altro che figure poetiche. Né solamente scomparve il sentimento religioso, ma cessò ben anche [p.84] la illusione poetica. Quando Pindaro nelle sue odi invoca Giove ed Ercole, la sua espressione è per se stessa naturale e piena di seria maestá. Ma quando un lirico moderno rivolge l'apostrofe a un nume greco, egli può vestirla quanto piú vuole di parole serie, può renderla patetica quanto piú sa, la sua invocazione è sempre una invocazione da burla e non da senno. Noi lettori supponiamo, è vero, e troviamo conveniente che il poeta lirico alla pittura de' propri sentimenti venga mischiando quella altresí delle illusioni ch'egli scientemente fa a se stesso. Ma ch'egli abbia potuto farsi tanta illusione da credere sul serio, comunque momentaneamente, negli dèi che viene invocando, noi nol pensiamo mai, da che istoricamente siamo persuasi in contrario. Se dunque il poeta moderno invoca sul serio gli dèi antichi, egli offende la veritá poetica e guasta l'effetto delle sue pitture medesime.

Dopo d'essersi spaziato alquanto intorno a siffatto argomento, dimostrando quanto la mitologia degli antichi, come religione viva, fosse opportuna alla poesia e quanto i poeti moderni perdessero di sussidio colla perdita di essa, che piú altro non parve che una fredda erudizione, il signor Bouterweck passa a dire come e perché l'uso delle immagini mitologiche rimanesse pur tuttavia conveniente a' pittori ed agli scultori. Poi, tornando al paragone tra le due religioni per riguardo alla poesia, viene a dire quanto questa coll'introduzione del cristianesimo guadagnasse dal lato del sublime; e come acquistasse di poi un nuovo maraviglioso, assumendo le tradizioni favolose delle magie, delle fate, dei giganti, ecc. ecc., che i crociati riportarono in Europa dall'Oriente e gli spagnuoli acquistarono dagli arabi, e che per lunghi secoli divennero tra gli europei oggetto di superstiziosa credenza, per la facilitá con cui i popoli potevano confonderli cogli angeli e co' demòni, ecc. ecc. Investigate le ragioni per le quali questo nuovo maraviglioso riescí piú conforme allo spirito de' tempi di quello non fosse l'altro derivato dalle favole greche, rinforza i propri raziocini coll'esempio dell'Ariosto e del Tasso, i poemi de' quali non sarebbero forse che languide copie delle Metamorfosi d'Ovidio e della Tebaide, [p.85] ove quegli autori avessero derivata dal mondo favoloso degli antichi la loro poesia.

II.—Dall'analisi della religione l'autore procede a quella della vita sociale; e parla, piú che d'altro, dello spirito cavalleresco per la tanta influenza ch'ebbe sulla poesia moderna. In quanto al coraggio ed al valore, i cavalieri somigliano agli eroi dell'antichitá. La propensione al cercare avventure neppur essa mancava agli eroi della Grecia. La spedizione degli argonauti e piú ancora quella contro de' troiani furono «avventure», pigliando anche il vocabolo in tutta l'estensione del suo significato. Medea ed Elena, l'una sciogliendo, l'altra intricando il nodo degli accidenti, sono da paragonarsi in certa qual maniera alle dame de' poemi cavallereschi. Ma ciò che costituisce un'immensa differenza tra gli eroi antichi ed i cavalieri è l'importanza che gli ultimi attribuirono alle donne; importanza che, sconosciuta affatto a' greci ed a' latini per ragione de' loro costumi nazionali, è appunto il movente caratteristico della poesia moderna.

Qui l'autore crede di avere ragioni sufficienti per potere distruggere l'opinione di coloro che fanno derivare dall'Oriente il costume, ne' paladini e ne' nuovi popoli europei, di divinizzare le donne e di ridurre a culto i voti dell'amore. Nelle fredde foreste, dic'egli, dell'antica Germania, e non nei deserti dell'Arabia, dove un sole cocentissimo converte in concupiscenza ogni desiderio, noi dobbiamo cercare l'origine prima della mistica idea dell'amore casto dell'uomo verso la donna. Gran tempo ancora prima che vi s'introducesse il cristianesimo, le donne erano nella Germania sommamente onorate; e intanto che gli altri popoli rozzi consideravanle come enti inferiori all'uomo, il ruvido germano vedeva in esse qualche cosa di santo, ecc. ecc.[6].

Né presso i greci né presso i latini troviamo indizio alcuno di tanto ossequio alle donne. Ben è vero che né i greci né i latini le trattavano col vilipendio con cui le trattano i sultani. Le madri di famiglia erano onorate dentro le mura domestiche; vi avevano vergini consacrate al culto di caste divinitá; alle [p.86] pubbliche feste intervenivano anche le matrone. Ma ne' costumi di Grecia e di Roma non appare la menoma orma di alcun omaggio particolare, tributato dall'uomo alla donna siccome obbligo della condizione virile; non la menoma idea esagerata e fantastica della innata eccellenza del sesso femminino.

Siffatte idee vennero primamente da' germani, che occuparono quella parte dell'impero romano dove in appresso si sviluppò lo spirito cavalleresco. La religione cristiana contribuí fors'anche a mantenerle, favorendo in tutta l'Europa l'emancipazione civile delle donne. Molti secoli, a dir vero, corsero in mezzo tra tale emancipazione e l'epoca in cui surse lo spirito cavalleresco. Ma se la condizione delle donne non avesse incontrato questo mutamento civile e questa miglior fortuna nella opinione degli uomini, noi non avremmo poesia cavalleresca; ed in generale la poesia de' moderni non avrebbe conseguito quella tinta che piú la rende originale.

Pieno il cuore umano della nuova venerazione verso il bel sesso, diede vita a nuove immagini ed a nuovi sentimenti coi canti d'amore. E cosí via via perpetuandosi ne' popoli le idee delle nuove relazioni morali tra' due sessi, venne perpetuandosi infino a noi nella poesia una cert'aura di gentilezza cavalleresca, che invano ricercasi nelle poesie de' greci e de' romani, perché non potevano averla.

La poesia moderna può dirsi figlia dell'amore, da che, piú che dalle tradizioni religiose ed istoriche, emerse dal nuovo sentimento amoroso. Un entusiasmo, ignoto a' greci, trasformò il rispetto col quale i germani giá da gran tempo nelle lor selve onoravano le donne, in una estetica deificazione della beltá femminina. Non solamente l'avere in riverenza le donne amate, ma il servire ad esse siccome ad enti superiori, l'ammirarle nell'estasi dell'amore siccome angeli, il cedere ad esse ovunque la precedenza in confronto degli uomini, l'innamorarsi non meno delle loro virtú che delle loro leggiadrie, l'inginocchiarsi innanzi ad esse e 'l giurar loro fedeltá come il vassallo la giurava al suo signore, il riporre l'amante tutta la sua fortuna nelle mani dell'amata, l'obbedire ad essa ciecamente, il correre [p.87] ad un cenno di lei colla gioia del trionfo incontro a pericoli mortali, ecc. ecc.; ecco lo spirito cavalleresco, diverso assai dallo spirito eroico degli antichi; ed ecco piú o meno lo spirito della poesia moderna, che è quanto dire della moderna civilizzazione per rispetto alle donne.

Un ghiribizzo, una chimera mostruosa parrebbe forse ad un greco redivivo questo culto, questo omaggio de' moderni per le donne. Né mancherebbe forse a' di nostri un qualche riformatore pedante che s'accosterebbe alla sentenza del redivivo. Il signor Bouterweck per altro con validissime ragioni viene difendendo la devozione de' moderni per le donne, siccome consentanea alla nobiltá e dignitá dell'anima umana. Poi, adducendo gli esempi de' trovatori di Francia, di Spagna e d'Italia, dimostra come la passione dell'amore, ringentilita di tanto presso i nuovi popoli, fosse la prima inspirazione de' poeti. L'amore infiammò l'anima di Dante, e la presenza e la memoria della sua Beatrice furono gli eccitamenti del suo ingegno. Lo stesso avvenne al Petrarca colla sua Laura. Il Boiardo, il Pulci, l'Ariosto, il Tasso, ecc. ecc., quanto non si compiacquero tutti de' nuovi sentimenti amorosi! E cosí di mano in mano questa passione, modificata di tutt'altra maniera che nell'anime degli antichi, prevalse in tutti i poeti d'Europa e svegliò un interesse nuovo, che divenne il predominante nelle dilettazioni poetiche. Per tal modo la totale rivoluzione del gusto operata dalla poesia cavalleresca si mantenne tuttavia giú fino a' dí nostri, ad onta degli studi fatti sulle opere antiche; e par verisimile che durerá perpetua. Come non è da credersi che i nostri discendenti tornino mai ad adorare gli dèi dell'Olimpo, cosí non lo è pure che il gusto dominante si diparta mai da questa idea nobilitata dell'amore, se prima gli uomini non ricadono in una rozzezza generale.

Insieme a questa idea nobilitata dell'amore emerse pe' poeti moderni, specialmente di Francia, d'Inghilterra e di Germania, una nuova luce; da che i nuovi popoli, vantaggiando piú e piú sempre nella cognizione del cuore umano, poterono chiamare in soccorso della poesia mille e mille veritá psicologiche, intorno [p.88] alle quali nel mondo antico appena alcuni pochi filosofi s'erano occupati. Cosí le passioni umane analizzate piú profondamente somministrarono nuove modificazioni d'accidenti e tinte piú risentite a' poeti; e l'Europa ebbe Shakespeare.

L'amore delicato e casto si associò facilmente coi sentimenti religiosi. Quanto ad un greco non sembrerebbe, anche per questo lato, incomprensibile il nuovo gusto! Eppure illustri filosofi hanno osservato che nel naturale entusiasmo dell'amore v'ha qualche cosa di religioso. Bastava dunque che i sentimenti amorosi venissero ad incontrarsi co' religiosi, perché da questi misteri del cuore la fantasia poetica derivasse assai novitá. Negli amori di Dante per Beatrice, in quei del Petrarca per Laura, noi vediamo un misto perpetuo di raffinamenti, di galanterie, di pensieri religiosi, di timori, di speranze, di rimorsi, che formano un complesso caratteristico della nuova passione.

III.—Il terzo contrassegno originale della poesia moderna è una certa quale tintura, piú o meno appariscente, di vera o falsa erudizione.

Lo scopo immediato della poesia non è giá l'interesse scientifico, bensi l'interesse estetico. L'erudizione, siccome non forma il poeta, cosí non può essere per se stessa argomento immediato di poesia. Giova l'erudizione al poeta per ampliargli la potenza intellettuale e rendergli piú franca e piú ardita la concezione delle immagini. Ma s'egli veste a dirittura la propria erudizione di forme poetiche, declina interamente dal fine dell'arte sua.

I trovatori, i quali furono anteriori di tempo ai poeti propriamente moderni, per buona fortuna non furono eruditi. A simiglianza de' rapsodi della Grecia, eglino non servirono ad altro che al bisogno d'una poesia nazionale. La quantitá delle loro idee era pressoché uguale a quella delle idee de' loro contemporanei, cioè a dire angusta. L'erudizione rimase per molto tempo ignota al popolo, e, confinata nelle biblioteche de' chiostri, ivi pure, insieme ad ogni scienza, quasi onninamente dormiva. Ma allorché nel mille e trecento i popoli cercarono una piú ampia sfera d'idee, ed ebbero voga le sottigliezze [p.89] teologiche, e si scopersero i libri d'Aristotile, e la filosofia scolastica fu la moda de' tempi, i poeti si volsero anch'essi a coltivare le cognizioni scientifiche che scaturivano dalle cattedre e dalle biblioteche, ed i loro canti cominciarono a pigliare un certo qual sentore di lucerna, e lo ritennero per alcuni secoli successivi.

Al principiare del mille e cinquecento il buon senso sbandí dalla poesia la filosofia scolastica; ma la educazione de' poeti serbò la sua tendenza erudita e di scolastica diventò pedantesca, ed ebbe, come tale, influenza sull'opere loro. Lo studio delle lingue morte e de' libri antichi modellò l'intelletto de' poeti in gran parte secondo lo spirito della antica civilizzazione. Arricchiti di ricordanze erudite, eglino si lasciarono sedurre dalla vanagloria che suggeriva loro di far pompa degli studi fatti; e secondo che quelle ricordanze piú venivano mischiandosi col naturale sentimento poetico, i componimenti loro diventarono uno screzio di cento colori. Per quanto nuovo e tutto patrio fosse il soggetto delle loro poesie, eglino non si fecero scrupolo d'innestarvi la mitologia antica, e sovente uomini d'altissimo ingegno si compiacquero d'un miscuglio sí strano come di una rara bellezza. Durò lungo tempo e dura ancor tuttavia in Italia, in Ispagna ed in Francia una moda siffatta.

Oltrediché, in tutta la storia della poesia moderna scorgesi manifestissimo l'impero assoluto della critica. Aristotile divenne il legislatore de' poeti, siccome lo era de' filosofi e de' teologi. E come se per mala ventura quel sovrano intelletto, che forse da altro filosofo mai non fu superato, fosse proprio predestinato ad essere il seminator di zizanie ed a travolger le menti ch'egli intendeva d'illuminare, anche il suo bel libro della Poetica represse la libertá intellettuale de' poeti e guastò il gusto; nella guisa medesima che la sua Logica e la sua Metafisica protrassero di tanto il sonno d'ogni vero sapere. Per potere intendere Aristotile, bisogna aver prima intese di per se stessi le vere bellezze intime de' poeti greci, allo spirito delle quali si riferiscono tutte le regole aristoteliche. Ma a questo non si pose mente. E tutti si attennero secondo la lettera alla Poetica d'Aristotile, commentandone ed interpretandone le osservazioni [p.90] estetiche siccome leggi del codice di Giustiniano. E non vi fu pur uno che domandasse al proprio ingegno:—Questo medesimo Aristotile, risuscitando ora, continuerebbe cosí, o piuttosto non iscriverebbe egli per le nazioni moderne tutt'altra poetica?—.

Assuefattisi nelle scuole i poeti a compiacersi nelle erudizioni, e a derivare le loro immagini piú dalla lettura de' libri che dall'esame della vita e de' costumi de' loro contemporanei, ecco riescire piú e piú sempre oscuri i loro componimenti all'universale de' lettori, ecco il bisogno d'illustrarli di lunghe note, mettendo a profitto una mezza biblioteca, ed ecco nuove occasioni predilette di sfoggiare erudizione: intendimento che non ebbero mai i poeti greci, perché, mirando allo scopo massimo dell'arte, cantavano cose note al popolo, e volevano esser poeti e non altro.

III

Noi abbiamo in Italia storie della nostra letteratura quante ne vogliamo. Il Crescimbeni, il Quadrio, il Fontanini ed altri ci furono prodighi di notizie biografiche e bibliografiche intorno ai sommi, ai mediocri, agli infimi scrittori italiani, sicché non vi ha curiositá che vinca la lor profusione. Ma se pei padri nostri potevano bastare quelle congerie di notizie pressoché nude d'ogni filosofia, non bastano ora piú per noi: da che i progressi dello spirito umano non ci permettono piú di regalare la nostra attenzione alla sola pazientissima flemma d'un raccoglitor di memorie; e studi piú importanti hanno svegliato ora in noi una tendenza filosofica, costantemente operosa, la quale ci fa vogliosi di conoscere, piú che le cose, le cagioni di esse. Non vuolsi per altro far troppo delitto a' padri nostri della facile loro contentatura. La colpa era non di essi ma de' tempi, diversi assai, come giá dicemmo, per mille ragioni politiche da' presenti, nella stessa guisa che diversi da' presenti saranno i futuri per quella necessitá di moto che agita perpetuamente il mondo morale.

Il Muratori qualche poca volta sollevossi ad una sfera d'idee superiore a quella de' suoi contemporanei italiani, e lasciò qui [p.91] sfuggir lampi precoci di quella filosofia applicata alle lettere, che, bambina allora, viene ora crescendo in tutta l'Europa a robustezza virile.

Ma piú assai che il Muratori, il Gravina sarebbe stato un letterato filosofo da produrre assai riforme e assai di bene all'Italia, se fosse nato in tempo di migliori lettori; poiché certo non gli mancava né logica esatta né vigoria d'intelletto, che che ne dicesse il Baretti. Era uomo il Baretti d'ingegno vivacissimo, ma di cognizioni non sempre profonde; e però riesce giudice talvolta incompetente e troppo corrivo al dir male d'altrui.

Per rispetto al Tiraboschi, a cui dobbiamo esser grati di molte notizie erudite, noi speriamo che le persone scevre da' pregiudizi non vorranno biasimarci se ci facciamo lecito di dire che a lui mancava perfino quella filosofia che i tempi potevano dargli. Degli altri piú recenti, ma di minor conto, non parliamo.

La letteratura d'Italia, e per la venustá di che in molte parti ridonda e per venerazione all'anzianitá de' suoi natali, fu sempre uno studio carissimo anche ai dotti delle nazioni straniere. Molti di essi ne scrissero or la intera storia, or la parziale d'un qualche ramo o d'una qualche epoca; molti incidentemente in libri di diversa natura pronunziarono giudizi intorno al merito d'alcuni de' nostri prosatori e poeti, or con molto, or con poco, or con nessuno criterio.

Presso gl'italiani trovarono applauso sempre coloro degli stranieri che piú erano stati larghi d'encomi alle nostre lettere; e contumelie villane, anziché pacate confutazioni, coloro che in qualche maniera parvero mostrarsi meno scialacquatori d'incenso. E nondimeno il lettore giudizioso rinfaccia non di rado a molti de' primi la mancanza di sagace discernimento, della quale per lo piú si suole fare accusa a' secondi. Cosí tal uno, a modo d'esempio, porta opinione che il libro dell'inglese signor Cooperwaker sul teatro italiano, quantunque pieno zeppo di adulazioni e di lodi alla nostra letteratura drammatica, sia davvero un meschinissimo libro scritto da un meschinissimo pedante; e con uguale schiettezza reputa miserabili certe censure scagliate contro alcuni de' poeti italiani dal Boileau, dallo stesso ingegnoso [p.92] Voltaire e da altri non pochi che, dando biasimo a ciò che non intesero, riescirono detrattori inconcludenti.

Fra gli stranieri che scrissero della nostra letteratura sa ognuno quanto romore suscitassero di recente madama di Staël, il signor Sismondi, il signor Schlegel, il signor Ginguené. Per ora ci par prudenza lo schivare lunghe parole intorno ai tre primi, onde non riaccendere la rabbia che ha giá fatto abbastanza di torto all'Italia. D'altronde se n'è giá parlato tanto e se n'è detto sí poco, e tanto pur se ne potrebbe dire, che a volerne degnamente discorrere non bastano i limiti dentro i quali ci serra l'occasione presente. Solo ti preghiamo, o lettore, di non interpretare sinistramente questo nostro silenzio e di crederci rispettosi davvero verso quegli ingegni, perché li crediamo in accordo coi lumi del secolo e non co' pregiudizi della ignoranza orgogliosa.

Il signor Ginguené scrisse in Francia l'intera storia della letteratura italiana. La conoscenza profonda, e rara oltremodo in un francese, ch'egli manifestò avere della lingua nostra e delle nostre lettere, l'amore sincero con cui ne parlò, le lodi che ci versò sul capo a piene mani gli meritano il tributo della nostra gratitudine. Ma se si pensa che il signor Ginguené scriveva il suo libro dopo l'anno 1810 ed in Francia, che è quanto dire un trent'anni dopo quello del Tiraboschi ed in paese piú illuminato del nostro, chi vorrá perdonare a lui la penuria di filosofia? Un uomo che, per quanto sembri internarsi colla veduta, guarda pur sempre la sola superfice delle cose, e ad ogni tratto ti esclama «bravo! bello!» senza mai arricchirti il capo d'una nuova idea che ti faccia sentire la ragione delle sue lodi, non è l'uomo del secolo, non fa piú per noi.

Vi ha nondimeno in Italia una certa legione di lettori che potrebbonsi chiamare i traineurs dello spirito umano, come i francesi chiamano i traineurs dell'esercito[7] que' soldati che, [p.93] o per viltá o per fiacchezza o per altra ragione, restano indietro nelle marce e non arrivano che un buon pezzo dopo il grosso delle truppe. A questa milizia di grave armatura, che fa da retroguardia al secolo, un'altra se ne aggiugne, alla quale starebbe bene il titolo di «tribú dei comprafumo», perché ad essa par sempre una maraviglia tutto ciò che in qualunque maniera è lode all'Italia.

Come i bevoni tracannano il vino senza assaporarlo, cosí i comprafumo si strinsero al seno il libro del signor Ginguené e lo predicarono la perfezione delle perfezioni. Ai comprafumo vennero lenti lenti in soccorso i traineurs, portando seco i pensieri ereditati dalla buona memoria de' loro bisnonni. E la predica degli uni rinforzata dall'applauso degli altri diventò un clamore da innamorare la moltitudine, che mise gridi anch'essa senza sapere perché. Ma gli uomini savi d'Italia, quantunque gustino anch'essi la dolcezza delle lodi, soprattutto dalla bocca degli stranieri, le infastidiscono siccome nauseose, quando non le veggono avvalorate dalla manifestazione d'un alto criterio in chi le va sprecando. Gli uomini savi d'Italia sanno che la nostra letteratura, comeché splendidissima per molti rispetti, ha pure anch'essa i suoi lati opachi; ed arrabbiano nel vedere confondersi insieme da' lodatori l'opacitá e lo splendore, e versarsi ovunque ugual dose di ammirazione. Gli uomini savi d'Italia leggono le storie non tanto per compiacere ad una sterile curiositá quanto per trarne paragoni giovevoli alla lor vita presente; e reputano un miserissimo nulla la poesia ed ogni discorso intorno a cose letterarie, quando non è messa a profitto tutta la civiltá de' popoli dal poeta o dal trattatista. Gli uomini savi d'Italia, perché rispettano non alla cieca ma con pienezza di discernimento la letteratura patria, pretendono che non possa degnamente accostarsi a parlarne se non chi accese la propria fiaccola critica al lume della critica universale europea; e credono che il signor Ginguené non ve l'accendesse abbastanza. E però la storia del signor Ginguené sarebbe per tutti una gran bella cosa, se venisse ritoccata da un filosofo. Questa almeno è l'umile opinione nostra, alla quale speriamo facile il passaporto in virtú della libertá che la legge e la critica ne accordano.

[p.94]

Ci parve di dover dare cosí alla sfuggita questo sguardo agli autori che fin qui parlarono della letteratura italiana, onde rispondere innanzi tratto a coloro che potrebbero forse irritarsi del nostro tirare in iscena una nuova storia di essa, chiamandolo un portare erba al prato; da che tra nostrali e forestieri possediamo giá tanti e tanti volumi che ne discorrono, piú che non se ne legge. Abbiamo giá detto nell'articolo primo che per gl'italiani la parte piú utile della storia del signor Bouterweck sarebbe quella che tratta non della nostra ma delle letterature straniere; e stiamo pur sempre in questa persuasione. Tuttavolta anche i due primi volumi che comprendono le cose nostre, quantunque meno importanti per noi, non sono da rigettarsi come inutili. La novitá e l'importanza d'un lavoro storico non consistono unicamente nel narrare fatti non conosciuti in prima, bensí piú sovente nella maniera nuova di considerarli. Un portare erba al prato sarebbe se i due volumi de' quali parliamo somigliassero in tutto e per tutto ai libri del Tiraboschi e del signor Ginguené. Ma o noi c'inganniamo, o la somiglianza per cento ragioni è tenuissima. E ciò basti per nostra discolpa.

Il signor Bouterweck dá principio alla storia della poesia e dell'eloquenza italiana con un discorso, in cui prima di tutto viene investigando qual fosse lo stato della lingua nostra al comparire di Dante. In questo argomento egli segue, e lo confessa apertamente, il libro latino di Dante medesimo Della volgare eloquenza. L'autore scende poi a parlare de' metri poetici de' moderni, delle ragioni per cui bisognò trovarli nuovamente e non ammettere que' degli antichi, della convenienza e della quasi necessitá della rima nelle poesie delle lingue moderne, della compiacenza con cui i nuovi popoli accolsero questo nuovo ornamento poetico, e del carattere originale che la rima diede alle forme esteriori della nuova poesia. Quantunque agli italiani non si attribuisca il merito d'avere inventata la rima, all'Italia nondimeno, dic'egli, e non ad altro popolo vuolsi saper grazie dell'avere nobilitati i metri rimati de' provenzali, volgendoli ad uso d'una migliore e piú vera poesia.

[p.95]

Ciò detto, l'autore imprende la rivista dei poeti e de' prosatori italiani, la quale, sbrigandosi di Guido Guinizelli, di Guido Ghislieri, del Fabrizio, ecc. ecc., col solo nominarli, incomincia propriamente da Guittone d'Arezzo e scende giú fin presso al declinare del secolo decimottavo. Non sappiamo se alla fine dell'opera il signor Bouterweck vorrá ampliare con qualche supplimento questa sua rivista. Certo non sarebbe male che egli lo facesse; da che pare che nel 1802, quando egli pubblicò il secondo volume della sua storia (terminando con quello di parlare degli italiani), le vicende politiche od altre cagioni lo tenessero al buio delle cose nostre piú recenti; ed in generale ne sembra trascuratissimo e superficiale troppo tutto quel tratto della sua storia italiana che comprende gli ultimi trent'anni del secolo ora scorso.

Il tener dietro di passo in passo a codesta rivista non è intendimento nostro, né lo comporterebbero forse i nostri lettori. Ne riporteremmo volentieri alcuni squarci tolti qua e lá; ma come decidere la scelta in mezzo ai tanti che meriterebbero la preferenza? Le cose giudiziose che vi s'incontrano per rispetto a Dante, al Petrarca, all'Ariosto, al Machiavelli, ecc. ecc., o vogliono essere riportate tutte, o vogliono essere taciute. Crediamo dunque miglior partito quello di dar qui un epilogo del discorso finale con cui l'autore conchiude la storia della letteratura italiana. Il silenzio nostro sul restante aggiunga stimoli alla curiositá dei dotti d'Italia, sicché eglino procaccino di leggere nel testo ciò che non senza frequente compiacenza vi abbiamo letto noi.

Tanto v'ha di memorabile, dice il signor Bouterweck, nella letteratura italiana, che la storia di essa merita una ricapitolazione.

Come l'uomo, per variar d'accidenti, nella sua vita non rinnega mai totalmente la sua prima educazione, cosí la letteratura italiana non si spogliò mai totalmente di quel carattere ch'essa assunse nel suo nascimento. Quando cinque secoli fa ebbero principio la poesia e l'eloquenza italiana, l'attuale civilizzazione europea era tuttavia ne' suoi primordi. E fra tutte le nazioni di Europa, l'italiana è la sola nella di cui letteratura [p.96] lo spirito di quei primi tempi abbia accompagnato sempre lo spirito de' tempi posteriori per tutti i periodi dello sviluppamento di esso.

Nella letteratura italiana è impresso il carattere della giovanezza della nuova civilizzazione europea, con tutte le sue naturali attrattive e coi suoi difetti. Quantunque i primi poeti d'Italia non si abbandonassero interamente, come i greci, a se medesimi ed al bisogno dell'anima loro, e non uscissero, come fecero i greci, dalla sola scuola della natura, la poesia loro nondimeno emerse dal complesso de' sentimenti che in essi destava la nuova civilizzazione; sentimenti che, piú forti quanto piú freschi, crearono nella poesia un certo vigore di gioventú che, l'una dopo l'altra, spezzò le catene di cui il pedantismo l'aveva gravata.

In tutte le migliori opere de' poeti italiani, mista alla bella veritá poetica scorgesi questa vigoria giovenile che si spigne innanzi sempre senza badare a ritegni. Ed anche lá dove i poeti sembrano sottomettersi alle antiche regole, la gioventú dello spirito, l'anima vera della poesia, non istá quieta, ma urta e rompe e s'apre la sua strada attraverso ogni metodica circoscrizione.

La bella poesia italiana non si piegò umilmente, come la francese, alle regole vecchie, ma lottò sempre contro di esse. Dante, il Petrarca, l'Ariosto, piú che alle regole, si lasciarono andare alla prepotenza del loro genio, al bisogno delle anime loro, e riescirono grandi nella libertá. Se se ne vuol levare la Gerusalemme del Tasso, tutti i poemi italiani, che, secondo i precetti de' pedanti, si direbbero regolari e perfetti, appartengono alla classe seconda o ad altra forse ancor piú bassa. Tutto ciò che v'ha di veramente poetico in Italia è dovuto alla libertá del vigor giovenile.

Mediante la storia della poesia italiana viene per la prima volta a confermarsi nelle letterature moderne questa veritá: che il poeta allora solamente ottiene il fine piú sublime e piú vero dell'arte, quando tien conto del carattere della sua nazione e del suo secolo, e non lo ributta sdegnosamente come inopportuno a' suoi intendimenti poetici. La poesia de' poeti [p.97] sommi d'Italia è poesia nazionale nello spirito del secolo in cui essi vivevano.

Pei poeti del Quattrocento, del Cinquecento e del Seicento non fu poco imbarazzo quello in cui li metteva da un lato la venerazione entusiastica ch'erano tentati di tributare alle cose degli antichi allora scoperte, e dall'altro la inconvenienza di ripeterne servilmente le forme estetiche. La critica di que' tempi, debole troppo, non bastò sempre a preservarli dalla cieca imitazione, alla quale pareva che dovesse indurre tutti gli intelletti educati alle scuole la maniera con cui spiegavasi la Poetica d'Aristotile, considerandola come un corpo di leggi assolute ed obbligatorie quanto quelle di Giustiniano. Come nel restante d'Europa, cosí anche presso gli italiani, specialmente del Seicento, non mancano esempi di cieca imitazione degli antichi. Ma tutti siffatti esempi, considerati come poesia, sono tutti miserabilissime cose, dall'Italia liberata del Trissino e dalla sua Sofonisba giú fino alle pedanterie di minor momento.

Per lo contrario in Italia chi ebbe in sé anima veramente poetica, sentí sempre, anche senza averla spiegata teoricamente a se medesimo, la differenza essenziale che vi ha tra la poesia romantica, cioè quella derivante dallo spirito della nuova civilizzazione, e la poesia degli antichi; e mostrò d'avere compresa l'essenza dell'una e l'essenza dell'altra quando accolse come piú inerenti al proprio intendimento poetico i costumi del suo secolo e della sua patria; e studiando daddovero gli antichi, pensò non esser conveniente il sagrificare alle lor forme poetiche le forme nuove, le quali erano piú conformi allo spirito della nuova poesia. Dante adorava Virgilio come se fosse un ente santissimo. Eppure a Dante non venne, no, in capo la tentazione di lavorare un poema eroico nella maniera di Virgilio. Il Petrarca era oltre ogni dire invaghito de' classici antichi tanto quanto della sua Laura. Ma il Petrarca cantò il proprio amore com'ei lo sentiva, nobilitando le maniere de' provenzali. L'Ariosto studiò Omero, ma volle a bella posta riescir diverso affatto da Omero. E finanche il Tasso, il Tasso medesimo non ardí spignere a tanto la imitazione del poema [p.98] eroico antico, da rinunziare al carattere romantico dell'epopea cavalleresca.

Parrebbe che nello spazio di cinque secoli, nel corso de' quali la civilizzazione non fu mai totalmente impedita ne' suoi progressi, ed in una terra come l'Italia, dove il sentimento del bello è tanto indigeno, la poesia e l'eloquenza, tenendo dietro ad ogni accidente dalla crescente civilizzazione, dovessero svilupparsi a poco a poco per tutti i modi possibili di varietá ed in tutte le forme che fossero in qualche armonia col modo di pensare e coi costumi universali della nazione. Com'è che ciò non avvenne? com'è che la pittura italiana non lasciò via alcuna intentata, cercando di conseguire l'originalitá per mille diverse maniere; e la poesia invece parve timorosa di novitá e rade volte escí della via battuta? Non è difficile il trovare nella storia della civilizzazione d'Italia lo scioglimento d'un tale enimma.

Assai piú che quelle del pittore, le invenzioni del poeta dipendono dall'educazione morale dell'intelletto. Ma presso gli italiani questa educazione morale non fu spinta mai a quel grado di voga, a cui salirono la erudizione e le dottrine ecclesiastiche. Nella moderna Italia, dal Trecento in poi, l'intelletto non ebbe mai quella piena libertá che lo aveva favorito nell'antica Grecia. E però il genio de' poeti italiani non poté mai volgersi ovunque gli piacesse con energia assolutamente libera. Angustiati essi da questi vincoli, non volsero mai il pensiero a trovare un modo di poetare che non procedesse dalle fonti dell'antichitá, non da quelle de' primi tempi romantici e del cristianesimo, ma sibbene da una nuova maniera di contemplare l'uomo e la natura. Il tentativo era per ragione politica pericoloso. Il riprodurre tal quali le forme poetiche degli antichi non piaceva alla nazione, perché la nazione sentiva romanticamente.

Tutto il complesso di queste circostanze fece sí che la poesia italiana, presa in totale, riescí assai piú ricca di melodia e d'immagini che non di pensieri e di riflessioni sull'uomo. (Pare che il signor Bouterweck voglia dire che la frequenza di tali [p.99] pensieri e riflessioni non può essere il frutto che di una libera e schietta considerazione dei fenomeni morali, degli avvenimenti pubblici, delle sventure, dei delitti, delle speranze, dei voti, dei rimorsi e de' miglioramenti, ecc., di una nazione; e che lo esprimere liberamente siffatte considerazioni non essendo sempre stato in potere dei poeti d'Italia, ciò li veniva allontanando anche dal farle).

Le cagioni, che ristrinsero la libertá intellettuale de' poeti per rispetto a' concepimenti, fecero forse in modo ch'essi, giovandosi d'una bella lingua e d'un clima ridente, si dessero invece a rendere sempre piú splendida ed elegante l'espressione de' loro concetti. Fra tutte le poesie dei moderni l'italiana certamente è quella che per riguardo allo stile, senza declinare dalla sua romantica novitá, piú s'accosta all'ideale della poesia degli antichi. Nell'arte di descrivere gli accidenti esteriori delle passioni, le situazioni, le azioni, ecc. ecc., i principali de' poeti italiani non sono forse superati da nessun altro poeta europeo. E tanto è il bello estrinseco della poesia italiana che, s'essa per avventura fosse alcunché piú ricca di valore intrinseco, pigliandola in totale, e piú variata nella sua ricchezza, nessuna poesia d'Europa potrebbe osare di contendere con essa pel primato.

Fin qui il signor Bouterweck. Noi abbiamo giá detto piú sopra come un'appendice, ch'egli aggiugnesse alla storia della letteratura italiana, riparerebbe alla trascuratezza con cui ne esaminò gli ultimi trent'anni del secolo scorso. Certamente non isfuggirebbono allora al guardo filosofico del nostro autore i meriti di tre illustri poeti recenti: l'Alfieri, il Parini ed il cavaliere Monti.

Senza voler qui fare un'analisi completa delle opere di questi tre illustri italiani, ci basterá accennare rapidamente alcune cose che riguardano appunto l'importanza de' pensieri e degli argomenti, con sí giuste querele desiderata dal signor Bouterweck nella poesia italiana presa in complesso.

L'Alfieri considerò la poesia e la trattò come un'arte destinata a diffondere nel pubblico le idee piú importanti sul merito [p.100] morale e sulle pubbliche istituzioni; idee che al poeta erano persuase dalla esperienza, dalla riflessione, dallo studio della storia, ecc. ecc. E quantunque le sue massime non sieno per altro sempre quelle che un'illuminata filosofia deve approvare, la poesia dell'Alfieri non pecca certo di futilitá.

Il Parini consacrò il suo immortale poemetto a deridere l'ozio e la mollezza, e contribuí a far cessare lo sciocco costume de' cavalieri serventi, abolito poi piú efficacemente dalle grandi vicende di cui siamo stati testimoni.

Il cavaliere Monti seppe con rara felicitá fondare sulla religione cristiana un suo epico componimento, ed arricchirne la poesia colla viva pittura di sciagure e di grandi delitti contemporanei; ed in un altro componimento consimile seppe esprimere con giusta indegnazione la corruttela e la perversitá che deturparono sovente a' giorni nostri i conquistatori ed i conquistati in Italia, ed esprimere coll'entusiasmo de' versi un lodevole amore dell'ordine pubblico.

|Grisostomo.|

[1] Geschichte der Poesie und Beredsamkeit seit dem Ende des dreizehnten Jahrhunderts, von |Friederich Bouterweck|.—Storia della poesia e della eloquenza, incominciando dalla fine del secolo decimoterzo , ecc., di |Federigo Bouterweck|, Gottinga, ecc. ecc.

[2] Il nome del signor Bouterweck è giá tanto conosciuto in Europa, che sarebbe un far torto ai colti italiani il dir loro chi egli sia.

[3] Noi limitiamo il discorso presente alla sola letteratura, pigliando il senso stretto di questo vocabolo, cioè «belle lettere». Nelle scienze (che fanno parte della letteratura intesa in senso piú ampio) non si vietava né era possibile vietare che gli studiosi profittassero delle scoperte degli altri popoli; ed infatti, o poco o molto, ne profittarono sempre.

[4] L'Andrés, quantunque spagnuolo, è da considerarsi come autore italiano, perché scrisse il suo libro nella nostra lingua.

[5] Il signor Bouterweck fissa il principio della storia e della eloquenza moderna ad un'epoca anteriore di pochi anni a quella di Dante.

[6] |Tacito|, Germania, c. 8.

[7] Al vocabolo francese «traineur» non troviamo equivalente italiano. «Sezzaio» sarebbe forse l'unico. Ma, oltreché non rende intera l'idea di «traineur», è parola che sa troppo del tanfo di fra Bartolomeo e di fra Iacopone, tanto che oggidi fa stomaco ad ogni galantuomo.

[p.101]

VII

|Intorno al significato del vocabolo «estetica».|

Fu ricapitata non ha guari ad uno de' nostri amici una lettera senza data né indicazione alcuna del luogo ove dimori la signora che la scrisse. Voglioso di far pervenire alle mani di lei una risposta, né sapendo come far meglio, ci pregò egli di inserirla nel nostro giornale, preceduta dalla lettera di madama.

Ecco l'una e l'altra.

I

Signore,—Siete pur gente goffa voi letterati! Vi dolete che nessuna donna legga le cose vostre, e fate poi ogni possibile perché i vostri scritti non riescano leggibili. Al vedervi cosí fieri dei vostri periodoni a perdita di fiato, cosí innamorati delle vostre frasi rancide e di tutte quelle disgrazie con tanto di barba che voi altri chiamate «grazie di lingua», sono tentata di credervi tutti quanti uomini di coda e cipria e barolé. E voi sentite bene che in faccia a noi donne questi ornamenti non sono una buona raccomandazione. Cari goffi davvero! E non vi basta neppure di usare un linguaggio che per intenderlo s'abbia ad aver ricorso ogni tratto al vocabolario; che anzi andate a bella posta pescando, chi sa dove, certe parolacce che ne' vocabolari si cercano invano. Vi dimando un poco se questo è senso comune o indizio almeno di buona creanza. Perdonate, ma siete incivili. E se pochi vi leggono, vi sta bene.

Io per altro non sono donna di lunga collera; e sfogato cosí un poco il dispetto, v'offro, se vi piace, il mezzo di far la nostra pace. Eccolo: spiegatemi che cosa vuol dire «estetica»; che sia il «diletto estetico» ed il «bisogno estetico»; che cosa significhi «interesse estetico».

[p.102]

M'era immaginata che in queste parole vi fosse del greco; e ne domandai la spiegazione a mio marito, che è uomo di lettere e che conosce il suo greco meglio di tutt'altra cosa. Ma non mi ha voluto fare alcuna risposta, e solo, voltandomi le spalle con aria di disprezzo, esclamò:—Corbellerie! corbellerie!—Vedete come sono poco compiacenti i mariti. Siatelo voi di piú, e riparate l'offesa fatta al mio amor proprio dai vostri confratelli che parlano senza lasciarsi intendere. Ma se volete proprio obbligarmi, fate che il favore sia intero; e nella vostra risposta mandate al diavolo tutte le caricature, e parlate chiara e tonda la lingua italiana del 1818. Altrimenti farò della vostra lettera quello che fo di certi giornali: me ne servirò la sera per incartare i miei ricci.

Sono col piú profondo rispetto

vostra serva |Ingenua|.

II

Madama gentilissima,—Probabilmente il di lei signor marito avrá avuta la sua buona ragione per chiamare «corbelleria» l'estetica. E questa buona ragione sará probabilmente l'avere egli, dal matrimonio in fuori, rinunziato interamente al secolo. Ai nostri giorni lo studio della lingua greca, quando è principale e non accessorio[1] ad altri studi piú importanti, fa per lo piú degli uomini ciò che di essi facevano un tempo i deserti della Tebaide: li separa affatto dal mondo e dalle sue pompe e mette loro nel cuore il disprezzo della vita presente. Veneranda era l'austeritá degli anacoreti, e veneranda sia anche quella dei grecisti. Né dell'una né dell'altra è lecito a noi miseri mondani il giudicare.

L'Enciclopedia, all'articolo Esthétique, spiega bastantemente che cosa significhi «estetica». S'Ella vorrá compiacersi di leggere quell'articolo, vedrá, ch'Ella aveva immaginato bene credendo derivato [p.103] dal greco il vocabolo che le riesce nuovo. «Aisthesis» vuol dire «senso» o «sentimento». E l'estetica è appunto il complesso delle teorie del sentimento. La spiegazione che ne dá l'Enciclopedia mi dispenserebbe, madama, dal noiarla ora piú lungamente. Ma Ella davvero con quella sua lettera s'è manifestata per donna capace di dare utilissimi consigli; ed io amo tanto la conversazione delle gentili signore, che, lasciata da un canto l'Enciclopedia, non posso tenermi di non aggiugnere qualche parola mia alle altrui in servizio di una signora che, senza farsi conoscere, mi s'è giá resa simpatica. Ecco, madama, un vero bisogno estetico per me. Ringrazio l'oscuritá di questa frase dell'occasione che mi dá di poter protrarre il discorso con una persona amabile.

Vi sono delle cuffie e de' cappellini belli, delle cuffie e de' cappellini brutti. Se a madama venisse in mente di volersi occupare del come debbano esser fatti, perché mi piacciano, bisognerebbe ch'ella s'informasse delle regole dell'arte della modista. Vi sono de' bei versi e dei brutti versi. A chi è curioso di sapere perché piacciano i primi e non i secondi, conviene cercare quali siano le qualitá necessarie perché un componimento poetico rechi diletto.

Lo stesso dicasi per rispetto alla musica, alla pittura ed alle altre arti. Vi sono de' pezzi di musica commoventi o sublimi, ve n'ha d'insipidi; delle belle facciate di palazzi, e delle sproporzionate o barocche.

Il cappellino, la cuffia, i versi, la musica, la pittura, la facciata del palazzo, il bassorilievo, ecc. ecc. ecc., hanno tutti questo di comune: che piacciono quando sono belli e perché sono belli. Si può dunque cercare le cagioni comuni di questo effetto comune, cioè ricercare in genere le qualitá che si trovano in tutti gli oggetti belli ed aggradevoli. L'estetica è appunto la scienza che si propone questo scopo. Ma ad esso solo non si arresta, perché discende anche ad osservazioni speciali risguardanti ciascuna specie di oggetti diversi; e quindi discorre delle qualitá speciali che deve avere una bella musica, un bel componimento poetico, un bel giardino, ecc. ecc.

Sono persuaso che a quest'ora Ella sa ottimamente ciò che s'intenda per «estetica». Però si contenti ch'io procuri di soddisfare alle altre domande fattemi coll'arguto di lei viglietto.

Ella avrá bramato piú volte che un'opera nuova al teatro della Scala riescisse bene, perché avrá avuto desiderio di udire la sera [p.104] delle belle ariette e de' bei pezzi concertati. Poiché lo desiderava. Ella dunque, madama, ne aveva un bisogno. E questo bisogno di venir dilettata dal bello musicale è «bisogno estetico». Ed è pure «bisogno estetico», se l'oggetto del desiderio è vedere un quadro, leggere de' bei versi, parlare con persone amabili, ecc. ecc. ecc.

Il «piacere estetico» è quello che si prova ascoltando la bella musica, mirando la bella pittura, leggendo i bei versi, udendo i ragionamenti leggiadri, e cosí via.

L'«interesse estetico» per ultimo è un termine che ha vari sensi. Alcune volte si usa come sinonimo di «bisogno estetico», alcune volte come sinonimo di «piacere estetico», ed altre volte con altro significato. Quand'Ella, madama, udiva qualche bel finale del Rossini, o vedeva qualche bel quadro in un ballo del Viganò, Ella non poteva lasciar d'esclamare colla parola oppur col solo atto della mente:—Bello! bellissimo!—Ora quel «bello! bellissimo!» che altro era se non una confessione della potenza di dilettare ch'Ella riconosceva nel finale o nel quadro? E questa potenza di dilettare è precisamente l'«interesse estetico» nel terzo significato.

Non le faccia stupore di udire che una parola viene usata in vari sensi. Purtroppo è ancor lontano quel tempo in cui l'ideologia e la grammatica filosofica avranno fatto tutti i progressi che ci vogliono, perché possa cessare questo abuso e questo inconveniente.

Ho lasciato scappare a bella posta il vocabolo «ideologia». Se per avventura Ella non l'intendesse, mi offro pronto a spiegarglielo verbalmente. La prego di non sapermi male di questa poca astuzia suggeritami dal desiderio estetico di mettermi nel numero de' di lei ammiratori e servi. Mi comandi sempre e mi creda

di lei obbligatissimo servitore

|Grisostomo|.

[1] Colla distinzione di «studio accessorio» e di «studio principale» Grisostomo ha voluto separare i dotti da' pedanti. Lo studio del greco fu, per esempio, accessorio nello Schlegel, che se ne serví per penetrare nello spirito delle tragedie greche piú addentro di qualunque erudito; ed è parimente accessorio in chi ne profitta per far dono all'Italia d'ottime traduzioni di que' capi d'opera.

[p.105]

VIII

|Di un libro sulla romanticomachia[1].|

Questo libretto uscito di fresco agli sguardi dei torinesi è anonimo. L'editore, per altro, delle 179 preziose pagine che lo compongono ci fa avvertiti com'esso sia «un nuovo parto di quella medesima penna a cui giá siamo debitori dell'erudito Pedanteofilo», che è quanto dire, crediamo noi, di quella penna che scrisse altresí quattro infelici Lettere contro Alfieri.

Anche senza il sussidio dell'editore, sarebbe forse venuto fatto di raffigurare all'abito bianco il mugnaio, s'è pur vero che in questa nuova «dotta elucubrazione» sieno rinfrescati «a maniera di allusione», come a taluno è sembrato, alcuni tratti in dispregio del tragico italiano; ciò che deve far parimente rivivere l'indegnazione de' classicisti non meno che de' romantici.

L'intenzione attuale dell'anonimo torinese è di metter pace appunto tra' romantici ed i classicisti. Però fa d'uopo saper grazie a lui di cosí onesta intenzione.

Finora s'era creduto da noi e dai fatui pari nostri che, a volere con qualche speranza di buon successo intromettersi tra due litiganti onde temperarne l'ire e ridurli ad un accordo, fossero indispensabili nel mezzano della pace tre condizioni: 1 godere la confidenza d'entrambe le parti litiganti; 2 conoscere lo stato della quistione; 3 avere qualche pratica delle materie alle quali essa si riferisce.

[p.106]

Ma il sapiente anonimo ci mostra ch'egli è di tutt'altro parere; e smentisce col proprio fatto la necessitá di quelle tre condizioni da noi temerariamente venerate. Noi pensiamo ch'ei sia uomo probo e leale; però, non essendoci in tal caso da sospettare peccati d'impostura per parte di lui, noi stiamo zitti.

I quattro libri della Romanticomachia sono destinati dall'autore ad essere una storia delle guerre tra i classicisti ed i romantici. Ma, siccome per entro a que' libri non appare orma di veritá istorica, cosí crediamo che l'autore preferisse a bella posta il genere romanzesco. La Romanticomachia ci par dunque dovere essere considerata come un romanzo. È un romanzo allegorico da cima a fondo, perché l'autore, amando di far ridere, ha scelto l'allegoria perpetua. E tutti sanno che l'allegoria perpetua, massime quando l'allegorista non ne dá la chiave che a pochi suoi famigliari, anziché persuadere gli sbadigli, è la piú efficace promotrice del riso universale.

Terminati i quattro libri, l'autore nell'appendice spiega con severitá filosofica tutta la pompa delle proprie teorie letterarie, mettendole modestamente in bocca d'Urania. Molte sono le stupende novitá teoriche che noi impariamo da siffatta appendice, e tutte opportune a' casi concreti; come a dire questa: che nell'umana natura stanno i principi fondamentali d'ogni arte, principi che sono indeclinabili; e quest'altra: che per saper discernere il bello dal brutto bisogna aver sottile criterio; e quest'altra a un di presso; che per poter fare bei versi bisogna saperli far bene, ecc. ecc. ecc.

Tutto poi questo romanzo, o lodo o arbitrato che lo si voglia chiamare, è scritto in lingua purgata, ma di quella veramente legittima. Né mancano qua e lá alcuni lievi solecismi, ad imitazione della franca trascuratezza degli scrittori nostri piú antichi.

Lo stile adoperato dal torinese è lodevole oltre ogni dire. Sta di mezzo con bella proporzione tra quello dell'Arcadia di Iacopo Sannazaro e quello delle prediche di don Ignazio Venini. L'amplificazione è la figura rettorica che il nostro autore maneggia con padronanza assoluta e con piú frequente predilezione.

[p.107]

Del buon gusto di lui sia prova il seguente passo, tolto alla ventura dalla pagina 14. È una invocazione; perché senza invocazioni non si può far nulla di buono:

O immenso e non sempre lucido specchio della storia, da cui tutte, bene o male, si riflettono le accolte immagini dei grandi e piccoli eventi, concedi per poco che, nell'ampio e disuguale tuo seno fissando gli occhi, io giunga a scoprire del fatale romanticismo l'annebbiata sorgente ed i tortuosi meandri. Cosí forse mi succeder di potere dal vero genere romantico discernere il falso sistema, che ne usurpa, in un col nome, la gloria.

E qui sappia tra parentesi il lettore che l'anonimo fa una distinzione tra il vero genere romantico ed il romanticismo; distinzione che deve essere una bellissima cosa, dacché noi non sappiamo intenderla.

Per tenere il nostro articolo in giusta armonia col libro di cui si tratta, noi non entriamo in materia e stiamo superficiali, superficialissimi. Questo astenerci dalle soperchierie ci è suggerito dalla buona creanza. Grati noi per altro al paciere torinese pel lodo od arbitrato con cui trasse a fine le discordie letterarie, lo preghiamo di accettare, secondo che si usa in tali casi, come pagamento della sentenza, o, se piú gli piace, come regalo, senza obbligo di sborsare mancia veruna allo staffiere che glielo presenta in nome nostro, le quattro seguenti notizie letterarie, delle quali, quantunque vecchiette, abbiamo veduto nella Romanticomachia essere egli ignaro affatto. Il sapiente torinese mostra d'aver dato retta a tutte le accuse gratuite che i classicisti fecero a' romantici, e d'essere stato contento a quelle, senza degnarsi di dare uno sguardo agli scritti di questi.

I.—I romantici stimano molte parti delle poesie attribuite ad Ossian, ma non ne hanno mai consigliata l'imitazione.

II.—I romantici non vogliono nelle poesie dei moderni gli dèi d'Omero, ma proscrissero sempre altresí quelli dell'Edda. E se amano di vedere nell'Ariosto ed in Shakespeare le maghe e le streghe, non suggerirono mai a' poeti viventi di ammetterle ne' loro canti, quando non sieno piú vive nella credenza del popolo.

[p.108]

III.—I romantici non ricusarono mai di sottostare alle regole stabilite dalla natura e dalla ragione. E però eglino professarono sempre di star volentieri sottoposti a quel codice poetico a cui obbedirono Dante, il Petrarca, l'Ariosto, Shakespeare ed altri siffatti galantuomini.

IV.—I romantici non dissero mai che le poesie de' moderni debbano esclusivamente trattare delle cose cavalleresche e del medio evo. Né, deducendo pei loro canti argomenti e memorie storiche dal medio evo, intesero mai di voler persuadere gli uomini a darsi all'antica barbarie; come neppure i classicisti, ricantando la guerra troiana, hanno in animo di suscitare tutti i mariti moderni a pigliar vendetta della infedeltá delle lor mogli colla strage di centomila persone.

Speriamo che anche la parte contraria vorrá premiare con qualche regaletto del suo l'ingenua mediazione del sapiente anonimo.

|Grisostomo|.

[1] Della romanticomachia, libri quattro. Torino, 1818, co' tipi di Domenico Pane, stampatore di S. A. I. il principe di Carignano.

[p.109]

IX

|Guerre letterarie in italia| [1].

In Lipsia la fiera di San Michele fu quest'anno ricchissima di nuove produzioni letterarie. Una fra le altre ce ne capitò alle mani, singolare molto pel suo argomento, ed è quella che annunziamo.

Bisogna dire che in Germania la turba degli scrittori sia immensa, e la smania dello scrivere ardentissima in essi, da che vediamo ne' cataloghi registrarsi libri ed opuscoli a centinaia, che, per quanto si può desumere da' frontispizi, sembrano trattare di cose forse non troppo interessanti pei popoli nella lingua de' quali sono scritti. Questo del signor Niemand ce ne somministra un esempio, perché, a dir vero, non ha altro scopo in apparenza che quello d'essere utile a noi italiani.

Ma che gli italiani vogliano giovarsene non è da credere. Noi teniamo anzi per fermo che la memoria del signor Niemand e del suo bel libretto non durerá in Italia piú delle ventiquattro ore che la fortuna suole conceder di vita ad un numero del Conciliatore. Il signor Niemand si contenti dunque di divider con noi i nostri destini e la nostra pazienza. Di piú non possiamo fare per lui.

L'autore sembra essere uomo erudito e, quel che piú importa, zelatore sincero della probitá. Il presente libretto è da considerarsi come l'emanazione di un'anima onesta. E le sole persone oneste potrebbero leggerlo senza irritarsi delle frequenti [p.110] allusioni che vi si trovano alle sentenze bibliche, e della franca indegnazione con cui l'autore si oppone al vizio.

Il signor Niemand è di parere che le dispute letterarie sieno per se stesse giovevolissime allo scoprimento della veritá ed alla propagazione dei lumi. Non biasima una leale e discreta ambizione ne' disputanti; perché, senza questa potentissima molla delle umane azioni, crede egli improbabile che un uomo voglia sottoporsi al peso degli studi (su questa improbabilitá noi forse siamo di opinione qualche poco differente). Combina egli la nobile ambizione coll'amore schietto e disinteressato della veritá e col dovere che gli uomini hanno di essere utili agli uomini. E però giudica che in faccia al pubblico non abbiano diritto di disputare intorno a cose letterarie che le sole persone d'incolpabile morale.

Ma questo parlar di diritti, quando prevale assoluta in contrario la prepotenza de' fatti, sa dell'inutile all'autore. Quindi, lasciate le teorie astratte, si dá egli a tessere la storia delle contese letterarie degli italiani, incominciando da quelle che nel decimoquinto secolo il Poggio ebbe con Francesco Filelfo e Lorenzo Valla e Giorgio di Trebisonda, ecc. ecc., e scendendo giú fino a quelle tra'l Parini ed il padre Branda, tra'l Baretti ed il Bonafede, e ad altre ancor piú recenti.

L'intenzione dell'autore, nel riandare tante epoche di scandalo e tanti aneddoti, com'egli dice, di «contaminazione», è quella di dimostrare che i letterati d'Italia nelle loro controversie declinarono pressoché sempre dall'ingenuo fine di esse per servire ad interessi ed odii personali; e che, cosí facendo, rivolsero a vero danno della sapienza quel mezzo medesimo che par piú destinato a favorirla.

Egli confessa che alcuni pochi de' litiganti furono uomini per altro ornati di molte virtú. Però deplora la trista consuetudine italiana, che talvolta induceva a traviamento anche i buoni (fu per noi una vera consolazione il vedere nel breve elenco di questi ultimi il nostro Parini). Poi fa notare quegli altri che da semplice esuberanza di bile o da semplice invidia della fama altrui furono mossi a svillaneggiare i loro rivali (e qui l'elenco [p.111] cresce assai in lunghezza). Finalmente stabilisce per muovente massimo delle inimicizie letterarie nei piú l'interesse pecuniario (e qui, se pure è lecito scherzare sulle umane miserie, la lista par quella delle belle tradite da don Giovanni).

Il commercio librario fu sempre angustiato in Italia dalle tante divisioni territoriali, e da questo: che in tutta l'Italia, comparativamente alla numerosa popolazione della penisola, non fu mai abbondanza di lettori, massime paganti. Quindi i letterati, non potendo ritrarre sufficienti ricompense dagli stampatori, si rivolsero quasi sempre a' principi ed a' governi.

Stretti da altri doveri piú sacri, i governi non poterono sempre contentar tutti i letterati. Però, crescendo la frotta de' concorrenti, non bastava la pastura, e i begli ingegni bisognava spesso che se la strappassero l'un l'altro di bocca. In alcuni di essi era malvagitá vera, in altri debolezza, in altri la pazienza si lasciava stancare dalle provocazioni ripetute. Chi pigliava l'armi per assalire, chi per respingere gli assalitori. E le armi erano ingiurie, calunnie, contumelie, accuse pubbliche, delazioni segrete, propalazioni d'infamie domestiche, rinfacciamenti di fellonie, ecc. ecc. ecc.

Gli spettatori maligni ridevano, la gente dabbene fremeva. E la maggior parte del popolo, confondendo le lettere co' letterati, chiamava «infami» quelle, perché sovente vedeva infami questi. La sapienza non ci guadagnava mai nulla, l'arte critica non progrediva d'un passo, perché la sapienza e la critica nulla hanno di comune colle villane animositá individuali. Ogni generazione di letterati biasimava queste pessime arti nella generazione precedente, poi correva ad imitarla coi fatti.

Cosí la storia delle contese letterarie degl'italiani non presenta altro che una miserabile successione di guerre personali da far ribrezzo ad ogni uomo che senta altamente in suo cuore la dignitá e l'importanza delle lettere. E cosí i letterati d'Italia crebbero tante spine all'esercizio della letteratura, che al letterato onesto diventò pericolosa perfino la sua onestá.

Il signor Niemand parla sempre co' fatti alla mano, per modo che ci piange il cuore, ma dobbiamo pur dire ch'egli in gran [p.112] parte ha ragione. E se la vergogna può in noi qualche cosa, vaglia questa volta ad avvertirci come gli stranieri ci tengano l'occhio addosso, e come ci convenga camminare con prudenza e saviezza, onde non sieno da essi ricantate all'Europa le nostre turpitudini.

L'ultima volta ch'io fui in Italia, e saranno forse dieci anni—cosí dice alla pagina 224 il signor Niemand,—mi fermai lungo tempo in Milano. Ho veduto ivi agli ingegni nascenti strozzarsi dagli anziani le parole in bocca, la riputazione de' provetti lacerata da' provetti. Ho veduto ivi una lega di letterati mischiare insieme con perfide arti la fede letteraria alla fede religiosa e morale, per modo da far scontare con pene civili le innocentissime opinioni letterarie ai disgraziati ch'erano in odio alla lega. Ho veduto un uomo, che per altro godeva molto credito presso alcuni, il signor Lamberti, stabilire perfino questo assioma e stamparlo nel Poligrafo: che chiunque contraddicesse ad un'opera o ad una sola sentenza letteraria d'un pubblico professore nominato dal sovrano, contraddiceva al sovrano medesimo ed era ribelle alla sovranitá. Non credo che il governo sancisse allora in diritto queste massime di tirannia. Che importa? Il solo pronunziarle era un'offesa alla ragione de' buoni.

Ma la piú tranquilla saviezza degli attuali governi d'Italia mi fa certo che i costumi dei letterati italiani sieno ora cambiati in meglio. Ed io me ne rallegro davvero colla terra bella e gentile che avrei invocata da Dio per patria mia, se l'uomo potesse prima di nascere invocar la patria ch'egli vorrebbe.

Giovinsi dunque santamente della nuova fortuna i letterati. Trattino le loro quistioni con quell'ardore che viene dall'anima innamorata del vero; ma non s'irritino delle opposizioni. Tutte le veritá letterarie e scientifiche hanno dovuto aprirsi la via attraverso ostacoli infiniti. Ma se una generazione bestemmia contro il Galileo e lo imprigiona, la generazione che siegue non si cura di sapere i nomi de' bestemmiatori, e corre a Firenze a baciar piangendo il sacro dito del Galileo.

«Via sapiens plebem suam erudit». E voi, o letterati d'Italia, fate partecipe della vostra dottrina la plebe vostra. E se la plebe vi vuol dettare essa leggi e dottrine, lasciatela fare pazientemente; ma non pigliate consiglio che da voi o dai piú sapienti di voi. [p.113] Ricordatevi che, se l'Ariosto avesse dato ascolto al parere del cardinale, il Furioso sarebbe scritto in latino, e la fama dell'Ariosto sarebbe una miseria. La probitá sia nel cuor vostro e la persuasione sulle vostre labbra. Ma delle vostre pacifiche discussioni non chiamate mai in sussidio i governi, perché già questi, come savi che sono, non vi darebbero retta. E innanzi a tutto procurate di mostrarvi obbedienti e fedeli e tranquilli sudditi piú che sapienti agli occhi de' vostri sovrani, non dimenticando mai il santo detto della Scrittura: «Coram rege noli velle videri sapiens».

|Grisostomo|.

[1] Kurzgefasste Uebersicht der literarischen Streitigkeiten in Italien von X. |Niemand|. Stettin. 1818, bey Friederich Nicolai.—Esposizione compendiosa delle guerre letterarie in Italia di X. |Niemand|. Stettino, 1818, presso Federico Nicolai [libro inventato dal B., per dare al suo articolo apparenza di recensione].

[p.114][p.115]

X

LETTERA DI GRISOSTOMO
AL MOLTO REVERENDO SIGNOR CANONICO DON RUFFINO

Signor canonico,

Ho letto con vera compunzione la garbatissima lettera scrittami da V. S. in difesa del Tiraboschi. Non avrei mai creduto che quel mio breve cenno nel numero 21 del Conciliatore, ov'io rinfaccio al Tiraboschi penuria di filosofia, dovesse recar tanta offesa alla coscienza letteraria d'alcuni fra' miei concittadini. Me ne duole infinitamente, e sento purtroppo che il torto è tutto mio. Fo l'uomo di lettere e non ne so l'arti. Se io fossi letterato davvero ed italiano di cuore, non oserei pensare, non oserei scrivere ciò che io penso: non avrei letto mai il Tiraboschi, e di lui non avrei detto mai altro, se non che «il chiarissimo, l'eruditissimo, il sapientissimo Tiraboschi». Ma il male è fatto: pensiamo al rimedio.

Prima di tutto la ringrazio, signor canonico, del lungo elenco dei lodatori del Tiraboschi, ch'Ella si compiacque d'inviarmi. Quell'elenco mi ha persuaso, e la perorazione del di lei discorso mi ha cavate le lagrime. Che vuole Ella di piú? Si lasci intenerire dalle lagrime mie, e tra me e lei sia pace.

Ma non basta ancora. lo deggio alla veritá ed all'onore della patria una pubblica e solenne testimonianza della mia conversione. Dichiaro dunque a V. S., e con essa a tutti i canonici di lei confratelli, che io convengo pienamente nel parere dei dottori italiani, e dico che hanno veramente ragione ragionevolissima di venerare il Tiraboschi come profondissimo filosofone, e di disprezzare madama de Staël come frivolissimo intellettuzzo.

[p.116]

L'uomo che sacrifica l'amor proprio e il proprio decoro mondano alla veritá, e con aperta confessione si ricrede de' suoi falli, non debb'essere confuso col peccatore ostinato. E però spero che i dottori italiani mi saranno liberali di qualche compatimento. Ad essi non importa, per altro, ch'io dica quali argomenti mi abbiano persuaso tutto ad un tratto tanta divozione per la filosofia tiraboschiana e tanto disprezzo per madama di Staël, di cui ho lasciata scappare dalla penna qualche lode in quel benedetto Conciliatore.—Sciagurata donnicciuola, qualche poco anche, per amor tuo, io era diventato lo scandalo del mio paese!—Ma a lei, signor canonico, io non voglio tacere che ad operare la mia conversione Ell'ebbe un potentissimo sussidiario in certo accidente tutto fortuito. Si contenti ch'io glielo narri alla distesa.

Col rimorso che in virtú della garbatissima di lei lettera mi serpeggiava giá per l'anima, io mi stava iersera invocando il sonno che non veniva. Piglio un libro: non fa per me. Ne piglio un altro: non mi contenta. Sporgo impaziente la destra piú in lá, e la mi vien posta sul tomo primo De la littérature di madama di Staël. Aprolo a caso; e mi cade sotto lo sguardo quel passo a pagina 181 e seguenti, che tratta delle ragioni per le quali la tragedia presso i romani non salí in grande celebritá.

Eccolo tal quale. A V. S. non fa bisogno che sia tradotto in italiano, perché l'intenda.

Les combats des gladiateurs avaient pour objet d'intéresser fortement le peuple romain par l'image de la guerre et le spectacle de la mort; mais, dans ces jeux sanglans, les romains exigeaint encore que les esclaves sacrifiés à leurs barbares plaisirs sussent triompher de la douleur, et n'en laissassent échapper aucun témoignage. Cet empire continuel sur les affections est peu favorable aux grands effets de la tragédie: aussi la littérature latine ne contient-elle rien de vraiment célèbre en ce genre. Le caractère romain avait certainement la grandeur tragique; mais il était trop contenu pour être théatral. Dans les classes même du peuple, une certaine gravité distinguait toutes les actions. La folie causée par le malheur, ce cruel tableau de la nature physique troublée par les [p.117] souffrances de l'âme, ce puissant moyen d'émotion, dont Shakespeare a tiré, le premier, des scènes si déchirantes, les romains n'y auraient vu que de la dégradation de l'homme. On ne cite même dans leur histoire aucune femme, aucun homme connu, dont la raison ait été dérangée par le malheur. Le suicide était très-fréquent parmi les romains, mais les signes extérieurs de la douleur extrêmement rares. Le mèpris qu'excitait la démonstration de la peine, faisait une loi de mourir ou d'en triompher. Il n'y a rien dans une telle disposition qui puisse fournir aux développements de la tragédie.

On n'aurait jamais pu, d'ailleurs, transporter à Rome l'intérêt que trouvaient le grecs dans les tragédies dont le sujet était national. Les romains n'auraient point voulu qu'on représentát sur le théatre ce qui pouvait tenir à leur histoire, à leurs affections, à leur patrie. Un sentiment religieux consacrait tout ce qui leur était cher. Les athéniens croyaient auz mémes dogmes, défendaient aussi leur patrie, aimaient aussi la liberté; mais ce respect qui agit sur la pensée, qui écarte de l'imagination jusqu'à la possibilité des actions interdites, ce respect qui tient à quelques égards de la superstition de l'amour, les romains seuls l'éprouvaient pour les objets de leur culte.

Dopo tutta questa tiritera d'inezie, do un'occhiata alle note a piè di pagina, poi ad altre pagine piú avanti e ad altre piú indietro; e m'accorgo che la povera madama de Staël non sa cosa si dica, e non trova altra soluzione del problema fuorché nell'analizzare le instituzioni civili ed il carattere morale pubblico de' romani, e nel derivarne la nullitá del loro teatro tragico.—Che libro superficiale!—diss'io allora—che miseria d'ingegno!—E mi si schiusero gli occhi dell'intelletto, e sbadigliai su' miei traviamenti, e corsi ripentito a spolverare i volumi del Tiraboschi, sovvenendomi che anch'egli aveva parlato su questa materia. Corro all'indice; salto di lá al tomo primo, e mi innamora tosto la gravitá di quelle parole a pagina 174, § LI:

Prima di passar oltre, parmi che una non inutil quistione debbasi a questo luogo trattare, cioè per qual ragione, mentre in ogni altro genere di poesia arrivarono i romani a gareggiare co' greci, nella teatral solamente rimanessero sempre tanto ad essi inferiori.

[p.118]

Io proseguiva a leggere; ma mi convenne obbedire al Tiraboschi, che mi rimandò molte pagine indietro. Dal qual mio viaggio retrogrado venni a raccogliere che prima de' bei tempi della romana letteratura la poesia teatrale non era ancor molto in fiore, «per la ragione che l'arte di poetare non era in quell'onore che convenuto sarebbe».

Illuminato di tanto, tornai al § LI, onde sapere «perché nel piú bel secolo della romana letteratura la poesia teatrale non giugnesse a maggior perfezione». E qui confesso l'alta ammirazione che svegliò in me la logica semplice e chiara, e nondimeno profondamente intuitiva, con cui il chiarissimo Tiraboschi, sorretto da Orazio, ebbe la bontá di confidarmi che questo non fiorire della tragedia presso i romani proveniva dallo «strepito grande che facevasi nel teatro, sicché appena vi si potevano udire ed intendere i versi», ecc. ecc. «Garganum»—ripeteva il suggeritore del Tiraboschi—

Garganum mugire putes nemus aut mare tuscum, tanto cum strepitu ludi spectantur, ecc.

Che consolazione fu allora la mia, stimatissimo don Ruffino, nel vedere appagata cosí bene la mia curiositá! Questa è ben altra filosofia che quella di madama! Chi niega al Tiraboschi acume di speculativo intelletto, o è stolido o è mentitore o è novatore. Ecco come in poche righe viene dal sapientissimo Tiraboschi stabilito un gran principio filosofico, il quale, come tutti i gran principi filosofici dell'universo, riesce applicabile in ogni tempo ad altri fenomeni. In virtú di esso io mi sento capace di spiegare le ragioni per cui al teatro la tale o tal altra opera in musica non è bella. E dico cosí:—La tale opera non è bella perché non la si ascolta.—E mi guarderò bene dal ripetere col volgo:—Non la si ascolta perché non è bella.—

Cosí l'importunitá della veglia e l'opportunitá della lettera di V. S. contribuirono entrambe a convertire al Tiraboschi un amico traviato, quale davvero mi pregio di essere sempre di V. S. molto reverenda.

|Grisostomo|.

[p.119]

XI

INTORNO ALL'«ORIGINE DELLE LETTERE» DEL ROSCOE[1]

L'eloquenza di Gian Giacomo Rousseau non bastò a persuadere all'Europa che le lettere fossero dannose all'umana societá. Nel discorso del ginevrino i popoli vollero ravvisare piú la bizzarria del paradosso che l'animo dell'oratore, e salvarono cosí il rispetto dovuto a quell'uomo singolare. Senza entrare a discutere una quistione puramente speculativa, che non condurrebbe ad alcuna utilitá pratica, chi considera l'attuale nostra civiltá, e non è stolido o perfido, vedrá essere dover suo il contribuire quel tanto che egli può al miglioramento della coltura pubblica, ed il combattere sempre piú la tristezza di quei pochi che vorrebbero far della sapienza un monopolio e tener nella ignoranza il prossimo, onde non trovar contrasti a' lor maligni disegni. Noi siamo ora in tale condizione, che il retrocedere in fatto di studi, e non giá il progredire, ci trarrebbe in precipizio.

E però, seguendo l'intendimento de' buoni, suggeriamo con ingenua persuasione agl'italiani di leggere il discorso fatto dal signor Guglielmo Roscoe all'Instituto reale di Liverpool; discorso che appunto è indirizzato a raccomandare la propagazione de' lumi in tutte le classi de' cittadini, siccome mezzo di prosperitá nazionale.

[p.120]

Il nome del signor Roscoe dovrebbe, pare a noi, suonar caro all'anima d'ogni italiano quanto quello d'un nostro compatriota. Qualunque sieno le macchie che una critica imparziale possa scorgere nella Storia di Lorenzo il Magnifico ed in quella di Leone decimo, nessun italiano di coscienza gentile può negare una testimonianza di gratitudine all'amore con cui il signor Roscoe, riparando all'inerzia de' nostri dotti, tolse a' misteri delle biblioteche e degli archivi e trasse in nuova luce innanzi all'universale de' lettori tante memorie della grandezza italiana.

Se l'espressione dell'amor patrio consistesse, siccome vorrebbero certi superstiziosi, nel far brutto viso a chiunque non nacque dentro una delle periferie de' nostri municípi, noi dovremmo, come italiani che siamo, rinunziare altresí a riconoscere per nostro concittadino l'autore della storia delle nostre repubbliche. Ma, grazie a Dio, il vero amor della patria è tutt'altra cosa; ed il signor Sismondi, come illustratore dei fasti dell'Italia, vivrá sempre nella piena riconoscenza dei veri italiani. E di siffatta riconoscenza avrá la sua parte, benché in proporzione minore, anche il signor Roscoe.

Il tema scelto a trattare dal signor Roscoe nel discorso che oggi annunziamo è assai vasto. Egli si propone nientemeno che d'investigare le cagioni dell'origine e de' progressi delle scienze, delle lettere e delle arti, di riandare le vicissitudini ch'esse incontrarono, e di mostrare quanta relazione abbiano co' piú importanti accidenti della vita individuale e quanta influenza sulla felicitá generale de' popoli. L'intenzione massima del suo discorso è santissima. Egli vorrebbe condurre gli uomini ad un grado eminente di virtú civile e di prosperitá domestica mediante un esercizio maggiore delle loro facoltá intellettuali. Le massime filosofiche, i raziocini, gli esempi dimostrativi sparsi nel discorso sono tali da manifestar sempre l'onestá sincera dell'oratore. E soprattutto ne pare altamente sentito quel lungo passo ov'egli dimostra che de' progressi delle lettere e delle arti due precipue cagioni sono l'attivitá individuale e la libertá civile.

[p.121]

Questo argomento della libertá civile per rispetto alle lettere sembra essere il favorito dell'autore. A noi italiani per altro non riesce nuovo, da che l'Alfieri lo trattò piú ampiamente nella migliore delle sue prose. Se non che il signor Roscoe, avvicinandosi co' suoi princípi astratti qualche linea di piú al concreto, e volgendo la sua mira alla condizione vera ed attuale de' popoli d'Europa, stabilisce come assioma che il libero esercizio delle forze intellettuali non è creduto mai pericoloso da que' governi, i quali, qualunque sia la loro forma nominale, sanno d'essere forti della opinione pubblica.

Ma, lodando noi l'intenzione generale del discorso del signor Roscoe e proponendone come utile la lettura, non intendiamo di dire che il merito di esso sia in ogni parte esimio. O sia perché la brevitá de' confini assegnati ad una orazione accademica non bastassero all'ampiezza dell'argomento, o sia perché il signor Roscoe proporzionasse la sua dialettica ad una udienza forse intollerante di severe meditazioni, nel discorso di lui ci parve di trovare qua e lá alcuni tratti di certa superficiale declamazione, che non contenta pienamente il pensatore.

Non gli faremo giá accusa d'essersi giovato d'un solo scherno brevissimo onde distruggere l'errore di coloro che ascrivono onninamente ai climi ed alle situazioni locali il prosperar delle lettere; poiché un solo sguardo alla storia convince chiunque che la fortuna di esse non fu confinata sempre dentro certi gradi determinati di latitudine geografica. Cosí parimente, allorché egli combatte la ridicola opinione di coloro che, con lamento ripetuto da generazione in generazione, piangono il continuo deterioramento della specie umana, se poche armi bastano a lui per farlo vittorioso di cosí inetti avversari, fu cortesia la sua di non adoperarne molte.

Ma quando con piú rispettoso contegno egli scende poco dopo ad affrontarsi con chi predica il progressivo perfezionamento umano, gli argomenti che oppone loro non ci sembrano troppo persuasivi. Egli li ricava dalle storie parziali dei popoli; e vorrebbe persuaderci che questi progressi non esistono, da che i greci ed i romani d'oggidí non sono piú i greci ed i [p.122] romani di Pericle e d'Augusto. Ma, se ci è lecito di contraddire, risponderemo al signor Roscoe che la specie umana va presa in totale, e che se Roma non è piú la Roma di un tempo, l'universo presente non è piú il barbaro universo di venti secoli fa. D'altronde la perfettibilitá sostenuta da' moderni filosofi non è quella speciale d'una o d'altra arte, ma bensì la perfettibilitá generale dello spirito umano, alla quale siamo debitori de' successivi miglioramenti della civilizzazione. Ed il signor Roscoe, col portare in mezzo esempi del decadimento d'alcun'arte onde distruggere l'opinione della perfettibilitá del pensiero, mostra di non volere intender bene la quistione e di pigliar la parte per il tutto.

Piú ancora: se i lumi talvolta non progrediscono in ragione d'aumento, progrediscono in ragione di diffusione; il che, a modo d'esempio, accade ora in alcune parti d'Europa. Ma neppure a questo volle por mente il signor Roscoe; sicché pare a noi che, s'egli, piuttosto che toccarla troppo leggermente, avesse schivata affatto questa disputa, non sarebbe stato male.

Dettate per lo contrario dallo schietto sentimento della veritá crediamo le ultime pagine del discorso, ove sono enumerati tutti i vantaggi derivanti ad un popolo dalla coltura delle scienze, delle lettere e delle arti. E se a qualche rigoroso zelatore della dignitá degli studi spiacesse forse di veder messi in mostra dall'autore non solamente i vantaggi morali, ma con lunghe parole anche i vantaggi pecuniari, noi lo pregheremmo di considerare che anche questi non vogliono essere trascurati, perché non poco concorrono a produrre il bene de' popoli. E pel signor Roscoe era interessantissima cosa il contemplare gli studi anche da questo lato ed il fermarvisi molto, massime recitando il suo discorso in Liverpool, cittá, come tutti sanno, piena zeppa di mercanti.

|Grisostomo|.

[1] On the origin and vicissitudes of literature, science and art ecc. ecc.—Dell'origine e delle vicende delle lettere, scienze ed arti, e della loro influenza sullo stato presente della societá. Discorso recitato il 25 novembre 1817, da |Guglielmo Roscoe|, in occasione dell'apertura dell'Instituto reale di Liverpool. Londra, 1818, presso I. M. Creery.

[p.123]

XII

ARTICOLO SOPRA UN ARTICOLO

Nell'ultimo fascicolo (n. 60) della Rivista d'Edimburgo (celebratissimo de' giornali letterari d'Europa), dopo un assai giudizioso articolo di pagine 42 sull'opera postuma di madama di Staël, Les considérations, ecc., un altro ne segue, discretamente lungo, intorno a Dante.

Quando una persona da te venerata per finezza di discernimento parla teco della donna del cuor tuo, e, senza sapere de' tuoi amori, con ingenuo e casto discorso commenda la bellezza e la virtú di lei, tu segretamente senti scorrerti per l'anima una voluttá di paradiso. Simile presso a poco a questa fu la sensazione mia nel leggere l'articolo del giornale inglese sul poema di Dante. Prego gl'italiani di ridere liberamente, se cosí lor piace, di me e delle mie sensazioni, sapendomi grado per altro d'averli io avvertiti dell'esistenza di quell'articolo, ove lor nasca il desiderio di leggerlo.

L'articolo su Dante si sa che in Inghilterra fu accolto con grandissimo applauso, e pel suo merito intrinseco, e perché parla le lodi d'un poeta studiatissimo dagl'inglesi e ad essi carissimo. Si sa inoltre, o si sospetta con fondamento da chi ha l'occhio esercitato, che lo scrittore ne sia un uomo celebre, italiano per origine e per famiglia, e greco per nascita. E però due soddisfazioni eccoci somministrate ad un tratto: l'una nel sapere con quanta lealtá di ammirazione un popolo ricco assai di letteratura sua propria discerna e gusti il vero bello della letteratura nostra; l'altra nel vedere come un ingegno nudrito e cresciuto ed educato in Italia non si dimentichi di essa, [p.124] benché lontano, e fra le lusinghe della sua nuova fortuna mandi ancora qualche sguardo di riverenza e d'amore a' suoi ospiti antichi.

Pigliata occasione da un libro italiano intitolato Osservazioni intorno alla quistione sopra l'originalità del poema di Dante di Francesco Cancellieri (Roma, 1814), la Rivista di Edimburgo, che nel suo numero antecedente aveva giá incominciato a parlar qualche poco di Dante, riassume intorno a quel sommo italiano il suo discorso. Incomincia dal deridere come poco importante questa benedetta quistione della originalitá; e davvero chi non è membro dell'alta camera dei pedanti e non è usato a stillarsi il cervello sulle frascherie, è costretto in coscienza a convenire nel parere della Rivista.

L'opinione pressoché generale di coloro che contrastano a Dante l'originalitá dell'idea del suo poema, è che questa fosse a lui suggerita dalla Visione di frate Alberico. Ma frate Alberico non fu l'unico frate visionario che si pigliasse gusto di viaggiar vivo col suo pensiero all'altro mondo, prima che Dante ponesse mano alla Divina commedia. Fino da' primi secoli del cristianesimo alcuni santi si dissero da Dio favoriti con visioni e rivelazioni, come può vedersi da quelle di san Cipriano, di santa Perpetua, ecc. ecc. Ma di queste accadde come dei miracoli, cioè che dopo i miracoli veri ne furono spacciati non pochi falsi, e quindi molti sogni furono spacciati come visioni. I gradi di somiglianza che esistono tra la Visione di frate Alberico e 'l poema di Dante (e per veritá sono pochi), esistono altresí tra questo e molte altre visioni, e specialmente con quella d'un frate inglese anonimo, riportata da M. Paris nella sua Histoire anglaise, ad an. 1196. «O Dante—dice la Rivista—si giovò di tutte, o non se ne giovò di nessuna». E questa ultima credenza par piú ragionevole a chi considera la natura dell'ingegno di Dante, «il quale per altro—segue a dire la Rivista,—vedendo stabilita per opera de' frati nella fede popolare una specie di mitologia visionaria, pensò d'adottarla, nella stessa maniera che Omero aveva adottata la mitologia del politeismo».

[p.125]

Ma la vera idea del suo poema Dante non la derivò da altro che dal suo animo nobile e caldo di generosa onestá. «Egli da sé solo concepí e mandò ad effetto il disegno di creare la lingua e la poesia d'una nazione, di rivelare le piaghe politiche della sua patria, di mostrare alla Chiesa ed agli Stati d'Italia come l'imprudenza de' papi e le guerre intestine delle cittá e la conseguente introduzione di eserciti stranieri trarrebbero seco di necessitá la devastazione e la rovina dell'Italia. Egli pensò nientemeno che a farsi riformatore della morale, vendicatore dei delitti e mantenitore della ortodossia nella religione». Questa è ben altra originalitá di concetto che quella delle visioni de' frati, prese tutte in un fascio.

La Rivista fa poco conto del libro del signor Cancellieri, perché davvero è d'indole tale da non se ne poter far gran conto. Il signor Cancellieri è uomo erudito assai; aveva bisogno di sfogar la sua erudizione: però ha fatto che il libro servisse ad essa, e non essa al libro. E la veritá è che egli lo termina senza terminar la quistione pigliata a trattare.

Bisogna dire che il prurito di far pompa d'erudizioni, quantunque non cadano a proposito, salti addosso talvolta con irresistibile ostinazione anche alla gente di giudizio; da che pare che anch'essa la Rivista d'Edimburgo in questo articolo medesimo se ne lasci vincere un pochetto. Ma le semplici erudizioni giá si sa che non costano molto; e gli uomini sono facili a scialacquare le sostanze acquistate senza sudori.

Ben piú lodevole parmi la maniera con cui la Rivista ci dá un quadro rapidissimo della condizione d'Italia da' tempi di Gregorio settimo fino a quelli di Dante, onde convincerci sempre piú dell'alto intendimento che resse i lavori del poeta. Troveranno i curiosi in quel quadro alcune idee, se non nuove, almeno nuovamente e fortemente sentite, sulle opinioni religiose d'allora, sul carattere di Gregorio, sulla politica di lui, sulla origine e su' primordi della libertá delle cittá d'Italia; libertá alla quale, in certo qual modo, contribuí l'ambizione stessa di quel pontefice.

Considerando attentamente la natura dei tempi di Dante, sbalza agli occhi chiarissima l'intima relazione che esisteva tra [p.126] i bisogni dell'Italia d'allora e le savie lezioni morali e politiche date ad essa dal poeta. Questo modo di commentare la Divina commedia non tanto con una illustrazione pedisequa de' fatti, quanto con un esame storico-filosofico de' tempi, pare che sarebbe da eleggersi da chi imprendesse a fare una nuova edizione di essa. Ma per poterlo sostituire alla solita maniera di commentare, bisogna avere ingegno e cognizioni piú che non ne hanno d'ordinario que' che si piegano al poco glorioso mestiere di commentatori.

Terminato il quadro storico e riveduti leggermente i panni a vari scrittori di storie letterarie, notandone alcuni errori, la Rivista si volge a dimostrare come in mezzo all'austeritá ghibellina ed al rigore dell'avversa fortuna, l'anima di Dante, bollente di magnanima ira, ridondasse nondimeno di affetti teneri e gentili; e come ogni tratto egli li manifestasse ne' suoi versi e nelle sue prose, esprimendoli con un fervore tutto spontaneo e con una dilicatezza di cui non trovasi facilmente l'uguale. E per persuadere di questo i suoi lettori e per confutare ad un tempo stesso un'opinione, tanto o quanta contraria, di Federigo Schlegel, che nella sua Storia della letteratura antica e moderna chiama bensí Dante il «maggiore de' poeti cristiani», ma gli rimprovera qualche poco di ruvidezza d'animo, la Rivista con lunghi commenti presenta ad essi un lungo florilegio di passi dilicatissimi, tolti dal poema e dalle rime di Dante. Le citazioni sono in italiano, e la spiegazione di esse viene somministrata agl'inglesi per lo piú dalla bella traduzione di M. Cary in versi sciolti.

Quel florilegio sará opportunissimo per gl'inglesi; ma per noi italiani potrebbe esser creduto superfluo. Il dilicato e gentile amante di Beatrice, il pietoso narratore delle altrui sciagure amorose non ha bisogno qui d'esser difeso dalle accuse di Federigo Schlegel, né dalle altre di M. Hallam, che rinfaccia a Dante troppa ira contro la patria. Dante amava la sua patria piú che chiunque; ma ne odiava i delitti. E chi ama la patria davvero, s'irrita delle turpitudini de' suoi concittadini; e mentre che il vile adulatore blandisce il vizio che trionfa, l'onest'uomo mena apertamente la sferza e s'acquista fama nella posteritá.

[p.127]

Dicendo candidamente essere inutile per noi l'ultima parte dell'articolo della Rivista, non voglio tacere che molte ingegnose osservazioni s'incontrano nella illustrazione che accompagna l'episodio di Francesca da Rimini e gli altri frammenti. Ché anzi la riporterei volontieri, se mi bastasse spazio, onde accrescere probabilitá al sospetto formato da alcuni che l'estensore dell'articolo su Dante non sia un inglese, bensí la persona da me indicata piú sopra. Chi per qualche tempo praticò dialogo con un letterato, vede sovente negli scritti ulteriori di lui rivivere molte delle idee giá corse nel dialogo. Cosí gli scritti del dotto richiamano soavemente alla memoria de' suoi amici lui medesimo e la sua conversazione.

Le considerazioni della Rivista d'Edimburgo intorno al poema di Dante mi sembrano lodevoli, come appare dal complesso del presente articolo. Ma, senza derogare al merito loro, crederò di far cosa grata a chi non avesse letto il libro del signor Sismondi sulla Letteratura del mezzogiorno d'Europa, dando loro in altro numero del Conciliatore un breve estratto della sua analisi della Divina commedia. Il signor Sismondi, mi sia lecito il dirlo, vide in quel poema un altro elevato concetto; e ve lo vide con rara profonditá di raziocinio, potenza di sentimento e tale felicità di fantasia, che gli riprodusse le sensazioni inspirategli dal poeta.

|Grisostomo|.

[p.128][p.129]

XIII

|Idee del signor Sismondi sul poema di Dante|

Piaccia a' lettori di richiamarsi alla memoria l'Articolo sopra un articolo inserito nel numero 34 del Conciliatore, e la licenza chiesta loro di recare in altro numero un transunto delle considerazioni del signor Sismondi sulla Divina commedia, stampate da lui nel suo libro Della letteratura del mezzogiorno d'Europa.

È noto a tutti come quel libro incontrasse in Italia un profluvio di encomi presso alcuni, del pari che un profluvio di censure spietate presso altri. Era cosa questa da potersi facilmente prevedere. Qui, manco male, vi ha persone non poche di schietto ingegno e di probitá assoluta. Ma in buona fede bisogna pur confessare (e peccato confessato è mezzo perdonato) che fra gli italiani leggenti v'è altresí una lunga genia di mediocri, senza fuoco veruno d'entusiasmo, tenaci della loro mediocritá, stizzosi contro chiunque arrischia un passo per uscirne, e smaniosi non d'essere, ma di far da dottori. Però nella moltitudine il libro del signor Sismondi doveva trovare di necessitá anche chi lo mordesse.

Inoltre, ne' dotti, le discordie letterarie che scompigliano il giudizio d'alcuni o lo trascinano dietro la dittatura del giudizio altrui, e fors'anche certe ragioni d'invidia, d'adulazione, d'interesse, di servilitá…, ecc. ecc. ecc., dovevano far nascere censure molte ed indecenti contro il libro di un uomo che si manifesta, per sapienza ed onestá di carattere, superiore assai assai a molti suoi contemporanei. Sia detto senz'astio e senza mira ad alcun individuo, qui, come forse anche altrove, la letteratura [p.130] sovente non è, in chi l'esercita, fine ingenuo delle passioni, bensí stromento servile di esse.

Alieni per altro da ogni inquisizione delle coscienze, gettiamo, o buoni lettori, con buona verecondia il mantello di Sem e di Iafet su tutti i motivi segreti da' quali possono aver mosso i giudizi intorno al libro del signor Sismondi. Crediamoli anzi innocenti tutti que' motivi. E strignendo le diverse sentenze in un sol risultato, diciamo lealmente cosí:—Come tutti i buoni libri di questo mondo, il libro del signor Sismondi forse non sará scevro affatto affatto di passi, a' quali una critica intemerata possa contraddire[1]. Ma grandi e molte bellezze e molte savie dottrine compensano largamente i pochi difetti.—Per entro a quel libro domina una sí perpetua libertá d'animo, una sí schietta ricerca del vero, un sentimento letterario cosí nobile, che, volere o non volere, all'uomo onesto è forza aver simpatia con chiunque verso il signor Sismondi eccedesse anche un pochetto nelle lodi. L'assoluta perfezione ne' libri è come il lapis philosophorum. Studia, studia; cercalo, cercalo: nol trovi mai. E l'onestá ne' letterati è un altro lapis philosophorum, che trovasi, è vero, qualche volta, ma tanto di rado, che pe' galantuomini è proprio una solennitá il dí in cui giungono a raffigurarla.

Dopo questo lungo preambolo, fattovi ingozzare so io perché, eccovi, buoni lettori, quel che dice il signor Sismondi per rispetto a Dante. Non riporto ordinatamente il testo, bensí il complesso delle idee suggerite dalla lettura di esso, usando quanto piú posso delle parole stesse dell'autore.

Prima di Dante, le poesie liriche de' trovatori («troubadours»), le epiche de' trovieri («trouvères») dalla Provenza e da altre parti della Francia s'erano diffuse nell'Italia, recatevi da' normanni conquistatori della Puglia, della Calabria, della Sicilia. Imitatrice della provenzale era sorta nella prima metá del secolo duodecimo la poesia siciliana, e dalla corte di Napoli moderava il gusto poetico degli italiani.

[p.131]

La lingua latina s'era giá separata affatto dalla volgare. Le donne non la imparavano piú; e per piacere ad esse, per parlar loro d'amore bisognava servirsi dell'idioma comune, di quello ch'esse adoperando ornavano ogni dí piú di leggiadrie.

Quantunque per ben cencinquant'anni i siciliani non rivolgessero la loro poesia che ad esprimere i sentimenti amorosi, e, traviati dall'esempio degli arabi e de' provenzali, anziché mantenere a' canti d'amore il loro merito precipuo, la naturalezza de' pensieri combinata colla soavitá dell'esposizione, lasciassero il semplice per correr dietro al ricercato, all'ammanierato; eglino pur nondimeno erano giunti ad occupare i primi gradi nel favore della moltitudine. I loro versi erano popolari, se non per altro, almeno per ragione di lingua e di metri; come popolari altresí erano le forme epiche ed epico-liriche dei romanzi e de' poemi de' trovieri.

Prima di Dante, alcuni uomini d'indole ardente avevano indirizzata tutta l'energia dell'anima a' misteri della religione, mettendo ammirazione nell'universale e suscitando coll'esempio proprio l'energia altrui. San Francesco e san Domenico avevano create nuove milizie religiose, piú entusiastiche e piú attive di quanti ordini di monaci esistessero per l'addietro. L'attivitá di quelle milizie, le prediche, le persecuzioni sanguinose, ecc. ecc., avevano rianimato lo zelo spirituale de' cristiani. Le lettere, rinate cogli studi religiosi, avevano pigliata una certa quale tinta scolastica. Il cielo, il purgatorio, l'inferno erano sempre sempre presenti all'immaginazione degli studiosi, dei devoti, del popolo, di tutta insomma la cristianitá. Vedevano i credenti quegli oggetti cogli occhi della fede, ma pur sotto forme materiali; tanto i predicatori s'erano per mille modi ingegnati di proporzionarli al concepimento popolare.

Venne Dante. Pose mente a tutta la suppellettile poetica lasciatagli da' trovatori e dai trovieri ed alla popolaritá loro. Pose mente alle poesie de' siciliani ed alla popolaritá della loro lingua e de' loro metri. Pose mente allo spirito religioso, meditativo, teologico, scolastico del suo secolo, ed alla popolaritá di tutti gli argomenti desunti dalla fede. Vide che nessuno de' poeti [p.132] moderni, che lo avevano preceduto, s'era giovato abbastanza dell'arte onde scuotere fortemente le anime, e che nessun filosofo era penetrato nei recessi del pensiero e del sentimento.

Però Dante, consigliato dalla potenza del proprio intelletto e dal concorso di tanti materiali poetici che lo circondavano, pensò che questi, quantunque tuttavia informi, avrebbero potuto servire alla costruzione d'un edificio sublime insieme e popolare. E invece de' canti d'amore, invece de' madrigali freddamente ingegnosi e delle allegorie false o sforzate, concepí nell'alta sua immaginazione tutto __il mondo invisibile__, e stabilí di svelarlo poeticamente agli occhi intellettuali degli italiani.

L'argomento scelto da lui a cantare era per quel secolo il piú interessante, il piú elevato, il piú profondamente religioso, il piú popolare di quanti argomenti potessero venire in capo ad un poeta. Era inoltre collegato piú strettamente di qualunque altro con tutte le passioni politiche de' tempi, con tutte le memorie di patria, di gloria, di fazioni civili, di virtú e di delitti magnanimi, perocché tutti i morti illustri dovevano ricomparire innanzi a' viventi su questo nuovo teatro aperto dal poeta. E finalmente per la sua immensitá fu il piú nobile e piú sublime argomento che mai venisse immaginato dal concetto umano.

|Grisostomo|.

[1] A giudizio d'alcuni, ciò potrebbe riferirsi per avventura a qualche parte delle opinioni dell'autore sul Calderon e sul Petrarca.

[p.133]

XIV

INTORNO AD UN POEMETTO DI C. TEDALDI-FORES[1]

Molte idee false intorno al romanticismo si fanno diffondere maliziosamente in Italia da chi ha interesse a screditarlo. La piú ricantata ne' crocchi, tanto dai furbi quanto dalla buona gente che si lascia abbindolare da chi ha piú voce in capitolo, è che le dottrine romantiche sieno la teoria dell'assoluta mestizia e dell'orrore, e che nessun componimento poetico possa essere lodevolmente romantico se non è una vera galleria di tutte immagini lugubri, di atrocitá, di spaventi, ecc. ecc.

Dopo la lunga professione di fede pubblicata da' romantici in sei numeri consecutivi del Conciliatore[2], sarebbe un perder tempo e un far torto alla sagacitá de' nostri lettori il suggerir loro le ragioni colle quali confutare codesta accusa scipita. Per quanto certi faccendieri dell'opinione pubblica, servendo al loro instituto, s'industrino di ripeterla ad ogni momento, essa nondimeno è tale che non può trovare ricapito che presso il volgo. Intendiamo per «volgo» i poveri d'intelletto, i poveri di buona fede, non i poveri di borsa. E di siffatto volgo a' romantici non cale piú che tanto.

Leggendo per altro il nuovo poemetto del signor Tedaldi-Fores, si potrebbe sospettare a prima giunta che anche questo ingegno non volgare abbia voluto spassarsi a spese del vero e farsi beffa del romanticismo, e che se ne sia finto seguace [p.134] a bella posta per metterlo in caricatura e confermare cosí nella plebe la falsa opinione della tendenza di esso a tutto ciò che è orribile e ributtante. Nella Narcisa, che è un romanzo o poemetto di soli quattro brevissimi canti in terza rima, veggonsi infatti affastellate tante immagini di color nero che può parere un mortorio perpetuo.

L'argomento del romanzo è la storia della morte di Narcisa e della sepoltura negatale a Montpellier: storia che tutti i nostri lettori avranno letta nella terza delle Notti di Odoardo Young. Ma il dolor vero per la perdita vera della figliuola della propria moglie non destò nella fantasia, per altro copiosa e lugubre-monotona, del poeta inglese tante immagini di squallore, tante reminiscenze orribili, quante col suo dolore artificiale ne descrisse nel suo poemetto il signor Tedaldi-Fores. Una vergine malata e che poi muore «sul nudo suolo»; un giovane amante della fanciulla, che recide le chiome al cadavere e nel buio della notte tenta con esse di farsi un capestro al collo e strozzarsi; un padre, che per la morte della figliuola dá nelle bestemmie e si morde l'«un de' bracci»; un demonio, che ulula intorno a quel padre e lo lorda di «fuliggine e di sanguigna bava»; un cimiterio, sparso di «insepolto ossame bianco»; un Andrea

che a nutricar [se stesso] si die' di carni umane, e di uman sangue il mento e il sen si tinse;

un padre, che porta sulle spalle il cadavere della propria figliuola a seppellire; una fossa scavata; un gemito che manda la terra; un cielo che piove «rossa linfa»; un cadavere smosso dalla sua sepoltura dall'acquazzone e lasciato a fior di terra «involuto di fetente limo»; un giovane soldato che corre, e sbadatamente viene ad urtare in quel cadavere, e s'accorge che preme co' suoi ginocchi il «fral meschino» della sua donna amata, in cui

di sanie infetto e nel luto prostrato, passeggia il verme reo, la schifa eruca e la striscia del serpe attossicato;

[p.135] un pugnale; un assassinio; uno che muore (è l'amante) e, morendo, cade sul cadavere dell'amata e le afferra il «volto casto»

coi denti delle rabide mascelle;

uno spettro; un feretro; un rogo; e un fantasma in carne ed ossa, che, dopo d'aver narrati tutti codesti malanni al poeta, che sta attento ad udirlo, lascia cadere «le polpe al suolo e l'osse», e, «fatto nudo spirto», esclama—Sono Odoardo (il padre di Narcisa)—e sparisce: queste ed altre piú minute galanterie di tal fatta, raccolte insieme l'una sovra l'altra in poco spazio, formano un tutto che può davvero sembrare, come dicemmo, la caricatura poetica dell'orrore.

Ma perché attribuiremo noi a mala fede ciò che probabilmente è stato fatto con ingenuissima intenzione? D'altronde il romanzo del signor Tedaldi-Fores quantunque, secondo la umile nostra opinione, infelice pel concetto generale, per gli accidenti storici e per la condotta, ha nondimeno alcuni accessori lavorati con potenza poetica non comune, ha diverse terzine lodevolissime per evidenza di stile e per veritá di sentimenti; sicché sarebbe quasi temeritá il voler credere che una persona, capace di giovar molto alla propria fama ed alla patria, voglia ora sprecar tempo e carta e inchiostro in servizio della malignitá antiromantica. No, non lo si dee credere. Il signor Tedaldi-Fores s'è ingannato, ma non ha voluto ingannare.

Noi ci appigliamo volentieri a quest'ultima credenza. E siccome in fatto di libri è uso nostro di manifestare senza velo la nostra opinione, qualunque sia, massimamente se crediamo di parlare a scrittori d'ingegno, il di cui amor proprio non confonda i consigli della critica co' morsi dell'invidia, cosí diciamo con onesta sinceritá all'autore della Narcisa che l'insieme del suo romanzo non ci contenta.

Congratulandoci per altro con lui della sua deserzione dalle favole greche, lo preghiamo di voler perseverare in essa, di affratellarsi cogli argomenti desunti dalle storie nostre e dai nostri costumi, e di somministrarci presto qualche altro componimento [p.136] di tema meno esagerato nella tristezza, meno affettatamente orribile e piú conveniente a' bisogni dell'Italia, affinché possiamo dire di lui quelle piene lodi ch'egli dá indizio di dovere un dí meritare, se pure le nostre lodi sono premio a cui egli si degni di por mente.

Né si creda che in noi sia avversione agli argomenti malinconici, alle occasioni di piangere. Sí, vogliamo tremare e lagrimare e gemere, perché tra i tanti diletti poetici sappiamo anche noi che è soavissimo quello della malinconia e del pianto. Ma le lagrime non sono mai figlie dell'orrore e del ribrezzo. Vogliamo anche noi essere percossi dal terrore. Ma una serie d'idee eccessivamente luttuose e tutte temprate al monocordo, ancorché non uscissero fuor de' confini del __terribile__, finirebbe coll'essere __orribile__, o per lo meno noiosa a' lettori. Or che sará poi quando le immagini pendono piú all'orribile che ad altro?

Bisogna però dire, a onor del vero, che nei primi esperimenti, in un genere poetico qualunque, la parsimonia non può quasi mai essere la qualitá regolatrice della immaginazione del poeta. È una qualitá, una abilitá, questa, che non s'acquista che col tempo. E però la presente mancanza di essa non ci è argomento per doverla temere ripetuta ne' futuri lavori del signor Tedaldi-Fores. Progredendo egli sempre piú nello studio dell'arte e del cuore umano, e nobilitando sempre piú i propri pensieri, la verseggiatura e lo stile, è da credersi ch'egli salirá a quell'altezza di perfezione poetica verso la quale ha voluto fare un passo colla sua Narcisa.

|Grisostomo|.

[1] Nascita, romanzo in quattro canti, di C. TEDALDI-FORES. Milano, presso Batelli e Fanfani, 1818.

[2] Idee elementari sulla poesia romantica.

[p.137]

XV

|Lettera ad una signora milanese gentile sì, nobile no|

Madama,

Ad un misero vecchio, qual io mi sono, è lecito senza offesa del decoro farsi apertamente avvocato delle belle fanciulle alle quali Ella, madama, ha la fortuna d'esser madre. Le poverette, stia certa, non mi hanno pregato esse di questo ufficio. M'è suggerito dalla compassione. Parlo io spontaneo, e però tanto piú veridico.

L'anno passato a questi dí, Ella, in compagnia di molte di lei amiche, provvide saviamente alla allegria delle proprie e delle altrui figliuole. I festini dati in Borgonuovo dalla «societá delle madri» riescirono belli, splendidi, eleganti. Il sorriso della gioventú misto a tutte le grazie della decenza, la vivacitá delle danze combinata colla modestia delle ingenue e gentili fanciulle, e le cortesie e le accoglienze e i bei modi delle madri invitatrici fecero parere a tutte le persone ben educate, e dopo tant'anni anche a noi vecchi, tristo davvero il suono della campana della quaresima.—Verrá un altro carnovale—dicevano le fanciulle, e si consolavano sperando.—Sí, verrá,—dicevamo noi, e nelle future consolazioni delle fanciulle ci parea di rivivere qualche poco nei tempi andati.

Or eccolo finalmente questo sospirato carnovale. Ma dove sono i festini? Le vergini patrizie ballano; le spose, le donne patrizie ballano; le matrone patrizie ballano. E le belle vergini non patrizie che fanno esse la sera? Sedute accanto alle loro madri in casa loro, mandano qualche stanca occhiata alle quattro parrucche dei quattro campioni del tarrocco, e sbadigliano; poi dánno ascolto a qualche facezia del signor nonno, e risbadigliano; poi si guardano a' piedi, ne contemplano l'ozio, e sospirano.

Ma perché non si rifanno i bei festini di Borgonuovo? Perché non si pensa a dare alla gioventú quegli spassi che le si convengono? [p.138] Il carnovale non è carnovale forse per le non patrizie quest'anno? Non hanno elleno forse nelle vene sangue che bolle quanto quello delle contessine?

Ho udito raccontare ch'Ella, madama, si scusa del non pensare a ripetere que' festini, col dire che non vuole che siano ripetute anche le insipide e villane satire dell'anno scorso. Ho udito raccontare lo stesso di molte altre madri, che amano quanto piú si può le proprie figliuole. È vero, fu cosa dolorosa il veder di che modo insolente i perpetui motteggiatori della cittá sparsero la contaminazione della lor maldicenza sulle illibate intenzioni dell'amor materno. Ma che importa a lei, madama, del gracidare di cotesti rospi? La cittá non è poi tutta un pantano, e i cittadini non sono rospi tutti. Dica alle madri di lei compagne che tutte le persone d'animo gentile, delle quali non è penuria in Milano, lodarono i festini dell'anno passato, e li loderebbero anche quest'anno. Il lasciarsi intimorire dalle satire illepide sarebbe un dare importanza a chi non ne merita alcuna. Meglio è avvilire gli sciocchi, continuando il proprio passo sicuramente, senza neppure badare che ci stanno a lato. Cosí fanno, creda a me, coloro a cui la propria coscienza vale qualche cosa.

Sicché, madama, stringendo il discorso, la prego a non far che quest'anno il carnovale finisca malamente per le povere di lei figliuole. Hanno ne' piedini una inquietudine, che nella loro eta è da perdonarsi. Il ballo fa bene anche alla loro salute. La gioventú è sí breve, l'allegria sí fugace, che hanno ragione le poverette se onestamente desiderano di non perdere il tempo in isbadigli. E chi penserá a loro, se non ci pensano le madri? Gli uomini non sono d'ordinario sí delicati di compassione da pensare a' divertimenti altrui. Sono egoisti, e non badano che a contentare se stessi. Ma le buone madri sono tutt'altro; e non è adulazione il dire ch'Ella, madama, sta nel numero delle ottime.

Ho l'onore, madama, di dichiararmi

di lei umilissimo servitore

|Grisostomo.|

[p.139]

XVI

SULLA «SACONTALA» ossia «L'ANELLO FATALE»

Dramma indiano di Calidasa

  {Dialogo interamente imaginario ed inverisimile affatto tra
  Grisostomo e tutti i lettori.}

|Grisostomo.| In India la poesia… Ma, prima di tutto, mi piace d'avvertirvi, signori miei, che qui si parla d'un poeta, il nome del quale non fu registrato mai da' cancellieri del cosí detto Parnaso in veruna delle serie de' poeti legittimi. Il concepimento fantastico di Calidasa non discende, né in linea retta né in linea trasversale, da alcuno capostipite greco o latino.

|Molti de' lettori|. E che fa questo? Che vuoi dirci con ciò?

|Grisostomo|. Voglio dirvi che io intendo di lodare liberamente questo poeta illegittimo, e nello stesso tempo di non voler riescire spiacevole a nessuna persona. Però chiunque di voi è rigido adoratore della legittimitá poetica, abbia la bontá di non badare oggi a me: fará bene anzi se mi volterá le spalle e se n'andrá pe' fatti suoi.

|Alcuni de' piú vecchi|. Oh tempi! Oh tempi! Povera Italia, fuor dei tuoi confini si vanno a cercare i poeti oggidí! {E levansi in piedi, mettendo sguardi di compassionevole disprezzo. La moltitudine dá in uno scoppio di riso e fa largo a' vecchi perché se ne vadano.}

|Grisostomo|. Dichiaro inoltre che qui si tratta di un dramma a cui mancano le due unitá di tempo e di luogo, e che nondimeno è dramma bello e buono quanto qualsisia altro.

|I vecchi come sopra|. Oh bestemmia! E, poste le mani alle orecchie, partono inorriditi.

|Grisostomo|. Non v'è piú nessuno che brami d'andarsene?

[p.140]

|Alcuni de' piú giovani|. Noi, noi, o balordo. A noi non importa né dell'India, né di dramma, né di unitá. Importa bensí che nessuno ci faccia il dispetto di parlarci di cose alle quali non abbiamo pensato noi prima. Piú dotti di noi non si può né si debbe essere. Addio; discorrila, se ti piace, colle panche, ma non con noi. {Ed affettando uno scherno svenevole, partono a rompicollo, borbottando altre parole che non sono intese.}

|Uno de' vecchi rimasti| {dá segni di contentezza ed esclama:}

Benone! Siamo finalmente tra di noi. «Poca brigata, vita beata»!

|Un altro lettore|. Non dite cosí, altrimenti la beatitudine non è per noi. I pochi sono i disertori;… qui siamo in molti e molti assai.

|Un altro|. E, a quel che pare, tutti buoni amici.

|Grisostomo|. Me ne consolo… Non parte piú nessun altro?

|Tutti|. Nessuno, nessuno. Vogliam tutti rimanerci. Parla dunque.

|Grisostomo|. Mille grazie! Ora, signori miei, è egli vero che tra voi v'è alcuno che, prima di leggere il numero 25 del Conciliatore, non aveva mai udito parlare del dramma indiano La Sacontala ed or vorrebbe che se gliene desse qualche ragguaglio?

|Molti|. Oh! lo conosciamo da un pezzo quel dramma.

|Molti altri|. Noi, a dirla schietta, non ne sappiamo niente.

|Grisostomo|. Mi sia lecito dunque parlare a chi non ne sa niente.

|Tutti|. Parla, parla; vogliamo essere indulgenti tutti, e lasciarti dire.

|Grisostomo|. Sappiate dunque che la poesia, non essendo un diritto esclusivo di alcune poche famiglie di uomini, bensí un vero bisogno morale di tutti i popoli della terra ridotti a qualche civiltá, anche nell'Indostan trovò giá da secoli e secoli chi la coltivasse[1].

[p.141]

|Uno de' lettori|. È naturale: i greci avranno insegnata l'arte della poesia anche agl'indiani.

|Un altro|. Probabilmente no. Chi sa anzi che i greci non la imparassero forse eglino dagli indiani? L'India fu probabilmente la culla del sapere umano.

|Un altro|. Lasciamo stare per ora queste digressioni erudite. Gl'indiani ebbero civilizzazione: dunque anche poesia. La facoltá poetica degli uomini è una facoltá che può essere primigenia in tutti. Se l'Italia, a modo d'esempio, dopo la nuova civilizzazione, non avesse veduto mai il menomo manoscritto greco o latino, credete voi per questo che l'Italia non avrebbe buona poesia?

|Grisostomo|. Leggo ed ammiro assai anch'io Omero e Virgilio, e lo dico davvero. Ma non sono sí pazzo da volermi ostinare a credere che senza gli esempi dei greci e de' latini noi saremmo privi di buona letteratura nostra.

|Il suddetto|. La sarebbe senz'essi riescita piú originale.

|Grisostomo|. Pare che sí. Ma proseguiamo. Sappiate che sir Guglielmo Jones, molti anni fa, ha fondato a Calcutta una societá d'inglesi, denominata «Societá asiatica»; e che questa societá, occupata com'è in continui lavori scientifici ed eruditi, non lascia di mandare di quando in quando in Europa anche alcune traduzioni di poesie indiane.

|Uno de' lettori|. Ottima cosa! Quelle poesie serviranno a moltiplicare i diletti all'uomo meramente curioso; e presteranno poi altresì al meditativo nuove occasioni per riconoscere l'uniformitá delle menti umane nella varietá stessa degli accidenti intellettuali. E così verrá sempre piú confermandosi nel mondo la mansueta dottrina della fratellanza de' popoli, nessuno de' quali ha il diritto di far soperchierie agli altri, qualunque sia il colore della lor pelle.

|Grisostomo|. Fra i vari generi di poesia, il drammatico è antichissimo d'origine presso gl'indiani; il che è una delle prove dell'antichitá della loro civilizzazione.

|Il suddetto|.E in che modo?

|Grisostomo|. La poesia drammatica non è coltivata ne' popoli se non quando la civilizzazione loro è inoltrata assai. Ponete [p.142] mente a tutte le storie dei popoli letterati, e vedrete prima poeti lirici, epici o didascalici, poi, dopo molto tempo, drammatici.

|Il suddetto|. Basta cosí: ho capito.

|Grisostomo|. In India chiamansi «natacs» i drammi; e, a detta di sir Jones, ve n'ha tanti che nessuna nazione d'Europa può ostentarne maggiore abbondanza. Sir Jones, quando viveva nel Bengala, si rivolse ad un pandito, cioè a dire ad un bramino letterato, pregandolo che gl'indicasse il piú famoso de' loro natacs. Ed il pandito gli indicò la Sacontala di Calidasa. Calidasa è venerato nell'Indostan com'uno de' nove sapienti che fiorirono alla corte di Vicramáditya re di Ogein, e che furono detti le «nove gemme»: reputasi comunemente che Calidasa ne fosse la piú splendida. Di lui si conosce in Europa qualche altro componimento oltre la Sacontala.

|Uno de' lettori|. E in che tempo visse questo Calidasa?

|Grisostomo|. L'opinione di sir Jones è che Calidasa vivesse nel secolo che precedette immediatamente la venuta di Cristo. Ma alcuni dotti nelle cose asiatiche, fra' quali mr. Colebrooke, osservando che in India il nome di Vicramáditya fu nome di vari monarchi, come in Egitto quello di Tolomeo, mossi da alcuni dubbi cronologici, sospettarono meno lontana da noi l'epoca del Vicramáditya protettore di Calidasa. Secondo essi, il poeta sarebbe vissuto un nove secoli fa. I piú per altro degli orientalisti convengono nell'opinione di sir Jones. La Sacontala, o ch'ella abbia una vecchiaia addosso di forse diciannove secoli, o ch'ella sia una fresca giovinetta di soli novecent'anni, è un componimento drammatico in lingua sanscrita (vocabolo che significa «ornata»); se non che, alcuni pochi personaggi di esso parlano qualche volta il «pracrito», che è un dialetto sanscrito piú popolare. È un componimento in versi laddove il dialogo è piú elevato, ed in prosa laddove alcuna volta è piú famigliare. Non ha, come giá vi ho detto, unitá di luogo e di tempo…

|La maggior parte de' lettori|. Corbellerie! Siamo oramai persuasi tutti che di queste due unitá non debba tenersi piú conto. Date loro la buona notte una volta per sempre.

[p.143]

|Grisostomo|. Ma in compenso nella Sacontala troverete osservata rigorosamente l'altra unitá indispensabile, l'unitá d'azione o, come altri la chiamano, l'unitá di effetto, l'unitá d'interesse.

|I suddetti|. Oh! questa, sí, è necessaria.

|Grisostomo|. Insomma la Sacontala può, per le sue forme esteriori, considerarsi simile assai a drammi di Shakespeare.

|Tutti|. Viva la Sacontala! Fin qui non c'è male. E com'è diviso il dramma?

|Grisostomo|. Regolarmente, a creder mio. Ma non ho coraggio di dirvi che…

|Tutti|. Ebbene, com'è diviso?

|Grisostomo|. Oimè!… Di grazia, parliamo d'altro.

|Tutti|. No no, vogliamo saperlo.

|Grisostomo|. Vi basti ch'io vi dica che neppure Shakespeare ha osato divider cosí un…

|Tutti|. Insomma, com'è diviso?

|Grisostomo|. Oimè! In… In… In… In sette atti.

|Uno de' lettori|. Badate che Grisostomo vi fa il torto di credervi pedanti.

|Grisostomo|. Io? No davvero. Ma, Dio mio! siamo in certi tempi che…

|Tutti|. Poveruomo! Lo sappiamo meglio di te che 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, sono tutti numeri buoni in faccia alla ragione drammatica. Cosí fossero sempre buoni anche in faccia al cassiere del lotto!

|Grisostomo|. Ve lo desidero, perché siete gente di garbo. Sir Jones, pratichissimo della «lingua sanscrita» e de' dialetti di essa, ed assistito dal suo maestro, il pandito Rámalòchan, tradusse parola per parola in latino la Sacontala, e poscia rifece quel suo lavoro in prosa inglese e lo pubblicò.

|Uno de' lettori|. È stampata anche la traduzione latina?

|Grisostomo|. Signor no.

|Il suddetto|. Me ne dispiace. E chi non sa d'inglese come fa a legger la Sacontala?

|Grisostomo|. Si procuri la traduzione tedesca del signor Forster.

[p.144]

|Un altro|. E chi non sa di tedesco?

|Grisostomo|. Ne faccia senza.

|Un altro|. No, no. Cerchi la traduzione francese di monsieur Bruguière.

|Grisostomo|. Di questa io non parlava, perché non trovo in essa quelle bellezze che veggo nelle altre due, e che, secondo il creder mio, non possono provenire che dall'originale.

|Il suddetto|. A ogni modo, meglio qualche cosa che niente.

|Grisostomo|. Sí, ma badate di non accusar poi Calidasa della noia che forse vi cagionerá monsieur Bruguière.

|Molti|. Tanto fa: vogliamo leggerla anche noi questa Sacontala.

|Grisostomo|. Avvertite per altro che per derivare diletto dalla lettura della Sacontala, qualunque sia la traduzione di cui vi serviate, vi bisogna formarvi prima una qualche idea del clima, della storia naturale, de' costumi, della religione degli indiani; perché in gran parte le bellezze di questo componimento derivano dall'affluente freschezza delle tinte locali. Intendo per «tinte locali» quella tale modificazione d'immagini, di pensieri, di sentimenti, di stile, che è propria esclusivamente o quasi esclusivamente di quello stato di natura umana e di quel momento di societá civile che il poeta piglia ad imitare. Un popolo posto sotto di un cielo sereno, su di un suolo ridente di fiori e di frutti, un popolo a cui tutte le bellezze della natura sono eterno spettacolo, deve sentir vivamente il piacere della vita. Traendo i suoi giorni il piú all'aperto, è naturale ch'egli contempli sempre le bellezze che lo circondano e che le descriva sempre con nuovo entusiasmo; è naturale ch'ogni minuta particolaritá da lui osservata nella natura gli mantenga perpetua nell'animo una serie di sentimenti tutti in armonia cogli oggetti ch'egli vagheggia: sentimenti che vengono poi a mischiarsi con tutti gli accidenti della sua vita. L'ardenza de' raggi del sole gli fa riporre la somma delle voluttá nella frescura dell'ombre, nella mite dolcezza del chiaro della luna, nell'aspetto de' ruscelli, nello spirare di un'auretta consolatrice. In lui il sentimento di queste delizie è sí permanente, che informa sempre in [p.145] qualche modo le idee concomitanti dei suoi concetti, e gli presta immagini di confronto ond'esprimere ogni altro suo godimento. Nella stessa maniera all'assenza di esse egli paragona sempre ogni sua pena. Aggiungete alla disposizione naturale l'educazione religiosa, la credenza nella metempsicosi; e cesseranno di parervi strani il rispetto e l'amore tenerissimo degli indiani pe' fiori, per gli alberi, per gli animali, ecc., amore che spira da capo a fondo in tutto il dramma di Calidasa. Vedrete in esso altresì una certa tendenza contemplativa. della quale, come giá s'è detto nel numero 25 del Conciliatore, bisogna cercare la ragione nella vita spesso sedentaria degli indiani.

La Sacontala è un dramma di cui l'argomento unico è l'amore. Questa passione vi è descritta dal suo nascere fino alle piú miserabili delle sue sciagure, attraverso le quali gli amanti giungono finalmente ad uno stato di pacata contentezza. Nella pittura degli affetti Calidasa tenne conto di tutte quelle gradazioni dilicate che costituiscono l'amor gentile de' popoli molto inciviliti, e delle quali non s'avvede pienamente che l'uomo conoscitore dell'uomo e innamorato un tempo anch'egli medesimo. Anche in ciò Calidasa pare Shakespeare. Ed anch'egli, a somiglianza del poeta inglese in alcuni drammi, occupa la mente ed il cuore de' lettori col rappresentar loro la semplice successione de' fatti, le semplici peripezie delle passioni, senza far derivare l'effetto drammatico da alcune assolute individualitá di carattere ne' personaggi del dramma. Sacontala, Dushmanta, Canna, ecc. ecc., sono persone che nulla hanno in sé di straordinario. Non vengono innalzate al disopra del comune se non quel tanto che basta per sollevarle all'ideale poetico. Ciò che a noi le rende interessanti non è il complesso del loro carattere particolare, bensí lo stato dell'anime loro, agitate da passioni comuni agli uomini in generale, ma con particolaritá di accidenti esteriori.

Lo scioglimento del dramma è operato dal concorso di una divinitá. È quindi uno scioglimento che per noi italiani ha del poco bello e che dee riescirci freddo; consideratolo per altro nelle sue relazioni col maraviglioso di religione, che domina [p.146] per entro a tutto il dramma, è conveniente all'armonia universale del poema e proporzionato alla fantasia degli spettatori indiani. Perché il maraviglioso della Sacontala faccia effetto sull'animo de' lettori d'Italia, fa d'uopo che questi colla fantasia loro si trasportino nei boschi sacri dell'Indostan, ed assumano in certo modo per alcun tempo le opinioni e le credenze de' popoli devoti a Siva, a Rama, a Visnú. Tanta mobilitá d'immaginazione non è, lo so anch'io, dote comune a molti; però non sará maraviglia se la Sacontala a molti riescirá insipida e noiosa. Le persone, alle quali una squisita pieghevolezza di fantasia concederá di sentire vivamente la fragranza di questo fiore dell'India, ne sappiano grazie alla duttilitá delle lor fibre; ma sieno tolleranti altresí del contrario parere di coloro che dalla natura hanno sortito minore versatilitá d'immaginativa[2]. Per ultimo…

|Uno de' lettori|. Benedetto quel «per ultimo»! Finiscila una buona volta.

|Grisostomo|. Due parole e mi sbrigo. Per ultimo ricordinsi i lettori della Sacontala di rimontare col loro pensiero ai costumi antichi dell'India, specialmente per ciò che risguarda la condizione delle donne. Questa in Europa ha migliorato dall'introduzione del cristianesimo in appresso; e nell'India, per lo contrario, dopo le conquiste musulmane ha peggiorato. Anteriori a quelle conquiste sono i tempi descritti nella Sacontala, quando l'influenza [p.147] de' maomettani e le massime della lor gelosia non avevano ancora rinchiuse le belle indiane ne' zenanas, ed esse esercitavano liberamente gli uffici dell'ospitalitá, e conversavano liberamente cogli uomini, de' quali erano considerate compagne e non serve.

|Uno de' lettori|. Povere indiane! Mi fa compassione la lor servitú.

|Un altro|. E non meritano pietá anche i __poveri uomini__ dell'India?

|Un altro lettore|. Signor Grisostomo, tu ci hai sbattuta sul muso una tantafera da far isbadigliare fino la pazienza di un bibliotecario. Le tue chiacchierate saranno una stupenda cosa; ma noi vogliamo conoscere Calidasa e non te. Non si potrebbe ottenere da V. S. un tratto da galantuomo?

|Grisostomo|. Vale a dire?

|Il suddetto|. Regalare alla tua fantesca tutti i tuoi ragionamenti, e dare a noi in qualche modo un epilogo della Sacontala?

|Grisostomo|. Volentieri; ma per darvelo mi bisognerá occupare con esso un intero numero del Conciliatore, e forse piú.

|Il suddetto|. Poco male!

|Tutti|. Sí, sí, l'epilogo: e sia pur lungo, non importa; contenti noi, contenti tutti.

|Grisostomo|. Benissimo! sarete serviti.

|Un altro lettore|. Intendiamoci però, signor Grisostomo, su di un punto. Ha Ella in animo di proporre agli italiani, siccome modello da imitarsi, questa sua lodata Sacontala?

|Grisostomo|. Io propor la Sacontala come modello da imitarsi! Io, che non cesso mai dal raccomandare l'originalitá e la scelta d'argomenti adattati alla nostra presente condizione sociale!

|Il suddetto|. Eppure, certe poesie del Bürger…

|Grisostomo|. Nel giá citato numero 25 del Conciliatore s'è parlato anche di certe poesie del Bürger; ma non s'è detto, parmi, d'imitarne in Italia gli argomenti.

|Il suddetto|. Sí; ma in un altro libretto, prima che nascesse il Conciliatore, si sono proposti come modelli certi due romanzi, il Cacciator feroce e l'Eleonora.

[p.148]

|Grisostomo|. Signor mio, ha Ella avuta la bontá di leggerlo quel mio libretto?

|Il suddetto|. Sí sí, tre volte da cima a fondo. Ed è per questo che…

{In quel momento una bella signora, che non aveva mai insino allora aperto bocca, si fa rossa in viso, ed, accostandosi furtivamente al signore che parla con Grisostomo, gli stringe il gomito e gli dice sottovoce:}

Prudenza, mio caro, prudenza! Tienti zitto, per caritá; altrimenti il tuo credito va in fumo. Si dirá che non sai leggere e che non intendi un ette. Non è vero che Grisostomo proponesse quei due romanzi per modelli. Bada bene che tu t'inganni.

|Il suddetto|, {ributtando l'ammonizione della signora con tali modi inurbani da manifestare ch'egli n'è certamente il marito, prosegue a dire:}

Sì, l'ho letto, e parlo cosí perché so quel che dico.

|Grisostomo|. Lo rilegga, di grazia, un'altra volta.

|La Signora|. E poiché mio marito l'avrá riletto, spero che vorrá disdirsi d'una cosa detta da lui solo per sbaglio di memoria, del quale per altro fo io le scuse al signor Grisostomo.

|Grisostomo|. Ella, madama, è troppo gentile con me. Gliene rendo grazie.

|La Signora|, {conducendo via in fretta in fretta il marito, gli va dicendo all'orecchio:} Quando tu leggi un libro, bada bene che le parole sono quelle nere; quando sei in compagnia d'altri, bada bene a non entrare in discorsi, perché non sei in caso di… {Il resto non s'è potuto udire distintamente dall'estensore del presente dialogo.}

|Grisostomo|.

[p.149]

SACONTALA

O SIA
L'ANELLO FATALE
DRAMMA INDIANO DI CALIDASA

Il dramma è preceduto da un prologo brevissimo in forma di dialogo tra l'impresario del teatro ed un'attrice. Questo prologo non ha altro scopo che di annunziare la recita della Sacontala, ed è preceduto anch'esso dalla seguente benedizione pronunziata da un bramino [3]:—L'acqua fu l'opera prima del Creatore; il fuoco riceve le obblazioni comandate dalla legge; il sacrificio è celebrato con solennitá; i due lumi del cielo distinguono il tempo; il sottile etere, veicolo del suono, riempie l'universo; la terra è la madre naturale d'ogni incremento; e l'aria anima ogni cosa che respira. Visibile sotto queste otto forme, benedica e sostenga noi tutti Issa, il dio della natura.

ATTO I

{La scena è un bosco sacro, abitato dal savio Canna e dagli eremiti suoi seguaci.}

Dushmanta, re dell'India, appare sopra un carro, inseguendo a briglia sciolta un'antelope (gazella) ch'egli vorrebbe ammazzare. La belva si ripara nel bosco sacro. Esce un eremita accompagnato da un discepolo, e scongiura il re d'aver pietá di quella [p.150] povera antelope.—O re, o eroi, le armi vostre sono destinate a salvare gli oppressi, non a sterminar gl'innocenti.—Dushmanta cede tosto al consiglio dell'eremita, e ripone nella faretra la saetta. Tanta docilitá in un monarca possente, giovine e vago di caccia è lodata gentilmente dall'eremita.—Degno è di te quest'atto, degno di te, o il piú illustre de' monarchi, degno invero d'un principe della stirpe di Puru[4]. Possa tu veder crescere un tuo figliuolo che sia ornato dalle virtú e sovrano dell'universo!—

L'eremita annunzia a Dushmanta che nel bosco si sta per celebrare un sagrifizio; ed, invitatolo ad intervenirvi, si ritira. Prima di metter piede nell'asilo degli eremiti, Dushmanta si spoglia degli ornamenti reali.—Ne' boschi—dic'egli—consacrati alla religione bisogna entrare con vestimento piú umile… Eccomi nel santuario. Il braccio destro mi pulsa. Che nuova prosperitá mai vuol promettermi questo augurio?—

Egli sente voci femminili; va spiando; vede alcune fanciulle recare acqua per ristoro de' loro arboscelli; le contempla, e gli paiono piú amabili assai delle belle donne della sua corte. Sacontala, accompagnata dalle due ancelle ed amiche, Anusuya e Priyamvada, va a versare acqua sui fiori ch'ella ha prediletti. La soave bellezza di lei mette rapidamente in tumulto il cuore di Dushmanta.—Qui—dic'egli,—qui mi nasconderò dietro quest'albero, onde mirar tutte le leggiadrie di Sacontala, e non iscemare nell'anima di lei la confidenza.—

Sacontala, credendosi sola, prega le compagne perché le sciolgano il fermaglio del mantello che le comprime di troppo il seno. Allora nuove bellezze sfolgorano al guardo dell'appiattato monarca, e in lui la passione s'aumenta. Il dialogo delle fanciulle parla della vaghezza de' fiori, della dolcezza de' loro profumi, degli amori delle piante; e vi sono frammischiati paragoni tra Sacontala e quelle delizie. Dushmanta, anch'egli, tra sé e sé ne fa di con simili; ed ogni detto spira gentilezza di sentimenti dilicatissima.

La fresca mallica[5] s'è sposata all'amra[6], soavissimo degli alberi. Il madhavi[7], pianta sopra tutte diletta a Sacontala e ch'ella chiama «sorella sua», ha messo fiori intempestivi dalla radice alla [p.151] sommitá.—Portenti questi—dicono le ancelle,—che fanno sperare vicine le nozze a Sacontala.—

Un'ape, lasciato il fiore della mallica, ronza intorno al volto di Sacontala. La vergine coll'agitar della mano tenta di togliersi d'innanzi quell'insetto importuno. Dushmanta osserva l'industria ingenua di Sacontala, e fa confronto tra la grazia de' movimenti di lei e le studiate maniere delle donne della sua corte. Quanta maggior venustá in Sacontala!—Fortunata ape!—esclama egli.-Tu tocchi la coda di quel bell'occhio tremante; tu ti accosti al lembo di quell'orecchio; tu vi susurri dolcemente, come se bisbigliassi un segreto d'amore; e, mentre ch'ella agita la leggiadra sua mano, tu voli a sugger miele da que' labbri che contengono il tesoro d'ogni diletto. Io qui fra' dubbi miei mi consumo del desiderio di sapere di qual famiglia ella nasca; e tu intanto, fortunata ape, ti vai godendo un piacere che per me sarebbe la suprema delle venture.—

Sacontala si volge alle compagne perché la soccorrano a liberarsi dall'ape.—Noi nol possiamo—rispondono.—Dushmanta[8] solo può liberarti. Egli solo è il protettore di questo santuario.—All'udirsi nominare, Dushmanta vorrebbe uscire del nascondiglio e palesarsi. Ma, pensato alcun poco, mette freno al suo desiderio.—Meglio è ch'io venga innanzi a lei non come re, ma come semplice straniero che cerca ospitalitá.—

L'ape non cessa di ronzare. Sacontala procura di scansarla, fuggendo lontano alcuni passi; ma, perseguitata tuttavia, grida:—Soccorso, soccorso! Chi mi salva da questa sciagura?—Dushmanta non sa piú contenersi, e, sbalzando fuor dell'albereto, si presenta alle donne. Sparita l'ape, Anusuya e Priyamvada usano a lui le accoglienze prescritte dall'ospitalitá, gli offrono frutti e fiori e lavacri pe' suoi piedi, e molli foglie di septaperna su cui riposarsi.

Sacontala, nel mirare Dushmanta, sente una segreta emozione che non le pare in accordo colla santitá del luogo. La voce e [p.152] le parole del re fanno piú violenta quell'emozione. Intanto le ancelle entrano in discorso con lui, e con onesta preghiera gli dimandano chi egli sia. Ed egli, voglioso di celare la propria dignitá:—Io son uno che medita sui sacri Vedas[9]; abito nella cittá del nostro re, che discende da Puru; ed intento all'esercizio dei doveri religiosi e morali, qui sono venuto per contemplare il santuario della virtú.—Poi, interrogando egli le fanciulle, chiede loro come esser possa che Sacontala sia figliuola di Canna, da che quel savio eremita doveva avere rinunziato ad ogni legame terreno. Anusuya quindi gli palesa che Sacontala non è figliuola di Canna, bensí di Causica, principe della famiglia di Cusa, sovrano e, ad un tempo stesso, uno de' savi dell'India; che la madre di lei fu una ninfa; e che la povera Sacontala, rimasta orfana e sola, fu raccolta da Canna, che la educò e le tenne luogo di padre.

Queste novelle rallegrano il cuore a Dushmanta. Ma un fiero dubbio gli attraversa tuttavia la mente.—Forse Canna, seguendo le regole degli eremiti, avrá destinata la fanciulla ad una perpetua verginitá.—Interrogate le ancelle, e udito da esse come Canna abbia data intenzione di voler maritare Sacontala ad uno sposo pari a lei, Dushmanta si ritira in disparte ed esclama:—Esulta, esulta, o cuor mio! Ogni dubbio è rimosso. A ciò che prima avresti temuto come fiamma, or puoi accostarti come a gemma preziosa.—

La verginale modestia di Sacontala mal soffre i lunghi discorsi delle compagne sue col re. Ella s'alza e sta per andarsene. In virtú d'un accordo pattuito tra Priyamvada e Sacontala, quest'ultima aveva obbligo d'innacquare altri due arboscelli. Però Priyamvada, giovandosi di tale pretesto, cerca di trattenerla. Pare al re che in veritá Sacontala sia stanca; e, cavatosi di dito un anello, lo dá a Priyamvada, pregandola che quello serva a scontare il lavoro dovuto a lei da Sacontala. Il nome di Dushmanta è inciso sull'anello. Le donne si guardano l'una l'altra maravigliate. Dushmanta, volendo pur sempre tenersi incognito, dice loro di non badare a quell'inezia, cara a lui per altro come dono del re.—Non privartene dunque—gli risponde Priyamvada;—la tua sola parola vale a scontare il debito di Sacontala.—E, ridato a lui l'anello, si rivolge a Sacontala, dicendole ch'ella debb'essere grata allo straniero, e può andarsene a posta sua.

[p.153]

Ma Sacontala non sa piú risolversi alla partenza. Il re vede l'indugiare ch'ella frappone, e tra se stesso esclama:—O ch'ella sente per me quel ch'io sento per lei; o che la gioia mi fa uscir di me stesso. Ella non dirizza a me una parola; ma, se parlo io, sta coll'orecchio teso per ascoltarmi. Innanzi a me non è padrona d'un menomo suo atto, e gli occhi non li sa volgere che a me solo.—

S'odono di dentro voci di lamento, perché sieno interrotti i riti degli eremiti. I seguaci di Dushmanta, coi cavalli, cogli elefanti, col traino, con tutta la caccia, hanno invaso il bosco sacro. Dushmanta n'è dolente. Le donne, sbigottite dal frastuono de' sopravegnenti, s'inchinano a lui e muovono verso la capanna degli eremiti. Sacontala studia nuove ragioni di dimora e fa lento, piú ch'ella può, il suo passo.—Aimè—grida—aimè! Un subito dolore mi piglia al fianco. Aimè! che non mi reggo al cammino!—Le compagne la rincorano perché s'affretti. Ed ella:—Oimè! il piede mio è ferito da un gambo acuto d'erba cusa[10]. Oimè! il lembo della veste mi s'è appiccato a un ramo di curuvaca[11]. Fermatevi, datemi aiuto.—Finalmente ella parte, sorretta dalle compagne e mandando indietro lunghi sguardi a Dushmanta.

Egli, rimasto solo, mette sospiri, pensando alla beltá di Sacontala:—E non dovrò piú rivederla! Ah, no! Cercherò i servi miei; qui… qui intorno fermerò il mio campo. Non so cessare dal diletto di rimirarla. E come potrei volgere ad altro i miei pensieri? Il corpo mio muovesi e va innanzi; ma questo cuore irrequieto corre indietro verso di lei, a guisa d'una leggiera foglia di canna, che, portata in cima a un bastone incontro al vento, svolazza sempre in direzione opposta.—Parte anch'egli.

ATTO II

{Pianura e padiglioni reali al lembo della foresta sacra.}

Il re intima che per quel dí cessi la caccia, onde non profanare i luoghi santi. Seduto poscia a' piè d'un albero con Madhavuya, l'amico suo, parla di Sacontala, dell'amar che ne sente, [p.154] della bellezza di lei, del desiderio di farsela sposa, del dolore di non poter quel dí stesso chiedere a Canna le nozze della pupilla, perché Canna è lontano. E, mentre che studia di trovar qualche scusa per rientrare nel bosco sacro, due giovinetti eremiti chiedono udienza. Entrati a lui:—Canna—gli dicono—Canna, la nostra guida spirituale, è assente; e intanto alcuni dèmoni cattivi disturbano la pace del sacro eremo. Accorri, o re, a proteggerci.—

L'invito non può cadere più opportuno all'amante. Sta per secondarlo; quand'ecco venir dalla regina, madre di lui, un ambasciatore. Il digiuno solenne è vicino. La madre chiama alla corte per quell'occasione il figliuolo. Che fará egli? Ubbidirá? Ma… e la cara Sacontala? Dopo un volgere di vari consigli tra sé e sé, stabilisce di condiscendere alle preghiere degli eremiti, e d'inviare Madhavuya alla madre, ond'egli assista al digiuno solenne, tenendo le veci del re ed iscusandolo presso lei del non venire. Teme per altro che costui sveli alla regina i segreti amorosi che gli ha confidati; ed affettando maggiore serietá:—Non creder nulla—gli dice—di quanto ti narrai di Sacontala. Fu una favola inventata da me per ispassarmi. Non entro per altro nella foresta se non perché mi vi conduce riverenza degli anacoreti. La fanciulla d'un eremita, educata fra le antelopi, non è cosa degna di me. Non creder nulla; non credere. Addio; fa' il dover tuo. Intanto io corro… in soccorso degli uomini santi.—Partono tutti.

ATTO III

{Romitaggio nell'interno del bosco.}

Per opera del re, nel bosco sacro è ritornata la calma. Un giovinetto, recando un fastello di erbe pel sacrificio e meditando sulle cose vedute, manifesta la propria ammirazione:—Quanto è grande il potere di Dushmanta! Eccolo appena metter piede nel bosco; eccolo vibrare una sola saetta; ecco disperse tutte le nostre calamitá.—

Esce Dushmanta. Ha l'aspetto d'uomo travagliato dalla passione d'amore. Esprime in un lungo soliloquio le pene dell'anima sua:—… Ah! per me non v'è pace, salvo che nel rivedere l'amica mia. Il meriggio è cocente; di certo ella verrá colle sue compagne a ristorarsi sotto quest'ombre, in riva a questo ruscello. Di certo [p.155] l'amica mia si nasconde in qualche parte di questi fioriti boschetti. Ecco le orme de' suoi piedi eleganti; eccole qui sulla sabbia; e le sono orme stampate di fresco. Eccola, eccola; la delizia dell'anima mia siede colle sue ancelle sovra un sasso liscio liscio e tutto cosperso di fiori recenti.—Còlto dalla timidezza, l'amante s'arresta; poi si nasconde dietro alcuni frascati, e non cessa mai dal contemplare la cara donna, e n'ode tutti i discorsi.

Sacontala è oppressa da un'angoscia segreta. Una febbre ardente par che le scorra per le vene. Meste le ancelle procacciano di prestarle ristoro. Dushmanta la rimira.—Oimè!—dice in disparte—oimè! quale sará la cagione fatale della sua febbre? Che fosse mai vero ciò che il cuore mi suggerisce? Amor forse? Misera! la sua fronte è riarsa, il suo collo è appassito, la sua persona è più smilza che prima, le spalle le cadono di languore, scolorata è la sua carnagione; ella pare un cespo di madhavi, a cui secca le foglie un vento infocato. Ma, benché trasformata di tanto, ell'è pur sempre bella e consola sempre l'anima mia.—

Anusuya e Priyamvada interrogano amorosamente la vergine sulle cagioni de' mali ond'ella è oppressa. A loro non sembra vero che quelli provengano dal solo caldo eccessivo della stagione. Sacontala, vinta dalle preghiere di quelle pietose, confessa i segreti del suo cuore.—Fin dal primo momento in cui vidi quel leggiadro principe che or ora tornò a quiete la sacra foresta, fino da quel momento gli affetti miei furono rivolti tutti a lui irreparabilmente; e quindi sono io ridotta in questo languore.—Continua il dialogo tra Sacontala e le ancelle; ed ogni parola di lei la manifesta innamorata e tremante del futuro. Dushmanta ode, e la gioia si diffonde per l'anima sua[12]. Non sa piú contenersi: abbandona il nascondiglio dei frascati, e corre alla fanciulla, e le giura inviolabile amore[13]. È dubbiosa Sacontala e quasi non crede. Ed egli:—O di tutte le cose tu la piú cara al cuor mio, tu che con lo splendore nereggiante de' begli occhi mi fai estatico, deh! parla piú mite… M'uccidono le tue parole. In mezzo alle delizie ed alle molte femmine del mio palazzo, due soli saranno gli oggetti [p.156] delle cure mie: la terra cinta dal mare sulla quale io impero, e Sacontala, l'amica mia.—

Dopo i giuramenti del re, le ancelle, mendicate alcune scuse, destramente si ritirano e lasciano libertá agli amanti. La vergine. trovandosi sola con un uomo, diventa timida oltre l'usato, china gli occhi, accusa di tradimento le compagne, e vorrebbe partire anch'ella. Dushmanta gentilmente le si oppone. Ed ella:—Lasciami, lasciami andare, te ne scongiuro. Oh destino mio infelice!—Il re la lusinga tuttavia, e la rattiene afferrandole la fimbria del mantello. Ed ella:—Figlio di Puru, serba, deh! serba la tua ragione.—Qui ha luogo una scena di galanterie, di sospiri, di oneste repulse, di desidèri, d'astuzie amorose, ma decenti, ecc. ecc.; e tutto finisce con un bacio che l'amante furtivamente stampa sulle labbra all'amata. Sopravviene in quel mezzo Guatámi, la matrona guardiana di Sacontala. La fanciulla, intimorita, prega l'amante a nascondersi. Egli obbedisce. Il giorno cade. Guatámi persuade a Sacontala di ritirarsi alla capanna; e la fanciulla, docile all'invito, tiene dietro ai passi della matrona; ma il cuore le piange di doversi separare dall'amante.

L'atto ha termine con un soliloquio di Dushmanta, il quale, riandando i momenti passati, si duole d'essere stato troppo timido, ed intanto si pasce delle dolci memorie[14] che in lui destano il sasso su cui sedeva Sacontala, i rami del vetasas che formavano come una pergola sul capo di lei, la foglia di ninfea ch'ella teneva nelle mani, ecc. ecc. ecc.

ATTO IV

{Pianura innanzi alla capanna.}

{|Anusuya| e |Priyamvada| vanno cogliendo fiori.}

|Anusuya|. O Priyamvada! È vero, l'amica nostra è felice: s'è maritata, è vero, secondo i riti de' gandharvas[15] ad uno sposo pari a lei per dignitá e per meriti. Eppure il cuor mio non è senza angustie per amore di Sacontala, e mi tormenta un dubbio…

[p.157]

|Priyamvada|. E che dubbio è il tuo, Anusuya?

|Anusuya|. Questa mattina, compiute le mistiche cerimonie, i nostri eremiti pieni di gratitudine diedero commiato al re. Egli se n'è ito alla capitale, ad Hastinápura[16], dove, circondato da cento donne, ne' recessi del suo palazzo, chi sa se ancora serberá memoria della leggiadra sua sposa?

|Priyamvada|. Datti pace: non temer nulla. Confida nell'onore d'un uomo gentile ed educato alla sapienza…

Ma un altro timore suggerisce a Priyamvada:—Canna è tuttavia lontano: nulla sa del matrimonio di Sacontala. Quando tornerá dal suo pellegrinaggio, che dirá egli? L'approverá?—Pare ad entrambe che sí; e continuano a raccogliere fiori per adornare i templi della dea delle nozze.

Intanto l'iracondo Durvasas, uno degli uomini santi dell'India, a cui la povera Sacontala, occupata da tutt'altri pensieri, trascurò di far le dovute accoglienze, grida terribilmente:—E che? Tu non rendi ossequio ad un ospite? Ebbene, ascolta la imprecazione mia. Quegli a cui meditativa tu stai pensando, quegli a cui ora è rivolto interamente il cuor tuo, quegli per cui trascuri una pura gemma di divozione che ti cerca ospitalitá, quegli, sí, quegli, a guisa d'uomo che, tornato sobrio, dimentica le parole pronunziate nell'ubbriachezza, non si ricorderá piú di te, non ti riconoscerá piú, allorché tornerai al suo cospetto.-

Anusuya corre per placare l'ira dell'uomo santo e gli si getta a' piedi; ma né preghiere né lagrime lo muovono interamente a pietá. Però risponde:—La parola mia è irrevocabile. Ma l'incantamento creato da essa andrá disciolto affatto, allorquando lo sposo mirerá l'anello posto da lui in dito alla sposa.—Dushmanta infatti, prima di partire, aveva dato a Sacontala un anello con incisovi sopra il proprio nome. Quindi le donne si consolano, perché veggono facile il modo di distruggere l'incantamento. Sacontala, tutta assorta nelle idee amorose, nulla sa [p.158] dell'imprecazione. E nulla gliene dicono le compagne sue, per non atterrirla:—Sarebbe un versare acqua bollente sui fiori della tenera mallica.—

L'incantamento dell'uomo santo comincia ad avere effetto. Dushmanta non torna e non manda tampoco messaggi. Sacontala è nel dolore. Le compagne di lei s'accorgono ch'ella è incinta. Canna è tornato. Con che cuore manifestargli lo stato della pupilla sua?

Fortunatamente una voce del cielo ha avvertito Canna delle nozze di Sacontala col re. I desidèri del savio eremita sono compiuti. Traendo buon augurio dai segni d'un sacrificio, egli delibera d'inviare la sposa allo sposo. Sacontala viene incoronata di fiori e sparsa di profumi. Le ninfe silvestri le hanno preparati gli ornamenti nuziali. Le ancelle apprestano le sontuose vesti a Sacontala; e, intanto che la stanno abbellendo, piangono la vicina partenza di lei, che piange in lor compagnia. Canna ordina il sacrificio solenne, e piange anch'egli, e manda voti di felicitá e benedizioni sul capo della sua cara Sacontala.

Piene di tenerezza sono tutte le parole dell'addio. Un coro invisibile di ninfe prega felice il viaggio a Sacontala, cantando:—Sulla via ch'ella sta per correre venga compagna di lei la prosperitá. Propizi venticelli spargano intorno, per delizia di lei, la polve odorosa de' piú bei fiori. Stagni di limpide acque, verdeggianti per le foglie della ninfea, le apprestino frescura nel suo viaggio; e rami ombrosi la difendano dai raggi infocati del sole.—

|Sacontala|. M'è dolce il pensiero di dover rivedere lo sposo mio; sí, m'è dolce… Eppure il piede mi vacilla nell'abbandonare questo bosco, questo asilo della mia giovinezza.

|Priyamvada|. Oh! non sei giá mesta tu sola. Or che il momento della tua andata è vicino, mira qui come ogni cosa è afflitta! L'antelope non istá piú brucando intorno al mucchiarello d'erba cusa. La paonessa non balla piú sul prato. Gli alberi del bosco lasciano cader pallide sul terreno le loro foglie; non hanno piú vigore, non hanno piú bellezza[17].

|Sacontala|. Padre mio venerando, contèntati ch'io parli a questo madhavi, i di cui fiori rubicondi infiammano il bosco.

|Canna|. So, figliuola mia, quanto l'ami.

[p.159]

|Sacontala|, abbracciando il madhavi: O la piú radiosa delle piante, ricevi l'amplesso mio e me lo rendi colle tue flessibili braccia. Da questo dí innanzi, benché lontana, sarò pur tua sempre. O padre, abbiti cara questa pianta; considerala come un'altra me stessa.

|Canna|. La tua amabilitá, o figliuola, ti ha procurato uno sposo che ti somiglia. Questo evento fu lungamente il desiderio piú vivo dell'anima mia. Ed ora che in me la sollecitudine per le tue nozze è finita, avrò cara questa tua pianta prediletta e la mariterò all'amra che manda fragranze vicino ad essa. Va', figliuola mia; pónti in viaggio.

|Sacontala|, accostandosi alle ancelle: Dolci amiche, questa pianta di madhavi sia un prezioso deposito nelle vostre mani.

|Anusuya e Priyamvada|. Ahi! ahi! E di noi chi avrá cura?
Piangono entrambe.

|Canna|. Sono superflue le lagrime, o Anusuya. La nostra Sacontala ha bisogno d'essere rinvigorita dal nostro coraggio, e non giá d'essere intenerita dai nostri lamenti.

|Sacontala|. Padre, allorché quella povera antelope, che or cammina lenta lenta pel peso de' suoi portati, gli avrá partoriti, mandami un messaggio cortese che me l'annunzi salva e vispa. Non dimenticartelo, te ne scongiuro.

|Canna|. Carissima mia, sta' certa, nol dimenticherò.

|Sacontala| muove il passo, poi s'arresta. Chi m'afferra il lembo della veste? Chi mi rattiene? Si volge e guarda.

|Canna|. È il tuo figlio adottivo; è il cavriuolo giovinetto, quello la di cui bocca tu tante volte medicasti di tua mano col salutifero olio dell'ingudí[18], quando gliel'avevano piagata le cime acute dell'erba cusa; quello che tante volte fu pasciuto da te con una manata di grani di syamaka. Vedilo: or non vuole scostarsi dalle pedate della sua protettrice.

|Sacontala|. Perché piangi, povero cavriuolo? Perché piangi per me, cui bisogna abbandonare il nostro comune domicilio? In quella stessa maniera con cui ti allevai io quando appena nato perdesti la madre, con quella cura stessa provvederá a te il padre mio quando saremo separati. Vanne, povera creatura, vanne: è necessitá il separarci. {Ella dá in un gran pianto.}

[p.160]

|Canna|. Le lagrime tue non si convengono, o cara, al momento presente. Fa' cuore. Ci rivedremo, ci rivedremo ancora. Pon' mente alla strada innanzi a te, e sieguila. Quando ti sta gonfia la lagrima sotto la bella palpebra, raccogli l'animo tuo e sfòrzati di frenare l'impeto primo ch'ella fa per iscoppiare. Nel tuo viaggio su questa terra, ove i sentieri or sono alti or bassi, e '1 sentiero buono rade volte è conosciuto, le orme de' passi tuoi di necessitá saranno ineguali; ma la virtú ti spignerá innanzi dirittamente.

Anusuya trae in disparte Sacontala, ed abbracciatala:—Ogni cuore—le dice,—ogni cuore, amica mia, in questo sacro asilo pende da te; e il dolore della tua partenza li percuote tutti. Osserva la sciacravaca[19]. Senti la compagna sua che lá, mezzo nascosta tra le foglie della ninfea, lo sta chiamando. Ed egli non le risponde; ma, lasciate cascar dal becco le fibre d'un gambo di loto da lui pelato, ti guarda fiso fiso, con una pietá infinita.—

Continuano gli abbracciamenti, i pianti, le savie ammonizioni di Canna a Sacontala. Partita la quale, una malinconia taciturna pon fine all'atto.

ATTO V

{Il palazzo reale di Hastinápura.}

Dushmanta non si ricorda piú di Sacontala. Riposandosi alcun poco dalle cure dell'impero, ode una canzone che parla di affezioni dimenticate. L'armonia di quel canto è mesta. Egli diventa mesto; ma non ne sa indovinare la cagione.—E perché dunque mi viene sull'anima tanta malinconia in udire un semplice canto che rammenta i lontani, se davvero non so d'essere diviso da oggetto alcuno dell'amor mio? L'aspetto della bellezza, le melodie soavi inducono talvolta a malinconia gli uomini per altro felici. Chi sa? Forse è una malinconia che proviene in essi da qualche languida memoria di gioie passate; forse è l'ultima traccia di alleanze contratte in una esistenza anteriore.—Siede pensoso ed afflitto. I bramini, inviati a lui da Canna colla sposa, cercano udienza: sono intromessi. Durante la cerimonia del ricevimento Sacontala, [p.161] velata il volto, trema incerta dell'esito.—Che donna è quella? La beltà sua splende in mezzo agli anacoreti siccome un bocciuolo fresco che verdeggia tra foglie ingiallite e passe. Ma non le togliete il velo. Ella pare essere incinta; e neppure io re deggio mirare in volto la moglie d'un altro.—

I bramini gli annunziano che quella è Sacontala, la sposa legittima di lui. Stupisce il re: gli pare strano che gli si parli di nozze.—Che favola è questa mai?—È levato il velo a Sacontala. Dushmanta la rimira, confessa che è bella; ma non la riconosce.—Per quanto io mediti, non mi ricordo d'avere sposata costei. Né io darò luogo mai nella mia reggia a donna che porti in seno la prole altrui.-

Sacontala gli rammenta il bosco sacro, gli amori, le nozze contratte. E quegli niega ogni cosa.—Ebbene, ti mostrerò l'anello che m'hai donato col nome tuo.—Ella si cerca su' diti l'anello.—Aimè, sventurata! Non ho più l'anello.—È cascato dal dito; lo ha perduto. La misera si dispera; narra altre circostanze che precedettero gli sponsali.—Falsità tutte!—grida il re—falsità femminili!

|Sacontala|, {irritata.} Uomo vuoto d'onore, tu misuri dal tuo perfido cuore il mondo intero. Tu sotto il manto della religione e della virtù altro non sei che un vile ingannatore. Somigli ad un abisso profondo, il cui orlo è coperto da ridenti arboscelli.

|Dushmanta|… O giovinetta, a tutti è noto il cuore di
Dushmanta; e qual sia il tuo, lo palesano i tuoi modi presenti.

|Sacontala|, {con ironia.} A voi tutti, o monarchi, bisogna prestar cieca fede sempre. Voi siete i savi; voi sapete appieno qual rispetto si debba alla virtù ed alla razza umana. Per quanto modeste, per quanto virtuose sieno le donne, nulla sanno esse, nulla dicono mai di vero. In buon punto sono io qui venuta a cercare l'oggetto degli amori miei. In buon punto la mano d'un principe strinse la mia. Col miele delle sue parole la stirpe di Puru vinceva la mia confidenza; ed intanto il suo cuore celava il pugnale che doveva trafiggermi.

La povera Sacontala non ha ancor finito di dire, che, copertosi il volto, dà in uno scoppio di pianto[20].

Persiste il re nel ricusare di accogliere siccome sposa Sacontala. I bramini dichiarano che Sacontala è moglie di lui secondo [p.162] la legge, che il ripudiarla o 'l ritenerla sta in poter suo, che la podestá del marito è senza limiti, e che però eglino abbandonano a lui la donna, e se ne ritornano al bosco sacro.

|Sacontala|. Questo perfido m'ha ingannata; e voi pure, amici miei, voi pure mi abbandonerete? {E siegue supplichevole i bramini che partono.}

|Uno de' bramini|. Donna! tu vedi quali sieno i delitti di tuo marito; brami tu d'esser libera? {Sacontala s'arretra inorridita e trema.}

|Altro bramino|. Se il re dice il vero di te, che ragione hai tu di lamentarti? Ma, se tu sei conscia a te stessa della purezza dell'anima tua, conviene che tu rimanga a servire come ancella nella casa del signor tuo. Sta' dunque ove sei… A noi è d'uopo andarcene.

|Dushmanta|. È vano lusingarla con isperanze. Traetela pure con voi, o anacoreti… La moglie altrui è donna da cui bisogna astenersi.

Il gran sacerdote di corte, interrogato da Dushmanta, propone di ritenere egli presso di sé Sacontala fino al termine della gravidanza.—Gli astrologi hanno vaticinato, o re, che tu abbia ad esser padre d'un principe illustre, i cui domini non avranno altri confini che i mari dell'oriente e dell'occidente. Or bene, se questa figliuola dell'uomo di Dio partorirá tale fanciullo che da' piedi e dalle mani dia manifesti segni di vasta sovranitá, io renderò omaggio a lei siccome a mia regina, e la condurrò alle stanze reali. Altrimenti, ella tornerá al padre suo.—

Il re acconsente. E 'l sacerdote mena seco la misera, che altro non fa che piangere, e pregar la terra «dea clemente, perché si apra e la raccolga nel suo seno».

Poco dopo torna il sacerdote, e proclama un miracolo.—Gli anacoreti erano partiti. Sacontala singhiozzava, e, protendendo le braccia, piangeva la sua trista fortuna. Quand'ecco una massa luminosa in forma di donna scendere vicino all'Apsarastirtha, fonte dove s'adorano le ninfe del cielo, ed abbracciar Sacontala, e sparire con lei in un attimo.—

Dushmanta sente nell'anima un'agitazione. Ma l'incantamento dura tuttavia. Egli medita sul passato; eppure nessuna reminiscenza gli si richiama al pensiero d'avere conosciuta mai la figlia dell'anacoreta.

[p.163]

ATTO VI

{Strada.}

L'anello nuziale era stato perduto da Sacontala nell'attigner acqua ad un pelaghetto vicino a Sacravatara. Un pescatore di que' luoghi, nello sventrare un grosso rohita còlto un dí nella rete, gli rinvenne fra gli interiori quel gioiello, e pensò di trarne danaro. Stava appunto vendendolo; quando alcuni ufficiali di palazzo, messo l'occhio su lui, lo sospettano tagliaborse, lo legano e, ad onta delle discolpe ch'egli adduce, ad onta de' giuramenti suoi, lo vengono traendo prigione.

Uno degli ufficiali parte recando al re l'anello, e lascia intanto che i suoi compagni custodiscano il meschino, che trema della propria vita.

Torna quell'ufficiale: ordina che sia posto subito in libertà il pescatore.—Il re ha avuto carissimo l'anello; al vederlo gli si commosse l'anima repentinamente. Parve che quel gioiello gli richiamasse alla mente una persona diletta. Il pescatore sará ricompensato con larghi doni.—

{Giardini del palazzo.}

Appare nell'aere la ninfa Misracesi; e dal discorso di lei si raccoglie ch'ella è la protettrice di Sacontala. Due ancelle del dio dell'amore stanno ragunando fiori per una festa sacra. Sopravviene l'anziano de' ciamberlani, ed intima loro di desistere dallo scavezzar tanti steli di fiori: il re è afflitto, e per quell'anno non vuole giubbileo.

|Una delle ancelle|. Dolce è per noi l'obbedire al signor nostro… Ma, se ci è lecito il chiederlo, perché mai il re proibisce la solita festività?

|Il ciamberlano|. E non sapete dunque dell'infausta perdita di
Sacontala?

|Una delle ancelle|. Sí, sappiamo;… e dell'anello inoltre venuto in mano del re.

|Il ciamberlano|. Poco adunque mi resta a dirvi. Quando al rimirare la propria gemma tornò la memoria al re, egli die' [p.164] subito in questo grido:—Sí, l'incomparabile Sacontala è sposa mia legittima; ed io ero al tutto fuori di senno allorché la ributtai.—E mostrò segni evidenti d'estremo cordoglio e di pentimento. Da quell'istante i piaceri della vita gli sono in odio; la mente sua è stravolta; non dice parola che non sia un delirio; chiama col nome di Sacontala qualsiasi donna gli venga innanzi; e per lo piú siede vergognoso, col capo sulle ginocchia.

Entra Dushmanta vestito a penitenza. Ogni parola sua è l'emanazione del dolore. I circostanti s'industriano di sviarlo dal suo pensiero affannoso. Non giova: egli non dá ascolto; par che abbia in animo d'imprendere un lungo viaggio. Voltosi poscia all'amico suo:—O Madavuya—gli dice,—quando persone accusate di gravi delitti mettono in chiaro tutta la loro innocenza, mira di che modo sono puniti i loro accusatori! Una frenesia m'aveva tolto la memoria…: quell'anello fatale me l'ha restituita. Vedi con che lagrime di pentimento piango la perdita della diletta mia, che rifiutai senza ragione! Vedimi fatto gramo e oppresso dall'ambascia! Eppure la bella stagione è questa della primavera, che col suo ritorno riempie tutti i cuori altrui di gioconditá: tutti, ma non il mio.—

E ciò che piú lo addolora è il pensare ai patimenti della povera anima di Sacontala. L'amico tenta ogni via di consolarlo. È vano ogni conforto. La ninfa protettrice di Sacontala ode, non veduta, i sospiri del re; s'accorge della veracitá del di lui pentimento, e ne gioisce, e comincia a sentirne pietá anch'ella.

In obbedienza ai voleri di Dushmanta, un'ancella s'ingegnò di dipingere sovra una gran tela l'immagine di Sacontala. Recano al re quel ritratto. Allora nella fantasia di lui si riaccendono piú che mai tutte le memorie amorose. Sta contemplando la pittura, e parla fra sé e sé, e geme miseramente. Non è contento del lavoro, e dá ordine che sia migliorato; ma tuttavia non sa finir di mirare quella pittura.

La ragione del re è perturbata da un delirio. Ogni oggetto che gli cade sotto l'occhio gli richiama alla mente la crudele ripulsa data a Sacontala. Il rimorso è immenso. Il cordoglio gli opprime l'anima. Vede un'ape dipinta sul quadro, ha paura che indiscreta voli sulla bocca a Sacontala, dá nelle smanie[21], e parla all'ape, [p.165] e la minaccia, affinché non osi contaminare le labbra della donna bella. Madhavuya rammenta al re che quell'ape non è viva e ch'altro non è ch'una pittura.—Crudele!—risponde egli.—E perché rammentarmelo? Io mi godeva l'aspetto della donna dell'anima mia; e tu che bisogno avevi, o crudele, di farmi avvertito ch'ell'è una pittura?—

I lamenti di Dushmanta sono interrotti da alcuni ministri reali, che vengono ad interrogare la volontá di lui intorno a cose pubbliche di gran momento. Chiamato ad esercitare l'ufficio regio, il re raccoglie l'animo ed emana decreti savi. Il cuor suo è inclinato ad una beneficenza inusitata.—Chiunque d'ora innanzi rimarrá orfano troverá in Dushmanta un padre amoroso. A chiunque perderá alcuno de' suoi congiunti verrá in soccorso Dushmanta, e terrá luogo egli de' defunti[22].—S'intenerisce, torna al delirio, prorompe in un pianto dirotto, e sviene.

La ninfa, contenta del pentimento di Dushmanta, corre a consolare Sacontala. Un tumulto dietro la scena scuote il re dalla sua prostrazione. È Madhavuya, l'amico suo, che grida d'essere rapito da un cattivo genio ed implora soccorso. Il re si leva in armi e libera l'amico. Mátali, auriga del dio Indra, aveva finto quel rapimento, onde provocare ad ira il re e toglierlo cosí all'acerbitá della sua afflizione. Mátali per ordine celeste intima a Dushmanta di andare a sconfiggere i figliuoli di Calanémi, i dèmoni Danavas, giganti indomiti.—Tu dèi salire sul carro d'Indra. Vieni meco; io stesso ti condurrò alla battaglia.—Il re obbedisce; monta sul carro e parte.

ATTO VII

{|Dushmanta| e |Mátali| nel carro del dio Indra. (Si suppone ch'eglino sieno al di sopra delle nubi).}

I fieri dèmoni, che muovevano assalto al trono del dio Indra, furono vinti e dispersi da Dushmanta. Indra ha ricompensato il vittorioso, facendoselo sedere a destra ed esaltandolo al cospetto [p.166] di tutti gli abitatori dell'empireo.—Sorrideva—dice il re,—sorrideva il dio in veggendo lo stesso suo figliuolo Jayanta stargli tacito accanto ed agognar per sé quell'onore; e profumava intanto il mio seno colle fragranti essenze del sandalo[23] celeste, e cingeva il collo mio d'una ghirlanda di fiori cresciuti in paradiso.—

|Mátali|. Mira, o re, il coro del tuo trionfo tornarsene alla vetta de' cieli. Lieti i geni hanno còlto dalle piante della vita i bei colori della porpora e dell'azzurro…, e stanno ora scrivendo i tuoi fatti in versi degni del canto degli dèi.

Mátali rende conto a Dushmanta delle qualitá de' luoghi aerei pei quali viaggiano, tornando dal cielo all'India; e, mentre che il dialogo prosiegue, il carro viene approssimandosi alla terra.

|Dushmanta|. Rapida, benché impercettibile, è la scesa de' corsieri celesti. Ecco lá, ecco la stanza degli uomini. Oh vista maravigliosa! È tuttavia lontana tanto da noi, che le basse pianure paiono confuse con le alte cime delle montagne. Gli alberi sollevano le ramose spalle, ma par che non abbiano foglie. I fiumi sembrano striscie lucenti, ma non se ne veggono i flutti. Ed ora, ecco ecco, par che il globo della terra sia spinto in su da qualche forza miracolosa[24].

|Mátali|. Oh come è bella l'abitazione de' mortali!

|Dushmanta|. Che monte, o Mátali, che monte è quello lá, che come nube vespertina versa larghe acque consolatrici e forma un'aurea zona tra i mari d'oriente e que' d'occidente?

|Mátali|. È il monte de' Gandharvas, chiamato Hemacuta… Ivi in beata solitudine con la sua sposa Aditi siede Casyapa, padre degli immortali e rettore degli uomini.

Dushmanta prega Mátali di condurlo alla sede del dio che governa il mondo, onde possa rendergli omaggio ed adorarlo da vicino. Mátali seconda quel pio desiderio. Eccoli scendere entrambi al santuario e chiedere del dio. Casyapa è ritirato ne' segreti alberghi della sua reggia. Mátali entra per annunziargli la venuta di Dushmanta; e questi intanto siede all'ombra d'un albero, aspettando. Gli pulsa il braccio destro[25].—O braccio mio, perché [p.167] mi lusinghi tu con un vano augurio? La felicitá per me è finita; non mi rimane che la miseria.—

A un grido messo da alcune donne, Dushmanta si rivolge e, maravigliando, vede un bel fanciullino scherzare con un lioncello, ed aggrappargli senza paura la giubba, e tirarselo dietro vigorosamente.

|Dushmanta|. Ah! perché il cuor mi s'innamora di quel fanciullo come se fosse figliuolo mio?… (Medita un pezzo). Me infelice! non ho figli… E questo pensiero mi lacera l'anima.

Le donne che custodiscono il fanciullo fanno di tutto perch'egli lasci in libertá il lioncello:—La lionessa ti sbranerá, o incauto, se ad essa non lo rendi.—Il fanciullo si ride della minaccia. Gli vien promesso un bel dono, se mette in libertá il lioncello; ed egli stende la destra in atto di riceverlo. Dushmanta gli osserva la palma della mano, e vi scopre segni d'impero. Sente che quella creatura gli è cara, e sospira pensando alla consolazione d'un padre nel recarsi sulle ginocchia i suoi figliuoletti e pargoleggiare con essi; consolazione che egli piú non ispera. Le donne, facendosi piú vicine al re, stupiscono nel trovar tratti sul volto di lui somiglianti in estremo a que' del fanciullo, e nel veder che questi, altero cogli altri, con Dushmanta è tutto mansuetudine. Il re interroga le donne sulla condizione di quel fanciullo, e a poco a poco viene ad intendere che è stirpe di Puru, che ha per madre la figliuola d'una ninfa e che il padre di lui ripudiò la sposa. E, mentre che il re chiede ansioso qual sia il nome di codesta sposa reale, il fanciullo, udendo una donna parlar del «saconta-lavanyam»[26], crede che si parli di tutt'altro, e grida:—Sacontala, Sacontala! dov'è la madre mia, dov'è?—

Finalmente è caduto dal braccio al fanciullo un amuleto, dono di Casyapa. Era tale la virtú di quell'amuleto, che si trasformava in serpente e mordeva qualunque mortale osasse raccoglierlo dal suolo: il padre solo e la madre di chi 'l portava potevano toccarlo impunemente. Dushmanta non sa nulla di ciò: lo ha giá toccato; lo stringe in mano; non è serpente, non morde. Le donne riconoscono dunque in lui il padre del fanciullo, e gli narrano quanti altri avesse giá offeso l'amuleto. Quindi partono liete, per far nota a Sacontala quell'avventura.

[p.168]

Sopravviene tosto Sacontala in veste lugubre, coi capegli annodati in una sola treccia, che le scorre lunga lunga giú per le spalle. La sua faccia è sparuta; negli occhi suoi è il dolore.

|Dushmanta|. Ti ho trattata crudelmente, o cara. Ma l'amore piú caldo è sottentrato alla crudeltá mia. Sovvengati di me; e mi perdona.

|Sacontala|. Sarò interamente felice quando cesserá l'ira del re.

|Dushmanta|. Una nube, una malia mi aveva oscurata la memoria. La caritá de' celesti finalmente mi ti riconduce innanzi, o amabilissima fra le creature.

|Sacontala|. Il re sia sempre…[27]. E non può profferire la parola «vittorioso» e dá in un subito pianto.

|Dushmanta|. Dimenticati, o cara, della mia crudele ripulsa. Mettila in bando dalla memoria. Fu una frenesia violenta che mi vinse l'anima. Cosí, quando prevale il buio di una illusione, non giova santitá d'intenzioni; cosí un cieco, se la mano d'un amico gli cigne il capo d'una corona di fiori, la crede una serpe, e stolto se la strappa dal crine. {E le si getta a' piedi.}

|Sacontala|. Sorgi, o sposo; deh! sorgi. La felicitá mia fu interrotta gran tempo. Ma tu m'ami; ed ecco in me l'affanno dar luogo alla gioia.

Poi lo sposo rasciuga di sua mano le lagrime sul volto alla sposa, e se la serra al seno, e le narra dell'anello trovato, ecc. ecc.

S'apre il fondo della scena, e vedesi Casyapa sedere in trono conversando con Aditi. Gli dèi accolgono benignamente gli sposi; li benedicono; consolano Dushmanta col dichiararlo innocente in faccia a Sacontala del ripudio, da che tutto provenne dall'incantamento di Durvasas; predicono le glorie future del figliuolo di Sacontala; fanno che Dushmanta lo riconosca per suo; inviano a Canna uno spirito, nunzio dell'evento; e, svelati cosí tutti i misteri, comandano che gli amanti e 'l fanciullo salgano sul carro d'Indra, onde tornar felici sulla terra a vivere lunghi anni di pace nella splendida Hastinápura.

[1] Qui si parla di quella poesia che è arte ispirata dal bisogno e dal sentimento del bello; non giá di quella poesia naturale, cosí detta dal Vico e da altri filosofi, la quale consiste nel fingersí favole di dèi o di spiriti credendole vere, e fondando cosí l'idolatria; nel credere che i corpi fisici, alberi, nuvole, ecc. ecc., sieno animati; nel parlare per interiezioni, suoni imitativi, ecc. ecc.

[2] La mitologia indiana in Calidasa è come la mitologia greca in Omero. Si gusta ne' poemi d'Omero la mitologia greca: può dunque gustarsi anche la mitologia indiana nel dramma di Calidasa. Entrambi questi poeti hanno scritto cose conformi a' lor tempi: basta saper trasportarsi a' lor tempi per poterle gustare. E il farlo sarebbe egualmente facile sí coll'uno che coll'altro, se la mitologia indiana ci fosse nota quanto la greca. Ma per la stessa ragione, ripetuta giá piú volte da piú d'uno, che la mitologia greca ne' moderni riesce fredda, riescirebbe fredda anche l'indiana, adoperata sul serio da un europeo, quantunque in parte tuttavia viva nell'India. Ho creduto opportuna questa nota per ridire un'altra volta che le mitologie, o spente o appartenenti a popoli che nulla hanno di comune colla nostra civilizzazione, si possono bensí gustare negli scrittori che vissero sotto l'influenza di quei sistemi mitologici; ma che i moderni europei debbono astenersi dal ricopiarle come se in Europa ci si credesse, come se ancora influissero religiosamente sopra di noi.

[3] Pare da ciò che presso gl'indiani i divertimenti teatrali fossero, come presso i greci, una specie di riti sacri. Si è tradotta la benedizione non come un tratto di poesia da poter fare effetto in Italia, ma come una bizzarra curiositá. Ne' greci e ne' latini vi ha pur molte e molte particolaritá che per noi sono insipide, appunto come la benedizione del bramino.

[4] Puru, uno de' piú famosi tra gli antenati di Dushmanta.

[5] «Mallica», forse il «nyctanthes sambac» (Linneo).

[6] «Amra», albero d'alto fusto e vaghissimo pe' suoi fiori.

[7] «Madhavi», «ipomea quamoctit» (Linneo).

[8] La vivace fantasia degli indiani popolava di dèi, di dèmoni, di spiriti, ecc. tutta la natura. E però sotto le sembianze di quell'ape le fanciulle sospettavano forse nascosto qualche demone malefico. E che nella persona del re fosse la possanza di contrastare a siffatti dèmoni lo vediamo in vari luoghi del dramma; specialmente quando gli anacoreti invocano il soccorso di lui, e quando lo stesso dio Indra manda lui a combattere contro i dèmoni «Danavas».

[9] Vedas sono i quattro libri del codice sacro degli indiani.

[10] «Erba cusa», «poa cynosuyoides» (Linneo).

[11] «Curuvaca», pruno, quasi sempre fiorito.

[12] La consolazione di Sushmanta può paragonarsi a quella che prova Romeo nella scena II dell'atto II della tragedia Romeo e Giulietta di Shakespeare.

[13] Qui nel dramma vedesi un tratto di galanteria che sente del francese. Sacontala improvvisa un couplet amoroso; e Dushmanta si presenta tosto a lei, improvvisandone un altro in risposta.

[14] Questo soliloquio somiglia a quel sonetto del Petrarca che incomincia:

Sennuccio, i' vo' che sappi in qual maniera.

[15] «Gandharvas», uno de' nomi che gl'indiani dánno alle schiere celesti o sia geni buoni, chiamati altrimenti «dewta». Gl'indiani hanno otto diverse maniere di nozze. Quelle secondo i riti de' gandharvas sono le piú clandestine, e nondimeno legittime come tutte le altre. Celebransi senza cerimonie. Basta il mutuo consentimento degli sposi e lo scambiarsi ch'eglino fanno tra di loro d'una corona di fiori, d'un anello o d'altro, ecc.

[16] Hastinápura, cittá che in séguito fu chiamata Delhi. Secondo altri, è l'odierna Hassanabad.

[17] Questa mestizia della natura per la partenza di Sacontala somiglia, in certo modo, a quella che presso Teocrito accompagna la morte di Dafni.

[18] «Ingudi», probabilmente il «sesamum orientale» (Linneo).

  [19] «Sciacravaca», uccello acquatico che gli inglesi chiamano
    «oca de' bramini».

  [20] I conoscitori delle passioni terranno conto di questo passaggio
    dall'ironia al pianto dirotto. Com'è pieno di verità!

[21] Se i lettori si ricorderanno dell'ape che molestò Sacontala nell'atto primo, loderanno l'accorgimento di Calidasa nell'immaginare il delirio presente.

[22] Badino i lettori gentili a questo miscuglio d'amore e di caritá del prossimo, sentimenti affini.

[23] «Sandalo»: «santalum album» (Linneo).

[24] Nel poema di Dante e nel King Lear di Shakespeare mi sovviene d'aver trovati alcuni passi rivali in bellezza a questo di Calidasa nel descriver le cose vedute dall'alto al basso in una gran distanza.

[25] Nell'atto primo abbiamo veduto come Dushmanta sentisse uguale pronostico.

[26] L'uccello «saconta-lavanyam» è una specie di pavone.

[27] «Il re sia sempre vittorioso». È il saluto di formalitá col quale in tutto il dramma gli amici del re si accostano a lui. Qui, in bocca di Sacontala, è come parola di pace.

[p.169]

XVII

SULLA «STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA» DEL GINGUENÉ[1]

Tempo fa in questo stesso giornale (n. 21), parlando incidentemente del signor Ginguené, abbiamo emessa la nostra opinione sul merito della di lui Storia letteraria d'Italia, e sulla fortuna incontrata presso gl'italiani dai sei volumi di essa che allora correvano pubblicati. Annunciamo ora a' nostri lettori che un italiano, noto favorevolmente fra la schiera de' letterati, il signor Salfi, avendo ragunati i manoscritti del signor Ginguené, trovò di potere stampare altri tre volumi di quella storia, e compire cosí in tutti i suoi rami il periodo che comprende il secolo decimosesto. Questi tre tomi hanno lo stesso formato degli antecedenti; e con essi termina il lavoro del signor Ginguené, da che a lui non bastò vita per poter protrarre la sua storia fino alle epoche piú recenti della nostra letteratura. Le cure spese intorno ad essi dal signor Salfi meritano tanto maggiore gratitudine, in quanto ch'egli dovette supplire col proprio ingegno e colla propria penna a non poche lacune esistenti ne' manoscritti, e dare a questi l'ordine che loro mancava in alcune parti, perché non maturi ancora per la stampa. Il signor Salfi è da considerarsi dunque nell'occasione presente non come semplice editore, ma come cooperatore col signor Ginguené. E questo titolo dividono con lui, per rispetto alla lingua [p.170] ed allo stile, due letterati di Francia, i signori Daunou e Amaury-Duval, perché alla loro revisione il diligente italiano volle sottoporre il proprio lavoro.

Data un'occhiata generale a questi tre volumi, ci sembrano egualmente lodevoli che i primi sei per esattezza storica, per abbondanza di notizie, per intelligenza franca delle cose italiane; e, del pari che i primi sei, ci lasciano anche questi nell'animo un desiderio di piú frequente filosofia: per modo che pare a noi di dovere estendere anche su di essi quanto ci venne dettato dalla libera nostra convinzione allorché parlammo de' precedenti. Non ripeteremo dunque le parole stampate da noi tempo fa; nulla vogliamo aggiungere ad esse, nulla levare. Altri pensi altramente, e ci creda pure traviati, e ci muova contro gli odii segreti: noi abbiamo pigliato a faccia scoperta il partito di spogliarci affatto d'ogni interesse e d'ogni amore transitorio, per servire all'amore perpetuo della patria e del vero, od almeno di ciò che a noi par vero. E sicuramente non ce ne fará biasmo chiunque sa quanta consolazione sia in certi momenti il poter dire all'anima propria:—Se non d'altro, sei monda almeno d'ogni invidia e d'ogni servilitá, né ti vendesti mai alla fortuna de' raggiri.—

Ci perdonino i nostri lettori questa ed altre consimili digressioni. È la natura di certi costumi d'Italia che ci sforza a farle, non giá una troppo alta importanza che noi vogliamo attribuire alle nostre fatiche letterarie. Il peccato nostro (e lo confessiamo, ma non con intenzione di pentircene) sta tutto nella bizzarria, che ci siamo fitta in capo, di volere riputare un delitto, una infamia la professione delle lettere, se in ogni menomo atto non è esercitata come virtú morale.

E a questo proposito, pensando al bel carattere morale del signor Ginguené, ci giova lasciar per ora da un canto la sua Storia letteraria, e cedere invece al bisogno che sentiamo di dare una lagrima alla memoria di questo illustre defunto. La morte dell'uomo sapiente è una sciagura intellettuale, che può anche tollerarsi a ciglio asciutto; ma quella dell'uomo probo è un dolore amarissimo, per chi considera quanto debba penare [p.171] l'umana societá a riempire il vuoto che quegli morendo vi lascia.

La carriera de' pubblici impieghi fu corsa onoratamente dal signor Ginguené fino all'anno 1802. Ogni cosa gli prometteva allora facile il conseguimento delle ricchezze e degli onori piú splendidi: bastava che avesse potuto desiderarli. Ma, sdegnoso egli del favore del nuovo governo, contrario affatto a' principi da lui professati con intima religione, non volle piegare il ginocchio innanzi ad un idolo politico che non era l'idolo della sua coscienza. Rinunziò quindi ad ogni impiego pubblico, e coll'anima incontaminata consacrò interamente la vita e l'ingegno alla letteratura. Negletto, dimenticato dal governo, detestato anche: se ne compiacque. Tutti gli studi suoi furono da lui rivolti all'utilitá de' suoi concittadini; e co' versi, con le prose, con le lezioni recitate al Liceo (ora Ateneo), procacciò di vieppiú sempre nobilitare l'intelletto e 'l cuore dei francesi.

Nell'ultima caduta di Napoleone venne fatta istanza al signor Ginguené perché celebrasse in versi il nuovo destino della Francia, tuonando irato contra i costumi dell'uomo precipitato dal trono.—Lascio questa cura—rispose egli—a coloro che lo hanno lodato.—E gli adulatori di Napoleone accettarono alacremente l'incarico che Ginguené rifiutava.

La candida onestá del signor Ginguené guadagnò a lui ne' crocchi delle persone piú savie e piú gentili della Francia un epiteto che gli fa onore, e che da gran tempo non va scompagnato mai dal suo nome:«le bon Ginguené». Innamorato della vita campestre, egli ne gustò lungamente tutta la pace; e da essa le sue maniere pigliarono molto di quella schietta ed ilare cortesia, che raddoppia i nodi dell'amicizia e che sola può placare l'invidioso dispetto con cui il volgo guarda d'ordinario chi ne sa piú di lui. Eaubonne e la valle di Montmorency prestarono l'ultimo asilo al signor Ginguené; e l'ultima voce di lui fu udita in quelle amene campagne… Ora non vi suonano che i gemiti della sua vedova moglie.

Possa un sospiro de' nostri lettori italiani, un sospiro che sia l'espressione della tristezza insieme e della riverenza, espiare [p.172] una villania fatta al signor Ginguené da un italiano! È noto a tutti di che modo l'Alfieri pagò d'ingratitudine un favore usatogli spontaneamente dal signor Ginguené, quando questi cercò di salvargli dalle mani del fisco di Francia la libreria ed i manoscritti. La lettera che il signor Ginguené, dolente dell'insulto onde vide ricompensato il proprio zelo, scrisse su di ciò all'abate di Caluso, e l'indole stessa del fatto, dimostrano quanto sia stato il torto dell'Alfieri. In discolpa di lui nulla può dirsi saviamente; e, se avessero spaccio tuttavia gli arzigogoli e gli insulsi sotterfugi de' retori, appena appena diremmo che quell'atto villano lo commetteva l'autore del Misogallo, ma che Vittorio Alfieri non lo sapeva.

|Grisostomo|.

[1] Histoire littèraire d'Italie par |P. L. Ginguené|, de l'Institut royal de France, ecc. ecc. ecc., tomi VII, VIII, IX, Paris, 1819, chez L. G. Michaud. (L'intera opera del signor Ginguené si vende presso il signor G. Gigler, sulla Corsia de' servi, n. 603).

[p.173]

XVIII

BENEDETTO CASTELLI [1]

L'adulazione mercenaria di parecchi letterati ha fatto brutto servizio agli elogi. Per essa queste forme oratorie, destinate ad onorare la sapienza, l'amor della patria e tutte le altre virtù civili, sono oggimai cadute in discredito presso molti. Quante volte la parola «elogio» sveglia in capo a chi l'ascolta un'idea a cui di necessitá tengono compagnia altre idee schifosissime! Ma, come la spada non è infame se non quando la impugnano i traditori, cosí l'elogio può essere santo se scritto con santa intenzione.

Non va confuso cogli ordinari scrittori d'elogi chi recita e stampa le lodi d'un povero fraticello morto censessantacinque anni fa, chi con esse non mira a lusingare di rimbalzo la vanagloria viva e pagante d'un qualche discendente della famiglia onde emerse quel povero fraticello lodato. E però noi volentieri ci congratuliamo col signor dottore Sisto Tanfoglio dell'elogio letto da lui, sono tre anni, in un'adunanza dell'Istituto, e pubblicato ora colle stampe di Brescia. L'umile ma famoso monaco, di cui egli pigliò a parlare, meritava un encomio che fosse dettato dalla riverenza spontanea, non comandato dall'opportunitá di guadagnarsi un fautore. Colla sua intenzione ingenua il signor Tanfoglio pare a noi che abbia corrisposto degnamente al merito ingenuo di Benedetto Castelli.

Nella orazione che annunziamo poco ci viene detto delle particolaritá della vita, e molto degli studi di questo celebre [p.174] matematico. «Nacque in Brescia nel 1577 da famiglia patrizia, ed ebbe a genitori Giambattista e Daria Castelli. Di diciotto anni si spartí dagli uomini, facendo voto di monacato in San Faustino di Brescia». Fu in Padova discepolo del Galileo, a cui si strinse di tenace amicizia. Fu professore di matematiche in Pisa. Nel 1628 andò a Roma, chiamatovi da Urbano ottavo, «che gli doppiò lo stipendio e lo dichiarò suo primo matematico. In Roma pubblicò la prima volta l'aureo trattato Della misura delle acque correnti»; ed ivi morí nel 1644.

È noto che Benedetto Castelli fu il primo che applicasse alle dottrine idrostatiche le geometriche, e che riducesse a scienza certa ciò che prima era abbandonato alla pratica. «Legislatore ed ordinatore supremo de' fiumi e de' torrenti», il Castelli dettò teorie idrostatiche, che servirono di base a tutte le teorie posteriori; e, se ad altri vuolsi dare il vanto d'avere perfezionate ed ampliate siffatte dottrine, a lui non può negarsi quello di averne trovati i primordi: il che non è poco indizio di vigoria d'intelletto.

Il signor Tanfoglio spiega, per quanto lo comporta la brevitá del suo discorso, queste ed altre dottrine ed esperienze praticate dal Castelli, e sulla bontá di esse fonda le ragioni della lode che gli va tributando. L'orazione sua riesce un lavoro piú scientifico che letterario; e tale, a dir vero, lo voleva la natura dell'argomento. Non inviteremo dunque i nostri lettori a considerarla dal lato letterario, parendoci ch'essa abbia un merito piú deciso guardandola dall'altro lato, e ravvisando in essa l'espressione dell'animo di un giovine studioso che loda ciò che l'intima persuasione gli suggerisce di lodare.

|Grisostomo|.

[1] Elogio di Benedetto Castelli bresciano di |Sisto Tanfoglio|, dottore in filosofia e matematica ecc. ecc., Brescia, 1819, presso Nicolò Bettoni e soci.

[p.175]

XIX

INTORNO ALLA «SERVITÙ PRESSO I POPOLI ANTICHI E MODERNI» DEL GRÉGOIRE[1]

L'uomo che dall'alto della sua fortuna volge uno sguardo compassionevole ad una classe inferiore di cittadini trattata duramente dall'orgoglio dei piú, ed il filosofo che, abbandonate le astruse ed aride speculazioni, crede di nobilitare la propria sapienza impiegandola a pro del misero avvilito ed ingegnandosi di trovar modi onde migliorarne la condizione, sono due vere bellezze nell'ordine delle cose morali. Le azioni loro brillano in mezzo a' traviamenti della umana natura, e rischiarano altrui il cammino della vita con una luce consolatrice. Nel leggere il libro della Domesticité non possiamo tenerci di ammirare nell'autore di esso, il signor Grégoire, l'uomo onesto ed il vero filosofo; non possiamo negare a questo antico presidente della «Societá degli amici de' negri» la simpatia, il rispetto, l'amore ch'egli merita come esempio vivo di operosa filantropia. Una nuova edizione recentissima di questo libro ci sia sufficiente occasione per poter parlare di esso anche dopo i quattro anni da che uscí per la prima volta alle stampe.

Il protettore de' negri, quegli che fino dal 1791 perorò altamente contra l'infame tratta di quei meschini, e sollecitò l'abolizione della loro schiavitú, manifestandone tutta l'ingiustizia, di rizza ora all'umanitá parole di propiziazione in favore d'altra gente infelice. Nel libro sulla Domesticité il signor Grégoire esamina la condizione de' servitori d'ambo i sessi in Europa; [p.176] discute i mezzi co' quali renderla meno sciagurata per se stessa e piú giovevole alla societá civile; e con quella eloquenza che non è insegnata nelle scuole, ma che procede direttamente dalla bontá del cuore, cerca di trasfondere ne' suoi lettori la caritá virtuosa di cui egli sente l'impero sull'anima propria.

L'autore dá uno sguardo franco, ma rapidissimo, alla storia de' popoli antichi, e considera lo stato degli schiavi presso i greci ed i romani. Il barbaro modo, con cui in generale venivano oppressi gli schiavi da quelle due nazioni tanto venerate da' nostri pregiudizi scolastici, concorre anch'esso a giustificare la generositá dell'ardimento di coloro che, paragonando la somma de' nostri costumi presenti a quella de' costumi de' tempi remoti, niegano all'antichitá quel cieco ossequio superstizioso che ci è imposto come obbligo dalla servile pedanteria, e tributano invece una piú sentita riverenza alla ragione umana che si fa monda attraverso dei secoli. «Tito egli stesso,—dice il signor Grégoire—Tito, l'imperatore soprannominato 'la delizia del genere umano', avendo ridotti in servitú i popoli della Giudea, il trattò con la piú ributtante ferocia. Ne' giuochi e negli spettacoli dati da lui a Cesarea perí una gran turba di schiavi, alcuni sbranati dalle fiere, moltissimi costretti a combattere contro i loro compagni e ad ammazzarsi l'un l'altro. Mille e cinquecento schiavi vennero scannati in quella stessa cittá onde celebrare il giorno natalizio di Domiziano, fratello della 'delizia del genere umano'; e ne furono scannati altri assai a Berito in onore di Vespasiano, padre della 'delizia del genere umano'… Ecco di che fu capace un principe, a cui l'adulazione de' contemporanei e la credulitá delle generazioni successive decretarono l'apoteosi!».

Dall'esame della schiavitú presso i greci ed i romani l'autore discende a quello della servitú nel medio evo, e finalmente a quello della «domesticité», che è quanto dire della condizione dei famigli o servitori, ne' tempi presenti; e dichiara che le riflessioni, alle quali egli verrá condotto dal suo discorso, avranno quasi sempre la mira a' soli famigli d'ambo i sessi destinati a' servigi domestici nelle cittá, non a quelli destinati a' servigi rurali.

[p.177]

«L'Europa nel medio evo teneva gli uomini, per cosí dire, inchiodati alla gleba. L'Europa moderna offre lo spettacolo di una turba di donne, di oziosi vestiti a livrea, di valletti ecc. ecc., che riempiono le anticamere e vegliano giorno e notte a prevenire i bisogni veri o fittizi de' loro odiati padroni… Nel 1796 a Torino sopra 93.076 abitanti contavansi 3.168 servi e 5.292 serve. Totale d'ambo i sessi 8.460; il che forma la undecima parte della popolazione».

Non è giá con questa proporzione che s'abbia a pretendere di raccogliere il numero de' famigli esistenti in tutta l'Europa, da che ciascun paese presenta agli statistici proporzioni differenti. Il numero de' famigli cresce, ove piú ove meno, a seconda del crescere delle ricchezze, delle distinzioni sociali, dell'ineguaglianza delle classi civili. A Parigi ed in tutte le grandi cittá il numero de' servi si fa ogni dí maggiore per colpa del lusso ogni dí piú favorito. Non sarebbe lontano per nulla dal vero il supporre che in Francia un milione d'individui sia impiegato ne' servigi domestici, non contando coloro che prestano servigi rurali. Considerata dunque la tanta quantitá di siffatti individui e quanto essi possano contribuire alla tranquillitá dello stato ed alla felicitá privata delle famiglie, chi non vede essere cosa importantissima il pensare ad una riforma de' loro costumi, ad un miglioramento della loro educazione intellettuale? Questa riforma e questo miglioramento raddolciranno ad essi di molto il peso della servitú. L'uomo ignorante e senza morale è necessariamente infelice.

Ommettiamo di riportare le tante prove della depravazione morale de' servi, registrate dall'autore nel suo libro. Che i servi sieno spesse volte scostumati, è una veritá di fatto, della quale ciascuno di noi è persuaso prima ancora che la ci venga annunziata.

Ma, siccome per togliere di mezzo un male fa duopo investigarne le cagioni, vediamo da che provenga cotesta depravazione. Il rimediarvi stará nel toglierne di mezzo le cagioni.

Una delle principali origini della depravazione de' servi è la depravazione de' padroni. «Come possono inspirare sentimenti di fedeltá a' loro famigli certi padroni arricchiti da [p.178] fallimenti dolosi, da ruberie, da rapine; certi padroni contra i quali grida vendetta il sangue de' poverelli? Come possono inspirare a' loro famigli sentimenti di riverenza e di subordinazione certi padroni capricciosi, aspri, crudeli, a' quali la caritá è sconosciuta del pari che la giustizia, le di cui parole e maniere spengono negli animi altrui ogni affezione; padroni, i quali non vorrebbero comandare che ad automati, che all'opulenza associano tutti gli effetti d'una cattiva educazione, che, nudi di ogni sentimento dilicato e logorati dai vizi, non perdonano ai loro servi il menomo difetto?».

L'esempio buono è il piú eloquente de' predicatori. Pochissimi uomini coltivano la loro ragione e il loro cuore; pochissimi operano per impulso di princípi sentiti intimamente e professati. I piú vanno dietro agli altri e sono enti imitatori. Però in casa dell'uomo vizioso rade volte troverai servi virtuosi. «Tel maitre, tel valet», è proverbio che d'ordinario non falla.

Altra origine della corruzione morale de' servi è l'abitudine ai giuochi del lotto e ad altri consimili. Quanti individui, allettati dalla speranza di far fortuna e cambiare stato, incominciano la carriera del vizio rubando, e la finiscono col suicidio! Quanti ospedali, quante prigioni, quante forche bisognò innalzare per lasciar vita a questo abuso de' giuochi!

E non ultima fra le cagioni della depravazione de' famigli è il servirsene che talvolta fanno i governi per conoscere gli andamenti de' padroni. Il mestiere infame della spia inaridisce nell'anima ogni attitudine alla virtú, e rende in un momento solo che lo si eserciti prontissimi gli uomini ad altri delitti.

Per migliorare i costumi de' servi bisognerebbe dunque, prima d'ogni cosa, migliorare la morale de' padroni. Questo è un suggerimento facile a darsi; ma una gran lode meriterebbe chi suggerisse la maniera di mandarlo ad effetto. Piú facile è il mettere riparo ai mali provenienti dalla tolleranza del lotto. E se non si fará mai far da spia a' servi, un gran passo avremo corso verso il perfezionamento della morale di questa classe d'individui.

Supponendo che le leggi provvedano per quanto sta in esse al mantenimento de' buoni costumi ne' servi, i cittadini ricchi [p.179] e probi debbono, giacché le leggi non possono far tutto esse, contribuire dal canto loro al medesimo scopo. E a questo effetto, l'autore propone l'instituzione di scuole destinate interamente pe' servi. Lo spirito regolatore di siffatte scuole dovrebbe essere quello di sviluppare, piú che non s'è fatto finora, le facoltá intellettuali della povera gente, combinando questa educazione colla pratica costante della virtú. Alla mancanza attuale delle scuole speciali pe' servi, pare a lui che potrebbe supplire intanto una maggiore propagazione de' metodi scolastici alla Lancaster. Crederebbe egli necessario per altro che, oltre il leggere e lo scrivere e l'aritmetica, s'insegnassero nelle scuole alla Lancaster anche principi di morale pratica, in modo che negli allievi la virtú diventasse un bisogno della coscienza.

Ma perché nella disposizione naturale degli animi umani i premi sono un allettamento al ben fare, l'autore vorrebbe moltiplicati dalle largizioni de' ricchi gli ospizi pe' servi cresciuti in vecchiezza ed infermi, e stabilita anche in Francia, come giá esiste altrove, una «Societa filantropica», che destinasse premi d'incoraggiamento e di ricompensa pe' servi costumati e dabbene, quando, con lunghi anni di servizio presso una o poche diverse famiglie, avessero dato prove di incorrotta fedeltá.

Non diremo qui di che modo il signor Grégoire difenda la causa de' servi contro l'insultante durezza de' padroni. L'uguaglianza degli uomini ed il rispetto che debbono portarsi a vicenda, qualunque sia la condizione che sembri separarli gli uni dagli altri, sono veritá tanto lucide che ci parrebbe di far torto all'Italia ripetendole. Però, augurando molti lettori italiani al libro del signor Grégoire, facciamo voti affinché lo spirito di liberale caritá, che in esso domina, produca effetti i quali tornino in onore della nostra patria. Una emulazione virtuosa tra popoli e popoli, che abbia per iscopo il conseguimento delle benedizioni de' posteri, è uno spettacolo degno de' tempi presenti.

|Grisostomo|.

[1] De la domesticité chez les peuples anciens et modernes par |M. Grégoire|, ancien evêque de Blois, ecc. ecc. Parigi, ecc. ecc.

[p.180][p.181]

XX

SOPRA UN MANOSCRITTO INEDITO
DEGLI AUTORI DEL FOGLIO PERIODICO «IL CAFFÉ»

Agli scalini del duomo vendevansi qui in Milano, sono pochi dí, al prezzo fisso di dieci soldi il volume, tanti libri e libracci usati, quanti bastavano a formare alla rinfusa un mucchio, del diametro di forse otto passi ed alto un mezz'uomo e piú. Passava di lá casualmente uno degli estensori del nostro giornale, e, datosi a frugare per entro a quel caos di sapienza avvilita e di pazzie umane mantenute tuttavia in eccessiva onoranza dalla tariffa del venditore, trovò modo di spendervi dietro anch'egli, bene o male, uno scudo. Raccomandò il prezioso acquisto alle spalle d'un fattorino del libraio senza bottega, avviandolo alla contrada tale, casa tale, numero tale; e, sborsato il prezzo, entrò in duomo, probabilmente per farvi orazione: i maligni dicono, per pigliarvi il fresco.

Sull'ora del pranzo tornato egli a casa, trovò il fagotto de' libri buttato in terra a piè della seggiolina della portinaia, che, sudicia né piú né meno di tutte le sue consorelle, pure non aveva voluto metter mano su di esso, per paura, diceva, d'impolverarsi, e soltanto si degnò di additarlo con un calcio allorché ne sopravvenne il padrone. La schifiltá della donna pareva essere una strana disarmonia in quella cameretta. Misurando con un'occhiata tutto il lercio dello stanzino e dell'abitatrice, un uomo filosofo avrebbe avuto di che fantasticare assai sulla ignobilitá corporale dell'umana razza e sul perpetuo ondeggiamento de' principi morali da cui muovono le nostre azioni. Una portinaia schiva d'imbrattarsi di polvere un dito! All'amico nostro, accostumato da molti anni a veder tante __inconseguenze__ [p.182] e incongruenze e contraddizioni razionali e morali e sociali…, bastò di ridere alcun poco del bislacco sussiego della donnicciuola.—Va'—le disse—l'anima tua è screziata come l'abito che porti indosso.—Era una vestetta rattoppata con piú cenci, l'un d'un colore l'un d'un altro.—Ma io non rido di te, rido dei molti a cui tu somigli.—Nel dir questo, egli, che s'era fatto allo sportello verso l'androne e vedeva la strada, mandò uno sguardo di allusione a tre bei carrozzini, che lesti lesti scorrevano allora appunto per di lá. Poi, rientrato, spolverò alla meglio i suoi libri, se li recò sotto 'l braccio, salí le scale e li depose sullo scrittoio.

Il dí susseguente, l'amico nostro riandò i vari frontispizi, e gli nacque il pensiero gentile di dividere con alcuni suoi vicini la sapienza comperata. Studiò di proporzionare il dono ai bisogni di ciascheduno di essi: voleva anche in tale inezia essere utile al prossimo. E però, sbandita ogni idea, ogni apparenza di beffa, mandò sul serio come lettura proprio opportuna i seguenti libri ai seguenti individui.

Ad un ricco giovinetto uscito non ha guari di collegio, una discreta traduzione italiana delle Lettere di lord Chesterfield al proprio figliuolo.

Ad un classicista, gli Elementi delle cognizioni umane ad uso de' fanciulli (edizione di Parma), ed i due Galatei, l'uno di monsignor Della Casa, l'altro di Melchiorre Gioia.

Ad un romantico, un libro stampato in Venezia del 1563 ed intitolato Pungilingua e trattato di pazienza di fra Domenico Cavalca da Vico Pisano (edizione citata dai compilatori della Crusca).

Ad uno sposo recente, un grosso volume e mezzo scucito, intitolato Nouvelle manière de defendre et de fortifier les places irrégulières à l'usage de ceux qui ne sont pas géomètres, par P. I. de Bellersheim.

Ad un illustrissimo borioso, le Osservazioni di Francesco Redi intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi.

Ad un postulante, L'uomo di corte di Baldassar Graziano (traduzione dallo spagnuolo).

[p.183]

Ad una signora attempatella, un libro sconosciutissimo, intitolato L'arte di congedarsi a tempo, stampato in Venezia, l'ultimo anno della repubblica.

Inviati al loro destino i libri suddetti, l'amico nostro ne ritenne per sé il restante; salvo che portò egli stesso di sua mano negli archivi del Conciliatore un grosso volume di manoscritti, legato in pergamena e della forma d'un libro parrocchiale, sdebitandosi cosí della promessa, che aveva fatto a se medesimo, di regalar qualche cosa anche a' veri amici suoi. In quel punto gli estensori del Conciliatore erano occupati in rifare alcuni periodi al giornale, che doveva uscire di lí a poche ore. E però non badarono per allora piú che tanto né al nuovo ospite de' loro archivi, né alla storia del come esso era pervenuto in potere del donatore. Questi fu rimunerato grettamente dai donatari con un «mille grazie» secco secco; ma, ponendo mente alla circostanza, gli parve che il guiderdone fosse anche troppo, e si tenne contento.

Non passò per altro una settimana che ai pochissimi estensori rimasti in Milano a tirare il carro, mentre che tutti gli altri se ne stanno oziando alla frescura in amene campagne, su pe' colli di Brianza od in riva a qualche lago, cadde sott'occhio il volume de' manoscritti e nell'animo la voglia di scartabellarlo.

Il frontispizio dice precisamente cosí: Miscellanea di cose accadute a' miei tempi, dove c'è dentro un poco di tutto. E piú sotto: «Io, prete don Anastasio Caramella, cappellano titolato in Verderio superiore, ho messa insieme questa miscellanea per mio uso ed esercizio, incominciando il giorno di pasqua dell'anno 1759 e seguitando fino al giorno di san Giuseppe del 1771, nel quale il dolore per la morte della mia buona Maddalena mi ha fatto rinunziare al mondo ed alle vanitá».

Chi fosse questa Maddalena, la quale vivendo faceva un po' mondano don Anastasio, non è occorso a' sottoscritti di potere indovinare. Ma non hanno lette ancora che poche carte della Miscellanea. Apertala a metá del volume, vi trovarono un capitolo che s'annunzia cosí: Elegia comico-seria ed in prosa, composta da due degni signori che scrivono nel foglio periodico «Il caffé».

[p.184]

Letta avidamente l'elegia, i sottoscritti pensarono subito che lo stamparla sarebbe stato un far cosa gradita al pubblico; da che oggidí gli scrittori del Caffé (morte essendo e seppellite le brutte invidie de' loro contemporanei) ottengono quella giusta venerazione che si meritano, ed ogni cosa che sia frutto di quegli ingegni viene letta con altrettanta compiacenza quant'era l'astio inverecondo col quale a' tempi loro sprezzavasi. Nel manoscritto non è registrato il nome dei due compositori dell'elegia. In alcuni passi le idee e lo stile farebbero sospettare ch'essa fosse fattura di Pietro Verri; in piú altri, del di lui fratello Alessandro. E forse è opera di tutt'altri; forse un solo individuo ne fu l'autore; forse… anche… chi sa? I sottoscritti non vogliono avventurare nessun giudizio: decida il pubblico.

Ecco l'elegia ricopiata tal quale dalla Miscellanea del cappellano. Ma no: bisogna che i lettori sappiano in prima una cosa, e la si dica. L'elegia è preceduta da una Notizia storica, compilata da don Anastasio. Sono descritte brevemente in essa le circostanze che diedero occasione al componimento patetico. E sono circostanze tali, che per una bizzarria dell'accidente somigliano in qualche modo a quelle in cui trovansi gli estensori del Conciliatore. Siffatta analogia, è da confessarsi, contribuí anch'essa a far nascere il pensiero di pubblicar l'elegia, e con essa anche la Notizia storica nella sua genuina semplicitá. S'è detto «analogia d'alcune circostanze». Badate bene, o lettori, ai termini; perché gli estensori del Conciliatore non amerebbero d'essere creduti sí presuntuosi da voler paragonare se stessi agli illustri scrittori del Caffé. Sanno bensí in coscienza di aver comune con essi la intenzione; ma l'ingegno poi e le forze…, queste sono altre cose. «Non omnia possumus omnes», soleva dire ogni tratto il barbiere di Tom Jones. Oh! un barbiere ci vorrebbe che lavasse il muso a certi israeliti della nostra penisola, de' quali dicesi che per avere imparate a mente quattro frasacce del Pataffio di ser Brunetto, siensi fatti tronfi come la rana della favola, e vadano gracchiando contro le opere del Verri e del Beccaria, e le chiamino «miserie», perché non vi [p.185] trovano sapor di lingua. Sapor di lingua! E che sapete voi mai, o israeliti, d'altro sapore fuor di quello dell'oca?

Don Anastasio dunque lasciò scritta, o lettori, una Notizia storica. Vedetela qui; e, se vi piace, ringraziatene gli editori, che finalmente stanno zitti e lasciano parlar don Anastasio e suoi poeti.

L'estate di quest'anno 1765 fece un gran caldo in Milano; ed io, che mi trovava lá giú, bruciava che pareva in un forno. In un giorno di luglio, non mi ricordo se giovedí o martedí, ma era giorno di grasso, fui invitato a pranzo la prima volta a casa della marchesa donna Antonia, signora piena di degnazione, che solamente mi fece venire, e non mi conosceva, perché io era amico di molti di que' sapienti che scrivevano il Caffé, e quel dí pranzavano dalla signora marchesa; ma solamente due di essi in effetto, perché gli altri erano scappati fuori in villeggiatura, tanto era indiavolata e scottava la cittá. Que' due buoni signori raccontavano tra una portata e l'altra d'aver veduti stracciati per la strada alcuni fogli del Caffé, e parevano in collera. Ma io credo che facessero finta, perché di quando in quando si guardavano e ridevano, ed erano insomma di buon umore. Anzi narravano tutti gli insulti che ricevevano dalla bassa canaglia, e che fino sentivansi chiamare «Societá dei pugni»; ed era come se parlassero di gloria e trionfi. Che fiore di galantuomini proprio esemplari! In fine della tavola tirarono fuori e lessero una poesia o prosa, che avevano fatta sui loro guai. E l'uno diceva:—Stampiamola;—e l'altro:—No;—e sí e no, e sí e no. E infine non ne fecero niente; perché la marchesa, donna di giudizio, diceva che non bisognava darsene per intesi, e che sempre era succeduto cosí, e che sempre sarebbe succeduto l'eguale a chi scrivesse proprio come la pensava; e che poi bisognava contentarsi di chiappar la lepre col carro, e lasciar tempo al tempo. Ma quella elegia mi piacque tanto, che pregai di darmene una copia. Ed ebbero la bontá di esaudirmi. Ed ecco, è l'elegia seguente. Peccato che non l'abbiano messa sul Caffé!

[p.186]

ELEGIA COMICO-SERIA ED IN PROSA

  Vieni colla querula lira, o bionda Elegia; e sparsa di lagrime sciogli
  le chiome…

  —No, no; questa prosa somiglia troppo i soliti versi: cominciamo di
  nuovo.—

  Fa' la toelette una volta, o vecchia Elegia, se ti restano
  chiome.

E se, dai mille anni in poi che tu spandi i torrenti delle tue lagrime sulle arcadiche cetre, ancora te ne rimane una stilla, vieni, o pietosa, nel caffé di Demetrio[1] ad imprestarmela per tante disgrazie.

Chi sará mai cosí dotto aritmetico da poter numerare tutti i miei nemici? Chi sa dirmi donde l'odio, gli strapazzi, gli sdegni contro di me, che non gli ho veduti pur mai!

  Ignoro il mio delitto. Studiando, scrivendo, operando col coraggio
  dell'onestá, ho forse violati gli altari, tiranneggiata la patria,
  venduta l'innocenza?

Ho forse offesi tutti coloro che scrivono ed operano senza il coraggio dell'onestá? Oh! condonate l'errore giovenile: io sognava Lacedemone, ed era in Babilonia!

—Ahi! ahi! ahi!…—ho sclamato tre volte per riverenza delle nove muse, quando vidi l'atroce spettacolo!

Vidi (credetelo, o posteri) il foglio arditamente sincero, il foglio che tien desta l'invidia, quand'ella piú s'affanna a persuadere che dorme, il mio povero Caffé lacerato in mille brani, bruttato nel fango delle strade.

E l'asino grave, e lo stupido bue, e l'armento servile delle pecore lo calpestavano passando! Sento ancora i ragli di gioia, i muggiti di trionfo, i belati di compiacenza. Oh vergogna, oh sventura irreparabile! ahi, ahi, ahi!…

Dimmi tu, o solo compagno rimastomi in tanta guerra, come potremo difenderci?

Ecco primo venirne contro il rotondo signor Cristoforo, ingegnosissimo, [p.187] terribilissimo per grandi occhiali sul naso e impolverata parucca![2]

Ei m'accenna col dito alle turbe e grida:—Quegli è il colpevole, quegli il ribelle che ardisce resistere all'autoritá, stimare i moderni, non adorare gli antichi. Guai se il mondo uscisse di pupillo e l'ascoltasse! Urlate, o turbe: fischiate, percuotete, uccidete. Lo scellerato pretende che __si ragioni__!—

  E le turbe, che non ragionano e non intendono, mi guardarono
  minacciose; ed io, traendomi in disparte, risposi:

  —O gente degna delle «ghiande saturnie», placatevi e calpestate
  questo male sparso Caffé.—

Venne Adonio, il damo per eccellenza; Adonio, il condottiero profumato della schiera degli eunuchi. Costui, recandosi tra le mani l'ultima raccolta di Ana, cercò tra le pagine un epigramma, e mi trafisse.

Ahi, ahi, ahi… Oh mio mal prodigato Caffé!

  Ma chi mi giunge a sinistra dietro le spalle? Ecco la schiera bruna
  che bulica come un formicaio.

  Veggo lo scrittorello, colui il quale vende ognora a gran prezzo ciò
  che val nulla: se stesso ed i suoi giudizi.

  Veggo il vecchio Codro, cadente sotto il peso de' suoi volumi in
  foglio; né la rabbia basta a dargli forza per lanciarmeli contro.

E te pure non dimentico, o poetastro, celebratore de' pranzi illustri; e te pure, o Vafrino, piaggiatore de' grandi, che ti sei fatto un patrimonio colla loro vanitá.

Ma voi chi siete, pallide facce, tutte fosche di neri capegli, ora immote verso il cielo, ora inclinate mestamente alla terra? Ah sí, vi riconosco, Piloncino e Tartuffo, ipocriti di virtú, falsatori di religione.

E i vili si strinsero le destre, e congiurarono cosí:

—Costui né si vende né si compra; ma con un tocco ardito della sua penna sbalza dai volti le maschere e snuda la veritá.

Dunque pèra il __superbo__, pèra il __nemico__ della patria, pèra il __disprezzatore__ de' grand'uomini, il __novatore__ mostruoso, l'esecrato __filosofo__ pèra.—

[p.188]

Sí, calpestate il male sparso Caffé, o fallaci e crudeli dispensatori delle «ghiande saturnie». Abborritemi, vendicatevi. Ma prima ponete una mano sul mio petto, e sentirete che questo cuore batte tranquillo.

Il giorno non è lontano che la pianta felice da noi collocata ne' campi d'Esperia porterá piú copioso il suo nobile frutto; il suo frutto che non manda fraganza, se nol tormenti col foco[3].

  E voi pure tormentateci, o gente saturnia! Ma noi, alleati col Tempo,
  atterreremo su queste pianure i vostri boschi di querce; né piú vi
  sará dato d'imprigionare tra l'ombre le menti dei mortali.

  Perché una forza irresistibile di perfezionamento è nella nostra
  natura, e progredisce e trionfa; e, simile al fato, conduce i
  volenterosi, e i repugnanti strascina.

Ma di chi la gloria, di chi? Amici del nostro cuore, che sudate con noi nell'altissima impresa, non lasciateci or soli frammezzo ai turbini. Ove siete, che fate?

Due di voi, io lo so, compiacendo al lor genio, si ascondono nelle solitudini.

Allato allato delle vostre predilette, seduti a sera sull'erta della collina, seguite con occhio innamorato le stelle remote, e alla presenza delle bellezze del cielo parlate le speranze d'una vita migliore.

Intanto noi tra le mura infiammate della cittá scriviamo la notte, scriviamo il giorno, e appena abbiam tempo di mandare un sospiro.

Dove sono gli altri? ahi! dove sono? Voi correte in caccia le campagne, o saltate i fossati, o veleggiate sui laghi ascoltando i canti verginali di che sull'alba risuonano le sponde, o cercate i semplici costumi tra le montagne dell'Elvezio vicino… Ma ricordatevi di noi, che siamo qui soli!

E tu pure, altero e ritroso ingegno, che fai? Né amoreggi, né viaggi, né scrivi, e godi il tuo sommo diletto lasciando correre il pensiero negli aerei campi dell'Idea[4].

[p.189]

Ozio è questo, o fratelli: Piloncino ne ride, e noi due ne piangiamo, improvvisando la nostra elegia.

Oh, povera Elegia! Ora t'innalzi, ora strisci nella polvere, e non somigli a nessuna. Guai se t'abbatti in qualche grave maestro, che voglia riscontrare le tue forme sul modulo de' precetti![5].

Il feroce trarratti per gli orecchi al cospetto delle muse, e domanderá vendetta contro il padre dell'orribile mostro.

A lui cosí dirai tua ragione:—O grave maestro, cui piacciono le centomila ricantazioni de' lamenti ovidiani, colui che m'ha fatta, sappilo, non somiglia l'errante modellatore lucchese: egli non mi foggiò di fragile gesso nella forma cavata da un altro, perché l'ignaro moltiplicasse le copie! Sono rozza, ma scolpita sul vivo; deforme, ma forte; sono un ente di piú nella natura.

Tale è l'elegia che abbiamo trovata nel manoscritto di don Anastasio e che pubblichiamo con tutta fedeltá. Le note da noi sottopostevi ne parvero opportune per la maggiore intelligenza del testo. Se nel libro regalatoci rinverremo altre cose meritevoli di essere tolte all'oscuritá, i nostri lettori non ne saranno defraudati.

                                          I due estensori
                                          |Grisostomo|—P.

[1] Demetrio era un caffettiere greco, nella cui bottega gli autori del Caffé hanno finto che avvenissero le loro conversazioni.

[2] Di questo signor Cristoforo si veggono piú menzioni nel giornale del Caffé. Sovranamente comica è la di lui disputa in favore degli antichi contro quello fra gli estensori che si firmava «A.».

[3] Intende la pianta del caffé, e per essa simbolicamente la filosofia, alla quale sono necessarie le persecuzioni per farsi infine conoscere e sentire da tutti.

  [4] Non crediamo ingannarci nel riconoscere in questi tratti il
    Beccaria, uomo altamente contemplativo, ma poco inclinato
    all'attivitá. Piú dubbie sono le indicazioni degli altri colleghi
    a cui si rivolgono le esortazioni degli elegisti.

  [5] È noto che nel Caffé si sono combattute con molta forza le
    false regole e le frivolezze de' pedanti e de' poeti italiani.
    Veggansi singolarmente i due discorsi Sui difetti e
    Sullo spirito della letteratura.

[p.190][p.191]

XXI

SULLA «FILOSOFIA DELLE SCIENZE» DEL JULLIEN[1]

Ogni volta che ci occorre di dover parlare di economia politica, di lega fraterna tra i popoli, del bisogno di una letteratura essenzialmente liberale, di scuole alla Lancaster, di diffusione di lumi, di mezzi coi quali aggiungere rapiditá al progresso del sapere umano e d'altri argomenti di consimile natura, l'esperienza ci fa presentire vicine il ronzio d'una maledizione sul capo nostro per parte de' missionari della tenebria e dei frères ignorantins della nostra penisola. Eppure, sia detto in buona coscienza, non entra mai ne' disegni nostri una menoma intenzione di pigliare la penna in mano per muovere la bile ad una menoma persona. Se, procurando di servire come meglio può alla nazione italiana, necessariamente il Conciliatore incappa a spiacere all'individuo, questi si dolga non di noi, ma della sua propria sinderesi e delle sue proprie opinioni, discordi forse troppo da quelle della nazione e del secolo; si dolga con se stesso, per aver tolto a seguitare coi pochi il logoro gonfalone dell'oscurantismo piuttosto che la bella bandiera dell'amor della patria, alla quale è ligio il cuore dei molti.

Accomodati, mediante questo pacifico avvertimento, i nostri conti col drappello di coloro ai quali sempre e di buon grado perdoneremo la mormorazione, siccome formola comandata dal loro instituto, ci sia lecito di proporre ai dotti d'Italia la lettura [p.192] dell'opuscolo qui sopra annunziato del signor Jullien; opuscolo che per la sua sola intenzione meriterá l'anatema da chiunque ama di ritardare il corso dell'intelletto umano.

Lo scopo al quale tende il signor Jullien col presente opuscolo, che è un prospetto d'un'opera futura, è quello appunto di procacciare una migliore direzione ed un'attivitá maggiore ai lavori intellettuali. A questo effetto egli, determinando in nuova maniera la divisione delle cognizioni umane, ordina i risultati moltiformi delle scienze, delle lettere e delle arti come verso un centro unico, la __filosofia delle scienze__[2]; mostra la opportunitá di ridurre a succosi ed utili estratti tutta l'immensa farragine delle biblioteche, onde gli studiosi non abbiano a sciupare tutta la loro vita nell'istruirsi di ciò che s'è fatto, senza che lor basti fiato per muovere il passo verso ciò che resta a farsi; accenna il metodo onde piú arricchirsi di cognizioni con minor perdita di tempo e minor confusione d'idee (metodo giá da lui altra volta spiegato ampiamente nell'Essai sur l'emploi du temps, e che consiste nel tenere sotto diversi scompartimenti alfabetici, sotto diversi ordini di affinitá, un registro scritto di tutte le nozioni che lo studioso viene di mano in mano acquistando mediante la lettura, l'osservazione e 'l conversare); accenna la possibilitá d'inventare un alfabeto scientifico e filosofico, col soccorso del quale e con semplici segni rendere piú facile, piú fervida, piú fruttuosa la comunicazione tra i dotti d'Europa; e propone tra essi dotti una lega universale, onde abbreviare gli studi di ciascheduno, e far concorrere gli sforzi di tutti ad accelerare il simultaneo progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, il perfezionamento morale ed intellettuale dell'uomo. A siffatta confederazione dovrebbono unirsi e prestar consiglio ed aiuto tutti coloro a' quali per impulso virtuoso del [p.193] cuore preme di migliorare la condizione della umana famiglia. E specialmente è pregata a favorire e secondare le fatiche dei dotti quella metá bella e gentile del genere umano, senza il concorso della quale, dice l'autore, è inutile lo sperare alcun miglioramento lodevole nelle cose della vita.

Noi non vogliamo entrare per ora a discutere né la __novitá__ di questo bel progetto del signor Jullien, né la convenienza de' mezzi da lui additati per mandarlo ad esecuzione. Come ogni censura, cosí anche ogni encomio di un libro riesce intempestivo e di scarso valore, se lo si fonda sulla conoscenza del solo indice delle materie in esso trattate; e l'opuscolo di che parliamo è in gran parte poco piú che un indice. Non esamineremo dunque criticamente il progetto ed i metodi, se prima non li vedremo svolti in tutta la loro estensione per entro il libro intero, che l'autore, a quel che pare, sta terminando. Bensí speriamo che ai dotti d'Italia la lettura anche del solo preludio di un'opera filosofica, manifestamente suggerita dalla santa intenzione di giovare al perfezionamento sociale, basterá ad offrire materie di analoghe speculazioni. E però, deponendo noi riverenti sul loro tavolino l'opuscolo del signor Jullien, e sdebitandoci sinceramente con lui di tutta quella lode che gli è dovuta per lo spirito leale e per la buona volontá onde vediamo muovere sempre i suoi disegni, finiremo il nostro articolo col dare in abbozzo a' lettori una qualche idea della nuova divisione delle scienze da lui proposta.

Bacone prima, poi gli autori della Enciclopedia, nella loro classificazione delle scienze e delle arti, riferirono ciascuna di esse ad una delle tre divisioni fondamentali, suggerite dalle tre diverse facoltá dell'uomo: __memoria__, __ragione__, __immaginazione__.

Il signor Lancelin, nella sua introduzione all'Analisi delle scienze, riducendo tutto lo scibile umano ad una scienza sola, la __scienza della natura__, scompartí questa in otto divisioni fondamentali; e sono:

1. Elementi dell'universo, o descrizione de' corpi naturali.

2. Forze e proprietá primitive della materia.

[p.194]

3. Scienze primitive nascenti dalla descrizione de' corpi e dalla classificazione degli oggetti e de' fatti.

4. Scienza dell'uomo.

5. Scienze matematiche e fisico-matematiche.

6. Arti meccaniche e industria umana.

7. Belle arti e belle lettere.

8. Metafisica vera e filosofia vera, o scienza de' principi, legislatrice in certo modo dello spirito umano.

Il signor Destutt-Tracy, ne' suoi Elementi d'ideologia, stabilí la seguente classificazione:

Prima sezione. Storia de' mezzi che abbiamo per conoscere qualche cosa (tre parti).

1. Formazione delle nostre idee, o __ideologia propriamente detta__.

2. Espressione delle nostre idee, o sia __gramatica__.

3. Combinazione delle nostre idee, o sia __logica__. (La gramatica e la logica, secondo il signor Destutt-Tracy, formano parte della ideologia presa in complesso; ed è per ciò che alla formazione delle idee egli diede il titolo d'__ideologia propriamente detta__).

Seconda sezione. Applicazione de' mezzi di conoscere allo studio della nostra volontá e degli effetti di essa (tre parti).

1. Delle nostre azioni, o __economia__.

2. Dei nostri sentimenti, o __morale__.

3. Della direzione delle une e degli altri, o sia __governo e politica__.

Terza sezione. Applicazione dei mezzi di conoscere allo studio degli enti diversi da noi (tre parti).

1. Dei corpi e delle loro proprietá, o sia __fisica__.

2. Delle proprietá dell'estensione, o __geometria__.

3. Delle proprietá delle quantitá, o sia __calcolo__.

Nella futura sua opera il signor Jullien si propone di scandagliare a parte a parte le classificazioni qui sopra riportate, paragonandole con altri tentativi di simile natura pubblicati, prima d'ora, qua e lá in Europa. Forse tra questi vedremo fare la sua modesta comparsa anche l'Albero sistematico preposto dal [p.195] nostro Alberti al suo Gran dizionario enciclopedico della lingua italiana, il quale (sia detto tra parentesi) è per ora incomparabilmente il miglior dizionario della nostra lingua. In quell'Albero l'universo venendo considerato come radice delle tre cognizioni, di __Dio__, dell'__uomo__ e del __mondo__, ogni scienza è subordinata ad una di queste tre grandi diramazioni principali.

Ecco ora in ristretto il Quadro sinottico delle cognizioni umane proposto dal signor Jullien, o sia il modo con cui egli divide le scienze e le arti.

La mente dell'uomo è il __principio__ comune di tutte le cognizioni.

Lo __scopo__ comune di tutte le scienze e di tutte le arti è il perfezionamento umano.

Le cognizioni umane si dividono in due ordini.

Il primo risguarda le cose fisiche.

Il secondo risguarda le scienze metafisiche o morali ed intellettuali.

Ciascuno di questi ordini è diviso in due classi.

Classe prima. Scienze positive o sia de' fatti.

Classe seconda. Scienze istromentali o sia di metodo, che forniscono, dice l'autore, gli stromenti ed i metodi a tutte le altre scienze, e trattano dei mezzi inventati dall'uomo (per esempio la __geometria__ ed il __calcolo__).

L'uomo può __osservare e descrivere__ gli enti ed i fatti, quali si presentano a lui per ordine di tempo e di luogo.

Osservati e descritti gli enti ed i fatti, l'uomo li __paragona e classifica__; e li distingue in generi e specie, avvicinandoli l'uno all'altro a norma delle analogie che vi scopre.

In terzo luogo lo spirito umano si applica a __spiegare__ le cose ed i fatti ed a cercarne le cagioni.

Finalmente lo spirito umano __applica__ le sue cognizioni ai bisogni ed all'uso della vita.

Da queste quattro diverse operazioni dell'intelletto umano il signor
Jullien desume quattro generi differenti di scienze, cioè:

1. Descrittive e d'osservazione. 2. Distintive e di classificazione. [p.196] 3. Speculative e razionali, o sia d'investigazione, applicate alla ricerca delle cause. 4. Pratiche e d'applicazione.

Ognuno de' quattro generi qui sopra accennati si applica rispettivamente a ciascuno dei due ordini ed a ciascuna delle due classi distinte da principio, talché ne risultano sedici denominazioni generali di cognizioni; alle quali denominazioni sono riferite le diverse scienze ed arti conosciute. Per esempio, sotto la denominazione «arti morali ed intellettuali», corrispondente al secondo ordine, classe prima, genere quarto, trovansi registrate l'__educazione__, la __morale pratica__, la __legislazione positiva__, la __politica__, l'__economia politica__, ecc. ecc.

Tacendo qui per amore di brevitá alcune osservazioni apposte dal signor Jullien alla sua nuova classificazione, non dissimuleremo che essa cede in semplicitá a quella del signor Destutt-Tracy, lodata per tale riguardo dallo stesso nostro autore. Ma non lasceremo tampoco di dire che il Quadro sinottico di cui abbiamo dato l'abbozzo, essendo desunto dai quattro stadi principali dello studio umano, offre un interesse filosofico. S'è notato piú sopra quale sia l'indole del progetto generale dell'autore: la classificazione, ch'egli immaginò nuovamente delle scienze, servirá, è da credersi, a viemmeglio svilupparlo.

Ciò sará da vedersi nella futura sua opera.

|Grisostomo|.

[1] Esquisse d'un essai sur la philosophie des sciences, ecc. ecc.—Abbozzo di un saggio sulla filosofia delle scienze, contenente un nuovo progetto di divisione delle cognizioni umane, di |Marcantonio Jullien|, cavaliere, ecc. ecc. Parigi, 1819.

[2] La filosofia delle scienze, di cui parla l'autore, è quella stessa della quale Bacone concepí l'idea, pose le basi e pubblicò gli elementi. Essa ha per iscopo l'esame separato e l'esame simultaneo di tutte le scienze, onde avvicinarle tra di esse e paragonarle l'una coll'altra, e raccoglierne i caratteri distintivi o le loro differenze essenziali ed i loro punti di contatto. Cosí vengono conosciuti i soccorsi che ciascheduna scienza può somministrare all'incremento della civilizzazione.

[p.197]

XXII

QUADRO STORICO
DELLA POESIA CASTIGLIANA

a proposito delle Poesie scelte castigliane, raccolte dal Quintana[1].

INTRODUZIONE

Il conte Giovambattista Conti fino dal 1782 pubblicò in Madrid quattro volumi d'una sua raccolta di poesie castigliane, ponendo a riscontro del testo di esse le traduzioni da lui fattene in versi italiani. Poche copie di quell'opera scesero allora in Italia; e però la tipografia del seminario di Padova, dandosi a ristampare in due soli volumi le sole traduzioni, provvede in questo anno a vieppiú diffonderne tra di noi la lettura. Al primo tomo, comparso giá da alcuni mesi, veggiamo succedere ora finalmente il secondo.

Nell'attuale tendenza degli studi verso una maggiore curiositá delle cose straniere, ci sembra opportuno e lodevole il disegno dell'editore padovano. Non intendiamo quindi di menomare in alcuna maniera né la gratitudine del pubblico verso di lui, né gli applausi che può aver meritati giustamente al signor Conti il suo lavoro, se da esso pigliamo occasione per annunziare agli studiosi della lingua e della letteratura spagnuola una piú ampia collezione di Poesie castigliane, data alle stampe, non è gran tempo, in Madrid dal celebre poeta don Giuseppe [p.198] Quintana. A salvarci da ogni sospetto d'irriverenza verso del signor Conti, ed a manifestare ad un tempo stesso il perché da noi si proponga ora agli studiosi la nuova raccolta, basti l'ingenuitá colla quale riportiamo le seguenti parole della prefazione del signor Quintana: «La [la collezione di poesie castigliane] que despues empezó y no acabó don Juan Bautista Conti, executada á la verdad con gusto exquisito y buena disposicion, se destinó principalmente á dar á conocer á los italianos el mérito de nuestra poesía. Contentóse pues su autor con publicar y traducír en toscano las composiciones líricas y bucólicas mas señaladas del siglo diez y seis, y algunas de los Argensolas: pero nada incluyó de Balbuena, de Jauregui, de Lope, de Góngora, ni de otros igualmente célebres en nuestro Parnaso, quedando por consiguiente la coleccion en extremo insuficiente y diminuta»[2].

Del signor Quintana e delle di lui poesie originali ci proponiamo di parlare in altra congiuntura, e tosto che ci saranno pervenute di Spagna alcune notizie delle quali abbiamo fatta ricerca. Intanto i lettori vorranno ricordarsi ch'egli è l'autore della famosissima ode patriottica sulla battaglia di Trafalgar. Questo leale spagnuolo, che nell'arte de' versi non ha nella sua nazione alcun rivale vivente, fuorché in certo modo don Giambattista de Arriaza, autore anch'egli d'un'altra ode su la stessa battaglia (tanto un solo argomento è fecondo d'entusiasmo poetico, se lo suggerisce la coscienza di avere una patria!), vive ora miseramente relegato. Ma egli non invidia per questo al poeta suo rivale né la docilitá delle opinioni, né, frutto di essa, i giorni meno travagliati; e lo conforta il vedere il proprio nome [p.199] caro a' migliori fra' suoi, e consegnato alla venerazione dell'Europa insieme alla recente memoria dei fasti delle Cortes, a' quali egli contribuí co' suoi proclami e co' suoi canti ci di guerra.

La celebritá letteraria del signor Quintana ci par sufficiente a raccomandare come giudiziosa la collezione di poesie castigliane da noi annunziata; né il fatto smentirá appresso i dotti l'aspettativa.

L'opera è scompartita in tre volumi del formato di un giusto «ottavo». La raccolta incomincia da un saggio di poesie del secolo decimoquinto, e precisamente da alcune di Giovanni de Mena; poscia si allarga, e comprende gli altri secoli susseguenti fino alla morte del poeta don Giuseppe Cadalso, che è quanto dire fino all'anno 1782. I componimenti in essa contenuti sono i meglio stimati: sono tolti da tutti i generi di poesia, se se ne eccettuino i teatrali. Alla prefazione tiene dietro un Discorso sulla storia della poesia castigliana, in quanto specialmente essa si riferisce ai generi ed agli autori che ottennero posto nella raccolta.

Conformandoci a questo disegno del signor Quintana, noi ci gioveremo in parte delle notizie somministrateci da lui, e qualche poco anche della Storia letteraria del signor Bouterweck e del tenue frutto di altri studi da noi fatti, e daremo col tempo, in diverse riprese, un Quadro storico della poesia spagnuola, il piú compendioso che potremo.

Se, per servire al nostro autore, ci è d'uopo non tener conto per ora del teatro spagnuolo, gli amici della letteratura universale sapranno ampiamente rifarsi di questo e d'altri nostri silenzi, ricorrendo, fra molti libri, a quello del signor Sismondi sulla Littérature du midi de l'Europe; libro che, per isciagura della buona critica, trova d'ordinario i suoi piú aspri censori in coloro che non lo hanno mai letto. Nel tessere il nostro lavoro noi ricorreremo ad esso meno che a qualunque altro, e non per altra ragione se non perché ne sembra di non dovere occupare il breve spazio del nostro giornale con cose ricavate da un libro che può facilmente consultarsi da chicchessia.

Ma, prima di por mano al Quadro storico, a cui preghiamo cortese la pazienza de' nostri buoni lettori, siamo costretti [p.200] dall'ostinazione di certi garriti pseudo-letterari a ripetere solennemente una dichiarazione, che sotto cento forme diverse abbiamo giá ricantata le cento volte nel nostro giornale. Eccola; ed affinché sia intesa anche dagli spazzini della repubblica letteraria, eccola una buona volta in lettere maiuscole:

COL RACCOMANDARE LA LETTURA DI POESIE COMUNQUE STRANIERE, NON INTENDIAMO MAI DI SUGGERIRNE AI POETI D'ITALIA L'IMITAZIONE. VOGLIAMO BENSÍ CHE ESSE SERVANO A DILATARE I CONFINI DELLA LORO CRITICA.

Se non faranno effetto le lettere maiuscole, non ci resterá altro partito che di tentare le cubitali… E le tenteremo: a estremi mali estremi rimedi. Per ora, basti cosí; e la pace sia con tutti.

[p.201]

I

DELLA POESIA CASTIGLIANA DA' PRIMORDI DI ESSA FINO AGLI ULTIMI ANNI DEL SECOLO DECIMO QUARTO

La storia universale della poesia offre nella sua progressione il fenomeno di andamenti diversi in diverse nazioni. Nella bella Grecia l'infanzia di questa sovrana delle arti fu di poca durata, e in poco di tempo ella crebbe a tanto vigore da produrre i poemi immortali di Omero. Uguale a quella della Grecia fu la fortuna dell'Italia moderna, dove fuor della notte dei secoli rozzi, succeduti alla civilizzazione romana, apparvero di repente Dante e 'l Petrarca, traendo con loro l'aurora di tutte le arti e fondando le norme del buon gusto.

Altri popoli meno felici lottarono lungamente contra la barbarie, e, vincendola a poco a poco, acquistarono a poco a poco il sentimento dell'eleganza e dell'armonia; e non giunsero alla perfezione che tardi e a forza di fatica. Tale fu la sorte d'una gran parte delle nazioni moderne, e tale appunto fu quella della Spagna.

Ivi, quasi come per ogni dove, il verso scritto precedette alla prosa. La poesia spagnuola, o piú precisamente castigliana, vanta per sua prima opera il Poema del Cid, composto, a quel che pare, verso la metá del secolo decimo secondo[3]. Allora, in mezzo alla confusione delle lingue, cagionata dalle invasioni dei barbari del nord, cominciava a pigliar forma alcuna quell'«idioma romanzo», che doveva spiegare poi tanto splendore e tanta maestá negli scritti di Garcilaso, di Herrera, di Rioja, di Cervantes, di Mariana.

[p.202]

Chi ponesse mente alla natura dell'argomento e non ad altro, troverebbe pochi poemi superiori a quello di cui parliamo; nella stessa maniera che pochi guerrieri troverebbe nella storia da poter contrapporre, come rivali in valore e in leggiadria di virtú, a Rodrigo di Bivar, soprannominato il «Cid Campeador». La gloria di Rodrigo oscurò quella di tutti i re de' suoi tempi, e da secolo in secolo discese infino a noi, ad onta di un'infinitá di favole onde anticamente la zotica ammirazione circondò la veritá dei fatti. Consegnata a poemi, a tragedie, a commedie, a romanzi (o romanze), a canzoni popolari, la memoria di lui, somigliante a quella di Achille, ebbe la fortuna di scuotere fortemente ed occupare la fantasia. Ma l'eroe castigliano, superiore al greco per coraggio e virtú, ebbe la sventura di non trovare un Omero che lo celebrasse.

E come trovarlo a que' tempi, ne' quali il rozzo cantore si pose a comporre il poema? Con una lingua informe tuttavia, dura nelle sue determinazioni, viziosa nella sua sintassi, nuda di tutta coltura e di tutta armonia, in mezzo alla generale abitudine ad uno stile pieno di pleonasmi, con un verseggiare incerto nella sua misura, com'era possibile mai il produrre un'opera di vera poesia? Nell'invenzione, ne' pensieri, nell'espressione di essi, e specialmente in certa ingenuitá[4] di descrizioni, scorgiamo, è vero, qualche indizio d'intenzione poetica per parte dell'autore; ma, preso in totale, il Poema del Cid è da considerarsi come una curiositá filologica piú che altro. Chi sia stato l'autore di questo primo vagito della poesia castigliana, è ignoto.

[p.203]

Nel secolo susseguente vissero due poeti, le opere dei quali lasciano apparire giá alcuni progressi fatti dalla lingua. Don Gonzalo de Berceo e Giovanni Lorenzo Segura, l'uno nelle sue poesie sacre in versi alessandrini, l'altro nel suo poema De Alexandro magno, superarono anche di qualche grado l'arte del cantore del Cid. Quelle del primo, per altro, non sono che preghiere, regole fratesche, leggende di santi, che manifestano nell'autore il monaco benedettino piú che il poeta. Nel poema del secondo, ciò che occorre di piú bizzarro alla considerazione del filosofo, è la vita di Alessandro il grande, descritta con colori cavallereschi; è il vedere trasportati in essa sul serio i costumi, i sentimenti, i pregiudizi spagnuoli. Forse, come dice il signor Sismondi, l'ignoranza assoluta dell'antichitá fece ricorrere il poeta a ciò che gli era noto per descrivere ciò che gli era ignoto. E forse (è un dubbio nostro) Giovanni Lorenzo venne condotto a tale traviamento da un barlume indistinto di quella veritá psicologica, che insegna non potere essere sommamente efficace la poesia, se non è in accordo colle idee e colle circostanze de' tempi ne' quali vive il poeta. Giovanni Lorenzo non era abbastanza filosofo per potere interpretare saviamente questo impulso del vero genio poetico, non era abbastanza educato ai confronti storici per doversi sentire offendere dalla dissonanza tra due civilizzazioni, greca e spagnuola: e però, secondando con inconsiderata obbedienza la necessitá d'essere moderno, condusse con accessorii ricavati dal mondo a lui presente un poema d'argomento non moderno, ma antico; e fece cosí un guazzabuglio, che accusa la contemporanea stupiditá della critica e muove a riso finanche la gravitá de' maestri di lettere.

Ma qui, se ci è lecita una digressione, vogliamo assumere gravitá anche noi, e rivolgerci proprio con un testo di Orazio a tal uno che ride del guazzabuglio di Giovanni Lorenzo.

«E di che ridi tu? Cambiato che sia il nome, il discorso va a ferir te»[5]. E infatti non è egli un guazzabuglio altrettanto ridicolo il tuo, quando in argomenti moderni vai intarsiando sentimenti [p.204] e immagini e riti e costumi e idee de' popoli antichi? Se Giovanni Lorenzo ti presenta l'eroe di Macedonia sotto il nome di «infante don Alessandro», tu sghignazzi, e n'hai ragione. Ma non dovremo sghignazzar del pari ancor noi, allorché tu ci presenti una povera monachetta sacra a Maria ed a Cristo sotto il nome di «vestale»? allorché di due giovinetti, che si legano in matrimonio innanzi al curato, tu ci parli come di due, che, «coronati di rose», si giurano fede innanzi «all'ara d'Imeneo»? allorché d'un professore dell'universitá dici ch'egli è un «sacerdote di Minerva», e va' discorrendo? Che razza di logica è la tua?—Sono erudito, e Giovanni Lorenzo non l'era.—Bravo! tienti la tua erudizione, che è cosa buona e, se non sai farne altro, illustra con essa un qualche ciottolo vecchio; ma non isprecarla fuor di proposito. O, piuttosto, vendine alcune libbre, onde comperarti poi una mezz'oncia di sale critico. Imparerai allora che il ridicolo non istá nell'ignoranza di Giovanni Lorenzo, né tampoco nella tua erudizione; bensí nella goffa mescolanza che entrambi ci fate di idee eterogenee.

Lettori, torniamo al nostro proposito. Un Caloandro de' «bei parlari» avrebbe detto: «torniamo a bomba».

Regnava allora in Castiglia Alfonso decimo, soprannominato il «savio»: non perché fosse un buon re, ché anzi fu falsatore di monete e meritò di essere alla fine cacciato dal trono; ma perché, come meglio il comportavano i suoi tempi, fu letterato e promotore degli studi. Egli, dando ordine che si scrivessero in lingua castigliana gli atti pubblici, che infino allora erano stati sempre compilati in latino, aggiunse stimoli al miglioramento ed alla diffusione della lingua nazionale e giovò a' progressi d'una nazionale letteratura. Fu poeta anch'egli, e compose, secondo l'opinione comune, un libro di cantici sacri in dialetto galiego e due altri libri in versi castigliani: l'uno intitolato dei Lamenti, l'altro il Tesoro. Piange nel primo il re le proprie sventure e lo scettro perduto; nel secondo, che è un trattato inintelligibile d'alchimia, egli dá ad intendere a' castigliani d'aver trovato il segreto della pietra filosofale, con intenzione probabilmente di onestare cosí in faccia loro i veri mezzi, [p.205] piú turpi, mediante i quali ei s'era arricchito. Se le monete fatte battere dal re Alfonso erano di sí bassa lega come i suoi versi, bisogna dire che egli fosse un gran ladro.

Tuttavolta, ove lo zelo messo da lui nel promuovere le lettere fosse stato di lunga durata ed imitato dai re successori, la poesia spagnuola, col rammentarci l'antichitá de' suoi natali, non farebbe sentire vieppiú la lentezza de' propri passi verso la perfezione. Ma ella ebbe contro di sé la natura feroce dei tempi.

Negli ultimi anni di Alfonso cominciò ad ardere la guerra civile; e questa quasi senza interruzione infuriò per un secolo intero, fino a giungere all'estremo dell'atrocitá e dell'orrore durante il regno burrascoso di Pietro il crudele. In quella miserabile etá pareva che i castigliani non avessero anima che per abborrire, non avessero braccia che per distruggere. Però la poesia pochi ebbe che la coltivassero allora: i piú erano intenti alle opere della spada e non della penna. Giovanni Ruiz, arciprete di Hita; l'infante don Giovanni Manuele, autore del Conte Lucanor; l'ebreo don Santo, e Ayala il cronista: ecco lo scarso numero de' poeti d'allora.

Fra le poesie di questi quattro autori è fatica perduta il volere rintracciare un'occasione di diletto estetico un po' prolungato. Quelle dell'arciprete sono, tanto o quanto, le piú degne d'essere conosciute dai filologi. Hanno per argomento la storia degli amori di esso arciprete, mista di apologhi, di allegorie, di novelle, di frizzi, di satire, ed insieme di cose di religione; e vi trovi, con istrano abuso di personificazioni, condotti a comparsa certi personaggi che non ti saresti mai figurato di veder camminare sulle gambe; come a dire, donna Quaresima, don Digiuno, donna Colazione, don Dí di grasso e, insieme a questa bella brigata, anche l'illustrissimo don Amore. Le forme estrinseche di tali poesie vantaggiano di poco quelle messe in mostra da' poeti anteriori.

Nell'atto che abbandoniamo agli scaffali delle biblioteche od alla curiositá degli eruditi ed alle meditazioni del filosofo tutte siffatte anticaglie, dalle quali, attraverso a un nuvolato interminabile d'inezie puerili, d'invenzioni e lepidezze fratesche, [p.206] appena qua e lá sfavillano alcuni pochi lampi di giusta inspirazione, crediamo di dovere avvertire il lettore studioso che, a volere ricercare la vera origine, le prime e vere tracce d'un'ingenua e sentita poesia in Ispagna, gli bisogna rivolgersi a tutt'altro armadio.

Altri cantori, sconosciuti di nome, ma fortemente commossi dal desiderio di celebrare le glorie nazionali, il puntiglio dell'onore, la lealtá, la opposizione magnanima de' loro concittadini alla violenza straniera, i fatti de' forti nelle tante battaglie contra i mori, ecc. ecc., servirono con alacritá spontanea alla voce dell'amor patrio ed all'entusiasmo del popolo, tessendo brevi racconti armoniosi di avventure guerriere o dando un lirico sfogo al sentimento dell'ammirazione. Di qui la grande quantitá di «canzoni popolari» e di «romanzi» (o «romanze») cavallereschi od istorici, ne' quali principalmente risuonano le lodi del Cid Campeador, se non con leggiadria assoluta di versi, almeno almeno con veritá di espressione. E troviamo in essi un caldo muovimento d'affetti, che si desidera invano nelle opere de' loro poeti contemporanei, rammentati piú sopra da noi, e invano talvolta anche ne' quattro canti del famoso poema di cavalleria, l'Amadigi, composto in lingua spagnuola dal portoghese Vasco Lobeira verso il principio del secolo decimoquarto.

Ogni spagnuolo accompagnava allora con la sua chitarra le semplici «coplas» d'un inno al valore; ogni madre insegnava alle sue fanciulle la storia d'un prode, secondo che l'aveva udita narrare da un qualche poeta. Anche la gentilezza dell'amore, anche la cortesia verso le donne somministrava materia a dilicate od a flebili melodie. E la pietá, facendo tacere per alcun momento gli odii nazionali, non negava una lagrima poetica neppure a Zayda e a Balaya, belle e sventurate amanti di principi moreschi.

[p.207]

II

|Della poesia castigliana durante il secolo decimoquinto|[6]

I re d'Aragona, verso la fine del secolo decimoquarto, avevano introdotto nei loro Stati i «giuochi florali», instituiti giá da piú di un sessant'anni in Tolosa, onde promovere l'esercizio della «gaia scienza» de' trovatori. Vedevansi concorrere d'ogni parte gli ingegni a quelle feste, e con gara ardita contendere pei premi promessi a' piú valenti. La pubblica solennitá di tali cerimonie, la maggiore diffusione delle cognizioni e degli scritti, l'esempio invidiato dell'Italia, la maraviglia che destavano le opere degli antichi poeti di Grecia e di Roma, delle quali allora si andava rendendo piú comune la lettura in tutta l'Europa, ed altre consimili circostanze ponevano vieppiú sempre in onore la poesia: questa che delle belle arti è la prima ad essere coltivata, allorché i popoli si accostano alla loro civilizzazione.

Giovanni secondo era un principe inetto a governare; e sotto di lui la Castiglia, perduta in faccia agli stranieri ogni importanza, era lacerata al di dentro dall'orgoglio fazioso de' nobili. E nondimeno quella etá portava tanto amore alla poesia, che all'inetto principe l'esercitarla e 'l proteggerla ottenne anche politicamente qualche benevolenza. Molti de' grandi, che gli avrebbero non mal volentieri tolto lo scettro, cosí sconveniente alla sua mano, si unirono intorno a lui per forza di simpatia poetica, e, verseggiatori anch'essi, prestarono aiuto al re verseggiatore. Cosí Giovanni secondo, bene o male, si mantenne sul trono; e, in mezzo alle turbolenze del regno, la corte di lui, piuttosto che un consiglio di statisti, pareva in certo modo una profezia lontana del [p.208] nostro «Serbatoio d'Arcadia». Vogliamo dire che il re e i cortigiani, né piú né meno de' pecorai d'Arcadia, fossero o no provveduti di alcuna disposizione attiva per la poesia, tutti sudavano a far dei versi. Scriveva «coplas» il contestabile don Alvaro, e «coplas» scrivevano il duca d'Arjona e don Enrico de Villena e 'l marchese di Santillana e cento altri eccelsi magnati.

Fra questi magnati, per altro, alcuni non erano al tutto indegni di qualche lode letteraria. La lingua s'avvicinava giá molto alla sua perfezione; nuovi metri, trovati da' poeti della corte del re Giovanni, prestavano nuovi istromenti alla poesia; ed ella si era rivolta in gran parte a dipingere la passione dell'amore. E se la smania di parer dotto (o, in altri termini, la pedanteria) non avesse guastato l'intelletto al marchese di Santillana; se, innamorato, com'egli pareva essere, di Dante, ne avesse investigato lo spirito poetico ne' suoi principi moventi anziché nelle minute particolaritá delle invenzioni; per opera di lui, poiché ingegno e volontá non gli mancavano, la poesia spagnuola non solamente avrebbe potuto dare maggiore soavitá agli affetti dell'elegia, ma ben anche aspirare a piú alte concezioni e distendersi maestosamente fra' palmeti indigeni, senza prepararsi la necessitá di agognare, come fece in appresso, gli allori stranieri.

Ma i maestri di convento, in mano de' quali stava allora la somma dell'educazione giovanile, avevano messa in capo al Santillana, del pari che a tutti i loro discepoli, una falsa e stramba idea della poesia: come se, incapace di poter dire splendidamente il vero, ella consistesse in un tessuto perpetuo di misteri, di allegorie e di spiattellate sentenze morali. D'altra parte, la maraviglia o, piú veramente, l'idolatria de' tempi per la novitá dell'erudizione solleticava a lui l'ambizioncella, e persuadevalo ad ostentare in qualche modo il catalogo de' tanti libri ch'egli aveva letti. Non è dunque strano che il marchese cedesse alla corrente. Da' suoi contemporanei ottennero infatti largo applauso, siccome portenti di bellezza poetica, i difetti appunto che rendono oggidí noiosa la lettura delle opere di lui; oggidí che nel poeta cerchiamo il poeta e le sue forti sensazioni, non la fredda pompa [p.209] della sua vasta memoria, non l'arguzia delle sue allegorie, non la magistrale ripetizione delle sentenze rubate di peso al catechismo.

Del resto, alcune brevi canzoncine del Santillana fanno fede ch'egli avesse un cuore non del tutto prosaico. È un peccato dunque ch'egli non intendesse il vero bello dell'antica poesia nazionale spagnuola. È un peccato ch'egli non si desse a nobilitarla, secondando industriosamente la tendenza ch'essa aveva spiegato ne' Romanzi del Cid e in tanti altri romanzi e canti popolari; tendenza che muoveva, senza mistura di frivolezze scolastiche, dall'indole della civilizzazione arabo-ispana, e principalmente da uno squisito sentimento delle glorie e delle sventure della patria, da un culto tributato all'onore come ad una religione. Ma purtroppo le cattive scuole fanno contrarre cattive abitudini anche agli ingegni singolari! E che altre abitudini potevano mai insegnare coloro che tutto guastavano, fin anche la semplice idea del Dio a cui professavano di servire?

Che se il Santillana non avesse sdegnato di uniformarsi all'indole ed allo spirito di que' romanzi, gli sarebbe riuscito di dare una veste piú poetica all'intendimento patriottico, col quale scrisse El doctrinal de privados. Ove non sia una compiacenza estetica, è almeno una compiacenza morale il vedere introdotta in quel poemetto l'ombra di don Alvaro de Luna a raccontare le proprie colpe e le proprie sciagure, onde l'esempio della trista sua fine (era don Alvaro il favorito del re Giovanni secondo) servisse ad atterrire e stornare dalle discordie civili i castigliani.

Se non che, questa lode è un nulla a paragone dell'altra, che è meritata dal marchese di Santillana per una virtú piú rara e piú cospicua della virtú letteraria; e davvero sarebbe scortesia il non accennarla. Si perdonano volentieri al verseggiatore tutti i traviamenti, allorché si pensa ch'egli visse in corte, e non adulò; che fu amico d'un re, e gli rinfacciò il mal governo; e che, da onest'uomo, abbandonò l'ospizio regio ogni volta che lo starvi non giovava alla patria. Ci sia condonato l'esserci fermati piú che non avremmo voluto sul discorso di lui: pareva conveniente il far conoscere un uomo il di cui nome splende illustre nella storia civile di Spagna.

[p.210]

Esente dalla comune febbre letteraria, l'invidia, il Santillana, venuto in cognizione d'un altro ingegno che viveva nella oscuritá, gli corse incontro spontaneo, lo trasse alla corte del re Giovanni secondo e lo protesse con sincera e costante amicizia. Questi fu Giovanni de Mena, la di cui facoltá poetica, ad onta d'una eccessiva stravaganza di fantasia, è superiore a quella del Santillana. Il De Mena, quantunque ingannato del pari che il suo protettore dalla universale pedanteria e trasandato dietro ad essa, ottenne nella sua patria il soprannome di «Ennio castigliano», forse per averle regalato un poema di maggior mole che non quelli de' suoi predecessori. Un rispetto, disceso per tradizione da padre in figlio, conserva a lui tuttora in Ispagna quel soprannome: diciamo «rispetto di tradizione», da che le opere del De Mena sono oggimai piú spesso nominate che lette. La piú famosa di esse è un poema allegorico-storico, intitolato El labyrinto. Eccone in breve l'argomento:

Il poeta si propone di contare le vicissitudini della fortuna. Sente egli la difficoltá dell'impresa, ed è quasi smarrito innanzi all'altezza del soggetto: chiama in soccorso Apollo e Calliope, manda un'apostrofe calda alla Fortuna; nessuno risponde. Finalmente gli appare la Provvidenza; gli fa da guida e da maestra, e lo introduce ella nel palazzo della Fortuna. Prima di tutto egli vede da colassú la terra, e ne fa la descrizione geografica; poi scopre le tre grandi ruote che volgono i tempi, passati, presenti e futuri. Ogni ruota si compone di sette circoli, emblemi allegorici dell'influsso de' sette pianeti sulle inclinazioni e sulle sorti umane, secondo le misere dottrine astrologiche d'allora. In ciascun circolo v'ha gente infinita: i casti nel circolo della Luna, i guerrieri in quello di Marte, i sapienti in quello di Febo, e cosí degli altri. La ruota del tempo presente è in movimento; le altre due no. E quella del futuro è coperta di tal velo, che, per quante forme ed immagini d'uomini vi appariscano, non ne lascia distinguere alcuna.

Dietro questo pensiero generale il poeta, parlando di ciò che vede, oppure conversando con la Provvidenza, dipinge tutti i personaggi importanti de' quali ha notizia, ne descrive i caratteri, [p.211] racconta i fatti celebri, ne assegna le cagioni, mette in mostra tutta la propria erudizione e tutto quanto egli sa di filosofia naturale e morale e politica, e a quando a quando ne ricava precetti giovevoli alla vita individuale ed al governo de' popoli.

Non fa d'uopo d'occhiali per vedere nettamente che la lettura della Divina commedia di Dante e de' Trionfi del Petrarca risparmiò alla fantasia di Giovanni de Mena l'incomodo di creare il disegno del suo poema. E che altro fece egli, a dir vero, se non che tener dietro alla immaginativa de' due italiani, cambiando il luogo della scena in cui collocò il suo mondo allegorico? Ma Dante (per parlare di lui solo), Dante, essendo un ingegno di gran tratto superiore al proprio secolo, trovò in se stesso di che arricchire il suo tema di sentita e sublime poesia, e spesso anche di splendida sapienza politica, di giusta morale civile. E per lo contrario il De Mena, nato in tempi assai posteriori[7], quando per tutta Europa gli studi erano piú avviati, anziché dare a divedere nel suo grottesco poema un complesso d'idee che vantaggiasse tutte quelle de' suoi contemporanei, non parve adeguasse il sapere de' piú ingegnosi fra quelli.

Da qualunque lato tu consideri la mente di Dante, trovi in essa ridotto a realtá l'ideale del vero poeta. L'originalitá è un bisogno per lui: è l'esuberanza delle sue forze intellettuali, che sempre gliela comanda. E fino in quei momenti, ne' quali vorrebbe farsi credere imitatore d'altri poeti, egli smentisce col fatto la propria asserzione. Il De Mena invece confessa co' fatti ciò che tace con le parole.

Parrá forse a taluni essere un rigore, che senta del crudele, il volere strascinare Giovanni de Mena ad essere confrontato con Dante.—S'egli—diranno taluni—si fosse sentito capace di stare, come il fiorentino, a capo del proprio secolo e di padroneggiarlo; se fosse stato uomo da prevenire, come il fiorentino, con la propria sapienza individuale, la civiltá a cui giunse in appresso quel popolo per cui scriveva, egli [p.212] non avrebbe, no, tolte ad imprestito da altri le invenzioni fantastiche. Ma si può essere valente poeta anche senza pareggiar Dante. Non da tutti poi si vuole pretendere ciò che troviamo negli intelletti straordinari.—Sí, crediamo noi pure che si possa essere valente poeta anche senza pareggiar Dante; ma crediamo altresí che il De Mena ne rimanesse tanto al di sotto da non meritare nome di scrittore piú che mediocre.

Parlando di mediocritá, due sorta ne riconosciamo: quella di coloro che, scevri da difetti al tutto grossolani, mancano poi affatto di bellezze che non sieno dozzinali; e quella del De Mena, il quale, quantunque alcuna rara volta brilli di qualche venustá non comune, ridonda poi di gravissimi ed abituali errori e di sciocchezze, che offuscano il merito delle rare sue fortune. Ora, è dettato vecchio che la mediocritá non è mai condizione sopportabile nei poeti. E al dettato vecchio noi aggiungeremo quest'altra proposizioncella, benché ella sia per riuscire spiacevole a molti in Italia: __è incomportabile in un critico la tolleranza di componimenti mediocri.__ A siffatta tolleranza ci gioverebbe davvero di potere essere pronti anche noi, da ch'ella in certo modo acquieta tutte le coscienze e blandisce la vanagloria di chicchessia. Ma col venerare i mediocri si viene avvezzando la gioventú ad una facile contentatura ne' di lei studi, e quindi si perpetua dannosamente la mediocritá. Se gl'italiani, a modo d'esempio, fossero meno corrivi ad esaltare ogni minuzia poetica de' loro antenati, l'Italia non avrebbe tanti poeti quanti sono i suoi scolarini, non avrebbe la vergogna de' suoi centomila sonetti; e molti, che sciupano la vita canticchiando de' versi, vedremmo, forse con piú profitto delle loro famiglie e della patria, trattar la tanaglia o 'l compasso. La tolleranza è un dovere religioso, è una virtú sociale; ma in materie poetiche non è comandata da nessuna filosofia.

Da che ci guidano princípi cosí severi, è impossibile per noi il tributar gran lodi né al De Mena, né a chiunque non regge al tocco della critica proclamata oggidí da un capo all'altro d'Europa dalla crescente sagacitá de' filosofi. È acerba invero per molti l'austeritá delle nuove leggi di cui ci facciamo propagatori; [p.213] e il cuor ce ne piange per un sentimento di compassione, tanto piú vivo in quanto che ci bisognerá esercitarlo primamente verso di noi medesimi. Ma, d'altra parte, quella austeritá raddoppia nell'animo nostro il giubbilo dell'ammirazione per que' rarissimi intelletti, che meritano giustamente il nome di «poeti».

Or, per lasciare le glose e star fermi lá donde vorrebbe distoglierci l'affluenza delle idee affini (che il volgo degli innocenti chiama poi «disparate»), diremo che nel Labirinto il lettore trova alcuni passi, i quali, se non rammentano il pennello di Dante, lasciano pure in qualche maniera scorgere da che pigliasse origine la stima esagerata di cui il De Mena gode tuttavia i rimasugli presso la sua nazione. Tale è, per citarne uno, quel passo ov'è descritta la morte del conte di Niebla, famoso eroe della Spagna, il quale, mentremche tentava di togliere a' mori Gibilterra, mal pratico del flusso e riflusso della marea e soverchiato dalle onde, sdegnò di pensare a se stesso e di salvare se solo, poiché vedeva perire miseramente in quelle acque tutti i propri compagni.

Un poema, che raccontava i fatti piú memorandi della storia patria e che a quando a quando era caldo della piú poetica delle passioni, il patriottismo, non è maraviglia che venisse accolto da' contemporanei con quell'entusiasmo, che è eccitato sempre dall'interesse e dall'onore nazionale in un popolo che non sia corrotto od avvilito o dormente. E questa, piú che tutt'altra, è la cagione che anche oggidí si parli del Labirinto come d'un fasto spagnuolo. Dall'apparire di esso infino ai di presenti la Spagna, ad onta di alcune sue sventure domestiche, ad onta della prepotenza d'altri Stati europei, non ha perduta mai la sua libera esistenza politica. Però il sentimento della nazionalitá deve render cara e gioconda a quel popolo ogni memoria che ad essa si riferisca, ecc. ecc.

Qualunque, per altro, fosse l'ingegno del De Mena, maggiore dignitá avrebbe egli derivato ai suoi canti, maggiore rispetto si sarebbe conciliato, se, prendendo a narrare le cose pubbliche de' suoi tempi, egli si fosse mantenuto in possesso della indipendenza individuale, onde non far patto che con la veritá [p.214] piú rigorosa, unico patto che dia importanza alle lettere. Ma, vivendo cortigiano, egli dovette far sacrifici alla fortuna, e non lasciò sfuggire occasioni per lodare il re che lo pasceva. E Giovanni secondo, sebbene ingordo e non mai satollo di lodi, era tale nondimeno da non potere esser lodato che dagli adulatori.

L'erudizione, secondo la moda del secolo, venne a mischiarsi tanto con la poesia del De Mena, ch'egli, somigliante in ciò al Santillana ed agli altri, intarsiava ogni tratto, anche nelle canzoni amorose, allusioni e concetti eruditi; per modo che, parlando della passione d'amore, pareva che non l'avesse sentita mai. Ed aveva pur letto e riletto il Canzoniere del Petrarca!

Oltre il Santillana e il De Mena, de' quali abbiamo diffusamente parlato; oltre il Villena e gli altri, di cui abbiamo fatta piú sopra una semplice menzione, voglionsi annoverare fra i verseggiatori piú notabili del secolo decimoquinto Gomez Manrique, Giorgio Manrique di lui nipote, Garci Sanchez de Badajoz, Rodriguez del Padron, Alonso de Cartagena, e quel tanto celebre pe' suoi amori, quel Macias, il cui nome (aggiuntovi l'appellativo di «enamorado») passò poi nella lingua come modo proverbiale per indicare il sommo della passione amorosa.

A voler tener dietro separatamente a' lavori di questi e de' molti loro compagni (ci asteniamo dal darne qui la lista, che oltrepasserebbe i cento nomi), fa d'uopo esser dotato di una pazienza letteraria che abbia dello straordinario. Sia che scrivessero canti sacri («obras de devocion»), sia che dettassero canti morali, oppur canzoni amorose, tutti tutti parevano modellati a una foggia sola. Pigliando in mano il Cancionero general, ed anche il Romancero general in quella parte che non contiene romanzi epici, si viene presto ad accorgersi che vale per tutti un giudizio solo.

Questa uniformitá in un tanto numero di scrittori deve riuscire piú interessante per lo storico delle civilizzazioni, che non pel semplice cercatore de' piaceri che l'animo umano domanda alle arti. Il primo trarrá da essa un argomento sussidiario per istabilire con piú certezza qual fosse allora il carattere generale della nazione spagnuola; e, non distratto dalla varia espressione [p.215] de' caratteri individuali de' poeti, godrá, leggendo i lor versi, di poter dire:—Ecco dunque il modo universale di sentire a que' tempi, al di lá de' Pirenei.—Il secondo, per lo contrario, patirá di noia innanzi a tanta monotonia.

Una religiositá, consistente nella ostentata osservanza delle forme verbali piú che in un intimo sentimento; un culto della morale, esercitato anch'esso non tanto come bisogno dell'anima quanto come sfoggio di apparenze, e quindi spiegato d'ordinario in arroganti declamazioni o precetti claustrali, in allegorie derivate dalle gelide e vane definizioni teologiche di quell'etá; una importanza attribuita a se stesso ed a' propri discorsi da ciascun individuo, sí ch'egli non misura mai la sofferenza di chi l'ascolta, e non abbandona mai il tema assunto se prima non ha esauriti tutti i modi di svolgerlo; un orgoglio personale, associato quasi sempre alla passione dell'amore; e questa rade volte produttrice di un'estasi dilicata, bensí, ogni tratto, di esagerazioni che tengono della cosí detta maniera orientale, di rabbie, di disperazioni, di pazzie; ed a giustificar la pazzia, a darle colore non discordante dalla affettata gravitá nazionale, chiamate stranamente in soccorso le sottigliezze degli scolastici, e sostituite spesso le formalitá della logica alle libere emanazioni de' sentimenti del cuore; uno studio, insomma, di parer savi sempre e, per cosí dire, in toga, anche allora che meno severe circostanze della vita sembrano richiedere il mantelletto galante: questi, secondo l'opinione nostra, sono i tratti piú evidenti che costituiscono la fisonomia generale de' poeti di cui parliamo; e a noi non basterá mai l'animo d'impugnare la spada contra chi dicesse ch'ella non è fisonomia simpatica molto.

Alcuni storici della letteratura si congratulano col secolo decimoquinto, e fanno festa perché verso la fine di esso la Spagna cominciò a coltivare la poesia pastorale. Noi rispettiamo i gusti di chicchessia e, insieme agli altrui, un pochetto anche i nostri. E però ci giova di non perderci in ammirazione dietro a' primordi di un genere di poesia, al quale, con buona pace de' maestri di lettere, non portiamo troppa benevolenza. Se fosse vera la ipotesi pittagorica della metempsicosi, e se, per un capriccio [p.216] matto di quella fortuna che si compiace proprio negli estremi contrari, a noi toccasse di dovere un dí rinascere su qualche trono della terra e coll'animo tutto tutto inclinato al dispotismo; allora, tornandoci vani i tentativi per ispegnere affatto le lettere, vorremmo industriarci almeno di porre in onore fra' nostri schiavi quel tanto solo di esse che piú servisse ad addormentarli. E allora, allora sí, la poesia pastorale verrebbe da noi protetta e promossa, siccome quella che, per la sua immensa distanza dal vero della vita e per la sua languida efficacia morale, ci farebbe meno paura d'ogni altra. Intanto, giacché, fuor d'ipotesi, siamo cittadini privati, non amiamo, né per noi né pel nostro prossimo, la diffusione de' narcotici.

E che v'ha dunque ne' versi castigliani del secolo decimoquinto, che possa rimunerare in qualche maniera la cortesia di chi profonde ora il tempo nel leggerli? Primieramente vale anche per quest'epoca ciò che abbiamo detto nell'articolo primo intorno a' romanzi epici d'autori sconosciuti di nome, giacché anche in quest'epoca si proseguí a scriverne. Anzi ad essa crediamo appartengano per la piú parte quelli di avventure ricavate dalla storia moresca, e specialmente degli odii delle due fazioni de' Zegris e degli Abencerrages, dalle ultime sciagure del regno di Granata, superato poi e vinto dalle armi di Ferdinando e di Isabella nel 1492. Chiunque ha un cuore spontaneamente aperto alle impressioni poetiche, chiunque è educato da una critica liberale e non angustiata dagli scrupoli de' pedanti, trova nel Romancero general di che contentar di frequente il bisogno estetico dell'anima sua. In que' romanzi lo spirito arabo-ispano si manifesta nella sua originalitá; e la calda spiegazione di sentimenti veri ed originali abbonda sempre di poesia. In secondo luogo non è da negarsi che anche ne' componimenti de' poeti conosciuti per nome, e ricordati in parte, e censurati in generale qui sopra, rinvengonsi qua e lá pensieri ingegnosi, immagini opportune e tracce talvolta d'una rigogliosa freschezza di fantasia, che ne ristorano qualche poco della loquacitá erudita e della frequenza del concettizzare puerile: sono come le oasis incontrate dalla sitibonda carovana nel deserto. Una passione [p.217] sentita davvero non può resistere poi sempre a palesarsi ne' modi comandati da abitudini assurde, tuttoché universali. E però in alcuni squarci, come a dire delle quattro canzoni del Macias, l'amore irrompe fuor de' soliti vincoli e dá qualche segno verace e bello della propria esistenza.

L'amore e il Macias sono due parole che ne suscitano nell'anima una memoria di malinconia e di pianto. Il Macias era gentiluomo di camera del gran maestro don Enrico de Villena. S'innamorò d'una delle dame che servivano in palazzo del gran maestro; e, a sviargli quella passione, non gli valse il vedere la donna amata sposarsi ad un altro, non valsero le riprensioni del Villena, non i gastighi e la prigionia a cui questi lo condannò. Al marito della donna non era ignoto anche prima delle nozze quell'amore, e in lui la gelosia era precorsa al sacramento. Vile! Egli si concertò col carceriere; e, venuto alla torre in cui gemeva custodito il suo rivale, trovò modo di scagliargli contro, da una finestra, la propria lancia. Il colpo fu assestato con tale gagliardia, che traforò il Macias da parte a parte. Quel meschino stava allora appunto cantando una canzone da lui composta per la donna del suo cuore, e spirò col nome di lei sulle labbra.

|Grisostomo.|

[1] Poesias selectas castellanas, desde el tiempo de Juan de Mena hasta nuestros dias, etc.—Poesie scelte castigliane, dai tempi di Giovanni de Mena fino ai giorni nostri raccolte ed ordinate da don |Emanuele Giuseppe Quintana|. Madrid, ecc. ecc.

[2] «Quella [la collezione di poesie castigliane], che di poi fu incominciata, ma non condotta a termine da don Giovambattista Conti, eseguita per veritá con gusto squisito e con buona disposizione, fu destinata principalmente a far conoscere agli italiani il pregio della nostra poesia. E però all'autore di essa collezione bastò dí pubblicare e tradurre in toscano i componimenti lirici e buccolici piú segnalati del secolo decimo sesto ed alcuni de' fratelli Argensola; ma non die' luogo nella sua raccolta a veruna poesia di Balbuena, di Jauregui, di Lope, di Góngora, né d'altri egualmente celebri nostri poeti, lasciando cosí la collezione insufficiente in estremo e difettosa».

[3] Il Poema del Cid non va confuso coi Romanzi del Cid, posteriori di un secolo, e pieni di ben altra poesia. Somigliano questi in certo modo, per le loro forme esteriori, alle antiche ballate inglesi, molte delle quali sono sí giustamente apprezzate anche oggidí.

[4] Citiamo per modo d'esempio l'entrata del Cid in Burgos, quando esiliato dal suo re:

«Il mio Cid Rui Diaz entrava in Burgos accompagnato da sessanta insegne. Erano piene le vie e le finestre di cittadine e di cittadini, bramosi di vederlo; ed era sí grande il loro dolore, che versavano lagrime dagli occhi e dicevano tutti ad una voce:—Oh Dio, che buon vassallo, se vi fosse un buon re!—Gli avrebbero volentieri offerte le lor case; ma niuno ebbe coraggio di farlo, per la grande ira concepita contro di lui dal re don Alfonso, del quale innanzi al cader del sole era entrata in Burgos una lettera chiusa con forti sigilli, dove si proibiva a tutti il dare alloggiamento al mio Cid Rui Diaz sotto irremissibile pena di perdere gli averi, gli occhi ed anche la vita stessa. Gran dolore sentirono le genti cristiane, e s'ascosero dal mio Cid, perché non ardivano di dirgli nulla», ecc. ecc.

[5] «Quid rides?», ecc. ecc.

[6] Questo secondo articolo è preceduto dalla seguente avvertenza: «Proseguiamo il Quadro storico della poesia castigliana, incominciato nel n. 99 del Conciliatore. La memoria de' lettori saprá rappiccare il filo tra l'articolo primo e 'l seguente» [Ed.].

[7] Dante nacque del 1265 e morí del 1321. Il De Mena nacque del 1412 e morí del 1456.

[p.218][p.219]

XXIII

DUE RAPPORTI UFFICIALI AL GOVERNO AUSTRIACO

I

|Al direttore generale dei ginnasi|

Sulla traduzione dal tedesco degli Elementi di storia degli Stati d'Europa.

Ho l'onore di presentarle in tre volumetti manoscritti la traduzione degli Elementi di storia degli Stati d'Europa. Questo lavoro, ordinatomi giá da qualche tempo dall'imperial regio governo, sarebbe stato finito prima d'ora, se altri lavori ed altri doveri d'ufficio, ben noti a lei, signor direttore, ed al governo medesimo, non mi avessero occupato altrimenti, e se una recente ristampa dell'originale, sopraggiunta quando la traduzione era pressoché compiuta, non mi avesse obbligato a rifarla ed ampliarla in molte parti. D'altronde io non voglio dissimulare che, trattandosi d'un libro da stamparsi e da servir di testo per le scuole, ho creduto di dover considerare l'incumbenza datami dal governo piú come letteraria che come consentanea alla natura del mio impiego. Però mi sono ingegnato di condurre l'opera con quella cura e con quell'impegno letterario che mi parve dovere essere richiesto da chi me l'ordinava. Non maggior zelo, bensì avrei desiderata maggiore abilitá, onde corrisponder meglio alle intenzioni del governo.

Questi Elementi di storia, non essendo destinati che a servire di additamento e di guida a' professori, per tesservi sopra piú ampie lezioni, sono stati scritti dall'autore tedesco tanto compendiosamente da riescire non di rado oscuri. Talvolta le circostanze d'un fatto sono indicate da un solo epiteto, talvolta spiegate da una frase oscillante e di vario significato. Per cogliere e rendere il giusto valore, era necessario esaminare di [p.220] frequente carte geografiche e trattati di pace, consultar libri, studiare lo spirito delle diverse epoche storiche in opere voluminose. Questo ho fatto; e, senza alterare menomamente il testo, spero di aver portato nella traduzione qualche chiarezza maggiore.

In alcuni passi, massime della storia della Germania, ove un solo cenno di allusione a circostanze locali, a memorie e costumi notissimi basta alla intelligenza dei lettori tedeschi, era necessaria pe' lettori italiani qualche spiegazione di piú: e ve l'ho inserita, ma in modo che non cambiasse l'intenzione dell'originale. Ho rettificate le epoche ogni volta che per isbaglio, probabilmente di stampa, non erano esatte. Ho emendati alcuni errori di fatto, evidentemente trascorsi per incuria de' correttori. Ogni volta che l'esposizione mi pareva intralciata, stentata e confusa nel suo andamento originale, ho procurato di appianarla. Ho schivata la frequente monotonia de' lunghi periodi del testo; perché ogni lingua ha la sua indole, e ciò, che forse è tollerabile in Germania, riescirebbe in Italia un guazzabuglio insoffribile, per l'ordine diverso con cui si concepiscono le idee. E senza adoperare affettazioni sconvenienti all'uso comune d'oggidi, ho cercato di mantenere nella lingua della traduzione una discreta gastigatezza, che pur non mi parve di trovar sempre nella lingua del testo.

Per giungere a tali risultati (se pure posso lusingarmi di esservi giunto) ho dovuto spendere tempo assai nel fare ricerche d'erudizione che nulla avevano di comune coll'impiego mio, ed occuparmi spesso in ore straordinarie e fuori d'ufficio. Sarò fortunato oltremodo se con ciò mi potrò meritare l'approvazione di lei, signor cavaliere direttore, e, per di lei mezzo, i superiori riguardi.

Intanto la prego, signor cavaliere direttore, a volermi indicare quando io debba recarmi alla imperial regia stamperia, onde concertarmi con que' correttori, od assumere io stesso (se cosí le piacerá) la correzione de' fogli, e fare in modo che la edizione riesca piú purgata che non può mai essere un primo manoscritto.

Milano, li 6 settembre 1819.

[p.221]

II

|All'imperial regio governo|

Sulla traduzione dal tedesco di un Libretto di nomi.

Ho esaminata la traduzione italiana del Libretto di nomi (Nahmenbüchlein) trasmessami da questo imperial regio governo; ed in totale mi parve discretamente ben fatta. Vi sono, è vero, alcune minuzie da emendare in quanto alla lingua ed allo stile; ma queste non possono essere avvertite tutte da chi legge il manoscritto, e sbalzeranno piú facilmente all'occhio della persona giudiziosa a cui bisognerá affidarne, in caso di stampa, la correzione de' fogli: __unico mezzo__ con cui poter ripulire questa traduzione. In alcune cartelline da me inserite nel Libretto stesso ho notato cosí a caso qualcuna di tali mende; ma soltanto per farne conoscere all'imperial regio governo la natura e per cenno, di cui potrá forse profittare chi correggerá i fogli di stampa; non giá per indicare in alcuna maniera la frequenza con cui esse ricorrono.

Duplice però essendo l'incarico datomi dall'imperial regio governo, credo che inutili riusciranno le osservazioni fatte da me alla traduzione, ove sieno accolte come opportune le altre che soggiungo intorno al merito intrinseco del Libretto.

Per potere rispondere alla domanda: «se sia conveniente questo libro anche alle scuole di Lombardia», ho stimato di dover cercare come vi si supplisca ora, e d'istituir quindi un confronto tra di esso libro e quello che, col titolo di Alfabeto ed elementi d'istruzione morale, ecc. ecc., è in uso presentemente per le scuole infime de' fanciulli. Mi si permetta dunque di riportare qui gli ultimi risultati di detto confronto. Serviranno essi a manifestare il complesso de' motivi onde muove la opinione che credo di dover sottoporre all'imperial regio governo.

Nelle prime pagine, ove il lavoro è meccanico, e di null'altro trattasi che dell'abbiccí e delle sillabe e dell'aumento progressivo di esse, questi due libretti procedono di pari passo; e il [p.222] tedesco non vince l'italiano che di prolissitá. Ma, allorché si incomincia a presentare a' fanciulli molti interi vocaboli da leggere, uno de' libri piglia una strada, l'altro ne piglia un'altra; e non par dubbio che il tedesco s'abbia scelta la migliore.

Ecco quel che fa l'italiano. Butta la parole, quali sono suggerite dal numero delle sillabe ch'ei vuole rappresentare e dall'ordine alfabetico della prima lettera di esse, senz'altra intenzione veruna. Poi salta a dirittura ad infilzare dettati e proverbi morali da servir di lettura al ragazzo, che li legge senza intenderli e senza profittarne, perché le idee astratte, di cui sono composti, ei non sa raccoglierle, non sa applicarle a' casi concreti. Costituito cosí mero pappagallo e niente piú, il fanciullo lo si fa camminare alle favole; le quali sono altre idee astratte, intorbidite ancor piú dal velo dell'allegoria, e gli presentano, nuotanti in un mar di menzogne, alcune magre veritá morali, non proporzionate né al suo intendimento né alle occorrenze della sua freschissima vita. Che dagli apologhi l'uomo giá adulto, ed avvezzato a riconoscere le relazioni tra cose e cose, possa qualche volta ritrarre diletto insieme ed utilitá, non è da negarsi. Ma che il fanciullo debba astenersi dall'invidia per lo spavento d'averne veduta crepare una rana, chi 'l può credere in buona coscienza? Del resto, i piú savi scrittori intorno a siffatte materie hanno giá gridato tanto contra il mal uso delle favole nell'educazione de' ragazzi, e il discredito n'è ora sí generale, che il piú dirne sarebbe un lanciar sassi contra un cadavere.

Dopo le favole vengono nel libro italiano le regole della civiltá; e su queste non ha luogo censura di rilievo, salvo che potrebbono essere meno aride e piú rivolte alla vera decenza morale che non all'esterna decenza delle abitudini.

Il restante del libro contiene il catechismo, la formola delle preghiere, l'abbaco, e per ultimo il modo di servire la messa secondo il rito romano e secondo il rito ambrosiano.

Per lo contrario, veggasi ora quel che si faccia dall'autore tedesco. Mirando egli non solo ad esercitare meccanicamente nella lettura il fanciullo, ma ben anche ad arricchirgli a poco a poco la mente di nozioni utili, facili e dipendenti in certo modo le [p.223] une dalle altre, fa succedere al solito congegnamento delle sillabe una specie di vocabolarietto (pagina 14 e seguenti), ove registra sotto separati capi ora le diverse parti del corpo umano, ora le diverse parti d'una casa, e le diverse suppellettili, e le parti del vestito, e cosí via. Codesta enumerazione ei la interseca, mettendo in moto i verbi che indicano l'uso o determinano l'azione di chi adopera tale o tal altro oggetto, di chi si giova di tale o tal altra circostanza. Col progredire delle pagine cresce la complicazione delle idee, fino a condurre il fanciullo a descrivere ciò ch'ei fa in casa, ciò che fa in iscuola, come ei si comporta co' suoi parenti, come col maestro, come co' superiori, cogli uguali, co' dipendenti: dal che si trae occasione d'istillargli la conoscenza e, per quanto il comporta la tenera mente sua, anche il sentimento della convenienza de' propri doveri. Cosí, senz'essere sbigottito dalla mistica severitá de' precetti, il ragazzo si trova in mezzo ad una morale applicata, che di certo è piú efficace di quante massime teoriche gli possono aggravar la memoria. Poi all'insipidezza degli apologhi sono sostituite altre nozioni esatte di cose e di fatti, come a dire notizie intorno i pesi e le misure, intorno le stagioni e i diversi lavori de' campi, e descrizioni delle varie arti e de' vari mestieri che piú cadono sott'occhio al fanciullo; e, per rallegrarlo anche alcun poco, la descrizione discende fino a' soliti giuochetti e trastulli della fanciullezza, scaltramente insinuando a quali sia da darsi la preferenza, e perché. Poi anche qui sono proposte molte massime morali e di civiltá, ma tutte convenienti all'etá prima, ma coordinate in modo che l'applicazione alle circostanze reali della vita del fanciullo sia o giá fatta, o facilissima a farsi da lui stesso. Ed in una storietta che il maestro racconta, ed in altre sentenze ch'egli detta a' fanciulli, contengonsi alcune idee piú elevate di morale civile e religiosa, nelle quali, quantunque non si possa dissimulare il consueto peccato delle idee astratte, pure il vizio può dirsi minore che non nel libro italiano, essendosi dal tedesco qui almeno fatto qualche sforzo per inclinarle al concepimento puerile. Nel rimanente del libro stanno le regole del compitare e della buona pronuncia.

[p.224]

Ora il solo paragone tra il libro italiano attualmente in uso e quello mandato da Vienna parmi sufficiente a determinare in favor dell'ultimo la preminenza. E tale è l'opinione mia, ove non d'altro si parli che dell'idea e del piano generale dell'opera. Né da questa opinione mi sconforta la mancanza nel libro tedesco d'un preciso catechismo, delle precise formole delle preghiere e del modo di servir la messa secondo i due riti, poiché nelle nostre scuole è provveduto a ciò bastantemente da chi è incaricato dell'istruzione religiosa.

Ma applicar questo libro, tal qual è, alle scuole minori di Lombardia è cosa ch'io reputo non troppo conveniente. Scritto per la Germania, esso ha relazioni a trastulli, a costumanze, ad abitudini che non sempre sono uguali alle nostre; e vi domina, a dir vero, troppa monotonia in quanto alle forme dell'esposizione. Lo studiare è giá per se stesso una noia a' poveri fanciullini, sicché il raddoppiarla loro coll'eterna ripetizione degli stessi modi e delle stesse uscite de' verbi e della stessa architettura de' periodi ed enunciazioni, parmi né caritatevole né destro consiglio per un buon maestro.

E però, ritenuta l'idea generale, lo scopo e 'l materiale di questo libretto, credo che, a volerlo applicare alle nostre scuole, sia d'uopo non di tradurlo esattamente, ma di modificarlo e rifonderlo, per cosí dire, alcun poco. Nella stessa maniera che l'autore tedesco si è manifestamente giovato d'altri libri consimili inglesi e francesi, giovisi nel suo lavoro il compilatore italiano di que' soccorsi che l'arte dell'educazione ha resi abbondanti a' dí nostri; e, conservato tutto il buono che pure è molto del libretto tedesco, vi tolga e vi aggiunga quel tanto ch'è necessario a renderlo veramente vantaggioso alla prima istruzione de' ragazzi. Il libro sia pur sempre lo stesso in quanto allo spirito ed al metodo in totale; ma, se le circostanze diverse vogliono in esso diverse modificazioni, il negar d'apportargliele prima d'accoglierlo sarebbe un voler l'utile solo per metá.

Ristrignendo quindi il discorso, parmi, se pur non m'inganno, che si possa stabilire queste due proposizioni:

[p.225]

I. Il Libretto di nomi, tal qual è presentemente, non può essere applicato con vantaggio alle scuole di Lombardia.

2. Modificato in alcune parti, lo si potrá applicare ad esse con molto profitto dell'educazione.

In questo secondo caso, l'incarico della ricompilazione (a cui servirebbe di fondamento la traduzione italiana giá fatta) bisognerebbe che venisse affidato ad una persona, la quale, vissuta qualche tempo tra le scuole, non soltanto fosse intendente delle teorie di educazione, ma avesse pratica molta dell'indole de' fanciulli, delle diverse fasi del loro sviluppo mentale, delle abitudini piú comuni della loro vita e de' metodi d'insegnamento approvati nelle scuole di Lombardia.

Ciò è quanto ho l'onore di sottoporre all'imperial regio governo, in obbedienza alla venerata lettera 20 corrente, n. 198210/2840 P. Questa risposta al quesito, fattomi giá da qualche tempo, non avrebbe tardato di tanto, se, confuso accidentalmente con altre carte, il libro, che ora restituisco, non mi fosse sfuggito affatto dalla memoria; del che prego d'essere scusato.

Milano, li 28 luglio 1821.

[p.226][p.227]

XXIV

DISCORSO AI TOSCANI[1]

Toscani!

L'entusiasmo vivo, spontaneo, col quale salutate i fatti dell'eroica Milano, onora voi e onora quelli che se lo sono meritato col sangue. A nome de' miei concittadini io ve ne ringrazio con tutta la pienezza del cuore.

A me, lombardo, disdirebbe il vantare a voi le angustie e le prodezze de' miei lombardi. La storia, libera dai ritegni della modestia, le tramanderá alle future generazioni; e questo basti.

Bensí con voi, toscani, mi sia lecito congratularmi di voi e del vostro sentire oggi tutta l'importanza del gran fatto di Milano e del vostro gioirne con l'Italia tutta.

Mirabile risorgimento invero questo nostro, al quale ciascuno de' popoli d'Italia ha apportato la parte sua! Roma l'amnistia e l'onnipossente parola d'amore, Toscana le riforme, Sicilia e Napoli le costituzioni, Piemonte il forte esercito tutelatore, e Milano la indipendenza; la indipendenza, senza della quale né riforme né costituzioni possono aver vita intera.

Artefici tutti del pari di questo stupendo edificio, spetta a voi tutti, o italiani, il compirlo e il consolidarlo per sempre. Contenti delle vostre libertá, che sono pienissime, se sapete virilmente giovarvene, stringetevi tutti, popoli e principi, in una [p.228] assoluta concordia d'instituzioni, di voleri, di sentimenti, e correte in armi a dare aiuto all'esercito di Carlo Alberto, perché spazzi affatto gli austriaci fuori delle terre nostre. Afferrate questa bella occasione, fattavi miracolosamente da Dio, e salvate in eterno dalla dominazione e dalla presenza dello straniero ogni campo, ogni villa dove si parla italiano. Lá, nella gran valle del Po, vi chiama la patria. Guerra, guerra agli austriaci, è il solo pensiero, il solo bisogno del momento. Lá, nella gran valle del Po, è d'uopo che si componga un grande Stato, saldo e compatto, il quale serva d'antemurale a qualunque invasione straniera, da qualunque parte essa venga. Cosí l'Italia tutta sará salva e secura per sempre; e, a farla salva e secura, vi gioverá gloriarvi, o toscani, d'aver contribuito anche voi.

Viva l'Italia! Viva la cacciata degli austriaci!

[1] Letto il 27 marzo 1848 a Firenze, sotto le logge degli Uffizi, da Giuseppe Massari, in luogo del Berchet, presente, al popolo reduce da un solenne Te Deum cantato in duomo, per celebrare la vittoria dei milanesi nelle Cinque giornate. [Ed.].

[p.229]

XXV

AI LOMBARDI

(14 maggio 1848)

Lombardi!

Il governo provvisorio della Lombardia ha dovuto finalmente persuadersi che, in mezzo alla precipitazione degli eventi, i quali d'ogni parte ne travolgono e ne sospingono, lo starsene piú a lungo immobile a custodire la propria neutralitá era un tradire la patria. Quindi egli ha pubblicato il suo decreto del 12 corrente, con cui chiama l'intiera popolazione a dare il suo voto intorno alla risoluzione da prendersi per uscire dalla triste situazione nostra, che ogni dí, ogni ora piú si fa pericolosa.

Lombardi! voi dovete essere grati al governo di questa sua determinazione. Tocca adesso a voi di giovarvene tutti alacremente, e di provvedere cosí alla vostra salvezza. Che voi siate deliberati a farlo con tutto lo zelo, con tutta quella sagace ponderazione ch'è richiesta dal supremo momento, chi può dubitarne? Non io, di certo. E, se mi fo lecito d'indirizzarvi una breve parola, non è menomamente perché io creda necessario d'infiammarvi e di stimolarvi all'adempimento di un dovere, ma soltanto per rischiarare un'apparente oscuritá, che a taluno parrá forse di ravvisare nella enunciazione dei due quesiti postivi dal governo provvisorio.

Se nella scrupolosa sua onoratezza il governo ha creduto di dovere accondiscendere financo ad alcune esigenze o astute [p.230] o meticolose, e di dover financo deviare dallo stesso andamento logico, ponendovi ad un tratto due quesiti, voi, o lombardi, dovete rispettare in esso il buon volere, ma stare altresí bene all'erta e non lasciarvi abbindolare da quei sofistici arzigogoli, che, sotto la finta larva d'una legalitá mal definita e mal definibile, potrebbono essere susurrati all'orecchio vostro.

Nel primo quesito, __il piú prolisso__, vi è domandato se volete __immediata fusione__ col Piemonte, usando, in far ciò, di tutte quelle cautele che pongono in sicuro il piú ampio godimento della libertá da voi conquistata.

Nel secondo quesito, il __meno prolisso__, v'è domandato se voi volete continuare nello stato presente fino __a guerra finita__.

Farei troppo torto, o lombardi, al vostro buon senso, se perdessi tempo a dimostrarvi che la salute vostra sta nel rispondere francamente di sí al primo quesito.

Per poco che voi ci pensiate, vi sbalzerá evidentissima alla mente l'inconseguenza del secondo quesito, il quale, contraddicendo a tutte le conseguenze logiche dei motivi del decreto, v'invita a lasciar stare le cose come le stanno, vale a dire nell'anarchia, nell'agitazione, nell'impotenza a difendervi dai tanti pericoli che da tante parti vi minacciano; il che non a altro riuscirebbe da ultimo se non a far ridere in cuor dell'Austriaco l'agognata vendetta ed a trascinar voi alla totale rovina, alla distruzione di quella indipendenza che avete comperata col sangue e colle barricate della generosa Milano, di Milano, l'audacissima delle cittá battagliere.

Lombardi, all'erta; ve ne scongiuro! Raccogliete tutta l'anima vostra, consultate l'intimo amor vostro per la patria, mettetevi seriamente la mano sul petto; e poi, nel recarvi a deporre il vostro «sí» ne' libri parrocchiali, fate quello che la coscienza vi detta. Interrogatela questa vostra coscienza senza passioni e senza pregiudizi; ed allora il primo quesito, quello che propone __l'immediata fusione__, è certo del trionfo, perché, viva Dio, il vero trionfa sempre sul falso nel cuore dell'uomo onesto. So che alcuni pochi di voi, nel contribuire a quel trionfo, faranno de' segreti sagrifici. E chi vi dice che io forse non ne faccia [p.231] anch'io nel condurmi a lealmente consigliarvi la subita fusione? Ma periscano tutte le private simpatie, periscano tutt'i rancori privati in faccia alla salute della patria. Tanto piú splendida sará la nostra libertá, se avvalorata da sagrifici individuali. L'unico sagrificio che non è lecito mai di fare è quello di tacere la veritá, quando il dirla può in qualche modo cooperare al pubblico bene.

L'amantissimo di voi e lombardo anch'esso

|Giovanni Berchet.|

[p.232][p.233]

XXVI

ALL'ONOREVOLE PRESIDENTE |del collegio elettorale di Monticelli
D'ongina|

Il suffragio, per me inopinato, del quale hanno voluto onorarmi gli elettori di codesto collegio, meritava da parte mia una piú pronta espressione della gratitudine, che ne sento vivissima. Ma la notizia di esso mi pervenne tardi in questo ritiro campestre, e, dirò il vero, non creduta quasi sulle prime. Ciò mi scusi presso di lei, egregio signore, e presso de' benevoli miei elettori, a' quali la prego di volere Ella essere interprete de' miei ringraziamenti. Questi, comunque pienissimi, non possono pareggiare la grandezza di un favore tanto spontaneo. e ch'io sentirei di non meritarmi, se dovessi por mente soltanto alla picciolezza mia individuale. Ma il voto di codesti elettori io lo ravviso piuttosto come un omaggio voluto rendere a de' princípi; e di questo mi trovo lieto, e direi quasi superbo e consolato.

Sí, egregio signor presidente, io sono convinto che gli elettori di Monticelli, nel nominar me, lombardo, a deputato alla Camera, non hanno voluto fare altro che protestare della ferma adesione loro al principio d'unione che stringe i popoli dell'alta Italia in un popolo solo, guardiano e difensore guerriero de' confini dell'intera nazione: principio, questo, che è sempre stato il desiderio de' miei tanti anni d'esilio, perché tenuto da me sempre come il fondamento imprescindibile di quella libertá e di quella indipendenza che tutti vogliamo quanti siamo popoli di quest'Italia. Che se io, sinceramente zelatore ostinato di libertá, sono altrettanto nemico della licenza e della [p.234] anarchia, non penso che i miei elettori di scordassero da me ne' sentimenti, allorquando deponevano nell'urna il nome mio. I tempi sono difficili; e, nell'assumere io l'onorevole incarico di rappresentante del popolo, sento quanto poveramente potrò sostenerne la dignitá. Solo mi affida alquanto il buon volere in me, e piú assai il buon volere negli elettori, se vogliano assistermi de' loro consigli.

Sí, davvero, i tempi sono difficili; e tanto piú lo sono, in quanto che le moltitudini lasciano gavazzare a tutta lor posta gli scompigliatori d'ogni concordia, i suscitatori d'improntitudini, e se ne stanno esse oziose colle mani sotto le ascelle: come se la sopravvegnente anarchia non fosse per essere la rovina loro universale, la rovina di ogni bene morale e materiale, la rovina di tutto quanto esse hanno sperato nei lunghi secoli della servitú; come se tutto questo scombuglio non fosse per tornar profittevole all'Austria, che lo fomenta ella stessa per mezzo de' molti suoi segreti emissari, travestiti da demagoghi e mascherati da sicofanti.

Per poco che dovesse durare ancora questa sfiduciata indifferenza delle moltitudini; per poco che la valorosa saviezza dell'esercito fosse di soppiatto avvelenata ancora da perfide suggestioni, che insegnano l'indisciplina e l'inobbedienza; per poco che la caritá della patria proseguisse ancora a trasformarsi in invidie personali, e la veritá dei fatti continuasse a non ottener fede, e tutta la fede invece la si desse sfrontatamente ancora ai sogni della fantasia: io non so a che buon fine potrebbe mai capitare questo tanto vantato risorgimento d'Italia.

Ma io ho fede, e fede viva, nel buon senso delle in apparenza neghittose popolazioni. E del loro risvegliarsi mi dá giá qualche sentore un grido spontaneo, levatosi, son pochi giorni, in una delle piú colte cittá d'Italia, il grido:—Vogliamo i galantuomini! vogliamo i galantuomini!—grido, che rammenta l'antica saviezza, l'antica onestá popolana. Se un altro grido bisognasse a qualche altra cittá, davvero mi farei lecito di proporre questi:—Non vogliamo licenza! non vogliamo anarchia!—Perché [p.235] davvero libertá non può essere dove non sia amor dell'ordine, dove non sia religioso rispetto alle leggi ed alle istituzioni che ci reggono. Attenendoci di buona voglia a queste, in queste lealmente confidando, di queste alacremente giovandoci, traendone tutte le conseguenze, ci salveremo, io spero, trionfanti, dai nemici interni; la guerra, che per avventura ci sovrasta contro lo straniero, noi la potremo imprendere sicuri della vittoria; e la libertá, che noi vogliamo con tutto il cuor nostro, noi la consolideremo e la consegneremo pura, splendida, ampliata ai figli nostri.

Ma, se lasciamo che la licenza cresca, che non governi chi ha da governare, che non obbedisca chi ha da obbedire, che l'impazienza tenga luogo della prudenza, e voglia conseguire in un giorno solo tutto quello che a maturare vuol tempo e tempo, io non veggo in fondo al futuro che un fantasma esosissimo. Non voglio dirne il nome, perché troppo mi suona orrendo: cerchinlo i miei elettori nella storia del passato, sia in Italia, sia fuori; lo troveranno dopo qualunque periodo di discordia e disordine sociale.

La prego, egregio signor presidente, di perdonarmi, se mi sono lasciato andare ad aprire un pochino l'animo mio con lei e, per di lei mezzo, coi miei elettori; ai quali vorrei pure di qualche maniera esser noto, anche prima che la fortuna mi dia di visitarli e ringraziarli in persona.

Mi giovo intanto di questa occasione per presentare a lei, egregio signore, le assicurazioni rispettose della mia stima.

Di Pegli, 24 ottobre 1848.

[p.236][p.237]

NOTA

[p.238][p.239]

La raccolta piú ampia di prose del Berchet, pubblicata finora, è quella contenuta nelle Opere edite ed inedite di lui, date in luce da Luigi Cusani (Milano, Pirotta e compagno, 1863). Non è però completa, perché il Cusani non solo non riprodusse le traduzioni del_ Vicario di Wakefield_ del Goldsmith, del Visionario dello Schiller e del Telemaco del Fénelon (che non sembrò opportuno di raccogliere nemmeno in questo volume), ma anche o non ristampò o ristampò solamente in parte alcuni articoli del Conciliatore, che non gli parvero di grande importanza. E, naturalmente, mancano nella sua raccolta anche quelle poche prose del Berchet, che furono conosciute e videro la luce dopo il 1863.

In compenso, il Cusani ristampò la piú antica prosa del Berchet della quale abbiamo notizia, cioè la Lettera sul dramma «Demetrio e Polibio«, della quale non è stato possibile a me rintracciare l'edizione originale, fattane a Milano, dal Pirotta, nel 1813.

Seguendo adunque i criteri esposti giá nella Nota con la quale si chiude il primo volume delle Opere del Berchet, io riprodussi il testo offertoci dal Cusani nel ristampare la Lettera, testé accennata; ma ricorsi invece, per le altre prose, alle edizioni originali, come risulta dall'elenco seguente, nel quale gli scritti del Nostro vengono ricordati nello stesso ordine strettamente cronologico col quale sono disposti nel presente volume[1].

[1] Avverto che i titoli degli scritti, i quali nell'elenco sono compresi tra parentesi quadre, non sono del Berchet. Egli lasciò questi scritti senza titolo; ma si credette di apporne loro uno nella presente edizione, o di accogliere quello dato loro dai precedenti editori, per comodo delle eventuali citazioni e delle ricerche.

I. Lettera sul dramma «Demetrio e Polibio», cantato nel teatro
Carcano
, della quale si parla piú sopra.

II. Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto
Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo
[p.240]
(Milano, Bernardoni, 1816). Fu ristampata dal Cusani nelle citate
Opere edite ed inedite.

III. Allocuzione nei funerali del pittore Andrea Appiani, celebrati nella chiesa della Passione il giorno 10 di novembre 1817 (Milano, Ferrario, 1817). Ristampata dal Cusani.

IV. Del criterio ne' discorsi. Nel numero 4 del Conciliatore, 13 settembre 1818. Ristampato dal Cusani.

V. [Scortesie maschili al teatro della Scala]. Nel numero 5 del Conciliatore, 17 settembre 1818.

VI. [Sulla «Storia della poesia e dell'eloquenza» del Bouterweck]. Nei numeri 9, 13 e 21 del Conciliatore, 1 e 15 ottobre e 12 novembre 1818. Ristampato parzialmente dal Cusani.

VII. [Intorno al significato del vocabolo «estetica«]. Nel numero 10 del Conciliatore, 4 ottobre 1818. Ristampato dal Cusani.

VIII. [Di un libro sulla romanticomachia]. Nel numero 17 del Conciliatore, 29 ottobre 1818[1]

[1] Il Conciliatore, riferendo il titolo del libro di cui si parla in questo scritto, dice che esso fu pubblicato a Torino «coi tipi di Domenico Pane stampatore di S. A. I. il principe di Carignano». Ma veramente nel frontispizio dell'opera, al posto di quell'«I.» («imperiale»), vi è, com'è naturale che vi sia, un «S.» («serenissima»). Se l'«I.» del Conciliatore sia effetto di una svista o sia un'alterazione fatta a bella posta per alludere alla parentela del principe di Carignano con casa d'Austria, non saprei; ma, nel dubbio, lo conservai anche nella presente ristampa (p. 105, nota).

IX. [Guerre letterarie in Italia]. Nel numero 19 del Conciliatore, 5 novembre 1818. Ristampato dal Cusani.

X. Lettera di Grisostomo al molto reverendo signor canonico don
Ruffino.
Nel numero 26 del Conciliatore, 29 novembre 1818.
Ristampato da Guido Mazzoni nell'opuscolo Due articoli di Giovanni
Berchet
(Firenze, Barbèra, 1902), per nozze Guidotti-Della Torre.

XI. [Intorno all'«Origine delle lettere» del Roscoe]. Nel numero 33 del Conciliatore, 24 dicembre 1818. Ristampato da Guido Mazzoni nell'opuscolo testé citato.

XII. Articolo sopra un articolo. Nel numero 34 del Conciliatore, 27 dicembre 1818. Ristampato dal Cusani.

XIII. Idee del signor Sismondi sul poema di Dante. Nel numero 37 del Conciliatore, 7 gennaio 1819. Ristampato dal Cusani.

XIV. [Intorno ad un poemetto di C. Tedaldi-Fores]. Nel numero 46 del Conciliatore, 7 febbraio 1819.

[p.241]

XV. Lettera ad una signora milanese gentile sí, nobile no. Nel numero 47 del Conciliatore, 11 febbraio 1819. Ristampato dal Cusani.

XVI. Sulla «Sacontala» ossia «L'anello fatale», dramma indiano di
Calidasa.
Nei numeri 53 e 55 del Conciliatore, 4 e 11 marzo
1819. Ristampato a Milano, 1819, dall'editore del Conciliatore,
Vincenzo Ferrario, in opuscolo; e riprodotto poi anche dal Cusani.

XVII. [Sulla «Storia della letteratura italiana» del Ginguené].
Nel numero 61 del Conciliatore, 1 aprile 1819.

XVIII. [Benedetto Castelli]. Nel numero 69 del Conciliatore, 29 aprile 1819. Ristampato dal Cusani.

XIX. [Intorno alla «Servitú presso i popoli antichi e moderni» del
Grégoire
]. Nel numero 73 del Conciliatore, 13 maggio 1819.

XX. Sopra un manoscritto inedito degli autori del foglio periodico
«Il caffé».
Nel numero 91 del Conciliatore, 15 luglio 1819.
Ristampato dal Cusani[1].

[1] Questo scritto è firmato «|P.—Grisostomo|». Guido Mazzoni (Ottocento, p. 236) dice che questo «P.» significa «Pellico»; ma il Pellico firmò sempre gli articoli, da lui pubblicati sul Conciliatore, «S. P.». «P» è invece la sigla adottata da Pietro Borsieri, in sostituzione delle iniziali «P. B.», da lui usate nel firmare il Programma del periodico, e della sigla «B.» apposta poi in calce agli articoli pubblicati nei primi numeri (si veda |Rinieri|, Della vita e delle opere di Silvio Pellico, Torino, 1898. 1, 59, 304, e un mio scritto sulla Censura austriaca e il «Conciliatore«, nella miscellanea in onore di Rodolfo Renier, che vedrá la luce prossimamente).

XXI. [Sulla «Filosofia delle scienze» del Jullien]. Nel numero 92 del Conciliatore, 18 luglio 1819. Ristampato dal Cusani.

XXII. [Quadro storico della poesia castigliana]. Nei numeri 99 e 111 del Conciliatore, 12 agosto e 23 settembre 1819. Ristampato in parte dal Cusani.

XXIII. [Due rapporti ufficiali al governo austriaco]. Pubblicati, di sugli autografi che si conservano nell'Archivio di Stato di Milano, il primo da |Cesare Cantú|, Il «Conciliatore» e i carbonari (Milano, Treves, 1878, pp. 36-38, nota 1), il secondo da me, in appendice allo scritto su Giovanni Berchet imperial regio impiegato (nel Giornale storico della letteratura italiana, LVII, 1911, pp. 17-20). Nel ristampare questi due rapporti li rividi sulle trascrizioni dell'autografo fatte da me.

XXIV. [Discorso ai toscani]. Letto da Giuseppe Massari sulla piazza della Signoria a Firenze, il 27 marzo 1848. Fu riferito dal giornale La patria, di Firenze, del 28 marzo 1848, e dal giornale [p.242] Il 22 marzo, primo giorno dell'indipendenza lombarda, di Milano, del 2 aprile 1848. Lo ristampò anche il Cusani.

XXV. [Proclama ai lombardi]. Stampato in foglio volante a Milano, dalla tipografia dei Classici, con la data del 14 maggio 1848, e riprodotto poi dal Cusani.

XXVI. [All'onorevole presidente del collegio elettorale di Monticelli d'Ongina]. Lettera stampata per la prima volta nel giornale La concordia del 6 novembre 1848, donde, pochi giorni dopo, fu tratta, per ristamparla in foglio volante, dalla tipografia Del Maino, di Piacenza. Di questa ultima edizione si valse Vittorio Osimo, che ristampò ultimamente la lettera del Berchet nel suo studio su Giovanni Berchet deputato (Giornale storico della letteratura italiana, LVIII, 1911, pp. 382-5), e quest'ultima ristampa serví di base alla presente edizione.

Come appare da questo elenco, gli scritti pubblicati sotto i numeri IV-XXII furono tratti dal Conciliatore. Essi hanno tutti in questo periodico la firma di «Grisostomo». Non è impossibile che possa essere del Berchet anche qualche altro articolo, che nel Conciliatore non ha firma alcuna, o che è firmato con pseudonimi o con sigle, che non si sa a quali dei soliti collaboratori si debbano attribuire. Ma, se in qualche caso l'attribuzione al Nostro può anche sembrare probabile, questa probabilitá si fonda sempre su indizi tanto malsicuri, che non sarebbe lecito lasciarsi indurre a comprendere gli scritti, ch'essa ci addita, in un'edizione critica delle opere di Giovanni Berchet.

[p.243]

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

  Abencerrages, 216.
  Achille, 202.
  Adamo, 14.
  Adelung, 31.
  Aditi, 166, 168.
  Adonio, 187.
  Agamennone, 58.
  Agnese (dramma), 67.
  Agostino (sant'), 30.
  Albano (Francesco), 4.
  Alberico (frate), 124.
  Albero sistematico, dell'Alberti, 194-5·
  Alberti di Villanova (Francesco), 195·
  Alemagna, vedi Allemagne.
  Alessandro magno, 203, 204.
  Alexandro magno (De), del Segura, 203.
  Alfabeto ed elementi d'istruzione morale, 221.
  Alfieri (Vittorio), 15, 52, 57, 99-100, 105, 121, 172.
  Alfonso decimo di Castiglia,204-5.
  Alighieri (Dante), 15, 24, 29, 57, 74, 75, 82, 87, 88, 94, 95, 96, 97,
      108, 123-7, 129-132, 166, 201, 208, 211-3.
  Allegoria, 106, 132, 205, 208, 210, 215, 222.
  Allemagne (De l'), della Staël, 30.
  Alonso de Cartagena, 214.
  Alta Italia, 233.
  Alvaro de Luna (don), 209.
  Amadigi, di Vasco Lobeira, 206.
  Amaury-Duval, v. Duval.
  Amore, 74, 83, 85-8, 145, 205, 208, 215, 217.
  Amor patrio, 120.
  Amra, 150.
  Ana, 187.
  Analisi delle scienze, del Lancelin, 193.
  Anarchia, 230, 234.
  Anastagi (Guido degli), 40.
  Anacreonte, 53.
  Anastasio (don), v. Caramella.
  Andely (I.), 71.
  Andrés (Giovanni), 76.
  Anello fatale, v. Sacontala.
  Antiromantico, 135.
  Antonia (donna), 185.
  Anusuya,150, 151, 155, 156-160.
  Apollo, 210.
  Apologhi, 222, 223.
  Appiani (Andrea), 59-60, 66.
  Apsarastirtha, 162.
  Arabia, Arabo, 85, 131, 209.
  Arcadia (accademia), 208, 215-6.
  Arcadia, del Sannazaro, 106.
  Arcadiche fanciullaggini, 75.
  Argensolas (Bartolomé e Lupercio), 198.
  Argonauti, 85.
  [p.244]
  Ariosto (Lodovico), 15, 24, 29, 31, 57, 75, 84, 87, 95, 96, 97,
      107, 108, 113.
  Aristofane, 23.
  Aristotile, 29, 55, 89-90, 97·
  Arjona (duca di), 208.
  Arriaza (Giovambattista), 198.
  Arte (origine e vicende), 119-122.
  Arte di congedarsi a tempo, 183.
  Arti poetiche, 28-30, 66, 89.
  Aspasia, 17.
  Atene, 52, 117·
  Ateneo, 171.
  Atridi, 38.
  Augusto, 23, 122.
  Austria, 234.
  Austriaci, 228, 230.
  Ayala (Pedro Lopez), 205.

  Babilonia, 22, 186.
  Bacone (Tommaso), 192.
  Balaya, 206.
  Balbuena (Bernardo), 198.
  Ballo, 137-8.
  Baretti (Giuseppe), 91, 110.
  Barocco, 103.
  Bartolomeo da San Concordio (fra), 92.
  Basvilliana, del Monti, 52, 100.
  Beatrice, 87, 88, 126.
  Beccaria (Cesare), 14, 184, 188.
  Belle arti, 194.
  — lettere, 194.
  Bellersheim (P.I. de), 182.
  Bellona, 55.
  Bellotti (Felice), 10.
  Bengala, 142.
  Berceo (Gonzalo de), 203.
  Berito, 176.
  Berlino, 10.
  Bersabea, 22.
  Bisogno estetico, 101, 103, 104.
  Blair (Ugo), 14.
  Boccaccio (Giovanni), 38, 40-1.
  Boiardo (Matteo Maria), 87.
  Boileau (Nicola), 91.
  Bonafede (Appiano), 110.
  Bonaparte, v. Napoleone.
  Borgonuovo, 137.
  Bouterweck (Federico), 12, 14, 73-100, 199.
  Bracciolini (Poggio), 110.
  Bramino, 142, 161-2.
  Branda (padre Orazio), 110.
  Brescia, 173-4.
  Brianza, 183.
  Bruguière, 144.
  Buona speranza (capo di), 17.
  Buon gusto, v. Gusto.
  Bürger (Goffredo Augusto), 9, 12, 13, 27, 31, 39, 41, 51, 52, 147.
  Burke (Edmondo), 14, 30.

  Caccia, di Erasmo di Valvasone, 39-40.
  Cacciatore feroce, del Bürger, 9, 12, 26, 30, 31-9, 50, 51, 52, 147.
  Cadalso (Giuseppe), 199.
  Cadice, 69.
  Caffè (giornale), 181-9.
  Calabria, 130.
  Calanémi, 165.
  Calcutta, 141.
  Calderon (Pietro C. de la Barca) 15, 130.
  Caledoni, 66.
  Calidasa, 139-48.
  Calliope, 210.
  Caloandro de' bei parlari, 204.
  Caluso (abate di), 172.
  Camera dei deputati, 233.
  Camoens (Luigi di), 15.
  Cancellieri (Francesco), 124-5.
  Cancionero general, 214.
  Canna, 145, 149, 152, 154, 158-60, 168.
  Cantanti, 3-6.
  Canzoniere del Petrarca, 214.
  [p.245]
  Caramella (don Anastasio), 183-5.
  Carcano (teatro), 1, 6-7.
  Carignano (principe di), 105, 240.
  Carlo Alberto, 228, v. Carignano (principe di).
  Carme, 28.
  Carnovale, 137-8.
  Cary (M.), 126.
  Castelli (Benedetto), 173-4.
  Casyapa, 166-8.
  Causica, 152.
  Cavalca (Domenico), 182.
  Cavalleria, 20, 85-8, 108, 203.
  Cellini (Benvenuto), 29.
  Ceramico, 55.
  Cervantes (Michele), 62, 201.
  Cesare, 24.
  Cesarea, 176.
  Cesarotti (Melchiorre), 77.
  Chesterfield (lord), 182.
  Chisciotte (don), 63.
  Cid, 201, 202, 206.
  Cimarosa (Domenico), 2.
  Cinquecento, 97.
  Cinque giornate di Milano, 227, 230.
  Cipriano (san), 124.
  Cittá di Dio (di sant'Agostino), 30.
  Classici italiani, 40.
  Classicismo e Classico, 20-7, 52, 64-7, 97, 105-8, 182.
  Codro, 187.
  Colebrooke, 142.
  Collegio elettorale, 233.
  Colpi di scena, 7.
  Commedia, di Dante, v. Divina commedia.
  Comprafumo, v. Tribú dei comprafumo.
  Conciliatore (Il), 70, 71, 109, 115, 116, 129, 133, 140, 145,
      147, 183, 184, 191, 240-2.
  Considérations sur les principaux événements de la Révolution
      française
, della Staël, 123.
  Conte Lucanor (dell'infante don Giovanni Manuele), 205.
  Conti (Giovambattista), 197.
  — (Natale de'), 26.
  Cooperwaker, 91.
  Coplas, 206, 208.
  Corinto, 25.
  Cortes, 199.
  Costantinopoli, 19.
  Couplet, 155.
  Crescimbeni (Giovanni Maria), 90.
  Cristoforo (signor), 186-7.
  Criterio nei discorsi, 61-7.
  Critica, 15-8, 21, 23, 47, 50, 66, 75, 89, 90, 92, 93, 97, 115-8, 120,
      130, 135, 170, 199-200, 203, 204, 212-3, 216.
  Crusca (Vocabolario della), 12, 52, 58, 182.
  Cuoco (Vincenzo), 14.
  Curnoaca, 153.
  Cusa, 153.

  Dafni, 158.
  Dan, 22.
  Danavas, 151, 165.
  Dante, v. Alighieri.
  Daunou (Pietro Claudio Francesco), 170.
  Decamerone, del Boccaccio, 38, 40-1.
  Delhi, v. Hastinápura.
  Della Casa (Giovanni), 40, 182.
  Del sublime (attribuito a Longino), 53.
  De Mena (Giovanni), 199, 210-4.
  Demetrio (caffettiere), 186.
  Demetrio e Polibio (melodramma), 1.
  Deputazione, 233.
  Destutt-Tracy (Antonio Cesare Vittorio), 194, 196.
  Dewta, 156.
  Didascalica poesia, 27, 142.
  Diletto estetico, 101, 104.
  Discordie letterarie, v. Polemiche.
  [p.246]
  Discorso sulla storia della poesia castigliana, del Quintana, 199.
  Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, del Machiavelli, 58.
  Divina commedia, 123-7, 129-32 211, v. Purgatorio.
  Dizionario enciclopedico della lingua italiana, dell'Alberti, 195.
  Doctrinal de privados, del Santillana, 209.
  Domenico (san), 131.
  Domesticité chez les peuples anciens et modernes, del Grégoire, 175-9·
  Domiziano, 176.
  Donna, 61-7, 85-8, 146-7, 193.
  Dramma, 139-148, v. Tragedia.
  Drammatica poesia, 27, 141-142, v. Melodramma, Teatro, Tragedia.
  Dulcinea, 63.
  Durvasas, 157.
  Dushmanta, 145, 149-68.
  Duval (Amaury), 170.

  Eaubonne, 171.
  Economia politica, 191.
  Edda, 107.
  Edimburgh review, 123-7.
  Educazione, 221-5.
  Egitto, 142.
  Elegia, 208.
  Elegia comico-seria ed in prosa, 183, 185, 186-9.
  Elementi delle cognizioni umane ad uso de' fanciulli, 182.
  Elementi d'ideologia, del Destutt-Tracy, 194.

  Elementi di storia degli Stati d'Europa (tradotti dal tedesco
      dal Berchet), 219-20.
  Elena, 85.
  Eleonora, del Bürger, 9, 12, 26, 30-1, 41-52, 147.
  Elinando, 38.
  Elogio, 173.
  Eloquenza, 73, 79, 82, 98.
  Elvezio, 188.
  Enciclopedia, 102, 103, 193.
  Ennio castigliano, v. De Mena.
  Epica poesia, 13, 27, 97, 98, 131, 142, 201-3, 214, 216.
  Epico-lirica poesia, 13, 131.
  Epigramma, 51.
  Ercole, 84.
  Eroide, 28.
  Erudizione, 2, 5, 20, 88-90, 91, 98, 125, 141, 204, 208, 211, 214, 220.
  Eschilo, 23.
  Esperia, 188.
  Esquisse d'un essai sur la Philosophie des sciences, dello
      Jullien, 191-6.
  Essai sur l'emploi du temps, del Jullien, 192.
  Este (cardinal Ippolito di), 113.
  Estetica, 30, 75, 76, 81, 101-4, v. Bisogno estetico, Diletto estetico,
      Interesse estetico, Spirito estetico.
  Estetica, del Bouterweck, 12.
  Étampes (madama di), 29.
  Euripide, 20, 23.

  Europa, Europeo, 17, 18, 19, 20, 22, 24, 26, 51, 56, 65, 69, 73,
      77-88, 95-6, 97, 99, 112, 121, 122, 123, 127, 129, 141, 142, 146,
      175, 177, 192, 212, 213.

  Fabrizio, 95.
  Favole, 222.
  Febo (circolo di), 210.
  Federigo (re), 41.
  Fénelon, 249.
  Ferdinando re di Spagna, 216.
  Feudalesimo, 38.
  Fiera di San Michele, 109.
  Filelfo (Francesco), 110.
  [p.247]
  Filippo, dell'Alfieri, 52.
  Filosofia, v. Critica e Grammatica.
  Filosofia delle scienze, 191-6.
  Filosofia naturale, morale e politica, 211.
  Filosofia psicologico-letteraria, 75.
  Filosofia scolastica, v. Scolastica.
  Filosofia trascendentale, 79.
  Firenze, 56, 112, 227.
  Fontanini (Giusto), 90.
  Forster, 143.
  Fortuna, 210.
  Fortuna (La), del Guidi, 13.
  Foscolo (Ugo), 52, 123-7.
  Francesca da Rimini, 127.
  Francesco (san), 131.
  Francese, Francia, 12, 15, 30, 51, 57, 65, 69, 70, 81, 87, 89, 92, 96,
      130, 171, 177, 179.
  Fratellanza dei popoli, 141.
  Frères ignorantins, 191.
  Fusione della Lombardia col Piemonte, 230-1.

  Galateo, 56, 182.
  Galilei (Galileo), 112, 174.
  Gandharvas, 156-7, 166.
  Garcilaso de la Vega, 201.
  Gedichte, del Bürger, 13.
  Germania, di Tacito, 85.
  Germania, Germanico, 12-3, 16, 18, 20, 22, 24, 34, 37-8, 39, 45, 46-7,
      48, 51, 52, 57, 85-7, 220, 224.
  Gerusalemme liberata, del Tasso, 19, 96.
  Geschichte der Poesie und Beredsamkeit, del Bouterweck, 73-100, 199.
  Ghislieri (Guido), 95.
  Gibilterra, 213.
  Ginguené (Pietro Luigi), 92, 93, 94, 169-72.
  Gioia (Melchiorre), 182.
  Giorgio di Trebisonda, 110.
  Giorno, del Parini, 100: v. Mattino.
  Giovanni Manuele (infante don), 205.
  Giovanni secondo, re di Castiglia, 207-10, 214·
  Giove, 84.
  Giudea, 176.
  Giudeo, 12.
  Giunone, 55.
  Giuochi florali, 207.
  Giuseppe (san), 183.
  Giustiniano, 90, 97.
  Goldsmith, 239.
  Góngora (Luigi), 198.
  Göthe (Volfango), 12.
  Gozzi (paesista), 65.
  Grammatica, 194.
  Grammatica filosofica, 104.
  Granata, 216.

  Gran dizionario enciclopedico della lingua italiana,
      dell'Alberti, 194.
  Gravina (Gian Vincenzo), 91.
  Graziano (Baldassarre), 182.
  Grecia, Greco, 19, 20, 21, 23, 51, 52, 65, 74, 83-8, 96, 98, 102, 103,
      117, 121-2, 135, 141, 146, 176, 201, 207.
  Grégoire (Enrico), 175-9.
  Gregorio settimo (papa), 125.
  Guatámi, 156.
  Guglielmo, 41.
  Guidi (Alessandro), 13.
  Guinizelli (Guido), 95.
  Guittone d'Arezzo, 95.
  Gusto, 3, 55, 81.

  Hallam (Enrico), 126.
  Hassanabad, v. Hastinápura.
  Hastinápura, 157, 160, 168.
  Hemacuta, 166.
  Herrera (Fernando), 201.
  Histoire anglaise, del Paris, 124.
  Histoire littéraire d'Italie, del Ginguené, 169-70.

  Iacopone da Todi, 92.
  [p.248]
  Iafet, 130.
  Idee elementari sulla poesia romantica, del Visconti, 133.
  Ideologia, 104, 194.
  Idillio, 28, 58.
  Ignorantins, v. Frères ignorantis.
  Imeneo, 204.
  Imitazione delle letterature straniere, 107, 147-8, 200.
  India: letteratura, 139-48, 149, 152.
  — mitologia, 151, 156.
  Indipendenza, 227-8, 233.
  Indra, 165.
  Inghilterra, Inglese, 12, 51, 55, 61, 63, 64, 87, 123, 124.
  Ingudi, 159.
  Instituto reale di Liverpool, 119.
  Interesse estetico, 88, 101, 104.
  Iomelli (Nicola), 2.
  Isabella regina di Spagna, 216.
  Issa, 149.
  Italia, Italiano, 2, 11, 12, 14, 17, 21, 24-27, 28, 29, 30, 37, 39,
      41, 49-52, 56-8, 59, 60, 64, 65, 74-80, 81, 87, 89, 90-100, 102,
      109-113, 119, 120, 121, 125-6, 130, 139, 141, 146, 149, 169-171, 179,
      191, 193, 197, 200, 220, 221, 222, 224, 225, 227, 228, 233, 234, 235.
  Italia liberata dai goti, del Trissino, 97.

  Jauregui, 198.
  Jayanta, 166.
  Jones (Guglielmo), 141-3.
  — (Tom), 184.
  Jullien (Marcantonio), 191-6.

  King Lear, dello Shakespeare, 166.
  Kurzgefasste Uebersicht der literarischen Streitigkeiten in
      Italien
, 109-13.

  Labirinto, del De Mena, 210-3.
  Lacedemone, 186.
  Lamberti (Luigi), 112.
  Lamenti, di Alfonso decimo, 204.
  Lancaster (scuole alla), 179, 191.
  Lancelin, 193.
  Laocoonte, del Lessing, 66.
  Latina letteratura, v. Roma (letteratura di).
  Latini (Brunetto), 184.
  Laura, 87, 88, 97.
  Leone decimo, del Roscoe, 120.
  Leoni (Mario), 11.
  Lessing (Gotthold Ephraim), 14, 30, 55, 66.
  Letourneur, 11.
  Letteratura (v. Italia, Francia, Germania, Spagna, Grecia, Roma,
      Inghilterra): origini, utilitá, vicende, 119-22
  — significato, 75
  — scopo, 22-3, 24-7, 170
  — spirito e difetti, 189.
  Letteratura del mezzogiorno d'Europa, del Sismondi, 127, 129.
  Lettere contro Alfieri, 105.
  Libertá civile, 120-1.
  — intellettuale, 99.
  — letteraria, 96, 98-9.
  — politica, 233, 235.
  Liceo, 171.
  Lettere di lord Chesterfield al proprio figliuolo, 182.
  Libretti d'opera, 7.
  Libretto di nomi, 221-5.
  Lingua, 11-2, 25, 58, 75, 99, 101, 102, 131, 169, 185, 195, 220, 221.
  Linguaggio poetico e prosastico, 9-10.
  Linneo (Carlo), 150, 153, 159, 166.
  Lipsia, 109.
  Lirica poesia, 27, 142.
  Littérature, della Stäel, 116.
  Littérature du midi de l'Europe, del Sismondi, 127, 129, 199.
  [p.249]
  Liverpool, 119, 122.
  Livio, v. Tito Livio.
  Lobeira (Vasco), 206.
  Logica, 53, 194.
  Logica, di Aristotile, 89.
  Lombardi, 227, 229-31, 233.
  Lombardia, 221, 224, 225, 227, 229.
  Londra, 10, 67.
  Longino, 53.
  Lope, 198.
  Lorenzo il magnifico, del Roscoe, 120.
  Lotto, 143, 178.
  Luigi decimoquarto (secolo di), 57.
  Luna (circolo della), 210.

  Machiavelli (Nicolò), 57, 58, 74, 95.
  Macias el enamorado, 214, 217.
  Maddalena, 183.
  Madhavi, 150.
  Madhavuya, 153, 154, 164-5.
  Madrid, 69, 197.
  Madrígali, 132.
  Mallica, 150.
  Manrique (Giorgio e Gomez), 214.
  Maomettani, 147.
  Mariana, 201.
  Marte (circolo di), 210.
  Mascheroniana, del Monti, 100.
  Massari (Giuseppe), 227.
  Mátali, 165-6.
  Mattino, del Parini, 52.
  Mecenate, 23.
  Medea, 85.
  Mediocritá letteraria, 212.
  Medio evo, 108, 176-7.
  Melibeo, 58.
  Melodramma, 1-7.
  Mena (Giovanni), v. De Mena.
  Menalca, 58.
  Mendoza (Inigo Lopez de), v. Santillana.
  Menzini (Benedetto), 29, 54.
  Mercurio, 55.
  Metafisica, 2, 53, 66, 79, 194.
  Metafisica, di Aristotile, 89.
  Metamorfosi, di Ovidio, 84.
  Metastasio (Pietro), 7.
  Michele (san), 109.
  Milano, 1, 6, 7, 61, 70, 71, 112, 133, 138, 181, 185, 220, 225, 227, 230;
    donne milanesi, 61-67, 70, 137;
    uomini milanesi, 70;
    teatri, v. Carcano, Scala;
    duomo, 181 (v. anche Borgonuovo, Cinque giornate).
  Milton (Giovanni), 20, 40.
  Minerva, 55, 204.
  Misogallo, dell'Alfieri, 172.
  Misracesi, 163.
  Misura delle acque correnti, del Castelli, 174.
  Mitologia, 20, 25, 55, 83-4, 89, 107, 124, 135, 146, 151, 156.
  Mogol, 56.
  Mombelli (famiglia), 2-7.
  Monte Atino (curato di), 24, 28.
  Monti (Vincenzo), 52, 99-100.
  Monticelli d'Ongina (collegio di), 233.
  Montmorency, 171.
  Montpellier, 134.
  Mosé, 31.
  Muratori (Lodovico Antonio), 90, 91.
  Musica, 1-7, 103.

Namenbüchlein, 221-5. Napoleone primo, 171. Napoli, 130, 227. Narcisa, del Tedaldi-Fores, 133-6. Natacs, 142. Negri, 38, 175. Niebla (conte di), 213. Niemand (X.), 109-13. Normanni, 130. Notti, dello Young, 134. Nouvelle manière de défendre et de fortifier les places irrégulières, del Bellersheim, 182.

[p.250]

  Obras de devocion, 214.
  Ode, 28.
  Ogein, 142.
  Olimpia, 23.
  Olimpo, 83, 87.
  Omar, 29.
  Omero, 15, 20, 23, 25, 28, 29, 77, 97, 107, 124, 141, 146, 201, 202.
  Opera in musica, v. Melodramma.
  Orazio, 19, 22, 54, 55, 80, 118, 203.
  Orazioni, del Della Casa, 40.
  Oriente, 84, 85.
  Originalitá letteraria, 124.
  Origin and vicissitudes of litterature, science and art. del
      Roscoe, 119-122.
  Orlando furioso, dell'Ariosto, 57, 113.
  Oscurantismo, 191.
  Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali
      viventi
, del Redi, 182.
  Osservazioni intorno alla quistione sopra l'originalitá del poema
      di Dante
, del Cancellieri, 124-5.
  Ossian, 66, 107.
  Otello, 69.
  Ottaviano, 24.
  Ottentoto, 15, 16, 17.
  Ovidio, 84, 189.

  Padova, 174, 197.
  Paesiello (Giovanni), 2.
  Paisiello, v. Paesiello.
  Paladini, 85.
  Palais-royal, 17.
  Pandito, 142, 143.
  Paolo (san), 25.
  Paradiso perduto, del Milton, 40.
  Parigi, 69, 191;
    parigino 15, 16, 17;
    donne parigine, 62;
    servi, 177.
  Parini (Giuseppe), 14, 52, 99-100, 110.
  Paris (M.), 124.
  Parma, 182.
  Parnaso, 139, 198.
  Partenone, 55.
  Partu Virginis (De), del Sannazaro, 40-1.
  Passione (chiesa della), 59.
  Passione del Salvatore, di Giovanni Torti, 28.
  Pastorale poesia, 74, 215-216.
  Pataffio, 184.
  Patriottismo, 78, 191, 213, 234.
  Pedanteofilo, 105.
  Pedanteria, Pedantesco, Pedantismo, 2, 11, 21, 22, 27, 28, 29, 74, 75,
      87, 89, 91, 96, 97, 102, 124, 143, 189, 208, 210, 216.
  Pegli, 235.
  Pergolesi (Giambattista), 2.
  Pericle, 122.
  Perpetua (santa), 124.
  Petrarca (Francesco), 14, 24, 53, 57, 87, 88, 95, 96, 97, 108, 130,
      156, 201, 211, 214.
  Piacere estetico, v. Diletto estetico.
  Piemonte, 227, 230.
  Pietro il crudele di Castiglia, 205.
  Piloncino, 187, 189.
  Pindaro, 15, 19, 20, 23, 28, 29, 84.
  Pittura, 55, 59, 66, 103.
  Platone in Italia, del Cuoco, 14.
  Po, 228.
  Poema del Cid, 201, 202.
  Poesia, 9, 13-8, 20, 26-8, 79, 86, 88-90, 94-100, 103, 108, 140,
      197-217, v. Drammatica, Epica, Epicolirica, Lirica, Pastorale.
  Poesia popolare, 13, 18, 206, 209.
  Poesias selectas castellanas, 197.
  Poetica, di Aristotile, 89, 97.
  Poetiche (arti), 28-30, 66, 89.
  Polemiche letterarie, 25, 109-13, 129.
  Poligrafo, 112.
  Portogallo (letteratura), 81.
  Pracrito, 142.
  [p.251]
  Praga, 41.
  Priamidi, 38.
  Priyamvada, 150, 151, 152, 155, 156-60.
  Progresso, 121-2.
  Provenza (letteratura), 12, 94, 97, 130-1, v. Trovatori.
  Provvidenza, 50, 210.
  Puglia, 130.
  Pugni, v. Societá dei pugni.
  Pulci (Luigi), 87.
  Pungilingua e trattato di pazienza, del Cavalca, 182.
  Purgatorio, dell'Alighieri, 57.
  Puru, 150, 152, 156, 161, 167.

  Quadrio (Francesco Saverio), 90.
  Quattrocento, 97.
  Quintana (Emanuele Giuseppe), 197-9.

  Racine (Giambattista), 15.
  Raffaello, v. Sanzio.
  Rama, 146.
  Rámalòchan, 143.
  Rapsodi, 88.
  Ravenna, 38, 41.
  Recitativo, 3.
  Redi (Francesco), 182.
  Religione, 20, 48-9, 53, 83-5, 131, 212, 215.
  Reno, 38.
  Repubblica delle lettere, 15.
  Retore, 172.
  Rheingrafenstein, 31.
  Rima, 94.
  Rioja, 201.
  Rivista d'Edimburgo, 123-7.
  Rodrigo di Bivar, v. Cid.
  Rodriguez del Padron, 214.
  Roma, Romano, 20, 21, 24, 51, 52, 65, 74, 78, 85-6, 113, 116-8, 121-2,
      141, 149, 174, 176, 207, 227.
  Romancero general, 214, 216.
  Romantico e Romanticismo, 19-26, 28-9, 52, 55, 64-7, 97, 98, 99,
      105-8, 133-6, 182.
  Romanticomachia, 105-8.
  Romantisti, 65.
  Romanza, 202, 206.
  Romanzesco, 66, 106.
  Romanzi del Cid, 201, 209.
  Romanzieri, 47.
  Romanzo, 106.
  Romanzo (nel senso di «romanza») 12, 26, 30, 46, 48, 49, 50, 51, 52,
      134, 135, 147, 148, 201, 202, 206, 209, 216.
  Romeo e Giulietta, dello Shakespeare, 155.
  Roscoe (Guglielmo), 119-22.
  Rossini (Gioachino), 2-3, 104.
  Rousseau (Gian Giacomo), 119.
  Rui Diaz, v. Cid.
  Ruiz (Giovanni), 205.
  Ruffino (canonico don), 115.

  Sacontala, di Calidasa, 139-68.
  Salfi (Francesco), 169.
  Samaritana (leggenda della), 12.
  Sanchez (Gargi S. de Badajoz),214.
  San Concordio (Bartolomeo da), v. Bartolomeo da San Concordio.
  Sannazaro (Iacopo), 40-1, 106.
  Sanscrita lingua, 142, 143.
  Santillana (Inigo Lopez de Mendoza, marchese di), 208-10, 214.
  Santo (don), 205.
  Santo offizio, 50.
  Sanzio (Raffaello), 59.
  Scala (teatro), 7, 69-70.
  Schiavitú, 38, 175-7.
  Schiller (Federico), 12, 14, 15, 54, 269.
  Schlegel (fratelli), 14, 92, 102, 216.
  Scienza, 75;
    origine e vicende, 119-122;
    filosofia, 191-196.
  Scolastica (filosofia), 89, 131, 215.
  [p.252]
  Scrittura (sacra), 113.
  Scrutinaparole e scrutinapensieri,11.
  Scuole alla Lancaster, v. Lancaster.
  — elementari, 221-5.
  — ginnasiali, 219-20.
  Segura (Giovanni Lorenzo). 203-4.
  Seicento, 97.
  Sem, 130.
  Seneca, 54.
  Sentimentalismo, 47, 67.
  Sentimento nazionale, 213.
  Septaperna, 151.
  Serbatoio d'Arcadia, 208.
  Servitú presso i popoli antichi e moderni, del Grégoire, 175-9.
  Shakespeare (Guglielmo), 11, 15, 29, 54, 88, 107, 108, 117,
      143, 155, 166.
  Sicilia, 130-1, 227.
  Sismondi (Sismondo), 92, 120, 127, 129-132, 199, 203.
  Situazioni teatrali, 7.
  Siva, 146.
  Societá asiatica, 141.
  Societá degli amici dei negri, 175.
  Societá dei pugni, 185.
  Societá delle madri, 137.
  Societá filantropica, 179.
  Sofocle, 10, 20, 23, 28, 29.
  Sofonisba, del Trissino, 97.
  Sonetti, 12, 56, 212.
  Spagna, Spagnuolo, 12, 51, 57, 69, 84, 87, 89, 182, 197-217.
  Spia, 178.
  Spirito estetico, 81.
  Srimonio, 55.
  Staël (madama di), 14, 30-1, 56, 92, 115-8, 123.
  Stazio, 84.
  Stile, 99, 170, 221.
  Storia della letteratura antica e moderna, di F. Schlegel, 126.
  Storia delle republiche italiane, del
  Sismondi, 120.
  Storia di Leone decimo e di Lorenzo il Magnifico, 120.
  Sublime, v. Del sublime.
  Sui difetti della letteratura, 189.
  Sullo spirito della letteratura, 189.
  Svizzera, 188.

  Tacito, 85.
  Talmud, 22.
  Tanfoglio (Sisto), 173-4.
  Tartuffo, 187.
  Tasso (Torquato), 19, 84, 87, 96, 97.
  Teatro, 91: v. Melodramma, Tragedia, Unitá drammatiche.
  Tebaide, 102.
  Tebaide, di Stazio, 84.
  Tebe, 23.
  Tedaldi-Fores (Carlo), 133-6.
  Tedesco, v. Germania.
  Telemaco, del Fénelon, 239.
  Tenorio (don Giovanni), 111.
  Teocrito, 158.
  Terone, 39.
  Tesoro, di Alfonso decimo, 204-5.
  Tibullo, 53.
  Tiestei, 38.
  Tinte locali, 144.
  Tiraboschi (Gerolamo), 91, 92, 94, 115-8.
  Tirteo, 23.
  Tito (imperatore), 176.
  Tito Livio, 58.
  Tolleranza, 212.
  Tolomeo, 142.
  Tolosa, 207.
  Torino, 105, 177.
  Torti (Giovanni), 28.
  Toscana, 10, 227.
  Traduzioni (in versi e in prosa), 9, 11, 30-1, 53, 126, 143-4, 197,
      219-20, 221, 224-5.
  Trafalgar (Ode su), 198.
  Tragedia greca, 10, 102.
  — latina, 116-8.
  Traineurs, 92-3.
  [p.253]
  Tratta dei negri, 38, 175.
  Trecento, 98.
  Tribú dei comprafumo, 93.
  Trionfi, del Petrarca, 211.
  Trissino (Gian Giorgio), 97.
  Troia, 108.
  Troiani, 85.
  Troubadours, v. Trovatori.
  Trouvères, v. Trovieri.
  Trovatori, 19, 87, 88, 130, 131, 207.
  Trovieri, 130, 131.

  Ultime lettere di Iacopo Ortis, del Foscolo, 52.
  Unitá drammatiche, 54-5, 139-143.
  Uomo di corte, del Graziano, 182.
  Urania, 106.
  Urbano ottavo, 174.

  Vafrino, 187.
  Valla (Lorenzo), 110.
  Valladolid, 69.
  Valperga (Tommaso), v. Caluso.
  Valvasone (Erasmo di), 39-40.
  Vedas, 152.
  Venere, 25.
  Venezia, 182, 183.
  Venini (Ignazio), 106.
  Verderio superiore, 183.
  Verri (Pietro ed Alessandro), 184.
  Vespasiano, 176.
  Vetasas, 156.
  Vicario di Wakefield, del Goldsmith, 239.
  Vico (Giambattista), 14, 16, 140.
  Vicramáditiya, 142.
  Vida (Gerolamo), 54.
  Vienna, 224.
  Viganò (Salvatore), 104.
  Villa, 14.
  Villena (don Enrico di), 208, 214, 217.
  Virgilio, 25, 40, 97, 141.
  Visconti, 38.
  Visconti (Ermes), 133.
  Visionario, dello Schiller, 239.
  Visione, di frate Alberico, 124.
  Visnú, 146.
  Volgare eloquenza, di Dante, 94.
  Voltaire, 9, 92.
  Waterloo, 55.

Young (Odoardo), 134.

  Zayda, 206.
  Zegris, 216.
  Zenanas, 147.

[p.254]

ERRATA

A pagina 416 del primo volume, tra i Versi inediti o poco noti, si trova un sonetto in milanese («Quand vedessev un pubblegh fonzionari») che io credetti e pubblicai come opera del Berchet, indottovi dal fatto che il marchese Guido Sommi Picenardi ne possiede una copia manoscritta, di mano appunto di lui. Ma ebbi poi ad accorgermi di aver commesso un grave errore, perché quel sonetto è indubbiamente opera di Carlo Porta, tra le poesie del quale fu sempre compreso.

A pagina 143 del presente volume, linea 27, dove si legge: «della sanscrita», si legga «della lingua sanscrita»; a pagina 64, linea 4, il «d» finale si legga: «di»; e a pagina 203, linea 23, invece di «secondando cosí», si legga «secondando con».

[p.255]

INDICE

  I. Lettera sul dramma Demetrio e Polibio cantato
  nel teatro Carcano. pag. 1

  II. Sul Cacciatore feroce e sulla Eleonora di Goffredo
  Augusto Bürger—Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo « 9

III. Allocuzione nei funerali del pittore Andrea Appiani celebrati nella chiesa della Passione il giorno 10 di novembre 1817 « 59

IV. Del criterio ne' discorsi « 61

V. Scortesie maschili al teatro della Scala « 69

VI. Sulla Storia della poesia e dell'eloquenza del Bouterweck « 73

VII. Intorno al significato del vocabolo «estetica» « 101

VIII. Di un libro sulla romanticomachia « 105

IX. Guerre letterarie in Italia « 109

X. Lettera di Grisostomo al molto reverendo signor canonico don Ruffino « 115

XI. Intorno all'Origine delle lettere del Roscoe « 119

XII. Articolo sopra un articolo « 123

XIII. Idee del signor Sismondi sul poema di Dante « 129

XIV. Intorno ad un poemetto di C. Tedaldi-Fores « 133

XV. Lettera ad una signora milanese gentile sí, nobile no « 137

XVI. Sulla Sacontala ossia l'Anello fatale, dramma indiano di Calidasa « 139

XVII. Sulla Storia della letteratura italiana del Ginguené « 169

XVIII. Benedetto Castelli « 173

[p.256]

  XIX. Intorno alla Servitú, presso i popoli antichi e moderni
  del Grégoire « 175

  XX. Sopra un manoscritto inedito degli autori del
  foglio periodico Il caffé « 181

XXI. Sulla Filosofia delle scienze del Jullien « 191

XXII. Quadro storico della poesia castigliana (a proposito delle Poesie scelte castigliane, raccolte dal Quintana) « 197

XXIII. Due rapporti ufficiali al governo austriaco « 219

XXIV. Discorso ai toscani « 227

XXV. Ai lombardi (14 maggio 1848). « 229

XVI. All'onorevole presidente del collegio elettorale di Monticelli d'Ongina « 233

NOTA « 237
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI « 243